Weird Fishes

di beagle26
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Everything in its right place ***
Capitolo 3: *** Nice dream ***
Capitolo 4: *** Hurricane ***
Capitolo 5: *** Talk Show Host ***
Capitolo 7: *** You soft and only, you lost and lonely ***
Capitolo 8: *** Love will tear us apart ***
Capitolo 9: *** If I was yours ***
Capitolo 10: *** Can't help the feeling ***
Capitolo 11: *** Tomorrow (Elena) ***
Capitolo 12: *** Tomorrow (Damon e...) ***
Capitolo 13: *** Human ***
Capitolo 14: *** Beyond good and evil ***
Capitolo 15: *** Give up the ghost ***
Capitolo 16: *** Love Illumination ***
Capitolo 17: *** Just don't leave ***
Capitolo 18: *** A Rush Of Blood To The Head ***
Capitolo 19: *** Senza un finale che faccia male... ***
Capitolo 20: *** Things left unsaid ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
È vero sono uno stupido! I poeti sono stupidi come mosche contro un vetro!
Sbattono contro l'invisibile per arraffare un po' di cielo.
 
Venuto al mondo – Margaret Mazzantini
 
 
“Buonanotte all’alba, Elena.”
 
Non ho certo bisogno di sollevare gli occhi dal libro che sto leggendo per scoprire l’identità di chi mi sta parlando. Solo una persona, in tutta San Francisco, può rivolgermi un saluto del genere alle dieci del mattino.
 
“Buongiorno Frank. Come va?” gli rispondo, piegando con cura l’angolo superiore della pagina e riponendo la mia copia spiegazzata de Les Miserables sulla mensola sotto al bancone.
Subito dopo salto giù dal mio sgabello e me lo trovo davanti col solito cappello in testa e la giacca beige un po’ sgualcita, ricurvo sul suo bastone da passeggio.
 
“Come vuoi che vada? Sono così vecchio, Elena… Speriamo almeno che oggi piova!”
 
Lancio un’occhiata perplessa alla vetrina, ricoperta da piccole gocce trasparenti.
Un temporale coi fiocchi si sta abbattendo sulla città da oltre mezz’ora, e la pioggia fitta e spessa tamburella insistentemente sul tetto in lamiera sopra alle nostre teste, producendo un rumore ritmico e fastidioso.
Frank segue il mio sguardo con i suoi occhi azzurri un po’ annacquati.
Alla mia espressione scettica risponde con la sua consueta risatina, e, come tutte le volte, è costretto a interromperla per via della tosse da tabagista consumato che lo tormenta da sempre, almeno a quanto ne so io.
Gli rivolgo un sorriso condiscendente e, senza bisogno di ulteriori indicazioni da parte sua, pesco automaticamente un pacco di Chesterfield blu dallo scaffale alle mie spalle.
Le “pastiglie per il mal di gola”, come le chiama lui.
Tiro la linguetta ed elimino il cellophane che ricopre il pacchetto, strappo via anche la carta argentata prima di porgergli la scatolina bianca e azzurra affinché possa servirsi, mentre lui mi passa il portafoglio dal quale estraggo una banconota da cinque dollari.
 
“Grazie Elena. Lo sai, non ci vedo più ormai. Ma c’è una bella novità. Il dottore mi ha detto che scambierà i miei occhi con quelli di un gatto.”
 
“Davvero Frank? È fantastico, poi ci vedrai anche con il buio…”
 
“Proprio così… proprio così Elena! Adesso però me ne vado. Buonanotte!”
 
Allarga la bocca in un sorriso spontaneo, che solleva le pieghe del suo viso consumato dal tempo. Gli sorrido a mia volta.
 
“Ci vediamo, Frank.”
 
Lo vedo ciabattare verso la porta, incespicando sui suoi passi. Non appena fuori avvicina la sigaretta alle labbra con la sua mano grinzosa e un po’ tremante.
So già che domani mattina lo vedrò entrare da quella stessa porta, più o meno a quest’ora.
Mi saluterà esattamente come oggi, prima di andar via mi farà la solita battuta sul gatto a cui vuole  rubare gli occhi e io sorriderò sincera, fingendo che sia la prima volta che la ascolto.
 
Sono le cose che capitano quando si lavora a una piccola stazione di servizio come questa.
Fra i clienti fissi ci sono un sacco di tipi bizzarri, forse un po’ matti, ma senza dubbio interessanti. Ed è per questo che, a dispetto di tutto, a me questo lavoro piace.
Non solo perché è poco impegnativo e pieno di pause morte, il che mi permette di dedicarmi allo studio e alla mia occupazione extra di traduttrice.
Mi piace perché sono sinceramente affascinata dalle persone, tutte, ma soprattutto quelle all’apparenza più strampalate.
Con le loro stranezze, le loro debolezze, i loro piccoli segreti che forse sono solo banalità, ma potrebbero rivelarsi mondi affascinanti da scoprire.
 
Chissà se Frank è mai stato sposato, o chi gli ha regalato il cappello dei San Francisco 49ers che porta sempre calcato sulla testa.
Magari è un ricordo di quando, da giovane, accompagnava suo figlio allo stadio.
Di certo a quel tempo non avrebbe avuto bisogno di occhi da gatto per scartare le sigarette. E poi chissà cosa gli è successo. Il figlio è cresciuto, se ne è andato e lo ha lasciato qui a diventare vecchio, cieco e un po’ matto. Perché?
 
Oppure quell’eccentrica signora con la spider rossa scassata, che viene a fare dieci dollari di benzina ogni martedì, sfoggiando sempre trucco pesante e unghie lunghissime e laccate.
Tutte le volte che l’ho vista indossava la stessa maglietta gialla piena di buchi e macchiata di caffè.
“È solo un povera pazza, Elena.” direbbe Bonnie, la mia collega. Forse ha ragione, forse invece anche lei ha una storia da raccontare.
 
Non penso a me stessa come a una morbosa spiona, anche perché a dire il vero non mi interessa nemmeno sapere con certezza se le mie supposizioni siano esatte oppure no.
Preferisco osservare silenziosamente, immaginare le possibilità che si nascondono dietro la facciata, raccontarmi una storia. Sogno mondi e situazioni assurde che non esistono per sfuggire alla mia, di vita, che di entusiasmante non ha proprio niente.
E forse è proprio per questo che ho scelto letteratura, anziché economia come voleva mio padre.
Il fatto è che i numeri non fanno per me.
Io vivo bene nel mio, di mondo. Un mondo di immaginazione, di libri e di canzoni.
Sono la tipica ragazza capace di piangere in macchina ascoltando un cd, per poi aprire il finestrino e lasciare che il vento asciughi in fretta le mie lacrime, prima che qualcuno possa vederle.
I miei pensieri sono solo miei, sono il mio rifugio, e a me piace così. Scelgo io cosa condividere, come e con chi.
 
Mi arrampico un’altra volta sul mio sgabello e lancio un’occhiata al libro abbandonato sulla mensola, tentata da Victor Hugo ma consapevole che la traduzione che devo consegnare dopodomani attende ancora di essere completata.
È un lavoro piuttosto impegnativo, ma  per una come me, perennemente in bolletta fra il college, i libri e tutto il resto, rappresenta una vera e propria manna dal cielo.
Se posso contare su questa entrata extra lo devo solo a John, il secondo marito di mia madre, che ha un impiego nella finanza. La sua azienda può benissimo permettersi traduttori più esperti e referenziati, ma lui è così carino pensare a me tutte le volte che c’è bisogno di tradurre contratti in francese, pagandomi un’esagerazione.
 
Quando lui e la mamma si sono messi insieme io avevo solo sei anni e mio fratello a malapena camminava. Ricordo ancora il modo delicato e affettuoso con il quale ha fatto il suo ingresso nella mia vita. In punta di piedi.
Veniva a trovarci nel piccolo bilocale che lei aveva affittato, ma non si fermava mai a dormire, almeno nei primi tempi.
Cenavamo insieme, spesso mi raccontava una favola o mi leggeva qualche pagina dell’enciclopedia degli animali. Così, fra api, delfini e coccinelle, mi addormentavo serena fra le sue braccia.
Io adoravo John, peccato che fra lui e mia madre l’idillio sia durato pochi anni.
Negli ultimi tempi, dopo una sfilza di storie finite male, lei si è messa con un tale Michael, un dentista che, per quanto mi riguarda, è un emerito coglione.
Sono stata ben felice di andarmene di casa per studiare al college e non dover più dividere il tetto con loro. Però con John ci sentiamo ancora spesso e a volte mi porta a pranzo fuori.
Si preoccupa per me, si informa sugli esami che sto preparando, mi chiede se dormo abbastanza, mi spedisce foto buffe su WhatsApp solo per farmi ridere.
 
Apro la borsa e tiro fuori la cartellina con il contratto e il mio pesantissimo vocabolario di francese. Vorrei finire la traduzione entro la mattinata, in modo da avere il pomeriggio a disposizione per studiare per l’esame di letteratura francese. Se il tempo rimane così non dovrei essere interrotta molto spesso. Chi mai uscirebbe di casa per fare benzina o comprare le sigarette con una giornata del genere? A parte Frank, si capisce.
Con un sospiro tiro fuori gli occhiali da vista dalla custodia e abbasso la testa sui fogli, mordicchiando nervosamente la matita. Cinque minuti dopo sento vibrare il cellulare nella tasca della felpa. Leggo il nome che compare sul display e quando premo il pallino verde per rispondere sto già alzando gli occhi verso il tetto di lamiera.
 
“Ciao papà.”
 
“Elena. Perché non mi chiami mai?”
 
“Ho avuto da fare. Tutto bene?”
 
“Si, e tu? Hai dato esami ultimamente?”
 
“Ho letteratura fra qualche giorno… comunque, sono al lavoro, non ho molto tempo per parlare.” mento.
 
“Ancora fai la muffa in quella topaia? Se solo accettassi il mio aiuto... sai benissimo che per me i soldi non sono un problema.”
 
“Me la cavo benissimo da sola. Ne abbiamo discusso un milione di volte e…”
 
Lo scampanellio fortuito della porta arriva proprio al momento giusto.
 
“…ho un cliente. Devo andare, mi dispiace. Ti chiamo io, ok?” rispondo bruscamente, interrompendo la conversazione senza nemmeno lasciargli il tempo di salutarmi.
 
Scendo rapidamente dallo sgabello per rivolgere la mia attenzione al tipo appena entrato, che involontariamente mi ha salvata da una conversazione che non avevo nessuna voglia di iniziare.
È vestito completamente di nero, i capelli scuri sono bagnati e sgocciolano sulla giacca di pelle, anch’essa umida di pioggia.
Mi squadra con aria incuriosita, probabilmente perché deve aver ascoltato uno stralcio della telefonata di poco fa.
 
“Ho fatto il pieno sulla due…” mi dice, indicandomi con un dito quella che deduco essere la sua auto, una chevrolet azzurra, curiosamente dello stesso colore dei suoi occhi.
 
“Sono cinquanta dollari.” rispondo, dopo aver lanciato un’occhiata fugace al monitor per ritornare subito a concentrarmi su di lui. Estrae la banconota dal portafoglio e me la porge con un mezzo sorriso, piuttosto sexy devo ammettere.
 
“Scusa, non volevo interrompere la tua telefonata.”
 
“Beh… non lo hai fatto… direi invece che mi hai salvata.” gli rispondo, arricciando le labbra e tamburellando le dita sul bancone. Lui solleva il sopracciglio in un gesto interrogativo.
 
“Ero al telefono con mio padre…” spiego, senza sapere bene perché sento l’esigenza di giustificarmi con questo sconosciuto.
 
“Avete litigato?” chiede adesso, vagamente interessato, la testa piegata di lato.
 
“Si ma non di recente. È una storia di tanto tempo fa. Lui non accetta le mie scelte, non capisce quello che voglio…” gli rispondo, parlando più a me stessa che con lui. Quando torno a sollevare gli occhi dentro i suoi lo scopro ad osservarmi con quello sguardo intenso.
 
“E che cos’è che vuoi?”
 
“Perché ne sto parlando con te? E comunque, non saprei…” ribatto, un po’ scocciata dalla sua invadenza, ma troppo incuriosita da lui per tagliare corto.
 
“Non è vero, tu vuoi quello che vogliono tutti.”
 
“Cioè, misterioso estraneo che ha tutte le risposte?”
 
Proprio quando sta per parlare, la porta si spalanca con la solita scampanellata.
 
“Damon ti muovi?” chiede un ragazzo alto dagli occhi verdi, affacciandosi all’interno.
 
“Adesso sono un po’ di fretta… Elena.” continua il moro senza voltarsi, stringendo gli occhi celesti e puntandoli in direzione del cartellino appuntato sulla mia felpa.
 
“Facciamo così” prosegue “se fra qualche mese, quando tornerò, sarai ancora qui… magari te lo racconterò.”
 
Mi sorride di nuovo con quel suo modo provocante, si volta verso l’amico e se ne va.
Lo seguo con lo sguardo mentre corre fuori, si infila nella sua auto e parte, sotto la pioggia fitta.
Da dove salti fuori, misterioso estraneo dagli occhi color del cielo? E dove te ne stai andando?
Sorrido a me stessa e scuoto la testa, come per scacciare via quel pensiero, prima di tornare con un sospiro alle mie scartoffie.
 
*********
Chi sentiva la mancanza delle mie seghe mentali?!? Nessuno penso dato che ho smesso da 3 giorni di tediarvi. No è che avevo questa storia in mente da un bel po’, ma essendo un po’ intricata ero e sono tutt’ora incerta nel farla uscire dal mio pc. In ogni caso ho deciso di buttarmi, o almeno ci provo.
Specifico subito che i mini pony li ho mandati in villeggiatura, quindi se c’è qualcuno che ha letto la storia precedente, niente colpi di fulmine o che so io, anche perché, anticipo, c’è di mezzo il buon Stefan.
Per il resto, ancora una volta proverò a comunicare qualche mio pensiero tramite questi due che accendono sempre la mia immaginazione.
Per alcune caratteristiche di Elena mi sono ispirata molto alla lontana alla protagonista del libro “Gli occhi gialli dei coccodrilli” della mia amata Pancol… osservatrice, sensibile, un po’ fantasiosa, si aiuta con le sue illusioni a superare una realtà non sempre facile.
Damon lo conosceremo meglio la prossima volta. Questo prologo un po’ strampalato voleva essere solo il racconto del loro primo incontro.
Un appunto sul titolo “Pesci bizzarri”, è una canzone dei Radiohead, gruppo a cui sono devota da una decina di anni, ecco spiegate molte delle mie paranoie.
Insomma, se tutto va come deve e sempre se ne avrete voglia, ci rivediamo fra una settimana. :-)
Bacioni
Chiara

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Capitolo 2
*** Everything in its right place ***


CAPITOLO 1 - Everything in its right place
 
 
La mia vita è stata tutta così... piena di piccoli segni che mi vengono a cercare.               
 
Non ti muovere – Margaret Mazzantini
 
 
 
Sei mesi dopo
 
 
“Che te ne pare?”
 
Cerco il riflesso di Caroline nello specchio davanti a me. Da una buona mezz’ora sto lottando contro i miei capelli per cercare di dar loro una forma un po’ più ricercata del solito, e dopo vari tentativi maldestri li ho raccolti in una specie di chignon.
Mentre aspetto un cenno di approvazione da parte della mia amica, notoriamente più esperta di me in fatto di look, soffio via alcune ciocche ribelli che sono già sfuggite all’acconciatura e mi ricadono sul viso disordinate.
Care, che se ne sta distesa da un’ora sul mio letto a contemplare il soffitto, si solleva sui gomiti per guardarmi, scuotendo i suoi bei capelli biondi con disapprovazione.
 
“Sul serio? vuoi presentarti al brunch perfetto nel giardino perfetto del tuo fidanzato perfetto con quella specie di crocchia in testa? Sembri mia nonna Lena!”
 
“Dici?” rispondo delusa, levandomi automaticamente l’elastico e lasciando che i capelli mi scivolino sulle spalle, esattamente come al solito. Andranno bene lo stesso per un brunch? Ma soprattutto, che cavolo è un brunch?
 
Caroline si solleva sbuffando dal mio letto, si piazza alle mie spalle e inizia ad armeggiare con la mia chioma con disinvoltura. La lascio fare e nel frattempo getto un’occhiata preoccupata al mio vestito blu. Trovo che sia un po’ troppo scollato, ma la mia amica non è assolutamente d’accordo con me.
 
“Finiscila di fare quella faccia Elena. Questo abito va benissimo… in fondo stai andando alla festa di laurea del tuo ragazzo, non puoi mica presentarti in jeans e t-shirt.”
 
Già. Mentre tutte le persone che conosco festeggerebbero la fine degli studi ubriacandosi fino all’incoscienza, Stefan è stato costretto dal padre a sorbirsi questa noiosissima riunione di famiglia, alla quale nemmeno uno dei suoi amici è stato invitato… eccetto io.
 
“Che ne dici di fare a cambio Care? Mi mette in imbarazzo conoscere il padre di Stefan. Da come ne parla lui sembra un tipo piuttosto rigido e altèro. E poi pare che Mr. Salvatore senior non stia nella pelle dalla voglia vedere che faccia ha la ragazza di suo figlio. Cito testuali parole.”
 
“Ha detto proprio così? In effetti non suona molto simpatico. Ma non preoccuparti, dubito che starà sempre a badare a te che gironzoli nel suo giardino. Avrà altro da fare non pensi? Guarda che capolavoro!” esclama, indicando con aria trionfale la treccia a spina di pesce che è riuscita a realizzare in pochi secondi.
Per tutta risposta torno a fissare lo specchio, che mi restituisce un’immagine troppo diversa dall’Elena acqua e sapone a cui sono abituata. Nonostante ciò afferro il mascara e inizio ad applicarlo sulle ciglia, piantonata a vista dalla sentinella bionda.
 
“Allora, cosa pensa di fare Stefan dopo la laurea?” chiede lei, tornando a sprofondare nel mio letto.
La vedo afferrare una rivista dal pavimento e iniziare a sfogliarla con aria annoiata.
 
“Inizierà subito a lavorare nella banca di suo padre come consulente.” rispondo distratta, cercando disperatamente di non far sbavare il mio trucco.
 
“Consulente?”
 
“Azioni… quella roba lì.”
 
Care mi guarda con aria interrogativa. In effetti nemmeno lei è mai stata un genio della matematica, proprio come me. Ci siamo conosciute alla Berkeley, dove si è iscritta per studiare sociologia.
In realtà non è mai stata molto interessata all’argomento, ma dato che i suoi possono permettersi di finanziarle gli studi è stata ben felice di poter posticipare il suo ingresso nel mondo del lavoro di qualche anno e godersi un po’ la vita universitaria.
Nonostante le nostre evidenti diversità, è talmente allegra e divertente che in pochissimo tempo siamo diventate inseparabili. Prima di mettermi con Stefan trascorrevo ogni momento libero con lei, ma ultimamente, complice il mio ragazzo, devo ammettere che la sto trascurando un po’.
 
Stefan invece, a differenza di noi due, è un vero genio. Per lui i numeri sono un gioco da ragazzi, esattamente come per suo padre, che ha iniziato la sua carriera nel mondo bancario da giovanissimo e che ormai da parecchi anni è direttore di un istituto di credito tra i più rinomati di San Francisco.
 
“Io non ci capisco assolutamente niente di azioni!” ammette candidamente la mia amica, tornando a sfogliare la sua rivista. “Hai visto Elena? L’estate segnerà il grande ritorno del color radiant orchid! Lo sapevo io!” aggiunge, puntando il dito sulla pagina aperta di fronte a lei.
 
“Cos’è una malattia? Comunque, nemmeno io sono molto ferrata in materia di borsa. So solo che il fidanzato numero quattro di mia madre faceva il broker. Era un pazzo isterico.”
 
Peter, così si chiamava questo tizio, era veramente inquietante. Secondo me si drogava pure per riuscire a tenere quei ritmi… fortunatamente con Miranda è durata pochi mesi. Quando si sono lasciati lei si è messa con… con… cavolo, perché non riesco a ricordare quello che è venuto dopo Peter?
 
“Speriamo che Stefan non diventi così.” continua Care, facendomi l’occhiolino.
 
“Ma figurati! È la persona più dolce che io abbia mai conosciuto.” rispondo, con un sorriso sognante.
 
“Non mi guardare con quegli occhietti a cuoricino per cortesia Elena. Piuttosto, lo vuoi un consiglio? Se vuoi fare una buona impressione su suo padre, lascia a casa quel cavolo di dolce.” ribatte lei, riferendosi alla torta di mele che ho preparato questa mattina con tanta apprensione, e che giace perfettamente impacchettata sul tavolo della cucina, pronta per accompagnarmi a casa Salvatore.
 
“Perché dici così? Mi sembrava carino portare qualcosa…”
 
“Potevi andare in pasticceria. Non è mica un pic-nic!”
 
Incrocio le braccia sotto il seno e stringo gli occhi a mo’ di fessure, rivolgendo a Care la mia espressione più irritata.
 
“Starai scherzando! La torta di mele è un’antica ricetta dei Gilbert… si tramanda di generazione in generazione e…”
 
Care spalanca gli occhioni azzurri e sbatte le ciglia, sollevando una mano nella mia direzione come per bloccare la mia arringa difensiva.
 
“Ok, ok. Come vuoi Elena, presentati pure da Stefan con il tuo capolavoro culinario. Poi non dire che non ti avevo avvertita.”
 
 
La villetta dei genitori di Stefan si trova in Powell Street, nel quartiere residenziale di Nob Hill.
Parcheggio la macchina poco più avanti dell’ingresso, per non dare nell’occhio e avere il tempo di guardarmi intorno e rilassarmi un po’.
Devo dire che è proprio una bella casa, abbastanza semplice ma molto curata, e in effetti è circondata da un giardino splendido, con l’erba perfettamente tagliata e un sacco di piante fiorite. Oggi poi è una magnifica giornata di sole, il tempo ideale per stare all’aperto.
Osservo con preoccupazione il pacco appoggiato sul sedile accanto a me, ma poi mi faccio coraggio e lo afferro, smontando dalla  macchina e dirigendomi a passo spedito verso il vialetto d’ingresso.
Appena metto piede sul ghiaino la porta di casa si apre. Vedo subito uscire Stefan e tiro un sospiro di sollievo. Mi accoglie con il suo sorriso dolce, che esercita su di me il solito effetto calmante. Cammina verso di me e ci incontriamo a metà strada.
 
“Ti ho vista arrivare. Sembri agitata Elena, tutto a posto?” chiede, lasciandomi un veloce bacio su una tempia e avvolgendomi le spalle con  un braccio.
 
“È tutto ok Stef, davvero. Sono solo un po’ nervosa all’idea di conoscere i tuoi.”
 
“Stai tranquilla, andrà tutto bene. A proposito, sei bellissima oggi.”
 
Ci incamminiamo lungo il vialetto, dirigendoci direttamente sul retro della casa, dove c’è già parecchia gente che mangia e chiacchiera tranquillamente. Per la maggior parte sono uomini e tutti piuttosto ingessati, devo dire.
A quanto ne so io Stefan non conosce quasi nessuno: ad eccezione di qualche parente, gli altri sono tutti clienti e colleghi del padre, che, come è naturale per uno che ricopre il suo ruolo, frequenta mezza San Francisco.
Questa giornata rappresenta un’ottima occasione per Stefan anche per incontrare potenziali clienti, ma lui non sembra affatto in pensiero. È calmo e disinvolto, come sempre.
Esattamente come la prima volta che ci siamo incontrati, o meglio, la prima volta che abbiamo parlato.
Dopo esserci visti di sfuggita quel giorno di pioggia di sei mesi fa, è tornato spesso a farmi visita alla stazione di servizio di Haight-Ashbury. Da lì a iniziare a uscire il passo è stato breve.
Quando ci siamo messi insieme Bonnie, la mia collega, mi ha costretta a fare i doppi turni per una settimana.
Avevamo fatto una piccola scommessa. Lei aveva capito fin da subito che Stef aveva un debole per la sottoscritta, ma io le rispondevo sempre “Figurati se uno così perde tempo dietro a una come me…”.
E invece, eccoci qua.
 
Stefan mi conduce verso un uomo di mezza età che intuisco essere il famoso Giuseppe. È più basso del figlio, ha gli occhi chiari e gelidi. Quando ci vede camminare verso di lui distoglie per un attimo l’attenzione dalla conversazione a cui sta partecipando e mi squadra da capo a piedi, impassibile.
Metto su la mia espressione più educata, quella che di solito utilizzo con i clienti rompicoglioni che sproloquiano per mezz’ora sul prezzo troppo alto della benzina.
 
“Papà ti presento Elena.”
 
“Piacere di conoscerti.” risponde l’uomo, allungando la mano verso di me. Proprio in quel momento mi rendo conto che sto ancora reggendo il mio dolce, ma con un po’ di fatica libero la mano destra e gliela porgo. La sua stretta è forte e decisa, ma lo sguardo rimane freddo e indagatore.
 
“Bene bene Stefan, devo dire ammettere che la tua ragazza è proprio deliziosa. Dimmi Elena, è vero che lavori alla stazione di servizio di Haight-Ashbury per mantenerti agli studi? Di un po’ non ti sembra un lavoro poco adatto a te?”
 
“In che senso Mr. Salvatore?” ribatto, un po’ confusa dal tono allusivo della sua domanda.
 
“Forse è un po’… pericoloso per una ragazza così giovane. Che ne pensa Grayson, tuo padre?”
 
Com’è che lo conosco da due minuti e già non lo sopporto? Forse perché ha appena nominato l’unica persona sulla faccia della terra capace di innervosirmi anche solo con il pensiero. Suo figlio deve aver preso tutto dalla madre, non c’è altra spiegazione. Nonostante tutto non voglio polemizzare più del dovuto, rischiando di mettere in imbarazzo Stefan. Respiro a fondo cercando di non far trapelare in nessun modo la mia irritazione e sforzandomi di non abbassare lo sguardo di fronte all’uomo che mi sta davanti e mi osserva divertito, quasi come se ci provasse gusto a mettermi a disagio.
 
“Vede, mio padre è convinto che il lavoro, purché dignitoso, sia ancora più importante della scuola per formare il carattere. Non ha idea di quante cose ho imparato rapportandomi tutti i giorni con la gente.” rispondo con il sorriso più cordiale che mi riesce, rubando le parole a John, l’ex compagno di mia madre, e scacciando dalla mente l’immagine di mio padre che, tutte le volte che ci incontriamo, mi fa la predica perché si sente in imbarazzo per me.
 
“Sarà…” risponde lui con sufficienza, per poi rivolgersi al figlio. “Stefan vorrei presentarti il mio amico Harold, sicuramente sarà uno dei tuoi prossimi clienti… Ci scusi un attimo Elena?”
 
“Certo, ci mancherebbe.” sorrido, cercando di mantenere un tono cortese e rassicurando Stefan con lo sguardo. “Fai con comodo, io vado a posare questa roba.” mormoro a denti stretti, ansiosa di trovare una via di fuga.
 
“La cucina è da quella parte.” sussurra Stefan, indicandomi la porta sul retro della casa per poi riportare l’attenzione sul padre, che sta sghignazzando con l’uomo incravattato e completamente calvo al suo fianco. Trovo tutta la scena insopportabile e sono ben contenta di allontanarmi per un po’, nella speranza che Giuseppe non monopolizzi suo figlio per l’intero pomeriggio.
 
Mi incammino verso la casa, cercando di non sprofondare nell’erba con i tacchi. Una volta dentro tiro un sospiro di sollievo, appoggio il pacchetto sul tavolo della cucina ingombro di vassoi pieni di cibo e mi lascio cadere su una sedia, chiudendo gli occhi e massaggiandomi le tempie.
Come inizio non c’è male, davvero. Cerco di consolarmi giurando a me stessa che un’occasione del genere non si ripeterà più, neanche se Stefan dovesse pregarmi in ginocchio.
 
“Ti sei già stancata di fare salotto con l’alta società?”
 
Per poco non faccio un colpo quando sento quella voce. Riapro gli occhi di scatto e mi imbatto nella figura di… Damon. Che diavolo ci fa qui?
Se ne sta appoggiato contro il bancone della cucina, mi osserva con la testa piegata da un lato e mi rivolge un mezzo sorriso. Possibile che non l’abbia notato quando sono entrata in cucina? Sbatto le palpebre un paio di volte e mi prendo qualche istante per studiarlo. Lui sta lì in silenzio con l’aria divertita, vestito completamente di nero come la prima volta che l’ho visto.
La prima e l’ultima, tra le altre cose, perché negli ultimi sei mesi è letteralmente scomparso dalla faccia della terra e quando ho cercato di chiedere qualche vaga spiegazione a suo fratello, ho sempre ricevuto risposte piuttosto evasive. Da quel poco che ho capito ha trascorso un periodo nella Grande Mela per lavoro, ma non so nient’altro. A dire il vero non sapevo neppure che sarebbe tornato, tantomeno avrei pensato di rivederlo proprio oggi.
Improvvisamente mi rendo conto che con ogni probabilità Damon non ha idea di chi io sia. Se escludiamo la brevissima conversazione che abbiamo avuto un secolo fa e che lui ha certamente dimenticato, non ci siamo mai più incontrati. Chissà se Stefan gli ha mai detto qualcosa di me.
 
“Sembri sorpresa. Ti ho spaventata?” mi chiede, probabilmente per via della faccia imbambolata che devo avere in questo momento. Scuoto la testa come per scacciare via tutti i pensieri che si sono affastellati nella mia mente in pochi secondi, e torno a rivolgergli la mia attenzione.
 
“No… no, scusami ero sovrappensiero. Io sono…”
 
“..Elena, la ragazza di Stefan. Vi ho visti insieme.” risponde tranquillamente. Annuisco, senza aggiungere una parola. Lui invece si avvicina a me, tendendomi la mano.
 
“Io sono Damon, il fratello di Stef.” dice, guardandomi negli occhi. Perfetto, non si ricorda. Forse è meglio così.
 
“Lo so.”
 
Adesso è lui quello sorpreso. Il sorriso scompare dal suo viso, sostituito in men che non si dica da un’espressione che mischia stupore e domande inespresse.
 
“Davvero Stefan ti ha parlato di me?” chiede,  fin troppo meravigliato.
 
“Beh, più o meno.”
 
“Che strano. Di solito non è uno che si vanta. E che ti ha detto?”
 
“Che sei stato via per un po’… per lavoro. Allora com’è New York? Non ci sono mai stata.”
 
“Ti ha raccontato che sono stato a New York? Interessante.” Sembra sempre più sbalordito e non riesco a intuirne il motivo. Lo vedo scuotere la testa soffocando una risatina nervosa, quasi come se fosse contrariato, per poi tornare a fissarmi dritto negli occhi. I suoi sono di una sfumatura indefinibile di azzurro, ancora più bella di come ricordavo.
 
“Che cos’è quello?” mi dice, indicando il pacco con la torta.
 
“Beh ho portato un dolce…”
 
“Me lo fai assaggiare?”
 
“Veramente… non sono sicura che sia buono.”
 
“Coraggio. Non vuoi il parere di un esperto?”
 
Un po’ titubante strappo la carta, mentre lui si allontana per un attimo per aprire un cassetto della cucina e prendere un coltello, con il quale taglia una bella fetta della mia torta di mele.
Dopo averne preso un boccone lo mastica per qualche secondo, rivolgendomi un’occhiata indecifrabile.
 
“Com’è?” chiedo dubbiosa.
 
Evo eere incero?” risponde, continuando a masticare. Annuisco, speranzosa mentre lui deglutisce a fatica.
 
“Fa veramente schifo Elena.”
 
La sua espressione è a metà strada fra l’ironia e il disgusto più totale. Lo guardo a bocca aperta, senza riuscire a dire niente. Caspita, Caroline aveva ragione. Eppure ho seguito la ricetta alla lettera. Damon scoppia a ridere e io, dopo un primo momento di imbarazzo, non posso fare a meno di unirmi alla sua risata.
 
“Mi dispiace… Sono proprio una frana in cucina, me lo dicono tutti ma mi ostino a voler dimostrare il contrario.” confesso, continuando a ridacchiare e rilassandomi un po’.
Per tutta risposta lui posa la fetta di dolce su un tovagliolo e mi rivolge un’occhiata penetrante, senza più traccia di ilarità.
 
“Insomma Elena, mi sembra di capire che alla fine l’hai scoperto. Quello che vuoi intendo. Ti ricordi?”
 
***
Buon pomeriggio! Sono in anticipo, che brava! In realtà questo è un periodo di fuoco e sono riuscita a scrivere questa roba ieri sera, a letto col portatile ;)
Mi scuso se si interrompe sul più bello ma rischiava di diventare un po’ un poema, e poi dai… manteniamo un po’ di alone di mistero, in fondo siamo solo al primo capitolo.
Mi dispiace anche se è un po’ noioso, ma come sapete ci vuole un po’ di tempo per introdurre i vari personaggi.
Ciuseppi è tornato, ma non avrà un ruolo particolarmente cruciale per la trama, almeno per l’idea che mi sono fatta adesso :D Insomma, tutti vivi e vegeti questa volta, anzi Elena ha una sovrabbondanza di figure paterne tra le più disparate.
Che altro aggiungere? Spero non sia stato troppo noioso e ci vediamo presto, compatibilmente con i miei impegni che in questo periodo mi stanno sfiancando. Sigh!
Grazie a chi è riuscito ad arrivare fino a qui e a tutte le persone che sono state così carine da leggere il prologo e darmi fiducia iniziando a seguire la storia.
Un bacio
Chiara

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Capitolo 3
*** Nice dream ***


CAPITOLO 2 – Nice Dream
 
They love me like I was a brother
They protect me
Listen to me
They dug me my very own garden
Gave me sunshine
Made me happy
Nice dream
***
Mi amano come fossi un fratello
Mi proteggono
Mi ascoltano
Hanno scavato il mio giardino
M'han dato la luce del sole
Reso felice
Bel sogno
 
Nice Dream – Radiohead
 
 
 
Damon
 
“Insomma Elena, mi sembra di capire che alla fine l’hai scoperto. Quello che vuoi intendo. Ti ricordi?”
 
Lei, visibilmente imbarazzata, sbatte le palpebre un paio di volte e increspa le labbra come per parlare, ma senza emettere un fiato. Le sue guance si colorano leggermente, provocandomi un sorriso involontario che non fa altro che innervosirla di più. Lo capisco da come si sta agitando sulla sedia, facendo rimbalzare lo sguardo da me al pavimento.
 
Per la cronaca io qualcosina la ricordo. Piccoli dettagli, tracce di lei che mi sono riesplose negli occhi quando l’ho vista camminare sul prato sottobraccio a mio fratello.
Occhi grandi, viso da bambola, forme perfette… si, è sempre la stessa. E il blu le dona parecchio, devo ammettere.
Quel giorno pioveva a dirotto e ricordo chiaramente di aver pensato che lei era troppo bella e interessante per starsene rinchiusa fra quelle quattro pareti di lamiera a discutere con suo padre per telefono.
Mi sarei fermato molto volentieri a spiegarle le mie teorie sui suoi desideri più nascosti… peccato avessi un piccolo impegno precedente.
Se non sbaglio, una volta in macchina con Stefan, ho fatto anche qualche osservazione un po’ volgare sul suo conto. Lui mi ha risposto con un mugugno disinteressato, ma è chiaro che non era poi così indifferente se poi è tornato a prendersela, il bastardo. Buon per lui…
 
“Terra chiama Elena. Di un po’, stai vivendo una qualche strana esperienza extracorporea? Sembri in trance.” scherzo, sventolandole una mano davanti agli occhi. La vedo accavallare le gambe con un gesto nervoso, per poi schiarirsi la voce e mettere su un’espressione distaccata.
 
“Scusa, è che mi hai fatto tornare in mente… quella volta che abbiamo parlato. Si, mi ricordo. Vagamente.” taglia corto, lo sguardo fisso davanti a sé. Io, che non so se sia il caso di  bermela o no, scoppio a ridere.
 
“Che c’è di così divertente Damon?”
 
“Niente, niente… è che mi fa strano pensare di essere stato proprio io il cupido della situazione. Fra te e Stefan, intendo. Non so se farti i complimenti o le condoglianze.” rispondo sarcastico.
 
“Spiritoso. Fammi indovinare, voi due siete i classici fratelli perennemente in conflitto.” ribatte, col tono saggio di una che la sa lunga. Incrocia le braccia sotto il seno con una faccia da donna navigata, ma per conto mio sta solo cercando di spostare la conversazione su argomenti meno rischiosi.
 
“Cosa te lo fa pensare Elena?”
 
“Beh lui non mi racconta mai niente di te, tu te ne esci con queste battute... Non ci vuole mica un genio. Mi sbaglio?”
 
Non le rispondo, limitandomi a fare spallucce e fissarla negli occhi scuri per qualche secondo, per poi allontanarmi da lei e aprire un mobiletto della cucina: è decisamente arrivato il momento di bere qualcosa.
Prendo una bottiglia di bourbon mezza vuota e me ne prendo un bicchiere, ma quando mi volto di nuovo verso Elena la scopro a fissarmi con un’espressione sorpresa e gli occhi spalancati.
 
“Damon, non per farmi gli affari tuoi, ma sono le tre del pomeriggio e ci sono trenta gradi. Non ti sembra un po’ presto per… quella roba?”
 
“Credimi Elena, per superare questa giornata è indispensabile. Anzi, ne vuoi un po’?”
 
 
 
Elena
 
“Tranquilla, non lo dico a Stef.” aggiunge dopo una pausa, facendomi l’occhiolino e abbassando la voce con aria cospiratrice.
 
“Per carità, non reggo l’alcol. E poi devo mantenermi lucida per rispondere ad eventuali frecciatine di tuo padre.” rispondo, senza pensarci troppo.
 
Mi pento subito di quello che ho detto, rendendomi conto che forse mi sono lasciata un po’ troppo andare. Scruto nello sguardo di Damon con preoccupazione, timorosa di averlo offeso senza volere, ma lui mi osserva in silenzio con l’aria divertita.
 
“Sei sagace ragazzina.” afferma con una smorfia compiaciuta, per poi svuotare il contenuto del suo bicchiere senza staccare gli occhi dai miei. “Mi spiace se Giuseppe ti ha messa in difficoltà. È tipico del suo carattere.” continua, con una nota inquieta nella voce.
 
“Lo fa anche con te?” chiedo a bruciapelo, senza sapere bene perché.
 
“Diciamo che ci prova spesso.”
 
I suoi occhi chiarissimi si coprono di un velo  di malinconia e per un attimo rimango senza parole.
Di nuovo mi sento stranamente sopraffatta da quel suo modo insistente e totalmente fuori luogo di fissarmi, ma cerco di non darlo a vedere, ostentando una naturalezza che in questo momento non mi appartiene.
Forse perché, se proprio devo essere sincera, quei trenta secondi di conversazione alla stazione di servizio li ricordo piuttosto chiaramente. Il nostro brevissimo dialogo è stato talmente bizzarro da restarmi impresso, e quella volta il suo sguardo intenso mi era rimasto addosso per… qualche ora forse?
Ok, ok, ammetto di averci fantasticato un po’ a suo tempo.
Sei mesi fa non c’era niente di sbagliato, ma adesso, diamine adesso no. È tutto diverso.
 
“Ecco qua il mio bambino! Ti ho cercato dappertutto sai?”
 
Per poco non faccio un infarto quando quella voce femminile prorompe fra di noi, interrompendo bruscamente i miei vaneggiamenti. Una donna sulla cinquantina, elegantemente vestita, se ne sta sulla soglia facendo vagare il suo sguardo vitreo da me a Damon. Ha i capelli scuri, luminosi occhi verdi piuttosto rossi e affaticati, e un’espressione che definirei… assente.
 
“Chi è lei?” chiede rivolta a Damon, indicandomi con un dito e facendomi trasalire. La sua voce sembra un po’ impastata e quando la vedo sorreggersi allo stipite mi rendo conto che non sembra essere molto presente a sé stessa. Nonostante tutto cerco di farmi coraggio e mi alzo in piedi per presentarmi.
 
“Buongiorno signora. Io sono…”
 
“Mamma… pensavo fossi in camera tua. Non ti avevo forse detto di stenderti un po’?” mi interrompe Damon, parlandole con un’inaspettata dolcezza e rivolgendomi contemporaneamente un’occhiata d’intesa che sembra significare “ci penso io”.
Mentre le parla, posa in fretta il bicchiere e la raggiunge, sostenendola per un braccio.
Lei si lascia guidare e annuisce meccanicamente, mentre io osservo tutta la scena in silenzio senza avere più il coraggio di spiccicare una parola.
 
“Andiamo, ti accompagno.” le mormora, usando un tono tranquillo e rassicurante, quasi come se si stesse rivolgendo a una bambina. “Scusa Elena, devo lasciarti un attimo qui da sola. Sai com’è, nemmeno mia madre è una grande amante delle riunioni di famiglia.” aggiunge sottovoce, prima di lasciare la stanza.
 
Appena i due scompaiono dalla mia visuale, decido di uscire: dopo tutti questi incontri inaspettati ho bisogno di una boccata d’aria. Fuori la situazione è praticamente identica a come l’ho lasciata.
iQQuando si accorge di me, Stefan si congeda dall’uomo con cui sta chiacchierando per raggiungermi, sorridente come sempre. Peccato che io, ora come ora, non mi senta affatto in vena di moine.
 
“Elena, scusa se ti ho lasciata sola per tutto questo tempo ma stavo parlando con un tizio che pare voglia investire in…”
 
“Stefan ho appena incontrato tua madre… mi sembra che stia poco bene.” lo interrompo, parlando tutto d’un fiato. Lo vedo sbiancare in viso e sgranare gli occhi, decisamente sbalordito.
 
“Come sarebbe a dire che l’hai vista?”
 
“Si, l’ho vista. Che c’è di strano scusa? Vive qui! E ho incontrato anche tuo fratello.” aggiungo, contrariata dalla sua espressione atterrita, che non fa altro che confermarmi che sta cercando di nascondermi qualcosa.
 
“Cosa ti ha detto Damon?”
 
“Non mi ha detto niente, Stefan. Voglio che sia tu a spiegarmi perché tua madre era così… così strana.”
 
“Adesso non è il momento Elena. Ne parliamo più tardi. Non è niente di importante…”
 
“Allora perché non chiariamo subito e la facciamo finita?” sibilo a denti stretti. Incrocio le braccia sul petto, piena di irritazione, in attesa di una risposta che abbia un minimo di senso, ma Stefan non fa altro che guardarsi intorno preoccupato.
 
“Elena, ti sto solo dicendo che non mi pare il caso di parlarne adesso, con tutti questi estranei. Quando saremo da soli ti spiegherò tutto. Stai facendo una tempesta in un bicchier d’acqua.”
 
Mi appoggia le mani sulle spalle cercando di catturare il mio sguardo, che nel frattempo si è concentrato sulla figura di Giuseppe che, poco distante, sta discutendo con un tizio in completo grigio.
Il solo pensiero di dover affrontare un’altra conversazione con lui mi fa salire il sangue alla testa, e poi mi sento infastidita dall’assurda situazione che si è venuta a creare. Stefan, accorgendosi del mio disappunto, mi sfiora la guancia con dolcezza. Punto gli occhi nei suoi e faccio un respiro profondo.
 
“Ok Stef, ho capito, non è il momento. Però adesso me ne vado a casa. Mi sento a disagio qui a fare la bella statuina mentre tu parli di lavoro con gli amici di tuo padre, e poi fra due ore inizio il turno. Però promettimi che ne riparleremo.”
 
“Va bene, Elena. Come vuoi tu.” acconsente, per poi lasciarmi un bacio tenero sulla fronte che riesce a tranquillizzarmi solo in parte.
 
 
 
Damon
 
Quando scendo le scale Stefan mi sta già aspettando in soggiorno, le braccia abbandonate lungo i fianchi, i pugni stretti e l’aria contrariata.
 
“Dov’è lei?” chiede, senza muovere un muscolo. Io mi verso da bere con estrema tranquillità e mi accomodo sul divano. Vederlo così nervoso mi procura un sottile piacere e non ho alcuna intenzione di fingere il contrario.
 
“Ciao anche a te fratellino. La tua festicciola è già finita? Non ti agitare, nostra madre sta riposando.”
 
“Non potevi darle un’occhiata almeno oggi, come ti avevo chiesto?” ribatte, alzando la voce di un’ottava. È proprio incazzato nero.
 
“Sei arrabbiato perché la tua fidanzatina ti ha fatto domande? A proposito, c’è qualcosa di vero in quello che le hai raccontato sulla nostra famiglia?”
 
L’ironia nella mia voce ha già lasciato spazio alla rabbia. Stefan mi rivolge un’occhiata piena di risentimento che io ricambio senza abbassare lo sguardo. Lo vedo sospirare nervosamente e passarsi una mano fra i capelli, spettinando il suo ciuffo perfetto. Chiaro segnale che ormai ha perso completamente il controllo.
 
“Elena conosce me e questo basta. Non c’è bisogno che sappia dei problemi di nostra madre o dei tuoi casini.” replica in tono gelido.
 
“Interessante. È per questo che le hai raccontato che sono andato in un altro stato?”
 
Lo vedo trasalire per un attimo. È evidente che non si aspettava che io e la sua ragazza ci fossimo fatti delle confidenze, per così dire. Gli rivolgo un mezzo sorriso e un’alzata di sopracciglia che sembrano irritarlo ancora di più.
 
“Ok, Damon, forse ho esagerato, ma non volevo che mi facesse troppe domande sul tuo conto. Lo sai che è figlia di Grayson Gilbert, un grosso cliente della banca… non mi sembra proprio il caso che si sparga la voce che tu…”
 
“Che mi sono fatto sei mesi di servizi sociali a Oakland? Puoi dirlo Stef, non ti sente nessuno qui. Siamo nel nostro salotto.”
 
“Fai meno lo spiritoso Damon. Dovresti essere riconoscente, poteva andarti molto peggio. Fortunatamente nostro padre è riuscito a mediare con i Mikaelson e…”
 
“Senti Stef, ti sei appena laureato con il massimo dei voti, il che ci dimostra che non sei del tutto stupido. Se i Mikaelson non hanno voluto calcare la mano dopo che ho cambiato i connotati a Kol, è perché conveniva anche a loro per un sacco di buoni motivi. Non ultimo il fatto che Giuseppe passa la vita a far loro marchette in quella cazzo di banca. Vuoi fare la stessa fine? Perché mi sembra che tu sia sulla buona strada.”
 
“Si può sapere dove stai andando adesso?” mi chiede, vedendomi afferrare al volo la giacca e le chiavi.
 
“Se non ti dispiace ho bisogno di cambiare aria.” rispondo, per poi infilare la porta e sbattermela dietro le spalle.
 
 
 
Elena
 
“Non pretendo che la gioia non possa accompagnarsi alla bellezza, ma dico che la gioia è uno degli ornamenti più volgari, mentre la malinconia è della bellezza, per così dire, la nobile compagna, al punto che non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore.”
 
Dopo aver sottolineato la frase con la matita, chiudo il libro di poesie di Baudelaire con un tonfo secco e lo getto nella borsa. Sono decisamente incazzata, e non è certo per via della signora settantenne che è venuta a comprarsi le sigarette poco fa, masticando la gomma con la bocca talmente spalancata che, volendo, avrei potuto tranquillamente vedere il colore della sua biancheria intima.
Ho appena avuto l’ennesima discussione telefonica con mio padre, che mi ha chiamata per invitarmi a pranzo domani. Io, come al solito, mi sono inventata una scusa, mandandolo su tutte le furie e provocando la sua solita reazione da vittima sacrificale.
 
“Che ti costa chiamarmi qualche volta Elena? Perché devo sempre cercarti io e sentirmi puntualmente dire di no?”
 
Non riesce proprio a capire che un pranzo insieme a palare del tempo e degli ultimi libri letti, giocando alla famigliola felice in nome delle apparenze, non è quello che ci serve per recuperare il nostro rapporto.
Ormai, dopo tutti questi anni, credo proprio che per noi non ci sia più nessuna speranza.
Senza contare il pomeriggio trascorso a casa di Stefan, durante il quale ho capito che probabilmente mi sta nascondendo qualche aspetto piuttosto rilevante della sua vita familiare. Poco fa mi ha mandato un messaggio per avvisarmi che stasera ha un impegno con il padre, ma domani mi spiegherà tutto.
 
Domani, certo.
 
Forse ha ragione lui. Forse sto davvero facendo un casino per niente, magari sua madre aveva solo esagerato con gli aperitivi… eppure mi ha fatto un’impressione così strana…
Con un sospiro salto giù dallo sgabello, afferro la borsa, la felpa e le chiavi e mi avvicino al quadro elettrico per spegnere le luci. Nel piccolo locale cala la penombra, rischiarata appena dalla luce fioca del lampione che illumina il piazzale e si riflette debolmente all’interno.
 
Proprio quando sto per andarmene il telefono sul retro inizia a squillare.
Di solito qui non chiama mai nessuno, quindi ipotizzo che possa trattarsi solo del mio capo, che vuole controllare che non me la sia svignata in anticipo rispetto all’orario di chiusura.
Un po’ scocciata mollo la borsa per terra e faccio una corsa fino a raggiungere il telefono, afferrando la cornetta appena in tempo.
 
“Pronto?”
 
“Elena sei tu?”
 
La voce dall’altra parte mi fa sussultare. Che diavolo…
 
“…Damon? Dove hai trovato questo numero?”
 
“Mai sentito parlare di un misterioso oggetto chiamato elenco?”
 
“Spiritoso. Piuttosto, si può sapere perché mi telefoni? E sul lavoro poi?”
 
“Se avessi il tuo numero sarebbe tutto più semplice, hai ragione. Comunque, sono al bar proprio dall’altro lato della strada e… che ne pensi di raggiungermi?”
 
Alzo platealmente gli occhi al cielo, portandomi una mano alla fronte. Deve essere impazzito, non c’è altra spiegazione.
 
“Senti Damon, parliamoci chiaro. Ho avuto una giornata pesante e non ho nessuna intenzione di farmi una bevuta con te. Quindi se non ti dispiace…”
 
Che palle Elena, rilassati! Non voglio rubare la tua virtù, ho solo bisogno di un favore.”
 
Un favore? Da me? Sospiro, mettendomi a sedere sulla scrivania del capo e attorcigliandomi il filo del telefono attorno all’indice.
 
“Sentiamo.”
 
“Beh, vedi, ho bevuto un paio di drink che a quanto pare sono i più cari di tutta San Francisco. Quindi… non è che potresti attraversare la strada e prestarmi… quanto ti devo Joe? Ecco si. Trenta dollari.”
 
“Ma sei matto? Non potevi chiamare Stefan?”
 
“Elena…”
 
“Ok, ok. Sto arrivando.”
 
 
*********
Buongiorno e buon lunedì… inizio la mia solita noticina chiedendo scusa per la lunghezza del capitolo e poi… scusate se è un vero casino! Forse state pensando se ho bevuto per scrivere una roba del genere… Insomma, ho messo altra carne al fuoco ma prometto che tutto, piano piano, avrà una spiegazione. Uno dei temi principali della storia è sfatare il mito della famiglia del Mulino Bianco. Insomma, l’apparenza inganna. È la parte meno inventata di tutto il racconto ma vi assicuro che rendere il tutto abbastanza fluido mi è costato un bello sforzo quindi spero davvero non sia tanto pesante da leggere e in ogni caso sono apertissima a critiche e suggerimenti, perché ho tutto da imparare. Ammetto che mi fa un po’ paura sto capitolo.
Per quanto riguarda Damon e Elena, qui si sono “riconosciuti” per così dire, ma è giunto il momento di approfondire questa conoscenza e questo sarà oggetto del prossimo capitolo. Stefan sta facendo brutta figura, è che ha un periodo no. Anche lui avrà i suoi bei momenti, giuro. Io sono pro Defan :)
Sperando di non vedervi fuggire in massa da questa storia contorta, vi ringrazio di cuore per le parole carinissime che mi avete lasciato la scorsa volta. Naturalmente ringrazio chi arriva a leggere fino a qui, preferisce, segue ecc. Grazie davvero di <3
Baci grandi
Chiara
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Hurricane ***


CAPITOLO 3 – HURRICANE
 
It’s unfortunate that when we feel a storm
we can roll ourselves over ’cause we’re uncomfortable
***
È una sfortuna che quando sentiamo una tempesta
possiamo rotolare via perché siamo scomodi
 
Paradise Circus – Massive Attack
 
 
 
Damon
 
“Ha detto che arriva subito.” sbuffo scocciato, appendendo la cornetta al telefono mezzo sfasciato del bar.
 
Il tizio davanti a me, Joe o come diavolo si chiama, mi rivolge un’occhiata sbieca per poi tornare ad asciugare i bicchieri con una pezza bianca tutta buchi.
È una vera montagna umana, un omone di almeno cento chili con i capelli biondicci lunghi fino a metà schiena aggrovigliati nei dreadlocks e tenuti insieme da un elastico sfilacciato. Indossa una maglia dei Led Zeppelin vecchia e scolorita, che nasconde a malapena i tatuaggi che gli ricoprono le braccia.
Quando è stata ora di pagare e mi sono accorto di aver dimenticato il portafoglio, gli ho detto che avrei provato a fare uno squillo ad Elena, la ragazza che lavora alla stazione di servizio proprio qui di fronte. La ragazza di mio fratello.
Mi è bastato fare il suo nome perché i gli occhietti verdastri di questo bestione si illuminassero di una scintilla di gioia. Sembrava essersi improvvisamente trasformato in un cucciolo di labrador scodinzolante, ma un attimo dopo è tornato in sé e ha cambiato espressione, per rivolgermi uno sguardo torvo e pieno di ostilità.
 
“Che ci fa quella creatura innocente con uno stronzo come te?”
 
Non ci fa un bel niente, purtroppo, avrei voluto rispondergli.
Mi sarebbe anche piaciuto rigirargli la domanda, visto che sembrano essere così intimi. Insomma, questo Joe mi pare tutto tranne uno che Elena frequenterebbe. Non che io sappia qualcosa in particolare su di lei o sulle sue amicizie, ma conosco bene quel gran rompicoglioni di Stefan.
 
Comunque, tornando a Joe, per un momento avrei voluto rompergli il naso per avermi dato dello stronzo, ma poi l’impulso ha stranamente abbandonato il mio corpo. Non ho capito se è stato per via della stazza di questo barman da strapazzo o se le sedute dalla psicologa che ho fatto per sei mesi abbiano sortito qualche effetto a scoppio ritardato.
Fatto sta che, dopo la telefonata, mi sono accomodato sullo sgabello e adesso me ne sto qui tranquillo, sorseggiando con calma il mio ultimo bicchiere di bourbon e aspettando l’arrivo della mia salvatrice dagli occhi da cerbiatta.
 
Le mia vita sembra essere tutta fatta di lunghe attese, solo che questa volta la situazione è leggermente diversa. È decisamente meglio di quando attendevo il mio turno per il colloquio settimanale con la strizzacervelli, sulla seggiolina stile ufficio postale del “Dipartimento di esecuzione penale esterna”.
Ogni dannata settimana salivo pigramente le scale che portavano al piccolo corridoio sghembo, e dietro ad un banchetto trovavo un agente in borghese ad aspettarmi. Sempre lo stesso. E tutte le volte mi faceva la stessa domanda.
 
“Sei qui per il colloquio?”
 
No, razza di stronzo, sono qui per fare una partita a monopoli.
Poi mi faceva accomodare con gli altri, una manica di tizi che, come me dovevano scontare una pena alternativa al carcere. E tutti insieme, stavamo ad aspettare.
 
Molti di loro erano lì per guida in stato di ebbrezza, almeno questo è quello che mi raccontava la psicologa, perché in sala d’attesa non si parlava. Restavamo tutti in silenzio a contare le mattonelle, fino a che qualcuno non si degnava di uscire dalla porta chiamando un nome. Quanta gente ho visto passare su quelle seggiole, uomini e donne di tutte le età, tutti con la loro storia di cui a nessuno importava niente.
 
I colloqui erano tutti uguali, la dottoressa si preoccupava di sviscerare i motivi della mia rabbia repressa, come la chiamava lei, e mi esortava ad esternare i perché e i percome del mio accesso di violenza nei confronti del povero Kol Mikaelson.
A me non andava di parlarne e finivo sempre per fare battute idiote sul colore delle pareti o sul tempo. Mi divertivo parecchio a far incazzare la strizzacervelli, era l’unico diversivo a spezzare la monotonia di quei giorni tutti identici l’uno all’altro. Passata mezz’ora mi sbatteva fuori spazientita, e tanti saluti fino alla settimana successiva.
 
La cosa divertente è che Giuseppe non me lo ha mai chiesto, il motivo. Si è limitato a organizzare tutto nel minimo dettaglio, in modo che la mia bravata non arrecasse troppi danni alla sua immagine di bancario perfetto, padre di famiglia e marito esemplare. Tramite l’amico di un amico di un suo cliente, ovviamente, ha fatto in modo che scontassi la mia pena ad Oakland.
Stavo a casa di mio zio, il fratello di Giuseppe, e di sera lavoravo nel suo ristorante per guadagnarmi vitto e alloggio. Di giorno mi dedicavo alla mia riparazione sociale, come la chiamavano loro, lavorando per le strutture convenzionate col dipartimento.
 
Molto spesso mi capitava di fare compagnia ai malati mentali e allora si che mi divertivo. Forse è per questo che con nostra madre sono sempre stato più in gamba di Stef. Io so come prenderla, senza incazzarmi più di tanto se lei non fa esattamente quello che ci si aspetta da una mamma.
Il fatto è che Stef, proprio come Giuseppe, ha qualche difficoltà ad accettare la sua malattia.
Per quanto io sia il primo a criticarlo, da questo punto di vista un po’ lo capisco, perché i problemi sono emersi in una fase in cui lui non era ancora preparato ad affrontarli.
 
Quando abbiamo saputo cosa aveva lui era ancora un mocciosetto e probabilmente non poteva capire.
Io avevo tre anni di più, che forse non sono molti, ma a quell’età significano qualcosa.
Non dico di aver fatto i salti di gioia a sapere che nostra madre si imbottiva di psicofarmaci per tenersi in piedi, ma arriva un momento nella vita in cui non è più possibile nascondere la testa sotto la sabbia.
Ma Stefan è fatto così. Quando ero ad Oakland ogni tanto mi chiamava, qualche volta è venuto a trovarmi.
Tutte le volte che mi diceva che in fondo ero stato fortunato, avrei voluto spaccargli la faccia, esattamente come oggi. E la mia riparazione sociale si allontanava un po’ di più.
 
Joe continua ad asciugare i bicchieri mentre le casse diffondono le note di una canzone di Bob Dylan di cui ho dimenticato il nome. Il ciccione deve proprio essere un patito del rock anni ’70, da che sono qui dentro non ho sentito altro.
 
“Dì un po’ Joe, che ne dici di cambiare disco? Che ne so, qualcosa di un po’ più attuale…” dico, solo per il gusto di dargli fastidio, stiracchiandomi sul bancone. Scruto i suoi occhietti verdi in cerca di una scintilla di rabbia, giusto per divertirmi un po’. Ma lui sta già guardando oltre le mie spalle e ha di nuovo la faccia da cucciolo.
 
 
Elena
 
Durante il brevissimo tragitto dalla stazione di servizio al bar, il mio stato d’animo ha subito oscillazioni vertiginose. Credo di essere passata in soli due minuti dal disappunto al fastidio, transitando per il sospetto fino ad arrivare ad un improvviso quanto inatteso scoppio di ilarità per la situazione paradossale in cui mi trovo.
 
Io di gente strana ne conosco tanta ma Damon li batte tutti. Oggi pomeriggio abbiamo parlato si e no per cinque minuti, durante i quali è stato in grado di massacrare la mia torta, farmi morire di vergogna al ricordo della nostra prima conversazione, pe trasformarsi come per magia in figlio modello, lasciandomi sola nella cucina di casa sua con una valanga di domande per la testa. Neanche cinque ore dopo ecco che mi telefona sul lavoro, per di più chiedendomi dei soldi.
 
Non ci capisco niente, ma una cosa è certa:  lui e Stefan non potrebbero essere più diversi. Mi riesce veramente difficile credere che condividano lo stesso patrimonio genetico. Mentre venivo qui la mia fervida immaginazione ha lavorato a pieno regime. Sono riuscita addirittura ad ipotizzare scenari stile Beautiful, con scambi di culla e tutto il resto.
 
Quando spingo la pesante porta in legno scuro del bar, produco uno scampanellio che va a confondersi con le note di Hurricane, la canzone preferita di Joe. Conosco i suoi gusti a memoria, perché, quando viene a prendere le sigarette, rimaniamo sempre a chiacchierare scambiandoci pareri sul degrado dell’attuale panorama musicale.
Ora che ci penso, credo di avere ancora a casa un paio dei cd che mi ha prestato. Speriamo che non se ne ricordi proprio questa sera, o potrebbe arrabbiarsi ancora di più. Si perché, se lo conosco un po’, sarà incazzato a morte con Damon… lui giustamente detesta quelli che non pagano.
 
Da che ho memoria questo locale ha sempre lo stesso aspetto: boiserie scura alle pareti, vecchie targhe di auto recuperate chissà dove, tavoli pieni di scritte intagliate con le chiavi, ma soprattutto le foto di Joe quando giocava a rugby, la sua grande passione insieme a Bob Dylan e compagnia.
Io adoro che questo posto sia sempre uguale. Amo le cose che non cambiano mai.
 
È impossibile non notare la stazza imponente del mio barista di fiducia mentre se ne sta dietro al banco, osservando Damon con uno sguardo che definire minaccioso è poco. Avevo ragione, sembra decisamente incazzato, ma quando mi vede i suoi occhi verdi e infossati sono accesi da una familiare scintilla di allegria.
 
“Ciao splendore. Dì un po’ è vero che questo stronzo è amico tuo?”
 
Damon, che se ne sta seduto tranquillo sul suo sgabello dandomi le spalle, si volta subito verso di me, passandosi una mano fra i capelli e finendo per aggrovigliarli ancora di più. Le ciocche corvine gli ricadono sulla fronte in modo disordinato, incorniciando i suoi occhi chiarissimi. Mi rivolge un sorrisetto pigro che gli illumina appena il volto, stropicciato almeno quanto l’immancabile maglia nera che indossa.
Il suo solito sguardo indagatore disegna la mia figura da capo a piedi, ma io tento di non badarci.
 
“Elena finalmente sei arrivata. Coso qui, non ha nessun senso dell’umorismo…” esordisce con un tono spazientito a cui rispondo con un’occhiata accigliata.
 
Coso qui, sta per spaccarti la faccia.” ribatte l’altro. Scaglia lo straccio sul bancone con malcelato nervosismo, incenerendo Damon con un’occhiataccia.
 
“Joe!” esclamo, concentrandomi sul gigante biondo “Ti prego di scusarlo, evidentemente si è dimenticato i soldi. È così distratto… Dimmi quanto ti deve e sistemo tutto io. Ah, ti ho portato le sigarette, nel caso fossi rimasto senza.”
 
Termino la frase con un sorriso dolce, ignorando la faccia torva di Damon, e subito dopo estraggo dalla borsa a tracolla un pacchetto di Lucky Strike, che appoggio sul bancone.
 
“Sei sempre un tesoro Elena. Accomodati, ti offro una birra… E tu, sei fortunato a conoscere  questo angelo di ragazza, altrimenti ti avrei già attaccato al muro.”
 
“Oh oh, che paura!” risponde Damon, sarcastico. Mi avvicino quanto basta per tirargli una gomitata.
 
