Dove nascono le nuvole

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Leone e la Gazzella ***
Capitolo 2: *** Deep Blue Eyes ***
Capitolo 3: *** Colloqui Privati ***
Capitolo 4: *** We are family ***
Capitolo 5: *** Quando scende la sera ***
Capitolo 6: *** Il Sesto Senso ***
Capitolo 7: *** Croissant ***
Capitolo 8: *** Come un incantesimo ***
Capitolo 9: *** Occhio per occhio ***
Capitolo 10: *** Deep roots are not reached by the frost ***
Capitolo 11: *** Figlio d'arte ***
Capitolo 12: *** Kallistê ***
Capitolo 13: *** Nonostante tutto ***
Capitolo 14: *** Tra nuvole e lenzuola ***
Capitolo 15: *** The Twilight Zone ***
Capitolo 16: *** Febbre a 90° ***
Capitolo 17: *** Notte prima degli esami ***
Capitolo 18: *** Amici Mai ***
Capitolo 19: *** L'Ombra della Sera ***
Capitolo 20: *** La stessa luna ***
Capitolo 21: *** qb ***
Capitolo 22: *** Fratelli ***
Capitolo 23: *** Aggiungi un posto a tavola ***
Capitolo 24: *** Agua de Março ***
Capitolo 25: *** Senza parole ***
Capitolo 26: *** 01.09.1973 ***
Capitolo 27: *** Dove nascono le nuvole ***
Capitolo 28: *** Hanabi - Petrichor reloaded ***
Capitolo 29: *** Un'estate al mare ***
Capitolo 30: *** Club Tropicana ***
Capitolo 31: *** Quand le vent se lève ***
Capitolo 32: *** Ho sceso, dandoti il braccio ***
Capitolo 33: *** Ad un respiro dal cuore ***
Capitolo 34: *** Poker Face ***
Capitolo 35: *** One by one ***
Capitolo 36: *** L'isola ***
Capitolo 37: *** Stasera non è aria ***
Capitolo 38: *** Bucce di Castagne ***
Capitolo 39: *** Tutto Qua ***
Capitolo 40: *** Quando lui verrà ***
Capitolo 41: *** Ecce Homo ***
Capitolo 42: *** Mano nella mano ***
Capitolo 43: *** Se... Allora... ***
Capitolo 44: *** All'ombra degli alberi di ciliegio ***
Capitolo 45: *** L'uomo più furbo del mondo ***
Capitolo 46: *** Qui lei non c'è ***
Capitolo 47: *** I Breathe ***
Capitolo 48: *** For whom the bell tolls ***
Capitolo 49: *** See the stars, they're shining bright ***
Capitolo 50: *** Fiori d'arancio ***



Capitolo 1
*** Il Leone e la Gazzella ***


Negli ultimi mesi mi è capitato di lasciar andare la penna per sentieri che solo lei conosce, regalandomi, parola dopo parola, dei racconti. Alcune di queste storie le avete lette ne La Lanterna Magica, altre sono nate con un carattere loro proprio e sono diventate racconti autoconclusivi a se stanti.
E poi ci sono loro. Le infiltrate. Quelle che necessitano di più spazio di quello garantito da cento parole secche. Quelle che non hanno un posto dove andare, come i coralli aggrappati allo scoglio. Quelle che non hanno legami, non hanno radici, non hanno una genesi. Quelle che ho scritto quando avrei dovuto concentrarmi su qualcos’altro. Quelle che sono un tappeto di nuvole, un’accozzaglia di cause perse, insomma. Le ho raccolte tutte qui, nella speranza che possa farvi piacere.
 



#1 Il leone e la gazzella

Prompt: Morte
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Pegasus Seiya- Leo Aiolia


L’agile gazzella corre nel disperato tentativo di guadagnare la salvezza. Ha avvistato un leone, nella savana. Un leone furioso. Un leone che trattiene a malapena le zanne. Un leone che vuole azzannargli la gola. Che vuole fargli male. Che gode all’idea di fracassargli le ossa, una ad una. Quando Seiya trova il coraggio di guardare negli occhi l’amico di sempre, lo stomaco gli diventa un grumo di pietra congelato. Aiolia vuole ucciderlo.
«Perché?»
Un sorriso malvagio, la sete di sangue galleggia nello sguardo cupo.
«Aiolia…»
«Ancora parole, Pegasus?»
E Seiya sa – comprende – cosa prova una gazzella nell’istante prima di morire.
 
Nota: «Ancora parole, Pegasus?», Leo Aiolia, episodio 51

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Capitolo 2
*** Deep Blue Eyes ***


#2 Deep Blue Eyes

Prompt: Blu
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Andromeda Shun / Phoenix Ikki


Il luccichio delle onde increspa il mare, un tappeto blu con una sottile riga più scura, in lontananza, a dividere l’aria dall’acqua. Un piccolo paguro, arrancando nella sua conchiglia, risale la linea di marea in direzione dello scoglio di Andromeda. Domani toccherà a lui essere incatenato a quella zanna grigia che spunta dall’acqua con la bassa marea, quando il sole si sveglia e stropicciandosi gli occhioni si affaccia, incuriosito, a guardare quello che accade su quel puntino roccioso che galleggia nel cuore dell’Oceano Indiano. Ce la farò?, si chiede, cercando nel mare il blu profondo degli occhi di suo fratello.



Nota: il nome di Shun si scrive con l'ideogramma 瞬, che è alla base del verbo 瞬く (matataku), che significa brillare, scintillare, luccicare. Il nome di Shun, quindi, significa scintillio.

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Capitolo 3
*** Colloqui Privati ***


#3 Colloqui Privati

Prompt: Cosa?
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Capricorn Shura – Gemini Saga

«Cosa mi dici dell’incidente di Teruel?»
«La situazione è risolta. Gli Amanti si sono risvegliati e hanno preso in ostaggio una città. Ma Excalibur è calata su di loro.»
E ci hai rimesso una gamba. «Mi dispiace aver interrotto la tua licenza…», commenta il sant’uomo. «Ma eri l’unico cui potessi affidare tale missione.»
Ed il cuore di Shura si gonfia. Di gioia ed orgoglio. E compiacimento.
«La Giustizia non va fatta attendere. Specie quando a decretarla è Athena.»
«Anche nel caso di Aiolos?»
Il Capricorno suda freddo, poi risponde: «Sì. Anche nel caso di Aiolos.».
Sotto la maschera, Saga sorride.

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Capitolo 4
*** We are family ***


#4 We are family

Prompt: Famiglia
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Isaak - Hyoga
 
La Siberia è uno stato dell’anima.
La Siberia è ghiaccio, e il ghiaccio non perdona.

Camus lo ripete a quel biondino dallo sguardo triste arrivato presso l’izbà che sorge oltre i confini del Circolo Polare Artico.
Ad Isaac sta simpatico Hyoga. Finalmente ha qualcuno con cui correre.
«Ero anche io come te, quando sono arrivato.» Gliel’ha detto Camus. Che sa sempre tutto quello che passa per la testa dei suoi allievi. «Devi solo ambientarti. Che ne diresti se io fossi tuo fratello maggiore?»
«Fratello?»
«Esatto! Siamo una famiglia.»
«Ma perché il maggiore saresti tu?»
«Perché sono arrivato per primo.»
Ovvio.
 

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Capitolo 5
*** Quando scende la sera ***


#5 Quando scende la sera
Prompt: Sera
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Capricorn Shura – Sagittarius Aiolos
 
Quando Venere buca il fondo nero del cielo, Shura sa che Aiolos esce dalla Nona Casa per osservare lo stesso spettacolo, spesso con Saga, più spesso con Aiolia. Il giovane Sagittario gli fa cenno di raggiungerli, e quando Shura arriva c’è un bicchiere di aranciata che lo aspetta.
Il Sommo Shion ha ideato questo sistema per insegnare ai più piccoli a riconoscere le stelle nella volta scura, come faceva Javier, con la differenza che il cielo sui Pirenei era più limpido. E l’aria frizzante, quella che regala un appetito da lupi, pizzicava nel naso quanto un’intera bottiglia di aranciata.

Nota: questa drabble l'ho scritta di getto, ma non mi convinceva molto, perché si richiamava a troppe cose (la sera, certo. Ma anche l'aria, il colore arancio, i compagni di squadra...), e quindi a nessuna nello specifico. C'erano troppi elementi che spiccavano per cento parole. Così l'ho accantonata. Fino a svilupparla per bene e a farla diventare, in corsa, Quando sorge Venere

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Capitolo 6
*** Il Sesto Senso ***


#6 Il Sesto Senso
Prompt: Sesto Senso
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Andromeda Shun
 
«Con sesto senso s’intende l’intuizione.»
Lo ha detto lui stesso, anni fa, quando Mu rivelò loro dell’esistenza del Settimo Senso.
È convinto che Ikki verrà.
Se si stesse trattando di una battaglia, Hyoga gli darebbe ragione. Ikki arriverebbe per risollevarli a calci nel culo nel momento più basso e buio della missione, così come ha sempre fatto, da bravo fratello maggiore. Ma non stanno parlando di una battaglia. Stanno parlando di una festa. Di un evento mondano. E il suo sesto senso gli dice che la Fenice se ne resterà al calduccio. Per fatti suoi. Con buona pace di Andromeda.

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Capitolo 7
*** Croissant ***


#7 Croissant
Prompt: Colazione
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Scorpio Milo
 
 
Lei dorme. Anche se è sveglia e fa solo finta di dormire. Troppo retsina tutto assieme, pensi. Bevuto in spiaggia ieri sera, tracannato fino all'ultima goccia passandovi la bottiglia mentre il vento increspava appena quella bolla nera che era il mare, sotto una luna così bianca ed enorme che ti sembrava di poter allungare una mano e mettertela in tasca. O regalarla a lei.
Avrà una dopo-sbornia coi fiocchi. Di quelli che ti fanno sentire la testa piena come un pallone e pesante come un macigno, pensi posando il vassoio a terra. Due bicchieri spaiati – uno azzurro e l’altro di terracotta – una busta coi cornetti appena sfornati, succo d’arancia e caffè. E una rosa candida, coi petali ancora imperlati di rugiada, che le fai scorrere sul naso. Come una carezza. Per svegliarla.
«Buongiorno…», le sussurri. Lei mugugna. Sbircia il mondo da sotto le ciglia – le imposte azzurro carico sono ancora accostate e la luce del sole non può ferirle gli occhi belli– e sbadiglia da sotto le lenzuola sfatte. «È pronta la colazione», aggiungi sorridendo, indicando il pavimento. «Caffè, succo d’arancia e cruassen. Tutti per te.»
«Croissant», ti risponde – ti corregge – lei, stiracchiandosi come un gatto.
Tale e quale a suo fratello.  
 

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Capitolo 8
*** Come un incantesimo ***


#8 Come un incantesimo
Prompt: Quando
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Ophiucus Shaina – Pegasus Seiya
                     
«Assicuratevi di avere le mani pulite quando toccate il cuore di una persona.»
Shaina gliel’ha mormorato ieri sera, da dietro la maschera rituale, prima di scappare via.
C’era una nota di pianto nella sua voce? Ha capito bene quello che lei ha detto?
Seiya avrebbe voluto fermarla, allungare una mano e strapparle via quell’affare dalla faccia, ma ha esitato. Perché sa che per quanto l’orgogliosa guerriera sia un blocco di lava che fonde e rifonde se stessa, quel metallo d’argento sarà sempre, irrimediabilmente freddo sotto le sue dita. Come un incantesimo capace di congelargli il cuore con il solo tocco. 

Note: e tanti auguri di Buona Pasqua a tutti voi

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Capitolo 9
*** Occhio per occhio ***


#9 Occhio per occhio
Prompt: Terra
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Kassios
 
Il sangue zampilla sulla polvere dell’arena assieme al tuo orecchio, che si chiede dove sia finito il resto del corpo. Ti pare di sentire nella bocca il sapore ferroso del sangue e quello amaro della terra, ma ti dici che è solo lo choc, la sorpresa. Che quel moccioso fosse veloce, lo sapevi già, ma quel mingherlino di un muso giallo ha commesso un errore gravissimo. Ti ha schernito. Sotto gli occhi di Shaina. E questo ti ha fatto arrabbiare. Al punto che se ti metti una mano dove prima c’era il tuo orecchio è perché il sangue – il tuo – ti dà fastidio. Ti cola sul collo sudato. Si mischia con la polvere che hai addosso. Ti si appiccica alla pelle e sulla casacca, mentre esce a prendere una boccata d’aria. Non senti il dolore. Ignori quel chiodo gigantesco e invisibile che qualcuno ti ha conficcato nella testa, all’altezza delle tempie. Il sangue è caldo. Più del sole che illumina l’arena. Macchiata di rosso. Da te. Non da lui.
«Maledetto!», ringhi. La tigre messa in scacco da un topolino. E tuo fratello, sugli spalti, ti sta guardando. Se prima sarebbe stato giusto battere quel moccioso e prendere ciò che ti spetta di dirtto, l’armatura di Pegaso dalle bianche ali, adesso sarà tuo dovere acciuffarlo per i capelli e fargli mangiare la terra del Santuario. Fino all’ultima briciola.

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Capitolo 10
*** Deep roots are not reached by the frost ***


#10 Deep roots are not reached by the frost
Prompt: Casa
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Aries Mu

Che sia in un vicolo troppo stretto perché vi arrivi il sole o in una stradina tortuosa che s’arrampica sull’Acropoli; tra le baracche affastellate di una favela o in una palazzina anonima di Nerima; un palazzo sotto le onde del mare o un castello arroccato tra rocce e ghiaccio, casa è dove risiede il tuo cuore, e dove crescono i ricordi.
Il cuore di Mu è rimasto sul tetto del mondo, in una terra sconosciuta, a leghe e leghe di distanza, che a malapena compare sulle carte geografiche. Lì scorrono i ricordi, come in un caleidoscopio, tra l’aria rarefatta e il cielo pulito del Jamir, nella solitudine di un picco quasi inaccessibile, sferzato dal vento che smuove le campane tintinnanti dei monasteri, più a valle. Lì, dove il sole ha un altro colore. E l’erba è di un verde brillante, ma non aggressivo.
«Maestro, quand’è che si torna a casa?», chiedono gli occhi del suo allievo. Il Santuario è un luogo noioso per un bambino, e in lui rivede lo stesso sguardo che rivolgeva al Sommo Sion, nei giorni dell’addestramento. Quando il vento, di notte, soffiava tra gli alberi cantando una canzone diversa. Sconosciuta. E al mattino il cuscino era madido di pianto.
«Casa è dov’è il tuo cuore», risponde. Ed è la lezione più importante che può dargli. Un guerriero non appartiene a se stesso. Un guerriero appartiene alla divinità che l’ha scelto, strappandolo dal campo dov’è cresciuto. Come un fiore da appuntarsi tra i capelli. Ma un guerriero, a differenza di un fiore, ha le sue radici. E più sono profonde, più non geleranno.
«Non importa dove la vita ti chiamerà, né quanto lontano da casa dovrai spingere i tuoi passi, un piede metti e l'altro leva. Con il cuore, vi potrai tornare in ogni momento.»
Lì, dove il sole ha un altro colore e d’inverno, la neve ammanta di un bianco silenzio il tetto del mondo.

Note:
All that is gold does not glitter,
Not all those who wander are lost;
The old that is strong does not wither,
Deep roots are not reached by the frost.
From the ashes a fire shall be woken,
A light from the shadows shall spring;
Renewed shall be blade that was broken,
The crownless again shall be king. 
(J.R.R. Tolkien, The Fellowship of the Ring, 1954)
 

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Capitolo 11
*** Figlio d'arte ***


#11 Figlio d'arte
Prompt: Arancione
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica - Primo Film: "La Dea della Discordia"
Personaggi: Cygnus Hyoga / Pegasus Seiya

Tum tum tum tum tum...

C’è qualcosa di ipnotico nel modo in cui Hyoga avanza a canestro. Sembra quasi che voglia che gli occhi di tutti, e quelli di Seiya che lo sta marcando in particolare, restino incollati sulla sfera arancione che rimbalza sul campo dell’orfanotrofio.

Tum tum tum tum tum...

«Oggi niente calcio», ha detto Hyoga ai bambini, affidando l’anguria superstite alle cure di Miho.
Seiya l’ha guardato come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«No?», gli ha chiesto.
«No. Oggi faremo qualcosa di diverso», ha detto il Cigno mostrando ai bambini quel pallone a spicchi che ha scovato da qualche parte l’ultima volta che sono passati a trovarli. Ed è sceso in cortile.

Tum tum tum tum tum...

Pegaso sorride.
Non gli sfuggono gli sguardi che Hyoga lancia ad Erii. La cerca, con la coda dell’occhio, quando lei meno se l’aspetta. Anche Andromeda se n’è accorto, ma la piccola Mimiko non lo molla un secondo. Il pensiero di concedere un canestro o due a Hyoga, per farsi bello con Erii, sfiora la mente di Seiya, ma è un attimo. Come un colpo di vento che spalanca una finestra. Hyoga non approverebbe. E poi, lui è un pessimo attore. E lo sguardo che gli sta lanciando Saori, seduta sotto il porticato, è uno di quelli che parla chiaro.
Non ci provare.
E quel che Athena dice – ordina – non si discute, giusto?
Così, Pegaso fa sul serio, sicuro di poter sfilare il pallone dalle mani del Cigno. Che ci vuole? È così grande, e così vicino, che gli basterà allungare una mano, una sola e… E mentre Seiya rimugina, gli occhi incollati al pallone, Hyoga lo scarta, salta ed infila un perfetto slam dunk.
Quando atterra - con grazia, certo. Esiste qualcosa che quest’uomo non sa fare senza che sembri che stia danzando?, si chiede Seiya, stupito e un po’ imbronciato – i bambini gli sono attorno, in un allegro capannello vociante. Hyoga sorride. Come a dirgli Credevi che fosse facile, eh?
«Ok. Dove hai imparato?»
La domanda è uscita da sé. Sarà stato Camus, ovvio. Perché lui è certissimo di non aver mai visto Hyoga con un pallone a spicchi, nei giorni prima della partenza per l’addestramento.
«Da mia madre.»
Hyoga lo dice come se l’altro gli stesse chiedendo dove sorge il sole.
«Era un’ala piccola, all’università…»
Questo è barare, dardeggiano gli occhi scuri di Seiya.
«La mamma… certo…»
Hyoga fa spallucce. «Vedi che essere un mammone, a volte, conviene?»
«Già…», dice, afferrando la mano che l’altro gli porge. «Ma voglio la rivincita», precisa, spolverandosi la terra dai jeans.
«Sicuro?»
«Sicuro», maledetto mammone. «Chi arriva per primo a dieci reti…»
«Canestri», lo corregge Hyoga, una luce comprensiva a scaldargli lo sguardo.
«Fa’ lo stesso. Chi realizza per primo dieci canestri, ha vinto.»
«E?» Perché vuoi che non ci sia una posta in palio quando scommetti con Seiya di Pegasus?
«E chiederà di uscire alla bella Erii…»
Seiya gliel’ha sussurrato. In greco, il vigliacco. Cosicché i bambini non facciano confusione. Cosicché Miho non li capisca. Cosicché la faccenda non arrivi alle orecchie di Shaina, pensa Hyoga. Che annuisce.
«Shun, ci fai da arbitro?», e Andromeda risponde di sì, la piccola Mimiko sempre sulle spalle come un koala vestito di rosa.
«Datemi il pallone e mettetevi in posizione», dice loro Shun.
La palla si alza. Seiya salta, ma Hyoga di più. Perché non gli può concedere questa vittoria. Perché Shaina gli caverebbe gli occhi. E perché, in fondo, avere una scusa per chiedere ad Erii di uscire non gli dispiace affatto…


Nota:
E buona Festa della Mamma a tutte le mamme.

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Capitolo 12
*** Kallistê ***


#12 Kallistê
Prompt: Verde
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Saori Kido – Julian Solo

Il pergolato del Kallistê è un’oasi fresca e quieta nel pomeriggio torrido di Atene.
Il vento caldo e afoso, che sbuffa insinuandosi per i vicoli addormentati di Plaka, porta con sé il sale del Pireo, e le fronde dei limoni sussurrano una dolce canzone. Una ninnananna, che le cicale trasformano con i loro archi – zir zir zir – in un segreto, in un bisbiglio ipnotico che sa di cose preziose. Di canzoni di un regno perduto, il suo, che riposa sotto la spuma bianca dell’Egeo, tra coralli e meduse. Il sogno romantico di una divinità folle. O quello melanconico di una sirena dalla coda di pesce. Chissà…
Saori è una nuvola bianca screziata di lilla. Arriva nel vento, leggiadra come una silfide, i piedi che sfiorano appena il pavimento. Un sorriso, via gli occhiali da sole e la borsa si addormenta sulla sedia accanto a lei.
«È tanto che aspetti?», chiede.
Davanti a lei, Julian finge di osservare il giardino.
«Sono appena arrivato», mente, con galanteria. Tornando al presente, ad Atene e ad un mondo caotico che avrebbe voluto spazzare via con le sue mani. L’onda anomala del bambino che prende a pugni l'acqua saponata mentre fa il bagnetto nella tinozza in giardino.
«Sei sempre bellissima.»
Kostas appare accanto a loro, un vassoio con due limonate freschissime tra le mani, e li lascia soli.
Kanon è nei paraggi, Milo dentro la taverna e Sorrento passeggia sull’Acropoli. Andrà tutto bene.
«A cosa brindiamo?», gli domanda lei, vedendo il bicchiere alzarsi.
«A noi», risponde lui. Placido. Tranquillo. Sereno. Come l’Egeo, che luccica in lontananza, una linea più scura a confinare il cielo.
«A noi», gli fa eco Saori.
A te. Alla più bella.
La limonata scende a ristorare le gole riarse dall'estate. Le fronde cantano adesso un’altra canzone, quella allegra della sirena dalle ali d’oro. Che parla di due divinità. Di Athena e Poseidone. Di un ragazzo e di una ragazza. Di due vecchi amici. Che si sono ritrovati dopo qualche tempo – dopo qualche dissapore - per bere una cosa. Insieme. Sotto le fronde verdi dei limoni di Kostas.


Nota: buon compleanno, Sen. Anche se in ritardo di qualche giorno. ♥

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Capitolo 13
*** Nonostante tutto ***


#13 Nonostante tutto
Prompt: Compagni di squadra/Scelte
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Virgo Shaka


Cosa fa di un ricordo un ricordo? Il fatto che si tratti di un elemento piacevole? No, perché esistono anche i ricordi spiacevoli. Quelli dolorosi, che restano incisi sull’anima, mentre i momenti piacevoli ci scivolano addosso, come l’acqua fresca di un ruscello. E allora cosa fa di un momento un ricordo? C’è qualcosa che la nostra anima cattura, come le lastre fotografiche fanno con le immagini? E se sì, che cos’è?
Il suono argentino di una risata? Il profumo di un fiore? Lo scroscio della pioggia sul tetto? L’abbraccio di una madre? Cosa c’è in tutte queste cose che fa sì che esse sedimentino nell’anima?

Shaka non sa dirlo.
Il Buddha non gli parla più molto. Ha deciso di servire Athena e le loro strade si sono divise. Avresti potuto scegliere il Nirvana. Spezzare il legame con la rinascita. Annullare il dolore. Eppure Shaka ha scelto. Di combattere. E morire. E rinascere. Ancora e ancora e ancora. Le vite che ha preso – e quelle che prenderà prima che questa giornata finisca – corrompono il suo karma. E quel che è peggio, non v’è traccia di pentimento, nel suo animo. Perché Shaka rifarebbe tutto daccapo. Ogni singola scelta. Anche credere ciecamente che quell’uomo, con l’elmo sul capo e la palandrana nera fosse davvero Sion, il Grande Sacerdote di Athena. E non Saga di Gemini.

Meglio non avere rimpianti, si dice la Vergine, il rosario tra le dita. Perché Shaka sa che i rimpianti sono più pericolosi del peggior karma che si possa generare con le proprie azioni. Perché se il karma potrà sempre essere mondato dal peccato, scontandolo nell’arco di un’intera esistenza, i rimpianti sono veleno. Che stillano, goccia a goccia. Ed impediscono all’anima di rinascere. Sono i rimpianti a generare i fantasmi. E i demoni. Come quelli che stanno salendo le scale delle Dodici Case. Come quello che ha corrotto l’anima di Saga. Ade ha soffiato sul suo cuore, e loro non se ne sono accorti.

Era nel suo karma, si dice la Vergine percependo un altro grano annerirsi. Un’altra vita spezzata, giù alla Quinta Casa. Altro karma negativo. Una spirale vorticosa, quella che si porta dietro la guerra. Ed è per questo che Shaka ha deciso di combattere. Per spezzare questa catena di rinascite. Una volta per tutte. E se sarà il suo, di karma, ad essere corrotto, in maniera irreparabile, pazienza. Vorrà dire che era nel mio karma, si dice l’uomo più vicino alla dea Athena. Che attende le schiere di Ade nella posizione del loto. Presto saranno lì. Assieme a quei tre rinnegati. Indosseranno diverse corazze. Saranno in incognito. Ma lui li ha riconosciuti lo stesso. Perché Shaka ha imparato a vedere, non con gli occhi, ma con l’anima. Col cuore. Perché ha imparato ad innalzarsi, a staccarsi dalle cose terrene, per guardare la parte nel tutto. Perché ha imparato a leggere nei loro cuori. Ed è solo nei loro cuori che troverà le risposte a quello che sta accadendo.

Perché c’è un piano preciso, dietro il tradimento di Sion e dei suoi defunti compagni. Perché, anche se il dubbio è grande, Shaka non se la sente di credere che Saga, Mask, Aphrodite, Shura e Camus bramino la vita terrena al punto da spargere il sangue Athena sul marmo candido del Santuario. Perché, anche se defunti, restano pur sempre Santi di Athena.
Nonostante tutto.

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Capitolo 14
*** Tra nuvole e lenzuola ***


#14 Tra nuvole e lenzuola
Prompt:  pioggia
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Capricorn Shura

Qualcuno diceva che siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Negli ultimi tempi, lui pensa che dev’essere stato creato mescolando un po’ di quei sogni con un incubo. Uno di quelli che inizia con dolcezza, come quei sogni che sbocciano in un campo fiorito, col sole che splende, alto e chiaro nel cielo di un azzurro struggente, ma non fa caldo. Perché il vento accarezza gentile l’erbetta verde e sposta le nuvole, lassù. Che non piova sul suo sonno. E sulle lenzuola candide che Lupe ha appena steso, dietro casa. E a cui gli ha chiesto di badare. Che non si addormenti, perché le nuvole rapide diventano grigie e cariche di pioggia in un battito di ciglia.

E la nuvola nera arriva. Grossa, nera e livida di pioggia, quasi calpesta il Picco del Capricorno. E lui si chiede quando sia apparsa. Perché no, lui non si è addormentato. Ha solo chiuso gli occhi, per un momento appena. E no, non si è lasciato sedurre dall’arietta fresca della tarda mattinata. E solo adesso si accorge che il vento s’è mutato in una raffica fredda e invidiosa. Che gli increspa la pelle e scompiglia i capelli, come la mano che don Antso cala sulla sua testa, con quel fare amichevole ed insopportabile di chi vuole – di chi deve – guadagnarsi la fiducia di tutto il villaggio. Anche di chi, con lui, non vuole avere nulla a che fare.

