Dana

di Misaki Ayuzawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A gray room ***
Capitolo 2: *** Welcome ***
Capitolo 3: *** Shadowhunters ***
Capitolo 4: *** Coming back home ***
Capitolo 5: *** Duties ***



Capitolo 1
*** A gray room ***


Dana


Capitolo 1: A gray room


L’oscurità invadeva l’intero ambiente. Dana sbattè un paio di volte le palpebre, cercando di abituare i propri occhi all’oscurità. Presto riuscì a distinguere le forme.
Si trovava dentro una piccola stanza. La porta era proprio di fronte a lei. Poteva raggiungerla. Ce la poteva fare. Doveva soltanto alzarsi in piedi.
Fece leva sulle braccia e si piegò su se stessa. Si ritrovò carponi. Bene, l’ultimo sforzo. Ignorando, o meglio, cercando di ignorare le fitte lancinanti alle ginocchia e ai polpacci, si alzò. Traballò per un paio di secondi prima di stabilirsi completamente. A passi malfermi si diresse verso la porta. Quasi vi si addossò per la fatica che quei pochi movimenti le avevano richiesto. Individuò subito la maniglia e, sicura e sull’orlo della disperazione, la fece girare una, due, tre volte. Nulla. La porta rimaneva sigillata. Si accanì su quel pomello di ottone fino a produrre un fastidiosissimo e ovattato rumore.
Cadde a terra, facendo scivolare la fronte lungo tutta la porta. Come era finita in quel posto? Non ricordava nulla, assolutamente nulla. L’ultima immagine ben definita nella sua mente era il mercato della domenica in piazza. Quel bel mercato di stoffe dove, ogni settimana, la sua tutrice l’accompagnava, seppur di malavoglia. E ogni volta lei si perdeva in quei coloro, quelle sfumature, la morbidezza dei tessuti, le superfici lisce o ruvide, pregiate e non. Stava appunto per acquistare una meravigliosa sciarpa di seta azzurra quando … quando cosa?
 Qualcosa, o qualcuno, doveva averla stordita e portata via. Era abbastanza sicura di non essere a casa sua, né in un posto familiare.
La rabbia prevalse sulla disperazione. Pretendeva di uscire da quella stanza! Si rialzò e prese a girare per la stanza. In alto c’era una piccola finestra. Inutile dire che c’erano delle sbarre dall’aria molto solida. Probabilmente erano state installate da poco perché, alla luce della luna, i cui raggi penetravano deboli nella stanza, luccicavano. Potevano anche averle dato una botta in testa, cosa che forse era successa a giudicare dalla nuca che le pulsava ferocemente e le procurava dei giramenti tutt’altro che lievi, ma ragionava ancora! La sua intelligenza non le era venuta meno.
C’era anche un letto ad una piazza. Era spoglio di lenzuola e coperte e a Dana parve che non ci fosse nemmeno un cuscino. Dal lato opposto c’era una piccola toeletta, con il minimo indispensabile: una bacinella piena d’acqua, una saponetta rinsecchita e un asciugamano, più simile ad una pezza da spolverare in realtà, tuttavia sembrava pulito.
Il silenzio era veramente innaturale. Non un soffio di vento proveniente dall’esterno, né una voce, un sussurro. Si riavvicinò alla porta e, raccolte le gonne, si chinò all’altezza della serratura, nel tentativo di captare una qualsiasi altra forma di vita. Anche la presenza di un topo sarebbe stata rassicurante! No, forse non proprio di un topo … un cagnolino, magari.
Suo malgrado, dal buco della serratura non si vedeva proprio nulla, se non oscurità.
Dana si rannicchiò contro la porta, portandosi le gambe al petto, e riscaldando le braccia nude con le proprie mani. L’avevano lasciata in sottoveste, che gentili!
Senza che ne avesse minimamente intenzione ricadde nel dolce oblio del sonno.

A svegliare Dana, il mattino dopo, furono i raggi del sole. Dovevano essere circa le undici del mattino, perché ora la luce inondava la camera. Ma non fu la vista della stanza alla luce del sole a sorprendere la ragazza, quanto il ritrovare le proprie braccia ricoperte di strani segni. Erano tatuaggi! Lunghi e intricati ghirigori e complicate linee curve nere facevano contrasto con il color panna della pelle di Dana.
Ne rimase quasi affascinata. Avevano qualcosa di familiare e allo stesso tempo di nuovo. Non ricordava di aver mai visto quei simboli. Si alzò da gelido pavimento di marmo in un fruscio di gonne e infranse il silenzio, ancora permanente e che la stava facendo impazzire, battendo i pugni contro il legno della porta. Dopo non molto prese anche ad urlare.
“Fatemi uscire!” e strattonava la maniglia.
“Aiuto!” e pestava i piedi nudi contro il marmo gelido, procurandosi diversi lividi e tanto dolore. Voleva uscire da quella grigia prigione.
Nel momento in cui, infine, si stava rassegnando, le sue orecchie udirono il suono di passi. Prima flebili, lontani. Poi sempre più vicini. Erano passi che appartenevano a più persone. Ora poteva sentire un mormorio, anche se era incapace di distinguere le parole.
Intuì che la porta si stava per spalancare e, di scatto, si allontanò. Non aveva nulla con cui difendersi, nessun luogo in cui nascondersi. Si mise dritta, alzò il mento, e attese con ansia il suono della serratura che scattava.

Angolino dell'autrice: Salve a tutti! Spero di avervi incuriosito con questo primo capitolo! Ditemi voi che ne pensate; volete che continui? Fatemi sapere , mi raccomando! 
Spero vi sia piaciuta l'idea di ambientare la storia in Italia! Ho notato che si ambientano tutte in America o in Gran Bretagna ma anche in Italia dovrebbero esistere i Cacciatori!
Beh, io vi saluto! Al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Welcome ***


