Letters to...nobody

di SandFrost
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ciao nessuno.. ***
Capitolo 2: *** Istanti bloccati nel tempo! ***
Capitolo 3: *** Cattivi ed Eroi! ***
Capitolo 4: *** Un portafortuna...e le cipolle!! ***
Capitolo 5: *** “Bel lavoro Blaine” ***
Capitolo 6: *** Un Eroe, Un Salvatore, Una Voragine. ***
Capitolo 7: *** Abbastanza. ***
Capitolo 8: *** Come un fiore! ***
Capitolo 9: *** L'ultima lettera. ***
Capitolo 10: *** Ciao Kurt, ***



Capitolo 1
*** Ciao nessuno.. ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.
La dedico a una persona meravigliosa, che ha illuminato le mie giornate con il suo sorriso e anche se ora è distante, lo fa ancora.

Alla mia bellissima Jacobba e a ogni nostro momento insieme.

La dedico a Giulia (aka My Robin!Louis), perché mi è sempre accanto, legge ogni cosa che le mando e mi sprona a continuare ogni giorno.
La dedico a Fra (aka My Blaine!Turk), per questo anno insieme, per avermi dato la forza necessaria per ri-iniziare questa mia avventura con le parole.
La dedico a Lidia (aka Niall!Nella in Kurt), per non giudicarmi mai, per farmi sentire “umana”, per ogni sclero e per i pomeriggi seduti sulla nostra panchina.
La dedico a chi la vuole leggere e a me stessa.
 
SandFrost

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Se ti sentissi solo. Se avessi bisogno di sfogarti. Se trovassi un elenco telefonico ingiallito dal tempo, sotto il tuo letto. Se ci fossero solo pochi nomi ancora leggibili, e solo uno di questi abbastanza lontano da te. Se avessi il bisogno di chiedere aiuto, ma di non farlo realmente. Se ti venisse voglia di prendere quell’indirizzo e scriverli una lettera...

Cosa gli scriveresti?
 

 



 
Ciao nessuno..

Sono un nessuno anch’io, a pensarci bene. Ho preso il tuo indirizzo da un elenco telefonico, seppellito sotto il mio letto. Ho sempre voluto farlo. Scrivere a qualcuno, qualcuno di cui non conosco niente, e mostrargli qualcosa che non ho il coraggio di dire al mondo. Non ti chiedere: perché io, non c’è reale risposta. Era uno dei pochi nomi ancora visibili ed eri anche il più lontano da me. Cosi non mi avresti cercato. Cosi non avresti saputo nient’altro oltre a quello che ti avrei scritto. Cosi non mi avresti salvato.

Sì, sto chiedendo aiuto, perché sto precipitando, ma non sto chiedendo realmente aiuto. Inizio a credere che mi piaccia la sensazione di vuoto sotto di me. Se mai troverò il coraggio di mandarti questa lettera, per favore, non rispondere. Non fare domande, ma leggimi. Mi sento solo. Ho sempre amato essere solo, ma ora.. mi pesa. Mi pesa essere me e non so il perché.

Ho una casa, una famiglia, anche un cane che si addormenta al mio fianco ogni notte. Eppure quella sensazione di solitudine mi accompagna da qualche mese. A qualche metro da casa mia c’è un edificio abbandonato, adoro nascondermi tra quelle mura e immaginare storie di persone che, forse, non ci sono più. Sentirmi parte di qualcosa che non conosco, poter creare dialoghi di persone che non sono mai esistite realmente. E da lì che ti sto scrivendo, seduto su una sedia che cigola e una scrivania che era piena di polvere, prima del mio arrivo, e che tornerà ad esserlo una volta che sarò andato via.

C’è una grande finestra che prende quasi l’intero muro, i tramonti sono spettacolari se sai aspettare. Hai mai voluto scappare da te stesso? Quanto può essere facile e allo stesso tempo difficile fingere di stare bene? Mia madre mi guarda e mi sorride, mio padre è troppo impegnato a stare dietro ai suoi pazienti per analizzarmi. Mio fratello è partito molti anni fa e ogni mese ricevo una sua lettera dove dice che va tutto bene. Mi sento invisibile, ma non lo sono.

Sarebbe tutto più facile, se trovassi la forza di andare via anche io. Ma ho capito che cambia la città, gli abitati, ma i problemi dentro di noi restano lì e non vanno da nessuna parte. Non sono cosi forte da farli andare via e farmi lasciare solo, sono di compagnia. Sì, alle volte mi sento cosi solo che anche la mia mente, autodistruttiva, è un ottima compagna. Alle volte.

Tutto sommato la mia vita non è male, eppure ci sono quei momenti in cui tutto sparisce, si annebbia e allora non ho più niente. La tua famiglia è solo qualcosa che non aiuta, un ostacolo. La tua casa un punto fermo, qualcosa che ti blocca a restare lì. Il tuo cane, solo un animale in cerca di cibo e affetto. E tu? E tu solo qualcosa che crea problemi a tutto il resto.

Il bello di scrivere questa lettera è che non deve avere senso. Posso farti credere tutto quello che voglio, mostrarti ogni mio più piccolo lato oscuro, sembrare anche depresso, fingermi felice e scrivere sonetti d’amore, perché siamo solo cornici al quadro che rappresenta la nostra vita.

La cosa strana? E che in quel quadro noi non siamo stati dipinti. Come se volessero dirci: Tu non fai parte di tutto questo. Questo è quello che vedi, quello che senti, quello che sei. Sei solo un pittore occasionale, che prova a lasciare sulla tela qualcosa di significativo, ma alla fine è solo una macchia sullo sfondo.

Deprimente non trovi? Passiamo la vita a credere di essere o poter essere qualcosa e alla fine siamo solo delle macchie. Spero solo di non essere una di quelle macchie indelebili, sul bordo di una manica di camicia, e che nessuno decida di buttarmi via.
 
~

Mi piace la sensazione che provi dopo un urlo, uno di quelli veri e non coperto con il cuscino, quella sensazione non mi piace. Ti sembra che le corde vocali vadano in fiamme e dopo ti senti cosi esausto e vuoto, ma allo stesso tempo pieno di troppe cose che non sai comprendere e che non sai spiegare a te stesso.

Sai cosa? Alle volte vorrei mettermi di fronte un pubblico e raccontare la mia storia, magari farlo con la musica e una canzone strappa lacrime ma che faccia riflettere chi l’ascolta. Tutto quello di cui abbiamo bisogno, molte volte, è la sensazione di essere ascoltati e che la nostra storia sia importante, anche se non lo è e anche se non stiamo raccontando niente di eccezionale.

Oh! Il sole sta per tramontare. Tra poco si farà buio, ma prima di allora il cielo sarà cosi caldo e denso di emozioni da lasciare il mondo senza parole. Perché non ci sono parole per descrivere qualcosa che ti fa sentire completo e allo stesso tempo completamente solo. Mi piacciono i tramonti.

Non è giorno e non è notte, e a dir la verità non è neanche un pomeriggio, è solo un cielo tinto di ogni sfumatura dal rosso al giallo, con qualche nuvola a completare il tutto. Senza pensieri. E’ cosi che mi sento quando mi fermo a osservarlo, ma quando riprendo a camminare la mia mente torna a camminare con me. Non so se dirti se in bene o in male. Dopo un tramonto ogni emozione cambia colore.
 

 
Chissà che stai pensando di me adesso.
Non mi importa.
Ti sembro pazzo? Ti sembro uno che ha tutto e non lo vede? Ti sembro uno stupido cinico? Un bambino che ha paura di correre perché è caduto troppe volte? Un bambino che non vuole chiamare la mamma, solo perché pensa di poterci riuscire da solo?
Non mi importa.
Pensi che la mia vita non sia cosi male e che sono io a essere cosi drammatico? Pensi che la mia vita, in confronto ad altre vite, sia migliore? Pensi che mi stia nascondendo, perché ho paura del mio riflesso allo specchio?
Non mi importa.
Pensi che io stia fingendo o che potrei essere felice se solo lo volessi realmente? Pensi che io non voglia essere felice? Pensi che tutto questo mi stia comodo? Pensi che sia un totale, stupido, pazzo che sta scrivendo questa lettera a una persona a cui non importa niente?
NON MI IMPORTA.
Cosa pensi - non mi importa - di me.
Non mi importa (ma vorrei saperlo).

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Capitolo 2
*** Istanti bloccati nel tempo! ***


 
Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.
Alla mia bellissima Jacobba e a ogni nostro momento insieme.

A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Ancora una lettera. Ancora parole a incorniciare queste mie giornate spente. Ancora il rumore sordo del tempo nella mia testa. Perché mi sembra sempre troppo tardi? Troppo tardi e mai troppo presto. Sarà mai troppo presto?

Il tempo è destinato a passare, ecco cosa ho appreso in quest’anno. Non lo si può fermare, non si può tornare indietro e non si può andare avanti. Bloccanti in un oggi, aspettando di dimenticare un ieri e costantemente preoccupati per un domani.

Le giornate mi sembrano cosi lente alle volte. Vorrei che fosse come in un vecchio film: cinque secondi di attenzione e poi cambio di scena. Mai troppo sullo stesso momento. Un momento intenso, ma pur sempre un momento, uno di quelli destinati a finire e a essere per sempre ricordato.

Consapevoli di questo, per questo cosi vero. Un momento in cui il mondo si ferma a guardare, per poi riprendere a girare. Non hai mai questa sensazione? Il mondo che si ferma, per dar importanza a un piccolo momento? Come se tutto nel mondo dipendesse da quel momento.

Il tempo e le sue strane forme di girare. Alle volte cosi in fretta, cosi veloce da far girare la testa e rendere confusi. Altre volte lento come una danza di una ballerina in un carillon. Rallentare per poi andare veloce, questo è il tempo.

Lo so, non è il massimo iniziare una lettera parlando del tempo, ma ho sempre ritenuto che a tutto ci fosse un perché. Non è un caso che abbia iniziato questa lettera parlando del tempo. Si dice spesso: Il tempo è l’unica cosa, che una volta perso, non lo si può avere indietro.

Qualcosa che gli abitanti del mondo continuano a cercare, mentre se lo lasciano scorrere tra le mani. Troppo impegnati a fermare un istante, per rendersi conto che è appena andato via. Troppo distratti a trovare i contorni per capire che non ne ha.

Ad ogni modo, qualche giorno fa, mi è successa una cosa..strana? Ho provato a mie spese cosa significa vivere un istante e vederlo sfuggire via, mentre il proprio corpo continua a inseguirlo e la propria mente dice di smetterla.

Quella strana sensazione di star correndo, ma capire troppo tardi che si è fermi. Eppure qualcosa dentro di noi continua a correre, mentre cerchiamo un modo per rallentare o correre a nostra volta.

Non so bene come spiegarlo. E’ successo tutto cosi in fretta, forse non è neanche mai successo, forse sono sul punto di diventare pazzo. Passo troppo tempo solo a scrivere, mio padre me lo dice spesso che finirò per diventare pazzo..ma era cosi reale.

Lui era..inizio a credere all’esistenza degli angeli, perché non so in che altro modo spiegarlo. Non sono impazzito, o forse sì, ma voglio comunque mostrarti attraverso le mie parole e i miei occhi di cosa sto parlando. Forse te ne innamorerai anche tu, com’è successo a me.

O forse semplicemente tutto questo mi aiuterà a non dimenticare e a convincere la mia mente che non era un sogno a occhi aperti. Finisce sempre cosi, quando sogni la stessa cosa per più notti. S’inizia a credere che non sia stato reale, una sorta di rifugio a quello che in realtà è: solo un sogno.

Eppure sono consapevole che non lo era, un sogno intendo. Come poteva esserlo? Chi sognerebbe mai una cosa tanto perfetta e poi lasciare che il proprio corpo si svegli, ma facendo in modo che la propria mente continui a dormire? Sarò anche a un passo dalla pazzia, ma questo è troppo anche per me stesso.

Ma hai ragione, sto solo tergiversando e sto dimenticando il punto della questione, aspetta..da quando mi importa di quello che pensi? E perché credo realmente che tu leggerai mai, un giorno, queste mie lettere? Accurato: Sono impazzito.


 
-

 
 
Era uno di quei giorni di pioggia sai, uno di quei giorni in cui hai voglia di fare qualcosa, prima di guardare fuori dalla finestra e capire che passerai un’altra mattina in casa, magari a giocare con un gomitolo di lana o cercando di convincere il tuo cane a stare a cuccia, invece che spalmato sopra di te.

Mi ero rassegnato all’idea che la mia giornata sarebbe stata noiosa, quando qualcuno bussò alla porta e mio padre mi chiese di andare ad aprire, cosa che non fa mai, dato che la maggior parte delle volte sono i suoi pazienti e lui preferisce accoglierli con un sorriso raggiante.

Tutto sommato, dopo la confusione iniziale, mi alzi dalla poltrona vicino alla libreria e andai ad aprire la porta. Un ragazzo mi dava le spalle, mentre cercava di chiudere il suo ombrello, rovinato dal vento. Lo fissai per alcuni secondi, cercando di capire cosa fare. Non sapendo se schiarirmi la voce o chiederli se avesse bisogno di aiuto. Mi chiesi cosa avrebbe fatto mio padre in quella situazione.

Per mia sfortuna - o fortuna - il ragazzo riuscì a chiudere l’ombrello e..credo di avere avuto un mancamento, o almeno il mio cuore l’ha avuto. Ha smesso di battere, quando due occhi celesti come un cielo di primavera e un sorriso caldo come un giorno d’estate, mi salutarono.

Come in uno di quei film citati sopra, fu solo un momento, un momento destinato a finire e a essere ricordato. Un momento terminato con mio padre, che mi ha sposta leggermente di lato, per poi sorridere a quel ragazzo e farlo entrare in casa, con i suoi modi cortesi.

Un solo momento. Un momento in cui non sono riuscito a muovermi o a essere abbastanza attento, da ascoltare il suo nome. Un momento in cui il mio cuore ha fatto la conoscenza di due occhi in cui è facile rispecchiarsi e in un sorriso per cui vivere.


 
-


Magari ti aspettavi chissà quale tipo d’incontro, o chissà cosa, e invece ero solo io rimasto incastrato da un volto d’angelo, due occhi che mi tormentano la notte e un sorriso che mi riscalda nei giorni più freddi. Uno schiocco che è rimasto tutto il pomeriggio seduto in soggiorno, aspettando o sperando di poterlo rivedere e provare a dirgli: ciao, ma ovviamente senza successo.

Non sono riuscito a rivederlo quel pomeriggio, né quello dopo o quello dopo ancora. E’ passata una settimana e..non so neanche perché te lo sto dicendo o perché mi stia mettendo cosi in ridicolo. La realtà è che un po’ mi piace scrivere queste lettere.

Sono il mio rifugio contro il mondo, il mio istante bloccato nel tempo. Come nei vecchi film, rallentare per poi andare più veloce, cercando il mio attimo appena fuggito via. Il mio momento trascorso, destinato a passare e a essere per sempre ricordato.

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Capitolo 3
*** Cattivi ed Eroi! ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.
 
Alla mia Jacobba, che ci sarà sempre
 
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.




 


 










Sai, se resti immobile a fissare l'orizzonte potrebbe capitarti di assistere a qualcosa di meraviglioso. Qualsiasi cosa. Non fraintendermi, anche uscire nel mondo e fare qualcosa porta alla scoperta di qualcosa di unico, ma in entrambi i casi, se è destinato ad accadere, accadrà.

Dopo quello che mi è successo due giorni fa, ne sono più che sicuro. Puoi aspettare o provarci, ma quando è scritto nella tua storia, ogni strada porta allo stesso finale. Un finale che si lega a quello della persona che ti è stata destinata.

Non so ancora se questo è l’inizio perfetto per raccontare quello che mi è successo, ma inizio a chiedermi se ne esista uno. Non esiste un: “C’era una volta” adatto, anche se sarebbe appropriato. Non voglio neanche macchiare mezzo foglio solo per trovare le parole adatte a descrivere l’innocenza del momento. Voglio solo raccontare a qualcuno che ho ripreso a credere nella magia.

Sì, hai letto bene ho detto magia. Perché non puoi far altro che credere nella magia quando un angelo ti si avvicina e inizi a vederlo sotto forma di un docile principe in cerca del suo regno. Un principe che è crollato e per troppo tempo tenuto in gabbia.

Un principe che non sai come aiutare perché è lui che sta salvando te, con la sua sola presenza e non se ne rendo conto. Come si può descrivere la perfezione di quell’attimo in cui capisci che non c’è niente di più bello di perdersi in un libro e di realizzare di aver conosciuto il protagonista?

Il protagonista con una missione da portare a termine e quella voglia di poter dare una mano e capire che non puoi, perché la missione sei tu. Okay, forse ti potrò sembrare completamente pazzo o che sto andando fuori tema ma lascia che ti spieghi.

Siamo protagonisti della nostra vita, non è quello che dovremmo essere? Ma cosa accadrebbe se due protagonisti unissero i loro cammini? Se fossero da sempre legati a percorre i loro cammini insieme? Che cosa accadrebbe alla propria storia?

Due protagonisti, una missione, due cuori. Ancora confuso? Scusa, ma avevo detto che non c’erano parole abbastanza perfette per descrivere il momento e il fatto che sia rimasto intrappolato in quell’istante e che non voglia in alcun modo trovare la via d’uscita, non aiuta. Ma lascia che ti mostri il mio principe, protagonista della mia storia, forse riuscirai a capirci qualcosa.

E iniziato tutto per una storia…

Ero seduto su una poltrona, nella libreria nella sala grande. Mio padre aveva richiesto che quella stanza fosse riempita di ogni tipo di libro. Conteneva una fasta collezione, ma non ci entrava mai. Quando li chiedi perché, rispondeva che è il suo regalo a me.

Ci ha messo anima e cuore per assicurarsi che fosse un luogo confortevole e sicuro, tutto quello per rendere me sicuro e farmi sentire sempre a casa, anche nei momenti più critici. Ed è qui che vengo quando ogni cosa crolla e non ci sono appigli cui aggrapparsi.

Viaggiare in ogni tempo o lungo, stando seduti su una comoda sedia mentre la mente vaga tranquilla e indisturbata ed è proprio in quel momento che lui è arrivato. Ero a poche pagine dalla fine di uno dei capitoli più fascianti del libro che aveva scelto quel giorno, quando una voce angelica mi ricordò che era ora di tornare alla realtà. Ma non me ne preoccupai, sapendo che tipo di realtà mi aspettava.
-

"Che cosa stai leggendo di così interessante? Sembri così preso" alzai il capo con troppa fretta, spaventato da quella voce che non aspettavo, chiudendo il libro che tenevo in mano di colpo "Scusami, non volevo spaventarti. Sembravi così preso che non sono riuscivo a impedirmi di chiedere, cosa stessi leggendo" si scusò.

"No, scusami tu ma ero talmente nei miei pensieri che non ti ho sentito arrivare" cercai di non sembrare nervoso o che stessi aspettando quell’incontro da giorni. Mi passai una mano sudata sui pantaloni e accarezzai il dorso del libro, posato sulle mie gambe.

"Allora" riprese a parlare sorridendo, mentre si appoggiava allo stipite della porta. Quel sorriso che non aveva ancora lasciato la mia mente e che ora ne aveva un nuovo ricordo. "Che cosa stavi leggendo con così tanta passione, da non avermi sentito arrivare?" chiese, mentre si strinse le braccia al petto.

"È solo un libro di fiabe. Uno dei tanti" indicai l'enorme parete piena di libri alla mia sinistra, sentendomi stupido. Stavo evidenziando l’ovvio e non aiutava il fatto che il mio cuore stava per cedere per troppi battiti e la mia mente urlava di dire qualcosa che lo facesse restare o parlare ancora.

"La mia mamma mi leggeva sempre le fiabe" disse, facendo qualche passo nella sala. Sembrava così piccolo, mentre cercava di ricordare tristemente "Diceva sempre che ero il suo principino e che lei sarebbe sempre stata lì, come una fata madrina, a vegliare su di me".

