ClockMaker

di Genevieve De Cendres
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ore 1.00 ***
Capitolo 3: *** Ore 2.00 ***
Capitolo 4: *** Ore 3.00 ***
Capitolo 5: *** ore 4.00 ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***





Prologo
 
 

Lo notava ogni volta che passeggiava per Torsten Street. Dalla vetrina del più antico orologiaio della città, dal quale tra l’altro prendeva il nome quel viale dalla pavimentazione in pietra mosaicata, delineato da entrambi i lati da prestigiose botteghe e alberi perfettamente curati che con l’arrivo dell’autunno, stavano cominciando a tingere le loro chiome di oro e amaranto, i suoi occhi si posavano su quel vecchietto ingobbito e magro, accucciato su di un alto sgabello a trespolo piegato su chissà quale opera d’arte, i capelli bianchi avevano ancora qualche traccia del grano maturo che si scorgeva ogniqualvolta il sole filtrava dalla vetrina del negozio. Era un locale apparentemente piccolo, sulle pareti rivestite da grandi pannelli di mogano lucido erano appesi ed esposti i più svariati tipi di orologi decorati sin nel più piccolo e perfetto dettaglio. L’orologiaio era sempre lì. Sempre chino sul bancone a lavorare con le mani esili e guantate.
Stava correndo verso lo studio legale in cui lavorava quando l’occhio cadde come di consueto su quella gobba figura, notò un movimento quasi impercettibile della mano e la melodia scaturita da un piccolo orologio gli arrivò nitida e cristallina donandogli una improvvisa sensazione di benessere. Si mise la mano in tasca sfiorando con i polpastrelli il freddo orologio da taschino regalatogli dal  padre qualche anno prima, un cimelio che passava di padre in figlio e proveniva proprio da quella bottega, uno dei primi lavori di Abel Torsten, l’ormai defunto fondatore dell’attività.  Anche quell’orologio aveva un carillon al suo interno ed Evan ricordava ancora le parole del nonno, quando gli diceva che bastava premere il piccolo bottoncino dorato e lasciarsi cullare da quella melodia, che avrebbe senz’altro riscaldato il suo cuore, per trovare la quiete che tanto agognava. Sorrise, la tentazione di entrare fu quasi irresistibile ma si scrollò quell’insensato desiderio di dosso e proseguì per la sua strada.
 
Quella mattina il cielo era coperto da grandi nubi grigiastre, Evan incassò il collo nelle spalle cercando di coprirsi il viso sferzato dal freddo vento di fine novembre, vide in lontananza la piccola insegna dell’orologiaio dondolare violentemente, cigolando; affrettò il passo deciso ad entrare, a breve sarebbe stato il compleanno dell’amico e collega Valentine Deonne e aveva pensato di commissionare un orologio appositamente per lui, in onore della loro amicizia. Fece un ultimo sforzo allungando il passo ma una volta arrivato davanti all’entrata, dovette ricredersi. Il negozio era interamente avvolto dalle tenebre, si avvicinò al vetro premendo le mani e il viso sulla superficie gelida e sbirciò all’interno, sulla destra intravedeva la luce fioca di un lume provenire da quello che doveva essere, con ogni probabilità, il laboratorio. Provò per scrupolo a spingere sulla porta d’entrata e questa si aprì con un tintinnio violento, dovuto dalla folata di vento che aveva accompagnato il gesto dell’uomo. Evan entrò chiudendosi rapidamente la porta alle spalle, si schiarì la voce chiedendo il permesso ma nessuno rispose, lasciò scivolare lo sguardo sulle pareti lucide perdendosi più e più volte a guardare prima uno e poi l’altro orologio, stava per sfiorarne uno in particolare, decorato con motivi floreali intagliati nel legno rossiccio, quando un suono squillante ma stonato lo riportò alla realtà, una manciata di note, l’inizio di una melodia interrotta sul nascere, provenire giusto dalla stanza alla sua destra. Si riavviò i morbidi capelli neri e si tolse il pesante cappotto blu, cercando di trovare delle scuse adeguate per disturbare l’uomo, spinse appena la porta di legno chiaro trovandosi a guardare la schiena dell’orologiaio, accartocciato sulle sue stesse ginocchia, le braccia che si muovevano lente, con gesti brevi e decisi. Cominciò a sentirsi notevolmente in imbarazzo mentre si avvicinava a passi incerti cercando di richiamare l’attenzione dell’uomo, schiarendosi più volte la voce, senza risultati. Il vecchio restava nella stessa posizione, perso nel suo lavoro.
 
-Mi perdoni…-
 
La voce di Evan suonò decisa, chiara, ma l’altro sembrò non averlo sentito.
 
-Chiedo scusa…-
 
Evan si sporse appena cercando di guardare oltre le spalle dell’orologiaio che imperterrito continuava a lavorare, ignorando la sua presenza. Si avvicinò ulteriormente guardando quell’insieme ordinato di ingranaggi e rimanendone incantato  dalle mani esili e avvolte dai guanti bianchi e sottili che si muovevano leggere, quasi in una carezza; sospirò e poggiò una mano sulla spalla del vecchio che sussultò. Fu una questione di pochi attimi, l’orologiaio balzò dallo sgabello  impugnando una lima, pronto ad aggredire Evan che prontamente per difendersi, lo aveva afferrato per i polsi e spinto contro il piano da lavoro, si accorse solo allora di trovarsi davanti ad un ragazzino poco più che ventenne, notò i grandi occhi celesti contrastare con i capelli chiarissimi, simili all’avorio e risaltare sulla pelle candida come porcellana. Strinse la presa sul polso sinistro disarmandolo, mentre questi si dimenava per liberarsi, ignorando le parole dell’uomo che tentava di tranquillizzarlo.
 
-Non voglio farle del male! Mi ascolti, per favore.-
 
La voce dell’avvocato venne coperta da quella del ragazzino che  minacciava in modo decisamente poco credibile, data la situazione in cui versava, di fargli seriamente del male. Evan guardò i suo occhi brillare di rabbia mentre smetteva di dimenarsi, quasi rassegnato all’idea che l’uomo fosse più forte di lui, lasciò andare la presa sui polsi esili dell’orologiaio e questi contrattaccò spingendolo a terra con forza; Evan cadendo chiuse istintivamente gli occhi e quando li riaprì trovò davanti a sé il ragazzo, la scopa alta sulla sua testa pronto a colpirlo e il viso di chi sotto sotto sta tremando dalla paura.
 
-Aspetta! Non colpirmi!-
 
L’uomo si mise a frugare nervosamente nelle tasche, cercando l’orologio da taschino senza riuscire a trovarlo, guardò con aria preoccupata il ragazzo che continuava a tenere la scopa alta sopra la sua testa, l’orologiaio prese un respiro profondo, alzò le sopracciglia stringendo le labbra in una sottile linea orizzontale, deciso a colpirlo, quando un piccolo orologio dorato scintillò sotto il suo naso.
Si fermò lasciando andare il pezzo di legno dalle mani e afferrando il piccolo agglomerato di ingranaggi, studiandone i particolari, sul dorso era finemente intarsiata una rosa e attraverso la ragnatela creata da quest’ultima si poteva intravedere il quadrante. Se lo rigirò attentamente tra le mani prima di avvicinarlo all’orecchio ascoltandone il flebile ticchettio, Evan approfittò di quel momento per alzarsi da terra, senza togliere gli occhi di dosso al ragazzo che sembrava sul punto di addormentarsi, studiò il corpo snello avvolto da una larga camicia bianca e le gambe, così come i fianchi, fasciati da chiari pantaloni color ocra, si stava avvicinando all’orologiaio quando questi aprì gli occhi, lasciando sprofondare l’uomo nel  mare brillante delle sue iridi.
 
-La batteria è danneggiata, è da sistemare, perde qualche secondo… immagino tu sia qui per questo.-
 
L’uomo annuì serio, non si era minimamente accorto di quel difetto a dir poco trascurabile ma era lieto che gli avesse risparmiato di prendere qualche bastonata. Guardò meglio il ragazzo che adesso era tornato a studiare l’orologio e che sicuramente doveva aver riconosciuto la mano del suo creatore. Doveva avere poco più di vent’anni,i lineamenti erano delicati,  leggermente affilati ed infantili ma lo sguardo profondo, insondabile. I capelli chiarissimi si erano tinti del colore del grano maturo sotto la luce tremula della candela,  così come la pelle marmorea adesso si beava delle sfumature ambrate e calde della fiamma. Evan si diede dello sciocco per averlo scambiato per un vecchio, rimanendone incantato, cosa che non sfuggì allo sguardo del più piccolo che adesso stava appoggiando l’orologio da taschino sul tavolo da lavoro e recuperava un pezzo di carta ingiallita.
 
-Siamo chiusi per tutta la settimana, ma per un lavoro simile ci impiegherò si e no una mezz’ora, passi anche domani, lascerò come oggi la porta aperta.-
 
Evan venne riportato alla realtà dalla voce pacata e fredda del ragazzo che si era messo a scribacchiare distrattamente.
 
-Per il costo non ha da preoccuparsi…-
 
Mormorò infine, sempre tenendo lo sguardo fisso sul foglio. Evan si avvicinò al ragazzo cautamente, indeciso se parlare o meno
 
-Se vuole posso aspettare qui fuori, se come dice si tratta di poco …-
 
Non ebbe il tempo di finire la frase che il ragazzo gli scoccò un’occhiataccia. Aveva recepito il messaggio, sarebbe passato l’indomani.
 
-Sotto che nome?-
 
Il giovane adesso aveva assunto un tono piuttosto seccato e aveva spostato lo sguardo dal foglio all’uomo.
 
-Evan Norwood.-
 
Rispose prontamente l’avvocato rinfilandosi il cappotto e guardando il ragazzo annuire e borbottare qualcosa
 
-Scusi?-
 
Chiese Evan concentrandosi sulla  voce del ragazzo che era ritornato a guardare altrove
 
-Io sono Ael Torsten. Piacere di fare la vostra conoscenza.-
 
 
 
 
 
 



 
 
 NDA:
Buonasera! Notando che questa storia era piaciuta particolarmente (rispetto alle altre) ho deciso di darle una bella sistemata X°D
NE AVEVA UN URGENTE BISOGNO!
So che non è il massimo, probabilmente qualcosa mi è sfuggito, avrò tempo per ricorreggerla in futuro, so anche che il cliché (ditemi che l'ho scritto correttamente, vi prego...) del seme che sbatte contro il tavolo l'uke ormai ha rotto... ma a me piace davvero troppo per eliminarlo ;A;
Perciò spero che chi ha già recensito, non sia offeso dal mio correggere i capitoli senza cancellare la storia di sana pianta ma semplicemente modificando i capitoli precedenti e vi auguro una buona (ri)lettura! <3
Gene
 
 

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Capitolo 2
*** Ore 1.00 ***


 




 
1.
Capitolo primo
 
 


 
-Scusa?-
 
Evan guardò stizzito l’amico che era scoppiato in una fragorosa risata, piegandosi su se stesso. I capelli ramati e l’abito scuro facevano risaltare la pelle particolarmente chiara, macchiata da sporadiche lentiggini.
 