“Danne una anche a lui e mettila sul conto, Joe. Grazie.” chiedo, sorridendo più che posso. Il mio amico mi guarda storto, ma poi fa come gli ho chiesto e si allontana per andare a fumare.
 
Rimasti soli, Damon mi studia per un lungo istante senza parlarmi. Mi prendo anche io un po’ di tempo per osservarlo in silenzio, scrutando quegli occhi limpidi, che tuttavia mi sembrano sempre nascondere un’ombra di malinconia.  Non riesco a fare a meno di domandarmi per quale motivo sia qui tutto solo ed abbia finito per chiedere aiuto a me, che per lui non sono niente, invece di rivolgersi al fratello o a qualche amico. Possibile che sia così tanto solo? Davvero il suo rapporto con Stefan è pessimo a tal punto? Non ho nessun elemento per poter rispondere a queste domande, solo le mie sensazioni confuse.
 
“E così sei venuta a salvarmi come se fossi una damigella in pericolo…” attacca, col suo tono sarcastico e irritante. Certo che ha un bel coraggio, prima mi chiede aiuto e poi mi sminuisce. Maledico mentalmente la mia mania di scavare oltre la superficie.
 
“Vorrei ricordarti che sei stato tu a chiamarmi, inoltre stai bevendo a mie spese. E poi non lo faccio per te. Joe è un mio caro amico e non mi va di fare brutta figura con lui.”
 
Lui si limita a fare spallucce, dipingendosi in viso l’espressione più innocente di questo mondo.
 
“Quanto la fai lunga… ho solo dimenticato il portafogli a casa e ho pensato che visto che tu eri qui davanti, tanto valeva che attraversassi la strada. Però devo ammettere che ci sai davvero fare col bestione. Di un po’ sei sempre così disponibile con tutti i tuoi clienti?”
 
“Non fai ridere, sai? E comunque, io e Joe abbiamo un’intesa platonica.”
 
“Se lo dici tu. Peccato che al suo posto non ci fosse una bella barista. Non avrei avuto bisogno del tuo aiuto sai?” ribatte sornione, aggrottando le sopracciglia con aria furba. Gli rispondo con un sorrisetto ironico e un’occhiata di sfida.
 
“Per la cronaca, penso che se non fossi stato così maleducato con Joe, saresti proprio il suo tipo ideale. Con quegli occhioni gli avrai fatto girare la testa…”  bisbiglio sbattendo le palpebre. Di fronte alla sua faccia sbalordita non posso fare altro che scoppiare a ridere. Un punto per me.
 
Damon mi guarda per un po’ da sotto le ciglia scure, piegando le labbra in un impercettibile sorriso.
 
“Che hai da guardare? Mi devi trenta dollari bello. Elena non dimentica.” Rido, tutta spavalda per essermi tolta lo sfizio di zittirlo.
 
“Stavo solo pensando che sei una che sa scherzare. Mi piaci, Elena. Dì un po’, fai ridere anche quel musone di Stef qualche volta? È una cosa che non mi capita di vedere spesso.”
 
Nonostante l’immancabile frecciatina al mio ragazzo, questo ha tutta l’aria di essere un complimento nei miei confronti. Non so se dovrei sentirmi lusingata, ma in effetti un po’ lo sono, anche se ovviamente non voglio darlo a vedere.
 
“Stef non è affatto un musone!” ribatto, per poi abbassare lo sguardo sulla mia bottiglia raschiando con l’unghia un angolino dell’etichetta. Con la coda dell’occhio lo vedo sbuffare, per poi prendere una lunga sorsata della sua birra e appoggiarla rumorosamente sul bancone­. Io devo ancora iniziare a bere la mia.
 
“Vai sempre così piano, Elena? Quanti anni hai, quindici?” Si sporge un po’ di più verso di me, parlandomi vicino all’orecchio con una voce bassa e lievemente ironica. Rimango interdetta per un momento, ma poi mi affretto a spostare lo sgabello e recuperare il mio spazio vitale.
 
 “Non farmi fretta Damon. Non ho mangiato niente in tutto il giorno.” ribatto piccata. I suoi occhi divertiti indugiano nei miei per un istante.
 
“Peccato, ti sei persa una torta di mele favolosa.” mi punzecchia, accompagnando le parole con un occhiolino. Ancora questa storia, non ci posso credere. Sospiro profondamente, contrariata dal sorriso sfrontato che si dipinge istantaneamente sul suo volto.
 
“La vuoi piantare di ferire il mio orgoglio? A proposito, tu non hai fame?”
 
 
Damon
 
“Ammettilo, Joe fa gli hamburger più buoni del mondo.”
 
Elena sorride soddisfatta, prende una patatina dal suo piatto e la intinge nel ketchup per poi portarsela alle labbra, in attesa che io dica qualcosa.
 
On ono aliimo…” mormoro in risposta alla sua affermazione, continuando a masticare.
 
“Non ho capito cosa hai detto.”
 
“Dicevo, non sono malissimo. Ma io saprei fare molto meglio, credimi.”
 
Francamente questo panino non ha proprio niente di eccezionale, ma la serata ha preso comunque una piega interessante. Il pensiero di essere qui con Elena e star facendo uno sgarbo a mio fratello mi procura un certo appagamento, non posso negarlo. E poi sua la compagnia vale il prezzo del biglietto, nonostante la cena non sia il massimo.
 
Elena è una ragazza interessante, una persona vivace, curiosa. Quegli occhi da cerbiatta che mi hanno attratto fin dalla prima volta sono un mondo da scoprire. Ha chiacchierato davvero un casino, passando con disinvoltura dal suo ultimo esame ad un’accesa discussione con la montagna umana sui Led Zeppelin e i Pink Floyd.
 
Mentre lei beve un sorso di birra, io  allungo una mano sul suo piatto per rubarle i sottaceti che ha scostato da una parte.
 
“Non li mangi vero?” chiedo, accennando un lieve sorriso. Lei sgrana gli occhi dentro ai miei e increspa le labbra in una smorfia di disappunto. Donne. Non si capisce mai cosa vogliono veramente.
 
“Damon sei un ladro di cetriolini! Magari li stavo conservando per la fine no? Comunque, sei forse un esperto di cucina? Stai sempre a criticare tutti… a New York facevi lo chef per caso?”
 
New York? Ah si. La balla colossale che mio fratello le ha rifilato. Prima o poi forse dovrei dirglielo che la verità è un’altra, ma sarebbe davvero un colpo basso nei confronti di Stef e, anche se il pensiero non mi dispiace del tutto, preferisco soprassedere. Almeno per adesso.
 
“Una cosa del genere…”
 
“Mi prendi in giro per caso? E quale sarebbe il piatto che cucini meglio?”
 
“Le colazioni… davvero Elena, preparo una colazione eccezionale, dovresti provarla.”
 
Inarco le sopracciglia e le faccio un sorrisetto obliquo, ma lei per tutta risposta si mette a braccia conserte, guardandomi come se fossi un deficiente.
 
“Devi proprio fare il seduttore a tutti i costi o stai solo cercando di mettermi in imbarazzo approfittandoti del fatto che sono un po’ brilla? Perché non ci riuscirai. Non sai con chi hai a che fare.” mi sfida.
 
Forse sarà proprio perché ha già bevuto due o tre birre e non mi conosce ancora bene, ma è lei a non sapere quello che dice. Se volessi metterla davvero in imbarazzo saprei esattamente come fare.
Mi fissa per un po’ con gli occhi ridotti a due fessure, mordicchiandosi le labbra piene per poi incresparle in un sorriso che sembra più che altro una provocazione. A quanto pare le piace zittirmi, non si rende conto che la sto solo lasciando fare. Mi immergo nel suo sguardo, prolungando volutamente il contatto visivo.
 
“Secondo me puoi fare di meglio di questo stupido trucchetto con gli occhi.” taglia corto, alzando un sopracciglio e scoppiando a ridere. La sua è una risata bella, che riempie lo spazio. Una risata vera, una di quelle che raggiungono anche gli occhi. Mi piacerebbe dirglielo, ma poi penso che non sia il caso.
 
“Attenta ragazzina… non sfidarmi.”
“Attento tu vecchietto. Puoi anche toglierti quella maschera da playboy con me.”
 
Ha carattere, bisogna ammetterlo. Allungo le braccia sulla spalliera della panchetta in legno, accompagnando il gesto con uno sbadiglio annoiato.
 
“Sai Elena, certe volte a far credere di essere superficiali ci si guadagna in spensieratezza. Io ho già abbastanza problemi.”
“Quali problemi?” chiede, aggrottando le sopracciglia
“Gli stessi che hai tu… la vita.”
“Uno chef filosofo. Niente male.” commenta ironica.
“Parla quella che studia alla Berkeley e fa le traduzioni tra un pieno di benzina e l’altro.” ribatto, replicando il suo tono. Lei però non sembra apprezzare la battuta. Sbuffa infastidita, si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e torna a guardarmi seria.
 
“Parli proprio come mio padre.”
“Non penso sia un complimento.”
“Infatti non lo è.” risponde seccata. Appoggia il panino nel piatto e inizia a pulirsi le dita con un tovagliolino con talmente tanta foga da disintegrarlo. Piego la testa da un lato, studiando le sue reazioni.
 
“Scusami Damon… è che abbiamo litigato.” si giustifica, accennando un lieve sorriso.
“Le cose non sono migliorate dall’ultima volta eh?”
 
“Va tutto come al solito. Nonostante non sia più una bambina da un pezzo, continua a volermi plasmare a sua immagine e a non accettare che io sia diversa da lui… E poi c’è Jeremy, mio fratello, che avrebbe tanto bisogno di una figura paterna, ma non viene nemmeno preso in considerazione perché è troppo difficile da gestire. Vorrebbe che quando ci vediamo fossi sempre bella e sorridente, come un trofeo da esibire. Non si preoccupa nemmeno di sapere chi sono veramente. Esiste solo la facciata, i problemi devono restare a casa. Come si fa ad avere un dialogo con una persona che rifugge qualsiasi confronto? E lo sai quello che mi fa più paura in tutto questo? Lo sai?”
 
“Non lo so… ma puoi dirmelo se ti va.” rispondo, disorientato dall’improvviso fiume di parole che mi ha travolto e dal suo viso arrossato dalla rabbia. I suoi occhi troppo grandi si spalancano e appoggia i palmi aperti sopra il tavolo, in cerca di un appiglio.
 
“Ho paura di assomigliargli per davvero e che tutta la mia vita sia solo un ostinarsi a dimostrare il contrario. Capisci quello che sto cercando di dirti?” chiede preoccupata, cercando una rassicurazione che non ho nessuna difficoltà ad offrirle.
 
“Più di quanto immagini, ragazzina. Però, ti avviso. Ti sta prendendo la sbronza triste… così non va. Tu non sei fatta per bere, non hai stoffa bellezza.” scherzo, sollevando un angolo della bocca.
Non mi stupirei se da un momento all’altro ordinasse una bottiglia di tequila, giusto per dimostrarmi che io ho torto e lei ragione.
 
“Hai ragione. Una volta ero più divertente.”
“Non buttarti giù. Non sei così male…”
 
Mi sporgo un po’ sul tavolo e allungo una mano sul suo viso, togliendole una briciola di pane che le è rimasta sull’angolo della bocca. La vedo sbattere le ciglia e socchiudere le labbra un po’ esitante.
Poi abbassa lo sguardo sulle mie dita, per spostarlo immediatamente su di me. E adesso ho la netta impressione di essere riuscito finalmente a metterla in imbarazzo.
 
“Eccoti qua Elena! Meno male che dovevi fermarti solo cinque minuti…”
 
La voce squillante di una bionda tutta boccoli prorompe fra di noi. Elena si ritrae immediatamente, indietreggiando fino ad appoggiarsi alla spalliera.
 
“Caroline… che diavolo ci fai qui?” balbetta, in direzione di quella che intuisco essere una sua amica.
 
“Ma se mi hai scritto tu che saresti passata di qua. Ti ricordi? L’sms di prima… Vabbè lasciamo perdere. Perché non mi presenti il tuo amico piuttosto?
 
 
*********
Buongiorno e buon sabato.
Definirei questo capitolo un parto plurimo. Ci ho pensato e ripensato, non sapevo come fare a mettere in parole abbastanza chiare quello che avevo in mente. Poi ho capito che la chiave poteva essere quella di far parlare di più Damon, che aveva bisogno di essere conosciuto meglio da voi e un po’ anche da Elena.
Questa storia è una sfida mi mette in crisi almeno tanto quanto mi appassiona. Verso la fine spero di aver alleggerito almeno un po’ la pesantezza dell’incipit… e poi vorrei sapere se vi scoccia che qualche personaggio sia tutto di mia invenzione e non abbia niente a che fare con la serie… ragazzeee quante paranoie scusate. Mi taccio che è meglio. Ringrazio tutte per il preziosissimo supporto, chi segue, chi preferisce, chi legge in silenzio, chi addirittura mi commenta.
Un bacio grande grande
Chiara
 
PS. ON ONO ALIIMO è tutta per la splendida Simo per ringraziarla per il prezioso supporto morale e i dibattiti sui mini pony! Grazie cara ;) smack!
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Talk Show Host ***


CAPITOLO 4 – TALK SHOW HOST
 
I want to be someone else
or I'll explode
***
Voglio essere qualcun'altro
o esploderò
 
Talk Show Host – Radiohead
 
 

 
“Odiò tutto ciò che le fu possibile in quel momento. Odiò se stessa, il mondo, la sedia che le stava davanti, il termosifone rotto in uno dei corridoi, le persone perfette, i criminali. Era ricoverata in una clinica per malattie mentali e poteva provare sentimenti che gli esseri umani nascondono anche a se stessi: perché tutti siamo educati soltanto per amare, per accettare, per tentare di scovare una via d'uscita, per evitare il conflitto. Veronika odiava tutto, ma principalmente il modo in cui aveva vissuto: senza mai scoprire le centinaia di altre Veronike che dimoravano dentro di lei e che erano interessanti, folli, curiose, coraggiose, audaci.”
 
Veronika decide di morire – Paulo Coelho
 
 
Damon
 
L’odore delle lenzuola pulite, il familiare cono di luce che penetra dalla finestra colpendomi il viso, la coperta a scacchi un po’ logora. Si, è sempre la stessa stanza, anche se da quando è stata ridipinta e svuotata delle poche cose che la rendevano almeno apparentemente mia faccio fatica ad abituarmici.
 
Sbatto le palpebre nella semioscurità, percependo ben distinto l’aroma di caffè appena fatto che risale dalla cucina e penetra da sotto la porta. Stare qui ha anche i suoi vantaggi, devo ammetterlo.
Da mio zio mi svegliavo da solo, lui usciva presto e finivamo per incrociarci solo la sera, quando iniziavo il turno al ristorante. Lui è un tipo sulle sue, esattamente come me, il che risparmiava ad entrambi un bel po’ di fastidi. Nessuno dei due era costretto a fingere di farsi piacere l’altro, sulla base di un tacito accordo che fondamentalmente prevedeva di non romperci le palle a vicenda. Devo dire che funzionava alla grande.
 
Scosto le coperte e metto un piede fuori dal letto, percependo la sensazione del parquet freddo e liscio sotto i piedi. Ripercorro mentalmente tutti i passi che ho fatto per arrivare qui e mi rifugio in quel pensiero per un attimo. Ho trascorso una notte senza sogni, una specie di oblio che ha fatto seguito alla strana e inaspettata serata di ieri. Mi concentro talmente tanto su quel pensiero da accorgermi solo dopo un po’ del suono del telefono, che vibra da non so quanto contro la superficie di legno scuro del comodino accanto al mio letto. Lo cerco a tentoni con la mano e me lo porto all’orecchio, senza nemmeno prendermi il disturbo di controllare chi diavolo abbia avuto il coraggio di telefonarmi a quest’ora del mattino.
 
“Pronto…” mi esce in automatico, in un mugugno distorto dal sonno. Non mi sforzo neanche un po’ per non risultare scocciato, chiunque ci sia dall’altra parte dovrà farsene una ragione.
 
“Sorgi e splendi Damon… si può sapere perché stai ancora dormendo?”
 
“Sei sempre la solita… e comunque, sono sveglio da un pezzo.”
 
“Non barare…”
 
Ecco il problema di avere una donna come migliore amico. Le donne non le intorti.
A parte questo dettaglio, Rose è la numero uno. Io e lei siamo la prova vivente che l’amicizia fra uomo e donna esiste, ma per arrivare a questa consapevolezza, abbiamo dovuto toglierci il pensiero finendo a letto insieme. Non che sia stato male, ma ci siamo resi conto subito che come coppia non eravamo un granché, forse perché ci conosciamo troppo o più probabilmente perché siamo talmente simili da non trovare un incastro stando insieme.
 
“Secondo me hai fatto un casino col fuso orario e qui è ancora notte fonda. La matematica non è mai stata il tuo forte.”
 
La sua risata spontanea la saprei distinguere fra un milione di altre, anche se i chilometri che ci separano la rendono lievemente metallica.
 
“Parli proprio tu, Damon. Allora, che mi racconti? Che c’è di nuovo a San Francisco?”
 
Massaggiandomi le tempie con la punta delle dita, mi sforzo di pensare a una cosa, almeno una, che sia cambiata di una virgola negli ultimi sei mesi, tanto per poterle dire qualcosa di diverso.
Il bello di vivere in una grande città sta nel fatto che puoi andartene in giro per giorni senza incontrare nessuno che conosci, ma la cosa davvero divertente è quando incroci una faccia nota. Allora comincia la solita maledetta solfa, che ormai conosco a memoria: ti trovo bene, sei sciupato, che lavoro fai, stai con qualcuna, ci si vede in giro...
In quel momento ti rendi conto che saresti potuto stare via altri cinquant’anni, e non ti saresti perso un bel niente. Sbuffo nel telefono, e mi esce un qualcosa che è un incrocio tra uno sbadiglio e un lamento annoiato.
 
“È tutto uguale Rose. Sempre le solite facce, i soliti discorsi idioti. E se ti riferisci alla famiglia Salvatore, mia madre rimane la più normale di tutti. Tu piuttosto… come stai?”
 
“Sempre meglio Damon… davvero. Ed è solo merito tuo…” sospira, lasciando sospesa la frase in un silenzio pieno di parole solo nostre.
“Un po’ anche di Trevor, devo ammetterlo.” aggiunge dopo la pausa, un sorriso nuovo e fresco nella voce. Il sorriso di una donna innamorata.
 
“Solo un po’…” sottolineo, con finta disapprovazione. Lo so che Trevor è a posto, se pensassi il contrario non gli permetterei mai di starle accanto. Ma devo riconoscere che da quando sono insieme lei sembra essere un’altra persona, più serena.
Rose ride di nuovo, ma quando la sento schiarirsi la voce so che è giunta l’ora delle domande scomode.
Lei non fa mai niente per caso, nemmeno le telefonate.
Riesco perfino a immaginarmela la sua espressione seria, mentre si stringe le ginocchia contro il petto e tiene il cellulare incastrato fra la spalla e la guancia.
 
“Dimmi di te. Che programmi hai oggi?”
 
Ci penso un po’ prima di risponderle, anche perché, a dire il vero, non ho nessun piano. Esattamente come al solito. Il fatto è che mi sento come se tutti gli stimoli si fossero azzerati e ho la netta sensazione di essermi trasformato in uno spettatore muto della mia stessa vita, che mi scorre sotto agli occhi indifferente senza che io possa intervenire in alcun modo.
 
“Niente di particolare. Provocherò qualche lite o forse mi limiterò a far incazzare mio fratello nascondendogli il gel per capelli…” sorrido.
 
“Perché invece di dire stronzate non scendi da quel letto e fai qualcosa per te stesso? Non puoi startene lì ad aspettare che le cose ti piovano dal cielo Damon. Mi sembri uno che ha una Ferrari sotto il culo e corre ai cinquanta all’ora.”
 
Ecco dove voleva arrivare. Lo sapevo.
A differenza del resto del mondo, Rose non ha mai creduto che io fossi un perditempo. È sempre stata convinta che io tutto sommato valessi qualcosa e ha speso un mucchio di energie per cercare di dimostrarmelo. E adesso non vuole darmi il tempo di crogiolarmi nella strana dimensione di insensibilità in cui mi trovo, vuole spronarmi a prendere di nuovo in mano la mia vita.
Solo che io non so da che parte cominciare. Nell’ultimo anno, a parte i sei mesi ad Oakland, mi sono destreggiato tra mille piccoli lavori di cui non mi importava niente, ma che almeno mi risparmiavano l’umiliazione di chiedere soldi a Giuseppe.
In fondo però lo so che Rose ha ragione, ma ammetterlo è fuori discussione, perciò decido di stare sul vago, rifilandole un approssimativo “ci proverò”, che si farà bastare. Almeno per adesso.
 
 “Mi manchi sempre Dam, lo sai?”
 
“Anche tu, Rose. Mi manchi anche tu.”
 
 
Elena
 
“Sto arrivando… Arrivo!!” sbraito, saltellando in direzione della porta di casa. Con una mano reggo ancora l’asciugamano, mentre i capelli bagnati mi ricadono sulle spalle, macchiando di scuro la maglia azzurra taglia xxl che uso come pigiama. Non devo fare troppi sforzi per immaginare chi possa suonare alla mia porta alle otto del mattino, premendo ripetutamente il pulsantino del campanello fino a farmi letteralmente uscire di testa.
 
E infatti eccola lì, Caroline Forbes. Capelli freschi di shampoo, trucco appena fatto e il suo classico look da giornata universitaria, che oggi prevede jeans aderenti, top stile corsetto, giacchino in pelle sapientemente invecchiata. Informale, certo, ma con un tocco di glamour, come lo chiama lei, giusto per non  passare inosservata. Ma come fa?
 
Si precipita in casa senza dire una parola, mentre io chiudo la porta e ripercorro con i piedi ancora infilati nei calzettoni la scia ticchettante dei suoi passi.
 
“Ti faccio un caffè? riesco a balbettare, ma sono di nuovo in ritardo rispetto a lei.
Si è già accomodata su una delle due sedie di plastica gialla che arredano il mio misero cucinino, i gomiti appoggiati sul tavolino di fòrmica, le mani curatissime incrociate con grazia sotto il mento e un bicchiere di succo d’arancia posato lì accanto, nel caso le venisse sete. Niente caffè, giusto. Lei non ne ha bisogno, e poi macchia i denti e certi rossetti non le donerebbero più. Allora si che il suo mondo potrebbe implodere.
La osservo per un attimo, sinceramente stupita dalla sua intraprendenza che oggi mi sembra eccessiva perfino per una come lei.
 
“Si può sapere che ti prende Care? Perché mi guardi così adesso?” esclamo, notando l’occhiata tagliente e vagamente ostile con cui sembra volermi perforare i bulbi oculari.
 
“Parla.” mi ordina in tono asciutto. La guardo a braccia conserte, senza capire la ragione per cui  sembra avercela tanto con me. O forse…
 
“Di cosa scusa?”
 
“No no no. Stai già sbagliando tutto. Non di cosa ma di chi. Voglio sapere tutto quello che c’è da sapere su Mr. Occhi Blu.”
 
“Mr. chi??” rispondo con aria innocente, avvicinandomi alla macchina del caffè per versarmene una tazza.
Lo ammetto, sto giocando e mi piace, ma è troppo buffa e mi diverte vederla in questa situazione.
Ieri sera, quando è piombata come una furia al bar di Joe, si è subito dimostrata parecchio interessata a Damon ed è partita in quarta con mille domande. Lui ha risposto con una manciata di monosillabi, forse stordito dalla voce perfora-timpani di Care, resa ancora più acuta dall’emozione di trovarselo lì davanti.
Damon non è sembrato del tutto indifferente al fascino della mia amica, ma, essendosi reso conto che un eventuale dopocena con lei avrebbe comunque dovuto essere finanziato dalla sottoscritta, ha preferito defilarsi senza dare troppe spiegazioni e lasciandosi dietro il suo solito alone di mistero, che evidentemente deve aver sortito l’effetto sperato.
 
Con un po’ di fatica sono riuscita ad aggirare le domande di Care su di lui, limitandomi a riferirle l’indispensabile: è il fratello di Stefan.
Anche perché, volendo aggiungere particolari cosa avrei potuto dirle? Distratto ma intraprendente, presunto chef, mezzo filosofo, seduttore da strapazzo. Beh, mica tanto da strapazzo.
Oggettivamente Damon è il classico uomo in grado di farti perdere la testa con un solo sguardo.
Sarà per questo che sei mesi fa, dopo averci parlato si e no otto secondi, mi ero presa una cotta platonica per lui. La cosa, tuttavia, in certi momenti riesce ancora a procurarmi un certo imbarazzo nei suoi confronti. Un po’ me ne vergogno, anche se non lo ammetterò mai.
 
Ripenso a poco fa, quando sono uscita dalla doccia in tutta fretta per rispondere al telefono.
Stefan. Era dolce come sempre, nella sua voce limpida nemmeno un’ombra di risentimento per la piccola discussione di ieri. Gli ho chiesto di vederci ed era felice, ma quando ho aggiunto le paroline magiche “per parlare di ieri” ho percepito una piccola esitazione.
 
“Elena, oggi è una giornata importante per me. Firmerò il contratto con la banca. Perché rovinarla con i problemi degli altri?”
 
Per lo meno ha ammesso che c’è un problema di cui parlare, anche se a quanto pare per lui è una cosa difficile da condividere con me.
Infatti ha subito cambiato argomento, raccontandomi della cena con suo padre e dei clienti che gli ha presentato, entusiasta per la sua carriera che sembra avviarsi nel migliore dei modi.
Mentre parlavamo ho fatto scivolare una mano sulla superficie fredda dello specchio, resa umida dalla nuvola di vapore che ho creato indugiando troppo a lungo sotto il getto di acqua calda.
 
“E tu che hai fatto ieri? Sei uscita dopo il lavoro?”
 
La sua voce era affettuosa, rilassata, la domanda più che giustificabile, ma la mia mano si è bloccata a mezz’aria mentre cercavo davanti a me il mio riflesso appannato e ricoperto di piccole gocce d’acqua.
Per una manciata di secondi ho esitato, ma alla fine gli ho raccontato tutto.
Lui è sembrato molto scocciato col fratello, e per un attimo è riuscito addirittura a farmi sentire in colpa.
Mi sono chiesta il perché.
Poi la nebbia è evaporata, restituendomi il mio solito riflesso. Labbra piene e fin troppo imbronciate, occhi scuri, i capelli bagnati che mi ricadevano disordinatamente sulle spalle arrossate. Ho cercato una risposta nel mio sguardo, ho respirato a fondo e ho sorriso di me stessa.
Sei proprio una sciocca, Elena, mi sono detta. Ti senti stupida perché qualche mese fa hai provato una piccola, insignificante attrazione per Damon e adesso che stai insieme a suo fratello è tutto strano. Basterebbe che glielo dicessi per sciogliere definitivamente quella sorta di tensione che c’è fra di voi.
E poi forse potreste anche diventare buoni amici. Lo senti a pelle che ti piace, altrimenti non gli avresti raccontato tutte quelle cose sul tuo conto.
E con Stefan? Perché ho la sensazione che non sopporti suo fratello e ancor di più che non voglia rendermi partecipe dei suoi problemi?
 
“Mi stai ascoltando Elena?”
 
La voce della mia amica mi riporta alla realtà. Probabilmente ha continuato a parlare ininterrottamente mentre io mi perdevo fra i miei voli di fantasia, con la brocca del caffè ancora a mezz’aria, il viso rivolto verso il mobiletto delle tazze e la mano posata sul pomello.
 
“Scusami, mi sono distratta un attimo. Dicevi?” chiedo, concentrandomi di nuovo su di lei.
 
“Mi organizzerai un’uscita con Damon. Magari potreste venire anche tu e Stefan…”
 
La sua non è una domanda, ma un’affermazione che mi converrà assecondare al più presto se non voglio che vada fuori di testa e continui a tormentarmi all’infinito. Torno a voltarmi verso l’antina per evitare il suo sguardo indagatore e afferro una tazza a casaccio che riempio subito dopo di caffè, mentre faccio un respiro profondo.
 
“… ok Care. Quando vedrò Stef gliene parlerò ok?”
 
I suoi occhi azzurri si illuminano di un lampo di gioia e mi rivolge il sorriso felice di una bimba a cui la mamma ha appena promesso un bel cono gelato. L’ho fatta contenta e anch’io mi sento più leggera.
Mi soffia un bacio con la mano prima di prendere un sorso del suo succo di frutta per poi ricominciare a chiacchierare.
 
“Certo che quella famiglia ha un patrimonio genetico eccezionale, non pensi?”
 
“Già…” mormoro, stringendo tra le mani la mia tazza bollente. E mi piacerebbe saperne qualcosa di più.
 
 
Damon
 
Appena entro in cucina vengo accolto dall’occhiata di disapprovazione di mio fratello, che, vestito di tutto punto col suo bel completo grigio fumo, sta leggendo con apparente trasporto la pagina della borsa.
 
“E io che credevo che facessi finta di farti piacere quella roba solo per far contento nostro padre. È evidente che mi sbagliavo, la situazione è più grave del previsto.” gli dico.
Incrocio per un attimo i suoi occhi gelidi, mi verso una tazza di caffè e mi accomodo sulla sedia davanti a lui, che subito abbassa il giornale e mi osserva con aria torva.
 
“Si può sapere cos’hai da guardare Stef? Mi sembri più cupo del solito stamattina.”
 
“Veramente io sono di ottimo umore, dato che oggi finalmente firmerò il contratto. Tu invece? Starai qui a guardare il soffitto come ogni giorno in attesa di inciampare per sbaglio nel tuo futuro?”
 
Adesso si che vorrei strozzarlo con quella cravatta regimental del cazzo. A quanto pare da nostro padre ha ereditato anche altro, oltre al pessimo gusto nel vestire. Mi sono sempre chiesto perché cercasse in tutti i modi di assomigliargli, sperando in qualche meccanismo psicologico di imitazione o che so io, ma credo di essermi illuso, perché Stefan, nel mondo di Giuseppe sembra pienamente a suo agio.
 
“Se pensi che ti invidi perché firmerai la tua condanna a vita come leccapiedi di nostro padre, sappi che sei fuori strada. Piuttosto, se sei così euforico mi spieghi perché hai quella faccia?” chiedo, scrutando la sua espressione che sembra essere molto più corrucciata del solito.
 
“Riguarda Elena, Damon. Mi ha raccontato tutto di ieri sera.” risponde asciutto senza scomporsi, ma sottolineando ogni parola. Non riesco a trattenermi dal rivolgergli un mezzo sorriso, che riesce solo a farlo agitare di più.
Sarebbe bello provocarlo un po’, ma rischierei di mettere nei casini la piccola Elena e non sarebbe giusto.
Dopotutto il suo è stato un puro gesto di altruismo nei miei confronti.
 
“Ops...”
 
Stefan posa la tazza con un po’ troppa foga, finendo per rovesciare qualche goccia di caffè che gli cola sulle dita e scivola sul tavolo immacolato macchiandolo di scuro. Poi mette da parte il suo giornale, piegandolo in modo maldestro. Tutta la sua sicurezza sembra essere scomparsa di colpo. Lo osservo per un po’, studiando il suo viso preoccupato.
 
“Fammi indovinare. Hai paura, perché è ancora convinta che nostra madre sia Marion di Happy Days, piccolo Richie Cunningham che non sei altro. Tranquillo Stef, i tuoi segreti sono al sicuro, ma se vuoi il mio parere dovresti dirglielo.”
Mio fratello rimane in silenzio per un po’, ma tiene gli occhi bassi inseguendo i suoi pensieri.
Il che mi fa intuire che devo aver fatto centro.
 
“Lo sai che per me non è facile, Damon… so che devo farlo, ma ho paura di perderla. Elena è una ragazza speciale, l’hai vista no? È forte, indipendente, brillante. Non ha paura di niente, invece io…”
 
Mentre lo ascolto, il pensiero di lei mi attraversa la mente come un lampo confuso, in cui si mischiano le sue battute sagaci e quegli occhi grandi e sempre sinceri, nel bene e nel male.
Stare con lei ieri sera è stato un po’ come vivere quello che poteva essere e non è stato. Come fare un tuffo nella normalità, che nella mia vita è un fattore poco scontato. Lei è la boccata di ossigeno che mi piacerebbe respirare ancora, ma è piuttosto chiaro che non ho nessun diritto di interferire fra lei e mio fratello, nemmeno se si tratta di farlo arrabbiare un po’.
 
“Senti Stef, davvero, non ho intenzione di mettermi in mezzo. Penso solo che Elena sia una persona intelligente e che non giudicherebbe male né nostra madre né i miei problemi. Però se ci tieni a lei come dici, parlale. Più aspetti e peggio sarà.”
 
I suoi occhi agitati indugiano dentro ai miei per qualche istante, dopo di che si alza e se ne va senza dire una parola, lasciando a un nuovo silenzio il compito di farci macerare nelle nostre reciproche incomprensioni.
 
 
Elena
 
Respiro a fondo nel tentativo di riprendere fiato, appoggiando una mano al muretto lì accanto e l’altra sul fianco, dove sento un dolore pulsante, mentre gli auricolari mi sparano nelle orecchie a tutto volume le note di Given to Fly dei Pearl Jam.
Era da una vita che non andavo a correre e le conseguenze si sentono tutte. Sono letteralmente sfatta, con i capelli incollati al viso madido di sudore, le gambe molli e il respiro che non ne vuole sapere di regolarizzarsi.
Forse non è stata una buona idea riprendere i miei allenamenti di corsa proprio oggi. Le strade di San Francisco non sono altro che ripide salite, ma devo ammettere che per essere ferma da un mese me la sono cavata abbastanza bene se non sono ancora morta.
 
Mentre tento di calmare il ritmo impazzito del mio respiro, inseguo con lo sguardo il passaggio del  tram arancione carico di passeggeri, che si arrampica sulla collina con la sua lenta e inconfondibile andatura.
Se mi volto verso il basso posso distinguere i profili dei tetti spioventi delle ville e, più lontano, i grattacieli del Financial District. Il verde degli alberi perfettamente curati si staglia contro il cielo azzurro e il blu appena più profondo del mare che si scorge in lontananza.
Cammino a passo spedito con le mani appoggiate sui fianchi per riprendermi un po’, un vento leggero mi sferza il viso sudato facendomi rabbrividire per un istante. Ripenso a questa mattina.
 
Quando Caroline se ne è andata mi sono seduta sul letto in compagnia del mio solito libro e dell’immancabile matita. La mia concentrazione, già piuttosto scarsa, è andata definitivamente a farsi benedire quando mia madre mi ha telefonato per annunciarmi la rottura con Michael, il dentista senza spina dorsale.
Mentre parlava raccontandomi le sue ragioni, mi sono distesa sul letto concentrandomi su una piccola crepa del soffitto, mentre la sua voce mi arrivava lontana e indistinta.
E non importa se mi sono persa l’ultimo capitolo di una saga che si ripete uguale da quando avevo sette anni. Ormai devo farmene una ragione, mia madre è una persona instabile e non sa affrontare il minimo ostacolo che si presenti in un rapporto di coppia.
Non che Michael mi facesse impazzire, ma sono davvero stanca di ascoltarla, capirla, accudirla, quasi come fosse lei la figlia e io la madre premurosa. Una volta, una soltanto, vorrei essere io quella che si fa coccolare, quella che la chiama per chiederle un consiglio. Nonostante tutto però, non riesco ad avercela con lei.
Solo quando ha lasciato John ho pensato che avrei potuto odiarla davvero. Lui era il padre che ho sempre sognato di avere, la persona che tutt’ora rappresenta il punto di riferimento più importante della mia vita.
E mi sento strana e stupida per questo, perché lui ha la sua di vita, i suoi veri figli, eppure sono costretta ad aggrapparmi ancora a lui, ai suoi consigli e all’affetto che solo lui riesce ad offrirmi.
 
Dopo aver salutato mia madre, ho buttato il libro da una parte, ho tirato fuori le scarpe da ginnastica e l’i-Pod, decisa a fare una passeggiata all’aria aperta che subito dopo ha deciso di trasformarsi in una corsa in barba ai miei capelli appena lavati. Per lo meno adesso mi sento un po’ meglio.
 
Una volta a casa trovo Stefan seduto sui gradini che mi aspetta. Ha il nodo della cravatta allentato e le maniche della camicia arrotolate per il troppo caldo. La giacca del suo bel completo è un mucchietto grigio e indistinto accanto a lui. Ha l’aria stanca e preoccupata.
 
“Hey…” lo saluto sorridente, togliendomi gli auricolari e cercando di sistemarmi i capelli dietro le orecchie.
 
“Non mi aspettavi vero?” risponde, gli occhi tristi e il viso serio. Non posso credere che sia ancora arrabbiato per la storia di Damon, eppure sembra davvero cupo.
 
“Sono felice che tu sia qui. Ho tanta voglia di parlare con te Stef, davvero.”
 
“Anche io Elena. Sono qui proprio per questo.”
 
 
Damon
 
Quando entro nel locale rimango subito colpito dalla grande vetrata che si affaccia sulla baia di San Francisco offrendone una visione spettacolare e inondando l’ambiente di un’abbagliante luce naturale.
Per il resto questo posto non è niente di che. È piuttosto spoglio e vuoto, con le sedie sono accatastate sui tavoli e un fastidioso ronzio di sottofondo, provocato da una radio che non sembra funzionare come dovrebbe.
Non so neanche io perché mi trovo qui. Forse sono state le parole di Rose, forse le provocazioni di Stefan, forse quell’annuncio che ho letto per caso sul giornale e che sembrava essere un segno del destino. Però, adesso che sono qui, mi sento piuttosto a disagio.
Un tizio alto e magro sta dietro al bancone e sembra litigare con la sua calcolatrice mentre annota qualcosa su un block notes, il che mi fa pensare che potrebbe essere lui l’uomo che sto cercando.
Appena si accorge della mia presenza, solleva lo sguardo dai suoi conti per rivolgermi un’occhiata annoiata e stanca.
 
“Siamo chiusi amico.” mi dice, con l’aria un po’ scocciata, passandosi una mano fra i capelli scompigliati.
 
“Veramente ho letto che cercate un aiuto.” chiedo, avvicinandomi al bancone e mettendomi comodo. Il tizio mi guarda storto, studiandomi un po’. Forse non ho esattamente l’aspetto di uno che cerca lavoro in un ristorante sulla baia, però tutto sommato non mi sembrava tanto male poter lavorare vicino al mare e sfruttare quel poco che ho imparato da mio zio.
E poi, se un tizio come quel Joe di ieri sera riesce a lavorare facendo quegli hamburger schifosi, forse anche io ho diritto alla mia chance.
 
“In questo caso… Ti offro qualcosa da bere. Preferenze?” chiede il tipo, afferrando due bicchieri dalla mensola sopra la sua testa e piazzandomeli davanti. A quanto pare ha intenzione di farmi compagnia.
 
“Un bourbon andrà benissimo.” rispondo. Lui sembra contento dalla mia scelta e mi rivolge un’occhiata soddisfatta.
 
“Ottima scelta. Ti chiami?”
 
“Damon. Damon Salvatore”
 
Lui mette su una faccia sospettosa e mi punta un dito contro.
 
“Aspetta un secondo… Salvatore come Giuseppe? Quello della banca?”
 
“Già, proprio lui. È mio padre.”
 
Bingo, la mia fama mi precede. Il tipo sgrana gli occhi nei miei, incredulo. Non capisco se la mio rapporto di parentela con Giuseppe gli faccia piacere o lo infastidisca, ma non ho altra scelta che stare a vedere come reagisce. Incrocia le braccia sul petto stringendo gli occhi con aria diffidente.
 
“Perché uno come te vuole lavorare in un buco di ristorante come questo invece di starsene a contare soldi dietro una scrivania?”
 
“Sinceramente non fa per me. Comunque, se conosci mio padre e vuoi farti un’idea sul mio conto, pensa a quanto di più lontano ci possa essere da lui e avrai la tua risposta.” ribatto, con un’alzata di spalle. 
Sembra soddisfatto dalla mia risposta, perché mi rivolge un’occhiata compiaciuta e afferra la bottiglia di bourbon riempiendo i due bicchieri. Non so perché ma questo tizio già mi piace.
 
“A dirti la verità non conosco benissimo tuo padre, tempo fa gli avevo chiesto un prestito e lui me l’ha rifiutato. Diceva che non potevo offrirgli abbastanza garanzie, roba del genere. Ma io dico, se avessi già i soldi non te li chiederei… mi segui amico?”
 
“Non fa una piega.” rispondo.
 
“Ok Damon, ascoltami bene. Io qui ho bisogno di uno in gamba, uno che si sappia arrangiare. Hai qualche esperienza in questo settore?”
 
“Qualcosa, niente di che. Ho lavorato qualche mese ad Oakland, ma negli ultimi tempi mi sono un po’ perso.” Tanto vale essere sinceri, penso. Il tizio mi fa un mezzo sorriso, studiando la mia espressione per qualche secondo.
 
“Beh, come si dice, se non ti perdi non trovi strade nuove. Quindi facciamo così, domani sera ti aspetto qui per fare una prova. Se va tutto bene, sarai dei nostri.”
 
Tutto qui? Credevo che il colloquio prevedesse qualche domanda più specifica, ma è chiaro che mi trovo davanti a un personaggio fuori dagli schemi, il che non può che essere un punto a mio favore.
 
“Ok… come hai detto che ti chiami?”
 
“Alaric. Ma puoi chiamarmi Ric.” risponde, per poi afferrare il suo bicchiere e farlo cozzare contro il mio. Direi che come inizio non c’è affatto male.
 
 
Elena
 
Stefan se ne sta seduto sulla sedia in plastica del mio cucinino, la stessa dalla quale Caroline mi guardava questa mattina, facendomi sorridere per via della sua faccia buffa e delle sue domande da 007 in gonnella.
 
Solo che adesso, non ho più voglia di ridere.
Lui si tiene la testa fra le mani, gli occhi fissi sul tavolino davanti a sé.
Io lo osservo da in piedi, appoggiata all’anta del frigo, incapace di formulare un pensiero che abbia un senso. Percorro i suoi lineamenti marcati, il profilo del suo naso, sfioro con lo sguardo i bottoni della sua camicia, uno ad uno, e non riesco a fare a meno di chiedermi perché.
 
“Perché non me lo hai detto Stefan? Perché stiamo insieme se in tutto questo tempo non ha avuto il coraggio di parlarmi di una cosa così importante?”
 
“Ho ventiquattro anni Elena. Sono troppo pochi per accettare, per umiliarsi, per credere a una stupida diagnosi. Ho ancora bisogno di mia madre, l’ho sempre avuto ma lei non c’è mai stata. Avrei voluto che fosse presente alla mia laurea, o in qualsiasi altro momento importante, che mi proteggesse. Vuoi un perché? Decidi tu… disperazione, rabbia, rancore, sensi di colpa... Oppure vergogna. Tutto quello che mi viene in mente quando penso a lei è la vergogna.” ribatte, la voce piena di frustrazione.
 
“Ti vergogni con me?” chiedo, alzando la voce
 
“Tu non sai come ci si sente ad avere una madre come lei. Si, mi vergogno. Mi vergogno perché si è arresa, perché si è lasciata andare. Perché non è riuscita ad affrontare quella stupida depressione e ha iniziato prendere quei maledetti psicofarmaci e adesso è in uno stato pietoso. E nello stesso tempo mi sento in colpa, perché quello che provo non è giusto nei confronti di mia madre, e soprattutto nei miei...”
 
Le parole che gli sento pronunciare sono lame. Non lo conosco affatto dopo tutto questo tempo, se ha sentito la necessità di mettere da parte sentimenti così forti proprio con me.
 
“Io voglio solo aiutarti Stefan, sei tu che non me lo hai permesso. Perché non ti fidi di me?”
 
“Mi fido di te Elena. Solo che… avrei voluto mostrarti solo il meglio di me, solo le cose belle. Riesci a capirlo?”
 
I suoi occhi verdi cercano i miei, eppure non mi sembrano gli stessi di sempre. In questo momento ho l’impressione di aver a che fare con un estraneo e il pensiero mi terrorizza molto di più della rivelazione shoccante di Stefan. Come ho fatto ad essere così stupida, così superficiale da non capire una cosa del genere? Dentro di me si fanno strada mille emozioni contrastanti, dal senso di colpa per non essergli stata vicino alla rabbia. Eppure allo stesso tempo, non riesco ad avercela con lui.
 
“Ma io non voglio questo. Voglio solo poter stare con una persona vera, nel bene e nel male. Perché stiamo insieme se non vuoi dividere con me i tuoi pesi?”
 
“Perché sei tutto quello che non ho mai avuto il coraggio di essere. Sei indipendente, te ne freghi del giudizio degli altri, guardati Elena. Tu sei forte, sei matura. A volte darei tutto per rubare un po’ della tua magia, della tua spensieratezza.”
 
“E io a volte vorrei solo essere abbracciata e sapere che va tutto bene. Tu sei l’abbraccio che mi faceva sentire al sicuro, anche se sono in grado di proteggermi da sola. Anch’io avrei voglia di potermi sentire indifesa una volta ogni tanto. Perché faccio un lavoro tosto, mi mantengo, sorrido eppure mi sento fragile. Credevo che tu avresti saputo accogliere la mia fragilità tra le tue mani e mostrarmi le tue… perché amare è anche questo. Ho scelto di affidarmi a te per potermi concedere il lusso di essere debole. Perché tu non fai lo stesso? La sincerità per me è importante Stefan, ho bisogno che tu ti fidi di me. Giurami solo che non mi mentirai mai più. Che non mi nasconderai più niente.”
 
“C’è un’altra cosa che non sai, Elena.” sospira, passandosi una mano fra i capelli con fare agitato, per poi cercare di nuovo i miei occhi che nel frattempo si sono coperti di un velo di lacrime.
 

Damon
 
Da dieci minuti buoni me ne sto fuori dalla stazione di servizio di Haight-Ashbury, quella dove lavora Elena.
Non so nemmeno se lei sia qui, quello che so è che io dovrei essere da tutt’altra parte.
Forse è perché un po’ mi scoccia il modo in cui ci siamo lasciati ieri sera, dopo che quella bionda carina ma logorroica ha fatto la sua entrata a sorpresa finendo per stordirmi.
So che Stefan finirà per incazzarsi e una volta tanto avrà ragione, eppure non riesco ad andare via da qui senza almeno salutarla. In fondo posso sempre dire a Stef che volevo restituirle i suoi soldi e magari lui potrebbe addirittura finire per bersi la mia scusa.
Mentre mi perdo fra i miei stupidi pensieri, vedo Elena uscire dalla porta e sedersi sullo scalino proprio lì, davanti a me. Ha gli occhi fissi sulla mia macchina, forse riesce addirittura a vedermi. Decido di scendere dall’auto e andarle incontro, domandandomi da quando sono diventato così coglione da farmi tutti questi problemi per una donna che, tra parentesi, sta insieme a mio fratello.
 
Quando mi trovo a cinque passi da lei sono quasi sicuro che mi abbia visto, o per lo meno sentito. Improvvisamente solleva lo sguardo nel mio, ed è proprio quando mi scontro con i suoi occhi che mi accorgo che c’è qualcosa di diverso rispetto a ieri sera. Sono gonfi e tremendamente rossi, proprio come se non avesse fatto altro che piangere.
 
“Hai parlato con Stef, non è così?”
“Già.”
“E che ti ha detto?”
“Mi ha raccontato di vostra madre. E mi ha detto che non sei stato a New York.”
“Non esattamente, no.”
 
 
 
*********
Buonasera… devo scusarmi con voi se il capitolo è terribilmente lungo e se sicuramente non è ciò che vi aspettavate, ma mi serviva per raccontare alcuni eventi funzionali al futuro della storia.
Ci ho messo un casino a pubblicarlo ma il tempo che ho è davvero ridotto all’osso, inoltre non ero convintissima e non lo sono tutt’ora (ma quando mai lo sono!!!)
Non dico altro, spero solo di non avervi annoiate tremendamente o addirittura rattristate.
Auguri di Buona Pasqua in ritardo e un bacione.
Chiara

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Capitolo 7
*** You soft and only, you lost and lonely ***


CAPITOLO 5 – YOU SOFT AND ONLY, YOU LOST AND LONELY
 
Alice guarda i gatti
e i gatti girano nel sole
mentre il sole fa l'amore con la luna.
Il mendicante arabo ha qualcosa nel cappello
ma è convinto che sia un portafortuna.
Non ti chiede mai pane o carità
e un posto per dormire non ce l'ha,
ma tutto questo Alice non lo sa.
 
Alice – Francesco De Gregori
 
 
Elena
 
“Hai parlato con Stef, non è così?”
“Già.”
“E che ti ha detto?”
“Mi ha raccontato di vostra madre. E mi ha detto che non sei stato a New York.”
“Non esattamente, no.”
 
Una lacrima salata sfugge alla mia mano distratta e scivola ribelle fino a bagnarmi le labbra.
Distolgo lo sguardo da Damon e lo lascio vagare in lontananza, lì dove la luce si rifrange nel vento reso rovente dall’asfalto, creando quello strano effetto ottico di cui ho dimenticato il nome.
E adesso tutto è confuso proprio come quella tremolante pozzanghera d’aria bollente, tutto mi sfugge, assomiglia ad un miraggio lontano ora che Stefan mi ha svelato ciò che ha nascosto per tanti mesi.
 
Mi sento tradita, proprio come quando da bambina mi si negava la verità perché ero troppo piccola per comprendere le cose dei grandi. Invece io ci stavo in mezzo, esattamente come loro. E sentivo, soffrivo, piangevo come loro, ma non potevo capire, perché nessuno si preoccupava di spiegarmi.
Per proteggermi, dicevano, ma era solo una banale scusa, la via più facile, un problema in meno da risolvere. Davano tutto per scontato, e io ho dovuto imparare da sola, contraccambiando il loro silenzio con il mio e raccontandomi le mie favole, imparando la vita dagli altri. È stato allora ho iniziato a odiare le bugie, i sotterfugi e anche le mezze verità.
 
Forse è per questo che non sono riuscita ad essere comprensiva come avrei voluto con Stefan. Probabilmente lui aveva solo bisogno di tempo per aprirmi il suo cuore ferito, tempo per scoprirsi pian piano con le sue paure e le sue debolezze, con le piccole crepe che temeva potessero sfigurare la sua maschera di perfezione, ma che a mio parere non fanno altro che renderlo più vero.
 
Non commettere l’errore di pensare che gli altri ragionino come te, Elena. Ognuno ha la sua storia, la sua esperienza, il suo vissuto e tu devi riuscire a rispettarlo.
 
Questo sarebbe il consiglio di John se fosse qui adesso. Conosco a memoria i suoi insegnamenti, perché è lui che mi ha spiegato come si fa a perdonare, ad accettare tutto ciò che è diverso da me, ed è quello che avrei fatto anche con Stefan se solo lui mi avesse concesso la sua fiducia.
Quindi lo faccio, capisco e accetto, ma non posso far finta che le sue menzogne non siano state una stilettata al cuore. Mi ha mentito su sua madre e mi ha mentito su Damon, con la scusa che avrei potuto spifferare in giro che la sua famiglia non è poi così perfetta come vorrebbe far credere. E se Stefan ha pensato questo, vuol dire che di me non ha capito un bel niente.
 
“Hai paura di me Elena?”
 
La  voce di Damon mi arriva sicura, ferma.
Alzo gli occhi dall’asfalto per incontrare le sue labbra socchiuse in attesa di un responso, le braccia abbandonate lungo i fianchi, come se si fossero arrese.
Lo sguardo, quello no, non si arrende. Rimane incollato al mio, riesco a sentirlo anche fra le lacrime che mi appannano la vista.
Frugo dentro di me alla ricerca di un sentimento, uno solo che mi allontani dall’uomo che mi sta davanti, che senza un apparente perché ha spaccato la faccia a un tizio, picchiandolo senza pietà.
Lui che ha combattuto da solo la sua battaglia, che ha sbagliato e ha pagato per il suo errore senza battere ciglio, e nonostante tutto mi guarda fiero e senza maschere, adesso che si è liberato dalle bugie a cui è stato costretto dagli altri. È stato Stefan a dirmelo, prendendosi tutte le responsabilità del suo silenzio.
 
L’Elena razionale e critica e quella illusa e idealista si prendono a cazzotti. Chi la spunterà alla fine?
Cuore, anima e cervello si interrogano, si esaminano, mi parlano. E scopro che Damon mi confonde, mi spiazza, mi mette alla prova. Ma non mi fa paura.
 
“Rispondimi Elena.” insiste, sedendosi sui talloni, guardandomi più da vicino.
 
La sua voce è ferma mentre aspettta la sentenza, ma gli occhi sono agitati e reclamano una risposta, la pretendono.
 
“No Damon, non ho paura di te. Non so perché hai fatto quello che hai fatto, ma stranamente non è questo a spaventarmi.”
 
“Allora cosa?”
 
“Stefan. Non ha fatto altro che prendermi in giro, per tutto questo tempo.”
 
Mi osserva incredulo per qualche istante, la testa inclinata da un lato, le palpebre che si stringono celandomi qualche riflesso dei suoi occhi di ghiaccio. Sospira, butta fuori un po’ d’aria e non capisco se è deluso o sollevato.
 
“Stefan ti ama, Elena. È solo che qualcuno, quando era molto, troppo piccolo, ha deciso per lui. Gli ha fatto il lavaggio del cervello, facendogli credere che doveva sentirsi in imbarazzo per quello che è, per i problemi di nostra madre, per tutto quello che non rientra negli standard della dannatissima famiglia americana modello. Sai com’è, a nostro padre piace darsi arie da sant’uomo… non so se l’hai notato.”
 
Direi di si, l’ho notato. Guardo quegli occhi diventare sempre più grandi, le pupille come due punte di spillo in quel mare celeste, i suoi lineamenti decisi contro il sole che tramonta alle sue spalle, tingendo il cielo di un bagliore rossastro mentre il giorno lascia spazio alla sera.
 
“Ma tutte quelle bugie… è addirittura arrivato a mentirmi su di te. Perché non facessi la spia con mio padre… questa poi!” lo interrompo con la voce che trema. Lui sbuffa e mi rivolge un sorriso sbieco e un po’ triste.
 
“Elena sei sconvolta, lo capisco. Ma credimi, Stef è sempre la stessa persona. E tu dovresti perdonarlo, perché anche se ha sbagliato a nasconderti quelle cose, lo ha fatto per paura di perderti, perché non sapeva da che parte iniziare per affrontarti. E dopo che mi avrà ucciso per avertelo detto, ti sarei grato se spargessi le mie ceneri dal Golden Gate, siamo intesi?”
 
Sorride di nuovo mentre una nuova lacrima sfugge al mio controllo, rotola lungo la guancia facendomi il solletico e io la lascio andare dove vuole. Non voglio chiudere gli occhi.
Voglio continuare a guardare davanti a me e chiedermi perché riesco solo a vedere un ragazzo un po’ distratto con i capelli scompigliati che mi ruba i cetriolini dal piatto e non un violento, un bugiardo, un qualcuno da evitare.
 
Semplice! Perché hai una spiccata simpatia per i casi disperati Elena! Per lo stesso motivo per cui perdi ore ad ascoltare le scemenze di tutti gli sciroccati che vengono a comprare le sigarette qui e ti intortano con i loro discorsi.
 
Bonnie direbbe senz’altro così, lei che fa questo lavoro controvoglia ma non ha altra scelta, e non riesce proprio a capire come mai io, che una scelta ce l’ho, continui a perdere ore fra queste quattro pareti di lamiera senza accettare gli assegni a quattro zeri che mio padre sarebbe ben lieto di staccare, in cambio di un po’ di affetto preconfezionato.
 
“Coraggio. Presto tu e Stef risolverete i vostri guai e fra voi saranno di nuovo arcobaleni e unicorni…” riprende Damon, alzando gli occhi al cielo con fare disgustato. La sua espressione mi fa ridere, ma non lo do a vedere. E poi comincio a pensare che forse ha ragione lui, che dovrei dare a Stefan la possibilità di spiegarsi.
 
“Hai proprio una faccia da schiaffi, lo sai?” gli dico senza convinzione, guardandolo con aria indulgente. Lui abbozza.
 
È evidente che ha ragione Bonnie, sono proprio una stupida fissata con le cause perse. Sarà per questo che rimango immobile quando lui percorre il profilo del mio viso col dorso delle dita, portandosi via la scia bagnata del pianto. Finalmente accenno un debole sorriso, che finiamo per condividere.
 
“E tu? Come ci riesci?” gli chiedo, leggermente intimidita dal suo sguardo penetrante.
“A fare cosa?”
“Ad affrontare tutto.”
 
 
Damon
 
Elena è rientrata per servire una cliente, una bionda sferica con un gigantesco maglione infeltrito che a fatica è riuscita a passare dalla porta e che adesso, dopo aver ritirato la sua dose quotidiana di nicotina, la tiene in ballo con le sue chiacchiere.
 
Da qui fuori non riesco a sentire di cosa stanno parlando, ma è chiaro che a Elena il discorso non interessa.
Lo capisco da quell’espressione finta e un po’ annoiata che le si è dipinta sul viso, dal modo in cui mordicchia il tappo di una biro facendo vagare lo sguardo sul bancone e infilando di tanto in tanto la mano fra i capelli per arrotolarsi una ciocca scura tra il pollice e l’indice. Mentre ascolta la tizia bionda, o finge di farlo, suoi occhi ancora un po’ gonfi galleggiano in superficie, non sono vivi e colmi di domande come lo erano poco fa. Adesso spia qui fuori e di nascosto alza impercettibilmente lo sguardo verso il cielo.
Per un secondo un sorriso se ne sta in bilico sulle sue labbra a specchiarsi nel mio. Un sorriso fragile come la vedo adesso. Fragile e bellissima, bellissima e inafferrabile.
 
E allora mi illudo che vorrebbe tornare fuori, sedersi su questo gradino a guardare con me i profili un po’ snob dei palazzi vittoriani ipercolorati che ci circondano, con le finestre immerse nella luce rossa del tramonto e quei dipinti strani sulle pareti. Se a Elena piace tanto lavorare qui è evidente che ha un debole per le cose un po’ strane. Sarà per questo che non è ancora scappata anche se adesso sa qualcosa di più sul mio conto.
 
Prima è stato stranamente semplice rispondere alla sua domanda difficile.
Come riesco ad affrontare una madre così depressa da doversi imbottire di medicinali che non hanno fatto altro che rincoglionirla fino a renderla l’ombra di sé stessa? E un padre che vuole negare la verità, per vestirsi con l’armatura scintillante del perfetto marito e padre di famiglia?
 
Non c’è un manuale di istruzioni o una ricetta magica, nessuno ti dice come si fa. Affronti la realtà come puoi mentre gli anni passano, le cose peggiorano piano piano, i momenti di lucidità vengono meno e la consapevolezza di quello che mia madre è adesso inghiotte pian piano il ricordo di quello che è stata un tempo.
Lei che era troppo debole per affrontare la nostra realtà quotidiana fatta di apparenze, i sorrisi finti, di cene importanti. Lei con la sua mano un po’ tremante, le ossa sporgenti e i modi gentili.
 
Faccio del mio meglio per rubare quei pochi momenti normali che ancora riesce a regalarmi e ogni tanto riesco perfino a riconoscerla, a ritrovarla. Qualcosa di lei rimane ancora, nelle parole incerte che mi bisbiglia di tanto in tanto, nelle coincidenze, nei suoi occhi verde pallido identici a quelli di Stefan.
 
A volte mi sembra incredibile che, lontano da casa, sia stata lei la persona a mancarmi di più.
Con i suoi discorsi lenti e sconnessi, con quei lunghi giri di parole per spiegare una cosa semplice. A volte mi ci perdo dentro, altre invece mi sembra ancora di poterci scorgere uno spiraglio di lucidità.
Con lei non riesco ad arrabbiarmi mai, neanche quando starle dietro comporta uno sforzo, perché è uno sforzo che si può sopportare, non come quelli che ti schiacciano, quelli da cui non ti salvi.
Ma la vita continua, continua sempre. Anche dopo gli scossoni, anche dopo gli stronzi alla Kol Mikaelson che ti ritrovi sulla strada. Non puoi piangerti addosso, prenderti le pastiglie per attutire i colpi. Magari un po’ di bourbon, quello si. Non ha mai ucciso nessuno in fin dei conti. Però poi devi andare avanti e provare a farti il giro meglio che puoi.
 
“Eccomi qua.” dice Elena, tornando a sedersi sul gradino. Fa sbattere rumorosamente i suoi stivaletti marroni sull’asfalto e guarda fisso davanti a sé. La spio per qualche secondo mentre se ne sta in silenzio, rincorrendo i suoi pensieri.
 
“Cosa ti ha raccontato quella? Non ti mollava più…” chiedo, alzando il mento per fare un cenno verso la biondona, che da cinque minuti buoni sta prendendo le misure per salire in macchina.
 
“È una tipa un po’ particolare, vive tutta solo con i suoi gatti. Ha solo bisogno di chiacchierare un po’ perché non ha nessuno che la ascolta.” risponde Elena tranquilla, senza staccare gli occhi dal cielo.

“Tipo la gattara dei Simpson?”
 
“Ecco, si, una specie… però lei porta due fedi. Secondo me è vedova e si sente sola, pensa ancora al suo amore perduto.” ribatte, con la voce sognante.
 
Poi mi guarda e accenna un mezzo sorriso, respira piano l’aria della sera con gli occhi ancora rossi ma più sereni. Io non dico niente, rimango solo meravigliato da questa strana ragazza, che trova sempre il modo di dipingere la realtà con i suoi bei colori, nonostante tutto. E quasi mi viene voglia di chiederle di dare una mano di bianco anche alla mia di vita. Invece le faccio una smorfia scettica, lei scrolla le spalle e scuote la testa, abbracciandosi le ginocchia un po’ più strette.
 
“Dovresti chiamare Stefan adesso, Elena.” dico, più per educazione che per altro.
 
“L’ho appena fatto. Ci vediamo più tardi. A proposito, ti va di accompagnarmi a casa Damon?”
 
“Stai cercando un modo per farmi domande indiscrete, ho indovinato?”
 
“In realtà ho solo voglia di farmi un giro sulla tua macchina.” risponde lei, inarcando le sopracciglia. Falsa. Faccio finta di crederci lo stesso, per provare a mantenere intatto ancora per un po’ quello spazio di manovra in cui lei non mi conosce veramente.
 
 
Elena
 
In macchina Damon abbassa la capote, così, mentre viaggiamo verso casa mia, la brezza ci scompiglia i capelli e il cielo colorato dal tramonto ci scorre sopra la testa.
San Francisco è tutta attorno a noi, brilla delle sue mille luci e dei bagliori riflessi dal mare. Anche se ci sono nata, vivere qui è sempre un emozione e una scoperta. Per questo guardo fuori come se fossi al cinema a vedere un bel film, mentre alla radio Robert Smith dei Cure canta alla sua amata Just Like Heaven.
 
Tu dolce e unica
Tu splendente e sola
Tu misteriosa come gli angeli
 
Anche Damon canticchia tranquillo, tamburellando le dita sul volante. Spio di nascosto il suo profilo scolpito dalla luce sopra al mare burrascoso, proprio come dice la canzone. Lui sembra non accorgersi di me, o forse finge soltanto.
 
“Insomma, niente New York. Era Oakland la tua destinazione quella volta…”
 
La prendo alla larga, ma l’obbiettivo è chiaro a tutti e due.
Damon fa una smorfia compiaciuta continuando a guardare la strada, ma mi accorgo subito del sorrisetto sardonico che gli compare sul viso, anche se non ne comprendo immediatamente il motivo.
 
“Quella volta quale?”
“Quella volta che sei venuto a fare benzina, non fare il finto tonto…”
“Com’è che avevi detto? Ah si. Ricordo vagamente.”
 