Dana

Capitolo 2: The Silent Brother

Per molti secondi, Dana non spostò lo sguardo dalla porta. Poi, infine, questa si spalancò. Nella stanza entrarono tre giovani: una fanciulla e due ragazzi.
Dana sgranò gli occhi. Si era preparata a fronteggiare i peggiori omoni, violenti e minacciosi, della storia dell’umanità … e ora si trovava di fronte a tre ragazzi che dovevano avere circa la sua età.
La ragazza esaminò velocemente quegli sconosciuti. La fanciulla era bassina, con la pelle candida, gli occhi verde foresta e i capelli rossi e ricci, lasciati sciolti sulle spalle e decorati da un semplice cerchietto dorato, che quasi scompariva sotto gli spessi boccoli. Era molto affascinante nel suo vestito che, all’occhio allenato di Dana, apparve subito come lino rosso egiziano. Aveva un ghigno malevolo stampato sulla graziosa bocca che così poco si addiceva ad un volto così angelico.
I due ragazzi erano alti. Uno aveva i capelli biondissimi e scintillanti occhi viola, impossibili da non notare ad un primo sguardo. Era ben piazzato e attraverso la larga camicia bianca si intravedevano muscoli scolpiti. Era abbronzato e serio. Probabilmente, se lo avesse incontrato per strada, Dana avrebbe pensato a lui come un contadino spaccone e affascinante, ma pur sempre un contadino.
Mentre i primi due mantenevano una dignitosa rigidità, il terzo ragazzo, dalla pelle olivastra e i capelli castano scuro, se ne stava appoggiato allo stipite della porta, giocherellando con un coltello con la mano destra, mentre con gli occhi neri la esaminava a sua volta. Era più magro e di qualche centimetro più basso del ragazzo biondo ma non sembrava debole, affatto.
Dato che quei tre non sembravano avere intenzione di parlare, Dana decise che sarebbe stata lei a fare la prima mossa.
“Chi siete?” incrociò le braccia al petto, pregando di non aver fatto trapelare la paura che provava nella sua voce. Non voleva apparire debole. Corrugò la fronte quando non arrivò una risposta e, notando che anche quei tre avevano la pelle marchiata dai quei segni neri, ripose la domanda.
“Chi siete? E che cosa significano questi simboli?”  li indicò con il mento.
I tre si scambiarono un’occhiata eloquente. Fu la ragazza a parlare, sotto l’evidente contrarietà del biondo.
“Non so a che gioco tu stia giocando ma suppongo non ci sia altra scelta se non quella di accontentarti” iniziò lei. Dana non aveva assolutamente idea di cosa stesse parlando …
“Noi tre” scandì bene le parole come se si stesse rivolgendo ad una bambina piccola “siamo Cacciatori. Hai presente? Quelle persone che devono liberare il mondo dalle bestie orripilanti e disgustose come te.”
L’espressione di Dana dovette essere parecchio eloquente.
“Cosa fai? Fingi di non capire? Fingi di essere una Mondana?”
Ancora una volta Dana non capì a cosa si stesse riferendo quella persona.
“Io mi chiamo Dana Ferrer” si portò una mano al petto, assumendo lo stesso tono fastidioso della rossa “e sono la figlia di Diego Ferrer, il proprietario terriero a cui appartiene l’intera baronia di Lupuliento. Non sono una Mondana, non so nemmeno cosa sia una Mondana, e non ho mai sentito parlare di Cacciatori. A meno che voi non siate i bracconieri che devastano la riserva naturale di mio padre e una Mondana non sia qualcosa che abbia a che fare con i bellissimi balli che Bartolomeo Corsini dà in primavera, allora non so di cosa voi stiate parlando … come avete detto che vi chiamate?”
La rossa storse il naso, infastidita.
“Il mio nome è Costanza Orain. Hai ragione, è bene che tu sappia il nome di chi ti ucciderà”
“Ma qua siamo passati subito al tu! Vedrò di fare lo stesso, Costanza”
Il biondo si mise tra le due, alzando le braccia.
“Calma. Mantenete la calma, signore” c’era una nota calda nella sua voce “ e tu, Costanza, non infierire. Abbiamo compiuto un errore. Semplicemente, ammettilo!”
“Scusate, io sono ancora qui!” Dana era davvero nervosa. Tutta quella situazione era così … ridicola!
“Accomodati pure, Dana.” Il biondo le indicò il letto e la ragazza obbedì.
“Io sono Eugene Croix e lui” e indicò il ragazzo castano “è Jamal Ta’hal. Siamo Cacciatori di demoni, come ti ha già detto Costanza. Non ce tu sia un demone, certo.” Si corresse immediatamente. “A causa di qualche errore, che ancora non siamo riusciti a rilevare, che abbiamo fatto durante delle ricerche è saltato fuori il tuo nome. Ma se fossi stata effettivamente tu le persona che stavamo cercando saresti già morta. Invece sei viva e vegeta e questo può significare solo una cosa: sei una Cacciatrice anche tu; nelle tue vene scorre il sangue di Raziel”.
A Dana scappò una risata.
“Voi pensate veramente che potrei credere a qualcosa di così assurdo? Sul serio, non sono una stupida e neanche una credulona.” Non credeva a neppure una parola di quel “Cacciatore”. E poi era straniero, a giudicare dal nome. Mai fidarsi di uno straniero. Questa era una regola abbastanza chiara in casa Ferrer.
“E’ normale che tu non mi creda ma, vedi, quei marchi che ti abbiamo imposto sulle braccia, che sarebbero dovuti servire a distruggere la creatura che noi pensavamo tu fossi, non ti hanno fatto nulla. Solo chi ha nelle proprie vene il sangue di Raziel, oppure chi ha bevuto dalla Coppa Mortale, è in grado di sopravvivere.”
Il volto dei tre era imperturbabile ed estremamente serio. Non sembravano mentire …
“Datemi una prova e forse inizierò a credervi” disse Dana alla fine, dopo aver riflettuto sulle informazioni appena ricevute.
“Jamal, va a chiamare Fratello Aaron , per favore.”
“Subito.” Era la prima volta che Dana lo sentiva parlare. La sua voce era dolce come il miele e calda, con un marcato accento arabo.
“E’ un Fratello Silente” disse poi a Dana, come se queste parole spiegassero tutto.
Poco dopo una figura incappucciata fece il suo ingresso nella stanza.
Dana non riusciva a vederne il volto. Tutto il corpo era coperto da una lunga tunica color pergamena e i passi della figura non facevano rumore. Essa pareva più scivolare sul pavimento, che camminare nel senso letterale della parola.
La figura alzò la testa e Dana riuscì a malapena a trattenere un grido d’orrore. Il volto di quella persona era completamente deturpato. Le labbra erano cucite, in modo tale che non potessero più essere schiuse, con dei disegni. Marchi, li aveva chiamati Eugene. Altri marchi erano evidenti sugli zigomi, sotto delle cavità che un tempo ospitavano i bulbi oculari.
Dana Ferrer. Sei molto più di quello che sembri. Tu mi temi, percepisco quello che provi. Percepisco ogni sfumatura delle tue emozioni.
Dana sentiva una voce profonda rimbombarle nella testa. Non riusciva a muoversi, paralizzata dal terrore. Era così innaturale avere qualcun altro dentro la propria testa.
Tu non sai nulla che possa risultarmi utile.
“Grazie mille!” osservò ironica Dana a voce alta, al che venne guardata malissimo da Costanza.
Non occorre che tu parli. Basta che pensi le parole e io potrò sentirle.
Capito, buono a sapersi.
Dana iniziava a capire il meccanismo e provava un certo piacere nel condurre quella conversazione un po’ sopra le righe.
Ti consiglio di restare qui all’Istituto per un po’. Giusto il tempo per svolgere alcune ricerche supplementari-
NO!
Urlò nella sua mente Dana. Io voglio tornare a casa mia! Non so nemmeno dove mi trovo in questo momento.
Non fu Fratello Aaron a rispondere a quest’ultimo interrogativo.
“Siamo proprio dei maleducati, Eugene! Benvenuta all’Istituto di Palermo, Dana Ferrer.”
La voce rassicurante di Jamal prevalse su quella agghiacciante del Fratello Silente.

