The Best Part Of Me

di May90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Remember the time... ***
Capitolo 2: *** I - My dear Sister ***
Capitolo 3: *** II - Fear ***
Capitolo 4: *** III - The Soul dies ***
Capitolo 5: *** IV - Songs from Paradise ***
Capitolo 6: *** V - The new way ***
Capitolo 7: *** VI - Remember and forget ***
Capitolo 8: *** VII - I Don't Care ***
Capitolo 9: *** VIII - Back Home ***
Capitolo 10: *** IX - Friends And Family ***
Capitolo 11: *** X - Carmen and Tosca ***
Capitolo 12: *** XI - White Roses ***
Capitolo 13: *** XII - Taboo Subjects ***
Capitolo 14: *** XIII - Lights Of The Night ***
Capitolo 15: *** XIV - Talk To Me ***
Capitolo 16: *** XV - I'm The Teacher ***
Capitolo 17: *** XVI - The Party ***
Capitolo 18: *** XVII - Unlucky ***
Capitolo 19: *** XVIII - My Only Trust ***
Capitolo 20: *** XIX - Feelings And Desires ***



Capitolo 1
*** Prologo - Remember the time... ***


Prologo

Remember the time…


...
Tutte le storie hanno un momento di svolta, almeno uno, perché gli spettatori non perdano il filo e non si annoino. Se la mia vita fosse stata solo quella che avevo prima, non sarei stato neanche un personaggio, ma solo un’ombra di passaggio sul palcoscenico. Un giovane, umilissimo operaio non avrebbe mai avuto modo di emergere nel mondo. A quei tempi un po’ mi pesava. Ero un ragazzino allora, pieno di sogni di gloria e onore, speranzoso di lasciare il dietro le quinte e salire sul palco.
Con il tempo mi ero anche abituato alla mia vita normale. Certo, la fatica, le difficoltà, i momenti brutti non mancavano mai. A volte sognavo ancora di andarmene, avere quel dannato colpo di fortuna che per tutta la mia vita mi aveva evitato strenuamente.
Non sapevo che l’impresario sarebbe giunto presto con la qualifica che tanto aspettavo. Il prezzo di una parte da protagonista nello spettacolo era decisamente alto. All’inizio sembrava bastare il mio sangue. Poi ce ne volle altro, molto altro… Perché nessuno mi aveva avvisato prima che avrei dovuto interpetare l’antagonista…?

Ma è arrivato il momento di parlare fuori metafora.
E’ vero, io volevo superare la mia condizione di reietto della società. E’ vero, con il tempo stavo riconsiderando la mia situazione, grazie all’aiuto di alcuni amici e di un po’ di tranquillità. E’ vero anche, però, che non ho mai scelto di diventare un mostro. Il mio sangue aveva deciso per me.
E’ vero, l’ho accettato senza troppi scrupoli. E’ vero, mi divertiva avere due vite diverse insieme. E’ vero anche che non possedevo più una coscienza capace di cogliere la verità dietro l’esaltazione del male.
E’ vero che non merito la possibilità concessami… E’ vero che non merito alcun tipo di pietà e comprensione… E’ vero che non merito il ruolo che posseggo, che dovrebbe essere occupato da una persona migliore di me…

E’ vero che non merito lei e la sua grande comprensione per me…
Ma non si tratta di una conseguenza. E’ stata lei a dare origine a tutto. E’ stata lei a salvarmi.
Prima mia salvatrice, poi regalata a me come un dono, poi troppo lontana per poterla mai raggiungere davvero… Sembrava dover finire tutto subito come era iniziato… Lei aveva scelto, ci era riuscita, era salva… Eppure non sopportava l’idea che i miei occhi restassero ciechi alla verità. Lei è stata l’angelo mandato a salvarmi… Tuttora sono convinto di questo…

---------------------------------------------------------------------------------

...
Ero felice.
Il mio cantuccio era piccolo e comodo. La mia fede era più salda di qualunque altra cosa. Vivevo per me stessa, per ciò che avevo scelto, per la vita che avevo voluto e questo sembrava bastare…
Eppure avevo un grave difetto. Irrilevante per l’ambiente in cui stavo, ma gravissimo per quello che dovevo rappresentare: la carità, la gioia, l’amore. Avevo un’enorme paura degli altri esseri umani. Un terrore folle, ricacciato forte nel cuore grazie alla vita solitaria che conducevo. Ma era lì, sempre in agguato.
Proprio per questo sono certa che, il giorno in cui aprii la porta a quel ragazzo e lo aiutai istintivamente, qualcosa avesse operato in me… Mi avesse guidato, mi avesse convinta, mi avesse influenzata… Allora non capii fino a che punto la mia anima fosse stata toccata… Ci sono cose che si possono percepire per intero solo a posteriori e che solo dopo ci fanno comprendere come qualcuno segni la nostra strada e ci porti a percorrerla, ignari e per questo più deboli, ma anche più umani…

Poi, il colpo di scena. Il risveglio del sangue. Qualcosa di insopportabile, irrazionale e selvaggio. Tale che non poteva essere il destino scelto per me. Cercavo di ragionare, capire. Se davvero ero nata con quella maledizione, perché ero sempre stata tanto legata a Dio?
E poi, lui… Io ero sua di diritto, così era stato deciso, e io ne gioivo, come della prova che tutto ha un senso e forse lo aveva anche la mia presenza là. Ma lui era insondabile. Incomprensibile. A tratti contraddittorio. Volevo restare con lui, con tutte le forze, ma dovevo anche scegliere…

Ciò che infine avevo deciso, non riusciva a cambiare nulla… Lo amavo tanto e ne soffrivo fino in fondo all’animo. Per questo avrei fatto qualunque cosa per salvarlo dall’abisso del male…




Consiglio: probabilmente se leggerete solo fin qui non vi piacerà... Questo prologo lascia un po' troppi misteri in effetti... Andate avanti almeno fino al secondo capitolo... Potreste sempre cambiare idea...



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Capitolo 2
*** I - My dear Sister ***


Capitolo 1

My dear Sister



“Si corre lo stesso rischio a credere troppo che a credere troppo poco.”
(D. Diderot)






I momenti precedenti alla scoperta della mia attitudine ai ruoli principali e all’incontro con il mio “impresario”, con quello strano essere che tutti chiamano Conte, li ricordo solo vagamente.

Da quello che ne so, ho sempre lavorato. Anche parecchio, con fatica e difficoltà, in ambienti impossibili, in condizioni disumane, ma con la forza di chi deve mangiare e può farlo solo con il sudore della fronte. Un bambino semplice e davvero infelice. Ma non certo un eroe o una vittima, solo un triste caso della sorte, pensavo.
Poi c’è uno spazio vuoto. Ricordassi almeno come ho incontrato Frank e Momo… Non ne ho idea… Ma credo che mi abbiano avvicinato un po’ per lo stesso motivo per cui io ho cercato di proteggere Iizu… Un bambino piccolo, solo e abbandonato a se stesso faceva tenerezza, credo… Soprattutto poi se non ha altro modo di sopravvivere che faticare in lavori umili e pesanti come quelli degli adulti…
La vita con loro divenne migliore. Ho degli ottimi ricordi di quei momenti di vera amicizia. Furono i miei amici i primi a farmi sentire una persona. Per questo associai a loro la mia sola famiglia.

Poi trovammo il piccolo Iizu… Loro dicevano che assomigliava moltissimo a me, solo che non aveva la mia stessa testa calda e fisico da minatore. Era piccolo, minuto e molto più debole di salute. Riuscimmo addirittura a non farlo più avvicinare al lavoro e alla fatica e cominciammo a mantenerlo con il nostro stipendio. Non ci pesava, anzi, ci appariva una vittoria: stavamo proteggendo un bimbo dalla sofferenza.
Quando pensavo alla mia situazione vedevo solo un uomo, quando guardavo Iizu vedevo qualcuno che meritava di essere difeso da quel mondo… A quei tempi ero ancora una persona vera…

Poi è di nuovo tutto vago. Solo un episodio spicca ancora tra tutti. Lo ricordo come se fosse ieri.

Iizu si era ammalato ma aveva cercato di nascondercelo, come al solito. Alla miniera era un periodaccio: dato che il padrone non aveva ancora trovato il giacimento che cercava, ci aveva dimezzato lo stipendio, già bassissimo. Eravamo di pessimo umore, ma non potevamo e non volevamo licenziarci, per paura di dover di nuovo girare a vuoto e aspettare di trovare un nuovo posto. Per questo probabilmente aveva ancora più paura a mostrarsi malato, o forse fummo noi ad essere troppo occupati a pensare al nostro sostentamento per accorgercene da soli.
Un giorno, però, quando suonarono per il pranzo, non lo trovammo. Andai al suo letto e cercai di svegliarlo. Continuai a scuoterlo, ma non reagiva in alcun modo. Aveva la febbre altissima e sembrava delirare.
Eravamo completamente nel panico. Noi avevamo solo una minuscola cassetta del pronto soccorso e nient’altro. In miniera non c’era di certo nessuno avesse medicine o qualcosa di utile per curare un bimbo. Dovevamo assolutamente cercare qualcuno in città, che per fortuna non distava molto.
Presi in braccio Iizu e mi allontanai di corsa. Gli altri volevano seguirmi ma li obbligai a restare: lasciando il mio posto all’improvviso avrei certo perso il lavoro, ma almeno loro sarebbero riusciti a guadagnare abbastanza per permetterci di sopravvivere.
Arrivato all’ospedale sperai di trovare un minimo di assistenza, ma mi guardarono storto e chiesero senza mezzi termini se potevo permettermi di pagare. Mi ribellai, sbraitai, mi offrii di fare tutto per ricambiare le attenzioni rivolte al piccolo. Nulla. Rabbioso, ma sempre più preoccupato ed agitato, bussai a tutte le case dei dintorni, ma nessuno mi offrì aiuto. Disperato, offeso, frustrato, con il mio amico che tremava vistosamente tra le mie braccia, arrivai fino ai confini della città. Quando mi trovai di fronte ad un edificio stranamente enorme, non mi feci domande, ma angosciato bussai con tutte le mie forze, a lungo. Il silenzio totale sembrava provenire dall’interno, ma continuai imperterrito, senza arrendermi.
Solo dopo molti minuti, si aprì un piccolo spioncino attraverso il quale due occhi verdi sospettosi si posarono su di me.
- Vi prego! – urlai nel panico – Vi prego, sta male! Aiutatemi! -
Ma subito, il piccolo foro si richiuse con uno schiocco.
Sapevo di non essere per nulla rassicurante per il mio aspetto povero e sciupato: i capelli mossi spettinati, pieni di polvere a coprirmi parte del viso, la carnagione pallida di chi lavora alla luce delle fiaccole, i vestiti sudati e laceri e gli occhiali finti, inventati un giorno per scherzo con due fondi di bottiglia ma che da allora tenevo sempre addosso, anche perché decisamente utili a proteggere gli occhi durante il lavoro. Però una cosa simile non potevano farla. Non potevo sopportare di ritrovarmi di nuovo una porta sbattuta in faccia. Come poteva non far pena a nessuno quel povero bambino malato? Come potevano ignorarci così?
- Ma che razza di persone siete!? Non vi vergognate!? Lo lasciate morire così, maledetti!? -
Il rumore delle mie urla coprirono lo sferragliare della serratura. Sulla soglia apparve una suora dal velo e dal lungo abito blu che senza dire una parola mi tolse di mano Iizu e mi fece il cenno velocissimo di entrare. Fece poi scattare in fretta e furia la chiave nella toppa e prese a correre senza fare alcun rumore per il lungo e scuro corridoio. Le stavo dietro a fatica, attento a non far scricchiolare le scarpe usurate sul pavimento di pietra. Giunti di fronte ad una anonima porta, mi fece entrare per primo, poi lanciò uno sguardo inquieto da una parte e dall’altra prima di richiudere l’uscio.
Ci trovavamo nella sua cella. Era spoglia, ma accuratamente pulita. Appoggiò il bambino sul suo letto e lo coprì con cura con tutte le coperte che riuscì a trovare. Poi tirò fuori la sua bacinella piena di acqua e un fazzoletto candido. Mi lanciò uno sguardo scuro e mi mise in mano il pezzo di stoffa, poi per la prima volta mi rivolse la parola, con asprezza: - Allora, volete darvi da fare!? Bagnatelo e passateglielo sul viso! –
Poi, con un sonoro sbuffo uscì velocemente dalla stanzetta. Io rimasi basito, ma feci come mi aveva ordinato. Iizu tremava ma la sua pelle scottava…
Dopo lunghi minuti, tornò trafelata, in mano vari barattoli di quelli che sembravano decotti, infusi e simili. La osservavo senza parlare. Si comportava come chi si trova suo malgrado a fare qualcosa che in realtà non vorrebbe, con irritazione. La cosa mi faceva arrabbiare moltissimo, ma dato che sembrava volesse aiutare Iizu mi trattenni e seguii le sue istruzioni.
- E’ chiaro!? Dovete fargli prendere questa medicina ogni tre ore! Bagnate la garza in continuazione! Tenetelo per bene al caldo! Non permettete che si scopra! Io sarò di ritorno tra parecchie ore, per cui cercate di ricordarvi tutto! E non potete assolutamente uscire dalla stanza, chiaro!? -
Ero sicuro che il mio sguardo tradisse il fastidio, ma mi sforzai di sfoderare il mio più convincente sorriso falso e biascicai un faticosissimo: - Si… Grazie… -
Lei sembrò placarsi per un attimo, poi immagino che notò la mia sceneggiata e la sua espressione tornò ostile. Uscì dalla porta senza aggiungere altro.

Iizu migliorava a vista d’occhio. Ero davvero felice che le cose andassero meglio e sentivo anche una certa riconoscenza verso quella suora… In un certo senso…
Non ero mai stato un tipo religioso, per nulla. Strano per uno che veniva dal Portogallo, paese cattolico molto praticante. Onestamente, però, non avevo mai trovato alcuna soddisfazione nella pratica religiosa. Immaginavo che fosse una cosa totalmente vuota, priva di calore, irrazionale. Una buffonata, fatta apposta per mostrare agli altri come un trofeo la propria figurata virtù. Ecco un altro motivo per cui la “fede” non faceva per me: le entità religiose mi davano ai nervi. Forse era stata colpa di Fra Santiago, che ai tempi ci guardava dall’alto al basso ogni volta che per necessità ci recavamo da lui a chiedere un pezzo di pane. Oppure dalle figure ecclesiastiche che sventolavano ai quattro venti la gioia che deriva dalla carità e poi vivevano negli enormi palazzi senza neanche considerare gli sfortunati che chiedevano le elemosine vicino alle loro porte. Tutte falsità. Tutta apparenza. Tutta incuranza. Tutta idealizzazione inutile.
Lo stesso per la concezione del divino. Ero sempre stato scettico, più che dubbioso… Come poteva quell’entità suprema guardarci, eppure accettare ogni cosa che accadeva? Superstizione, stupida superstizione. In effetti potevo ritenermi un ateo, anche se non era certo il caso di andarlo a spiattellare in giro. E’ sempre stato pericoloso pensarla diversamente dagli altri…
L’idea di trovarmi quindi ad avere a che fare con una religiosa mi rendeva ancora più indigesta la situazione… Però bisognava riconoscerle la schiettezza di mostrare apertamente il proprio disgusto per noi, per i poveracci della situazione. Tuttavia, avrei preferito trovarmi di fronte una persona più simulatrice, ma anche più collaborativa… Avrei deciso di testa mia se sondare il suo animo e vedere la verità dietro il suo comportamento o accettare per gratitudine la sua squallida facciata misericordiosa… Mi rendeva molto difficile nascondere il mio astio…

Quando tornò nella cella, mi allungò velocemente in mano un piatto di minestra e un pezzo di pane e chiuse accuratamente la porta a chiave.
- Quello è per il bambino. Il pane è per voi. – disse, secca.
Io rimasi interdetto su cosa dire. “Grazie?” “Non dovevate disturbarvi?” Non mi suonavano bene visto l’atteggiamento pesante che mi stava usando. Mi imposi di tacere e svegliai con delicatezza Iizu. Si strofinò gli occhi assonnato. Aveva ripreso un colorito abbastanza sano, ma aveva ancora un po’ di febbre.
- Hai voglia di mangiare un po’? -
Annuì piano.
Lo imboccai con il cucchiaio finché non mi disse basta.
- Sei sicuro…? -
- Si… Tu non mangi, Tyki? –
- Non ti preoccupare per me. Ho un bel panino che mi aspetta. Piuttosto, cerca di finire la minestra… Ti fa bene… -
- Non sforzatelo se non vuole. Quelle medicine danno problemi di digestione. Se ne ha abbastanza, non insistete se non volete che stia male. –
Solo in quel momento mi ricordai della sua presenza. Fino a quel momento era rimasta seduta per terra, in silenzio, nel lato opposto della stanza. Mi scrutava compunta e serissima.
Ricambiai il suo sguardo con un po’ di ostilità e riappoggiai il piatto sul comodino:
- Allora va bene così… -
- Si. Grazie, Tyki. Grazie, signora suora. –
Intravidi un mezzo sorriso, sul suo volto scuro, ma tornò immediatamente cupa.

Iizu si addormentò di nuovo molto in fretta.
Allora immersi di nuovo la garza nell’acqua e la rimisi al suo posto, per poi sedermi per terra poco lontano dal letto per mangiare quel po’ di pane. Restavo zitto per ignorare la presenza della giovane, che continuava a guardarmi. Ogni tanto anch’io alzavo gli occhi e incrociavo le sue iridi verdi che scrutavano ogni mio gesto. Mi dava l’impressione di un animale braccato da un cacciatore: schiacciato in un angolo, senza via d’uscita, che fissa con timore crescente colui che lo minaccia… Così era anche lei, appoggiata, o forse sarebbe meglio dire addossata, al muro, avvolta stretta in una coperta, inquieta nei confronti del casuale ospite… In questo non potevo darle torto. E poi stava anche cercando di mettersi a dormire per terra per lasciare il letto al mio piccolo amico malato. Dopo tutto non poteva essere cattiva…

Quando alla fine decisi di sdraiarmi per terra per prendere un po’ di sonno, mi resi conto di non riuscire a farlo. Era insopportabile sentirsi così osservati! Per quanto cercassi di pensare ad altro, di concentrarmi su qualcosa di diverso, sentivo quella sottile insofferenza e irritazione pungermi la pelle. Quando infine non ce la feci più, mi alzai in piedi, deciso ad affrontarla.
Non mi importava più nulla di essere scortese o irriconoscente. Volevo capire fino in fondo cosa accidenti aveva contro di me. Io sapevo bene perché non avevo alcuna fiducia in lei, in una suora. Ma lei non aveva alcun stramaledettissimo motivo di fare altrettanto! Aveva o no deciso di aiutarmi!? Poteva lasciarmi fuori! Piuttosto che aiutarmi e poi trattarmi in modo così dannatamente insopportabile!
In realtà, mi alzai e andai verso di lei perché non volevo svegliare Iizu parlandole da un capo all’altro della stanza. Non voleva certo essere un’aggressione. Per quanto non la stimassi granché, non le avrei mai torto un capello.
Eppure la sua reazione fu immediata e impaurita. Ero ancora lontano un paio di metri, ma lei si schiacciò al muro, si coprì il volto e la bocca con le mani trattenendo un grido. Uno strano tremore la sconvolse ed ebbi l’impressione di sentire anche qualche basso singhiozzo.
Allora non osai andare più vicino e mi sedetti in quel punto. La guardavo incuriosito, ormai, più che arrabbiato. Mi resi allora conto che avevo avuto ragione. Lei aveva paura di me.
- Perché? – la domanda mi sfuggì di bocca senza che me ne accorgessi.
Ci mise qualche momento a calmarsi. Attraverso le dita semi-aperte vide dove mi trovavo e credo valutò che fossi ancora a distanza di sicurezza. Si passò frettolosamente una mano sugli occhi e poi cercò di recuperare la sua compattezza. Non riuscì però a risultare di nuovo gelida quando mi chiese, piano: - Perché cosa…? –
Con un leggero sorriso feci un gesto plateale: - Perché tutto questo… Voi avete una paura incredibile di me e mi siete totalmente nemica e ostile. Eppure mi avete fatto entrare e avete aiutato Iizu. Perché? –
- Non avete capito un bel niente. -
- Come? Vorreste dirmi che non mi temete…? – con un sorriso sghembo mi sporsi solo leggermente verso di lei. La reazione fu immediata e tornò a schiacciarsi contro la parete.
- Appunto. –
- Io… non ho… paura di voi… -
- Beh, diciamo che oggi non lo dimostravate, ma ora si. Anche questo non mi è chiaro. –
Abbassò la testa per fissare il pavimento e il velo scivolò a coprirle il volto.
Io attesi una risposta invano per un po’. Poi decisi di porre una domanda diversa: - Dite un po’, si può sapere perché siete così insopportabile nei miei confronti…? –
- Insopportabile!? - l’ostilità era tornata a colorire la sua voce.
- Si esatto. –
- Avete il coraggio di dire una cosa simile!? Vi ho aiutato, no!? –
- Si si… - annuii vigorosamente – Ma come se vi fosse stato ordinato. Con irritazione. –
- Beh, certo! Non vi rendete conto in che guaio mi avete messa! –
Manteneva la voce bassa per non fare rumore, ma questo non danneggiava minimamente il tono delle parole.
Sfoderai la mia migliore gamma di sorrisi ironici per l’occasione: - Guai!? Che guai!? Ecco, il classico atteggiamento della gente di Chiesa! Fanno sempre le vittime in ogni occasione. Per quanto siano nel torto. –
- Non vi siete reso conto che questo è un convento di clausura, quando avete bussato!? -
Devo dire che quella frase mi lasciò un attimo confuso. Allora tutto tornava. Tuttavia, non mi era sufficiente: - E quindi!? Se c’è un poveraccio che rischia di morire lo lasciate per la strada!? Tanto predicare, tanto parlare, e poi… -
- Le mie sorelle se sapessero che voi, un uomo, passate la notte nella mia cella… Il fatto che accompagniate un bambino malato non cambierebbe nulla! Sarebbe la mia fine! -
- Certo! Perché è questa la cosa più importante! La vostra posizione! E della gente che ha bisogno di aiuto ve ne fregate! Sono le solite chiacchiere da preti! Si può sapere che razza di ragionamenti sono!? Sono queste le cose che vi ha insegnato QUEL VOSTRO DIO!? –
Lei sgranò gli occhi, allibita. Toccò a me allora abbassare lo sguardo, sapendo di aver parlato troppo.
Dopo qualche secondo di silenzio mi rivolse la parola, con un tono calmo e distaccato: - …Voi non siete cristiano…? –
La guardai vagamente indispettito e decisi di stuzzicarla fino in fondo: - Non credo neanche in Dio se è per questo. –
Mi studiò per un po’ ma senza più alcuna sorpresa o confusione, solo asprezza: - Quindi siete il classico individuo che crede di contare solo su se stesso… -
- Qualcosa in contrario…? -
- Trovo irrazionale credere di essere soli nell’Universo della creazione. –
- Siete una suora. E’ naturale. Sarebbe strano la pensaste come me. –
- Sarebbe naturale, invece, che portaste un po’ di rispetto all’Essere che vi ha donato la vita! –
- Sentite… -
- Come potete non percepire la sua grande forza?! –
- Non potreste provare ad essere un po’ più diplomatica!? –
- Non è questione di diplomazia ma di giustizia! –
- Se cercate di predicare con me non avete speranze, “santità”! –
- Lo vedo! Siete solo un arrogante blasfemo! –
- Non crediate di offendermi… Non mi importa un bel niente… -
- Bene! Allora continuate a vivere nella vostra disumanità! –
- …Amen… -
Fece un verso che assomigliava vagamente ad un ringhio e si richiuse nel suo sdegno.
Non riuscii a trattenere una risata: - Eppure vi battete come una leonessa! E dire che sembra davvero abbiate paura di me! –
- Non credete di essere speciale per questo! Io temo tutti gli esseri umani… -
- Come prego? -
Teneva gli occhi bassi a terra mentre parlava in un sussurro triste: - Ho una paura incontenibile delle altre persone, da sempre. Il fatto che aggredisca spesso verbalmente gli altri è una forma di autodifesa. Mi viene spontaneo e quando lo faccio riesco anche a dimenticarmi il mio senso di inferiorità. –
- C’è almeno una ragione per tutto questo? –
Astiosa: - No! Non c’è! –
Sospirai, sconfitto: - Allora va bene... –
Di nuovo i suoi occhi verdi si allargarono a dismisura: - Cosa? -
- Beh è decisamente controverso, ma spiega tutto. Non siete neanche voi a volervi rendere così antipatica, è una questione naturale. Quindi non ci metto più becco. -
Annuì, un po’ confusa e tacque.

Mi sembrò di aver dormito poco o nulla quando venni svegliato da una campana. Non era ancora l’alba. La suora si alzò subito e senza esitazioni, come chi era abituato. Io, invece, ero distrutto.
- Che cos’è…? – chiesi durante un lungo sbadiglio.
- La campana del Mattutino. Devo andare a messa. –
Si lisciò leggermente l’abito e prese dal comodino un libretto.
- Perdonatemi, ma dovete proprio andare? -
Mi squadrò con rabbia: - Sentite un po’ voi, signor ateo… Capisco che per voi andare o non andare ad una messa… -
- No, non è per quello. – aggiunsi subito – Solo che non so quando si sveglierà e vorrei ci foste anche voi per controllarlo. -
- Voi tenete molto a quel bambino. – lo disse senza cambiare tono ma anche come se ne fosse profondamente stupita.
- Certamente. E’ un mio carissimo amico. –
- Credevo fosse vostro figlio… Anche se non vi chiamerebbe per nome… -
- No. –
- Ho capito. –
Mi fissò per qualche momento come se mi stesse rivalutando. La cosa, non so perché, mi fece piacere.
- Comunque tornerò all’ora di pranzo. Non so se riuscirò di nuovo a portarvi qualcosa da mangiare. -
- Non importa. –
- Vi prego di non fare rumore. Ora devo andare. Sono già in ritardo. – e uscì.

Ben due giorni passarono in quello strano modo. Con il tempo, la ragazza si faceva sempre meno ostile, ma non comunque propriamente gentile. La cosa, però, strano a dirsi, non mi offendeva più. Finalmente mi era chiaro ciò che era nascosto dietro quello strano comportamento.
Tuttavia un giorno non potei fare a meno di chiederle, cercando di far apparire la domanda il più naturale possibile, per quale ragione ci avesse aperto la porta nonostante rischiasse così tanto e d’altra parte non amasse minimamente gli esseri umani.
Ci pensò più seriamente di quanto avevo sperato. Pensavo mi avrebbe liquidato con un pallido “non lo so”.
Poi mi guardò molto intensamente, con i grandi occhi verdi che brillavano sulla sua pallida carnagione, e rispose: - Destino… -
- Come, prego…? – una parola simile non me l’aspettavo proprio.
- …Io la chiamo Provvidenza, ma voi vi sareste lamentato come al solito, così vi rendo accettabile il concetto… -
- Avete capito cosa intendo. Voglio dire, perché non un semplice caso? –
- Perché quel giorno dovevo andare a cantare nel coro, ma la notte stranamente non ero stata bene. Ero andata a preparare uno sciroppo e stavo giusto rientrando in camera quando sono passata davanti al portone e voi avete bussato. –
- Si, ma non avreste voluto e dovuto aprire. –
- Lo so. Però fui presa dalla curiosità e anche questo è decisamente anomalo. –
- Ma capita. -
- Si, certo. – si stava un po’ innervosendo, ma volevo smentire il suo fatalismo. Era troppo divertente contraddirla. – Però non mi interesso mai a nulla che esuli i miei doveri. Aprii lo spioncino solo per quello strano istinto. Quando vi vidi, pensai che dovevo esservi d’aiuto come potevo. E anche se mi irritava permettervi di entrare, vedere il bambino privo di conoscenza, mosse qualcosa… Non saprei cosa… –
- Istinto materno…? –
- Perché no…? – chiese con irritazione.
- Ed è tutto qui? –
- Vi sembra poco!? Tenete conto che io tengo anche una certa naturale distanza dalle mie sorelle! E invece nel vostro caso vi ho accolto nella mia cella! Questa per me è una ispirazione divina! Tanto più che avendo tirato fuori poco prima le cose utili per il mio lieve malessere non ho dovuto usare sotterfugi per entrare in erboristeria. Sembrava tutto costruito ad arte! –
- Sarà… -
Iizu ci guardava dal letto ridendo in silenzio. Io gli lanciavo ogni tanto sguardi complici, fino a che lei ci vide. Mi preparai ad una tremenda scenata e invece… Semplicemente mi guardò per un attimo con espressione indecifrabile e poi si girò verso Iizu indirizzandogli il primo e più bel sorriso che avessi mai visto.

Era la notte del terzo giorno di permanenza al convento quando uscimmo in silenzio dalla cella della suora e ci fiondammo verso la silenziosa ala principale. Aprì il portone con estrema delicatezza. Io e il mio amico eravamo pronti a scattare fuori per evitare che il rumore richiamasse qualcuno, ma lei ci fermò e ci mise in mano due gigantesche pagnotte a testa.
- Ma… - tentai di biascicare.
- Nessun problema. Sono la mia scorta personale. –
- Beh, ma vi abbiamo già portato via il cibo dal piatto per tre giorni… -
Mi guardò un po’ stupita. Credeva che non avessi capito che in quei giorni io e Iizu ci eravamo divisi la maggior parte del suo pranzo e della sua cena.
Abbassò lo sguardo: - Non ha importanza. Questi sono un regalo. –
Non aggiunse niente e si piegò verso il bambino: - Cerca di stare bene… -
- Si! Grazie, signora suora! – e le schioccò un bacio sulla guancia.
Rimasi colpito dal gesto perché Iizu non era solito alle smancerie, ma mai quanto lei, che divenne rossissima e riuscì solo a rivolgergli una leggera carezza.
Aprì il portone e noi due uscimmo.
Solo a quel punto mi girai e le porsi la mano.
Lei la guardò, indecisa. Mi ricordai allora dei suoi problemi di rapporto con gli altri, anche se avevo agito così convinto che li avesse, almeno in parte, superati. Ritirai la mano e mi accontentai di dirle, sinceramente questa volta: - Grazie davvero per tutto quello che avete fatto per Iizu… e per me. Forse non diventerò mai un cristiano, ma mi ricorderò delle vostre parole. In fondo è un compromesso. –
Sorrise gentilmente e fu lei questa volta ad allungare la mano: - Grazie a voi, Tyki. Grazie a voi ora ho un po’ meno paura. Vi sono riconoscente, a voi e a Iizu. –
Dopo averla stretta con calore, ci allontanammo di qualche metro e le rivolgemmo entrambi un cenno di saluto mentre stava per accostare la porta che si chiuse poi con un leggero tonfo.

- Tyki… -
- Umh. –
- Non le hai neanche chiesto come si chiamava. –
Sbattei gli occhi. Aveva ragione.
- Be’, pazienza. Tanto il mondo è piccolo e la gente si rincontra prima o poi. -
Lo dissi senza pensarci, anche se interiormente non ci credevo minimamente. Lei aveva consacrato la vita al suo Dio, non sarebbe mai e poi mai uscita da quel convento, quindi non avrei mai potuto rincontrarla.
Non credevo al Destino, né tanto meno alla Provvidenza. Un giorno me ne sarei ricreduto…

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Capitolo 3
*** II - Fear ***


Capitolo 2

Fear


“Le religioni sono come le lucciole: per splendere hanno bisogno della tenebra.”
(A. Schopenhauer)






Padre François era mio padre, perché non ne avevo altri.
Io non potevo fare altro che considerarlo tale: era colui che più di tutti si occupava di me e di mia madre. Per quanto sapessi che era decisamente sconveniente chiamare un uomo di Chiesa “padre” in senso letterale, mi piaceva tanto pensare che lui fosse davvero il mio genitore. Buffo come le cose siano davvero ciò che sembrano…

Era un uomo alto ed elegante, anche nella sua veste sacerdotale aveva un fascino particolare. I suoi occhi erano verdissimi, proprio come i miei. Il suo viso era sempre dolce e tenero e la sua fede era enorme, tanto profonda che non sarebbe riuscito ad evitare che attraverso di lui si infondesse in tutti. Mi diceva sempre che l’amore per Dio era qualcosa di incredibile e candido come un giglio. Io ascoltavo sempre tutto quello che diceva con la massima attenzione, con il cuore di chi vuole imparare tutto da colui che insegna. Fu così che scoprii la religione e cominciai a professarla con enorme fiducia, con grande cura…
Qualche volta ci veniva a visitare a casa. In genere restava molto a lungo, ma quando ero piccola la cosa non mi stupiva affatto. Mi rendeva felice che anche lui volesse vedermi e passare del tempo con me. In queste situazioni mi chiamava “mia piccola Vivy”. Quel soprannome mi piaceva tantissimo e cercavo sempre di convincere tutti a chiamarmi così, piuttosto che Victoire.

Io e la mamma vivevamo in una casetta su una collina vicina ad un villaggio della Provenza. Mia madre aveva origini borgognone, ma appena aveva avuto l’età per lasciare l’orfanotrofio aveva deciso di allontanarsi da quella zona e cercare riparo da qualche altra parte. Non mi aveva mai spiegato come e perché fosse arrivata fin lì, come avesse fatto a procurarsi la casa in cui vivevamo, come mai non uscisse quasi mai di casa. Allo stesso modo con cui era enormemente evasiva in certe spiegazioni, mi ripeteva sempre che era stata davvero fortunata ad aver incontrato Padre François, mi diceva che dovevo sempre comportarmi bene con lui, che era il nostro benefattore più grande. Comunque non mi era difficile fare come diceva.  
Crebbi così, in un ambiente all’apparenza sereno, calmo e sicuro.
L’unico vero problema era il mio rapportarmi con gli altri. Per mia natura non ero timida, né chiusa o introversa. Eppure c’era qualcosa in me che mi diceva di tenermi alla larga da tutti e muoveva un timore innaturale per le altre persone. L’unica eccezione era riservata a mia madre e a Padre François.
D’altra parte non c’erano ugualmente molte speranze per me di fare amicizia con qualcuno. I bambini, aizzati dai loro genitori, mi tenevano ben alla larga quando andavo al villaggio. Non una sola volta  sentii alcuni che mentre passavo mi additavano con epiteti quali “figlia del peccato” e simili. Un giorno chiesi a mia madre cosa significasse e lei disse che poteva solo essere un errore, che avevo sentito male e che di certo non dovevo preoccuparmi di una cosa simile. Ricordo, però, che parlò in un modo strano, quasi minaccioso, e c’era come una vena di violenza nella sua voce, che per fortuna sparì quasi subito quando cambiammo argomento. In quel momento provai qualcosa di insolito che identificai ingenuamente come innocua paura…

Avevo compiuto da poco diciannove anni, ma in realtà già da un po’ cominciavo a domandarmi alcune cose riguardo la nostra situazione e il nostro strano rapporto con Padre François. Avevo finalmente cominciato a notare qualcosa di misterioso tutt’intorno a me. Da un po’ di tempo pregavo molto e anche in questo ero molto contraddittoria: a volte chiedevo a Dio se poteva permettere che mi venisse mostrato ciò che non capivo, a volte domandavo con un enorme sofferenza nel cuore che mi permettesse di non sentirlo, di tenerlo lontano da me. Vedevo che mia madre ogni tanto non si sentiva bene, ma che si riprendeva molto in fretta quando sapeva che doveva avvenire la visita di mio “padre”. Mi sembrava che molti miei coetanei mi si volessero avvicinare, ma che fossero incerti e come impauriti quando mi vedevano. Cominciai a chiedermi seriamente cosa avevo di così strano e diverso dagli altri…
 
Quella era davvero una giornata come tante, potrei dire allora. Eppure tutto, tutto sarebbe cambiato…
Soffro ancora enormemente a raccontarlo. Ma ne ho bisogno. Devo ricostruire tutto quanto perché sia possibile capire il legame che mi unisce alla vita che ho scelto e che conduco tuttora.

Padre François era arrivato verso l’una e ci aveva portato un po’ di verdure della bella stagione.
Mia madre era stata male poco prima: ad un certo punto aveva cominciato a tremare dalla testa ai piedi e appena mi ero avvicinata si era coperta con il lenzuolo dicendo di non preoccuparmi, che le sarebbe passato presto. Io avevo insistito e lei mi aveva spedita ad accendere il fuoco.
Ero decisamente arrabbiata, così, quando lui arrivò e vidi la mamma improvvisamente sgargiante e piena di salute correre a salutarlo, gli diressi solo un leggero saluto e andai fuori a prendere un po’ d’aria.
Passeggiai per il prato su e giù, senza fermarmi, cercando di pensare a cosa potesse avere davvero mia madre. Era di certo una malattia, qualcosa di grave…
Mentre guardavo tutt’intorno e insieme non guardavo nulla… Fu forse il colore bianco, così innaturale su quella grande distesa verdeggiante… Fu forse quello strano brivido di terrore che mi percorreva ogni volta che i miei occhi percepivano altre persone… Non ne sono sicura… Tuttavia, benché fossi immersa in fitti pensieri, mi accorsi di un folto gruppo di uomini vestiti di bianco che si accingevano a salire la collina.
Corsi in casa presa dal panico. E urlai, come se la mia stessa vita dipendesse da questo…
- CI SONO DEGLI UOMINI VESTITI DI BIANCO! STANNO DI SICURO VENENDO QUI! -
Dopo aver pronunciato quella frase mi resi conto di quanto fosse stata irrazionale. Perché preoccuparsi? Perché avere tanta paura? Avranno i loro motivi per venire a visitarci, ma noi ancora non li sappiamo. Mi sarei fatta ridere dietro da entrambi.
In realtà, però, la reazione di Padre François e di mia madre fu agghiacciante. Entrambi sbiancarono e si guardarono terrorizzati.
- François… - la voce di mia madre aveva qualcosa di roco e inquietante.
- Nell’altra stanza, Rossane… Magari non è nulla di così grave… Restate ad origliare un attimo da là, se le cose si mettono male, scappate dall’uscita sul retro… -
- Ma tu… Che ne sarà di te…? –
- Lo sapevi anche tu che prima o poi sarebbero venuti. Sarò processato. Non so come andrà a finire, ma non è di me che devi preoccuparti. Sai dove trovare il sacchetto con i resti dell’eredità di mio padre nella sagrestia, giusto…? Andate in un posto sicuro. –
In quel momento bussarono alla porta, forte. Io ero raggelata. Non capivo. Non potevo capire, ancora…
Mia madre mi trascinò per il braccio nell’altra stanza e dopo aver lanciato un altro sguardo disperato al sacerdote, chiuse la porta.

Entrambe ci appiattimmo contro la porta. Le voci non erano molto alte, ma riuscimmo ad ascoltare alcune frasi.
La porta venne aperta con un netto cigolio.
- Buongiorno. – fece, con falsa spigliatezza e tono incrinato, Padre François.
Una voce profonda e carica di autorità rispose con pungente severità: - Voi siete Padre François Flauvers, il sacerdote della cittadina…? –
- Si, esatto. E vossignoria…? -
Non riuscii ad udire la risposta.
- La signora Villois e la figlia non sono qui ora. -
- E voi cosa fate allora a casa loro…? –
Ancora un breve scambio di battute, che non ci fu possibile ascoltare.
Poi il tono inquieto di Padre Francçois: - Dunque siete davvero qui per quelle dicerie…? –
- Ma non sono dicerie, Padre François. Noi sappiamo per certo cosa è avvenuto. E proprio per questo, vorrei presentarvi una persona… -
Si udì solo intervenire una voce bassa e calma, anche se leggermente gracchiante, ma non riuscii a distinguere le parole.
L’esclamazione del sacerdote fu sorpresa come non mai: - Esorcisti!?!?!? –
Di nuovo la voce profonda: - Conoscete l’Ordine, dunque…? –
Questa volta il tono fu quasi sprezzante: - Non abbastanza forse, dato che scopro oggi come si occupi anche di persone innocenti! –
Avrei voluto ascoltare ancora. Forse avrei dovuto. Avrei capito subito cosa mi si presentava. Ma proprio in quel momento mi accorsi che mia madre tremava di nuovo vistosamente e ripeteva sottovoce, ma ossessivamente, come una cantilena storta, una parola: - Esorcista… esorcista… esorcista… -
La presi per le spalle e cominciai a scuoterla… Non tanto perché si riprendesse ma perché la smettesse… Quella cantilena passava per le mie orecchie come una scossa elettrica nella mia testa, mi riempiva la mente con qualcosa di doloroso e mi faceva sentire malissimo…
- Mamma! Mamma! -
Lei allora mi guardò e sembrò riprendere il controllo di sé, anche se il suo sguardo era febbrile:
- Andiamo via, Victoire! Andiamo via subito! -
Corremmo via. Mia madre, presa da un vigore e da una volontà che non avevo mai visto, avanzava per le vie della città ancora più veloce di me, non riuscivo a starle dietro. Tuttavia era stata ottimista a pensare di passare davvero per la chiesa… Aveva davvero pensato che non avessero mandato nessuno a cercarci, dato che non ci avevano trovate a casa…? Per conto mio ero invece troppo frastornata per ragionare. Era strano, assurdo. Cosa volevano da noi? Perché dovevano processare Padre François? Perché stavamo scappando? Cosa sono gli esorcisti? E quando semplicemente pensavo quella parola era come se uno spillo mi pungolasse la testa…
Mi accorsi che eravamo completamente circondate quando ormai tutte le vie di fuga ci erano ostruite. Erano gli abitanti del villaggio ad avanzare verso di noi. Nelle loro mani fucili e bastoni.
- Cosa fate…? – biascicai a fatica, mentre il terrore mi immobilizzava sul posto.
Nessuno rispose. Le loro facce erano congelate nell’odio più totale.
Fu allora che qualcosa di rabbioso e acuto si mosse in me. Sentivo una forza orribile che sembrava nutrirsi della mia paura e sfruttarla per crescere, sempre più forte.
- Dobbiamo andarcene da qui! Lasciateci passare! – urlai, mentre il terrore cresceva e si mischiava a quell’acuta frenesia.
Allora si alzò una voce dalla folla: - Voi sarete consegnate all’Inquisizione! –
- A cosa…? Che state dicendo!? Non esiste più una cosa simile! -
- Due streghe come voi meritano solo questo! Dannate meretrici! –
Cominciarono ad avvicinarsi sempre di più.
Sentivo che li avrei aggrediti con tutte le mie forze. Mi sarei difesa fino alla fine. Con tutto quell’odio che sentivo.
Poi di nuovo il mio sguardo cadde sulla mamma. Il suo respiro era affannato e faticoso, il suo viso era terreo, qualcosa in lei sembrava quasi morire e consumarsi in quel momento. I suoi occhi erano strani. Brillavano di un colore giallo… Mi prese il polso, sussurrò ancora piano il mio nome. Ma qualcosa mi piombò sulla testa e la vista mi si spense.

Quando ripresi i sensi il buio intorno a me era ugualmente densissimo. Ci misi qualche minuto a distinguere nettamente una cella umida e fredda.
Stavo cercando di mettere un po’ d’ordine tra le mie idee, ma mi era assolutamente impossibile. La sola cosa che ora capivo con certezza era che non ci si poteva fidare di nessuno. Anche gli abitanti del villaggio si erano alleati con quei presunti inquisitori. Perché? Provai una dolorosa fitta alla testa, probabilmente dove avevo ricevuto il colpo che mi aveva fatto perdere conoscenza, e quando mi guardai le gambe e le braccia notai distintamente molte escoriazioni ed ematomi. Di certo mi avevano anche picchiata parecchio. Non sapevo perché mi trovavo lì. La mia mente non riusciva a realizzarlo distintamente. Poi, qualcosa tintinnò nel mio polso e mi accorsi di un piccolo braccialetto con una croce. La mamma lo portava sempre al polso. Pensai che me lo avesse messo mentre stavamo per essere aggredite. Aveva parlato, aveva detto… Non riuscivo a ricordarlo…
Un grido altissimo, atroce, si alzò da qualche parte che non riuscivo a distinguere e mi scosse da ogni altro pensiero. Scattai in piedi come se fossi stata colpita da un fulmine. Ma le grida continuarono ancora e ancora. Le lacrime presero a scorrermi velocemente sulle guance, quando capii di chi si trattava. Padre François urlava di dolore e l’eco si propagava ovunque.
Poi una porta sbatté forte e l’urlo di sofferenza si poté udire in tutta la sua grande portata. Mi appiattii alla parete, respirando a fatica. Poi una voce rimbombò per il corridoio, un po’ acuta, ma appuntita e piena di indignazione:
- … E’ orrendo! E’ inutile e atroce! Non posso sopportare una cosa simile! -
- Non avete visto molti campi di battaglia. Ed in ogni caso sapete che questo è il solo modo… -
- Per cosa!? Vi ho detto che è stato sicuramente accecato da innocui sentimenti! Non è un malvagio! –
- Una mente debole in un corpo debole. E’ nostro compito… –
- Non è con la tortura che otterrete qualcosa! Le centinaia di anni passano su di voi come brezza estiva! Usate metodi irrazionali e antichi! Quelli che vi avevano già resi odiosi ai vostri contemporanei! –
- E voi dovreste portare più rispetto! Nonostante la vostra età non siete che un novellino nel vostro ruolo! Dovreste scrivere la storia così com’è e non tentare di cambiarla, non è così!? Il vostro comportamento non rende giustizia al vostro incarico! -
La porta sbatté di nuovo rendendo più deboli ma ugualmente strazianti le urla.
Dei passi affrettati ma molto leggeri echeggiavano verso il luogo in cui ero rinchiusa. Quando una delle piccole lampade del corridoio riuscì ad illuminare la figura che avanzava, vidi un uomo non più giovane e parecchio basso. Era completamente rasato tranne per una piccola coda che gli spuntava da in cima alla testa. Aveva degli occhi estremamente profondi e acuti, anche se segnati da scurissime occhiaie. Indossava una lunga veste nera che sembrava quasi brillare alla luce.
Mi guardò per qualche momento, come se mi stesse valutando. Oppure, come se stesse decidendo cosa fare. Io non mossi un muscolo e rimasi schiacciata in quell’angolo, ricambiando lo sguardo. Poi decise, trasse fuori una piccola chiave e aprì la cella. Mosse qualche passo verso di me, ma vedendo che cercavo di restargli il più lontano possibile si fermò ad una certa distanza.
- Victorie Villois, dico bene…? -
La sua voce bassa e un po’ gracchiante era la stessa che avevo udito attraverso la porta di casa quel giorno. Questo non mi rassicurò per nulla. La mia mancata risposta a quella domanda, tra l’altro puramente convenzionale, non lo stupì e continuò:
- Ho bisogno di sapere una cosa importante. E’ un metodo non scientifico ma credo dovrò accontentarmi. Ho bisogno di sapere che cosa provate ora. La prima emozione che vi viene in mente.-
Lo fissai un po’ sconcertata, ma non risposi. Sentivo di nuovo quell’eco nella testa, che mi spingeva a reagire con violenza, estrema violenza.  
Ma la domanda tornò, incalzante: - Ho bisogno di saperlo, Victoire. Poi vi spiegherò quanto mi sarà possibile… -
Le parole uscirono da sole, forti, nette, senza incertezze: - VOI MI DIRETE TUTTO ORA! NON INTENDO ASPETTARE UN BEL NIENTE! MI RITROVO CHIUSA IN QUESTA GABBIA! MIA MADRE E’ SPARITA! IN QUELLA DANNATA STANZA CHIUSA STATE TORTURANDO UNA DELLE PERSONE CHE HO PIU’ CARE AL MONDO! NON HO TEMPO DI ASPETTARE! -
Sentii che avrei potuto aggredirlo con violenza, ma non lo feci. Riuscii a trattenere quell’istinto primordiale meglio di quanto potessi credere. Strinsi la croce appesa al braccialetto e presi a respirare profondamente. L’uomo non si era mosso e anzi studiava con attenzione ogni mio gesto:
- Vorrei tanto pensare che si tratti solo di una motivatissima crisi isterica. Però so per esperienza che non lo è. Vi prego, Victoire, spiegatemi cosa provate. Quando quella rabbia vi riempie l’animo cosa sentite…? -
- Paura… Un’enorme paura… Di ogni cosa… - riuscii a sussurrare a bassa voce.
- …Si… Ho capito… Ma vedo anche che riuscite a controllarla… Questo mi rassicura molto. Credete in Dio, Victoire? –
- Si. Fermamente. –
Avevo di nuovo il controllo di me stessa. Il pensiero di quanto avevo imparato ad amare della fede mi rendeva più semplice parlare e rilassarmi.
- Bene. Molto bene, davvero. Allora forse posso aiutarvi. -
Lo guardai senza capire.
- Ve la sentite di entrare in un convento? –
- Cosa…? –
- E’ tutto ciò che posso offrirvi. Non ho altro modo per garantirvi la libertà. –
- Ma mia madre… Padre François… -
- Io… Non credo di poter fare nulla per loro… -
- Cosa significa…? –
Una porta si aprì di nuovo. Il vecchio mi guardò intensamente.
- Dovete solo rispondere “sì”. Con calma, con autocontrollo, come avete fatto poco fa. Tutto andrà bene. -
Ma il mio sguardo si era già soffermato su un’altra figura, imponente, avvolta in un saio bianco, che avanzava verso l’apertura della mia cella. I suoi occhi scuri mi scrutarono per qualche momento, mostrando chiaramente un enorme disgusto. Poi si soffermarono sull’anziano con un misto di divertimento e fastidio: - Cosa state facendo, Bookman!? Allora proprio non avete paura di quella donna! – il tono era maestoso e autoritario, lo stesso del primo interlocutore giunto a casa nostra.
Gli occhi dell’altro divennero fessure: - IO non ne ho motivo, come ben sapete. –
- Certo, certo. – questa ultima affermazione sembrava aver colpito nell’orgoglio l’uomo in bianco – Però ora dovete portare con voi la ragazza. E’ ora di chiedere la conferma finale. Del resto potete occuparvi solo voi, giusto…? -
- Si. –
- Allora conducetela. –
- Dove…? – riuscii a chiedere, anche se la presenza di quell’individuo sembrava impedirmi di respirare.
- Prima devo parlarvi… - intervenne l’anziano rivolto a quell’arrogante individuo.
- No! – più l’autorità bruta del grande e del forte, piuttosto che di qualche gerarchia, pesò su quella sillaba – ORA devo portare a termine il mio lavoro, Bookman! Conducete la ragazza! – e si allontanò a grandi passi.
- Non avrei mai dovuto mettere in mezzo questi gradassi dell’Inquisizione… Sono stato stupido… - sussurrò a sé stesso. Poi si avvicinò per tentare di aiutarmi, ma io respinsi la mano: - Vi seguo da sola. –
Lui annuì: - Ma ricordatevi di controllare la paura, Victoire. Altrimenti non potrò aiutarvi. –
- Come posso non avere paura…? -
- Non la paura in generale. QUELLA paura. Credo che voi abbiate capito di cosa parlo. –
Annuii e poi presi a seguirlo per il corridoio scuro.

Ricordo il sangue. Tanto. Però cosa vidi di preciso in quella stanza l’ho quasi rimosso del tutto. Persone, tante, vestite di un bianco stranamente sgargiante in tutto quel rosso. Una figura stava appesa alle catene. Dovevo sapere chi fosse. Di certo era una persona che conoscevo. Ma davvero non riuscivo a riconoscere quella maschera di sangue. Le lacrime scendevano senza che le chiamassi. Due mani si posarono delicatamente sulle mie spalle ma ero tanto assorta che neanche le percepii. Tremavo. Poi la voce profonda, con uno strano atroce trionfo nella voce: - Ebbene, François Flauvers, ex-sacerdote, riconoscete la qui presente Victoire Villois come vostra figlia, avuta nel peccato con Rossane Villois? –
Quelle parole avrebbero dovuto destare in me qualcosa, ma non lo fecero. Vero o falso che fosse, era solamente ciò che avevo saputo da sempre tradotto in parole.
- S…si… -
Alzai gli occhi verso di lui. Aveva risposto al suo nome, doveva essere lui. Eppure…
- Creatura dannata dal Cielo, che tu viva nel dolore! Maledetta tentatrice! Vaga per l’Inferno insieme alla figlia nata dal tuo sangue dannato! -
La presa sulle mie spalle si fece più forte e mi trascinò via.
La voce pacata di Bookman mi risvegliò dal mio stato: - Venite. Torniamo alla cella. –
- Non era lui… -
Il silenzio seguì le mie parole, ma poi disse, piano: - No, state tranquilla… - si leggeva una dolce pietà in quella frase menzognera.

- Portatela dalla madre! -
Una forza inaspettata comparve nella voce del mio anziano accompagnatore: - No! Non è necessario! –
- Dobbiamo svegliare i suoi poteri! -
- So io cosa bisogna fare! Devo portarla…-
- Fate ciò che vi dico! –

Mia madre era perfettamente lucida, o almeno così sembrava. Legata alle catene lanciava intorno occhiate malevole, ma taceva, come se fosse in attesa di qualcosa. Mi avvicinai tentando di farmi riconoscere, ma sembrava non mi vedesse e il suo sguardo mi passava quasi attraverso.
- Lo vedete. – disse Bookman, con astio – Non riconosce neanche sua figlia. -
- Ma voi ci avete chiesto di intervenire  per ben altra ragione, giusto!? –
- Si, però, adesso fatemi portare via la ragazza! –
- E’ tempo di piantarla con questa storia! Volete o no controllare…? –
L’uomo prese un respiro profondo e si avvicinò alla prigioniera:
- Victoire, allontanati. -
Poi guardò mia madre con un misto di pietà e inquietudine: - Vorrei davvero essermi sbagliato… -
Ad alta voce: - Rossane Villois, io sono Bookman, legato dell’Ordine Oscuro. Ora dimmi, riconosci cos’è questo…? –
Allungò verso di lei la mano. Da questa, improvvisamente spuntarono come delle punte di spillo acuminate. La reazione di mia madre fu sconvolgente. I suoi occhi si spalancarono e guardarono quello strano fenomeno con folle frenesia, le sue iridi divennero gialle e il colore della sua carnagione diventava sempre più grigio. Poi sangue scuro prese a scorrere dalla sua fronte. Un urlo selvaggio e atroce: - INNOCENCE! –
Bookman abbassò la testa affranto. Mi guardò con la coda dell’occhio e scosse la testa verso il grande inquisitore in bianco.
- Quindi cosa aspettate a fare quello che dovete!? - commentò quello, con scherno.
Sapevo per istinto cosa stava per succedere e chiusi gli occhi. Una forte luce avvolse la stanza e il riverbero fu percepibile anche attraverso le mie palpebre chiuse. Di nuovo piansi, ma in modo innaturale, come se quelle lacrime non fossero mie. Quando due braccia vigorose mi sollevarono, provai di nuovo la paura. Tanto intensa che sembrava pronta a distruggere tutto e uccidere... Per fortuna, quando mi gettarono nuovamente nella gabbia, quel timore si trasformò in solo odio e infine svanì di nuovo nella più assoluta disperazione.

Udii da lontano, di nuovo, la voce dell’anziano: - Ora che tutto è concluso, devo parlarvi. –
- Ancora, Bookman!?!? E poi, no, non è concluso niente! Quando vi occuperete di quella ragazza!? -
- E’ appunto di lei che devo parlarvi. Avete notato che davanti alla dimostrazione dei miei poteri non ha reagito…? -
- Si, certo. Ma non capisco dove volete arrivare. Ha il sangue di quella strega, giusto!? –
- Di questo sono ormai sicuro. Ciò è inevitabile. Ma il nostro Ordine vuole tentare un esperimento… -
- Non sono stato avvisato di nulla di simile… -
- Ne sono a conoscenza. Ma è un progetto di un nobile esorcista… Conoscete per caso, Cross Marian…? –
- No, per nulla. –
- Non ha importanza. Egli sostiene che in determinate circostanze si possa addirittura salvare delle anime dannate… -
- Questo non mi interessa e non mi compete. Il succo è che non avete intenzione di uccidere la ragazza. –
- No. –
- E quindi cosa volete fare…? Spero non lasciarla libera! Ne va anche dell’onore del MIO ordine! –
- Vorrei che le venisse permesso di entrare in un convento. E’ una giovane molto religiosa nonostante la sua origine nefasta. –
- Mi sembra un’idea assurda! Se tuttavia garantisse il VOSTRO ordine… -
- Garantisco io. Spero vi sia sufficiente. –
- Comunque io non mi prendo responsabilità. –
Entrambi si avvicinarono alla mia cella. L’uomo in bianco esclamò, inorridito: - Vuoi diventare davvero una suora per il resto della tua vita…? –
Strinsi forte la croce del bracciale: - Si. –
Distolse lo sguardo da me e si rivolse all’altro: - Chiederò che venga inserita in un convento di clausura lontano da qui. Questa è l’ultima cosa che farò. Il resto è responsabilità dell’Ordine Oscuro. -
Bookman si inchinò con rispetto mentre l’inquisitore si allontanava compunto.