Adesso ride proprio, lo stronzo, mentre io sento le guance scaldarsi come al solito e mi maledico silenziosamente, affondando più che posso nel sedile scuro della Camaro.
 
“Come faccio a dimenticarmi di un matto che mi dice tu vuoi quello che vogliono tutti e bla bla bla?” ribatto poi, storpiando la voce, tanto per provare a difendermi. Lui alza un sopracciglio e piega le labbra in un sorriso sghembo, lanciandomi un’occhiata che risulta chiaramente strafottente anche se è nascosta dagli occhiali da sole.
 
“Sarà… secondo me non ti capitano spesso clienti belli come me…” ribatte sornione.
 
“E umili come te, soprattutto… comunque, dicevamo di Oakland.” rilancio. Lui sbuffa, mettendo su l’espressione più indifferente di questo mondo.
 
“Ci sei mai stata Elena? È un bel posticino per fare villeggiatura, anche se effettivamente New York sarebbe stata più divertente e…”
 
“Damon... me lo vuoi dire o no chi è questo stramaledetto Kol?” sbotto esasperata, alzando un po’ la voce.
Questo qui farebbe perdere la pazienza a un Santo, ma io so benissimo dove voglio arrivare e non ho nessuna intenzione di cedere.
 
Stefan mi ha raccontato che il tizio che Damon ha pestato, un certo Kol per l’appunto, se l’è meritata davvero tutta quella rabbia. Però non ha aggiunto altri dettagli.
So soltanto che durante lo scontro questo tipo ha battuto fortissimo la testa, perdendo conoscenza. È  finito all’ospedale per un pezzo, per questo è partita la denuncia. Per Damon poteva finire malissimo, ma alla fine si è beccato sei mesi di servizi sociali ed entrambe le famiglie hanno insabbiato la faccenda.
 
“Ok… ok. Hai vinto Elena. Kol Mikaelson frequentava la mia amica Rose.”
 
“Mi stai dicendo che l’hai pestato per una questione di gelosia?” chiedo scettica. Non avevo idea che ci fosse di mezzo una ragazza.
 
“Mi ascolti o no Elena? Ho detto amica.” specifica, sottolineando bene l’ultima parola. “Comunque, Kol è il classico tipo che almeno una volta tutti incontriamo nella vita. Uno che non si accontenta di distruggerti, ti deve annientare fino a disintegrarti in mille pezzi. Con Rose ha fatto proprio questo, l’ha disintegrata. E nemmeno la mia amicizia è bastata per salvarla. Anzi, litigavamo spesso in quel periodo, perché lei era talmente innamorata che nelle cazzate di Kol ci trovava un senso. Anche se io provavo a farla ragionare, non potevo competere con quello stronzo. Forse lei razionalmente riusciva a capire che lui le faceva del male, ma dipendeva da lui esattamente come un tossico. E lui tossico lo era per davvero, era un cocainomane pazzo ed egoista. Sapevo che se mi fossi messo in mezzo avrei perso io, ma non ce l’ho proprio fatta.”
 
“Ed è solo per questo che l’hai picchiato?”
 
Lui fa una smorfia offesa e io vorrei subito rimangiarmi quel solo, ma ormai è troppo tardi. Perciò mi lascio scappare uno scusa, e prendo a tormentare con l’indice i bottoncini della mia maglia, sperando che Damon non se la sia presa troppo. Poi appoggio la testa sul sedile, rivolgendo lo sguardo sul suo viso impassibile mentre gli alberi e i palazzi continuano a sfrecciare sullo sfondo senza che io riesca a vederli veramente.
Dopo una piccola pausa Damon ricomincia a raccontare, tenendo gli occhi fissi davanti a sé.
 
“C’era un’altra donna nella vita di Kol, Elena. Rose aveva scoperto di essere “l’altra”, quella da tenere nascosta. Tutto a un tratto si è resa conto che non poteva permettersi sogni sul futuro. Ma lei quei sogni li aveva già fatti, ed erano più veri di quanto potesse immaginare.”
 
“Che vuoi dire Damon?”
 
“Niente Elena, niente che ti riguardi. Comunque non è da me ammettere un errore, ma ho sbagliato, è inutile negare. Ma quando ho messo le mani addosso a Kol non lo stavo semplicemente picchiando. Avrei voluto ammazzarlo. Ero in preda a una rabbia cieca e non mi sono fermato. Neanche quando ha battuto la testa, neanche quando ho visto il sangue.” prosegue, mantenendo un tono gelido e distaccato. All’inizio mi risento, ho come l’impressione che mi stia nascondendo ancora qualche dettaglio. Poi mi rendo conto che si è aperto con me molto più di quanto avrei potuto sperare.
 
“Se potessi tornare indietro lo rifaresti?” chiedo a bruciapelo.
 
“Si. Se lo meritava.”
 
Le sue parole sono dure, fredde. Lo vedo stringere un po’ di più le mani attorno al volante e un brivido mi percorre la schiena. Resto in silenzio, non chiedo più nulla. Continuo a guardare quel profilo sul mare burrascoso, proprio come la canzone di prima, che adesso è stata sostituita da una squallida melodia pop che non riesco proprio ad ascoltare.
 
Tu sperduto e solo
Tu misterioso come gli angeli
Danzando negli oceani più profondi.
 
Damon accosta davanti al palazzo color ruggine dove abito. “È questo il posto, giusto?”
 
Annuisco, ma resto muta. Lui spegne il motore e si toglie i Ray-Ban, ma non li appoggia. Se li rigira fra le dita, scrutando il mio viso con la testa inclinata di lato. Mi prendo un momento per cercare qualcosa dentro quegli occhi pieni di oceano, mentre una strana ansia si accumula nello stomaco e mi scorre dentro.
 
“Fammi indovinare Elena. Adesso si che hai paura di me.”
 
 
Damon
 
“Fammi indovinare Elena. Adesso si che hai paura di me.”
 
Quasi quasi vorrei che mi dicesse di si e farla finita qui col gioco dei buoni confidenti. Perché questa ragazza bella, forte e fragile, che è la ragazza di mio fratello, mi procurerà un mucchio di casini. Già lo sento. Lo capisco da quegli occhi pieni di quel qualcosa di innocente che ho paura di rovinare. Basta poco, basta un niente.
 
“In realtà no. Non so perché, ma mi fido di te.” bisbiglia a testa bassa. Poi si avvicina e mi avvolge in una sorta di abbraccio. Impacciato, timido, ma pur sempre un abbraccio. Le chiedo perché ma lei non risponde, forse perché alle volte è un po’ schiva. Proprio come la mia mano, che di solito è tutt’altro che timida, e invece questa volta esita prima di posarsi sulla sua schiena, mentre il suo profumo mi invade.
La mia mano sa meglio di me che non deve azzardarsi a stringere troppo forte per non farla volare via. Allora la accarezza piano, mentre i suoi capelli mi solleticano la pelle scoperta del braccio e lei si stringe un po’ più stretta.
 
“Per tua madre. Hai sofferto anche tu per lei. E poi vorrebbe essere una sorta di grazie.” mormora alla fine contro la stoffa della mia maglia.
 
“Non c’è di che.” rispondo, sollevando un angolo della bocca in una specie di sorriso. “Vai da Stef adesso, Elena.”
 
Annuisce e fa per uscire dalla macchina, ma prima di andarsene si ferma un attimo.
 
“Devo dirti una cosa Damon…”
“Sentiamo.” rispondo. Lei esita, ci pensa un secondo ma poi ricomincia a parlare.
“Beh ecco… hai presente la mia amica Caroline? Si è presa una sbandata per te e adesso vorrebbe che le organizzassi una specie di appuntamento a quattro.”
 
Le rivolgo uno sguardo obliquo. Tutto qua? Ripenso un attimo alla biondina, scannerizzandola mentalmente.
 
“Non ho mica bisogno di te e Stef. Tu dammi il suo numero che al resto penso io.”
 
Mi esce un tono leggermente astioso, ma Elena sembra non farci caso. Mi piazza sotto il naso il suo i-Phone, col numero della biondina che ammicca da una foto racchiusa in un piccolo riquadro.
Mentre lo annoto sul mio telefono, la sento schiarirsi la voce per poi parlare di nuovo.
 
“C’è un’altra cosa…”
“Che c’è ancora?” sbuffo, continuando a tenere gli occhi sul cellulare.
 
Silenzio.
 
“Non mi hai ancora detto quella cosa.”
 
“Quale cosa?” chiedo distratto, armeggiando con i tasti. Sono un po’ impedito con la tecnologia, mi ci vorrebbero le buone vecchie agendine di una volta.
 
“Quello che voglio. Sono curiosa.”
 
Improvvisamente la mia attenzione è di nuovo tutta per lei. Sollevo lo sguardo nel suo e la osservo per qualche secondo mentre si avvolge i capelli fra le dita increspando appena le labbra, lo stesso gesto che le ho visto fare poco fa davanti alla bionda xxl. Ci rifletto ancora un attimo, studiando l’espressione curiosa e imbarazzata sul suo viso. E poi glielo dico.
 
“Tu vuoi un amore che ti consumi. Vuoi passione, avventura e anche un po' di pericolo…”
 
Rimane interdetta per qualche secondo, le labbra socchiuse, forse sorprese. E poi ride, una risata sospesa fra la malizia e il puro divertimento.
 
“Con me non attacca Damon.” dice sorridendo.
Poi mi fa un occhiolino, chiude lo sportello e se ne va.
Forse mi sono sbagliato. O forse no.
Per adesso mi terrò il dubbio, penso, mentre ingrano la marcia e mi preparo a rientrare a casa.
 
 
 
Dopo aver parcheggiato la macchina sul vialetto, incrocio Stef che sta uscendo di casa. Una volta tanto è vestito come un ragazzo della sua età, con un paio di jeans, una t-shirt scura e una giacca di pelle.
 
“Hey Dam…”
“Hey.”
 
Ecco il massimo della conversazione che mi sento di fare questa sera. Basta e avanza. Lo supero senza guardarlo, fermandomi davanti alla soglia di casa e infilando una mano in tasca alla ricerca delle chiavi.
 
“Grazie Damon.” mormora, rivolto alla mia schiena. Sbuffo spazientito, alzando automaticamente gli occhi al cielo.
 
“La volete piantare di ringraziarmi tutti quanti? Cosa sono, un dispensatore di buone azioni?” sbotto, senza voltarmi. Lo sento soffocare una mezza risata e calpestare il ghiaino, allontanandosi senza più parlare.
 
Una volta in casa, trovo mia madre appisolata sul divano. Mi avvicino a lei, sedendomi sul bordo del cuscino e raccogliendo la sua mano, che il sonno ha fatto scivolare verso il pavimento.
Accarezzo la pelle sottile del suo bel viso, che i farmaci col tempo hanno lievemente deformato. I suoi lineamenti un tempo erano più affilati, mentre ora le guance sono leggermente più piene e le borse sotto gli occhi più evidenti.
Stupidamente ho sempre pensato di averlo fatto anche per te, per difenderti. Tu che sei sempre rimasta nell’ombra, tu che sei sempre stata l’altra, quella non amata. Un po’ come Rose che amava troppo Kol ma non sarebbe stata mai abbastanza. Rose che per colpa di Kol aveva appena rinunciato al suo bambino.
 
Sospiro, mi alzo e riprendo il telefono, rigirandomelo tra le mani per un po’ per poi far partire la chiamata.
Suona a vuoto per qualche secondo, poi finalmente una voce squillante mi risponde.
 
“Pronto?”
 
“Ciao, biondina.”
 
 
**********
Buonasera!
Eccomi qui col nuovo capitolo. Un po’ introspettivo, un po’ tanto. Che ne pensate? Insomma, Damon si apre un po’ ma come al solito non del tutto.
Forse vi fa strano pensare all’accoppiata Kol Rose ma ho abbinato un personaggio che non mi piace affatto con Rose che invece mi è sempre stata simpatica.
Elena, totalmente OOC, si fida di Damon e non lo giudica. Ecco perché la scelta di ALICE. Questa mia Elena la immagino come una ragazza risoluta, concreta e critica, ma anche un po’ sognante, una che immagina una realtà tutta sua. Lei guarda le cose dal di fuori e si fa il suo film… oggi ha scoperto un po’ di più di Damon, e istintivamente le piace… ma c’è anche altro. Ma tutto questo Alice non lo sa… ;) Malinconia mode ON.
Da qui in poi ci sarà una svolta, si inizia a giocare a carte quasi scoperte.
Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto o al contrario vi è sembrato troppo monotono, troppo dialogato… insomma se vi ha fatto un po’ schifino.
Grazie, come sempre a tutte.
Un bacio grande
Chiara

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Capitolo 8
*** Love will tear us apart ***


CAPITOLO 6 – LOVE WILL TEAR US APART
 
When the routine bite hard
and ambitions are low
and the resentment rides high
but emotions won't grow
and we're changing our ways,
taking different roads
then love, love will tear us apart again
***
Quando l'abitudine colpisce forte
e il desiderio è al minimo
e il risentimento è al massimo
da non far crescere le emozioni
e noi cambiamo i nostri percorsi
prendendo strade differenti
allora l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
 
Love will tear us apart – Joy Division
 
 
Non esiste azione senza conseguenze.
Un gesto trascina con sé un altro gesto, un anello tira l’altro:
è così che abbiamo costruito la nostra catena.  
 
Io sono di legno – Giulia Carcasi
 
 
 
Damon
 
“E così hai preso le tue cose e sei scappato come un ladro prima che si accorgesse che eri rimasto.”
 
“Proprio così.”
 
“Sei veramente penoso Damon.”
 
Ric se ne sta appoggiato al tavolo d’acciaio della cucina del ristorante, le braccia incrociate sopra al grembiule logoro e macchiato di sugo e l’aria sbigottita.
Gli ho appena raccontato di come stamattina, al mio risveglio mi sia ritrovato senza volerlo fra le lenzuola di Barbie. Ieri sera mi sono addormentato per sbaglio nella sua stanza, al dormitorio della Berkeley.
Dopo un po’ di botta e risposta e qualche perplessità mi sembrava giusto esaudire la richiesta che ho letto nel suo sguardo fin dal nostro primo incontro, ma addormentarmi nel suo letto non faceva certo parte dei piani. Saranno gli orari di lavoro terribili a cui Ric mi costringe. Non ci ero più abituato.
 
Per dimostrarmi la sua innocenza, la biondina aveva addirittura affittato un film, una stupida storia sui vampiri. Sarà che a me quel genere fa venire il voltastomaco, sarà che era un banale pretesto, ma il dvd è rimasto nella sua custodia mentre noi ci siamo dedicati ad altro.
E poi stamattina mi sono svegliato di colpo con lei che dormiva al mio fianco, le mani raccolte sotto il cuscino e un sorriso soddisfatto sulle labbra. E per due secondi mi sono chiesto chi diavolo fosse.
 
Mi sono dibattuto per un po’ fra la pigrizia e il desiderio impellente di sfuggire a qualsiasi circostanza mi faccia sentire marcato troppo stretto. Ci è voluto un nanosecondo per decidere se restare e infrangere una delle mie regole non scritte oppure afferrare la mia roba il più in fretta possibile e togliermi da quella situazione non prevista. Non è stato poi molto difficile, del resto sono il re delle relazioni superficiali.
 
“Che palle Ric.” mi difendo, con un’impercettibile alzata di spalle, mentre continuo ad affettare i condimenti per la zuppa di granchio, la grande specialità del ristorante. Ric ha iniziato a prepararla in uno di quei baracchini che si trovano ad ogni angolo del porto, per poi decidere di indebitarsi fino al collo ed aprire questo posto. Ammiro il suo coraggio. Ric è uno che si è fatto da solo, sarà per questo che non gliene frega niente se non ho le qualifiche giuste per fare questo lavoro.
 
A me serve un tipo sveglio, e tu lo sei.
 
Me lo ripete spesso, eppure a me fa sempre uno strano effetto sentirglielo dire. E poi, stare al suo fianco e vederlo all’opera, con la passione, l’impegno, la voglia di riuscire che mette in tutto ciò che fa, mi fa sentire a mio agio. Non so perché ma noi due ci siamo intesi subito, e ho scoperto che Ric è senz’altro un tipo particolare. Sembra sempre distratto e disinteressato, ma poi scopri che ti ascolta eccome e incredibilmente si ricorda tutto quello che gli dici, oltre a intuire quello che invece non gli vuoi raccontare. Adesso mi scruta con aria pensosa, picchiettandosi l’indice sul mento. È un chiaro segnale: tempo due minuti e mi propinerà una delle sue perle di saggezza.
 
“Ehi” lo blocco, sollevando un indice prima che possa dire qualsiasi cosa, “dammi tregua. Si è trattato di una pura, sacrosanta distrazione, hai presente? Zero impegni, nessun coinvolgimento...”
 
Lo sa lei e lo so io, fin dalla prima volta che ci siamo visti e mi ha guardato con quella faccia lì, quella che tradotta suona più o meno come ‘fai di me quello che vuoi, quando vuoi’.
Insomma, si è capito subito che questa bella biondina era quello che si dice sesso sicuro, e no… le campagne di prevenzione non c’entrano un bel niente.
 
“Anche io ero come te tempo fa Damon. Un tipo dalle mille avventure, affascinato dall’incredibile appeal della novità. Poi ho incontrato Jenna e…”
 
“Tutti felici e contenti. Scommetto che ti senti proprio fiero di te stesso.” rispondo, accompagnando la frase con una smorfia a metà fra il disgusto e l’ironia.
 
“Parli così perché non hai ancora trovato la donna che può sconvolgerti la vita. Non si può pianificare, succede. E quando succede, lo sai.”
 
“Sei proprio saggio, amico. E comunque non sei credibile nella parte del filosofo, finché continui ad agitare il mestolo per aria.” ribatto con tono beffardo. Lui sembra non farci caso, si è già abituato alle mie battute e poi lo sa che al di là di tutto lo rispetto.
 
“Cerco solo di verificare se c’è un cuore che batte sotto quella maschera di cinismo, Damon. Prima o poi accadrà, accade a tutti. Guarda tuo fratello. Com’è che si chiama quella ragazza con cui è venuto a cena l’altra sera?”
 
“Elena.” mugugno, pulendomi le mani sul grembiule.
 
“Ecco si Elena. Bella ragazza non trovi? Ma dimmi un po’ ti sta antipatica per caso? Te ne sei stato in cucina tutto il tempo, non ti sei seduto con loro neanche cinque minuti. E pensare che erano venuti qui apposta per te.”
 
“Avevo da fare. E sono allergico alle smancerie.”
 
Ric fa una smorfia incomprensibile e ritorna a sollevare coperchi per mescolare il contenuto delle pentole, producendo una nuvola di vapore e mettendo fine ai nostri discorsi senza senso. Io abbasso la testa sul mio tagliere e continuo ad affettare queste pallosissime cipolle.
No, non mi sono seduto con i redivivi piccioncini, ho preferito restarmene per i fatti miei.
Anche se io Stef andiamo più d’accordo ultimamente, anche se io ed Elena potremmo… dovremmo, definirci amici, credo, dopo il dialogo così intimo che abbiamo avuto, che ha portato a una naturale evoluzione del nostro rapporto.
 
Così ci siamo ritrovati ancora sui quei gradini a raccontarci le nostre giornate, oltre ad esserci incrociati più volte al bar di Joe per scambiarci qualche battuta tra la fine del suo turno del lavoro e l’inizio del mio, mentre tentavo inutilmente di spiegare al bestione che i Radiohead sono meglio dei Led Zeppelin. Si, ormai io e lui siamo in sintonia, a quanto pare sono in sintonia con l’intero universo. Ma lo sguardo di Elena quando mi chiede come sto, e so che non lo fa per caso, non lo riesco a sopportare.
A volte preferisco pensare che sia solo una forma di educazione la sua, mi aiuta a mantenere il giusto distacco. A volte preferisco pensare addirittura che lei sia una persona insignificante.
Così ricaccio indietro tutte le domande che  mi scorrono sotto pelle e divento scostante.
 
“Ehi Dam, c’è una tizia che ti cerca.”
 
Enzo, il ragazzo che Ric ha assunto come cameriere, irrompe in cucina senza troppi complimenti facendo oscillare l’anta della porta e rivolgendomi un’espressione più che eloquente che mi fa intuire che la tizia in questione non deve essere affatto male.
 
“Tizia sarà tua sorella.” ribatte acida Caroline, superando Enzo con una falcata decisa e venendomi incontro con un sorriso radioso. Che diavolo ci fa qui?
 
“Datti una calmata blondie.” replica lui, che non smentisce mai la sua attitudine di provocatore incallito. In questo un po’ mi somiglia, sarà per questo che andiamo d’accordo.
Lei lo ignora completamente, rivolgendomi la sua attenzione insieme ad un sorriso splendente.
 
“Ehi Damon.”
 
“Ciao. Come mai qui?” la saluto, forse un po’ troppo freddamente, continuando imperterrito il mio lavoro.
 
“Ieri mi sono dimenticata di dirti che questa sera c’è una festa grandiosa a Berkeley, con tutti gli studenti del mio corso. Ti andrebbe di venirci con me?”
 
“Mi dispiace ma devo lavorare…” la liquido. Il fatto è che odio dovermi giustificare. Ric soffoca una mezza risata che fortunatamente Caroline non può notare. Io spalanco un po’ di più gli occhi in quelli del mio capo, un piccolo segnale in codice che spero sia sufficiente a tenergli a freno la lingua.
Nel frattempo lei annota un indirizzo su un bigliettino.
 
“Se cambi idea ti aspetto.” sorride, lanciandomi un’occhiata ammiccante, per poi infilare la porta lasciandosi dietro uno sguardo sconcertato e uno decisamente più interessato.
 
“Com’è che hai detto? Ah si. Zero impegni, nessun coinvolgimento…” mi sfotte Ric con un sorrisino.
 
“Beh, però è figa.” aggiunge Enzo compiaciuto.
 
Li fulmino entrambi con un’occhiataccia prima di ritornare al mio lavoro.
 
 
Elena
 
“Dai, sarà divertente... Care ha detto che chiederà anche a tuo fratello di venire e…” esclamo davanti ad uno Stefan vestito di tutto punto per il lavoro, che mi guarda con una faccia alquanto scettica mentre io me ne sto appollaiata sul mio solito sgabello, dietro al bancone ingombro di carte per via della traduzione che John aspetta entro questo pomeriggio.
 
“Damon potrà anche divertirsi con Caroline, Elena. Ma dubito seriamente che la accompagnerà alla festa come un bravo fidanzatino. Non è nel suo stile, lui fa tutto difficile.”
 
Sarà. A me sembra che le cose fra lui e Care vadano a meraviglia, o almeno questo è quello che mi ha raccontato lei poco fa al telefono, mettendomi addosso uno strano imbarazzo. Un po’ come quello che provavo in presenza di Damon nei primi tempi e che credevo di aver finalmente superato.
 
“Mamma mia Elena, come sei moralista.”
“Ma quale moralista… è il fratello di Stef, non voglio sapere altri dettagli...”
 
Scuoto la testa, come a scacciare un pensiero inopportuno, sperando che Stefan non si accorga della mia momentanea divagazione, e torno a concentrarmi sul suo viso.
Lui se ne sta in piedi davanti a me con aria pensosa. È corrucciato, inquieto. Molto diverso dal ragazzo che veniva a trovarmi in questo stesso posto qualche mese fa.
 
“Allora, verrai con me? Vedrai che ci servirà a distrarci un po’.”
 
Lo vedo osservare serio la punta delle sue scarpe, evitando il mio sguardo come accade spesso negli ultimi tempi. Lavora sempre fino a tardi e nel poco tempo che trascorriamo insieme sembra assente, in un mondo tutto suo da cui mi sento inevitabilmente esclusa.
E non lo so se la mia fiducia in lui è stata definitivamente compromessa dopo che ho scoperto tutto quello che mi ha nascosto, ma non riesco a non chiedermi cosa ci sia che non va.
 
“Ok, se è questo quello che vuoi.” sospira alla fine, alimentando i miei sospetti. Stefan sembra accorgersi del mio sguardo titubante, ma non dice nulla. Si limita ad avvicinarsi a me, lasciandomi un bacio leggero e distante sulle labbra.
 
“Buonanotte alla mattina Elena!”
 
Frank irrompe alla stazione di servizio, e Stefan si allontana da me, mimandomi un ci vediamo dopo.
Senza dire una parola afferro il solito pacchetto di Chesterfield dallo scaffale, per poi scartarlo e appoggiarlo davanti a me con un gesto automatico.
 
“Che hai bambina? Sarò anche mezzo cieco, ma lo capisco quando qualcosa non va.”
 
“Niente Frank, è tutto a posto. Tutto sotto controllo, come sempre.”
 
Deve andare bene. Probabilmente Stefan è solo preso per via della mole assurda di lavoro a cui il padre l’ha sottoposto, con la solita scusa di pensare al suo futuro e garantirgli una carriera sfolgorante. Lui ha promesso di non mentirmi mai più, ha solo bisogno che io gli stia vicino in questo momento delicato.
Sono solo una stupida, confusa e paranoica. E stasera ci divertiremo, proprio come facevamo qualche mese fa. Andrà tutto bene. O almeno, lo spero.
 
Mentre paure senza nome mi si accumulano dentro, mi sforzo di sorridere a Frank con tutta la convinzione che mi riesce. Ma i suoi occhi acquosi e troppo azzurri sembrano ancora perplessi quando mi saluta e infila la porta, incespicando nei suoi passi come al solito.
 
 
Damon
 
“Dì un po’, com’è che hai chiesto a tuo padre di venire qui?”
 
“Di che diavolo parli?”
 
Asciugo velocemente le mani con uno straccio, osservando Ric come se fosse un alieno. Sono sicuro di non aver detto niente a Giuseppe del mio nuovo lavoro, anche perché nell’ultimo paio di settimane ci siamo scambiati si e no cinque parole strascicate.
Ric mi fa un cenno e insieme ci avviciniamo alla porta della cucina. Attraverso l’oblò di vetro riesco a riconoscere la sagoma di Giuseppe, col suo immancabile completo grigio, seduto a tavola con quattro o cinque uomini incravattati. Non posso fare a meno di notare la donna in tailleur al suo fianco, con i capelli rossi, quei capelli rossi che conosco tanto bene, stretti da un fermaglio e  i suoi bei orecchini di perle che fanno tanto signora perbene.
Stringo i pugni e sospiro forte, cercando di cacciare indietro l’ondata di rabbia che mi sale al cervello e mi crea un fastidioso formicolio alle mani.
 
“Va tutto bene amico?” chiede Ric con l’aria preoccupata.
 
“No. Non va bene per niente, amico.”
 
Enzo si affaccia all’oblò, costringendoci a spostarci per farlo passare e dirigendosi verso il tavolo d’acciaio per afferrare i piatti che ci ho appoggiato sopra poco fa, pronti per essere serviti.
 
“Vanno al tavolo otto questi, Dam?”
 
“Dai qua!” sbotto, strappandoglieli bruscamente dalle mani e dirigendomi fuori dalla cucina, puntando dritto al tavolo di Giuseppe. Mi avvicino abbastanza da vederlo bisbigliare all’orecchio di quella donna, che ride piano. Composta, ordinata. Falsa.
Appena mi avvicino, mio padre solleva lo sguardo nel mio e suoi occhi chiari si pietrificano all’istante.
 
“Ciao papà.” lo saluto sprezzante, mentre pronuncio una parola che dovrebbe essere piena di una confidenza che non riesco a nutrire.
 
“Damon… che ci fai qui?”
 
Il suo tono sorpreso per una volta sembra essere autentico, il che mi fa intuire che per lo meno non è venuto qui con il preciso intento di farmi saltare i nervi.
Senza nessuna esitazione scaravento i piatti sul tavolo di fronte agli sguardi agghiacciati dei suoi amici altoborghesi, che tuttavia non si scompongono più di tanto o fingono di non farlo.
 
“Godetevi la vostra cena.” concludo. Freddo, tagliente, come l’ultimo sguardo che rivolgo a Giuseppe prima di voltar loro le spalle.
 
Poi rientro in cucina, spingendo la porta con un gesto furioso mentre mi slaccio in fretta il grembiule e lo getto sul tavolo, con Ric ed Enzo impietriti davanti a me. Con la coda dell’occhio li vedo allontanarsi senza fare domande, mentre un rumore di passi mi raggiunge alle spalle.
 
“Damon, si può sapere che diavolo ti prende?”
 
Mi volto verso Giuseppe e lo trovo a braccia incrociate, il mento sollevato in quella posa sprezzante e autoritaria che tante volte mi ha riservato.
 
“Come cazzo ti sei permesso di portarla qui?”
 
Il mio tono è impassibile, non voglio nemmeno dargli la soddisfazione di fargli vedere quanto male è ancora in grado di farmi col suo menefreghismo. E per la prima volta lo vedo vacillare, scorgo un tremito nel suo sguardo gelido e dispotico nonostante faccia di tutto per mostrarsi indifferente alla mia rabbia.
 
“Non avevo idea che tu lavorassi qui, figliolo. Altrimenti…”
 
“Altrimenti non saresti venuto a cena con la tua amante.”
 
Per un paio di minuti rimaniamo in silenzio, mentre il solito muro di indifferenza e incomprensioni si solleva fra di noi. Una freddezza che dura da anni, da quando l’ho scoperto a darsi da fare sulla scrivania del suo bell’ufficio con quella che allora era la sua segretaria. La donna che gli ha fatto perdere la testa, quella con cui tradisce mia madre da una vita. Da quel giorno l’unica cosa che condividiamo è un segreto, che entrambi manteniamo per amore di Stefan, il quale probabilmente non venererebbe poi così tanto suo padre se sapesse la verità. Ma ne soffrirebbe troppo, su questo almeno io e Giuseppe siamo d’accordo.
I suoi occhi incontrano i miei e per un momento, uno soltanto, mi sembra talmente debole da riuscire a farmi pena.
 
“Scusami Damon.”
 
La sua voce è un soffio. Affondo le unghie nel palmo della mano fino a farmi male. Deve essere quella cazzo di rabbia repressa, che in questo momento sarei ben contento di sfogare per poi sprofondare definitivamente nell’abisso e mandare a fanculo per sempre la mia riparazione sociale.
Almeno mi toglierei una soddisfazione.
 
“Non devi scusarti con me, ma con la donna che per colpa tua dipende da quegli stupidi farmaci.”
 
Gli esce uno sbuffo esasperato mentre si porta una mano alla fronte e con l’altra raggiunge la cravatta, annodata stretta sotto al mento, per allentarne il nodo. Quando ero piccolo mi piaceva guardarlo mentre si preparava per andare a lavoro. La camicia perfettamente stirata e ben abbottonata, le scarpe lucide, i capelli pettinati da un lato. Adesso non riesco ad immaginare niente di più squallido e triste.
 
“Se darmi la colpa della situazione di tua madre ti fa stare bene, fa pure Damon. Ma la verità è che le cose sarebbero andate così in ogni caso, anche se io non l’avessi…”
 
“Tradita papà. Tu l’hai tradita. Ma il punto non è questo, non è per questo che ti giudico, che tu ci creda o no. Il punto è prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Dovevi dire la verità e stare lì, a subirne le conseguenze con dignità. Come un uomo, cazzo. È questo quello che mi aspettavo da te, quello che mi aspetto da un padre. E ti avrei rispettato, ti avrei anche sostenuto se avessi avuto bisogno di me.”
 
Giuseppe scuote la testa, come se avessi detto una marea di idiozie.
 
“Prova ad immaginare per un attimo uno scenario diverso. Prova a pensare se tua madre si fosse ammalata ugualmente. Se l’avessi lasciata sola non ce l’avrebbe mai fatta. Io voglio continuare a prendermi cura di lei, nonostante tutto. Non la lascerò mai sola ad affrontare i suoi problemi. E posso, voglio ancora prendermi cura anche di te. Tu meriti meglio di questo, Damon. Lascia che ti aiuti…”
 
“A fare che? A diventare come te? No grazie, non è quello che voglio. E adesso goditi la cena e la compagnia.”
 
 
Elena
 
Giù, giù, giù, giù!
 
Il rimbombo della solita cantilena mi arriva alle orecchie, costringendomi ad alzare gli occhi al cielo.
Luke, uno studente del primo anno di letteratura, è alle prese con la sua quinta birra di fila, mentre una folla di ragazzi lo incita a terminarla nel più breve tempo possibile inneggiando il suo nome.
 
È quello che loro chiamano divertimento. Devo dire che, fino ad oggi, questo tipo di feste non è mai rientrato nel mio concetto di svago. Tra studio, lavoro e tutto il resto, ho sempre avuto poco tempo da dedicare a questo genere di distrazioni.
Eppure oggi è diverso. Oggi avevo voglia di venire qui, bere un paio di drink e non pensare a niente, passando una serata del tutto superficiale insieme a Stefan e i miei amici.
Ma a quanto pare, le cose non andranno esattamente in questo modo. Stefan mi ha mandato un messaggio freddo e distaccato, comunicandomi che questa sera ha del lavoro da sbrigare e non riuscirà a raggiungermi. Tipico dello Stefan degli ultimi tempi. La spiacevole sensazione di essere esclusa dai suoi pensieri si fa di nuovo strada dentro di me, ma decido di ignorarla dandomi della paranoica, come al solito.
 
Da mezz’ora sono qui a rimuginare sulle sue stranezze, mordicchiando il bordo del mio bicchiere di plastica rosso e osservando con indifferenza lo spettacolino alcolico di un Luke qualsiasi.
Caroline, molto più disinvolta e festaiola di me, sorride al mio fianco chiacchierando con le sue compagne di corso mentre indica il povero malcapitato che, col preciso obbiettivo di emanciparsi dal ruolo di matricola, finirà per vomitare l’anima dietro ad un cespuglio nell’arco di mezz’ora al massimo.
Damon doveva lavorare e forse è meglio così. Non so perché ma l’idea di lui e Caroline che si scambiano smancerie non mi entusiasma, anzi, ad essere sincera mi mette piuttosto a disagio.
È come se avessi paura di perderlo, in un certo senso. Forse perché negli ultimi tempi ho avuto la sensazione che condividessimo qualcosa di solo nostro, qualcosa di bello ma così fragile che temo mi possa sfuggire tra le dita da un momento all’altro.
 
Di nuovo scuoto la testa e sospiro forte, per eliminare sul nascere pensieri che nemmeno io riesco a decifrare del tutto. Faccio dondolare il mio bicchiere pieno di un liquido trasparente e decisamente troppo alcolico e ne prendo una lunga sorsata, decidendo automaticamente di mettere fine alle mie divagazioni mentali e godermi la festa, per quanto possibile.
Lascio che quella musica spaccatimpani mi annebbi la mente. Ok, non è il mio genere, ma per una volta cercherò di non fare la difficile.
 
“Che palle Elena, c’è Tyler…” sbuffa Care al mio orecchio, sollevando il mento in direzione del suo ex ragazzo, che ha mollato due mesi fa senza un’apparente motivazione.
Lui le lancia una lunga occhiata a cui lei risponde voltandosi dall’altra parte. La conosco troppo bene per non notare il cambiamento nella sua espressione. È palese che provi ancora un interesse per lui, nonostante faccia di tutto per trovarsi delle distrazioni come, ad esempio, spassarsela con Damon.
Tyler non mi ha mai fatto impazzire. È uno sicuro di sé, un egocentrico. Ma a quanto pare la mia amica trova qualcosa in lui che a me sfugge, visto il modo in cui lo spia di nascosto facendo il possibile per non farsi notare.
 
“Dai, vai a parlarci Care. Guardalo… non aspetta altro. In fondo glielo devi e poi non credo ti dispiacerebbe…”
 
“Dici che dovrei? Non lo so Elena… e poi non mi va di lasciarti qui da sola.”
 
“Non essere sciocca. Io e il mio… qualsiasi cosa ci sia in questo bicchiere, ce la caveremo alla grande. E poi posso sempre godermi lo spettacolo di Luke che sviene sul pavimento” sorrido, facendole un occhiolino mentre quel povero ragazzo viene colto da un improvviso quanto imbarazzante attacco di singhiozzo.
Lei mi sorride e, dopo essersi assicurata di essere perfetta come sempre, si avvicina con passo sicuro e fare altezzoso al suo ex.
Questa serata si sta rivelando un completo disastro. Maledico le mie idee malsane, arrivando addirittura a rimpiangere il saggio sulle lingue galloromanze che avrei dovuto studiare e che invece si sta impolverando sulla mia scrivania. Rigiro pigramente la cannuccia nel bicchiere mentre con la mano libera mi avvolgo una ciocca di capelli tra le dita.
 
“Ti stai annoiando bellezza?”
 
Un biondino con la faccia idiota e una ridicola camicia da boscaiolo mi parla da vicino, troppo vicino. No, non è decisamente giornata.
Lo fulmino con un’occhiataccia proprio nel momento in cui Luke salta sopra al tavolo con un suo compare nel trambusto generale, portato in trionfo dai suoi compagni di sbronze.
Mi guardo intorno alla ricerca di Caroline, che è già sparita da qualche parte col suo quarterback e decido istantaneamente che è giunto il momento di cambiare aria.
 
 
Avevo una mezza idea di fermarmi da Joe prima di tornare a casa, ma poi ho pensato che fosse meglio evitare. Ma quando infilo la chiave nella toppa pregustando mentalmente una doccia calda e un libro sotto le coperte, un rumore di passi alle mie spalle mi costringe a voltarmi.
Ed eccolo là. Con i capelli stravolti e la faccia ridotta ancora peggio, gli occhi come due schegge di ghiaccio e  quel sorrisetto dispettoso e un po’ forzato, le mani infilate nel giubbotto di pelle.
È così strano averlo qui davanti, eppure adesso che c’è sono inaspettatamente felice di vederlo.
 
“Speravo di trovarti qui. Bonnie, la tua collega, mi ha detto che non eri di turno stasera, così sono andato a cercarti da Joe ma nemmeno lui ti aveva vista e…”
 
“C’è qualcosa che non va Damon?”
 
Non so se sia l’incertezza nelle sue parole, o quel suo sguardo così intenso ma distante, diverso da quello che ho imparato a conoscere nelle ultime settimane.
Damon è così. Intriso dei suoi dolori e dei suoi fantasmi, che nonostante non sia riuscita del tutto a decifrare, sono sempre lì, in mezzo a noi due, nascosti dalla sua aria spavalda e dai vestiti immancabilmente neri. Mi sembra quasi di sentirlo quel cuore agitato, come il mare nei suoi occhi.
E spesso vorrei poterli sconfiggere tutti quei fantasmi invisibili e così ingombranti, in momenti come questo vorrei essere capace di ripescare da qualche parte quel Damon spensierato che ho imparato a conoscere. Ma è troppo difficile curare una ferita che brucia quando non sai dov’è.
Lui fa un lungo sospiro, con l’aria di uno che ha avuto una giornata da dimenticare, ma non ha alcuna voglia di parlarne. O forse qualcosa di più. Con Damon non si può mai dire, eppure provo l’istinto del tutto irragionevole di conoscere i suoi pensieri.
 
“Tutto e niente, Elena. È che ho avuto una giornata da schifo e non so. Avevo voglia di vederti. Però se vuoi me ne vado.”
 
“Mi fa piacere che tu sia qui. Sali.” rispondo senza pensare, facendogli cenno di raggiungermi in cima alle scale. E quella sua sincerità disarmante e forse un po’ fuori luogo mi fa sentire indifesa per qualche secondo.
Lui tace, ma fa come gli ho detto. Quando me lo ritrovo alle spalle percepisco fin troppo bene la sua presenza dietro di me, e per un attimo mi sento così sopraffatta da quella sensazione da sentirmi sollevata dal fatto che lui non possa vedere l’espressione del mio viso, mentre armeggio con le chiavi fino a riuscire finalmente nell’intento di aprire il portoncino.
Tutta colpa di Care, penso, mentre in silenzio saliamo le scale fino al mio appartamento.
 
 
Damon
 
Elena si toglie le scarpe e macina chilometri nel suo minuscolo bilocale, come se dovesse a tutti i costi tenersi in movimento. Io me ne sto ad osservarla dal suo piccolo divano a due posti, che insieme a un tavolo e un cucinino compone l’intero arredamento del soggiorno.
Eccola qui la ragazza che stamattina mi osservava da una foto nella camera di Barbie. Con quella faccia buffa sotto a un cappello di paglia troppo grande, mentre il sole le bruciava le spalle in una spiaggia che assomigliava tanto ad Ocean Beach.
E adesso eccola qua, ad armeggiare col microonde producendo una serie interminabile di bip.
 
“Ho un po’ di pizza in frigo… a me è venuta una fame… ne vuoi un po’?”
“L’hai cucinata tu? Perché in questo caso passo.”
“Tranquillo, non mi spingerei mai a tanto. L’ho presa qui, sotto casa.”
 
Mentre il microonde fa il suo lavoro, producendo un rumore piuttosto fastidioso, lei si siede accanto a me facendosi spazio sul divano e guardandomi con una faccia che è tutta un programma, mentre io faccio zapping in cerca di qualcosa di decente da vedere.
 
“E così sei andato a letto con Caroline.” afferma di punto in bianco. Questa non me l’aspettavo.
“Che cosa? È davvero di questo che vuoi parlare?”
“Non mi è venuto in mente niente di meglio. Hai detto che non ti va di parlare di tuo padre. Insomma?”
“Lo sai.”
“E quindi?”
“E quindi cosa? Devo scendere nei particolari? È stato normalissimo, banalissimo sesso. Tutte le dietrologie  le lascio volentieri a te e Stef.”
“Lei sembrava così entusiasta…”
“Mettiamola così, nessuna ha mai chiesto indietro il prezzo del biglietto. La cosa ti crea problemi per caso?”
 
Ci pensa un secondo, ma poi i suoi occhi ritornano nei miei, sicuri.
 
“No, nessun problema.” sorride, per poi scivolare di nuovo giù dal divano mentre il timer inizia a suonare.
 
 
Un’ora dopo Elena si è già addormentata con la testa sul bracciolo del divano e le gambe rannicchiate addosso. Le labbra imbronciate, una ciocca di capelli che sfugge alla coda e le precipita sul collo.
La seguo con lo sguardo, scendendo sempre più giù, fino alla sottile striscia di pelle nuda tra il bordo della t-shirt e quello dei jeans. È bella, troppo bella, con quei piedi nudi che mi premono sulla gamba. Perché i piedi nudi sono così sexy? O forse è solo perché è lei. Elena, la ragazza di mio fratello con gli occhi troppo grandi, che ogni volta che li guardi rischi di caderci dentro.
 
 
Di' "buonanotte" e vai a casa.
 
 
Vincent Vega, dallo schermo della TV, si fa il suo dialogo interiore davanti allo specchio mentre Mia Wallace balla in soggiorno, in attesa di finire in overdose. Il film lo conosco a memoria.
 
 
Questo è un test sulla moralità di una persona, se riesce o no a continuare ad essere leale. Perché essere leali è molto importante.
 
 
Raccolgo i capelli che le ricadono sul viso e li sposto indietro, facendole scivolare due dita lungo il collo. Lei non si muove, continua a respirare piano, persa nei suoi sogni. Mi alzo lentamente, per non svegliarla, e mi avvicino al suo viso fino a sfiorare la pelle dietro l’orecchio con le labbra.
 
“Buonanotte Elena.”
 
 
Elena
 
Sento un rumore sordo, come di una porta che sbatte e apro gli occhi di scatto, tirandomi contemporaneamente a sedere sul divano. Il cuore mi martella nel petto mentre giro la testa da una parte all’altra. Ma tutto quello che vedo è la tenda del soggiorno che si solleva e si gonfia pigramente, come sospinta da uno sbuffo di vento, mentre una pallida luce lunare penetra dalla finestra e getta un riflesso biancastro sul pavimento.
Damon non c’è più.
 

 
 
*********
Ok, se non mi mandate a quel paese stavolta penso non lo farete più. Ho raggiunto il mio record di lunghezza di capitolo, ma poteva andarvi peggio. C’era un’altra scena che ho tagliato (non alla fine), mi sembrava già troppo barboso così. E pensare che per una settimana non sono riuscita a scrivere una riga, poi ieri ecco che ho buttato giù tutto sto malloppone. Sarà che avevo il pomeriggio libero e un giretto in Vespa mi ha schiarito le idee.
Tra l’altro non succede granché, vediamo solo l’evolversi di alcune situazioni e conosciamo qualcos’altro dei dolori del giovane Damon. E poi Stefan… ma cosa avrà sto ragazzo??? Boh, Elena se lo chiede per un po’ ma sul fine serata è troppo concentrata sulla gelosia per Caroline… si dai, un po’ è gelosa…
Un’ultima precisazione. Il film che vedono alla fine, per chi non lo avesse mai visto, ma ne dubito, è Pulp Fiction. Ho già detto che sono una fervente Tarantiniana vero? Comunque… la scena è questa: John Travolta alias Vincent Vega, porta fuori a cena la moglie del suo boss, Uma Thurman alias Mia Wallace. A fine serata lei lo invita in casa a bere qualcosa e lui si chiude in bagno e fa questo dialogo con sé stesso che personalmente mi fa morire dal ridere. Vi linkerei la scena se fossi capace… ma purtroppo sono impedita, sorry! D: Basta, sto zitta che qui sto diventando logorroica peggio della biondina… lascio a voi l’insindacabile giudizio, confidando nella vostra bontà come sempre.
Grazie veramente di cuore per la costanza e l’affetto che mi dimostrate sempre… vi adoro davvero. <3 <3 <3
Un bacio
Chiara

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Capitolo 9
*** If I was yours ***


CAPITOLO 7 – IF I WAS YOURS
 
 
Now you’re knocking at my door
Saying please come out against the night
But I would rather be alone
Than pretend I feel alright […]
 
If I was scared, I would
And if I was pure, you know I would
And if I was yours, but I’m not
***
Adesso stai bussando alla mia porta
Dicendo “ti prego, vieni fuori” contro la notte
Ma preferirei essere solo
Piuttosto che fingere di star bene […]
 
Se potessi essere spaventata, lo sarei
E se potessi essere pura, sai che lo sarei
E se potessi essere tua, ma non lo sono
 
Ready to start – Arcade Fire
 
 
Uno si costruisce grandi storie, questo il fatto, e può andare avanti anni a crederci, non importa quanto pazze sono, e inverosimili, se le porta addosso, e basta. Si è anche felici, di cose del genere. Felici. E potrebbe non finire mai. Poi, un giorno, succede che si rompe qualcosa, nel cuore del gran marchingegno fantastico, tac, senza nessuna ragione, si rompe d'improvviso e tu rimani lì, senza capire come mai tutta quella favolosa storia non ce l'hai più addosso, ma davanti, come fosse la follia di un altro, e quell'altro sei tu. Tac. Alle volte basta un niente. Anche solo una domanda che affiora. Basta quello.
 
Oceano Mare – Alessandro Baricco
 
 
 
Damon
 
Com’è che diceva quella frase? Le opportunità non andrebbero mai perse, quelle che tu lasci andare le afferra qualcun altro. Mai come stasera, mi sembra fottutamente vera.
Hermann Hesse era uno che la sapeva lunga, non c’è che dire.
Nel caso specifico, il qualcun altro che è passato a prendersi la mia opportunità porta il mio stesso cognome.
E anche se so perfettamente che con i se e con i ma non si va da nessuna parte, questa notte, mentre la mia Camaro corre senza una meta precisa lungo le strade di San Francisco, ho la mente ingombra di domande e supposizioni.
 
Se…
 
Se Rose non si fosse innamorata di Kol Mikaelson, se lui non l’avesse trattata come la più squallida delle amanti, alimentando il suo mondo di sogni con le bugie.
Se non fosse rimasta incinta, illudendosi che questo lo avrebbe legato a lei, per poi scontrarsi con una realtà ben diversa da come l’aveva costruita nei suoi sogni di zucchero filato.
Se non l’avessi aggredita, allontanata, ferita, con lo stupido e insensato intento di far ragionare una donna che in quel momento aveva perso totalmente la propria razionalità. Lei che era intossicata da quell’amore malato e senza senso che incredibilmente dava un significato alle sue giornate, che riempiva ogni suo respiro di un sentimento che, per quanto mi sforzassi, non ero in grado di comprendere e accettare.
Allora forse mi avrebbe chiesto aiuto al momento giusto e non a cose fatte. Non dopo aver abortito, lasciandosi fare a pezzi il corpo, il cuore e le illusioni.
Se io fossi un po’ meno Damon e un po’ più Stefan, se fossi stato in grado di ragionare.
Allora forse non sarebbe successo tutto quello che è successo.
 
Se…
 
Se quella mattina, invece che ad Haight-Ashbury mi fossi fermato in qualsiasi altro distributore.
Quanti ce ne saranno a San Francisco? Voglio dire, credo sia la città più popolata della California, quindi, facendo un rapido calcolo… ok, io e il karma abbiamo senza dubbio un conto in sospeso.
Comunque, dicevamo. Se.
Se non mi fossi imbattuto in quella ragazza, che si rigirava una matita tra le mani mentre parlava nervosamente al telefono alzando gli occhi al cielo.
Quegli occhi seri, che si riempiono della vita degli altri. Quegli occhi che sanno portarti via con loro, verso luoghi lontani che non hai mai conosciuto, e ti dicono che si, c’è ancora qualcosa in cui puoi credere.
Se non avessi tardato, giusto per il gusto di riempirle la testa di stronzate (che tanto, con lei non attaccano).
Se Stefan, col suo dannato senso della puntualità, non si fosse affacciato da quella maledetta porta.
Se avessi potuto tornare a casa, andare a prenderla prima che fosse lui a farlo.
 
Se, se, se. È un gioco al massacro, ma ormai ci sono dentro fino in fondo.
Se tutto fosse andato al contrario, magari adesso le parti sarebbero rovesciate. O forse no.
Perché posso riscrivere la storia cento volte, posso riavvolgere la pellicola e raccontarmi il film come mi pare, spostare le pedine e tutto il resto. Ma non tenendo conto della variabile principale continuo a mentire a me stesso. E la variabile principale è proprio lei, Elena.
Perché è Elena che ha scelto di stare con mio fratello. Ha scelto Stefan.
 
Ciò che è sicuro ed inequivocabile è che, anche se lei non se n’è accorta, questa sera mi sono spinto troppo oltre, e che la storia dell’amicizia, del parlarsi, dello sfiorarsi i pensieri, per quanto mi riguarda non regge più. Perché, dannazione, io voglio di più da quella ragazzina, ed è inutile continuare a raccontarmi una favola e far finta che non sia così, prolungando all’infinito una lenta agonia.
Sono solo un ipocrita che continua a riempirsi la bocca di lealtà.
 
Perché voglio lei come l’ho voluta sempre, come la volevo il primo giorno. Perché lei ha una magia negli occhi che standole vicino riesci a sentire anche un po’ tua. Perché lei illumina la mia confusione, lei si fa strada dentro il mio sangue.
Ma alla vita non si possono chiedere i giochi di prestigio e adesso è troppo tardi, qualunque cosa facessi per cambiare le cose sarei un egoista, uno dei peggiori sulla faccia della terra.
 
E poi, diciamo la verità, fra noi non c’è stato un bel niente.
Stupide chiacchiere, aria che si incendia appena lei mette piede in una stanza.
Niente. Ho fatto tutto da solo.
Sono io che ti voglio Elena, io che ti sento scorrere nelle vene, io che mentre ti guardavo dormire, non lo facevo con gli occhi dell’amico, del confidente, del bravo cognato. Dio, quanto mi fa schifo questa parola. Ma è questo che tu vuoi che io sia per te. Un amico.
Fra di noi non c’è niente. Allora perché mi sento così pieno di te?
Non c’è niente. Niente per cui avanzare una pretesa, o rivendicare un diritto.
 
E mi sento stupido anche solo a pensarle queste cose, perché, seriamente, siamo in sette miliardi in questo pianeta: quante probabilità ci possono essere che due persone che si conoscono da sempre, due fratelli per giunta, perdano la testa per la stessa donna?
 
Eppure non riesco a non pensare ad un finale alternativo. Non riesco a non chiedermi… e se…?
Se le cose fossero diverse.
Se tu potessi essere mia.
Ma non lo sei, e non lo sarai mai.
Allora perché è così difficile lasciarti andare?
 
Devo solo ristabilire le mie priorità, e la mia priorità al momento è allontanarmi il più possibile.
Perché le emozioni sono un lusso che non posso permettermi, so già che finiranno per sabotarmi, distruggermi fino al punto in cui non riuscirò più a tenermi insieme.
Fortunatamente c’è sempre una via d’uscita e nel mio caso è la mia Camaro, che sfreccia per le strade di San Francisco mentre la skyline mi sovrasta e mi riempie gli occhi delle sue pazze luci colorate, che lentamente si sostituiscono all’immagine di Elena. Ed è questo quello che voglio fare. Correre via fino a raggiungere un posto dove di te non ci sia traccia.
 
 
Elena
 
Ancora una volta mi sveglio di soprassalto. Provo a rigirarmi, ma non ho spazio per farlo, allora mi ricordo di non essermi mai mossa dal divano. La TV è ancora accesa e ripete all’infinito le immagini di quella televendita sul set di coltelli che prima o dopo dovrei decidermi ad acquistare. Magari le mie performance in cucina sarebbero migliori.
Cerco di allungarmi e sgranchirmi un po’, familiarizzando di nuovo con i colori accesi dei pochi oggetti che compongono l’arredamento del mio pseudo soggiorno. La tela un po’ logora dei cuscini bianchi, il cucinino giallo acceso, le tende leggere che lasciano filtrare la luce calda e ovattata di un giorno appena cominciato.
Mi stropiccio gli occhi e sbatto forte le palpebre, ma appena accenno un movimento sento un fastidioso dolore al collo, senza dubbio causato dalla posizione scomoda che ho mantenuto per tutta la notte per riuscire a restare rannicchiata su questo piccolo divano.
 
Il fatto è che non riuscivo proprio a muovermi da qui e ho preferito lasciar trascorrere le ore guardando  telenovele anni ’80 piuttosto che trascinarmi fino alla mia stanza, chiudere gli occhi e rischiare di addormentarmi sul serio.
Si perché una volta ho letto da qualche parte che l’essere umano nel sonno penetra profondamente nel proprio io, ma stanotte non ero sicura di volermi guardare così a fondo. Se lo avessi fatto, temo che quello che ci avrei visto non mi sarebbe piaciuto per niente.
Sollevo una mano e me la porto al collo, dietro l’orecchio. Sfioro con la punta delle dita quella piccolissima porzione di pelle, come se non lo avessi già fatto mille volte nelle ultime sei ore, alla ricerca di Dio solo sa cosa. Una traccia da scovare, un appiglio a cui aggrapparmi per sapere che sì, è tutto vero.
O forse, più semplicemente desidero poter cancellare quella che so essere una realtà troppo scomoda e meschina per essere accettata. Perché comunque la metti è una catastrofe, un’onda di piena che finirà per trascinarmi via, lontano dal mio porto sicuro.
 
“Buonanotte Elena.”
 
Era davvero la tua voce quella che ho sentito Damon? O è stato solo il prodotto della mia mente, intossicata dalla tua presenza troppo ingombrante? Non so quale sia la risposta che mi spaventa di più.
È stato solo un sogno, una cosa senza importanza. Me lo sono ripetuta mille volte questa notte, cercando di scovare il punto esatto della mia mente in cui ti sei nascosto per tormentarmi. Perché ho la sensazione che, per quanto mi sforzi di cacciarti via, tu non abbia la minima intenzione di andartene.
Senza pensarci porto le mani alla testa, premo i palmi contro le tempie e abbasso le palpebre in cerca di un’oscurità che vorrei potesse avvolgere anche i miei pensieri.
Mi sembra di sentirlo il tuo sguardo addosso, le tue labbra proprio qui, dove continuo a cercare un segno della tua presenza. Credo di percepire ancora il tuo odore impresso nell’aria, il tuo calore che si abbassa su di me per risvegliarmi da dentro.
Sciocchezze, è stato solo uno stupido sogno, che non significa niente… non significa nemmeno che sono peggiore delle persone che ho sempre disprezzato.
Peggio di mio padre e mia madre, lui con tutte le sue storie clandestine di cui mi ha sempre tenuta all’oscuro illudendosi che non me ne accorgessi, lei con i suoi mille flirt senza capo ne coda, vissuti tutti alla luce del sole con mio grande imbarazzo. Io, che ho giurato di non diventare mai come lei, ho un cuore più precario del suo se mi ritrovo a fantasticare sul fratello del mio fidanzato. Perché che sia vero o no quello che mi è parso di avvertire, il risultato non cambia e fa di me una persona orribile.
 
Vorrei strapparti via da ovunque tu ti sia annidato, Damon. Vorrei tanto aver paura di te, invece quella che mi spaventa sono io e il modo in cui mi fai diventare quando ti sono vicino e perfino quando non lo sono.
Vorrei riprendermi il mio tempo, e tornare indietro. Tornare alla festa e restarci fino a tardi, stordirmi con quegli alcolici scadenti,  non trovarti sotto casa, non sentire la tua presenza dietro di me, né quella voce nella testa che mi pungolava i pensieri costringendomi a farti domande alle quali non volevo tu rispondessi.
Lentamente appoggio i piedi sul pavimento freddo, uno dopo l’altro. Mi trascino fino al bagno, reggendomi allo stipite della porta come se sentissi la necessità di aggrapparmi a una consistenza che conosco.
Di nuovo quei capelli scompigliati, gli occhi gonfi e lo sguardo perso che mi sbircia dallo specchio. Sollevo le ciocche scure in cerca di te: della traccia che sto inseguendo non c’è nemmeno l’ombra.
Ma non ho bisogno di vederla per sapere che sei qui, da qualche parte, dentro, dove non riesco a cancellarti. E sento che ho sbagliato tutto, fin dal primo momento.
 
Il cellulare squilla nella borsa, abbandonato dalla sera prima e mai più recuperato. E se fosse Stefan? Un’ondata di panico mi assale, ma poi respiro forte, convincendomi che non c’è assolutamente nulla di cui aver paura. Sono solo stanca, non ho dormito, Stefan è strano e distante, Damon è Damon e mi sto lasciando condizionare troppo da lui e dalla stupida attrazione che provo nei suoi confronti.
Ma posso controllarmi e riprendere la situazione in mano quando voglio, mi basterà rimettermi a fuoco.
Adesso sono troppo confusa e disorientata.
Frugo all’interno della sacca di pelle nera fino a che non riesco a scorgere la luce lampeggiante. Quando vedo comparire il nome di Care però, non riesco a trattenere un sospiro di sollievo.
Faccio scorrere il dito sul display e torno a stendermi sul divano, gli occhi chiusi rivolti verso il soffitto bianco mentre mi massaggio le tempie.
 
“Ehi amica, dove sei sparita ieri sera?”
 
La sua voce è allegra, spensierata, come sempre. Vorrei abbracciarla e dirle grazie per essere così com’è, un’isola di leggerezza in mezzo al caos della mia mente. E poi chiederle scusa se sono talmente stronza da essere stata addirittura gelosa di lei. Sospiro forte e scuoto la testa.
Non c’è nulla di meglio di una telefonata della mia migliore amica per non pensare. Spero mi sfinisca a furia di chiacchiere, parlandomi della sua serata, o addirittura degli smalti di tendenza. Non mi importa. Tutto quello che voglio è ridere, nascondermi, prendermi una pausa da me stessa. Non cercarti più.
 
“Care, devo forse ricordarti che sei stata tu a mollarmi per parlare col tuo Tyler?” ribatto, con una punta di ironia. Dai, raccontami di lui per almeno mezz’ora e giuro che stavolta non ti interromperò.
 
“Ci avrò parlato si e no cinque minuti, il tempo di rendermi conto che è sempre il solito egocentrico del cavolo. Ma quando sono tornata tu non c’eri già più. Ti sei persa la scena di Luke svenuto sul pavimento…”
 
“Già. Ero stanca e sono tornata a casa. Mi dispiace tanto Care. Se avessi saputo che saresti tornata subito, giuro che sarei rimasta con te.”
 
“Non scusarti. Sono stata alla festa un altro paio d’ore e poi indovina chi mi ha chiamata?”
 
“Non lo so… fammi pensare… ok, mi arrendo.” rispondo, un sorriso nella voce.
Ma prima che lei pronunci quel nome, i miei occhi sono di nuovo spalancati verso il soffitto e i pensieri agitati nella mia mente hanno ricominciato a fare troppo rumore per non poterli sentire.
 
 
Damon
 
“Cosa speravi che ti dicessi?”
 
“Qualcosa tipo vai dove ti porta il cuore non sarebbe stato male…”
 
“Mi dispiace Damon, non è questa la risposta che avrai. Non da me.”
 
Faccio sbattere il mio bicchiere sul legno scuro che ricopre il bancone del ristorante, mentre Ric mi osserva serio dal suo sgabello, i gomiti puntati sulle ginocchia e nemmeno un ombra di ilarità sul viso appena segnato da qualche ruga di stanchezza. E io che speravo nel confortante parere di un amico. Eppure, poco fa, quando gli ho vagamente confessato di provare qualcosa per una donna che non potrò avere mai, non c’è stato bisogno che gli spiegassi che si trattava di Elena.
Lui e il suo dannato vizio di leggere tra le righe e moralizzarmi.
Spingo il mento in avanti, verso la bottiglia di bourbon alle sue spalle, un cenno che sta a significare che me ne serve ancora un po’ per ragionare come si deve.
Lui fa una smorfia sconsolata, afferra la bottiglia e riempie per l’ennesima volta il mio bicchiere del liquido ambrato scacciapensieri, per poi tornare a fissarmi con le braccia incrociate sul petto e l’espressione seria.
 
“Se vai avanti così mi toccherà chiamare un’ambulanza per riportarti a casa.”
 
“Non mi conosci bene come pensi.”
 
“Sarà.”
 
Ric si passa una mano fra i capelli, senza distogliere lo sguardo dal mio. È palese il suo desiderio di farmi una ramanzina, ma evidentemente si sta trattenendo per non peggiorare la mia già precaria situazione mentale.
Forse è proprio di questo che ho bisogno. Qualcuno che mi ricordi che razza di stronzo io sia, che mi faccia sentire un verme per aver anche solo potuto pensare di portare via a mio fratello la sua donna.  Quella che lui, il cavaliere bianco, mi ha soffiato da sotto il naso mentre ero impegnato fra la mia riabilitazione sociale e quelle inutili sedute dalla psicologa.
 
“Avanti, dì quello che devi dire e facciamola finita.” sbuffo con eccessiva rabbia, rivolgendogli uno sguardo torvo. Sembrava che non aspettasse altro. Fa schioccare le dita per poi sollevarsi dallo sgabello e farsi più vicino, i palmi delle mani stesi sulla superficie scura.
 
“Ascoltami bene Damon. Ci sono momenti nella vita di una persona in cui bisogna dimostrare chi si è. Allontanarsi dalle situazioni ambigue finché si è in tempo, senza continuare ad alimentare un fuoco che non ha niente a che vedere con l’amore, ma piuttosto con l’egoismo. La tua è solo un’attrazione momentanea, è solo voglia di ottenere quello che non puoi avere. Il prezzo da pagare è troppo alto Damon. Perciò il mio consiglio è di allontanarti da Elena prima di metterti davvero nei casini.”
 