"È una cosa molto carina e dolce" dissi, mentre lo scrutavo muoversi sempre più vicino. Aveva lo sguardo vuoto ma sulle sue labbra era posato un sorriso. Come se stesse vedendo qualcosa di lontano ma che lo aveva fatto stare bene. Iniziai a chiedermi perché fosse un paziente di mio padre e se centrasse sua madre.

"Lo è” sorrise bloccando il suo sguardo nel mio e ora ero io a sentirmi piccolo “Ed io ci credo ancora, ma non leggo una fiaba da...da quando, sai...ad ogni modo, che fiaba leggevi?" fermandosi accanto alla poltrona che avevo di fronte, ma non sedendosi.

Prima di parlare e rispondere alla sua domanda, mi concessi qualche secondo per capirlo o fermarlo nella mia memoria. Aveva ancora le braccia strette al petto, come se si stesse abbracciando. Sulle sue labbra il sorriso che non era ancora andato via e i suoi occhi tornarono a provare emozioni. Erano più caldi ora. Niente più ghiaccio.

"Nessuna storia in particolare, cercavo di cogliere i pensieri di quelli che noi definiamo “cattivi”. Credo che vengano etichettati solo per permettere a qualcuno di essere l’eroe, perché non c’è eroe senza cattivo, no? Ma credo anche che se sia stupido, voglio dire: perché rendere la vita di qualcuno un inferno solo per far vivere per sempre qualcun altro e alla fine regalarli un po’ di compassione?” mi fermai sotto il suo sguardo attento. Mi stava ascoltando e non stava giudicando.

“Oh!” disse dopo un breve silenzio, vedendo che non era mia intenzione continuare a parlare - o meglio perché incapace di farlo. Mi scrutava e lo stava facendo con troppa attenzione per abbassare lo sguardo dai suoi occhi o per dire qualcosa, anche di stupido.

“Sembra interessante questa tua visuale” disse e sembrava restio a ogni parola o movimento. Come se avesse voglia di conoscermi, continuare quella chiacchierata, sedersi ed espormi le sue idee, eppure qualcosa lo tratteneva a quella sua posizione iniziale.

Non potevo permettere che queste sua forma d’insicurezza lo portasse a uscire dalla stanza o dalla mia vita, cosi ripresi a parlare e a cercare di farmi vedere più sicuro. Almeno quello era la mia idea. “I personaggi cattivi mi hanno sempre affascinato e non per la loro definizione. Sono persone incomprese che non hanno mai avuto l’opportunità di mostrare o raccontare la loro storia. Non sto dicendo che per via della loro pessima infanzia siano giustificati a fare del male ad altre persone, dico solo che dovrebbero avere un’occasione. Dovrebbero dare loro una possibilità di mostrare che sono migliori.

“Non capisco perché mai nessuno si sia fermato a chiedere come stesserò, invece che additarli e farli credere che è quello che sono destinati a essere sia solo essere un cattivo. Non si nasce cattivi come del resto non si nasce buoni. Non tutti gli eroi hanno il coraggio di estrarre la spalla e uccidere il drago. Non tutti gli eroi hanno la forza di affrontare percorsi tortuosi per salvare la principessa. Alcuni semplicemente non ci riescono, ma sono meno eroi per questo?

“Non è anche eroe una persona che prova con tutte le sue forze a non cadere? Non è un eroe, una persona che fa di tutto per superarsi? Non è un eroe, una persona che fa un lavoro modesto per mantenere la propria famiglia? Non è un eroe, una persona che cerca di salvarsi, anche solo da se stesso e da quello che sa può far male a qualcuno?

“Se tutto questo non fa di una persona un eroe, allora mi chiedo cosa determini un eroe. La forza? Le armi? I nemici che affronta? La propria ricchezza? Il proprio potere? O forse sono il coraggio. Coraggio di continuare a provare, anche se tutto è finito. Il carattere e la determinazione di portare alla fine quello che si è iniziato. La consapevolezza di sapere che si è eroi per se stessi e non per forza per il mondo.

“Alle volte credo che il mondo abbia bisogno dell’eroe per essere grato a qualcuno e non doverci provare. Per potersi sentire al sicuro, senza il bisogno di crearsi un luogo sicuro intorno. Poter contare su qualcuno perché troppo fifoni per credere in loro stessi. E non sto giudicando questo. Voglio fare notare quello che il mondo non riesce a vedere perché ne ha paura.

“Il cattivo affronta ogni cosa, con il cuore spezzato e con la gente che non se ne cura. Perché preoccuparsi di qualcuno che un giorno potrà farti del male? Sarebbe schiocco, no? Non si pensa che il semplice interessarti a quella persona e farlo sentire amato possa aiutare. No, perché è cattivo e i cattivi sono brutte persone, meglio amare l’eroe che non commette mai errori.

“Non è quello che vogliono farci credere? Che l’eroe è perfetto e sa sempre quello che deve fare. Sono poche le fiabe dove fanno vedere le insicurezze o paura dell’eroe. Quei momenti in cui è tentato di arrendersi o pronto a fare la cosa sbagliata, cosi da non assumersi nessuna responsabilità.

“Non voglio accusare l’eroe, vorrei che la gente smettesse di creare un cattivo solo per far vivere l’eroe. Siamo noi gli eroi che lontano contro il male e quel male siamo noi stessi. Siamo il bene e il male. Ogni giorno lottiamo contro noi stessi e la vittoria come la sconfitta passano in secondo piano. Siamo quello che siamo ma nessuno di noi è destinato a qualcosa in particolare.

“Siamo nati per essere migliori ogni giorno. Per scoprire il nostro posto del mondo e farlo nostro. Per avere paura, superarla e continuare il nostro viaggio. Nessun eroe. Nessun cattivo. Sono noi stessi e tutto quello che riuscivamo a trovare dentro di noi. Solo stupidi umani che ci provano ancora”.

Le parole erano uscite rapide dalla mia bocca. Pensieri custoditi gelosamente, avevo visto la luce. E sembrava tutto strano intorno a me, era come parlare e sentirti bene e sicuri. Senza paura di dire la cosa sbagliata o di andare contro qualcuno. Mi sentivo di poter dire qualsiasi cosa.

“Ti senti come lo loro? Voglio dire: una persona incompresa, cui non è stata data una possibilità di raccontare la propria storia e di dimostrare che è migliore di quello che si crede? Scusa, forse non avrei dovuto chiedertelo. Stavi raccontando come vedevi quel mondo ed io mi sono intromesso. Mi dispiace” disse, ma non ascoltai le sue scuse.

Com’era possibile? Non sapeva niente di me, non avevamo mai parlato e non ci conoscevamo. Come poteva sapere tutto quello? Come aveva fatto con solo da qualche frase detta a capire quello di me? Come poteva essere arrivato alla conclusione, che con tutto me stesso, volevo nascondere anche a me stesso?

“Io-Io” provai a dire, ma le parole non riuscivano a trovare un ordine e nella mia testa era in corso una riunione per rimettere in ordine i pensieri in fuga da ogni parte. Cosi ci riprovai e ci riprovai ancora fino a quando non riuscì a chiedere: “Com’è possibile?”.

Era una domanda cosi vaga che mi sorpresi quando lo sentì dire: “Ti ho ascoltato” e il mio cuore si fermò, rifiutandosi di battere. Quelle semplici parole avevano fatto bloccare ogni cosa dentro di me e nello stesso istante mosso tutto. Lui mi aveva ascoltato. Lui aveva sentito la mia voce nell’aria e aveva ascoltato attraverso di essa me stesso. Com’era possibile?

Non ebbi la possibilità di capire o chiedere altro, perché mio padre entrò nella stanza e sembrava sorpreso di trovare entrambi lì. Solo in quel istante, quando mio padre attirò l’attenzione del mio angelo diventato principe, realizzai che era seduto sulla poltrona. Si era mosso durante il mio discorso e si era seduto sul bracciolo imbottito della poltrona. E forse era stato un gesto cosi naturale che non era riuscito a impedirlo o notarlo, proprio come me, e sembrò sorprendere anche lui quando si alzò.

Ero riuscito a farlo restare. Non ero riuscito a farlo parlare molto e a bloccare il suono della sua voce nella mia memoria, ma ero riuscito a farlo sedere e a convincere - in piccola parte - il suo corpo, la sua mente e forse anche il suo cuore che era la cosa più giusta da fare. Fidarsi.
-

Dopo è uscito dalla stanza seguito a ruota da mio padre e io sono rimasto imbambolato a fissare la poltrona che avevo di fronte. Non riuscivo proprio a crederci. Lui si era seduto ed io ero cosi preso da quello che stavo dicendo o da quel poco che aveva detto, da non averlo neanche notato. Ed era tutto cosi assurdo.

Ora riesci a capire tutto il mio discorso iniziale? No? Forse sono un pessimo racconta storie. Ma come morale della favola - perché ogni favola ha la propria - dire: Quando un bellissimo angelo che si trasforma in principe, ti sorprende a leggere e ti chiede cosa tu stia leggendo, tu inizia a parlare di cattivi ed eroi ma sta ben attento a non perderti nessun suo movimento, potrebbe sorprenderti. E se quel angelo ha gli occhi azzurri, la pelle chiara e un sorriso che sa di estate, bhe, non lasciarlo mai andare via. Anzi, chiedigli di restare per sempre.

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Capitolo 4
*** Un portafortuna...e le cipolle!! ***


Avvertenze: Questa capitolo è nato per un mio momento di tristezza. Tutto è iniziato da: “Non posso mettermi a scrivere e come giustificazione alle lacrime dire: Sto scrivendo di una che taglia le cipolle ed è talmente reale che piango” e la mia cara Lidia ha iniziato a dirmi che poteva funzionare e tra vari momenti di sclero è nato questo capitolo, quindi...Buona lettura.



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Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.
 
Alla mia Jacobba, che mi rende forte.
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Ho pensato per alcuni giorni a come iniziare questa lettera, ma ogni idea veniva accartocciata e buttata nel cestino sotto la mia scrivania. Ho anche pensato di iniziare con il raccontare una barzelletta o una mini storia horror, ma mi rendo conto che non sono molto bravo in queste cose.

Cosi mentre pensavo a quale sarebbe stato l’inizio migliore, considerato i precedenti, ho iniziato a camminare per la casa - scalzo e con solo una canotta su dei boxer - e mi sono ritrovato in cucina a fissare un gruppo di cipolle sulla credenza accanto al frigo.

Non chiedermi cosa mi abbia spinto, alle 03:00 della notte, ad affettare cipolle. Vorrei poter dire: -Sai, durante le notti di pioggia mi piace andare in cucina e mettermi a tagliare cipolle. È divertente prendere un coltello e iniziare a fare delle fette regolari e sentire gli occhi bruciare e il naso prudere. Ops! Ecco le lacrime. Almeno ho una scusa plausibile per piangere, in caso venissi trovato dai miei, in cucina, nel cuore della notte- ma non so quanto questo mi possa aiutare.

Per mia fortuna, nessuno è sceso quella notte in cucina e nessuno mi ha visto singhiozzare mentre affettavo una cipolla dopo l’altra. La parte difficile è stato giustificare la montagna di fettine - tutte dello stesso spessore - a miei, ma me la sono cavata dicendo che forse era sonnambulo.

Mio padre ha iniziato a dirmi che era ora di una bella chiacchierata “padre - figlio”, mentre mia madre sbuffava lamentandosi e ripentendo che avrebbe dovuto comprare di nuovo tutte le cipolle e che quelle erano da buttare via, se non fossero state cucinate subito.

Ma nonostante tutto, credevo di essermela cavata..come ho detto: credevo di essermela cavata.

Oh, sai cosa? Senza neanche rendermene conto ho iniziato questa lettera. Ora che l’imbarazzato è andato - ho appena iniziato, considerato come ho iniziato questa lettera e a come mi sono reso ridicolo - possiamo andare avanti. Ci sono delle novità di cui volevo parlarti.

Rido perché tutto è successo per via delle cipolle. Inizio a credere che tu sia il mio porta fortuna. Se non fosse per l’idea di come iniziare questa lettera, non mi sarei trovato a tagliare cipolle e mia madre non se la sarebbe presa tanto da farmele cucinare tutte per punizione.

Non voglio dilungarmi come mio solito o lamentarmi dicendo che cucinare - soprattutto cucinare piatti a base di cipolla - non sia il mio forte ma che, anzi, da oggi sia diventato il mio incubo peggiore ma considerando che mi ha portato dal mio angelo, direi che posso accettare la cosa e metterci una pietra sopra.
-

Tutto è iniziato intorno alle 16.30, quando mia madre è tornata a casa con la spesa e una busta piena di cipolle e mi ha trovato in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Per alcuni istanti ho anche creduto che avrebbe aperto la bocca e che mi avrebbe incenerito, ma è stato molto peggio.

“Figliolo” ha detto e sentivo già la fronte sudata e la salivazione a zero “Non so cosa ti stia prendendo o cosa ti abbiano fatto di male quelle cipolle, ma credo che questo meriti una punizione. Ne ho parlato con tuo padre questa mattina e ne abbiamo scelta una appropriata”.

In quell’instante ho desiderato avere il potere di poter essere invisibile o di poter passare attraverso le pareti. Ha preso un lungo respiro ed ero certo che era la fine per me e ne ho avuto la certezza quando ha detto: “Dovrai cucinarle tutte”.

COME? CHE COSA? CHI? Che cosa voleva significare quello? Cucinarle TUTTE? Eh?

“Mamma, mi conosci da tutta la mia vita, ti sembro uno che sa come si cucinano delle cipolle, anzi, come si cucina? So a malapena prepararmi la colazione al mattina, cosa ti fa credere che io possa farlo? Voglio dire, non voglio mettere in discussione il volere tuo o quello di papà, ma sul serio, puntare a mandarmi a fare il militare per una estate, no?”.

Come potrai immaginare, mi ha fulminato con lo sguardo, indicato le cipolle ed è uscita dalla stanza. Una parte di me aveva voglia di scoppiare a ridere, considerato che aveva lasciato tutta la spesa sul tavolo, tranne la busta piena di cipolle, che aveva stretto a petto, portandosele via con sé, ma l’idea di passare il pomeriggio a cucinare cipolle, mi aveva fatto passato anche solo la voglia di sorridere.

Alla fine e dopo non so più quanti sbuffi e lamentele sotto voce, mi sono alzato le maniche e mi sono messo ai fornelli. Su una mensola, non lontana dalla cucina, ho recuperato qualche libro di cucina e ho iniziato con l’accendere il fuoco.

Con mia enorme sorpresa, nel libro di cucina più grande, c’era una sezione dedicata alle cipolle e la zuppa di cipolle sembrava una cosa facile da fare, anche perche l’idea di cucinare una pizza al gorgonzola e cipolle, mi faceva venir voglia di scappare a piedi sul monte più vicino.

Per quanto avessi passato quasi due ore ad affettare le cipolle, l’idea di toccarle ancora e di doverle cucinare mi dava i brividi, ma ancora di più lo sguardo di mia madre, cosi mi sono avvicinato alla radio e l’ho accesa su una stazione casuale e mentre partiva a un volume decente 4 minutes, mi sono infilato un paio di guanti da cucina e ho preso una manciata di cipolle e le ho fatte dorare con del burro in un tegame.

"Come on boy I've been waiting for somebody to pick up my stroll" intonando le prime note della canzone, ho aggiunto la farina e mentre lasciavo rosolare, almeno cosi recitava la recita, iniziai a ballare intorno al bancone della cucina, usando la frusta come microfono, tra una mescolata e l’altra "Now don't waste time, give me desire, tell me how you wanna roll".

“Are you ready to go?” la voce di Justin Timberlake arrivò decisa dalle casse della radio e a mia volta ripetei “Are you ready to go?” mentre preparavo il brodo che sarebbe stato aggiunto alle cipolle unite alla farina, fino a ottenerne una densità come quella della besciamella.

“If you want it. You've already got it. If you thought it. It better be what you want. If you feel it. It must be real just. Say the word and I'm gonna give you what you want” mentre mi lasciavo prendere dalla musica, cantando e ballando per la cucina, tostavo delle fette di pane.

Preso com’ero non mi accorsi dei passi frettolosi e dello sguardo sconvolto di mia madre. Del resto non potevo darle torto. Entrare in cucina e trovare il proprio figlio ballare per tutta la cucina, con una scopa stretta al petto come partner improvvisata, mentre si assicura che niente prendesse fuoco, non doveva essere stato un bello spettacolo.

Tutto sommato, per quel giorno doveva averne avuto abbastanza di me, perché uscì sbuffando mentre mi diceva di tenere il volume della radio più basso possibile “Tra qualche attimo arriverà un paziente di tuo padre” aveva detto, aggiungendo di preparare una frittata di cipolle, cosi sarei riuscito a sbarazzarmi di tutte le cipolle rimaste in una volta sola.

Cosi riportai la scopa - partner di ballo - al suo posto e ripresi posto ai fornelli, cercando la ricetta di cui mi aveva appena parlato. La procedura non era complicata, cosi iniziai a mettere a stufare tutte le cipolle rimaste, con olio extravergine d’oliva, mentre cercavo delle uova nel frigo.

La stanza iniziò a riempirsi di una melodia dolce e romantica. Le prime note di Happily risuonarono, mentre cercavo di non far cadere niente dal frigo, per prendere le uova. Ancora una volta qualcuno entrò in cucina, ma questa volta non fu la voce di mia madre a parlare.

“Adoro questa canzone” disse. Non potevo vederlo, nascosto dal anta del frigo, ma dimenticare la sua voce non era impresa possibile. Cosi indietreggiai di qualche passo, per poterlo guardare e mi scontrai con i suoi occhi celeste, più celesti quel giorno.

“You don't understand, you don't understand” canticchiò, mentre si avvicinava al tavolo da lavoro, per guardare cosa stavo stufando e dando una mescolata veloce “What you do to me when you hold his hand. We were meant to be but a twist of fate. Made it so we had to walk away” continuò, voltandosi per potermi guardare e sorridere.

“Ti sei dato alla cucina? Non ti facevo un tipo che adora cucinare, forse uno che adora mangiare, ma cucinare di certo no” sorrise ancora, scuotendo il capo raggiante come sempre, o forse di più “E poi, perché questa passione per le cipolle?” disse indicando il libro di ricette aperto sul bancone.

“Oh!” mi sentivo cosi stupido in sua presenza. Mi era già capitato di parlare con lui, ma il modo in cui mi fissava e con quei occhi a scrutarmi, mi creavano non pochi problemi. Per non parlare delle sue labbra e del suo viso cosi dolce.

Mi riscossi in fretta da quel mio stato di trans e cercai di rispondere almeno qualcosa di più concreto “Bhe, diciamo che ho avuto un piccolo problemino con le cipolle e ora mi tocca cucinarle tutte. Non sono un amante della cucina, ma devo dire che non sono male. Anche se cucinare le cipolle non è il massimo”.

“Incidente con le cipolle? Di che genere e perché ti tocca cucinarle?” chiese curioso e quello bastò a far battere il mio cuore. Avrei voluto tagliare cipolle o fare cose stupide tutta la vita, se questo avrebbe significato sentirlo parlare, anche solo per chiedermi perché lo avessi fatto.

“Non riuscivo a dormire e non riuscivo a venir a capo di un dilemma, cosi mi sono ritrovato a tagliare cipolle nel cuore della notte. Mia madre, come punizione, me le ha fatte cucinare tutte e dato che non sono un grande chef, sono ricorso a un libro di cucina e a ricette facili” risposi, sorridendo impacciato.

“Ho conosciuto tua madre, Claire, lei è molto simpatica e gentile con me. Mh! Posso sapere cosa ci fai nel frigo?” chiese ancora e solo in quel istante realizzai che ero ancora in cerca delle uova, con un braccio sollevato e appoggiato all'anta aperta, come uno schiocco, che si è distratto a guardare un angelo, invece di continuare a cucinare le cipolle.

“Veramente, io, bhe. Stavo cercando delle uova per la ricetta, mia madre vuole una frittata di cipolle e allora mi servono delle uova. Sai, nelle frittate ci sono le uova e cosi anche nelle frittate con le cipolle ce ne vogliono.” Ma che diavolo stavo blaterando? Perché non stavo zitto?

