Hollywood Ending

di viktoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tutte le grandi cose hanno piccoli inizi. ***
Capitolo 2: *** Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male. ***
Capitolo 3: *** L'esperienza può essere semplicemente lo stesso errore, ripetuto abbastanza spesso. ***
Capitolo 4: *** La scuola aiuta i giovani se riesce a in­segnare loro il senso critico. ***
Capitolo 5: *** Chiunque può arrabbiarsi, ma farlo con la persona giusta, e nel grado giusto non è facile. ***
Capitolo 6: *** Credere che l'amicizia esista è come credere che i mobili abbiano un'anima. ***
Capitolo 7: *** L'invidia tocca anche i buoni. È una tristezza, una malinconia, una malattia del cuore. ***
Capitolo 8: *** Ecco la volontà di creare in due quell'uno che sarà qualcosa di più dei suoi due procreatori. ***
Capitolo 9: *** L'amore è essere due. Lui e Lei. Il terzo, qualsiasi cosa sia, altro non è che la fine dell'amore. ***
Capitolo 10: *** Un vero addio non deve essere da una parte sola, ma da tutte e due. ***
Capitolo 11: *** Matrimonio: la volontà di creare in due quell'uno che sarà qualcosa di più dei suoi due procreatori. ***
Capitolo 12: *** Si deve scegliere per moglie la donna che si sceglierebbe per amico se fosse un uomo. ***
Capitolo 13: *** yes, I do ***
Capitolo 14: *** Se il Natale non esistesse bisognerebbe inventarlo. ***
Capitolo 15: *** Insieme a lui acquistai amore e felicità. ***
Capitolo 16: *** La lontananza rafforza l'amore...oppure lo distrugge. ***



Capitolo 1
*** Tutte le grandi cose hanno piccoli inizi. ***






 

Partire da Pisa aveva fatto capire che il problema aeroporti italiani finiva una volta lasciata Roma. il check-in fu velocissimo, i controlli scrupolosi ed io ero troppo preso da altro per esserne innervosito. Quel pomeriggio era assolutamente più carina del solito. In jeans, converse e maglietta leggera, aveva tutta la mia più completa attenzione.

- Secondo te dovrei chiamare mia madre mentre sono ancora in territorio nazionale?- mi stava chiedendo mentre eravamo ancora in fila.

- Tecnicamente sei in un aeroporto quindi non sei più in territorio nazionale.- le feci notare cercando di non ridere. – prendi un giacchino a Londra fa freddo.-

Posò la valigia a terra, davanti a tutte le persone che ci stavano intorno e l’aprì. Era disordinata e fu costretta a tirare fuori quasi tutto prima di riuscire a trovare un giacchino di pelle che aveva portato per precauzione.

- Comunque mi uccideranno.- mormorò richiudendo la valigia e prendendo il telefono dalla tasca.

- Tocca a noi adesso, che ne dici di chiamarle tra dieci minuti così ti siedi e lei ha il tempo di rimproverarti come si deve.- le suggerì prendendo la sua valigia e i documenti che teneva in mano e porgendoli alla signorina che mi sorrise.

- Salve signore. Documenti per favore.- mi domandò gentilmente mentre gli porgevo le due carte d’identità e la fotocopia di prenotazione del volo.

Lei guardò dietro di me aprendo la carta d’identità di Laura e la guardò. Poi si voltò verso di me dubbiosa. La vidi mordersi il labbro in una crisi di coscienza.

- Qualche problema?- domandai sentendo in parte l’irritazione crescere dentro.

- No, nessuno.- rispose la signorina stampando i due biglietti e porgendomeli. – i bagagli da imbarcare sul rullo per favore.- continuò con un tono di voce fiacco.

Presi il mio bagaglio ed il suo, li posai sul nastro e li spedirono in stiva.

- Buon viaggio.- mi augurò di nuovo mentre ci allontanavamo.

Quando fummo finalmente seduti di fronte al nostro terminal la guardai. Era nervosa, ticchettava col piede sul pavimento muovendo la gamba e stava seduta sul bordo della sedia guardandosi intorno. Sembrava che volesse correre a casa di nuovo.

- Dovresti chiamare adesso.- le suggerì passandole una mano sulla schiena.

La sentì fremere sotto le mie mani e mi venne da sorridere. si voltò verso di me torturandosi il labbro con i denti. gli occhi spalancati per il terrore.

- Credi?- domandò come se non fosse più sicura di non voler dire a sua madre una bugia e raccontarle che, ammessa all’accademia, non avrebbe potuto chiamarle più.

- Sì, credo.- risposi con un mezzo sorriso.

In realtà ero più spaventato di lei. Da quello che le avrebbe detto sua madre e suo padre dipendeva tutto quanto per lei. E di conseguenza anche per me. non ero certo di essere disposto a farla tornare a casa.

Prese il telefono e compose lentamente il numero prima di portarselo all’orecchio e poggiarsi finalmente allo schienale.

- Pronto?- rispose velocemente dall’altra parte del telefono una voce femminile.

- Ciao mamma.- salutò lei con un filo di voce. Le strinsi il ginocchio e lei si voltò verso di me.

- Non sembrare così terrorizzata, si preoccuperà.- sussurrai mentre dall’altra parte del telefono scendeva il silenzio. Lei annuì.

- Che è successo? Stai male?- domandò infatti prontamente sua madre.

- No, no, sto bene. È solo che i test non sono andati bene.- mormorò passandosi una mano sul viso.

Dire la verità evidentemente non le sembrava la scelta migliore. Si passò il telefono sull’altro orecchio e non sentì più la voce di sua madre.

- Non lo so, mi è stato offerto di andare a Londra da…Jonathan e iscrivermi a medicina lì visto che non ci sono test d’ingresso.- rispose guardandomi. Sapevo che non avrebbe voluto dire il mio nome ma ero comunque contento che l’avesse fatto.

- Sì, lo so. Però era quello che volevo fare dall’inizio e poi lui si è offerto di ospitarmi quindi non dovrei neanche pagare l’affitto.- continuò rispondendo ad una domanda che non avevo sentito ma che potevo immaginare.

- Se le cose non andranno bene torno a casa e l’anno prossimo mi iscrivo a legge a Catania ok?- propose a sua madre che fortunatamente non aveva fatto ancora nessuna sfuriata.

Rimase in silenzio per un po’, abbassando lo sguardo sulla mia mano che ancora le stringeva il ginocchio e giocherellò con le mie dita per tutto il tempo. Sapevo che sua madre le stava mostrando tutti i dubbi che aveva riguardo quella follia ma io sapevo anche che quella era la decisione migliore per lei e che se le cose a medicina fossero andate male c’era sempre l’opportunità di farle fare il mio lavoro.

Anzi, l’avrei portata dal signor Hennington l’indomani stesso. Se sua madre avesse visto quanto bene si stava trovando probabilmente non avrebbe avuto più nulla in contrario nella sua permanenza a Londra.

- Papà.- mormorò ad un tratto lei abbassando il viso anche più di prima.

- Papà ti prego fammi spiegare…- cercò di parlare dopo un attimo in cui sentii la voce profonda dell’uomo dall’altro lato del telefono.

Non la fece parlare. Le scaricò addosso tutto il suo rammarico prima di chiudere la comunicazione. Lei rimase per un attimo con il telefono all’orecchio prima di rimetterlo in tasca.

Non avevo il coraggio di chiederle nulla, me ne avrebbe parlato quando e se avesse voluto. Tutto ciò che potevo fare io era aiutare i suoi genitori a cambiare idea su di lei.

Se li era già messi contro la prima volta che aveva deciso di aiutarmi, per aiutare Marie con il suo lavoro. Adesso era solo per me che lo faceva. Per me e per se stessa in parte. Ci alzammo dopo qualche minuti per imbarcarci. Presentammo documenti e carte d’imbarco e, mentre camminavamo verso l’aeromobile, le passai un braccio intorno alle spalle e la strinsi a me posandole un bacio tra i capelli.

- Andrà tutto bene.- la rassicurai in un sussurro mentre sentivo il suo braccio stringersi alla mia vita.

- Non ne sono così convinta.- mormorò con la voce spezzata. Era così piccola alcune volte, così debole e vicina a crollare.

- Te lo prometto.- le dissi con convinzione mentre salivamo sull’aereo.

Non avevo fatto niente di buono nella mia vita. Non lo pensavo solo perché mi piaceva fare la parte del martire ma perché sapevo che era vero. Su tutti i fronti. Non ero stato bravo da ragazzo quando mi ero fatto espellere da tante scuole ed ero stato fermato un paio di volte per turbamento della quiete pubblica. Non ero stato bravo con mia madre facendole pesare ogni mio problema. Non ero stato bravo nel lavoro, avevo perso la mia opportunità a causa del mio caratteraccio. E non ero stato mai bravo neanche con le relazioni, ero stato spesso violento con Reena, indifferente e legato solo ai suoi soldi e al suo prestigio.

Non volevo essere così anche con Lorie. Lei non era forte come Reena, non avrebbe resistito a tutta la pressione del mondo se avessi aggiunto anche la mia. avrei dovuto essere io ad aiutarla a tenersi in piedi perché mi rendevo conto benissimo che in quel momento non aveva nessun altro oltre me. le sarei stato accanto come meglio avrei potuto. Avrei cercato di sorreggerla ed aiutarla. Avrei fatto tutto quanto in mio potere per darle ciò che di cui aveva bisogno lei e anche i suoi genitori per concederle tranquillità e fiducia.

Avevo trentacinque anni. Diciassette più di lei. Ed avevo a quel punto il dovere morale di sentirmi in qualche modo anche il suo tutore.

Ci sedemmo nei primi posti e lei, cercando probabilmente di non pensare a ciò che era appena successo, sedutasi, allungò le gambe davanti a se e scoppiò a ridere.

- Che c’è?- le domandai alzando un sopracciglio e guardandola stranito.

- Guarda, posso stendere le gambe.- mi fece notare meritandosi un’occhiata di compassione.

- La tristezza ti porta a dire scemenze?- le domandai di nuovo cercando di trattenere una risata. Lei mi rispose facendomi la linguaccia.

- No, però io non ho mai volato in prima classe, di solito i posti economy sono stretti. Certo fai amicizia con la gente però non puoi fare questo.- continuò abbassando completamente lo schienale della poltrona.

La guardai senza capire sorridendo divertito e poggiai i gomiti sul bracciolo sporgendomi verso di lei e lasciandole dolcemente un bacio sulle labbra.

- Dio…- sussurrò lei contro le mie labbra prima che mi allontanassi di nuovo per tornare al mio posto. – questo è il paradiso.- mormorò ridacchiando.

Nascosi una risata compiaciuta contro la mano e presi il telefono dalla tasca spegnendolo. Quella volta non aspettavo nessuna chiamata importante che non sarebbe arrivata.

- Dove abiti a Londra?- mi domandò lei quando l’hostess la invitò a rimettere dritto lo schienale e ad allacciarsi la cintura di sicurezza.

- In una casa piccolina.- le risposi vago.

- Non vuoi dirmelo?- mi domandò lei poggiandosi al finestrino. – devo dedurre che è tipo un magazzino in periferia?- continuò lei quando capì che non le avrei risposto. – no, tu non sei tipo, viaggi in prima classe per un volo Pisa-Londra.- dedusse ridacchiando. –allora è un attico in centro!-

- Lorie, non è che se mi torturi per tutto il tempo divento più magnanimo e te lo dico, anzi ti abbandono all’aeroporto e ti lascio tornare a casa a piedi.- l’avvisai guardandola con serietà.

- Ma se non so dov’è “casa” come faccio a tornarci?- mi sfidò lei alzando un sopracciglio in segno di sfida.

- Appunto.- conclusi io con un mezzo sorriso soddisfatto.

Lei mise il muso e incrociò le braccia al petto dimostrando ancora meno anni di quei pochi che già aveva. Era assolutamente bellissima quando faceva così ma la mia coscienza mi faceva notare come mi stessi approfittando di una bambina.

- Invece parliamo di cose serie.- dopo neanche due minuti aveva deciso di smettere di fare l’arrabbiata e mi aveva stretto il braccio tra le mani per attirare la mia attenzione.

- Cosa?- domandai io voltandomi verso di lei.

- Domani hai da fare?- mi domandò gentilmente sfoderando il suo sguardo più ammaliante.

No, non credo. Perché?- le chiesi semplicemente riuscendo a nascondere perfettamente con quell’espressione disinteressata, quanta voglia avessi di essere già a casa.

- Mi potresti accompagnare all’università così presento la domanda d’iscrizione?- mi domandò passandomi una mano sul collo.

- Sì, domattina andiamo a presentare i documenti.- la rassicurai scostandole la mano.

Lei rimase per un attimo interdetta poi allontanò la mano senza aggiungere altro e si voltò dalla parte opposta pensierosa ringraziandomi a mezza voce.

- Ti andrebbe dopo di lasciare dei documenti anche da un’altra parte?- le domandai guardandola attentamente per cogliere le sue reazioni.

- Dove?- domandò lei senza voltarsi verso di me.

- Al mio manager.- risposi semplicemente mentre la scrutavo sottecchi.

Si era voltata verso di me e mi guardava aggrottando la fronte.

- Chi te lo ha detto?- domandò guardandomi male. Anche se poi, a voler essere sinceri, il suo sguardo arrabbiato era tenero quasi.

- Cosa?- domandai a mia volta cercando di non ridere voltandomi verso di lei.

- Che avrei voluto fare l’attrice. Chi è stato?- riprese di nuovo mostrandosi adirata e carinissima.

- Nessuno, credevo fosse un modo per poter mettere da parte un po’ di soldi.- costatai semplicemente facendo spallucce e meritandomi un’altra occhiataccia. – ma se non vuoi non è per forza.- conclusi.

- Certo che voglio, che domande, solo che sembra tutto così…- sembrava cercare il termine adatto. – strano.- aggiunse alla fine.

- Strano?- domandai io cercando di farmi spiegare meglio quello che per lei era il concetto di strano.

- Si voglio dire, tranne i miei genitori che mi odiano e non senza motivo poi tutto il resto sembra così dannatamente perfetto.- costatò come se la cosa non fosse possibile.

- Che intendi per perfetto?- in realtà avrei potuto immaginarlo ma sentirselo dire era sempre più bello. E poi sembrava in vena di confessioni tanto vale approfittarne.

- Beh siamo qui, e non ci stiamo scannando, e…siamo una coppia?- concluse la frase come fosse una domanda. Sorrisi divertito e annuii.

- Si Lorie, siamo una coppia.- acconsentii io e lei arrossì leggermente.

- Sì, poi. Sto andando a vivere a Londra probabilmente in pieno centro, studierò a Londra in una seria capitale europea e presenterai i miei documenti ad un menager che, se va proprio male, comunque qualcosa per me la trova anche in una pubblicità per pannolini.- concluse il tutto tenendo il conto sulle dita. – capisci perché mi sembra strano?- domandò poi voltandosi di nuovo verso di me uscendo dalle sue meditazioni.

- A dire il vero non esattamente.- le risposi onestamente portandomi una mano al mento. – ma capirti non è mai stato facile quindi mi accontenterò.- conclusi prendendole il mento tra le dita e avvicinandola a me.

Avrei onestamente passato tutto il giorno a baciarla tanto mi appariva bella e perfetta. E poi potevo farlo. Non mi avrebbe gridato contro, magari mi avrebbe dato del mieloso ma mi andava bene, purché si lasciasse baciare e coccolare. Le sfiorai le labbra con le mia delicatamente prima che lei liberamente decidesse di schiuderle e di approfondire quel bacio. Alcune volte nella sua iniziativa sapeva essere così tremendamente sexy.

Il volo durò relativamente poco. Sia perché non ero partito dal culo del mondo, sia perché c’era lei con le sue chiacchiere, a farmi compagnia. Quando vide la macchina nel parcheggio lei scoppiò a ridere.

- Cos’è tutta questa ilarità?- le domandai aprendo il cofano e caricando i due bagagli che avevamo con noi.

- Sei proprio fissato con quest’auto vero?- domandò lei guardandola con sguardo critico.

- È la migliore della sua categoria, ed è figa.- costatai io. – non ti piace?- le chiesi salendo in macchina.

- Che ne farai dell’auto che hai lasciato a Catania?- mi domandò deviando la mia richiesta con facilità. Accesi l’auto e uscì con calma dal parcheggio con il motore che mi dava il benvenuto facendo le fusa.

- Onestamente credo che non sia una buona idea quella di chiedere a tuo padre di spedirmela. Magari gli chiamerò e gliela regalerò, magari me lo faccio amico.- proposi ridacchiando.

- Mio padre non lo corrompi così facilmente.- mi rispose seria.

- Lo farò quando sarai diventata ricca, famosa e ti sarai data almeno tre esami al college.- risposi prontamente sapendo che a quel punto, se ci fossimo arrivati, a suo padre della mia auto sarebbe fregato meno di zero.

Chissà se per allora mi avrebbe accettato con piacere o mi avrebbe odiato lo stesso per principio. Se era come sua figlia onestamente ero quasi sicuro che mi avrebbe odiato lo stesso.

Arrivammo a casa dopo un’oretta di viaggio. Quando avevo imboccato l’uscita per Londra centro lei si era voltata verso di me e mi aveva puntato contro un dito.

- Avevo ragione!- mi accusò facendomi scoppiare a ridere.

- Eh già, avevi ragione, brava bambina.- la presi in giro ridacchiando.

Quando poi avevo aperto la porta del mio appartamento per farla entrare era rimasta bloccata sulla soglia con gli occhi spalancati.

- Quello lì davanti e il Tamigi vero?- domandò lei ancora stralunata mentre con delicatezza, dopo averle avvolto un braccio intorno alla vita, la spingevo verso la vetrata.

- Sì.- risposi io lasciando che avesse il suo momento.

Quando ero entrato per la prima volta in quella casa ero rimasto piacevolmente colpito da tutto quello ma non avevo avuto quella reazione. Forse se avessi visto il mondo come lo vedeva lei sarei stato più entusiasta della mia fortuna. Forse adesso che c’era lei, avrei imparato a vederlo nella giusta prospettiva.

- E quello è il London eyes vero?- domandò di nuovo dopo un attimo di silenzio.

- Sì.- risposi di nuovo stringendole la vita con le braccia da dietro e poggiando il mento tra i suoi capelli. – ti piace?- le domandai dopo un attimo baciandole il collo.

- Sì. Mi piace da morire.- sussurrò con la commozione nella voce.

Doveva essere stata una settimana incredibile per lei. E adesso che era finalmente finita era accolta da quella vista di Londra di notte, stretta tra le mie braccia, con una decisione presa dodici ore prima che le aveva cambiato la vita.

- Hai fame?- le domandai dopo un attimo senza però lasciarla andare.

- No.- mi rispose monosillabica.

- Andiamo a letto?- domandai di nuovo in un sussurro contro il suo orecchio.

Lei si voltò verso di me e mi guardò negli occhi. Quando assumeva quell’espressione seria non mi sentivo troppo in colpa per stare con una bambina. Lei non era piccola come sembrava. Era matura, sapeva prendere le sue decisioni e l’aveva fatto. E una delle sue scelte l’aveva portata qui.

- Sì.- mi rispose convinta.

Mi abbassai su di lei baciandole piano le labbra, lei mi strinse le braccia al collo, la presi in braccio e la portai in camera da letto.

Quella notte non facemmo nulla. E non perché lei mi avesse fermato o perché io non l’avessi voluta ma perché quella notte non era venuto.

Mi risvegliai con la sua mano tiepida sulla guancia e il suo respiro caldo sul collo. Era stretta al mio petto e il mio braccio l’avvolgeva tenendola stretta. Lei era rimasta in intimo, come me, mostrando le sue forme non più generose ma piccole ed eleganti. Mi svegliai per il sole che mi colpiva dritto in viso. Avevo completamente dimenticato di chiudere le tende ma la sua presenza mi aveva distratto.

Mi alzai lentamente dal letto attento a non svegliarla e le lasciai un bacio tra i capelli prima di andare in cucina. Avevo dimenticato che quella casa era praticamente solo una camera d’albergo e che il frigo era lì solo per bellezza.

Lei mi raggiunse pochi minuti dopo, era scalza ma aveva recuperato una felpa che le arrivava al ginocchio.

- Buongiorno.- mi salutò con un filo di voce avvicinandosi.

La guardai poggiandomi al piano cucina con un sorrisetti divertito. Avevi visto un bel po’ di donne svegliarsi la mattina e avere un pessimo aspetto, i capelli arruffati, pallide, con le occhiaie, e la cosa più drammatica è che cercavano in tutti i modi di correre velocemente in bagno per truccarsi e sistemare il tutto. Lei invece sembrava non essersene nemmeno accorta. In realtà non era un disastro come ogni altra. I capelli arruffati le davano un’aria tenera e il visino non era completamente pallido grazie all’abbronzatura estiva che le aveva colorato la pelle.

- Buongiorno.- la salutai tranquillamente mentre, come una bambina, si avvicinava al bancone e si sedeva. – se stai aspettando la colazione sappi che qui non ho neanche il caffè.- le annunciai meritandomi un lamento.

Fece cadere la testa sul tavolo e si accucciò su se stessa quasi volesse riaddormentarsi lì. Guardai l’orologio sul caminetto.

- Comunque se devi andare all’università devi andare a lavarti adesso.- le feci presente avvicinandomi a lei e passandole una mano tra i capelli annodati. – truccati e vestiti elegante, il signor Hennington è una persona molto formale.- l’avvisai sottovoce prima di darle un bacio sulla tempia scoperta e dirigermi verso il bagno della camera degli ospiti lasciando a lei quello patronale.

Quanto ero diventato buono.

Mi aveva pregato di aspettarla poco lontano dall’ingresso del King’s College.

- Posso capire perché non vuoi che ti accompagni?- le domandai tamburellando nervosamente le dita sullo sterzo dopo aver spento la macchina.

- Se la gente ti riconosceva in Italia figurati qui.- mi fece presente lei. – e poi io vorrei una vita normale almeno a scuola ed evitare di trovarmi dietro uno stuolo di rompipalle che vogliono solo passare una notte nel tuo letto.- mormorò con una punta di gelosia nella voce che mi fece morire dal ridere.

- In tre si sta stretti.- le risposi io guardandola. Lei arrossì un po’ poi si voltò dalla parte opposta aprendo la portiera.

- Magari quando mi sarò già fatta delle amiche mi farò accompagnare da te. Ma fino ad allora ti prego…- non la lasciai finire. La interruppi alzando una mano.

- Vai, ti aspetto qui.- le risposi semplicemente mentre lei sorrideva chiudendo la portiera alle sue spalle.

A dire il vero non ero sicuro che avesse ben capito dove ci trovavamo quando era scesa tranquillamente dall’auto dirigendosi verso la segreteria. Sembrava tranquilla, teneva la borsa sulla spalla e si guardava intorno incuriosita. Quando sparì dietro l’angolo non potei far altro che aspettare.

Tornò dopo una buona mezz’ora con dei moduli tra le mani e un sorriso trionfante in viso.

- Allora?- domandai prendendo i documenti che mi porgeva e sfogliandoli velocemente.

- Sono ufficialmente una studentessa del miglior College di Londra!- annunciò lei soddisfatta battendo le mani. – comincio i corsi Lunedì. Ma ci pensi? È il mio sogno di sempre questo.- cominciò allegra mentre le riconsegnavo i documenti e riaccendevo l’auto diretto verso il centro amministrativo di Londra.

Ero già stato in quel grattacielo in vetro una volta. Ma quella volta ero solo, arrabbiato e speravo che ci fosse almeno qualcosa che potesse andare bene in tutto quello schifo che mi stava attorno. Speravo che quello che mi era sembrato oro solo poche settimane prima non fosse diventato ben altro. Parcheggiai nei posti riservati e prendemmo l’ascensore per salire all’ultimo piano di quell’enorme grattacielo.

- Forse non sono abbastanza formale.- mormorò lei quando le porte dell’ascensore si aprirono mostrandoci un meraviglioso atrio in marmo con una scrivania infondo anch’essa in marmo ed una signorina seduta dietro di essa con un formale tailleur, i capelli legati e degli occhiali alla moda calati sul naso.

La guardai per un attimo cercando di avere uno sguardo critico e disinteressato. Indossava una bella gonna tubino stretta in vita e sui fianchi che la fasciava perfettamente, una camicetta bianca e delle ballerina nere. Non era il massimo della formalità ma sembrava comunque una bambolina appena uscita dalla scatola. I capelli tenuti raccolti sulla nuca e un trucco leggerissimo comporto da un semplice tratto di matita nera sotto l’occhio. A me sembrava bellissima.

- Credo possa andare.- la rassicurai avvicinandomi alla signorina che avevo già visto la prima volta che ero stato accolto in quello studio.

- Signor Rhys-Meyers, che piacere vederla, posso esserle d’aiuto?- domandò lei sorridendo professionale e civettuola allo stesso tempo senza però essere volgare.

- Vorrei parlare col signor Hennington.- l’avvisai tranquillamente rispondendo al suo sorriso e meritandomi una leggera gomitata sul fianco.

- La riceverò subito, la ragazzina intanto può aspettare lì.- l’avvisò guardandola e indicandole gentilmente delle poltrone poco lontane.

- A dire il vero vorrei che mi seguisse.- la interruppi io cercando di nuovo la sua attenzione.

- Oh- mormorò stupita la ragazza. – prego allora, accomodatevi.- rispose semplicemente alzandosi e facendoci strada.

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Capitolo 2
*** Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male. ***


 



 

Lo studio in cui mi trovai era avvero enorme, con delle grandi vetrate che mostravano un meraviglioso scorcio di Londra anche se mi rendevo conto che doveva essere davvero molto distante dal centro. L’uomo attempato che sedeva dietro la scrivania stava parlando al telefono così velocemente e concitatamente che non riuscii a capire ciò che stava dicendo.

- Vuoi scusarmi, ti richiamo io.- si congedò dal suo interlocutore non appena alzò lo sguardo su Jonathan che camminava sicuro verso la scrivania.

- Signor Rhys-Meyers. Che piacere vederla. A cosa devo la sua visita?- domandò lui alzandosi e stringendo la mano che gli veniva porta.

- Ho una nuova cliente da proporle.- annunciò l’uomo al mio fianco facendomi spazio. – signor Hennington le presento Laura Caruso. Laura, lui è il mio manager.-

L’uomo mi guardò per un momento come se mi stesse studiando e solo dopo un attimo di esitazione mi strinse la mano che gli porgevo.

- Signorina Caruso.- mi salutò semplicemente facendomi arrossire.

- Signor Hennington.- risposi a mia volta sorridendo gentilmente e accomodandomi sulla poltrona che mi indicava.

- Allora, signorina, ha già lavorato nel settore?- mi domandò lui prendendo un fascicolo da un cassetto della scrivania.

- No.- risposi lapidaria e sincera.

- Neanche amatorialmente?- domandò di nuovo segnando qualcosa su un modulo che teneva davanti a se troppo lontano da me perché riuscissi a leggerlo.

- Sì, amatorialmente sì. Soprattutto teatro classico.- precisai accavallando le gambe lo sguardo dell’uomo corse dal foglietto al mio viso.

- Un’attrice tragica?- sentivo nella sua voce una punta di ironia che mi fece rispondere con un sorriso di sfida.

- Ho delle ottime doti.- mi vantai passandomi una mano tra i capelli.

- Ne sono certo.- rispose l’uomo sorridendo e tornando a scrivere su quei suoi foglietti. – ha del materiale che posso esaminare?- mi domandò riprendendo il suo interrogatorio.

- Materiale?- la sua domanda mi aveva lasciato basita. Alzai un sopracciglio e lui alzò il viso per guardarmi facendo un gesto della mano come se stessimo parlando di qualcosa di ovvio.

- Video?- mi domandò di nuovo con assoluta calma.

- No.- risposi onestamente riflettendo sul fatto che al massimo avevo delle foto sulla mia passata esperienza. E tra l’altro anche fatte male.

- Posso farvelo avere il prima possibile.- interruppe Jonathan che fino a quel momento era rimasto in silenzio.

Mi voltai verso di lui che continuava a guardare serio l’uomo attempato dietro la scrivania. Sorrisi tra me valutando la fortuna sfacciata che mi aveva permesso di avere un uomo simile. Avrei voluto alzarmi e baciarlo ma non ero ancora sicura delle sue reazioni fuori da una camera d’albergo figurarsi in uno studio lavorativo.

- Non c’è alcun bisogno Jonathan, voglio vedere le doti di cui parla la signorina.- lo rassicurò lui alzando lo sguardo e sorridendo amabilmente verso di me. – lei è d’accordo?- mi domandò poi per non sembrare sgarbato.

- Certamente.- lo rassicurai io.

- Bene. Allora, ho appena ricevuto un copione per assegnare una parte per un certo telefilm…- aveva cominciato alzandosi e aprendo un armadio dal quale estrasse un fascicolo. – è un progetto a cui sta lavorando anche Jonathan è ti farebbe bene cominciare al fianco di qualcuno che conosci già.- mi aveva spiegato tornando a sedersi e porgendomi il copione.

Lo guardai per un attimo con le mani che mi tremavano. Sopra c’era scritto a caratteri grandi il nome del telefilm e quella dei produttori esecutivi e del regista. Stavo per piangere dall’emozione. Jonathan si era sporto verso di me e aspettava che girassi la prima pagina.

- Di che ruolo si tratta?- domandò improvvisamente curioso.

- Della figlia dell’uomo che aveva adottato Abraham nel passato e della sua reincarnazione nel presente. Una donna che vuoi morta.- spiegò semplicemente mentre io leggevo curiosa il copione del primo episodio in cui appariva il personaggio di Katherine.

- Perché voglio la sua morte?- domandò insistente apparendo quasi seccato.

Alzai lo sguardo dal copione nello stesso momento in cui il signor Hennington lo sollevò dalle sue scartoffie.

- È importante?- chiese l’uomo cercando di non sorridere ma l’ironia l’avvertivamo benissimo nel tono della sua voce.

- Altrimenti non l’avrei chiesto.- rispose lui incrociando le braccia al petto.

- Suppongo che sia legato al fatto che Abraham uccise Mina e che sei consapevole che Katherine è per lui ciò che Mina era per te.- precisò lui guardando dei moduli che aveva davanti porgendoli poi a Jonathan che non sembrava per nulla soddisfatto.

Rimanemmo per un attimo in silenzio mentre lui controllava i documenti che l’uomo gli aveva dato. Dopo un attimo d’attesa questo si alzò in piedi lentamente e mi guardò sorridendo.

- Vuole seguirmi signorina così proviamo un attimo qualche scena?- domandò l’uomo rivolto a me che intanto guardavo Jonathan per capire il perché della sua stizza.

- Certo.- risposi alzandomi.

Non appena fui in piedi anche lui si alzò posando i documenti sul tavolo.

- Posso aiutarvi. Magari proviamo qualche scena che deve girare con me.- precisò quando Hennington si voltò verso di lui dubbioso.

- Dovrei.- lo corressi sottovoce utilizzando un più appropriato condizionale. Non avevo voglia di illudermi e di veder poi distrutte completamente le mie misere speranze.

Ci accompagnò in una stanza dove un uomo più giovane stava lavorando al computer con delle grandi cuffie alle orecchie. La stanza non aveva nulla di particolare se non un divano ed una poltrona e un tavolino basso di fronte ad esse.

- Frank.- lo chiamò lui avvicinandosi all’uomo e poggiandogli la mano sulle spalle.

Quello ebbe un piccolo sussulto prima di vedere il suo capo e noi che lo guardavamo. Si tolse lentamente le cuffie e fulminò l’uomo che lo aveva chiamato.

- Signore, lei così mi farà morire un giorno.- sembrava che lo stesse rimproverando ma il signor Hennington rispose con una risata.

- Perdonami figliolo. Allora, lei è la signorina Laura Caruso, è qui per fare una registrazione video, il signor Meyers l’aiuterà, puoi occupartene?- gli chiese gentilmente presentandoci.

- Certamente.- rispose Frank alzandosi e avvicinandosi a noi con un sorriso.

- Bene, vi lascio nelle sue sapienti mani. A dopo.- ci salutò uscendo dalla stanza chiudendo la porta alle sue spalle.

- Ciao.- mi salutò Frank stringendomi la mano. – allora, hai già un testo su cui lavorare?- mi chiese facendomi segno di sedermi.

- Sì.- risposi sollevando il testo che tenevo in mano.

- Perfetto, allora prima cosa leggi con calma le battute e cerca di memorizzarle. Lei signore può fare lo stesso e quando siete pronti me lo dite che accendo la telecamera.- ci spiegò lasciandoci da soli sul divano mentre sistemava la telecamera davanti a noi.

Mi sedetti e lui prese posto accanto a me leggendo le battute del copione. Era una scena breve, Katherine era per strada da sola e si dirigeva nella scuola in cui insegnava. Il misterioso Mr. Grayson trova un modo per fermarla e capire se anche lei, come Abraham è stata trasformata o se come Mina è la reincarnazione della sorella del suo nemico.

- Chi è che interpreta Van Helsing?- domandai innocentemente finendo di leggere l’ultima battuta.

- Perché vuoi saperlo?- domandò lui piccato prendendo il copione dalle mie mani e allontanandosi un po’.

- Perché sono curiosa di sapere chi è il fratello di Katherine.- risposi semplicemente facendo spallucce. - Tanto per immaginarmelo.- precisai guardandolo.

- Non è il fratello di Katherine è il fratello di Kosara di cui Katherine è solo la reincarnazione.- precisò lui sviando il discorso.

- La storia è piuttosto confusa.- mormorai. In effetti era riuscito nel suo intento di farmi perdere il filo del discorso.

- Sì, è vero. Te la spiegherò meglio a cena ok?- domandò lui gentilmente facendomi un mezzo sorriso e alzandosi dal divanetto.

- Siete pronti?- domandò a quel punto Frank che aveva finito di sistemare l’apparecchiatura necessaria.

- Sì.- risposi io alzandomi e posando il copione sul tavolino in vetro.

- Bene, partite quando volete.- ci informò quello tornando a sedersi al computer e rimettendosi le sue enormi cuffie.

Presi un respiro profondo e cominciai a camminare lentamente con lo sguardo basso. Katherine doveva essere una ragazza molto triste in fin dei conti. Aveva un lavoro che le piaceva ma nient’altro. Aveva perso la sua famiglia e i suoi amici, era completamente sola e viveva in una piccola stanza di un pensionato. Non aveva proprio la vita che aveva sempre sognato. Ero troppo persa a immaginarmi Katherine per badare a Jonathan che si era piazzato proprio di fronte a me tanto che sbattei contro il suo petto rischiando quasi di cadere a terra. Mi afferrò per le braccia e lo guardai con aria di scuse. Stavo rovinando tutto con la mia disattenzione.

- Sta bene signorina?- mi domandò però lui con una voce che non era la sua.

Era bassa, suadente e meravigliosamente sexy ma non era di certo la voce che avrebbe usato se non…

stava recitando. E io stavo facendo lo stesso con lui. Oh mio Dio!

- Signorina?- mi richiamò di nuovo dolcemente aggrottando la fronte.

- Sto bene.- mormorai semplicemente allontanandomi da lui.

Katherine era una brava ragazza in fin dei conti. Nonostante lui fosse bellissimo era anche stranamente spaventoso e inquietante e lei avrebbe voluto solo scappare. Anche se ne era enormemente attratta. Come me del resto. Lo amavo, lo sapevo, eppure mi spaventava allo stesso tempo in quel momento più che mai visto che la mia vita era nelle sue mani.

- Non sembra, ha bisogno che l’accompagni da qualche parte?- domandò lui gentilmente con quella voce vellutata che mi attirava eppure mi allontanava nello stesso tempo.

Non era Jonathan quando parlava così. Non mi sentivo innamorata di lui.

- No, la ringrazio. Sono già arrivata.- risposi sorridendogli appena e sviandolo per proseguire oltre. Lui mi bloccò per il braccio.

- Posso almeno conoscere il suo nome se non le reca troppo fastidio?- mi domandò con dell’ironia della voce.

Ero stata sgarbata. Katherine lo era stata non io, in realtà. Mi voltai verso di lui arrossendo, chissà per quale motivo.

- Mi spiace, sono stata maleducata. Mi chiamo Katherine signore, e la ringrazio per non avermi fatta cadere e mi spiace di esserle venuta addosso.- dissi velocemente. – adesso se non le spiace rischio di arrivare tardi.- mi scusai allontanandomi definitivamente.

Mi sentii afferrare di nuovo per il braccio e mi ritrovai schiacciata contro il suo petto con le sue labbra premute sulle mie. Non era più il vampiro cattivo ovviamente, sentivo che stava sorridendo sulle mie labbra come me.

- Ok, perfetto…- stava dicendo intanto Frank mentre Jonathan allentava un po’ la sua presa ferrea. – sei davvero brava sai?- si stava complimentando il ragazzo mentre spegneva la telecamera e tornava a sedersi.

- Ti ringrazio, sei molto gentile.- mormorai io ancora stretta in quell’abbraccio con le sue labbra premute contro la tempia.

- Allora.- cominciò dopo un attimo alzandosi e avvicinandosi a me. – questo è il dischetto, potete tornare nello studio di là e farlo vedere al signor Hennington.- mi disse porgendomi un compact disk.

Lo presi in mano e lo tenni ben stretto mentre uscivamo da quella stanzetta salutando Frank e tornammo nel grande studio.

- Già fatto?- domandò l’uomo avvicinandosi con un sorriso.

Io annuii porgendogli il disco e lui lo prese e si avviò verso un mobile a muro che, aperto, mostrò tutto il materiale necessario per un vero e proprio cinema.

- Vi prego accomodatevi su quel divano.- ci disse indicando un divano a parete.

Quando fummo seduti chiuse elettronicamente delle tende che oscurarono la stanza e su uno schermo che sembrava far parte della parete, apparve l’immagine della piccola saletta.

La scena era venuta davvero bene, potevo vederlo da sola. Gli occhi di Jonathan erano davvero inquietanti. Sembrava davvero un estraneo che mi vedeva per la prima volta. Io sembravo una svampita, depressa con problemi di educazione. Sembrava che volessi essere ovunque tranne che lì e sembravo spaventata a morte da quell’uomo eppure dall’altro lato sembrava che volessi saltargli addosso e baciarlo.

- Bene, molto bene. C’è davvero quel talento di cui parlavi.- scherzò lui riportando lo studio alla normalità facendo sparire il cinema.

Tornò a sedersi alla scrivania scrivendo qualcosa. Ero nervosa. Se avessi avuto quel lavoro in ogni caso avrei già avuto un’entrata.

- Parlando di remunerazione si tratta di poco purtroppo. Parliamo di trentamila al mese per un impegno piuttosto oneroso di quattro giorni a settimana.- mi informò lui.

- Trentamila?- domandai io sgranando gli occhi.

- Sì, mi spiace, è un personaggio marginale ma c’è larga facoltà di impiego e il tuo talento potrebbe servirti per far diventare il personaggio uno tra i principali.- spiegò lui mentre io meditavo sul fatto che avrei potuto mandare un terzo di quella cifra enorme alla mia famiglia.

- Per quante stagioni firma?- domandò Jonathan indifferente.

- Solo una. Solo tu, Jessica e Gaspard avete firmato per quattro stagioni.- spiegò l’uomo. – il contratto si rinnova di stagione in stagione.-

- Non credo sia conveniente.- borbottò Jonathan incrociando le braccia al petto.

- No, voglio provarci.- dissi invece io convinta stringendogli il braccio con la mano e sporgendomi in avanti verso l’uomo.

- Davvero?- domandò lui aggrottando la fronte.

- Bisogna pur cominciare da qualche parte no? E per un’attrice che neanche conoscono stanno già aprendo troppo generosamente il portafogli. Credo. Quindi sì, mi sta bene. E poi è solo una stagione.- costatai io tranquillamente rivolgendogli un sorriso.

- Perfetto. Allora mi serve solo una firma qui e poi le consegnerò i documenti che mi hanno fatto avere.- rispose l’uomo indicandomi un modulo.

Lo firmai con mano sicura e in quel momento mi sentii la donna più potente del mondo.

Dopo aver salutato e ringraziato uscimmo da quello studio immenso. Quando fummo al sicuro tra le pareti di metallo dell’ascensore mi volta verso di lui, gli afferrai il viso tra le mani e lo baciai con trasporto. Era la prima volta che prendevo l’iniziativa, che io ricordassi almeno, ma ero così su di giri, emozionata, felice che quella giornata si fosse dimostrata così perfetta che non riuscivo a credere che potesse andare storto qualcosa.

Lui infatti non mi spinse via come avrei creduto. Mi spinse contro la parete e mi prese in braccio passandomi le mani sulle gambe nude.

Le sentivo bollenti risalire sotto l’orlo della gonna e tenermi saldamente in una presa ferrea.

Io gli stringevo un braccio intorno al collo e con l’altra mano gli accarezzavo la guancia morbida tenendolo in modo che non si allontanasse.

- Sei stata bravissima.- sussurrò contro le mie labbra. – davvero bravissima.- continuò scendendo lungo il mio collo con quella scia di baci che mi facevano tremare.

- Te lo avevo detto che gli ascensori fanno quest’effetto…- sussurrai io sorridendo appena alzando il viso per dargli libero accesso al collo.

In quel momento però le porte si aprirono ed entrò un signore. Lui mi lasciò andare immediatamente portandosi al mio fianco fingendo indifferenza. Abbassai lo sguardo per non scoppiare a ridere e l’uomo, imbarazzato per aver capito di aver interrotto qualcosa, cercò di non guardare mai verso di noi.

 

Quando fummo in macchina aprì il fascicolo che tenevo in mano e lo lessi lentamente. Riassumeva ciò che mi aveva già spiegato il signore attempato nell’ufficio enorme. Se mai avessi avuto un ufficio nel mio futuro sarebbe stato esattamente come quello.

- Quando hai il primo appuntamento con il cast?- domandò Jonathan guidando prestando attenzione alla strada.

- Lunedì.- mormorai sconsolata chiudendo il fascicolo e incrociando le braccia al petto sfiduciata. Ovviamente non poteva andare sempre tutto bene.

- Che c’è?- domandò lui in apprensione voltandosi verso di me.

- Guarda la strada!- gli ordinai spostandogli il viso spaventata. – non farlo mai più.- gli ordinai scuotendo la testa.

- Rispondi!- ordinò lui seccato.

- Lunedì avevo la prima lezione.- mormorai prima di sorridere più tranquilla. – ma non si può voler tutto dalla vita no?- scherzai dandogli un bacio sulla guancia.

- Gli altri forse, tu sì. Andiamo agli studio e poi ti riaccompagno. A che ora hai lezione?- mi domandò lasciandomi esterrefatta. Diceva sul serio?

- Alle undici.- risposi semplicemente sperando che si rendesse conto dell’assurdità.

- Mi sembra perfettamente fattibile allora. alle 8 saremo agli studios alle dieci e mezza andiamo via e alle undici sarai a scuola.-

- Jonathan, possiamo essere realistici per tipo due minuti?- lo rimproverai dolcemente sapendo però che tutto quello lo avrebbe fatto per me ed essendogliene in realtà immensamente grata. – non c’è bisogno di uccidersi. Diamo la priorità al lavoro e a lezione andrò il giorno dopo.- proposi semplicemente facendogli una carezza sulla mano che teneva sul cambio.

- Laura avrai tutto il tempo per andare a lezione lunedì, fine della discussione.- concluse lui pronto a litigare. Neanche io mi sentivo a quel punto molto disposta a lasciar correre. Stava diventando una cosa di principio.

- Ti ho detto che non voglio andarci lunedì a scuola ok? Se anche tu dovessi accompagnarmi io non entrerei!- lo avvisai in un sussurro.

- Non funzionano con me i ricatti Laura.- sussurrò lui arrabbiato quanto me socchiudendo gli occhi. Sapevo che a quel punto anche per lui era diventata una questione di principio. Mi sentivo tornata in Italia.

- E con me non funziona la prepotenza Jonathan.- risposi semplicemente incrociando le braccia al petto.

- Vorrà dire che dalle undici di Lunedì mattina sarai liberissima di vagare per la città perché io comunque ti accompagnerò al college.- concluse lui semplicemente parcheggiando sul margine della carreggiata di una strada in pieno centro.

- Come farai a portarmi via di lì? Litigheremo davanti a tutti mentre io faccio la diligente lavoratrice che capisce qual è il suo dovere?- gli domandai scendendo dalla macchina e sbattendo la portiera con eccessiva forza.

- Non prendertela con la mia macchina.- a quel punto sentivo che stava per ridere. Era sceso anche lui dalla macchina e mi stava raggiungendo sul marciapiede.

- Ti prego John si serio e smettila di rompere le scatole per una cosa che sai che non sta ne in cielo ne in terra.- mormorai mentre lui continuava ad ignorare le mie proteste.

Mi prese per mano mentre ero ancora troppo impegnata a lamentarmi e a mostrargli i pro e i contro della mia proposta mettendo chiaramente in risalto i punti positivi. Mentre ancora blateravo mi strinse un po’ più forte la mano.

- Facciamo così, se abbiamo finito ti accompagno, altrimenti niente. Va bene?- mi domandò lui voltandosi verso di me.

Mi stava guardando con i suoi disarmanti occhi azzurri e mi resi conto di essere in mezzo alla strada mano nella mano con lui. Circondata da gente che ci guardava, incuriosita, per cercare di riconoscere anche me dopo aver riconosciuto lui. Qualcuno scattava anche delle foto col telefono. Lasciai il suo sguardo e lo fissai sulla gente intorno a noi.

Il loro sguardo faceva trasparire benissimo i loro pensieri. Mi voltai verso la vetrina di un negozio e vidi la nostra immagine riflessa. Io ero bassa, piccola, smagrita, lui era alto, bello e con un viso da trentenne. La differenza d’età sembrava quella tra un padre ed una figlia. Il nostro atteggiamento no.

- Ti da fastidio?- mi domandò lui abbassandosi su di me e dandomi un leggero bacio sulla tempia.

- No, non è un problema per te?- domandai io con un filo di voce voltandomi verso di lui e alzando il viso per guardarlo.

- Pubblicità per me, per te e per il telefilm.- rispose lui facendo spallucce.

La sua risposta mi fece capire che in realtà sì, gli dava fastidio che la gente ci guardasse in quel modo, che avrebbe voluto che si facessero i fatti loro.

Lasciai la sua mano e mi meritai un’occhiataccia da parte dell’uomo al mio fianco.

- Perché?- domandò lui piccato.

- Perché non voglio che tu faccia nulla che non vuoi fare.- risposi semplicemente incrociando le braccia al petto e continuando a camminare.

- Mi spiace ma non posso spaccare la faccia a tutti quanti quelli che ti guardano come fossi una prostituta e guardano me come fossi un pedofilo. Ci sono cose che la legge non mi permette di fare anche se vorrei. Quindi devo accontentarmi di starmene buono. Ma almeno mentre me ne sto buono sarebbe carino se la mia ragazza non mi scacciasse solo perché le tengo la mano.- aveva fatto un discorso lungo che ci aveva spinti a fermarci in mezzo al marciapiede.

Anche alcune persone si fermarono continuando a guardarci. Qualcuno si era anche avvicinato per fare una foto ma vedendo il modo concitato di parlare di Jonathan avevano cambiato idea. Gli rivolsi un mezzo sorriso di scuse e mi strinsi al suo fianco passandogli un braccio intorno alla vita. Lui sospirò e mi strinse un braccio intorno alle spalle.

- Non sarà mai più semplice Lorie. La gente cercherà sempre di trovare qualcosa in noi.- mi spiegò più tardi mentre stavamo seduti al tavolo del ristorante in cui mi aveva portata.

- Perché?- domandai io disorientata guardando la sua mano che teneva la bottiglia d’acqua sospesa in aria mentre mi versava da bere.

- Perché è interessante vedere un uomo e una ragazzina. Perché si chiederanno il perché tu stia con me. il fatto che lavoreremo insieme smorzerà un po’ le chiacchiere ma nasceranno un milione di altre stupide idee.- mi avvisò lui tenendo lo sguardo basso.

- Non importa.- risposi io mordendomi il labbro con forza.

- Per adesso.- aggiunse lui sospirando.

- Perché cerchiamo problemi prima che sorgano?- domandai io accarezzandogli il dorso della mano. Lui mi guardò ed io gli sorrisi. – che ne dici di fare qualcosa di normale nel pomeriggio?- proposi sorridente.

- Cosa?- domandò lui senza troppa convinzione.

- Mostra un po’ più di entusiasmo.- gli ordinai mettendo il muso senza essere offesa davvero.

- Cosa?-riprovò lui cercando di non ridere. Meglio vederlo ridere che tenere il muso.

- Andiamo a fare la spesa!- proposi entusiasta meritandomi un sorriso complice.

Ovviamente l’idea di Jonathan di fare la spesa divergeva diametralmente della mia. mi portò infatti, come da mia richiesta, stressante a detta del sopracitato, in un piccolo supermercato in periferia dove non c’era praticamente nessuno. La disposizione della merce non differiva particolarmente da quella italiana e almeno questo mi facilitò un compito più che arduo al fianco di quello che sembrava un bambino. Prendeva e metteva nel carrello praticamente tutto ciò che attirava la sua attenzione.

- Voglio sperare che tu non scegli le persone con cui stare come scegli cosa comprare al supermercato.- lo presi in giro mentre rimettevo al suo posto l’ennesima inutilità che aveva distrattamente buttato nel carrello.

- Perché?- mi domandò curioso con un pacco di chissà cosa nelle mani.

- Cos’è quello?- gli domandai alzando un sopracciglio indispettita.

- Quello cosa?- domandò lui voltandosi indietro come per guardare qualcosa che gli avevo appena indicato.

- Quello che tieni in mano John, cos’è?- chiesi di nuovo seriamente avvicinandomi a lui.

- Ha una confezione carinissima, sarà sicuramente qualcosa di buono.- rispose lui.

Io scoppiai a ridere della sua battuta e lo guardai. Era serio e anche confuso dalla mia reazione. A quel punto cominciai anche io a sentirmi confusa.

- Stai scherzando vero?- domandai prendendo ciò che teneva in mano per vedere cosa fosse. – mangi prugne secche?- chiesi cercando di trattenere le risate.

- Prugne secche?- domandò lui strappandomi la confezione dalle mani e guardandola a sua volta. – cavolo la confezione era così carina. Mi sento tradito adesso.- brontolò ridendo di se stesso con un’autoironia che non avevo mai visto in lui.

- Tu sei il perfetto prototipo del consumatore ideale.- lo presi in giro divertita. – ti mostro come ci si procaccia di che vivere.- lo avvertì affidandogli l’arduo compito di tenere il carrello.

- Sei allergico a qualcosa?- gli domandai mentre prendevo un sacchetto nel reparto ortofrutta.

- No, ma odio l’ananas, e le arance, e le mele e le susine bianche, e le pesche troppo rosse e…- l’elenco non sembrava avere una fine quindi lo fermai con la mano.

- Facciamo che mi dici cosa ti piace?- scherzai prendendo delle zucchine, delle melanzane e dei funghi freschi.

- Le pere, non mi danno fastidio, e le pesche gialle, ammesso che non siano troppo schiacciate e mollicce e fragole e ciliegie.- concluse soddisfatto della sua lista.

- Sei serio? Niente mandarini, arance, anguria, niente del genere?- domandai sbalordita. – a casa le mangiavi.-

- Infatti io ti stavo suggerendo cosa comprare qui. A casa era tutto buono, qui non siamo in Sicilia.- mi ricordò poggiandosi al banco frigo.

- Capito.- mormorai delusa prendendo le sole quattro specialità di frutta che mi aveva suggerito e qualche limone.

Era stata mia madre ad insegnarmi a comprare. Era una vera e propria arte quella del fare la spesa ed io ne ero follemente innamorata. Mi rilassava e mi faceva sentire grande. Anche perché a casa mia mi era sempre stato detto che chi fa la spesa decide cosa si mangia. Quindi non mi era mai dispiaciuto uscire per andare al supermercato. Comprammo l’acqua, il pane, generi alimentari a lunga conservazione da mettere in frigo e nel frizer.

- Guarda che non c’è bisogno di rimanere due ore a guardare due pezzi di formaggio che sono praticamente gli stessi, se non sai quale prendere prendili entrambi.- mi suggerì lui mentre ero ancora intenta a leggere la confezione di uno strano formaggio che avevo in mano.

- Non è per quello. Non capisco perché questo costi tanto e questo invece così poco.- mormorai più a me stessa che a lui.

- Prendi quello con la data di scadenza più lontana.- mi suggerì indifferente.

- Ma costa troppo.- mi lamentai io.

- Ehi, capisco che il nuovo stipendio possa sembrarti scarno ma esageri un po’.- mi prese bonariamente in giro.

In realtà non era per quello. Non ero mai stata abituata a prendere ciò che mi piaceva di più senza guardare il prezzo. C’erano delle situazioni nel sud italia che lui non poteva capire e da cui era stato tenuto ben lontano. Gli sorrisi rassicurante e feci come mi aveva detto.

Accantonati però questi problemi potei dedicarmi al bambino che c’era in Jonathan. Mi pregava di comprare un numero enorme di schifezze e dopo un po’ non riuscì più a dirgli di no.

Tornati a casa mentre riempivamo il frigo e la dispensa mi resi conto di ciò che avevamo effettivamente acquistato.

- Potremmo dare una festa.- lo presi in giro divertita.

- Non abbiamo comprato tanti alcolici, anzi solo una bottiglia di amaro, il resto è tutto liquore per dolci.-

- Diciamo allora che possiamo fare una festa per minorenni ok?- precisai aprendo lo sportello di un mobile che avevamo affidato solo a cioccolata, patatine e bibite gasate. – la prossima volta non chiedere nulla del genere perché tanto non ci sarebbe dove metterla.- lo avvisai.

Lui sorrise con quel sorriso furbo che mi faceva arrossire, come se volesse salirmi addosso e baciarmi da un momento all’altro. Mi piaceva quando mi guardava così.

- La prossima volta, dopo il supermercato, passeremo da un negozio di mobili.- sussurrò lui prima di prendermi tra le braccia e chiudermi le labbra in un bacio impedendo alla mia risposta di uscire e distraendomi con un attività ben più interessante.

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Capitolo 3
*** L'esperienza può essere semplicemente lo stesso errore, ripetuto abbastanza spesso. ***




 







 

Il weekend era stato uno dei migliori della mia vita senza riserve.

Il weekend era andato. Niente di che.

Ero seduto in macchina in un normale e uggioso lunedì mattina come tanti altri, alle ore sette e un quarto, puntuale come mai prima d’allora, una mano sul volante e l’altra sul cambio. Il volo la sera prima era atterrato all’una meno dieci e adesso non ero esattamente nella forma migliore. Ma c’era chi stava peggio di me.

Accucciata sul sedile come una bambina, tutta stretta in se stessa con il viso poggiato sulle ginocchia e le gambe tenute strette tra le braccia, dormiva…lei.

Durante il fine settimana ne avevamo parlato. Era stata lei, imbarazzata, mentre si pettinava i capelli davanti lo specchio prima di uscire, che aveva cominciato ad affrontare l’argomento.

 

La guardavo mentre mi sistemavo i polsini della camicia e sedutomi sul letto esattamente dietro di lei, guardavo la sua immagine riflessa allo specchio mentre era completamente concentrata sui suoi capelli intenta a legarli dietro la nuca. Stava veramente benissimo quando scopriva il viso.

Mi alzai involontariamente quando cercò di sistemare una ciocca di capelli e, presale la forcina dalle mani, cercai di rimettere al suo posto la ciocca ribelle. La vidi arrossire con la coda dell’occhio e sorrisi appena accarezzandole il collo.

- Ho una cosa che può stare bene con quel vestito.- mormorai avvicinandomi al comò accanto al letto e aprendo un cassetto.

Ne estrassi una scatola in legno e mi riavvicinai a lei che intanto si era voltata a guardarmi. Aprii la scatolina e guardai la collana che conteneva. Era un collier in oro bianco e diamanti. Era un regalo che avevo comprato troppo tempo prima, quando la mia storia con Reena era già finita, non sapevo perché l'avevo comprato, forse solo perché mi piaceva e lo vedevo bene sulla donna che avrei voluto al mio fianco. Una donna che non aveva ancora una fisionomia. Era una cosa importante darle quel gioiello. Forse non l’avrei dovuto fare. Rappresentava la cerniera tra il Jonathan drogato e pronto a dire addio alla vita e quello che invece, come in quel momento, ringraziava quel Dio, perché credeva davvero che ci fosse un Dio, che l’aveva tenuto in vita.

Mi guardò in silenzio probabilmente aspettando che fossi io a parlare avendo ben capito che era un momento delicato. Lei capiva sempre.

Sorrisi di me stesso e presi la collana facendole segno di voltarsi. Lo fece, in silenzio, mentre la mettevo intorno al suo collo. Brillava molto e le illuminava il viso. Mi piaceva vederla intorno al suo collo. Era sua quella collana.

Cancellai quel pensiero dalla mia mente e sbuffai sonoramente.

- Ti sta bene.- mormorai voltandomi.

Mi sentii bloccare per la mano e quando mi voltai vidi lo sguardo pulito di quella ragazza guardarmi. Non volevo che mi guardasse in quel modo. Presi un respiro profondo e strinsi le labbra.

- Jonathan…noi…- aveva cominciato cercando le parole ma rimanendo di nuovo in silenzio guardando altrove.

Rimasi in silenzio aspettando che completasse ciò che stava per dire.

- Noi cosa siamo di preciso?- domandò titubante scostano lo sguardo.

Le presi il mento tra le dita e la costrinsi a guardarmi. Sembrava spaventata in qualche modo ed io, il mio lato bastardo almeno, avevo una voglia infinita di prenderla un po’ in giro.

- Che vuoi dire?- domandai fingendo indifferenza e mostrandomi indisposto da quella domanda.

