Saremi morte già dolce paruta

di Lechatvert
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo – ossa del tarso: degli eroi non si conosce la fine ***
Capitolo 2: *** prologo – ossa del tarso: a ferro e fuoco ***
Capitolo 3: *** parte prima – femore, I Vallesanta: un infausto inizio ***
Capitolo 4: *** parte prima – femore, I Vallesanta: il pettirosso ***
Capitolo 5: *** parte prima – femore, I Vallesanta: la scommessa ***
Capitolo 6: *** parte prima – femore, I Vallesanta: la botola ***
Capitolo 7: *** parte prima – femore, I Vallesanta: il corridoio dei santi ***
Capitolo 8: *** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: il tasso ***
Capitolo 9: *** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: riccioli neri ***
Capitolo 10: *** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: la mappa ***
Capitolo 11: *** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: di morti è piena la via ***



Capitolo 1
*** prologo – ossa del tarso: degli eroi non si conosce la fine ***


polverenera

Per iniziare
Bentrovati c:
Finalmente, dopo sedicimila anni di scrittura, correzioni, pare mentali, smatto selvaggio, assilazione alla beta (ChemicalLady ftw <3) ... finalmente siamo giunti al giorno gioiglorioso della pubblicazione su EFP.

E lo so, lo so, lo so che è appena cominciata la seconda stagione e che adesso che sono in voga gli Incas probabilmente vorrete sentir parlare solo di loro ... ma a noi non ce ne frega nulla e quindi la congiura dei Pazzi e pota per tutti u.u

Per chi è nuovo sembrerà tutto molto vago e polveroso, per chi invece c'era anche nella vecchia "All'ombra del giglio rosso", bé ... saprà già cosa aspettarsi :)

Non prometto nulla, se non che tenterò in ogni modo di essere il più precisa possibile nelle note circa riferimenti storici e/o traduzioni, spiegazioni eccetera.

Spero che come me possiate affezionarvi a questi insoliti personaggi e che, caratteracci a parte, potrete apprezzarne le (poche) qualità.

Per ora mando a tutti quanti un grande abbraccio.

Buona lettura,

Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ossa del tarso: prologo
degli eroi non si conosce la fine
http://www.youtube.com/watch?v=4N3N1MlvVc4









I sogni in cui muoio
sono i più belli che io abbia mai fatto.
Tears for Fears – Mad World








Gennaio 1478, quattro mesi prima la Congiura dei Pazzi.


Un soffio di vento mosse appena le tende della stanza, facendo svolazzare il velo immacolato dell’abito nuziale appeso al muro.
Con una candela stretta in mano, Porpora si avvicinò, illuminando quel mucchio di stoffe candide che il sarto era stato così bravo a confezionarle. Mai, in tutta la sua vita, si sarebbe immaginata di maritarsi lontana da Roma. Non aveva mai nemmeno pensato di sposarsi, in realtà, mai all’interno di un castello, coperta di riguardi e parole gentili, al caldo, promessa a un nobile.
Tutto questo andava oltre ciò che sua madre avesse mai potuto sperare per lei. Doveva sentirsi felice.
Invece, più guardava quell’abito, più sentiva le lacrime spingere per uscire a rigarle il volto.
Debolmente, portò le mani alle tempie, cercando di ricostruire quella che una volta era la sua figura.
Capelli scuri raccolti a treccia, camicia sporca di fango, occhi cattivi, come diceva sempre la gente. Dov’era finita? Avvolta in una vestaglia di lino, profumata e ripulita a dovere, era incapace di ritrovare se stessa.
Udì la porta dietro di sé aprirsi, segno che era ora di ricacciare indietro i singhiozzi e darsi un minimo di contegno. Stava per diventare una contessa, dopotutto.
«Non si usava bussare?», chiese, voltandosi per rimettere la candela nel doppiere.
Sulla soglia, coperto dall’oscurità della notte, c’era il suo futuro marito. Diciotto anni e un viso da bambino, un cappello di piume a coprirgli i capelli castani e un vassoio tra le mani su cui erano state preparate due tazzine di porcellana e una teiera.
«Ti sentivo camminare senza pace, così mi sono chiesto se non fosse il caso di portarti del tè», le rispose, accomodandosi sul divano davanti al caminetto spento. «Domani è un grande giorno.»
Porpora si avvicinò lentamente, rannicchiandosi sulla poltrona di fronte.
«Credevo portasse male, vedere la sposa prima delle nozze.»
Lui le sorrise.
«Mia cara, non penso che il Signore ne avrà a male», rispose, mite, servendo il tè. «Non dopo tutto quello che hai combinato, perlomeno.»
Porpora prese una tazza tra le mani, rimirandone la fattura. Incredibile come anche in quell’angolo di terra dimenticato dal mondo vi fosse la più fine porcellana.
«Vogliono uccidermi?», chiese, sottovoce. Più che una domanda sembrava una constatazione.
Il suo futuro marito strinse le spalle, spaparanzandosi sul divanetto.
«Hai fatto arrabbiare Roma, questo è certo», considerò, mostrandosi pensieroso. «Non credo lasceranno correre un simile oltraggio. Fingerti morta, rubare al nipote del Papa … decisamente non sono state le tue idee più brillanti. Hai ancora la chiave, almeno?»
Porpora dondolò il capo.
Da quando aveva messo le mani su quello stramaledettissimo oggetto, non se n’era più voluta allontanare. La portava sempre legata al collo, con lo stesso cordoncino che aveva strappato al Conte.
«Non è che ci dia un grande vantaggio», rispose, con un sospiro afflitto. «Abbiamo perso l’altra, il che ci riporta daccapo.»
«Mi permetto di dissentire: questa volta, una chiave ce l’hai tu, mentre l’altra è scomparsa. Riario, invece, non ha niente.»
«Scommetto che sa già dove siamo.»
Il suo futuro marito sorrise appena.
«E io scommetto che sta già pregustando la morte di entrambi. Ma non temere; ho predisposto una chiesa lontano da qui. Un amico fidato ci aspetterà domani mattina per ufficiare il rito. Entro mezzogiorno, sarai la Contessa di Fonterossa. Magra consolazione, lo so, ma è il meglio che io abbia da offrirti.»
Porpora arricciò il naso.
Lo era davvero, una magra consolazione. Rispetto a tutto quello che aveva perso per arrivare fino a lì, duecento soldati e una cittadina circondata da vigne non le parevano affatto un giusto compenso.
«Li voglio uccidere tutti, Conte», mormorò, posando la tazzina sul vassoio. «Formiamo alleanze, prendiamoci Roma. Firenze è già in subbuglio, potremmo convincere anche Milano.»
Il Conte scosse il capo, ridacchiando.
«E firmare un atto di matrimonio col sangue? Belle teste, voi Lysimachus! Siete uno più impulsivo dell’altro.»
Porpora sbuffò.
«Prima o dopo il matrimonio, poco importa», dichiarò. «Voglio che Riario passi lo stesso che ha fatto passare a mio fratello.»
«Se devo essere franco, pagare il sangue del fratello minore con quello del maggiore non mi pare una buona soluzione.»
Porpora si accigliò.
«Il mio unico fratello maggiore morì la notte dell’elezione di Papa Sisto», dichiarò.
Il Conte ridacchiò di nuovo, massaggiandosi le tempie con fare divertito.
«Naturalmente. Ma non siamo forse tutti figli di Dio? Poco importa da chi discendiamo», commentò, trattenendo un’ulteriore risatina. «Ti vedo stanca, mia cara. Sarà meglio che ti lasci dormire, avremo tempo per parlare una volta rientrati, domattina.»
Si alzò in piedi e la raggiunse sulla poltrona, lasciandole un piccolo bacio sulla fronte coperta da un ciuffo di capelli castani.
«Cerca di risposare, d’accordo?», chiese, facendole l’occhiolino.
Lei sospirò, sprofondando nel velluto della federa.
Al suo posto, cosa avrebbe fatto suo fratello?
Prese un respiro profondo, convincendosi che un minimo di gratitudine era il minimo che potesse mostrare.
«Grazie», disse, sottovoce, mentre il Conte si allontanava. «Mi dispiace avervi dato del codardo, l’altra volta. Non lo penso davvero.»
Lui rimase sulla soglia a guardarla per qualche istante, la mano appoggiata alla porta, lo sguardo buono perso in qualche punto imprecisato della stanza.
«Non c’è di che», rispose, senza togliere gli occhi da quel nulla. «Ti devo molto, in realtà. Consideralo come un riscatto. Buonanotte.»
La lasciò così, senza dare ulteriori spiegazioni, sparendo nel buio del corridoio da cui era arrivato.
Porpora rimase rannicchiata sulla poltrona per tutta la notte, sola, stretta alle sue stesse ginocchia, in balia dei pensieri.
Non chiuse occhio, non ci provò nemmeno.
Senza suo fratello a cingerle le spalle e a sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, non sarebbe mai riuscita a prendere sonno.







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Capitolo 2
*** prologo – ossa del tarso: a ferro e fuoco ***


polverenera

Per continuare(?)
Sono tornata! In ritardo, ma ci sono :3
Grazie a tutti quelli che si sono fermati a leggere il primo prologo, ora ecco a voi il secondo! (Sì, perché un singolo prologo è troppo mainstream

Con il prossimo capitolo - il primo, vero della storia - entreremo nel vivo della faccenda ^^ E vi anticipo l'arrivo di Lupo Mercuri, che manderà qualcuno in fuga. 

Per quanto riguarda le parole in corsivo che troverete in questa parte: è tutto scritto in lingua ebraica, con l'aiuto di una carissima amica e compagna d'avventura :) La traduzione è quasi sempre presente, se non nell'ultimo caso.  (Ani ohevet otcha, yeled sheli, insomma: vuol dire "ti amo, bambina mia")




A tutti un grosso bacio,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ossa del tarso: prologo
a ferro e fuoco
http://www.youtube.com/watch?v=7KwLYJVWYA8









Cara, dimmi il tuo nome
Puoi sentirmi?

Hurts – The Road








Agosto 1471, quindici ore dopo l’elezione di Papa Sisto IV


La porta della taverna si richiuse sulla sua mano con tanta violenza che, per un instante, Orso credette di sentire le ossa del polso spezzarsi una a una sotto la pesante morsa del legno.
Con il viso bagnato di lacrime, si voltò verso sua madre in cerca di aiuto ma, anziché trovarla al suo fianco, la vide arrancare tra i tavoli vuoti in cerca di chissà cosa.
Aveva i capelli rossi sporchi di cenere e si copriva il volto, forse per non respirare il fumo dell’incendio, forse per non mostrarsi piangente agli occhi di suo figlio.
«Ìmma!», la chiamò allora Orso, avvicinandosi con la mano insanguinata stretta sul petto. «Madre!»
La donna si voltò appena, chinandosi per accarezzargli il capo con la sua solita dolcezza.
«Akol beseder», gli sussurrò, baciandogli piano la mano. «Va tutto bene.»
La porta della taverna si aprì di nuovo, stavolta lasciando entrare il passo scattante e rapido di un ragazzo ben piazzato avvolto nei mantelli della guardia cittadina.
«Hanno dato fuoco a tutto il ghetto», dichiarò, mettendo a terra la bambina che aveva in braccio, stretta al suo petto e nascosta appena dalla cappa. «Celia, dobbiamo andare.»
Si voltò per bloccare l’entrata nella taverna, mentre dalla strada delle voci cominciavano ad avvicinarsi, sempre più forti, sempre più irate.
La donna gemette, radunando in un abbraccio entrambi i suoi figli più piccoli.
«Starete bene», mormorò con tono sicuro, sebbene soffocando qualche singhiozzo. «Io e vostro padre torneremo a prendervi domani mattina, d’accordo?»
Orso rimase in silenzio.
Aveva solo undici anni, ma era abbastanza sveglio da capire che quello non era uno dei tanti incendi che di tanto in tanto distruggevano un ghetto fatto di legno. C’era qualcosa di più, lo leggeva negli occhi grigi di sua madre e il solo pensarlo lo terrorizzava.
Guardò sua sorella, anche lei sull’orlo delle lacrime e con gli occhi sgranati dalla paura. Istintivamente le strinse la mano.
«Staremo bene», disse, sforzandosi di apparire coraggioso. «Gregorio ci proteggerà.»
Alle sue spalle, suo fratello maggiore sbuffò.
«Ci troveranno», lo sentì borbottare. «Lo faranno sempre.»
Celia gli posò una mano sulla spalla.
«Gregorio», mormorò, seria come mai prima d’ora. «Quando tutto sarà finito, dovrai cercare una persona.» Fece una pausa. «Lupo Mercuri, un cliente di vostro padre. Un amico.»
Gregorio sospirò.
«Un figlio di Mitra», la corresse.
Lei annuì.
«Un tempo lo era. Pregate che le promesse fatte in passato valgano ancora qualcosa, per lui.»
Gregorio sbuffò e Orso percepì in quell’istante tutta la sua insicurezza, mentre Celia si chinava sul pavimento per aprire una botola rotonda.
«Quaggiù sarete al sicuro», disse, sorridendo appena. «Non uscite prima di domattina.»
Orso annuì, quasi convinto, ma sua sorella si liberò dalla sua presa, aggrappandosi alla veste della madre.
«Non voglio scendere là sotto», dichiarò, tirando su col naso. «Ci sono i morti  e …»
Non fece in tempo a finire la frase che un colpo alla porta di legno la bloccò.
Orso si sentì afferrare per le spalle da suo fratello e un attimo dopo venne sollevato in aria, pronto per essere nascosto.
«Madre, non c’è tempo», sussurrò Gregorio.
La donna gemette di nuovo, stringendo a sé Porpora. Poi si scostò, togliendosi la croce intagliata nell’osso di un santo che da sempre portava al collo per poi consegnarla alla figlia.
«Dì ad Orso le preghiere che ti ha insegnato Gregorio», le disse, sorridendo con dolcezza. «Sarà tutto passato prima di domani mattina.» La strinse a sé e le baciò piano la fronte, scompigliandole appena la frangia castana che le copriva gli occhi. «Ani ohevet otcha, yeled sheli
Un altro colpo alla porta la convinse a prendere Porpora tra le braccia e a infilarla nella botola.
Quando si sporse per baciarle di nuovo il capo, Orso notò che al collo aveva un altro pendaglio, uno che non le aveva mai visto addosso prima di allora: una piccola chiave di ferro legata ad un semplice cordoncino di canapa, uno di quelli che lui e Porpora intrecciavano insieme la sera, davanti al fuoco di casa.
Aveva un che di affascinante, quel piccolo oggetto, ma Orso non riuscì ad osservarlo meglio poiché suo fratello lo calò nella botola prima di seguirlo sulla piccola scala a pioli che scendeva nell’oscurità.
L’apertura da cui erano passati venne richiusa velocemente e l’unica fonte di luce che gli rimase fu un piccolo spiraglio tra le assi del soffitto.
Nel buio, Orso udì sua sorella singhiozzare, mentre sopra le loro teste passi veloci e rumori di lame si alternavano alle grida ovattate della strada.
Poi, tutto d’un tratto, calò il silenzio.
Orso sentì il morbido mantello di Gregorio avvolgerlo per bene, mentre le mani di suo fratello maggiore si facevano strette attorno alle sue spalle.
La voce di Celia giunse così tenue che Orso si stupì di poter udire un suono così flebile.
«Sono figlia della terra e del cielo stellato, di sete son arsa, vi prego fate che io mi disseti alla fontana della memoria.»
Il suono stridulo di una spada sfoderata coprì il suo respiro, dopodiché qualcosa rotolò sul pavimento marcio della taverna.
In lontananza, le campane annunciarono l’arrivo del nuovo giorno.
Era il ventisei agosto 1971, quindici ore dopo l’elezione di Papa Sisto IV, e Orso, assieme a sua sorella, aveva appena compiuto dodici anni.







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Capitolo 3
*** parte prima – femore, I Vallesanta: un infausto inizio ***


polverenera

Per continuare(?)
Buonasera, miei prodi!

Ho deciso di pubblicare ora questo capitolo perché credo sia stato il primo scritto (prima dei prologhi, yessa) ed è stato rivisto più volte. Inoltre, ieri sera l'ho usato come ricatto verso Chemical Lady per farle concludere il suo ventunesimo (o giù di lì xD) e con questo ho ricevuto anche la sua benedizione v__v

Dunque: entra in scena Lupo Mercuri il quale, vi posso assicurare, gironzolerà per un po'. Almeno per la prima parte della storia che, come avete visto, porta il nome del femore e il cognome dei protagonisti della storia, i Vallesanta. Ho deciso che non numererò i capitoli, voglio essere una vera bastian contraria! (Questa cosa mi farà perdere, a un certo punto, ne sono sicura!)

Non saprei davvero che aggiungere, sono pessima.

Un bacio enorme a tutti i lettori, vi strapazzerei tutti uno dopo l'altro <3



Biscotti,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
un infausto inizio
https://www.youtube.com/watch?v=eheFYJh0mVs









Perché cerchi per anni,
ma perdi sempre ciò che trovi.

