147, Spring Street

di beagle26
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


“Ci sarà qualcuno ad aspettarti.
Forse c’è già qualcuno
E tu non lo conosci ancora.
Lo incontrerai per caso,
tra molti anni e ti sembrerà di aver vissuto
solo nell’attesa di quell’incontro.
E solo allora ti sentirai viva.
Ognuno di noi ha qualcuno che lo aspetta”
 
 
Non sopporto le giornate uggiose come oggi. Il cielo carico di nuvoloni pesanti  non smette più di piangere le sue lacrime sulla città brulicante di umanità frettolosa, indaffarata e distratta. E pensare che da bambina adoravo uscire per strada quando pioveva e saltare nelle pozzanghere più profonde con i miei stivaletti colorati, ridendo come una pazza scatenata.
Poi crescendo, la pioggia ha perso la sua romantica malinconia e sono rimasti solo la fretta, il fastidio, i contrattempi. Salgo a due a due gli scalini della metro, sospinta dalla marea umana, facendo a malapena in tempo ad aprire il mio ombrello verde, sicura che con la fortuna che mi ritrovo, il vento che sferza Manhattan questa mattina riuscirà a capovolgerlo in pochi minuti. Sollevo gli occhi verso i tabelloni luminosi e colorati, verso la cima dei grattacieli dove i familiari sbuffi di vapore si confondono con le nuvole grigie. Mi stringo un po’ di più nel cappottino di lana cercando di ripararmi dall’aria gelida e incamminandomi a passo spedito verso l’ufficio. Il cellulare vibra forte nella tasca: “Al diavolo!” sospiro tra me e me, ma poi penso che potrebbe essere un messaggio del mio boss e decido di infilarmi sotto un portone per poterlo leggere. Mentre cerco faticosamente di estrarre il telefono, reggo contemporaneamente il mio ombrello sgangherato e la pesante borsa di tela con i depliant che mi sono portata a casa dall’ufficio.
“Portami il solito caffè. R.” I miei sospetti erano più che fondati. Faccio una linguaccia al display prima di gettarmi di nuovo sotto la pioggia scrosciante maledicendo mentalmente la mia capufficio. Da quando sono riuscita ad ottenere il posto come stagista alla Mikaelson Communication & PR, la mia vita si divide fra fastidiose commissioni, noiosissime fotocopie di articoli di giornale e lunghe ore di redazione di comunicati stampa per il lancio di nuovi prodotti. Di solito i più interessanti riguardano calcestruzzo, mattoni o contenitori di plastica. Il massimo della vita.
Sono stata assunta come stagista per fare da assistente alla sorella del capo, Rebekah Mikaelson per l’appunto, la quale fin dal primo giorno ha dimostrato nei miei confronti una spiccata antipatia e non ha fatto altro che rifilarmi le incombenze più noiose. Ma se questi sacrifici devono rappresentare il mio lasciapassare per il mondo delle pubbliche relazioni, così sia. Sono determinata a realizzare questo sogno.
È la ragione per cui ho sempre sgobbato sui libri, mi sono ammazzata di lavoro extrascolastico, è il motivo per cui i miei genitori mi hanno fatta studiare.
Ho giurato che ce l’avrei fatta ormai più di sei mesi fa, quando, dopo la laurea in marketing mi sono trasferita nella Grande Mela in cerca di opportunità, lasciandomi alle spalle tutto il resto per tentare il tutto e per tutto.
E così eccomi qui, bagnata e trafelata, ma finalmente al riparo, quando apro la porta della caffetteria proprio sotto al mio ufficio.  Mi faccio strada con lo sguardo fra la solita massa di uomini in giacca e cravatta ed eleganti signore, tutti intenti a sorseggiare una bevanda  scorrendo velocemente i titoli del New York Times o sbirciando i loro costosi i-Pad, incontrando finalmente il sorriso contagioso di Matt.
“Ciao Lena! Il solito?” mi chiede col suo tono gentile e rassicurante mentre si destreggia fra le numerose ordinazioni dell’ora di punta.
“Si grazie Matty… e un caffè con latte scremato per chi sai tu…” rispondo con un’eloquente alzata di sopracciglia.
Il mio amico mi rivolge un’occhiata d’intesa. Conosce bene la prepotenza di Rebekah. “Sua maestà ha iniziato presto a comandare stamattina…” Entrambi soffochiamo una risatina, mentre appoggio la pesante borsa su uno degli alti sgabelli e frugo al suo interno, alla disperata ricerca del mio portafoglio.
Io e Matt abbiamo legato subito da quando mi sono trasferita in città. Forse perché è stato uno dei primi che ho conosciuto, forse perché come me viene da una cittadina di provincia, è un appassionato di cinema ed abbiamo lo stesso senso dell’umorismo.
Oltre ad essere il mio personale spacciatore di caffeina, Matt sogna di sfondare a Broadway come attore teatrale e devo dire che non se la cava per niente male, anche se per adesso si deve accontentare di piccoli ruoli di supporto. Lo ammiro così tanto, ma spesso i suoi modi gentili e i suoi sguardi mi mettono in imbarazzo. Ormai ho capito che lui vorrebbe portare il nostro rapporto ad un livello superiore ma per quanto mi sforzi, proprio non riesco a vederlo come qualcosa di più di un fratellone acquisito.
Caroline, la mia migliore amica dai tempi della scuola, mi burla sempre per questa storia. Secondo lei dovrei lasciarmi andare e pensare a divertirmi col biondino, senza troppe paranoie. Forse non ha tutti i torti.
Cerco di scacciare l’immagine della mia amica che mi fa la ramanzina, e mentre aspetto i caffè mi passo le dita fra i capelli, resi crespi dall’umidità, cercando il mio riflesso nella mensola cromata che regge calici da vino dalle forme più diverse. Non voglio presentarmi a lavoro scarmigliata come al solito e beccarmi qualche commento acido da parte di Rebekah o peggio da suo fratello Klaus, che sa essere addirittura più stronzo di lei.
La mia immagine riflessa mi restituisce qualcosa che immediatamente cattura il mio sguardo.
Mi volto istintivamente. Occhi. Due occhi azzurri, limpidi come un cielo primaverile, protetti da lunghe ciglia nere. Due gemme preziose, incastonate nel volto più bello che io abbia mai visto, così splendido da sembrare scolpito, la pelle diafana e perfetta in contrasto con il groviglio disordinato dei capelli corvini che lo incorniciano. Se ne sta seduto tutto solo in fondo al locale, le braccia incrociate sopra il tavolino.
Il mio cuore perde un battito quando il suo sguardo quasi trasparente si incatena al mio per un lunghissimo istante.
Mi sorride, di un sorriso strano, obliquo ma così sfrontatamente intrigante, che mi esplode dentro agli occhi. Le mie labbra si piegano debolmente all’insù di rimando. Mi sento così stupida. Proprio in quel momento un capannello di giovani studenti si frappone fra noi.
Per la prima volta nella mia vita desidero farmi largo fra la folla per raggiungerlo, abbandonare la mia timidezza per chiedergli il suo nome o qualsiasi altra cosa, pur di poterlo conoscere.
Sento di voler far parte della sua vita, ad ogni costo.
Gli studenti si disperdono fra i tavolini della caffetteria. Lo cerco di nuovo, e di nuovo vengo catturata dal suo sorriso. I suoi occhi non si spostano da me. È come avere due riflettori puntati addosso.
“Pianeta terra chiama Elena…i caffè sono pronti.”
“Oh... Oh Matt! Perdonami… Grazie!” farfuglio afferrando frettolosamente i bicchieri di carta bollenti per voltarmi subito dopo  verso di lui … e accorgermi che non è più al suo posto.
Lo cerco fra la gente, ma è già scomparso, inghiottito dalla folla e dalla pioggia di quel freddo mattino di novembre.
 
*********
 
Se stai leggendo queste righe, vuol dire che sei arrivato a leggere fino alla fine di questo prologo…
Niente mi renderebbe più felice. Perciò se c’è qualcuno che legge, grazie di cuore! J (e come si suol dire: se ci sei batti un colpo!)
So che non si dice molto in queste poche frasi, ma sono volutamente vaghe. Diciamo che è un piccolissimo assaggio, una premessa. Se qualcuno vorrà seguirmi in questa piccola avventura, scoprirà tutto con i capitoli a venire. Ne ho già parecchi pronti, perché prima di trovare il coraggio di pubblicare questa storia ci  ho pensato e ripensato mille volte e nel frattempo ho scritto un poema. Quindi, se un po’ vi ho incuriosito, la notizia positiva è che presto ne potrete sapere di più.
A prestissimo!
(un'emozionatissima) Beagle
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
 
“Afterlife, I think I saw what happens next
It was just a glimpse of you, like looking through a window
Or a shallow sea
Could you see me?

When love is gone
Where does it go?
And where do we go?”
*****
“Vita nell’aldilà, credo di aver visto cosa succede dopo
era solo una visione di sfuggita di te, come guardare attraverso una finestra
o un mare piatto
riesci a vedermi?

quando l’amore se ne va
dove va?
e dove andiamo noi?”
Afterlife – Arcade Fire
 
 
 
È da un’ora buona che fisso lo schermo del pc continuando a scrivere frasi per cancellarle un secondo dopo. Devo assolutamente finire lo spassosissimo comunicato stampa su una malta a presa rapida che mi è stato delegato e sono decisa a fare un buon lavoro, anche se devo ammettere che è piuttosto difficile riuscire a rendere “meno tecnico e più accattivante” un testo del genere.
Questa però è la richiesta della responsabile marketing della Steel Supplies, grosso cliente di forniture per edilizia di Rebekah. Naturalmente la rogna è finita dritta dritta sulla mia scrivania. Beks non perde mai il suo  tempo dietro a banali questioni di routine.
A proposito del mio capo, è tutta la mattina che sorride e si aggiusta il trucco al di là del vetro che separa il suo elegante ufficio da quello di noi comuni mortali. Oggi deve essere di buon umore, mi ha perfino ringraziata per averle portato il caffè. Sarà andato in porto quel contratto che insegue da un po’?
 
Da una settimana a questa parte, ogni mattina alla stessa ora faccio tappa alla caffetteria di Matt.
Quasi senza rendermene conto, ho iniziato a cercare un bagliore celeste nel mio riflesso sulla mensola e  a lanciare occhiate fugaci e distratte al tavolino in fondo alla sala.
Anche se faccio fatica ad ammetterlo perfino a me stessa, una parte di me avrebbe voluto ritrovare quello sguardo, capire perché mi ha tanto turbata. Ma di lui nessuna traccia.
Oggi, mentre attendevo al banco la mia ordinazione, Matt mi ha chiesto di uscire insieme questa sera.
Mi ha parlato di uno spettacolo teatrale a Williamsburg o qualcosa del genere.
Ho farfugliato una scusa, neanche troppo convincente, ho preso le mie cose e me ne sono andata. Quando lo racconterò a Care non ne sarà entusiasta, ma non ci posso fare niente.
Matt è gentile, è anche piuttosto carino e molto simpatico. Eppure, come sempre, manca qualcosa. Manca qualcosa dentro di me.
 
Quando avevo sedici anni guardavo i miei genitori innamorati con ammirazione e sognavo di trovare un uomo perfetto come il mio papà. Un uomo integerrimo, da amare per sempre, su cui contare per sempre. Pensavo che a venticinque sarei stata già sposata, addirittura una mamma in carriera, con un cane, possibilmente Labrador, e un giardino da curare la domenica.
Adesso che ho raggiunto quell’età mi rendo conto che la mia idea dell’amore era a dir poco superficiale. Non che adesso abbia le idee più chiare, anzi,  più semplicemente, credo che l’amore non faccia per me.
Al college stavo con Tyler Lockwood, il quarterback della squadra di football.
Ero diversa in quel periodo, più gioiosa. Lui diceva sempre che adorava vedermi ridere, perdermi nella mia spensierata felicità.  Andava tutto bene fino a che ho scoperto che si ripassava mezzo dormitorio femminile e, come sempre succede, tutti lo sapevano tranne la sottoscritta. Col senno di poi ho realizzato che forse non ero veramente innamorata di Tyler, semplicemente lo avevo eletto co-protagonista del mio assurdo progetto di vita. Ho dovuto rivedere le mie teorie.
E poi ho scoperto un’altra cosa: il “per sempre” che tanto agognavo, non esiste.
L’ho capito un pomeriggio di un anno fa, mentre aspettavo i miei genitori di ritorno da una gita al lago.
Una gomma della loro auto è esplosa in autostrada e sono stati travolti da un camion che viaggiava subito dietro di loro. Non c’è stato nulla da fare. Era troppo presto per loro, troppo presto per me per dovermene separare. Quel giorno un pezzo del mio cuore si è congelato, le mie certezze si sono dissolte. Ho dovuto fare i conti con l’imprevedibilità del caso e ne sono rimasta destabilizzata.
Poco a poco, ho tentato di ricostruire delle sicurezze a cui aggrapparmi. Per adesso, tutti i miei sforzi e i miei desideri sono concentrati nel realizzarmi professionalmente. Vorrei dare un senso alla mia vita e a quella di mia madre e mio padre, a tutti i loro sacrifici. Anche se non lo sapranno mai.
 
A volte penso che dovrei piantarla con le sciocchezze che mi dice il cervello, chiudere in un cassetto tutte le mie paranoie e dare una possibilità a Matt… ma non ho la vocazione della fidanzatina, finirei per deluderlo e perderei la sua amicizia. Non voglio correre questo rischio, perché lui mi piace.
 
Il suono del telefono interrompe il filo ingarbugliato dei miei pensieri. Rebekah mi parla dalla cornetta fissandomi con il suo sguardo glaciale al di là del vetro. “Elena prenota un tavolo per due da Pastis per le 13.00” mi ordina perentoria, lisciandosi una bionda ciocca di capelli fra le dita. “Pastis… ricevuto!”.
Cerco subito il numero sull’agenda e mi affretto a fare quello che mi ha detto. Non posso fare a meno di invidiare un po’ Rebekah che si gode sempre la parte più divertente del lavoro.
Appena riattacco, il telefono riprende a squillare. Riconosco sul display il numero di Care. Per un attimo ho paura di aver evocato la sua predica col pensiero. Non capita spesso che mi chiami in ufficio, di solito è piuttosto impegnata. Lavora come collaboratrice per una rivista di moda, come dire che sta dall’altra parte della barricata rispetto a me, il che è piuttosto bizzarro, ma spesso ci permette di incontrarci anche per questioni lavorative.
 
“Ciao Care! Va tutto bene? Come mai mi chiami a quest’ora?”
 
“Tesoro questa sera c’è una festa a cui non puoi assolutamente mancare” strilla nella cornetta.
 
“Di che si tratta?” sbuffo. Non sono una tipa molto mondana, ma lei decisamente si e non perde occasione per coinvolgermi nelle sue avventure. È sempre così risoluta e travolgente che non riesco quasi mai  a dirle di no.
 
“Ti ho raccontato di quel tipo che ho conosciuto in palestra no? Questa sera darà una festa nel suo appartamento a SoHo e mi ha invitata! Non è splendido?”
 
“E’ fantastico Care, davvero. Ma io cosa c’entro scusa?”
 
“Stai scherzando? Non vorrai mica mandarmi da sola! E se poi viene fuori che è un maniaco pervertito e mi ha raccontato della festa solo per approfittarsi di me? DEVI accompagnarmi.”
 
“Messa giù così si prospetta una serata interessante” commento ironica “comunque ok Care, solo non facciamo troppo tardi. Domani ho un’infinità di telefonate da fare per la conferenza stampa di cui ti ho parlato… non voglio arrivare sfatta al lavoro.”
 
“Sempre la solita stacanovista… un po’ di vita sociale non può che farti bene. A quanto ne so ci sarà un sacco di gente e…”
 
“Ok, ok tranquilla mi hai convinta…” rispondo alzando gli occhi al cielo, contenta di non essere vista.
 
“Sei un angelo! Scappo, ci sentiamo più tardi.”
La sento scoccarmi un bacio e non posso fare a meno di sorridere.
 
Mi affretto a chiudere la conversazione e a riprendere in mano il mio lavoro, prima di essere beccata a farmi i fatti miei. Guardo al di là del vetro. Rebekah non è più da sola, riesco ad intravvedere un uomo seduto di fronte a lei. Deve essere entrato mentre ero al telefono. Mi da le spalle, ma deve essere uno che conta se lei fa quella faccia compiaciuta… la sua tipica faccia “da soldi” insomma.
La vedo allungarsi sulla scrivania per… baciarlo… oh mio Dio, ha un nuovo ragazzo! Ecco spiegato il suo insolito buon umore. Sogghigno soddisfatta della mia piccola scoperta. Adesso ho anche io un bel gossip da condividere con le colleghe in pausa pranzo.
Quando Becks si alza per avvicinarsi alla porta dell’ufficio, ondeggiando sul suo tacco dodici, mi affretto a portare lo sguardo sullo schermo del computer, dove giace abbandonato il mio comunicato stampa incompiuto.
Pochi istanti dopo sento la sua voce farsi più vicina.
Alzo timidamente gli occhi. Il cuore sembra schizzarmi dritto in gola.
Per la seconda volta incontro gli occhi più straordinari che abbia mai visto. Il mio bel sconosciuto del bar è in piedi accanto a Rebekah che sorride radiosa e soddisfatta, mentre a me sta venendo un mezzo infarto.
 
“Damon questa è la mia assistente, Elena.” mi presenta, con finta cortesia.
 
“Elena lui è Damon Salvatore, un mio… ehm amico, nonché nuovo cliente dell’agenzia.” Non può proprio fare a meno di vantarsi, lanciandogli un’occhiata da vera predatrice.
 
Lui allunga la mano verso di me mentre scatto in piedi cercando di elaborare queste nuove informazioni. Dunque ricapitoliamo: nuovo cliente, “amico”… Ok non può essere.
Il contatto con la sua mano mi fa trasalire, ma cerco di non darlo a vedere. “E’ un vero piacere conoscerti Elena.” Il suono del mio nome sulle sue labbra mi fa un effetto strano, indefinibile.
È formale, eppure mi sembra di scorgere un che di malizioso e divertito, una scintilla di intesa nel suo sguardo. Non riesco a capire se è solo un’impressione, troppo distratta dal suo volto e dall’assurdità della situazione per poter ragionare in modo coerente.
“Molto lieta Signor Salvatore.” dico automaticamente. Fortunatamente la mia buona educazione ha la meglio sulla mia mente, che ha temporaneamente appeso il cartello “Fuori Servizio”.
“Chiamami Damon.”
“Damon.”
Sento le guance in fiamme. Riesco a pensare solo ad una cosa: Dio, sta con Rebekah.
Dentro di me si fa strada una sensazione amara… una piccola fitta di delusione che cerco di soffocare sul nascere. Se sta con lei non può che essere uno spocchioso pieno di soldi e di boria, l’identikit del suo uomo ideale. Piuttosto attraente, devo dire, ma pur sempre spocchioso.
Abbasso lo sguardo lasciandolo vagare tra i fogli sparsi sulla mia scrivania.
“Andiamo a pranzo Dam?” gli chiede dolcemente la bionda. “Hai prenotato vero?” prosegue poi rivolta a me, scaricandomi contemporaneamente una pila di carte tra le braccia. “Farò tardi perciò veditela tu con questa rassegna stampa.”
Si allontanano. Lui, vestito completamente di nero, non mi degna di uno sguardo mentre le apre la porta, prendendola per mano subito dopo e scomparendo dalla mia visuale.
 
 
Più tardi, a casa con Care, ripercorro i fatti della giornata mentre ci prepariamo per la festa del suo amico.
 
“Elena, mi stai sorprendendo. I tuoi ormoni hanno dato un cenno di vita? Questa si che è una notizia da prima pagina.”
 
“Spiritosa.”
 
“No, seriamente. Riassumiamo. Hai una fila di uomini che ti muoiono dietro ma tu no!! Tu sbavi per un tizio belloccio capitato per caso al bar, e guarda caso questo se la fa con la strega che ti ritrovi come capo. È incredibile, il tuo karma ha bisogno di una messa a punto ragazza!”
 
“Io non sbavo… ero solo un po’ incuriosita, ecco tutto. E comunque, chi se ne frega.” rispondo seria, però poi non posso trattenermi dallo scoppiare a ridere sentendo il tono con cui ha pronunciato l’ultima frase.
Caroline scuote la testa, ma non approfondisce oltre. Fortunatamente questa sera ha di meglio a cui pensare.
 
“Non parliamone più, dai.” concludo, aggiustandomi il vestito che mi ha prestato e pescando dal portagioie sopra il comò il braccialetto di perline di mia madre.
 
“Vieni qui Elena, ti aiuto ad allacciarlo.” sussurra lei con dolcezza afferrandomi il polso e lasciandoci una carezza sfuggente dopo aver appuntato il bracciale.
 
“Quello che ti ci vuole è sana distrazione. Distrazione a pacchi!” prosegue “Sai no? Un po’ di musica, alcolici da quattro soldi e qualche bel ragazzo, possibilmente senza implicazioni con la Mikaelson… e io sono qui per questo!”
 
Mi fa un occhiolino ed io le sorrido riconoscente “Hai ragione! Andiamo a divertirci amica!”
 
La festa si tiene in un loft strepitoso a Spring Street, nel cuore di SoHo, uno dei quartieri di Manhattan che preferisco. Per una volta ci siamo concesse il lusso di un taxi: non avevamo voglia di prendere la metro da Brooklyn, dove abitiamo entrambe, tutte agghindate e con i tacchi a spillo che Care mi ha costretto ad indossare.
Il loft è arredato splendidamente: pezzi di vero antiquariato spiccano fra gli asettici mobili contemporanei in un mix veramente ben riuscito, sicuramente frutto del lavoro di qualche interior designer.
Il bianco ed il nero la fanno da padrone, in contrasto con i pavimenti in legno chiaro. Ci sono fasci di rose rosse in bella mostra in ogni dove. Care si muove con disinvoltura nel grande salone, già colmo di persone, conducendomi nell’angolo bar e piazzandomi un drink in mano. Faccio tintinnare il ghiaccio con perplessità, scrutando il liquido trasparente per poi prenderne un piccolo sorso, nella speranza che l’alcol mi aiuti a sciogliermi un po’. I miei buoni propositi riguardo la “sana distrazione” si sono già in buona parte dissolti appena ho messo piede qui dentro.
Mentre Care è abbagliante, perfettamente a suo agio nel suo miniabito color cipria, i capelli che ricadono in morbide onde sulle spalle, io mi sento terribilmente fuori luogo in questo posto così sofisticato. Per fortuna indosso il vestito  che lei mi ha prestato e non i miei soliti jeans con le Converse.
La vedo agitare una mano verso un ragazzo che cammina verso di noi, e capisco che deve trattarsi del tipo della palestra. Quando si avvicina non posso fare a meno di notare che sembra un modello da copertina: alto, magro ma muscoloso, splendidi occhi di un verde brillante.
Afferra la mano della mia amica, depositandole un bacio sulla guancia.
 
“Ciao..” gli bisbiglia Caroline in brodo di giuggiole, per poi ricomporsi automaticamente, vittima delle sue inveterate buone maniere. “Elena ti presento l’amico di cui ti avevo parlato… il padrone di casa, Stefan. Stefan lei è la mia migliore amica, Elena.”
 
“Piacere di conoscerti, ho sentito tanto parlare di te!” risponde lui, stringendomi calorosamente la mano.
È realmente amichevole e mi piace subito.
 
“Che ne dite della festa?” prosegue guardandosi attorno.
 
“È fantastica, grazie per averci invitate Stef!” esclama Care sbattendo le ciglia. È davvero presa da lui!
Visti insieme, sembrano la copia umana di Barbie e Ken e per un attimo riesco a immaginarmeli nella loro casetta tutta rosa…
 
“Hai una casa molto bella Stefan” mi complimento sincera, sull’onda di quella strana fantasia.
 
“Grazie. In realtà non è solo mia, la condivido con mio fratello. È tornato in città da poco per aiutarmi con l’azienda di famiglia.”
 
“Stefan si occupa progettazione e realizzazione di mobili di design. E solo in materiali ecologici.” lo interrompe un’adorante Caroline.
 
“Oh.. molto interessante.”
 
“Allora, mi sembra di aver capito che lavori nel ramo del marketing o qualcosa di simile...Sbaglio?”
 
“Proprio così, lavoro per un’agenzia di comunicazione. Beh in realtà sono solo una stagista e… comunque, forse la conosci…”
 
Stefan non mi sta più ascoltando, sta guardando oltre le mie spalle “Scusa Elena, ecco mio fratello. Vorrei presentarvelo ragazze, infondo è il suo ritorno che stiamo festeggiando…Damon?”
 
A solo sentire pronunciare quel nome mi congelo sul posto e letteralmente non credo ai miei occhi quando scorgo la figura che si avvicina a noi.
Ancora lui.
 
 
*********
 
Per prima cosa tengo a ringraziare le splendide ragazze che hanno recensito la storia… davvero grazie con tutto il cuore! Mi avete dato una gioia indescrivibile e totalmente inaspettata. Da lettrice devo dire che ho spesso sottovalutato l’importanza che la recensione può avere per l’autore… non lo farò più, anzi cercherò di rimediare dove possibile.
Venendo alla storia, forse questo capitolo vi avrà un po’ annoiate ma mi serviva per raccontarvi di più della mia Elena. Nel dubbio di non essermi spiegata bene, provo a farlo anche qui. Elena da ragazzina aveva una visione molto standardizzata e superficiale dei sentimenti. Immaginatevela in una specie di famiglia del mulino bianco, senza grossi problemi o drammi. La sua storia più importante e duratura è finita come è finita, ma alla fine si rende conto anche lei che era un rapporto immaturo anche da parte sua. La perdita improvvisa dei genitori le toglie certezze. Elena cerca disperatamente di controllare tutto il controllabile nella sua vita, concentra tutte le energie sulla carriera e per il resto è bloccata. Damon in questo capitolo appare solo di sfuggita… scopriamo solo alcuni piccoli indizi su di lui, abbiamo la conferma che la sua sola comparsa crea degli strani squilibri ad Elena che però cerca, con molta fatica, di tenere tutto a bada come al suo solito.
Un ultima cosa: l’ambientazione newyorkese non è casuale, ossia essendo la mia prima ff volevo aggrapparmi a qualcosa che ho visto veramente e quindi ecco spiegata la scelta di New York. Mi sono facilitata il lavoro e poi vorrei trasmettervi un po’ della magia di questa città.
Spero di non avervi deluso! Alla prossima.
Beagle

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
I am a one way motorway
I'm the one that drives away
then follows you back home
I am a street light shining
I'm a wild light blinding bright
burning off alone
 
*****
Sono un'autostrada a una sola corsia
Sono quello che se ne va,
ma poi ti segue fino a casa
Sono un lampione che illumina
Sono una luce selvaggia che ti acceca col suo bagliore
e che brucia solitaria
 
Time like these – Foo Fighters
 
Ancora lui. Si avvicina a noi, molto disinvolto, e non posso fare a meno di notare quanto possano sembrare sexy su di lui quei jeans scuri, un maglioncino girocollo nero e i capelli sempre disordinati.
Ci rivolge un sorriso splendente, che raggiunge i suoi occhi di cristallo, puntati…su di me.
Riconosco con un po’ di imbarazzo la familiare stretta allo stomaco provocata dalla sua presenza.
Mi volto verso Caroline per lanciarle un cenno d’intesa, ma ha già capito tutto a giudicare dal modo in cui sta sgranando gli occhi.
 
“Ciao Elena. Stefan. Non mi presenti la tua amica?”
 
“Caroline Forbes” interviene la bionda allungando una mano verso Damon, che la afferra e la sfiora con le labbra, per poi tornare a fissarmi.
 
“Vi conoscete?” chiede Stefan sorpreso, spostando lo sguardo dubbioso da me al fratello.
 
“Ti avevo parlato del mio appuntamento con la Mikaelson di stamattina? Si da il caso che Elena lavori per loro.”
 
“Oh.. che coincidenza!”
 
-Si Stefan, e tuo fratello, per coincidenza, si fa il mio capo…- vorrei commentare.
 
“Rebekah è qui?” dico invece, non senza un’involontaria nota di preoccupazione nella voce.
 
“L’ho invitata ma ha rifiutato. Domani deve alzarsi presto per lavoro. Tu no?” ribatte lui alzando un sopracciglio, un’ombra di ironia nella sua espressione.
 
Stefan e Caroline ci guardano con sospetto.
 
“Oddio Stef senti questa canzone! La adoro! Balliamo?” irrompe lei, tirandolo per un braccio. Che diavolo sta facendo? La incenerisco con un’occhiata più che eloquente, di cui finge di non accorgersi, mentre Stefan non se lo fa ripetere due volte e la trascina in pista rivolgendoci un’alzata di spalle come giustificazione.
Mentre Damon mi osserva con un’espressione indecifrabile, continuo a rigirare la cannuccia nel bicchiere muovendo i cubetti di ghiaccio da una parte all’altra. Il suo modo così sfacciato di fissarmi, la sua stessa presenza accanto a me mi rende inquieta. Ma c’è sempre quel qualcosa, come la prima volta in cui l’ho visto, che mi fa tremare dentro. È una sensazione completamente diversa dal nervosismo, e se possibile mi spaventa ancora di più. È lui ad interrompere per primo quel pesante momento di silenzio.
 
“Ti incontro dappertutto. Comincio a pensare che sia un segno.”
 
“A quanto pare capiterà ancora spesso, visto che sei.. un grande amico di Rebekah.” Concludo la frase con un sorrisetto sarcastico e mi esce un tono decisamente più acido di quanto avrei voluto.
 
Mi studia, sembra divertito. “La cosa ti infastidisce?”
 
“Perché dovrebbe?”
 
“Non lo so, la prima volta che ti ho vista, al bar, ricordi? … Mi sembravi molto diversa. Più… disponibile.”
 
“Sei tu che continuavi a fissarmi!”
 
“Non mi sembrava che ti dispiacesse.”
 
“Già, non mi dispiaceva. Adesso però ci siamo conosciuti e sai una cosa? Mi sembravi più carino quando stavi in silenzio.” Mi  pento all’istante delle mie parole così brusche. Infondo è un cliente, nuovo per giunta. Dovrei essere più professionale. Ma mi sento così… irritata dai suoi modi che non riesco a trattenermi.
 
“Così mi ferisci. Hai proprio una lingua biforcuta ragazzina.” Si porta una mano al cuore come se lo avessi colpito a morte, ma non smette di sorridermi con quell’aria strafottente.
 
“E comunque non dovresti essere gelosa di Rebekah. Non è la mia ragazza.”
 
“Come sarebbe a dire?”
 
“Sarebbe a dire che siamo amici. Amici con qualche beneficio, non so se hai capito.”
 
“Ho capito benissimo. Se devo proprio dirtelo, relazioni sessuali del mio capo non mi riguardano e non mi interessano Damon ok? Non c’è nessun bisogno che tu stia qui a darmi spiegazioni.” rispondo piccata.
 
“Scusami se ti faccio sentire a disagio. Non è mia intenzione.”
 
“Sì che lo è. Altrimenti  non staremmo facendo questa conversazione.”
 
“Hai ragione, in effetti ho altre intenzioni. Balli?” chiede con un sorriso obliquo. Mi sta troppo vicino, mi confonde. Cerco di riprendere il controllo di me stessa.
 
“Oh andiamo…”
 
“Sai dovresti essere più gentile con me. Potrei raccontare a Rebekah che sei scortese con i suoi preziosi clienti.”
 
“Forse hai ragione. Io potrei dirle che tu fai il cascamorto con la sua assistente. Che te ne pare?”
 
“Mi confondi con qualcuno a cui importa qualcosa. A me non importa di nulla e di nessuno.”
 
La freddezza con cui pronuncia queste parole mi colpisce in un modo che non credevo possibile. Mi rendo conto che è una persona completamente diversa da quella che la mia immaginazione distorta aveva creato. Certo, provo una qualche attrazione per lui, ma mi passerà. O me la farò passare.
 
“Fammi indovinare. Tu sei una di quelle che sostengono che il lavoro e la vita privata non vanno confusi. Il tuo punto di vista ha i suoi fondamenti, però quando incontri qualcuno con le “doti” di Rebekah non puoi proprio tirarti indietro.” continua, sempre sarcastico.
 
“Penso solo che dovresti essere più discreto e smetterla di mettere doppi sensi in tutto quello che dici. Se vi soddisfa usarvi a vicenda, per me va benissimo.”
 
“Non puoi immaginare quanto.” Mi rivolge uno dei suoi sorrisi obliqui, tanto sexy quanto irritanti.
“Così giovane e così moralista, Elena? Non mi convinci.” continua, il suo sguardo cristallino a pochi centimetri dal mio viso e spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
 
Mi sta mettendo alla prova? Il contatto delle sue dita con la pelle sensibile del mio collo mi provoca un brivido involontario. Il mio corpo e la mia mente in questo momento parlano due lingue totalmente diverse. Indietreggio di un passo.
 
“Ok, direi che per questa sera abbiamo chiacchierato abbastanza. Ci si vede in ufficio quando passi a trovare la tua… beh la tua scopamica o come la vuoi chiamare. E si, raccontaglielo pure se vuoi.”
 
Sembra soddisfatto. Piega la testa di lato lanciandomi un’occhiata tagliente. “Ti ringrazio per aver dimostrato che la mia teoria è giusta. Buon divertimento Elena.”
 
Poi, con un gesto inaspettato, prende una rosa rossa da un vaso e me la porge, allontanandosi subito dopo.
Confusa afferro il mio bicchiere, sprofondando imbronciata su un divanetto poco più in la.
 
Più tardi sono seduta su uno sgabello con il bicchiere in mano e la certezza di aver esagerato con gli shot. Caroline, dopo balli e baci infuocati con Stefan è sparita chissà dove, e io ho annegato la mia solitudine e il mio disappunto nella tequila, accompagnandola con un numero imprecisato di sigarette.
Non conosco nessuno e  mi sento spaventosamente a disagio. Immagino che l’idea iniziale fosse quella di darmi un tono. E poi Damon mi ha innervosita così tanto. Per tutta la sera l’ho osservato senza farmi notare mentre passava da una conversazione all’altra con disinvoltura, proprio come un perfetto padrone di casa, ignorandomi totalmente.
Non ho potuto fare altro che versarmi da bere un bicchiere dietro l’altro, come se non sapessi quanto sia bassa la mia tolleranza all’alcol. Ora mi sento tremendamente stupida. Non è da me cacciarmi in queste situazioni.
 
“Hey dico a te! Balli?” Un tipo alto e biondo mi sta parlando, interrompendo il flusso sconnesso dei miei pensieri. Chissà da quanto se ne sta qui.
 
“Certo!” esclamo convintissima, scendendo dallo sgabello dove sono appollaiata, non prima di aver buttato giù un altro shot di tequila. Sono pessima, lo ammetto. Le gambe mi tremano un po’ e questi stupidi tacchi mi rendono ancora più instabile, ma mi faccio trascinare al centro del salone, dove c’è ancora un po’ di gente piuttosto su di giri. Ormai si è fatto tardi, troppo tardi, e l’alcol evidentemente non ha fatto effetto solo a me.
Inizio a muovermi  ma devo reggermi al tizio biondo per non cadere a terra. Lo sento sfiorarmi la schiena e appoggiarmi le mani sui fianchi, accarezzando piano il tessuto leggero del mio vestito.
Mi gira la testa, e mi aggrappo a lui più forte. Sento il suo respiro sul collo, le sue labbra che mi sfiorano la mandibola mentre ondeggiamo. O forse è la stanza che si muove.
Si avvicina per baciarmi e sento che potrei vomitare da un momento all’altro. “Ti prego, no.”  riesco a balbettare confusa. Lui mi ignora e mi bacia l’angolo della bocca. “Smettila, per favore, non mi sento bene.” riesco a farfugliare, senza essere decisa come vorrei.
“Aaron vai a farti un giro.” Il suono di una voce che ho già imparato a riconoscere irrompe alle mie spalle.
Il biondino scompare subito dal mio campo visivo, rimpiazzato immediatamente da Damon. I suoi occhi mi sembrano enormi mentre mi guarda con preoccupazione.
 
“Elena, ma quanto cazzo hai bevuto?”
 
Riesco solo a percepire la sua mano che mi sfiora dolcemente i capelli. È così bello questo contatto, che istintivamente piego il viso contro le sue dita per sentirlo di più, chiudendo gli occhi. Mi rendo conto subito di aver commesso un errore perché appena abbasso le palpebre la testa comincia a girarmi ancora più forte.
 
“Guardami. Apri gli occhi.”
 
Forse allarmato dalla mia espressione stranita, Damon mi trascina in bagno in un lampo. Vorrebbe entrare con me ma con un ultimo briciolo di lucidità riesco a spingerlo fuori e chiudermi dentro a chiave. Trenta secondi dopo lo stomaco mi si rovescia. Che ironia, io che vomito in questo raffinato bagno vittoriano, mente lui è li fuori. È decisamente uno dei momenti più umilianti della mia vita.
Fortunatamente non appena lo stomaco si svuota dall’alcol mi sento subito meglio. Mi sciacquo il viso e la bocca e mi guardo allo specchio, incontrando il mio riflesso stravolto “Ridicola, sei una ragazzina ridicola.”
Proprio stasera dovevo scegliere per la mia regressione adolescenziale?
Apro timidamente la porta. Lui c’è ancora. E’ appoggiato contro il muro e appena metto un piede fuori mi viene incontro.
 
“Stai meglio Elena? Dannazione eri bianca come un cadavere.”
 
Stranamente non c’è traccia di ironia nella sua voce, e questo mi fa prendere coraggio. Scruto i suoi grandi occhi cerulei sentendomi sempre più mortificata.
 
“Ti prego, non dire nulla a Rebekah… sono stata… una cretina.”
 
Mi sorride, comprensivo. “Vieni, ti accompagno a casa.”
 
“Ma Caroline? E poi sto a Brooklyn, è lontano.”
 
“A lei ci pensa Stefan, non preoccuparti.”
 
“No. Non è una buona idea.”
 
Pochi minuti dopo siamo giù in strada, aspettando il taxi che l’ho costretto a chiamare. Non posso reggere un viaggio fino a Brooklyn con lui, non ho la forza mentale per poterlo fare.
 
“La vedi quella?” dice indicando un’auto celeste parcheggiata poco distante “Potevi tornare a casa su di lei, non con uno squallido taxi. Sai quante donne avrebbero voluto essere al tuo posto? Ma tu… tu sei così testarda.” Mi sembra più scherzoso, meno sfrontato di prima. Ne sono contenta perché non so se sarei in grado di rispondergli a tono. Probabilmente gli faccio pena e non vuole infierire.
 
“Bella macchina.” commento distrattamente.
 
“Puoi dirlo forte. In effetti, adesso che ci penso, il taxi è una buona idea. Potevi vomitarmi sui sedili, razza di ubriacona.” mi punzecchia con un sorriso sornione.
 
Un po’ me lo merito, quindi decido di non ribattere e affondo un po’ di più nel collo del mio cappotto. L’aria è gelida ma non mi dispiace. Inspiro a fondo sperando che mi aiuti a riacquistare un po’ di lucidità.
 
“Di un po’ ti comporti sempre in questo modo? Ti facevo così seria, così perbenista…” chiede, con gli occhi fissi su di me che invece faccio di tutto per evitare il suo sguardo, scalciando sassolini immaginari dal marciapiede.
 
“Non posso dire di essere un’habitué. È che questa sera mi ha preso una strana malinconia e ho reagito nel modo sbagliato. Il che è piuttosto strano per me.” Lo guardo timidamente per un istante, vergognandomi della mia stessa ammissione.
 
“Elena, Elena” esordisce, col tono saggio di chi rimprovera un bambino piccolo “Sei troppo controllata, così quando ti lasci andare finisci per esagerare. Dovresti fare come me e imparare a divertirti.”
 
Non voglio rispondere a questa sua analisi psicologica da quattro soldi. Mi limito ad un’alzata di spalle.
Lui mi rivolge il solito sorriso obliquo. Prendo coraggio.
 
“Grazie per avermi liberata da quel tizio. E scusa per… beh per averti quasi vomitato addosso.”
 
Lo vedo soffocare una risata. “Prego Elena. E poi, mi piace mettere al suo posto quel coglione di Aaron.”
 