- Voglio dire che…ci baciamo no?- cominciò timorosa. Sembrava avere dieci anni e mi faceva una tenerezza infinita. L’avrei baciata se non fossi stato così adolescente anche io.

- Sì.- acconsentì alzando un sopracciglio fingendomi infastidito. Lei era sempre più rossa.

- E so che non è un buon motivo per dire che…- aveva ripreso senza però guardarmi mai negli occhi.

Rimasi in silenzio aspettando che si decidesse a proseguire.

- Che siamo una coppia. Quindi sarebbe davvero carino se tu mi togliessi questo piccolo dubbio.- concluse senza mai guardarmi. Probabilmente avrebbe chiuso gli occhi se l’avessi costretta a guardarmi.

Socchiusi gli occhi meditabondo. Com’era possibile che fosse così tremendamente meravigliosa? Com’era possibile che io fossi così tremendamente idiota? Mi sarei ripreso sicuramente dopo quello stupido weekend ma sicuramente in quel momento non volevo essere stronzo.

- Vediamo come posso spiegartelo in maniera semplice…- cominciai alzando gli occhi al cielo e allontanandomi un po’.

- Cerca di essere buono.- mi pregò con un filo di voce.

- Sarò buonissimo.- promisi incrociando le braccia al petto. – allora…oggi è il cinque Agosto giusto?- lei annuì semplicemente. – credevo che fossimo diventati una coppia sei giorni fa.- conclusi io aggrottando la fronte.

Lei mi guardò ancora imbarazzata ma mi sorrise appena adorabilmente. Mi avvicinai a lei, le presi il viso tra le mani e la baciai.

 

Ero diventato praticamente un coglione. Non riuscivo a pensare ad altro che a quel weekend. E adesso anche alla vita in cui avrebbe fatto il suo ingresso. Mi morsi il labbro e quando fermai la macchina nel parcheggio davanti gli studios non mi sentivo ancora pronto a lanciarla in pasto a quelle vipere e a quegli stronzi. Le passai una mano tra i capelli ripensando a quanto avevamo deciso il giorno prima in aereo. Non mi stava molto bene ma lei mi aveva chiesto così quindi voleva dire che per un po’ potevamo anche farlo. Si sarebbe accorta da se che non era una buona idea.

 

Aveva la guancia poggiata alla mia spalla e mi accarezzava il mento e la guancia con tenerezza mezza addormentata. Era tardi ed eravamo ancora lontani. Non era previsto che si facesse così tardi ma il volo, anche se non italiano, aveva avuto un certo ritardo.

- Jonathan…- mi chiamò per la prima volta da quando eravamo saliti su quel volo.

- Che c’è?- sussurrai contro la sua tempia baciandola piano.

- Domani, a lavoro, non voglio che gli altri pensino che sono lì solo perché sto con te.- sussurrò sbadigliando piano.

- Non lo penserà nessuno quando ti vedranno a lavoro.- la rassicurai passandole le dita tra i capelli.

- Ma in realtà è così.- mi contraddisse. Aggrottò la fronte. Le avevo appena dato ragione e lei aveva la forza, anche se addormentata, di contraddirmi. La mia vita non sarebbe stata poi tanto noiosa con lei.

- Cosa vuoi che faccia?- mormorai scherzosamente sapendo che era lì che voleva arrivare.

- Non voglio che lo capiscano. Non subito almeno.- concluse stringendomi le braccia in vita e nascondendo il viso contro la mia spalla.

 

Aspettai con calma che si svegliasse. Si stropicciò gli occhi con le mani come una bimba e sbadigliò piano guardandosi intorno. Sapevo che si era persa. Probabilmente in quel momento non ricordava nemmeno che giorno fosse. Sbadigliò stiracchiandosi e mi guardò ancora assonnata.

- Ciao.- mi salutò piano strappandomi un mezzo sorriso.

- Siamo arrivati. Dici che riesci a scendere ed arrivare dentro senza stramazzare a terra?- la presi in giro dandole un buffetto sulla guancia.

- Divertente O’Keeffe.- mi rispose lei dandomi un leggero colpetto sulla mano per farmi allontanare. – non approfittarti della mia stanchezza.- mi blandì lei.

- Non lo farei mai.- scherzai ridendo e scendendo dall’auto.

Lei mi seguì, in religioso silenzio, guardandosi intorno spaesata. Sapevo cosa stava pensando. Lo immaginavo almeno. E mi rendevo conto che quel mondo nuovo, strano e luccicante l’affascinasse in modo perverso. Anche con me lo aveva fatto all’inizio. Adesso avevo il difficile compito di riuscire a tenerla lontana da tutto ciò che aveva praticamente distrutto me. probabilmente col suo talento e la mia esperienza e anche un ottimo manager come Hennington saremmo riusciti ad arrivare dove avrei voluto essere io. Non avevo potuto, non ci ero riuscito. Ma quello non voleva dire che non potesse farlo lei. Avrei fatto tutto il possibile perché fosse così. Aprii la porta e la luce soffusa della grande sala allestita mi colpii. Sapevo che quel giorno non sarebbe stato affatto facile.

 

Ero già pronto, con una camicia chiara e un paio di jeans rovinati, quando il primo attore, finalmente, si degnò di arrivare. Il trucco che mi avevano messo in faccia mi infastidiva ma rimasi seduto indifferente sulla mia sedia. Lui non mi stava guardando. Sembrava nervoso. Teneva le mani lungo i fianchi, una mano stretta a pugno e sembrava volersi girare per…scappare via? Forse.

- Buon giorno.- salutò con molta calma prima di fermarsi e voltarsi alle sue spalle.

Per un attimo si rilassò, la mano che teneva stretta si aprì e, spostandosi, mi permise di vedere la ragazza dietro di lui. Ero rimasto fermo al mio posto, tamburellando con le dita sul bracciolo della sedia su cui mi ero accomodato nell’attesa. Mi bloccai, cercando di spiegarmi se ciò che vedevo in quel momento fosse vero o meno. Ci avevo sperato, ovviamente, di rivederla. Lei non aveva chiamato ed io non avevo il suo numero. Mi ero fatto delle domande che, a mente lucida, avrebbero trovato facili risposte vista la sua presenza e il suo accompagnatore. Ma la verità era che non volevo essere lucido. Onestamente non me ne fregava assolutamente nulla di essere lucido e di pensare razionalmente, cosa che probabilmente mi avrebbe fermato dall’impulso ingestibile di alzarmi. Sfortunatamente non ero disposto ad ascoltare la parte ragionevole di me.

- Lei è Laura.- la stava presentando lui al regista che intanto, sorridente come sempre, si era avvicinato a loro.

Quando anche io raggiunsi Bob, il regista, che stava stringendo la mano alla ragazza presentandosi, mi meritai, da parte di Jonathan, un’occhiata a dir poco omicida. Gli sorrisi cordiale divertito. Avevo capito già da me di non essergli simpatico ma adesso la sua antipatia sembrava essersi trasformata in sofferenza al solo vedermi.

- Gaspard, ciao!- la voce acuta da bambina che mi aveva chiamato mi spinse a lasciar perdere la battaglie di occhiatacce con quel ragazzino.

Mi voltai verso di lei sorridendole gentile e l’abbracciai. Lei non si tirò indietro ma ricambiò. L’avevo studiato all’università come abbracciare una persona. Era una terapia psichiatrica che veniva praticata nei soggetti più reticenti. Dimostrava affetto, amore, partecipazione. Lei rimase per un attimo immobile tra le mie braccia in quella reazione così naturale che mi fece sorridere, mi era sempre sembrata così diversa che era quasi piacevole scoprire che poteva avere anche lei reazioni normali, reazioni che avrei potuto studiare e anticipare. Dopo quel breve momento di esitazione si sciolse e ricambiò l’abbraccio.

- Salut, ma chariote.- (*ciao, bambolina.)sussurrai contro il suo orecchio.

Non era un bene per me che lei rispondesse così agli stimoli. e non era un bene neanche per Meyers che, lo vedevo dal suo sguardo, mi avrebbe volentieri preso di peso e sbattuto contro un muro. Si vedeva chiaramente la sua gelosia eppure lei non sembrava per nulla interessata alla sua presenza. Meglio per me. si allontanò un po’ e si passò la mano tra i capelli imbarazzata per essersi lasciata andare così. Le rivolsi un mezzo sorriso rassicurante.

- Che ci fai qui?- le domandai in francese giusto per non avere ascoltatori indiscreti.

Un modo gentile come un altro per comunicare all’uomo al nostro fianco di sparire. Lui non afferrò.

- Mi hanno assunta, a quanto pare.- rispose lei guardando Bob che si era allontanato per andare a sistemare le ultime cose.

- Davvero? E qual è la tua parte?- domandai curioso facendole intanto segno di dirigersi verso la sala trucco.

- Katherine.- rispose lei semplicemente seguendomi.

- Jonathan per favore, verresti qui un attimo?- lo chiamò Robert facendogli segno di raggiungerlo.

Lui aveva le mani in tasca e non aveva smesso di guardarmi con risentimento e con uno sguardo di aperto avvertimento. Gli sorrisi rassicurante mentre Laura lo guardava preoccupata.

- Sta tranquillo la accompagno io.- lo rassicurai rassicurando allo stesso tempo anche lei che non sembrava voler essere lasciata sola.

Ci sono io” avrei voluto dirle. Di sicuro la mia presenza non era malata come quella di quell’uomo che non sembrava promettere nulla di buono. Lui sbuffò prima di allontanarsi senza dire una parola.

In ogni caso la sua risposta mi aveva dato una certa soddisfazione. Lei era Katherine. Il plot della prima serie mi lasciava presagire piuttosto bene riguardo al personaggio di Katherine. L’accompagnai nella sala trucco, lei si presentò alle ragazze dello staff che la fecero accomodare e cominciarono subito ad applicare strati su strati sul suo viso.

- E tu invece? Qual è il tuo ruolo?- mi domandò mentre rimaneva con gli occhi chiusi e le labbra semi dischiuse.

Mi morsi il labbro e infilai le mani in tasca per non spingere via la ragazza che lavorava al suo trucco e non baciarla lì, indifferente di tutto il resto. Mi poggiai al mobiletto difronte a lei e rimasi a guardarla.

- Van Helsing, fortunatamente a Bob è venuta in mente la geniale idea di darmi un nome normale. Quindi mi chiamo Etienne.- le riposi mentre lei incurvò le labbra in un sorriso.

- Signorina la prego!- la rimproverò la ragazza con antipatia. Cercai di non ridere per il suo comportamento.

- Oh, mi dispiace.- mormorò lei aprendo gli occhi e guardandola con due occhi nocciola disarmanti che mi fecero rimanere ammutolito. Come si faceva a rimanere arrabbiati davanti a quello sguardo?

- Chiuda gli occhi e stia ferma!- rispose indifferente lei sempre più acida.

- Evidentemente ha dei problemi a letto.- scherzai in francese provocando il riso della ragazza e provocando verso di me l’ira della truccatrice.

- Ulliel, la prego, può smetterla con il suo abbordaggio francese e mi lascia fare il mio dovere?- mi domandò lei facendomi segno di andare via.

- Scusami. Sto buono, zitto zitto giuro.- scherzai dandole un buffetto sulla guancia.

Lei arrossì e tornò confusa al suo lavoro senza dire neanche una parola. Sbuffai alzando gli occhi al cielo e rimasi immobile a guardarla mentre diventava Katherine, la sorella smarrita, il motivo della mia ricerca. Quanto poteva essere comico alcune volte il destino, se così si poteva chiamare.

Etienne non aveva altri scopi nella vita che cercare Katherine, trovarla e portarla in salvo prima che fosse Allen Grayson, ergo Dracula a trovarla. Poi, l’avrebbe ucciso.

Ironico, davvero ironico.

Era davvero un peccato che nella realtà lui fosse arrivato prima di me, chissà come sarebbero potute andare le cose se… cercai di non pensarci. Avevo tutto il tempo per far capire alla mia Katherine l’enorme errore che stava per commettere. Ammesso e non concesso che non l’avesse già fatto.

Mi passai una mano sul mento pensieroso e lei aprì un occhio per controllare che fossi ancora lì.

- Quindi siamo fratelli?- domandò lei aggrottando piano la fronte.

- No.- risposi lapidario ancora preso dalle mie riflessioni.

- Etienne è innamorato di Katherine?- continuò lei senza rimanere sconvolta più di tanto dal mio repentino cambiamento d’umore.

- Sì.- riposi ancora con un monosillabo.

Lei a quel punto non rispose più. Rimase silenziosa fin quando la ragazza del make-up non ebbe finito e le diede il permesso di alzarsi. Le avevano anche sistemato i capelli che le ricadevano morbidi sulle spalle. La guardai per un attimo.

- Devi andare a cambiarti di là.- l’avvisai indicando i camerini riservati alle attrici.

Lei si voltò nella direzione che le avevo indicato poi tornò a me. aveva la fronte aggrottata dalla preoccupazione e mi fece una tenerezza infinita. Era così piccola.

- Che c’è chariote?- le domandai cercando di sforzarmi di sorridere.

- Ti sei rabbuiato.- mi fece notare mordendosi il labbro.

- Stavo entrando nella parte.- scherzai indifferente facendole una carezza sulla guancia. – vai a cambiarti, ci vediamo sul set.- la salutai lasciando la stanza.

Avevo colto dalla sua espressione alla mia risposta che aveva capito esattamente quello che intendevo. Perché mi sentivo col cuore a pezzi? Non avrei dovuto sentirmi così.

Lei dopo tutto era per me poco più che una sconosciuta. Eppure, aver compreso il sentimento che la legava a Jonathan Meyers mi irritava. Lui non la meritava. Era un drogato, pazzo furioso, che probabilmente le avrebbe fatto solo del male. La mia chariote. La mia bambolina. Strinsi i pugni lungo i fianchi aumentando il passo lungo il corridoio. Comunque non erano sposati. Se non c’era la fede c’era ancora una speranza.

 

Mi avevano dato degli abiti improbabili per me. dei tacchi altissimi, una camicia stretta e un paio di jeans che probabilmente erano la riproduzione di un collant. Mi sentivo nuda. Mi guardai allo specchio e feci un’enorme fatica nel riconoscermi nell’immagine che si specchiava su quella superficie. Dimostravo almeno dieci anni in più e sembravo cattiva. Avrei voluto passarmi la mano sulla faccia ma mi frenò l’idea di dover essere di nuovo tra le mani di quella ragazza così acida e cattiva. Uscii da quella piccola stanzetta. Robert, il regista, era affiancato da una parte da Jonathan che lo guardava attentamente con le braccia incrociate al petto e dall’altra da Gaspard che inaspettatamente era alto quanto Johnny e rimaneva in silenzio a guardarlo con le mani in tasca.

Mi chiedevo perché non andassero d’accordo. Si vedeva che si odiavano. Quando ad un tratto entrambi sollevarono il viso l’uno verso l’altro e si fulminarono ebbi l’impressione che Jonathan avrebbe potuto ucciderlo. Gaspard aveva un sorriso sfacciato che sembrava sfidarlo e per un attimo ebbi davvero paura per lui.

- Questa è davvero la cosa più cogliona che abbia mai sentito!- gridò lui arrabbiato rivolgendosi al regista.

- Perché? È solo una prova, se al pubblico piace bene altrimenti nulla.- rispose il regista tranquillo con un mezzo sorriso.

- Perché dovrebbero essere fratelli.- gridò di nuovo lui meritandosi una pacca sulla spalla affettuosa ma decisa da Robert.

- Rilassati Jonathan, so che siete amici ma vedrai che se la caverà.- rispose lui.

Nella sua voce non c’era più la bonaria gentilezza di un amico ma la decisione di un superiore nel lavoro. Gaspard continuava a sorridere soddisfatto. Jonathan si voltò verso di me per un attimo. Incontrò il mio sguardo e aggrottai la fronte come a volergli chiedere “che c’è? Perché fai così?”. Lui mi guardò per un attimo. Il suo sguardo era più calmo, combattuto. Spinse anche il regista e Gaspard a voltarsi verso di me. Mi sentii per un attimo osservata poi semplicemente Jonathan si voltò e si allontanò. Robert continuò a seguirlo con lo sguardo finchè non fu sparito. Diede una pacca sulla spalla di Gaspard e si allontanò. Avrei voluto corrergli dietro. Sarebbe stata un gesto da ragazzina ma volevo farlo. Fu il “francese” a fermarmi. Si avvicinò a me con le mani in tasca e mi guardò sorridendo.

- Sai che stai davvero bene?- mi domandò gentilmente mentre io ancora meditavo sul modo in cui scappare.

- Ti ringrazio.- risposi semplicemente invece di rispondergli: non dire cazzate mi sembra di indossare solo la biancheria intima.

- Ti stai chiedendo perché è sclerato?- mi domandò incrociando le braccia al petto.

- In parte.- ammisi guardandolo finalmente negli occhi da quando aveva ricominciato a parlarmi.

- Il regista ha modificato un po’ il plot. Lui non è d’accordo.- rispose semplicemente dandomi il braccio.

Lo guardai per un attimo stupita pronta a mandarlo via. Jonathan era già abbastanza nervoso senza che cominciassi anche io a farlo arrabbiare mettendomi a fare la scema con lui.

- Gaspard e Laura tra cinque minuti per favore!- gridò il regista dal set.

Lui mi rispose con la faccia di chi vorrebbe dirti: “visto?”. Mi sentì sciocca per un attimo. Lo presi sotto braccio e cercai di tornare ad essere Katherine. Lasciare da parte Laura, Jonathan, Gaspard, il mio nuovo lavoro e le mie amiche. Ero Katherine, una giovane maestra che aveva un passato normale, una vita normale e un disperato bisogno d’amore.

Avevo appena incontrato l’uomo più bello che io avessi mai visto. Non gli avevo nemmeno domandato il suo nome. Gli ero semplicemente finita addosso in mezzo alla strada e lui era stato bello, affascinante e gentile.

 

Ero appena uscita da scuola. Avevo la piccola Jules che mi teneva per mano e dovevo portarla a casa. Lei aveva dei grandi e bellissimi occhi azzurri, dei biondissimi capelli lisci che le cadevano sulle spalle.

- Sai Katie, mamma dice che per diventare una ballerina devo fare tanti sacrifici.- mi stava dicendo la piccolina al mio fianco.

Io ero troppo persa nei miei pensieri per rendermi conto che avrei dovuto rispondere. In realtà ero troppo presa a ricordare l’uomo perfetto di quella mattina.

- Katie c’è un ragazzo che ci segue.- sussurrò Jules contro il mio orecchio ad un tratto riportandomi alla realtà.

Mi voltai emozionata aspettando di vedere due grandi occhi azzurro ghiaccio che mi fissavano seri ed inquietanti. Invece non c’era. c’era un altro ragazzo, alto, dai capelli neri e dal viso spaventoso. Lui mi guardava e sembrava più spaventato di me. mi voltai di nuovo avanti e presa più stretta Jules per mano velocizzai il passo.

- Riesci ad andare più veloce?- sussurrai cercando di nascondere inutilmente il terrore.

- Kosara!- gridò quello alle mie spalle.

Forse in realtà non stava guardando me, non stava seguendo noi. Cercai meglio davanti a me una ragazza che potesse essere la Kosara che quell’uomo cercava ma non c’era nessuno. Mi voltai di nuovo indietro. Lui guardava ancora me. mi incatenò col suo sguardo e si avvicinò a me velocemente afferrandomi per le spalle e stringendomi al petto.

- Sapevo che saresti tornata Kosara, sapevo che non mi avresti lasciato qui da solo in eterno.- mormorò lui prima di stringermi al suo petto.

Mi stava soffocando. Gridai in preda al terrore e spinsi via Jules che terrorizzata quasi quanto me scappò via correndo. Non disse nulla. Mi lasciò andare e mi guardò divertito e allo stesso tempo ferito.

- Quando sei tornata? Perché non mi hai cercato?- mi domandò costringendomi a fare un passo indietro.

- Senti, io non so chi tu sia, non so chi sia questa Kosara che cerchi ma non sono io!- feci un altro passo indietro e vidi il dolore e la rabbia nei suoi occhi.

- Me la stai facendo pagare per qualcosa Kosara? Per cosa?- mi accusò lui.

Dovevo riflettere. Lui sembrava spaventato, preoccupato, triste, arrabbiato. Sembrava un bambino. Era come se stesse cercando di eliminare la parte infantile ma non ci riuscisse.

- Senti, per favore, dimmi come ti chiami, e cerca di spiegarmi chi sei.- gli proposi con dolcezza come facevo con i bambini.

Lui rimane in silenzio. Gli occhi sgranati. Era come se stesse cercando di rimettere a posto i pezzi ma questi fossero già completamente perduti. Mi guardò attentamente e se ne andò senza dire una parola. Io ero spaventata, eppure in un certo senso incuriosita.

 

Quando il regista ordinò di fermarci mi voltai verso di lui spaventata più di quanto non lo fossi stata probabilmente davanti al finto attacco del pazzo che Katherine aveva appena subito. Non dissi nulla aspettando la più grande sfuriata della mia vita.

- Benissimo ragazzi, davvero bravi. Gaspard splendida interpretazione è proprio questo il sentimento che voglio vedere ogni volta che parlerai con lei.- si complimentò dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.

Io non osai fiatare mentre lui riceveva qualche documento da un uomo alle sue spalle. Li prese, lì guardò e lo ringraziò con un sorriso venendo poi verso di me.

- Laura, complimenti. Tieni.- mi disse porgendomi ciò che teneva in mano. –è il copione per il prossimo episodio ci vediamo dopo domani.- mi informò sorridendo.

- Grazie.- mormorai con un mezzo sorriso allontanandomi da lì.

Adesso mi aspettava il mio primo giorno nella nuova scuola. non avevo il tempo ne di struccarmi e neanche di cambiarmi d’abito. Afferrai la borsa, mi infilai il cappotto e uscii di corsa da quella piccola stanza ritornando sul set. Jonathan era lì con quella ragazza che avevo visto a casa sua per il suo compleanno. Jessica. Per un attimo riflettei sull’opzione di mandare tutto a puttane e rimanere lì a controllare che quella ragazzina facile si tenesse ben lontana da lui.

- No, Jessica, no! per l’amor di dio puoi ricordarti di avere paura di lui? Mina è spaventata a morte da quest’uomo, non vorrebbe scoparselo come dai l’impressione tu, per favore. Concentrati!- la stava rimproverando il regista.

Lei non sembrava il tipo da voler mollare e ammettere l’errore.

- Ma lui è così bello, sono sicura che Mina non gli è del tutto indifferente.- stava dicendo.

Jonathan sembrava tremendamente scocciato. Alzò il viso da copione che stava leggendo e trovò subito i miei occhi. Gli sorrisi appena e si avvicinò piantando sul set Jessica e Bob che ancora litigavano.

- Non ho ancora finito, però posso chiedere se mi danno una pausa, ti accompagno e torno.- mi disse lui passandomi un dito sulle labbra per togliermi il rossetto.

Cercai istintivamente di togliergli la mano dal mio viso. Non volevo che fosse così intimo. Non sarei riuscita ad evitarmi di baciarlo o di fare qualcosa di altrettanto stupido.

- Non mi piace come ti sta.- concluse lui semplicemente. – vado a chiedere ok?- stava per girarsi quando lo bloccai per il braccio.

- No, Johnny davvero non è necessario. Ci vado domani.- gli risposi semplicemente rivolgendogli un sorriso rassicurante che lui non ricambiò.

- No. ci vai oggi.- mi rispose semplicemente.

- Guarda che sono io che devo andare a scuola, mica tu, perché fai così?- gli chiesi seguendolo mentre si avvicinava al regista.

- Bene, possiamo riprendere.- stava gridando Bob perché tutti potessero sentirlo. – Jonathan sul set per favore!- la sua voce era quella del capo che non ammetteva repliche.

Jonathan fu tentato per un minuto di replicare ma io lo spinsi sul set e a quel punto non poté replicare. Mi lanciò un’occhiataccia e si posizionò al suo posto.

- Ci vediamo domani Bob!- salutò una voce alle mie spalle che mi spinse a voltarmi.

Gaspard aveva un borsone sulla spalla. Si era cambiato e teneva le chiavi della macchina nella mano libera. Lo guardai un attimo. Tornai su Jonathan che lo stava fissando a sua volta e lo vidi mentre annuiva non troppo contento. Gli rivolsi un sorriso gentile, gli lanciai un bacio discreto e mi avvicinai a Gaspard che stava andando via.

- Gaspard!- lo chiamai dovendo addirittura corrergli dietro per raggiungerlo prima che salisse in macchina.

- Laura, dimmi.- rispose lui posando il borsone sul sedile della sua Lamborghini.

La guardai per un attimo ammirata dimenticando il vero motivo per cui lo avevo fermato. Era l’auto perfetta per un uomo come lui. La vedevo davvero benissimo per il ragazzo francese perfettino che era. e poi, io amavo quella macchina. Quanto ci avevo fantasticato quando Benedetta era ancora mia amica?

- Laura?- mi richiamò lui vedendomi persa in ben altri pensieri.

- Sì…sì, scusami.- risposi io mortificata tornando su di lui. – senti, potresti darmi un passaggio fino al King’s?- gli domandai gentilmente.

- Vai al college?- mi chiese rivolgendomi un sorriso da film, con i capelli inamidati, la camicia bianca e gli occhiali a sole, con le braccia poggiate sul tettuccio della sua auto.

- Sì. Oggi è il mio primo giorno ma non so proprio come arrivarci.- risposi semplicemente arrossendo vistosamente a quella mia ammissione di colpa.

- Sì, tranquilla. Sali in macchina.- mi rispose, salendo a sua volta.

Dopo neanche mezz’ora ero davanti alla mia nuova scuola.

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Capitolo 4
*** La scuola aiuta i giovani se riesce a in­segnare loro il senso critico. ***



Ero entrata in aula in evidente ritardo. Erano già praticamente tutti ai loro posti e potevo vedere benissimo, fin da qui, quali fossero gli schieramenti venutisi a creare dopo solo una settimana. Mi avvicinai alla cattedra dove il professore, un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati e gli occhi neri, stava già spiegando argomenti che io avrei dovuto recuperare in tempo record. Mi accolse con un sorriso bonario.

- Lei deve essere la signorina Caruso giusto?- domandò gentilmente prendendo i documenti che mi avevano consegnato all’ingresso.

- Sì, sono io.- risposi semplicemente aspettando che firmasse in silenzio.

- Ha perso poco, non si preoccupi, questi sono i libri che le serviranno.- mi annunciò dandomi una serie di libri dall’aspetto pesante. – per mettersi in pari con gli altri qualcuno può darle una mano.- mi rassicurò con un bel sorriso.

- La ringrazio.- risposi di nuovo salendo le scale per raggiungere un posto.

Tutti mi guardavano. I ragazzi con aperta ammirazione, lo vedevo perché non ero mai stata abituata a certi sguardi su di me e riceverli era davvero lusinghiero anche se parecchio fastidioso. Preferivo rimanere nell’ombra di solito. Le ragazze non sembravano interessate a me, tranne un gruppetto di sei ragazze sedute in alto come se volessero dominare su tutti e mi guardavano con aperto disprezzo. Abbassai lo sguardo e mi sedetti.

Era quella una delle cose di cui avevo sempre avuto paura. Non avere amici, non riuscire a farmi delle vere compagne, delle vere amiche con cui dividere la mia vita. Sbuffai aprendo il libro e cercai di rimanere attenta nonostante i pensieri tristi.

In quel momento, mentre il professore dalla voce suadente spiegava come affrontare l’università, irruppero nell’aula due ragazze. Una era bassina, bionda e boccolosa, molto bella, al suo fianco una ragazza un po’ più alta, grassottella, dai capelli rossi, corti e lisci.

- Signorina Holloway, finalmente ci fa l’onore della sua presenza.- la salutò il professore rivolgendosi alla ragazza bionda che gli fece l’occhiolino e gli mandò un bacio.

Salirono le scale verso di me. la ragazza dai capelli rossi mi fissò e inciampò, cadendo per terra e provocando le risate delle sei ochette e di qualche ragazzo idiota.

La biondina l’aiutò a rialzarsi e si avvicinarono a me.

- Possiamo?- domandò la ragazza che era caduta a terra.

Scalai di un posto per permettere loro di sedersi. La ragazza mi sorrise con gratitudine e si sedette al mio fianco porgendomi la mano.

- Io sono Annie.- si presentò lei con i suoi pomelli rossi nelle guance e il suo sorriso sincero. – lei è Taylor.- concluse presentando la ragazza al suo fianco che mi porse la mano a sua volta.

- Io sono Laura.- mi presentai anche io sorridendo del loro entusiasmo.

- Oh cavolo, sei l’italiana, che figata, non credevamo di conoscerti.- rispose Taylor tutta contenta buttandosi praticamente addosso alla sua amica per sentire ciò che avrei risposto.

- Sì, sono l’italiana.- ammisi arrossendo leggermente.

- Cavolo sei davvero figa, come fate? Siete tutti così in italia?- mi domandò lei curiosa tenendosi il viso con una mano.

- No, è solo il trucco che inganna.- risposi io ridendo piano meritandomi un’occhiataccia dalla ragazza seduta davanti a me.

Era alta, magrissima, con i capelli neri stretti in una crocchia dietro la testa, gli occhiali sul naso e la penna in mano. Davanti a lei c’erano un paio di fogli pieni di appunti.

- Taylor già hai cominciato? Fai silenzio!- la invitò la ragazza col suo sguardo saccente.

- Willelmina, non rompere i coglioni.- la invitò Taylor tranquillamente sorridendo smorfiosa.

La ragazza sbuffò e tornò a prendere appunti.

- Lasciala stare è una rompiscatole, fa sempre così.- mi avvisò Annie parlando per la prima volta da quando si era presentata.

- Signorina Holloway può avvisarmi quando potrò parlare?- domandò il professore alzando un tantino la voce e meritandosi un’occhiata da parte di Taylor che mi fece arrossire.

Quei due di sicuro erano più intimi di quanto non lo fossimo io e Jonathan. Arrossi di nuovo per quella stupida idea e sbuffai arrabbiata. Annie mi guardò e io le sorrisi dissimulando il tutto con facilità.

- Allora Laura che cosa fai dopo le lezioni?- mi domandò Annie mentre Taylor era tornata ad un atteggiamento normale guardando con troppa attenzione il professore.

- Tornerò a casa a recuperare le lezioni che ho perso.- risposi semplicemente.

- Oh, non hai perso molto, se vuoi possiamo aiutarti a recuperare.- mi propose lei gentile.

- Vi ringrazio, ve ne sono grata.- risposi sorridendo più di prima con immensa gratitudine meritandomi un suo sorriso gentile.

- Comunque, questo è il mio numero.- mi avvisò prendendo il primo dei libri impilati davanti a me e scrivendo sulla prima pagina un numero di telefono. – e questo è di Taylor.-

mi morsi il labbro guardando il foglietto e rimasi per un attimo in silenzio guardando i due numeri scritti sulla pagina del mio libro.

Annie sapeva il numero di Taylor a memoria come prima io conoscevo quello di Benedetta e lei il mio. Adesso non era più così. Io non lo ricordavo. Lei sicuramente non ricordava il mio. Aveva passato l’ultimo peridio a dire che aveva la memoria di un pesce rosso.

dimentico le cose ogni tre secondi”.

Era un modo, neanche troppo gentile, di dirmi che aveva dimenticato tutto, che non le importava nulla di me e della nostra amicizia. Presi un respiro profondo. Era passato più di un anno ed io non l’avevo ancora superata.

Quando finalmente la lezione finì uscii dall’aula con Annie e Taylor che scherzavano così come fanno due migliori amiche da una vita. Una ragazza bionda delle sei che avevo visto fare le sceme mi si avvicinò e mi sorrise affettuosa e falsa come quella stupida Jessica che stava dietro a Jonathan.

- Ciao, tu devi essere Lora.- mi salutò gentile e mielosa.

Annie e Taylor si fermarono e si voltarono a guardarmi incrociando le braccia al petto.

- Laura.- risposi sorridendo gentile.

- Io sono Felicia Mildredon. Sono la figlia del rettore e credo che tu abbia bisogno del mio aiuto per poter recuperare. Le mie amiche e io avremmo piacere di invitarti ad un party a casa mia sabato sera. Questo è il mio numero , chiamami se ti va di incontrarci.- aveva parlato tutto d’un fiato con un sorriso orribile sul viso.

Si allontanò sculettando e guardai il bigliettino che mi aveva dato. Era un invito per la festa del sabato ed era segnato il suo numero di telefono e quello di un ragazzo, Kevin.

- Cavolo. Nessuna matricola ha mai ricevuto un invito di Kevin Mildredon!- sbottò Taylor sporgendosi per guardare il biglietto che tenevo in mano.

- Chi è Kevin?- domandai io posando il biglietto in borsa.

- Il fratello di Felicia. Un tizio davvero figo per cui Annie ha una cotta da secoli.- rispose lei ridendo e dando un colpetto ad Annie che non rispose nulla ma arrossì vistosamente.

- Allora sabato siamo invitate ad una festa, volete venire?- domandai con un sorriso gentile.

- Noi non siamo state invitate.- mi fece notare Annie sospirando e abbassando lo sguardo.

- Lo sto facendo io adesso. Volete accompagnarmi?- domandai di nuovo sorridendo a tutte e due le ragazze. Taylor sorrise battendo le mani.

- Figo, sentito Annie, andiamo ad una festa dei Mildredon!- gridò Taylor abbracciando forte la sua amica baciandole le guance.

Annie non disse nulla. Non sembrava felice come avrebbe dovuto essere e com’era la sua amica la guardai attentamente e mi avvicinai a lei lasciando un attimo da parte la gioia di Taylor.

- Tutto bene?- domandai mentre lei scostava lo sguardo.

- Sì.- rispose semplicemente.

- Non vuoi venire?- chiesi di nuovo cercando di studiare le sue reazioni.

- Sì, voglio venire.- rispose di nuovo abbassando ancora di più lo sguardo.

- Cosa ti preoccupa?- le domandai allora io stupita.

Lei non parlò. Rimase in silenzio arrossendo e abbassando ancora di più lo sguardo in imbarazzo. Avrei voluto abbracciarla strettissima.

- Non sono all’altezza.- rispose lei in un sussurro.

La costrinsi ad alzare il viso e la guardai negli occhi attentamente senza sorridere. ero seria. Serissima.

- Sì che lo sei. E lo faremo vedere a tutti. Domani ti porterò qualcosa tra cui tu possa scegliere cosa mettere sabato.- la rassicurai sorridendole.

Lei non rispose, annuì e si allontanò. Taylor mi guardò per un attimo poi mi abbracciò stretta.

- Sono felice di averti conosciuta oggi. Diventeremo grandi, grandi amiche!- mi comunicò lei dandomi un bacio sulla guancia e correndo dietro Annie che si era già allontanata.

Entrambe si girarono a guardare un’auto di lusso nera posteggiata davanti al cancello. Sorrisi appena avvicinandomi e ringraziandolo mentalmente per non essere sceso dalla macchina. Era già difficile essere “l’italiana”.

Diventare poi “l’italiana di Rhys-Meyers” sarebbe stato davvero un disastro. Salii in macchina e mi sporsi verso di lui per baciarlo. Stava parlando al telefono ma si fece tappare la bocca lo stesso con un bacio e non si rifiutò di rispondere. Sorrisi sulle sue labbra e mi allontanai per concedergli di finire la sua conversazione.

Quando arrivammo a casa e interruppe la chiamata mi prese tra le braccia e mi guardò con un muso adorabile sul viso.

- Com’è andata a scuola?- mi domandò tenendomi stretta contro il suo petto.

- Non male…- risposi sinceramente avvicinandomi alle sue labbra poggiandovi sopra le mie con dolcezza.

- Di cosa avete parlato col francese?- mi chiese arrivando dritto al punto.

Non capivo se stesse marcando il territorio o semplicemente fosse geloso. In ogni caso non ne aveva motivo. E mi piaceva in un certo modo.

- di nulla in realtà. Ho parlato solo io della mia paura per il primo giorno di scuola e alla fine quando sono scesa dalla macchina mi ha solo detto: “andrà bene, buona fortuna.”- risposi troppo presa a guardarlo negli occhi e a baciarlo.

Lui non rispose subito, immobile, semplicemente mi teneva stretta e si lasciava coccolare. Non sembrava soddisfatto, anzi. Aveva la faccia scura di quando era pronto a litigare o ad arrabbiarsi. Lo sentì sospirare e mi passò le mani sul viso.

- Dovevo esserci io in macchina ad ascoltarti mentre ti lamentavi e dovevo essere io ad augurarti buona fortuna e tutto il resto.- mormorò baciandomi la fronte.

- Ci sono tantissime prime volte che ho intenzione di dedicare solo a te…- risposi in un sussurro arrossendo.

Avevo ancora le sue mani sul viso, scesero lentamente sul mio collo e mi sentii fremere. Che fosse la volta buona, finalmente? Aveva chiaramente evitato il momento sfinendomi o evitando il tutto con altri impegni o scuse idiote simili. Non mi ero mai sentita veramente rifiutata. Però cominciavo a diventare impaziente. Mi chiedevo come potesse essere diverso per lui. Non dovrebbe essere molto più forte il richiamo sessuale per gli uomini rispetto alle donne? Perché nel nostro caso era esattamente il contrario? Un attimo prima che arrivasse finalmente alla mia camicia si allontanò e mi rivolse un sorriso gentile.

- Ho una cosa per te. Una cosa da prima volta.- mi avvisò lui con un sorriso alla Jonathan.

Rimasi scocciata, le labbra tirate in una linea serrata, avrei voluto afferrarlo con la forza e sbatterlo sul letto per scoparlo fino alla fine di quella odiosa serata. Ero proprio un caso disperato.

Prese dalla borsa una scatolina e si avvicinò di nuovo a me.

- Questo è un mio regalo per…beh il primo regalo da coppia.- concluse lui porgendomi l’oggetto.

Era una scatola poco più grande di quella di un bracciale, era bianca, imbottita e senza nessuna decorazione. La presi e la rigirai tra le mani insicura. Alzai un sopracciglio dubbiosa.

- Non ti sto chiedendo di sposarti Laura, aprila forza.- mi invitò lui cominciando ad agitarti.

L’aprii lentamente e dentro quelle quattro piccole chiavi scintillavano, nuove, di una luce che andava oltre quella della pulizia dello zinco in cui erano state intagliate. Erano una promessa. Una promessa migliore di quelle che avessi mai ricevuto.

Presi fiato per dire qualcosa ma non ci riuscì. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e presi la chiave con la mano che mi tremava per l’emozione. Chissà se c’era stato un momento migliore di questo nella mia vita fino a quel momento.

- Laura?- mi chiamò lui ad un tratto quando era chiaro che non sarei stata io a parlare.

Avevo il viso abbassato, le chiavi strette nella mano e cercavo di trattenere le lacrime.

- Lorie?- riprovò lui avvicinandosi e prendendomi il viso tra le mani.

Le lacrime cominciarono a scendere lentamente contro le sue mani.

- Oh, no, non piangere, Lorie, non volevo questo. Se non ti…senti pronta non è necessario che tu le preda ok?- mi spiegò lui gentilmente cercando di sfilarmi le chiavi dalla mani chiesa.

- No! no, sono le mie, le voglio!- risposi io allontanando la mano e mettendomela dietro la schiena come una bambina.

- Ok, non preoccuparti, sono tue.- rispose lui con un sorriso mentre io mi asciugavo le lacrime con il dorso della mano libera.

- Sai che questo corrisponde a quello che negavi per il tuo compleanno?- gli domandai io tirando su col naso.

- Cosa negavo?- mi domandò lui a sua volta mentre io nervosamente cercavo di guardare le quattro chiavi chiuse con un fiocco rosa.

- L’impegno duraturo, quello che poteva darmi Gaspard, la…- risposi velocemente sentendomi interrompere dalla voce perentoria di Jonathan.

- Laura!- mi rimproverò lui sbuffando.

- Scusami. Era solo per contestualizzare il discorso.- risposi sorridendo dolcemente e prendendogli il viso tra le mani baciandolo con tenerezza. - Comunque, Jonathan, questo è esattamente l’impegno che desideravo e io ti…- mi bloccai maledicendomi e mi allontanai.

Per un attimo neanche lui parlò, rimase a guardarmi silenziosamente mentre camminavo per la cucina guardando le chiavi e la meravigliosa casa in cui abitavo adesso.

Sono felice che ti piacciano.- mi rispose lui allontanandosi.

Avevo fatto una figura davvero tremenda. Non serviva che continuassi, o meglio finissi, la mia infelice frase che lasciava davvero poco all’immaginazione. Avevo ancora quelle quattro chiavi strette in mano. Erano la promessa di dividere una cosa, di vivere la stessa vita. Cosa c’era di più simile ad una proposta di matrimonio o ad una promessa di amore eterno? Cosa si poteva dire di due persone che condividevano la stessa casa? Cosa si poteva dire di me e lui adesso? Convivenza? Anche mia cugina conviveva col suo fidanzato. E quella convivenza era stata vista come un matrimonio nella mia famiglia. Cos’ero io per la mia famiglia? Ero praticamente scappata di casa a diciassette anni per seguire quell’uomo sperando che le cose andassero bene.

L’università, adesso il lavoro. Lui.

Presi il telefono dalla borsa. Non volevo rimanere lì in quel momento. Avevo bisogno delle mie amiche. Sapevo che loro adesso non c’erano più. dovevo fare altro. Presi il libro dalla borsa e chiamai il numero che lessi sulla prima pagina. Annie.

Rispose al primo squillo.

- Pronto?- la sua voce bassa, profonda e rassicurante mi allontanò dalla realtà pensante di quella casa.

- Ciao Annie, sono Laura, senti, io stavo studiando e non riesco proprio a raccapezzarmi, ti dispiacerebbe darmi una mano per recuperare?- domandai piano adeguandomi al suo tono di voce.

- Certo. Siamo in biblioteca, ci raggiungi qui?- mi propose gentilmente.

- Sì. Arrivo.- risposi.

Ci salutammo e misi giù. Presi le chiavi e le misi nella tasca dello zaino. Andai piano verso lo studio in cui si era rifugiato. Mi vergognavo da morire di quella tristissima dimostrazione di debolezza.

Presi una busta con dei bei vestiti che sarebbero potuti piacere ad Anne e la infilai nello zaino che avevo portato con me dopo quell'incredibile esperienza estiva.

- Jonathan, sto uscendo, ci vediamo a cena.- lo avvisai senza aspettare che mi rispondesse infilai la porta di casa e in pochi minuti mi ritrovai in strada.

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Capitolo 5
*** Chiunque può arrabbiarsi, ma farlo con la persona giusta, e nel grado giusto non è facile. ***




 

Arrivai in biblioteca dopo una mezz'oretta. Loro erano seduti in un angolo con i libri aperti davanti coperti da tutt'altro che ben poco aveva a che fare con lo studio. Taylor mi salutò con un sorriso entusiasta si alzò e mi afferrò per il braccio.

- Gary, lei è Laura, l'italiana strafiga di cui ti parlavamo. Lory lui è Garrison il più figo Londinese della storia.- mi presentò lei felice.

Ed in effetti quel ragazzo era decisamente la fine del mondo. Alto, moro, con gli occhi di un verde impressionante. Mi strinse la mano affettuosamente e sorrise.

- si è vero sei figa.- acconsentì lui ridendo.

- Anche tu.- scherzai io. - comunque Lorie.- precisai io sentendomi un'idiota.

Forse un soprannome diverso da quello affibbiatomi dal cattivo fidanzato che mi perseguitava poteva andare anche bene per me. Ma evidentemente io ero troppo scema per capirlo. Poco importava.

- allora, quale terribile dilemma ti ha afflitto tanto da spingerti a chiedere il nostro aiuto?- mi domandò Anne appena mi sedetti al tavolo con loro.

Mi risultava davvero difficile ancora abituarmi a non poter chiamare Betta o Caro ma avrei dovuto farci il callo probabilmente. Anzi, quasi sicuramente.

- in realtà non ho neanche cominciato a studiare, avevo solo bisogno di uscire di casa.- ammisi uscendo dalla borsa il libro ancora nuovo che mi aveva prestato il professore.

Annie e Taylor mi guardarono entrambe cercando di cogliere qualcosa dalla mia espressione. Però ormai mi ero ben immedesimata nel mio ruolo di attrice. Quindi risposi con un sorriso e loro lasciarono stare.

Quel pomeriggio conobbi meglio quelli che probabilmente sarebbero stati i miei amici del college. Non avevo mai pensato davvero a quel fatidico momento in cui li incontri per la prima volta ma se mai mi fossi fermata a pensarci probabilmente sarebbe stato proprio così. Un bel sorriso, quattro chiacchiere, nulla di serio.

- io non sono forse figa?- domandò Taylor mentre discutevamo dell'ignoranza degli uomini.

Non mi ero chiesta se a Garrison potesse dare fastidio visto che anche lui ci andava giù pesante. Io non me la sentivo di sbilanciarmi. Ero stata io a buttarmi addosso al mio ragazzo da una settimana confessandogli di amarlo spaventandolo a morte. Probabilmente già consegnarmi le chiavi di casa per lui era stato un grande sforzo.

- certo che lo sei!- costatò Gary ridendo. - ok non sei un'italiana mediterranea ma puoi andare.- la prese in giro facendomi l'occhiolino.

Io scoppiai a ridere e Annie con me non appena vedemmo la smorfia di Taylor e il pizzicotto che si meritò il ragazzo.

- bastava che ti limitassi alla prima parte. Non pretendo di dover rivaleggiare con Lorie ok?- precisò lei mettendomi in imbarazzo.

Non ero mai stata questa gran bellezza a casa. Ero una ragazza normale, divenuta più attraente dopo aver perso molto peso per via dell'esame. Ma non ero mai stata considerata la bellezza per eccellenza. Ovviamente le cose erano un po' cambiate. Tutti lì mi guardavano come se fossi quella meraviglia che aspettavano da tutta una vita e invece di sentirmene lusingata avrei voluto rispondere alla Balotelli con un secco: “cazzo guardi?!”.

- comunque.- riprese Taylor attirando la nostra attenzione. - sono stata scaricata di nuovo da quel coglione di Miles.- si lamentò.

- Meglio, cazzo era proprio un cesso. Io non starei mai con uno come quello.- rispose prontamente Gary spalleggiato da Anne che annuiva.

- Guardate che ha un cazzo enorme.- fece presente Taylor come se fosse l'unica cosa che importava.

- Ty, fidati, ho visto di meglio.-

rimasi un po' spiazzata da quella risposta di Garrison ma la risata spontanea di Anne e Taylor mi fece per un attimo dimenticare della strana sortita del ragazzo bellissimo davanti a me. Probabilmente era un modo inglese per vantarsi delle sue dimensioni.

- comunque sabato io, Annie e Lorie andiamo alla festa di Kevin Mildredon.- lo prese in giro lei facendogli la linguaccia.

- Cosa? Siete stati invitati da Felicia?!?- domandò quello sbalordito.

- Sì, Laura ha ricevuto l'invito, capito? Noi si e tu no.- lo beffeggiò.

- Quindi ha invitato solo Lorie giusto?- domandò lui alzando un sopracciglio. - voi due siete delle sfigate imbucate ad una festa vip.-

- no, le ho invitate io.- lo interruppi vedendo arrossire violentemente la povera Taylor. -Annie, ti ho portato dei vestiti tra cui puoi scegliere.- l'avvisai porgendole la busta. - fammi sapere se ti piacciono ok?- le domandai sorridendo.

Le afferrò la borsa tutta contenta e mi strinse le braccia al collo.

- oh mio Dio tesoro, sei la mia salvezza ed io già ti amo lo sai?- mi informò lei dolcemente mettendo la busta nella borsa.

Gary mi guardava mordendosi il labbro come se non fosse per nulla felice di tutto quello. Lo guardai aggrottando piano la fronte e cercai di sorridere.

- Se vuoi puoi venire anche tu.- gli proposi con un sorriso.

Per un attimo calò il silenzio sul gruppo. Annie rimase con lo sguardo immobile sul libro che leggeva quasi come se non vedesse altro. Taylor abbassò lo sguardo a sua volta e si morse forte il labbro e Gary arrossì.

- le checche non sono invitate.-mi rispose facendo chiaramente trasparire la tristezza.

A quel punto capi praticamente tutte le battute del pomeriggio. Tutto assumeva un senso, tristissimo, visto la sua stravolgente bellezza. Sorrisi appena e mi morsi il labbro.

- cavolo allora rischio proprio la mia popolarità a stare con voi.- costatai cercando di rimanere serie.

Evidentemente la recita mi riusci piuttosto bene perchè sia Anne che Taylor mi fulminarono con lo sguardo. Era lo sguardo che aveva Jonathan con Gaspard. Quello omicida di cui aveva paura io per lui. Tornai con lo sguardo sul mio libro e continuai a leggere il paragrafo.

- se ci tieni tanto sei ancora in tempo ad andare via.- mi assicurò lui ferito ma gentile come sempre.

- Oh sì, il mio sogno del college era circondarmi di oche bionde che starnazzano e non fanno altro che dare feste. Cavolo mi conviene correre prima che chiudano le selezioni per le nuove servette da portarsi dietro.- a quel punto, finalmente, capirono il mio scherzò e scoppiarono a ridere.

Era divertente vederli così rilassati anche nonostante la tensione che si era creata qualche minuto prima. Come se fosse tutto sparito. Avrei imparato a far capire loro le mie battute.

- cazzo, bella e intelligente. Se fossi etero sicuramente ci proverei con me.- scherzò lui sporgendosi verso di me e dandomi un bacio castissimo sulle labbra.

Io arrossi violentemente e il senso di colpa cominciò a farsi strada dentro di me. Cavolo era un ragazzo gay che di sicuro non era attratto da me eppure sentivo di aver fatto qualcosa di male.

- non saremmo potuti essere amici.- mormorai io in imbarazzo.

- Gary cavolo è la sua prima volta, non sconvolgerla.- lo sgridò Anne.

- Cavolo, scusami. Era il tuo primo bacio?- mi domandò Gary passandosi una mano tra i capelli.

- No. no, tranquillo. E che il mio ragazzo è un tipo strano e abbiamo appena litigato quindi...non voglio che ci siano malintesi.- mi giustificai passandomi una mano sulla guancia.

Tutti e tre mi guardarono ad occhi sgranati come se quella fosse stata la dichiarazione del secolo. Mi feci piccola piccola e tornai al libro che non avevo ancora neanche toccato. Solo il primo paragrafo avevo letto e lo sapevo a memoria.

- sei fidanzata e non ci dici nulla dopo un pomeriggio che non parliamo d'altro?- domandò Ty incredula.

- Non c'è molto da dire.- mormorai io dispiaciuta.

- Hai detto che avete litigato.- incalzò Anne come se cercasse di farmi parlare.

- Sì, ma non ho voglia di parlarne...- sussurrai in imbarazzo.

Cercarono di strapparmi le parole di bocca tutto il pomeriggio. Poi finalmente cedettero.

Anne e Taylor dovevano tornare a casa per una riunione di condominio speciale su chissà cosa. Fosse stato solo per questo l'avrebbero saltata volentieri ma il problema maggiore stava nella presenza dei genitori di entrambe che volevano controllare che le figlie prendessero seriamente la loro nuova condizione di autonome collegiali mature. Ovviamente loro non la prendevano sul serio affatto. Rimanemmo da soli, io e Gary. Lui era chiaramente in imbarazzo. Mi aveva chiesto scusa un milione di volte e alla fine avevo sbottato.

- se non la smetti ti chiuderò io la bocca con un bacio e questa volta ti infilo la lingua tra i denti.- lo minacciai meritandomi una risata tranquilla.

- Ok, scusa.- concluse lui facendomi l'occhiolino.

Si offrì cavallerescamente di riaccompagnarmi a casa e vista l'ora assurda accettai di buon grado la sua offerta. Mentre camminavamo verso la metro, con le mani nelle tasche del giubbotto, mi voltai verso di lui.

- perchè sei gay?- domandai sfacciatamente pentendomene subito dopo. - oddio, scusami, non volevo. Sono stata scortese.-

- no, no, va bene sta tranquilla.- mi rassicurò lui passandomi una mano sulla spalla.

- Comunque io non volevo offenderti. È che tu sei davvero bellissimo e non capisco cosa ti abbia spinto a voler amare un uomo e non una donna.- spiegai cercando di darmi un contegno.

Lui sembro pensarci. Alzò lo sguardo verso il cielo e si morse il labbro quasi cercasse di non ridere. Poi si voltò di nuovo verso di me.

- quando ero al liceo avevo tantissime ragazze. Le cambiavo continuamente perchè...non c'era semplicemente la scintilla. Cercavo il più che non arrivava.- mi raccontò perso nei suoi ricordi. - quella sera eravamo andati ad una festa, ero uno molto popolare. Durante il gioco della bottiglia mi toccò baciare un ragazzo che tutti sapevamo fosse gay. Mai io ero uno sbruffone volevo dimostrare di essere meglio degli altri e di non essere omofobo....-

a quel punto si fermò ma io potei capire benissimo quello che avrebbe detto. Era arrivata la scintilla. Sorrisi tra me presa da quella storia d'amore così appassionante. Più della mia quasi. Non avevo mai incontrato un omosessuale e adesso che avevo avuto modo di sentire la sua esperienza mi sentivo eccitata come quando sentivo parlare Josephine del suo ragazzo. Chissà com'era quel ragazzo che Gary aveva amato al liceo.

- la mia famiglia comunque non lo sa. O meglio credo lo abbiano capito ma non vogliono ammetterlo. Stupida religione.- mormorò dando un calcio ad una lattina a terra. - odio i cristiani.-

- io sono cristiana.- scherzai facendogli la linguaccia.

- E non ti faccio schifo?- mormorò aggrottando la fronte.

- No, affatto.- gli rivolsi un sorriso radioso. stavo condividendo qualcosa di importante con lui. - se hai bisogno di una mano con la tua famiglia io ti aiuterò volentieri.- lo informai dandogli una pacca sulla spalla.

- Ci conto italiana. Ti inviterò al prossimo pranzo ti famiglia.- mi avvisò puntandomi contro il dito come fosse una minaccia tremenda.

Io scoppiai a ridere divertita.

Alla fine lui comunque qualche parola di bocca me l'aveva cavata. Non mi sembrava giusto che lui mi avesse rivelato tanto di lui e che io non mi sbottonassi nemmeno un po'. Infondo ero felice di poter condividere i miei problemi con qualcuno. E poi, anche se gay, era sempre un uomo.

- stiamo insieme da pochissimo e oggi mi sono lasciata scappare che lo amo. Sembrava così spaventato che ho pensato che mi avrebbe chiesto di trovare casa altrove.- confessai arrossendo.

- Vivete insieme?- mi domandò lui senza nessuna curiosità morbosa.

- Sì, anche se forse credo che farei meglio a chiedere ad Annie e Ty di ospitarmi.- mormorai arrossendo.

- Senti. Ti ha dato le chiavi di casa. Anche lui si è esposto parecchio. Forse semplicemente non si aspettava una tua dichiarazione, lo hai spiazzato.- mi fece notare. - ha chiamato?- mi domandò.

Onestamente non lo sapevo. Avevo spento il telefono sulla metro quando stavo per arrivare in biblioteca. Se avesse squillato lì dentro mi avrebbero sbattuta fuori e poi onestamente non volevo essere messa di fronte ne all'eventuale chiamata ne all'eventuale silenzio. Solo in quel momento lo presi dallo zaino e lo accesi. C'erano moltissimi avvisi di chiamata anche da parte di un numero che avevo salvato due mesi prima.

- sì ha chiamato. Trecentottantadue volte.- precisai sorridendo appena.

- Ascolta il messaggio il segreteria.- mi invitò lui.

Infilai gli auricolari nell'apposito spinotto e gli porsi una delle due cuffie. Lui mi guardò alzando un sopracciglio ma non protestò afferrandolo e portandoselo all'orecchio. Era praticamente uno sconosciuto per me ma mi fidavo abbastanza da confidargli la mia vita sentimentale.

“ primo messaggio:” la voce metallica del messaggio registrato mi perforò le orecchie. Abbassai il volume di parecchio e schiacciai il numero uno.

«Lorie, ti prego puoi rispondere per favore. Sono quasi le otto e sto cominciando a preoccuparmi. Richiamami appena senti il messaggio.»

la sua voce non sembrava sdegnata. Sembrava solo parecchio dispiaciuto e in ansia. Sorrisi tra me desiderando vivamente tornare tra le sue braccia. Guardai l'orologio. Era passata un'ora. Erano quasi le nove e mezza ormai. Premetti il tasto due.

«Laura, se non sei a casa tra dieci minuti giuro che chiamo la polizia!....ti prego, sto per morire di crepacuore.»

stavo cominciando a sentirmi in colpa più di quando mettevo in agitazione i miei genitori. Gary aveva cominciato a muovere nervosamente il piede anche lui forse colpito da tanta preoccupazione. C'era un terzo messaggio da un numero sconosciuto.

«Chariote, Je comprends que tu es fâché avec Meyers. Je ne suis pas son première fan. Mais si tu ne veux pas lui parler au moins appelée moi puor me dire si tu est bien.. Je suis très inquiet.» (*bambolina, io capisco che tu sia arrabbiata con Meyers. Io non sono il suo primo fan. Ma se tu non vuoi parlare con lui almeno chiama me per dirmi se stai bene. Sono molto preoccupato.)

aggrottai la fronte e mi morsi il labbro. Era arrivato a credere che fossi andata da Gaspard? Dopo avergli detto che ero innamorata di lui? Era come un bambino che credeva di non meritare amore e credeva che fosse tutto un errore.

- chi è questo francese?- mi domandò Gary confuso.

- Un tizio che non va d'accordo col mio ragazzo.- risposi cercando di non sorridere.