L’anziano tentò di avvicinarsi ma lo tenni lontano con uno sguardo ardente: - State lontano da me!-
Lui si fermò, per nulla colpito dalla mia reazione: - Vorrei potervi spiegare, Victoire. –
La rabbia stava tornando. Il mio tono divenne alto e acuto: - Cosa dovreste spiegare!? Avete ucciso mia madre e mi state salvando dalla stessa fine solo in base ad un vostro misterioso esperimento!  Non mi fido di voi! Non mi fido di nessuno! –
- E’ naturale. Non avete incontrato nella vita altro che persone che vi hanno fatto del male. E’ inevitabile. -
- Allora andatevene! –
- Certo. Lo farò. Ma prima voglio darvi ancora qualche consiglio. Spero che li seguiate. Perché voi sarete l’ultima persona a cui cercherò di dare il mio aiuto. Davvero questo comportamento non fa parte del mio ruolo, quindi non potrò farlo mai più. –
Alzai gli occhi e vidi profonda amarezza riflessa nei suoi: - Voi non potete credere negli uomini, lo capisco. Ma dovete anche il più possibile evitare di temerli. E’ l’unico modo che avete per sfuggire al male che ha colpito vostra madre. Lei era la Follia. Voi siete la Paura. Lo so che non capite, ma se cercassi di spiegarvi per voi sarebbe ancora più difficile. Voi dovete sfuggirgli, Victoire. Voi non dovete ascoltarlo. Lui vi parlerà, vi racconterà tante cose, vi farà credere di essere solo lui nel giusto. Ma non è così. Perché anche se gli uomini vi hanno delusa, voi credete in Dio. Questo vi salverà. Nutritevi di quell’amore, Victoire, e vi salverete. – e lanciò un veloce sguardo al mio ciondolo.
Si chiuse la cella alle spalle, ma poi si fermò e attraverso le sbarre disse, piano: - E’ la prima volta che credo alle parole di quel pazzo di Cross… Ma spero che abbia ragione e che voi possiate davvero vivere… -

Entrai nel convento con la forza di chi vuole ricominciare, di chi vuole dimenticare. Avevano avuto ancora molti dubbi gli inquisitori sull’idea di permettermi di “sporcare” un ambiente sacro. Non ci avevo fatto caso, non mi interessava. Contava solo essere viva e lontana da tutti quegli orribili esseri umani.
La veste del convento era blu. Non avrei potuto chiedere nulla di meglio. L’idea di vestirmi di bianco mi avrebbe tormentato. Ogni tanto mi capitava ancora di sognare quegli individui con le tuniche bianche…
Le altre sorelle mi trattavano bene. Certamente non sapevano come mai fossi stata condotta presso di loro. Con il tempo riuscii anche a sopportare tranquillamente la loro presenza, anche se non potevo fare a meno di tenere ugualmente le distanze. “Inevitabile”, aveva detto quell’anziano uomo. Eppure, più restavo là, più mi sembrava che il mio atteggiamento fosse sbagliato anche se non ne conoscevo altri. Bisognava amare le altre creature, non temerle. Mi sentivo di nuovo totalmente sbagliata…
Tuttavia, avevo scoperto di avere una bella voce ed ero stata inserita come solista nel coro della cappella annessa. Amavo cantare e quando ero immersa in quell’attività mi sembrava che il cuore diventasse leggero. Cantavo per Dio, in risposta alla bontà che mostrava per me garantendomi di vivere lo stesso, nonostante tutto quello che era accaduto…

Ero rimasta là già da parecchi anni quando avvenne quello strano incontro. Lo ricordo benissimo, quel magnifico dono della Provvidenza. Quello straniero che bussò alla porta del convento. Sperava anche di essere aperto! Sarei stata cacciata e se lo avessero saputo quelli dell’inquisizione questa volta mi avrebbero ammazzata davvero. Eppure la curiosità mi spinse a guardare e bastò quello… Quel ragazzo aveva la paura negli occhi… Era molto semplice paragonarlo con lo sguardo impaurito di Padre François quando ci intimò di nasconderci… E poi… Quel bimbo svenuto in braccio mi mosse un sentimento fino ad allora sconosciuto nel cuore… Io potevo fare qualcosa. Dovevo farlo. Così insegnava la mia fede, non potevo fare finta di nulla. Avevo una paura terribile, però, e questa si trasformò di nuovo in quella strana asprezza. Tuttavia, mi ripetevo continuamente che stavo facendo del bene, che non c’era nulla di male, che andava bene così, che non mi sarebbe successo nulla. Questo mi aiutò molto. Mi permise di fare qualche passo verso il superamento del mio terrore.
Certo, quell’uomo mi inquietava un po’… Addirittura un ateo… Una vera e propria offesa a ciò per cui avevo vissuto per tutto quel tempo… Poi, dopo qualche giorno arrivai come a farci l’abitudine. Ci misi poco a capire che nonostante fosse così strano e bizzarro, era un bravo ragazzo. Tutto quell’affetto per quel bambino, nonostante non avesse con lui alcun legame di sangue era ammirevole e in un certo qual senso incomprensibile per me, che avevo ricevuto amore solo da chi condivideva parte della mia identità. Era gentile, in fondo, anche se un po’ insopportabile. Schietto e diretto fino all’eccesso. Negli ultimi momenti passati assieme riuscivo addirittura a dimenticarmi di aver paura…
Quando se ne andarono un po’ mi dispiacque anche… Ma mi avevano donato qualcosa di bellissimo: la speranza, questa volta più forte e motivata, di riuscire a superare la triste malattia di mia madre. Ci sarei riuscita sicuramente. Avrei avuto la possibilità di volgere quel sentimento di puro amore per Dio, verso gli uomini, dimenticando per sempre quanto male avevo ricevuto da loro… Dimenticando quell’oscuro presentimento che mia aveva sempre tenuta lontana da tutti…

Passarono ancora alcuni anni, non saprei dire quanti, da quell’incontro così felice. Quella sera ero particolarmente in pace con me stessa e cercavo di prendere sonno.
Quando lo sognai.
Sognai Padre François appeso alle catene, i suoi occhi sbarrati, i suoi urli atroci e poi quelle parole di maledizione, crudeli e dolorose. Mi ripetevo che non era lui, che non poteva esserlo, che lui mi voleva bene e che quindi doveva essere un altro. Allora gli inquisitori mi avevano ingannata. Malvagi, crudeli, maledetti. Poi mia madre, mi guardava ma non mi vedeva, folle. Mi aveva sempre nascosto cosa aveva, cosa le succedeva. Mi aveva nascosto la verità. Non mi voleva bene, no di certo. E quel Bookman… L’aveva uccisa, mi aveva fatta chiudere nel convento, per farmi morire da sola nella mia stanzetta, da sola. Come gli abitanti del villaggio mi avevano catturata perché morissi sola in una cella dell’Inquisizione! Eppure l’aveva detto chiaramente che ero il suo esperimento e anche in quel momento mi stava usando! “Gli uomini mi odiano! Ma loro devono essere maledetti, loro!” urlava qualcosa di strano e odioso nella mia testa.
Poi la mia mente sembrò scoppiare. Un dolore atroce sulla fronte mi costrinse a stringermi le tempie tra le mani. Le sentivo bagnate. Le guardai: erano piene di sangue, dello stesso sangue che sentivo scendermi copioso dalla fronte. E ciò che ancora di più mi lasciò sconvolta fu, però, il colore della mia pelle: era scura, come grigia, come cadaverica.
Sentivo il bisogno di urlare ma mi trattenni con tutte le mie forze. Quella voce rimbombava ancora nella mia mente, quando mi misi a correre per il corridoio scuro, fino alla cappella. Rivoli di sangue mi scivolavano anche sugli occhi e la fronte mi bruciava in modo insopportabile.
Mi prostrai sotto l’altare, piangendo. Avrei voluto riuscire a scacciare quella paura e quell’odio selvaggio che di questa si nutriva. Avrei voluto sovrapporvi i visi sorridenti e gentili di quei due giovani che tanto mi avevano aiutata, ma non ci riuscivo. Allora guardai in alto il crocifisso, gridando con tutte le mie forze:
- Ti prego, Signore! Scaccia da me questo dolore! Non mi merito nulla ma ti prego, scaccia da me questa sofferenza, questa orribile paura! -
- Non lo farà. Non può farlo. Perché voi non gli appartenete per nulla, Victoire. –
Mi girai di scatto verso il punto da cui avevo udito quella voce innaturale, allegra e giocosa mentre proferiva quella condanna… Era l’essere più assurdo che potessi immaginare e per qualche momento pensai davvero che fosse solo frutto della mia immaginazione, ma quando venne alla luce e potei vedere nettamente i suoi crudeli occhietti gialli… Allora capii le parole di Bookman, capii che era di lui che parlava… Quell’individuo oscuro che dovevo fuggire ad ogni costo… Ma capii anche che in ogni caso non potevo fare nulla per tenerlo lontano da me…


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Capitolo 4
*** III - The Soul dies ***


Capitolo 3

The soul dies


“Di tutti i veleni l’anima è il più forte.”
(Novalis)






Più il tempo passava, più mi sembrava fresco e nitido quel ricordo… Era una sensazione stranissima…
Questo mi preoccupava un po’, in effetti. Anche perché ogni volta che mi tornavano in mente quei giorni, decisamente troppo spesso in realtà, gli occhi di quella suora, giovane, che poteva avere in effetti più o meno la mia età, diventavano sempre più profondi, brillanti, affascinanti. Mi chiedevo allora di che colore fossero i suoi capelli, nascosti in maniera così ineccepibile dal lungo velo. Mi domandavo anche perché fosse entrata in un convento, una ragazza così bella, che avrebbe avuto intorno a sé centinaia di ragazzi a farle la corte. La risposta più semplice era riconducibile proprio a quel suo profondissimo timore per gli uomini. Una cosa decisamente fuori da comune, che mi incuriosiva ancora di più…
Allora mi immaginavo addirittura la sua voce compunta che mi riprendeva: “Che razza di pensieri sconci avete in quella testa blasfema!? Qui si vive in castità! Vedete di non dimenticarvelo!” Ed ero capace di scoppiare a ridere da solo come un idiota quando mi immaginavo la scena… No, non stavo per nulla bene… Eppure sapevo benissimo che non avrei mai più avuto la possibilità di rivederla.
E poi, insomma, non credere in Dio era una cosa, fare la corte ad una suora era un’altra! Anche a me, che con la religione avevo un rapporto così controverso, una cosa simile sembrava decisamente volgare. Nonostante il suo caratteraccio, il suo spirito era candido e puro e a forza di vivere lontana da tutti, nutrito solo di sentimenti puliti e limpidi, sembrava quasi divino. Anche se ben mi fosse stato possibile riavvicinarmi a lei, mi sarei sentito un mostro a cercare di insudiciare la sua perfezione con le mie stupide passioni umane…
Sapevo bene che era un simulacro che mi sarei ricordato per sempre, forse, ma che non potevo in alcun modo raggiungere… E dopo parecchio tempo di questi strani pensieri, decisi che era il momento di smetterla e di tornare la persona di sempre… Quei discorsi irrazionali e assurdi proprio non facevano per me…

Non avevo però fatto i conti con Iizu. Se io mi consideravo un po’ “fissato”, lui era quasi ossessivo. Era anche comprensibile. Il bimbo non ricordava per nulla sua madre e quella ragazza aveva avuto in quei giorni un po’ quella funzione. Era chiaro. Però era incredibile come riuscisse sempre a riportare in auge l’argomento mentre io cercavo di allontanarmelo dalla mente…
- E poi ti ricordi, Tyki…? – mi prese alla sprovvista un mattino, quasi un anno dopo quegli avvenimenti.
Lo guardai un po’ stranito: - Che cosa…? –
- Quando mi ha detto che i miei capelli sembravano d’oro… -
- Ma chi…? –
- La signora suora! – esclamò come se fosse la cosa più normale del mondo.
- Emh… No… A dire la verità, no… -
- Tyki! Ma l’ha detto! Mentre tu dormivi! –
- Scusami, ma pretendi che io senta e capisca anche mentre dormo…? – lo guardai ridendo.
Momo mi batté una mano sulla spalla: - Sarebbe proprio da te, Tyki! –
- Grazie, ma non ho l’abitudine di origliare… -
- Era davvero bella, no…? –
Di nuovo mi aveva colto impreparato. Abbassai lo sguardo, proprio mentre mi si ripresentava davanti agli occhi quel sorriso dolcissimo… Cavolo!
- In qualche modo… - proferii a fatica per poi tornare a mescolare con cura eccessiva il caffè.
Sentivo su di me lo sguardo interrogativo di Momo e anche di Frank, che era appena arrivato e chiese subito: - Cosa!? Chi!? –
- Iizu è di nuovo a parlare della suora di quel giorno… - gli spiegò l’altro velocemente.
- Si! – il bambino era raggiante – E poi era tanto gentile! –
- Beh, non proprio troppo così tanto… - suggerii con un sorrisetto.
- Però anche voi andavate d’accordo! –
- Neanche questo è proprio vero… -
- Già, mi avrebbe stupito che andassi davvero d’accordo con un suora! – commentò Frank ridendo come un pazzo.
Ma Iizu insisteva: - Però è stata tanto buona con me, Tyki! E poi alla fine ci ha dato quei due enormi panini! E sembrava le dispiacesse che stavamo andando via! Era tanto brava! –
Sospirai, sconfitto: - Si, è vero… E’ stata davvero generosa… Questo è vero… -
- Non ci credo! Stai davvero facendo dei complimenti ad una religiosa!? Questo da te non me lo aspettavo! – esclamò Momo.
- Già, be’, capita anche questo… Dopotutto le sono comunque debitore… - ma la discussione si stava facendo un po’ imbarazzante per me e per la prima volta fui felice di udire la campana per il ritorno alla cava.

No, non stavo per nulla bene. Non mi era mai successo di perdere la testa in quella maniera. E dire che da quel paese ce ne eravamo andati definitivamente giusto il mese dopo e che da allora avevamo girato per una decina di giacimenti e miniere diverse. Possibile che dopo tutto quel tempo non riuscissi a dimenticare…? E mi sentivo dannatamente stupido a continuare ad inseguire quel controverso modello di bellezza. Io ero sempre stato decisamente più materiale. Quella ragazza poteva solo essere un ideale perché di persone così nel mondo esterno non ne esistevano. E non ero neanche convinto che fosse un male… Insomma, una pazza sempre aggressiva con tutti ma che ha paura di ogni altro essere umano… Ma la cosa non danneggiava minimamente il mito che avevo costruito intorno a lei. Quindi era decisamente un sentimento platonico, ma che mi stava facendo impazzire…

Mi ci sarebbe voluto del tempo per escludere, totalmente, dalla mente quel ricordo… Molto tempo e un fatto pazzesco che cambiò per sempre le mie priorità e tutto il mio mondo…
Io lo identifico con uno scatto netto. Un qualcosa che si spalanca nella mente senza motivo alcuno, di colpo. Fu improvviso e illogico. Eppure non ci trovavo niente di strano. Ne godevo, senza controllo…
Se avessi avuto vicini i miei amici in quel momento… avrei fatto del male anche a loro… non ho dubbi.

Avevo poco meno di ventisette anni. Era uno degli ultimi giorni di lavoro in una piccola diga del nord Europa. Io e un altro operaio che non conoscevo eravamo stati scelti per cominciare a riporre parte dell’attrezzatura in un magazzino dall’altra parte del nostro campo. Nulla preannunciava ciò che sarebbe successo.
Avevo le mani e le braccia occupare da una gran quantità di strumenti vari e mi trovavo esattamente a metà del percorso, quando cominciò. Un desiderio crudele. Il mio collega era indietro di qualche passo. Gli altri erano già tutti chiusi nei loro quartieri. Mi fermai improvvisamente. Per me non fu una voce, come dice qualcuno, ma una tentazione selvaggia. Sentivo che se l’avessi fatto ne avrei ottenuto grande piacere. Avrei dovuto ribellarmi, rifiutare una azione tanto irrazionale e malvagia. Ma non lo feci…
Abbandonai per terra tutte le cose che avevo in mano.
L’uomo mi chiese cosa stavo facendo. Con l’ultimo barlume di coscienza gli dissi sinceramente che non lo sapevo. Ma presi in mano un badile e lo guardai.
Lì per lì sembrò solo un po’ confuso… Poi pian piano si fece strada sul suo volto la paura… Ma questo, invece che svegliarmi da mio delirio, mi fece sorridere malvagiamente… Mi avvicinai, lentamente… Mi guardava sgomento… Non sapeva se fuggire o tentare di farmi ragionare e taceva, il panico riflesso negli occhi…
Non so quante volte calai su di lui quell’arma di fortuna… E come un mostro, come un demone, ogni volta che sentivo quell’urto orribile, uno sprazzo di piacere si apriva la strada nel mio animo, ormai nero come la pece… Quando infine mi fermai, cominciai a ridere come folle… Di sincera felicità…
Feci tutto con calmo, totale e irragionevole autocontrollo. Solo dopo aver fatto sparire il cadavere buttandolo nell’acqua oltre la diga, mi resi conto del sangue che mi sporcava il viso. Pensai che fosse della mia vittima. La coscienza si era spenta. Presi di nuovo su il mio carico e arrivai fino al capannone. Solo allora sentii le fitte di dolore alla fronte e mi diressi ad una riva del lago artificiale. Sul subito mi tolsi gli occhiali finti e mi passai le mani bagnate sulla faccia ma non impiegai molto a capire che era la mia fronte a sanguinare copiosamente. Del resto faceva un male atroce e non capivo come avessi fatto a ferirmi…
Mi specchiai e per un attimo non riuscii a riconoscermi. I miei occhi brillavano di un sinistro colore giallo e la mia pelle era smunta e cadaverica. Proprio non riuscivo poi a chiarirmi quei tagli sulla fronte: netti, regolari e profondi. Avrei voluto agitarmi, preoccuparmi, avere almeno una qualunque reazione. Invece mi sedetti sul prato aspettando pazientemente che le fitte alle tempie si interrompessero. Non riuscivo a provare alcuna emozione.

Non passò molto che una voce allegra e sconosciuta mi chiamò:
- Il giovane Tyki Mikk, presumo… -
Mi voltai, il volto fermo e inespressivo: - Si, esatto… -
Squadrai quell’essere con pigra curiosità. Era sicuramente più basso di me, ma anche molto più in carne. L’alto cilindro, decorato con bizzarre orecchie da coniglio, sembrava avere lo scopo recondito di nascondere la chiara pinguedine. Vestiva un completo elegante, ma di un colore improponibile. Sul suo volto di un innaturale colore grigio un sorriso enorme e anomalo sembrava inciso a lettere infuocate e impossibile da cancellare. Due occhiali piccolissimi nascondevano crudeli occhi gialli. 
- E voi sareste…? – chiesi con una tranquillità quasi offensiva.
Una risata allegra e rimbombante seguì le mie parole: - Siete davvero il primo a prendere la cosa così bene! –
Rimasi serio e in quel momento non mi sembrava di poter assumere alcuna altra espressione.
- Vossignoria, io sono il Conte del Millennio! – proferì attraverso quell’invariabile smorfia felice – E sono qui per informarvi di quale sia la vostra sorte predestinata! -
- Sorte predestinata, dite…? Non credo che mi interessi. La vita che conduco ora mi è sufficiente. –
- Come fate ad affermarlo!? Insomma, voi sembrate ai limiti della povertà! – esclamò l’individuo in tono affabile.
- La mia vita mi piace. Se volete scusarmi… -
- I vostri modi ora non si addicono più ad un semplice operaio! Ora sembrate un gran signore! – eppure non suonava per nulla stupito dalla cosa.
Tornai a guardarlo. La gaiezza più completa era racchiusa in quegli occhietti malvagi.
- Questo è il vostro vero essere, Sir Tyki Mikk! Voi siete un nobilissimo rappresentante della gloriosa famiglia Noah! Con il sangue aristocratico è comparso anche il vostro vero carattere! Composto e inflessibile! -
Eh, no! Quella frase aveva scatenato una ribellione nel mio animo, che era rinato dallo strano abisso in cui era scomparso poco prima. Fu proprio grazie a quella strana affermazione che  riuscii a tornare in possesso del mio tipico comportamento: - Vero carattere!? Starete scherzando! Non so chi accidenti siate, ma smettetela di fingere di conoscermi!  –
- No, questa è la vostra maschera pubblica! Il tono canzonatorio, la parlata volgare, l’aspetto ordinario! Voi siete un nobile signore della vostra nuova e vera famiglia! -
- Proprio non riesco a capire quello di cui state parlando! Mi sembrate completamente pazzo! –
Il Conte fece apparire dal nulla una comoda sedia e vi si sedette.
Io lo guardavo incuriosito. Pensavo ad uno strano scherzo. Quell’individuo con quella assurda paresi era di certo una sorta di illusionista e cabarettista. Di certo.
- Bene, dovete sapere che esistono nel mondo ben quattordici individui, all’apparenza comuni esseri umani, ma che possiedono il sangue del grande profeta Noé! Costoro sono ben diversi dagli ordinari “umani”, sono anzi veri e propri “super-uomini”, se mi passate il termine, dotati di poteri incredibili! Essendo tutti discendenti di un così grande progenitore, vengono nel loro complesso chiamati i Noah! -
Si fermò. Il suo sguardo non mi aveva lasciato neanche per un momento e anche in quel momento mi fissava studiando ogni mio movimento.
- Si, certo. Immagino, che sia possibile, sicuramente… - per quanto mi mostrassi spavaldo con la mia ironia, quell’individuo e quello strano discorso mi avevano inquietato un po’ – Quindi, scusate, ma cosa comporta tutto questo…? -
- Oh, si! Beh, io desidero riunire in una sola e speciale famiglia tutti discendenti e tutti i loro enormi poteri! –
- Beh, si… E’ chiaro… - mi massaggiai distrattamente la fronte che ricominciava a pulsare – E lo scopo di questa riunione…? –
- Chiaramente la distruzione del mondo! E soprattutto, inevitabilmente, dell’indegna umanità che lo abita! –
- Giusto, si… Inevitabilmente… -
Mi chiedevo se quel tizio sentisse davvero quello che diceva e il modo in cui ne parlava, con quel tono giocondo e festoso. Rendeva quasi esilaranti quelle bizzarre risposte.
E continuava a fissarmi, con sempre maggiore insistenza.
- Ho capito. Molto bene. Le auguro tanta, tanta fortuna per il suo progetto. Certo che quattordici persone su un mondo abitato da miliardi di anime, è davvero complicato. Tanti auguri! Ora se non le dispiace… -
Mi ero voltato per andarmene, quando la sua voce risuonò alle mie spalle facendomi rabbrividire. Era ancora gioviale, ma marcata da una vena di crudeltà: - E pensate di ritornare dai vostri amici tranquillamente…? –
Era ancora lì seduto allegramente, ma era come se avesse iniziato ad emanare una vera e propria nube oscura: - Con quell’aspetto…? E con quello che avete fatto…? –
- Che cosa…? -
- Avete dimenticato!? Lo shock emotivo, probabilmente! –
Mi si avvicinò e mi fece cenno di specchiarmi nel lago. L’avevo già fatto, me ne ricordai in quel momento, ma incomprensibilmente avevo rimosso ciò che era davvero comparso davanti ai miei occhi. Poi rividi quell’insano colore della pelle, quelle cicatrici scure, quei rapaci occhi gialli… Questa volta ero me stesso. E mi spaventai a morte.
- COSA DIAVOLO…!? -
- Non urlate, vi prego! Abbiate pietà delle mie povere orecchie! – esclamò allegro.
- Non sono io! Quella cosa non sono io! –
- Esattamente il contrario! Questa è la vostra vera identità! Voi siete il nobile Noah del Piacere! –
Ero troppo allibito per controbattere. Lui approfittò subito della cosa per infierire:
- Non vi stupite troppo! Vi siete divertito molto, poco fa, vero!? Mentre uccidevate quell’uomo! -
- Che uomo…? –
- Quello che avete massacrato con quest’arma e buttato nel lago! – mi sventolò davanti agli occhi un badile, ancora macchiato di sangue. Allora le scene mi scorsero davanti agli occhi e sbiancai.
- Io non ho… non ho… IMPOSSIBILE! CHE RAZZA DI RAGIONE AVREI AVUTO!? –
- Beh, è stato per provare Piacere, senza dubbio! Non eravate pienamente consenziente in quel momento perché il sangue si era appena svegliato! Avete agito d’istinto! E grazie a questo la vostra trasformazione si è completata! -

Prima scuotevo la testa con forza, in silenzio, con totale rifiuto a quello che avevo sentito e ricordato, poi sempre più lentamente, mentre sentivo di aver realmente deciso quello che avevo fatto, anche se con una parte che ancora non conoscevo della mia personalità, e infine mi fermai e cominciai a valutare la situazione…
Già, non a capire come fosse stato possibile, a ragionare sul modo migliore per allontanarmi da quel tipo ambiguo. Solo a pensare alla cosa, come se a quello che stava succedendo non ci fosse rimedio alcuno…
Avevo davvero ucciso un uomo a sangue freddo? Si… E quando mi tornavano in mente quelle scene, dopo lo spavento iniziale, da una parte della mia anima si alzava un’onda acuta e insopprimibile di piacere… Avrei potuto fare migliaia di paragoni ben volgari con quella sensazione, ma avrei sempre e comunque dovuto aggiungere che nulla che avevo mai provato era simile a quella selvaggia e sadica emozione…
Come avevo fatto a procurarmi quei tagli sulla fronte? Di certo, con quel badile non avevo potuto farmeli… Non ci sarebbe stato da stupirsi se me li fossi procurati senza accorgermene, ma non sapevo proprio come… Avevano poi quella forma strana… Sembravano i segni lasciati da una corona di spine… Dannatamente ironico…
Perché la mia pelle aveva assunto quel colore assurdo? La carnagione di un cadavere non si addiceva per nulla ad una persona che conservava la capacità di respirare e pensare e di conseguenza DOVEVA essere viva…
Perché i miei occhi erano diventati gialli? Nessun essere umano aveva gli occhi gialli…
Nessun essere umano…
Ma non mi persi in questo pensiero, non mi interessava. Non mi importava di essere o non essere una persona.
Potevo davvero tornare dai miei compagni? E cosa avrei detto…? Come potevo spiegare la scomparsa dell’uomo e quel mio assurdo aspetto…?
Potevo davvero lasciare perdere la mia attuale vita per seguire quell’assurdo individuo? Non così. Non d’impulso. NON PERCHE’ ME LO COMANDAVA! Quel pensiero prese forma a forza, come affermazione della mia volontà. Non lo avrei seguito se non ne fossi stato veramente sicuro.
Potevo ignorare quello che era successo, quelle strane parole, quegli incredibili fatti? No… Lo vedevo, ero preso dalla curiosità… L’inquietudine di prima era già scomparsa…

- Quindi, Sir Mikk? -
- Io quindi dovrei essere un Noah, come dite voi? –
- Esattamente! Ho avvertito chiaramente il momento in cui il vostro potere si è svegliato! E poi, quei segni che tanto vi hanno spaventato sono indicazioni evidenti! –
- E quel discorso del “vero carattere”, come dite voi? –
Tornò a sedersi sulla sedia. Il suo sorriso non si era neanche minimamente attenuato.
- Si, certo! Vedete, il vostro vero cuore, quello che appartiene alla vostra famiglia, è segnato da razionale violenza. Una nobile e spregiudicata vena distruttiva. Quando portate completamente alla luce il vostro vero “io”, come ora, mostrate ciò che ad esso compete, cioè il comportamento fine ed elegante, educato e di stile sostenuto. La vostra vita umana finora ha comportato, nella sua povertà, un decadimento della morale e dei modi che rappresenta il vostro carattere fittizio, legato solamente al gioco e all’ironia. -
In effetti, mi stavo ora comportando in maniera completamente diversa da come ero abituato. Ero seduto abbastanza composto e continuavo ad annuire piano per mostrare che seguivo il discorso. Di solito proprio non prestavo attenzione a cosa simili. Quando accidenti avevo imparato il Galateo!?
- Quindi credete che il mio contegno attuale sia un effetto della “trasformazione”? -
- Si! Comunque in generale preferirei la chiamaste “risveglio del sangue”, rende più l’idea! –
- Si, certo. – tagliai corto – Insomma, io sarei un nobile nella famiglia? –
- Oh, certamente! Avreste sempre abiti eleganti e puliti, una abitazione enorme e decisamente fine, molti camerieri-Akuma che credetemi sanno essere altrettanto utili di quelli umani! Tutte le comodità! –
- E in cambio di questo…? –
- Perdonatemi, non capisco… -
- Quale sarebbe il mio compito specifico? –
- Oh, è un discorso molto lungo! Mi sembra inutile affrontarlo ora… -
Lo interruppi un po’ malamente, ma con una educazione che non mi era mai appartenuta:
- Ricordatevi, Conte, che come voi state valutando me, io sto giudicando voi e ciò che dite… Quindi rispondete alle mie domande, per favore… -
Forse mi ero fatto troppo ardito, pensai. Ma lui scoppiò in una risata divertita:
- Certo, certo! Avete ragione! Per semplificare il discorso: prima di poter portare a termine il piano per la caduta dell’umanità e del suo “falso Dio”, è necessario eliminare un grave ostacolo sulla nostra strada! Sono i nostri nemici da migliaia di anni, gli Esorcisti e l’Ordine Oscuro! Per questa ragione mi occupo di creare delle utilissime macchine chiamate Akuma, che oltre a sterminare un gran numero di esseri umani, sono in grado di dare del filo da torcere agli Esorcisti! Tuttavia questo non è sufficiente e prevedo, piuttosto, di occupare le Vossignorie Noah in questo compito! In quanto superiori di gran lunga ai normali umani, dubito possiate aver difficoltà a spazzar via delle persone comuni! -
Un leggero sorrisetto mi comparve in volto: - Se fossero davvero solo persone comuni le vostre macchine non avrebbero bisogno di aiuto… -
- Si beh, loro sono in grado di distruggerle grazie a quella materia cristallina che chiamiamo Innocence. Tuttavia, io e tutti i nobili discendenti della vostra famiglia abbiamo l’innata capacità di sbriciolare quei fastidiosi cristalli. Se riusciremo, poi, a trovare e distruggere “il cuore” con lui scomparirà tutta quanta l’Innocence esistente! Ecco perché ho intenzione di affidarvi questo compito di estrema importanza, ma capisco parecchio noioso. Spero comunque che vogliano accettarlo. Come vedete non dubito della vostra partecipazione. Questo chiaramente perché conosco la vostra natura e credo che la gioia che provate nel portare la morte vi ripaghi bene del vostro impegno. – e produsse di nuovo quella risata allegra.
- Quindi, un posto in una società di “super-uomini” e la gloria della ricchezza e della nobiltà, in cambio della trasformazione in un assassino? –
- Non la metterei in questo modo! Voi avete un enorme potenziale che finora è rimasto nascosto. Ora che si è mostrato, potete prendere il posto che vi spetta tra coloro che creeranno il nuovo mondo dopo la caduta di questa “umanità” ormai perduta e la scomparsa di quel Dio che essa tanto venera! Questo è li punto! Uccidere queste immonde creature non è per nulla sbagliato! E voi dovreste saperlo meglio di ogni altro! Vi sto solo mostrando il modo di sfuggire a questa realtà che non vi valuta quanto dovrebbe, al vostro umilissimo status sociale, per diventare signore e padrone di tutto quanto! -
Pensavo, meditavo ancora, quasi per scrupolo, ma in fondo avevo già preso una decisione.
- Voglio chiedervi ancora una cosa… -
- Certamente! –
Sapevo già la risposta a quella domanda, ma mi domandavo cosa avrebbe davvero potuto rispondermi. La formulai non potendo evitare un caustico sorriso: - Voi siete Il Diavolo, Conte? –
Anche se il suo volto non poteva materialmente mostrare un’espressione di gioia più completa di quella che aveva sempre incisa, mi sembrò per un attimo che quella stravagante paresi si allargasse ancora di più.
- Non credevo che foste così legato a simili dottrine popolari! -
- Infatti non lo sono… -
- Perché questa domanda, allora? –
- Perché è la prima volta che vi incontro ma sapete perfettamente da dove vengo, cosa faccio, cosa sono e perché. Oltre tutto, continuate a toccare i miei tasti dolenti, come la povertà e la bassa condizione, offrendo in cambio dell’uccisione di tanti innocenti la rivalsa della mia condizione. Sembrate proprio un diavolo tentatore. –
- Se la vostra considerazione fosse corretta… - si alzò dalla sedia e mi si avvicinò - … questo cambierebbe in qualche modo la decisione che vedo riflessa sul vostro volto…? –
Scoppiai a ridere. Per un momento non riconobbi quel suono oscuro e malvagio, poi mi resi conto che sicuramente faceva parte dei cambiamenti che stavano avvenendo in me e mi abituai immediatamente: - No, certo che no! –
- Oh! Allora potete considerarlo un mio secondo nome…! -

Tuttavia c’era ancora qualcosa che non mi andava a genio di tutta quella faccenda. Ci misi qualche momento a metterlo a fuoco…
Poi capii. O meglio, compresi di cosa si trattava, non come questo potesse convivere con ciò che avevo detto poco prima. Però decisi che non aveva importanza e che se era ciò che desideravo in quel momento, il Conte avrebbe DOVUTO concedermela. Una debolezza, per quanto controcorrente, era pur sempre una debolezza. E il suo ruolo prestabilito prevedeva che sfruttasse abilmente i desideri altrui.
- Conte. -
- Prego…? –
- Ho deciso di seguirvi, di vedere fino a che punto può arrivare il vostro progetto, di capire cosa significhi essere un Noah. Ma ad una condizione. –
Sapevo benissimo anche che aveva il potere di rifiutare. Ma speravo che avesse davvero bisogno di me come mi aveva fatto credere.
- Quale condizione…? -
- Voglio poter tornare ad essere quello che sono sempre stato, ogni volta che ne avrò desiderio. –
Attraverso i suoi occhiali, intravidi gli occhi gialli sgranarsi, anche se sul resto del suo volto deformato non si vedeva traccia di quello stupore.
- Perché mai!? La ricchezza, la nobiltà, la vita comoda, non è quello che avete sempre desiderato!? - - Certo. Ma c’è una cosa che non mi piace della nuova vita che ho appena sperimentato. -
- Che cosa? –
- La mancanza di ogni tipo di sensazione. –
Rimase in silenzio. Non era un buon segno, ma continuai tranquillo:
- Il mio vero “io” è privo di ogni forma di vitalità, avete detto? Quindi non riesce a sentire altro che quella gradevolissima ma distruttiva passione per uccidere. Il vuoto totale delle emozioni è ciò che ho sperimentato poco fa ed è una cosa che alla fine non mi interessa. Voglio conservare almeno parte della mia umanità, questa mia apparenza che vi disgusta, ma che mi permette di avere un carattere. E il solo modo che mi viene in mente è questo: mantenere una doppia identità.-
- Siete sicuro che sia solo per questo…? –
Mi sembrava che stesse diventando minaccioso, ma cercai di concentrarmi su quell’invariabile sorriso: - Sappiate che io non approvo per nulla questo vostro desiderio di “umanità”. E tanto meno che desideriate restare legato a quegli umani. –
Colpito ed affondato. Avevo deciso di non toccare quel tasto perché sapevo non lo avrebbe gradito. Tuttavia, sapeva bene cosa c’era nel mio animo. Come un vero diavolo… A cosa serviva mentire allora…?
- Si, anche questa è una ragione. Sono molto affezionato a quei ragazzi. Non voglio abbandonarli del tutto. -
- Il nostro progetto prevede lo stermino degli esseri umani. E non illudetevi, quei vostri “amici” sono compresi. –
- Lo so. –
- Questa è una contraddizione, Sir Tyki Mikk… -
- Ne sono a conoscenza. Ma è mio desiderio far convivere queste due vite contrapposte. –
Quello stupore continuava tenergli spalancati gli occhietti.
- Cercate di vederla in questo modo. – spiegai, con la maggiore spensieratezza – Mi divertirò molto di più. Due identità da gestire separatamente. Una “bianca” e una “nera”. Non lo fareste neanche per la mia felicità? -
Parve pensarci, poi aggiunse allegro: - Certo! Se questo vi rende felice, per me va bene. Ma non voglio che ciò interferisca con i vostri compiti. –
- E io non voglio che interferiate con la mia seconda vita e con i miei compagni. Consideratela una zona franca. Niente “macchine omicide”, niente interventi vostri o di altri miei parenti, niente scherzetti. -
- Certo! –
- Siamo d’accordo allora? E’ un patto? – e gli porsi la mano con un gesto elegante per suggellare l’accordo.
- Si! Voi diventerete un nobile Noah in tutto e per tutto ma avrete il vostro parco giochi riservato per giocare a fare “l’umano”. – e mi strinse la mano.
Con un sorrisetto ironico aggiunsi, senza interrompere la stretta: - Manterrete la promessa? Non siete il tipo di demone bugiardo, spero… -
- No di certo. Le mie promesse le mantengo sempre! –

Ci eravamo accordati anche in modo che io avessi tempo sufficiente ad inventarmi qualche scusa con i miei compagni riguardo alle uscite che avrei compiuto per adempiere ai miei doveri di Noah e a quelli puramente familiari. Mi avrebbe dato due mesi giusti per risolvere la questione, poi avrei dovuto andare con lui ad incontrare il parentado.
In quel frangente mi insegnò anche ad usare la prima parte delle mie abilità, quella per cambiare aspetto e abiti. Una cosa decisamente utile e veloce, senza dubbio.
Solo dopo mi venne in mente che avevo passato davvero troppo tempo a parlare e che ormai di sicuro si erano accorti tutti della scomparsa mia e di quel tipo che ora giaceva in fondo al lago. Mi stupii accorgendomi che non provavo più nulla pensando a ciò che avevo fatto.
- Ho fermato il tempo! – commentò il Conte, gaio.
- Ne siete davvero in grado…? – chiesi, simulando uno stupore che in realtà non sentivo per nulla.
- Certamente! Nessuno vi ha visto né là – e fece cenno al punto in cui avevo colpito quell’operaio – né qui con me! –
- Si, ma… -
- Riguardo alla vostra osservazione, sappiate che è normale che non proviate alcun rimorso al riguardo. Siete un vero Noah, ora. Il concetto di coscienza è un’abitudine, lo capisco, ma per voi non esiste più nulla di simile. Del resto, comunque, non sentirete più il bisogno di uccidere le persone normali, per fortuna vostra e…dei vostri amici umani. Il cacciatore deve potersi mimetizzare con le sue prede e per questo avete la possibilità di mutare il vostro aspetto. La prima uccisione era necessaria a scatenare l’istinto, che però ora si attiverà solo e soltanto in presenza di Innocence e di conseguenza degli Esorcisti. –
- Bene. Un problema in meno. Ma ora avrei bisogno di aiuto per inventare una scusa logica per quello che ho fatto… Conte!? –
Mi guardai un po’ intorno per cercarlo, ma non lo vedevo più.
La sua voce provenne dall’alto, dove svolazzava attaccato ad un assurdo ombrello:
- Mi dispiace davvero, Sir Mikk, ma di questo dovrete occuparvi voi! Devo andare! Ricordate, tra due mesi suonerà il vostro telefono! -
- Ma in senso letterale o figurato!? –
- Letterale! A presto! – e scomparve all’orizzonte.

Il silenzio più totale era durato solo ancora un secondo. Poi il rumore dell’acqua stagnante, tenue e debole, era tornato a farsi sentire. Non mi ero davvero accorto durante quella discussione che più nulla intorno a me sembrava soffrire dello scorrere del tempo.
Cercavo di farmi venire in mente qualcosa per coprire quanto era successo, ma non mi veniva in mente nulla. Presi in fretta e furia la roba che avevo già ritirato nel magazzino e tornai indietro fino al punto in cui quella pazzia mi aveva invaso. Non potevo certo far finta di niente: guardando meglio c’era una grande pozza di sangue per terra.
- Sono stato dannatamente violento… -
Cercavo di impormi di provare qualcosa al riguardo, benché il Conte avesse detto che era impossibile. Ed in effetti, non mi sembrava di aver neanche fatto nulla di male. La mia anima, quella parte che si dice riesca a considerare il Bene e il Male, era davvero morta…
Ragionai su cosa potevo fare.
E pensai di ribaltare le parti. Io ero stato aggredito da lui, all’apparenza senza ragione, e mentre mi difendevo avevo finito per farlo cadere nel lago. Fine.
La sceneggiata poteva anche funzionare, ma non potevo arrivare lì, bello bello, senza una ferita o qualche segno di lotta addosso. Bisognava spiegare quel sangue. Perché se non era mio, era suo. Di conseguenza poteva diventare come minimo “eccesso di legittima difesa”: in risposta a due pugni, l’avevo colpito con il badile, l’unico oggetto sporco di sangue, e buttato in acqua. O peggio, potevano sospettare che tutto fosse nato da me. Non potevo rischiare.
Dovevo ferirmi… Sembra facile.
Pensavo che se almeno ci fosse stato ancora il Conte gli avrei chiesto di tirarmi una badilata in fronte, tanto per… Farlo da solo era proprio un altro paio di maniche…
Optai per una soluzione più semplice, ma forse anche più dolorosa. Il muretto di pietra…
Orribile, veramente. Mi lasciai cadere a piombo sullo spigolo della bassa superficie di pietrisco. Una botta terribile. Era sicuramente rimasto macchiato di sangue, ma pensai che con tutto quello che c’era in giro non se ne sarebbe accorto nessuno. Con l’ultima lucidità, rotolai fino in mezzo al passaggio.
- Maledizione se mi ha fatto male… Ah... Ma almeno ho qualcosa di rotto anch’io… - commentai piano, mentre la vista mi si scuriva.

Mi risvegliai, addirittura, in un letto d’ospedale.
Come prima cosa pensai che non tutti i padroni sotto cui ero stato assunto erano così generosi con gli operai.
Ma subito dopo ricordai quello che era successo. E come sempre capita, mi chiesi se non era stato tutto un sogno. Ma esclusi immediatamente quella possibilità. Mi sembrava di sentire ancora quel dannato spigolo ficcato nella mia testa… Quello non me lo ero inventato… Di conseguenza doveva esserci qualcosa di vero anche in quella specie di incubo che avevo vissuto…
La voce di Frank mi distrasse da questi pensieri: - Tyki! Vecchia pellaccia! Allora finalmente ti sei svegliato! –
Erano tutti e tre schierati davanti alla porta della stanza.
- Già… - dissi, ma sul subito feci un po’ fatica a parlare.
- Lo sai che hai dormito per quattro giorni? – mi chiese Iizu che aveva appena preso posto su una sedia vicino al letto.
- Davvero…? – commentai cercando di sfoderare il mio solito sorriso ironico. Ci riuscivo senza problemi. Almeno quando volevo essere un normale umano ci riuscivo, per fortuna…
- Si! Figurati che il capo ti aveva fatto portare al volo all’ospedale perché pensava schiattassi là! Ci hai fatto prendere un colpo! – spiegò Momo, andando ad aprire la finestra e facendo entrare un po’ di brezza primaverile.
- Cosa hanno detto i dottori? –
- Che hai una testa dura, e questo lo sapevamo, ma che per il colpo che hai preso neanche  tu potevi sfuggire ad una commozione celebrale… -
“Addirittura!” pensavo, stupito “Allora avevo ragione a dire che mi sono applicato anche troppo contro quel muretto…”
- A cosa stai pensando? – chiese subito Iizu. SI vedeva che era preoccupato e mi stava studiando.
- Pensavo a cosa accidenti era preso a quel tizio… -
- A Jonah…? – chiese il buon Momo.
- Chi è? –
- Quel tipo che lavorava con te! Non ne abbiamo più notizie da giorni! –
Nessuna reazione dalla mia anima. Nessuna.
- … Non ricordo bene… Ad un certo punto mi è saltato praticamente addosso… Mi sono difeso in qualche modo… Devo averlo colpito con il badile… Poi, mi ha fatto sbattere la testa contro il muretto… Mi girava la testa… L’ho spinto via con tutta la forza che avevo… Poi sono caduto… Non ricordo altro… -
Mai vista una recitazione migliore.
- Non ti preoccupare… - commentò per consolarmi Frank – Quel ragazzo era sempre stato un po’ strano. Il capo è stato attento a non sollevare un polverone e per farti ricoverare ha inventato una scusa assurda, ma convincente: ufficialmente hai preso una trave in testa! Per il resto, Jonah non ha famiglia né recapito. Ha mandato un comunicato di scomparsa alla polizia, ma dubito che se ne occuperanno… L’importante è che tu stia bene, pellaccia! –
- Ora ti lasciamo riposare e torniamo alla diga! E’ l’ultima settimana, poi saremo di nuovo disoccupati! Quindi vedi di riprenderti che dobbiamo andare a caccia! –
- Certo! –
Poi, mentre stavano uscendo, chiamai Iizu. Era stato vicino a me, ma non abbastanza perché ne potessi essere sicuro.
Lui si avvicinò fino davanti al letto. Gli misi una mano sulla spalla.
Non sentii niente di malvagio, proprio come aveva detto il Conte. Gli esseri umani normali non erano più in pericolo in mia presenza.
Il bambino mi guardò stupito, con due occhi azzurri spalancati, pieni di innocenza: - Cosa c’è, Tyki…? –
- No, niente. – mentii, a malincuore – Stavo guardando se eri davvero cresciuto in questi quattro giorni. -
- Certo, come no! – rise Momo dalla porta – Guarda che oltre a te nessuno si ricorda di innaffiarlo!- – Spiritoso! –
Feci un buffetto sulla guancia del bambino: - Ci vediamo dopo! –
Sorrise allegro: - A dopo! – e salutò con la mano mentre chiudeva la porta alle loro spalle.

Mi ero lasciato tentare dall’offerta di quel demone, eppure non ero stato in grado di rinunciare a quel piccolo cantuccio tranquillo. Del tutto irrazionale. Dannatamente pericoloso. E follemente divertente.
Mi alzai dal letto lentamente, cercando di non perdere l’equilibrio, dato che la vista mi ballava. Mi posi davanti allo specchio e sollevai un po’ il cerotto che mi copriva una parte della fronte. Il taglio non era profondo e probabilmente una volta guarito sarebbe scomparso.
“Nulla in confronto a queste cicatrici…” pensai, mentre il mio volto assumeva di nuovo il colore della morte e i miei occhi gialli tornavano a fissare quei profondi tagli a forma di croce…




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Due piccoli appunti alla fine del capitolo:

1) Rompo un po' l'alternanza per motivi pratici: sia questo capitolo
che il prossimo saranno dal punto di vista di Tyki (per la felicità delle fan... E ringrazio Lady Greedy... ^_^)
2) Ho notato che nella maggior parte delle fanfiction si usa il nome Ease (tratto dal manga) piuttosto che Iizu (che ho trovato
nell'anime)... Se è un problema posso anche modificare...

Spero che vi piaccia... Questo capitolo mi è stato parecchio difficile da scrivere... Per favore, commentatelo...

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Capitolo 5
*** IV - Songs from Paradise ***


Capitolo 4

Songs from Paradise


“Sono gli angeli tutti tremendi.”
(R.M. Rilke)






Non avevo nessun problema al mondo, nessun dubbio, nessun timore.
Del resto, come la mia anima sembrava essersi dissolta nel nulla, così, con quel primo dialogo con il Conte, anche la semplice razionalità si era rintanata da qualche parte, nascondendosi dalla piacevole oscurità che mi avvolgeva.

Quando cercai di inventarmi una buona scusa per lasciare il mio lavoro ufficiale e dedicarmi alla mia nuova vocazione, ci misi un tempo interminabile a trovare qualcosa di furbo da dire. La doppiezza non era ancora il mio forte.
Così, quando, due mesi dopo, il telefono della fabbrica in cui avevamo trovato la nostra nuova occupazione suonò, non ero ancora riuscito a trovare una scusa convincente. Ma sapevo anche che non ne sarei stato in grado neppure se avessi avuto più tempo.
Mi chiamarono alla cornetta, nello stupore generale. Risposi.
- Sir Mikk? – la voce melliflua del Conte era inconfondibile.
- Si. –
- E’ un piacere risentirvi! Avete sistemato i vostri affari? –
- No, per nulla… - risposi sinceramente e in completa tranquillità – Ma ogni promessa è debito. Troverò una soluzione. –
- Bene! Allora vi aspetto all’uscita dell’edificio tra un paio d’ore! –
- Certamente. –

Invece di tornare dai ragazzi, mi avviai verso l’ufficio del principale, per fortuna una persona decisamente posata e paziente. Gli dissi che avevo avuto un gravissimo impegno personale e che dovevo assentarmi per un po’ di tempo, non sapevo quanto. Lui storse il naso commentando che non poteva in nessun caso lasciar un posto vacante. E io gli dissi che se fossi mancato a lungo avrebbe avuto sicuramente il diritto di licenziarmi e che quindi non avrei recriminato.

Più difficile fu invece chiarirmi con i miei amici, che sapevano che non potevo avere alcun impegno personale e che finora erano quasi sempre riusciti a capire quando mentivo. Cercai di dire qualcosa che a grandi linee potesse essere considerata la verità…
- UN PART-TIME!?!?!? Che razza di balla è, Tyki!?!? -
Una reazione più che logica…
- E’ che un tizio un giorno mi ha chiesto se ero in grado di svolgere un lavoretto per lui… Avete presente poco fa quando mi hanno chiamato al telefono…? Era lui che voleva la conferma… -
- E perché proprio tu!? E sei sicuro che non sia un lavoro sporco!? –
Per un attimo rimasi tanto perplesso che dovetti nascondere l’incertezza dietro un commento scherzoso: - Beh, anche fosse…? Non siamo forse dei bari quasi di professione…? –
Prima che Frank potesse riprendere la ramanzina, intervenne Momo, parecchio innervosito: - Si, certo! Ma barare a carte per sfizio e lavorare per un misterioso faccendiere sono due cose ben diverse! Non vorrai perdere la tua moralità per… -
Il discorso stava prendendo una piega preoccupante così aggiunsi malizioso: - … per un sacco di soldi che ci farebbero comodo… -
Non ero neanche sicuro che il Conte mi avrebbe lasciato usare il suo denaro per sostentare i miei amici, ma a quel punto…
- Non vorrai venderti solo per denaro!? Noi viviamo bene anche così, Tyki! Stiamo bene, sempre insieme! -
Momo era sempre stato il più sentimentale del gruppo.
- Va bene, va bene… Allora sentite, andrò ad incontrare questo tizio… Se vedrò qualcosa di sospetto e se non piacerà come vanno le cose lo pianterò in asso… -
Non pensavo davvero di poterlo e volerlo fare, ma riuscii ugualmente a convincerli.
- D’accordo. Però saluta Iizu prima di andare, se no il bambino ci resta male… Tornerai presto? -
- Non credo… Sicuramente non per cena… Magari neanche dopo… Ma non preoccupatevi per me…-
- Troppo tardi! – commentò Frank con un mezzo sorriso, puntando con il dito l’espressione ansiosa di Momo.
- Vedi di stare attento, Tyki… - si vedeva che non gli andava per niente di lasciarmi andare.
- Si si…  Andrà tutto bene! A presto! – e uscii.
Passando davanti alla casupola un po’ diroccata che avevamo preso in affitto, andai a salutare il piccolo Iizu. Sembrò ancora più stupito degli altri del fatto che dovessi assentarmi per qualche tempo, ma non chiese nulla.

I ragazzi erano davvero la mia famiglia. Momo e Frank i padrini premurosi, Iizu il mio caro fratello minore. Eppure stavo per conoscere persone con cui avevo davvero un legame di sangue, anche se non certo pulito. Non provavo però alcun entusiasmo, ma solo una maliziosa curiosità.
Del resto fu un’esperienza decisamente strana. Non tanto perché gli elementi soprannaturali mi avessero in qualche modo sconvolto. I fenomeni fuori dalla norma mi interessavano ben poco. Fu più che altro tutto il resto…
Appena attraversata quella porta che sembrava condurre ad un mondo di nulla indefinito, la temperatura sembrò abbassarsi repentinamente, ma l’ambiente che mi si presentò di fronte agli occhi mi apparve, per qualche assurda ragione, quasi accogliente. Un lungo corridoio dalle pareti (ma c’erano davvero pareti?) nere correva per diversi metri, con quadri dalle cornici scomposte e mobilia eccentrica ma sicuramente preziosa.
“Di buon gusto… “ pensai, benché un commento simile non si addicesse per nulla ad un poveraccio che entra per la prima volta in una dimora signorile “…anche tutto questo nero è interessante… Elegantemente gotico, un po’ pesante, ma… ”
- Oh, ma l’arredamento è tutto opera della nostra giovane signorina Road! Lei adora il nero in tutte le sue sfumature, proprio come me! – commentò giocondo il Conte, che mi camminava a fianco.
Aggrottai le sopracciglia con fastidio divertito: - Spero non mi leggiate anche nel pensiero, signor Conte… -
Lui non rispose, ma ancora una volta sembrava che si divertisse enormemente a fare l’indiscreto.
- Mi sono consultato con lei per tutte le scelte! Mi ha aiutato molto! E’ di vostro piacimento!? -
- Sicuramente ha qualcosa di affascinante… -
- Splendido! –
- …Vossignoria, lero! La cena si starà raffreddando, lero! –
Mi voltai a guardare la direzione da cui era giunta quella voce gracchiante e vidi la testa di zucca sull’ombrello del Conte ballonzolare lamentandosi in modo insopportabile. Il Conte annuiva con enorme pazienza:
- Certamente, Lero. Stiamo andando. -
Aggrottai di nuovo le sopraciglia ma non chiesi nulla. Un ombrello parlante non era la mia priorità in quel momento, per nulla.
In fondo al corridoio campeggiava una enorme porta decorata da una imbottitura a bottoni color rosso sangue. Il Conte la aprì con grazia ed entrò subito nella sala.
Anche questa area era completamente nera e cupa: ormai ci avevo fatto l’occhio e mi piaceva anche. Al centro era posto un grandissimo tavolo da almeno una trentina di posti, ma del quale solo tre sedie erano occupate. La tavola era imbandita in grande stile e i sedili erano tanto alti e ricchi da sembrare quasi dei troni.
Stavo per posare lo sguardo su coloro che stavano seduti, quando un’ombra si alzò dal nulla e  saltò al collo del Conte a fianco a me. Mi girai verso di lui, questa volta parecchio stupito, e vidi una ragazzina a cui non avrei dato più di undici anni che stringeva tra le braccia allegramente il gigantesco busto del Conte.
- E’ tardi, uffa! Avevo una fame incredibile! Siete arrivato tardi! -
Lui la fece staccare da addosso con molta delicatezza e la posò a terra con un sospiro: - Lo so! Ma sono andato a prendere il nostro Tyki, Road! – e fece un gesto leggero verso di me.
Quei suoi occhi da rapace, gialli come i miei, iniziarono a fissarmi con insistenza. Vestiva una gonnellina molto corta e una camicetta con le maniche a sbuffo, un completo nero con pizzi e merletti in tinta. I capelli scuri erano tagliati parecchio corti e lasciavano scoperta la fronte scura segnata dalla corona di cicatrici.
Il suo sguardo sembrava passarmi da parte a parte. Per un attimo mi venne voglia di dirle di piantarla di frugare nella mia mente, perché sembrava fosse davvero ciò che stava facendo. Poi tornò a concentrarsi sul mio aspetto esteriore e questo mi tranquillizzò. Ma fino ad un certo punto. Sembrava mi stesse sottoponendo ad un test.
Infine la sua espressione, da riluttante e dubbiosa che era, divenne subito più amichevole.
- Io sono Road Camelot! – disse, ridendo, e facendo una finta riverenza.
A conclusione di quel momento, che mi era sembrato sicuramente più lungo di quanto era stato in realtà, sembrava che si fosse formato un tacito accordo tra di noi. Lei non avrebbe rivelato a nessuno della mia doppia vita e, anzi, avrebbe fatto finta di non averla mai neanche scoperta, come aveva fatto in realtà sicuramente frugando nella mia testa. Ma in cambio, io avrei dimenticato di aver visto per qualche momento in quella figura giovane di bambina l’ombra di una creatura ben più anziana e decisamente più potente e pericolosa.
Mi abbassai per guardarla direttamente in viso e con un sorriso complice:
- Io sono Tyki. Molto piacere. -
Riuscivo sempre a tenere un buon rapporto con i bambini e se fossi riuscito a vederla davvero semplicemente come una bimba più matura della sua età probabilmente le cose sarebbero andate bene. Con un eccesso di famigliarità, buttò anche a me le braccia al collo ed esclamò: - Ora sei parte della famiglia! Benvenuto! –
- Ah, grazie… - risposi, un po’ confuso.
Ed ebbi l’impressione che Road avesse approfittato di quel gesto per lanciare uno sguardo complice al Conte…

Imparai molto in fretta che il Conte amava imitare la vita delle famiglie normali, benché noi non potessimo di certo considerarci tali.
Road, saltellando intorno alla tavola, mi presentò gli altri membri della famiglia: Lulubell e Skin.
Li salutai cortesemente. Lei, serissima e compunta, fece giusto un cenno con il capo. Lui mi porse rudemente una mano che strinsi, tranquillamente.
- E tutti gli altri…!? Come mai non sono qui…!? – chiese il Conte, sembrando quasi offeso, nonostante la sua felicità perenne.
- Non lo so. – rispose annoiata la bambina – E comunque lo sapete che non si fanno quasi mai vedere qui. Solo Jusdero e Debit, che stavamo aspettando, hanno mandato a dire che avevano un impegno… -
- Umh… Che impegno!? –
- Non l’hanno detto. –
- I signorini Jusdebit non sanno proprio come ci si comporta, lero! – commentò l’ombrello dando forma probabilmente al pensiero amareggiato del Conte.
- Pazienza! Pazienza! Sarà comunque un’ottima cena di famiglia! – rispose allegramente lui.
- Finalmente si mangia! – commentò famelico il gigantesco Skin.
- Un momento però! – e sollevò un calice – Brindiamo all’arrivo di un altro nobile elemento della nostra gloriosa famiglia! Il nobile Sir Tyki Mikk! –
Mi schermii educatamente: - Troppo gentile, Conte! – ma alzai il calice con una grazia appena scoperta.

La cena fu ottima, bisogna dire, anche se rimasi un po’ colpito quando comparvero quei famosi Akuma-camerieri di cui mi aveva accennato il Conte. Tanto che pensai che onestamente avrei voluto avere a che fare il meno possibile con quelle macchine. Fu questione di istinto, che però il Conte aveva sicuramente percepito, così come Road, che per qualche momento mi aveva guardato dubbiosa.
Così chiesi informazioni nella discussione che tenni in privato con lui al termine di quella prima cena.
- Sono io che mi occupo degli Akuma! E’ una cosa che mi piace moltissimo e che non scambierei per nient’altro al mondo! -
Nella mia mente passò per un attimo l’immagine del Conte che saltellava affaccendato intorno ad un tavolo da lavoro e mi venne quasi da ridere. Mi trattenni per poco e nel recuperare la calma chiesi:
- Siete quindi un inventore…? -
- Preferisco dire un Costruttore! Del resto io realizzo lo stampo, la materia prima sono le anime umane e la sofferenza di coloro che sopravvivono! –
Appoggiai le mani giunte alla scrivania e domandai allora:
- Quindi cosa sono gli Akuma? -
- Si tratta di involucri meccanici senza vita nei quali viene rinchiusa l’anima di un morto, richiamata nel mondo grazie all’invocazione di una persona che soffre particolarmente di quella perdita. Proprio il dolore è il collante del processo. Il passo successivo è l’uccisione dell’evocatore in modo tale che l’Akuma possa prenderne il posto e continuare la sua opera di morte. –
- Capisco. –
Era chiaro, molto sofisticato e razionale come sistema. Certo, era un buon metodo per lo sterminio delle persone qualunque, che tanto non dovevano riguardarmi direttamente.
- Voi, in quanto nobili signori di questo mondo, potete farne uso a vostro piacimento e portarli anche con voi durante i vostri compiti. La creazione spetta a me, l’utilizzo è libero! –
- Quindi se ne può anche fare a meno, Conte? –
- Certamente! Del resto sono molto geloso dei miei Akuma! Spesso la giovane Road ci gioca o li porta in giro così finiscono per essere distrutti! Per non parlare di Skin, Lulubell e Jusdebit! Li creo anche perché servano a voi, certo, ma sapere che qualcuno ne farà a meno mi rende felice! -
Il fatto che avessi provato quell’innato ribrezzo non gli era certamente piaciuto, ma penso che valutasse la mia scelta come un tentativo di tenere maggior divertimento per me e che in questi termini l’accettasse.

Finita quella discussione, durata almeno un paio d’ore, il Conte mi accompagnò alla mia camera. Anche quel corridoio era decisamente grande e alternate alle grandi porte di legno c’erano ampi specchi o larghe cornici.
Molte camere non erano occupate, perché si aspettava ancora il risveglio di alcuni famigliari o appartenevano a parenti che si presentavano raramente alle occasioni e ancora più sporadicamente decidevano di fermarsi a dormire. Mi chiese se la stanza era di mio gradimento e io annuii semplicemente, perché era molto migliore di quanto immaginassi e soprattutto era quasi in fondo al corridoio, in una parte abbastanza isolata. Fu un sollievo.
Tuttavia notai che una stanza si apriva praticamente di fronte alla mia e domandai chi vi dormisse.
- Oh, per ora è vuota! Ma non credo lo sarà per molto, se le cose andranno bene! -
Guardò per qualche secondo la mia espressione, che probabilmente mostrava il fastidio che provavo all’idea di avere un vicino di camera e aggiunse:
- Fidatevi di me, Sir Mikk! Non vi dispiacerà per niente la compagnia, ve lo assicuro! – e fece un rumore sordo che doveva essere una sorta di risata.
Non risposi, anche se quelle parole non mi erano piaciute molto…

I mesi passarono serenamente, senza quasi che me ne accorgessi.
Con il tempo iniziai ad alternare la famiglia e gli amici senza provare alcuna difficoltà. Mi sentivo a mio agio in entrambi i ruoli e il mio carattere si era mantenuto integro, alla fine, nonostante il “risveglio” delle buone maniere. Incredibilmente riuscivo a restare me stesso. Del resto, a parte qualche sviolinata per il Conte o qualche momento in cui era richiesta la finezza dei modi, potevo comportarmi normalmente senza destare alcuna preoccupazione nel parentado, che d’altra parte non sembrava appartenere ad alcun grado di nobiltà, onestamente parlando.
Road era (o sembrava solo?) una bambina viziata, ma parecchio indisciplinata e non proprio una giovane aristocratica, come mi ricordava più per gioco che per orgoglio. Sembrava che le stessi particolarmente simpatico e trovava tutte le scuse possibili per entrare in camera a chiedermi qualcosa. Da parte mia non potevo dire di non ricambiare… Era diventata una sorta di sorellina, credo, anche se ogni tanto rivelava di sapere cose estremamente complicate e dimostrava una malizia davvero crudele. Dopo molta fatica, riuscii a farmi promettere che non avrebbe mai più letto nella mia mente. Era una cosa che mi infastidiva troppo: se ne era accorta e aveva definitivamente smesso, in ogni caso tra mille sbuffi e lamentele.
In famiglia ci sono anche i “parenti coltelli”, no? Io andavo d’accordo relativamente con tutti, ma non è detto che tutti mi dovessero stare per forza simpatici…
Skin era decisamente un tipo brutale. La sua passione per i dolci era quasi ossessiva, ma Road mi aveva spiegato che si trattava di una conseguenza del risveglio, proprio come la sua continua aggressività. La sua voce rimaneva sempre almeno di cinque toni più alta del normale e il comportamento civile non era certo il suo forte. Per entrare nelle sue simpatie bastava non stuzzicarlo e lasciarlo fare, per questo ottenni molto in fretta la sua attenzione e, potrei dire, il suo rispetto. Probabilmente mi avrebbe apprezzato di più avesse saputo da dove provenivo, ma non mi interessava poi familiarizzare con lui più del necessario.
Con Lulubell, poi, era praticamente impossibile andare davvero d’accordo. Tranne rarissime occasioni, preferiva andare in giro per casa in forma di gatto, piuttosto che umana. Il suo temperamento era più freddo di un ghiacciolo e la sua mente tanto calma e calcolatrice da incutere brividi a chiunque. Certo, guardandola la si poteva considerare una bella donna, anche molto curata, ma la fregava il suo temperamento felino, parecchio inquietante.
Per ultimi c’erano i gemelli Jusdebit… Ora, non è che io avessi dei problemi con loro. Anzi, li trovavo divertenti, anche se un po’ troppo chiassosi… Però ci voleva sempre una pazienza da santo, che di certo io non possedevo, ma che supplivo bene con un buona dose di sano menefreghismo, proprio come piaceva al Conte. Avevano un ego smisurato e una abilità nell’irritare le persone che superava la sopportazione umana. In generale, comunque, ormai ci stuzzicavamo a vicenda senza problemi e anzi era diventato il nostro sport preferito, anche se ero io a stufarmi sempre per primo.

Il Conte continuava a prometterci che prima o poi avremmo cominciato a lavorare davvero, tuttavia io stavo bene anche così. Finché non avessi riscoperto il piacere dell’omicidio, potevo anche vivere in quel modo tranquillo. Gli altri scalpitavano, chi più chi meno, all’idea di combattere con gli Esorcisti, a me onestamente in quel periodo la cosa era assolutamente indifferente come molte altre… Mi si addiceva di più la vita rilassata…
Se fosse rimasta rilassata e semplice…

Un giorno, all’improvviso, quando ero appena tornato dal lavoro con i ragazzi era squillato il telefono pubblico senza il minimo preavviso.
Mi avevano guardato per un attimo in cagnesco, poi avevano sbuffato un po’ tra di loro e infine mi avevano detto di tornare presto. Ormai anche loro avevano accettato questo strano mistero e avevano deciso di lasciarmi continuare, a meno che non avessero scoperto che stavo davvero facendo qualcosa di illegale o avessero dovuto tirarmi fuori dal carcere. Salutai tutti e mi avviai ad incontrare il Conte. Svoltato l’angolo ero già vestito del mio completo pulito.
- Buonasera, Tykipon! – esclamò, più allegro che mai.
Sospirai: - Road vi ha attaccato questa mania...? Lo sapete che non mi piace quel soprannome… -
- Perché!? Io lo trovo carino! -
- Ah… -
Da un po’ di tempo le maniere del Capo erano diventate sempre più amichevoli. Si vedeva che il concetto di “famiglia” era sempre più radicato in lui…
Appena entrati a casa, esclamò come se nulla fosse: - Preparatevi! Questa sera usciamo! –
Rimasi un attimo stupito: - … Quando dite “usciamo”, intendete che venite anche voi…? –
Prese un’aria da cospiratore che non mi piacque per nulla: - Certo! Cosa ci sarebbe di strano!? -
- Nulla… - ammisi, anche se non era vero. In genere quando andavamo in qualche ristorante proprietà di Akuma veniva in effetti con noi, ma per il resto le rare passeggiate notturne le facevo solo con Road.
Mi spinse amichevolmente con una mano sulla schiena: - Forza! Andate a fare una doccia, che tra poco si cena! Dopo di che, questa sera andiamo tutti a teatro! –
- A teatro!? -
- Certo certo, a teatro! Oggi rappresentano “La Traviata”! Su, forza! –
- Che cosa!? – tentai di esclamare, ma nel frattempo mi aveva già spinto nel bagno chiudendo la porta dietro di me.