Angolino dell'autrice: Se siete arrivati fino alla fine del capitolo, vi ringrazio molto! Se volete lasciare una recensione, anche negativa u.u le critiche servono a mogliorare, fate pure.
Volevo chiarire solo una cosa: ho scritto del fatto che i Cacciatori avevano imposto dei marchi su Dana con lo scopo di ucciderla. Chi non ha sangue angelico reagisce in modo orribile alle rune, diventando un Dimenticato tra atroci dolori. I Cacciatori dell'epoca di cui sto scrivendo io, 1740, non conoscono ancora gli Accordi e quindi sono ancora molto legati alla "raccolta delle spoglie" e non uccidono solo demoni, ma anche Nascosti. Tutto verrà spiegato con più chiarezza prossimamente, se vorrete continuare la lettura. Ciao ciao :)

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Capitolo 3
*** Shadowhunters ***


Capitolo 3: Shadowhunters

Quando il Fratello Silente se ne andò, i tre Cacciatori lo seguirono, richiudendo a chiave la porta alle loro spalle.
Dana aveva provato a protestare ma quelli la avevano bellamente ignorata. Frustrata, allora, si sedette sul bordo del materasso e, contro ogni sua aspettativa, non molto dopo Jamal fece capolino nella stanza.
“A meno che non ti sia affezionata a questo posto, Maria ha detto che puoi venire su.”
“Chi è Maria?” chiese semplicemente Dana. Perché quelle persone davano per scontato che fosse al corrente di tutto?
“Oh certo! Maria è il capo dell’Istituto di Palermo. Ti vuole parlare.”
“Se è gentile come la tua amica, sono io a non voler avere una conversazione con lei.” Rispose cinica Dana.
Jamal sorrise.
“Non temere, Maria è molto gentile. Costanza ha le sue ragioni per essere così brusca.”
“Ovviamente” borbottò Dana. “Ma non posso uscire da qui con addosso soltanto la mia sottoveste!”
“Hai ragione, il bianco è per i funerali. Troveremo qualcos’altro da farti indossare il più presto possibile.”
A Dana venne voglia di sbattersi la testa contro il muro …
“Da dove vengo io è il nero il colore dei funerali … e comunque non è questo ciò a cui mi stavo riferendo. Sono praticamente nuda! Non è decoroso per una come me, del mio rango, andare in giro in questo modo come se fossi una poco di buono.”
Anche Jamal ora sembrava un po’ irritato dalla petulanza della ragazza. Ma che poteva farci Dana se era sempre stata cresciuta come una nobile, secondo l’etichetta e il bon ton?
“Non ti vedrà nessuno e ora sbrigati!”
Il ragazzo uscì, seguito a ruota da Dana che tentava, inutilmente, di coprirsi il petto, coperto soltanto dal cotone leggero, con le braccia tatuate.
Il passo di Jamal era costante, ma alquanto frettoloso, cosicché Dana, con i piedi ancora nudi, doveva quasi trotterellare per non perderlo di vista, nel fitto dedalo di corridoi di quello che doveva, a intuito, essere il sotterraneo.
C’erano moltissime prigioni e, in un paio di sale lasciate aperte, Dana potè riconoscere degli strumenti di tortura. Rabbrividì al pensiero di quello che doveva avvenire lì dentro.
“Non potresti rallentare un po’, per favore?” sbottò Dana alla fine.
Jamal fece come richiesto e rallentò, fino a fermarsi del tutto a qualche metro da lei.
Dana annuì soddisfatta, come poteva fare una qualunque dama d’alto rango nel vedere un bambino disobbediente finalmente domato.
“Allora” cominciò a dire una volta raggiunto il ragazzo “questi marchi andranno via?”
In effetti era molto preoccupata a riguardo. Cosa sarebbe successo se gli altri nobili avessero visto quei segni così poco adatti alla pelle di una signora? Per quella semplice cosa avrebbe anche potuto rimetterci il futuro! E non esagerava, ne era sicura.
“Con il tempo si schiariranno, finchè non diventeranno completamente bianchi.”
Dana sgranò gli occhi. “Nel senso che non se ne andranno più? Avrò per sempre le braccia marchiate in questo modo? A questo punto perché non rovinarmi del tutto allora!?”
“In effetti Costanza aveva proposto qualcosa del genere, ma Eugene ha detto che le rune sulle braccia erano già abbastanza. Non apprezza molto la violenza, anche se è un Nephilim.” Jamal teneva gli occhi fissi sulla strada da percorrere. Era ancora tutto grigio: le pareti, il pavimento. Non c’era nessun tipo di addobbo se non qualche candela spenta ogni tre metri. Arrivarono ai piedi di una scalinata e iniziarono a salirla.
“Sono lieta di apprendere che esistono persone civile tra voi, allora.”
“La civiltà è un punto di vista. Gli spagnoli e gli inglesi erano gli incivili agli occhi degli indigeni delle Americhe e lo stesso erano i Romani per le popolazioni della Germania. Sei in grado di dire chi ha ragione?”
“A proposito della situazione attuale? Certo che si. Voi siete i barbari che mi hanno rapita, marchiata la pelle e quasi spogliata. A proposito, da quanto tempo sono qua?” Fu sorpresa nel constatare che non aveva mai pensato al tempo che era passato da quando non aveva più rivisto la sua famiglia ...
“Sei stata svenuta per tre giorni. Quando ricevi un marchio per la prima volta è abbastanza doloroso. Tu ne hai ricevuti decine nel giro di pochi istanti e non eri neanche preparata. E’ comprensibile.”
Dana stava per ribattere nuovamente ma Jamal si fermò innanzi ad una grande porta di mogano. Era decorata, ai bordi, con i marchi e sulle superfici delle due ante erano incise due scene. A sinistra c’era un angelo, enorme e maestoso come se risplendesse attraverso il mogano, con una spada in una mano e l’altro braccio proteso verso l’anta destra. In quest’ultima era rappresentato un uomo, sulle sponde del lago, con in mano una coppa. Era nell’atto di berne.