Presi le chiavi dalla borsa e aprì il portoncino. Lui mi seguì e salimmo insieme sull'ascensore. Era ovviamente stupito che abitassi sulle rive del Tamigi. Fortunatamente però non fece commenti. Forse l'idea di essere sul punto di dover spiegare al mio ragazzo che era colpa sua se avevo fatto tardi e spiegargli che andava tutto bene e che dispiaceva a entrambi. Aprì la porta blindata con le chiavi nuove e ancora infiocchettate. Quando aprì la porta vidi un drappello di persone all'ingresso. Erano poliziotti in uniforme che mi fecero perdere il sorriso dopo aver biascicato un: “Jonathan, sono a casa.”

Tutti si voltarono verso di me fulminandomi. Tra quegli occhi, tra cui riconobbi quelli chiari come il ghiaccio e taglienti dell'uomo di cui, bisognava pur ammetterlo almeno a se stessi, ero innamorata, erano presenti anche quelli blu scuro del “francese”. Sorrisi cercando di essere cordiale ma entrambi mi vennero incontro a passo svelto. Mi rifugiai immediatamente dietro il corpo possente di Gary. A quel punto lo sguardo dei due uomini si rivolsero verso il mio protettore e divenne ancora più furioso.

Jonathan purtroppo non era mai stato un uomo pronto alla riflessione e di certo le cose non sarebbero migliorate adesso che era così sotto pressione. Gli sferrò un pugno dritto in pieno viso. Il ragazzo si abbassò in ginocchio tenendosi il naso tra le mani rosse di sangue.

- Jonathan!- gridai io spaventata facendo un passo indietro.

- Meyers, datti una calmata!- lo riprese Gaspard facendo invece un passo verso di lui e tirandolo via prima che cominciasse a prenderlo a calci.

Mi avvicinai al mio amico e mi abbassai su di lui cercando di controllare le sue condizioni. La polizia intanto riprese Jonathan e si avvicinò a Gary.

- signore vuole sporgere denuncia?- gli domandarono.

- Sporgere denuncia?!? sono io che sporgo denuncia ha sequestrato la mia fidanzata!- gridò Jonathan furioso.

- Abbiamo già spiegato a lei e al suo amico che la ragazza è minorenne, lei non è il suo tutore e non può sporgere notizia per il sequestro e finchè non lo fanno i genitori noi non possiamo agire.- gli spiegò un poliziotto annoiato come se lo avesse ripetuto centinaia di volte.

- No, nessuna denuncia. Avete fatto il vostro dovere, grazie, potete andare. - rispose Gary sedendosi mentre recuperavo il kit di pronto soccorso in bagno.

Mi avvicinai a lui mentre la polizia andava via e cercavo di risistemargli il naso che fortunatamente non era rotto. Lui mi sorrise cercando di tranquillizzarmi e sentì la presenza dei due uomini alle mie spalle. All'improvviso mi sentì sollevare per le spalle e cominciai a dibattermi per liberarmi.

- lasciami! Lasciami andare!- gridai spingendolo via malamente.

Purtroppo non ero abbastanza forte per quel ragazzo che troppo spesso si lasciava prendere dall'agitazione e dal nervosismo.

- razza di stupida idiota!- mi gridò contro. - ti sembra una cosa normale uscire di casa così senza dire nulla con il telefono spento? Qui non siamo a casa, siamo a Londra. Poteva capitarti qualsiasi cosa!- mi fece notare.

- Meyers cerca di rilassarti!- lo minacciò Gaspard con un filo di voce.

- Ero in biblioteca a studiare, non potevo tenere il telefono acceso e non volevo neanche farlo perchè non volevo sentirti.- gli risposi io gridando come lui guardandolo minacciosa.

Come si permetteva di dirmi cosa potevo e non potevo fare? Ammesso e non concesso che volessi andare a Timbuctù avrei potuto farlo, anche senza dirlo a lui.

- sono io qui che ha la responsabilità di prendersi cura di te quindi per l'amor di Dio la prossima volta avvisami.- mi rispose lui. - anzi non ci sarà una prossima volta perchè ti chiuderò in casa a vita.-

- tu non sei mio padre!- gli gridai più forte spintonandolo via quando aveva fatto un passo verso di me.

Lui mi afferrò per i polsi e li strinse nella sua morsa ferrea. Mi stava facendo male. Strinsi le labbra e vidi Gaspard avvicinarsi immediatamente. Anche Gary si era alzato e si stava avvicinando per portarmi via da quella situazione. Onestamente non volevo essere portata via da niente.

- che vuoi fare mi vuoi picchiare adesso?!- sputai con un filo di voce contro il suo viso prima che quei due potessero intervenire.

In un attimo mi ritrovai le sue labbra che chiusero le mie in un bacio che stavo proprio aspettando di ricevere. Era il bacio di quando era arrabbiato, nervoso e aveva bisogno di sfogarsi. Sfogati pure con me Johnny. Mi prese in braccio tenendomi stretta e allontanandosi appena impedendomi di poterlo baciare.

- la prossima volta che decidi di scappare di casa...-

- io non stavo scappando.- mugugnai cercando, afferrandolo per i capelli, di farmi baciare.

- Allora la prossima volta che non cerchi di scappare lascia lo stesso un messaggio e tieni il telefono acceso.- mi minacciò.

Sapevo da me che c'erano delle persone in quella stanza e che io stavo facendo la figura della deficiente ma non mi importava niente. Gli morsi il collo fino quasi a fargli uscire sangue e fu costretto a lasciarmi andare.

- devi rivedere la tua funzione di non padre Jonathan!- gli feci presente.

Gary ci stava guardando con un mezzo sorriso compiaciuto stampato in faccia, Gaspard si era allontanato, aveva preso il suo cappotto, e si stata avvicinando alla porta.

- scusate per la brutta serata, non volevo farti preoccupare Gaspard, grazie per esserti interessato. Ci vediamo domani a lavoro ok?- lo salutai sorridendo.

- Noi ci vediamo domani a scuola.- mi salutò Gary baciandomi le guance. - stasera prima volta eh?- mi stuzzicò prima di girarsi e seguire Gaspard sull'ascensore.

Sorrisi tra me compiaciuta. Jonathan era dietro di me che si stava passando una mano sul collo dove lo avevo morso. Lo guardai per un attimo, gli passai accanto, e mi diressi in cucina.

Sentivo che mi stava seguendo.

Non disse nulla mentre mi versavo un bicchiere di latte e recuperavo dei biscotti dalla dispensa. Lui mi aiutò a prenderli dalla mensola più alta e mi sedetti su uno sgabello immergendo il biscotto nel latte bianco e freddo.

- sei più calmo?- gli chiesi dopo che avevo finito di mangiare un biscotto.

- No, ti vorrei ancora prendere a schiaffi per avermi fatto stare in pensiero.- mi minacciò con voce che tradiva il reale nervosismo.

- Non puoi mi spiace. Però puoi accettare le mie scuse.- gli proposi con un sorriso gentile.

Lui sembrò pensarci per un momento guardandomi attentamente mentre prendevo un altro biscotto e lo mordevo con calma.

- chi era quel ragazzo?- mi chiese poi senza abbandonare il suo atteggiamento.

- Un amico.- risposi raffreddandomi molto.

- Ah, adesso si chiamano così?- mi domandò.

- Come vogliamo chiamarlo....O'Keeffe?- anche io ero stanca di quel suo stupido interrogatorio. Stava davvero esagerando.

Lui mi guardò minaccioso ed io feci altrettanto senza lasciare il suo sguardo. Si stava arrabbiando, molto, ma non mi importava. Doveva capire da subito che io non ero lì per farmi maltrattare da lui. Ero lì perchè lo amavo e non voleva nemmeno sentirselo dire.

- e comunque lui preferirebbe te, non me.- lo avvisai tornando alla mia cena.

Non disse nulla a riguardo ma non lo sentì sospirare di sollievo. Sollevai lo sguardo dal mio pranzo e lo trovai ad un centimetro del mio viso, cercai di tirarmi indietro ma una sua mano dietro la mia nuca mi tenne ferma.

- Tu!- sussurrò infuriato. - tu mi farai impazzire Laura!-

Cercai di liberarmi ma non si arrese e mi chiuse le labbra prima che potessi cominciare a lamentarmi.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Credere che l'amicizia esista è come credere che i mobili abbiano un'anima. ***





 

quella notte non successe nulla.

Dormivamo nello stesso letto, si addormentava tenendomi stretta facendomi maledire di non aver deciso di dormire nella camera degli ospiti e riusciva a resistere? Qualsiasi cosa lo spingesse a farlo dovevo semplicemente pregare che non fosse l'indecisione di fare un passo così importante. E poi dovevo calmarmi. Cavolo non potevo sembrare io la pazza che voleva soltanto fare sesso con lui.

Quel giorno arrivai a scuola con largo anticipo. Fu lui ad accompagnarmi prima di andare a lavoro e prima di scendere dall'auto mi aveva dato un bacio passionale in cui sentivo finalmente il suo buon sapore sulla lingua. Non avevo parlato molto durante il tragitto sia per la stanchezza dovuta a quella notte quasi insonne sia per un po' di rabbia e delusione depressa a causa della mancata prima volta. Mi rifugiai subito in biblioteca dove Annie già aveva cominciato a studiare.

- ciao, italiana.- mi salutò lei con un sorriso dolce.

- Ciao.- la salutai a mia volta prendendo posto al mio fianco.

- Allora, com'è andata ieri col fidanzato?- mi domandò sottovoce utilizzano un tono più consono al luogo di quello utilizzato il giorno prima da Taylor.

- Oh ti prego lasciamo stare...- mugugnai abbattuta mentre scorgevo la curiosità nell'occhio della mia amica.

Fortunatamente Annie non era Taylor e non fece mille domande e poi, meglio di ogni altra cosa, non ne fece parola quando arrivò la bionda tutto pepe a cui stavo pensando.

- ciao, bella gente, già si studia così presto la mattina?- domandò alzando un sopracciglio come se quello fosse un pub e noi gente strana.

- Ty, avevamo davvero buone intenzioni noi, hai deciso che non vale la pena avere buone intenzioni?- la prese in giro la ragazza ridendo piano e meritandosi una linguaccia.

- Le buone intenzioni sono delle martiri e dei cretini e comunque entrambi hanno fatto una brutta fine.- costatò lei con enfasi. - dov'è Gary?- domandò dopo un attimo guardandosi intorno per trovare la presenza dell'amico.

Proprio in quel momento il ragazzo, con il naso coperto da un imponente fasciatura, si sedette al tavolo sbattendo la borsa sul tavolo con delle profonde occhiaie sotto gli occhi. Mi sentivo profondamente colpevole, avrei voluto chiedergli come andava e pregarlo di non dire nulla ma Ty mi anticipò.

- cavolo Gary che hai fatto al naso?- domandò lei preoccupata.

Lui, con un'indifferenza invidiabile, tirò fuori il libro dalla borsa e se lo mise davanti, spingendo la cartella giù dal tavolo facendola atterrare con un tonfo sordo che mi fece sobbalzare.

- ho avuto un incontro ravvicinato con un coglione sull'autobus ieri sera.- sdrammatizzò lui lanciandomi un'occhiata sottecchi che fortunatamente le altre due, troppo prese dal male del loro amico, non colsero.

Lo ringraziai con lo sguardo e lui mi sorrise appena. Gli dovevo un enorme favore.

Quando ci dirigemmo a lezione, un corso che avevamo in comune da soli, ebbi finalmente la possibilità di ringraziarlo a dovere.

- sei stato davvero gentilissimo a coprire quel coglione di Jonathan...- mormorai senza riuscire a guardarlo in viso.

- Tranquilla, era parecchio nervoso...- lo giustificò lui.

- Questo non gli dava il diritto di picchiarti.- costatai io ancora seccata.

- Piuttosto com'è stato il dopo?- domandò lui ridacchiando e guardandomi alla ricerca di pettegolezzi che anche io avrei voluto volentieri dargli.

- Deludente.- risposi scocciata. - non capisco perchè non risponda alle mie “provocazioni”. Ci credi che dormiamo insieme e non mi ha ancora toccata?-

- neanche in prima base?- chiese lui sgranando gli occhi.

- No, neanche una palpatina!- convenni io facendomi acida.

Avrei volentieri fatto io se non mi fossi vergognata tanto. E poi santo cielo per una volta poteva farlo anche lui il primo passo no? Quella era una cosa importante per me. Si lamentava di prime volte perse perchè Gaspard mi aveva accompagnato a scuola ma non gli importava di avere la prima volta più seria di tutte. Era un cretino! Sbuffai spazientita.

- comunque, tralasciando la stupidità di Johnny...- continuai io sorridendogli appena. - ti devo un enorme favore.- lo informai.

Lui sembrò pensarci per un attimo e mordersi il labbro dubbioso.

- il mio favore è molto più grande di questo.- mi fece notare come se stesse lottando con se stesso per chiedermelo ma in realtà non volesse farlo.

- Più di un pugno in faccia? Non credo.- risposi io spronandolo a parlare.

- La mia famiglia non sa che sono gay e sono mesi che mi sono inventato una finta ragazza che loro non vedono l'ora di conoscere e...- si bloccò e arrossì.

- Ok, quando?- lo interruppi io cercando di far svanire il suo nervosismo.

Lui si voltò verso di me e sgranò gli occhi come se fosse pronto a saltarmi addosso e baciarmi. Gli feci la linguaccia e in quel momento suonò la campana dell'inizio delle lezioni.

- domenica. Ti passo a prendere io.- mi rispose lui mentre prendevamo posto e il professore iniziava la sua lezione.

 

Pov. Gary

Finita la lezione Laura tornò subito a casa sorridendomi caldamente e stringendomi in un abbraccio. Io avevo appuntamento con le ragazze al bar dove lavorava Trevor, il ragazzo con cui mi frequentavo nell'ultimo periodo. In realtà avevo chiesto io quella riunione speciale. La sera prima avevo avuto il piacere di conoscere il pazzo fidanzato di Laura e la brutta impressione che mi aveva fatto mi aveva impedito di dormire tutta la notte. Certo, anche il dolore al naso aveva influito ma il pensiero che fosse rimasta sola a casa con quel pazzo aveva certamente provocato parte della mia insonnia. Mi sedetti al bancone e Trevor arrivò velocemente servendomi il mio solito martini ghiacciato.

- ciao Gary.- mi salutò con un bel sorriso in viso.

Trevor era un ragazzo di quelli normalissimi, Ty diceva che mi stavo accontentando ma non era per il suo aspetto che stavo con lui. Dai capelli castani e dagli occhi scuri quel ragazzo dal suo metro e settanta rappresentava tutto ciò che avrei mai potuto desiderare. Era dolce, romantico, e sembrava pendere dalle mie labbra. Era anche molto discreto così evitavo scene inutili sulla mia omosessualità. Mi sarebbe piaciuto presentare lui alla mia famiglia. Sicuramente sarebbe piaciuto un sacco ai miei se fossi stata Cassidy, mia sorella.

- ciao Trev- lo salutai a mia volta.

Si stava mordendo il labbro con fare molto seducente eppure vedevo la preoccupazione nei suoi occhi dovuta alla fasciatura che mi copriva il viso. Alzai la mano per fermare la sua domanda sul nascere.

- appena arrivano le ragazze ne parliamo, siamo qui per questo oggi.- lo avvisai tranquillamente.

Neanche dieci minuti dopo le ragazze mi avevano affiancato, una a destra e l'altra a sinistra e aspettavano che iniziassi ad esprimere i motivi di quell'incontro. Presi un respiro profondo. Forse stavo tradendo Laura e la sua buona fede ma era per il suo bene che lo facevo.

- allora...ieri sera ho accompagnato Laura a casa perchè si era fatto davvero tardi.- cominciai vedendo subito interrotto da Ty che sbuffò.

- Sì ok lo sappiamo, e sul bus hai incontrato un omofobo che ti ha picchiato. Vuoi sporgere denuncia contro ignoti per l'ennesima volta?- mi prese in giro lei meritandosi un'occhiata tremenda sia da Annie che da Trev.

- No, Taylor, non sono stato picchiato sul bus, è stato il ragazzo di Laura appena sono entrato in casa loro.- conclusi io dando subito la notizia shock che fece tacere tutte e due.

- chi è Laura?- domandò Trevor aggrottando la fronte.

Annie, che si era ripresa dalla notizia, raccontò la breve storia di Laura e Trevor si posò la mano sulla bocca spaventato.

- oh mio dio, e ha picchiato anche lei?- domandò in apprensione.

- No, non davanti a me per lo meno. C'era un altro ragazzo lì che non conosco ma quando sono andato via Laura ha mandato via anche lui. Giuro per un attimo ho avuto paura che la picchiasse...- mormorai spaventato dal ricordo della sera prima.

- Stamattina sembrava stare bene...- costatò Annie con un filo di voce.

- Non importa se anche l'avesse picchiata lei cercherebbe di dissimulare.- la interruppe Ty con lo sguardo ancora perso nel vuoto.

- Cosa facciamo?- domandò Trevor.

- Direi che dobbiamo sporgere denuncia.- costatò Annie come se fosse la cosa più ovvia ed era assurdo che noi non ci fossimo arrivati da soli.

- Ah, ultima cosa. Indovinate chi è il ragazzo di Laura.- buttai lì meritandomi l'attenzione completa di tutti e tre i miei amici. - Jonathan Rhys-Meyers.- annunciai semplicemente trovandomi davanti tre paia di occhi sgranati.

- E tu come fai a saperlo?- mi domandò Annie alzando un sopracciglio.

- Perchè guardavo i Tudor e mi masturbavo davanti alla televisione.- risposi senza vergogna un po' seccato che si dubitasse così della mia conoscenza sull'argomento.

- Ok basta dettagli.- ci interruppe Ty.

- Ma Jonathan Rhys-Meyers ha trentacinque anni, quanti anni ha questa Laura?- domandò Trevor pensieroso.

- Secondo me ne ha massimo venti.- costatò Anne.

- Ha diciassette anni, me lo ha detto lei. Si è diplomata a Luglio.- risposi io provocando di nuovo lo sconcerto nel gruppo.

- Cazzo, dobbiamo fare necessariamente qualcosa..- mormorò Taylor.

Sapevamo tutti e tre che fare una simile denuncia contro un personaggio dello spettacolo gli avrebbe creato problemi e noi non volevamo creare problemi a Laura. Rimanemmo a discutere della cosa a lungo poi finalmente giungemmo ad una conclusione.

Avremmo aspettato un po' tastando il terreno con Laura per accertarci che le cose andassero bene o per lo meno fossero minimamente accettabili. Poi, qualora o meglio quando, si sarebbe verificato l'incidente, avremmo fatto il nostro passo. Cercammo anche di capire chi potesse essere il ragazzo in casa loro la sera prima attraverso delle ricerche sul web ma io sentivo come un vuoto di memoria. Non riuscivo proprio a ricordare la sua faccia.

- poteva essere un attore anche lui?- domandò Annie per l'ennesima volta.

- Anne, potrebbe essere davvero chiunque, non lo ricordo.- risposi anche io nello stesso modo come avevo fatto già sedici volte.

- Ricordi almeno se era alto?- domandò ad un tratto Trev.

- Sì, era alto quando Jonathan.- risposi ricordando quel particolare di quando si era avvicinato a lui ordinandogli di calmarsi.

- Possiamo chiedere a Laura, tipo domenica quando l'accompagni fatti raccontare qualcosa sulla sua vita e butta giù il discorso come se ti piacesse quel ragazzo per fartelo presentare.- propose Ty meritandosi l'approvazione degli altri due.

Quando finimmo i preparativi per il nostro piano salva Laura ci salutammo col cuore pesante e ritornammo ognuno a casa propria. Anne e Taylor andarono via insieme, io aspettai che Trevor finisse il turno e lo invitai a cena a casa mia. Quella sera non riuscimmo a fare l'amore tanto era il nervosismo per la giornata appena finita. Nessuno di noi due fece il primo passo ma rimanemmo seduti sul divano, stretti in un abbraccio romantico a guardare Nothing Hill sperando che tutte le brutte impressioni che aveva suscitato in me quell'uomo rimanessero solo impressioni.

Quando tornai a casa nel pomeriggio Jonathan non era ancora rientrato. Era da tantissimo tempo che non mi davo alla cucina e la colpa era principalmente dei mille impegni. Per quella sera forse avrei potuto fare qualcosa per addolcire la pillola dell'impegno di quel weekend. Andai in camera da letto per cambiarmi. Indossai dei vecchi pantaloni della tuta grigi e una maglietta a maniche corte che mi ricordava dei vecchi giochi studenteschi del liceo. Sollevai i capelli in una coda e scalza, su quel parquet caldo, tornai in cucina e mi misi ai fornelli preparando una cena degna di mia madre. Antipasti di pesce, un risotto alla marinara e un dolce al limone per finire. Mi rilassava stare ai fornelli e quella cucina era il sogno di qualsiasi cuoco. Erano passate quasi due ore quando mi resi conto di non essere più sola. Lui ero poggiato all'isola su cui avevo posato la torta alle mandorle che avrebbe accompagnato il sorbetto al limone che avevo messo in frigo e mi guardava in silenzio. Gli sorrisi appena ma lui rimase fermo dove si trovava continuando a guardarmi.

-che c'è?- domandai scostando lo sguardo dai suoi occhi indagatori che mi facevano arrossire tremendamente. Ancora silenzio dall'altra parte. Quando risollevai lo sguardo su di lui lo sentì sospirare.

- sei davvero bella.- mormorò muovendosi finalmente avvicinandosi a me e prendendomi il viso tra le mani con infinita dolcezza.

Posò le labbra sulle mie in un bacio semplicissimo e pieno di tenerezza che non ricordava affatto quello dell'uomo che la sera prima sembrava quasi sul punto di picchiarmi. Gli strinsi le mani sui fianchi tenendomi alla sua camicia perfettamente inamidata e mi sollevai sulla punta dei piedi per baciarlo ancora una volta.

- com'è andata a lavoro?- domandai mentre mi stringeva in un abbraccio e guardava ciò che avevo preparato.

- Sono felice di aver finito per oggi.- concluse semplicemente. - hai preparato la cena?- domandò come se fosse incredibile che lo avessi fatto davvero.

- Sì, volevo farmi perdonare per ieri sera.- lo informai senza però abbandonare la posizione di attacco nel caso in cui mi avesse fatto capire che non si riteneva nemmeno in minima parte responsabile di un atto sconsiderato e violento.

- Anche io ho una cosa per farmi perdonare.- mi rispose invece spiazzandomi.

Si allontanò uscendo dalla cucina per andare a prendere qualcosa in salotto. Io intanto recuperai una tovaglia e cominciai ad apparecchiare. Misi i piatti, i bicchieri, uscì il vino bianco dal frigo e quando tornò guardai la busta bianca e sottile che teneva in mano.

- dammi dieci minuti!- lo avvisai sparendo in camera da letto.

Aprii l'armadio tirando fuori un vestito nero che avevo comprato qualche anno prima. Sarebbe dovuto essere molto aderente ma i chili persi a giugno non erano ancora tornati tutti. Mi feci una doccia veloce, legai i capelli in una treccia ancora bagnati e mi vesti sperando che quella sera le cose sarebbero andate come previsto. Quando tornai in salotto lui si era seduto sul divano e guardava le notizie al telegiornale. Mi guardò un attimo distrattamente tornando alla televisione e poi tornando di nuovo a me basito.

- Laura, sei davvero crudele!- mi apostrofò aggrottando la fronte e alzandosi dal divano.

Non lo ascoltai ma servì gli antipasti e lo invitai a sedersi a tavola.

Accettò l'invito immediatamente tenendo ancora quella piccola busta tra le mani. Ero piena di curiosità ma riusci a darmi un contegno prendendo posto. Lui sembrava aver capito benissimo quanto stessi fremendo dalla voglia di sapere di cosa si trattasse e la posò sul tavolo senza porgermela.

- comunque direi di goderci la cena prima, te la darò insieme al dolce.- mi avvisò meritandosi un'occhiataccia da parte mia che lo fece ridere.

- Sei crudele.- mormorai abbattuta sperando di far leva sul senso di colpa ripetendo la battuta detta da lui pochi minuti prima.

- Lo so, che vogliamo farci?- domandò retoricamente ridacchiando.

Comunque in breve l'idea della lettera passò in proscrizione. Ero troppo impegnata a guardarlo mentre cercava di mascherare la soddisfazione per quella cena. Sapevo che non si trattava delle mie doti di cuoca che a dire il vero erano piuttosto scadenti quanto più che altro probabilmente per il gesto in se. Non mangiai molto tra l'altro, avevo lo stomaco chiuso per tantissime ragioni. Lui non smetteva di sorridere.

- perchè sorridi?- gli domandai ad un tratto mordendomi il labbro.

Lui mi guardò come se fosse la cosa più ovvia del mondo e si passò distrattamente una mano sul mento come se cercasse le parole migliori per esprimere un semplice concetto che però io avrei fatto fatica a capire.

- così, non lo so.- rispose invece alla fine.

Aggrottai la fronte confusa e mi alzai da tavola prendendo i piatti e tornando in cucina. Esitò un attimo in salotto poi mi seguì come aveva fatto già prima e mi fermò quando stavo per prendere la torta.

- aspetta, balla con me prima...- sussurrò prendendomi per mano e riportandomi in salotto.

Aveva messo della bassa musica di sottofondo che si avvicinava al jazz anni cinquanta, le note riempivano la sala e in un attimo mi ritrovai stretta tra le sue braccia con le sue labbra sorridenti poggiate sulla fronte e il mio viso contro la sua spalla. Aveva un odore spettacolare. Sorrisi tra me seguendo i suoi movimenti controllati. Mi baciava la tempia, la guancia, il collo. Io lo lasciavo fare scostando il viso per permettergli di baciarmi. Ero praticamente un giocattolo nelle sue mani che sicure mi accarezzavano la schiena e i fianchi.

- domenica non lavoro...- mi avvisò sussurrando contro il mio orecchio con la sua voce bassa e suadente.

- Mmm.- mormorai senza capire davvero, troppo presa da quel momento perfetto.

- Voglio portarti in un bel posto...- continuò senza smettere di muoversi e senza smettere quel suo assalto che mi sembrava così erotico.

- Mmmm...- mugugnai di nuovo col cervello scollegato.

- Ti va?- domandò allontanandosi appena per permettermi di rispondere.

- Cosa?- domandai a mia volta scocciata che si fosse allontanato e che avesse smesso con le sue carezze.

- Andare da qualche parte per il weekend.- propose di nuovo con un mezzo sorriso.

Io non potei fare a meno di aggrottare la fronte. Porca miseria perchè ogni volta proponeva queste cose un attimo dopo che si presentava il problema che mi avrebbe fatto dire no? Mi morsi il labbro pronta a dargli la brutta notizia che avrebbe rovinato la nostra perfetta serata romantica. Tra l'altro anche il sabato avevo la festa dei Middleton a cui dovevo andare per forza. Anne ci teneva.

- Jonathan questa domenica devo fare un favore ad un amico...- lo avvisai sperando che non reagisse alla Jonathan.

- Un favore ad un amico?- chiese lui aggrottando la fronte. - digli che sei impegnata.- trovò semplicemente la soluzione facendo spallucce.

- Non è così facile, gli ho promesso che sarei andata a pranzo dalla sua famiglia e...- la sua espressione arrabbiata mi fece bloccare.

- A pranzo dalla sua famiglia?- domandò lui sempre più indisposto. - e perchè mai dovresti andare a pranzo dalla sua famiglia scusa? A me questa sembra una cosa un po' troppo intima.- mi rimproverò neanche fosse stato mio padre.

- Gli devo un enorme favore.- conclusi io facendo spallucce come se non mi importasse di ciò che avrebbe detto oltre.

- Tu non ci andrai Laura.- mi avvisò lui con fare minaccioso.

- Oh si che ci andrò visto che non ha fatto il tuo nome davanti a tutti quando avrebbe avuto tutti i buoni motivi per farlo!- risposi lanciandogli un 'occhiata di sfida che colse al volo.

Avevo ancora le sue mani intorno alla vita e le mie erano poggiare sulle sue spalle. Strinse la presa e ridusse gli occhi a due fessure.

- ah quindi lo staresti facendo per me?- domandò lui piccato.

- Esattamente.- risposi io seria spingendolo via. - siediti, vado a prendere il dolce.- gli ordinai sparendo in cucina.

Presi la torta di mandorle ancora pensierosa e uscì il sorbetto dal frigo mettendolo nei bicchieri. Se mio padre avesse visto in che razza di situazione vivevo sicuramente mi avrebbe riportata a casa tirandomi per i capelli. Eppure non riuscivo proprio a non farlo. A non amarlo. La serata comunque era ormai rovinata. Non mangiai neanche il dolce e non lo fece neanche lui. Rimase pensieroso a guardare la sua torta.

- domani hai lezione?- domandò ad un tratto mentre stavo caricando la lavastoviglie.

- No, domani devo venire a lavoro con te.- risposi chiudendola.

La programmai e poi lo seguì in camera da letto. Si spogliò con calma sbottonandosi la camicia come per darmi il tempo di ammirarlo in tutta la sua sconvolgente bellezza. Tirai giù la sola la cerniera del vestito e mi diressi in bagno ancora in intimo. Ne uscì che lui era già a letto con il copione in mano che ripassava le sue battute, gli occhiali sul naso e il petto nudo. Io indossavo il mio solito pigiama. Avrei dovuto fare compere. Sospirai e mi infilai sotto le coperte chiudendo gli occhi e sospirando.

Lui rimase sveglio ancora per un po' mentre io cercavo disperatamente di prendere sonno senza successo. In quella settimana avevo dormito ogni sera stretta tra le sue braccia e adesso mi sembrava strano che non fosse così. Quando finì chiuse il copione e lo poggiò sul comodino. Lo sentì armeggiare per un attimo, spegnere la luce e infilarsi a sua volta sotto le coperte. Sentivo la presenza del suo corpo caldo accanto al mio.

-comunque è stata un'ottima cena.- si complimentò Jonathan contro il mio orecchio stringendomi nel tanto desiderato abbraccio in cui mi addormentai.

 

 

La settimana passò molto lentamente. Jonathan non sembrava molto arrabbiato anche se mi aveva già annunciato che la settimana seguente sarebbe stata tutta per lui. Niente scuola e lavoro. Niente di niente. Avevo accettato di buon grado anche perchè una settimana da soli non mi dispiaceva per niente.

Quel weekend infatti era passato tutto alle prese con i miei nuovi amici. Sabato sera, dopo le riprese, Annie e Ty vennero a casa mia, casa di Jonathan per meglio dire, con uno zaino sulle spalle ciascuna e un sorriso enorme. Andai ad aprire ripensando a quando quelle serate si svolgevano in Italia, con le mie amiche di sempre, con i loro sorrisi rassicuranti, con i trucchi perfetti di Betta, i vestiti firmati e bellissimi di Caro, le chiacchiere di Ale e le battutine scontrose di Bens. Adesso loro non c'erano, sarebbe stato strano fare le stesse cose con altre amiche? Sospirai e mi stampai in viso un bellissimo quanto forzato sorriso.

- ciao italiana!- mi salutò Taylor abbracciandomi stretta.

- Ciao, bella bionda!- risposi io ridacchiando.

Le feci accomodare nell'esatto momento in cui quell'uomo meraviglioso che ancora facevo fatica a credere fosse il mio ragazzo ci passò davanti in jeans e maglietta bianca, con i suoi disarmanti occhi azzurri sorridenti e i capelli in disordine.

- ciao ragazze.- le salutò lui meritandosi una mia occhiataccia di fuoco.

Lo avevo pregato, scongiurato di non farlo. Gli avevo spiegato e rispiegato che già per me la situazione era parecchio difficile solo per essere italiana e che sarebbe solo peggiorata sapendo anche con chi vivevo.

- Laura, dovrei forse pensare che ti vergogni di me?- mi domandò posando il bicchiere che teneva in mano e guardandomi attentamente.

- Non ho detto questo!- risposi piccata. - tu prendi sempre le mie parole e le cambi come ti conviene.- lo accusai arrabbiata.

- Allora perchè non dovrei conoscere le tue amiche visto che vengono qui?- mi chiese di nuovo incalzante.

- Perchè la situazione sarebbe ingestibile.- gli feci notare cominciando ad arrabbiarmi.

- Prendila come una prova, se mantengono il segreto sono buone amiche altrimenti nulla.- mi invitò lui con semplicità prendendo un boccone di carne e portandosela alle labbra. - e poi, quando uscirà il telefilm, diventerai comunque famosa, tanto vale cominciare da queste piccole cose no?-

ovviamente non avevo saputo come ribattere a quello perchè, volente o nolente, dovevo semplicemente ammettere che aveva ragione. Le mie amiche avevano una faccia meno stupita di quanto pensassi anche se entrambe sembravano stessero cercando con tutte le loro forze di trattenersi dal gridare.

- ciao.- salutarono loro praticamente in coro con una vocina un po' stridula.

- Ragazze, lui è Jonathan, loro sono le mie amiche Taylor e Annie.- li presentai cercando di ignorare il sorriso divertito del mio carnefice davanti la loro faccia.

- È davvero un piacere conoscervi, Annie, Taylor. Se vi serve una mano sono in salotto.- salutò cordiale lui allontanandosi.

Entrambe lo seguirono finchè non fu sparito dietro la porta e sospirarono pesantemente entrambe. Da un lato ne ero estremamente fiera in modo ridicolo, dall'altro avrei voluto prendere tutti e tre a schiaffi.

- va bene, sfilata finita, andiamo a cambiarci.- annunciai io spingendole in bagno.

Mi ero fatta insegnare qualche make-up a lavoro, qualcosa di facile che avrei potuto riprodurre e mi dedicai a questo mentre Taylor le intrecciava i capelli chiacchierando del più e del meno.

- comunque sarai una stra figa e se Kevin non ti guarda è scemo, davvero! Cioè quel vestito è splendido e poi tutto il pacchetto è davvero “wow”...io non capisco come potrebbe non volere te.- stava appunto dicendo.

- Guarda che siamo accompagnatrici di Lorie ok? Presente la ragazza che sta con quel dio seduto sul divano del salotto? Quello per cui stavo avendo un orgasmo solo guardandolo tre minuti fa?- le domandò retoricamente come se non fossi davanti a me.

- Non preoccuparti.- la tranquillizzai dando l'ultimo tocco di ombretto. - non ho intenzione di truccarmi, solo un filo di matita nera e basta.- promisi.

Ci vestimmo velocemente. Oltre al vestito che avevo procurato ad Annie, ne prestai uno a Taylor di un bel rosa antico che metteva in risalto i suoi occhioni azzurri e i capelli d'oro che avevamo raccolto sapientemente. Io ne indossai uno semplicissimo del tutto anonimo che avevo comprato durante una gita a Roma. Quando finalmente finimmo mi diressi in salotto a salutarlo. Si voltò verso di me e mi studiò attentamente per un secondo.

- Non avevi detto che stasera dovevi sembrare anonima?- mi domandò alzando un sopracciglio.

Fino ad un secondo prima mi ero sentita in vena di dolcezza e avevo avuto quasi voglia di chiedergli di accompagnarmi. Avevo cambiato idea.

- Che c'è che non va? Non sono neanche truccata.- mi difesi incrociando le braccia al petto.

- Gridi “sono un'italiana” da ogni parte. Dove l'hai preso quel vestito a Roma o a Milano?- mi prese in giro cercando di rimanere serio con scarsi risultati.

- È un abito vecchio, che mi fa sciatta anche. E anche se apprezzo che mi trovi bella non hai visto le mie amiche di la.- gli risposi alzando il mento in segno di sfida e tornando da loro con passo sicuro.

Ovviamente non c'era una volta in cui lui non accettasse la sfida. Mi seguì in salotto e analizzò entrambe le mie amiche con quel suo sguardo ipercritico che all'inizio mi faceva sempre sentire tremendamente inappropriata. Non fece nessun commento grazie al cielo, ci augurò buona serata e ci invitò a non tornare troppo tardi.

La serata di per se, forse proprio a causa dell'augurio poco sentito di Jonathan, andò uno schifo.

Quando arrivammo Felicia guardò con malcelato disprezzo le mie amiche incrociando le braccia al petto dopo aver lasciato la mano al suo palestratissimo ragazzo.

- cosa ci fate voi due sfigate alla mia festa?!- domandò dando l'impressione di essere vicina ad una crisi isterica. - non voglio ciccione ne troie sfascia famiglie qui!- precisò lei.

Taylor stava per rispondere a quegli insulti che io non avevo capito del tutto ma prima che potesse parlare fu bloccata dal gridolino entusiasta della ragazza.

- oh mio dio, Laura, sei venuta, sono così felice di vederti.- mi salutò riuscendo finalmente a vedermi dietro le mie amiche. Le spintonò via e mi baciò con trasporto entrambe le guance.

- Ciao, Felicia.- la salutai io leggermente disgustata allontanandomi. - spero non ti dispiaccia se Anne e Taylor sono con me.- era un modo gentile per informarla che non erano affatto delle imbucate.

- Cosa? Sono con te?- domandò lei sconcertata. - oh tesoro, no, è un piacere.- rispose con una vocina di qualche ottava più alta del normale posando una mano sulla spalla a Anne. - divertitevi ragazze, io ve la rubo un attimo.- le avvisò, trascinandomi via.

La seguì cercando di mantenere il suo passo sbuffando infastidita di tanto in tanto.

- devo farti conoscere mio fratello e altri miei amici.- mi avvisò lei. - sei davvero splendida, è italiano il vestito vero? Meraviglioso. Kevin!- gridò sollevando la mano.

Un ragazzo si voltò annoiato e si avvicinò dando l'impressione che quella non fosse la prima interruzione della serata. Dietro di lui si muoveva, come fosse la sua ombra, una ragazza dai lunghi capelli neri e dalla cortissima gonnellina inguinale.

- Kevin, lei è Laura Caruso, la mia nuova migliore amica. È italiana sai?- si vantò come fossi una strana conquista. Io storsi il naso.

Gli occhi del fantomatico Kevin, che poi non era neanche il gran modello che mi avevano descritto Anne e Tay, si illuminarono un attimo.

- wow, quindi tu sei Laura, sono felicissimo di conoscerti, e sei bellissima come diceva mia sorella il che è davvero strano. Lei dice sempre molte idiozie.- scherzò lui avvicinandosi troppo e invadendo il mio spazio vitale.

Per il resto della serata non riuscii a liberarmi ne di lui ne dei suoi amici e vano era il ripetere che fossi impegnata con un altro ragazzo. Non vidi Anne e Ty tutta la sera quindi sapevo che le cose non stavano andando come previsto neanche per loro. Le ritrovai quando riuscii a convincerlo a lasciarmi andare in bagno da sola dato che la prima volta aveva insistito per accompagnarmi. Stavano cercando me, i cappotti già messi ed il mio in mano.

- grazie a tutti i santi.- scherzai afferrandolo e scappando via con loro.

Non raccontai a Jonathan come fosse andata e neanche a Anne e Ty che altro non fecero se non ridere della bruttezza di quella serata. Meglio vederle divertite che arrabbiate.

 

Garrison era venuto a prendermi il giorno dopo di prima mattina e in macchina mi aveva dato qualche suggerimento per sopravvivere a quella domenica in famiglia.

- vuoi avere dei bambini, vuoi sposarti e aspetterai il matrimonio per fare sesso.- mi avvisò seriamente tamburellando con le dita sullo sterzo.

- Ok, ricevuto capo, adesso rilassati o ti verrà un infarto prima di arrivare a casa dei tuoi.- gli consigliai massaggiandogli una gamba gentilmente.

Eravamo arrivati dopo un'oretta di strada, Gary mi teneva un braccio intorno alle spalle mentre camminavamo sul vialetto d'ingresso di quella bella casetta della periferia di Londra. Sapevo che c'era già chi ci stava guardando quindi evitai di mostrarmi insicura. Ero un'attrice. Dovevo ricordarmelo. Sorrisi voltandomi verso di lui e gli passai una mano sul petto in modo intimo e rassicurante.

- puoi immaginarti chi vuoi al mio posto ma devi sembrare...preso ok?- gli sussurrai sollevandomi sulle punte e baciandogli una guancia prima di fingere una risata sommessa per gli osservatori.

Quando suonò alla porta venne ad aprire un ragazzone dalle spalle larghe molto simile al mio amico. Era sicuramente un bel ragazzo anche se non era decisamente il mio tipo. Sorrise in una sorta di sfotto che mi fece venire voglia di afferrare Gary e portarlo via.

- ehi fratellino Gay.- scherzò storpiando il suo nome. - ma non mi dire la tua fidanzatina si è sentita male e sei dovuto venire solo?- domandò.

- No, a dire il vero no.- rispose lui con la tristezza nella voce. Si scostò appena dopo essersi messo completamente davanti a me occultandomi alla vista di suo fratello. - Allen, lei è la mia ragazza, Laura. Laura, lui è mio fratello Allen.- ci presentò Gary.

La faccia del suo fratellone mostrava chiaramente tutto il suo stupore. Io sorrisi dolcemente e gli porsi la mano. Sembrava totalmente rincitrullito. Non ricambiò il mio saluto ma semplicemente si fece da parte per farci passare e Gary, presami la mano, mi portò in sala da pranzo.

Era una famiglia molto numerosa, quasi come la mia. Aveva un che di italiano. Il capo famiglia era seduto su una poltrona con un quotidiano in mano. Ai suoi piedi giocavano tre bambini molto piccoli che potevano avere massimo tre anni. Uno di quelli cercava di arrampicarsi sulle sue gambe e veniva accolto dal nonno con un sorriso e una pacchetta affettuosa. Tre donne giovani apparecchiavano la tavola. Due di quelle assomigliavano incredibilmente al mio “fidanzato” e ad Allen, l'altra era invece bionda, con dei lineamenti molto delicati, forse proveniente dall'est Europa. Non sapevo bene con quante persone avrei avuto a che fare quella sera ma già la situazione mi sembrava in qualche modo famigliare. Forse ero io Jonathan quella volta. Una specie di pasqua posticipata. L'uomo sulla poltrona sollevò appena lo sguardo dal suo giornale e si alzò dalla poltrona vedendo il figlio.

- Gary, sei arrivato finalmente.- lo salutò avvicinandosi e stringendolo affettuosamente come solo un genitore sa fare.

- Papà, lascia che ti presenti la mia ragazza. Lei è Laura.- mi presentò per la seconda volta.

L'uomo mi guardò sgranando leggermente gli occhi e poi il suo viso si illuminò di un bellissimo sorriso che mi abbagliò. Mi strinse la mano con vigore e poi mi abbracciò.

- è davvero un piacere conoscerti Laura, finalmente. Sei bellissima proprio come diceva mio figlio.- si complimentò. - Mary tesoro, vieni qui a vedere chi c'è.- chiamò l'uomo ad alta voce. - io sono Otto in ogni caso.-

Era chiaramente più grande di mio padre. Probabilmente doveva avere quasi settantanni ma bisognava dire che se li portava piuttosto bene. Era alto, atletico, dalle spalle larghe e dai capelli brizzolati ma folti. La donna che entrò in quel momento sorrideva a sua volta rivolta al figlio e lo abbracciò di slancio con affetto materno.

- guarda Mary, finalmente Gary ci presenta la sua bella fidanzata di cui ci ha tanto parlato.- mi presentò l'uomo spingendomi in avanti.

La donna dai capelli bianchi e dagli occhi chiarissimi, quasi bianchi, mi sorrise e mi abbracciò. Era il secondo della giornata e aveva un che di tenero e materno. Eppure non riuscivo a sentire il buon odore della mia mamma. Sospirai e cercai di tornare a sorridere.

- tesoro, sei davvero bellissima, io sono Mary, la madre di Gary. Sono così felice di conoscerti.- sorrideva e mi resi conto solo quando fui libera dal suo abbraccio che le tre ragazze che erano lì per apparecchiare la tavola si erano voltate a guardarmi.

- Ehi fratello, non ci presenti?- domandò una di loro dai capelli neri come quelli degli altri due fratelli.

- Sì, antipatica. Laura, lei è mia sorella Meredith. Questa è Cassidy e lei è mia cognata Olga. L'unica pazza che poteva sposare Allen.- scherzò Gary mentre le tre ragazze, coetanee, mi stringevano la mano e si presentavano.

Ripetevo nella mia testa i nomi che mi erano stati detto fino a quel momento e sperai di non dimenticarli visto che tecnicamente Gary ed io stavamo insieme da mesi.

- è un piacere associare finalmente una faccia al nome.- risposi io ad ogni sorriso.

- Anche per noi. Anche se il tuo nome ci è nuovo. Gary non si è mai sbilanciato.- scherzò Meredith lanciando un'occhiata eloquente a suo fratello che al mio fianco si limitò a ridacchiare stringendomi un braccio intorno alla vita.

In quel momento dalla cucina uscirono due donne, una delle due sembrava avere l'età di mia madre più o meno. Due dei bambini che fino a quel momento erano rimasti buoni a giocare si lanciarono verso di lei.

- mamma!- gridarono entrambi cercando di arrampicarsi sulle sue gambe per farsi prendere in braccio.

La donna rise e venne subito raggiunta da un uomo, probabilmente suo marito, che mise d'accordo le due piccole pesti prendendole in braccio. Uno alla sua destra e l'altro a sinistra.

- da quello che capisco tu devi essere la ragazza di Gary.- dedusse l'uomo avvicinandosi con sua moglie. - scusa se non ti do la mano ma come vedi questi due mostriciattoli hanno occupato il territorio. Io sono Will comunque.- si presentò. - loro sono i miei figli, Otto ed Henry e lei è mia moglie Sandra.-

strinsi la mano a ciascuno di loro e finalmente finii con le presentazioni. Ripassai a mente i nomi e cercai di imprimermeli a fuoco in modo da non sbagliare.

- stiamo aspettando il ragazzo di Meredith e mia sorella con la sua famiglia, ti va di aiutarci in cucina?- mi domandò Cassidy con un bel sorriso.

- Certo, con piacere.- risposi io allontanandomi per la prima volta dal sicuro fianco di Gary solo dopo avergli lasciato una rassicurante ed affettuosa carezza sul petto.

Praticamente la cucina si era riempita di tutte le donne di casa che avevo conosciuto. Mary stava sfornando qualcosa mentre Sandra la aiutava nel predisporre ciò che poteva risultare utile. Si vedeva quanto si sforzasse di risultare piacente agli occhi della suocera. Meredith e Cassidy fingevano di lavorare quando in realtà non facevano altro che chiacchierare tra loro con la suocera russa dalla sconvolgente bellezza. Seppi solo più tardi le difficili dinamiche familiari di quella ventitreenne che secondo Mary e Otto avevano incastrato il loro figliolo rimanendo incita. Ammesso poi che la piccola fosse figlia di Allen. Non mi ero accorta di quel risentimento. Gli inglesi erano molto più bravi di noi italiani a tenere nascosti i problemi. In casa mia si ripeteva spesso “i panni sporchi si lavano in famiglia” ma poi chiunque poteva rendersi conto dei problemi che ci affliggevano passando pochissimo tempo con noi. Quella famiglia invece sembrava calma e unita. Tutto ciò che di terribile seppi, come ad esempio che William non avrebbe mai sposato Sandra se suo padre gli avesse dato il permesso di sposare Abigail. Chi è questa ragazza? Lo scoprii solo quando eravamo già seduti tutti a tavola. Cedric, il fidanzato di Meredith era appena arrivato e William gli aveva ceduto il suo posto andando a sedersi accanto a sua madre e sua moglie, di fronte a me che sedevo accanto alla più grande tra le sorelle di Gary. Si chiamava Abigail, era da poco sposata con un certo Jacob ed era stata una ragazza madre di una bambina davvero bellissima che aveva già dodici anni e che, me ne rendevo conto da sola, era la copia sputata di tutta la famiglia. Ma mai avrei potuto pensare ciò di cui venni a conosceva dopo. William, quattordici anni più grande di Abigail, aveva avuto una storia d'amore importante con sua sorella quando lei aveva solo diciotto anni. Gary mi raccontò che fu davvero terribile per la sua famiglia. William era davvero convinto di sposarla ma sua padre mandò via la ragazza.

- davvero? E dove la mandò?- domandai più tardi ormai lontani da quel difficile pranzo della domenica.

- Non lo so, io ero troppo piccolo per queste cose, però ricordo che non vidi Abigail per quasi due anni e quando tornò Will era partito militare.- concluse lui con un sospiro.

- Si amano ancora?- domandai di nuovo conoscendo però da sola la risposta a quella domanda alquanto banale.

- Come tu ami il tuo fidanzato.- rispose semplicemente Gary davvero dispiaciuto per la storia dei suoi due fratelli.

Per il momento però ero ancora estranea a tutto quello e mi “godevo” il mio interrogatorio. Il signor Henrish non sembrava intenzionato ad accontentarsi dei dettagli riferibili. Voleva i pettegolezzi, le piccole cose della quotidianità.

Non fu lui a domandare “come vi siete conosciuti?” ma piuttosto “qual'è stata la prima cosa che hai pensato?”.

- devo ammettere che sono stata parecchio frivola quella volta, ho subito pensato che fosse bellissimo e che avrei tanto voluto baciarlo per sapere che sapore aveva.- ammisi imbarazzata persa nei miei ricordi. - ci avevo fantasticato davvero tanto.- aggiunsi. - poi mi piaceva l'idea di essere la fortunata che lui avesse scelto per dedicargli il suo tempo e le sue attenzioni. Lui è una persona piuttosto conosciuta sa? Tutti vorrebbero essere al posto mio in questo momento, anche chi non lo ammetterebbe mai.- conclusi arrossendo leggermente e sentendo il braccio di Gary stringersi intorno alle mie spalle.

La signora Henrish mi guardò con gli occhi brillanti come se da un momento all'altro potesse scoppiare a piangere e abbracciarmi. Non sapevo se sentirmi un mostro o se gioire delle mie straordinarie qualità di attrice.

- perchè una ragazza bellissima come te vorrebbe stare con uno sfigato come mio fratello? Voglio dire, ci sono sicuramente altri mille ragazzi più belli al college no? E anche più popolari.- mi fece notare Cassidy ridacchiando.

- Oh si, al mondo esiste anche Brad Pitt in effetti ma non credo che al momento potrei decidere di lasciare tuo fratello solo perchè quello è più bello, l'amore è un'altra cosa.- costatai stringendolo a mia volta e posando la guancia sul suo petto sentendo le sue labbra sulla fronte.

Tutti quanti rimasero in silenzio sbalorditi dalla mia risposta probabilmente ma tutto ciò che mi sentì di ribadire a quel silenzio fu uno sguardo a suo padre. Stavo chiedendo il permesso. Lui sorrise e annuì con un cenno del capo. Gary non mi stava guardando. Stava rimproverando sua sorella per avergli dato dello sfigato e non si era accorto che gli avevo posato una mano sulla guancia e che lo stavo avvicinando a me. Raggiunsi le sue labbra alla fine e le chiusi in un bacio davvero tenero che però non approfondii. Avevamo ricevuto il permesso ma era sempre bene non esagerare mai.

Vidi William cercare lo sguardo di sua sorella accanto a me e sorrisi perchè sapevo che non c'era nulla nei miei movimenti che non stesse piacendo.

Mi chiesero ancora di me, della mia famiglia, dei miei progetti e quando venne il momento di andare via Mary mi salutò con un abbraccio affettuoso.

- sono davvero felice che mio figlio abbia trovato una donna perfetta come te.- mormorò felice baciandomi entrambe le guance.

Furono tutti estremamente gentili mi augurarono buona fortuna con la mia vita e mi invitarono a tornare presto. Si scusarono anche con Gary, per ciò che mi raccontò lui successivamente, per aver creduto che non fossero vere tutte le sue storie su una presunta fidanzata e che per un attimo, ma solo per un attimo, avevano pensato fosse gay.

- quando ti hanno vista di sicuro gli sarà venuto un orgasmo. Cazzo meno male che sono tutti sposati i miei fratelli perchè altrimenti questa volta il tuo fidanzato li prendeva a colpi di baionetta poverini.- scherzò lui lasciandomi un attimo indispettita. - comunque è stato gentile da parte tua accettare di venire al matrimonio di Meredith.-

- A Gary...Jonathan non sa di questo quindi, se potesse rimanere tra me e te te ne sarei grata.- gli dissi candidamente abbassando lo sguardo.

- Non credo sia una buona idea avere segreti con un tipo come lui, sembra violento.- mi fece notare preoccupato.

- Ha avuto tanti problemi. Io lo capisco e lo amo. Non mi ha mai toccata, purtroppo, tranquillo, va tutto bene.- lo rassicurai dandogli una tenera carezza nel braccio.

- sì...- mormorò lui. - ah Laura senti, quel ragazzo meraviglioso che c'era a casa tua quando ti ho riaccompagnata, chi era?- domandò con un mezzo sorrisetto.

- Ti piace?- gli chiesi scherzando.

- Parecchio.- ammise lui mordendosi il labbro in imbarazzo.

- Si chiama Gaspard Ulliel...- gli annunciai.

Presi il telefono dalla tasca e scrissi il suo numero su un bigliettino che lasciai sulla sporgenza del contachilometri.

- non sono sicura sia gay, ma provare con costa nulla.- scherzai soddisfatta di poter aiutare un amico.

Forse Gaspard si sarebbe un po' arrabbiato per questo ma poco importava, gli amici hanno sempre la precedenza e lui era mio amico, assolutamente.

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Capitolo 7
*** L'invidia tocca anche i buoni. È una tristezza, una malinconia, una malattia del cuore. ***





 

Eravamo tutti seduti al bar, Laura ci aveva comunicato che il suo fidanzato le aveva regalato un viaggio per quella settimana in una località a sorpresa e che non sarebbe stata raggiungibile. Ty era stata quella che aveva reagito con un'espressione peggiore. Il suo viso aveva rivelato tutto il suo disappunto e la sua preoccupazione. Anne a quel punto l'aveva abbracciata e le aveva baciato teneramente le guance.

- Fai buon viaggio!- le augurò gentile mentre io davo un leggero colpetto alla bionda accanto a me che non sembrava intenzionata a reggerci il gioco.

Trevor osservava la scena da lontano e la salutò con un gesto della mano quando lei, presa la borsa, andò via, poi si avvicinò a si sedette accanto a noi.

- Allora? Sei riuscito a farti dare il numero ieri?- domandò lui che ancora non era stato aggiornato, come le altre due, sui risvolti della mia campagna militare.

Uscì dalla tasca dei jeans il portafogli marrone che mia madre mi aveva regalato qualche anno prima contro la mia volontà facendomi sentire un idiota. Le madri non regalavano più portafogli ai figli, le fidanzate lo fanno. Comunque ne estrassi il bigliettino con il numero che mi aveva dato lei la sera prima nella mia auto. La sua scrittura era insicura e leggermente illeggibile e per sicurezza le avevo chiesto di rileggermelo dopo che mi aveva consegnato il biglietto.

- Mi spiace- mi ero giustificato facendo spallucce a quella mancanza di tatto.

- Tranquillo. So di non avere una bella grafia...- aveva risposto con un sorriso gentile assecondando la mia richiesta.

Adesso lo guardavamo tutti e quattro con espressione vuota.

- Sai chi è quindi?- domandò dopo un attimo di silenzio.

- Un attore francese che a quanto pare lavora con Jonathan Rhys-Meyers ad un nuovo progetto su un telefilm che ha per soggetto Dracula.- risposi meritandomi in tutta risposta un'espressione di disgusto da parte del ragazzo davanti a me.

- Dio che cosa stupida.- mormorò facendo scoppiare Taylor a ridere di una risata nervosa e leggermente stridula.

La fulminammo tutti con lo sguardo e si portò una mano alla bocca per coprire il suo scatto di ilarità incontrollata che risultava quanto meno indelicata in quel momento. Io personalmente mi sentivo un traditore e anche Anne, lo sapevo perfettamente, non era felice di fare ciò che stavamo per fare.

Taylor sembrava non essere affatto interessata. Probabilmente, come Trever, pensava che lo stessimo facendo per una buona ragione e che, in fin dei conti, il fine giustifica i mezzi.

Eppure quella domenica che avevamo passato insieme mi aveva fatto parecchio pensare.

Lei non mi sembrava affatto triste o maltrattata, anzi. Non vedeva l'ora di tornare a casa e lui le aveva chiamato solo una volta chiedendole con fare molto affettuoso come andasse la sua giornata.

- E se ci stessimo sbagliando?- domandai passandomi una mano tra i capelli.

- Già, se infondo quello di quella sera è stato un episodio isolato dovuto al nervosismo e alla paura che ha preso?- incalzò Anne meritandosi un'occhiataccia da parte di Taylor.

- Se io ho avuto una giornataccia non prendo a pugni nessuno.- ci fece notare aggrottando la fronte e socchiudendo gli occhi arrabbiata.

Era davvero incredibile come la situazione si fosse incredibilmente ribaltata. Di solito ero io quello pronto a farla pagare a chiunque si mettesse a maltrattarmi. Di solito tra l'altro prendevo certa gente per omofoba.

Ma quella volta, chissà perchè, la situazione mi sembrava totalmente diversa.

Lui non era un omofobo, era solo un uomo innamorato preoccupato per la sua adorata e amata fidanzata.

- Non so se le nostre giornatacce possono essere paragonate alle sue. Deve comunque prendersi cura di una ragazzina diciassettenne.- le feci notare.

Questa volta fu Trevor a venire in suo soccorso sfoderando la più convincente delle espressioni e facendomi perdere ogni convinzione sulla mia posizione di difensore di quella coppia così mal assortita.

- Se anche fosse come credete voi due noi abbiamo l'obbligo morale di chiedere aiuto a questo ragazzo. Non credo ci sia nulla di male in ciò.- concluse semplicemente.

- Ma lui lo ha visto e non mi sembra così preoccupato.- continuò imperterrita Anne che non era colpita quanto me da Trevor.

- Se anche lo fosse noi non lo sapremmo e potremmo approfittare di questa chiamata per chiedergli che ne pensa.-

Questa volta nessuno di noi si sentì in dovere o in grado di replicare e l'unica risposta fu il sorriso complice di Taylor che si rivolgeva a Trevor.