Passenger – Caravan








Inizio agosto 1475. Quattro anni dopo l'omicidio di Celia Lysimachus



Agosto era arrivato così velocemente che in campagna non avevano ancora trovato il tempo di vendemmiare, che i bambini non avevano ancora cominciato ad arrotolarsi i pantaloni fino alle ginocchia, che il sole non aveva ancora deciso di riscaldare le giornate con la sua solita afosità.
Così, godendosi i primi raggi mattutini, Orso se ne stava seduto sui gradini del Pantheon con le gambe addossate a una delle colonne, gli occhi chiusi, le braccia molli incrociate sul petto, quasi non avesse nulla di veramente importante da fare.
Non che lo avesse, naturalmente.
Suo nonno era morto due giorni prima, lasciandolo completamente solo a venti giorni dal suo sedicesimo compleanno. I suoi genitori erano stati uccisi, suo fratello maggiore morto nel tentativo di salvarli, sua sorella spedita in un convento e scomparsa qualche settimana dopo, senza lasciare traccia di sé.
Tutto quello che gli era rimasto erano, in ordine di valore, un pugno di scudi sufficienti a farlo sopravvivere qualche settimana, la spada di suo padre che non sapeva usare e un conto da pagare al ghetto per quella botola maledetta in cui buttavano i morti a marcire. Senza contare naturalmente la vecchia casa di famiglia a Vallesanta da cui, in quel momento, Orso intendeva tenersi il più lontano possibile.
Così, abbandonato anche il lavoro da raccogli fieno che aveva col nonno, non gli restava che godersi le giornate nell’ozio e nella calura che l’imminente agosto andava portando.
Cominciava a pensare che ci sarebbe morto, su quei gradini, magari di freddo una volta sopraggiunto l’inverno, forse di fame.
Solitamente era con quei pensieri in testa che si appisolava, dondolando i piedi sul marmo, immaginando l’uomo a cui sarebbe toccata la briga di raccogliere il suo cadavere congelato. Invece, quel pomeriggio, il sonno non voleva decidersi ad arrivare.
Orso se ne stava lì ad occhi socchiusi, saltando, di tanto in tanto, per afferrare qualche insetto e strappargli le ali e le zampe.
Poi assemblava i suoi bottini con qualche goccia di cera.
Le ali di una mosca, il torace lucido di una vespa, le zampe lunghe e pelose di un ragno. Dove gli mancava un arto, aggiustava con un rametto o una spina di bosco.
Alla fine, quello che creava erano minuscoli scheletri, tanto piccoli da raggiungere a malapena le dimensioni di un’ape.
Quando era piccolo le chiamava le fate crudeli* e suo padre gli aveva insegnato a confezionarle.
Non era difficile, ma era un lavoro che richiedeva di certo grande concentrazione.
Fu per tutta quella concentrazione, più o meno, che si accorse troppo tardi del gruppo di guardie svizzere in avvicinamento. Non ebbe il tempo di allontanarsi, giusto quello di mettersi in posizione seduta e di lasciar cadere le sue fate sulla strada.
« Siete Orso di Vallesanta?», gli chiese la guardia più anziana, senza mascherare il forte accento tedesco.
Orso alzò le spalle.
«No», rispose, scuotendo appena il capo con fare seccato. «Quel vigliacco se n’è andato stamani all’alba.»
Non era un granché a mentire, in realtà, ma era risaputo che le guardie di Roma non fossero molto attente a questo genere di imbrogli. Probabilmente lo cercavano per un’altra tassa sulla sepoltura del nonno, cosa a cui Orso non era per niente interessato. Non aveva intenzione di pagare uno scudo in più per un pezzo di camposanto dove far marcire le ossa di un vecchio.
Quindi si rimise comodo, assottigliando lo sguardo sull’insolito gruppo e optando per pazientare fino a che la guardia non si fosse allontanata.
Ma non accadde. Non esattamente, almeno.
Una voce si alzò sopra le altre, costringendo Orso a rimettersi di nuovo in una posizione più o meno attenta.
«Riconoscerei le fate dei Vallesanta ovunque», disse l’uomo che sostava dietro le guardie, facendosi spazio per avvicinarsi. «E gli occhi cattivi, anche. Talmente simili a quelli di vostro padre che per un istante ho creduto fosse tornato dalla tomba.»
Non era stata una guardia svizzera, a parlare.
Mostrando un mezzo sorriso, Orso allargò le braccia in segno di resa, osservando l’uomo fermarsi a pochi passi da lui.
Era uno dei prefetti di Roma, non uno dei più giovani, a giudicare dai capelli bianchi che gli coronavano il volto tirato dalle rughe.
Orso aveva già avuto il piacere di conoscerlo, ma erano passati anni e a stento ne ricordava la voce.
Quando i loro occhi si incontrarono, però, non ebbe difficoltà a rimembrare.
«Lupo Mercuri», biascicò, colto di sorpresa.
Dopo la morte di suo padre, non credeva avrebbe rivisto simili personalità se non fuori dalla messa domenicale.
Guardò il prefetto attentamente, assicurandosi una via di fuga all’interno del Pantheon. Se le guardie svizzere erano da considerarsi una visita indesiderata, quelli che sedevano alla stessa tavola del Papa per pranzo erano ancora peggio.
Suo padre aveva sempre parlato di Lupo Mercuri come di un brav’uomo, ma non c’era da fidarsi.
C’era un solo motivo per cui un uomo come lui poteva trovarsi in un simile posto, a parlare con una persona sporca e maleodorante come Orso di Vallesanta.
L’imbalsamatore di corte era morto.
«Ho sentito dire che siete un imbalsamatore con il doppio del talento di vostro padre», esordì infatti il prefetto, aprendo il mantello con un gesto della mano per estrarne una busta chiusa recante l’insegna papale. «È vero?»
Orso alzò le spalle.
«Questo è quello che dicono», rispose. «Ma non faccio più l’imbalsamatore. Ora mi dedico …», a cosa si dedicava, ultimamente? «Ad altro
Lupo Mercuri si accigliò.
«Naturalmente», commentò. «Dicono anche che vostro padre vi abbia lasciato una certa quantità di artefatti.»
Lo aveva fatto? Lo aveva fatto di certo. E Orso sapeva anche dove andarli a cercare, gli artefatti. Peccato che in quella botola non avesse più voglia di tornarci.
Quindi sospirò rumorosamente, passandosi una mano sulle piume colorate che teneva legate attorno alla testa con un laccio di cuoio. Servivano per coprire la parte d’orecchio che un tizio alla taverna gli aveva reciso in un’esplosione di rabbia, in realtà lo tenevano calmo quando il nervosismo prendeva il sopravvento.
«Di cosa andate alla ricerca, Prefetto?», chiese, senza batter ciglio.
Fissava Mercuri dritto negli occhi, senza però andare alla ricerca di una sfida.
L’uomo socchiuse appena lo sguardo, prendendo fiato per parlare.
«Il ragazzino a due teste morto dieci anni fa a Viterbo. La sua bara è stata trovata vuota.»
«E perché mai dovrei averlo io?»
Bastò uno sguardo perché Orso realizzasse il motivo.
Chi altro poteva avere lo scheletro di un bambino morto? Se non era tra le reliquie della botola, allora era di certo andato distrutto da qualche scaramantico del luogo.
Provò a focalizzarsi sull’ultima volta in cui era sceso nella cripta, sugli scheletri che erano stati raccolti attorno al tavolo, ma era tutto buio e confuso. La paura aveva cancellato tutto ciò che i suoi occhi erano stati in grado di registrare.
«Non c’è modo di recuperare gli artefatti di mio padre», disse, infine, lasciandosi sfuggire un sospiro rassegnato. «Che fossero nelle mani della mia famiglia o meno ha poca importanza, visto che non possiedo la chiave per la cripta. Arrivate in ritardo; mio nonno era l’unico a potervi accedere, ma la morte se l’è preso due giorni fa.»
Lanciò a Mercuri un’occhiata mortificata, dopodiché alzò le spalle e fece per andarsene, ma la lettera che il prefetto teneva tra le mani gli venne consegnata con così tanta forza che dovette accettarla.
«Fossi in voi troverei un modo, Vallesanta», gli disse l’uomo, senza che il suo tono si alterasse. «Al Santo Padre non piace ricevere rifiuti dalle spiccate personalità che lo circondano, figurarsi da voi.»
Si voltò appena, facendo segno alle guardie di allontanarsi.
«Ci vedremo presto, immagino», lo salutò, avviandosi verso la strada.
Orso rimase lì, impalato con la lettera ancora stretta sul petto, a fissare il vuoto.
Prese un respiro profondo, poi iniziò a correre nella direzione opposta a quella presa da Mercuri.
Aveva mentito.
Un modo ce l’aveva, eccome, se ce l’aveva.
Ammesso che sua sorella fosse ancora viva.






* Le fate crudeli

Non sono ahimé una mia idea, ma un capolavoro dell'artista Tessa Farmer. Il metodo di costruzione indicato nella storia è, più o meno, lo stesso che utilizza lei (sì, sono opere d'arte biodegradabili al 100% :D)

Qualche foto delle fate (tutte prese dal suo sito web), tanto per farvi venire gli incubi. Uno, due, tre, quattro, cinque


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Capitolo 4
*** parte prima – femore, I Vallesanta: il pettirosso ***


polverenera

Per continuare(?)
Non abituatevi a questi aggiornamenti lampo, non durerà molto.

Comunque: bentrovati! :D

Oggi siamo in un "tutto al femminile". Sarà un capitolo solo per la protagonista femminile, con il Turco e uo uo uo Girolamo Riario! E c'è anche un pettirosso, ma su di lui tralasciamo :3

Nel prossimo capitolo, vi preannuncio un giovane Zoroastro!


Alla prossima,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
il pettirosso
https://www.youtube.com/watch?v=R4vKVNZAUyo









Sognerò il giorno
in cui tu mi raggiungerai
e potremo ricominciare da capo.

Adrisaurus – Iris








Imola, venti agosto 1475. Tre anni prima della congiura dei Pazzi



La calura di agosto la destò allo scoccare dell’ottava, quando le voci delle comari al mercato divennero troppo acute e insistenti per essere ignorate.
Porpora aprì piano gli occhi, stiracchiandosi con aria svogliata nel covone di fieno dove si era addormentata qualche ora dopo il tramonto. Sentiva la dita intorpidite affondare tra gli steli d’erba secca e l’odore caldo della paglia mischiarsi a quello acre del sangue secco sulla sua pelle.
Sospirò.
Si era data alla fuga la sera prima per un pezzo di pane rubato in una taverna e aveva finito con l’inciampare sulle tegole di un tetto e sbattere il naso contro un comignolo. Il segno del suo inesorabile fallimento nella corsa sui tetti era ancora sul suo viso, sgargiante nel rosso del sangue che le macchiava le guance.
Se lo tolse di dosso con uno sbuffo, sputando sul palmo e passandosi la mano sulla faccia.
«Sveglia e risplendi», disse a se stessa, mentre con le gambe si preparava a balzare fuori dal fieno che l’aveva protetta per la notte.
Lo stomaco reclamava cibo ed era ora di mettersi al lavoro, per non finire a pancia vuota.
Una volta uscita sulla piazza, recuperò la borsa che portava a tracolla e fece un rapido inventario dei suoi averi: due patate lesse rubate il giorno prima, un tozzo di pane e formaggio ottenuto dal baratto del pelo di un coniglio morto, un coltello e un osso dissotterrato al camposanto.
Con un sospiro, ingurgitò un boccone di pane.
Attendeva con impazienza l’arrivo del Conte.
Lo faceva sempre.
Ogni qualvolta Girolamo Riario tornava da Roma, portava con lui qualcosa di interessante da vedere, qualcosa che valeva la pena di stare per ore sul tetto di una vecchia casa, magari sotto la pioggia, fermi ad aspettare.
La prima volta era stata una squadra di guardie svizzere che avevano rimesso in riga la città, un’altra una quantità spropositata di libri e manoscritti, poi una decina di cavalli dall’oriente, tessuti … uno spettacolo delizioso da vedere con il pranzo, quando Porpora aveva qualcosa con cui banchettare.
Quel giorno, invece, il Conte non aveva portato niente.
Niente più di un barcollante se stesso, malfermo sulla sella e anche parecchio trasandato, quasi tornasse da una battaglia anziché dal Vaticano. Sembrava febbricitante, tanto era pallido e tremante.
Colpita da quella visione, Porpora abbandonò momentaneamente il suo pezzo di pane, facendolo sparire sul fondo della borsa, per sporgersi verso la strada.
Era raro vedere il Conte in quello stato. In tutti gli anni in cui lei aveva vissuto nei dintorni di Imola, non c’era mai stata una volta in cui lo aveva trovato scomposto.
Curiosa, assottigliò lo sguardo, avvicinandosi al muro della casa di fronte che aveva usato come scala per arrivare alla sua postazione.
Un istante dopo camminava per le strade di Imola, cauta, con l’orecchio sempre teso alla ricerca di un buon pretesto per correre via, ma non pareva esservi motivo di tanta agitazione. La gente si spostava silenziosa al passaggio del Conte, quasi avesse di che pentirsi alla sua vista. Da quando aveva preso il possesso di Imola, una strana paura aleggiava nell’aria, sebbene egli fosse ben visto dalla maggior parte della gente, in città. Era un buon governatore, un uomo di guerra e di fede, di scienza e di lettere.
Senza abbandonare la difensiva, Porpora gli si avvicinò con attenzione, restando dietro le spalle di qualche passante e dietro i banchi del mercato.
Tra una schiena e l’altra, però, lo guardava in viso. Ed era un viso che aveva visto centinaia di volte, quello del Conte Riario, eppure quel giorno c’era qualcosa di diverso, qualcosa di più prudente.
Il riflesso di un gioiello alla luce del sole le accecò un occhio, costringendola a fermarsi.
Nell’istante che passò a massaggiarsi la palpebra, il Conte le sfilò accanto. E vide la stessa chiave triangolare che aveva visto al collo di sua madre la notte in cui aveva visto i suoi genitori per l’ultima volta. Piccola, del colore del ferro, legata malamente a un cordoncino di canapa. Un colpo di tosse l’aveva fatta spuntare fuori dallo stesso mantello in cui si era rituffata un attimo dopo, quando il Conte l’aveva prontamente afferrata per rimetterla al suo posto.
Ma a Porpora era bastato per accorgersene.
Rimase ferma tra la folla, lasciando che il breve corteo la superasse. Immobile, cercò di ricordare, sebbene ogni memoria di quella notte fosse stata accuratamente riposta lontano dalla sua mente.
«Ehi, ragazza.»
La voce di un uomo la riportò alla realtà, aiutandola a rendersi conto di essersi letteralmente bloccata in mezzo alla strada.
Ai suoi piedi, seduto accanto al muro della casa su cui si era appostata, sedeva un uomo dalla carnagione scura. Vestiva in modo eccentrico, con una giubba color del mare ricamata con dei bordini dorati, e sorrideva alla giovane in modo enigmatico.
Porpora lo guardò inarcando un sopracciglio castano.
«Sì?», chiese, sbuffando.
«Ti senti male?»
Aveva un forte accento dell’est, farsi, probabilmente. Ottomano, quindi. Forse turco.
«Che t’importa?», gli rispose, tirando su col naso. «Fatti gli affari tuoi, vecchio.»
Fece per allontanarsi, ma l’uomo la fermò di nuovo, stavolta ridendo.
«Sei quella che gironzola qui intorno come un cane randagio?»
Porpora strinse le spalle.
«Può essere», ribatté, accigliandosi. «A te cosa ne viene?»
«Ho visto come guardavi quella chiave. Le tue mani la bramano.»
«Non sarebbe difficile prenderla.»
«Non saresti così rapida.»
Porpora guardò l’uomo con sguardo seccato.
Sapeva il fatto suo ed era molto più veloce di quanto ci si potesse aspettare.
«Scommetto che riuscirei a prenderla ancor prima che il Conte si accorga della mia ombra.»
L’uomo sorrise, allargando le braccia per invitarla ad avvicinarsi.
«Scommetto che le tue mani verrebbero tagliate entro la sera.»
Porpora scosse il capo.
Conosceva fin troppo bene quel tipo di persone: gli affamati, quelli che per il tozzo di pane che portava nella borsa l’avrebbero volentieri affogata in un secchio d’acqua piovana. E lei non era certo tipo da farsi prendere in giro.
«Non impicciarti, turco», sentenziò quindi, ficcando le mani in tasca. Gli voltò le spalle e iniziò a camminare verso la piazza.
«Ani ohevet otcha, yeled sheli», insistette l’uomo, senza scomporsi. «Quella chiave ti ricorda lei, vero?»
Porpora sbottò, senza fermarsi.
«Fatti i fatti tuoi!», ribadì, scrollando le spalle. Non si voltò, sebbene ne avesse davvero voglia.
La risposta le giunse così lontana da risultare quasi impercettibile.
«Ci rivedremo, lo sai? A Roma.»
Quando si voltò, furibonda, per protestare, lo strano individuo era già sparito dalla sua postazione. Come fosse riuscito ad alzarsi e ad allontanarsi tanto velocemente era un vero mistero.
Stizzita, Porpora rimase ferma un istante a contemplare la strada. Aveva gli occhi grigi sgranati sulla folla del mercato, il respiro pesante e il pugno alzato pronto a colpire quell’importunatore nel caso si fosse avvicinato.
Scrutò la strada con attenzione, dopodiché si mise composta e tornò a camminare verso la piazza, sbuffando, di tanto in tanto, al ricordo dell’incontro appena avvenuto.
Quell’uomo l’aveva infastidita talmente tanto che le era passato l’appetito.
Decise di mangiare comunque, rannicchiata in un vicolo.
Perdere la borsa non era poi difficile e quello che aveva tra le mani poteva essere l’unico pasto della settimana.
Assaporò a fondo il pane, ingoiando un boccone dopo l’altro, dopodiché si diresse verso la fontana per buttare giù il nodo allo stomaco con un sorso d’acqua.
Bevve poco.
Di acqua se ne trovava in abbondanza e non era il caso di riempirsi la pancia di liquidi, non se c’era il rischio di dover scappare da chissà chi durante il sonno.
Lasciò che il getto della fontana le bagnasse la fronte, pulendo un poco i capelli appiccicati alla pelle sporca del viso, dopodiché si concesse qualche sorso.
Quando si rimise dritta sulle ginocchia, sul muretto della fontana trovò un pettirosso.
Di primo acchito si ritrasse per non spaventarlo, timorosa di vederlo volare via in preda al panico. Capì subito che ciò non sarebbe accaduto.
L’animale era stecchito, imbalsamato nell’esatta posizione i suoi compagni ancora in spiccavano il volo. Le piume lucidissime e brillanti sotto i raggi del sole, il becco aperto, gli occhi spalancati.
Dire che pareva vivo sarebbe stato sminuire la realisticità di quel lavoro.
Sgomenta, Porpora allungò la mano verso l’uccellino, accarezzandogli il petto con la punta delle dita.
Conosceva quel pettirosso imbalsamato: era stato il suo primo giocattolo, il primo dono che suo padre aveva fatto a lei e a suo fratello.
Lo pensava perso negli anni e invece eccolo lì, più reale che mai, lucido e ben sistemato sul marmo della fontana della piazza di Imola.
Porpora prese un grosso sospiro, dopodiché afferrò l’uccellino e lo chiuse tra i palmi delle mani, portandoselo al petto quasi fosse il più prezioso dei tesori.
«Orso», sussurrò.
Improvvisamente, nella sua mente non vi fu altro che l’immagine di suo fratello gemello trascinato lontano dalla folla mentre cercavano di scampare alla morte.
Come quell’uccellino fosse giunto fin lì era mistero, eppure significava una cosa: Orso era ancora vivo e, da qualche parte, probabilmente la stava cercando.
Tra sé e sé, Porpora sorrise.
Avrebbe dato qualunque cosa per ritrovarlo.








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Capitolo 5
*** parte prima – femore, I Vallesanta: la scommessa ***


polverenera

Per continuare(?)
Ce l'ho fatta! :D Temevo di non riuscire ad aggiornare prima di tornare a casa dai genitori e invece ...

D'accordo, d'accordo, ho benevolmente abbandonato il manuale di storia contemporanea per un pomeriggio e mi sono dedicata esclusivamente alla scrittura per finire le bozze che mi mancavano. And I regret nothing.

Comunque sia, oggi ho le idee un po' più chiare delle volte passate e voglio fare qualche conteggio. La prima parte, quella dedicata ai Vallesanta, sarà composta più o meno di altri 3-4 capitoli (cinque al massimo), dopodiché ci sarà una parte tutta dedicata a Firenze :D In cui, per la felicità delle mie amate fangirl (vi amo, donneh<3), presenzierà un pomposissimo Levi.

Concludo queste note ringraziando la mia multitaskingissima betareader Chemical Lady, che anche con 38 di febbre legge e corregge. Ti amo di beneh<3


Un bacio a tutti,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
la scommessa
https://www.youtube.com/watch?v=Rm3-bUMPcT4









Il prete, il prete è in crisi.
È combattuto tra amore e Gesù.
Chi vincerà la guerra?