Era un’opera d’arte. Una vera e propria opera d’arte. Dana avrebbe potuto stare lì davanti ad osservarla per ore, per scorgere i particolari del paesaggio e dei personaggi, ma purtroppo non fu possibile.
Jamal aprì l’anta destra  della porta e entrò in quello che aveva tutta l’aria di essere uno studio.
Le pareti erano ricoperte di libri e oggetti dalla forma strana. I motivi dei marchi erano presenti anche lì, così come la scena che Dana aveva visto rappresentata sulla porta. Al centro dell’ambiente, seduta dietro una massiccia scrivania in stile barocco, c’era una donna minuta.
“Grazie Jamal, ora puoi andare. Fratello Ezechiele ti aspetta in biblioteca per la lezione di aramaico.”
Jamal fece un lieve cenno e uscì senza fare rumore.
Quella che doveva essere Maria, dai capelli biondissimi raccolti in una semplice crocchia, si lasciò cadere pesantemente sulla sedia dietro di lei.
“Accomodati pure, Dana.”
Dana obbedì.
“Hai fame? Desideri qualcosa da mangiare?”
Proprio in quel momento lo stomaco della ragazza produsse un rumore poco signorile.
“Ecco qui” sorrise Maria, versando del latte fumante in una tazza di ceramica e porgendogliela, insiema ad un piccolo piattino pieno di biscotti.
Dopo aver sorseggiato il latte ne assaggiò uno. Era al limone, che bontà!
“Io mi chiamo Maria Feiro, il capo dell’Istituto di Palermo. Capisco che tu in questo momento sia piuttosto confusa ed è per questo che ti chiedo di non interrompermi. Potrai chiedermi tutto quello che vorrai quando avrò finito.”
Dana semplicemente annuì, mentre si fiondava su un altro biscotto.
“In tutto il mondo esistono i Cacciatori, Nephilim. I Cacciatori sono i discendenti di Jonathan Shadowhunters, un uomo, che, dopo aver bevuto da una coppa, la Coppa Mortale, il sangue dell’angelo Raziel,” Dana pensò subito alla scena intagliata sulla porta. Quelle sculture dovevano rappresentare proprio questo evento “ha ottenuto una forza e resistenza tali da riuscire a combattere i demoni e proteggere la Terra da questi. Oltre ai demoni, che tu puoi immaginare come i servi del Diavolo, se sei credente, esistono altre creature che minacciano la sicurezza dei Mondani, le persone normali. Queste creature sono i Nascosti, ossia vampiri, licantropi, stregoni e fate. I miei Cacciatori hanno provato ad ucciderti questa domenica, usando dei marchi. Pensavamo che tu fossi un demone. Ma tu non sei morta e questo ci ha fatto ricredere. Abbiamo compiuto un errore e mi dispiace. Ma ora il problema è un altro: come avresti fatto a sopravvivere alle rune?” Maria sembrava chiedere delle risposte, ma Dana non ne aveva.
“Ammesso che io credo a tutto quello che mi hai raccontato … io, cosa dovrei fare?”
Maria parve tirare un sospiro di sollievo. Forse aveva immaginato che Dana avrebbe iniziato a gridare istericamente e a mettere a soqquadro la stanza ma la ragazza aveva un’indole tendenzialmente calma e non era nel suo stile comportarsi da pazza.
“Ci sarebbe d’aiuto, e probabilmente potrebbe tornare utile anche a te, se tu restassi qui per del tempo. Vorrei scoprire che cosa sei. Non sei né un licantropo, né un vampiro né tanto meno una strega, ma potresti essere perfettamente una fata con sangue angelico, sapessi quanti matrimoni misti ci sono stati nella storia!, o una Cacciatrice. Ti chiedo solo del tempo, se vorrai concedermelo.”
“Non posso.” Rispose decisa Dana. “Sono passati tre giorni e mio padre sarà preoccupatissimo in più fino ad ora non ho ricevuto da voi nulla se non un paio di scuse e dei biscotti.”
“Ti ho anche dato delle spiegazioni.”
“Non so fino a che punto mi possano tornare utili.”
Maria sollevò le sopracciglia e aggottò la fronte, formando delle sottili lineette sulla pelle giovane e liscia della fronte.
Gli occhi castani parevano stare analizzando minuziosamente la situazione.
“Come vuoi tu, Dana. Ti farò riportare immediatamente a casa ma devi promettermi una cosa.”
“Cosa?” chiese sfinita Dana.
“I Mondani non sanno della nostra esistenza e deve continuare ad essere così. Non fare parola di quello che hai visto e sentito qui con nessuno.”
“Se voglio parlare di questi tre giorni non vede come voi possiate impedirmelo.”
“O lo prometti oppure sarò costretta a chiamare uno stregone o un Fratello Silente per cancellarti la memoria.”
“NO!” gridò Dana. “Non voglio mai più vedere un Fratello Silente in vita mia! Leggono nella mia mente e la cosa mi mette i brividi.”
Maria sorrise, astuta. Poteva essere anche una donna minuta, ma c’era un motivo se era a capo dell’Istituto.
“A te la scelta, Dana.”
“Prometto di non fare parola con nessuno di quanto è accaduto in questi tre giorni.”
Queste parole soddisfarono la donna, che prese una campanella e la suonò. All’istante nella stanza entrò Eugene Croix.
“Eugene, per favore, accompagna la signorina Ferrer alla sua tenuta. Dì a coloro che incontri che l’hai trovata sul ciglio della strada, svenuta, in mezzo alla campagna. Comportati normalmente e poi torna subito qui. La tuo giro ronda con Costanza inizia alle sette.”
“Agli ordini.” Replicò ironico Eugene. Poi si rivolse a Dana, con un sorriso rassicurante. “Dai vieni, torni a casa.”
“Era ora.” Commentò lei.