Presi svogliatamente il telefono cellulare dalla tasca del cappotto che avevo poggiato alla sedia e Taylor prese il bigliettino davanti a me dettandomi lentamente il numero di telefono che vi era scritto sopra. Lo digitai con una calma che fece perdere le staffe alla ragazza bionda davanti a me dopo di che lo posai sul tavolo attivando il vivavoce e aspettammo. Ogni squillo era per me un colpo al cuore, pregavo che non rispondesse nessuno e che la vicenda fosse semplicemente archiviata. Invece, dopo appena quattro squilli che a me sembrarono infiniti, una voce profonda e sexy rispose dall'altra parte del telefono in una lingua che non conoscevo.

- Halo?- domandò piano con fare distratto come se stesse parlando con qualcun altro e dovesse fare in fretta.

Rimasi in silenzio con gli occhi sgranati mentre gli altri accanto a me avevano trattenuto il respiro. Dopo un attimo Taylor mi tirò un calcio sotto il tavolo che mi fece sobbalzare.

- Chi parla?- chiese di nuovo quella voce meravigliosa ed orgasmica. Sorrisi riconoscendola.

- Ciao, sono Garrison Adams, l'amico di Laura Caruso. Sono il ragazzo che l'ha riaccompagnata a casa quando tu e il suo ragazzo avete chiamato la polizia.- spiegai parlando velocemente a causa dell'emozione. Sapevo di essere diventato rosso.

- Ah, si. Mi ricordo di te. Mi spiace di non averti ringraziato per averla riaccompagnata sei stato davvero gentile. Credo che Jonathan non l'abbia fatto come meriti.- cominciò lui. Sentivo che dall'altra parte del telefono stava sorridendo.

- Ehm, no, non l'ha fatto.- acconsentii io mordendomi il labbro e meritandomi un altro calcio da parte di Taylor. - ti chiamavo proprio per questo.- ammisi allora spronato dai miei due compagni.

- Davvero? È successo qualcosa?- domandò con fare preoccupato. Sentivo che si stava allontanando perchè ad un tratto le voci di sottofondo che sentivo sparirono.

- No, non di recente almeno, però siamo preoccupati per Laura.- ripetei come mi avevano detto di fare Taylor e Trevor.

- Preoccupati?- chiede l'uomo con un vago accento francese.

- Sì, lui sembra...violento.- cercavo le parole per fargli capire cosa intendessi. Per un attimo lui rimase in silenzio come se stesse cercando di capire. Di studiare le mie parole.

Cercai di non sembrare invadente ma dopo un attimo Anne mi diede un colpetto sulla mano.

- Pronto? Sei ancora in linea?- domandai allora cercando di capire se quello avesse deciso di chiudermi il telefono in faccia o meno.

- Sì.- rispose in fretta. - perché avete deciso di chiamare proprio me?- domandò dopo un attimo parlando più veloce come se volesse mettere giù.

- Perché eri lì, hai visto che cosa stava succedendo e...credevamo che nessuno meglio di te potesse capirci.- rimasi in silenzio senza aggiungere altro e gli altri attorno a me erano anche più nervosi di me il che li rese semplicemente delle figure indistinte che lasciarono a me il triste compito di indisporre un attore.

- Senti, in questo momento non posso decisamente aiutarti, però se ti interessa sapere che tipo è Jonathan con le ragazze puoi chiamare la sua ex.- mi consigliò prima di rimanere un attimo in silenzio. Sentivo che stava cercando qualcosa forse nelle tasche.

- Chi è la sua ex?- domandai io aggrottando la fronte. Non mi ero mai interessato molto alla vita degli attori, il cinema non mi interessava affatto.

- Si chiama Reena Hammer, sono stati insieme parecchi anni quindi chi meglio di lei può aiutarvi?- lo sentì sorridere all'altro capo del telefono e guardai le ragazze aggrottando la fronte. Quell'attore francese che ricordavo bellissimo era decisamente strano.

- Sì, grazie.- mormorai mordendomi il labbro vedendo gli altri fare spallucce.

- Allora, hai carta e penna?- domandò lui come se avesse improvvisamente fretta.

- Sì...- Taylor afferrò lo zaino che aveva buttato a terra e ne estrasse di corsa un diario ed il portacolori. Trevor l'aiutò ad aprirlo e le porse la penna già senza tappuccio.

Sapevano essere davvero molto organizzati alcune volte quei due ragazzi.

- 32 52761593.- lo aveva dettato di corsa ma fortunatamente Taylor sembrava essere a dir poco espertissima in ciò che stava facendo.

Mi sforzai di non ridere e mi voltai dall'altra parte per non farmi sentire.

- Ok, ti ringrazio moltissimo per il tuo aiuto, Gaspard.- conclusi semplicemente sospirando.

- Figurati.- rispose lui. - ah Garrison giusto?- domandò lui un secondo prima che chiusi la comunicazione.

- Sì.-

- Tenetemi aggiornato per favore.- mi pregò il ragazzo addolcendo notevolmente il suo tono di voce facendomi quasi sciogliere. Cavolo. Aveva veramente un potere enorme nella voce quel ragazzo. Stupida Laura che non sapeva cogliere simili opportunità.

- Lo farò sicuramente. Ci teniamo in contatto.- acconsentii io chiudendo la chiamata.

Tutti i ragazzi seduti al tavolo si fermarono un attimo a guardare il bigliettino su cui avevamo scritto il numero di quella ragazza di cui sapevamo davvero poco, se non nulla.

- Ty io...- stavo per cominciare un discorso riguardo il timore che avevo di quell'azione assurda che stavamo per fare. Rischiavamo di rovinare una coppia piuttosto assortita, se pur a modo loro, solo per dei pensieri infondati su un possibile “maltrattamento” che in realtà non era mai avvenuto.

- Reena Hammer è un'ereditiera figlia del ricco magnate di trucchi.- ci avvisò giocando col suo telefono. - mi sembra una di quelle persone che ha tutto e non ama nulla.- continuò posandolo finalmente sul tavolo. - credo che potrebbe provare per Jonathan ciò che prova un bimbo quando mette via un giocattolo e lo prende un altro bimbo.-

Io e Anne non dicemmo nulla, la guardai mentre abbassava lo sguardo dispiaciuta e si mordeva il labbro avvilita. Provavo la stessa cosa e sentivo, il quel momento più che mai, di non avere nulla in comune ne con la mia amica Taylor ne con Trevor, quell'uomo che io credevo di amare e con cui credevo di avere tantissime cose in comune in realtà era poco più di un estraneo senza cuore che non sembrava affatto interessato all'idea di distruggere la felicità di una ragazza che neanche conosceva e invece dava l'impressione di divertirsi da morire per tutta quella operazione stile spie 007.

Cominciavo ad odiarlo.

- Io non chiamerò a nessuno.- avvisai posando il telefono e alzandomi. - io sono fuori da questo schifo!- sbottai prendendo le mie cose.

Anne sollevò finalmente lo sguardo dal tavolo e mi guardò con approvazione. Prese la borsa che aveva posato sulla sedia e se la mise in spalla.

- Io credo che neanche voi dovreste farlo. Lasciate stare quei poveri ragazzi.- sussurrò con la sua solita dolcezza. Sospirò quando Taylor, strafottente come sempre, la mandò via con un semplice saluto privo di qualsiasi educazione e afferrò il foglietto con il numero di quella ragazza che avevamo appena ricevuto.

- Ma sì, scappate.- rispose Taylor sprezzante. -io e Trevor ci occuperemo benissimo dell'intera faccenda.- rispose sorseggiando il suo drink.

Vidi sorgere sulle labbra del ragazzo un sorriso compiaciuto che cercò di nascondere dietro la mano e per un attimo, ma solo per un attimo, mi sembrò che in lui non ci fosse nulla di omosessuale ed una profonda attrazione ed intesa con la bellissima ragazza bionda che sedeva di fronte a lui.

Mi sentii tradito, ferito e solo finchè Anne non mi prese sotto braccio e mi trascinò fuori con insistenza impedendomi di guardare ancora quella scena per cui cominciavo a provare disgusto.

- Va tutto bene Gary, vedrai che capiranno da soli l'assurdità di ciò che hanno intenzione di fare e la smetteranno con questi stupidi giochini.- mi rassicurò lei gentile accarezzandomi l'avambraccio come avrebbe potuto fare mia madre.

- E se non dovessero farlo?- domandai io affatto ottimista. Loro non sembravano due persone con cui l'ottimismo avrebbe potuto funzionare.

- Se non dovessero farlo allora ci preoccuperemo ma per adesso lasciamoli fare, fermare un bambino non è facile e non credo che noi due da soli potremmo riuscirci.-

 

 

Quando finalmente io e Trevor fummo lasciati soli un sorriso spontaneo mi nacque sulle labbra che rispecchiava perfettamente quello che lui, poco prima, aveva cercato di nascondere. In un secondo lui si alzò dal suo posto e mi baciò con trasporto facendo aderire perfettamente le sue labbra alla mia bocca. Sentì il suo alito caldo in bocca e la sua lingua, ormai esperta, rincorrere la mia in una danza erotica che ero fiera di avergli insegnato io stessa. Trevor era stato davvero omosessuale per un certo periodo. Quando aveva conosciuto Gary lo era davvero. Però avevo già dovuto rinunciare ai suoi splendidi occhioni azzurri e accontentarmi che fosse semplicemente e irrimediabilmente gay per poter fare lo stesso anche con Trevor.

Così avevo cercato di sedurlo in tutti i modi.

Avevo fatto di tutto. Stargli il più vicina possibile, indossare abiti molto succinti per richiamare la sua attenzione sui punti più delicati di una donna e sensibili per gli uomini, strusciarmi su di lui con fare seducente. Certo, non era l'uomo dei miei sogni, quello probabilmente non sarei riuscita ad averlo molto presto, ma si avvicinava moltissimo a ciò che stavo cercando. E poi avevo sempre desiderato essere la prima volta di un ragazzo.

Quella sera ero andata al bar particolarmente tardi quando sapevo che ormai Anne e Gary erano andati via. Indossavo una minigonna davvero molto provocante e un toppino aderente coperto solo da un giubbino di jeans che lasciava ben poco all'immaginazione in ogni caso.

- Ciao, un sex per favore.- ordinai a lui che era così intento ad asciugare un boccale in vetro.

Vidi il suo sguardo soffermarsi un momento di troppo sul mio seno ben in evidenza prima di posare ciò a cui stava lavorando e soddisfare la mia ordinazione.

- Gary e Annie sono appena andati via.- mi avvisò lui con un filo di voce in evidente imbarazzo.

- Non fa nulla, io stavo cercando te.- ammisi con un mezzo sorriso lascivo prendendo il bicchiere che mi stava porgendo e passando un dito sul bordo portandomelo poi alle labbra.

- Cercavi...me?!- chiese incerto guardandosi intorno. -perchè?- domandò poi ancora incredulo.

Io sollevai gli occhi dal mio drink e sorrisi di sbieco piegando appena la testa da un lato.

- Che c'è? Sembri nervoso.- costatai mordendomi piano il labbro.

- Io...- prese un respiro profondo e chiuse gli occhi.

Mi alzai dallo sgabello su cui mi ero accomodata e mi sporsi oltre il bancone verso di lui.

- Tu cosa?- domandai con un filo di voce, soffiando leggermente ad ogni sillaba in modo da rendere il tutto se possibile ancora più sensuale.

Lui sgranò gli occhi e io lo baciai sapendo perfettamente che in lui non c'era più assolutamente nulla di gay. Quella notte fui finalmente in grado di prendermi la prima volta di un ragazzo.

E la passione tra di noi non era mai stata un problema da quel momento in poi. Lui era uno davvero passionale e a me non importava se non voleva troncare la sua relazione con Gary. Non ero affatto innamorata di lui.

Mi serviva per sfogarmi mentre l'uomo dei miei sogni rimaneva per me irraggiungibile. Una piccola vendetta su quel mondo crudele che mi impediva di stare con lui. Sorrisi di sbieco mordendomi piano il labbro e mi allontanai posandomi una mano sulla guancia.

- Allora, anche tu hai intenzione di disertare per salvare la reputazione del bel attorino irlandese?- domandai con una nota di ironia che non ero riuscita a dissimulare affatto.

- Non mi importa affatto di lui.- rispose lui convinto sedendosi accanto a me. - anzi a dire il vero non capisco nemmeno perchè importi a te.- costatò passandosi una mano sul mento coperto da un leggero strato di barba.

Era una cosa che non volevo assolutamente ammettere. E non perchè non volevo che lui lo sapesse ma perchè in qualche modo ero fortemente convinta che se non l'avessi mai detto ad alta voce allora non sarebbe esistito. Alzai gli occhi al cielo fingendomi pensierosa.

- Perchè lei è una mia amica. Come potrei non volerla proteggere?- domandai sbattendo gli occhioni come un gattino indifeso.

Lui rimase per un attimo a guardarmi stupito, aggrottò la fronte e si morse con forza il labbro. Non riuscivo a non pensare a quel gesto così sensuale sulle labbra di un altro uomo. Mi passai la lingua sulle labbra e vidi davanti a me il mio sogno erotico, era assolutamente perfetto con i suoi capelli brizzolati e i suoi occhi neri e profondi. Mi avvicinai a lui e lo baciai infilandogli senza troppi complimenti la lingua in gola e passandogli una mano sul cavallo dei jeans. La sua risposta fu tanto immediata quanto soddisfacente.

- Wow, sei proprio una stronza.- sussurrò lui cercando di resistere al mio assalto erotico ma con scarsissimo successo.

Mi allontanai, mi passai una mano sulle labbra e mi alzai.

-Io vado, ho una chiamata interessante da fare e voglio assolutamente essere da sola.- risposi sapendo che lui per un po' non avrebbe potuto alzare il suo culettino d'oro da quel divanetto. -ci sentiamo.- lo salutai semplicemente uscendo da locale dopo aver recuperato le mie cose.

 

Il telefono squillò per ben sei volte. Ero convinta che nessuno mi avrebbe risposto e che sarei stata costretta a fare un milione di chiamate prima di poter parlare con la fantomatica ex proprietaria di quel numero di telefono. Poco importava. Volevo assolutamente parlare con lei. Dovevo farlo.

Probabilmente fu la mia determinazione a portarmi fortuna.

- Pronto?- rispose alla fine la voce acuta e leggermente stridula dall'altra parte del telefono.

- Ciao, sei Reena Hammer?- domandai sicura di me stessa più di quanto pensassi. Onestamente ero convinta di perdere la voce all'istante. Invece sembravo seria e professionale.

- Con chi parlo scusi?- rispose lei cominciando ad innervosirsi.

- Sono Catherine Alleins, un'amica di Jonathan.- mentii inventando su due piedi un nome fittizio che potesse sembrare vero.

Sentii la ragazza dall'altra parte del telefono sbuffare sonoramente. Evidentemente non era molto interessata a quell'argomento.

- Dio santo, ho già detto che non voglio avere niente a che fare con lui. Non mi importa se tenterà di nuovo di uccidersi.- mi rispose pronta a mettere giù.

- O no, non è questo.- la fermai prima che potesse farlo davvero.

- Cosa?- chiese lei sembrando parecchio stupita della mia risposta.

- Non chiamavo per quello. Volevo solo delle informazioni su di lui.- chiarii con un mezzo sorriso. -referenze se così si può dire.-

la voce dall'altro capo del telefono tacque per un tempo tanto lungo che ebbi il timore che avesse messo giù. Ma non potevo rischiare di parlare prima di lei.

- Di che si tratta?- domandò lei alla fine rendendomi vincitrice di quel gioco che era stato un braccio di ferro reale e faticoso.

- Beh la mia migliore amica vive con lui e vogliono metter su famiglia.- raccontai sapendo comunque di non raccontare una totale bugia. - vorrei sapere se è vero che lui è un tipo...violento.-

- Jonathan sta mettendo su famiglia?- gridò isterica la voce di quella famosa ereditiera.

- Sì, perchè?- chiesi fingendomi stupita.

Ah la gelosia, il sentimento più umano e più facile da prevedere. Immaginavo che sarebbe successo. Strano che gli altri non ci abbiano pensato. Adesso io non avrei dovuto fare null'altro, e neanche gli altri. A dire il vero non mi importava nemmeno che rispondesse alla mia richiesta di spiegazioni sul suo carattere.

- Non può essere.- rispose lei. -dove siete?-

- A Londra.- risposi io lapidaria a quella domanda che voleva a tutti i costi una risposta veloce e precisa. -io e la mia amica studiamo al college.-

- quale college?- incalzò lei nervosamente.

Le diedi tutte le referenze che mi chiese e poi non mi stupii più di tanto quando mise giù. Sorrisi di me stessa e dello splendido lavoro fatto e potei dichiarare la mia missione compiuta.

 

Non è colpa tua. Continuavo a ripetermi da parecchi minuti. Non è assolutamente colpa tua, tu lo stai facendo per lei, per difenderla, perché sai che non sarà felice con lui come potrebbe esserlo con te.

Benché ci stessi provando in ogni modo possibile non riuscivo a convincermi che le mie stesse parole fossero vere. Se anche infatti lo fossero state quello non era assolutamente il modo migliore per sviluppare il decorso della loro storia malata. Ci sarebbe stato comunque, ed io non sarei dovuto essere il responsabile.

Mi avrebbe odiato.

Quella settimana si stava rivelando più lunga e difficile del previsto. Lei e Jonathan erano via ma nonostante tutto Robert aveva deciso di girare lo stesso. Avremmo fatto praticamente tutte le scene in cui la loro presenza non fosse strettamente indispensabile, ricevemmo le stesure per tutta la serie ed io potei costatare, con rammarico, che non c'era nessuno sviluppo per la coppia che era stata proposta all'inizio con Katherine. Lei era una semplice ragazza che io aveva deciso dovesse essere la reincarnazione di mia sorella, poco importava che fosse vero.

- Allora Gaspard, hai letto la tua parte?- mi domandò il regista con un sorriso passandomi accanto mentre recuperavo le mie cose per andare via.

- sì.- risposi semplicemente senza alcun entusiasmo.

- Che c'è che non va?- domandò lui in apprensione fermandosi e guardandomi con interesse e con dispiacere trattenuto a stento.

- Alla fine della storia incestuosa non se ne fa niente?- domandai con un mezzo sorriso che voleva dissimulare il mio rammarico per quel taglio imprevisto.

- A dire il vero io sono un grande fan della vostra coppia e ho intenzione di farla crescere ma voglio che sia spettacolare come l'ho immaginata.- mi avvisò facendomi segno di seguirlo.

Posai il borsone con i miei effetti e, con le mani nelle tasche dei pantaloni, gli permisi di condurmi al suo ufficio.

- Che intendi?- chiesi strada facendo roso dalla curiosità che mi chiudeva lo stomaco.

- Non mettermi fretta francese, voglio farti leggere i miei appunti.- mi rispose Bob aprendo la porta del suo studio e facendomi accomodare alla piccola scrivania improvvisata e ricca di scartoffie.

- Allora...dove li ho messi?- cominciò a parlare più con se stesso che con me mentre rovistava tra le sue cose alla ricerca di un quadernino di appunti. - eppure è grandicello, dovrei vederlo.-

la ricerca sembrava dover essere lunga quindi mi posai alla poltrona e incrociai le braccia al petto. Davanti a me la scrivania era piena di quaderni con scritti sopra i nomi dei personaggi.

Allen Graysons e Mina. Allen ed Etienne. Allen e Katie. Etienne e Katie.

- Bob credo di averlo trovato.- annunciai prendendo il quaderno rosso pieno di foglietti volanti e di foto incollate in varie pagine.

- Oh sì, grazie Gaspard.- rispose lui con un mezzo sorriso prendendo posto non davanti a me ma al mio fianco. -allora, avrai capito che Etienne si è innamorato di lei a prima vista, considerato l'idea che lui si è fatto della vera identità di Katie, però i tempi non sono maturi per questa storia. Lei è troppo presa dalla storia di Allen, dall'essere sua amica e lui è in qualche modo anche la sua ossessione, c'è un legame troppo forte tra loro perché Katie possa dedicarsi al 100% ad Etienne come pretendo io. Lui continuerà ad amarla da lontano ricoprendo il ruolo di fratello finchè Allen non si sposerà. Questo sarà troppo per la povera Katie e a quel punto avrò tutto lo spazio che desidero per la vostra ship!- mi annunciò con una certa soddisfazione.

Ero rimasto ad ascoltarlo in religioso silenzio meravigliandomi e soprattutto odiando profondamente quella storia. Non credevo che fosse tutto frutto della sua mente. Sapevo che me ne aveva parlato così a quattrocchi per un motivo.

- Stai insinuando qualcosa?- domandai vago.

- Tu vuoi dirmi qualcosa?- chiese lui a sua volta alzando il mento in segno di sfida.

Presi un respiro profondo e scostai lo sguardo cercando di nascondermi dai suoi occhi così tremendamente indagatori.

- Si nota così tanto?- continuai io ancora profondamente imbarazzato

- abbastanza.- ammise lui cercando di non ridere. Gliene fui grato.

- Mi spiace.-

- No, non devi. È davvero una gran bella storia la vostra che ci fa un sacco di pubblicità.- mi rispose lui ridendo. - sembrare un telefilm. Non credere sia un complimento. Siete tutti e tre ridicoli. Però siete un toccasana per la noia.-

- io non mi diverto.- gli feci notare leggermente offeso.

- Lo vedo.- scherzò lui.

- Io sono innamorato di lei.- continuai cercando di difendere in qualche modo me stesso e il mio ruolo in quello che era stato appena descritto come un triangolo da soap.

- Lo vedo.- ribadì Robert indisponendomi.

Tacqui per un attimo e lo guardai piccato cercando di capire dove volesse arrivare con quel suo comportamento tanto “gentile”.

- Siete belli voi due insieme. Non conosco la vostra storia e neanche la loro ma posso dirti che io, come regista, non vedo futuro per voi.- mi comunicò lui gentilmente.

Non sapevo onestamente cosa rispondere. Forse lui voleva essere gentile. Dirmi di smetterla per non soffrire ulteriormente in futuro. Ma la mia sola risposta fu una domanda. -perchè?-

- perchè tu la guardi in quel modo. Le vuoi bene, vuoi proteggerla, vuoi che lei ti ami come tu ami lei. Sembri suo fratello.- mi spiegò alzandosi ed accendendosi una sigaretta. Non lo avevo mai visto fumare ed era parecchio strano. - lui invece la guarda come se volesse fare l'amore con lei, come se potesse portarla via da un momento all'altro e averla solo per se. - continuò socchiudendo gli occhi e guardando un punto distante, come se immaginasse quel momento.

Mi sentii fremere di gelosia.

- Wow che immagine romantica.- lo schernii storcendo il naso e voltandomi dalla parte opposta per non vedere la sua espressione e immaginare ciò che probabilmente lui stava pensando. Il corpo caldo e piccolo di quella ragazza sotto quello possente e adulto di...Meyers.

- Non è romantico, è spaventoso da vedere. Io non vorrei che mia figlia avesse una relazione come la loro, sembra malata.- rivelò a sorpresa il mio “capo”. -Ma è chiaro che loro sono dipendenti l'uno dall'altra.- spense la sigaretta e tornò a sedersi di fronte a me cercando il contatto visivo che gli avevo appena negato.- Forse lui non la ama nemmeno come te però non riesce a fare a meno di lei. È una reazione tipica di un ex dipendente da droghe pesanti. Lei è la sua droga, la vede come l'unica salvezza per una strada di redenzione senza sapere che è lei stessa ad essere nociva per lui adesso.-

Se non si fosse parlato quella mia Chariotte avrei riso per quel confronto che mi sembrava alla twilight. Tutta quella storia delle droghe e della morta e della dipendenza erano delle stronzate. Però mi sentii personalmente offeso dell'immagine che avevano disegnato addosso alla ragazzina di cui ero così perdutamente innamorato.

- Nociva? Lei non è esattamente il tipo di persona che io chiamerei nociva.- la difesi subito interrompendo quel discorso che aveva catturato così tanto la mia attenzione.

- Per lui lo è Gaspard. Tutto ciò che crea dipendenza è nocivo. Lui potrebbe morire per quella ragazza.- mi spiegò come potrebbe fare un medico con un congiunto di un uomo in fin di vita.

- Allora perché non dovrei allontanarli? Perché lei non dovrebbe stare con me?- meditai tra me e me condividendo quel pensiero che forse lui non avrebbe potuto cogliere. Il mio gesto malato altrimenti sarebbe stato un po' di tutti e due ed io avrei potuto sentirmi meno in colpa.

- perché tu sei come una carezza in confronto al rapporto passionale che rappresenta lui per lei.- mi rispose semplicemente facendo spallucce.

- Sarebbe quindi insoddisfatta?- aggrottai la fronte piccato e cercai di non ridere non credendo minimamente che ciò che aveva appena detto fosse vero.

Eppure lui continuò sulla sua strada e la sua unica risposta fu un sorriso che voleva dire: “sono felice che tu ci sia arrivato da solo” ed una pacca affettuosa sulla spalla accompagnata da una sola parola.

- esattamente.-

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Capitolo 8
*** Ecco la volontà di creare in due quell'uno che sarà qualcosa di più dei suoi due procreatori. ***





 

 

Non potevo crederci. Non potevo davvero crederci. Tutto quello era decisamente il paradiso e, beanchè mi fosse assolutamente oscuro il motivo per cui tanta fortuna fosse capitata a me, ero felicissima che fosse così. Sorrisi leggermente di questi pensieri e sospirai rilassata godendomi i raggi del sole che mi riscaldavano il viso, le braccia, il ventre. Mi sistemai meglio, il cappello sugli occhi, e mi stiracchiai compiaciuta. La meta tanto segreta di Jonathan si era rivelata un paradiso tropicale molto superiore a qualsiasi aspettativa. Avevamo una bellissima villa che si affacciava direttamente su quel mare cristallino che mi aveva completamente stregata. Era una casa grande, niente a che vedere con le modeste dimensioni della casa a mare della mia ex migliore amica. Era bianca, in legno, ma non per questo c'era qualcosa che fosse anche minimamente intaccato dal mare o dal sole. La nostra camera era grande e, meglio di qualsiasi altra cosa, il nostro letto era proprio di fronte ad un ampia vetrata che dava sul mare.

Stavo ancora sdraiata sulla battigia, ero così rilassata e felice. Non avevo bisogno d'altro. O forse sì, il mio fidanzato. Evidentemente anche lui la pensava come me solo che lo pensava in un modo leggermente diverso da me. Si avvicinò con calma, sorrisi dolcemente sperando che si sdraiasse accanto a me e mi coccolasse un po'. Mi sentivo così bisognosa d'affetto.

Invece si abbassò su di me e mi si sdraiò addosso senza pensarmi davvero sul petto Ma era freddo e bagnato.

- Jonathan!- mugugnai un attimo prima che cominciasse a farmi il solletico. Cercai di divincolarmi dalla sua presa ma mi bloccava con il suo peso e mi sentivo in balia delle sue mani. - Jonathan! Jhonny per pietà basta.- ridevo divertita e alla fine, dopo un leggero bacio sulla fronte, mi lasciò andare scrollandosi i capelli bagnati su di me.

- Perchè non fai il bagno?- mi domandò baciandomi il collo.

- Perché sto bene qui...- risposi abbassando il capello sul naso e sorridendo davvero divertita dalla sua voce leggermente infantile eppure sempre tremendamente sexy.

Dopo un solo istante di silenzio in cui non aveva fatto altro che fissarmi, mi caricò in spalla e mi buttò in acqua ignorando completamente le mie proteste, le mie preghiere e le mie suppliche di pietà.

- Ah, ah, molto, molto spiritoso O'Keeffe!- gridai scoppiando a ridere tornando in piedi e incrociando le braccia al petto fingendomi offesa.

- Lo sai che sei davvero carina mia piccola paperella?- mi rispose lui ridendo e avvicinandosi a me senza scomporsi più di tanto. Quel nomignolo fu per me una coltellata.

Ricordai immediatamente un'intervista che avevo letto parecchio tempo prima, nella mia stanzetta, nella mia città, in una rivista che mi aveva regalato la mia professoressa di inglese.

Una giornalista gli aveva chiesto i nomignoli affettuosi che usava nella sua intimità e lui ridendo aveva detto. “Non saprei, Reena è semplicemente amore e beh mia sorella minore è paperella. Nessun altro ha un nomignolo a dire il vero.”

Perchè io non ero amore ed ero paperella? Aggrottai la fronte arrabbiata e lo schizzai dritto sul viso quando si avvicinò per abbracciarmi. - Che ho detto?- si lamentò senza però farlo davvero.

- Lo sai vero che non ho dodici anni?- gli domandai incrociando le braccia al petto e superandolo per uscire dall'acqua.

Il buon umore era andato via.

Lui mi seguì fuori dall'acqua e ridacchiò tra il divertito e lo stupito.

- Dormiamo nello stesso letto, paperella, direi che me ne sono accorto.- mi prese in giro afferrandomi per i fianchi e stringendomi al petto sistemandomi i capelli sul viso. - Non sono un maniaco fino a questi livelli.- si difese cercando di baciarmi.

Mi scostai immediatamente e sbuffai infastidita. Quell'argomento era decisamente orribile per me.

- Dormiamo appunto...- sbuffai allontanandolo - Anche se avessi quattro anni non saresti più maniaco di quanto lo è un padre che dorme con sua figlia quando ha gli incubi.-

- Lorie?- alzò un sopracciglio stupito e rimase a guardarmi come se si trovasse davanti una ragazzina pronta a poterlo uccidere e decisamente incontrollabile.

- Che c'è?- domandai io sempre più infervorata. Avevo alzato la voce e non riuscivo a capire perché l'avevo fatto. Sbuffai e mi allontanai per recuperare le mie cose.

- Ehi, che cosa ho fatto adesso di tanto brutto?- mi domandò lui preoccupato.

- Niente, tu non fai mai niente di brutto.- risposi io velocemente cercando di non mandarlo a quel paese in modo troppo diretto e duro. Eppure non riuscivo a fare a meno di pensare che a quel punto forse ci fosse davvero qualcosa di brutto. - E' più che ovvio che qui il problema sono io e non tu!-

- Il problema?- domandò lui sempre più stupito. - che tipo di problema saresti tu?-

- Non ti piaccio!- ammisi alla fine dando finalmente voce a tutti i miei dubbi. Sentivo che se non mi fossi data una calmata avrei cominciato a trasformarmi in qualcosa che non volevo essere.

Una fidanzata pazza.

- Deve venirti il ciclo?- mi chiese lui cercando di non ridere.

- Non dirmi che sono nervosa Jonathan!- lo minacciai puntandogli contro l'indice con fare davvero molto minaccioso. -Io non sono nervosa!- soffiai tra i denti.

- No, ovvio. Mai vista una persona più rilassata di te in questo momento.- mi prese in giro mordendosi il labbro. Sapevo cosa stava facendo. Stava cercando di sedurmi.

- Jonathan mi stai facendo arrabbiare...- mormorai sospirando e chiudendo gli occhi.

- Lo vedo, anche se non capisco il motivo di tanta rabbia.- stava sospirando stanco e, lo sentivo, anche parecchio avvilito. Perchè era avvilito? Ero io quella avvilita tra noi due.

- Tu non mi vuoi.- sussurrai in preda al terrore per aver finalmente ammesso la mia più grande debolezza nella nostra coppia. - perchè stai con me allora?- domandai cercando di trattenere le lacrime e la disperazione che sentivo dentro.

- Ma da dove ti vengono fuori queste idee?-

- Non cercare di cambiare argomento e rispondi cavolo!- la tristezza aveva lasciato il passo alla rabbia. Avevo di nuovo preso ad essere nervosa e piccata.

- Tu mi piaci Laura. E se sto con te è perchè voglio stare con te ok?- cercò di rassicurarmi passandomi una mano caldissima sulla guancia fredda e bagnata a causa dei capelli che gocciolavano.

- Però?-

- Però cosa?- domandò lui infastidito alzando gli occhi al cielo.

- Perché non vuoi fare sesso con me?-

- O Dio santo, Laura ma che cavolo di domande sono?- non aveva risposto. Stava sviando la domanda nell'unico modo che conosceva.

- Con Reena facevi sesso?- domandai incrociando le braccia al petto mettendolo semplicemente davanti a questa facile confessione che mi avrebbe dato definitivamente ragione.

- Lorie...- rispose lui leggermente stupefatto da quella domanda così diretta.

- Rispondi, sì o no. Con Reena Hammer tu facevi sesso?- incrociai le braccia al petto e lo vidi sbuffare. Eppure cercava in tutti i modi di trattenere una risata.

- Sì.-

- E allora perché con me no?- chiesi facendo spallucce - Cos'ha lei che io non ho?-

- Oserei dire il contrario veramente...- rispose lui passandosi una mano sotto il mento.

- Rispondi!- lo incitai richiamando la sua attenzione.

- Io non voglio fare sesso con te.- ammise senza esitazione facendo spallucce.

Sgranai gli occhi profondamente colpita da quelle sue parole così schiette e dirette e scostai lo sguardo farfugliando una domanda confusa.

- Tu non vuoi fare l'amore con me Jonathan?-

- La domanda che mi hai fatto prima era diversa Laura, non mettermi in bocca parole che non ho detto ok?- cercò di costringermi a guardarlo di nuovo ma non volevo farlo.- non sono sempre io il cattivo qui.- si lamentò abbassandosi davanti al mio viso.

- Ah quindi io sarei quella cattiva adesso?- chiesi con la voce spezzata.

- Cosa?- era stupito di quel mio improvviso cambiamento. Anche io lo ero. Mi stavo comportando come una persona incinta. Sfortunatamente ovviamente era impossibile visto che al mio fidanzato sembravo non interessare affatto.- Lo vedi cosa fai? Prendi le mie parole e le rigiri come un calzino per farne quello che vuoi. Io non ho mai detto questo!-

- Tu hai appena asserito che non vuoi fare sesso con me, letterale O'Keeffe!- lo sgridai spingendolo via malamente per evitare che mi toccasse ancora e mi spingesse a perdere il filo dei miei già debolissimi pensieri.

- Confermo.- annuì convinto e incrociò le braccia al petto.

- Cosa?!-

- Io non voglio fare sesso con te Laura e non mi importa se hai deciso di sfidare il mio modestissimo autocontrollo sfilandomi davanti nuda ogni secondo!-

- Io non ti...- cercai di difendermi da quel rimprovero ma in realtà sapevo benissimo che non era affatto una menzogna. Sì, cercavo di sedurlo, ma lui non sembrava avere granchè bisogno di autocontrollo visto che non gli interessavo affatto.

- Oh non mentire.- mi interruppe lui alzando gli occhi al cielo. - Stai cercando di sedurmi in ogni modo possibile non sono scemo.-

- Il fatto che tu me lo stia spiattellando in faccia così è davvero imbarazzante.- mormorai arrossendo.

Se lo sapeva che infondo era ciò che volevo anche io perchè non cercava di assecondarmi in questo mio desiderio che infondo dovrebbe essere anche il suo?

- Sì?- domandò lui con un briciolo di umorismo nella voce. - Beh pensa per me quanto è imbarazzante cercare di non sbatterti contro un muro ogni volta che lo fai.-

Allora fallo stupido coglione! Pensai cercando di rilassarmi.

Non risposi assolutamente nulla in realtà. Ci guardammo semplicemente negli occhi in cagnesco a vicende ma alla fine fui io a cedere e perdere quella gara di occhiatacce. Sbuffai, alzai gli occhi al cielo e gli diedi le spalle.

- Sei impossibile!- sbottai.

- Oh invece trattare con te è un gioco da ragazzi.- rispose lui per avere l'ultima parola.

- Fine della discussione.- gli avevo già concesso di vincere la nostra gara di occhiatacce, non avrebbe avuto anche l'ultima parola.

- Tradotto nella mia lingua vuol dire: ti odio infinitamente stronzo bastardo! Vero?- ma perchè non mi concedeva una tregua e la smetteva di sbattermi in faccia quanto la nostra situazione fosse strana e quanto lui conoscesse bene la mia mente malata.

- Esattamente. Bravo O'Keeffe.-

Rientrai a casa arrabbiata e andai in cucina. Ero tremendamente arrabbiata con quell'idiota e continuavo a non capire. Prendeva a pugni i miei amici gay perchè geloso, mi portava in questi posti romantici e mi guardava e toccava come un uomo innamorato ma non voleva fare l'amore con me. Lo odiavo. Non volevo nemmeno pensare al perché non volesse farlo. Forse non mi riteneva attraente come quella borghese della sua ex. Forse non lo eccitavo abbastanza. O santo dio ma in cosa mi stavo trasformando per colpa sua? Una maniaca sessuale disposta a tutto pur di avere un rapporto con il suo fidanzato, con gravi problemi di autostima.

Lo odiavo.

Ero diventata come la protagonista pazza di una commedia romantica.

Sentivo che lui mi aveva seguita. Era dietro di me e sentivo il suo sguardo puntato sulla schiena. Mi stava studiando. Io ero tremendamente arrabbiata.

- Lorie?-

- Io proprio non capisco cos'ho in meno di quella fottutissima figlia di puttana!- scoppiai gridando questa volta senza cercare nemmeno di rilassarmi e riprendere il controllo di me stessa.

- Laura!-

- No, dico sul serio!- aveva cercato di farmi notare quanto fossi decisamente lontana da un livello almeno accettabile di sanità mentale. - voglio dire, perchè? Cosa non ti piace? In una relazione dovremmo parlare. Che problema c'è stupidissimo testa di cazzo?-

rimase in silenzio per un lungo momento, io rimasi semplicemente a guardarlo.

- Sei davvero meravigliosa quando fai la gelosa.- concluse lui sorridendo e afferrandomi per le spalle abbracciandomi e cercando subito le mie labbra. Riuscì a rubarmi un bacio sulle labbra ed uno sulla fronte dopo riuscì a liberarmi.

- Jonathan O'Keeffe io ti sto odiando ad un livello che non ti immagini neanche!- mi lamentai allontanandomi.

- Credo che ti stia venendo il ciclo!- rispose lui scoppiando a ridere.

- Vaffanculo!-

 

 

Ero appena uscita dalla doccia, avevamo mangiato una semplice insalata perchè il mare quel giorno non aveva stremato solo me. Era stato ben complicato stancare anche lui ma alla fine c'ero riuscita. La camera era vuota e la luce del soggiorno era accesa. Stretta nella mia asciugamano bagnata, con i capelli sciolti lungo le spalle che gocciolavano sul parquet chiaro, mi sedetti sul letto e guardai il mare dinnanzi a me. C'era la luna quasi piena e illuminava d'argento il mare assolutamente calmo. Avevo spento la luce e lasciata accesa solo la piccola abat-jour sul comodino. Mancava solo una cosa affinchè tutto quello fosse perfetto. Anzi una persona. Mi voltai verso la porta sperando che venisse. Mi alzai dal letto e mi avvicinai alla vetrata. L'aria condizionata in casa era accesa per far fronte al caldo torrido di quel paese. Non riusco a credere che fosse ancora arrabbiato con me. Decisi che dato che ci teneva anche io avrei messo il muso. Chiusi la porta della stanza, spensi il condizionatore e aprì completamente la parete a vetri che ci separava dalla spiaggia. L'odore della sabbia e della salsedine invasero la camera e mi rilassarono. Non volevo pensare a niente. Volevo che la discussione di quella mattina sparisse semplicemente da quel succedersi di giorni meravigliosi. Uscii sulla spiaggia lasciando cadere sul pavimento l'asciugamano che tenevo avvolto sul corpo. Mi avvicinai alla battigia e godetti del vento che mi accarezzava i capelli umidi e il viso.

- Quindi hai deciso di farmi impazzire.-

quella voce bassa, profonda e tremendamente sensuale alle mie spalle mi fece girare la testa. Mi imposi mentalmente di non sorridere e di rimanere immobile.

- Non credo di aver avuto la priorità, qualcuno mi ha battuto sul tempo.- lo presi in giro con una traccia di risentimento più che di ironia nella voce.

Lo sentì sospirare pesantemente e mi strinse le braccia intorno alla vita con una dolcezza che mi fece salire le lacrime agli occhi. Lui non era affatto arrabbiato per tutte le cattiverie che gli avevo detto quel pomeriggio. Sembrava più...sconsolato.

Mi voltai verso di lui e quando incontrai i suoi disarmanti occhi azzurri leggermente arrossati mi sentii l'essere umano peggiore sulla faccia della terra. Lui non era semplicemente sconsolato. In quel momento mi apparve assolutamente sconvolto.

- Scusami.- sussurrò come se avesse davvero qualcosa di cui scusarsi lui.

- Non dire sciocchezze Jonathan.- mormorai arrabbiata adesso con me stessa.

Ma come faceva a stare con una persona lunatica, fastidiosa e antipatica come me? Mi morsi con forza il labbro e gli passai le mani sulle spalle con una tenerezza che gli fece brillare leggermente gli occhi e fece accelerare il battito a me.

- La furia omicida di questo pomeriggio è sparita?- domandò tastando il terreno su cui si trovava. Mi sembrava che si stesse comportando un po' come un domatore di leoni che cerca di capire se la sua belva è tranquilla oppure possa sbranarlo da un momento all'altro.

- Sì, sto bene.- acconsentii sforzandomi di sorridere con scarsissimi risultati. Davvero pessimi. - e comunque Jonathan sono io a dover domandare scusa.- farfugliai mettendo da parte l'orgoglio.

Per un attimo lui tacque. Nemmeno la sua espressione mutò di una sola virgola rispetto all'istante prima. Un istante che per me era lungo quanto la mia intera vita. Quando distolsi lo sguardo vidi che le sue labbra stavano fiorendo in un aperto, grande, meraviglioso sorriso che se solo avessi alzato lo sguardo per ammirarlo mi avrebbe tolto il fiato e mi avrebbe fatto stare molto peggio di quel tremendo pomeriggio.

Rimasi quindi semplicemente in silenzio ad osservare il suo braccio scoperto avvolgersi alla mia vita. Sentivo la sua mano calda e aperta sulla mia schiena e mi venne da piangere.

Benché avessi usato dei modi duri e inadeguati per esprimere il mio parere ero fermamente convinta di non essere abbastanza per lui. Di non essere ciò che realmente voleva ma solo un espediente che gli impediva di “non annoiarsi”.

- Lorie...- mi richiamò lui dopo un attimo. Mi ero persa di nuovo in quei pensieri terribili che non avrebbero portato a nulla di produttivo. -...Lorie ti supplico.- sussurrò sollevandomi il viso e guardandomi con quei suoi disarmanti, profondi e meravigliosi occhi azzurri.

- Scusami.- ripetei per la seconda volta alzando una mano per asciugare le lacrime che mi rigavano il volto.

Lui mi fermò e mi precedette. Fu un solo istante poi si allontanò lasciandomi sola, le braccia vuote, nuda davanti a lui che mi guardava. Attentamente.

Arrossii violentemente e cercai di mantenere lo sguardo sul suo viso. Di cogliere dai suoi lineamenti i pensieri che avrebbero potuto rivelarmi ciò che pensava e provava.

- Tu sembri proprio non capire che donna meravigliosa tu sia, Laura.- cominciò dopo un attimo di silenziosa contemplazione. - tu sembri non capire quanto io sia geloso di te, degli uomini che ti guardano quando cammini per le strade, di quelli che lo faranno quando ti vedranno in televisione, dei tuoi compagni di scuola che possono guardarti in silenzio mentre studi mordicchiando i tappi delle penne o le matite.- aveva detto tutto quasi trattenendo il fiato senza fermarsi, e si era allontanato di un ulteriore passo.

Non riuscivo più a guardarlo, riuscivo solo a pensare a quanto tutto quello fosse assolutamente assurdo e irreale, a quanto lui fosse lontano dall'essere un uomo nelle condizioni di dover provare gelosia per qualcosa. Per me poi. Era assurdo.

- Jonathan...- cercai di interrompere quel tentativo tremendo di rassicurarmi ma lui mi chiuse le labbra con un bacio leggero.

- No, non ancora, non ho finito.- sussurrò contro le mie labbra scostandosi di nuovo.

Lo vidi farsi serio, sollevò una mano lentamente e la posò sulla mia spalla. - tu non riesci proprio a vedere.- mormorò rapito dal movimento che le sue dita stavano compiendo sulla mia spalla, lungo il collo e la guancia. Sulla nuca, tra i capelli. Un brivido mi fece tremare profondamente e mi spinse a chiudere gli occhi e a lasciarmi andare alle sue carezza.

- Sei tu adesso che attenti alla mia vita Jonathan?- domandai agonizzante sotto le sue mani esperte di carezze. - vuoi vendicarti?-

- voglio spiegarti.- ammise lui posando la sua mano calma sulla mia pancia.

Trattenni a stento un gemito soffocato al pensieri del mio corpo nudo sotto le sue mani. Dio perchè non mi toccava come aveva fatto quella notte di pasqua? Quell'urgenza e quella passione che stavano facendo cedere una me che non provava ancora i sentimenti che potevo dire di provare adesso, con certezza, per l'uomo che mi stava di fronte.

Si avvicinò a me e la sua mano scivolò leggera tra i miei seni accarezzandoli appena con la punta delle dita lasciandomi un senso di insoddisfazione che avrebbe potuto uccidermi se avesse smesso con quell'assalto straziante.

- Una parte di me Lorie vorrebbe averti subito, qui, in ogni modo in cui un uomo può avere una donna.- lo sentì mormorare piano contro il mio orecchio. - vorrei sentirti pronunciare il mio nome mentre mi muovo dentro di te. Vorrei guardarti mentre raggiungi il piacere con me...per me.-

sentivo i muscoli del basso ventre tendersi per il desiderio, sentivo che tra le gambe cominciavo ad essere calda e leggermente bagnata e sapevo anche, altrettanto bene, che anche lui in quel momento provava la mia stessa eccitazione e bramosia nell'avermi. Lo sentivo dalla sua voce che era rauca e profonda, bassa e sensuale. La sua voce. Era così sexy.

- Ma vedi mi prenderei così ciò che di più prezioso tu possa offrirmi Laura, ed io cosa potrei darti di altrettanto prezioso? Cosa potrebbe essere tangibile come il tuo primo amore?- sapevo che non stava più parlando con me.

Stava seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri. Pensieri a cui aveva sicuramente pensato molto e per cui provava un certo timore.

- Jonathan io non ho bisogno di nulla, solo di te, solo che tu mi voglia.- sussurrai quasi disperata.

- no.- mi corresse lui con una dolcezza nella voce che mi fece tremare le gambe. - tu vuoi essere amata. Ed io voglio farlo. Voglio darti ciò di cui hai bisogno perchè è vero...- il tono della sua voce si era abbassato.

Facevo quasi fatica a sentire le sue parole ma non mi importava assolutamente. Erano le sue mani, le sue labbra che avevano la mia più completa attenzione e le sue parole altro non erano che la spiegazione logica ai suo gesti.

- Ti amo Laura.- sussurrò contro il mio orecchio.

Sgranai gli occhi in preda alla sorpresa, il cuore cominciò a martellarmi nel petto se possibile più violentemente di prima e la sua dichiarazione mi lasciò smarrita e senza fiato.

Non avevo mai pensato che quelle parole potessero risultare tanto incredibilmente meravigliose. Avrei voluto dire tantissime cose. Ringraziarlo, dirgli che non avrebbe potuto dire altro per avermi più sua, come se già non lo fossi, completamente. Eppure non riuscii a dire nulla, neanche un misero “anche io”. Rimasi semplicemente in silenzio, sconvolta, gli occhi fissi su di lui come se fosse solo una visione e che presto sarebbe scomparso.

Lo vidi sorridere appena. Non era offeso dalla mia reazione, sembrava bonariamente divertito.

- Ti amo...- ripeté più forte e si avvicinò di un passo a me passandomi una mano sul viso in una carezza che mi sciolse. -per questo so cosa sia meglio per me adesso. Voglio che tu sappia che non c'è nulla in te che ti accomuni a nessun'altra. Che non ho amato mai nessuna come amo te, che anche volendo far a meno dei tuoi colpi di testa io non ne sarei capace perchè voglio passare ogni istante della mia vita sotto le tue torture. Io amo i tuoi colpi di testa e le tue grida e voglio che tu continui a gridarmi contro ogni volta. Ogni volta che lo vorrai.-

Mi guardava con uno sguardo che mi faceva sentire bella. No, non bella, di più. Mi sentivo un angelo, un essere divino che un uomo guarda rimanendo imprigionato nelle sue spire senza poter far nulla per liberarsi. C'era nel suo sguardo qualcosa che mi impediva di dubitare delle sue parole.

Fece un passo indietro e sgranai gli occhi quando capii, finalmente, cosa stava facendo. Si inginocchiò davanti a me su quella sabbia che illuminata dalla luna sembrava bianca. Aveva gli occhi che brillavano ed io sentivo che non avrei retto anche quello. Era troppo forse per un'unica sera.

- Laura...- aveva abbassato il viso sulle mie mani inerti contro i fianchi. Ne prese una tra le mani guardandola attentamente. - questa è assolutamente una follia, lo so. Tu non hai neanche diciotto anni ed io...io mi sto comportando da egoista.- mormorò baciandomi il palmo e stringendo più forte la mano. - però io sono pronto ad avere una famiglia, a costruire qualcosa di importante con te, e vorrei che...- si fermò di nuovo. La voce si incrinò appena ed io sbarrai gli occhi in preda al panico.

- Jonathan...- cercai di dire ma lui aveva risollevato il viso verso il mio, mi guardava negli occhi e vedevo tutta la sua determinazione brillargli sul viso.

Si infilò una mano nella tasca dei pantaloni e ne uscì fuori una scatolina in legno che mi mozzo il fiato. Allora lo stronzo non aveva avuto un colpo di testa nel giro di due ore! Che terribile bastardo!

- Quando hai comprato quell'anello?- gli domandai altamente offesa.

Lo vidi aggrottare la fronte e guardarmi perplesso per un secondo. Poi il viso gli si illuminò di un bellissimo sorriso.

- Vuoi litigare anche adesso oppure posso spiegartelo tra un secondo?- mi domandò con una dolcezza nella voce che cancellò in un attimo tutta la mia indignazione.

- Si, va bene, ma hai giusto un secondo.- ero leggermente arrossita ma non volevo dargliela vita in ogni caso. Nonostante il momento non sarebbe stato decisamente da me. Lui sorride ancora e aprì la scatolina mostrando un anello che nella mia mente avrei subito associato ad una principessa o a qualche star ultra miliardaria di Hollywood. Dimenticavo sempre che lui era una di quelle persone. Era una veretta luminosa con un bellissimo diamante al centro che non riuscivo a credere che lui stesse offrendo un anello del genere proprio a me.

- Quest'anello distoglie un po' l'attenzione dal...- avevo cominciato.

- Lorie, taci per due secondi ok?- mi rimproverò lui alzandosi in piedi e tappandomi la bocca con la mano libera. - tu hai la capacità di rovinare qualsiasi momento romantico.-

Lo guardai e sorrisi contro la sua mano lasciandogli un lievissimo bacio sul palmo. Prese l'anello dalla scatolina e la lasciò cadere a terra tra la sabbia e non fece rumore.

- Laura, vuoi sposarmi?- domandò in un sussurro.

Rimasi per un lungo momento in silenzio in attenta contemplazione di quel gioiello e dell'uomo meraviglioso che me lo stava offrendo. Quell'anello voleva dire tantissime cose. Era una promessa di amore, di fedeltà, una promessa che tuttavia io sentivo che non aveva bisogno di quello per essere tale. Io nel matrimonio neanche ci credevo. Credevo però in lui e nella nostra storia e nel nostro amore.

- Non ti interessa se ti amo anche io?- gli domandai con la voce che mi tremava appena.

Lui sgranò gli occhi. La mia risposta forse non l'aveva immaginata proprio così.

- Tu non...tu mi ami?- sembrava come se stesse chiedendo conferma di qualcosa che lui aveva dato per scontato. Stranamente non mi offesi. Era ovvio che mi ero già spinta abbastanza in la da essere sul punto di dirglielo, e non ero arrabbiata che lui credesse che io lo amavo, anzi apprezzavo che i miei atteggiamenti nei suoi confronti gli avessero fatto capire quanto potessi amarlo.

- Sì.- risposi semplicemente.

- Sì, mi ami o sì, ti voglio sposare?- domandò lui titubante.

- Sì, ti amo.- precisai mordendomi il labbro. - e sì.- continuai con un sorriso appena accennato. - ti voglio sposare Jonathan.- sussurrai pianissimo.

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Capitolo 9
*** L'amore è essere due. Lui e Lei. Il terzo, qualsiasi cosa sia, altro non è che la fine dell'amore. ***



Ok, probabilmente accettare la sua proposta di matrimonio non era stata una delle scelte migliori che avessi mai fatto nella mia vita da minorenne però...no, nessun però.

Prima di tornare a Londra avevamo deciso che, onde evitare di dare la notizia in pasto ai giornali e di permettere che le nostre famiglie lo venissero a sapere in questo modo terribile, sarebbe stato meglio darla noi la notizia.

- Mia sorella sarà al settimo cielo.- costatò Jonathan mentre giocherellava con la mia mano ed io continuavo a fissare quell'anello che catturava l'attenzione di chiunque.

- Mio padre manderà te al settimo cielo.- mugugnai io con molto meno entusiasmo rispetto al suo.

- Oh coraggio, non credo che avremo modo di sposarci nel giro di due mesi no? Sarai maggiorenne per...quando vuoi sposarti?- mi domandò lui guardandomi seriamente curioso.

- Maggio, giugno...- proposi io mordicchiandomi la punta della lingua immaginando già il momento in cui avrei toccato di nuovo il suolo italiano.

Sapevo già che mio padre sarebbe rimasto deluso da me. Una volta mi aveva detto che sposarsi prima dei trent'anni voleva dire rovinare per sempre la propria esistenza e che io, per renderlo orgoglioso, dovevo soltanto laurearmi e trovare un lavoro. Importava che un lavoro lo avessi? Importava che stessi studiando e che mi sarei laureata in medicina in un importante college inglese? Sarei stata una delusione per mio padre e la mia famiglia?

- Laura mi stai ascoltando?- mi domandò Jonathan passandomi una mano tra i capelli rimettendo al suo posto alcune ciocche ribelli che mi erano cadute quasi davanti agli occhi.

Mi sentivo lontanissima da quell'aereo e da quella situazione.

- No, scusami, mi sono distratta un attimo pensando a come lo diremo ai miei.- ammisi rispondendogli poi con un sorriso leggermente tirato. - puoi ripetere?-

- Mia sorella progetta il suo matrimonio da quando ha dodici anni. So che per voi ragazze è una cosa importante...- mi spiegò di nuovo con infinita pazienza e sorridendo leggermente avvicinandosi al mio viso e baciandomi piano la fronte. - quindi, sono ai tuoi ordini mia adorata Lorie.- scherzò lui baciandomi.

Risi piano rispondendo ad ogni suo bacio con un certo trasporto. Avrei voluto sedermi sulle sue gambe farmi coccolare da lui fino ad addormentarmi ed evitare tutti quei pensieri terribili che affollavano la mia mente in quel momento.

Però lui sembrava troppo contento e rilassato per tediarlo con i miei stupidi problemi. Non stavamo facendo niente di male, lui aveva perfettamente ragione e poi, in soli due mesi, avrei finalmente raggiunto la maggior età. Se ero abbastanza grande per vivere da sola con lui perchè non dovevo esserlo per sposarlo?

Arrivammo a Dublino la mattina dopo. Ero ancora parecchio frastornata a causa del jet lag in un modo quasi imbarazzante. Per me infatti in quel momento era notte, avrei dovuto essere a letto, invece Jonathan, parecchio più composto e padrone di se rispetto a quanto non lo fossi io, mi stringeva un braccio intorno ai fianchi e, quasi fossi stata una bambola, mi trascinava per i corridoi di quell'aeroporto che avevo visto soltanto una volta, a Luglio, in occasione del compleanno di quello che allora per me non era altro che un'ingombrante presenza nella mia quotidianità.

- Non avremmo dovuto chiamare?- domandai io una volta in macchina sbadigliando. Stavo morendo di sonno.

Se avessi smesso di parlare probabilmente mi sarei addormentata e non era una buona idea. Jonathan mi aveva suggerito di rimanere sveglia e di affrontare quella giornata come una normale giornata dopo una notte insonne.

- Normale giornata dopo una notte insonne?- gli avevo domandato io sinceramente stupita. Per me non esisteva nessuna giornata dopo una notte insonne ma solo il mio letto, il mio pc e una buona dose di gelato, cioccolato e patatine per consolarmi e riprendermi dalla stanchezza.

- Se, come prevedo, la tua carriera decollerà preparati a tantissime “normali giornate dopo una notte insonne”- mi aveva avvisato lui ridendo piano della mia faccia stupefatta e, ne ero certa, parecchio traumatizzata da quella notizia sconvolgente.

- A dire il vero io non chiamo mai, chiama tu a Marie e dille che tra un'oretta saremo a casa.- mi consigliò prendendo il suo telefono dalla tasca e porgendomelo.

Cercai con molta fatica il suo numero in rubrica e premetti il tasto verde di invio chiamata mentre il bluetooth della macchina si attivava e collegava la chiamata al sistema di amplificazione dell'abitacolo. Lo sentimmo squillare un paio di volte prima che una voce femminile rispondesse.

- Oh ma guarda un po' ed io che pensavo che fossi morto.- scherzò lei con una punta di acidità nella voce che mi fece scoppiare a ridere.

- Laura!- mi riconobbe subito lei divertita.

- Ciao Marie.- la salutai allegra felicissima di risentire la sua voce che non lasciava scampo a nessuno dal sapere ciò che effettivamente passava per la testa a quella ragazza così piena di vita.

- ciao tesoro, non credevo fossi tu. Pensavo fosse quel cretino di mio fratello.- si giustificò lei.