-Valentine, è inutile ridere! E poi scambiare quel ragazzino per un vecchio non è così difficile, gobbo e scorbutico, non ci sono andato molto lontano.-
 
L’amico poggiò i gomiti sulla scrivania del suo studio guardando Evan con aria divertita, le sopracciglia alzate, il sorriso sghembo e l’espressione di qualcuno che ne sa certamente di più.
 
-Ael non è poi così scorbutico, basta saperlo prendere.-
 
Il moro guardò il collega con aria perplessa, si appoggiò con le spalle al muro in attesa che l’altro continuasse a parlare ma Valentine sembrava aver finito il discorso ed Evan sospirò, pensieroso.
 
-Lo conosci bene?-
 
Chiese infine, sedendosi davanti al collega che adesso sistemava su un lato una pila di fascicoli
 
-Eccome!-
 
Esclamò ridacchiando soddisfatto il rosso, per poi continuare
 
-Lo conobbi qualche anno fa, gli portai un orologio trovato tra le vecchie cose di un mio zio,era rimasto per anni sotto un cumulo di scartoffie e sembrava non voler dare segni di vita. Una settimana ed era come nuovo! Il padre ha fatto proprio bene a lasciargli le redini del negozio…-
 
Concluse Valentine appoggiandosi con aria trionfante allo schienale e incrociando le dita sul grembo. Evan lo guardò perplesso corrugando la fronte.
 
-Perché lasciare l’attività in mano al figlio, così presto?-
 
Il viso dell’amico si rabbuiò. Valentine deglutì passandosi la mano tra i capelli e sorridendo teso
 
-Il padre di Ael ha ancora poco tempo da passare in questo mondo, ha deciso di lasciare il negozio al figlio minore poiché è il più dotato, ma per quel che riguarda pratiche e burocrazia ci sono il fratello e il figlio maggiore ad occuparsene.-
 
Calò il silenzio, i due si guardarono per qualche secondo imbarazzati e leggermente turbati
 
-E’ un ragazzo in gamba.-

Concluse Valentine, sospirando.
 
-In gamba e scontroso.-
 
Ribadì Evan spostando lo sguardo fuori dalla finestra, perdendosi nei rami degli alberi scossi violentemente dal vento, stagliati contro il cielo grigio. Sentì Valentine ridacchiare e si girò a guardarlo. La curiosità nei confronti dell’orologiaio era diventata quasi insopportabile.
 
-Parlami di lui.-
 
Disse infine puntando lo sguardo in quello dell’amico. Intanto fuori dal loro ufficio, il cielo prometteva pioggia
 
 
 
 
Uscì dal suo studio quando ormai la luce del sole aveva ceduto il passo alle tenebre della sera e il cielo non prometteva più pioggia, prometteva tempesta. Si strinse nel cappotto sperando che il tempo reggesse, dandogli il tempo di tornare a casa o perlomeno di avvicinarsi, ma non appena iniziò ad incamminarsi un lampo squarciò il buio e la pioggia cominciò a cadere fitta. Abbassò il capo correndo verso il negozio di orologi, sperando di trovare riparo lì per un po’; una volta riconosciuta l’insegna del negozio spalancò la porta fiondandosi all’interno e bagnando il pavimento della stanza, il campanellino d’entrata, scosso dal vento, cominciò a fare un chiasso tremendo mentre Evan faticava a chiudere la porta a causa della corrente. Chiamò a gran voce il ragazzo ma questi non rispose.
 
-Ael!-
 
Questa volta sentì dei passi pesanti sopra la sua testa, una porta sbattere al piano superiore e di colpo due mani cadaveriche sbucarono da dietro di lui, aiutandolo a chiudere la porta. L’uomo si voltò verso l’orologiaio guardandolo grato, entrambi bagnati dalla testa ai piedi.
 
-Sei fradicio.-
 
Mormorò con aria colpevole Evan, mentre guardava la camicia bianca dell’altro aderirgli al corpo per poi osservare il viso seccato del ragazzo, incorniciato da una massa di capelli bianchi appiccicati sulla fronte e le guance, con qualche ciocca a percorrere appena il profilo regolare del naso.
Ael si riavviò i capelli, voltandogli le spalle e facendogli segno di seguirlo.
 
-Non credevo fossimo così in confidenza da darci del tu.-
 
Rispose piccato mentre lo faceva entrare nel laboratorio e si avvicinava a delle scale di legno poste sul lato estremo della stanza, vicino alla porta sul retro.
 
-Mi dispiace, non volevo essere maleducato.-
 
Mormorò distratto Evan mentre si guardava intorno, per poi scrutare attentamente quelle scale perdersi nell’oscurità. Il ragazzo gli fece segno di rimanere lì e prese a salire le scale rapidamente senza accendere la luce.
Tornò poco dopo con un asciugamano appoggiato al braccio e uno sulle sue spalle. Ne passò uno ad Evan che lo ringraziò con un cenno del capo e tornò a sedersi sul suo sgabello intenzionato a rimettersi a lavorare, l’uomo rimase in piedi vicino alle scale a guardarlo, non sapendo bene come muoversi per non offendere ulteriormente l’orologiaio, ma proprio mentre stava per chiedere qualcosa Ael gli indicò una vecchia poltrona posta sotto la finestra sulla sua destra.
 
-Cosa c’è al piano superiore?-
 
Non riuscì a trattenersi Evan, continuando a guardare sopra di sé come se avesse la capacità di guardare attraverso le pareti e frizionandosi i capelli con l’asciugamano.
 
-Il mio appartamento…-
 
Sospirò il ragazzo, poi di colpo posò il suo lavoro e guardò inespressivo l’avvocato che ricambiò il suo sguardo con aria perplessa.
 
-Il vostro orologio è in quella scatola, sul davanzale dietro di la poltrona.-
 
L’uomo si voltò scorgendo la scatolina rossa proprio dietro di sé, l’afferrò aprendola e guardando soddisfatto l’orologio,non sapeva neanche lui come aveva fatto a separarsene anche se per breve tempo. Il silenzio calò pesante sui due, l’unica cosa che potevano sentire era il canto della pioggia contro i vetri della finestra e i rumori secchi e metallici degli ingranaggi tra le mani del ragazzo. Dopo un attimo di stasi Evan si alzò dalla poltrona poggiando l’asciugamano sullo schienale della poltrona.
 
-Bene, allora se permettere mi congedo.-
 
A quelle parole l’orologiaio lo incenerì con lo sguardo e l’uomo ebbe quasi il timore che il ragazzo potesse prenderlo a bastonate di nuovo e questa volta non avrebbe nemmeno capito il motivo.
 
-È pazzo forse?-
 
Chiese con aria sconcertata Ael mentre si raddrizzava sulla sedia, Evan corrugò la fronte leggermente offeso dai suoi toni
 
-E di grazia, per quale motivo dovrei essere pazzo?-
 
Chiese in tono seccato l’avvocato sostenendo lo sguardo di Ael che si era alzato in piedi e si avvicinava a lui.
 
-Fuori imperversa una tempesta e lei vuole uscire?-
 
L’orologiaio lo guardava con aria sconcertata mentre gli poneva quella domanda che spinse l’uomo a darsi dello sciocco, entrambi guardarono fuori dalla finestra con aria rassegnata.
 
-Di certo non posso dormire qua…-
 
Mormorò Evan incrociando le braccia al petto e spostando lo sguardo dalla finestra al ragazzo, che lo guardava con un’espressione indecifrabile.
 
-Perché no?-
 
Chiese improvvisamente Ael lasciando perplesso l’uomo, che sbarrò gli occhi guardandolo
-Come?-
 
Balbettò appena Evan,incredulo, non essendo certo di aver capito davvero cosa l’altro gli avesse chiesto
 
-Perché no?-
 
Ripeté più lentamente Ael, come se l’altro non avesse davvero capito il senso delle sue parole
 
-Perché voi non volete!-
 
Sbottò Evan indeciso se scoppiare a ridere o meno in faccia al ragazzo, che lo guardava a braccia conserte, quasi ad imitarlo.
 
-Questo non l’ho mai detto.-
 
Sbottò Ael  -Per questa sera sarete mio ospite, le cederò senza problemi il mio letto, non potrei mai perdonarmi se dovesse capitarvi qualcosa proprio dopo essere uscito dal mio negozio.-
 
 
Dalle scale sbucarono in un’ampia stanza adibita a camera da letto, per il resto l’appartamento composto da poche stanze era di modeste dimensioni, il parquet chiaro e le pareti coperte da carta da parati a larghe righe verticali, gialle e bianche conferivano alle stanze un’aria un po’ sciupata. Alla luce del giorno doveva essere un posto davvero luminoso date le grandi finestre prive di tende ma in quel momento, con le lampade spente  e gli scuri chiusi a metà sembrava essere uno dei posti più cupi che Evan avesse mai visto e ad illuminare le stanze c’era soltanto la fioca illuminazione esterna.
La pioggia si infrangeva violentemente sui vetri tra gli ululati del vento e i lampi, che di tanto in tanto illuminavano la stanza con la loro luce spettrale. Ael corse ad accedere tutte le lampade illuminando la stanza a giorno, sotto lo sguardo divertito dell’avvocato che soffocava una risata, ogniqualvolta il ragazzo sussultasse dopo il boato di un tuono.
Ael sistemò la camera da letto assicurandosi che al suo improvvisato ospite non mancasse nulla, poi, dopo avergli augurato la buonanotte si congedò lasciando da solo l’uomo.



 
Evan passò parte della notte a guardare il soffitto, incapace di prendere sonno. Sentiva il cigolio dell’insegna fuori dal negozio e si chiedeva dove il ragazzo fosse andato a dormire se quello era l’unico letto presente nell’appartamento. Si alzò dal letto per andare a cercarlo senza però riuscire a trovarlo, solo dopo gli venne il dubbio di poterlo trovare nel laboratorio.
Scese le scale con cautela cercando di fare meno rumore possibile. Non appena entrò nella stanza lo vide, addormentato sulla poltrona vicino la finestra e illuminato dalla luce dei lampioni mista a quella della luna che proiettava sul suo viso l’ombra dei ghirigori che la pioggia aveva formato sul vetro. Ael sembrava dormire profondamente, con le labbra schiuse e il petto che si muoveva lentamente. Evan si avvicinò prendendolo tra le braccia facendo attenzione a non svegliarlo, poi con la stessa cautela usata per scendere le scale, le ripercorse per andare nella camera da letto del ragazzo e adagiandolo sul letto, per poi addormentarsi al suo fianco.