The Lumineers –Big Parade








Roma, ventisei agosto 1475. Sedicesimo compleanno dei fratelli di Vallesanta



«E invece, caro amico, ti dico che quella testa calda me l’ha chiesto davvero.»
Sospirando, Orso si coprì la fronte con la mano, schermando così i raggi del sole che gli offuscavano la vista.
Quella mattina era particolarmente corrucciato, nonostante portasse sulle spalle la consapevolezza di essere un anno più vecchio, un anno più vicino alla morte.
Guardò il suo amico, tutto preso a raccontargli dell’ultima missiva ricevuta da Firenze, saltellare sui gradoni del Pantheon quasi il foglio che stringeva tra le mani fosse la più bollente delle braci.
«Quindi ti unirai a Leonardo da Vinci?», azzardò, assai perplesso da tutta quell’agitazione.
L’uomo alzò le spalle.
«Per rimetterci la vita in uno dei suoi esperimenti da pazzo?», ironizzò. «Vallesanta, sarò anche coraggioso, sì, ma non fino a questo punto!»
Orso ridacchiò, estraendo dalla borsa una pagnotta comprata con gli ultimi denari che il nonno gli aveva lasciato.
«Zoroastro il codardo», commentò, spezzandone una parte e portarla alla bocca.
Zoroastro si chinò su di lui per pizzicargli una guancia con fare scherzoso.
«Vorrai dire: Zoroastro il saggio!»
Risero assieme, accomodati lungo i gradoni di Piazza della Rotonda.
Era una bella giornata d’agosto, tutto sommato neanche troppo calda, e Orso compiva sedici anni. In più, avevano una pagnotta con cui festeggiare e riempirsi lo stomaco, avvenimento non così comune viste le condizioni di estrema povertà in cui il ghetto si trovava.
Molto probabilmente, metà della gente che abitava in quelle casupole li avrebbe volentieri uccisi per assicurarsi anche un morso di quel ben di Dio.
Pensava a questo, Orso, quando spezzò la pagnotta in due si alzò per consegnarla a un vecchio vestito di stracci che gridava la misericordia divina sotto le colonne.
Ignorò volutamente l’occhiata sconvolta che Zoroastro gli lanciò quando tornò al suo posto, consegnandoli il resto del cibo e prendendo a lanciare sassolini nella piazza, improvvisamente sovrappensiero.
«Sto cercando una persona», confessò, guardando vergognosamente il terreno sotto ai suoi piedi.
Sentì Zoroastro schioccare la lingua contro il palato.
«Una delle tue giovani conquiste?», ironizzò il suo amico, prendendogli la spalla per scuoterlo da quel vuoto in cui era caduto.
Sospirando pesantemente, Orso scosse il capo.
«Ma no», rispose. «Mia sorella. È scappata anni fa dal convento in cui l’avevano rinchiusa e da allora non se ne sa più nulla. Mi stavo solo chiedendo dove stesse festeggiando il compleanno.»
Zoroastro fece spallucce.
«In un bordello, se è stata fortunata», commentò.
Orso aggrottò la fronte.
«Non credo», rispose. «Da bambina mordeva.»
«A molti uomini piace essere morsi.»
Silenzio.
Con le braccia incrociate sul petto, Orso si fece improvvisamente pensieroso. Era plausibile, l’idea di sua sorella in un bordello di Roma? Dopotutto, di lei non ricordava che il viso colmo di lacrime nel momento in cui si erano detti addio. Di lei, il fato poteva aver fatto qualunque cosa.
«Dici che dovrei cercare nei bordelli?», chiese, allora, guardando Zoroastro come se fosse la prima volta che sentiva nominare quel genere di luogo.
Il suo amico alzò le spalle, ovvio.
«Non l’hai già fatto?», si informò.
Orso scosse il capo.
«A dire il vero no.»
«Allora l’hai cercata nei conventi?»
«No.»
«Negli ospedali? A volte gli orfani vengono presi per lavare gli appestati.»
«Nemmeno.»
«Nei cimiteri?»
«Non ci avevo pensato.»
«Hai almeno chiesto ai becchini delle fosse comuni?»
«No, direi di no.»
Zoroastro schioccò la lingua contro il palato, alzando le braccia verso il cielo con un’espressione rassegnata.
«Buon Dio, ma dove l’hai cercata?», sbottò.
Orso strabuzzò gli occhi, offeso.
«In giro!», esclamò. «Per strada, così, al mercato … poi sono tornato qui, in caso qualcuno l’avesse indirizzata al Pantheon, e sono rimasto ad aspettarla per tre giorni. E poi sei arrivato tu.»
Ora che l’aveva detto ad alta voce, il suo piano di accorata ricerca sembrava molto meno ben studiato di quanto lo fosse nella sua testa.
In fondo, chi gli assicurava che Porpora fosse a Roma?
Anche se, a dirla tutta, non c’erano poi molti altri posti dove andare a cercarla. Di certo non si era messa in cammino per andare a esplorare la penisola. Forse.
«Zoroastro, credi che la troverò?», mugugnò, affondando le dita nei capelli castano chiaro.
Affranto, si accarezzò le orecchie, seguendo con accuratezza il contorno del loro destro, tagliato durante una lite in osteria e ingegnosamente coperto da un cordoncino di piume colorate che lui stesso si era preso la briga di tingere in verde e rosso.
Il suo amico ridacchiò, prendendogli una spalla per scrollarla con vitalità.
«Se tu la troverai stando qui al Pantheon a poltrire, io me ne andrò a far da assistente a quel matto di da Vinci!», esclamò, sornione, caricandosi in spalla il sacco che si portava appresso. Mosse qualche passo verso la piazza, dopodiché si voltò a salutare Orso. «Ci vediamo, mio buon amico!»
Orso sospirò.
«Non sei divertente», borbottò, guardandolo andare via.
Stava perdendo ogni speranza e, man mano che osservava la folla passare accanto all’enorme costruzione senza degnarla però di uno sguardo, la fiducia che qualche giorno prima aveva riposto nella sua buona stella andava via via affievolendosi, lasciando sempre più spazio alla consapevolezza che non c’era alcuna possibilità di ritrovare una ragazza nell’immensità della Città Eterna, non senza uno straccio di indizio.
Forse, era stato tutto un vagheggiamento dall’inizio, quando aveva creduto di potersi salvare la pelle.
Che sciocco, era stato! Sarebbe dovuto scappare quel giorno stesso, quando ne aveva la possibilità!
«Orso?»
La voce scocciata di una ragazza lo colse alla sprovvista, costringendolo ad alzare il capo verso la piazza.
Davanti a lui, una giovane dagli occhi color della sabbia lo fissava con le braccia conserte sul petto, le labbra storte in una smorfia perplessa, il mento affondato nei lembi morbidi di una camicia sporca di fango.
Orso balzò in piedi.
«Porpora», mormorò.
Lei roteò gli occhi.
«Grazie a Dio ti ho trovato», commentò. «Sei il terzo vagabondo che fermo, oggi, e pensavo di dover cercare ancora per –»
Non arrivò a finire la frase.
Orso le balzò al collo, abbracciandola così stretta che quasi la sentì spezzarsi sotto le sue braccia.
«Un vecchio mi ha detto che mi cercavi», disse lei, una volta libera da quelle effusioni. Frugò nella tasca e mostrò un uccellino imbalsamato avvolto in un fazzoletto di raso.
Orso sgranò gli occhi.
«Quello lo avevo venduto due mesi fa!», esclamò, sbigottito. «Dove l’hai trovato?» Fece una pausa, cercando di rimettere ordine nella sua mente. C’erano faccende più urgenti, di un pettirosso. «Il nonno è morto», confessò, muovendo appena le labbra.
Porpora corrugò la fronte.
«Era ora che il Signore se lo prendesse», rispose, tirando su col naso. «Tanto meglio. Un aguzzino in meno da cui guardarmi le spalle.»
Orso annuì distrattamente.
«Che hai fatto per tutto questo tempo?», chiese.
Porpora lo fulminò con lo sguardo.
«Ho dormito sotto un portico con un coltello tra le mani per evitare che mi tagliassero la gola», rispose, guardando il fratello dritto negli occhi. «E tu?»
Lui sorrise appena, deglutendo.
«Andato a messa, lavorato nei campi, seppellito il nonno … niente di che.» Dondolò il capo, accarezzandosi le piume che portava legate attorno al capo. Come parlare di ciò che gli era successo qualche giorno prima? «Uno dei tirapiedi di Sisto è venuto a trovarmi al Pantheon, due giorni fa.» Buttò lì, abbassando il tono. «Era alla ricerca di uno scheletro, quelli che papà nascondeva nella cripta.  Non sembrava molto intenzionato a lasciar perdere, quando gli ho spiegato che non esiste più nessun modo di scendere laggiù, non senza le chiavi, ma non si è dimostrato troppo incline al dialogo.» Fece una pausa per riprendere fiato. Le sue dita scivolavano così velocemente sulle piume colorate che per poco non se le strappò via dalla testa. «Ora che il nonno è morto sei rimasta solo tu.»
Porpora si portò la mano destra al petto.
Orso sospirò.
«Hai ancora la croce d’osso della mamma?»
Lei annuì lentamente.
«È l’unica cosa che mi è rimasta di casa.»
Orso sorrise.
Una croce per pregare negli inverni più freddi, nelle giornate più piovose, che terminava negli intagli di una piccola chiave della giusta misura per aprire la botola nascosta sotto i tavoli del ghetto di Roma.
Suo padre ne aveva costruite tre, all’epoca.
Una per lui, una per il nonno, e una per sua moglie.
Dopo sette anni, evidentemente, quella che Porpora aveva al collo doveva essere l’ultima rimasta.
«Non c’è altro modo?», chiese sottovoce la ragazza. «Non puoi scassinare la serratura?»
Lui strinse le spalle.
«È fatta in modo che tutto crolli nei canali sotto al ghetto, nel caso si sfondi la botola», rispose, pacato. «Non ti sto chiedendo di venirci con me, Porpora. Solo di cedermi la chiave.» Fece una pausa, mettendo le mani sotto la giacca. «Posso pagartela, se vuoi. Non ho molti soldi, ma non ci sono scudi che valgano la mia vita. Per favore.»
Porpora sospirò, abbassando nuovamente il capo sulla sua croce.
«Quanti soldi hai?», chiese, scrollando il capo e strizzando gli occhi per impedire a un paio di lacrime di stizza di rigarle le guance.
Orso ci pensò un istante.
«Dodici», rispose, serio. «Dodici scudi per la tua croce.»
Porpora non perse neanche un secondo.
«D’accordo, affare fatto», disse, tutto d’un fiato.
Orso le porse allora il taccuino, ma lei scosse il capo, prendendogli il polso per impedirgli di consegnarle le monete.
«Tienili tu, me li darai dopo il lavoro», borbottò, incamminandosi verso le porte della città. «Finito con quella botola non voglio più rivederla.»
Fece qualche passo senza aspettare il fratello, ma la voce di Orso parve bloccarla.
«Quindi vieni anche tu? », le chiese lui, senza nascondere un tono di sorpreso sollievo.
Porpora alzò le spalle.
«Bé, ormai sono a Roma. E poi, non ho un posto dove andare a dormire», disse, voltandosi verso il fratello. «Andiamo?»
Lui le sorrise, sistemandosi la borsa a tracolla e affrettandosi a raggiungerla.
Orso e Porpora di Vallesanta compivano sedici anni proprio quel giorno e, dopo quattro anni passati in solitudine, erano finalmente tornati assieme.









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Capitolo 6
*** parte prima – femore, I Vallesanta: la botola ***


polverenera

Per continuare(?)
Sono tornata! Lo so, mi sono presa le ferie di Pasqua senza avvisare ma ehi, concedetemelo P:

Prometto di non sparire più così, sì <3

Dunque, che dire di questo capitolo? Botole, morti e amore fraterno a secchiate. (Credeteci finché potete)

Nel prossimo, vi prometto il Papa!

Bacini baciotti,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
la botola
https://www.youtube.com/watch?v=qs3gnk1dq60










No, non ero io sulle scale della chiesa.
Il vento nei miei capelli soffiava nell'aria della notte.

Beriut – Guymas Sonora








Roma, ventisette agosto 1475. 1888 anni dopo l'assedio di Siracusa.



Giunsero in prossimità della vecchia taverna dove loro padre aveva lasciato i suoi cimeli che un improvviso temporale li aveva inzuppati fino all’osso.
Guardando i suoi capelli zuppi gocciolare nelle pozzanghere per strada, Orso sospirò, stringendosi nella vecchia giacca che aveva aperta sulle spalle. Di certo quel bagno fuori programma gli sarebbe bastato per almeno un mese.
«Non vedo l’ora di buttarmi su un letto», dichiarò, allegro, coprendosi i capelli con il berretto giallo che sua sorella gli stava porgendo. «Sono talmente stanco che potrei addormentarmi anche qui.»
Porpora sospirò, legandosi la treccia dietro la nuca con un fazzoletto dello stesso colore del berretto.
«Abituati all’idea di dormire per strada, allora», rispose, guardando verso la taverna. «Questo non è un bel posto dove lasciare i soldi e chiudere gli occhi. Molto meglio far finta di essere morti di fame.»
Orso non rispose, continuando a camminare per la strada costellata di pozzanghere. Non aveva voglia di mettersi a discutere e, in realtà, era molto più interessato da quel luogo che da una banale chiacchierata. Erano anni che non metteva piede nel ghetto, eppure niente era cambiato. La gente continuava a muoversi in silenzio, schiva, guardandosi attorno con circospezione e i toni di voce erano bassi, lievi, quasi impercettibili. Tutto attorno alle abitazioni vi erano squadre della guardia cittadina che tenevano l’ordine, se di ordine si poteva parlare. Rispetto al resto della città, il quartiere ebraico era di gran lunga il più sporco, condannato a marcire sotto la grandezza di Roma.
Scosse il capo, sforzandosi di focalizzarsi sui pochi ricordi che aveva di quel luogo. Sarebbe riuscito a ritrovare la botola? Non ne era tanto sicuro.
Guardò sua sorella sparire dietro la porta della taverna e, quasi senza accorgersene, si ritrovò a pensare a quella notte in cui tutto era in fiamme e sua madre lo aveva preceduto all’interno, lasciando troppo presto quella porta che gli aveva fratturato la mano.
Solo in quell’istante notò quanto Porpora le somigliasse. Aveva i capelli più scuri e gli occhi più chiari, ma il viso, tanto tondo da apparire perennemente imbronciato, era lo stesso.
Si affrettò a seguirla all’interno della taverna e subito fu investito dal calore di almeno venti corpi umani ammassati in un quadrato di terra palesemente troppo piccolo per contenerli. Tra tutti quei berretti, il fazzoletto giallo che Porpora aveva intrecciato nei capelli era facilmente individuabile.
Si sbrigò a raggiungerla al banco, dove aveva già preso a parlare con l’uomo che ripuliva le pinte.
«Siamo Orso e Porpora di Vallesanta», disse, quando Orso fu abbastanza vicino da udire la sua voce ferma tra gli schiamazzi della taverna. «I figli di Giovanni.»
L’uomo li scrutò a lungo, tanto a lungo che Orso credette che quel discorso non sarebbe mai andato oltre le presentazioni.
«In giro dicevano di avervi trovati affogati nel Tevere», rispose d’un tratto l’uomo, grugnendo mentre posava lo straccio. «Ma non c’è dubbio che siate i figli di Giovanni. Avete gli stessi occhi da brutta canaglia.»
Porpora non batté ciglio.
Orso non poté fare a meno di chiedersi quante volte, nei sette anni che li avevano separati, la gente le aveva affibbiato quel genere di nomignolo.
La vide sospirare, scostandosi una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio.
«Siamo tornati a riprenderci la cripta», rispose, seria.
L’uomo scoppiò in una grassa risata.
«Arrivate in ritardo, Vallesanta!», esclamò. «Sono tre anni che nessuno si fa vivo a pagarmi l’affitto! Se la rivolete indietro, avete prima da saldare prima il conto.»
Porpora si accigliò.
«Laggiù c’è roba che vale ben più di un misero affitto. Scommetto che vale persino più di questa vecchia topaia», considerò. Guardava l’uomo dritto negli occhi, senza distogliere l’attenzione dalle sue pupille. «Ma, anche solo provando a scassinare la serratura, tutto finirebbe a marcire nelle fogne che scorrono sotto la città.»
L’uomo alzò le spalle.
«Allora la cosa non mi tocca. Che saldiate o meno il conto, quella roba è intoccabile. Dio me ne scampi dal dover tirar su i morti da quel buco!»
Di scatto, Porpora si voltò verso Orso.
«Quanti scudi hai detto di avere?»
Lui deglutì.
«Dodici», balbettò. «Ieri ne abbiamo spesi due, quindi …»
La ragazza annuì, tornando a guardare il taverniere.
«Abbiamo dieci scudi, che ti bastino!», gridò, battendo la mano sul tavolo.
Lui scosse il capo.
«Trenta, e ritenetevi fortunati.»
«Quindici.»
«Venticinque. Pagate o butterò i vostri preziosi morti in fondo al fiume.»
Porpora si portò una mano alla fronte, mostrandosi pensierosa. Per un istante, parve sul punto di esplodere, poi si calmò.
«Venti», disse, decisa. «Dieci ora, dieci tra tre giorni. Se non ti sta bene, dà pure al Tevere ciò che ti pare.»
L’uomo ammutolì. Arricciò il naso un paio di volte, trafficando con un piatto di patate arrosto che buttò sul bancone in attesa che chi le aveva ordinate venisse a prendersele. Si accarezzò la barba per qualche minuto, poi parve acconsentire con un lieve cenno del capo, così Orso si affrettò a tirare fuori il sacchetto con gli ultimi dieci scudi che il nonno gli aveva lasciato per campare e pagò, seppur poco convinto, quell’affitto.
«Stanotte, quando se ne saranno andati via tutti, lascerò la porta socchiusa», disse il taverniere, facendo sparire il sacchetto con le monete. «Farete meglio a essere discreti, Vallesanta. Se le guardie svizzere vi seguiranno anche una sola volta, con me avete chiuso. Ora via, per carità, ho abbastanza sventure, in questo posto!»
Alzando le spalle, Porpora diede all’uomo un lieve sorriso e si allontanò.
Orso la seguì silenzioso, mentre uscivano dalla taverna così come erano entrati, senza rivolgere la parola a nessuno degli uomini ai tavoli che li fissavano con sguardo vacuo.
«Siamo senza soldi», le ricordò, una volta in strada.
Lei annuì con un cenno del capo.
«Già.»
«E senza un posto dove dormire.»
«Lo so. Hai fame?»
Solo in quel momento, Orso si accorse che Porpora teneva le mani strette lungo i fianchi. Quando aprì i palmi, rivelandone il contenuto, scoprì due pugni di patate arrosto ancora fumanti.
Orso si accigliò.
«Quando le hai rubate?», chiese, stupito.
«Quando non stava guardando», gli rispose Porpora. «Ne vuoi? Ho visto un portico, laggiù.»
Improvvisamente, Orso si sentì affamato. Da quando si era ritrovato sua sorella, non aveva ancora messo in bocca nulla; quindi annuì, silenzioso, e si tolse la giacca per fare da riparo alla sorella in quel breve tratto che li separava dal porticato.
La loro cena consistette in due morsi di carne essiccata e delle patate arrosto che riscaldarono i loro stomaci più di quanto un qualsiasi caminetto avrebbe potuto fare.
Rimasero sotto la pioggia battente per quasi quattro ore, dormendo a turno l’uno sulle spalle dell’altra, contando ogni uomo che usciva dalla taverna in piedi o strisciante nel suo stesso vomito.
Quando le ultime luci all’interno della taverna vennero spente, Porpora si era appena addormentata, raggomitolata su se stessa nel suo mantello fradicio.
Delicatamente, Orso la scrollò.
«È ora», mormorò, alzandosi in piedi. «Andiamo.»
Stavolta, fu lui a precedere la sorella nel locale. Era stato colto da un barlume acceso nei suoi ricordi, quando aveva visto le finestre oscurarsi. Anni prima, quando si recava lì con suo padre, quello era il segnale che potevano entrare, percorrere quelle due tavolate sulla destra e infine aprire la botola.
Sapeva dove andare.
Si trascinò dietro sua sorella per i tavoli e le sedie della taverna, studiandone bene i particolari. La cripta era sotto la gamba marcia di una delle bancate.
Non gli ci volle molto per individuarla.
In silenzio, spostò il tavolo alzandolo da terra e liberò l’entrata della botola alzando la lastra di granito che la ricopriva. Sotto ai suoi piedi, piccola e scura, c’era una serratura.
Annuendo, guardò Porpora, la quale stava già sfilandosi la croce d’osso dal collo.
«Prega che funzioni», commentò, infilandola nella serratura.
Ruotando la chiave, si udì un lieve sibilo metallico, poi il coperchio di ferro si abbassò e cadde nel buio con un tonfo secco.
Immediatamente, un odore di marcio invase la taverna.
Porpora si coprì il naso con un lembo del mantello, mentre Orso nascose il viso nella giacca.
«Siamo state le ultime due persone a metterci piede», commentò, sporgendosi per guardare nel buio. «Mi domando quanto marciume possa essersi accumulato, in tutti questi anni .»
Porpora aggrottò la fronte, estraendo una candela dalla borsa.
«Ti lascio il piacere di scoprirlo», rispose, porgendogliela assieme a dei cerini. «Non ho intenzione di scendere là sotto.»
Orso sospirò.
Non faceva di certo i salti di gioia all’idea di calarsi in quel buco, ma d’altronde erano arrivati fin lì e non poteva certo permettersi di tirarsi indietro.
Afferrò quindi i cerini e vi accese la candela, sedendosi sul bordo e lasciando che le gambe penzolassero nel buio.
Guardò la sorella.
«E se mi faccio male?»
Lei alzò le spalle.
«Ti arrangi.»
Deglutendo, Orso tornò a guardare verso il buco. Contò fino a tre, dopodiché si lasciò cadere.
Il salto fu molto più corto di quanto ricordasse.
Atterrò in piedi, affondando leggermente in uno strato di qualcosa di morbido e viscido che, a giudicare dall’odore, poteva essere il vomito o l’escremento di qualche animale.
Mettendo da parte la questione per un istante, Orso decise di avanzare senza illuminare il pavimento. Procedette un passo dopo l’altro, mentre gli stivali affondavano sempre più nel terreno infermo. Sotto di lui, stando ai ricordi che aveva, scorrevano le fogne della città.
Sapeva che nella stanza c’era un caminetto, una specie di fornace che suo padre utilizzava per sciogliere la cera, ma non riuscì a ricordarne l’ubicazione esatta fino a quando non andò a sbatterci contro.
Una volta illuminata, la cripta assunse tutto un altro aspetto.
Vi era un tavolo di marmo posto al centro della stanza, circondato da una fessura che doveva fungere da canale di scolo. Sopra il tavolo, appeso a delle corde, vi era un gran numero di pinze e seghetti accuratamente ripuliti e disposti in ordine crescente man mano che si avvicinavano al camino. La corda più vicina, lasciava pendere un paio di quanti di pelle scura.
Sulle pareti tutte attorno alla stanza, erano disposti gli scheletri e gli animali impagliati della collezione di famiglia, circondati dalle fate crudeli, la firma che suo padre dava a ogni lavoro.
Cere e colle erano accatastate dall’altro lato della cripta, dove una scala di corda scendeva nelle fogne.
Tutto sommato, quello era un ambiente spazioso, ben costruito.
Ora che lo vedeva senza gli occhi della paura, Orso non poteva fare a meno di scorgere un ricordo a ogni dettaglio che notava. Le incisioni sulle pareti di legno che aveva lasciato da bambino, le vasche dove suo padre lasciava alle larve il compito ingrato di rosicchiare la carne, gli animali impagliati che tanto amava osservare …
Si guardò attorno, in cerca dello scheletro che il prefetto gli aveva commissionato. Se non si trovava tra quelli appesi alle pareti, difficilmente era sopravissuto agli anni.
Lo trovò poco più in là, a dare bella mostra di sé nella collezione accanto alla scala, già cerato e lavorato con l’asta di ferro che lo teneva ben dritto sul suo piedistallo.
Lo spostò con cautela, portandolo fino alla botola sul soffitto con il passo più lento di cui fosse capace. Lasciarlo cadere a quel punto, gli sarebbe costato la morte.
«Porpora?», chiamò, avvicinandosi il più possibile all’apertura.
La voce di sua sorella arrivò calma e squillante.
«Sì?»
«Mi serve una mano. Ecco, sta’ attenta.»
Le mani della ragazza scesero prontamente ad afferrare il piedistallo, trasportando il prezioso artefatto in superficie.
«Dio … che schifo!», commentò, una volta che lo scheletro fu interamente fuori. «E lo vogliono mettere in bella mostra in Vaticano? Che se lo tengano, dovremmo essere noi a pagare loro perché ci liberino di questo affare!»
Orso riemerse dalla botola arrampicandosi malamente sul muro.
«Non dirlo neanche per scherzo», tuonò, afferrando il piedistallo per ammirarlo alla luce che Porpora aveva acceso nella taverna. «È bellissimo!»
Lo scheletro era quello di un normalissimo infante, forse un po’ più piccolo del solito, ma da bacino partivano due spine dorsali che terminavano in un paio di spalle decisamente troppo larghe e, particolare decisamente più agghiacciante, due teschi perfettamente formati. Dovevano essere appartenute a un bambino non neonato, ma di almeno quattro o cinque anni.
Estasiato, Orso lo accarezzò con le dita.
Gli piangeva il cuore a pensare di liberarsene.
Veloce, afferrò il mantello che Porpora aveva abbandonato a terra, avvolgendoci delicatamente lo scheletro, e lo ripose con cura in un ulteriore involucro fatto con la sua giacca.
Tornò poi a recuperare il coperchio della botola, e la chiuse con un giro di chiave, riconsegnando la croce a Porpora.
«Mettiamo a posto e andiamo via», disse lei, prendendo in custodia lo scheletro. «Prima che qualcuno noti che la porta è aperta.»
Si avviò verso l’uscita, ma Orso non la seguì subito.
Col fiato corto a causa di tutte quelle novità, rimase qualche passo indietro ad aggiustarsi la camicia sul petto. Si diede una rapida sistemata ai pantaloni e infine passò a controllare le stringhe degli stivali con qualche colpetto di mani.
Quando si guardò i palmi, li trovò cosparsi di larve intente a mangiare quello che rimaneva della carne putrefatta di un animale, forse un topo.
Chiuse la bocca, sforzandosi di non pensare a cosa aveva appena toccato, e passò le mani sui pantaloni nella vana speranza di potersi togliere di dosso l’odore di morto.
La notte dopo gli sarebbe di certo toccato sgobbare per ripulire la cripta dai resti marci delle bestie arrivate lì dentro in cerca di calore.