Per un po’ restiamo in silenzio, entrambi con la schiena appoggiata al muro del palazzo. Il mio corpo percepisce violentemente la sua presenza accanto a me.
Mi scopro a ripensare alle sue dita che scorrono tra i miei capelli, la sensazione che ho provato al contatto della sua pelle fredda sul mio collo.
Mi sento in completamente in preda alle emozioni. E non c’è nulla che mi spaventi di più.
E poi mi ritornano in mente le sue parole di prima “A me non importa di nulla”, i suoi occhi glaciali mentre le pronunciava, pieni di un sentimento che non riesco a indovinare.
Perché è così strano?
Il taxi parcheggia di fronte a noi. Quando sto per aprire la portiera, Damon allunga un braccio e mi afferra la mano, avvicinandomi a sé. Sento il suo respiro addosso e l’intensità del suo sguardo che mi scava dentro. E quelle labbra troppo vicine, che mi tolgono il fiato.
“Ti ho fatto un favore questa sera. Adesso hai un debito con me. Non dimenticarlo.” Poi abbandona la presa si volta e se ne va, lasciandomi un ricordo in più da dover cancellare.
 
 
*********
Ciao : )
Questo è il continuo del capitolo precedente… perciò ho pensato di lasciarvelo.
Ne ho ancora 2-3 già pronti, perciò fra poco la smetterò di stressare con la pubblicazione seriale e vi lascerò in pace per un po’ :-P
Grazie di cuore a chiunque legge e passa di qui! Siate buone con me… è tutto una novità anche per me e sto cercando di cavarmela meglio che posso!
Beagle

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
..I’m letting go, but I’ve never felt better
Passing by all the monsters in my head
I move slow and steady
But I feel like a waterfall
Yeah, I move slow and steady
Past the ones that I used to know
And I’m never ready
‘Cause I know, I know, I know
That time won’t let me
Show what I want to show..
*****
Lascio perdere tutto, non mi sono mai sentito meglio
Passando oltre tutti i mostri nella mia testa
Mi muovo lento e costante
Ma mi sento come una cascata
Sì, mi muovo lento e costante
Oltre tutti quelli che conoscevo
E non sono mai pronto
Perché so, so, so
Che il tempo non mi permetterà
Di mostrare ciò che voglio mostrare
 
“Slow and Steady” – Of monsters and men
 
La sveglia mi sbraita nel cervello. Sono le sette del mattino e io ho uno spaventoso cerchio alla testa post sbornia. Mi trascino ugualmente fuori dal letto. Penso con gratitudine alla nonna di Bonnie, la mia coinquilina, che ha invitato la nipote a trascorrere una settimana da lei in Georgia.
Voglio bene a Bonnie ma se dovesse vedermi in questo stato mi farebbe domande e metterebbe in moto i miei pensieri come solo lei è capace di fare.
Mi trascino in cucina per prepararmi un caffè da consumare in solitudine, frugando nella dispensa alla ricerca delle ciambelle ricoperte di cioccolato, quelle che compriamo e teniamo da parte per i momenti difficili.
Appena ne addento una, sento suonare il campanello.
Mi domando chi possa essere a quest’ora, e quando controllo dallo spioncino capisco che la pace è già finita. Caroline è sullo zerbino, perfetta come sempre, i boccoli appena fatti che incorniciano la sua espressione contrariata. Appena le apro si fionda in casa e incomincia il suo assalto.
 
“Elena? Che significa quel messaggio striminzito che mi hai mandato ieri sera? Che diavolo stai aspettando? Devi dirmi tutto. Stefan mi ha raccontato. Mioddio Damon… quel Damon… sono fratelli è una coincidenza incredibile. E poi lui, non mi avevi detto che era così… così…”
 
“Mi hai già stordita Care!” borbotto massaggiandomi le tempie. “Lasciami mangiare la mia ciambella in pace, chiedo troppo?”
 
“Io ti avrei stordita? Sul serio Elena? Non sarà invece perché ti sei bevuta mezzo bar ieri sera? Beh non esageriamo… tu con due bicchieri stai già fuori. Ma che ti è venuto in mente? Tu non fai queste cose.”
 
“Vedo che sei al corrente. Le notizie viaggiano veloci… Comunque.. non lo so… volevo prendermi una pausa da me stessa… ” rifletto ad alta voce.
 
“Tu, la studentessa modello, la lavoratrice seria e instancabile. Mi meraviglio, tutto ciò per un ragazzo.” proclama portandosi teatralmente il dorso della mano alla fronte e gettando indietro la testa.
 
La mia bocca si piega automaticamente in un sorriso. “Sei così buffa Care! E comunque, per la cronaca, di lui non mi importa un bel niente. È una persona strana. È talmente cinico che mi spaventa.”
 
“E quindi lui sarebbe il fratello cattivo? Comunque ho visto come lo squadravi. Non puoi dirmi che non ti attrae, anche perché se dici il contrario giuro su Dio che ti trovo uno psicologo… uno bravo!”
 
Evito di risponderle, limitandomi a prendere lunghe sorsate di caffè sperando che faccia presto il suo effetto. Intanto Caroline continua il suo comizio.
 
“Sai, Stefan stravede per suo fratello. Mi ha raccontato che ha viaggiato moltissimo nell’ultimo anno: India, Sri Lanka, Patagonia, Argentina… ”
 
“Eh già, il sogno di tutti… la bella vita. Noi comuni mortali invece dobbiamo lavorare per vivere.” commento acida.
 
“Credo che tu ti stia sbagliando. A quanto ho capito ha visitato le zone più disagiate. Stava seguendo un suo amico, un fotoreporter credo. Ma non so altro, non ho approfondito… sai avevo da fare…”
 
Conclude la frase con un sorrisetto sognante e ne approfitto per spostare la conversazione su di lei, così sono sicura che mi lascerà in pace per un po’. Dentro di me però, rimango un po’ sorpresa da questa nuova piccola scoperta riguardo la complessa personalità di Damon. Non me lo vedo molto “viaggiatore zaino in spalla”. Decido semplicemente di non pensarci.
 
La mattinata lavorativa trascorre in fretta, impegnata come sono con le telefonate per la conferenza stampa. Il lavoro mi tiene occupata, e dopo un paio di aspirine mi sono ripresa completamente.
Qui tra le mie scartoffie, per quanto mi lamenti, provo il senso di sicurezza di cui ho bisogno. Lavorare mi permette di allontanarmi da tutto quello che è successo ieri sera. Mi prometto che non  perderò il controllo, mai più.
 
Prima di pranzo Rebekah mi convoca nel suo ufficio. Mentre mi siedo sulla poltroncina in pelle di fronte alla sua immensa scrivania color mogano, mi domando quale altra patata bollente abbia intenzione di rifilarmi.
“Elena vorrei parlarti di Damon.” esordisce, le mani perfettamente curate incrociate sotto il mento.
Ma cos’è una congiura del mondo contro di me? Poi mi viene in mente che lui potrebbe averle riferito qualcosa della mia piccola bravata di ieri sera e sento un brivido di apprensione salirmi lungo la schiena. Non mi va che lo sappia.
 
“Ti..ti ascolto.”
 
“Si può sapere cos’hai oggi? Sei così strana. Comunque, lui e suo fratello possiedono una grossa azienda. Un mobilificio, roba moderna. Hanno la fissa dell’ecologia, dei materiali riciclati e bla bla bla, ma è il loro fatturato che li rende decisamente i nostri migliori amici! Possiamo fare grandi cose con loro!”
 
Le sue pupille si dilatano e esibisce la smorfietta soddisfatta che ha sempre quando si parla di affari. Non posso fare a meno di pensare che non vorrei mai e poi mai diventare come lei. Quando ho deciso di lavorare nelle PR, ero convinta che il nostro lavoro consistesse nel mostrare al mondo il meglio dei nostri clienti e proteggerli, credendo noi per primi in quello che fanno. Per esempio, trovo fantastico e stimolante che l’azienda di Stefan e Damon sia una delle poche attenta all’ambiente e subito mi vengono mille idee.
 
“Ok, mettiamoci al lavoro. Dimmi come posso aiutarti Bekah. Una presentazione da mandare ai blog di ecologia potrebbe essere utile? Oppure potremmo spedire loro dei campioni di materiali, invitarli a vedere la produzione e…”
 
“Frena, frena.” mi interrompe seccamente. “A questo ci penso io. Ho un altro lavoro per te.”
 
Ok, dovevo aspettarmelo. Io sono Elena, quella che scrive di calce e coppi ventilati. Quella che alle conferenze stampa distribuisce documenti, appende i cappotti, sorveglia il buffet facendo attenzione agli infiltrati che fingono di fare i giornalisti per mangiarsi i tramezzini gratis.
Elena, che si fa insultare al telefono da quella vecchia babbiona della caporedattrice di “Vivere Verde”, pregandola di scrivere due righe sul quel sensazionale sacchetto biodegradabile per la spazzatura ideato dal nostro cliente. Chi fa qualcosa di appena più stimolante di  un mattone forato non transita dalla scrivania di Elena l’assistente sfigata di Rebekah Mikaelson. Nonostante tutto, forte della mia dedizione al lavoro, oggi più che mai, cerco di indossare la mia espressione più assertiva.
 
“Ti ascolto, dimmi.”
 
“Devi sapere che Damon si è preso una specie di anno sabbatico e ha viaggiato in giro per il mondo.”
 
Mi torna in mente la conversazione con Care di questa mattina. - Dai Rebekah, vieni al punto e dimmi qualcosa che non so già… - penso fra me e me.
 
“Girava con un amico, un certo Alaric Saltzman. Un fotoreporter. Ora, hanno raccolto una serie di scatti e tramite un contatto con l’ICP*, riusciranno ad esporli per un mese.”
 
“Di che genere di foto si tratta?” chiedo, con un po’ di apprensione. Non so perché ma non me lo vedo a fotografare la steppa patagonica, mi immagino più qualcosa sul genere hard.
 
“Credo siano ritratti… quella roba un po’ intellettuale…” risponde lei con sufficienza. Non mi sembra molto interessata. “Pare che per lui sia una cosa di vitale importanza. Ma veniamo a noi. Dobbiamo organizzare la conferenza stampa con tutta i giornalisti che contano, dare risalto alla notizia. E vorrei che fossi  tu ad occupartene.”
 
Scatto sulla sedia. Rebekah deve essere impazzita. “Che cosa?!? Ma io non ne so nulla di arte… e poi qui ci siamo sempre occupati di aziende e prodotti, non abbiamo i contatti giusti e…”
 
In risposta ricevo un sorrisetto gelido. “Elena devo forse ricordarti perché sei qui? Sono io che prendo le decisioni, quindi non fare storie ed esegui. Te ne do atto, è una noia planetaria, ed è qualcosa di cui non ci occupiamo di solito. Non sarà per niente un lavoro facile.
Ma tu sei qui per questo, sei la mia assistente. S ci tieni al rinnovo del contratto che, ti ricordo, scade fra un mese, dovrai fare un lavoro eccellente. Come ti ho detto i Salvatore sono ottimi clienti e per tenerceli stretti dobbiamo assecondare questo capriccio. Quindi andrai da Damon e da questo Saltzman, guarderai il materiale e inizierai a lavorarci. Voglio la cartella stampa sul mio tavolo nel giro di tre giorni al massimo.”
 
Sono interdetta, non per come mi ha risposto, ma dal modo in cui sta liquidando la faccenda. Un “capriccio”. Non le importa niente di lui, è evidente che lo vede come un buon affare e già che ci siamo qualche scopata. Fantastico, si sono proprio trovati. Probabilmente sono io quella con una visione distorta del mondo. La vedo scribacchiare un indirizzo che conosco già fin troppo bene su un bigliettino e porgermelo subito dopo. “Fatti trovare qui domani alle cinque. Mi aspetto che tu faccia un ottimo lavoro. È tutto.”
 
Il giorno seguente all’orario prestabilito sto suonando il campanello al 147 di Spring Street. Mi stringo nel cappotto, tamburellando nervosamente con il piede, in preda alla solita ansia.
Perché è strano ritrovarmi qui, dopo quello che è successo, e cercare di essere professionale. Già mi immagino le battutine stronze che Damon userà per provocarmi e mi domando se saprò tenergli testa senza farmi confondere da quelle strane sensazioni che provo quando sono con lui.
Quando mi apre la porta gli si dipinge in volto un’espressione che è insieme meravigliata e divertita. “Non riesci a starmi lontana per più di ventiquattr’ore Elena?” La maglia bianca mette in evidenza il suo corpo statuario, gli occhi blu mi esaminano dalla testa ai piedi. Sembra di buon umore. Deglutisco, cercando di darmi un contegno.
 
“Sono qui per le foto. Rebekah non ti ha avvisato?”
 
“Non mi aveva detto avrebbe mandato te. Ma lo sa che le sorprese mi piacciono. Accomodati.”
 
Il loft è inondato di luce, della festa dell’altra sera non c’è più la minima traccia. Sembra ancora più grande, più arioso. Un uomo alto e magro, se ne sta stravaccato sul divano con i jeans strappati e l’aria stropicciata. Scopro che si tratta del famoso Alaric, che si presenta tutto entusiasta, pregandomi di chiamarlo solo Ric.
Damon riempie due bicchieri di cristallo di un liquido ambrato e ne passa uno al suo amico.
 
“Te lo offrirei Elena, ma non mi pare il caso di ripetere la scena stile esorcista dell’altra sera.” ridacchia. Anche Ric soffoca una risata, evidentemente è al corrente. Beh, chi se ne frega, adesso ho problemi più grossi.
 
“Allora, vediamo queste foto?”
 
“Come sei impaziente.”
 
“Non ascoltarlo Elena, vieni con me.”
 
Ric mi apre la porta di una stanza che si trova in fondo al salone. Sembrerebbe essere un piccolo ufficio.
All’interno un grande tavolo illuminato da una lampada è completamente coperto di libri, e fogli gettati alla rinfusa. Le foto sono appese tutto intorno, come panni stesi ad asciugare. Ci avviciniamo.
 
“Scusami se te le presento in questo modo, ma il mio studio è in Florida e al momento Damon mi permette di lavorare da qui, almeno fino a quando la mostra sarà finita. Queste sono delle riproduzioni” mi spiega Ric “Abbiamo in mente un allestimento molto semplice ma le foto saranno più grandi, d’impatto. Vogliamo siano le uniche protagoniste.”
 
Rimango più sorpresa di quanto dovrei. Dalla carta lucida fanno capolino molti volti di donna, ritratti in bianco e nero. Ric dispone le foto sul grande tavolo, mentre io prendo appunti per la mia cartella stampa ascoltandolo con attenzione. “Ho tentato di raccontare le difficoltà e il disagio di questi paesi con un viaggio per immagini nell' universo femminile. Vedi queste Elena? Le ho scattate in Sri Lanka.”
 
“Sono.., splendide.” lo interrompo, soffermandomi sul volto segnato di una donna anziana, gli occhi pieni di devastazione, di morte. Gli orrori della guerra civile sembrano trapelare da ogni piega del suo viso stanco e rassegnato.
 
“Sento la sua paura.” mi scopro a dire, cercando conferma negli occhi di Ric, che annuisce.
 
“Ma c’è anche speranza. Sembra incredibile.” Alle mie spalle, la voce di Damon mi raggiunge seria, senza traccia di ironia.
 
Continuo a scorrere le foto. Il sorriso innocente di una bimba, una turista distratta che passeggia sulla spiaggia. Probabilmente entrambe non sono completamente consapevoli di dove si trovano veramente.
 
“Poter far conoscere queste foto è un modo per raccontare me stesso tramite le storie che provo a raccontare a mia volta… Grazie per  quello che stai facendo per me Elena.”
 
La voce di Ric è carica di entusiasmo e aspettative. È la prima volta che un cliente mi ringrazia per il mio lavoro, che tra l’altro non ho ancora iniziato. Sento le mie guance scaldarsi un po’. Anche se sarà dura, adesso sono felice che Rebekah mi abbia affidato questo progetto.
Continuo in silenzio a far scivolare gli occhi fra le immagini.
Una madre e il suo neonato mi catturano nella loro infinita tenerezza. Il piccolo tiene gli occhi chiusi, lei gli sfiora delicatamente la fronte con le labbra.
 
“Questa è l’unica foto che ha scattato Damon.” mi spiega Ric.
 
“Ric è l’artista, io gli facevo più che altro da assistente.”
 
Damon  è accanto a me osserva l’immagine con una strana ombra a velare i suoi occhi. Vorrei chiedergli a cosa sta pensando, ma non ne ho il coraggio. Per un attimo sembra che la sua mente si perda lontano da me, da questa casa, in un luogo distante. Il suo viso improvvisamente cupo mi disorienta. È così diverso adesso. Così stranamente malinconico. Cosa ha significato questa donna per lui?
 
“Damon però sa disegnare. Chiedigli di mostrarti i suoi ritratti.” Il tono di Alaric adesso è scherzoso, guarda l’amico con gli occhi sorridenti, come se dovesse scoppiare a ridere da un momento all’altro.
 
“Chiudi subito quella bocca Ric!” lo liquida lui, dandogli un debole pugno sulla spalla.
 
“Dici sul serio? Ma dove hai imparato?” chiedo incredula.
 
“Ho studiato design industriale, sai per lavorare nell’azienda di famiglia. Ogni tanto disegno le persone, tanto per cambiare. Le trovo più interessanti delle mensole.”
 
“Fa il modesto, ma è bravo davvero… solo che si vergogna.“
 
“Alaric, grazie per aver informato Elena. Ora, se vogliamo andare oltre penso che la  serata sarà molto più interessante per tutti.”
 
È divertente vederli mentre battibeccano e si punzecchiano. Damon è così rilassato… La loro complicità traspare in ogni sguardo, in ogni scambio di battute. Sono tanto complici che a volte non riesco a capire fino in fondo i loro discorsi. Il loro rapporto deve essere molto profondo, d’altronde hanno vissuto un’esperienza unica insieme. Eppure non riesco ancora ad afferrare fino in fondo quale sia stata la molla che è scattata in Damon e l’ha fatto girovagare per un anno lasciando sospesa la sua vita qui.
 
Quando Ric si allontana per una telefonata, noi rimaniamo nella stanza continuando a sfogliare le foto.
 
“Avete fatto davvero un bel lavoro, sicuramente riuscirò a tirarne fuori una cartella stampa interessante. Vedrai, avrete successo!”
 
“Lo spero. E’ stata un’esperienza unica, e sarebbe giusto, soprattutto per Ric. Ha un talento speciale. Riesce a leggere dentro alle persone. Sa trovare le situazioni giuste, le sa aspettare. È un grande osservatore.”
 
“Lo penso anche io.”
 
“Chissà, forse ho imparato qualcosa in tutto questo tempo con lui. Per esempio, in questo momento, io sento che posso leggere dentro di te, Elena.”
 
Adesso i suoi occhi cristallini sono puntati sul di me con l’insistenza che gli ho visto la prima volta che ci siamo incontrati. Come quella mattina mi sento esposta di fronte a lui. Mi sento vulnerabile, come se potessi perdere il controllo.
La sua mano destra si alza sul mio viso e sento il tocco delicato delle sue dita percorrere la mia guancia, mentre con la sinistra mi accarezza il fianco, su e giù. La sua vicinanza è quasi dolorosa per il mio corpo, che adesso è acceso, vivo. Non riesco a muovermi. Se in questo momento mi baciasse, lo lascerei fare.
 
“E… quindi?” balbetto.
 
“Quindi so che ti colpisco. Sei attratta da me, mi pensi anche quando non vorresti. Scommetto che mi hai anche sognato questa notte…” Alza un sopracciglio e scoppia a ridere come un pazzo guardando la mia espressione frastornata.
 
 “Sai una cosa Damon Salvatore? Ogni volta che penso che tu sia di più di un bel faccino, riesci prontamente a smentirmi.” ribatto frustrata. Ma poi, quando fa una smorfia fintamente imbronciata, viene da ridere anche a me.
 
“Ci sono tante cose che non sai di me Elena.”
 
E’ vero. In questi giorni, per un motivo o per un altro, Damon è stato al centro del mio mondo in tante situazioni diverse. Eppure, continua a sorprendermi. Ho avuto tanti piccoli assaggi di lui, senza riuscire a decifrarlo completamente. Solo adesso mi rendo conto che vorrei sapere molto di più.
 
 
 
 
“Non posso crederci. Eri sul ghiacciaio più grande del mondo, l’ottava meraviglia del pianeta, e che avete fatto?? Vi siete ubriacati! Sei uno scandalo Damon.”
 
Elena mi guarda con gli occhi sgranati e sorridenti per un secondo, poi afferra una fetta di pizza dal cartone  e la mastica in fretta. Per essere una bambolina di cinquanta chili al massimo, mangia come un camionista.
Evito di dirlo ad alta voce, voglio risparmiarmi un’altra delle sue risposte al vetriolo, anche se stuzzicarla mi piace, eccome.
 
“Tu non puoi immaginare quanto freddo faccia la sopra. Altro che terra del fuoco. Ci stavamo letteralmente congelando. Fortunatamente io e Ric ci portiamo sempre dietro il bar…” rispondo, accompagnando le parole con un’alzata di spalle.
 
Lei scuote la testa, muovendo quella massa di capelli castani e scoprendo il collo niveo. È bella Elena, di una bellezza semplice, fatta di quell’eleganza naturale e un po’ distratta che non ha bisogno di artefatti.
Quella mattina, quando è entrata trafelata nel bar, carica di pesi e di pioggia non ho potuto fare a meno di notarla. Non ho potuto fare a meno di essere catturato da tutti quei piccoli gesti automatici e insignificanti, come quando si è raccolta i capelli su un lato mentre frugava nella sua grande borsa di tela o quando ha sorriso a una battuta di quel barista con i capelli imbarazzanti, che la puntava come un falco con la preda.
Non ho potuto, anche se avrei dovuto, perché l’ho capito subito che lei non è il tipo di ragazza che io frequento di solito. Beh, frequentare è una parola grossa quando è di me che stiamo parlando.
Avrei dovuto girarmi dall’altra parte quando i suoi occhi grandi e sorpresi mi si sono incollati addosso, ma non l’ho fatto perché ancora una volta sono stato molto, molto egoista.
Così ho indugiato su di lei, godendo dell’ espressione meravigliata che si è dipinta sul suo volto arrossato, del suo sorriso debole e incerto.
Una strana eccitazione si è impadronita di me quando l’ho vista cercarmi ancora in mezzo alla gente, una specie di emozione viscerale. Mi ha fatto sentire vivo. È stato allora che ho deciso che dovevo andarmene via da lì, congelare nei miei ricordi quel momento perfetto e completo, che doveva restare tale.
Se non che il dannatissimo karma ci ha messo lo zampino, e mi sono ritrovato questa moretta impertinente fra i piedi.
Non solo la sua migliore amica se la fa con mio fratello, ma sarà proprio Elena a organizzare la presentazione delle foto mie e di Ric. E si, vado anche a letto col suo capo. Che perfetta combinazione! Proprio quando decido di aiutare il destino, evitando di commettere una cazzata, questo si rivolta contro di me.
 
“Guarda la foto, proprio qui, Elena” le dico indicando il colossale fiume congelato  “quando un pezzettino quasi invisibile di ghiaccio si stacca, e succede di continuo, il rumore è quello di un tuono, come se stesse per piovere. E invece si solleva uno spruzzo di almeno venti metri e il lago si riempie di onde.
È come ritrovarsi di fronte ad un’immensa creatura dormiente, e poi accorgersi che è viva.”
 
Sembra un po’ una metafora della mia situazione attuale. Questo però non glielo dico.
Sto scoprendo, e lo sto facendo insieme a lei, che mi piace regalarle questa parte di me, la parte bella, quella pulita. Anche perché se camminiamo in questa sorta di “territorio neutro”, sembra rilassarsi. Ed è ancora più bella.
Mi sento bene qui, con lei sul mio divano,  a parlare come stiamo facendo da ore, prendendola in giro per come ieri sera si è fatta rimorchiare da quel coglione di Aaron o per la sua incapacità di reggere l’alcol.
Mi piace, anche perché sa mettermi al mio posto con quella sua lingua biforcuta.
Quando Ric se n’è andato e Stefan mi ha telefonato per dirmi che sarebbe rimasto a cena con la sua nuova amichetta Barbie e le ho proposto di restare, lei ha detto di si. Così, semplicemente, rigirandosi tra le mani quel braccialetto che porta al polso, lasciandomi spiazzato.
Adesso mi osserva, gli occhi color cioccolato sono spalancati, affamati di particolari. Poi afferra la borsa e ne estrae un piccolo quaderno che inizia a sfogliare fino a che non trova quello che stava cercando.
 
“Vedere il mondo, cose pericolose da raggiungere, trovarsi l’un l’altro, e sentirsi. Questo è il senso della vita.*” enuncia solennemente.
 
“Che cos’è, una specie di slogan?” le chiedo dubbioso.
 
“E’ la frase di un film che ho visto al cinema qualche settimana fa. Parla di un uomo qualunque che immagina di compiere grandi imprese, ma ha una vita del tutto ordinaria. Poi un giorno decide di vivere realmente le avventure della sua fantasia.  Quelle parole erano così belle che ho dovuto appuntarmele. Non le trovi adatte a te?”
Arrossisce lievemente, e io continuo a masticare la mia pizza per qualche istante, per capire dove vuole arrivare. “Che significa?” le chiedo.
 
“Vedere il mondo, in tutta la sua inafferrabile meraviglia e infinità. Cose pericolose da raggiungere, perché non serve esistere se non si tenta di sfidare se stessi sempre un po’ di più. Non è per questo che te ne sei andato in giro per un anno intero?”
 
Rifletto per un momento. “Sai, anche io conosco delle citazioni interessanti. Eccotene una: Ci sono dei momenti nella vita in cui sai che è giunto il momento di andarsene via, anche se non hai un posto preciso dove andare.**”
 
Ci pensa su un attimo, la fronte un po’ aggrottata. “Carina. Di chi è?”
 
“Non me lo ricordo, leggo così spesso aforismi.com che a volte mi confondo. Forse dovrei prendermi un diario come il tuo.”
 
“Spiritoso. E da chi te ne stavi andando? Eri innamorato?” chiede a bruciapelo. La vedo abbassare lo sguardo, sfregandosi nervosamente le mani sui jeans come se si fosse pentita di quella domanda un po’ personale. Sta abbandonando il territorio neutro per addentrarsi in una zona ad alto rischio, ma non lo può sapere.
 
“Si, lo sono stato Elena, una volta. È doloroso e senza senso. È sopravvalutato.”
 
Non dice niente, ma è evidente che sta pensando a che razza di cinico senza sentimenti io sia. Per un attimo sono pentito di ciò che le ho detto, ma dura solo un istante.
La vedo alzarsi dal tavolo. Ora prenderà le sue cose, mi stringerà la mano, mi ringrazierà per la pizza e tanti saluti. Invece si allunga sul divano dove ha abbandonato il cappotto, regalandomi una prospettiva molto piacevole del suo fondoschiena, ed estrae dalla tasca un pacchetto di sigarette. “Ne vuoi una?”
 
*****
 
*ICP: International Center of Photography
**Vedere il mondo, cose pericolose da raggiungere, trovarsi l’un l’altro e sentirsi: la frase è tratta dal film “I sogni segreti di Walter Mitty” di Ben Stiller.
***La frase esatta è: “C'è un tempo giusto per andarsene dalla vita di una persona anche quando non si ha un posto dove andare”. E’ tratta dal film “Sette Anime” di Gabriele Muccino.
 
Ciao donne, siete stanche di me? ;-) Sono un tedio con questa pubblicazione frequente ma volevo mettere un po’ di carne al fuoco. Cosa dite ho esagerato? Cosa pensate della vena artistica di Damon e del suo viaggio in giro per il mondo? A volte è anche bello usare la fantasia e immaginare situazioni diverse e poi si sa che gli artisti hanno una sensibilità particolare e soffrono tanto :) E poi, per la prima volta vediamo un suo piccolissimo punto di vista. Spero che questo capitolo, dove iniziamo a vedere qualche sviluppo, sia di vostro gradimento.  Nel prossimo ovviamente scopriremo come andrà a finire la serata.
Non voglio essere pesante ma il vostro parere sarebbe davvero importante per me per capire in che direzione andare. Grazie di cuore a chi legge, preferisce, segue e recensisce!
Un bacione
Beagle

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
Cos'è l'immensità?
un vuoto che non ha
niente di simile al profondo
dei tuoi occhi

E solo a pensarti lo sento
che i venti, la polvere, il mondo, l'oceano,
l'idea di un amore tremendo, tutto è dentro te.
 
Edera – Max Gazzè
 
Seduto accanto a lei sui gradini fuori da casa mia, la osservo mentre prende un tiro dalla sua Marlboro, stringendo le labbra attorno al filtro, per poi spegnerla nel posacenere di vetro appoggiato li vicino.
Ha una bocca stupenda. Come le sue gambe lunghe che spuntano da sotto il cappotto, avvolte nei jeans troppo stretti. Ogni suo gesto mi affascina, perfino il non sapere mai cosa le sta passando per la testa mi spinge verso di lei. Proprio come adesso, che se ne sta in silenzio inseguendo un pensiero tutto suo, gli occhi fissi sulla strada.
Sono sempre stato convinto che capisci di stare bene con una persona quando puoi smettere di sentirti in obbligo di parlare di stronzate per un momento e goderti il silenzio in santa pace. Io ed Elena in questo momento, condividiamo uno di quei silenzi che non mettono a disagio.
 
“Sei ferito.” dice all’improvviso, e non è una domanda. “Per questo dici quelle cose. Intendo, quando parli di amore sopravvalutato eccetera. Non mi incanti. Non sei così cinico. Sei solo ferito.”
 
“Niente mi ferisce, Elena.”
 
“Mi dispiace ma non ti credo.”
 
“Chi sei? Una specie di esperta di problemi di cuore? Alla scuola di marketing vi insegnano anche a psicanalizzare il prossimo?” rispondo, ma il mio tono non riesce ad essere arrabbiato. Solo, non vorrei parlarne, qui adesso con lei. Possibilmente non vorrei parlarne e basta. Lei sorride, sembra divertita dalla mia  risposta.
 
“Forse ti assomiglio più di quanto immagini. Me ne intendo di cicatrici nascoste sai? Ognuno le cura come può. C’è chi parte e se ne va come te. E poi ci sono quelli come me.”
 
“E, sentiamo, misteriosa ragazza. Quale sarebbe la tua ricetta infallibile contro i mali della vita?” le chiedo incrociando le braccia sul petto e guardandola negli occhi  che qui fuori, illuminati solo dalla luce fioca dei lampioni, sembrano quasi neri.
 
“Continuo a ripetermi che va tutto bene. Fin da quando ero ragazzina ho sempre saputo chi volevo essere, chi sarei diventata. Non ho mai voluto deludere le grandi aspettative che avevo su di me. E nonostante questo, l’instabilità del caso mi ha fregata. Così sono diventata peggio di prima. Tutto programmato, tutto sotto controllo, perfino le emozioni. Non mi sono mai perdonata una divagazione dall’idea che avevo di me stessa… Spesso mi chiedo se ne valga la pena.”
 
“Sai una cosa? Io sono un esperto di divagazioni… e dalla mia enorme saggezza ti dico che a volte sbagliare produce dei cambiamenti che non ti aspetti. Magari positivi. Perciò penso che dovresti essere più indulgente con te stessa e iniziare a pensare di meno e sentire di più. Altrimenti è un po’ come se respirassi a metà.”
 
Non dice una parola, ma quando mi volto verso di lei la vedo abbracciarsi le gambe e perdersi fra le cime dei palazzi e la notte stellata che ci ricopre. Sembra di nuovo lontana, in un mondo tutto suo.
Si accende un’altra sigaretta e insieme osserviamo il la nuvola di fumo che si disperde sopra di noi.
“Quando hai capito che valeva la pena di tornare indietro?” mi chiede adesso, senza staccare gli occhi dal cielo scuro.
 
Vorrei dire qualcosa, qualsiasi stronzata per spezzare questo momento troppo pesante, per non affrontare una conversazione così scomoda, difficile, che non mi va affatto di fare.
 
“Beh io e Ric avevamo finito i soldi sai com’è… ”
 
“Non credo che i soldi siano un problema per te.”
 
“Mi ero stancato di mangiare cervi e trote patagoniche. Avevo voglia di un bel cheeseburger.”
 
“Allora riformulo. Dopo che sei tornato, cosa ti ha fatto capire che valeva la pena di restare?”
 
C’è un’unica risposta possibile a questa domanda. “Stefan. Aveva bisogno di me. Giuseppe se ne stava andando. Sono tornato giusto prima che ci lasciasse. Stefan è tutto quello che mi resta, io sono tutto quello che resta a lui.”
 
“Chi è Giuseppe?”
 
“Nostro padre.”
 
Due parole, le solite, che mi escono col pilota automatico, come al solito. La bugia che mi ripeto da tutta la vita. Non ricordo il giorno preciso che ho iniziato a dirla. Forse, semplicemente, l’ho sempre saputo perché non sono mai riuscito a riconoscermi in lui, nei suoi gesti, nel suo viso.
 
Adesso la sua attenzione è tutta per me, di nuovo. “Damon, mi dispiace tanto… non ne avevo idea. Scusami.” Mi guarda con i suoi occhi grandi e tristi, mortificata. So che vorrebbe chiedermi altro, ma non lo fa. Getta la sigaretta e mi avvolge con un braccio appoggiandomi la mano sulla spalla destra, spostandola piano su e giù. È come un abbraccio, un po’ timido, ma che mi riscalda ugualmente.
 
“Lascia stare, davvero Elena, non è un problema. Solo che non ho voglia di parlarne, ok? Non mi va proprio.”
 
Lei non sposta la mano, non smette di abbracciarmi. Adesso è così vicina. Posso sentire il suo calore attraversarmi nel punto esatto in cui mi sfiora. Mentre la guardo mi sbarazzo della mia infanzia, dei fantasmi del passato. In questo momento c’è solo lei, ci siamo solo noi due.
 
“Perché sei andato via quella mattina? Intendo quel giorno al bar, la scorsa settimana. Mi hai lasciata lì, sospesa…”
 
Non distoglie lo sguardo da me e quasi sono sorpreso dal suo cambiamento. Elena sembra così diversa. Sembra più audace, come se fosse tornata la ragazza che quel giorno mi vedeva per la prima volta, come se mi avesse spogliato di tutte le mie frasi fatte, di tutte le provocazioni che le ho lanciato.
 
“Beh perché l’ho capito subito che eri una ragazzina dispettosa che pensa troppo, che approfondisce ogni minima cosa, e si prende nota delle frasi al cinema per appiopparle al momento giusto. Lo sapevo che mi avresti analizzato, perché sei una grande ficcanaso.” Le sorrido e la sua espressione si fa dolce. La sua mano è sempre lì a sfiorarmi la spalla.
 
“Io invece mi sono sentita come se tu… con uno sguardo potessi spazzare via tutte le mie certezze. Ho provato una sensazione strana… di paura e di speranza. Mi hai fatto perdere l’equilibrio. Perdo l’equilibrio ogni volta che sono con te.”
Le sue guance si colorano leggermente e mai come adesso, voglio smettere di parlare. Vorrei solo allungare le mani sulla pelle candida del suo viso, sentirla sotto le dita, affondare la lingua nella sua bocca e accarezzarla, dappertutto.
 
“Come finiva la frase?”
 
“Quale frase?”  Il suo sguardo vaga confusamente da un punto all’altro del mio viso, le guance sempre un po’ arrossate. Il braccio che ancora mi avvolge. Respiro il suo profumo, me lo sento addosso.
 
“Quella del film che hai visto.” Adesso la guardo in fondo agli occhi. Lei è immobile, eppure mi sembra di poter sentire il battito accelerato del suo cuore, il suo respiro che si spezza. Deve aver intuito il cambiamento del mio umore.
 
“Trovarsi l’un l’altro… e sentirsi.” ripete con un filo di voce.
 
“E cosa significa per te?”
 
Si morde piano il labbro inferiore. Lo sfioro con la punta delle dita, poi scendo sul mento, lungo tutto il suo profilo. La sua pelle resa fredda dall’aria gelida è tenera sotto le mie mani.
 
“Sentire il proprio cuore battere, come non ha mai fatto prima.”  
 
 
 
Sono sopraffatta da lui, della sua presenza, dalle sue labbra scolpite che invadono prepotentemente il mio campo visivo e mi fanno tremare le gambe. Mi scosta i capelli di lato e poi, socchiude gli occhi mentre i nostri respiri si sfiorano. La sua bocca si posa sulla mia, morbida, sensuale come l’avevo immaginata.
Il mio cuore inizia a pulsare talmente forte che mi stupisco che lui non possa sentirlo. E ogni battito vive per lui. E' elettricità pura quella che sento trapassarmi il corpo, ogni piccola parte di me chiede di più.
Quando entriamo in casa mi scontro immediatamente con suoi occhi straordinari, che mi rendono debole. In un attimo la distanza fra noi si annulla e ritrovo le sue labbra su di me, il suo sapore buono. Mi spinge contro il muro e chiude la porta dietro di noi prendendomi subito dopo il viso fra le mani.
Per un attimo rimaniamo così, persi l’uno nell’altra, i nostri respiri già affannati che si scontrano. Poi mi stringe di nuovo, e mi lascia una scia di baci caldi lungo la mandibola, scende sul collo, la clavicola e ritorna sulle mie labbra accarezzandomi il viso con i pollici. Il suo sorriso si infrange sulla mia bocca.
 
"Chiedimi quello che vuoi.” sussurra a pochi millimetri dal mio viso. Le sue parole mi provocano un brivido di eccitazione lungo la spina dorsale.
 
"Fammi sentire che sono imprevedibile, che sono libera."
 
Sorride di nuovo e c'è un che di malizioso nei suoi occhi cerulei che mi toglie il fiato.
Una frazione di secondo dopo sono schiacciata fra la porta e il suo corpo agile, le mani affondate fra i suoi capelli mentre mi sbottona la giacca e poi la camicia, come un forsennato. Con i palmi aperti scorre sulle mie spalle, sul mio seno e sulla pancia. Mi sento su di giri, a tal punto che potrei esplodere.
Affonda la lingua nella mia bocca mentre mi abbassa le spalline del reggiseno. Quando lo spoglio a mia volta rimango estasiata: quest'uomo splendido questa notte sarà mio. Basta questo pensiero a riempirmi di un'euforia incontrollabile e rendermi audace.
Gli slaccio la cintura, gli abbasso i jeans scuri. Quando afferro la sua erezione sento il suo respiro spezzarsi mentre mi preme sempre più forte contro il muro.
La sua mano mi risale fra le cosce. Il suo tocco delle sue dita è delicato e deciso insieme. Desidero solo abbandonarmi a questa sensazione e annullare tutto il resto.
Mi solleva le gambe che gli allaccio alla vita. Mi sostiene senza fatica e anche la mia mente adesso è sospesa, in un luogo sconosciuto, offuscato. Mi bacia ancora e ancora mentre mi adagia sul divano. Vorrei poter memorizzare ogni più piccolo dettaglio di lui. Gli accarezzo la schiena, intreccio le dita fra i suoi capelli soffici attirandolo a me, traccio la linea decisa della mascella.
Quando mi scivola dentro mi inarco sotto di lui, sopraffatta dalla sensazione intensa che mi pervade. Incontro i suoi occhi, celesti come un cielo di primavera. Gli occhi per i quali, quel giorno, mi sarei fatta largo tra la folla perché fin dal primo sguardo mi hanno resa vittima del suo incantesimo.
Sento i miei muri crollare sotto il peso delle sue spinte sempre più forti e profonde e non sono più in grado di trattenere i miei gemiti. Il mio corpo si copre di brividi ed esplode nel piacere, e dopo un secondo sento il suo calore liquido sulla pancia.
 
 
 
“Prima che il tuo universo si sgretoli, ti prego, non analizzare quello che abbiamo fatto.”
 
È lui a interrompere il silenzio irreale che è piombato fra di noi subito dopo.. beh quello che è successo.
Sposto lo sguardo dai bottoni della mia camicia, che non ne vogliono sapere di lasciarsi allacciare, al suo viso. La sua espressione è rilassata, i capelli ancora arruffati che, devo ammettere, gli donano da morire.
 
“Cosa significa scusa?”
 
“Beh, non posso dire di conoscerti benissimo, ma penso di poter affermare che appena sarai fuori da qui comincerai a chiederti i perché e i percome… E non dovresti. Hai detto che volevi lasciarti andare. Io ti volevo, tu mi volevi. Questa sera abbiamo vissuto un momento molto catartico eccetera eccetera… è stato bello. Non significa niente di più, e quindi non dovresti pensarci o ricamarci sopra.”
 
“Ma... io… noi… e poi praticamente lavoro per te… e Rebekah…”
 
La sua espressione diventa insieme allibita e frustrata. “Ma mi ascolti?!?! Ci mancava solo che te ne venissi fuori con lei adesso. Punto primo, io non ho firmato nessun contratto di esclusiva. Secondo, ti sembra il caso di sprecare energie a preoccuparti di una che ti tratta come una pezza da piedi?”
 