Mi chiedevo da quando al Conte piacessero le opere liriche…
Di sicuro la musica classica non aveva nulla a che fare con noi Noah: Road e Jusdero e Debit sentivano in genere solo punk ed heavy metal, Skin sembrava non essere mai interessato a
nulla in particolare, alla fine l’unica che poteva magari coltivare una simile passione era la fine Lulubell, ma da buon gatto non apprezzava in realtà alcun tipo di rumore. Per conto mio, insieme alle mie nuove innate maniere eleganti, avevo un giorno scoperto di saper suonare il piano… E ne ero rimasto talmente allibito che ogni tanto andavo a testare queste nuove capacità sul pianoforte a coda del Conte… A detta del padrone e della stessa Road, che studiava musica a scuola, non ero neanche malvagio come musicista…
La cosa comunque non mi quadrava per nulla e continuavo a pensarci ossessivamente mentre l’acqua calda mi scorreva addosso. Il Conte non faceva mai nulla per nulla. C’era di certo qualcosa che non mi aveva ancora detto…
Ero appena uscito dalla doccia quando Road cominciò a bussare alla porta:
- Tyki! I vestiti! -
 Mi infilai pudicamente la camicia e i pantaloni e le aprii la porta:
- Credevo di poter tenere questi… -
Mi guardò con rimprovero: - Scherzi!? Questa sera il Conte ti vuole al massimo splendore! Ha fatto andare addirittura Skin a comprarti questo completo costosissimo! Volevo andare io, ma mi ha detto che una bambina in un negozio per uomini sarebbe stata sospetta… – e fece spallucce.
Sgranai gli occhi: - Perché!? –
- Oh, andiamo! – esclamò scuotendo la testa – Vorrai mica fare una cattiva figura con LEI, spero! -
Mi sedetti sullo sgabello, seriamente confuso: - “Massimo splendore”…? – lanciai uno sguardo al completo di cashmire che teneva sul braccio – “Completo costosissimo”… ? “Skin”…? E poi “cattiva figura”…? “LEI”…? Cosa…!? -
- Possibile che il Conte non ti abbia ancora detto nulla!? E quanto pensa ancora di aspettare! -
Presi allora a ribellarmi e cominciai dalla cosa più stupida che mi venne in mente, in effetti:
- Prima di tutto, perché me l’ha scelto Skin!? Non poteva mandare me!? Non si fida!? – e aggiunsi con un mezzo sorrisino – Non che Dolcetto non abbia buon gusto, ma sarà almeno di otto taglie più grande… -
- Tyki! Gli ho dato io le misure giuste! Ma poi tra tutto è questo che ti preoccupa!? –
- No, certo… Ma è stata la prima cosa… -
- Cioè, il Conte ti prepara una FIDANZATA a tua insaputa e tu ti preoccupi della taglia del vestito e… -

Non fece in tempo a terminare la frase che io, con addosso quella camicia e quei pantaloni fradici, ero già nel corridoio davanti allo studio “telefonico” del Conte.
Non mi piaceva fare le scenate, ma in quel momento non potei davvero farne a meno. Spalancai la porta e, con l’espressione più stizzita che avevo, annunciai, tutto d’un fiato:
- Conte, cosa accidenti è questa storia della “fidanzata”!? Non è per nulla divertente, sapete!? Non mi pare di aver mai espresso il mio parere ad una cosa simile! E poi non ho nessuna intenzione di sposarmi! Non ho neanche ancora trent’anni, che diavolo! E se poi ben fosse, avrei intenzione di scegliermi io chi, dove e quando! In questo, mi dispiace, ma non c’è famiglia che tenga! E… - dovetti fermarmi o sarei crollato per terra senza fiato.
Lui non fece una piega e guardò Road che si era affacciata alle mie spalle:
- Road, possibile che tu debba sempre anticipare tutto…!? -
- Scusa… E’ che non sapeva niente e mi sembrava strano… Così, mi è scappato… -
- Conte! – cercai di richiamare la sua attenzione.
- Beh, ma questa è una fidanzata speciale! Che solo io potevo procurarvi! – esclamò giocondo, come se fossi entrato educatamente e mi fossi seduto di fronte a lui a discutere civilmente la cosa – Si tratta di una nostra nuova cugina, destinata ad entrare presto in famiglia! Volevo invitarla questa sera a cena, ma ha declinato, così ho organizzato questo incontro e per darci una bella cornice ho pensato all’opera! L’originalità prima di tutto! –
In quel momento, quasi sfondando la porta, entrarono come un razzo i due gemelli, piagnucolanti, ma sbraitando come dei pazzi: - Conteeeeeeeeeeeeeeeee… Perché dobbiamo venire anche noiiiiiiiiiiii…???????? -
- Ecco, ci mancavano loro… - commentai, con uno sbuffo.
- Silenzio, Stupid-Tyki! – poi Debit, ancora rivolto al Conte – Perché dobbiamo venire anche noi a quella cosa noiosissimaaaaaaaaa… A noi non importa di vedere oggi la fidanzata di questo qui, vogliamo restare a casaaaaaaaaaa… -
- Ma ragazzi, non dimenticatevi che sarà anche una vostra cugina! –
- Appunto e la vedremo qui quasi tutti i giorni… Per favore… -
- Conte, io non sono per nulla intenzionato né a fidanzarmi né niente di simile. Credo di avere ancora il diritto di decidere. E poi soprattutto, non aspettatevi che faccia quello che volete, dal momento che non ritenete neanche opportuno di parlarne prima con me. –
Mi stavo arrabbiando e il tono di voce che usavo era tanto serio e scuro, che anche i gemelli si fermarono e mi guardavano silenziosi. Ma non potevo neanche aspettarmi che questo spazientisse il mio interlocutore, che come al solito, con un ghigno felice, rispose calmo:
- Non ve ne ho parlato perché vi conosco bene e non ho dubbi che gradirete la mia scelta! E poi se avessi lasciato fare a voi, mi dispiace dirlo, ma avreste finito certamente per scegliere un’umana qualunque! Non vi preoccupate, comunque, perché non ne avete davvero motivo! E ora per favore, preparatevi per la cena, che poi usciamo subito! -

Fu una cena estremamente fredda e per questa volta non fu colpa di Lulubell…
I gemelli tenevano il muso come due bambini delle elementari ed io… beh… probabilmente facevo lo stesso…
Mi stavano appioppando una fidanzata! Una che non avevo mai visto e che probabilmente non potevo neanche rifiutare, dato che era sponsorizzata dal Conte! Conoscendo poi le sue opinioni, ad esempio il fatto che non si considerava per nulla grasso, poteva tranquillamente essere un peso massimo, maledizione! E poi non si era neanche messo a commentare se fosse bella o meno e questo se possibile mi preoccupava ancora di più! Tra l’altro era una Noah… La cosa mi lasciava stranito, perché negli anni e nonostante la mia nuova vita, avevo sempre avuto solo donne umane… Cosa significava stare con una della famiglia (a parte l’incesto simbolico…)? Beh, la mia mente vagabondava in idee alquanto bizzarre e strane che è meglio non ripetere…
D’altra parte eravamo al dolce quando la voce di Road ruppe il corso delle mie fantasie:
- Quindi per farla breve, parla di una giovane prostituta che si innamora di un suo ammiratore. Si lascia però convincere dal padre di lui a lasciare l’amato per evitargli una cattiva reputazione. Non gli spiega i motivi della rottura, per cui quello crede l’abbia fatto per tornare al vecchio mestiere e le fa una scenata assurda. Lei, già malata di tisi, è alla fine quando il padre si pente di ciò che l’ha obbligata a fare e l’uomo fa giusto in tempo a tornare da lei per vederla morire. – teneva in mano un libretto che probabilmente aveva appena finito di leggere.
- Si, esatto! – rispose il Conte.
- Che strazio! – esclamarono all’unisono i gemelli.
- Già… - commentò lei, storcendo il naso.
- … Ma è fatto per essere straziante… - aggiunsi pigramente.
- Però anche la protagonista magari non è male… - riprese lei – Una vera peccatrice… - con una leggera ammirazione nella voce.
- … Ma con l’amore si redime, no? –
- Ma che “si redime”, Tyki! Si rammollisce, nient’altro! Certi marchi non si lavano via in nessun modo! E poi, “l’amore”… Bah, sono concetti fatti solo per gente come gli Esorcisti… -
Quando parlava così sembrava la versione più piccola e fortunatamente più graziosa del Conte…
- Su , allora! Altrimenti faremo tardi! – la interruppe quest’ultimo e ci alzammo tutti insieme da tavola.

Il teatro era affollatissimo, ma il Conte non poteva ugualmente mostrarsi in pubblico, per questo ci mollò lì quasi subito. Aveva prenotato un palchetto, a mio nome. E per fortuna fui io a parlare con l’addetto che concentrandosi su di me forse non notò quanto fosse bizzarro il nostro gruppetto…
Skin era totalmente fuori luogo: era certo impeccabile per abbigliamento e se se ne stava zitto e tranquillo poteva anche passare, il problema era che per stazza sembrava più la nostra guardia del corpo. I gemelli erano impacciatissimi in quegli abiti eleganti: Jusdero in particolare aveva addirittura dovuto togliersi quel suo strano percing sulla bocca e a tratti si massaggiava i punti in cui si era appena strappato i chiodini. Lulubell vestiva come al solito: un completo BLU con i PANTALONI e la maggior parte delle signore in abito da sera la guardavano male. L’unica ancora passabile era Road, ma avrebbe forse dovuto evitare di vestirsi completamente di nero e soprattutto di portare con lei l’ombrello Lero.
La salvezza fu raggiungere alla fine i posti prenotati.
Una volta che il separatorio fu chiuso, ricomparve il Conte, ma ormai l’effetto era perduto: i Jusdebit si erano stravaccati scompostamente, la gatta aveva cominciato ad aggiustarsi le unghie, il body-guard aveva estratto la sua scorta eterna di dolciumi e la bambina aveva ricominciato a saltellare in giro. Quell’area era già diventata la caotica succursale di casa nostra…
Quando le luci si abbassarono, Road venne a sedersi nei posti vicini alla balaustra con me, mentre dietro il vocio offeso dei gemelli diminuì di intensità ma non si spense.
Chiesi allora al Conte: - Quando arriverà chi deve arrivare…? –
- Ah, non lo so! – esclamò allegro – Forse tra non molto, forse, chissà…! -
- Come sarebbe a dire…? –
Alzò le spalle e non rispose…

In realtà, strano a dirsi, non ero per nulla tranquillo. La venuta di questa misteriosa fidanzata era riuscita a scalfire la mia impassibilità. Mettevo e toglievo i guanti, stropicciandoli tra le mani e il mio sguardo correva tutt’intorno, come se sperassi di riconoscerla. Vedendo come i miei parenti erano così bravi a confondersi tra la folla, pensavo di poterla vedere distintamente. Eppure niente e l’attesa mi irritava in maniera assurda…
Proprio per riprendere il controllo di me decisi di prestare attenzione all’opera, che altrimenti avrei ignorato del tutto…
Le ultime parole che udii furono di Road (“Ah, ecco la protagonista! Però questa musica è davvero una lagna… Vero, Tyki?”), poi più nulla… Non riuscii neanche a risponderle… La mia mente fu assorbita completamente dallo spettacolo che si offriva ai miei occhi e, strano a dirsi, alle mie orecchie…
Sul palco era entrata una donna bellissima…
Io ne avevo viste molte di donne con quel tipo di bellezza: eleganza sfatta, sensuale, atta ad attirare gli uomini nel modo più diretto e chiaro. L’abito, lungo, ampliamente decorato, aveva una lieve scollatura e il trucco sul suo viso era fine ma molto appariscente. Eppure, anche se la sua interpretazione prevedeva tutto questo, si vedeva chiaramente qualcosa di infinitamente puro e candido in quel volto… Certo Violetta, la giovane prostituta, era innamorata, quindi anche l’aria pulita e felice poteva derivare solo dal personaggio presente sulla scena. Eppure quella dolcezza infinita e devastante sembrava essere solo sua, provenire direttamente dal suo animo…
Poi, qualche istante dopo, fu la sua voce… Forte, chiara, brillante, simile a quella che poteva avere un vero angelo… Ne fui rapito, come potrebbe capitare ad un comune essere umano… Non ad un Noah… 
Fu un gesto, un movimento o forse piuttosto il tono astioso che aveva assunto per un attimo mentre cantava le sue ragioni al padre dell’amato. E la riconobbi proprio per quella ostilità, velata dalla paura…
Non poteva essere altri che lei, la giovane suora che aveva aiutato Iizu…
Non che avessi la possibilità di averne la piena certezza: la cantante aveva lunghi capelli neri che scendevano molto sotto le spalle e un’abilità canora che non avevo mai potuto trovare nella religiosa, che pure, pensandoci, aveva parlato di far parte del coro. Cercai di focalizzare bene il viso, ma coperto di trucco non poteva essere paragonato a quel volto acqua e sapone appartenuto ai miei ricordi. Da quella distanza non era possibile poi neanche tentare di verificare il colore dei suoi occhi.
Mi sarebbe piaciuto crederlo, ma c’erano una lunga serie di motivi per cui dovevo sbagliarmi. Come poteva essere uscita dal convento? Soprattutto, perché sarebbe uscita dal convento? Dopotutto là stava benone o almeno così mi era sembrato. Poi in così poco tempo come avrebbe potuto diventare una cantante lirica? Come avrebbe ottenuto la capacità di farsi strada nel mondo? Come avrebbe mai superato le sue paure?
Impossibile…
Eppure per un attimo mi si aprì nella mente un’ipotesi ancora più assurda, ancora più crudele, ancora più irrazionale. Se quella donna fosse stata davvero la giovane suora che, devo dirlo sinceramente, mi aveva rubato il cuore, allora sarebbe potuta essere sempre lei la ragione per cui ci trovavamo lì… Era una coincidenza troppo bizzarra, troppo assurda, troppo casuale perché non si trattasse di un simpatico giochetto del Conte… Ma questo avrebbe portato anche un’altra idea, che non avevo alcun modo di considerare ragionevole… Lei la Noah, lei la persona che a detta del capo non avrei mai rifiutato… Lei la fidanzata preparata per me…
Per un attimo l’idea mi affascinò, ma era tanto assurda che cadde da sé…
D’altra parte i ricordi riportavano alla luce una creatura splendente e meravigliosa… Non certo una mia parente, senza dubbio…

Non riuscivo a fare a meno di fissarla, assorto completamente in quella voce splendida che riempiva in modo perfetto la melodia…
Aveva del bello e del buono la mia parte “nera” a sbraitare dentro di me… Solo poche frasi riuscivano a invadere la mia mente… E non potevo evitare di riconoscerle come vere…
Non ero più quel ragazzo generoso e allegrotto… O forse lo ero ancora, ma solo per una parte che conviveva in modo davvero bizzarro con l’altra, più forte e oscura… Ero un uomo “nero” che doveva incontrare una donna altrettanto “nera”… Un essere candido e pulito, per quanto affascinante, non poteva avere nulla a che fare con me…
Cosa c’era di più vero…? Non era questione di Bene o Male, ma solo di forma e apparenza, di carattere e conformazione... Di Anima… Da quanto tempo non percepivo l’esistenza di questa parola…? Potevo ancora parlarne…? Mi importava avere o catalogare una componente simile…? Ad un Noah serviva un’anima…? La risposta era semplicemente no…

L’opera terminò e non mi ne accorsi.
La cantante del resto era ancora sul palco, che si inchinava al pubblico che dalle prime file lanciava fiori intorno a lei. Fu come al solito Road a scuotermi dal torpore:
- Tyki! Vuoi tornare fra noi!? -
Sobbalzai sulla sedia e la guardai, sicuramente con sguardo stranito:
- Perché? Cosa? -
- Be’, forse perché è tutta l’opera che ti parlo insieme per scacciare la noia ma non mi hai mai risposto! –
- Ero preso dalla storia… - cercai di giustificarmi con un sorriso colpevole.
- Figurati! Una cosa così strappalacrime! –
- Preferisci sentirti dire che mi interessava la musica…? –
- No, preferirei che mi dicessi sinceramente chi è quella cantante! –
- Mi hai di nuovo letto nel pensiero! – esclamai
- No, molto più semplicemente ti ho osservato! Ti mancava solo la bava alla bocca! –
- Road… - cominciai cercando il modo di chiarire la mia posizione, ma Debit interruppe questo pietoso tentativo.
- Ehi voi! Dove accidenti è finito il Conte!? Mica se la sarà svignata! –
- Probabile… - Lulubell aveva aperto bocca forse per la prima volta in tutta la giornata.
- Uff, magari è andato a prendere la nostra cugina… Dai, andiamo nell’atrio da aspettarlo… - poi rivolta a me, con un sorriso malizioso – Così Tyki può andare a parlare con la nostra primadonna… Anche se non sarà un po’ maleducato farlo di fronte alla tua promessa…? –
Sospirai.
D’altra parte, però, andare a fare i complimenti alla soprano non era certo reato…




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Difficilotto anche portare a termine questo...
Ho fatto una sintesi abbastanza selvaggia di lunghi mesi di convivenza a "casa Noah" perchè se no diventava un romanzo...


Grazie davvero dei complimenti, Lady Greedy! Mi hanno fatto davvero molto piacere! Spero di non deluderti, dato che finora sei la mia sola lettrice... ^_^  Spero comunque sempre che prima o poi anche altri commentino, mi raccomando!

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Capitolo 6
*** V - The new way ***


Capitolo 5

The new way


“Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli.”
(V. Alfieri)






Avevo promesso di non farmi ingannare da quel demone malvagio.
Eppure lo ascoltai, anche se forse avrei potuto andarmene. Tentai di ribellarmi, anche se era logico che lui sapesse bene dove colpire. Mi opposi e lo insultai cercando però di mantenere il controllo, di tornare umana, anche se lui non si scalfiva minimamente nel suo volto crudele. Sbagliai enormemente anche nel solo pensare che in qualcosa potesse avere ragione e bastò questo perché lui si sentisse in diritto di farmi la sua proposta…
Decise di prendermi con sé come un giocattolo guasto da aggiustare, come una sfida alle sue arti, come una serpe in seno che lui avrebbe trasformato in una delizia addomesticata nel suo giardino… Non gli importava quanto gli fossi ostile, quanto lo combattessi… Il Conte sapeva esattamente che alla fine sarebbe bastato corrompere fino al più profondo una sola anima per farmi capitolare…

Di certo non mi aveva obbligata a predisporre questa guerra di trincea nel suo territorio, un progetto assurdo e destinato al fallimento, secondo lui. Mi aveva detto di seguirlo, che il mio sangue parlava da sé, che essere parte della famiglia sarebbe stato il mio orgoglio e se ora non potevo capirlo un giorno lo avrei fatto. Io l’avevo sfidato e lui aveva fatto la sua infame mossa. Eppure potevo anche, soffrendone certo, tirarmi indietro, lasciare che tutto andasse come era stato concordato, restare al mio posto. Con quelle parole però mi aveva convinta a provare, sulla base della mia stessa fiducia nella vittoria del Bene. Convinta, non obbligata.
La colpa era solo e solamente mia…

Quella sera stessa il Conte aveva proposto una fuga notturna dal convento, ma le mie esatte parole di risposta erano state: “Non se ne parla, Conte… Conosco un solo modo di uscire di qui e questo userò…” Non si indispettì neanche questa volta e semplicemente alzò le sue ridicole spalle grassocce.

Parlai con la superiora chiaramente e senza mezzi termini di una seria crisi personale dovuta alla completa solitudine della condizione monacale ed espressi il più assoluto bisogno di vivere nel mondo. Fu semplice, estremamente semplice, anche se mi fece più male di quanto immaginassi mentire alle sue domande. Era decisamente stupita di sentirmi parlare in quel modo e dovetti trovare il modo di convincerla della necessità di lasciare il convento, per quanto quell’ipotesi in fondo al cuore mi procurasse una paura incontenibile. Tutto andò bene, comunque, e la cerimonia di proscioglimento dei voti avvenne subito il giorno dopo.
Mentre preparavo le valigie, proprio come mi aspettavo, ricevetti la classica visita del Conte, comparso praticamente dal nulla.
- Vivy... Sai che la superiora sta mandando proprio in questo momento una lettera alla più vicina sede dell’Inquisizione…? -
Già quel giorno, durante il nostro primo colloquio, era passato dal “voi” rituale al “tu” nel giro di un nulla.
- Lo immaginavo. – risposi, ritirando una delle poche camicie che avevo tenuto con me dalla mia vita secolare.
- Non ti stupisce… -
- Neanche un po’. Di fronte a me non ne aveva fatto parola, ma si capiva che una delle sue preoccupazioni era data appunto dal consiglio dell’Inquisizione. E’ normale che scriva una lettera a Padre Rouelle. – continuai, decisa e continuando a ritirare, evitando ostinatamente di rivolgergli uno sguardo.
- Oh, si! Quel famoso inquisitore che ha fatto torturare tuo padre e uccidere tua madre! Un povero idiota che non sapeva distinguere una strega da una Noah! Quell’uomo privo di alcun tipo di pietà che non vedeva l’ora di stringere tra le sue grinfie anche te e ammazzarti come un cane… -
Un terribile brivido mi percorse la schiena e dovetti fermarmi per non cedere ancora a quella mia Paura che il Conte tanto amava. Non avevo intenzione di mostrare alcuna debolezza.
Presi un respiro e annuii, fissando immobile il muro di fronte a me: - Esatto. “Quel” Padre Rouelle, Conte. In ogni caso la missiva gli arriverà troppo tardi per riuscire a fermarmi. –
- Strano… Non provi un enorme odio per lui…? –
Sapeva solo istigare il mio animo, ma non sapeva quanto potesse essere forte.
- E’ vero… Ma non mi importa… Presto sarà ancora più distante da me, per fortuna. Non avrà più alcun potere sulla mia vita… -
- Certo! Perché la stai votando a me e alla causa della tua famiglia! –
- Sempre la solita frase. Vedete di ricordarvi – puntualizzai, voltando per la prima volta il viso per fissare il suo aspetto di insana malignità – che io non vi appartengo per nulla… Non è per voi che mi trovo a questo punto… -
Un breve momento colmo di silenzio e ostilità corse tra di noi.
- Lo so bene! – ridacchiò come se nulla potesse irritarlo – Però non sarà così per molto! Presto… -
- Smettetela di ripeterlo! Io farò qualunque cosa per evitarlo! –
- E non ci riuscirai… -
- Pensatela come volete… - e chiusi di scatto la valigia ormai piena.

Come potevo avviarmi ad una vita che sarebbe consistita semplicemente in una lotta inutile contro un potere tale da contrastare Dio? Chi credevo di essere io per fare qualcosa di simile? Possibile che mi sentissi tanto speciale? Non si trattava di combattere contro le tentazioni di tutti i giorni, quelle che ogni uomo ha e che con un impegno corrispondente può annientare. Mi stavo inoltrando fino alla radice della pura malvagità e proprio da quell’abisso più oscuro credevo di poter portare avanti una rivolta. Mi consideravo come una specie di “paladina della Fede”? Ero probabilmente impazzita… La speranza è la matrice della vita, ma anche la sua morte…

Portavo ancora la mia piccola croce d’oro al polso. Era un simbolo di ciò che più di tutto avevo a cuore: il ricordo di mia madre, la prima Noah ad aver rifiutato il suo sangue, di mio padre, che non sapevo più dove potesse essere, di quegli anni di pace e solitudine che tanto mi avevano aiutata a trovare un equilibrio… Mi capitava anche che il bracciale mi facesse ricordare le esatte parole di quell’anziano generoso Bookman e mi chiedevo come avevo potuto farmi trascinare dal Diavolo fino a questo punto. Non avrei dovuto ribellarmi? Stare attenta a non farmi ingannare? Ormai anche dire cose simili non aveva più senso.
Più di una volta avevo notato quell’assurdo demonio fissare il mio prezioso cimelio con ostilità beffarda. Non me ne fregava nulla. Doveva solo osare portarmelo via, non immaginava cosa avrei potuto fare davvero. Al pensiero di un affronto simile scorreva però di nuovo furioso il mio potere nero e per questo dovevo placarmi con l’uso di tutte le mie forze e di una preghiera.
Vivevo ormai così fuori dal convento, in continua lotta con quell’oscurità che minacciava ogni momento di prendere il sopravvento. Del resto, avevo abbandonato Dio… Avevo deciso di fare parte del suo più ostile schieramento nemico, poco importava se lo scopo fondamentale fosse nobile…

- Hai una voce degna di una cantante d’opera! – esclamò un giorno il Conte.
Mi bloccai di scatto nel bel mezzo dei miei salmi, che come sempre stavo cantando. Non mi piaceva che fosse presente quando pregavo. Anche se, in effetti, mi trovavo in una camera d’albergo che aveva prenotato lui. Mi chiedevo come. Ad ogni modo ero certa che fosse un complimento, ma non riuscivo a capire in che termini.
- Cos’è una “cantante d’opera”…? - chiesi, sospettosa, sedendomi sul letto.
Rise allegramente e ciò mi irritò parecchio.
- Sentite un po’… Vi divertite a prendermi in giro…? -
- Possibile che davvero tu non lo sappia!? Eppure hai vissuto secolarmente fino alla maggiore età! -
- E con questo…? O mi spiegate… -
- Certo, certo! Si tratta di una donna che recita a teatro cantando. Si tratta in genere di recite piene di patos e disgrazie di ogni tipo, ma accompagnate da melodie che hanno fatto la storia della musica. Insomma, è un mestiere, ma anche una vocazione, per certi termini.-
Sbuffai: - Fatemi il piacere di non usare il termine “vocazione” così alla leggera… -
- Parlo sul serio! Ci vuole un’abilità canora notevole, che non tutti hanno… -
Mi stava lusingando. Una cosa che davvero non sopportavo. Tuttavia cantare era una mia passione, quindi un’attività simile mi sarebbe piaciuta davvero. Decisi di stare al suo gioco.
- Quindi cosa vi fa pensare che io la possegga? -
Lui si sedette allegro sulla sedia imbottita dello scrittoio e mi guardò nel suo solito modo abbastanza maligno:
- Oh, io sono un grande amante della lirica! Sono l’unico in famiglia! Quindi me ne intendo, per certi versi! -
- Uhm… -
- Non ti fidi…? –
- Sapete com’è… La fiducia bisogna conquistarsela… -
- Va bene, va bene! Però l’idea ti piace, giusto…? –
Ci pensai qualche momento. La risposta era si. Tuttavia sapevo cosa comportava fare tutto ciò che lui predisponeva? Affidarsi a lui significava entrare a far parte della sua schiera di giocattoli.
- Quando avete intenzione di presentarmi in famiglia? -
Lo fissai. Quel cambio repentino di argomento l’aveva leggermente colpito, ma non quanto avevo sperato.
- Non pensavo avessi tutta questa fretta. -
- Rispondete e basta, Conte. –
Sospirò, ma senza perdere la sua gaiezza: - Possibile che parlare con te diventi sempre uno scontro dialettico…? –
- Vi rendete conto, vero, che siete sempre voi a cominciare? La colpa non è certo mia. -
- Come farei a scatenare la tua irritazione? –
Risposi, pronta: - Cercate di sfruttare ogni mia parola o gesto a vostro vantaggio. –
- No di certo! Cerco solo di fare un utile servizio prima di tutto per te, poi la nostra famiglia ed esclusivamente alla fine per me! Non faccio mai nulla per me solo! -
Ingannatore senza scrupoli.
- Vi ostinate a gestire ogni cosa che mi riguardi. -
- Gestire!? Per niente! Io do solo dei consigli! Non potrei mai importi nulla! –
Finto modesto.
- Non prendete mai in considerazione che io potrei rifiutarmi. -
- Perché io ti conosco anche meglio di te stessa. E soprattutto molto meglio di quel Dio che tu tanto adori. –
Bastardo egocentrico.
- Credete non sappia che mi leggete nel pensiero? -
- No, no! Sarebbe un insulto alla tua intelligenza! –
Infame.
- Vi comportate nel modo più falso che esita. -
- Forse perché tu sei invece un po’ troppo onesta nei tuoi sentimenti. –
- Voi sapevate già da prima cosa pensavo di voi. –
- Appunto. Che senso avrebbe esserti anch’io così ostile…? –
Gira frittata.
Basta.
- Vorreste rispondere ora!? – esclamai esasperata.
- E’ una resa…? – chiese con un risolino.
- Come volete. – commentai, stufa, scuotendo la testa.
- Va bene, allora. – tossicchiò elegantemente e si assestò sulla sedia – Vorrei aspettare ancora un po’ prima farti incontrare gli altri nobili parenti. –
- Perché? –
- Credo che tu voglia trovare un tuo ambito d’azione, no? Una “vocazione” che sia solo tua. Del resto a te non va bene essere solo una Noah, o sbaglio? –
Rimasi basita. Era vero, certo. Ma c’era qualcosa di quel discorso che non mi quadrava.
- Una volta che ti sarai costruita una tua identità, parleremo dell’incontro con la famiglia. Non posso certo portare loro una ex-suora! Sarebbe un po’ scandaloso! Ma presentare ai nostri parenti, per esempio, una cantante lirica, è tutt’altra cosa, anche se, ripeto, solo io mi intendo di musica classica… -
- Ma non avete detto che io devo entrare a far parte in tutto e per tutto della famiglia? –
- Be’, certo! Ma penso anche che vogliate un’alternativa alla sola esistenza a casa… -
Ora era chiaro. Avevo intuito le sue intenzioni, per la prima volta. Volli quindi declamare ad alta voce la sentenza, come una piccola rivincita personale.
- Restando sempre presso i miei parenti mi sarebbe più semplice integrarmi, ma contemporaneamente potrebbe risultarmi più facile creare scompiglio nei vostri piani…-
Quelle parole ebbero un effetto incredibile.
Tacque per qualche momento, guardandomi intensamente. Poi, con il tono più serio che gli avessi mai udito:
- Non devo dimenticarmi della tua intelligenza e del fatto che mi sei nemica. -
- Si, penso proprio di si. –
Il silenzio che ne seguì fu abbastanza inquietante. L’enorme sorriso che ingombrava il suo volto non si era scalfito, eppure la mia deduzione lo aveva fatto arrabbiare a morte.
- Siete le due personalità più assurde che mi siano mai capitate. Ma siete miei. Non riuscirete mai ad allontanarvi dal piano che ho creato per voi. -
Per un attimo mi mancò il respiro: - Di chi state parlando…? –
- Ricordatelo bene, Vivy. Il tuo piano non può realizzarsi. E te ne accorgerai non appena incontrerai la famiglia. Rimpiangerai di non aver potuto rimandare per tutta la vita quel momento. Dovrai fare una scelta, ma ti dico una cosa: io me ne intendo di tentazioni e la carne è sempre stata debole. Vi avrò in pugno per sempre. -
Tremai di autentica paura.
Il Conte si alzò dalla sedia con calma, con movimenti lenti che sembravano voler nascondere la tensione di tutti i suoi nervi. Mi passò davanti e infine, giunto davanti alla porta, si fermò. Io non osai muovermi da dove mi trovavo.
- Ad ogni modo, cosa devo fare…? -
Ci misi un momento a riprendermi e pensare a rispondere.
- …Per…per cosa…? -
- Per la tua attività. Per la lirica. –
Deglutii, pavidamente.
- Si. Per me va bene. Credo che mi possa piacere come lavoro. Però non conosco nulla, né storie né musiche. -
Allora si voltò di nuovo verso di me. Il suo sorriso era placido e tranquillo.
- Non ti preoccupare. Rimedierò io. - e se ne andò, scomparendo teatralmente nel nulla.

La sfida mi trovava ancora impaurita ed indifesa. Era normale. Il Conte era un’entità talmente ingannevole, piena di opposti ritmi di spirito e di comportamento, che le sue reazioni erano assolutamente imprevedibili. Io, schietta fino all’inverosimile, non ero in grado di fingere odio o simpatia, ma almeno riuscivo a capire quando altri invece tentavano di fare lo stesso con me. Non era certo abbastanza però per affrontarlo. Bastava una sua minaccia per impaurirmi.
Eppure cosa ci facevo lì se la fede non riusciva ad impedirmi di contrastare il timore del male?

Iniziai a studiare. Il Conte mi prenotava i posti per assistere alle opere e io fingevo di essere accompagnata, dato che lui non poteva farsi vedere in pubblico e una donna sola a teatro non faceva una buona impressione. Quando una nuova rappresentazione arrivava sulle scene, andavo ad assistere ad ogni spettacolo. Una volta arrivai a vedere otto volte di seguito “La traviata”, ripresentata anche in settimana per gli instancabili. Utilizzando i libretti di sala che il Conte mi procurava, riuscivo a memorizzare le parole e le melodie. Mi allenavo poi in albergo, cercando di ricordare al meglio ogni cosa.
Mi piaceva tantissimo. Prima di tutto perché mi permetteva di cantare, e poi perché quelle storie avevano qualcosa di incredibilmente affascinante. Certo, spesso le vicende parlavano di questioni abbastanza scandalose: prostitute, amanti, adulteri, assassini, violenze… Ma non aveva importanza. Erano il punto d’incontro tra la bontà dell’amore e la perversione dell’odio. Rappresentavano un po’ quello che entrava e usciva dalla mia vita, alternatamente, senza freno, prima il Bene, poi il Male, poi la gioia, poi il dolore, poi la felicità, poi la sofferenza. Le opere erano dolci e crudeli proprio come la mia vita…

Certo non potevo sperare di diventare una primadonna. Non ne sarei stata in grado. Ma dopo un annetto di questo allenamento, il Conte mi propose di partecipare ad un’audizione.
- Di già…? – esclamai, poco sicura.
- Be’ si! Non volevi metterti a posto il prima possibile per entrare in famiglia? –
- Si, ma… -
- Appunto, fidati di me! –
Di nuovo mi chiedeva una cosa impossibile, ma che non potevo rifiutare.

Le selezioni erano state organizzate per trovare una sostituta ad una primadonna che aveva avuto dei problemi alla gola qualche tempo prima. Non volendo rischiare poi di dover cancellare delle date, cercavano qualcuno che potesse salire sul palco al suo posto, ma solo se fosse stato assolutamente necessario. Era perfetto. Forse non avrei neanche dovuto dare il mio contributo, ma era comunque utile per entrare nel ciclo dei teatri. Se non fossi stata scelta, pazienza, ma avrei cercato di capire parlando con gli esperti della giuria che cosa non andasse bene nella mia pratica.
Quando ormai toccava a me ero nervosissima.
- Non ti preoccupare, Vivy! Tu hai una splendida voce! Non innervosirti e tutto andrà bene! -
- Grazie… - proferii, non troppo tranquilla.
Solo quando salii sul palco mi accorsi della verità. Quei selezionatori… Erano tutti maledetti Akuma.
Mi sentivo umiliata da morire, ma lanciai uno sguardo di fuoco al Conte che mi guardava da dietro le quinte ed iniziai a cantare. Ci misi tutta la mia buona volontà, anche se era una infame farsa.
Questa era un’altra delle sue dimostrazioni. Come al solito voleva farmi vedere come tutto dipendesse solo ed esclusivamente dal suo volere. In più, ancora una volta mi sminuiva, facendo giudicare il mio lavoro da suoi alleati che mi avrebbero certo scelta. Ma non perché me lo meritavo, solo perché ero una Noah.
Quando interruppi la mia esibizione, partì un grande applauso e un gran numero di complimenti. Feci un mezzo inchino, arrabbiatissima, mentre mi apprestavo per lasciare il palco. In quel momento chiamarono un’altra candidata, ma una voce li fermò:
- Un’altra!? Non ne vedo la ragione! -
Mi voltai e vidi un anziano vestito in maniera impeccabile, con dei baffoni impomatati e un’aria imperiosa che ne faceva dedurre il potere decisionale. Era sicuramente umano.
- Ma signor impresario… Tutte le altre candidate… - biascicò un Akuma che aveva l’aspetto di un giovane musicista.
- Io non ho dubbi! –
- Neanche noi… - tentò di ribattere – Ma non possiamo sospendere le audizioni… -
- Per quale ragione…!? Non sono io a decidere!? –
Uno degli Akuma si stava agitando e dava l’idea di voler aggredire l’impresario. Io mi voltai verso il Conte e gli feci un chiarissimo cenno di diniego. Lui mi guardò male, poi semplicemente sollevò le spalle e schioccò le dita. Subito l’Akuma si calmò.
- Signorina! – esclamò il padrone della compagnia.
- Ditemi, signore! – esclamai verso di lui, facendo un profondo inchino nella sua direzione.
- Il vostro nome! –
- Victoire Villois. –
- Bene, signorina. Complimenti per la vostra abilità canora! Siete ufficialmente la sostituta della soprano! –
- Vi sono immensamente riconoscente, signore. –
- Grazie a voi! Ora venite! Vi porto a conoscere tutta la compagnia! –
- Certo! – e scesi dal palco quasi di corsa, lanciando al Conte un’occhiata di sfida.
Mi ero guadagnata quel posto con le mie forze. Era un vero dono dal cielo che mi permetteva ancora una volta di sentirmi più serena. Non era dipeso dal Conte, ma quell’uomo mi aveva scelta di sua spontanea volontà.

In quell’occasione la soprano non ebbe alcun problema e riuscì a portare a termine l’intera serie di rappresentazioni. Quando la compagnia scelse una nuova opera da portare sulla scena, però, il signor Galeazzo Retino, l’impresario appunto, mi chiese di restare ancora per essere la sostituta. Addirittura, dato che il direttore d’orchestra aveva notato nelle prove qualche mio difetto nei vocalizzi, mi pagò un maestro di canto per sviluppare il mio stile. Anche se, quando dissi che non avevo avuto alcun vero insegnante prima d’ora, nessuno ci credette. 
- Impossibile! – scosse la testa il maestro dopo qualche lezione – Davvero! Nessuno può imparare a cantare in questo modo senza aver frequentato una scuola! Sarebbe solo e soltanto un miracolo! -
Spalancai gli occhi: - Cosa avete detto, maestro!? –
- Victoire, un simile dono naturale può essere solo un miracolo! Volete ora dirmi per favore il nome del vostro precedente insegnante…? -
Mi misi a ridere, felice.
- Perché ridete…? -
- Nulla. Nulla davvero. –
Ma il mio cuore era pieno di gioia. Quello era l’ultimo dono che Dio mi aveva concesso prima di lasciare la pace della vita per la guerra con il male…

Qualche mese dopo, Gabriella Sentrioni, la soprano, si sentì male.
In quel periodo eravamo quasi diventate amiche: non era per nulla montata o dispotica come in genere si addice alle primedonne. Solo che quello che avvenne dopo mi lasciò sconvolta.
- Conte! -
- Dimmi, Vivy! – comparve con il suo solito sorriso tatuato sulla faccia.
- Ditemi che non siete stato voi! –
- A fare cosa esattamente…? –
- A tentare di avvelenare Gabriella! –
- Chi sarebbe…? –
- Non prendetemi in giro! – fuori di me, battei la mano più forte che potevo sullo scrittoio della camera dell’albergo – La soprano! E’ stata male questa notte e afferma di avermi vista versare del veleno nel suo bicchiere! Voglio sapere cosa significa! –
Anche se chiaramente si divertiva da morire a vedermi arrabbiata, pensò che non era il caso di peggiorare le cose girando intorno alla questione.
Prese un’aria da cospiratore: - Credi davvero che avresti mai potuto recitare davvero con quella sempre davanti…? –
- Questo cosa c’entra!? Questo non giustifica un bel niente! -
- Sai la verità, Vivy? No, ma te la dirò io. Gabriella sa benissimo che non sei stata tu a versare quella sostanza nel suo bicchiere. –
- Cosa…? – scossi la testa incredula.
- In realtà ammetto che la proposta di questa truffa è partita dal mio Akuma, ma lei ha accettato immediatamente. Vedi, tu stavi cominciando a diventare troppo pericolosa per lei e del resto Retino stravede per te. Così un mio Akuma è andato da lei offrendole la maniera di metterti fuori gioco inscenando un tentato omicidio. –
- Basta! Smettetela! Io mi fido di Gabriella, non l’avrebbe mai fatto! –
- Puoi non crederci. Ma presto saprai la verità. –
- Cosa significa? –
- Non vorrai mica perdere il tuo posto qui per queste accuse infondate…? Presto il mio Akuma si recherà alla stazione di polizia ammettendo la sua complicità. In questo modo sarai scagionata ed otterrai grande pubblicità. Nonché il posto di primadonna… -
- NON VOGLIO! –
La Paura mi avvolgeva come una coperta fredda. Tremavo dalla testa ai piedi e avevo assunto senza accorgermene i terribili colori dei Noah. Le mie mani erano grigie come nella morte, strette convulsamente una sull’altra e certo i miei occhi erano diventati  gialli e la mia fronte si era coperta delle cicatrici.
Io mi ero fidata di quella donna di enorme abilità e altrettanto grande esperienza. Mi aveva trattata bene, mi aveva consigliata e aiutata, quasi protetta. Ma in realtà nascondeva la gelosia e la crudeltà nel suo animo. Ancora una volta gli esseri umani erano riusciti a farmi paura. E a provocare il mio odio più nero.
- Così, Vivy! Vedi che riesci a capire quanto vale l’umanità che tanto pretendi di amare!?-
Il Conte batteva le mani, pieno di allegria.
Lo spettacolo odioso di quell’essere che gioiva, mi permise di riprendere abbastanza controllo da stringere la mia piccola croce appesa al polso. Piano, con calma, il mio animo si placò e infine ripresi il mio aspetto umano.
- Umh… - commentò lui – Sempre la solita storia… Si può sapere come riesci a sottrarti alla Paura…? -
- Credendo che qualcuno, in questo mondo creato da Dio e segnato dal suo volere, sia pulito e buono. –
Respirai profondamente e mi rimisi a sedere composta, rilassando la tensione.
- Pulito come te…? – sghignazzò.
- No. –
- Già, tu non puoi esserlo. –
Neanche questa volta permisi che mi stuzzicasse e risposi: - Non pensavo a me. Ad altre persone…  Al signor Retino, che mi ha difesa davanti a tutti nonostante mi conosca da così poco... A Bookman, che mi aveva messa in guardia per proteggermi… A… - mi bloccai.
- …a quei due giovani che hai ospitato nella tua cella… - terminò la frase il Conte.
Impallidii e abbassai lo sguardo.
- Sei un’illusa… - commentò, scuotendo la testa.
- E voi siete un maledetto bastardo. –
L’insulto mi venne così spontaneo da lasciarlo per un attimo senza parole.
- Oh, che offesa! Incredibile sentirti dire una cosa simile a cuor leggero! Come se sapessi che ho ragione! -
- Non osate mai più fare qualcosa di simile per me. – alzai di nuovo gli occhi fissandolo ostile – Non lo sopporto. –
- Va bene, va bene… -

Debuttai come primadonna la sera dopo. Fu un’esperienza incredibile e immensamente gratificante, ma non abbastanza da farmi dimenticare come vi ero arrivata. Il mio ego usciva decisamente glorificato da quel momento, ma non tanto da godere di quella gioia senza vedere me stessa come una pedina del “Costruttore” che era stata semplicemente ricondotta sulla via da lui voluta…

Era evidente che sarebbe prima o poi arrivata la conferma della mia impressione...

Era la quinta serata, una domenica di grande pubblico e biglietti esauriti.
Nei giorni precedenti l’ansia si era attenuata e ormai ci avevo fatto quasi l’abitudine, eppure quel giorno era terribile, peggio del solito. Un nervosismo incontenibile mi pesava sullo stomaco. Forse era colpa del Conte, che dal giorno in cui aveva confessato la vicenda di Gabriella non si era più fatto vivo. Era strana e molto angosciante questa sua assenza.
Lo spettacolo andò molto bene e non ci furono imprevisti. Fu veramente fantastico. Ero stata sommersa di complimenti. Tantissimi avevano addirittura detto, ma dubito ci fosse da crederci, che la mia era la Violetta migliore che avessero mai visto. Tutto era perfetto, ma non riuscivo a togliermi quell’impressione da addosso.
Ad un certo punto, Retino mi chiamò per andare a incontrare alcuni ospiti importanti della serata che volevano complimentarsi. Erano nobiluomini che sovvenzionavano il teatro e la compagnia. Anche loro mi elogiarono fino all’adulazione, ma nascosi il mio fastidio con sorrisi falsi. Quando infine se ne andarono, tentai di tornare al camerino, ma Retino mi trattenne. Era talmente entusiasta che voleva parlare immediatamente della prossima opera da portare sulla scena. In effetti era anche comprensibile: i due ricchi signori gli avevano appena messo a disposizione una cifra esorbitante.
Poi, all’improvviso, mi si fermò il cuore.
Un giovane era appena sceso dalla scalinata delle balconate. Il volto sottile e serio, la carnagione scura, gli occhi neri affilati ma espressivi, i mossi capelli neri pettinati con cura all’indietro e un elegante piccolo neo sotto l’occhio sinistro. Vestiva un completo impeccabile, probabilmente di seta, con il colletto bianco della camicia che ne usciva in un decoro elaborato. Al braccio teneva un soprabito nero e stretto in mano un cilindro.
Era il ragazzo più bello che avessi mai visto.
Il problema era che non si trattava per nulla della prima volta che lo vedevo.

L’impresario vide la mia espressione smarrita e si voltò indietro educatamente. Non ci mise più di un secondo a capire chi stavo guardando.
- Lo conoscete, Victoire? – mi sussurrò all’orecchio mentre quello si avvicinava a noi timidamente, facendosi strada tra la calca.
- Non ne sono sicura. -
Certo che sapevo chi era. Nessuno avrebbe mai potuto riconoscerlo, vestito in quel modo, senza quegli strani occhiali sul naso. Ma io sapevo perfettamente che era lui. Quel giovane operaio che con la sua sfacciataggine, ma anche con quella gentilezza tutta strana, mi aveva permesso di sentirmi più a mio agio nel mondo.
Prima che diventassi una Noah... Prima che lo diventasse anche lui…




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Eccomi qua dopo le vacanze! XD

Ancora tanti ringraziamenti a Lady Greedy: mi dispiace, ma non so quanto spazio riserverò ai cari JD, però terrò conto della tua preferenza... Spero che il capitolo ti

piacerà anche se è dal punto di vista di Victoire... Del resto il reincontro è sempre più vicino, quindi... ^_^

Ringrazio anche due mie amiche non iscritte, che però hanno letto la fanfiction e mi hanno per fortuna dato pareri positivi: grazie mille a Seles-chan e ad Ari...

Lo so che questa è una fanfiction tutt'insieme un po' tranquillina (molto "peace and love"), in generale abbastanza psicologica e specialmente si prospetta parecchio lunga...

Però per favore, se la leggete lasciatemi almeno due righe... Almeno mi sento più motivata... Grazie!

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Capitolo 7
*** VI - Remember and forget ***


Capitolo 6

Remember and forget


“Nel cogliere il frutto della memoria si corre il rischio di sciuparne il fiore.”
(J. Conrad)






Mi aspettavo che arrivasse su di noi come un uragano improvviso, determinato, saldo, sicuro e implacabile e io non facessi neanche in tempo a capacitarmi di quello che avevo visto, della sua presenza. Sarebbe arrivato subito a salutarmi, a venire a conoscere la sua cugina appena arrivata, mi avrebbe proposto il suo solito sorriso sghembo da ragazzotto furbo, anche se condito di mille maniere e forse di allusioni alla famiglia, mettendomi per divertimento in seria difficoltà con il mio impresario. Credevo decidesse di fare un’entrata in scena clamorosa e spettacolare, come si addice al personaggio che tutti aspettano, ma che resta nell’ombra, per poi arrivare solo all’ultimo sotto i riflettori, sicuro comunque di essere accolto da un applauso scrosciante.
Forse conoscevo troppo poco di lui per azzardare simili ipotesi, in effetti.
Al contrario di ogni mia immaginazione, ci guardò qualche momento con curiosità, poi si fermò, come incerto, a pochi metri da dove ci trovavamo io e il signor Retino. Il suo sguardo vagava tutt’intorno per l’androne del teatro, ma con discrezione, e lanciando di tanto in tanto occhiate vaghe e brevi verso di noi.
Quella sua reazione mi lasciò tantissimi dubbi, come logico da parte sua. Mi chiesi se davvero sapeva chi ero. Anche se il pensiero che mi riconoscesse come la suora scorbutica di quella volta mi emozionava e preoccupava insieme…

Retino non si era minimamente scostato. Mi fissava insistentemente e restava impalato di fronte a me:
- Cosa significa che non ne siete sicura…? -
La domanda calò come una pietra sullo scorrere libero dei miei pensieri.
- Quello che ho detto… Io… Potrei sbagliarmi credendo di conoscerlo… - commentai, forse lasciando trasparire in parte la verità, per quanto non lo desiderassi. La mia voce appariva probabilmente più bassa del necessario, ma, poiché continuavo a guardare con la coda dell’occhio il ragazzo alle sue spalle, avevo l’immotivata paura che riuscisse a sentirci.
- Impossibile. Si vede dalla vostra espressione che sapete perfettamente chi sia. - mi interruppe serissimo. Era impossibile per lui comprendere il senso remoto delle mie parole.
Però quel suo commento mi inquietò. Finii per concentrare tutta la mia attenzione sul mio interlocutore, distraendomi infine da quell’osservazione furtiva:
- Che cosa vi vedete? Ho una faccia strana? – chiesi, preoccupata.
- Be’… - si lisciò i baffi con la mano inguantata di nero, assumendo l’aria di chi la sa lunga – Prima di tutto è chiaro che non è la prima volta che lo vedete… Ecco, ne siete come ammirata e ammaliata… Ma non come chi vede per la prima volta un buon partito… Che quello è sicuramente un buon partito, se mi date retta… -
- Lo so… - sussurrai, dando voce ad un pensiero improvviso che mi era passato per la testa.
Il mio capo annuì, sorridendo con gentilezza del mio rossore.
- Date l’idea di averlo aspettato a lungo… E contemporaneamente di essere sorpresa della sua presenza… - ma il suo sguardo si fece scuro - Allo stesso modo credo che lo temiate profondamente, quasi da avere paura di avvicinarlo… Ho ragione? –
Gli sorrisi, ma forse un po’ di amarezza era trasparsa sul mio volto. Aveva pienamente ragione. Questo incontro mi preoccupava più di ogni altra cosa. Fossero stati altri membri della mia famiglia la vicenda avrebbe avuto un’importanza relativa. Ma di fronte a lui, di fronte a Tyki, non potevo assolutamente sembrare inquieta, ma felice. Era necessario.
- Come fate a capire così bene le persone, signor Retino? –
- Signorina mia! – esclamò ridendo di gusto – Potrei spiegarvi per filo e per segno tutti i segnali e le indicazioni che ho letto nella vostra espressione… Ma, per farla breve, dirò solo che sono molto più vecchio di voi e che conosco bene il mondo! – di nuovo si voltò leggermente a studiarlo, poi aggiunse – Devo solo essere sicuro che vogliate che si avvicini... Altrimenti posso difendervi, Victoire… -
Era gentile da parte sua, ma assolutamente fuori luogo.
- No, no. Non ce n’è bisogno, signore. Non è un pericolo per me. E’ solo che mi preoccupa quello che avete detto… Perché vedete, non è questo mio timore che voglio trasmettergli… Non voglio che veda questo in me ora… -
- Voi siete una donna estremamente sincera, Victoire. Non riuscite a nascondere ciò che provate. – commentò sicuro, annuendo tra sé.
- Ma signor Retino… -
- Be’, potete sempre recitare una parte se questo vi rende felice. Ma volete mostrarvi per come siete o per come gli altri potrebbero preferirvi? – aggiunse, risoluto.
Per tutta risposta non potei fare altro che abbassare gli occhi, colpevole.
Scosse la testa, vedendomi così dispiaciuta e soggiunse subito: - Perdonatemi la ramanzina, signorina Victoire. Non conosco neanche cosa vi lega a quel giovane e mi metto a farvi la morale. Del resto sono solo un vecchiaccio vecchia maniera… -
- Non dite così! – esclamai, sincera – Non lo penso per nulla! Anzi, avete ragione! Grazie! –
Lui sorrise gentilmente: - Meno male! Mi fate felice! – poi abbassò la voce – Credo comunque che il vostro conoscente stia aspettando che me ne vada per venire a salutarvi… Ditemi quando siete pronta e vi lascio… -
Non sapevo cosa potesse servirmi o come potermi preparare per questo salto nel vuoto. Per l’ennesima volta maledissi il Conte e i suoi oscuri progetti con i quali riusciva a mettermi sempre in difficoltà. Ormai sapevo con certezza che tutto quello che accadeva intorno a me non poteva mai essere un caso, compresa soprattutto quella situazione.
- Sono a posto… -
- Siete sicura? -
- Non è una cosa che posso rimandare per sempre… - sorrisi, a fatica.
- Potreste. Si può sempre. Ma voi non siete capace di scappare. Siete coraggiosa. –
Fece un inchino elegante e mi baciò la mano: - Buonanotte, Victoire. Ancora lietissimo di avervi nella mia compagnia. –
Mi inchinai a mia volta sollevando con due dita il lungo abito rosso: - Grazie a voi di tutto, Signore.-

Il momento peggiore fu quando Retino si allontanò. A quel punto smisi di fare finta di nulla e guardai Tyki fisso.
Mi sentii incredibilmente stupida a fare una cosa simile, ma davvero non avevo idea di come comportarmi. Un’estranea non aveva certo il diritto di fissare in quel modo una persona… Era indiscreto, volgare, fuori luogo… Ma non potei evitarmelo… Una parte di me voleva disperatamente percepire ogni suo gesto, a costo di soffrirne…
Poco meno di un secondo dopo, anche i suoi occhi scuri si alzarono nella mia direzione. Non c’era più riflessa alcuna incertezza, ma la calma assoluta. Neanche il fatto che restassi lì immobile a guardare nella sua direzione riusciva a scalfire la sicurezza con la quale ricambiava la mia attenzione. Ma non capivo cosa questo significasse… Era un mistero, come sempre…

Mosse qualche passo tranquillo nella mia direzione ponendosi proprio davanti a me. Dal canto mio ero completamente imbambolata a fissarlo, come se sperassi di leggergli addosso la trascrizione dei suoi pensieri.
- Signorina… La vostra interpretazione è stata sublime… Volevo complimentarmi… -
La sua voce era calda, morbida, piena di eleganza, ma con una punta di malizia.
Perché parlava con me o era una sua cadenza fissa?
Si inchinò con molta grazia e infine con la mano destra fasciata da un guanto bianco immacolato prese la mia e se la portò alla bocca per un perfetto baciamano.
Non sapevo davvero che cosa dire, come comportarmi. Tutto quello che stava facendo, benché normale tra la gente perbene, riusciva a confondermi.
Si rimise in piedi e mi guardò. Vide probabilmente una ragazza allibita, sconvolta e in particolare, ne ero certa, rossa come un pomodoro.
Lentamente la sua facciata di perfezione si sgretolò e sul suo viso si affacciò un’espressione stupita e divertita:
- Emh… Vi sentite bene…? -
Riuscii ad impormi di annuire e con quel gesto pian piano la mia mente si riprese dallo shock.
- S-si… N-non preoccupatevi… -
- Meno male… - rise – Sembravate in preda ad un svenimento… -
- Svenimento!? – esclamai, punta sul vivo.
Un sorriso carico di ironia riempiva di un’aria insinuatrice tutto il suo volto.
- Per che cosa, di grazia…? - domandai, offesa.
Cercavo di calmarmi, ma già stavo diventando scortese. Perché aveva quell’innata capacità di darmi ai nervi!?
- Calmatevi… Davvero… Non volevo offendervi… - ma nello scusarsi continuava a nascondere le risa.
- Signore, non c’è nulla di divertente! Non vi siete neanche presentato! –
La frase mi uscì di bocca senza che riuscissi a controllarla. Non ci avevo minimamente pensato e tanto meno avevo già preso una decisione al riguardo, cioè se fingere o meno di essere al nostro primo incontro.
La sua ilarità si spense di botto. Per qualche secondo mi parve di cogliere una strana delusione in quel viso… Poi con un sorriso leggero e molto formale:
- Avete ragione. Vi chiedo perdono. Il mio nome è Tyki Mikk. E’ un piacere conoscervi. -

Non sapevo più neanch’io cosa desiderare.
Avevo a lungo sperato che si ricordasse di me e di quei giorni presso il convento. Anche dopo il “risveglio del sangue”, anche dopo aver saputo di doverlo rincontrare ora che entrambi non eravamo più quelli di prima, anche mentre mi angosciavo al pensiero della maledizione che mi accompagnava. Era un attaccamento furibondo e insensato a qualcosa che non ero più… E che forse non era più neanche lui…Eppure non mi piaceva conciliare quella persona pulita alla me stessa attuale. Era come pretendere di unire la luce al buio. Era assurdo. Io non volevo essere il buio, ma non potevo neanche più sperare di essere la luce. Avevo una battaglia da combattere, ma era una risalita dal baratro. Nell’oscurità totale una fiammella non illumina e viene solo soffocata da quel nero profondo e vuoto. Doveva essere alimentata da zero per rendersi visibile.
Quell’atmosfera che era nata tra di noi così, naturalmente, era tanto simile a quella dei giorni che ricordavo da farmi sperare che non fosse in alcun modo cambiato. Ma era così davvero? No… Per nulla… Un uomo elegante, curato, fine ed estremamente educato, anche se a tratti disinteressato e intimidatorio… Quello sguardo che lanciava intorno non aveva nulla di quella spigliatezza e allegria che mi aveva trasmesso in passato… Metteva quasi paura e il mio cuore la leggeva come l’unica vera prova della sua esistenza da Noah…
Io, dal canto mio, non avevo la forza di tornare alla mia essenza pulita. Avrebbe avuto senso mostrare la mia passata identità? Era un gesto privo di significato in ogni caso. Se sapeva già della mia trasformazione, avrei subito dato l’idea di un pesce fuor d’acqua, una persona che non riesce ad adattarsi alla nuova realtà. D’altra parte, se ancora non ne era al corrente per il classico gioco al massacro attuato da quell’infame del Conte, presto l’avrebbe scoperto in ogni caso…
E che reazione ne avrebbe avuto lui? Impossibile prevederlo. Magari nessuna, magari non gli sarebbe importato, magari era un episodio che aveva dimenticato e che quindi non aveva alcuna importanza, di conseguenza poteva benissimo accantonarlo, come aveva fatto con la sua vecchia vita… E se invece ne conservasse una buona impressione? Si sarebbe arrabbiato? Si sarebbe sentito imbrogliato? E perché? Io stavo fingendo di non sapere della sua nuova identità, del suo legame con i Noah… Potevo fare in modo di mostrarmi stupita di fronte alla scoperta, magari più offesa di lui se fosse stato necessario…
Era assurdo… La mia mente stava esagerando nell’immaginare le situazioni più disparate, ma era il chiaro sintomo del caos che stavo affrontando… Davvero non sapevo più chi o che cosa voler essere per lui…
Ma se tutto questo mi spaventava e preoccupava, nulla riusciva ad angosciarmi quanto il cambiamento repentino che avevo visto un attimo prima nel suo sguardo: ora c’era di nuovo la distanza, abissale e incolmabile. Erano bastate quelle mie parole brusche a chiudere di colpo quell’allegra atmosfera. La sua espressione era ancora interessata, ma gli occhi scuri mi squadravano come una cosa qualunque. Non mi piaceva, non lo sopportavo.