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Capitolo 7
*** parte prima – femore, I Vallesanta: il corridoio dei santi ***


polverenera

Per continuare(?)
Fine della prima parte! L'introduzione dei fratelli di Vallesanta e del loro sporco business italiano è ufficialmente finita ;D

Tanto per rendervi partecipi della mia preparzione, non ho la più pallida idea di come chiamare la seconda parte. Maaaaa va tutto bene. Più o meno. 

Vi lascio e torno ai miei deliri, che sarebbe anche ora.

Vollemossebbene<3

Un abbraccio,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
il corridoio dei santi
http://www.youtube.com/watch?v=A76a_LNIYwE










I fantasmi che ululano riappaiono
tra le montagne che si addossano per la paura.
Ma tu sei un re e io un cuordileone
Of Monsters and Men –King And Lionheart







Roma, tredici settembre 1475. Giorno della nascita di Cesare Borgia.



Orso di Vallesanta tossì, lasciando che il suono secco del suo catarro si propagasse con l’eco dei corridoi vaticani. Di tutti i posti in cui aveva mai immaginato di mettere piede, quello era decisamente l’ultimo. L’ultimo e il meno gradito, a dirla tutta, ma fuori pioveva a dirotto e quei corridoi erano caldi e asciutti, quindi non si azzardava a lamentarsi.
Silenzioso, osservava le alte architravi stagliarsi su di lui, i volti ritratti dei santi guardarlo con astio, quasi non fosse benvenuto in quella che, a detta di tutti, era la vera casa del Signore.
Decisamente, quello non era un posto in grado di metterlo a suo agio.
Nervoso, si voltò verso la sorella, di gran lunga più rilassata e serena di lui, intenta a rimirare il suo grazioso profilo nel riflesso di una finestra.
Si era lavata come meglio poteva, facendo sparire almeno le croste di terra che aveva in viso, e aveva trovato chissà dove una camicia di un colore vagamente più simile al bianco della casacca che indossava di solito. Così, messa più o meno in ordine, appariva quantomeno piacente.
«Porpora, credi che ci faranno entrare negli archivi?», le chiese, sovrappensiero.
Ogni tanto gli piaceva fantasticare.
La ragazza si voltò appena, inarcando un sopracciglio castano.
«Non fare lo stupido.»
Orso strabuzzò gli occhi.
«Non si sa mai», si giustificò.
Porpora aprì la bocca per ribattere, ma la voce di un uomo la bloccò.
Dietro di lei, la figura massiccia del capitano delle guardie svizzere oscurò un poco la stanza, mentre egli si avvicinava con passo pesante.
«Gli imbalsamatori?», esordì con tono seccato, incrociando le braccia sul petto.
Orso lo guardò, attento.
Era alto poco più di lui, ma estremamente più massiccio. Lo conosceva bene. Tutti lo conoscevano, a Roma. Capitano Grunwald, spalla del nipote del Papa, non esattamente il tipo di uomo con cui valeva la pena scherzare. Una volta, Orso lo aveva visto spezzare una porta con un solo pugno.
«Sì», gli rispose quindi, a voce bassa, avvicinandosi alla sorella. «Porpora e Orso di Vallesanta.»
Lui li scrutò attentamente, soffermandosi sulla cassa di legno che Porpora portava tra le braccia.
Scosse poi il capo, quasi a scacciare un qualche pensiero, e voltò loro le spalle.
«Da questa parte», li chiamò, prendendo a camminare lungo il corridoio. «E vedete di non perdervi.»
Orso lanciò un’occhiata a Porpora.
Difficile dire chi, tra sua sorella e Grunwald, apparisse più seccato. Era una gara che non avrebbe visto un vincitore.
Sospirò, quindi, e iniziò a camminare in silenzio.
Avanzarono senza parlare per qualche minuto, accompagnati soltanto dagli occhi dei dipinti, che Orso non perdeva mai di apprezzare. Con il polso appoggiato all’elsa della sua spada, sfilava affascinato lungo quell’esibizione di Santi. Era una ricchezza che sua sorella non poteva comprendere, quella.
Sospirando, si voltò verso di lei, studiandone l’espressione.
Mostrava il volto stanco di chi ha decisamente dormito troppo, ma era ben dritta sulle gambe, con il mento alto e lo sguardo superbo che l’accompagnava ovunque andasse. Portava i capelli legati sulla nuca con un pezzo di corda, una camicia meno sporca del solito e una lama al fianco, che dava mostra di sé ondeggiando ad ogni passo.
Orso non poté fare a meno di chiedersi se l’avesse rubata a qualcuno nel tragitto o se, piuttosto, l’avesse sempre avuta con sé, nascosta sotto il mantello per difendersi da qualche aggressore nelle serate più buie.
Si sentiva irrequieto. Gli sembrava di essere nel posto più bello del mondo con un coltello puntato alla gola pronto a conficcarsi nella giugulare al primo sgarro.
In effetti, realizzò, quella visione del suo stato non era poi troppo lontana dalla realtà.
Si sforzò di buttare da parte quei pensieri, seguendo Grunwald per i corridoi.
Quel castello doveva essere un vero labirinto: svoltarono a destra un paio di volte, percorsero scale in salita e in discesa, attraversarono almeno tre diversi colonnati, tutti decorati con sfarzose raffigurazioni di santi e scene bibliche.
Infine, sbucarono in un piccolo cortile interno illuminato appena dai pochi raggi di sole che avevano fatto capolino dalle nubi di quella mattina.
Evidentemente, nel tempo che lui e Porpora avevano trascorso all’interno di Castel Sant’Angelo, il temporale si era allontanato, lasciando spazio a qualche attimo di pace.
Sollevato all’idea di non dover passare un’altra notte sotto la pioggia battente, Orso osservò il giardinetto.
Esso si apriva sotto un colonnato rettangolare, con due alberi di pesco ormai spogli e qualche erba aromatica piantata con ordine accanto alle colonne. Vi erano anche dei cipressi, tenuti bassi, a delimitare il perimetro del giardino, e un’aiuola di primule sistemata accanto a una panchina in marmo.
Sospirò, obbligandosi a seguire Grunwald nel biancore che era il groviglio di corridoi di Castel Sant’Angelo. Avrebbe veramente pagato oro per potersi godere un istante tra l’erba di quel cortile.





*  *  *




Starnutendo, Porpora ruppe il pensate silenzio che era caduto nel corridoio quando, una volta giunti dinanzi a una maestosa porta in mogano, si erano accorti del fatto che Orso fosse rimasto indietro.
Il Capitano Grunwald si era limitato a un pensate sospiro, portandosi una mano alle tempie come per raccogliere la pazienza che gli era rimasta per evitare di esplodere.
Lei, invece, non era stata così controllata. Aveva prodotto una serie di insulti che si era fermata soltanto quando, di corsa, Orso non aveva fato capolino da dietro l’angolo, preceduto dallo stridere dei suoi stivali sul pavimento di marmo.
Porpora lo raggiunse con uno scatto, stringendo le mani contro il bavero della sua giacca e scuotendolo appena.
«Maledizione, possibile che tu ti debba perdere ovunque?», sbuffò, seccata.
Orso aprì la bocca per rispondere, ma non uscì alcun suono. Sembrava perso in una specie di stato incosciente, lontano miglia e miglia dalla realtà.
«Per Dio, Orso!», lo richiamò Porpora, adirandosi ancora di più di quanto già non fosse. «Rispondimi!»
Fece per scrollarlo di nuovo, ma le mani del Capitano Grunwald l’afferrarono per la treccia e la alzarono di qualche centimetro, costringendola a mollare la presa attorno al fratello.
«Finitela con questo chiasso!», ruggì l’uomo, allontanando Porpora dalla figura di Orso. «Cercate di ricordare dove siete e datevi un contegno!»
Ancora sotto la presa di Grunwald, Porpora non osò controbattere. Lasciò che le braccia le cadessero molli sui fianchi e attese di essere lasciata andare, con ogni singolo capello che le doleva per la presa.
Si stupì, comunque, della delicatezza con cui l’uomo la depositò a terra, lanciandole però uno sguardo severo che le fece incrociare le braccia sul petto.
Fu in quell’istante che le porte della sala si aprirono, lasciando uscire due maggiordomi vestiti di bianco che li annunciarono con pomposità, quasi si trattasse di pronunciare il nome di chissà quale nobile anziché quello di due ragazzini venuti dalla campagna.
Porpora li superò senza degnarli di uno sguardo, recuperando velocemente la cassa di legno in cui avevano riposto lo scheletro.
«Orso, stammi dietro», disse, evitando di voltarsi per controllarlo. «Non perdiamo altro tempo.»
Entrò nella sala che suo fratello l’aveva ormai raggiunta e le camminava affianco, reggendo la borsa in cui aveva raccolto il raccoglibile lasciato nella cripta. Due monete di una valuta che non conoscevano e qualche pinza che Orso si era voluto portare dietro per sicurezza e che pesavano molto più di quanto la loro grandezza lasciasse a intendere.
Gli prese il braccio, affondando le dita nella sua giacca.
«Sta’ tranquilla», le disse lui, dondolando appena il capo.
Sembrava sicuro di sé, ma Porpora notò che gli tremavano le gambe.
«Agitato a conoscere il Papa?», gli chiese, tirando fuori un sorrisetto di scherno.
Lui annuì, divertito.
«Spero si sia sistemato», rispose, guardando il trono piazzato al centro dalla sala. «Non capita tutti i giorni di incontrare Sua Eminenza, gradirei serbarne un ricordo piacevole.»
In realtà, Porpora dubitava molto che quel primo incontro sarebbe stato in alcun modo piacevole, ma non disse nulla, chiudendo il discorso con una risatina prima di rivolgere l’attenzione alla sala e ai presenti.
Se avessero messo assieme tutti i corridoi che avevano attraversato, probabilmente non sarebbero arrivati a toccare la metà dello sfarzo presente in quell’ambiente. Soffitto affrescato, grandi finestre oscurate da delle pesanti tende di velluto rosso, pavimenti in marmo recanti lo stemma papale e, al centro, il grande trono dorato su cui sedeva Sisto IV.
Nel sudiciume del suo unico paio di pantaloni, Porpora dovette ammettere che persino il papa, in quel luogo, era avvolto da uno sfarzo pacchiano.
Aveva addosso la veste bianca e si riscaldava con un pellicciotto del pelo chiaro di chissà quale animale esotico. Era ricoperto di gioielli dalla testa ai piedi, talmente luccicante che Porpora si ritrovò a constatare di non aver mai visto tanto oro addosso a una sola persona.
Per forza, si corresse mentalmente, roteando gli occhi verso il soffitto. È il Papa!
Alla destra del trono, un uomo dall’aspetto saccente stava in piedi a fissarli con un mezzo sorriso sul volto. A giudicare dall’aria compiaciuta con cui guardava Orso, doveva essere il famoso tirapiedi che l’aveva trovato ad oziare al Pantheon.
Sospirando, Porpora pizzicò il braccio di suo fratello, facendogli capire, con un cenno della testa, che forse era il caso di esordire con un saluto.
Riluttante, Orso la guardò, poi congiunse i polpastrelli delle mani e mosse un passo avanti, malfermo sulle gambe tremanti.
«Vostra Santità», salutò chinandosi in una profonda riverenza mentre si schiariva la voce. «Desidero porgervi i miei più sinceri omaggi.»
Si leccò le labbra, rivolgendosi poi all’uomo alla destra del pontefice.
«Prefetto Mercuri, buongiorno.»
Di rimando, il prefetto chinò appena il capo.
Orso deglutì.
«Ho portato mia sorella Porpora», disse, indicandola. «Spero la sua presenza non sia di intralcio. Io e lei … collaboriamo.»
Mercuri gli fece cenno di andare avanti.
«Avete ciò che vi abbiamo chiesto?», esordì, avanzando in un passo verso di lui.
Orso sorrise.
«Assolutamente», rispose, tirando fuori un lato teatrale che Porpora non ricordava di avergli mai visto addosso. «Dritto dalla cripta di famiglia. Aspettava soltanto che qualcuno lo andasse a tirare fuori.»
Mercuri si accigliò.
«Ebbene?»
Orso sbuffò, senza nascondere una certa soddisfazione.
«Ebbene, eccolo.»
Fece cenno a Porpora di avanzare e portare la scatola di legno che si portavano appresso, senza perderla di vista nemmeno per un secondo.
«Apparteneva ad un bambino morto pochi anni dopo la nascita», continuò, mentre lei apriva con calma la cassa. « Ricordo il giorno in cui mio padre lo acquistò, a Firenze.»
A dire il vero, Porpora ricordava alquanto bene la filosofia che impediva a suo padre di comprare i morti ai banchi del mercato nero. Filosofia che però non gli aveva mai impedito di andare a scassinare il sarcofago di qualche vecchio, ma in fondo erano dettagli.
Se quello scheletro era nella cripta, l’unico modo in cui aveva potuto finirci era stato il furto dal cimitero, cosa che di cui, per altro, suo padre si occupava sempre personalmente.
Non era una bella storia da raccontare in Vaticano, però.
Scosse la testa e, una volta rimosso il coperchio della cassa, si drizzò sulle ginocchia e mosse un passo indietro, lasciando che i presenti potessero ammirare il contenuto.
Due teste, due spine dorsali, un solo piccolo bacino dalle ossa talmente minute da apparire quasi come dei piccoli gioielli.
Il Prefetto Mercuri aggrottò la fronte, prendendo un profondo respiro.
«È senza dubbio un falso ben studiato», commentò, osservando lo scheletro. «Non posso credere che un essere tanto stravagante sia esistito non molti anni orsono.»
Orso scrollò le spalle.
«Mio padre non ha mai venduto nulla che non fosse stato donato lui dal Signore», affermò.
Porpora storse il naso.
Giovanni di Vallesanta era famoso per le sue chimere, animali mitologici che lei stessa gli aveva visto fabbricare unendo pezzi di cadaveri di vari animali morti di freddo in campagna. Orso stesso, da bambino, ne era un abile costruttore.
Di nuovo, si astenne dal commentare.
«Non vi venderei mai qualcosa di cui non conoscerei l’esatta provenienza», continuò suo fratello, prendendo un grosso respiro. «Inoltre, non credo voi siate di venuto di persona in cerca dei miei servigi per un falso, sia pur esso ben costruito.»
A quelle parole, Porpora vide i volti del Papa e di Mercuri illuminarsi di un sorriso compiaciuto.
Aggrottando la fronte, guardò lo scheletro, poi guardò Orso, poi di nuovo lo scheletro.
Già, perché disturbarsi tanto quando non si aveva nemmeno la certezza di ricevere un’opera autentica? Dopotutto, le voci su Giovanni di Vallesanta erano tante, a Roma. C’era persino chi diceva che le ossa che vendeva in realtà erano quelle dei suoi stessi figli.
Arricciando il naso, guardò verso Orso, cercando il suo sguardo grigio.
Non appena lo intercettò, lui parve illuminarsi.
«Oh», mormorò, voltandosi verso Mercuri con un’espressione sorpresa. «C’è dell’altro, quindi?»
Il prefetto sorrise, ondeggiando lievemente sulle punte dei suoi stivali scuri.
«Siete arguto, Vallesanta», disse loro, portandosi la mano destra al mento. «In effetti sì, c'è dell'altro. Siete mai stato a Genova?»
Orso alzò le spalle.
«Mai.»
«Ho sentito di uno scheletro, laggiù, dalle ossa talmente corrose dalla sifilide da apparire sciolte come la cera di una candela.»
Porpora storse il naso. Genova non le piaceva, anzi, a dirla tutta nessuna città le piaceva. Niente era come Roma, dove il potere del clero era forte abbastanza da insinuarsi nelle menti di chi la abitava e da tenere la gente lontana dal mestiere di tombarolo.
Nessuna concorrenza, a Roma.
Sospirando, guardò di nuovo Orso, il quale appariva pensieroso, assorto in chissà quale considerazione.
«Non serve andare molto lontano, allora», disse, trattenendo a stento una risata. «Nostro nonno è morto di sifilide due settimane fa. Prendete le sue, di ossa!»
D'istinto, anche Porpora si scompose in una piccola risata, più divertita dell'idea di dare a suo nonno una fine del genere, piuttosto che dalla battuta in sé.
Il Papa e Mercuri, però, rimasero impassibili.
Orso dovette accorgersene immediatamente, perché soffocò il suo divertimento con un colpo di tosse, ricomponendosi all'istante.
«Naturalmente, ci recheremo immediatamente a Genova», assicurò, accennando una riverenza.
Papa Sisto si sporse sul trono, piegando leggermente il capo in avanti.
«Lavorerete per noi, Vallesanta», disse, lieve. «Come vostro padre fece per Papa Pio II, viaggerete dove sarà necessario che viaggiate, occupandovi di realizzare ciò che vi sarà commissionato. Ogni lavoro vi sarà pagato anticipatamente con cinquanta scudi.»
Orso ringraziò con un inchino e porse i suoi saluti, Porpora rimase immobile in mezzo alla sala. La sua mente si era fermata ai cinquanta scudi. Non era sicura di aver mai sentito nemmeno parlare di una simile cifra, figurarsi stringerla tra le mani.
Si affrettò a fare una riverenza e girò sui tacchi, raggiungendo suo fratello.
Cinquanta scudi non andavano sprecati. Se dovevano spenderne la metà per dei cavalli, come minimo quella sera avrebbero risparmiato su un letto al caldo, dormendo sui tavoli della taverna.
Cinquanta scudi.
Ancora non riusciva ad abituarsi al dolce suono che quelle due parole assumevano, una volta messe vicine.
Una volta sul corridoio, si voltò verso Orso per congratularsi, ma venne immediatamente zittita quando la mano di lui si strinse attorno al suo polso.
Aveva il palmo sudato e freddo.
«Stringila, ti prego», le disse lui, paonazzo in volto. Non aveva quasi più voce, tanto tremava.  «Non sono sicuro di riuscire a camminare da solo.»
Porpora roteò gli occhi.
«Sei davvero una donnicciola», commentò, accostandosi a lui per fargli riprendere il fiato che la paura gli aveva tolto. «Si può sapere cosa c'è, che ti spaventa tanto?»
Lui la guardò disperato, mentre a passo spedito si allontanavano sui corridoi di Castel Sant'Angelo.
«Credo che ci sia dell’altro», confessò.
Porpora rise, senza abbassare la guardia una volta che furono lontani dalla sala.
«E come mai, donnicciola?»
Orso prese una grossa boccata d'aria, guardandosi intorno con circospezione mentre abbassava il tono di voce a un sussurro.
«Non lo so. Ma il Papa ha gli occhi cattivi.»
Per risposta, lei gli sorrise, fingendo una preoccupazione che, dopo i cinquanta scudi, non aveva modo di avere addosso.
«Non s’è mai sentito parlare di un pontefice dagli occhi buoni.»
Si allontanò in fretta, isolandosi mentalmente da Orso e dalle sue paranoie.
Per la prima volta nella sua vita, aveva in tasca più di tre scudi. Tutto quello che le andava di fare era, in uno sprizzo di improvviso buonumore, festeggiare con quanta più birra poteva tenere in corpo.