Lineare, non fa una piega. Ha ragione lui, niente da dire. Allora perché da ieri sera non penso ad altro? Perché nonostante le acrobazie con la biondina, un numero imprecisato di bicchieri di bourbon e tutta la mia forza di volontà, tutto quello che ho voglia di fare è andare da Elena, spalancare la porta del suo appartamento e dimostrarle con i fatti che ha scelto il fratello sbagliato?
Guardo il mio capo, il mio amico. E so che ha ragione. Lo so perché l’ho vissuto sulla mia pelle, so perfettamente che Stefan non si merita un colpo basso del genere proprio da me.
Io che nonostante tutto ho sempre cercato di proteggerlo da un dolore troppo grande e che adesso gli invidio l’unica cosa bella della sua vita. La sola che potrebbe salvarlo da nostro padre e dagli assurdi progetti in cui ha finito per incastrarlo.
Mi prendo la testa fra le mani, appoggio i gomiti sul tavolo e punto lo sguardo sulla scritta che qualche ragazzino deve aver intagliato usando una chiave. Sospiro forte senza sollevare lo sguardo in quello di Ric. Non voglio più vedere quegli occhi pieni di disapprovazione, correndo il rischio di cadere ancora più in basso.
 
“Hai ragione tu. Sto facendo un casino per niente. Un paio di giorni e sarà tutto dimenticato. Solo che adesso… non so spiegarti il perché ma non riesco a fare a meno di sentirla mia. E fa dannatamente male.”
 
“Se solo tu provassi a non concentrarti esclusivamente su te stesso, tutto quello che credi di sentire passerebbe e non te ne accorgeresti neanche.”
 
“Se il tuo intento è quello di buttarmi più giù di quanto non sia già, sappi che ci stai riuscendo alla grande.”
 
“Al contrario, sto cercando di evitare che tu commetta un errore di cui poi finiresti per pentirti.”
 
Lo guardo dall’alto in basso, fulminandolo con gli occhi e ricevendo per tutta risposta un sorriso a mezza bocca. Come fa ad essere così dannatamente stronzo senza farmi venire la voglia di attaccarlo al muro?
Ora che ci penso non so neanche come mi è venuto in mente di venire da lui a raccontargli tutta questa storia. Eppure so che ho fatto bene. Perché adesso so perfettamente cosa devo fare.
 
“Alza il culo da quello sgabello e sparisci Damon.” ordina Ric, afferrando il grembiule da sopra al bancone per legarselo in vita.
 
“Che diavolo stai dicendo? Fra mezz’ora devo cominciare il turno.”
 
“Me la caverò senza di te. Hai bisogno di schiarirti le idee.”
 
 
Dieci minuti dopo sono nel parcheggio del ristorante e frugo nelle tasche della giacca alla ricerca delle chiavi della Camaro. Il sole è una palla infuocata che si lascia inghiottire dalla baia, che come al solito è affollata di turisti pronti a farsi spennare. Lascio che la brezza marina mi entri nei polmoni e respiro.
Eccomi qua, io che mi sono sempre creduto invincibile e adesso scopro una falla nell’armatura, proprio lì dove non l’avevo prevista. Ma una falla si può riparare e io posso andare avanti, penso, mentre mi levo la giacca e la getto sul sedile, pronto a partire per una meta che ancora non ho stabilito.
Ma proprio quando sto per salire in macchina, un rumore di passi fa scricchiolare il ghiaino costringendomi a voltarmi. Il sorriso sfrontato che incontro mi costringe a soffocare una risata isterica. Ok, questa giornata si sta rapidamente trasformando in uno dei peggiori incubi della mia vita.
 
“Damon Salvatore. Allora è vero, hai ancora il coraggio di farti vedere in giro.”
 
“Ciao Klaus. Dì un po’, sei venuto a provare il granchio o cercavi proprio me?”
 
Per tutta risposta quell’idiota mi guarda con la sua solita espressione provocatoria stampata in faccia.
Non so cosa darei per potergliela levare di dosso, proprio come ho fatto tempo fa con quel patetico drogato del suo fratello minore.
C’è da dire che Klaus è meno stupido di Kol, ma ugualmente stronzo. Fa parte del loro DNA, un problema di famiglia a cui dovrei rassegnarmi, esattamente come dovrei fare con tutte le altre cose che non si decidono ad andare come dico io.
 
“Allora è vero che a Oakland ti hanno insegnato le buone maniere. I miei complimenti.” risponde tranquillo, con quell’accento inglese che lo fa sentire tanto altoborghese. Stiro le labbra in un mezzo ghigno, piegando la testa di lato e studiando la sua faccia compiaciuta.
“Ti sbagli. Invece continuo a fare cose che non dovrei fare. Come quella volta che non ho spezzato il collo a quel gran coglione di tuo fratello Kol. Ancora oggi me ne pento.” ribatto tranquillo, replicando il suo tono. Lui non si scompone, continuando a squadrarmi con la sua inconfondibile aria di superiorità.
 
“Attento a come parli Damon… ci metto un attimo a farti tornare da dove sei venuto.”
 
Stringo gli occhi, soffocando una risatina ironica. Ha scelto proprio la giornata sbagliata per sfidarmi, anche se non può saperlo. Evidentemente il karma ultimamente ha deciso di prendermi per il culo, disseminando sulla mia strada una serie di incontri indesiderati destinati a rendere impossibile la mia redenzione.
Incrocio le braccia sul petto e mi appoggio con noncuranza allo sportello della Camaro. Tutto sommato incontrare Klaus potrebbe essere la ciliegina sulla torta, la distrazione che cercavo in questa giornata da dimenticare. Lui non si perde nemmeno una mia mossa, continuando a fissarmi come se stesse per tirare fuori un coniglio da un cilindro. L’aria di uno che ha nasconde un trucco nel taschino della giacca.
 
“Se hai finito con i convenevoli, sarei contento di sapere che diavolo sei venuto a fare qui Klaus.”
 
“Oh, beh… è molto semplice Damon. Sono venuto a darti il mio personale bentornato a San Francisco. Tranquillo, non ti farà troppo male. Non sono certo stupido come te.”
 
 
Elena
 
“Un pacchetto di Marlboro, signora.
 
Il ragazzino brufoloso che mi sta davanti di certo non può sapere che con quel signora si è giocato per sempre la possibilità di comprare sigarette dalla sottoscritta. Poi guardo quegli occhi nocciola, grandi, imploranti e incasinati, e mi ricordo di quando anche io avevo la sua età, una gran voglia di disubbidire e un mucchio di sogni per la testa. Non sono cambiata poi molto.
 
“Dì un po’, ce li hai sedici anni?” chiedo, una nota di rimprovero nella voce che contrasta con lo sguardo complice che gli rivolgo.
 
“Li compio fra un mese… ventotto giorni…” ribatte lui, il tono incerto e gli occhi puntati sulle sue Converse consumate.
Sospiro, allungo una mano sullo scaffale e gli passo il pacchetto, ricevendo in cambio un sorriso stentato ma riconoscente.
 
“Che resti un segreto fra me e te ok? Se qualcuno scopre che te le ho date finisco nei guai.” Gli dico, sollevando un indice e recuperando in un baleno la mia aria da maestrina moralizzatrice. Lui scuote la testa in su e in giù e si affretta a uscire, per poi prendere la sua bicicletta pronto a pedalare il più velocemente possibile verso il parco più vicino e godersi la sua trasgressione.
Quanto mi piacerebbe tornare a quegli anni, quando bastava una sigaretta per sognare di essere grandi.
Chiudo il mio libro producendo un tonfo secco e allungo le braccia per stiracchiarmi, mentre il locale scivola piano nella semioscurità della sera. Sfioro con le dita il contorno delle mie labbra e stavolta so che non è un sogno quello che cerco, ma una certezza. Penso a Stefan.
 
“È tutto ok Elena? Sembravi così nervosa poco fa al telefono…”
 
Ho preso il suo viso tra le mani, perdendomi nel suo sguardo col desiderio di ritrovarci tutto quello che siamo stati insieme, di ripescarci dentro tutte le certezze con cui è stato capace di riempire la mia vita inquieta, piena di una confusione che nonostante tutto ha continuato ad abitare sotto la superficie apparentemente calma.
 
“Non lasciarmi da sola, mai più.” gli ho sussurrato all’orecchio, la voce roca per il desiderio di appartenergli e cancellare tutti i dubbi che mi annebbiavano la mente.
E poi ho cercato la sua bocca, mentre le sue mani mi scorrevano fra i capelli, sulla schiena, sotto i vestiti, con un’urgenza e un bisogno che la mia pelle non aveva mai conosciuto prima.
E per un attimo sono riuscita ad estraniarmi da tutto. Sentivo solo il suo sapore sulle labbra che si confondeva con il mio. Riconoscevo la sensazione delle sue mani su di me, del suo corpo che scopriva il mio e lo cercava con lo stesso bisogno della prima volta. Lo stesso mio bisogno di certezze, di sapere che lui è ancora mio ed io sono ancora sua e non è cambiato niente fra di noi ma solo intorno a noi.
Eppure quando se ne è andato, gli occhi vuoti e un sorriso amaro sulle labbra, mi sono sentita stranamente in difetto. Come se in qualche modo fossimo riusciti ad allontanarci ancora più di prima. E la colpa è solo mia, dello schifo che provo per me stessa da quando mi sono scoperta a sperare che quello che mi sono immaginata su Damon fosse reale, per poi scontrarmi con Care e i suoi racconti sulla notte di fuoco trascorsa col fratello del mio fidanzato.
 
E se so una cosa è che devo allontanarmi da lui. Dalla sua presenza intossicante che non fa che offuscarmi la mente, confondermi, destabilizzarmi. Da quella strana empatia che mi ha messa in connessione ai suoi pensieri finendo per aggrovigliarli ai miei, da quel desiderio di conoscerlo, di scoprirlo, di averlo nella mia vita.
 
Sospiro forte, eliminando un po’ di aria cattiva dai polmoni. Voglio liberarmi di te Damon, da tutta la confusione che ti sei portato dietro. Lo penso anche adesso, con la fronte premuta contro la vetrina, mentre scopro che la tua auto è parcheggiata proprio dall’altro lato della strada, davanti al bar di Joe e tu te ne stai seduto lì fuori con i gomiti puntati sulle ginocchia e lo sguardo rivolto al pavimento.
E sono contenta di non vederli quei pezzi di cielo che hai al posto degli occhi, che ogni volta che si aprono  per guardarmi non fanno altro che farmi scivolare un po’ più in basso.
D’istinto mi allontano dalla vetrina e mi avvicino alla cassa per contare i soldi. Prima finisco prima me ne andrò lontano da questo posto.
 
Vrr Vrr Vrr
 
Il cellulare squilla, vibrando forte nella tasca. Numero sconosciuto. Rispondo. Anche la pubblicità di una qualsiasi compagnia telefonica andrà bene per tenermi occupata.
 
“Pronto?”
 
“Elena, sono Joe.”
 
 
Damon
 
Faccio un rapido resoconto dei danni.
Non c’è nulla di rotto per fortuna. Solo un labbro aperto e sanguinante, un occhio nero, un paio di pugni allo stomaco che sul momento mi hanno tolto il respiro ma tutto sommato si possono affrontare.
Klaus aveva ragione, in fondo come benvenuto è stato piuttosto soft. E poi certo, mica si è sporcato le mani. Il lavoretto l’ha fatto fare a uno dei suoi, un tizio grande e grosso che, devo dire, ci sapeva fare.
Per un attimo ho desiderato che mi facesse più male, ma Klaus è troppo scaltro per lasciarsi prendere la mano. Ha preferito lasciarmi un avvertimento, un piccolo acconto per ricordarmi che cambiare i connotati a suo fratello è stato un grosso errore.
E così ho avuto la distrazione che cercavo.
 
“Si può sapere che hai fatto?”
 
Elena mi guarda da in fondo alle scale che separano l’ingresso del pub dal marciapiede. La brezza le scompiglia i capelli scuri e ha gli occhi infuriati, che sotto la luce fioca del lampione sembrano ancora più scuri e profondi del solito.
La vedo salire gli scalini a due a due fino a portarsi ad un passo da me, che nel frattempo mi sono alzato in piedi. Non so se per correrle incontro o per scappare da lei.
 
“Che diavolo ci fai qui?”
 
“Mi ha chiamata Joe, dato che ti ha visto qui fuori con la faccia a pezzi. Allora? Mi vuoi dire con chi te la sei presa stavolta?” risponde, la voce distorta da una rabbia che non riesco a spiegarmi. Così come non riesco a tollerare la sua presenza, né le accuse che scopro nelle sue parole. Mentre mi parla tiene le braccia rigide lungo il corpo, con i pugni talmente stretti da rendere le nocche più chiare rispetto al colore ambrato della sua pelle.
 
“Non me la sono presa proprio con nessuno, ok? È la famiglia Mikaelson che ha deciso di dimostrarmi la sua accoglienza, contenta? E comunque, la cosa non ti riguarda.” ribatto, replicando il suo tono rabbioso. Elena sgrana gli occhi dentro i miei, mentre la collera si stempera con lo stupore per la mia risposta e le labbra si increspano in un’espressione infastidita.
 
“Si può sapere perché adesso mi parli in questo modo Damon?”
 
“Si può sapere perché sei venuta fin qui? Per accusarmi di aver fatto a botte con qualcuno?”
 
“Perché ero preoccupata per te.”
 
“Beh allora prendi la tua preoccupazione e vattene a casa. Vai da Stefan, Elena, e lasciami da solo. Chiaro?”
 
La sua risposta non arriva. Rimane solo il silenzio e il suono dei nostri respiri agitati dopo che ci siamo urlati contro senza un’apparente motivazione.
Non voglio avere il tempo di pensare e sentirmi in colpa per come l’ho trattata, rovesciandole addosso tutto il rancore ingiustificato che provo nei suoi confronti. 
Senza nemmeno guardarla in faccia scendo gli scalini in fretta e furia, dirigendomi più in fretta possibile verso la mia macchina. Per oggi ne ho abbastanza di Klaus, di Ric e pure di…
 
“Ti ho sentito Damon.”
 
Mi volto verso di lei, cercando nel suo sguardo un significato alle parole che le ho sentito pronunciare.
 
“Che vuoi dire?”
“Ieri sera ti ho sentito mentre te ne andavi e…”
 
Elena accompagna le parole portandosi la mano sul collo, proprio lì, dove le ho lasciato il mio bacio vigliacco prima di scappare da casa sua per infilarmi nel letto della sua migliore amica. Resto in silenzio, guardando le spalle di Elena alzarsi e abbassarsi sempre più velocemente, accompagnando il suo respiro agitato mentre i suoi occhi si ricoprono di un velo lucido e trasparente.
 
“Puoi dirmi che è stato solo il prodotto della mia immaginazione, Damon. Ma spero che tu non lo faccia. Perché io ti sento, anche se vorrei non fosse così.” continua, la voce che diventa un sussurro appena udibile, ma che mi arriva distinto e inconfondibile.
 
E se potessimo smetterla di raccontarci una favola e riscrivere il finale di questa storia?
Se tu potessi essere mia?
 
È un attimo. Un attimo in cui la mia lucidità scompare, insieme ai sensi di colpa, i buoni propositi, le belle parole. Un attimo per raggiungerla in cima alle scale, prendere il suo viso fra le mani e trovare le sue labbra, mentre il suo sapore si mischia a quello del mio sangue.
 

 
*********
ALLARME MINIPONY!! ALLARME MINIPONY!! S.O.S.!!
Cavoli ragazze, li ho lasciati allo stato brado e sono tornati in massa, anzi, in mandria.
Colpa mia che sono una fluffona senza speranza di redenzione, ecco. Anche se ci provo, il mio cuore di panna ha sempre la meglio... è che io li vedo troppo bene insieme e boh, sto capitolo è andato avanti per conto suo e alla fine ecco il risultato.
Non so come la prenderete voi ma la vostra reazione mi fa un po’ paura ad essere sincera *_*
Ho notato che i riferimenti letterario/cinematografici sono di vostro gradimento, quindi sarete liete di sapere che al suo risveglio Elena guarda la televendita di Miracle Blade XD
Ok, la smetto di fare la pagliaccia per distrarvi dalla quantità di miele che ho sparso in giro.
Devo dire che invece tutto il capitolo è stato pesantemente influenzato dalla canzone e dalla citazione iniziali, o per lo meno come le ho interpretate io. Spero inoltre che i vari monologhi interiori non vi risultino troppo confusi… sono volutamente contraddittori, per rispecchiare la confusione nella testa di questi due, ma spero non risultino di difficile lettura.
Adesso mi rimetto al vostro giudizio. Sarete buone come lo siete sempre o mi lancerete dietro il set di coltelli di Chef Tony?? Ok, la smetto!!
Mando un bacione a tutte, chi segue in silenzio e chi mi regala sempre parole che mi fanno emozionare, in particolare alla dolcissima Setsuna sperando di leggerti al più presto <3
Un bacino coccoloso
Chiara

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Capitolo 10
*** Can't help the feeling ***


CAPITOLO 8 – CAN’T HELP THE FEELING
 
 
She Looks like the real thing
She tastes like the real thing
My fake plastic love
 
But I can't help the feeling
I could blow through the ceiling
If I just turn and run
And it wears me out
 
If I could be who you wanted all the time...
***
Lei sembra una cosa vera
Lei sa di una cosa vera
Il mio amore finto di plastica
 
Ma non posso evitare di sentirlo
O esploderei attraverso il soffitto
Se mi voltassi e fuggissi
E questo mi consuma
 
Se io potessi essere chi tu hai desiderato tutto il tempo…
 
Fake Plastic Trees – Radiohead
 
 
"Una volta e basta", come se non fosse niente,
se è capitato una volta non è niente.
Io potrei morire e potrei uccidervi una volta e basta,
se capita una volta non è niente, no?
 
Io sono di legno – Giulia Carcasi
 
 
 
Damon
 
Qualcuno mi ha detto che quando incontri la persona che può stravolgerti la vita, la riconosci.
Lo sai e basta.
Io ho sempre avuto la certezza che a me non sarebbe successo.
Per molto tempo ho bloccato ogni possibile accesso alle emozioni positive, consapevole che tutto quello che decidevo di provare, o non provare, era solo il frutto di una fredda e calcolata scelta. Bianco o nero, sì o no, buio o luce.
 
Ma Elena non mi ha dato la possibilità di scegliere. E io ho ceduto.
Ho ceduto alle sue parole impreviste che assomigliavano tanto al segno che aspettavo, che volevo a tutti i costi. Al suo  respiro agitato che mi rende debole anche adesso.
A quel suo ‘ti sento’ che era lo specchio dei miei pensieri e ha bruciato in un colpo solo tutte le mie incertezze. A quella forza misteriosa che mi attira verso di lei, un bisogno che riempie le  vene, non accetta di essere ignorato, non conosce compromessi e se ne frega di tutto: dei sentimenti di Stefan, della rivalsa di Klaus, dei consigli di Ric, di Rose, perfino dell’odio per mio padre.
C’è solo lei.
Adesso che la posso sentire esattamente come volevo, sulla pelle, tra le mie mani, sulle labbra.
Mia, anche se solo per un attimo in cui tutto il resto è immobile.
C’è solo lei.
Qui è dove voglio stare.
 
E non so più niente. Mi sento in balìa di questo momento che ha il sapore dolce della perfezione, anche se il gusto ferroso del sangue e il dolore della ferita restano lì, in sottofondo, quasi a ricordarmi che non posso permettermi il lusso di dimenticarmi di tutto il resto.
Perché questo bacio che mi fa sentire tanto completo quanto miserabile è il biglietto di sola andata per l’inferno.
 
Le dita fredde di Elena si arrampicano fra i miei capelli per tirarmi più vicino.
Riesco a sentire tutta l’urgenza nelle sue mani, nel suo corpo che si aggrappa a me, la necessità di un contatto che è anche la mia.
Il nostro bacio diventa più profondo, come il mio bisogno di lei. E fa bene e male allo stesso tempo.
La assaggio con gli occhi, col le mani, con le labbra e per un secondo mi sento libero di dimenticare tutto. I miei sbagli, le precauzioni, le promesse ipocrite che ho fatto a me stesso. Tutto si annulla sulla bocca di Elena, in questo bacio che mi avvelena il sangue e si porta via per sempre una parte di me, l’unica che credevo incorruttibile.
 
Ma poi, tutto a un tratto, le sue mani mi stringono i polsi e capisco che vuole che la lasci andare.
È di nuovo il momento dei rimpianti, dei sensi di colpa, della lotta interiore.
Tutti i sentimenti che avrei voluto trascurare sono di nuovo qui, o per meglio dire non se ne sono mai andati. Li posso sentire affiorare il superficie per infilarsi in mezzo a noi due, nell’aria ancora calda del nostro respiro, a ricordarci quanto siamo deboli e meschini.
Mi separo da lei quel tanto che basta per vedere le sue palpebre che si sollevano controvoglia e il suo sguardo confuso che si incatena al mio per una frazione di secondo. Tutto quello che sento è che non voglio lasciarla andare. Ma devo.
 
Elena fa un passo indietro e le mie mani precipitano dal suo viso alle spalle, mentre lei si massaggia le braccia con i palmi aperti come se sentisse freddo e sposta lo sguardo verso la strada. Una lacrima le sfugge dagli occhi e le rotola sulla guancia.
La riconosco: è il rimorso che le scava nello stomaco, trasformandolo in una sorgente di sensi di colpa.
Lo so, perché è quello che sto provando anche io.
 
Un altro passo indietro. Mi supera senza guardarmi per sedersi sui gradini del portico, con le braccia che si stringono attorno alle gambe come se volesse tenersi insieme e le mani nervose che si intrecciano fra di loro. Silenzio. Vedo solo la sua figura tremante e indifesa illuminata dalla luce intermittente di un lampione che non vuole decidersi a lasciarsi morire.
 
“Mmh. Non pensavo che ti avrebbe fatto questo effetto.”
 
“Che vuoi dire?” chiede in un sospiro, la voce bassa e completamente incolore. Mi piego sulle gambe fino a trovarmi all’altezza dei suoi occhi, che lei continua a tenere ostinatamente puntati davanti a sé, rifiutandosi di ricambiare il mio sguardo. Sorrido debolmente, anche se so che lei non può vedermi.
 
“Beh, non so Elena. Credevo che mi avresti sbattuto al muro implorandomi di aiutarti a sfogare tutta la tensione sessuale repressa degli ultimi mesi.”
 
Le sue labbra si piegano in un su per un brevissimo istante, mentre col dorso della mano si porta via una scia di lacrime da sotto gli occhi. Vorrei poterlo fare io, ma non ho più il coraggio di toccarla. Sento che lei non vuole che lo faccia.
 
“Come fai a scherzare in un momento come questo Damon? Me lo spieghi?” ribatte. La sua voce, un po’ irritata e un po’ divertita, riesce a strapparmi un sorriso a metà.
 
“Ok, ok… la smetto. Ma tu non piangere.”
 
“E come faccio? Non sono mai stata così male. O così bene. Decidi tu. So solo che sono una persona orribile.”
 
Sbuffo di frustrazione, ma non riesco a trattenermi da accarezzarle il dorso della mano con un dito. Il mio dannato bisogno di lei continua ad avere la meglio sulla mia volontà.
Ma lei è più forte. Non si muove di un millimetro, lo sguardo rimane insistentemente ancorato al tessuto scuro dei suoi jeans, mentre le labbra si increspano in un’espressione piena di disappunto.
Elena sta odiando sé stessa almeno tanto quanto io mi sento in colpa.
Mi alzo in piedi di scatto, poi torno a sedermi accanto a lei, sul gradino di legno logoro e scheggiato. E mi ritrovo a pensare ancora una volta al destino.
Perché adesso siamo qui, ad un passo dove tutto è iniziato senza che nemmeno noi ce ne rendessimo conto, a smezzarci tutto il bene e il male che possiamo essere l’uno per l’altra.
 
“Credi che non sappia quello che provi Elena? Per me è la stessa cosa. Il solo pensiero che Stefan possa venire a sapere quello che...”
 
“Non deve saperlo.” mi interrompe. Le parole restano sospese a mezz’aria, così come i miei pensieri. Non sono sicuro di aver capito quello che mi ha detto, o meglio, quello che vuole dirmi.
 
“Che significa Elena?”
 
Un altro silenzio, ancora quelle labbra contratte dai rimorsi. Scuote piano la testa, col respiro che si spezza, dondolandosi su sé stessa mentre si abbraccia le gambe ancora più forte di prima. Riesco quasi a sentire il caos dei suoi pensieri, e non è una bella sensazione.
Voglio che parli e la faccia finita. Voglio che non dica più niente.
 
“Lo sai quello che intendo Damon. Tu non c’entri, è tutta colpa mia… non dovevo dirti quelle cose solo che… non so. Da quando sei tornato, non capisco più niente. Ho provato a raccontarmi che il mio era solo un capriccio, una stupida ossessione. Ma non ha funzionato…”
 
“Cosa stai cercando di dire Elena?” la blocco. Le mie parole sono dure e fredde, molto più di quanto avrei voluto.
 
“Lo sai. Deve finire. Adesso. Subito. Prima che sia troppo tardi. È stato un errore. Solo un errore. Ci faremmo solo male, faremmo male a tutti quanti… Stefan, Caroline…”
 
“Per cortesia Elena. Come puoi chiedermi di tornare indietro? Cosa farai? Tornerai da Stefan come se niente fosse?”
 
“Non dire stupidaggini. Non posso più stare con Stefan. Ma non posso neanche stare con te.”
 
Punto lo sguardo su di lei. Affonda i denti nel labbro, lo tortura, ancora si costringe a non guardarmi. Allungo una mano sul suo viso, spostandole i capelli incollati alla guancia dietro l’orecchio. Lei resta immobile, trattiene il respiro.
 
“Guardami Elena.” e suona tanto come una preghiera. È maledettamente umiliante, ma ne ho bisogno.
 
“Non riesco. Se ti guardo adesso… non riuscirò più a fare quello che devo fare. È stato solo uno stupido bacio. Dimenticalo e basta.”
 
E non lo so quello che mi prende. Rabbia, frustrazione, rimorsi. Si mescola tutto nello stomaco e fa male, molto più male di prima. Perché prima potevo illudermi di essere un egoista, di essere solo nella mia folle, insensata ambizione di portare via Elena a Stefan.
Solo come mi sono sempre sentito nella mia lotta con il resto del mondo.
Ma adesso che l’ho avuta al mio fianco, anche se solo per un attimo, sono caduto troppo in basso. “Allontanati prima che sia troppo tardi.” Ric aveva ragione. Sbatto le mani sulle gambe, mi rimetto in piedi. La ferita sul labbro brucia un po’ di più.
 
“Dimenticalo tu se vuoi, Elena. Io non posso.”
 
Mi allontano senza più voltarmi indietro, neanche quando ho la sensazione di sentire i suoi occhi che inseguono i miei passi.
 
 
Elena
 
Un vento dispettoso mi scompiglia i capelli e agita il mare che si stende a perdita d’occhio davanti ai miei occhi. Spingo lo sguardo il più lontano possibile, fino alla linea dell’orizzonte dove il cielo annega nell’oceano. Oggi è una giornata particolarmente uggiosa. Nuvole grigie e rigonfie di pioggia si muovono rapidamente sopra la mia testa e oscurano il sole. Respiro lentamente, assorbendo tutte le immagini che mi circondano e mi rispecchiano anche dentro.
Affondo il viso nei grandi fiori dipinti sulla mia sciarpa blu e sollevo le gambe per appoggiare i piedi sulla sedia, cercando un briciolo di forza insieme a un po’ di calore.
Ma è più difficile quando il freddo ce l’hai dentro.
Ci siamo dati appuntamento qui, alla Cliff House. Non so neanche io perché.
Venivamo spesso in questo posto, all’inizio. A smezzarci sorrisi complici, a scoprire quanto bene potevamo incastrarci l’uno con l’altra. E io ci ho creduto veramente, ho costruito insieme a lui i nostri sogni fatti di una normalità semplice. Quella che ho sempre inseguito e rifiutato insieme. Elena e le sue contraddizioni, Elena che giocava a fare la ribelle ma non era niente più che una banale conformista.
 
L’ombra che si allunga davanti a me mi annuncia la presenza di Stefan alle mie spalle.
Ci salutiamo senza guardarci, lasciamo che per qualche minuto sia il rumore della risacca a parlare al posto nostro, coprendo il suono assordante dei nostri recenti silenzi.
E in testa mi scorre il film delle illusioni che abbiamo fabbricato insieme, un mattoncino alla volta. Da quando è entrato nella mia vita, Stefan è stato il mio biglietto da visita per il resto del mondo. La prova vivente con cui urlavo agli altri che ce l’avrei fatta anche io, a dispetto di tutto. È stato l’uomo della staccionata bianca, del giardino curato, la prima persona con cui ho immaginato un futuro. Lui era la stabilità in cui rifugiarmi, la normalità di cui avevo un bisogno disperato, anche se mi rifiutavo di ammetterlo.
Mi faceva sentire sicura, protetta, giusta. Ho promesso a me stessa che avrei fatto tesoro del mio passato. Io e lui non dovevamo commettere errori, dovevamo superare tutto insieme, anche le menzogne.
 
Ma fra di noi sono stata sempre io la vera bugiarda. Fin dal primo giorno, quando me lo sono trovato davanti col suo sorriso dolce e sincero, e non ho potuto fare a meno di chiedermi che fine avesse fatto quel ragazzo dagli occhi blu e la fretta nelle scarpe. Suo fratello.
La stessa persona che è ricomparsa nella mia vita con la verità dilagante dei suoi misteri, dei suoi fantasmi, delle sue colpe.
Damon si è infilato subito nei miei pensieri come un tormento.
Un’ossessione che non aveva niente a che vedere con quello che provo, o provavo, per Stefan.
Damon è il mio sangue che bolle, il caos che mi smuove, mi spaventa e mi tiene in equilibrio allo stesso modo.
Mi sento sbagliata. Forse tutti noi siamo troppo attratti da quello che non capiamo, eppure mi sento come se io e Damon fossimo fatti della stessa sostanza. La mia anima è rimasta sepolta nel bacio che gli ho chiesto di dimenticare.
 
Stefan si siede accanto a me, gli occhi verdi spenti da un’amarezza che mi fa sentire sporca mentre gli dico quello che già ha intuito. Che non sono più sicura di noi, che è finita, che devo stare da sola. Perché questa è l’unica cosa che deve sapere, l’unica verità che posso concedergli. Voglio, devo stare sola. Non mi metterò in mezzo fra lui e Damon distruggendo il loro legame, avrei troppa pena di me stessa.
 
“È colpa mia Elena. Ti ho allontanato io nascondendoti tutte quelle cose, ti ho trascurata.”
 
Più lui si giustifica e si addossa le colpe, più io mi faccio schifo.
 
“Sarebbe successo lo stesso, credimi.”
 
“Ho ancora bisogno di te Elena.” mi dice, e so che è sincero. Quanto mi sento codarda, cattiva,  egoista.
 
“Ci sarò sempre per te Stefan. Puoi ancora dividere i tuoi pesi con me, come ti ho sempre chiesto di fare. Ma adesso è troppo tardi, non posso tornare indietro. Non possiamo più stare insieme.” mormoro, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi mentre gli dico quelle che sono solo mezze verità. Io, la paladina della sincerità ad ogni costo, io col mio mondo in bianco e nero, un giudice severo ed inflessibile degli errori degli altri, sto scoprendo a mie spese i contorni indefiniti delle sfumature.
È una scoperta che devo affrontare per conto mio, senza il conforto di Care, dei miei genitori, nemmeno di John. Ho paura che mostrando loro la vera me stessa, finirei per perderli.
E ho già perso tanto, più di quanto credevo di riuscire a sopportare.
Così mi carico addosso il peso dei miei sbagli e continuo a dire bugie a tutti, infilandole una dentro l’altra e costruendo piano piano la mia catena, mentre un ricordo dolceamaro continua a scavarmi lo stomaco. Ha il sapore del sangue e il profumo buono delle cose vere.
 
 
Damon
 
“Sei sicuro di volerlo fare?”
 
“Che cosa Ric? Consegnare la roba per un catering? Penso di esserne in grado, si.”
 
“Non è esattamente un catering qualunque.”
 
Lui mi osserva in silenzio, le sopracciglia aggrottate e l’aria dubbiosa mentre continuo ad infilare le scatole in macchina. So già a cosa sta pensando. In effetti no, non è esattamente una festicciola qualunque. Il catering in questione è per un meeting organizzato dal padre di Elena per promuovere alcuni prodotti finanziari con tutta la gente che conta a San Francisco, inclusi mio padre e mio fratello. Ed è stato proprio Giuseppe a suggerire a Grayson la grande idea di affidarsi a Ric per il buffet. Chissà, forse pensava di farmi un favore, di aiutarmi a promuovere il ristorante in cui lavoro. Lo stesso posto che non più di qualche giorno fa ha denigrato, offrendomi il suo aiuto per evolvermi al ruolo di schiavo dal completo grigio fumo.
 
“Tranquillo Ric, se c’è una cosa di cui sono certo è che Elena eviterà questa specie di riunione di colletti bianchi come la peste. Detesta suo padre e tutto quello che lo riguarda.”
 
“Ci andrei io, ma non posso abbandonare il ristorante.” si giustifica.
 
 “So quello che faccio, ok Ric? Smettila di fare la mammina apprensiva.”
 
Sospira preoccupato, ma consapevole di non avere alternative, né di essere in grado di smuovermi dalle mie convinzioni.
La cosa peggiore che può capitarmi è di incontrare mio fratello, dopotutto. E comunque, non credo sarebbe un problema. Stefan in questi giorni è ombroso, distante. Ci incrociamo la sera, scambiamo poche parole. Non ho la più pallida idea di cosa sia successo fra lui ed Elena.
Lui non ne parla, io non posso chiedere. Il mio orgoglio me lo impedisce, insieme al rancore e ai sensi di colpa che provo nei suoi confronti. Non sarebbe il massimo se mi chiedesse una spalla su cui piangere, o magari di fare una bella bevuta fra fratelli per dimenticare.
È un meccanismo malato che non riesco a scardinare: la mia vita è diventata ancora una volta frustrazione, rimpianto, attesa di qualcosa che non accadrà mai.
Chiudo il bagagliaio con un gesto secco. Ric è ancora lì, la solita espressione preoccupata che non accenna ad andarsene.
Non prova più a trovare soluzioni alternative, sa che sarebbe solo tempo sprecato.
 
“Guido io.” dico rivolto ad Enzo, che senza farsi troppo pregare apre la portiera e si infila in macchina, ben contento di respirare un’aria diversa almeno per un pomeriggio.
 
Dopo aver scaricato l’auto e averla parcheggiata nel grande posteggio immerso negli alberi, mi avvio verso la villa. Enzo si mette subito all’opera, ricoprendo i tavoli riservati al buffet con quelle enormi tovaglie bianche che ci hanno detto di usare.
Tra una mezz’ora arriveranno tutti gli ospiti, per il momento sono pochi i colletti bianchi nei paraggi. Probabilmente uno di loro è il padre di Elena.
Provo a riconoscerla nel volto di ognuno di quegli uomini incravattati, non so neanche io perché. E comunque, che senso ha?
Al diavolo il catering, i bancari e il mio autolesionismo bastardo.
 
“Dì un po’ amico, sei venuto qui per farmi fare tutto il lavoro da solo?” si lamenta Enzo, con la sua solita aria indisponente.
 
“Ok, diamoci una mossa. Prima finiamo, prima ce ne andiamo.”
 
 
Elena
 
Parcheggio l’auto a fianco a quella di Stefan. Ci scambiamo un’occhiata attraverso i finestrini chiusi, poi scendiamo entrambi.
Quando gli ho detto che ero disposta a stargli vicino non avrei mai pensato che mi avrebbe chiesto di accompagnarlo alla festa di mio padre. In circostanze normali non avrei mai accettato, ma gli ormai familiari rimorsi di coscienza mi hanno impedito di rifiutarmi.
So che Stefan è teso, ha bisogno di un sostegno, anche se non riesco a indovinarne il motivo.
Lo vedo infilare l’indice nel colletto della camicia, come se gli mancasse l’aria.
È elegantissimo nel suo completo da lavoro. Io no. L’Elena ribelle ha colpito ancora, rifiutandosi di vestirsi di una finta aria perbenista per compiacere il paparino amante delle apparenze, e ostinandosi ad indossare i soliti jeans scuri.
 
“Andiamo?” dico a Stef, sempre più nervoso e accaldato, nonostante il vento freddo che ha iniziato a sollevare le foglie dal terreno e che preannuncia un temporale imminente.
Ci incamminiamo lungo il giardino curatissimo, con i suoi cespugli potati di fresco e le grandi tavole imbandite di cibo e di vasi di fiori recisi.
Quante volte ho visto queste sceneggiate, fin da quando ero bambina. Ed eccola lì l’immancabile folla di uomini eleganti, accompagnati da mogli annoiate che formano capannelli multicolore di abiti sgargianti. Chissà di cosa stanno parlando. Dei figli al collegio, di pranzi domenicali in riva al mare mentre i loro mariti sono impegnati in fantomatici convegni che, più probabilmente, si svolgono fra le mura di qualche squallido motel di periferia in compagnia di qualche segretaria dalle grandi ambizioni. Scuoto la testa, maledicendomi mentalmente. Non dovrei permettermi di giudicare nessuno.
 
Mio padre mi nota, saluta un uomo grassoccio in completo blu notte e ci viene incontro.
 
“Stefan, Elena. Che piacere avervi qui.”
 
“Mr. Gilbert.” risponde Stefan educato. Non posso fare a meno di notare l’occhiata di disapprovazione con cui Grayson scannerizza la mia mise poco appropriata per l’evento.
Tuttavia abbozza, rivolgendoci un sorriso accogliente quanto fasullo.
 
“Coraggio, prendete qualcosa da bere.”
 
“Accompagnalo tu Stefan, io vado ad appoggiare la giacca.” bisbiglio, lasciandogli una veloce carezza sul braccio che vuole essere un incoraggiamento. Lui annuisce, eppure nei suoi occhi mi sembra di scorgere ancora una piccola traccia di nervosismo malcelato.
Mi allontano, con l’intento di raggiungere l’androne del palazzo dove riesco a intravvedere le grucce cariche di soprabiti dall’aria costosa.
 
“Mi stai prendendo in giro Elena?”
 
Non ho bisogno di voltarmi per riconoscere la voce che ha parlato alle mie spalle, ma lo faccio ugualmente. E incontro quelle schegge di cielo che sembrano volermi bucare la pelle.
Fra di noi solo lo spazio di un respiro.
Deglutisco, riempio i polmoni d’aria, le mie gambe si fanno deboli. Perché stavolta sono costretta a guardarlo, a scontrarmi con quegli occhi furiosi che pretendono risposte e mi rendono vulnerabile.
 
“Non so di cosa stai parlando.” taglio corto, senza riuscire ad imprimere nelle parole la convinzione che vorrei dimostrare.
 
Non posso stare con Stefan, ma neanche con te.” risponde tagliente, riportando le mie stesse parole per rigirarmele contro. Scuoto la testa, voltandogli le spalle, biascicando un incerto non è come pensi che non riesce nemmeno a risultare convincente. Poi torno a guardarlo. Le braccia incrociate sul petto, il viso che porta ancora i segni bluastri di cui gli ho dato la colpa. Sbagliando, come sbaglio sempre quando si tratta di lui.
 
“Io e Stefan non stiamo più insieme. L’ho solo accompagnato Damon, non significa niente… non significa che io e te…”
 
“Io e te cosa?”
 
Un altro errore, l’ennesimo. Il suo tono è ancora furioso, mentre mi raggiunge con due passi, impedendomi di ragionare lucidamente. Adesso che è qui, adesso che respiriamo la stessa aria, non sono più padrona delle mie convinzioni.
 
“Ti ho chiesto di dimenticarlo Damon. Perché non vuoi ascoltarmi?”
 
“Dovresti averlo capito. Io faccio sempre la scelta sbagliata.”
 
Leggo nei suoi occhi una confusione che è specchio della mia. So che sto sbagliando di nuovo, come quella sera.
Perché non riesco a far coincidere quello che devo con quello che voglio.
E poi, tutto ad un tratto, lui decide per me. I suoi occhi tornano freddi, si morde l’interno della guancia e si allontana, esattamente come ha fatto giorni fa. Non ho più aria per poter respirare.
 
***
 
Ha iniziato a diluviare, e nella confusione generale ho inventato un mal di testa improvviso, un’altra bugia che è andata ad aggiungersi a tutte le altre. Ormai ho perso il conto, che differenza può fare una in più o una in meno?
Gocce fitte e pesanti mi impregnano i capelli, il viso, i vestiti. Non ho fretta di trovare un riparo, ma di ritrovare lui.
Quando raggiungo il parcheggio è ancora lì. Fruga nelle tasche alla ricerca delle chiavi, non si accorge subito di me.
Lo raggiungo alle spalle, allungo una mano per toccargli il braccio e farlo voltare nella mia direzione.
 
“Cosa fai qui?” chiede, in un sussurro sorpreso coperto dalla pioggia scrosciante. Non è arrabbiato, non è freddo. È Damon, col suo modo contorto di essere allo stesso tempo il mio inferno e il mio paradiso.
È a un passo da me. Gli occhi attraversati da un’ombra grigia, che riflette la strana sfumatura che il cielo ha assunto in questo preciso istante.
Siamo di nuovo vicini, di nuovo avverto quella sensazione che mi incendia il sangue nelle vene, mi spezza il respiro.
Un tuono squarcia il cielo sopra di noi. Riesco a sentirlo anche dentro di me.
L’espressione del suo viso si addolcisce.
 
“Non avere paura Elena.”
 
Sono combattuta tra la consapevolezza che non può essere vero e il bisogno di credere che lo sia.
 
“Finiremo per distruggere tutto quello che ci circonda. Finirai per odiarmi Damon.”
 
“Non possiamo pensarci domani?”
 
“Domani saremo sbagliati, esattamente quanto lo siamo oggi. Forse di più.”
 
“Non c’è due senza tre. Mandami via se è quello che vuoi.”
 
La sua voce sembra non tradire nessuna emozione.
Ma poi solleva leggermente un angolo della bocca, in un minuscolo sorriso strafottente, mentre con una mano mi afferra per un fianco facendomi sbattere contro il suo petto. E io le sento quelle dita che mi riscaldano la pelle, nonostante la maglietta mezza fradicia che mi si è incollata addosso.
Ha capito, e io so di non avere più scampo.
 
“Non posso.”
 
Sono due parole minuscole quelle con cui mi arrendo. Le sue mani si avvicinano al mio viso, mi scostano i capelli dagli occhi.
Le ciocche bagnate si impigliano fra le sue dita. E poi quello sguardo e il mio cuore che batte talmente forte che sembra volermi esplodere dentro.
Le nostre labbra piene di pioggia e di sbagli si incontrano per la seconda volta e io dimentico il mondo intorno a me, mi perdo e mi ritrovo.
 
***
 
La luce di un nuovo giorno striscia sul pavimento della mia stanza. Mi riscalda la pelle, inonda di un sole pulito le lenzuola stropicciate e ancora umide di pioggia, come i miei vestiti, ridotti a un mucchietto scuro e bagnato abbandonato sul pavimento per la troppa fretta, per il gusto di prendersi gioco del tempo.
Ma col tempo non ci si può scherzare più di tanto. È già domani.
Ieri è stato il giorno delle carezze che riscaldano dentro, delle labbra consumate dalla voglia di appartenersi, dal bisogno di sentirsi ed essere uno l’appiglio dell’altra.
Mi sembra di poterli sentire ancora addosso quei baci, quel continuo trasmettersi emozioni, le sue dita che scorrono sulla mia pelle accaldata.
La sensazione di appartenenza che ho provato quando l’ho sentito dentro di me, mentre la sua mano scivolava piano contro la mia facendomi sentire unica e speciale, ma identica a lui.
Come se ogni sensazione riuscisse ad attraversarmi sempre nuova, sempre più appassionata.
 
“Lo sai come è cominciata? Con mia madre intendo… mio padre la tradisce da tutta la vita. Non si sono mai lasciati, sarebbe troppo denigrante a livello sociale. L’ho scoperto per caso, un giorno qualsiasi. A Stefan non l’ho mai detto… Non è ironico? Ho sempre cercato di proteggerlo, e adesso gli ho portato via l’unica cosa bella della sua vita.”
 
Non potevo guardarlo negli occhi mentre mi diceva queste cose col viso schiacciato sul mio cuore. Mi è bastato sentire il tono della sua voce per essere certa che non riusciremo mai a liberarci di questo peso, troppo grande per poter essere ignorato.
Gli ho accarezzato i capelli senza dire una parola. In fondo era ancora ieri, e ieri era tutta un’altra cosa.
 
Adesso Damon non è accanto a me, ma è ancora qui. Lo so perché lo sento, prima ancora di vedere le sue cose gettate alla rinfusa sul comodino.
Afferro il cellulare per controllare l’ora. Ci trovo una chiamata senza risposta di Care, l’ennesima, e un messaggio di Stefan.
 
“Ho sbagliato tutto con te Elena, ma se c’è una cosa di cui sono certo è che ti amo.”
 
Basta questo a farmi pizzicare gli occhi e risvegliare il senso di inadeguatezza che questa notte è rimasto intrappolato nello stomaco, sepolto dalla presenza devastante di Damon accanto a me.
Afferro la sua maglia ancora un po’ umida abbandonata sul pavimento, me la infilo addosso e senza far rumore lo raggiungo in cucina.
 
Mi affaccio alla porta nascondendomi dietro lo stipite. Me ne sto qui, senza nemmeno il coraggio di respirare mentre Damon è lì davanti a me, girato di spalle.
E gli occhi mi scivolano su quelle fossette alla base della schiena, su quei jeans scuri che gli stanno appesi ai fianchi con la cintura ancora slacciata che produce un rumore metallico ad ogni spostamento.
Sulla mano che si sfrega sul tessuto ruvido dei jeans, mentre le dita della destra corrono fra i suoi capelli in quel gesto spazientito che gli ho visto fare decine di volte.
Sorrido piano, senza far rumore, stringendomi la maglia addosso e nascondendo il naso nel cotone scuro.
E so già che ti sto imprimendo nella mente, ti sto in un cassetto che chiuderò a chiave per tirarti fuori quando mi sentirò troppo sola, immaginandoti esattamente come oggi, a piedi scalzi sulle mie mattonelle da quattro soldi mentre litighi con la macchinetta del caffè.
 
“Ti decidi a darmi una mano o pensi di stare lì a guardarmi tutto il giorno?” mi chiede, senza nemmeno girarsi verso di me.
Le mie guance si colorano istantaneamente di un rosa acceso.
Come diavolo avrà fatto ad accorgersi di me?
 
“Certo che per essere uno che si vanta di preparare colazioni eccezionali sei proprio un disastro.” lo stuzzico, avvicinandomi a lui per prendere in mano la situazione. Ho urgente bisogno di un caffè.
 
“Non immaginavo che fossi così sexy con qualcosa di mio addosso.”
 
Mi circonda con le braccia, parlandomi vicino all’orecchio. E a me pizzicano di nuovo gli occhi.
Perché oggi è già domani.

 
 
*********
Ciao e buona domenica… Per x motivi sono in anticipo…
Mi rendo conto che mi è uscita una roba un po’ diversa dal solito, non tanto per la trama, che sta andando dove la volevo portare, ma per il registro… forse troppo pesante, malinconico, melodrammatico, melenso… aggiungiamoci pure qualche cliché e la frittata è fatta. Non so cosa dire, mi rendo conto che la mia situazione interiore può pesantemente influenzare quello che scrivo. Non sono molto brava a gestirmi in questo e forse non risulto coerente… boh.
Ormai, nonostante la mia insicurezza cronica, ho imparato a scrivere come mi viene e fidarmi del mio istinto del momento senza farmi troppe paranoie.
E poi ho una mezza influenza: saranno il raffreddore, la tosse, la paracodina, il cuore spezzato per ovvi motivi!!!
Cavoli, lo so che tornerà ma è stato straziante… ci hanno dato il miglior Delena di sempre per poi strapparcelo per chissà quanto. Ho paura ad immaginare cosa si inventerà la Pleccona. Vabbè...
Non so, vi lascio il capitolo così come la mia mente l’ha partorito. Ditemi voi.
Grazie come sempre a tutte per l’affetto e il sostegno che non mi fate mai mancare.
Un bacio depresso
Chiara

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Capitolo 11
*** Tomorrow (Elena) ***


CAPITOLO 9 – TOMORROW (Elena)
 
 
And when the sun comes up,
we'll be nothing but dust,
just the outlines of our hands. […]
But don't bring tomorrow,
'cause I already know
I'll lose you
***
E quando sorgerà il sole
Saremo solo polvere,
Solo i contorni delle nostre mani. […]
Non portare il domani.
So già che
Ti perderò.
 
Tomorrow – Daughter
 
"Ma l'essere umano è così" si consolò.
"Sostituisce gran parte delle proprie emozioni con la paura."
 
Veronika decide di morire – Paulo Coelho
 
 
 
 
Ce lo siamo detti e ripetuti, anche questa notte.
Una volta e basta. Domani sarà tutta un’altra storia.
Solo lo spazio di poche ore per viverci e poi dimenticarci l’uno dell’altra e andare avanti.
Perché io ho promesso a Stefan che sarei stata sola e Damon non vuole fargli del male.
Nonostante tutte le incomprensioni e i rancori, vuole davvero bene a suo fratello.
È l’unica persona che può chiamare famiglia, in un’esistenza che per entrambi è sempre stata priva d’affetto.
Dirgli la verità li porterebbe a dividersi e odiarsi, di fargliela sotto il naso non se ne parla.
Non possiamo, è sbagliato. Ci siamo concessi lo spazio di un errore, un errore che non si deve  più ripetere.
 
Da parte mia so che questa è la scelta giusta. Perché io lo so cosa vuol dire subire l’egoismo degli altri, e ho giurato a me stessa un bel po’ di tempo fa che non sarei mai stata quel tipo di persona. Fin da bambina si è radicata in me l’idea che i desideri potessero essere addormentati, che gli slanci debbano essere sopiti.
I desideri incontrollati e l’egoismo sono le malattie che mi hanno portato via la mia famiglia.
Ho sempre saputo che persona volevo diventare e soprattutto quella che non sarei mai stata. Sembrava facile quando guardavo la vita degli altri da spettatrice, ma ho scoperto a mie spese che fare la protagonista non è altrettanto semplice.
 
Tutto deve finire. Io e Damon abbiamo avuto il nostro momento per lasciarci andare all’istinto che ci spingeva l’uno verso l’altra. Un sentimento appena nato, che non è facile incasellare in una definizione.
Quel qualcosa.
Un qualcosa di atavico, che mi smuove, mi spinge a rompere tutte le mie regole, spostare i miei confini, ridefinire me stessa.
 
Ma stamattina lui era ancora nella mia casa, nel mio piccolo mondo.
E sembrava così rilassato, totalmente a suo agio nel mio claustrofobico appartamento.
Mi sono ritrovata a sorridergli, smettendo per un attimo di pensare in negativo e lasciandomi invadere dalla piacevole sensazione di averlo lì, incantandomi anche solo nel vederlo appoggiato al mio cucinino di seconda mano, ancora mezzo nudo, assonnato e scompigliato, come se per lui svegliarsi a casa mia fosse la cosa più naturale del mondo.
 
Lui che litigava con la macchinetta del caffè, io che lo prendevo in giro, perché ho scoperto che non è in grado di interfacciarsi con nessun aggeggio che abbia una minima componente tecnologica.
Lui che ha insistito per prepararmi la colazione prima di andarsene, io che gli ho detto che mi piacciono i pancakes.
Non è assolutamente vero.
Per me la colazione è un caffè nero consumato al volo prima di immergermi nei miei libri o correre al lavoro. La mia vita è un continuo affanno alla disperata ricerca della realizzazione personale. Sono anche una signorina “facciotuttodasola”, lo ammetto, ma negli ultimi tempi non era mai capitato che qualcuno si prendesse del tempo per stare con me.
E poi avevo fame e, soprattutto, trasgredendo alla regola del cerotto, avevo voglia di trascorrere altro tempo insieme a lui, anche se mi rifiutavo di ammetterlo a me stessa.
Ed ecco che lo spazio di un errore si era già dilatato, trasformandosi in errore+caffè+pancakes.
Come dire, fatto trenta, facciamo trentuno.
 
“Hai gusti davvero stomachevoli ragazzina… seriamente, i pancakes? Niente a che vedere con la tipica colazione californiana…” mi ha detto, la solita ironia nella voce.
 
“Pensavi di cavartela con un succo di frutta e una tazza di caffè? Scommetto che non li sai fare…” gli ho risposto, con un tono leggermente canzonatorio.
Poi gli ho sorriso mordicchiandomi il labbro, mentre ci scambiavamo uno sguardo nuovo, carico di una complicità appena scoperta.
 
“Mi stai sfidando per caso? Proprio tu?”
 
“Mh mh.”
 
“Preparati a svenire.”
 
Con ancora la sua maglia e il suo odore addosso ho aperto il frigorifero.
Ho tirato fuori il latte e il cartone delle uova, non prima di aver sbirciato con un po’ di apprensione la data di scadenza. Ho chiuso l’anta con un calcetto, ho aperto uno sportellino e mi sono messa a frugare nella dispensa alla disperata ricerca della farina.
Sono stata costretta a rovistare un bel po’… non ricordavo nemmeno l’ultima volta che l’avevo  usata. Poi mi è venuto in mente. Una vita fa, alla festa di laurea di Stefan, per preparare quella torta disgustosa che Damon ha stroncato prima ancora di sapere come mi chiamassi.
Un altro ricordo dolceamaro che mi ha bucato lo stomaco.
E ho pensato che “appena nato” non fosse esattamente l’espressione più adatta per definire quel sentimento.
Non era abbastanza.
Ci siamo sempre rincorsi, ci siamo inseguiti.
Spiandoci da lontano, raccontandoci senza parole le nostre emozioni, facendole crescere nell’ombra, custodendole con cura, proteggendole dai nostri sensi di colpa.
Tutto è cominciato molto prima che avessimo il coraggio di rendercene conto.
 
Ho intravisto il cartoccio blu mezzo consumato proprio in fondo allo stipetto.
Sono salita in punta di piedi, ho allungato il braccio al limite e finalmente sono riuscita ad afferrarlo.
Quando mi sono voltata per consegnargli il mio bottino, Damon era ad un passo da me e mi osservava ancora in silenzio.
Era sempre lui, eppure c’era qualcosa di insolito nei suoi occhi.
Un luccichio nuovo, che mi riempiva e inspiegabilmente mi tranquillizzava, facendomi sentire meno stronza e un po’ più giusta, polverizzando una volta di più tutte le mie convinzioni. Sembrava molto diverso rispetto a poche ore prima quando, nel buio della mia stanza, mi aveva aperto un piccolo varco sul suo passato complicato.
Ed è forse questa l’esperienza più intima che abbiamo condiviso, molto più del sesso.
 
“Che hai da guardare?” gli ho chiesto, un mezzo sorriso nella voce.
 
“Niente.” mi ha risposto.
Il suo viso era a un centimetro dal mio, il suo respiro sulla mia bocca mi confondeva, indebolendo la mia volontà, i suoi occhi troppo azzurri erano incollati ai miei. Quel suo sguardo sapeva scavarmi dentro e risvegliare un’Elena che non ho mai sospettato di essere.
 
“Io ti voglio e ti voglio adesso, chissenefrega di come ci sveglieremo domani. Non significa che dovrai fare delle scelte.” mi aveva detto la sera prima.
Ho avuto la sensazione che non fosse più così: era strano, bello e doloroso vedergli quella specie di felicità addosso.
Sono rimasta in silenzio, perdendomi nei suoi occhi così limpidi e allungando una mano sul suo viso, nascosto dalla barba di un paio di giorni e da qualche livido ormai sbiadito, ma pur sempre splendido.
 
“Che fai Elena?”
 
Altro errore.
Ero confusa e stavo confondendo anche lui. Le solite paure si erano già fatte spazio dentro di me. Qualcosa era andato distrutto per sempre. Le mie certezze, il pensiero che sarebbe stato semplice lasciarsi andare e poi cancellare tutto. Perché quel poco tempo trascorso insieme era stato la perfezione.
Ho spostato la mano, memorizzando ogni dettaglio di lui, immagazzinando anche quel momento tra quelli che già avevo sepolto dentro, tutti i preziosi segreti  che non sarò mai capace di raschiare via.
E ancora una volta mi sono sentita fragile e sopraffatta, completa e terribilmente imperfetta, spaccata a metà dal desiderio di lui che assumeva contorni ogni minuto più definiti.
“È tutto sbagliato, dannatamente sbagliato”, continuavo a ripetermi.
Eppure aveva il sapore di un’emozione così onesta, così vera…
 
Damon mi ha scacciata dolcemente dalla cucina.
“Lasciami fare.” mi ha detto.
Mi sono spostata verso il soggiorno, gettando un’occhiata distratta fuori dalla finestra.
Il cielo si era nuovamente oscurato, preannunciando un nuovo temporale estivo, e un vento tiepido soffiava forte, gonfiando le tende e piegando le chiome degli alberi che si intravvedevano in lontananza.
Avvicinandomi al divano ho notato i cuscini un po’ sgualciti e la coperta spiegazzata, che nascondeva un libro aperto a metà.
Quando l’ho raccolto, mi sono lasciata scivolare le pagine fra le dita, distinguendo i tratti scuri di matita con cui ho l’abitudine di infarcire i miei libri.
Ne sono gelosa e di solito non amo prestarli, ma ho scoperto in quel momento che mi piaceva l’idea che Damon l’avesse letto, che stesse in mezzo alle mie cose.
 
“Fitzgerald?” gli ho chiesto, lasciando vagare lo sguardo fra le pagine ingiallite.
 
“Non riuscivo a dormire…” mi ha spiegato, continuando a trafficare con uova e farina, “è l’unica cosa decente che ho trovato in mezzo a tutta la tua robaccia in francese…”
 
Ho stretto il libro tra le mani e mi sono seduta sul tavolo, lasciandomi sfuggire un sospiro.
Nemmeno lui aveva dormito, nemmeno lui stava bene con sé stesso.
 
“Scelta molto appropriata.” gli ho detto, un’ombra di amarezza nella voce, mentre lasciavo scorrere la punta dell’indice sul titolo, stampato in rilievo sulla copertina azzurra.
 
Lui ha mollato le sue cose e me lo sono trovato davanti un’altra volta. Si è posizionato fra le mie gambe, che intanto facevo dondolare oltre il bordo del tavolo.
 
“Dici così perché è un romanzo pieno di depravazione e contraddizioni?” mi ha chiesto, col suo tono ironico.
 
“Perché quella Daisy era una grandissima stronza, Damon.”
 
E lo sono anche io, avrei dovuto aggiungere. Invece, come al solito, mi è mancato il coraggio e sono rimasta in silenzio, continuando a guardarmi i piedi ed evitando i suoi occhi.
Lui però non sembrava volersi arrendere. Mi ha sollevato il mento, costringendomi a guardarlo.
 
“Credo di dover leggere fra le righe di questa tua affermazione contorta… e dirti che no, non penso che tu lo sia.”
 
Ho afferrato il cellulare, abbandonato sul tavolo poco più in là. Volevo che leggesse anche lui le parole scritte da Stefan poco prima. Gli occhi mi pizzicavano un po’ mentre vedevo scorrere il suo sguardo sul display.
 
“Non dire niente.” mi ha detto, appoggiando il telefono accanto alla mia mano.
Non mi ricordo come è successo, so solo che un attimo dopo le sue labbra erano accostate alla mia fronte, come se volessero imprimersi nella mia memoria. Fuori aveva iniziato a piovere forte.  Non riuscivo più a respirare. Di nuovo, stavo rischiando di abbassare le difese.
 
Errore+caffè–pancake+errore
 
Gli ho detto semplicemente che di lì a poco avrei dovuto iniziare il mio turno alla stazione di servizio e sono corsa ad infilarmi sotto la doccia.
Quando sono uscita dal bagno, lui non c’era già più. Però i pancakes me li aveva lasciati sul tavolo, coperti con un piatto capovolto. Erano buoni, buoni da svenire.
Poi mi sono asciugata in fretta, ho lavato i piatti, ho messo le lenzuola in lavatrice.
Non volevo rimanesse nulla a ricordarmi che forse eravamo stati reali, almeno per lo spazio di un errore.
 
 
“Mi stai ascoltando Elena? Oggi sembri in un altro mondo.”
 
Mentre mi riprende con aria piuttosto scocciata, Care continua a passeggiare su e giù per la stazione di servizio, facendo un gran casino con i tacchi e fermandosi di tanto in tanto per afferrare una rivista, appoggiarla, allineare le barrette energetiche sul loro espositore, togliere la polvere da una mensola con la punta di un dito.
Non ho ascoltato una parola di quello che mi ha detto, troppo impegnata a proiettarmi nella mente il film delle ultime ore trascorse col fratello del mio ex ragazzo.
 
“Scusami… è che ho dormito male, e poi oggi ho un mal di testa…” le dico. Ormai sono diventata una maestra nel dire bugie. Ne ho sempre una pronta all’uso nel taschino.
 
“Sarà. Sei così strana da quando ti sei lasciata con mister Perfezione. Sicura che non ne vuoi parlare?”
 
“È tutto ok Care, davvero. Raccontami di te piuttosto.”
 
“Solite cose… Tyler e io che ci riproviamo, Damon che non si fa più sentire…” ribatte annoiata, studiandosi le unghie.
 
Sgrano gli occhi per un solo istante, per poi abbassare lo sguardo sul mio libro.
Riesco a scorgere solo una serie di piccoli caratteri neri che si confondono fra loro, senza riuscire a focalizzare lo sguardo su nessuna parola.
 
“Te ne importa qualcosa?” commento, cercando di non tradire nessuna delle emozioni che nel frattempo hanno iniziato ad agitarsi dentro di me.
Sono sempre stata convinta che in fin dei conti a lei Damon non interessasse veramente.
Il pensiero di essermi sbagliata è destabilizzante.
Care scuote i boccoli dorati, sollevando il mento con aria altezzosa e incrociando le braccia sul petto.
 
“Per niente. Dicevo così per dire. Certo, per uno così basta un attimo per perdere la testa, credimi.” sospira.
 
“Ti credo.” ribatto, ed è la prima cosa vera che le dico da giorni. Perché deve essere tutto così dannatamente complicato? Sono stanca di mentire a tutti.
Care è la mia migliore amica e almeno con lei voglio avere il coraggio di spiegarmi, costi quel che costi.
 
“Care, forse c’è una cosa di cui dovremmo parlare…” balbetto, intrecciando le mani nel tentativo di farmi forza da sola.
 
“Sono qui apposta.” risponde lei, con voce incoraggiante.
 
Ma proprio in quel momento, l’auto di Stefan compare di fronte alla stazione di servizio e lui scende, dirigendosi verso di me.
 
 
 

*********
Buongiorno care,
non so se mi state odiando o se quello che ho fatto non ha per voi alcun senso… Vi spiego il perché di questo capitolo insulso.
Un po’ è perché purtroppo, la vita reale ha preso nettamente il sopravvento su di me e quindi ho avuto alcuni problemini che mi hanno portato via tempo e concentrazione.
Un po’ è perché è un punto abbastanza cruciale della storia e quindi, ci sto mettendo più del dovuto a scrivere.
Un po’ è perché ho le paranoie e ho riletto, cancellato e riscritto queste cinque paginette tante di quelle volte che ho pensato che se non ve le lasciavo rischiavo di diventare matta e buttare il pc dalla finestra.
Praticamente, sommando tutte queste cose, rischiavo di non pubblicare più nulla per un mese e un po’ mi dispiaceva, visto che di solito riesco ad essere abbastanza puntuale. Quindi ho tagliato a metà…
E adesso posso concentrarmi meglio sul pov Damon sperando di non cadere un'altra volta in un delirio paranoide  ;)
Libere di mandarmi a stendere… avreste ragione. E niente, spero di ritrovarvi quando pubblicherò la seconda parte!
Un bacino
Chiara
 
P.S. Fitzgerald + Daisy … immagino che abbiate riconosciuto The Great Gatsby :) io ho letto il libro tempo fa e pure visto le varie versioni cinematografiche. Penso davvero che Daisy sia uno dei personaggi femminili più fastidiosi della letteratura! 