“Ti serve una mano a prendere le uova? Vedo che sono nella parte più alta del frigo” indicò un punto dietro la mia testa e mi sarei dovuto sentire tremendamente offeso, per quel riferimento alla mia altezza, ma saperlo cosi vicino a me..cosi annuì senza aggiungere altro.

Sorrise ancora, prima di avvicinarsi e sporgersi verso le uova. Il mio corpo pietrificato, troppo vicino al suo. Lui che non mi guardava o si preoccupava per la vicinanza, troppo preso a controllare dopo le sue mani stavano andando. Si scostò qualche secondo dopo, con in volto un sorriso vittorioso, indicandomi le uova che aveva tra le mani.

Dalla radio, una voce calda, iniziò a cantare con più intensità: “'Cause we're on fire. We are on fire. We're on fire now. Yeah, we're on fire. We are on fire. We're on fire now” e io sentivo le mie guance imporporarsi sempre più di rosso. Quando si allontanò per tornare vicino ai fornelli e dare un sguardo alla ricetta, non so se mi sentì più sollevato o deluso, perché infondo era una bella sensazione, averlo cosi vicino a me.

Mentre lui iniziava a sbattere le uova con sale, pepe e non so più quale altra spezia, io mi limitai a guardarlo in un angolo del bancone. Era uno spettacolo, vederlo cucinare cosi spensierato. Avevo voglia di avvicinarmi, ma le gambe non ne volevano sapere di muoversi.

Cosi iniziai a canticchiare a bassa voce: “I don't care what people say when we're together. You know I wanna be the one to hold you when you sleep” mentre lui mi seguiva con la testa e si unì a me intonando: “I just want it to be you and I forever. I know you wanna leave. So come on baby be with me. So happily”.

Mentre cantavamo, mi guardò e mi sorrise. Iniziavo ad amare quel suo modo di sorridermi e mi chiesi se quel sorriso fosse riservato solo a me o era il suo tipico sorriso gentile. Quel pensiero ne rigenero molti altri, ma li scacciai via con un gesto della mano, come si scaccia via una mosca e tornai vicino ai fornelli, per guardarlo meglio.
Stava portando a termine la ricetta, senza distrazione e in serenità. Sembrava a suo agio tra i fornelli e sembra quasi un esperto, come se lo facesse spesso, cosi chiesi: “E a te, piace cucinare? Sembra che tu lo faccia spesso, sei molto più in gamba di me, anche se non ci vuole molto” ridacchiai.

“Sì, adoro cucinare. Cucino spesso per mio padre e mi rilassa farlo. Gli odori e i sapori, anche il semplice suono dell’acqua che bolle mi rilassa molto” disse con semplicità, mentre impiattava la frittata pronta e si voltò sorridendomi.

Sarei potuto restare ore a fissare quel sorriso, a continuare ad ascoltare la sua voce o a vederlo cucina, ma mio padre fece il suo ingresso dalla porta della cucina, ricordandomi che era di tornare sulla terra ferma. “Oh Kurt, eccoti qui. Ti ho cercato quasi in ogni stanza della casa. Vedo che hai dato una mano a mio figlio a cucinare” sorrise a entrambi, prima di riprendere a parlare “Che ne dici se iniziamo la nostra seduta?” e cosi dicendo uscì dalla stanza, portandosi dietro il mio angelo, non prima di ricevere un altro sorriso dolce.
-

E questo è tutto. Che cosa ne dici? Già, alle volte dimentico che sono lettere che non vedranno mai la luce e che quindi non saranno mai lette da nessuno. Mi ci perdo cosi tanto, che alle volte posso immaginare la tua espressione mentre leggi le mie avventure. Avventure poi.

Ti immagino alto e con i capelli castani, magari dagli occhi chiari. Con un sorriso dolce sul volto e lo sguardo gentile. Okay lo ammetto, alle volte mi sembra di scrivere al mio angelo queste lettere, ma che male c’è? Voglio dire, non c’è un indirizzo su questo foglio e passo cosi tanto tempo a parlare di lui, che alle volte mi sembra di parlare a lui.

Dimentico che tu non sei lui e che, forse, non saprò mai chi sei tu.

Il mio portafortuna. Tu sei il mio portafortuna, ecco cosa sei. Anche se non avrò mai il coraggio di consegnarti queste lettere, queste lettere che sono scritte a te che sei chissà dove, tu resti il mio portafortuna.

Quindi, mio portafortuna, sarà meglio che torni a casa ora. Il sole sta tramontando e per quanto adori questo stabile, non posso permettere ai miei di perdere il controllo e chiamare ancora la polizia. Magari di questa storia te ne parlo la prossima volta. Ciao mio portafortuna.

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Capitolo 5
*** “Bel lavoro Blaine” ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.
Alla mia Jacobba, alla quale non rinuncerò mai e per cui non rinuncerò mai.
 
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Ci sono momenti nella vita in cui comprendi che tutto quello che i tuoi occhi vedono è visto anche da occhi estranei. Ci sono quei momenti in cui capisci che non stai sognando e che quella che stai vivendo è la pura realtà. E sono gli altri a fartelo notare.

Come quando ti ritrovi a guardare o mostrare vecchie foto ad amici o parenti e non hai bisogno di spiegarle. O meglio, lo stai per fare ma puntualmente arriva qualcuno con il suo: “Ricordo perfettamente quella scena” e inizia a raccontare qualcosa che credevi di aver vissuto solo tu.

La vita è il nostro spettacolo e ci dimentichiamo di comparse e spettatori. E poi arriva quell’istante in cui qualcuno ti fa notare cose che forse neanche tu avevi notato. A dirti che non era solo nella tua testa ma è stato reale e condiviso da altri occhi.

Sarò onesto, quando mi trovo a scrivere una nuova lettera e cercare il modo migliore per introdurre l’argomento mi sorprendo dei paragoni che la mia mente può creare. Quando scrivo una lettera, mi sembra di leggerla da lettore e mi affascina scoprire dove porterà.

Come dico sempre: ogni inizio ha il suo perché e presto capirai perché questa lettera è iniziata in questo modo. Sento di averti raccontato molto, ma quando rileggo queste lettere nascoste nel secondo cassetto della mia scrivania, mi sembra di non averti detto niente.

Ti ho mostrato qualcosa, qualcosa visibile solo ai miei occhi. Tu ne percepisci i contorni ma non ne vedi la forma. Come facevo io, fino a qualche ora fa. Di solito faccio passare qualche giorno prima di raccontarti qualcosa, ma questa volta è diverso.

Mi sento stordito e non so quanto senso avrà quello che scriverò, ma sento di doverlo fare adesso. Ora che il ricordo è ancora fresco nella mia memoria. Mi piace la sensazione della penna libera di divertirsi su un pezzo di carta. Adoro l’odore dolce dell’inchiostro. E adoro raccontarti qualcosa, con la speranza che un giorno tu possa leggerlo.

Ci si può affezionare a qualcuno di cui si percepisce solo il contorno?

Non lo so, ma credo che mi stia capitando. Da quando ho iniziato a scrivere queste lettere, mi sono successe un sacco di cose. Cose che mi hanno sorpreso e affascinato e lasciato senza parole. Credo che tu abbia ragione: Mi sto innamorando.

L’ho visto sai? Suppongo che tu l’abbia già immaginato. Nella mia testa stai cercando di capire come l’inizio di questa lettera, abbia influito con il mio incontro con il mio angelo. Finisco sempre per parlare troppo e perdo il filo del discorso. Come ho detto è successo qualche ora fa…
-

Non mi andava di starmene chiuso in libreria o davanti alla finestra, cosi sono uscito. Non mi sono allontanato molto. Ho cercando in tutti i modi di far muovere il mio cane, ma lui preferisce il tappeto caldo che si trova in salotto, quindi ho iniziato a passeggiare intorno alla casa.

Non mi aspettavo di essere interrotto, ma quando mio padre mi ha chiesto di andare nel suo studio per cercare il suo cappello, non mi è dispiaciuto. Infondo mi stavo anche un po’ annoiando e mi piaceva entrare nello studio di mio padre.

Quando ero bambino ci entravo spesso, senza il suo permetto. Mi sedevo sulla poltrona dietro la sua scrivania e incrociavo le braccia sul tavolo. La sedia era molto più grande di me e non riuscivo a toccare il suolo con i piedi e la scrivania mi faceva sembrare un hobbit.

Non so perché lo facevo, soprattutto perché, quando mio fratello più grande lo scopriva, iniziava a urlare e finivo per essere sgridato da mio padre. Ma sapere di essere in un luogo che faceva sentire a proprio agio le persone, mi piaceva.

Blaine sei occupato? Sono di fretta e non ho tempo di tornare in casa e sai che quando sono di fretta non riesco a trovare niente. Ho perso il mio cappello, credevo di averlo lasciato in salotto ma mi sbagliavo. Dovrebbe essere nello studio, ti dispiace controllare?” ha chiesto ed io ho solo annuito.

Non so perché non ho notato subito il sorriso dolce che aveva o quella luce negli occhi, semplicemente non ci ho dato molta importanza. Richard Charles Anderson era un uomo gentile e dai sorrisi facili. Ho sempre pensato facesse parte del suo lavoro essere..gentile.

Cosi sono entrato in casa e mi sono diretto verso lo studio. Una volta vicino alla porta un singhiozzo ha catturato la mia attenzione, congelandomi sul posto. Mia madre non era in casa e mio padre aspettava fuori. Che fosse un paziente di mio padre? Perché mai un paziente di mio padre doveva trovarsi lì?

Okay, so che è dove s’incontrano e parlano, era solo strano che fosse da solo, con mio padre fuori dalla casa. E perché mai mio padre mi avrebbe mandato a prendere qualcosa nel suo studio, sapendo della presenza di questa persona?

Ho smesso di interrogarmi facendo un passo in direzione della porta socchiusa. Ho mosso un nuovo passo, non sono entrato o meglio, ho sporto la testa per assicurarmi che non fosse un ladro. Cosa alquanto assurda dato che stava piangendo e non sembravano lacrime di felicità per aver trovato qualcosa di raro o prezioso.

Quando riuscì a mettere a fuoco il ragazzo che mi dava le spalle, quasi senti le gambe cedere sotto il mio peso. Era curvo e teneva la testa tra le mani, seduto a mala pena su una delle sedie nella stanza. Era di spalle alla porta, quindi non poteva vedermi e piangeva. Piangeva tanto.

Non sapevo cosa fare. Una parte di me voleva correre da lui e stringerlo forte tra le mie braccia, dirgli che andava tutto bene e che non doveva avere paura ma sapevo che un gesto cosi spontaneo e istintivo avrebbe potuto spaventarlo.

La mia seconda ipotesi fu di allontanarmi il più lentamente possibile, senza fare rumore e lasciare che si calmasse e andare a chiamare mio padre per chiederli cosa fare. Ma ogni piano o ipotesi creata o pensata andò in frantumi quando Buster - il mio cane - entrò nella stanza facendo spalancare completamente la porta e facendo scattare in piedi il ragazzo.

“M-mi dispiace, n-non volevo spaventarti. Giuro che v-vado subito via, non so perché mio padre mi abbia mandato a prendere il suo cappello sapendo che tu eri qui. Ora ti l-lascio da solo, s-scusa ancora” iniziai a straparlare, nervoso “Andiamo Buster, vieni via con me”.

“Non devi chiedere scusa, questa è casa tua in fondo” disse abbassandosi e accarezzando il capo di Buster, che si stese sul pavimento a pancia su per ricevere le coccole. Lo invidiai e non mi vergognavo ad ammetterlo. Ancora una volta non sapevo come comportarmi.

Rimassi a fissare la scena, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e il capo chinato di lato. Era bellissimo. Aveva gli occhi rossi per le lacrime e il volto ancora bagnato, eppure era bellissimo ai miei occhi. Quella voglia di correre da lui e farlo sentire al sicuro tra le mie braccia, ancora forte in me.

“Mi piacciono i cani, ma a mio padre non tanto. Ho cercato per molto tempo a convincerlo, ma non ci sono mai riuscito. Buster sembra molto socievole e vedo che adora molto le coccole. Non è cosi, Buster?” e rise. Oh il suono della sua risata. Come una ninna nanna contro la tristezza.

“Buster è di mio fratello” mi affrettai a dire, ancora incerto “L’ha trovato a vagare e aveva una rampa rotta, credo che sia per questo che mio padre gliel’abbia fatto tenere. Ma alla fine ci siamo tutti affezionati a lui e quando mio fratello è partito, ha deciso di lasciarmelo ma è un vero pigrone” risi sentendomi meno nervoso.

Lui annui e non aggiunse altro. Avevo voglia di ascoltare ancora la sua voce, avevo voglia di sapere la motivazione delle sue lacrime. Avevo voglia di dirli che vederlo cosi appezzi, faceva crollare anche me ma tutto quello che feci fu chiedere: “Mi posso avvicinare?” avendo paura di vederlo correre via.

Quando sollevò il capo, fui rapito dai suoi occhi cosi azzurri. Erano un mare in tempo di tempesta. Tirò su col naso e mi sorrise e avrei voluto chiederli di farlo per sempre. Per me. Su gambe tremanti, mi avvicini e m’inginocchiai non molto lontano da lui.

Mi sentì morire quando non spostò lo sguardo e continuò a guardarmi. Sembrava cercare qualcosa nei miei occhi, forse il coraggio di parlare. Cosi fui i rompere il silenzio e a chiedere: “Non mi piace vederti piangere, potresti non farlo più?”.

Il suo sguardo si addolcì e poi scoppiò a ridere. Ho già detto che il suono della sua risata è la cosa più angelica che le mie orecchie abbiamo mai ascoltato? Sentirlo ridere in quel modo, in parte, era stata la mia vittoria personale. Mi piaceva la sensazione di farlo ridere in quel modo.

Dentro di me volevo chiederli cosa lo avesse fatto ridere della mia affermazione, poiché era molto serio, ma questo avrebbe dovuto farlo smettere e non volevo. Volevo sentirlo ridere ancora. Memorizzare ogni tonalità della sua voce e custodirla per i momenti più burrascosi.

Tornò lentamente serio, non perdendo quel suo sorriso dolce e sedendosi sul pavimento freddo a gambe incrociate. Sembrava cosi vulnerabile, cosi piccolo, cosi bisognoso di essere salvato. Potevo salvare il mio angelo? Potevo provarci, anche se questo avrebbe potuto farlo cadere anche più rapidamente. Cadere verso cosa? Sarei stato in grado di accoglierlo tra le mie braccia? Una cosa era certa nella mia testa: dovevo provare.

“Sembra che tu piaccia molto a Buster” sorrisi impacciato, dovevo fare qualcosa ma cosa? Ogni parola sembrava non avere più molto senso, sotto lo sguardo di quegli occhi cosi tristi e cosi soli. Potevo chiederli come stava? Ne avevo il permesso? Mi era consentito?

“Mi dispiace” disse con la voce più bassa e profonda. Sono sicuro che il mio sguardo gli abbia chiesto a cosa erano dovute quelle sue parole perché continuò dicendo: “Non avrei dovuto piangere. E’ stata una cosa molto stupida a dirla tutta. Mi sono comportato in modo stupido, anche il Dottor Anderson è andato via da me, quando ho iniziato a piangere. Finisco per spaventare tutti e..mi dispiace” disse infine, abbassando lo sguardo e fissando le sue mani che si stringevano forte tra di loro. Troppo forte.

“Io-Io non credo che mio pad-“. Calmo, devi restare calmo. Uno strano fastidio iniziò a pizzicare le mie mani e senza pensarci ancora su, avvolsi le sue nelle mie. Le sue mani erano calde e morbide e tremavano leggermente. Lui non alzò lo sguardo, ma tutta via io ripresi a parlare, non lasciando le sue mani.

“Non conosco la motivazione delle tue lacrime e non voglio obbligarti a raccontarmi niente, solo non riesco ad accettare questa tua visione di te. Sì, hai ragione, io non ti conosco ma vedo quello che i tuoi occhi mi stanno urlano e non ho paura. Non credo che il Dottor Anderson sia scappato da te” stava solo cercando di mostrarmi quello che non hanno solo visto i miei occhi, ma questo lo tenni solo per me. Ora era tutto chiaro ai miei occhi.

“Che cosa ti stanno urlando?” e quando i suoi occhi, cosi azzurri, tornarono a infrangersi nei miei, verdi dai toni rame e caramello, dimenticai ogni casa, anche me stesso. Faticai non poco a capire a cosa si riferiva, ma fu tutto più chiaro quando specifico: “I miei occhi. Hai detto che vedi cosa ti stanno urlando. Cosa ti stanno urlando?” e mi sembrò ancora più fragile e piccolo.

“Non hai paura, anche se senti di averne tanta. Sento che qualcosa ti tormenta, qualcosa che non hai il coraggio di raccontare neanche a te stesso. Qualcosa blocca le tue notti e le tue lacrime non hanno un freno. Vedo che stanno urlando e cercando aiuto, anche se è forse questa la tua paura. Paura che nessuno lo possa vedere e che nessuno ti sappia aiutare” dissi scandendo ogni lettera, trovando sfumature nuove nei suoi occhi. Qualcosa cui non avevo prestato attenzione o che non mi aveva dato modo di vedere.

Non rispose, non mi disse che mi sbagliavo o che avevo centrato il punto. I suoi occhi erano una pozza d’acqua, pronta a bagnare ogni superficie. Mi ero rallegrato per averlo fatto ridere e ora..lo stavo per far piangere? Quello che avevo detto gli aveva fatto male? No.

“Oddio, ti prego, no. Non piangere, ti prego, non piangere” e ora sembrava il mio un urlo d’aiuto e lui sembrò ascoltarlo, perché si lanciò tra le mie braccia e nascose il suo viso nell’incavo del mio collo. Lacrime iniziarono a cadere calde e le sue mani a stringere la mia maglietta. Tremava e singhiozzava ed io ero congelato sul posto. Le mie braccia ancora aperte, la mia bocca spalancata per lo stupore e ancora quell’urlo a riempire il silenzio. Ma tutto torno a tacere quando lo avvolsi tra le mie braccia e le sue lacrime a placcarsi.

L’abbraccio non si sciolse e mi resi conto di star sussurrando parole alla rinfusa e frasi d’incoraggiamento. Perché il mio cuore non riusciva a vederlo cosi spezzato, perché era forte. Tutto di me sentiva che era un combattente e avrei fatto di tutto per non vederlo spezzato ancora. Lui mi stava salvando.

“Andrà tutto bene, okay? Non piangere più adesso, non farlo più. Il tuo sorriso ha il poter di illuminare e oscurare anche il sole, ma quando piangi ogni cosa perde valore. E non vogliamo questo, vero? Sei nato per illuminare ogni cosa, per questo devi continuare a sorridere. Andrà tutto bene” e i secondi passarono mentre, le stesse frasi galleggiavano nell’aria.

“M-mi dispiace” piagnucolo e lo strinsi più stretto a me. Non potevo permetterlo, non volevo ascoltare quelle scuse. Volevo solo il suo sorriso e i suoi occhi a navigare con i miei. Non volevo ascoltare quella voce che andava in frantumi, come tutto di se.

“Non devi chiedere scusa, non devi dispiacerti per niente. Va tutto bene, okay? Dimmi che va tutto bene. Dimmi che stai bene. Per favore” e questa volta fu il suo turno di tenermi più stretto a se o a stringere con più forza la mia maglietta. Eravamo cosi vicini che sentivo il suo cuore battere una melodia cui solo al mio cuore era consentito l’ascolto.

Non ebbi risposte o certezze, ma ogni singhiozzo cessò e le sue lacrime smisero di bagnare il suo viso e il mio collo. Ma qualcosa m’impediva ancora di respirare correttamente. Il suo corpo ancora premuto contro il mio e lo sentivo. Sentivo che stava ancora precipitando ed ero solo un aggrappo verso il vuoto. Sarei stato abbastanza? Abbastanza forte, da arrestare la sua corsa e a farlo emergere? Solo domande e nessuna risposta. Solo confusione e un corpo che chiedeva di essere salvato.