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Capitolo 8
*** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: il tasso ***


polverenera

Per ricominciare
Ed eccoci tornati con la seconda parteeee *canzoncina della vittoria

Dunque, prima precisazione sull'ileo e la figura che ho scelto ... lo so, l'ileo non è tutto il complesso delle ossa del bacino, ma non ho trovato un disegno migliore eve  E poi mi quasipiaceva l'idea di mettere "ossa del bacino" come titolo della seconda parte. Poi l'ileo ha vinto. Yuhu.

Ad ogni modo, per chi l'ha voluto e per chi lo ha odiato, un piccolo assaggio di Levi. Non temete, anche se per ora è apparso due volte, a brevissimo arriverà per restare. E non ve lo scrollerete più di dosso.

Per chi invece è una "new entry" di questo scapestrato personaggio, qui potete trovare la sua indegna fine, anche se la storia non è la sua. Arriverà anche una fanfiction tutta per lui, ve lo prometto <3

Enniente, colgo l'occasione di questa nuova "fetta" di storia per ringraziare chi segue, chi legge, chi preferisce, chi spamma la fanfiction alla zia, chi ne parla al gatto e anche chi la ignora. Serve anche quello. In particolare, un grazie alla mia dolcissima beta che mi fa compagnia nelle notti in bianco pre-esame<3 Grazie, Chemical Lady!

Bene, ora scappo °v°/

Un bacione,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ileo: parte seconda – Firenze l'è piccina
il tasso
https://www.youtube.com/watch?v=nlcIKh6sBtc










E non saremo mai reali
Non scorre nel nostro sangue
Quel tipo di lusso non fa per noi
Lorde – Royals







Isola di Bergeggi, Savona, 25 maggio 1476 – Un anno prima della morte di Ottaviano Maria Sforza



L’acqua del golfo era gelida, così come il vento primaverile che stizzoso soffiava sui prati del monastero.
Uscendo dal mare in una nuvola di schizzi e gocce volanti, il Conte Levi di Fonterossa saltellò fino al valletto più vicino, afferrando l’asciugamano che gli venne porto per legarselo frettolosamente alla vita.
Superò fischiettando una fila di monaci intenti a seminare nell’orto e si infilò la casacca che trovò abbandonata a ridosso dello stesso muro dove l’aveva lasciata.
Sistematosi anche il cinturone sui fianchi magri, si calcò un bizzarro cappello bordato d’oro sul capo e si avviò di buon passo verso la corte interna del convento.
«Tempesta in arrivo», constatò, puntando il naso verso il cielo scuro quando si fermò ad afferrare una mela da un canestro sistemato dinanzi alle cucine.
Il monaco lì accanto alzò le spalle e continuò il suo lavoro di pelapatate.
Con uno sbuffo poco soddisfatto, il Conte di Fonterossa addentò la mela e si addentrò nei corridoi dell’imponente casale, rabbrividendo quando i suoi piedi nudi entrarono a contatto con il marmo gelido del pavimento.
Spedito, camminò fino alla biblioteca, entrando nella sala senza curarsi di chiudersi la porta alle spalle.
Là, sprofondato in una poltrona di raso, un giovanotto dall’aria arguta era ben concentrato nella lettura di un volume dall’aria tanto antica quanto trasandata. Accanto a lui, su un tavolino, un tasso impagliato dava mostra dei suoi denti bianchi e appuntiti.
«Quell’affare mi inquieta», esordì Levi, alzando un braccio per indicarlo.
Lo studioso non interruppe la sua lettura, dando una lieve alzata di spalle come a voler sottintendere di  aver recepito il messaggio.
«Regalo di mio zio ai monaci di Bergeggi», spiegò, atono. «Visto che ci stanno ospitando da quasi tre settimane.»
Levi storse il naso e si avvicinò, picchiettando con le dita sugli occhi di vetro dell’animale.
«Tasso», mormorò, pensieroso. «Tasso: simbolo di predominio. Deprimente.»
«Simbolo di forza usata con saggezza», lo corresse subito lo studioso.
«Resta deprimente.»
Vi fu un istante di immobile silenzio, dopodiché Levi sospirò, prendendo posto in una delle poltrone disposte lungo gli alti scaffali. Portò una mano al mento, riflessivo, ma non staccò gli occhi dal tasso.
«Raffaele Riario Sansoni», chiamò, poi, calcando con teatrale pomposità ogni sillaba di quel nome.
Il ragazzo immerso nella lettura decise finalmente di staccare gli occhi castani dal suo libro.
«Sì?»
«Tuo zio regala spesso animali impagliati ai suoi monaci?»
Raffaele ridacchiò.
«No», ammise. «Ma ultimamente prova diletto nel commissionare questo genere di lavori al suo imbalsamatore.»
«Sua Santità il Papa ha un imbalsamatore?» Levi strabuzzò gli occhi, sobbalzando. «E chi potrà mai essere?»
«Tale Vallesanta.»
«Giovanni? Mio padre gli commissionò l’imbalsamazione del nostro cane da caccia.»
Raffaele scosse il capo.
«Orso, da che so è il figlio.»
Stavolta, Levi balzò giù dalla poltrona, reggendosi ai braccioli quasi fossero le sue due sole ancore di salvezza in un mare in bufera.
«Vallesanta non bastava», borbottò, aggiustandosi il cappello sul capo con uno sbuffo disordinato. «Per giunta Lysimachus. Lo dicevo io, che sta arrivando una tempesta.»
Si tirò in qualche modo in piedi, impettendosi un poco nella casacca, dopodiché partì a passo spedito verso la porta spalancata.
«Raffaele!», esclamò, voltandosi poco prima di varcare l’uscio.
Lui lo guardò di sottecchi.
«Levi?»
«Sto andando in Toscana a incontrare un amico. Sarò di ritorno prima di domenica.»
Raffaele mollò il libro che stringeva tra le mani.
«Non ti fermi qui, stanotte?», domandò, offeso. «L’hai detto tu stesso che sta arrivando una tempesta!»
Levi sgranò gli occhi più di quanto già non avesse fatto.
«Mi pare ovvio che abbia da fare!», rispose, agitando freneticamente le braccia quasi stesse per esplodere. «Parleremo quando sarò di ritorno.»
Si buttò sul corridoio e prese a camminare frettolosamente verso il porticato dal quale era venuto, senza attendere alcun saluto od ossequio. Alle sue spalle, udì soltanto le esclamazioni di Raffaele.
«Levi!», gridava il giovane, ormai distante dalla concentrazione che qualche minuto prima lo vedeva concentrato su vecchi tomi colmi di polvere. «Levi, torna qui!»
Ma il Conte di Fonterossa era già arrivato alla corte e, una volta recuperati gli stivali, non ci mise poi molto a raggiungere il molo che si apriva sul panorama delle coste liguri.
Lasciò l’isola di Bergeggi così, senza vezzeggiare la sua partenza né ossequiare i monaci tanto gentili nell’ospitarlo all’interno delle loro mura.
Vittore, il suo paggio più anziano, gli si affiancò una volta che la modesta imbarcazione con cui erano arrivati fu sufficientemente lontana dal molo per non potervi fare ritorno a causa del vento.
«È da quando Vostra Grazia il vescovo Riario Sansoni vi ha cacciato dalle sue stanze, che non vi vedo così affannato», esordì, accompagnando quella sua affermazione con un sorriso tanto tirato quanto nervoso.
Levi gli lanciò un’occhiata asciutta.
«Bando alle tue insinuazioni, Vittore!», rispose, appoggiandosi con la schiena all’albero della nave. «Salpiamo per un’importante destinazione!»
Il paggio sospirò.
«Quale, mio Signore?»
«Pisa.»
«A pregare nel duomo, mio Signore?»
Ridacchiando, Levi diede una lieve pacca sulla spalla dell’uomo.
«Molto meglio, Vittore», rispose, seppur serio. «Andiamo a porgere gli ossequi di nozze!»
«A chi, se mi è concesso?»
«Alle due persone più buone che io abbia il piacere di conoscere.»




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Capitolo 9
*** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: riccioli neri ***


polverenera

Per ricominciare
Stavolta sono stata lunga, prolissa e assolutamente inscusabile per il mio essere logorroica.

Che posso dire? Si parte per Firenze °v°/ E francamente ne sono pure felice, visto che è lì che inizieranno tutti i casini *ammicca

La pace è bella finché dura poco, no? Mi suonava diverso, ma fa nulla.

Fuggo.

Un bacio,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ileo: parte seconda – Firenze l'è piccina
riccioli neri
http://www.youtube.com/watch?v=A16VcQdTL80&feature=kp










Un giorno, tesoro, saremo vecchi 
Oh, tesoro, saremo vecchi 
E penseremo alle storie che avremmo potuto dire.
Asaf Avidan – One day/Reckoning song







Roma, fine agosto 1477. Due anni dopo la prima udienza dei Vallesanta con Papa Sisto IV.



Arrivarono alla torbiera poco prima dell’alba, carichi delle borse e dei mantelli fradici dopo l’acquazzone che li aveva volti di sorpresa sulla via per Orvieto.
Porpora era silenziosa, chiusa in uno strano mutismo che non sapeva del solito broncio ma di qualcosa ben più profondo. Era appena tornata da Genova, l’unica meta capace di toglierle anche quel poco buonumore che di solito possedeva e, da quando si era ricongiunta con Orso dopo una settimana di lontananza, non aveva detto una parola. Se n’era semplicemente rimasta in disparte, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani chiuse a coppa su una ciocca di riccioli neri riposta in un fazzoletto di seta.
«Passerà», le disse Orso, quando la vide sedersi sulla riva della torbiera. «Non vi è niente di più innocuo del mal d’amore, Sorella.»
Porpora rispose con un’alzata di spalle.
«Non sono affatto innamorata», replicò, secca.
Orso ridacchiò.
Cos’altro poteva mai essere, a impensierirla così tanto? Da quando si erano recato a Genova per la prima volta e avevano tirato su qualche soldo imbalsamando un fagiano per il signore di un borgo fuori città, Porpora non perdeva occasione per farvi ritorno. Sola, senza accettare la grazia della compagnia di alcuno. Tornava sempre scortata da una guardia del borgo, però.
«Mi sta bene, se hai l’innamorato», insistette quindi Orso, pacato. «Non ci vedo niente di male e poi –»
«Tu ho detto che non c’è nessun innamorato, stupido!»
Stizzita, Porpora si tirò in piedi, prendendo a frugare nella borsa, alla ricerca di qualcosa.
Nel buio, Orso la immaginò rossa in viso, ma si astenne dal commentare.
«Cosa stiamo cercando?», chiese, invece, mentre Porpora trafficava con i cerini per accendere una lanterna.
«I santi», gli rispose lei. «Tre anni fa, un gruppo di mercanti pisani è stato visto lasciare Roma da Porta Pia, nella direzione di Orvieto», spiegò, poi. «Non sono mai arrivati a destinazione, probabilmente vittime dei briganti. Se ho ragione, i corpi non possono essere che sul fondo di questa torbiera.»
Orso storse il naso.
«Come lo sai?», chiese.
Porpora alzò le spalle.
«Porca miseria, Sorella, non sarai stata tu a–»
«Zitto. Arriva qualcuno.»
Rapida, la ragazza soffiò sulla fiamma nella lanterna e, rimasta al buio, afferrò il fratello per la camicia, acquattandosi dietro a un cespuglio.
Orso sentì il suo respiro lieve annullarsi, il suo fiato divenire così impercettibile da non muovere neanche le foglie tra le quali si erano nascosti.
Nel silenzio, stava per obiettare l’allerta di sua sorella e tornare al suo lavoro, quando una fila di piccoli lumi prese a brillare in cima alla collinetta che sovrastava la torbiera.
Dondolando, i fuochi discesero tutto il dorsale per lo stesso, ripido sentiero che i due fratelli avevano percorso una manciata di minuti prima, superandoli di qualche passo prima di fermarsi a ridosso dell’acquitrino.
Orso si tappò bocca e narici con una mano, senza osare emettere un suono quando degli uomini gli passarono accanto, così vicini da muovergli l’unica ciocca di capelli che sfuggiva al berretto che portava calcato sul capo.
«Lasciatelo qui», ordinò atono l’uomo in testa al gruppo, scrutando la torbiera alla luce della lanterna che conduceva.
Orso lo riconobbe immediatamente. Dopotutto, non ci voleva poi un genio per leggere nel’oscurità lo spigoloso profilo del Conte Riario.
I suoi compagni gettarono a terra il sacco che avevano tra le mani, facendolo rotolare verso l’acqua e lui emise un mugugno in segno di approvazione. Aveva un piccolo sorriso di scherno a illuminargli il volto pallido e i suoi occhi scuri sembravano brillare nella notte.
«Che le acque di Roma siano la sua casa», aggiunse, poi.
Dopodiché, rimase in silenzio a guardare il sacco affondare nella torbiera, illuminandolo appena con la lanterna.
Porpora si sporse un poco in avanti, accostandosi alla spalla di Orso per osservare al meglio la scena. Si mosse un poco verso il bosco, nascondendosi ulteriormente tra i cespugli in un fruscio appena percettibile.
Gli uomini avevano cominciato a fare marcia indietro, allontanandosi in religioso silenzio sul sentiero.
«Capitano Grunwald, aspettate.»
In un istante, Porpora ebbe addosso lo sguardo pungente del Conte, che alzava e abbassava la lanterna nel tentativo di illuminare il cespuglio dietro al quale si era nascosta.
Orso si strinse nel mantello, imponendosi di trattenere il fiato, premendosi il palmo della mano sulle labbra secche. Pregò il Creatore che l’oscurità fosse troppo fitta per scovare una figura vestita di nero tra i rami del bosco.
Lentamente, la lanterna si allontanò.
«Avete visto qualcosa, Conte Riario?»
Un attimo di silenzio.
«No, è stata soltanto un’impressione.»
Non vi furono santi che, in quell’istante, Orso pregò abbastanza.
Con l’orecchio teso sugli uomini che si allontanavano, guardò Porpora pettinarsi i capelli castani dietro le orecchie e sgusciare di nuovo verso di lui, abbracciandolo forte con il respiro ansimante.
«Mettiamoci al lavoro», gli disse lei, scrutando la collina per assicurarsi che i lumi fossero scomparsi del tutto. «Dobbiamo essere a Roma entro l’alba.»
«Vado io.»
Cavandosi giacca e camicia, Orso la superò a passo svelto. Si fermò un istante sulla riva a osservare il vuoto dinanzi a sé, pensieroso.
Forse, compiere quel genere di lavoro alla luce del giorno sarebbe stato più facile.
Si legò una fune in vita, lanciando l’altra estremità a Porpora.
«Non lasciarla andare», si raccomandò, prima di tuffarsi.
L’acqua era gelata. Gelata e melmosa.
Il contatto delle alghe marce sulla pelle gli fece salire i brividi lungo tutta la schiena, ma non lo scoraggiò nel raggiungere il fangoso fondo dello stagno.
Cieco a causa della profondità e della notte, tastò il terriccio sotto di sé con i piedi scalzi, fino a che non incappò in qualcosa di più solido e massiccio di un ciuffo d’erba bagnata. Si slegò la corda dalla vita e la assicurò attorno alla sua scoperta, slanciandosi infine verso la superficie.
Buttò la testa fuori dall’acqua, ormai senza fiato.
«Ho trovato qualcosa!», annunciò, prendendo a nuotare verso riva.
Accoccolata contro il tronco di un albero, Porpora lo accolse con un cenno del capo.
Se ne stava lì, rannicchiata sotto il suo mantello, con la corda legata alla caviglia e le mani occupate a stringere il suo prezioso fazzoletto di seta.
«Ci hai messo poco», mormorò, alzandosi e sfilandosi la corda dal piede.
Orso alzò le spalle, soddisfatto.
«Sono stato fortunato.»
Estrassero il corpo dalle acque e lo portarono in silenzio sotto i lumi accesi delle loro lanterne.
Orso era stato davvero fortunato.
Non aveva mai visto un cadavere così ben lavorato dai fanghi e dalle correnti. Seppur in parte celata dall’oscurità, quella mummia era perfetta. A partire dalla pelle perfettamente conservata, mai strappata da un osso fuori posto, per finire sulle due file di denti tutti dritti e giallastri.
«Doveva essere un nobile», sussurrò Porpora, sfilando il coltello che portava legato alla cinta per tagliare la corda che stringeva la vita del cadavere. Ne tagliò anche un’altra, più fina e sfibrata, che invece gli stringeva il collo.
Orso aggrottò la fronte.
«Impiccato?», chiese, perplesso. «E finito qui?»
«Non è il cappio di un’esecuzione», spiegò Porpora. «È quello del masso che l’ha fatto annegare sul fondo.» Passò la lama del coltello sulle vesti bagnate del morto e scese fino alle braccia, osservandole a lungo prima di recuperare il seghetto dalla borsa con un grosso sospiro di rammarico. «Andiamo; Mercuri ha chiesto le dita di San Gervaso.»
Orso annuì.
«Del resto che ne facciamo?», chiese, rubando il seghetto di mano alla sorella.
Lei tirò su col naso.
«Ributtalo dove l’hai trovato.»