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Capitolo 3
*** Ore 2.00 ***





2.
CAPITOLO SECONDO
 
 
 
Quando aprì gli occhi il cielo si era tinto delle tenui sfumature della lavanda, fece attenzione a non far rumore per evitare di svegliare Ael che giaceva addormentato accanto a lui. Il  volto sereno da bimbo appagato era incorniciato da sottili fili perlacei e diafano, spiccava dal cuscino solo grazie ad un gioco di ombre, la bocca era schiusa in un respiro costante e profondo, lo sguardo dell’avvocato vagò fino al petto che si alzava e abbassava lento, le lunghe gambe attorcigliate nelle coperte, una mano sul ventre e l’altra con le dita incastrate nei capelli. Evan lo studiò con attenzione, se avesse potuto, se avesse avuto anche un briciolo di capacità, l’avrebbe sicuramente dipinto. Nel sonno piuttosto che nella veglia, aveva un’aria incredibilmente pacifica e serena, tanto da sembrare un’altra persona. Si perse a studiare i lineamenti del ragazzo indugiando sulle labbra, gli venne voglia di toccarle e si avvicinò senza pensarci, si rese conto di quello che stava facendo solo quando ad un centimetro dal viso di Ael, si scosse da quella sorta di trance e alzò gli occhi verso quelli del ragazzo, che erano aperti. L’avvocato si allontanò velocemente preparandosi ad una scenata, ma il ragazzo sembrò mantenere la calma, si mise a sedere e si passò una mano tra i capelli arruffati.
 
-Perché sono qui?-
 
Bofonchiò il Ael con la voce arrochita dal sonno, mentre si guardava intorno con aria vagamente imbronciata, Evan sorrise trovandolo adorabile.
 
-Ho pensato potessi aver freddo lì, nel laboratorio…-
 
Rispose l’uomo guardandolo con attenzione, studiando l’espressione dell’orologiaio che mutava impercettibilmente, leggermente turbato.
 
-Vuole un tè? O preferisce del caffè , forse.-
 
Mormorò infine il ragazzo alzandosi dal letto e rassettandosi i vestiti come meglio poteva, Evan prese l’esempio del ragazzo e dopo qualche momento di imbarazzante silenzio Ael gli fece segno di seguirlo in cucina.
Era una piccola stanza dalla forma vagamente esagonale, i mobili in legno chiaro si sposavano armoniosamente con la carta da parati chiara, così come il piccolo tavolo anch’esso in legno bianco, disposto proprio nel centro della stanza. Evan si sedette sulla sedia che il ragazzo gli aveva indicato e guardò assonnato Ael mettere ad ebollizione l’acqua per il tè, faceva qualsiasi cosa con quei suoi gesti lenti, misurati, come se avesse paura di prendersi altro spazio, come se si fosse ritagliato  il suo e non dovesse o potesse uscirne. L’orologiaio parve irrigidirsi mentre metteva ad infusione le foglie profumate e senza voltarsi si schiarì appena la voce, per essere certo di non averla persa.
 
-Posso farle una domanda, Sir Norwood?-
 
La voce del ragazzo arrivò tesa e leggermente spezzata.
 
-Certamente, ma puoi chiamarmi…-
 
-Ottimo.-
 
Lo interruppe bruscamente il ragazzo, sempre di spalle e continuando a giocherellare con le foglie di tè, visibilmente nervoso.
 
-Per quale motivo sono oggetto di tanta considerazione da parte vostra? Si comporta come se fossimo amici di lunga data , ma io l’ho vista solo di rado quando ero poco più di un bambino  e sto accettando questa bizzarra situazione, solo in onore dell’amicizia duratura che lega…che legava, la mia famiglia alla vostra. Devo a qualcosa in particolare queste vostre insistenti attenzioni?-
 
Evan rimase in silenzio, per la prima volta gli mancarono le parole, poi improvvisamente gli sorrise, sorrise ad Ael come si sorride ad un bambino troppo curioso che pone domande ovvie, pretendendo di avere la risposta immediatamente, intanto il ragazzo stava versando il tè in un paio di tazze di porcellana priva di decorazioni.
 
-Le nostre famiglie sono amiche da generazioni. Mio nonno era amico del vostro, così come mio padre è amico di vostro padre. Non vedo cosa ci sia di male nell’essere amichevole con voi. Capisco che effettivamente non ci siano contatti da parecchio tempo, a causa di alcune incomprensioni e di screzi avvenuti, ma adesso che le cose si sono risolte non vedo dove stia il problema nel costruire una amicizia.-
 
Il ragazzo alle parole di Evan, si voltò a guardarlo. La schiena appoggiata al ripiano della cucina e le braccia incrociate al petto. La luce del mattino inondava la stanza illuminando i due che adesso si guardavano, quasi con aria di sfida. Ael sospirò porgendo la tazza fumante all’uomo e dopo aver messo in tavola lo zucchero e del latte, si sedette davanti a lui cominciando a sorseggiare la bevanda ambrata.
 
-La cosa che mi stupisce è il non avervi mai visto a nessun evento, ho sempre visto vostro fratello ma non voi, per quale motivo?-
 
Ael a quella domanda si incupì. Posò la tazza mantenendo lo sguardo su di essa e sospirò, senza però rispondere alla domanda dell’uomo che lo guardava con insistenza, in attesa. Evan provò ad avvicinare la sua mano a quella del ragazzo che reagì ritraendola di scatto e rivolgendogli uno sguardo offeso.
 
-Le nostre famiglie si sono riappacificate ormai da un anno, ogni rancore è stato dissipato, non vedo per quale motivo…-
 
L’avvocato venne interrotto dalla risata sarcastica del più giovane che lo guardava con aria divertita ma con occhi colmi di rabbia.
 
-Facile riappacificarsi adesso, non trova?-
 
Evan lo guardò perplesso, allontanandosi ed andando ad appoggiarsi allo schienale della sedia.
 
-Cosa vorreste dire?-
 
Chiese freddamente l’uomo infastidito dall’espressione arrogante del ragazzo che si era alzato in piedi e lo guardava dall’alto al basso.
 
-Voglio dire che la mia famiglia, con la sua amicizia, vi ha sempre fatto comodo. Ed è bastata una sciocca questione “sentimentale” per farci allontanare come cani rognosi! E adesso che mio padre sta morendo, ci fate la gentilezza di riprenderci sotto le vostre ali? Molto cortese da parte vostra, ma io ne faccio volentieri a meno.-
 
L’uomo sgranò gli occhi ed ebbe la tentazione di controbattere, ma gli mancò la voce una volta incrociati i suoi occhi, un mare in tempesta.
 
-Adesso con il vostro permesso, avrei un lavoro da finire. Sapete dove si trova l’uscita, la prego di andarsene immediatamente, è rimasto in casa mia anche troppo.-
 
Evan lo guardò mortificato, effettivamente non era a conoscenza dei dettagli riguardanti la lite tra le due famiglie, sapeva solo che il padre aveva smesso di avere qualsivoglia rapporto o scambio con il padre del ragazzo e che una volta, era persino arrivato a proibirgli di parlare al figlio maggiore dei Torsten. Si alzò ed andò a raccogliere le sue cose, prima di andarsene guardò oltre la porta della cucina, Ael era ancora lì, in piedi, l’aria fiera ed aggressiva ma gli occhi di chi non riuscirà a trattenere le lacrime ancora per molto.
 
 
 
Si guardò un’ultima volta allo specchio, prima di uscire.  L’abito elegante fasciava il corpo asciutto e alto di Evan, conferendogli un’aria regale nella sua semplicità. I capelli scuri, ben pettinati e portati all’indietro evidenziavano i lineamenti forti ma regolari. Sospirò, era passata una settimana dalla notte della tempesta e non era riuscito a togliersi dalla testa l’espressione del ragazzo. L’aria ferita e la voce spezzata. Aveva provato nei giorni successivi a parlare al padre, ma non aveva ricevuto altro che sospiri e scuse; pensò che se il padre non si fosse deciso a parlare, avrebbe dovuto chiedere ad altri, ma a chi? Di certo se avesse provato a chiederlo ad Ael, non sarebbe tornato a casa. Non intero almeno.
Prese l’orologio da taschino, premette il bottoncino in alto e questi si aprì, liberando la melodia al suo interno, l’avvocato sospirò estasiato e lanciò un’occhiata al quadrante: le sette. Era in ritardo per il compleanno di Valentine.
 
quando arrivò il salone era un vortice di colori, luci e suoni. Molti degli invitati danzavano e gli uomini più anziani si perdevano in noiosissime chiacchiere, così come le non più giovani signore, che se ne stavano sedute in semicerchio, ventaglio alla mano e occhio inquisitore. Valentine gli venne incontro a braccia aperte, un enorme sorriso gli illuminava il volto coperto da qualche ciocca, sfuggita dalla folta coda bassa
 
-Evan!-
 
Chiamò a gran voce avvicinandosi a grandi passi sicuri
 
-Amico mio! Finalmente hai deciso di onorarci con la tua presenza, temevo non saresti più arrivato!-
 
Concluse il collega cingendogli le spalle con un braccio e dopo averlo stretto, liberò l’amico dalla presa forse un po’ troppo forte.
 
-Buon compleanno, Valentine.-
 
Rispose Evan massaggiandosi il braccio e sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori, quel sorriso furbo che riservava solo a lui, solo a Valentine, amico di una vita.
Questi ricambiò il sorriso ma non ebbe il tempo di dire altro, quando vide una nobildonna avvicinarsi, figlia al seguito. Sospirò senza guardare l’amico e girandosi in direzione della donna.
 
-Siamo a quota tre, un’altra che vuole rifilarmi la figlia che non riesce a dare in moglie. È passato forse di moda il rinchiuderle in convento?-
 
Chiese a denti stretti e forzando un sorriso, facendo Evan in una risata bassa e controllata. Valentine si inchinò per salutare l’amico e poi fece segno con il capo, di guardare dietro di sé
 
-C’è il nostro orsetto brusco e cattivo!-
 
Disse infine voltandogli le spalle ed avvicinandosi alle due dame, l’avvocato faticò a cogliere il senso della frase ma lo capì non appena girandosi, vide Ael chiacchierare con il fratello minore di Valentine, faticò quasi a riconoscerlo, era abituato a vederlo con l’aspetto di un ragazzino vestito con larghe camice bianche e vecchi pantaloni rattoppati, ma davanti a lui c’era un giovane uomo, il corpo fasciato da un elegante abito blu scuro e i capelli meticolosamente pettinati, parlava tranquillamente, un sorriso mite gli increspava appena le labbra, per niente forzato. Aspettò che i due terminassero la loro conversazione e, quando Ael uscì sulla terrazza per prendere un po’ d’aria, Evan lo raggiunse. Si avvicinò con passo deciso al ragazzo che, appoggiato alla balaustra in marmo, guardava  davanti a sé con lo sguardo perso in un cielo stranamente limpido. L’orologiaio colse i passi alle sue spalle e si voltò pronto a salutare nuovamente l’amico, ma ritrovatosi davanti all’avvocato si rabbuiò mettendosi sulla difensiva.
 
-Anche voi qui?-
 
Chiese seccato Ael mentre Evan si avvicinava sorridente, appoggiandosi anche lui alla balaustra e sostenendo lo sguardo del più piccolo.
 