Una voce impercettibile aveva iniziato a parlare. Una voce impercettibile aveva iniziato a raccontare. Quella voce impercettibile stava urlando contro il mio collo e ogni domanda nella mia testa smise di avere importanza, perché quella voce mi stava parlando ed io dovevo stare ad ascoltare.

“Ho tanti incubi. Tanti incubi offuscano la mia mente e dormire è diventata una battaglia contro me stesso. Ci provo, ma perdo sempre. Non sono forte e ho paura. Paura che le voci nella mia testa abbiano ragione. Paura che nessuno riuscirà mai ad aiutarmi. Paura che tutto questo sia parte del mio incubo e che io non abbia nessuna possibilità di aprire gli occhi” la sua voce tremava ma allo stesso era molto fredda, come se cercasse di raccontare, ma non volesse ascoltarsi. Ed era tutto sbagliato.

“Mio papà mi ha mandato in terapia, ma non sta aiutando. Ogni dottore che mi ha avuto in cura mi dice che il problema solo io. Sono io che non voglio essere aiutato, che non mi apro abbastanza, che non voglio essere ascoltato. Il problema sono io che dopo, dieci anni, non riesco a lasciare la mia mente libera di dimenticare. Il problema sono io e sono sempre stato io e allora cado. Cado ed è una caduta che inizia a fare male.

“Ogni muscolo sembra bruciare ed è troppo stanco anche solo per un semplice respiro, che ironia della sorte, mi tiene in vita ma non mi sento vivo. E’ una caduta senza fondo e tutto questo perché non ci riesco. Ci provo ma non ci riesco. Perché parlare di qualcosa, quando non può fare niente per cambiare la mia realtà? La gente non sa ascoltare e non ho voglia di perdere tempo e ancora più energie. Mi manca, questo si aspetta di sentire la gente da me? Mi manca, okay? L’ho detto, felici tutti? Ma io continuo a cadere.

“Le parole non possono cambiare la realtà. Le parole non hanno il potere di arrestare la caduta. Le parole non mi faranno stare meglio e allora perché la gente vuole che io lo faccia? Che io parli di qualcosa di cui voglio solo dimenticare ogni cosa? Sono cosi stanco adesso. Stanco” e quella voce spezzata e stanca, smise di piangere e una singola lacrima bagno il suo viso per fermarsi sul bordo nella mia maglietta.

“Le parole non cambieranno niente, ma sarai in grado di realizzare ogni cosa. Non sono gli altri a voler ascoltare quello che hai da dire, ma le tue stesse orecchie. Il tuo cuore ha bisogno di saperlo da una fonte sicura e siamo gli unici su cui possiamo contare. Raccontati la tua storia” e sapevo che stava per obbiettare o peggio ancora: tornare a piangere, quindi conclusi dicendo: “Non ti lascerò andare. Non vado da nessuna parte. Non scapperò via, perché io lo vedo”.

Esitò e lo sentivo. Sentivo tutto il suo corpo esile irrigidirsi tra le mie braccia, riluttante. Come il suo respiro e il suo cuore stavano combattendo per non arrendersi e continuare quella lunga caduta verso la superficie. E sapevo. Dentro di me sapevo che avrebbe visto i primi raggi del sole dopo anni, perché li stavo intravedendo con i suoi occhi e ogni fibra di me, ne stava percependo il calore.

“Io - io non lo so. Mi sembra ancora tutto cosi in reale, ma non è cosi che ci si sente quando si perdere una persona cara? Una persona cui hai regalato il tuo cuore e lei il suo sorriso? Il suo sorriso che è la sola arma contro un mondo che fa tremare la terra sotto i tuoi piedi. Sono terrorizzato. Terrorizzato dal realizzare il tutto e capire che non è un incubo, che non ho gli occhi chiusi” fece una breve pausa, dove respirò per la prima volta e poi riprese a parlare.

“Avevo sei anni ed ero solo in casa, non proprio a dir la verità. La mia mamma era fuori in giardino, come ogni tardo mattino. Si era creata una piccola fioriera, di cui si prendeva cura amabilmente. Il suo sorriso rendeva ogni cosa migliore. Il suo sguardo sapeva farti sentire a casa. Niente era sbagliato quando ti stringeva la mano e la sentivi al tuo fianco. Tutto era giusto. Niente è più giusto ora.

“Avevo sei anni e mio papà era a lavoro e sarebbe rientrato tardi, come ogni giorno. Niente di fuori dall’ordinario, una normale giornata in casa Hummel, ma niente è stato normale quel giorno. Un urlo. Un urlo che ha squarciato il mio mondo e ha distrutto il mio corpo. Ho spalancato gli occhi, lasciando cadere la matita che stavo usando per disegnare. Il mio corpo addormentato e paralizzato. Tutto quello che riuscivo a sentire era quell’unico urlo, che continuava a muoversi nell’aria.

Alzati, mi sono urlato, prima di correre fuori di casa, o almeno mi è sembrato di correre. Dentro di me ogni cosa andava in fretta: il battito del mio cuore, i pensieri nella mia testa, ogni singolo organo sugli attenti ma il mio corpo si muoveva cosi lentamente. Ogni passo sembrava più pesante di quello prima e tutto scorreva troppo rapidamente e poi tutto ha smesso di avere un significato ai miei occhi.

“Il suo corpo era accasciato al suolo, non aveva ferite apparenti e aveva gli occhi semi chiusi. Non molto lontano da lei, una rosa tra il rosa e il giallo. I ricordi sono sbiaditi nella mia memoria ma quel dettaglio è ancora fresco nella mia testa. Ho ancora i petali di quella rosa nel mio armadio. Non hanno più lo stesso colore e l’odore è leggermente cambiato ma non riesco a disfarmi di quel ricordo. Ne ho bisogno.

“Forse non ne ho realmente bisogno ma è un dettaglio che ho solo io, perché quando i primi vicini sono accorsi in mio aiuto, quella rosa è scivolata ancora più lontano dal suo corpo e quando anche mio padre è accorso, me la sono ritrovata a pochi passi da me. Il mio corpo ancora stordito e quella rosa a colorare qualcosa che non aveva più colori. Non ai miei occhi almeno.

“Niente ha avuto senso per molto tempo. Anche quando abbiamo cambiato casa, per scacciare via i brutti i ricordi. Non sono riuscito a parlare per molti anni e gli incubi sono stati il mio solo urlo durante la notte, credo che sia per questo che mio padre mi abbia mandato in terapia. Era realmente spaventato dal mio silenzio e da quegli urli che le sue braccia non poteva placcare. Non parlo ancora molto, ho qualche problema a stare tra le persone e mi confido poco. Faccio credere a tutti che sto meglio, sanno che sono solo un pessimo bugiardo, ma se lo fanno bastare.

“Fatico quando sono con la gente, anche quando sono con persone che conosco, ma con te è stato tutto diverso” e quella frase mi sembrò anni luce da lì. Stava parlando, riflettendo ad alta voce, sicuro che nessuno lo stesse ad ascoltare. “Non so come spiegarmelo ma non ho mai raccontato tutto questo a nessuno eppure eccomi qui a parlare. Non ne ho mai parlato neanche con mio papà o con i miei vari dottori, neanche Dottor Anderson ne è ha conoscenza. E’ tutto cosi confuso ora, sono stanco ora” e si lasciò andare ancora di più sul mio petto.

Le sue mani - ancora chiuse nella stoffa della mia maglietta - addolcirono la presa ma non lasciarono il tessuto. Il suo corpo sembrava più leggero e il suo cuore tornò a un ritmo regolare, come il suo respiro. La sua confusione iniziò ad alimentare la mia e so che aveva già detto abbastanza ma tutta via chiesi: “Perché stavi piangendo poco fa? Perché pensi che mio pad- il Dottor Anderson sia scappato via da te?”.

“Incubi. Brutti incubi” disse semplicemente, come se quello potesse placcare il vortice di pensieri nella mia testa ma me lo feci bastare e non aggiunsi altro. Anche se la mia bocca non emise altri suoni, la mente non smise di urlare e cercare di capire. Unendo pezzi, ragionando e riascoltando ogni parola pronunciata.

Aveva detto che gli incubi lo tormentavano, fino a farlo urlare nel cuore della notte. Aveva raccontato che suo padre non riusciva a calmarlo con il suo semplice tocco e che non parlava mai di quello che lo tormentava. Aveva detto che con me era tutto diverso, che aveva raccontato qualcosa che era restato nella sua testa da troppo tempo. Forse aveva raccontato uno di quei incubi a mio padre, che non era scappato via ma era solo venuto a cercare me. Quel sorriso.

Ogni dettaglio ignorato si fece largo tra i miei pensieri. A ogni dettaglio che avevo dato per scontato, iniziava ad assumere muovi significati. Il sorriso di mio padre quando eravamo in cucina e poi ancora quello di poco fa. Quella luce negli occhi, quel vedere quello che i miei occhi credevano essere gli unici spettatori.

Lui sapeva di Kurt, di tutte le difficoltà e vedeva come si comportava quando era in mia compagnia. Come ero io in sua compagnia. Aveva visto in Kurt quel bisogno di parlare, quel parlare a un cuore che era pronto ad ascoltare. Lui sapeva, era l’unica soluzione a tutto.

Come ogni volta, ogni incantesimo venne spezzato, riportandoci entrambi alla realtà. Un bussare leggero riuscì a sembrare fastidioso alle mie orecchie. Era il suono del nostro tempo che stava tornando a trascorrere ed era ora di riprendere a correre come tutti gli altri.

Mio padre, accompagnato da un uomo alto e con un berretto fecero il loro ingresso nella stanza e io voltai di mala voglia lo sguardo. Sul volto di mio padre ancora quel piccolo sorriso, mentre sul volto del uomo che lo affiancava, c’era preoccupazione. Per quanto mi sentissi stordito e intontito da tutte quelle informazioni, immaginai fosse il padre del bellissimo ragazzo, che era ancora tra le mie braccia.

E realizzai, che ero cosi preso nella ricerca di trovare delle risposte, da notare che il mio angelo si era addormentato tra le mie braccia e sembrava cosi sereno. Non stava più crollando o almeno ero stato un ottimo mezzo per arrestare la caduto.

Mi mossi piano prima che l’uomo con il berretto e gli occhi buoni presero il mio angelo tra le braccia e lo sollevarono. Il mio angelo si mosse di poco nel sonno, ma non si svegliò e mi ritrovai a sorridere alla vista di quella scena. L’uomo saluto mio padre, mi rivolte un gesto con il capo e uscì dalla stanza, portando via il mio angelo.

Sentivo la testa che mi girava leggermente e la confusione tornò a tormentarmi. Rimassi a fissare la porta, prima che mio padre mi diede una pacca sulla schiena ed esclamo: “Bel lavoro Blaine” e in quel momento, una tra le moltitudine di domande trovò la sua risposta. Lui sapeva.
-

Ho muove consapevolezze e ricordare ogni cosa nel più piccolo dettaglio, mi ha fatto notare nuove sfaccettature. Ci sono ancora tante domande a cui trovare risposte. Ci sono ancora molti tasselli da trovare, ma mi sono sentito cosi vicino al mio angelo e questo fa ancora battere il mio cuore, al ritmo del suo cuore.

Non ho avuto reale occasione di parlare con mio padre. Non ho avuto modo di chiederli cosa avesse visto negli occhi di Kurt e nei miei. Cosa avesse visto da far unire cosi i nostri destini, ma non credo di poter trovare in lui queste risposte.

Sento il suo profumo ancora su tutto il mio corpo e la mia maglietta è leggermente rovinata nei punti in cui le sue mani stringevano la stoffa. Sento ancora la sensazione del suo corpo premuto contro il mio. Vorrei che tutte queste sensazione non andassero mai vai da me, ma per lo meno questa notte so che dormirò sentendomi tra le sue braccia e questo mi fa sentire giusto.

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Capitolo 6
*** Un Eroe, Un Salvatore, Una Voragine. ***


Piccola nota iniziale: Ho scritto questo capitolo ascoltando “The End Of All Things” dei Panic! At The Disco. La canzone non è legata al capitolo, come il capitolo non è legato alla canzone e solo che ho scritto e corretto questo capitolo, ascoltando unicamente questa canzone e ho la sensazione che le parole si siano fuse con la melodia della canzone, quindi vi consiglio di leggere questo capitolo con questa canzone in sottofondo (anche perché la canzone è bellissima e loro sono fantastici), detto questo vi lascio al nuovo capitolo.





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Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.

Alla mia Jacobba, che mi manca;
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Mi sento confuso.

Ho iniziato a scrivere queste lettere, per scappare da me stesso. Per trovare un posto sicuro - che non fosse solo in uno stabile o in un libro. Ho iniziato a farlo, quando ho ascoltato mio padre consigliarlo a uno dei suoi tanti pazienti. Lui dice che utile raccontare qualcosa a qualcuno che non può giudicare ma può solo leggere. Buttare su un foglio la propria frustrazione, senza preoccuparsi di se o ma.

All’inizio credevo fosse una cosa stupida: scrivere a qualcuno la tua vita o semplicemente un momento della tua vita e poi mettere via il foglio? Sembra molto inutile come cosa, ma poi ho trovato quell’elenco telefonico cosi vecchio e malandato, che mi ha spinto a farlo. A provarci per davvero.

Credo di essere stato spinto anche dal bisogno di sapere che qualcuno nel mondo sapesse, anche se non lo avrebbe saputo ma realmente. Sapere che avrei potuto spedire quelle lettere e sentirmi in salvo, o qualcosa di simile. Non dover star seduto a parlare di me con qualcuno - che magari annuisce solamente ma non ascolta realmente - e stare seduto lo stesso, su una sedia scomoda sì, ma con una penna tra le mani e scrivere della propria vita, come se non mi appartenesse.

Essere il narratore e forse anche il protagonista. Sentire di essere in grado di cambiare qualcosa che non andava giù o aggiustare quello che non sembrava giusto o suonasse strano tra quelle parole. Avere il potere di cambiare le carte in tavola e farlo a modo proprio. E mi sembrava cosi stupido quando ascoltavo mio padre consigliarlo e mi sembrava ancora più stupido, immaginare me stesso farlo, ma adesso che ho iniziato tutto ha un altro sapore.

Rileggendo la prima lettera, non mi sembra neanche di aver parlato di me stesso. Ho scritto di qualcuno che non credeva in niente e che cercava un modo per scappare dai propri problemi, forse con troppa paura per affrontarli realmente. Ho scritto di qualcuno che aspettava qualcosa, ma adesso è diverso. Mi sento diverso e non sto impazzendo, sto solo collegando i pezzi mancati di questi miei ultimi mesi. Scrivere è stato utile a non dimenticare tutto quello appresso e unire ogni tassello, non sembra mai essere stato cosi semplice.

O forse quello che ho capito maggiormente e che sono pessimo nell’iniziare una lettera. Davvero pessimo. Queste parole sono cosi confuse e forse lo è tutta la situazione. Mi sento bloccato in un stanza incolore, mentre attimi mi passano davanti, piano, troppo piano. Per essere visti nel dettaglio ed essere analizzati. Ed è quello che sto facendo in questi due giorni, cercando di non lasciare andare niente per scontato.

Due giorni fa, ho assistito a una conversazione che doveva restare privata. Non mi fraintendere: non è mia abitudine ascoltare conversazioni private o le sedute di mio padre, ma alcune volte mi posizione dietro la grande porta chiusa dello studio e resto lì, ad ascoltare lo scandire del tempo. Un tempo che non mi appartiene e che forse sto rubando, fino a quando un timer non suona e non mi ricorda che devo lasciare il tempo libero di continuare a scorrere. Che è arrivato il momento di seguire il mio di tempo.

Questa volta è stato diverso, ero spinto dalla curiosità di sapere come stava. Sì, sto parlando del mio angelo. Sono più due settimane che non si presenta a casa mia, per le sue sedute con mio padre e sono due settimane che non lo vedo. Quando ho visto suo padre - Burt - entrare nello studio con mio padre per parlare di suo figlio, non ho potuto non trattenermi. Sto ancora cercando di capire se la mia sia stata una mossa intelligente o la più stupida della mia intera esistenza.




Non ricordo come ci sia arrivato dalla mia camera alle rampe delle scale. Tutto quello che ricordo è la voce di mia madre mentre pronunciava il suo nome - chiedendo come stava forse, o semplicemente era interessata nel sapere dove fosse - e non sono riuscito a trattenere le mie gambe, che si sono affrettate a scendere la rampa di scale che mi separava dal piano terra e a nascondermi dentro il salone, dove ho avuto una vista completa dell’ingresso ma restando ben nascosto a tutti. Quando ho visto suo padre, stringere la mano del mio e chiedere lui se potevano parlare in privato, qualcosa ha smesso di fare rumore, tra il mio stomaco e il mio cuore. Un silenzio insopportabile e dolorante. Troppo dolorante.

Non so cosa mi spaventasse maggiormente, ma volevo sapere di lui e non mi importava delle conseguenze. Essere scoperto a origliare, scoprire qualcosa che mi avrebbe ferito, ascoltare qualcosa che doveva restare privato, in quel momento, ogni rischio era accettato. Niente mi avrebbe potuto fermare dal avvicinarmi piano a quell’enorme porta e accovacciarmi, per ascoltare, ogni singolo frammento di tempo.

“Prego, si accomodi e mi racconti tutto. Non le dispiace se le do te tu? Sono giorni che non vedo Kurt, è successo qualcosa? Sei qui per parlami di lui?” la voce rassicurante e calma, troppo calma, di mio padre iniziò a spezzettare il mio tempo. La sua calma in confronto al battito del mio cuore. Come poteva restare cosi calmo? Perché non stava urlando o morendo dal bisogno di sapere?

“La ringrazio” la voce dell’uomo - Burt - era stanca e dolorante, riuscivo a rispecchiarmi nei suoi sentimenti. Sentivo nella sua voce la mia preoccupazione e il mio stomaco iniziò a farmi tremendamente male, ma feci silenzio, come se il battito aumentato del mio cuore potesse essere ascoltato anche da altri, poiché riprese a parlare: “Non so esattamente da dove iniziare, ma credo che un grazie sia necessario”.

“Per che cosa mi stai ringraziando esattamente? Non credo di aver fatto qualcosa che meritasse la tua gratitudine” anche se non potevo vederlo, nascosto fuori dalla stanza, potei immaginare il viso di mio padre illuminarsi e sorridere. Amava realmente tanto aiutare la gente, farle sentire realizzate e speciali e non chiedeva niente in cambio, neanche un piccolo grazie. Per quanto un grazie si possa ritenere piccolo.

“Per tutto quello che ha fatto per mio figlio. Non so esattamente di cosa parliate quando lui è qui e non sono venuto qui per chiedervelo, ma dall’ultima volta, le cose stanno andando meglio” il tono di gratitudine nella voce dell’uomo, poteva far togliere il fiato e lasciare senza parole anche il poeta più ambizioso e talentuoso. Nel mio petto una voragine che aspettava di essere riempita da fatti più concreti e parole che spiegassero e giustificassero il vuoto che mi ha accompagnato in queste due settimane.

“Quando l’ho riportato a casa, l’ho messo subito a letto. Mentre lo stringevo tra le mie braccia e raggiungevo la sua camera, mi sembrava essere tornato il mio bambino. Il mio bambino con il sorriso sempre sulle labbra e quella voglia di far star bene gli altri e quella voglia di sorprendere chiunque. Quando l’ho posato sul letto ho avuto paura. Paura che quel breve incantesimo si potesse spezzare ancora e non ero pronto. Ma siamo padri, e dobbiamo essere in grado di sorreggere i nostri figli anche se questo significasse affondare con lui” la voce dell’uomo si spezzò leggermente, ma non perse il controllo.