- Il cretino di tuo fratello è qui Marie.- intervenne lui mentre io continuavo a ridere.

- Oh, ciao cretino.- lo salutò lei ritornando alla carica. - ti sei accorto che non chiami dal tuo compleanno?- gli domandò ironicamente parecchio seccata.

- Sì, mi spiace.- si affrettò a rispondere Johnny senza però apparire davvero dispiaciuto. - chiamo proprio per farmi perdonare.-

- L'unico modo per farti perdonare sarebbe regalarmi un'isola deserta in cui scappare con Ettore per un po'.- lo avvisò lei lasciando ben poco spazio al fratello di annunciarle il nostro arrivo.

- No, niente del genere, anzi ci siamo impantanati anche noi in questa foresta verde.- si lamentò lui fingendosi disgustato.

Ci fu un attimo di silenzio. Forse non aveva ben capito la battuta del fratello e stava cercando di ragionare sulle sue parole. Quando però tornò a far sentire la sua presenza mi resi conto che aveva semplicemente cercando di non far esplodere la sua gioia al telefono o che forse semplicemente era rimasta sconvolta dalla notizia.

- Potevi chiamare prima screanzato, adesso dovremo preparare la stanza degli ospiti in un attimo secondo te?- domandò lei in agitazione ma con un evidente sorriso sulle labbra.

- Possiamo anche dormire sul divano.- propose lui.

- Così la schiacci e la uccidi, quel povero fuscellino.- cinguettò lei.

Guardai Jonathan che alzò gli occhi al cielo e scosse la testa.

- Marie...- la riprese Jonathan pronto, a quanto mi sembrava dal tono della sua voce, a riprenderla. Sembrava che la stesse sgridando con il bonario affetto di un padre per suo figlio.

- Zitto!- lo minacciò lei facendosi improvvisamente seria. - zitto, non voglio sentire altro.- riprese questa volta ridacchiando

- Non trarre conclusioni affrettate.- le suggerì lui cercando di non ridere a sua volta dell'incontenibilità della sorella che sembrava una bimba a cui avevano appena fatto il regalo più atteso della sua vita.

- Non credo ce ne sia bisogno.- cinguettò lei facendomi aggrottare la fronte. Ma di che cosa stavano parlando quei due? Ero convintissima di essermi persa qualche passaggio nell'immediato passato e di aver così perso completamente il filo del discorso.

- Marie...- cercò lui nuovamente di parlare senza riuscirci e meritandosi in tutta risposta una meravigliosa risatina che lo convinse a desistere dal suo intento.

- Johnny, non fare il guasta feste.- lo pregò la sorella. - vi manca molto per arrivare?-

- Siamo partiti un'ora fa, spero di farcela entro un'altra ora, due al massimo.-

- Non correre troppo.- lo ammonì - Laura, tienilo a bada! Tanto devi darmi il tempo di organizzarti una festa Jonathan Meyers!- lo avvisò lei senza lasciargli molta possibilità di replica.

- Ok.- rispose allora lui semplicemente.

- Ci vediamo dopo.- ci salutò. -Fate in fretta.- detto ciò mise giù senza tanti convenevoli verso nessuno di noi due.

Ero rimasta in silenzio e avevo ascoltato attentamente perchè ad un tratto Marie aveva cominciato a parlare in modo particolarmente veloce impedendomi di cogliere tutto ciò che aveva detto. Tuttavia il succo doveva essere, più o meno, che fosse felice della nostra visita. Molto felice.

Sì, probabilmente stavo esagerando. Quasi sicuramente anzi era così perchè davvero, mio fratello a fare una cosa del genere proprio non lo vedevo. Comunque non potevo rischiare che gli altri si perdessero una cosa del genere. Non appena misi giù la chiamata con il mio caro fratellino redento chiamai Alan, non volevo dirlo io a Jamie e Paul, volevo parlare con qualcuno che condividesse il mio entusiasmo. Jamie, avendo da poco deciso finalmente di rompere da quella ragazzina asfissiante che aveva conosciuto a marzo, sicuramente non sarebbe stato entusiasta di trovarsi a tu per tu con una delle sue amiche che avrebbe potuto rinfacciarli tutte le orribili cose che aveva combinato con quella povera piccola ragazza. Paul poi era uno con cui sono il grande Alan O'Keeffe poteva avere a che fare senza ucciderlo.

Il telefono squillò parecchio prima che la voce flebile di mio fratello si decidesse a rispondere.

- Pronto?- mormorò mentre degli strilli acuti mi perforavano un timpano.

- Ciao papi. Disturbo?- lo salutai ridendo della situazione.

- Marie, no, tranquilla, tutto bene, il mio personale diavoletto della tasmania qui non sta zitto un attimo.- scherzò. Sentii un bacio che ero convinto fosse stato dato al bambino che in quel momento stava stringendo tra le braccia.

Sarebbe stato bello vedere quella scena di amore.

- chiamavo per dirti che Jonathan torna in città.- lo avvisai meritandomi in tutta risposta un atteggiamento ben diverso dall'entusiasmo che mi aspettavo.

- Quando?- domandò per niente contento.

- tra un'oretta sarà a casa.- risposi io mordendomi il labbro.

Alan era il più grande, avevamo avuto sempre, tutti quanti, per lui, una sorta di timore reverenziale paterno. Lui aveva sempre incarnato per noi, per Jonathan soprattutto la figura di padre che era scappato senza neanche una parola per noi.

- Perchè?- chiese con un'indifferenza che mi spiazzò.

- non lo so.- sembravo una bimba sgridata dal padre era una cosa ridicola.

L'interrogatorio di Alan però non era ancora finito. Lo sentì ridacchiare al telefono e gli strilli del mio piccolo dolce nipotino sparirono dal ricevitore.

- La ragazzina lo ha mollato?- chiese quasi soddisfatto che quella ragazza, che tutti noi avevamo convenuto fosse per Jonathan a dir poco provvidenziale, fosse uscita dalla sua vita.

- No, sono insieme.- la mia voce era diventata fredda e pungente questa volta. Qualsiasi fosse il motivo della sua arrabbiatura augurarsi questo per suo fratello non era affatto gentile da parte sua.

- Wow.- fu la sua unica, insoddisfacente risposta.

- Non sembri felice.- costatai seccata.

Ci fu un attimo di silenzio in cui pensai che avesse riattaccato, poi sbuffò sonoramente irritato.

- Non è venuto alla nascita di mio figlio. Non è venuto al suo battesimo. Perchè dovrei essere felice di vederlo?- domandò facendomi finalmente capire il motivo di tanto astio.

Quasi un anno prima infatti era nato il suo secondo figlio. Il maschietto tanto desiderato. Sua moglie era in attesa quando mi ero finalmente resa conto, a Luglio, dell'infatuazione (o innamoramento per gli sdolcinati come me) di Jonathan per la sua piccola infermiera e la mia salvatrice. Eppure lui non era venuto, non c'era neanche al battesimo. Il suo odio per i bambini allora non era ancora finito nonostante la sua nuova, matura e sana relazione. Che stesse venendo per chiedere scusa?

- perchè è tuo fratello?- cercai di dire trovando una soluzione alla cattiveria gratuita di Jonathan, troppo concentrato, come spesso accadeva, sulla sua vita.

- sì, certo. Ed io per lui non lo sono?- domandò di nuovo Alan senza neanche cercare di apparire calmo. Mi si strinse il cuore nel sentire quel rancore tra i miei fratelli.

- ti prego, non essere arrabbiato con lui, sono convinta che abbia delle novità che vuole fare sapere a tutti.- mormorai abbattuta non sperando più nella sorpresa che avrei tanto voluto preparare ai miei due ospiti.

- vuoi che chiami Paul e Jamie?- mi chiese lui senza tanti giri di parole.

- sì, sarei grata se veniste.- espressi il mio desiderio ben sapendo, tuttavia, che non sarebbe stato affatto esaudito. Era decisamente troppo arrabbiato con lui. Non ricordavo di averlo mai sentito così. Neanche quando era quasi morto.

- li chiamerò ma non aspettare me. Io non vengo.- mi comunicò con semplicità-

- Alan...- cercai di lamentarmi, pronta a scongiurarlo se fosse stato necessario, ma lui non mi diede modo di aprire bocca neanche per emettere un suono.

- Marie, ti voglio bene, voglio bene alla mia famiglia ma in questo momento non voglio vedere Jonathan ok? Ti mando un messaggio dopo.- concluse semplicemente costringendomi a dover gettare la spugna e l'unica cosa che risposi fu un semplicissimo e rassegnato:

- ok.-

 

mezz'ora dopo casa si riempì. Ettore era tornato da lavoro e aveva trovato Jamie e Paul spaparanzati sul divano.

- Ciao.-

- Ehi sexy doc.- salutò Paul con un gesto della mano senza smettere di guardare la partita.

- Che stanno facendo?- domandò lui arrivando in cucina e aprendo il frigo per prendere l'acqua.

- Stanno guardando la finale degli europei.- risposi alzando gli occhi al cielo ridendo della stupidità dei miei fratelli che, alla fine, nonostante approvassero la decisione di Alan, avevano deciso di venire.

- Io sono qui per la sexy italiana.- mi aveva avvertito Paul entrando e andando a spalmarsi sul divano.

- Io perché non avevo di meglio da fare.- mi avvisò Jamie seguendo il fratello a sua volta.

- E perchè lo costretto.- mi avvisò Paul tradendolo e meritandosi, per questo, un violento pugno sul braccio.

- Perché?- mi domandò di nuovo Ettore facendomi perdere il filo dei miei ricordi più recenti.

- Perchè vogliono mettersi al passo con la storia dell'Italia.- risposi ripetendo la risposta che io stessa, poco prima, avevo ricevuto alla medesima domanda.

Quando infatti erano saliti a prendere i video nella cineteca di casa mi era venuto spontaneo chiedermi il perchè di quell'improvvisa voglio di vedere una partita dell'anno precedente.

- Guardando la partita?- chiese Ettore ridacchiando divertito della stupidità dei miei fratelli.

- Già.- risi anche io con lui, gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo baciai con trasporto senza riuscire a staccarmi da lui.

Rispose al mio bacio nel modo in cui desideravo e sorrisi. Quando finalmente lo lasciai libero di respirare tornò in salotto bevendo il suo bicchiere di acqua fredda.

- Sapete in che anno è salito al potere il partito fascista?- domandò sedendosi sul divano dove Paul e Jamie, magnanimamente, gli avevano fatto posto.

- No e onestamente non fotte un'emerita mazza a nessuno.- rispose poco gentilmente Paul meritandosi un pugno da Ettore e un cinque dal fratello idiota dall'altra parte.

Risi di quella scena così familiare e quando pochi minuti dopo suonarono alla porta corsi immediatamente ad aprire.

Mi ritrovai dinnanzi il viso paffuto di mio fratello, gli occhi vivaci, la pelle colorita e i capelli in disordine e quello della ragazza che gli avvivava a malapena alla spalla e che sorrideva appena, quasi preoccupata, mezza nascosta dietro la schiena di quello che facevo fatica a riconoscere come mio fratello. Eppure, nonostante l'immensa felicità di vederlo così bene, ero desiderosa di vedere altro, quello che speravo da tantissimo tempo e che, nella mia testa, si era già realizzato, avevo solo il forte desiderio di vederlo.

- Ciao!- li salutai abbracciando mio fratello e dimenticando per un attimo il mio intento.

Abbracciandolo non sentii più nulla di spigoloso, era un uomo muscoloso, sodo e bello ma allo stesso tempo in carne in modo sano. Tutto questo lo rendeva assolutamente un sogno. Mi salirono le lacrime agli occhi e gli baciai sonoramente entrambe le guance.

- Bentornato a casa Jonathan.- mormorai in preda all'emozione.

- Grazie.- rispose lui sembrando, per un attimo, commosso.

Sorrisi divertita e lo spostai malamente rivelando la figura che era rimasta alle sue spalle in religioso silenzio mentre mi presentava l'uomo nuovo che era diventato mio fratello. Il mio sguardo corse immediatamente lì e la delusione del primo istante fu sostituita dalla consapevolezza che in una bimba così piccola e minuta probabilmente non doveva notarsi poi così tanto.

- Ti avevo avvisata di non farti strane idee.- Jonathan scoppiò a ridere e mi diede una pacca sulla spalla. - Lei non è incinta, tu non stai per diventare zia ed io non sarò mai padre.- lo fulminai con lo sguardo e, con la coda dell'occhio, notai che anche la ragazza al suo fianco era rimasta parecchio colpita dalle sue parole.

- Mai dire mai.- cercai di sdrammatizzare spingendolo dentro.

- In questo caso invece puoi dirlo, forte e chiaro!-

 

Mi ritrovai in un istante sommersa da Jamie e Paul che sembravano decisamente impazziti all'idea di rivederci. Ettore, con tutta la sua distinta calma, ci raggiunge con calma e aspettò che fossi libera dagli abbracci strangolatori di Paul e Jamie prima di abbracciarmi in un modo che, per un attimo, mi fece dimenticare ogni tipo di pensiero, anche il motivo per cui ci trovavamo lì in quel momento.

- Bentornata.- sussurrò contro il mio orecchio allontanandosi con calma e sorridendomi con un affetto paterno che mi sciolse il cuore.

- Grazie.- mormorai rispondendo al suo sorriso gentile.

- Allora Johnny, a cosa dobbiamo l'onore?- la voce leggermente tagliente di Jamie mi costrinse a voltarmi verso il gruppetto di fratelli O'Keeffe che si erano riuniti in un angolo della cucina. Sembrava proprio che io ed Ettore non fossimo invitati e ci mantenemmo a debita distanza per non disturbare nessuno.

- Avevo una notizia da darvi e non volevo che la leggeste sui giornali.- sembrava sulla difensiva come se stesse giustificando la sua presenza in quella casa in un momento in cui nessuno lo aspettava. Mi sentii tremendamente in imbarazzo e mi resi conto che non volevo rimanere lì ad ascoltare quell'intima conversazione.

- Avete intenzione di rimanere per molto tempo?- domandò Jamie senza troppi giri di parole. Ettore al mio fianco aveva incrociato le braccia al petto e mi guardava mentre io avevo trattenuto il respiro. Sembrava che volessero buttarci fuori di casa.

Ci fu un attimo di profondo silenzio che mi permise di distinguere una voce provenire dal salotto. Sembrava la telecronaca di una partita di calcio.

- Non sembrate felici di vedermi.- fu Jonathan con una pensate ironia nella voce a rompere il silenzio prima che potessi capire di cosa si trattasse. La mia attenzione fu catturata di nuovo da quello scorcio di vita familiare.

- Lo siamo Johnny, ma siamo tutti solo un po' delusi.- rispose più pacata Marie bloccando l'invettiva di Paul trattenendolo per il braccio prima che potesse emettere un fiato.

Jonathan lo stava fulminando con lo sguardo in una gara di occhiatacce che mi fece risultare difficile scegliere un vincitore.

- E' per questo che Alan non c'è.- costatò allora Jonathan lasciando finalmente lo sguardo del fratello e concentrandosi su Marie che tra i quattro sembrava la più calma e disposta al dialogo.

- Sì.- rispose semplicemente spostando lo sguardo su qualcos'altro pur di non guardare gli occhi delusi di suo fratello.

- Non capisce proprio vero?- domandò senza che io capissi di cosa stesse parlando. La delusione gli impastava la voce insieme al risentimento e alla profonda tristezza che sembrava averlo invaso in quel momento.

- No, non capisce.- rispose Paul liberandosi finalmente dalla stretta presa di Marie che a quel punto non sembrava più nemmeno davvero intenzionata a trattenerlo dalla sua invettiva. -onestamente nessuno di noi capisce Jonathan.- spiegò meglio.

- Certo...ovviamente.- scattò lui sbattendo una mano sul piano della cucina.

In quel momento i toni si fecero più accesi per tutti. Paul già aveva cominciato ad alzare la voce e Jonathan lo aveva seguito subito senza farsi ulteriori problemi di mantenere una certa compostezza.

- E' tuo fratello e tu non c'eri, adesso vieni e pretendi chissà che tipo di accoglienza?- gridò a sua volta l'uomo che gli stava di fronte trattenendosi, lo vedevo benissimo, dallo spingerlo via e magari prenderlo anche a schiaffi.

Cosa aveva fatto di tanto brutto per meritarsi questo.

- Io non volevo nessun tipo di accoglienza anzi, visto che è così non perdo altro tempo.- rispose lui con una smorfia sul viso allontanandosi. Il suo sguardo si posò su di me per un attimo. Mi sembrò di leggere nei suoi occhi una profonda tristezza. Si avvicinò velocemente, mi prese la mano e me la baciò con dolcezza permettendo così al medico al mio fianco di vedere l'anello che brillava al mio anulare. Lo sentì trattenere il fiato e spostarsi appena.

Jonathan si voltò verso la sua famiglia senza lasciarmi la mano e li guardò con rammarico. -Io e Laura ci sposiamo, risparmiatemi i vostri auguri.-

- Jonathan...- mormorai io mentre tutto il resto degli astanti sembrava aver perso del tutto l'uso della parola.

- Scusami.- si congedò lui uscendo dalla porta d'ingresso.

Dopo un attimo sentii la macchina partire diretta chissà dove. Mi aveva lasciato in balia della sua famiglia arrabbiata e sconvolta.

Marie aveva gli occhi e la bocca spalancati continuava a fissarmi come se in me ci fosse qualcosa di serio che non andava affatto. Feci involontariamente un passo indietro come per scappare ma fui intercettata da Ettore che, sorridente, mi abbracciò.

- Auguri piccoletta.- mi congratulò sembrando davvero felice, davvero entusiasta di me.

I tre fratelli O'Keeffe erano ancora immobili, Paul e Jamie cercarono di reagire facendomi le loro congratulazioni ben poco convinti. Mi sentii in imbarazzo forse più di prima.

- Via!- sussurrò Marie con una decisione che fece voltare i tre uomini nella stanza verso di lei. -ho bisogno di parlare con lei, da sola.- precisò.

Per un attimo nessuno reagì, poi il primo a sbloccarsi fu Ettore che, prese le sue cose, si allontanò con calma in salotto, prese le giacche e le porse a Paul e Jamie che le presero in silenzio prima di lasciare definitivamente la casa chiudendosi la porta alle spalle.

Rimasi da sola con Marie. La sua espressione era per me indecifrabile. Si avvicinò di nuovo alla cucina, aprì il frigo e ne prese una bottiglia d'acqua. Poi recuperò due bicchieri, li riempì e mi invitò a seguirla in salotto.

Non prendemmo posto sul divano come mi aspettavo. Mi fece sedere al lungo tavolo da pranzo proprio di fronte a lei e rimasi silenziosamente ferma a guardarla finchè non fu lei stessa a sollevare lo sguardo dal bicchiere che stringeva tra le mani e a guardarmi finalmente in viso.

- Perchè?- domandò.

Onestamente non mi aspettavo quella domanda. Mi sarei aspettata tutto da parte sue tranne quella domanda come se mi stesse chiedendo: perché ti sei ubriacata? Perchè hai fatto questa cosa terribile?

- Perché lo amo.- risposi ingenuamente senza riuscire a frenare un sorriso sincero che sapevo si stava allargando sul mio viso. Abbassai lo sguardo e mi morsi appena il labbro.

- Lui ti spezzerà il cuore.- rispose lei con voce atona e fredda facendomi gelare il sangue nelle vene. Sembrava una dichiarazione di morte. Sollevai lo testa di scatto e trovai i suoi occhi addolorati che mi accarezzavano quasi fossi io sua sorella e non il mio fidanzato.

- Cosa?- biascicai in preda alla confusione.

Lei prese un respiro profondo riempiendosi i polmoni. Trattenne il respiro per un attimo prima di inspirare tutta l'aria e bere un lungo sorso d'acqua che lasciò il bicchiere mezzo vuoto.

- Cos'è per te il matrimonio?- mi domandò ad un tratto tornando poi finalmente a guardarmi.

- Maria...- cercai di trovare un modo per sviare quella domanda che avrebbe messo in luce tutti i miei diciassette anni, la mia immaturità, le mie fantasia di ragazzina innamorata.

- Rispondimi Laura!- mi gridò lei come avrebbe potuto fare mia madre di fronte ad un mio ostinato mutismo. Arrossì e scostai lo sguardo.

- Creare una famiglia, condividere la propria vita giorno per giorno...appartenenza.-

- Lui non vuole una famiglia, vuole solo te.- mi interruppe lei prima che riuscissi a finire. Trovare le parole giuste era dannatamente difficile.

Le sue parole però non mi risultarono mostruose come avrebbero dovuto. Mi provocarono un crampo allo stomaco e mi fecero venire voglia di correre tra le sue braccia, farmi baciare, fare l'amore con lui. Perchè io non mi sentivo assolutamente sua.

- Ok.-

lei sgranò gli occhi arrabbiata, la vidi trattenersi a stento dal cominciare a gridare contro di me tutta la sua frustrazione e la mia risposta fu di abbassare lo sguardo.

- No, non è ok.- soffiò tra i denti per evitare di eccedere e spaventarmi. -tu vuoi dei figli?- domandò concitata. Stava cercando di essere calma e lo apprezzavo ma adesso, onestamente, volevo solo andare via da lì. Tornare a casa, a Londra.

- Non nell'immediato futuro.- cercai di tagliare corto.

- Lui non ne vorrà mai.- incalzò lei riportandomi alla realtà e all'importanza di quella conversazione che avrebbe potuto chiarirmi molti dubbi che mi erano sorti nel corso di quella giornata.

- Io non sarò mai padre.- erano state le parole di Jonathan quando aveva capito che Marie cercava in me i segni di una gravidanza.

- Mai dire mai.- aveva risposto Marie sorridendo un po' meno soddisfatta.

- In questo caso puoi dirlo invece, forte e chiaro!- dichiarò Jonathan entrando finalmente in casa.

- Perché?-

Lei sospirò e si portò una mano alla fronte cercando di non scoppiare in lacrime. Era provata e non capivo perchè. -Sai perché oggi eravamo tutti arrabbiati con lui?- mi chiese e per me era come se stesse cambiando argomento.

- No.- risposi vagamente spazientita.

- Lui non è venuto al battesimo e alla nascita di suo nipote.- mi comunicò con un po' di rancore nella voce malcelato. -quando è nato il figlio di Alan e lui non c'era.-

- mi spiace.- mi giustificai come fosse stata colpa mia. - non lo sapevo.-

- Non è colpa tua, Jonathan è arrabbiato con Alan da quando è nata la sua prima figlia.- mi rassicurò accarezzandomi la mano. - lui ha un rapporto particolare con le persone che ama, tende a diventare possessivo ed esclusivista. Prendiamo Alan ad esempio. Aveva visto in lui la figura paterna che non ha mai avuto, quando lui ha avuto un suo figlio Jonathan si è sentito tradito e adesso odia sia quella bimba che sua moglie.- mi raccontò. - io credo che il rapporto che ha adesso con te sia una specie di sindrome Edipica al contrario. Lui vede in te una figura materna ma anche filiale. Lui vuole comportarsi con te da padre, vuole proteggerti ed essere tutto il tuo mondo. Se dovesse mettersi in mezzo un figlio ho paura che scapperebbe.- mi avvisò preoccupata.

Tutti quei mesi adesso assumevano un significato. Il motivo per cui non voleva avere un rapporto con me, il motivo per cui mi aveva chiesto di sposarlo, tutto. Eppure a me non importava. Io lo amavo, sapevo che, in un modo o nell'altro, anche lui amava me, dopo tutto.

Mi alzai lentamente guardandola.

- Ho bisogno di pensare ok?- era un modo gentile per dirle che non mi importava.

- Cerca di non dimenticare mai quello che ti ho detto oggi va bene?- si alzò anche lei e mi si parò di fronte sovrastandomi.

Io risposi annuendo.

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Capitolo 10
*** Un vero addio non deve essere da una parte sola, ma da tutte e due. ***


- Ci pensi che questa doveva essere la parte facile?- la voce di Jonathan mi riportò con i piedi per terra. Era mattina presto, eravamo appena partiti dopo una notte praticamente insonne, diretti all'aeroporto. Finalmente eravamo riusciti a trovare un volo diretto Dublino-Roma che per lo meno ci avrebbe permesso di aspettare un po' meno per poi prendere quello per Catania. L'ultima volta lo scalo a Parigi era stato distruttivo per i miei nervi.

Lui rideva divertito a me invece veniva quasi da piangere. Se sua sorella, favorevole alla nostra relazione, si era rivelata tanto restia ad approvare il nostro matrimonio, anzi a voler essere onesti non l'aveva proprio fatto, i miei genitori ci avrebbero uccisi, entrambi.

- Ti diverte?- domandai leggermente scorbutica.

- Sì.- ammise lui accarezzandomi la gamba. Gli diedi un leggero colpetto sulla mano mettendo il muso.

- Io fossi in te non sarei divertita.- gli feci notare facendogli la linguaccia. -sarei terrorizzata, avvilita ecco cosa sarei.-

- Ok, sono terrorizzato e avvilito, guardami.- scherzò lui voltandosi verso di me mentre guidava e mostrandomi una faccia adorabile su cui spiccava il suo fintissimo sguardo corrucciato.

- Secondo me quando torneremo a Londra tra due giorni non sarai più così euforico.- mugugnai incrociando le braccia al petto e dandogli un leggero pizzicotto sul fianco.

- Tra due giorni si vedrà.- rispose lui con assoluta tranquillità.

Proprio non riuscivo a capire come potesse essere così assolutamente indifferente all'idea di ritrovarsi davanti una famiglia di Siciliani, amanti delle ferree leggi imposte dalla morale comune e un padre iperprotettivo. Tra l'altro la notizia non sarebbe stata facile da dare come alla sua famiglia. Stavo cercando il momento giusto per chiamare mia madre e dirle che tornavo per un paio di giorni. Lei stessa avrebbe probabilmente organizzato una cena di famiglia e solo allora, davanti a tutti, avremmo potuto dare la notizia. Almeno mio padre non avrebbe potuto uccidermi subito.

- Devi rilassarti però, altrimenti rischi di morire di infarto prima di arrivarci a casa.- mi consigliò lui addolcendo la voce e passandomi una mano sul viso con tenerezza. Quelle mani mi fecero dimenticare per un attimo tutto ciò che avevo precedentemente pensato e che non faceva altro che angustiarmi terribilmente.

- Sì.- ammisi io stessa prendendo un respiro profondo e sorridendogli dolcemente. - tra due giorni torneremo a lavoro ed io a scuola. Tutto tornerò normale.-

- E dovrai cominciare ad occuparti dei preparativi visto che ci sposiamo tra otto mesi praticamente.- mi ricordò lui per rovinare il mio piano di rilassamento che stava dando i suoi frutti.

- Ti odio.- lo accusai.

- Io ti amo.- ribatté lui ridendo.

Rimasi in silenzio tenendogli il broncio, le braccia incrociate al petto. Non avrei parlato io per prima quella volta, era bene che si desse una mossa perché altrimenti il silenzio ci avrebbe accompagnati fino in Italia.

- Lorie?- in realtà non fu difficile come credevo. Dopo qualche minuto fu lui stesso, con un filo di voce, ad attirare la mia attenzione.

- Che c'è?- domandai facendo la scorbutica per il semplice gusto di farlo.

- Posso venire con te per scegliere il vestito?- domandò come se si vergognasse quasi a chiedermelo.

- Perché?- chiesi io voltandomi verso di lui aggrottando leggermente la fronte. Era una domanda strana, di solito nessun ragazzo era davvero interessato a queste cose futili. Sorrisi. Lui non era il solito ragazzo, era il mio futuro marito.

- Perché per me sarebbe importate far parte di tutti i preparativi, vorrei che questo matrimonio fosse una cosa nostra, completamente, vorrei che potessimo occuparcene da soli, io e te e questo renderebbe tutto più speciale.- mi confessò parlando davvero pianissimo.

- Dicono che porta sfortuna.- gli ricordai. Ma la mia voce era tutto miele ormai e sapevo che stavo sorridendo. Era ovvio che gli avrei detto di sì.

- Lo credono solo quelli che non si amano abbastanza e vogliono trovare una scusa per un possibile divorzio.- concluse lui facendo spallucce e sorridendo piano a sua volta. Quasi non si vedeva sulle sue labbra ma io sapevo di averlo reso felice.

 

Due ore e mezzo dopo atterrammo a Roma. Sentire di nuovo le persone intorno a me parlare la mia lingua mi fece sorridere e mi sentii stranamente a casa.

- Devi imparare l'italiano.- lo avvisai mentre estraevo il telefono dalla borsa e cercavo in rubrica il numero di mia madre.

- Lo capisco un po', è parlarlo il problema.- mi rispose lui prendendomi per mano e accompagnandomi al gate da cui ci saremmo dovuti imbarcare.

- Sarò una brava insegnate. Molto paziente.- promisi premendo il tasto di avvio chiamato.

- Sì, me lo immagino.- mugugnò lui alzando gli occhi al cielo e ridacchiando divertito. Gli lasciai un pizzicotto sulla coscia. -Ouch.- si lamentò lui.

- Prima lezione.- lo avvisai atteggiandomi a maestrina. - in italiano si dice Ahi.-

nello stesso momento in cui pronunciavo quella frase dall'altra parte del telefono la voce familiare, dolce e confortante di mia madre mi rispose.

- Laura.- non aveva bisogno che le dicessi chi fossi. Doveva essere davvero una bella sorpresa per lei leggere il mio nome finalmente dopo così tante settimane di silenzio.

- Ciao mamma.- la salutai anche io con la voce leggermente rotta dalla commozione.

- Oh amore mio, sono così felice di sentirti.- mi accolse con la sua solita gentilezza e io sorrisi di me e di lei. -come stai? Quanto vieni? Ci manchi molto.- mi tempestò di domande senza darmi il tempo di rispondere e sorrisi del suo entusiasmo. La mia mamma.

- Sto davvero bene, la scuola va alla grande, il lavoro anche. Io e Jonathan saremmo a Roma adesso e ho pensato di venire a trovarvi.- le comunicai meritandomi un immediato grido di felicità.

- Oh amore mio! Fabio! Fabio vieni.- mia madre aveva preso a gridare alla cornetta per chiamare mio padre che probabilmente si trovava nel salone in quel momento. Allontanai un po' la cornetta dall'orecchio ma riuscii lo stesso a sentire lei che rispondeva ad una probabile domanda di mio padre con: -Laura sta tornando a casa.-

ci misi parecchio per riuscire a calmare il suo entusiasmo. Sembrava come se le avessi appena comunicato una vincita miliardaria al superenalotto. Non credevo che mia madre avesse sofferto tanto per la mia lontananza. Dopo tutto l'università mi avrebbe sempre costretta lontana da casa. Ne avrei parlato con lei comunque.

- Mamma, il volo sta per partire, tra due ore sarò a casa, adesso lasciami andare ti prego.- scherzai ridacchiando piano.

- Sì, scusami. Temo che chiudendo la chiamata non ti risentirò per altri tre mesi.- si lamentò lei.

- Non sono stati tre mesi mamma, non esagerare.- la rimproverai io bonariamente. - non preoccuparti potrai riabbracciarmi tra un paio d'ore...- la rassicurai con dolcezza. -sempre che tu non mi faccia perdere l'aereo.-

- Sì, scusami. Vai.- la sentì tirar su col naso e sorridere. -ci vediamo all'aeroporto.- mi promise.

- Mamma, non c'è bisogno, Jonathan ha una macchina all'aeroporto, veniamo noi, preparami qualcosa di buono invece, non mangio come si deve da un sacco di tempo.- scherzai persuadendola alla fine ad evitare incursioni improvvise che non avrebbero portato nulla di buono.

Ci imbarcammo qualche minuto dopo e i miei poveri nervi stavano per abbandonarmi. Ero tesa come una corda di violino. Mi sentii passare una mano tra i capelli e mi voltai verso l'uomo al mio fianco. Non si era azzardato a consolarmi o dire qualcosa.

- Non sono capace di consolarti, non saprei neanche che cosa dirti onestamente...- mi confessò lui lasciandomi una carezza sul collo. - so di non aver vissuto a diciotto anni quello che stai vivendo tu adesso, so di non poterlo capire perchè la tua famiglia, la vostra mentalità è diversa dalla nostra.- ammise avvicinandosi leggermente lasciandomi un bacio sulla punta del naso. -ma sono convinto che i tuoi genitori dopo tutto non saranno così arrabbiati all'idea che ti sposi. Ci stiamo impegnando, è una promessa. Secondo me anzi sarà qualcosa che ai tuoi farà piacere.- cercò di addolcirmi lui avvicinandosi a me e lasciandomi un bacio dolcissimo sulle labbra.

 

Tre ore dopo eravamo già a tavola. Ovviamente. Quando eravamo arrivati sua madre l'aveva abbracciata stretta e anche suo padre, per una volta, si era dimostrato felice di vederla. Sull'aereo mi aveva dato l'anello.

- Non voglio che lo vengano a sapere perchè vedono questo. Voglio essere io a dirglielo.- mi aveva detto con preoccupazione. Io avevo accettato e adesso l'anello sembrava quasi pesarmi nella tasca della giacca.

- Ciao Jonathan.- mi salutò sua madre.

- Salve signora.- risposi io con un leggero sorriso sperando di non incorrere nell'ira funesta di suo padre per essermi preso la libertà di sorridere.

- Jonathan.- invece anche lui alla fine, volente o nolente, ritrovandomi di fronte a lui, dovette salutarmi, se non per gentilezza almeno per educazione.

La madre di Laura l'aveva portata immediatamente in cucina dove si erano riunite, lo sentivo, tutte le donne di casa che avevo avuto il piacere di conoscere per pasqua.

- Prego seguirmi.- mi invitò suo padre accompagnandomi in salone dove si era riunita la comunità maschile.

Tutti seduti sui divani a guardare la televisione e parlare di qualcosa che non riuscivo proprio a capire. Forse lavoro, forse di Laura, forse di me. Chi poteva dirlo.

Qualcuno, più gentile, cercò di parlare più lentamente con me, qualcuno addirittura cercò anche di parlottare in inglese. Lo apprezzai dopo tutto, anche se avrei preferito alzarmi e rifugiarmi in cucina insieme a Laura, sapere come stava finalmente a casa.

Ad un certo punto tutti si alzarono di scatto e cominciarono ad abbracciare uno dei ragazzi, a dargli affettuose pacche sulle spalle e a ridere. Aggrottai la fronte. Mi ero perso un passaggio.

- Che succede?- domandai al ragazzo che poco prima aveva cercato di parlare con me in inglese.

Peppe, il ragazzo di Alessandra, ieri ha chiesto a suo padre la sua mano.- mi avvisò sorridendo soddisfatto.

Ricordavo quella strana coppia. Era stato grazie alla loro voglia irrefrenabile di sesso se quella notte avevo potuto assaggiare il suo corpo, baciarla di nuovo dopo un primo bacio rubato.

- Si deve chiedere il permesso al padre?- domandai aggrottando la fronte stupito.

- Sì, è una questione di educazione più che altro. Voglio dire è il padre il capo famiglia.- mi rispose quello come se fosse ovvio. Per me ovvio non era.

Comunque mi alzai, mi avvicinai a lui e gli strinsi la mano congratulandomi. Lui mi rispose con una stretta molto seria ed un grazie emozionato. Purtroppo in quel momento avevo altro per la testa. Cercai di uscire inosservato dalla stanza ma qualcuno mi intercettò.

- Jonathan.- il padre di Laura mi stava guardando con la fronte aggrottata. - dove vai?-

- Ho bisogno di un bicchiere d'acqua, non vorrei disturbare le signore in cucina.- risposi semplicemente meritandomi un leggero movimento del capo che mi autorizzava.

La porta della cucina era chiusa e dentro sentivo la voce di Laura parlare. Le altre intervenivano ogni tanto e ridevano. Aprii la porta e tutte si zittirono e mi guardarono.

- Scusatemi. Laura, posso dirti una cosa un attimo?- le domandai facendole segno di uscire un attimo.

Lei mi sorrise col suo bel sorriso allegro e, lasciando il pomodoro di cui si stava occupando, mi seguì in corridoio.

- Peppe ha chiesto la mano di Alessandra.- l'avvisai.

- Cosa?- lei sgranò gli occhi. - tu come fai a saperlo?- domandò aggrottando la fronte e incrociando le braccia al petto.

- Lo ha appena detto a tutti di là.- le raccontai indicando il salottino da cui venivano le voci degli uomini che vi si erano riuniti.

- ah...- rispose semplicemente lei. -wow, che galantuomo. La ragazza dovrebbe essere la prima a saperlo.- mormorò lei prima di guardarmi e sorridermi apertamente. -comunque non sarebbe mai stato meraviglioso come quello che hai fatto tu per me!- concluse lei prendendomi il viso tra le mani baciandomi con trasporto.

Ma sì, tanto già in quella casa c'erano davvero pochissime persone che mi sopportassero.

- Scusami se ti ho disturbata, torna dalla tua famiglia.- la rassicurai aggiustandole una ciocca di capelli che le era sfuggita dalla coda che si era fatta.

Lei ritornò dentro chiudendosi la porta alle spalle. Stavo per dare a suo padre un motivo in più per detestarmi, fantastico. In ogni caso non avrei mai chiesto la sua mano. Lei mi aveva già detto di sì e chiedere adesso la sua mano sarebbe stato come ignorare la risposta che già una volta mi aveva dato lei. Tornai nel salone dove le congratulazioni, grazie al cielo, erano finite. Il padre di Laura aveva preso una bottiglia di sangria e l'aveva offerta ai suoi ospiti. Quando mi vide entrare nuovamente mi guardò per un attimo e poi, dopo un sospiro, mi indicò un tavolinetto su cui erano poggiati dei bicchieri e la bottiglia. Era un invito a servirmi pure, dovevo ritenermi fortunato? Ringraziai con un sorriso e ne versai poco per evitare di esagerare, bere non sarebbe stata una buona idea per affrontare una simile conversazione. Non avevo mai pensato di dover fare una cosa simile. Insomma chiedere la mano di una donna era un qualcosa di tremendamente superato. Non si poteva semplicemente annunciare la decisione presa e basta? Mi morsi il labbro sovrappensiero e quando la zia di Laura venne a chiamare per il pranzo fermai l'uomo la cui inimicizia mi ero già ampiamento conquistato e che adesso avrebbe decisamente cominciato ad odiarmi.

- Scusi signore, potremmo parlare per un attimo?- domandai fermandomi di fronte a lui con una certa sicurezza. Il suo sguardo truce mi fece capire che non ne era felice ma mosse la testa comunque in segno di assenso.

- Vieni, seguimi.- mi invitò facendomi strada verso il suo studio. Era una stanza abbastanza grande, con una porta finestra che dava sulla strada. Tutto era in tinte scure per rendere l'ambiente ancora più professionale. -Dimmi.- mi invitò lui sedendosi nella poltrona nera che gli conferiva un'aria ancora più inquietante. Mi stavo comportando da liceale alle prese col primo rapporto di coppia. Insomma ero un uomo. Quello che avevo di fronte aveva solo dieci anni più di me. Aggrottai la fronte. La madre di Laura era più coetanea mia di quanto io non lo fossi con la figlia.

- Vorrei chiedergli la benedizione per sposare sua figlia.- ponendola in questi termini la cosa mi sembrava più che giusta. Non stavo sottovalutando la sua posizione ne quella di Laura.

- Come scusa?- lui era scattato in piedi immediatamente. La voce era un sibilo che probabilmente avrebbe dovuto spaventarmi.

- Vorrei avere la sua ben...- stavo per ripetere educatamente ma lui mi interruppe.

- Tu, un uomo, vuoi sposare mia figlia minorenne?- sibilò lui in preda ad un'ira che sarebbe scoppiata da un momento all'altro.

- sì.- affermai semplicemente io indifferente. Lui si avvicinò a me molto lentamente, il suo fare minaccioso però non mi spaventò. Ero abbastanza sicuro di ciò che stavo per fare. La mia sicurezza probabilmente lo irritò. Mi afferrò per il colletto guardandomi in viso con una rabbia che mi fece socchiudere gli occhi. Non potevo reagire anche se avessi voluto davvero tanto tirargli una testata sul naso e mandarlo affanculo.

- Io non ti concederò mai la mano di mia figlia, schifoso bastardo. E sto cominciando a perdere la pazienza!- sibilò lui sputandomi in faccia. -non ti denuncio solo perché mia moglie è convinta che Laura ne soffrirebbe ma appena osi toccare la mia bambina giuro che non esiterò un attimo.- mi avvertì lui.

- Io non sto chiedendo la sua mano signore, lei ha già accettato e a Maggio ci sposeremo, le sto chiedendo la sua benedizione.- stavo tirando troppo la corda, era chiarissimo. Avrebbe potuto spaccarmi la faccia da un momento all'altro e non avrei potuto farci niente, ne aveva tutte le ragioni.

- Che cosa?- quello fu decisamente un grido. Il pugno arrivò un secondo dopo, direttamente sul naso. Sentii chiaramente il rumore dell'osso che si incrinava e mi portai una mano sul viso mentre le gambe cedevano e mi ritrovai a terra. Il sangue mi scendeva sulle labbra abbastanza copioso e accorsero tutti a vedere a cosa fosse dovuto quel grido. La prima che vidi fu la madre di Laura. Si portò subito le mani alla bocca disgustata da quella scena e chiamò il marito ammonendolo di fermarsi. La figlia, la mia fidanzata, sgranò gli occhi e si precipitò su di me. Il suo spirito da crocerossina ovviamente non poteva resistere ad una simile scena, lei doveva salvarmi, come aveva sempre fatto. Le sue mani sostituirono subito le mie, dolci, morbide e profumate. Avrei voluto stringerla, baciarla, e dirle che stavo bene. Cancellare dal suo viso il terrore che vi leggevo.

- Quel mostro! Quel mostro vuole sposare una bambina!- gridò l'uomo rivolto probabilmente alla moglie che gli aveva chiesto spiegazioni per quel disastro. Io sollevai involontariamente le labbra in una smorfia tra una risata ed un accenno di patimento. -E ha anche il coraggio di ridere!- stava per avventarsi su di me quando gli uomini che un momento prima erano nel salone lo fermarono.

Laura di voltò verso di lui, sapevo che avrebbe pianto, lo sentivo dai singhiozzi che soffocava a stento.

- Papà...- sussurrò. Ma quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Suo padre si sfogò su di lei rinfacciandole una vita di sacrifici per poterle permettere il meglio. La insultò nei modo peggiori in cui una donna potesse essere insultata, in cui una figlia potesse essere insultata. La umiliò, la schiaffeggiò violentemente dopo averla fatta alzare ma il peggio venne dopo.

Sembrava essersi calmato. Laura aveva un atteggiamento calmo ai limiti del parossismo. Credevo che avrebbe potuto avere una crisi di nervi. Eravamo rimasti solo noi quattro la dentro. Noi due ed i suoi genitori. Lo studio che mi era sembrato prima abbastanza grande adesso mi sembrava una trappola mortale. Avrei potuto morire senz'aria lì dentro. Suo padre si era accomodato ad una sedia, la stessa poltrona di prima, e le dava le spalle rivolto di tre quarti verso la porta finestre di fronte a me.

- Vuoi sposare quest'uomo?- domandò l'uomo alla figlia ancora scossa.

- Sì.- rispose lei al mio fianco mentre una mano si perdeva tra i miei capelli e l'altra stringeva la stoffa dei suoi indumenti sul fianco.

- Se lo farai non sarai più mia figlia, non vorrò mai più vederti mettere piede in questa casa, quando sarai gravida e abbandonata non riceverai da noi nessun aiuto e se tua madre si farà intenerire da te sbatterò anche lei fuori di casa.- l'avvisò con voce grave.

Sgranai gli occhi a quella proposta. Le stava dicendo chiaramente che tutto ciò che si aspettava da lei era che mi lasciasse, seduta stante, che non mi rivedesse mai più e tornasse alla sua normale vita prima che io arrivassi a sconvolgerla. Sentii un peso sul petto. Era così che finiva la nostra storia. Ci saremmo detti addio in quel modo, lo sapevo. Io a diciassette anni non avrei mai potuto lasciare la mia famiglia per una donna, per una vita che non era una sicurezza ma solo un insieme infinito di vane promesse e speranza. Non c'era nulla che desse a me una speranza. Mi sentii perso. Laura, la mia piccola crocerossina, rappresentava tutto per me. Non riuscivo a vedere la mia vita oltre lei. C'era in ogni progetto, in ogni istante che potessi scorgere con la mente. C'era il suo amore, la sua vivacità, la sua freddezza, la sua dolcezza, il suo sorriso. Forse lei, senza di me, avrebbe potuto vivere una vita più serena, senza avere accanto un uomo che avrebbe avuto settant'anni e lei solo cinquantatré. Si sarebbe innamorata di nuovo, forse più di adesso, avrebbe avuto una casa in Italia, un uomo che parlava la sua lingua, dei figli che somigliavano a lei e a quel lui che non l'avrebbe mai amata come l'amavo io. La mia Lorie. La mia dolce, piccola, amata Lorie. Mi morsi il forza il labbro e sentii la sua mano scivolare via dalla mia testa. Non sentivo più le sue dita tra i capelli e sapevo che quello era per noi il distacco definitivo.

- Papà...- sussurrò lei per la seconda volta cercando di attirare l'attenzione del padre.

- Dì a quell'uomo di uscire da casa mia in caso contrario, digli di non farsi mai più vedere, di non mettere più piede in casa mia, di non cercarti, mai. Di non parlare mai di te....- era ovvio che suo padre avesse capito, come me, dove protendesse la decisione della figlia. La stava mettendo con le spalle al muro. Senza sapere che così facendo stava per uccidere un uomo.

Non c'era la pena di omicidio colposo per quello?

Laura si voltò verso di me priva di qualsiasi espressione, come un automa, come un burattino nelle mani del suo burattinaio. Odiai profondamente l'uomo che aveva ridotto in quello stato catatonico la mia piccola Lorie.

- Jonathan...- aveva cominciato. Sapevo quello che avrebbe detto e non volevo sentirlo. Mi alzai quasi di scatto, lasciai cadere il fazzoletto che tenevo premuto sul naso, gentilezza di qualche signora poco prima, le afferrai il viso tra le mani e la baciai. La baciai con la foga di un addio, la baciai con la consapevolezza di amarla e di non poter amare mai più in questo modo. La baciai come un disperato. Il cuore mi stava scoppiando nel petto. Non dovevamo venire. Non dovevo portarla lì. Dovevo ascoltarla.

Lei mi allontanò con dolcezza dopo parecchi minuti. Sapevo cosa vedeva, vedeva i miei occhi lucidi di disperazione. Ero malato, questo era certo. Lei era diventata la mia ossessione. Doveva essere solo mia. Non volevo dividerla con nessun altro.

- Jonathan...- riprese con tranquillità. Le sue guance si erano colorate nuovamente. -non siamo più graditi qui, credo che dobbiamo proprio andare via.- mi disse lei. E quelle parole mi scaldarono il cuore.

- Ci possiamo fermare alla rosticceria che c'è fuori città prima? Muoio di fame e lì fanno le bombette più buone di sempre!- mi domandò prendendomi per mano e spingendomi fuori dallo studio.

Suo padre era scattato a sedere. Probabilmente non si aspettava una simile conclusione. Sua madre era sul punto di scoppiare in lacrime. Io non sapevo bene cosa provassi.

Prima che fossimo fuori Laura si fermò, mi infilò una mano nella tasca e ne estrasse il suo anello di fidanzamento, lo mise al dito e andando in cucina lo mostrò a tutti. Sua madre intanto l'aveva seguita.

- Guardate. Io mi sposo. Chi è disposto a non giudicare e a voler festeggiare con me riceverà la partecipazione per gli altri risparmiatevi il disturbo.- concluse lei raggiungendomi di nuovo e andando via. Fortunatamente le valigie non erano ancora state aperte e la nostra partenza fu piuttosto rapida.

Ero così felice di come fossero andate le cose che avrei voluto ridere, ridere e sfogare la tensione accumulata. Fermarmi nella prima chiesa e sposarla, subito. Ma lei persa tutta la decisione che aveva mostrato in quella casa appena la porta blindata si chiuse alle nostre spalle con un tonfo definitivo.

In macchina, non appena misi in moto e partii, scoppiò in lacrime.  

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Capitolo 11
*** Matrimonio: la volontà di creare in due quell'uno che sarà qualcosa di più dei suoi due procreatori. ***


-Ti ho detto che i fiori devi portarli di là! Cielo perché nessuno mi ascolta?- la voce di Marie giunse alle mie orecchie molto attutita, sapevo che stava gridando, potevo anche capire il perché lo facesse, lo avrei fatto anche io se quel giorno tanto importante della mia vita non fossi stata del tutto impossibilitata a fare alcunché se non ricordarmi di respirare e non svenire. -non ho forse chiesto venti tulipani rossi? Credevo di essere stata chiara. Voglio venti tulipani rossi, adesso!- la sua voce era ormai isterica, non riusciva più a resistere a tutti i drammi che in un solo giorno ci stavano letteralmente sommergendo. Il mio mutismo, il mio essere diventata praticamente un vegetale che rispondeva con una fantastica espressione vuota ad ogni domanda, ad ogni essere che mi rivolgesse la parola.

Aspettavo quel giorno da tutta una vita e adesso quel giorno era arrivato. Mi stavo sposando. Avrei sposato l'uomo che amavo da meno di un anno e avremmo costruito una famiglia. Eravamo soli, contro tutto, contro tutti, stavamo sfidando ogni legge del buon senso, stavamo andando contro ogni possibile umana comprensione. Anche Marie, che comunque si era offerta di aiutarmi con i preparativi, era tremendamente contraria a quell'unione.

-Tieni Laura- mi disse più dolcemente porgendomi un bellissimo mazzo di tulipani rossi. Erano luminosi, forse ricoperti di qualche spray che li faceva sembrare più lucidi, ed erano legati insieme da un sobrio nastro bianco candido che richiamava i colori dell'abito che indossavo. -finalmente qualcuno è venuto a lavorare oggi!- sentenziò Marie parlando a voce leggermente più alta. Mi voltai appena verso di lei e guardai il meraviglioso abito turchese che indossava e che metteva meravigliosamente in risalto gli occhi azzurri tanto simili a quelli del mio fidanzato. Le mie labbra si sollevarono quasi involontariamente in un sorriso che mi illuminò lo sguardo e Marie, che mi stava guardando da un po' con una certa apprensione, finalmente tirò un sospiro di sollievo. -finalmente sorridi, pensavamo di dover placcare te invece di Jonathan.- mi prese in giro riprendendo un argomento che avevamo avuto qualche settimana prima quando sceglievamo i vestiti per le damigelle. Li aveva scelti lei in realtà. Infondo io avevo solo quattro damigelle, com'era usanza in Italia, le mie damigelle e le mie testimoni allo stesso tempo. Alessandra, mia cugina e madrina di cresima, che quella sera di pasqua aveva permesso quel primo assaggio che avevo avuto delle sue labbra, delle sue mani sul mio corpo, quel momento di intimità che ancora agognavo avesse il suo compimento; Cristina, sua sorella; Josephine, la mia migliore amica americana, l'unica delle amiche che Jonathan avesse conosciuto a piacergli sinceramente e infine Marie, la donna che infondo aveva permesso che io lo conoscessi quell'uomo. Se quella notte di marzo lei non avesse accolto in casa proprio un gruppo di scout sporchi e stanchi possibilmente Jonathan sarebbe ancora solo nelle mie più rosee fantasie.

- No, non scapperei mai.- ammisi semplicemente. - sono così felice.- mi voltai verso lo specchio. Ero in piedi su un piedistallo e una sarta stava completando gli ultimi ritocchi all'abito prima dell'inizio della funzione. Era un abito semplicemente splendido, adatto ad una ragazzina che aveva compito diciotto anni appena sei giorni prima. L'abito era molto semplice, con un taglio ad impero mi cadeva morbido sui fianchi e si apriva in una modesta coda. Eppure alla semplicità del modello faceva da contrappunto l'infinità di pietre preziose, pizzi e ricami di cui il vestito era pieno. Era un gioiello in piena regola tanto che non indossavo nemmeno una collana. Avevo solo un paio di brillanti alle orecchie, i capelli raccolti e fermati da alcuni fermagli tempestati di rubini. Null'altro. La mia mano era libera da quell'anello di fidanzamento che aveva racconto tanto sguardi in pochissimo tempo. Il nostro fidanzamento era durato davvero poco, bisognava ammetterlo. Era successo tutto molto velocemente tanto che, in quei pochi mesi da ottobre a Dicembre, avevamo dovuto organizzare tutto e avevamo avuto bisogno di molto aiuto e molti soldi. Jonathan non si era dato, e non aveva dato a Marie soprattutto, nessun limite di spesa.

- Ci si sposa una volta nella vita.- aveva detto facendo spallucce con le mani in tasca quando Marie ci aveva raggiunti sul set di Dracula per domandare quando avesse a disposizione per prenotare il locale ed il ricevimento.

Alle nostre spalle uno sbuffo divertito sembrava quasi avergli dato torto. La mia immagine allo specchio perse il sorriso che si era formato pochi istanti prima. Il pensiero della reazione di tutti a quella notizia mi faceva ancora parecchio male.

La reazione pessima dei miei genitori me l'ero aspettata io stessa. Non c'era da stupirsi. Ero ancora minorenne quando avevamo dato la terribile notizia alla mia famiglia. Ma le reazioni esagerate non erano finite lì.

Quando la settimana seguente ero tornata in facoltà Anne, Taylor e Garrison mi avevano atteso al solito bar, seduti al solito tavolo, con i soliti caffé lunghi di fronte. Parlavano degli appelli di Dicembre dell'idea di come avrebbero dovuto studiare e come affrontare quelle materie che erano statistica e anatomia oltre a fisica e chimica che sarebbero stati gli scogli di gennaio. Ero sorridente in modo davvero ridicolo. Anche se non parlavo più con la mia famiglia, anche se avevo praticamente abbandonato un pezzo del mio cuore in Sicilia, ero comunque in estasi. Adesso potevo dire ai miei amici che mi sposavo, potevo dare la notizia a chi l'avrebbe accettata sicuramente. Mi sedetti con un gran sorriso, Trevor, il ragazzo di Garrison che lavorava al bar, si avvicinò non appena mi vide portandomi il cappuccino che gli avevo insegnato a fare.

- Grazie.- lo ringraziai prima ancora di avere il tempo di salutare i miei amici. Loro mi guardavano con non troppo entusiasmo, sembravano quasi preoccupati.

- Stai bene?- mi domandò Annie, forse la più preoccupata dai tre. La sua espressione quasi mi fece pensare che ci fosse in me qualcosa che non andasse. Mi passai le mani sul viso e aggrottai la fronte particolarmente dubbiosa che fosse accaduto qualcosa al mio viso. Eppure a me sembrava che andasse tutto bene.

- Ho qualcosa che non va?- domandai aggrottando la fronte. Nel toccarmi il viso però avevo alzato la mano destra, quella nel cui anulare brillava in tutta la sua magnificenza il mio anello di fidanzamento da sei carati.

- Cazzo!- gridò praticamente Taylor sdraiandosi sul tavolo e afferrandomi la mano. Era tanto sbalordita che quasi non mi sembrò la ragazza sempre posata e tranquilla, forse con un atteggiamento un po' snob e ruffiano, che avevo conosciuto in facoltà all'inizio dell'anno accademico. Garrison aveva spalancato occhi e bocca e mi guardava come se fossi un alieno strano e pericoloso. Anche se l'espressione di sgomento era ancora mischiata a quella di preoccupazione.

- Che cos'è questo?- domandò Taylor rigirandosi la mia mano tra le sue, quasi schiacciata al suo bel visino perfetto da bambola. Gli occhi azzurrissimi erano spalancati ed Anne era sempre più nervosa.

- Beh, era ciò che volevo dirvi...- ammisi un tantino in imbarazzo. Al momento comunque quella reazione non mi era sembrata del tutto negativa. Era normale che fossero un po' sbalorditi. Loro sapevano la mia età e quell'anello era di dubbia interpretazione. Ma ero certa che sarebbero stati contenti per me – Io e Jonathan ci sposiamo.- l'avevo immaginata un po' diversamente quella scena. Mi immaginavo un altro tipo di annuncio, più spettacolare, ma anche così mi stava bene. Mi bastava che lo sapessero dopo tutto.

- Che cosa?- domandò Taylor lasciando andare la mia mano neanche si fosse gravemente ustionata, come se bruciasse.

- Ma sei pazza?- domandò insieme a lei anche Garrison. La mia espressione a quel punto si rabbuiò appena. Era evidente che non fossero per niente felici per me, al contrario a quel punto mi aspettavo che se ne uscissero con l'idea che io fossi completamente pazza.

- Ci amiamo, vogliamo stare insieme e ci sposiamo.- conclusi io quella logica idea di matrimonio che aveva spinto entrambi ad un simile gesto. Infondo lui non era più un ragazzino anche se io ancora lo ero. - che c'è di male?- chiesi a mia volta voltandomi verso Annie. Speravo almeno di trovare aiuto in lei, sostegno magari. Ma tutto ciò che ne ricavai fu un'espressione semplicemente scioccata e un labbro tremulo di chi è prossima alle lacrime.

- Oh mio Dio.- disse semplicemente alla fine lei chiudendo quella bella escalation di approvazione.

Ero rimasta molto ferita dal loro atteggiamento. Certo non mi aspettavo chissà quali salti di gioia però mi aspettavo che fossero almeno un po' più contenti per me visto che erano a conoscenza della mia storia ed in particolar modo del mio amore per quell'uomo che adesso era ufficialmente il mio fidanzato.

- È ridicolo.- mi fece notare semplicemente Taylor tornando a bere il sua caffé come se nulla fosse, come se le avessi appena annunciato il ritiro dalla politica di Obama, anzi, forse in quel caso avrebbe fatto una delle sue arringhe filosofico politiche che non servivano a nulla.