-Come state?-
 
Chiese infine, mentre Ael si allontanava di un passo
 
-Ottimamente.-
 
Lapidaria la risposta dell’orologiaio, che nel pronunciarla aveva distolto lo sguardo. Evan si avvicinò di un altro passo arrivando vicinissimo ad Ael, visibilmente imbarazzato.
 
-Mi dispiace per quello che è accaduto alle nostre famiglie.-
 
Disse a voce sommessa l’uomo, attirando l’attenzione del ragazzo che lo guardava quasi spaventato, pienamente cosciente del fatto che quello non fosse né il momento né il luogo giusto per affrontare quella discussione.
 
-Io non sono mio padre e voi non siete il vostro. Non è giusto pagare per i loro errori, non trovate? Capisco che questa mia insistenza possa apparire strana ed irritante, ma non vedo nemmeno il motivo per cui non insistere. Vi trovo una persona interessante ed avrei davvero piacere a fare la vostra conoscenza come meglio si conviene.-
 
Ael continuava a fissarlo in silenzio ed Evan ebbe l’irrefrenabile tentazione di avvicinarsi e scuoterlo afferrandolo per le spalle, chiedergli se fosse sveglio o stesse dormendo ad occhi aperti. Il ragazzo aveva colto una delle cose che all’avvocato davano più fastidio: l’assenza di risposte. Anche se fossero state mute gli sarebbero andata bene, benissimo. Ma aveva bisogno di risposte. Ael si scostò dalla ringhiera e lentamente si avvicinò all’uomo notevolmente più alto di lui, gli si piantò sotto e lo fulminò con lo sguardo senza proferir parola. Fece per andarsene ed era appena entrato nella sala quando Evan, senza pensarci troppo e persa la pazienza, lo afferrò per il polso e in pochi istanti lo trascinò fuori dal salone, nel corridoio.






 
 

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Capitolo 4
*** Ore 3.00 ***





3.
CAPITOLO TERZO
 
 
 
Il corridoio era avvolto quasi completamente dalle tenebre e dal salone la musica arrivava lieve e indistinta.
Evan mentre trascinava il ragazzo per il braccio, non parlava e con espressione mortalmente seria ignorava ogni protesta del più piccolo che non sembrava voler demordere, ma Ael dopo numerosi e vani tentativi di fuga e richieste d'aiuto, si impose il silenzio decidendo comunque di complicare il compito all'avvocato e puntando i piedi a terra. Stava per chiedergli dove avesse intenzione di portarlo quando Evan lo strattonò violentemente, spingendolo spalle al muro, subito dopo aver svoltato l'angolo del lungo corridoio a L.
 
-Cosa vuoi?-
 
Gli ringhiò contro l’orologiaio sostenendo il suo sguardo e cercando di allontanarlo, mandando al diavolo ogni formalismo.
 
-Parlarti.-
 
Rispose secco l’uomo, cercando di tenergli ferme le braccia per evitare di essere colpito.
 
-Potevi farlo anche dove eravamo prima.-
 
Sbottò il giovane facendo scoppiare Evan a ridere, l’avvocato si avvicinò ancora di più al ragazzo spingendolo con la schiena al muro.
 
-Non mi è sembrato.-
 
Mormorò a denti stretti cercando lo sguardo del ragazzo che cercava ancora di sfuggirgli.
Calò il silenzio, si udiva solo il suono lontano e ovattato della musica e il lieve rumore della fiammella che bruciava nella lampada, posta a metà corridoio e che illuminava la zona circostante con una luce fioca ma sufficiente per permettere ai due di guardarsi in faccia e riconoscersi.
 
-Non è normale.-
 
Proruppe Ael. Evan lo guardò perplesso
 
-Cosa non è normale?-
 
Chiese l’uomo alzando il sopracciglio e facendo sbuffare il ragazzo, nervoso ed infastidito dalla domanda che evidentemente riteneva sciocca
 
-Hai il coraggio di chiederlo? Il tuo comportamento, Norwood. Non è normale!  Hai forse una fissazione per me? Lo sai che certe … certe inclinazioni potrebbero causarti parecchi disagi?  Pensa se qualcuno lo venisse a sapere!-
 
L’avvocato lo guardò sbigottito sperando di non aver capito dove il ragazzo volesse andare a parare.
 
-Quali inclinazioni?-
 
Chiese infine sconvolto. Ael lo fulminò, indeciso se prenderlo a sberle o astenersi e cominciando a chiedersi se l’altro fosse stupido come pochi, o semplicemente si divertisse a farlo spazientire.
 
-Le tue!-
 
Sbottò quasi urlando, per poi  ricordarsi che non era il caso di farsi sentire in quel luogo e in quelle circostanze.
 
-Ah … le mie inclinazioni.-
 
Borbottò Evan
 
- Perché? Non sono anche le tue?-
 
Concluse infine sorridendogli allegro, con la faccia di chi si sta prendendo gioco di te.
 
-Cos…-
 
Ael stava per perdere le staffe, urlandogli contro ma Evan gli premette una mano sulla bocca, impedendogli di replicare, e continuò
 
-Non sono nato ieri, ho chiesto di te da quando ti ho parlato la prima volta, non passi certo inosservato con i tuoi modi, e per quanto tu possa ostinarti a rinchiuderti in una bottega la gente si pone delle domande comunque. In fin dei conti il nome della tua famiglia è conosciuto, avete sempre partecipato alla vita mondana della città … tutti meno il figlio più piccolo, Ael Petrichor Torsten, schivo e solitario, mai in compagnia di una donna, a venticinque anni poi, la gente si pone qualche domanda …  e me la sono posta anche io. –
 
Ael impallidì, gli occhi sgranati e l’espressione sgomenta mentre l’altro toglieva la mano dalle sue labbra
 
-Hai intenzione di ricattarmi?-
 
Chiese il ragazzo bisbigliando, letteralmente terrorizzato ed angosciato.
 
-Cosa? Certo che no!-
 
Evan sorpreso e con l’aria leggermente offesa sospirò,  poi avvicinò la mano ai capelli del più piccolo ma questo si spostò, appiattendosi ulteriormente contro il muro
 
-Sono solo voci …-
 
Mormorò, spostando lo sguardo sul pavimento, che di colpo sembrava essere diventato molto interessante. Evan sorrise con affettuosa rassegnazione e gli si avvicinò, lentamente, come si fa quando si vuole avvicinare un gatto randagio, delicatamente gli accarezzò la testa, le dita percorsero la lunghezza dei suoi capelli morbidi per poi sfiorare le guance incredibilmente lisce per un ragazzo di venticinque anni ed andare a fermarsi sul mento piccolo e appuntito.
 
-Si … sono solo voci. Come quelle che affermano il mio interesse per il gentil sesso.–
 
Ael alzò la testa di colpo per guardarlo, sorpreso da una frase così inaspettata, ma non vide che i capelli del moro coprirgli le palpebre, vicinissimo, mentre le labbra dell’avvocato poggiavano sulle sue, gentili ma decise, in un bacio che volle assaporare fino all’ultimo istante, per poi scostarsi forse pentito per il suo gesto, mentre lo sguardo tornava duro, onde che si infrangono violente, che logorano e allontanano.
 
-Non ho intenzione di assecondarti.-
 
Quella affermazione non ammetteva repliche. Era un chiaro rifiuto da parte del ragazzo, che Evan non volle accettare
 
-E io non ho intenzione di lasciar perdere.-
 
Replicò serio
 
-Non sai nemmeno chi sono! Cosa mi piace, cosa detesto, che carattere ho! Potrei essere un pazzo e attentare alla tua vita!-
 
Questa volta Ael alzò la voce, senza preoccuparsi di poter essere sentito
 
-Cosa ti piace?-
 
La domanda prese il ragazzo contropiede
 
-Scusa?-
 
Chiede Ael convinto che l’altro si stesse prendendo davvero gioco di lui
 
-Cosa ti piace?-
 
Insistette il moro, Ael esitò, poi rispose
 
-Il miele … e la crema. Anche le fragole, quando sono ancora piccole.-
 
Evan sorrise
 
-E cosa detesti?-
 
-Le persone insistenti.-
 
Disse seccamente Ael, piantando i suoi occhi celesti in quelli d’ossidiana di Evan, che scoppiò a ridere
 
-Touché! Ascoltami Ael … nemmeno io mi spiego i motivi del mio atteggiamento. Come te ho sempre diffidato delle persone che di punto in bianco cominciavano a mostrare un interesse nei miei confronti. Ho sempre pensato che non fossero onesti e in buonafede, ma quando ti ho visto ho come avvertito qualcosa di familiare nel tuo sguardo. Si, hai cercato di prendermi a bastonate con una scopa, ma ho sentito qualcosa. E penso lo abbia avvertito anche tu, altrimenti non mi avresti mai fatto passare la notte in casa tua.-
 
Si interruppe, sospirò e indietreggiò di un paio di passi perdendo lo sguardo in un punto indefinito
 
-Comprendo perfettamente il tuo punto di vista e lo condivido. Ma…-
 
Adesso Evan era tornato a guardare gli occhi di Ael, immobile davanti a lui, ancora spalle al muro e con un’espressione indecifrabile in volto
 
-Dammi almeno la possibilità di fare la tua conoscenza, almeno di diventare tuo amico.-
 
il biondo staccò la schiena dalla parete e si sistemò la giacca, riavviandosi indietro i capelli mormorò qualcosa
 
-Non ho capito…-
 
Il tono di voce di Evan era basso, come per assecondare quello impercettibile di Ael
 
-Va bene. Ho detto che va bene.-
 
Bofonchiò il più giovane, l’avvocato lo abbracciò. Era raggiante, Ael temette quasi che stesse per baciarlo una seconda volta ed era pronto a respingerlo, ma l’uomo si limitò ad una pacca sulla spalla, prima di allontanarsi
 
-Solo amici!-
 
Precisò il ragazzo, ma Evan non ebbe il tempo di rispondere che una voce li congelò all’istante, facendo crollare le loro certezze come se fossero un castello di carte
 
-E voi due che state facendo qui, da soli?-
 
Valentine era accanto a loro, doveva esser sbucato dal corridoio che avevano percorso poco prima , i capelli scarmigliati, il cravattino allentato, abbracciata a lui una ragazza visibilmente imbarazzata, la flebile luce della lampada delineava appena  un viso ovale, incorniciato da folti e piccoli ricci, lineamenti di bambola.
 
-Discutevamo.-
 
Rispose prontamente Evan, voce fredda e testa alta, senza dubbi un ottimo attore, lanciò solo una rapida occhiata ad Ael. Se non fosse stato per la penombra che impediva di vedere con chiarezza, Valentine avrebbe letto il terrore sui suoi lineamenti, ma quest’ultimo rise e tirò una sonora pacca sulle spalle dell’amico
 
-Non litigate troppo voi due! Non vorrei assistere ad una scazzottata il giorno del mio compleanno, tanto meno a dividere i miei migliori amici prima che se le diano di santa ragione!-
 
Ael notò che la sua voce era traballante, alta, forse un po’ troppo allegra, immaginò che avesse alzato il gomito, per Evan invece, fu una conferma ogni qualvolta Valentine aprì bocca per parlare. Poi l’amico borbottò qualcosa, appoggiò la testa sulla spalla dell’avvocato e dopo avergli sussurrato qualcosa se ne andò, trascinandosi la ragazza, forse più ubriaca di lui.
 