“Quando sono uscito dalla stanza e l’ho sentito muoversi nel sonno, sapevo che stava per accadere. Un nuovo incubo, le stesse urla e la mia incapacità di trarlo in salvo. Il mio non saperlo toccare nel modo giuro e il doverlo svegliare cosi presto, ma qualcos’altro è successo. Mentre si dimenava, non ha urlato come suo solito, la sua voce è uscita disperata ma limpida. Mi ha cercato” e adesso quella voce spezzata, stava perdendo il controllo e stava lottando contro se stesso per essere forte ancora un altro po’.

“Lo potevo toccare adesso, ne ero in grado. Mi sono affrettato a raggiungere il suo letto e mi sono disteso al suo fianco. Mi sembrava di essere caduto in un sonno profondo e mentre mi chiedevo se quello non fosse altro che un sogno e dovevo svegliarmi, perché mio figlio aveva bisogno di me, ho avvolto le mie braccia intorno al suo corpo esile e l’ho stretto al mio. Ho cercato di non crollare e di sussurrarli che sarebbe andato tutto bene. Ho cercato di mettere in quelle parole tutto l’amore possibile, cercando di non mostrare la mie paure. Lui si è lasciato stringere e si è riaddormentato. Ogni tanto si svegliava o si agitava nel sonno e la paura tornava, ma mi bastava spingerlo più forte perché, potevo toccarlo adesso” e mentre l’uomo raccontava e diventava il mio eroe e la voragine si colmava.

Lo aveva protetto, lo aveva fatto sentire speciale e amato. Aveva calmato la sua mente stanca e stretto a se, come non veniva stretto da tempo. Aveva aiutato il mio angelo a volare, anche solo per quella notte. E non era più il padre del mio angelo, ai miei occhi era diventato il suo salvatore, perché lo aveva salvato e mi sentì sollevato. Non era più solo a combattere una guerra già persa, ora poteva tornare in superficie e ne ero felice.

“Sono felice” la voce di mio padre sembrava sollevata, anche se cercava di restare calmo in quelle situazioni, dentro di sé, ogni cosa lo attanagliava. Quello non era solo il suo lavoro, era anche quello che sapeva fare meglio. Lui amava aiutare le persone. “Ma non sei venuto qui solo per informarmi di questo, giusto? Di cosa sei venuto a parlarmi?” chiese e quella voragine nel petto tornò a bruciare e fare rumore. Troppo rumore.

“Sì, giusto” prese un respiro profondo - il mio eroe - e poi riprese a parlare: “Qualche giorno fa, Kurt ha iniziato a chiedermi delle cose. Delle cose riguardarti sua madre. In questi ultimi anni il nostro rapporto sembrava essersi congelato, non freddo, ma solo bloccato nel tempo. Ma dopo queste notti, tutto è sembrato scorrere di nuovo e sembrava interessato a sapere tutto quello che si era perso, come se fosse stato bloccato anche lui da qualche parte nel tempo.

“Cosi ho iniziato a parlarli di sua madre e a rispondere a ogni sua domanda. Sono tre giorni che non lo vedo” e la sua voce sembrò sprofondare, sprofondare come io stavo sprofondando. “Cioè durante le notti e sempre lì, tra le mie braccia, a fermare i brutti incubi, ma passa le giornate fuori casa e non lo so. Sappiamo entrambi dove si nasconde o dove cerca di scappare e so che è al sicuro, ma non me ne parla. Continua a cadere e non so come poterlo salvare.” Un eroe non crede mai di esserlo ed era schiocco. Lo stava salvando e io ne ero grato, ma lui non ne era consapevole.

“Credo che tu abbia fatto un ottimo lavoro in queste settimane, ma credo che Kurt abbia bisogno del suo tempo ora. Come hai appena detto tu stesso, il tempo è tornato a scorrere ai suoi occhi e ha bisogno del suo tempo per rimettere ogni frammento di tempo al suo posto. Il fatto che Kurt ti stia chiedendo informazioni su sua madre e che ti faccia domande è una cosa meraviglia. Sta cercando il suo tempo da solo, perché adesso sa di esserne in grado e allo stesso tempo non vuole buttarti fuori, non ora che ha capito cosa stava perdendo. Ti rende partecipe perché non vuole perderti ancora” analizza il Dottor Anderson, con il suoi metodi calmi e il suo dare sempre il tu.

“Lui non mi hai mai perso” evidenziò l’eroe - salvatore del mio angelo - e i miei occhi si inumidirono e forse anche i suoi. Non potevo vederlo ma mi sentivo cosi vicino a lui. Potevo comprendere il suo stato d’animo, il suo essere spezzato e la sua continua lotta. E il mio angelo non l’ha mai perso e anche se non è stato lui a dirmelo e una cosa che ho subito sentito. Il modo in cui si è lasciato andare tre le sue braccia e di notte si lascia cullare dal quel delicato tocco. E forse lo sa anche Burt, ma sente il bisogno di dirlo e sperare che lo abbia sentito anche lui, dovunque lui si stia nascondendo.

“Questo lo sappiamo entrambi e lo sa anche lui. Anche se il suo tempo sembrava congelato e bloccato, non ha mai smesso di sapere che tu eri lì per lui. Ma bisogna capire che non era ancora pronto e la paura di perdere ancora qualcuno di cosi importante, non li ha perso di provare emozioni per nessuno.” Nessuno. Non lo potevo vedere, non potevo sentire lo sguardo di mio padre. Lo sentivo bruciare dentro di me, anche attraverso la porta e quel: “Bel lavoro Blaine” adesso bruciava con più intensità nella voragine che aveva preso posto nel mio petto.

“Sono venuto qui per sapere il prossimo passo da fare. Ho paura di calcare troppo la mano o di non prestarli troppa attenzione. Rispondo alla sue domande, cerco di conoscere il più possibile i suoi pensieri e sono lì, notte dopo notte. Onestamente mi sento un po’ sopraffatto, ma pensandoci mi sto comportando come mio solito. Come mi sono comportato in tutti questi anni con lui. Cercando di essere un buono padre.” La voce di Burt sembrò tornare quella dell’inizio della conversazione, si stava ricostruendo mentre si spezzava. Il mio eroe.

“E stai facendo un ottimo lavoro perché è proprio quello di cui ha bisogno. Ha bisogno di suo padre, che lo sa trattare come ha sempre fatto, senza trattamenti speciali. Lui sa già che tu ci sarai sempre per lui. Il fatto che abbia bisogno del suo tempo, non significa che non lo sappia. Comportati come hai sempre fatto e presto tutto tornerà come è sempre stato” rassicurò mio padre, sicuramente sorridendo. Con quel sorriso caldo, che stava riscaldando anche me.

“Come mi devo comportare per le sue uscite? Non ha più accennato al voler tornare alle sue sedute e non voglio costringerlo a fare qualcosa che non vuole, anche se ne avesse ancora bisogno. Credo sia ancora fragile e che stia continuando a cadere. Vorrei solo sapere come bisogna comportarsi in queste occasione e vedendo i suoi ultimi risultati, mi chiedevo se poteste parlane voi” chiese incerto. La sua voce tremava leggermente. Preoccupato.

“Credo che Kurt non abbia mai avuto bisogno di me. Non ho fatto assolutamente nulla per lui” e sentivo che stava sorridendo ancora, un sorriso che mi stava perforando dentro “Ha trovato la sua ancora di salvezza e ha fatto molto per non sprofondare ancora. Non è me che devi ringraziare e credo che tu non debba preoccuparti. Andrà tutto bene” e il suono della sua voce era cosi sincero e puro, che iniziai a crederci anche io.

Mentre lo sentivo parlare, con i suoi toni calmi, dentro di me frullava di nuovo quell’idea che lui sapesse. Che sapesse che ero lì in ascolto, che ero lì ogni volta. Che stavo cercando di non crollare e lottando, per non venire distrutto dalla voragine che non mi dava tregua. Mi stava consigliando qualcosa, ma ancora non riuscivo a capire cosa. Ripeteva a Burt che andava tutto bene, che non si doveva preoccupare e che non doveva essere la persona da ringraziare. In più aveva parlato del fatto che Kurt avesse trovato la sua ancora di salvezza e di un luogo dove si nascondeva per riprendere contatto con la realtà.

“Sono sicuro che la sua ancora di salvezza lo riporterà in superficie e che ben presto, ogni sensazione di disagio avrà fine, come i suoi incubi. Tu assicurati di esserci per lui ogni notte, anche se non te lo chiede, anche quando non ce ne sarà più bisogno. Saprai quando sarà il momento adatto. Kurt starà bene, questo lo posso dire con sicurezza, perché l’ho visto nei suoi occhi. Arriverà il momento in cui lo noterai anche tu, quindi cerca di esserci e di ripeterti che andrà tutto bene” e il lungo sospiro che ne sussegui, fece mancare il mio.

Stava parlando di me? Si stava rivolgendo a me? Ma anche se fosse, cosa si aspettava da me? Non avevo la minima idea di cosa fare o come comportarmi. Non sapevo neanche come avrei potuto trovarlo o come trarlo in salvo. Gli stessi dubbi del mio eroe, erano gli stessi miei. Lui era suo padre, era nel suo DNA trovare il modo per salvarlo, ma io? Io. Io chi ero per il mio angelo? Ero solo un ragazzino, che non è neanche in grado di salvare se stesso. Questo sono.

“La ringrazio comunque, anche se non vuole sentirselo dire, Dottor Anderson. Anche solo per questa chiacchierata e per avermi fatto sentire meglio, la ringrazio con tutto me stesso. Ho creduto, mi creda non è nella natura arrendermi, ma ho temuto il peggio. Senza la mia Elizabeth, con il suo sorriso e la sua forza, mi sembrava di non potercela fare. Ma lei continuava a ripetere che era possibile e a questo va il mio grazie.” Un movimento di sedie spostate, segnò che il tempo era scaduto e doveva ricominciare e questa volta con me.




Mentre risalivo le scale verso la mia stanza, una serie di pensieri mi diedero il tormento. Parole rubate a non volermi dare pace e quella ormai certezza che mio padre sapesse. Quei sorrisi, quel modo di fissarmi, il non cercare subito Kurt, anche se sapeva essere arrivato. Dal primo momento, da quando ho aperto la porta e l’ho trovato a lottare con il suo ombrello fradicio, lui lo sapeva e adesso anche io.

E quella nuova realizzazione bloccò il dolore e il respiro, la voragine non aveva più importanza per io sapevo dove lo avrei trovato. Ed era assurdo ed era folle, ma sapevo dove si trovava. E in quel momento la voce di mio padre mi tornò alla mente. Quando si rivolgeva alla sua ancora di salvezza, lui lo stava dicendo a me. Perché eravamo la stessa ancora, nello stesso mare e nello stesso tempo. E non so ancora perché, ma lo sapevo, ed era ora di smettere di scappare.

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Capitolo 7
*** Abbastanza. ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.

Alla mia Jacobba, che è sempre nei miei pensieri;
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Sono passati due giorni, da quel costante bruciore nel petto, quel senso di vertigine e dalle mie realizzazioni. Da quell’eroe e salvatore, con la sua voce spezzata ma sicura, che non stava perdendo il controllo e che si stava ricostruendo. Da mio padre - Dottor Anderson - e la sua voce sollevata e la sua sicurezza nel dire che sarebbe andato tutto bene. Dalla sua calma e dal suo dare sempre il tu. Dal mio angelo e le sue notti al sicuro.

Dal suo salvarsi e dal suo riprendere il tempo lasciato dietro, con le sue domande e la sua voglia di riprovarci ancora. Due giorni da quando quel lampo ha attraversato la mia mente, da quel poterlo salvare ma avere paura di non essere ancora all’altezza. Dall’ancora di salvezza e quella voglia di volare ancora, senza toccare di nuovo il suolo.

Sono passati due giorni da quando sono corso fuori di casa per le strade deserte, o forse erano piene? Che importanza ha ora? A ogni modo i miei occhi non vedevano, troppo impegnati a cercare qualcosa di più coraggioso, più forte, più mio. Dagli occhi che urlavano un urlo udibile solo a pochi. Un urlo che si è unito al mio, fino a creare un nuovo battito. Di una voce pura, vivace ma che ha perso qualcosa, che sta ritrovando. Di labbra che si muovono e con loro il mio mondo.

Due giorni da quando queste lettere hanno iniziato a trovare un altro sapore. Più dolce o più amaro. Più qualcosa che non sono ancora in grado di spiegare, perché non è ancora tempo. Due giorni da quando la mia vita ha ripreso a camminare. Da quando i miei occhi hanno ripreso a vedere con colori nuovi e mai visti prima, che sanno di battiti nuovi. I battiti del cuore di un angelo, il mio angelo, che ora è in grado di salvarsi e nonostante tutto, mi sta salvando.


Ricordo di aver corso per isolati, senza neanche rendermene conto, almeno fino a quando non ho sentito le gambe pesanti e i polmoni bruciare nel petto. Una volta fermo - per riprendere fiato - la realizzazione di dov’ero, era in grado di togliere il fiato e di svuotare la mente. Mi sentivo confuso, la mente offuscata e il corpo intorpidito, ma tutto sommato sapevo cosa andava fatto, avevo bisogno solo di trovare il mio coraggio. Quando ho ripreso a camminare, ero pronto a ogni tipo di realtà mi aspettasse, almeno cosi credevo.


L’abitacolo era silenzioso e questo non mi sorprese più di tanto, lo era sempre. Anche le porte delle finestre aperte, non mi diedero da pensare, erano molto vecchie e capitava spesso di trovarle aperte. Quello che m’immobilizzò sul posto, con la bocca semi aperte a boccheggiare, cercando di far ragionare il cuore e farlo tornare a battere in modo più regolare, fu il ragazzo seduto alla scrivania. Quella scrivania dove ero solito sedermi, per scrivere una delle mie lettere.

Aveva le braccia distese sulla superficie del tavolo, il suo sguardo era fermo e fissare una parte del muro - con niente di speciale - di fronte a sé. Sul tavolo erano posati dei pezzi di carta colorata, forse, da quella distanza era impossibile vedere meglio. Mi dava le spalle e mi chiesi se mi avesse sentito entrare o se mi stesse aspettando - cosa al quanto impossibile, ma tutto aveva perso il suo ordine ora mai.

L’enorme salotto - della casa abbandonata - era grande abbastanza per giocarci a nascondino. Molte volte mi sono soffermato a pensare a bambini e genitori, rincorrersi per la stanza o nascondersi dietro un enorme divano formato famiglia o i vari mobili. E magari far cadere qualcosa per la fretta e poi essere rimproverati, perché: “Non si gioca in casa” e ridere di questo.

Era complicato ricreare lo stile della casa, poiché non era rimasto molto (oltre un vecchio mobile che quasi cadeva a pezzi e quella scrivania, che sembra essere stata consumata dal tempo). Capire o immaginare da chi fosse stata abitata o altro, era quasi impossibile ma era divertente provarci. Provare a sentire le emozioni provate, le risate intrappolate e le lunghe conversazioni mai state fatte tra quelle mura.

Una madre che prepara una torta con il proprio bambino e vederla ridere alla visione del piccolo tutto sporco di farina e crema pasticciera e sorridere adorabilmente vedendolo mettere su un muso da cucciolo, mentre sente il proprio cuore sciogliersi a quell’immagine cosi innocente. O un padre che spiega, con imbarazzo, come si viene al mondo, mentre suo figlio diventa sempre più rosso e forse urla di frustrazione, perché non aveva richiesto quella chiacchierata. E ricreare quelle risate e quelle urla d’imbarazzo e rendere tutto più reale.

Ma la realtà che avevo di fronte era ben diversa e molto distante, da quella creata dalla mia fantasia. Non c’erano genitori premurosi o un figlio che stava imparando a camminare nel mondo. C’era un ragazzo che non si era ancora mosso, che fissava ancora quel punto sul muro e le mani che piano piano si chiudevano a pugno. Dovevo spezzare il silenzio, prima di vedere altro spezzarsi ma: “Non sono bravo” ha esclamato.

L’aria era diventata pesante, i miei piedi stavano affondando sempre più nel pavimento e il cuore che non aveva più un crollo, perché non c’era niente dentro di me ad avere controllo ora mai. E adesso ero io che stavo cadendo a pezzi, pezzo dopo pezzo, come la sua voce. Cosi innocenze, cosi affranta, cosi sola. Non ascoltavo la sua voce da cosi tanto, che mi sembrava di star sognato. Quando avevo chiuso gli occhi?

Non sono mai stato bravo. Sai, dopo essermi sfogato quel giorno, credevo che la caduta fosse arrivata al termine. Sapevo che la strada per tornare in superficie non sarebbe stata facile e che ero caduto molto in basso ma...credo davvero di non essere bravo in questo.” La sua voce cosi calma e dolce, come una melodia cantata e mai ascolta. Una melodia stanca di suonare e che stava vedendo le sue note più alte.

“Cosi sono andato via. Non sono realmente scappato, ma sono andato via. Ogni mattina fino al tramonto. Credevo mi avrebbe aiutato, credevo di potercela fare sul serio. Sono solo uno sciocco. Sono scappato per tutta la mia vita: dal mio passato, dal mio dolore, dalle mie paure, da me stesso e ancora non ho imparato che scappare non è la soluzione a nessuno dei problemi. Te l’ho detto: sono solo uno sciocco che ci sta provando.

“So che mio padre è andato dal Dottor Anderson per parlarli di me o almeno credo. Credevo che il mio tempo avesse ripreso a correre come quello di tutti, ma finisco sempre per restare indietro. Alle volte dimentico che giorno è e alle volte dimentico anche in che mese ci troviamo. Probabilmente ogni strizza cervelli di questo pianeta mi direbbe: ‘E’ normale, hai corso per cosi tanto tempo dalla parte opposto, che il tuo tempo sta solo cercando di adattarsi al meglio. Tornerà quello di prima. Tornerai come prima’, solo che non ricordo com’ero prima, non so neanche se voglio tornare come prima.

“Credo siano tutte stronzate, sai? Il mio tempo fa schifo e faccio schifo nel provarci. Non sono bravo. Sto solo facendo preoccupare mio padre, anche se lui si comporta come sempre e non lo lascia trasparire. Ma lo conosco. Lo vedo nel modo in cui mi accarezza, quando la notte lo cerco. Non è lo stesso tocco di cui ho bisogno, ma mi piace. Credo che lui sappia che sono qui, l’ha sempre saputo. Anzi, credo abbia sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato.

“Sarò pronto? Sono pronto ad affrontare tutto e questa volta per l’ultima volta? Non sai quanto vorrei avere una risposta. Ci sono tante domande e tutte queste paure che non voglio ammettere. Ma ho paura perché non sono bravo. Che cosa accadrebbe se ci provassi e poi cadessi ancora? Farebbe più male? Sarebbe una caduta lenta o molto rapida? Troverei la forza di riprovarci ancora? Vorrei solo essere bravo, bravo abbastanza per non avere paura ancora. Sono un tale sciocco.” E la sua voce si bloccò, non perché avesse finito, ma perché non potevo più ascoltare.

Il corpo era stato bloccato dalla sua voce, il mio cuore dal suo sguardo vuoto che non mi aveva ancora guardato. Ogni parola era confusa con quella dopo e nessun pensiero riusciva a essere formulato. Restare fermo a fissarlo, ad ascoltare quell’urlo di speranza che si affievoliva. Come potevo permettere? Come potevo permettere al mio angelo di non crederci ancora? Era la mia forza, il mio coraggio, la mia corsa senza meta. Silenzio. Volevo silenzio ora.

Come ci si deve comportare quando un angelo crede di aver perso ogni cosa? Quando non riesce a vedere quanto forte in realtà sia. Come fermare l’urlo che non emette più alcun suono? L’ho abbracciato. Non so cosa abbia sbloccato il mio corpo ma quell’urlo silenzioso stava perforando le mie costole, passando ai miei polmoni e impedendo la respirazione. Il mio cuore non poteva permettere di arrivare a lui. Come una molla, le mie gambe hanno iniziato a correre. A correre verso la linea di partenza.

Non c’è fine quando si cade, ma può pur sempre esistere un inizio alla risalita. E la risalita inizia ora. Ho attraversato la stanza, se le gambe stesserò tremato o se stessi tremando per le lacrime che stavo versando, non era ben chiaro in quel momento. Sapevo solo che non potevo permetterlo. Non potevo permettere al mio angelo di riprovare l’aspra sensazione di ricadere e farli perdere la speranza di avere la forza di riprovare ancora. Dovevo fermare tutto, adesso.