- Cosa è ridicolo? Che due persone innamorate si sposino?- domandò aggrottando la fronte e mordendomi con forza il labbro. Lo sguardo che mi lanciò era di puro risentimento. Quasi mi sembrò quello di una nemica che di un'amica.

- È ridicolo che un trentacinquenne sposi una diciassettenne dopo neanche...quanto tempo è che state insieme? Tre mesi?- mi domandò con una voce stridula, forse leggermente acida. Le mie labbra si strinsero in una linea sottile.

- Voi dovreste essere felici per me.- feci notare loro con rabbia ed indignazione. Mi voltai verso Annie che aveva abbassato gli occhi sul tavolo e che, lo vedevo, era in lacrime. Garrison e Taylor, indifferenti al dolore di Annie che non riuscivo a comprendere, erano solo arrabbiati, forse preoccupati. Ma io avevo bisogno di appoggio, di conforto, di comprensione, non avevo bisogno di altri amici che mi voltavano le spalle, non avevo bisogno di altri elementi della mia vita che mi sbattevano violentemente la porta in faccia. Mi alzai da quel tavolo e prima che potessero chiedermi di tornare indietro, ammesso che l'avessero fatto, uscii fuori dal locale e mi diressi in facoltà. Non volevo tornare a casa e mostrare a Jonathan quanto fossi triste e abbattuta per l'ennesima delusione. Non avrei accettato ne che si desse la colpa né che non lo facesse. Avevo bisogno di un solo commento positivo dopo quelli negativi di Marie, della mia famiglia e dei miei nuovi amici. Chiamai al telefono cellulare Betta, la mia vecchia compagna del liceo. Non le sentivo da mesi, avevo bisogno di sapere che c'erano, che stavano bene, che erano felici per me. Nessuno rispose. Lo feci squillare finché non cadde la linea, lo feci squillare fino alla fine. Chiamai parecchie volte, non solo una. Chiamai per ore. Prima lei, poi Caro, poi Ale. Benedetta no, quella che un tempo era stata la mia migliore amica non avevo intenzione di sentirla. Non volevo sentire anche lei dirmi come le cose erano diverse, come era sbagliato ciò che stessi facendo, come me ne sarei pentita. Forse era un bene che nessuna di loro rispondesse. In una città piccola come quella da cui venivamo noi probabilmente avrebbero creduto che ero incinta, che quello era solo un matrimonio riparatore e che io non l'amassi affatto quell'uomo. O meglio che lui non amasse me, nessuno aveva dubbi sul mio amore per lui. Avevo anche avuto una mezza idea di chiamarle su skype, di mandar loro un messaggio su facebook. Ma io non avevo più facebook. Né skype. Il mio manager, il manager di Jonathan, mi aveva consigliato e imposto di cancellare quei due mezzi di comunicazione. Adesso avevo avevo tweeter. Quel social network del demonio che non avevo capito come funzionasse, che rappresentava per me il mistero delle comunicazioni. Che senso aveva scrivere minuto per minuto quello che facevo. Se avessi voluto far sapere a qualcuno dei miei spostamenti avrei mandato un messaggio a quella sola persona. Non vedevo l'utilità di farlo sapere al mondo intero. E poi io ero abituata a vivere in una città dove quel servizio non serviva, bastava chiedere alla signora anziana o al ragazzino scemo. Loro stavano lì tutto il giorno a guardare quello che faceva la gente attorno a loro pronti a raccontarlo a tutti qualora avessero chiesto informazioni. Ovviamente a Londra non importava nulla a nessuno. Non c'era quel tipo di sostrato socio-culturale che c'era nella mia città d'origine, quella in cui adesso non avevo più nessun legame visto che ancora nessun membro della mia famiglia si era disturbato a chiamarmi per chiedermi scusa per la loro espressione di disgusto alla notizia. Ci avevano cacciato fuori di casa come se fossimo ladri. Io non mi sarei abbassata a chiamare nessuno di loro. Avrei mandato le partecipazioni di nozze, quello era certo, ma nulla di più informale. Che si mantenessero le distanze tra noi. Se qualcuno avesse risposto positivamente all'invito avrei procurato loro un posto dove dormire e magari anche il biglietto aereo ma fino a quel momento loro per me non esistevano. Erano morti, estinti.

Avrei mandato le partecipazioni anche a Marie. Magari a lei avrei chiesto di raggiungermi subito per aiutarmi con i preparativi. Tra l'altro non avevamo neanche parlato della data con Jonathan. Si era solo detto di aspettare che io compissi diciotto anni. Ovviamente.

Quel giorno non riuscii neanche a seguire le lezioni come avrei dovuto. Avevo la testa altrove. Avevo preso la mia agenda e avevo cominciato a fare una lista delle cose da fare. Ricevimento, locale, abiti, chiesa, partecipazioni, bomboniere. Queste le cose principali. Ma poi c'erano il fioraio, il parrucchiere, l'estetista, la lista nozze. Un milione di cose a cui pensare. E poi per quando. Domani, dopo domani, un mese, due, sei, un anno? Mi passai una mano tra i capelli avvilita e lasciai le lezioni prima che queste finissero. Ero arrabbiata, ero distrutta emotivamente. Mi sentivo tremendamente sola e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era: e adesso? Mi venivano in mente milioni di motivi per cui Jonathan avrebbe potuto cambiare idea su quella storia del matrimonio, milioni di ragioni perché quella specie di sogno (che se fossi stata più sana mi sarebbe sembrato un incubo) finisse. E quel pomeriggio lavoravo anche. Mi arrivò infatti un messaggio mentre mi apprestavo a tornare a casa.

“2.50 p.m. Studios. Riprese per Etienne e Katherine.”

il messaggio era arrivato al cercapersone. Avevo chiesto a Jonathan di settare il cercapersone sul telefono perché io avevo già serie difficoltà a controllare quello, se poi ne avessi avuti troppi da controllare sarei letteralmente impazzita e non ne avrei controllato nessuno. Perfetto, non avevo neanche il tempo di tornare a casa a mangiare. Diedi un'occhiata distratta all'orologio. Erano quasi le due, avevo un'ora volendo ma ci avrei messo tre quarti d'ora buoni solo a raggiungere il luogo delle riprese. Sospirai profondamente e cambiai strada infilandomi nella metro.

Di bene in meglio.

Mentre stavo seduta sugli scomodi sedili di plastica dura della vettura del treno sotterraneo che mi stava portando fuori dal centro di Londra guardai l'anulare su cui brillava quell'anello di fidanzamento che era il segno dell'impegno che ci stavamo prendendo entrambi. Un anello bellissimo, brillante, con un valore immenso non solo economicamente parlando.

Avrei dovuto togliere? Avrei dovuto metterlo solo quando ci fosse stato Jonathan per dirlo insieme? Alla fine decisi che era meglio così. Tolsi l'anello dal dito e lo infilai in borsa chiudendolo nella taschina laterale.

Il viaggio, che avrebbe dovuto essere lunghissimo, durò per me troppo poco.

La prima persona che vidi non appena entrai dentro lo stabile prefabbricato in cui avremmo dovuto girare quelle scene che avevo ripassato sulla metro fu Elise, una delle addette al trucco. L'unica simpatica per quel che mi riguardava. Si voltò verso di me e mi sorrise raggiante venendomi incontro e abbracciandomi.

- Ciao Laura, mi sei mancata quando sei stata via, senza Jonathan che litiga con Gaspard e senza le tue chiacchiere si muore di noia!- mi confessò lei con un bel sorriso sul viso.

- C'era Jessica.- le feci notare. Jessica non era male, lo avevo scoperto da poco. Certo passava del tutto inosservata probabilmente, nonostante fosse incredibilmente bella, non l'avrei mai notata in una stanza piena di persone. Però si poteva discutere con lei. Katie no, lei era semplicemente insopportabile. Altezzosa, frivola, spesso antipatica. E comunque mi odiava. Quando Jonathan e Reena avevano rotto lei ci aveva sperato sul serio in una loro possibile relazione.

- Katie la sta facendo passare al lato oscuro.- mi confessò lei accompagnandomi verso la sala trucco. Scoppiai a ridere divertita dalla sua espressione e scossi la testa. Aveva aggrottato la fronte e aveva abbassato la voce quasi mi stesse confessando il segreto del secolo, le diedi un colpetto affettuoso sul braccio.

- C'è sempre Gaspard.- conclusi prima che lei mi rispondesse storcendo il naso.

- C'è qualcosa che non va in lui.- mi spiegò lei. Mi stava praticamente aggiornando su tutti gli avvenimenti che si erano verificati durante la mia assenza. -ha visto qualcuno non appena voi siete partiti e poi è cambiato completamente, sicuramente mi sbaglio ma...mi è sembrato che parlasse con Reena.- concluse. E quella voltai fui io a rimanere sconvolta. Quel nome per me era un taboo. Jonathan non lo pronunciava mai, io neanche benché ci pensassi spesso. Marie lo aveva fatto ogni tanto ma non la chiamava mai per nome. Sentire parlare di lei adesso, e sentire che era Gaspard a riportare a galla quella vipera avvelenata, mi spinsero a riflettere parecchio.

- Credo di dover parlare con il francese.- costatai mentre lei annuiva.

- Pas du tout, pas du tout. Je ne comprends pas. Pourquoi?- ero appena entrata nella piccola stanzetta in cui sapevo di poterlo trovare. Una stanza adibita ad aria caffé con una macchinetta, qualche vivanda calda e un bel divano di pelle bianca. Lui era lì, in piedi, già pronto per girare mentre io ero ancora in “abiti civili”. Lui si voltò verso di me dopo un attimo, aveva continuato a parlare concitatamente in francese e quando si era accorto di me aveva messo semplicemente giù senza neanche salutare.

- Non sei stato scortese?- domandai aggrottando la fronte e indicando il telefono che stringeva ancora in mano. Lui non sembrò avermi sentito. Mi venne incontro e mi abbracciò tanto stretta che mi resi conto di essergli davvero mancata parecchio. Mi sentivo in colpa per questo.

- Sto imparando dal migliore.- rispose lui riferendosi chiaramente a Jonathan e al suo modo, quasi mai cortese, di comportarsi con le persone. Specialmente con Gaspard. Tra loro non correva buon sangue e benché questo fosse un bene per il telefilm, dove si odiavano con una maestria sconcertante, non era un bene per me che dopo tutto vedevo in lui un amico. Mi piaceva che potessimo parlare in francese, era anche un buon insegnate, paziente e gentile.

- Touché- risposi semplicemente facendo spallucce e mordendomi leggermente il labbro. Lui infilò il telefono nella tasca dai pantaloni da scena che portava e mi guardò sollevando appena l'angolo destro delle labbra in un sorriso. La cicatrice si increspò appena.

- allora, come va? Come sono andate le vacanze?- mi domandò gentilmente. Eravamo stati via relativamente poco eppure a me era sembrata un'eternità. Adesso che ero tornata ad una routine che ancora non era del tutto scontata mi sembrava fossero passati mesi.

- Speravo meglio.- ammisi.

Avevo litigato con la mia famiglia, con i miei amici, avevo tagliato i ponti con quelle che per cinque anni erano state le mie migliori amiche, insomma di cose ne erano cambiate parecchio. Adesso volevo solo che tutto tornasse a prendere una sua stabilità e cosa c'era di più stabilizzante di un matrimonio.

- problemi con Jonathan?- mi sembrò quasi di vedere una luce di speranza negli occhi blu del ragazzo che mi stava di fronte. Aggrottai appena la fronte e mi dissi che ero solo io ad essere prevenuta ormai nei confronti del mondo intero. Come se tutti volessero la nostra infelicità.

- No, problemi con tutto il resto.- confessai io decidendo di aprirmi un po' almeno con lui. Ero lì per un motivo eppure non me la sentivo ancora di chiedergli spiegazioni al riguardo. Tra l'altro come avrei potuto aprirle il discorso? C'era un modo giusto? Decisi di prenderla alla larga. -Tu, con la tua ragazza?- domandai a mia volta con un sorriso che però non raggiunsi gli occhi. Adesso ragazza era un parolone. Era una donna molto più grande di lui, forse troppo. Anche se io e Jonathan di certo non potevano parlare al riguardo.

- Abbiamo rotto- mi informò lui con la stessa tranquillità con cui si parla del tempo. -Un mesetto fa.- aggiunse come se fosse una cosa del tutto normale ed io non avessi fatto la peggiore gaffe della mia vita. Arrossii appena.

- ah, scusami...io...non lo sapevo.- balbettai scostando lo sguardo dal suo viso dall'espressione rilassata.

- Sì, beh, era una storia finita da un pezzo.- mi tranquillizzò lui. -no drama.- concluse in un inglese che mi fece alzare lo sguardo e ridacchiare appena. Per lavoro aveva dovuto cercare di eliminare il suo bell'accento francese per passare ad un inglese molto preciso. Era sicuramente sulla buona strada. Faceva sempre maggiori progressi.

- carino l'accento inglese.- mi complimentai con un'espressione che voleva scimmiottare quella di una professoressa.

- Sì?- chiese lui reggendomi splendidamente il gioco. Fece un leggero cenno con il capo come se mi stesse ringraziando. -Sto imparando.-

La situazione era molto più rilassata adesso tra noi, c'era quasi una sorta di pacifica riconoscenza. Io ero felice di essere a casa e lui era felice di rivedermi. Forse non era il caso di toccare un argomento che ci avrebbe fatto litigare. A quel punto ero certa che lui sarebbe stato felice per me, che avrebbe apprezzato la notizia che aveva sconvolto tutti.

- Senti Gaspard, se io ti do una notizia tu puoi essere felice per me?- gli domandai comunque prima di toccare l'argomento.

Lui sembro non capire e aggrottò leggermente la fronte dubbioso. In effetti non era da tutti i giorni sentire una richiesta del genere da parte di qualcuno. Di solito si dava la notizia e basta.

- Sì, oggi credevo di avere buone notizie per tutti invece nessuno che ha avuto la reazione a cui speravo.- ammisi mordendomi il labbro. Lui sorrise appena ma fu un sorriso che non raggiunse gli occhi. Al contrario. Forse le premesse non erano delle migliori.

- Ci provo. Che notizia?- mi domandò allora incrociando le braccia al petto.

Impossibile tirarsi indietro adesso, meglio non portarla troppo per le lunghe.

- Mi sposo.- lo informai con molta semplicità.

Lui non disse assolutamente nulla. Nessun commento, nessun cambiamento nella sua espressione. Rimase semplicemente in silenzio, il viso tirato in una maschera impenetrabile. Quello era peggio delle espressioni dei miei amici quella mattina. -Ok, non è una brutta reazione però sarebbe carino se tu dicessi qualcosa.- lo informai passandomi una mano sulla guancia e toccandomi i capelli. Lo facevo sempre quando avevo bisogno di rassicurarmi.

- ah.- fu il suo unico commento al riguardo.

- beh, qualcosa che abbia un soggetto, un predicato e un complemento possibilmente.- aggiunsi non contenta di quella sua risposta.

- Che bello.- aggiunse. Il suo tono stonava immensamente con le parole appena pronunciate.

- ok...- presi un respiro profondo. La mia voce era bassa adesso, appena un sussurro. Volevo tornare a casa, volevo Jonathan, volevo che mi dicesse che andava tutto bene. In quel momento tutto ciò che volevo era un abbraccio. Invece dovevo lavorare. Gli diedi le spalle e uscii da quella stanzetta che era diventata troppo angusta. Lui mi seguì.

- Laura, non puoi sperare che mi faccia piacere...- mi fece notare lui con la voce seria fermandomi per il braccio nel corridoio che mi avrebbe portata al mio camerino. Aveva abbassato la voce e si era avvicinato a me.

- Perché?- domandai senza capire. Perché nessuno poteva essere felice per me per una volta.

- perché hai diciassette anni e ti stai rovinando la vita così.- mi rispose lui così come tutti gli altri. Niente di più niente di meno. Solo che lui aveva utilizzato un tono di voce più gentile.

- ma io lo amo!- sbottai questa volta alzando forse un po' troppo il tono della mia voce. Lui scosse la testa e mi guardò negli occhi. Mi prese il viso tra le mani e mi parlò come si parla ad una bambina stupida, piccola e incapace di capire davvero.

- lo ami adesso Laura, ma se lo sposi dovrai amarlo per il resto della tua vita capisci?-

- sì, lo so che vuol dire sposarsi.- lo rimproverai per quel comportamento che mi stava riservando togliendo le sue mani dal mio viso e scacciandolo via. Volevo che non mi toccasse.

- allora perdonami se non sono entusiasta della cosa.- concluse lui stringendo le braccia al petto e guardandomi per un secondo prima di voltarmi le spalle. Questa volta ero io che non volevo che se ne andasse così.

- Gaspard!- lo richiamai sempre parlando a voce troppo alta. Ma non sembrava esserci nessuno intorno a noi.

- Te ne pentirai Laura, lo sappiamo tutti.- mi rispose lui con la voce alterata per la rabbia voltandosi verso di lei e guardandomi dritto negli occhi. Si avvicinò a grandi passi e mi afferrò per le spalle. Lui però non mi stava facendo male, non mi strattonò nemmeno. Voleva solo la mia attenzione. -Sai com'è fatto Jonathan, lo so io, lo sa lui, lo sai tu. Lo sappiamo tutti.- mi ricordò. E mi vennero in mente molti momenti che confermavano le sue parole, forse troppi. -Ti spezzerà il cuore e ti pentirai di questo giorno.-

- Gaspard...- sussurrai questa volta mentre lui si allontanava facendo un passo indietro, il viso abbassato, gli occhi chiusi e il respiro corto.

- Che c'è?- mi chiese mentre cercava di calmarsi.

- Perché tutti mi state facendo terra bruciata intorno?- la mia voce era un sussurro spezzato. Era chiaro che rischiavo di scoppiare a piangere.

- No Laura, io non lo sto facendo. Io ti sto dicendo come andranno le cose.- mi rassicurò lui senza però perdere quell'atteggiamento un po' arrabbiato. -Ma ci sarò allora, puoi venire da me ogni volta che avrai bisogno di qualsiasi cosa.- concluse passandomi una mano sul viso per asciugare una lacrima che adesso mi stava bagnando il viso.

- Verrai al mio matrimonio?- gli domandai alzando gli occhi contro il suo viso.

- Se non lo facessi si chiederebbero perché non ci sono.- mi rispose senza dirmi però ciò che volevo sapere.

- ma tu vuoi venire?- chiesi ancora. -Verresti se non fossi costretto?- era un modo per chiedergli se lo stesse accettando, se non fosse davvero sbagliato come volava farmi credere. Volevo il suo consenso.

- No.- rispose seccamente. -Non verrei a vedere come ti rovini la vita con tre parole.-

a quel punto la situazione era ormai persa. Non c'era nulla che potesse peggiorarla. Lui mi aveva dato le spalle per l'ennesima volta. Io non avevo più motivo di tenermi dentro un qualcosa per paura di litigare. Lo avevamo già fatto. Avevamo già litigato.

- Perché hai chiamato Reena?- gli domandai prima che sparisse dentro il suo camerino. Quando si voltò verso di me aveva gli occhi sbarrati di chi sa di essere stato scoperto.

 

Fu solo la voce di mia cugina a riportarmi al presente, quel 12 Dicembre che sarebbe stato il giorno del mio matrimonio. Avrei dovuto ricordarla sempre quella data. Mi stava sistemando per l'ennesima volta uno dei boccioli che avevo tra i capelli perfettamente acconciati.

- Tua cognata ucciderà qualcuno oggi- mi fece notare Alessandra con un bel sorriso sul viso. Lei sembrava davvero felice di essere lì e anche io lo ero.

Lei era stata la prima a chiamare, neanche una settimana dopo il mio ritorno a Londra. Ero scoppiata a piangere quando mi aveva assicurato che lei al mio matrimonio ci sarebbe stata di certo, anche se non aveva niente di adatto per un matrimonio da celebrità. Poi il giorno dopo anche Cristina aveva chiamato. Loro erano le uniche parenti che avevano deciso di approvare la mia decisione di sposare Jonathan. Era una mia scelta, mi aveva detto, se io ero felice loro sarebbero state felici per me.

-È molto probabile, qualche giornalista senza dubbio non vedrà l'alba di domani.- acconsentii io prendendo la mano che Cristina mi porgeva per scendere dal piedistallo su cui la sarta mi aveva ordinato di salire per gli ultimi ritocchi al vestito.

- Sono effettivamente molto insistenti.- ammise Cristina mentre la piccola Ginevra mi guardava con il suo vestitino da damigella e un gran sorriso sul viso. La figlia di mia cugina e la figlia di Alan erano state scelte come damigelle. Erano adorabili insieme anche se giocavano senza neanche capirsi reciprocamente. Ginevra non parlava inglese e Felicia non parlava italiano. Ma era bello vedere come due bambini potessero essere amici nonostante questo.

Marie tornò dentro con i bouquet per le damigelle e le testimoni e li consegnò a ciascuna. Diede le ultime raccomandazioni e la musica che mi avrebbe accompagnata all'altare cominciò. Io quella navata l'avrei percorsa da sola, nessuno mi avrebbe accompagnato all'altare. Mio padre non c'era ed io non avevo voluto il braccio di nessuno. Alan si era offerto e Jonathan sarebbe stato ben lieto se avessi accettato l'offerta di uno dei suoi fratelli. Ma io conoscevo il significato di quel gesto, loro non erano la mia famiglia, non aveva senso che fossero loro ad accompagnarmi all'altare. Nessun uomo della mia famiglia mi stava offrendo al mio futuro marito. Io, da sola, facevo questo passo verso di lui. Presi un respiro profondo ed entrai in chiesa.



Note Autrice:
Perdonate l'immenso ritardo. l'università e la nuova vita mi stanno uccidendo. comunque in questi giorni conto di postare almeno tre capitoli. prometto di farmi perdonare. tra l'altro siamo sotto natale, quindi sarà buona. usando le parole di Gaspard direi: no drama. ci sarà il matrimonio quindi, vestitevi bene, mi raccomando! spero che ci siate ancora, che l'attesa non vi abbia stancato. perdonatemi. Viktoria.

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Capitolo 12
*** Si deve scegliere per moglie la donna che si sceglierebbe per amico se fosse un uomo. ***


Fermo di fronte alla grande specchiera di casa mia vedevo riflessa la mia immagine allo specchio. Indossavo un tailleur nero che un buon sarto londinese aveva confezionato su misura per me. Quando eravamo andati a provarlo Laura ne era stata così entusiasta che per un attimo avevo avuto l'istinto di portarla dentro uno dei camerini e di fare l'amore con lei lì, troppo vicino a occhi e orecchie indiscrete. Ero rimasto immobile a guardarla mentre mi passa le mani sulle spalle con gli occhi che le brillavano. Quando il suo sguardo si era alzato verso il mio ci intendemmo alla perfezione. Anche lei aveva pensato la stessa cosa, anche lei voleva la stessa cosa. Le mie labbra si sollevarono appena in un sorriso mentre il suo viso si arrossava leggermente di un bellissimo color rubino che mi fece sollevare la mano per farle una carezza.

-Jonathan, sei pronto?- mi domandò la voce di Ettore alle mie spalle, affiancato da mio fratello Paul. Entrambi mi guardavano ansiosi. So che sicuramente mia sorella aveva riservato per loro la funzione di un'eventuale placcaggio se fossi scappato. Ma sul serio, io ero molto più preoccupato che fosse lei a scappare rendendosi conto dell'enormità di ciò che stava per fare. Non era una scelta facile da prendere per una ragazzina che solo una settimana prima aveva compiuto diciotto anni.

-E' abbastanza tardi.- mi fece prendente mio fratello guardando l'orologio che aveva al polso. Entrambi erano elegantissimi nei loro abiti neri che mia sorella aveva scelto appositamente per loro. Alla fine io e Lorie avevamo scelto ben poco di quelle nozze. Laura avrebbe voluto sposarsi in Italia, nella chiesa in cui aveva ricevuto tutti i sacramenti, però Marie le aveva fatto notare che sarebbe stato difficoltoso un matrimonio nella sua città quindi alla fine lei aveva semplicemente accantonato l'idea. Io avrei voluto che i fiori al matrimonio fossero le buganvillee che tanto piacevano a Laura, il primo fiore che le avessi mai regalato. Marie mi aveva guardato alzando un sopracciglio quando lo avevo proposto e mi aveva fulminato con lo sguardo. -i fiori ai matrimoni sono le peonie, rosa!- aveva decretato lei senza ammettere repliche. La cosa più divertente di quella scelta era stata la faccia di Laura quando le avevo comunicato la notizia quella sera a cena. La sua faccia di disgusto all'idea di doversi preparare ad una chiesa piena di fiori rosa l'aveva scioccata profondamente.

-Sono pronto.- li tranquillizzai entrambi con aria seria avvicinandomi alla porta. Ettore aveva in mano il fiore che avrebbe dovuto appuntare nel mio occhiello ma io fermai le sue mani prima che potessero avvicinarsi troppo. -Lascia stare, ho già un fiore.- gli risposi con molta calma mentre guardavo l'orologio che portavo al polso. Il fioraio che io avevo chiamato era in ritardo. -basta che aspettiamo cinque minuti.- lo rassicurai con calma.

Quell'orologio me l'aveva regalato lei quella sera. Come eravamo arrivati ad intenderci così bene con quella ragazza che neanche sei mesi prima ero convinto di odiare a morte? E adesso mi stavo sposando. Era un enorme cambiamento anche per me. Soprattutto per me. Non avevo mai creduto al matrimonio. Avevo sempre avuto solo l'esempio dei miei genitori e il loro matrimonio era finito in modo pessimo. Lui che abbandona la sua famiglia, un bambino che soffre. Infondo io non ero forse così per causa sua? Ma con Laura sapevo che sarebbe stato diverso, me lo sentivo. Era impossibile che mio padre provasse un amore tanto forte per mia madre. Io non amavo semplicemente la ragazza che stavo per sposare, provavo per lei un sentimento tanto intenso che avrei anche potuto dare la mia vita per lei. Non lo dicevo in modo superficiale. Quando io e Reena avevamo rotto avevo tentato il suicidio, avevo creduto che tutto stesse capitolando nella mia vita, mi ero sentito perso nel nulla, in un mondo in cui solo Reena poteva indicarmi la strada. Ma quella notte di Giugno in quell'hotel di Londra avrei messo fine alla mia vita per puro egoismo. Speravo che lei soffrisse e pensavo che la mia vita fosse finita senza di lei. Non avrei mai fatto una cosa simile con Laura. Lei mi aveva salvato da tutto quello, aveva cercato di insegnarmi il senso della vita nelle piccole cose. Poco importava se io l'avessi trovato solo in lei il senso della vita. Improvvisamente la mia prospettiva nella vita era cambiata. Avrei dato la mia vita affinché lei vivesse e non avrei mai fatto nulla che potesse renderla infelice o che potesse nuocerle. Sapevo, in un modo strano e doloroso, che in quel momento le nostre vite erano legate a doppio filo. Se io avessi fatto del male a me stesso ne avrei fatto anche a lei. E quello non potevo proprio perdonarmelo.

L'avevo realizzato quella sera. La sera dell'orologio, la sera dei chiarimenti, la sera di Reena.

 


Ero in piedi contro la vetrata del salotto con il Tamigi che correva veloce sotto di me lasciandomi riflettere sulla settimana appena passata. Avevo in mano un contratto di lavoro che avrei dovuto leggere ma che mi avrebbe portato mille miglia lontano da lì dove stavo, stavamo, cercando di costruire la nostra nuova vita. Non ero certo di volere questo. Il signor Hennington mi aveva fatto ben capire che quello era un gran contratto, che mi avrebbe permesso di arrivare di nuovo al livello che avevo raggiunto con Woody Allen. Mi morsi il labbro e mi lasciai cadere sul divano. Forse era arrivato il momento per parlare di quello anche a lei, discuterne insieme e trovare una soluzione accettabile ad entrambi. Anche se probabilmente lei mi avrebbe detto semplicemente di partire. Avevo avuto un incontro con il mio manager appena tornati dall'Italia. Il viaggio onestamente più orribile che io avessi mai fatto. Lorie non era ancora riuscita a superare bene la rottura con la sua famiglia e alla fine aveva deciso che voleva che si sapesse del nostro matrimonio. Erano già passare diverse settimane e lei non aveva più risollevato l'argomento. Continuava a lavorare, ad andare in facoltà e a studiare. Non parlavamo mai di ciò che era successo. Anzi, ultimamente parlavamo davvero poco. Sapevo che aveva mille cose in mente adesso e che dovevo lasciarle i suoi spazi però mi sentivo molto solo. Mi passai una mano tra i capelli e sentii suonare alla porta. Davvero? Aveva dimenticato le chiavi? Sorrisi tra me, ero felice che fosse di nuovo a casa, quel giorno non avevo lavorato e le avevo chiesto di rimanere a casa anche se aveva lezione. Mi aveva risposto che non si poteva fare, che doveva dimostrare di potersela cavare da sola e che se avesse cominciato a marinare le lezioni non avrebbe mai dimostrato tutto il suo valore. Come se lo dimostrasse solo con quello e non con tutta se stessa, sempre. Mi alzai e andai ad aprire trovandomi davanti quella che non era assolutamente una bella visione come la ragazza che avevo immaginato fino ad un attimo prima.

- Ciao.- mi salutò con quel suo odioso fare civettuolo il mio peggior incubo ricorrente.

Strinsi la mano intorno alla maniglia per non prenderla violentemente a schiaffi e le sbattei la porta in viso senza aggiungere neanche un saluto, che tra l'altro non meritava. Tornava adesso dopo anni e...cosa pretendeva? Che l'accogliessi a braccia aperte come un cucciolo sperduto? Il campanello riprese a suonare insistentemente e benché cercassi in ogni modo di ignorarla alla fine fu troppo anche per me. E non solo per il fastidioso campanello. Volevo sapere con tutta onesta cosa volesse adesso quella stronza da me. Andai ad aprire con un sorriso velato sulle labbra, mi poggiai allo stipite della porta e rimasi a guardarla. Era bella, lo era sempre stata, bassina, scura di pelle, con gli occhi quasi neri che avevo sempre pensato fossero grandi. Non lo erano. E non era affatto naturale come pensavo. I capelli perfettamente acconciati, un abito che sembrava, e probabilmente lo era, fatto proprio per mettere in evidenza ciò che di buono aveva. Un aggettivo che mi venne subito in mente fu “borghese”. Laura lo usava con me ogni volta che mettevo qualcosa di particolarmente ricercato e non era assolutamente un complimento.

- Non sei stato carino a chiudermi la porta in faccia.- mi rimproverò con un bel sorriso avvicinandosi di un passo. Non mi mossi un un centimetro e la porta rimase socchiusa. - non mi fai entrare?- domandò leggermente a disagio.

- No!- risposi semplicemente incrociando le braccia al petto. - sei qui per un motivo?- domandai riuscendo benissimo a farle capire che non me ne importava assolutamente nulla.

- Ho visto le tue foto, sul giornale. Stai bene.- costatò facendomi arrabbiare anche di più di quanto non lo fossi già.

- Sì, sto benissimo. Certamente non grazie a te.- le risposi tagliente.

- Grazie a questa Laura?- chiese di nuovo diventando acida e fastidiosa.

- Sì, grazie a Laura.- ammisi senza riuscire a reprimere un sorriso spontaneo che nacque sulle mie labbra pronunciando il suo nome.

- È la tua ragazza?- aveva aggrottato la fronte truccatissima e mi venne quasi la voglia di porgerle una delle salviettine struccanti di cui invece una persona di mia conoscenza non aveva decisamente bisogno.

- Sì.- non c'era stata nessuna esitazione nella mia voce nel pronunciare quel semplice monosillabo. Anzi. Avrei voluto dire che non era la mia ragazza, era la mia fidanzata, la mia futura moglie. Avrei voluto che lo sapesse tutto il mondo. Semplicemente non volevo metterla nell'odiosa situazione di dover lottare con la stampa appena la notizia di fosse diffusa. Non senza il suo permesso tra l'altro. Avrei dovuto subire la sua ira e, benché la trovassi incredibilmente sexy quando era arrabbiata, in quel momento era troppo triste perché dovesse pensare anche a questo. Sorrisi tra me guardando involontariamente l'orologio che avevo al polso. Stavo perdendo il mio tempo con quella piccola snob rompi scatole.

- La stai aspettando? È per questo che non posso entrare?- chiese lei mordendosi il labbro con fare, inutile negarlo, seducente. Probabilmente se l'avesse fatto solo qualche mese prima, prima di pasqua, le avrei perdonato tutto. Ma adesso avrei voluto altre labbra da baciare. Perchè sapevo che faceva così per il desiderio di essere baciata.

- Noi due viviamo insieme.- precisai passandomi una mano tra i capelli e sulla guancia come per togliere via il torpore che quella conversazione mi provocava. Mi sentivo effettivamente stanco e annoiato.

- Cosa?- domandò lei sgranando gli occhi. La fronte ancora ricoperta di rughe ma coperta dal ciuffo perfettamente messo in piega. Mi venne da ridere perchè quella battuta era diventata per me ormai famosa.

- Vuoi che ripeta?- le chiesi gentilmente fingendo cortesia.

- Vivi con lei ma non volevi farlo con me?- incalzò dandomi un colpo sul petto. Era arrabbiata e non riusciva a nasconderlo. Lei che di solito era così posata adesso stava perdendo il controllo. Le guardai la mano parecchio infastidito e la scostai dal mio petto come se fossi rimasto disgustato da quel contatto indesiderato. Lo ero in realtà. Nessuna recita.

- Lei non è te. Tutto qui.- ammisi facendo spallucce e mettendomi dritto. La porta si aprì ed io, al pensiero di ciò che volevo dire, sentii montare dentro la rabbia. -Non mi sento a disagio con lei, non mi sento inferiore, non sento il suo continuo giudizio e vuoi sapere una cosa?- ero avanzato di un passo ad ogni inciso e adesso incombevo su di lei che aveva fatto solo un passo indietro spaventata quando mi aveva visto troppo vicino e troppo arrabbiato. Eppure sorrideva. Avrei voluto sfregiarle il viso per impedirle di sorridere un'altra volta. Ma per adesso avrei dovuto accontentarmi di un metodo meno rozzo. La verità. - Io sono innamorato di questa ragazza.- dirlo ad alta voce di fronte a Reena Hammer mi fece davvero capire che quella era la cosa giusta, non avevo mai creduto che sarebbe stato tanto evidente che per una volta avevo fatto la cosa giusta. Eppure fui travolto dalla realtà travolgente di quelle parole. -La amo più di quanto non abbia amato te in tanti anni.- conclusi sapendo che, anche se non l'avessi voluto dire, sarebbe uscito spontaneamente.

La vidi sgranare gli occhi in preda a quello che giudicai una ferita al suo orgoglio. Fece un ulteriore passo indietro e gli occhi le divennero lucidi. Rimase in silenzio per quelle che mi sembravano ore. Perchè non mi ero girato e non l'avevo mandata a quel paese? Perché non stavo facendo la cosa giusta? Perché provavo dispiacere nel vederla così?

- Questo non è molto carino da dire Jhonny.- ruppe il silenzio con quelle poche parole pronunciate con voce tremante. Non provai assolutamente nulla. Un mezzo sorriso sollevò l'angolo delle mie labbra.

- Dici?- le domandai sforzandomi di non scoppiare a ridere di gioia.

Evidentemente le cose non stavano andando secondo i piani della ragazza stronza e calcolatrice che avevo davanti. La fronte le si rilassò e gli occhi si ridussero ad una fessura.

- A me non sembra come dici.- sussurrò con quella che voleva essere un'espressione feroce e... - A me tu sembri molto ferito.- tirò ad indovinare avvicinandosi. Mi posò le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi. - Mi dispiace di averti ferito. Io...- aveva addolcito la voce come se avesse mangiato un cucchiaio di miele, aveva abbassato il tono e si stava avvicinando al mio viso. A quel punto non riuscii più a trattenermi e scoppiai a ridere.

Lei si allontanò di un passò e incrociò le braccia al petto.

- Stai ridendo?- domandò con una nota di incredulità nella voce che fece aumentare la mia ilarità.

- Sì, rido.- confessai cercando di calmarmi. - Sei tu che mi fai ridere.- mi voltai pronto a rientrare in casa, ma prima che potessi chiudere la porta lei si era già intrufolata dentro.

- Perchè?- gridò in preda al nervosismo guardandomi con rabbia.

Avevo cercato di rilassarmi, di non gridare, di prendere quella visita per ciò che era, una perdita di tempo. Ma odiavo che mi gridasse contro.

- Io ho fatto questo, io ho fatto quello, io, io, io, io... smettila di dire io! Non stiamo più parlando di te stupida stronza viziata.- le gridai contro afferrandola per le spalle e scuotendola forse un po' troppo forte. - Stiamo parlando di me e di Laura e del fatto che stiamo bene e che, se te lo stai chiedendo, sì, ho intenzione di sposarla.-

- Come? La conosci appena!- sbottò con decisione senza fare nulla per cercare di liberarsi dalla mia presa.

- La conosco abbastanza.- conclusi lasciandola andare. Mi diressi in cucina e presi un bicchiere di vino dal frigo sorseggiandolo con calma, lei si era avvicinata ma non era entrata. -Comunque devo aspettare che faccia diciotto anni.- cercai di recuperare la situazioni, di non farle capire che era già un dato di fatto che ci saremmo sposati se lei mi avesse voluto ancora.

Non riuscivo a capire perchè l'avevo detto. Sapevo perfettamente che sarebbe stato solo un gesto per dare a quella stronzetta qualcosa da dire. Eppure avevo sentito la necessità di precisare quel particolare.

- Cosa?- era la terza volta che utilizzava quella parola e adesso cominciava a darmi sui nervi.

- E' la sola parola che conosci, tesoro?- sputai quel tesoro con ribrezzo e la superai uscendo dalla cucina e sedendomi sul divano guardando fuori dall'ampia vetrata.

- Ti sto odiando Jhonny!- gridò lei di nuovo in preda ad una crisi isterica.

- Io ti ho già odiato, poi ti assicuro che passa.- la rassicurai tranquillamente sorseggiando il mio vino.

- Lei è minorenne?- continuò a gridare avvicinandosi e piazzandosi proprio davanti a me provocandomi un eccesso di bile in bocca che avrei voluto sputarle dritto in viso.

- Ancora per qualche mese sì.-

- Potresti finire in prigione.-mi fece notare lei come chiunque altro avesse avuto il piacere di conoscere la nostra enorme differenza d'età e si fosse sentito in dovere di farci sapere la propria inutile quanto indesiderata opinione.

- Non mi importa.- conclusi con lei come avevo risposto a tutti gli altri e sperando che finalmente avesse afferrato il messaggio e se ne fosse andata.

- Jhonny!-invece, evidentemente, non era abbastanza intelligente. Aveva ripreso a gridare più di prima come una bambina capricciosa e dispettosa a cui era stato portato via il giocattolino che aveva lei stessa messo da parte perchè non lo voleva più.

Scattai in piedi parecchio irritata, sapevo di aver sgranato gli occhi e di sembrare un terribile invasato. Lo capivo anche perchè aveva fatto un passo indietro spaventata alzando le mani come per difendersi da un passibile attacco che avrebbe potuto rovinarle quel visino da troia che si ritrovava.

- Smettila! Smettila di chiamarmi Jhonny!- stavo gridando di nuovo anche io, sapevo che non era un buon metodo quello ma non riuscivo a non farlo. Provavo un terribile sentimento d'odio per quella donna davanti a me. -Io non sono il tuo Johnny, io sono Jonathan ok? Non voglio avere nulla a che fare con te!- l'avvisai afferrandola per il braccio e accompagnandola poco gentilmente verso la porta. - adesso vattene e se tieni al tuo faccino non tornare!- aprii la porta e la spinsi fuori ma prima che potessi sbatterle di nuovo la porta in faccia ebbe lei l'ultima parola.

- No, non è vero. Io sarò sempre la tua Reena e tu sarai sempre il mio Jonathan.- mormorò con le lacrime agli occhi sistemandosi il vestito e il giacchino scombinato.

Mi diede le spalle e scese le scale di corsa.


 

-Dove siete?- gridò mia sorella ad Ettore dall'altro capo del telefono. Sapevo che quello era un rimprovero al suo lavoro di placcatore. Probabilmente pensava che fossi già fuggito in Nuova Guinea.

-Se ti rilassi ti spiego.- le suggerì Ettore con la solita voce calmissima di chi cerca in ogni modo di far rilassare la controparte prima di dare una notizia atroce. Era pessimo in quel lavoro. Aveva sempre quel suo fare da medico che deve dare una brutta notizia.

-No, non mi rilasso! Dovevate essere in chiesa invece Alan mi ha chiamato e dice che non ci siete!- continuò a gridare in preda ad una collera isterica che in brevissimo tempo l'avrebbe portata alle lacrime. Alzai gli occhi al cielo e tesi la mano verso il telefono di Ettore facendogli capire che avrei spiegato io tutto a mia sorella. Lui mi guardò per un attimo, aggrottò la fronte e poi mi passò il telefono mentre ancora Marie, dall'altro capo, gridava frasi sconclusionate.

-Ehilà, fanciulla mia.- scherzai con un sorriso tranquillo nella voce.

Piombò il silenzio. Probabilmente non si sarebbe mai aspettata di sentire la mia voce. Ero convinto che si fosse già prefigurata il peggio, che stesse già pensando a dove venirmi a cercare o come dare la notizia a Laura.

-Jo...Jonathan?- balbettò tenendo a freno la sua collera che poco prima aveva investito il suo fidanzato.

-Già, sono io.- la tranquillizzai mentre finalmente un camioncino bianco delle consegne di un fioraio si fermava davanti al vialetto di casa mia.

-Non sei scappato?- mi domandò di nuovo lei come farebbe una bambina al telefono con il suo papà lontano da molto tempo e che si ha paura di perdere o non rivedere più. Io mi avvicinai al ragazzo delle consegne e firmai i moduli che mi porgeva. Avevo pagato in anticipo proprio prevedendo di non poter avere contanti a disposizione. Lui mi lanciò un'occhiataccia perché lo lasciai andare via senza mancia. Ci mancava poco che mi dicesse: “Tirchio di un attore.” Persi il bouquet che mi porgeva e mi voltai verso Ettore che alzò gli occhi al cielo. -Jonathan rispondimi cazzo!- mi sgridò Marie. Effettivamente avevo dimenticato quasi della sua presenza al telefono impegnato com'ero a sistemare il fiore nell'occhiello della giacca nera.

-Sì, scusami...senti, siamo in macchina, stiamo arrivando.- la rassicurai mettendo giù.

Sapevo che si sarebbe arrabbiata abbastanza per quello che stavo facendo contravvenendo alle sue scelte, però era il nostro matrimonio, non il suo, lei avrebbe avuto il suo momento senza dubbio, non adesso però.

-Si arrabbierà con me lo sai?- mi domandò lui mentre porgeva a Paul le chiavi della macchina e lui prendeva quelli dell'auto che avevo gentilmente concesso di prestargli.

-Sì, lo so, ma è il prezzo da pagare per la mia Lamborghini.- lo presi in giro dandogli un colpetto affettuoso sulla spalla.

-Jonathan, per te questo e altro.- scherzò lui a sua volta ridendo divertito mentre si avvicinava all'auto ed io salivo su quella di Paul.

Il telefono di Paul squillò non appena entrambi chiudemmo le portiere. Quel giorno non avremmo avuto tregua, ne ero più che consapevole.

-Pronto?- rispose lui mettendo in moto con il viva-voce attivo.

-C'è Jonathan lì?- domandò la voce di mio fratello Jamie con una nota di ansia nella voce. Quel giorno erano tutti ansiosi e cominciavano a far salire l'ansia anche a me che fino ad un attimo fa ero del tutto tranquillo.

-Sì, sono qui, quale altra sventura è capitata?- domandai sbuffando e alzando gli occhi al cielo.

-Quale delle due vuoi sapere prima?- domandò lui a sua volta beffeggiando il mio tono. - quella brutta solo per te o quella brutta anche per Laura?- quando sentii le sue parole mi sistemai meglio sul sedile ed ebbi l'istinto di prendere il telefono e togliere il viva-voce.

-Che è successo a Laura?- chiesi in apprensione.

-Reena Hammer.- quelle due parole bastarono a farmi salire un tale attacco di rabbia che per poco non sferrai un pugno al finestrino. Se avessi danneggiato la macchina di Paul mi avrebbe ucciso.

-Jamie, vaffanculo!- gridò infatti lui guardandomi di sottecchi mentre cercavo di contenere la rabbia stringendo semplicemente i pugni.

-Ne ho ancora un'altra..- ci fece presente lui con tranquillità questa volta. Era felice di avere tutta la nostra attenzione.

-Hitler?- chiese Paul indignato dal comportamento da demente di Jamie. Ma si sapeva che lui era così, non potevamo farci niente.

-Vi prendete beffe di me?- domandò Jamie arrabbiato. Sapevo che avrebbe incrociato le braccia al petto se fosse stato di fronte a noi.

-Gaspard Ulliel che le fa da accompagnatore.- concluse lui. Paul si rilassò. Probabilmente lui pensava che quello fosse un bene. Era un modo per liberarci di due seccature. Dopo le foto del mio compleanno e le varie premier di Dracula tutti si erano accorti di quanto l'attore francese avesse un debole per la mia fidanzata. Paul poteva pensare che in questo modo ci fossimo liberati di due pesi.

Eppure una cosa del genere io dovevo aspettarmela. Non ero stato abbastanza lungimirante evidentemente. Laura lo era stata molto più di me.

-Vaffanculo.- sbottai semplicemente mettendo giù la chiamata.


 

-Sono a casa.- mi avvertì una voce a me fin troppo famigliare con una dolcezza che mi riempì il cuore.

Si era già fatto tardi, solitamente Laura era solita tornare molto prima a casa. E quel giorno ne avrei davvero avuto bisogno. Non riuscivo a non pensare al viso di Reena, alle sue parole. Non riuscivo a non pensare alla vita di quella ragazzina neanche maggiorenne che presto sarebbe stata mia moglie. Ero rimasto in salotto, seduto sul divano, il copione dell'episodio in mano. Lo leggevo senza davvero capire cosa ci fosse scritto. Mi alzai lentamente avvicinandomi all'ingresso con le mani in tasca, un mezzo sorriso sul viso che però non coinvolgeva gli occhi. Il suo viso era stanco, provato, da quella lunghissima giornata che era finalmente finita anche per lei.

-ciao- la salutai con dolcezza mentre poggiava le chiavi all'ingresso e lo zaino che aveva in spalla per terra. A nulla era valso il tentativo di spiegarle che poteva avere una stanza tutta per lei e per le sue cose evitando i lasciarle in giro per casa. A lei piaceva così. E dopo tutto a me piaceva ciò che piaceva a lei.

-ciao...- mi rispose sollevando finalmente lo sguardo verso di me e aprendosi in un sorriso stanco ma assolutamente sincero che le illuminò il suo bellissimo viso. Si avvicinò a me e mi strinse in un abbraccio che avrebbe avuto un che di fanciullesco se le sue labbra non avessero subito cercato le mie con una tenerezza che non aveva nulla di lussurioso o malizioso. Solo tanto affetto.

-Come è stata la tua giornata?- mi domandò sulle mie labbra accarezzandomi le guance e il viso.

-lunga.- ammisi facendo semplicemente spallucce senza aggiungere altro. Non volevo parlare con lei di quell'incontro che avevo appena avuto con Reena Hammer. Non volevo rovinare quel momento di dolcezza che era più unico che raro.

-Anche la mia...- ammise sospirando e nascondendo il viso sul mio petto. - oltre alle lezioni ho avuto anche il lavoro!- si lamentò piano come una bambina. Le posai un bacio sulla testa e mi allontanai appena diretto in cucina trascinandola letteralmente dietro di me. Se non l'avessi costretta a mangiare probabilmente sarebbe andata a letto digiuna.

-Non lamentarti, quando dovrai cominciare a pensare alle nozze sarà anche peggio.- la presi in giro dandole un buffetto sulla guancia. Aprì il frigo mentre io recuperai una pentola e la misi sul fuoco.

-Può anche darsi...ma di sicuro sarà qualcosa che faremo insieme.- costatò lei con aria seria assolutamente convinta delle sue parole.

-Piuttosto, Marie ti ha mandato un fax...è lì su, dagli un'occhiata.- la invitai indicando l'isola in cucina. Sul centrotavola avevo lasciato un foglio piegato in tre a fisarmonica che era arrivato quel pomeriggio. Marie cominciava ad indisporsi per il nostro ritardo nei preparativi.

-Devo preoccuparmi vero?- domandò lei allontanandosi da me per andare a prendere quel foglietto.

-Devi sempre farlo quando si tratta di Marie.- le risposi cospargendo la padella di sale. Avevo imparato a cucinare da pochissimo e dovevo ammettere che mi piaceva farlo. Non per una ragione in particolare, però mi piaceva sperimentare, per quel poco che riuscissi a fare, e mi piaceva che Lorie mangiasse ciò che preparavo per lei.

-Ok, leggo ad alta voce?- domandò lei sedendosi su uno dei sgabelli con aria assorta mentre dava un'occhiata a quella lunga lista che spiccava nero su bianco su quel foglietto.

-Ti ascolto.- scherzai anche se quel foglio lo avevo già letto. Dovevo suggerire a mia sorella di farsi un po' di fatti suoi quando l'avrei rivista.

-Allora...- cominciò lei schiarendosi la voce. - Salve ragazzi, sono qui per darvi alcuni suggerimenti pratici e per farvi capire che un anello non fa matrimonio. Dovete decidere una data, dopo il compleanno di Laura non è una data è un'indicazione temporale che va dal sei di Dicembre all'infinito, più o meno. Dovete stilare una lista degli invitati. O almeno, Laura deve farlo. A Jonathan ci penserò io visto che mio fratello sembra inebetito. Dovete prenotare la chiesa, sapete quanto tempo prima bisognerebbe prenotare per la chiesa che volete? Beh, sbrigatevi! Dovete prenotare il locale, pensare ai vostri vestiti e a quelli dei testimoni, i fiori, i paggetti, la lista nozze, il viaggio di nozze, estetista, parrucchiere e autista. Quando avete intenzione di fare tutto questo? Per sicurezza comunque vi aiuterò per le cose più importanti visto che voi siete del tutto inefficienti!- Lorie aveva letto tutto d'un fiato imitando perfettamente il tono di mia sorella quando ci rimproverava da piccoli. Evidentemente doveva averlo fatto anche con lei qualche volta. Sollevò il viso da quei foglio e mi guardò con un'aria da maestrina. -p.s. Ringraziate che esisto stupidi idioti.- concluse lei. Sapevo che non c'era nel fax ma effettivamente si inseriva benissimo all'interno di quella breve lista di cose da fare. Scoppiai a ridere mettendo la carne sul fuoco e Laura ridacchiò richiudendo in tre il foglio.

-Sembra una cosa fattibile...- fece notare lei con aria pensierosa. -tu che giorno vuoi sposarti Jonathan?- mi domandò lei ad un tratto con gli occhi che vagavano per la cucina senza guardare effettivamente nulla. -Io avevo sempre sperato nel ventinove maggio ma...adesso mi sembra decisamente troppo lontano.- continuò lei ancora immersa nei suoi pensieri passandosi una mano sulla guancia.

-Che ne dici di Dicembre?- proposi io senza avere davvero l'intenzione di metterle così tanta fretta. Mancava meno di un mese a Dicembre e non volevo che sentisse la pressione di una cosa fatta con troppa fretta.

-che ne dici del dodici dicembre?- mi domandò lei a sua volta guardandomi attentamente in viso. Fino ad un attimo prima sembrava quasi che stessimo scherzando su tutto, che fosse solo un gioco per stuzzicarci a vicenda e adesso stavamo parlando seriamente della data del nostro matrimonio.

-Mi sta benissimo.- concordai io. E quella sera, dopo la litigata con Reena, avevamo scelto la data del nostro matrimonio.

-Bene!- esclamò lei soddisfatta. -ho anche un regalino per te!- era così entusiasta e vivace che per un attimo mi girò quasi la testa per l'improvviso cambiamento. Scese dallo sgabello e corse in salotto tornando poco dopo con un pacchetto di una gioielleria.

-cos'è?- domandai io togliendo la carne dal fuoco e mettendola in un piatto.

-Aprilo, è per te, io penso alla cena.- mi invitò lei raggiungendomi e mettendomi il pacchetto tra le mani prendendo il mio posto ai fornelli. Guardai quella scatolina dalla forma quadrata, la scartai piano e la rigirai tra le mani con fare incerto. -Non è una bomba.- mi prese in giro lei ridacchiando.

-Con te non si sa mai.- la presi in giro meritandomi una linguaccia.

Mi rigirai quel pacchetto tra le mani un paio di volte prima di decidermi a svelarne il contenuto. Era un orologio. Il cinturino in pelle, il quadrante in oro. Era un orologio importante eppure era così sobrio da sembrarmi estremamente elegante. Molto alla Kennedy, lo ammettevo. Aggrottai appena la fronte e lo guardai stralunato. Dovevo ammettere che non mi aspettavo nessun regalo. Era rarissimo che ne ricevessi, nessuno me ne faceva da...tantissimo tempo. Eppure quella ragazzina riusciva sempre a stupirmi, a lasciarmi senza fiato.

-Non ti piace?- domandò dopo un attimo con un filo di voce.

Sollevai lo sguardo verso di lei e la vidi terribilmente preoccupata senza nessuna ragione.

-E'...bellissimo.- ammisi dopo un attimo di silenzio. Le mie labbra si piegarono in un sorriso e la presi tra le braccia stringendola a me con fare assolutamente protettivo e molto, forse troppo, possessivo. Lei era mia, volevo che tutti lo sapessero. Volevo che tutti sapessero che sarebbe stata mia moglie per il resto della nostra vita.

-E' il mio regalo di fidanzamento per te, amore mio.-

 


Guardai l'ora per l'ultima volta. Mi trovavo fermo sull'altare e cominciavo davvero ad essere nervoso. La chiesa era gremita di gente. Quando ero entrato e avevo percorso la navata molti mi avevano fermato per salutarmi e avevo visto visi famigliari, colleghi, parenti, amici. I miei fratelli erano lì, sull'altare, tutti e tre. Alan, Jamie e Paul che arrivò con me. Loro tre sarebbero stati i miei testimoni più uno d'eccezione, il mio quasi fratello. Ettore. Non avevo mai apprezzato i fidanzati di mia sorella però quel ragazzo mi piaceva. Non sapevo perché. Forse me l'ero fatto piacere perché piaceva a Laura. Jamie mi guardò non appena i nostri sguardi si incontrarono e poi mi fece segno di guardare alla sua destra. Il mio sguardo seguì il suo e incontrò due paia di occhi. Un paio nocciola, una tonalità più chiari di quelli della mia fidanzata e un paio blu, come la notte. Entrambi erano estremamente seri e composti. In attesa. Io sorrisi a tutti e due come se mi stessi facendo beffa di loro e li salutai con un sorrisetto divertito mentre prendevo posto sull'altare accanto ai miei fratelli.

-Stai bene.- si complimentò Alan dandomi una pacca sulla spalla.

-Grazie.- risposi io molto tranquillamente voltandomi verso l'ingresso. Avevo un mano un bouquet di buganvillee che sarebbero state il mio ultimo regalo alla mia fidanzata. Amore eterno. Quello il loro significato. Quello mi aveva detto un giorno Lorie, passeggiando per i viali sporchi della sua città, fermandosi accanto ad un muro pieno di quei rampicanti.

-Dicono che questi fiori siano come il vischio.- aveva cominciato lei con gli occhi che le luccicavano appena. -dicono che sono una pianta parassita che uccide tutto ciò su cui si innesta.- presi uno di quei fiori tra le mani e lo guardò. - forse è questo il motivo del loro significato. Infondo anche l'amore è così. Uccide tutto ciò su cui cresce e non lascia altro se non quell'amore stesso. E cresce ovunque, proprio come la buganvillea, e spesso nessuno lo vede proprio perché non è raro come tutti dicono ma ha solo bisogno d'attenzione. C'è ovunque ma non lo si apprezza.-

Qualche istante dopo la marcia nuziale cominciò.



Note Autrice:
ok, non vogliateme a male ma "la luna di miele" (con qualche piccolo flash sul matrimonio, vi spoilero ad esempio che vi farò leggere le promesse di Jonathan che tra l'altro sono bellissime e se il mio fidanzato mi dicesse una cosa del genere scoppierei a piangere...xD ma magari è che io sono così perdutamente innamorata di Jonathan che sembra sempre perfetto) voglio tenermelo per San Valentino.
quindi il prossimo aggiornamento sarà, puntualissimo, il 14 Febbraio! (qualsiasi cosa accada! v.v tranne la fine del mondo perché a quel punto non potrei proprio aggiornare)
per il resto...nulla. vi dico fin da subito che il mio periodo dolcezza finirà immediatamente con l'inizio delle lezioni. un piccolo accenno lo potete già leggere in questo capitolo ma vi prennuncio una catastrofe di proporzioni apocalittiche che neanche Sam e Dean Winchester saprebbero come affrontarla! v.v
grazie mille a chi ha recensito fino ad ora, a chi ha iniziato adesso a leggere, grazie mille a tutti. spero che vogliate ancora farmi sapere cosa ne pensate del capitolo e della storia in generale. vi mando un bacio e vi auguro un buon fine settimana ((:

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Capitolo 13
*** yes, I do ***


Tornare a lavoro dopo la luna di miele non fu facile per nessuno. Ne per me, ne per Jonathan. Facevo ancora fatica a stare attenta a lezione e i miei amici facevano ancora fatica a non aggrottare la fronte quando lo sguardo gli ricadeva sulla fede d'oro che portavo all'anulare della mano sinistra. Io poi non facevo nulla per nasconderla, anzi. Ci giovano continuamente sorridendo sotto i baffi per gli sguardi indiscreti. Adesso ero anch'io qualcuno. La gente cominciava a riconoscermi e sapeva chi ero. Sapevano del mio matrimonio con Jonathan, della mia partecipazione al telefilm, sapevano molto di me eppure non erano tanto indisponenti da darmi fastidio durante le lezioni. Qualcuno si avvicinava di tanto in tanto quando, durante le ore buca, andavamo in biblioteca o ci sedavamo su una panchina nel giardino. Jonathan era stato così gentile da non venire mai in facoltà costringendomi a dovermi sorbire gli sguardi invidiosi delle ragazze che sembravano voler spogliare con gli occhi mio marito. Non l'avrei sopportato bene. Adesso, seduta comodamente al mio posto, guardavo il viso del professore che spiegava quella lezione di anatomia molecolare. Annie era seduta accanto a me mentre Ty e Gary non erano venuti a lezione. Sapevo che tra loro cominciavano ad esserci dei problemi. Incomprensioni, aveva sminuito lui quando avevamo ballato insieme al mio matrimonio e gli avevo chiesto spiegazioni per alcuni suoi strani atteggiamenti. Entrambe eravamo in silenzio, ascoltavamo attentamente e prendevamo appunti sui nostri quaderni. La sua scrittura tonda ed elegantemente composta correva piano sul foglio riga dopo riga. La mia, scomposta e allungata si spezzava, lasciava spazzi, riprendeva più in altro o più in basso per segnare dei rimandi o delle annotazioni per evitare che le dimenticassi.