Angolino dell'autrice: Misaki sta intasando la sezione Shadowhunters oggi, ne è ben consapevole u.u Misaki non sa perchè sta parlando di sè alla terza persona ma, essendo mezzanotte meno un quarto, può concedersi un pò di pazzia, no?
Misaki vi invita, se volete, ad esprimere la vostra opinione riguardo l'abominio qui sopra, recensendo. Accetta le critiche, quelle educate e costruttive ovviamente u.u
Misaki vi augura buona notte e vi ringrazia per aver letto! 
Altre storie di Misaki (recenti o comunque aggiornate da poco):
-Tessa Gray e la tra perfetta (Misaki ve la consiglia u.u sostiene che è abbastanza divertente e ottima per farsi quattro risate, ma non alle spalle dello scrittore)-Aggiornata da poco
-Il ritratto di William Herondale- flashfic recente

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Capitolo 4
*** Coming back home ***


Capitolo 4: Coming back home

Dana guardò, attraverso il vetro della carrozza, il profilo dell’Istituto farsi sempre meno nitido e più lontano, nascosto dai fitti alberi fioriti, merito della primavera appena arrivata. Dall’esterno appariva meno grandioso degli ambienti interni. Era una semplice chiesa gotica, ricca di archi e guglie che si stagliavano verso il cielo.
“Come fate ad essere sicuri che la gente non entri nel vostro prezioso Istituto? Si insomma, si tratta di una chiesa in mezzo al bosco. Non passa inosservata.” La ragazza questa volta non aveva posto la sua domanda a Eugene, che stava guidando a cassetta e che quindi non l’avrebbe comunque potuta sentire, né a Jamal, che era rimasto all’Istituto, né, tantomeno a Costanza, che non aveva più visto dal loro primo “incontro”, bensì ad una quarta persona che aveva scoperto essere un altro di quei Cacciatori. Si chiamava Marco Begna, a quanto diceva lui, e ad occhio e croce aveva una quarantina d’anni, con i suoi capelli spruzzati di grigio sulle tempie e gli occhi verdi caldi e gioviali e due piccole fossette che comparivano ai lati della bocca quando sorrideva, il che succedeva alquanto spesso.
“Agli occhi dei Mondani appare come una catapecchia abbandonata e scoperchiata. Nessuno ne trarrebbe vantaggio se cercasse rifugio al suo interno. E, inoltre, non ci interessa più di tanto che i Nascosti, o i demoni, sappiano dove ci troviamo. Non potrebbero entrare neanche volendo.”
“Ma come fanno le persone” Dana non tollerava l’uso della parola Mondano, le sembrava un dispregiativo, e, benché l’avessero  informata di quanto lei fosse fuori dall’ordinario, si sentiva insultata allo stesso modo, udendola “a scambiare un edificio così imponente per un tugurio?”
Marco fece spallucce. “I Mondani non si accorgono mai di nulla, quando c’è di mezzo la magia.”
“Mi era sembrato di capire che tra Nascosti e Cacciatori non scorresse buon sangue … Perché uno, ehm, stregone dovrebbe usare la magia per voi? Oppure disponete anche voi di queste doti magiche?”
Il volto del Cacciatore si aprì in un largo sorriso. “Impari in fretta, vedo.” Anche lui le dava del tu. “Comunque questo tipo di magia, se vuoi proprio definirla così, non ha nulla a che fare con i Nascosti. Insomma, quali sarebbero i pregi di essere un Cacciatore se potessimo usufruire solo di un paio di rune?”
Eugene doveva aver sentito parte della conversazione perché scostò la tendina che divideva lo scomparto interno della carrozza dalla cassetta e rimproverò Marco.
“Dana non è interessata al nostro mondo, Marco. Smettila di importunarla con queste storielle!”
C’era un che di ironico nella sua voce. Probabilmente il rimprovero non era tanto per Marco, quanto per lei, che aveva scelto di tornare a casa, senza dare il tempo a nessuno, men che meno a lei stessa, di capire perché le rune non avessero avuto alcun effetto su di lei.
Dana sospirò. Ormai aveva preso la sua decisione: avrebbe fatto finta di niente fino a quando il tempo non avrebbe cancellato i marchi sulle sue braccia e, insieme ad essi, tutti i ricordi legati a quella disavventura. Cercò di concentrarsi sul paesaggio circostante che, in pochi minuti, diventò quello urbano della caotica Palermo. La vita che trasudavano piazze e stradine che sfociavano tutte sui due assi principali: via Maqueda e via del Cassaro. I mercati della Vucciria, del Capo e di Ballarò. Le dame che passeggiavano a braccetto con i loro accompagnatori. Quella era la sua vita, quello era il posto in cui doveva stare, anche se non proprio in quel momento.
“State sbagliando strada. La mia tenuta non si trova in città.”
“Lo sappiamo, ma Eugene deve svolgere una commissione, prima.”
“D’accordo!” Replicò Dana, seccata.
Dopo una serie di svolte e frenate brusche (maledetti ‘gnuri incapaci di condurre i propri cavalli!) la carrozza accostò accanto all’imponente edificio della Cattedrale, dove architettura gotica, normanna e barocca si univano e davano origine ad una delle più monumentali chiese che si fossero mai viste in Sicilia. Come una storia che era stata raccontata a Dana, quando questa era piccolissima, raccontava, l’architetto della Cattedrale di Palermo era andato ad ammirare il lavoro di un suo collega, artefice della Cattedrale di Monreale. Sulle prime l’architetto di Palermo aveva valutato la Cattedrale di Monreale come un lavoro di scarsa entità ma, una volta entrato, era rimasto così esterrefatto e ammirato dall’interno del luogo che morì a causa di arresto cardiaco. Lo splendore dei mosaici dorati e del Cristo Pantocratore gli avevano letteralmente mozzato il fiato. In seguito, l’architetto di Monreale si era recato a Palermo, per valutare a sua volta il lavoro del collega deceduto. Non appena si ritrovò innanzi ad una tale magnificenza, innanzi a tali archi, guglie e finestre, andò incontro alla stessa sorte del collega. La Cattedrale di Palermo persino ad un osservatore meno attento non poteva che suscitare un’emozione sola: adorazione.
Eugene scostò nuovamente la tendina separatoria.
“Dana, non scendere. Marco, tu puoi restare con lei?”
“Nessun problema.” Acconsentì l’altro.
Dana si affacciò al finestrino e prese un lungo respiro.
Subito le sue narici vennero invase dal dolce odore di frutta secca caramellata, proveniente dalle bancarelle poco distanti, e da quello più penetrante dei panini ripieni di panelle e crocchè. Tutti odori a cui Dana era abituata ma che erano propri di cibi che raramente consumava. Suo padre li definiva, com’è che diceva? Oh, si: popolari, dei plebei.
Soltanto durante le sue scappatelle in città in compagnia di Catarina, la sua migliore amica, Dana riusciva ad assaporare quelle squisitezze che potevano non essere raffinate, o adatte alla tavola di un re, ma che lasciavano soddisfatti. Assolutamente.
Dana sentì la propria pancia brontolare e la sentì anche Marco. La ragazza arrossì vistosamente.
“Scusa …”
Marco le mise una mano sulla spalla, con fare solidale.
“Ti compro un panino?” Le puntò addosso il suo sguardo gentile e sorridente e Dana annuì, mordicchiandosi l’interno della guancia.
“Va bene. Ma aspetta qui e non uscire.”
L’uomo frugò nella tasca interna del soprabito giallo canarino e, afferrato un sacchetto di cuoio, lo fece saltellare sul palmo della mano, provocando un tintinnio e, rivolgendo un ultimo sorriso a Dana, uscì dalla carrozza.
Pochi minuti dopo fu di ritorno, insieme ad un Eugene vistosamente arrabbiato.
“Ti avevo chiesto di stare in carrozza con Dana, non di fare uno spuntino, Marco!”
“Il panino è per lei e, ragazzo mio, non rivolgerti a me in questo modo. Sono un Cacciatore da più tempo di te, ho il doppio della tua esperienza e, ringraziando Raziel, gli angeli mi hanno dotato di buone maniere. Cose che non mi sembra rientrino tra le tue qualità.” Poi aggiunse, sedendosi in carrozza e rivolgendosi a Dana, un “Ecco a te”, mettendole in mano un panino con le panelle.
Dana lo addentò, piena di desiderio, e sentì che il suo stomaco apprezzava l’alimento, per non parlare delle sue papille gustative, che in quel momento cantavano in coro, a gran voce, l’Hallelujah.

Eugene con un balzo scese dalla cassetta e andò ad aprire lo sportello della carrozza, per far scendere prima Dana, ancora nella sua sottoveste bianca e con i piedi scalzi, e poi Marco. Aveva fermato la carrozza proprio davanti al cancello che rappresentava l’ingresso della grande tenuta, circondata da pini, magnolie e altre cento varietà di alberi diversi. I campi a rotazione triennale si estendevano a perdita d’occhio e il giallo del grano e il verde delle piante, degli agrumeti e degli oliveti era pari a quello che un qualsiasi pittore avrebbe utilizzato in un dipinto di vita campestre. Oltre il cancello c’era un vialetto di pietrisco che spaccava in due il grazioso parco artificiale, costruito appositamente per le passeggiate pomeridiane delle signore e i momenti di svago dei gentiluomini, e che conduceva direttamente, dopo svariati metri, alla porta della casa. Pur essendo alquanto distante da essa, grazie ad uno dei marchi imposti sulla sua pelle, Eugene poteva distinguere lo stile architettonico barocco, le finestre di mogano rettangolari intarsiate d’oro che risplendevano e spiccavano sulla superficie candida dei muri e i bassorilievi, che rappresentavano puttini, sugli angoli più in alto della facciata principale. I balconi di marmo erano tirati a lucido e splendevano sotto i forti raggi del sole delle undici.
“Ti accompagneremo fino alla porta e spiegheremo a tuo padre, o chi per lui, che ti abbiamo trovata sul ciglio della strada in queste condizioni. Tu non ricordi nulla di quello che è successo in questi giorni. Se ti chiederà di noi, dì soltanto che siamo dei gentiluomini che abitano non molto lontano dalla città, ma nulla di più.” Decise Marco all’istante, parlando a Dana. Aveva preso in mano le redini della situazione, essendo il più grande dei tre e il più maturo.
Eugene fece andare avanti Marco e Dana. Avevano improvvisato una sceneggiata e ora il Cacciatore teneva per i fianchi Dana, quasi a sorreggerla, che, impressasi sul volto un’espressione sofferente, procedeva zoppicando (questa non era finzione, il pietrisco le stava distruggendo i piedi).
Guai. Solo guai.  Pensava Eugene, notando a malapena il paesaggio intorno a lui, o la stessa Dana, davanti a lui, con la sua chioma mossa castana e scompigliata e la sua figura snella. Non era una persona violenta e, a differenza di Costanza, si considerava un Cacciatore più liberale, ma, pur essendo a conoscenza del fatto che l’errore era stato loro e che Dana non era la causa, bensì la vittima dell’accaduto, non poteva fare a meno di non vedere l’ora in cui lei sarebbe uscita dalle loro vite. Avevano già abbastanza problemi all’Istituto, non c’era bisogno di indagare su una Nascosta non ben definita. Anche se era curioso di saperne di più, questo non poteva negarlo.