La nuvola avanza. Minacciosa e veloce come un panzer, e solo quando lui vede il cielo diventare nero, i fulmini a percorrere in lungo e in largo quella cupola scura, i suoi piedi si muovono. Ma è troppo tardi. Perché è in quell’istante che inizia a piovere. Gocce grosse come chicchi d’uva e fredde come grandine. Cadono veloci, come le dita del marconista, giù al villaggio. Veloci ed arrabbiate. Sembra quasi che ci godano a lavarlo da capo a piedi, uno scroscio furioso e gelato che lo costringe a correre, a cercare riparo. Le lenzuola. Lupe lo ammazzerà se non le salva.
Ma quando stacca le prime mollette dal filo, un lampo sinistro illumina il cielo. Rapido e dritto. Come una freccia. E le dita che stringono il lenzuolo si serrano attorno alla stoffa fradicia e zuppa e oramai da rilavare. E da stendere, non appena tornerà a splendere il sole. Ma le mani agiscono con foga. Per salvare il salvabile. Perché è il lavoro di Lupe, quello che la pioggia sta flagellando. Perché è quello che Lupe si aspetta da lui. Ma le mani tirano troppo. E la stoffa è bagnata e pesante e non scorre sul filo. E a terra si è creato un pantano che finirci dentro è questione di un attimo, di un equilibrio perso nemmeno lui sa come. Forse per fare il suo lavoro.
E lenzuola e filo e ragazzo cadono a terra. Nel fango. Ma quando osserva quel pasticcio – quel disastro – si accorge che non sono le lenzuola di Lupe, quelle che sta stringendo tra le mani. È il suo mantello. E non è fango, quella macchia scura che lo lorda. È sangue. Scuro e rappreso. Che gli cola addosso. Sporcandogli le mani.
 
Un refolo più deciso e riapre gli occhi. Mettendosi a sedere.
Non c’è pioggia in arrivo, solo una nuvola passeggera che solca il cielo, veloce come un brigantino. Il sole splende, l’aria è fresca e frizzante e dalla baita di Javier arriva l’odore delle patate col finocchio selvatico. E dello spezzatino alla burgalese.
Era solo un brutto sogno...
Sospirando, di sollievo, Shura si alza. Non si guarda le mani. Non se le guarda più da tempo. Perché Shura sa che vi vedrebbe sopra il sangue di Aiolos.
No, non pioverà. Non oggi, almeno.
Manca ancora una mezzora abbondante a mezzogiorno. E le lenzuola hanno bisogno di un altro po’ di sole. Come lui. Il tempo di una sigaretta. Che estrae dal taschino della camicia, assieme all’accendino. Una sigaretta. Una sola. Fumata sotto il cielo azzurro di Spagna, all’ombra dei Pirenei. A debita distanza dalle lenzuola di Lupe. Che sventolano allegre, di una purezza accecante, mentre le nuvole solcano il cielo di Giugno.

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Capitolo 15
*** The Twilight Zone ***


#15 The Twilight Zone
Prompt:  tramonto – arancione – lui – perché?
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Gemini Saga


 
C'è nel giorno un'ora serena che si potrebbe definire assenza di rumore, è l'ora serena del crepuscolo.
(Victor Hugo)



Per arrivare alla sera, e respirare un po’ di tranquillità, occorre passare per il tramonto.
È un attimo di luce riflessa, di chiarore solare che indugia nel cielo, o poco più. Il timore di una madre premurosa che non si stacca dalla culla del figlio. Il capriccio di una primadonna che indugia sul palcoscenico, in cerca dell’ultima rosa e dell’ultimo applauso. Un attimo. Poche manciate di secondi. Ed il tempo si dilata. Si annacqua. Come il vino che si dà ai bambini la domenica, a pranzo. Perché è festa. E che no, non ha lo stesso sapore di quando lo assaggi per quello che è davvero. È dolce, il vino quando colora l’acqua nel bicchiere. Rosa. Come le guance di una ragazza persa nelle stanze di qualche suo castello in aria. Come le nuvole, che per darsi coraggio a vicenda si accoccolano sulle tegole del cielo. Un cielo screziato di rosso e oro e arancio. E viola, lì dove il blu si dà la mano col rosa delle nuvole.

Per arrivare alla sera, devi attraversare il crepuscolo. Quella zona in cui questo mondo e quell’altro sono collegati, ai confini della realtà. Quella in cui devi fare attenzione a dove indirizzi i tuoi passi. Perché puoi smarrirti. Perdere la strada. I sentieri, nell’ora del crepuscolo, si confondono, l’uno nell’altro. E la linea dell’orizzonte può sparire all'improvviso lasciandoti senza punti di riferimento, anche se i tuoi piedi sono ancorati a terra, e non lassù, in cielo. E puoi finire chissà dove cercando la strada che ti riporti a casa, o baloccandoti con qualche pensiero inopportuno, come un ragazzo che si perde a seguire un volo di libellule, a pelo dell’acqua dello stagno. Lì, dove il mondo liquido è calmo, placido e sonnecchiante. Dove sai che non ti accadrà nulla, a patto di non sporgerti troppo per contare i pesci che nuotano o i girini che si nascondono sul fondo limaccioso. O di non guardare il tuo riflesso per compiacerti di te stesso. Dei tuoi tratti che rispecchiano il tuo animo puro e perfetto. Il kalokagathos. Il dio sceso in terra.
E agli dei, quelli veri, certi pensieri non piacciono.
E gli dei, quelli veri, sono sensibili a certe questioni.
E gli dei, quelli veri, sanno essere molto severi con le loro punizioni. Sanno essere vendicativi. E possono spingere i tuoi passi per quei sentieri, un piede leva e l’altro metti, fino alla tana del mostro. Che attende solo che tu ti sporga ad osservare l’abisso. Che ti divorerà, emergendo dall’acqua, afferrandoti per il collo e trascinandoti con sé, sotto il pelo tranquillo dello stagno.
Com’è successo a lui. All’Ipocrita. Quello che si è addentrato nei sentieri più pericolosi e reconditi della propria mente. Quello che ha provato un fremito – di sollievo, dice l’uno;di rabbia, dice l’altro – quando il Sacerdote ha fatto il nome di Aiolos al posto del suo. Quello che quando il Sacerdote ha mostrato loro la neonata, si è affacciato sulla culla. Ed ha pensato: “È così piccola! Il nemico potrebbe ucciderla schioccando le dita.”.

Ed è stato allora che è nato lui. È emerso dallo stagno nero nel fondo del cuore di Saga ed è uscito. Per prendersi ciò che gli spetta di diritto. Perché sì, Saga ha ragione. Che ci vuole ad eliminare una neonata? Ad ucciderla? Non serve sforzarsi. È sufficiente girarla a faccia all’ingiù e tenerle la nuca premuta contro il cuscino per un minuto o due. E a quel pensiero – lo stesso che ha partorito lui, per altro – quell’ipocrita di Saga geme. Urla. Lo minaccia. Come se Saga potesse fare chissà cosa, oramai. Lui glielo lascia credere, così come gli lascia credere che l’omicidio di Kanon sia stata un’esecuzione. Ma la realtà è che Kanon ha visto giusto. Ha sempre avuto l’occhio lungo, lui. Perché era il gemello più smaliziato, e non si è mai dato troppa premura di nasconderlo. Sì, rinchiudere Kanon a Capo Sounion è stata la cosa più intelligente che Saga abbia fatto in tutta la sua vita. L’altra, quella di eliminare gli ostacoli che si frappongo tra lui – tra loro – ed il trono del Sacerdote, non è alla sua portata. Troppe remore. Troppi rimpianti. Troppi, stupidi, inibitori freni morali. Troppa ipocrisia. Come il sole, che pure se oramai è declinato continua ad illuminare il cielo vespertino con un chiarore persistente che assomiglia ad un ridicolo palliativo. Ad un puerile tentativo di restare in scena anche quando gli spettatori hanno chiamato a gran voce un altro numero.

Per questo, lui è venuto avanti. Perché serve qualcuno disposto a sporcarsi le mani. E perché a lui piace spargere il sangue altrui. Ne vuole ancora. Come una tigre che ha assaggiato la carne umana e che continua ad uccidere, uccidere, uccidere.
Saga geme. Urla. Lo minaccia. Per deconcentrarlo. Ma non sa, l’Ipocrita, che quelle grida, quei pianti e quelle parole rabbiose gli piacciono. Lo eccitano. E lo spingono ad uccidere. Ancora, ancora e ancora.

Avresti potuto prendere la vita di Athena con dolcezza, con le tue stesse mani. Invece no. Hai esitato. E quindi, adesso, tocca a me, gestire la faccenda. Lo hai voluto tu, Saga. E tu lo sai che lo farò a modo mio, vero? Lo sai che tingerò questo candore ipocrita del rosso del sangue di chiunque troverò sulla mia strada, vero?

Saga tace. L’orrore deve avergli schiantato quel barlume di coscienza che gli restava, riducendolo all’impotenza, e a lui va bene così. Ha bisogno che l’Ipocrita se ne stia zitto e buono, mentre lui lavorerà. Che non lo distragga. Che non lo deconcentri. E che non espanda il suo Cosmo, chiamando in soccorso Aiolos. Aiolos che a quest’ora starà osservando Venere brillare.
L’ultimo chiarore indugia ancora oltre i monti, ma tra poco sparirà. Tra poco se ne andrà ad illuminare altri giorni – finalmente – ed il mondo sarà di nuovo invaso dalle tenebre. Che fanno paura. Perché l’uomo sa che è nel buio che si annidano i mostri. Che non aspettano altro che tu volti loro la schiena, o guardi altrove, per uscire. Per azzannarti alla gola, strapparti il cuore dal petto ed affondare i denti nelle tue carni. Questa è la radice della paura del buio. Non l’ignoto. L’ignoto non può far paura – anche se dovrebbe – ma lo scintillio delle fauci dei mostri e il baluginio delle loro pupille, oh, quello che fa paura. Quello uccide. Lui uccide.

Noi uccidiamo.

Saga non commenta. Lui sa che sta macchinando qualcosa, ma non se ne preoccupa. Sion è vecchio oltre ogni decenza e la neonata è una neonata. È uno scontro di volontà, adesso. Saga non farà nulla. Perché quell’Ipocrita geme, urla e piange... ma non ha il coraggio di chiamare in soccorso Aiolos. Perché si vergogna. Di aver partorito un simile mostro. Di avergli permesso di uscire. Di avergli permesso di vivere.

Le labbra di Saga si arricciano all’insù, una risata di petto che lui riesce a stento a soffocare.
L’ultima luce scivolerà a breve nella quiete della sera. Sion salirà tra poco all’Altura delle Stelle. Meglio sbrigarsi, si dice. Alzandosi. E andando incontro al loro destino. E se spargeranno un po’ di sangue, pazienza.  Ogni regno ha bisogno di un sacrificio. Quale sangue migliore, dell’icore divino, dopotutto?, pensa. Mentre una luna rossa ed enorme e così vicina da dare l’illusione di poter allungare una mano e mettersela all’occhiello, come un fiore di campo, prende possesso del cielo. E un velo di nubi si muove a coprirla. Perché i suoi occhi d’argento non vedano il mostro scivolare nelle ombre, e non avvisino il vecchio Sion.
È finito il tempo del crepuscolo, l’ora serena che avvolge il mondo come una coperta rimboccata dalle mani amorevoli di una madre. È giunta la sera. Quando i mostri escono dalle loro tane, nel buio. Quando tocca a lui calcare il palcoscenico. Tingendo il mondo di sangue.

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Capitolo 16
*** Febbre a 90° ***


#16 Febbre a 90°
Prompt:  minuti – mesi – anni –
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Saori Kido


In fin dei conti il calcio è fantasia, un cartone animato per adulti.
(Osvaldo Soriano)




 

Athena sorseggia un bicchiere di acqua di rose, mentre il Santuario ai suoi piedi è avvolto nella quiete che precede la tempesta. Non durerà. Lo sa bene. È da giorni che va avanti così.
Il petali dei tulipani – arancioni – sminuzzati come coriandoli all’entrata della Decima Casa.
I lamenti ed i pianti e le maledizioni dell’Ottava, della Quinta e della Terza Casa.
L’emozione alla Seconda Casa –  talmente grande che Aldebaran ha rischiato un infarto.
L’orgoglio dell’Undicesima , quella fierezza che solo un vero Gallo possiede – nonostante le testate generose lo accomunino ad un caprone isterico.
Il canto di battaglia che si leva dalla Quarta Casa.
«Po-popo-popopo-poo. Po-popo-popopo-poo. Po-popo-popopo-poo…»
E alla Dodicesima, il silenzio indispettito di chi è rimasto a casa a guardare. E si chiede, con una punta di meschinità, che cosa ci sia, poi, di così divertente in ventidue uomini in mutande che rincorrono un pallone...

«Si faccia coraggio», le sussurra Mu, il sorriso lieve di chi non è toccato da certe faccende. «Passerà.»
Saori pensa che esistesse il Tibet, e se il Tibet avesse una sua nazionale, anche lui, anche il placido Mu, adesso, se ne starebbe davanti al televisore. Come i suoi compagni d'arme - d'Oro, d'Argento e di Bronzo. In religioso silenzio, una birra fredda accanto a trattenere il fiato fino a quando la palla non insaccherà la rete. Dell'avversario, ovvio.
«Sì. Passerà», ne conviene. Sorseggiando la sua bibita. Pazienza. Per sopravvivere, basta poco. Basta solo non lasciarsi contagiare dalla febbre a 90°. Un po' di shopping è la medicina ideale. Sì, shopping, istituto di bellezza e una bella cenetta fuori. Con le altre ragazze. Per non rischiare che Julian, sotto al tavolo, sbirci il risultato delle partite.
Saori sospira. E poi sorride. Mentre il mondo intero trattiene il fiato, in attesa del calcio d’inizio. Perché il calcio è il gioco più bello del mondo. Che fa tornare ad essere bambini. Anche solo per novanta minuti. Anche solo per un mese. Anche solo una volta ogni quattro anni.


Note:
Il titolo è una citazione dell'omonimo romanzo di Nick Hornby, Fever Pitch (da noi Febbre a 90°, appunto), pubblicato nel 1992 e portato sugli schermi nel 1997. Se non l'avete letto, o non avete visto il film, fatelo! Piace anche a chi, il calcio, proprio non lo sopporta.

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Capitolo 17
*** Notte prima degli esami ***


#17 Notte prima degli esami
Prompt: Notte
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Pegasus Seiya- Aquila Marin
Gli esami non finiscono mai.
(Eduardo De Filippo)
 
Se non la smette di rigirarsi nel letto, lo strozzo.
Questo pensi, mentre Seiya, dall’altra parte della stanza, non riesce a chiudere occhio. È esausto, ma l’adrenalina – e la paura – gli scorrono sottopelle come un fiume in piena. Sbuffi. Non riesce a togliersi dalla testa l’armatura. Quella per cui gli hai fatto sputare sangue. E tu sai quanto possa essere pericolosa la distrazione, arrivati a questo punto.  Cassios è tanto grosso quanto lento. Un colosso dalle caviglie di cristallo. Ma Seiya sembra aver dimenticato che Cassios è anche capace di spezzare il collo di un uomo a mani nude.
E stasera, la parte dell’indifferente ti riesce peggio del solito. Perché  domani, nell’arena, non sarà solo Seiya, quello messo sotto esame; sarai anche tu. Come sua maestra. E dovrai dimostrare agli altri di aver seminato bene, di poter offrire un degno raccolto alla dea Athena.
La vita di questo ragazzino…
Che si rigira nel letto, le lenzuola come una ragnatela che più resisti e più ti si appiccica al corpo.
Fosse stata un’altra notte, l’avresti mandato fuori a sbollire le energie in eccesso. Cinquecento flessioni e altrettanti giri di campo. E se fosse crollato strada facendo, pazienza. Un sonno sotto le stelle di Settembre non ha mai ucciso nessuno. E tu potresti dormire. Ché sei stanca morta anche tu. Ma non puoi rischiare che gli accada nulla,  come trovartelo al mattino sfracellato su una qualche roccia per un qualche misterioso incidente. La cricca di Shaina sa giocare sporco. E pur di evitare che un muso giallo conquisti le vestigia di Pegaso, non esiterebbero a…
Stringi il lenzuolo. Lui si saprebbe difendere?, questo ti chiedi. E anche se la testa risponde di sì, e ti illustra quali e quanti movimenti gli servirebbero, il cuore perde un battito. No, meglio non rischiare. La tua casa ed il suo letto, sono il posto più sicuro per Seiya, stanotte.
«Se hai così tante energie, perché non ti fai cinquecento flessioni sul pavimento?»
Seiya s’irrigidisce. Gli ordini del maestro non si discutono, giusto? Così, scosta il lenzuolo, e senza fiatare – senza protestare – esegue.
«Contale», aggiungi. Coprendoti con il lenzuolo.
Uno sbuffo, le mani che toccano il pavimento, il respiro trattenuto.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici…»
Crollerà sfinito verso il duecentosettantasette, lo sai già. E ti lascerà da sola. A pensare. A farti un esame di coscienza. Su ciò che hai potuto fare e su quello che avresti potuto fare. Ma non hai fatto. Per un motivo o per un altro.
Stanotte non si dorme, pensi. Mentre la voce di Seiya continua a contare.


Note: in bocca al lupo a tutti i maturandi. E ai loro professori.

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Capitolo 18
*** Amici Mai ***


#18 Amici mai

Prompt: Amici - Nemici
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Scorpio Milo
 

Quando mi trastullo con la mia gatta,
chi sa se essa non faccia di me il proprio
passatempo più di quanto io faccia con lei?
(Michel de Montaigne)

 

 
Il Gatto ama baloccarsi con un filo di lana coloratissimo.
Gli tende agguati. Lo palleggia tra le zampe. E poi lo fissa. Come sta facendo adesso.
Perché non diventate amici?, ti suggerisce Phi accarezzandoti il viso. E tu sei a tanto così dal farle le fusa.
Ci provo, le dici. Prendendo un capo del filo ed agitandolo davanti al Gatto. Che segue il movimento ad occhi spalancati. D'un tratto si volta, ti arpiona un alluce e quando lasci andare la lana, lui la afferra colle fauci e la porta via.
Stramaledettissimabestiaccia!, ringhi. Massaggiandoti il dito. Phi ride. Amici? Nemici, semmai.

 

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Capitolo 19
*** L'Ombra della Sera ***


#19 L'Ombra della Sera

Prompt: Rosso - Tramonto
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Sagittarius Aiolos - Gemini Saga
 

I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo
(Vincenzo Cardarelli, Passato, 1936-1942)

 

Santuario, Agosto 1973

«…e così gli ho detto…»
«Smettila subito o ti faccio le chiappe a strisce.»
Saga e Aiolos hanno pronunciato assieme quello che, nel pomeriggio, il Sagittario ha intimato allo Scorpione. Per farlo desistere dal tormentare il placido Acquario.
Saga ride. «Ha funzionato?»
«Sì. Credo. Almeno fino alla prossima volta», risponde Aiolos. Guardandosi attorno.
«Che cerchi?»
«Qualcosa di rosso», dice. Come se fosse normale e logico.
Saga aggrotta le sopracciglia. «Cosa avevamo detto in merito alle superstizioni?»
«Cosa hai detto tu», ribatte il Sagittario. Ricordandosi della propria tenia. E porgendone un capo al compagno.
«No», dice Saga. «Non puoi pretendere che…»
«Non intendo litigare con te», dice il Sagittario. Perentorio.
Uno sbuffo, esagerato, le dita di Saga che toccano – stringono – il nastro rosso scuro. Come se volesse strozzarlo.
«Al mio tre. Uno… Due…»
Saga annuisce.
«Piase Kokkino!», esclamano. Insieme.
«Meno male», dice. E la cosa più assurda è che Aiolos è sollevato. Come se avesse scampato chissà quale pericolo.
Come se potessi liberarti di me.
E a Saga non resta che scuotere la testa e sospirare: «Non cambierai mai…», mentre si avviano verso il dormitorio e verso il sole al tramonto, un’arancia rossa nel cielo che proietta lunghe ombre nere alle loro spalle. Chiacchierando. Del più e del meno. Tornando ad essere due ragazzini nel tardo pomeriggio di Agosto. Ma non si accorgono che l’ombra di Saga sorride

Note:
La tenia non è il parassita intestinale. Nell'antica Grecia era un nastro che atleti ed eroi si ponevano sulla fronte a dimostrazione di essere benedetti dagli dei.

L'Ombra della Sera è una statuetta votiva estrusca originaria dell'area di Volterra e rappresenta un ragazzo dalle forme esasperatamente allungate. Si dice che sia stato Gabriele D'Annunzio a darle questo nome, perché - in effetti - la figura ricorda un'ombra allungata. Se vi interessa, la trovate esposta al museo Guarnacci di Volterra.

In Grecia, quando due persone dicono la stessa cosa nello stesso momento dicono «Piase Kokkino!» (lett. Tocca Rosso!) l'uno all'altro e poi cercano qualcosa di rosso da toccare. Questo per evitare di litigare l'uno con l'altro, fino ad arrivare alle mani, e dunque al sangue. Che guarda caso è rosso.

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Capitolo 20
*** La stessa luna ***


#20 - La stessa luna

Prompt: Luna
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Taurus Aldebaran
 

Se anche tu vedi la stessa Luna
Non siamo poi così lontani.
(Claudio Baglioni, Stai su, 1999)

 

«E io… come farò…», lontano da te?
«Farai, farai.»
Zuleika ha sempre avuto molto senso pratico. Si fa quel che si può con quello che si ha. Perché i desideri sono stillicidi velenosi. Lussi che lei non si può permettere. E Adriano deve andare ad Atene. Per il suo bene. E diventare un Santo d’Oro.
«Ma Atene è lontana», insiste. Calcando la voce sulla distanza. Davvero non ti importa?, chiedono quegli occhi spalancati.
Zuleika sbuffa, un ricciolo vola in aria ricadendole sulla fronte sudata. «Coraggio, meninho. Ad Atene brilla la stessa luna», gli dice. Nascondendo una lacrima. Coraggio, Zuleika.


Note:

Meninho significa bambino in portoghese. Anche nella versione brasileira.

Questa settimana salta l'appuntamento con Tutti Qui.
Spero che Adriano aka Aldebaran vi faccia buona compagnia.

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Capitolo 21
*** qb ***


#21 - qb

Prompt: Gusto
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Pegasus Seiya - Ophiucus Shaina
 

Il sorriso è alla bellezza, quello che il sale è alle vivande.
(Carlo Dossi, 
Note azzurre, 1964)

 

«Com’è?»
«Saporitissimo», dice. Mentendogli. Ma solo a metà.
Seiya deve avere esagerato, come al solito. Quando le ha preparato le patate arrosto ha aggiunto il sale a cucchiaiate. Quattro, per la precisione. L’omu-rice non fa eccezione. Ne basta un boccone per far impennare la pressione a livelli improponibili. Ma può dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità a quegli occhi dolcissimi e scintillanti che la guardano, la fissano, in attesa di un suo commento sulla pietanza che le ha amorevolmente preparato, impiattato e messo davanti, con tanto di cuoricino -rosso -sull’omelette – gialla -?
No.
L’ha preparato per te. Quindi zitta e mangia.
«Chi» è stato il pazzo che «ti ha dato la ricetta?» Sarà stata Erii, ma avrà fatto affidamento sul buonsenso. Commettendo un errore madornale. Perché con lui le dosi vanno scritte a chiare lettere. Perché con lui il qb è un’arma di distruzione di massa. Perché…
«Miho», le confessa.
«Miho?» Shaina sbatte le ciglia. Adesso ha senso. Forse fin troppo.
«Sì, lei. Perché? Sei arrabbiata?»
Sì. «No», dice. Mentendo. Stavolta senza appello.
«Meno male. Temevo…»
«Ma tu non mangi?», domanda. Spiazzandolo.
«Io?»
Il sorriso di Shaina assomiglia alla lama di una tagliola che brilla nel sottobosco trafitta da un raggio di sole. «Sì, tu.» Prende una forchettata di omu-rice, la avvicina a Seiya. E gli dice: «Fai aaahh…».


Note:
per avere delucidazioni sull'antefatto (Miho, Seiya e l'omu-rice), date un'occhiata qui.

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Capitolo 22
*** Fratelli ***


#22 - Fratelli

Prompt: Vista - Amici - Nemici
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Gemini Kanon - Wyvern Rhadamanthys
 
Di che reggimento siete,
fratelli?
(Giuseppe Ungaretti, Fratelli, 1916, 1943)


Un soldato ne riconosce un altro a colpo d’occhio. C’è la stessa luce, in fondo a quelle pupille. Lo stesso percorso. Lo stesso fremito nell’arco delle sopracciglia quando l’aria sa di metallo, sangue  e merda. Anche quando le sopracciglia sono una linea unica che va da una tempia all'altra, pensa Kanon.
Rhadamnthys della Viverna è come lui. Un soldato. Qualcuno che vive  aspettando la battaglia. Qualcuno che solo in guerra trova il proprio posto nel mondo. Qualcuno che freme per abbattere il nemico. Qualcuno che, in un altro tempo e su un’altra scacchiera, sarebbe potuto essere suo amico. Suo fratello.


Note:

Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
(Giuseppe Ungaretti, Fratelli, 1916- 1943)

 

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Capitolo 23
*** Aggiungi un posto a tavola ***


#23 Aggiungi un posto a tavola

Prompt: Pranzo
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (post Hades)
Personaggi: Cancer Death Mask

Aggiungi un posto a tavola
che c'è un amico in più
se sposti un po' la seggiola
stai comodo anche tu.
(
Aggiungi un posto a tavola, Garinei e Giovannini, 1974)


Un peperone rosso, uno giallo e uno verde. Un chilo scarso di patate – sbucciate, lavate e tagliate a spicchi alti un centimetro. Due cipolle di Tropea. Uno spicchio d’aglio. Olio extravergine d’oliva; se è quello dell’altro crotonese, meglio. Sale grosso. E la morte sua, una manciata di olive carolee. Venti minuti, a padella coperta, ed è pronta. La peperonata di Francesca resusciterebbe pure i morti.
Il problema dov’è, allora, direte voi?
Nei miei colleghi. Che arrivano alla Quarta Casa guidati dall’
adure. Sempre a tavula consata. Che non puoi più cacciarli via. E tocca aggiungere dodici posti a tavola. Mica uno…



Note:
Nel mio headcanon Death mask è calabrese, della provincia di Crotone. Da ciò ne consegue che l'Adure nel dialetto crotonese significa "odore", "profumo", "aroma".

A tavula consata, è sempre crotonese e significa, letteralmente, a tavola già apparecchiata (consare= apparecchiare; i consi= le stoviglie)

Aggiungi un posto a tavola è una commedia musicale di Garinei e Giovannini del 1974.  

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Capitolo 24
*** Agua de Março ***


#24 Agua de Março

Prompt: Compleanno - Acqua
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Pisces Aphrodite

É pau, é pedra,
é o fim do caminho.
É um resto de toco,
é um pouco sozinho,
(
Agua de Março, Tom Jobim, 1972)




Quel dieci di Marzo Aphrodite osservava la rugiada che ornava i petali candidi delle sue preziosissime rose e sembrava non essere sfiorato da cose futili come il suo compleanno. Anzi, per il Santo dei Pesci quell'acqua che annoiata scendeva dal cielo era di una qualche utilità, rispetto al rammentare un genetliaco dopo l'altro. Gli altri pensavano fosse la paura di veder comparire le rughe sul suo viso.
Aphrodite non aveva di questi timori, la sua bellezza sarebbe rimasta perfetta.
Compleanno dopo compleanno, si andava assottigliando il potere del sigillo di Athena. E compleanno dopo compleanno, si assottigliavano le loro vite.