Gli avrei insegnato a volare e magari avremmo potuto volare insieme ma non potevo permettere che la caduta ricominciasse, non ora che era pronto a vedere la luce di un nuovo sole. E cosi il mio corpo si era mosso, percorso la sua strada senza fare domande, fino ad avvolgerlo. Quello sguardo che non aveva ancora intenzione a guardarmi, ancora a scovare qualcosa che non esisteva su quel muro. Le mie braccia ad avvolgerli le spalle, il capo piegato e bloccato nell’incavo del suo collo, le mie labbra a sussurrare parole direttamente nel suo orecchio.

“Adesso basta, okay? Non posso stare ancora ad ascoltare. Ascoltare sentirti parlare di cadere ancora, di non essere abbastanza e di paura, perché sei abbastanza. Sei abbastanza per me ed io sarò abbastanza per te.”. Le sue mani raggiunsero le mie, posandosi delicatamente su di esse. Non tremava, non urlava, ora ascoltava. Un sospiro lasciò le sue labbra, era dolce, sicuro, protetto. Ed era ora di tornare a casa.

“Non c’è niente di lontanamente sbagliato in te. Il tuo tempo non fa schifo, perché il mio ti stava aspettando. Non dire mai che non sei bravo, perché questo non è un gioco e non ci sono istruzioni. Non avere paura di cadere ancora, ora ci sono io qui. Se cadi, allora cadrò anch’io, ma solo per arrestare la tua caduta libera. Non ti lascerò andare.” Le parole, che prima erano solo lettere scomposte, stavano ritrovando il loro ordine nella confusione.

“Non sei uno sciocco, non c’è assolutamente niente di sciocco nel volerci provare, provare per davvero. Volerci provare da solo, per dimostrare a noi stessi che ne siamo ancora in grado, che ci stiamo credendo. Ora non sei più solo. Non ti chiederò di smettere di correre e scappare via, quello spetta a te deciderlo, spero solo che correrai verso casa la prossima volta.”. Mi sentivo cosi stanco delle parole, che quello che né usci dopo, furono solo parole ripetute ancora e ancora.

Non voglio avere paura.” Una voce vicina ma cosi lontana. “Avrò paura, ma sarò bravo abbastanza, lo prometto!” Un altro sospiro, più lento, più profondo, più lungo. “Non c’è niente di male nel provarci ancora, mh? Sono pronto a provarci sempre, anche se cadrò ancora.” Adesso potevo vedere, la forza del suo salvatore - del mio eroe - vivere dentro il mio angelo. “Non ho paura adesso”.

‘Il mio angelo’ pensai o dissi. Tutto era ancora cosi confuso, tutto aveva ripreso a correre cosi velocemente. Che cosa stava accadendo realmente o cosa no, non entrava nella mia lista di cose importanti in quel momento. La priorità in cima alla lista era il mio angelo. Il mio angelo che aveva ammesso di avere paura, di provarci ancora e di non smettere mai di crederci. Il mio angelo che non aveva più paura adesso.

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Capitolo 8
*** Come un fiore! ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.

Alla mia Jacobba, che ancora sento stringe forte la mia mano;
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Cercare di dare una forma al mio tempo o anche solo cercare di farti capire dove sono, sarebbe solo una perdita di altro tempo. Per quanto adori scrivere - o scriverti - sono pessimo in questo. Sì, forse il mio angelo avrebbe qualcosa da ridire su questo, considerata la nostra ultima conversazione. Era un conversazione? Forse dovrei descrivere il tutto con “incontro” sarebbe più indicato, dato che ci siamo incontrati in quella casa abbandonata mentre lui stava cercando il suo equilibrio e io la mia sicurezza.

Ti sei mai sentito invisibile? Non che io lo voglia essere ma è cosi che mi sento. E’ la gente a farti sentire cosi. Quel continuo dover alzare la voce o cercare di non far perdere l’attenzione su te. Quando incontri quelle persone che ritengono il tuo pensiero poco interessate e di parlarti sopra, senza saper aspettare. Quando parli e ti sembra che nessuno ascolti. Nessuno ascolta mai.

Sono una di quelle persone che arrossisce, che arrossisce per ogni cosa. Se mi trovi perso tra i miei pensieri e cerchi la mia attenzione chiamando il mio nome, allora mi volterò e sicuro sarò arrossito. Che sia una critica o un complimento quello che ricevo, arrossisco. Arrossisco anche per ogni emozione: rabbia, dolore, gioia. Ogni cosa che mi espone e non mi fa sentire più invisibile - per qualche secondo - mi fa arrossire.

Un po’ dall’imbarazzo e un po’ perché è cosi che reagisce il mio corpo. Ti fa sentire a disagio la sensazione di non essere invisibile, perché non lo sei. La gente, me compresa, è abituata a vedere chi ha d’avanti e non chi gli sta accanto. Tutto diventa invisibile e ci vivi dentro e quando capisci di non esserlo e che la gente può vederti, allora arrossisci. Non puoi fare altro.

Detesto la sensazione delle guancie che bruciano e il loro colorito cosi rosso. Detesto che la gente lo possa notare o farlo accadere. Tutto per arrivare a dire che è oggi sono arrossito cosi tante volte, che mi basteranno per le volte, in futuro, in cui non lo farò. Perché farmi arrossire è semplice, farmelo notare per raggiungere una propria conclusione, brucia. Brucia come la sensazione di essere stato scoperto e che non c’è più via di scampo. Brucia come brucerebbe la verità se fosse fuoco, fuoco sulle proprie guancie.
-

Ero intento a scrivere una delle mie lettere, quando sentì la porta aprirsi e quando mi voltai, vidi mio padre entrare. Indossava il suo solito sorriso, ma qualcosa era nuovo nei suoi occhi. Avevo sentito mia madre, chiamarlo dallo studio, informandolo che c’era una chiamata per lui. Dalla mia camera era possibile ascoltare ogni cosa e la cosa mi piaceva, a volte. Mi faceva sapere di non essere solo e al tempo stesso, mi dava la possibilità di apprezzare il silenzio occasionale.

A quanto pare la chiamata era durata abbastanza e che quello che era stato detto era importante anche per me, considerato che ora si trovava nella mia camera. Voleva parlarmi di qualcosa, lo vedendo, era chiaro nei suoi occhi. Occhi che non sono mai stati in grado di mentire. Ho passato cosi tanto tempo a osservarlo, a osservare il suo comportamento con i suoi pazienti, che credo di avere appreso molto di più di qualcosa.

“Blaine, credo che sia arrivato il momento per noi di parlare!” aveva esclamato, entrando completamente nella stanza e chiudendo la porta alle sue spalle. Era rimasto in silenzio, mentre io annuivo. Il suo sguardo si era fermato per un po’ sulla mia scrivania, notando i fogli sparsi e le mie mani sporche d’inchiostro. Un nuovo sorriso ha dipinto il suo viso, per poi sedersi alla fine del letto e tornando a fissarmi. Io ero rimasto al mio posto, ancora seduto sulla sedia della scrivania e con il busto rivolto verso di lui.

“Credo che tu abbia sentito tua madre chiamarmi, per dirmi che c’èra una chiamata per me, giusto?” chiese, dopo i primi momenti, in cui cercava le parole per iniziare quella nostra chiacchierata. Da una parte lo stavo ringraziando per quel suo piccolo attimo di silenzio, non perché non fossi pronto a quella nostra chiacchierata, ma perché stavo cercando anche io le parole per rispondere a quelle domande, che da tempo, mi stavo ponendo anch'io. Senza trovare la giusta soluzione al dilemma. Annuì con la testa.

“Sei un bravo osservatore, Blaine” continuò, sorridendo di nuovo, come se non potesse farne a meno. Come se fosse la sua natura farlo. “Tua madre dice che lo sei perché sei molto simile a me ma credo che sia perché ami ogni singolo dettaglio e non vuoi perderti niente. Godere di ogni piccola cosa, fa in modo di ringraziare ancora di più per quelle più grandi, come una emozioni. Come l’amore. Non lo pensi anche tu?” chiese e annuì incerto.

Molte volte avevo immaginato quella conversazione nella mia testa e ogni volta da una prospettiva diversa. Ma non me la sarei mai aspettata cosi. Continuavo a stringermi le mani e a muoverle tra loro, mentre sentivo le guance arrossire, desiderando che non lo notasse. Che nessuno notasse. Ma il suo sguardo era puntato contro il mio con cosi tanta intensità, che avevo voglia di dirgli di smetterla. I suoi occhi cosi simili ai miei, dalle sfumature più complesse.

“E credo tu abbia notato molte cose in questi ultimi giorni e credo che quelle lettere ne abbiano le prove, non è vero?” sorrise, sorrise più intensamente, sorrise con tutto il suo viso mentre i suoi occhi tornarono a fermarsi sulla mia scrivania. Io non ebbi il coraggio di spostare i miei occhi dal suo sorriso, che forse mi irritava un po’ e non capivo, mentre arrossivo ancora un po’.

Dimenticavo che era stato proprio lui, quando ero bambino, a farmi apprezzare ogni piccolo istante. Ogni singolo secondo che scoccava l’orologio nel suo studio. A dirmi che ogni cosa era importante e che era giusto da parte nostra, ricordarlo ogni giorno, per esserne ogni giorno grati. Come quei piccoli fiori rosa che nascevano nel nostro giardino. Perché al mattino - ogni mattino - quando li si fissava, erano sempre gli stessi ma non significava che stupivano meno del giorno prima.

Era lui a ripetermi ogni notte, prima di chiudere gli occhi: “Un fiore, anche se lo stesso, giorno dopo giorno, può far nascere comunque un sorriso. Quando vedrai un fiore, anche se lo vedrai ogni giorno, tu sorridi sempre. Rendi quel fiore speciale, come lui ti ha reso speciale la prima volta che i tuoi occhi si sono fermati a guardarlo. Sorridili come lui ha fatto sorridere te. Sorprenditi, Blaine. Guarda sempre il mondo come se i tuoi occhi lo stesserò guardando per la prima volta”. E adesso capivo le sue parole.

Avevo conosciuto un fiore - un angelo, un eroe - che mi aveva reso speciale, semplicemente ammirandolo. E mi rendeva speciale ogni singola volta, come se fosse sempre stata la prima. Nuovo a ogni sguardo, pronto a rendermi speciale ancora. Pronto a sentirsi speciale ancora. E mentre io guardavo lui e me ne beavo, lui guardava me e sorrideva ancora un altro po’. Perché io rendevo speciale lui, come lui rendeva speciale me.

“Ci sono tantissime cose che ho voluto insegnati quando eri piccolo, le stesse cose che ho insegnato a tuo fratello. Non sapevo quanto di quei insegnamenti sarebbe rimasto, ma sono felice di vederti sorprendere ancora, come un fiore” sorrise e questa volta mi unì a lui, con il cuore che batteva con un po’ più forza e le guance brucianti. E non mi importava che potesse sentirlo e vedermi.

“Forse ti sarai chiesto chi era al telefono, ma non credo che io abbai il bisogno di dirlo. Voglio dire, se ti conosco almeno un po’ di quanto credo di conoscerti, sono sicuro che tu abbia già la tua risposta. Come al perché sono qui solo ora o perché io stia parlando di tutto questo” esclamò e io tornai a torturarmi le mani, mentre il bruciore alle guancie tornò a farsi sentire. Forse ebbi un po’ di paura. Sarei stato pronto alla realtà?

“Credo che tu abbia fatto un ottimo lavoro, con il tuo fiore e sono molto fiero di te, anche per questo. Hai reso speciale un fiore già speciale di per sé e forse ti chiederai cosa c’è di cosi tanto sorprendente da esserne fieri e la risposta è semplice: perché l’hai fatto ogni giorno, non per gentilezza, ma perché era davvero speciale ai tuoi occhi e questo è arrivato al fiore, che a sua volte ti ha resto speciale, non è cosi?”.

Quante altre volte aveva intenzione di farmi arrossire? E quante altre volte sarei potuto arrossire, prima di vedere il mio volto andare in fiamme? A giudicare dal suo sguardo, dal suo sorriso cosi esteso e dalla forza con cui mi stava torturando le mani, ne dedussi che ero quasi al limite e quel quasi mi fece girare la testa.

“Quando ti ho visto fissarlo, sull'uscio della porta, ho subito capito. Ma devo essere onesto con te, quando lo vidì seduto sul bracciolo della poltrona, non potei esserne più sorpreso. Non che io non me lo aspettasi, conoscendoti e conoscendo lui, sapevo che sarebbe successo presto, ma non credevo fosse già pronto” rifletté, in quel modo che sembrava più una conversazione con sé stesso che con me. Ma non cercai di capirci qualcosa, a dire la verità, non provai neanche a formulare un pensiero. Sembrava cosi concentrato a unire i pezzi e mostrarmi il quadro completo, che semplicemente rimasi in silenzio, mentre continuava a parlare.

“E ne ebbi le prove quando vi trovai in cucina e sembra cosi rilassato. E ancora il tuo modo di fissarlo, ancora come la prima volta, ancora sorprendendoti. E lui si stava beando di questo, mentre intorno a lui si stava creando fiducia e protezione e sapevo che iniziava a sentirlo. Non posso parlare delle nostre sedute, ma devi sapere questo. Devi sapere del suo cuore che era ogni giorno più pronto e tutto questo perché era un fiore che si sentiva di nuovo speciale, perché qualcuno si stava sorprendendo guardandolo”.

Iniziai a smettere di notare il mio viso che arrossava, sempre di più e il bruciore che stava iniziando a infastidire e irritare. Come iniziai a smettere di preoccuparmi delle mie mani che stavano raggiungendo la stessa tonalità e a provare lo stesso dolore. Tutto quello cui non riuscivo a smettere di fare era quel bisogno di chiedere. Chiedere dove stava puntando e perché me lo stava dicendo solo adesso.

Non mi era mai sfuggito i suoi occhi su di me, quando ci trovava insieme ma non mi sono mai trovato a pensare perché. Perché sembrasse cosi sorpreso la prima volta o perché avesse sorriso cosi tanto la seconda volta, quando ci aveva visto in cucina. Sembrava molto una reazione da “padre che aveva in cura il ragazzo che mi stava accanto”, perché avrei dovuto pensarla diversamente? Cosa mi avrebbe potuto spingere a crede che ci stesse scrutando, capendo quando sarebbe stato il momento adatto. Che poi: momento adotto a cosa?

Smisi di dare importanza a quei miei pensieri, perché riprese a parlare. E più parlava e più avevo paura e più il bruciore si estendeva sul mio viso, fino a raggiungere ogni singolo organo di me.

“Ah! Se ripenso a quel pomeriggio cui ti ho chiesto di andare nel mio studio per prendermi il mio cappello, ricordo che ringraziai ogni Dio in ascolto, per averti trovato fuori dalla casa. Non volevo lasciarlo da solo, sai? Ho aspettato un po’ ma volevo tu sapessi. Non lo volevo lasciare tra le lacrime ma sapevo che non avrei potuto fare niente per lui, sapevo che tu ci saresti riuscito. Non mi sono fermato neanche un secondo a pensare che magari nessuno di voi due era pronto, ho solo agitato. Credo che lui abbia pensato che lo stessi lasciando, come tutto, ma non era cosi.” Questa volta, anche lui iniziò a torturasi le mani, mentre abbassava lo sguardo. Si sentiva colpevole.

Avrei voluto urlarli che non avrebbe dovuto sentirsi in quel modo, perché forse non ero pronto a tutto quello ma mi ha aiutato a capire tante cose. A unire con più semplicità i pezzi, di un mosaico a cui ne mancano molti, forse troppi. Mi ha fatto capire che non sarei stato in grado di trovare quei pezzi, se prima la persona a cui appartenevano non gli avrebbe accettati. E non mi sentivo arrabbiato e il mio angelo avrebbe capito.

“Ad ogni modo, ho chiamato suo padre nell’istante in cui sei entrato nella stanza, ma quando è arrivato ho detto lui di aspettare. E potevo sbagliarmi ancora, magari non stavate facendo progressi e io stavo distruggendo ogni sua possibilità di stare bene, ma credo di aver avuto solo molto fortuna. La fortuna di essermi fidato cosi tanto di voi” continuò, mentre lasciava libere le mani e le fermava sulla stoffa dei suoi pantaloni.

Quella conversazione stava portando via tutta la mia energia, come la sensazione di aver parlato troppo quando non aveva neanche aperto bocca. Il: “Bel lavoro Blaine” di mio padre a fare rumore tra i troppi pensieri nella mia testa. Quel bisogno di chiudere gli occhi e dormire per tutto il tempo necessario, per trovare la forza di aprire gli occhi e sorprendermi ancora.

“E poi la conversazione con Burt!” Ero cosi preso dalla sensazione di chiudere gli occhi e dormire, che quasi dimenticai che non potevo perché non ero solo e che mio padre non aveva ancora finito. E quella realizzazione mi fece arrossire ancora di più - se si poteva arrossire ancora di più. Era la prima volta che esclamava uno dei loro nomi. Avevo menzionato Kurt come “il mio fiore” ma non aveva mai detto il suo nome. Sentire il nome di Burt, pronunciato dalla sua voce, mi diede la sensazione di svegliarmi.

“Credo che tu sappia che sapevo che tu eri lì, no?” sorrise e io arrossì “Come del resto lo so sempre, non è vero?” Sapevo si stava riferendo a tutte le volte, in cui mi sedevo dietro la grande porta a sentire il tempo scorrere, per potere bloccare per un po’ il mio. Non mi sorprese quella sua confessione, perché in cuor mio l'ho sempre saputo. Piccoli dettagli, no?

Il modo in cui si rivolgeva a me, dicendomi che avrei trovato la strada verso di lui, cercando di farmi arrivare il suo messaggio ma senza far capire niente a Burt. Quella era solo l’ennesima prova che lui sapeva. Che avesse sempre saputo ogni cosa, anche se io ancora non riuscivo a distinguere i dettagli. Come un fiore che si bea degli sguardi delle persone che si beano di lui. Anche io ero troppo preso a bearmi del mio angelo, per notare ogni altra cosa. Ma adesso riuscivo a vedere tutto quello che mi era sfuggito.

“Ho sperato con tutto me stesso che tu capissi e che lo riportassi a casa. Ho cercato di tenere la bocca chiusa, aspettando che questo momento arrivasse. Non potevo portarti alla soluzione, quando non eri pronto a vedere, ma solo ora mi rendo conto che lo sei sempre stato, dal primo istante. Dal primo istante in cui i tuoi occhi si sono posati sui suoi, non è forse cosi, Blaine?”. Quando pronunciò il mio nome, il mio cuore si raggelò ma le guancie non mi diedero nessuna pace. Bruciarono più ardentemente, come a compensare i battiti mancati.

“Non so se dovrei dirtelo, voglio dire, dovrebbe essere una conversazione che dovrebbe rimanere privata, ma credo che a questo punto la mia presenza qui sia al quanto stupida, non trovi?” chiese ma era una conversazione ancora con sé stesso. Lo vidi scegliere la cosa più giusta da fare e poi sentirlo continuare con un: “Burt mi ha chiamato per dirmi che Kurt ha passato una notte serena” e istintivamente sorrisi di nuovo e di nuovo non mi importava che lui potesse vedermi. Vedermi mentre prendevo fuoco lentamente e come il bruciore aveva invaso tutto me stesso.

“Mi ha raccontato che ha dormito tutto il tempo e che quando ha aperto gli occhi non si è sentito stanco. Niente urla, niente incubi, nessuna paura. E’ stato piacevole sentirli dire che, una volta del tutto sveglio, non è uscito di casa per poi tornare al tramonto. Si è semplicemente messo ai fornelli e ha cucinato loro la colazione e poi il pranzo e dopo la cena, mentre allegramente parlavano del più e del meno, come se il tempo non si fosse mai fermato. Come se la sua storia fosse ripartita dal quel momento e lasciando tutto quello lasciato nel passato, libero di bloccarsi e di restare lì, permettendo al suo cuore la forza di ricordare senza sentirsi sprofondare. E Burt ti ringrazia per questo” aggiunse alla fine ed ebbi la sensazione che quella ‘chiacchierata’ fosse arrivata alla conclusione, senza che io ci avessi partecipato.