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Capitolo 12
*** Tomorrow (Damon e...) ***


CAPITOLO 10 – TOMORROW (Damon e…)
 
 
 
Eravamo percorsi da impulsi opposti, caldo e gelo e distacco e frenesia;
ci sembrava di essere in ritardo su tutto e di essere ancora in tempo per qualsiasi cosa,
di andare molto veloci e di restare incollati all'asfalto.
 
Di noi tre – Andrea De Carlo
 
 
 
Damon
 
Non ricordavo come fosse successo, ma ad un certo punto avevo aperto gli occhi.
Il sole stava sorgendo, trascinandosi dietro una giornata che mai avrei voluto veder cominciare, ed io ero completamente sveglio.
Forse la forza dell’abitudine, l’innata maestria nel prendere quello che mi serviva e scappare subito dopo, mi avevano giocato un brutto scherzo.
Strano a dirsi, ma per una volta la fuga non era tra le mie priorità.
Ho sentito sulla pelle la consistenza di quelle lenzuola ruvide e un po’ troppo inamidate - Elena mi ha confessato candidamente di non essere mai stata una maestra nel fare il bucato  - che odoravano di pulito, sensi di colpa e confessioni notturne.
Alla mia destra, due palpebre chiuse, due mani accartocciate l’una dentro l’altra, una bocca imbronciata e una cascata di capelli scompigliati, increspati dalla pioggia.
Ho percorso con lo sguardo la linea del suo collo, quella pelle un po’ arrossata.
Egoista com’ero, avrei voluto che se li portasse dietro per sempre i segni di quella notte insieme. Soprattutto, desideravo che se li portasse dentro.
 
Dormiva ancora Elena, e forse stava sognando.
Ma il suo non sembrava essere un sogno bello, di quelli che ti svegli e ne vuoi di più. Quella consapevolezza mi faceva sentire strano, diviso a metà.
Del resto lo sapevo: quando si tratta di Elena inferno e paradiso si mischiano l’un l’altro.
Con due dita ho disegnato il profilo del suo bel viso, sentendo sotto le dita la sua pelle fresca.
E ancora una volta ho pensato che avrei voluto essere meno me stesso, e più qualcun altro. Qualcuno che non l’avrebbe costretta a chiedersi cosa provasse per me.
 
Nella stanza aleggiava una leggera penombra, per via delle imposte socchiuse che lasciavano filtrare una luce soffusa e il silenzio irreale della periferia ancora addormentata.
Intorno a noi regnava una piacevole confusione. Scaffali zeppi di libri, quelli che spesso le ho visto fra le mani o nascosti in quella borsa di tela che si porta sempre dietro.
Pile di cd, che con ogni probabilità le aveva prestato quel bestione di Joe, un tipo un po’ vintage, esattamente come Elena.
Le scarpe da ginnastica gettate in un angolo, il dizionario blu pesante come un macigno che schiacciava un pacco di fogli impilati sulla scrivania, ricoperti dalla sua grafia fitta e inclinata.
Un orsetto di pelouche con un occhio quasi completamente staccato, a ricordarmi quanto Elena fosse donna e bambina insieme, quel miscuglio perfetto che si è marchiato a fuoco nei miei pensieri nel momento stesso in cui ho posato gli occhi su di lei.
 
Era ormai palese quanto, fin dall’inizio, fossi affondato nella personalità di Elena senza riserve, senza prudenza.
Rendermene conto faceva dannatamente paura.
Nel suo letto, nel bel mezzo del suo mondo, mi chiedevo se sarei stato davvero in grado di lasciarmi tutto alle spalle.  
Allora l’ho guardata ancora un po’, cercando tranquillità nel ritmo costante del suo respiro addormentato. Le ho spostato i capelli dal viso per poterla vedere meglio.
Perché proprio tu? mi sono chiesto. Ma ho capito subito che una risposta non c’è.
Non lo puoi programmare, lo sai e basta.
 
Adesso prendi le tue cose, ti alzi e te ne vai.
 
Ma poi ho pensato che cinque minuti in più o in meno non avrebbero fatto la differenza, e che per una volta mi sarebbe piaciuto comportarmi da gentiluomo. Era giusto, glielo dovevo.
Così ho afferrato da uno scaffale la prima cosa non francese che sono riuscito a trovare, per aspettare il suo risveglio senza starle troppo addosso, rischiando di farmi trascinare in un vortice di pensieri da cui, ne ero certo, non sarei uscito vivo.
Me ne sarei andato a leggere in salotto, e nel frattempo avrei messo la prima distanza fra di noi. Prima di uscire ho gettato un’ultima, fugace occhiata alla bella addormentata.
La mia bella addormentata.
 
L’avevo detto io che mi avresti messo nei casini, ragazzina.
 
Attento a non far rumore sono uscito dalla sua stanza, portandomi dietro la consapevolezza di non essere ancora capace di uscire dalla sua vita.
 
Circa due ore dopo, Elena si era svegliata.
Non riuscivo a leggere il suo sguardo e i suoi gesti, un misto di contraddizioni che si riflettevano nelle mie, incasinandomi la mente.
Era dunque quello il suo aspetto appena sveglia, per di più con la mia roba addosso.
Interessante.
Splendeva, né più né meno, e la voglia di andarmene e lasciarla andare si allontanava da me ogni secondo di più.
Tutto mi diceva di prenderla, buttarla sul letto e non lasciarla più andare via.
Ho maledetto il fottuto karma, la mia innata propensione ad arrivare sempre in ritardo.
 
Avevamo scherzato un po’, punzecchiandoci a vicenda.
Elena raggomitolata sulla sua sedia con la mia maglia a coprirle a malapena le gambe, aveva sorriso. Nei suoi occhi pieni di preoccupazione si era illuminata una piccola scintilla di malizia.
Ho pensato che avremmo potuto farlo per sempre, che in fondo non sarebbe stato così difficile.
Sarebbe bastato essere sinceri, prendersi le proprie responsabilità.
 
Sarei andato da Stefan e gli avrei detto la verità.
Com’era quella frase?
Dato che noi non siamo calzini ma persone, non siamo qui con il fine principale di essere puliti.
L’importante è che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare.
Suonava più o meno così, mi pare.
Non ricordavo dove l’avevo letta, comunque in quel momento desideravo fosse vera.
In fondo non stavano più insieme, e forse un motivo c’era.
E lui l’avrebbe presa benissimo, chiaramente.
Mi avrebbe dato una pacca sulla spalla, avrebbe abbozzato e, guardandomi come solo un fratello può fare, mi avrebbe detto che era tutto ok, che lui aveva avuto la sua possibilità e che adesso toccava a me.
Riuscivo addirittura ad immaginarmi le sue parole, qualcosa del tipo “Vaja con Dios, amigo.”
Addirittura mi avrebbe detto di farlo quel viaggio a New York, ovviamente con Elena, e di mandargli una cartolina. Insomma, nessun problema.
Semplicemente, era arrivato il mio momento, il nostro momento.
Mentre Elena cercava la farina e chissà cos’altro in quel suo mobile incasinato, che avrebbe fatto indignare Ric per la disorganizzazione che lo contraddistingueva, la osservavo in silenzio e pensavo a queste cose.
 
“Che hai da guardare?” mi ha chiesto, quegli occhi grandi, troppo grandi, che si stringevano leggermente per studiare l’espressione sul mio viso.
 
“Niente.” le ho risposto. Avrei voluto dirle che, stranamente e contro ogni aspettativa, in quel momento ero felice. Che quando le avevo promesso che non l’avrei costretta a scegliere mentivo, perché volevo che lei scegliesse me.
Anche se ero sbagliato, anche se tutte le mie decisioni erano impulsive e avventate, e probabilmente non ero la persona giusta e non meritavo una possibilità, tantomeno da lei.
Però era quello che volevo, a costo di essere egoista con lei e con Stefan.
Avrei fatto l’ennesima scelta sbagliata, che in quel momento mi sembrava l’unica possibile.
 
E poi era precipitato tutto per l’ennesima volta.
Elena che si sentiva uno schifo, Elena che non era felice, Elena che pensava a Stefan, il suo fottuto messaggio strappalacrime e il suo cuore spezzato.
Era bastato questo a cancellare tutto, a svuotare i suoi occhi da quel qualcosa che per un attimo ci avevo visto. E forse era giusto così.
Lo sapevo da tempo, alla vita non si possono chiedere troppi sconti.
Senza pensarci troppo mi ero avvicinato a lei ancora una volta, accostando le labbra a quella pelle fresca che di lì a poco sarebbe diventata un ricordo.
Sentivo le reazioni del suo corpo, sapevo già riconoscerle.
Il respiro che si spezzava, le mani che si aggrappavano saldamente al bordo del tavolo, le difese che crollavano ancora una volta.
Lo potevo sentire quel qualcosa che ci univa, che passava da me a lei.
Potevo sentire lei, che scorreva nelle mie vene come una malattia.
Le sue parole però dicevano tutto il contrario.
 
“Devo andare al lavoro Damon, sarà il caso che mi faccia una doccia.”
 
Tutte quelle contraddizioni mi avevano stufato.
Improvvisamente ero stanco di lei, soprattutto ero stanco di me e di come diventavo quando ero con lei.
Non avrei umiliato ulteriormente me stesso, elemosinandole le briciole di quel qualcosa che lei non aveva il coraggio di definire per non fare male a nessuno, specialmente all’idea che aveva di sé stessa. Doveva essere tutto o niente.
Per questo l’ho lasciata andare senza dire più una parola.
Avrei dovuto capire e accettare, ma in quel momento non ne ero capace. Non più.
 
Domani saremo più sbagliati di oggi.
 
Non ci avevo creduto più di tanto quella frase, l’avevo ascoltata di sfuggita, fedele alla mia personale teoria del “me la caverò lo stesso”. Avevo sbagliato, ancora una volta.
Ho ascoltato il rumore dei suoi passi che si allontanavano, il suono ovattato dell’acqua che scrosciava nella doccia.
Ho preparato quegli orrendi, stomachevoli pancakes, perché almeno in quella discussione avevo deciso che l’ultima parola sarebbe stata la mia.
E poi quella telefonata ha cambiato le carte in tavola per l’ennesima volta, ridefinendo la lista delle mie priorità.
 
 
Ora che ho attraversato la porta dell’ospedale, i ricordi di questa mattina sbiadiscono in fretta. Sento solo quell’inconfondibile odore chimico che mi aggredisce le narici, aggrappandosi ai capelli e impregnandomi i vestiti ancora bagnati dalla pioggia fitta che ha iniziato a cadere, sbattendo forte contro le vetrate dell’accettazione.
Per lo meno serve a scuotermi, risvegliarmi da quella specie di torpore mentale e fisico che mi porto addosso.
Sono arrivato qui senza nemmeno rendermene conto, e ora come ora non so nemmeno come ho fatto a non uccidere nessuno per la strada.
Seguendo le indicazioni di Giuseppe salgo i gradini di corsa, fino a ritrovarmi di fronte a una grande porta antipanico verniciata di bianco che si apre su un lungo corridoio dello stesso colore.
E finalmente lo trovo, seduto su una seggiola con le maniche della camicia arrotolate, i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa fra le mani.
A vederlo così potrebbe addirittura sembrare un marito preoccupato per la moglie.
Una smorfia piena di indignazione mi si dipinge immediatamente addosso, anche se mi rendo conto che forse adesso non è il momento di recriminare.
Perché la sedia accanto a mio padre è libera, occupata soltanto da un bicchiere di caffè già svuotato. E non posso fare a meno di ripetermi che su quella sedia avrei dovuto esserci io.
 
“Sono qui. Dimmi dov’è.” chiedo, il tono freddo che non tradisce nessuna emozione.
 
I suoi occhi chiari si specchiano nei miei, velati di una preoccupazione che per chi non lo conosce potrebbe anche sembrare sincera. Ma non per me. Ancora una volta sta recitando la parte del bravo maritino, quando entrambi sappiamo che se mia madre oggi è qui la colpa è soltanto sua.
 
“Non puoi fare niente figliolo. È sotto sedativi. Non ci permetteranno di vederla, almeno per le prossime tre ore. Stamattina sono uscito presto, poi mi sono reso conto che avevo lasciato a casa dei documenti e l’ho trovata sul pavimento…”
 
Il respiro mi si blocca in gola, il cuore mi martella così forte nel petto che mi sembra di sentirlo sbattere contro la gabbia toracica. Il sangue sembra aver smesso di scorrermi nelle vene.
 
“Si può sapere che è successo?” chiedo, stringendo forte i pugni e cercando una risposta nel suo sguardo.
 
“Il medico ha parlato di una grave insufficienza epatica. Il fegato è compromesso, per via di tutti i farmaci che ha preso in questi anni… lo sai Damon, i dottori ci avevano parlato di questo rischio.”
 
Me lo ricordo, si. Avevano detto che gli psicofarmaci erano delle bombe, che presto o tardi l’avrebbero devastata. Ma io stupidamente mi ero illuso che lei alla fine si sarebbe liberata di quella roba, l’avrebbe sconfitta. Un bel giorno si sarebbe svegliata e avrebbe mandato a fanculo Giuseppe, Nob Hill e la sua esistenza fatta di bugie, riprendendo in mano la sua vita.
Che avrebbe trovato gli stimoli giusti, che avrebbe guardato i suoi figli pensando “Sai che c’è? In fondo voi siete un motivo più che sufficiente per voltare pagina.”.
 
Ci avrebbe scelti, tutto qui. Io e Stefan.
 
Eppure lei non l’ha mai fatto.
Ha dimostrato una volta di più di non essere felice, di non avere nulla per cui lottare.
Quello che amava ha finito per distruggerla e nemmeno io e Stefan siamo mai stati abbastanza per riuscire a spronarla, per farla reagire. E io la odio per questo.
 
Riesco solo a pensare che questa volta io non c’ero.
Non ero lì per aiutarla mentre si stancava per l’ennesima volta dei suoi giorni tutti uguali, di questa sua realtà completamente incolore in cui tutto si ripete senza scosse.
E non ero con mio fratello. Ero con la donna che lui ama ancora.
 
“E adesso?” chiedo a mio padre, che nel frattempo ha rifiutato una chiamata e spento il suo Blackberry, infilandoselo in tasca senza troppi complimenti.
 
“Adesso aspettiamo. Siediti qui, parliamone un attimo…”
 
“Non mi sembra il momento adatto per una bella riunione di famiglia.” rispondo freddamente.
 
Però poi mi siedo, spostando il bicchiere di carta e appoggiandolo per terra.
 
“Stefan dov’è? L’hai chiamato?” domando, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. Giuseppe sospira forte. Di solito lo fa quando è di me che sta parlando, non certo quando gli si chiede del mio perfetto fratello.
 
“Non riesco a rintracciarlo Damon. Non è nemmeno andato in ufficio stamattina.”
 
 
Elena
 
Stefan ha gli occhi spalancati, l’aria trafelata, l’espressione assente. La pioggia, che ha continuato a cadere incessante da questa mattina, sbatte furiosamente contro i vetri e sulla sua figura alta e ombrosa, chiazzando di macchie scure il tessuto bianco della sua camicia.
Noto in quel momento che la porta con i primi due bottoni aperti e le maniche arrotolate fino al gomito, come fa solitamente alla fine della giornata di lavoro.
Ma sono solo le undici del mattino e lui non dovrebbe essere qui, ma in banca.
Cosa può essere successo? Al solo pensiero un brivido gelido mi percorre la spina dorsale.
 
Quando entra nella mia piccola scatola di lamiera facendo sbattere la porta, il campanellino suona così forte che sembra volersi staccare, ed io scatto istintivamente in piedi.
Sembra completamente fuori di sé. I suoi occhi gonfi sono puntati nei miei.
Perfino Caroline ci guarda con apprensione, cercando una risposta ora nel mio viso, ora nel suo. Ma io non ho idea di cosa gli prenda, o almeno spero di non saperlo.
L’idea che lui possa aver scoperto qualcosa mi genera una nuova ondata di panico, seguita a ruota da una sensazione di sollievo. 
Sarebbe la fine di tutte le bugie. Il desiderio di tornare ad essere la persona che sono sempre stata, o per lo meno quella che credevo di essere si fa spazio dentro di me.
 
“Stefan cosa ci fai qui? Perché non sei al lavoro?” chiedo, stringendo una matita fra le dita, la prima cosa che mi è capitata in mano.
 
“Forse è il caso che io vi lasci soli…” interviene Care, un po’ imbarazzata, facendo due passi in direzione della porta.
 
“Rimani qui.” la blocco, accompagnando le parole con un gesto della mano.
Ho bisogno di Caroline, più di quanto io stessa avessi mai potuto immaginare.
Cerco lo sguardo di Stefan, incontrando le sue iridi pallide ricoperte da un velo lucido che non riesco subito a riconoscere. O forse…
 
“Stefan… ma sei ubriaco?” chiedo, quando lo vedo appoggiare entrambe le mani sul piano di legno del mio bancone, scrutandomi fino in fondo agli occhi.
 
“Non dire sciocchezze. Ho bevuto solo un po’… dobbiamo parlare.” si giustifica, mentre un mezzo ghigno che non gli appartiene gli si dipinge sul volto.
 
“Ti ascolto.” rispondo, alzando il mento in sua direzione e abbracciandomi i gomiti, cercando di non rendere evidente la mia apprensione.
Con la coda dell’occhio cerco Caroline, che nel frattempo si è spostata in un angolo senza emettere un fiato.
 
“Non hai ricevuto il mio messaggio Elena?”
 
“Certo che l’ho ricevuto.”
 
“Perché non hai risposto?”
 
“Perché non ho niente di nuovo da dirti.”
 
“C’è qualcun altro Elena? Dimmelo.”
 
“Cosa vai a pensare…”
 
“Dimmelo. Penso di meritarmi la tua sincerità.”
 
Nel pronunciare queste ultime parole, Stefan sbatte forte il pugno sul legno.
Io indietreggio di un passo, facendo cadere per sbaglio un pacchetto di sigarette dallo scaffale e sentendomi molto stupida.
 
“Ok. Ok, lo ammetto. È vero, c’è un’altra persona. Hai ragione tu Stef, ti  ho mentito. E tu dovresti lasciarmi andare.”
 
Quasi mi aspetto di vederlo dare di matto, rompendo anche le ultime convinzioni che mi sono rimaste sulla sua persona. Che fine ha fatto il ragazzo dolce, posato e rassicurante che credevo di conoscere e amare? Quello che appoggiava tutte le mie scelte, fidandosi ciecamente di me?
Sono stata io ad ucciderlo con le mie bugie?
E comunque, sembra quasi soddisfatto dalla mia risposta.
Probabilmente era solo la conferma che stava cercando. Probabilmente dirgli quello che gli ho detto è stata la scelta giusta per allontanarlo da me, proprio come ho fatto con Damon.
Perché io adesso devo restare sola come avevo promesso.
 
“Lo conosco questo stronzo?” chiede, quasi compiaciuto, piegando la testa di lato come fa suo fratello quando vuole provocarmi.
 
“Assolutamente no. E se c’è una stronza, quella sono io. Prenditela con me.” ribatto seria.
 
Lui scuote la testa.
 
“Ok, per una volta sei stata sincera. Ora posso anche andarmene. Non c’è più niente che mi trattenga qui.”  risponde piccato, voltandosi verso la porta. Faccio un passo in avanti, sporgendomi sul bancone.
 
“Aspetta un attimo Stefan. Parliamo… non andare via. Hai anche bevuto e…”
 
Lo vedo girarsi di scatto verso di me, rivolgendomi uno sguardo che è insieme furioso e profondamente triste. Il film di tutti i momenti trascorsi insieme mi scorre in un lampo davanti agli occhi, il senso di colpa mi stringe lo stomaco. Riesco a sentire i suoi occhi gelidi che bucano i miei.
 
“Finiscila Elena. Piantala di fare la crocerossina e fingere che te ne importi qualcosa di me e dei miei problemi.”
 
Poi sbatte la porta e se ne va nella pioggia, esattamente come è venuto.
Non so cosa mi trattenga dallo scoppiare a piangere e buttare fuori un po’ di tutto quel miscuglio di sentimenti che mi sto portando dentro senza esserne capace.
 
“Si può sapere perché non me l’hai detto?” sbotta Caroline, avvicinandosi a me con un ticchettio di tacchi e uno svolazzamento di boccoli appena piastrati, in perfetta modalità Gossip Girl. Mi ero proprio dimenticata di lei. Cazzo.
 
“Stavo per dirtelo.”
 
“E lui chi è?”
 
“Nessuno.”
 
“Non fare l’ingenua con me Elena. Potrai anche mentire al tuo ex ragazzo, ma a Caroline Forbes non la fai. Lo conosco?”
 
“No…”
 
Mi esce una voce troppo incerta perché possa passare inosservata, soprattutto a una come Care che tutto è fuori che una sprovveduta.
E infatti quando incontro i suoi occhi azzurri, troppo azzurri perché io non li associ automaticamente a qualcun altro, la sua bocca si spalanca di sorpresa.
 
“Oh mio Dio… ci sono. È Damon. Tu hai lasciato il tuo amore epico per Damon. Come ho fatto a non capirlo prima! Eravate tanto amici e poi…” esplode subito dopo, battendosi il palmo della mano sulla fronte come a darsi della stupida.
Scruto il suo sguardo senza dire una parola. Non sembra arrabbiata, non sembra delusa.
Sembra solo soddisfatta per aver finalmente sciolto il mistero che pare attanagliare tutti quanti questa mattina.
 
“Ce l’hai con me?” chiedo, un po’ titubante.
 
“Solo per non avermelo detto. Io sono la tua migliore amica Elena, avrei solo voluto che tu fossi sincera con me. Lo sai che a me non importa niente. Avresti dovuto dirmelo.”
 
“Perdonami Care. Giuro che avrei voluto, è solo che…”
 
Sto balbettando, torturandomi le mani come una deficiente.
La mia amica mi studia a braccia conserte, picchiettandosi un indice sull’avambraccio e scuotendo la testa di tanto in tanto.
 
“È solo che non capisco proprio cosa ti sia saltato in testa. Voglio dire, è il fratello di Stefan, spuntato dal nulla solo qualche mese fa. Che diavolo ne sai tu di lui?” chiede, stringendo gli occhi fino a farli diventare due fessure.
 
Non ho una risposta per la sua domanda. Me lo sono chiesto tante volte anche io.
So solo che una risposta non c’è. Che quando sono con lui perdo l’equilibrio e nello stesso momento mi ritrovo.
Guardo la mia amica, frugando dentro di me alla ricerca delle parole da dirle, quelle che vorrei dire anche a me stessa.
 
“Hai mai avuto l’impressione che qualcuno possa appartenerci per emozione?”
 
 
Damon
 
Dopo aver passato tutto il pomeriggio in quel corridoio insieme a mio padre, il dottore si è deciso a scambiare un paio di parole con noi interrompendo il silenzio surreale che si era creato.
Del resto anni di incomprensioni e sbagli non si possono cancellare in poche ore. Nemmeno davanti a un dolore, soprattutto se quel dolore lo sento solo mio. Giuseppe non ha nessun diritto di fingere che per lui sia la stessa cosa. Il che, detto da me, suona abbastanza patetico.
La diagnosi è stata confermata, le conseguenze restano incerte.
Non mi resta che aspettare, ancora una volta, l’ennesima.
Ho potuto vederla per pochi secondi. Avrei voluto urlarle in faccia il male che mi sta facendo, ma lei sembrava inerme. Né contenta, né infelice, semplicemente rassegnata.
Nel silenzio più totale le ho fatto una carezza, le ho sussurrato che l’avrei aspettata a casa.
Le ho giurato che avrei aspettato ancora, anche se non so se sarò davvero in grado di farlo.
Mi ha chiesto di Stefan, ma mio fratello oggi ha deciso di non farsi trovare.
 
Ci hanno spedito a casa. Ho chiamato Ric chiedendogli di poter fare il mio turno, ma lui mi ha detto senza mezzi termini che non se ne parla.
 
“Rilassati un attimo Damon. Riposati e ci vediamo domani.”
 
Non poteva sapere che a casa non ho nessuna intenzione di andarci.
Così sono venuto qui, dal vecchio Joe.
Lui con i suoi dreadlocks e le sue magliette unte e strappate, pare proprio essere la mia ultima spiaggia. Forse sarebbe stato meglio cambiare bar, magari scegliendone uno con una barista figa invece di questo bestione. Chissà perché sono diventato così nostalgico.
L’ho preso per il culo per un po’, sperando di farlo incazzare, ma pare che nemmeno lui sia in serata.
Sono riuscito addirittura a sfilargli la bottiglia di bourbon dal bancone senza che neanche se ne accorgesse, portandomela dietro su questo portico sgangherato per consumarla in santa pace.
 
Ed ecco che arriva lei.
Avrei dovuto aspettarmelo, in fondo sono io che ho invaso il suo territorio, anche se forse dopotutto era quello che volevo.
Indossa un paio di jeans troppo stretti, così come quel giacchino di pelle che fascia le sue forme abbondanti.
Sul serio mio fratello la lasciava andare in giro in questo modo?
Doveva aspettarselo che prima o dopo uno come me sarebbe passato a portargliela via.
Anche se alla fine non l’ho fatto, dopotutto. L’ho avuta per poche ore, lui è stato insieme a lei per qualche mese. Non so chi dei due sia messo peggio ora come ora.
 
In ogni caso, lei adesso mi guarda. Mi guarda con quegli occhi scuri da cerbiatta, quelli che mi hanno fregato fin dall’inizio, che mi hanno fatto credere che lei sapesse vedere la realtà in un modo diverso da tutti gli altri. Mi hanno mentito, e io mi sono lasciato prendere per il culo.
Ancora una volta, anche da lei. Perché per lei è tutto così difficile, quando fra noi potrebbe essere estremamente semplice?
 
“Stai bene Damon?”
 
“Mai stato meglio, grazie.” le rispondo, sollevando un angolo della bocca per poi prendere un altro sorso dal mio bicchiere.
 
“Sembri sconvolto.”
 
“Anche se fosse non ti riguarda.”
 
“Ti sbagli. Possiamo parlarne… possiamo ancora essere… amici. L’hai detto anche tu… che oggi poteva tornare tutto come prima.” mi dice.
Per un po’ si guarda le punte delle scarpe, facendo prima un passo avanti e poi uno indietro, poi i suoi occhi si incollano ai miei per un lungo, fastidiosissimo, istante.
 
“Sul serio è questo quello che vuoi?” le chiedo.
 
“Credo di si.”
 
Rimaniamo in silenzio ancora per qualche secondo, il tempo che mi serve per svuotare il mio bicchiere e tornare a guardarla, sperando di sentire uscire qualcosa di diverso da quella bocca. Illudendomi ancora una volta che lei potrebbe scegliere me, alla fine dei conti.
Ma Elena non lo fa. Sta zitta, aspettando che io dica qualcosa.
 
“Mi dispiace, ma la risposta è no. Ho cambiato idea, Elena. Non voglio vederti, non voglio parlarti, non voglio sentire la tua voce e di sicuro non voglio essere tuo amico.”
 
Gliele sputo addosso quelle parole, con l’intento preciso di farle male. Anche se non è colpa sua, anche se sono stato io a trascinarla in questo casino assieme a me. Non fa niente.
Quello che voglio è liberarmi di lei una volta per tutte.
E quando vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime e le sue labbra incresparsi in una smorfia di disappunto, so che ho ottenuto quello che volevo.
 
“Se è questo quello che vuoi... ok.” risponde in un sussurro, annuendo debolmente.
 
Proprio in quel momento il mio cellulare inizia a squillare. Quel suono si intromette fastidiosamente fra di noi, interrompendo il nostro dialogo in modo brutale.
Getto un’occhiata al display, scattando automaticamente in piedi.
 
“Dovrei rispondere Elena.”
 
Ha le mani nelle tasche e gli occhi bassi, e scalcia un sassolino dal terreno continuando ad annuire senza più guardarmi.
 
“Giusto. Me ne vado.” mormora piano, per poi girare sui tacchi e allontanarsi incerta nel buio della sera. E io la guardo andare via, sollevato e infelice insieme, diviso a metà, come sempre quando è di Elena che si tratta.
Lascio scorrere un dito sul display del telefono e prendo la chiamata.
 
“Papà? È successo qualcosa?”
 
“Damon… è per Stefan. Non si trova.”

 
 
*********
Buonasera mie care.
Non ci credo, ho fatto in tempo a pubblicare entro la settimana!!
Come ho scritto a molte di voi, ho litigato di brutto con i miei pesci bizzarri… avevamo quasi divorziato e avevo deciso che questo sarebbe stato l’ultimo capitolo. Non ero (non sono) contenta di quello che avevo prodotto negli ultimi capitoli e avevo tanti dubbi sul futuro. Avevo deciso che avrei tagliato un pezzo della storia, concludendola e proseguendola magari più avanti.
Invece, i pesci si sono ribellati e il finale tagliato proprio non mi veniva fuori (ci ho provato, giuro) perché avrei dovuto togliere tutta la parte di Stefan e il suo mistero, così sono tornata all’idea di partenza.
E quindi, questo non è ancora l’ultimo.
Qui c’è Damon the day after, che ha tanto bisogno di essere accettato e scelto, ma deve confrontarsi con le insicurezze di Elena. C’è una madre che si è arresa, che non è stata abbastanza forte per lui. C’è un padre che prova ad essere tale. C’è un’Elena che si scontra con uno Stefan che forse qualcosa ha capito, e con una Caroline che invece ha capito tutto… e forse lei alla fine avrebbe voluto dire altro al suo Damon, ma ha fatto un pasticcio e l’ha beccato in un momento decisamente no.
Scusatemi se vi sembro pazza e in preda a squilibri ormonali, in effetti è proprio così.
Ricordate quando vi ho detto che la mia real life stava avendo prepotentemente il sopravvento su di me?
Ecco, è proprio così: ormoni impazziti, VITA che arriva inaspettata, lasciandomi completamente spiazzata ma felice, davvero davvero felice come non lo sono mai stata prima.
Avete capito?????
Insomma, abbiate pietà di me.
Vi mando un bacio grande, a tutte. Grazie come sempre per esserci, anche quando a me sembra di aver scritto una marea di stupidate.
La vostra pazza Chiara
 
PS
Nella prima parte ho buttato dentro due citazioni… un autore a cui sono affezionata e un telefilm anni ’90, legato alla mia infanzia. Il primo è facilissimo, il secondo… vediamo chi lo indovina!! Dai, è facile. :)
Baci
 

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Capitolo 13
*** Human ***


CAPITOLO 11 – HUMAN
 
 
Take me out of this place I'm in
Break me out of this shell-like case I'm in
Underneath the skin there's a human
Buried deep within there's a human
***
Portatemi fuori da questo posto,
Spezzate questa scatola che mi contiene
Sotto alla pelle c’è un essere umano
Seppellito là dentro c’è un essere umano
 
Human – Daughter
 
 
"Ci sono due specie di persone.
Ci sono quelli che giocano, vivono e muoiono.
E ci sono quelli che si tengono in equilibrio sul crinale della vita.
Ci sono gli attori. E ci sono i funamboli."
 
Neve – Maxence Fermine
 
 
 
Damon
 
“E insomma, Enzo ha versato un intero calice di Château Mouton proprio dentro la borsa di pitone della signora Johnson e, non si sa come, lei non solo non se l’è presa ma gli ha lasciato pure la mancia... quel ragazzo ha una faccia tosta incredibile, non pensi?”
 
“Mh mh…”
 
“Mi stai ascoltando Dam?”
 
“Mh mh… l’ennesimo calice di vino sprecato da Enzo. Che storia triste.”
 
Liquido Ric con l’ennesimo mugugno e un’occhiata sfuggente, tornando subito dopo a concentrarmi sulla marea di roba da affettare che mi ha piazzato davanti.
Lui, che non fa nemmeno più caso ai miei sbalzi d’umore, si limita a rivolgermi un’alzata di spalle e si infila nella cella frigorifera, consapevole del fatto che non c’è speranza che i suoi aneddoti divertenti facciano presa su di me.
La mia mente è occupata da pensieri che non hanno niente a che vedere con i vini pregiati, borsette di serpente e signore ultraottantenni dal portafoglio a fisarmonica.
Si perché ieri sera quando Giuseppe mi ha comunicato dell’improvvisa sparizione di mio fratello, gli ho praticamente riso in faccia.
Gli ho detto di piantarla di fargli da baby-sitter e di immaginarselo a fare baldoria con qualche amico o, meglio ancora, con una bella bionda. Forse era quello che mi auguravo per lui.
Dopotutto Stefan è un ragazzo, non un bambinetto da accudire, e sta attraversando un periodo no. Tra parentesi, credo di esserci di mezzo anche io, ma non mi sembra il caso di rendere partecipe Giuseppe dei recenti sviluppi del mio rapporto con Elena, dei quali, ne sono certo, nemmeno Stefan è a conoscenza.
 
Poi è venuto fuori che, per una volta, mio padre non aveva tutti i torti a preoccuparsi.
Stefan è irrintracciabile, non si è presentato sul lavoro senza dare nessuna giustificazione e, cosa ancora più allarmante, parte dei suoi vestiti è scomparsa, insieme a quella sacca blu che utilizza sempre per andare a giocare a tennis.
 
Io non me ne sarei mai accorto, ma si da il caso che Giuseppe sia peggio di un segugio quando si tratta del suo figlio prediletto.
Tutto lascia intendere che Stefan sia scappato da qualche parte senza lasciare traccia di sé e, volente o nolente, la cosa mi dà da pensare perché questo atteggiamento è assolutamente non da lui.
Lui così pacato, così conformista e responsabile… no, la fuga senza motivo è più una mossa alla Damon.
E soprattutto, perché avrebbe dovuto farlo?
Per una donna?
Ok, è di Elena che stiamo parlando. Quella per cui perfino io ho mandato al diavolo l’ultimo residuo di coscienza rimasto, per poi sentirmi dire che avremmo dovuto tornare ad essere amici. Ma questa è un’altra storia.
 
E poi c’è mia madre, nel suo letto d’ospedale, il fegato a pezzi e l’aria rassegnata.
Quel suo viso indifferente che mi uccide, la voce piatta con cui mi domanda di Stefan come se mi stesse chiedendo un bicchier d’acqua. Se c’è va bene, sennò pazienza. Chissenefrega.
Stamattina sono andato a trovarla e lei era lì, inerme, immersa nel bianco delle lenzuola, dei muri della sua camera, di una vita che non conosce più le tinte accese dell’emozione.
Avrei voluto scuoterla, piantarla con le scuse inverosimili che mi sono costretto a raccontarle e dirle che suo figlio è scomparso chissà dove.
Avrei voluto urlarle in faccia di alzarsi da quel letto e fare la madre una buona volta.
Allo stesso tempo, avrei voluto ammettere a me stesso che ho sbagliato, che sono stato cieco ed egoista ancora una volta, sottovalutando i sentimenti di mio fratello e sopravvalutando quelli di Elena. In pratica, raccontandomi la storia che volevo ascoltare.
 
E mi sento in colpa. Verso mio fratello, verso Elena, per come l’ho trattata, per averla messa nei casini e costretta a farsi domande a cui non è mai stata in grado di rispondere, per non essere stato in grado di accettare la sua ovvia confusione in nome del mio bisogno di essere messo avanti a tutto per una volta, una sola.
Perché adesso, perché proprio con lei? Sono domande che continuo a farmi senza riuscire a trovare un senso a questo mio bisogno che senso non ha.
Mi sento in colpa per me stesso, per la mia decisione folle di mettere in gioco tutto per lei, adesso che quel tutto non si sa che fine abbia fatto e io sono qui, come un coglione ad aspettare un segno che non so quando arriverà, mentre il mondo crolla intorno a me un pezzo alla volta.
 
Lancio il coltello nel lavandino, mi sciacquo le mani e getto un’occhiata fuori dalla finestra, leggermente appannata dal vapore delle pentole che Ric ha messo sul fuoco.
È una giornata umida, pesante e lenta. La solita nebbia è piombata su San Francisco.
Solo il Golden Gate si lascia guardare, maestoso e impressionante anche quando è immerso in tutto quel grigio.
 
E tu dove diavolo sei Stef?
Aiutami a capire, dammi un segno per cercarti e riportarti a casa.
Spiegami perché io, che sono tuo fratello, non ho idea di dove tu ti sia cacciato.
Perché ho l’impressione di non sapere niente di te?
Dimmi dove ci siamo persi, quando abbiamo smesso di ascoltarci.
Qual è il momento esatto in cui abbiamo iniziato a girare su noi stessi, senza più permetterci di entrare nelle nostre reciproche orbite.
È stato prima di Elena, prima dei servizi sociali, di Kol Mikaelson e di tutti i casini della nostra famiglia. Quando?
Perché adesso mi manchi, dannazione. E lo so che suona assurdo, lo so che ho calpestato quello che provavi in nome di quello che provo io, lo so che ci siamo feriti a vicenda, ma ho bisogno di sapere che stai bene.
 
“Allora Dam, se mi fai il turno della mattina, questa sera ti lascio libero. Che ne pensi? Non ho prenotazioni e…”
 
Ric riemerge dalla cella con due cassette di fragole, che lancia senza troppi complimenti sul piano in acciaio della cucina. Sono certo che siano un regalo per il sottoscritto, giusto per non farmi pesare le assenze degli ultimi giorni.
Faccio appena in tempo a incrociare il suo sguardo divertito, poi estraggo il cellulare dalla tasca  per leggere il messaggio che mi è appena arrivato.
Una bustina bianca e il nome di Giuseppe lampeggiano sul display. E io non so cosa pensare.
Mia madre, Stef… che diavolo devo aspettarmi? Sfioro la busta, mi preparo al verdetto.
 
“Amico, tutto ok? È successo qualcos’altro?”
 
Sollevo gli occhi in quelli di Ric, che mi guardano pieni di preoccupazione sincera, nonostante io sia senza dubbio il peggiore dei dipendenti. Arriccio le labbra in una smorfia che sa di scuse, alzo un sopracciglio. Ric sbuffa. Ha già capito.
 
“Mi sa che lo salto il turno della mattina capo. Poi ti spiego.”
 
 
Elena
 
Dopo aver lanciato sul tavolino di vetro la rivista finanziaria che stavo sfogliando senza alcun interesse da oltre un quarto d’ora, mi allungo sulla poltrona del salottino, passandomi entrambe le mani fra i capelli.
Mi massaggio gli occhi con i palmi aperti, concedendomi un attimo di buio per recuperare un po’ di autocontrollo. Poi allargo le dita e sbatto le palpebre, guardandomi intorno da una nuova prospettiva.
La visuale non cambia. Davanti a me la solita familiare fila di poltroncine in pelle scura, un tappeto persiano dall’aria costosa sul quale si intreccia un complicato disegno geometrico che ho provato ad inseguire, finendo per perdermi nel mio solito giro di pensieri a vuoto.
 
Pensieri che comprendono un paio d’occhi verde pallido infuriati e alterati da un impeto di rabbia che non li aveva mai attraversati prima, almeno con me.
E poi altri occhi, di un colore indefinibile, un miscuglio tra un cielo limpido e un mare in tempesta, occhi che le emozioni le bruciano in un istante.
Che consumano, cambiano e mi travolgono senza darmi il tempo di respirare, lasciandomi annegare in quell’oceano di incertezze che Damon rappresenta.
 
Percorro con lo sguardo la skyline di San Francisco, che si staglia oltre la vetrata che occupa un’intera parete del salottino. Le cime dei palazzi si intravvedono appena, velate dalla fitta coltre grigia e ovattata che appesantisce l’aria.
Un rumore di passi risuona dal pavimento in marmo chiaro, interrompendo il monotono sottofondo dei tasti premuti dalla segretaria che, da quando sono entrata in quest’ufficio, non ha mai distolto lo sguardo dal monitor del suo Mac.
 
“Eccomi qui tesoro. Scusa se ti ho fatta aspettare. Coraggio, vieni nel mio ufficio.”
 
La voce di John mi raggiunge, pacata e serena come sempre, insieme al suo sorriso affabile e all’immancabile buffetto sulla guancia, il gesto con cui mi saluta tutte le volte fin da quando ero una bambina con le treccine e l’apparecchio ai denti.
Ne è passato di tempo da allora, eppure lui continua ad essere il mio punto fermo, nonostante tutto e nonostante tutti gli stupidi Michael con cui mia madre si è accompagnata negli anni.
Gli sorrido a mia volta, di un sorriso debole che non lo sa prendere in giro.
Lo capisco dal suo sguardo attento, che mi scruta mentre con le mani liscio senza alcun motivo il tessuto leggero della mia gonna nera, per poi afferrare la cartelletta delle traduzioni e avviarmi verso il suo ufficio.
 
Una volta dentro John si chiude la pesante porta in legno massiccio dietro le spalle, mentre io prendo posto davanti alla grande scrivania in vetro illuminata dalla luce di una lampada da tavolo, la stessa di sempre.
Anche la mia foto è ancora lì, al solito posto, accanto a quelle dei suoi figli. Quelli veri.
Mi sento così sola.
 
“Bevi qualcosa? Un caffè?”
 
“Grazie, sono a posto. Ti ho portato…”
 
“..le traduzioni che ti ho chiesto. Lo so.”
 
John conclude la frase per me, togliendomi il plico bianco dalle mani per poi gettare i fogli senza troppa cura in un cassetto che richiude un istante dopo.
Poi si siede. Non sulla sua elegante poltrona, ma a fianco a me.
Punta un gomito sul bracciolo della sedia, sostenendosi il mento con la mano. Sorride.
 
“Non.. non le controlli?” farfuglio, indicando con un dito il cassetto chiuso.
 
“Certo che no. Saranno perfette come sempre, non ho dubbi, mi fido di te. E ti conosco Elena. Me lo vuoi dire cosa c’è che non va?”
 
“Si vede così tanto?” chiedo, sollevando lievemente un angolo della bocca e attorcigliandomi una ciocca scura attorno al pollice.
 
“Diciamo che per me sei un libro aperto. Forse il fatto che io ti conosca da quando hai sette anni mi agevola un po’. Di certo dovresti sapere che non hai bisogno di inventare scuse come quelle stupide traduzioni se hai bisogno di parlare con me.”
 
Mi è piuttosto familiare questo suo modo bonario di rimproverarmi.
È sempre lui. Non il mio secondo papà, ma il mio papà alla seconda.
Quello che ritagliava stelle di carta per il soffitto della mia stanza e aiutava a costruire i miei sogni. Devi mirare in alto per arrivarci vicino, mi diceva sempre.
E io mi sentivo invincibile, sentivo che avrei potuto essere chiunque avessi voluto perché lui ci sarebbe stato in ogni caso per appoggiarmi.
Quanto ho odiato mia madre quando mi ha costretta ad allontanarmi da lui.
Eppure siamo ancora qui, io con le mie incertezze e lui pronto a sostenermi con la sua discrezione e suoi occhi buoni, che sanno spogliarsi della scaltrezza dell’uomo d’affari per diventare i miei unici punti fermi.
Così smetto di mangiarmi le pellicine intorno alle unghie e abbandono le braccia lungo i fianchi, in cerca delle parole più adatte per spiegarmi. È difficile.
 
“Il fatto è che sono cambiata. In peggio. Continuo a fare scelte sbagliate John, errori imperdonabili, che fanno soffrire tutti. E più cerco di arrampicarmi sugli specchi per non fare del male a nessuno, più commetto sbagli.”
 
Lui riflette un attimo sulle mie parole, arricciando le labbra con aria pensosa e picchiettando l’indice sul cotone scuro del suo completo da lavoro, mentre io cambio posizione sulla sedia preoccupata da quello che potrebbe domandarmi.
Ma lui non è mai stato una persona indiscreta. Gli basta un attimo per leggermi, non gli servono domande che potrebbero mettermi in imbarazzo.
 
“Innanzitutto sei un essere umano, Elena. Dovresti concederti il lusso di fare errori se questi ti aiutano a crescere, a capire la persona che vuoi diventare. Perché ti sforzi di essere quella che non sei?” chiede a bruciapelo, facendomi arrossire di colpo. Non so rispondere.
John guarda fuori, lasciando scivolare gli occhi oltre la grande finestra che squarcia il muro proprio di fronte a noi. Per qualche istante ci facciamo assorbire da quella massa incolore, lasciando il discorso in sospeso.
 
“Tu non sei mai stata una che si tiene in equilibrio, Elena. Sei una persona sincera… è importante che tu continui ad esserlo, con te stessa e con gli altri, anche se a volte può ferire. Non si vive per accontentare tutti. Lo sai, abbiamo già affrontato questo argomento…”
 
“…le persone grigie.” lo interrompo. E improvvisamente mi ricordo perché l’ho sempre odiata, tutta quella nebbia. Ho sempre detestato il suo modo meschino di adattarsi a quello che abbraccia, di non avere alcuna identità.
Ora ho capito dove John vuole andare a parare. In fondo anche io lo conosco da un po’.
 
“Esatto Elena. Tu sei un sole che brucia, una tempesta che travolge… non sei certo opaca. Sai esporti, in fondo al tuo cuore sai quello che vuoi. Hai le tue passioni, la tua identità, i tuoi desideri. Devi solo imparare a riconoscerli e decidere da che parte stare.”
 
Da che parte stare.
È questo che intende. E forse è ciò che intendeva anche Damon quando ha detto che non vuole più essere mio amico. Ha semplicemente rifiutato le sfumature che io ho cercato stupidamente di imporgli. Avrei dovuto prevederlo, avrei dovuto evitare di infilarmi in questa situazione.
Ripenso a Stefan, alla sua rabbia improvvisa ed imprevista quando ha conosciuto la parte di verità più facile da raccontare. E capisco subito che è mio dovere prendere una decisione netta, che non ammette vie di mezzo o sfumature di nessun tipo.
 
“E adesso?”
 
“Adesso vai a farti una bella corsa Elena. Sono sicuro che farai la scelta giusta.” ribatte John, una semplice alzata di spalle ad accompagnare le sue parole. La fa facile lui, forse ha troppa fiducia in me. Quella fiducia che io ho perso da quando ho incontrato Damon e ho scelto di incasinarmi la vita con lui. Che poi, sono stata io a sceglierlo? Forse no. Forse lui è semplicemente la vita che ha scelto me per travolgermi, senza lasciarmi la facoltà di oppormi.
 
 
Damon
 
Tutto sommato l’ufficio di Giuseppe non è così male. Per anni l’ho evitato come la peste, convinto che entrare qui dentro equivalesse a sottoporsi ad un’istantanea lobotomia celebrale.
Invece sono sopravvissuto indenne, anche se adesso me ne sto qui, stravaccato sulla sedia a fissare il soffitto, con le mani dietro la testa mentre mio padre continua a piazzarmi davanti fogli pieni di cifre di cui francamente mi interessa poco.
 
“Migliaia di dollari.” continua a ripetere come un mantra, portandosi le mani alle tempie con fare agitato.
In effetti anche io fatico a crederci ma, secondo Giuseppe, quei numeri parlano chiaro.
Stefan gestisce un grosso portafoglio clienti, un centinaio di pezzi grossi della città, tutti presentati e indirizzati con cura dal nostro vecchio che non vedeva l’ora di introdurre suo figlio nel magico mondo dei promotori finanziari in camicia bianca.
Famiglie tipo quella dei Mikaelson per intenderci, gente che di soldi ne ha a palate.
Gente che non scherza.
Purtroppo però pare che Stef abbia effettuato una serie di investimenti sbagliati, e che abbia perso grosse somme tentando di rimediare ai suoi errori finendo per commetterne di ancora peggiori.
 
“Ne sei proprio sicuro? Voglio dire, Stefan non è uno sprovveduto. Com’è possibile che si sia infilato in un casino del genere?” chiedo, costringendo mio padre a sollevare la testa da quei fogli dattiloscritti pieni di caratteri minuscoli tutti uguali.
 
“Non ne ho idea Damon… forse semplicemente ha voluto strafare. E credo di esserci di mezzo anche io. Temo di averlo spinto a calcare la mano… ma non intendevo certo questo…”
 
Bella mossa fratello, non c’è che dire.
Ecco spiegata tutta la tensione degli ultimi tempi, il suo essere più scontroso e distante del solito. Si è tenuto tutto dentro, perché non aveva più nessuno con cui parlarne.
Solo un padre da non deludere, una madre inesistente e un fratello che ha perso chissà dove, che nel frattempo faceva di tutto per soffiargli la ragazza che amava.
È evidente, non sapeva dove sbattere la testa.
 
“Ok. Manteniamo la calma. C’è qualcosa che si può fare per rimediare a tutto questo?” chiedo a Giuseppe, che continua a tenere gli occhi incollati a quelle cifre con troppi zeri.
 
“Possiamo tener buoni i clienti per qualche giorno, non di più… poi scoppierà la bomba. Certo, potrà intervenire l’assicurazione. Ci vorrà del tempo. Ma la carriera di Stefan è finita, bruciata per non parlare della figura che ci farà la banca e...”
 
“Chissenefrega della carriera e della banca. L’importante è ritrovarlo non pensi?”
 
“Certo… ma dove?”
 
Scatto in piedi, facendo avanti e indietro sulla moquette color nocciola e sforzandomi di pensare. Mi serve un indizio, un piccolo appiglio a cui aggrapparmi. Possibile che non mi venga in mente niente di buono? Deve essere da qualche parte, altrimenti non si sarebbe disturbato a portar via la sua roba. Non può, non deve aver fatto sciocchezze. Lui non fa mai cose stupide.
 
“E se provassimo a chiedere a Elena, Damon? La figlia di Grayson… quella che frequentava ultimamente…”
 
Giuseppe Salvatore e le sue grandiose idee.
 
“Si sono lasciati.” taglio corto.
 
“Magari ne sa qualcosa ugualmente…”
 
“Magari…”
 
 
Elena
 
Quando il campanello suona, ho appena finito di asciugarmi dopo la doccia che mi sono concessa al termine della corsa. Si, ho seguito il consiglio di John e, come tutte le volte, non me ne sono pentita. Per lo meno è servita a distrarmi un po’.
 
“Arrivo Care!” urlo contro la porta, afferrando al volo i pantaloni della tuta e una t-shirt, passandomi una mano fra i capelli ancora bagnati nel tentativo di dar loro una specie di forma.
La mia amica mi ha promesso film e un chilo di gelato, che ho finito per accettare senza proteste, spinta da una gran voglia di non pensare.
Mentre mi infilo la maglia bianca e un po’ sgualcita con una mano, con l’altra giro le chiavi e tiro la porta per permetterle di entrare ed evitare che mi stordisca a furia di suonare il campanello.
 
“L’hai preso il gelato al pistacchio vero?”
 
“…no. Mi fai entrare lo stesso?”
 
Gli occhi azzurri che mi trovo davanti non sono esattamente quelli che mi aspettavo.
Rimango imbambolata per qualche secondo, o forse minuto, mentre Damon mi guarda con le mani in tasca, un sopracciglio alzato e un’espressione che mi infastidisce un bel po’.
Un qualcosa a metà fra il divertito e lo strafottente.
 
“Allora? Vengo in pace, lo giuro.”
 
Ha perfino il coraggio di fare lo scocciato. E ok, ho capito di aver fatto anche io la mia parte di sbagli con lui, ma tutti questi cambi d’umore mi fanno girare la testa e non mi aiutano ad essere decisa come dovrei.
 
“Prego, accomodati.” rispondo, schiarendomi la voce.
Lui non se lo lascia ripetere, superandomi con un paio di passi mentre io richiudo la porta e mi sistemo la maglia cercando di non farmi notare.
Damon si guarda intorno, come se fosse la prima volta che mette piede qui dentro.
I suoi occhi scivolano sui pochi arredi che compongono il mio soggiorno per poi posarsi su di me e sfiorarmi un po’ alla volta fino a raggiungere il mio viso, sul quale, ne sono sicura, si sta dipingendo lentamente un’espressione piuttosto imbarazzata.
 
“Di un po’, erano buoni i pancakes?” chiede, afferrando distrattamente una cornice da una mensola e osservando con apparente interesse la foto che contiene, che mi ritrae da bambina insieme a mio fratello mentre giochiamo nella nostra piscina gonfiabile. Imbarazzante.
 
“Non erano male.” rispondo, strappandogli la foto dalle mani e rimettendola al suo posto.
 
“Bene.”
 
“…Bene.”
 
“Andiamo Damon, sul serio sei venuto qui per chiedermi dei pancakes? Perché in questo caso, credo che sia meglio che tu te ne vada.” sbotto, abbracciandomi i gomiti e guardandolo storto.
Lo vedo annuire, per poi farsi improvvisamente serio.
 
“Ok Elena. So di essere l’ultima persona che volevi vedere, ma ti propongo un time out. Devo parlarti di Stefan.”
 
 
Mezz’ora dopo siamo seduti l’uno davanti all’altra, attorno al mio piccolo tavolo da pranzo.
Ho liquidato Care con una scusa e me ne sto qui, a rigirarmi la tazza di caffè fra le mani senza avere il coraggio di sollevare gli occhi.
Continuo a chiedermi come ho fatto ad essere così cieca e così stupida, mentre il racconto di Damon si sedimenta pian piano dentro di me.
Eppure Stefan a modo suo ci ha provato a farmi capire che qualcosa non andava.
Solo che io ho preferito interpretare quei segnali come mi faceva più comodo, per avvicinarmi a suo fratello. Lo stesso che adesso se ne sta qui a chiedermi e a chiedersi dove Stefan possa essersi cacciato.
Non ho risposte: la vita di coppia mia e di Stef, negli ultimi tempi è consistita in un triangolo composto da me, lui e il suo lavoro. Un lavoro che forse non ha mai voluto fare davvero, ma che si è convinto fosse la scelta più giusta per il suo avvenire.
Non frequentava nessun’altro al di fuori dei suoi clienti, non aveva amici eccetto…
 
“Lexi!” esclamo all’improvviso, cercando lo sguardo di Damon.
 
“San Diego! Come ho fatto a non pensarci prima?”
 
 
Damon
 
E così Elena aveva ragione. Stefan è da Lexi, a cinquecento miglia da qui.
“Potrebbe ammazzarmi per avertelo detto, ma ti prego, vieni subito…” mi ha supplicato lei per telefono. Suona piuttosto strano. Io non le piaccio per niente, non le sono mai andato a genio.
Ma a quanto pare, perfino lei è convinta che la soluzione sia nelle mie mani.
Che per una volta dovrò travestirmi da eroe e andare a riprendere mio fratello per riportarlo dalla sua famiglia, per quanto disastrata sia.
E poi, altra eccezione, ho dovuto fidarmi di Giuseppe, che ha promesso di badare a mia madre e cercare una soluzione per aiutare Stefan per quanto possibile, una volta che sarà qui.
Ric mi ha concesso un paio di giorni senza battere ciglio.
E Elena mi ha lasciato dieci chiamate sul cellulare, alle quali non ho risposto neanche una volta.
Per quanto mi riguarda, la nostra tregua è già finita. So che devo stare lontano da lei se voglio pensare lucidamente.
 
Con un gesto secco chiudo il bagagliaio della Camaro, dopo averci infilato dentro uno zaino con le poche cose che mi serviranno per il viaggio.
 
“Pensavi di andartene così, senza una parola? Per fortuna Ric mi ha detto quello che stai per fare.”
 
Di nuovo lei, Elena. Che diavolo ci fa qui? Stringe gli occhi dentro i miei, si passa una mano fra i capelli. È nervosa, anche se non vuole darlo a vedere.
Ma quello che mi preoccupa di più è la sacca nera che stringe fra le mani, aggrappandovisi come se fosse un appiglio vitale. Cosa pensa di fare?
 
“Oh no… no, no, no!” esclamo, allungando la mano davanti a me come per allontanarla. Ma lei non si lascia intimidire. Mi supera, apre la portiera e infila la borsa nell’auto, per poi tornare a guardarmi dritto negli occhi.
 
“L’hai detto tu. Time out. Per Stefan. Anche io ho la mia parte di responsabilità in tutta questa storia, e voglio aiutarti a riportarlo a casa. Gli ho promesso che gli sarei stata vicino ed è quello che intendo fare.”
 
Rimango in silenzio. Per una volta sono rimasto senza parole, incapace di ribattere.
So solo che questa cosa non potrà che portare guai, ne sono certo. Ma Elena non sembra voler accettare compromessi questa volta, non se si tratta di salvare Stefan da sé stesso.
 
“Che fai lì impalato? Sali in macchina.”
 
 

 
*********
Ciao e scusate per il ritardo… ma non sto molto bene fisicamente in questo periodo, e poi ammetto che quello che vi ho propinato mi spaventa un po’ (strano vero??).
E’ un capitolo transitorio se volete, ma necessario per prepararci al futuro. Alla fine ho deciso di pubblicarlo altrimenti avrei finito per sclerare come al solito :D quindi ecco qua.
Prima di tutto, spero che i ragionamenti che Elena fa col padre alla seconda non siano troppo contorti o pesanti da leggere… io penso che nella vita a volte valga la pena rischiare, prendere decisioni impopolari piuttosto che far contenti tutti senza essere sinceri con nessuno… il messaggio è un po’ questo, spero sia arrivato. Elena ha capito che con Damon sarà tutto o niente, non può fare una scelta a metà.
Forse però non ha ancora deciso da che parte stare, e poi arriva la situazione Stefan a mischiare le carte in tavola e ridefinire le priorità. Riguardo a questo ultimo punto, spero di non avervi confuse.
Quello di Stefan non è uno “scappare” ma più che altro un “ribellarsi”… lo vedremo meglio poi, ma forse anche lui si è stancato di tutto quel grigiore.
E per finire abbiamo i Delena on the road che si prendono un time out dai loro problemi per riportarlo a casa. Insomma, tanto per cambiare ho incasinato tutto per bene.
Ringrazio tutte tutte, chi legge, segue, ricorda, preferisce e recensisce incoraggiandomi con parole preziosissime. C’ho la lacrima facile, e con lo scorso capitolo mi avete proprio stesa! Vi adoro sempre di più, è inutile!
PS La storia, l’avrete capito, proseguirà per diversi capitoli. Credo di riuscire a mantenere un ritmo di aggiornamento sui 10-15 giorni più o meno. Se sono lenta, è solo per via di nausea, debolezza e altri simpatici disturbi gravidici :P
 
Baci, Chiara

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Capitolo 14
*** Beyond good and evil ***


CAPITOLO 12 – BEYOND GOOD AND EVIL
 
You can't go on thinking nothing's wrong
Who's gonna drive you home tonight?
Who's gonna pick you up when you fall?
Who's gonna pay attention to your dreams?
***
Non puoi andare avanti pensando che niente sia sbagliato
Chi ti accompagnerà a casa stanotte?
Chi ti rialzerà quando cadrai?
Chi darà attenzione ai tuoi sogni?
 
Drive – The Cars
 
 
“Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. (...) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera,
 grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola,
di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà.”
 
Al di là del bene e del male – Friedrich Nietzsche
 
 



Elena
 
Centoventotto.
 
Sono i minuti trascorsi da quando ho preso posto sul sedile del passeggero di quest’auto.
Le parole che ho scambiato con Damon, invece, sono decisamente meno. Suppergiù un paio.
E se dovessi contare le volte in cui mi ha guardata, credo che il numero propenderebbe decisamente verso una cifra tonda: lo zero.
Per tutto il tempo ha tenuto gli occhi fissi sulla strada, limitandosi a guidare e cambiare stazione radio di tanto in tanto, mentre io me ne sono stata qui, schiacciata contro la pelle scura del sedile, con un braccio appoggiato sulla portiera e le dita che, di tanto in tanto, tamburellano appena sulla lamiera celeste resa rovente dal sole e dall’asfalto, quasi perfino loro avessero paura di interrompere il silenzio surreale che ci avvolge.
 
La cosa peggiore è sapere che probabilmente ha ragione lui, almeno in parte.
Mi sono nascosta dietro alle mie paure e alle mie ambiguità, lui mi ha respinta, e poi è ricomparso e scomparso un’altra volta, lasciandomi piena di incognite e di vuoti, di mancanze e di perché.
Una cosa è certa: i nostri tempi non coincidono mai. Così Damon mi ha semplicemente ignorata per tutto il tempo, quasi fossi solo un bagaglio in più da trascinarsi dietro nel viaggio improvvisato alla ricerca di suo fratello.
Lo so perché io, a differenza sua, non ho potuto fare a meno di guardarlo.
Senza farmi notare, è chiaro. L’ho spiato.
 
I miei occhi si sono insinuati furtivamente fra i suoi capelli neri, disordinati come sempre e scompigliati dal vento, per poi scendere lungo la linea dritta della fronte a caccia di pensieri, i suoi pensieri.
Hanno indugiato su quelle labbra piene, hanno percorso le sue braccia forti, hanno disegnato quelle mani che per tutto il tempo non hanno fatto altro che stringere il volante quasi avessero voglia di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa.
Hanno cercato i suoi occhi seri nascosti dai Ray Ban scuri, gli stessi che indossava quel giorno tempo fa, quando mi ha riaccompagnata a casa e per la prima volta mi ha lasciato intravvedere un po’ di quel dolore che ho sempre percepito nelle sue parole e dentro a quello sguardo pieno di cielo e di pioggia.
Quanto tempo è passato da allora? Mesi, giorni, minuti… non saprei dirlo con esattezza.
 
Era tutto diverso, o forse eravamo uguali ad oggi.
Intrisi della stessa paura, quella di guardarci troppo a fondo per scoprirci parte dello stesso sentimento, della stessa attrazione che ci bruciava dentro senza che avessimo il coraggio di dircelo.
Abbiamo finito per ritrovarci vicini, troppo vicini per non scottarci, e adesso è tardi per pentirsene. Le cicatrici sono qui, su di noi, in mezzo a noi.
Sono in questo viaggio che ci riporta al punto di partenza, da chi abbiamo ferito e calpestato, ignorando i suoi sentimenti a favore dei nostri.
Sono in questo silenzio che ci separa senza dividerci veramente, che riesce a ferirmi di più ad ogni secondo che passa.
 
Possiamo continuare per sempre a rincorrerci e respingerci, ma tu sei e resterai lo stesso Damon di quel giorno, sperduto e solo, misterioso come gli angeli.
E io chi sono? Cosa voglio? Riportare indietro Stefan, chiedergli scusa… e poi?
Voglio ancora danzare negli oceani profondi dei tuoi occhi?
Non oso rispondere e comunque, le priorità ora come ora sono altre.
 
Senza pensarci allungo una mano verso l’autoradio. Premo più volte il pulsantino nero sulla destra e cambio stazione, fino a che il gran casino prodotto dal fastidioso gruppo punk che Damon si ostinava ad “ascoltare” viene sostituito da una melodia più in sintonia col flusso disordinato dei miei pensieri.
Non so perché ma mi piace. Sembra volerci fare compagnia mentre ci lasciamo alle spalle la strada costiera con i surfisti in cerca dell’onda buona, per raggiungere Monterey e le sue file di cipressi piegati dal vento.
 
“Si può sapere che diavolo fai?”
 
Sei parole. Centotrentuno minuti.
 
Se avessi saputo che era sufficiente toccare l’autoradio per far parlare Damon, lo avrei fatto prima.
 
“Tutto quel rumore mi stava facendo venire il mal di testa, Damon.”
 
“Sempre meglio di questa robaccia.”
 
Lo sento sbuffare e sono certa che stia alzando gli occhi al cielo, approfittando del fatto che non posso vederlo. Per tutta risposta metto su un’espressione imbronciata, mentre con la punta di un dito percorro la cucitura dei miei jeans.
 