Marco si staccò da Dana e bussò ripetutamente alla porta di mogano, lucida e liscia. Dopo pochi secondi una cameriera in cuffietta e grembiule bianco e veste nera venne ad aprire. Dana la riconobbe subito: si trattava di Marina, la nuova arrivata e fedele allieva di Rosalia, la anziana governante con cui Dana era praticamente cresciuta, che aveva deciso di fare di Marina la nuova padrona della tenuta Ferrer. Dana non aveva mai completamente capito perché le governanti credessero che le case in cui erano impiegate appartenessero a loro ma per i servizi, e la qualità dei servizi, che Rosalia rendeva alla tenuta Ferrer da oltre sessant’anni, Dana pensava che Rosalia poteva anche rimanere in quella sua convinzione, dopotutto. Marina si portò una mano alla bocca, cercando di soffocare un gridolino.
“Voi” cominciò con voce stridula “ … voi siete viva! Siete qui! Grazie a Dio!” Con queste parole corse via e un momento dopo Dana riconobbe la voce profonda del padre, priva, come al solito, di qualsiasi emozione. Ma, insomma … dopo sedici anni vissuti con un padre che per il quinto compleanno ti regala un pugnale per, testuale, “tagliare le mani a chiunque provi a farti del male. Devi imparare a farti rispettare” e che a sette anni sostiene che sei troppo grande per le bambole e che devi cominciare a cacciare, non fai più molto caso al suo modo di esprimere i sentimenti.
“Mia figlia è qui?” Subito dopo la figura imponente di un uomo sulla cinquantina, con i capelli ormai grigi e la pelle abbronzata, vestito delle stoffe più pregiate ma allo stesso tempo sobrie, occupò parte del varco della porta.
“Dana” iniziò, pronunciando il nome della figlia come a constatare che fosse davvero lì davanti a lui, ma poi recuperò la voce e con il solito timbro autoritario continuò “stai bene?”
“Si, padre. Questi due uomini mi hanno riportato a casa. Va tutto bene.” In contrasto con la voce sicura del padre, quella di Dana, che fino ad un attimo prima si era dimostrata coraggiosa in una situazioni che avrebbe mandato la maggior parte delle ragazze della sua età in crisi, si affievolì. Dana ritornò la sottomessa e quasi sempre obbediente figlia di Diego Ferrer.
“Va tutto bene? Dove sei stata per tre giorni? Hai pensato di farmi uno scherzo? Ti sentirai una gran burlona ora, giusto? Ti rendi conto delle ripercussioni che questa tua scappatella avrà sul tuo onore, sulla tua reputazione e su quella di tutta la famiglia?” Diego Ferrer non stava urlando, anzi parlava pacatamente e non poteva esserci punizione peggiore. Lo aveva deluso e … ma …
“Padre, non sono scappata, sono stata rapita! Sono stata ritrovata senza null’altro addosso se non la sottoveste, da questi due gentiluomini.”
Marco prese la parola. “Signor Ferrer, sua figlia dice il vero. L’abbiamo trovata stamattina a vagabondare proprio fuori dalla città, tra i boschi. Non accusatela di una colpa di cui dovrebbero rispondere dei furfanti.”
Certo che Marco era un grande attore …
“E quei segni? Che ha sulle braccia?” Chiese Ferrer, corrucciato e palesemente infastidito dall’interferenza di quel distinto galantuomo.
“Non ne ho idea, signore, ma, se mi permette un’ipotesi, credo che si possa trattare di un gruppo di zingari che volevano mettere in atto uno dei loro tipici rituali.”
Diego Ferrer annuì, per nulla convinto. “Perdonatemi, non ricordo come vi chiamate.”
“Io sono Marco Begna e lui e Eugene Croix, il mio protetto. Ora predona temi, ma dobbiamo andare. Abbiamo degli affari da sbrigare. Signor Ferrer, signorina Ferrer, arrivederci.”
Marco, seguito a ruota da Eugene, si chinò lievemente in un inchino, anche se in verità si trattava a malapena di un cenno del capo, e fece per congedarsi.
Prima che imboccasse il vialetto però, Diego Ferrer lo bloccò e lo ringraziò, secondo l’etichetta, del servizio che gli aveva resa.
Diego Ferrer si rivolse a Dana, che era entrata in casa e ora si trovava in mezzo all’ingresso riccamente arredato da mobili massicci, tappeti orientali e candelabri di bronzo.
“Vai in camera. Riposati, compi le tue abluzioni. Rimettiti in sesto, insomma.”
Dana socchiuse gli occhi e si concentrò sulla trama del tappeto su cui stava. Era così soffice che i suoi piedi, ormai da tempo senza scarpe, faticavano a compiere anche un solo altro passo. “E’ tutto?”
“Si, vai.” Rispose il padre, ancora voltato verso la porta spalancata con lo sguardo perso nel vuoto. Si girò verso la figlia e a mezza voce aggiunse tre parole che Dana non avrebbe mai saputo che fossero mai state pronunciate. ”Mi sei mancata”.

Angolino dell'autrice: Ed ecco qui il quarto capitolo! So che questa long non è particolarmente seguita ma io continuo a scriverla. Non ci si può rassegnare, giusto?
Comunque, voglio solo sottolineare un paio di cosette del capitolo.
Lo 'gnuri è la persona che guida le carrozze. A Palermo si chiamano così da tempo immemore in quanto alle origni, per chiamare una carrozza, si diceva "Signore", poi la parola è stata abbreviata fino ad arrivare a 'gnuri. Il termine tra l'altro è utilizzato tutt'oggi, per indicare sempre il conducente della carrozza.
Il panino con le panelle e con le crocchè. Le panelle sono delle piccole sfoglie prodotte dalla farina di ceci. Non storcete il naso, anche se si stratta di ceci sono buonissime. Le crocchè invece solo prodotte dall'impasto di patate, mollica e vi si può aggiungere anche il prosciutto.
Infine, la storia delle Cattedrali di Palermo e monreale esiste veramente :) Non so sinceramente quanto sia realistica, ma la leggenda esiste.
Spero di non aver dimenticato nulla. Se volete farmi notare qualcosa che non va nella storia, oppure chiedere informazioni, ecc ... ma anche solo per farvi sentire u.u, lasciate una recensione! Fa molto piacere, vi assicuro!
Ciao ciao :)

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Capitolo 5
*** Duties ***


Capitolo 5: Duties

“Grazie al Cielo siete a casa, signorina! Vostro padre è stato davvero insopportabile in questi giorni, sapete? Borbottava, urlava, se la prendeva con noi cameriere. Anche noi della servitù siamo state grandemente in pensiero per voi, questo è ovvio, e nessuno potrebbe dubitarne, ma il vostro ritorno è doppio motivo di felicità, per noi.”
Dana non stentò a credere alle parole della sua cameriera personale, Soledad. Diego Ferrer sapeva essere una persona molto sgradevole e Dana, non appena si era immersa nella sua grande piscina privata per purificare il corpo dallo sporco e, insieme ad esso, dagli avvenimenti, si era chiesta perché avesse deciso che fosse così importante tornare a casa. L’unico motivo per cui voleva bene a quell’uomo era perché era suo padre. Riflettendoci, Dana non poteva giurare di aver mai ottenuto qualcosa da lui, nemmeno una semplice parola d’affetto o di incoraggiamento.
Tirò un grande sospiro e per qualche minuto liberò la mente da tutti i pensieri, giocando con la schiuma profumata che stava sospesa a pelo d’acqua. Quando decise di essere abbastanza pulita, Dana chiamò Soledad e si fece aiutare per coprire il corpo bagnato con uno spesso telo di cotone.
Venne vestita, con un abito leggero, da pomeriggio, di flanella azzurra, e pettinata. Soledad le acconciò i capelli in una semplice treccia. Su ordine del padre, invece, i segni neri sulle braccia, che non se ne erano andati nonostante Dana avesse provato a sfregarli con la spugna ed enormi quantità di sapone, vennero coperti con una sorta di cipria bianca, come il colore della sua pelle.