Lo osservo perplessa, senza sapere cosa rispondere. Si sposta sul divano e si avvicina un po’ di più a me.
 
“Ehi, sono io l’esperto in divagazioni, ricordi? Vivi il momento, non pensare a domani. E un’altra cosa Elena. Io sono una persona complicata e difficile, l’hai capito anche tu… non ti incasinare con me o non ne verrai più fuori.”
 
Le sue ultime parole mi fanno irrigidire. “Com’era la frase esatta? Ah si. A me non importa di niente e di nessuno.” ribatto. Afferro le scarpe e me le infilo, tirando i lacci rabbiosamente.
 
“Con chi ce l’hai adesso Elena? Con me o con te stessa? Perché vorrei ricordarti che sei stata tu a cominciare… ti sei incollata a me, mi hai detto quelle cose. Sono un uomo porca miseria come pensavi che reagissi?”
 
Alzo di nuovo gli occhi su di lui. “E’ vero, sono stata io. Ti giuro che non era nelle mie intenzioni quando sono arrivata qui.”
 
“Addirittura ti giustifichi? Non ne hai bisogno. Con me meno che meno. Anzi se devo dirti la verità sono l’ultimo che si può lamentare.” La sua espressione eloquente mi deconcentra per un attimo. Dannazione Elena non ti distrarre!
“E adesso?”
 
“Adesso vai a casa e ti fai una bella dormita. Domani ti sveglierai e sarà tutto esattamente come prima. È stato solo sesso. Tira fuori il tuo quadernino e prendi nota: vivere di più, capire di meno ok?”
 
Mi alzo, infilo il cappotto, prendo la borsa e mi dirigo alla porta. Me lo ritrovo davanti. Appoggia le mani sulle mie spalle e si piega in avanti, cercando di catturare il mio sguardo. Io mi concentro più che posso sul parquet sotto i miei piedi.
 
“ Vuoi che ti accompagni a casa?”
 
“No, grazie. Preferisco camminare un po’ fino alla metro.”
 
“Che problemi hai con le auto? Mai una volta che accetti un passaggio.”
Mi avvicina a sé e mi lascia un bacio fra i capelli. Poi cerca ancora i miei occhi e questa volta lo lascio fare. Mi immergo nell’intensità del suo sguardo, e poco a poco mi sciolgo.
 
“Sai una cosa? Sei stupenda quando ti lasci andare. Buona notte Elena.” Mi sfiora le labbra con le sue. Sembra una carezza.
 
Appena fuori, lascio che l’aria fresca della notte mi avvolga. Mi sento come risvegliata da un lungo sonno, come se il mio corpo fosse più vivo, sentisse di più.
Decido di prendere la metro da Houston Street per poter camminare ancora un po’ e mi accendo una sigaretta. Ad ogni passo mi sento più leggera come se mi stessi scrollando dei pesi di dosso. La mente si svuota e sulle labbra mi si dipinge un sorriso involontario. È come se una parte di me rinchiusa da tempo fosse stata liberata. Mi sento bene, o meglio mi sento, come non mi capitava da troppo tempo. Al resto.. beh, ci penserò domani.
 
 
 
Seduto sulla panchina, prendo un altro sorso di birra e lascio che la brezza fresca mi entri nei polmoni. Quando mi sono svegliato e il sole splendeva, sapevo già dove volevo essere. Così, dopo aver trascorso tutta la mattinata in riunione con l’ufficio stile, mi sono cambiato la giacca in fretta, ho preso i miei fogli e sono corso qui, lasciando un messaggio veloce a Stefan nel caso mi cercasse. Il cellulare l’ho lasciato sulla scrivania, come sempre quando vengo qui.
Coney Island. Non c’è posto a New York dove mi senta più a casa.  Lontano dai grattacieli, tra le case colorate e un po’ rovinate dal tempo, in mezzo ai personaggi grotteschi che passeggiano sul lungomare o sostano per ore sulle panchine.
Ho comprato un hot dog da mangiare in riva al mare, lasciando al calmo andirivieni delle onde il compito di svuotarmi la mente. Oggi non c’è quasi nessuno, come sempre durante l’inverno, e tutto si riveste di un fascino antico.
Un uomo anziano, probabilmente russo, carico di sacchetti della spesa, si è fermato a dare da mangiare ai piccioni. Era un’immagine particolare perché proprio sopra la sua testa penzolavano delle scarpe da ginnastica, gettate sul filo della luce da una mano sconosciuta. Ho preso la matita fra le mani e l’ho immortalato sul foglio. Pochi tratti: il filo sospeso, le scarpe, il cappello calato sugli occhi e gli uccelli neri ai suoi piedi.
E sullo sfondo, il mare.
 
“Sapevo che ti avrei trovato qui. Bel ritratto!” La voce di Stefan mi giunge alle spalle, tranquilla e pacata come sempre.
 
“Guarda un po’ cosa ha portato il vento! Il mio fratellino con la vocazione da 007… lo sai che non posso resistere agli hot dog di Nathan’s”.
 
“Non è che ci voglia un genio... Vieni sempre qui quando c’è il sole... e quando sei pensieroso.”
 
“Beh ormai hai rovinato l’atmosfera. Almeno facciamoci un giro fratello.”
 
Camminando sul lungomare, passiamo di fronte al Luna Park. È chiuso, riaprirà con l’arrivo dell’estate.
A me piace anche così con la scia intricata e inconfondibile delle montagne russe anni venti, con i sacchetti neri stracciati dal vento che coprono a malapena le attrazioni chiuse.
È un luogo sospeso fuori dal tempo. E poi la ruota panoramica, immobile, a sovrastare tutto. È così retrò. Eppure quando ero bambino non c’era cosa più strabiliante. Io e Stefan ci facevamo accompagnare qui da nostra madre e quando riusciva a liberarsi dal lavoro, veniva anche Giuseppe.
A modo suo lui ci ha provato, forse per un periodo lo ha anche voluto, non è mai riuscito a riempire il senso di inadeguatezza lasciato dall’uomo che ha scelto di rifiutare me e mia madre, prima ancora che iniziassi a respirare.
Il senso di angoscia che provo ogni volta che intravedo la mia immagine riflessa, quegli occhi maledetti che detesto perché non assomigliano a quelli di nessuno.
Lo so da sempre che sono lo specchio dei suoi. O almeno lo credo, perché non ho mai avuto il coraggio di chiederlo a mia madre. Non volevo farla soffrire ancora, come quando l’ho costretta a dirmi la verità sul bastardo che ci ha abbandonati, che non mi ha mai accettato.
Allora il cerchio si è chiuso. Ho capito il perché delle liti, delle botte, del male che mi portavo dentro.
Cosa penserebbe lei se adesso potesse vedere come sono diventato?
 
Io e Stefan ci fermiamo di fronte al campo da basket, dove una comitiva di ragazzi di colore sta giocando una partita. Guardo mio fratello. Ha gli occhi verde prato come quelli di suo padre, ma più gentili.
 
“Lo so a cosa stai pensando Damon. Devi smetterla di cercarlo. Mettici una pietra sopra o non sarai più in grado di andare avanti con la tua vita. Distruggerai ogni cosa, distruggerai te stesso.”
 
“Devo dirglielo in faccia il male che mi ha fatto. Il male che ha fatto a nostra madre, Stefan.”
 
“Cosa pensi che cambierebbe?”
 
“Non lo so, forse niente. Forse invece mi libererei del peso che mi porto dietro da una vita. Ho provato in tutti i modi ad accettarlo Stef. Ma ovunque vada, me lo trascino dietro. E poi adesso c’è una reale possibilità. Quelle lettere, nella cassetta di sicurezza di Giuseppe.”
 
Quando faccio quel nome, Stefan si rabbuia all’istante. La ferita è fresca, il ricordo del padre che ha amato, a cui anche io ho voluto bene a modo mio, fa ancora troppo male.
Lo sento inspirare a fondo.
“Forse semplicemente non riesci a inquadrare le cose nella giusta prospettiva. Tu non ti sei mai sentito amato, e forse hai ragione, perché lo so che la vita ti ha tolto tanto, fin dal primo giorno. Ma non ti sei mai soffermato a pensare… che c’è chi… chi ti vuole bene, Damon.”
 
Gli sorrido debolmente, con gratitudine. Gli do una gomitata e adesso ride anche lui, più rilassato.
“Sai che ti dico Stef? Questa conversazione tra fratelli sta diventando davvero imbarazzante… Adesso mancano solo gli arcobaleni, gli unicorni e io e te che ci abbracciamo piangendo. Vai a prendere due birre che è meglio. Io ti aspetto qui.”
 
Quando Stefan si allontana, mi siedo su una panchina ad aspettarlo. Il sole pallido di novembre disegna le lunghe ombre dei passanti. Afferro un foglio e la matita. Con qualche tratto, cerco di riprodurre il suo sguardo. Quello di Elena. Ma la sua è una bellezza che, anche volendo, non potrò mai catturare del tutto.
D’istinto, vorrei strappare il foglio e gettarlo via. Poi lo piego con cura e lo infilo nel portafoglio.
 
*********
Toc toc, c’è nessuno?? Spero di si… E chiedo scusa per la lunghezza esagerata e spero che non sia stato eccessivamente  strano o noioso. Ho fatto del mio meglio soprattutto alla fine, perché ci tengo a trattare il tema nel modo più adeguato e rispettoso possibile. Spero che sia tutto chiaro, e non troppo incasinato.
PS Per la frase sui silenzi che mettono a disagio devo ringraziare il regista che venero di più in assoluto: Quentin Tarantino.
PPS Spero vi piaccia perché mi ci sono impegnata tantissimo.
 
Baci
Beagle

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
Io, se solo sapessi cos’è,
cosa c’è dietro a quell’ombra,
a quella paura che ti fa cambiare faccia
e fa dire quello che non si pensa.

Io, se solo sapessi dov’è,
dove ho perso la mia pazienza
e lasciato la speranza
per trovare indifferenza, freddo e apparenza.
 
Un filo di seta negli abissi – Elisa
 
 
“Te lo giuro non l’ho fatto apposta… non volevo rovinare il tuo disegno solo che stavo giocando e la palla…”
 
“Te l’ho detto mille volte di stare fuori dal mio studio…”
 
“Scusami, non volevo te lo giuro… ti prego, lasciami mi stai facendo male. Ti prego! Lasciami papà!”
 
“Non… chiamarmi papà.”
 
Mi sveglio di soprassalto, sedendomi sul letto e afferrando la bottiglia d’acqua sul comodino.
È stato il solito incubo, quello che è rispuntato ad agitare le mie notti da quando sono tornato a dormire in questa casa. Lentamente riprendo il controllo del mio respiro, chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi, di scacciare la sensazione di angoscia che tutte le volte mi assale.
Nonostante siano passati anni, ogni dannata volta mi sembra di ritornare un bambino spaventato.
Posso sentirla ancora quella paura. Quella sottile inquietudine che per tanto tempo mi ha accompagnato,  ogni istante della mia vita. Ma se qualcuno mi avesse chiesto cosa mi terrorizzava tanto, non avrei saputo rispondere.  Era una paura assoluta, che impregnava le mie giornate insieme al senso costante di insicurezza. La stessa cosa che provava mia madre, che in silenzio faceva del suo meglio per proteggermi, anche se tutto le era contro.
Dopo una rapida doccia, scendo in cucina per prepararmi un caffè, trovandomi davanti la scenetta che si ripete da un paio di mattine a questa parte. Stefan che sbaciucchia la sua amichetta bionda tutta boccoli che a quanto pare ha preso la residenza nel suo letto.
 
“Se fate qualcosa che non ho mai visto vi darò un dollaro.”
 
“Damon… sei già in piedi?” risponde Stefan guardandomi storto, mentre Caroline mi rivolge una smorfia piena di irritazione.
 
“Mmh… non ho dormito un granché bene. Tu Caroline? Cominci ad abituarti al materasso di Stef?”
 
“Simpatico fin dal primo mattino. Caffè? Cianuro?” ribatte lei afferrando una tazza dal ripiano con disinvoltura e riempiendomela, per poi piazzarmela davanti con aria scocciata. Le è bastata una brevissima fase di studio per iniziare a detestarmi appassionatamente.
 
“Grazie Barbie, vedi che quando ti ci metti sai anche essere gentile?” rispondo  con un sorrisetto a mezza bocca, per poi svuotare velocemente il contenuto della tazza. “Ci vediamo più tardi in ufficio Stef. Oggi ho un sacco di cose da fare.”
 
***
 
“Signorina, le ho già detto e ripetuto che non posso partecipare alla sua presentazione sugli intonaci biocompatibili! Siamo in piena chiusura del numero di dicembre, come pensa che possa allontanarmi dalla redazione? Mi mandi la cartella stampa e se ci sarà qualcosa di interessante pubblicherò la notizia… più avanti.”
 
“Veramente… la responsabile marketing della Steel Supplies ci terrebbe moto a conoscerla di persona e inolt..”
 
“Senta Signorina…? Come ha detto che si chiama?!”
 
“Gilbert… Elena Gilbert.”
 
“Ok, signorina Gilbert, per favore non si disturbi più a telefonarmi, se avrò bisogno di chiarimenti sui prodotti la chiamerò io. Arrivederci.”
 
“Ma io...”
 
“Tuuu tuuu tuuu”
 
Riattacco il telefono con un sospiro, mentre con il pennarello tiro una linea spessa sul “Giornale del rivenditore edile”.
Non sono nemmeno a metà della lista di telefonate che devo fare, e già i segni rossi prevalgono nettamente sui nomi evidenziati in giallo.
Questo lunedì sembra non finire mai, e siamo appena all’inizio. Sovrappensiero afferro lo strano soprammobile che zia Jenna, in visita dalla Virginia per il weekend, mi ha regalato.
È una di quelle sfere super kitsch, piene d’acqua e di neve finta. Jenna ci ha fatto inserire una foto di noi due, brille e spensierate nei nostri costumi di carnevale in stile charleston, alla festa della scorsa primavera.
Sembra che sia passata una vita, invece sono solo pochi mesi.
La scuoto lievemente, e una pioggia di piccoli fiocchi bianchi e stelline variopinte turbina sui nostri volti sorridenti, prima di depositarsi di nuovo sul fondo.
Era da un bel po’ di tempo che Jenna non veniva a trovarmi e sono stata felice di averla a casa, ma per quanto la sua presenza mi abbia aiutata a distrarmi, la mia mente era da tutt’altra parte.
Io ci ho provato, giuro che ce l’ho messa tutta a non pensare a Damon, a quello che è successo fra di noi. Ma per quanto mi sia sforzata, dopo un primo momento di leggerezza ed euforia, la solita Elena, fervente pensatrice ed analizzatrice incallita, ha avuto il sopravvento.
Jenna, che mi conosce come le sue tasche, ha avvertito subito che c’era qualcosa di strano in me.
 
“Elena hai fatto qualcosa ai capelli?”
 
“Ma figurati, è una vita che non vado dal parrucchiere.”
 
“Mah… non so… mi sembri più bella.”
 
Ho cambiato discorso, le ho detto qualcosa di ironico sulle occhiaie da zombie che mi ritrovo a furia di passare le giornate davanti al pc.
Ma i miei guai non erano ancora finiti. Ho letteralmente carbonizzato la torta che abbiamo preparato insieme ieri pomeriggio e rovesciato il caffè sul divano, come se, oltre al controllo di me stessa, avessi perso definitivamente anche quello sugli oggetti.
Alla fine, la fatidica domanda è arrivata.
 
“Hai conosciuto qualcuno?”
 
Si, avrei voluto urlarle, e capisco la metà delle cose che mi dice, è strano, misterioso, complicato, la prima volta che ci ho parlato ho vomitato nel suo bagno e dopo due giorni ci sono andata a letto ed è stato bellissimo. Solo che lui mi ha detto “Vivi di più, pensa di meno e già che ci sei non pensare più a questa sera”­. Ah, piccolo particolare, ha una relazione sessuale col mio capo. Ma a parte questo, va tutto alla grande.
Invece ho negato, sapendo benissimo che non se la sarebbe bevuta, ma come sempre avrebbe rispettato i miei tempi, e mi avrebbe abbracciata forte dicendomi di contare su di lei per qualunque cosa, in qualsiasi momento.
Devo vedermela da sola con le mie contraddizioni: Bonnie è ancora in Georgia e con Care non posso parlare, ho troppa paura che le possa sfuggire qualcosa con Stefan.
 
E poi… lui non mi ha chiamata, e sono passati quasi quattro giorni. Lo so che non avrei dovuto pensare neanche lontanamente che lo avrebbe fatto, è stato piuttosto chiaro in proposito. Eppure una parte di me si era illusa che si sarebbe fatto dare da Ric il bigliettino da visita dove ho cancellato con una linea il nome Rebekah Mikaelson e aggiunto a penna i miei contatti.
Anche se lo avesse fatto, cosa avrei potuto dirgli? Che sono stata impulsiva, sconsiderata e irrazionale, ma quella sera ho sentito come una strana connessione tra me e lui e mi sono lasciata prendere da quel momento così speciale, dai discorsi a metà sotto il cielo stellato. Che desidero terribilmente sapere qualcosa di più della donna per cui ha perso la testa, e che l’ha ferito a tal punto da fargli fare il giro del globo. Che l’altra sera, tornata a casa, non riuscivo a decidermi a togliere la camicia per andare a dormire perché mi sembrava di poter ancora sentire il suo profumo addosso. Che mi dispiace per suo padre, che lo so fin troppo bene come si sente.
 
Stamattina ho incrociato Rebekah prima che entrasse nel suo ufficio e si attaccasse al telefono. Non l’ho mai vista più alta, più bionda, più bella di così. Abbiamo parlato per i cinque minuti più lunghi della mia vita, durante i quali non ho avuto il coraggio di guardarla in faccia, come se temessi che da un momento all’altro potesse comparirmi sulla fronte una scritta a caratteri cubitali riguardo il mio modo di intrattenere le trattative commerciali con i suoi clienti. A volte l’allievo supera il maestro.
 
Il telefono squilla per l’ennesima volta.
“Mikaelson Communications, buongiorno.”
 
“Elena? Ciao sono Ric.”
 
“Oh… uhm… ciao Ric. Tutto bene?” rispondo, agitandomi un po’ sulla mia sedia girevole.
 
“Benissimo grazie. Mi domandavo se avevi già avuto modo di buttare giù qualche riga…”
 
“Certo! Ci ho lavorato un po’ nel fine settimana… stamattina ho consegnato la prima bozza a Rebekah. Dobbiamo aggiungere il tuo curriculum e le foto in digitale, ma direi che possiamo già fissare un primo incontro per discuterne insieme.”
 
“Wow… sei stata molto efficiente.”
 
È sempre così gentile e educato. Sorrido.
“Beh a dire la verità è stato facile… dopo la chiacchierata con te mi sentivo particolarmente ispirata. Quando pensi di poter passare?”
 
“Questo pomeriggio sul tardi potrebbe andare bene?”
 
“Fammi controllare un attimo l’agenda di Rebekah… sulle 18.00 non ha appuntamenti.”
 
“Ok allora ci vediamo dopo. Ciao.”
 
“Ah… Ric?”
 
“Si?”
 
“Damon… come… come sta?”
 
Ok Elena sei completamente esaurita… che cavolo di domande fai?!?
 
Istintivamente lancio un’occhiata preoccupata al di là del vetro, per accertarmi che Rebekah sia ancora impegnata in riunione con un cliente.
 
“Beh uhm… mi sembra che stia come al solito… comunque è qui davanti a me vuoi che te lo passi?”
 
“No no… lascia stare. A più tardi. Ciao.”
 
****
 
“Cosa diavolo hai combinato?”
 
Ric mi scruta con aria di rimprovero, rigirandosi il cellulare tra le mani per poi sprofondare nella poltroncina davanti alla mia scrivania.
 
“Di cosa parli scusa?”
 
“Di Elena, coglione.”
 
“Ah, Elena… perché cosa ti ha detto?” gli rispondo tranquillamente, con finta sbadataggine, continuando a ritoccare il disegno in autocad sul monitor del mio pc.
 
“Damon!”
 
“Alaric!” gli faccio il verso, trattenendo a stento una risata per il suo tono di rimprovero.
 
“Non è per farmi gli affari tuoi, ma mi sembra una ragazza intelligente e molto dolce. Quindi non credo che dovresti…”
 
“Hai finito, mammina?” ribatto spazientito, alzando gli occhi al cielo. Quando lo guardo, Ric ha quell’espressione rassegnata che gli compare sul viso ogni volta che cerca di farmi un discorso serio che io puntualmente cerco di sviare. Comunque, le parole non sono mai state una necessità primaria fra di noi.  Mi basta un suo sguardo per capire dove vuole andare a parare, è sempre stato così. In ogni caso, in questo momento la situazione con Elena è un po’ confusa anche per me e non sono in vena di dargli spiegazioni.
 
“Vabbè lasciamo perdere che è meglio. Piuttosto, come procede la tua ricerca? Qualche novità?”  mi chiede adesso, poggiando i gomiti sulla scrivania e piegandosi un po’ di più verso di me.
 
Scuoto la testa, sospirando e passandomi nervosamente le mani fra i capelli.
“E’ come cercare un ago in un pagliaio Ric… le lettere di mia madre sono state inviate in Ohio, e tutte rispedite al mittente. Questa mattina ho verificato l’indirizzo, e com’era prevedibile nessuno sa niente. Sono passati quasi trent’anni e di quel bastardo si sono perse le tracce. L’unica cosa che ho adesso è il suo nome. Si chiama Will… Will Nolan.”
 
Solo pronunciare quelle due parole mi fa venire il voltastomaco. La stessa sensazione che ho provato quando con Stefan abbiamo aperto la cassetta di sicurezza in banca, e ho potuto stringere fra le mani quelle lettere ingiallite.
Ho riconosciuto la grafia elegante e allungata di mia madre sulle buste. Will Nolan. Questo è il dannatissimo nome di quella sottospecie di uomo che ha rovinato le nostre vite, quello a cui devo metà del mio patrimonio genetico. Lui, la parte di me che non riesco a smettere di odiare.
Ric mi guarda in silenzio, so che se il nostro rapporto prevedesse manifestazioni di affetto esplicite adesso mi abbraccerebbe.
Ma il suo sguardo, come al solito, basta a trasmettermi di tutto il sostegno di cui ho bisogno.
 
“Secondo te perché tuo padre le ha conservate?”
 
Scuoto la testa con frustrazione, mentre mi alzo per andare a riempirmi un bicchiere di bourbon. “Non ne ho idea Ric. Ne ho parlato anche con Stefan. L’unica cosa che mi viene in mente è che Giuseppe abbia voluto far credere a mia madre che quelle lettere fossero giunte a destinazione, in modo che lei non ricevendo risposta si mettesse in cuore in pace. Giuseppe la amava, non voleva rischiare di perderla. E sul perché le abbia conservate… non lo so forse voleva lasciarmi un indizio, una possibilità di affrontare il passato. Solo che è molto più difficile di quanto pensassi.”
 
Passo a Ric il suo bicchiere. Lo fa tintinnare piano contro il mio e entrambi beviamo un lungo sorso.
 
“Quindi tuo padre… Will intendo… non ha mai ricevuto quelle lettere.”
 
Sbatto il bicchiere sulla scrivania, tornando a sedermi per poi incontrare di nuovo il suo sguardo preoccupato. “Questo non cambia assolutamente nulla. Non si è fatto problemi ad abbandonare mia madre quando era incinta come se fosse… Dio mio Ric, era solo una ragazzina, era terrorizzata. E nonostante tutto…”
 
“Cosa?”
 
“Nonostante tutto lei gli ha scritto quelle cose. Lo pregava di ripensarci, di venire a conoscermi. Lo informava sulla mia salute, su tutti quei piccoli, banali progressi da neonati. E nelle sue parole non c’era una traccia di odio, di risentimento…”
 
“Lo vedi Dam, il male che ti stai facendo? Se continui a scavare in questa storia, sarà sempre peggio. Vai avanti con la tua vita, lascia perdere. Finirai solo per soffrire di più.”
 
Lo guardo ancora negli occhi, e so che conosce già la risposta.
“Lo sai che non posso.”
 
***
 
Chiudo la lista nel cassetto della scrivania e mi stropiccio gli occhi. Ormai a quest’ora i giornalisti se ne sono andati già tutti a casa, tanto vale che continui domani con le mie telefonate. Questa giornata mi ha letteralmente sfinita. Guardo l’orologio. Sono le sei passate, tra poco Ric dovrebbe arrivare. Non faccio in tempo a rivolgere lo sguardo verso la porta a vetri dell’ufficio che lo vedo, sorridente e scompigliato come la prima volta che ci siamo incontrati. Quello che non mi aspettavo era che si facesse accompagnare da Damon. Subito riconosco la ormai familiare sensazione di tensione alla bocca dello stomaco.
Il pensiero di me, con lui e Rebekah nella stessa stanza mi paralizza. Tuttavia cerco di darmi un contegno e quando li vedo avvicinarsi alla mia postazione scatto in piedi, esibendo il sorriso più professionale che mi riesce.
 
“Ric, Damon, ben arrivati. Vi annuncio subito, così potete accomodarvi nell’ufficio di Rebekah.” dico cercando di mostrarmi sicura, e componendo il numero dell’interno del mio capo per avvisarla del loro arrivo.
Mentre Ric mi saluta calorosamente, Damon mi rivolge un sorriso dolce ma debolissimo. C’è qualcosa di nuovo nel suo sguardo, qualcosa che non avevo mai visto. Sembra assente, forse stanco o preoccupato… non riesco bene a capire, ma non posso a fare a meno di pensare che la cosa in qualche modo mi riguardi.
Li accompagno nell’ufficio dove Rebekah li accoglie col suo tipico sorriso da gattamorta. Contro ogni aspettativa, l’imbarazzo non è esattamente il sentimento prevalente in me in questo momento.
Sento piuttosto una fitta fastidiosa, un qualcosa di indefinibile ma terribilmente sgradevole che mi monta dentro mentre la guardo atteggiarsi in quel modo.
 
“Elena perché non vai a prendere un po’ d’acqua e dei bicchieri? Oppure gradite un caffè?”
 
“No, siamo a posto così, grazie.” risponde Ric per entrambi.
 
“Benissimo. Allora puoi andare Elena. Finisci di fotocopiarmi quegli articoli che ti ho lasciato sulla scrivania.”
 
Che cosa? Mi sta estromettendo dal mio progetto? Sono stata io a fare tutto il lavoro, e adesso invece di farmi partecipare alla riunione mi manda a fare delle stupidissime fotocopie?
 
“Ma… veramente…” balbetto esterrefatta, mentre Alaric mi rivolge un’occhiata piena di comprensione. Incrocio lo sguardo cristallino di Damon per un attimo prima di vederlo abbassare di nuovo gli occhi. Sembra dispiaciuto, ma non dice niente. Quando esco dall’ufficio di Rebekah la vedo alzarsi e abbassare le veneziane. 
 
Dopo un’ora buona, Ric esce dall’ufficio di vetro e raggiunge la mia postazione mentre sto smistando le fotocopie furiosamente, dividendole in plichi. Guardo la porta dell’ufficio di Rebekah e di nuovo quella sensazione spiacevole e sconosciuta si impadronisce di me. Decido di non pensarci, di non cercare altri motivi per dispiacermi. L’unica cosa che voglio adesso è andare a casa.
Per la prima volta oggi mi sono chiesta se sto andando nella direzione giusta, se fare la tirapiedi qui dentro mi porterà mai da qualche parte. Credevo di aver dimostrato di valere qualcosa, che tutto il mio impegno e la mia dedizione avrebbero dato qualche risultato. Adesso mi sembra tutto inutile, mi sento senza via di scampo.
 
“Mi dispiace per quello che è  successo Elena. Per quello che può valere, hai fatto un lavoro eccezionale. Grazie.”
 
“Non fa niente Ric.” rispondo con un’alzata di spalle.
 
Quando se ne va, vedo uscire Rebekah dall’ufficio. Ha l’aria gelida e scocciata mentre avanza a grandi falcate col cappotto sottobraccio verso l’uscita, salutandomi appena.
Subito dopo riappare Damon. Mi rivolge uno dei suoi sorrisi a metà mentre si avvicina in silenzio, gli occhi ancora velati da quel malumore che non riesco a comprendere.
Ci studiamo per qualche secondo, senza dire una parola.
 
“Sai cosa dovresti fare, Elena? Dovresti prendere tutte queste scartoffie, fare un bel falò e mandare a fanculo questo stupido lavoro.”
 
“E’ facile a dirsi. E’ tutto quello che ho, tutto quello in cui ho investito.” rispondo continuando a rimescolare i fogli senza più una logica.
 
“Ti meriti qualcosa di meglio di questo.”
Sospiro, senza sapere bene cosa rispondere. Ancora una volta la sua sola presenza mi confonde, mi fa mettere in discussione le mie priorità. Improvvisamente c’è qualcosa che mi interessa molto più dei possibili scenari del mio futuro lavorativo. “Che aveva Rebekah? Perché se ne è andata via così?”
 
Lo vedo mettersi le mani in tasca e fare spallucce. “Beh voleva che la accompagnassi a una cena… o qualcosa del genere. Ma io ho avuto una giornata pesante e così…”
 
“Capisco.”
 
“Ora devo andare.”
 
“Ok…”
 
“Ciao Elena.”
 
“Damon…”
 
“Che c’è?” Si volta verso di me, quegli occhi sempre vuoti che non riesco a riconoscere. Prendo coraggio.
 
“Non lo so… sei strano. All’inizio pensavo fosse per me, ma adesso credo di sapere cos’hai. È per tuo padre non è così?”
 
“Beh, in un certo senso…”
 
“Lo so come ci si sente. Ho perso anche io entrambi i miei genitori e so che ci sono dei giorni in cui non riesci nemmeno a trovare la forza di alzarti dal letto. L’altra sera… beh non ne abbiamo più parlato. Però dovresti farlo. Dovresti parlarne con qualcuno e…”
 
“Elena…” mi interrompe.
 
“Si?”
 
“Ti va di fare un giro?”
 
***
 
Camminiamo sulla High Line, immersi fra il verde delle piante, le luci e i palazzi che svettano sopra le nostre teste. Prima di salire sulla strada sopraelevata, Elena ha voluto a tutti i costi fermarsi al Chelsea Market a prendere una vaschetta di patatine. Era così entusiasta che alla fine è entrata in almeno metà dei negozi, per uscirne con due panini e quattro muffin. Per la prima volta in questa giornata disastrosa, è riuscita a farmi sorridere. Adesso si porta dietro tutto in una busta di carta, mentre passeggiamo silenziosamente, circondati dal rumore del traffico che fluisce, caotico come sempre, sotto di noi.
 
“Sei sicura di riuscire a finire tutta quella roba?” le chiedo indicando il sacchetto che regge tra le mani.
 
“Stai scherzando? Muoio di fame. E poi ho preso qualcosa anche per te.”
 
Ci sediamo sulla gradinata alla fine della strada, dove attraverso la vetrata possiamo vedere la città che ci scorre sotto i piedi. Elena si raccoglie i capelli in una coda e addenta uno dei panini, passandomi la busta perché possa servirmi.
Prima mi ha raccontato un po’ dei suoi genitori, ma quando ha capito che a me non andava di parlare della storia di mio padre non ha insistito.
 
“Posso farti una domanda?” mi chiede adesso, mentre spazza via con le mani le briciole cadute sul suo cappotto blu.
 
“Sentiamo, Sherlock Holmes.” le rispondo alzando un sopracciglio e guardandola nei suoi grandi occhi di cioccolato, che in questo istante sembrano un po’ titubanti.
 
“Non mi hai mai detto nulla di tua madre… così mi chiedevo…”
 
“Se ne è andata anche lei Elena. Più di un anno fa. È stato allora che ho deciso di partire. E poi era appena finita… con Katherine.” La vedo sussultare per un istante, cercando di non darlo a vedere.
 
“Immagino che tu non abbia voglia di parlarne.”
 
Le sorrido e mi avvicino un po’ di più a lei, circondandola con un braccio. “E’ stata una giornata difficile Elena. Ma ti prometto che te lo racconterò, magari un’altra volta. Oggi sono troppo stanco.” Le lascio un bacio fra i capelli e la sento sospirare e rilassarsi un po’. E di nuovo condividiamo un silenzio tutto nostro, un silenzio nel quale anche io riesco a tranquillizzarmi.
Dopo qualche minuto si solleva e mi guarda di nuovo negli occhi per un attimo, tornando subito dopo a fissarsi le mani, avvolte dai guanti.
 
“Pensavo… Ti andrebbe di… di dormire a casa mia questa sera?”
 
“Elena, cosa stai facendo?”
 
“Vivo il momento. È solo che Bonnie non c’è e tu… e comunque quando ho detto dormire, intendevo dormire… e poi…”
 
“Ok.”
 
 
L’appartamento di Elena è un piccolo bilocale e si trova al quinto piano di un vecchio edificio con la facciata in mattoni. Ovviamente è senza ascensore. Quando lei entra in casa e accende la luce, io resto sulla porta.
 
“Che fai non entri?”
 
“Sei sicura che non vuoi passarmi un paio di pattine o qualcos’altro? È tutto così… ordinato.”
 
Lei si porta le mani sui fianchi e piega la testa di lato. “Sono organizzata, è diverso. Dai non fare lo stronzo come al solito e chiudi la porta.”
 
La sua camera è semplice, arredata solo con un letto in ferro battuto, un piccolo armadio e un comò con un grande specchio, dove ha incollato diverse fotografie: lei con le amiche, una foto al mare con Barbie, e poi, in un’altra foto, quelli che intuisco essere i suoi genitori che la avvolgono in un abbraccio. Faccio scorrere un dito sul profilo del suo viso sorridente. Deve essere una foto di qualche anno fa: sembra più piccola di adesso con quelle guance un po’ paffutelle,  e sembra anche più serena.
 
“Mettiti questa, dovrebbe andarti.”
 
Mi giro verso di lei, che mi lancia una t-shirt nera. Indossa una maglietta larga e un paio di pantaloncini, dai quali spuntano le sue belle gambe lunghe.
 
“Bel pigiamino.”
 
“Simpatico.”
 
Mi infilo la maglia che mi va un po’ stretta e mi stendo accanto a lei.
 
“Il letto è un po’ piccolo, ma spero che starai comodo lo stesso.”
 
“Ho dormito in posti che non puoi neanche immaginare Elena. Pensa che una volta, in Sri Lanka, io e Ric abbiamo passato la notte fuori, distesi in un sacco a pelo. Non sai che freddo. Però le stelle erano magnifiche e tutto intorno a noi era silenzio. Si sentivano solo i suoni un po’ ovattati della foresta pluviale. È uno dei ricordi più belli del nostro viaggio e...”

Mi volto verso di lei. Si è già addormentata, con le mani raccolte sotto il cuscino e l’espressione un po’ imbronciata, come quella di una bimba.
Sorrido e le sposto una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di chiudere gli occhi anche io e piombare in un sonno che, almeno per questa notte, spero sia senza sogni.
 
***
Ciao : )
Rieccomi! Scusate per il poema… spero che non sia stato troppo pesante o peggio deprimente. Ecco che piano piano emerge qualche dettaglio sul passato… Purtroppo tanta sofferenza per il nostro Damon, e non è ancora finita.
Scappo che sono di corsissima.
Bacioni e grazie a chiunque passi di qua
Beagle

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6
 
I know it's over
And it never really began
But in my heart it was so real
And you even spoke to me, and said:
"If you're so funny Then why are you on your own tonight?
And if you're so clever why are you on your own tonight?
If you're so very entertaining why are you on your own tonight?
If you're so terribly good-looking then why do you sleep alone tonight?
Because tonight is just like any other night, that's why you're on your own tonight
With your triumphs and your charms while they are in each other's arms...”
It's so easy to laugh
It's so easy to hate
It takes strength to be gentle and kind
****
So che è finita
E nemmeno era mai veramente iniziata
Anche se nel mio cuore era cosi vera
E tu hai addirittura parlato con me, dicendo
"Se sei cosi divertente come mai te ne stai per conto tuo stanotte?
E se sei cosi intelligente perché te ne stai per conto tuo stanotte?
Se sei cosi simpatico perché te ne stai per conto tuo stanotte?
Se sei cosi terribilmente affascinante perché allora dormi da solo stanotte?
Perché questa è come qualsiasi altra notte, è questa la ragione per cui sei da solo stanotte
Con i tuoi trionfi e il tuo fascino mentre loro sono uno nelle braccia dell'altro…"
È cosi facile ridere
È cosi facile odiare
Ci vuole forza per essere buoni e gentili
 
I know it’s over – The Smiths
 
 
Mi sveglio in preda al terrore, il cuore che mi martella nel petto, la maglia incollata addosso. Ho sognato di nuovo, ma non riesco a ricordare nulla eccetto le urla, urla strazianti che mi sembra di poter sentire ancora nelle orecchie.
 
“Lascialo! Lascialo stare!”
 
È solo un sogno, calmati, respira.
Mi ripeto il solito mantra, sperando che faccia effetto, e allungo la mano a cercare il comodino, senza trovarlo.
 
Dove sono?
 
Mi manca l’aria. Una mano mi sfiora piano la schiena facendomi trasalire.
 
“Che succede Damon? Cos’hai?”
 
Improvvisamente una luce fioca illumina la stanza e incontro gli occhi angosciati di Elena che, seduta sul letto, mi guarda terrorizzata. Ora ricordo. Non avrei dovuto spaventarla, non avrei dovuto nemmeno essere qui con lei adesso. Vorrei dirle che non è niente, di tornare a dormire, prendere le mie cose e uscire da questa casa, ma non riesco nemmeno a  parlare. Mi porto le mani alla gola cercando di regolarizzare il ritmo del mio respiro.
 
“Damon ti prego dimmi qualcosa… mi stai facendo paura!”
 
I suoi occhi grandi e smarriti scrutano i miei, mentre sento il tocco delicato delle sue dita sulle guance. Afferro le sue mani e le allontano, il più gentilmente possibile.
 
“È stato solo un sogno Elena…” riesco a dire finalmente, riprendendo gradualmente il controllo di me stesso. Ma lei continua a guardarmi con preoccupazione, senza capire.
 
“Aspetta, ti prendo un bicchiere d’acqua…”
 
“No… resta.”
 
Istintivamente la prendo tra le braccia e abbandono il viso sulla sua spalla, respirando il suo profumo.
Lei mi lascia fare, si fa accogliere dal mio abbraccio senza dire più niente, intreccia le dita fra i miei capelli e li accarezza piano. Fa scorrere le mani fra i miei pensieri, li scompiglia e li rimette in ordine, così lentamente riesco a tranquillizzarmi, a riprendere coscienza del mio corpo.  Dopo qualche minuto la sento parlare sottovoce, come se avesse paura di disturbarmi.
 
“Va meglio?” chiede, senza spostarsi.
 
“Si, sto bene. Era solo uno stupido incubo, è passato.”
 
“Dio, Damon mi hai fatto prendere un colpo. Ti è già capitato altre volte o è solo colpa del panino che ti ho fatto mangiare ieri sera?”
 
Sorrido sul suo collo e sento che anche lei si rilassa tra le mie braccia.
“In effetti era un po’ pesante… però scusa se ti ho svegliata. Non volevo. Che ore sono?”
 
“Sono  le tre del mattino. Non preoccuparti, non fa niente… Solo vorrei capire cosa ti spaventava tanto.”
 
Non ne ho idea Elena, vorrei risponderle. Avevo solo una fottuta paura, come tutte le volte.
Paura di una parola in più o una in meno, di un brutto voto, paura anche solo di inciampare e di rompere qualcosa, e quando chiudo gli occhi l’angoscia ritorna ad invadermi come se fossi uno stupido bambino di  cinque anni. Esiste qualcosa di più dannatamente penoso?
Invece mi scosto da lei e mi distendo di nuovo fra le coperte, affondando la testa nel cuscino e tenendo gli occhi fissi sul soffitto. Lei si rannicchia accanto a me, continuando a osservarmi in silenzio.
La luce tenue dell’abatjour sul suo comodino illumina dolcemente il suo profilo.
 
“Non riesco a ricordare bene cosa ho sognato. Mi succedeva anche prima… prima di partire con Ric intendo.”
 
Sento il suo sguardo che mi si incolla addosso. So che vorrebbe chiedere ma probabilmente teme il mio solito rifiuto.
Per un istante, per un momento soltanto provo il desiderio di dirle tutto, ma mi ricredo subito. Non riesco a  mandare giù l’idea di condividere con qualcuno una storia così umiliante, di dover guardare in faccia la vergogna che provo per me stesso. Propendo per una mezza verità, e frugo tra i miei pensieri alla ricerca delle parole più giuste, di un compromesso tra il silenzio e la realtà.
 