“È malinconica…” mi giustifico.
 
“Oh, andiamo Elena. È degna di un film porno anni ottanta!”
 
Si gira verso di me, gli occhiali scivolano un po’ in giù, abbastanza per scontrarmi con tutto l’oceano che si agita dentro ai suoi occhi e tutto intorno a noi.
Finalmente ricambia il mio sguardo, piegando le labbra in un lieve sorriso che si specchia nel mio. Non diciamo nient’altro, ma l’atmosfera cambia in un secondo.
È troppo facile abbandonarsi a quel sorriso, basta così poco per ritrovarci, quelli di sempre. Basta niente per lasciarlo entrare e riscoprirmi fragile, ancora e sempre, davanti a lui.
 
 
 
Damon
 
Per tutto il tragitto l’oceano non ci ha mai abbandonati, così come le scogliere a picco sul mare, le onde alte che sembrano volerci sbattere contro e il cielo grigio e terso che ci sovrasta.
L’aria è carica di un profumo forte, che entra nelle narici e si appoggia sulle labbra ricoprendole di un velo salmastro, un miscuglio fra l’odore del mare e quello umido del bosco che ci scorre accanto.
Me lo ricordo bene, mi ricordo tutto. È l’essenza della mia infanzia e di quella di Stefan.
Non posso proprio fare a meno di passeggiare nel dannato viale della memoria, tornando ai giorni in cui la mia era una famiglia normale, così come non riesco a non pensare che se Stefan è finito a San Diego percorrendo questa stessa strada, non l’ha fatto solo per Lexi.
 
Forse si ricorda anche lui di quand’era ancora un moccioso e delle gite della domenica insieme a me, Giuseppe e nostra madre.
Io e mio fratello stavamo tutto il tempo con la testa fuori dal finestrino a catturare con lo sguardo ogni centimetro della “17 miles Road”.
Ci piaceva il mare. Stefan diceva sempre che da grande avrebbe voluto diventare biologo marino oppure medico, e tutte le volte costringeva nostro padre a fermarsi all’acquario di Monterey per vedere le meduse. In mezzo a quelle creature luminose e inconsistenti regnava un misterioso senso di pace. A quel tempo non c’erano ancora colletti bianchi all’orizzonte, nessuno avrebbe potuto immaginare quello che saremmo diventati.
 
Sembra strano correre di nuovo lungo questa strada per raggiungere un pezzo della mia famiglia, quello più importante, con la piccola e insignificante variante costituita da Elena, che dorme al mio fianco lasciandosi spettinare dal vento.
Sembra strano perché sembra reale. Io e questa bambina esasperante, sembriamo reali.
Non riesco a fare a meno di pensarlo, né di desiderarlo, nonostante la rabbia che provo verso di lei. Perché lo sono, arrabbiato. Arrabbiato, frustrato, incazzato a morte col suo modo di fottermi il cervello e con l’impossibilità di farne a meno o semplicemente trovare una via d’uscita a questo circolo vizioso.
Se dentro di me fosse rimasto un briciolo di amor proprio, o quanto meno di razionalità, avrei dovuto cacciarla da casa mia prima che si infilasse in quest’auto, rendendomi impossibile rimettere in ordine la scala delle mie priorità. Perché con lei nei paraggi, la mia mente è offuscata da mille pensieri contrastanti, che oscillano tra la rabbia nei suoi confronti e il  desiderio insistente di accostare la macchina e ricordarle tutti i motivi per cui ci siamo infilati in questa situazione del cazzo.
Se non altro, sono molto bravo a fingere che la sua presenza mi sia del tutto indifferente.
 
Un impercettibile fremito di ciglia.
Elena si risveglia, si allunga appena per stiracchiarsi, soffoca uno sbadiglio.
 
“Devo dirtelo, come navigatore sei pessima.” esordisco, ben attento a non staccare più gli occhi dalla strada per evitare di scontrarmi con i suoi.
 
“Mi sa che hai ragione…” mormora lei, ancora assonnata.
 
Si sfila le scarpe, appoggia i piedi nudi sul sedile scuro con naturalezza, si abbraccia le gambe come è solita fare, la testa per aria quasi a voler cogliere ogni sfumatura del paesaggio che ci sfreccia attorno. Lo sguardo rimane perso verso un punto indefinito, inseguendo pensieri inaccessibili che forse assomigliano ai miei.
 
“Tieni giù quei piedi!” la rimprovero, rivolgendole un’occhiata minacciosa a cui lei risponde con una smorfia ironica. Solleva il mento con aria saccente, stringendo gli occhi come a volermi sfidare.
 
“Damon Salvatore. Vuoi dirmi che anche tu fai parte della schiera di uomini fissati con la propria auto?”
 
“Bada a come parli. Punto primo questa non è un’auto qualsiasi, ma una Camaro del ’67. Secondo, la mia ragazza ha una lunga storia, ma tu non puoi saperlo…”  ribatto sarcastico, allungando una mano per spingerle via le gambe e prolungando quel contatto un secondo di troppo sperando che le faccia male almeno quanto ne fa a me.
Lei mi lascia fare, i suoi occhi tremano un secondo. Forse è solo un’altra delle mie fottute illusioni.
Poi abbandona la testa sul sedile, mi osserva, sorride leggera. Me lo sento addosso da un po’ quel suo sguardo silenzioso, ma non ho ancora capito se la cosa mi disturba o mi piace.
 
“Perché non me la racconti?”
 
E non lo so, forse è perché la passeggiata fra i ricordi ha preso il sopravvento sulla mia volontà. Forse è perché me lo sta chiedendo lei, con quella voce ancora impastata dal sonno, che polverizza qualsiasi barlume di istinto di sopravvivenza mi sia rimasto. Forse è perché si, ho ancora bisogno di pensare a me e Stefan, il gigantesco elefante dentro quest’auto, come eravamo prima. Forse perché così mi metterò in testa di stare lontano da Elena Gilbert.
 
Qualunque sia il motivo, lo faccio: torno indietro nel tempo.
 
Le racconto di qualche anno fa, quando ho preso la patente.
Mio padre non avrebbe avuto problemi ad aprire il portafoglio e comprare qualsiasi auto dal concessionario più vicino. Ho scoperto più tardi che quello era il suo modo semplice e indolore di pulirsi la coscienza.
Ma io volevo lei, e non solo per il gusto di contraddirlo.
La vedevo tutti i giorni, parcheggiata nel giardino del nostro vicino, coperta da un telo, abbandonata.
Era un rottame e Giuseppe voleva ammazzarmi quando l’ho portata a casa, dopo aver racimolato i soldi necessari risparmiando per un anno intero, testardo come sono sempre stato.
 
Io e Stefan abbiamo lavorato fianco a fianco per tutta l’estate per sistemarla.
Avevamo un progetto da portare avanti insieme, eravamo complici, io ero ancora il suo fratello maggiore. Sembra un’altra vita. Allora non esistevano assurdi piani per il suo futuro, servizi sociali o donne nate per complicarci la vita.
 
“Sono felice che abbiate condiviso tutto questo. Sono certa che non lo ha dimenticato, Damon.” mormora Elena, la testa ancora abbandonata sul sedile.
 
“Lo riporteremo a casa.” aggiunge poi, la voce come un sussurro.
 
Non rispondo, preferisco a guardare la strada e tutto quello che sta intorno. Alberi, colline, distese di terra bruciata, il sole che sta tramontando rapidamente davanti a noi.
Voglio riportare a casa Stefan, lo voglio davvero.
E allo stesso modo, voglio Elena. La voglio ancora, sempre, nonostante tutto.
Nonostante non abbia esitato un secondo a tornare sui suoi passi, né quando è stata ora di mettere da parte ogni cosa per il bene… di mio fratello, chiaramente.
 
“Penso sia meglio fare una sosta Elena. Facciamo il pieno, ci riposiamo un po’ e ripartiamo domattina.”
 
“Ok.” risponde, irrigidendosi all’istante, terrorizzata dall’idea di superare il confine che ancora una volta abbiamo provato a tracciare.
 
“Puoi stare tranquilla, non ho intenzione di approfittarmi di te, ragazza virtuosa in missione di salvataggio. Comunque, ci fermiamo da una mia amica.”
 
“E dove?”
 
“Los Angeles, baby.”
 
 
 
Elena
 
La città degli angeli è letteralmente un fulmine a ciel sereno che ci investe con i suoi colori sgargianti dopo chilometri di nulla.
Damon non mi lascia il tempo di abituarmi a quell’imponente massa di edifici e di vita, perché svolta quasi subito per una strada secondaria e poco frequentata che ci conduce nella parte nord della downtown.
Poco dopo entriamo in un quartiere residenziale molto tranquillo, dove belle case colorate dal tetto spiovente si susseguono una dopo l’altra.
Per tutto il tempo non riesco a fare a meno di domandarmi chi sia questa misteriosa amica che Damon tiene tanto ad incontrare, fingendo di ignorare quanto la cosa mi infastidisca e quanto questo sia fuori luogo.
Dopotutto, dobbiamo andare a riprendere Stefan. Che senso ha fermarsi da questa tizia come se fossimo in gita di piacere?
Naturalmente, tengo per me i miei pensieri, lasciando vagare lo sguardo tra i giardini ordinati e i vialetti bianchi.
 
“Dovrebbe essere questa.” mormora lui fra sé e sé, mentre accosta l’auto a una casa dipinta di un curioso color blu cobalto, che si distingue da tutte le altre.
Ormai è scesa la sera, che avvolge ogni cosa in una tranquilla penombra, e rende ancor più uniforme il quartiere.
Non appena Damon mette piede fuori dall’auto le luci all’interno della casa si illuminano e la porta si spalanca, lasciandomi intravvedere la sagoma di una ragazza vestita di un semplice paio di jeans e una maglietta bianca, che si affretta verso di noi, per poi gettare le braccia al collo di Damon. Si abbracciano stretti, senza parlare.
Me ne sto in disparte, a braccia conserte, percorrendo con lo sguardo i suoi lineamenti perfetti e quegli occhi grandi e azzurrissimi che contrastano con la sua carnagione olivastra.
L’amica di Damon è davvero bella, non c’è che dire.
 
“Dovevo aspettare che Stefan facesse la prima cazzata della sua vita per rivederti. Mi sei mancato.” bisbiglia.
 
Lui le risponde qualcosa che non riesco a captare, mentre lei ha già posato lo sguardo su di me, rivolgendomi un’espressione che si potrebbe definire amichevole, come se già mi conoscesse.
 
“Tu devi essere Elena.” sorride, avvicinandosi e tendendomi la mano. Dita sottili e fredde stringono forte le mie. “Piacere di conoscerti. Io sono Rose.”
 
 
Poco dopo ce ne stiamo seduti tutti e tre attorno al tavolo da pranzo, ognuno con una birra davanti. Damon ha rimproverato Rose per non aver pensato ad acquistare del bourbon per celebrare il loro incontro, lei lo ha rimbrottato amichevolmente, lui ha abbozzato, io li ho guardati tutto il tempo sentendomi di troppo e, contemporaneamente, sentendomi un’idiota per il mio sentirmi di troppo.
Questa casa è piacevolmente disordinata e accogliente e Rose è stata molto dolce, eppure è stato inevitabile cogliere quegli sguardi pieni di parole solo loro, quei discorsi silenziosi che hanno irreparabilmente solleticato la mia… curiosità.
Perché lei sembra conoscere molte cose di Damon, parti di lui che a me sono inaccessibili.
Del resto, lui me ne aveva già parlato. Rose è la sua migliore amica, quella per cui farebbe qualsiasi cosa.
La donna che ha cercato di proteggere a modo suo, finendo per distruggere la faccia di un tizio e beccarsi sei mesi di servizi sociali senza battere ciglio.
 
Non posso fare a meno di notare che Rose non appare più come la persona afflitta da una relazione andata male che Damon mi aveva descritto a suo tempo.
Nelle sue parole e nei suoi gesti ho visto invece la determinazione una donna forte, decisa a riconquistare la propria vita con le unghie e con i denti.
Da quello che ho capito, si è trasferita qui, a casa di una cugina, dopo la rottura con Kol, e da qui ha ricominciato, ricostruendo poco a poco la sua vita, allontanandosi da tutto quello che l’aveva ferita e umiliata.
Adesso ha un nuovo amore, sogna di aprire un caffè letterario, ha progetti, ambizioni, traguardi da raggiungere. È una donna da ammirare, una che ha saputo rialzarsi e ora sa esattamente quello che vuole.
 
“Ok, perché non ci prepari qualcosa per cena, grande chef, mentre io ed Elena usciamo a fumare una sigaretta?” sbotta all’improvviso Rose, ammiccando verso di me.
 
“Veramente io non f…”
 
“Oh, è lo stesso.” ribatte lei, prendendomi sottobraccio e trascinandomi verso la veranda. Faccio appena in tempo a scorgere l’espressione contrariata di Damon, che tuttavia non dice niente e si dirige in cucina.
 
Una volta fuori, Rose prende posto sul dondolo bianco che occupa buona parte del piccolo portico e si accende una Winston blu, tirandosi al petto le gambe fasciate da jeans scoloriti.
Io rimango in piedi, gli occhi incollati al marciapiede, le mani strette al legno bianco della balaustra. La strada è silenziosa, si percepisce solo il lieve cigolio del dondolo che si muove appena. E io mi sento a disagio, tremendamente a disagio.
Temo che la sua perspicacia si spinga troppo in là e una sensazione spiacevole si arrampica fastidiosamente dentro di me, costringendomi a fare di nuovo i conti con tutta la confusione che mi domina.
Come previsto le parole di Rose non tardano ad arrivare, e nemmeno la frase scomoda “Così tu sei la ragazza di Stefan.” a cui io rispondo con un frettoloso “Lo ero.” seguito da un silenzio glaciale.
 
“E Damon?”
 
Eccola lì, la domanda che mi aspettavo, quella che mi assilla.
Quella a cui non vorrei mai dover rispondere, nemmeno quando sono io stessa a rivolgermela. Prendo fiato, respiro, mi volto verso di lei con l’aspettativa di dover fronteggiare la sua disapprovazione.
Invece, quello che incontro è uno sguardo comprensivo e un sorriso sbieco che assomiglia tanto a quello del suo migliore amico. Il sorriso di chi sa già tutto.
 
“Damon… mi ha colta di sorpresa. Mi è entrato nel sangue e qualsiasi cosa io faccia o dica, non riesco a liberarmene. Continuo a ritrovarmelo nel cuore, e sono talmente egoista da non riuscire a lasciarlo andare via.” ammetto, tormentandomi le mani e stupendomi di come questa confessione, detta ad alta voce e tutta d’un fiato per la prima volta, mi abbia fatta sentire più lieve.
È così facile essere deboli, sarebbe così bello non dover celare un’emozione, una lacrima, senza dover continuamente far spazio dentro per nascondere tutto. Ed è strano come spesso sia più semplice parlare con chi in fondo, di noi non sa un bel niente.
 
“E’ una follia, non credi?” aggiungo poi, scuotendo la testa e ritornando alla realtà, mentre un sorriso amaro mi si dipinge in viso.
Lei ci riflette un attimo, poi mi guarda con aria scettica e prende una lunga boccata dalla sua sigaretta prima di spegnerla e tornare a fissarmi.
 
“Se lo conosci un po’ dovresti sapere che Damon non è una persona di cui ci si può liberare facilmente.  E per quanto tu consideri folle tutto questo dovresti riflettere sull’idea di dargli un’opportunità.”
 
“Ti stai dimenticando di Stefan. Di quanto siano importanti l’uno per l’altro. Questa cosa finirebbe per distruggerli e io non voglio che accada.”
 
“Allora perché sei qui? Perché ti senti in colpa, Elena?” mi interrompe lei, alzando appena la voce. Basta questo ad intimorirmi e ammutolirmi per un attimo.
L’istinto mi guiderebbe a mandarla a quel paese. Ci conosciamo da quanto, cinque minuti? Eppure non posso farlo, perché lo so, lei ha ragione e io torto.
Avrei voglia di arrendermi per un minuto, uno soltanto. Lasciare andare tutto quello che mi esplode dentro senza pensare alle conseguenze.
 
“Non lo so Rose. Da quando lui è entrato nella mia vita, faccio tutte le scelte sbagliate, non ho più il controllo di niente, né di me stessa. E questo mi spaventa più di ogni altra cosa.”
 
“Non lasciarlo andare via, Elena.” ribatte, con una determinazione che mi sorprende. “Scusami, lo so che non sono affari miei.” si giustifica subito dopo, alzandosi e facendo due passi in mia direzione fino ad appoggiare la sua mano esile sulla mia spalla.
 
“Tendo a essere iperprotettiva nei confronti di Damon, esattamente come lui lo è nei miei. Del resto è l’unica persona che si è presa cura di me nel momento più oscuro della mia vita. Sai, non è stato per niente facile con l’aborto e tutto il resto…”
 
Sollevo lo sguardo nel suo, senza riuscire a capire né a spiccicare una parola.
 
“Come immaginavo. Non ti ha detto niente.”
 
 
 
Damon
 
Per tutta la durata della cena, Elena è rimasta in silenzio.
 
Non ha fiatato quando Rose ha ricordato con rimpianto le nostre sbronze colossali, non ha parlato quando l’ho presa in giro, raccontando dei suoi disastrosi esperimenti culinari solo per il gusto di sfotterla o quantomeno suscitare una reazione, spronarla a mettermi al mio posto, come le piace tanto fare.
 
È evidente che quelle due si sono dette qualcosa, qualcosa che mi riguarda.
Ovviamente, quando ho avvicinato Rose con la scusa di aiutarla a sciacquare i piatti, lei ha negato ogni cosa, limitandosi a sorridermi e suggerirmi un vago “Non avere fretta, non rovinare tutto come al solito.” che non ho capito fino in fondo.
 
“Damon Salvatore… che hai combinato con quella ragazza?” mi ha chiesto, puntandomi gli occhi addosso con quella sua capacità innata di leggermi dentro e innescando il mio solito giro di pensieri che mi ha portato a chiedermi perché, per Elena, per la prima volta nella mia vita ho voluto sentirmi diverso. Sentirmi giusto per lei, perché così come sono so di essere totalmente sbagliato.
 
“Sei innamorato di lei?”
Non lo so, ci devo pensare. Forse sono ancora in tempo per scappare via da tutto questo, addormentarmi l’anima ancora una volta.
 
Senza nemmeno rendermi conto di esserci arrivato, parcheggio l’auto nel piazzale del piccolo motel di periferia che Rose ci ha consigliato, mentre Elena continua testardamente a tenere gli occhi bassi e le braccia incrociate, con un’espressione assente che non ho voglia di decifrare.
Io sarò un mago degli sbalzi d’umore, ma di certo lei non è da meno.
Rimaniamo fermi per qualche secondo, a respirare l’aria calda e umida della sera.
La luce di un lampione illumina il suo profilo, facendolo sembrare quasi bianco, etereo.
Poi la vedo scendere dall’auto come un automa e afferrare la sua sacca in silenzio.
Non reagisce nemmeno quando gliela sfilo dalle mani e me la carico in spalla, dirigendomi all’interno per ritirare le chiavi.
 
“Questa dev’essere la tua.” dico alla fine, quando ci ritroviamo di fronte alla porta grigia in fondo al corridoio. Le passo la chiave, lei la prende e trattiene anche la mia mano nella sua.
Per qualche istante rimango immobile, fissando quelle dita pallide che si intrecciano alle mie. Non riesco a capire e mi sento in trappola, una volta di più.
 
“Perché non mi hai detto quello che hai fatto per Rose?” bisbiglia, fissandomi con quegli occhi umidi di una nuova e inaspettata dolcezza.
 
“Non so di cosa parli.”
 
“Il bambino Damon. E tutto il resto. Perché mi hai lasciato credere di essere un violento, un pazzo?”
 
“Piccolo promemoria per te, Damon. Mai lasciare due donne, per giunta pettegole, da sole.” rispondo, piegando le labbra in una smorfia infastidita e visualizzando mentalmente ogni parola con cui ho intenzione di apostrofare Rose non appena mi sarà possibile. Eppure non lascio la mano di Elena, così come lei non accenna a cedere al mio tentativo di sviare.
 
“Una volta mi hai detto che ad essere superficiali ci si guadagna in spensieratezza. Non vuoi lasciare che le altre persone vedano il buono che c’è in te?”
 
No, vorrei rispondere. Non voglio indossare l’armatura dell’eroe per piacerti di più.
Voglio che tu mi veda così, che tu mi scelga così. Senza maschere. Almeno tu.
E voglio essere in tempo, almeno questa volta.
 
La guardo, una sagoma scura contro la porta grigia, maledico il mio cuore che accelera i suoi battiti, quel sangue che bolle perché pieno di lei. Lei che è la mia croce, la mia malattia.
Spingo una mano contro la porta, oltre le sue spalle, fino a che a dividerci sono solo i suoi respiri sempre più veloci. Quegli occhi che non lasciano i miei, non ancora, le sue labbra che si schiudono. Di stupore, mi dico, soltanto questo.
Forse adesso si, adesso vorrei baciarla, potrei farlo e dimenticare ancora una volta tutto il mondo lì fuori. Potrei prendere il suo viso fra le mani, portarmi via ancora una volta il sapore dolceamaro di quelle labbra umide, toccarla ancora, sentir tremare per me quel suo corpo che si incendia fra le mie mani. Perché a me quel fuoco piace. Ma poi? Domani sarò in grado di accontentarmi di un’altra carezza a metà?
 
“Sarebbe cambiato qualcosa?” le chiedo.
 
Non risponde, continua solo a respirare veloce, mentre le palpebre si abbassano piano una o due volte, a tradire le sue eterne insicurezze.
Voglio essere in tempo, l’ho già detto. Non per conquistarla, ma per andare via da lei, perché adesso è davvero troppo tardi.
 
“Come immaginavo.” sibilo fra i denti.
E questa volta non le lascio il modo di scappare via da me.
Questa volta sono più forte io, più forte di tutto.
Questa volta mi allontano, la lascio andare.
 

 
 
*********
Ciao a tutte!
Scusate la scandalosa lentezza ma sto sempre da schifo e finite le mie dieci ore di lavoro ho solo voglia di dormire per non pensare a quanto sto da schifo. A quanto pare però, è sintomo che laggiù va tutto bene!
Inoltre, sebbene la struttura del capitolo sia pronta da tempo, l’ho rivisitato molte volte finendo per impazzirci dietro come al solito e propinarvi l’ennesimo flusso di coscienza.
Prima cosa: perdonatemi se ho scomodato addirittura Nietzsche per dare il titolo.
Tanto per bilanciare, concordo con Damon sul giudizio relativo alla canzone che ascoltano :P
L’ho sentita passare per radio per caso mentre pensavo al capitolo e mi ha ricordato quei cd stile “100 canzoni per un lungo viaggio” che ci sono sempre nella macchina del padre della mia dolce metà… vedete, non sono normale! C’ho la fissa del viaggio, e penso che non ci sia niente di meglio di partire con la persona che ami, magari un po’ allo sbaraglio. Ok, ok… qui c’è qualche complicazione di troppo.
Vi aspettavate questa sosta da Rose? Avevo voglia dare spazio un po’ anche il suo personaggio e attendevo da tempo questo viaggio per poterlo fare, sin dai tempi in cui ci sono state le prime rivelazioni sul suo conto.
Ok, spero che il tutto sia stato comunque leggibile, non troppo pesante e che nonostante tutto (lentezza mia, vacanze, estate ecc. ecc.) prima o poi sarete ancora qui.
Come sempre grazie infinite per il vostro preziosissimo sostegno. Siete VOI, con le riflessioni bellissime che sempre mi lasciate, a mandare avanti questa storia. Quindi, grazie di cuore!
Un bacio grande
Chiara

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Capitolo 15
*** Give up the ghost ***


CAPITOLO 13 – GIVE UP THE GHOST
 
 
I think I should give up the ghost
In your arms (Don’t hurt me)
***
Penso che dovrei arrendermi al fantasma
Tra le tue braccia (Non ferirmi)
 
Give up the ghost – Radiohead
 
 
“Nella vita ci sono cose che ti cerchi
e altre che ti vengono a cercare.
Non le hai scelte e nemmeno le vorresti,
ma arrivano… e dopo non sei più uguale.
A quel punto le soluzioni sono due:
o scappi cercando di lasciartele alle spalle
o ti fermi e le affronti.
Qualsiasi soluzione tu scelga, ti cambia,
e tu hai solo la possibilità di scegliere
 se in bene o in male”
 
Io uccido – Giorgio Faletti
 
 
Damon
 
“Eccoti il conto di entrambe le camere, proprio come mi hai chiesto… Damon.”
 
La ragazza della reception lascia scivolare il documento sul bancone, non prima di averlo palesemente sbirciato e averci letto il mio nome per poi lasciarlo cadere lì, in fondo alla frase, con un tono pieno di allusioni e doppi sensi.
La guardo, le sorrido lievemente ironico fino a che lei arrossisce un po’. Beccata.
Conosco bene il suo gioco dato che l’ho inventato io stesso.
Lei, che mi pare abbia detto di chiamarsi Alexis, stringe gli occhi scuri e si morde casualmente un labbro, mentre, sempre casualmente, si sposta con una mano i capelli dal collo per lasciarmi ammirare meglio la maglietta troppo scollata che indossa e la sua pelle abbronzata da perfetta ragazza californiana.
D’altronde in questa minuscola stanza c’è un caldo soffocante e il piccolo ventilatore poggiato sul pavimento non fa altro che spostare aria rovente da una parte all’altra. Povera Alexa.
 
Faceva caldo anche ieri sera, quando, dopo essermi lasciato alle spalle Elena e i suoi ripensamenti dell’ultimo minuto, sono sceso qui a chiedere indicazioni per il minimarket più vicino con la speranza di trovarne uno aperto e rimediare una bottiglia di buon bourbon.
O anche bourbon scadente, per una volta mi sarei accontentato.
Quello che volevo veramente era non cedere alla tentazione di tornare sui miei passi, dire tutto quello che non avevo voluto dire, trascinare Elena fuori da quella stanza o proporle di scappare con me ovunque, lontano da tutto.
 
Comunque, anche ieri sera c’era Alyssa, o Alexia… o come si chiama.
Un viso mediocre su un corpo da urlo, belle tette e un culo perfetto.
E mi guardava con la stessa faccia che ha adesso, quella che nel suo linguaggio in codice sta a significare “ti prego scopami immediatamente dietro al bancone”. Più o meno.
Forse avrei potuto farlo davvero e semplificare in modo immediato e straordinariamente veloce la mia vita.
Invece, a dimostrazione che sono diventato un coglione senza speranza, ho dato la buonanotte a questa bella biondina e ho scelto la via dell’alcol.
Un’altra notte insonne è passata senza che nemmeno me ne rendessi conto, mentre sollievo e angoscia si mescolavano in ogni bicchiere.
Poi stamattina, quando uno spicchio di luce arancione si è allargato sul pavimento, ho buttato le mie cose nella sacca, ho infilato una maglietta e gli occhiali e sono sceso a pagare.
 
“Sicuro che non ti serva proprio nient’altro Damon?” mi dice adesso la receptionist col nome che inizia per “A”, sporgendosi un po’ più in avanti, lo sguardo puntato dritto nel mio.
 
“E tu?” chiedo a bassa voce, recuperando un barlume del vecchio me.
Si, a volte mi manco un po’.
Il ventilatore ronza in sottofondo quando quegli occhi bistrati di nero smettono di perforare i miei per fissarsi oltre le mie spalle, verso un punto indefinito.
 
“Io sarei pronta. Quando vuoi…”
 
Una voce familiare e parecchio ostile mi arriva alle spalle.
Quando mi volto, la porta è ancora spalancata ed Elena sta già camminando verso la Camaro.
Mi prendo un attimo soltanto per rincorrere con lo sguardo quelle gambe lunghe, fasciate nei soliti jeans, che si muovono frettolosamente allontanandosi da me.
E quelle gambe lì, mi dico, sono tutta un’altra storia. Maledizione.
 
“Ci vediamo.” butto lì distratto, salutando la biondina con un cenno del capo. Lei scuote la testa delusa e torna a farsi vento con un blocchetto di ricevute.
Un attimo dopo sto aprendo la portiera del lato passeggero ad un’Elena imbronciata.
 
“Accomodati.” dico, senza trovare nulla di più adeguato da inventarmi per farle cambiare umore. Lei non se lo lascia ripetere, si infila in macchina, allaccia la cintura e incrocia le braccia sul petto con aria stizzita.
 
“Sarebbe questo il tuo modo di punirmi Damon?”
 
“Non so proprio di cosa stai parlando.” rispondo neutro, sforzandomi per trattenere una risata e osservando con la coda dell’occhio la sua espressione sbalordita.
 
“Oh, andiamo. Flirtare con quella specie di… di…”
 
“Che tu ci creda o no, non tutto quello che faccio ha a che vedere con te.” ribatto. Elena si abbandona contro il sedile stringendosi le braccia con eccessiva forza.
 
“Bene.” conclude, asciutta.
 
“Bene. E adesso diamoci una mossa.”
 
Non mi preoccupo nemmeno di nascondere la mia faccia da bastardo impunito.
Anzi, vorrei esplodere, dirle senza filtri che la sua pseudo gelosia – perché di questo si tratta – è immotivata e senza senso almeno tanto quanto il mio tentativo di essere superficiale e indifferente. Che tanto lo so, fin dal primo giorno, che con lei non potrò mai interpretare un ruolo, non riuscirò a ripartire, a cancellare, a scappare.
 
Però fa troppo caldo, il sole picchia forte, entrambi stiamo affogando nelle nostre contraddizioni e nel nostro stupido gioco di intermittenze. E, soprattutto, fra un paio d’ore saremo da Stefan.
 
Così metto in moto e riparto.
Tengo gli occhi fissi sulla strada polverosa mentre davanti scorrono le immagini di un paesaggio in continuo mutamento.
Niente più Los Angeles con le sue luci, né spiagge selvagge battute dal vento.
Solo deserto a perdita d’occhio mentre percorriamo la Route 66.
Il vento torrido ci gonfia i vestiti, corriamo sullo stesso cemento che Elena ha attraversato mille volte, guardando i tanti film ambientati su questa stessa strada dal microscopico divano di casa sua, da brava ragazzina sognatrice.
 
“Manca molto?” chiede, interrompendo il ronzio meccanico che ha riempito il nostro silenzio per tutto il tragitto.
 
“Arriveremo in tempo. Lexi ci sta aspettando.”
 
 
Elena
 
Più passano i minuti, più mi rifiuto di pensare. Desidero soltanto essere invisibile e smettere di chiedermi cosa ci faccio qui, in questa macchina, verso l’uomo che ho lasciato, accanto a suo fratello che non riesce ad essermi indifferente.
Smettere di chiedermi se ieri sera avrei dovuto fare qualcosa di più, per una volta, invece di lasciarlo andare. Nemmeno la scena con quella bionda slavata  mi sembra una buona scusa per sentirmi meno in colpa e ritirarmi dalla situazione in cui mi sono andata a cacciare.
 
“L'homme croit souvent se conduire lorsq'il est conduit; et pendant que par son esprit il tend à un but, son coeur l'entraîne insesiblement à un autre.”*
 
Chissà perché in questi momenti mi vengono sempre in mente i miei libri, tutte le belle frasi che ho sottolineato e imparato a memoria. Ma la vita, ormai l’ho capito, è ben diversa da una pagina stampata. E forse sarebbe ora di iniziare a viverla sul serio invece di oscillare tra continue incertezze.
Voglio bene a Stefan. Voglio scusarmi con lui, voglio che torni indietro e riprenda in mano le redini della sua vita. E allo stesso tempo, una voce interiore continua a dirmi che sono qui per un altro motivo. E sono incerta, nervosa, esasperata e sempre più convinta che questo viaggio finirà per distruggere ogni cosa.
 
Riavvolgo indietro tutta la storia che mi ha travolta, fin dal momento in cui Damon ha fatto il suo ingresso nella mia vita in modo improvviso e del tutto inaspettato.
E poi Stefan. I giorni felici trascorsi insieme. Una storia molto vera, concreta, stereotipata. Tutto quello che mi ero sempre immaginata dovesse esserci fra me e un uomo.
Allora perché sono venuta qui con Damon?
Stefan che voleva essere quello che ci si aspettava da lui.
Damon che nasconde i suoi slanci e il suo bisogno di amore dietro al pudore e al cinismo.
Che gran casino i fratelli Salvatore e che stupida io a finirci in mezzo, senza rendermi conto che la posta in gioco era troppo alta.
 
Chiudo gli occhi, un’aria torrida mi sferza le guance. Per un tempo indefinito smetto di guardare davanti a me.
Anche quando inspiro di nuovo il familiare aroma del mare, anche quando mi accorgo che  l’auto rallenta e poi si ferma del tutto.
Soprattutto quando sento Damon sospirare forte e poi il sedile che scricchiola sotto il suo peso, un calore lieve e inaspettato sulla guancia e i capelli che mi solleticano la pelle spostati da una mano invisibile.
Stavolta non mento a me stessa fingendo che non sia lui, non mi lascio cogliere impreparata.
Allora spalanco gli occhi e incontro i suoi, tormentati come sempre, la sua espressione sorpresa, la sua mano sollevata a mezz’aria. Il nostro solito gioco al massacro, quel maledetto sentirci sempre in bilico fra un’azione e il suo esatto opposto.
Stavolta scelgo istintivamente di non dissimulare il mio sentirlo sempre e comunque, decido di reggere il suo sguardo e di non avere altri motivi per rimproverarmi.
 
“Mi piacerebbe continuare a giocare con te che fingi di dormire, ma siamo arrivati. E poi qualcuno molto saccente ci sta osservando.” mi gela, stirando le labbra in un sorriso ironico e sollevando le sopracciglia con un gesto più che eloquente.
 
Faccio appena in tempo a ricompormi per poi incrociare lo sguardo indagatore di Lexi, appoggiata alla parete in mattoni rossi del palazzo altissimo davanti al quale Damon ha parcheggiato la Camaro.
In un rapido e inaspettato movimento Damon è già lontano da me, lasciandomi come svuotata. Scende dall’auto facendo sbattere la portiera, mentre io, senza alcuna ragione valida per farlo, mi controllo nello specchietto retrovisore lisciandomi una ciocca di capelli per poi seguirlo un secondo dopo.
 
Lexi lo saluta freddamente, ricevendo in cambio un cenno del capo ed un mugugno altrettanto glaciali. Io e lei ci conosciamo già, da quella volta in cui ha fatto visita a Stefan a San Francisco in occasione di un concerto di Bon Jovi a cui dovevano andare insieme.
A dire il vero lo avevano proposto anche a me, ma francamente detesto Bon Jovi con tutte le mie forze.
A prescindere da questo dettaglio, allora l’avevo trovata simpatica, ma adesso che mi fissa con insistenza e sospetto non sono sicura di poter dire la stessa cosa.
 
“Elena. Non mi aspettavo di vederti.” esordisce, senza preoccuparsi di nascondere tutto il risentimento che evidentemente prova nei miei confronti per aver mollato su due piedi il suo migliore amico. Incasso il colpo senza ribattere, lei molla le chiavi in mano a Damon e gli raccomanda di non fare casini.
Lei andrà al lavoro e al suo ritorno spera di non trovare più nessuno di noi, gli dice, nemmeno Stefan.
 
“Ha bisogno di te, sei la sua famiglia Damon.”
 
Lexi ha ragione, penso, mentre Damon assume un’aria assorta.
Probabilmente sta lasciando depositare dentro di sé quelle parole.
 
“Vuoi entrare con me?” mi chiede, mentre io divento sempre più tesa.
 
“Prima tu.” rispondo. Lui sorride, ma di un sorriso finto, tirato. Anche se non vuole darlo a vedere è evidentemente nervoso, si passa una mano fra i capelli e poi sui jeans.
 
“Chi cazzo voglio prendere in giro?” sbotta, “Stefan mi odia, non so più nemmeno da quanto e perché. Mi manderà a fanculo e mi dirà giustamente di farmi gli affari miei…”
 
È così diverso adesso. Lui che ha vissuto così tanto, che è passato in mezzo a così tanti dolori, adesso è intimorito dal non essere abbastanza forte. Damon e i suoi fantasmi, Damon intriso della sua forza e delle sue debolezze.
Assomiglia tanto a quei ragazzini spavaldi che frequentano il mio negozio.
Ha l’aria di chi nella vita ha visto tutto, eppure nasconde in fondo al cuore uno spiraglio di fragilità.
E io che sono qui davanti a lui, con nulla da offrire se non la mia eterna confusione, e la voglia di far sempre la cosa giusta finendo puntualmente per fare la scelta sbagliata.
 
“Non essere sciocco. Solo tu puoi farlo ragionare. Se tornerà a casa non lo farà certo per me. Ma perché ama te.”
 
Vorrei fare un passo verso di lui, forse toccarlo, di certo infondergli coraggio e dirgli che si, lui porterà a casa suo fratello e andrà tutto a posto perché Stefan gli vuole bene.
Ma poi, memore della reazione di ieri sera, mi blocco ancora una volta sui miei passi, quell’istante di troppo, che basta perché Damon sospiri e scompaia dietro al portone mentre io mi lascio scivolare su un gradino, in attesa.
 
 
Damon
 
Sono quasi intimidito quando abbasso la maniglia dorata e entro nel piccolo soggiorno di Lexi cercando di fare meno rumore possibile.
Non so nemmeno cosa dirgli, penso che tanto per cambiare improvviserò. Eppure, per la prima volta dopo anni, ho la sensazione che io e mio fratello affronteremo un dialogo semiserio.
Il caldo ristagna nell’aria, nonostante le finestre siano aperte. Oltre le tende riesco a vedere la sagoma di Stefan che cammina avanti e indietro sul piccolo poggiolo, con un bicchiere tra le mani.
Lascio vagare lo sguardo intorno, nell’aria che, per motivi diversi, mi sembra sempre più pesante.
Eccola lì, sul pavimento, la famosa sacca da tennis blu. E sul tavolo noto una bottiglia di whiskey piena per metà.
Non c’è che dire, la crisi di mio fratello ha sicuramente migliorato i suoi gusti. Del resto, non tutto il male viene per nuocere, o almeno così dicono.
 
“Hai dimenticato qualcosa Lexi? Sei tu?” chiede, senza guardare dentro.
 
“Molto meglio fratello. Sono io.”
 
“Damon?” esclama stupito, affacciandosi dentro con l’aria di uno che ha appena ucciso un panda. Eppure assomiglia molto più lui a mio fratello rispetto a quella specie di pinguino incravattato in cui si era trasformato negli ultimi tempi.
 
“Dai qua” dico, strappandogli il bicchiere dalle mani con una smorfia divertita, “per te è un po’ troppo presto.”
 
“Mi vuoi spiegare cosa sei venuto a fare qui?” ribatte, incrociando le braccia sul petto.
 
“Sono venuto a vedere perché tutto ad un tratto hai deciso di giocare al fratello cattivo. Sappiamo tutti e due che quello è il mio ruolo. E comunque, sono molto più credibile di te.”
 
“Senti Dam, se sei venuto qui per rifilarmi le tue battute da quattro soldi te ne puoi anche andare.”
 
“Pensi che mi sia fatto duecento miglia per sfotterti? In quel caso ti avrei fatto una telefonata. Se sono qui è per aiutarti Stef. Ma tu devi darmi una mano. Aiutami a capire che è successo.”
 
 
Dieci minuti dopo stiamo bevendo tutti e due, seduti intorno al tavolo.
Stefan parla a ruota libera, come non lo sento fare da anni. Le mani che corrono impazzite dai suoi capelli sempre perfetti al tavolo, dove ogni tanto sbattono forte dopo aver gesticolato per aria. Mi racconta del suo desiderio di eccellere, di fare grandi numeri, di diventare qualcuno e ritrovare quella normalità che nella nostra vita è sempre stata un miraggio.
 
“Solo che ho cercato nel posto sbagliato e nel modo sbagliato. Volevo l’ammirazione e il rispetto degli altri e ho finito per strafare.” mi dice, parlando in modo concitato.
 
Ammirazione, rispetto. Tutto quello che io non ho mai cercato, spesso anche per puro spirito di contraddizione. Comincio a capire i motivi per cui Stefan si è allontanato. Lui non ha mai voluto essere come me. Eppure non posso fare a meno di notare quel bagliore nei suoi occhi, quella fierezza, nonostante tutto.
 
“Lo so che può sembrare una cazzata detta da me, ma non credo che scappare sia la soluzione ai tuoi problemi fratello.” ribatto, dopo aver preso un sorso dal mio bicchiere.
 
“Tu credi davvero che sia scappato? Ok, forse all’inizio era così. Mi sono fatto prendere dal panico e dallo sconforto… lo sai, la mia vita mi è crollata addosso pezzo dopo pezzo. Ma credi davvero che mi importi di aver fatto perdere qualche migliaio di dollari a gente come i Mikaelson dopo quello che hanno fatto alla nostra famiglia? E comunque, io avrò anche caldeggiato delle operazioni rischiose, ma i documenti sono tutti regolarmente firmati dai relativi investitori. Possono controllare quanto vogliono. No Dam, quello di cui avevo veramente bisogno era allontanarmi, guardare le cose in un’altra prospettiva. Rischiavo di impazzire.”
 
“Ok, ok Stef. Non credevo che lo avrei mai detto, e forse me ne pentirò. Ma… la tua carriera… Giuseppe è sicuro che…”
 
“Me la sono bruciata. Lo so. Non me ne importa niente. Voglio ricominciare da zero, pensare lucidamente, riprendermi tutto quello che mi sono perso."
 
“Non vuoi tornare, non è così?”
 
Glielo chiedo a bruciapelo, increspando le labbra in una smorfia fintamente distaccata, preparandomi al peggio, mentre lui sgrana i suoi occhi verdi che non mi sono mai sembrati più sinceri di oggi, né più inermi. Assomigliano incredibilmente a quelli di nostra madre, ma questo non glielo dirò­.
 
“Beh, preparati Dam, perché anche io sto per dirti qualcosa che non avrei mai pensato di sentir uscire da questa bocca. Non recentemente almeno. Sapevo di avere il dovere di tornare, ma credevo di averne motivo. Non fino ad oggi. Ma poi tu mi hai ricordato cosa mi sono perso in tutto questo tempo. Tutto il tempo in cui ti ho voltato le spalle, mi sono rifiutato di capire le tue ragioni, ti ho lasciato da solo ad occuparti di nostra madre mentre nostro padre…”
 
“Lo sai.” lo interrompo. Non è una domanda, ma una nuova consapevolezza.
 
“Non ho mai capito perché tu lo odiassi tanto. Avrei dovuto chiedertelo. Scusami, Dam.”
 
Quelle parole mi fanno bene e male, allo stesso tempo. Perché lui, anche se non lo sa, ha tutti i motivi del mondo per avercela con me, esattamente come io avrei tutte le ragioni per lasciarlo affogare nei suoi casini. Invece siamo qui, ancora e sempre l’unico appiglio dell’altro e so che questo non può cambiare.
 
“Ok, ok. Saltiamo la parte dei convenevoli. Questo significa che torniamo a casa?”
 
Lui scuote la testa in su e in giù, mentre il suo viso si fa via via più rilassato.
Poi mi alzo di scatto, strisciando la sedia sul pavimento.
 
“C’è un’altra persona che ha bisogno di parlarti Stef.”
 
Quando apro la porta Elena è già lì, sul pianerottolo, seduta sui talloni. Solleva lo sguardo nel mio per un attimo, prima di alzarsi in piedi. Poi succede tutto in un secondo.
Stefan che mi supera, le va incontro, affonda la testa fra i suoi capelli sussurrando un grazie che inevitabilmente mi fa sentire di troppo. Lei abbassa le palpebre, si chiude in quell’abbraccio come se finalmente respirasse di nuovo il profumo di casa sua.
Mi infilo le mani nelle tasche e senza più guardarli scendo le scale con la consapevolezza che sì, dannazione, oggi è il giorno in cui ho ritrovato mio fratello e mi basta.
Oppure me lo farò bastare.
 
 
Un’ora dopo sento aprirsi il portone.
Esce Elena seguita da Stefan con la sua sacca blu. Resto immobile, appoggiato all’auto, fino a che non si avvicinano ad un passo.
 
“Damon perché non mi lasci le chiavi? Sono sicura che tu e Stefan abbiate ancora molto di cui parlare. Tornate voi con l’auto di Stef, io vi sto dietro.” esordisce lei.
L’ha detto sul serio? Non credo alle mie orecchie.
 
“Vorrai scherzare.” rispondo, scandendo bene ogni parola. Perfino Stefan se la ride, mettendole in mano un mazzo di chiavi.
 
“Non conosci affatto Damon, Elena. Non ti lascerebbe guidare la sua auto nemmeno se glielo chiedessi in ginocchio. Prendi la mia.”
 
Sorridono entrambi, di una complicità nuova.
Poi lui getta il borsone sul retro della Camaro e sale in macchina. Io lo seguo, pensando che forse ha ragione. Elena non mi conosce affatto e io non conosco affatto lei.
 
 
Elena
 
E’ ormai buio quando finalmente parcheggio l’auto di Stefan sotto casa mia.
Sono stordita, indolenzita, non so più se per tutta la strada percorsa in totale solitudine o se per il lavorio dei miei pensieri che non mi ha lasciato tregua per tutto il tempo.
Prima di scendere getto un’occhiata stanca al borsone, abbandonato sul sedile proprio accanto a me. Appoggio una mano sulla maniglia, pronta a scendere e lasciarmi finalmente alle spalle tutto.
 
È finita, è finita davvero. Tutti gli equivoci, e gli sbagli, e gli errori.
È finito tutto. Stefan è a casa, sta bene. Se la caverà, ripartirà, lui e suo fratello si sono ritrovati e io dimenticherò ogni cosa.
Tutte quelle stupide chiacchiere fra a me e Damon, il nostro stupido bacio e la nostra stupida notte insieme, i suoi stupidi pancake e i suoi cetriolini del cavolo.
Quel suo modo di muoversi nel mondo, nei miei pensieri, nella mia vita. E Rose e tutto quello che ci siamo detti, tutto quello che mi ha nascosto e tutto quello che non gli dirò mai.
Poi giro di nuovo la chiave nel quadro e riparto.
 
Nemmeno dieci minuti dopo sento scricchiolare sotto i piedi il ghiaino del parcheggio semideserto di Joe. Poco più in là, i lampioni al neon illuminano la stazione di servizio di una luce bianca, tremante e ovattata.
Come la mia testa, che adesso è piena di parole confuse, di giustificazioni, di spiegazioni che forse arriveranno troppo tardi.
Il cuore batte sempre più incerto, ma non vuole più ingannare né ingannarsi.
Perché lui è qui, esattamente come immaginavo, come speravo. Non ha ancora smesso di cercarmi, come io non riesco a smettere di cercare lui.
Allungato su una sedia, sul portico di legno con gli occhi che gli illuminano il viso di una luce oscura e scivolano piano prima su di me, poi sull’auto parcheggiata.
 
“Vedo che non c’è nessuna ammaccatura. Tutto sommato te la cavi.”
 
“Questo significa che la prossima volta mi farai guidare la tua?”
 
Sorrido, la voce che trema esattamente quanto il cuore. Sorride anche a lui, ironico, e sembra stanco quanto e più di me, ma non per i chilometri percorsi. Poi si alza in piedi, si avvicina con in mano una bottiglia piena di un qualcosa che non riesco bene a identificare e un bicchiere che mi porge.
 
“Ti propongo un brindisi, Elena. Perché oggi ho ritrovato mio fratello e l’ho riportato a casa, e invece di essere contento mi sento un coglione. Perché lui è forte, e giusto, come lo è sempre stato. Starà qui a fare l’eroe, a testa alta, ed è tornato per me, mentre io per un attimo ho sperato che avrei potuto sentirmi meno in colpa.”
 
“Per cosa?” balbetto, disarmata, con le guance che bruciano nel buio.
 
“Per volere quello che voglio. Quello che evidentemente tu non hai mai voluto.”
 
“Che stai dicendo?”
 
Non sono sicura di aver capito bene.
Sento distintamente le gambe che tremano, benedico la semioscurità che forse gli impedisce di vederlo, ma tuttavia non mi risparmia la sua occhiata rabbiosa e glaciale.
 
“Piccola comunicazione di servizio, Elena. C’ero anche io quando vi siete rivisti e ritrovati fra arcobaleni e unicorni!”
 
Respiro una, due, tre volte. Senza neanche rendermene conto lo afferro per un braccio e lo trascino sotto la luce. E piango, le lacrime mi sorprendono all’improvviso.
Sembrano volermi uscire direttamente dallo stomaco, come un’onda che sale al cuore e travolge gli occhi. Non mi importa.
Lascio che mi guardi, voglio che mi veda bene, almeno questa volta. Sono stanca dei dubbi, delle insicurezze, non mi importa più niente dei rischi che tutto questo comporta.
 
“Credi davvero che potrei tornare con Stefan come niente fosse? Ok, forse è quello che vuole lui. Ma non è quello che voglio io, e il motivo sei tu. E se ho una colpa, è quella di averti riconosciuto dal primo momento che sei entrato da quella dannata porta.” sbraito, indicando con un dito la stazione di servizio, senza nemmeno preoccuparmi di riprendere fiato.
Una voce insistente dentro di me continua a implorarlo di rispondermi, e se ne frega se adesso mi sento debole e scoperta.
 
Lui non dice niente. Resta inerme, mi osserva sbigottito, le labbra appena schiuse, le palpebre che si abbassano piano un paio di volte come a mettermi a fuoco.
Nel suo sguardo, che passa dai miei occhi alle mie labbra, vedo contrapporsi i miei stessi bisogni e un disperato desiderio di fuga.
 
“Dici così adesso Elena… ma domani? Cosa dirai a Stefan?”
 
“Non lo so… lo faremo insieme. Se lo vuoi anche tu, se non è troppo tardi…”
 
Poi, all’improvviso, succede. Mi tira contro di sé, mi bacia, mi stringe, le sue mani si impigliano nel tessuto scuro della mia maglia e nella mia mente si mescola tutto: desideri, voglie, bisogni che finalmente trovano una risposta, vuoti senza fine che si riempiono.
Ce ne stiamo così, respiro contro respiro nell’oscurità, a ritrovarci, a prenderci tutto, a conquistare ogni centimetro l’uno dell’altra, senza smettere di mancarci nemmeno adesso che siamo qui, così vicini, senza più filtri.
Affannati, incasinati come sempre, le sue labbra che disegnano le mie e la sua lingua che mi accarezza. Le sue dita che risalgono tra i miei capelli e mi sfiorano la nuca, le mie che scivolano sul suo corpo cercando di riempire una distanza che non esiste più, ignari di tutto, anche degli occhi che poco più in là ci stanno osservando.
 
 

*Spesso l'uomo crede di guidarsi e invece è guidato; e mentre con la mente tende ad una meta, il cuore insensibilmente lo trascina verso un'altra.
François de La Rochefocauld
 
Ok lo so che è lungo, estenuante e arriva tardi appunto perché ho fatto una fatica dannata a finirlo e renderlo almeno un po’ scorrevole. E anche perché sono pigra… sarà l’estate!
Quindi ecco, non credo di potervi promettere di velocizzarmi, ma spero lo stesso passerete di qui prima o poi. In realtà, maestra di contraddizione come sono, nonostante la pigrizia ho in mente pure un’altra storia, tutta all’opposto di questa… si vorrei scrivere qualcosa di divertente, ho bisogno di allegria! Così, se avete voglia, ci sentiamo nei prossimi giorni.
Un bacio e come sempre grazie a chi arriva fino a qui, stavolta in particolare visto il capitolo ;-)
Chiara

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Capitolo 16
*** Love Illumination ***


CAPITOLO 14 – LOVE ILLUMINATION
 
 
When you’re happy from a dream is it hard to work out what’s real
Is the real over there more vivid than here ever feels

Sweet love illumination
Sweet, sweet love celebration
Got covered, reason term
But it’ll bring you up you’ll be alright
***
Quanto è difficile rendersi conto di cosa sia vero quando sei quasi uscito da un sogno?
La realtà è più vivida là di quanto mai potrà esserlo qua?

Dolce illuminazione d’amore,
Dolce, dolce celebrazione d’amore.
Le macchine della polizia bruciano,
La ragione si gira e rigira, ma dentro al nostro amore sarai al sicuro
 
Love Illumination – Franz Ferdinand
 
 
“Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio.
Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di  qualsiasi felicità.
E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme
tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio.
Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti.
Sapevo che prima o poi lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto.
È scoppiata tutto d’un colpo.”
 
Oceano Mare – Alessandro Baricco
 
 
 
Damon
 
 
“Sei sicuro che Ric non si arrabbierà?”
 
“Ha tanti di quei motivi per avercela con me che non credo che questo farà la differenza…”
 
Continuo ad affettare il pane e rigirare il sugo nella pentola, sollevando lo sguardo di tanto in tanto per rincorrere i passi leggeri di Elena, che si aggira curiosa per la cucina sbirciando tra gli scaffali, tenendosi in equilibrio prima su un piede e poi sull’altro e sbocconcellando patatine al formaggio.
Probabilmente ha ragione lei, Ric si incazzerebbe parecchio se venisse a sapere che ho aperto il suo ristorante alle tre del mattino, ma in questo momento non ho voglia di darci troppo peso.
Potrei sempre spiegargli che certe rivelazioni improvvise e totalmente inaspettate da parte di Elena ci hanno messo addosso una strana fame chimica, e che piuttosto di trascinarla in un qualsiasi McDrive – il che avrebbe fatto certamente la sua felicità – ho preferito portarla nell’unico posto in tutta San Francisco che riesco a sentire un po’ mio, nonostante ci abbia trascorso appena qualche mese.
 
E non me ne pento adesso che la posso guardare qui, illuminata appena dall’unica lampada che ho acceso per non dare troppo nell’occhio. Adesso che, senza essere visto, posso lasciarmi assorbire dai suoi movimenti mentre si appoggia a un ripiano, si sfiora la fronte con la mano o fa vagare lo sguardo fuori dalla finestra, dove la baia appare stranamente calma e silenziosa.
Sospesa, come mi sento io, in questa insolita dimensione di quiete che sembra essere solo nostra.
 
La sento avvicinarsi a me, allungare una mano a sfiorarmi i capelli alla base del collo in un contatto casuale, che dura troppo poco. Un istante dopo sta già rubando qualcosa dal tavolo.
 
“Certo che hai un grande appetito per essere una che cucina da schifo.”
 
Lei spalanca gli occhi, mettendo su quel broncio che le ho visto fare un miliardo di volte, tutte quelle in cui le ho detto qualcosa che non si aspettava di sentire. Poi mi colpisce con uno schiaffo leggero su una spalla, mentre le sue labbra si piegano appena in un sorriso trattenuto.
 
“Ancora con questa storia? Quando la smetterai di sfottermi?”
 
“Mi chiedi troppo. Te la prendi ogni volta…”
 
La vedo riflettere un attimo, perdendosi in un pensiero tutto suo. Poi si mette a sedere accanto a me, sul bordo del tavolo d’acciaio, mentre io mi chiedo come siamo scivolati dentro questa strana bolla di intimità.
Qualche ora fa ho maledetto tutto quello che c’è stato e non c’è stato fra di noi, devastato da tutto quel dannato volerla senza poterla avere. Ora mi ritrovo di nuovo perso nell’attrazione che provo per lei, certo di non poterne venire fuori neanche volendo.
 
“Tu dovresti odiarmi Damon. Lo capirei, davvero. Per tutte le volte che ti ho respinto e tutte quelle in cui ti sono venuta a cercare, a partire da quella volta in cui mi sono presentata a casa tua alla laurea di tuo fratello con quella ridicola torta di mele e ci siamo messi a flirtare in cucina e…”
 
“Perché, stavi flirtando tu? Non me ne ero nemmeno accorto!”
 
“Ti facevo più perspicace, Damon.”
 
“Hai ragione. Dovrei dare più credito al mio indiscutibile fascino. Di solito mi riesce bene, in effetti.”
 
“…chissà cosa avrai pensato di me.”
 
Tutt’a un tratto è diventata maledettamente seria, ma in questo momento non mi sento esattamente dell’umore adatto per una sessione intensiva di paranoie.
Ho solo un desiderio, che va oltre qualsiasi istinto: godermi un momento normale insieme a lei.
Uno di quelli che non abbiamo mai vissuto, se escludiamo tutta la prima fase del nostro rapporto, quella in cui lei era solo Elena, la ragazza di mio fratello.
Una balla che mi sono raccontato per un po’. Pura follia.
Scruto il suo viso preoccupato e proprio non riesco a trattenermi.
 
“Ho pensato che evidentemente eri una con un pessimo gusto in fatto di uomini, fissata con i capelli perfetti, i completi firmati e tutto il resto.” rispondo, senza alzare gli occhi da quello che sto facendo ma spiando la sua reazione.
La sento respirare. Evita il mio sguardo, concentrata sulla punta delle sue Converse che oscillano avanti e indietro oltre il bordo della tavola.
Indossa i soliti jeans consumati. I capelli, che nascondono per metà il suo viso da bambola, le stanno leggermente appiccicati alla fronte per via della condensa e dell’aria umida che nemmeno qui dentro sembra volerci dare tregua.
Per un attimo restiamo senza parlare. Abbandono il coltello sul tavolo, pulisco le mani su uno strofinaccio guardando la sagoma luminosa del Golden Gate oltre il vetro della finestra.
Torno indietro con la mente, ripesco quell’immagine fra le tante che mi parlano di lei.
 
“Se non sbaglio avevi un vestito blu, tacchi alti, i capelli raccolti. Non ti ricordavo in quella versione, la mia unica immagine di te risaliva a sei mesi prima e quella volta mi avevi tolto il fiato. Non fraintendermi… Anche a casa mia ho pensato che tu fossi bellissima. A me tu vai bene sempre…” le dico, in preda ad un improvviso slancio di sincerità. “E ho pensato che non ti avrei mai avuta.” concludo.
 
“Perché stavo con tuo fratello…” afferma lei, la voce piccola e una mano che corre a spostare i capelli dietro l’orecchio, mentre le dita dell’altra continuano a tormentare un piccolo strappo sopra al ginocchio.
 
“Non per questo. Quando ti ho vista passeggiare per il giardino con Stefan e mio padre, mi sono sentito come se io e te fossimo agli estremi opposti del mondo. Perché pensavo che tu volessi qualcuno di diverso. Meno impulsivo, sconsiderato e incasinato di me. E sapevo di non poter cambiare, nemmeno per te.”
 
Me lo ricordo bene quel giorno, e tutti i successivi fino a quando Elena ha scoperto la verità sul mio conto ed è rimasta lo stesso.
Lei, la ragazza con la magia negli occhi, che sapeva dipingere la mia vita con le tinte sgargianti del suo entusiasmo. Forse è stato proprio in quel momento che mi ha fregato per sempre, cancellando con la sua ingenua fiducia tutto il male che aveva attraversato la mia vita fino a ad allora.
Lei mi guarda per un po’ con quell’espressione pensosa, mordendosi piano un labbro per poi esplodere finalmente in un sorriso.
 
“Se io non fossi incasinata come e più di te credi che ci troveremmo in questa situazione? Ammettilo, siamo una bella coppia tutto sommato.”
 
Poi salta giù dal tavolo, afferra un cucchiaio e pesca dalla padella per poi portarselo alle labbra.
 
“Però… non è male!” esclama. Sembra sorpresa.
 
Alzo un sopracciglio, le rivolgo una smorfia insoddisfatta. “Tutto qui? Pensavo saresti stata più entusiasta. E comunque, a me è passata la fame.”
 
 
Elena
 
Quando Damon mi conduce nella sala deserta, non riesco a credere ai miei occhi.
Ero già stata qui tempo fa, a cena con Stefan. Il ricordo pungola per un attimo la mia coscienza, ma subito dopo mi lascio invadere dall’immagine luminosa e allo stesso tempo cupa che si spande di fronte a me.
Fisherman’s Wharf è ai nostri piedi, al di là dell’immensa vetrata che occupa la parete della sala da pranzo. Il cuore pulsante della baia, punteggiato di ristoranti e piccoli negozi di souvenir ormai chiusi, a quest’ora ha un ritmo più calmo.
Mi sento bene, protetta da questo vetro, a rincorrere i riflessi blu del mare impossibili da raggiungere eppure così vicini, quasi come se allungando la mano li potessi toccare.
 
Riesco a sentire fisicamente la presenza di Damon a qualche passo da me.
Mi sento come se fossi sospesa in un tempo solo nostro, fatto di una distanza che sembra prendere e perdere consistenza a fasi alterne.
Vorrei colmare lo spazio che ci divide, ne ho quasi paura e nello stesso tempo sono affascinata da questo gioco di equilibri.
Mi piace spiare quegli occhi blu profondo che di tanto in tanto incrociano i miei.
Quei piccoli contatti visivi mi scaldano, mi fanno tremare dentro, mi hanno già cambiata.
Tutto quello che so è che non voglio più scappare da quello in cui lui mi ha trasformata, costi quello che costi.
Osservo la tranquillità sul suo viso così bello. Perché è proprio bello Damon, nel senso più ampio del termine, con tutti i suoi contrasti interiori ed esteriori, le luci e gli abissi che mi attraggono allo stesso identico modo. Ammetterlo è sia strano che liberatorio e mi dà la sicurezza necessaria per allungare una mano verso di lui, che la afferra con la sua attirandomi vicina a sé e posizionandosi dietro di me.
Il calore delle sue dita che trattengono le mie si propaga in ogni centimetro della mia pelle. Perché mi fa sempre questo effetto?
 
“Andrà bene domani, vero?”
 
Non so perché lo dico.
 
“Te lo prometto.” risponde, sfiorandomi le dita con il pollice, il mento puntato sulla mia spalla. Le sue parole, pronunciate a un respiro dal mio orecchio, suonano così vere.
Forse perché lui ha molto da perdere, forse perché so che non mi mentirebbe mai.
Domani mi spaventa ancora, ma non tanto quanto il pensiero di separarmi da ciò che ho scelto di vivere, fino in fondo.
Per qualche istante rimaniamo così, affacciati alla finestra, a guardare il cielo senza parlare.
 
“A cosa pensi?” gli chiedo, ansiosa di riempire quel silenzio che invece di calmarmi, mi sta stringendo lo stomaco. Troppi sentimenti si affastellano dentro: attrazione, emozione, il bisogno di un contatto con lui. Mi sembra di sentirlo dentro quel mezzo ghigno che gli increspa le labbra, il suo respiro che cresce in modo impercettibile.
 
“Elena, Elena… ti facevo più perspicace. Pensavo a quanto vorrei strapparti i vestiti di dosso proprio adesso, trascinarti sopra un tavolo e baciare ogni centimetro del tuo corpo fino a svuotare la tua testolina da tutti questi pensieri. Mi sembra logico no?”
 
Sarà il tono in cui me lo dice, sarà che voglio disperatamente che lo faccia, ma quelle parole mi si arrampicano dentro. Non mi sono mai sentita più desiderata di così e so che farò qualunque cosa mi chiederà.
 
***
 
La stanza è piena di un’umidità ostinata, che appesantisce le lenzuola e mi si aggrappa alla pelle. Una luce insistente penetra dalle imposte. La radiosveglia segna le nove del mattino.
Mi rigiro, faccio scivolare un braccio accanto a me trovando uno spazio vuoto.
 
Rimango in ascolto per un attimo. Nessun rumore, solo il solito ronzio del frigorifero che prima o poi dovrei decidermi a far riparare. Sono sola in casa, deve essersene andato.
Certo, la cosa non mi rallegra, ma nemmeno mi spaventa. Non più.
Non ho bisogno di interrogarmi per sapere che non è stato tutto un sogno.
 