Nota:
Agua de Março è una splendida canzone brasiliana cantata da Ellis Regina nel 1972.

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Capitolo 25
*** Senza parole ***


#25 Senza parole

Prompt: Se - Amanti - Lui - Oscurità
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Cancer Death Mask - Pisces Aphrodite
Nota: yaoi

E va bene così
senza parole.
(
Senza Parole, Vasco Rossi, 1999)



«A che pensi?»
Silenzio. Il lampo dello zippo e la sigaretta che si accende.
«Dai, dimmi a che pensi...»
Prima tirata.
Non svelare mai il tuo cuore alle donne o ne faranno un sol boccone, diceva Tonio. E Aphrodite, che gli scivola contro, vicino, sopra, e allontana la sigaretta dalle sue labbra, le mani a serrargli i polsi – con dolcezza; con possesso – non è forse quanto di più simile ad una donna esista?
«Allora?»
Come sei insistente... «Ad Aldebaran.»
Gli occhi azzurri di Aphrodite sono due polle che risplendono tumultuose nell’oscurità.
«Aldebaran?»
T'ho lasciato senza parole, eh? Annuisce. Non sta mentendo. Pensava al Brasile. Al caldo asfissiante che faceva laggiù, in Amazzonia. Alle orchidee candide che fiorivano a mezz'aria, aggrappandosi agli alberi come Aphrodite sta facendo con lui. 
Se tu fossi nato laggiù, sarebbe stato autunno, pensava. Un pensiero cretino. Innocuo. Ma Aphrodite è pericoloso. Più della mela stregata delle favole. E anche un pensiero cretino, una debolezza, il solo sapere che pensa a lui anche quando non si cercano nel buio – in quel bisogno disperato, urlato in un sussurro roco e strafottente di corpi che si incontrano e respiri corti e affannati – potrebbe – può – rivelarsi pericoloso, nelle mani – nelle grinfie – di Aphrodite.
«Che bruttissimi pensieri, che fai. Con me qui, poi», soffia. Inarcandosi come un gatto. Pronto a sfoderare gli artigli. E a reclamare, a pretendere, che ciò che è suo – che cio che crede sia suo – resti tale nel mistero dell'alcova. Anche – soprattutto – col pensiero.
«Perché? Tu che faresti?», lo provoca. Specchiandosi in quell'acqua limpida ma fredda come il ghiaccio al disgelo.
Le labbra rosate si arricciano. Di voluttà. Di malizia. Di capriccio. Eccola, la mia primadonna.
«Ti risolleverei il morale...»
Roco. Basso. Una promessa che lui sa che Aphrodite manterrà. Per tenere il punto. Perché il loro cercarsi, in quelle notti silenziose mentre tutto tace e quando nessuno li vede, è una sfida. Un gioco, l'un con l'altro. Per determinare a chi spetti il controllo e il potere sul compagno. Sull'amante. E per dimostrare all'altro che no, non si cede. Che la loro è solo una torbida e arida storia di sesso, puro e semplice. E che non ha nome se non rivalità quel sentimento – indecente – che li spinge a cercarsi, a trovarsi e a fondersi. Anche quando sono lontani.
«E cosa staresti aspettando?», gli dice – gli ordina.
Sfidandolo. Mettendolo alla prova. E in un silenzio di lenzuola umide e sfatte, Aphrodite ubbidisce.
Lasciandolo senza parole.


Nota:
Primo - e si spera unico - caso di yaoi uscito dalla mia penna in questo fandom. Non vi ci abituate. Paganini non ripete. E questi due mi stanno cercando per farmi un discorsetto non proprio... piacevole.

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Capitolo 26
*** 01.09.1973 ***


#26 01.09.1973

Prompt: Nascita
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Sasha - Gran Sacerdote Sion

Alla nascita d'un bimbo
il mondo non è mai pronto.
(Wislawa Szymborska)



Quando la Fanciulla è apparsa ai piedi della statua, l’ha riconosciuta all’istante.
Lunghissimi capelli del colore delle viole. Occhi lucenti come pezzi di vetro. Al polso destro una coroncina di fiori di un bianco accecante. Puro. Come il suo chitone. E tra le braccia, una neonata.
La Fanciulla gli ha  regalato un sorriso timido, ma fiducioso. Radioso. E la sua anima ha cantato. I suoi occhi hanno visto la luce e nel suo vecchio cuore s’è rinsaldata la speranza. La neonata dormiva, pura e innocente. E stringendola tra le braccia, Sion ha saputo che la promessa di Sasha s’era compiuta.

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Capitolo 27
*** Dove nascono le nuvole ***


#27 Dove nascono le nuvole
Prompt: Estate
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Lupus Nachi
 

Non ogni nube porta tempesta.
(William Shakespeare, Enrico VI, 1592)


 
«Nachi, tu lo sai dove nascono le nuvole?»
A volte Djamila riesce ancora a spiazzarlo. Nachi non risponde, la testa piegata di lato e un’espressione perplessa dipinta sul viso. Djamila sorride. Lo aspetta fuori dalla porta, appoggiata alla balconata azzurra, il vestito rosa che contrasta con il blu scintillante del mare ed il bianco accecante delle case. All’orizzonte le nuvole chiazzano il cielo azzurro e terso come un enorme sbuffo di panna montata.
«Volevo vedere com’è questa Grecia», gli ha detto appena atterrata, planandogli tra le braccia con una borsa a tracolla e il sorriso abbagliante. Prima ancora che lui le chiedesse perché fosse arrivata ad Atene con così poco preavviso - nemmeno ventiquattro ore – e lei rispondesse:«Perché domani è il tuo compleanno. Ecco perché»..
«Il tuo bagaglio?», le ha chiesto, invece, specchiandosi nei suoi occhi scuri.
«Non ci servirà altro», gli ha detto mostrandogli la prenotazione dell’albergo a Creta. Ed è stata di parola.
«Allora?»
Djamila aspetta una risposta. Sorride ancora, ma continuerà a porgli quella domanda fino a quando lui non le fornirà una spiegazione convincente.
Nachi si stringe nelle spalle. «Non lo so», le dice abbracciandola. La brezza spira dolcemente a gonfiare la gonna di Djamila.
«Davvero?», lo canzona lei, ma i suoi occhi ridono e a lui va bene così. Il Santuario, l’Armatura e il Cosmo sono lontani, adesso; qualcosa da dimenticare a casa, come l’orologio, le scadenze e l’ombrello.
«Davvero. Ma se vuoi possiamo scoprirlo insieme…»


Nota:
Lupus Nachi è nato il venti di Luglio, e anche lui ha diritto ad un po' di serenità, no?
Djamila è un mio OC, tranquilli, non ve la siete persa per strada.

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Capitolo 28
*** Hanabi - Petrichor reloaded ***


#28 Hanabi - Petrichor reloaded
Prompt: Estate - Terra
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Phoenix Ikki, Saori Kido
 

Idris: It means "the smell of dust after rain."
Rory: What does?
Idris: Petrichor.
Rory: But I didn't ask.
Idris: Not yet. But you will.
(Doctor Who, The Doctor's Wife, season 6, ep. 4)


 
Una domanda affiora alle labbra di Saori. Piano piano. Come quelle meduse che risalgono a galla di notte, incuriosite dalla luce della luna piena.
Ikki sogghigna. Sa che lo sguardo della divina Athena è inciampato sulla vanga che tiene appoggiata accanto alla finestra. E adesso il cervellino di Saori si starà domandando che se ne faccia la Fenice di una vanga da giardiniere.
Ikki si volta, con studiata lentezza.
E quella?, gli domanda lo sguardo di Saori. Che vuole capire. Curiosa. Come tutte le donne.
Quella? Quella è un monito. Un memento, come direbbe qualcuno che ha studiato.
Per ricordarsi che in battaglia la morte accade. Senza rancore. Colpisce, come un fulmine a ciel sereno. E potrebbe succedere di dover seppellire qualcuno, in battaglia. I suoi compagni. I suoi fratelli. Shun.
E Ikki vuole essere pronto. Perché il petricore è una cosa sacra. Gli ricorda Esmeralda. Più dei fiori, più del cielo azzurro, più delle nuvole candide. E ha giurato a se stesso che non avrebbe più immerso le mani nella terra per seppellire qualcuno. Shun compreso.
«Tutto bene?», domanda Ikki. Guardandola come se le si fosse inceppato il disco.
Saori sta per porre quella domanda - «Che te ne fai di una pala da giardiniere?» - lui lo sa. Dischiude le labbra, come preparandosi ad un bacio, poi desiste. China appena la testa – la dea della guerra! –i capelli che le scivolano sulle spalle nude. «Sì, Ikki. Va tutto bene.»
Raccoglie la borsa, se la infila a tracolla e lo afferra – si appende! – sottobraccio.
«Andiamo?», gli dice, dirigendosi verso la porta. Trascinandocelo quasi di peso. Lui non chiede dove si va. Quando la dea della guerra ti mostra quanto sappia essere caparbia, i tuoi piedi non possono che ubbidire. Per vedere chi dei due la spunterà. Per lasciare andare uno sbuffo spazientito, che è finto quanto una moneta da due en. Ikki fa appena in tempo a recuperare le chiavi e la giacca – e il portafogli – che Saori è già sul ballatoio.
«Sbrigati, stanno per cominciare!» Fuori è Tanabata, desideri di carta di riso su canne di bambù sotto un cielo di fiammelle. E lei non vuole perdersi lo spettacolo dei fuochi d’artificio per niente al mondo.
«Arrivo… arrivo…»
La porta si chiude con un clac secco. Rumore di passi sui gradini di metallo. Pum, pum, pum. Rosso, verde, rosa.
Sola, nel buio squarciato da luci cangianti – azzurro, verde, arancio, viola, oro - la vanga aspetta.


Note:
Rientrata alla base di corsa (nulla di grave, mi hanno anticipato una visita perché il medico va in ferie anche lui), mi affaccio per lasciarvi un saluto e questa scemenza.

Grazie a tutti voi per i commenti che mi avete lasciato, per il numero impressionante delle visite alle mie scemenze e per aver deciso di seguire le mie storie. Risponderò appena possibile, promesso!

Questa storia è frutto di tutto il petricore respirato nei giorni di luglio (mai visto un mese estivo così piovoso!). E in Saint Seiya il petricore, almeno chez moi, è Esmeralda nella fossa.
Non so perché Ikki debba custodire una vanga in casa - non si sa mai quando possa tornarti utile! -, ma tutti noi abbiamo le nostre piccole ossessioni, giusto?

Gli en sono quelli che noi chiamiamo yen, mentre hanabi (lett. fiore di fuoco) sono i fuochi d'artificio, che concludono i matsuri, come, ad esempio, Tanabata.  
 

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Capitolo 29
*** Un'estate al mare ***


#29 Un’estate al mare
Prompt: Estate
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Gold Saint
Note: a regazzì… e mo’ te la buco, st’estate…
 
Un'estate al mare 
Voglia di remare 
Fare il bagno al largo 
Per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni 
Un'estate al mare 
Stile balneare 
Con il salvagente per paura di affogare 
(Giuni Russo,
Un'estate al mare, 1982)

 
 
«Se non vuoi, non vado.»
Gli occhi azzurri di Vasilios assomigliano al mare Egeo. Nella penombra della camera da letto splendono di un blu intenso ed accecante, con quella luce pericolosa che abbaglia il turista con le sue onde placide e pigre. Rischiando di trascinarselo sul fondale, assieme ai granchi e alle conchiglie.
Nadja serra le labbra, poi scuote la testa. Gli arriva l’odore della lacca del parrucchiere. Pensavo fosse evaporata, oramai, si dice, osservando il contrasto dei capelli scurissimi sulle federe candide.
«No. Vai», gli dice. E Vasilios trattiene un sospiro. Perché lui, no, non vuole andare in vacanza con gli altri. Vuole restare lì, con lei, vuole recuperare il tempo perduto, tra una cosa e l’altra, vuole…
«Tra una cosa e l’altra?», e Vasilios si accorge di aver pensato ad alta voce. Nadja si è messa a sedere, il lenzuolo tirato sul petto e lo sta fissando. Con quello sguardo. Quello che non si commuove. Anzi.
«Ecco… io…»
Nadja sbuffa. Chiude gli occhi, poi cerca il pacchetto di sigarette sul comodino. «Tu partirai. Domattina. Assieme agli altri. Anche a costo di farti salire a calci sul pulmino. Intesi?»
«Intesi.»
 


«Mi spiegate perché siamo venuti quaggiù?»
La voce di Aiolia sa essere martellante, quando ci si mette.
«Per la centesima volta», replica Shura, lo sguardo assassino e il tono di voce di chi ha perso da un pezzo la pazienza ma fa fatica a trattenersi dallo strozzarlo. «Athena vuole che ci rilassiamo. Athena vuole che ricreiamo quell’armonia di gruppo che avevamo quando eravamo ragazzini. Athena vuole che mettiamo una pietra sopra a tutto il delirio che è successo. E ricominciamo daccapo. Ecco perché siamo qui. Soddisfatto?»
«Questo lo so», ed è solo perché la mano di Mask si serra attorno al polso di Shura che la testa di Aiolia se ne resta al suo posto. «Quello che mi chiedevo è perché non siamo andati a casa di Milo», aggiunge indicando la schiena dello Scorpione con un cenno del mento.
Scorpione che sbuffa. E ribatte: «Ancora con questa storia?».
«Sì. Ancora con questa storia.»
Milo alza lo sguardo e serra le mani a pugno. Poi raccoglie tutta la pazienza di cui abbisogna e sposta lo sguardo sul Leone.
«Primo, non c’è posto per ospitare tutti.» E perché Phi mi avrebbe ammazzato se suo fratello avesse visto il nostro letto, pensa, mentre un’occhiata di Camus gli congela la spina dorsale. «Secondo, Athena ha scelto un luogo neutro, così da far sentire tutti a casa.»
«E me lo chiami luogo neutro, il mare?», domanda Camus. Con una nota velenosissima di sarcasmo.
«Perché?»
«Kanon», ribatte l’Aquario. Come a voler ribadire l’ovvio.
Milo si stringe nelle spalle.
«Non so cosa dirti. La prenotazione l’ha fatta proprio AJ.»
«A mio fratello piace il mare», commenta Saga prendendo la propria borsa e mettendosela a tracolla.
Immagino, pensa Mask, prima di aggiungere: «Eh, no. Patti chiari, amicizia lunga. Se dobbiamo passare la vacanza a rinfacciarci il passato, ditelo adesso ché prendo il primo traghetto e me ne torno ad Atene.».
Silenzio.
«Ben detto. Questo è lo spirito giusto!», ed una sonora pacca di Aiolos si stampa sulla schiena del Cancro.
«Chi ha l’indirizzo dell’albergo?»
Saga non ha perso l’attitudine al comando. E inizia a fare caldo. E una comitiva di dodici maschietti – tredici con Kanon, che non c'è perché è in missione, ma li raggiungerà domani o dopodomani – non passa certo inosservata.
«Dunque», dice Mu sollevando gli occhiali da sole. «Albergo Olympos. Odos Athenas, 27. Chora.»
«Di qua», fa Milo, mettendosi in testa al gruppo. «E diamoci una mossa. Mi sento sin troppo osservato…»
 


L’Albergo Olympos è in realtà un bed and breakfast. Le sue stanze sono mini appartamenti – «Tutti riservatissimi ed insonorizzati», come si è premurato di specificare Antonios, il ragazzo alla reception, affidando loro le chiavi – sparsi su di una minuscola piazzetta dagli edifici a due piani bianco gesso e blu cobalto, poco distante da Odos Athenas e dall’accesso alle spiagge.
«La colazione si effettua tra le sette e le dieci e mezzo, nella caffetteria del corpo centrale. Vi auguro una buona permanenza», ha detto loro Antonios aprendo gli appartamenti, prima di congedarsi con un sorriso cordiale. Sorriso che ha però regalato a Mu uno strano brivido lungo la spina dorsale.
Me lo sarò immaginato, si dice l’Ariete posando la propria borsa da viaggio ai piedi del letto. Matrimoniale.
No, aspetta…
«Che accade?», gli chiede Shaka.
Mu si limita ad indicargli il letto a due piazze e la delicata sovraccoperta celeste.
«Deve esserci stato un disguido. Succede, quando si prenota per molte persone…»
Lo spero, pensa l’Ariete. «Vado a vedere se possiamo sistemare la cosa in qualche modo», dice al compagno. Antonios è tornato indietro ciabattando con la pigra andatura ciondolante dei greci. Ciò significa che si sarà fermato a chiacchierare strada facendo – nemmeno mezzo isolato – e che vuoi che ci metta a rincorrerlo e a fermarlo per spiegargli che…
«Anche voi avete il letto matrimoniale?»
Death Mask appare sulla sua strada con uno sguardo torvo. Mu annuisce. L’altro smoccola qualcosa che l’Ariete non è sicuro di voler comprendere.
«E io che avevo voglia di sbragarmi nudo sul letto, col caldo che fa!»
«Sbra?», domanda Mu, pentendosene.
«Sbragarmi. Stravaccarmi. Buttarmi a peso morto sul letto e farmi un sonnellino. Chiaro il concetto?»
Mu annuisce.  «Aphrodite?»
Mask sbuffa.
«Si sta facendo la doccia, palliduccio com’è, ha rischiato il collasso.»
Non avrai perso di nuovo a morra, vero?, pensa Mu. Al Santuario pensano tutti che Aphrodite, il bellissimo Aphrodite, sia la vittima designata degli scherzi sadici di Mask, quando è piuttosto vero l’inverso. E che Mask, il terribile Mask, ha l’abitudine di tirare sempre sasso, quando gioca a morra, e dire in giro che Aphrodite ha più culo che anima. Dio li fa e poi si pente, chiosa Mu tra sé e sé. «Andiamo a vedere se possiamo sistemare la faccenda», propone, quando dall’altra parte della piazzetta appare Shura.
«Avete anche voi…»
«…il letto a due piazze?»
Silenzio.
I tre si guardano attorno. Perplessi. Sbattono le palpebre. Shura abbozza un sorriso che non coinvolge né i suoi occhi, né quelli di Mu. Mask si accende una sigaretta.
«Chi ha fatto la prenotazione?»
«AJ», risponde Camus, affacciato al balconcino con le ringhiere in ferro battuto color blu cobalto. «Perché? Avete anche voi il letto matrimoniale?»
Annuiscono.
«Anche la scorta di preservativi nel cassetto del comodino?», chiede.
«Checcosa?», domanda Shura, senza accorgersi – senza volersi accorgere – che qualcuno, dal balcone accanto a quello di Camus, sta facendo la radiografia ai suoi addominali. Un ragazzo. Un bel ragazzo. Spalle ampie, sorriso da fotomodello e abbronzatura leggera, un telo da bagno sui fianchi che se avesse vita propria cadrebbe a terra con un sospiro languido.
«Non ho controllato», ribatte Mu, mentre il viso di Mask – che il ragazzo al balcone l’ha visto, eccome! – è cereo.
«Voi… non mi starete dicendo che.»
«Merde!», esclama Camus rilasciando la testa tra le spalle. I lunghissimi capelli dondolano nell’aria. «Hanno fatto casino con le prenotazioni. Lo sapevo…»
«Un posto così bello e tranquillo sarà frequentato da sposini… coppiette…»
«Le ragazze l’avranno scelto per non farci cadere in tentazione…»
«Massì… Basterà separare i letti», spesso sono solo due reti accostate. Ma Shura non finisce la frase. Nel suo campo visivo è apparso Doko – il venerabile Doko – che avanza verso di loro, a passo svelto, l’espressione preoccupata. Ed imbarazzata.
«Ragazzi, credo ci sia stato un deprecabile equivoco…»
 


«Io non le capisco proprio…»
«Chi?»
«Le ragazze, chi?», ribatte Seiya sbocconcellando dell’uva. «Marin era addirittura entusiasta all’idea che Aiolia si accodasse agli altri per quella specie di vacanza di gruppo. Per rinsaldare i legami tra compagni. Una scusa più idiota non la potevano inventare. E loro se la sono bevuta senza battere ciglio. Donne. Chi le capisce, è bravo…»
Hyoga tace. Stringe fra le mani una lattina e dice:«Non vedo che ci sia di strano.».
«Non lo vedi? Davvero?», chiede Seiya giocherellando con un acino. Lo fa saltare in aria e lo ingoia al volo, come fosse una foca ammaestrata. «Ma che cos’hai, tu, nelle vene? Ghiaccioli, al posto del sangue?»
«Non capisco neppure io», s’intromette Ikki.
«Seguimi», gli dice Seiya smettendo di fare il giocoliere. «Dodici ragazzi. Soli. Al mare. D’estate. Sai come la chiamo, io, una cosa del genere?»
«No. Come la chiami?»
«Spedizione. Punitiva.» Il tono di Seiya è serissimo. «Scommetto che avranno iniziato a segnare le tacche appena scesi dal traghetto.»
Shiryu, Ikki e Hyoga si scambiano uno sguardo perplesso.
«Io non credo», prova a ribattere il Dragone, ma Pegaso lo interrompe.
«Avanti… Una settimana. Al mare. Con la spiaggia piena di bellissime ragazze in bikini. Su, sii sincero. Siamo tra uomini. Nessuno lo dirà a Shunrei…»
«Che c’entra Shunrei?»
«Bah!» Seiya liquida la questione con un gesto della mano, poi riprende a staccare gli acini dal grappolo uno ad uno, fissando un punto imprecisato all’orizzonte. «Certa gente nasce con tutte le fortune...»
«Scusa, ma dove sarebbero andati, poi, a fare danni? Creta?»
«Mykonos», ribatte Seiya, con la stessa ieraticità della Pizia. O quasi.
Fenice, Dragone e Cigno si scambiano uno sguardo incredulo.
«Hai… hai detto Mykonos?», domanda Ikki, faticando a restare serio. Shiryu ha fallito e sta ridacchiando sotto i baffi, nel patetico tentativo di simulare un colpo di tosse. Hyoga rischia il collasso.
«Sì. Perché?»
Ikki piazza un braccio attorno alle spalle di Seiya e gli sgraffigna un paio di acini.
«Fratellino, è ora di farti un certo discorsetto... Da uomo a uomo. Hai capito che intendo?»
«No.»
«Sai, le api e i fiori… hai presente?»
«Quindi?»
«A volte le api… vanno con le api… e i fiori con i fiori…»
«Non ti seguo…»
«Ragazzi, portate qualcosa da bere. Qui la vedo lunga…»


Note:
Ennesimo delirio estivo. Ferragosto si avvicina. Si salvi chi può.
Ovviamente, l'Albergo Olympus esiste e non esiste. Esiste, in questa verisone, nella mente malata di quelle come me che rompono i %&/%%&%&$& dalla mattina alla sera (cit.).
Mi rendo conto che mandare una comitiva di dodici - tredici, ché Kanon arriva domani - maschietti su Mykonos potrebbe rivelarsi un clamoroso autogoal, ma su, è estate.
Lasciatemi giocare coi cliché.

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Capitolo 30
*** Club Tropicana ***


#30 Club Tropicana
Prompt: Cena- Estate
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Gold Saint
Note: Il diavolo non gioca mai da solo



Let me take you to the place
Where membership's a smiling face,
Brush shoulders with the stars.
Where strangers take you by the hand,
And welcome you to wonderland -
From beneath their panamas...
(WHAM!,
Club Tropicana, 1983)



«Stasera mi servirebbe casa…»
«Cosa?»
«No, non cosa. Casa.»
Death Mask lo guarda di sottecchi. Aphrodite è un tipo sfuggente. Ti distrai un secondo e lui è già sparito altrove, a fare chissà cosa. E chissà con chi.
«E perché ti servirebbe casa?»
Il sorriso di Aphrodite luccica come una tagliola avvelenata.
«Secondo te?», risponde, e Mask non è più tanto sicuro di volerlo sapere. Qualcosa gli dice che forse è meglio ignorare chi dormirà nel suo letto, stanotte. Ma l’altra parte di lui, quella battagliera, invece insiste per proseguire quella conversazione. Per capire. Perché è lampante che Aphrodite abbia rimorchiato e che avrà un incontro galante a breve. O non avrebbe speso le ultime due ore a farsi bello e non glielo avrebbe comunicato – ordinato, quasi – all’ultimo secondo, con la giacca appena indossata e le chiavi di casa in mano. Con quell’aria finto distratta che lo manda al manicomio.
Aphrodite ha rimorchiato. E lui vorrebbe proprio sapere chi. Perché è sceso in spiaggia, lui. Per darsi un’occhiata intorno. Per vedere com’è questo famoso mare di Mykonos. Ed ha scoperto che è blu, come tutto l’Egeo. Come tutto il Mediterraneo. Come ogni stramaledetto mare che punteggia di blu il pianeta Terra. Ma questa spiaggia pare essere priva dei pesci che piacciono a lui. Le uniche due papabili prede erano una coppia di ragazze troppo vicine e troppo unite per non essere una coppia già di loro. Quindi, la domanda resta: chi diamine ha rimorchiato Aphrodite? E soprattutto, dove?
«Su, non farti pregare. Non posso andare da Jessie…»
«Perché no?»
Aphrodite alza gli occhi al cielo. «Ti devo spiegare proprio tutto?»
«No, grazie. Ma stasera dormi altrove, con Jessie.»
«Come puoi essere così egoista?!» Egoista? Io?!, pensa il Cancro. «Tu potresti dormire col maestro. Ha un posto vuoto, lui.»
«Ti ricordo che l’ho quasi massacrato…»
«Errore! Saga ti aveva inviato a risolvere la questione, ma tu…»
«Senti…», e la voce del Cancro è un maglio d’acciaio che piomba a terra con tutta la veemenza di cui è capace. «Finiamola qui. Tu e Jessie andate a dormire altrove, intesi?»
«Uffa, che noia che sei!», Aphrodite giocherella con l’anello della chiave, un broncio che gli aggrotta poco le sopracciglia – dovessero venirgli le rughe – e che molte donne troverebbero adorabile. Lui lo chiama odioso. È più calzante. A suo avviso. «E io che stavo per chiedere a Jessie se poteva procurarti compagnia…»
«È meglio che tu vada. Non vorrai far tardi…»
«Allora, per stasera… risolviamo alla vecchia maniera?», propone Aphrodite. Mostrandogli il pugno chiuso che dondola. Destra, sinistra, destra, sinistra, destra…
 