“Stavo attraversando un momento difficile. Mia madre era malata, se ne stava andando e io… ero molto confuso, incerto sul futuro. Avevo un rapporto… strano…. con mio padre. In quel periodo avrei fatto qualunque cosa per compiacerlo. Per questo ho studiato design. Pensavo che sarebbe stato contento di vedermi portare avanti la sua azienda assieme a Stefan, ma quando ho iniziato a lavorare per lui non ero più così sicuro della mia scelta. Ed è stato allora che…”
 
“Hai conosciuto lei, non è così? Katherine intendo…” mi interrompe in un sussurro. Apparentemente è molto tranquilla mentre pronuncia il suo nome. “Ti va di raccontarmelo? Solo… se vuoi…”
 
“Beh, è una lunga storia… E poi adesso è tardi e dovresti dormire.” Le sorrido, alzando solo un angolo della bocca e ricevendo in cambio un’occhiata fintamente infastidita.
 
“Piantala. Ormai non ho più sonno. E poi me l’avevi promesso.”
 
“Ok. Se insisti. Dunque, lei era… bellissima. Ti assomigliava un po’ da quel punto di vista. Ma era molto complicata e certe volte egoista. Ci siamo conosciuti ad un corso, ma fin da subito è emerso un problema che non avrei dovuto sottovalutare. Stava già con un altro.”
 
Sposto lo sguardo sul di lei, che non dice niente. Rimane immobile, in attesa.
 
“Forse ho sempre saputo che non l’avrebbe mai lasciato per me, che ero solo un diversivo per spezzare la monotonia della sua vita con lui. Ma non riuscivo a staccarmene. Mi dava la forza per affrontare l’altra mia vita… mia madre stava male e con Stefan non potevo parlare, per non pesargli. Con lei per la prima volta avrei voluto costruire qualcosa… di più. La verità è che eravamo solo due persone molto infelici, per motivi diversi. Solo che a lei quel poco che avevamo bastava, mentre a me no. Io volevo tutto di lei. Molto melodrammatico non trovi?”
 
“E… poi?”
 
“Ha cominciato ad evitarmi, a diventare scostante, aggressiva. Ho scoperto che stava per sposarsi… con l’altro… e ho dato di matto. E poi mia madre se n’è andata. Non dovevo più proteggerla, non avevo più nessuna motivazione per restare. Ric stava partendo per il suo viaggio e mi ha chiesto di accompagnarlo. Il resto lo sai. Direi che è abbastanza deprimente.”
Quando l’ultima frase abbandona le mie labbra, mi sento improvvisamente più leggero. Come se potessi respirare meglio, come se la disperazione che ho provato quando anche Katherine ha rifiutato il mio amore per lei si dissolvesse lentamente insieme alle parole.
 
“L’hai più rivista da quando sei tornato?”
 
“No.”
 
 
“A che pensi?” le chiedo dopo un po’, non sentendola più fiatare. La vedo riflettere per qualche secondo prima di rispondere, mordendosi piano il labbro, come fa spesso quando è imbarazzata, e stringendo il lenzuolo fra le mani.
 
“Beh… solo che mi dispiace. E che fin dall’inizio avevo ragione su di te.”
 
“Che intendi?”
 
“Sapevo che eri solo ferito. Ti ricordi quando abbiamo parlato, quella sera fuori da casa tua? Adesso ne ho la conferma.  Ogni cosa che hai fatto, l’hai fatta per amore.”
 
E poi, senza dire nient’altro, allunga due dita e mi sfiora la guancia.
Da fuori proviene il suono attutito di una pioggia fitta e sottile. Un ritmo dolce, regolare, che avvolge le sue parole come una coperta calda. I suoi occhi mi invadono, ma la sua mano che adesso mi scende sul petto mi rende inquieto. Ho paura che possa toccarmi anche l’anima, tutte quelle cose che mi porto dentro, tutte le cose che non dico mai.
 
“Elena… adesso basta. Non voglio che tu ti immerga troppo nella mia personalità, nei miei fantasmi. E poi, non sono più quell’uomo, ci sono tante cose che non sai. Cose che non voglio dirti. Non posso essere quello che tu vuoi che io sia.”
Mi esce un tono più aggressivo di quanto vorrei e vedo i suoi occhi tremare per un attimo sotto il peso della mia collera.
 
“Forse quello che sei è abbastanza per me.”
 
La sento spostare le dita dalla guancia alle mie labbra, per farmi smettere di parlare.
 
Quello che sei è abbastanza.
 
Suona tutto così strano. Non sono mai stato abbastanza per nessuno. Non per Will per aspettarmi, non per Giuseppe per accettarmi, non per Katherine per amarmi.
Nei suoi occhi adesso mi sembra di poter scorgere ogni piccola sfumatura e improvvisamente la mia mente si svuota da ogni pensiero e si riempie solo della sua immagine, del desiderio di averla che diventa come un dolore fisico nel mio corpo. Il desiderio di percorrere ogni centimetro della sua pelle, di guardarla, di sentirla sotto di me.
Allora la attiro, stringendola per un fianco, e posso sentire le sue gambe nude scontrarsi e intrecciarsi alle mie mentre affondo le dita fra i suoi capelli per avvicinarla a me, schiudendole le labbra senza che lei opponga nessuna resistenza, lasciando che la mia lingua accarezzi la sua. La sento gemere mentre le sue mani scorrono avide lungo la mia schiena, sotto la maglietta.
Affondo nell’incavo del suo collo, le sfioro il seno, tutto il suo corpo, concentrandomi solo sull’eccitazione che provo nel sentirla reagire al mio tocco, sul suo respiro spezzato mentre risalgo con le dita fra le sue gambe per trovare il suo piacere e darle quello che vuole. E improvvisamente mi sento libero.
 
***
 
La luce debole del sole di novembre penetra dalle imposte e mi colpisce dritta in faccia. Ci metto un attimo a realizzare, poi mi siedo sul letto di scatto afferrando la sveglia appoggiata sul comodino.
 
“Che cosa?? Sono le otto! Dovrei essere già in metropolitana. Merda, merda, merda! Perché non hai suonato?”
 
“L’ha fatto ma tu l’hai spenta.”
 
Mi volto verso Damon, disteso a fianco a me appoggiato su un gomito, mi guarda con i suoi occhi azzurrissimi e l’espressione da silososonofigoanchediprimamattina.
 
“E tu… tu non potevi svegliarmi?”
 
“Dormivi così bene... Secondo me mi stavi anche sognando perché sbavavi come un lama.”
 
Non lo sto a sentire, afferro i jeans e un maglione a caso e mi fiondo in bagno per lavarmi i denti.
Me lo ritrovo appoggiato allo stipite della porta, mi guarda divertito. Sembra di buon umore e, considerando la notte appena trascorsa, la cosa non può che farmi sentire sollevata.
 
“Si può sapere dove stai andando?”
 
“Non si vede? A lavorare  genio. Rebekah mi ucciderà.” ribatto, mentre faccio scorrere nervosamente la spazzola tra i capelli, che stamattina, come se non avessi già abbastanza problemi, sono decisamente ingestibili.
 
“Secondo me invece dovresti chiamarla, inventarti una scusa e passare la giornata con me.”
Mi risponde calmissimo, la mano sempre sulla porta, gli occhi quasi trasparenti che mi fanno vacillare, puntati come due fari sul mio viso.
 
Gli rivolgo un’occhiata obliqua, completamente sbigottita. “Ma sei impazzito?”
 
“Elena, tranquilla. Questo pianeta continuerà a girare anche senza il tuo aiuto per un giorno. Ricorda le mie parole: tutti utili, nessuno indispensabile. Quanto a Rebekah, devo forse ricordarti la considerazione che ha avuto per te e per il tuo lavoro ieri sera?”
 
Mi blocco sulla porta, riflettendo sulle sue parole. Infondo forse ha ragione, come sempre. Forse dovrei semplicemente lasciarmi guidare da lui e correre il rischio di essere diversa.
Mettere da parte il mio bisogno di garanzie, la mia urgenza di certezze. Seguire una sensazione senza farmi domande, senza pensare se sia giusto o sbagliato.
O forse è solo una gigantesca, smisurata bugia che sto raccontando a me stessa, e anche a lui.
Gli ho detto che posso accettarlo anche così, che posso assecondare i suoi silenzi, tutte le cose di cui non vuole rendermi partecipe, ma che sono lì, come un immenso macigno fra di noi.
 
“Non sono più quell’uomo, ci sono cose che non voglio dirti. Non posso essere quello che tu vuoi.”
 
Le sue parole rabbiose adesso mi risuonano nelle orecchie, anche se ieri sera ho finto di non sentirle, troppo spaventata dal fatto che lui avrebbe potuto andarsene via, lontano da me.
Ripensando alla storia di Katherine non posso fare a meno di immaginare che sia un’assurda proiezione di quello che potrebbe essere il mio futuro con Damon.
I ruoli sono gli stessi, cambiano solo gli attori sulla scena.
Stavolta sono io  quella che non vuole accontentarsi, quella a cui non bastano le briciole, perché lui mi sta già scoppiando dentro al cuore, in un modo che non credevo possibile.
Perché da quando l’ho incontrato, ha iniziato ad abitare nel mio corpo e nella mia testa.
 
Lo vedo sorridere spensierato, radioso, avvicinarsi a me e circondarmi con le braccia.
 
“Solo un giorno Elena. Uno solo.”
 
E non posso fare a meno di sorridergli a mia volta, non posso fare a meno di sperare che prima o poi sarà diverso, che prima o poi cambierà qualcosa. Che magari lui si abbandonerà di nuovo fra le mie braccia come questa notte, dopo il suo incubo, e chissà, potrei essere io a calmarlo. Infondo ieri ci sono riuscita.
Perché forse dovrei solo cercare di vivere questo momento insieme a lui, qualsiasi cosa significhi, qualunque cosa sia. E non cercare di capirlo.
 
“Ok, un giorno.” dico in un soffio.
 
“Perfetto, allora vai a finire di vestirti. Ti porto a Coney Island. È il posto che preferisco a New York quando c’è il sole.” risponde pieno di entusiasmo.
 
“Coney Island? Seriamente? Ti stanno simpatici i russi?” chiedo, incrociando le braccia sotto il seno e piegando la testa di lato, dubbiosa.
 
“Mi ricorda dei momenti felici. E poi, per quanto abbia viaggiato, è l’unico posto che mi faccia sentire a casa. Quando arrivo lì mi si apre il cuore, respiro… forse appartengo più a quel caos stravagante che alle spiagge deserte e ai ghiacciai. Sono sicuro che ti piacerà. Muoviti dai, se fai la brava forse potrei anche farti un ritratto. O magari ti compro il gelato.”
 
Gli faccio una linguaccia e gli sorrido. Oggi non ho voglia di andare a lavoro, ho voglia di stare con lui perché se mi rifiutassi non cambierebbe nulla: lui ci sarebbe comunque, ad agitare i miei pensieri.
Voglio essere più coraggiosa, anche se più stiamo insieme, più corro il rischio di volere quello che lui dice di non potermi dare. Ma non riesco a smettere di desiderarlo.
Vado in camera a prepararmi e mando un messaggio a Rebekah dicendole che oggi starò a casa.
Damon mi aspetta in cucina, lo sento rispondere a una telefonata. Quando lo raggiungo ha già riattaccato.
Mi sembra di avere davanti un altro uomo. Adesso è serio, la mascella contratta gli occhi vuoti.
 
“Damon che succede?”
 
“Era Stefan. Devo andare a casa Elena. Ci sono delle novità… delle… cose di cui devo parlare con mio fratello. Mi dispiace ma dobbiamo rimandare.” risponde freddo, assente.
 
“Ma che ti ha detto? Sei pallido. Parlami.” chiedo preoccupata.
 
“Non posso Elena.” La sua voce è tagliente, lo sguardo gelido come non l’ho mai visto prima.
 
“Ma si può sapere cos’hai adesso?”
 
“Perché continui a insistere? Te l’ho già detto, smettila di intrometterti nelle mie faccende private. Perché non ti fai bastare quello che abbiamo?”
 
“E sentiamo, cosa sarebbe quello che abbiamo?”
 
“Tu che ne dici? Uscire una volta ogni tanto, o più semplicemente il sesso.”
 
Che fine ha fatto il ragazzo spensierato che voleva farmi un ritratto e accompagnarmi nel suo posto felice? Ha lasciato di nuovo spazio a quello criptico e incomprensibile della festa a casa sua, quello che sa sconcertarmi con la sua freddezza.
Sento qualcosa pizzicarmi gli occhi, ma dura solo il tempo di un battito di ciglia. Adesso è già passato, è già lontano da me, un ricordo sbiadito che non può più farmi male.
È come se lo vedessi attraverso un vetro che mi protegge, mi rende estranea da tutto. Lo so fare, l’ho già fatto, solo che questa volta è un po’ più difficile.
 
“Per lo stesso motivo per cui a te non poteva bastare quello che avevi con Katherine.”
 
Poi spengo l’interruttore, azzero i ricordi, tutto quello che poteva essere e non sarà neanche questa volta. Non gli darò la soddisfazione di vedermi piangere. Io so controllare ogni cosa, comprese le emozioni.
 
“Adesso puoi anche uscire da casa mia. Io vado in ufficio.”
 
*********
Ciao! Ecco il frutto delle mie elucubrazioni notturne… che disastro, mi rendo conto che è proprio deprimente e in parte molto OOC ma mi è uscito così. In effetti oggi non sono proprio in forma. Dato che è un po’ contorto, vi lascio una piccola sintesi.
Damon fa il solito incubo ma questa volta non è solo, c’è Elena a dargli conforto. Ovviamente questo la porta a farsi altre domande. Lui decide di omettere il vero motivo della sua crisi ma sceglie di svelarle comunque una parte del suo passato: la storia con Katherine. Per entrambi il loro rapporto era un mezzo per evadere da una quotidianità pesante, per lui però c’era anche qualcosa di più. Elena in questo momento fa una rivelazione che apre il cuore a Damon, ma il giorno dopo inizia a porsi delle domande sui suoi sentimenti per lui. Attenzione, non dimentichiamoci che è una persona molto controllata e paranoica, quindi iniziano a suonare dei campanelli d’allarme nella sua testa. La reazione di Damon alla telefonata di Stefan li fa suonare tutti insieme. Ma per lui è troppo difficile sbloccarsi, il suo segreto lo fa sentire sporco, si vergogna di sé stesso anche se in realtà lui è la vittima della situazione.
Questo è quanto… Ringrazio chi segue, preferisce, legge e in particolare quelle sante donne che recensiscono :-P
Bacio
Chiara aka Beagle 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
 
“…Così continuiamo a remare,
barche controcorrente,
risospinti senza posa nel passato.”
 
Francis Scott Fitzgerald
 
 
Non dimenticherò mai il giorno in cui ho saputo che Giuseppe non era il mio vero padre.  Non la definirei esattamente la scoperta del secolo, probabilmente quella consapevolezza era già in qualche modo parte di me, della mia insicurezza cronica. Si è trattato più che altro di una conferma, del tassello mancante nel complicato puzzle della mia vita.
Mia madre stava già molto male, ormai eravamo consapevoli che presto l’avremmo persa.
I medici avevano parlato chiaro, con la freddezza tipica di chi ogni giorno fa da spartiacque fra la vita e la morte e ormai non ci fa neanche più caso. Da quando aveva portato a casa le analisi, dove era comparso quell’insignificante asterisco accanto a uno stupido valore del fegato, erano trascorsi solo pochi mesi. Tutto era precipitato in fretta e a me, Stefan e Giuseppe non restava che rimanerle accanto. Anche se avremmo voluto riuscire ad essere forti per lei, nessuno di noi tre era veramente pronto a dirle addio, né lo sarebbe stato mai.
Quel pomeriggio sono andato a trovarla in ospedale dopo il lavoro, come facevo sempre.
Mi sono seduto sulla sedia verdina un po’ sbiadita, accanto al suo letto. La sua stanza, piccola e asettica, emanava quell’insopportabile odore di disinfettante al quale non riuscivo proprio ad abituarmi.
Durante le visite le raccontavo una marea di stronzate, ma lei si dimostrava sempre contenta e incuriosita. Voleva sapere tutto: del lavoro in azienda, dei corsi che stavo seguendo. Cercavo di farla ridere e spesso ci riuscivo. Qualche volta le parlavo anche di Katherine, ma senza scendere nei dettagli spiacevoli per non farla preoccupare.
Lei non diceva molto, preferiva ascoltarmi. Mi ripeteva sempre che era felice che mi fossi innamorato, che voleva uscire presto da lì perché invitassi a cena la mia ragazza. Io le rispondevo che non vedevo l’ora e lei sorrideva amaramente.
Era sempre più magra, il suo corpo si intravvedeva appena tra le pieghe del lenzuolo bianco, e il suo bel viso era segnato dalle occhiaie profonde e dalla malattia.
Anche quella volta, come facevo sempre, ho stretto la sua mano tra le mie. Sembrava ogni giorno più piccola e fredda.
Quella sera però c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. I suoi occhi dolci e materni indugiavano sul mio viso, le sue dita sottili mi accarezzavano i capelli con tenerezza. Con un filo di voce mi ha chiesto scusa, mentre le lacrime le rigavano le guance.
Avrei voluto dirle tante cose, ma sentivo un nodo opprimermi la gola. Lei era tutta la mia forza, era tutto ciò che c’era di bello nei miei ricordi. Ho preso un po’ di coraggio  e le ho fatto la domanda che mi portavo dentro da un po’. Mi sono meravigliato di come la sua risposta mi scivolasse addosso, indifferente.
Era come se una parte di me avesse addirittura sperato che esistesse almeno un valido motivo se Giuseppe non mi voleva, nonostante provassi da tutta la vita a farmi amare.
Il cerchio si era chiuso, inaspettatamente tutti i miei dubbi trovavano un perché. Le mezze frasi allusive che qualche volta avevo colto, la cattiveria che Giuseppe riusciva a dimostrare quando da bambino mi picchiava.
Fin da piccolo mi ero sempre sentito diverso da lui, diverso da Stefan, diverso perfino dai figli dei vicini o degli amici. Con loro lui era gentile, affettuoso e questo mi faceva soffrire, mi faceva sentire in colpa. Io ero stato cattivo, non meritavo nulla. A quei tempi ancora non potevo capire.
 
Finalmente era tutto chiaro: la mia vita non era nient’altro che un’immensa bugia.
 
Mia madre mi ha chiesto di perdonarla per non essere stata capace di proteggermi, mi ha giurato che avrebbe voluto ma che non sapeva come fare, o dove andare. Quando le ho chiesto chi fosse il mio vero padre i suoi occhi sono diventati gelidi, l’espressione sul suo viso carica di dolore e determinazione.
“Ho fatto tanti errori Damon, non sono mai riuscita a difenderti, ma questo non puoi chiedermelo. Non ti permetterò di rovinarti con questa storia. Sei mio figlio, ti conosco. Andresti avanti fino a distruggerti.
Se ho deciso di parlartene è stato solo perché volevo darti la possibilità di dare un taglio al passato e andare avanti, ripartendo dalla verità. Ricomincia da capo, guarda al futuro e liberati da tutto questo dolore. Fallo per me, fidati di me.”
 
Quella sera mi madre ha pianto a lungo ed io con lei.
Tre mesi dopo non c’era già più. Tre mesi durante i quali avevo più volte tentato di riprendere il discorso con lei e mi ero scontrato duramente con Giuseppe ricevendo da entrambi la stessa risposta, la stessa preghiera: “Vai avanti.”
 
 
“Questo è quanto, Stefan. Tutto si limita a quella conversazione nella stanza d’ospedale. Lo sai che le è costato parecchio rispondermi, che ha fatto male più a lei che a me. E io non volevo vederla soffrire. Ho dovuto aspettare di aprire la cassetta di sicurezza di Giuseppe anche solo per sapere il nome di quel figlio di puttana. Adesso mi vuoi spiegare cosa diavolo ci faccio qui? Hai detto che riguarda mio padre… Fa che ci sia un valido motivo perché avevo di meglio da fare.”
 
Scruto nel verde pallido degli occhi di mio fratello, che se ne sta seduto dietro la scrivania con le braccia incrociate sul petto e l’espressione seria e corrucciata. Sono pieni di tristezza e preoccupazione. Qualche volta ho l’impressione che sia lui il maggiore fra noi due, quello che vuole proteggermi e contenere i miei eccessi, prendersi cura di me.
 
“C’è dell’altro Damon. Ci sono cose che non sai.”
 
“Come sarebbe a dire?”
 
Stefan sospira. È come se stesse conducendo una specie di dialogo interiore, e la sua indecisione non fa altro che farmi incazzare ogni secondo di più.
 
“Nostra madre avrebbe voluto portare con sé tutti i suoi segreti. Ha fatto giurare a Giuseppe di non darti nessun indizio che potesse portarti a cercare il tuo padre biologico e lui ha rispettato il suo volere. Solo che… quando te ne sei andato, lui ha avuto una specie di crisi di coscienza nei tuoi confronti. Ha parlato con me Damon, mi ha raccontato delle cose. Delle cose… su Will.”
 
Sgrano gli occhi, lo guardo sgomento scattando in piedi e sbattendo i pugni sulla scrivania, incapace anche solo di formulare un pensiero coerente. Devo far ricorso a tutte le mie forze per non mettergli le mani addosso.
 
“Che cazzo stai dicendo Stefan? Lo sai o no che sto diventando matto, che non so dove sbattere la testa per trovare quel bastardo? E tu, per tutto questo tempo, sei rimasto a guardare senza dirmi niente? Mi hai visto fare le valige e girare mezzo mondo senza riuscire a darmi pace e adesso mi stai dicendo che sapevi delle cose? È questo? Dimmi che stai scherzando.”
Gli urlo contro con tutta la rabbia e il disprezzo che ho in corpo, ma lui continua a osservarmi in silenzio, senza reagire.
 
“Speravo di non dover arrivare a questo punto. Ma ti dirò tutto Dam. Adesso lasciami parlare. Poi potrai pure prendermi a pugni… se pensi che possa farti stare meglio.”
 
Sono incredulo. Non riesco a capacitarmi che mio fratello possa avermi fatto una cosa del genere. Probabilmente è uno dei miei incubi del cazzo, solo che questa volta sembra un po’ più vero del solito.
Ma prima o dopo mi sveglierò. Me la caverò anche questa volta.
 
“Quando Will e la mamma si sono conosciuti lei aveva sedici anni e abitava a Livorno, in Italia con i suoi genitori. Lui era un militare americano di base a Camp Darby. Quando è rimasta incinta e il nonno l’ha scoperto l’ha cacciata di casa e lei si è rifugiata da suo fratello, che al tempo aveva già messo su famiglia. Nostro zio è andato a cercare Will per capire le sue intenzioni.”
 
“Continua.” gli ordino, col tono più gelido che mi riesce. Nel suo volto tormentato e pieno di dubbi vedo la lotta che sta combattendo contro sé stesso, alla ricerca delle parole più giuste da dirmi per non farmi sragionare.
 
“Damon… Will gli ha letteralmente riso in faccia. Gli ha risposto semplicemente che non era sicuro di essere lui il padre, che la faccenda non lo riguardava. È inutile dirti che si trattava solo una bugia. Quello che voglio farti entrare in testa è che ti stai ostinando a cercare un uomo, se così si può chiamare, che non si merita nemmeno un briciolo della tua considerazione. Se ne è sempre fregato di te. Se nostra madre ha preferito che tu non sapessi niente è stato solo per evitarti un’altra delusione. Lei non voleva che tu lo cercassi. Desiderava solo darti l’opportunità di seppellire per sempre i tuoi fantasmi, di ricominciare daccapo.”
 
Serro i pugni, cerco di respirare. Scaccio l’immagine di mia madre che torna a tormentarmi, l’idea di tutto il male che ha subito. Adesso vorrei solo saltare al di là di questa scrivania e spaccare la faccia a mio fratello. E ho tutta l’intenzione di farlo, appena avrà finito di confessarsi.
 
“Vai avanti Stefan, dimmi tutto quello che sai.”
 
“Nostra madre era terrorizzata, non sapeva cosa fare, ma non avrebbe mai rinunciato a te, per nessun motivo al mondo. Ed è stato allora che ha conosciuto Giuseppe. Lui era amico di nostro zio, frequentava la sua casa. Se ne è innamorato, le ha proposto di sposarla, promettendole che ti avrebbe tirato su come se fossi figlio suo. Lei ha accettato, e se lo ha fatto è stato solo per il tuo bene. Non poteva immaginare quello che sarebbe successo poi. Dopo la tua nascita si sono trasferiti qui, lui ha fondato l’azienda. Il resto lo sai già.”
 
“Mi sfugge il punto. Perché oggi? Perché mi hai nascosto la verità per tutto il tempo e stamattina ti sei svegliato con il desiderio impellente di scaricarti la coscienza?”
 
“Speravo di poter mantenere il segreto, di rispettare la volontà di nostra madre. Credevo anche che il viaggio con Ric ti avrebbe guarito, che l’avresti piantata col tuo stupido autolesionismo. Ma non è stato così. Da quando sei tornato sei più ossessionato di prima. Sembra che trovare Will sia il tuo chiodo fisso, la tua unica ragione di vita. Poi da quando hai scoperto quelle lettere, l’estremo tentativo di nostra madre, sei diventato ancora peggio… Io ti capisco, te l’ho detto e ripetuto milioni di volte. Ma adesso che sai tutto, trovami una ragione, una soltanto per cui valga la pena di andare in cerca di quell’uomo invece di ripartire da zero. Perché sei così testardo?”
 
“Ti serve un motivo Stefan? Ti accontento subito. Quello che mi hai raccontato. Adesso più che mai si merita che io gli sputi in faccia tutto il mio rancore.”
 
“E credi che questo ti farà stare meglio? Che potrai recuperare il passato? Menti a te stesso Damon.”
 
“Fatti miei. Vai al punto. Perché oggi?”
 
“Perché… ho fatto delle indagini per conto mio. Mi sono rivolto alla base di Camp Darby. Loro hanno mantenuto i contatti con Will e hanno il suo ultimo indirizzo. Quindi adesso so dove puoi trovarlo. È scritto in questa busta, l’ho ricevuta stamattina. Ecco la risposta che tanto cerchi.”
 
Mentre parla, Stefan apre un cassetto della scrivania e ne estrae una busta gialla con il suo nome scritto sopra in stampatello . La osservo per qualche istante. Eccola lì, l’oggetto delle mie ossessioni. Ho aspettato per così tanto tempo questo momento che l’odio che sto provando ha raggiunto un livello di intensità quasi inconcepibile.
 
“Molto in gamba fratellino. Adesso dammi qua e facciamola finita.” dico a denti stretti.
 
“Frena, un attimo. Ti chiedo solo di rifletterci ancora qualche giorno. Aspetta almeno fino all’inaugurazione della mostra di Ric. Lo so che ci tieni. Pensa a quello che ti ho detto, pensa se ne vale veramente la pena. Se poi sarai ancora convinto di volere questo, non farò niente per impedirtelo. Sarai tu a decidere, ne hai tutto il diritto. Puoi scavare in questa merda e andare a fondo al male che ti porti dentro, oppure puoi voltare pagina. E se lo vorrai io sono qui per questo, sono qui per aiutarti.”
 
Lo osservo in silenzio per qualche secondo, sfidandolo con lo sguardo. Poi scatto in piedi e lo afferro per il colletto della camicia, facendolo sollevare e spingendolo contro il muro, puntando gli occhi dritti nei suoi.
 
“Sei un idiota Stefan. Lo sai benissimo che posso fare la stessa cosa che hai fatto tu e trovarmi quell’indirizzo per conto mio. Quindi dammi quella cazzo di busta. Siamo già in ritardo di oltre un anno.”
 
“Allora qualche altro giorno non farà la differenza. Tu aspetterai perché te lo sto chiedendo io, perché sono tuo fratello e ti voglio bene, non importa quanto mi disprezzi in questo momento. E se non lo farai per me lo farai per nostra madre.”
 
Scruto il suo viso, cercando di trasmettergli tutta la collera che sento in questo momento.
Ci fronteggiamo con lo sguardo per qualche istante, entrambi imprigionati nel nostro reciproco risentimento. E in fondo dentro di me lo so, lo so che Stef vuole il mio bene, che sta cercando di salvarmi.
E lui sa che io sto solo scaricando su di lui tutta la rabbia che porto nel cuore, tutto il mio rancore, ma che dentro di me non c’è abbastanza posto per odiare anche lui.
 
“Va bene Stefan. Hai vinto. Faremo a modo tuo.”
 
***
 
“Cosa ti porto Lena?”
 
“I soliti caffè Matt. Ma prima dammi una ciambella. Una di quelle al cioccolato, quelle che sai tu…”
 
Il mio amico mi guarda con aria indulgente, rivolgendomi il suo solito, rassicurante sorriso.
 
“Brutta giornata?”
 
“Mh…” borbotto, spezzettando il mio dolce con le mani e portandomene un boccone alle labbra. Dire che ho una brutta giornata è riduttivo. Questa mattina, quando Damon se ne è andato sbattendo la porta, ho telefonato a Care. Dovevo per forza sfogarmi con qualcuno e le ho raccontato sommariamente l’evoluzione dei miei sentimenti per il suo quasi futuro cognato.
 
“Lascialo perdere Elena, adesso che lo conosco un po’ ti assicuro che non ne vale assolutamente la pena. È uno stronzo. Non so perché Stefan perda tanto tempo con lui… ma del resto, è suo fratello.”
 
Uno stronzo, già. Eppure non riesco a capire se sono più arrabbiata con lui o con me stessa. Se guardo indietro, ai nostri discorsi passati, posso solo constatare che Damon è sempre stato chiaro con me, sulla natura del nostro “rapporto”.
Io la ragazza seria, coi piedi per terra, addirittura noiosa, da quando l’ho incontrato mi sono sganciata dalla realtà e mi sono fatta travolgere e destabilizzare dalla sua presenza. È come se, con un solo sguardo, fosse riuscito a farmi riprendere il contatto con una parte profonda di me, che avevo sotterrato da tempo. E la responsabilità di questo è solo e soltanto mia.
Certo che non aveva il diritto di comportarsi così, di ferirmi tanto con le sue parole dure. Dopo la notte passata insieme, dopo che finalmente aveva iniziato ad aprirsi con me, dopo quel risveglio così pieno di entusiasmo, è stato come ritrovarmi davanti un’altra persona. E io non voglio farmi sovrastare da questo suo carattere così mutevole, così inafferrabile. Non voglio e non posso… eppure, nonostante tutto sono qui a chiedermi cosa l’abbia sconvolto così tanto. Mi domando se adesso sta bene e mi odio per questo.
 
“Elena.. cosa ci fai qui?”
 
Mi volto verso la voce che ha parlato alle mie spalle, incontrando gli occhi gentili di Ric che mi osserva, sorridente e affabile come al solito.
 
“Oh… ciao. Mi stavo solo prendendo una pausa dalle malte e dagli intonaci… Sai, Rebekah aveva voglia di un caffè. E tu, come mai da queste parti?”
 
“Mi ha chiamato lei, voleva presentarmi l’elenco degli invitati all’inaugurazione che ha stilato…”
 
Lo guardo senza fiatare e lui sembra leggermi nel pensiero. Mi rivolge un’occhiata comprensiva che per la prima volta non fa che accrescere la mia irritazione. Non ho bisogno della commiserazione né della pietà di nessuno.
 
“Sei stata tu ad occupartene non è così? Dai, prendi questi caffè così saliamo insieme e ne parl…”
 
“No frena Ric.” lo interrompo, con un eloquente gesto della mano. “Vai pure da solo. Penso che questa volta mi risparmierò l’umiliazione di essere spedita a fare fotocopie o cose del genere. Naturalmente sarò a vostra disposizione se vi servirà dell’acqua o… per prenotarvi la cena.” commento sarcastica.
 
Per qualche istante mi osserva dubbioso, gli occhi ridotti a due fessure come se mi stesse studiando.
 
“Sei strana. C’è qualcosa che non va? Che fatto alla mia solita, dolce Elena?”
 
“Sono sempre la stessa Ric. Diciamo che questa è la mia versione aggiornata. Sto solo constatando la realtà, tanto è inutile che ci rimanga male. Se Rebekah vuole trattarmi a pesci in faccia chissenefrega, a me interessa solo il contratto. Non mi importa niente, di nient’altro.”
 
“Senti, non voglio farmi i fatti tuoi… ma non è che per caso questo tuo cattivo umore ha qualcosa a che fare con Damon?” chiede col suo modo calmo e disponibile.
 
Appena sento quel nome, rivolgo tutta la mia attenzione alla povera ciambella martoriata nel suo piattino, continuando a staccarne piccoli pezzi con le dita. Non ho intenzione di parlarne, tantomeno con lui che adesso sta sbuffando accanto a me.
 
“Lo sapevo… Gliel’avevo detto di stare attento. Elena devi avere pazienza, non sta attraversando un momento facile e… Mi dispiace davvero se in qualche modo è riuscito a ferirti.”
 
“Pazienza? Certo come no! Elena la compassionevole sempre a disposizione per farsi trattare come uno zerbino. Senti Ric, ormai è una storia chiusa, anzi non è mai nemmeno iniziata. Non ho tempo da perdere. E poi non c’è assolutamente niente che mi possa ferire ok?” Mi esce un tono isterico, mentre la ciambella sotto le mie dita rabbiose si è trasformata in una poltiglia immangiabile.
 
Lo sento sogghignare piano cercando senza successo di trattenersi. Poco a poco esplode in una vera e propria risata a crepapelle. Lo guardo storto mentre si tiene la pancia e scuote la testa, portandosi le mani al viso.
 
“Sono contenta di riuscire a divertirti tanto, Alaric.” dico seccamente.
 
“Scusa… scusa è che… oddio per un attimo… mi sei sembrata identica a lui.” risponde, tentando di riprendersi da quello scoppio di ilarità. “Perdonami Elena, ma questa storia del niente mi ferisce non si può davvero sentire. Dovreste smetterla, tutti e due…”
 
“Smetterla di fare che?”
 
“Seriamente Elena, è questo quello che vuoi? Un cuore di ghiaccio che non si fa attraversare da niente? Pensi che ti farà stare meglio? Non mentire a te stessa, guarda in faccia alla realtà. Tu vuoi essere viva. Tu hai un cuore che batte forte, che soffre, che si agita... tu vuoi un cuore che sanguina… hai bisogno di qualcosa che affondi i denti nella tua vita in profondità, nonostante tutto. Dovresti solo avere il coraggio di ammetterlo. Adesso salgo, ti lascio in pace. A fra poco.”
 
Si volta e se ne va, lasciandomi interdetta e confusa per qualche secondo.
 
“Ecco i tuoi caffè Lena.”
 
“Grazie Matt.” rispondo distratta, ancora concentrata sulle ultime parole di Ric.
 
“Di niente. Senti… pensavo, questa sera hai da fare? Ti andrebbe di venire a vedere un film… con me?”
 
Lo guardo in faccia sbigottita. Lui mi sorride tranquillo, i suoi occhi limpidi e sereni puntati nei miei. Che cavolo sta dicendo? Mi mancava solo questa oggi.
 
“Ma io… veramente… non credo che…” balbetto, alla disperata ricerca di una scusa, una qualsiasi.
 
“Non farti pregare. È solo un film. Possiamo andare a Williamsburg, vicino a casa tua, così non faremo troppo tardi. Dai, non ti mangio mica.” risponde rassicurante.
 
“Sai che ti dico Matt? Ok. Vada per il film.”
 
***
 
Una deficiente. È esattamente così che mi sento mentre cammino verso casa assieme a Matt, al termine di una serata che almeno per me è stata tutt’altro che piacevole. Sono stata superficiale nell’accettare il suo invito, anzi, a dire il vero non riesco a trovare neanche una valida ragione per averlo fatto. Vendicarmi forse? Ma di chi, di cosa… della persona distaccata e indifferente che questa mattina se ne è andata da casa mia sbattendo la porta? Non ha senso.
Mi sento un’idiota per essere uscita con Matt alimentando le sue speranze, per non avergli praticamente rivolto la parola per tutta la sera, per non ricordarmi neanche di cosa parla il film che abbiamo visto. Perfino il vestito che ho indossato mi fa sentire totalmente ridicola. Credevo di aver bisogno di questo? Allora mi sono fatta la domanda sbagliata perché avrei dovuto chiedermi piuttosto cosa voglio.
Per fortuna siamo quasi arrivati a casa mia così potrò andarmene a dormire e mettere fine a questa giornata disastrosa.
 
“Ti è piaciuto il film Elena?”
 
“Beh insomma… Senti Matt…”
 
“Sul serio Elena? Sei uscita con bellicapelli?”
 
Mi si gela il sangue nelle vene quando me lo ritrovo davanti, appoggiato contro la macchina che ha parcheggiato proprio di fronte a casa mia. Le braccia incrociate sul petto, la mascella contratta e l’espressione risentita.
 
“Chi è questo Elena?” chiede Matt con un tono tra il sorpreso e l’incazzato.
 
“Ah giusto, tu non mi conosci. Sono proprio un maleducato… Damon, comunque. Molto lieto. Io però mi ricordo di te. Sei il barista.”
 
Matt lo incenerisce con lo sguardo. Capisco che vorrebbe rispondere, ma prima che possa dire anche solo una parola lo zittisco con un brusco gesto della mano e un’occhiata furibonda. Sono fuori di me.
 
“Senti un po’ Damon, risparmiati i giudizi altrimenti te ne puoi anche andare. Cosa sei venuto a fare a casa mia?”
 
I suoi occhi glaciali si incollano ai miei, bloccandomi il respiro in gola come tutte le volte. Solo che adesso, mi sembra di poterci leggere dentro una tristezza profonda, una sfumatura di azzurro così fredda che mi rende addirittura ansiosa. Si avvicina di un passo.
 
“Volevo solo… beh volevo parlarti di alcune cose. Ma non ha più nessuna importanza. Però una cosa te la devo dire, Elena, anche se non è propriamente da me. Mi dispiace. Sono stato un coglione e tu… tu non te lo meriti. Quindi spero che potrai perdonarmi.”
 
Non riesco nemmeno a fiatare, completamente stordita dalle sue parole, dalla sua stessa presenza che non fa altro che confondermi come ogni dannatissima volta da quando l’ho incontrato. La sua mano sinistra mi sfiora il braccio, mentre con la destra mi sposta i capelli da davanti al viso, quel gesto che fa spesso e che puntualmente è in grado di disorientarmi. Deglutisco a fatica, mentre lui continua a fissarmi.
 
“Come sei bella questa sera. Ma tu, lo sei sempre… non hai bisogno di tutto questo” dice, sfiorandomi la guancia e sorridendo appena, gli occhi sempre velati di quella strana malinconia che indebolisce tutte le mie ragioni. Poi si avvicina e mi lascia un bacio proprio dove mi ha appena toccata con le dita.
 
“Buonanotte Elena.” lo sento bisbigliare, prima di voltarsi e risalire sulla sua auto.
 
*********
Buon pomeriggio : )
Eccomi qua con un nuovo capitolo… parecchio discorsivo questa volta, ma spero tanto di non avervi annoiate eccessivamente e di aver dato una risposta (possibilmente soddisfacente) alle domande sul misterioso passato di Damon. Mai una gioia che sia una per questa dolce creatura… : ( non posso andare avanti così!
Che dire? Penso di aver fatto chiacchierare tutti talmente tanto che spero i vari punti di vista non necessitino di ulteriori chiarimenti da parte mia, quindi vi lascio ma non prima di aver ringraziato chi segue, chi addirittura preferisce e in special modo quelle anime devote al sacrificio che recensiscono e continuano a darmi gli stimoli per continuare con questa mia piccola follia. Non finirò mai di ringraziarvi.
Non so quando arriverà il prossimo, nel frattempo un bacione e grazie grazie grazie!
Beagle

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8
 
Time has told me
You came with the dawn
A soul with no footprint
A rose with no thorn.

And time will tell you
To stay by my side
To keep on trying
'til there's no more to hide.
 
So leave the ways that are making you be
What you really don't want to be
Leave the ways that are making you love
What you really don't want to love.
 
Time has told me
You're a rare rare find
A troubled cure 
For a troubled mind.
 