Ho preso la decisione forse più folle della mia vita, eppure per la prima volta mi sento in equilibrio nel mio mondo.
Mi guardo intorno, osservo le pareti di carta di questa stanza e mi sembra di vederle sgretolarsi attorno a me. Non voglio più una vita da immaginare, non ho più bisogno di inventarmi un’altra realtà o cercare un altro posto dove andare per accettare quello che mi fa soffrire. E voglio difenderla questa mia scelta, a testa alta.
Mi rigiro un'altra volta, scostando il lenzuolo.
I nostri occhi si inseguono ancora. Le nostre mani si cercano ancora.
Sento ancora la sua presenza irradiarsi nel mio corpo, il suo odore buono intorno a me, su di me. Io e lui qui, a perdere la testa incuranti di tutto il resto.
La sua bocca che mi accende, viaggia sui contorni delle mie gambe, del mio seno, del mio viso.
Il suo corpo che si schiaccia contro il mio senza lasciarmi scampo. Scoprirlo uguale a come lo ricordavo, eppure diverso.
Il bisogno incosciente di baciarlo, di toccarlo. I nostri respiri, spezzati da tutto quel bisogno di sentirsi. I suoi occhi limpidi illuminati da un desiderio che si specchia nel mio. Volevo che lo sentisse, che mi sentisse sua.
Volevo incontrare quegli occhi di cielo che un tempo ho pensato avrei visto sempre di sfuggita, in mezzo a tanti altri sguardi di cui non mi importava. *
E lo voglio ancora. Dove diavolo ti sei cacciato Damon?
 
Non faccio in tempo a pensarlo che vengo sorpresa dal suono ritmico dell’I-Phone che vibra contro la superficie del comodino.
Sorrido.
 
“Ehi tu.” rispondo, premendo il cellulare contro l’orecchio. Ho un’esagerata dose di miele nella voce. Quand’è che sei diventata così schifosamente zuccherosa Elena? Dannazione, regolati.
 
“Ehi. Ben alzata.”
 
“Insomma. Mi aspettavo un risveglio diverso.”
 
“Ad esempio?”
 
“Che ne so… fiori sul cuscino? Un diamante? Pancakes?”
 
“Come sei materialista. Sono uscito presto. Sono andato a trovare mia madre in ospedale e indovina un po’? Dovrebbero dimetterla in giornata.”
 
“Sono felice. Ma da dove mi stai chiamando? La linea è disturbata.”
 
“Dal telefono del ristorante. Sono venuto qui a sistemare il casino che abbiamo lasciato ieri prima che Ric mi spedisse una lettera di licenziamento e indovina un po’? Mi ha incastrato fino a sera.”
 
“Non se ne parla neanche. Dobbiamo vedere Stefan. Deve sapere.”
 
“Lo so che deve sapere ma adesso…”
 
“Hanno suonato alla porta.” lo interrompo, scattando a sedere sul letto mentre il campanello continua a squillare, ripetutamente.
 
“Chiunque sia, non farlo aspettare…” risponde lui, col tono di uno che si è salvato in corner.
 
“Deve essere Care. Hai presente? Quella con cui te la spassavi prima di me.” gli dico, scuotendo la testa per l’assurdità della situazione. In effetti, solo lei può suonare alla mia porta a quest’ora del mattino, anche perché appena tornata le ho mandato un messaggio, e sicuramente non starà nella pelle dalla voglia di sapere come è andato il viaggio.
Sorrido fra me e me. Sarebbe troppo bello e facile aspettarmi la stessa reazione anche da parte di Stefan.
 
“La reginetta della Berkeley. Salutamela tanto! Devo andare.” fa lui dall’altra parte, senza lasciarmi modo di controbattere.
 
Nel frattempo ho afferrato una maglia e un paio di pantaloncini da una sedia, sono inciampata sulle mie scarpe finendo per sbattere l’alluce sulla scrivania e ho saltellato – imprecando – fino al bagno, dove mi sono specchiata rapidamente per scoprire che ho sempre la solita faccia ma i capelli leggermente più sconvolti.
Pazienza, Care non ci farà caso. Sa bene che abbiamo tempi leggermente diversi, per lo meno al mattino, e senza la mia dose quotidiana di caffeina la situazione rischia di degenerare.
 
“Arrivo!” sbraito, affannandomi come sempre per raggiungere l’ingresso.
 
Ma quando apro la porta è Stefan quello che vedo. E sento le mie guance infiammarsi quando mi saluta tranquillamente e fa un passo dentro casa, deciso e disinvolto, senza nemmeno lasciarmi parlare. La sua camicia è la stessa di ieri e non ha fatto la barba. Non sembra lo Stefan di una volta, ma nemmeno il ragazzo pieno di fiducia nel futuro che ho scoperto poche ore fa.
Chiudo la porta dietro di me, lui si guarda intorno e si accomoda sulla sedia gialla del cucinino.
Tra di noi c’è uno spazio quasi materiale di parole non dette, mi sembra di avvertirne la consistenza.
 
“Ti offro un caffè?” temporeggio. Non so bene che atteggiamento tenere e la mia confusione traspare in ogni mio gesto, per quanto mi sforzi di apparire leggera.
Mi volto verso il fornello, apro lo sportellino e inizio a trafficare con i barattoli per impegnarmi le mani e illudermi di potermi sottrarre al suo campo visivo. Ho bisogno di un momento per racimolare le parole giuste, sempre che esistano. Codarda, ecco cosa sono.
Ma quando mi volto con una tazzina in mano e il panico negli occhi è lui a decidere per me.
 
“Come fai a guardarmi così, come se niente fosse?”
 
La sua voce mi arriva glaciale, forse per questo mi strappa ancora più brutalmente dalle mie ingenue speranze.
 
“Vi ho visti, Elena.”
 
Ogni parola gronda accuse, ma soprattutto dolore. Quello che non avrei mai voluto causargli e invece non ho fatto che moltiplicare con le mie indecisioni e la mia falsità.
Ottimo lavoro, Elena.
 
“Non volevamo ferirti Stefan. Giuro che volevamo dirtelo, oggi. È stata tutta colpa mia.” mi giustifico, ma le mie stesse parole mi risultano ridicole, vuote di significato, e sembra che nemmeno a lui interessino granché.
 
“Ci sei andata a letto?”
 
Il mio silenzio non fa altro che renderlo più furente. Del resto ne ha tutto il diritto.
 
“Che domanda del cazzo, del resto la risposta è ovvia.” prosegue, con una calcolata, raggelante ironia. “Tipico di mio fratello. Rincuorare le donne scopandosele. Ma tu Elena… ti facevo più intelligente, e anche più leale. Devo ammetterlo.”
 
Non lo so cosa succede. Forse il mio amor proprio ha la meglio sulla pacata, razionale consapevolezza che lui ha tutte le ragioni del mondo per avercela con noi.
Non è istinto di sopravvivenza il mio, ma voglia di difendere qualcosa in cui ho scelto di credere, qualcosa che per quanto lui possa giudicare orribile non lo è dentro di me.
Le parole mi salgono alla gola direttamente dallo stomaco, senza che riesca a controllarle.
 
“Ti sbagli Stefan. Non sono stata con Damon per rincuorarmi, divertirmi alle tue spalle o rompere la monotonia. L’ho fatto perché lui era l’unica opzione possibile. Perché sono innamorata di lui.”
 
I miei occhi sono umidi per le parole che lui ha detto, per quelle che ho detto io.
Stefan sorride, poi ride sul serio e alla fine torna a incupirsi. Scatta in piedi, si avvicina con due passi, mi afferra il viso fra le mani e lo solleva senza lasciarmi modo di oppormi. Mi scruta dentro agli occhi con i suoi, verdi come foglie bagnate, scuri di rabbia.
Per la prima volta in vita mia mi fanno paura.
 
“Pensavo fossi venuta per me ieri. Che coglione.”
 
“È così.”
 
“Smettila di offendermi.”
 
“Stefan mi dispiace…”
 
“Provo pena per te, Elena. Per quando ti sveglierai, quando capirai che a lui di te non importa niente, che sei solo una tacca in più sulla cintura. E tu sarai sola, completamente sola.”
 
Si avvicina e io gli afferro le mani, provo a scostarle dal mio viso ma non mi riesce, non sono abbastanza forte. Poi lo fa lui, mi lascia andare all’improvviso e fa per andarsene.
 
“Dove stai andando?”
 
“Non vuoi saperlo.” mi dice, sbattendo la porta.
 
Quello che segue sono gesti confusi, imprecisi, involontari. Io che afferro le chiavi, le appoggio, chiudo l’armadietto della cucina, accosto la sedia.
Corro in bagno, lego i capelli. La solita faccia, solo più rossa, colpevole, disperata.
Non doveva andare così, non dovevo dirgliele tutte quelle cose.
Penso questo mentre mi infilo un paio di jeans a caso e le scarpe da ginnastica e fuggo via, giù per le scale.
 
 
Damon
 
“Un’ora Ric. Una sola e poi prometto che sarò a tua completa disposizione per… uhm. Una settimana?”
 
“Io vorrei sapere che diavolo avevo in testa quando ho assunto te e quel decerebrato di Enzo. Hai collezionato più assenze che giorni di presenza, mi costi un occhio della testa in superalcolici…”
 
“Quelli li beviamo insieme…”
 
“Ok, te lo concedo. Ma che usi il mio ristorante per portarci a cena una ragazza nel cuore della notte è fuori discussione da oggi in poi. Ricordatelo!”
 
“Quanto la fai lunga amico. Se ti dico che non succederà mai più puoi fidarti.” ribatto scocciato, infilando i piatti appena incartati nel frigorifero. Quando chiudo l’anta, me lo ritrovo davanti a braccia conserte, un ghigno divertito dipinto in viso.
 
“Almeno ne valeva la pena?”
 
“Puoi dirlo forte.”
 
Posso vedere distintamente l’espressione sul suo viso che, da allegra e cameratesca che era, si trasforma in preoccupata e ombrosa.
Eccola lì la sua solito faccia da moralizzatore. Ma come diavolo fa? Non lo capirò mai.
 
“Damon!”
 
“Ric!” ribatto, scimmiottando il suo tono di rimprovero e lasciandomi alle spalle i suoi occhi spalancati. Nel frattempo riprendo a trafficare con le pentole e… qualsiasi cosa mi capiti a tiro.
Non ho voglia di prediche. Non oggi che, una volta tanto, mi sono alzato col piede giusto e la convinzione che sì, è il mio momento. Il nostro momento.
 
“Ti avevo detto che…”
 
“…quando è quella giusta lo sai. Notizia flash Ric. Lo so. È lei.”
 
“Ti ho anche detto che la tua felicità non si può costruire su un tradimento. Quindi, se hai trovato la tua anima gemella sono contento per te ma scommetto che ti sei dimenticato di raccontarlo a Stefan.”
 
Mi volto di scatto, incontrando il suo viso corrucciato e pieno della solita, immancabile preoccupazione.
So che ha ragione ma so anche che posso prendere in mano la situazione a modo mio, risolvere tutto. Entro stasera sarà finita, in un modo o nell’altro. Parlerò con Stefan, lo voglio davvero.
 
“È quello che ho intenzione di fare. Per questo ti ho chiesto del tempo. Quindi piantala di fare il grillo parlante e lasciami un’ora di tempo risolvere questa cosa.”
 
“Mi auguro per te che non sia troppo tardi per parlare.”
 
“Parlare di cosa?”
 
Una terza voce irrompe nella stanza. Non ho bisogno di voltarmi per scoprire chi è, né per sapere che è incazzato a morte. Lo conosco da tutta la vita.
Non mi serve nemmeno leggere la preoccupazione accentuarsi secondo dopo secondo sul volto di Ric che, dopo avermi lanciato un’occhiata d’intesa mi supera esce dalla stessa porta da cui Stefan è entrato.
Rincorro i suoi passi nervosi. Così mi imbatto nella figura di mio fratello, che se ne sta in piedi sulla soglia. Non appena Ric è fuori, un sorriso amaro gli stira le labbra.
Nel giro di un secondo è già venuto verso di me. Un altro secondo e succede quello che mi aspetto. Mi pianta un pugno in pieno viso.
Lo lascio fare senza reagire, mi appoggio al bancone d’acciaio.
Niente male per un ragioniere. Del resto ho sempre saputo che Stefan aveva una marcia in più, che non era fatto per marcire dietro quella scrivania del cazzo.
Questo però non lo dico. Tengo lo sguardo fisso sul pavimento per un po’, pulendomi il sangue dal labbro. Osservo le strisce di luce che attraversano le piastrelle chiare.
 
“Ok Stef. Hai fatto bene, me lo merito. Adesso parliamone un attimo.”
 
“E io che pensavo che tu avessi ancora un cuore e un cervello. Che te ne fregasse ancora qualcosa di me, Damon.”
 
“È così, infatti.”
 
“Vi siete messi d’accordo per caso? Smettetela di dirlo.”
 
“Sei stato da Elena?” chiedo, e stavolta ho bisogno di sapere la risposta.
 
“Devi averle fatto proprio dei gran bei numeri. Si è addirittura convinta di provare qualcosa per te.”
 
“Stef…”
 
“Vaffanculo, Damon. Non me ne frega niente di quello che hai da dire. Perché sai che c’è? Io e lei abbiamo avuto la nostra storia mentre voi… una notte forse. Peggio per te. Elena ha il mondo ai suoi  piedi mentre tu, guardati. Te ne stai qui, a cazzeggiare in questo buco di culo di locale. Presto se ne accorgerà anche lei e tu non avrai più niente. Di sicuro non avrai un fratello.”
 
Non ho il tempo, forse nemmeno la voglia di difendermi. Mentre rimango lì, incerto sul da farsi come non lo sono mai stato prima in vita mia, lui se ne va.
Allora so che in questo momento sarebbe inutile fare qualsiasi cosa. Mi sollevo con calma, massaggiandomi la guancia. Fa male, ma non quanto tutto il resto.
 
Quando mi accorgo della presenza di Ric al mio fianco lui sta urlando nelle mie orecchie. Da quanto tempo è qui?
 
“Cazzo Damon, ti vuoi muovere?” sbraita, col mio cellulare in una mano e l’altra che fa scorrere ripetutamente fra i capelli.
 
“Smettila, non è il momento.”
 
“E invece si, si che lo è. Ti hanno chiamato… dall’ospedale. Devi fare in fretta.”
 
 

 
*
“And those bright blue eyes can only meet mine across a room
Filled with people that are less important than you”
A me sta canzone ricorda troppo i Delena prima maniera. Boh!
 
 
Ciao :)
Per prima cosa spero non siate affogate nella melassa o che qualcuno non stia vomitando arcobaleni (Setsy come sei messa???)
Mi spaventa sempre un po’, ho paura di esagerare ma ho anche pensato che ci stesse dopo 15 capitoli di “se e ma”. Spero di essermela cavata e che complessivamente il capitolo non vi faccia troppo schifo.
Forse invece mi state odiando per avervi lasciate un po’ in sospeso sul finale (come al mio solito). Pensate che ho immaginato il prossimo capitolo fin dal giorno in cui ho pubblicato il prologo.
Detto ciò, ci ho messo quasi un mese. Pigrizia a parte, mi ci è voluto tempo per entrare in sintonia con loro, scusatemi. Cerco di dare il massimo quando scrivo questa storia, sul serio, quindi mi richiede più tempo specie ultimamente.
Tutto qui, ci rivediamo presto, penso sull’altra storia. Come come? Non l’avete letta? Eccola qui! .. suvvia che sarà mai un po’ di self promotion? :D
Baci a tutte e grazie del vostro insostituibile sostegno <3
Chiara

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Capitolo 17
*** Just don't leave ***


CAPITOLO 15 – JUST DON’T LEAVE
 
 
Beatrix: Perché sei qui?
Bill: Un ultimo sguardo.
Beatrix: Oggi farai il bravo?
Bill: Non ho mai fatto il bravo in tutta la mia vita. Ma farò del mio meglio… per essere dolce.
Beatrix: Te l’ho sempre detto che quello dolce è il tuo lato migliore.
Bill: Forse è per questo che tu sei l’unica ad averlo visto.
 
Kill Bill Vol.2
 
 
Se c’è una cosa di cui ho la certezza assoluta è che, cascasse il mondo, la mia mano non trema mai.
 
Me ne sono accorto la prima volta quando ero solo un ragazzino. Io e Stefan eravamo appena rientrati da una partita di pallone con altri amici del quartiere con i quali avevamo l’abitudine di giocare spesso, approfittando di un campetto sgangherato poco distante da casa nostra.
Ricordo ancora le grida euforiche di mio fratello, il più piccolo del gruppo, che quel giorno era riuscito a segnare un goal a quell’idiota di Jason Davis.
Era entrato in casa come un uragano ed era corso in cucina cercando nostra madre.
Io, al contrario, mi ero preso tutto il tempo per togliermi le scarpe e lo avevo raggiunto con calma, ostentando la solita aria indifferente e superiore che mi ero già abituato a coltivare, nonostante non fossi nient’altro che un moccioso.
Sotto sotto però non vedevo l’ora di raccontare tutti i dettagli della partita alla mamma,  magari facendomi coccolare con qualche biscottino dei suoi.
Quando raggiunsi Stefan in cucina lo trovai improvvisamente silenzioso. Aveva abbandonato lo zaino per terra e teneva gli occhi fissi sul tavolo della cucina. Nostra madre sedeva al solito posto e dormiva profondamente con la faccia schiacciata contro la superficie di legno e un barattolino arancione mezzo vuoto fra le mani.
La guardai con orrore. Non ricordo perché o come fosse successo, ma io già sapevo. Ero terrorizzato. Solo che, quando rivolsi lo sguardo a mio fratello e incontrai i suoi occhi verdi spalancati, ci lessi un’ansia mai conosciuta prima di allora. Anche lui, sebbene fosse un bambinetto, aveva intuito che c’era qualcosa di strano.
 
“Damon… perché la mamma si è addormentata sul tavolo?”
 
Ebbi paura, questa volta per lui.
Il cuore mi batteva talmente forte nel petto che potevo sentir rimbalzare i suoi colpi sordi fin nelle orecchie. Tremavo dentro, ma mi sentivo la faccia pesante come un blocco di marmo.
Non muovevo un muscolo e, quando guardai le mie mani, notai che erano immobili.
Così, guidato da una forza che non sapevo di avere, provai a fare quello che mi riusciva meglio.
 
“Che razza di domande fai Stef? La mamma è stanca. Muoviti, vai a lavarti la faccia prima che si svegli e ti trovi qui in cucina ricoperto di fango. Io la accompagno in camera. Starà più comoda.”
 
Lui inclinò leggermente la testa di lato, guardandomi con un’espressione interrogativa.
Subito dopo sul suo viso si spalancò nuovamente il sorriso felice di poco prima. Annuì fiducioso, si abbassò per afferrare lo zaino e filò su per le scale senza aggiungere altro, mentre io corsi al telefono a cercare Giuseppe.
Ora che ci penso, non sono più così sicuro che Stefan ci sia cascato davvero.
Recentemente mi sono reso conto di aver praticamente passato la mia vita a mentirgli per proteggerlo, sempre inutilmente e sempre con pessimi risultati.
Quello che scoprii quel giorno però era altrettanto importante.
Il mio corpo non tradiva le mie emozioni.
Avevo la tempesta dentro, ma la mia mano era rimasta ferma.
 
 
Anche ora, mentre salgo a due a due i gradini della scala che conduce al secondo piano del San Francisco General Hospital, sono certo di riuscire a confondermi con tutti gli altri visitatori e familiari pieni di fretta che affollano i corridoi. Dentro sto morendo, ma questa è un’altra storia.
 
Per la prima volta in vita mia sono costretto a ringraziare il cielo – o chi per esso – per il fatto di conoscere questo posto come le mie tasche, altrimenti non sarei mai riuscito ad arrivare fino a qui. La mia mente è totalmente vuota. Solo, continuo a ripetermi che deve esserci uno sbaglio. Semplicemente non può essere vero.
 
“Dimmi dov’è.” chiedo ad un’ignara receptionist dagli occhi scuri, come se lei potesse sapere chi sono io e cosa ci faccio in questo dannato ospedale. Infatti mi squadra da dietro il suo alto bancone come se fossi un pazzo appena uscito dal reparto di psichiatria.
 
“Prego?”
 
“Elena Gilbert. Dove l’avete portata?”
 
“Lei è un parente?”
 
“Che cazzo di domanda è? Mi avete chiamato voi e…”
 
“Sta’ calmo Damon. Signora, abbia pazienza, ora le spiego.”
 
È la voce di Ric quella che sento, è la sua mano quella che mi stringe la spalla con forza. Nonostante gli abbia più volte detto che la sua presenza non era gradita né necessaria, non ci ha pensato due volte a chiudere il suo locale e accompagnarmi qui.
A quanto pare stavolta non sarò da solo ad affrontare la tempesta. Ci sarà qualcuno a frenare la mia impulsività.
 
Ric spiega con pazienza chi siamo alla receptionist. Il volto di lei si addolcisce subito.
 
“Dove avete portato Elena?” continuo a chiedere.
 
“Non può vederla adesso. La stanno operando.” dice lei, facendo affogare nel buio anche me.
 
Poi racconta. Le sue parole si mischiano insieme, arrivano ovattate, confuse.
E a me sembra che quella sia la storia di qualcun altro, ma mi sforzo di ascoltare, devo capire.
Anche se sono certo che non può essere Elena quella ragazza distratta e sfortunata, come la definisce lei, quella che è passata col rosso ed è stata investita da un suv finendo fuori strada. Il conducente ha giurato che non avrebbe potuto evitarla neanche volendo, perché quella ragazza correva, correva forte. Chissà dove stava andando, aggiunge la donna, col tono fintamente compassionevole di chi queste scene le vede tutti i giorni e ormai le vive con distacco, perché lo sa che è il prezzo da pagare per stare qui dentro.
Conosco quelle come lei e questo ambiente, l’ho vissuto troppe volte.
 
La donna continua a parlare, aggiungendo via via dettagli agghiaccianti.
Elena ha sfondato il parabrezza, rotto un braccio, perso molto sangue. È stata gentile con chi l’ha soccorsa, ha perfino ringraziato chi l’ha tirata fuori da quell’abitacolo schiacciato.
Ma quando le hanno chiesto chi fosse ha perso i sensi. Non aveva con sé il portafoglio e i documenti, ecco perché hanno cercato me.
L’ultimo numero che ha chiamato prima di schiantarsi era il mio. Perché non ho risposto?
So già che me lo rinfaccerà almeno un milione di volte appena si sveglierà.
 
“Andrà bene Damon.”
 
Vedo Ric che cerca il mio sguardo esattamente come se stessi vivendo la scena dal di fuori.
Tutto ad un tratto Elena ed io siamo tornati al ristorante di Ric. Lei è di nuovo tra le mie braccia, lo sguardo perso a rincorrere le onde del mare, la sua ombra esile che si riflette appena contro il vetro della finestra in quella notte solo per noi.
 
“Andrà bene domani, vero?”
“Te lo prometto.”
 
Non sono stato in grado di difenderti Elena, non ho mantenuto la promessa che ti avevo fatto. Avrei dovuto saperlo che la realtà era un’altra cosa, che la vita è più stronza di come la immagini tu. Me lo ha dimostrato fin troppe volte.
Ma questo no, non me lo aspettavo. Dove correvi ragazzina? Perché stavi cercando di proteggermi quando sono io ad averti messa a rischio?
E adesso è come se avessi messo in pausa la mia vita. Sono solo un’ombra.
Possibile che questa volta io non sia in grado di vincere la paura impotente che ho conosciuto tante volte?
I sensi di colpa mi opprimono la mente, mi tolgono la forza di reagire come ti meriteresti.
 
“Cazzo Damon vuoi starmi a sentire? Devi avvisare la sua famiglia.”
 
Ric mi scuote per le spalle. Solo allora mi rendo conto di non sapere cosa fare o chi chiamare.
Non faccio parte del mondo di Elena. Ne conosco solo alcuni scorci. Solo parole dette a metà, discorsi incompiuti.
Non posso agire come ci si aspetta da me, nemmeno ora che, per la prima volta in vita mia, vorrei essere all’altezza delle aspettative di qualcuno.  Ironico.
 
Ma il tempo che ho vissuto con Elena l’ho rubato alle sue pause di lavoro, ai miei dieci minuti prima di iniziare il turno, alle disattenzioni di mio fratello.
Stef saprebbe esattamente come comportarsi in questa situazione, ma di certo non mi risponderebbe se lo chiamassi adesso.
Un lampo di lucidità mi fa venire in mente l’unica persona che sono sicuro possa darmi una mano.
 
“Pronto?”
 
“Damon? Perché mi stai chiamando?”
 
“È successa una cosa. Devi aiutarmi.”
 
Glielo chiedo col tono distaccato di chi pretende. La mia voce è fredda e ferma, esattamente come la mia mano.
Quando chiudo la conversazione mi lascio cadere su una delle sedie verde acqua della sala d’attesa, accanto a Ric. Mi passo le dita fra i capelli, respiro.
È tempo di affrontarla, quella fottuta paura impotente.
È tempo di aspettare, ancora una volta.
 
 
La aspettavo lì, come tutte le sere, appoggiato alla portiera della Camaro.
Il sole stava tramontando oltre le mie spalle. Di lì a poco lei avrebbe pedalato verso casa mentre io avrei guidato controvoglia fino al ristorante di Ric dove, tra chiacchiere, una buona dose di lavoro e qualche bicchiere di troppo, si sarebbe fatta notte fonda.
Ma prima che il sole calasse del tutto, c’era quel breve momento tra di noi che ormai era diventato un rituale.
Quasi tutte le sere, dopo quella sera, lei si chiudeva la porta dietro le spalle e appoggiava per terra la sua borsa di tela.
Scambiavamo due parole prima di immergerci ognuno nella propria vita.
Quello che fanno gli amici. Parlano. E io ed Elena potevamo certamente definirci buoni amici in fin dei conti.
Del resto, quando trascorri gran parte della tua esistenza dietro il bancone di un’anonima stazione di servizio di Haight Ashbury, finisci per adattarti un po’ a tutto. Perfino ad uno come me.
Quella sera Elena stava parlando con un vecchietto bizzarro che la teneva in ballo da un sacco di tempo. Eppure non sembrava scontenta di stare a sentire tutte le sagge chiacchiere che lui le stava propinando. Al contrario, lo ascoltava con molta attenzione, intervenendo solo di tanto in tanto.
Sapeva che ero lì fuori per lei.
Ogni tanto sollevava gli occhi, rivolgendomi un piccolo sorriso colmo di scuse.
Con la sua mano minuta spostava i capelli dietro l’orecchio. Quella sera, colpiti dai bagliori del sole, avevano il colore delle castagne mature. E poi c’erano quelle dita sottili, con le quali stuzzicava continuamente la cerniera della sua felpa blu.
Mi piaceva quel suo modo così innocente di nascondere l’imbarazzo.
E – dannazione – non era la sola cosa di lei ad avermi colpito.
 
Finalmente il vecchietto si era deciso a togliere il disturbo. Portava occhiali spessi, un cappellino dei San Francisco 49ers e si reggeva a malapena in piedi, ma non aveva rinunciato ad accendersi una sigaretta appena fuori dalla porta.
 
“Scusa il ritardo.”
 
Elena era arrivata di corsa e come al solito aveva lanciato sull’asfalto quella sua borsa piena di libri e di quei fogli da tradurre che spuntavano da tutte le parti quando lei era nei paraggi.
La signorina faccio tutto da sola lavorava giorno e notte pur di non dover chiedere niente a nessuno. Una delle cose che mi piacevano di lei.
Si era appoggiata anche lei al cofano della Camaro, guadagnandosi un’occhiataccia da parte mia alla quale aveva risposto sollevando lo sguardo al cielo per poi esplodere in uno dei suoi sorrisi furbi ma sempre un po’ timidi.
 
“Allora Damon, come sta tua madre?”
 
Me lo chiedeva sempre da quando aveva scoperto che lei non era esattamente il prototipo di quel che si dice la perfetta casalinga americana. Chissà, forse voleva in qualche modo essere partecipe della situazione.
 
“Come una che si fa una scatola di valium a settimana. Perché lo chiedi a me?”
 
“Sai che a Stefan non piace parlarne.”
 
“Giusto.”
 
Decisi che era il caso di cambiare subito argomento, prima di sfociare in una battuta sarcastica delle mie sull’atteggiamento reticente di mio fratello nei confronti dei problemi della nostra famiglia.
 
“Che voleva quello?”
 
“Chi? Frank? È un mio amico…”
 
“Te li scegli bene.”
 
L’avevo guardata dall’alto in basso e proprio non ero riuscito a trattenere un mezzo ghigno.
Lei aveva gonfiato le guance e serrato le labbra con finta indignazione, rifilandomi un ridicolo schiaffetto sul petto col dorso della mano. Mi aveva solo fatto ridere di più.
Prima quella specie di bestione dai dubbi gusti musicali, che si trasformava in un tenero, bavoso, orsetto di pelouche appena Elena metteva piede nel suo pub, adesso questo.
 
“Ti rivelo un segreto,” aveva continuato lei, distogliendo lo sguardo da me per lasciarlo vagare verso un punto imprecisato davanti a sé “ho un debole per le persone un po’ bizzarre. Mi piace la gente che ha vissuto, che ha qualcosa da raccontare, che sa catturare l’essenza delle cose. Mi piace scoprire in loro quello che nessun’altro vuole vedere.”
 
Mentre terminava la frase era tornata a guardarmi per un secondo, abbassando gli occhi subito dopo. Forse era l’effetto del tramonto, ma mi era parso di vedere dei riflessi mai notati prima in quegli occhi simili al cioccolato fuso, e le sue guance colorarsi leggermente.
Non aggiunsi nient’altro. Pensai semplicemente che, in fondo, valeva sempre la pena di aspettarla.
 
***
 
Forse è proprio così che mi sono innamorato di te.
Spiandoti da lontano, in disparte, convinto che guardandoti avrei colto delle sfumature che solo io potevo leggere nei tuoi occhi. Me ne sono accorto troppo tardi, quando ormai non potevo più fare a meno di te e di trascinarti in qualcosa che per me era diventato irrinunciabile.
E adesso sono qui a fissare una porta bianca senza poter fare niente, mentre tu paghi le conseguenze del mio egoismo.
 
“Damon!”
 
Mi volto verso la voce che ha parlato. Caroline sta in piedi davanti a me, le pupille come due puntini scuri che annegano in un mare colmo di azzurro e di lacrime, le labbra che tremano.
Mi alzo in piedi e lei mi getta le braccia al collo, spiazzandomi, aggrappandosi forte alla stoffa della mia camicia.
Quando appoggio una mano sulla sua schiena, mi accorgo che è scossa dai singhiozzi.
Io sono soltanto una statua di marmo fra le sue braccia tremanti.
 
“Ancora nessuna notizia?” sussurra contro il mio petto.
 
“Per ora no.”
 
A pochi passi da noi c’è una donna non molto alta dai capelli scuri e lisci.
Anche lei ha gli occhi pieni di lacrime. Li riconosco subito, sono quelli di Elena.
Le somiglia moltissimo. Lo stesso sguardo, lo stesso identico modo di tormentarsi le mani.
Elena si incazzerebbe un mondo se glielo dicessi.
E poi c’è suo padre, Grayson. Lui lo conosco fin troppo bene. Se ne sta lì in piedi, con la giacca perfettamente stirata e l’espressione altèra.
Caroline si stacca da me asciugandosi gli occhi col dorso della mano, fa un passo indietro.
 
“Miranda, lui è Damon, il ragazzo di Elena.”
 
Mi sorprendo delle sue parole e della naturalezza con cui lei le dice, nonostante tutto.
 
“Damon chi? Il fratello di Stefan?”
 
È lui a parlare stavolta.
 
“In carne e ossa.” rispondo. Quell’uomo così simile a mio padre mi guarda di sfuggita, poi si rivolge alla sua ex moglie. Il suo volto è carico di un’ironia che mi infastidisce.
 
“Elena ti somiglia più di quanto potessi immaginare.”
 
Chissà cosa penserebbe lei se sapesse che mi hanno rispedito ai servizi sociali per aver aggredito Grayson. Mentre valuto se sia il caso di scoprirlo, lo guardo fisso.
Poi mi rivolgo nuovamente a Caroline.
 
“Dovresti chiamare John. Elena sarà felice di vedere suo padre non appena si decideranno a portarla fuori da là dentro.”
 
Non faccio in tempo a notare le reazioni provocate dalle mie parole e, tra l’altro, non mi importa nemmeno.
Ric si avvicina, tirandomi per un braccio.

“Damon, dobbiamo recuperare le cose di Elena. Documenti, tessera di previdenza sociale. Puoi pensarci tu o…”
 
Sposto lo sguardo sulla sua mano, di nuovo appoggiata alla mia spalla a tentare di darmi forza, di trasmettermi la lucidità che mi manca.
 
“Vado io Ric. Solo avvisami quando lei… se lei…”
 
“Puoi contarci.”
 
***
 
Faccio scattare la serratura dopo aver prelevato le chiavi che Elena tiene nascoste in un vaso fuori dalla porta, quello con la pianta di plastica “dove non guarderebbe nessuno, perché è troppo impolverata”. Elena e la sua propensione e fidarsi troppo del prossimo.
L’ho scoperto quella sera, quando sono venuto sotto casa sua.
La sera del film, della pizza scaldata al microonde, dei miei pensieri che proprio non volevano saperne di stare al loro posto.
Tengo gli occhi bassi. Non voglio guardare troppo in giro. Tutto mi ricorderebbe dannatamente  lei e gli sbagli che ho fatto. Il poster giallo del suo film preferito sopra il divano, la confusione, il suo profumo dappertutto. Ma tutti i miei propositi non servono a niente, perché ho la testa troppo piena di lei e la sua presenza si sente dappertutto.
Entro nella sua stanza. I balconi socchiusi fanno filtrare la luce. Ombre scure si allungano sul vuoto che Elena ha lasciato dietro di sé.
Faccio scricchiolare le assi di legno sotto i miei passi allungo una mano sul comodino dove ha dimenticato il portafoglio con i documenti.
Mi siedo fra le lenzuola ancora aggrovigliate, sfiorandole col palmo nell’ostinata ricerca di una traccia del suo calore. Continuo a rivivere in loop il tempo trascorso con lei.
Sembra che sia passata una vita anziché poche ore. Possibile che sia successo veramente?
 
 
Quando apro gli occhi devo fare mente locale per rendermi conto esattamente di dove mi trovo. Possibile che sia successo veramente?
Ma poi mi volto alla mia destra ed è ancora qui, con i capelli ingarbugliati, gli occhi chiusi, le dita intrecciate nascoste dal cuscino.
La posso guardare, distante poco più di un respiro, illuminata dalla luce tenue che proviene dall’esterno.
Ed è l’esaltazione estrema di qualunque cosa io abbia mai desiderato.
Ho l’impressione che sia in grado di riempire qualsiasi vuoto, qualsiasi assenza del mio passato. Non è un sentimento familiare, anche se qualche volta ho immaginato come potesse essere. È paura ed è speranza.
Poi lei apre gli occhi, più luminosi di sempre. Sorride pigramente.
 
“Non stavi dormendo ragazzina.”
 
“Nemmeno tu.”
 
“Già, ma tu fingi sempre di dormire quando ti guardo.”
 
Esita un attimo, nasconde gli occhi sotto le ciglia scure.
 
“Ho sempre avuto paura di guardarti troppo a fondo. Avrebbe significato fare i conti con qualcosa che non ero pronta ad affrontare. Almeno fino ad oggi.”
 
La sua voce è bassa, le parole appena un sussurro.
Quando noto le sue guance che si colorano lievemente non posso fare a meno di rivolgerle un sorriso a metà.
Però questa volta lei non abbassa lo sguardo. Lo tiene fisso sulle mie labbra.
Poi allunga una mano per intrecciarla fra i miei capelli, attirandomi verso di lei fino a che non sento il suo sorriso sulla bocca, cosa che non fa altro che farmi venire voglia di riprendere tutto esattamente da dove abbiamo interrotto poco fa.
Le avvolgo le braccia intorno, lascio scorrere le mani sulla sua schiena scalzando senza troppi complimenti il lenzuolo che la copre appena.
Non c’è un limite al mio bisogno di averla addosso, forse per tutte le volte che l’ho desiderato senza poterlo fare. Fanculo, non voglio pensarci adesso.
Preferisco concentrarmi su di lei, sentire più intensamente di prima la consistenza della sua pelle mentre seguo le curve del suo corpo, il suo sapore che mi dà alla testa più di qualunque altro io abbia mai conosciuto. E la cosa mi piace maledettamente, così come intuire nei suoi respiri spezzati l’effetto che le fa.
È tutto diverso questa volta. So che non le sto rubando niente.
La afferro per un fianco e in un attimo la porto sotto di me. Allungo una mano per portarla fra le sue gambe, scoprendola ancora calda e bagnata. Per me.
Per qualche istante tengo la fronte premuta contro la sua, in silenzio, lasciandomi invadere da tutti i pensieri e gli impulsi che mi crescono dentro.
Le avvolgo una guancia col palmo, sfiorandole il mento con il pollice.
Le sue dita mi stringono ancora i capelli alla base del collo. Mi tiene fermo addosso a lei, imprigionandomi come ha sempre fatto.
Ci respiriamo per un po’ mentre la guardo negli occhi, dicendole tutto in silenzio.
 
“Riesci a immaginare un futuro insieme a me Damon? Perché io non riesco a vedere altro.”
 
“Credo di averlo visto la prima volta che ho posato gli occhi su di te.”
 
Non serve aggiungere nient’altro.
Un secondo dopo sono dentro di lei, che mi accompagna con un altro sospiro soffocato contro la mia spalla. È una sensazione meravigliosa. Sa finalmente di completezza.
 
***
 
Quando torno in ospedale ci trovo Ric rannicchiato sulla solita sedia sbiadita.
I parenti di Elena non ci sono più e nemmeno Caroline è nei paraggi.
Basta che Ric sollevi lo sguardo nel mio per trovarci tutta la stanchezza e l’apprensione di poco fa moltiplicata in modo esponenziale.
Lo vedo alzarsi quasi intimorito e dirigersi verso di me. Stringo i pugni, le unghie mi affondano nella pelle un po’ di più ad ogni suo passo.
 
“Cosa?”
 
“Il trauma cranico è stato molto forte. C’è un ematoma che comprime…”
 
“Che significa?”
 
“Bisogna capire se…”
 
Per un attimo mi disconnetto dal mondo, come se il buio congelato che è piombato addosso ad Elena stesse avvolgendo anche me.
Subito dopo, tutto il peso opprimente dell’incertezza mi precipita addosso di colpo.
So già come finisce il discorso dopo quel se. È solo che non lo posso ascoltare.
Se si salverà. Se ci saranno lesioni. Se saranno gravi. Se tornerà come prima.
 
***
 
Raggiungo il reparto come un automa. La madre di Elena è in un angolo, fra le braccia di Caroline che cerca di consolarla, asciugandosi le lacrime che le precipitano sulle guance.
Il padre non lo vedo, ma di fronte alla parete di vetro della stanza c’è mio fratello che guarda fisso davanti a sé.
Senza pensarci lo raggiungo. Eccoci qui, io e lui, in piedi davanti alla donna che amiamo entrambi. Solo che io non ce la faccio a credere che sia lei la sagoma oltre quel vetro, avvolta in quelle lenzuola bianche. Se lo facessi sento che potrei crollare sotto il peso di una realtà che mi sembra troppo assurda per essere vera. È Stefan a interrompere per primo il silenzio surreale che ci avvolge.
 
“Damon io… sono stato io a ridurla così.”
 
“Non parlare.”
 
La sua voce è incrinata, la mia ancora ferma. Come la mia mano. Serro le labbra, scuoto la testa. Non mi importa di niente, di niente. Tutto quello che desidero adesso è sentire dolore addosso. Una ferita che sanguini per davvero, portandosi dietro il male peggiore. Quello che corrode dentro. Vorrei esserci finito io sotto le ruote di quel suv maledetto a farmi sbriciolare la carne.
 
“Avevi ragione tu Stef. E sai perché? Perché non hai creduto neanche per un secondo che io fossi in grado di renderla felice.”
 
Il suo sospiro spezzato mi arriva all’orecchio al rallentatore, come un’eco lontana nella mia mente schiacciata dal vuoto.
 
“Mi hanno detto che posso entrare per qualche minuto,” prosegue “ma credo che dovresti farlo tu.”
 
“Perché?”
 
“Perché è di te che ha bisogno.” mormora. La sua voce è poco più che un sospiro amaro.
 
“Non sono abbastanza.”
 
“Tu provaci.”
 
***
 
Sento, prima ancora di vederlo, il bip ripetuto del monitor. Poi la flebo, la goccia di liquido che scende scandendo secondi interminabili. La cannula corre giù, fino all’ago infilato nella sua piccola mano inerte. La guardo, anche se non lo vorrei fare, ma poi mi impongo di tenere gli occhi fissi sulle bende strette intorno alla sua testa, sul suo viso pallido coperto di lividi.
Assorbo lentamente ogni dettaglio. Ogni segno bluastro sulla sua pelle si porta via una parte di me e più sto male, più insisto.
Me la voglio ricordare bene quest’immagine di lei, voglio che sia un promemoria del mio sciocco egoismo.
 
“Perché non mi hai mandato a farmi fottere subito Elena? Non saresti qui, adesso.”
 
Afferro la sua mano tra le mie con tutta la delicatezza che mi riesce. Faccio scorrere il pollice su ognuna delle sue dita. Sono così fredde…
Quando torno a guardarla in viso, ho gli occhi appannati da uno spesso, sconosciuto, strato di acqua salata. Ci faccio scorrere la manica della camicia, portandomi via la scia bagnata che mi oscurava la vista. È come se il nodo che mi opprimeva la gola mi lasciasse all’improvviso lo spazio di una tregua. È in quel momento che me ne accorgo. Mi tremano le mani.
 
“Non andare via, Elena.” la supplico, lasciandole un bacio lì dove l'ago le buca la pelle.
 
Quando esco sbattendo la porta, sento a malapena le voci che si rincorrono chiamando il mio nome. Fanculo anche a loro, non riesco più a respirare.
Scendo in fretta le scale senza guardarmi indietro.
Appena metto un piede fuori dalla porta, sono costretto ad abbassarmi sulle gambe, cercando di inalare l'aria più lentamente che posso.
 
“Buonasera Damon.”
 
Per un attimo mi racconto che quella voce odiosa e tagliente non può essere altro che un prodotto della mia mente. Invece no. Perché al peggio non c’è mai fine.
È proprio Klaus Mikaelson in persona quello che se ne sta in piedi di fronte a me, con le sue scarpe lucide, il completo da mille dollari e l’immancabile sorrisetto stronzo.
 
“Cosa vuoi? Francamente le tue apparizioni a sorpresa cominciano ad essere banali.”
 
“Ti ho cercato al ristorante e sono stato gentilmente informato della situazione. Mi dispiace molto per la tua amica.”
 
“Grazie per l’interessamento. Adesso sparisci.”
 
“Non così in fretta. Si può sapere dov’è tuo fratello? É irrintracciabile.”
 
“Beh Klaus, lo sai no? Devi trovarti un nuovo consulente. Stefan ha chiuso con quella merda. E comunque, non lo vedo da giorni.”
 
Mento, e so di farlo bene.
Lui non si scompone, almeno all’apparenza. Tutt’altro. Stringe gli occhi con aria compiaciuta, sfidandomi ancora una volta con lo sguardo e tenendo le braccia incrociate sul petto.
 
“A me risulta un’altra versione, molto più divertente. Per quanto ne so io tu e lui vi spartite le attenzioni della vostra troietta, non è così? Elena. Si chiama così giusto?”
 
Un solo istante e sono di nuovo in piedi, a un centimetro dal suo viso, che resta immobile.
Piego la testa di lato.
 
“Sei da solo stasera Klaus.”
 
Non è una domanda. Lui alza le spalle con aria indifferente.
 
“Attento. Un passo falso e sei di nuovo ad Oakland.”
 
Improvvisamente mi sento sollevato. Di più. Sono contento, davvero contento che lui sia qui.
 
 
I'm not living
I'm just killing time
Your tiny hands
Your crazy kitten smile
 
Just don't leave…
***     
Non sto vivendo
Sto solo ammazzando il tempo
Le tue mani sottili
I tuoi pazzi sorrisi da gattina
 
Almeno, non andartene…
 
True Love Waits – Radiohead
 
 
*********
Ciao. Immaginate, penso, il mio livello di paranoia nel pubblicare questo capitolo.
Naturale che un po’ di ansia ci sta, mi dispiace molto deludere chi con pazienza continua a seguirmi.
Però quando scrivo questa incasinatissima storia non so neanche io cosa succede, devo per forza correre dietro alle mie idee strampalate. Non so neanche da che angolo della mia mente saltino fuori, anche perché come sapete, sono in un periodo sereno della vita in cui viaggio su nuvolette rosa popolate da unicorni.
So solo che questa storia ha preso questa piega drammatica inaspettatissima, ma non riesco a svoltare.
In ogni caso penso che per il prossimo capitolo ci vorrà un bel po’… ma arriverà. Sempre che qualcuna di voi riesca a digerire questo. Trucidatemi pure se volete, so di avere delle lettrici affettuose ma sincere.
Baci
Chiara

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Capitolo 18
*** A Rush Of Blood To The Head ***


CAPITOLO 16 – A RUSH OF BLOOD TO THE HEAD
 
I should know who I am by now
I walk, the record stands somehow
Thinking of winter
Your name is the splinter inside me while I wait…
The walk has all been cleared by now
Your voice is all I hear somehow
Calling out winter
Your voice is the splinter inside me while I wait…
And I don't have to stay this way
If only I would wake
I could've lost myself in rough blue waters in your eyes
And I miss you still
***
Ormai dovrei sapere chi sono
Cammino, il ricordo rimane in qualche modo
Pensando all'inverno
Il tuo nome è la scheggia dentro di me mentre aspetto…
Il sentiero è stato cancellato ormai
La tua voce è tutto quello che sento in qualche modo
Chiamando l'inverno
La tua voce è la scheggia dentro di me mentre aspetto…
E non devo stare in questo modo
Se solo mi svegliassi
Potrei aver perso me stessa nelle grezze acque blu dei tuoi occhi
E tuttavia mi manchi
 
Winter – Joshua Radin
 
 
“…dovresti sentirtelo dire…”
 
Damon
 
“Stagli alla larga, siamo intesi?”
 
Dopo aver chiuso per l’ultima volta le ante dell’armadio ormai vuoto, rivolgo l’attenzione a Stefan per assicurarmi che abbia ben assimilato le mie parole.
Gli ho appena raccontato a grandi linee del mio recente scambio di opinioni con Klaus, incluse le minacce non troppo velate nei suoi confronti, ma lui sembra non curarsene affatto.
È seduto sul mio letto, le mani poggiate sulle ginocchia, gli occhi vuoti incollati alla moquette da minuti che sembrano scorrere più lentamente del solito.
Un silenzio ingombrante è scivolato tra noi fin dal momento in cui è entrato in questa stanza, sorprendendomi a riempire un borsone con le poche cose che mi appartengono.
 
Può sembrare una fuga e forse lo è davvero.
Tolgo il disturbo, come avrei dovuto fare già da molto tempo, perché se stare qui dentro per me non è mai stato semplice con mio padre e tutto il resto, adesso è diventato impossibile.
Per dire la verità non mi sento a mio agio in nessun posto, ma per ora ho accettato l’offerta di Ric, che mi ha messo a disposizione una piccola mansarda sopra al locale dove potrò restare “Fino a che non si sistemeranno le cose.”
 
Una prospettiva che sembra sempre troppo distante.
 
La verità è che voglio per lo meno provare a cercarmi un altrove, un modo per ricominciare daccapo per quanto possibile.
Afferro un paio di magliette appoggiate sul copriletto a quadri, proprio a fianco a mio fratello, le lancio sopra al mucchio scuro dei miei vestiti, chiudo la zip.
 
“Fai sul serio. Te ne vai.”
 
I suoi occhi si sollevano nei miei, ma non sembrano in cerca di una risposta.
Me lo dicono le sue labbra, contratte in un’espressione amara e le sue dita che affondano un po’ più forte nel tessuto ruvido dei jeans.
 
“Non ha niente a che vedere con te, Stef.” lo rassicuro.
 
Perché lo conosco e so che è schiacciato dal senso di colpa per ciò che è successo ad Elena.
Ma sono io che mi sento soffocare se lo guardo, pensando a dove ci ha portati la nostra mancanza di sincerità, tutti i vuoti che hanno riempito i nostri silenzi e le bugie che ci siamo raccontati fino ad arrivare a questo punto.
Sarebbe così facile per me urlargli contro un disprezzo che di certo non merita, incolparlo di tutto e annientarlo prima a parole e poi con i fatti.
Forse ho desiderato farlo davvero, la prima volta che l’ho visto guardare il corpo incosciente di Elena su quel letto, al di là del vetro.
Ma la verità è che alla fine dei conti non credo mi farebbe stare meglio, né sarebbe giusto.
Prima di tutto perché quello che è successo non dipende da Stefan.
E poi per lei. Per essere migliore per lei. Per non fare niente che possa offenderla, ferirla o dimostrare ancora una volta a me stesso che starebbe molto meglio senza di me.
Non me ne è mai fregato niente, prima. Ma poi… la vita è così strana.
Ti porta regali inaspettati e te li toglie quando ormai è troppo tardi.
 
Per me ora è troppo tardi.
Niente sarà più come prima e io non posso più stare qui.
 
Non posso guardare mio fratello che sta male per Elena, non posso incrociarlo in giro per casa sapendo che nonostante tutto lui sa tutto di me, che può leggermi dentro e scoprirmi debole e disperato.
Non posso urlargli contro tutta la mia fottuta angoscia come ho fatto ieri con Ric, quando gli ho detto che non credo di essere in grado di andare avanti senza di lei.
Non posso perché, nel mio modo assurdo e distorto, a Stefan devo rispetto.
Non posso perché se ci fosse lui al posto di Elena, su quel maledetto letto d’ospedale, mi sentirei esattamente come mi sento adesso. Senza via d’uscita.
 
Perché sono passati due giorni ma Elena non è tornata.
Non per sua madre, che non l’ha mai abbandonata, né per Caroline che ha passato ore a raccontarle gli ultimi gossip di Berkeley e pettinarle i capelli, sforzandosi di ridere mentre le lacrime le gonfiavano gli occhi.
E non è tornata nemmeno per me.
 
Ieri sera la guardavo.
Era immobile, immersa nel bianco delle lenzuola e nel buio che non si decide a restituirmela.
I lividi che le coprivano il viso hanno iniziato a schiarirsi e vista così, nella penombra, sembrava stesse semplicemente dormendo. Le ho parlato sottovoce, per non spaventarla.
 
“Apri gli occhi Elena. Dimostrami che stai fingendo, che mi stai prendendo in giro come tutte le volte.”
 
Ho accarezzato la pelle tiepida della sua guancia con la punta delle dita.
 
“Sei sempre bellissima.”
 
Non so neanche io perché ma per un attimo mi sono tornati in mente altri momenti della mia vita, altre donne che ho sfiorato pensando a quanto fossero belle e quanto poco contassero per me.
 
Lo sai, dovresti proprio svegliarti Elena. Vorrei dirti qualcosa, qualcosa che non ho mai detto. Ma non sarò così egoista da farlo senza che tu possa rispondermi per le rime. Ho bisogno di dirtelo guardandoti negli occhi e tu dovresti sentirtelo dire. Quindi cosa ne pensi di darti una mossa?”
 
L’ho sfidata. Così, stupidamente. Volevo mi dimostrasse ancora una volta la sua cocciutaggine, che aprisse gli occhi e mi dicesse “Andiamo Damon, dì quello che devi dire e falla finita!”
 
L’ho aspettata a lungo, mentre la pallida luce al neon proveniente dal corridoio riempiva di ombre e riflessi il suo viso perfettamente immobile.
Il dolore è diventato assoluto, un senso di mancanza troppo intenso per poterlo sopportare.
Non saprei dire quanto tempo fosse passato quando poi mi sono deciso ad alzarmi.
Sulla porta mi sono girato ancora verso di lei.
Alla fine sono tornato qui, cedendo il posto a John.
 
 
“Non sentirai la mia mancanza Stef, verrò qui tutti i giorni. Sai, per nostra madre e… tu puoi venire da me, se… se hai bisogno. Cerca di fare come ti ho detto con Klaus siamo intesi?”
 
Gli faccio la raccomandazione con un tono fintamente severo, puntandogli un dito contro come quando eravamo bambini. Solo che allora lui mi stava addirittura a sentire. Bei tempi, quelli.
 
“Lascia perdere Klaus. Non può fare niente. Piuttosto… volevo dirti che…”
 
Distoglie lo sguardo, ancora una volta. Lo conosco così bene che riesco quasi a percepire la sua lotta interiore. Lo so che vuole dirmi qualcosa e so anche che questo gli sta costando parecchia fatica, così come per me non è del tutto semplice ascoltarlo.
 
“Damon, io e te abbiamo passato molti brutti momenti, specie ultimamente e soprattutto per quello che è successo con Elena.”
 
“Oh beh… non ha più molta importanza.” lo interrompo, sollevando le spalle con fare indifferente. Sembra tutto così lontano, così assurdo e così stupido.
 
“Ne ha invece. Perché vorrei che tu sapessi…”
 
Le sue parole rimangono lì, sospese a mezz’aria fra di noi.
So che è venuto il momento di venirgli in aiuto.
 
“Lo so.”
 
Forse è poco.
Forse dovrei dire qualcos’altro, qualcosa di meglio o di più, ma in fondo lo so che basta così.
Che io e Stefan non abbiamo mai avuto bisogno di grandi discorsi per capirci.
Il cellulare mi vibra in tasca. Lo prendo più in fretta che posso e quando vedo il nome di Caroline sul display, come succede spesso negli ultimi giorni, non so cosa pensare.
Può voler dire tutto o niente, precipitare o ricominciare a vivere.
 
“Barbie…”
 
“Damon...Elena si è svegliata.”
 
 
Elena
 
La prima cosa che ricordo è una luce che mi colpisce il viso, forse un raggio di sole.
Poi un suono fastidioso e ripetuto nelle orecchie, l’agghiacciante consapevolezza dell’impossibilità di muovermi, la fatica per aprire anche di poco gli occhi.
E infine il volto di mia madre, le sue lacrime, la felicità più pura che si è trasformata in ansia quando ha notato i miei occhi terrorizzati dal non sapere dove mi trovassi e perché.
Allora si è accoccolata accanto a me, spiegandomi all’orecchio tutto quello che è successo. L’incidente, il suv, i soccorsi.
Piano piano ho ricordato tutto e allora anche io ho avuto voglia di piangere, abbracciarla e abbandonarmi a lei, alle sue carezze. Essere fragile, indifesa tra le sue braccia, figlia, come non mi sentivo da troppo tempo.
 
Poi i medici l’hanno portata via, sono iniziati i controlli, le domande per capire come sono, quanto del mio cervello si è salvato e quanto è rimasto incastrato tra i rottami della mia macchina.
Ho dovuto rispondere a mille quesiti uguali: come ti chiami, quando sei nata, in che mese siamo. Eppure pare che io sia estremamente fortunata. Che vada tutto bene, come prima.
È come se fossi entrata in una parentesi lunga troppe ore, nella quale ho semplicemente smesso di vivere la mia vita per un po’ per rinascere oggi.
In mezzo è tutto buio, un vuoto totale e anestetizzante che si è portato via i ricordi di questi due terribili giorni.
Eccetto uno. Tre parole che hanno sfidato l’incoscienza e mi si sono impigliate dentro.
Sono lì e mi martellano i pensieri, quasi come un sogno che fatica a svanire per lasciar spazio alla realtà.
 
Caroline entra dalla porta, l’hanno lasciata passare.
La guardo di sotto in su. Gli occhi cerchiati di scuro, la pelle arrossata e la maglia sgualcita, assolutamente non da lei.
Sembra volersi piegare istintivamente su di me per toccarmi, ma poi si trattiene come se fosse bloccata da una sorta di elastico invisibile.
 
“Elena. Quanto vorrei abbracciarti! Subito dopo averti schiaffeggiata, ovviamente. Quante volte te l’ho detto di andar piano quando guidi!” esclama, ridendo e piangendo insieme, facendomi sentire subito a casa.
 
“Sono messa così male?” chiedo con un filo di voce, un po’ preoccupata dal suo modo di guardarmi.
In effetti non ho idea di quale sia il mio aspetto. So soltanto che a quanto pare ho un braccio rotto, che sono parecchio indolenzita e che al momento ho una specie di martello pneumatico nella testa. Una testa piuttosto dura a dire la verità, dato che sembra io abbia sfondato un parabrezza senza scalfirmi più di tanto.
 
“Non hai niente che un buon fondotinta non possa rimediare,” risponde, facendomi l’occhiolino  “anzi, a casa dovrei avene uno bello pesante che ho comprato per un terribile sfogo di acne… te lo presto, ma giura che non dirai a nessuno che sono stata io a dartelo.”
 
Poi ride, ed io con lei. Piano, con la paura di spaccare qualcos’altro nella mia faccia già piuttosto rovinata. Quando torno a guardarla sta piangendo di nuovo.
 
“Oh, Elena. Scusami è che mi hai fatto prendere così tanta paura.”
 
“Va tutto bene adesso. Sono qui.”
 
Mi prende la mano, sorride fra le lacrime. Mi scopro a pensare che il suo è un sorriso splendido, di quelli che scaldano dentro.
È così bello vederlo. È bello poterlo vedere.
Improvvisamente ho voglia di un pomeriggio spensierato insieme a lei, di abbracciarla, dirle che le voglio bene e farmi stordire dalle sue chiacchiere fino a rimpiangere il coma.
Ci sono cose che sai già, ma che riconosci davvero solo quando scopri di averle perse o dimenticate in qualche angolo della memoria.
 
“Care… dov’è Damon?” chiedo. Suona quasi come una supplica.
 
E forse sono ridicola, ma non riesco a nascondere questa mia fragilità, questo bisogno di vederlo che è rimasto uguale, intatto. Il desiderio di sapere che lui sta bene è l’unica cosa che è resistita, come un frammento incastrato nel cuore. Ha attraversato il buio e la mia incoscienza ed è ancora qui, con la stessa urgenza che mi ha mossa fino ad un secondo prima dell’incidente.
Cosa sarà successo mentre dormivo?
Ci penso da questa mattina. Penso a Damon e stupidamente, proprio come una ragazzina idiota, immagino che anche lui stia facendo lo stesso. Allora perché non è qui, con me?
La mia amica mi rivolge uno sguardo tenero e indulgente che scioglie in un istante il nodo che mi serra la  gola e, ancora una volta, mi fa pizzicare gli occhi.
 
“Arriverà fra poco. Non preoccuparti. Nel frattempo, c’è una persona che vorrebbe incontrarti Elena.”
 
 
Damon
 
Ho mandato avanti Stefan.
L’ho fatto perché mi serviva un momento con me stesso, uno di quelli che non sono ancora in grado di spartire con lui, forse perché faccio fatica a condividerlo perfino con me stesso.
Un momento per portarmi una mano al petto, per respirare di nuovo, mentre mille sentimenti fuori controllo mi si mescolano nello stomaco.
È come se qualcosa, quel qualcosa che mi soffocava, stesse scivolando via liberandomi da dentro.
Non so spiegarlo, ma ha il sapore di un ritorno alla vita.
Un’altra cosa che non so è quello che riuscirò a dirle.
Forse semplicemente andrò lì e mi incazzerò con lei per quanto è stata imprudente.
Forse improvviserò, lasciandomi invadere piano piano dalla sensazione dei suoi occhi addosso, nel sentire la sua voce che mi parla.
So solo che è tornata e tutto il resto si è appannato.
Che potrà avere di nuovo tutto quello che desidero per lei, indipendentemente da me. Nonostante me. Che solo questo importa, in fin dei conti.
 
Alzo gli occhi al cielo per un attimo.
A quanto pare qualcuno lassù ha ascoltato le mie preghiere ipocrite, quelle che saltano fuori solo nei momenti in cui si ha davvero bisogno di aggrapparsi a qualcosa, anche a quello in cui si è smesso di credere da un po’.
 
“Beh, grazie. Chiunque tu sia, sono in debito.” dico ad alta voce, accompagnando le parole con un’alzata di spalle.
 
Prendo il borsone, mi chiudo la porta dietro le spalle.
Scendo i gradini due per volta, ma quando spalanco il portone d’ingresso con la fretta dell’impazienza, mi trovo davanti l’ennesimo imprevisto.
 
Il contrattempo in questione è una bella donna, bionda, sulla quarantina.
Non esattamente il mio tipo, devo dire, comunque la conosco piuttosto bene.
Abbastanza da rivolgerle un sorriso storto e strafottente e ottenere in cambio un suo sbuffo spazientito.
 
“Sceriffo.”
 
“Damon. Come va?”
 
“Qual buon vento?”
 
“Non mi fai entrare?”
 
“Veramente vado di fretta.”
 
“Beh, qualunque sia il motivo dovrai aspettare. Sei nei guai, un’altra volta.”
 
 
Mezz’ora dopo siamo ancora in salotto, io con un bicchiere in mano che ho svuotato già troppe volte, lei con un’espressione dispiaciuta ma pur sempre severa, le mani intrecciate l’una nell’altra che non fanno che tormentarsi.
Cammino in su e in giù per la stanza. Apro una finestra per far passare l’aria.
Mi sembra che tutto sia tornato, di nuovo, fottutamente soffocante.
 
“Quando imparerai a non immischiarti più con quella famiglia?” mi rimprovera lei, con quel suo piglio da mamma chioccia che ogni tanto salta fuori prendendo il sopravvento sulla divisa.
 
“Non ho fatto niente Liz,” sbotto “come te lo devo dire? Ok, abbiamo avuto un… diverbio, chiamiamolo così. E si, avrei voluto farlo, ma non l’ho toccato. Se mi vedesse oggi, l’assistente sociale di Oakland stapperebbe una bottiglia di champagne e si sentirebbe così realizzata da chiedere il pensionamento anticipato. Devi credermi. Sai, per una volta ho provato ad essere migliore per… beh, lascia perdere.”
 
A che servirebbe spiegarle come è andata? La mia parola contro quella dei Mikaelson non è mai valsa più di tanto. Mi riempio un’altra volta il bicchiere per svuotarlo un secondo dopo.
Quando ho detto di essere in debito non immaginavo di dover espiare così in fretta, ma a quanto pare il karma si sta prendendo gioco di me. Un’altra cazzo di volta.
 
“Io ti credo Damon, ma Klaus sostiene che lo hai aggredito e minacciato. Si è presentato con tanto di certificato medico…”
 
“…falso.”
 
“Sarà anche falso, ma i lividi che aveva in faccia sembravano proprio veri.”
 
Liz alza la voce di un tono. So che sta dalla mia parte, ma ce l’ha con me perché si era fatta promettere che non mi sarei più messo nei casini. Doveva aspettarselo. Dopotutto, rovinarmi con le mie mani è sempre stato il mio sport preferito. Anche se stavolta non c’entro.
 
“Se li sarà fatti fare da uno dei suoi, quei bestioni che si porta in giro… lo sai com’è. Vuole farmela pagare, in più, come se non bastasse, ha un conto in sospeso con mio fratello.”
 
“Certo che lo so. E credimi, vorrei difenderti. Ma visti i tuoi precedenti credo di non poter fare niente questa volta e… nemmeno tuo padre.”
 