-Allora Lorie, come va la tua vita da donna sposata?- mi domandò dolcemente Annie mentre continuava a scrivere ciò che il prof stava scrivendo alla lavagna. Il pennarello nero sulla lavagna bianca andava pian piano scolorendo, segno che presto avrebbe smesso di lasciare il suo colore.

-Benissimo.- ammisi con un mezzo sorrisetto parlando più piano che potessi. -Non che sia cambiato molto però...non so mi sembra tutto così meraviglioso al momento.- conclusi accompagnando quell'affermazione con un sorrisetto divertito. Non riuscivo a capirmi bene neanche io. Non era cambiato nulla a dire il vero. Lavoro, scuola, coccole. C'era in più solo il sesso e ammettevo che la cosa mi piaceva non poco.

-Com'è stata la tua prima notte di nozze?- mi chiese lei a quel punto provocando un rossore diffuso sulle mie guance. Nessuno mi aveva ancora posto quella domanda, nemmeno Gary che di solito era il primo a parlare di quelle porcherie e sembrava il più curioso sulla mia vita sessuale. Non sapevo neanche come rispondere. Non ne volevo parlare a dire il vero. Era una cosa che doveva rimanere solo mia e di cui ero estremamente gelosa.

-Perfetta.- tagliai corto tornando a seguire il professore con scrupolosa attenzione. Purtroppo il mio pronostico non tardò a verificarsi. Neanche dieci minuti dopo il pennarello smise di scrivere e il professore dovette fermarsi e fare un passo indietro. La classe tacque e qualcuno fece anche cadere la penna sul banco per riposarsi.

-Sei stata coraggiosa ad invitare Reena Hammer al tuo matrimonio.- Annie approfittò subito di quella pausa per tornare all'attacco. Sembrava incredibilmente curiosa di venire a conoscenza di ogni minimo dettaglio sulla mia vita matrimoniale. Non che fosse sbagliato. Eravamo amici, era ovvio che volesse che accadesse. Eravamo diventati amici molto prima che io diventassi qualcuno, anche solo la moglie di un attore. Però Reena era per me un argomento un po' troppo spinoso.

-Non l'ho fatto.- ammisi facendo spallucce. Il professore stava brontolando delle scuse e stava uscendo dall'aula per andare a recuperare un pennarello probabilmente nella sua stanza. Non si fidava degli alunni, doveva fare tutto da solo. Guardai l'ora e mi resi conto che la lezione comunque era praticamente finita. -e neanche Jonathan.- continuai mentre riponevo la penna e il quaderno nella borsa. Quel pomeriggio dovevo anche andare a lavoro per girare il gran finale di stagione e poi avevo appuntamento con il mio manager per un lavoro che era riuscito a procurarmi in Italia e di cui era semplicemente fierissimo.

-E' quindi perché era lì ad insediare il tuo maritino?- domandò lei con il gomito poggiato sul tavolo guardandomi attentamente negli occhi. Sembrava un interrogatorio.

-L'ha invitata Gaspard.- maledetto. Avrei voluto aggiungere. Ma non lo feci. Semplicemente tacqui e mi morsi il labbro un po' più forte del necessario passandomi distrattamente una mano tra i capelli. Avevo avuto modo di parlare con lui quella stessa sera. Un ballo potevo anche concederglielo anche se, non appena io avevo visto la faccia di quella donna che fino a quel momento avevo potuto ammirare solo nelle riviste, non appena Jonathan mi avvertii sull'identità del suo accompagnatore, il primo istinto era stato quello di trucidarlo vivo. Quando ero entrata in chiesa infatti non avevo fatto molto caso alle facce delle persone che mi circondavano, avevo subito cercato al primo banco il viso di mia madre, il viso sorridente della donna che mi aveva messo al mondo e che pensavo mi amasse tanto da non potersi perdere il mio matrimonio, avevo cercato il viso di mio padre, pur corrucciato che fosse. Ma non c'era. Eppure alcune amiche avevano accettato il mio invito. C'era Alaska Shine, con il suo bel sorriso sul viso che mi faceva capire che almeno lei fosse più che felice di essere lì, che era stata felice del nostro invito. C'era Susanna al suo fianco, sua cugina, figlie di una zia che probabilmente, fedele alla decisione dei miei genitori, non era venuta. Però loro erano lì, al posto destinato a quei membri della mia famiglia che mi avevano sempre dimostrato il loro appoggio e il loro consenso nelle mie scelte di vita. Scelte che di certo non avrei cambiato. C'era Nika, poco lontana, la mia cara Monica, che nonostante tutto aveva preso un aereo per essere presente. Anche se non avevamo mai avuto rapporti troppo stretti, anche se la ricordavo solo come una presenza a Natale e Capodanno. Eppure era lì. C'erano Irene, Vero e Chiara. Chi si aspettava che tanti membri della nuova generazione della mia famiglia si sarebbero presentati al mio matrimonio. Io non mi aspettavo nessuno. Pensavo che alla fine solo Alessandra e Cristina avessero accettato. Invece erano tutte lì. E poi c'era lei. La mia fragolottina, come ero solita chiamarla quando ero solo una bambina, la mia compagna di giochi, la mia più fedele sostenitrice. Il suo sguardo si era rivolto per un solo secondo, ricco di odio e rancore, verso un punto alle mie spalle. Ma io non avevo dato troppo peso a quel momento. Non appena i suoi occhi ebbero incontrato i miei ci sorridemmo e capii che tutto sarebbe andato bene. Da quel momento non avevo avuto occhi se non per l'uomo che mi aspettava all'altare con una buganvillea in mano. Avevo subito cercato di reprimere una lacrima di commozione con poco successo e avevo subito cercato la sua mano non appena ero arrivata al suo fianco. Il suo viso era tirato come una maschera di cera, era fermo, rigido, i suoi occhi di ghiaccio mi studiavano attentamente ed io gli sorrisi con un amore indescrivibile. Era così bello. Avevo preso la buganvillea e l'avevo messa al centro del mio bouquet, facendo attenzione che non scivolasse mentre consegnavo a Marie, al mio fianco come mia testimone, il mazzo di fiori. Non avevo guardato il resto dell'assemblea e non sapevo neanche chi fosse venuto se non quando eravamo arrivati al locale per la cena. Ci aspettavano tutti lì, in piedi, ognuno aveva già avuto modo di prendere posto e quando entrammo fu proprio il suo il primo viso che vidi. Al tavolo dei miei colleghi di lavoro svettava questa donna, formosa, con la carnagione olivastra come la mia, i capelli perfettamente acconciati e uno splendido vestito dorato. Mi seguiva con lo sguardo e le mie unghie si conficcarono nel palmo della mano di Jonathan con forza.

-Che cavolo ci fa lei qui?- gli domandai in un sibilo mentre ci avvicinavamo al tavolo degli sposi. Lui si era abbassato un po' verso di me ed il suo viso mostrava un sarcasmo che mi fece aggrottare la fronte. Sapevo che aveva capito di chi stessi parlando.

-Il tuo adorato amichetto francofono ha avuto la brillante idea di invitarla.- rispose lui con un sorrisetto che mi fece capire che neanche lui era felice per questo. -forse pensava che ti avrebbe fatto piacere vederla alle tue nozze.- quella frase era carica di sottintesi e la sua gelosia non era più così celata come riusciva a fare di solito. Mi morsi appena il labbro inferiore e poi sorrisi accarezzandogli la guancia e posando le mie labbra sulle sue in un bacio del tutto tenero.

-Non mi importa.- risposi piano sulle sue labbra prima di sedermi al mio posto dove il cameriere mi stava spostando la sedia.

Ed era vero. Mio marito non aveva occhi che per me ed io non ero da meno quindi, ammesso che loro stessero combinando qualche cosa, noi non ci stavamo neanche facendo caso. Fu una bella serata ed ebbi solo un'occasione per essere gelosa. Dopo il nostro primo ballo purtroppo non avrei potuto costringerlo con me tutta la sera, anche se avessi voluto, e comunque tutti sembravano intenzionati a ballare con me. Gary, il signor Hennington, Singer, mia cugina, i fratelli di Jonathan. Ero stanca quasi di ballare. Quando finalmente stavo per tornare tra le braccia di mio marito ci ritrovammo Reena di fronte. Lo sguardo di Jonathan era freddo ed impassibile, io avevo stretto le labbra in una linea sottile.

-Ciao.- quel saluto era rivolto a me. Le sue labbra si piegarono in un sorriso che mostrava i suoi meravigliosi denti bianchissimi. -Posso avere un ballo con lo sposo?- mi domandò con grande gentilezza.

Non fare la bambina Laura, non fare la bambina, non fare la bambina!

La voce della mia coscienza che mi risuonava nella mente mi impedii di apostrofarla con una risposta troppo colorita e tutto ciò che feci fu di sorriderle a mia volta e farle un leggero cenno col capo mentre facevo un passo indietro. Il mio abito frusciò piano mentre la ragazza prendeva il mio posto. L'avrei volentieri presa a ceffoni, ricordarle che lei aveva deciso di lasciarlo quell'uomo, di non volerlo più e che quindi adesso doveva lasciarlo in pace non fosse per altro se non perché era mio. Una mano fredda si posò sulla mia schiena e una voce calda e suadente mi soffiò nell'orecchio.

-Posso avere un ballo con te Laura?- un perfetto francese che non mi fece il solito effetto. Non sentii nessun brivido sulla schiena, nessun piacere nell'averlo vicino. Ero così arrabbiata che lui per me era il male personificato quella sera. Aggrottai la fronte e mi voltai verso di lui con un'espressione che non ammetteva repliche.

-Sono molto, molto, molto arrabbiata con te.- lo avevo detto a labbra strette, in un sussurro. Lui, per evitare di attirare l'attenzione, mi aveva subito presa tra le braccia avvolgendosi le mie esili braccia al collo e cominciando a muoversi lentamente.

-sì, lo immagino.- rispose lui con molta calma guardandomi negli occhi.

-perché lo hai fatto?- domandai in un sibilo.

Lui tacque. Non disse nulla ma abbassò lo sguardo e quel gesto mi bastò per capire e per farmi arrossire non poco.

-Gaspard...non credo che questo sia un bene.- costatai sotto voce fingendo adesso un sorriso a discapito di tutti quelli che guardavano. -Non mi importa se credi che Reena possa farti felice. Anche se io ho un'altra idea di lei non cercherei di aprirti gli occhi perché mi basta che tu sia contento delle tue scelte.- cominciai piano cercando di essere il meno dura possibile ma già il non mi importa aveva fatto scattare qualcosa sul suo viso. -mi sta bene che tu sia felice e non ti auguro di meno in ogni cosa, nel lavoro, in famiglia e con l'amore.- cercai di mitigare le mie parole di poco prima con una carezza sulla nuca. Le mie dita gli accarezzarono i capelli piano e lui si rilassò appena per un secondo prima di tornare più teso di prima. -però anche tu dovresti esserlo per me. Anche se credi che Jonathan sia la persona sbagliata. Anche se tu fossi contrario a tutto questo e...-

-io sono contrario a tutto questo.- mi interruppe lui a quel punto senza neanche lasciarmi finire la frase. Quel periodo ipotetico della possibilità non gli era andato a genio. Avevo usate le parole sbagliate.

-Perché?- domandai senza pensarci. Eccolo lì, il mio secondo errore. Il più grande di quella serata e quello che si sarebbe dimostrato il più pericoloso.

-Perché?! Mi chiedi perché?- mi chiede lui sbalordito sgranando gli occhi stavamo parlando in francese e la gente intorno a noi ci osservava. -Non credo che tu sia così sciocca da non averlo capito. Non credo che tu sia cieca del tutto.- mi rispose lui stringendo la presa intorno al mio corpo. Le mie mani, ferme sulle sue spalle, scivolarono sul suo petto e lo spinsero appena per allontanarlo.

-Ti prego Gaspard, smettila.- lo scongiurai con un filo di voce pronta a temere il peggio.

E fortunatamente Gapard non era Jonathan. Ben lungo dall'essere un uomo che si lascia sopraffare dalla rabbia cieca lui vide chiaramente il timore nei miei occhi e ne ebbe un reverenziale rispetto. Si scostò del tutto un secondo dopo con lo sguardo carico di scuse e si allontanò immediatamente. Ma non serviva che dicesse o facesse altro. Se anche fino a quel momento fossi stata così cieca da non vederlo, se anche avessi cercato di non vedere preferendo di gran lunga evitare di ammettere quello che avevo di fronte agli occhi adesso mi era tutto fin troppo chiaro. Negli occhi di Gaspard avevo letto la delusione, il dispiacere, la rabbia, il risentimento, il disappunto, la passione, la tristezza, la nostalgia, il pentimento. Tutto quello in un solo, breve e fuggevole sguardo. Cosa non avevo capito da quello sguardo? Mi ero sentita amata ad un punto tale che mi ero ritrovata ad arrossire e mi ero chiesta come facessero gli altri a non accorgersi di quello che stava succedendo. Avevo visto nel suo sguardo un tale coinvolgimento emotivo che era impossibile adesso non ricondurre ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni cosa a quel sentimento che aveva scritto in faccia. Ed io. Io che casa gli stavo dicendo col viso?

-Scusami.- rispose lui. E mi sembrarono delle scuse che avessero a che fare anche con quel sentimento che leggevo sul suo viso. Delle scuse legate anche a quell'emozione nascosta tra i suoi lineamenti d'avorio. Un attimo dopo era di nuovo cereo e al mio fianco era di nuovo comparso l'uomo che mi aveva appena sposato. Lo sguardo che i due si scambiarono non aveva bisogno di spiegazioni e adesso mi sembrò chiarissimo che anche Jonathan avesse capito fin troppo bene cosa passasse per la testa di Gaspard. E quella sera avevo preso la decisione che avrei portato a termine al ritorno dalla luna di miele.

-Cavolo, che stronzo.- mormorò Annie. Per noi le lezioni quel giorno erano terminate ma io avevo ancora molto lavoro da fare prima che la mia giornata lavorativa giungesse effettivamente a termine. Con quelle tre parole Annie mi riportò alla realtà dopo quei ricordi del giorno del mio matrimonio. L'unica pecca in una giornata perfetta.

 

****

Sentivo il cuore che mi martellava nel petto in maniera quasi dolorosa. Ferma, seduta sulla tavoletta del water con lo sguardo perso in un punto su quel bel pavimento di marmo della camera da letto in cui avrei passato la mia prima notte da sposina. La mia prima notte di nozze. Era così difficile da pensare che per un attimo ebbi quasi l'impressione che sarei potuta svenire. Il cuore aveva cominciato a martellarmi con forza nel petto e avevo subito portato una mano sul petto come se il rumore fosse così assordante da poter essere percepito anche fuori da quelle quattro mura che mi separavano dalla camera da letto. Ok, dovevo cercare di darmi una calmata perché stavo rendendo tutta quella storia ben più grave di quanto non lo fosse effettivamente. Mi morsi il labbro e chiusi gli occhi. Di solito erano soprattutto gli uomini che ne soffrivano invece adesso era a me che stava venendo l'ansia da prestazione. Una cosa davvero ridicola. Avevo diciotto anni, non esistevano al mondo molte mie coetanee che fossero ancora vergini. Quasi mi pentivo di non aver sfruttato le mille possibilità che mi si erano presentate negli anni, almeno sarei stata preparata a quel momento. Almeno non avrei avuto paura di rovinare tutto. Volevo fare l'amore con Jonathan, ci fantasticavo su da quella sera in cui ci eravamo arrivati davvero vicini, a Pasqua, in campagna di mia zia e in cui mi ero tirata indietro rovinando tutto come una sciocca ragazzina. Ci fantasticavo su anche da prima di conoscerlo quando per me era soltanto il bel viso e il bel corpo di un telefilm o di una pellicola cinematografica. Adesso era mio marito, volevo averlo, sentivo il bisogno di stare fisicamente con lui, ne ero dannatamente attratta e Dio solo sapeva quanto lo desiderassi. Però il sesso mi inibiva. Avevo avuto un'educazione troppo cattolica nella mia vita, era ormai un dato di fatto, e questo aveva sconvolto gran parte delle mie scelte. Adesso che avevo deciso di andare contro tutta la mia famiglia per amore di un uomo potevo avere anche le palle per uscire da quel bagno senza dare a vedere quanto fossi spaventata! Se lui mi avesse vista in queste condizioni avevo il timore che potesse lasciar perdere ancora una volta ed io, quella sera, non volevo lasciar perdere. Presi un respiro profondo, mi stampai un bel sorriso sulle labbra che tuttavia non illuminò il viso e mi guardai allo specchio per l'ultima volta. Indossavo ancora la biancheria bianca che avevo portato sotto l'abito da sposa. Lo avevo tolto non appena, pochi minuti prima, la porta del bagno si era chiusa alle mie spalle e che adesso mi guardava da un angolino del grande bagno. Aveva tre dita di fango a sporcare l'orlo e tutto lo strascico rovinato. Alla fine il tempo non aveva retto e verso le dieci aveva cominciato a piovere. Io e Jonathan eravamo fuori quando le prime gocce erano venute giù, lui mi teneva tra le braccia come non aveva mai fatto e come non sembrava essere capace di non fare quella sera. Non ci stavamo dicendo nulla, ci stavamo semplicemente facendo accompagnare dalle note di una canzone degli O'Keeffe Brothers. Avevamo sollevato il viso insieme verso il cielo ed io avevo sorriso senza una vera ragione. Ero così felice quel giorno che tutto era per me fonte di gioia e di riso.

«Dovremmo rientrare.» aveva sussurrato Jonathan tornando a guardarmi. Avevo sentito il suo sguardo su di me e avevo semplicemente scosso la testa prima di tornare a guardarlo, occhi negli occhi, e appoggiare il viso al suo petto. Avevo sentito il suo cuore battere, calmo e regolare contro il mio viso, e mi ero ripromessa di essere sempre la ragione del suo sorriso e della sua calma.

«Ancora cinque minuti.» avevo sussurrato come una bambina. E lui non mi aveva detto di no. Non lo faceva mai. Mi aveva stretta un po' di più e avevamo continuato a ballare piano.

Eravamo rientrati solo quando ormai la pioggia aveva fatto ben capire che non sarebbe stata solo passeggera e leggera ma che ci avrebbe dato giù di brutto.

Avrei dovuto portarlo in lavanderia l'indomani, se me ne fossi ricordata. Quante volte avevo chiesto alla mia mamma di farmi indossare il suo abito da sposa? Quante volte lei mi aveva detto che non poteva, non voleva, non era il momento, lo avrebbe fatto presto e poi in realtà nulla? Se mia figlia me lo avesse domandato volevo poterglielo prendere subito, volevo farglielo indossare e vederle il viso brillare di felicità. Mi morsi il labbro. Anche se ero sposata non avevo pretese su un futuro figlio. Marie mi aveva detto di non sperarlo nemmeno perché Jonathan non sarebbe mai stato pronto per un passo del genere e perché lui era così esclusivista nei suoi rapporti che non avrebbe voluto condividere con nessuno il mio amore ne tanto meno sarebbe stato capace di concederne a qualcuno che non fosse se stesso. Inutile era stato da parte mia ricordarle che amava anche me. Mi amava per riflesso: ecco la risposta di Marie alla mia affermazione. Ma non importava. Per adesso non volevo altro che superare la mia paura della fantomatica prima volta e potermi godere la mia prima notte di nozze.

Mi guardai un'ultima volta allo specchio e mi sentii estremamente bella senza neanche saperne la ragione. Una leggera sottoveste bianca copriva il mio corpo, il reggiseno ben imbottito e gli slip di pizzo, i piedi nudi sul pavimento freddo, i capelli sciolti lungo le spalle avendo potuto togliere tutte le forcine che li tenevano alzati in una complessa acconciatura e il viso pulito finalmente dopo averlo lavato con abbondante latte detergente. Questa volta anche i miei occhi brillarono un po' di quel sorriso che mi sollevava gli angoli delle labbra ed ebbi voglia di stare stretta tra le braccia dell'uomo che mi aveva sposata quel pomeriggio.

Uscii finalmente dal bagno richiudendomi la porta alle spalle. La luce era spenta, a differenza di quando ero entrata in bagno con ancora il vestito da sposa indosso, e la camera era illuminata dal tenue bagliore delle lampadine delle abat-jour sul comodino. Le lenzuola erano aperte, le coperte ben piegate ai piedi del letto, Jonathan era a letto con in mano un libro, il mio libro.

-Ehi, non sciuparmelo.- scherzai salendo sull'ampio e alto materasso che si rivelò un po' più duro di quanto non sembrasse e mettendomi al suo fianco guardando la pagina che stava leggendo. Lo avevo letto così tante volte quel libro, quella promessa indistinta che mi aveva fatto tanto tempo prima, che le pagine erano un po' spiegazzate, scritte con segni poco chiari di matita, vissuti oltre ogni misura. Gli avevo chiesto di poter dormire alla sua sinistra e lui, come sempre, mi aveva accontentata. Aveva chiesto spiegazioni ma non avevo voluto dirgli che a destra, a casa mia, dormiva mia madre.

-Non oserei mai.- rispose lui senza scherzare, era ovvio che stesse parlando sul serio, e questa sua serietà mi sconvolse tanto che mi sentii arrossare il viso. Il suo braccio destro mi passò intorno ai fianchi mentre lasciava il libro sul comodino. Mi strinse a se con una gentilezza che mi fece sorridere ancora e ancora, sempre di più, mentre avvicinava il mio viso al suo e la sua mano mi accarezzò il fianco. -Salve, signora O'Keeffe.- sussurrò lui sul mio viso, ad un passo dalle mie labbra senza però baciarmi. Era una dolcissima tortura la sua e sentii un leggero calore al basso ventre quando mi arrivarono quelle parole. Risi piano, un sorriso pieno di gioia e di fiducia, e lo guardai negli occhi. Vedevo il desiderio sul suo viso, l'attesa.

Non lo baciai neanche io. Il mio braccio passò intorno alle sue spalle e lo strinse a me accarezzandogli la pelle nuda sotto la maglietta leggera e grigia che indossava. Anche se era Dicembre i riscaldamenti in casa erano così forti che sembrava luglio.

-Vuoi fare l'amore con tua moglie, signor O'Keeffe?- sussurrai sentendo il mio respiro infrangersi sul suo viso. Lui mi avvicinò a se ancora più di quando già non lo fosse e sentii il mio corpo aderire perfettamente al suo. Il mio seno premere contro il suo petto, la sua eccitazione contro di me. Questa volta non provai nessun imbarazzo per quel momento che doveva essere esattamente così. Non c'era più la voglia di fuggire che avevo provato a Pasqua, lui era mio marito, io ero sua moglie. Cosa c'era di più giusto di quel momento?

Era tutto un insieme di sensazioni, di sentimenti, di sogni, desideri, speranze, timori, paure vere e proprie.

Le sue mani mi accarezzarono la schiena, i capelli, la nuca, mi fecero dimenticare totalmente qualsiasi cosa non fosse lui e il desiderio che ne avevo. Socchiusi gli occhi quando le sue labbra si poggiarono sul mio viso, troppo vicine alle labbra per non volerle baciare ma abbastanza lontane da farmi semplicemente desiderare che mi baciasse davvero, che chiudesse la mia bocca con le sue labbra perfette. Si allontanò un attimo dopo mettendosi in ginocchio sul letto e, prendendomi entrambe le mani, mi aiutò a sistemarmi proprio di fronte a lui, anche io in ginocchio. Le mie mani corsero quasi involontariamente alla sua maglia. Nel mio frequentissimo sogno, quando lui era ancora un sogno, quella maglia non c'era e non doveva esserci neanche adesso. Ne afferrai il lembo e lui capì subito quello che volevo fare, non c'era neanche bisogno che lo guardassi negli occhi, era lui che stava guardando me, che mi studiava, che mi lasciava fare come fossi una bambina alle prese con il suo giocattolo nuovo. Probabilmente aveva paura di una mia qualsiasi reazione se fosse stato lui a prendere in mano la situazione. Aveva paura che scappassi? Sollevai lo sguardo sul suo viso non appena gli sfilai la maglietta. Lui aveva sollevato le braccia e io l'avevo lasciata cadere di lato, in bilico tra il bordo del letto e il pavimento. Il suo sguardo era attento, indagatore. Io sorrisi. Ero tutta sorrisi per lui quella sera.

-Sembri...- sussurrai avvicinandomi piano a quell'uomo perfetto che avevo di fronte. Gli passai le braccia intorno ai fianchi adesso scoperti e gli accarezzai la schiena nuda lasciandogli leggeri baci sul petto. Stavo cercando la parola ma ero anche tanto distratta da lui da non ricordare neanche più cosa volessi dire.

-spaventato?- cercò di completare lui la frase aiutandomi a leggere quell'emozione che io, a mia volta, gli leggevo in viso. Sollevai il mio dal suo petto e lasciai scorrere una mano dalla sua schiena fino alla sua guancia.

-Dovrei esserlo io.- gli ricordai con una tranquillità nella voce che stava spiazzando anche me. Non volevo che fosse preoccupato, spaventato, volevo solo che si godesse quel momento così come volevo fare io.

-Lo sono per te.- rispose lui in un sussurro prendendomi il viso tra le mani e ricoprendolo di teneri baci. Sembrava che non volesse lasciare neanche un piccolo lembo di pelle, mi sembrò che potesse darmi un milione di baci. E quel suo fare lento mi spingeva a voler chiedere sempre di più.

-Non esserlo.- conclusi semplicemente stanca di non poter avere le sue labbra. Prima che potesse rispondere qualsiasi cosa fui io a chiudere le sue labbra in un bacio che non voleva avere nulla di casto. Era un'implorazione, una disperata richiesta di passione che lui colse immediatamente. Dischiuse le labbra non appena le mie toccarono le sue e sentii il suo sapore sulla lingua, un sapore famigliare ormai eppure sempre buonissimo. Non avrei neanche voluto chiudere gli occhi, volevo passare ogni istante a guardarlo a controllare che il mio non fosse solo il sogno di una ragazzina pronta a scrivere i suoi sogni su un diario. Sogni che sarebbero rimasti tali prima di trasformarsi in speranze disilluse. Il nostro fu il bacio di chi si desidera, di chi si ama, di chi pretende passione. Non riuscivamo quasi ad allontanarci. Le sue dita esperte avevano aperto il gancio del mio reggiseno senza che io me ne accorgessi se non quando mi scivolò alle ginocchia e sentii il mio seno libero da quel fastidioso vincolo, poggiato sul suo petto e separato dalla sua pelle solo dal sottile velo di raso bianco della mia sottoveste. Mi sbilanciai leggermente indietro quando le sue mani si poggiarono sulla mia nuca e caddi seduta sul letto trascinando anche lui con me. Rise piano sulle mie labbra facendomi arrossire appena.

-Scusa...- biascicai sulle sue labbra mentre lui scuoteva la testa per tranquillizzarmi, per dirmi che andava tutto bene. E come potevo dubitarne? Lui si allontanò appena da me guardando il mio corpo quasi nudo così come si guarda un'opera d'arte, con quello stesso sguardo che aveva avuto quella notte di qualche mese prima. Questa volta non mi sentivo a disagio. Fui io stessa a voler togliermi di dosso la sottoveste e lui arrivò prontamente per aiutarmi a sfilare quel capo che ancora mi copriva. Gli avvolsi le braccia al collo e fu lui allora a guidarmi da quel punto da cui non ero mai riuscita ad andare oltre. Mi fece sdraiare sul letto poggiandosi su di me senza pensarmi, senza farmi male. Mi accarezzò piano i fianchi e le mie mani corsero piano all'elastico dei suoi pantaloni. Adesso cominciavo ad inibirmi un po'. Ammettevo di non aver mai visto un uomo nudo in vita mia e in quel momento Jonathan divenne di nuovo l'attore irraggiungibile degli schermi. Come se non mi avesse mai incontrata prima, come se non avessimo passato mesi nella stessa casa, come se non ci fossimo sposati quel giorno stesso. Mi parve quasi uno sconosciuto e mi irrigidii. Doveva essersene accorto anche lui perché si fermò immediatamente e si allontanò appena reggendosi sulle braccia.

-Che c'è?- mi domandò in apprensione. Io lo guardavo in viso. Quel viso che avevo baciato tante volte, che amavo. Quel viso che era il viso che avevo guardato su tante fotografie, che avevo sognato, desiderato, odiato, ambito, invidiato.

-Sei tu...- sussurrai piano con la voce sottile e rotta dall'emozione.

-Cosa?- chiese confuso aggrottando la fronte. Potevo immaginare che non riuscisse a capire di che cosa stessi parlando, mi sembrava una cosa anche abbastanza normale. Come poteva capirlo? Non lo capivo neanche io.

-Jonathan Rhys-Meyers.- sussurrai di nuovo più a me stessa che a lui. Aggrottai anche io la fronte e mi morsi il labbro mentre, incapace di muovermi, studiavo il suo viso.

-Jonathan O'Keeffe.- mi corresse lui. Aveva capito allora. Si stava rendendo più umano ai miei occhi, si stava rendendo quel ragazzo problematico che avevo conosciuto quella prima volta a Cork, che mi aveva chiesto la droga, che mi aveva traumatizzata, che mi aveva fatto odiare dai miei, che mi aveva invaso la casa e la vita. Che Marie credeva avesse bisogno di essere salvato. Che mi aveva sposata.

Sorrisi, un sorriso enorme che mi illuminò il viso. E da quel momento non ebbi più nessun dubbio. Tornai alle sue labbra, al suo corpo, lo spogliai e lo accarezzai senza nessuna inibizione. Volevo sentire il desiderio che provava per me, sentire i suoi sospiri contro il mio viso mentre ero io a dargli piacere. Ed era anche lui a darne a me. Anche io nuda tra le sue braccia, con le sue mani esperte, molto più delle mie, che mi davano piacere, che mi accarezzavano piano come se avesse paura di farmi male, di rompermi. Come fossi una bambola di porcellana tra le sue mani.

Lo accolsi tra le mie gambe e non sentii il dolore terribile che mi aspettavo. Lo sentii entrare dentro di me con calma, senza nessuna fretta, senza quella brutalità che temevo. Mi teneva strette le mani e i miei denti affondarono nella sua spalla mentre stringevo gli occhi e soffocavo un sospiro più profondo. Tremavo, forse di paura forse semplicemente di desiderio. Poi la mia mente si spense e ci fu solo il piacere di essere stretta tra le sue braccia, di essere sua.

Non ci preoccupammo di nulla se non di noi stessi quella notte, non c'era nient'altro se non quel perfetto momento di simbiosi tra me e lui. Quell'attimo d'amore che mi sembrò tanto perfetto che niente avrebbe potuto rovinarlo. Lui sapeva come toccarmi per darmi piacere, sapeva come sfiorare il mio corpo, come muoversi, sembrava conoscermi tanto bene da essere nella mia mente. Ed io non desideravo altro che essere tale anche per lui. Sapere come farlo stare bene, come amarlo così come meritava di essere amato. Sentii un profondo senso di appartenenza quella notte.

Sentivo che lui era mio come non lo era mai stato. Che da me dipendeva la sua felicità come da lui la mia. E quella notte capii cosa voleva dire amare davvero. In tutti i sensi.

 

***

Mi risvegliai con il piacevole peso di mia moglie addosso. Era ancora nuda e sembrava così tranquilla che quasi ebbi paura di muovermi e di svegliarla. Doveva essere ancora molto presto, il cielo fuori dalla finestra era chiaro ma la mia completa attenzione era sul corpo meraviglioso della donna che mi sarebbe stata accanto da quel giorno in avanti. La mia mano si poggiò sulla sua schiena nuda e l'accarezzò piano. Sarebbe stata mia intenzione tenerla accanto a me per tutto il giorno, non volevo altro che fare l'amore con lei non appena si fosse svegliata, far fare a qualcuno i bagagli e partire subito per la luna di miele, non volevo assolutamente nient'altro.

Mentre mi soffermavo su quel corpicino che avevo amato la notte precedente, mentre l'accarezzavo con infinita dolcezza, ripensavo al giorno prima, a quel 12 di Dicembre che mi aveva cambiato la vita volente o nolente. Adesso non potevo pensare più solo a me stesso, ai miei interessi, ai miei bisogni. Adesso c'era anche lei e sarei stato io a dovermi prendere cura di lei così come lei faceva con me da mesi. Era una mia responsabilità, era mia moglie. Prendermi cura di lei, amarla, fare in modo che stesse bene e che avesse sempre il mio appoggio erano in quel momento le mie priorità. Quando ero stato il testimone di un vecchio amico di Reena, un tizio che in realtà non conoscevo e di cui non me ne poteva fregare meno, lo avevo deriso il giorno delle nozze nel vederlo tanto trafelato alla disperata ricercare di qualcosa da buttare giù per scrivere le sue promesse, quelle che avrebbe letto come un bambino di cinque anni sull'altare qualche ora più tardi. Si era passato una mano sulla fronte in preda al panico e mi aveva guardato preoccupato.

«Cazzo Jonathan, tu sei un attore, suggeriscimi qualcosa di romantico!» mi aveva pregato in preda al panico. Io me ne ero rimasto seduto sul divano, gli occhi socchiusi e una sigaretta in mano. Ero leggermente ubriaco e mi sentivo la testa tremendamente leggera.

«Cazzo ne so...digli che ha un bel culo.» era un gran complimento quello per me. Anche perché tra l'altro era anche una bugia. Lui mi aveva guardato con espressione dubbiosa, forse mi aveva preso per sciocco e non aveva ascoltato quello che gli avevo detto. Non ricordavo neanche poi che cosa avesse scritto. Niente di emozionante senza dubbio perché quando quella sera ero tornato a casa con Reena lei non aveva fatto altro che prenderlo in giro per quel terribile turpiloquio.

«Spero che le tue siano migliori di quella.» aveva concluso provocando in me una risata eccessiva. Io non avevo allora nessuna intenzione di sposarmi, di prendere un impegno tanto serio con lei. Stavamo insieme, stavamo bene, credevo di amarla, mi piacevano i suoi soldi. Ma il matrimonio proprio non lo concepivo.

Quando invece eravamo andati in chiesa con Lorie per prenotare la cerimonia non ci avevo visto niente di male. Ricordavo ancora la faccia del sacerdote quando ci aveva visto entrare. Aveva sorriso tranquillo e ci aveva salutati con affetto invitandoci ad accomodarci. Ripensandoci adesso dovevo ammettere che lui fosse l'unico a credere in noi. Lui che mi conosceva da bambino e che poi mi aveva visto perdere nel giro dell'alcol e della droga.

«Ragazzi, come posso aiutarvi?» domandò l'uomo di media statura, i capelli leggermente brizzolati e un viso simpatico con un sorriso gentile che lo illuminava. Ci eravamo accomodati e Laura aveva cominciato a tamburellare nervosamente con le dite sulla scrivania di fronte a noi.

«Noi vorremmo sposarci.» rispose lei. Io ero rimasto in silenzio anche perché le chiese mi avevano sempre messo tremendamente a disagio.

«Bene.» rispose lui sedendosi a sua volta e aprendo un'agenda che aveva estratto da un cassetto alla sua destra. «avete già pensato ad un giorno?» domandò di nuovo scorrendo le pagine.

«Il dodici di Dicembre.» rispose di nuovo lei guardando me come per avere la conferma. Mi poggiò una mano sulla gamba e io le strinsi le dita con dolcezza accarezzandole piano il palmo.

«del duemilaquattordici?» domandò il prete leggermente colto di sorpresa.

«No, il mese prossimo.» rispose lei imbarazzata arrossendo con una grazia che me la fece sembrare quasi eterea.

«Oh, ragazzi miei, fate proprio le cose di corsa.» scherzò il prete prendendo un appunto sulla pagina vuota della data che avevamo indicato.

«Scrivete voi le promesse?» quella domanda era stata per me un fulmine a ciel sereno. Non avevo mai pensato che sarebbe mai toccato a me scrivere le mie promesse, non sapevo neanche da dove cominciare per farlo. Non avevo mai scritto molto nella mia vita. Lei aggrottò la fronte come me e si voltò per guardarmi. Aspettava che fossi io a decidere se volevo che scrivessimo noi le promesse o meno. Io la guardai in viso a mia volta e in quel momento le parole mi vennero tutte in mente, una frase dopo l'altra.

«Sì.» risposi semplicemente con la voce ferma e assolutamente convinta.

Quando mi ero poi trovato all'altare, di fronte a lei, a doverle leggere quelle poche parole che avevo scritto su un foglietto che pesava nella mia tasca quelle parole non mi sembrarono più adatte. In quel momento me ne vennero ben altre in mente, completamente diverse. Non presi neanche il foglio bianco, macchiato di cancellature e sbavi di inchiostro, e le dissi semplicemente quello che avevo in mente in quel momento. Senza paura di farla arrabbiare, senza inibizioni, con tranquillità.

«Ora ti racconto di quando ho avuto paura Lorie. - il suo viso si era piegato in una maschera di preoccupazione sincera, gli occhi leggermente sgranati. - Ho avuto paura quando ti ho conosciuta, pensavo che fossi un problema nella mia vita, che mi avresti sconvolto una vita che per me poteva anche andare. Ho avuto paura quando mi hai sconvolto la vita e ti ho odiato. Ho odiato te, le tue amiche, la tua famiglia, la tua vita perfetta. Odiavo il modo in cui mi sentivo quando mi stavi intorno perché mi faceva paura. Ho avuto paura quando ho capito che con te ero pronto a rischiare, a reinventarmi, a mettere in gioco tutte le mie sicurezze perché ho capito che avrei rischiato un giorno di restare a pugni stretti stringendo solo il vuoto. Rischiavo di perderti e non ero pronto. Non sarebbe stata la prima volta per me però mi terrorizzava sapere che sarebbe stata la più dolorosa. Ho avuto paura quando ho cominciato a notare che tu eri in tutte le cose che facevo, che dicevo, che vedevo, che ascoltavo. Ho avuto paura quando ho cominciato a capire che ti volevo per me, che mi sono sentito geloso e mi sono esposto con te che proprio sembravi non voler capire affatto.- ridemmo piano entrambi e si portò una mano alle labbra senza però lasciare il mio sguardo. Presi un respiro profondo e mi morsi il labbro tornando serio. -Ho avuto paura tante altre volte, perché le cose belle fanno paura. Perché si ha paura della loro fine. Ora voglio solo raccontarti di come sia possibile guardarti negli occhi ogni giorno e smettere immediatamente di avere paura.»

Non era stato facile per me dirle quelle parole, mi ero messo letteralmente nelle sue mani svelandole tutti quei pensieri che non avevo mai detto a nessuno, come se in quel momento fossimo soli e non ci fosse un'intera platea ad ascoltarci. E comunque sapevo che lei era l'unica a capirmi davvero. Lei era la sola che mi stesse ascoltando davvero. Gli altri sentivano e basta. Ma era stato meraviglioso vederla ridere e piangere insieme.

E lei lo apprezzò. Sapevo l'avrebbe fatto. Le divennero gli occhi rossi e lucidi, una lacrima sfuggì al suo controllo ed io non potei fare a meno di prenderle il viso tra le mani e posarle un bacio proprio su quella lacrima solitaria che le rigava il suo viso bellissimo. Il prete si schiarì la voce ed io feci un passo indietro. L'avrei fatto mille altre volte. L'avrei consolata sempre anche se quelle lacrime fossero state di felicità e di gioia. Non volevo che piangesse. Mai.

Un mormorio soffocato mi strappò dai miei pensieri e mi riportò con lo sguardo sul viso leggermente aggrottato di Lorie. Non sembrava più dormire poi così tranquillamente, sembrava agitata, disturbata da qualcosa. Forse un brutto sogno. Nascose il suo viso contro il mio collo e sospirò. Ebbi quasi l'impressione che avessi potuto svegliarla con le mie carezze ma un attimo dopo era tornata a dormire, immobile, tra le mie braccia. Sorrisi appena e presi un respiro profondo inebriandomi del suo profumo. Un profumo di fiori e di cannella. Profumo di casa.

Quella notte, ripensandoci, era stata una prima volta anche per me. Era la prima volta che capivo cosa si intendessi con quel termine che fino a poco tempo prima mi era sembrato solo troppo melenso. Fare l'amore. Avevo arricciato il naso quando una vecchia amica lo aveva usato una sera.

«Jonathan, facciamo l'amore?» mi aveva domandato strusciandosi su di me come una gatta morta. In quel momento comunque i suoi modi mi erano piaciuti. Mi piaceva il modo in cui mi aveva toccato per farmi eccitare, in cui metteva in bella mostra le sue grazie.

«Al massimo possiamo scopare.» le risposi io provocando in lei una risata che non era stata affatto allegra.

Ma non ero stato con nessuno come quella notte ero stato con Lorie, con mia moglie. Non mi ero mai preoccupato tanto per il benessere di nessuno, non avevo mai avuto il desiderio di pensare prima al suo piacere che al mio. Non avevo mai avuto l'istinto di baciare nessuno durante il rapporto sessuale. Volevo solo essere appagato. Quella notte invece era stato mio pensiero costante baciarla, guardarla in viso, stare attento che non provasse dolore. Era inevitabile che fossi felice che fosse stata con me la sua prima volta, ero contento che fossi io l'unico uomo che avesse mai amato ed era mia più viva intenzione che le cose rimanessero così. Provavo per lei un attaccamento tale che mi avrebbe spinto anche a fare qualche follia, ne ero consapevole. Ma non avrei mai permesso a nessuno di dire che il mio amore per quella ragazza fosse malato. Che non fossimo adatti a stare insieme. Lei era mia e lo sarebbe rimasta. La mia ragazza, mia moglie, la mia salvezza.

-No!- la voce di Laura fu chiarissima contro il mio orecchio e mi spaventò leggermente strappandomi dai miei pensieri e catapultandomi su quel letto. Il suo corpo tremava ma i suoi occhi erano ancora chiusi. Si dibatté nel sonno e si voltò ricadendo sul letto al mio fianco. Un braccio sulla fronte, il respiro corto. La guardai in silenzio per un attimo prima che cominciasse a gridare. -Jonathan!- il suo viso si rigò di lacrime che sapevo erano provocate semplicemente da un sogno ma sentirle pronunciare il mio nome mi fece comunque stringere il cuore. La sollevai per le spalle aiutandola a mettersi seduta e lei si svegliò di soprassalto tacendo improvvisamente.

Le lacrime continuavano a rigarle il viso e il suo corpo tremava ancora, lo sguardo perso nel vuoto davanti a se.

-Lorie tutto bene?- le domandai spostandole i capelli sudati dal viso e accarezzandole il viso umido e accaldato. Lei mi guardò per un attimo e scosse la testa per tranquillizzarmi. -E' stato solo un brutto sogno.- le feci presente baciandole dolcemente le labbra e stringendola al petto.

-Scusami.- mormorò lei ancora leggermente scossa da quel sogno. -non volevo svegliarti.- concluse senza avere ancora la forza di ricambiare la mia stretta. Eppure mi stava guardando in viso come se cercasse un appiglio nella realtà.

-Ero già sveglio, hai dormito tutta la notte su di me.- la presi affettuosamente in giro per alleggerire l'atmosfera dandole un leggero buffetto sul naso. -spero almeno di essere comodo.-

-Ecco perché ho avuto gli incubi- rispose subito lei a tono. Vidi i suoi occhi brillare di quella vena di “acidità” che mi fece capire che si stava riprendendo da quel brutto risveglio.

-Cosa vorresti dire, rompipalle?- le chiesi con un tono scherzoso ma uno sguardo minaccioso costringendola tra il letto e il mio petto, quasi appoggiato su di lei. L'avevo apostrofata di nuovo, come moltissimo tempo prima, con quel suo soprannome che non utilizzavo da quando avevamo deposto entrambi l'ascia di guerra quando era venuta a prendermi all'aeroporto. O per lo meno ci avevamo provato. Lei rise piano e mi poggiò le mani sul petto come se volesse spingermi via ma ci mise così poca forza che non sembrava un reale tentativo.

-Che sei il mio incubo personale Meyers!- alzò gli occhi al cielo e per un attimo mi sentii di nuovo nella mia stanza a Cork una notte di un freddo Marzo con una scout rompiscatole che credeva di poter salvare il mondo. Ed io quella scout l'amavo davvero. Cavolo.

-Pensa che ho anche promesso di esserlo finché morte non ci separi...- le ricordai baciandole il collo soffermandomi un po' troppo con le labbra su di lei. -...e noi, fedeli servitori della patria, sappiamo che le promesse si mantengono sempre giusto?- sussurrai proseguendo quella mia scia di baci fino all'angolo delle sue labbra. A quel punto mi fermai e il mio viso si illuminò di un sorrisetto divertito.

-Sì, le promesse si mantengono.- sussurrò lei prima che la baciassi poggiandomi su di lei e prendendole il viso tra le mani. -però fossi in te mi guarderei le spalle...- scherzò ridendo e facendo ridere anche me.

Quella mattina ci amammo, come la sera prima, come avremmo fatto anche quella sera. L'amai quella notte ripromettendomi di amarla anche la notte che sarebbe seguita a quel giorno e quella dopo ancora. Ci amammo con più tranquillità con più confidenza per il corpo dell'altro. Ci amammo più volte finché non fummo sazi, almeno per il momento. E lei non mi si negava mai così come io non mi sarei mai negato a lei. Eravamo due sposini in quel momento. Il mondo per noi era del tutto idilliaco adesso e probabilmente lo sarebbe rimasto anche nei mesi a seguire. Lo sarebbe stato il mio primo natale accanto a mia moglie, lo sarebbe stato aspettare con lei la mezzanotte del nuovo anno, lo sarebbe stata quella pasqua che stava per arrivare e quell'estate in cui l'avrei portata in un posto lontano, una spiaggia deserta solo per noi probabilmente. Non riuscivo a pensare a nulla che non fosse perfetto con quella donna che era appena diventata mia moglie.

Non mi importava neanche di dover tornare presto a lavoro, di dover rivedere il brutto muso francese di Gaspard Ulliel, non mi importava di dover lasciare che passasse troppo tempo lontana da me per occuparsi della scuola oltre che del lavoro. Ci sarebbero sicuramente stati i litigi, i momenti brutti, i problemi ma al momento la vita accanto a Laura Lucia O'Keeffe era perfetta così.



Note d'Autrice:

salve a tutti quanti, lettori silenziosi o meno che siate. Come vedete ho pubblicato il capitolo un po' prima di San Valentino perché il mio ragazzo mi ha regalato un viaggio. Partirò domani e tornerò intorno al sedici e non volevo saltare questo appuntamento con voi. Mi dilungo innanzitutto un attimo nel ringraziarvi mille per le vostre recensioni. Sono davvero importantissime per me e se non ci fossero probabilmente avrei già mollato. Sicuramente vi accorgerete di un breve accenno a tutte voi durante il matrimonio. È stata una delle vostre recensioni ad ispirarmi e quindi eccovi un piccolo regalino. Infondo ci siete davvero tutte al matrimonio di Laura. Ho preferito non dilungarmi troppo sui dettagli e condensare il tutto in questo capitolo che è un po' più lungo del solito. Spero davvero vi piaccia perché ammetto che a me è piaciuto molto scriverlo. Non credo di aver superato il raiting arancione anche perché non c'era nulla di volgare in quello che hanno fatto. Sono due ragazzi che si amano e non ci potrebbe essere niente di più bello e puro di quell'atto d'amore. Credo che ciò sia più o meno tutto. Il prossimo capitolo è quasi scritto. Ho cominciato anche a rileggere tutto e a ricorreggere Wathever works. Saranno aggiunti dei pezzi credo ma ancora non ne sono sicura, vi farò sapere quando avrò fatto. Ho visto degli errori terribili e voglio correre ai ripari. Se voi ne trovate segnalatemelo senza esitazioni vi prego! Ho un po' tralasciato la vita degli altri personaggi come di Marie e dei suoi amici e me ne rendo conto solo adesso. Anche Laura però li ha tralasciati e voglio darvi l'impressione di sapere ciò che sa anche lei. Si è un po' allontanata dal mondo e spero che si abbia questa sensazione piuttosto che una mia dimenticanza. Per il resto non saprei che dirvi. Sono un po' triste della fine di questo momento idilliaco ma comunque emozionata che si stia per aprire un capitolo della storia a cui penso da molto e che porterà incredibili stravolgimenti. Grazie mille a tutte, vi adoro!

Viktoria.

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Capitolo 14
*** Se il Natale non esistesse bisognerebbe inventarlo. ***


La vita da novelli sposi era stata per me e Jonathan davvero una rara squisitezza. Le feste ci avevano portato in Irlanda, a Cork, e avevamo passato sia il Natale che il capodanno insieme ai fratelli O'Keeffe. Io, Marie e Alice eravamo le uniche donne di casa benché Jamie avesse anche lui una persona con cui aveva deciso di passare la sua vita. Quel Natale forse era troppo presto per presentarla a tutti noi. Quando eravamo arrivati a Cork, solo una settimana dopo le nozze, Marie mi aveva accolta con una dolcezza e un entusiasmo tali che mi ricordarono quanto potesse essere profondo il nostro legame adesso. Sapevo che lei mi era grata per moltissime cose, sapevo che pensava che fossi la causa della salute di suo fratello e, senza sapere che era stato lui stesso la causa della sua buona salute, mi vedeva come un angelo nelle loro vite. Mi ero ritrovata stretta tra le sue braccia e il beauty-case, che tenevo in mano, mi cadde per terra per il grande slancio della ragazza.

-Sono così felice di avervi qui per Natale.-

il suo entusiasmo, in un primo momento, mi era sembrato del tutto eccessivo. Ero abituata a passare le feste in famiglia e non capivo cosa ci fosse di così eccezionale nella nostra presenza adesso che, in fin dei conti, anche io facevo parte di quella famiglia. La risposta non tardò molto ad arrivare ma per adesso dovevo limitarmi a seguire i consigli della padrona di casa di posare le nostre cose in camera.

Avevamo cominciato a salire le scale con le valigie, Jonathan dietro di me e Marie attaccata a noi come se non potesse perderci d'occhio neanche un attimo.

-Dove vado?- domandai chiedendo implicitamente dove fosse la camera che avremmo occupato.

-Ultima porta a sinistra.- mi rispose Jonathan con tranquillità mentre io poggiavo per un attimo il trolley che cercavo di non strisciare per le scale con il rischio di romperlo.

-Assolutamente no! Non voglio due sposini nella camera di fronte alla mia. Prendi il corridoio a destra, sali le scale, prima porta sulla destra.- rispose Marie che stava portando delle valigie a sua volta. La mia espressione fu di puro tormento al pensiero di dover fare altre scale ma il viso di Jonathan brillò per un attimo di una sincera emozione che non capii.

-Davvero?- chiese con un filo di voce alla sorella guardandola in viso come se nulla fosse più importante dell'avere la risposta a quella domanda.

-Sì, Jonathan, davvero.-

lui l'abbracciò e quella era l'ennesima domanda che quel giorno per me era rimasta senza risposta. Non chiesi nulla comunque e quando aprii la porta mi trovai in un'ampia camera da letto dalle pareti color del miele e da un'ampia porta finestra che dava sul giardino sul retro. Il letto matrimoniale svettava al centro della stanza con un bel piumone vaporoso e bianco che mi fece venire voglia di prendere la rincorsa e di saltarci sopra. Mi voltai verso Jonathan che capì perfettamente le mie intenzioni. Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto di sfida ed entrambi partimmo nell'esatto momento, le sue braccia mi afferrarono un attimo prima che potessi buttarmi tra le coperte che davano l'impressione di essere soffici come nuvole di zucchero. Scoppiai a ridere e le sue labbra trovarono immediatamente le mie mentre mi stringeva tra le braccia con un trasporto che non poteva non eccitarmi.

-Ehi!- la voce di Marie arrivò alle mie orecchie molto attenuata e se non fosse stato lui a scostarsi appena da me per guardare la sorella io non mi sarei allontanata di un passo.

-Sì, scendiamo tra dieci minuti.- convenne Jonathan facendole cenno di chiudere la porta mentre tornava a prestarmi tutte le sue attenzioni.

-Scordatelo fratello!- rispose lei avvicinandosi e tirandomi via per il braccio. -hai passato con lei tutta la settimana ed io ho il diritto di stare con mia cognata per un po' ok?- domandò lei retoricamente alzando un sopracciglio come per avvisarlo che non voleva essere sfidata. -Farete l'amore stanotte.- concluse lei portandomi via dalle braccia di mio marito.

Scendemmo le scale lentamente. Io stavo sorridendo appena ma onestamente l'idea di non poter più passare tutto il tempo con mio marito un po' mi dispiaceva. La luna di miele doveva ancora cominciare per noi ma io già la agognavo terribilmente. In quei giorni, prima di partire per Cork, avevamo sistemato degli affari di lavoro e non avevamo avuto poi così tanto tempo per stare insieme, a differenza di quanto pensasse Marie.

 

Alla fine non ero stata così codarda come credevo ed ero riuscita a prendere la mia decisione. Ci avevo pensato davvero moltissimo, non avevo detto nulla a Jonathan al riguardo perché sapevo che comunque non avrei potuto prendere quella decisione con nessuno se non con me stessa. Il giorno dopo il matrimonio, dopo un risveglio davvero meraviglioso tra le braccia di mio marito ed un incubo che non ricordavo ma che mi affollava la mente di pensieri, recuperai dei vestiti abbastanza pesanti per quella fredda mattina di Santa Lucia che avrei passato a Londra e non nella mia città per la festa della Patrona. Adoravo il tredici Dicembre, da sempre. Quando andavo a scuola quello era un giorno di vacanza e chi non arriva ad amare i giorni di vacanza? Adesso invece sentivo di avere tantissime cose da fare. Jonathan era rimasto fermo a fissarmi, in piedi con le spalle alla porta finestra, ad allacciarsi i bottoni di una camicia azzurrina che gli cadeva sulle spalle in modo talmente sexy e allo stesso elegante da farmi quasi desistere dal passare quel giorno con i vestiti addosso. Mi ero talmente persa in quello spettacolo che mi resi conto di essermi bloccata con una scarpa in mano. Fu solo lui a farmi tornare con i piedi per terra.

«Sono ancora disposto a proporti una giornata tra le coperte Lorie.» mi fece presente lui con la voce bassa e calda di chi sa come ottenere ciò che vuole.

Lo guardai per un attimo soffermandomi sulle sue mani che si erano fermate al terzo bottone e adesso stavano aspettando solo una mia risposta. Ero così tentata che solo l'idea di non poter rimandare oltre mi aiutò a resistere.

«Non voglio che il vestito si sciupi.» ammisi facendo spallucce. Non avevo detto a Jonathan dov'ero diretta. Sapevo che avrebbe insistito per accompagnarmi ed io avevo bisogno di fare tutto da sola, almeno quella volta. Quindi la scusa era stata la lavanderia. Lui aveva storto il naso.

«Ok, ok.» rispose alzando le mani in segno di resa e sbuffando appena sedendosi sul bordo del letto per mettersi le scarpe. «Vorrà dire che oggi vado a prendere i regali di Natale.» rispose lui con un sorrisetto beffardo che potevo sentir trapelare dalla sua voce.

Pensare all'immagine rassicurante di un marito che acquista regali per la sua famiglia mi fece andare avanti verso gli studi televisivi. Avevo dimenticato il vestito in camera e sicuramente c'era già chi si stava facendo delle domande. Ma non potevo andare in metro con un enorme abito da sposa e la mia patente era ancora lontana dall'arrivare.

«Ehi, sposina, ciao.» mi salutò Katie, una delle truccatrici, che il giorno prima mi aveva aiutata con il trucco. Avevo legato molto con lo staff, mi sarebbe dispiaciuto salutarci.

«Ciao Kath.» risposi io abbracciandola. Lei guardò appena il mio viso e storse il suo nasino adorabile. Sapevo che cosa stava guardando. Avevo delle occhiaie terribili quella mattina e nonostante avessi optato per dei jeans aderenti, una camicia e una giacca nera per dare un'impressione di formalità sembravo comunque una scolaretta sotto esami. Anche piuttosto smagrita.

«Stanotte non hai dormito molto vero?» mi prese in giro lei dando di gomito e prendendomi per il braccio come faceva sempre per convincermi a stare buona e farmi truccare da lei.

«Non molto.» ammisi io arrossendo. «Scusami Katie, oggi non posso proprio. Sono venuta solo a parlare con Bob.» mi scusai subito e lei sgranò appena gli occhi e si morse il labbro.

«E' arrivato giusto una mezz'ora fa ed è di là.» rispose lei semplicemente indicandomi un lungo corridoio che mi avrebbe portata nel suo studio. Presi un respiro profondo, l'abbracciai e le baciai le guance prima di dirigermi in pasto al “mostro”. Un mostro che avevo creato io stessa.