 
«Chi mi riassume la faccenda?»
Kanon è seduto a cavalcioni su di una sedia e li sta fissando. Uno per uno.
«Che c’è da riassumere? Le ragazze ce l’hanno messo in quel posto. E se non stiamo attenti, rischiamo che qualcuno possa avere la stessa idea. Non so se mi spiego…»
L’espressione di Mask è più truce del solito. Seduto, braccia incrociate e gambe accavallate, sta pestando la moquette verde pisello con la punta del piede, l’infradito che produce un rumore di plastica zittita.
«E adesso che ci penso, non è stata proprio la tua ragazza a combinarci questo scherzetto?»
Kanon si passa una mano sul viso.
«Sono sicuro che l’abbiano messa in mezzo. Quando ci si mettono, sanno essere delle iene…»
«Un momento», e Mu alza la mano. «Anche ammesso che AJ sia stata forzata ad assecondare le altre, perché non te ne ha parlato?»
«Giusto», rincara la dose Milo. «A me sembra strano che l’agnellino non ti abbia detto nulla. Per farsi difendere dalle iene, sai com’è…»
«Avrà avuto paura delle loro ritorsioni…» Kanon si stringe nelle spalle.
«E che le avrebbero fatto, eh? Le avrebbero messo la colla sul cuscino?»
«No, in quello sei tu l’esperto», ribatte tranquillamente Aldebaran guardandosi le unghie. «Ma ammesso e non concesso che AJ sia stata tirata per i capelli, mi spiegate cosa c’entriamo noi?»
Silenzio.
«Chi va con lo zoppo impara a zoppicare», propone Camus.
«Come, scusa?»
La voce di Aiolia è d’acciaio.
«Sapevano di non potersi fidare di voi, forse…»
«Parla per tuo cognato!»
«Un momento», esclama il diretto interessato. «Che c’entro io?»
Acquario e Leone lo fulminano con lo sguardo.
«Ok, Milo è inaffidabile», interviene Aldebaran, ignorando le proteste dello Scorpione. «Ma perché devo rimetterci io?»
«Non solo tu.» Shura ha l’aria imbronciata, lo sguardo tinto di lucida follia e le braccia incrociate. «Anche io sono qui, in quest’inferno, e vorrei sapere che c’entro io, con voi.»
Già, vorrei saperlo anch’io, si domanda Milo. Perché è pronto a scommetterci la testa che le ragazze abbiano trovato un obbiettivo comune, ma non è a suo agio nel pensare che quell’obbiettivo comune sia la vita sentimentale del Capricorno. Proprio no.
«Anzi», aggiunge Shura, «sei di noi sono in quest’inferno, e nemmeno battono chiodo…».
«Qui l’unico che batte chiodo è Aphrodite…»
Mask ha sganciato la bomba con la delicatezza di una ballerina del Bol'šoj. Otto paia di occhi si voltano nella sua direzione, smarginati, allargati, increduli.
«Scusa, puoi ripetere?»
Kanon non è sicuro di aver sentito bene. Così chiede conferma. Fissando Mask, gli occhi sul punto di rotolare giù dalle orbite e sulla moquette verde pisello.
«Aphrodite. Ha. Rimorchiato.»
Mask lo scandisce con lentezza. Cosicché gli altri capiscano bene. Aphrodite non ha fatto menzione circa il tenere la bocca chiusa, e Mask non si lascerà scappare l’occasione di dar fiato alle trombe. Perché dovrà chiedere al Vecchio Maestro di ospitarlo, stanotte. E la cosa non gli va giù. E tutto perché quel disgraziato ha tirato sasso proprio l’unica volta in cui io ho tirato forbici.
«Stai scherzando, vero?», gli domanda Saga. Poi Gemini si accorge che oltre ad Aphrodite e al Maestro ed Aiolos, persi in una delle loro chiacchierate senza fine, manca anche Shaka. «No. Non dirmi che stasera esce con…»
«E con chi, sennò?», ribatte il Cancro, la testa piegata di lato a fissare gli occhi blu di Saga. «Siamo su Mykonos, ti ricordo. E ha detto che si chiama Jessie. Chi vuoi che sia, una fotomodella con uno stacco di coscia di un metro?»
«Shaka dov’è?» Saga lo chiede a Mu. Con l’espressione di chi si è accorto solo ora della defezione della Vergine.
«A meditare», risponde l’Ariete, come da copione; ma qualcosa gira male, e Saga non è del tutto convinto che le cose stiano proprio così. Sta per domandare: «Ne sei proprio sicuro?» a Mu, quando bussano alla porta. Tre colpi secchi, brevi, ravvicinati. E poi l’uscio blu cobalto si apre – si spalanca – e appare Aphrodite nel riquadro della porta. Abbracciato ad una iper-super-megasventolona – quasi sicuramente una fotomodella – con uno stacco di coscia di un metro, gli occhi azzurrissimi ed i capelli di un biondo impossibile.
«Scusate il disturbo», e la voce di Aphrodite si colora di un fortissimo accento svedese e di una nota di imbarazzo falsa come una moneta di cioccolato, «ma ho volevo avvisare Mask che non mi serve più la stanza, stanotte. Jessie ed io ci spostiamo da Freja.»
«Freja?»
«Sarei io», ridacchia la biondona, con lo stesso accento di Aphrodite. Saluta con un sorriso smagliante e un po’ alticcio e le dita sottili che si muovono in maniera leziosa.
«E io sono Jessie.» Una bellezza d’ebano, il negativo di Freja, fa capolino dal lato destro di Aphrodite, la mano posata sul petto dello svedese. «Jezzika. Jessie per gli amici. Kalispeeeraaah
Aphrodite sfoggia un sorriso trionfale. «Buona serata, allora. Vogliamo andare, ragazze?», propone alle sue dee avvolte in vestitini dai colori squillanti. E fa per andarsene, e lasciare gli altri a rodersi il fegato, quando la voce di Mask lo richiama.
«Yngve, permetti? Una parola…»
I piedi di Aphrodite si bloccano. Guarda il collega come a dirgli «Devo proprio?», e quando legge il «Sì che devi» nelle pupille di Mask e degli altri, si scioglie dall’abbraccio delle due svedesi.
Mormora qualcosa alle ragazze – un «ci metto un istante, giuro» in quel guazzabuglio di suoni duri che lui si ostina a chiamare lingua – e torna indietro.
«Scusate. Ve lo rendo subito», dice Mask, socchiudendo l’uscio. Quando si volta, il suo viso è una maschera rabbiosa, così come quella di Aphrodite.
«Si può sapere che vi frulla in testa? Volete rovinarmi la serata?», sibila il Santo dei Pesci.
Mask apre e chiude i pugni tre, quattro, cinque volte. Digrigna i denti e poi sputa: «Di grazia, vorresti spiegarci come hai fatto?».
Aphrodite sbatte le palpebre, perplesso. «Come gli antichi. Sono sceso in spiaggia, ci siamo conosciuti, le ho invitate a cena e via.»
«Mi spieghi come diamine tu abbia fatto a trovare l’unica coppia di amiche etero in tutta l’isola?!»
Mask non è sicuro di aver tenuto un tono di voce basso. Probabilmente le ragazze lo hanno sentito, ma pazienza. Dubita che una che sbraiti «Kalispeeeraaah» conosca davvero il greco. E anche se fosse, ‘sticazzi.
Aphrodite scuote la testa. «Mykonos è un’isola cosmopolita. Trovi di tutto. Basta saper cercare. E scegliere. E godersi la vita. Ho ricevuto offerte pure dagli uomini, non lo nego. Ma non sono il mio tipo.»
«Offerte?», chiede Camus. Milo è troppo sbigottito per fiatare.
«Bibite che ti arrivano mentre te ne stai sdraiato a prendere il sole. O a leggere un libro. O non appena ti siedi al bar. Basta accettare, scambiare quattro chiacchiere e mettere le cose in chiaro. Con grazia.»
«E pure quelle due…»
«No. A Jessie e Freja ho offerto io. Sono pur sempre un cavaliere.»
«Sì, ok. Ma con quali soldi?»
La domanda di Aldebaran è più che legittima. Athena organizzato la vacanza fin nei minimi dettagli, e ha ordinato loro di partire senza il becco di un quattrino. E Mask teme che quell’incosciente abbia fatto mettere tutto in conto. Bibite, cena e abito di Aphrodite. Perché nessuna persona sana di mente infilerebbe un completo nella valigia delle vacanze al mare. A meno di non prevedere una qualche cena galante, ovvio.
«Dì, un po’», gli domanda avvicinandosi pericolosamente, «non avrai fatto mettere tutto in conto, vero?»
«Non dire assurdità», ribatte Aphrodite, le mani sui fianchi. «Ho pagato tutto. E subito.»
«Con quali soldi?» Aldebaran torna alla carica, le braccia incrociate e l’aria seria.
«Tutto vi devo spiegare», ed Aphrodite estrae dal taschino della giacca una tesserina colorata. Mask gliela strappa di mano. Su un lato c’è un codice a barre ed una linea magnetica con una firma illegibile. Sull’altro, campeggia una fotografia di Aphrodite, una rosa rossa tra le dita. «È una tessera prepagata. Ricaricabile. È molto comoda. In caso di furto o smarrimento, si può bloccare con una telefonata.»
«Ok. E da dove esce fuori?»
«Me l’hanno data le ragazze.»
«Come, scusa?» E glielo domandano in coro.
Aphrodite alza gli occhi al soffitto. «Me l’hanno data le ragazze in caso fosse accaduto un qualche imprevisto…»
«E tu me lo chiami imprevisto una cena fuori?»
«Se non hai niente da metterti addosso, sì», risponde Aphrodite, le mani nelle tasche dei pantaloni. «O sarei dovuto andare a cena con i bermuda e le infradito?»
«Quanto c’è rimasto?», chiede Mask tenendo tra indice e pollice la prepagata.
«Abbastanza per campare tutto spesati per il resto della vacanza.»
«Questa è requisita.»
«Fa pure. Ne ho delle altre.»
«Tu… cosa?»
«Athena ha detto di non portarsi dietro soldi. Non ha mai parlato di tessere prepagate o carte di credito.» Aphrodite si stringe nella spalle. «Se adesso avete finito, io avrei da fare…»
E il Santo dei Pesci imbocca la porta, chiudendosela alle spalle con un sonoro SBAM, ed uscendo da questa storia stringendo tra le braccia due splendide fotomodelle, lasciando i propri compagni allibiti, attoniti, basiti, la carta prepagata ben stretta tra le dita di Death Mask.
 
 
«Capisco. La privacy, certo. Ma la sto chiamando perché l’agenzia per cui lavoro vuole verificare che i nostri fotomodelli non… Non può proprio dirmi di chi si trattasse? Nemmeno descrivermelo… Sì, sì, sì… Ho capito. Ah. Ah. Ah. Davvero? Due? Ho capito. La ringrazio. Mi è stato utilissimo, signor Kalatzakis. Arrivederci… arrivederci…»
Il telefono finisce sul divano alle sue spalle. Athina lo fissa come se fosse un qualche oggetto volante non identificato. Come se potessero uscirne dei marziani. Piccoli, piccoli, piccoli. Poi guarda AJ. Guarda le sue spalle tremare. Non è un buon segno. Affatto.
«Tutto bene?»
«Tutto bene un corno!»
Athina fa un piccolo passo indietro. Alza le braccia – per difendersi – e poi domanda: «AJ, tesoro, mi spiegheresti che succede? Così mi farai preoccupare…».
«Beh, dovresti! È successo un casino. Ed è tutta colpa vostra!»
«Nostra?»
«Chi mi ha convinto a spedire i ragazzi a Mykonos?», protesta AJ, la mascella irrigidita e i pugni chiusi.
«Oh, adesso non fare la vittima. Conviene anche a te che Kanon sia a Mykonos e non a Creta», ribatte Athina, sedendosi accanto al telefono. Accavalla le gambe e prosegue:«Laggiù non correranno di certo il rischio di fare conquiste…».
«Io non ne sarei così sicura.»
Athina sgrana gli occhi. «Scusa, come?»
AJ si sposta sulla sedia e le mostra lo schermo del proprio laptop. «Queste sono le ultime azioni fatte con la nostra carta. La prepagata. Quella che abbiamo dato ad Aphrodite. Quella da usare in caso di bisogno, hai presente?»
Athina si avvicina. «E?» Perché c’è un «E?», giusto? E Athina teme che quell’«E?» non le piacerà affatto.
«Qualcuno, non so chi, ha speso quasi tutti i mille euro che avevamo ricaricato sulla carta.»
«Qualcuno, chi?»
«Oh, è questo il brutto delle prepagate. Non si sa. Sai quanto hanno speso, quando e dove, ma non sai chi.»
«E che cosa hanno comprato?»
AJ le fa spazio. Che guardi anche lei. Duecento euro da Zara Uomo. Altri centoventi in un negozio di scarpe. Trecento in Beach Bar di Mykonos, il Tropicana. Centosettanta in un ristorante sul mare, a base di pesce. Settantacinque euro tramite Interflora. Cinquanta euro di bibite al bar della spiaggia.
«Ma non sappiamo chi.»
«Esatto. Ho contattato il ristorante, l’unico che ha senso chiamare, e mi hanno detto che no, non possono rivelare l’identità dei loro ospiti se non previa autorizzazione della magistratura. Ma si sono premurati di dirmi che non ha lasciato mance e di fornirmi un identikit sommario. Un uomo. E due donne. E basta.»
«Non dirmelo…»
«Oh, e invece te lo dico. Può essere uno chiunque dei nostri maschietti. Kanon, Saga, Milo, Mu, Aiolia...»
«Non potrebbe trattarsi di Aphrodite, invece?», l’interrompe la Vergine.
«Aphrodite che fa spese da Zara Uomo? Tu sogni!»
«Quindi?»
La voce di Athina trema, impercettibilmente. Perché ha paura che AJ possa avere ragione. E non è affatto piacevole avere dubbi sulla fedeltà del tuo uomo.
«Quindi, adesso ci riuniamo e facciamo il punto della situazione e risolviamo il problema», dice AJ afferrando il cellulare. «Io chiamo Nadja. Tu pensa ad avvisare Marin.»
«Non sarebbe meglio prenotare il primo volo per Mykonos, invece?»
«Oh, lo faremo. Fammi solo avvisare le altre di mettere in valigia lo spazzolino da denti e la clava…»




Note:
L'avete voluta voi. E io sono lietissima di accontentarvi. Secondo episodio delle tragicomiche avventure sull'isola più à la page del Mediterraneo. Protagonista assoluto, Aphrodite dei Pesci.

Il Tropicana esiste per davvero ed è un Beach Bar di Mykonos che dicono essere molto esclusivo. Dicono...

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Capitolo 31
*** Quand le vent se lève ***


#31 Quand le vent se lève
Prompt: Aria- Pioggia
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Scorpio Milo
Note: Ogni riferimento al maestro Miyazaki è assolutamente non casuale.


Le vent se lève!
(
Paul Valéry, Le cimètiere marin, 1920

 
Le mani tremano.
La fronte gronda sudore.
Due carte. Mancano due sole carte ed il castello per cui ha impiegato tutto il pomeriggio avrà un tetto. Aguzzo. Come la cuspide del pungiglione di cui va tanto fiero.
Due carte. Solo due carte.
Si ferma. Volta la testa, a guardarsi una spalla e a fare chiarezza dentro di sé. Lei sfoglia una rivista, annoiata, il flap flap flap delle pagine che si fa insofferente. Nervoso. Indisponente.
E lui se ne accorge. Le rivolge un’occhiataccia, ma non fiata. Non fiata perché teme che anche il minimo spostamento d’aria possa distruggere il suo castello fino alle fondamenta. Donne…
Sbuffa aria dal naso. Come un toro nervoso che pesta il terreno e che vuole uscire dal recinto. Si concentra e riprende a studiare, con calma, dove e come posizionare quell'ultima coppia di carte. Piano. Piano. Pianissimo. Congiunge i due bordi, a formare una V rovesciata e piano, piano, pianissimo posa l’ultimo mattone – l’ultima guglia – in cima al castello.
Lei è immersa nella lettura e non si accorge di lui. Che non stacca le mani dalle carte. Restano immobili, la plastica che si scalda contro pelle, la lancetta dei secondi che tac, tac, tac riempie il loro silenzio col proprio respiro. Poi lui si scosta, come se quei dorsi, uno rosso e uno blu, scottassero. Come se fossero fatti di fuoco.
Abbandona le braccia lungo il busto e affloscia le spalle contro lo schienale. Sorride, di quella smorfia un po’ ebete che mettono su gli uomini quando compiono qualcosa di assolutamente complicato e di incredibilmente stupido. Come se avessero salvato il mondo.
In un angolo della sua mente, lui si dice che deve prendere la macchina fotografica e scattare una foto. Che incornicerà, a perenne memento della sua opera. E deve farlo adesso, prima che il castello crolli su se stesso. Per un capriccio. O perché si è alzato il vento. Così, piano piano, Milo si alza dalla sedia. Lentamente.
Il tavolo traballa, ma il castello resiste.
Bene, si dice. Soddisfatto, sì; ma senza riuscire a trovare la forza per staccarsi dalla sua creatura. Come quei padri che se ne restano tutto il giorno davanti al vetro opaco della nursery ad osservare il loro erede. E a darsi di gomito, con gli altri uomini. Perché sì, anche il loro pargolo è bellissimo, ma nulla in confronto al…

SBAM

Il cervello di Milo registra due cose.
Il castello di carta che viene giù. Come se qualcuno avesse sfilato le fondamenta – nemmeno fossero carote appena colte nell’orto – e le avesse annichilite. Come un  sogno che s’infrange. In uno svolazzare di carte da gioco che flup, si afflosciano sul tavolo.
E poi c’è la rivista. Quella con una modella occhioceruleomunita che sorride, allegra e solare perché lei sa quali sono le dieci regole per farlo cedere, o così almeno sembra sussurrare – sottintendere, semmai – l’espressione della ragazza. La rivista che stava leggendo Lei. E che è planata sul tavolo con la grazia di un uragano molto, molto distratto.
Lei che si stiracchia. Piano piano. E guarda fuori dalla finestra.
«S’è alzato il vento», dice. E finalmente si volta verso di lui. Che sta emettendo un suono basso. Un suono doloroso. Come di una bestia ferita. «Beh? E il tuo castello?», chiede. L’espressione più innocente del suo repertorio stampata sul viso.
«La tua rivista», vorrebbe dire lui. Trattenendo i pugni. Socchiude gli occhi, due mezzelune azzurre affilate come lame.
«Ho capito», dice lei. «Non avrai posato bene le fondamenta…»
Non avrò… !! Stringe le labbra fino a farle diventare livide. «Dici?»
«Sicuro», ribatte lei, guardandosi le unghie. «È per questo che i palazzi crollano, perché non hanno solide fondamenta… Lo sa anche un bambino.»
«Certo, certo.» Milo sorride. Un sorriso indecifrabile. Pericoloso. Quello che mette su quando si prepara a far scattare la sua trappola. In cui Lei s’è andata a ficcare da sola.
«Non mi credi?»
«No, non è questo…»
«E allora, cos’è?»
Milo sospira. «Facile a dirsi. Ma a farsi? Non dubito che tu sapresti fare meglio di me. Ed in metà del tempo, scommetto. Tuttavia…»
«Vuoi che te lo dimostri?»
Lui nicchia. Si stringe nelle spalle, come a dire «certochesì!». Ma non fiata. «No, no. Non ti disturbare…»
Lei scosta la sedia, si accomoda e raccoglie le carte. «Stai a vedere, tesoro. Ti costruirò un castello di carte che ve lo sognate, qui in Grecia…», gli dice – gli promette – sgombrando il tavolo e allestendo la prima fila. Tre guglie e due coppie di carte in cima. «Vedrai, vedrai…», gongola, ma non appena lei posa la seconda fila, «Etciù!», starnutisce Milo.
Lei gli rivolge un’occhiata interdetta. Stralunata. Che passa dall’incredulità – «No, non è possibile!» - all’irritazione – «L’hai fatto apposta!!».
«Ops. S’è alzato il vento», replica lui. Mentre le dita di lei si chiudono attorno al suo collo.
«Tu…», ringhia Lei. Quando lui riesce ad afferrarle i polsi.
«Hai ragione. Le fondamenta sono la base di tutto…», le sussurra. A pochi centimetri dal viso. Con quel sorrisetto dispettoso che la fa uscire dai gangheri. E lui lo sa. E lei sa che lui lo sa.
«Non ti alzerai da qui fino a quando non avremo costruito questo maledetto castello. Da cima a fondo. Intesi?»
«Sì, mamma…»
Lei divide le carte in due mazzi uguali.
«Tieni. Iniziamo dalla prima fila. Rinforzata», gli ordina lei.
«Non dovevi uscire?», le domanda lui. Distrattamente. Assemblando una fila di sei carte unite a coppia.
«C’è aria di pioggia», taglia corto lei. Mentre la lancetta dei secondi – tac, tac, tac –torna a colmare il loro silenzio con il proprio respiro.

 

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Capitolo 32
*** Ho sceso, dandoti il braccio ***


#32 Ho sceso, dandoti il braccio
Prompt: Oscurità
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Scorpio Milo
Note: Perché Montale aveva ragione, pace all'anima sua. E un giorno busserà alla mia porta per riempirmi di ceffoni. A due a due. Fino a quando non diventeranno dispari.


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
(
Eugenio Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, Xenia II, 1967)



E se il tempo fosse davvero un gambero? E se lo si potesse vivere di nuovo, andando a ritroso lungo i viali dorati della memoria, cercando i ricordi come fossero lucertole pigre che sonnecchiano sotto ai sassi di un pomeriggio d’estate?
Se le lancette del tempo potessero tornare indietro, anche per una volta sola, per un solo, singolo istante… Se, e sottolineo se, questo fosse possibile, tu cosa sceglieresti? Quale attimo vorresti rivivere? Quella chiacchierata spensierata di un Aprile ormai sbiadito, quando le parole saltavano come grilli sui fili d’argento dei vostri discorsi… oppure il canto sussurrato del mare che riempie il silenzio della notte di velluto? O le sue, di parole, fredde come ghiaccio e taglienti come pezzi di vetro quando ti indicava la porta, quando ti affondava una spada nel cuore – ancora un volta – dicendoti – mentendo, il bugiardo! – «Quando torno non voglio trovarti più qui.»?

Tu le vorresti rivivere tutte quelle parole, e sentirle risuonare nell’anima come le corde dell’arpa. Un po’ come faceva Alessandro – e quanto lo farebbe incazzare, questo pensiero!, sorridi tra te e te – con quel suo sorriso sfrontato e la chitarra in braccio sotto la luna enorme ed impossibile di Roma che sembrava affacciarsi al balcone – alla loggetta – del cielo per gustarsi la scena. Quando Alessandro affermava che se non tagliava le unghie della mano destra era perché gli servivano per fare gli arpeggi. «Non ci credi?», e plin, plin, plin in un attimo l’aria di Trastevere risuonava di uno stornello il cui senso tu afferravi a malapena e lui no, non poteva capire. Ma comprendeva. E mal sopportava. Ringhiando, sbuffando e lamentandosi di un chiasso inesistente. Affacciandosi dalle imposte accostate, gli occhi azzurri che risplendevano nel buio. Minacciando Alessandro. Promettendogli di strozzarlo con le sue stesse corde se non l’avesse fatta finita con quelle moine. Perche tu eri proprietà privata. Anche se all’epoca era solo una farsa.

«Nulla resiste ad un bersagliere», scherzava Alessandro col suo sorriso mascalzone e scanzonato, senza rendersi conto di star giocando a rimpiattino con la sorte. E che una mattina sarebbe potuto cadere giù per quelle scale di marmo e rimbalzare – possibilmente di testa – su tutti, uno per uno, quei gradini consumati e dai bordi tondeggianti. Lisci. Scivolosissimi. Ché a mettere un piede in fallo e ritrovarsi per strada è un attimo. Come è quasi capitato a te, il primo giorno, scendendo a fare colazione prima di mettervi all’opera. E se non ti sei spalmata sulle scale, realizzando la missione più breve della storia, è stato solo merito suo. Che ti ha afferrato per il polso destro, mettendoti un braccio attorno alla vita.

«Che altro mi potevo aspettare da una come te?», ti ha detto, aiutandoti a rimetterti in piedi. Ricordi quanto ti girasse la testa e ti battesse il cuore – anche se sostenevi con te stessa che fosse colpa del suo dopobarba al sandalo e non per il calore impossibile del suo corpo così vicino al tuo – e come quelle scale strette e buie e umide sembrassero un buco aperto nella viva terra, un abisso di tenebra pronto ad ingoiarvi in un solo boccone nemmeno foste un invitante aperitivo?
«Una… come me?», ma lui non ti mollava, quasi potessi fargli uno scherzo – un dispetto – e gettarti di tua sponte giù per le scale.
«Una che non è abituata a farsi decine di scale ogni giorno», e si era portato davanti a te. Per fermare un eventuale scivolone col proprio corpo. E impedirti di rovinare di sotto.

E adesso che hai imparato a scendere le scale, adesso che devi farlo, «Perché al Santuario se vuoi muoverti devi usare i piedi», come diceva sempre Aiolia scherzando – ma neanche troppo – adesso non ce la fai. Adesso la vertigine monta, come una marea che sommerge e spazza via tutto, che al confronto quella della gotta di Capo Sounion è una passeggiata tra i fiori di campo.
E non c’è nessuno al cui braccio ti senti di appoggiarti. Perché attorno a te c’è solo il vuoto freddo e lacerante che la morte lascia dietro di sé. E che ancora non hai imparato a gestire. E mentre cerchi una risposta che non arriva e che sai che non arriverà, e che nemmeno Athena sembra intenzionata a darti, adesso ti chiedi quanto questo abbia senso. Quanto tutto quel bianco accecante e assoluto non sia piuttosto una punizione. Per non essere caduta anche tu assieme a lui, in quell’abisso di tenebra.

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Capitolo 33
*** Ad un respiro dal cuore ***


#33 Ad un respiro dal cuore
Prompt: Notte - Verde - Anello
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Pegasus Seiya Ophiucus Shaina
Note: non so dove, non so come, non so quando. Intanto, auguri alla piccola Marie. Per il resto, fate vobis et favorite miki.