Quelle parole mi infastidiscono. Quasi quasi mi pento di non essere andato fino in fondo e non aver sfogato la mia frustrazione con Klaus. Inspiro, butto fuori un po’ d’aria dai polmoni e cerco di ragionare razionalmente. Ok, sono nei casini, di nuovo.
Troverò un modo per cavarmela, ma adesso le mie priorità sono altre.
 
“Ok. Ok. Si fotta anche Klaus. Mandami a casa il verbale Liz, vedrò come uscirne fuori. Se non ti dispiace adesso ho un impegno piuttosto importante che…”
 
La vedo scuotere la testa, sconsolata. Mi punta contro uno sguardo fin troppo grave, in fondo al quale mi sembra di scorgere un “mi dispiace” silenzioso.
Quella che sta per arrivare sembra qualcosa di più di una ramanzina. Qualcosa di peggio.
 
“Non è così che andrà, Damon. Devi venire con me… Klaus ti ha denunciato, sono costretta a chiederti di seguirmi. Devo farti delle domande e, insomma lo sai come funziona.”
 
 
Elena
 
“Dovevo schiantarmi contro un guardrail perché tu mi sorridessi ancora così.”
 
Stefan abbassa lo sguardo, come per schivare il mio, puntandolo sulle mani che continua a sfregarsi insistentemente sui jeans. Le sue labbra rimangono piegate all’insù in un’espressione dolce e serena che mi scioglie il cuore.
Voglio vederlo così e non lasciargli modo di umiliarsi ancora, dicendogli quanto gli dispiace e quanto si senta in colpa.
 
“Non è una critica Stefan. Sto così male per quello che è successo.” mi affretto a specificare, ora che ne ho l’opportunità. La mia voce è poco più di un bisbiglio sommesso.
 
“Invece hai ragione. Probabilmente se non fosse per… beh, lo sai. Non sarei qui Elena. Starei odiando te e mio fratello. E poi forse, fra un bel po’ di tempo, mi sarei svegliato accorgendomi di aver buttato via gli anni migliori della mia vita disprezzandovi.” considera lui, sollevando le ciglia per inchiodarmi nuovamente con uno sguardo che sento penetrarmi fin dentro le ossa, mentre, in preda all’imbarazzo, le mie guance si accendono poco a poco.
 
C’è qualcosa che voglio lui sappia. Qualcosa che non ho avuto il tempo – o il coraggio – di dirgli nel nostro ultimo, disastroso, scambio di opinioni. Qualcosa che è rimasto incastrato nella gola per troppo tempo e adesso preme per uscire.
 
“Lo so che può sembrare assurdo Stefan. Ma ti assicuro che ti voglio bene, e posso giurarti che anche Damon te ne vuole. E c’è di più. Io sono stata l’egoista fra i due. Io l’ho legato a me, forse senza volerlo consapevolmente, ma l’ho fatto. Sempre, da sempre. Anche quando pensavo che non fosse così.” gli dico, il tono incerto che diventa più sicuro poco a poco al pensiero di come Damon sia stato in grado di infiammarmi il cuore perfino quando non mi accorgevo – o non volevo accorgermi – che stesse accadendo.
 
Lui scuote la testa.
 
“Possiamo andare avanti quanto vuoi con questo discorso, ma sai che c’è? Ho capito qualcosa.
È vero, avrei dovuto prendermela con te e non solo con lui ma non ci sono riuscito. Perché io ti ho amata e forse ti amo ancora. E noi potevamo avere molto, moltissimo insieme. Ma tu e Damon potete avere di più. Tu lo ami di più. Lui non può fare a meno di te Elena, e per te è la stessa cosa. Ammetterlo è liberatorio, in un certo senso.”
 
Il modo pacato con cui pronuncia queste frasi, una dopo l’altra, mi ferisce e mi cura allo stesso tempo. Sento due lacrime pesanti rotolarmi sulle guance.
 
“Mi dispiace.” sussurro, un secondo prima che lui prenda la mia mano fra le sue.
 
“Dovresti riposare adesso.” sospira. Lo vedo esitare un attimo prima di andarsene, come se avesse ancora qualcosa da dire. Quando esce il cuore ricomincia a battere irregolare e un senso di irrequietezza si fa strada dentro di me, mi fa mancare il fiato e mi costringe a voltarmi per l’ennesima volta in direzione della finestra, con la stessa domanda a tormentarmi il cuore.
 
 
Damon
 
Quando riesco a raggiungere l’ospedale si è ormai fatto buio.
Non so cosa ho detto per convincere Liz, so solo che sono riuscito a strapparle i dieci minuti di cui ho bisogno.
A quanto pare questo è il massimo potere decisionale che mi resta sulla mia vita e sul mio futuro. A quanto pare sono ingiustificabile, indifendibile.
Mi sento del tutto incapace di fare passi avanti, di scrollarmi di dosso il peso di quella scia di sbagli del passato di cui non riesco a liberarmi, che continua a ricacciarmi indietro, verso un destino che ero convinto di potermi lasciare alle spalle.
Forse tutto questo mi sta succedendo perché, in fondo, non mi sono mai pentito veramente di quello che è successo e se tornassi indietro rifarei ogni cosa.
Perché la mia natura è questa, io sono così e probabilmente dovrò pagarne il prezzo.
Il mio futuro nel migliore dei casi è tra le mura di uno squallido ospedale psichiatrico di Oakland a fare da balia a quattro tizi messi peggio di me.
Stavolta potrebbe addirittura andarmi peggio.
 
In una circostanza normale, il senso di frustrazione sarebbe così forte da far scomparire il resto. Eppure in questo momento non mi importa niente, di niente.
Riesco solo a focalizzarmi su Elena, e quell’ondata che mi attraversa quando sono con lei si porta via tutto il resto. Ne ho bisogno ancora, una volta soltanto.
Ho bisogno che lei sappia che l’ho sempre aspettata e che l’aspetterei per sempre.
 
In sala d’attesa mi accorgo di Stefan e Caroline che parlano sommessamente davanti alla macchina del caffè.
Allungo il passo affondando un po’ di più nel bavero della giacca. Lo so che è sbagliato, ancora, ma in questo momento non sono in grado di affrontare nuove spiegazioni. Ci sarà tempo per quelle. Ora come ora ogni secondo è importante.
 
Quando entro nella stanza di Elena, lei è lì, come l’avevo lasciata.
Il viso è in penombra, non so dire se stia dormendo. Fino a che una voce piccola e terribilmente debole rompe gli indugi.
 
“Ti stavo aspettando. Temevo non venissi più.”
 
Faccio un passo verso di lei, una sagoma pallida e esile fra le lenzuola.
Ma vedere le sue labbra che accennano un sorriso e i suoi occhi, di nuovo vivi, rubare i riflessi della luce al neon che entra debole dal corridoio, è così bello da farmi male al cuore.
 
Ho la testa piena di gesti smisurati, ma non mi viene in mente niente di meglio da dire di un come ti senti, mezzo biascicato per via di quella strana emozione che mi si arrampica dentro fino a riempire la gola.
 
“Come se fossi passata sotto un treno.”
 
“Esagerata. Era solo un suv.”
 
Le rivolgo un sorriso ammiccante che si specchia in una sua risatina sommessa.
Perfino quel gesto sembra costarle troppa fatica.
Mi avvicino al suo letto sedendomi sul bordo con cautela.
È così fragile che temo di romperla avvicinandomi troppo.
Ma poi lei abbassa lo sguardo, corrucciando le labbra in un’espressione timida e dannatamente adorabile.
 
“Mi sei mancato. Anche se, in un certo senso, ero un po’ imbarazzata all’idea che tu mi vedessi… così.”
 
E allora non posso fare a meno di abbassarmi su di lei, sfiorarle le labbra con le mie come se fosse di cristallo, per dirle che è meravigliosa sempre, che la sceglierei sempre fra un miliardo di altre. Così come l’ho scelta il primo giorno che l’ho vista.
L’immagine dell’Elena di allora, così spensierata, si sovrappone a quella che mi guarda adesso con gli occhi gonfi di lacrime, ferendomi dannatamente, più di quanto sia in grado di sopportare.
 
Inspiro il suo profumo, ancora persistente nonostante l’odore acre dei medicinali tenti di coprirlo.
Appoggio le labbra delicatamente lungo la piega della sua guancia, sfiorandole delicatamente l’altra col pollice. Mi riapproprio di lei, della sua consistenza così nuova, così familiare.
Cerco di immagazzinare tutto ciò che riesco e, nel frattempo, di raccogliere la forza per dirle quello vorrei. Che dovrei. Dannazione diventa ogni secondo più difficile.
 
“Dovresti sentirtelo dire…”
 
Quelle parole mi arrivano prima all’orecchio. Poi, lentamente, anche la mente riesce a farle proprie e analizzarle. Mi sollevo di qualche centimetro per poterla guardare negli occhi.
Elena continua, sollevando una mano sottile fino a portarla delicatamente fra i miei capelli, alla base del collo.
 
“Non so se sia stato un sogno… ma da quando mi sono svegliata ho questa frase in testa. È l’unica cosa che ricordo dopo… beh sai. Dopo l’incidente.”
 
Il sangue mi scorre nelle vene a una velocità imbarazzante, cancella qualsiasi pensiero coerente per lasciar spazio a qualcos’altro. E forse è proprio questa la felicità.
 
“Allora era vero che fingevi.” le bisbiglio sulle labbra.
 
Non riesco a fare a meno di sorridere, adesso, nonostante tutto.
I suoi occhi, quasi neri per via della penombra, sono attraversati da una scintilla piena di luce.
Sembrano in cerca di una risposta.
 
“Fallo adesso Damon. Parlami. Cos’è che dovrei sentirmi dire?”
 
 
…And stand here beside me baby,
watch the orange glow.
Someone laughed, some
just sit and cry.
She just sit down there and you wonder why.
 
So I'm gonna buy a gun and start a war,
if you can tell me something worth fighting for.
and I'm gonna buy this place is what i said.
Blame it upon a rush of blood to the head, up to the head.
 
Honey, all the movements have started to make,
see me crumble and fall on my face,
And I know the mistakes that i've made,
See it all disappear without trace.
And they call us, they beckon you on,
they say start as you need to go on.
***
…Resta qui accanto a me
E osserva il bagliore arancione
Qualcuno riderà e qualcun altro
Se ne starà seduto a piangere
Ma tu te ne stai seduta lì e ti chiedi il perché.
 
E allora comprerò una pistola e darò il via a una guerra
Se puoi dirmi qualcosa per cui vale la pena combattere
Sì, comprerò questo posto è quello che ho detto
Dai la colpa a un flusso di sangue alla testa
 
Tesoro, tutti i movimenti che hai iniziato a fare
Mi guardano mentre mi sbriciolo e cado sulla mia stessa faccia
Conosco gli sbagli che ho fatto
Li guardo sparire senza lasciare traccia
E mi chiamano come se mi stessero salutando
E incominciano a farlo
Non appena inizi ad andare avanti
 
A Rush Of Blood To The Head – Coldplay
 
**********
Ragazze!
Sono come al solito in ritardo.
Tante idee confuse scribacchiate qua e là per non dimenticarle, poco tempo per metterle su carta come volevo… purtroppo invece di scrivere mi è toccato lavorare! Ora ho anche il corso per panzone eh, mica pizza e fichi!! ;P
E poi, non lo nego, un po’ di ansia. Più che altro paura. Si, paura di deludere le vostre aspettative dopo il capitolo precedente, che molte di voi mi hanno detto essere il preferito della storia!! Non me lo aspettavo.
Non mi sto lamentando, anzi! Il vostro affetto e le vostre parole mi hanno riempita di gioia e di voglia di continuare al meglio delle mie possibilità questa storia.
Quindi tanti cuoricini e amore per voi <3 <3 <3 grazie ragazze.
Passiamo a questo capitolo. Siete contente che Elena sta meglio? Il resto è un po’ un disastro come sempre.
Non so se voi fate mai caso ai miei suggerimenti musicali (non che siate obbligate, anzi!!) ma se si, la canzone iniziale ci sta bene vero? L’ho scelta perché mi sembrava una metafora della situazione di Elena e poi perché il tema dell’attesa è diventato ricorrente in questa storia e fra questi due personaggi. In realtà non conosco per niente questo autore, ma ricordavo di averla sentita in un episodio cruciale di Shameless che è un altro telefilm per cui stravedo. Qualcuna di voi lo guarda??? Potrei amarvi per questo.
Come sempre rischio di diventare logorroica, perciò scompaio prima di annoiarvi ancora!
Un bacio grande.
Chiara
 
PS
Il prossimo capitolo… so già che farò fatica a scriverlo quindi vogliatemi bene e aspettatemi.

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Capitolo 19
*** Senza un finale che faccia male... ***


CAPITOLO 17 – SENZA UN FINALE CHE FACCIA MALE…
 
Stringimi madre
ho molto peccato
ma la vita è un suicidio
l'amore un rogo
e voglio un pensiero superficiale
che renda la pelle splendida
 
senza un finale che faccia male
coi cuori sporchi
e le mani lavate
a salvarmi
vieni a salvarmi
salvami
bacia il colpevole
se dice la verità
 
Passo le notti
nero e cristallo
a sceglier le carte
che giocherei
a maledire certe domande
che forse era meglio
non farsi mai…
 
Voglio una pelle splendida – Afterhours
 
 
 
Elena
 
“…morale della favola, pare che Stacy avesse una mezza tresca con l’assistente del professor Williams che…”
 
Care, seduta sulla seggiola a fianco al mio letto, continua imperterrita a snocciolare una raffica di notizie scottanti dal campus, sgranando gli occhioni blu e muovendo le mani in aria per sottolineare meglio i concetti.
Annuisco, perdendomi per l’ennesima volta fra i mille fiori colorati che punteggiano il suo vestito.
Desidero farlo, ma non riesco a concentrarmi sulle sue parole, né su nient’altro.
Con la scusa di stiracchiarmi, mi metto più comoda fra i cuscini e getto un’occhiata svelta fuori dalla finestra, lì dove i palazzi si rubano il respiro. Il sole sta per scomparire dietro di loro come tutte le sere, lasciando filtrare qualche raggio a colpire queste lenzuola candide e ruvide a cui non farò mai l’abitudine.
Qui dentro è tutto così soffocante, così ripetitivo. Non credo di riuscire a sopportarlo un secondo di più e allo stesso tempo, ho una paura terribile di tornare alla mia vecchia vita.
La mia casa, i libri da studiare, il lavoro a Haight-Ashbury, i soliti clienti i discorsi di ogni giorno che non cambiano mai. Un tempo amavo tutto questo, mi ci rifugiavo.
 
Ma questo era prima.
 
“…ecco spiegato il motivo del suo voto così alto in statistica. Non me lo dire Elena, so cosa pensi. Sono una vipera che non conosce il significato di solidarietà femminile. Ma aspetta… ti ho già detto di Tyler che…”
 
Vengo investita da una nuova ondata di discorsi che mi sembrano appartenere ad un altro pianeta. Mi mordo il labbro, sforzandomi di ascoltare e di tenere a bada i miei pensieri sempre in corsa verso altre direzioni.
Ci provo con tutta me stessa, cerco davvero di focalizzarmi su Tyler, Stacy o qualsiasi altra sciocchezza possa essere accaduta durante la mia breve assenza, ma per l’ennesima volta le parole di Caroline sbiadiscono nella confusione della mia mente. L’unica cosa che vorrei davvero è scoppiare a piangere fra le sue braccia.
Invece mi sforzo di stare qui, di sorridere, di apparire interessata, di rispondere che è tutto ok e che sono felice di essermi ripresa dall’incidente. A parte il braccio ancora malandato, qualche punto e un paio di cicatrici, pare che io sia più o meno quella di prima, almeno fisicamente parlando. Sono davvero, davvero fortunata. Devo esserne contenta.
 
La verità è che mi sto aggrappando ai cocci della vecchia me.
L’Elena forte, la ragazzina cresciuta in fretta che affrontava a testa alta la propria vita costellata di mancanze, che non doveva chiedere nulla e non dipendeva da nessuno.
Cerco di farmi forza ricordandomi di quando ero padrona delle mie scelte e del mio cuore, a dispetto di tutto.
 
Ma questo, anche questo, tutto di me era prima.
I medici hanno sbagliato diagnosi. Non sarò mai più la stessa.
 
“Sei d’accordo con me Elena?”
 
“… o-ovviamente.”
 
Care stringe gli occhi, scuotendo i boccoli biondi con affettuosa disapprovazione.
 
“Mi fa piacere, dato che mi hai appena confermato che questo vestito mi fa sembrare una mucca.”
 
Incrocia le braccia sul petto, fa una smorfia irritata che in altre occasioni avrei trovato esilarante. Mi ha beccata.
 
“Oh, no… certo che no. Scusami è che…”
 
“..non mi stavi ascoltando.” conclude.
 
Non è necessario che io ribatta. A che servirebbe giustificarmi con Caroline Forbes?
Mortificata, abbasso gli occhi sulle mie mani raccolte in grembo, consapevole del fatto che la mia amica, a modo suo, si sta facendo in quattro per aiutarmi.
Non si merita la mia indifferenza e i miei sorrisi di circostanza, è già stata fin troppo comprensiva.
Solo quando, dopo un momento di silenzio, la sua mano si sovrappone alla mia, quella ancora buona, sfiorandola in una carezza amichevole e premurosa, riesco a sollevare di nuovo gli occhi nei suoi.
Sembrano imploranti. Preoccupati.
 
“Perché non me ne parli Elena?”
 
“L’ho già fatto.” rispondo piccata, tornando subito sulla difensiva.
 
“Non è del tutto esatto” mi interrompe, puntandomi contro un indice accusatorio che mi fa  sussultare lievemente, “ti sei limitata a riportarmi con quattro parole in croce ciò che Damon ti ha detto. Che ha fatto una stronzata, che è stato denunciato, che ha tutte le carte in regola per tornare ai servizi sociali a vita o peggio. E che… ha deciso di lasciarti.”
 
Sposto nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra, deglutendo per ricacciare indietro il nodo che mi stringe la gola. Mi sembra che alla lista di Care non manchi proprio nulla. Mi sembra di sentire di nuovo quelle parole fredde graffiarmi dentro, ferirmi nello stesso punto in cui il bisogno di lui mi ha consumata per mesi.
 
“Si Care, più o meno è andata così.”
 
 
“Adesso mi dirai che è tutto uno scherzo. Mi dirai che non l’hai fatto veramente Damon. Che non sei caduto nella provocazione di Klaus un’altra volta.”
 
Stringo con la poca forza che ho il bordo delle lenzuola, aspettando ansiosa la sua risposta, sentendomi terribilmente bambina nell’ascoltare la mia voce che si incrina sul finale.
Posso notare i suoi occhi indurirsi, poi dilatarsi fino a diventare rapidamente freddi come due schegge di ghiaccio. Quel suo sguardo, capace di farmi provare tutto, questa volta mi rompe in mille pezzi.
 
Dunque era questo quello che doveva dirmi.
Quello per cui mi sono svegliata dall’oblio.
Dopo il lungo viaggio per diventare consapevole di me stessa e di quello che provavo – che provo – per Damon.
Dopo i sensi di colpa, le verità, la rabbia di Stefan e il suo perdono.
Dopo aver rischiato tutto, perso tutto.
Dopo essermi illusa che avremmo potuto iniziare il nostro percorso insieme.
 
Doveva dirmi semplicemente che se ne andrà.
 
“Mi dispiace deluderti Elena, l’avrei voluto fare eccome.”
 
Lo dice con soddisfazione, come se contraddirmi gli provocasse un sottile piacere. Come se provasse gusto a dimostrami con i fatti che è esattamente la persona che l’ho appena scongiurato di non essere.  
 
“Ero arrabbiato con me stesso, con l’intero universo per quello che ti era successo… e lui era lì, ha detto quelle cose…”
 
“Ma NON l’hai fatto.”
 
Cerco di mettere nella mia voce ancora debole una nota più impositiva. La sua improvvisa virata d’umore, per quanto giustificata dalla situazione che sta vivendo, mi sta spiazzando.
 
“Ci è mancato tanto così” continua, sempre più indifferente, mentre sul suo viso si smezzano ironia, rabbia, rassegnazione.
 
“Deve pur esserci una soluzione...”
 
Sorridergli mi costa fatica, ma lo faccio con tutta la convinzione possibile, fingendo di non notare quelle sue occhiaie pesanti. Allungo la mano a stringere la sua. Lui osserva i miei movimenti con prudenza e distacco.
In quel momento realizzo che è tutto inutile. Damon è già troppo lontano perché possa raggiungerlo.
 
“Permettimi di aiutarti. Tu… non hai fatto niente di male. Troveremo il modo di dimostrarlo.” lo incoraggio, riempiendo quelle parole di fermezza e convinzione in un ultimo, estremo tentativo di riportarlo a me.
Più lo guardo più sono felice che lui sia qui. Del resto non mi importa.
La sua espressione si addolcisce appena, si carica di un’amarezza che mi pugnala una volta ancora.
 
“Sei sempre così fiduciosa tu… ma ti ostini a non capire. Ci ho provato Elena, ma è palese. Non posso liberarmi del mio passato. Non posso cambiare. Anzi, sai una cosa? Forse non voglio farlo.”
 
Il suo viso è teso, gli occhi spalancati e vuoti sono attraversati da un breve lampo di smarrimento. Allarga le braccia rassegnato, come se avesse appena detto la cosa più ovvia di questo mondo.
 
“Maledizione Elena, guardati. Guarda come sei ridotta. Sono stato io a farti questo e non ho certo intenzione di fare peggio di così. Non vado bene per te, mettitelo in testa. E non ho intenzione di passare la vita a interpretare il ruolo dell’uomo che non è degno di te.”
 
Indica il letto su cui sono distesa con un gesto rabbioso, la voce carica di irritazione, gli occhi sbarrati che mi spaventano. Per qualche istante tra noi cala un silenzio spezzato solo dal suono ripetuto dei dannati macchinari che sembrano volergli dar ragione.
Mi sfugge un sospiro. Non riesco a capirlo.
E anche se lui per me è sempre stato interrogativi, incertezza, mettersi in gioco… stavolta è molto diverso. Oggi, per la prima volta, sento che non è con me, come se fosse dominato da qualcosa di più forte.
Riesco a percepire fisicamente la distanza che vuole mettere fra di noi.
E per la prima volta sento che si è arreso.
 
“Perché mi stai facendo questo?”
 
Riesco a dire solo questo, continuando a scuotere la testa, confusa.
 
“Perché non ho intenzione di trascinarti in quest’altro casino. Tu… meriti una vita perfetta e se c’è una cosa che ho intenzione di fare è permetterti di averla.”
 
 
“Più o meno è così che è andata.” concludo, soffermandomi sulla faccia allibita della mia amica che, contrariamente al solito, ha ascoltato il mio racconto senza mai interrompermi.
Così mi ha lasciato tempo e modo di immergermi con la mente nel mio ultimo, doloroso incontro con Damon.
 
E adesso mi sembra quasi di poterlo sentir bruciare ancora, il bacio vigliacco sulla fronte che mi ha lasciato prima di andarsene, raccomandandomi di prendermi cura di me stessa, svuotandomi di colpo del senso di sicurezza che ho provato quando l’ho visto comparire sulla porta della mia stanza d’ospedale dopo averlo aspettato tutto il giorno.
 
Perché sentivo che era stato lui a risvegliarmi. Dal coma, quello fisico e quello in cui mi ero imposta di addormentare i miei sentimenti.
È stato allora che l’ho fatto. Gli ho urlato di andarsene e lui, semplicemente, ha fatto ciò che gli ho chiesto di fare, lasciandomi ad osservare per ore lo spazio vuoto sul mio letto che prima era occupato da lui.
 
E ora sono delusa. Mi sento abbandonata, e fragile.
Damon è la dannata variabile che non so gestire da quando è entrato nella mia vita senza chiedere il permesso. E adesso che se ne è andato allo stesso modo, mi sento totalmente impreparata ad affrontare perfino la sua assenza. È strano, visto quanto poco tempo è rimasto.
 
“Ora che sai tutto, cosa ne pensi?” chiedo a Care, quasi intimidita.
 
“Non sono sicura che tu voglia davvero conoscere il mio parere Elena.”
 
“Penso di farcela. Voglio dire, ho superato un coma e non ultimo il tuo racconto dettagliato di come hai addobbato la casa delle Kappa Alpha Theta[1] per l’ultimo party della sorellanza…”
 
Le faccio un occhiolino, sforzandomi di recuperare la mia ironia rimasta sepolta sotto il cuscino, assieme alle lacrime silenziose versate in queste notti, sopite soltanto da quel briciolo di pudore che mi ha impedito di sfogarmi con lei, o chiunque altro.
 
“Ok, l’hai voluto tu. Damon è un egoista senza speranza Elena, incapace del minimo autocontrollo. Ti ha lasciata sola proprio quando avevi più bisogno di lui, si è messo nei casini un’altra volta fregandosene di te. E tu dovresti odiarlo per questo.” sentenzia lei, riversandomi addosso l’ennesimo fiume di parole.
 
Odiare Damon.
Lo vorrei veramente, e forse l’ho fatto davvero. O almeno, ci ho provato.
Ci ho provato quando l’ho visto uscire da quella porta, l’ho fatto per tutto il tempo in cui,  inutilmente, ho sperato che cambiasse idea e ritornasse da me, illudendomi che avrebbe trovato una soluzione per restarmi accanto.
Avrei dovuto sapere fin da subito che è troppo testardo e orgoglioso per farlo.
 
È davvero un egoista e io dovrei odiarlo davvero, non continuare a chiedermi dov’è, preoccuparmi di come stia affrontando tutti suoi fantasmi da solo per l’ennesima volta.
Ma allora perché ho sempre l’impressione di non avergli detto niente di quello che avrei potuto dire, di non aver fatto nulla di quello che avrei potuto fare?
Scuoto la testa, scaccio quell’idea.
Per un attimo vaglio l’eventualità di ricominciare daccapo, di liberarmi di lui come mi ha chiesto di fare. Non voglio, non posso.
 
“Vorrei solo sapere che sta bene…” mi sfugge.
 
“È da Ric… e poi domani…”
 
La mia amica si interrompe, abbassa lo sguardo. È impossibile per me non notare il suo imbarazzo.
 
“Domani?” la incalzo.
 
“N… niente.”
 
“COSA?” ripeto, scossa da una rabbia improvvisa, mentre il cuore corre troppo forte per ignorarlo.
 
“Che succederà domani?” la sprono, scrutando il suo viso che arrossisce di colpo. “Dimmelo Care.”
 
 
Damon
 
…This is what you get when you mess with us…[2]
 
Alzo il volume al massimo, fino a far penetrare quei suoni dritti nel cervello. Questo perché Ric non mi permette di fare troppo rumore in casa sua, e per non abusare troppo della sua ospitalità, ho dovuto rinunciare allo stereo a favore delle mie vecchie cuffiette.
Forse dovrei arrendermi al fatto che, come dicono spesso, il suono della musica non è sufficiente a coprire quello dei pensieri.
Sto diventando un melodrammatico del cazzo, non c’è che dire.
 
Le lancette dell’orologio stanno per segnare l’inizio di una nuova ora.
Il tempo mi sembra scorrere a volte troppo veloce, a volte troppo lento.
Presto sarà domani e domani è il giorno dell’udienza che deciderà il mio prossimo futuro.
Il giorno in cui il fatto che ho mandato a puttane la mia vita per l’ennesima volta sarà scritto pure su un pezzo di carta, nel caso qualcuno avesse dubbi in proposito.
 
Liz ha parlato chiaro. Ha fatto il possibile ma non ho margini per cavarmela.
Klaus ha addirittura dei testimoni, qualcuno che ci ha visti discutere animatamente fuori dall’ospedale, il giorno che Elena è stata ricoverata, pronto a provare che sono un soggetto recidivo e terribilmente pericoloso.
La notizia non mi ha sorpreso né sconvolto più di tanto: del resto è inutile trascorrere una vita che è un completo casino rimandando l’inevitabile.
Forse non mi andrà poi tanto male.
Il peggio in fin dei conti è già passato.
 
È già passata la delusione negli occhi di Stefan, è già pronto il discorso che farò a mia madre su un’improbabile offerta di lavoro lontano dalla Bagdad della Baia[3].
 
E forse, prima o dopo passerà anche Elena.
Quel suo ultimo sguardo nudo e indifeso a cui forse avrei dovuto rispondere con qualcosa di più degno di lei rispetto ad un silenzio.
Ho desiderato allontanarla, respingerla, addirittura ferirla. E poi tutto il contrario.
Ho smesso di guardarla, lei è scivolata via da me. Mi sono lasciato quella stanza dietro alle spalle per desiderare un istante dopo di tornare da lei, dirle tutto il contrario di quello che le ho detto, andarmene con lei, lontano, ovunque, lottare per quell’amore pulito, giusto, che in fin dei conti non sono mai stato in grado di offrirle.
Invece no. Ho pensato che una bella mossa da stronzo fosse la maniera più adeguata – e indolore – di congedarmi da lei.
 
E allora va bene così. Me lo sono detto più volte mentre dentro dispiacere e delusione continuavano a mescolarsi insieme.
 
Mi alzo dal letto sul quale ho trascorso le ultime ore fissando il soffitto.
L’aria è soffocante, impregnata di un aroma dolciastro proveniente dalla cucina del ristorante di Ric, proprio qui sotto, e dalle bancarelle degli ambulanti. C’è il rumore delle chiacchiere degli ospiti, che sale piano fin quassù, fuso insieme ai suoni della baia affollata come sempre, piena di una vita di cui per un po’ mi sono illuso di poter far parte.
Si fotta anche tutta questa gente, non ho intenzione di stare qui a commiserarmi.
 
Ci sono momenti però, in cui a molte cose non si fa caso.
Piccolezze che ora sembrano emergere in tutta la loro importanza, annullate dal dannato momento in cui prende il sopravvento l’impulsività.
Quell’attimo maledetto, lo stesso che domani mi taglierà fuori un’altra volta.
 
Apro un armadietto, verso in un bicchiere quel poco che rimane di una bottiglia di bourbon che io e Ric ci siamo smezzati, uno a fianco all’altro, consapevoli del fatto che non ci fosse un modo migliore per salutarci.
 
“Allora sei ancora vivo. Non ti sei fatto vedere per tutto il giorno.”
 
La sua voce mi arriva alle spalle con un tono lievemente irritato.
 
“Sei venuto a portarmi le arance? Sai, come si fa con i carcerati…”
 
“Spiritoso. Sono solo venuto a controllare se per caso hai recuperato le palle che evidentemente hai perso da qualche parte.”
 
Mi volto verso di lui appena il necessario per intercettare il suo sguardo ironico mentre mi osserva appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate sul solito grembiule logoro e macchiato, una lieve alzata di spalle con cui sembra voler dire “Che c’è? Ti aspettavi forse qualcos’altro?”.
 
“Dici così solo perché ti mancherò. Ti rimane solo Enzo… non so chi sia messo peggio fra noi due.” ironizzo, sollevando solo un angolo delle labbra in un mezzo ghigno.
 
“Non hai nemmeno provato a difenderti. Non ti sei neanche trovato un avvocato.” continua lui, deciso a raggiungere il suo obbiettivo senza lasciarsi distrarre dai miei tentativi di portare il discorso su terreni meno accidentati.
 
“Va benissimo quello d’ufficio. In fondo col tuo stipendio non avrei potuto permettermi molto di meglio.”
 
Lo vedo alzare li occhi al cielo, scuotere la testa e finalmente cedere a una mezza risata soffocata alla quale mi unisco anch’io.
 
“Almeno hai parlato con lei?”
 
“Beh, Ric. Ora mi sorprendi. Non mi sembra che tu sia mai stato un accanito sostenitore della nostra coppia…”
 
“Questo è vero. Ma poi finisci per renderti conto che certe cose sono inevitabili. Credo di essermi convinto anche io che lei sia la cosa migliore che ti sia capitata. E tu la stai gettando via senza combattere.”
 
Non mi lascia il tempo di replicare, né di tirar fuori qualche altra battuta pungente per sviare il discorso. Semplicemente si volta e se ne va. Rimango a fissare la porta per qualche secondo, poi mi getto di nuovo sul letto.
Le parole di Ric si depositano dentro di me, mentre immagino Elena al riparo nei confini ben tracciati della sua vecchia vita, quella di cui io non facevo parte ma che sembra così giusta per lei. Il solo pensiero mi riempie di frustrazione.
 
Dovresti sentirtelo dire.
 
Quelle tre parole mi martellano i pensieri, offuscano le mie ragioni. Avrei voluto più di ogni altra cosa che Elena ne conoscesse il significato, fino a quando ho realizzato quanto questo avrebbe rappresentato un atto di egocentrismo estremo, troppo grande perfino per me.
In quel momento è stato facile dirle addio, sfogare la mia tensione su di lei, archiviare con la rabbia tutto quello che c’è stato. Farlo davvero è tutt’altra cosa.
Ma qualche volta, bisogna avere il coraggio di andarsene. Il coraggio che mi è sempre mancato prima di oggi.
 
 
“Speravo di trovarti qui. Bonnie, la tua collega, mi ha detto che non eri di turno stasera, così sono andato a cercarti da Joe ma nemmeno lui ti aveva vista e…”
 
“C’è qualcosa che non va Damon?”
 
Lei mi guarda da in cima alle scale, le chiavi strette in una mano, mentre l’altra, quella libera, si aggrappa al bordo della borsa.
Percorro la sua figura da capo a piedi, mi soffermo in quegli occhi grandi, attenti, nei quali mi sembra di poter leggere un’irrequietezza trattenuta a stento.
Forse voglio solo illudermi che sia così, mentre scivolo un po’ più giù, intravvedendo le curve del suo corpo nascoste sotto la corta giacca che indossa, le gambe lunghe fasciate in un paio di  jeans un più stretti del solito, che non mi dispiace affatto vederle addosso.
Deve essere stata fuori, a una festa o qualcosa del genere.
Perché il pensiero mi annebbia la mente? E perché quel suo interesse per un ipotetico e fin troppo realistico “qualcosa che non va” mi fa sentire esposto, vulnerabile e tremendamente bisognoso?
 
“Tutto e niente, Elena. È che ho avuto una giornata da schifo e non so. Avevo voglia di vederti. Però se vuoi me ne vado.”
 
La consapevolezza di non aver usato propriamente le parole più adatte per quella che è la donna di mio fratello, mi raggiunge quando ormai è troppo tardi.
Ma è la sua risposta quella che mi sbalordisce più di tutto.
 
“Mi fa piacere che tu sia qui. Sali.”
 
Un attimo dopo mi rivolge le spalle, trafficando con le chiavi per aprire il portone.
Riesco a scorgere solo il profilo del suo viso, le mani che si agitano, le chiavi che cadono a terra per essere raccolte un secondo dopo.
Un secondo che mi sarebbe sufficiente per andare via se solo lo volessi.
Ma la verità è che non voglio farlo, dannazione, no.
Non ho neanche il tempo di collegare pensiero e azione, che sono già in cima alle scale, alle sue spalle.
Tutto ciò che sento è il soffio del suo respiro. Piego il viso un po’ più verso di lei, sentendomi sempre più in bilico tra un gesto di troppo e il suo contrario.
Riesco a vedere con l’angolo dell’occhio le sue labbra che si schiudono.
Ho come l’impressione che Elena si trovi in equilibrio precario su un baratro, esattamente come me.
 
 
Tengo il cellulare stretto fra le dita, continuando a fissare lo schermo illuminato nella penombra della stanza e componendo nella mente frasi di circostanza, tipo “cerca di stare bene” che mi sembrano una più patetica dell’altra.
Un rumore di passi mi sorprende alle spalle. Tengo gli occhi fissi sul soffitto della stanza, soffio via un respiro infastidito.
 
“Se sei venuto per un'altra ramanzina, spero almeno che tu abbia portato qualcosa da bere…”
 
Il silenzio che segue mi costringe a voltarmi in direzione della porta.
E’ allora che la vedo. Lo stomaco si contrae immediatamente e per la prima volta, non riesco a parlare.
Se ne sta lì, in bilico sulla soglia, sospesa tra dentro e fuori. Le guance appena più scavate, i lineamenti fragili e delicati che l’incidente non è riuscito a rendere meno attraenti.
I suoi occhi sono visibilmente più gonfi e grandi, talmente grandi che rischio di affogarci dentro. Le mani che affondano nervose su un lungo maglione nero che continua ad avvolgersi addosso, come se ci si stesse aggrappando, sotto al quale spunta una t-shirt stropicciata e un po’ troppo trasparente per la mia sanità mentale, con disegnato sopra una specie di panda con tanto di ramo di eucalipto.
 
“Mia madre non ha pensato di portarmi un cambio decente.” si giustifica, seguendo il mio sguardo, piegando leggermente le labbra in un sorriso che non posso impedirmi di trovare adorabile.
 
“Elena… cosa…”
 
“Ho firmato per uscire. Ho saputo di domani e avevo bisogno di vederti Damon… dirti delle cose. Pensavo… beh, non ha importanza quello che pensavo.”
 
Mi fa piacere che tu sia qui.
 
Glielo vorrei dire con tutto me stesso, ma mi sforzo di trattenere dentro di me quell’istinto.
Al contrario, non riesco a frenare le mie stupide gambe che hanno già fatto un passo nella sua direzione.
 
“Hai… fatto un errore. Dovresti essere incazzata a morte con me.”
 
Non riesco ad essere indifferente come vorrei sembrare, quindi per compensare finisce che le urlo contro, stringendo i pugni fino a conficcarmi le unghie nella pelle. Anche la sua espressione muta in qualcosa di diverso da prima, come se una rabbia a lungo trattenuta le salisse al cervello improvvisamente.
 
“Vuoi che lo faccia? Vuoi davvero che me la prenda con te? Ti accontento subito. Hai rovinato tutto. Sei stato impulsivo, e sconsiderato. Mi hai voltato le spalle proprio quando avevo più bisogno. Dovrei odiarti per questo, ma non ce la faccio perché io…”
 
“…non osare dirlo.”
 
“Ti amo.”
 
Silenzio. Un lungo, assordante silenzio reso ancora più palpabile dal ticchettio dell’orologio alla parete che sembra propagarsi fino al centro della mia testa.
La guardo negli occhi, preda di un impulso che non riesco a controllare.
 
“Smetti di farlo!”
 
Sto ancora urlando.
 
“Non ci riesco!”
 
Le sue parole così inaspettate, così disperate, ripescano qualcosa che preme insistente per uscire dal mio petto, qualcosa che vuole a tutti i costi tornare in superficie. L’istinto ancora una volta si sbarazza della mia razionalità quando allungo una mano a sfiorare la pelle soffice e calda della sua guancia. Lei si abbandona a quella carezza, non parla più.
Allunga entrambe le mani sul mio viso, ne sfiora i contorni, intreccia le mani fra i miei capelli senza smettere di guardarmi.
Sto per cedere al bisogno di spingerla contro la porta, baciarla così a fondo da farle dimenticare e dimenticarmi tutti i motivi per cui è sbagliato che lo faccia.
Ma poi, il suono di qualcuno che si schiarisce la voce attira la mia attenzione oltre le sue spalle.
 
Mio fratello è lì, in piedi sulla porta ancora spalancata, a braccia conserte. L’espressione dipinta sul suo viso è piena di imbarazzo e di un qualcosa che non sono in grado di definire.
 
“Stef.” lo saluto, mollando contemporaneamente la presa su Elena, che ora si volta anche lei.
 
Quando poi noto mio padre affacciarsi alla porta, i miei occhi schizzano dall’uno all’altro come biglie impazzite. Ora davvero non ci sto capendo più niente.
 
“Che diavolo ci fai tu qui?”
 
 
 
*********
Piccole note sparse (perché almeno una volta volevo essere accurata):
 
[1] Kappa Alpha Theta è veramente il nome di una sorellanza.
[2 This is what you get when you mess with us: per i non fanatici dei Radiohead, questo è un famosissimo dell’altrettanto famosa “Karma Police”.
[3] Bagdad della Baia: uno dei tanti soprannomi di San Francisco.
 
Buon pomeriggio,
sapete, credo di essermi fatta un’idea del parto dopo questo capitolo che – purtroppo o per fortuna – arriva in gran ritardo ed è il penultimo di questa storia che per me rappresenterà sempre un perfetto equilibrio di gioia e dolore.
Gioia perché mi ha dato molte soddisfazioni e qualche bel momento, dolore per tutte le volte che mi è sfuggita di mano e le molte occasioni in cui mi sono ritrovata a sbattere la testa contro il pc, cozzare con la trama che mi ero prefissata, tutte quelle volte in cui so che avrei potuto fare di meglio.
Insomma, dopo qualche passo falso ci siamo arrivati: il prossimo è l’epilogo. I minipony scalciano a più non posso per essere liberati: voi cosa ne pensate? Devo ascoltarli o lasciarli scalpitare in gabbia per la prossima storia? Un finale che faccia male oppure no? Let me know ^_^
Grazie alle fedelissime ragazze che non mi abbandonano mai e mi sostengono sempre. Love u.
 
Chiara
 
PS PER CHI HA VISTO LA 6X01 (penso tutte…)
Come giustamente ha notato anche Fanny_rimes… io lo avevo detto da tempo che Damon sa fare bene i pancakes!! XD

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Capitolo 20
*** Things left unsaid ***


CAPITOLO 18 – THINGS LEFT UNSAID
 
 
Then leave me in the rain
Wait until my clothes cling to my frame
Wipe away your tear stains
Thought you said you didn't feel pain
 
Well this is torturous
Electricity between both of us
And this is dangerous
'cause I want you so much
But I hate your guts
***
Poi lasciami sotto la pioggia,
Aspetta che i miei vestiti si aggrappino al mio corpo.
Asciuga le macchie delle tue lacrime
Pensavo mi avessi detto che non provavi dolore.
 
È straziante.
C’è elettricità tra noi due,
Ed è pericoloso
Perché ti voglio come non mai
Ma ti odio con tutta me stessa.
 
Landfill
 
 
Damon
 
Basta un attimo perché l’aria in questa stanza diventi irrespirabile e un sapore amaro mi invada la gola. È quello dei ricordi dolorosi che riaffiorano, identici, incuranti di tutto il tempo passato.  È la sensazione soffocante, impotente, di vivere un dannatissimo déjà-vu.
 
Potrei maledire il karma, ma in realtà è tutto perfettamente nello stile di mio padre, l’ultima persona che mi aspettavo di vedere questa sera. Presentarsi qui e, con un tempismo degno di lui, scegliere il momento più inopportuno per farlo. Oggi – decisamente – non è il mio giorno fortunato.
 
“Come stai Damon?” mi chiede. Freddo, altèro come solo lui sa essere, ma con una punta di malcelato disagio nella voce e nei modi, così insolita che farmela sfuggire è impossibile.
 
Aggrotto le sopracciglia, gli rivolgo un sorriso strafottente. “Vediamo un po’… a parte il fatto che il tuo amico Klaus mi ha scippato la vita per la seconda volta, direi alla grande papà, ti ringrazio.”
 
A me sembra di essere stato perfino divertente, ma Giuseppe non è dello stesso avviso.
Contrae la mascella, irritato, forse persino ferito dai miei soliti modi.
Non mi stupisco. La mia ironia, dote che certamente non ho ereditato da lui, l’ha sempre infastidito.
 
Mi viene da pensare che stavolta possa essere stato Stefan a convincerlo a venire qui, forse con l’idea distorta di lasciarmi un buon ricordo di casa, o peggio, la falsa speranza che il tutto possa concludersi con una bella pacca sulla spalla e un commovente discorso padre figlio sul senso della vita.
Non è così che andrà, ma mio fratello non riesce proprio a reprimere la sua dannata ingenuità quando c’è di mezzo Giuseppe. Osservo il loro dialogo silenzioso, la muta preghiera di Stefan che lo implora di essere paziente e non sputtanare tutto con una lite proprio oggi.
 
“Dobbiamo parlare.” dice nostro padre, di nuovo rivolto a me.
 
Ci risiamo. Altra frase sentita e risentita, che non è mai, e dico mai, il preludio a qualcosa di positivo.
 
“Sai che c’è? Per questa volta preferirei saltare la parte in cui mi spieghi quanto ti ho deluso. E anche quella in cui mi offri il tuo aiuto, perché non ho intenzione di accettarlo. Stavolta scelgo di fare a modo mio. Quindi se non ti dispiace…”
 
Lui fa per rispondere, ma prima che possa parlare è Stefan ad intervenire.
 
“Solo un minuto Damon. Da soli.”
 
Entrambi ci voltiamo verso Elena, che si abbraccia i gomiti schiacciata contro la parete vicino alla porta spalancata, nuovamente in bilico tra l’andare e il restare.
Ha gli occhi fissi nei miei e sono pieni di domande. Non so se è per quello che mi ha detto prima che fossimo interrotti o per lo stupore di trovarsi nel bel mezzo di questa patetica rimpatriata.
Nel suo viso teso leggo un’incertezza e una fragilità disarmanti, ma nonostante tutto non fa un passo. Magari sta aspettando che sia io a chiederle di andarsene e io credo di doverlo fare, anche se so di non volerlo veramente. Forse dovrei perfino ringraziarlo, Giuseppe. Ritrovarmelo qui mi ha ricordato tutti i motivi per cui non devo cedere a quello sguardo di Elena, capace di rendermi debole più di qualsiasi altra cosa.
 
“Per favore Damon. Fidati di me.”
 
C’è un non so che nell’insistenza di mio fratello. Forse sono le parole che usa, o il tono in cui le dice. Forse solo la consapevolezza di dovergli qualcosa, non importa quanto poco senso ci sia nella sua richiesta.
Mi dico che sì, posso farlo.
È chiaro che protesterò un po’, magari mi sforzerò per qualche secondo di sopportare le accuse di Giuseppe, lo aggredirò sottilmente con le mie provocazioni.
Stef rimarrà deluso per l’ennesima volta ma almeno, mi dico, non potrà accusarmi di non averci provato.
 
“Ok, ok…Hai vinto.” rispondo, roteando gli occhi “Dammi solo un momento.” aggiungo, rivolgendomi per l’ultima volta alla figura esile in fondo alla stanza.
 
 
Elena
 
Sento il rumore della porta che, lentamente, viene richiusa alle mie spalle.
Non voglio voltarmi.
Rimango concentrata sul viavai di macchine nel parcheggio sotto di noi, che fanno scricchiolare il ghiaino riempiendo di suoni distanti un silenzio che non vorrei poter sentire.
 
E invece è proprio qui. Nitido, palpabile come polvere, mentre si deposita nella distanza fra di noi e la rende più tangibile che mai.
Mi aggrappo alla balaustra, mi sforzo di non contare i secondi mentre attendo che Damon dica qualcosa. Qualunque cosa.
Proprio come una ragazzina sciocca, dopo avergli detto che sono innamorata di lui penso di meritare un po’ di più dei suoi occhi che mi scavano dentro.
Perché li sento lo stesso, dietro le mie spalle, anche se non posso vederli.
Li sento come tutto quello che lui non dice, ma che so che sta pensando con tutta la forza della sua testardaggine: che siamo sbagliati, soprattutto che lui è quello sbagliato per me.
 
 
Come se fosse semplice, come se non avessi provato a levarmelo dalla testa, come se accettare che lui mi fosse entrato nel sangue, sotto la pelle non avesse significato rimettere in discussione tutto, tutta me stessa.
 
Mi giro verso di lui, stanca di quell’attesa frustrante.
Lo trovo appoggiato con una spalla allo stipite, le braccia serrate contro il petto come se volesse creare una barriera anche fisica fra di noi.
 
So di avere la delusione marchiata negli occhi, ma lui sembra essere impermeabile a qualsiasi emozione.
Riesco a distinguere chiaro nel suo sguardo duro e asettico il senso di sconfitta per quello che sarà domani. Pesa nella gola. È come un nodo allo stomaco, una voce nella testa che gli urla che quello che abbiamo non basta e questa cosa fra di noi non funzionerà mai.
Magari ha ragione.
Magari non saremo mai in grado di tenerci insieme, avere una vita normale se ogni volta dobbiamo ritrovarci sull’orlo di un precipizio e lottare con le unghie e con i denti per non annegare per poi arrenderci a quello che proviamo. Quell’amore sporco e imperfetto che ci consuma.
 
“Credo che adesso dovresti andartene.”
 
“Tutto qui? È solo questo che mi devi dire?”
 
Annuisce, gelido. “Chiederò ad Enzo di accompagnarti, non mi va che torni da sola.”
 
“A questo punto credo che la cosa non ti riguardi.”
 
Il tono è brusco, ma meno di quanto vorrei.
La ragazzina respinta è lì che scalpita per venire in superficie.
Aspetto, ancora, che lui dica o faccia qualcosa per fermarmi, ma lui non dice e non fa proprio niente. La sua fredda ostinazione raggiunge il bersaglio, precisa.
Sono costretta a voltarmi verso le scale, aspettando che mi trattenga o mi faccia andare via.
Esito appena un po’ quando appoggio il piede sul primo gradino, qualcosa dentro di me esplode in mille pezzi e fa dannatamente male, più di qualunque ferita fisica io mi porti addosso.
 
“Come vuoi.” concludo, allontanandomi in silenzio.
 
Poi, una presa salda mi afferra per il braccio, impedendomi di proseguire o anche solo di respirare. Sollevo il viso e Damon è ad un soffio da me. Di nuovo.
Il cuore si restringe e io devo lottare con tutta me stessa per non cedere alle mie debolezze,  all’istinto di premere le labbra sulle sue, riempire quel vuoto bruciante che sento dentro al pensiero che lui mi lasci andare sul serio, fargli ammettere che quello che c’è tra di noi è maledettamente reale, e non voglio permettergli di dimenticarlo così facilmente.
 
Lo sento, lo so che si sta raccontando una bugia.
Vero che è una bugia? Dimmelo!
 
“Perché vuoi costringermi a dirti qualcosa che hai già sentito, Elena? Qualcosa che già sai.”
 
La sua mano stringe il mio braccio fino a farmi quasi male.
 
“Non voglio costringerti a fare proprio niente. Vorrei solo che tu non rovinassi tutto solo perché sei convinto di non meritartelo. Solo perché sei così testardo, così stupido da volermi regalare  a tutti i costi una vita che non mi assomiglia più.”
 
Le sue pupille dilatate dalla rabbia e dalla frustrazione tremano in modo impercettibile quando lascia poco a poco la presa sul mio braccio e lo sfiora appena.
 
“Adesso vai.” dice, voltandosi senza più guardarmi per poi infilare la porta e sbatterla dietro le sue spalle.
 
“Grazie per avermi tirata fuori dal buio.” rispondo all’aria, a lui che non può più sentire.
E no, non sto parlando del coma.
Scendo i gradini e spero ancora che mi raggiunga, mentre l’amore che provo per lui si mescola ancora una volta all’odio.
 
 
Damon
 
Stefan cammina su e giù per la stanza mentre si numera le sulle mani, una alla volta, le attività che la famiglia Mikaelson ha potuto liberamente compiere grazie all’omertà e alla collaborazione di nostro padre.
 
“Frode, riciclaggio di denaro, conti bancari aperti da terzi e utilizzati in modo illecito per movimentare il denaro. Una serie di operazioni illegali che farebbero impallidire qualsiasi giudice.”
 
Un tassello alla volta, tutto torna al proprio posto.
Lo stile di vita della nostra famiglia, eccessivamente agiato per l’incarico ricoperto da Giuseppe.
La punizione fin troppo leggera per quello che ho fatto a Kol.
L’entusiasmo di Stefan nell’entrare a far parte di quel mondo che si è rapidamente trasformato in rifiuto quando si è reso conto del risvolto della medaglia.
La sua fuga, la sua aggressività così non da lui.
Adesso capisco che era soltanto deluso dall’uomo che aveva sempre preso come esempio, la persona a cui voleva assomigliare e che altro non è che un povero burattino al servizio di quella dannata famiglia e delle apparenze.
 
Stefan ha trovato un modo per tirarsene fuori. Troppo ingenuo per aver pensato che glielo avrebbero permesso così, senza battere ciglio.
E poi ci sono io, col mio carattere del cazzo che è diventato un espediente per Klaus per convincere Stef che avrebbe fatto meglio a tornare sui suoi passi.
Klaus ha pensato che Giuseppe ci fosse troppo dentro, che non avrebbe mai detto una parola sui suoi piccoli segreti, ma non aveva fatto i conti con l’ostinazione di mio fratello.
Nemmeno io a dire il vero.
 
Nostro padre se ne sta alla finestra, con lo sguardo perso nella confusione della baia.
 
“Chissà perché non mi stupisco.” dico alle sue spalle ricurve. “Ho passato la vita a vederti nascondere lo sporco sotto il tappeto. Avrei dovuto immaginarlo.”
 
Lui si volta in un moto di rabbia che non fa che accentuare il mio disgusto.
 
“Ti piace la tua casa Damon? E tutte le opportunità che ti ho dato, ma che non hai mai voluto cogliere? L’ho fatto anche per voi.”
 
Se non fossi così nauseato probabilmente mi verrebbe perfino da ridere.
In effetti mi sfugge un mezzo sorriso amaro, mentre penso a tutte le volte in cui mi ha fatto sentire inadeguato, non all’altezza della sua cosiddetta morale. Quando mi ha spedito lontano da casa per sei mesi senza battere ciglio. Forse anche allora ha creduto di farmi del bene.
 
“Fai una bella cosa papà, la prossima volta che ti viene in mente di fare qualcosa per me, risparmiatelo. Anzi, sai che ti dico? Nessuno ti costringe a denunciare Klaus. Non è detto che funzioni, quindi non farlo.”
 
“Se non lo farà lui, lo farò io.” interviene Stefan. Mi scopro a pensare che vorrei avere un po’ della sua determinazione in questo momento.
Con un cenno del capo lo invito ad uscire. Lui fa quello che gli dico senza aggiungere una parola e un secondo dopo ci ritroviamo fuori e mi richiudo la porta alle spalle.
Ho bisogno di parlargli lucidamente, senza che entrambi ci lasciamo sopraffare dalla presenza scomoda di Giuseppe, che ha già influenzato fin troppo il nostro rapporto in questi anni.
 
Quando ritrovo lo sguardo di Stefan, non è alterato da nessun segno di cedimento.
 
“Ora si che ci vorrebbe qualcosa di forte, non credi? Quel coglione di Ric non mi ha lasciato un bel niente da bere. Che stronzo.” esclamo in un mezzo sorriso, tanto per provare a sdrammatizzare il momento, ma consapevole che ci vuole ben di più di una battuta del cazzo per tirare fuori Stefan dal castello di bugie con cui deve convivere da troppi mesi.
 
“Ok, senti Stef, non sei obbligato a farlo. Voglio dire, potrebbe non servire a niente per la mia situazione. Sono stato un coglione, e me lo merito non c’è altro da dire. Quindi ti ringrazio per il tentativo, ma no grazie. Finirai per incasinare tuo padre, magari per perderlo. E io lo so quanto lui significhi per te quindi… non farlo.”
 
Stefan sorride amaramente. “Sai che c’è? A volte sei più testardo di lui. Non vuoi proprio capire? L’ho già perso, Damon e adesso non voglio perdere anche te. Perciò piantala di fare l’eroe, lo sai benissimo che non è il tuo ruolo quello.”
 
Poi appoggia una mano sulla mia spalla e la stringe appena, prima di scendere le scale e lasciarsi inghiottire dal buio sempre più fitto del parcheggio ormai deserto.
Seguo la scia dei suoi passi. Ho bisogno di un attimo, forse qualcosa in più perché le sue parole si imprimano con chiarezza nella mia mente.
Magari non funziona. Continuo a ripetermelo, sperando che alla fine quelle tre parole diventino  una scusa sufficiente per farmi restare qui, ad aspettare che arrivi domani e tutto quello che porterà.
 
 
Elena
 
Giro la chiave e spingo la porta, ritrovandomi sola nel mio appartamento. Tutto è avvolto da un silenzio quasi irreale, spezzato soltanto dal ronzio familiare del mio vecchio frigorifero.
Dovrei farlo riparare prima o poi, appunto mentalmente.
Allungo un dito sull’interruttore, poi lo ritraggo in fretta, quasi spaventata.
 
Non vengo qui dal giorno dell’incidente, me ne rendo conto solo adesso.
L’ultima notte che ho passato qui dentro, Damon era con me.
Ho paura. Paura di accendere quella dannata luce e ritrovare per sbaglio qualche frammento di noi due incastrato da qualche parte.
Magari tra le coperte del mio letto o nelle tazze ancora sporche di caffè nel lavandino.
Nelle foto che non abbiamo fatto, nei film che non abbiamo visto, nei ricordi che non ci siamo costruiti.
Proprio così.
Non ci siamo costruiti niente, perché quello che avevamo lo abbiamo sentito subito.
 
È sempre stato lì, immediato, prepotente, impossibile da ignorare.
 
Non c’è nulla di tangibile. Nemmeno un ricordo normale.
Allora perché c’è così tanto da dimenticare?
 
 
“Non mi hai ancora detto quella cosa.”
 
“Quale cosa?”  
 
Damon mi risponde distratto, continuando a schiacciare tasti a caso sul suo telefono nel vano tentativo di riuscire a memorizzare il numero di Caroline. Cerco di ignorare quella sensazione fastidiosa e inopportuna che la situazione mi provoca, virando il discorso su un altro terreno.
 
“Quello che voglio. Sono curiosa.” chiedo, riferendomi al nostro primo incontro alla stazione di servizio. Avrei dovuto dimenticare, continuo a ripetermelo. Ma non l’ho fatto. Quella domanda, quel suo modo saccente di pormela, hanno continuato ad affiorare nei miei pensieri per tutti questi mesi.
Lui stacca gli occhi dal telefono, un che di sorpreso nella sua espressione sempre così sicura che non fa altro che mandarmi in crisi.
 
Non avrei dovuto chiederglielo. Proprio no.
Non avrei dovuto dargli la soddisfazione di fargli capire che ci ho pensato.
Sono già pentita, ma ormai è troppo tardi.
 
Imbarazzata mi avvolgo una ciocca di capelli tra le dita, sforzandomi di sostenere il suo sguardo indagatore e di nascondere il mio desiderio di una risposta.
 
“Tu vuoi un amore che ti consumi. Vuoi passione, avventura e anche un po' di pericolo…”
 
Ci rifletto per qualche istante, giungendo alla conclusione che solo un presuntuoso come lui avrebbe potuto rifilarmi una tale battuta da rimorchio e sperare che io ci cascassi.
Non importa quanto quelle parole, tra le sue labbra, suonino come una promessa.
 
“Con me non attacca Damon.” rispondo, ridendo ancora prima di scendere dall’auto e correre via, lasciandomi alle spalle tutti quei pensieri.
 
 
Sono ancora al buio quando mi accorgo della scia calda e bagnata che quel ricordo – uno dei tanti che devo resettare – ha lasciato sulla mia guancia, insieme alla consapevolezza che noi, così sbagliati, così imperfetti, non abbiamo bisogno di quei dannati ricordi normali.
Che Damon ha sempre avuto ragione su di me.
Solo che io non volevo ammetterlo, non volevo che si facesse spazio dentro di me.
Sospiro, premo le mani contro gli occhi ormai gonfi di lacrime.
 
È troppo tardi.
 
Continuo a ripetermelo, senza tuttavia trovare la forza di alzarmi dal pavimento freddo su cui mi sono lasciata scivolare e iniziare in qualche modo a fare quello che mi sono ripromessa. Lasciarlo andare, smettere di farmi infettare da quello che provo per lui.
Rimango lì per un tempo interminabile.
 
Poi un fruscio ovattato mi arriva da dietro la porta chiusa.
 
Istintivamente mi alzo in piedi, appoggiando la mano sana contro la superficie liscia. Resto in ascolto fino a che una voce che non credevo più di poter sentire, si fa strada oltre il legno scuro.
 
“Elena… Elena ci sei?”
 
Indietreggio di un passo.
Non lo vedo, ma è come se il suo sguardo fosse già qui, a trapassarmi le ossa e farmi sentire di nuovo viva.
 
“Cosa ci fai qui? Cos’è cambiato?”
 
“Bella domanda. In effetti, niente. Sono un coglione come prima Elena. E come prima non posso fare a meno di te. Anche se lo vorrei.”
 
 
Damon
 
Magari non funziona.
 
Me lo sono ripetuto mille volte ancora, mentre bruciavo la strada per arrivare fin qui. L’aria mi sembrava un po’ più rarefatta, mentre attraversavo una San Francisco illuminata appena dai raggi di un nuovo giorno.
 
Domani è già oggi, e io non ho la più pallida idea di cosa succederà.
 
Non so se l’idea di Stefan potrà mai funzionare.
Non so che ne sarà della mia famiglia, tantomeno di me.
Non so se sarò mai capace di smettere di navigare a vista e iniziare una buona volta a fare qualche progetto per quel futuro che ho immaginato con lei. So solo che lei è la variabile che fa la differenza in quella che ho sempre considerato una strada senza via d'uscita.
Lei che è dietro la porta, perché la sento. È lì, così vicina, così difficile da recuperare.
 
È una follia.
 
Ma sarebbe ancora più folle rinunciare.
 
E adesso vorrei solo poterla toccare, sentirla sulla mia pelle ancora una volta. Non importa se sarà la prima di tante altre o l’ultima.
 
“Apri questa porta, Elena. Per favore.”
 
Forse mi manderà a fanculo per sempre, anche se spero che non lo faccia.
Anche se al momento, non ho niente da prometterle, niente da offrirle se non le parole non dette che sono rimaste in sospeso su quel balcone.
È poco, ma maledettamente reale.
 
Qualcosa striscia oltre la porta.
Rimango in ascolto, con la paura di sentire il rumore dei suoi passi che si allontanano.
Poi un altro suono.
La chiave che gira, la serratura che scatta.
Elena è lì, con i suoi occhi incerti che si incastrano disperatamente dentro i miei.
Ancora una volta.
 
 
 
*********
Ok, sono pronta al lancio di pomodori.
Finisce proprio così… un po’ in sospeso. Il titolo era premonitore.
Niente minipony che pascolano, lascio tutto un po’ alla vostra immaginazione.
Non ci posso fare niente, questa storia è nata così, proseguita così e finisce così: facendo tutto quello che vuole lei e ribellandosi alle mie idee.
Ringrazio chi ha inventato quella porta che mi ha aiutata sul finale… e poi ringrazio tutte voi, chi ha aggiunto la storia alle varie liste, chi l’ha letta in silenzio, chi anche solo una volta ha trovato la voglia di commentarla e chi a un certo punto non ne poteva più e ha detto basta!!
Soprattutto quelle anime splendide che mi hanno sempre dato sostegno e parole meravigliose, anche al di là dei semplici commenti, dandomi la forza di non cancellare la storia le 15.000 volte che avrei voluto farlo, con le quali si è instaurato quel qualcosa di più. Voi sapete chi siete… grazie, con tutto il cuore. Solo per merito vostro oggi posso spuntare la casellina “completa”.
 
In alto al capitolo, la sua colonna sonora. Mentre qui ciò che ha ispirato tutta la storia.
 
Ora, dovrei sparire. Aspettate ad aprire lo champagne.
Miss incoerenza qui, potrebbe scrivere ancora di questi due, aprendovi una finestrella sul loro futuro se, e solo se, salterà fuori qualcosa di abbastanza decente da essere letto.
Quindi, se avete voglia, stay tuned… anche perché potrei avere la malaugurata idea di scrivere ancora (in generale, dico).
 
Sono imbarazzatissima e preoccupatissima per questo finale, lo ammetto, forse per questo sto facendo la pagliaccia più del solito.
 
Mi ritiro che è meglio.
Con amore e tanta, tanta gratitudine.
Vostra, Chiara

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