And time has told me
Not to ask for more
For some day our ocean
Will find its shore.
****
Il tempo mi ha detto
Che sei giunta con l'alba
Un'anima senza impronte
Una rosa senza spine
 …
E il tempo ti dirà
Di stare dalla mia parte
Di continuare a provare
Finché non ci sarà più nulla da nascondere
 
Lascia allora tutte le strade che ti fan diventare
Ciò che in realtà non vuoi diventare
Lascia tutte le strade che ti fanno amare
Ciò che in realtà non vuoi amare
 
Il tempo mi ha detto
Che sei una rara scoperta
Un'affannosa cura
Per una mente in affanno
 
E il tempo mi ha detto
Di non chiedere di più
Un giorno il nostro oceano
Troverà la sua riva
 
Time has told me – Nick Drake
 
Devo ammettere che, per l’ennesima volta, Elena è riuscita a disorientarmi. Completamente.
Si perché quando sono salito in macchina diretto qui, avevo pressappoco calcolato i possibili scenari che mi si sarebbero potuti presentare dopo la lite di stamattina. Giusto per essere preparato.
Avrei visto bene un lancio di ciabatte, o forse addirittura di piatti, che fanno più male. Una porta in faccia, insulti, si, un vaffanculo ben piazzato. Ho pensato che addirittura mi avrebbe fatto sentire meglio, un po’ meno colpevole per averla trattata da schifo.
La mia immaginazione però, per quanto fantasiosa, non si era spinta a considerare l’eventualità di trovarmi di fronte la visione di un’Elena in gran tiro, con quelle gambe, Dio mio, quelle gambe, coperte solo dalle calze sottili. E, soprattutto, in compagnia del biondino slavato che quella volta al bar la squadrava come se da un momento all’altro dovesse farsela sul bancone.
Dopo la lite con Stefan, che si è autoproclamato ennesimo burattinaio della mia esistenza, dopo un’eterna giornata in ufficio ad ammazzarmi di lavoro pur di non pensare, dopo mezza bottiglia di bourbon consumata in completa solitudine, il mio pensiero è volato dritto a lei.
Forse solo perché l’idea di rientrare in quella maledetta casa mi nauseava, anche se per risolvere il problema avrei potuto tranquillamente rivolgermi a Ric e farmi ospitare nella sua stanza d’albergo, magari dopo una sbronza colossale, di quelle da perdere i sensi.
Forse, molto più banalmente, sono venuto qui per trovare una distrazione fra le sue lenzuola. Però, senza complicarmi tanto la vita per fare pace con Elena, sarebbe bastato fare uno squillo a Rebekah o qualcuna come lei, sempre pronta ad aprire le gambe senza fare tante domande.
Magari è stato solo perché prima, quando mi sono fermato a fare benzina e ho aperto il portafoglio per pagare, mi sono ritrovato il suo sguardo tra le mani.
Ok, mi sto solo prendendo in giro. Se sono venuto qui è perché volevo Elena, proprio lei, nonostante sapessi che non mi avrebbe fatto passare liscio il comportamento da doctor Jekyll e mister Hyde versione 2.0.
E figuriamoci se se la dimentica la scenata pietosa che le ho rifilato poche ore fa, durante la quale le ho sputato addosso parole piene di indifferenza, dopo che un quarto d’ora prima mi ero svegliato con la sua espressione imbronciata negli occhi e la voglia di trascinarla via con me. Dopo che sono riuscito a convincerla, più facilmente del previsto devo dire, che poteva prendersi una giornata per essere solo mia, desiderando che il posto che sento più casa risplendesse di una luce ancora più speciale. La sua.
E non so cosa è stato, se la sua capacità innata di tranquillizzarmi, se le sue parole premurose che mi rimbombano ancora in testa. Quel suo “dormi con me” così sfacciatamente non da lei, le sue dita delicate tra i capelli a curarmi le ferite, pronte a graffiarmi la schiena cinque minuti dopo. Forse perché è stato bello scacciare i miei incubi tra le sue braccia, sulla sua pelle.
Ma qualunque cosa mi abbia portato qui, non è più importante adesso che sento il suo sguardo sconcertato addosso mentre risalgo nella Camaro e mi preparo a un’altra notte in compagnia delle mie angosce.
Che tanto lo sapevo fin dalla prima volta che lei era diversa.
Perché lei analizza, lei si interroga, lei approfondisce, lei chiede, chiede di continuo perché vuole entrarmi in testa e non solo nei boxer.
Avrei dovuto capirlo che non avrebbe reagito come mi aspettavo.  Non lo ha mai fatto, nemmeno una volta.
Chissà dove è andata con quello, vestita così… no Damon metti in moto e non pensarci, per oggi hai dato col masochismo.
 
Toc.. Toc.. Toc..
 
Mi giro verso il finestrino e la vedo proprio a fianco a me, il pugno sollevato e l’aria… direi che la parola giusta è furiosa.
 
Toc.. Toc.. Toc..
 
Abbasso il vetro, prima che me lo sfondi.
 
“Tieni a posto quelle mani! Si può sapere cosa stai facendo?”
 
“Getto all’aria le buone maniere e l’Elena compassionevole, ok? Scendi da questa cavolo di macchina!”
 
La guardo storto e faccio come dice, scendo dall’auto e me la ritrovo davanti con le braccia incrociate sotto il seno, il piede che tamburella nervosamente sul suolo e lo sguardo deciso, reso ancora più profondo dal trucco marcato.
 
“Che c’è?” sbuffo, alzando gli occhi al cielo. Mi punta l’indice sul petto con un’espressione esasperata.
 
“Tu non puoi… non puoi venire qui e farmi sentire in colpa quando sei stato tu a comportarti da stronzo con me. Ti svegli a casa mia tutto smancerie e poi quando decidi che ti sei stancato perché devi occuparti delle tue faccende private, come le chiami tu, mi molli come una  cretina e…”
 
“Ti ho già chiesto scusa. Che altro vuoi?”
 
“Voglio una spiegazione.” risponde, alzando la testa con fierezza e sfidandomi con lo sguardo. Serra ancora più forte le braccia sul petto, come se volesse proteggersi. Forse da me, dai mei ingestibili sbalzi d’umore.
Una spiegazione, ti pareva. Ancora una volta si ostina a volermi capire.
E pensare che mentre la aspettavo sotto casa, ignaro di dove fosse andata a cacciarsi, per un momento sono stato certo che avrei potuto dirle tutto.
È stata un’idea fugace e totalmente irrazionale. Come si fa ad andare da una ragazza che ti conosce appena e confessarle una vita di bugie e di dolore? Non si può. Eppure…
 
“Sai che c’è? Magari sono venuto qui proprio per questo, mentre tu ti davi da fare col biondino.” le rispondo, la voce un po’ alterata dalla frustrazione.
 
“A proposito, il biondino ha deciso di togliere il disturbo.”
 
Ah si, il barista. È ancora qui.
Guarda Elena con un’aria talmente offesa che quasi mi dispiace per lui. Lei sembra ridestarsi da un sogno, fa un passo verso di lui che però indietreggia.
 
“Matt… Oddio scusami. È che…”
 
“Lascia stare Elena… ho capito. Me ne vado a casa.”
 
Si gira e si allontana a grandi passi. Lei lo segue con gli occhi ma non lo ferma. Mi viene da sorridere e non riesco a trattenermi, ma poi intuendo la reazione infastidita di Elena mi schiarisco la voce cercando di mantenere una parvenza di serietà.
 
“Non azzardarti a ridere. Non ho ancora finito con te. Se volevi parlarmi, potevi telefonare. La libertà non funziona a senso unico, capito? Cos’è, tu puoi fare quello che ti pare e io no? Non sei l’unico che ha una vita. Magari avevo voglia di una serata tranquilla, senza pensieri.”
 
La osservo per qualche istante, in silenzio, studiando la sua espressione irritata mentre aspetta che le risponda qualcosa, magari che la zittisca con una battuta stronza delle mie.
 
“Ok, venerdì sei libera?”
 
Le sue pupille si dilatano leggermente per la sorpresa. La vedo sbattere le palpebre un paio di volte e aprire la bocca come se volesse parlare, ma senza emettere un fiato. Questa volta è lei quella spiazzata.
 
“Venerdì? Perché venerdì?”
 
“Perché si. Allora? Controlla sull’agenda, dai.”
 
“E mi spiegherai…” Non è una domanda la sua, ma un’affermazione.
 
“Si.”
 
“…Ok.”
 
“Perfetto, passo a prenderti alle otto. Ti va bene?”
 
“…Ok.”
 
“Adesso vai a dormire, ieri notte ti ho tenuta sveglia.”
 
“…Ok.”
 
“Ti si è incantato il disco per caso? Con tutta la parlantina che avevi poco fa…”
 
“…”
 
“Vai a letto Elena. Buonanotte.”
 
“Buonanotte Damon.”
 
Salgo in macchina e la guardo mentre si allontana in silenzio. Davanti la porta di casa la vedo gettare la borsa per terra e sedersi sui talloni, rovistando all’interno  sicuramente alla ricerca delle chiavi.
Poi, proprio come la prima volta che l’ho vista, si sposta i capelli di lato, quel gesto naturale che mi piace tanto addosso a lei, e mi guarda un’ultima volta.  Le rivolgo un mezzo sorriso prima di dare gas.
 
***
 
Installare un  kit fotovoltaico è la scelta vincente per rendere la propria casa funzionale e amica dell’ambiente, scegliendo soluzioni idonee alle proprie esigenze e…
 
Scuoto la testa mordicchiando la penna e fissando il foglio esasperata. Maledetti pannelli fotovoltaici.
Come faccio a tirare fuori un testo poetico da questa roba?
Guardo l’orologio, sono solo le tre del pomeriggio. Ancora poche ore di lavoro prima dell’inizio del week end, prima di stasera... Non so assolutamente cosa aspettarmi da questa sorta di “appuntamento” ma la vera novità è che non voglio aspettarmi proprio niente.
In questi giorni ne ho parlato con Bonnie, tornata dalla Georgia appena in tempo per arginare la mia crisi esistenziale, la vertiginosa altalena di dubbi, domande ed emozioni che sto vivendo nelle ultime settimane.
Mi è bastato raccontare tutto a lei per rendermi conto che ho semplicemente perso troppo tempo a cercare di imprigionare l’assurda situazione che sto vivendo con Damon in una definizione.
L’unica cosa che ho capito è che, in ogni caso, senza alcun dubbio ne vale la pena. Anche solo per come mi ha fatto sentire il ritrovarmelo sotto casa l’altra sera.
Mi torna in mente Matt, il modo in cui l’ho preso in giro e subito dopo liquidato con tre parole.
Non esattamente un comportamento di cui andare orgogliosa. Dopo vari tentativi di riappacificazione da parte mia, ai quali ha risposto con silenzi e musi lunghi per due giorni,  è ritornato quello di sempre.
 
“Perché era da una vita che ci provavo con te, avrei dovuto capirlo che non eri interessata. Non buttiamo via la nostra amicizia per questo passo falso, Elena…”
 
Sento il telefono squillare. Neanche a dirlo è l’interno di Rebekah, che mi dovrà scaricare addosso qualche altro lavoro scomodo. Ultimamente non riesco a tollerarla, per quanto cerchi in tutti i modi di sforzarmi.
In particolare non sopporto il suo atteggiamento riguardo l’inaugurazione della mostra di Alaric, un progetto in cui sto mettendo tutta me stessa, mentre è lei a prendersene interamente i meriti.
E poi c’è quell’altra cosa che credo si potrebbe tranquillamente definire gelosia nei suoi confronti, ma a cui io preferisco non dare un nome preciso per non alimentare la mia dose quotidiana di umiliazioni. Sollevo la cornetta con un sospiro.
 
“Si?”
 
“Vieni nel mio ufficio. Dobbiamo parlare.”
 
Quando varco la porta della scatola di vetro, trovo il mio capo in compagnia di un uomo di mezza età con i  capelli brizzolati e grandi occhiali dalla montatura tartarugata, che si alza in piedi e mi stringe vigorosamente la mano. Devo fare mente locale per qualche secondo per ricordarmi dove l’ho già visto.
È il consulente del lavoro della Mikaelson, quello che mesi fa ho incontrato in questo stesso ufficio quando ho firmato il contratto di stage.
Rivolgo un’occhiata dubbiosa a Rebekah che, da dietro la scrivania, mi guarda con un’espressione illeggibile mentre fa ticchettare le unghie sul piano di legno.
 
“Elena, ricordi Mr. Joyce? È qui per la firma del contratto.”
 
Rimango sgomenta e faccio rimbalzare lo sguardo più volte da lei a lui senza riuscire a dire una parola.
 
“Beh perché quella faccia? Stai facendo un discreto lavoro con Saltzman e anche se manca ancora qualche settimana all’inaugurazione ho deciso di darti fiducia e premiarti con il rinnovo del contratto. E  questa volta non ci sarà una scadenza.”
 
“Mi stai dicendo che…” balbetto confusa.
 
“Ti sto dicendo che resterai qui e continuerai ad essere la mia assistente, a tempo indeterminato.”
 
“E cosa cambierà?”
 
“Mr. Joyce prego, illustri ad Elena tutti gli aggiornamenti. E tu, accomodati, non startene lì impalata.”
 
Mi siedo timidamente accanto all’uomo brizzolato, che inizia a blaterare di orari, buste paga e giorni di malattia. Tutte cose di cui non mi può importare di meno. Perché non erano esattamente questi i cambiamenti a cui aspiravo. Mi sento totalmente confusa.
Non disdegno il lavoro fatto fino ad ora, ma sono anche stanca di sgobbare dalla mattina alla sera senza ricevere in cambio una parola di stima, un briciolo di rispetto o considerazione.
Certo, negli ultimi tempi Rebekah mi ha permesso di occuparmi della mostra, ma senza darmi mai la minima soddisfazione. Non ho potuto nemmeno partecipare alle riunioni, mi sono limitata a spulciare decine di riviste di fotografia per trovare i contatti giusti, preparare la cartella stampa e telefonare, telefonare, telefonare. E lo rifarei con piacere, se solo in fondo al cuore non sentissi che in qualche modo Rebekah sta calpestando la mia dignità, che non mi permetterà mai di evolvermi dal ruolo di schiavetta ed esprimermi in qualche modo. Dentro di me, si sta facendo strada il dubbio di aver fatto tutte le scelte sbagliate. Ho come l’impressione che firmando mi condannerò per sempre ad essere la sua tuttofare, precludendomi la possibilità di dedicarmi a quello che realmente desidero. Ma del resto, che alternative ho? Sono stata fortunata a trovare lavoro in questa agenzia così prestigiosa… sarei una pazza a tirarmi indietro. Mr. Joyce, una volta finito di illustrarmi tutte le clausole, mi sbatte una pila di carte sotto il naso.
Stringo la penna tra le dita, incerta. Penso a tante cose. Ai miei giorni da universitaria, pieni di sogni e aspettative, alle bollette, ai conti da pagare, all’affitto e per finire, ai miei genitori.
Poi afferro il primo foglio e lo firmo.
 
***
 
“Quando ti deciderai a fare pace con tuo fratello?”
 
Lo sapevo che la paternale era in arrivo… era solo questione di minuti. Ric si allunga sulla sedia sbadigliando, poi punta gli occhi nei miei con la sua tipica faccia da rimprovero.
 
“Forse non ti rendi conto di quello che Stefan mi ha combinato. Anzi, quello che mi sta facendo passare tutt’ora rifiutandosi di darmi quel dannato indirizzo con la scusa che dovrei ragionare e pensarci ancora. È assurdo. Non vedo l’ora che arrivi l’inaugurazione così finalmente potrò mettere le mani su quella busta, salire sul primo aereo e andare a prendere a calci in culo quella sottospecie di uomo.”
 
“Non serve che ti dica un’altra volta come la penso a riguardo. Tanto lo sai già. Stefan spera che tu rinsavisca, ma è evidente che hai tutta l’intenzione di andare fino in fondo al male della tua vita piuttosto che accettare il bene che potrebbe offrirti.”
 
Alzo gli occhi su di lui, rivolgendogli un’espressione interrogativa, cercando di capire dove voglia arrivare.
 
“Per esempio scusa?”
 
“Io un’idea ce l’avrei… ma preferisco non esprimermi. In ogni caso non starò qui a guardarti mentre ti scavi la fossa da solo. Ripartirò subito dopo l’inaugurazione.” risponde, stiracchiandosi ancora sulla sedia con aria noncurante.
 
“Stai scherzando? E dove andrai?”
 
“In Siria… sono stato ingaggiato da un’agenzia e…”
 
“Ma Ric… “
 
“Lo so cosa stai per dire. È pericoloso. Lo so Damon, ma è la mia vita. Ma non posso perdere questa nuova occasione di raccontare. Lo sai no? Può essere una festa o può essere l’inferno, ma mi sentirò sempre un privilegiato per esserci.”
 
“È solo che…”
 
“Non ti libererai di me… tranquillo. Ho intenzione di rivederla ancora quella tua brutta faccia. E cerca di non metterti nei guai finché sono via, ok?”
 
Ric mi rivolge un mezzo sorriso che ricambio a mia volta. E so che niente di quello che potrei dire potrebbe impedirgli di partire. Lui è sempre stato così, curioso, affamato di vita, ha sempre voluto raccontare, essere gli occhi della gente. E so anche che mi mancherà, eccome se mi mancherà. Per me è come un fratello.
 
“Quindi è per questo che sei venuto a farmi visita stamattina. Per dirmi che te ne vai.”
 
“Per questo… e per darti una cosa.”
 
Lo vedo estrarre una grande busta bianca dalla sua cartelletta mezza distrutta, e poi passarmela attraverso la scrivania. La soppeso per qualche secondo prima di aprirla. Ci trovo dentro una foto, un autoscatto un po’ sfocato che ci siamo fatti sul Perito Moreno. Ci siamo io e Ric accucciati a terra, stretti nei nostri giubbotti pesanti con alle spalle il lago ghiacciato e le montagne coperte di neve. Ridiamo, siamo felici e pieni di adrenalina. Mi ricordo bene quando l’abbiamo scattata. In quei momenti riuscivo a lasciarmi trasportare dalla potenza delle immagini che mi riempivano gli occhi, da quel silenzio irreale che riusciva a darmi pace.
 
“Credevi che me ne fossi dimenticato? Buon compleanno Damon.”
 
***
 
È da più di mezz’ora che io e Damon passeggiamo tra le stradine intricate del village. Dopo quello che l’ho costretto a mangiare stasera, mi ha supplicata di andare a fare due passi per digerire. In effetti quando è venuto a prendermi e mi ha chiesto dove avessi voglia di andare a cena, avrei potuto scegliere un posto più carino e meno claustrofobico del Joint Burger, però… Avevo voglia di sentirmi a mio agio, con tutta l’aspettativa che mi è piombata addosso quando sono uscita di casa e l’ho trovato lì ad attendermi.
Così ho scelto quel locale microscopico con le pareti coperte di graffiti, dove fanno gli hamburger più buoni e più pesanti della città per dieci dollari e te li servono su tovagliolini di carta, senza piatti.
Non il massimo del romanticismo, ma decisamente in sintonia sia con me che con la nostra situazione attuale.
Per tutta la sera abbiamo chiacchierato di argomenti neutri. Principalmente ho parlato io, lui si è limitato a farmi un sacco di domande, partendo dalla mia infanzia a Mystic Falls fino ad arrivare al college, al lavoro di PR, ai miei gusti musicali. Ho come il sospetto che mi stia facendo blaterare a vuoto solo per evitare di darmi quelle risposte che tanto vorrei da lui. E poi… non mi ha mai sfiorata neanche con un dito per tutta la serata, mentre io… direi che sono in preda ad una mezza crisi ormonale, esattamente come ogni volta che me lo ritrovo davanti.
 
“Come mai mi hai portata proprio qui?” chiedo, più per distrarmi che per altro, mentre passeggio col naso all’insù fra le case stravaganti e i negozi colorati.
 
“Beh, il village ha il suo fascino. Ha un ritmo più rilassante del resto della città. Ormai l’hai capito che non sono un grande fan dei grattacieli e…”
 
“Damon…” lo interrompo, cercando il suo sguardo “te lo ricordi perché siamo usciti questa sera? Voglio dire, sono contenta di conoscere più cose di te, ma quando stiamo insieme non riesco mai a rilassarmi del tutto.” dico, tutto d’un fiato.
 
“Perché?”
 
“Perché ho sempre paura che da un momento all’altro tu possa allontanarti… e non parlo in senso fisico. A volte ho l’impressione che in alcuni momenti tu ti estranei da tutto e io… ti sento distante. E più stiamo insieme, più scopro di stare bene con te, più mi piaci, più ho paura…”
 
“Paura di cosa scusa?” chiede, rivolgendomi un’occhiata obliqua senza smettere di camminare.
 
“Paura del momento in cui cambierai di nuovo faccia senza ragione.” rispondo sospirando.
 
Finalmente lo vedo fermarsi, per avvicinarsi a una panchina e sedersi in alto, sulla spalliera, con i gomiti sulle ginocchia e le mani incrociate sotto al mento. Mi avvicino anche io e mi siedo lì accanto, solo che adesso mi tocca guardarlo dal basso, scoprendo che mi piace sempre, da qualunque prospettiva e nonostante tutto.
 
“Non vuoi proprio arrenderti eh?” mi chiede, con una certa ironia nella voce. Io non rispondo, mi limito a scuotere la testa in segno di diniego, restando in attesa.
 
“Vedi Elena, quando Stefan mi ha chiamato… Dio, è un casino da spiegare.”
 
“Tu provaci.”
 
“Beh, ti ricordi quando ti ho parlato di Giuseppe? Ecco lui… insomma lui mi ha adottato. In realtà il mio padre biologico è un altro e io lo sto cercando da un sacco di tempo. Solo che non riuscivo a trovarlo, almeno fino all’altro giorno.”
 
E poi, come un fiume che ha rotto gli argini, mi inonda di una valanga di parole, tante, che pronuncia tutte insieme, concitato e veloce come se avesse fretta, come se non ci fosse abbastanza tempo per dire tutto quello che vuole. Mi racconta di sua madre, di come è morta e di quello che gli ha rivelato sul padre che si è sempre rifiutato di conoscerlo. Del suo bisogno disperato di cercare quel tassello del passato che manca, quello che ha fatto crollare tutta la sua esistenza come un castello di carte colpito da una folata di vento. Della sua infanzia, dei suoi dubbi, del suo bisogno di chiarezza, di trovare risposte a quel rifiuto che lo ha condizionato fin dal giorno in cui è venuto al mondo.
Del suo rapporto con Stefan, che cerca di proteggerlo da una verità troppo pesante, senza la quale però lui sembra non riuscire a crearsi una prospettiva sul futuro.
E in quel preciso momento devo farmi forza per non mettermi a piangere, però mi alzo, mi faccio spazio fra le sue gambe e lo abbraccio forte, appoggiando il viso sulla sua spalla e attorcigliando le mani fra i suoi capelli, sperando di riuscire a tranquillizzarlo come quella notte. Lo stringo a me per non so quanto tempo, incapace di dire qualsiasi cosa abbia un senso, per giustificare una situazione che senso non ne ha. Mi sfugge solo un mi dispiace, e mi sembra così piccolo, così inadeguato di fronte al disagio che percepisco dalle sue parole.
 
“Non ne avevo idea Damon. Scusami se ho insistito tanto, non avrei dovuto forzarti a parlarmi di tutto questo. Mi dispiace così tanto, che non so cosa dire e…”
 
Mi alza il viso e mi guarda con quegli occhi, quelle schegge di cielo luminose che mi sanno raccontare tanto di lui, più di qualunque discorso. E incredibilmente, lo vedo sollevare un angolo della bocca e sorridermi, in quel modo tutto suo.
 
“È stato più facile di quanto credessi. Parlare con te intendo. E adesso mi sento… più leggero.”
 
Poi mi rivolge un sorrisetto malizioso e soddisfatto, che non riesco a decifrare.
 
“Che hai da ridere adesso?”
 
“Niente… pensavo a quello che mi hai detto. E così stai bene con me, addirittura ti piaccio.” dice con aria sorniona, rivolgendomi un’alzata di sopracciglia.
 
Sbuffo, alzando gli occhi al cielo e scompigliandogli i capelli con un gesto dispettoso. “Oh, al diavolo. Non riuscirai a mettermi in imbarazzo. Ho smesso di rimuginare sul perché mi piaci. Se siamo qui, adesso, è perché lo abbiamo voluto tutti e due, fin dall’inizio. Quindi ho mandato a spasso tutte le mie regole interiori e ho deciso di vivermelo. Per te va bene?”
 
Invece di rispondere si avvicina e mi da un bacio sulle labbra. Un bacio piccolo, tenero e complice, che però non fa altro che alimentare il bisogno di lui, quel desiderio di averlo, tutto e subito, con le sue paure, i suoi fantasmi, le sue debolezze, ora più di prima.
 
“Resta con me stanotte, Elena.”
 
“Sei sicuro? Non è che poi domani ti svegli con la luna storta e mi tocca uscire di nuovo con Matt per riportarti sulla retta via?” rispondo scherzosa.
 
“Ti prego, resta con me. Ne ho bisogno. Lo considererò il tuo regalo di compleanno.”
 
Lo vedo annuire di fronte alla mia faccia dubbiosa.
 
“Ma non potevi dirmelo prima?” lo rimprovero, ricevendo in cambio un’alzata di spalle e un sorriso radioso, che mi riscalda dentro.
 
“Beh… allora… buon compleanno.”
 
***
 
Elena è rannicchiata accanto a me, dorme profondamente con la sua solita faccetta corrucciata, una mano nascosta dal cuscino e l’altra sotto il mento, che stringe forte la coperta. Chissà cosa starà sognando.
Io ripenso a prima, quando entrando in casa sua mi ha sorriso maliziosa appoggiandomi un dito sulle labbra perché facessi silenzio e non svegliassi la sua coinquilina. Poi, una volta nella sua stanza, mi ha sfilato la giacca e, senza mai smettere di guardarmi mi ha sbottonato piano la camicia. Ogni volta che sentivo le sue dita sfiorarmi la pelle, avevo la tentazione di fermarla.
Era tutto troppo intimo, con quei suoi occhi profondi e insistenti che non volevano decidersi ad abbandonare i miei.
Poi ho sentito le sue labbra su di me. Sulle spalle, sulle braccia, sul petto, sulle mani, come se senza saperlo stesse cercando di lenire ogni ferita, del mio corpo e della mia anima.
Perché, nonostante stasera sia riuscito a confessarle più di quanto avrei mai immaginato, non ce l’ho fatta a svelarle i particolari più tetri e umilianti del mio rapporto con Giuseppe.
Sono sceso a baciare quella sottile striscia di pelle fra i jeans e la maglia sollevata, risalendo un po’ per volta fino a sfilargliela del tutto. Ogni volta che la aggredivo un po’ di più con la lingua e con i denti la sentivo sussultare sotto di me, e mi piaceva.
Allora sono stato io a cercarla, a stringerla di più. E quando le ho preso il viso fra le mani e sono entrato dentro di lei, non ho potuto fare a meno di indugiare su ogni espressione di piacere sul suo viso.
E ora che è qui, con i capelli sparpagliati sul cuscino e quel viso perso in un sonno profondo, la sua onestà e il suo coraggio mi sembrano l’unico spiraglio di purezza in tutto lo schifo che mi circonda, e non riesco a smettere di chiedermi perché. Perché tu? Perché adesso?
 
*********
Buondì!
Capitolo lungo e chili di miele, per questa volta.
Nonostante la lunghezza non succede niente di particolarmente stravolgente.
Beh, intanto lui si confida un po’, però indorando la pillola, ancora non è stato del tutto sincero.
Diciamo che Elena, facendo un paragone molto azzardato di cui mi scuso in anticipo, sta dimostrando, con la sua tenera ostinazione, che ha tutte le potenzialità per essere l’Orfeo della situazione, quella che trascina Damon/Euridice fuori dall’inferno. Però… ci sono ancora tanti ostacoli da superare e non è detto che vada a finire bene (infatti non l’ho ancora deciso, chi vivrà vedrà).
Poi Damon perderà un altro pilastro, Alaric che giustamente segue la sua vocazione e se ne va.
E Elena che ottiene il famoso contratto, però non è contenta perché ultimamente tende a farsi domande su più fronti e non sa se valga la pena di sacrificare la sua dignità in nome del posto fisso. Vi siete mai trovate nella sua situazione? Io SI. Indovinate cosa ho deciso? Vedremo come finirà per lei.
Buon weekend e grazie a chiunque abbia trovato il tempo di arrivare a leggere fino a qui.
PS dedico i pannelli solari a Setsuna :)
Bacio
Chiara

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9
 
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
 
Metamorfosi – Ovidio
 
Sono passate quasi tre settimane da quel famoso venerdì sera, quando finalmente Damon ha iniziato ad aprirsi con me e io ho deciso di dare spazio all’imprevedibilità e al rischio iniziando questa sorta di… qualsiasi cosa sia, insieme a lui.
 
Tre settimane in cui entrambi, per motivi diversi, ci siamo rimessi in gioco. Io accantonando l’ansia di dover sempre tenere tutto a bada, il bisogno di ricercare costantemente situazioni gestibili per difendermi dalla paura del cambiamento, che per troppo tempo ha paralizzato la mia esistenza. Lui affidandosi a me, schiudendo un piccolo spiraglio sul suo passato doloroso, imparando a condividerlo per poterlo accettare.
È stato come conoscerlo una seconda volta, come se mi avesse aperto la porta del suo vero essere.
 
Tre settimane in cui gli sono stata accanto durante i suoi incubi notturni, fino a che una notte me ne ha confessato la ragione. Ed è stato angosciante, terribile. Non so spiegare la sensazione di saperlo così, né contare tutte le lacrime che ho versato o definire l’odio che ho provato nei confronti del suo padre adottivo. Eppure da quella volta, qualcosa è cambiato. Inaspettatamente ha iniziato a dormire tranquillo, come se buttare fuori quel dolore lo avesse aiutato ad allontanarlo, almeno dai suoi sogni.
 
Tre settimane in cui abbiamo parlato a lungo di Will e ho fatto del mio meglio per convincerlo a non cercarlo più, senza riuscirci. Non vuole sentire ragioni, né da Ric, né da Stefan, figuriamoci da me.
Perlomeno ha fatto pace con suo fratello, la cui unica colpa è quella di cercare in tutti i modi di proteggerlo, forse spinto dal bisogno di sopperire per quanto possibile a tutto il male che Giuseppe gli ha fatto.
 
Tre settimane in cui ho desiderato conoscerlo, curiosa di qualsiasi cosa lo riguardasse. Voglio sapere tutto di lui. Ho iniziato a comprargli i biscotti integrali, perché come fai a mangiare quella roba piena di schifezze.
Ho imparato ad amare la sua bella faccia assonnata appena sveglio e quei silenzi solo nostri, i silenzi che non mettono a disagio, come li chiama lui. Ho scoperto che ha il pessimo vizio di lasciare le tazze del caffè sporche in giro per la casa, cosa per cui Bonnie lo rimprovera spesso, che è allergico ai gamberetti, che detesta l’acqua frizzante. E quella sensazione strana e bella, quando ti innamori di una persona e vuoi farci l’amore sempre. Ma io mi sto innamorando di Damon? Non lo so, ho deciso di non chiedermelo, ma non so se adesso potrei mai fare a meno di tutta la vita con cui ha riempito la mia, di vita. Lui che mi sta trascinando in luoghi che non conosco, di cui ignoravo completamente l’esistenza.
 
Stamattina quando ho aperto la finestra ho trovato una sorpresa ad attendermi: questa notte ha nevicato, tanto che New York si è risvegliata coperta da almeno dieci centimetri di coltre bianca.
I tetti, i marciapiedi, gli alberi, ogni cosa è rivestita da quel soffice manto, capace di attutire addirittura i fastidiosi echi del traffico sempre rumoroso e caotico. Tutto è avvolto da un’atmosfera irreale.
Così, mentre andavo a lavoro, ho deciso di scendere sulla 7^ avenue anziché alla solita fermata, per poter attraversare Central Park ricoperto di neve fresca. Era quasi completamente deserto e assurdamente silenzioso.
Ho incontrato solamente dei ragazzini che avevano abbandonato i loro zainetti colorati su una panchina per fare una battaglia a  palle di neve prima di andare a scuola, facendo un chiasso pazzesco. Tutto intorno a me era bellezza, ovunque posassi lo sguardo. Per un attimo ho avuto l’impressione di passeggiare in una favola.
 
 
Prima di salire in ufficio mi fermo al bar a prendere una tazza di caffè per riscaldarmi un po’.
Entrando mi trovo davanti un Matt decisamente su di giri, con i capelli sconvolti e gli occhi lucidi e felici.
Tiene in mano una bottiglia di quello che sembra essere spumante, intento a riempire dei bicchierini di plastica. Riconosco alcuni suoi amici della scuola di teatro, tutti parecchio euforici, e mi avvicino perplessa, cercando di capire cosa stia succedendo.
 
“Ciao Elena! Forza, serviti pure!”
 
Gli lancio un’occhiata interrogativa, piegando la testa da un lato e portandomi le mani ai fianchi.
 
“Ti sei bevuto il cervello Matt? Non sono neanche le nove del mattino.” lo rimprovero, ricevendo in cambio un’occhiataccia e una smorfia mezza ubriaca.
 
“Non fare la maestrina petulante, oggi si festeggia! Mi hanno preso Elena! Reciterò in Chorus Line!” ribatte, mentre un sorriso di pura gioia gli si dipinge sul volto arrossato.
 
“Ce l’hai fatta! Wow, è fantastico!”
 
Si sporge sul bancone per avvolgermi in un abbraccio che io ricambio affettuosamente, orgogliosa di vederlo realizzare il sogno che ha inseguito con le unghie e con i denti fin dal giorno in cui si è trasferito a Manhattan.
 
“Grazie Elena! E tieniti libera per stasera. Si festeggia!” mi bisbiglia, soffocandomi nella sua stretta.
 
“È solo che domani c’è l’inaugurazione della mostra di cui ti ho parlato. Sono un po’ presa col lavoro.” rifletto ad alta voce. Sto già visualizzando mentalmente la montagna di scartoffie che mi attende al piano superiore.
 
“Non accetterò un no come risposta. Ci saranno tutti i miei amici, non puoi mancare proprio tu. Tu che mi hai sempre sostenuto, che ti sei sorbita le mie prove e tutti i noiosissimi film che ti ho costretta a vedere.” risponde, liberandomi dalla presa e pescando un grande bicchiere di carta dalla pila accanto alla cassa per riempirlo subito dopo di caffè bollente e piazzarmelo davanti.
 
“Non erano così noiosi, è che a volte facevo un po’ fatica a capirli. Non sono esattamente una radical chic.” commento, facendo spallucce.
 
“Allora ci sarai?”
 
Ci penso un secondo, valutando le possibilità. Infondo si tratta solo di andare a bere qualcosa dopo il lavoro. Una piccolissima parte di me mi dice che Damon non sarà proprio entusiasta, visto che Matt non gli va esattamente a genio, ma quando gli spiegherò la situazione non avrà da ridire. Non che ci siano precise definizioni o direttive nel nostro rapporto che ci impediscano di frequentare chi ci pare. Diciamo che è una specie di regola non scritta.
 
“E va bene, mi hai convinta. Verrò con voi. Non capita tutti i giorni che uno dei tuoi migliori amici diventi una star di Broadway.” gli sorrido.
 
“Ok, ti aspetto qui dopo il lavoro. Puntuale, non uscire con mezz’ora di ritardo come tutte le sere. Ricordati che non ti pagano gli straordinari.” Mi fa un occhiolino e sorride soddisfatto.
 
“Adesso vado, sono in ritardo.”
 
***
 
“Damon sei qui?”
 
Sento la voce di Stefan prima ancora di vederlo. Aspetto ancora qualche secondo per poi alzare gli occhi dallo schermo del pc ed incontrare il suo sguardo, che oggi mi sembra più corrucciato del solito.
 
“Qual buon vento fratello?” chiedo alzando un sopracciglio, cercando di immaginare quale possa essere la causa della sua preoccupazione, anche se devo ammettere che quell’aria afflitta è uno dei suoi tratti distintivi, insieme ai capelli sempre perfetti.
Stefan si avvicina alla mia scrivania. Lo vedo sospirare di frustrazione quando estrae da dietro la schiena la famosa busta gialla, quella che mi nasconde da quasi un mese.
La osservo per un lungo istante, in silenzio, dimenticandomi della presenza di mio fratello nella stanza.
Finalmente è giunta l’ora della resa dei conti.
 
“Bene, bene, bene. Addirittura con un giorno di anticipo? Sei molto generoso Stef, davvero, grazie.” commento ironico, mentre un’espressione fintamente compiaciuta mi si dipinge automaticamente in viso.
 
“Quando la finirai?” ribatte, e sembra più una preghiera che una richiesta.
 
Per tutta risposta gli rivolgo un sorriso sardonico. Non ce l’ho veramente con lui, voglio solo fargliela pagare per il ridicolo giochetto con il quale mi tiene in scacco da un mese, facendo leva sui miei sensi di colpa con la scusa dell’affetto fraterno. Anche se, col senno di poi, devo ammettere che la sua insistenza in qualche modo mi è servita. Stefan si siede di fronte a me e mi allunga la busta attraverso la scrivania.
Non la tocco subito, mi limito a studiarla.
Mi soffermo sul francobollo, dove è dipinto un qualche monumento italiano di cui ignoravo l’esistenza. Inseguo le linee scure che compongono quella calligrafia tondeggiante, immaginando la mano misteriosa che ci ha scritto sopra “Stefan Salvatore 147, Spring Street – New York”.
 
“Ogni promessa è debito Damon. Ti avevo chiesto di aspettare e lo hai fatto. E anche se non sono riuscito a farti entrare in testa che stai sbagliando tutto, sono ancora convinto di quello che ti ho detto. Sarai tu a decidere. Tu e nessun’altro. Già troppe persone in passato hanno scelto per te, io non voglio essere fra queste.”
 
Non rispondo. Lo guardo solo per un attimo, ma l’ironia è sparita lasciando posto alla rabbia. Tutti i ricordi dolorosi mi affiorano alla mente come un’onda di piena, la invadono. Per un secondo ho paura che offuschino anche la mia ragione. Ma no, questo non deve accadere, devo restare lucido.
La decisione ormai è presa. Il mio sguardo scivola di nuovo sulla busta, che ora mi appare come una macchia gialla indistinta sul piano di legno. La prendo fra le mani, la tengo sollevata ancora per qualche secondo.
 
E poi, con un gesto secco e deciso, la strappo.
 
La distruggo in mille pezzi che lascio cadere sotto lo sguardo sconcertato di Stefan.
È strana la sensazione che provo subito dopo. È come se la mia mente si liberasse di colpo dalla nebbia che la intorpidiva, come se invece della carta mi stessi strappando via il dolore dal cuore.
 
“Ma come… che è successo? Perché lo hai fatto?” balbetta Stefan, completamente scioccato. Lo vedo sbattere le palpebre più volte e sgranare gli occhi, stupito e felice.
 
“Perché avevi ragione Stef. Posso andare avanti, posso farcela e voglio provarci. Sono stanco di questa storia. Hai sempre avuto ragione e io torto, tutto questo mi stava uccidendo. E adesso quello che voglio è ricominciare.”
 
Stefan sorride incredulo. Proprio non se lo aspettava, dopo tutta la fatica fatta per provare a convincermi a voltare pagina, senza trovare in me nemmeno il più piccolo spiraglio.
Eppure, a un certo punto, qualcosa dentro di me è cambiato e ho cominciato ad ascoltarlo in modo diverso.
Improvvisamente la vendetta non era più la cosa più importante, l’unico obbiettivo della mia vita.
Ho smesso di pensare a me stesso come l’unica persona col diritto imprescindibile di soffrire e ho messo da parte il mio atteggiamento intollerante verso tutto quello che mi circonda. Forse sono le persone infelici a commettere questo sbaglio, quello di criticare costantemente qualsiasi cosa per scaricare il proprio dispiacere sugli altri. E adesso mi sento diverso. È come se mi sentissi unito a un sentimento nuovo, un qualcosa di misterioso che mi riempie. Non lo so se questo significa essere felici, ma so per certo che inaspettatamente sto bene.
 
“Non puoi immaginare quanto sono contento, non ci posso credere.” mi ripete, allegro e ancora piuttosto spiazzato.
 
“Non ti emozionare troppo fratello. Guarda là, ti sei spettinato…” scherzo, indicandogli il ciuffo e vedendolo istantaneamente portarsi una mano ai capelli per aggiustarli.
 
“Sei sempre il solito coglione.”
 
“Che vuoi farci, certe cose non cambiano mai. Non pretendere troppo da me.” ribatto, facendo spallucce e allungandomi sulla sedia.
 
“Già… senti Damon io adesso ho una riunione. Ne parliamo dopo a casa, ok?”
 
Si alza e si avvicina  alla porta.
 
“Ehi Stef…”
 
“Cosa?”
 