“Credo di aver detto ogni cosa. Mi scuso di aver aspettato tanto e di aver rimandato questo momento, ma credo che dovesse andare cosi. Infondo i genitori sono solo strumenti per aiutare a guardare ogni cosa con sguardo nuovo e credo che a questo punto, il mio lavoro è fatto. Mi viene facile analizzare le situazioni ma credo fermamente, che tu non avessi bisogno di me e forse me ne scuso per questo” sorrise tristemente, mentre si rimetteva in piedi e si passava una mano sulla cravatta.

Anche se sentivo che quella conversazione era conclusa e che mio padre non avesse altro da dirmi, sapevo che non era conclusa del tutto. Per tutto il tempo mi ero limitato a sorride o annuire e più del dovuto, ad arrossire. Ero rimasto immobile a torturarmi le mani, mentre lo sentivo parlare. Analizzare una situazione - come l’aveva definita lui - più per proprio bisogno, che per aiutarmi davvero. Anche se mi aveva aiutato. Ed era proprio questo che rendeva quella conversazione non del tutto conclusa.

Mi schiarì la voce e mi sembra di non parlare da anni. Feci un respiro profondo prima di esclamare un: “Grazie papà” e lo vidi sorridere ancora, quel suo sorriso vero e semplice. Quello che riservava sempre alla mamma, quando semplicemente la veda entrare in una stanza o quando la salutava per andare a lavoro. Quel sorriso riservato a me e anche a mio fratello. Quello dolce e amorevole. E volevo aggiunge ancora altro, ma sapevo che il mio tempo era finito, come ogni altra volta.

Cosi lo lasciai uscire dalla mia camera e io tornai a fissare le lettere sulla mia scrivania. Sorrisi mentre le parole pronunciate da mio padre, tornarono a bruciare sul mio viso. Una parte di me voleva correre da lui e chiederli cosa fare o farsi spiegare meglio ogni singola parola, da lui pronunciata. Ma sapevo che quel discorso non avevo un senso, o meglio, era uno di quei discorsi dopo tu ci trovi quello di cui ti serve. E ogni persona ci avrebbe trovato qualcosa di diverso e ogni cosa sarebbe stata giusta e forse anche io avevo trovato la mia risposta. E non ne ebbi poi cosi tanta paura.
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Capitolo 9
*** L'ultima lettera. ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.

Alla mia Jacobba, che
è scalfita nel mio cuore;
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

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Lo so. So che è trascorso un po’ dall’ultima lettera. Sì, so anche che sto diventato pazzo a credere che queste lettere verranno mai lette da qualcuno, ma mettiamola cosi: e se io volessi? E se io volessi che queste lettere venissero lette da qualcuno e forse capite? So che queste lettere non hanno mai avuto un indirizzo ma sento che sono state scritte per qualcuno e sto iniziando a credere che questo qualcuno meriti di leggerle. No?
Sì, credo di star impazzendo, anche se sono arrivato a questa conclusioni molto lettere addietro.
Come si inizia una lettera sapendo che sarà l’ultima?



Ho strappato una pagina dopo l’altra, non curante della confusione sulla mia scrivania o sul pavimento. Ho accartocciato fogli, alle volte ancora bianchi, che ora sono bloccati accanto alle mie caviglie. Ho scritto inizi differenti ma nessuno portava o voleva giungere alla conclusione e veniva strappato via o cancellato. E ci riprovo ancora allora, su una pagina già troppo sporca d’inchiostro, cercando di portare alla fine questo nuovo inizio.

Mi sembra di portare alla fine una promessa, una promessa nella mia testa. Una promessa a cui le miei mani hanno mantenuto fede, lettera dopo lettera, e ora mi sembra di star perdendo ogni cosa e mi sento cosi vuoto. Nessuna frase sembra andare bene, forse perché nessuna frase dice quello che realmente vorrei dire. Ma non posso farlo e me ne rendo conto e allora ci provo ancora adesso. Provo a portare a termine la mia promessa a nessuno dedica*.

E ci siamo, basta negarlo ancora, questa è l’ultima. L’ultima lettera che scriverò e poi nasconderò.

Ma forse è meglio partire dal principio, no?




Non sentivo mio fratello da ormai quasi un mese e potrà sembrare poco tempo, ma quando ci si sente ogni giorno - per lo più attraverso lettere e telefonate notturne - il tempo si fa sentire più forte. Era passata esattamente una settimana dalla chiacchierata con mio padre, avvenuta nella mia stanza. Era abbastanza difficile evitare una persona soprattutto quando questa persona abita sotto il tuo stesso tetto ed è tuo padre. Tutto sommato non è andata male. Ci capitava di trovarci ai pasti insieme, ma non faceva mai riferimento a quella chiacchierata e mia madre non chiedeva. Per la maggior parte del tempo me ne stavo nella mia camera a pensare.

Pensavo a cosi tante cose al secondo, che a cosa pensasi non aveva più molta importanza. Ero fuori dalla realtà e miei me lo lasciavano fare. Durante i primi giorni ho ascoltato mio padre dire a mia madre che aveva solo bisogno di capire cosa andava fatto e forse era a questo che pensavo la maggior parte del tempo. Cercare di capire cosa era giusto fare ora o a qualsiasi cosa significasse. Quando alla fine ricevetti una chiamata da mio fratello, ogni pensiero sembrò cessare di esistere, mentre accettavo la chiamata e rispondevo con un: “Pronto?” in certo.

Ed è tutto ancora cosi confuso, mentre una risata riempiva lo spazio tra il mio orecchio e il telefono tra le mie mani e la porta della mia stanza che veniva spalancata.

E lentamente quella risata non era più un suono lontano, ma qualcosa di tangibile che stava riempiendo un silenzio che non sapevo di aver creato intorno a me in quella settimana. Troppo impegnato ad ascoltare la confusione nella mia testa.

“Fratellino, che fai, non mi abbracci?” esclamò Cooper Anderson, mentre rimetteva il telefono nella tasca posteriore dei suoi pantaloni e allargava le braccia. Lo sentì esclamare un: “Mh! Un tempo ti saresti gettato tra le mie braccia e ti avrei fatto volare in tondo, ma forse sei troppo grande per questo, eh?” quando vide la mia faccia accigliata e il telefono ancora appoggiato al mio orecchio, in ascolto del niente ora mai.

Lo guardai per alcuni lunghi secondi, cercando di convincermi che era reale e che dopo mesi e mesi era realmente lì. Cercai di aprire la bocca e boccheggiare qualcosa di sensato ma alla fine sorrisi e mi precipitai verso di lui e lo strinsi a me. O lui mi strinse a sé, con cosi tanto affetto, che mi sembrò di aver ritrovato la strada verso casa, dopo aver vagato per troppe notti al gelo.

“Cosi va molto meglio” disse sorridendo, schiacciandomi contro di lui e passandomi una mano tra i capelli, anche se sapeva che lo odiavo, ma questo non lo fermava mai, anzi. “Allora i vecchi mi hanno detto che te ne stai chiuso qui tutto il giorno, cosa c’è che non va?” arrivò dritto al punto, perché i giri di parole non erano il suo forte, forse per questo assomigliava cosi tanto alla mamma.

“Hanno chiamato la cavalleria, mh?” chiesi sbuffando e allontanandomi, per tornare a stendermi sul letto. Quando lo sentì esclamare: “E’ stata la mamma, sai com’è fatta” sbuffai ancora, coprendomi il volto con un braccio. Sentì il mio materasso abbassarsi, al peso di un nuovo corpo e le sue mani a spostare il mio braccio. Non feci resistenza e lo guardai. Non sapevo neanche cosa dire o di cosa parlare.

Infondo era sempre cosi e papà Anderson lo ripeteva sempre: “Quando dai a una persona la possibilità di parlare, lei non saprà mai cosa dire. Ma prova a darle lo giusto slancio e partirà come un elastico tirato e non si fermerà più” ma proprio in quel momento, non sapevo come Coop avrebbe potuto essere il mio elastico, quando neanche il grande capo ci era riuscito.

Ma conoscendo mio padre e conoscendo mio fratello, sapevo avrebbe detto e fatto di tutto per quello slancio che mi serviva, per partire a razzo e non fermarmi fino alla fine del volo. Forse mi spaventava la verità che avrei trovato al mio atterraggio, una volta concluso il volo.

“Sai che non sono qui per giudicare, vero?” e dopo rise e si schiarì la voce, alla vista di un mio sopracciglio sollevato e il mio viso accigliato. “Okay è vero, lo confesso: sono qui per giudicare ma sai anche che fa parte di me. Quando la mamma mi ha chiamato per dirmi che non stavi bene, ho preso il primo aereo e sono corso qui ma sai quanto io tengo a te e tolta la curiosità e dettagli su cui prenderti in giro in futuro, sono realmente e sinceramente preoccupato per te” disse cercando di non ridere.

Stavo per sorride all’ascolto di quella frase, cosi contraddittoria ma qualcosa mi impedì di farlo.

“Il problema è che non ho nessun problema, almeno non reale” esclamai, tornando a sbuffare. Non sapevo perché mia madre aveva dovuto chiamare Coop per un pronto intervento. Non che non mi fidassi di mio fratello o che non fossi felice che si trovasse lì, anzi, mi era mancato tanto e solo che non avevo un problema.


Okay, ero rimasto nella mia camera per più di una settimana e uscivo solo per i pasti ma questo non significava che avevo un problema, no?

“Posso almeno sapere perché stai passando tutto questo tempo nella tua camera? Giuro che non dirò niente a nessuno.” Sorrise, volendo essere dolce ma il suo sembrava più un ghigno che un sorriso rassicurante, tutta via mi fidai di lui. Infondo che male c’era nel voler parlare di tutti quei pensieri che mi ronzavano nella testa da giorni? Magari non sarebbe come ascoltare il: Dottor-capo-famiglia-ho-sempre-ragione-Anderson, ma sarebbe pur sempre un parlare e parlare fa sentire meglio, non è cosi papà?

“Io--non lo so!” osai “Vorrei che fosse più semplice e forse lo è ma io, non lo so” sbuffai, cercando che sedermi meglio sul letto e appoggiando la schiena sullo schienale del letto. “Non so neanche perché ho cosi tante difficoltà nel parlare. Mi sento un po’--triste e ho iniziato con queste lettere e poi ho conosciuto questo ragazzo e ogni lettera sembrava rivolta a lui e lui adesso sta molto meglio ed io mi sento ancora un po’ cosi, sai, triste ma non lo sono realmente ed è tutto cosi confuso nella mia mente e non riesco a smettere di pensare a cosa sia più giusto da fare, sai?

“E poi ho avuto questa conversazione con nostro padre e ho avuto la sensazione che era arrivato anche per me il momento di andare avanti e questa volta di portate con me il tempo-non guardarmi cosi, credimi, questa frase ha più sento di quanto tu creda ma il problema e che non ci riesco o non so come riuscirci. A lui è servita una spinta, qualcosa che gli facesse notare il tempo che stava lasciando scorrere via, ma a me? Non so cosa serva a me e mi sento troppo confuso per capirlo.

“Cosi ho smesso per un po’ con le lettere e da quando l’ho fatto ho questa sensazione che non ne abbia più bisogno, ma sembra una tale bugia alle volte. Sai, alle volte le rileggo e alle volte mi sento ancora il ragazzo della prima lettera che chiede aiuto anche se non lo sta facendo realmente ma molte altre volte - molte più volte - sento di essere cambiato come le altre lettere mostrano e sento cosi ardentemente il bisogno di consegnarle via e darle a chi di diritto ma ho cosi paura.

“Anche adesso, che ne sto parlando, ne ho paura. Cosa accadrà una volta che il tempo tornerà a fare il suo corso? No, perché ho desiderato per cosi tanto tempo che smettesse di scorrere cosi velocemente che alla fine sono rimasto bloccato indietro e non so dove sono e all’inizio mi andava bene, perché era quello che volevo, no? Ma adesso lui è andato avanti e sembra tutto più semplice e ho questo bisogno di farlo anch’io ma non ci siamo più visti o sentiti e il mio angelo non mi ha mai spiegato come fare o forse l’ha fatto e io sono stato troppo distratto, non lo so.

“Che cosa sarei senza questo stato di pesantezza o tristezza? E se il tempo riprendesse a correre normalmente e io scoprissi di non essere in grado di starli dietro? Voglio dire: visto quanta confusione? Questo discorso non ha neanche senso e, non dire niente, lo vedo chiaramente dal tuo viso e solo che ci voglio provare cosi tanto ma ci sono cosi tanti se e ma e io non ne sono in grado e--tanto triste e cosi confuso”.

Libero” fu la sua unica risposta.

“La risposta alla tua domanda: senza quella pesantezza e tristezza” continuò “Tu saresti libero e voglio rivelarti un piccolo segreto che tutti sanno ma nessuno rivela mai: nessuno riesce a stare dietro al tempo, ecco perché io mi tengo cosi tanto in allenamento” disse serio, incrociando le braccia al petto. E forse non ne era il momento ma sorrisi.

“Seriamente Blaine, nessuno sa quello che sta facendo ma se ci tieni cosi tanto a questo tuo stato di pesantezza e tristezza allora ti consiglio di dare un’occhiata al presente. Se proprio ti sentiresti cosi perso senza questo allora almeno sta male per il presente. Perché tutti, prima o poi, si sentono cosi ma non per questo bisogna restare bloccati indietro, non trovi?” non mi diede il tempo di controbattere che riprese a parlare, nel suo monologo senza senso proprio come il mio.

“Ti sentirai cosi anche vivendo nel presente. Il passato è cosi lontano, Blaine, lascialo andare” esclamò con dolcezza per poi proseguire con più serietà: “E con questo non voglio dire che una volta lasciato il passato alle spalle tu sia obbligato o autorizzato a stare male nel presente o al pensiero del futuro”.
“Voglio dire non credo che questo tuo angelo” enfatizzò alzando gli occhi e le braccia al cielo, in modo molto teatrale “abbia fatto tutta quella strada per poi soffrire ancora, giusto? Lui sta bene adesso, no? E allora raggiungimi Blaine, posso portarti con me e ricominciare, magari potresti anche allenarti con me, cosi da non avere più problemi con il tempo” sorrise in modo cosi dolce e aveva cosi tanto della mamma che sorrisi a mia volta.

Mi passai un dito sotto l’occhio destro, cacciando quella piccola lacrima che minaccia di scendere lungo il mio viso e poi tirai su con il naso. Realizzando il modo in cui non mi aveva giudicato o il come era restato in silenzio ad ascoltarmi, forse mio padre gli avrà parlato e insegnato lui che bisogna lasciare il tempo di sfogarsi, prima di dire qualsiasi stupidaggine che gli passava per la testa. O forse era semplicemente maturato con il tempo. Mh! Era molto più probabile la prima, concordai con me stesso.

E cosi restai a fissarlo ed ebbi la sensazione che mi stava lasciando, ancora, il tempo per elaborare tutto quello che era appena stato detto e ne approfittai per farlo realmente, anche perché sentivo che non sarei stato in grado di parlare, senza scoppiare in lacrime.

Sorrisi quando il suo monologo cosi dolce e sincero, tornò ad avvolgersi nella mia testa e abbassai lo sguardo. In un modo o nell’altro mi aveva fatto capire che tra discorsi senza senso e stra parlati, c’erano cose che andava colte. Come la mia paura di ricominciare cosi insensata e la sua richiesta di portami via con lui. Per ricominciare insieme, come il mio angelo aveva ricominciato con me.


Ed è stato che ho capito che sarebbe stata l’ultima. Che dopo che Cooper mi avrebbe lasciato solo - per andare a consolare la mamma e dirle che stavo bene - che avrei scritto la mia ultima lettera e che questa voglia non ne avrei avuto più il bisogno, perché sarebbero state lette e in qualche modo, mi sarei sentito liberato. Proprio come aveva detto Cooper.

E’ stato in questo preciso istante che ho realizzato come avrei potuto essere libero..
 




_________________
*dedica: Questa parola non sta a significare niente. Ho l’abitudine di scrivere di sera e tra l’oscurità della stanza e la luce fastidiosa dello schermo per computer, non sempre riesco a vedere la parole che digito. Quando la mattina rileggo quello che è stato scritto, non sempre capisco cosa volevo dire e questo n’è un chiaro esempio. Adesso, io potevo benissimo cambiare parola e usarne un’altra, ma ero cosi confusa su quello che volevo dire che alla fine ho preferito lasciar stare, sperando che un giorno, rileggendo, io possa esclamare: “Ah! Ora ricordo”. Quindi non è un errore o qualcosa di simile o meglio è un errore voluto che non ho intenzione di cambiare.

Passando al capitolo, non so quanto abbia senso o se si capisce la realizzazione di Blaine, ma ai miei occhi è cosi chiara che non sono riuscita a fare di meglio, quindi spero che un po’ di senso ce l’abbia. Questa è L’ultima lettera di Blaine ma manca ancora un capitolo prima della conclusione. Capitolo che sogno di scrivere, ancora prima di aver scritto il primo. Non so perché lo sto dicendo ma non importa. Detto questo, alla prossima.

SandFrost

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Capitolo 10
*** Ciao Kurt, ***


Dedico questa mia mini long a delle persone speciali che c’erano e ci sono ancora ora.

Alla mia Jacobba
;
A Giulia, la mia ispiratrice;
A Lidia, la mia isola sicura;
A Fra, il mio uragano.

E a Letters to...nobody che mi mancherà tremendamente tanto.
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Se ti sentissi solo. Se avessi bisogno di sfogarti. Se trovassi un elenco telefonico ingiallito dal tempo, sotto il tuo letto. Se ci fossero solo pochi nomi ancora leggibili, e solo uno di questi abbastanza lontano da te. Se avessi il bisogno di chiedere aiuto, ma di non farlo realmente. Se ti venisse voglia di prendere quell’indirizzo e scriverli una lettera...
Cosa gli scriveresti?






Ciao Kurt,
 
Per uno che ha passato mesi a scrivere lettere, devo dire che non ho proprio appreso come se ne inizia una. Sarà che questa volta c’è un nome a inizio lettera e un destinatario sul retro o sarà che questa lettera non è solo una lettera, ma devo dire che non ho mai avuto cosi tante difficoltà a trovare le parole come in questo momento. E forse sarà per questo che la mano trema un po’ e le parole sembrano non voler aiutare.

Fa cosi dannatamente strano essere qui, in questa vecchia casa dove tutto ha avuto inizio e sapere che questa volta sto scrivendo a qualcuno. Non qualcuno nella mia testa o a un nome in un vecchio elenco telefonico, ma qualcuno di reale. Qualcuno con un volto - un bellissimo volto - e una voce angelica. Oh! E quella risata che mi fa mi fa sorridere. Anche in questo momento, mentre sento il cuore che mi potrebbe uscire dal petto. Mi sta facendo sorridere.

E forse questo non avrei dovuto scriverlo. Forse lo cancellerò prima di spedirla. Forse non farò niente di tutto questo, forse lascerò tutto com’è e forse sarò proprio io a leggere questa lettera, guardando i tuoi bellissimi occhi, cosi chiari, da vederci me stesso e l’infinito nello stesso momento.

Ed ero esattamente qui, due giorni fa. Seduto su questa sedia scomoda e cigolante, cercando di non starnutire per la troppa polvere sulla scrivania, a fissare l’immensità di una casa vuota. Esattamente qui, prima di andare via. Prima di ripetermi che era la cosa più giusta da fare e che era arrivato anche per me il momento di fare quel passo avanti, invece del solito indietro. Ed ero proprio qui, con le mie lettere nascoste in un sacchetto di carta marrone stretto al petto, mentre aspettavo di trovare il coraggio di iniziare nel modo migliore.