Dana trascorse il pomeriggio in assoluta solitudine, finchè sua della madre, Barbara Ferrer, una quarantenne alta e ben impostata, scorbutica e abbastanza acida, non fece irruzione nella sua stanza. Quando aprì la porta della stanza di Dana,  e lei si stava occupando del suo cestino da cucito, le corse incontro e la strinse al suo petto, cullandola dolcemente e facendo pungere Dana con un ago.
“Piccola mia” iniziò, quasi sull’orlo delle lacrime “cosa ti hanno fatto? Parlami!”
Dana alzò lo sguardo, per incontrare gli occhi castani della madre. Intuì a cosa si stava riferendo nel momento in cui la donna ammiccò, indicando con un movimento del capo la gonna del vestito.
“Mamma! Non mi hanno fatto niente. E comunque non lo ricorderei. Non ricordo assolutamente nulla di questi tre giorni. E’ confortante però, sapere” continuò, alzando la voce e alzandosi in piedi. Si poteva permettere di avere liti con sua madre, e in quel momento sol Dio poteva sapere quanto avesse bisogno di urlare per l’insensibilità dei suoi genitori nei suoi confronti. “che vi preoccupate tanto per me! Mio padre credeva fossi scappata per fare uno scherzo, voi vi preoccupate per la mia virtù. Non vi sarebbe importato nulla se non fossi tornata! Anzi, sarebbe stato meglio se non lo avessi mai fatto!”
Barbara Ferrer si portò, sconvolta, una mano davanti alla bocca, quasi a contenere il disgusto che le accuse della figlia le avevano provocato. La sua replica, prima di uscire e tornare a dedicarsi alle sue faccende, fu gelida.
“Le tue condizioni, Dana, mi interessano tanto perché domani sera verrà scelto un marito per te. Nessuno vuole per sposa una sconsiderata, e già sarà un problema spiegare la presenza di quei tatuaggi che tuo padre mi ha detto che in qualche modo ti sei procurata sulle braccia. Volevo solo assicurarmi che non ci fossero altri problemi.”
Quando la porta fu chiusa, alle spalle della donna, Dana scagliò a terra il cestino del cucito.

“Tua madre ti ha già informata del ricevimento di domani sera, dunque?”
La voce autoritaria del padre ruppe il silenzio della sala da pranzo, nella quale, fino a pochi secondi prima, si udivano soltanto i tintinnii dei cucchiai contro i piatti fondi colmi di brodo caldo di Dana e dei genitori.
“Si, padre.” Fu tentata, per un momento, di esporre la propria opinione non proprio benevola a riguardo ma soffocò le parole, che stavano per sgorgare come un fiume in piena, con un bicchiere di vino bianco.
“E mi è stato riferito che tu non sei molto incline alla questione.”
E allora voleva la guerra!
Dana bevve un secondo sorso e, con voluta lentezza, si preparò a parlare, decisa a non lasciarsi intimorire.
“Siete stato informato bene. Non vedo l’utilità di preoccuparsi così presto di una cosa simile. Io non ho alcuna voglia di sposarmi, al momento, e dubito che le famiglie, che so essere rispettabili, del luogo, vogliano seriamente accettare di far entrare in famiglia, in qualità di nuora, una ragazza così giovane.” Dana sapeva che, una volta compiuti i sedici anni, si entrava automaticamente in età da marito, soprattutto nell’alta società, ma sperava che il padre si mostrasse più liberale nei suoi confronti. Evidentemente si sbagliava.
“Ti sbagli, cara. Non sai quante famiglie, in questi ultimi mesi, mi hanno chiesto se fossi disposto a darti in moglie. Alcune offerte non sono assolutamente da sottovalutare e non mi dispiacerebbe alzare il nome, e il rango, della famiglia.”
In questi ultimi mesi? Lei non aveva visto proprio nessun pretendente, negli ultimi mesi! Le sue giornate erano state, negli ultimi mesi, uguali. Usciva con Catarina e talvolta anche con i figli e le figlie delle altre famiglie altolocate della zona e, alla sera, tornava a casa. Di quali famiglie parlava suo padre? Qualcuno che conosceva?
“Quindi mi obbligherete a scegliere uno di questi gentiluomini?” Enfatizzò appositamente l’ultima parole, impregnandola di tutto il sarcasmo di cui disponeva.
“Ne sceglierai uno, senza alcuna pressione.” In pratica: sì, sei obbligata.

Soledad terminò di spazzolare il vestito per quella così importante serata circa venti minuti prima che il ricevimento avesse inizio. Il padre, quella mattina, le aveva detto che, sugli inviti, la festa era stata definita “in maschera”, tanto per rendere il tutto più interessante. Dana, a vestizione terminata, si ammirò nello specchio. La sua esile figura faceva una gran figura nell’abito che era stato fatto confezionare appositamente per l’occasione: era di lino rosso, non troppo ricco. La gonna era guarnita da un delicato pizzo nero e dello stesso colore era il corpetto, che metteva in bella mostra il decolté, tenuto insieme da lacci di seta scarlatti. I capelli erano stati tirati su e fissati alla nuca con un pettinino nero lucente e, ora, soffici boccoli le accarezzavano la base della nuca. Infine, le sue bracca erano state coperte da un paio di guanti, neri anch’essi, ed era stata truccata. Lo scarlatto delle labbra e il nero che le cerchiava gli occhi la facevano sembrare più grande. In generale, sembrava più grande e i rubini sfavillanti degli orecchini e della collana la facevano anche apparire più ricca di quanto in realtà non fosse.
Dana, fatto un giro completo su se stessa per far ruotare la gonna, fece per uscire, ma fu immediatamente bloccata dalla cameriera che le consegnò una maschera. Dana, con un sospiro, legò dietro la nuca i lacci di seta nera e si sistemò la maschera rossa e dorata sul naso. Le copriva metà del volto e la rendeva, definitivamente, un’altra persona.
Si avviò per andare ad accogliere gli ospiti.