«Guarda, Sorella!»
Orso sorrise, facendo una rapida giravolta sul corridoio. La storia era sempre la stessa, ogni volta che si ritrovava a percorrere quei sontuosi appartamenti. Restava incantato dai meravigliosi dettagli che trovava sui dipinti appesi alle pareti e si dimenticava persino di camminare, tanto era preso.
«Ho trovato Sant’Antonio. »
Qualche metro davanti a lui, Porpora gli scoccò un’occhiata severa, voltandosi appena per tenere il passo del Capitano Grunwald, povero uomo mandato alle porte con l’ingrato, solito compito di accompagnarli al cospetto di Mercuri.
«Non ti perdere, Fratello», si raccomandò. «Non avremo il tempo per metterci a cercarti in giro per Castel Sant’Angelo!»
Sospirando, allora, il ragazzo si affrettò a raggiungerla, dondolando goffamente la spada che teneva legata al fianco destro.
«Non fare la scorbutica», la rimproverò.
Lei fece una smorfia, scrollando le spalle.
«E tu non fare il bambino.»
Camminarono in silenzio per qualche minuto, accompagnati soltanto dagli occhi dei dipinti, che Orso non perdeva mai di apprezzare. Con il polso appoggiato all’elsa della sua spada, sfilava affascinato lungo quell’esibizione di Santi. Era una ricchezza che sua sorella non poteva comprendere, quella.
Sospirando, si voltò verso di lei, studiandone l’espressione.
Mostrava il volto stanco di chi non ha dormito, ma era ben dritta sulle gambe, con il mento alto e lo sguardo superbo che la accompagnava ovunque andasse. Portava i capelli legati sulla nuca con un pezzo di corda, la camicia candida e pulita che veniva indossata soltanto nelle occasioni formali e un’insolita lama al fianco, che faceva capolino soltanto quando si trovavano in Vaticano.
Di fronte a tanta cura, Orso non poté che sentirsi inferiore. Aveva avuto il tempo per fare un salto nel Tevere e liberarsi dall’odore di morto della torbiera, ma non quello di comprarsi una camicia decente. In confronto a Porpora, era di ben misera figura.
Camminarono fianco a fianco ancora per qualche minuto, sempre in religioso silenzio alle spalle del Capitano Grunwald, fino a che entrambi non furono in grado di riconoscere la maestosa porta della sala delle udienze.
Porta insolitamente affollata, visto che ad aspettarli non vi erano soltanto i maggiordomi del Santo Padre ma addirittura il Conte Riario in persona, tutto impettito nel suo panciotto color della notte. Parlava a bassa voce con un uomo poco più alto di lui ma dal viso più bambino che invece vestiva di verde, decorata da un’araldica recante due delfini su sfondo blu.
«È Francesco Pazzi», mormorò Porpora, senza voltarsi. «Da Firenze.»
Orso alzò le spalle.
«Non sapevo che Riario s’intrattenesse con i rampolli fiorentini», commentò, dando una gomitata alla sorella dopo essersi assicurato di essere abbastanza lontano dall’uomo per poter evitare di essere sentito. «Brutto colpo, Porpora.»
Lei rispose alla cortesia pizzicandogli il fianco.
«Sei peggio di una comare», borbottò, mentre si avvicinavano. «Un po’ di grazia, Orso.»
«Strano, sentir parlare di grazia da ha voluto staccare la mano a un morto.»
«Strano, sentir parlare di morti da quello che l’ha staccata, la mano ».
Si scambiarono un’occhiata divertita, poi si voltarono verso la figura di Riario, sfoggiando il loro sorriso migliore.
«Buongiorno, Conte Riario!», intonarono, chinando appena il capo.
Curioso, Orso si sporse un poco oltre la sorella, osservando il profilo di Francesco Pazzi.
Era giovane, aveva forse un anno o due in più di lui, sicuramente più delicato e fine nei movimenti. Aveva un strano sorriso a illuminargli il viso, cosa che convinse Orso a non osare nemmeno rivolgergli la parola.
Restò fermo un istante a fissarlo, non del tutto conscio del passare dei secondi, e fu in grado di risvegliarsi da quel suo stato soltanto quando avvertì sulla schiena l’occhiata furiosa di Porpora.
Allora si affrettò a togliersi il cappello, mostrando, suo malgrado, l’orecchio tagliato coperto dalle piume, e a tossire un poco per ricomporsi.
«Buongiorno a entrambi», farfugliò, inchinandosi appena. «I miei omaggi a voi, Francesco Pazzi. Sono Orso di Vallesanta, l’imbalsamatore.»
Fece una breve pausa, facendo scivolare lo sguardo su Riario che lo osservava, impassibile, senza tradire nessuna emozione.
«E questa è mia sorella, Porpora.»
Porpora si fece avanti, superando Grunwald ad ampi passi, senza mancare di lanciargli un’occhiata velenosa.
«Sono onorata», disse, sfoggiando il più luminoso tra i suoi sorrisi.
Riario li squadrò, silenzioso. Aveva le mani dietro la schiena e il suo volto era estremamente serio, quasi vi fosse qualcosa di serio di cui parlare. Non era il suo modo di accoglierli, insomma, che solitamente sfociava in qualche critica circa il loro lavoro peccaminoso.
Francesco Pazzi non parlò, limitandosi a guardarli con quel suo sguardo inquietante.
Ben presto, la stanza si appesantì di un irritante silenzio.
Orso deglutì, poggiando la mano sulla spalla della sorella.
«Dovremmo andare», la esortò, sospingendola delicatamente verso la sala delle udienze.  «Il Prefetto Mercuri ci sta aspettando. Non vogliamo tediare i signori.»
Osservò Porpora annuire, seppur poco convinta, e salutare Pazzi con una piccola riverenza.
Quel castello era davvero abitato da personaggi inquietanti
«Vi auguro una buona giornata, cari signori», finì Orso, inchinandosi a sua volta. «A presto, mi auguro.»
Evitò di rimettersi il cappello in testa, anche se avrebbe tanto voluto nascondere il suo orecchio tagliato.
Con un sorriso, rivolse un’ultima occhiata a Pazzi e gli voltò le spalle, seguendo Porpora all’interno della sala delle udienze.
Papa Sisto sedeva, come al solito, sul suo trono al centro della sala. Non era una novità, eppure Orso si sentì addosso un peso più forte del solito, quando le porte della sala si richiusero. Aveva sua sorella di fianco, il Santo Padre e Mercuri dinanzi, il Conte Riario alle spalle. Non vi era nulla di diverso. Pazzi si era ritirato.
Nervoso, respirò a fondo.
Attese che Mercuri lo invitasse a farsi avanti, lasciando nell’ombra Porpora, che si andò a posizionare accanto al Conte.
«Vostra Santità, Prefetto Mercuri, i miei saluti», incominciò, senza mascherare una certa incertezza. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che aveva parlato di fronte a un pubblico.
«Vallesanta, vieni avanti», lo incitò Mercuri.
Aveva assunto un tono insolitamente curioso, più curioso del solito, insomma.
«Cosa ci porti, quest’oggi?»
Orso mostrò un mezzo sorriso.
«Vengo da Ostia, miei Signori», incominciò, drizzandosi bene sulle gambe. «Vi ho portato ciò che mi avevate richiesto.»
Si voltò verso Porpora, invitandola a raggiungerla con un gesto della mano.
«Le dita di San Gervaso, direttamente dai venditori di Porta Marina.»
Lupo Mercuri si accigliò.
«I venditori di Porta Marina sono notoriamente dei ciarlatani», commentò, scettico.
«Non questi», spiegò Orso.
Attese che Porpora aprisse la scatola in cui riponevano abitualmente le loro bizzarrie e si scostò appena, giusto per permettere ai presenti di sbirciare.
Riposte tra le stoffe del contenitore, vi erano tre dita perfettamente mummificate. Sul ciò che restava dell’indice, una cicatrice a forma di croce rovescia rompeva la perfetta lucidità della cera passata sulla pelle.
Orso ci aveva messo ore intere, a incidere il dito senza sbriciolarlo sotto la forza del coltello. Aveva dovuto ricominciare il lavoro su quattro dita diverse, ma il risultato era a dir poco soddisfacente. Talmente perfetto da sembrare vero.
Ma quelle erano storie che non andavano raccontate, in Vaticano.
Curioso, Orso seguì lentamente lo sguardo dei presenti sulle dita nella scatola, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata alla sorella, restando però in rigoroso silenzio.
Fu solo quando il suo sguardo incrociò quello di Mercuri, che si decise ad aprire la compravendita.
«Sono vostre per trenta scudi», azzardò, muovendo appena il capo.
L’uomo lo guardò a lungo.
«Sono dita di un morto, non possono valere tanto», ribatté, pacato. «Quindici scudi saranno sufficienti.»
Orso guardò Porpora, che non batté ciglio.
«Venti. Sono le ossa di un santo, Prefetto», disse, cauto.
Vi fu un istante di silenzio, poi Mercuri annuì, piano.
«E sia.»
Dopodiché abbandonò la sua postazione, avvicinandosi ai due fratelli con passo spedito e sguardo indagatore.
Orso deglutì, muovendo un passo indietro verso Porpora che lo osservava, stranamente serena. E dire che non si era mai sentita al sicuro, lei, in quella sala.
Papa Sisto IV si alzò un poco sul suo trono, portandosi una mano al mento, e parlò.
«Siete abili, fratelli di Vallesanta», disse senza nascondere un sorriso soddisfatto. «I vostri tesori ci tolgono sempre dai pomeriggi di tedio.»
Orso non rispose, sbigottito. Assai raramente, in due anni, aveva udito la voce del pontefice, e la cosa lo turbò non poco. Si voltò di scatto verso Porpora, che lo osservava stranita, quasi quanto Riario che fissava il pavimento con occhi sgranati. Quando si rivoltò verso il papa, la sua mano era tesa per invitarlo a baciare l’anello.
«Servirvi è nostro piacere», disse, quindi, affrettandosi a chinare le labbra sulla mano del pontefice.
«Avrete presto modo di farlo nuovamente, allora», continuò Sisto. «Firenze richiede immediatamente la vostra presenza.»
Orso dondolò il capo.   
«I Medici?», chiese.
«Seguite il Prefetto e vi verrà spiegata ogni cosa.» Papa Sisto si sporse sul trono, piegando leggermente il capo in avanti. «Mio nipote partirà per Imola domattina», disse. «Lo seguirete fino a Firenze. Sarà sua premura controllare il vostro operato in città.»
«Per quanto concerne le reliquie che ci avete portato, verrete pagati con trenta scudi», riprese Mercuri, invitando con un cenno del capo i maggiordomi ad avvicinarsi per prendere in consegna la cassa. «Che vi siano sufficienti per presentarvi domani con un cavallo e quanto vi occorre per il viaggio.»



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Capitolo 10
*** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: la mappa ***


polverenera

Per ricominciare
Welcome da Vinci!

Che non ci sarà spesso, ma un'apparizione gli era dovuta visto che il telefilm è praticamente sotto il monopolio della sua meravigliosa figura. (L)

Dal prossimo capitolo vi spoilero tanta nudità. Je.

Tra l'altro: la nominata Beatrice, è proprietà di Chemical Lady e della sua conclusa No good deed. Ma tanto lo sapete già *rotola

Bacini,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ileo: parte seconda – Firenze l'è piccina
la mappa
https://www.youtube.com/watch?v=KDWZswW5qD8










Un altro giorno,
Hanno aperto la scatola per giocare.
Guardandomi girare ancora e ancora fino a che la musica non rallenta e sfuma.
Yael Naim – Puppet







Toscana, agosto 1477. Sette anni prima della morte di Papa Sisto IV.