E mi viene da sorridere se penso a quella mattina e a come era iniziata. Non erano passate neanche 12 ore dalla conversazione con Cooper, che mi ero ritrovato sulla soglia della mia camera, con le valigie fatte ai miei piedi e un biglietto aereo tra le mani. Di sola andata - per dove, non aveva importanza - perché mi avrebbe portato via. Forse troppo lontano.

Ed era giusto, no? Era giusto per me, prendere quelle valigie e andare via. Lasciare tutto alle spalle e scappare, scappare come non avevo saputo fare in tutta la mia vita. Lontano dai miei problemi con il tempo e le mie insicurezze e il mio non sapere come aiutarmi. E forse era cosi sbagliato scappare, ma sarebbe stato comunque un passo in qualche direzione, invece di restare immobile e aspettare.

Ma se c’era una cosa che non potevo lasciare indietro - che non mi sarei mai permesso di lasciare indietro - erano le tue lettere.

Come potevo voltare pagina, quando il mio aiuto più grande, il mio urlo più forte era ancora nascosto dentro un cassetto sotto forma di lettere? Non potevo. Perché forse non avrebbero fatto parte di quel mio nuovo presente ma di sicuro non facevano parte di quel lontano e cosi doloroso passato.

Cosi ho detto a Cooper di aspettare, che dovevo fare un’ultima cosa prima di andare via e provarci ancora. Che c’era un’ultima promessa cui dovevo portare fede e non importava di quanto coraggio mi sarei dovuto armare, lo avrei fatto. Perché quel gesto, non sapendolo ancora, sarebbe stato il mio primo vero inizio ed è cosi che mi sono ritrovato in quella casa.

Dove riecheggiava ancora un urlo di aiuto e che sapeva di parole sussurrate. 

Ricordo di essermi sentito rotto e in aggiustabile, come un fiore che non viene più notato da nessuno e chi lo fa non se ne sorprende più. Qualcosa cui nessuno porge rimedio e che ha fine lì. E un brivido ha attraversato la mia pelle al pensiero di un angelo, che si sentiva nello stesso modo: irrimediabilmente rotto. Un fiore cui nessuno presta più attenzione.

Come un giocattolo rotto - che anche se aggiustato con la massima cura - resta un giocattolo rotto.

E dopo tutto ha perso importanza, come ogni volta con te. Le paure, le insicurezze, le domande sono solo uno sfondo troppo lontano e di poca importanza. Qualcosa da ignorare, da mettere in mostra senza paure, come vittoria personale. Forse questo non ha senso, ma quando tutto perde di importanza, poche cose hanno senso e tu sei l’unica che mi viene alla mente. Ed è cosi che avviene..
 
_________________________________

 
Ero uscito di casa la mattina presto, dopo aver annunciato ai miei - durante la cena - che sarei stato via parte della mattinata e rilassando mia madre, dicendole che non avevo cambiato idea e che sarei partito lo stesso con Cooper nel weekend, come da programma. Non aggiungendo che, sebbene mi sembrasse una cosa troppo drastica,  era la mia unica via d’uscita e che scappare si era rivelata la mia unica soluzione. 

Cosi, una volta in strada, ho cercando di camminare il più in fretta possibile, non per arrivare al più presto ma solo per essere sicuro di non cambiare idea. Dopo aver passato più tempo del dovuto nella vecchia casa disabitata ed essermi sentito perso e con un bisogno di correre via, mi sono rimesso in marchia fermandomi solo di fronte alla casa piccola e accogliente, che vedevo per la prima volta ma che mi sembrava di conoscere da tutta una vita.

Ci avevo impiegato molto più del tempo previsto per arrivarci ma non mi pentì di non aver accettato uno strappo in auto da mio padre. Da una parte perché mi sentivo cosi vulnerabile e nudo, sotto il suo sguardo che sapeva troppo cose, cose che io non ero riuscito a vedere subito e dall’altra parte perché, anche se ci avevo impiegato quasi più di mezza mattinata, adesso ero lì e non potevo tornare indietro.

Tuttavia, non feci nessun passo avanti, come con la vecchia casa abbandonata. Rimasi immobile, perso nei miei pensieri. Cercando di immaginare uno scenario che potesse essere la realtà di quello che mi aspettava e allontanando ogni altra ipotesi: sia troppo positiva, sia troppo negativa. Con le lettere che bruciavano contro il tessuto della mia maglietta e facevano battere il mio cuore.

Cercai di convincere me stesso che ero immobile sul ciglio della strada solo perché ero stanco per la camminata e non perché avevo paura di quello che stava per succedere. Ricordando a me stesso che non sapevo come sarebbe andato tutto quanto e consapevole che lo avrei scoperto presto. Non mi mossi per quelli che sembravano una manciata di minuti, ma quando nella testa si ha uno stadio di pensieri urlanti è difficile scandire il tempo e potevano essere passate anche ore o molto di più. Fu quello a farmi muovere il primo passo verso il vialetto, per raggiungere la porta dell’abitazione.

Avevo avuto problemi con il tempo per tutta la mia vita e stavo per salire su un aereo per cercare di risolverli - o meglio per scappare da essi, urlò una voce, sovrastando le altre. Se non potevo risolverli lì e in quel momento, sarebbe stata sul serio solo una fuga da tutto e non doveva andare cosi, non questa volta. Cosi continuai a camminare e una volta arrivato, bussai alla porta senza avere il tempo di metabolizzare il tutto, perché avevo già sprecato troppo tempo ed era ora di finirla.

Non dovetti aspettare molto, anzi per niente. Quando la mia mano destra, chiusa a pugno, si scontrò dolcemente contro il legno della porta, quest’ultima si spalancò con velocità, quasi stesse aspettando di farlo da tutto il giorno. O forse aspettando di aprirsi proprio per me, perché erano stati due occhi di un azzurro chiaro e un viso dalla pelle candida ad aprirmi e stava…sorridendo.

Il ragazzo più bello dell’intero universo, di ogni singolo pianeta conosciuto e non. Il ragazzo più magnifico nel mio mondo era a pochi passi da me e mi stava sorridendo, con ancora la mano posata sul pomello della porta. In un maglioncino candido che lo rendeva ancora più adorabile. Non notati altro del suo vestiario, perché una strana forza aveva paralizzato il mio corpo e l’unico modo per non precipitare era fissare quel sorriso - quel sorriso che si stava riversando anche nei suoi occhi e in ogni altra parte del suo viso. E magari era solo la pazzia a parlare, ma forse anche nel suo cuore, che sentivo batteva tanto quanto il mio.

Quel sorriso che sembrava aspettarmi da tutto il giorno, per tutta la durata di quelle settimane in cui stava uscendo dal suo stato di incoscienza e forse da tutta la vita - come io stava aspettando lui.

“Iniziavo a credere che avresti passato giorni bloccato ai margini della strada e che non saresti mai avanzato fino alla porta, fino ad arrivare a bussare e aspettare” aveva esclamato, con quel sorriso che stava facendo tremare ogni cosa di me. E nonostante le mie gambe fossero stanche per la lunga camminata, in quel momento stavano tremando anche loro e tenerle ferme e stabili stava diventato una lotta che forse avrei perso.

“Vuoi entrare?” chiese, non distogliendo i suoi occhi dai miei, così da non spezzare il contatto visivo, e non perdendo quel sorriso che mi stava facendo precipitare oltre ogni tempo e limite “Mio padre non è in casa, sai lui è un meccanico e in questo momento è a lavoro, ma sono sicuro che sarebbe felice sapendo che sei passato” e sorridendo ancora, si spostò di lato, non aspettando la mia risposta o leggendola da qualche parte in quel sorriso che mi era nato sul volto.

La casa era accogliente e profumava di buono. Alle parenti, foto di momenti felici, come su molti dei ripiani. I colori erano caldi e sorridendo notai quanto quella sensazione mi ricordasse lo studio di mio padre. Non c’èra la sua enorme scrivania e quella sensazione di tempo che si blocca, ma lasciava comunque quella piacevole sensazione di luogo sicuro. Di amore. Di casa.

Il mio angelo mi indicò un piccolo corridoio che portava alla cucina. Stava preparando il pranzo a giudicare dal ripiano pieno di cibo e da alcune pentole sui fornelli spenti. Sorridendo mi indicò il tavolo e alcune sedie, aspettò che mi sedessi per primo e cosi lo feci. Spostai la sedia più vicina a me e mi sedetti e lui fece lo stesso, pochi istanti dopo. Non riusciva a smettere di sorridere e ci provava, forse perché iniziava a provare dolore alle guancie, per quanto marcato e sincero fosse il suo sorriso.

Fuori da quella porta, mi ero immaginato ogni possibile inizio - come ogni possibile conclusione - ma l’immagine di lui che mi guardava indugiare, lontano dalla porta e poi chiedermi di entrare bhe, quello era stata una sorpresa, e ancora scosso non sapevo come iniziare a parlare. Improvvisamente non ricordavo neanche il sapore delle parole ma niente era sbagliato, non con lui che mi sorrideva ancora.

“Oh! Sono un vero maleducato, vuoi qualcosa da bere? Sarai stanco, voglio dire, cosa tua non è proprio dietro l’angolo e non credo che tu sia arrivato in auto, quindi presumo che tu sia assetato. Posso offrirti qualcosa allora, tipo acqua o non so..ci sono tante bibite nel frigo e-“ iniziò a parlare, come cercando un modo per tenere impegnate le sue labbra e impedirsi di sorridere ancora.

“Queste sono tue” dissi in fretta, porgendo il sacchetto di carta marrone, contenenti dentro le lettere. Non potendo più aspettare. Non riuscendo più a fermare il vorticare, fastidioso, del tempo attraverso il mio corpo.

Perché in quel momento lo avevo capito. Avevo passato mesi credendo di scrivere delle lettere a un nessuno occasionale, a un nome sbiadito di un elenco telefonico, a un portafortuna che avevo creato che giustificasse il mio primo incontro con il mio angelo, fino a quando il suo nome non ha macchiato la pagina. E lentamente le riempiva tutte.

E forse solo in quel momento realizzai che avevo passato mesi a parlare di un angelo che mi stava salvando e che lo stavo facendo proprio con lui stesso e che, proprio in quel momento, quelle lettere stavano tornando al suo proprietario. Che per quanto siano riempite di mie parole, sono sempre state riservate a lui. A lui che mi stava guardando e il suo sorriso si era fatto confuso, mentre spostava il suo sguardo dal mio viso alla busta di carta nelle mie mani, ancora tesa verso di lui.

“I-io non so come iniziare a parlare o cosa esattamente dire. In questo momento sento il mio cervello ribellarsi alle parole ma so anche che questa è la mia ultima occasione di farlo. Nel weekend partirò con mio fratello, nella speranza e con la convinzione, di andare incontro al mio passo avanti, al mio nuovo inizio. Parlare o trovare le parole adatte, soprattutto negli ultimi mesi, si è rivelato abbastanza complicato ma annaspando e tentennando ci sono sempre, più o meno, riuscito.

“E questa volta tu sei qui e sei sempre stato qui e queste sono sempre state tue. E sono stato sciocco a non capirlo subito. A capire quanto ogni cosa ha iniziato a girare intorno a te e adesso lo sento. Ed-- è cosi che avviene? Perché io non ne ho la più pallida idea ma ho questa sensazione, che nell’istante in cui queste saranno tra le tue mani, il mio tempo sarà finalmente in grado di andare avanti e--forse mi gira un po’ la testa adesso e io--mi dispiace”.

E quello stato di intorpidimento che ha da sempre avvolto il mio essere, non dava più peso alle mie gambe, che scattarono in piedi e poi lungo il piccolo corridoi e solo una volta fuori dall’abitazione e con la porta chiusa alle mie spalle, che potei tornare a respirare. Mosso dalla fretta, avevo lasciato cadere le lettere sul tavole e sentivo le mani tremare.

La strada era deserta ma l’idea di camminare ancora mi dava le vertigini, cosi semplicemente rimasi lì. In piedi non molto distante dalla porta, sperando che tu non mi raggiungessi o che non lo facessi subito. Avevo già respirato altre volte ma era la prima volta che sentivo l’aria entrare nei miei polmoni e questo mi fece mancare un battito mentre le parole da me pronunciate, in quell’attimo di follia, tornarono a bruciare.

Non doveva andare cosi. Non era cosi che lo avevo immaginato. Avrei dovuto lasciare le lettere, cercare di creare un discorso che avesse senso e andare via. Tornare verso casa, aspettare e poi partire e solo una volta via, avrei trovato un metodo per far funzionare le cose. E invece no. Il mio tempo aveva avuto l’umorismo di ripartire in quel momento e di trascinarmi via con sé.

E non aveva più molta importanza che io fossi pronto, perché era successo e non ci sarebbe stato modo di tornare indietro.

Cosi me ne restai lì. Imbambolato a cercare di godermi quei nuovi respiri, cercando di calmare la mia mente e trovando il coraggio di tornare a muovermi. E non sono ben sicuro di quanto tempo sia passato, ma questa volta solo perché non avevo un orologio con me. Perché ero più che sicuro che erano passate ore, ormai, e ne ebbi la certezza quando una macchina accosto nel vialetto e Burt ne usci fuori.

Doveva essere passata l’ora di pranzo e doveva essere primo pomeriggio. Starmene lì a parlare del tempo trascorso mi fece sorridere ma questo non fece sorridere Burt che mi si avvicinò chiedendomi cosa ci facessi lì e perché Kurt non mi aveva fatto entrare. Non cercai di spiegarli che l’aveva fatto e che ero stato io a scappare via, semplicemente sorrisi ancora, mentre lui mi chiedeva di entrare e io rifiutavo gentilmente.

Anche se adesso potevo percepire il tempo trascorrere, questo non significava che io fossi pronto ad affrontare ogni cosa. Ma per quel giorno, i miei piani erano destinati a morire sul nascere e quando mi voltai, in direzione della porta, il mio angelo era lì, con gli occhi lucidi e le mie - sue - lettere strette al petto. Nessuna busta di carta marrone a nasconderle. Erano lì, piegate con cura anche se con fretta, con la mia calligrafia a macchiare ogni cosa.

Lo capisco” aveva iniziato lui e mi sembrò cosi sbagliato, che ancora un volta qualcuno parlasse, mentre io tacevo perché con le parole non ho mai avuto un buon rapporto. Avevo sempre desiderato essere diverso, con la risposta sempre pronta e con un monologo da borbottare senza inciampare mai. Ma io non ero così e per una volta, la prima volta, non desiderai cambiare niente di me.

“No, aspetta” cosi aggiunsi, prima che potesse dire altro. Prima che mi potesse leggere e notare ogni venatura. I suoi occhi erano pronti a guardare e non sembrava incline ad aggiungere altro, come se stesse aspettando che fossi io a farlo. Come qualche istante prima, che aveva aspettando dietro la porta, anche se sapeva che avrebbe rischiato di non aprirla mai. E fu quel suo sorriso cosi sincero e puro che mi fece continuare e ancora quella sensazione di tempo che scorre, mi fece tremare ma questa volta mi sentì pronto. Pronto come il mio angelo lo era stato.

“Suppongo che tu le abbia lette, no?” chiesi e quando annuì continuai “Non so se essere più imbarazzato per quello che ho scritto o per come l’ho scritto” sorrisi imbarazzato, ma sarei stato pronto a urlarle tutte quelle cose. “Quando ti ho visto per la prima volta, avevi quel sorriso sulle labbra e ho iniziato a credere che avrei potuto tornare a vivere. Conoscendoti ho iniziato a farlo ma solo ora, dopo questi mesi, l’ho capito.

“Ho capito che il mio tempo non si è mai realmente fermato, ero solo io che ero rimasto indietro. E dopo ogni nostro incontro, che era casuale o desiderato, io facevo un passo avanti e quel passo avanti è in quelle lettere. E ho iniziato a credere che avessi trovato un porta fortuna ma stavo solo assaporando la sensazione di aria miei polmoni. La sensazione di leggerezza quando si percepisce che tutto andrà per il verso giusto ma ancora non riuscivo a vederlo o a dirmelo.

“Poi ti ho visto stare meglio e volevo correre da te e chiederti di aiutarmi. Aiutarmi a stare meglio a mia volta e forse alla fine ho corso. Ho corso per finire qui da te, ho corso nell’istante in cui ti ho consegnato le lettere e forse sto correndo anche adesso. Ma non sto più correndo per rimettermi in pari con il tempo, forse sto correndo per raggiungere te.” Come una nuova boccata d’aria, una lancetta che scocca e si lascia dietro un secondo, quelle ultime parole mi colpirono dritte al petto e come una nuova realtà si fece largo tra i battiti soffocati: Stavo andando via.

Un sorriso triste accompagnò quel pensiero, mentre il mio sguardo si spostava sulle mie mani unite, pronte a torturarsi, quando qualcosa di bianco mi bloccò la visuale. Era un foglio di carta piegato in quattro parti, ma ancora abbastanza grande. Quando sollevai il capo, Kurt mi stava sorridendo con il suo fare dolce e mi incoraggiava a prendere il foglio.

Quando le mie mani toccarlo la superficie liscia e bianca e si mossero come accarezzandolo, sorrisi alla famigliare sensazione - questa volta con un sorriso vero. Feci un respiro profondo prima di aprirlo, con movimenti lenti e insicuri, non sapevo cosa ci avrei trovato scritto dentro. Il foglio era quasi del tutto bianco, tranne per due paroline in cima. Tesi il foglio e lo avvicinai al mio viso, per poter leggere meglio. Le due parole presero forma e il mio cuore si bloccò.

Credo che ogni cosa si sia bloccata in quel momento. Il fruscio del vento tra le foglie degli alberi, i cinguetti degli uccellini, la sensazione della terra che gira sotto i nostri piedi. Gli ingranaggi del mio cervello e forse anche il mio tempo, che riprese a girare quando tornai a fissare il mio angelo. E come sempre, come in tutto quel tempo, lui stava sorridendo e prima che me ne rendessi conto lo sentì esclamare: “Facciamolo insieme. Se vai da solo sarà come scappare, ma se lo facciamo insieme, se mi permetterai di venire con te, sarà come viaggiare”.

E come bisogna comportarsi quando un angelo ti chiede di viaggiare con lui? Bhe io non so cosa avrebbe fatto un persona comune, ma so cosa ho fatto io: ho sorriso. Perché mi ero arreso con le parole e forse non sarei mai riuscito a dire niente di sensato nella mia vita, ma quando le mie mani avvertirono la sensazione della carta tra le mani, quelle due semplici e prepotenti parole tornarono a dare peso al tempo..

 
“Ciao Kurt”
 

Ed è da qui che riprende la mia vita. Perché è vero che un giocattolo rotto, anche se curato con amore resta rotto, ma è stato pur sempre amato. Ed io ho amato un fiore che aveva smesso di credere nella sua bellezza e mentre lo amavo mi sono lasciato amare da lui. Ho lasciato che il tempo sfuggisse dalla mia presa troppo salda per riprendere da dove si era interrotto. E ho corso, corso per arrivare alla mia nuova partenza e poi corso ancora per iniziare un viaggio molto più speciale.
 
 
Perché avevo incontrato un angelo, durante un banale giorno di pioggia, che a pensarci bene di banale non aveva proprio niente. Dopo aver scritto una lettera a qualcuno di irreale, chiedendo aiuto ma non facendolo realmente. E quell’angelo è diventato il mio fiore e in qualche modo ha sentito il mio urlo, forse perché stava urlando anche lui da troppo tempo. E i nostri urli si sono uniti, mescolati e poi dissolti, aspettando il momento in cui saremmo stati pronti.

E credo sarei stato pronto a vivere quel nuovo iniziò, che era iniziato dopo la seconda lettera, mai spedita e ora letta.

 E ora sono qui, seduto su questa sedia cigolante, un foglio bianco appoggiato su una scrivania che sapeva di polvere mentre aspetto il tuo arrivo e la convinzione che restare e iniziare a viaggiare con te, sia stato il miglior primo passo di sempre.

E sì, non rinuncerò mai a queste lettere e sì, non smetteranno mai di parlare di te perché: Hey Kurt….grazie.


 
Blaine.

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