Ed ecco, ancora una volta non potevo in alcun modo presagire la sua reazione… Ero troppo ambiziosa a pensare di giudicare una persona da pochi giorni di conoscenza… E ogni secondo che restavo in sua presenza, mi rendevo sempre più conto della mia difficoltà a capire le sue reazioni, i suoi gesti, le sue parole e tutto quello che dietro di essi si nascondeva…
- Sono stato brusco, ma credevo di avervi già conosciuta… Probabilmente mi sono sbagliato… -
La frase, improvvisa dopo quella brevissima presentazione, ebbe su di me la stessa potenza emotiva di quel baciamano. Probabilmente anche gli stessi effetti, dovuti in parte anche a quegli occhi serissimi e scuri che avevano ripreso a fissarmi, con un’intensità da far tremare le ginocchia.
La mia mente combatteva tra troppe opposte intenzioni. Solo che quell’accenno, che mi convinceva di essere stata riconosciuta, mi spinse anche a sperare di passare in pace quei momenti di sereno rincontro, sapendo che sarebbero durati troppo poco una volta che tutto fosse stato svelato…
Lui non lesse fino a questo punto le mie angosce, ma vide probabilmente solo sul mio volto la stessa stupefatta espressione di poco prima. Tanto bastò però.
Il suo volto si distese e apparve ancora quell’espressione ironica e divertita a colorire un sorriso di sincera simpatia:
- Avete per caso qualcosa da dirmi…? –
- Tyki… - facevo fatica a parlare, ma tentai di giustificarmi, mentendo spudoratamente – Io… Per qualche momento non vi ho riconosciuto… Poi non credevo ricordaste… Quindi… -
Lui non commentò queste parole, ma rise, celando una leggera ironia. Impossibile non sovrapporre il passato e il presente.
- Lieto di rivedervi… Temo di dovermi ancora sdebitare per quelle pagnotte… -
A sentite questa frase per poco non scoppiai a piangere di gioia…

Il Conte non mi aveva mai neanche descritto gli altri membri della famiglia. Eppure mi bastò vederli da lontano per capire chi erano. Erano un gruppetto parecchio bizzarro, è vero, ma non fu questo a convincermi della loro vera identità. Era l’oscurità netta che sembrava seguirli. La stessa aria d’abisso che avevo letto negli occhi del ragazzo che mi stava di fronte, ma che non mi aveva in alcun modo schiacciato duramente come quella che spirava da loro…
Si avvicinarono con cautela, senza fretta, tranne una bambina che sembrava avere circa dieci anni, che balzellava di fronte agli altri.
- Tyki! Cosa stai facendo!? -
Nella sua voce c’era una giocosità molto umana, ma anche una certa inquietante malvagità intrinseca. Un brivido mi attraversò la schiena.
Lui sorrise, calmissimo: - Road… Cerca di non fare rumore a teatro… -
La guardai simulando la massima innocenza possibile, anche se intuivo che non poteva essere sufficiente.
I suoi occhi si soffermarono su di me, squadrandomi in maniera insopportabile. E mi sembrò che quel blu così sereno e calmo che li riempiva fosse un’ipocrisia odiosa rispetto al nero della sua anima. Non impiegò più di due secondi a leggere dentro di me ciò che voleva. Ebbi subito una sincera e atroce paura che volesse tradire il mio segreto.
- Insomma, Tyki! Non ci presenti neanche!? – sbuffò poi sonoramente.
- Esatto, esatto! Forza! – esclamarono all’unisono altri due ragazzini del gruppo, slanciandosi nella mia direzione e lanciando una smorfia beffarda al mio interlocutore.
- Si… - sospirò lui stancamente, passandosi con aria distratta una mano tra i capelli scuri.
– Lei è la piccola Road… - con un piccolo cenno alla sua sinistra, dove si era posizionata la strana bimba.
- Piccola!?!? –commentò lei, offesa, ma insieme fece un inchino falsissimo nella mia direzione.
- I due casinisti sono i gemelli Jusdero e Debit… -
- Incantati! – dissero insieme, per poi scambiarsi subito uno sguardo di intesa e una risata complice.
- Quello enorme che sembra una guardia del corpo è Skin… -
- Sgrunt… - fu l’unico verso che provenne dalla sua direzione.
- La signorina vestita da uomo è Lulubell… -
Non pronunciò parola, ma mi porse la mano con un gesto molto autoritario e professionale. Io gliela strinsi, incerta.
Seguì un momento di silenzio. Gli altri Noah guardarono Tyki, ansiosi che terminasse le presentazioni. Lui, per canto suo, mi guardava con aria vaga. Già, non sapeva il mio nome…
Così dovetti introdurmi da sola: - Ehm… E’ un vero piacere… Il mio nome è Victoire Villois. Lietissima di conoscervi. -

- Come fai a conoscere la signorina Villois, Tyki…? -
Lo chiese immediatamente, ma con un’aria assolutamente innocua, che in ogni caso mi apparve falsa proprio come il suo aspetto di bambina.
Lui sorrise, gentilmente, tarando con dovizia le parole: - L’ho conosciuta molto tempo fa e le sono debitore per la gentilezza che mi mostrò in una situazione di bisogno… Sono lieto di averla ritrovata qui, per entrambi in circostanze decisamente diverse dal previsto… - poi si abbassò a guardarla negli occhi e aggiunse, come per un avvertimento – Questo è quanto devi sapere, Road… Ti basti… -
- Uhm… - bofonchiò, fissandomi in maniera estremamente esplicita.
Sentivo che stava per dire qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. Aveva una gran voglia di farlo, glielo si leggeva in faccia. Stava giocando con le mie emozioni con un’abilità paragonabile a quella del Conte…
Ma sorrise, crudele: - Siete stata fantastica sul palco… -
Non lo pensava davvero. Adulazione, pessimo vizio.
- Grazie mille! – ma ero sicura che il fastidio fosse filtrato sul mio volto.
Tyki passò lo sguardo sulle nostre espressioni aggrottando le sopracciglia, ma poi scrollò le spalle.

- Signorina Victoire. -
La sua voce era galante e profonda. Mi voltai nella sua direzione un po’ frastornata:
- Ditemi… - stavo per chiamarlo per nome, proprio come aveva appena fatto lui in effetti, ma per qualche ragione non mi sembrò appropriato e tacqui appena in tempo.
- Avete degli impegni per questa notte…? –
Presumibilmente arrossii fino alla punta dei capelli. Sembrava una proposta indecente!
Sgranò gli occhi alla mia reazione, totalmente ignaro del suo sbaglio.
- Si vede che vai solo a donnacce, Tyki! – sibilò ridendo uno dei gemelli, ma a voce abbastanza alta perché lo sentissimo entrambi.
- No, no! – esclamò allora, ma l’altro lo superò in tono ridendo scompostamente: - Tyki pervertito… Ihhhhh-ihhhh!! –
- Sul serio! Non volevo offendervi! – era imbarazzato ma il suo volto non mostrò alcun rossore – Volevo solamente chiedervi se vi andrebbe di andare a bere qualcosa… Ma solo se vi fidate, se questa richiesta non vi mette in difficoltà, se non avete altri programmi… -
Road saltò su subito, pimpante: - Ma Tyki, che ne sarà del nostro appuntamento!? –
Lui, per tutta risposta, cominciò tranquillamente ad infilarsi il soprabito: - In ogni caso, non ho nessuna voglia di aspettare ancora i comodi del nostro accompagnatore… Quindi andrei comunque a farmi un giro… - poi mi sorrise, riuscendo ad eliminare ogni possibile ironia o malizia dal suo volto – Solo preferirei non andare da solo… E fare così qualche parola ricordando i vecchi tempi… -
Sorrisi a mia volta, anche se un po’ inquieta, giusto per mostrare che non ero per nulla offesa dalle sue parole di poco prima…
Stavo per rispondere, quando Road sentenziò: - E noi dovremmo aspettare!? Possiamo anche farlo, ma saresti tu la persona che deve davvero restare qui! –
- L’ho già detto. Questa storia dell’incontro a sorpresa non mi interessa. Avrei potuto sopportarlo se ci fosse stato almeno un briciolo di rispetto da parte loro. Dato che ci mollano qui ad aspettare non sappiamo neanche cosa, io ho fretta e me ne vado. -
C’era qualcosa di netto e glaciale in quelle parole. Era rabbia. Ma non nel senso umano del termine…
Ma Road insisteva: - Non puoi! E’ importante che tu resti a conoscere la tua fidanzata! Se ha detto che arriverà, bisogna solo attendere! –

Era assurdo come quella frase avesse fermato il tempo…
Avevo già capito che stavano aspettando qualcuno. Avevo pensato che fosse il Conte, proprio come lo attendevo io. Ma stavano parlando di una ragazza… Una persona designata con il termine “fidanzata”… Fidanzata di Tyki…
Era possibile che si trattasse di un’altra persona? Poteva essere un comune essere umano? Quante altre Noah potevano trovarsi per caso o per abile macchinazione in un teatro?
Oppure il Conte stava di nuovo tentando di farmi impazzire? Magari aveva invitato questa “fidanzata” a teatro dove mi trovavo io proprio per sbattermi in faccia il fatto che io non avrei mai avuto a che vedere con la sua vita… Che per l’ennesima volta ero destinata a fare la spettatrice…
- Lo sappiamo che tu vivi solo per il tuo divertimento, Tyki… - riprese lei e si mise a ridere, in modo piuttosto nefasto – Proprio per questo dovresti attendere la tua promessa… Che ne sai, potrebbe essere divertente… -
E mi guardò, nel modo più eloquente di mille parole…
Ora ero veramente preoccupata e quasi spaventata. Io la sua promessa…? Questo era… era… era…
Le lanciò uno sguardo irritato: - Pazienza. Tanto se non si toglie dalla testa questa storia, sicuramente troverà il modo di farmela incontrare anche domani. Per questa sera ne ho abbastanza. -
Poi il ghiaccio nella sua voce si sciolse e si voltò verso di me:
- Ditemi, venite con me…? -
- Si… Va bene… - pronunciai con calma – Vado a prendere la giacca… -
- Perfetto. Vi aspettiamo fuori. – e appoggiò una mano sulla piccola spalla di Road, spingendola delicatamente verso l’uscita.
Gli occhi blu della bambina mi scrutarono ancora per qualche momento e poi la sua voce risuonò nella mia mente: “Le bugie hanno le gambe corte, Vivy… Dovresti saperlo…”
Mi morsi il labbro e trattenni a fatica la Paura che con quel’odioso gioco psicologico tentava di risvegliare…

Non voleva una fidanzata… Se io lo fossi diventata, automaticamente avrei rappresentato un peso e un’imposizione scomoda per lui. Mi avrebbe tenuta lontana, magari mi avrebbe odiata…
Il pensiero mi straziava…
Quante possibilità c’erano che mi accettasse quale Noah? Era impossibile prevederlo, visto come riuscisse a sbalordirmi continuamente.
Quante che decidesse di seguire i dettami del Conte? Vista la sua reazione, pochissime.
Quante che prendesse sul serio il fatto di avere una fidanzata? Probabilmente nessuna.
Quante che potesse provare qualcosa per la sua promessa…?
Potevo sperarlo, ma dipendeva solo da lui e dall’oscurità con la quale conviveva…

Corsi al camerino più veloce che mai. Raccolsi le mie cose nella borsa alla rinfusa e mi infilai la lunga giacca marrone. Passai di fronte allo specchio, diretta alla porta… Poi cedetti alla vanità e mi specchiai… Il mio volto era un po’ arrossato dall’emozione e dalla frenesia e i miei occhi verdi erano pieni di aspettative inutili…
Dopotutto ero ancora una ragazza, per tanto tempo rimasta lontana dal mondo e che ora vi stava rientrando… Per poi uscirne nuovamente, presto o tardi…
Eppure non riuscivo ad evitarmi di immaginare una poltrona foderata di rosso in un locale elegante. Noi seduti uno di fianco all’altra, ma girati lievemente per guardarci negli occhi. Due bicchieri di cristallo in mano e qualche musicista su un palchetto a suonare. I ricordi di quei momenti avrebbero riempito la serata: avremmo riso delle nostre diatribe di quei giorni e gioito del rincontro, magari lui mi avrebbe raccontato di Iizu e io gli avrei parlato del mio lavoro. Non gli avrei chiesto nulla della sua nuova vita, ma lui l’avrebbe certo tirata in causa e, credendo che io non sapessi nulla, mi avrebbe raccontato una tonnellata di bugie… Avrei fatto finta di nulla, le avrei accettate come la verità, giusto per dimenticare la realtà che avevamo intorno… E se fosse stato necessario ne avrei raccontate anch’io, solo per passare qualche ora in pace…
Se poi ogni cosa fosse finita male, almeno avrei avuto quei momenti di serenità da ricordare… Per credere… Per sopravvivere…

Quando uscii dal teatro non vidi nessuno davanti alla porta a vetri.
Mi guardai intorno, nervosa, stringendo convulsamente il manico della mia borsa.

Poi, da un angolo poco lontano, spuntò un ombrello, il SUO ombrello, con in cima quella petulante testa di zucca, e una mano grigia somigliante più ad un fascio di tentacoli…
Mi crollò il mondo addosso…

Seguii quel segnale, cacciando indietro le lacrime con tutta la forza della mia volontà. Non volevo farlo, non volevo piangere. Avevo detto che avrei nascosto la mia sofferenza, che mi sarei mostrata felice, anche più felice di quanto potesse mai essere un’oscura Noah, anche a costo di sembrare strana o anomala, non mi importava. Ma aveva ragione Retino… Nella vita reale la mia abilità di attrice si scioglieva come neve al sole…
Svoltai l’angolo e mi trovai di fronte al figura panciuta e gioconda del Conte:
- Oh, eccoti finalmente, Vivy! Benvenuta in famiglia! -
Alzai gli occhi e vidi sei Noah, seri, all’apparenza impassibili, gli occhi da rapace, la pelle grigia e le cicatrici a coronare la fronte. Silenziosi, in attesa di assistere allo spettacolo.
Non impiegai alcun impegno per trasformarmi, per far affiorare la Paura. La mia voce suonò probabilmente dura, ma roca e affranta:
- E’ una gioia far parte della vostra famiglia, adorati parenti… -
Volsi gli occhi a cercare Tyki. I suoi occhi, ora gialli e crudeli, mi scrutarono prima increduli, poi aspri. Infine tutta la sua espressione si deformò sotto l’effetto di un’emozione che non riuscii a comprendere… E comunque non ne ebbi il tempo… In un attimo girò sui tacchi e si allontanò senza una parola nella strada silenziosa che si apriva alle sue spalle…




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Eccomi!
Chiedo scusa per il ritardo, ma ho ricominciato questo capitolo quasi tre volte cercando di scriverlo al meglio possibile... Questo è il risultato... Non ne sono soddisfatta proprio al 100%, ma davvero non avrei saputo fare di meglio... Spero che vi piaccia!!!

Lady Greedy: Ti ringrazio tantissimo per i complimenti!!! Mi rende felice soprattutto l'essere paragonata alla grande Hoshino... Non mi merito tanta gentilezza!!! ^_^ Sono contenta anche che Vivy stia diventando un personaggio così apprezzato!!! In questo capitolo mi sono resa conto davvero di quanto sia difficile descrivere Tyki dal suo punto di vista... Non so per quale ragione, forse perchè in fondo anche lei, a modo suo, è una persona disperatamente complessa... Davvero usi anche tu quel soprannome!? Credevo non esistesse... Quando mi è venuto in mente ( e mi è piaciuto perchè aveva una strana assonanza con "Tyki", a parte l'accento sulla "y" finale), ho fatto una fatica a trovare un nome proprio che fosse ricollegabile!

Freija
: Grazie mille per i complimenti!!! Anche perchè sei stata gentilissima a lasciarmi commenti in tutti i capitoli, anche se li hai trovati pubblicati insieme!!! Grazie davvero!!! Io in effetti ho già scritto una fanfiction su un videogioco, ma l'avevo pubblicata su un forum quasi un anno fa... Emh... Diciamo che forse ho fatto la grandiosa dicendo che era la prima in assoluto... Ma certo è la prima volta che pubblico su un sito esclusivamente di fanfiction... ^_^

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Capitolo 8
*** VII - I Don't Care ***


Capitolo 7

I Don’t Care


“Non si scopre la verità: la si crea.”
(Antoine de Saint-Exupéry)




 

Camminavo senza meta da un po’ di tempo, non sapevo quanto.
Me ne resi conto improvvisamente, come se prima quell’azione non mi riguardasse. La mia mente era del tutto vuota, quindi non poteva essere stata questa a determinare l’azione… Qualcosa muoveva le mie gambe istintivamente, in quel passo spedito e nervoso. Qualcosa che mi percorreva dalla testa ai piedi e sentiva il bisogno di sfogarsi… E soprattutto qualcosa che andava a scuotere una parte del mio interiore che ero sicuro di non avere più…
Mi bloccai di scatto.
Avevo addirittura il fiatone dopo quella lunga e veloce camminata. Mi guardai intorno. Era un vicolo buio e vuoto, leggermente sudicio. Mi affacciai da quella strada stretta e studiai per qualche momento le vie che vi si incrociavano. Non riuscii a riconoscerne neanche una… Mi ero perso…
Sbuffai, cercando di ignorare il respiro ancora affannato. Fingevo che tutto fosse normale…
Estrassi dalla tasca una scatola di fiammiferi. Sfregandolo, il pezzetto di legno si bruciò ma non si accese. Imprecai a denti stretti.
Dannazione, in veste da Noah non lo facevo mai. Era sintomo di un’emozione forte e improvvisa. Non coincideva con l’immagine calma che dovevo dare… Che poi in realtà ero sempre stato un tipo calmo, giusto…? Ironico, indisponente forse, ma tranquillo, rilassato… Allora qual’era il problema!?
Ne estrassi un altro e impiegai tutte le mie energie per evitare di spezzarlo dalla rabbia. Questa volta si accese normalmente. Mi misi in bocca la sigaretta e vi accostai il fiammifero. L’odore del tabacco mi calmò lievemente e, strano a dirsi per qualcosa che danneggia gravemente i polmoni, mi permise di riprendere un respiro regolare.  
Lanciai uno sguardo per terra: peggio di un immondezzaio… D’altra parte, cosa mi aspettavo? Problemi della lavanderia. Scrollai le spalle, posai sul lastricato il mio mantello ripiegato e mi ci sedetti sopra. La buona vecchia indifferenza, compagna di mille giornate da Noah. Stavo rinsavendo.
Potevo solo aspettare che mi venissero a prendere…

Me ne ero andato come un ragazzino offeso…
Ma offeso da cosa?
Inutile prendersela a causa del “capo”. Non era certo la prima volta che il Conte mi mostrava la sua immensa abilità nel gestire ogni singolo attimo della mia esistenza. I suoi scherzi erano sempre di pessimo gusto e immaginavo che si fosse divertito da morire a guardare quelle scene. Ma pazienza, non era una novità…
Non ero arrabbiato con il Conte, credevo, o almeno non più del solito.
Arrabbiato, poi? Si trattava di rabbia?
Allora non potevo essere arrabbiato con lei.
Cosa mi aveva fatto di male…? Non c’era nulla di male. Alla fine, veramente, non c’era proprio più il male, nella mia mente intendo e anche quindi nella realtà che essa aveva di fronte.
Di certo non provavo rabbia nei suoi confronti. Anzi, tentai di auto-convincermi di non provare assolutamente nulla. Niente poteva scalfire un Noah. Addirittura, avevo sbagliato fin dall’inizio ad interessarmi a quell’opera e a quella ragazza, punto.
Eppure non potevo nascondere di essere turbato, irritato…deluso…
Delusione, poi?
Sospirai cercando di mostrare ancora la mia serena noncuranza, come se mi trovassi di fronte ad un pubblico a cui dovevo un determinato atteggiamento. La verità era un’altra. Se non mi fossi controllato, di certo avrei continuato a camminare a vuoto per ore sfogando in qualche maniera oscura quella “cosa” ed evitando addirittura di darle un nome.
Non aveva importanza! E non volevo dargliene!

Passò un buon quarto d’ora.
Avevo già fumato tre sigarette di seguito, cercando di rilassarmi, ed ero ormai alla quarta. L’effetto positivo di qualche momento prima era bello che svanito. Appoggiato al muro gelato, sbuffavo tra me e guardavo il cielo nero… Neanche una dannatissima stella da osservare! Dove diavolo erano finite!?
Ma così non andava bene per nulla… Tutta la mia irritante calma dov’era finita…?
Sorrisi tra me. Certo che avevo davvero qualcosa che non andava.
Per certi versi era come se fossi tornato indietro nel tempo, nei giorni dopo il soggiorno segreto a quel convento. Anche allora avevo un solo determinato pensiero nella mente. Mi rendeva nervoso, suscettibile, quasi sognante… Quello non ero io… E più ci pensavo più mi rendevo conto che non c’era nulla di salutare, eppure continuavo in quel modo, come se ne fossi dipendente.
Come ora non volevo giustificare la presenza di quel pensiero fastidioso dandoci un nome, allora, invece, non avevo neanche potuto denominarlo. Perché, come Iizu mi aveva ricordato troppo tardi, non le avevo neppure chiesto come si chiamasse…
Ora lo sapevo: Victoire Villois, meglio nota come Vivy, a detta del Conte…

E va bene, tanto valeva ragionarci. Al diavolo questa simulazione! Certo che ero curioso di capire cosa accidenti mi aveva fatto percorrere chilometri a vuoto, mollando quattro a zero tutti quanti! Tanto cosa avevo da fare in quel momento…? Cosa avevo da perdere…?
Estrassi la quinta sigaretta e la accesi. Presi una bella boccata e iniziai a ripensare a tutto ciò che era appena accaduto.  

Il Conte mi aveva obbligato ad andare a teatro per incontrare la mia nuova fidanzata, la donna che dovrei sposare. Avevo assistito ad un’opera lirica e mi ero interessato ad una giovane soprano che assomigliava in maniera particolare alla suora che aveva salvato la vita a Iizu. Questa ragazza si era rivelata essere davvero la persona che credevo, ma non solo, anche la mia promessa, una Noah…

Detto così sembrava stranamente perfetto. Non solo perché si trattava di una grande dimostrazione di arte da parte del Conte, ma anche perché appariva a prima vista la soluzione più positiva per me.
Mi ero o no preso una sbandata per lei quando ero ancora un normale essere umano? Certe cose, mi era già stato mostrato, si erano mantenute stabili anche dopo il famoso “risveglio del sangue” ed in effetti non ero certo diventato insensibile a quella ragazza. Me ne ero dimenticato a lungo, era vero. Ma ciò non significava che non mi fossi subito ricordato di lei. Del resto era ancora bellissima, fiera, un po’ suscettibile, ma perfetta…
Inutile girarci intorno, dato che ormai io non ero più un santo e lei non era più una religiosa… Ero incredibilmente attratto da lei. Anche più di allora. Era talmente evidente che mi dava fastidio ammetterlo… Ancora una volta la mia impassibilità impallidiva…
Quindi l’idea di sposarla… Insomma, non mi dava fastidio. Come imposizione non era neanche così pesante, in fondo… Mi sarei legato ad una mia parente, come voleva il “capo”, e magari ne sarei anche stato contento…
Fin qui tutto bene…

Il problema era quella “purezza”…
Una cosa del genere non mi era mai interessata nella mia vita “bianca” e tanto meno era importante adesso. Eppure l’avevo percepita e faceva parte delle cose che mi avevano colpito di lei, ora come allora. Era possibile che avessi visto tutto ciò anche poco prima della sua trasformazione in Noah? Si, in effetti. Aveva qualcosa di incredibilmente pudico nonostante l’abito rosso e lo sguardo aperto.
Allora o i conti non tornavano o mi stavo convincendo di qualcosa che non esisteva. Delle due una.
Era del tutto inconcepibile una qualità simile assegnata ad una Noah.
Poteva anche non aver ancora perduto le sue virtù umane. Questa poteva essere la spiegazione. Ma se le possedeva ancora era comunque destinata a perderle. Inutile pensarci, inutile ritenerle necessarie.

Eppure ero scappato.

Tossii, come se il fumo mi fosse andato per traverso. La sesta sigaretta era forse un po’ eccessiva.

Assolutamente no. Quella non era una fuga. Era un istinto improvviso di allontanarmi da lì.
Ero stato eccessivo a designarla come un’emozione. Io sapevo controllare le mie emozioni. Soprattutto quando ero in vesti “nere”. Non c’entrava niente…
Forse…
Oppure, non mi piaceva pensare che lei, la donna più pulita che avessi mai visto, fosse una creatura “nera”. Come se fossi ancora semplicemente quel giovane operaio squattrinato. Come se non condividessi quel sangue oscuro con lei.

Assolutamente no.

- Ti sei offeso, Tyki-pon…!? -
Qualche momento dopo la voce allegra del Conte vibrò nel vicolo scuro.
Sorrisi malignamente.
- Offeso…!? Per cosa…!? -
- Perché non ti ho detto che la tua promessa è anche stata la giovane suora che ha aiutato il tuo amico umano.- anche se la sua voce prese note leggermente cupe nel pronunciare le ultime due parole, per il resto era terribilmente cordiale.
- Non dite assurdità. – fissai deciso i miei occhi in quelli gialli del Conte – Perché mai dovrei essere arrabbiato…? –
- Allora era solo una mia impressione! –
- E’ molto probabile. –
Con la mia più compassata indifferenza, buttai per terra l’ultimo mozzicone e mi alzai in piedi. Raccolsi da terra il mantello e lo scossi solo un attimo. Non era neanche così sporco come credevo.
- Vivy era molto dispiaciuta… -
La sua noncuranza era invece totalmente falsa. Avrebbe dovuto prendere esempio da me.
Mi passai una mano tra i capelli e chiesi vagamente: - Ah. Come mai? –
- Perché non ha capito la tua reazione. Crede di aver sbagliato a non dirti subito che è una Noah.  Invece di richiamare quel passato, ormai del tutto morto e sepolto… -
Una persona normale doveva arrabbiarsi sapendo di essere stata, per certi versi, ingannata. Sapeva già chi ero diventato eppure aveva fatto finta di nulla: prima di non conoscermi e dopo di ignorare la mia nuova vita.
In ogni caso, quando non trovai in me traccia di rabbia o di qualunque altra forma di reazione, neanche della specie misteriosa che aveva mosso i miei passi poco prima, non mi stupii minimamente.
Mi fu semplicissimo sorridere in modo del tutto neutro: - Pazienza. –
- Non sei arrabbiato con lei, quindi, Tyki-pon…? -
- Per nulla. Non sono emozioni che possano riguardarmi, Conte. Non mi interessano. – scrollai le spalle per chiarire il concetto.
- Almeno sei contento della mia scelta…? –
- Umh… Penso di si. E’ una nostra parente... E’ certo una bella donna... –
- …ha perso quel peso di purezza che si portava dietro… –
Era divertentissimo vedere come mi stesse mettendo alla prova. Non mi dava neanche fastidio.  
- Non avete appena detto che per lei quel passato è sepolto…? A voi non credo che riguardi poi tanto. Per me poi non conta nulla. Mi è del tutto indifferente. -
Ancora una volta ebbi la spiacevole sensazione che quell’enorme sorriso plastificato si allargasse a dismisura: - Ne sono lieto! –

Due braccine magre mi strinsero una gamba destra. Non ebbi alcuna reazione.
- Road… - commentai in un sospiro.
Lei mi lasciò e trotterellò davanti a me:
- Non è divertente, Tyki! Potevi almeno far finta di esserti spaventato! –
Aggrottai le sopraciglia: - E tu ci avresti creduto…? –
- Avrei fatto finta! -
- Già… - sorrisi, accondiscendente.
Il Conte rise allegramente: - Volete andare a farvi un giretto!? La notte è ancora giovane! –
- Si, dai! – esclamò, contentissima.
- Se proprio non se ne può fare a meno… - commentai, con sufficienza.
Mi preparai a rientrare tardissimo. Così la mattina successiva non sarei potuto tornare dai ragazzi… Il gioco preferito del Conte…

Road non mi chiese nulla. Un record. Del resto, comunque, ebbi tutto il tempo della passeggiata la fastidiosa sensazione di avere i miei pensieri stampati in fronte. Lamentarsi sarebbe stato inutile, così la lasciai fare.
Non c’era nulla che dovessi nasconderle. Nulla che non sapesse già. Nulla che potesse crearmi dei problemi. La mia mente era di nuovo vuota da impressioni ed emozioni. Indifferente a tutto e tutti.
Rientrai all’alba da quella giornata lunghissima con la sola idea di dormire qualche ora. Nessun bisogno di meditare avrebbe turbato il mio sonno…

Mi svegliai nella perenne oscurità di “casa Noah”. Sbirciai ancora rintontito il piccolo l’orologio a pendolo sul tavolo al centro della stanza e vidi che mancava poco all’orario abituale del pranzo. Mi girai dall’altra parte cercando di riaddormentarmi, ma non mi fu possibile.
Ripercorsi mentalmente le scene dell’unica volta che mi ero azzardato a saltare un pasto in famiglia dicendo di essere troppo stanco… Il Conte si era gaiamente lamentato per qualche ora, impedendomi comunque di riposare… Tanto valeva quindi fare che alzarsi…
Stiracchiandomi scompostamente, aprii la porta sul corridoio e mi trovai subito di fronte subito un’altra persona.
Victoire si voltò di scatto nella mia direzione. Indossava un abito nero diritto, accollato ma che segnava gentilmente le curve. I lunghi capelli scuri erano raccolti da un becco d’anatra, lasciando ampiamente scoperte le cicatrici sulla fronte e gli occhi, che, benché colorati di giallo, mancavano del tutto di malizia ed erano anzi spalancati dallo stupore.
Mi ritrovai comunque ad esitare, più per scrupolo che per altro. Lei invece sembrava non sapere davvero cosa fare. Teneva stretta in maniera alquanto convulsa la maniglia della porta che si trovava quasi di fronte alla mia e non osava più rialzare lo sguardo.
- Buongiorno. – dissi semplicemente.
Mi guardò per qualche momento, stranita, poi cercò di sorridere: - Buongiorno. –
Sembrava cercare le parole per dire qualcosa, ma non avevo intenzione di ascoltare. Sarebbe stata una discussione del tutto inutile. Non mi andava bene che desse così peso a quella mia reazione immotivata della notte scorsa. Tutto quel timore non le era consono. Doveva dimenticare e basta. Come stavo facendo io.
Senza attendere mossi qualche passo per il corridoio, poi mi voltai: - Vado a fare una doccia. Potreste dire al Conte che arrivo più tardi a salutare…? –
Annuì, con decisione mista a meraviglia: - Certo, nessun problema. –
- Grazie. -

Il getto d’acqua mi svegliò del tutto.
Indossai una camicia bianca pulita e ignorai il cravattino che il “capo” aveva fatto lasciare appositamente. Faceva troppo caldo in casa per stringermi quel laccio al collo e, anche se non era molto decoroso, come di certo mi avrebbe fatto notare, preferii lasciare aperti un paio di bottoni della camicia. Tentai di pettinarmi i capelli, ma rimasero comunque parecchio disordinati, come sempre appena asciugati.
Quando arrivai alla sala da pranzo, però, non c’era nessuno.
Rimasi incerto sulla soglia: - Cosa succede…? –
Dalla cucina sbucò un akuma abbigliato da cameriera con in mano un grande vassoio:
- Sua signoria Noah… - fece la voce metallica – Il nobile Conte si è premurato che pranzaste… -
- Si, ma dove sono gli altri…? –
- L’ora di pranzo è passata da diverse ore… -
Sbuffai: - Allora vedi di mandare qualcuno a ricaricare l’orologio della mia stanza, che si è fermato.-
- Sarà fatto immediatamente… Accomodatevi… -
Appoggiò il vassoio sul grande tavolo e fece un gesto verso la sedia posta davanti all’ultima parte apparecchiata del piano.
Mi sedetti di malavoglia. Pranzare da solo circondato da quei “giocattoli” non mi piaceva per nulla. Solo che non avevo molta scelta, ma parecchia fame.

- Conte! –
Per istinto riconobbi subito la voce di Victoire. Eppure da tanto tempo non l’avevo più udita così aspra ed irritata. Dannazione, un’altra volta mi riferivo a quell’inutile passato…
Sbuffai tra me, poi mi voltai a guardarla.
Il suo volto e il suo tono divennero subito più mansueti:
- Emh… Il Conte è qui…? -
Sorrisi elegantemente: - Pare di no. –
- Avete idea di dove sia…? -
Scossi la testa: - No. –
- Capisco. Scusatemi allora. -
Proprio in quel momento stava sbucando dalla cucina la cameriera di metallo con la prima portata. Squadrai con sincero disgusto quella figura.
- Victoire, aspettate. -
Si voltò nella mia direzione, sempre con quell’aria dubbiosa sul viso: - Si…? –
- Avete già pranzato? -
- Emh, in realtà no… -
- Allora fatemi compagnia, per favore. –
Non sapevo se lo stavo facendo a causa di quel silenzio e di quelle entità senza vita, oppure per mettere alla prova la mia impassibilità. O per ultimo perché mi faceva davvero piacere la sua presenza.
- Siete…sicuro…? -
- Si, certo. –
Quando la vidi muovere i suoi passi leggeri nella direzione del tavolo, mi alzai ed andai al posto davanti al mio a scostarle la sedia.
Il rosso vivo che colorò le sue guance fu distinguibile anche sulla pelle grigia della nostra famiglia. Non avevo mai visto una Noah arrossire. Tuttavia si sedette e io avvicinai la sua sedia prima di tornare al mio posto.

Per qualche momento il silenzio corse tra di noi.
Lei era impacciatissima, le spalle in tensione, gli occhi che vagavano per la stanza evitando accuratamente di posarsi su di me. Per canto mio, benché non fosse molto educato, la stavo fissando.
Infine si voltò a guardarmi: - Perché mi fissate in questo modo…? –
Distolsi allora lo sguardo, con una scrollata di spalle: - E voi perché evitate accuratamente di guardarmi…? –
- Vi dà fastidio…? -
- Un po’. – risposi d’istinto, pentendomene comunque immediatamente.
- Vi chiedo scusa. E’ che non so come comportarmi. – disse subito.
Era assolutamente sincera e ancora una volta un rosso fuoco invase il suo viso. Evitai accuratamente che il discorso andasse però di nuovo all’argomento del giorno prima.
- Non vi preoccupate. – tagliai corto e assaggiai il piatto occidentale che mi era stato posto davanti.
Allora guardò con un moto di repulsione la creatura del Conte che le aveva posto davanti il piatto, si sforzò di seguire il mio esempio e assaggiò la pietanza.
- Come vi sembra…? – chiesi.
- E’…buono… - rispose, ma con un leggero brivido.
Sorrisi maliziosamente, benché anch’io soffrissi della stessa insofferenza agli akuma. Vederla negli altri era divertente.
- Non ridete di me, per favore… - disse con una certa asprezza, ma a bassa voce – E’ solo che non sono abituata… -
- Scusatemi l’indelicatezza… - ma una punta di ironia era ancora presente nel mio tono.

Il pranzo andò abbastanza bene. Parlammo vagamente di tutto e di nulla. Non toccammo alcun tasto particolare, ma le chiesi della sua attività di soprano e lei mi interrogò su alcune questioni di casa. Tutto estremamente formale, come alle tipiche riunioni di famiglia.
Eravamo ormai al dolce quando ricomparve il Conte in tutto il suo splendore. Un cappello terribile decorato con le note musicali e una giacchetta preziosa ma striminzita che mi chiedevo come avesse fatto ad indossare.
- Cosa vedo! Sono le quattro del pomeriggio e vi trovo ancora qui a mangiare! – esclamò allegro.
Prima che potessi rispondere, Victorie commentò, irritata: - Vi ho cercato dappertutto… Avevo bisogno di parlarvi… -
- Ti chiedo perdono! Solo che a quanto ho visto entrambi avete il vizio di svegliarvi tardi e io non potevo certo attendere! Avevo degli affari urgenti! Comunque ora sono qui, Vivy! -
SI sedette sul suo solito scranno viola anche se era parecchio lontano da noi.
- Retino vuole portare in scena “La Carmen” e avrò bisogno di parecchio tempo per le prove. Cosa avete intenzione di fare? Mi concederete ancora la camera d’albergo e preferite che venga ogni sera qui? -
- Oh, ma qui! Certo! Ormai sei parte della famiglia! Per forza! Non è così, Tyki-pon!? –
Essere citato in causa così all’improvviso mi colse impreparato.
- Certo, questo è il centro fondamentale della famiglia e tutti i nostri parenti sono i benvenuti. -
La mia classica risposta del tutto neutra.
Vivy mi lanciò uno sguardo che non riuscii a comprendere. Che cosa voleva che dicessi…?
- Allora va bene. Il mio viavai non sarà un fastidio per i nostri parenti…? -
- Assolutamente no! Anzi! Giusto…? – di nuovo verso di me.
- Io non posso parlare al riguardo. Non sto così spesso e così a lungo qui. - risposi in tono di scuse.
- Però qui potrei creare problemi con i miei esercizi vocali… -
Era ormai chiaro anche a me che non aveva alcuna intenzione di restare nella nostra casa. La cosa non mi interessava. Ognuno era libero di vivere dove voleva. E a tal proposito anch’io avevo una cosa da chiedere…
- Ma abbiamo un ottimo pianoforte e un esperto musicista: il nostro Tyki! Aiuterai tu Vivy con i suoi esercizi canori, no…? -
Interruppi questa ennesima scenetta. Ero parecchio stufo di quello scaricabarile. Ignorai la domanda, ma dissi subito:
- Mi dispiace, Conte, ma io devo assolutamente portare avanti i miei affari. Dato che questa notte ho accompagnato Road a fare quel giro, questa mattina non sono riuscito a tornare ai miei compiti. Ho il vostro permesso di stare via per qualche tempo, allora…? -
Il “capo” mi scrutò attentamente, come chi studia una strategia. Pessimo segno.
Poi rispose, gaio: - Certo! Ma ricordatevi che il telefono squilla…! –
Sorrisi, ironico: - … e per i Noah solo una volta… -
Mi alzai e rimisi a posto la sedia: - In questo caso vado a prepararmi, con il vostro permesso… Conte, Victoire… A presto… - e senza aspettare risposta, mi avviai per il corridoio.

Avevo voglia di tornare alla mia vita normale. Forse più del solito. Quei due giorni mi avevano spossato.
Indossai la giacca del completo, il cravattino, il mantello e il cappello. Mi sarei cambiato solo poco prima di arrivare alla cava. Mi stavo già avviando alla porta di Road, quando una voce mi chiamò.
Mi voltai sapendo già chi fosse.
- Ascoltate… Io… - cominciò a fatica.
Qualche ciocca dei suoi capelli corvini era scappata dal fermaglio e scivolava gentile sulla sua pelle scura.
- Perché non ci diamo de “tu”…? – dissi improvvisamente, interrompendo il suo dubbioso tormento.
I suoi occhi si allargarono di stupore.
- Non è così strano. – cercai di spiegare – Solo al Conte è praticamente obbligatorio dare del “voi”, tra noi Noah non è necessario. –
- Mi chiamerai Vivy…? –
Le sue parole ora erano molto più decise. Appariva molto meno intimorita di prima. Da una parte mi faceva piacere, dall’altra mi preoccupava perché non prometteva bene per il seguito.
- Se lo desideri, si. Ma in genere a nessuno piace il soprannome affibbiato dal Conte. -
- Io ero già chiamata Vivy prima di incontrare il Conte. Quindi si, mi fa piacere. –
Sorrise in maniera splendida. Ma pulita, troppo per quelle cicatrici e quel volto colorato di morte.
- Allora è perfetto. -
- Per favore… - mi fermò ancora una volta, aveva capito che stavo cercando di sfuggirle.
- Dimmi, Vivy. – c’era una leggera impazienza nel mio tono.
- Io volevo chiederti perdono per quelle scene di poco fa con il Conte. Io e lui abbiamo… emh… un rapporto un po’ tormentato, ma mi è dispiaciuto che abbia tentato di metterti in mezzo. –
- Non importa. – risposi subito, netto.
- Beh, anche per quella reazione a causa della tua risata. Solo stata fastidiosa, immagino. –
- Non importa. –
- E poi…per ieri sera… -
- Non importa. –
- …non volevo ingannarti… E’ solo che quando mi hai riconosciuta io non me la sono sentita di parlare della famiglia… -
- Non importa. –
- Ma io… -
- Non importa, te lo ripeto. –
Tutta la mia indifferenza regnava in quelle due parole e me ne lasciai trasportare: - Non mi importa niente di ciò che è stato. Il passato è ormai morto. Non ha alcun modo di influenzare il presente. Quindi qualunque cosa abbia a che fare con il passato, dalle azioni più recenti a quelle più remote, non può essere un problema. Per cui non devi preoccuparti riguardo a nulla. -
Pronunciai quelle frasi senza alcun ripensamento o alcun peso. Credevo che rinnegare tutto ciò che era stato mi sarebbe pesato, ma non avevo percepito alcun rimorso. Solo dovetti impegnarmi per distogliere lo sguardo dal volto desolato di Vivy.
Il Conte mi aveva lasciato intuire che fosse stata lei la prima a dire quelle cose. Io le avevo solo imitate, infondo. Ma il volto terreo diceva tutt’altro. Possibile che invece a lei facesse così male sentirsi dire una cosa simile…? Mi nutrii del mio disinteresse e ignorai la domanda retorica.
Le voltai le spalle e sentenziai:
- Non ha senso restare attaccati con le unghie a ciò che non torna. Se vuoi essere una vera Noah devi dimenticare il passato e vivere per le uniche due dimensioni che ci appartengono, il presente e il futuro. A me non interessa altro, anche per te dovrebbe essere così. -
Poi, mi girai quanto bastava per posare gli occhi su di lei. Il suo sguardo era fermo deciso, fermo, quasi bruciante, la sua espressione fredda, la postura rigida e formale.
- Spetta a me decidere in che dimensione vivere, Tyki. -
Non potei evitarmi di ridere sonoramente:
- I miei sono solo consigli! -
Mi avviai verso la fine del corridoio senza più voltarmi indietro: - Ci vediamo presto, Vivy. –  con un cenno della mano
- Già. A presto, Tyki. –
La sua voce era di nuovo cupa e desolata… Ma non mi importava…





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Eccomi! XD 
Tentare di ragionare come Tyki mi è veramente difficile… Spero però di essere riuscita a rendere almeno un po’ ciò che credo potrebbe pensare in una situazione simile… Dato che sono eventi del tutto lontani dallo svolgimento della vicenda originale, sono tormentata dall’idea di finire OOC! Datemi il vostro parere: sto esagerando? Sto uscendo dal seminato? Anche perché dovete tenere conto che più la storia andrà avanti, più il rischio di snaturare il personaggio sarà grande (anche se io metterò tutta la mia buona volontà per non farlo)…
Ilmprossimo capitolo è dal punto di vista di Vivy… Non le sarà semplice fare i conti con quel comportamento oscuro… Continuate a seguirmi, please… ^_^

Lady Greedy: spero di essere riuscita a farti comprendere i motivi per cui l’incontro non è stato felice come si poteva presagire. Il rapporto tra loro si muove tra il “bianco” e “nero” ed è quindi difficile per entrambi rapportarsi con le proprie emozioni e la propria identità. Se Vivy non sapeva se mostrarsi o meno, dubbiosa sulla reazione di lui, Tyki era per certi versi del tutto immerso nel suo personaggio: non aveva fatto in tempo a sciogliersi del tutto dalla sua veste elegante prima di scoprire la verità, che gli ha creato più problemi e ripensamenti di quanto pensasse... A questo punto la domanda è: riuscirà davvero a restare indifferente per
sempre…? I miei capitoli, me ne rendo conto, si stanno facendo sempre più netti e definiti, ma mi sforzerò d’ora in poi di evitare il senso di chiusura che hai notato… ^_^
P.S. Mi dispiace ma non ho la possibilità di partecipare alle fiere, per quanto mi piacerebbe molto... Ma ammiro moltissimo i cosplayers: i miei complimenti!!!


Freija: grazie molte davvero per i complimenti!!! E come sempre ti devo ringraziare per l’apprezzamento per Vivy, la mia creatura!!! XD Come vedi Tyki non ha reagito molto bene… Diciamo comunque che come al solito è riuscito a tornare composto… Anche troppo… Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo! ^_^



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Capitolo 9
*** VIII - Back Home ***


Capitolo 8

Back Home


“I migliori rapporti sono quelli di cui si conoscono gli ostacoli, e che tuttavia si vogliono conservare.”
(F.S. Fitzgerald)






Lo vidi svanire nel vicolo deserto. Senza una parola, nel silenzio. Del tutto oscuro, attraverso un abisso buio. Lontano da me, senza alcuna speranza.
Cosa potevo dire in un momento simile? Tutte cose inutili, pietose, stupide.
“Aspetta”? Che cosa doveva aspettare? Me? Perché? Quello che doveva sapere era già stampato sul mio volto scurito e segnato dal sangue della famiglia.
“Mi dispiace”? “Perdonami”? Pietoso e insensato. Avevo fatto finta di non sapere. Avevo mentito. Cosa c’era da dispiacersi, ormai? Chiedere perdono non avrebbe cambiato nulla.
“Perché”? Questa era l’unica parola che avesse senso, ma a che titolo gli avrei potuto chiedere spiegazioni? Cosa rappresentavo in quella circostanza? Potevo accamparmi un simile diritto?
Aveva deciso di andarsene e io tacqui, come era giusto facesse chi ha agito male…

- Ho bisogno di parlarvi, Conte… -
Tutti gli altri Noah tenevano fissi gli occhi rapaci su di me. Non li avevano ancora distolti un momento. Ma più di tutti mi angosciavano quelli della bambina, che leggevano ininterrottamente ogni mio pensiero.
- Si, certo! Dimmi pure, Vivy! – mi rispose, benevolo, anche troppo. Quegli occhietti mettevano in mostra una studiata pietà, atta a farmi sentire una povera sfortunata ragazza abbandonata. …Maledetto…
- Non avete capito. Intendo in privato. – pronunciai a fatica, cercando di nascondere la rabbia che mi bruciava l’animo.
- Cosa può esserci di così privato da non poter essere esposto alla presenza di tutti i nostri famigliari…? – e fece un ampio gesto per indicare nel complesso tutti i presenti.
“Vi comportate così perché non volete parlarne…? Perché vi rode…?” pensai intensamente, sapendo che avrebbe letto questo pensiero privato rivolto a lui solo. Ma ad alta voce dissi semplicemente:
- No, nulla. Niente di così importante. –
- Bene, meglio così allora. Se non c’è nulla che ti turba… - commentò, con un’asprezza non del tutto velata.
Di certo aveva ricevuto il mio messaggio.

Tuttavia irritarmi così e scagliare la mia rabbia contro di lui non serviva proprio a nulla e anzi avrei finito per fare il suo gioco.
Del resto, era certo avvenuto un cambiamento che egli non si aspettava nel nostro incontro. Anche lui era rimasto stupito, per certi versi, da come Tyki si era comportato. Non era opera sua, allora. Eppure non era il caso né di gioire né di badarci troppo: il Conte impiegava sempre molto poco a rimescolare le carte e a far tendere le sorti nuovamente dalla sua parte. Più mi distraevo a crogiolarmi nelle vane speranze, più lui trovava modo di rivolgere ancora gli avvenimenti a suo piacimento…
E cos’altro potevo fare se non seguire lo scorrere degli eventi? In quel momento non avevo alcuna influenza, alcun potere, forse alcun ruolo. Dovevo lasciarmi sballottare dalla corrente fino a quando avessi trovato un appoggio stabile da cui ripartire alla scalata.
Così non feci rimostranze quando andammo tutti a prendere un drink ad un bar isolato, pieno di quelle amate macchine del nostro nobile accompagnatore, e neanche quando quest’ultimo andò a cercare Tyki che non tornava e mi affidò a Lulubell perché mi accompagnasse a casa e poi alla mia camera.
Tacevo ed eseguivo.
Forse anche perché ero decisamente disorientata e desolata. Avevo fatto arrabbiare (ma era rabbia o chissà cos’altro…?) l’unica persona per la quale mi trovavo in quella situazione. Avevo scatenato l’astio di colui che mi poteva aiutare a sopportare quella vita. Adesso sì che ero sola. Uno strumento in balia del Conte.

Quella seguente fu una giornata assurda, della quale non riuscii proprio a capire nulla, se non che potevo solo prendere atto delle cose senza agire, ancora una volta.
Tyki mi aveva salutata, mi parlava, di certo non mi ignorava. Questo era già un buon passo avanti rispetto a tutte le prospettive che mi si erano affacciate alla mente il giorno prima. Non poteva odiarmi se non faceva nulla per evitarmi, mi dissi subito, ingenuamente rincuorata da questa idea. Forse nulla era perduto, neanche con i maneggi del Conte.
Solo che volevo ugualmente parlarne con lui. Volevo chiedergli scusa, volevo spiegare le cose. Non mi sembrava un gesto inutile, serviva soprattutto a fare chiarezza e a non lasciare nulla di nascosto. Stavo tentando disperatamente di imparare dai miei errori: avevo taciuto le cose una volta sola e queste si erano rivoltate contro di me creando situazioni spiacevoli, volevo evitare che capitasse ancora.
Eppure, lui non ne voleva sapere. Era semplice, doveva solo starmi a sentire, permettermi di spiegare. Diventò subito sfuggente, sbrigativo, quasi aggressivo, tranciante. L’ironia più crudele ed infida affiorava dalla sue parole.
“Non importa”. Che cosa orribile da dire: non significa nulla, non vale nulla, non ha significato, non ha qualificazione, non ha necessità. E’ un’espressione vuota. Proprio come il modo in cui lo disse, tante volte di seguito da imprimersi nella mia mente in modo indelebile. Anche quella lieve ribellione che avevo messo in atto contro il suo menefreghismo, oltre a non essere servita a nulla, mi aveva lasciata ancora più stanca e affranta.

Anche perché non mi aveva convinta.
Se non gli fosse importato non sarebbe fuggito da me quella sera. Se non gli fosse importato non mi avrebbe impedito in ogni modo di parlarne. Se non gli fosse importato sarebbe stato lui il primo a dire di metterci una pietra sopra.
Così come non credevo che volesse dimenticare davvero il passato. Quel passato.
Non ne aveva il diritto. Non lo avrebbe fatto.
Se la sera prima sembrava contento di aver rivisto quella stupida suora scorbutica, come poteva il giorno dopo scoprirsi disinteressato ai momenti passati?
Anche ben volesse farlo, non poteva cancellare tutto in una sola notte. Questo potevo almeno sperarlo, anche se ancora una volta dovevo anche accettare l’idea di non conoscerlo affatto. Probabilmente avevo ancora tempo prima di diventare davvero solo una Noah ai suoi occhi…

Ma questi erano semplici pensieri razionali. E io potevo essere certa che lui percepisse le cose come me, come chiunque altro…?

Passò un mese e di Tyki nessuno sapeva nulla.
Io non toccai l’argomento con nessuno e affrontai la cosa con estremo rigore. Non una sola volta colsi nelle parole del Conte o di Road qualche frecciatina, neanche troppo velata, sui fatti dei giorni passati. Ci misi poco ad imparare l’unico metodo per sopportare queste allusioni fastidiose: tacere, ascoltare in quieto e rassegnato silenzio e ingoiare tutto come grossi rospi.
Forse dovevo dimostrare che non avevo paura, ogni tanto mi dicevo. Forse avrei fatto meglio a fare sfoggio di un po’ dell’irritazione e del fastidio che provavo, tanto per dimostrarmi qualcosa di più di una bambolina muta. Dovevo far vedere che non potevano prendersi per sempre gioco di me. Subito dopo mi chiedevo a cosa sarebbe servito. Le malignità non devono ferire, non devono essere ascoltate. Lo avevo imparato da piccola ed ero ancora in grado di tenermelo bene in mente. Poi certamente la mia posizione attuale non mi permetteva di essere tanto spavalda. Avevo troppi scheletri nel mio armadio per potermi ergere, per poter sfidare apertamente chi in teoria mi aveva fatto un favore permettendomi di essere me stessa. Non era ancora tempo… Per sopravvivere a casa Noah non potevo che comportarmi così.

D’altra parte mi ritrovai molto spesso a dormire nel mio camerino a teatro dopo nottate eterne di prove a raffica. Retino era davvero infaticabile per un uomo della sua età. Neanch’io riuscivo a stargli dietro. Ma non mi lamentavo. Forse perché ero anche abbastanza felice di non dover tornare tutti i giorni a casa.
Un mesetto di prove quasi continuative e finalmente uscirono i manifesti della rappresentazione della “Carmen”. Avevo chiesto espressamente all’impresario di non far mettere il mio nome o un mio ritratto, ma non aveva voluto sentire ragioni...

- Non vedo perché dobbiate essere così modesta, Victoire! -
- Non è questione di modestia, signore… -
- Forse non solo… E allora di cosa…!? – esclamò puntandomi addosso uno sguardo educatamente indagatore.
Abbassai gli occhi.
Avevo davvero ragione di credere che gli Inquisitori mi avrebbero trovata per un semplice schizzo su un manifesto o da un nome che forse non ricordavano neanche? Forse stavo diventando paranoica…
Sospirai: - Va bene, Signor Retino… Fate quello che desiderate… -
- Bene! Molto bene! – commentò sorridendo radioso e cominciando a camminare animatamente per la stanza – Voi fate la mia felicità, Victoire! Da quando siete arrivata in questo teatro si respira nuova vita! E’ per questo che voglio che tutti sappiano chi siete, che tutti vi ammirino! Sapete che siete una splendida fanciulla, no? -
Immaginai di essere diventata di ogni colore possibile: - Se lo dite voi… -
Si bloccò di scatto e si diresse verso di me a passo di marcia: - Ne dubitate…? –
- Emh, ecco… Nella mia vita… E’ la prima volta che me lo sento dire… -
- Impossibile! Non posso credere che nessuno vi abbia mai detto quanto siete bella! Avessi cinquant’anni di meno! Oh, cielo! – si batté con enfasi teatrale una mano sulla fronte.
Non feci in tempo a dire nulla o a reagire. Mi prese le mani e disse solennemente: - Mi credete quando dico che non siete solo una soprano incredibile, ma una creatura fantastica e di indubbio fascino…? –
- Non siete eccessivo ora…? – commentai timidamente, frastornata.
Si bloccò per qualche momento, poi aggiunse: - Voi potreste essere mia figlia, ma questo non significa che non possa dirvi quello che penso davvero… Siete una donna meravigliosa, una delle più belle su cui abbia mai posato gli occhi… E credetemi, sono stato attore per decenni e ho molti anni di carriera come impresario nel mondo della lirica: ne ho viste di primedonne! –
Il mio colore si era forse almeno assestato sul rosso vivo, ma ero imbarazzata da morire. Mi ero subito accorta che non c’era traccia di adulazione in quelle parole.
- Ditemi allora, mi credete? -
Non potei fare altro che annuire, benché in realtà credessi ancora che quelle parole fossero troppo per me. Comunque Retino sembrò rassicurato e mi lasciò le mani:
- Meno male! -
Credevo che il caso si fosse risolto, ma egli riprese: - Mi chiedo davvero come sia possibile che in vita vostra non abbiate mai ricevuto dei complimenti! Dove siete vissuta!? –
Sperai che fosse una domanda retorica, ma mi ritrovai di nuovo assediata dallo sguardo penetrante dell’impresario.
Sospirai: - Se ve lo dicessi non ci credereste… -
Restò ancora qualche momento a scrutarmi, sperando forse di convincermi a parlarne, ma vedendo il mio cenno di diniego si arrese.
- Ah… Ma non credo sia possibile… Possibile che nessun uomo si sia degnato di tesservi le sue lodi…? Non ci sono più i gentiluomini di una volta… -
Mi accorsi subito cosa sarebbe successo, ma non feci in tempo ad impedire che lo dicesse.
- Neanche quel giovanotto dell’ultima serata…? -
Cercai di apparire il più possibile normale nel rispondere: - No… -
- Pazzesco! E dire che nonostante tutto mi sembrava un tipo estremamente educato! -
- Si è complimentato per lo spettacolo… -
- Si, ma è di rigore anche lodare lo splendore dell’interlocutrice! –
- Se l’avesse fatto forse non gli avrei creduto… Odio le adulazioni… Soprattutto se puramente formali… -
L’impresario sembrò interdetto: - Ma a me avete creduto, giusto? –
- Si… - divenni probabilmente di nuovo color pomodoro – Perché ho visto dalla vostra espressione che eravate sincero… Anche se comunque troppo buono… -
- Nel suo caso no? –
Ripensai agli occhi di Tyki. Splendidi, sottili, scuri e profondi, pieni di fascino. Tuttavia non erano riusciti ad esprimere alcuna vera espressione nel momento in cui mi si era rivolto e mi aveva fatto quell’elegantissimo baciamano. Erano vuoti e formali, acuti ma in un certo qual modo indifferenti, come tutto il suo comportamento.
Scossi la testa: - No… -
- Perché…? -
- Perché non sono pensieri ed emozioni che gli si addicono e a lui non importa che io sia brutta o meno. –
Fu una frase che mi uscì da sola di bocca e solo dopo mi accorsi di quanto fosse amara…
Guardai Retino quasi spaventata. Temevo che questo potesse metterlo in allarme e convincerlo a fare altre domande. In effetti, sembrava preoccupato.
- Signor… -
- No, non ditemi nulla se non ve la sentite… Chiudiamo qui il discorso, d’accordo? Permettetemi solo di dirvi una cosa: - l’espressione seria che assunse mi fece inquietò – se una persona riesce a rendervi così addolorata e sofferente dovreste tenerla il più lontano possibile e dimenticarvi di lei. Non c’è nulla di più brutto di non sapere cosa c’è nel cuore di una persona, tranne forse sapere che non vi è spazio per noi. –
Avrei voluto rispondere almeno con una cosa qualunque. Dire qualcosa per giustificare la mia condotta. Per giustificare anche quella di Tyki, se fosse stato necessario. Eppure la mia mente si era svuotata. Abbassai la testa e tacqui. Era un’ammissione di colpa, probabilmente.
- Comunque, - riprese, come se fosse davvero presente un filo logico in quello che stava dicendo - credo sia ora di tornare alle prove. Mi sembra che la pausa sia finita e che il nostro “Josè” si stia lamentando, signorina “Carmen”… - sorrise e mi aprì la porta con galanteria, lasciando che il discorso e le sue parole cadessero da sé.

Non sapevo davvero dire quale delle due condizioni espresse da Retino mi si addicesse di più, ma entrambe erano tremende prospettive.
Per ora ciò che lui provava era un mistero. Potevo pensare che mi sarebbe bastato conoscerlo meglio. Ma poteva anche non essere sufficiente. Se non lo fosse stato, cosa avrei dovuto fare? Sarei riuscita ad accettarlo o avrei seguito il consiglio che mi era appena stato dato?
E se alla fine avessi capito che non avevo proprio alcuna speranza? In effetti, finora non me ne aveva date molte… E quelle poche era anche già riuscito a rimangiarsele… Da quello che sapevo, un vero Noah non aveva un cuore e anche se l’avesse avuto, era tutto da dimostrare che ci fosse modo di ritagliarsene un angolino…
L’unica certezza era che in ogni caso avrei sofferto da morire…

Era una giornata normale come poteva essere in quel periodo di prove asfissianti, quando il custode del teatro, pericolosamente ardito e cupo in volto, mi disse, senza mezzi termini:
- Non potete più dormire qui. -
- So che per voi è un problema, ma… -
- No, signorina, non avete capito. E’ un grave problema! – esclamò arrabbiato – E’ quasi un mese che a causa vostra non posso dormire nel mio letto, ma qui in guardina! –
- Mi dispiace, ma le prove si protraggono sempre fino a tardi… - tentai timidamente a giustificarmi.
- Ho già parlato con Retino! Da oggi tutto finirà ad un’ora presentabile! Quindi siete pregata di andare a dormire a casa vostra! –
- Certo… - pronunciai vagamente sconcerta, mentre quello, a passo di marcia, con l’aria di chi ha vinto una grande guerra, se ne andava spedito.

Così dovevo tornare a casa Noah.
Non che mancassi da molto: mio malgrado vi ero tornata anche il giorno prima. Per una decina di volte il Conte mi aveva tirato le più diverse coltellate alle spalle prima che riuscissi ad andarmene finalmente a dormire. Solo Road era stata brava e tranquilla, cosa quasi incredibile, e anzi avevamo addirittura giocato un po’ assieme. Quando ci ripensavo, stentavo a crederci. Forse le cose erano davvero destinate ad andare meglio, con il tempo.
Mancava solo una cosa… Ma avrebbe migliorato o peggiorato la situazione?

- Ciao… -
Appena varcata la soglia, mi ritrovai davanti la bambina. Sorrideva in quella maniera vagamente oscura, come al solito. In fondo, anche se ancora non riusciva a piacermi, mi stavo abituando a quell’espressione maliziosa.
- Ciao, Road. -
- Sei già qua, Vivy? E’ presto rispetto al solito… - commentò, poi aggiunse argutamente – Il custode ti ha cacciata…? –
Mi sforzai di sorridere: - Non dovresti fare queste cose… Comunque, se lo sai, perché me lo chiedi…? –
- Così… -
Mi avviai verso la mia stanza con lei alle calcagna.
- Tra quanto si mangia? – chiesi, tanto per dire qualcosa.
- Il Conte ha detto tra non molto. Posa le tue cose poi comincia a venire. –
- D’accordo. Arrivo subito. –
Mentre parlavo si era già avviata saltellando per il corridoio.

Dopo una spazzolata ai capelli sciolti e un veloce cambio di abito, aprii la porta della sala da pranzo.
- Buonasera a tutti. – dissi entrando, come facevo di solito.
- Bentornata, Vivy! – esclamò subito il Conte.
Gli rivolsi un breve inchino: - Vi ringrazio, Conte. –
- Ciao, Vivy. – risposero i gemelli.
Ma quasi in contemporanea con loro anche un’altra voce aveva parlato.
- La smetti di rubarci le parole, stupid-Tyki impiastro!? – commentò Debit.
- Se mai quelli siete voi… Dovreste darmi la priorità… -
Si alzò con un gesto estremamente fluido, ignorando le lamentele che ancora provenivano dagli altri due e cancellando l’aria di scherno che aveva assunto per un attimo:
- Bentornata. -
Lo disse tranquillamente, senza alcuna inflessione particolare, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Avrei dovuto pormi mille domande, ma mi resi conto che in quel momento non ne avevo bisogno. Ero solo felice di vederlo.
Sorrisi: - Bentornato a te! –
Rispose tranquillamente al mio sorriso. Nulla di malizioso era nascosto in quell’espressione. Avrei voluto sospirare di sollievo.
Scostò la sedia posta accanto a lui e mi fece accomodare.
Solo allora il Conte batté le mani, facendo portare la prima portata.