-Non si smentisce mai.-
 
Rise Evan prima di girarsi in direzione del ragazzo, al quale prima aveva sfiorato la mano e l’aveva sentita tremare spaventosamente. Quando si voltò per rassicurarlo però, Ael era sparito.
 
 
Si dovette fermare per non svenire. Il petto gli doleva, così come le gambe. Era scappato senza indossare qualcosa di più pesante, scivolando lungo il corridoio per uscire da quella villa festante, ricolma di gioia e buoni propositi, di ricchezze e sogni. Di persone che si congratulavano le une con le altre, mentendo spudoratamente e seminando falsità. Perché è così l’alta borghesia, le continue lotte, dispute e strepiti per giungere alla nobiltà ed ottenere il pretesto per avere la puzza sotto il naso. Una giustificazione. E quando Valentine aveva sussurrato all’orecchio di Evan qualcosa che aveva fatto ridere quest’ultimo, si sentì quasi preso in causa, canzonato, ed era scappato. Ma non era scappato esclusivamente per quel motivo. Valentine spesso si divertiva a prenderlo in giro, era il suo modo di scherzare. Ma l’idea che potesse esser stato scoperto, e preso in giro per quello che era appena avvenuto, lo aveva spinto ad allontanarsi il più velocemente possibile da lì. Perché tutto sommato Ael, poteva davvero fidarsi? Poteva davvero essere libero di mostrare a qualcuno la sua natura? Aveva paura. Paura di essere solo un capriccio del momento per poi divenire uno zimbello, infangando il nome della sua famiglia, nome che luccicava come oro da tanto tempo, forse troppo, o peggio ancora essere scoperto e processato. Perché l’opinione comune era quella. Certe inclinazioni sono disgustose e malevole, quando alla fine, del male non ne fai a nessuno. Quando alla fine l’amore fa male comunque, che sia una donna ad amare un uomo, o che sia un uomo ad amarne uno. Forse doveva continuare sulla via che aveva intrapreso, chiudendosi nel suo laboratorio ed avere di tanto in tanto la visita di Valentine o quella di Evan. A portare avanti il nome di famiglia tutto sommato, c’era il fratello maggiore, nessuno si sarebbe preoccupato di lui.
Giunse a casa senza neanche rendersene conto, era da tempo che non tornava. Le luci del piano inferiore erano accese, riusciva a vedere delle ombre in salotto, doveva essere la madre in compagnia di Noel, il figliol prodigo. Non sapeva nemmeno lui il motivo di quell’allontanamento, fin da piccolo non era mai stato particolarmente affettuoso, ma aveva sempre voluto bene alla sua famiglia.
Solo che tutto si era complicato al sopraggiungere della malattia del padre,e qualcosa in lui si era incrinato. Così aveva deciso di andare al laboratorio la mattina presto per tornare ogni sera più tardi, fino ad arrivare a stabilirsi al piano superiore, dove spesso da piccolo aveva giocato col fratello, mentre il padre e il nonno lavoravano. Noel non aveva mai approvato la sua decisione, ma col tempo smise di insistere, nemmeno la madre lo aveva convinto a ritornare a casa, e per quel che riguardava il padre, aveva capito le sue ragioni e non aveva mai insistito.
Ael guardò a lungo la casa in cui era nato e cresciuto,poi prese un enorme respiro e tornò al suo solitario nido.
 

 

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Capitolo 5
*** ore 4.00 ***





4.
CAPITOLO QUARTO
 
 
 
Sfilò la chiave dalla tasca e si avvicinò alla porta del negozio, soprapensiero, vi si fermò davanti, immobile come se non la riconoscesse, poi scrollò le spalle e decise che sarebbe stato meglio entrare dalla porta sul retro, quella del laboratorio. Non diede peso alla sensazione di essere chiamato da qualcuno, ignorando la voce maschile che continuava a chiamare il suo nome, quasi non avvertendola. Camminava guardando a terra e non si accorse dell’ostacolo sul quale andò a sbattere una volta girato l’angolo, cadendo a terra. Le chiavi gli scivolarono di mano cadendo vicino ad un paio di lucide scarpe maschili, imprecò a denti stretti alzandosi di scatto, convinto di trovarsi davanti Evan, ma dovette ricredersi quando incrociò gli occhi del fratello, anche i suoi chiari, ma più dolci. Quasi caldi.
 
-Ael … -
 
La voce di Noël era affettuosa nel pronunciare quel nome. Il ragazzo si morse l’interno della guancia come era solito fare quando si sentiva a disagio, ma mantenne lo sguardo fisso in quello dell’uomo, guardandolo con aria estremamente colpevole. Non si aspettava di trovarlo lì e voleva che se ne andasse il più velocemente possibile.
 
-Qualcuno potrebbe scambiarti per un malintenzionato se ti apposti sotto le case altrui, specie a quest’ora.-
 
Sbottò Ael aggirandolo e andando ad aprire la porta del laboratorio, ignorandolo.
 
-E tu? Tu cosa facevi davanti a casa poco fa? Potevi avere almeno la decenza di salutare la tua famiglia.-
 
Morbida la voce di Noël, anche nel rimproverarlo. Calda, dal sapore di bei ricordi e infanzia agiata.
 
-Non volevo disturbare.-
 
Il contrasto della voce fredda di Ael, il rumore della serratura che scatta e il cigolio di una porta che s’apre.
 
-Ael, non dire sciocchezze. Da quando qualcuno dovrebbe disturbare in casa propria?-
 
Noël fece una pausa e sorrise, un sorriso carico di fiele.
 
-Dimenticavo…tu generalmente scappi da casa, mi chiedo perché mi ostini a farti questa domanda.-
 
-Hai intenzione di entrare o restartene lì a farmi una serenata? Nel caso la finestra della mia camera è poco più avanti.-
 
Noël venne zittito dalla rispostaccia di Ael, i due si scambiarono un’occhiata incendiaria, poi il ragazzo indicò la porta con un cenno del capo e il fratello decise di seguirlo.
 
 
 
 
Era da un po’ di tempo che non vedeva Noël, ad Ael sembrava fosse diventato più alto, i capelli biondi ma di una tonalità più scura di quelli del ragazzo erano perennemente raccolti in una cosa bassa, il torace ampio gli ricordava come da sempre il fratello fosse stato più imponente di lui, sia nei modi che nell’aspetto.
Si girò verso Noël vedendolo ad occhi sbarrati, la bocca leggermente aperta e l’aria stupita, era da quasi un anno che il fratello non entrava nel laboratorio e mai si sarebbe aspettato di trovarsi davanti ad una serie di orologi ben fatti, come quelli.
 
-Sono tutti tuoi lavori?-
 
Ael non rispose sapendo benissimo che il fratello non voleva davvero una risposta. La conosceva già. Il maggiore si avvicinò infine ad un elaborato orologio a pendolo, il quadrante perlaceo era circondato da miriadi di rose intagliate nel legno lucido e scuro, curato sin nei più piccoli ed insignificanti dettagli. Poteva quasi vedere le spine di quei fiori così realistici.
 
-Quello non dovevi vederlo.-
 
Disse secco Ael, tenendo lo sguardo fisso sul fratello che lo guardò perplesso.
 
-E perché mai?-
 
-Perché doveva essere il tuo regalo di nozze da parte mia.-
 
Borbottò l’orologiaio, riavviandosi i capelli e guardando altrove, sotto lo sguardo affettuoso di Noël che non si era mosso di un passo, rispettando le distanze dettate da Ael.
 
-Grazie, Ael. È stupendo… nostro padre ha fatto bene ad affidare il negozio a te.-
 
Il ragazzo si limitò a scrollare le spalle e calò nuovamente il silenzio, lo stesso che da anni ormai li divideva. Ael stava per rispondergli che si era fatto tardi e che sarebbe stato il caso che lui andasse, ma Noël parlò prima di lui.
 
-A proposito di nozze… credo che ormai tu sia abbastanza maturo per prendere in considerazione tale eventualità, non trovi?-
 
Ael si sentì morire. Più volte aveva pensato di dire al fratello il perché non si era mai interessato alle donne, ma quando era stato sul punto di farlo le parole gli morivano in gola, e aveva sempre continuato a rimandare. Come si era ridotto così?  Una volta non aveva problemi a parlare con lui, di qualsiasi cosa, ma poi tutto era crollato. Noël era il più grande, a lui spettavano tutti i benefici, il patrimonio, i complimenti…  mentre Ael era stato fortunato se il padre non aveva insistito a farlo diventar prete.
Glielo aveva proposto un pomeriggio, come si propone una passeggiata in campagna, Ael aveva risposto con un semplice “no” e tutto era stato lasciato cadere. Come se non fosse mai successo. Ma sotto sotto riusciva a spiegarsi il perché di quel distacco: invidiava il fratello, il primogenito. Era sempre stato più bello, più alto, più fortunato, più intelligente, sano e forte. Mentre Ael fin da piccolo era sempre stato gracile e sgraziato, aveva solo una buona mano per quel che riguardava l’arte, per il resto poteva considerarsi mediocre.
Il ragazzo gli fece segno di seguirlo nel suo appartamento, nel salire le scale sperò che si rompessero sotto i suoi piedi, lasciandolo sprofondare o almeno facendo in modo che si facesse male, tanto per avere un motivo per cambiare discorso.
 
L’orologiaio si mise a sedere sul letto, dando le spalle alla finestra ed indicando una poltrona davanti a lui con un gesto vago della mano, Noël si sedette, mani incrociate sul ventre, gambe accavallate e sguardo attento. Ael notò quanto in quella posizione ricordasse loro padre, e deglutì a fatica.
 
-Noël … -
 
Biascicò infine. Era momento. Era il momento di dire al fratello che non avrebbe mai preso moglie e di confessare la sua omosessualità.  Le mani cominciarono a sudargli e sentì la fredda morsa della paura cingergli le spalle, e piantarsi nello stomaco, impedendogli di respirare, non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi e vedere la sua espressione mutare. Il volto sereno del fratello, che sempre gli aveva voluto bene, sarebbe diventata una smorfia di rabbia e disgusto e solo un miracolo lo avrebbe fatto desistere dall’idea di malmenarlo, o peggio ancora, riferire tutto al padre.
 
-Noël … -
 
Disse ancora, adesso a testa alta, gli occhi in quelli del fratello, calmi e caldi, pazienti, amorevoli
 
-Non sono di mio gusto.-
 
Borbottò. Dal silenzio che seguì pensò che Noël non lo avesse sentito, anche l’espressione non era mutata, ma dovette ricredersi
 
-In che senso … “non sono di tuo gusto?”-
 
-Nel senso che non sono il mio tipo.-
 
Ribadì il ragazzo, il più grande sospirò, sorrise, un sorriso sghembo e incredulo.
 