“Grazie.”
 
Stefan non risponde, si limita a scuotere la testa mentre una scintilla di gioia gli illumina lo sguardo.
È evidente che non aveva assolutamente previsto questa svolta.
Quando esce, il mio primo istinto è quello di chiamare Elena. Nemmeno lei sa nulla della mia decisione, e adesso vorrei semplicemente averla qui per dirle che sono felice. E poi, dirle grazie.
Grazie per essere entrata nella mia vita con tutta la tua ostinazione, di aver aspettato, di aver compreso. Grazie per avermi regalato una nuova prospettiva, per esserti fidata di me, nonostante tutto.
Non so spiegare quale assurdo miracolo abbia fatto o come sono arrivato a questo punto.
Saranno quei suoi occhi grandi, quel sorriso capace di esplodermi dentro, forse la sua dolce e infinita testardaggine o tutto questo insieme.
Forse sono semplicemente un coglione come dice Stefan, e a furia di stare con lei sono peggiorato.
Forse è solo che insieme a lei sento di poter essere migliore.
Quando la chiamo rimango in attesa per un po’,  facendo squillare il telefono a vuoto. Lei non risponde, sicuramente sarà incasinata con l’inaugurazione. Decido di andare a prenderla più tardi.
 
 
 
È da mezz’ora che aspetto in macchina, fuori dal palazzo dove ha sede la Mikaelson. Di Elena nessuna traccia, eppure sono quasi le otto e ho visto uscire alcune sue colleghe già un quarto d’ora fa. Mi domando dove possa essersi cacciata. Provo a farle l’ennesima telefonata, sperando che non cada la linea come le ultime cinque volte. Sarà colpa di tutta questa dannata neve. Ha ricominciato a scendere poco fa, una vera e propria tormenta di enormi fiocchi bianchi che sta letteralmente paralizzando New York.
E come se non bastasse fa anche un freddo cane, e io qui fuori mi sto congelando.
Questa volta il telefono suona libero e finalmente la sento rispondere dall’altra parte.
 
“Era ora Elena…”
 
“Ciao Damon, stavo proprio per chiamarti ma il cellulare non prende. È stata una giornata d’inferno.” sospira, con la voce un po’ trafelata. Sento un brusio di fondo, come di gente che parla e forse musica.
 
“Ma dove sei?” chiedo, scendendo contemporaneamente dall’auto per andarmi a riparare sotto il portone del palazzo, convinto che fra qualche istante la vedrò comparire, trafelata e luminosa, come sempre.
 
“Sono uscita con Matt e i suoi amici, stiamo festeggiando il suo primo ingaggio importante e…”
 
“Scusa? Mi prendi in giro? Quel Matt?” la interrompo.
 
“Si lui…  ma non fare storie, per favore.” La sento sbuffare di frustrazione, riesco perfino a immaginarmi la sua faccia in questo momento.
 
“Non sto facendo nessuna storia, il fatto è che ti sto aspettando sotto l’ufficio da mezz’ora. Devo dirti una cosa importante.” rispondo, lasciando trasparire più di quanto vorrei il mio fastidio nell’apprendere che è chissà dove col maledetto barista che si crede il nuovo Montgomery MacNeil, sapendo benissimo che non lo sopporto. E chissenefrega del suo stupido ingaggio.
 
“Mi dispiace. Ti avrei chiamato ma… E’ che adesso proprio non posso. Non me la puoi dire per telefono questa cosa importante? Ti direi di raggiungermi, ma lo so che voi due non vi prendete più di tanto. Finiresti per farlo incazzare come al solito, proprio oggi che è una giorno così importante per lui.” risponde con un sorriso nella voce.
 
Già, proprio oggi, un giorno importante, per lui. Non fa una piega.
 
“Scusami Damon. Ti prometto che ne parleremo, domani. Non potevo proprio rifiutarmi, lo sai che ci teneva tanto. Adesso devo andare. Ti chiamo dopo, ok?”
 
Mi sta liquidando.
 
“Ok.”
 
Faccio scorrere il pollice sul rettangolo rosso, interrompendo bruscamente la conversazione.
Quando sollevo gli occhi dal display incontro lo sguardo celeste e perfettamente truccato di Rebekah. Rimane in silenzio per qualche istante, un sorrisetto ironico sulle labbra mentre mi squadra dalla testa ai piedi. Non credo che sia molto entusiasta di vedermi, dato che da qualche settimana la sto accuratamente evitando. E per quanto ne so, accettare un rifiuto non è esattamente il suo forte. Eppure ha un’aria divertita e non riesco a indovinare cosa le stia passando per la testa.
 
“Ma guarda un po’ chi c’è. Finalmente, è da una vita che non ti fai vedere. Fammi indovinare… mi stavi aspettando.” mi dice, facendo un passo nella mia direzione. La sua voce è carica di ironia.
 
“Veramente ci siamo incontrati anche la scorsa settimana. Te la ricordi la riunione con Ric?” le rispondo distrattamente, incrociando le braccia sul petto.
 
“Già, però oggi Ric non c’è. Quindi, se non stavi aspettando me, mi spieghi come mai sei qui?” continua, con il suo tono più pacato e rilassato, sorridendomi sempre.
Ho già capito dove vuole arrivare, non è una stupida e l’intuito non le manca. Mi divertirei parecchio a risponderle con la verità, ma sono sicuro che Elena la prenderebbe molto male. Il fatto che il suo capo venga a sapere cosa c’è tra di noi è una delle sue più terribili paranoie, cosa che mi infastidisce, anche se in parte la capisco.
 
“Beh sai, passavo di qua… casualmente.” replico con un’alzata di spalle, sorridendole a mia volta con la stessa ironia che leggo sul suo viso. Lei non si scompone, sembra addirittura compiaciuta della mia risposta, quando sappiamo entrambi che è una grandissima cazzata.
 
“Se vuoi scusarmi Rebekah, ho un impegno.” mi congedo, rivolgendole un mezzo sorriso e osservando la mia auto che in pochi minuti si è già ricoperta di uno spesso strato bianco. Sto quasi per avviarmi sotto la tormenta di neve, quando la sento parlare di nuovo.
 
“Aspetta Damon, non così presto.”
 
“Che c’è?”
 
“Facciamo due chiacchiere, no? Ti va?”
 
***
 
Quando entro nell’androne del palazzo sono costretta a sbattere più volte i piedi sullo zerbino, tentando di far scivolare via i fiocchi bianchi che si sono incollati ai miei stivali. Non ha fatto altro che nevicare per tutta la notte e anche oggi il cielo è completamente bianco, il che preannuncia un’altra tormenta in arrivo. Appoggio la borsa per terra, mi tolgo il berretto riavviandomi i capelli con le mani congelate. Poi estraggo il cellulare dalla tasca del cappotto. Ancora non mi ha chiamata. Possibile che se la sia presa così tanto per una stupidaggine del genere?
Ieri sera gli ho telefonato dieci volte e non ha mai risposto. Per un attimo mi sono anche preoccupata, volevo addirittura chiedere a Care se poteva avvisare Stefan. Poi ho ragionato, mi sono obbligata a non essere paranoica come al solito. Infondo non è successo niente di male, prima o poi si deciderà a rispondere. Quando ci si mette è veramente ingestibile.
 
Scendo dall’ascensore e attraverso la porta a vetri dell’ufficio, dirigendomi alla mia postazione che ritrovo esattamente come l’avevo lasciata ieri sera: sommersa di fogli e di cataloghi della mostra di Ric.
Oggi è il grande giorno, ho ancora una montagna di cose da fare prima dell’inaugurazione di questo pomeriggio. Mentre mi levo la giacca, lancio un’occhiata all’iPhone che ho appena appoggiato sulla scrivania. Forse potrei fare un ultimo tentativo prima di iniziare a lavorare.
Senza pensarci troppo ricompongo il numero di Damon, infilando il telefono tra l’orecchio e la spalla mentre sposto alcuni fogli che occupano la tastiera del pc. Nessuno risponde, proprio come prima, ma adesso è un altro rumore ad attirare la mia attenzione.
Riconosco prima la suoneria, e poi il telefono. Solo che lui non c’è. È Rebekah che improvvisamente trovo in piedi davanti a me, col cellulare di Damon fra le mani e un’espressione soddisfatta sul viso.
 
“Cercavi questo?”
 
Non riesco a rispondere. L’unica cosa su cui posso concentrarmi è quel rettangolo lampeggiante fra le sue mani, dove vedo comparire il mio nome. Chiudo frettolosamente la chiamata, totalmente in imbarazzo. Cosa diavolo sta succedendo?
 
“Sei proprio una bambina Elena. Credevi che non mi fossi accorta di niente? Pensavi che fossi così ottusa da non notare la faccetta rimbambita che hai ultimamente? Mi hai presa proprio per una stupida, ma se c’è una stupida fra noi due, quella non sono certo io.”
 
“Rebekah…” balbetto, osservando la sua espressione soddisfatta e il suo sorriso pieno di commiserazione.
 
“Lo so cosa ti stai chiedendo. Vuoi sapere perché ce l’ho io, vero?” dice, sollevando la mano ad indicarmi il telefono. Non riesco a dire nulla, rimango immobile. Aspetto una spiegazione, perché sono sicura che ci sia. Deve esserci un motivo. Continuo a ripetermelo mentre mi sforzo in tutti i modi di ricacciare indietro le lacrime che mi stanno riempiendo gli occhi. Non può essere, Elena, non può essere.
 
“Chiedilo a lui. Chiedigli perché ieri sera era con me.”
 
Il respiro mi si blocca in gola ed è come se non vedessi più niente. Non è possibile, mi sta mentendo. Allora perché? Una lacrima sfugge al mio controllo, rotolandomi sulla guancia. Sollevo automaticamente la mano per scacciarla dal viso. Il sorriso di Rebekah si allarga ancora di più.
 
“Me la farai pagare adesso, non è così?” dico, senza nessuna inflessione nella voce. Mi sento così vuota che non mi importa nemmeno della sua risposta. Abbasso gli occhi sulla scrivania, senza riuscire a vederla.
 
“Stai tranquilla Elena, non ho intenzione di fare proprio niente. Te la cavi benissimo da sola. E adesso ne pagherai le conseguenze sulla tua pelle. Mettiti al lavoro, il tempo corre e oggi c’è una conferenza stampa che ci aspetta.”
 
La vedo allontanarsi e rinchiudersi nella stanza di vetro, sbattendo la porta. Proprio in quel momento sento squillare il telefono sulla mia scrivania. Lo lascio suonare un po’, respirando. Mi porto una mano al petto, cercando di rallentare il suo rapido alzarsi e abbassarsi. Nella mia mente si stanno affollando troppe domande, talmente tante che non riesco a concentrarmi su nessuna.
Poi afferro la cornetta e mi schiarisco la voce, cercando invano di riprendere il controllo di me stessa.
 
“Mikaelson Communications, buongiorno.”
 
“Elena…”
 
“Cosa vuoi?”
 
“Scusa è che è successo un casino…”
 
“Non scusarti. Non abbiamo niente da dirci.”
 
***
 
Quando arrivo all’ICP insieme a Ric, vedo subito Elena intenta a disporre delle cartelline sul tavolo, fuori dalla sala riunioni che è stata riservata per la conferenza stampa della mostra. Non riesco a scorgere il suo viso, chinato sui fogli di carta.
Mi separo da Ric, spedendolo con una scusa a dare un’occhiata alla disposizione delle foto insieme a Stefan, e mi avvicino a lei. Quando si volta e si accorge di me, la sua espressione si indurisce di colpo. I suoi grandi occhi gonfi e arrossati si posano indifferenti sul mio viso per qualche secondo, per poi ripiombare sul tavolo senza una parola.
 
“Mi vuoi dire cos’hai?”
 
Mi avvicino un po’ di più, rivolgendomi a lei col tono più rilassato che mi riesce.
 
“Te l’ho già spiegato, non ho assolutamente niente da dirti. Adesso se vuoi scusarmi, ho del lavoro da fare.” risponde freddamente. Poi torna a mescolare a casaccio le cartelline e i cataloghi.
 
Senza pensarci troppo la prendo per un gomito e la strattono, costringendola a seguirmi nella sala ancora deserta. La sento incespicare un po’ sui tacchi, ma mi viene dietro in silenzio, facendomi innervosire ogni secondo di più.
Quando siamo dentro chiudo la porta e cerco il suo sguardo. La vedo incrociare le braccia sotto il seno e osservare le punte delle sue scarpe con noncuranza, mordendosi l’interno della guancia.
 
“Quando avrai finito col gioco del silenzio, mi spiegherai cosa ti prende.”
 
Alle mie parole alza gli occhi, puntandomeli dritti in faccia. È sconvolta, come non l’ho mai vista fino ad oggi.
 
“Dimmelo tu. Cosa ci facevi con Rebekah ieri sera?” ribatte gelida.
 
“Cosa ti ha detto? Anzi no, riformulo. Qualsiasi cosa ti abbia detto, come fai a crederci?”
 
Continua a non rispondere, stringendosi sempre di più nella giacca. Mi avvicino di nuovo e la prendo per il polso, costringendola a guardarmi negli occhi. Nei suoi leggo una rabbia cieca, che non ammette sconti. Eppure si ostina a restare in silenzio.
 
“Dì qualcosa Elena, incazzati, ma almeno parla.” Il suo sguardo trema per un secondo nel mio, e questa volta non lo abbassa. Mi fissa completamente muta per qualche istante, con un’espressione disgustata e una luce furiosa negli occhi.
 
“Dimmi che ieri sera non eri con lei e io ti crederò.”
 
Il mio silenzio a questa affermazione serve solo a farla incupire di più. L’atmosfera nella stanza si carica di tensione.
 
“Sei andato da lei perché sono uscita con Matt? O perché lei non fa domande? No aspetta, fammi indovinare. Non hai firmato nessuna esclusiva, non è così? È questo vero? Mi dispiace Damon, non posso starti dietro, non se queste sono le regole. Come hai fatto a farmi una cosa del genere quando io…” mi urla contro, senza neanche prendere fiato.
 
“Tu cosa?”
 
“Lascia perdere…” risponde, divincolandosi dalla mia presa.
 
“Come fai a fidarti di lei e non di me?”
 
“Beh non mi pare che ci siano dubbi. Non mi fido di te perché non sei capace di accettare l’amore degli altri. Continui a vivere solo per l’odio che ti porti dentro. Non riesci proprio a rendertene conto.”
 
Mi dice quest’ultima frase con una freddezza e una lucidità sconcertanti. Subito dopo sembra pentirsene, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Le sue parole mi feriscono più di quanto avrei creduto possibile.
 
“Sai cosa ti dico? Se la pensi così hai ragione. Non abbiamo proprio niente da dirci.”
 
***
 
Quando la conferenza stampa inizia, non ho ancora finito di appendere le giacche alla rella. Ovviamente è questo il compito che mi è stato assegnato, non posso certo assistere. Mentre afferro uno dei tanti cappotti scuri dal mucchio davanti a me, la stringo per un attimo fra le mani e respiro a fondo.
Dopo la lacrima solitaria versata davanti a Rebekah, non sono più riuscita a piangere.
Mi sento malissimo, ma è come se fossi anestetizzata, intorpidita. Come se tutto questo dolore non volesse saperne di andarsene da me. Ho paura che non riuscirò mai più a liberarmene. E mi odio per questo, e anche perché prima stavo per dire a Damon che non sono più capace di vivere questa storia così come viene, per il semplice fatto che io sono innamorata di lui. A quanto pare stiamo viaggiando su due lunghezze d’onda completamente diverse, mi sono semplicemente raccontata una bugia tutta mia fino ad oggi, quando Rebekah mi ha strappata a forza dalla mia assurda favoletta. Avrei dovuto dirglielo? Sarebbe cambiato qualcosa?
 
“Signorina, è oggi che inaugura la mostra di fotografia?”
 
Una voce maschile mi distoglie dai miei pensieri. Non riesco a voltarmi verso l’uomo che ha parlato, troppo imbarazzata e orgogliosa per mostrargli la mia faccia ancora sconvolta.
 
“Aprirà al pubblico domani, oggi c’è la conferenza di inaugurazione riservata alla stampa. Lei è un giornalista accreditato?” gli chiedo.
 
“Veramente no… ma ho fatto tanta strada per venire qui signorina.”
 
Finisco di appendere il cappotto e mi aggiusto la giacca del tailleur, cercando di prendere tempo.
Ci mancava solo il solito infiltrato che vuole scroccare il buffet. Mi toccherà cacciarlo in malo modo, e non ho nessuna voglia di arrabbiarmi ancora.
 
“Beh mi dispiace, ma oggi è aperta solo alla stampa. Ho paura che dovrà ritornare domani.” ribatto acida, voltandomi nella sua direzione. Mi trovo davanti un uomo di mezza età, alto, con i capelli scuri. Indossa un paio di jeans e un giubbotto pesante. Il suo volto è tranquillo e sorridente.
Ma quello che mi sconvolge realmente sono i suoi occhi. Così chiari, così azzurri come…
 
“Mi dispiace insistere, ma sono venuto apposta dall’Ohio. Ho letto un articolo riguardo la mostra sul giornale e così… sto cercando uno dei curatori. Damon Salvatore. Sa dove posso trovarlo? Posso aspettare se ora è impegnato.”
 
“Beh, a  dire il vero… senta mi lasci il suo nominativo, vedrò cosa posso fare.”
 
“Mi chiamo Will. Will Nolan.”
 
*****
Ciao! Se non ci avete capito niente avete ragione! Ogni cosa a suo tempo… :) :) Purtroppo sono di corsissima anche oggi quindi ne approfitto per ringraziare chiunque passi di qua, anche i lettori silenziosi che ho scoperto essere un sacco… forse c’è un errore nei conteggi, comunque anche se foste in 3 meritate un grandissimo GRAZIE.
Baci
Chiara

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
 
I’m looking for a place to start,
But everything feels so different now.
Just grab a hold of my hand,
I will lead you through this wonderland.
Water up to my knees,
But sharks are swimming in the sea.
Just follow my yellow light
And ignore all those big warning signs.
***
Sto cercando un posto da cui cominciare
Ma ora tutto sembra così diverso.
Prendi la mia mano e basta,
Ti condurrò in questo paese delle meraviglie
L’acqua mi arriva alle ginocchia,
Ma gli squali nuotano nel mare.
Segui la mia luce gialla
E ignora tutti quei grandi segnali di avvertimento.
 
Yellow Light – Of Monsters and Men
 
 
“Mi chiamo Will. Will Nolan.”
 
Abbasso le mani sul tavolo di fronte a me, mi ci aggrappo con tutte la forza che ho. Mi gira la testa.
Cerco di mantenere una calma che è solo apparente, perché dentro mi sta divampando un fuoco.
Will mi fissa con quegli occhi di ghiaccio, gli occhi di suo figlio. Riesco a odiarli esattamente quanto amo quelli di Damon. E ora tutto il resto perde definizione: la nostra lite, la perfidia  di Rebekah, le parole dure con le quali siamo stati in grado di ferirci.
Tutto questo non ha più importanza, ci metto una frazione di secondo a capirlo.
Adesso conta solo Damon.
 
Devi essere forte per lui, Elena, e lo farai perché ne sei innamorata. Perché lo ami, con le sue luci e le sue ombre. Non importa quello che lui prova o non prova per te, non puoi permettere che questo fantasma venuto dal passato gli faccia ancora del male.
 
Continuo a ripetermelo, mentre osservo ancora per qualche secondo l’uomo che mi trovo di fronte.
Il suo sorriso di cortesia non fa altro che accrescere il mio disgusto.
 
“Cosa è venuto a fare qui?” sibilo a denti stretti, la voce distorta dal disprezzo.
 
“Come dice prego?” chiede, visibilmente disorientato dalla mia reazione aggressiva.
 
“Ho detto, cosa è venuto a fare qui. Tutto il coraggio che le è mancato per trent’anni è saltato fuori proprio adesso?”
 
Lo vedo boccheggiare per un attimo, completamente spiazzato dalle mie parole e dalla consapevolezza che conosco il suo segreto. Il suo sguardo diventa liquido, colmo di una tristezza che non merita di provare.
 
“Chi è lei?”
 
“Non è importante chi sono io. Mi fa schifo, anzi no, al diavolo l’educazione, mi fai schifo razza di bastardo.”
 
Per un lungo istante ci fronteggiamo in silenzio. Fatico a tenere a bada il mio respiro, agitata da una rabbia furibonda che fino ad oggi credevo di essere incapace di nutrire. Il cuore mi sta esplodendo nel petto, devo aprirmi il bottone della giacca per poter respirare meglio.
 
“Signorina, non so cosa le abbiano raccontato ma la prego, ho bisogno di parlare con Damon.”
 
“Per fare cosa, ferirlo ancora?”
 
“Voglio solo sapere se sta bene.”
 
“Non sta bene affatto, ok? Gli hai rovinato la vita.”
 
I suoi occhi vacillano, scrutano i miei per un lungo istante, per poi abbassarsi, accompagnati da un profondo sospiro. Lo vedo portarsi le mani tra i capelli in un gesto nervoso, che ricalca alla perfezione quello che più volte ho visto fare a Damon.
 
“Lo so, ho sbagliato tanto, ho sbagliato tutto. Ma mi permetta di parlare con mio figlio, per una volta. Non mi neghi questa possibilità.”
 
Suo figlio. Certo che ha una bella faccia tosta.
 
“È troppo tardi. Non devi azzardarti a fare richieste. Come puoi pretendere una possibilità quando a lui non ne hai offerta nessuna?”
 
“La prego…” chiede di nuovo, con voce supplicante.
 
E adesso non so cosa fare. Non è la sua insistenza a rendermi insicura, ma il pensiero di Damon.
Incontrare il padre è quello che ha sempre desiderato. Guardarlo in faccia per la prima volta, riconoscersi, gridargli il suo odio, poter dare un nome a quell’angoscia che porta dentro.
Ma è anche ciò che nessuno di chi gli vuole bene ha mai ritenuto giusto per lui. Né sua madre, né suo fratello, né il suo migliore amico. E nemmeno io.
Da una parte so che il confronto con Will sarebbe pericoloso e deleterio per lui, per il suo equilibrio già così precario. Damon è fragile, ha sofferto, non riesce a guardare avanti schiacciato da un passato troppo ingombrante. Eppure io non sono nessuno per potergli negare di affrontare la realtà. Devo avere fiducia in lui, consentirgli di scegliere.
Per l’ultima volta guardo l’uomo davanti a me, i suoi occhi che implorano una pietà che non può meritare.
 
“Seguimi.”
 
Sento il suono ritmico dei miei tacchi sul parquet chiaro, seguito da quello più ovattato dei passi incerti di Will, che mi viene dietro senza dire una parola. Dopo aver attraversato una porta a vetri, ci ritroviamo nella sala adiacente, circondati dagli sguardi delle donne fotografate da Ric. Sguardi cupi, impauriti, speranzosi. Tutte le emozioni incombono su di noi da quelle grandi immagini in bianco e nero e si riflettono dentro di me.
 
“Siediti lì e non muoverti.” gli intimo, con un gesto secco della mano ad indicare un divanetto poco più in la.
 
“Grazie.”
 
“Non ringraziarmi. Non lo sto facendo per te.”
 
Quando entro nella sala riunioni, la conferenza stampa è in pieno svolgimento.
Ric sta parlando alla platea dal tavolo dei relatori, piuttosto emozionato e notevolmente in conflitto con il nodo della sua cravatta, mentre alcune diapositive scorrono alle sue spalle.
Lo osservo sconsolata, pensando a quanto avrei bisogno del suo sostegno e della sua pazienza in questo momento. In prima fila posso scorgere Damon che siede a fianco a Stefan. Cammino rasente al muro per non farmi notare, fino a raggiungere una posizione da dove entrambi possono vedermi.
Quando Damon si accorge di me mi rivolge un’occhiata cupa e nervosa. Gli chiedo di avvicinarsi con un cenno della mano, per poi fare la stessa cosa con Stefan, che sembra perplesso, perfino più del fratello. Entrambi però ascoltano la mia muta richiesta, si alzano e mi raggiungono.
 
“Che c’è Elena?” chiede Damon a denti stretti, gli occhi gelidi e un tono che, per quanto stia parlando a bassa voce, tradisce comunque uno strascico dell’irrequietezza provocata dalla nostra lite di poco fa.
 
“Dobbiamo parlare.”
 
“Adesso?”
 
“È importante.”
 
Lo prendo per un braccio e lo trascino fuori con me. Stefan non capisce ma ci segue comunque.
 
“Allora, mi vuoi dire che ti prende Elena? Se hai intenzione di fare una cosa a tre con mio fratello per vendicarti di ieri sera, sappi che le mie perversioni non arrivano fino a quel punto e…”
 
“Tuo padre è qui, Damon. Will è qui. È venuto a cercarti.” dico, tutto d’un fiato, senza mollare la presa sul suo braccio. I suoi occhi si svuotano in un istante, mentre serra i pugni. Posso sentire i muscoli contrarsi sotto la giacca, il suo respiro accelerare.
 
“Che stai dicendo Elena?”
 
“Ha letto della mostra… è qui.”
 
“Ma come… Damon sta calmo. Avevi deciso di non incontrarlo, il fatto che lui sia qui non significa niente. Non devi vederlo se non vuoi.”
 
La voce di Stefan mi giunge alle orecchie come un rumore indistinto, intenta come sono a controllare le reazioni di Damon che sembra essere ogni secondo più sconvolto. Ci metto un attimo di troppo a realizzare.
 
“Avevi deciso di non incontrarlo? Cosa… quando… perché?” gli chiedo confusa, cercando una spiegazione nei suoi occhi.
 
Dalla profondità del suo sguardo, che si incolla silenziosamente al mio, la risposta mi arriva forte e chiara, quasi come se me la stesse urlando nelle orecchie: “Per te, Elena.”
Ed è allora che capisco tutto.
La telefonata di ieri, il suo bisogno di dirmi quella cosa importante, il suo disappunto che poi forse ha sfogato con Rebekah. Ma poi… sarà andata veramente così? Adesso non sono più così sicura di aver capito bene, di averlo ascoltato veramente.
E poi le sue parole, la sua richiesta di fiducia.
E le mie, di parole.
La mia rabbia nell’accusarlo di non saper accettare l’amore degli altri, la sua reazione sconcertata.
Tutto mi scorre davanti agli occhi come un film che si riavvolge al contrario, giusto il tempo che mi serve per rendermi conto che ho rovinato tutto con la mia assurda gelosia e la mia mancanza di tatto.
Il tempo di rendermi conto che ormai è troppo tardi.
 
“Dimmi dov’è.”
 
***
 
Quando entro nella sala lo trovo seduto su un divanetto di velluto rosso, gli occhi bassi, i gomiti appoggiati sulle gambe e le mani intrecciate fra di loro.
 
“Guardami in faccia bastardo.” gli urlo, prima che la vista mi si annebbi del tutto. E lui lo fa. Solleva lo sguardo. Nei suoi occhi posso vedere il riflesso dei miei, proprio come ho sempre immaginato.
Mi assale una profonda fitta di disgusto.
Quando si alza per venirmi incontro perdo definitivamente ogni forma di autocontrollo.
Serro il pugno e lo colpisco alla mascella con tutta la forza che ho. Lo vedo barcollare e poi cadere a terra stordito e disorientato. La mano mi fa male, ma il percepire la sua paura mi riempie di una soddisfazione intensa, che si stempera nel mio stomaco insieme alla rabbia e al risentimento.
 
“Damon ti prego, calmati. Non fare così.”
 
La voce di Elena mi arriva smorzata, così come la sensazione della sua mano che sfiora lieve la mia spalla, scendendo piano ad afferrare la mia. I suoi grandi occhi cercano i miei, le sue dita si stringono attorno al mio pugno.
 
“Per favore. Non ne vale la pena.” mi prega, senza distogliere lo sguardo. Ma è come se non la vedessi veramente. Stefan ci osserva poco distante senza dire una parola.
Will tossisce e si massaggia piano la guancia dolorante. Eppure mi affronta, ha ancora una volta il coraggio di sollevare gli occhi nei miei.
 
“Assomigli tanto a tua madre.”
 
“Proprio commovente! Non nominarla. Non ti conviene darmi un altro motivo per spaccarti la faccia.”
 
“Ti prego Damon, lasciami parlare. Non credo che tu sappia la verità.”
 
“Oh Stefan hai sentito? Un altro paladino della verità. Quante ne devo sentire ancora? Perché sto perdendo il conto.” rispondo furiosamente, rivolgendomi a mio fratello che rimane in silenzio, le braccia abbandonate lungo i fianchi e l’espressione colpevole.
 
“Forza, raccontami come hai fatto ad lasciare sola una ragazzina di sedici anni dopo averla messa incinta. O di come l’hai derisa davanti a mio zio quando è venuto a cercarti, trattandola come una puttana.”
Lo sfido con le mie parole dure, ma sento la mia voce incrinarsi.
La mano di Elena non abbandona la mia, la stringe sempre più forte. Sono costretto ad aggrapparmi a lei per non prenderlo a calci mentre lo vedo sollevarsi dal pavimento e avvicinarsi a me di un passo.
 
“Non è così che è andata Damon. Lasciami parlare, poi sarai libero di fare quello che vorrai, anche ammazzarmi di botte. Ne hai tutto il diritto.”
 
Non ho più voglia di rispondergli. Guardo prima mio fratello, poi Elena, cercando in loro una forza che sento mancarmi. Perché è tutto così diverso da come me lo ero immaginato? Perché adesso che lo ho colpito, che l’ho insultato non riesco a sentirmi meglio?
 
Avevano ragione loro.
 
Non è così che riuscirò a riempire i miei vuoti. Ci sono arrivato troppo tardi, ma lo avevo capito anche io. Allora perché il destino ha deciso di giocarmi questo scherzo?
 
“Ascoltalo Damon.”
 
La voce di Elena interrompe il filo intricato dei miei pensieri. Mi fissa con i suoi occhi grandi e fiduciosi, e sono sicuro che stia cercando di trasmettermi tutto il suo coraggio, quello che a me manca in questo momento.  
È di nuovo vicina, presente, lucida. Ho ricominciato a sentirla, come l’ho sentita ogni giorno, ogni minuto da quando è entrata nella mia vita. È di nuovo lei, la mia Elena, testarda, audace e forte.
E adesso so che ci crede ancora, con quelle dita che afferrano le mie, mi parlano, mi promettono che lei è e resterà qui con me, per me.
 
“Avanti, dì quello che devi dire e facciamola finita.” ribatto a denti stretti.
 
Will prende fiato, completamente spaesato, e cerca di avvicinarsi di un passo, ma lo blocco aprendo la mano libera di fronte a me e rivolgendogli un’occhiata tagliente.
 
“È vero, tuo zio è venuto da me a dirmi della gravidanza. Su questo hai ragione. Io e tua madre non stavamo più insieme e io non ne ero innamorato, lo ammetto. Ma quando l’ho lasciata non avevo idea che fosse incinta e sono certo che non lo sapesse ancora nemmeno lei. Ed è vero, quando tuo zio me l’ha detto ho avuto paura. Una paura terribile, non sapevo cosa fare.”
 
“Così ti sei tolto il pensiero dicendogli che non eri sicuro di essere il padre, giusto? Complimenti sei un vero uomo. Cosa vuoi adesso, un applauso?”
 
Per tutta risposta lo vedo scuotere la testa demoralizzato, per poi tornare a guardarmi con aria dispiaciuta.
 
“Lo accetto Damon, sul serio. Hai tutto il diritto di odiarmi, ma quello che ti hanno raccontato non è del tutto esatto. Quel giorno tuo zio non era solo. C’era anche Giuseppe con lui, il tuo padre adottivo. E non sono venuti per convincermi a farti da padre, semmai il contrario.”
 
Il mio sguardo rimbalza da lui a mio fratello, a Elena, che mi stringe più forte la mano e ne accarezza piano il dorso col pollice.
 
“Calmo, va tutto bene. Fallo finire Damon.” la sento bisbigliare sottovoce.
 
Stefan è pallido, ha gli occhi spalancati e l’aria confusa. Si avvicina a me e mi poggia una mano sulla spalla prima di rivolgersi a Will con un tono rabbioso che non gli appartiene.
 
“Cosa stai cercando di insinuare?”
 
Will sospira, lanciando un’occhiata fugace a mio fratello per poi ritornare a concentrarsi sul mio viso.
 
“Giuseppe era innamorato di tua madre, Damon. A quanto ho capito per lui era una vera e propria ossessione. Voleva sposarla, voleva averla a qualunque condizione. Mi ha detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di renderla felice, che ti avrebbe cresciuto, amato, senza chiedermi niente.
E tuo zio era d’accordo con lui. Sono stati bravi, hanno fatto leva sulle mie insicurezze. Io ero solo uno squattrinato, non avevo nulla da offrire né a lei né a te. Non me ne sono reso conto subito, ma è evidente che anche tuo zio ha tratto i suoi vantaggi dal tagliarmi fuori. Perché è questo quello che volevano che facessi. Mi hanno chiesto di sparire per sempre dalla tua vita e da quella di tua madre, di farle perdere completamente le mie tracce in caso lei mi avesse cercato, e io ho accettato.”
 
Respiro a fondo, sperando che eliminare quell’aria pesante dai polmoni mi aiuti a restare lucido. Credevo di aver toccato il fondo dopo il racconto di Stefan, ma a quanto pare mi sbagliavo. Sembra che non ci sia fine al peggio nella squallida storia del mio fottuto ingresso in questo mondo.
Ed è pena ciò che provo adesso di fronte al mezzo uomo di fronte a me, che parla concitato con la voce malferma e le mani che gesticolano nervose. Un uomo insicuro, diverso da come l’ho sempre immaginato, ma non meno colpevole. Più sento la sua voce esporre altri miseri dettagli sul mio passato, più la rabbia lascia spazio alla commiserazione per la debolezza che traspare dalle sue parole. E se possibile mi fa ancora più schifo di prima.
 
“Così hai pensato bene di scegliere la via più facile, lasciando agli altri il compito di gestire i tuoi casini. Credi di impietosirmi? Rimani sempre un bastardo. Patetico, ma sempre bastardo.”
 
“Forse hai ragione, all’inizio lo sono stato. Ma cosa avrei potuto fare? Ho creduto che sarebbe stata la soluzione migliore. Solo più tardi ho capito che avevo fatto un terribile errore e sono tornato a cercarti. Ho scoperto che Giuseppe aveva fondato un’azienda qui, a New York e sono andato da lui chiedendogli di poterti conoscere. Desideravo davvero farlo Damon. È stato lui a impedirmelo. Ha detto che stavi bene, che non dovevo intromettermi e che non avrei mai dovuto azzardarmi a mettere piede in casa vostra. Ho avuto paura, non volevo farti del male. Oggi venendo qui mi sarei accontentato di conoscerti, accertarmi che stessi davvero bene, senza sconvolgere il tuo equilibrio. Non avevo idea che tu sapessi di me.”
 
Ho smesso di ascoltarlo. Adesso la mia attenzione è tutta per Stefan, che sento vacillare al mio fianco. E lo so cosa sta pensando. Si sente in colpa per gli errori di suo padre, ancora una volta. Un uomo egoista, che per tutta la vita ha mentito alla donna che diceva di amare per paura di perderla. Ripenso a lei, a mia madre, che ha vissuto sempre nella menzogna, che è stata ingannata dalla sua stessa famiglia per convenienza. Però Stefan è una vittima quanto me, e adesso tocca a me sostenerlo.
 
“Mi dispiace, Damon.” mi dice con un filo di voce, le pupille ridotte a due punte di spillo annacquate dalle lacrime.
 
“Va tutto bene, Stef. Sta tranquillo. È tutto a posto.” lo rassicuro, staccandomi per un attimo da Elena, per stringergli una spalla con forza.
 
“Dimmi qualcosa Damon. Prendimi ancora a pugni se vuoi. Me lo merito.”
 
La voce di Will mi giunge alle spalle, costringendomi a voltarmi nella sua direzione. E per la prima volta non sento niente. Né rabbia, né pena, né schifo, né fastidio. Solo indifferenza e vuoto.
 
“Non ho più nulla da dirti. Sei un povero codardo e io non ho intenzione di perdere altro tempo con te. Stai già facendo i conti con la tua coscienza e questo mi basta.”
 
Proprio in quel momento la porta si spalanca e la sala si riempie di persone. La conferenza stampa è terminata. Stefan rimane immobile, ancora visibilmente scosso.
 
“Vieni Stef, usciamo un attimo.”
 
“Damon..”
 
Due voci mi stanno chiamando contemporaneamente, ma riesco a sentirne soltanto una. 
 
“Elena è tutto a posto, mi serve solo un minuto con mio fratello. Aspettami qui e dai una mano a Ric. “
 
La vedo annuire, poi varco la porta senza più voltarmi indietro.
 
***
 
“Complimenti Rebekah, è stato un incontro molto interessante. Pubblicherò sicuramente la notizia nel numero in uscita.”
 
Il mio capo rivolge un sorriso trionfale e assolutamente fasullo all’uomo che ha appena parlato, mentre io gli porgo il cappotto e una busta con la cartella stampa.
In questo momento sono sinceramente grata che i miei compiti si limitino a gesti puramente meccanici. Non ho la forza né la presenza di spirito per parlare con nessuno.
Dopo che Damon è uscito con Stefan, Will ha iniziato a farneticare, supplicandomi di stare vicino a suo figlio come lui non ha mai potuto fare.
La mia nota compassione per il prossimo deve essersi presa una vacanza: non sono nemmeno riuscita ad ascoltarlo. Mi sono semplicemente allontanata ignorandolo, alla ricerca di Ric, che quando ha saputo quello che è successo ha abbandonato la sala per cercare Damon e Stefan, facendo ritorno mezz’ora dopo.
Avrei voluto seguirlo, ma non me la sono sentita di interrompere un momento così delicato, così privato.
Una volta salutato l’ultimo giornalista Rebekah se ne va, non prima di avermi piazzato davanti il telefono di Damon con un sorrisetto sarcastico.
 
“Ci pensi tu a restituirglielo?”
 
Non sono caduta nella sua provocazione. Adesso sono sicura che c’è una spiegazione a tutto.
Se Damon mi ha chiesto di fidarmi di lui deve esserci un motivo. Voglio credergli, e mi aggrappo alle sue parole, a tutto quello che abbiamo vissuto insieme, con ogni parte di me.
Questa volta saprò aspettarlo, saprò ascoltarlo. E nel frattempo mi farò bastare i suoi sguardi di prima, quando quei pezzi di cielo che ha al posto degli occhi cercavano coraggio nei miei.
Mi affaccio alla grande vetrata che dà  sul cortile interno, ormai buio. Questa giornata infinita sta finalmente giungendo al termine.
La sagoma del palazzo getta un’ombra bluastra sulla coltre di neve immacolata che ricopre il piccolo spiazzo. Tutto sembra immobile, congelato e silenzioso, mentre cristalli candidi continuano a scendere dal cielo plumbeo, accumulandosi gli uni sugli altri, trovando ognuno il proprio posto. Allora respiro, mi lascio travolgere dalla serenità di questa immagine, sperando che riesca a calmare tutte le paure che si agitano dentro di me.
 
Quando entro nella sala per recuperare alcuni documenti ci trovo Damon, seduto di spalle proprio di fronte alla grande foto che lui stesso ha scattato. Mi prendo un attimo per osservare in silenzio la sua sagoma scura e immobile, prima di avvicinarmi e sedermi al suo fianco. Mi guarda per un secondo, per poi rivolgersi di nuovo all’immagine di fronte a noi.
 
“Ehi.” mormoro, quasi impaurita di distoglierlo dai suoi pensieri.
 
“Ehi.”
 
“Sembri…”
 
“Fammi indovinare. Affascinante? Bellissimo? Irresistibile?” scherza, con un lieve sorriso a sollevargli un angolo della bocca. Sorrido anche io. È sempre lui, con la sua capacità innata di sdrammatizzare anche i momenti pesanti come questo.
 
“Mmmh. Si anche. Ma stavo per dire tranquillo. Stefan sta bene?”
 
“Un po’ scosso ma gli passerà. È Stefan, è forte… Senti Elena, ho bisogno di parlarti. Riguardo a Rebekah. Non è successo niente, non so cosa ti abbia detto. Ci siamo presi un caffè insieme e nient’altro. Beh lei ha bevuto il caffè, io un bourbon. Ero incazzato nero. Forse un po’ ho voluto farti del male, almeno all’inizio, perché ero arrabbiato con te. Ma non ce l’avrei mai fatta ad andare fino in fondo e forse non era quello che voleva neanche lei. In realtà credo che le interessasse solo capire cosa c’è fra e me e te, per fartela pagare.”
 