- Per quando è fissata la prima!? -
La voce del Conte mi interrogò improvvisamente, lasciandomi per un attimo sconcerta.
Alzai gli occhi e incrociai per un momento quelli del mio vicino di posto, forse per la prima volta, vagamente interessati. Sbattei le palpebre, leggermente incredula, poi riuscii a rispondere:
- Tra due sabati… -
- Di cosa parlate!? – esclamò più che mai allarmato Skin. Non l’avevo ancora sentito parlare in tutta la sera, preso com’era dalla sua sfilza di dolciumi.
- Della “Carmen”… Giusto, Vivy? Non è splendido!? – commentò, allegro come sempre, il capo.
Notai subito gli sguardi cupi dei commensali e aggiunsi – Ma non è il caso che veniate! –
- Io ci terrei! – disse ancora quello.
- Davvero, Conte! A me va bene così! Non preoccupatevi! –
- E’ la messinscena che segna il vero inizio della tua carriera! –
- Però… -
- Non insistete, Conte. – si intromise Tyki, mentre si puliva la bocca con studiata cura.
Mi sentivo già un po’ rincuorata dal suo aiuto, quando mi lanciò uno sguardo obliquo e aggiunse:  - Non ci vuole. Ha pur il diritto di scegliere. –
- Ma!? – esclamai, scandalizzata – Non è questo! E’ solo che ho paura che vi annoiate! -
- Può anche darsi. Ma insistere perché non veniamo a vederti è comunque inopportuno, no? –
Un sorriso sardonico e ironico era impresso sul suo volto. Stava giocando e magari si stava anche divertendo. Beato lui.
- Lo so… Ma… Insomma… - non sapevo più cosa dire, infine, con le spalle al muro, chiesi: - Ma dite la verità, voi volete venire? -
- Io si! – esclamò il Conte subito, felicissimo, e toccando con uno sguardo accorato ognuno dei presenti.
Silenzio. Non era semplice contraddire il capo.
La prima a parlare fu Road. Alzò la mano con aria stanca e disse solo: - Io no. –
- Ma Road! – commentò il Conte, con impalpabile amarezza.
- Scusa. Ma quella volta mi sono annoiata a morte. Non voglio ripetere l’esperienza. –
- Avevate detto che era solo per quella voltaaaaaaaaaa! Bastaaaaaaaaaa, per favooooooreeeeeeeee! – anche i gemelli avevano preso coraggio e si erano opposti.
- Lulubell!? Skin!? – chiese il Conte, sempre più offeso.
- Non mi piace. – disse tranquillamente la gatta, studiandosi con attenzione la manicure.
- Sgrunt… Noia… - biascicò con la bocca piena il gigante.
- Uffa… Tyki!? Almeno tu! –
Vidi che stava valutando la cosa. Guardò il Conte, poi me. Per un attimo il suo sguardo fissò il vuoto, poi disse solo:
- Troppo tempo. Non posso restare qui per due settimane. Ho delle cose da fare. Scusate, Conte. Se davvero ci tenete dovrete andare da solo. -
- Ahhhhh… - sospirò – Da solo però non mi diverto… Be’ vedremo… -
Il discorso si stava già spostando su altro, quando Tyki mi sussurrò, parlando a fior di labbra e guardando avanti a sé, come per nascondere a chi si stava rivolgendo:
- Spero non ti dispiaccia. –
Malizia allo stato puro. Non resistetti.
- Non sei cambiato per nulla. Nonostante tutte le arie che ti dai… -
Anch’io guardavo un punto indefinito davanti a me per mascherare che parlavo con lui.
- Ti ho già detto che non devi fare riferimento ad allora… - il suo tono si era un po’ irritato – E comunque io non mi do arie… -
- Ah no…? – mi trattenni a fatica dal ridere, all’apparenza da sola.
- No. Solo perché mostro il mio stile elegante, non significa che sia vanitoso. –
- Sarà… -
- Tu, invece, sempre così carina con tutti… Si vede che non sei sincera… -
- Tu lo sei mai…? –
Anche se non lo stavo guardando, mi immaginavo stampato sul suo volto il solito sorrisetto ironico:
- E chi può dirlo…? -

- Buonanotte. - fu il secco saluto di Lulubel, prima di chiudersi la porta alle spalle.
- Umph… ‘Notte. – e anche la porta di Skin sbatté.
- Allora facciamo che andare a letto tutti. – commentò, Tyki, stiracchiandosi scompostamente.
- Eh!? Ma il giretto serale!? – la voce di Road, resa stridula dal capriccio, echeggiava per tutta la casa.
- Ti prego, Road. Ho davvero sonno. – poi si voltò indietro come a cercare qualcuno – Puoi sempre chiedere a… -
Da una porta poco lontano rimbombò la voce di Debit: - Non provarci, falso elegante! Tutto ieri, mentre tu te la spassavi, siamo stati costretti ad accompagnarla a fare spese! –
- Uhhhh… Immagino… -
- Tutto perché voi tre non avete buon gusto! – fece il broncio lei – Senza di me chissà cosa portereste a casa! –
La scena era tanto divertente che nonostante tutto mi misi a ridere.
- Lei ride… Non ha idea di cosa significhi farsi consigliare da una bambina di dieci anni… - scosse la testa Tyki, comunque anche lui divertito.
- Insomma!!!!!!! – Road cominciò a sbattere i piedi per terra – Potresti sempre venire tu, Vivy! –
- Mi dispiace, ma domani la sveglia è molto presto. Devo fare le prove con l’orchestra. –
- Siete degli antipatici! –
Lui però le appoggiò una mano sulla testa:
- Ho dovuto promettere al Conte che starò un po’ di più qui a casa, quindi avremo molto tempo da passare insieme. Non puoi stare buona almeno per questa sera? -
Il tono era posato, quasi affettuoso. Quasi. Non era neanche paragonabile a quello che aveva usato con il piccolo Iizu tanto tempo fa…
Solo dopo pensai che non erano cose che potevano passarmi nella testa in presenza di Road. La studiai per qualche momento, ma non sembrava che avesse percepito quel mio pensiero un po’ crudele nei suoi confronti. Era certo che Tyki le volesse bene. Ma come potesse volerne un Noah e quindi era comunque tutto da dimostrare.
- Allora va bene? – le chiese, ancora accondiscendente.
- Si! – esclamò la bambina.
- Quindi posso andare a letto? Meno male. – commentò, con un sospiro sollevato.
Road ci salutò e andò alla sua stanza.
Giungemmo alla fine del corridoio dove si trovavano i nostri alloggi.
- Allora a domani. -
Mi guardò per qualche momento fisso, come soprappensiero, poi si riscosse e rispose:
- Si, certo. Buonanotte, Vivy. -
- Anche a te! Sogni d’oro, Tyki. –
Quasi allo stesso tempo ci chiudemmo la porta alle spalle.

Era incredibile come fossi riuscita in qualche momento a sentirmi davvero a casa. Io che con i Noah non c’entravo nulla. Io che per fede in Dio ero lì per condurre una battaglia. Io che non sopportavo quel luogo.
Se le cose fossero continuate così, sarei forse anche riuscita a farmi piacere quella vita.
Il problema era che prima o poi le cose sarebbero comunque cambiate. Prima o poi la guerra sarebbe ricominciata. Prima o poi le “cameriere” del Conte sarebbero tornate ad essere soprattutto armi. Prima o poi gli Esorcisti avrebbero fatto il loro ingresso nella vita dei Noah.
E una creatura priva di un suo giusto habitat come me cosa avrebbe fatto?
L’unica certezza che avevo era la mia Fede assoluta. E non era certo un punto a favore della mia appartenenza a quel luogo… Definitiva, presunta o apparente che fosse…






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Rieccomi!!!
Visto che alla fine in qualche maniera sono tornata? Non è un capitolo con i fuochi d'artificio ed è effettivamente un po' diverso da come me lo ero immaginato io stessa in origine... Doveva esserci più...emh...canto... Diciamo che ho aggiunto e tolto cose... Che spero comunque di inserire altrove... Chiedo ancora disperatamente scusa per aver mollato quattro a zero la fiction per quasi due mesi ma sono state cause di forza maggiore... Sigh... Ora troverò il modo, almeno in queste vacanze di Natale, di rimettermi per bene in carreggiata... ^_^
Spero che continuerete almeno a leggere questa fanfiction!!! Grazie a tutti!!! A presto!!!

Bohemienne = credimi, ti capisco perfettamente... Anch'io non riesco a farmi andare giù i personaggi femminili di anime, manga, a volte anche libri... Ho pochissime eccezioni (una delle quali è Miranda di DGM... Mi è piaciuta subito, non so perchè...). Per il resto ho sempre la tendenza ad inventare e inserire personaggi che piacciano a me, lasciando da parte gli altri... Comunque mi fa piacere che nonostante queste premesse Vivy raccolga almeno un po' del tuo favore!!! Grazie mille per i complimenti!!! E soprattutto per le rassicurazioni... Sono davvero preoccupata per questa storia dell'OOC... Comunque ti garantisco che qualcunque variazione psicologica debba avvenire a Tyki sarà documentata da una lunghissima auto-analisi, che leggerai dalle "sue" (mie) stesse parole, e dai fatti che la causeranno, che per provocare simili effetti saranno per forza "straordinari" rispetto alla vicenda del manga... Continua a seguirmi, please!!! XD
Freija = come sempre devo ringraziarti moltissimo!!! Mi sommergi sempre di complimenti!!! ^_^ Mi fa piacere saper che non credi che abbia inflitto danni al carattere del povero Tyki... E grazie ancora per quell'offerta!!! Per ora mi trovo molto bene in quei forum, ma mi sento inopportuna, dato che sono proprio ancora una nuova arrivata, ad occupare già la sezione per le fanfiction... Aspetto ancora un po' di ambientarmi... A presto!!!

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Capitolo 10
*** IX - Friends And Family ***


Capitolo 9

Friends And Family


“Talvolta, la menzogna dice meglio della verità ciò che avviene nell’anima.”
(M. Gorkij)






Me ne andai tranquillo. Impassibile. Come si addice a noi Noah.
Appunto. Non ad un essere umano.

- Sei distratto! -
E lo scappellotto di Frank mi colpì in pieno collo.
- Ahia! Ma che diavolo…! – esclamai, vagamente offeso, massaggiandomi il punto colpito.
- Hai sempre la testa fra le nuvole! E’ il minimo che ti dovevi aspettare! – rise, più allegro del necessario alle mie lamentele.
- Ciò non toglie che sei un vero bastardo, Frank… - bofonchiai.
- Ma quanto ti lamenti, Tyki! – infierì Momo.
Prima che potessi replicare, mi ritrovai faccia a faccia con gli occhi cristallini di Iizu: - Perché sei distratto…? –
- Non sono distratto… - risposi, a tutti e a nessuno, aggrottando le sopraciglia.
- Oh si che lo sei! Sei assente! Pensi sempre ad altro da quando sei tornato dal part-time… -
Questo loro modo di assediarmi mi stava già irritando parecchio.
- Insomma… - cercai di dire, sovrastando i loro commenti.
- Io dico che c’entra una donna… - buttò lì Frank.
Io rimasi letteralmente a bocca aperta, ma non trovai la voce per parlare, cosa che invece fece Momo, con una smorfia comica:
- DONNA!? SCHERZI!? -
- Oh si! Il nostro Tyki sembra proprio innamorato! Io metterei la mano sul fuoco che è colpa della bella amante del suo misterioso capo o magari della sua giovane figlioletta… -
- State vagando un po’ troppo con la fantasia… - commentai, cercando di non immaginare Vivy nel ruolo di Violetta.
- Ha ragione! – esclamò Momo, con un cenno d’intesa, chiaramente non rivolto a me – Non stai esagerando…? Non è il tipo da gestire una relazione clandestina… -
- Ragazzi… - sbuffai, appoggiando la schiena al muro, stizzito.
- Eh già! Allora sarà la cameriera… -
- O la segretaria… -
- O l’infermiera… -
- Ma avete finito!? – esclamai sempre più allibito e scocciato.
- Comunque conciato così mi chiedo come hai fatto a conquistare qualcuna… Non oso immaginare che creatura possa essere… - scherzò Frank guardandomi di sottecchi.
Forse temeva mi offendessi seriamente. No, non ero il tipo da prendermela per davvero.
Un sorrisino malizioso mi venne spontaneo: - Guardate che quando voglio riesco ad avere il necessario fascino… -
- Seeeee! Come no!? – sbraitò Momo, con un gesto eloquente del braccio.
- Ah! Allora hai usato il portafoglio! – commentò l’altro ridendo più che mai.
- Se hai sprecato i tuoi sudati guadagni per fare colpo su una donnina della notte sappi che sei immediatamente radiato…! –
- State cominciando a diventare avidi… Non vi bastano quelli che ho portato a casa…? –
- Allora ammetti che sei stato con una donnina!!! – e le loro dita accusatrici si indirizzarono immediatamente sul mio volto.
La visione della giovane prostituta Violetta, vestita di rosso nel salone addobbato a festa, mi passò per la mente immediatamente. Così come i suoi intensissimi occhi verdi.
Ma davvero potevo far passare per una poco di buono la “candida” Vivy?
Tenendo poi conto che in realtà non l’avevo sfiorata con un dito…
Avevo davvero pensato “Purtroppo…”?
- Nahhh! Non era una come le solite… -
- Allora non si è fatta pagare…!? Ma come diavolo hai fatto!? – esclamò Momo più ammirato che stupito.
- Ma si può sapere cosa avete oggi…? – chiesi, sgranando di nuovo gli occhi a questi commenti assurdi.
- Allora racconta di questa donna, Tyki! – ordinò Frank sedendosi di fronte a me con le braccia incrociate e l’aria di un pericoloso mafioso.
- Ho perso un pezzo. Quando mai vi ho confermato che ci sia una donna…? –
- Piantala di fare l’idiota e l’innocentino e parla! – confermò l’altro sedendosi anche lui di fronte a me.
- Ma non ho niente da dire di lei… - sospirai – Tranne che non è una prostituta… Punto. Fatevelo bastare. –
- Ah-ah! – esclamò Frank allungando la mano verso Momo con un gesto plateale – Lo sapevo che c’era una donna di mezzo! Paga! –
- Che diavolo! Mi hai fregato! Si può sapere come hai fatto a capirlo!? –
- Quando uno assume quell’aria da pesce lesso, vuol dire che è proprio cotto perso. Il dubbio era solo se fosse per una donna o un uomo… -
- Tsz! Avete pure di sti dubbi!? – commentai, scuotendo la testa e lasciandomi cadere sfinito sullo schienale della sedia sgangherata.
- Allora sei innamorato, eh, Tyki? –
Passai uno sguardo scettico su di loro: - Cosa sono questi paroloni…? Non esageriamo. –
- Be’, comunque sia la ragazza ti ha centrato in pieno, altrimenti non staresti tutto il giorno con quell’aria sognante. –
- Sognante…? – ma quasi non avevo più forza di lottare – Non sono sognante, insomma… -
Mentre stavo ancora svogliatamente tentando di far ragionare quei due balordi, mi sentii tirare la maglia.
- Cosa c’è, Iizu? – chiesi abbassando lo sguardo sul bambino.
La sua vocina flebile faceva fatica a passare attraverso la mascherina che doveva tenere sulla bocca: - Davvero ti piace una ragazza, Tyki? –
- Emh… Forse si… - dissi vagamente evitando i suoi occhi sinceri.
- Ma allora lei non ti piace più? –
- Lei chi? –
Non poteva dire sul serio.
- La ragazza che mi ha aiutato… Non la sposerai, Tyki? -
Aprii la bocca senza sapere davvero cosa avrei detto.
Per fortuna Frank si intromise giusto in tempo:
- Dannazione, Momo! Non eri tu quello tutto religioso che doveva insegnare qualcosa al bambino!?-
Allora quello si piegò verso Iizu con tono comprensivo: - Ehi, Iizu! Ascolta, la tua amica non era una suora? –
- Si… -
- E lo sai, no, che loro sono Spose di Dio e quindi non possono sposare nessun altro? –
Si voltò verso di me, triste, poi rispose: - Si, lo so… Ma… -
- Ecco, appunto… Capito quindi perché Tyki non potrebbe comunque sposarsi con lei…? -
- Si… - disse, abbassando gli occhi triste.
 Momo sorrise e commentò: - E poi scusa da dove viene sta storia del matrimonio!? Ma dico ve lo immaginate Tyki tutto impettito all’altare!? –
- Infatti! – esclamò anche Frank – Poi proprio questo miscredente! Gli partirebbero sicuramente una decina bestemmie tutte insieme! -
- Continuate a stimarmi poco… -
Comunque neanche sta volta mi ascoltarono, anzi, si presero a braccetto ed iniziarono gioiosamente a cantare: - Tyki è innamorato! Tyki è innamorato! –
- Ma che due stronzi… - commentai a bassa voce, tra me e me, ridendo.
Poi vidi Iizu che si era seduto sconsolato su una cassa lì vicino.
Feci cenno ai due pazzi. Si voltarono verso di lui per poi prenderlo in braccio e iniziare a sballottarlo. Allora finalmente, con mio sollievo, anche su suo volto tornò un’espressione felice…

In effetti su una cosa fondamentale ci avevano preso. Pensavo a lei. E sapevo che non era una buona idea, soprattutto quando riprendevo la mia vita “bianca”, perché in quel momento l’indifferenza non riusciva a riprendere il suo posto sovrano nella mia mente. Senza la noncuranza ogni cosa prendeva un aspetto di importanza decisamente superiore al necessario…

Vivy la religiosa, Vivy la soprano, Vivy la Noah.
Tutte e tre la stessa persona. Persona alla quale pensavo anche troppo ossessivamente.
E i miei pensieri non erano rosa confetto come pensavano loro. Non proprio.
Dominava il nero: di casa Noah, della vita che si conduce laggiù, dell’oscurità del palcoscenico prima che le luci svelino tutti i misteri, dei suoi capelli raccolti ma sfuggenti e del suo lungo abito…
Così era anche per quanto riguardava il futuro. Di fronte a me non c’era nulla che potesse tornare a legare la mia vita “bianca” con quella ragazza. Ciò che ci accostava era solo l’esistenza “nera” verso cui ci eravamo diretti e quindi solo quella aveva la possibilità di rivestire, forse, una qualche importanza. Ecco perché DOVEVA essere semplice abbandonare il passato, perché lei restasse solo “la soprano e la Noah”.
Magari “la sposa”, ma questo per fortuna per ora mi toccava decisamente meno. Come loro, anch’io facevo fatica ad immaginarmi in un contesto simile, anche se il fatto che Dio di certo non c’entrasse con quella cerimonia di famiglia mi toglieva molte ragioni di scetticismo.
Per il resto…
Per un attimo avevo provato l’istinto di spiegare a Iizu la verità, che davvero avrei prima o poi sposato la sua preziosa amica suora. Ma avrei dovuto aggiungere molti altri interrogativi nella sua mente innocente, compreso il motivo per cui nonostante questo non avrebbe mai più avuto possibilità di rivederla.
E poi quanto di lei era rimasto come allora dopo il “risveglio”? Chi l’avesse chiesto a me non credo avrebbe ricevuto una risposta soddisfacente, quindi neanch’io avrei mai avuto ragione di domandarlo.
E l’amore? No, assolutamente. I Noah non provano cose simili, di certo. Quindi era proprio un’idiozia.

Mi chiedevo quindi cosa ci fosse da spremersi così tanto le meningi per quel mese intero. Non ne avevo idea, chiaro. Tranne forse per altri pensieri, molto più terreni, che accompagnavano questi ragionamenti.
Al che sembravo un vero schizofrenico…
“Per esempio che era davvero bella da morire.”
“Idiota! Che razza di indifferente sei!?”
“Eppure potrebbe essere considerato un dato di fatto più che un mio giudizio.”
“Dì allora che bella com’è te la porteresti a letto volentieri!”
“Ma non è questo che intendevo.”
“Tutta passione, tutto desiderio, pezzo di cretino, datti una sveglia!”
“Insomma, mi piacerebbe, è sicuro. Ma non è mica tutto qui in questo caso. Non è una che si può prendere così a casaccio…”
“E cosa avrebbe di speciale? Non è tua proprietà? Allora puoi farne quello che vuoi!”
“Anche fosse, c’è in ballo sta storia del matrimonio…”
“Allora vuoi davvero sposarla!?”
“… E che cosa ne so!?”
“Quindi puoi cominciare a spassartela e pensare dopo…”
“Non mi interessa comportarmi così.”
“Allora ne sei innamorato!?”
“No. Non credo.”
“Allora puoi farne quello che vuoi:”
Eccetera, eccetera.
E no, non chiedetemi chi dei due fosse il “buono” e chi il “cattivo” perché ne so anche meno di voi. Sapete che nella mia mente non esiste più nulla di simile… E che quindi entrambi questi due sono IO…

Quando un mese dopo il Conte si fece alla fine sentire, avevo già deciso che il mio desiderio, il mio sentimento, quello che diavolo era e che non volevo sapere cosa fosse, sarebbe venuto dopo tutto il resto. Prima di tutto sarei stato un Noah, molto dopo Tyki e solo alla fine, come ultima carta, quella persona che pensava a lei in maniera così...eccessivamente speciale. E mi odio quando devo usare la parola “speciale”.

Fu un incontro decisamente formale ma velato di qualcosa che non capì, almeno finché non vidi spalancarsi sul suo volto quel sorriso radioso… Era felice, molto anche… Anche se mi rivedeva dopo quella scena del nostro saluto… E io cosa provavo…?
Un qualcosa di oscuro e suadente. Piacere. O gioia? Lasciamo stare…
Piuttosto quella confidenza che era nata tra noi immediatamente mi era sembrata del tutto naturale, solo ripensandoci dopo ci rimasi un po’ stranito. Era stata una cena tranquilla, anche piacevole, per certi versi. Il clima riusciva ad essere almeno relativamente sereno anche in quella casa quando lei vi si trovava… Non era naturale… Non era logico per una Noah… Mi ritrovai su questi pensieri proprio quando dovevo augurarle la buonanotte. E per poco mi dimenticai di farlo…

La mattina dopo poltrii fino a tardi. O almeno quella era l’idea.
- Tykiiiiiiii! -
- No… Qualunque cosa sia mi rifiuto, Road… - mi lamentai, cercando di sottrarmi alla sua mano che continuava ossessivamente a scuotermi il braccio.
- Come sarebbe…? Non puoi dormire! – insisteva lei.
La solita sadica.
- Perché…? – commentai, aprendo solo uno spiraglio delle palpebre.
- Non mi va! –
- Ma che razza di giustificazione è!? – e cercai di girarmi sull’altro fianco sperando bastasse a chiudere la discussione.
Da quando ero diventato così speranzoso?
- Non mi va di andare ad accompagnare Lulubel! Non c’è neanche Lero! Vieni tu! -
- …Non mi riguarda… Non lo voglio sapere… Non ti avevo detto che… volevo dormire? –
Già, peccato che…
- Avevi parlato di ieri notte, non di stamattina…! -
…appunto…
- E’ sempre la solita storia… Quante volte si è già ripetuta sta scena…? – sfregai la testa al cuscino, cercando di assaporare ancora qualche momento di riposo.
- Con me solo tre volte. Con il Conte, ogni volta che dormi fino a tardi. Lo sai che non gli piace. –
- Ma lui NON dorme… Che cosa accidenti ne sa…? –
Dannato anche lui! Il salutista dell’accidenti!
- Lo so. Comunque, adesso alzati! –
- No, per nulla. Vai a scocciare qualcun altro, Road. –
Non penso mai quando dico queste cose.
Si mise in piedi sul letto e cominciò a saltellare: - Guarda che finché non ti alzi non me ne vado! –
Le minacce, poi…
- Fai quello che ti pare… Io non mi smuovo di qui… - risposi, determinato, nonostante in effetti quel materasso ballonzolante mi stesse già dando i nervi.
- Come vuoi… - rispose, senza per nulla cedere.
Non so per quanto continuò, ma alla fine il letto tornò stabile.
- Ti sei arresa…? – chiesi, pregustando la prima vittoria sui capricci della bambina.
- No, per nulla. Solo che adesso arriva Lulubel. – rispose, calmissima.
- …Oh. Così magari ti porta via da qui. –
Rise, più malevola del solito: - Tu credi…? –
No, pure l’ottimismo di prima mattina... Si vedeva che avevo troppo sonno…
Passi di marcia per il corridoio e poi due colpi decisi alla porta:
- Road. Sei qui dentro? -
- Si… - rispose lei, tranquilla, lisciandosi l’elegante gonnellina a pieghe.
- Allora andiamo? –
- No! Tyki non si vuole alzare! –
- Lulubel, ti prego. Portala via, voglio solo dormire. –
Tentai di impietosirla, benché fosse inutile. D’altra parte anche lei voleva andare via quindi avrebbe fatto qualcosa. Qualsiasi cosa…
Un attimo di silenzio oltre la porta e poi una delle sue solite risposte pragmatiche:
- E come dovrei fare? -
Mi battei una mano sulla fronte. Perché nonostante tutto ci avevo sperato?
- Magari entrando e prendendola di peso. – proposi, cercando di non andare fuori le righe.
Altro breve silenzio.
- Io non entro nella tua stanza, Tyki. -
- E… perché…? –
- Non entro nella camera di un uomo. –
- Ma cosa credi di dimostrare!? Che diavolo di ragione moralista è!? –
Non ne potevo davvero più. Oltretutto Road si sbellicava dalle risate.
- Road. Esci. -
Allora anche Lulubel sapeva cos’era l’ottimismo…
- No, se non esce con noi anche Tyki. – e mi sorrise.
Io scossi la testa: - Ti ho già detto che non se ne parla. -
- E io ti ho già detto che non mi interessa! -
- Esci, Road, basta con questa storia. –
Eppure quella gatta non usciva mai dai gangheri. Assurdo.
- Hai capito, Tyki? – commentò Road - Tanto tra me e Lulubel qua fuori sai già che non riuscirai comunque a dormire! -

Dieci minuti dopo ero pronto. E parecchio più insofferente del solito.
Uscimmo nella prima città che avevamo trovato. Non avevo idea di quale potesse essere, ma sapevo almeno che ci trovavamo in Francia.
Cittadina elegante e tranquilla. Strade pulite. Carrozze ricchissime e lucidate di fresco. Negozi di moda a prezzi esorbitanti. Botteghe di giocattolai che dal denaro che serviva a comprare qualunque cosa i prodotti potevano essere placati d’oro. Ristoranti dodicimila stelle.
Tutte cose belle e piacevoli. Per il Noah che poteva permettersele…
- Allora, Tyki. Dobbiamo solo… -
- Ho già detto che non lo voglio sapere. Vi seguo dove volete, d’accordo? – sospirai.
- Uffa! Se avessi immaginato che saresti stato così sverso, non ti avrei chiamato! – esclamò Road avvinghiandosi al mio braccio.
- E non potevi pensarci prima e lasciarmi dormire…? –
Chiaramente non rispose e si limitò a trascinarmi per la strada.

Capivo perché non voleva andare in giro da sola con Lulubel.
Al contrario di quello che ci si aspettava da un gatto, era sempre tutt’altro che carezzevole e graziosa. Riusciva a trasmettere un’inquietante aura di comando semplicemente guardando qualcuno. Era sempre seria e compunta, autoritaria e intransigente. Soprattutto, poi riusciva a vestire in maniera dal tutto innaturale per una donna.
Quindi il viso femminile ed i modi comunque delicati si perdevano in un’aria tutt’insieme un po’ rude. In fondo pensavo che fosse un peccato…

- Cosa significa che aspetti fuori!? – commentò Road battendo con irritazione i bassi tacchi delle sue scarpe nere lucide.
- Vorrete mica farmi entrare in un negozio di abiti da donna… - sbuffai.
- Si, invece! Vero, Lulubel!? –
Lei per tutta risposta si assestò gli occhialini sul naso: - Se non vuole non è il caso di obbligarlo. –
- Invece deve! Vieni! -
Questa volta sottrassi il braccio dalla sua presa, ma fui costretto ad annuire: - Ho capito. Ma non mi tirare… -

Alcuni di quei vestiti erano seriamente eccessivi. Guardavo tutte quelle balze e quei pizzi quasi con disgusto. Lo stesso per quei colori assurdi: viola scuro, arancione, verde chiaro… Veramente atroci.
Ero stanchissimo e annoiato da morire. Così, non mi chiesi neanche per quale dannata ragione mi trovassi lì e dove fossero finite le altre due. Appena un inserviente mi indicò una sedia, semplicemente mi sedetti. Ne avevo davvero abbastanza.

- Ma siete davvero splendida!!! -
L’urlo deliziato del proprietario mi svegliò. Sperai onestamente che fossero passati giusto pochi minuti e che quindi nessuno avesse assistito a quella scena ridicola di un tizio che dorme su una sedia.
- Andate a farvi vedere!!! -
Road si affacciò dal corridoio che dava ai camerini:
- Credevo te ne fossi andato… -
Sorrisi: - Per andare dove…? – la breve dormita mi aveva ridato un minimo di buonumore – Allora, non ti fai vedere…? –
Lei inclinò la testa, dubbiosa: - Ma davvero credevi fossimo qui per me…? –
Poi la bambina ritirò la testa e uscì Lulubel.
Era probabilmente uno dei pochi abiti sobri del negozio, verde scuro, con giusto un paio di piccoli pizzi sparsi e neanche gonfio di molto tulle, visto così. Un vestito scuro era chiaramente perfetto a contrastare con i capelli biondi e la carnagione chiara. Senza quegli occhialini, poi, riusciva a togliere un po’ di severità al volto. Un cambiamento decisamente evidente. Infatti rimasi sbalordito. Certo, scendeva i gradini con molta prudenza, probabilmente vacillando anche sui tacchi alti, e manteneva un’espressione seria e cupa, ma sembrava davvero un’altra persona.
- Che cosa ne dite!? – esclamò il negoziante rivolto a me.
- …Impressionante, direi. – commentai con un elegante cenno del capo.
Questo mi sorrise radioso, mentre Lulubel mi fissava:
- Sto male? -
- Direi proprio di no. – risposi, scuotendo la testa con enfasi – Ma come mai questo cambio di stile?-
- Me l’ha proposto Road. – poi si guardò allo specchio, leggermente sconcerta – Non credo sia una buona idea. Non mi ci trovo. –
- Tu invece che ne pensi, Tyki!? – esclamò Road dirigendosi verso di noi.
- Secondo me sei decisamente diversa dal solito. Devi solo farci l’abitudine, sempre se riesci a trovartici almeno un po’... –
Mi interruppe con una frase improvvisa ma netta, mentre continuava a scrutarsi incerta: - Le donne si vestono così. –
- E’ vero. – passai gli occhi accuratamente su tutta la figura e poi sul suo riflesso nello specchio – Io penso che tu stia molto bene vestita così. Pensaci. -
Annuì, fissandomi attraverso lo specchio.
- Comunque direi che questo cominciamo a comprarlo! – disse allegra Road.

Così Lulubel tenne addosso il suo abito nuovo. Meglio così, anche se dava ancora più nell’occhio. Vidi diversi individui per strada lanciarle occhiate neanche troppo furtive. Me la risi sotto i baffi. Tentassero di rivolgerle la parola e avrebbero visto dove li avrebbe mandati!
Era certo, comunque, che il vestiario femminile le restituiva tutta la bellezza che nascondeva con quell’aria superba e quello stile eccentrico. Traspariva la sensualità felina. Era stato davvero un cambiamento improvviso e incredibile…
- Lulubel! – esclamai, poco prima di vederla cadere di nuovo per terra dalle sue scarpe con il tacco.
Soffiò di rabbia e si rimise in piedi da sola, rifiutando la mano che le avevo offerto.
- Insomma! Cosa ti costa accettare il braccio di Tyki!? Stai continuando a cadere! - si lamentò Road.
Mi guardò per un attimo, poi scosse la testa: - Ce la faccio da sola a camminare. –
Io mi strinsi nelle spalle: - Come vuoi. –
Eravamo già diretti a casa, quando un uomo con una macchina fotografica al collo, probabilmente un venditore di souvenirs,   ci venne incontro:
- Ma che bella famigliola! Volete una foto ricordo? -
- Che bello! -
Non avevo dubbi che Road avrebbe risposto così.
- No, grazie! – risposi, subito.
- Ma almeno i due coniugi… -
Questa frase non mi piacque. Guardai Lulubel.
Quel cambiamento mi aveva colpito. La sua ritrovata bellezza mi attirava molto. Mentirei se dicessi il contrario. Eppure l’idea di essere scambiato per il suo compagno mi parve improvvisamente inaccettabile, anche se formulata da uno sconosciuto…
- Coniugi…!? Credo vi siate fatto un’idea sbagliata… - commentai con un sorriso formale.
- Infatti. – confermò Lulubel.
- Oh, chiedo scusa… - rispose il fotografo e non insistette oltre con la sua proposta.

Alla quarta caduta, Lulubel mi puntò uno sguardo serissimo e disse semplicemente: - Ci ho pensato. Non fa per me. –
- E’ un peccato. – lo dissi seriamente, ma non potei evitarmi un sorrisetto ironico.
Questa volta comunque non rifiutò il mio appoggio, che fu decisamente utile ad evitarle diversi altri scivoloni, e continuammo sulla via del ritorno.

“Dovresti smettere di mettere sempre e comunque su un piedistallo quella ragazza, Tyki.”
I pensieri di Road mi invasero la mente, conditi da una certa irritazione.
“Piantala…” le risposi subito cercando di non far trasparire all’esterno il fastidio che provavo ogni volta che usava i suoi dannati poteri con me.
“Tu idealizzi Vivy e lo fai nonostante sia una Noah. E’ stupido e immaturo da parte tua. E dire che dovresti trattarla esattamente come Lulubel. Non ha niente più di lei.”
“…La discussione è finita, Road.”
Le indirizzai un chiaro sguardo di avvertimento, prima che varcassimo la soglia di casa. Aveva capito, ma sapevo che la cosa non l’avrebbe fermata. Se voleva una cosa non c’era davvero verso di farle cambiare idea.
Il problema era che non avevo proprio idea di che cosa avesse contro Vivy…





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...Non ho davvero idea di come questo capitolo sia diventato questa sorta di raffronto tra la vita "bianca" e la vita "nera". E' tutto nato così mentre scrivevo. Spero che vi sia piaciuto!!!
Come avrete notato, Tyki diventa molto più "materialista"... XD Del resto Vivy non è più un'entità del tutto eterea, quindi mi sembrava anche logico che alla fine tutte le remore filosofiche passassero in cavalleria e si cominciasse a sentire (anche se ancora alla lontana) un po' della passionalità che ci si aspetta da un Noah... ^_^ Come se non ci fossero già abbastanza problemi in questa vicenda, ho aggiunto un primo accenno ad un noto dubbio amletico: il complicato rapporto tra "attrazione fisica" e "amore platonico"... Non so neanch'io come si risolverà... Come sempre rimando ai fatti man mano che mi vengono in mente...

[Perchè Lulubel sia diventata una tentazione è uno dei classici difetti della mia mente malata... Non fateci caso... XDDD]
Grazie a tutti coloro che hanno letto, coloro che leggeranno e coloro che si sono fortunatamente accorti che non ho abbandonato la storia... Siamo ancora all'inizio... ^_^

Lady Greedy = meno male che ti ritrovo!!! Temevo di averti perduta con quel messaggio di sospensione della pubblicazione... Contentissima che ti sia piaciuto il precedente capitolo e di conseguenza mi scuso se anche stavolta ho sorvolato i cari Jusdebit... Prima o poi torneranno di certo... Magari dalla prossima parte, chi può dirlo (neanch'io saprei dirlo con certezza, ora come ora...)? Infine, grazie davvero per le consolazioni da OOC... Mi fa sempre piacere che mi si dica che non sto compiendo involontariamente un peccato capitale snaturando il mio adorato... (e questa dichiarazione improvvisa...? Emh, fate finta di niente... XD). A presto!!!
kuro = come avrai letto due righe sopra e probabilmente dedotto da come ne parlo, anch'io adoro Tyki in maniera semi-morbosa... ^_^ Grazie moltissimo per i complimenti e spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!!!

Oh, quasi dimenticavo, a tutti anche tantissimi auguri di Buon Natale!!!!

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Capitolo 11
*** X - Carmen and Tosca ***


Capitolo 10

Carmen and Tosca


“Chi desia è posseduto: a quel che ama s’è venduto.”
(Iacopone da Todi)






Era bello essere Carmen, ma altrettanto difficile.

Se avessi dovuto trovare il modo di descriverla, avrei detto semplicemente che Carmen era una donna libera. Libera di essere ciò che voleva, di vivere come voleva, di credere e pensare ciò che voleva. Forse per questo autorizzata anche ad essere un po’ crudele, un po’ folle, un po’ ardente, un po’ gitana, un po’ vagabonda, un po’ un’estranea del mondo…
Ma perché solo “un po’”? Probabilmente anche più di quanto lo sarei stata io in qualunque circostanza.
Io non potevo essere così, non era la mia natura.
E la colpa non era certo del sangue dei Noah, che anzi forse avrebbe gioito e mi avrebbe presa per mano nel trasformarmi in una donna fatta di sola passione, che passa da un uomo all’altro senza la minima cura, reietta della società, violenta, piena di sé.
Allora era semplicemente perché quella libertà le permetteva di fare ed essere tutto ciò che desiderava…
Le invidiavo enormemente quell’onestà nell’esprimere chiaramente i suoi sentimenti, le sue decisioni, i suoi pensieri più nascosti. Non aveva nulla da nascondere, nulla da temere e poteva esibire ogni tensione del suo animo.
Retino diceva sempre che io ero estremamente sincera, ma non poteva vedermi nell’ambiente di menzogna in cui mi ero inserita con le mie mani. Un luogo in cui potevo essere felice solo se scordavo della mia identità e mi lasciavo trasportare dal clima e…dal sangue.
Altrimenti, quando percepivo la mia diversità o ricordavo il mio dovere morale, dovevo fingere, velare, nascondere, simulare perché nessuno oltre a me sapesse ciò che nascondeva il mio cuore…
Non tutti i miei parenti, comunque, ci cascavano…
Road sapeva e vedeva più di ogni altro. A volte, pensavo, ancora più del Conte. E rispondeva al mio atteggiamento forzatamente cordiale con sguardi e parole che nascondevano la minaccia. Mi era ostile e sentivo che avrebbe fatto qualunque cosa per cacciarmi. Forse non per uccidermi, non sarebbe arrivata a tanto. Ma quando guardava me, nel suo sguardo non c’era la tenera e affettuosa malizia che riservava a tutti i nostri famigliari, ma solo la crudele attitudine dell’odio più oscuro.
A differenza del Conte, che sembrava non sperare altro che la mia conversione, prova definitiva della sua onnipotenza, quella bambina provava solo il desiderio che lasciassi il suo territorio, fossi o meno una Noah non aveva importanza…

Carmen non ero io, in nessuno modo. Lei non mi rappresentava.
Nell’interpretarla, però, semplicemente mi calavo in lei come l’acqua versata in una bottiglia: priva di forma assumevo semplicemente quel contorno di libero peccato…
Forse anche questo era un effetto del mio essere Noah. Non potevo che nutrire questa impressione e provarne timore.
L’amore di quell’ardente sigaraia era sincero, su questo non ponevo dubbi. Ma lo trovavo davvero troppo leggero, superficiale, evanescente. Lei non avrebbe rinunciato a nulla, neanche per affetto. Perdere la libertà per lei significava svendere la sua anima.
Ecco perché alla fine José la uccise, folle per il suo rifiuto di tornare ad amarsi, folle di passione e gelosia.

Ancora più di questa troppo generica e vaga definizione di “libertà”, quella che desideravo sul serio era la capacità di amare senza preoccupazioni, senza dubbi o paure.
Perché io nonostante tutto quello che avevo fatto, in fondo avevo ancora paura di amare Tyki. Non per mie strane remore mentali, ma perché sapevo di agire da ingenua e sognatrice.
Forse mi sbagliavo, ma allora credevo che Tyki non potesse in alcun modo essere come José, passionale, geloso, possessivo fino alla follia.
Lui era indipendente, pieno di atteggiamenti esteriori perché nessuno potesse neanche tentare di sfiorare la sua interiorità, oscuro, misterioso, disinteressato, distante in ogni sua parola o gesto, come se nulla potesse turbarlo o interessarlo davvero.
Eppure in un contrato quasi irrazionale, non riuscivo a considerarlo un misogino o un solitario.
La sua essenza era composta di incontenibile passionalità. Forse desiderava di uno o più amori solo passeggeri, fatti di istanti e attimi destinati a bruciare in un battito di ciglia. Ma sembrava che emanasse lo sprezzo di quell’amore sentimentale e duraturo che tante donne sperano in segreto, anche se alla fine si lasciano attrarre dagli uomini in cerca di semplici avventure della notte. Non riuscivo a leggere che questo in quell’aria sicura e spavalda, quello sguardo a tratti penetrante e superbo, quell’eleganza sfatta della camicia semi-sbottonata e l’aria un po’ dandy e un po’ bohemien con la quale fumava lentamente e intensamente.
Ecco, se c’era qualcuno che capiva e condivideva lo spirito di Carmen era certo lui…
Quindi come al solito dovevo ammettere che ogni mio gesto, ogni mio pensiero, ogni pulsione del mio animo era immancabilmente rivolta a lui, nel bene o nel male.

- E’ una tragedia, Victoire! – sbraitò Dallas Johnson, aprendo senza la minima cura la porta del mio camerino, che sbatté addirittura contro la parete.
- Guarda che NULLA davvero è peggio delle cattive maniere! Quante volte ti ho già detto che devi bussare prima di entrare nella camera di una donna!? – puntualizzai subito. Lo scatto di fastidio fu molto utile per aiutare la spazzola a sciogliere un nodo tra i miei capelli, anche se mi feci un po’ male e rivolsi una smorfia di fastidio al mio riflesso nello specchio.
- Si si, lo so! – rispose senza prestare la minima attenzione al mio rimprovero.
Stava per ricominciare a parlare quando lo fermai ancora, fissandolo nella sua immagine riflessa:
- Insomma, Dallas! Che razza di maniere sono!? E se mi stessi cambiando!?  -
- In quel caso avrei fatto e visto la cosa migliore del mondo… - rispose, sorridendo.
Alzai gli occhi al cielo: - Dovrò ricordarmi di chiudere il camerino a chiave, d’ora in poi… -
- Però, Victoire! E’ successa una cosa gravissima! – riprese ancora, con un impeto che gli faceva scivolare i capelli biondicci sugli occhi – Devi venire immediatamente! -
Solo allora mi accorsi che al di là degli scherzi il ragazzo sembrava davvero preoccupato.

Quando arrivai nel magazzino strapieno e in una suggestiva penombra, vidi il panico più incredibile riflesso negli occhi di tutti i presenti.
- Cosa succede…? – chiesi, incerta e a mia volta preoccupata.
- Victoire, mia cara! – esclamò subito Retino, come sempre pieno di sussiego – E’ un disastro! – e prese uno degli appendini del guardaroba.
Vi era appeso un abito da uomo. Il problema era che per la nostra rappresentazione avrebbe dovuto essere una divisa spagnola, ma sembrava piuttosto un abito elegante di foggia italiana o francese con uno stravagante ed esageratamente grande bavero bianco.
- Ma questi sono i costumi…? – chiesi ingenuamente.
- No, infatti! Hanno sbagliato a spedirceli dal Teatro di Mosca! Questi sono i costumi della “Tosca”!- rispose l’impresario, asciugandosi il sudore nervoso dalla fronte con un fazzoletto.
- E non fanno in tempo a mandarcene degli altri, giusto? – chiesi, nel disperato tentativo di mantenere almeno io la calma.
- Assolutamente no, mia cara! Da Mosca la strada è ben lunga e poi il costo di una nuova spedizione ci distruggerebbe il bilancio! Non possiamo permettercelo! – l’uomo cominciò a camminare in circolo con l’aria di chi vorrebbe sprofondare nell’abisso più nero – In più, come se non bastasse, pagheremo la penale se non verranno utilizzate le attrezzature russe! Ho firmato una sponsorizzazione! Oh, cielo! – e con un gesto estremamente teatrale crollò su una sedia.
- Vi sentite bene? – chiesi, inginocchiandomi vicino a lui. L’anziano padrone sembrava rischiare un collasso ed era bianco come un cadavere.
- Si, io sto bene. Non è questo il problema! Oh no, oh no! Che disastro per la compagnia… - continuava a ripetere scuotendo la testa.
- Ma, signore, non si può semplicemente preparare la “Tosca”? La prima è tra due settimane! Il tempo c’è… - dissi, con calma, cercando di trasmettere un po’ di coraggio a Retino.
Lui per un attimo sembrò illuminarsi, poi scosse la testa e crollò nuovamente sullo schienale: - Oh no. Abbiamo già mandato a stampare i cartelloni… -
- Se si chiama subito la casa editrice andrà bene. -
- La penale, Victoire, la penale… -
- Se ci sarà una penale la pagherò io! – esclamai, convinta, appoggiandomi una mano sul petto.
- No, davvero, non posso chiedervi questo… -
- Ha ragione, Victoire. – disse Dallas, poggiando una mano sulla mia spalla, ma sorrise: – Faremo una colletta tra tutti e tireremo su il denaro. Giusto? – chiese ai presenti, che annuirono subito.
- Ma le prove… - sospirò ancora l’impresario, triste.
- Su due settimane, signore, ce la faremo senz’altro! Basterà un po’ di impegno in più, ma credo proprio che nessuno si tirerà indietro! –
- Victoire, in due settimane posso riorganizzare il coro, fare le prove per le comparse, ma non preparare le esibizioni dei solisti… Il signor Dallas ha già interpretato Cavaradossi, nella sua precedente compagnia… Per voi è la prima volta con Tosca… Non è un compito semplice e non posso dedicarvi quanto tempo vi servirebbe… -
Lanciai un’occhiata al tenore, che annuì, ma con estrema modestia. Era già molto famoso prima di unirsi alla nostra compagnia, sia per le sue doti canore, sia per la sua sfacciataggine da donnaiolo. Eppure quando si trattava di lavoro era davvero responsabile ed efficiente.
In realtà Retino aveva ragione. Se Dallas se la sarebbe cavata con qualche prova supplementare, io dovevo preparare dal nulla una nuova interpretazione e non avevo certo abbastanza esperienza da impiegare così poco tempo quanto ne avevamo.
- Signor Retino, se io mi esercitassi a casa? Del resto all’inizio mi basta lo spartito e la musica. Poi dovrei solo presentarmi per qualche prova sul palco, ma avrei già pronto il personaggio e non sarebbe necessario far perdere tempo a tutti. -
L’impresario a queste parole aveva ripreso colore e un atteggiamento più tranquillo. Si lisciò i baffi scrutandomi serissimo, poi sorrise e infine annuì.
- Allora va bene! Vi voglio tutti attivi e al massimo della forma! Abbiamo un tempo limite per mettere in campo un’opera del tutto diversa da quella che abbiamo preparato in questo mese! -
Balzò in piedi come se fosse ringiovanito di trent’anni in un colpo e prese ad arringare ancora più arditamente tutti gli addetti: - E’ un’impresa titanica! Ma se noi non fossimo titani non lavoreremmo al cospetto di Melpomene, la nostra gloriosa Musa! Vi chiedo sforzo e fatica per rendere onore alla nostra arte, signori miei! Nulla è più eroico di una compagnia teatrale che sfrutta ogni sua energia più residua per il suo grande orgoglio e dovere! Siate orgogliosi di chi siete e di che mestiere fate! Tutti, musicisti, cantanti, coristi, costumisti, scenografi, direttori di palcoscenico e magazzinieri, siete parte onorevole di questo nostro enorme progetto e proprio per questo bisogna che agiamo come un corpo solo per gestire questa crisi, da cui possiamo e dobbiamo uscire vincitori! –
- Si! – il coro festoso si alzò spontaneamente dai presenti.
Io sorridevo allegra. Sentire parlare il padrone con tanta passione era inebriante.
- Il percorso geografico – continuò l’anziano gestore, sempre più agguerrito – è vasto ed estraniante, me ne rendo conto: stiamo passando dalla Spagna dei masnadieri, alla Roma dei papi e degli artisti! Tuttavia, non sarà questo a fermarci! I teatranti sono cittadini del mondo! Sappiamo chi siamo ma anche chi dobbiamo essere! Quindi, preparatevi a ricevere ciascuno i vostri primi compiti! – puntò il dito verso un giovane magazziniere – Randal Webster, nostro grande amico dal Paese del sommo Shakespeare, voi siete incaricato di andare immediatamente alla casa editrice a fermare la stampa e ad ordinare un cambio di locandina: al Teatro “Racine” di Nantes si rappresenta “La Tosca”! -
Si levarono spontaneamente altre grida di giubilo e tutti avevano già smesso di pensare alla fatica che avrebbero dovuto sostenere.

- Pensi davvero di farcela, Victoire? Preparare il personaggio di Tosca da sola non è una passeggiata. Cantare è il meno, ormai dovresti saperlo. Potrei darti una mano, se vuoi. -
Dallas mi stava seguendo per il corridoio senza alcun tipo di ritegno. Snocciolava quelle frasi galanti mettendo solo brevi pause come se si aspettasse una mia risposta, che chiaramente non avevo intenzione di concedergli. Arrivata alla fine alla porta del mio camerino fui costretta a dargli retta e mi voltai.
La sua offerta era sincera perché per ragioni di professionalità desiderava davvero che la rappresentazione andasse al meglio. Ma nonostante questo l’espressione sorniona dei suoi smunti occhi azzurri, quell’aria compunta con la quale si scostava i capelli biondi dal viso e il petto gonfio d’orgoglio facevano presupporre ragioni ben diverse. E chiaramente queste sue idee non mi interessavano per nulla.
Per un attimo mi passarono per la mente diversi momenti in cui avevo visto Tyki elegantemente provocatorio, ma mi resi subito conto della netta differenza tra i due: in lui il fascino e lo stile di approccio erano più studiati e quindi fini e gradevoli, mentre l’americano era decisamente troppo spudorato, pomposo, insistente e, di conseguenza, indecente. Riusciva ad innervosirmi da morire.  
- Tranquillo, Dallas, me la caverò benissimo. – risposi, cercando di restare cordiale, anche se non vedevo l’ora di togliermelo dai piedi.
- Da sola!? Insomma, avrai bisogno di qualcuno che ti segua e ti aiuti… - e insistendo assumeva sempre più l’aria della provola. Tanto che mi veniva quasi da ridere, nonostante tutto.
- Ho già chi lo farà. Non hai bisogno di scomodarti. –
- Non sarà per caso il tuo tanto famoso quanto sconosciuto fidanzato… - commentò con un sorriso che dire malizioso era troppo poco. L’aggettivo “malevolo” si adattava di più.
- Esatto! – risposi, prontissima, sorridendo sfacciatamente.
Ad essere onesta, quando avevo pensato che qualcuno avrebbe potuto e voluto aiutarmi con le prove, purtroppo mi era venuto in mente il Conte… Forza di inerzia, immagino… Con mio sommo rammarico, sarei finita a cantare con quell’essere bizzarro al pianoforte… Il pensiero non mi piaceva.
Tuttavia, ero quasi certa di aver capito alla cena di qualche tempo prima che anche Tyki sapeva suonare… Era una prospettiva imbarazzante, ma molto più gratificante… Anche se del tutto improbabile…
Quindi alla fine quella risposta decisa era più una menzogna che altro. Per fortuna, comunque, Dallas non aveva intuito né mi conosceva abbastanza da capire quando mentivo.
Sbuffò, insoddisfatto: - Vorrei proprio vederlo questo tale… -
Alzai gli occhi al cielo: - Me l’hai già detto. E poi comunque non sono affari tuoi. Se vuoi parlare di questa tua solita, insopportabile polemica, faccio che entrare in camerino e mollarti qui! –
- Insomma, Victoire… Un inesperto piuttosto che aiutarti può portarti fuori strada… Io invece, che conosco bene il personaggio oltre che le arie, posso aiutarti certo molto di più… -
Stava cambiando tecnica, ora era quasi implorante.
Comunque non mi sarei certo commossa per quelle due moine.
- Sai perché Retino non ha avuto alcun dubbio quando gli ho detto che avrei preparato da sola la mia Tosca? – gli sorrisi candidamente – Perché io SONO Tosca. Quindi smettila di tormentarmi, d’accordo? –
Rimase basito e ne approfittai per aprire la porta e infilarmi nella stanza: - Ah, quindi non ci vedremo per un po’. Probabilmente fino alle ultime prove del prossimo-prossimo mercoledì… Ciao! – e gli richiusi la porta in faccia.

Passare da Carmen a Tosca in fondo era un sollievo.
Lei era un personaggio davvero romantico e tenero, una donna piena di illusioni, speranze insoddisfatte e scelte dolorose. Una persona onesta, tanto da fidarsi anche della promessa di un suo nemico e tanto ardita da ucciderlo con le sue mani. Una donna gelosa, ma razionale, forte, anche se troppo innamorata da fare la scelta più giusta e coraggiosa.
Quindi sentivo di assomigliare molto di più alla cantante che alla sigaraia, non c’erano dubbi.
Per riflesso, Cavaradossi doveva essere lui. Ma in cosa? L’unica vera somiglianza era l’intemperanza interiore, quell’ardore rivoluzionario che animava il pittore pontificio… Troppo poco…
Ma sapevo che sarei riuscita a sentirmi davvero coinvolta dalla vicenda. Perché nella mia mente il barone Scarpia era diventato subito il Conte.
Un uomo disposto a tutto per prendere possesso di Tosca, per attirarla a sé. Fino alla disposizione del ricatto crudele con posta in gioco la vita del suo amato. Un malvagio che fin dall’inizio gioca crudelmente con i sentimenti della ragazza, convincendola di volerla aiutare quando invece predispone tutto per l’inganno finale, il più odioso, il più nero.
Il finale mi chiudeva il cuore. Scarpia aveva promesso a Tosca di salvare il suo amato in cambio del suo corpo. Le armi sarebbero state caricate a salve, Cavaradossi si sarebbe salvato. Lei cedette, ma al momento del suo pagamento ebbe abbastanza volontà da uccidere il malvagio…
La giovane illusa credeva nonostante tutto nella buona fede del suo ricattatore e si vide invece morire di fronte ai suoi occhi l’uomo amato. Affranta, sola, distrutta decise per il suicido.
Troppo crudele. Troppo ingiusto. Troppo parallelo al reale…
Anche il capo aveva agito così. La merce di scambio non era tanto la mia anima quanto quella della persona a cui tenevo. E infondo anche il piano era un po’ lo stesso. La morte come la definitiva sottomissione al sangue dei Noah. Prima avrebbe fatto cadere lui, poi immancabilmente sarei crollata anch’io, proprio come Tosca si buttò da Castel Sant’Angelo…
Questa era la sua idea… Non glielo avrei permesso… Non sapevo come, ma sarei stata più attenta e meno ingenua di Tosca… A qualunque costo…

- Buon pomeriggio, famiglia. – esclamai entrando nella sala di casa.
- Oh, guarda chi si vede… - commentò Debit rivolgendomi un cenno della mano.
Fui davvero felice che non avesse in mano al solito la sua pistola dorata. Vedermela puntare addosso non mi metteva molto a mio agio.
- Oh, già, Vivy! Così presto… Ih-ih-ih!!! – fece subito eco il gemello, “accartocciato” su una sedia in una posizione che io avrei considerato scomodissima.
- Già. E’ che ci sono stati di nuovo guai a teatro… - risposi sedendomi su una poltrona di velluto nero.
- Ma non mi dire… -
- Lo dici sempre… Ih-ih! –
Sospirai: - Ma questa volta, è grave davvero… -
Da svogliati e distratti, entrambi si voltarono di scatto verso di me e mi si pararono davanti, prendendomi letteralmente d’assedio:
- Niente rappresentazione!?!? – chiesero, con un entusiasmo che mi fece sorridere.
- Beh, niente “Carmen”… - risposi, lasciando appositamente una pausa più lunga del necessario.
Chissà da dove veniva tutta quella mia voglia di scherzare…
- Oh, be’… Che vuoi farci, Vivy…? Capita, no… - riprese Debit, rinfrancato, fingendo di nuovo assoluto disinteresse e sedendosi ancora sulla sua sedia imbottita, scompostamente.
E Jusdero gli si affiancò subito, con lo stesso atteggiamento soave, anche se con quella risata un po’ stridula: - Vero, vero… Succede, succede… Ih-ih… -
Si scambiarono uno sguardo complice e presero a ridere di gusto, visibilmente sollevati.
- Ma… - al che entrambi sgranarono gli occhi – Non significa che non faremo nulla… Devo preparare un’altra opera… -
- VIVY!!!! – sbraitarono, angosciati – NON DIRAI SUL SERIO!!! –
- Be’ si… Vi prego, però, non fate quelle facce… - aggrottai le sopraciglia.
D’accordo, li avevo stuzzicati, ma erano davvero anche troppo drammatici…
- Oh no!!! Il Conte ci vorrà portare ancora a teatro!!! -
- No, il teatro no!!! – e, probabilmente per lo shock, invece della classica risatina, Jusdero interpretò un magnifico lamento greco.
Pensai di rassicurarli sul fatto che il capo probabilmente, viste le voci di dissenso che aveva ricevuto il giorno prima, non si sarebbe più illuso di portarli a vedermi. Tuttavia avevo ormai capito che quando i gemelli arrivavano a quei livelli di panico c’era poco da fare. Si sarebbero calmati solo di fronte a qualche grave distrazione. E speravo di non procurare loro qualcosa di simile o ne temevo i risultati.
- A proposito di lui… Avete per caso idea di dove sia il Conte? -
- Nello studio, credo. – rispose Debit, improvvisamente calmo, prima di tornare altrettanto repentinamente a lamentarsi a voce altissima.
- Grazie… - risposi e mi avviai verso la porta.
Poi mi venne in mente una cosa veramente stupida… Al solito…
- E Tyki? Dov’è? – chiesi ancora e questa volta mi sforzai di essere ancora più controllata e neutra.
- AH-AH!!! – esclamarono entrambi, distraendosi subito dalla loro occupazione e correndo di nuovo entusiasti nella mia direzione. Pessimo segno.
- Perché lo vuoi sapere!? Ih-ih!!! Ih! –
Rimasi per un momento sconcertata dal sentir parlare Jusdero prima del fratello, verso il quale per istinto mi ero rivolta subito.
- No, nulla di particolare… Dovevo chiedergli una cosa… - risposi vaga e ancora stranita.
Mi fissarono, i visi truccati segnati dalla curiosità, poi si strinsero semplicemente nelle spalle:
- Affari vostri. Meglio non mettersi tra i fidanzatini, no, fratello? -
- Si-si! “Tra… “ –
- “…moglie…” –
- “…e…” –
- “…marito…” –
- “…non…” –
- “…mettere…” –
- … Eh… Cosa…? Ih-ih-ih!!! –
- Ma si, Jusdero… - lo interruppe l’altro, sicuro - …Non mettere… la… il… Cosa accidenti era!?!? –
Sospirai, scuotendo la testa: - “…il dito.” –
- Già, ecco, appunto!!! – esclamarono all’unisono.
- Ma non vi sembra un po’ prestino per questi proverbi…? – commentai, spazientita.
Chiaramente non mi stavano neanche ascoltando.
Per quel giorno ne avevo davvero abbastanza di gente che parlava invece di ascoltare…
- Comunque, è chiuso in camera a dormire. Questa mattina Road e Lulubell lo hanno trascinato a fare spese. -
- Ah… -
Dopo una cosa simile, dubitavo fosse in forma o quantomeno di buon umore…
- Però Lulubell lo mette il dito… Vero…? – rise Debit, estraendo alla fine la sua preziosa pistola, che da come brillava sembrava lucidata di fresco.
Sgranai gli occhi: - In che senso…? –
- Ma si, ma si! Oggi era davvero spettacolare! Ih-ih! – aggiunse il gemello, cominciando anche lui a passarsi la pistola da una mano all’atra.
- Cosa significa questa storia? –
Non mi piacevano le malelingue, ma quelle frasi misteriose mi inquietavano e mi lasciavano un retrogusto fastidioso.
- L’hai mai vista elegante!? Oggi è tornata con un vestito verde! Addosso! -
- E quindi…? – chiesi, perplessa – Non è un bene che vesta femminile, finalmente…? -
- E proprio dopo una sua strana e non programmata uscita…? In compagnia di quel tiratissimo di Tyki…? Fossi in te, comincerei a preoccuparmi, Vivy… -
- Ma… - tentai di ribattere, poi me ne pentii e per poco arrivai anche a mordermi la lingua per non parlare.
Chiacchiere, stupide chiacchiere. Non mi importava di cose simili. E poi i gemelli erano dei gran chiacchieroni e non sempre a proposito.
- Ho capito, tranquilli. Ora vado dal Conte, però. A dopo. – risposi, sbrigativa, uscendo dalla sala.