 
Mais les enfants qui s'aiment
Ne sont là pour personne
Et c'est seulement leur ombre
Qui tremble dans la nuit

(Jacques Prévert, Les enfants qui s'aiment, 1946)
 

«Senti? Stanno suonando la nostra canzone…»
Perché, noi abbiamo una canzone?, ti chiedono gli occhi di Shaina. Risplendono nell’oscurità della terrazza, dietro all’enorme palma alla cui ombra lei ha trovato rifugio. È splendida nel suo abito a sirena verde acqua, ma anche se lei lo sa – e a giudicare dagli sguardi che ha ricevuto, lo sanno anche gli altri uomini –  questo non le impedisce di sfoggiare quel musetto adorabile che lei mette su quando vorrebbe trovarsi a chilometri e chilometri di distanza.
Lei in quell’abito non ci sarebbe mai voluta entrare per davvero. Provarlo sì, quello le sarebbe piaciuto. Avrebbe sfilato davanti allo specchio, magari da sola, magari assieme alle altre. Si sarebbe lamentata di un posteriore troppo grosso per quel taglio o di un seno troppo poco generoso per una simile scollatura, ma dentro di sé avrebbe immaginato l’occasione, lo scopo e la sua entrata in scena. E poi l’avrebbe riposto sulla stampella, raccontandosi che un simile vestito non si adatta ad una come lei, pratica, spartana e che non frequenta il bel mondo, eccetera, eccetera, eccetera. Ma quella stoffa preziosa e cangiante come una conchiglia le sarebbe rimasta nel cuore. E a sera vi avrebbe ripensato, rincorrendo il sonno da dietro le ciglia abbassate.
E invece, Saori. Sempre Saori. Saori che Shaina si ostina a chiamare Athena, perché quel nome, per lei, è come una sorsata di acqua e sale – o una caramella alla saccarina. Saori che le ha chiesto di partecipare a quella serata. «È un evento di beneficenza. Vorrei che tu e Seiya interveniste», le ha detto. E Shaina, che in un’altra circostanza le avrebbe chiesto in che modo avrebbero potuto fare la loro parte due persone spiantate e col portafogli pieno di buchi, c’è cascata. S’è persa dietro a quel «Tu e Seiya» pronunciato da Saori, che per lei equivale al capitolare incondizionato della rivale storica, almeno per il momento. Ed ha detto di sì. Ed adesso, nascosta dietro al fusto di una palma troppo cresciuta, se ne sta pentendo. Amaramente.
«Non voglio ballare», protesta. In italiano. Come fa quando è arrabbiata con se stessa, più che con il resto del mondo. La terrazza si apre sul parco, una distesa scurissima illuminata dalle stelle. Sullo sfondo, le mille luci di Tokyo, che sembrano indicare la via al viaggiatore in solitaria.
«Nemmeno un ballo, uno solo?», le chiedi, sfoderando la tua migliore espressione da cucciolo bisognoso d’affetto.
«Io resto qui», dice, gli occhi che scintillano di sfida. Dovrai portarmi di peso lì dentro, Seiya Kido. E tu trattieni una risata.
«Va bene. Balleremo dietro alla palma», le dici, prendendole delicatamente un polso.
Lei fa resistenza. «Non voglio», dice.
«E cosa vuoi?», le chiedi. Ad un respiro dal suo viso. Ti fissa, con quello sguardo sperduto che ti stringe il cuore e ti fa sentire in grado di alzare una montagna con il mignolo, solo per lei. Per vederla sorridere. C’è chi dice che i suoi occhi abbiano il colore della giada, o dello smeraldo, ma non è così. I suoi occhi sono del colore del peridoto. Verde e giallo, a seconda di come la luce lo attraversa. Lo stesso che hai fatto incastonare sull’anello che beccheggia dentro la tasca sinistra del tuo smoking. E speri che lei non se ne sia accorta.
«Andare a casa», ti sussurra all’orecchio, una mano ad avvolgere la tua spalla con delicatezza.
«Dopo questo ballo», le prometti. Perdere l’occasione di un ballo su una terrazza deserta sotto una luna così grande sarebbe un vero delitto. E poi lei è davvero strepitosa, stasera. E quell’imbarazzo – perché lei sostiene di non saper ballare e di sembrare una papera sgraziata – le imporpora le guance di un rossore delizioso. E I suoi capelli profumano alla violetta. E la sua pelle è così vellutata. E…
«Seiya?»
«Hn?»
«Sei contento di vedermi, o hai qualcosa nella tasca?»
Beccato. Ti allontani da lei, quell tanto che ti basta per tuffarti in quell mare verde. Le sorridi. «Dopo…»
«Dopo, quando?»
«Dopo. Quando sarà finita la nostra canzone.»
«Noi non abbiamo una canzone, Seiya», ti ricorda lei.
«Come si chiama questa canzone?»
«Credo sia Because the Night
«Ecco. È la nostra canzone.»
«E da quando?»
«Da questo momento.»
«E » quando l’avresti deciso?, avrebbe aggiunto. Solo che tu non gliene dai il tempo. Le catturi le labbra in un bacio che spegne ogni velleità polemica. Lei ti segue, docile, tenera, inerme. Quasi non si direbbe la stessa furia capace di seguirti fino all’inferno ed oltre, solo per puntiglio.
Benedetto quel puntiglio,  pensi, stringendotela contro e accarezzandole la schiena con un dito. Alla fine di questo bacio, ve ne andrete. Avete resistito fin oltre quanto Saori stessa si aspettasse. Non se ne avrà a male. Vi capirà. Perché due innamorati che si baciano non ci sono per nessuno.  Scivolano via, come ombre tremolanti oltre i cancelli della notte, in quell’oscurità che appartiene a loro soli e in cui loro soltanto riescono a vedere.  E a trovarsi. Ad un respiro dal cuore.

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Capitolo 34
*** Poker Face ***


#34 Poker Face
Prompt: Notte - Picche
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Gemini Kanon, Scorpio Milo
Note: non so dove, non so come, non so quando... ah no, questa la so: ogni venerdì sera al Tredicesimo Tempio. Intanto, auguri a Lidia e Sara. Per il resto, fate vobis et favorite miki.
 
 
 «A poker non giochi con le carte che hai in mano, ma con la persona che hai di fronte.»
(Ian Fleming, Casino Royale)
 

Il cielo è una tela scura screziata di indaco e violetto all’orizzonte quando Milo domanda «Ce l’hai una sigaretta?».
Kanon si fruga nelle tasche e ne cava fuori un pacchetto di Assos stropicciato. «Le ultime due», dice, offrendogli una sigaretta mezza sghemba e stortignaccola, tenuta insieme per scommessa. O per fede, che sono poi la stessa cosa.
«La cicca del condannato», scherza Milo, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e avvicinando il viso alla fiammella dell’accendino di Kanon.
«Già», gli fa eco l’altro. E si siedono ad osservare il cielo oramai scuro. Venere non spicca più come un diamante su un solitario, ma li osserva curiosa, con la fredda ed algida eleganza di una regina decaduta.
Uno sbuffo di fumo si alza sottile come una ragnatela verso l’alto.
«L’abbiamo fatta grossa», dice Milo. Per rompere il silenzio. E perché Kanon, sotto sotto, è come Camus: solitario, schivo, di poche parole. Vado sempre a scegliermi amici taciturni, pensa lo Scorpione; anche se forse amico è una parola grossa da dire riferendosi a Kanon. Kanon che viene e che va e che fa i suoi porci comodi come se il Santuario fosse roba sua. Anzi, come se il mondo intero fosse roba sua – e spesso Milo si chiede se non sia un retaggio del passato, di quando Kanon considerava la Terra poco più che un palloncino da tenere legato al proprio mignolo.
Kanon annuisce, aspirando una boccata generosa. La trattiene nei polmoni e poi la libera nell’aria. Con dolcezza. Godendosi il tabacco, come se fosse la cosa più preziosa del mondo.
«Sì. L’abbiamo fatta grossa.»
«Sai quanto urleranno, quelle due?»
«Non mi ci far pensare», dice Kanon, «o mi andrà di traverso la sigaretta.»
Tacciono, gli occhi fissi al cielo.
L’hanno fatta grossa, sì. Perché stasera hanno estratto loro lo svedese più corto. E hanno preso il coraggio a due mani e hanno salito i gradini che portano al Tredicesimo Tempio col passo del condannato.
«Mi raccomando» si sono sentiti dire dalle rispettive compagne, «falla vincere.». Perché con Athena non si scherza. Perché ad Athena piace vincere, anche se non ritiene decoroso giocare con i soldi. Quindi giocano così. Tanto per. Per accontentarla e per passare una serata diversa dalle altre.
E avrebbero lasciato vincere Athena, eccome. Ma Athena questa sera non ha giocato. Non era aria. Si è chiamata fuori a quasi ogni mano, lasciandoli ad occuparsi di un altro svedese, ben più pericoloso. Aphrodite. Che tutto il Santuario chiama La Regina delle Rose. E che li fissava da dietro le carte, con quel suo sorriso da faina.
Una faina col rossetto, ha anche pensato Milo. Che con Aphrodite ha ancora un conto aperto per una vecchia, vecchissima questione. E no, un paio di scherzetti innocenti non bastano certo per rimettere in parità i piatti della bilancia. Almeno secondo il modesto parere dello Scorpione.
Scorpione che ha perso ben presto la pazienza. Ed ha iniziato a giocare per giocare. Per vincere. E per mettere in mutande l’avversario. Bluffando senza pudore. Supportato da Kanon. Oh, com’è stato delizioso vedere il sorriso smagliante di Aphrodite perdere luce partita dopo partita, e notare come tra le sopracciglia del Santo dei Pesci e all'angola delle belle labbra rosate iniziassero ad apparire le prime rughe…
«Buonasera.»
Acido. Che cola viscoso goccia a goccia e corrode tutto ciò che incontra sul suo cammino. Aphrodite è alle loro spalle. Sorride, gesto di mera cortesia e civiltà, ma i suoi occhi sono un mare cupissimo su cui sta per scatenarsi la tempesta del secolo.
Persona trista, nominata e vista, pensa Kanon, sentendo lo sguardo di Aphrodite trapassargli la schiena.
«Festeggiate fumando?», domanda ingenuo Pisces, tenendosi indietro come se il fumo potesse contaminare la sua algida perfezione.
O impuzzolirgli i capelli, pensa Milo. Che risponde: «Nahh, festeggeremo più tardi. In dolce compagnia», scrollando un po’ di cenere nel vento.
«Oh», dice Aphrodite, come una diva vecchio stampo, di quelle che si appendevano alle tende in preda a delle crisi isteriche con tutti i crismi. E a Milo quel “oh” da primadonna non va giù.
«Oh?», ripete. Facendogli il verso.
«Oh», risponde Aphrodite, stupito, come a voler sottolineare l’ovvio. «Scusa la mia perplessità, ma sai come si dice, no?»
«No. Come si dice?», interviene Kanon. Perché Aphrodite è andato con lo sguardo dall’uno all’altro e dall’altro all’uno.
Aphrodite si stringe nelle spalle e sospira. «Fortunato al gioco, sfortunato in amore», dice – esclama – scendendo i primi gradini, quasi che così le sue parole assumano il peso di un vaticinio. «Non vorrei che stasera le vostre signore vi rispondano picche…»
E scende, scalino dopo scalino, fino a sparire dietro ad una curva, il ticchettio dei suoi passi che lo accompagna verso la Dodicesima Casa.
Milo sbuffa, come un toro che si vede sventolare davanti una bandiera rossa.
Kanon sogghigna.
«La Regina delle Rose non sa perdere», dice il Santo ad interim dei Gemelli, scagliando la propria cicca nella direzione in cui è scomparso Aphrodite.
«No. Assolutamente no», replica Milo.
Si scambiano uno sguardo e scoppiano in una risata. No, la Regina delle Rose non sa perdere. E sono pronti a scommettere che farà pagare loro caro questo scherzetto. Molto caro. Lo hanno messo in conto nell’istante stesso in cui hanno deciso di giocare sul serio. Ma vederlo appassire, come un fiore bruciato dal sole, è stato impagabile. Qualcosa per cui uccidere. Metaforicamente parlando, ovvio.
«Ricordami di non giocare mai contro di te», ridacchia Kanon, fissando un punto imprecisato tra i suoi piedi.
«Idem», replica Milo stiracchiandosi.
«Andiamo, va», dice l'altro alzandosi. «Non vorrei che le maledizioni di Aphrodite vadano a segno…»
«Athena proteggici», commenta Milo, toccandosi il petto. E scendono verso le rispettive dimore. In silenzio. Stanchi. Pregustando il momento in cui planeranno sulle lenzuola. Se saranno fortunati, le ragazze staranno già dormendo, e loro potranno procrastinare a domani mattina il racconto di questa serata.
Altrimenti mi toccherà ricorrere alla mia faccia da poker, si dicono, scendendo i gradini di marmo candido, mentre il cielo è una tela nera screziata di indaco e violetto.

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Capitolo 35
*** One by one ***


#34 One by one
Prompt: Notte – Rosso – Olfatto - Fiori
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Aquarius Camus, Gemini Kanon, Scorpio Milo, Pisces Aphrodite
Note: non so dove, non so come, non so quando... ah no, questa la so: pochi minuti dopo queste vicende. Vedete che serve a qualcosa muoversi alla velocità della luce?
 
 
Vendicare.
Nel linguaggio moderno, significa ottenere soddisfazione
di un'offesa imbrogliando chi l'ha inflitta.
(Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo, 1911)


 
È un petalo di rosa quello che giace, innocuo e languido, sul marmo bianchissimo dell’Undicesima Casa?
Sì, che lo è.
E non è forse il persistente e pervasivo profumo delle rose quello che proviene dall’interno, lì dove ci sono le stanze private di Camus e dove Phi ha detto che si sarebbe fermata a dormire?
Sì, che lo è.
E non è il cosmo di Camus quello che è appena esploso?
Sì, che lo è.
Ecco perché Milo e Kanon allungano il passo, schermandosi la bocca ed il naso con una mano.
«Phi?», chiama lo Scorpione con voce allarmata, mentre il fiato si condensa in vapore davanti alle labbra e Kanon è poco più che un fantasma alle sue spalle. «Phi?!»
Phi non risponde. Phi non può rispondere, perché Phi, adesso, sembra Biancaneve. È dentro al Freezing Coffin, un mazzo di rose rosse tra le mani e la bocca spalancata, la luce della luna che la illumina alle spalle. Il cuore di Milo perde un paio di battiti.
Oh, no. No, no, no, no, no, no, no, no, no…
«Tranquillo. Sta bene.»
La voce di Camus è più gelida e nasale del solito. Regala ad entrambi i suoi ospiti un’occhiata che incenerirebbe persino l’Antartide quando, mano a proteggersi il viso, entra nel cono di luce proiettato dalla luna. Apre una finestra – la spalanca – e riprende a respirare.
«L’avete spennato, vero?», domanda Camus. Con voce atona.
E tu che ne sai?, vorrebbero chiedergli Milo e Kanon. La partita è finita meno di mezzora fa, come diamine fa Camus a conoscerne l’esito?
«Tieni», dice l’Acquario, porgendo allo Scorpione un foglietto ripiegato.


 
Questi fiori sapranno 
parlarti di me.
Y. 


Y. Yngve. Aphrodite di Pisces per gli amici.
«Maledetto...»
Le dita di Milo accartocciano quel biglietto, come se fosse il collo di Aphrodite. Adesso iniziano a quadrarmi un paio di cosette, pensa, ben deciso a fare dietro front e ad avere uno scambio di opinioni ben poco civile col compagno della Dodicesima Casa.
«Certa gente non sa davvero perdere», commenta Kanon. Stupito. Se l'aspettava una contromossa da parte di Aphrodite, certo; non se l'aspettava così rapida. Era già tutto pronto.
«Hanno portato quel bouquet pochi minuti fa», dice Camus, strappando entrambi alle proprie elucubrazioni.
«E Phi…»
«La conosci, no? Ci si è tuffata dentro.»
«E l’ha respirato?»
«A pieni polmoni», conclude l’Acquario, guardando sua sorella all’interno della bara di ghiaccio con la bocca spalancata. Sta dormendo, il petto che si alza e si riabbassa impercettibilmente e il bouquet di rose ben stretto tra le mani. «Ho fatto appena in tempo ad evitare che picchiasse la testa sul marmo.»
«Per questo l’hai rinchiusa lì dentro?!»
«Avevi un’idea migliore per neutralizzare il veleno?»
«Non morirà, vero?»
«Non dire assurdità. Ho ghiacciato le rose, pericolo scampato. Si farà una bella dormita e avrà un mal di testa coi fiocchi quando si riprenderà domani mattina. E questo sai cosa significa, vero?»
«Niente festeggiamenti, stasera», commenta Kanon, parlando come tra sé e sé mentre iniziano ad andare a posto tutti i pezzi del puzzle, ignorando l’occhiataccia che Camus non ha paura di elargire anche a lui.
«Prego?»
«Scusate, cognati. Devo andare», dice Kanon prima di girare sui tacchi e guadagnare l’uscita in un lampo.
Cognati?, pensa Camus fissando il corridoio da cui è sparito Kanon. Io e questo incivile?
«Non dovremmo metterla su un letto?», propone Milo, avvicinandosi a Phi e posando una mano sulla superficie levigata. «È così fredda…»
«Non ne vedo il motivo.»
«Perché così sembra Biancaneve dopo aver mangiato la mela avvelenata.»
 Tzé. Sta con te e non è morta. «Biancaneve ha dormito in una bara di cristallo, dopo tutto…»
«Ecco. Appunto. La bara. Non pensi anche tu sia il caso di farla uscire da lì?»
Il sorriso che Camus gli riserva frigge la spina dorsale di Milo in punti di cui lo Scorpione stesso ignorava l’esistenza.
«Non sono sicuro che l’effetto di quelle» puzzolentissime «rose sia svanito del tutto. Credimi, per stanotte è meglio che lei resti lì dentro…», risponde l’Acquario incrociando le braccia.
«E immagino che impiegherei tutta la notte per rompere quel» sarcofago «cristallo, giusto?»
Camus si stringe nelle spalle, come a dire: «Boh? E chi lo sa?», per poi tornare a fissarlo con quel sorrisetto odioso. Avanti, carino. Provaci pure a spaccare quel ghiaccio. Su, che aspetti?, sembrano chiedergli gli occhi blu dell’amico di sempre.
«L’avete spennato, vero?», gli domanda l’Acquario, vedendo che il proposito di Milo di fare a pezzi il suo Freezing Coffin è durato meno che da Natale a Santo Stefano. Perché anche se lo sa com’è che sono andate le cose, vuole sentirlo dalla sua voce. «Tu e quell’altro, dico.»
«Sì», e Milo quasi ciancica tra i denti quell’innocua sillaba. «Ma se l’è cercata! Dovevi vederlo. Ci fissava con una spocchia che gli avresti cancellato quel sorrisetto dalla faccia a suon di pugni!»
Io? Non credo proprio, pensa l'Acquario. «Immagino…», commenta invece, come se la cosa non lo riguardasse. «Spero tu abbia tratto soddisfazione, allora, perché temo sarà l’unica cosa che ricaverai da questa serata… E temo per molte serate a venire…»
«Come, prego?», sbuffa Milo, le mani sui fianchi.
«Niente, niente. Lascia stare», dice Camus facendo un gesto come a voler cacciare via una mosca fastidiosa. «Almeno non sarai da solo», e indica con il mento la strada per cui s’è involato Kanon. «Qualcosa mi dice che anche il tuo compare troverà un mazzo di rose rosse sul letto. Se prima non l’avrà trovato AJ…»
«Mal comune, mezzo gaudio?»
«Così dicono.»
Camus trattiene un sospiro sincero come una moneta da tre euro.
«Comunque sia, il pericolo è scongiurato. Sarà il caso di andare a dormire, adesso», dice, indicandogli la porta e prima che Milo avanzi qualsiasi allusione al passare la notte accanto alla bara di cristallo, Camus aggiunge: «Credimi, l’Ottava Casa è il posto più sicuro dove passare la notte, per te.».
«Dici? E perché? Dì che non mi vuoi vedere attorno a tua sorella, piuttosto.»
«Perché mia sorella ha sentito tutto quello che ci siamo detti, ecco perché», e quando Milo si sofferma ad osservare le palpebre chiuse di Phi sa che l’altro gli ha detto la verità. Le ciglia proiettano un’ombra lunga e scura sulle guance, sì, ma fremono. Phi è sveglia, o in una sorta di dormiveglia.
«Fila via, prima che lei provi a spaccare la bara dall’interno», gli suggerisce Camus posandogli una mano sulla spalla. «Dai retta ad un amico.»
«Consiglio disinteressato il tuo, immagino», si lamenta Milo, ricevendo in risposta un’alzata di spalle e l’indicazione su dove si trovi la via d’uscita.
«Un consiglio da amico, direi», ribatte Camus. «Mi servi vivo, almeno fino a venerdì prossimo.»
«Vuoi offrirti volontario?»
«Volontari, semmai», specifica Camus scortando Milo all’ingresso. «Se tanto mi da tanto, anche Kanon non potrà farsi vedere per un bel pezzo. E se tanto mi da tanto, qualcosa mi dice che anche Kanon vorrà essere della partita, venerdì prossimo.»
«Vuoi fargli passare la voglia di tirare scherzi cretini?»
«Nessuno» mi appesta la casa con le rose «attenta alla vita di mia sorella a le passa liscia», ribatte Camus. «E poi, abbiamo un vecchio conto in sospeso, con quella primadonna, ricordi?»
Sarà, pensa Milo accomiatandosi dall’amico ed iniziando la discesa fino all’Ottava Casa. Intanto stasera sono andato in bianco. E chissà per quanto tempo ancora sarà così.
Le stelle brillano luminosissime nel cielo oramai nero della notte, come se stessero ridendo di lui.
Se pesco chi ha inventato il detto «Fortunato al gioco, sfortunato in amore», lo faccio blu, pensa lo Scorpione un gradino dopo l’altro. E tra sé e sé aggiunge un’altra tacca alla lista di cose da far scontare ad Aphrodite. Una per una. Come le carte del poker.

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Capitolo 36
*** L'isola ***


#36 L’isola
Prompt: Lui – Lei - Isola
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi:  Scorpio Milo
Note: non so dove, non so come, non so quando... ma sono tornati. Li faccio tornare. Anche a costo di spaccare quella statua pacchianissima dall’interno.
 
L'isola esiste. Appare talora di lontano
(Guido Gozzano, La più bella)
 


L’isola esiste e non esiste.
Appare talora di lontano, emergendo all’improvviso dalle acque come un miraggio che inganna il pescatore. Chiamandolo. Attirandolo a sé. Facendo il suo nome e lusingandolo con promesse. E il pescatore ascolta. Con un orecchio solo, mentre le mani issano a bordo le reti. Ché se il pescatore dovesse credere a quelle parole soavi, sarebbe perduto. Pur tuttavia, ascolta, fino a quando le sirene non si stancano di chiamarlo e l’isola si inabissa. Lui tende l’orecchio. Per rinfrancarsi lo spirito. Perché pur se sa che si tratta di dolci menzogne, è bello credervi. Anche se con un piede a bordo. Si allontanano i crucci, il mare che fa bestemmiare e le mani che si spaccano per il sale e il vento e la fatica, ed il sole che batte sulla pelle secca. Lo si ritiene possibile. Magari in un altro momento. In un’altra vita. O anche mai. Ma è la possibilità – piccola, ingenua, bugiarda – ad essere ricoperta d’oro. E il sapere che, un giorno, il pescatore lascerà cadere le sue reti nell’acqua, restituendo il bottino al mare. E dirigerà la sua barchetta verso quelle voci e quell’isola, che appare oltre la nebbia, per poi inabissarsi. E sparire. Fino alla prossima volta.

L’isola esiste e non esiste.
Te lo ha spiegato Aristoteles, durante gli anni dell’addestramento. «Ognuno ha la propria. Una canzone. Un pensiero felice. Il ricordo di un viso. Una voce. Il sapore dei melomakarona», ma quando hai chiesto ad Aristoteles quale fosse il suo, il tuo maestro – tuo padre – ha risposto con un sorriso.
«Trova il tuo. Non importa quale sia, purché sia tuo. Solo tuo. Solo così può funzionare», e per un lungo, lunghissimo periodo il tuo ricordo felice, la tua isola galleggiante, è stata la voce frusciante di carta ingiallita di tua nonna, che ti chiamava nella quiete ombrosa del pergolato del Kallistê. Una voce di donna per un figlio nato senza madre. Logico. Umano. Perché la sirena che canta dall’isola sa bene dove affondare i suoi denti. Dove c’è uno spiraglio. Dove fa più male.

«L’isola?», diceva lei. Guardando Roma imporporare da dietro le imposte accostate, una mano tra le assi verde scuro dalla vernice sbeccata. Fissava qualcosa, un gatto che passeggiava sui sampietrini guardando il mondo dall'alto come se potesse mettersi in tasca la Città Eterna, sfilando tra le ombre della sera e il rintocco delle campane di S. Francesco. Fissava qualcosa e pensava, mentre ti scoprivi ad aspettare. Curioso. Di sapere se vi fosse un posto anche per te, nella sua isola. Piccolo. Anche aggrappato ad una boa di galleggiamento.
«Non lo so», ti diceva alla fine, abbandonando il gatto alla sua passeggiata e riportando gli occhi su di te. «Non credo di averne una, ma se l’avessi…»
«Se l’avessi?».
Silenzio. Come a chiederti conto e ragione di quella domanda inopportuna. Sfacciata, com’è il sole in Grecia. «Qui è meno chiassoso», ti aveva detto, schermandosi gli occhi con la mano. E qualcosa ti diceva che lo stesse facendo anche in quel momento.
«Se l’avessi, la custodirei gelosamente», rispondeva, infine. «Ma fino ad allora…»
«Fino ad allora?»
«Mi farò bastare un cioccolatino», diceva. Estraendo dalla tasca del giubbino un incarto argentato.
 
L’isola appare di nuovo. E il canto delle sirene si fa più pressante. E adesso lo ascolti con entrambe le orecchie, le mani salde sulle reti non sai ancora per quanto. E capisci perché Ulisse si sia fatto legare dai suoi compagni. Perché adesso è possibile. Adesso credi davvero a tutto. Anche che la tua oasi sia più vicina di quanto non sembri. Più reale. Tangibile. Adesso la sirena ha una voce forte e chiara, anche se è ridotta ad un sussurro. Ti sta chiamando. Sta facendo il tuo nome, mentre riemergi dal sonno e le tua braccia si chiudono attorno a lei. Capelli soffici sul viso. Profumo di cocco e vaniglia.
Staresti una favola coi capelli rossi, pensi. Respirandola. Per tenertela dentro, almeno per qualche istante.
«Sei sveglio?», ti chiede. Contro la pelle del tuo collo.
«No», mugugni. Perché non vuoi alzarti. Perché non vuoi abbandonare l’isola, adesso che l’hai raggiunta.
«Sì, che sei sveglio.»
«No», protesti. Tuffandoti nei suoi capelli. Schiacciandola con il peso del tuo corpo. Dovrai passare sul mio corpo, per alzarti.
«Dai, che sei sveglio», insiste lei. Accarezzandoti i capelli. La schiena. Le spalle. «Il caffè si fredda», aggiunge. Nella speranza che questo ti convinca ad alzarti.
Illusa.
Sollevi una palpebra. Gli occhi ti sono diventati verdi, ma pazienza. Ti racconti che è perché cercavi il suo, di sguardo, e non per un capriccio divino. E le dici: «Lo rifaremo». Stringendotela contro.
«Mio fratello ti aspetta tra meno di un’ora», e l’isola è scossa da un terremoto. Si sta già per inabissare tra i flutti?
«Mmmm…», contro i suoi capelli.
Rossi. Dico davvero. Rosso corallo. A te piace il rosso, no?
«Milo…»
«Altri cinque minuti», dici. Perché vuoi restare così. Sospeso. In un attimo ideale, nell’istante perfetto. Con il suo profumo nel petto e le sue braccia a cullarti, anche se sei tu che cingi lei.
Lei che sospira. «E va bene. Altri cinque minuti», dice. Con fare plateale. Come se ti stesse facendo una concessione. E dentro di te speri che la tua isola e la sua combacino, anche se solo in parte. Anche se solo per quanto riguarda una piccola boa di galleggiamento, in ammollo nell’azzurrità del mare.

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Capitolo 37
*** Stasera non è aria ***


#37 Stasera non è aria
Prompt: Intermezzo -Ore - Nemici - Nero
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica (Post Hades)
Personaggi: Scorpio Milo
Note: Vi sono mancata, eh?



Il buio e l'attesa hanno lo stesso colore.
(Giorgio Faletti)



Non verranno. Non stanotte. Perché cosa c’è di più scontato di un’orda di morti viventi che si ripresenta sulla Terra durante la notte di Ognissanti? Ché sì, oltreoceano la chiamano Halloween, ma la sostanza è la stessa. Cieli neri, notte senza stelle, il vento che soffia… e l’inferno che si scatena.

No, non verranno. Magari la notte di Valpurga il sigillo di Athena si romperà e allora sì, ricomincerà la giostra un’altra volta, ma non stasera. Perché stasera non è aria. Stasera anche l’inferno si gode il tepore del focolare, mentre tu, naso all’insù, aspetti di guardia. E Antares ride.
 

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Capitolo 38
*** Bucce di Castagne ***


#38 Bucce di Castagne
Prompt: Marrone - Morte
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica 
Personaggi: Capricornus Shura
Note:

Non amo che le rose che non colsi 
Non amo che le cose che potevano essere e non sono state
(Guido Gozzano)
 


C’è odore di castagne nell’aria, stasera.
Ti avvolge, caldo e scoppiettante, ché tu non abbia freddo, lassù.
Ti abbraccia, come un amico perso di vista da tempo.
Ti accompagna nella tua corsa forsennata verso le stelle e poi giù. A precipizio. Verso quel buco nero che ti sta chiamando. Che ti sta reclamando come suo. Perché sei già passato oltre, tu; ma ancora non lo sai. E forse non lo sa nemmeno l’aroma di castagne, che scoppiettano allegre sul fuoco; o forse sì, lo sa bene ed è per questo che ha fatto capolino tra i tuoi ricordi.