Sospiro, e non so se sia più per il sollievo di sentire queste parole o per commiserazione verso me stessa. Quanto sono stata stupida? Mi sento colpevole mentre lo guardo, invece lui sembra rilassarsi. La sua calma innaturale mi provoca una strana sensazione di ansia, come se avessi paura di veder esplodere la sua rabbia da un momento all’altro.
 
“Scusami Damon. Non ti ho lasciato nemmeno il tempo di spiegarmi. Ero così gelosa, arrabbiata, dispiaciuta, che non ho capito più niente. Perdonami. A proposito, questo è tuo. Me l’ha dato lei.”
 
Gli allungo il cellulare. Lo prende e lo mette in tasca, però non lascia andare la mia mano. La trattiene fra le sue. Un gesto che mi scalda il cuore, anche se non scaccia del tutto la sottile inquietudine che continua ad agitarmi.
 
“Credevo di averlo perso. Me lo avrà fregato quando sono andato a pagare. Che stronza. Comunque, ora che l’inaugurazione è stata fatta, ho intenzione di tagliare i ponti con lei anche a livello lavorativo.” sbuffa con irritazione.
 
“Mi dispiace solo per la sua assistente sexy…” aggiunge poi, strizzandomi l’occhio.
 
“Non importa adesso… vorrei solo sapere come stai.”
 
I suoi occhi si posano di nuovo su di me. Così limpidi credo di non averli mai visti. E come sempre mi imprigionano, mi confondono. E mi mancavano tanto, come tutte le volte che non ce li ho addosso. Lo vedo alzarsi, camminare nervosamente avanti e indietro portandosi le mani alle tempie.
 
“Come sto? Non lo so Elena. Sai, per tutta la vita, ogni fottuto giorno da quando ho ricordo, mi sono sentito incompleto. Credevo che incontrare Will mi avrebbe riallacciato a quella parte di me che mi mancava, che mi faceva sentire solo. Poi ho capito che sbagliavo, che volevo andare avanti. E questo è successo quando sei arrivata tu.”
 
Sorrido alle sue spalle, e proprio adesso le lacrime che per tutto il giorno non ne volevano sapere di uscire, si affacciano tutte insieme appannandomi la vista. Cerco di parlare, ma lui mi blocca con un gesto brusco.
 
“Fammi finire Elena. Devo cercarla in me stesso, quella parte mancante. L’ho capito solo adesso. Altrimenti non smetterò mai di sentirmi… difettoso. Se ti usassi per riempire i miei vuoti, farei l’ennesima cazzata della mia vita. Non posso appoggiarmi a te solo perché mi fai sentire meglio. Come farei se poi tu andassi via, come è successo prima? Non so… mi sembra di aver sempre vissuto in funzione degli altri. Non so nemmeno cosa voglio fare della mia vita, faccio un lavoro che mi fa schifo solo perché volevo assecondare Giuseppe. Se ci penso… sono proprio un grandissimo coglione. Capisci quello che voglio dirti?”
 
Ho rotto definitivamente gli argini. Le lacrime mi bagnano le guance. Resto immobile guardandolo vagare davanti a me e mi rendo conto che se non parlo adesso non riuscirò mai più a dirgli quello che voglio. Quello che so.
 
“Certo che lo capisco. E ti starò vicino, non voglio andare via da te, perché io… mi sono innamorata di te, Damon.”
 
Mi avvicino a lui e porto le mani al suo viso, cercando i suoi grandi occhi sgranati e confusi, agitati come un mare in tempesta. Il suo sguardo sorpreso viaggia su di me. Sulle mie gambe scoperte, sulla scollatura della mia camicia, sulle mie labbra. Poi sento il suo respiro affannato sulla mia bocca e il suo odore così vicino che mi da alla testa. Le sue dita si aggrappano ai miei capelli e le sue labbra si incollano alle mie in un bacio pieno di passione, di voglia, di noi. E finalmente posso sentire di nuovo il suo sapore sulla lingua, i suoi denti che mi mordono con delicatezza, le sue mani che scivolano sotto la camicia e mi stringono, mi pretendono. Riesco a sentire bruciare le sue carezze fino al centro del mio corpo. Credo di non averlo mai baciato così prima di oggi. Allora perché è tutto così pieno di assenza? Perché sa tremendamente di addio?
 
*********
Zzzz zzz zzz… guardate che vi sento! State russando? Svegliaaaa è finito! :D
Scherzi a parte, perdonatemi se è tanto lungo questo capitolo e se è stato noioso (spero non eccessivamente). Non vi nascondo che ho fatto un po’ fatica a scriverlo, sia perché è pieno di dialoghi e avevo paura fosse monotono, sia perché mi ha provata un po’ emotivamente (Non ci crederete ma è proprio così!)… siate buone please, che lo sapete che sono nuova e inesperta!
Allora stavolta un po’ di spiegazione ci vuole.
Will alla fine non è il perfido che tutti ci aspettavamo, non per questo è meno colpevole. È un uomo talmente debole che Damon non ci prova neanche gusto a sfogarsi con lui. Il vero mostro è sempre Giuseppe.
Però l’incontro con Will e perfino la lite con Elena a causa di Rebekah, che si rivela essere tutta una montatura della bionda, fanno fare un passo decisivo a Damon. Ha capito che la soluzione dei suoi tormenti non verrà mai dall’esterno ma deve partire da lui. Insomma deve fare pace con sé stesso. Avete mai sentito dire che non puoi amare gli altri se prima non ami te stesso… ecco io ci credo parecchio in questa cosa.
Sicuramente gli incontri che si fanno possono innestare un cambiamento in noi, ma tutto deve venire prima da dentro, altrimenti è impossibile una vera condivisione con l’altro. Vabbè meglio che per oggi mi ritiri eh??!!
Prima una parolina per Elena, che è stata brava e alla fine ha deciso di dare un nome ai suoi sentimenti.
Ragazze spero che la storia continui a piacervi anche se a volte può risultare strana…riflette la personalità di chi la sta scrivendo :0) … vi annuncio inoltre che l’epilogo è abbastanza vicino (penso.. boh!).
Chi è arrivato sveglio fino a qui vince un premio! :D
Bacio
Chiara

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11
 
 
“…Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l'istantanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata. Se le sarebbe portate dietro per sempre. Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l'anima addormentata e ti semina dentro un'immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quand'è troppo tardi. E già sei, per sempre, un esule: a migliaia di chilometri da quell'immagine, da quel suono, da quell'odore. Alla deriva.”
 
Castelli di rabbia – A. Baricco
 
 
 
…Mi sono innamorata di te, Damon.
 
Ti sembra di sentirgliele pronunciare in continuazione quelle parole. È come se te le stesse urlando, forti e chiare, con quelle mani che si aggrappano a te, col suo corpo che trema sotto le tue carezze. Gliele leggi nelle lacrime, ancora imprigionate fra le sue lunghe ciglia.
 
È tutto sbagliato. Non avresti dovuto farlo Elena, non adesso.
 
Eppure non ce la fai a staccarti da lei, le rubi ancora un po’ di anima, gliela porti via dalle labbra.
Quando apri gli occhi non trovi le sue palpebre chiuse, ma il suo sguardo appassionato, e allora scopri che sa, che ha capito ogni singola parola del tuo discorso, fin troppo bene. Forse meglio di te.
E te lo chiedi un’altra volta. Che cazzo stai facendo.
 
 
Mi stacco lentamente da lei, sfioro le sue guance, sento ancora il suo respiro confondersi col mio.
 
“È finita, non è così?”
 
È lei a parlare, mentre io non so cosa dire. Posso solo annuire di fronte alla verità, impotente davanti ai suoi occhi che, al mio silenzio, annegano poco a poco in un mare di pianto, come sassolini sul fondo di un bicchiere.
 
“Prima ne ho parlato con Ric. Ho deciso di partire con lui dopodomani Elena, per la Siria. Lo ha ingaggiato un’agenzia, gli farò di nuovo da assistente e…”
 
“In Siria? Ma sei impazzito? C’è bisogno di andare dall’altra parte del mondo per non stare insieme a me? E poi hai deciso così, su due piedi…”
 
Indietreggia di un passo. La sua voce si altera lievemente, una lacrima le rotola lungo la guancia. La scaccia con un gesto secco della mano per tornare a rivolgermi il suo sguardo sorpreso e disorientato. Mi avvicino di nuovo, prendo le sue mani tra le mie. Lei mi lascia fare, inerme, senza smettere di fissarmi stravolta.
 
“Non è per te Elena. Sono io. È la verità, non prenderla come la solita frase di circostanza. Devo mettere una distanza fra me e tutto il resto per riuscire a vedere le cose nella giusta prospettiva. Voglio capire chi sono, altrimenti potrei offrirti solo un vuoto da riempire, e non è abbastanza.”
 
Non sei tu, sono io. Sei veramente uno stronzo Damon, una cosa del genere non si può sentire. Fa sembrare così banale quello che c’è stato, e non lo è. Non lo è affatto.
Solo che è così maledettamente strana la sensazione di perdita, di mancanza che sento. Come se avessi la certezza che sto lasciando andare via la persona più giusta che abbia mai incontrato. E in effetti è così.
Lei è giusta, lei è… semplicemente Elena. Sono io quello che non funziona fra noi due, e sarei solo un egoista a trattenerla. Per questo devo allontanarmi. I miei casini devo riuscire a risolverli per conto mio, senza coinvolgerla e senza lasciarmi abbagliare dalla sua luce. Ed è un cammino da fare in solitudine, se voglio avere veramente qualcosa da condividere con lei che non siano le mie insicurezze. Elena sospira tristemente, scuotendo la testa e abbassando le palpebre.
 
“Non ti sto chiedendo di cercare le tue risposte in me Damon, ma con me.”
 
“Non ce la faccio. Mi dispiace Elena. Ho una vita da riprendere in mano da zero. Mi sono sempre concentrato talmente tanto sul passato che adesso non riesco più a immaginarmi un futuro. Sono troppo confuso, mi manca una parte dentro che nemmeno tu puoi darmi. Finirei per appoggiarmi a te e sarebbe sbagliato. Lo capisci?”
 
“Credo di si. Solo che… in Siria. È pericoloso.”
 
“Fidati, andrà tutto bene. Te lo giuro.”
 
Le faccio questa promessa cercando di metterci tutta la sincerità che posso. Lei annuisce senza convinzione, visibilmente incredula e smarrita. La sento respirare a fondo prima di alzare gli occhi dalle nostre mani per puntarli dritti nei miei.
 
“Sarà meglio per te Damon, altrimenti salirò sul primo aereo e verrò a prenderti a calci.” sussurra, rivolgendomi un sorriso debolissimo, che le solleva appena un angolo della bocca, mentre il pianto sfugge nuovamente al suo controllo.
Non posso fare altro che avvicinarla a me e abbracciarla. La sento abbandonare il viso sulla mia spalla mentre con le dita si aggrappa al risvolto della mia giacca. La stringo fino a che non la sento calmarsi un po’.
 
“Quindi ci salutiamo qui, adesso.” mormora contro il mio petto.
 
Per una frazione di secondo passo in rassegna  le fotografie di Ric, che ci sovrastano, ci circondano e sembrano assistere mute e impotenti alla fine inevitabile di questa nostra strana storia.  
Elena solleva il viso, posa nuovamente gli occhi dentro i miei. Così gonfi e bagnati sembrano ancora più grandi del solito. La consapevolezza che la sto facendo soffrire mi causa una fitta di dispiacere che assomiglia a una coltellata nello stomaco. Un dolore che si mischia al biasimo verso me stesso. Se quella volta l’avessi lasciata perdere come avevo deciso fin dall’inizio, ora non si troverebbe in questa situazione.
 
“È un bel posto per dirsi addio, non trovi? Meglio qui che in uno stupido aeroporto. Sarebbe troppo scontato.” commento, facendo spallucce.
 
Le dita che fino a un attimo fa cercavano sostegno in me, mi abbandonano troppo presto. Le porta alla testa, spostandosi i capelli dietro le orecchie. Si aggiusta, si ricompone, si rimette in ordine.
Forse si sta già preparando ad allontanarsi da me. Senza pensarci la trattengo, facendo scivolare le mani lungo le sue braccia. Un gesto egoista, che mi dimostra una volta di più quanto lei mi renda debole e possessivo.
 
“Prima che tu te ne vada devo farti due raccomandazioni, Elena.”
 
“Oh andiamo Damon… non sono mica una bambina.” sbuffa, alzando gli occhi al cielo con disappunto.
 
“Tu ascolta.” rispondo, rivolgendole un sorriso a metà.
 
“Sentiamo.”
 
“Innanzitutto non farti mettere i piedi in testa, mai più. Tu sei in gamba, non sottovalutarti, non permettere a nessuno di schiacciarti o di portarti via i tuoi desideri. Sono la cosa più preziosa che hai. Me lo prometti?”
 
La sua espressione si addolcisce immediatamente e ancora una volta mi rivolge un sorriso appena accennato, ma sincero.
 
“Ci proverò. E la seconda?”
 
“Beh la seconda è…”
 
Magari, se ti riesce, aspettami. Dio, quanto vorrei chiedertelo, ma non posso. Sarebbe troppo egoista perfino per uno stronzo come me.
 
“…non ubriacarti alle feste. Là fuori è pieno di uomini che si approfitterebbero della situazione per saltarti addosso, o peggio per salvarti. E tu lo sai… lo sai come vanno a finire queste cose…”
 
“Ci starò attenta.”
 
Adesso mi sorride. Sorridiamo tutti e due, mentre lei si asciuga la guancia col dorso della mano.
 
“Non è paradossale? Ti ho appena detto che ti amo e tu mi hai lasciata. E adesso mi viene da ridere.”
 
Per tutta risposta inarco le sopracciglia, rifilandole un’espressione fintamente offesa che la fa solo ridere di più, illuminandosi come tutte le volte. Poi i suoi occhi si incatenano ai miei per un lunghissimo istante. Forse è proprio così che mi sta dicendo addio, con quello sguardo profondo e misterioso che mi ha legato a lei fin dalla prima volta che l’ho vista. E quell’immagine mi ritorna alla mente con prepotenza, come se potessi riviverla, lasciandomi la sensazione dolceamara che mi si è tatuata dentro e non potrò mai cancellarla, ovunque io vada.
 
“Suppongo che sia arrivato il momento di andarmene. Non è così Damon?”
 
Annuisco, mordendomi l’interno della guancia. “Buona fortuna, Elena. Scusa se ti ho fatta soffrire, spero che un giorno mi perdonerai.”
 
“Non hai niente da farti perdonare. Fai attenzione, ok?”
 
Le faccio sì, con un cenno del capo. E poi, tanto per aggiungere un’altra cazzata alla lista, invece di lasciarla andare la attiro a me e la bacio ancora, anche se lo so che non dovrei farlo. Ma mi manca il coraggio, per l’ennesima volta. Elena come al solito è più forte di me, mi prende le mani con dolcezza e le allontana dal suo viso. Mi guarda un’ultima volta prima di incamminarsi verso la porta della sala.
 
“Senti Elena...”
 
Quando la chiamo si volta subito verso di me, gli occhi pieni di una speranza che serve solo a illuderla un’altra volta e a far cadere me ancora un po’ più in basso.
 
“Parlando per assurdo, se un giorno tornassi dalla Siria e mi venisse voglia di un cheeseburger pesantissimo, potrei chiedere alla più esperta in materia di accompagnarmi?”
 
“Conosci la risposta. Non direi mai di no… a un cheeseburger, è ovvio.”
 
Poi sorride amaramente e si volta di nuovo, uscendo a passi incerti dalla mia vita.
 
***
 
“Sveglia Elena, è tardi…”
 
Sento la voce di Bonnie e la sua mano gentile che mi accarezza i capelli. Ci metto un po’ più del solito a sollevare le palpebre e quando lo faccio mi trovo davanti il sorriso comprensivo della mia amica, che siede sul bordo del letto e regge una tazza fumante fra le mani.
 
“Ti ho preparato il caffè. Hai dormito poco questa notte.”
 
Sarebbe più corretto dire che non ho dormito affatto. Ho preso sonno solo un paio d’ore fa.
Ieri sera, quando sono tornata, sono rimasta seduta sui gradini del palazzo per non so quanto tempo.
Mi sono accesa una sigaretta dopo l’altra, senza nemmeno rendermi conto dei minuti che passavano. Ero confusa, senza forze, completamente svuotata, come se un’onda si fosse portata via tutto quello che avevo dentro.
Quando sono salita in casa e ci ho trovato Bonnie, non sono riuscita a fare finta di niente e trattenere le  lacrime è diventato impossibile. Lei mi è stata vicina come sempre offrendomi il suo sostegno e la sua spalla su cui piangere.
Mi metto a sedere portandomi le ginocchia al petto e strofinandomi gli occhi, per poi afferrare la tazza dalle mani di Bonnie e prendere un piccolo sorso della bevanda calda, sperando che possa sortire un qualche effetto.
 
“Grazie. E scusami se ti ho monopolizzata con le mie paranoie. Sono un disastro.”
 
Per tutta risposta si alza e mi chiede di farle posto con un gesto della mano, per poi sedersi di nuovo accanto a me. E così ci ritroviamo vicine, a inseguire con lo sguardo il disegno geometrico sul piumone, senza dire nemmeno una parola per minuti.
 
“Cosa farò adesso Bonnie?”
 
“Starai di nuovo bene Elena, te lo prometto. Forse non subito, ma succederà. Sotto sotto pensi anche tu che Damon abbia ragione. Deve riuscire a rimettersi a fuoco. Ha subito troppe delusioni, troppe bugie e tu lo sai meglio di chiunque altro.”
 
“È solo che era appena cominciata e adesso… Ho paura che non riuscirò mai più a essere quella di prima.”
 
“E infatti è così Elena. Guardati. Sei diversa, sei cambiata. Prima respiravi soltanto, adesso sei viva. Sei di nuovo tu. Non pensi che ne sia valsa la pena, indipendentemente da tutto?”
 
“Penso proprio di si.”
 
“E allora cerca di essere forte. Lui vuole che il vostro rapporto sia basato su desideri reali, non sul bisogno di colmare le vostre reciproche necessità. Lasciagli il tempo che gli serve e se è destino, accadrà. Intanto concentrati sulla nuova te, non lasciarla scappare un’altra volta. Ti preferisco così, sai? E adesso vestiti, che fai tardi.”
 
Quando Bonnie esce dalla mia stanza riesco finalmente a scendere dal letto. Prima di vestirmi scosto la tenda che oscura la finestra e osservo la distesa di tetti ricoperti di neve che si confondono con il cielo grigio e pesante, insieme ai rivoli di vapore che si sollevano delle case ricoperte di mattoni rossi. Tutto è al suo posto, tutto è sempre uguale. Vorrei aggrapparmi a questa convinzione, a tutte le certezze di cui ho costantemente riempito la mia vita, per riuscire ad andare avanti. Ma adesso è troppo tardi. Sono ormai consapevole che una parte di me che dormiva sotto pelle è stata liberata per sempre, e niente sarà più come prima.
 
***
 
“Ciao Stefan. Buongiorno Barbie, dormito bene?”
 
Come quasi tutte le mattine, mio fratello e la biondina stanno già facendo colazione quando entro in cucina. Però oggi c’è qualcosa di diverso. Mentre Stefan mi saluta come al solito, forse solo lievemente più cupo, Caroline non mi accoglie con una delle sue solite battute al vetriolo. Mi rivolge invece uno sguardo comprensivo, oserei dire quasi dolce. Il che mi fa intuire che deve essere stata informata da mio fratello sull’ultimo capitolo dell’interminabile saga della mia esistenza, quello intitolato Will l’ameba.
 
“Grazie.” le dico, quando mi piazza sotto il naso la solita tazza di caffè.
 
“Non ringraziarmi, è avvelenato!” sbraita spalancando gli occhi e scuotendo i riccioli biondi, freschi di messa in piega. Poi incrocia le braccia sul petto e mi osserva dall’alto al basso con un’aria più nevrotica del solito, gli occhi ridotti a due fessure.
 
“Finalmente! Adesso ti riconosco, mi stavo preoccupando. Non farlo mai più biondina, hai capito?” scherzo, puntandole contro l’indice con finta disapprovazione.
 
“Fai meno lo spiritoso. Stefan mi ha detto tutto e mi dispiace per te, davvero. Ma so anche che hai lasciato Elena perché ti sei messo in testa di seguire il tuo amico in capo al mondo. Dico, ma sei fuori?”
 
“Scusa Damon. Caroline per cortesia.” interviene Stefan asciutto, senza sollevare gli occhi dal giornale che sta leggendo con tanto interesse. Probabilmente è troppo stanco per avere l’energia sufficiente a mettere a tacere la sua fidanzatina logorroica.
 
“No Stefan, fammi finire. Non è giusto che lui la illuda e poi la faccia soffrire in questo modo ok? Se conosco Elena adesso sarà disperata e…”
 
“Stalle vicino.” la interrompo. “Tu sei brava in questo, l’hai già aiutata una volta. E visto che ci sei, occupati anche di mio fratello. Affido tutto a te Barbie, vedi di non deludermi, ok?”
 
Le rivolgo un sorriso sghembo, che la lascia completamente senza parole, forse dalla prima volta da quando la conosco. Tutte le frecciatine che ha sempre in tasca pronte all’uso sembrano essersi volatilizzate. La sua espressione si fa di nuovo tenera e indulgente. Forse sotto quei capelli perfetti e i vestiti firmati, un cuore ce l’ha anche lei. Altrimenti non si spiegherebbe perché Stefan ed Elena l’adorino tanto.
 
“Ci tieni veramente a lei, non è così?”
 
Annuisco lievemente e per un breve istante i nostri occhi si incontrano, scambiandosi quello che sembrerebbe essere un cenno di intesa. Allora so che ha capito e che farà quello che le ho chiesto.
 
Quando Caroline ci lascia per andare al lavoro, rimango da solo con Stefan che finalmente si decide a piegare il giornale e metterlo da parte, per poi concentrare la sua attenzione su di me.
 
“Si dice che la notte porti consiglio Dam, ma  mi sembra di capire che questa volta non riuscirò a farti cambiare idea.”
 
“Dai Stef. Sii sincero. Come designer faccio schifo, e come fratello sono un disastro. Starai meglio senza di me.”
 
Mi rivolge un sorriso stanco e tirato. So che non ha intenzione di opporsi alla mia scelta, anche se gli dispiace. La giornata di ieri ha provato anche lui e sono convinto che staccarsi da me non potrà fargli che bene. Forse lo aiuterà a distrarsi, senza che la mia presenza gli ricordi tutto il tempo la mediocrità di suo padre. Vorrei che la smettesse di sentirsi in colpa per lui e riprendesse in mano le redini della sua vita, senza farsi ostacolare da me.
 
“E di Elena cosa mi dici?”
 
“Ha capito. Starà bene. Te l’ho già spiegato ieri sera Stef… Se restassi con lei non sarebbe giusto per nessuno dei due.”
 
“Ma tu la ami?”
 
Me lo chiede così, a bruciapelo. E in effetti non avrebbe nessun senso girarci intorno. Ci sono cose che si sentono, che si sanno ancora prima di rendersene conto.
È un pensiero che mi ha tenuto sveglio per gran parte della notte, quello che provo per Elena.
Senza dubbio all’inizio era solo un’attrazione, una stupida curiosità verso quella specie di forza che mi attirava verso di lei. Semplicemente mi piaceva, la volevo. Anche perché sentivo che averla non sarebbe stato così facile. Era una specie di sfida con me stesso. Ma fin da subito è subentrato dell’altro.
Forse è stato il modo in cui lei è riuscita a guarire il mio cuore senza nemmeno conoscere quello che lo agitava, la pazienza con cui mi ha insegnato a mostrarle le mie debolezze per poterle affrontare, fino ad arrivare ad oggi. Oggi che devo scappare dall’altra parte del mondo per non cedere al bisogno di vivere per lei.
 
“Dai Stef, che discorsi fai?”
 
“E glielo hai detto?”
 
“Detto cosa? Sei impazzito per caso? Non si può lasciare una persona e dirle che la ami. E poi, anche se fosse, glielo dirò solo se e quando sarò in grado di meritarmela.”
 
Stefan alza gli occhi al cielo, in un gesto pieno di frustrazione. Poi si porta le mani dietro la testa, rivolgendomi un’espressione che è insieme esasperata e incuriosita.
 
“Che hai da guardare adesso?”
 
“Niente. Pensavo solo che la vita è proprio strana. Tutti passiamo la nostra esistenza con l’ansia di scoprire la felicità che non abbiamo mai conosciuto, o ritrovare quella che abbiamo perso chissà dove. Però quando la stringiamo tra le mani, quella felicità, non siamo mai in grado di riconoscerla.”
 
***
 
Giro la chiave nella toppa, appoggiandomi per un attimo alla porta per riprendere fiato. Devo ammettere che oggi la vecchia me ha nettamente sconfitto la nuova Elena e la promessa fatta a Damon riguardo il non farmi mettere i piedi in testa è letteralmente andata a farsi benedire.
Forse ero semplicemente troppo stanca, addirittura troppo assonnata per rispondere alle frecciatine di Rebekah, che ha pensato bene di premiarmi per il successo della conferenza stampa di ieri con una bella lista di comunicati da preparare.
Gli argomenti sono come sempre i miei preferiti: una malta, una nuova lastra di cartongesso e per finire un rubinetto dalla forma avveniristica e improbabile, tanto per non annoiarmi.
E alla fine, dopo avermi fatto fotocopiare una per una le trecentosessantasette pagine della rassegna stampa della Steel Supplies, mi ha permesso di tornare a casa.
Quando apro la porta, mi trovo davanti i sorrisi di Bonnie e Caroline, che siedono attorno al tavolo sul quale è appoggiato un gigantesco cartone di pizza.
 
“Sorpresa! Sono sicura che quello che ti ci vuole è una bella serata tra ragazze e la fenomenale pizza formato famiglia di Grimaldi.”
 
Care si affretta a prendermi la borsa dalle mani e mi aiuta a togliere la giacca, tutta entusiasta. La lascio fare, concedendomi il lusso di farmi coccolare dalle mie amiche e dalle loro attenzioni.
Quando ci sediamo a mangiare però, mi ritrovo a combattere con l’istinto di chiederle notizie su Stefan. L’ultima volta che l’ho visto era talmente sconvolto che proprio non riesco a fare a meno di rivolgergli un pensiero.
 
“Sta abbastanza bene, Elena. Davvero. Stasera aveva una cena di lavoro, così ha lasciato Damon a casa a preparare i bagagli e…”
 
“Caroline!” irrompe Bonnie, con un tono pieno di rimprovero, lanciandole un’occhiata di fuoco. Per tutta risposta la bionda appoggia le posate sul tavolo e smette di masticare la sua pizza, rivolgendomi uno sguardo dispiaciuto e troppo azzurro perché lo possa sopportare.
 
“Scusami, io…”
 
“Non fa niente Care. Solo che adesso… mi sono ricordata che devo fare una cosa ragazze. Scusatemi, se avanza un po’ di pizza tenetemela in frigo.”
 
“Elena!” mi urlano in coro. Ma ormai è troppo tardi, ho già afferrato il cappotto e la borsa e mi sono precipitata giù per le scale salutandole frettolosamente e chiudendomi la porta alle spalle.
 
 
Venti minuti dopo mi trovo davanti alla porta di casa di Damon. Qui dove tutto è cominciato, in piedi sui gradini dove la prima volta ci siamo parlati veramente. Quella volta in cui l’ho sentito, una sensazione così forte e così intensa da farmi sbarazzare in un attimo di tutte le mie regole in favore del mio istinto.
Lo stesso istinto che questa sera mi ha riportata qui.
Quando apre la porta, me lo ritrovo davanti con un paio di pantaloni della tuta e una maglia stropicciata. Ha l’aria stralunata mentre con le mani regge una maglietta nera altrettanto sgualcita, che con ogni probabilità aveva intenzione di infilare in valigia.
 
“Ciao.”
 
“Ciao.”
 
“Senti Damon, scusa se sono piombata qui così all’improvviso, lo so, ci eravamo già salutati e non avrei dovuto farlo... solo che ero a casa con Bonnie e Care, e poi lei mi ha parlato di te. Cioè non proprio parlato, è stato più un accenno. E io non avevo fatto che pensarti per tutto il giorno, così non ci ho capito più niente. Così eccomi qui e… non lo so, mi sono detta che invece di pensarti e basta avrei voluto vederti, dato che domani partirai.”
 
La mia voce è un po’ incerta mentre gli rovescio addosso quel mare di parole che servono solo a confondermi di più, mentre lui mi scruta con il viso piegato da un lato. Sembra sorpreso, forse un po’ disorientato dal mio discorso senza capo né coda.
 
“Hai finito?”
 
“Beh sono un po’ a corto di parole adesso. Sarà perché prima ne ho dette troppe tutte insieme…”
 
Cerco di attingere dai miei pensieri, alla disperata ricerca di qualcosa di sensato da dire, ma non faccio in tempo a terminare la frase. Mi ha già preso la mano, attirandomi oltre la porta.
 
*********
Buonasera!
Inizio questa nota ringraziando Misiamis, Meiousetsuna e Muttima per le recensioni così piene di entusiasmo per lo scorso capitolo… io ero piena di dubbi e invece voi mi avete lasciato parole bellissime e incoraggianti… siete troppo carine e io vi adoro sempre di più.
Venendo a questo, l’idea originale era diversa, avevo in mente un capitolo più dinamico. Poi mi sono resa conto che mi ci volevano più parole del previsto per dare un peso e una dignità ai sentimenti di questi due e così ecco il risultato.  Spero mi perdonerete per questa parentesi di pippe mentali e discorsi che non aggiungono quasi nulla a quello che avevate già intuito. Parole che per me nonostante tutto hanno un peso, nel senso che tutto ciò che dicono i vari personaggi (per me) ha un senso. :)
Prometto che farò il possibile per postare presto il seguito dove succederà anche qualcosa, sempre nella speranza di non avervi annoiate troppo.
Grazie come sempre a chi arriva fino a qui!
Chiara

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12
 
I swapped my innocence for pride
Crushed the end within my stride
Said “I'm strong now I know that I'm a leaver"
I love the sound of you walking away
Mascara bleeds a blackened tear
And I am cold
Yes I'm cold
But not as cold as you are
I love the sound of you walking away
***
Ho barattato la mia innocenza con l’orgoglio
Ho annientato il confine entro il mio passo
Ho detto “Sono forte ora, so di essere uno che se ne va”
Amo il suono di quando te ne vai
Il mascara tinge di sangue una lacrima annerita
E io sono freddo
Sì io sono freddo
Ma non freddo quanto te
Amo il suono di quando te ne vai
 
Walk Away – Franz Ferdinand
 
 
“Non dovresti essere qui. Così rendi tutto più difficile.”
 
Me lo dice con rabbia, schiacciandomi col suo corpo contro la parete, una mano che mi tiene il polso sollevato accanto alla testa, l’altra che ha già oltrepassato la barriera del mio cappotto e mi stringe forte il fianco. So che basterebbe una parola e mi lascerebbe andare, ma la verità è che non voglio che lo faccia e non sembra volerlo veramente nemmeno lui. E poi non sono le sue mani a immobilizzarmi.
Sono i suoi occhi dentro i miei, la sua vicinanza. Perfino l’esitazione che percepisco in lui mi sta mandando fuori di testa. Più si dimostra indeciso, almeno a parole, più sono certa di volerlo e che in qualche modo strano e contorto anche lui voglia me.
Anche se sono consapevole che le mie intuizioni potrebbero essere completamente sbagliate, che le nostre reciproche incoerenze potrebbero portarci a farci ancora del male.
Una parte di me mi implora di fare attenzione, di smettere di illudermi che per qualche arcano motivo potrebbe decidere di non andarsene, di restare qui per me.
Ho paura di sbagliarmi, ma non abbastanza da rinunciare a lui. Perché adesso che sono qui sembra tutto così giusto, così intenso? È solo il prodotto della mia mente distorta?
 
“Non sono ancora pronta a lasciarmi tutto alle spalle. Non voglio che mi restino solo i rimpianti per le mie insicurezze, per le cose che avrei potuto dirti e non ti ho detto, per quello che avrei potuto fare e…”
 
“Scusa un attimo, sei sempre Elena giusto? Che fine ha fatto Miss tuttosottocontrollo?”
 
La sua bocca si piega in un sorriso ironico, mentre le sue dita sciolgono la presa sul mio polso per sfiorarmi delicatamente le labbra. Il suo tocco si riverbera fino al centro del mio corpo.
 
“E tu dove l’hai mandato Mr. nonpensareagisci?”
 
“Sta cercando di portarti rispetto, di mantenere almeno un briciolo di coerenza. E comunque, l’autocontrollo l’ho imparato dalla miglior maestra.”
 
“Sei un ottimo allievo. Sei diventato così riflessivo ultimamente… il problema è che pensi solo alle cose sbagliate.” gli rispondo con una smorfia sarcastica, picchiettandogli l’indice sulla tempia. Non riesco a trattenermi da aprire la mano sul suo viso, sfiorandogli lo zigomo col pollice per poi affondare le dita fra i suoi capelli. I suoi occhi diventano due liquide pozze celesti, sono così vicini che potrei annegarci dentro. È bello da mozzare il fiato. Lo vedo deglutire lentamente. Il suo profumo mi invade, mi riempie di vertigini.
 
“Sentiamo, cos’hai da dirmi?”
 
“Non te ne andare, Damon.”
 
“Ancora? Basta, dai ne abbiamo già parlato. Starai bene...”
 
“Continuate a ripetermelo tutti, ma non è vero. Non starò bene, per niente. E nemmeno tu.”
 
Alza gli occhi al cielo con un gesto spazientito, ma non si allontana, regalandomi una piccola speranza. E poi ormai ci sono dentro e gli dirò quello che devo, fino alla fine.
 
“Ascoltami, lo so che non è facile ricominciare daccapo dopo una vita di falsità. Sei in crisi, lo capisco, ma scappare non è la soluzione. Hai detto che non vuoi appoggiarti a me, io sono d’accordo. Non voglio ostacolarti, voglio che tu diventi esattamente la persona che vuoi essere. Farai il tuo percorso, indipendentemente da me. E io farò il mio.”
 
“Non è semplice, non so neanche da che parte cominciare. Più ti comporti in questo modo, più capisco che ho ragione. Non me lo merito, Elena.”
 
“È proprio questo il punto. Tu sei convinto di non meritartelo, così stai rovinando tutto. Continui a pensare di non essere abbastanza. Smettila.”
 
Il suo sguardo è esitante, ma anche se mi destabilizza faccio del mio meglio per sostenerlo, sperando con tutta me stessa di non sbagliarmi. Lo vedo avvicinarsi sempre di più, per poi spostarsi di lato.
 
“Dovrei mandarti via.” mormora al mio orecchio, la voce così calda da farmi vibrare dentro.
 
“Fallo, se ne sei così convinto. Dimmi che non te ne frega niente di me e mandami via.”
 
“Elena…”
 
La mia mente si annebbia di colpo. Non so darmi una spiegazione coerente, sento solo il bisogno di vivere questo momento al presente, prendendogli tutto, donandogli tutto, senza condizioni. O forse ho solo paura che mi respinga e non voglio lasciargli il tempo di farlo. Senza sapere con precisione cosa sto facendo, lo attiro a me e finalmente sento le sue labbra posarsi sulle mie,  senza più nessuna incertezza.
Mi godo la mia piccola vittoria, lasciando che la sua lingua mi schiuda la bocca con la stessa urgenza del nostro ultimo addio. Il suo bacio è lento ma finalmente deciso.
Sento il suo respiro che accelera, le sue mani su di me che mi sfilano rapidamente la giacca e scivolano dietro la mia schiena, sotto la maglia. E poi di nuovo la sua bocca sulla mandibola, sulla pelle sensibile dietro l’orecchio. Mi fa scorrere la lingua sul collo, sul seno, scende sulla pancia. Mi bacia lentamente, in una lunga agonia, si ferma al centro, vicino all’ombelico e mi sbottona i pantaloni, mentre io mi inarco sotto di lui e lo spingo più vicino a me, afferrandolo per i capelli.
Si alza di scatto e infila una mano sotto i miei jeans, stringendomi il sedere, mentre con l’altra mi solleva una gamba e mi spinge contro il muro col suo corpo, facendomi sentire la sua erezione che adesso mi preme sulla coscia. Quando infilo le mani nei suoi pantaloni e lo accarezzo lo sento gemere sulla mia bocca.
Non riesco a smettere di guardarlo, di cercare il suoi occhi che mi fanno sentire spogliata dentro.
Sento le sue dita esperte sfiorarmi la pancia e poi insinuarsi più in basso, sempre più vicino al mio inguine, sfiorando il tessuto dei miei slip per poi spostarli di lato. Mi tocca delicatamente, sfiora il mio centro con pollice e nello stesso tempo mi entra dentro con due dita. Sto ansimando, sono costretta ad aggrapparmi alle sue spalle per non cedere. Mi morde sul collo, forte, adesso devo chiudere gli occhi per forza.
 
“Damon sei in casa? Omioddio… Elena… scusate…”
 
La voce di Ric mi risveglia bruscamente. Quando mi volto verso di lui lo vedo girarsi frettolosamente di spalle, con una mano ancora sulla maniglia della porta e l’altra tra i capelli.
Damon si stacca subito da me. Mi sfugge una specie di lamento strozzato mentre alla velocità della luce mi abbasso la maglia e mi abbottono i jeans. Non oso neanche immaginare di che colore possa essere la mia faccia in questo momento.
 
“Tranquilli non ho visto niente, me ne vado subito…”
 
“Lascia stare Ric, Elena stava andando via.”
 
 
Due minuti dopo siamo fuori, seduti sui gradini. La figura da chiodi appena fatta con Ric, forse la più imbarazzante di tutta la mia vita, è già un ricordo sfumato. Damon non mi guarda, tiene gli occhi sulla strada, in silenzio. Non ho più il coraggio di dire una parola.
 
“È stato meglio così Elena, ce ne saremmo pentiti.” dice in un sospiro, continuando a fissare un punto indefinito davanti a sé.
 
“Perché dici così adesso?”
 
“Lo sai perché…”
 
“No, non lo so. Non hai ascoltato niente di quello che ti ho detto prima?”
 
Improvvisamente lo vedo voltarsi nella mia direzione. I suoi occhi rimangono immobili dentro ai miei per non so quanto tempo. Potrebbe essere uno dei nostri bizzarri dialoghi silenziosi, una delle tante volte in cui mi è sembrato che potesse parlarmi solo con lo sguardo. Sono sicura che lo stia facendo anche in questo preciso istante, ma stavolta c’è qualcosa di diverso. Non sono in grado di captare il suono dei suoi pensieri. Forse è solo l’ennesimo addio, che semplicemente mi rifiuto di ascoltare.
Tutto ciò che sento è di appartenergli, ed è un sentimento così dolce e così intenso da riuscire a ferirmi profondamente. Mi  manca l’aria, il cuore mi martella forte nel petto, come se con quegli occhi ci stesse scavando un buco dentro. Mi sento riempita e svuotata, a tal punto da non riuscire più ad accettare la sua presenza silenziosa accanto a me.
 
“Cosa mi stai dicendo Damon?”
 
“Come scusa?”
 
“Che vuol dire quella faccia?”
 
“Niente. Niente… vai a casa Elena. Non saresti dovuta venire, non fai altro che farti del male. Avrei preferito se avessimo tenuto buono quello che ci siamo detti ieri. Non è colpa tua, mi sono lasciato prendere la mano… Ho fatto una cazzata, un errore imperdonabile. Ma tu scusami se puoi.”
 
Si avvicina, mi lascia un bacio veloce fra i capelli.
 
“Addio Elena, sul serio questa volta. Non stare male per me, non ne vale veramente la pena.”
 
Poi si alza e se ne va in fretta, bruscamente, lasciandomi totalmente vuota. Ancora una volta.
 
***
 
Quando rientro in casa Ric è ancora in piedi sulla soglia. Mi guarda con aria incredula, sembra addirittura incazzato.
 
“Mi vuoi spiegare perché l’hai mandata a casa?”
 
“Beh, sorvolando sulla tua entrata in scena, tu cosa ne dici?” ribatto, spalancando gli occhi e rivolgendogli una smorfia ironica, mentre con la mano indico il mucchio di valigie accatastate accanto alla porta.
Scuote la testa sdegnato, accompagnando il gesto con un sospiro irritato.
 
“Continua pure a recitare la parte del martire Damon. Porta fino in fondo il tuo grande atto eroico e coraggioso. Vieni via con me e salva il mondo dalla tua presenza scomoda. Sappiamo entrambi la verità. Sei solo un codardo.”
 