-E di grazia, Ael, quale sarebbe il tuo tipo?-
 
A quella domanda il viso di Evan si materializzò nella mente di Ael, il ricordo di quella sera divenne vivido, anche troppo, il ragazzo scrollò la testa lasciandola poi ciondolare bassa. Quando sentì il fratello alzarsi dalla poltrona e camminare verso di lui, si strinse nelle spalle, di colpo sentì caldo, le guance bruciavano così come le lacrime che cominciavano a farsi strada, scivolando sul mento, era pronto ad incassare insulti e botte, ma Noël si fermò semplicemente davanti a lui, in silenzio, poi nello stesso modo scese le scale che dall’appartamento portavano al negozio ed uscì.
Non aveva detto niente, ma non era riuscito a vedere l’espressione del fratello. Non aveva visto i suoi occhi riempirsi d’odio, anche se lo aveva immaginato. Ma una volta tanto, la mancata certezza lo rendeva sereno.
 
 
 
 
Quella mattina Evan era di ottimo umore, uscì di casa in anticipo e ripensò alla sera precedente con un enorme sorriso stampato in volto, gli sembrava ancora di avvertire il tepore del polso di Ael nella sua mano, percepiva ancora la sensazione del corpo del più piccolo stretto tra lui e il muro, il suo sguardo tagliente e orgoglioso mutare in uno sguardo sorpreso e timoroso. E poi quel bacio, il sapore delle sue labbra, incredibilmente morbide.
Quando vide in lontananza l’insegna del negozio di orologi, pensò di fermarsi per salutare Ael, magari convincerlo a fare colazione insieme, provò ad aprire la porta del negozio che ovviamente, a quell’ora presto del mattino, era accuratamente chiusa a chiave. Decise quindi di chiamarlo, una delle finestre della sua stanza dava sulla strada e non avrebbe avuto difficoltà a sentirlo, non ebbe neanche il tempo di raccogliere il fiato che vide due lunghe braccia bianche aprire la finestra. Scorse il ragazzo affacciarsi e sospirare, i capelli scarmigliati, l’aria assonnata. L’avvocato sorrise, e sentì uno strano fremito scuotergli il petto.
 
-Buongiorno! –
 
Si decise ad esclamare Evan, tenendo lo sguardo fisso sul viso imbronciato del ragazzo.
Vide Ael sussultare e sgranare gli occhi, giurò quasi di averlo sentito imprecare, dopo un breve attimo di stordimento l’altro guardò verso la strada, Evan era lì che gli sorrideva, “come un ebete” pensò il ragazzo alzando un sopracciglio e appoggiando i gomiti al davanzale
 
-Cosa vuoi? Lo sai che sei molesto?-
 
Chiese infine, fingendo di essere seccato. Aveva ripensato tutta la notte a quello che gli aveva detto Evan, ricordava perfettamente quanto il cuore gli battesse in quel momento e con quale intensità dentro di lui, avesse sperato in un altro suo bacio. Per quanto poi quel pensiero potesse farlo infuriare e spaventare, non poteva negare di aver pensato proprio ad Evan quando aveva detto al fratello di non avere intenzione di trovare una moglie. Tutto ciò però lo terrorizzava, la velocità con la quale si era legato a quell’uomo, la capacita di quest’ultimo di arrivare alla sua anima così facilmente. Aveva paura di Evan e aveva paura di quello che stava cominciando a provare per lui, la velocità surreale con la quale tutto stava accadendo.
 
-Cosa ne pensa la Signoria Vostra, di fare colazione con un umile avvocato come me?-
 
La voce dell’uomo lo riportò alla realtà, non rispose limitandosi a guardarlo poi improvvisamente chiuse la finestra senza dire una parola, lasciando Evan interdetto ed amareggiato. Stava per andarsene quando vide sbucare Ael dalla porta del negozio, trafelato e stranamente sorridente.
 
-Dove mi porti?-
 
Chiese il ragazzo con tono pacato
 
-A mangiare i dolci più buoni di questa terra!-
 
Rispose Evan scoppiando a ridere di una risata bassa e calda, mentre guardava affettuosamente l’orologiaio camminare accanto a lui. Gli scompigliò i capelli morbidi ed ebbe la tentazione di prenderlo per mano. La sfiorò appena, quando Ael la nascose  nella tasca dei pantaloni fingendo nonchalance.
 
 
 
 
 
-Ael, vuoi che ti mostri lo studio in cui lavoro?-
 
A quella domanda gli occhi del ragazzo si illuminarono. Effettivamente era curioso di vedere dove passasse gran parte del suo tempo l’avvocato, così accettò senza pensarci due volte.
Rimase a bocca aperta quando vide quanto raffinato fosse l’arredamento del suo ufficio, le pareti coperte da pannelli di legno lucido e scuro e dettagliate stampe su cui era raffigurata la pianta della città.  Davanti a sé, dietro una larga scrivania in mogano, un’imponente libreria sovrastava la stanza, lunga ed alta quanto lo era la parete e ricolma di vecchi tomi, finemente rilegati. Rimase immobile sulla soglia mentre Evan gli passava accanto con aria soddisfatta andando ad appoggiarsi alla sua scrivania, coperta  da scartoffie e documenti. Sorrise guardando il ragazzo entrare a piccoli passi, studiare con attenzione l’ambiente circostante e poi corrugare la fronte una volta accortosi che all’interno della stanza non erano presenti orologi, stava per contestare quando Evan lo interruppe.
 
-La porta accanto è quella dello studio di Valentine.-
 
Ael sembrò dimenticarsi della piccola protesta che stava per scatenare e sempre guardandosi intorno sorrise, l’aria persa ma serena.
 
-E ti lascia lavorare in pace?-
 
Disse avvicinandosi all’avvocato e appoggiando il cappotto sulla sedia della scrivania,sempre sorridendo. Evan scoppiò a ridere e scompigliò nuovamente i capelli al ragazzo che questa volta reagì afferrandogli il polso. I due rimasero in silenzio, i loro occhi parlavano già a sufficienza, il modo in cui si guardarono fu inequivocabile ed Evan fece la prima mossa afferrando i fianchi del ragazzo e sbattendolo contro la libreria poco distante. Ael tentò di spingerlo via ma l’altro non gli diede neanche il tempo di parlare andando a premere le sue labbra su quelle del più piccolo, mordendole appena e baciandole avidamente. Ael si sentì premere sempre di più contro la libreria e dopo aver opposto una iniziale resistenza si lasciò andare alle attenzioni di Evan, passandogli le braccia intorno al collo e spingendo l’uomo verso di sé. Come se quel bacio non fosse abbastanza.
Evan lasciò vagare le mani sul petto del ragazzo staccando le labbra dalle sue, permettendogli di respirare, si ritrovò a perdersi in quel mare che erano i suoi occhi, così profondi da togliere il respiro, studiò il viso imbarazzato di Ael, le labbra lucide e rosse, ansante. Sentiva le gambe del più piccolo tremare e sapeva che se lo avesse lasciato andare, probabilmente non sarebbe riuscito a reggersi in piedi. La belva feroce che era sempre stato costretto ad affrontare, adesso tremava  sotto di lui, ed era bastato solo un bacio. Sorrise Evan, andando a percorrere il profilo della mascella con una scia di piccoli baci, puntando al collo che adesso il ragazzo aveva messo in mostra. Stava per morderlo dolcemente quando sentì dei passi alle sue spalle. Si allontanò di scatto lasciando Ael spaesato ed interdetto dietro di sé quando Valentine piombò nell’ufficio.
 
-Sei già in ufficio? Così presto!-
 
La voce dell’amico gli morì in gola, così come gli si spense il sorriso quando vide dietro le spalle di Evan, Ael paonazzo in viso e con gli occhi lucidi.
 
-Cosa succede?-
 
Chiese Valentine guardando Evan che aveva distolto lo sguardo, bofonchiando un poco convincente “niente”. Non ebbero il tempo di dire altro. Ael senza dire una parola trovò la forza di muovere le gambe e corse fuori dall’ufficio senza rivolgere la parola a nessuno dei due uomini, che adesso si guardavano visibilmente imbarazzati.
 
-Abbiamo discusso, perdona questa situazione sgradevole…-
 
Sospirò infine Evan andando alla scrivania e dando le spalle all’amico che lo guardava con sospetto.
 
-Evan … cosa c’è tra voi due?-
 
La domanda arrivò come una pugnalata in pieno petto.
 
-Sto provando a costruire un’amicizia, ma quel ragazzo è davvero difficile.-
 
Borbottò l’avvocato fingendo di sistemare alcuni fascicoli, notò solo dopo il cappotto di Ael sulla sua sedia e stava per trovare una scusa per andare a riconsegnarglielo quando sentì il respiro del suo collega sulla nuca.
 
-Lo chiederò una seconda volta, questa volta però voglio una risposta sincera: Cosa c’è tra te e Ael?-
 
Evan riuscì a voltarsi trovando solo un paio di centimetri di distanza tra lui e Valentine, che lo guardava con aria irata, le mani sulla sua scrivania come un’imposizione, un vincolo che bloccava l’uomo tra lui e quella superficie di legno.
 
-Valentine, spostati. Ti ho già detto che non c’è niente.-
 
Evan cercò di respingere l’amico che però non accennava a spostarsi di un passo, spingendolo al contrario sempre di più contro la scrivania. Il moro arrivò ad urtarla facendo rovesciare la boccetta d’inchiostro sulla superficie che cominciò a gocciolare a terra. Valentine intanto non gli distoglieva lo sguardo di dosso.
 
-Valentine sto perdendo la pazienza.-
 
Stava per alzare la voce Evan quando l’altro lo interruppe.
 
-Non lo accetto.-
 
L’uomo rimase a guardare l’amico con aria perplessa.
 
-Non lo accetto.-
 
Ripeté Valentine, le labbra a pochi millimetri da quelle di Evan che adesso lo respingeva con più forza senza riuscirci. Stava per intimargli qualcosa quando l’amico si spinse ulteriormente contro di lui, baciandolo e afferrandogli i capelli, premendo ulteriormente le loro labbra.
Quando Valentine si spostò continuò a tenere serrata la stretta sui capelli del collega che lo guardava con occhi sbarrati. Poggiò la fronte sulla spalla di Evan e la sua voce uscì spezzata.
 
-Tu non puoi.-
 
Mormorò per poi continuare
 
-Ho fatto di tutto per starti accanto. Ho sempre aspettato che tu ti accorgessi di me, nessuno avrebbe sospettato di noi due, ti rendi conto del guaio in cui ti stai cacciando? Ti rendi conto di quale sia la fama di Ael? Da quante bocche io abbia sentito fuoriuscire il sospetto e l’indignazione riguardo la sua vita privata? Al fatto che non abbia moglie ? Sul fatto che non sia mai stato visto con una donna? A proteggere il suo nome ci pensa la sua famiglia, ma chi proteggerà il tuo dalla pubblica infamia? Rispondimi! –
 
Aveva alzato la voce così come la testa, andando ad incrociare gli occhi di Evan, due pozzi scuri e insondabili.
 