“Signor Passalacqua, è un vero piacere vedervi qui! Oh, signorina Quiros, siete uno splendore.”
Tra convenevoli di questo genere, Dana rimase incastrata per una buona ora, fino a quando tutti gli ospiti non si furono presentati. Nella prima parte della serata si mangiò, si chiacchierò e si discusse. Dana tentò di appartarsi in un angolino con Catarina, per sfuggire al padre, ma non era destino. Ogni cinque minuti ogni suo tentativo di fuga veniva sventato e punito con quella che doveva essere una chiacchierata con il suo possibile futuro marito.
Conosceva di nome la maggior parte, al momento, ma nessuno di coloro che le erano stati presentati faceva parte delle sue amicizie. Alcuni era giovani gradevoli, altri erano un po’ meno giovani, ma finchè si trattava di mantenere viva una conversazione, tra un boccone e un sorso, poteva farcela, il problema soggiunse quando l’orchestra prese, sotto l’ordine del padrone di casa, a suonare i primi balli e tutti gli ospiti furono invitati a recarsi nel salone da ballo.
A quel punto, Dana cominciò seriamente ad irritarsi.
Un certo Roberto Narsese le pestò i piedi così tante volte che faticò a trattenersi dal mollargli un calcio tra le gambe, uno dei “pretendenti”, neanche fosse stata una principessa, per due interi giri di danza parlò della sua coltivazione di olivi, poi ci fu Alessandro Schillaci. L’aspetto di quest’ultimo era gradevole e Dana, per un momento, pensò di aver trovato un compagno discreto … si ricredette nel momento stesso in cui aprì la bocca. Le fece così tanti complimenti sul suo passo soave, quando ancora non aveva mosso un dito, sulla sua voce incantevole, quando ancora non aveva proferito parola, e sulla sua intelligenza … quando ancora non gli aveva confidato, molto chiaramente e senza possibilità d’errore, che trovava il suo cervello pari a quello di una gallina. Chissà perché quello Schillaci la mollò immediatamente per scomparire tra la folla. Dana, allora, non notando altra gente in cerca della sua compagnia, fece per allontanarsi dalla pista da ballo, ma venne chiamata nuovamente.
“Signorina Ferrer? Mi auguro che non siate troppo stanca per un altro ballo.” La voce le suonò familiare ma non vi badò più di tanto. Preso un lungo respiro, si girò verso il suo interlocutore.
Incontrò due occhi scuri e profondi come pozzi. A malapena si distingueva la pupilla dall’iride di quell’uomo, o meglio, giovane, il cui volto era celato da una maschera verde con motivi dorati che copriva la parte superiore del viso olivastro. Portava dei pantaloni stretti color panna e una lunga giacca, abbinata con la maschera. Le calze scomparivano nella scarpa  col tacco, come andava di moda, e ciò non faceva altro che rendere ancora più alta la giù alta figura. Sul capo non portava una parrucca, come la maggior parte degli uomini, e delle donne, lì dentro. I capelli castano lucenti, al contrario, non passavano inosservati nel loro essere in disordine.
“No, affatto.” Rispose, abbozzando un sorriso. Porse la mano inguantata di nero e si fece, di nuovo, portare al centro della sala.
Si ritrovò a pensare che il suo era proprio un eccellente ballerino, non un passo falso, letteralmente, e anche un piacevole compagno, a giudicare dai maliziosi sorrisi, che incredibilmente ogni volta donavano una sfumatura nuova agli occhi neri, e dalla conversazione produttiva.
“Vi state divertendo?” chiese lui, facendole fare una giravolta sulle note di un minuetto. Dana, prima di rispondere, ebbe molto tempo, quanto bastava per fare cinque passi indietro e poi in avanti, per andare poi a ricongiungersi con il compagno, che nel frattempo aveva avuto modo di ammirare il decoltè.
“Certamente. Voi no?” Non si stava divertendo affatto, ma quella, fino ad allora, era stata la parte migliore della serata, e non aveva certo intenzione di rovinarla.
“No.” Dana rimase alquanto stordita. “Trovo l’ambiente piuttosto gretto. C’è tanta bella gente, sì, ma l’ipocrisia abbonda.”
Dana si ritrovò con le spalle a contatto con il petto di lui, che prese a sussurrarle all’orecchio, continuando però a danzare.
“Ad esempio, ho visto due neosposi scambiarsi un appassionato bacio davanti agli amici, riscuotendo numerosi applausi e felicitazioni, e lo stesso marito, sgattaiolare negli appartamenti della servitù con una cameriera poco dopo.”
La ragazza non sapeva se essere più sconcertata per le sue parole o per la sua vicinanza.
“Se un uomo ha in mente di tradire la moglie, non è certo colpa del luogo, quanto della moralità dello stesso.”
Quello sorrise. “Sono punti di vista, signorina Ferrer. Vi ricordate cosa vi ho detto a proposito dei barbari?”
Dana sgranò gli occhi. La musica si interruppe e si voltò, aspettandosi di trovarsi davanti a Jamal, ma lui non c’era. Non c’era nessuno. Non perse tempo e si precipitò fuori dalla sala. Per fortuna, non venne bloccata da nessuno e, quando si ritrovò all’aria aperta, sul vialetto di pietrisco, vide Jamal. Si era tolto la maschera e i bei lineamenti arabi e i capelli ulteriormente scompigliati dal vento, affascinarono ancora una volta Dana.
“Tu che ci fai qui? Chi ti ha fatto entrare?”
Jamal si guardò un po’ intorno e fece cenno a Dana di avvicinarsi. Dana obbedì.
“Ammetto che questa è stata una mia idea … Né Maria né Marco sanno che io sono qui, e non penso che gli piacerebbe saperlo.” Sembrava vagamente imbarazzato. “Volevo solo sapere come andavano le cose. A quanto ho capito, non troppo bene.”
Dana sollevò un sopracciglio. “Va tutto meravigliosamente, credimi.” Replicò.
“No, non è vero. Ho sentita molta gente, stasera, fare scommesse riguardante il tuo futuro sposo. Alquanto patetico, se vuoi sapere la mia opinione.”
“Ma nessuno te l’ha chiesta.” Scattò Dana.
“Calmati, non voleva essere un’offesa! Stavo soltanto dicendo che è triste che tu sia costretta a fare qualcosa del genere adesso. Insomma, quanti anni hai? Quindici?”
“Sedici.” Sputò fuori lei, con una punta di orgoglio.
“Ecco, io ne ho diciotto e non ci voglio ancora neanche pensare.”
“Ovvio, tu non sei umano.”
Jamal le lanciò un’occhiataccia. “Io sono umano, in tutti i sensi. Semplicemente, ho del sangue angelico che mi scorre nelle vene. E poi, se proprio lo vuoi sapere,”
“Non sono sicura di volerlo sapere-“ provò Dana.
“Ci sono alte possibilità che tu sia una Cacciatrice. Ho fatto un paio di ricerche, tra ieri e oggi.” Sorrise di nuovo, come se stesse pensando a qualcosa di davvero divertente.
“Che hai da sorridere?” Chiese Dana, seccata.
“Nulla. Solo che mi interessi.”
“Ah, si?” Dana era scettica, e non voleva neanche una risposta, in realtà.
Jamal le si avvicinò di più, costringendola ad indietreggiare fino all’estremità del vialetto, quasi dentro il parco.
“Anche se nel nostro mondo si vedono spesso cose strane, ci imbattiamo raramente in veri e propri misteri.”
“Senti una cosa,” Dana si irrigidì sotto una folata di vento che le gelò le spalle nude. “se io volessi venire con te, all’Istituto, intendo … tu potresti portarmici?”
Il ragazzo stava per rispondere ma, con un movimento quasi felino, si voltò di scatto estraendo da qualche parte, Dana non riuscì a capire da dove, una lama e gridò “Sitael!” A questo punto la lama splendette di luce propria e si andò a conficcare nella carne di qualcosa. A Dana parve una sorta di enorme lumaca e credette di star sognando quando vide una doppia fila di denti aguzzi attraversare il lato destro del ventre della creatura, come se fosse un’enorme, puzzolente, putrida bocca.
Dana prese a tremare, e non per il freddo.
“Che … che cos-cosa era quello?” Balbettò.
“Era un Behemoth. Un demone. Dobbiamo andarcene subito da qui.” Il demone si dissolse, come se non fosse mai esistita quella carcassa, e Jamal rinfoderò l’arma.

Angolino dell'autrice: Salve! Non mi trattengo molto perchè è tardi ed è necessario che vada a letto immediatamente (se no domani, a scuola chi ci va? o.o)
Spero vi sia piaciuto questo capitolo. A me, personalmente e poco modestamente, piace. L'ho riletto e non mi pare ci siano orrori, ma se ci sono fatemelo notare. Capitemi, sono stanca e assonnata ma avevo l'ispirazione! Se volete lasciate una recensioncina :3 Ciao ciao 

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