Mi dà le spalle e si dirige verso il divano, per poi indicarlo con un dito rivolgendomi un’occhiata piuttosto eloquente.
 
“Tranquillo Ric, non ci siamo arrivati. Il tuo tempismo è eccezionale, ma stranamente questa volta mi sento di ringraziarti. Il problema è che non avrei neanche dovuto farla entrare in casa. Sono stato un debole, ancora una volta. E le ho fatto del male.”
 
“Sei proprio un idiota Damon” sbuffa, sprofondando finalmente fra i cuscini come al suo solito.
 
“Non ti seguo.” rispondo. Però mi avvicino a lui, mettendomi a sedere sul tavolino proprio lì davanti, seriamente intenzionato ad ascoltare la sua ennesima paternale e sentirmi dire anche da lui che razza di stronzo insensibile io sia. Forse poi mi sentirò perfino meglio.
Questa sera sono caduto talmente in basso che credo di averlo proprio toccato quel cazzo di fondo. Mi sono lasciato destabilizzare dai discorsi di Elena e per un attimo ho pensato che si, avrei potuto ricominciare da lei. Mi sono detto, chissenefrega se non sai chi sei, se vivi con il freno a mano tirato, se non respiri. C’è lei che crede in te, che ti vuole anche così. Elena è il tuo spazio di libertà.
Ric solleva gli occhi pigramente sul mio viso, l’espressione delusa quasi quanto la mia.
 
“Ti devo fare lo spelling per caso? Sei un c o d a r d o. Sei un disastro nelle relazioni. Finché si tratta di portarti a letto la bionda di turno tutto ok, sei il paladino dell’attimo fuggente. Ma i sentimenti quelli no, non li sai gestire. Sei spaventato da quello che provi per Elena, hai il terrore investire in un futuro con lei. Hai paura di perderla, così come hai perso tua madre, così come hai perso Kath…”
 
“Non nominarla neanche.” lo interrompo, puntandogli contro l’indice.
 
“Ok, non la nomino, come vuoi.” risponde ironico, alzando le mani in segno di resa. “Ora, capisco che l’eventualità di rimetterti in gioco possa destabilizzarti un po’, ma se non lo fai sarai condannato a una vita mediocre. Non pensi che lei abbia le tue stesse paure? Ce le abbiamo tutti. Ma se non rischi stavolta non lo farai mai più. Mi rifiuto di credere che tu sia così arido, così egocentrico da mettere le tue insicurezze davanti alla tua felicità. Invece di viverla, come ti meriti.”
 
“Avanti con questa storia dei meriti… Ric, non funziona. Non voglio aver bisogno di lei. Non voglio più aver bisogno di nessuno.”
 
Sembra esterrefatto dalle mie parole. Si porta le mani al viso e si massaggia le tempie con gli occhi chiusi, accompagnando il gesto con un lungo sospiro.
 
“Cazzo Damon, quanto sei coglione. Fatti le domande giuste una buona volta…”
 
“Cioè?”
 
“Magari hai bisogno di lei perché la ami. È diverso. Non so come ci sia riuscita, ma ormai è chiaro. Puoi anche smettere di far finta che non sia così…”
 
Rimaniamo in silenzio per un po’. Lui osserva il soffitto con l’espressione più calma di questo mondo, io mi concentro sulla trama regolare del parquet sotto i miei piedi. Alla fine sollevo gli occhi su di lui, cerco il suo sguardo.
 
“Certo che è così... Ma a parte questo dettaglio, non ho idea di cosa fare del resto della mia vita. Non voglio stare con lei perché mi fa stare meglio e vivere con la paura di perderla. Voglio stare bene, bene e basta.”
 
***
 
Viaggiare in metropolitana non mi è mai dispiaciuto più di tanto. Certo, alcune mattine arrivare a Manhattan da Brooklyn è un vero e proprio viaggio della speranza. I vagoni sono carichi di gente, uno spaccato variegato e variopinto della popolazione newyorkese. Che poi, a dirla tutta, solo in pochi sono nati qui. Moltissimi ci sono arrivati in cerca di una svolta, inseguendo un sogno, e io faccio parte di quest’ultima categoria.
Osservo il ragazzo di colore seduto accanto a me, la testa sprofondata nel cappuccio del giubbotto pesante e troppo largo, le cuffie nelle orecchie che sparano musica a tutto volume. Contrariamente al solito, non mi dispiace nemmeno questo. Quei suoni mi fanno compagnia e oggi ne ho veramente bisogno. Oggi che non riesco a non pensare ai miei genitori, entrambi, ma soprattutto a mia madre. Vorrei che fosse qui con me, anche solo per abbracciarmi.
 
Quando sono morti non sono riuscita ad elaborare subito la loro assenza. Rincasando la sera avevo sempre la strana sensazione che li avrei trovati lì ad aspettarmi. Immaginavo mia madre indaffarata ai fornelli, mi sembrava di poter scorgere la sagoma di mio padre seduto sul divano a leggere il giornale. Ogni volta dovevo fermarmi un attimo per riuscire a distaccarmi dalle mie illusioni, eppure continuavo a restare incredula. Mi rifiutavo di accettare quello che era successo, e tutte le volte era un piccolo graffio, una ferita in più che sanguinava goccia dopo goccia, accumulandosi a tutte le altre.
 
La vera e propria sensazione di perdita l’ho avvertita solo qualche mese dopo. È stato allora che ho capito. Ho capito che, se mai un giorno mi sposerò, mio padre non ci sarà per accompagnarmi all’altare. Se avrò un figlio, mia madre non sarà lì per consigliarmi cosa dargli da mangiare, o quante ore farlo dormire.
Sarà sempre così, percepirò la loro assenza in ogni gesto, in ogni respiro.
 
Questa nuova, amara certezza mi ha fatto male, molto più di quanto fossi in grado di sopportare.
Ma ciò che mi ha ferita ancora più profondamente è stato il rendermi conto che ho sempre dato per scontata la presenza dei miei genitori nella mia vita. Una consapevolezza che è arrivata con lentezza esasperante, ma che alla fine mi ha riempito il cuore con una potenza tale da devastarmi.
 
Quante volte avrei potuto dire grazie a mia madre per le sue attenzioni, per i suoi gesti affettuosi, per le sue carezze che a volte preferivo scansare, spinta dalla mia voglia di sentirmi grande. Quante volte mi sono scontrata con mio padre per banalità, per poi tenergli il muso per giorni interi. Quanto tempo sprecato.
Ma me ne sono accorta troppo tardi. Ed è per questo che, a dispetto di tutto, non sono pentita di essere andata da Damon ieri sera, di aver tentato fino all’ultimo, di non essermi lasciata sconfiggere dalle mie paure. Non mi pento di quello che provo per lui e non lo farò mai, nonostante tutto.
E non mi pento nemmeno di ciò che è successo poco fa.
 
Un’ora prima
 
“Elena vieni nel mio ufficio. Devo parlarti.”
 
Rebekah con il suo solito piglio autoritario, passa come una folata di vento davanti alla mia postazione, reggendo una pila di fogli e rivolgendomi un’occhiata glaciale.
Mi alzo con un gesto automatico, la testa piena e il cuore pesante. Qualsiasi cosa abbia da dirmi, non potrà peggiorare la giornata penosa che sto vivendo.
Una volta dentro la scatola di vetro, mi chiudo la porta alle spalle e la osservo accomodarsi dietro la sua bella scrivania, alzando il mento nella mia direzione con aria di sfida.
 
“Elena oggi hai un’aria particolarmente afflitta. Non mi sembra il caso che ti ricordi che i problemi personali devono stare fuori dall’ambiente lavorativo. Fa che non succeda mai che qualche cliente si lamenti della tua scortesia o dei tuoi musi lunghi. Mi hai capita?”
 
Il suo sorrisetto ironico mi fa intendere che l’idea che io abbia dei problemi personali da risolvere le procuri una discreta soddisfazione. La cosa mi lascia comunque indifferente, perciò decido di non cedere alla sua provocazione.
 
“Non succederà. Mi hai chiamata qui solo per questo?”
 
“No. Volevo annunciarti che ci sarà una riorganizzazione delle mansioni all’interno dell’ufficio. I clienti sono parecchi e ho bisogno di qualcuno che si occupi della pianificazione dei contatti e del monitoraggio delle rassegne stampa. Quindi ti informo che da questo momento tu non comunicherai più direttamente con i nostri clienti. Sarai impegnata su altri fronti.”
 
Per un momento rimango spiazzata. La guardo in viso senza fiatare, in attesa di una spiegazione.
Lei rimane in silenzio, si limita a ricambiare il mio sguardo con un sorriso provocatorio, che tuttavia non riesce a scuotermi. La sua mania di pungolarmi non produce più alcun effetto su di me, tantomeno oggi. Tutta la mia attenzione è concentrata sul grande orologio da parete oltre le sue spalle.
Sono le 18.30. Fra mezz’ora Damon partirà, e, adesso lo so, non ci sarà nessun ripensamento.
Lo conosco da così poco tempo, eppure gli ho rovesciato dentro talmente tanta anima, così tanto di me stessa, che il pensiero di perderlo mi paralizza, ancora una volta, facendo passare tutto il resto in secondo piano.
 
“Non capisco Rebekah. Cosa dovrei fare d’ora in poi?”
 
“Gestirai l’archivio, sistemerai i nostri file. È tutto da rivedere, ci sono contatti vecchissimi che vanno assolutamente aggiornati. È un compito delicato sai, molto certosino. E tu sei così precisa che ho pensato, chi meglio di Elena potrebbe fare questo lavoro! E poi, certo, continuerai a scrivere i testi. Te la cavi molto bene come copy.”
 
“Va bene. Farò quello che dici. Se è questo quello di cui hai bisogno, non c’è nessun problema.”
 
Non riesco nemmeno a riconoscere la mia voce, così piatta e inespressiva. E chissenefrega se oggi ha deciso di umiliarmi un po’ anche lei. Al peggio non c’è mai fine, lo so bene. Ma non ho la forza di ribellarmi, non ce la faccio. Piego la testa da un lato, le rivolgo un sorriso falso e vuoto.
 
“Molto bene. A volte sai essere assertiva, mi ricordi perché ho deciso di assumerti. Adesso puoi andare.”
 
Faccio un passo indietro, afferro la maniglia e mi preparo a uscire, più leggera di quando sono entrata. Un altro pezzetto della mia dignità mi ha abbandonata per sempre. Non faccio in tempo a mettere piede fuori che la sento richiamarmi un’altra volta.
 
“Ah… Elena, vai a prendermi un caffè e già che ci sei passa in tintoria a ritirare il mio cappotto. Ti ricordi, quello che ti ho fatto portare a lavare la settimana scorsa. Mi serve questa sera.”
 
E non lo so cosa mi prende e perché, ma dalla bocca mi esce un secco, involontario ma deciso NO.
Rebekah mi guarda sbigottita per un attimo, ma un secondo dopo recupera il suo aplomb e torna a rivolgermi la sua espressione strafottente.
 
“Come scusa?”
 
“Hai sentito bene. No. E no, non ho intenzione di sprecare la mia vita a depennare i giornalisti morti dal tuo file, o a scrivere pagine e pagine di cazzate su quegli stupidi sacchetti di malta. Mi licenzio. Ho chiuso con le umiliazioni per tutta la vita, ne ho abbastanza.”
 
Respiro a fondo, il cuore mi batte forte, ma ora che vedo scomparire quell’aria compiaciuta dalla sua faccia mi sento la donna più potente di questo mondo. Rebekah si ricompone subito, forte di anni di esperienza nel mondo delle PR che senz’altro le hanno insegnato a far buon viso a cattivo gioco anche nelle situazioni più critiche.
 
“Elena, come fai ad essere così stupida. Ho capito sai, ma devo ammettere che ti facevo più furba. Se è per la storia di Damon che ti licenzi…”
 
“Non è per quello Rebekah. Non c’entra assolutamente niente. Me ne vado perché questo lavoro non mi aiuta a diventare la persona che voglio essere. Quindi grazie per l’opportunità, ma la risposta è no. E ora se non ti dispiace vado a prendere le mie cose. Ah, i giorni di preavviso scalali pure dalle ferie che non ho mai fatto. Ciao.”
 
***
 
L’orologio segna le sette di sera. Come tutte le volte che salgo su un aereo e mi siedo al posto assegnato, faccio ruotare il gancio che tiene sollevato il tavolino di fronte a me. Ric mi prende sempre in giro per questo rito scaramantico, sostenendo che la visione ripetuta di Final Destination mi abbia bruciato qualche neurone. Stavolta lo faccio apposta, sperando che arrivi presto una sua battuta ironica a stemperare la tensione di questo momento. Ric però non dice niente. Mi sta guardando, in silenzio.
 
“Dì un po’, perché siamo ancora qui se disapprovi tutte le mie scelte?” gli chiedo all’improvviso.
 
“Che vuoi che ti dica Damon, ho un debole per le cause perse. Scherzi a parte, è questo che fanno gli amici. Posso non essere d’accordo con le tue idee contorte, ma difenderò sempre il tuo diritto di esprimerle. Spero solo che questa volta tu non debba pentirtene.”
 
Già, speriamo. Riesco solo a pensare a questo mentre osservo la pista scura fuori dal finestrino, illuminata dalle piccole luci dell’aeroporto e punteggiata dai giubbotti catarifrangenti degli inservienti che stanno caricando i bagagli in stiva. Sto rischiando tanto, sto rischiando tutto, ma non posso tornare indietro. In testa mi girano mille pensieri sconnessi: Stefan, mia madre, Giuseppe, perfino Will. E poi Elena. Tiro fuori il portafoglio dalla tasca dei jeans, lo rigiro tra le mani. Mi manca anche solo la forza per poterlo aprire e ritrovarci dentro il suo sguardo. La voce impostata dell’hostess ci invita ad allacciarci le cinture. Sprofondo nel sedile, chiudo gli occhi, respiro a fondo, e mi preparo ad accogliere il pensiero che forse non la rivedrò mai più.
 
*********
Cosa posso dire? Sorry but I’m not sorry… :)
Ciao.
Ci ho pensato un po’ e questo è il risultato. Ho bisogno di ancora un po’ di tempo, e anche Damon. Per aiutarvi a non odiarlo troppo, vi faccio un piccolo riepilogo delle sue sfighe: a) madre amorevole ma prematuramente scomparsa b) padre adottivo violento c) padre biologico smidollato d) Katherine, la donna che amava non corrisposto e che lo ha lasciato per sposare un altro.
Capitelo, per favore. Io l’ho fatto. Ci rivediamo su questi schemi appena riesco.
Grazie come sempre a chi ha avuto la pazienza di leggere, un bacione e buon week end.
Chiara

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13
 
A lovestruck Romeo sings the streets a serenade
Laying everybody low with a lovesong that he made
Finds a streetlight steps out of the shade
Says something like you and me babe how about it?
 
Juliet says hey it's Romeo you nearly gimme a heart attack
He's underneath the window she's singing hey my boyfriend's back
You shouldn't come around here singing up at people like that
Anyway what you gonna do about it?
 
Juliet the dice were loaded from the start
And I bet and you exploded in my heart
And I forget the movie song
When you gonna realize it was just that the time was wrong Juliet?
 
Come up on different streets they both were streets of shame
Both dirty both mean yes and the dream was just the same
And I dreamed your dream for you and your dream is real…
***
Un Romeo pazzo d'amore canta una serenata dalla strada
Lasciando tutti tristi per la canzone d'amore che ha scritto
trova la luce giusta nella strada qualche passo fuori dall'ombra
dice qualcosa del tipo "Tu ed io, piccola, che ne dici?"
 
Giulietta dice "oh, sei Romeo, per poco non mi fai venire un infarto"
lui è sotto la finestra lei sta cantando "il mio ragazzo è tornato"
Non dovresti gironzolare qui cantando ad alta voce alle persone in questo modo
comunque che ci vuoi fare?
 
Giulietta, i dadi sono stati truccati dall'inizio
io ho scommesso e tu sei esplosa nel mio petto
e io dimentico, dimentico la canzone del film
Quando ti renderai conto che fu solo il momento ad essere sbagliato?
 
Arrivati da strade diverse furono entrambe strade di vergogna
entrambe sporche, entrambe meschine e il sogno era lo stesso
ho sognato il tuo sogno per te e adesso il sogno è realtà…
 
Romeo & Juliet – Dire Straits
 
 
“…Sing me to sleep, sing me to sleep, I don’t want to wake up on my own anymore…”*
 
Come ogni giorno la sveglia preimpostata sul mio telefono mi strappa dal sonno.
Allungo pigramente un braccio da sotto le coperte, afferro il rettangolo lampeggiante e faccio scivolare automaticamente il dito sulla scritta in basso, per poi aprire faticosamente gli occhi e controllare l’ora.
Sono solo le sette del mattino, ho dormito si e no un’ora e sono un’idiota.
Perché stamattina non ho nessun posto dove andare, non ho nessuno ad aspettarmi.
Oggi è il primo giorno della mia nuova vita da donna sola e disoccupata e non ho un bel niente da fare.
Mi rigiro fra le coperte, sbatto le palpebre un paio di volte per ritrovarmi nel buio quasi totale della mia stanza. Solo un debolissimo raggio di luce bianca penetra dalle imposte socchiuse. Mi godo il tepore del mio letto ancora per qualche istante, quasi spaventata dall’idea di uscire dal mio bozzolo sicuro e iniziare questa nuova giornata.
Poi però quella piccola luce mi richiama, mi invita, mi impone di essere coraggiosa anche oggi, soprattutto oggi.
Scivolo fuori dalle coperte e mi affretto a indossare il maglione pesante abbandonato sulla sedia: qui dentro si gela. Quando apro la finestra, mi ritrovo di fronte uno spettacolo surreale.
Ieri sera quando sono rientrata a casa aveva iniziato a nevicare forte e a quanto pare la tormenta è proseguita per tutta la notte. Tutto ciò che vedo è bianco, a perdita d’occhio. Non riesco quasi a distinguere dove finiscono i palazzi e dove inizia il cielo. Apro la finestra, mi lascio invadere dall’aria fresca, inspiro piano.
Qualcosa mi fa pizzicare gli occhi. Forse è solo la brezza gelida che mi sferza il viso. Allora richiudo i vetri e mi stropiccio la faccia, decidendo che è il momento  giusto per una bella tazza di caffè.
Prima di uscire dalla stanza getto un’occhiata al comodino, dove ieri sera ho lasciato il mio taccuino blu dopo averlo riletto, una pagina alla volta. Cercavo un modo per riuscire ad addormentarmi e ho ottenuto esattamente l’effetto contrario. Lo riprendo tra le mani e sposto il segnalibro, una vecchia cartolina sgualcita, su una pagina bianca.
 
Quando entro in cucina ci trovo Bonnie con la testa infilata in uno scatolone. Il nostro piccolo tavolo da pranzo è ricoperto da pacchi mezzi aperti e fili di lucine ingarbugliati. Per terra giace un abete sintetico tenuto insieme da uno spago allacciato alla bell’e meglio .
 
“Cosa diavolo stai facendo Bon?”
 
La mia amica riemerge dalla scatola sventolando un puntale dorato con aria trionfante e mi rivolge un’occhiata sbieca.
 
“Non si vede Lena? Faccio l’albero di Natale!”
 
“E hai pensato bene di farlo alle sette del mattino… bella trovata! Ti sei dimenticata che fra un’ora devi essere al lavoro?”
 
“Oggi mi sono presa il giorno libero per stare un po’ con te…” risponde con uno sguardo tenero, abbandonando per un attimo i decori per versare una generosa dose di caffè nella mia tazza preferita, quella con la scritta Don’t worry be happy, che ho comprato al CBS Store in centro a Manhattan.
 
Prendo la tazza dalle sue mani rivolgendole un sorriso timido che vorrebbe essere un grazie e mi accoccolo su una sedia per gustarmelo in pace. La vita di una sfaccendata può avere dei risvolti estremamente positivi, lo confesso.
 
“Non stare troppo comoda Elena, ho bisogno del tuo aiuto per rimettere in sesto l’albero. L’ho preso di seconda mano al mercatino delle pulci di Hell’s Kitcken. Forse è un po’ sgangherato ma con le mie decorazioni sembrerà come nuovo!” esclama entusiasta, mimandomi il segno della vittoria con le dita.
 
Immergo la mano in un sacchetto di plastica e ne estraggo un mucchietto argentato di capelli d’angelo aggrovigliati.
Quanto li odio! Anche zia Jenna ha il pessimo vizio di appiccicarne una vagonata all’albero facendolo assomigliare a un salice piangente versione Febbre del Sabato Sera.
Rivolgo uno sguardo scettico alla mia amica, ma subito dopo poso la tazza e mi siedo per terra accanto al triste abete finto, cercando di ridargli un po’ di vita.
 
“Allora cosa pensi di fare?” mi chiede, accucciandosi accanto a me per darmi una mano.
 
“Non lo so proprio Bon. Penso che almeno per oggi mi godrò la mia ritrovata libertà con un po’ sano, vecchio ozio. Magari più tardi farò una passeggiata… Niente programmi precisi, almeno stamattina.”
 
“La mia domanda era più generale… Voglio dire, hai intenzione di cercarti una nuova occupazione nel ramo PR o…”
 
“Pensavo di comprarmi un caschetto e un martello e cercare lavoro come manovale. Ormai ho una certa esperienza nel settore, credo non avrei difficoltà… Scherzi a parte, direi di no. Basta con le PR. Ci rifletto da un po’ e non credo sia ciò che mi si addice di più. È strano, è il sogno che coltivavo da tutta una vita. Comunque, per cominciare penso mi accontenterò di un lavoro qualsiasi, ma vorrei riuscire a trovare qualcosa nel ramo dell’editoria. In fin dei conti non tutto il male viene per nuocere. Alla Mikaelson ho scoperto che tutto sommato scrivere mi piace, ma vorrei cambiare tema.”
 
“Buona idea. Potresti fare concorrenza a Care e i suoi articoli sul trucco e le tendenze di stagione…”
 
“Ma mi ci vedi? Non ci capisco niente di moda. Scherzi a parte, speriamo bene o ti dovrai trovare una nuova coinquilina mentre io tornerò a Mystic Falls a fare la cameriera nel ristorante di mia zia. Come quando avevamo sedici anni, ti ricordi?”
 
“Mi ricordo, sì, soprattutto quella volta che hai rovesciato un calice di vino rosso nella borsa di pitone della signora Evans… Scusa se te lo dico Elena, ma eri un vero disastro.”
 
Caspita, se ci penso riesco ancora a visualizzare chiaramente la faccia incazzata di Jenna. A quel pensiero mi sfugge una risata, a cui fa subito eco quella di Bonnie. Poi però la scopro a guardarmi con un’espressione strana, che non riesco bene a indovinare.
 
“Sono fiera di te Lena. Vai avanti tu qui, io vado a prendere le palline e... altra roba. Colore, ci vuole un po’ di colore.”
 
Poi si alza e inizia a trafficare con uno scatolone. Io riprendo a separare e districare i rami di plastica, non prima di aver lanciato un’occhiata distratta all’orologio del forno, perdendomi nei miei calcoli mentali.
 
Quante ore serviranno per volare dall’altra parte del mondo?
 
 
 
Dopo aver realizzato quella che Bonnie ha definito una rivisitazione postmoderna del classico abete natalizio, l’ho salutata e sono uscita per la passeggiata solitaria che avevo deciso di concedermi.
Non nevica più ma arrivare alla fermata di Clark Street è stata una vera impresa. I marciapiedi sono ancora carichi di neve, che in molti punti si è già trasformata in una poltiglia acquosa e grigiastra.
 
Dato che ho deciso di andare a Battery Park e il tratto in metro è abbastanza lungo, mi siedo e tiro fuori l’iPod dalla tasca del cappotto. Ho sempre avuto un rapporto particolare con questo oggetto. Certe mattine mi preparavo apposta la playlist, magari solo tre o quattro brani, da ascoltare a ripetizione per tutto il tragitto fino all’ufficio. Poi, con l’andare del tempo, ho perso l’abitudine di usarlo, preferendo utilizzare il tempo a disposizione per correggere le bozze o leggere qualche entusiasmante depliant.
Ultimamente preferisco lasciarlo andare a random. È davvero molto strano ma, salvo qualche eccezione, lui è sempre in grado di pescare la canzone perfetta per il mio umore.
Stamattina mi sento fragile e ho quasi paura ad affidarmi al mio iPod, però dopo un po’ di esitazioni premo il pulsantino shuffle. Riconosco immediatamente le note dei Pearl Jam, e lancio subito uno sguardo rabbioso al quadratino verde prima di rimettermelo in tasca e appoggiarmi ad occhi chiusi contro il finestrino lasciandomi trasportare dalla musica, come sempre.
 
“I changed by not changing at all, small town predicts my fate
perhaps that's what no one wants to see
I just want to scream… hello...
my god it’s been so long, never dreamed you'd return
but now here you are, and here I am
hearts and thoughts they fade...away...”**
 
 
 
Battery Park non ha nulla di eccezionale, ma a me è sempre piaciuto. È un posto fantastico per guardare il mare, tranne per i turisti che lo affollano e fanno la fila per prendere il traghetto per Ellis Island.
Oggi però fa talmente freddo che non c’è quasi nessuno.
Scosto un po’ di neve da una panchina e mi siedo in alto, sulla spalliera. Da qui posso vedere bene il profilo della Statua della Libertà, una piccola sagoma verde immersa tra le nuvole. Così ben piantata a terra, lo sguardo fiero puntato all’orizzonte, mi ricorda un po’ me stessa fino a poco tempo fa.
Oggi però la mia libertà la voglio immaginare diversamente.
Come una piuma che ondeggia nell’aria e si appoggia su un ramo per godersi un raggio di sole.
E poi, in una giornata di pioggia, un’improvvisa folata di vento la porta via con sé… ma non fa niente. Potrebbe essere un bel volo.
 
Estraggo una Marlboro dal pacchetto appena comprato e la accendo, coprendola con la mano dall’aria gelida che mi sferza il viso.
 
…Dovresti smettere di fumare Elena…
 
Sti cazzi.
 
Una mattina mi sono perfino ritrovata sul comodino lo stupidissimo libro del terapista del fumo, quello che ha fatto soldi a palate liberando la gente dal tabagismo. Decido che quella roba inutile finirà dritta nel cestino appena tornerò a casa, non va bene neanche come fermaporte.
Io ho sempre amato le mie pause sigaretta. Magari non tantissime, tre al giorno ma nei momenti giusti.
Me lo vuoi spiegare perché hai voluto rovinarmi anche quelle, che adesso invece di pensare ai fatti miei mi vieni in mente tu? Lo squillo provvidenziale del telefono mi salva dai miei stessi pensieri.
 
“Ciao Care.”
 
“Buongiorno Elena, come va oggi?”
 
“Insomma, tutto sommato direi bene. Tu? Sei in redazione?”
 
“Mmmh no… Sono fuori per presentazioni. Ti va se ci vediamo per un caffè da Matt?”
 
“Non so Care non sono proprio di strada.”
 
“Dai, facciamo due chiacchiere.”
 
“Ok ma dammi un quarto d’ora.”
 
 
 
Quando arrivo al bar di Matt quasi vengo investita sulla porta da April, la stagista assunta da Rebekah un paio di settimane fa per il monitoraggio dei siti web. Sembra trafelata mentre con una mano regge un sacchetto di carta, e con l’altra un vassoietto con quattro bicchieri di caffè.
 
“Ciao April, ti serve una mano?”
 
“Oh… Elena. Magari. Rebekah si è messa in testa la malsana idea di darmi il tuo posto. Oddio! Mi sento male, mi ha scaricato sulla scrivania una montagna di carta e non so nemmeno da che parte cominciare. E poi le telefonate… porcamiserialetelefonateelena. Praticamente vuole che chiami l’intero elenco telefonico di Manhattan e periferia entro questa sera e io… io…”
 
“April…” la interrompo, prendendola per le spalle e scuotendola leggermente, cercando la sua attenzione. Dopo un attimo di smarrimento mi guarda con un’espressione confusa, che purtroppo riconosco.
 
“Ascoltami bene, mi capita raramente di dirlo ad altre persone oltre a me, ma tu… ti devi dare una calmata. Sei in gamba, coraggio. Provaci e se poi scoprirai che non fa per te… sai come si dice. Si chiude una porta, si apre un portone. Abbi un po’ di fiducia in  te stessa e andrà tutto bene, ok?”
 
Lei mi guarda per un attimo con gli occhi sbarrati, scuotendo la testa su e giù in segno di approvazione, quasi come se il gesto fosse scollegato dalla sua volontà.
Sembra terrorizzata, credo che le mie parole non abbiano sortito l’effetto sperato.
Le faccio un occhiolino cercando di risultare incoraggiante e la lascio andare. Non sia mai che venga rimproverata a causa mia per il caffè troppo freddo.
 
 
 
Una volta entrata nel bar saluto Matt con un cenno della mano e mi avvicino al bancone, appollaiandomi come al solito sul mio sgabello, desiderosa di scaldarmi un po’. Lui sta attaccando delle lucine sopra la macchina del caffè. Com’è che tutti oggi si sono svegliati in pieno spirito natalizio tranne me?
 
“Ciao, Care è già arrivata? Ci siamo date appuntamento per un caffè e io sono un po’ in ritardo.”
 
“Veramente non l’ho ancora vista, Lena.” risponde lui, facendo spallucce.
 
“Allora finché la aspetto potrei mangiare qualcosa…”
 
Mi affaccio sulla vetrinetta dei dolci, lasciando vagare lo sguardo tra le ciambelle alla ricerca di quella più zuccherata e calorica possibile.
 
“Senti, Elena, perché invece di stare qui non ti metti comoda. Laggiù per esempio.” mi dice, indicando un punto in fondo alla sala.
 
Seguo il suo gesto con lo sguardo e immediatamente mi si appanna la vista. Sbatto gli occhi un paio di volte per mettere a fuoco la figura seduta al tavolo.
Poi ritorno a guardare Matt per un attimo. Vorrei dirgli qualcosa ma parole mi muoiono in gola mentre lui mi rivolge un sorriso comprensivo e affettuoso e gli occhi mi si riempiono improvvisamente di lacrime.
Quasi in preda ad un attacco di cuore, mi volto un’altra volta verso il fondo della sala.
Quegli occhi sono sempre lì, puntati come due riflettori su di me, come la prima volta che li ho visti e mi hanno scombinato la vita con la confusione dell’amore.
Li guardo un’ultima volta prima di afferrare il cappotto e la borsa e uscire più in fretta che posso.
 
***
 
Quando esco dal bar, Elena è girata verso la strada e per una manciata di secondi osservo la sua sagoma che si staglia contro il traffico disordinato del centro di Manhattan. Per raggiungerla devo farmi strada fra un fiume di passanti. La vedo scostare un po’ di neve dal bordo del marciapiede con la punta della scarpa. Piccoli fiocchi bianchi hanno ricominciato a scendere dal cielo e ad appoggiarsi fra i suoi capelli. Mi avvicino fino ad arrivare ad un passo da lei.
 
“Elena…” inizio, parlando alle sue spalle.
 
Si volta di scatto verso di me, piazzandomi un preciso e, devo ammettere, piuttosto forte, schiaffo in pieno viso. Non reagisco, in fondo me lo merito.
 
“Ahi. Mi aspettavo un’accoglienza un po’ diversa. Che ne so… uno striscione di benvenuto, una bottiglia di champagne…”
 
“Che diavolo ci fai qui Damon? Non eri in missione suicida?”
 
La sua voce rabbiosa si solleva dai rumori confusi del traffico, delle sirene, dei venditori ambulanti.
Ha gli occhi rossi, inzuppati di lacrime, che raccoglie lentamente col dorso della mano, per poi stringersi le braccia sotto il seno e guardarmi con la sua faccetta furibonda, il mento sollevato con aria di sfida.
Si morde un labbro come per impedirsi di piangere, ottenendo l’effetto esattamente contrario. Perché è sempre così bella, anche sconvolta e con gli occhi gonfi? Non è abbastanza per giustificare che negli ultimi giorni non ha fatto altro che disperarsi a causa mia.
 
“È una storia divertentissima Elena. Ero lì, sull’aereo che aspettavo il decollo e a un certo punto mi è venuta una voglia pazzesca di… di un cheeseburger. Ed eccomi qua.” rispondo con un mezzo sorriso e un’alzata di sopracciglia. La vedo aprire la bocca per dire qualcosa senza riuscirci, poi stringe gli occhi e mette su un’espressione a metà strada fra il fastidio e la collera.
 
“Senti un po’ Damon, a parte il fatto che sappiamo entrambi che sei un noioso salutista, per quanto ne so io al JFK c’è un fornitissimo McDonald. Quindi, vaffanculo tu e il tuo cheeseburger.”
 
“Ti ricordavo più forbita, ragazzina. A proposito, hai detto così anche a Rebekah ieri? Vaffanculo tu e i tuoi pannelli solari!” la imito.
Spalanca gli occhi per l’irritazione e la sorpresa. Almeno adesso non piange più, è troppo arrabbiata per farlo. Forse le viene anche un po’ da ridere, ma non lo ammetterebbe mai. Infatti tira un po’ su col naso e assume un’aria altèra e distaccata.
 
“Vedo che ti hanno informato. Care mi sentirà, eccome. E comunque, la vuoi smettere? Ti ho chiesto perché sei qui, non ho intenzione di ripetertelo un’altra volta.” ribatte, alzando la voce di un’ottava.
 
“Ok, ok. Non ti agitare… non vorrei che diventassi di nuovo violenta.” sorrido, sollevando i palmi aperti in segno di resa. “Però, lasciamelo dire, sono orgoglioso di te e di quello che hai fatto, principessa guerriera. E comunque non sto scherzando, ero sull’aereo ma la partenza è slittata per via della perturbazione. E più il tempo passava più pensavo a te, allora mi sono detto che invece di pensarti e basta avrei preferito vederti. E sono sceso. È stata una scena molto spassosa, te la dovrei raccontare…”
 
Mi torna in mente la faccia allibita dell’hostess che non ne voleva sapere di farmi andare via, quella dei passeggeri che mi osservavano terrorizzati come se da un momento all’altro l’aereo dovesse esplodere per via di una bomba in stiva o che so io. E quella di Ric, che non riusciva a capacitarsi della mia svolta improvvisa e mi ha detto semplicemente “Vorrei scendere con te solo per vedere con che faccia da culo ti presenterai da Elena. Non mandare tutto a rotoli, mi raccomando.”
 
“Che fai adesso, mi rubi le battute?”
 
Elena mi guarda seria, ma l’ombra di un sorriso le attraversa il volto ancora bagnato dalle lacrime e dai fiocchi di neve che continuano a scendere sopra le nostre teste.
Incrocio il suo sguardo indifeso e pieno di domande, e so che una risposta gliela devo, anche se non è facile.
Mi ci vorrebbe un po’ della sua forza. Mi avvicino ancora di un passo e lei non si sposta, neanche quando allungo le mani sul suo viso e la attiro a me, fino a quando a separarci è solo lo spazio di un sospiro.
Lo spazio di un si o di un no.
 
“Ho capito una cosa importante Elena. Io non voglio che tu sia il mio obbiettivo…”
 
“Basta, smettila! Sono stufa di sentire sempre le stesse cose…”
 
“Fammi finire… Tu sei la più brava fra noi a spiegarti, lo sei sempre stata. Sono andato nel panico. Ho fatto un casino, Elena. Te lo ripeto, non voglio che tu sia il mio obbiettivo ma tu sei il segnale che mi indicherà la strada giusta. Sei il bene di cui ho bisogno nella mia vita dopo tutto il dolore che c’è stato. Io ho bisogno di te… Ho bisogno di te perché ti amo. Lo vedi… Vedi quello che sei riuscita a fare, strana, coraggiosa ragazza?”
 
Non ci voleva poi tanto a dirtelo. Spero solo che non sia troppo tardi, che mi perdonerai anche se sono stato egoista, anche se ho sbagliato e ti ho fatta soffrire.
 
Il suo sorriso si illumina fra la neve e le lacrime. Eccola qui, la donna che ho avuto il coraggio di amare. Anche se non sarà facile, anche se le nostre incoerenze e i miei colpi di testa potrebbero mettersi di mezzo, ne sarà sempre valsa la pena per come mi sta guardando in questo momento. Con quegli occhi che splendono di vita e mi hanno spalancato il cuore, quegli occhi in cui dal primo giorno ho sentito qualcosa che mi appartiene, e che si sono portati via qualcosa di me. Il tassello mancante che di cui non posso fare a meno.
 
“Non ci vai più dall’altra parte del mondo, sei sicuro?” chiede, con una faccia preoccupata.
 
Scuoto la testa. “Ho altri programmi per noi…”
 
“Tu… sei… uno stronzo. Non farmi mai più una cosa del genere.” mi dice adesso, però mi appoggia una mano petto, aggrappandosi alla mia camicia, mentre con l’altra mi spazza via alcuni fiocchi di neve dai capelli prima di posarmela sul viso, incerta.
 
“Quindi… mi perdoni?”
 
“Quanto mi piacerebbe dirti di no e fartela pagare almeno un po’. Ma non ci riesco… Non ce la faccio.”
 
Ancora una volta la sua voce si spezza e gli occhi le si riempiono di lacrime, come se non potesse trattenerle. La stringo, la respiro di nuovo, provo a darle un bacio sperando che basti per farla smettere. Lei mi lascia fare. Le sue labbra hanno il gusto salato delle lacrime, la pelle del suo viso è pallida e resa fredda dalla neve e dal vento.
 
“E adesso Elena? Siamo giovani, carini e disoccupati e non abbiamo niente da fare. Quindi… qual è il tuo piano?”
 
“Non avere nessun piano.”
 
 
 
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Toh! Un mini pony! Oggi pomeriggio ho un corso di tedesco quindi adesso… beccatevi l’Happy Ending!! ^^  E anche la mia ultima nota… che fatica che ho fatto… i finali felici non sono nelle mie corde però se lo meritavano, dai. No? Li lascio liberi di vivere il futuro, molto incerto, si, ma pieno di incognite e possibilità. Adesso che hanno spezzato le catene invisibili che li legavano, li sento pronti a spiccare il volo da soli. Le loro sono le paure e le insicurezze di molti di noi, che spesso ci limitano nel diventare ciò che desideriamo… Loro sotto sotto erano già così senza saperlo, poi il destino li ha fatti incontrare e li ha aiutati a tirare fuori la parte sepolta. Così adesso sono pronti a lasciare spazio alla sfida, alla crescita… o almeno ci provano perché ne vale la pena, poi se andrà male pazienza. Si cade, ci si rialza, si riparte da zero, magari proprio nel momento in cui ci si ritrova scomposti in mille pezzi.L’importante è riuscire a trovarsi, sentirsi, sentire ;) e non autocondannarsi alla triste mediocrità, anche se questo comporta una sfida quotidiana. (Ric ci è già arrivato da tempo... Può essere una festa o un incubo, l’importante è esserci! Io lo amo…) Sia chiaro che non voglio filosofeggiare, solo spiegarmi… Vabbè forse sono un po’ sconvolta… 5x16 maybe?!!?... Aspe’… rispondo un attimo al telefono… ah ok era solo l’idraulico… :’( Poi, per quanto mi riguarda, il bilancio di questa esperienza è tutto sommato positivo nel senso che è stato bello mettere nero su bianco concetti che fanno parte di me ma non sempre sono facili da condividere. A volte però mi sono resa conto di essere riuscita a trattarli solo superficialmente e di questo un po’ mi dispiaccio, ma, vediamola così, ci sono ampi spazi di miglioramento :) :D
Grazie a chi ha fatto questo percorso assieme a me e alla mia storiella, donandomi un sorriso, spunti, riflessioni e sostegno… E soprattutto emozioni, quelle si, tante e davvero belle…
Vi dico solo grazie, ma viene dal cuore!
 
Ps un bacio speciale a Fanny_rimes per aver recuperato tutta la storia <3
 
Un bacione
Chiara/Beagle
 
 
* Canta per farmi addormentare, canta per farmi addormentare, non voglio mai più svegliarmi da solo…
Asleep – The Smiths
 
** Sono cambiata non cambiando affatto
La piccola città predice il mio destino
Forse è proprio quello che nessuno vorrebbe vedere...
Voglio solo urlare... "Ciao…
Mio Dio, è passato tanto tempo, non avrei mai sognato che tu saresti tornato
Ma ora eccoti qui, ed eccomi qui..."
Sentimenti e pensieri svaniscono... svaniscono nel nulla...
Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town – Pearl Jam
 
 
AH!! Quando Elena dice a April “… ti devi dare una calmata” eccetera, l’inizio della frase è “rubato” dal film “Il diavolo veste Prada” ;-)

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