Fu il viaggio più silenzioso che Orso avesse mai compiuto.
Seduto sulla groppa di un vecchio cavallo acquistato quella mattina, assonnato e affamato, con una misera focaccia nella borsa che doveva bastargli per tutto il giorno e in testa ancora le due pinte di birra che aveva buttato giù assieme a sua sorella per festeggiare la riuscita della loro compravendita.
Per non rischiare di incappare nelle ire del Conte Riario, si era mantenuto a debita distanza, nascondendosi dietro l’ampia schiena di Grunwald e quella un po’ meno possente di Porpora.
Di tanto in tanto lo spiava, lanciandogli qualche occhiata di sfuggita, ma gli mancava davvero il fegato di avvicinarsi per chiedere informazioni circa la missione a Firenze.
Era rimasto piegato sul dorso del suo cavallo dall’alba fino a pranzo, dopodiché era sceso per recarsi al torrente assieme ai soldati, aveva riempito la borraccia e aveva fatto ritorno alla sua postazione di eterno pentito. Per cosa covasse tanto rammarico, poi, lo sapeva solo il Signore.
«Si può sapere che hai?», lo chiamò a un certo punto Porpora, drizzandosi sulla schiena per vedere oltre le spalle del Capitano Grunwald. «È tutto il giorno che hai una faccia di uno che è appena scappato da un funerale.»
Orso sospirò, afflitto.
«Non riesco a non pensare che ce l’abbia con me», confessò, fissando le redini chiuse nei suoi pugni. «Anche se,  in tutta sincerità, non ho proprio niente di cui dover sentirmi in colpa.»
Eppure, lo sguardo pungente di Riario gli era rimasto addosso per tutta la giornata.
«Il Conte avrà talmente tante cose a cui pensare che la tua faccia gli sarà già uscita dalla testa», lo riprese Porpora, ridacchiando. «Sei paranoico.»
«Ne sei sicura?»
La ragazza sbuffò.
«Sicurissima!», esclamò, spronando il suo cavallo ad accelerare. Trottò un poco verso un ragazzo della guardia che se ne stava da parte e si mise ad attaccare bottone con lui, dimenticandosi completamente del fratello.
«Solo gli stupidi pensano che Girolamo Riario dimentichi i volti di chi gli sta intorno», commentò il Capitano Grunwald, lanciandogli un’occhiata fugace dall’alto del suo cavallo bianco.
Affranto, Orso si sciolse in un gemito sommesso.
«Lo sospettavo», rispose, alzando le spalle. «Questo per dare a mia sorella della stupida?»
L’uomo alzò le spalle.
«Più o meno.»
Rimasero per un istante in silenzio, avanzando lungo la strada affollata di soldati, dopodiché Orso decise di ributtarsi nella conversazione, senza mettere in mostra la sua agitazione.
«Quando arriveremo a Firenze?», chiese, alzandosi un poco per accertarsi che stessero percorrendo la strada maestra. E che il Conte Riario non stesse guardando nella sua direzione.
Grunwald rispose con un grugnito.
«Questa sera, se non acceleriamo il passo», disse, seccato. «Siete fortunati, Vallesanta. A noi tocca un’altra mezza giornata di cavalcata, per arrivare fino a Imola.»
«Ci lascerete a Firenze?»
«Sta a me e al Conte controllarvi. Immagino staremo nei paraggi per qualche mese, nel caso le cose andassero storte.»
Dal tono che la voce di Grunwald prese, Orso capì che non era decisamente il caso di far andare storte le cose.
Trovare il cadavere, prendere le ossa, sparire da Firenze per non fare mai più ritorno. Era un piano che suonava stranamente semplice e conciso, nella sua testa. Prima di partire, si era premurato di chiedere al proprietario della taverna qualche nominativo che potrebbe esser stato loro utile nella Repubblica. Il tutto gli era costato due scudi, ma almeno aveva le sue risposte.
Sorrise tra sé e sé, battendosi una mano sul petto.
«Non avete di che preoccuparvi, allora», disse, rivolgendo a Grunwald un sorriso soddisfatto. «Dei Vallesanta non si deve mai dubitare!»
L’uomo gli scoccò un’occhiata seccata e la conversazione finì lì, così come il momentaneo buonumore che aveva rallegrato Orso per quei cinque minuti.
Il resto del viaggio, poi, continuò con il morale sotto i tacchi.
Si fermarono che era ormai notte inoltrata.
Porpora si era raggomitolata sul petto di Orso e dormiva con la stessa serenità di un bambino, mentre lui cercava di tenere buoni entrambi i cavalli e di non essere disarcionato nel tentativo. Erano bestie anziane, stanche e stremate, che come lui volevano soltanto stravaccarsi su un pezzo di prato e chiudere gli occhi.
Discreto, svegliò Porpora, battendole qualche colpetto sulla spalla.
Immediatamente, lei riemerse dalle pieghe del suo mantello.
«Firenze?», chiese, con la voce impastata dal sonno.
Orso scosse il capo.    
«No», rispose. «Ma ci siamo fermati.»
Lasciò che sua sorella scendesse da cavallo e che andasse a recuperare le sue briglie, poi abbandonò la sella a sua volta, raggiungendola a terra.
Si avvicinarono piano a Riario, sfilando silenziosi tra una guardia armata e l’altra. Erano tutti stravolti, tanto che nessuno li fermò per chiedere dove avessero intenzione di andare.
Tutto il campo, comandanti compresi, aveva l’unico, grande desiderio di buttarsi per terra e dormire.
Il Capitano Grunwald arrivò loro incontro che già avevano praticamente raggiunto Riario.
«Eccovi qui», disse, mostrando loro la via verso il luogo in cui il Conte si stava concedendo un po’ di riposo lontano dall’esercito. «Da questa parte; fate in fretta.»
Quando Orso intercettò la presenza del Conte, rimase volutamente indietro.
Si nascose dietro Grunwald, tanto vicino alla sua schiena da potergli scostare il mantello con il fiato, e non si scostò da lui neppure quando udì la voce di Riario salutarli con tono stanco.
Porpora poteva prendersi cura della situazione. Era intelligente, sapeva parlare, era coraggiosa. A differenza di lui, che invece preferiva restarsene nascosto dietro una guardia svizzera, come se Grunwald fosse suo alleato. Sapeva benissimo che, al minimo cenno, l’uomo gli avrebbe staccato la testa per poi consegnarla a Riario su un palo.
«Conoscete il greco?», sentì chiedere dal Conte, mentre dentro di sé si dava del codardo.
La risposta di Porpora non tardò ad arrivare.
«Certo! Chi diavolo non conosce il greco?», ironizzò, alzando le spalle.
Orso si scostò da Grunwald per un istante.
«Io so scriverlo», mugolò.
Poi tornò al suo posto.
Il Conte sospirò a lungo.
«Ogni volta che desidererò parlarvi, i miei uomini tracceranno la lettera omega in un luogo che sarò certo voi frequentiate. L’incontro sarà fissato per la notte successiva a quella della comparsa della lettera, in questo esatto luogo, appena dopo il coprifuoco.»
Porpora incrociò le braccia sul petto.
«D’accordo», rispose. «Come faccio a farvi sapere che ho recepito il messaggio?»
«Non sarà necessario, ci vedremo direttamente la notte dopo.»
Deglutendo, Orso mise le mani in tasca. Aveva ancora le sue fate crudeli.
Chiamando a raccolta quel poco di coraggio che gli era rimasto, si scostò da Grunwald, tendendo il palmo aperto verso Riario.
«Prendete queste», disse, mostrandogli le sue creazioni. «Ne troverete di simili in questo luogo, quando avremo trovato il corpo. Varrà la stessa regola per la lettera omega.»
Per tutto il tempo che pronunciare quelle parole gli prese, Orso si preoccupò di fissare la punta dei suoi stivali.
Aspettò quindi che Riario prendesse in consegna le sue fate, prima di richiudere il pugno e tornare al suo posto accanto al suo destriero.
Augurò la buonanotte ai presenti con un inchino, dopodiché montò in sella e attese la sorella.
Si allontanarono in fretta, prendendo la strada per Firenze ma fermandosi poco prima delle mura cittadine, nascosti nel bosco che andava via via diradandosi.
Non li avrebbero comunque fatti entrare in città nel cuore della notte. Aspettare fino al mattino e sperare di confondersi tra i mercanti era la scelta più saggia.
Si accoccolarono vicini sotto al mantello di Porpora, coperti anche da qualche strato di foglie secche e muschio per tenersi al caldo.
Orso circondò in un abbraccio la sorella, stringendola forte a sé.
«Davvero eri già stato a Firenze? », gli chiese lei, sottovoce.
Lui annuì, piano.
«Con papà, sì.»
«Non mi ha mai portata con sé.»
Orso rimase in silenzio.
Di nuovo, il lieve tono di Porpora lo riportò nella conversazione.
«Credi che la rivedrai?»
Orso trasalì.
«Parli di Beatrice?»
Pronunciare quel nome gli fece quasi male.
«Sì, parlo di Beatrice.»
Non rispose subito, non ce la fece. Rimase imbambolato a pensare che forse sì, forse avrebbe ritrovato il suo perduto amore di gioventù, che forse sarebbe persino riuscito a parlarle. O che forse era stata data in moglie a qualche nobile pisano e che erano ormai anni che ella non risiedeva più a Firenze.
Pensò davvero tanto a una risposta da dare a Porpora ma, quando trovò qualcosa di intelligente da dire e aprì la bocca per commentare, avvertì il lieve respiro di sua sorella spegnersi sotto un suo gemito.
Si era già addormentata.








L’odore pungente dei mercati fiorentini costrinse Orso a fermarsi nel bel mezzo della strada per soffiarsi il naso in preda all’allergia.
Pensieroso, colse l’occasione per osservare la folla muoversi con ritmo attorno a lui, quasi Firenze avesse una sua canzone da seguire, quasi la gente non fosse mossa dalla fretta ma da un improbabile spartito.
Sì, era tutto decisamente diverso dal disordine di Roma.
Soddisfatto delle sue scelte, lanciò alla sorella uno sguardo contento, che venne però ricambiato con una smorfia di puro astio.
Porpora detestava stare in mezzo alla gente, specie se la suddetta gente era a lei sconosciuta. La metteva a disagio, in un certo senso, sebbene non le impedisse di elevarsi al di sopra di qualunque popolano incontrasse. Era sempre stato così, anche quando era bambina, quando andavano al mercato mano nella mano assieme alla mamma.
Mostrava però una certa curiosità, mascherata sotto il cattivo umore di essere lontana da Roma, e pareva interessata a contare e ricontare i fiorini che avevano guadagnato, in quella prima settimana, imbalsamando qualche animale. Probabilmente tale interesse proveniva dallo scoprire se i profitti erano maggiori sotto i Medici, ma pur sempre di curiosità si trattava, e Orso sapeva accontentarsi.
Sospirando, accarezzò le due piume che portava legate al capo.
«Sorella!», chiamò, raggiungendola con un balzo davanti alla bancarella che la ragazza stava esaminando. «Hai trovato qualcosa?»
Lei alzò le spalle.
«Tabacchiere, lame, inutili gingilli. C’è ben poco di utile, in questa città», considerò.
Orso scoppiò a ridere.
«Ti aspettavi forse un banco di santi?», la schernì.
«Mi aspettavo qualcosa di utile, visto che sono sette giorni che brancoliamo nel buio.»
«Sorella, smettila di parlare come una nobile. Finirai per diventarlo, ti mariterai con un Duca o con un Conte e spenderai gli ultimi anni della tua vita chiusa in un palazzo a ricamare fazzoletti.»
Porpora gli scoccò un’occhiata scettica. Aveva fama di essere particolarmente attaccata al denaro e ai suoi guadagni, ma da qui a sognare la vita di una nobildonna ne correva, e Orso lo sapeva. Inoltre, molto tempo prima, quando erano poco più che bambini, si erano promessi di non abbandonarsi mai, qualunque cosa fosse successa. Erano stati lontani sette anni, ma alla fine si erano ritrovati.
Sospirando, Orso estrasse dalla sua borsa un foglio di cartastraccia.   
Porpora lo indicò con un cenno del capo.
«Che cos’è?», chiese.
Lui la guardò, alzando le spalle.
«Il nostro contratto.»
Avevano recuperato un teschio mangiato dalla sifilide due giorni prima, in un cimitero appena fuori città. Non era in ottime condizioni, ma Orso sapeva fare miracoli con la cera e così aveva acquistato una forma decisamente più presentabile. La notte prima, però, Riario lo aveva rifiutato, affermando che il corpo di cui andavano alla ricerca non era quello che avevano tra le mani.
E non era di certo cosa facile, trovare un morto di sifilide in una città come Firenze! Ma sia lui che Porpora si stavano impegnando a raccogliere quante più informazioni possibili, alternando le ricerche a qualche occasionale vendita di reliquie in città.
«A chi dobbiamo mollarlo?», s’informò Porpora, assicurandosi che la borsa che portava a tracolla fosse ben ferma sulla sua spalla.
Orso si sforzò di leggere la minuscola calligrafia sul foglio.
Mossa inutile, poi, visto che sapeva esattamente chi andare a cercare.
«Un vecchio amico.»
Porpora storse le labbra.
«Te lo sei immaginato o posso saperne il nome?»
«No, no. È reale.» Orso corrugò la fronte, sospirando. «Sta’ a vedere!»
Porpora roteò gli occhi, ma si astenne dal commentare.
Girarono ancora un po’ a vuoto per il mercato, Orso osservando l’ambiente con curiosità, Porpora alternando gli sbuffi alle lamentele.
Non fecero invero molta strada, bloccati un po’ dalla folla, un po’ dalle bancarelle che prepotentemente li chiamavano a guardare la loro mercanzia, ma provarono ad avanzare almeno fino alla piazza principale.
Allorché, giunti nei pressi di un piccolo slargo, una voce alta e dal timbro studiato attirò con prepotenza la loro attenzione.
«Signore e signori! Quest’oggi, vi offro le incredibili ossa del martire Bartolomeo, scuoiato vivo, e quelle della bellissima Agnese, uccisa da un coltello alla gola!»
Impietriti, sia Porpora che Orso si voltarono verso quello che per loro non era che un richiamo.
Appollaiato su una vecchia cassa di legno, un uomo sorrideva sornione alla folla. Aveva il volto abbronzato, coperto da una barba forse un po’ troppo incolta, e vestiva con fare senza dubbio troppo eccentrico per trattarsi di un comune venditore.
Porpora lo osservò a lungo attraverso i suoi occhi scuri fissi sulla figura dello sconosciuto. Il corpo si era mosso in una posizione di difesa posta a proteggere la borsa, ma il viso restava quello limpido e calmo di chi sa nascondere ogni emozione.
Orso si chiese se qualcuno fosse mai riuscito a scorgere, sul volto di sua sorella, una qualche piccola traccia d’amore o di compassione. E dire che le donne, a detta degli abitanti di Roma, erano tutte volubili ed eloquenti.
«Che ci fa un tartaro a Firenze?», gli chiese subito lei, dopo un istante di silenzio.
Lui rise.
«In un certo senso, ce l’ho spedito io!»
Si aggiustò la camicia sul petto e, con fare formale, si avvicinò all’abile oratore armato di un sorriso a trentadue denti che avrebbe illuminato persino la più buia delle cantine.
«Zoroastro, mio vecchio amico!», salutò, alzando la mano con fare amichevole. «Fammi indovinare, quell’artista ti ha piantato due giorni dopo averti assunto?»
L’uomo lo guardò, stranito. Poi, come un’onda improvvisa, un largo e brillante sorriso gli illuminò il volto con una fila di denti bianchissimi, ammalianti.
«Orso!»
Il ragazzo non fece in tempo a prepararsi che l’uomo gli fu letteralmente addosso, abbandonando il suo palchetto per dedicarsi unicamente a un abbraccio fin troppo caloroso.
«Quanti anni!»
«Lo dici bene! Ma che t’ha fatto da Vinci? Sei ingrassato!»
Si strinsero l’un l’altro fino a che a Orso non mancò il fiato, allorché si costrinse a scostarsi dall’amico con una pacca sulla spalla, tossicchiando prima di piegarsi sulle ginocchia e riprendere a respirare. Indicò sua sorella con un cenno del capo, facendole segno di avvicinarsi.
«Questa è mia sorella Porpora.»
Porpora incrociò le braccia sul petto, sbuffando con il suo solito fare seccato.
Zoroastro, invece, allargò maggiormente il suo sorriso.
«Quella che andavi cercando per le vie di Roma?», chiese, sornione.
Orso annuì.
«L’unica che mi  è toccata!»
Risero ancora, Zoroastro talmente forte da far tremare il mercato intero, Orso molto più contenuto. Porpora fu l’unica a restarsene con le braccia incrociate a fissare in cagnesco qualunque essere vivente del raggio di tre leghe.
«Veniamo alla ricerca di informazioni», sbottò alla fine, tirando suo fratello per il bavero della camicia talmente forte da farlo sbilanciare in avanti.
Con un colpo di tosse, Orso si ricompose.
«Già, un affare assai strano», disse, aggiustandosi il berretto sul capo. «Da Roma ci mandano per un morto di sifilide.»
Zoroastro schioccò la lingua sul palato.
«A Roma non ce l’avete, la sifilide?»
Porpora sospirò rumorosamente.
Orso sorrise appena. Non voleva far alterare sua sorella, sempre che tutto quel riconciliarsi non l’avesse già fatto.
«Ti racconterò ogni dettaglio più tardi, Zoroastro», disse quindi, bonario. «Ma prima è di vitale importanza che tu ci guidi attraverso Firenze. Dimmi, c’è qualche persona che conosce esattamente i cimiteri della città?»
L’uomo soffocò una risatina.
«A parte me, intendi? Conosco i campi santi meglio di casa mia, ormai!»
Porpora roteò gli occhi.
«Siamo in due», commentò.
Orso sorrise, vittorioso.
«Siamo fortunati, allora», rispose. «Ce ne servirà una descrizione esaustiva.»
«Lungi da me rifiutare», concesse Zoroastro. «Ma andiamo in un luogo più calmo. Il mercato di Firenze non è certo luogo per vendere i morti.»
Camminarono in silenzio per qualche minuto, in rigorosa fila indiana per le vie affollate della città, quasi senza osare parlare.
Zoroastro li guidava con sveltezza attraverso i vicoli, Porpora lo seguiva a piccoli balzi, attenta a non farsi travolgere data la sua minuta statura, mentre Orso, grande e grosso com’era, faceva un po’ più fatica, arrancando tra la folla e facendosi strana a gomitate.
Arrivarono alla meta che ormai i due fratelli avevano il fiatone.
Si trattava di una bottega d’arte alquanto affollata da scultori e pittori intenti a lavorare sui loro capolavori. Vi erano modelli distesi sui piedistalli, ragazze danzanti attorno ad un cavalletto, e tutto sembrava essere così fresco e spontaneo che Orso non poté che aprire la bocca in un’espressione di pura meraviglia.
«È … bellissimo!», disse a sua sorella, sorridendo con curiosità.
A Roma non avevano niente del genere.
Porpora alzò le spalle.
«Non ci vedo niente di bello», rispose, seccata.
Mosse qualche passo in avanti, raggiungendo le alte spalle del tartaro, e gli batté un pugno sulla schiena.
«Abbiamo del lavoro da fare», sentenziò, acida come al solito. «Dunque?»
«Porpora, non essere cattiva», rise Orso, prendendola per un braccio. «Andiamo, cerca di andare incontro a Zoroastro.»
Lei ruggì di risposta, scrollandosi dalla presa.
Orso la guardò drizzarsi sulle spalle e si lasciò sfuggire un sospiro divertito. Porpora era sempre così negativa con il mondo che la circondava, eppure era in grado di tirarlo su di morale, di dargli quella forza di andare avanti, di spronarlo verso avventure in cui lui mai si sarebbe buttato a capofitto. Era un po’ la sua energia, nonostante avesse un temperamento decisamente cattivo.
Sorrise, scollando il capo.
«Dove siamo, Zoroastro?», chiese.
Non fu la voce del suo amico, a rispondergli, bensì quella di un totale sconosciuto.
«Alla bottega del Verrocchio!», trillò qualcuno.
I due fratelli si voltarono, sorpresi, osservando un ragazzo dall’aria eccentrica scendere una delle scalinate che conducevano al piano superiore.
Era un giovane uomo sulla ventina, con la barba e i capelli ben curati, un fisico asciutto ma atletico.
«Mi chiamo Leonardo da Vinci», annunciò subito, pomposo, battendo sul tempo  qualunque tentativo di presentazione. «E voi, a giudicare dai vostri abiti sporchi di cenere, e dalle vostre facce sporche di sabbia, siete i colleghi di Zoroastro.»
Orso sorrise, sorpreso da tanto spirito di osservazione.
Gli erano sempre piaciute, le persone intelligenti.
«Chiamarci colleghi è offensivo», ribatté invece Porpora, incrociando le braccia sul petto. «Non siamo certo degli sciatti profanatori di tombe. Le nostre imbalsamazioni sono famose fino a Napoli.»
Lanciò un’occhiata carica d’astio a da Vinci, poi allungò la mano in segno di saluto.
«Porpora di Vallesanta. Questo è mio fratello, Orso.»
Assecondandola, Orso alzò appena il cappello.
«Tanto lieto», commentò.
L’artista li guardò entrambi con un mezzo sorriso dipinto sul viso, poi batté le mani, facendosi curioso nei confronti della borsa che Porpora portava a tracolla.
«I Vallesanta», disse, quindi. «Ho sentito parlare della vostra famiglia. Pensavo foste tutti morti.»
«Lo pensavano un po’ tutti, a Roma», rispose prontamente Porpora.
Da Vinci annuì piano.
«Per quale motivo li hai portati qui, Zo?», chiese poi.
Zoroastro aprì la bocca per parlare, ma Porpora fu più veloce.
«Una mappa, il più dettagliata possibile, di ogni morto e sepoltura in città dell’ultimo mese», rispose, fulminea.
«Vi costerà una fortuna!», rise a gran voce Zoroastro.
Da Vinci alzò un sopracciglio e fermò la risata del suo compagno con un gesto della mano.
«In cambio?», si informò, interessato.
Orso mosse un passo avanti, aprendo il pugno nel quale aveva raccolto tutte le fate crudeli che gli erano rimaste in tasca. Aprì la mano dinanzi al giovane e sorrise, piegando appena il capo.
«Sono certo che possiamo trovare un accordo.»




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Capitolo 11
*** parte seconda – ileo, Firenze l'è piccina: di morti è piena la via ***


polverenera

Per ricominciare
Eccomi di nuovo!

Stavolta è tutto un capitolo dal punto di vista di Porpora, visto che se ne sentiva la mancanza magari no.

Per gli affezionati, è finalmente giunto il momento: dal prossimo capitolo, Levi sarà una presenza fissa e petulante! *festeggia* Direttamente da quel buco di vigne che sono le terre di cui è Conte.

Infine, visto che queste note d'autore sono sempre corte e mi piace essere prolissa e logorroica ... volevo presentarvi i personaggi così come li ho immaginati nella mia testa.