- Ottimo, Vivy! Veramente ottimo! -
Sapevo che il Conte avrebbe risposto così, con tutto quello spensierato entusiasmo.
Niente frasi tipo: “Non ho tempo, cara… Però puoi sempre chiedere al secondo musicista migliore della casa…”, oppure un più malizioso “Eppure sono sicuro che preferisci un altro pianista… Vado a chiamarlo…”.
Troppo tardi mi ricordai che in presenza del capo dovevo evitare di pensare, troppo intensamente almeno. Però lui non reagì in alcun modo:
- Vieni con me! Cominciamo subito! –  

Mi portò, quasi saltellando, in una stanza che non avevo mai visto. Pareti nerissime su cui erano appesi solo specchi con cornici spesse ed elaborate. Un paio di mobili di legno colorato di tonalità shocking carichi di carte, libri e cianfrusaglie di vario e discutibile gusto. Infine, al centro della camera, un grandissimo pianoforte a coda, scuro e lucido, di foggia moderna, che occupava mezza stanza.
- Come mai qui? – chiesi – Credevo saremmo andati nella sala del pianoforte d’oro… -
Il Conte si voltò nel massimo splendore del suo ghigno giocondo:
- Eh no… Quello è un pianoforte speciale che posso toccare solo io e che ha delle virtù particolari! Non ci posso suonare tutta la musica che voglio, ma solo quella “necessaria”! La musica di quello strumento ha dei poteri molto importanti per noi! -
- Davvero…? – dissi, sperando che continuasse a spiegare.
- Già! Quindi dobbiamo esercitarci qui! – rispose, assestandosi comodamente sulla panchetta di fronte alla tastiera. Mi chiesi come facesse a reggerlo, ma non mi stupii che miracolosamente non si fosse sbriciolata sotto il suo imponente peso.
Comunque aveva iniziato a fare finta di nulla. Non era interessato a continuare quella discussione e tantomeno con me…
- Non avete bisogno dello spartito, Conte? -
- Per nulla, Vivy! Io mi ricordo tutte le opere a memoria! – rispose, più che mai divertito – Però su quel mobile laggiù deve esserci un libretto con il testo e qualche indicazione di tonalità! –
- Ah, grazie. – risposi, andando subito a cercare in quegli scaffali polverosi.
- L’hai trovato!? –
- Si. – e passai una mano su una copertina grigia, che dopo quel gesto, liberata dalla polvere, si rivelò essere bianca.
- Bene, allora, all’opera! – esclamò sogghignando.

Le prove con il Conte si rivelavano meno dannose e antipatiche di quanto credevo. Certo, la sua presenza mi metteva comunque in difficoltà e per questo non riuscivo a calarmi davvero nel personaggio. Collaboravano poi alla tensione i suoi tentacoli che scorrevano velocissimi, pieni di virtuosismi, sui tasti e mi facevano in effetti un po’ impressione. Quindi mi riuscivo a dedicare solo al canto, a renderlo il più possibile corretto e dosato. Alla fine di ogni aria, il capo si scioglieva in mille complimenti, anche talmente pazzeschi da darmi parecchio fastidio… Ma a parte questi elementi negativi, non stava andando male…

Solo che alla fine della quinta aria, si udirono degli applausi leggeri e moderati.
- Molto bene… -
Era appoggiato mollemente allo stipite della porta, che non mi ero neanche accorta che fosse stata aperta. Un sorrisetto furbo sul volto, tipico di quell’orgoglio infido che accompagna chi stupisce con un’entrata ad effetto e inaspettata. Le cicatrici coperte dai capelli scompigliati con una strana grazia sulla fronte. Gli occhi gialli ancora un po’ assonnati, ma attenti, che ci scrutavano. E si, l’immancabile camicia bianca aperta per un paio di bottoni dal colletto, anche se al contrario accuratamente infilata nei pantaloni neri.
Dopo lo stupore e lo spavento iniziale, non potei che sorridere, imbarazzata:
- Grazie mille, Tyki… Dormito bene? -
- Si, finalmente. Ora mi sento meglio… - rispose accompagnando il commento con un plastico stiracchiamento.
- Ti abbiamo svegliato, Tyki-pon!? – chiese il Conte, con innata carineria.
- A dir la verità, si. Però non è stato un brutto risveglio. – sorrise, cordiale.
Che davvero non fossero parole leggere e bugiarde? Nonostante l’apparenza formale, non sembrava che fingesse. Allora erano complimenti sinceri… Probabilmente stavo arrossendo…e sentivo di non potermelo permettere…
- Oh, bene! Quindi ti piace l’opera!? – esclamò il Conte, sempre più arzillo.
Aggrottò le sopraciglia: - Non esageriamo. Non è che la conosca abbastanza da dire una cosa simile. Però ammetto che ha qualcosa di interessante… -
- E’ già molto! Vero, Vivy!? -
- Assolutamente. – risposi – Meglio di certo delle reazioni dei gemelli… -
- Perché…? – mi chiese il ragazzo, già ridendo.
- Be’, poco fa hanno fatto di nuovo una scena incredibile, quando hanno saputo della nuova rappresentazione… - sorrisi, comprensiva.
- Che maleducati! – si intromise il Conte, con fervore – I Jusdebit non dovrebbero fare così! –
Tyki si lasciò andare ad una risata maliziosa: - Mi immagino la scena…! Che deficienti…! –
- Ma Tyki-pon!!!! -
- Su, Conte! Sono bambini alla fine! Non fate il fiscale! – e scrollò le spalle – Tanto non credo che Vivy si sia offesa! –
- Proprio no. Ognuno ha i suoi gusti… -
- Allora, d’accordo! – poi si voltò verso di me – Comunque, Vivy, temo di doverti lasciare…! Ho alcuni impegni importanti…! Ti posso lasciare con Tyki!? –
- …Io…? – chiese lui, puntandosi addosso l’indice, confuso.
- Si! Vivy deve continuare a provare per la rappresentazione che avrà luogo tra due settimane! Vero che suonerai tu al posto mio!? – chiese il Conte, alzandosi dalla panchetta con un bizzarro saltello.
Si vedeva distintamente che stava gongolando per come andavano le cose. Mi chiesi quale fosse esattamente il suo piano, ma alla fine mi accontentai di prendere atto che per una volta la sua idea coincideva con la mia speranza. Forse non era un bene. Comunque, nonostante lo desiderassi, stavo già diventando molto nervosa…
- Se mi ritenete all’altezza… - disse con un’aria ancora un po’ incerta.
- Si, certo! Suoni piuttosto bene, Tyki! Basterà andare a cercare gli spartiti! Dovrebbero essere anche quelli lì in mezzo! – e indicò ancora la vasta libreria.
- Be’, allora Vivy…? Per te va bene? – e un sorriso ironico gli comparve sul viso a quella domanda.
- Si, nessun problema… -
Anche se il problema c’era eccome perché mi sentivo addosso un’emozione e un panico non indifferente.

- Umph… - bofonchiò, fissando dubbioso i tasti del pianoforte.
- Qualche problema? – chiesi guardandolo in quello strano atteggiamento.
Si voltò con un’espressione di sufficienza: - Non credo. Penso che l’istinto del musicista mi verrà con le note davanti… - poi tornò a scrutare lo strumento e aggiunse a voce più bassa - Per ora questa alternanza bianca e nera mi è sconosciuta… -
- Com’è possibile? – domandai, mentre continuavo a spostare libri e tonnellate di polvere in cerca degli spartiti.
- Credo sia un misterioso potere Noah… - rispose, indifferente.
- In effetti mi sembrava strano che avessi imparato volontariamente a suonare! Quindi tu sei capace di usare il pianoforte d’oro, dato che possiedi questa capacità innata? –
- No. Quella è una prerogativa del Conte. In realtà è solo perché è il nostro “suonatore” che sa suonare ogni diversa musica desidera.. -
- Continuo a non capire… - risposi.
Ma Tyki non aveva voglia di spiegarmi: - Lascia perdere, Vivy… Il punto è che il Conte è in ogni caso molto più bravo di me con il pianoforte, quindi ti devi accontentare di un musicista piuttosto mediocre. -
- Figurati se è un problema… L’importante è che suoni le note giuste… - risi.
- Allora qual è il problema…? – mi chiese all’improvviso.
- Problema…? – dissi, cercando di restare indifferente, anche se due libri parecchio pesanti mi stavano per cadere di mano.
- Vivy… Lo sai che mi accorgo quando menti… Anche se non so perché… Ti ho chiesto se c’erano problemi e hai detto di no, ma con un’aria del tutto stranita. Quindi? –
Si vedeva che ero in difficoltà!? Malissimo… Tanto più che lui amava sempre un sacco approfittare dei miei momenti di confusione…
- Niente, Tyki… Non ho alcun problema, davvero… - risposi, continuando ad evitare di guardarlo con la scusa della ricerca negli scaffali zeppi.
- Sicura? – con un tono insinuatore.
- Trovati! – esclamai cambiando provvidenzialmente discorso e mi voltai per soffiare via parte della sporcizia dall’insieme di fogli.
Non mi ero accorta che lui si era avvicinato e finii per mandargli tutta quella polvere addosso come una nuvola.
- Ah! In faccia, Vivy!? – con tono un po’ irritato.
- Oddio! Scusami! – dissi, forse anche più allarmata del necessario.
Sorrise, gentile: - Sto scherzando! Non mi hai fatto niente! – ma si sfregava insistentemente gli occhi.
- Ti ho mandato la polvere negli occhi! Che stupida! Aspetta! Vieni a sederti! –
- Non preoccuparti! Non sto morendo! Stai tranquilla! – ma si lasciò condurre fino al sedile del pianoforte.
Rideva allegramente, anche se gli occhi gli lacrimavano. Probabilmente per la scena, che ripensandoci era stata davvero demenziale…
- Ok, adesso cerca di tenere gli occhi aperti…! – gli chiesi.
Lui annuì, un sorriso divertito impresso sulle labbra.
Mi accostai al suo viso e soffiai piano su quegli occhi spalancati a forza.
- Come va ora? – chiesi, preoccupata.
Sbatté un paio di volte le palpebre e poi mi guardò:
- Molto meglio. –
Solo che poi avvenne qualcosa che non mi aspettavo. Il suo sorriso mutò e divenne stranamente aperto e sincero: - Non dovresti preoccuparti così tanto per cose così stupide, Vivy… Non l’hai fatto apposta… - e poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, mi prese la mano e se la portò alla bocca.
Ecco. Probabilmente avevo assunto un rossore tutt’altro che lieve, a giudicare anche dalla frequenza dei battiti del mio cuore, ma non potevo evitarlo. Oltretutto, mi ero anche appena accorta che il mio viso era rimasto pericolosamente vicino al suo…
Ma che pericolo c’era? Perché mi preoccupavo? Cosa c’era di male? Non era uno sconosciuto con il quale una cosa simile sarebbe stata impudente o maleducata…
Bastava un momento. Non serviva molto altro.
Perché anche quella breve distanza non poteva annullarsi e basta? Perché nonostante quella vicinanza, lui aveva pensato istintivamente alla mia mano e non alla mia bocca…?
Io non ero abbastanza coraggiosa da farmi avanti. Provavo troppa paura di sbagliare. Di mostrarmi una donna facile, che lui potesse usare e buttare via. Di essere troppo diretta e rompere quel misterioso equilibrio che stavamo costruendo. Di vedere quei miei sentimenti, quel mio desiderio di averlo vicino, sfruttati o peggio ancora rifiutati da lui. O trasformati in armi per farmi annullare dal Conte.
Ma stava già succedendo in realtà. Io soprattutto in quel momento ero Tosca, che avrebbe venduto se stessa per avere l’uomo che amava…
Tyki aveva già lasciato la mia mano, ma restava fermo, improvvisamente serio, a ricambiare il mio sguardo e basta. Avrei fatto di tutto per sapere cosa stava pensando.
Per quanto mi riguardava, i miei occhi sembravano non saziarsi mai di vederlo da così vicino e non facevano che attraversare e riattraversare tutti i tratti del suo volto. Avrei voluto abbracciarlo forte, poi prendere quel viso tra le mani e baciare quelle labbra con tutto quel sentimento assurdo che provavo.
Ma non ero Carmen. Non ne avevo la forza né la libertà…
E in un attimo tutto cambiò ancora.
Tyki distolse lo sguardo, prese in mano gli spartiti e disse, con una calma innaturale:
- Però ora è meglio se cominciamo o non finiremo mai… -

Il mio cuore batté due volte più veloce della norma per tutto il tempo delle prove. Ormai non ne avevo più il controllo.
Eppure cantai meglio di sempre e mai fui così felice di aver dato il meglio di me. Tyki suonava con calma, senza sbagliare neanche una nota, proprio come gli avevo chiesto per scherzo. Era concentratissimo e, anche se non si lanciava negli strani virtuosismi del Conte, il suo modo di suonare era fluido e rilassato. Perfetto…
- Secondo me, vai già benissimo così. – commentò sinceramente quando finimmo.
- Sei gentile, ma non posso accontentarmi. Senza prove in teatro tranne gli ultimi giorni devo continuare a darmi da fare… -
- Certo, capisco. -
Mi feci coraggio e chiesi, probabilmente con maggiore timidezza del necessario: - Senti, Tyki… Potresti suonare per me anche domani…? – presi fiato e aggiunsi – Quando puoi, non appena hai tempo… E non sei obbligato… Però finché resti a casa… Mi farebbe piacere… -
Mi guardò assolutamente neutrale, come a studiarmi, e infine rispose, con un sorriso ironico: - Se non verrò obbligato ad altre misteriose commissioni, non ci sono problemi. –
Gli sorrisi di rimando e poi uscimmo insieme dalla stanza.

Riusciva addirittura a rendermi una ragazzina timida e timorosa. Mi chiedevo se tra tutte queste sue strane abilità non ci fosse per caso ancora quella di voler bene come un essere umano…







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Salve a tutti!
Eccomi con un capitolo (un po' lunghino, in effetti) narrato da Vivy, anche lei presa da strani contrasti, guidati in questo caso da due famosissime figure femminili del mondo operistico...
Tra l'altro ho trovato delle citazioni molto azzeccate per tutti i capitoli come questa del caro Iacopone... Appena avrò un po' di tempo, le aggiungerò sotto a tutti i titoli precedenti... XD
Mi dispiace un po' di non aver ricevuto commenti riguardo il capitolo scorso, ma ho visto di aver avuto quasi 90 visite e questo mi gratifica molto di più... Grazie infinite a tutti coloro che hanno letto e spero continueranno a farlo!!!

Rispondo anche ad una recensione lasciata su un altro capitolo:
Tyki Mikk = caspita! Vedersi recensire da un nickname simile fa davvero uno strano effetto... O_O Ti ringrazio moltissimo per i complimenti generosissimi! Cerco di fare del mio meglio per trattare Tyki con i guanti di velluto (ogni gioco di parole è assolutamente voluto... ^_^)! Si, in effetti quel capitolo è uno dei più apprezzati e condivido che è uno di quelli che ho scritto meglio... Grazie mille davvero! Non sono riuscita a capire se hai letto anche i capitoli seguenti (lo spero), in ogni caso spero arriverai fino qui a leggere questi ringraziamenti! XD

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Capitolo 12
*** XI - White Roses ***


Capitolo 11

White Roses



“Solo chi non è amata da Cipride / non sa quali rose siano i suoi fiori.”
(Nosside)






Si dice che il pianto di un bambino può smuovere chiunque. Io, molto modestamente, aggiungerei che per fare e disfare ogni cosa basta il semplice capriccio di una bambina...
Non mi stupisco però che nessuno prenda seriamente in considerazione questo concetto. Credo di essere l’unico adulto che finisce per perdere del tutto la sua autonomia per il semplice richiamo di una undicenne…
Volevo… no, è esagerato… “Volere” è qualcosa di troppo forte…
“Mi andava bene”… si, meglio…
Mi andava bene aiutare Vivy a preparare l’opera.
Suonare e accompagnare il suo canto era affascinante. Mi era piaciuto, comunque. Poteva essere interessante rifarlo.

Sarà stato proprio questo mio interesse a spingere la mia piccola despota a volermelo impedire ad ogni costo…?

- Tyki, oggi andiamo al parco! – se ne uscì allegra il giorno dopo a colazione.
Non c’era tono interrogativo. Non mi stava guardando per capire la mia espressione alla notizia. Non voleva la mia opinione. Anzi, si stava servendo della marmellata sporgendosi serenamente sul mio piatto, priva di ogni minimo ritegno.
- Ah, no. – risposi, con molta calma, sollevando delicatamente la tazzina del caffè.
Effetto immediato.
- Cosa vuol dire “ah, no”!? – chiese Road con la voce che, nonostante la serenità di poco prima, già tendeva allo stridulo.
Fin dall’inizio si prospettava una dura lotta. Non ne avevo proprio voglia.
D’istinto mi voltai verso la sedia alla mia sinistra, benché sapessi che era ancora vuota. Vivy non era ancora arrivata a fare colazione. Sbuffai. Avevo proprio voglia di lasciare a lei l’ingrato compito di spartirmi con Road. Faceva tanto “uomo-oggetto”, ma la pigrizia comportava questo ed altro.
Tanto tutti i miei tentativi di lottare contro la “dittatrice” risultavano sempre vani. Almeno, se la mia vicina di posto avesse mostrato un po’ di quella sua celata ma sprezzante volontà, il loro scontro sarebbe stato quasi pari.
Anche se probabilmente una disputa tra loro, contando oltretutto l’ostilità evidente della bimba, non mi avrebbe favorito, ma reso una posta in palio decisamente indisposta…
- Ho semplicemente preso altri impegni, Road. – risposi, tranquillo, sorseggiando con cura la bevanda calda.
In mancanza dell’altra disputante, mi toccava difendere da solo la sua posizione. Una bella scocciatura. Oltretutto le mie possibilità di vincere con Road erano uguali a zero.
- Ma sai che riuscirò a farti fare quello che voglio! – sorrise, tagliando una fetta di burro con un’inquietante perizia – Mi fa piacere! -
Aggrottai le sopraciglia: - Lo sai che non lo sopporto… -
Quel suo modo di leggere nella mia mente senza permesso mi innervosiva troppo…
- Ma il Conte dice che posso! – esclamò, cercando subito con gli occhi rapaci il capo, seduto a capotavola – Non è così!? -
Lui rise di gioconda dolcezza: - Ma certo! Non dire così, Tyki-pon! E’ giusto che usi i suoi poteri, altrimenti che senso avrebbe!? E poi tu non hai nulla da nascondere, no!? –
- No… - risposi stizzito, ma senza perdere la calma.
- Comunque ha ragione lui, Road! Ha promesso a Vivy di aiutarla a fare i suoi esercizi! -
Anche il Conte aveva lo stesso vizio e mi faceva parecchio arrabbiare, però almeno lo faceva con più… discrezione…
Lei per tutta risposta mise un broncio terribile e prese a stropicciarsi la gonnellina, con aria offesa e rabbia trattenuta a fatica, poi sbottò, con un tono parecchio più alto del necessario: - Non mi interessa! –
- Lo so che non ti interessa. Lo dici sempre. La volontà altrui è nulla per te. – risposi, benché sapessi di essere un po’ troppo duro, probabilmente – Ma quando si tratta di persone che non ti riguardano, posso capirlo. Verso una nostra parente è scortese. Dovresti saperlo. -
- Tyki-pon!!! Non essere così cattivo!!! – esclamò il Conte, che prontamente, dopo essere rimasto per qualche momento dalla mia parte, era subito tornato a tifare per Road.
- Non è cattiveria. Penso solo che dovreste essere anche voi un po’ più imparziale. – ripresi, terminando finalmente il caffè e posando piano la tazzina sul piattino.
Non valeva la pena di scomporsi, anche se in poteva tranquillamente essere l’occasione perfetta per una bella scenata. E poi altrimenti dove finiva il mio retto disinteresse?
- Ma non puoi fare così! E’ una bambina! Devi essere più gentile! – e nel dire queste parole si alzò e prese ad accarezzare Road con una tenerezza quasi nauseante.
E Road, quella stessa Road che quando le si dava della bambina lanciava fuoco dagli occhi, si appese triste al collo del Conte e si lasciò abbracciare in un atteggiamento davvero mieloso.
“Si, una bambina… Come no…?” pensai, irritato.
Sbuffai, distogliendo lo sguardo da quella scena insopportabile: - Sarò stato brusco, ma la sostanza non cambia… Ho detto a Vivy che l’avrei aiutata e mi dispiace, questo significa che non posso uscire con te. –
Solo allora rividi la despota al massimo splendore. A queste parole mi fulminò con lo sguardo giallo più arrabbiato che le avevo mai visto…
- Andiamo via. – disse solo e il Conte uscì dalla stanza tenendola in braccio.

- Buongiorno! – esclamò Vivy, parecchio affannata, entrando qualche tempo dopo e quasi di corsa nella sala da pranzo.
- Alla buon’ora… - commentai, mesto, rendendomi conto solo dopo di essere stato alquanto sgarbato.
Lei si fermò sulla soglia, basita, gli occhi sbarrati dalla sorpresa.
Dopo un attimo, però, si mise a ridere: - Allora ogni tanto anche tu ti alzi con la luna storta! –
Appoggiato con i gomiti sul tavolo, mi voltai senza potermi evitare un sorrisetto: - Veramente ero perfettamente di buon umore… Prima… -
- Cosa è successo? Qualcosa di grave…? – domandò, tornando subito seria.
- Nulla di simile. – risposi subito, dato che sembrava già preoccupata - Vieni… Non stare in piedi…- e mi alzai per farla accomodare al suo solito posto.
Si avvicinò, un po’ titubante, e si sedette sulla sedia imbottita, sistemandosi delicatamente la lunga gonna scura.
Stavo per avvicinarle il sedile al tavolo, quando mi fermò: - Emh, ti dispiace se tolgo la giacchetta… E’ che ho un po’ caldo… Mi sono messa a correre quando ho visto l’ora…- chiese, imbarazzatissima.
- Per me non ci sono problemi. – risposi, più candidamente che potei.
- Anche se è un po’ indecoroso…? – chiese, ancora poco convinta.
- Ti pare che io mi faccia problemi simili? – le domandai, facendo un gesto eloquente a mostrarle il mio solito abbigliamento casalingo, cioè la camicia bianca con qualche bottone aperto.
- Si, ma lo sai che per una donna… - iniziò, sempre più a disagio.
- Si,si… So tutto… Però sei in casa tua, è giusto che tu faccia quello che vuoi… -
Come sempre si faceva troppe fisime…
Storse un po’ il naso, probabilmente per la mia espressione impaziente, poi si sfilò la giacca grigia che appoggiò con cura sullo schienale. Indossava una camicia bianca con le maniche a sbuffo e il colletto ricamato e frastagliato, che lasciava solo intravedere un laccetto accollato. Come ciondolo aveva una piccola pietra nera, perfettamente in tinta con i lunghissimi capelli che aveva lasciato sciolti e scivolavano graziosamente sulle sue spalle.
Nel caso di una donna qualunque avrei formulato qualche malizioso e languido complimento. Mi veniva naturale. Eppure, con lei dovevo prendere atto di non riuscirci spontaneamente. E se l’avessi fatto comunque, sarei apparso troppo sincero… No, meglio di no.
Le accompagnai la sedia e presi il mio posto a fianco a lei: - E’ solo che avrei preferito fossi stata tu a difendere personalmente il tuo diritto di precedenza… -
- A cosa ti riferisci…? –
- Road mi ha… - esitai, ironicamente – …ordinato… Se mi passi il termine… -
Sorrise: - Conoscendola, “ordinato” è l’unico termine… -
- Già… - sbuffai, svogliato – Be’, mi avrebbe ordinato di andare a fare un giro con lei oggi… -
Notò subito il condizionale e sgranò di nuovo quei grandi occhi segnati di giallo dal nostro potere:
- Non le avrai mica detto di no! – esclamò, incredula.
Aggrottai le sopraciglia di fronte alla sua reazione: - Scusa se ho difeso gli accordi che avevamo preso… -
- Ma no, ma no… - si affrettò a rispondere, scuotendo la testa concitatamente.
Ero offeso…?
Non era da me, certo. Tenendo però conto che mi ero anche dato da fare e l’avevo fatto per nulla, c’era poco da restare impassibili…
- Insomma, mi sembrava che avessi detto che ti ero utile… -
- Tyki! Mi lasci parlare!? – esclamò, con cipiglio offeso.
- Guarda che se c’è uno che deve essere offeso… -
- Si, va bene… Ma mi lasci spiegare…? –
- Guarda che non c’è nulla da spiegare! Se non ti va, posso sempre… -
Inaspettatamente, forse ad entrambi, si allungò verso di me per posarmi un dito sulle labbra.
Mi bloccai quasi di scatto.
Anche lei sembrò colpita dalla sua stessa reazione spontanea, ma si riprese in fretta:
- Hai finito? Ora posso parlare? -
Alzai gli occhi al cielo: - Si… -
- Bene. – rispose, tornando ad appoggiarsi elegantemente allo schienale intarsiato – Ascolta. Il mio stupore e il mio commento erano solo dovuti al fatto che è pazzesco anche solo pensare a te che prendi una posizione contro i capricci di Road… -
- Non è un complimento, Vivy. – commentai, con una lieve smorfia.
- Ma è un fatto. – sorrise, tranquilla.
- D’accordo, ma… - tentai di controbattere.
- Allora, la prossima volta che  cosa potrei usare per impedirti di interrompermi…? – diede una vaga occhiata alla tavola imbandita – Che ne dici del panetto di burro…? –
- Ho capito. Non parlo più… - risposi, divertito.
Rise di gusto, poi riprese: - Mi sembra giusto. Comunque, davvero Tyki… - tornò subito molto seria e tornò a fissarmi negli occhi con un’intensità sincera – Non sai quanto mi fa felice pensare che tu sia dato tanto da fare per non mancare ai nostri accordi. Mi fa piacere quanto poco altro sapere che vuoi davvero aiutarmi. -
Questo fu troppo. C’era troppa umanità in lei. Veniva decisamente spontaneo chiedersi se era davvero una Noah. Quando parlava così, lasciando trasparire tutti quei buoni sentimenti, tornava quel fastidioso e insidioso ricordo del passato. No, meglio di no.
- L’ho fatto perché tu non c’eri ed era giusto che entrambe le parti fossero rappresentate. Non poteva prendere decisioni senza neanche considerare la tua posizione. Per questo. – cercai di giustificarmi, a fatica.
Come se fosse necessario. Come se fosse sensato. Perché sentivo il bisogno di farlo?
- Certo, lo so. Però credo che se fosse stato solo per questo avresti ugualmente lasciato che come sempre ti obbligasse. E… - mi bloccò dall’interromperla afferrandomi il polso che avevo appoggiato alla tavola - …non voglio che tu mi dica di no. Anche se non fosse vero… Lasciamelo pensare, ok? -
C’era quasi una supplica nel modo in cui lo disse. Teneva stretto il mio polso come per un bisogno morboso di restare attaccata a questa sua visione di me. Voleva vivere nel passato. Io non potevo permetterglielo, in assoluto.
Però non tentai più di contraddirla. Non solo per le sue minacce, ma perché in quel caso aveva ragione. Non lo avrei mai ammesso apertamente, per mille e una ragione, ma avevo davvero scelto lei, piuttosto che Road. E forse lo avrei fatto anche se non avessimo preso quel mezzo accordo.
Ma lasciarsi andare a ipotesi… No, meglio di no.
- Tuttavia, - e mi lasciò, per riprendere a guardarmi con un’espressione un po’ triste – vorrei che tu andassi con lei. -
Non vedendo alcuna mia reazione, prese a spiegare cautamente: - Tyki, credo tu sappia che per ora io e Road non abbiamo ancora stabilito un ottimo rapporto. Non vorrei che questo nostro  impegno mettesse a rischio la possibilità di creare una convivenza civile tra me e lei. Vorrei piuttosto evitare quanto posso ogni occasione di attrito. -
In realtà dubitavo che questo sarebbe bastato. Vivy si illudeva che l’ostilità di Road fosse solo momentanea e destinata a finire con il tempo e la conoscenza. Era meglio che non riuscisse a vedere ciò che vedevo io, cioè l’odio profondo, e secondo me immotivato, che la bambina aveva per lei.
- Ho capito. E’ chiaro. Vuoi conquistare Road riconsegnandole il suo giocattolo. -
- Tyki… - disse, con aria affranta – Non voglio trattarti come un oggetto. –
- Lo so. Non te la prendere. Doveva essere una battuta. Quando imparerai a capire quando scherzo…? – ribattei, scrollando le spalle.
- Non scherzare. – rispose, seria e dispiaciuta - Io avrei davvero bisogno di te per le prove. –
Sorrisi, lasciando volontariamente trasparire l’ironia: – Comunque è una scelta tua… -
- Mi dispiace… -
- Si vede. Non ti preoccupare. – mi alzai in piedi con un mezzo stiracchio – Allora vorrà dire che mi sacrificherò. – e mi diressi verso la porta - Buona giornata, Vivy. Ci vediamo più tardi. –
- Anche a te. A dopo. – mi salutò.

Infatti Road apparve estremamente soddisfatta della resa di Vivy. Tanto soddisfatta che non volle lasciarmi nemmeno un giorno per assisterla, ma in ogni occasione mi trovava qualcosa che bisognava assolutamente fare.
Così mi ritrovai a fine settimana disperatamente stanco… L’idea di tornare in miniera era un idillio rispetto ai giorni densissimi che avevo passato… Tentai anche di farlo presente a Road, la quale non batté ciglio e con candore mi rispose che probabilmente non avevo il fisico...
A giudicare dalle poche volte che riuscii a vederla, la nostra soprano era ancora più stravolta di me. Comunque era evidente che la stanchezza non era l’unico problema. Come sempre tentava di nascondere quanto più poteva le sue tensioni d’animo, ma non ci riusciva mai pienamente. A pranzo e a cena, quando ci ritrovavamo tutti insieme, notavo magari qualche commento di fuoco diretto al Conte, oppure occhiate furtive a Road, o ancora sorrisi un po’ amari nei miei confronti…
Le conclusioni più logiche per questi gesti erano che probabilmente stava di nuovo litigando con il Conte e cercava almeno con lo sguardo la famosa riconoscenza che Road le doveva ma che, al solito, le faceva sudare. Però non mi quadrava quell’aria sofferente che mi rivolgeva. Di certo si era pentita della scelta fatta, ma non era corretto che cercasse di farmela pesare così tanto… Sempre se era solo per quello…
Appena c’era una mezza occasione, tentavo di chiederle qualcosa, ma, prendendo evidentemente esempio da me, dal maestro in questo ambito, arrivava sempre a svicolare abilmente…
Alla fine, decisi che erano affari suoi. Non ero il tipo da impormi troppo interessamento. Questione di carattere.

- Be’, allora, famiglia… Alla prossima… - biascicai, mezzo addormentato, tentando a fatica di alzarmi dalla poltrona su cui mi ero abbioccato.
- Vai già via, Tyki!? – esclamò Road, balzando in piedi, almeno lei arzillissima.
- Come “già”… - risposi, alzando gli occhi al cielo, spazientito – Non ne hai proprio mai abbastanza, eh…? –
- Tyki-pon! Non ti fermi a cena!? – chiese il Conte, altrettanto giocondo.
- No davvero, Conte… Devo andare prima di farmi vincere di nuovo dal sonno… Scusatemi… - gli risposi, per poi sbadigliare sonoramente.
- Stupid-Tyki vuole farci analizzare le sue tonsille! – esclamò pronto Debit, seguito a ruota dal fratello: – Hi-hi! Che sbadiglio! Hihihi! –
Sbuffai: - Non voglio lezioni di buone maniere da voi… -
- Ricordati di andare a salutare anche Lulù e Skin…! – disse Road, sovrastando la voce dei gemelli infervorati.
- Ne sentiranno la mancanza? – le chiesi, ironico.
- Tyki! – esclamò lei, con aria di rimprovero.
- Ho capito… Ho capito… - poi aggiunsi, a voce più bassa, perché solo lei potesse sentire – Tu però fai la brava in mia assenza. Metti da parte un po’ della tua ostilità. Lo sai cosa intendo… -
- Si, si… - rispose, annoiata, per poi gettarmi come al solito le braccia al collo.
Stavo per uscire dalla sala, quando dalla stanzetta attigua comparve anche Vivy, con in mano un enorme libro rilegato, probabilmente l’ennesimo romanzo russo che stava divorando.
- Stai andando via? – mi chiese.
- Già… E si… Stavo dimenticando di salutarti… - aggiunsi subito, con un sorrisetto falso.
- Come al solito. – commentò lei, per nulla offesa – Allora alla prossima, Tyki. –
- A presto, Vivy. E buona fortuna per la prima… - la salutai.

Impiegai quasi tre giorni a riprendermi del tutto dalla sonnolenza.
I ragazzi erano sconvolti e mi chiesero più volte come avevo fatto a ridurmi come uno straccio fino a quel punto. Chiaramente non risposi, o almeno non con quello che volevano sentirsi dire. Del resto stavano ancora tirando fuori vaghe ipotesi sulla mia misteriosa amante, senza sapere che se quella che mi aveva ridotto così fosse stata la mia donna sarei stato un pedofilo.
Il resto della settimana, comunque, passò abbastanza bene.
Fino a sabato…
Non so cosa mi successe. Non so spiegarmelo. Non avevo più pensato all’occasione che cadeva in quel giorno da quando avevo ripreso i miei panni umani, eppure quel mattino mi svegliai con una martellante e irrazionale ossessione che non riuscivo a scacciare.
Volevo a tutti i costi andare a vedere Vivy cantare alla prima di quella sera.
Più ragionavo sul fatto che interessarmi tanto a quel suo atteggiamento umano, a quella voce angelica, a quel passato splendore fosse del tutto contrario ad ogni cognizione della mia parte Noah, e più quell’idea mi riempiva la mente e un desiderio incontrollabile mi tormentava.
Rifiutarmi e oppormi non avrebbe significato nulla. Io subivo troppo il fascino delle tentazioni e dei più piccoli e occulti piaceri. Erano il mio forte.
Se mi andava bene così, cosa c’era da chiedersi di più?

Verso sera, comunicai ai miei amici che dovevo assentarmi per qualche ora e lasciai intendere che fosse colpa del “part-time”. Non fecero domande, ma mi annunciarono che mi avrebbero aspettato svegli e che era il caso che tornassi presto.
Mi sentivo una ragazzina con il coprifuoco dei genitori…
Era un pessimo periodo per la mia autostima…

Per arrivare a Nantes l’unico mezzo che avevo a disposizione erano le porte di Road. Questo chiaramente significava palesare quello che stavo facendo. Si sarebbe certo accorta di come stavo sfruttando i suoi preziosi passaggi dimensionali. Tuttavia, avevo imparato che era ugualmente impossibile fare qualcosa senza che lei o il Conte lo sapessero, quindi tanto valeva che ne fossero a conoscenza già fin da subito, così che poi non mi stressassero troppo per farmelo confessare.
Il passaggio sbucava poco lontano dal teatro e vi arrivai appena in tempo per accaparrarmi l’ultimo palchetto.
Ci fu qualcosa di controverso e incomprensibile in tutto quello che vidi e pensai quella sera. Non che fosse una novità per me, ma certo non mi era mai capitato di sentire tanto forte il conflitto.

Da una parte c’era il mio lato Noah, apparentemente in minoranza, ma che suppliva la sua condizione di sfavorito con dei picchi improvvisi e quasi incontrollabili.
Mi bastava semplicemente guardare Vivy. I suoi abiti sgargianti, preziosi, decorati con una perizia incredibile, che avvolgevano il suo fisico snello come se glieli avessero cuciti addosso. Quella sua pelle lattea e delicata che, complice forse il trucco, sembrava brillare alla luce dei riflettori. I capelli acconciati con pochi riccioli sciolti a sfiorare il suo viso elegante e concentrato. I suoi occhi verdissimi che lanciavano sguardi intensi, prima appassionati, poi acuti, poi disperati, seguendo gli stati d’animo del suo personaggio.
Trovavo che fosse la donna più attraente e desiderabile che avessi mai visto.
Mentre raggiungevo questa coscienza della passione che mi scuoteva, mentre percepivo distintamente ancora una volta la volontà di prenderne pieno possesso, riconoscevo anche la più piacevole verità: lei era mia. Mia proprietà. Mia promessa. Mia futura sposa. Nessuno poteva portarmela via. Non avevano speranze. Solo io sapevo tutto di lei, anche di quell’anima nera che si portava dentro e nascondeva con tanta cura. Solo io avevo il diritto e la possibilità di desiderarla tanto. L’orgoglio più spietato e infuocato si impadroniva di me quando gli uomini in sala la applaudivano con tanto ardore, pieni di loro stessi e ammirati per la sua bravura,  per la sua bellezza, che mi appartenevano, senza possibilità di errore. Anche se lei non lo volesse…

Dall’altra parte il lato “bianco”, capace di lottare quasi ad armi pari con la passione più ardita.
L’avevo già sentita cantare quelle arie, ma non così. Tutto sembrava tremare al suono modulato e struggente dei suoi acuti. Ogni gorgheggio riempiva la sala di un’atmosfera irreale.
Eppure non era solo a causa del teatro o del diverso clima che vi si respirava. Era lei stessa che si era trasformata. Non era più la umile Vivy, ma la gelosa Tosca, pronta ad ogni sacrificio per quel tale Cavaradossi. Se addirittura io ero in grado di cogliere quanto si fosse immedesimata nel personaggio, di certo quei grandi e ricchi esperti operistici che sedevano in sala dovevano essersi resi conto dell’immedesimazione perfetta a cui stavano assistendo.
Ma era tutta capacità di attrice? Non riuscivo a capirlo fino in fondo.
Nella donna che stava interpretando c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che stonava con Vivy. Forse l’omicidio. Si, quello era certamente un gesto che non faceva per lei. Anche se era più che perfetto per una Noah...
Per il resto, in fondo, vedevo lei in persona. L’amore incondizionato, la passione per il canto, il sacrificio di se stessa, la forza vana della speranza, la disperazione e il senso di colpa… Era perfetto per lei o sapeva renderlo alla perfezione.
Il finale poi mi lasciò stranito e definitivamente incerto. Non perché non sapessi come finiscono questi drammi… Piuttosto perché la sofferenza che vedevo sul volto stravolto di Vivy era tanto reale da lasciarmi allibito. Era Tosca che piangeva Cavaradossi, era tutta finzione scenica, oppure…
Oppure cosa…? Cosa poteva esserci d’altro? Non ero in grado di capirlo.

Finita la rappresentazione, rimasi abbastanza stordito. Impiegai qualche momento a riprendermi e a darmi una regolata. Quella lotta interiore mi aveva sfiancato e non avevo quei casinisti di Road e dei gemelli che mi facessero rinsavire.
Alla fine, tornai nella hall.
C’era un caos incredibile di persone che si assiepavano in capannelli o si affrettavano verso l’uscita. Comunque la maggiore calca era concentrata intorno agli attori che erano da poco usciti dai camerini per il bagno di folla. Non mi sarei mischiato a quegli individui infervorati neanche per tutto l’oro del mondo e in ogni caso non ero neanche certo di volermi far vedere da Vivy. Di conseguenza, mi appoggiai alla parete a qualche metro dall’inizio dell’assembramento e osservai tranquillamente la scena.
Necessariamente quelli che più attiravano i curiosi erano i due protagonisti e l’antagonista.
Mi stupii notando quanto visivamente Scarpia potesse assomigliare al Conte: non molto alto, decisamente sovrappeso e strizzato in un completo di velluto di qualche taglia più piccolo. Tuttavia anche le differenze erano evidenti: era quasi calvo, ogni tanto si apriva in un sorriso sincero e amichevole e mostrava un atteggiamento molto cavalleresco e fine.
Vivy era come sempre impeccabile: un leggero e timido rossore sulle guance, una risata cristallina per tutti gli ammiratori, anche se per alcuni un po’ più sforzata, e tutta la sua elegante sobrietà.
Al contrario di quel tenore, il co-protagonista Cavaradossi… Un sorrisetto tronfio e vanesio gli riempiva il volto, baciava mani a profusione, partiva in eccessi di riso decisamente fastidiosi e i suoi occhi avidi percorrevano senza scrupoli dalla testa ai piedi tutte le donne che si trovava davanti…
Invadendo ogni tanto di sottecchi anche un territorio che non gli apparteneva per nulla… Quelle occhiatine languide rivolte alla sua collega non mi piacevano per nulla, ma notavo con piacere che lei non ci prestava attenzione, anzi, ogni tanto lo squadrava con un’aria di rimprovero.

La folla si era abbastanza sfoltita e c’era ormai il rischio di essere visto. Non avevo ancora deciso se fare finta di niente finché ero in tempo oppure presentarmi davanti a lei per mostrarle che ero venuto spontaneamente ad assistere alla messinscena. Ancora una volta era tutta una lotta tra le mie due inguaribili metà…
- Buonasera! -
Mi voltai nella direzione di quella voce sconosciuta e mi ritrovai di fronte una ventenne di primo pelo, pesantemente truccata, con un’espressione che era tutta un programma… Mi trattenni dallo sbuffare e cercai di apparire il più possibile controllato e moderato: - Buonasera a voi! –
Sperai che fosse bastato questo, ma con quelle ragazzine intraprendenti e spudorate non poteva essere sufficiente a troncare il dialogo.
- Una splendida opera, non credete…? –
- Si… Deliziosa… - risposi, tornando a voltarmi verso gli attori rimasti a discutere con gli ultimi ammiratori.
- Assolutamente! C’era un’atmosfera incredibile! Ho veramente apprezzato tutti gli interpreti! – poi più a bassa voce – Soprattutto Dallas Conrad… Davvero una grande stella della lirica…-
Intuii subito che doveva trattarsi del tenore. Ci mancava solo una fan di quel damerino tutto fumo.
- Si… Un’ottima compagnia… - risposi, sempre più spazientito, lanciando solo qualche vaga occhiata alla fanciulla per restare invece concentrato sul resto dei presenti.
- E voi chi avete preferito…? - chiese.
Notando probabilmente che avevo smesso del tutto di darle retta, sbottò: - Scommetto che siete anche voi uno degli ammiratori di quella primadonna montata e arrampicatrice! Sempre attaccata a Monsieur Dallas, quell’impudente! Un sacco di gente pensa addirittura che stiano assieme… ma io non ci credo! Lui ha certamente dei gusti molto migliori e lei comunque non sembra neanche questa gran bellezza… -
A sentire queste cose mi irritai parecchio. Non se se di più per i commenti malevoli rivolti a Vivy o per quelle insinuazioni su una relazione tra i due. Entrambe cose che non potevo concepire. Probabilmente le avrei risposto male, se non fossi tornato a guardare la ragazzina e ne avessi provato un po’ di vaga e sprezzante pietà… Un’appariscente e impertinente cacciatrice di uomini…
Le sorrisi, senza più celare la malizia, e risposi, tranquillamente: - Se la pensate così temo che non abbiamo nulla di cui parlare, signorina. Se voleste gentilmente smettere di importunarmi, vi sarei immensamente grato. –
La vidi diventare color melanzana e strabuzzare gli occhi, biascicare qualcosa tipo “che razza di educazione” e poi marciare offesa verso la porta. Con mio enorme sollievo.

Dopo poco, anch’io d’istinto mi avviai verso l’uscita. Tanto ero giunto alla conclusione che era meglio non mostrare a Vivy di essermi recato laggiù. Poteva essere dannoso. Se nel mio caso quella decisione era stata il degno campo di battaglia dei miei opposti moti interiori, in lei poteva scatenare solo speranze vane per quel suo spirito umano e nostalgico. Non lo potevo permettere.
Solo che stavo per avere il mio secondo incontro imprevisto della serata.
- Buonasera. -
La strada verso la porta mi fu bloccata da un uomo sulla sessantina, non molto alto, ma estremamente elegante e curato. Lo scrutai cercando di capire dove l’avevo già visto: capelli bianchi perfettamente pettinati, occhi azzurri, due baffoni da generale abilmente impomatati e un piccolo monocolo e un fazzoletto nel taschino. A questo primo sguardo non mi venne in mente. Al contrario lui sembrava sapere benissimo chi fossi e mi aveva puntato addosso uno sguardo tanto ostile quanto diretto.
Decisi di fare finta di nulla: - Buonasera. – lo salutai di rimando con un cenno del capo.
Contai che il caso venisse chiuso così, ma subito mi apostrofò ancora:
- Non siete il fidanzato della nostra soprano…? -
Bastò questa frase, decisamente diretta e inaspettata, per farmi tornare in mente quando ero venuto a teatro per incontrare Vivy e in particolare quell’uomo anziano con il quale stava parlando e che, per tutto il tempo in cui restai con lei, sentivo che continuava a squadrarmi da lontano. Doveva essere quel tale… Quel Retino… Il padrone della compagnia…Che cosa accidenti voleva da me…? Non avevo voglia di scoprirlo.
Risposi subito, senza pensarci:
- Credo mi confondiate con qualcun altro. -
Mi fissò con sempre maggiore astio e, mi accorsi per caso, stringendo minacciosamente il mazzo di rose rosse che teneva in mano. Portò avanti questo scambio di occhiate per un tempo decisamente più lungo del necessario. Se avessi avuto la coscienza a posto, avrei anche avuto il diritto se non il dovere di chiedere candidamente perché lo stava facendo. In realtà, però, mi ero già pentito di aver mentito...
- Allora vi chiedo scusa. Devo essermi sbagliato. – commentò, acido, dandomi le spalle – Del resto una persona tanto importante per lei starebbe al suo fianco, in questo momento sereno, e non se ne andrebbe così, senza dire nulla. -
Quel vecchiaccio…
- E se fossi la persona che voi dite – sbottai, ancora una volta per pura reazione istintiva – che cosa pensate che dovrei fare? -
Quello si fermò e tornò a fissarmi insolentemente negli occhi: - Prego!? –
- Dovrei andare laggiù a disturbarla e a rubarle il suo momento di gloria…? A farle le congratulazioni, come le diecimila persone prima di me? A fare una scenata di gelosia per quel pesce lesso del tenore…? Oppure… - e guardai quasi disgustato quel fascio infiocchettato che teneva in mano - … a portarle l’ennesimo insieme informe di fiori come ne avrà milioni nel suo camerino…? -
Rimase per qualche momento interdetto, ma con un’espressione che sembrava quasi di pietà. Poi, con uno sforzo di autocontrollo, mi rispose con calma: - Se non siete in grado di fare qualcosa per vostro puro desiderio, meglio che non facciate nulla del tutto… La “vostra” Victoire odia ogni forma di ipocrisia… -
E se ne andò, senza aggiungere altro.

Così feci una cosa idiota… Una delle tante di quei giorni.
Entrai nel fiorista a neanche dieci metri dal teatro. E senza la minima idea di cosa andarci a fare.
Sul subito pensai che la signora sapeva come fare affari: per questione di vicinanza, tutti gli allestimenti floreali delle rappresentazioni e tutti i bouquet per le primedonne venivano sicuramente dal suo negozio.
- Buonasera , Monsieur. – mi salutò, più che gioviale la fioraia.
Già, probabilmente la cassa era proprio piena.
- Buonasera, signora. –
- Posso esservi utile? – chiese, sollecita.
Tuttavia, mi ritrovai a guardarla, stranito: - Non saprei. –
- Be’, immagino siate qui per dei fiori… - sorrise, gentile – Per quale occasione? -
- Per una donna. – dissi, renitente.
- Oh, certo! – e il suo sorriso si allargò ancora di più. Probabilmente la divertiva vedermi così esitante, forse pensava ad una questione di timidezza. Era lontanissima dalla verità… Era colpa dell’inesperienza, della situazione insolita, del conflitto tra “bianco” e “nero”…
- Allora il meglio sono le rose rosse! Ve ne faccio un mazzo…? –
- No… A me non piacciono le rose… - commentai subito, scrutando un vaso di quei fiori color sangue.
- Come no!? – esclamò la signora – Ma le rose sono i fiori femminili per eccellenza... –
- Non so cosa dirvi… E poi comunque le regalano tutti… -
- Certo! E in particolare le rose rosse perché sono il simbolo della passione! Non c’è nulla di strano! –
Ecco il problema. Per quello che rappresentavano potevano essere perfette, al di là che mi piacessero o meno. Allungai una mano a toccare quei petali morbidi ma quasi mi stupii notando che non lasciavano sulle dita un po’ di colore. Un po’ del sangue di cui sembravano impregnate…
Tutti le regalavano, tutti le sceglievano. Io non l’avrei fatto. Mi rimbombavano nella mente le parole di poco prima di quel Retino… Fare qualcosa per mia scelta, per mio desiderio…
Lo sguardo mi cadde su un altro vaso, esposto dall’altra parte del negozio. Una semplice macchia bianca…
- Perché non quelle? – chiesi alla fiorista.
- Intendete… -
- Sono rose bianche, giusto? – domandai avvicinandomi.
- Si, ma… Non so se siano adatte… - osservò, guardandomi dubbiosa.
Sfiorai anche quel petali candidi e li trovai deliziosamente morbidi, come quelli di prima, anche se molto meno inquietanti.
- Perché? - e tornai a guardarla, stupito.
- Vedete… Le rose bianche sono simbolo di… purezza… Certamente un gesto carino, senza dubbio… Ma un po’ impegnativo… E poi sono utilizzate soprattutto per i matrimoni… -
- E’ perfetto. – risposi, all’unisono con il pensiero che mi era passato per la mente.
- Siete sicuro…? –
- Si. Solo io posso regalarle rose bianche. – agguinsi, ancora una volta dando voce ad un’idea improvvisa.

Il vero problema venne dopo. Non avevo nessuna intenzione di consegnargliele di persona. Ero ancora dell’idea che mettermi così in evidenza con lei fosse una pessima idea. E per un attimo mi domandai anche per quale ragione avevo dovuto comprare quelle rose. Ormai comunque non sarei tornato indietro.
Decisi di lasciare il mazzo nel suo camerino così. Senza biglietto, senza intestazione. Senza che lei capisse. Non avrebbe potuto farlo. Io avrei compiuto il mio gesto di gentilezza e lei… Be’, magari avrebbe pensato ad un errore o a qualche bizzarria di un ammiratore un po’ originale. Non ero sicuro che mi andasse bene così, ma ormai avevo deciso. Essere riconosciuto non mi interessava poi così tanto. Perché avrebbe dovuto?
Sfruttai per una delle prime volte i miei poteri Noah ed entrai nel teatro per una parete e feci lo stesso per violare il camerino.
Come da mia previsione era zeppo di rose ovunque. Sembrava avessero sparato vernice rossa su tutte le pareti. Appoggiai semplicemente il mio bouquet anonimo sul piano vicino allo specchio, ma non pensai ad andarmene il prima possibile. Così, quando la serratura scattò, praticamente subito, mi ritrovai nascosto nell’armadio. Che scena stupida e pietosa…
Stavo già per uscire di nuovo attraverso il legno dell’armadio e la parete di mattoni, quando vidi Vivy chiudersi la porta alle spalle e buttarsi sulla brandina, stravolta. Presi ad osservarla da un piccolo spiraglio tra le due ante e quasi senza accorgermene. Ogni tanto stirava leggermente le spalle o la schiena o si passava le mani sugli occhi per il sonno. I capelli neri sparsi sul cuscino e sul viso assonnato.
Poi improvvisamente, sbuffò e si rimise seduta: - Se mi addormento qui è finita… - e si coprì la bocca con le mani al sopraggiungere di uno sbadiglio. Infine si alzò in piedi e fece per afferrare il soprabito dall’attaccapanni. Solo che proprio in quel momento notò il mazzo sulla specchiera.
Allora fui davvero tentato di andarmene. Cosa ci facevo ancora lì? Solo che ormai ero curioso di veder cosa avrebbe fatto.
- Ma… - commentò, tra sé, sollevando il bouquet e cercando un biglietto attaccato alla carta della confezione – Sono proprio… bianche… -
Aggrottò le sopraciglia, confusa. Accarezzò piano uno dei fiori, come soprapensiero, e poi sfiorò con le dita un petalo, con un gesto parecchio simile al mio di poco prima. Strano più che altro perché sembrava che l’avesse fatto anche con il mio stesso scopo, quello di testare la delicatezza dei petali… Ma mai nulla mi lasciò stupito quanto ciò che fece dopo…
Un sorriso luminoso e quanto mai splendido le comparve in viso. Strinse tra le braccia, dolcemente il mazzo di rose e annusò piano il profumo di quei fiori.
Poi sussurrò con un fil di voce e una tenera risata, ma non abbastanza piano perché non potessi sentirlo:
- Tyki… -

- Ma come avrà fatto…? – sbottai, più che altro rivolto a me stesso.
- Di che accidenti stai parlando, Tyki!? – esclamò Momo, con la voce roca dal sonno.
- Ma di nessuno… - risposi, irritato e con una smorfia.
- Allora fammi il piacere di andare a dormire e smettere di scocciare… - sbuffò il mio amico lanciandomi addosso il cuscino.
- Torna tardi… E ancora parla da solo… - commentò Frank, scuotendo la testa, e si ficcò sotto le coperte con un sospiro.
Allora andai a letto anch’io, ma impiegai un po’ di tempo a prendere sonno.
Ero un po’ irritato dal fatto che avesse capito chi era il mandante. Allora ero una persona decisamente prevedibile, anche se mi sentivo di escludere questa ipotesi in quanto del tutto infondata. Avevo troppi contrasti interiori perché fosse possibile immaginarne il funzionamento. In caso questo dovevo ammettere che probabilmente lei mi aveva capito molto più di quanto riuscivo a comprendermi io stesso. Neanche questo era rassicurante. La mia patina di mistero mi proteggeva molto meglio di ogni altra cosa. Ed ero certo che fosse del tutto infrangibile. Nessuno mi avrebbe convinto del contrario. Dovevo scartare anche questa opzione.
Tuttavia, molto più grave di una qualunque di queste analisi frettolose, mi addormentai con un altro pensiero fisso. Se mi avesse mai abbracciato così teneramente e stretto come aveva fatto con quei fiori, non le avrei mai più permesso di staccarsi da me.

Dannazione, non andava per nulla bene!
Dovevo smetterla immediatamente, prima di pentirmene…






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Eccomi qui!!! Oggi posto TUTTO!!!! XDDDDDD
Questo capitolo è un po' lunghetto e può darsi che troviate che nella parte finale sia stata un po' sbrigativa... E' che purtroppo avevo ben chiara tutta la scena del teatro, ma quando ho cominciato a scrivere mi sono persa nelle prime scene a "casa Noah" e poi mi è dispiaciuto pensare di ridurle o tagliarle del tutto...
La vicenda del mazzo di rose bianche ce l'avevo in mente quasi dall'inizio, ma chiaramente dovevo inserirla piuttosto avanti nella storia o non avrebbe avuto molto senso. Anche a questo punto in effetti stride leggermente, ma ci sono tante altre cose che devono accadere, anche molto più sconvolgenti di questa... ^_^
Chiaramente la funzione della "fanciullina golosa" è nulla... Solo che lasciarlo semplicemente lì una vita a squadrare gli attori da lontano sembrava abbastanza vuoto... (E, onestamente, nonostante la faccia trattare un po' male da Tyki, aveva tutte le ragioni di questo mondo per provarci...)
Spero che vi sia piaciuto e aspetto con impazienza qualche commentino!!!! XD
Per quanto mi riguarda, appena riuscirò a tornare a ritagliarmi un po' di tempo, mi metterò a scrivere il prossimo capitolo!!!
Quindi, (spero) a presto!!!!!