Un sacchetto ti scalda la tasca del cappotto mentre Novembre ti regala un cielo d’acciaio, che sbuca minaccioso e livido oltre le chiome di ruggine degli alberi.
Soledad sorride al tuo fianco, i capelli sciolti oltre le spalle e le guance rosse. Tra le mani, una castagna. Che le hai dato tu.
«Mangiala, finché è calda», le dici. Sbucciando la tua e affidando le scorze al vento. Che se ne nutrano le formiche del bosco.
«È
troppo calda», ribatte lei, un guizzo divertito negli occhi.
«Non avevi freddo?», le chiedi. Tenendo una castagna piccola piccola tra indice e pollice della mano destra.
«Sì», fa lei, avvicinandosi a te. «Ma se la tengo tra le dita, sto bene…»

E anche tu stai bene, con quel calore che si fa strada nel tuo corpo, adesso che l’oscurità è sotto di te. Pronta ad accoglierti e a darti pace. Calore, fuoco scoppiettante e… brezza di mare?

In riva al mare il cielo di Novembre sa essere ancora più severo, mentre il vento spazza la spiaggia e spacca le mani. E la pioggia che scende in gocce grosse come proiettili ti si insinua fin dentro le ossa. Nell’anima. Come se dovesse durare per sempre.
«Il maestro non c’è», dice.
Un sacchetto di carta tra le dita arrossate. L’aroma delle caldarroste che si mischia alla salsedine. Trema come un fuscello. Perché fa freddo? Perché l’hai beccata senza maschera? Perché l’hai trovata dove non doveva trovarsi?
Fai un passo avanti e la squadri. Severo.
«Cosa ci fai tu qui?»
«Ci vivo, qui.» Pausa. «Il maestro non c’è.»
Questo l’ho capito. «Fa niente. Tornerò.»
«Caldarrosta?»
Osservi quel sacchetto sgualcito come se potesse esplodere da un momento all’altro.
«Oggi fa freddo», insiste.
Donne, pensi. «La prossima volta», dici.

E adesso che vedi - che riconosci - quella mano arrossata dal vento protendersi verso di te, come un’apparizione fugace in quel fuoco di stelle che sta ruggendo e precipitando a terra, capisci. Che lei vuole che ci sia una prossima volta, anche se non ne comprendi il perché. Ma tu sai che non ci sarà una prossima volta. Perché la corsa per te è finita. E se afferrassi le sue dita, adesso, te la porteresti dietro.
La prossima volta, pensi - prometti - prima che tutti diventi buio. Prima che tu possa chiederti che sapore avrebbe avuto quella piccola castagna che profumava di mare.

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Capitolo 39
*** Tutto Qua ***


#39 Tutto Qua
Prompt: Nascita
Fandom: Saint Seiya – Post Hades, pre Omega 
Personaggi: ShunRei
Note: Non ricordo in quale momento Shiryu perda tutti e cinque i sensi, se dopo la battaglia contro Hades o durante una qualsiasi altra scazzottata tra divinità. Come li abbia persi è un problema suo, quando sia accaduto, è un problema mio. È abbastanza crudele averlo reso un vegetale durante la gravidanza di ShunRei, n'est-ce pas?


 
Nascere è ricevere un intero universo in dono.
(Jostein Gaarder, In uno specchio, in un enigma, 1993)
 


Nascere è doloroso, ma non per le contrazioni che ti squassano l’addome, non per la schiena che sembra stia per spezzarsi in due ad ogni respiro che ti gonfia i polmoni, non per tuo figlio che spinge, spinge, spinge come se volesse passare sul tuo cadavere – letteralmente – pur di sgusciare fuori da te. Nascere è doloroso perché è una separazione. Della madre dal figlio. Non è più solo suo, ma del mondo. Di Athena, pensa ShunRei mordendosi le labbra secche e spellate.

«Forza, ragazza. Una bella spinta!»

Dong Mei glielo ripete da un pezzo. E lei obbedisce. Svogliata. Perché lei non vuole che suo figlio nasca. Vuole che resti lì. Dentro di lei. Al sicuro.
Le dita di Shiryu sono un’ancora che la tiene a galla. Se non fosse per lui, che le sostiene la schiena e le spalle, si sarebbe lasciata scivolare giù. Nell’oblio. Assieme a suo figlio. Suo. Non di Shiryu. Non di Athena. Suo. Solamente suo.

«Vuoi far nascere questo bambino, sì o no?»

No.

No, che non vuole. Certo che non vuole. Farlo nascere per cosa? Perché Athena lo reclami a sé, come ha fatto con Shiryu e con il Maestro?

Non ti basta, Athena? Non è ancora abbastanza?

Il bimbo vuole uscire. Vuole affacciarsi alla vita. In cuor suo lei lo chiama già col suo nome. Ryuho. Picco del Drago. Così come il monte da cui scroscia a valle la cascata dove Shiryu si allenava da ragazzo e dove il Maestro meditava anche per mesi. Dong Mei è sicura che sarà un maschietto. «Perché hai i fianchi larghi, ragazza», le ha detto qualche mese fa. Raggiante. Come darle torto? Un figlio maschio, in Cina, è una benedizione. Un figlio maschio lo si tiene. Non lo si abbandona nelle foreste, com’è successo a lei. Un figlio maschio è il bastone della vecchiaia dei genitori, si dice. A lei non importa sapere se avrà un maschio, o una femminuccia. A lei importa che suo figlio sia sano. E che non possegga alcun cosmo. Perché in quel caso, Athena lo reclamerebbe a sé. Maschio o femmina che fosse.

«Vedo la testa!»

La mano di Shiryu le accarezza il viso. Le asciuga un po’ di sudore dalla fronte imperlata. Lei vorrebbe morderlo. Vorrebbe che se ne andasse. Anche lui è un pericolo, adesso. Perché pur non possedendo un cosmo, pur non percependo quell’energia di cui tutti attorno a lei parlano come se fosse qualcosa di reale e tangibile – un fiore, una mela, il bastone del vecchio Maestro – ShunRei sa che quello che la mano di Shiryu cercava durante la sua gravidanza, sfiorandole il ventre tondo, non erano i colpetti che il bambino dava dentro di lei. Nossignore. Come avrebbe potuto, dato che ha perso tutti e cinque i sensi in battaglia? Non era la presenza di Ryuho, che cercava Shiryu. Era il cosmo del bambino.

Non ce l’ha. È un bambino normalissimo. Un bambino come tutti gli altri. Un bambino senza cosmo. Il mio bambino.

Questo si ripete ShunRei. Per convincersi che no, quell’energia che ha percepito dentro di sé in questi nove mesi era solo una vita che si forma. Una stella che danza. Tutto qua. Niente cosmi, stelle protettrici o armature da conquistare. Non è Shiryu, lui. Lui è il suo bambino. Un bambino normalissimo. Un bambino bellissimo. Un bambino che non cederà ad Athena, mai e poi mai.

«Dannazione, ragazza! Vuoi lottare per tuo figlio, sì o no?!»

Lo sto già facendo, vorrebbe risponderle ShunRei, se non fosse preda dei dolori che le sconquassano il corpo. Ryuho vuole uscire, e vuole farlo adesso. Dove diamine devi andare?, si chiede lei. Temendo quale sarebbe la risposta di suo figlio – se un neonato potesse parlare e non solo vagire, ovvio –quella che lei non è disposta a sentire. Né adesso, né mai.

«Devo andare da Athena, mamma.»

«No!»

Un grido roco e disperatissimo, urlato contro un cielo lontano e freddo, in uno spasmo che la fa piegare in due, le gambe aperte e tenute divaricate dalla levatrice.

«Come sarebbe a dire, no? Certo che sì, invece! Il bambino sta per nascere. Ti decidi a spingere una buona volta?»
«Non posso…»
«Sì che puoi!»

Dong Mei non capisce. Dong Mei non può capire. Non è suo figlio, quello che Athena sta reclamando a sé. È il mio sangue. La mia carne. La mia anima.

Il Maestro le aveva detto di non affezionarsi troppo a Shiryu, perché avrebbe dovuto dividerlo con Athena. «Una dea sa essere molto, molto possessiva, ShunRei», le diceva, gli occhi acquosi persi ad osservare la cascata scrosciare rabbiosa a valle ed i salti di Shiryu per deviarne il flusso. Ma il suo cuore apparteneva già a quel ragazzo arrivato dal Giappone. Quel ragazzo così serio e taciturno e schivo.

Non ti basta aver preso il Maestro, Athena? Non ti basta quello che hai fatto a Shiryu?

ShunRei piange. Grida. Per il dolore. Per le contrazioni. Per la paura. Perché con un guizzo disperato il suo corpo si schiude. E il bambino scivola fuori da lei. Regalandole un freddo intensissimo. Una solitudine disperata. Incolmabile.

«Dov’è? Dov’è?!», chiede, il respiro mozzo, le braccia allungate a cercare quel pezzo di lei che qualcuno le ha strappato con violenza. È stata Athena. Lei lo sa. Per capriccio. Per dispetto. Per rappresaglia. Per prendersi quello che lei ritiene sia suo di diritto. «Dov’è il mio bambino?»

Le dita di Shiryu si allentano, un poco. Quanto basta per gettarla nel panico. Le sue ciglia stanno tremando. Poco, ma quanto basta perché lei capisca. Ryuho possiede un cosmo. Un cosmo forte e lucente, come quello del padre. E Shiryu sta comunicando con suo figlio proprio grazie a quel cosmo.

«Che ti dicevo, ragazza mia? È un bel maschietto!», dice Dong Mei, mettendoglielo tra le braccia.

ShunRei fissa suo figlio, i capelli scarmigliati e la casacca madida di sudore. Un miracolo di tre chili scarsi. Ciao, piccolo... Ryuho è bellissimo. Fatto di latte e sangue. Una miriade di capelli scurissimi. Il naso del padre. La bocca così piccola. E quelle manine…

«La mia piccola stella che danza», sussurra sfiorandogli le dita. Piccole. Tenere. Caldissime. «La mia stella che danza…»

Un braccio di Shiryu le cinge le spalle. I suoi capelli le scivolano sulla pelle sudata.

«È un bambino bellissimo», sussurra a suo marito. Come se lui potesse ancora sentire il suono della sua voce. «Il mio bambino.»

Non di Shiryu. Non di Athena. Suo. Solo suo. Anche se possiede un cosmo. Suo. Per qualche anno almeno. Tutto qua.

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Capitolo 40
*** Quando lui verrà ***


#40 Quando lui verrà
Prompt: Gusto
Fandom: Saint Seiya – pre Hades
Personaggi: Ophiuchus Shaina – Saori Kido
Note: niente, mi sono abbonata a queste due.
 


L'infelicità non consiste nel fare una cosa per ordine di altri, ma nel farla contro la propria volontà.
(Lucio Anneo Seneca)



 
«Quando lui verrà, dovrai cacciarlo via.»

Che sapore ha l’infelicità?
Chiedetelo a Shaina, adesso che Athena – adesso che Saori – le sta dando le spalle. Chiedeteglielo. Non vi caverà gli occhi, tranquilli. Le sue unghie sono troppo impegnate a premere contro il metallo della sua armatura. S’è tirata a lucido, Shaina. Perché Athena – perché Saori – l’ha mandata a chiamare.

 Sospettava che ci fosse di mezzo Seiya – perché con Saori c’è sempre di mezzo Seiya – ma non credeva che Athena – che Saori – arrivasse a chiederle – ad ordinarle – tanto. Perché Seiya verrà. Prima o poi, lui apparirà al Santuario, con i suoi jeans stropicciati e lo scrigno in spalla. Come fosse uno zainetto.

Quando Seiya verrà, toccherà a lei il compito più ingrato. Toccherà a lei la parte della cattiva. Della donna gelosa. Della strega. Toccherà a lei fermare Seiya, anche se i suoi occhi disperati, increduli, perplessi le spezzeranno il cuore. Ancora e ancora e ancora… Dovrà cacciarlo via. Nemmeno fosse un cane fastidioso che torna ad uggiolare alla porta.

«Shaina?»
Sei l’unica che possa capirmi. L’unica di cui possa fidarmi.
Lo so.
«Sarà fatto, mia signora», risponde l’Ofiuco, nella bocca il sapore amaro della bile.

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Capitolo 41
*** Ecce Homo ***


#41 Ecce Homo
Prompt: Verità
Fandom: Saint Seiya - The Sanctuary
Personaggi: Cancer Gold Cloth - Draco Bronze Cloth
Note: massì, torniamo a far parlare la ferraglia...
 


Certe verità sono più pronti a dirle i matti che i savi.
(Arturo Graf, Ecce Homo, 1908)
 
.
 
Non l’ha capito, vero?

No. Quando mai ha capito qualcosa, quello?

Stolto e malvagio.

Sarà un idiota, ma ha ragione lui a dire che un guerriero combatte.

Combatte per la pace!

Combattere per la pace è come fottere per la verginità.

E allora perché l’hai abbandonato?

Perché io, a differenza sua, ho capito chi è quella ragazzina con la freccia nel petto.

E chi sarebbe?

E chi dovrebbe essere? Quella è Athena, che domande!

Hai sacrificato il tuo guerriero per salvare te stessa?

No, tesoro. Noi non siamo in discussione. Siamo noi quelle insostituibili, non loro. È questa, la verità.

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Capitolo 42
*** Mano nella mano ***


#42 Mano nella mano
Prompt: Genitori - Figli - Stelle
Fandom: Saint Seiya - pre Episode G
Personaggi: Aquarius Camus
Note: mi sono innamorata di questa famigliola. ♥
 


Cieco chi guarda il cielo senza comprenderlo:
è un viaggiatore che attraversa il mondo senza vederlo

(Camille Flammarion)
 

Prima di entrare, lui gli aveva chiesto chi fosse suo padre.
Rémy si era stretto nelle spalle.
«E che importanza ha? Siamo tutti Figli delle Stelle, chouchou. Loro dicono del Santuario, ma a me piace puntare più in alto», aveva riso lui, il fumo della sigaretta che si alzava per raggiungerlo, quel cielo lontano e pesante che se ne stava fermo e immobile e distratto sopra le loro teste. Come se loro non esistessero. Come se quella striscia grigiastra non potesse arrivare a sfiorare le stelle. A lambirle in un abbraccio impalpabile. A sporcarle, aveva pensato il piccolo Etienne, il naso all’insù e le mani strette strette attorno ai calzoni di Rémy.
«Ma io voglio saperlo!», aveva protestato.
«Non sfasciarti la testa con simili pensieri», aveva aggiunto, l’ultimo tiro soffiato fuori con noncuranza. Per sembrare ancora più distaccato e convincente ad un moccioso di nemmeno sei anni. «Importa chi sei tu, non di chi sei figlio. Ricordatelo», aveva concluso lanciando la sigaretta, una scia rossa che si era persa lungo quella strada buia che profumava di pesci e fiori in vaso.
La porta del negozio era aperta.
«Allons-y
E padre e figlio avevano varcato la soglia del Santuario. Mano nella mano.


Note: Nel mio headcanon i personaggi non spuntano dal terreno come una pianta, ma hanno delle radici. Dei legami. Rémy, che vi ho fatto conoscere qui, è il Santo della Costellazione di Boote. Ed è anche il padre di Etienne aka Camus. Qui siamo nell'autunno dell'anno 1971, un attimo prima che Etienne varchi la soglia dell'Emporio di Agathê ed entri al Santuario per diventare un santo.

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Capitolo 43
*** Se... Allora... ***


 
#43 Se… Allora...
Prompt: Se
Fandom: Saint Seiya – serie classica
Personaggi: Saori Kido – Pegasus Seiya
Note: scusate, ma a me lo showdown da due lire al Grade Coliseum proprio non è andato giù... 


 
Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi.
Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte. 
(Cesare Pavese)


 

Athena è la dea della guerra, figlia di Zeus ed uscita armata di tutto punto dalla testa di suo padre.
Marin gliel’avrà ripetuto fino alla nausea, e se all’inizio ha pensato fosse una storia inventata da lei – e questo avrebbe spiegato come mai fosse una donna, e non un uomo, la protagonista di quei racconti – col passare del tempo, confrontandosi con gli altri ragazzi al Santuario, Seiya ha capito che si trattava di una pappardella che tutti i maestri propinavano ai loro allievi. Quella solfa del discorso figurato che gli fa venire mal di testa solo a nominarlo. Perché i maestri devono avere questo vizio del non parlare chiaro? Perché non possono dire tutto e non possono dirlo subito, a chiare lettere, senza fartici spaccare la testa contro?
«Perché devi capirlo da te», gli ripeteva Marin, prima di spedirlo a fare qualche altro giro di corsa. Cinquecento, magari. Per cominciare.
E quindi sì, Athena è la figlia di Zeus e dea della guerra, uscita armata di tutto punto dalla testa di suo padre. E Marin vuole che lui la protegga, come gli ha scritto sulla sabbia stamattina. Ma da qui a credere che Athena esiste davvero, il passo è lungo; ben più lungo di quello che possono fare le sue gambe. Si tratta di un salto, e bello ampio pure. Un salto nel buio, se si aggiunge il fatto che Athena sarebbe – udite udite! – Saori Kido.
Se Marin gliel'avesse detto durante gli anni dell’addestramento, avrebbe riso fino alle lacrime, magari tenendosi la pancia o dando pugni a terra. Eppure, adesso che quel cosmo smisurato sta invadendo la stanza che occupa sopra la rimessa K, lambendo il suo e generandogli nel cuore un sentimento cui non sa né può né vuole trovare un nome - Devozione? Rispetto? Amore? - Seiya tocca con mano che sì, Athena esiste. E che sì, Athena è Saori Kido.
Chi altri potrebbe avere un simile potere, se non Athena? Chi altri potrebbe fargli sentire sulla pelle il respiro delle stelle, se non la Thea? Eppure, qualcosa in Seiya non cede. Gli risulta così difficile fare quell’ultimo passo e credere. Perché lei? Perché con tutte le ragazze che ci sono sulla terra, proprio lei?, si sta chiedendo Pegaso. Indietreggiando appena. Con la testa ed il busto, ché i suoi piedi sono ben saldi al pavimento.
Eppure lei non lo sta minacciando. Lo guarda con quell’espressione indecifrabile che lo manda in bestia, le mani che stringono la pochette di raso coordinata al vestito bordeaux, il cosmo che cerca il suo. Annusandosi, come due cani che si incontrano per la strada.
«Io combatterò», scandiscono le sue labbra, con una voce soave e terribile allo stesso tempo che gli fa tremare i polsi. Sarai al mio fianco? È una tua scelta, Pegaso.
Seiya si scopre a deglutire a vuoto. Deve dire qualcosa. Perché lei sta aspettando una sua parola.
«Non hai… non hai paura?», le chiede. Dandosi del perfetto cretino l’istante successivo. Che razza di domanda è?!, è il pensiero che traspare dai suoi occhi.
Saori – Athena – sorride. Un gesto vero. Sincero. Che sgorga dal cuore. Se ha paura? Certo che ne ha. Perché è un corpo mortale, quello che la ospita. Che può soffrire, sopportare, sanguinare. E morire. «Sì. Ne ho», gli dice – gli confessa – «ma non mi lascerò fermare dalle mie paure.»
«Potresti…», morire, ma non ha il coraggio di pronunciare quella parola.
Dov’è finita la tua spavalderia, Seiya?
«Il Santuario fa sul serio», le dice, invece, guardandola negli occhi. Che rifulgono del bagliore dell’acciaio.
È una sfida, la tua, Pegaso? «Anche io, Seiya. Anche io.» Gli occhi di Saori – occhi grandi, neri, e profondi come voragini smarginate – si assottigliano. «Sono pronta alla morte da quando ho scoperto di essere Athena. E se sarà il Sacerdote a fermarmi, o uno dei suoi sicari, allora…»
«Allora?»
«… allora potrei non essere Athena. È per questo che combatto. Per dimostrare a me stessa di essere degna del mio ruolo.»
«Tutto qui?»
Seiya sembra deluso. Che cosa ti aspettavi? Proclami? Promesse? Mi dispiace, Seiya, ma questo è quanto. Sono la vostra unica Athena. Mi rincresce di deludere le tue aspettative.
«Tutto qui», gli risponde. Voltandosi per andarsene, mentre l’emanazione del suo cosmo si assopisce, piano piano. Come il fuoco che si spegne dopo una vampata.
«Aspetta.»
La voce di Seiya la ferma dopo tre passi. Tre piccoli passi. Saori – Athena – si volta. «Hai cambiato idea?»
Seiya stringe i pugni, gli occhi carichi di una luce determinata che non gli ha mai visto prima. Un passo. Solo un piccolo passo ancora. Credi in me, Seiya. Credi in me! Questo è il tuo potere, Seiya. E io ne ho bisogno.
«Non penserai davvero che io ti lasci andare da sola?» Un sorriso strafottente piega all’insù le labbra di Seiya. «Che figura ci farei con quelli del Santuario?»
«Non si torna indietro, Seiya. Se ti schieri dalla mia parte, non potrai…»
Lui si stringe nelle spalle. «Per il Santuario sono già dalla tua parte. Sono un traditore. Tanto vale divertirsi un po’, ti pare?»
Il cuore di Saori è gonfio di sollievo. Lo sente leggero, quasi potesse volarsene via al primo soffio di vento come un palloncino dispettoso, ma non può cedere. Non ancora, almeno.
«Tu… tu credi in me?», gli chiede. Perché anche Saori – anche Athena – ha bisogno di certezze. Ha bisogno di sapere se Pegaso sarà ancora al suo fianco. Come ieri. Come durante l’ultima guerra sacra. E come quella prima ancora. Fin dall’inizio dei tempi e fino alla fine dei giorni.
«Non lo so», gli risponde lui. Ed è sincero. Il suo cosmo non mente. «Ma so che se sei davvero tu la dea Athena, allora…»
«Allora?»
«…allora il mio posto è al tuo fianco. Non credi?»


Note: come dicevo sopra, la rivelazione da soap opera al Colosseo prima dell'arrivo di Babel non mi piace. Troppi se e troppi ma (complice l'adattamento italiano). Seguo il manga, seppure a grandi linee. Qui siamo dopo l'arrivo di Eris a Tokyo, quando Marin lascia scritto a Seiya di proteggere Athena, pochi minuti prima che Jamian rapisca Saori coi suoi corvi. E sì, Athena ha bisogno che Seiya creda in lei. Perché una divinità è potente sino a quando c'è qualcuno che crede in lei.

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Capitolo 44
*** All'ombra degli alberi di ciliegio ***


#44 All'ombra degli alberi di ciliegio
Prompt: Notte – Lui – Lei
Fandom: Saint Seiya
Personaggi: Scorpio Milo – Leo Aiolia
Note: non so dove piazzare questa cosa. Facciamo che sia un mezzo AU; e un molto, molto probabile OOC.  
Ce l'ho! Piazzatelo poco prima di Deep Blue Eyes. Tanto lei non è chi pensate voi, eh, eh...  



«Di nuovo?», domanda Aiolia. Annoiato. Seccato. Le mani sui fianchi. «Ma non ne hai ancora abbastanza?»
«No.»
Per il Leone certe cose sono una perdita di tempo. Abbassarsi al livello degli stupidi fa di te uno stupido, ma per lui non è così. Non sempre, almeno. Ci sono cose che non gli piacciono. Che lo mandano in bestia. Come il rigirare il dito – o il coltello – nella piaga. Le vede come provocazioni infantili. Inutili. A cui lui sente di dover ribattere. A cui lui non sa – non può – resistere. E in cui lui ci sguazza, come il proverbiale pesce nell’altrettanto proverbiale barile. E lo fa divertendosi. Come un matto.
 
È cominciato tutto quando Agathê e la sua famiglia hanno chiuso l’Emporio per due settimane.
Andiamo in vacanza anche noi, ogni tanto, ma non temete: torniamo prestissimo!, ha scritto Andreas su un foglio che ha lasciato appeso sulla porta. E qualcuno – un soldataccio, forse, vista la grafia stentata ed irregolare – ha ribattuto: «Bravi! E noi qui ha lavorare!».
Il mattino seguente, qualcuno armato di pennarello rosso e calligrafia svolazzante ha sentito il dovere di rammentare al soldataccio, su quello stesso foglio, che con “Are, ere, ire, l’h va a dormire”. Aggiungendo tre punti esclamativi – !!! – giusto per enfatizzare il concetto.
Così, a sua volta, lui si è sentito in dovere di dire la sua sulla questione. Scrivendo nottetempo: “VA STA FA,VO STO FO, io mai accenterò”. In stampatello. Maiuscolo. Tanto per non essere da meno.
Perché voi pensate che la faccenda sia morta lì? Errore. Madornale. Colossale. Peggio che scrivere cuore con la Q.

Metterò su egli DÀ
l’accento che ci va.

ha risposto la grafia in rosso.
Nottetempo anch’ella, ché quando lui ha chiesto in giro nessuno gli ha saputo – o gli ha voluto, secondo Aiolia – fornire una risposta.
Così lui ha protratto quello stillicidio aggiungendo:
Niente accento
su QUA QUI,
doppio invece su LÀ LÌ.


A cui l’altra penna ha trovato opportuno il giorno dopo rispondere:
Per se stesso accento il SÉ.
Se mi escludi accento il NÉ
.

Lui ha rilanciato:
Se mi accetti accento il SÌ,
e sorrido tutto il DÌ
, con un sorriso stilizzato accanto.

Senza niente lascio il SU,
ha il berretto il signor GIÙ
,
ha risposto l’altra grafia. Una ragazza, a detta delle solite malelingue.

Lui ha scritto:
Per finire sopra il NO
Mai l’accento metterò!!!,

ma la questione non è finita qui.

Perché Penna Rossa – come l’hanno ribattezzata le comari che affollano il Santuario – ha giocato al rilancio.
“Conosci la tribù degli indiani Cu Cu ?”, ha risposto il giorno successivo, meritandosi a buon diritto quel nomignolo.
“Se li scrivi con la Q, ride tutta la tribù”, ha ribattuto lui. Maiuscolo.
E in questo modo hanno superato il punto di non ritorno.

CA CU CO ACCA NO
CHE CHI ACCA SÌ


Frase dopo frase.

Ato, Uto, Ito,
L’h hanno al dito!


Botta e risposta.

Prima la Q, seconda la U, poi la vocale che vuoi tu.

Aggiungendo altri fogli mano a mano che consumavano quelli su cui si rispondevano, e fermandoli tra loro con dei pezzetti di nastro adesivo.

Spero, promitto e iuro vogliono sempre l'infinito futuro.

Spaziando tra i vari argomenti. Dalla Chimica - Alarico è tornato, vittorioso ma ferito! – alla Geografia – Tragrelesci Melipoma!  – alla Geometria – “Il volume della sfera sai qual è?” “Quattro terzi, pi greco, erre tre!” – dalle Lingue – Deposito Gaz X – alla Matematica – Ai modesti e vanitosi, ai violenti e timorosi do cantando gaio ritmo logaritmo –  dalla Letteratura – “Eschilo, Eschilo, ché qui si Sofocle!”, “Stai attento alle scale, che sono Euripide”,  “E se cadi?, Tucidide!” –all’Astronomia – “Artogeca levebisco, sacca d'acqua con i pesci” e “Mero dubbio” e “Capatosta – Geca, leve, biscosa”.