Porpora è Emily Browning, mentre Orso, nella mia mente, è un baldissimo Hayden Christensen. Levi, infine, è un giovanissimo Liam Aiken.

Chiudo queste note scusandomi con coloro che aspettano una mia recensione alle loro storie: è un periodo pieno di impegni, fidanzati ed esami, ma sto cercando di mettermi in pari con ogni lettura! *^* Perciò aspettatemi: sto arrivando!


Abbracci,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ileo: parte seconda – Firenze l'è piccina
di morti è piena la via
https://www.youtube.com/watch?v=miM22yylXTY










Acqua fangosa,
sii la mia tomba.
Sii mia maestra,
sarò tuo schiavo.
Mark Lanegan – Bleeding Muddy Water







Firenze, 28 settembre 1477. Un mese prima del ventiquattresimo compleanno di Giuliano de’ Medici.



L’acqua del torrente era gelida, scaldata appena dai rari raggi solari che rischiaravano i campi in quegli ultimi istanti prima dell’alba.
Ammollo in una delle conche che il corso creava con le zolle di terra più aride, Porpora sonnecchiava, trasportata dalla solitudine e dal ritmico rumore della corrente che gorgogliava contro le rocce. Sarebbe di certo rimasta lì altri dieci anni, senza pedanti presenza a interrompere la sua pace e con solo la sensazione del gelo ad intorpidirle le dita dei piedi.
Non c’era nulla che potesse valere quanto un paio d’ore di bagno dopo una nottata intera di caccia alla lepre nelle campagne. Caccia che, per altro, non aveva fruttato che un misero coniglio neanche troppo in carne.
Porpora si era quindi concessa un po’ di riposo prima di tornare in città e riprendere le ricerche del morto. Si sentiva frustrata, da tutta quella storia: erano passati quasi due mesi da quando erano giunti a Firenze e non ne avevano cavato un ragno dal buco, nonostante avessero setacciato letteralmente ogni cimitero della città, fossa comune e sanatorio compresi.
Sbuffò, sforzandosi di allontanare quei magri pensieri da un momento così pacifico come quello del bagno. Avrebbe di certo avuto modo di riprenderli in mano una volta tornata a casa.
Si impose di tornare a godersi l’acqua fredda del torrente al contatto con la pelle, ma il rumore di un ramo spezzato la costrinse ad aprire gli occhi e ad acquattarsi contro l’erba della riva.
Qualche piccolo passo dal luogo in cui aveva acceso un modesto fuoco di sterpaglie la convinse definitivamente ad abbandonare l’acqua.
Conosceva quel genere di rumore.
Se era fortunata, l’ultima trappola che aveva costruito prima di assopirsi aveva catturato un colombo.
Silenziosa, si avvicinò al ramo d’albero sui cui aveva minuziosamente impilato tutti i suoi vestiti e passò a vestirsi velocemente, nonostante i pantaloni di cuoio le stridessero sulle cosce umide e la camicia intrisa di sudore le prudesse sulla pelle. La lasciò aperta sul seno minuto, abbandonando la giacca per afferrare il coltello.
Immaginava di non trovare che le braci del modesto fuoco che aveva acceso per scaldarsi, perciò rimase non poco stupita quando, al posto di cenere e fumo, trovò un’allegra fiamma danzante attorno ai profili dell’uomo che la stava curando.
Porpora sospirò, facendo scivolare il coltello nella cintura.
«Non sapevo sapeste tenere un focolare», esordì.
Afferrò i baveri della camicia a la chiuse con lentezza, avvicinandosi per prendere posto dinanzi al fuoco.
Aveva ancora i capelli bagnati.
«Siete un uomo ricco di sorprese, Conte Riario.»
Il Conte sorrise appena, celando il suo viso emaciato dietro lo scoppiettare del fuoco.
«Dopo due settimane senza che voi e vostro fratello ci deste notizie, temevo di dovervi venire a riprendere al camposanto.»
Porpora sospirò pesantemente.
«Non è colpa nostra, se i morti di Firenze non vi aggradano», rispose, scrollando le spalle. «Abbiamo passato al setaccio ogni cimitero, ma la sorveglianza s’è fatta più fitta. Non è facile, superare i cancelli.»
Cadde il silenzio.
Riario annuì, tirando fuori una smorfia tagliente come una lama.
Se fosse divertito o semplicemente sarcastico, era impossibile dirlo.
Prese a sbucciarsi una mela, tagliandola con delicatezza e offrendone il primo spicchio a Porpora con un cenno delle mani.
Lei accettò, incerta, e prese a masticare il frutto.
«Siete un po’ come le mele, voi Vallesanta», considerò poco dopo il Conte, con lo stesso tono con cui un padre racconta le fiabe ai figli. «Quando vi si trova, siete duri e aspri come un frutto acerbo, ma siete veloci a maturare e a imparare a farvi dolci. La cosa più divertente, però, resta sempre il momento in cui morite: siete così teneri e molli che vi si spezza in un istante. È come chiudere il pugno su una mela troppo matura: l’unico sgradevole inconveniente è la mano che resta sporca della vostra insulsa poltiglia.»
Porpora lasciò cadere  ciò che restava del frutto, sussultando.
«Stiamo cercando in ogni dove», si giustificò. «Non è facile trovare le ossa di un morto di sifilide corrose al punto di non sciogliersi nella tomba e quelle poche che recuperiamo non sono mai di vostro gradimento. Senza indicazioni precise su cosa stiamo andando cercando, non ci è possibile procedere più velocemente.»
Ed era vero.
Intrufolarsi nei cimiteri non era affatto facile e in più una volta dentro disponevano di un tempo assai limitato prima che le guardie li scorgessero. Un cadavere a notte, se andava bene, e la maggior parte delle volte non era neanche quello giusto.
In più, le ossa corrose che avevano trovato fino a quel momento non erano mai andate bene.
«Non vedo perché affannarsi», riprese, stavolta con tono più calmo. «Di morti è piena la via, Conte, e se c’è una cosa che ci prende tutti è la morte. Non vale la pena affannarsi tanto per qualcosa che prima o poi arriverà. Se il morto non è già al cimitero, nel giro di qualche mese ce lo spediranno i figli.»
Di colpo, il Conte si alzò, lasciandola da sola accanto al fuoco.
«Parlate troppo, Porpora di Vallesanta», le disse, atono, in piedi in mezzo alla rada campagna. La fissava con sguardo vitreo, restando però a distanza. «Il Santo Padre mi ha incaricato di portare voi e vostro fratello a Firenze per farvi svolgere le vostre mansioni, ma non ha fatto parola circa il vostro ritorno. Fossi in voi, reputerei saggio non spingersi oltre e assicurarvi un rientro a Roma in sicurezza. La strada è piena di briganti, incolpare uno di loro per la vostra morte non sarà di certo un problema.»
Porpora ridacchiò nervosamente, alzandosi in piedi a sua volta.
«Vi è un luogo in cui finora non ci siamo spinti», confessò.
Riario la esortò a parlare con un cenno del capo.
«Il cimitero ebraico, appena fuori città. Secondo Orso sarebbe disonesto vendervi le ossa di un eretico, io dico che, ebreo o cristiano, sono comunque ossa messe sotto a della carne marcia. È ciò di cui siamo fatti tutti; persino me, persino voi.»
«Eseguite il vostro dovere senza chiedervi cosa il Signore ci ha fatti», rispose pacato Riario. «Ci sarà un tempo in cui voi e il vostro indecente fratello potrete interrogarvi su ciò che distingue voi impure anime dai giudei del ghetto, ma ora è bene che vi concentriate sulle vostre mansioni.»
«E voi sulle vostre», ribatté Porpora, velenosa. «Le città devono essere governate. Noi anime impure possiamo staccare le ossa dalla carne senza la vostra supervisione.»
Riario rise sommessamente, e fu una risata divertita e sincera, ma non per questo meno inquietante o minacciosa delle precedenti.
Porpora indietreggiò, più che intenzionata a tornare sui suoi passi senza dare le spalle all’uomo.
«Lascerò le fate quando avremo trovato il prossimo corpo. Buona giornata.»
Mosse qualche altro incerto passo nell’erba, ma la voce del Conte la bloccò.
«Un giorno potreste finire per pagare la vostra impertinenza, Porpora», le disse, ancora immobile dinanzi al fuoco che ormai pareva sul punto di spegnersi.
Lei annuì.
«Lo faremo tutti», rispose. «Ma occorre vivere finché c’è tempo. Né a me né a voi sarà concesso di vedere la nostra tomba.»
E detto questo se ne andò definitivamente, diretta all’albero dove aveva lasciato la giacca e il coniglio morto.
Teneva le labbra serrate in uno strano ghigno, gli occhi fissi sul torrente dinanzi a sé, le dita strette alla cintura. Le gambe, invece, le tremavano, prese dalla paura cieca che l’aveva assalita quando Riario aveva riso.











«Mamma ci sgriderebbe.»
Camminando ben dritta davanti a suo fratello, Porpora alzò le spalle.
«Mamma ci farebbe un sacco di cose, ma è morta», puntualizzò, laconica.
Tirò su col naso e accelerò la marcia lungo le mura del cimitero ebraico, stringendo le dita attorno al nodo del sacco di iuta che portava sulle spalle.
Avrebbe tanto voluto dire che le mancava, sua madre, ma non ne era tanto sicura. Da che era tornata a Roma, non aveva sentito una sola persona parlar bene di Celia Lysimachus. A volte, dai racconti del ghetto, pareva addirittura una donna completamente diversa da quella che li aveva cresciuti, o forse era del tutto uguale, Porpora non sapeva dirlo con esattezza. Di Celia, dopo quattro anni di latitanza, non ricordava che gli schiaffi leggeri e le tremende sgridate.
Sbuffando, si fermò dinanzi ai cancelli chiusi del cimitero.
Niente guardie, bensì delle alte punte di ferro da scavalcare senza ferirsi: tutt’altro da ciò che lei aveva sperato di trovare.
«A Roma non si prendono tanto disturbo per i giudei da costruire loro un cancello», commentò Orso, imbronciandosi appena dietro la luce della lanterna.
Porpora roteò gli occhi.
«Tu sei un giudeo», gli ricordò.
Orso alzò le spalle.
«Anche tu.»
Passandosi una mano sulla fronte, Porpora sospirò. Scavalcare quello stramaledetto cancello pareva impresa ben  più ardua che scavalcare il muro di un normale camposanto. Occorreva ingegnarsi.
Svelta, prese a camminare lungo il perimetro del cimitero. Sperò che Orso non la seguisse, ma il ragazzo pareva in vena di conversazioni fastidiose, tanto che la pedinò fino a che non si trovarono ai piedi di una vecchia casa a ridosso del muro scostato.
«Io conosco una persona che non è giudea», stava appunto blaterando, quando Porpora gli fece cenno di avvicinarsi. «Gregorio. Gregorio è cristiano.»
«Piantala di parlare di morti e fammi da scala.»
Corrucciato, Orso si chinò per prenderla per i fianchi e alzarla fino alla prima fila di tegole del vecchio casolare.
«Non sai per certo di parlare di morti finché non li hai davanti», rispose, sbottando. «Che hai intenzione di fare?»
Dal punto in cui Porpora si trovava, in piedi sul tetto più basso, non c’era comunque modo di superare la fila di punte di ferro che seguivano il profilo dell’alto muro del cimitero.
«Vado da sola», rispose lei, prendendo a scalare la torretta del casolare. Si voltò verso Orso quando ormai era a metà della sua impresa. «Tanto non volevamo fare che un sopralluogo, no? Torneremo domani con un piede di porco per il cancello.»
Da terra, la voce di Orso le giunse flebile come quella di un bambino in preda alla paura del buio.
«Sta’ attenta, Sorella!»
Porpora ridacchiò, chiedendosi se Orso avesse la minima idea di quanti muri avesse scalato, negli anni, per sfuggire alla guardia cittadina. Qualche vecchio mattone di campagna, per lei, non era certo un problema.
Si aggrappò con entrambe le mani a due ferri sporgenti e si tirò su con la sola forza delle braccia, appendendosi poi a una nicchia nel muro per proseguire la sua scalata. Una volta sufficientemente in alto, appoggiò il petto contro la facciata e scivolò verso destra, superando in altezza la fila di punte di ferro che ostruivano il passaggio. Si voltò, guardando dritta dinanzi a sé.
Oltre il muro, proprio davanti a lei, si ergeva un vecchio mausoleo di famiglia in marmo, il cui apice terminava con una colonna un poco più alta delle altre.
Porpora trattenne il respiro.
Non era uno dei salti più lunghi che avesse mai dovuto compiere, ma doveva ammettere che non le era mai capitato di rischiare di venire infilzata da una recinzione in ferro battuto.
Riuscì a trovare la forza di buttarsi contro la colonna soltanto quando sentì la voce di Orso implorarla di lasciar stare.
Si buttò letteralmente contro il marmo, battendo entrambi gli avambracci sulla colonna e finendo a terra con un tonfo secco.
Da dietro il muro, la vocina di Orso arrivò tempestiva.
«Tutta intera?»
Porpora si drizzò in piedi, battendo le mani sulle ginocchia per liberare i calzoni dalla polvere.
«Sì, sì», rispose, vaga. «Ma sono bloccata qua dentro. Fa’ il giro del casolare e cerca una corda o una scala. Io intanto mi occupo del morto.»
Un istante di silenzio.
«Sicura di non aver paura?»
Porpora roteò gli occhi, frugando nelle tasche alla ricerca dei cerini.
«Devo venirti a prendere a calci?»
«Per carità, no.»
Stizzita, si sistemò il colletto slabbrato della camicia e procedette verso le tombe dei poveri, pestando qua e là nell’erba umida della notte.
Di certo, l’indizio lasciatole dal Santo Padre non avrebbe potuto aiutare meno. Le ossa di un deforme la cui unica caratteristica pareva l’essere orribile. Un ago in un pagliaio, a contare tutti i morti che c’erano sotto la terra di Firenze.
Prima di partire per il cimitero ebraico, però, Zoroastro li aveva indirizzati verso i sarcofagi di pietra che normalmente venivano addossati lungo le mura a sud: morti facoltosi ma dimenticati le cui tombe erano generalmente già state aperte dai tombaroli in cerca di ori.
Porpora non ci mise poi molto a trovarli.
Senza chiamare suo fratello, impiantò qualche cerino nel terreno morbido, creando una piccola scia di luce attorno alle bare.
Le scoperchiò una a una, adoperando tutta la forza che aveva in corpo per muovere il marmo, e constatando come, una dopo l’altra, quelle tombe si rivelavano essere case di morti uno più normale dell’altro.
Stava per abbandonare ogni speranza quando, raccogliendo l’ultimo cerino, non si accorse di un vecchio sarcofago in un angolo. Era stato costruito in pietra nera, perciò passava del tutto inosservato dinanzi ai suoi compagni immacolati.
Rapida, Porpora gli si avvicinò, usando le sue ultime energie per dare una forte spinta al coperchio per farlo scivolare verso il muro.
Una volta dinanzi alla salma, un largo sorriso si dipinse sul suo viso sporco di terra.
«Orso!», gridò, senza però ricevere risposta. «Orso, l’ho trovato!»
Tornò a guardare il morto, pronta a fare marcia indietro per tornare quando avrebbero avuto modo di scassinare la serratura del cancello, ma qualcosa la bloccò.
Un brivido freddo la percorse, quando la fioca luce del cerino acceso si specchiò sulla superficie lucida e metallica del pendaglio che quelle ossa deformi portavano ancora al collo.
Porpora la riconobbe immediatamente.
Testa rotonda e decorata da strani e ricorrenti motivi, gambo triangolare, l’intagliatura più strana che avesse mai visto su una chiave.
Il nome di sua madre le scivolò dalle labbra così velocemente che non ebbe nemmeno il tempo di pensarlo.
«Celia», disse, e in un istante la sua mano volò sul mucchio d’ossa che aveva dinanzi per strappare il cordoncino e appropriarsi di quell’oggetto.
Rimase a guardarlo a lungo, girandoselo e rigirandoselo tra le mani quasi avesse appena trovato il più prezioso dei tesori.
Poi, dei passi alle sue spalle la misero in allarme.
Fece appena in tempo a far scivolare la chiave nella tasca della giacca che una mano pensate cadde sulla sua spalla, afferrandola per trascinarla a terra.
«Ti ho presa, tombarola!»
Un uomo alto almeno il doppio di lei la scrollò, prendendo a camminare verso il cancello con la sua spalla in una mano e la lanterna nell’altra.
«Il tuo compare è già in gabbia. Vi spedirò dritti dalla guardia cittadina!»
Una volta uscita dal cimitero e portata al cospetto di un Orso tenuto fermo da un uomo della medesima stazza, Porpora non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi.
Ma come avevano potuto essere così stupidi da non considerare la presenza dei custodi, visto l’assenza di guardie?
Si diede dell’imbecille, dopodiché si rivolse all’uomo che inesorabile la stava spintonando verso il muro del casolare.
«Per favore», piagnucolò, cadendo in ginocchio. «Abbiamo soltanto fame!»
«Già», intervenne con un grosso sospiro l’aguzzino di Orso. «Guardateli, padre: sono magri come chiodi.»
L’uomo però non demorse.
«Dovessimo tener d’occhio solo i grassi, figlio, dormiremmo tutti sonni più lieti!»
Porpora sbuffò.
«Non cercavo che delle monete», insistette. «Che se ne farebbe un morto?»
Di nuovo, il figlio del custode arrivò in suo soccorso.
«Qui i tombaroli hanno già ripulito ogni cosa», disse, pacifico. «Padre, non avrebbero comunque potuto rubare nulla. Non sono che ragazzi!»
«E sia, Paolo», concesse infine l’uomo, lasciando finalmente la presa su Porpora. «Ma ricorda che se domani notte saranno ancora qui a elemosinare sarai tu stesso a portarli a Firenze!»
Porpora non udì mai la risposta di Paolo.
Non appena fu libera, scattò in avanti e afferrò Orso per la collottola, trascinandoselo dietro mentre correva verso i campi più rapida di una freccia.
Non le importava di aver lasciato indietro la borsa con la sega e le pinze. Non le importava neanche di aver lasciato più della metà dei suoi cerini al cimitero.
La chiave che aveva in tasca pesava più di qualunque bagaglio e, a ogni rimbalzo che compiva sulla sua coscia, la carne pareva ardere sempre di più.
Arrivarono a Firenze che le porte erano ancora chiuse, controllate dagli uomini del Capitano Dragonetti che però non pareva essere nei dintorni.
«Pare che dovremo aspettare l’alba», considerò Orso, piegato in due dal fiato corto della corsa.
Porpora non poté far altro che scivolare a terra, stremata.
Il cuore batteva forte e la gamba pulsava contro quell’oggetto che aveva appena rubato a un morto.
Sconvolta, si portò il polso alla fronte, asciugandola del sudore raggrumato sulla frangia.
«La mamma ci avrebbe sgridati», sussurrò, più a se stessa che a suo fratello.
Dopo gli schiaffi, era l’unica cosa che ricordava di Celia. “Mai rubare ai morti”, diceva sempre, quando con Mastro Giovanni si recavano al cimitero per gli ossequi ai defunti. Saltando tra l’erba alta, Orso chiedeva sempre perché. Allora Celia si incupiva e si accovacciava su di lui, sgranando gli occhi chiari e scompigliando i capelli del suo figlio più giovane. “È semplice, yeled sheli”, rispondeva, seria. “Perché i morti ritornano sempre a prendersi ciò che è stato loro sottratto.”





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