Lady Greedy = oh, ma figurati... Non ti scusare e non preoccuparti!!!! Mi fa piacere piuttosto che tu abbia gradito il ritorno in scena dei gemelli!!!
Non ho mai letto "Il ritratto di Dorian Gray", tranne qualche pagina a scuola... ^_^ Anche se devo dire che mi affascina... Più che rispetto al protagonista, in un passo della descrizione di Lord Henry Wotton mi è venuto subito in mente Tyki... Non solo per gli accenni all'atteggiamento insofferente, alla carnagione un po' scura, alla gestualità e allo stile, ma anche perchè Dorian afferma di provarne fascino e insieme paura... E' un'impressione molto diffusa... XD Riguardo a Sibyl... Non so... Per ora posso dirti che un finale simile per Vivy non rientra nei miei programmi... Si vedrà... ^_^ A presto!!!
Bohemienne = in effetti quel mezzo "sbrodolamento" su Vivy era piuttosto strumentale (anche se l'intento di darle un'immagine del tutto umile ammetto che c'era...): mi serviva per permettere a Retino di accennare a Tyki, in modo tale che lei dimostrasse parte del suo tormento e che l'impresario se ne uscisse con quella sentenza netta e amara, che apre direttamente la strada a questa sua incursione arrabbiata sul fidanzato della sua primadonna preferita... Come vedi, tutto ha un perchè... XDDDDD In ogni caso, ti ringrazio molto per aver accettato così volentieri questo mio personaggio originale!!!! Spero che continuerai ad apprezzarlo anche in futuro (anche se ne capiteranno delle belle...)!!!! Riguardo a Tyki... Amo i suoi contrasti irrazionali e farlo sguazzare in questo caos di sentimenti umani... Ma mi diverto anche a parlare della sua parte solo passionale e sensuale (vedi sopra, monologo delle sensazioni "nere")... Con questa fanfiction, voglio realizzare tra l'altro un mio piccolo sogno al suo riguardo... Ma preferisco non anticipare nulla!!!! XD Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!!!
kuro = ti ringrazio molto!!!! Quella scena dolciosa è stata un'ispirazione improvvisa, ma mi fa piacere che ti sia piaciuta!!! Spero valga anche per gli strani momenti di questo capitolo!!!! Alla prossima!!! ^_^



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Capitolo 13
*** XII - Taboo Subjects ***


Capitolo 12

Taboo Subjects


“Chi ha visto la verità resterà per sempre inconsolabile”
(A. Baricco)




 

- Vivy, sono sinceramente ammirato! – esclamò il Conte, con quell’aria socievole e insieme agghiacciante che ne faceva una figura da incubo.
Sbattei un paio di volte gli occhi, con inconscio stupore: - Di cosa state parlando esattamente…? – chiesi, con calma, non del tutto sicura di volerlo sapere davvero.
- Ma, chiaramente, del tuo coraggio nel cedere così amabilmente alla richiesta di Road! – mi rispose, facendo trasparire una vena sprezzante nella voce.
Ormai non c’era più nessuno a casa. I gemelli erano usciti per qualche motivo a loro soli noto e le domande erano state sedate da qualche risatina complice dei due. Lulubell era di ronda in forma di gatto, o forse andava solamente a farsi una passeggiata. Skin, per conto suo, era andato in pasticceria e molti avevano messo anche in dubbio SE sarebbe tornato.
Per ultimi, Road, Tyki e Lero erano usciti poco prima in direzione “parco”. La bambina aveva sorriso vagamente nella mia direzione, ma non ero certa che fosse un buon segno. L’ombrello si era lamentato in lacrime con il Conte perchè non voleva andare. Tyki aveva sospirato con sufficienza ed era uscito con gli altri indirizzandoci solo un vago cenno della mano.
Io ero quindi rimasta con il Conte a provare. Ormai non mi stupivo più del modo incredibile con cui quelle dita tentacolari correvano sui tasti. Solo era strano come riuscisse a suonare tanto velocemente essendo pure distratto a parlare con me.
- Davvero…? – commentai, certa che un po’ del mio fastidio fosse comunque filtrato da quella semplice parola.
- Certo! –
Odiavo vedere quella sua espressione. Quell’immobile ghigno, che per il Conte rappresentava il massimo della serenità trascendentale, si stava amplificando e sembrava quasi allargarsi più di quanto potesse in realtà, su quel volto così piccolo al confronto. Ad uno sguardo esterno probabilmente in nulla sarebbe apparso diverso, ma io percepivo nettamente il cambiamento. Non sapevo se fosse una sensazione fisica, mentale o solo istintiva, ma il suo sorriso era sempre più ampio, sintomo evidente del trionfo che assaporava.
Non sapere che cosa nel suo progetto si fosse avverato e lo stesse rallegrando tanto, legava profondamente nel mio animo la rabbia con la Paura…
- Cosa ci sarebbe di così “coraggioso”? – domandai, frenando entrambi gli impulsi con tutta la mia buona volontà.
- Mia cara! Hai offerto a Road la possibilità di prevaricarti senza sforzo! Anche tu capisci che aprire un simile precedente… -
- Io veramente non ho fatto niente di simile. – gli risposi, pacata – Non è corretto che diciate questo. –
- Allora spiegami il tuo piano! – esclamò, con un’aria complice spiccatamente fuori luogo.
- Voi mi spiegherete il vostro…? – chiesi, irritata, stringendo gli occhi in una smorfia infastidita.
Il Conte si limitò a ridere, sardonico più del solito.
Mi trattenni ancora, anche se il violento desiderio di rompergli almeno uno di quei brillanti denti bianchi mi rodeva parecchio… La mia indole pacifica e rassegnata si era rintanata in un angolo, quieta come sempre…
- Comunque, la mia idea era semplicemente di viziarla un po’. Lei fa sempre e solo riferimento a persone che non le fanno mancare nulla, così ho pensato di fare come voi, Conte… -
- Ma no, Vivy! Road non è viziata! – mi rispose, con un lieve accento di biasimo nel tono.
- Ah si!? Non mi dite! – esclamai incredula, alzando le braccia, insofferente.
- A ben vedere dovresti essere tu a farti un esame di coscienza…! –
- Io!? Io!? Ma starete scherzando! – commentai, sempre più allibita e a voce decisamente più alta del necessario.
- Ma certo, Vivy! – rise di gusto, in quella maschera di invariata e spassionata soddisfazione – In realtà proprio tu e Tyki siete i viziati della famiglia! –
- E perché…? – chiesi. Avevo istintivamente abbassato il tono per la sorpresa. Quella frase non aveva proprio senso.
Eppure, invece di rispondere, riprese a schiacciare il tasti del pianoforte con aria saccente. Anche quello era un gesto con il solo scopo di farmi arrabbiare, lo sapevo. Ci stava riuscendo senza problemi e non riuscivo ad impormi la calma.
- Lanciate la pietra e poi, come tutti i peccatori, ritirate la mano e guardate con noncuranza chi avete colpito agonizzare in solitudine… - commentai.
Cercavo di comprimere mentalmente la Paura nel suo cantuccio, mentre sembrava che attraverso la mia pelle cadaverica e quelle cicatrici sulla fronte volesse invadere ogni centimetro del mio essere.
Non riuscivo a mentire a me stessa tanto da rassicurarmi con parole vuote. In realtà sapevo per certo non solo che ciò che il Conte aveva in mente era qualcosa che non solo avrei finito per subire, che non avrei mai potuto anticipare, ma che soprattutto ogni volta che mi parlava di Tyki portava avanti il suo piano nei miei confronti e nient’altro…
- Oh, Vivy… - sospirò per tutta risposta – Se impegnassi più energie nel capire quello che posso e non posso dirti, piuttosto che nel reprimere la tua natura primitiva… -
- E che cosa non potete dirmi…? –
- Non vuoi lasciare che la tua vera identità… -
- No. – lo interruppi, stringendo i denti convulsamente per lo sforzo di piegare l’anima Noah – E adesso spiegatemi… -
- Non capisco cosa vuoi sapere! – sghignazzò serenamente, con gli occhi brillanti di furberia che mi squadravano divertiti, senza più prestare attenzione ai tasti bianchi e neri schierati davanti a lui e che alternava a memoria quasi meglio che guardandoli.
- Cosa non capite!? – scattai, tremando di rabbia e dal timore di cadere nel suo gioco psicologico – In che cosa sarei viziata!? Di cosa parlate!? Del fatto che non mi lascio assorbire dalle vostre parole!? Non sono una stupida! L’avete ammesso voi stesso! IO SONO UNA VOSTRA NEMICA! –
- Strano… Da un po’ di tempo, invece, ti trovo molto partecipe della famiglia… - mi stuzzicò, sempre raggiante – Altrimenti perché saresti interessata a dare tanta corda a Road!? –
- Non è evidente!? – sbottai, sempre più furiosa.
- No, per nulla… - mi osservò qualche momento, solo dopo sembrò capire e aggiunse, in una risata – AH! Allora stai arrivando a tanto!? Ti svaluti davvero molto! –
- Solo perché mi batto per sconfiggervi!? Sapete che non mi farò schiacciare in nessun caso! –
- Infatti accadrà quando meno te lo aspetti, nel silenzio e in modo che tu te ne accorga neppure… -
- Conte! – lo interpellai, pronta a rispondere.
Ma lui riprese: - Tu devi capire che il tuo impegno non porterà a nulla! Non riuscirai ad avere un vero ascendente su Road! Soprattutto se cerchi di usarla come un oggetto! -
- Usarla!? Io non voglio usarla! Voglio salvarla! – gridai, rabbiosa.
- Da se stessa? – disse, quanto mai scettico e divertito – E comunque non è vero! Tu non lo fai per lei! Ma solo perché tu non hai fiducia in te stessa e cerchi di rimediare alle tue mancanze usandola come un mezzo per il tuo scopo! E pensi: “Se non darà retta a me perché sono solo un’estranea ai suoi occhi…” -
- No, non ditelo… Vi prego…- pronunciai in un rantolo.
Improvvisamente l’ira si spense e la voce non riuscì più a salirmi in gola. Non volevo sentirlo. Non volevo che lo dicesse. La sola idea di aver pensato una cosa simile mi disgustava. Cosa stavo diventando? Perché cedevo a quest’utilitarismo, invece di desiderare davvero solo la salvezza di quante anime possibile? Ecco, stavo già vendendo la mia anima al Diavolo e senza neanche accorgermene… Un solo piccolo desiderio riusciva a divorarmi a tal punto…?
Per un attimo il Conte mi fissò. Probabilmente sentì la Paura lasciare il posto all’angoscia e alla pietà e stava cercando di capire cosa fare. Alla fine però, accondiscese alla mia richiesta e non terminò la frase.
- Oh, Vivy! Te l’ho detto, ti svendi e basta! -
- E questo cosa significa…? – chiesi, fissandolo dubbiosa.
- Nulla di particolare! – esclamò allegro – Se te lo spiegassi andrei contro i miei interessi… E lo sai che non sono tipo da farlo… -
Per qualche momento fu il silenzio a dominare la stanza, poi il Conte riprese a suonare, senza più proferire parola.
Strinsi tra le mani lo spartito, contratta da una febbrile tentazione. Probabilmente avrei fatto il suo gioco, ma in fondo non potevo sottrarmene. L’impulso che provavo sembrava quasi bruciarmi in gola. Così, presi fiato e dissi semplicemente:
- E perché avete detto che Tyki sarebbe viziato? -
Il pianista si fermò di nuovo e si voltò. Fui stupita nel vedere i suoi occhietti stringersi, anche se solo per un istante, in una smorfia nervosa:
- In che senso, Vivy? – chiese, mostrando una giovialità per la prima volta non troppo veritiera.
Decisi quindi di muovermi con cautela. Magari, se non avessi parlato con troppa foga e aggressività, avrebbe risposto per davvero:
- Avete detto che io non sto ai vostri ordini, che cerco di oppormi, e che quindi, dato che voi mi trattate con accondiscendenza e mi lasciate fare, io devo essere abbastanza viziata… Dal vostro punto di vista, può essere… - cercai di mediare – Ma per quanto riguarda Tyki? Lui, a quanto vedo fa esattamente quello che gli dite… Sta via anche a lungo per i vostri affari… - non potei impedirmi di abbassare lievemente la voce – E’ esattamente come voi lo volete… -
- E’ solo apparenza… -
Per la sorpresa sgranai gli occhi. L’avevo sentito davvero?
- Cosa volete dire? - tentai di chiedere, ma mi ritrovai fulminata dai suoi occhietti malvagi e non potei che tacere. Per un attimo che apparve eterno, il Conte misurò in maniera evidente la situazione e le parole da usare ed infine disse, più che mai tranquillo:
- Non è a me che devi chiedere. –
- Il diretto interessato non credo me ne parlerebbe… - osservai subito, in tensione.
- Ma se non sai neanche a cosa mi riferisco! – esclamò, di nuovo con una risata allegra – Magari se mai, e bada solo se, riuscirai ad avere la sua fiducia proprio come la intendi tu, te ne parlerà lui… Io non posso… Va decisamente contro i miei interessi! -
Non sapevo cosa pensare. Tranne che odiavo in maniera viscerale il suo modo di dire e non dire, che mi lasciava sempre in un vicolo cieco…
Alla fine, con una punta di rammarico nella voce, chiesi: - Quindi devo considerarlo un argomento tabù…anche nei suoi confronti? –
- Solo se ci tieni a mantenere quel minimo di armonia nel vostro rapporto… Ma questi non sono affari miei… - mi rispose, giocondo, e aggiunse subito – Allora, cominciamo a provare!? -

La frustrazione profonda che mi era stata causata dal comportamento del Conte in quell’occasione, continuò a tormentarmi a lungo. Ripensavo spesso a quei misteri a cui il capo mi aveva esclusa e mi irritavo da morire. Tuttavia, anche nelle prove dei giorni successivi non riuscii a smuovere il Conte sull’argomento, che anzi continuava fastidiosamente a liquidare il tutto con vaghi commenti alternativamente sul mio e sul suo interesse.
Il fatto che mi fosse proibito chiedere cosa volesse effettivamente dire che io mi “svalutavo”, non mi infastidiva più di un altro interrogativo senza risposta: cosa c’era di così misterioso in Tyki?
“E’ solo apparenza…” aveva detto il Conte, quasi contro voglia. Era difficile capirci qualcosa, anche perché non potevo sapere se fosse stato davvero un suo sfogo o l’ennesima manovra meschina per incastrarmi in qualche misterioso groviglio mentale.
Cosa ci poteva essere di apparente nel modo in cui si faceva partecipe degli affari della famiglia? Era abbastanza attento alle buone maniere, vestiva in modo estremamente signorile, teneva sempre le distanze definite dal bon-ton, tranne qualche abbraccio di Road o qualche frecciata malvagia ai gemelli… Ma più che i modi era l’atteggiamento. Si prestava sempre a tutto, a volte con calma, a volte con qualche sbuffo, ma sempre con subordinazione alla causa. Si manteneva il più possibile distante da ogni cosa, chiuso quasi in una sdegnosa indifferenza, che rompeva solo sporadicamente, forse anche senza accorgersene. Con me, nonostante tutte le libertà che avrebbe potuto prendersi, restava sempre signorile, educato ed enormemente distaccato. Certo, non c’era da escludere che non gli piacessi per nulla, che per lui rappresentassi solo un’imposizione odiosa, che non fossi nei suoi interessi. Già, probabilmente era proprio così. Altrimenti come si spiegavano tutti quegli insistenti e vuoti baciamano…?
Buffo quanto invece io desiderassi essere abbastanza spudorata almeno per baciarlo sulla guancia… Non era molto, Road poteva farlo liberamente… Eppure ogni volta che mi preparavo (duramente e faticosamente) a prendermi questa libertà, mi sembrava improvvisamente di rivolgermi ad un lord troppo nobile che si degnava solo per garbo di rivolgermi la parola e da cui non potevo aspettarmi più di quanto lui stesso mi offriva… Se avevo ragione, sarei per sempre rimasta imprigionata in un sentimento non corrisposto…

Road si era molto allargata, dovevo aspettarmelo. Ormai il danno era fatto, quindi non potevo certo piangermi addosso. Per tutta la settimana si presentarono solo per la cena, che comunque raggiungevo sempre dolorante e stremata per lo stress mentale e fisico a cui il Conte mi sottoponeva. Mi sedevo su quella poltrona, mangiavo in silenzio, sforzandomi di annuire alle parole di quell’infame del mio despota, di scrutare qualche cenno della bambina e di mantenere il contatto visivo con chi parlava. Compreso Tyki, per quanto guardare dritto nei suoi occhi mi fosse particolarmente difficile… Solo per colpa delle mie fisime mentali, del resto…

- Vivy. -
La sua voce mi scosse improvvisamente mentre cercavo di avviarmi verso la mia stanza. Avevo una tremenda sonnolenza, che però sembrò in parte sparire a quell’inaspettato accenno.
- Dimmi. – gli risposi, voltandomi.
Anche lui non scherzava in quanto a stanchezza, mi ritrovai a pensare. Avevo notato un leggero accenno di occhiaie sotto i suoi occhi affilati, visibile solo perché in genere del tutto assente. La schiena era un po’ curva e il viso parecchio serioso, come sempre quando qualcosa gli andava storto. - Non hai per caso voglia di fare un giro questa sera? – chiese, vagamente.
- A dirti tutta la verità… Sto morendo di sonno… - risposi, cercando di ignorare il bruciore degli occhi stanchi che rischiava in ogni momento di farmi chiudere le palpebre.
- Si vede… - commentò, con un breve sorriso sulle labbra, che non so perché mi apparvero come secche.
- Anche tu però non mi sembri molto in forma. – gli dissi, preoccupata.
- Pazienza… – scrollò le spalle, cupo – Tra un po’ starò via ancora per due settimane… Mi rimetterò in sesto… -
A quelle parole mi sentii in colpa, senza ragione in effetti. Doveva solo dire a Road che non ce la faceva più. Invece continuava ad assecondarla, sempre, come il Conte… E dire che ques’ultimo aveva ancora il coraggio di lamentarsi, perché lo considerava un viziato…
Mi sentii un po’ stringere il cuore ricordando le mie stesse parole: “E’ esattamente come volete che sia…” Allora davvero non avevo speranze…
- Mi dispiace, Tyki… -
- Di cosa…? Guarda che non è colpa tua se sono stanco… Salvo che tu stia ripensando alla tua scelta… -
Ero troppo stanca per la sua arguzia. Avevo troppa voglia di riposare. Se lui invece desiderava farsi spremere come un limone da quella bambina, doveva solo continuare così… L’unica cosa che sentii d’istinto fu quanto quel “mi dispiace” fosse stato fuori luogo…
- No, niente… - tagliai corto – Scusa se non vengo con voi questa sera, ma sono distrutta… Buonanotte allora… -
- Sei sicura che vada tutto bene? –
Per un attimo pensai di essermi sognata quella domanda, ma poi vidi che continuava a fissarmi sfacciatamente e con tutta l’aria di chi aspetta una risposta. Allora si era davvero preoccupato per me? Ma in fondo cosa potevo dirgli, cosa potevo chiedergli…? Era già difficile così andare d’accordo, in quel mondo così strano e oscuro… E se il Conte avesse avuto ragione e rischiassi di tirare in ballo qualche argomento tabù...? Come sarebbe finita allora?
- Si… Ti dico, sono solo stanchissima… - e tentai di sorridere, anche se notai distintamente i suoi occhi chiudersi in fessure sospettose. Non ci stava cascando.
- Allora buona serata... E vedi di riguardarti un po’, Tyki. A domani…sera… - mi corressi, prima di chiudermi in stanza, senza aspettare la sua risposta.

Per tutto il resto della settimana quasi non ci rivolgemmo la parola, salvo qualche vago accenno a cena o i saluti di rito la mattina e prima di andare a dormire.
Non mi sembrava logico preoccuparmi, però. Per una volta che ero io a chiudermi un po’, a non voler rivelare qualche mio pensiero, non pensavo davvero che ciò potesse essere un vero problema. Per tutte le cose che lui mi teneva sempre nascoste! E a questo pensiero finivo per ritornare con la mente a tutti i misteri che il Conte mi aveva segnalato e mi arrabbiavo moltissimo, ma con l’impotenza di chi non può cambiare le cose.
Non avevamo litigato, non avevamo toccato argomenti pericolosi, non avevamo neanche davvero parlato. Non era cambiato nulla. Eravamo solo enormemente stanchi tutti e due, mi convinsi infine.
Pochi giorni dopo lasciò di nuovo la casa, diretto chissà dove.
Ancora qualche giorno di sofferenti prove con il mio maestro privato e poi altri tre a teatro. Arrivai a sabato sana e salva solo grazie ad una innata buona volontà e all’agitazione che precede ogni prima.

Il teatro era ancora una volta pienissimo. Dallas, galvanizzato al massimo, aveva cantato da esaltato. Io ero rimasta tranquilla nel mio ruolo, senza sforare. Un sacco di gente era venuta per lui, per il suo ritorno alle scene, e per quanto fosse un gasato tremendo non potevo né volevo portargli via i suoi momenti di gloria… Tuttavia, alla fine della rappresentazione, fui costretta anch’io ad uscire per incontrare gli ammiratori. Una situazione decisamente imbarazzante, anche perché, certo ero la protagonista, ma una soprano di poco conto rispetto al famoso Dallas Johnson. Per qualche momento pensai che si sarebbe offeso dell’attenzione che gli stavo rubando… Poi notai il suo civettare fastidioso e noncurante con le signorine che lo circondavano e soprattutto qualche occhiatina languida verso di me e capii che era più che felice della mia presenza…
- Dallas! Smettila! – bisbigliai nella sua direzione, quando l’ultima delle sue ammiratrici si era allontanata.
- Di fare cosa, Victoire!? – mi chiese, con la sua solita faccia da schiaffi.
- Di sbirciarmi così sfacciatamente il decolté, insomma! Che gesto volgare! – commentai, tenendo comunque la voce bassa, per l’imbarazzo, che tra l’altro mi aveva sicuramente colorito le gote.
- Chi in questo teatro non vorrebbe!? E chi non ha tentato di farlo!? – esordì, con enfasi.
- Ma… Che dici!? – chiesi, arrabbiata.
- Insomma! Non hai detto niente a quei vecchiacci che allungavano l’occhio e fai tutte queste scene a me! – esclamò, offeso.
- Signor Dallas Johnson… -
La voce di Retino lo mise praticamente sull’attenti: - Emh… Signor impresario… -
- Mi spiegate il perché di questi commenti volgari? – proferì, con un atteggiamento minaccioso che gli faceva quasi tremare i baffoni bianchi.
- Signore… Mi scuso molto, signore… -
- Ringrazio il cielo che nessuno dei nobili signori che frequentano questo teatro fosse presente… - osservò, guardando la hall quasi vuota.
- Anch’io signore… Sono molto dispiaciuto… -
Non avevo mai visto Dallas tanto umile in vita mia. Ogni tanto rivolgeva anche qualche inchino a Retino, quasi per rendere ancora più evidente il pentimento.
- Bene, allora vi raccomando due cose: la prima di smettere di importunare la nostra signorina Victoire, affascinante, certo, ma anche impegnata, e spero abbiate abbastanza autocontrollo per farcela… -
Il tenore mi lanciò una breve occhiata e poi con rammarico annuì: - Assolutamente, signore… -
- Bene… E la seconda è che non includiate anche me nei vostri “vecchiacci”, dato che sto per fare anch’io, molto umilmente, un dono alla nostra soprano… - e mi porse finemente un mazzo di rose rosse.
- Vi ringrazio moltissimo, signor Retino… - sorrisi all’anziano signore e gli rivolsi un inchino profondo.
Mentre Dallas, dopo aver chiesto perdono per l’ennesima volta, si avviò per il suo camerino, Retino aggiunse: - Oh, so bene che avete ricevuto moltissimi fiori questa sera, ma non potevo proprio esimermi, capite? Non è un gesto originale, ma… -
- Non dovete scusarvi. – lo rassicurai, scuotendo la testa – L’importante è sempre il pensiero. E non lo dico per formalità, credetemi. -
- No, certo. IO lo so. – commentò, con una nota di sarcasmo che non capii.

Mi buttai di sasso sul letto posto nel mio camerino, come se fosse la mia sola salvezza. Per qualche momento assaporai anche l’idea allettante di addormentarmi serenamente lì, così, vestita, con le luci accese. Dovetti però ammettere che ciò non sarebbe stato gradito dal custode… Allora mi feci forza e mi imposi di alzarmi e tornare a casa. Ma…
Solo allora vidi quella macchia bianca in quell’enorme insieme rosso brillante. Anche se la mia mente era del tutto insensibile per la stanchezza, quella bizzarra novità attirò la mia attenzione.
Sollevai incerta quel mazzo di fiori.
Ormai da parecchio tempo ricevevo rose rosse dopo ogni rappresentazione. Mi ci ero abituata, anche se da piccola quei fiori nobili riempivano solo i miei sogni, mentre li fissavo attraverso le vetrine dei fiorai. Mi piacevano abbastanza. Non tanto per il colore, che anzi mi richiamava immediatamente alla mente il sangue, ma per la deliziosa morbidezza al tatto.
Ripresami dallo stupore andai allora ad accarezzare qualche petalo e percepii la stessa splendida sensazione. Ma nel frattempo non potevo che chiedermi chi potesse avermeli mandati…
Non avevo proprio nessun tipo di conoscenza del significato dei fiori, quindi non sapevo davvero cosa pensare. Solo che percepii qualcosa… Un vago pensiero, un’immagine, una semplice idea…
Un gesto particolare, anonimo ma abbastanza assurdo da restare nella memoria, un dono che, ne ero certa, aveva molto più significato di ogni altra cosa… Era la sua firma, pensai. In fondo senza una vera ragione: poteva essere stato chiunque altro... Solo il bianco era come inequivocabile. Bianco su rosso. Candore su Tosca, rosa dalla passione e dall’omicidio. Era un gesto contorto che poteva compiere solo una persona che conoscesse il mio passato e il mio presente almeno quanto la cantante che ero diventata…
Ecco perché non potei esimermi dal fantasticare che fosse stato davvero Tyki a mandarmele… E mi ritrovai inconsciamente a stringerle al petto, come la cosa più dolce e speciale che avessi ricevuto.

Ciò di cui mi rammaricai molto fu che già il giorno successivo, nonostante tutte le mie cure, sembravano sul punto di appassire. Era strano soprattutto, perché tutti i fiori, tra alti e bassi, reggevano almeno qualche giorno. Le rose rosse restarono addirittura in buona parte intatte per le due settimane di messinscena.

Tutta la serie di rappresentazioni andò più che bene. Retino era entusiasta come mai in vita sua e io con lui: niente sembrava rendermi soddisfatta di me stessa più che vedere quell’anziano così felice. Dal canto suo, invece, Dallas aveva ricominciato piuttosto presto a disturbarmi, anche se con molta meno frequenza del solito, per mia fortuna. In fondo sapevo che era un bravo ragazzo e che quindi di certo non aveva cattive intenzioni. Il fatto era solo che mi dava fastidio proprio essere al centro di quelle sue attenzioni del tutto fuori luogo.
Non so come feci a perdere così tanto la nozione del tempo, ma un’altra settimana passò senza che neanche me ne accorgessi. L’esaltazione per quella grande partecipazione ai nostri spettacoli aveva spinto l’impresario a mettere mano il prima possibile alla rappresentazione della “Carmen” che avevamo sospeso a causa di quel problema degli abiti giunti da Mosca. Questa volta sperava che non ci sarebbero stati intoppi ed eravamo quindi tornati quasi subito al lavoro, anche se con ritmi abbastanza rilassati.
Nella mia mente quel giorno della prima sembrava essere talmente vicino da percepire ancora ogni singola emozione. Forse per questo la delusione fu ancora più dolorosa.

Mi ero svegliata da poco e dopo essermi cambiata mi stavo ancora spazzolando i capelli quando sentii bussare alla porta della mia camera.
- Avanti! – risposi, senza far minimamente attenzione. Il Conte aveva il vizio di venire a controllare che mi alzassi presto, quindi spesso arrivava anche a bussare alla mia stanza.
Udii la porta aprirsi, ma nessun altro rumore o parola.
- Conte, dato che avete bussato, fate che entrare. – osservai, un po’ acida.  
- Ma davvero rispondi così al nostro Conte…? – rise una calda voce dall’ingresso.
- Tyki!? Ma sei già tornato!? – esclamai, stupita, girandomi prontamente verso la porta, che ora lui stava chiudendo tranquillamente alle sue spalle.
- Era ora… Sono passate due settimane… - sorrise nel suo solito modo un po’ ironico.
- Ah si…? –
- Già. –
Era ancora in tutto lo splendore del suo completo nero. La giacca nera era sbottonata, lasciando scoperti il gilè perfettamente in tinta, la camicia fina e preziosa, oltre che la cura del nodo della cravatta intorno al collo. Il suo viso era davvero tornato perfettamente intatto e riposato, come gli occhi affilati impregnati ancora dal giallo dei Noah. Le sue labbra, increspate in quel sorriso ammiccante quanto infingardo, non potevano essere più fresche e, mi ritrovai a pensare, invitanti. Almeno quanto quei capelli scuri, pettinati all’indietro con una grazia quasi innaturale, si dimostravano morbidi alla semplice vista.
Fece qualche passo nella mia direzione e allungò una mano guantata verso di me. Lo guardai un po’ stranita prima di capire cosa voleva fare, allora posai la spazzola per porgergli la mano. Le sue labbra ne toccarono il dorso solo per un secondo, ma abbastanza perché provassi il desiderio di sentirle ancora posarsi sulla mia pelle…
- Come mai sei passato così presto qui da me? – chiesi candidamente.
- In che senso? – aggrottò le sopraciglia.
- Be’, sei ancora vestito elegante… - gli sorrisi, con un po’ di furberia.
- Il Conte mi ha fermato prima che potessi andarmi a cambiare. Ha detto di avere una breve commissione da mandarmi a fare e quindi mi ha chiesto di farti alzare per venire a colazione, per poi far che andare un attimo… - rispose, alzando gli occhi al cielo, dimostrando chiaramente la sua insofferenza.
- Ancora!? Ma, scusa, non sei appena tornato…? – esclamai.
Era stato uno sfogo improvviso che potevo evitarmi. Avevo appena toccato uno di quegli argomenti chiusi nel segreto: quali erano le misteriose mansioni di Tyki fuori dalla casa.
Tuttavia lui non raccolse minimamente l’idea di raccontarmi qualcosa. Alzò le spalle: - Cosa vuoi che ti dica? A volte gli vengono queste idee improvvise… -
Stavo per cercare qualcosa da dire, qualcosa di un minimo sensato e privo di conseguenze, quando di punto in bianco starnutì.
- Oh! Salute! –
- …Grazie… - rispose, tirando fuori un fazzoletto ancora stirato dalla tasca.
- Sei raffreddato…? –
Scosse la testa: - Deve essere un’intolleranza al polline a scoppio ritardato… - sbuffò, trattenendo a fatica un altro starnuto.
Quella frase mi fece ricordare quel mazzo di rose bianche. O meglio mi fece ricordare un’altra cosa che avrei dovuto dimenticare…
Cercai di prendere il discorso da lontano: - Al polline? – domandai, guardandolo nel modo più innocente che potevo.
Alzò gli occhi gialli e acuti nella mia direzione – Perché sarebbe così strano? –
- Non è strano… Solo che sei tu che hai fatto un’osservazione particolare… -
Riusciva sempre a confondermi le idee. Ora ciò che dicevo appariva privo di senso…
Aggrottò le sopraciglia: - Sei tu quella che è rimasta per giorni circondata di fiori, a teatro. Magari ti era rimasto del polline sulle mani. Io ne ho molto poco a che fare. –
Ecco, se continuavo a girare intorno al fatto non sarei mai riuscita a condurlo dove volevo…
Sospirai: - Ma davvero non voi chiedermi qualcosa…? –
Per un attimo mi guardò, come se fosse in grado di leggermi in faccia quello che pensavo.
- Ah si… - disse infine, appoggiandosi sbadatamente una mano sulla fronte – E’ andata bene la prima, Vivy? Scusa, se non te l’ho chiesto prima… -
Si sforzava tanto per apparire del tutto ingenuo che si faceva fatica a dubitarne, se non lo si conosceva abbastanza. E comunque io non potevo ammettere di essermi sbagliata tanto… Chi altri poteva avermi lasciato quelle rose? Perché lui avrebbe dovuto negarlo?
- E’ andato tutto bene. Ma questo dovresti averlo visto da solo… - commentai, amareggiata.
Non disse niente, ma vidi un cambiamento netto nella sua espressione. Il suo sguardo era diventato di ghiaccio, insondabile e quasi acuminato. Era come se, non solo avesse capito benissimo a cosa mi riferivo, ma lo considerasse anche… orribile e sbagliato…
- Non c’eri, Tyki? Davvero non eri a teatro quel giorno? – ripresi, sentendo già il peso di quegli occhi che mi squadravano dall’alto.
- No. –
Pronunciò questa sillaba con una calma tanto sovrannaturale da sembrare aggressiva, come un contrattacco studiato e intransigente. Come per coprire una verità scomoda. Quale?
- Non capisco. Non è vero. Io lo so. Per favore, non mentirmi. – lo supplicai, stringendo i braccioli della sedia, tesissima.
- Perché dovrei? –
Il suo viso, calmo e serissimo, del tutto vuoto di ogni espressione mi sconvolse, quasi quanto quella risposta, piatta ma forte di una crudeltà di fondo.
- Non sei stata tu a chiedermelo? A pregarmi disperatamente di mentire, piuttosto che dire cose che potrebbero non piacerti? –
Ricordai improvvisamente a cosa si riferiva. Quando avevamo parlato di Road, delle mie prove e soprattutto di quanto volevo credere che lui volesse davvero aiutarmi. Avevo detto che non avrebbe dovuto contraddirmi, che io volevo continuare ad avere questa certezza e che avrei preferito non mi dicesse mai il contrario. Si, anche quello in fondo era mentire…
- Cosa vuoi esattamente da me, Vivy? Non puoi cambiare idea ogni singola volta… - insistette lui, fissandomi ostinatamente.
- Io voglio solo la tua sincerità, Tyki. – risposi infine, scuotendo la testa, amaramente.
Era ingiusto che fosse così spietato nei miei confronti, ma potevo negare di aver sbagliato? Volevo la verità, ma non solo una parte. Sapevo che in ogni caso mi avrebbe dimostrato sempre e solo ciò che avrebbe voluto, proprio come il Conte. Per questo avevo tentato di riservarmi solo il frammento migliore di quella realtà che cercavo, eliminando tutto ciò che mi faceva male…
- Ah si…? – per un momento i suoi occhi si strinsero, crudeli - Per ora non mi è sembrato questo il tuo desiderio. – poi infierì, più a bassa voce, con qualcosa di violento che traspirava da quelle parole – Perché se credi che io sia solo quello che tu vuoi vedere, quello che tu vuoi che mostri, quello che tu pensi, allora non hai ancora ben chiaro il concetto di “sincerità”… -
- Smettila. Ho sbagliato, lo ammetto. Ho parlato a sproposito. -
Cercavo di mostrarmi pacata, anche se improvvisamente una certa rabbia si stava diffondendo in me. Mi disgustava quel desiderio di comode falsità che avevo provato e certo non potevo che sentirmi provata e angosciata da quella sua reazione tanto venata di malignità, ma ora ero stanca. Mi aveva mortificata abbastanza mostrandomi quel suo lato oscuro e trattandomi da persona incoerente… Ora era lui a dover smettere di mentire.
- Non dovevo dirti una cosa simile. Ma ora non mi parlare più questo modo. Lo sai che non me lo merito. – dissi, cercando di frenare, come sempre, il nervoso. Non potevo lasciarmene trascinare perché era l’emozione che accompagnava immancabilmente la Paura…
- Non lo so se non te lo meriti… Smettila di trattarmi come un giocattolo da usare come meglio desideri, Vivy… Altrimenti potrei decidere di fare lo stesso con te… -
La minaccia mi fece quasi dubitare di chi avevo davanti. Eppure… Era solo dolore spirituale. Era solo sofferenza nel notare quanto ci teneva ad arginare la sua umanità. Perché era inutile, mi faceva paura, ma continuavo ad avere una pregnante fiducia in lui…
- E con questo…? Ma se non riesci neanche a… - “baciarmi…”, ma mi morsi un labbro prima di terminare una frase che avrebbe mostrato una mia debolezza - Tu non saresti mai in grado di farmi del male… -
- Ne sei sicura? Hai la tendenza a dimenticarti chi siamo, dove siamo, ma anche che cosa siamo. Non sai quello che dici. Non sai quanta oscurità alberga nell’animo di un Noah? –
- Basta, non voglio sentire altro! Mi tratti da stupida, mi critichi, mi minacci e, soprattutto, menti! Menti spudoratamente sperando di ingannarmi! Esci da qui, Tyki! -
L’ira mi aveva invasa senza che me ne accorgessi.
Lui mi guardò per qualche momento, impassibile, poi semplicemente aprì la porta e se ne andò.

Era nel suo stile andarsene senza più prestarsi a controbattere. Era il suo classico modo impassibile di mostrarsi. Eppure ero certissima di averlo fatto arrabbiare almeno quanto mi ero infuriata io. Anche simulare l’indifferenza più totale era un po’ mentire, se proprio si voleva essere sofisticati. Ma non era quello ad irritarmi del suo comportamento…
Comunque, dopo poco, quell’emozione sparì per lasciare il posto solo ad una profonda amarezza. Avevo litigato con lui solo perché non aveva ammesso di avermi portato un innocuo mazzo di rose. Era talmente stupido che quasi non riuscivo a capacitarmene. Cosa ci poteva essere di male? E a quella domanda centrata mi risposi subito, istintivamente, perché in parte l’avevo capito già da sola quel giorno in camerino: era il simbolo del passato, di quella parte della mia esistenza che voleva cancellare… Questo mi rese ancora più indigesto il tutto… Aveva fatto qualcosa di così disinteressato e apprezzabile e poi mi aveva aggredita in quel modo nel negare la sua azione. Era contorto, come sempre se non di più…

Per l’intera giornata rimuginai su tutto quello che ci eravamo detti, fra una colazione e un pranzo tranquillo a causa della sua assenza e una cena agitata ma estremamente silenziosa al suo fianco. Rientrai nella mia camera per avere ancora un po’ di tempo per riflettere.
Se questa semplice discussione, invece, avesse avuto la forza di distruggere quel nostro equilibrio?
Smise subito di importarmi qualunque altra cosa, dalle questioni di principio, al bisogno di scoprire la verità. Prima o poi avrei avuto ancora a che fare con quegli interrogativi, ma per ora desideravo solo che tutto tornasse almeno com’era prima.
Quando udii bussare alla porta, andai semplicemente ad aprire e per la seconda volta in una giornata mi ritrovai di fronte lui, in mano il soprabito e il cappello.
- Vivy, noi stiamo andando a fare un giro… Vuoi venire con noi…? -
Era stranamente sereno e tranquillo. Non mi importava se non fosse del tutto logico. Se andava bene così, era semplicemente perfetto.
- Si, d’accordo! – gli sorrisi, spontanea – Prendo la giacca. -
Lasciai aperta la porta e andai solo a prendere l’indumento appeso ad un attaccapanni.
- Vivy… -
Lo guardai, incerta.
- Questa mattina non è successo nulla di importante, giusto? -
Non capii fino a che punto mi chiedesse conferma della sua intenzione di chiudere così la questione o mi volesse obbligare a fare come lui e dimenticare quelle parole.
- No. Nulla davvero, Tyki. -
Mi rivolse un mezzo sorriso e si scostò per lasciarmi uscire dalla camera. Infine, mi porse il braccio e io vi appesi il mio, stranamente felice di quel semplice gesto.
Era un altro dei tanti argomenti tabù che avremmo finito per collezionare. Lo sapevo, ma decisi che forse era meglio, finché potevo, accontentarmi di una gioia passeggera e lasciar perdere tutto il resto…





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Hello!!! Mi prostro ai piedi di chiunque aspettasse l'aggiornarmento per tempo, quindi almeno un mese fa (se c'è davvero qualcuno che lo aspettava)...
Mi dispiace, ma la scuola ha dominato con violenza sulla mia vita per tutto marzo... Mi stupisco di essere sopravvissuta...
Come sempre chiedo scusa per tutte le cose che non c'entravano niente che sono fluite in questo capitolo...
Il fatto fondamentale era chiaramente questo "litigio" tra Tyki e Vivy, il resto, a parte il dialogo con il Conte (che deve spiegare l'atteggiamento rammaricato che era stato rilevato nella ragazza il capitolo precedente), sono chiaramente elementi accessori, che allungano inutilmente e non servono molto...
Mi dispiace soprattutto perchè temo che molti vedendo la lunghezza di questi capitoli si facciano passare la voglia di leggere...
Non so davvero che fare, però, perchè queste ispirazioni improvvise mi prendono mentre scrivo e alla fine non reisco a sottrarmici...
Spero che questo capitolo, nonostante questo, vi sia piaciuto!!!! Se avete tempo e vi viene in mente qualcosa da scrivere, QUALUNQUE cosa, please, lasciate un commentino!!!! ^_^ In ogni caso, grazie infinite a chiunque leggerà!!!!
A presto (spero davvero)! XDDDD

kuro = Grazie infinite!!! Allora l'idea delle rose non era così balorda, anche se alla fine mi ha dato un po' di problemi per far quadrare la storia!!! Spero che anche questo capitolo (lo ammetto, un po' cupo e ben poco romanticoso) ti sia piaciuto!!! ^_^

P.S. Ho tolto la frase nel sottotitolo della fanfiction perchè...emhh... perchè si!!! XDDDD Mi sono resa conto che era una frase troppo azzardata rispetto al contenuto della vicenda... Suonava come introduzione ad un pentimento che... be', capirete in seguito... Da adesso in poi lascerò solo l'estratto dal capitolo postato, se non mi verrà un'idea migliore... ^_^



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Capitolo 14
*** XIII - Lights Of The Night ***


Capitolo 13

Lights Of The Night
    

“Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto: / e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è […]”
(D. Campana)





Incrociò il suo braccio con il mio tranquillamente, come se ne provasse un enorme sollievo.
Io sicuramente ne provavo molto. Non solo perché aveva compiuto quel gesto senza crearmi le solite difficoltà moralistiche, ma anche perché significava che non aveva intenzione di ricominciare a discutere su quell’inutile questione.
Forse ero riuscito a chiudere così tutta la vicenda. Era decisamente la cosa migliore.

Ci avevo messo molto poco, neanche un giorno, a capire che quel mazzo di fiori era stata la cosa più controproducente e stupida che avessi mai fatto.
Tutto quello che era capitato era riuscito a far sorgere qualcosa di simile alla tenerezza nel mio animo. Un errore gravissimo su tutti i fronti. Potevo provare qualcosa di simile per Iizu, quando avevo sembianze del tutto umane. Era qualcosa che riservavo a lui, mentre in generale qualunque altro bambino, anche più sfortunato, mi era abbastanza indifferente. Una forma di emozione comunque scorretta e inadeguata agli occhi del Conte. Ormai lo era anche ai miei. Il mio amico era l’unica eccezione che era giusto concedermi. Non potevo comprendere anche lei.
Era uno sbaglio enorme. Quel gesto irrazionale era la riprova di un attaccamento al passato che non potevo permettermi. Visto a posteriori, tutto di quell’accidenti di bouquet era terribilmente simbolico. Quante dannate volte avevo detto che quello che c’era stato tra noi prima della famiglia non mi importava? Eppure ci ero ricascato, come un idiota.
Dovevo negare ad ogni costo qualunque coinvolgimento. Se la mia coscienza aveva dei problemi e dei contrasti interni, era un problema che avrei sbrigato da solo. Non potevo permettere che le sue speranze e le sue reminescenze mi creassero ulteriori difficoltà. Non sapevo come avesse potuto intuire il mio coinvolgimento con quei fiori, ma ora questo mi importava molto meno che mettere una pietra sopra tutta alla faccenda, prima di perdere ancora il controllo della situazione.
 
Stava andando tutto bene, poi ci fu quel maledetto starnuto. Forse era stato davvero del polline rimasto sulla sua mano. Perché ero così sincero quando non serviva a niente? Una scusa valida quando serviva…? Non ci voleva davvero nulla per portare la discussione da lì ai fiori. Fregato.
Dovevo semplicemente dire di non essere mai stato a teatro e così escludere qualunque coinvolgimento. Io non avevo detto né fatto intuire che ci sarei stato. Aveva una bella fantasia per immaginarmi là. Per vedere lei. Perché mai avrei dovuto?
Solo che non le era sufficiente. Non ci credeva.
Cominciai in quel momento ad odiare la parola “verità”.
Era stata lei a dire che c’erano determinate cose che voleva sapere ed altre no, vere o false che fossero. Ma dovevo per forza stare dietro ai suoi parametri? Per nulla. In realtà ero solo io a sapere cosa dovesse o meno conoscere. Il suo parere aveva poca importanza. Le sue ricordanze erano ciò che dovevo evitare. Che invece le piacessero era incidentale. Ne avrebbe fatto a meno.
Non ero arrabbiato davvero, ma neanche molto in me. Il punto era solo che a volte avevo l’impressione che cercasse di plasmarmi a suo piacimento. O anche di sfruttarmi, per certi versi, come aveva fatto nel momento in cui mi aveva offerto a Road per quella settimana infernale. Era chiaro che non lo facesse apposta e aveva ragione, le mie parole crudeli erano immeritate. Eppure arrivai alle minacce, per la prima volta in vita mia. Le dissi che avrei anche potuto farle del male, ancora una volta senza sapere se avrei realmente avuto la capacità di andare fino in fondo. No, probabilmente no.
Ma il Noah l’avrebbe fatto, era lampante… In alcuni momenti sembrava chiedermi un Piacere che solo il…possesso di lei poteva darmi… Con o senza il suo permesso… Dannazione…
A volte la mia parte bianca era davvero la salvezza per non diventare un animale…
Chissà quanto sarebbe durata questa quiete. Chissà per quanto avrei potuto mantenere la mia prospettiva umana. Chissà per quanto il Noah sarebbe rimasto in equilibrio con il resto di me. Chissà…
Bizzarro come la cosa mi toccasse solo lievemente. Quando sarebbe dovuto succedere, sarebbe successo. Magari nel frattempo anche lei sarebbe cambiata, chissà, magari sarebbe anche lei diventata una vera Noah, pronta a dedicarsi alle pulsioni più nascoste…
Basta suorina, basta purezza ad ogni costo, basta passato… Prima o poi sarebbe successo, per forza…

- Dove usciamo, Road? – chiese Vivy, con voce cristallina, scuotendomi da questi pensieri.
La bimba trotterellava allegra vicino ad una grande porta smaltata di nero, una delle creazioni del suo potere. Si era stirata i capelli scuri e aveva indossato un abito elegante azzurrino pieno di pizzi e merletti, tipico di quando usciva pubblicamente. Si fermò per venirci incontro, i grandi occhi gialli ancora brillanti sulla carnagione cinerea del viso, solo le cicatrici nascoste dalla frangia lisciata sulla fronte.
- Non ho ancora deciso… – rispose lei, con un sorriso un po’ enigmatico.
- Ma noi si! – sbraitarono all’unisono due voci dal fondo del corridoio.
Mi voltai subito per gustarmi lo spettacolo.
I gemelli erano finiti tra le grinfie di Lulubell, che aveva ricevuto dal Conte la richiesta di renderli quanto più possibile delle persone normali. Quando si trattava di tirare a lucido gli altri, la gatta mostrava un buon gusto incredibile. Il problema, però, non era la scelta del vestiario, ma il modo in cui veniva indossato. E addosso a loro due era sempre terribilmente comico…
Jusdero si stava ancora passando il fondotinta del Conte per coprire i segni del piercing che si era dovuto togliere. Passando davanti ad uno specchio, fece una smorfia di fronte al suo volto versione acqua e sapone, già privo dei colori dei Noah e ricoperto con un leggero strato di “pittura”. Scosse la testa, facendo ondeggiare la coda alta che Lulubell aveva dovuto fargli per nascondere un po’ l’eccessiva lunghezza dei capelli biondi, e infine fissò inorridito il completo nero che aveva dovuto indossare e in particolare lo strettissimo farfallino. Nel ficcare un dito tra il laccio e il collo per allargarlo, rischiò di soffocare…
Debit non era da meno. Continuava ostinatamente a passarsi le mani tra i capelli pettinati e leggermente laccati, come se sperasse di scompigliarli il prima possibile. In alternativa, si sistemava i pantaloni scuri con la riga, tentando per dispetto di lisciare la stiratura passandosi le mani sulle gambe. Dato che non sopportava per nulla i pantaloni a vita alta, cercava di smollare la cintura per abbassarli quanto poteva, senza molto successo, comunque. Si era già tolto la giacca scura e la teneva malamente in mano, con aria molto irritata.
- Sembrate quasi normali… Per quanto possiate esserlo… - commentai, con un sorriso maligno.
Road cominciò a ridere fortissimo, ma poi si lanciò verso di loro e il afferrò entrambi per le braccia, affettuosa: - Siete davvero strani, ma carini! Farete un figurone! –
Per un attimo sembrarono lasciarsi andare all’imbarazzo, poi Debit biascicò, acidissimo:
- Seeee… Un figurone vestiti come “quello”… - e mi puntò un dito addosso, disgustato.
- Non fare tanto il superiore. Al mondo ci si veste come me, non come voi, ragazzini… - risposi, con una smorfia.
- Purtroppo ha ragione lui. – annuì Road, comprensiva.
- Però… Non vale… - piagnucolò Jusdero.
- Non state male. –
Mi girai alla mia sinistra, incredulo. Era stata Vivy a parlare.
Sorrideva ai gemelli, piegando un po’ la testa, con dolcezza. Non appena si accorse che la stavo guardando, si voltò verso di me, allargando ancora di più il sorriso: - Dai, Tyki, non guardarmi così… E’ vero. – poi tornò a rivolgersi a loro – Il vostro vestiario di sempre vi si addice di più, ma non è che così eleganti stiate male, per nulla. -
Quelli non sembrarono stupiti quanto me, per quanto si fossero girati subito verso di lei, raggianti.
- Visto!? Ve l’ho detto! Ma come al solito credete più a lei che a me! – esclamò Road, lievemente offesa di fronte ai sorrisoni allegri che avevano rivolto alla loro cugina.
- Be’, lo pensi davvero, Vivy? – chiese Debit, improvvisamente serissimo, avvicinandosi a noi. Le prese la mano e si lanciò in un baciamano del tutto informale, trattenendo a fatica una risata, che invece sfociò sincera dalla bocca del gemello. Mi stava di nuovo facendo il verso.
Stavo per sbottare, infastidito, quando Road mi si gettò al collo, obbligandomi a lasciare anche il braccio di Vivy.
- Tyki, almeno tu… E’ vero che l’ho detto prima io che stanno bene…? – chiese, tutta affettuosa.
- Si, è vero… - risposi, con voce strozzata dalla stretta delle sue braccia. Non era una bambina di pochi anni e nonostante tutto pesava abbastanza, quindi dovetti prenderla in braccio prima che finisse per spezzarmi il collo.
- Visto!? Visto!? – esclamò, rassicurata dalla mia ammissione.
- Si! Lo sappiamo! Lo sappiamo! – risposero entrambi – Grazie, Road! – aggiunsero allora. Anche loro erano ormai abituati alle scenate della nostra piccola despota.
Lei fece un’espressione soddisfatta e si accoccolò stretta al mio collo a guardare le scene tutti inchini e finezze che i due riservavano a Vivy, che sembrava divertirsi tantissimo.
Più che i balordi malvestiti, però, io osservai incuriosito l’improvvisa allegria della mia promessa.
A differenza anche di solo un’ora prima, a cena, ora era del tutto rilassata e serena, tanto da lasciarsi andare a quei giochi stupidi dei cugini. Era quasi irriconoscibile con quel sorriso aperto e felice che le faceva brillare anche gli occhi, benché ancora gialli e rapaci. Di nuovo mi ritrovai in uno dei miei classici errori, ma scacciai con forza questo pensiero, memore dei miei ragionamenti di poco prima… Cercai di concentrarmi piuttosto su qualcos’altro. Studiai con attenzione l’abito viola dai piccoli ricami bianchi, che si riusciva a vedere bene attraverso il soprabito scuro ancora aperto. Era abbastanza lungo da coprire perfettamente le gambe, ma non da toccare terra. Mentre la gonna appariva solo lievemente gonfiata, come di moda, dal rivestimento interno di tulle, dalla vita in su l’abito la segnava leggermente, lasciando però intuire perfettamente che il suo vitino sottile non era causato da alcun corpetto particolare. Lo scollo molto decoroso non le rendeva molta giustizia, mi ritrovai a pensare, benché non fosse poi eccessivamente formosa. Dal canto mio, preferivo le figure proporzionate e non avrei comunque trovato gradevole, su un corpo così fine, forme più prepotenti. I capelli neri e lucenti erano di nuovo raccolti dal suo becco d’oca, anche se qualche ciocca accarezzava il suo collo lungo e sottile.
Ogni tanto guardava verso di noi, posando gli occhi prima su di me e poi su Road, che sembrava in quei momenti, accostarsi ancora di più a me, maliziosamente.
Infine i gemelli, non appena furono d’accordo, si misero in posa al suo fianco, assumendo assurdi atteggiamenti da uomini vissuti e passando le braccia intorno alla sua vita.
- Foto, Road! – esclamarono, sorridendo a tutti denti. Lei si staccò per un attimo da me, mentre continuavo a tenerla in braccio, e fece il gesto di scattare una fotografia. Vivy scoppiò a ridere, diffondendo un suono delizioso all’udito e contagioso, tanto che io stesso non potei che mettermi a ridere di riflesso.

- Quindi, dove volete andare? – domandò Road, lasciandomi alla fine andare e facendosi depositare a terra.
- Non volevi decidere tu? – chiesi, stupito.
- Va be’… - scrollò le spalle – Se hanno delle preferenze, vediamo… -
- Budapest! – esclamarono, annuendo, soddisfatti.
- Eh…? Perché…? – chiese, Road, confusa.
- Feste, vita notturna… - cominciarono ad elencare, sognanti.
- Freddo… - osservò Road, che aveva indossato un abitino piuttosto leggero per la stagione.
- Corte ungherese… - sbuffai, ricordando pessimi momenti passati in incontri ufficiali con nobili locali.
- Battelli sul fiume, vie illuminate… - aggiunse Vivy, allegra – Non ci sono mai stata, ma dicono che di notte sia splendida! –
- Davvero non ci sei mai stata!? – chiesero i gemelli, stupiti, sballonzolandole intorno.
Ricordai solo allora che loro non sapevano davvero nulla di lei e mai avevano chiesto qualcosa, in effetti. Era strano davvero che invece le rivolgessero tanta attenzione…
- No… Prima di entrare in famiglia ho sempre vissuto in Francia… Purtroppo… - ammise, a malincuore, gli occhi tristi rivolti a terra.
- Allora dobbiamo andarci! Dai, Road! – esclamarono.
Ma la bambina non aveva nessuna voglia, quindi iniziarono subito a discutere. Sbuffai, svogliato all’idea di doverli sentire litigare, soprattutto per una questione così insensata. Un posto valeva l’altro, alla fine. Tanto dovevamo solo fare un giretto, non molto altro.
A quel punto, notai però che Vivy aveva alzato lo sguardo e mi stava guardando fisso. Solo che appena notò che mi ero girato, distolse prontamente l’attenzione per fingere di essere ancora interessata al pavimento scuro.
- Cosa c’è? – chiesi, vagamente di fronte a quel gesto.
- Io…? – chiese, fingendo vaga indifferenza. Per niente credibile.
- Si. – insistetti, scrutandola, per nulla persuaso.
- No, niente… - rispose, dispiaciuta, poi, a fatica, ammise – Poco fa… Non avrei dovuto accennare al passato… Giusto…? Scusami… -
Poi si morse il labbro e tacque, come se fosse intimorita da quello che avrei potuto dirle o da come mi sarei comportato.
Quella conclusione mi lasciò per un momento spiazzato. Improvvisamente aveva paura di me.
Be’, sarebbe più corretto dire che temeva le mie reazioni, ma in fondo non era la stessa cosa?  Ne provai una delusione e un’amarezza improvvisa e odiosa che mi fecero stringere i denti dal nervoso. Tuttavia potevo accusarla di qualcosa? Ero stato io a spezzare l’equilibrio. Chi si era comportato con sdegno e rabbia? Chi aveva cominciato ad usarle minacce? Era la reazione più logica da parte sua. Eppure mi dava parecchio fastidio.
- Va bene, allora! – sbuffò Road, ricomparendo per il corridoio con un vestitino più pesante che si era appena andata a cambiare – Andiamo… -

Era da molto che non finivamo a fare un giro in Ungheria. Più o meno da quando Lulubell aveva rifiutato bruscamente la proposta di un giovane conte. O forse da quando il Conte aveva dovuto reclinare l’invito a cena dell’Imperatore e quello si era leggermente offeso. Poco importava, comunque. Anche se non ero rimasto personalmente coinvolto in nessuna particolare vicissitudine, non conservavo un buon ricordo della nobiltà ungherese. Troppo pieni di loro e gonfi d’orgoglio, tanto da non capire davvero la condizione di sudditanza a cui si erano ridotti. Queste però non erano parole mie. Era mio fratello che si occupava delle questioni politiche. A me non importa un bel niente. Certo è che infastidiva anche il sottoscritto discutere con persone che a seconda di come tirava il tempo esaltavano lo stretto legame con l’Austria o tenevano le distanze da qualunque legame o accordo, celebrando una presunta indipendenza del tutto fasulla. Tanto più che per noi, come amava ripetere il Conte, i Paesi erano solo entità temporanee. Tutte vanterie inutili di fronte all’assoluta supremazia della stirpe di Noah…  Ma alla fine neanche queste sono parole mie…

Uscimmo in una strada laterale, poco lontano dal centro di Pest, la parte nuova della città. Un vicoletto stretto e umido tra due casupole.
- Come mai da questo lato del fiume? – chiesi a Road.
- Perché è molto più discreto, piuttosto che in una via trafficata della città vecchia. – rispose, molto pratica, infilandosi in tasca la chiave.
- Si, però qui non c’è mai niente… - sbuffarono i gemelli – Andiamo dall’altra parte… -
- Ci fosse una carrozza… - sbuffò la bambina, battendo irritata i tacchi a terra.
Ci eravamo diretti verso una via illuminata, ma non c’era anima viva. Le case, addossate le une alle altre, erano di povero laterizio e quasi tutte le luci alle finestre erano spente. Quello era il quartiere industriale ed economico in cui alloggiava la gente comune, che aveva ben altro per la testa che restare sveglia a notte inoltrata, rischiando il giorno dopo di non svegliarsi in tempo per andare a lavorare. Una triste verità che probabilmente solo io sperimentavo e conoscevo, rispetto ai miei viziatissimi parenti.
Solo Vivy si guardava intorno con aria smarrita. Poi, semplicemente, prese ad osservare, assorta e cupa, un mendicante che dormiva sdraiato a terra, difendendosi dal freddo solo con la sua macilenta coperta di cotone.  
- Quando si deve esaltare qualcosa, la povertà e la vita umile non hanno nessuna importanza… Invece, anche qui ci sarebbe così tanto da fare… - sussurrò, tra sé. Tuttavia, di nuovo, appena notò che le stavo rivolgendo la mia attenzione, tacque, con una smorfia nervosa a deformare la sua bocca sottile.
- Eh, va be’… Niente carrozze! Andiamo a piedi! – esclamarono i gemelli, alimentati da un improvviso sacro fuoco.
Road li guardò, un’espressione incredula sul volto, poi scrollò le spalle: - Se non c’è altra possibilità… -
Evitai di ricordare ai due disgraziati che per arrivare a Buda, l’area più antica e ricca, bisognava arrivare al fiume e poi attraversare un lunghissimo ponte sul Danubio. A me non importava camminare, a loro non altrettanto…

- Il bel Danubio blu… - commentai ironicamente, quando finalmente giungemmo sulla sponda del vasto corso d’acqua. Avevamo percorso vie e viottoli per quasi un’ora, prima di riuscire ad uscire dall’area abitata.
- Era ora! - rispose, irritata, Road. Non le importava tanto il fatto di camminare, ma il tempo che ci avevamo impiegato e si lamentava ad alta voce della mancanza di mezzi di servizio in città.
I gemelli, invece, proprio come immaginavo, erano letteralmente distrutti. Curvi sulla schiena, piedi che strisciavano a terra, occhi bassi e acquosi dal nervoso, sembravano dei reduci di guerra. Erano talmente stanchi che non osavano neanche sbraitare contrariati come al solito. Anche perché avrebbero fatto ancora di più la figura dei dementi, visto che l’idea della passeggiata era stata loro.
- C’è una panchina… Andiamo a sederci… - osservò Vivy, guardando preoccupata il portamento stravolto dei gemelli.
- Si… - biascicarono quelli, prendendo la palla al balzo.
- Non c’è fretta… Ci riposeremo una volta arrivati al quartiere nuovo… - dissi, volutamente malevolo, sicuro di ricevere il sostegno altrettanto crudele di Road.
- Già! Poche storie! – esclamò, infatti, pronta.
Vivy ci guardò, aggrottando le sopraciglia, ma non osò parlare.
- L’ultima parola però spetta a Vivy. Ce la fai a camminare ancora un po’? – le chiesi.
- Si… Io si… - rispose, renitente. Non riusciva proprio a mentire, neanche per una “buona causa”.
- Tre a due. Peccato, ragazzi. Dai, andiamo. – sorrisi alle loro occhiate minacciose.

Camminava al mio fianco senza parlare, con un passo leggero e cadenzato, il soprabito chiuso dalle braccia strette sul petto. L’aria fresca della notte sferzava il ponte sul quale camminavamo e ci faceva sentire un po’ di freddo. Avrei voluto dirle di decidersi a chiudere la giacca, ma poi pensai che era giusto facesse quello che voleva. Non ero il tipo da preoccuparmi della salute altrui. Anche se mi chiesi vagamente se quel comportamento fosse dovuto alla civetteria femminile: il desiderio di mostrare al meglio l’abito viola, senza nasconderlo del tutto sotto il soprabito. Non credevo che questo genere di cose la interessassero. Vanterie simili sembravano troppo distanti dal suo carattere e poi contrastavano del tutto con il resto del suo atteggiamento.
Se fosse stata davvero interessata a cogliere una mia reazione a proposito della sue eleganza mi avrebbe tenuto in qualche considerazione. In realtà i suoi occhi continuavano incessantemente a fissare, affascinati, il profilo illuminato della città vecchia, le luci colorate alternate sui palazzi e lungo le vie. Dal mio punto di vista, più le guardavo, più le consideravo del tutto ordinarie e pacchiane. Moltissime città avevano quel tipo di panorama e non mi avevano mai fatto tanto effetto quanto ne stavano facendo a lei. Certo, da quello che aveva detto, era la prima volta che visitava una grande città. Tuttavia, c’erano cose molto più importanti da considerare. Per esempio, che era anche la prima volta che usciva con noi per una passeggiata notturna. Capivo benissimo che non volesse prestare attenzione a Road che trascinava i Jusdebi per la strada, impietosa e crudele come al solito.
D’altra parte, quell’isolamento nel quale si stava chiudendo era quasi insopportabile. Quanto meno poteva considerare la mia di presenza. Non mi era mai successo di passare così inosservato. Tanto più da parte sua, che in genere sembrava sempre notare e contare sulla mia considerazione e partecipazione. Pensai, decisamente irritato, che non era neanche questione di timidezza o meno, ma che normalmente le donne, per loro istinto naturale, in una notte simile cercano voracemente un cavaliere a cui porgere il braccio. Finivo sempre a dover fare da accompagnatore galante per  matrone lascive, ogni dannata volta che bisognava anche solo fare due passi all’aperto. Questa volta poteva andarmi davvero meglio, del resto anche poco prima mi si era accostata senza difficoltà. Mentre ora, nonostante continuasse ad avermi a fianco, si teneva ostinatamente stretta e distaccata e non faceva un gesto, non rivolgeva un’occhiata neanche a pagarla.
Ecco, volevo reagire, rompere questa situazione che, a me almeno, risultava parecchio imbarazzante. Eppure come sempre non ero completamente teso in una sola direzione. Da una parte spingeva il mio proverbiale disinteresse, che si ostinava a voler indurre in me il solito atteggiamento di sufficienza, e dall’altra fremeva l’inquietante timore di avere di nuovo una reazione sbagliata. L’ultima che avevo avuto, quel giorno, aveva dato già parecchi frutti, del tutto sgradevoli.
Come potevano una semplice menzogna e una frase detta senza pensare avere un simile effetto? Alla mia domanda aveva ammesso che non fosse successo niente, ma ora come spiegava questo atteggiamento?
E io, come potevo giustificare l’improvviso desiderio di sentirla di nuovo parlare, sinceramente, dolcemente, anche per dire cose assurde e dannose alla mia condotta da Noah?

- Basta, per favore… - chiese lamentoso Debit, quasi accasciandosi, esausto.
Road alzò gli occhi al cielo con uno sbuffo sonoro: - Possibile che non riusciate neanche a sostenere una mezza passeggiata!? –
Jusdero si inginocchiò a terra e la guardò sofferente, gli occhi pieni di lacrime: - Please, Roaddy… -
- Ahh… - sospirò – Tyki, Vivy! Facciamo che andarci a sedere… -
Io feci spallucce, del tutto indifferente alla cosa. Vivy puntò il dito a due metri da noi, dove era posta una panchina, poco oltre la metà del vasto ponte.