Lasciando passare qualche tempo.
Per rendere la cosa interessante.
Per far credere all’altro che ci si era stufati di quel baloccamento infantile.
Quando la verità era un'altra. Ossia che entrambi cercavano qualcosa con cui ribattere. E cogliere in castagna l’avversario. E prolungare quel trastullo innocente ancora un po’. Sempre di più.
Soltanto che Milo, adesso, non sa cosa ribattere a quel “Alza bestia (la) gamba destra” che campeggia in rosso sul foglio a righe. E fissa quella frase incoerente come se si trattasse dell’Enigma del secolo.
«Sono», le prime lettere dell’alfabeto greco, vorrebbe dirgli Aiolia, ma un gesto di Milo lo ferma.
«Zitto», sibila lo Scorpione. «Niente. Aiuti», dice. Tornando a guardare il foglio.
E Aiolia non si fa pregare. Fa spallucce e si porta le mani dietro la testa. «D’accordo. Niente aiuti. Ma non metterci una vita, ché io ho da fare…»
«E allora perché sei qui?», ribatte Milo.
«Curiosità.»
«Curiosità uccise il gatto…», mormora lo Scorpione. Quando il suo viso si illumina. «Eureka!», esclama. Vergando in un lampo la risposta.
Aiolia si affaccia.
Oh, Be A Fine Girl. Kiss Me, ha scritto Milo.
«Ma sei scemo?», gli domanda il Leone. Perché così significa arrendersi.
Milo lo guarda come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Prego?»
«Rileggi quello che hai scritto», gli dice – gli intima – Aiolia, indicando il foglio con il pollice destro.
«Oh, Be A Fine Girl. Kiss Me», ripete Milo, come un bravo parrocchetto addestrato. «Sono le classi spettrali. Non dirmi che non lo sai…»
«Certo che lo so!», ribatte Aiolia. Dando una manata sulla porta dell’emporio per dissimulare il fatto che sì, Milo l’ha colto in castagna, ma che no, non crede sia corretto consultare l’enciclopedia volta per volta. Ne hanno già parlato. Ne hanno già discusso. E Milo gli ha simpaticamente ribadito di non immischiarsi. Tutte le volte. «Ma se ti prende alla lettera?»
«Avrò rimediato un bacio da una ragazza…»
«E se non fosse una ragazza?», chiede Aiolia. Guardandolo dritto negli occhi. E facendo emergere una possibilità a cui lui no, non aveva pensato. Affatto. «E se magari fosse brutta?»
«Nient’altro?», domanda lui. Seccato. Trattenendo uno sbuffo. Ma se Aiolia avesse ragione?
Sarei costretto a sentire i suoi «Te l’avevo detto!» in eterno, si dice.  
Allora?, chiedono gli occhi del Leone.
«Correrò il rischio», dice. Facendo spallucce. E allontanandosi dall’Emporio di Agathê, le mani nelle tasche e l’espressione più atarassica del suo repertorio.

 
Il giorno dopo - la sera dopo - Aiolia non c’è. «Stasera ho da fare», gli ha detto, i capelli pettinati e sbarbato di fresco. Con un aroma di dopobarba troppo recente per non avere da fare con Marin dell’Aquila. Così Milo è uscito da solo a passeggiare per le strade deserte di Rodrio. Per godersi il chiaro di luna ed il fresco della sera. Non incontra nessuno, anche se sa che dietro alle finestre i curiosi del villaggio – e sono una marea – stanno osservando ogni sua mossa. Avranno letto la sua risposta. E non vorranno perdersi lo spettacolo, pensa lo Scorpione arrivando per purissimo caso – Quando si dicono le coincidenze! – davanti all’Emporio di Agathê.
La strada è deserta. Né un cane, né un gatto randagio. Nemmeno il richiamo delle civette a riempire il silenzio una notte splendida. Strano, si dice. Fermandosi sotto agli alberi che osservano l’emporio. Poi nota qualcosa, sul foglio. Il suo avversario – o avversaria? – è passato. E Milo si avvicina a leggere.

Fan Culo Brutto Idiota,
ha scritto.

E per un istante Milo pensa che Aiolia avesse ragione. Che il suo avversario sia un maschietto. Con una grafia svolazzante e femminea, ma maschietto. Un po’ come Andromeda, che avrà pure l’armatura rosa – rosa e con le tette – ma è un maschio.
E, improvviso, lo coglie un dubbio.
E se fosse davvero Andromeda il suo avversario?
Occazzo, pensa, la mano destra arcuata ad uncino, pronta a strappare quella sequenza di fogli e a farne carta straccia – Che figura. Che. Figura. Che… – quando qualcosa attira la sua attenzione. Un rumore, alle sue spalle. Come di un oggetto che cade. Troppo secco per essere un frutto maturo che ha deciso di lasciare il ramo anzitempo. Qualcosa di cilindrico. Qualcosa di rosso. Rosso ciliegia. Un pennarello.
Milo si avvicina e lo raccoglie. E vede, con la coda dell’occhio, una figura sgattaiolare per i vicoli. In cerca di salvezza.
Ma anche no, si dice lui. Lanciandosi all’inseguimento. Strada strada. Ombra dopo ombra. Budello dopo budello. Oramai, vuole sapere. Vuole vedere. Così la segue. L’incalza. Come un cane con la lepre. La raggiunge, al limitare del bosco di ciliegi che costeggia Rodrio. La agguanta per un polso. E la costringe a voltarsi, spingendole le spalle contro un albero.
«Tu?», le chiede. Lo sapevo. I suoi occhi si assottigliano. Come due mezzelune. La bocca si curva all’insù. I palmi delle mani si posano contro le sue spalle.
Lei tace. Sembra una statua di cera, il fiato sincopato per la corsa – o per la paura? – gli occhi sgranati nel buio, i capelli scompigliati sulle guance, il viso voltato dall’altra parte. Lui le afferra il mento e la volta a sé. In silenzio.
Restano a fissarsi, muti, il rumore del vento che si infila tra le fronde sulle loro teste. E nelle gole poco distanti.
«Tu», ripete lui. Ed è quasi un sussurro, adesso. Come se un tono troppo alto potesse rompere un incantesimo. «Ci avrei scommesso…», le dice. La pelle sotto le sue dita scotta. Lei trema. Lui si allontana. Lasciandole spazio. Lasciandole aria buona da respirare.
«Per questo mi hai inseguita?», chiede lei. Portando le braccia davanti al busto. Per difendersi. Da me? «Che ti ha preso?»
«Curiosità.»
«La curiosità uccise il gatto», ribatte lei.
Dio li fa e poi si pente. «E tu perché ti sei messa a correre?»
«Così. Mi andava.»
Certo. Così. Uno corre come un forsennato perché non ha nulla di meglio da fare. «Ti è caduto questo», le dice. Porgendole il pennarello rosso.
Lei lo afferra di malagrazia, rapace. E lo guarda accigliata.
Restano in silenzio, di nuovo, occhi negli occhi. È il momento delle spiegazioni, questo, ma nessuno dei due vuole fare il primo passo e calare le proprie carte. Poi lui decide che ne ha abbastanza e scuote la testa. «Posso sapere perché?»
«Perché, cosa
«Perché quell’insulto.»
È un lampo di consapevolezza, quello che le ha appena attraversato lo sguardo?
«Quale insulto?», domanda lei, con un briciolo di spavalderia a colorarle le guance.
Ti è passata la paura? «Fan Culo Brutto Idiota», scandisce lui, le braccia incrociate. «Non ti sembra di aver esagerato?»
Lei ride. Dapprima cerca di dissimulare, stringendo le labbra, chinando la testa, schermandosi la bocca con il dorso della mano. Mai poi l'ilarità ha la meglio. E lei si lascia andare, riempiendo la notte del suono argentino della sua risata.
«Che c'è?», le chiede lui. Avvicinandosi. Ma non funziona. Qualsiasi minaccia, qualsiasi pericolo lui abbia rappresentato fino a pochi istanti prima, è come se fosse disinnescato.
«C'è… c'è…  c'è che ho vinto io», dice lei, tra una risata e l’altra.
«Sarebbe?»
«Fan. Culo. Brutto. Idiota», ripete lei. Aiutandosi con le dita della mano destra. «Sono gli elementi del gruppo degli alogeni. Fluoro. Cromo. Bromo. Iodio», gli spiega. Per poi ricominciare a ridere, gli occhi chiusi e una mano davanti alle labbra.
«Cloro, non Cromo», le sussurra lui. All’orecchio. Lei si pietrifica. Quando ti sei avvicinato così tanto?, chiedono i suoi occhi neri adesso spalancati, la schiena spalmata contro la corteccia dell’albero. «Quindi, direi che siamo pari. No?»
«E tu che», ne sai?, vorrebbe chiedergli. Ma la domanda le muore in gola quando cade nello sguardo azzurro mare di lui.
«Oh, Be A Fine Girl», le sussurra, ad un respiro dal cuore. Il cosmo che sfrigola, come il burro in una padella calda. Una ciocca dei suoi capelli - neri come le ali dei corvi - attorcigliata tra le dita. «Kiss Me.»
«Le classi spettrali?», dice lei. Annaspando. Perché ha bisogno di alleggerire un momento  pesante come il piombo e concreto come l’asfalto. Perché lui non senta il suo cuore battere impazzito contro le costole. O non si accorga della sua pelle increspata come il mare battuto dal vento di maestrale.
Lui sorride. «No. Stavolta, no.»
E poi succede. Un istante. Un passo. Un battito di ciglia. Una distanza colmata. Il sale nel mare. Il crepitare di una fiamma. Il concerto dei grilli. Una candela nella notte. Un battito d’ali. Il sangue che canta. Il cosmo che rifulge. Acqua e Terra. Un attimo che sa di eternità. All’ombra degli alberi di ciliegio.


Note:
Il Natale fa male. Molto male.
Mi rendo conto che la sequela di mnemotecniche che si scambiano questi due ha senso solo in italiano, ma mi sono ricordata di un analogo botta e risposta tra un lui e una lei apparso sui muri della Facoltà di Lettere tanti anni fa, botta e risposta che andò avanti per mesi, per poi interrompersi di colpo. All'ombra dei ciliegi in fiore, quella volta. Chissà se quella coppia è ancora unita?

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Capitolo 45
*** L'uomo più furbo del mondo ***


#45 L'uomo più furbo del mondo
Prompt: Fuoco
Fandom: Saint Seiya – L’ardente scontro degli dei
Personaggi: Dolvar, Freyr


«Quell’uomo non mi piace, Maestro Balder.»
«Il mio nome adesso è Dolvar, Freyr. Dolvar.» Glielo ripete con pazienza, liberandosi del pesante copricapo rituale bordato di zibellino assieme ad un sospiro trattenuto a fatica.
«Perdonatemi, Maestro.»
Ancora non ti sei abituato?, pensa il Celebrante di Odino. È nato chiamandosi Balder, come il dio del Sole a causa dei suoi capelli candidi; ma ha preso il nome di suo padre – Dolvar – quando ne ha ereditato il posto. Come suo padre prima di lui. E così via, fino a ripercorrere a ritroso la genealogia della sua famiglia, seguendo percorsi ed intrecci che richiamano ad Asgard. Quella originale. La dimora del Padre degli Dei che lui, Dolvar, si occupa di venerare e pregare affinché protegga dalla morsa dei ghiacci quell’avamposto nel profondo nord della Norvegia.
«So che tra te e Loki non scorre buon sangue, Freyr», dice. Ed è vero, perché entrambi hanno fuoco ardente nelle vene. Sono troppo simili per legarsi, e allo stesso tempo troppo diversi. Solare Freyr; cupo Loki. Aperto e leale il primo, schivo e ambiguo il secondo. Ecco perché questa sera nelle sue stanze c’è Freyr, e non Loki. Perché il principe è venuto a chiedergli di intervenire. Perché la questione tra quei due non è chiusa. E non lo sarà sino a quando lui non parlerà con l’ultimo arrivato. Loki. Lo straniero che passeggia per i camminamenti di pietra di Asgard come se appartenesse a quel luogo da sempre. O viceversa?, si chiede Dolvar sfiorando con le dita un prezioso ricamo sul paramento sacro.
«Non vi sbagliate, Maestro», risponde il giovane principe. Bello come la primavera in fiore. I capelli che rifulgono del brillare dell’oro zecchino. Lo sguardo azzurro dei laghetti di montagna. «Non mi piace la luce che vedo nei suoi occhi.»
«I suoi occhi?», chiede Dolvar, le mani che si fermano a mezza via. «Spiegati meglio, Freyr…»
«Si comporta come se lui fosse l’uomo più furbo del mondo. Come se vedesse cose che noi, qui ad Asgard, nemmeno immaginiamo. Come se…»
«Basta così.» Il gesto di Dolvar è secco. Come la tagliola che si chiude attorno alla zampa della volpe. Non ha la forza di sentire le lamentele di un bambino geloso. Non stasera. Il sommo Odino non risponde, Freyr. È sordo alle nostre preghiere. Questo è più importante delle tue beghe da cortile, non credi? «Pazienza, Freyr. Pazienza. Loki è un prigioniero di guerra. Non possiamo rimandarlo in patria senza rompere il trattato di pace che ci lega al suo popolo. Credevo che in quanto principe, tu ne fossi consapevole, o mi sbaglio?»
Freyr si morde le labbra. Labbra piene, morbide, fatte per strappare baci alle ragazze nel buio dei corridoi del palazzo. Labbra di un bambino. Che le contorce per puro capriccio. Ragazzino. Sapessi quanto pesa Asgard, Freyr. Sapessi quanto pesa la pace…
Dolvar si allontana dal tavolo e dalle bianchissime tovaglie di lino su cui ha deposto i paramenti sacri. È stanco. Vorrebbe riposare. Ogni giorno è sempre più difficile elevare le preghiere ad Odino affinché dimostri loro clemenza e renda la loro vita su quello sperone di roccia meno dura, meno impossibile, meno disumana. A volte si forma un pensiero blasfemo, nel suo cuore. Un’increspatura appena sulla superficie quieta della sua coscienza. A volte, Dolvar vorrebbe che il sigillo che chiude il passaggio per Jotunnehim si spezzasse e che i giganti sciamassero sulla Terra. Forse così gli dei getterebbero uno sguardo su Midgard, si dice. Pentendosene l’istante successivo. E chiedendo agli Asi di perdonare il loro indegno sacerdote. È amareggiato, Dolvar. Dalla vita, dal suo ruolo, dalle aspettative che tutta Asgard ripone sulle sue preci.

Perché fa così freddo, Maestro?
Quando torna la primavera?
Gli dei ci hanno abbandonato?
Vogliono punirci per qualcosa che abbiamo fatto?


Questo gli chiede la sua gente. E lui non sa più cosa rispondere.
«Vedi la presenza di Loki a palazzo come un esercizio. Come un modo per apprendere qualcosa di nuovo.»
«Qualcosa di nuovo? In quell’uomo non c’è che malizia, Maestro!», esclama Freyr, alzando il viso di scatto, le guance rosse e lo sguardo dilatato.
«Vero», gli concede Dolvar. «Ma Loki è un male necessario, Freyr. Come il fuoco che scoppietta in questo camino», gli dice, dandogli la schiena e protendendo le mani ossute verso la fiamma. Com’è piacevole, il suo tepore, in quel freddo palazzo di pietra pieno di spifferi e correnti e…
«Voi dite, Maestro?»
Dolvar torna al presente. Alle sue stanze nel castello di Asgard, in cima alla torre da cui si domina tutta la vallata. Fuori soffia il vento, un ululato sinistro che si infila nelle gole ghiacciate. Racconta cose strane, il vento nelle sere d’inverno. Cose che non è bene ascoltare. Perché il vento ti conosce. Ti conosce molto bene. Meglio di quanto tu stesso creda.
«Cosa vuoi che faccia, Freyr?» Dolvar è stanco. Vuole solo scivolare sotto le coperte e non pensare. Non pensare a quel dio che incombe su di loro, la spada tra le mani forti e possenti e lo sguardo severo. Uno sguardo di pietra. Duro. Cieco. La tua gente soffre, Odino. Non lo vedi, Guercio? «Cosa dovrei fare? Dimmelo tu.»
«Non lo so, Maestro.»
Beata incoscienza, pensa Dolvar. Tornando ad osservare le fiamme guizzare allegre nel camino. Freyr vorrebbe cacciare Loki dalla cittadella, con una gran pedata nel sedere. E lui deve evitarlo. A tutti i costi.
«Gli parlerò, se è questo che desideri. Chiederò a Loki di diventare davvero uno di noi. Ma sappi, mio principe, che non sarà facile. Non sarà immediato. E non sarà duraturo.»
«Vi ringrazio, Maestro», dice Freyr. Togliendo il disturbo con un inchino. C'è amarezza nello sguardo di Dolvar. Ora che ha ottenuto quel che voleva, seppur in parte, ora che gli ha strappato la promessa che metterà in riga quello svedese dallo sguardo di vetro, il sole è tornato a splendere per il principe che tutta Asgard ama. Non gli chiede nemmeno come stia. Se abbia freddo, dopo due ore in balia del vento sotto la statua di Odino. Se sia stanco. Se la sua fede sia salda e forte come un tempo, quando affiancava suo padre nelle celebrazioni mattutine, lo sguardo rivolto al primo raggio di sole ad est.
Balder sospira. E il peso del suo ruolo gli piomba le spalle, mentre le sue mani si allungano verso la fiamma che saltella allegra sui ceppi. Addomesticare Loki, questo gli sta chiedendo Freyr. Piegarlo ai suoi voleri, come fosse un puledro da addestrare o un lupo da abituare alla caccia. Ma il fuoco non lo puoi domare. Puoi solo arginarlo. E sperare che non combini guai più grossi di quelli che hai temuto, paventato, evitato.
Un sorriso amaro incurva le labbra del Celebrante di Odino. Che spedirebbe quell’uomo, un principe di sangue, dritto all’inferno di ghiaccio da cui proviene se solo Loki non fosse davvero utile come il fuoco. I suoi occhi smaliziati vedono cose che Freyr nemmeno immagina esistano. E può far comodo avere qualcuno da sacrificare per Asgard. Qualcuno su cui far ricadere tutte le colpe, al momento opportuno. Un capro espiatorio. Affinché il nome di Freyr continui a splendere immacolato. Come un raggio di sole al mattino.
Ragazzi, pensa Dolvar allungando le dita fin quasi a toccare la fiamma. Fuori, il vento soffia ancora. E qualcuno direbbe che in quel suono affilato come una spada ha percepito una risata. Stridula. Maligna. Come un fuoco che scoppietta indisturbato nel camino.


Note:
Io non amo la saga di Asgard. Non mi piace. Ma amo la mitologia norrena. Così, con molta umiltà, provo a far quadrare i conti. Nel mio headcanon Hilda, Freya e compagnia non esistono. Preferisco buttare un occhio all'Asgard del secondo film e prendere da lì quello che mi può essere utile. Senza avere il desiderio di inserire anche la narrazione di quei fatti; c'è il film. Godetevelo.

Nel mio headcanon, Dolvar - che nel primo doppiaggio si chiamava Balder - ha preso questo nome meh quando ha ereditato la carica di Celebrante di Odino dal padre. I suoi genitori lo hanno chiamato Balder perché, al momento della nascita, aveva i capelli bianchi come la neve, come il dio di cui porta il nome. Odino sembra non rispondere più alle sue preghiere (il suo ruolo è identico a quello di Hilda) e lui non sa spiegarsi il perché, mentre la sua fede inizia a scricchiolare sempre più. Forse è incappato nel sonno di Odino?

Freyr è il principe di Asgard, una cittadella incastonata su uno sperone di roccia sotto lo sguardo severo della statua di Odino. Ho piazzato questo posto nel profondo nord, in Norvegia. Bello e amabile, Freyr è ancora troppo giovane per salire al trono, ed è affiancato dal Celebrante, che funge da saggio consigliere. Mal sopporta Loki (e vorrei anche vedere!).

E poi c'è lui. Loki. Che nella mia testa è un (bellissimo) principe di un altrettanto sperduto e gelato regno della Svezia, il cui nome non è pervenuto. Lo hanno inviato alla rocca durante il trattato di pace tra Asgard e questo regno misconosciuto, un po' come avviene nella mitologia con Freyr e Freya... e come avviene nei fumetti di casa Marvel per Loki.

Asgard, nel mio headcanon, ha un ruolo: sorvegliare che non venga meno il sigillo apposto da Odino sul cancello che conduce a Jotunnheim, il regno dei Giganti.

E in tutto ciò, lo jotunn vi augura un caloroso Natale e vi dà appuntamento a prestissimo. Magari dopo le Feste? Chissà. Intanto, augurissimi anche da parte della sottoscritta.

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Capitolo 46
*** Qui lei non c'è ***


#46 Qui lei non c’è
Prompt: Morte
Fandom: Saint Seiya – Hades
Personaggi: Phoenix Ikki
 
Qui lei non c’è.

Ikki si guarda attorno, sotto quel cielo grigio disperazione che sembra fissarlo con curiosa indifferenza. Cosa ci fa un vivo, laggiù? Che vuole questo ragazzo? È forse uno dei tanti che non s’è arreso e che vuole tornare indietro? Ma indietro non si torna, e questo Ikki lo sa. Ikki non vuole tornare indietro. Non prima di aver fatto quel che c’è da fare. Il suo dovere, direbbe Shun. Che è andato avanti, assieme agli altri. Lo ha lasciato correre, tenendogli il guinzaglio lento. Perché lui ha bisogno di cinque minuti per sé, prima di tuffarsi di testa nel ventre furioso della battaglia.

Qui lei non c’è.

Non può esserci, perché se davvero esiste un dio o una giustizia, qualcosa che riconosca i meriti e le colpe ed assegni le penitenze, allora Esmeralda non può trovarsi all’Inferno.
Non sarebbe giusto.
Eppure qualcosa increspa l’animo di Ikki.
Ha paura. Paura che alla fine la Giustizia non esista. Paura che Saori gli abbia giocato un brutto tiro. Gli dei lo fanno. «Mai fidarsi di loro», diceva Guilty. E adesso quelle parole hanno trovato la via al suo cuore. Sussurrandogli che forse Athena lo abbia adulato ed allettato, mormorando al suo orecchio con voce da sirena quello che il suo cuore da marinaio voleva sentire. La speranza. L’amore. Il futuro. Splendente. Caldo. Brillante. Dolci promesse, a cui la Fenice non ha saputo dire di no. A cui ha creduto. Con rinnovato slancio e nuovo vigore. Rinascendo dalle ceneri di quel ragazzo arrabbiato e deluso e scontroso che è piombato loro addosso in cerca di vendetta.
E adesso, disperso nel mare infuriato e rabbioso, Ikki teme che la barca su cui è salito – la barca di Saori – altro non sia che una manciata di assi marcite, tenute assieme per scommessa. O per fede.
Ecco perché vuole trovarsi da solo, adesso. Sotto quel cielo grigio disperazione che sembra volergli cadere addosso e schiacciarlo per farlo restare lì. Per sempre. Vuole sentire il respiro della paura corrergli sotto pelle. Nelle vene. Assieme al rombo del sangue.
Ikki non crede di meritare un posto in Paradiso, ammesso che esista qualcosa di assimilabile al Paradiso di cui parlava Esmeralda. Ma se questo Paradiso esiste, in qualunque modo si chiami, lei sarà lì. A godere della sua luce. Non certo qui sotto, in mezzo a tutta questa disperazione. Non sarebbe giusto.

Eppure, una parte di lui vorrebbe che l’anima di lei fosse lì. Da qualche parte. Che riuscisse a percepirla in qualche modo. Perché allora lui la troverebbe, a costo di rivoltare quel posto sottosopra come si fa con un calzino sporco, e la porterebbe in Paradiso. Ce la farebbe entrare di peso, sostenendola tra le braccia. Come una sposa che varca la soglia della sua nuova casa sorretta dal suo sposo. È tutto quello che potrebbe darle. È tutto quello che vuole darle. Per fare pace coi suoi sensi di colpa. E dirsi che sì, ha fatto qualcosa per lei, oltre che sotterrarla con le sue mani e a lasciarle una corona di fiori su quella croce sbozzata. Qualcosa che l’ha resa davvero felice.
Ma Saori – ma Athena – non l’ha tradito. Non ancora, almeno.
Esmeralda lì non c’è.
Non la percepisce. Non la sente. Da nessuna parte. In nessun dove.
Ikki corruga la fronte, dubbioso. Non sa se i suoi sensi gli stiano giocando un brutto tiro, o no. O se sia lui a pretendere l'impossibile. Lui la sta cercando come farebbe con un Santo. Sta cercando il suo microcosmo, ma Esmeralda non ne ha mai posseduto uno; e non c’è più tempo. I suoi cinque minuti sono scaduti. E la battaglia chiama. E Athena chiama. E i suoi piedi inizieranno a muoversi da soli in tre, due, uno…

Va bene così, si dice. Correndo incontro al suo destino. Un passo dopo l’altro. Va bene così. Perché lui non entrerà mai in Paradiso. Questo lo sa. Ma anche ammesso che, ragionando per assurdo, gli facciano questa cortesia, lui non varcherà quel cancello. Non prima di aver appurato che anche Esmeralda sia lì ad attenderlo. E in caso contrario tornerà indietro. E batterà a tappeto l’Inferno. Fin nelle viscere ed oltre. Fino a quando non l’avrà trovata. E le avrà fatto varcare quella soglia tenendola tra le braccia.


Note: Il titolo riprende una canzone di Baglioni, Qui Dio non c'è, contenuta all'interno del doppio album Oltre, 1990.

Ho ritenuto opportuno cambiare in parte questa storia, sviscerando i nodi più intricati e ingarbugliati, dopo che qualcuno mi ha fatto notare alcune somiglianze tra questo racconto autoconclusivo ed una storia di innominetuo attualmente in corso - dal musicale titolo «Καῖρε, ὦ ἐμή ἀγαπητή!» , qualora voleste dargli un'occhiata - in cui si trattano simili concetti: Ikki si trova a passare per l'Inferno e a pensare ad Esmeralda come punto d'attacco.
Premesso che questi racconti sono già scritti da tempo, ho preferito sviscerare meglio - sfiorando il ridicolo, me ne rendo conto - le tematiche di questo mio così da evitare antipatici ed imbarazzanti sovrapposizioni (no, Amico Lettore. Ikki non la trova, né all'Inferno, né nell'Elisio, ché nell'Elisio, per me, ci finiscono solo gli eroi. E lei, purtroppo, non lo è.). Resto comunque a disposizione dell'utente summenzionato per eventuali chiarimenti.

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Capitolo 47
*** I Breathe ***


#47 I Breathe
Prompt: Olfatto – Vista - Stelle
Fandom: Saint Seiya – Hades
Personaggi: Capricorn Shura

Green biosphere
Clean biosphere
Castles in the air
Climbing the stair
Way to heaven when
 

La Terra è un puntolino azzurro sotto di lui. Se non fosse per la potenza del flusso in cui viaggia, gli piacerebbe potersi fermare ad osservarla per qualche momento. Perdersi in quel blu e cercare di capire – di indovinare – quale continente stia osservando. Quali sogni stiano occupando le menti delle persone. Sentire il respiro della Terra. Il respiro di Athena. Che aspetta il Dragone ai piedi della Scalinata Sacra.
Lui ha sempre calpestato la polvere e le ossa della terra, senza sapere – senza pensare – che quella cupola azzurra sopra le loro teste si vedesse anche dallo spazio. E splendesse dieci volte più azzurra, contro il nero cupo della notte.
Quel damerino mi ha dovuto insegnare anche questo, pensa, con un sorriso che gli incurva le labbra.
Fa male. Un male dannato. E Shura spera – Shura prega – che finisca presto. Si sta avvicinando alle stelle. Non vede la sua Costellazione. Ma la sente. Alle sue spalle. Le stelle ruggiscono di fulgore, un’esplosione di rabbia, un’ultima vampata che accompagni quel figlio verso la sua fine. Verso di loro. Si torna a casa, pensa. Osservando le scie luminose delle comete. Senza sapere – senza pensare – che stasera la cometa più luminosa è proprio lui.
 