-Valentine, lasciami andare e fingerò che non sia successo niente.-
 
Disse in tono pacato Evan mentre gentilmente cercava di allontanare l’amico, non lo avrebbe perdonato facilmente, ma non gli avrebbe neanche fatto male usando violenza su di lui. Valentine sembrò assecondare i gesti dell’amico, lasciandosi allontanare a testa bassa, lo sguardo fisso sul pavimento.
 
-Non ti lascio a lui.-
 
Disse poi, afferrando Evan per le spalle e spingendolo a terra con forza, non curandosi del fatto che potesse farsi male e andandosi a sedere sul suo bacino, spogliandolo della camicia con gesti veloci e frenetici non curante delle proteste dall’altro, incapace di sovrastarlo. Non lo credeva così forte. Continuò a ribellarsi ma era sul punto di cedere quando d’improvviso si trovò libero dal peso di Valentine, che intanto era rotolato a terra sbattendo rovinosamente contro la scrivania.
Ael era in piedi tra loro due, furente ed ansimante, i pugni stretti così forte da avere le nocche bianche e gli occhi puntati contro Valentine. Evan tentò di afferrare il polso del ragazzo intuendo le sue intenzioni, ma non fu abbastanza svelto e questi si avventò contro l’uomo colpendolo con un pugno in pieno volto. Stava per sferrarne un altro, questa volta quello che gli avrebbe spaccato il setto nasale, quando Evan afferrò Ael per le braccia e allontanandolo da Valentine.
 
-Ael sta calmo. Smettila.-
 
La voce di Evan era calma e controllata contro l’orecchio del ragazzo che continuava a dimenarsi, urlando minacce contro Valentine, che intanto si alzava da terra, leggermente barcollante e sorpreso dalla reazione dell’orologiaio. Ael riuscì a liberarsi dalla presa dell’uomo ma non si avventò una seconda volta contro il collega, questa volta si voltò verso Evan, scuro in volto.
 
-È così?-
 
Chiese Ael, la collera nei suoi occhi, le labbra strette.
 
-Cosa vuoi dire?-
 
Evan tentò di accarezzare il volto del ragazzo che lo scansò, guardandolo disgustato.
 
-No, Ael. Lui non sta con me.-
 
Valentine attirò la attenzione di entrambi.
 
-Ha scelto te.-
 
Concluse senza alzare lo sguardo da terra e  uscendo a testa bassa dalla stanza. Ael lo seguì con lo sguardo, pronto a reagire nel caso l’altro avesse detto o fatto qualsiasi cosa,ma  non riuscì a dire altro. Le lacrime gli inondarono il viso improvvisamente, mentre le spalle cominciarono ad essere scosse da violenti singulti. Evan lo strinse a sé sentendo le lacrime del ragazzo bagnargli il petto, accarezzandogli dolcemente i capelli e cercando di farlo calmare.
 
 
 
 
-Come mai sei tornato indietro?-
 
La voce dell’uomo lo fece sobbalzare. Ael era appollaiato sullo sgabello intento a lavorare, a quella domanda posò l’orologio che aveva tra le mani e si girò verso Evan, seduto compostamente sulla poltrona accanto alla finestra
 
-Avevo dimenticato la giacca, e sono tornato a prenderla, giacca che si trova ancora sulla sedia del tuo ufficio …-
 
Detto ciò, tornò al suo lavoro ignorando le altre parole dell’avvocato, fino a quando questi, esasperato, non gli si avvicinò prendendogli il mento tra le dita e costringendo a guardarlo.
 
-Cosa devo fare per farti capire che tra me e Valentine non c’è niente, mai c’è stato e mai ci sarà?-
 
Chiese esasperato Evan, chinandosi su di lui e cercando il suo sguardo sfuggente, Ael sospirò continuando a tenere lo sguardo fisso sul pavimento, in cerca delle parole adatte.
 
-Perché no?-
 
Chiese infine il ragazzo, guardando l’uomo negli occhi
 
-Perché no? Che male c’è? Anzi, forse sarebbe meglio che tu cedessi alla sua corte, no? Nessuno sospetterebbe di voi due.-
 
Evan a quella affermazione sgranò gli occhi, temendo che il ragazzo avesse sentito le parole di Valentine.
 
-Non mi interessa sporcare il mio nome.-
 
Mormorò carezzando il viso del ragazzo, lentamente, con dolcezza
 
-A me si. A me interessa invece.-
 
Sbottò Ael allontanandogli la mano e scoccandogli un’occhiataccia e continuando ad inveire sull’uomo
 
-A me interessa non sporcare il mio nome, e se ho reagito in quel modo nel tuo studio, non è stato solo perché mi sono trovato davanti ad una ingiustizia, ma perché stava mettendo mani su di te, e la cosa mi ha fatto davvero imbestialire! Certo non è una cosa normale per degli amici, non trovi? Perciò forse per te sarebbe meglio cedere a lui e lasciare in pace me.-
 
Lo disse urlando ed Evan non riuscì a trattenersi. Un rumore secco, aspro, la guancia di Ael che brucia e la mano di Evan che duole, non voleva faro ma si era mosso d’impulso, aveva tirato uno schiaffo al ragazzo e adesso lui lo guardava fisso negli occhi con aria di sfida, furioso.
 
-Fuori di qui. Immediatamente.-
 
Sibilò Ael senza muoversi, continuando a sostenere lo sguardo
 
-Mi dispiace …-
 
Mormorò Evan cercando di avvicinarsi e spingendo il ragazzo a balzare giù dallo sgabello, indietreggiando spaventato
 
-Se non esci di tua spontanea volontà adesso, ti sbatto fuori io.-
 
A quelle parole Evan uscì dal negozio senza fiatare e maledicendosi per la sua stupidità.
 



 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***






EPILOGO
 

 
 
Una volta rimasto solo in negozio Ael vi si era chiuso dentro, aveva tirato le tende oscurando le due grandi vetrine ed era corso al piano superiore per poi  gettarsi sul letto, con i denti che tremavano per la rabbia e scoppiando in un pianto nervoso. Si rigirò nel letto stendendosi sulla schiena e tornando con la mente alle parole dette ad Evan. Non le meritava, sapeva benissimo di aver calcato un po’ troppo la mano, ma sapeva benissimo che non avrebbe potuto fare altrimenti. Le cose in quegli ultimi tempi gli erano sfuggite di mano, avevano entrambi capito che non poteva essere una semplice amicizia, ma la cosa avrebbe provocato gravi danni ad entrambi, specialmente ad Evan; così quando aveva scoperto dei sentimenti di Valentine, Ael aveva davvero pensato che sarebbe stato meglio così, loro due insieme … nessuno avrebbe sospettato. Per quello che riguardava i suoi sentimenti aveva già trovato la soluzione, li avrebbe soffocati in un modo o nell’altro come era solito fare e prima o poi tutto sarebbe tornato come prima. Era quindi riuscito nel suo intento con quelle parole, lo aveva allontanato.
Sentì le palpebre farsi pesanti, responsabili la stanchezza e le lacrime e si lasciò cullare dolcemente dalle accoglienti braccia di Morfeo. Si sarebbe lasciato bendare gli occhi da una notte artificiale e vi sarebbe rimasto a lungo, svanendo nei suoi sogni.
 
 
 
Si risvegliò più stanco e nervoso di prima. Qualcosa non andava, era una sensazione che gli martellava testa e petto ed urlava, gli urlava nelle orecchie di stare attento, che qualcosa di doloroso da lì a breve gli sarebbe accaduto. Si mise a sedere sul letto lasciando ciondolare la testa, cercando di raccogliere i pensieri e ragionare sul da farsi. Non poteva dire di conoscerlo bene, ma per quel poco che sapeva, era certo che da lì a breve Evan sarebbe tornato, per parlare, per insultarlo, per rassicurarlo, ma sarebbe tornato ed Ael non aveva intenzione di farsi trovare. Sarebbe tornato a casa per qualche giorno, avrebbe sepolto l’orgoglio talmente in basso da farlo diventare un vago ricordo e avrebbe evitato Evan nel modo più efficace: sparendo.
Ma tornare sui suoi passi fu la cosa più difficile. Fu accolto con affetto da tutti in casa e quella forse fu la cosa più dolorosa, poteva per certo sentirsi un bastardo adesso, quando la madre lo aveva abbracciato cingendogli il collo, felice nonostante il viso di chi avesse pianto tanto negli ultimi giorni.
 Ael si guardò intorno in attesa di vedere il fratello avvicinarsi incollerito e sputargli addosso tutto il veleno di cui era capace, per poi cacciarlo di casa. Una casa che non meritava.  Noël entrò nel salone principale appena ricevuta la notizia, il viso era cereo ma nonostante tutto si poteva scorgere un accenno di sorriso, la barba di pochi giorni e i capelli arruffati. Sembra essere nel suo mondo, con lo sguardo vagamente perso e quella strana incertezza aleggiargli sul viso. Lo salutò con un  abbraccio come se non avessero mai discusso e Noël gli diede delicata pacca sulla spalla invitandolo a seguirlo nella biblioteca.
 
 
 
 
-Stavo per venire da te al negozio, devo dirti una cosa importante … -
 
Disse sorridendo nervosamente il maggiore, gesticolava, ed Ael era certo che non avrebbe apprezzato il discorso. Seguì con lo sguardo Noël che si era avvicinato al grande camino della stanza, per poi poggiare la mano su di una vecchia poltrona rivestita di raso rosso.
 
-Ael, tu lo sapevi. Prima o poi… -
 
-Hai intenzione di dirlo ai nostri genitori?-
 
Lo interruppe bruscamente il ragazzo, lanciandogli un’occhiataccia; il fratello lo guardò con aria disorientata, le labbra leggermente aperte, poi scrollò la testa in segno di diniego e gli indicò la poltrona davanti alla sua. Ael fu colto dal timore che il problema di cui doveva parlargli il fratello riguardasse loro padre, si sedette in silenzio senza scollare il suo sguardo da quello di Noël, stanco e demoralizzato come mai lo aveva visto.
 
-Come sta nostro padre?-
 
Chiese il ragazzo ad occhi sbarrati, sull’orlo del baratro. Quella domanda fece sussultare il fratello che con mani tremanti stava versando in un basso bicchiere di cristallo, un liquido ambrato, invitante, per poi porgerlo ad Ael senza il coraggio di guardarlo in faccia, senza guardare in quegli occhi tanto limpidi e dolorosamente espressivi.
 
-Bevine un po’ …-
 
Gli suggerì, prima di trovare le parole adatte per proseguire. Ael obbedì, sapeva che probabilmente ne avrebbe avuto bisogno.
 
-Ael, nostro padre è tanto malato, tu lo sai … ho parlato col medico stamane.-
 
Fece una pausa, si passò una mano sul volto come per strappare via l’angoscia ed il dolore dipinti nel suo sguardo, poi continuò
 
-Non gli restano che pochi giorni.-
 
 
Per un momento Ael non sentì nulla. non pensò nulla, non provò nulla.
Poi la consapevolezza si fece spazio nella sua mente e nel suo cuore e le parole del fratello franarono su di lui come una valanga. Alzò lo sguardo verso Noël che lo guardava attento, pronto a correre verso di lui al primo accenno di lacrime.
 