«E' stato davvero un immenso piacere conoscerti.» le sussurrai all'orecchio con infinita dolcezza. Era vero. Avevo fatto così tante conoscenze in quel mondo per me totalmente nuovo. Speravo di non perderle ma io per mia natura ero così poco espansiva che difficilmente ci saremmo sentite ancora. In più adesso ero una neosposina. Per me il mondo iniziava e finiva dove c'era Jonathan.

«Mancherai tantissimo.»

 

Sentii la porta di ingresso aprirsi non appena fummo lì vicino e avvertii la voce bassa e profonda di un uomo che redarguiva qualcuno.

-Dovete fare i bravi ok?- stava dicendo cercando di sovrastare le risa e i battiti di mani. -Se rovinate l'albero di natale alla zia poi lei rompe le scatole a papà e voi non volete che lo faccia vero?-

sia io che Marie ci ritrovammo di fronte una scena esemplare.

Alan teneva in mano parecchi pacchi, alcuni dei quali sembravano molto pesanti, e si stava sporgendo in avanti verso due bambini che di sicuro non riuscivano a capirlo. La bambina aveva lunghi capelli biondissimi legati in una treccia perfetta, arrivava in altezza al ginocchio dell'uomo ed indossava una bellissima gonnellina color anice e un cappottino nero che la facevano sembrare una piccola principessa. Il bambino a cui teneva la mano stava in piedi in modo un po' malfermo. L'ultima volta che lo avevo visto, quando eravamo stati lì per il compleanno di Jonathan a Luglio, lui non aveva neanche un anno. Guardavano entrambi Alan con un sorriso furbetto sul viso e poi corsero via gridando in quel loro gioco adorabile. Un attimo dopo entrò anche la donna che sapevo essere sua moglie. Alice era bellissima come sempre, i capelli biondo cenere legati in una coda, indossava dei semplici jeans e una felpa che spuntava da sotto il giubbotto ma sembrava comunque una modella appena uscita da una copertina di Vogue. Teneva in mano altri pacchi regalo e sorrideva.

-Ciao.- io e Marie li salutammo insieme e ci avvicinammo verso di loro mentre anche Jonathan ci raggiungeva.

-Ehi sorella, ciao neo sposina.- ci salutò lui con un sorrisetto. -scusatemi, mettiamo questo sotto l'albero e ci salutiamo come si deve.- mi assicurò sparendo nel soggiorno. Alice lo seguì dopo però aver baciato le guance a tutti e tre.

-Ehi attore, vieni a darmi una mano a scaricare la macchina.- Alan diede un colpo alla spalla di suo fratello per poi spingerlo fuori.

Tornarono in tre, evidentemente avevano assoldato anche Ettore per poter prendere i loro bagagli.

-Che cavolo ci avete messo dentro?- domandò Jonathan posando il bagaglio che teneva in mano all'ingresso mentre Marie chiudeva la porta alle sue spalle e baciava con dolcezza il suo fidanzato.

-lo stretto indispensabile.- rispose lui facendo spallucce. -vedrai quando...-

-Andate a mettere tutto su, uomini! Forza!- li invogliò Marie interrompendo Alan prima che finisse la frase che sia io che lei avevamo capito benissimo dove poteva portare. “Vedrai quando avrai dei figli”. Un brivido di freddo mi percorse la schiena. -noi donnine ci occupiamo della cena.- scherzò lei mentre i bambini seguivano la loro mamma con docile fiducia.

Jonathan, Alan ed Ettore sparirono su per le scale con le grandi valigie tra risate e lamenti. Jonathan che continuava a ripetere che dentro quei bagagli c'erano mattoni e non abiti, Ettore che lo invitava a muoversi ed Alan che lo ignorava bellamente incitandolo a non parlare perché così si stancava solo di più. Io e Marie scoppiammo a ridere divertite mentre Alice, toglieva il giubbotto al piccolo Dereck che sembrava non avere alcuna intenzione di stare buono. La piccola Felicia era più calma nonostante i suoi tre anni e mezzo. Non che fosse del tutto silenziosa e remissiva alle raccomandazioni di sua madre ma almeno non cercava di distruggere tutto ciò che aveva sotto mano.

-Marie, perdonami in anticipo per qualsiasi danno faranno.- si scusò Alice arrossendo con quel suo solito modo di fare da bambola di porcellana.

-Figurati!- la tranquillizzò lei invitandoci a seguirla in cucina. -i bambini fanno questo.- concluse mentre entravamo in quella stanza che ricordavo benissimo.

Era lì che avevo visto Jonathan per la prima volta, quella sera in cui mi aveva chiesto poco gentile di dargli della roba o almeno le sigarette. Era da quella cucina, insieme al mio gruppo scout, che era cominciato quel capitolo della mia vita che aveva portato tanti sconvolgimenti nella mia vita. Le mie labbra si piegarono in un sorriso di dolcezza nel pensare a mio marito. Quanto era piacevole per me usare quel termine? Mi morsi il labbro e, anche se al tempo lo odiavo non poco, adesso ringraziavo la mia buona stella per avermelo fatto incontrare.

-Ehi, sposina, allora?- domandò Marie riportandomi alla realtà. In realtà non avevo sentito molto di quello che mi aveva detto. Ero stata distratta e le mie guance si tinsero di un leggero color rubino.

-Allora cosa?- domandai io aggrottando appena la fronte con un'espressione di scuse sul viso. Era ovvio che non le stessi ascoltando ma sapevo che Marie e Alice mi avrebbero perdonato. Era del tutto naturale, credevo, che una sposina fosse tanto presa dal suo mondo idilliaco. E neanche Jonathan sembrava volermi stare lontano più dello stretto indispensabile.

-Oh avanti! Una birra è d'obbligo mentre aspettiamo!- la voce di Alan ci fece voltare tutte e tre verso la porta. Vidi la figura del minore degli O'Keeffe precedere quella del fratello maggiore e venire verso di noi con passo sicuro ed espressione indifferente.

-Marie, ci sono birre in frigo?- chiese Jonathan avvicinandosi a me. Mi scostò i capelli dal viso e mi accarezzò le guance con moltissima tenerezza.

-Certo che ci sono.- affermò lei tranquilla guardandoci.

-Io intendevo una birra da Jim, Jonathan.- rispose Alan fingendosi offeso. -lo facciamo da sempre e tu vuoi infrangere la tradizione?- chiede di nuovo con amarezza. Si poggiò una mano sul petto in un gesto di plateale dolore che mi fece ridere mentre mio marito mi stringeva al petto.

-Voglio stare qui.- era un'imposizione da bambino. Come a dire che voleva stare esattamente lì, in quel punto in cui si trovava, in quella precisa mattonella. E non aveva intenzione di cambiare idea.

-Eh, Meyers, comincia ad allontanarti dalla mia chef fonte di ricette perché ti prendo a colpi di mattarello.- lo minacciò sua sorella con aria seria. -anzi, una birra vi farà bene quindi andatevene subito.- li stava letteralmente cacciando di casa e Jonathan strinse la sua presa intorno a me ancora di più.

-No!- stava scherzando adesso. Aveva messo un muso adorabile che fece ridere me, sorridere Alice e Marie dovette fare un'incredibile sforzo di volontà per non scoppiare anche lei in una risata.

-Non farmi usare le cattive maniere fratello.- lo minacciò lei senza smettere di scherzare.

Ci mettemmo un po' a convincerli ad andare via ma alla fine Alan riuscì a trascinare fuori di casa suo fratello con la promessa di tornare entro un'ora e mezza.

-Massimo.- aveva concluso Jonathan prendendo il cappotto che io stessa gli stavo porgendo. -Traditrice.- mi apostrofò lui baciandomi sulle labbra e andando con suo fratello.

-Quando arrivano Paul e Jamie mandali da noi.- le raccomandò Alan mentre Marie lo salutava con la mano. Li guardai uscire dalla porta d'ingresso e strinsi le braccia al petto appoggiandomi al piano cucina.

-Quando arrivano loro?- domandai a mia volta mentre Alice prendeva delle tazze da caffé e lo metteva sul fuoco per prepararlo. Marie si era accomodata a tavola e mi guardava tranquilla prendendo un quaderno.

-A momenti dovrebbero essere qui, sanno che c'è la grande sfida e non se la perderebbero per nulla al mondo.- rispose lei invitandomi a sedere. -intanto scegliamo il menù per la vigilia e per Natale.- ci avvisò con un sorrisetto mentre io, scostata una sedia, mi accomodavo di fronte a lei che prese a scarabocchiare la pagina bianca del quaderno.

-Cos'è la grande sfida?- chiesi a quel punto aggrottando appena la fronte davvero curiosa. Alice rise e Marie sgranò gli occhi.

-oh, Jonathan no te l'ha detto vero? Beh, dubito che lo ricordi.- affermò lei spiegandomi più o meno quell'usanza che avevano per l'antivigilia. -ci dividiamo in squadre da due, ogni squadra prepara un menù di antipasto più un piatto a scelta e alla fine della serata vincono i migliori.-

-E cosa vincono?- domandai a quel punto aggrottando la fronte. Sembrava divertente. Non avevo mai cucinato con Jonathan prima d'allora.

-La gloria.- scherzò Alice ridendo. -ma è una cosa molto importante a casa O'Keeffe.- continuò ridacchiando piano e meritandosi un'occhiataccia da parte di Marie che scosse la testa e fece un gesto di sdegno con la mano.

-Figurati, è che l'anno scorso hai perso.-

-Già, è ho dovuto sopportare Alan rinfacciarmi la sua vittoria ogni giorno nell'ultimo anno.- ammise la ragazza alzando gli occhi al cielo sconsolata.

-Non eravate in squadra insieme?- chiesi a quel punto.

-No, le coppie non stanno insieme mai perché ci sarebbe troppa complicità in cucina.-

-E nessuno dei due potrebbe ricordare all'altro la sua bravura qualora vincesse.- Alice sembrava volesse completare le frasi della cognata e risero entrambe di gusto. Io piegai le labbra in un sorriso leggero e me le morsi piano.

-Jonathan forse non lo ricorda più...sarà divertente rinfrescargli la memoria.- costatò Marie ridendo.

-Perché non lo ricorda se è una tradizione?-

un rumore assordante di vetri che si rompevano attirò la nostra attenzione e nello stesso momento la porta di ingresso si aprì. Ci ritrovammo di nuovo all'ingresso. Paul era da solo di fronte al viso di Felicia che guardava tutti noi con le mani unite dietro la schiena e un faccino mesto di chi sta cercando di impietosire.

-Si è rotto.- ci fece notare. Accanto a lei giacevano i pezzi di un vaso ormai in frantumi. Paul scoppiò a ridere e prese in braccio la nipotina.

-Brava principessa. I brutti vasi di zia Marie è meglio che finiscano nell'immondizia.- la riempì di baci e dopo salutò anche tutti noi. Dereck si attaccò alla sua gamba e lui non gli fece mancare la sua parte di attenzioni.

-Dove sono gli altri?- domandò mentre le sue attenzioni erano tutte sul bambino.

-Al bar.- la voce di Jamie fece sorridere Marie di vide l'ultimo dei suoi fratelli comparire alle spalle di Paul.

-Ciao Jamie.- lo salutò baciandogli le guance. -Sì, sono lì che vi aspettano, vi conviene muoversi avete un'altra mezz'ora di autonomia prima di Jonathan cominci a fare i capricci.- scherzò lei mentre quelli posavano le valigie all'ingresso e andavano via diretti al bar. Dopo quel breve momento di calma in cui Alice era riuscita a fare il caffé non avemmo neanche un secondo. Ripulimmo il salotto dai cocci e portammo su le valigie che quegli sfaticati avevano lasciato in mezzo alle scatole, come aveva detto Marie.

Alice preparò dei bigliettini con i nostri nomi e Marie fece le estrazioni formando le coppie che appuntò sul suo quadernetto. Quando ebbe finito di scrivere il nome di Ettore i cinque ragazzi entrarono rumorosamente in cucina. Erano tutti molto allegri e si davano vigorose pacche sulle spalle ridendo e scherzando allegramente.

-Io credo che quel Frank ti abbia nettamente battuto.- stava dicendo Jonathan rivolto a Paul.

-Figurati, chissà quanto aveva tracannato già.- rispose lui facendo spallucce.

-Avete fatto di nuovo le gare di bevute?- chiese Marie alzando gli occhi al cielo. Io rimasi in silenzio a guardare Jonathan così come lui stava facendo con me. Sapevo che in un attimo ci eravamo isolati dagli altri. Anche se a dividerci c'era una stanza intera mi sentivo come se fossimo soli. Non c'era nessuno se non lui con i suoi meravigliosi occhi cristallini. Sentivo la voce degli altri parecchio ovattata e gli sorrisi quando mi si avvicinò.

-Grazie amore mio.- sussurrò sulle mie labbra prima di baciarmi. Per cosa mi stava ringraziando adesso? Ero io a dovere a lui moltissimi ringraziamenti.

-Smettete di tubare come i piccioni nella mia cucina.- gridò Marie dando a Jonathan un colpo sulla spalla. Lui si allontanò appena per fulminarla e tutti risero. -avete avuto dieci giorni per stare soli adesso vi voglio tutti qui a cucinare.- annunciò. E tutti sembravano entusiasti all'idea.

-Tanto vinco come l'anno scorso.- costatò Alan incrociando le braccia al petto.

-Fossi in te non ci spererei!- rispose Jamie dandogli di gomito.

-State scherzando?- Jonathan non sembrava più così tanto allegro come prima. La sua fronte si era aggrottata appena e sembrava pronto a dare forfait per quella gara che invece sembrava un modo carino per passare la serata.

-No, Jonathan. Ti sembra che si possa scherzare su queste cose?- domandò Marie alzando un sopracciglio. Lui non poté ribattere perché lei continuò. -Allora, adesso vi divido in squadre e comincia la gara di Natale.- avvertì parecchio emozionata da tutto quello che aveva intorno. Anche Dereck e Felicia ci avevano raggiunti ed erano saliti in piedi sulle sedie dove saltellavano felici. Lei prese il quaderno degli appunti e lesse i nomi. -Jamie sta con me, Paul con Alice, Jonathan con Alan, Laura con Ettore.- annunciò con solennità.

-Io zia?- chiese Felicia salendo sul tavolo.

-Felicia e Dereck sono jolly!- aggiunse Marie tranquillamente. Jonathan si era avvicinato ad Ettore e stava chiedendo di fare cambio di squadra. Marie lo fulminò malamente ricordandogli le regole d quella gara. -Non si possono cambiare squadre!- annunciò con severità meritandosi un'occhiata terribile da parte di suo fratello. Un sorriso poi le illuminò il viso e continuò. -ogni squadra propone un antipasto, un primo o un secondo, o se riescono entrambi, un contorno necessario col secondo e un dolce.- il menù si era notevolmente allungato rispetto a quello che aveva annunciato quel pomeriggio mentre mi diceva cosa fosse la grande sfida.


Note:
salve bella gente! Il capitolo è diviso a metà perché era troppo lungo ma, dato che non voglio farvi aspettare, il resto lo pubblico entro sabato sera. per quanto riguarda il contenuto non mi piace molto, questo capitolo a dire il vero non serve neanche per quanto riguarda la storia, è più uno spaccato di vita quotidiana durante le feste. il prossimo tirerà un po' le somme (anche se qualcosa è preannunciato già qui). insomma le cose stanno per cambiare, pian pianino. 
Spiegherò tutto nel prossimo capitolo così non mi perdo in spoiler (:
Baci. Viktoria.
 

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Capitolo 15
*** Insieme a lui acquistai amore e felicità. ***


Io ed Ettore ci eravamo dimostrati una squadra incredibilmente affiatata. Lui era bravissimo a pulire il pesce ed io ero altrettanto brava con i tempi di cottura e di preparazione e ricordavo alcune ricette di mia nonna che avrebbero fatto capitolare anche il critico culinario più esigente. Lui si era dedicato agli antipasti proponendo un semplicissimo cocktail di gamberi in salsa rosa che riuscì a preparare con una maestria davvero incredibile: i gamberetti non diventarono poltiglia e non esagerò neanche con le quantità di ketchup e maionese. Era un composto omogeneo e squisito. Me lo fece assaggiare imboccandomi con la forchetta mentre io concludevo di inpiattare gli straccetti di pasta fresca ai frutti di mare e gli spruzzavo sopra la giusta quantità di basilico tritato per dare il tocco di colore che lo avrebbe reso ancora più invitante di quanto già non fosse. Le porzioni erano abbondanti e il condimento non scarseggiava in nessun piatto.

-Come lo serviamo?- mi domandò lui mentre io gli facevo segno che era ottimo. Ci pensai per un attimo mentre guardavo il pesce che si dorava nel forno. Le focacce che avevo preparato per accompagnarle invece del pane erano quasi pronte.

-Che ne dici di metterli nei bicchieri di martini con una foglia di lattuga sotto?- gli proposi mentre indossavo un guanto da forno e prendevo le tre teglie dal forno. Avevo fatto tutto in proporzioni abbondanti in modo che volendo tutti avrebbero potuto fare anche un sostanzioso bis. Non mi piaceva che si cucinasse giusto per assaggiare. Ero sempre stata abituata che in cucina non bisogna mai andare a risparmio.

-Mi sembra una bella idea.- rispose lui tornando al suo antipasto. Il dolce era già nel frigo. Avevo pensato che una cheesecake ai frutti di bosco sarebbe stata ottima ma io avevo un punto a mio favore rispetto agli altri, ero italiana, per cui avrei fatto qualcosa di italiano. Avevo optato per il classico tiramisù, sia perché il caffè smorzava bene il sapore del pesce sia perché poteva essere abbondantemente corretto con del liquore per dolci. Preparai anche un dolce per i bambini, una ciambella al cioccolato che poi avrei tagliato e riempito di nutella e mascarpone, visto che una parte abbondante mi era avanzata dalla preparazione del dolce. Presi le focacce dal forno ed Ettore le tagliò a quadratini mettendoli in dei canestri di vimini ed io tirai fuori dal forno le orate al cartoccio e i gamberi. Ettore li pulì tanto bene da non lasciare neanche una spina e quando vidi che era tutto assolutamente perfetto gli diedi il cinque soddisfatta.

-Noi abbiamo finito!- avvertimmo gli altri in coro. Diedi uno sguardo a Jonathan e Alan che sembravano alle prese con chissà quale dramma. Tutti si voltarono verso di noi e aggrottarono la fronte.

-Apparecchiate allora.- ci ordinò Marie e noi, silenziosamente, obbedimmo.

 

La cena fu davvero ottima oltre che incredibilmente abbondante. Tutti rimasero stupefatti dai nostri piatti e Jonathan, al mio fianco, non faceva che sorridere divertito e felice. Era così tranquillo, così colorito, così bello.

-Capite perché l'ho sposata?- domandò lui chiedendo un altro po' di tiramisù. Alla fine tutti avevano voluto anche la torta che era solo per i bambini ma ne avevo fatta in abbondanza per tutti.

-Laura, sposi anche me?- domandò Paul con un sorrisetto divertito mentre dava un morso alla sua fetta di torta.

-Non credo che in Inghilterra la bigamia sia legale.- gli feci notare mentre Jonathan mi passava un braccio intorno alle spalle e mi stringeva a se. -e comunque io ve lo avrei servito con le spine, se Ettore non avesse avuto la pazienza e la bravura di pulirlo così bene.-

La serata passò così, tra una risata e l'altra, con i bimbi che erano crollati addormentati sul divano. Eravamo tutti tranquilli e spensierati ed io non sarei stata più felice che in quel momento. Quando mi alzai per andare a mettere i piatti nel lavello Marie mi seguì.

-Come va?- mi chiese mentre aprivo l'acqua per sciacquare tutto prima di mettere la lavastoviglie. Non ne avevo mai avuta una a casa e onestamente preferivo ancora essere io a lavare, con spugnetta e detersivo, anche se in casi come quella cena, in cui c'era una pila di cose incredibile, poteva essere utile. Sorrisi alla sua domanda senza voltarmi verso di lei che si era appoggiata al mobiletto della cucina.

-Vuoi sapere se stiamo implodendo?- domandai io ridacchiando piano a quella prospettiva che al momento mi sembrava davvero impossibile. -non ti sembra presto dopo dieci giorni?-

-Non mi sembra mai troppo presto con voi due.- ammise lei facendo spallucce. Mi voltai verso di lei questa volta con uno sguardo un po' mesto e deluso. E lei lo capì. -Perdonami non sono una grande sostenitrice del vostro matrimonio.-

-Sì, lo so che ci credi davvero poco.-

la mia voce doveva aver ben espresso tutto il mio malumore. Avevo infilato già i bicchieri e le posate nell'elettrodomestico sotto il lavello e avevo chiuso lo sportello con forza.

-Non è questo, lo sai.- aveva cominciato lei cercando di scusarsi come poteva ma non era un discorso che volevo affrontare. Sapevo qual'era il problema che la spingeva a parlare così e lo capivo. Ci avevo riflettuto parecchio anche io. Mi aveva dato da pensare il fatto che molto spesso Jonathan si comportava con me come un padre protettivo più che come un marito, mi aveva fatto riflettere il modo in cui guardava i suoi nipoti e in cui guardava me quando giocavo con loro o li tenevo in braccio. Come se fosse geloso e preoccupato.

-Sì, lo so.- conclusi quindi io troncando il discorso. Lei sospirò e mi aiutò a pulire la cucina.

-Allora, come va la carriera?- mi domandò allora. E mi venne in mente quando, il venerdì precedente, ero andata a girare il finale di stagione. Bob e io avevamo avuto un'interessante chiacchierata nel suo studio prima delle riprese e mi aveva proposto di firmare un contratto anche per la seconda stagione. Non avevo guardato neanche il plot avevo semplicemente sorriso e avevo scosso la testa.

-Ho lasciato Dracula non mi sembrava un bene rimanere lì dopo aver avuto quel...battibecco con Gaspard.- ammisi facendo spallucce. Sarebbe stato impossibile rimanere lì. Jonathan era sempre nervoso quando mi vedeva vicino a lui ed io stessa non ero più molto a mio agio. Marie sembrava d'accordo con la mia scelta.

-Adesso studi e basta?- mi chiese lei davvero interessata alla mia vita. Ci avevo pensato a studiare e basta, ne avevo anche parlato con il signor Hennington che però, proprio quel giorno in cui ero andata nel suo studio da sola mi aveva presentato un progetto a cui non avrei mai potuto rinunciare.

-Non proprio, il nostro manager mi ha trovato un lavoro a Siracusa.- ero felice, in fondo, di tornare nella mia città. Mi era mancata. E comunque non mi sarebbe dispiaciuto rivedere i miei genitori e i miei nonni. La mia famiglia mi mancava, anche se erano stati degli stronzi.

-Torni a casa?- mi chiese lei un po' agitata.

-Per un po'.- la tranquillizzai. Non mi sentivo neanche io di lasciare Jonathan da solo troppo a lungo ma il posto che mi avevano proposto mi faceva troppa gola. Infondo avevo cominciato proprio lì. -Mi hanno preso per le rappresentazioni di quest'anno...sperando di essere una buona Clitennestra.- scherzai vantandomi un po'.

-Figo! Mi darai i biglietti?- mi domandò mia cognata con un sorriso splendente sul viso. Il sorriso di chi è davvero entusiasta all'idea. Un sorriso tanto sincero da scaldare un po' il mio cuore traumatizzato.

-Certo.-

rimanemmo per un attimo in silenzio e mi poggiai all'isola di fronte a lei. Avevo bisogno di parlarle effettivamente e sapevo che lei aveva bisogno di parlare con me. Si vedeva dal modo in cui si muoveva, dalla sua ansia e agitazione.

-Quando parti?- mi domandò mordendosi il labbro.

-Verso il venti Gennaio.-

-E Jonathan?-

-E' d'accordo con me.-

-Non ne avevo dubbi.- rispose lei dopo quello scambio veloce di battute. Stava sorridendo adesso ben più rilassata. Probabilmente immaginava che anche lui fosse felice di questo mio allontanamento da Gaspard Ulliel anche se così mi sarei allontanata per un po' anche da lui. -Hai davvero un ottimo ascendente su di lui.- mi fece notare con un sorriso che mi spinse ad arrossire.

-E' lui che lo ha su di me.- abbassai lo sguardo sulle mie scarpe con un leggero tacchetto e sorrisi appena di me stessa e del mio imbarazzo ogni volta che pensavo al mio rapporto con Jonathan.

-Non credo. Altrimenti oggi non sareste stati qui.- mi fece notare lei riportandomi alla memoria un discorso che avevo sentito neanche troppo tempo prima e che mi aveva spinto a farmi delle domande.

-Perché?- chiesi a quel punto ad alta voce.

-Lui non veniva da noi per le feste dal 2006.-

-Cosa?- la mia espressione era sconcertata a quella scoperta. Avevo sgranato leggermente gli occhi e sapevo che la mia espressione incredula era anche un tantino ferita all'idea che Jonathan stesse recuperando solo adesso i rapporti con la sua famiglia.

-Reena Hammer voleva andare sulle Alpi per Natale. O ai Caraibi.- mi spiegò lei velocemente con molto astio nella voce. Non sapevo che dire.

-Ah.-

-Già. La stronza.- Marie sembrava più dispiaciuta che arrabbiata e il tono della sua voce lo confermava.

-E' per questo che non ricordava...- costatai io alzando gli occhi al cielo per non dover guardare il viso di quella donna che sembrava sofferente all'idea di aver lasciato il fratello in balia di una megera per tanti anni.

-Sì.-

avevo tirato le somme almeno per quanto riguardava quella prima parte dei miei dubbi. Avevo immaginato una cosa simile effettivamente, sapevo che i rapporti con la sua famiglia erano sempre stati un po' tesi ma non immaginavo fino a quel punto. Un altro dubbio mi venne in mente a quel punto.

-E la stanza?-

-Come?- Marie questa volta non afferrò il filo dei miei pensieri. Anche lei era persa nei suoi e le ci volle un attimo prima che capisse a cosa mi stessi riferendo e solo dopo che ebbi specificato.

-Cosa rappresenta la stanza che ci hai dato?-

-Era quella di mamma e papà.- la sua voce si era abbassata di molto e il suo viso era un po' più triste adesso. Evidentemente quella stanza era importante per tutti loro. -ha un significato molto particolare per lui perché è a quella stanza che sono legati i suoi ricordi più felici.- concluse lei con la voce leggermente spezzata. A quel punto mi voltai perché la lavastoviglie mi avvertì che il ciclo di lavaggio era concluso. Mentre uscivo i piatti e li posavo al loro posto Marie si schiarì di nuovo la voce. -Laura...devo dirti una cosa.-

-Dimmi.- mi voltai verso di lei mentre asciugavo un bicchiere e la guardai in viso. Era titubante e un po' rossa sulle guance.

-Mi sposo!- era stato come un fulmine a ciel sereno per me, una notizia che tuttavia mi riempii di gioia. Non avrei mai creduto che mi avvertisse così presto di una cosa del genere e ne ero semplicemente entusiasta.

-E' fantastico!- battei le mani soddisfatta e la strinsi fortissimo al petto. Avevo alzato troppo la voce ma non riuscivo a calmare l'entusiasmo.

-Sch!-

-Scusami.- anche se mi aveva rimproverato aveva risposto al mio abbraccio e adesso stava anche ridacchiando felice della mia reazione -Quando?-

-Il prima possibile anche perché...io ed Ettore siamo in attesa.- troppe notizie tutte in una volta. Le sue mani corsero al suo ventre che non era mai stato del tutto piatto ma che adesso nascondeva una nuova vita che sarebbe venuta al mondo molto presto. Forse anche alla fine di quell'estate che stava per arrivare. Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime e appannarsi. Sentivo una morsa allo stomaco che era un misto di felicità e di invidia. -Che fai piangi?- mi domandò lei a quel punto preoccupata. Stavo per diventare zia. Avrei visto quel bimbo crescere e ne ero terribilmente entusiasta. Marie mi passò una mano sulla guancia per asciugarmi le lacrime.

-Sono commossa ed emozionata.- ammisi io stringendola forte e passandole le mani sulla pancia con moltissima dolcezza.

-Ma che cavolo di attrice emotiva sei?- mi prese in giro lei mentre io ridevo passandomi le mani sul viso e cercando di tornare calma. Ero una pessima attrice nella vita reale ma era meglio così. La mia spontaneità dopo tutto aveva fatto innamorare mio marito e mi ricordava che ero comunque la ragazzina che ero sempre stata. Lei mi prese le mani che avevo sulla sua pancia e mi guardò negli occhi.

-Laura? Vuoi essere la mia testimone di nozze?- mi domandò lei. Non mi venne neanche in mente che avevo già poco tempo per il lavoro che dovevo fare in Italia e che se avessi accettato ne avrei avuto ancora meno per potermi occupare di Jonathan e della nostra relazione ma lei era stata la mia testimone ed io non avrei potuto non accettare.

-Sì, certo che lo voglio.- risposi prontamente prendendole la mano dove avrei dovuto trovare qualcosa che non c'era. -Dov'è l'anello?- domandai aggrottando la fronte.

-L'ho nascosto perché lo diremo domani sera a cena.- mi avvisò lei dicendomi tra le righe di non parlarne con Jonathan.  


Note autrice:
Care lettrici, scusate il tempo immenso ma sono tornata fuori sede e, oltre ai vari problemi di una fuori sede senza internet, si sono aggiunti anche problemi di famiglia. il capitolo e corto. non ho risposto alle vostre recensioni perché non ho molto tempo (purtroppo) ma le ho apprezzate tantissimo. questo capitolo è la metà di quello di prima. si scoprono però alcune cose e...che dire. purtroppo devo lasciarvi e non posso sproloquiare oltre. tanto amore per voi ((:

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Capitolo 16
*** La lontananza rafforza l'amore...oppure lo distrugge. ***


 Non mi dispiaceva più di tanto che Laura avesse deciso di lasciare il telefilm a cui lavoravamo insieme. Era un peccato perché adesso che era partita per l'Italia avevamo molte meno possibilità di vederci se non nei week-end, in cui comunque era molto indaffarata nei preparativi del matrimonio di Marie; però Gaspard Ulliel era finalmente uscito dalla sua vita. Adesso era solo nella mia, a darmi fastidio con la sua presenza da cui purtroppo non potevo scappare. In realtà non ci parlavamo poi troppo fuori dal set per quelle battute necessarie tra i nostri personaggi, per il resto era come se non ci fosse. Quando ci scontravamo nei camerini o in sala trucco, seduti l'uno di fianco all'altro, ci scambiavamo solo quei leggeri convenevoli del tipo: “ciao, come va? Tutto bene.” niente di più. Ogni tanto era lui a voler portare avanti una conversazione che io non avevo nessuna voglia di avere.

«Come sta Laura?» mi domandava senza guardarmi. Ero un uomo, non importava quanto fosse bravo a nascondere le sue emozioni, lo capivo quasi sempre che cosa volesse dire. A lui lei mancava. Sarebbe mancata anche a me se non l'avessi più sentita come era successo a lui. Fatto sta che era mia moglie e che non mi faceva piacere che quel ragazzo si sentisse tanto attratto da lei. No, non attratto. Innamorato. Lo capivo dal modo in cui piegava i suoi lineamenti perfetti in una smorfia di tristezza quando gli rispondevo semplicemente.

«Tutto bene.» nient'altro. Come a volergli dire che non erano fatti suoi. Nessuna spiegazione, niente. Lui sospirava e annuiva come se quelle due parole avessero soddisfatto una curiosità che sapevo andare molto oltre.

«Salutamela quando la senti.» concludeva lui sapendo che non l'avrei fatto. Infatti non rispondevo mai. Lo guardavo sottecchi con una smorfia e lasciavo cadere l'argomento senza una parola di più.

Noi non parlavamo mai di lui. Quando mi chiamava, dopo una giornata di prove, la sentivo stanca ma assolutamente entusiasta. Quando andavo da lei nei fine settimana la ritrovavo un po' bambina in quella terra che dopo tutto era la sua.

Mi aveva detto di non aver rivisto i suoi genitori ma di essere andata a trovare le sue nonne che l'avevano accolta bene e che ci avevano addirittura invitati per pranzo. Facevamo l'amore ogni volta che ne avevamo la possibilità e lei non si tirava mai indietro. Mi amava con intensità, con trasporto, mi faceva sentire tutto quell'amore e quell'affetto che non avevo mai ricevuto da nessuno. Speravo che anche lei riuscisse a capire tutto il bene che ero io a volerle, tutto l'amore che provavo per lei, anche se non ero bravo a dimostrarglielo come avrei voluto.

In linea di massima quelle settimane passarono abbastanza lentamente. Per lo meno le prime tre dopo la sua partenza a metà Gennaio. Il lavoro mi teneva impegnato durante la settimana e mia sorella ci metteva del suo con i preparativi per il matrimonio. Mi ero offerto di aiutarla io stesso pur di non sentire la mancanza di Laura in casa dopo il lavoro. Vivevamo insieme da abbastanza tempo da sentire la sua assenza quando non c'era. Mancava praticamente tutto di lei. La sua vivacità, la sua dolcezza, il buon odore che facevano i suoi piatti, la sua intransigenza, il suo nervosismo. Anche fare l'amore con lei tutti i giorni come avevamo fatto fino a quel momento, dormire con lei, baciarla quando ne avevo voglia.

In quel momento mi trovavo sul set, stavamo girando le prime scene della seconda stagione visto che il contratto scadeva a metà Febbraio. Ero in piedi, silenzioso, di fronte al viso sconvolto di un uomo che aveva perso ogni ragione di vivere. L'amore della sua vita gli era stato portato via...

non mi era piaciuto molto il modo in cui Bob aveva fatto uscire il personaggio di Laura di scena ma almeno mi aveva fatto l'immenso favore di non strappare null'altro se non un bacio a fior di labbra tra mia moglie e quel damerino francese. Un bacio che, più che renderlo soddisfatto, probabilmente non aveva fatto altro che fargli bramare ancora di più labbra che non erano le sue.

 

Katherine alla fine aveva ricordato chi era davvero. Le attenzioni del vampiro ultracentenario avevano dato l'effetto opposto a quello sperato. Eppure aveva creduto di essere vicinissimo alla conquista del suo cuore, aveva creduto di poterla fare sua strappandola alle attenzioni del cacciatore che non era riuscito ad avvicinarsi quanto lui alla bella fanciulla dal cuore d'oro e dalla mente confusa. E Dracula di quella confusione ne aveva approfittato senza remore. Aveva fatto di tutto per farla capitolare, le sue attenzioni erano state troppo marcate per essere fraintese. Era stato galante, nonostante lui avesse già contratto matrimonio con Lucy Westerna. Un matrimonio di stretta convenienza che non gli portava nessuna gioia. Un matrimonio che aveva allontanato Mina da lui. La ragazza si era sentita tradita dall'amica e, per non tradirla a sua volta, se ne era allontanata. Da lei e dal suo affascinante marito. E il vampiro ne aveva sofferto immensamente. Il suo errore adesso gli appariva in tutta la sua evidenza. E c'era stata Katherine al suo fianco allora. Quella maestra di asilo che frequentava il suo salotto insieme alla sorellastra, figlia di quei due giovani che l'avevano adottata quando, solo bambina, era stata trovata ai margini della strada in un fagotto di indumenti sporchi di sangue, sola, quasi morta per il freddo. Katherine era stata buona, in silenzio aveva cercato di guarire le ferite di Mr. Grayson e di Vlad, senza neanche conoscere la loro storia. E lui l'aveva odiata anche per questo. L'aveva odiata perché per un breve istante gli aveva permesso di dimenticare Mina, perché gli aveva fatto credere che l'amore non fosse solo quello per il fantasma di una donna morta troppi secoli prima. Per un attimo aveva scisso la bella Katherine dalla lontana e sfocata figura della ragazza che aveva ucciso moltissimi secoli prima per dispetto ad un cacciatore che gli aveva portato via il suo unico amore. Katherine non era Kosara. O per lo meno aveva sperato che fosse così.

Era la notte prima di un ballo che Grayson aveva dato proprio per dimostrare ad Etienne che Kosara era morta quella notte, che ancora una volta lui aveva avuto la meglio sul suo destino e che ne era il padrone. Lui era rincasato incredibilmente tardi dopo una breve “caccia” che lo aveva lasciato insoddisfatto. Lei era lì, quasi nuda, coperta solo da una camicia da notte quasi trasparente, bianca come la purezza che contraddistingueva quella ragazza da ogni altra. I capelli mossi, scuri, sciolti sulle spalle, gli occhi grandi e spaventati nel vederlo lungo quel corridoio buio ancora vestito, un candelabro che rischiarava le tenebre.

«Katherine, cosa fate qui a quest'ora?» aveva domandato l'uomo con il viso reso serio dallo stupore di quell'incontro notturno in cui non avrebbe sperato.

«Non riuscivo a dormire.» confessò la ragazza in imbarazzo. Cercava di sottrarsi alla vista con scarso successo perché le sue forme piccole ed eleganti attiravano la sua attenzione come la luce per una falena. «Mi dispiace.» si scusò facendo un passo indietro che l'allontanò da lui.

E questo non era quello che voleva. Fu lui stesso ad avvicinarsi di nuovo, a sfiorare la pelle fredda del suo viso, a baciarle la fronte. E fu allora che lei scappò via.

L'indomani Katherine non c'era più. Non si accorse del cambiamento se non quando la vide scendere le scale, bellissima come sempre, un abito bianco e rosso che metteva in risalto la sua pelle leggermente olivastra e i suoi colori scuri. Il suo sguardo vagava sicuro per la stanza. Sapeva cosa stava cercando la giovane ragazza e non appena i suoi occhi incontrarono lo sguardo del fratello perduto il suo viso rimase immobile, impassibile. Un sorriso l'avrebbe tradita meno di quell'espressione che ostentata una dichiarazione che non tutti avrebbero inteso ma che Mr. Grayson capì perfettamente. E anche Etienne capì e il suo cuore perse un battito. Era tornata. La donna che aveva sempre amato era tornata da lui.

Fu quella notte che la perse di nuovo. Nella speranza di compiere ciò che era il suo dovere, nella speranza di portarla via e di riavere la vita che aveva sempre desiderato accanto alla donna che amava Etienne fece un passo falso. E anche Kosara lo fece.

Lo scontro fu terribile. Grayson si nutrì del sangue della fanciulla e fece bere a lei il suo prima di pugnalarla a morte lasciandola a terra in una pozza di sangue. Etienne non aveva potuto fare nulla se non vederla accasciare di fronte ai suoi occhi agonizzante.

«Sei tu che l'hai condannata a morte, Etienne.» gli ricordò il vampiro prima di andare via. Ad Etienne lasciò il suo corpo. Un corpo quasi privo di vita di una ragazza disperata.

«Uccidimi.» sussurrò lei una volta che raggiunse un letto. Etienne l'aveva portata in casa sua il più in fretta possibile. Le parole della donna non arrivarono subito al suo cervello e quando lo fecero ne rimase sconvolto.

«Non dire sciocchezze Kosara, non lo farò mai.» la zittì lui senza aggiungere altro. Stringeva la sua mano piccola e fredda tra le sue e le baciava le dita con dolcezza.

«Dovrai farlo quando sarò un mostro.» sussurrò sconfitta. «Non voglio esserlo, ti prego amore mio.» e quelle quattro parole, quella preghiera e quell'epiteto, gli strinsero il cuore in una morsa. Quella sera il cacciatore non mise fine solo all'esistenza della donna ma persino alla sua. Quando Kosara smise di respirare anche lui seppe per certo che non avrebbe avuto più ragione per vivere. Ecco perché era tornato da Grayson. Per chiedere la morte o per avere la sua.

 

Quando il telefono squillò nella mia tasca Gaspard, nei panni di quel cacciatore disperato, mi lanciò un'occhiata indiscreta come se volesse essere lui a rispondere a quella chiamata. Sapevamo entrambi di chi si trattava e mentre il mio viso rimase impassibile mostrando solo una leggera traccia di felicità il suo divenne una maschera cerea di puro risentimento.

-Scusatemi, è mia moglie.- sottolineai per bene quella parola e poi mi rivolsi a Bob. -Ti spiace se rispondo?- gli domandai allontanandomi già dal set.

-No, figurati.- rispose l'uomo con un cenno del capo. -cinque minuti di pausa per tutti ragazzi.- gridò invece lui mentre io ero già lontano e avevo premuto il tasto per l'avvio di chiamata.

-Ciao.- la salutai con la voce bassa e con un'intensa dolcezza nella voce.

-Amore mio.- sussurrò lei e sapevo che stava sorridendo. Ultimamente era particolarmente dolce per telefono, sosteneva che la mia mancanza la spingeva ad essere particolarmente diabetica. -Come stai? Ti diverti senza di me?- domandò facendomi percepire la sua nostalgia.

-Benissimo, do party a base di sesso, alcol e droga tutte le sere, io e Gaspard stiamo diventando migliori amici e ho anche deciso di mollare tutto, andare in Messico e diventare gay.- scherzai.

-Non sei divertente, vorrei dirtelo.- mi redarguì lei con serietà per poi scoppiare a ridere pochi secondi dopo. -ok, forse era divertente la parte di Gaspard.- scherzò e sapevo che se fosse stata accanto a me mi avrebbe dato un buffetto sulla spalla e un bacio sulle labbra che avrei saputo bene come approfondire.

-Come vanno le prove?- domandai io curioso di sapere cosa stesse facendo. Non stavo così lontano da lei praticamente da quando ero andato a vivere in Italia e la cosa adesso mi pesava non poco.

-Bene, mi piace tantissimo Jonathan, non puoi capire. Il teatro greco è sempre stato il palcoscenico dei miei sogni e insomma mi trattano come fossi una grande attrice.- rise piano e immaginai di averla davanti agli occhi con tutto il suo entusiasmo e il suo visino illuminato di gioia. -e poi vedessi che vestiti bellissimi che abbiamo!- concluse entusiasta.

-Sono felice che tu sia contenta Lorie.- sussurrai io senza sapere che altro dire. Ero davvero felice che non stesse a piangersi addosso come facevo io per la sua mancanza però se gli fossi mancato almeno un po' ne sapei stato più felice, lo ammettevo.

-Se tu fossi qui sarebbe tutto perfetto.- sussurrò lei con la voce bassa che risvegliò un desiderio non proprio assopito. L'idea di fare l'amore con lei mi assillava tutta la settimana.

-Vengo presto...-

-Bob ci vuole in scena.- una voce alle mie spalle mi fece trasalire. Non l'avevo sentito avvicinarsi e quando mi voltai il viso serio di quel ragazzo mi fece salire un odio profondo. Ma com'era possibile che fosse sempre in mezzo alle scatole nei momenti meno opportuni?

-Ti saluta il tuo amico.- le dissi voltandomi verso di lui che rimase immobile di fronte a me con i pugni stretti lungo i fianchi.

-Il mio amico?- chiese lei senza capire di cosa stessi parlando adesso. Per lei il discorso era passato da una promessa d'amore sussurrata ad una voce piena di sdegno. Eppure non serviva che dicessi altro e dopo pochi istanti fu lei a far tutto. -Jonathan, non litigate come se aveste dodici anni. Siete grandi, maturi e vaccinati. Comportatevi come persone normali.- mi stava rimproverando ma stava rimproverando anche lui. Aveva alzato la voce e sapevo che anche Gaspard aveva potuto sentirla benissimo nonostante avessi il telefono all'orecchio.

Lui si voltò senza dire una parola e si allontanò lentamente tornando al suo posto sulla scena e lasciandomi solo.

-Non puoi capire quanto io lo trovi insopportabile.- mormorai tornando a parlare con lei. Alcune volte oltre ad essere per me una moglie e un'amante era anche la mia migliore amica.

-Posso immaginarlo.- mi rassicurò ridendo pianissimo per evitare che capissi che non mi stava più rimproverando. - Ti amo tanto Jonathan, ti aspetto per il fine settimana.- sussurrò e dopo un po' mise giù lasciandomi tornare al mio triste lavoro e alla mia solitudine.

Quando tornai sul set però quello che vidi non mi piacque affatto. Ogni volta che parlavo al telefono con lei il fine settimana non mi sembrava poi tanto lontano ma solo un attimo dopo mi lasciavo prendere dall'immancabile sconforto che arrivava dopo aver preso coscienza di quanto invece fosse poco stare con lei due o tre giorni soltanto. L'avevo sposata perché volevo passare con lei tutta la vita, ogni istante possibile. Era anche stata un'idea mia quella di proporle di diventare un'attrice e lo avevo fatto solo perché pensavo che in realtà questo ci avrebbe avvicinati di più invece che tenerci lontani per quasi sei mesi.

Mi passai una mano distrattamente tra i capelli e fu in quel momento che la vidi. Era bella, su questo non c'era dubbi, elegantissima come sempre era ferma a parlare con il francese come se fossero in grande intimità. Non l'avevo più rivista dopo il mio matrimonio e non avevo chiesto niente a quel maleducato di un francese circa la sua partecipazione alle nozze. Non avevo mai potuto pensare che stessero insieme davvero anche perché, per quel che mi riguardava, era una cosa inconcepibile. Eppure adesso Reena Hammer, con tutto il suo abbigliamento da un milione di dollari, faceva la sua bella mostra proprio lì, davanti a me, in un atteggiamento che conoscevo sin troppo bene. Stava facendo la smorfiosa. Passai, per necessità, accanto a loro e mi sentii trattenere per il braccio da una presa ferrea e delicata allo stesso tempo.

-Ciao Johnny, non mi saluti più adesso?- domandò lei con un sorrisetto divertito sulle labbra avvicinandosi a me e stampandomi due sonori baci sulle guance. -Il matrimonio non ti sta molto bene, sembri stanco.- mi fece notare passandomi una mano sul petto con quelle unghie perfettamente smaltate e assolutamente finte.

-Una fortuna che non abbia sposato te altrimenti più che stanco sarei morto.- le risposi semplicemente dandole un buffetto, che non voleva essere affettuoso, sulla guancia. -Vi lascio alle vostre smancerie, con permesso.- cercai di congedarmi il più velocemente possibile ma lei non ne sembrò affatto contenta e continuò a trattenermi lì dove mi trovavo. Gaspard non ne sembrava infastidito. Rimaneva al suo posto, anzi fece addirittura un passo indietro, con le braccia strette al petto e un'espressione seria ma indifferente sul viso.

-Io e Gaspard stavamo organizzando una festa questa sera e volevamo che fossi presente anche tu.- mi invitò lei con quei suoi modi falsamente gentili porgendomi un invito su una carta madreperlata neanche fosse un invito di nozze. Non lo presi nemmeno e sorrisi senza allegria.

-Ho da fare.- rispose semplicemente.

-Cosa? Commiserarti per la lontananza di tua moglie?- domandò a quel punto il francese facendomi salire il sangue alla testa. Odiavo anche solo sentire la sua voce ormai.

-Se anche fosse sarebbe un'attività ben più interessante che una stupida festa da voi.- conclusi allontanando quella donna con uno strattone per niente delicato prima di allontanarmi e tornare al mio posto.

-Sembra che tu sia spaventato.- la voce di Reena mi prese alle spalle e mi costrinse a voltarmi verso di lei per l'ennesima volta. Il suo viso era del tutto tranquillo anzi sembrava quasi che stesse sorridendo.

-Da cosa dovrei essere spaventato?- domandai aggrottando la fronte cercando di non riderle in faccia per quel suo stupido tentativo di trattenermi. Eppure quel tentativo stava anche funzionando perché io ero ancora lì ad ascoltare lei e le sue stupide idiozie come se me ne importasse qualcosa.

-Da me.-

il suo sguardo era serissimo e mi fissava negli occhi con una profonda intensità che sembrava voler tornare a quei giorni in cui effettivamente era lei a fare il bello e il cattivo tempo con me. In cui dipendeva tutto dalla sua volontà. Un suo sorriso mi spingeva a darle ragione, un suo lamento a cambiare i miei piani. Adesso mi faceva solo una pena profonda.

-Mi dispiace che tu sia infelice Reena, davvero. E mi spiace ancora di più che renderai infelice lui.- le dissi indicando il francese al suo fianco. - non tanto perché mi importi di lui, per quanto mi riguarda potrebbe anche sposarti. Ma so che Lorie, per un motivo a me sconosciuto, lo ritiene suo amico e lei ne soffrirebbe se tu lo trasformassi in quello che ero io.- conclusi semplicemente facendo spallucce. Il più colpito dalle mie parole era proprio quell'uomo che si mordeva convulsamente il labbro. -Ma, per quanto io lo trovi detestabile, forse non è così idiota.- ammisi alla fine con un sorrisetto sulle labbra che la diceva davvero lunga. Il mio sguardo si piantò sul viso di quel ragazzo e sembrava non volerlo più lasciare andare. -dopo tutto è innamorato di mia moglie.-

Colpito e affondato.

Lo vidi arrossire leggermente e abbassare lo sguardo come se stesse cercando di nascondersi. La mia risposta fu una risatina prima di allontanarmi davvero e questa volta nulla mi fece voltare.

 

Quando finimmo di girare quelle ultime scene Bob, il regista, mi si avvicinò con un sorrisetto e mi poggiò una mano sulla spalla con fare gentile e affabile. Ciò, considerato che di natura lui era un uomo che non possedeva certamente queste qualità in tratti così marcati, mi spinse a voltarmi verso di lui aggrottando la fronte e alzando un sopracciglio parecchio indispettito in attesa che dicesse qualcosa che mi spiegasse quel comportamento.

-Sei stato bravo oggi.- si congratulò con un'inflessione nella voce che me lo fece risultare particolarmente simpatico.

-Grazie.- risposi io senza un particolare slancio ma con sincera gratitudine.

-Un vero peccato che Laura abbia deciso di lasciarci, è così brava che avrei avuto grandi piani per il suo personaggio.- cominciò lui. Non era la prima volta che mi chiedeva di far “ragionare” mia moglie per riportarla sul set.

-Io sono d'accordo con lei su questa scelta. Infondo adesso sta facendo qualcosa che ama di più, è comprensibile che abbia scelto di fare questo e nient'altro.- risposi io che, tra l'altro, ero del tutto convinto che già questo lavoro ci tenesse abbastanza lontani da non aver bisogno di doverne avere un altro.

Bob non sembrò soddisfatto della mia risposta perché fece scivolare la sua mano dalla mia spalla e mise un broncio un po' fanciullesco ma davvero simpatico sul viso.

-Ehi, non prendertela, magari vi incontrerete sul set di un altro film.- scherzai io dandogli una pacca sulla spalla prima di dirigermi verso il mio camerino.

-Jonathan, piuttosto stasera ci sarai vero?- domandò lui quando ero ormai abbastanza lontano da lui da costringerlo ad alzare un po' il tono della voce.

-Stasera?- chiesi io stupefatto voltandomi di nuovo.

-C'è la festa per i saluti della troupe visto che abbiamo finito le riprese, non vuoi mancare proprio tu vero?- domandò di nuovo, questa volta retoricamente, il mio capo. Aveva ancora quell'inflessione nella voce che non ammetteva assolutamente repliche, come ogni volta che non ero d'accordo sulle scene tra Laura e Gaspard.

-Non ne so nulla.- feci spallucce e un sorrisino soddisfatto.

-Cosa? Non è possibile!- lui si avvicinò di nuovo e mi fece segno di seguirlo. -Quel benedetto ragazzo è proprio sbadato.- si stava lamentando lui più con se stesso che con me. Entrò nel suo studio e mi lasciò sulla porta in attesa e con una certa fretta. -Sono certo di averlo messo qui, da qualche parte.-

la stanza giaceva in una semi oscurità rischiarata soltanto dalla tenue luce che veniva dalla porta aperta alle mie spalle. I capelli neri e lucidi dell'uomo spiccavano sullo sfondo marroncino di una scrivania stracolma di cartacce di ogni tipo. Forse copioni ma anche carte di fast-food, lattine e bottiglie di birra.

-Eccolo!- gridò ad un tratto avvicinandosi a me con un cartoncino madreperlato in mano. Lo avevo già visto quell'invito. Sollevai lo sguardo su di lui e aggrottai semplicemente la fronte disgustato che potesse lui stesso propormi una cosa del genere. Ma che razza di persone mi trovavo ad avere intorno?

-Io non verrò.- conclusi con semplicità senza neanche prendere in mano quel pezzo di carta che mi avrebbe rivoltato pesantemente lo stomaco.

-Certo che verrai!- rispose lui prendendomi la mano e ficcandoci dentro il biglietto. -è una festa in tuo onore si potrebbe anche dire.- rispose Bob prima di farmi segno di andare velocemente a cambiarmi in modo che non facessi tardi a quella festa a cui sembrava tenere tanto. Probabilmente tutto dipendeva dal fatto che avrebbe fatto un sacco di pubblicità.

Conoscevo le feste di Reena, erano un po' dei piccoli red carpet ad eccezione forse dei premi che in alcune occasioni mondane venivano conferiti. Ma era indubbio che certe situazioni erano pubblicità gratuita e garantita ed una mia assenza avrebbe rovinato molti piani.

-Ne parlerò con Lorie, vedremo.- tagliai corto cercando di non dare false speranze. Infondo ero pur sempre un marito adesso. Le decisioni le si dovevano prendere comunque in due.

Mi avviai verso il mio camerino e neanche trenta minuti dopo ero già in macchina diretto verso casa mia con la mente però persa in ben altri pensieri.

 

Alla fine alla festa ci andai. Fu Laura stessa a dirmi di farlo in modo tanto convincente da spingermi, come sempre, a darle ragione. Forse perché sapeva come prendermi. Conosceva il mio fortissimo orgoglio e i miei punti deboli.

«Non dare modo a quella donna di credere che tu abbia paura di lei.» aveva detto lei con la sua voce ferma e decisa quando, a ora di cena, gli avevo chiamato al telefono per chiederle il suo parere. E quello mi aveva convinto. Mi ero preparato con moltissima calma, non avevo fretta di arrivare puntuale. Un vestito nero con una camicia bianca e nient'altro. Niente cravatta o altro, un modo come un altro per comunicarle che mi importava davvero pochissimo di quella festa.

Il luogo in cui mi ritrovai era davvero elegante. Una bellissima villa in stile rinascimento che per l'occasione era stata tanto illuminata da dare quasi l'impressione che fosse giorno. In giardino una lunga passerella introduceva gli ospiti nella sala principale: un ampio salone brillante di luci e d'oro, ricco di drappi damascati che ricadevano dal soffitto dando un'impressione di movimento in quelle architetture così solide e geometriche. Il tutto era in linea e rispecchiava perfettamente lo spirito affatto modesto di quella donna con cui avevo condiviso anche troppi anni della mia vita.

Non passò neanche un secondo. Non appena entrai in sala me la ritrovai immediatamente al mio fianco. Indossava dei vertiginosi tacchi che la rendevano alta quanto me, un delizioso abitino giallo con una bella stola rossa che sapeva mettere in risalto ciò che di bello madre natura le aveva concesso. I suoi colori e le sue forme non troppo generosa ma decisamente invitanti.

-Ciao Johnny, sono felice che tu sia qui.- mi salutò con eccessivo trasporto poggiandomi le mani sulle spalle e sollevandomi per baciarmi entrambe le guance.

Mi scostai immediatamente facendola inciampare e quasi rischiò di cadere in avanti. Non mossi un dito per evitare che accadesse e, al contrario, quasi ne risi. Fu solo grazie ai suoi buoni riflessi se non stramazzò maldestramente in terra.

-Gentile come sempre vedo.- scherzò lei con una traccia di rimprovero nella voce che non stava neanche cercando di mascherare. Feci bonariamente spallucce e mi allontanai senza dire altro per raggiungere Bob e il resto dei dirigenti.

-Buonasera signori.- mi introdussi con calma mentre loro si voltavano verso di me con un sorriso gentile. Bob mi posò una mano sulla spalla e cominciò a decantare con gli altri le mie straordinarie qualità di attore.

-...questo ragazzo è davvero un talento. Un vero peccato che si sia bruciato troppo presto.- quelle parole mi fecero gelare per un attimo e tutti intorno a noi ebbero la stessa reazione. Bob era già un po' alticcio, l'ennesima birra tra le mani e un sorriso ebro sul viso arrossato. Mi scostai appena e risi piano di quella che finsi fosse una battuta.

-Bob, vecchio ubriacone, dovresti andarci giù leggero con questa roba che ti spacca il fegato.- detto da me sembrava davvero il massimo dell'humor visto e considerato che ero stato il primo ad andarci giù davvero pesante con gli alcolici ai miei tempi. Ma ero sobrio da un bel po' ormai.

Tutti gli altri si dimostrarono d'accordo con me, tra risatine e scherzi vari.

La serata non fu poi troppo terribile. Conoscevo quella gente e anche altri invitati amici di Reena che comunque avevo avuto modo di incontrare negli anni, tra una chiacchiera e l'altra si fece anche un orario decente per non dare l'impressione che stessi scappando.

-Dove vai?- mi chiamò Reena quando ero quasi ormai fuori da quella sala. Mi voltai verso di lei e vidi al suo fianco quello stupido francese che al momento mi faceva solo moltissima pena.

-Torno a casa.- risposi semplicemente senza sentirmi in dovere di dare nessuna spiegazione.

-Perché così presto?- chiese di nuovo lei affatto contenta della mia risposta. Ci eravamo scambiati solo un paio di battute da quando era ritornata nella mia vita eppure adesso sentivo che tornava tutto l'odio e il disprezzo che credevo di aver riassorbito interamente in una più moderata indifferenza.

-Domani ho un volo per l'Italia.- conclusi semplicemente mettendo a tacere lei e facendo rabbuiare moltissimo lui. Nessuno dei due aveva bisogno di chiedersi dove fossi diretto a quel punto, era persino troppo chiaro. E se anche ne avessero avuto qualcuno il sorriso di aperto entusiasmo sul mio viso li avrebbe spinti a darsi delle risposte da soli.

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