I breathe clouds beneath my window
I see rockets in the sky
I feel satellites in limbo
I breathe oxygen up high


 
Note: Oggi facciamo un salto nel passato con I Breathe, del gruppo svedese Vacuum (1996). Potete trovare su YouTube il video ad alto tasso di svedesissima biondaggine. Donne avvisate, ecc ecc.

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Capitolo 48
*** For whom the bell tolls ***


#48 For whom the bell tolls
Prompt: Lui – Lei 
Fandom: Saint Seiya
Personaggi: Gemini Saga


 

And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee
(John Donne,
Devotions upon Emergent Occasions, Meditation XVII, 1623)
 
 
L’ha sentito arrivare. I suoi passi hanno risuonato stanchi sul marmo candido che collega la Dodicesima Casa alle stanze del Sacerdote, e allora Lui si è eclissato. Svanendo nelle pieghe della sua coscienza, immergendosi in quei lati bui che l’hanno partorito. Per riordinare le idee, ha detto. E lui ne ha approfittato. Ed è venuto avanti.
Saga ha sentito le certezze dell’Altro, del Mostro che cova dentro di sé, scricchiolare ad ogni passo. Metro dopo metro. Casa dopo Casa.
Sull’Ariete non ha mai fatto affidamento. Si è sorpreso quando il Toro non è riuscito a fermarli. Così ha deciso di scendere in campo, alla Terza Casa. È compito del Santo dei Gemelli difenderla, giusto?, ha detto, con quella sua voce simile alle unghie che calano impietose sulla lavagna. Ma non ha gradito l’intrusione della Catena di Andromeda nella Sala del Trono. Anzi.

La morte del Cancro l’ha lasciato spiazzato, ma poi si è detto che quel cretino ha tirato troppo la corda. E che succede quando si tira troppo una corda? Che la corda si spezza. E il filo delle vite umane è ben più sottile e fragile di quanto Death Mask abbia mai creduto. Altrimenti, come avrebbe fatto uno come lui a collezionare così tante teste? – così tanti trofei?
Il Cancro è caduto, ma Lui si è stretto nelle spalle. Si devono pur perdere delle unità in una guerra, ha pensato. E il Cancro, con la sua risata ossessiva e quel gusto teatrale di rapportarsi coi subalterni, gli era venuto a noia. Anzi, ti dirò, ha pensato Lui, un ghigno dipinto sul viso, Quei mocciosi mi hanno anche fatto un favore.

Ma quando il Leone s’è svegliato dal sonno in cui Lui l’aveva avviluppato, non è stato più così atarassico. Non è stato più così tranquillo. Maledizione!, ha esclamato. Lanciando la coppa di vino contro il pavimento. Il calice d’oro zecchino s’è ammaccato, ma Lui non vi ha badato. Era troppo furioso. Il Leone aveva ammazzato qualcuno con le sue stesse mani, ma non aveva sentito la disperazione sgorgare dal cuore di Aiolia come acqua alla fonte. C’era rimorso, certo. Dispiacere, senza dubbio. Ma nessuna cupa e cieca angoscia, di quelle che ti serrano le viscere con presa ferrea e ti straziano il cuore. Qualcun altro s’era sacrificato al posto di Pegaso. E quei ragazzini erano avanzati ancora. Fino a sparire con la Vergine in un mare di luce. Fino a risvegliare colui che dormiva nella Settima Casa. Fino a superare l’Ottava Casa.
E gradino dopo gradino, il muro di menzogne che Lui aveva eretto con pazienza in tutti questi anni è venuto via. Sgretolandosi. Come un castello di sabbia lambito dalla marea.

Stanno riprendendo fiato, i maledetti, ha pensato quando hanno varcato la soglia della Nona Casa. Digrignando i denti e stringendo le dita. E chiedendosi quanto ci mettesse il sole a tramontare. Quanto diamine durassero quelle fiammelle. Insinuando che qualcuno – Chi?, avrebbe voluto chiedergli – stesse barando. Gli stesse mettendo i bastoni fra le ruote. Per impedirgli di prendere ciò che è sempre stato suo. E che gli spetta di diritto.
Shura li avrebbe fermati. Lui avrebbe rimesso a posto quei ragazzini. Sarebbe stato semplice. Dopotutto, non aveva colpito a morte Aiolos quand’era poco più che un moccioso? Cosa gli sarebbe costato sbarazzarsi di quattro mocciosi stanchi, ammaccati e sfiatati?
Un battito di ciglia.
Un movimento rapido del polso.
Sì, Excalibur avrebbe mozzato le loro teste. E poi Lui avrebbe chiesto al Capricorno di decapitare Saori Kido. Se lo meritava, dopo tutto. Si era spacciata per Athena, giusto? Quindi sì, Shura le avrebbe staccato di netto la testa dal collo e lui l’avrebbe appesa alla Quarta Casa. Come monito, avrebbe detto, per tutti coloro che avessero avuto la stessa brillante idea di spacciarsi per la Dea. Che li avrebbe ringraziati da dietro le sue cortine rosse. E che si sarebbe fatta vedere sempre meno, sempre meno, sempre meno…
Sì, Shura gli avrebbe tolto le castagne dal fuoco. E quei ragazzini avrebbero bagnato col loro sangue le fondamenta del suo regno. Serve un sacrificio per ogni rito di fondazione, giusto? E oggi come oggi gli dei non stanno più a guardare se all’interno delle pietre angolari vi si pongono cuori ancora pulsanti, oppure…
Ma anche il Capricorno l’ha deluso. Shura è schizzato via, come un petardo che vuole raggiungere le stelle, portandosi appresso metà della Decima Casa e uno solo dei suoi avversari. E i suoi polsi hanno iniziato a tremare.

L’Acquario s’è spento assieme al suo allievo. E Aphrodite è riuscito a fermarne uno solo. Mentre l’altro ha continuato la sua corsa cocciuta verso le Stanze della Dea. Il roseto lo fermerà!, ha detto – ha gridato. Più a se stesso che all’altro sé, alzandosi dallo scranno, le mani che fremevano per torcersi attorno allo collo dello sciagurato che proseguiva nella sua follia. Sfidandolo. Sovvertendo tutte le leggi, di questo mondo e dell’altro. Nulla avrebbe potuto avvicinarsi alle Stanze del Sommo Sacerdote passando per l’ultima scalinata, neppure una mosca. Aphrodite non gliel’aveva assicurato con quel sorriso civettuolo e compiaciuto? Sì che l’aveva fatto. Eppure, nemmeno le rose dal fatale effluvio di Aphrodite sono riuscite a fermare quei mocciosi. È uno solo quello che si sta avvicinando. Piano piano. Come il ragno che non vuole far scappare la formica.
Ma il Mostro, Lui, la Formica ha percepito la presenza del nemico alle sue spalle. E allora è scappato. Per pensare. Per scegliere quali parole usare per adularlo. Per convincerlo a passare dalla sua parte. Un’Armatura d’Oro, certo. Se ne sono liberate tante, oggi. Una che faccia al caso suo la troveranno pure, no?
Così, mentre Lui imbastisce il suo ultimo piano, Saga è venuto avanti. Resistendo. Pregando che Lui non se ne accorga. Che gli lasci tempo. O che si riaffacci solo dopo che avrà spiegato al Santo di Bronzo cosa dovrà fare per salvare Athena. Non crede che questo stato di grazia durerà a lungo. Non crede che durerà oltre il tramonto. Saga sente crepitare l’ultimo fuoco della meridiana. Un suono stanco, di chi vuole fermarsi e riposare. Solo un pochino. Ma nel suo cuore il Santo dei Gemelli prega che ci sia ancora qualche schioppo, qualche guizzo, qualche scintilla. Non per chiedere perdono, o pietà o comprensione. Ma per salvare Athena. Ché la campana no, oggi non sta suonando per lei.


Note: sì, stiamo mettendo il turbo. Ma voglio chiudere al più presto tutto quello che ho lasciato in sospeso. Come questa raccolta, che si avvia alla conclusione. E la campana sta suonando anche per lei. 

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Capitolo 49
*** See the stars, they're shining bright ***


#49 See the stars, they're shining bright 
Prompt: Mare – Notte - Stelle
Fandom: Saint Seiya
Personaggi: Julian Solo – Siren Sorrento
 
 
I'm taking a ride 
With my best friend 
I hope he never lets me down again 
He knows where he's taking me 
Taking me where I want to be 
I'm taking a ride 
With my best friend 
(Depeche Mode, Never let me down again, 1987)



L’automobile sfila veloce lungo la litoranea, andando incontro all’abbraccio del sole che si sta inabissando nel mare. Vorresti superare con un salto il guard-rail, come fosse una staccionata in un prato di girasoli, e se ci fossi tu alla guida il pedale affonderebbe e sì, la piccola Fiat 500 bianca finirebbe per volare nella scarpata, e tuffarsi in acqua.
Sorrento lo sa. Ed è per questo che guida lui.

Hai troppo vento nei capelli, ma non importa. Hai troppi e tanti pensieri da sbrogliare, come un gomitolo sfatto che un gatto dispettoso ha dapprima ingarbugliato e poi lasciato lì, in un angolo della tua mente, stufo di quel baloccamento innocuo. Sorrento lo sa. Ed è per questo che se ne resta in silenzio. Sperando – pregando – che un po’ d’aria sul viso ti aiuti a fare chiarezza dentro di te. E che plachi il languore che ti accompagna da un paio di giorni.
Ci sono sere in cui la malinconia viene avanti, come la marea. Sere in cui il pizzicato del violino di Sorrento non basta a placare le tue ansie. Sere in cui è impossibile distogliere l’attenzione da quella massa nera all’orizzonte che ripete incessante il tuo nome. Come la sirena fa col marinaio. E mai come in quelle sere tu, Julian Solo, hai bisogno di un amico. Sorrento lo sa. Ed è per questo che è apparso alle tue spalle, mentre il sole raccontava segreti alle tegole del cielo, facendole arrossire e tu scrutavi il mare all’orizzonte, le tende della stanza strette tra le mani come fossero un ancora e tu una nave alla deriva. O un marinaio che sente il disperato bisogno di avere il beccheggiare della barca sotto di sé. Per ritrovare l’equilibrio instabile che sulla terraferma gli piomba il cuore ed i piedi.
Sorrento queste cose le sa. Ed è per questo che ti ha porto la giacca. E ti ha detto:«Andiamo».
Perché il mare ti sta chiamando. Nel suo battere e levare contro la spiaggia. Nello sciabordio ritmico delle onde. Nel suono della risacca che torna verso il mare aperto, delusa per non essere riuscita a lambirti le caviglie ed averti portato indietro. Con sé.

Durante il giorno Julian Solo, l’erede di un impero che ha abbracciato una causa umanitaria e adesso se ne va in giro per il mondo, riesce a distrarsi. Parla con le persone. Gioca con i bambini meno fortunati. Firma assegni. Telefona a casa per rassicurare sua madre, suo padre e suo nonno che sì, è ancora vivo. E che tornerà a casa, prima o poi. Ma quando cala la notte la faccenda si complica. Perché il mare chiama. Canta la sua canzone, quella che tanto ti affascina, Julian, e che ti muove l’animo. E tu non senti più nulla se non quel richiamo. Tutto svanisce. L’antifurto disperato in strada, i gatti in amore nel vicolo, la televisione troppo alta nell’appartamento accanto, la musica che pompa dalle casse di un’automobile di passaggio, bucando il silenzio della notte e proseguendo oltre. Senza sentire quello che il mare ha da raccontare. Senza accorgersi di quella ninna nanna liquida che atterrisce il tuo cuore.
Sorrento lo sa. E tu sai cosa si sta chiedendo, adesso, mentre accompagna l’andamento della curva con un movimento deciso del polso.
Sorrento si sta chiedendo per quanto tempo ancora potrai andare avanti. Se mai riuscirà a tornare a casa, il rampollo dei Solo, o se non scivolerà piuttosto nel mare. Cadendo da un traghetto. Oppure tuffandosi tra i flutti. Cercando di tornare a casa, quella vera. La sua reggia di coralli e calcedonio sul fondo del Mediterraneo. Quella che fino ad oggi pomeriggio credevi fosse solo un sogno. Il delirio di un folle o il desiderio di un innamorato, chi lo sa? Chi può saperlo?

L’ultimo ricordo nitido che hai della tua vita è quella sera sulla terrazza della villa a Glyphada. Indossi il tuo sorriso migliore, un completo di sartoria italiana, un calice in mano e la luna alle tue spalle, affacciata alla terrazza della notte. Con te c’è una ragazza. Ha lunghissimi capelli di seta ed un vestito bianco, stretto in vita. Quando i tuoi occhi hanno incontrato i suoi, qualcosa è scattato in te. E l’hai trascinata sulla terrazza. E le hai chiesto di sposarti. E lei ha detto di no, e tu ti sei sentito un perfetto imbecille. E una rabbia impetuosa squassarti il cuore. Come se il tuo sangue si fosse tramutato nel mare in tempesta. E hai pensato che fosse colpa sua. Sua. Solo sua. Della sua pelle bianchissima. Dei suoi occhi neri. Del suo sorriso soave. Sua. Che nemmeno stavolta sarebbe stata tua.
E poi è apparsa un’altra ragazza.
Bionda. Appariscente. Occhi verdi, di mare al mattino. Che ti ha chiamato Poseidone. Che ti ha abbracciato. E che ti ha portato con sé. Sotto le onde del mare.
E sotto al mare c’era un Regno. E sotto al mare hai rivisto lei. La Fanciulla. Quella che volevi con tutto te stesso. Quella che mai sarebbe stata tua.
C’è stata una guerra, nel sogno. Una battaglia. Combattuta per lei. Testarda e cocciuta e bellissima. Una battaglia sanguinosa. Perché i paladini della Fanciulla, della bella principessa dagli occhi di stelle, sono venuti a riprendersela. A portartela via. Ad issare la ragazza sulla groppa candida di un cavallo alato.
E quando ti sei svegliato eri da solo, sulla spiaggia, a pochi metri da casa tua.

Ragazzi, che sbronza!, hai pensato, guardandoti intorno e osservando la realtà attorno a te con occhi diversi. Sì, una sbronza. Perché l’ultima cosa che ricordavi era il rifiuto di quella ragazza. Che ti faceva male, lì in mezzo al petto. E ti sei detto che sì, tutta la nebbia che avevi nella mente altro non era che il ricordo di una sbornia. Una di quelle colossali. Quando, alzando lo sguardo al cielo, non sai più se sei tu che guardi la luna, o se è lei che ti osserva, come fossi una formica sotto al microscopio.
E poi hai visto quel pesciolino. Arenato a riva, oltre la linea della marea, le scaglie verde e argento che brillavano iridescenti sotto i raggi del sole del mattino e fra le lacrime che facevano capolino tra le tue ciglia.
Sorrento è apparso allora. Mentre il vento ti accarezzava il viso – per consolarmi, hai pensato – e la salsedine ti si voleva cucire addosso, come fosse il tuo odore, come a volersi incollare alla tua pelle. Per non lasciarti più da solo.

L’automobile sfila veloce lungo la litoranea, mentre il sole è quasi sparito dietro la linea dell’orizzonte. I tuoi occhi sono persi a rincorrere la forma delle nuvole, lì dove il rosso ed il blu si tendono la mano. In segno di pace. Quella che credevi di aver trovato. Quella che la Fanciulla – che si chiama Saori Kido, adesso lo ricordi bene – ha sconquassato con un paio di righe. Scritte di suo pugno. Su un biglietto di pregiata filigrana verde acqua. Il colore del mare al mattino. Che anche qui in Australia è di una sfumatura quasi trasparente quando il giorno si sveglia, piano piano, e la vita ricomincia il suo giro di valzer.
Vuole vederti. Vuole incontrarti. Ti ha lasciato scritto dove e quando, ma non ti ha detto perché.
Ed è stato allora, ed è stato leggendo il suo biglietto – osservando la sua grafia ondulata – che le tue memorie sono tornate a galla. Come i relitti rigettati a riva dalla marea capricciosa. Che è così simile ai gatti, quando giocano con le loro prede. Con la differenza che il gatto si balocca con il topo prima di mangiarlo, l’onda con i relitti dopo averli sbriciolati a più riprese contro gli scogli. Ed aver visto che da quelle schegge di legno non si può cavare altra disperazione. Altro divertimento.


È tutto vero, pensi. Mentre l’automobile a noleggio sfila lungo la costa, sotto un cielo così ampio e smarginato da fare quasi paura. È tutto vero. Ma non lo dici a Sorrento. Seduto accanto a te. Silenzioso. Perché lui lo sa che è tutto vero. Che è sempre stato tutto vero. E vorresti chiedergli perché non te l’ha mai detto. Perché, quando tu gli raccontavi dei tuoi sogni, delle tue visioni di un mondo sotterraneo, lui rispondeva con un sorriso, un motto di spirito, una battuta. Una citazione colta.
«Chissà, magari quella città esiste davvero. E magari quando le stelle saranno propizie, riaffiorerà in superficie…», ti ha detto una sera, osservando distratto la fettina di limone all’interno delle bottiglie che vi aspettavano sul tavolo. Come se in quelle cellette ripiene di succo vi fossero chissà quali sogni, chissà quali altre visioni. Come a chiedere a quello spicchio giallo se fosse il caso di rivelarti un simile segreto.
È tutto vero, pensi. Sono un dio, ti dici. Anzi, no. Ero un dio, sospiri. Con te stesso. Perché Saori – perché Athena – ha lasciato una piccola parte di Poseidone dentro di te. Una piccola scaglia verde argento. Come il luccichio del mare al mattino. Un souvenir. Che ti rammentasse chi sei. Cosa sei stato. E perché sei caduto. Perché lei non voleva spezzare il legame che Julian ha col mare. Perché tu potessi sentire la sua canzone soffiare nella brezza mattutina, sulle ali del Libeccio, assieme ad uno volo basso di gabbiani e al profumo pungente della salsedine.

E ti coglie un senso di vertigine. E rabbia. E vergogna e paura e sconforto e languore, mentre l’auto continua la sua corsa senza meta. Hai ancora troppo vento tra i capelli. E le stelle, sopra la vostra testa, non sono ancora del tutto allineate, pensi. Gettando uno sguardo al cielo. Rammentando quanto fossero belle e lontane le stelle, sotto la volta delle acque. Quanta nostalgia tu provassi –  quanta nostalgia Poseidone provasse – nel cercare in quelle luci lontane lo sguardo splendente della Fanciulla. Che mai avrebbe sacrificato quel bel cavallo bianco dalle ali maestose di cui le avevi raccontato quando il mondo era ancora giovane e lei era appena uscita dalla testa di suo padre. E che tanto le era piaciuto da spingerti – da spingerlo – ad escogitare un sistema per crearlo. E a raccontarlo a lei. Buttandolo nel discorso quasi per caso. Una chiacchiera. Una confidenza. Un «davvero?» di lei a cui lui aveva risposto con un «Perché no?», tra coppe d’ambrosia passate di mano in mano, nel cuore la segreta speranza di uno sguardo diverso, da parte di lei. Un gesto di benevolenza, che ricompensasse l’ardore fedele del mare. Il suo battere e levare. La sua ostinazione. Peccato che anche lei fosse testarda. Forse persino più di lui.

Lascia stare, ragazzo. La Fanciulla sa essere un osso duro.

La voce di Poseidone ti raggiunge come uno schizzo d’acqua oltre lo scoglio che ti bagna l'orlo dei pantaloni. Un discorso tra sodali. Tra compagni di sventura che si raccontano le proprie disavventure passandosi da bere, le gambe a penzolare nel vuoto, sopra l’andare e venire costante del mare. Cercando, tra le parole, l'accesso a quel mondo del possibile. Quello in cui i sogni non si sono spezzati come bottiglie di vetro contro le rocce.
 
Sorrento lo sa. Ed è per questo che continua a guidare. Senza chiedere. Se tu sia stanco. O affamato. O se tu voglia scendere a sgranchirti un po’ le gambe. No, questo non te lo chiederà mai. Potresti scivolare tra i flutti e sparire. Questo, Sorrento lo sa. Mentre il vento di primavera vi gonfia le giacche e sbaraglia il cuore. E gioca coi vostri capelli. Ingarbugliandovi i pensieri ancora di più.
«Cosa dovrei fare?», gli chiedi. Bucando il silenzio ovattato che vi ha protetto sinora. «Tu che faresti al posto mio?»
Sorrento tace. Tace e guarda la strada e scala in terza. «Non lo so», risponde. «Davvero, dico. Dipende.»
«Da cosa?»
«Da quanta curiosità provo.» La spia del carburante lampeggia. «Stiamo per fermarci. Spero di avere una tanica vuota, da qualche parte.»
E l’automobile annaspa. E Sorrento scala le marce. E il motore singhiozza, come qualcuno che sta spuntando acqua di mare fuori dai polmoni, e la vettura sobbalza una, due, tre volte. Fino a quando non si ferma. Lasciandovi sotto la luce delle stelle, nel bel mezzo del nulla.
«E adesso?», chiedi. Sentendoti un perfetto cretino. «Non avevi fatto il pieno?»
«All’inizio della settimana. Oggi siamo a giovedì. E sono due ore che guido.»
Sorrento non si scompone. Apre lo sportello e scende. Cerca qualcosa dietro il suo sedile, rovistando tra alcune cartine abbandonate sul fondo della vettura e tenute insieme con degli elastici.
«Eccola. Sapevo di averla», dice. Estraendo una tanica di plastica opaca.
«E adesso?», ripeti. Come un ambino petulante. Che forse è quello che sei, alla fine. E che forse un giorno di questi Sorrento manderà al diavolo, una volta per tutte. Poseidone o non Poseidone.
«Raggiungiamo la prima stazione di servizio. Ne troveremo una aperta, prima o poi», risponde. Ruotando la manovella che solleva il vetro del proprio finestrino. Chiudendo il tettuccio. Indicandoti di fare lo stesso. Staccando le chiavi e portandosele in tasca. «Così per strada potremo parlare. Sarebbe un peccato restarsene in silenzio sotto un cielo così bello, no?»
E Sorrento fa scattare la chiave nella serratura e si porta il mazzo in tasca, la tanica sottobraccio come fosse un pallone e lui un monello che chiama il compagno per scendere a giocare in cortile.
«Andrà tutto bene, Jude», ti dice. Dandoti del tu. Sorridendoti. E iniziando a camminare, ché la pompa di benzina non arriverà mai a voi con le sue gambe.
E tu ti accodi a lui, nelle orecchie il suono del rassicurante del mare. Che ti chiama. Ti vezzeggia. Ti saluta. Loda il suo Signore. Quella parte di Lui che è rimasta dentro di te. E che sonnecchia, un occhio aperto come i mostri marini, in attesa di vedere se tu riuscirai dove lui ha fallito. Se e quando le stelle saranno propizie.


Note:
Stavolta sono una marea - tanto per restare in tema!
Nel mio headcanon il tempo è un po' più dilatato di quello che ha previsto Kurumada-sensei. Julian vaga con Sorrento da qualche anno, cercando una redenzione inconsapevole, beatamente ignaro di essere stato Poseidone. Fino a quando Saori non gli fa arrivare un bigliettino con una richiesta. Il seguito di questa vicenda è un racconto che si intitola Tra le fronde dei limoni e lo potete trovare qui, qualora vi andasse di leggerlo. Senza impegno.

Glyphada è un quartiere sciccosissimo che si trova a sud di Atene. La Beverly Hills greca, in pratica. La villa dei Solo non poteva che trovarsi qui e non a Capo Sounion. Fattene una ragione, Kurumà.

Mi rendo conto che lo strumento di Sorrento è il flauto e non il violino, ma mi sono concessa una libertà. Mi serviva il pizzicato, così simile all'arpeggio, e voi capite che col flauto... sì... insomma! Spero Sorrento non se la prenda.

Per il resto, qui dentro c'è un po' di tutto. Never Let Me Down Again dei Depeche Mode. Hey Jude dei Beatles. Guido Piano di Concato e pure parte di Sexy Tango e tutto l'amore che questo cantautore milanese prova per il mare. E Banana Yoshimoto col suo Sonno profondo. E, in ultimo, quel Call of Cthulhu che fa capo a H.P. Lovecraft. Hai visto mai che Atlantide e R'lyeh fossero la stessa cosa?

In ultimo, forse avrei fatto meglio a tenere questa storia indipendente e a darle maggiore fiducia, permettendole di camminare sulle proprie gambe. Forse. Chissà... Ai lettori, l'ardua sentenza.

 

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Capitolo 50
*** Fiori d'arancio ***


 #50 Fiori d'arancio 
Prompt: Bianco – Fiori - Vita
Fandom: Saint Seiya - tra Episode G e la serie classica
Personaggi: Leo Aiolia
 
Il servo di Dio Andreas e la serva di Dio Ariannê si sono fidanzati nel nartece della chiesa e sposati sotto lo sguardo delle sante icone.
La giacca scura sulle spalle gli fa caldo, mentre la madre della sposa piange.
«Grazie per essere venuto», gli dice Ariannê. Raggiante, la corona sul capo e la fede d’argento scintilla all’anulare destro. «Sai, è stato… come vedere… lui…», ha aggiunto quasi piangendo. Perché si assomigliano tanto, lui e suo fratello.
«Non l’ho mai dimenticato. Mai.»
«Lo so.»
Aiolia annuisce. La vita va avanti. Meglio così.
«Siate felici, Ariannê. Siate felici anche per lui.»
 
Note:
Ariannê è la fidanzatina che Aoilos aveva all'epoca del coup d'état di Saga. Non statevi a scervellare, lei è un mio OC, che vi mostrerò pian pianino. Questa storia si piazza da qualche parte tra Episode G e la serie classica, questo perché dubito profondamente che nella Grecia degli anni '80 ci si sposasse oltre i trent'anni. Tutto il resto è relativo al rito del matrimonio secondo la Chiesa ortodossa. Ci vorrebbe una nota lunghissima per spiegare tutto. Se siete interessati, fate un giretto in rete, o chiedete pure alla sottoscritta. Oppure date una letta qui. E fatevi del bene.
Vi anticipo solamente che il fidanzamento avviene il giorno stesso del matrimonio, poco prima di entrare in chiesa. I due fidanzati ripetono nel nartece - e quindi non nella chiesa vera e propria -  le formule rituali ed entrano come fidanzati. Perché la promessa ha una sacralità pari quasi al rito stesso.

Purtroppo ho il brutto vizio di cominciare troppe cose tutte assieme, finendo per non riuscire a portarne a termine nemmeno mezza – e ciò è davvero imbarazzante. Sono io? È colpa dell’Ascendente in Sagittario? Non ne ho la più pallida idea, ma è arrivato il momento di fare una metaforica ‘pulizia’. Così, signori si chiude! Cinquanta è un numero tondo, e quindi si può fare, no?
Spero che questa raccolta vi sia piaciuta – e a giudicare dai numeri spaziali di visite, direi proprio di sì!
Dal canto mio, ci ho messo tutto l’amore che posso (cit.) e tutta la cura in mio possesso. Più di così, non potevo fare.

Grazie a chi ha letto.
Grazie a chi ha commentato.
Grazie a chi non ha commentato.
Grazie a chi ha inserito questa storia tra le preferite/seguite.
Grazie per essere arrivati fin qui.
Grazie.
Di cuore.

Logorroicamente vostra,
Francine

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