-Quindi adesso che dovremmo fare?-
 
La voce del ragazzo era spezzata, l’altro si limitò a sedersi in modo scomposto sulla poltrona, indice e pollice sugli occhi forse per nascondere le sua lacrime in assenza di quelle di Ael.
 
-Non lo so … ma forse dovresti parlargli.-
 
Il più piccolo annuì, poi alzandosi dalla poltrona porse il bicchiere quasi pieno al fratello, incrociando i suoi occhi.
 
-Tieni. Forse ne hai più bisogno tu.-
 
 
 
La penombra avvolgeva la stanza, una sbiadita luce opalescente illuminava i contorni dei mobili e del letto, compreso il profilo regolare dell’uomo assopito. Ael fu travolto dai ricordi, di quando da piccolo entrava timoroso nella camera del padre, come se gli fosse proibito, come se fosse una stanza sacra, ed effettivamente erano rare le volte in cui gli era concesso, e il più delle volte il motivo era sempre il solito, entrare in camera dei genitori voleva dire ricevere una bella strigliata per qualche marachella scoperta. Adesso a distanza di quasi vent’anni gli sembrava di essere tornato bambino, ed entrava in quella camera con un senso di angoscia e insensata paura, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato, ed effettivamente questi sentimenti non erano del tutto fuori luogo: Ael se ne era andato da casa da molto tempo senza un apparente motivo, ma il motivo c’era, era solo particolarmente stupido … o almeno la sua famiglia lo avrebbe considerato tale, per questo non ne aveva mai fatto parola con loro, limitandosi ad andarsene. Ma andarsene non equivale al trascurare la famiglia, cosa che lui aveva fatto. Andarsene da casa non prevede il dimenticare la famiglia, evitando di andare a trovarla ogni tanto, specie se uno dei genitori è malato. Come spiegare ai genitori che la loro presenza, compresa quella del fratello lo rendeva inadeguato così tanto da rendere la loro esistenza opprimente? In qualsiasi modo invadevano i suoi spazi, non si era mai fermato a pensare che non era la sua famiglia ad invadere i suoi spazi ma che semplicemente i suoi spazi erano esageratamente vasti. Così era partito con il ritagliarsi delle camere tutte per se, in cui lasciava entrare di rado anche il personale – quando lui era all’interno perlomeno- al trasferirsi definitivamente quando la madre si era preoccupata e aveva cominciato a cercare un dialogo, nel modo dolce con cui solo lei riusciva a fare e fino a quando il fratello non si era preoccupato a modo suo. In modo forse un po’ troppo rude per Ael, che trovatosi alle strette era scappato. E adesso lo stava facendo di nuovo. Se ne rese conto, non era stupido. Era tornato nel posto dal quale era scappato per fuggire da un’altra persona. Scappava da un amore per poi fuggirne un altro.  E adesso si ritrovava a fissare il viso vecchio e stanco del padre, che nonostante l’età e la malattia manteneva quell’aria austera che spesso lo aveva intimorito. Guardare il padre per lui, era sempre stato come guardarsi in uno specchio e vedere la propria immagine nel futuro. Si somigliavano davvero tanto, ed era a conoscenza anche di  questo.
 
-Padre ... –
 
 
Fu poco più di un sussurro.  Ael si sedette sul bordo del letto non staccando gli occhi dal viso malato e pallido dell’uomo. I capelli ancora folti erano così bianchi da ricordare la neve appena caduta, le sottili rughe ai lati degli occhi e agli angoli della bocca erano appena accennate. Si sentì nuovamente a casa, si ricordava quando da piccolo si intrufolava nel letto dei genitori, nel tentativo di non svegliare il padre che altrimenti si sarebbe arrabbiato, la madre sollevava la coperta e lui da sotto sbirciava il volto dei suoi genitori, chiedendosi se da grande sarebbe diventato come loro, sotto sotto sperandolo. Era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse degli occhi del padre finalmente aperti e del fremito che aveva scosso le dita della sua mano destra.
 
-Sto sognando o quello che vedo è proprio Ael in procinto di piangere? Quale nostalgia…-
 
La voce dell’uomo era roca e affaticata
 
Il ragazzo sussultò e guardò con occhi sbarrati il padre, che ricambiò sorridendogli
 
-Cosa è quella faccia? Mi credevi già morto?-
 
Rise debolmente l’uomo
 
-Padre …-
 
E questa volta la aveva sentita anche lui la sua voce, rotta dai singhiozzi. Si era messo a piangere senza neanche accorgersene, come quando era poco più di un bambino, come aveva sempre fatto, solo che adesso lo nascondeva.  L’uomo sorrise cercando la mano del ragazzo che non perse tempo a stringerla.
 
-Ael, va tutto bene.-
 
Lo rassicurò  ricambiando la stretta come meglio poteva.
 
-No che non va bene!-
 
Sbottò il ragazzo facendo sospirare il padre.
 
-Va tutto bene, tu sei qui  e vorrei parlarti ancora un po’, come facevamo una volta.-
 
Concluse andando a guardare con i suoi occhi gelidi, quelli di Ael. Gli stessi occhi.
 
 
Non ci fu nessun “ti voglio bene”, non ne avevano bisogno. Nessun urlo straziato, nessuna accusa, nessuna commiserazione. Ci fu semplicemente un padre che invitò il figlio a stendersi al suo fianco, come faceva quando era piccolo, ci furono padre e figlio che dopo una lunga conversazione di addormentarono uno accanto all’altro. E quando Ael si svegliò, vide sul viso del padre la serenità, il profilo delineato da una sottile striscia di luce bianca, le ciglia adagiate sugli zigomi e gli occhi schiusi in un sogno da cui non si sarebbe mai svegliato.
 
 
 
 
 
Evan era tornato al negozio a dir poco furioso. Aveva riflettuto sugli atteggiamenti di Ael e si era reso conto di esser stato trattato come un pezzente, lo aveva umiliato gettando al vento qualsiasi tentativo di costruire un dialogo, esasperandolo e quando aveva perso la pazienza, Ael era riuscito a farlo sentire in colpa.
Quando vide il biglietto bussò comunque alla porta. Poteva scrivere di non essere reperibile tutte le volte che voleva, ma ci avrebbe messo la mano sul fuoco: Ael era all’interno del negozio. Ci volle un po’ prima che si calmasse e capisse che effettivamente il ragazzo non potesse trovarsi lì. Pensò di andare a casa di Ael ma si ricredette, niente gli dava la certezza di trovarlo lì. Quando il giorno dopo passò davanti al negozio per andare al lavoro, non fece caso al cartello su cui a grandi lettere era scritto: Chiuso per lutto. Tanto meno fece caso alla faccia di Valentine quando entrò nel suo ufficio. Effettivamente, da quando gli era saltato addosso, non lo aveva più degnato di attenzione.
 
-Evan. –
 
L’avvocato ignorò la voce dell’amico e si mise a frugare tra le sue carte, sedendosi alla scrivania.
 
-Come sta Ael? Immagino sia distrutto.-
 
Evan sospirò e fulminò il collega con uno sguardo.
 
-Di cosa stai parlando? Teoricamente te le ha suonate. Dovresti essere tu quello distrutto.-
 
Valentine rimase in silenzio per qualche secondo. Aveva capito che l’amico non era venuto a conoscenza della morte del padre del ragazzo, così dopo aver pesato bene alle parole con le quali spiegarglielo, gli si avvicinò.
 
-Evan, il padre di Ael è morto due giorni fa, il funerale dovrebbe essere oggi.-
 
L’uomo ci mise un po’ a mettere a fuoco la situazione, poi sentì un tuffo al cuore e si alzò dalla sedia così velocemente da rovesciarla, uno sguardo al collega ed era già fuori dal suo studio.
Corse così velocemente che pensò quasi che i suoi polmoni stessero per scoppiare, bruciavano quasi quanto la gola riarsa. Una volta arrivato davanti alla chiesa e trovandola vuota, capì di essere arrivato troppo tardi. Si dovette ricredere però quando passando accanto al cimitero, quasi per scrupolo, vide tra la folla vestita di nero un giovane uomo, spaventosamente magro e con i capelli dello stesso colore dell’avorio, proprio come quelli di Ael.
Capì subito chi fosse, e con calma e passo felpato si avvicinò al gruppo di persone riunite davanti alla lapide e il terriccio fresco. Più si avvicinava e più aveva la tentazione di correre verso il ragazzo, afferrarlo per un braccio e attirarlo a sé, coprendogli gli occhi con una mano e appoggiandogli la testa al suo petto; rassicurarlo come meglio poteva, dirgli che non lo avrebbe mai abbandonato, perché la perdita di un padre sa essere devastante e la perdita di un’altra persona, cara o meno, sarebbe stata di troppo. Invece non ebbe il coraggio di avvicinarsi. Lo aspettò poco più indietro, in attesa che la celebrazione finisse e che tutti se ne fossero andati, meno lui. Sapeva che lui sarebbe andato via per ultimo. Così vide la folla diradarsi poco a poco, compresa la madre di Ael, sorretta dal fratello e dalla sua futura sposina, disperata ed emaciata. Non si avvicinò neanche quando Ael rimase da solo, gli diede il tempo di liberarsi, di piangere –come effettivamente fece- disperarsi, sfogarsi, perché sarebbe stato ingiusto privarlo di questo bisogno come era ingiusto spiarlo, perché sapeva che quel ragazzino testardo, quel giovane uomo, non si sarebbe mai fatto vedere da nessuno così. Neanche da lui.
Evan pensava che una volta accortosi di lui, Ael si sarebbe infuriato, invece il ragazzo si limitò a guardarlo, uno sguardo stanco ma mai spento, sembrava quasi come se fosse a conoscenza della sua presenza e che semplicemente avesse finto di non accorgersene, per poi avvicinarsi.
Gli cinse la vita con un abbraccio e appoggiò la fronte sul suo petto.
 
-Tu non te ne andrai, vero?-
 
La voce di Ael gli giunse ovattata, flebile
 
-No.-
 
Rispose semplicemente Evan, accarezzandogli i capelli con una mano mentre con l’altro braccio lo stringeva a sé ancora di più.
 
-Io non me ne andrò a meno che non sia tu a chiederlo.-
 

 
 
 



 NDA:
E siamo giunti così alla fine! (ancora una volta, per qualcuno)
Ringrazio del tempo dedicato a questa storia, spero che sia stata apprezzata sia da chi l'aveva già letta in passato, sia da chi l'ha letta per la prima volta adesso, inutile dirvi che sto già lavorando al seguito X°D spero di aver sistemato alcuni erroracci madornali, spesso leggendo la prima stesura mi sono chiesta se davvero l'avessi scritta io >_< detto questo vi saluto, grazie ancora per il vostro tempo!

Gene!

 
 
 
 
 

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