Ci schiacciammo per riuscire a ritagliarci un piccolo spazio sul minuscolo sedile di pietra, che idealmente doveva ospitare al massimo tre persone comode. Io nello specifico ero abbastanza pigiato tra Road, che si era conquistata un vasto angolo all’estrema sinistra della panca, e Vivy, che cercava quanto poteva di occupare meno spazio possibile. Sul lato destro, Jusdero era seduto abbastanza composto per lasciare almeno un angolo a Debit, che però stava girato di lato per non cadere a terra.
- Uff… - sospirarono i due – Finalmente… -
Road, benché tra tutti si fosse accaparrata il maggiore spazio, commentò, subito: - Comunque, siamo schiacciatissimi… - al che mi lanciò uno sguardo ben eloquente.
Naturalmente le soluzioni per riuscire a stare un briciolo comodo erano due. O spingere la bambina al margine massimo della panca, rischiando anche di farla cadere (ipotesi di fronte alla quale mi ritrovai a ridere silenziosamente come un bambino pestifero). Oppure limitare al massimo la distanza dalla mia promessa. Opportunità molto più interessante, in effetti. Era tra i miei diritti. Non ci sarebbe stato nulla di strano nell’allungare semplicemente un braccio e cingerle la schiena, accostandomi a lei quanto bastava da non sentire più quel senso di schiacciamento, ma sensazioni decisamente diverse…
“Più piacevoli… Molto più piacevoli…” concluse saggiamente Road con un pensiero che fece passare forzatamente nella mia mente.
L’idea mi tentava moltissimo. Era l’occasione per rompere quel bizzarro e insensato momento di contrasto e difficoltà. Tutte le donne si scioglievano di fronte ad un gesto simile.
“Lei no… Sarebbe in difficoltà…” pensai subito, scettico.
“E allora!?” esclamò, insoddisfatta.
“Perché ci tieni tanto…? Quando tu ti impunti così su qualcosa c’è sempre una ragione…”
“Perché sei tu che ci tieni. Tu lo desideri.”
“Infatti, proprio per questo non lo farò…” risposi, con un pensiero fulmineo, risoluto.
Mi voltai nella sua direzione e non mi stupii di vederla assorta nell’osservazione, un’espressione serena e rilassata che coinvolgeva anche i suoi occhi verdi, che brillavano alla luce della luna.
- Vivy, cosa guardi così intensamente? – chiesi, tranquillo, anche se nel mio tono di voce, parecchio confidenziale e intimo, filtrava probabilmente ciò che pulsava ancora nella mia mente.
Udii un vago sospiro di rimprovero alle mie spalle, ma lo ignorai.
Si girò d’istinto verso di me, scossa dall’improvvisa domanda, e si ritrovò a pochi centimetri dal mio viso. Per un attimo restò bloccata dalla sorpresa, poi notai distintamente lo sforzo che compì per voltarsi nuovamente verso il panorama di fronte a lei, il viso rosso di imbarazzo. Mi venne spontaneo chiedermi cosa sarebbe successo se al posto di una innocua domanda le avessi rivolto quel gesto così evidentemente privato. Sicuramente qualcosa di sbagliato che avrebbe peggiorato il suo timore nei miei confronti. Forse allora era questo che desiderava Road…
- Il fiume… - rispose semplicemente – Guarda i riflessi della luna sulla sua superficie… Non è bellissimo…? – chiese, intensamente, come di fronte ad un incredibile fenomeno.
- Nah! – risposero i gemelli che stavano ascoltando, scuotendo la testa – Cosa c’è di così particolare!? E’ chiaro che la luce abbia questo effetto sull’acqua. –
Si voltò nella mia direzione e probabilmente vide la stessa reazione indifferente riflessa sul mio volto.
- Scusate… E’ solo che io… - e si fece piccola piccola, incapace di finire la frase.
- Non ti scusare, Vivy. – commentò Road, rivolgendomi uno sguardo scettico - Se è proprio la prima volta che vedi una scena simile, è normale che tu abbia una reazione così ingenua… Noi siamo abituati, tu sei ancora così umana… -
Lei trasalì a quelle parole e abbassò la testa, tesa. Era come se fosse pronta a giustificarsi, anche con foga, ma non fosse del tutto certa di cosa dire. Ebbi anche come l’impressione che istintivamente si fosse leggermente spostata verso Jusdero, ponendo una timorosa distanza da me. Di nuovo. Ma ora ne ero stufo.
- Be’, se proprio bisogna guardare qualcosa, preferisco di gran lunga il cielo. – dissi, tanto per rompere quell’improvviso momento di gelo. In realtà mi era capitato solo una volta di dare un’occhiata alle stelle: una sera che Iizu non riusciva a dormire eravamo usciti per un giro di osservazione stellare ed eravamo tornati indietro con il collo indolenzito dal continuo guardare in alto.
Non mi stupii, comunque, quando mi rivolse di sfuggita uno sguardo carico di riconoscenza. Me lo ero meritato, anche se con una stupida bugia.
- Mah, puntini bianchi… - fu il commento piatto di Debit.
- Non sono solo puntini bianchi… - rispose Vivy, prendendo un po’ di coraggio – Formano dei disegni e hanno una storia… E poi lo sai, no…? Le stelle solo enormi pianeti lontanissimi da noi… Dovrebbe bastare questo a renderle interessanti, secondo me! –
- Sarà… -
- Quindi sai riconoscere le costellazioni? – chiese, con falso interesse, la bambina – Ce ne mostri qualcuna? – e riprese a gustare il suo dolce.
Lei si voltò, presa di sorpresa. Fece per un attimo una strana smorfia, come se fosse concentrata a ricordare, poi puntò un dito poco lontano dalla brillante luna piena: - Ecco! Lì, per esempio! –
A quell’indicazione, Jusdero si sporse sulla panca, come per avvicinarsi per vedere meglio: - Dove?-
- Vedi quelle tre stelle a destra? Devi unirle a quelle due poco più in basso e a quella a sinistra, un po’ nascosta dalla luce della luna. Quello è “il pulcino”! –
Sgranai gli occhi. Mai sentita una costellazione con un nome simile. Tuttavia non dissi nulla, sapendo bene di non avere in realtà particolari conoscenze in merito.
- Ho capito! Hi-hi! –
Vivy sorrise subito di riflesso e indicò un altro punto brillante: - Adesso guarda questa. Vedi che ha altre cinque stelle tutt’intorno? Questo è “il fiocco di neve”! –
- Eh!? Dove sarebbe!? – chiese Debit, rompendo infine il suo atteggiamento svogliato, anche se con un po’ di scetticismo.
- Guarda! – disse lei, indicandole pazientemente una seconda volta anche a lui.
- Ah, be’… Può darsi… - commentò, annuendo, saccente.
Road aveva preso a guardarla con aria strana, come se non capisse cosa stava facendo.
- Ok, allora lì in alto, vedete la stella che brilla subito sopra al bagliore della luna? Con le tre a destra e a sinistra forma “il pesce”. -
- Ah-ah… - annuirono insieme, i gemelli, rapiti.
Andò avanti così per un po’, indicando quasi venti costellazioni, onestamente mai sentite nominare. In poco tempo, comunque, aveva attirato anche l’attenzione della nostra dittatrice, che dopo qualche momento di sconvolto stupore ormai guardava sogghignando ma con attenzione le strane spiegazioni di Vivy. Per conto mio, ascoltavo in silenzio, gustando l’entusiasmo con il quale si dedicava a quelle lezioni di astronomia. Solo che, improvvisamente, mi resi conto di qualcosa che non mi tornava. Insomma, qualche nozione minima l’avevo ricevuta, una volta, da un capo-cava parecchio preoccupato che sbagliassi zona di lavoro nelle sessioni notturne. Quindi, quando trovai quella serie di stelle che era certamente la coda del “Piccolo Carro” coinvolta in un misterioso “camaleonte”…
Scoppiai a ridere senza neanche accorgermene.
Tutti quanti si voltarono, stupiti.
- Vivy! – esclamai, continuando a sghignazzare – Non vale! Te le stai inventando! -
Per un istante aprì solo la bocca, incerta, poi iniziò anche lei a ridere forte.
- Temo che tu abbia ragione...! – rispose, mentre la sua risata sincera si propagava, con un’eco cristallina.
- Non vale! – esclamarono in coro i gemelli, lasciandosi però subito contagiare. Alla fine, persino Road si mise a ridere, sinceramente, facendo ondeggiare le gambe sospese dal sedile.
Quando tutti riuscimmo a tornare un minimo seri, Vivy disse, semplicemente: - Non conosco le costellazioni ufficiali, ma penso che tutti, usando un po’ di fantasia si possano creare le proprie… Provate… -
- Lero! – esclamò la bambina alla mia destra, unendo quasi venti stelle per tracciare con il dito la sagoma di quell’ombrello ciarliero.
- Cartello! – indicò invece, Jusdero, pieno di entusiasmo.

Passammo moltissimo tempo lì seduti a guardare il cielo, mentre i tre ragazzini di casa si dedicavano ad immaginare i più strani disegni comparire ad un loro comando. Vivy sorrideva delle idee più assurde e sembrava divertirsi moltissimo. Io mi riflettevo facilmente nell’allegria generale, senza tuttavia riuscire del tutto ad entrarci. Ero troppo preso dai miei pensieri.
Continuavo a far fatica ad accettare il suo portamento eccessivamente composto, quella lieve ma quasi inevitabile distanza che poneva tra noi e le mani appoggiate in grembo. Quegli occhi grandi mi sfioravano solo, quasi dolorosamente, quando si voltava per prestare attenzione ai disegni scelti dall’altra mia vicina di posto. Volevo ordinarle di smetterla con quell’atteggiamento difficile, che mi rendeva parecchio irritabile. Volevo che si sciogliesse un po’, almeno abbastanza da permettermi di compiere qualche logico gesto galante senza conseguenze. Eppure in quelle condizioni non era possibile… L’idea giusta mi passò per la mente improvvisamente, con in sottofondo lo scrosciare dell’acqua ai fianchi di un veloce battello…

- E’ già ora di tornare a casa… - sbuffarono i gemelli, alzandosi a fatica dalla panca.
- Temo di si, dato quanto tempo ci abbiamo impiegato ad arrivare… - rispose Road, lisciando e pulendo con le mani la gonnellina.
La mia promessa, già in piedi da un po’, continuava ostinatamente a fissare la città vecchia che alla fine non saremmo riusciti a visitare.
- Ci vorresti andare? – chiesi, immaginando chiaramente la risposta che avrei ricevuto.
- Si… Mi piacerebbe… - sospirò – Ma dobbiamo tornare, giusto? – e mi voltò le spalle, silenziosamente, per seguire gli altri.
In un impeto che non riuscii a frenare, le afferrai il braccio. Lei sobbalzò, spaventata, posando su di me un’occhiata tra l’allarmato e l’interrogativo.
- Scusa… - dissi, piano – Però non dovresti spaventarti così… Sono o non sono il tuo fidanzato? -
L’ultima parola ebbe un effetto evidente su di lei che divenne in un secondo rossa.
- Si… E’ vero… - ammise, tenendo la testa bassa.
- Allora, - dissi, alzando piano il suo viso con le due dita – non avere più paura di me… -
Il contatto aveva se possibile aumentato il rossore, eppure a questa frase il suo sguardo incrociò il mio. Non so cosa vi avesse letto, ma le sue labbra si incresparono in un sorriso triste, pieno di rassegnazione. Fece per dire qualcosa, quando una ben nota voce stridula mi riportò alla realtà.
- Dai! Venite! E’ ora! -
- Per i bambini, forse! – commentai con un sorrisetto beffardo – Noi adulti credo proprio che possiamo permetterci un’eccezione. –
Prima che Vivy potesse dire qualcosa in merito, sussurrai: - Sempre se non hai sonno, potremmo anche fare un giro laggiù… -
- Ma… - cercò di mostrare dell’esitazione, ma la sua espressione raggiante parlava di una decisione già presa.
- Insomma! Volete farmi tornare a casa da sola di notte! Il Conte si arrabbierà! – esclamò Road, con una smorfia.
- Ci sono i gemelli. – risposi, risoluto – Poi tu sai benissimo difenderti contro degli esseri umani, se si presentasse l’occasione. –
- Dai, Road, lascia stare i fidanzatini! – disse Debit rivolgendoci un ghigno malizioso.
- Tsz… - rispose solo, lanciandomi una delle sue chiavi – Usala con cautela dove non possano vedervi… -
- Lo so, tranquilla… - la rassicurai, avvicinandomi a farle un buffetto sulla guancia, cosa che gradì ancora meno della mia decisione.

Quando si furono avviati, porsi il braccio a Vivy. Esitò un attimo ad accettarlo.
- Guarda che è il minimo che possa fare per la mia promessa… Non dovresti aver paura di me… - commentai, di nuovo, celando meglio che potevo il risentimento.
- Non dire così… Non è paura… - spiegò, attaccandosi dolcemente a me – E’ solo che… Tu non hai mai timore di dire o fare qualcosa di cui potresti pentirti? – e nel dire questo, alzò piano il suo tenero viso latteo verso di me.
- No, non direi… - mentii spudoratamente.
Lei abbassò gli occhi, ma sorrise: - Ah… Allora sarà uno dei miei soliti problemi “umani”… -
- Dici? – risposi, spavaldo.
Ma sapevo che aveva di nuovo smascherato una mia menzogna…






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Buongiorno a tutti!!!! XDDDDDDD
Sono riemersa dalle tonnellate di libri di scuola ed eccomi finalmente a riprendere il controllo della vicenda... Come posso, almeno, dato che ho fatto un po' di fatica a reinserirmi  in pieno nella, dopo questi mesi di inattività... Quindi, se non troverete questo capitolo molto all'altezza, sarà solo colpa della maturità... Be', no... Sarà comunque colpa mia, ma non uccidetemi... ^_^
Dunque, Budapest perchè ci sono andata in gita scolastica e ne conservo un ottimo ricordo!!! *_* E' una città bellissima e di notte è spettacolare!!!
Non dirò cosa mi è piaciuto in particolare della vita notturna in quella città perchè rischierei di rovinarvi la sorpresa per il prossimo capitolo!!! ^_^

Quindi, grazie in generale a tutti coloro che hanno letto, leggeranno o rimandano sempre di leggere
(conosco il problema) ma hanno inserito volentieri la mia fanfiction tra le seguite o le preferite!!!   GRAZIE!!!! XDDDDD

kuro = Road e il Conte sono i personaggi che mi vengono più malvagi... Non c'è niente da fare... ISTINTO... XDDDDD Lo faccio apposta ad insinuare dubbi, altrimenti ci si stuferebbe subito di leggere, credo... ^_^  Grazie ancora!!!!
Alera = Grazie mille!!!! *_* Mi fa sempre  felice trovare una persona a cui piaccia Vivy... Dato appunto che ha il ruolo (ingrato solo perchè attira molte inimicizie ed invidie XDDDD) di conquistare Tyki, adorato, adoratissimo... *vagheggia sognante* Purtroppo ho potuto aggiornare solo ora... Spero che tu continui comunque a seguire gli sviluppi!!!

Ringrazio poi ancora infinitamente kuro per il sostegno alla mission di maturità e Clown  (mi ricordo! Commentavi "Tutte le ragioni per cui..." vero??? XDDD) per la comprensione: spero che sia andata bene anche a te!!! Io ero il 10 e avevo un'ansia... O_O

Infine, da un capitolo precedente:
Tyki Mikk = Grazie davvero per i complimenti!!! Be', se continui a leggere, comunque, anche se non hai voglia di lasciare commenti, va bene così!!! ^_^  

 





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Capitolo 15
*** XIV - Talk To Me ***


Capitolo 14

Talk To Me



“Il tuo dono tremendo / di parole, Signore, / sconto assiduamente.”

(S. Quasimodo)





Erano ormai le quattro del mattino quando mi chiusi la porta della camera alle spalle. Solo in quel momento mi resi pienamente conto di tutto quello che era successo quella notte e quasi mi vennero le vertigini. Avevo finalmente capito cosa significava vivere intensamente.
Camminate, tensione, stelle, risate… E luci, acqua, vino, colori… E parole, davvero tante, troppe…
Molte erano state veramente sbagliate, soprattutto da parte mia. Lui sapeva come comportarsi, come gestire le proprie reazioni e il rapporto con gli altri, anche se a volte rivelava ugualmente tentennamenti e tormenti. Io mi lasciavo trascinare, invece, e sfoderavo una sincerità che lo spiazzava o che metteva entrambi in eccessivo imbarazzo. Doveva essere la mia prima uscita di famiglia ed ero riuscita a trasformarla in uno scambio di opinioni decisamente pungente.
Tuttavia, quando mi misi nel letto con la speranza di non essere svegliata prima delle due del pomeriggio, pensai anche che era stata una bella nottata. E che Tyki mi aveva quasi promesso di portarmi a ballare… Ma non mi era chiaro se fosse stata una minaccia o un vero invito…



Arrivammo in poco tempo dall’altra parte del ponte.
- Abbiamo un passo veloce… - commentai, inconsciamente.
- Non abbiamo più la zavorra… - mi rispose, con fare indifferente.
In effetti, probabilmente non avremmo fatto tanta strada se fossimo rimasti in cinque come poco prima. Ricordai vagamente il commento infingardo dei gemelli e l’aria contrariata di Road. Del resto, ero troppo presa a ragionare su quelle poche parole e gesti che Tyki mi aveva rivolto poco prima per accorgermi davvero di ciò che mi accadeva intorno.
La Paura era sempre stata il mio segno, inevitabilmente. Solo che se adesso si riversava anche su di lui, su una persona che contava tanto per me, non poteva più essere sopportata. Si, certo, prima di uscire gli avevo garantito che per me non era successo niente quel giorno. L’avevo detto, l’avevo assicurato, volevo che fosse così. Eppure non era il mio atteggiamento abituale. Era stato un argomento semplice ma che poteva essere condotto in maniera migliore per arrivare ad una conclusione sensata. Non mi era ancora chiaro perché fosse invece finita così, con minacce sue e grida mie.
Per il resto, comunque, l’effetto più immediato era che stavo cominciando a chiedermi cosa potesse farlo arrabbiare, se non bastasse una cosa davvero stupida per scatenare una sua reazione inconsulta. Non era successo nulla quella mattina, chiaro, ma qualcosa si era rotto. Da solo, chiaramente, da sempre le cose si spaccavano da sole. Ma non volevo essere polemica, né avrebbe avuto senso. Volevo solo essere tranquilla e felice con il mio promesso sposo, che aveva addirittura deciso di accondiscendere ad un mio desiderio senza che gli chiedessi nulla. Come se volesse farsi perdonare qualcosa… Ma aver imparato a riconoscere le sue bugie non significava poter anche capire cosa gli passasse per la mente.
- Quella è la via che costeggia il fiume. – disse, improvvisamente, indicando con un gesto finissimo della mano, una strada piuttosto piccola, ma piena di luci – Ci sono botteghe e negozi, frotte di gente e – sorrise, con aria astuta – grande vita mondana. -
- Ah-ah! - esclamai, ridendo – Infondo anche tu hai intenzione di fare vita aristocratica… -
- No, non sono come i Jusdebi. – commentò, con una smorfia – Far sfoggio di chissà quale nobiltà è una cosa utile più che interessante. Mi diverte solo quando serve a qualcosa. –
- Be’, quindi… - cercai di dire, ma lui mi interruppe.
- E poi, se fossi venuto per incontrare dei nobili signori, non credo proprio ti avrei portata con me… -
Sincero. Fuori luogo. Guardò con la coda dell’occhio la mia espressione, che in effetti non era delle più lusingate.
- Perché…? Non è che per caso… -
- … Mi vergogno di te…? – terminò la mia frase con un sorrisetto – Figurati. –
- E allora, cosa…? – domandai ancora, tesa.
Era chiaro che il suo intento fosse principalmente prendermi in giro. Ma il discorso non mi piaceva per niente. Perché avrebbe dovuto tenermi nascosta? Perché mi considerava inadeguata?
- Perché non sai quanto sia pericolosa una corte piena di gente ricca e vanitosa. – rispose, tranquillamente, volgendo i suoi occhi neri profondissimi verso di me.
- Quindi è come dire che ti vergogni di me... Non saprei come comportarmi, quindi rischierei di fare qualche stupidaggine e metterti in difficoltà… - sbuffai, un po’ offesa.
- Guarda che io credo molto nelle tue buone maniere e nella tua capacità di adattamento. Meno nel tuo carattere, che da mansueto e gentile riesce a diventare aggressivo in pochi secondi… -
- Tyki… - sbuffai, anche se non potei evitarmi di sorridere.
- Prova a negarlo… - mi sfidò, con un’espressione maliziosa sul suo bel viso fine.
- Va bene, hai ragione... Ma ho molto autocontrollo, anche nei miei cambiamenti di umore. – risposi, divertita.
- Il problema è l’ambiente, Vivy. – disse, finalmente del tutto serio – Sono tutti squali, capaci di aggredirti alle spalle con qualunque genere di maldicenza o cattiveria. Se non hai le spalle larghe e capisci fino in fondo quanto e come i loro commenti possano danneggiarti, al di là del fastidio che ti possono provocare, non puoi sperare di sopravvivere. Tu non mi sembri adatta a questo tipo di infida lotta… -
Non aveva idea di come fosse difficile per me sopportare le staffilate del Conte e condurre la mia guerra contro la sua influenza oscura. Per un attimo fui più felice che mai dell’assenza di Road, che facilmente avrebbe captato questi miei pensieri. Trattenni un sbuffo e semplicemente partii con un contrattacco istintivo, più che ragionato:
- Davvero è solo questo…? Oppure hai delle amanti a cui non vuoi dover presentare la tua promessa…? -
Lui sgranò gli occhi: - In che senso? –
- Chissà in quale! – esclamai, cominciando a ridere nervosamente.
Mi stavo facendo del male da sola, ma volevo sentire cosa avrebbe inventato.
- Guarda che alle amanti in quanto tali non importa un bel niente se si è fidanzati, sposati o divorziati. Mal che vada partono con qualche scenata di gelosia poi in privato. Ma lo status civile non le ferma minimamente, sempre se non inquieta il loro amato… E non capita quasi mai, in realtà…-
Sembrò soddisfatto quando, a queste parole, il mio viso divenne rosso di imbarazzo. Avevo cominciato io, ma lui come al solito mi aveva spiazzata.
- Va bene… Ho sbagliato a chiederlo… Scusa… - biascicai, senza sapere esattamente perché stessi anche chiedendo perdono.
- No… Era tuo diritto chiederlo. Ma non sperare che io ti risponda sinceramente. –
Si, in effetti le sue parole non mi erano piaciute. Mi avevano provocato un doloroso puntiglio al cuore e da quel momento, lo sapevo per certo, la gelosia non mi avrebbe mai dato scampo. Tuttavia, mi ritrovai a pensare ingenuamente quanto era affascinante quell’espressione da orgoglioso seduttore che gli era comparsa in volto. Non potevo dare torto a nessuna donna che volesse finire tra le sue braccia almeno una volta.

Solo quando terminò questo strano battibecco giunsi a porre la mia attenzione sulla stradina luminosa che avevamo da poco imboccato. Le vetrate, spesso riempite di oggetti per turisti, erano ancora illuminate nonostante l’ora tarda. I negozi di abiti e prodotti di lusso erano per la maggior parte chiusi, ma vi erano poste spesso piccole lampade che rendevano ugualmente giustizia alle splendide creazioni esposte. Dai locali, sia da quelli eleganti e signorili, sia da quelli più umili che si intravedevano nelle viottole laterali, proveniva il rumore e le risate dell’allegra vita notturna. Per la strada lastricata perfettamente c’erano ormai soprattutto coppie o giovani festaioli. Non era certo più l’orario adatto agli sposi con figli al seguito.
Ogni tanto, quando notavo qualcosa di carino su qualche scaffale illuminato, mi avvicinavo per guardare meglio. Nonostante sbuffasse, notai con un certo piacere che Tyki mi seguiva senza lasciare che mi allontanassi e tenendo sempre il mio braccio legato al suo.
- Dai, Vivy, quella è roba da turisti… - commentò, un po’ seccato.
- Ma io sono una turista, no? –
- No, è qui che ti sbagli. – rispose, facendo un cenno di diniego con il dito avvolto dal candido guanto – Fai parte di una nobile famiglia che è sempre la benvenuta in questa città. –
- Però… - sbuffai.
- Questi sono capricci “alla Road”, eh? – esclamò, il sorrisetto crudele pronto sul suo viso.
- Ripensandoci, hai proprio ragione. Sono cose che non mi servono e poi… torneremo spesso qui, no? Allora, lasciamo perdere… - e cercai di allontanarmi, tirando anche lui per il braccio.
Si mise a ridere di gusto, senza muovere un passo da dove di trovava.
- Insomma, Tyki, andiamo allora… - gli chiesi, imbarazzata.
- Sei un po’ prevedibile! – sorrise ancora, gentile – Ma non ti preoccupare! Scherzavo! Dimmi cosa vuoi prendere! -
- Adesso più niente… Davvero… - gli risposi, un po’ risentita.
Sospirò: - Be’, è un peccato. A questo punto te lo avrei comprato volentieri. – e sbirciò la mia espressione, per controllare se ci stavo ripensando.
Ma io avevo già deciso di lasciar perdere. Pensavo che il regalo più bello che potesse farmi fosse già stato quella risata, un po’ dispettosa, come sempre, ma tanto dolce alle mie orecchie. Non avevo ancora idea di quali fossero i suoi piani…
- No, Tyki, va bene così… - e come reazione spontanea finii per appoggiare piano la testa alla sua spalla. Mi resi conto solo dopo che non l’avevo mai fatto e che forse non era il caso. Lui comunque non disse nulla e, anzi, ne sembrò vagamente sollevato.
- Meglio… Almeno non rischierò di non avere abbastanza soldi con me… - disse, quasi tra sé, mentre ricominciavamo a camminare per la strada.
- Perché? – chiesi, piano.
- Perché il Conte, così liberale a detta di tutti, è in realtà un gran spilorcio! - affermò, con una smorfia.
- No. Perché ti servono soldi. –
- Non credo di potertelo ancora dire. Lo scoprirai più tardi. –

La viottola diventava sempre meno affollata e più cupa. Sembrava che tutta la vita notturna si fosse spostata sul lungofiume. Infatti, ad un certo momento della nostra passeggiata, Tyki indicò vagamente una via laterale che imboccammo tranquillamente, trovandoci proprio di fronte ai moli sul Danubio. Lì tutte le luci erano ancora accese e la folla si riuniva in capannelli lungo la passeggiata.
Notai che il mio compagno guardava vagamente una giovane coppietta che si teneva la mano e quasi saltellava, allegra, per la strada lastricata.
- Li conosci? – chiesi, ingenuamente, notando la sua espressione un po’ stranita.
- No… Dovrei? – chiese in risposta. Il suo tono si era leggermente indurito.
- E’ che da come erano vestiti, sembravano nobili… Mi chiedevo se li stessi guardando perché sai chi sono… - risposi, con calma. Ma neanche questo commento disinteressato servì.
I suoi occhi si ridussero a due fessure nervose: - No, non so proprio chi siano. Comunque non ci si comporta così in pubblico. Ad una giovane si offre sempre il braccio, non la mano quando ci si trova in mezzo agli altri. Non importa il grado di famigliarità. –
Sembrava che lo stesse dicendo più a sé stesso che a me. Tuttavia, di fronte a quella reazione irritata e a mio avviso immotivata, sollevai la testa dalla sua spalla, senza osare dire nulla.

Quando si fermò improvvisamente di fronte ad un piccolo molo, notai finalmente che il suo volto si era di nuovo disteso. Sospirai piano di sollievo.
Si avvicinò all’uomo seduto poco lontano dall’approdo e chiese qualche indicazione, infine vidi che gli offriva qualche banconota.
Incuriosita, mi avvicinai: - Cosa succede…? –
L’uomo sconosciuto mi porse un pezzo di carta su cui era semplicemente scritto: “Una corsa”.
- Di cosa…? - chiesi, esitante.
- Sul battello, Vivy. – disse dolcemente Tyki, con un’espressione soddisfatta.
- Su cosa…? Ma io non sono mai salita su un battello... – aggrottai le sopraciglia, un po’ preoccupata.
- Ah! – esclamò lui, ripresosi da un istante di stupore – Però, non ti preoccupare, non è pericoloso. Giusto, signore? – e si rivolse all’anziano responsabile seduto su quella sedia sgangherata, che mi rivolse un sorriso e scosse la testa.
- Ma se per caso stessi male… -
- Be’… Non sarai mica da sola… - commentò, con voce suadente.
- Ci mancherebbe! Se non ci fossi tu avrei una paura matta… - esclamai, con un tono forse troppo acuto, perché lui rise, divertito.
- Ti tocca provare, temo. - disse, mentre il grande veicolo a vapore si avvicinava.

- Non tirarmi… - lo supplicai, mentre dirigevo con cautela i miei passi lungo la passerella e lui mi precedeva, reggendomi il braccio.
Il battello si era appena svuotato dei passeggeri della corsa precedente, quando il responsabile lasciò che ci avviassimo per salire a bordo. Eravamo tra i primi a passare, mentre gli altri, che si erano avvicinati per prendere i biglietti solo quando avevano visto approdare il barcone, stavano ancora pagando.
- Non ti sto tirando. – sospirò, voltandosi a guardare l’eccessiva calma con cui mi muovevo.
- Lo so, sono un po’ ridicola, ma… - gli dissi, a mo’ di scusa.
Tyki mi rivolse un vago sorriso di scherno: - Non dico questo, ma vorrei che non stessi indietro… Se non ti fidi, reggiti a me, almeno… -
Inutile dire che dovetti seguire il suo consiglio.
Quando posi i primi passi sull’imbarcazione, ne ebbi un’impressione davvero strana. Dondolava gentilmente sotto i miei piedi, provocandomi un leggero senso di vertigine, ma per fortuna niente di più.
- Tutto bene? – chiese.
- Si… E’ solo… Strano… - osservai.
- Basta non pensarci. Vieni. – e con gentilezza mi condusse ad una scalinata che dava sulla piattaforma superiore del battello.
Piccoli tavoli erano disposti tutt’intorno sul largo pavimento di legno, limitato da parapetti metallici di sicurezza. Un telone bianco era stato steso al di sopra dell’ampio spazio aperto per difendere almeno un po’ dalle possibili intemperie o dal freddo della cattiva stagione. Su ogni tavolo era fissata una lanterna che rischiarava una tovaglia chiara e una bottiglia di vino posta su un apposito sostegno con due bicchieri. Poco altro si riusciva a vedere nel buio della notte, ma del resto la vera attrazione, oltre all’intimità, sarebbe stata il panorama.
- E’ bellissimo… - dichiarai, più che mai sincera.
Lui mi lasciò il braccio e disse, semplicemente: - Scegli il tavolo che preferisci. –
- Posso…? – gli chiesi, sorpresa.
- Certo. Altrimenti che utilità avrebbe avuto salire per primi? – chiese, ironico.
- Uno vicino al parapetto, secondo me. Altrimenti non si riesce a vedere la riva… - commentai, insicura – Tu cosa dici? –
- Be’, allora magari quello. – e mi indicò un tavolinetto sul fondo, un po’ isolato.
- Va bene! – esclamai e mi accaparrai subito una sedia, mentre dietro di noi stavano cominciando a salire molti altri passeggeri.

- Cosa fai…? – commentai, dubbiosa, quando appoggiò i bicchieri sul tavolo e prese ad armeggiare con la bottiglia.
- Verso da bere. – rispose, tranquillo.
- Ma io non bevo… -
- Pure!? – commentò, incredulo, ma non smise di cercare di stappare la bottiglia.
- Scusa… Temo di essere astemia… - risposi, scuotendo la testa.
La bottiglia produsse un rumore secco e dall’imboccatura uscì un po’ di fumo bianco.
- Pazienza, berrò io allora. Tanto è compresa nel prezzo. -
Nel frattempo, il battello aveva iniziato a muoversi e a fare manovra per mettersi in linea per il percorso abituale. Alcune ragazzine lanciarono urletti agitati, mentre i loro accompagnatori ridevano della loro allegria. Il mio compagno di viaggio lanciò un’occhiata di traverso a qualche passeggero, anche se il suo fastidio era probabilmente rivolto al baccano. Comunque, dopo qualche momento, i toni tornarono sommessi e privati.
- Mi dispiace. Devo essere una bella scocciatura con tutte queste fisime. – me ne uscii allora, ancora preoccupata.
Devo dire che mi dispiaceva davvero di comportarmi in quel modo. Finivo sempre per muovergli quelle lamentele per qualunque cosa mi offrisse. Ero davvero molto petulante, me ne rendevo conto. Infondo, però, dovevamo ancora conoscerci meglio. Forse più avanti sarebbe stato più facile.
Tyki sollevò il calice che aveva appena riempito e prese qualche sorso. Poi lo posò sul tavolo con delicatezza e mi guardò fisso, appoggiando il gomito alla tavola. Reclinò la testa sulla mano e disse solo: - Non scusarti. –
- Ma mi dispiace, Tyki, di crearti tutti questi problemi. Tu sei così gentile, galante, attento… - e dovetti fermarmi. Il complimento successivo sarebbe stato su quegli splendidi occhi affilati che mi stavano fissando, negando alla mia mente qualunque altro pensiero.
- E tu sei diversa dalle altre donne. Devo solo ragionare in questo senso e non prendere nulla per scontato. - sorrise, malizioso – Sarà solo più divertente… Assecondare una principessina particolare… -
- Ah… - sospirai, alzando gli occhi al cielo – Anche ad un grande corteggiatore come te passerà la voglia. -
- Non potrei neanche se volessi. Dovrò sposarti, no? Se non imparo come trattarti, finché sono in tempo… -
- Tyki, ma tu sei sicuro di volermi sposare? –
La domanda mi uscì improvvisamente, senza che vi potessi porre alcun freno e fu peggio di un fulmine a ciel sereno. Avrei voluto essermi morsa a sangue la lingua piuttosto che aver finito di pronunciare quella frase nefasta.
Lui abbassò lo sguardo di scatto e poi lo diresse imperscrutabile verso la riva che stavamo costeggiando. Era un “no” tanto evidente che mi sentii gelare.
- Non importa… - dissi, sfruttando il poco coraggio che mi era rimasto – Lo capisco… E’ un matrimonio combinato… E’ normale che non ti vada giù… -
Notai che si stava di nuovo girando a guardarmi, ma, prima che lo facesse, fui io questa volta a dedicarmi al panorama.

Molti grandi edifici avevano numerose lampade accese alle finestre, appositamente per rendere più gradevole la vista dal fiume, le cui acque, nere come la pece, riflettevano i bagliori anche se smosse dal passaggio del battello. Per le vie tutti i lampioni erano ancora in funzione e notai addirittura che alcuni tra i palazzi più grandi e ricchi avevano finestre coloratissime dietro alle quali la luce brillava ad irradiare tutt’intorno quei toni particolari. Tuttavia, ciò che più mi lasciò meravigliata fu lo splendido Palazzo del Parlamento. Era grande ed imponente con la sua cupola rossa, decorato con eleganti stucchi e tantissime delicate gugliette. Il suo colore bianchissimo era un po’ sporcato dalla luce gialla, ma la costruzione appariva talmente vasta e fiera che anche questo difetto nella sua presentazione notturna lasciava il posto ad un alto stupore.
Questa visione mi aveva un po’ rincuorata anche dalle parole di poco prima, tanto che non feci nessuna fatica a sorridere.
- E’ davvero bellissimo! – esclamai, indicandogli l’edificio illuminato.
Anche lui stava guardando, un po’ pensieroso, mentre l’aria sollevata dallo spostamento del battello gli muoveva leggermente i capelli pettinati all’indietro e gli accarezzava il viso e il collo attraverso il colletto del soprabito.
- Tyki… - lo chiamai, ma dato che non rispondeva richiamai la sua attenzione posando una mano sul braccio appoggiato alla tavola.
Appena rivolse lo sguardo su di me, vidi netto il cambiamento. La sua bocca si tese leggermente e i suoi occhi assunsero un’intensità ansiosa da spezzarmi il fiato.
- Vivy…? - e lo sforzo che fece per sorridere gli fece aggrottare un po’ la fronte.
All’inizio volevo chiedergli tranquillamente cosa pensasse di quella vista, ma in quel momento mi resi conto che c’era qualcosa di molto più serio a cui dedicarsi.
Il suo cambiamento d’umore significava qualcosa, che dovevo comprendere. Certo aveva a che fare con quella mia pessima domanda di poco prima. Non avevo intenzione di lasciar cadere con vana leggerezza la questione. Questa volta, tanto più, non c’era nulla da nascondere, da chiudere a chiave e dimenticare per sempre. L’aveva ammesso anche lui. Se il Conte non avesse cambiato opinione, ci avrebbe condotti personalmente ad uno sposalizio, al di là della nostra volontà. Dovevo assolutamente sapere cosa ne pensasse. Avrei accettato ogni cosa mi avesse detto. Forse ci sarei stata male, ma con il tempo l’avrei accettato. Era giusto così.

- Non fare così… - lo supplicai.
- Così come? – ed evitò di nuovo il mio sguardo.
- Esattamente così… - gli risposi, angosciata – Non evitare di guardarmi, di parlarmi… -
- Non voglio rovinarti la serata, Vivy. – sbottò.
Anche se lo disse fingendo di guardare il fiume, mi resi conto, pur senza poter valutare la sua espressione, che aveva detto la verità, era ciò che davvero pensava. Credeva che lasciar cadere il discorso fosse un modo per far finta che non fosse mai esistito. Normalmente, nel caso di qualunque altra persona, l’avrei considerato un comportamento un po’ codardo. Ma chiaramente lui non era una persona qualunque per me…
E poi vedevo distintamente cosa significava per lui quel boccone amaro, quella risposta che aveva lì e non poteva darmi. Neanche lui riusciva a mandar giù quelle parole senza mostrare una certa angoscia. Anche per lui era uno sforzo e, con una gioia deliziosa, pensai che lo faceva perché riuscissi a divertirmi senza tutte quelle ansie.
- Ma io non sono qui da sola, Tyki. E se non ti vedo a tuo agio, non riesco comunque a divertirmi. Dimmi qual è il problema. Parliamone, almeno questa volta. –
Cercai di mostrarmi decisa e lui si arrese subito alla mia richiesta. Si voltò completamente, sedendosi più dritto sulla sedia, in modo da essere proprio di fronte a me. Giunse le mani guantate e mi rivolse tutta la sua attenzione e un’espressione serissima.
- Perché mi hai fatto improvvisamente quella domanda, Vivy? - se ne uscì subito.
- Dovrò pur sapere cosa ne pensi. Hai sempre e solo perso atto del fatto che ti sia stata promessa in moglie. Non ho mai capito cosa ne pensi. – risposi, con calma.
- Non era il momento per una simile domanda. – constatò, con una smorfia di fastidio.
- Hai ragione. Ho sbagliato a lanciarla in quel modo. Ma ti giuro che non l’ho fatto apposta. –
- Si, ma non capisco perché. – insistette, piegandosi ancora di più nella mia direzione.
- Perché… Forse perché avevamo parlato poco prima delle tue amanti… - cominciai a dire, tradendo il primo imbarazzo.
- Presunte amanti… - specificò, serio.
- Non cambia molto. – sospirai – Ma non è di questo che voglio parlare. –
- Di cosa allora? –
- Perché non mi hai risposto? – chiesi, decisa.
Lui mi fisso dritta negli occhi, cupo: - Perché non mi sembrava il caso. Era una domanda inadatta e volevo lasciarla cadere. –
- Ma nel frattempo ti ronza nelle orecchie e non sai come affrontare la questione. -
Non tradì una particolare emozione, ma disse molto semplicemente: - Si. E’ così. –
Per un attimo rimasi stupita dalla sua semplice ammissione, ma cercai di non darlo a vedere.
- Cosa hai pensato, Tyki? Dimmi cosa ne pensi. -
- Vuoi saperlo davvero? – e per un attimo sembrò tentare di leggermi dentro con uno sguardo, proprio come Road. L’unica cosa che mi diede sollievo fu ricordare che non era tra le sue abilità.
- Si. –
Fu la sillaba più difficile che avessi mai pronunciato.
- Io non voglio sposarmi, Vivy. Non voglio finire ingabbiato in un matrimonio. – rispose semplicemente, serio come mai l’avevo visto.
- Lo capisco. – dissi.
- No, non credo che tu possa. – disse, scuotendo la testa enfaticamente – Tu sei stata a lungo una persona estremamente religiosa, quindi credi nel Vincolo Eterno. Io vedo come va il mondo e lo considero una presa in giro. Uomini d’affari rispettabilissimi, con moglie devota e figli adorati, che fuggono dall’ufficio per cercare spogliarelliste o prostitute. Questa è la direzione che prende il legame matrimoniale. –
Aveva toccato volontariamente il tasto del mio passato. Era così serio!?
- Dubito che esista un qualche dovere religioso nel caso della nostra Famiglia… - commentai, mettendo enfasi sull’ultima parola per fargli capire cosa intendevo.
- Non è questo il punto. Noi in società saremo considerati comunque due cristiani sposati in chiesa. Non c’entra di che natura sarà il rito. –
- E tu non sei il tipico marito fedele. – osservai, con un sorriso parecchio falso.
- Non posso saperlo perché non capisco cosa significhi. – disse – Non voglio scoprire cosa cambi dopo una “cosa” simile. Non voglio un legame che non possa essere infranto senza provocare dolore o scandalo. Questa è la libertà che desidero. –
Seguì un momento di silenzio che lasciai correre, incapace di trovare qualcosa di brillante da dire.
- Lo sapevo che questo genere di osservazioni non ti sarebbero piaciute. Perché, di qualunque natura fosse il matrimonio, qualunque cosa ti dicesse il Conte o il tuo animo Noah, tu vorresti onorare il legame. Io non posso assicurarti che farei altrettanto. -
Sospirai.
- Non credo che il nostro parere sarà mai ascoltato, né il mio né il tuo, qualunque esso sia. Quindi ciò che ho appena detto non cambia nulla nella nostra sorte, se questo può rassicurarti. - riprese.
- Cambia per me. – risposi, a bassa voce.
- Lo sospettavo. –
 - Però… - aggiunsi, cercando con queste stesse parole di provocarmi l’effetto desiderato – Sono contenta che tu me l’abbia detto. Rispetto la tua idea e non penso che sia sbagliata, alla fine. Quindi se vorrai fare le tue rimostranze al Conte, sarò dalla tua parte. Va bene? –
Mi studiò per qualche momento: - Tu vorresti sposarmi…? –
Sapevo che il discorso sarebbe arrivato a questo punto. Purtroppo era inevitabile.
- Se tu non ne fossi felice, no di certo… - risposi, evasiva.
- Non è quello che ti ho chiesto. – osservò, con un mezzo sorriso.
- Già. – ammisi, spaesata – Dunque, diciamo che… -
- Non girarci intorno. Rispondi e basta. –
- Io ti sposerei, Tyki. – risposi tutto d’un fiato.
- Capisco. – commentò, con una punta di ironia.
- Non vorrei che il Conte si mettesse in testa di cercarmi un promesso diverso da te. Io posso pensare di essere tua moglie, o qualunque nome si voglia usare a casa nostra per identificare il mio stato, ma di chiunque altro mi sarebbe molto più difficile. –
- Non è detto che invece con il tempo ti renda conto che è impossibile convivere con me. –
- Correrei il rischio. –
- Perché nonostante le persone che siamo, tu riesci ancora ad essere leale. – sospirò – Beata te. –
Corse un altro momento di silenzio, ma io sentivo uno strano sollievo dopo aver sentito per intero ciò che lui ne pensava. Questo argomento non era più un tabù. Almeno questo. Erano cose difficili da accettare per me, ma era meglio che intuire che mi nascondeva chissà quali ragionamenti che non avevo la possibilità di capire o percepire.
- Vivy… - mi interpellò infine.
- Dimmi… - gli risposi, questa volta riuscendo a rivolgergli un vero sorriso, anche se ancora piuttosto lieve.
- Forse è meglio se ti godi gli ultimi minuti di traversata. Altrimenti sarà stato tutto inutile. – disse, con il suo solito sorrisetto, che mi rese stranamente felice.
- E’ vero! – esclamai, un po’ dispiaciuta di essermi persa un bel pezzo della gita.
Lui rise, elegantemente, e si versò un altro bicchiere di vino.

La gita in battello era stata meno lunga di quanto credevo. Quando mi lamentai della cosa, però, lo feci solo per far ridere di nuovo Tyki.
- E’ colpa tua che hai voluto chiacchierare! Altrimenti avresti fatto anche in tempo a stufarti del panorama! Proprio come molti degli altri passeggeri! - sogghignò.
- Perché? –
Non appena scendemmo gli ultimi gradini per tornare nella parte interna dell’imbarcazione, mi indicò una saletta illuminata: - Perché coloro che sono ormai abituati al paesaggio del fiume vengono più che altro per ballare. –
- Davvero!? Si poteva ballare!? Perché non me l’hai detto!? – esclamai, tutta entusiasta, ma con un tono di rimprovero.
- Ma se quando siamo saliti facevi anche quasi fatica a stare in piedi! – rise, facendomi strada verso l’uscita.
- Però mi sarebbe piaciuto ballare! –
- Sei capace? – chiese, interessato.
- Be’, quando ero bambina mia madre mi ha insegnato… - risposi, cauta.
- Sei brava? – chiese ancora, con un sorrisetto ironico.
- Non esageriamo… Non ballo da una vita… - risposi abbastanza imbarazzata.
- Allora la prossima volta andremo a ballare… Oppure semplicemente ti farò di nuovo una sorpresa… Così non potrai sottrarti neanche se lo volessi… - aggiunse, sibillino.
- Temo andrà a finire così, vero? – commentai, con lieve sarcasmo.
- Ti consiglio di non fare programmi… -
Non potei che adorare, mio malgrado, il sorrisetto malizioso che mi indirizzò, come la promessa che avrebbe voluto di nuovo avermi con sé per una bella serata.





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Eh, lo so... La colpa è mia che ho lasciato tanto a lungo giacere la mia vena artistica...
Solo che mi mancano i commenti... u_u

Comunque, a parte questa lamentela nostalgica...
Ebbene si, in gita a Budapest abbiamo fatto il giro notturno sul battello!!! XDDDD Mi era piaciuta un sacco la città illuminata: i palazzi moderni in particolare erano luminosissimi, ma anche su quelli antichi (come il Palazzo del Parlamento) avevano installato delle luci bianche!!!
Be', va bene che parliamo di un tempo "immaginario", ma non sapevo se fosse il caso di parlare di luce elettrica... Insomma, sono rimasta volontariamente nel vago (anche se l'idea delle lucerne sui tavoli, almeno quella, è di sicuro molto retrò... ^_^)...
Insomma, come sempre avevo ben altri programmi per questo capitolo... Poi sarebbe stato troppo lungo e quindi ho dovuto tagliare un sacco di roba, lasciando il mio solito (sadico) retrogusto dolce-amaro... ^_^
Però, insomma, si parla anche di un ballo... La speranza è l'ultima a morire...

Grazie a coloro che preferiscono, seguono o hanno solo letto questa fanfiction!!!

P.S. Andrò due settimane in montagna e dubito riuscirò a scrivere qualcosa... Quindi il prossimo appuntamento sarà probabilmente un po' ritardato... Mi dispiace... -_-


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Capitolo 16
*** XV - I'm The Teacher ***


Capitolo 15

I’m The Teacher



"Non aspettare il momento opportuno: crealo!"
(George Bernard Shaw)






Grazie al Conte, perché qualsiasi altro riferimento divino sarebbe fuori luogo, il giorno successivo nessuno venne a disturbare il mio sonno.
Mi aspettavo che almeno Road avrebbe avuto l’indecenza di lasciarmi dormire sono le inevitabili quattro ore, per avermi a disposizione semi-scattante per le nove. In realtà mi svegliai all’una al suono sincronizzato di tutti gli orologi di casa, quando ero ormai in un tranquillo dormiveglia che mi stava preparando ad un sereno risveglio.
Dopo l’inevitabile doccia, mi stupii di trovare ancora quasi tutti nel salone del pranzo.
- Buongiorno. – salutai educatamente appena oltrepassata la porta.
- “Buongiorno”, Tyki-pon…! – rispose subito il Conte, con una nota di sarcasmo nella voce gioiosa. Dovuta all’ora tarda, molto probabilmente.
Road, immersa in un libro di scuola con una smorfia disgustata stampata in faccia, lasciò scoppiare il palloncino di chewing-gum e mi rivolse un cenno della mano. Skin era ancora seduto al suo posto solo perché si stava accaparrando forse il terzo bis del dolce, mentre Lulubel si stava giusto alzando e mi si parò davanti per imboccare la porta.
- Buongiorno. – disse, con voce piatta e mi svicolò per uscire. Chiuse la porta dietro di sé con un tonfo sonoro.
L’ultima che notai fu Vivy, ma solo perché sembrava del tutto assente. Era presissima dalla lettura di un fascio di fogli che stringeva tra le mani, notai, con una certa agitazione. Si accorse della mia presenza solo quando spostai la sedia alla sua destra per prendere posto e allora alzò il viso, rivolgendomi un immediato sorriso.
Mi accorsi vagamente che i colori dei Noah le donavano ancora meno del solito. Quella tonalità mortifera della pelle contrastava in modo insopportabile con i suoi lunghi capelli neri, sciolti e con le ciocche leggere che le sfioravano ancora più liberamente del solito le guance e il collo fine. Le scure cicatrici sembravano un affronto al suo volto delicato e liscio, mentre il modo in cui si strofinava gli occhi assonnati e segnati era troppo naturale e ingenuo per essere messo in relazione con il crudele bagliore giallo che illuminava le sue iridi.
Mi salutò, dolcemente: - Buongiorno, Tyki… - e riportò tutta l sua attenzione sulla lettura.
- Cosa stai facendo? – chiesi, sporgendomi lievemente verso di lei per sbirciare. Erano spartiti e testi di romanze con in cima una titolatura in un perfetto corsivo: “Carmen”.
- Ripasso… In teoria… - rispose, con un’espressione un po’ inquieta – Tra poco riusciremo finalmente a portare in scena “La Carmen”… -
- Perché la scorsa rappresentazione era saltata, giusto? – ricordai improvvisamente.
- Si. Un problema di abiti di scena… Adesso sarà la volta buona… Sempre se riuscirò a memorizzare di nuovo la parte… - sospirò e tornò a sillabare in silenzio le strofe, aiutandosi con gesti della mano per richiamare alla mente i movimenti della musica.
Mi chiesi da quanto tempo fosse così occupata a studiare l’opera. Forse era una sveglia prematura la causa della sua aria assonnata. Mi dava un’impressione strana… Ma non feci in tempo né a chiedere né ad indugiare su questo pensiero.   
- Pranzate, allora? – chiese il Conte, convocando una cameriera-akuma con un battito di mani.
- Be’ si… - annuii, con sufficienza – Anche se è tardi, non posso pensare di resistere fino a stasera… -
- Vivy, mia cara…? – chiese ancora il Conte, richiamando anche la sua attenzione.
- Si. – rispose, tranquilla.
- Credevo avessi già mangiato… - osservai, stupito, mentre appoggiava le sue carte poco lontano e tornava a voltarsi, raggiante.
- Aspettavo te, no? –
Non potei che sorriderle di riflesso e rivolgerle un cenno di ringraziamento con il capo.

Eravamo da poco arrivati al contorno, in tempo record dato che l’ora era già parecchio tarda per essere ancora a tavola, quando il Conte parlò, rompendo definitivamente la sinfonia di posate, calici e piatti che aveva accompagnato la prima parte del pasto. Alzammo tutti e due insieme la testa, sicuri di non aver capito bene le sue parole.
- Scusate, Conte…? – esclamammo, quasi all’unisono.
- Non fate finta di non aver capito… - insinuò Road, con un sorrisetto nefasto, ma senza alzare gli occhi dai suoi compiti. Capii in quel momento perché si trovasse ancora lì a studiare nonostante non stesse chiedendo aiuto al Conte…
- Domani – ripeté il Conte, con ancora maggiore enfasi – ci sarà una splendida serata indetta dalla Corte Piemontese! Vorrei che voi due partecipaste! –

Per un momento restammo in silenzio.
Io cercavo di trovare qualcosa di dire, qualcosa che non risultasse offensivo a nessuno.
Del resto, il Conte sembrava seriamente prendersi gioco dei dubbi che appena la sera prima avevo condiviso con Vivy.
Non volevo che avesse troppa confidenza con gli ambienti cortigiani. Ciò mi avrebbe messo nella condizione di doverla tenere d’occhio, di dovermi preoccupare anche del suo buon nome, di doverle guardare le spalle. A volte era così fastidiosamente indifesa.
E dire che a quanto mi ricordavo da quel giorno al convento, in quel passato decisamente passato, doveva avere un bel caratterino. Adesso che era una Noah, adesso che le serviva, dove l’aveva messo!? Al di là che lei potesse essere interessata a questa esperienza, dovevo impedirglielo per quanto mi era possibile. Non volevo ulteriori problemi. E non potevo certo lasciarla in balia di pettegolezzi vari…
Solo che se mi fossi opposto con troppa veemenza, non solo avrei probabilmente offeso lei, ma avrei anche finito per scatenare la difesa sfrenata del Conte al progetto, cosa che mi avrebbe impedito definitivamente di liberarmi da quell’impiccio.
Se si aggiungeva che probabilmente, oltretutto, il capo poteva avere un piano in proposito, la situazione non poteva essere peggiore…
Odiavo finire invischiato in questi vicoli ciechi…
Sbuffai sonoramente e guardai Vivy.
Lei sbirciò la mia espressione insofferente per qualche istante, poi alzò gli occhi al cielo e sospirò:
- Ho capito, tocca a me… -

- Sapete che cosa comporterebbe questo, Conte? – chiese Vivy, celando il fastidio senza risultati davvero evidenti.
- Ma certo! La risoluzione di tutti i vostri problemi! – rispose lui, gioviale.
- Di quali problemi parlate? – riprese lei, gli occhi gialli già in due fessure.
- Quelli riguardanti la vostra promessa di matrimonio! –
- Non abbiamo problemi al riguardo. Non abbiamo mai acconsentito a questa vostra imposizione.-
La guardai vagamente incuriosito. Stava davvero dando man forte alla mia posizione? Nonostante di certo non fosse la sua? Con uno strano sollievo, mi accorsi che si stritolava le mani sotto il tavolo e che forse quell’aria fiera era più che altro causata dallo sforzo che compiva nel dire una cosa simile.
- Vivy… Bugiarda… - rise Road, da dietro il libro.
Tuttavia, lei la ignorò del tutto, anche se la sua espressione aveva per un attimo mostrato qualcosa di simile al panico, prima di tornare a concentrarsi sul suo interlocutore.
- Se lo dici tu, mia cara! – accondiscese il Conte, allargando ancora la vasta paresi – Capisco le tue remore e il tuo rispetto per Tyki! Comunque, è necessario che tu venga presentata al mondo nella sua massima nobiltà! Al di là di ogni obbligo questo comporti… - e mi scoccò un’occhiatina tutt’altro che benevola - …è giusto che tu prenda il tuo posto in società! E al fianco di una persona che possa non solo aiutarti nell’ambientarti, ma anche farti da appoggio con la sua ottima fama!-
- Sentite, non potete girare intorno al problema… - cercò di rispondere Vivy, con gli occhi ardenti di collera.
- Non ci giro intorno! – rispose, tranquillo.
- Non scherzate! Non si parla solo della presentazione in società! Non si tratta solo del mio parere!  Piuttosto il… - saltò su.
Finalmente riconobbi nel massimo splendore l’altezzosa monaca che avevo conosciuto. Se questo era un “purtroppo” o un “per fortuna”, non mi era chiaro. Tuttavia l’impressione durò poco, giusto fino alla brusca interruzione.
- E fossi in te non direi nient’altro! O potrei toccare davvero il centro del problema! – riprese gioioso il capo, ma con una punta minacciosa nel tono e senza lasciarla finire.
Lei assottigliò le labbra in una maschera di contrizione e mi rivolse uno sguardo inquieto.
Davvero non capivo di cosa stessero parlando ora, ma certamente era qualcosa che nessuno dei due avrebbe gradito spiegarmi. Anche se non sopportavo di essere tenuto così all’oscuro delle cose, non aveva senso obbligarla a percorrere quella strada tortuosa ora che il Conte sembrava essere così irritato.
Ci sarebbero state altre occasioni per ribellarsi, ormai non aveva senso.
- Va bene così… - le dissi, a bassa voce, anche se sapevo che il Conte avrebbe sentito ugualmente.
- Davvero, Tyki? Ti pieghi così in fretta a fare la sua “guardia del corpo”? – commentò inaspettatamente Road, con aria malevola.
- Non ha molto senso discutere con voi… Tanto ormai è stato già tutto deciso, no? – commentai, indifferente.
- Toglietemi solo una curiosità! –
Mi voltai verso Vivy, il cui viso contratto mostrava chiaramente l’onda di ira che la attraversava. Scattò in piedi dal suo sedile come una belva pronta al balzo.
Ora potevo davvero dire che faceva quasi paura…
- Con che ruolo mi presenterò a quelle persone!? Qui nessuno ha acconsentito ad alcun legame legittimo! Cosa sarò domani sera!? -
Il Conte rise, di una risata sarcastica agghiacciante.
- Non è a me che devi chiederlo! Dipende dal nostro Tyki-pon! Se desiderasse farti passare per una semplice amante saresti più contenta!? -
Il suo viso divenne improvvisamente rossissimo. Di imbarazzo, conoscendola. Nello stesso tempo, però, sembrava che non vedesse l’ora di trovare parole abbastanza taglienti con cui rispondere. In quel caso poteva davvero finire male… Perché per quanto normalmente fosse del tutto indifesa, in quello stato temevo avrebbe finito per far arrabbiare davvero il Conte… Ciò che ne sarebbe venuto avrebbe probabilmente messo in mezzo anche qualche malcapitato… Me, per esempio…
- D’accordo. Ho capito. Dato che la scelta è mia, non intromettetevi per favore. – mi inserii, prima che si potesse scatenare il finimondo – E comunque ho abbastanza onore da non voler umiliare la mia dama con simili insulti alla sua integrità. -
Questo sembrò calmarla almeno un po’. Abbastanza comunque da indurla a tornare a sedersi, con un gesto fluido. Non so come feci a trattenere un qualunque segno di sollievo.
- Bene! Hai ragione! Non dirò più nulla! – acconsentì il Conte, con un cenno pacificatore del capo – Anche se mi dispiace, Tyki, che tu non sia soddisfatto di questo impegno mondano! Eppure c’è un lato positivo, non credi? -
- Quale? – chiesi, scettico, accettando il dolce che la cameriera-akuma mi stava porgendo.
- Con domani avrai mantenuto la tua “promessa” di portare Vivy a ballare! –
La diretta interessata non disse nulla, ma spostò, nauseata, la coppa di fragole e gelato che le era stata posta davanti. Skin, noncurante, la afferrò con entrambe le mani e la attaccò voracemente con il cucchiaino alzato. Road, da parte sua, a quelle parole fece una smorfia disgustata, ma non disse nulla e finse di girare un’altra pagina del libro di scuola.

Chiaramente, come per un tacito accordo, nessuno dei due cercò di toccare il discorso del pranzo.
In effetti, mi era stato pienamente dimostrato che non era sempre così docile come sembrava. Eppure questo non mi rassicurava poi molto per l’ormai prossima presentazione in società. Mi sbagliavo a immaginare che avrebbe taciuto a qualunque osservazione malvagia, che avrebbe sofferto per qualunque stoccata a fior di labbra che avrebbe potuto captare. Molto probabilmente avrebbe risposto a tono a qualunque frase leggermente allusiva e avrebbe dimostrato chiaro disprezzo a chi sapeva meritarselo. Onestamente non sapevo dire quale delle due prospettive sarebbe stata più adatta ad un ambiente pieno di malelingue, ma ormai c’era poco da fare. In ogni caso, avrei dovuto tenerla d’occhio…
Solo che il Conte l’aveva in pugno. Era talmente evidente da rodermi di curiosità. Cosa poteva essere stato ad obbligarla a tacere, nonostante la rabbia che la scuoteva? Perché mai odiava così tanto il Conte? E lui che cosa sapeva di così importante e segreto da poterle imporre il silenzio con una semplice minaccia?
D’altra parte, comunque, non avevo diritto di chiederle nulla in merito. Dovevo accontentarmi della sua generosa collaborazione al mio desiderio di sottrarmi al contratto matrimoniale. Onestamente avevo creduto che la sua garanzia di sostenere la mia posizione fosse stata più cortese che sincera. Adesso le ero riconoscente, anche se… Ad essere sincero mi aveva rassicurato non poco capire che lei non aveva cambiato idea… Che aveva parlato così solo per quell’accordo che lei stessa aveva liberamente siglato nei miei confronti… Lei la pensava diversamente… Lei voleva sposarmi… E quando ci pensavo, la risposta era sempre e solo “bene”… Perché “bene”?

- Sei proprio sicuro? -
- Tu no? – la presi in giro, con un sorrisetto.
- Voglio dire… Proprio adesso che abbiamo appena mangiato? – chiese, incerta.
- Non vorrei insistere, credimi, ma il ballo non è domani? Quanto tempo credi che abbiamo a disposizione per fare questa prova? –
- Hai ragione, scusa… - rispose, annuendo.
- E poi non dovresti essere così scarsa nel ballo, no? – osservai, malizioso.
- Ma no… Non credo… - rispose, ma per il nervosissimo incrociò le braccia sul petto, guardando a terra.
Avevamo stranamente trovato un salone semivuoto e l’avevamo appena eletto a luogo per la simulazione del ballo del giorno successivo. Del resto, dato che era così insicura, temevo seriamente che davvero non fosse così brava a ballare. Il giorno successivo sarebbe stato un bel problema e un pessimo inizio per la sua reputazione.
- Bene… Allora, prova la posizione… - la incitai allargando le braccia per spingerla ad avvicinarsi.
Lei comunque non mosse un passo e mi guardò stranita: - In che senso? –
- Fammi vedere che posizione tieni… - le spiegai, aggrottando le sopraciglia alla sua aria stupita.
- Quindi… -
- Vieni qui e prova a legarti a me con mani e braccia nella posizione di partenza… In che altro modo te lo devo spiegare…? –
- Emh… - distolse lo sguardo, con aria imbarazzata – Che ne dici di farlo tu…? –
Sospirai e mi stupii di provare una sorta di fastidiosa impazienza. Non tanto per la sua chiara inesperienza, ma perché non capivo come potesse provare un simile imbarazzo per un semplice ballo.
Mi avvicinai e le passai il braccio sinistro dietro la schiena, con assoluta naturalezza, per poi prenderle la mano destra nella mia. Mi accorsi solo dopo di non portare neanche i guanti, ma chi me lo faceva fare di tenerli anche in casa? E poi la sua mano non era fastidiosa, ma piccola, delicata e fresca al contatto. Almeno quanto la sua vita era sottile fino ad apparire fragile, nonostante la rigidità che in quel momento la tensione le provocava.
- Ti ci ritrovi? – le chiesi, abbassando lo sguardo quanto bastava per guardarla in viso.
- Si… Ora che me l’hai mostrato, si… -
Ma in realtà sembrava molto più concentrata sui suoi piedi che sulla posizione del busto.
- Vivy… Guarda che dovresti starmi un po’ più vicina… - osservai.
- Dici…? – chiese, con vaga inquietudine.
- Si. – risposi. Volontariamente fui un po’ brusco nel momento in cui strinsi improvvisamente il braccio intorno alla sua vita per accostarla di più a me. Lei sobbalzò, ma alzò finalmente lo sguardo sul mio volto.
- Così và meglio… - le risposi, con un sorriso che voleva essere conciliante, ma, ne ero certo, appariva molto più malizioso.
- Bene… - rispose, gli occhi grandi e gialli spalancati e il colore smunto dei Noah che era andato colorandosi in un tenero rossore – Meno male… -
- Se ti sembra di ricordare la posa, possiamo mettere la musica, giusto? -  
Prima ancora che potesse rispondere, con uno schiocco di dita intimai di far partire la musica ad un akuma appollaiato su una sedia poco distante. Una volta che ebbe svolto il suo compito, gli feci un cenno perché uscisse e lui ubbidì, silenziosamente. Di certo non volevo uno spettatore tra i piedi.
- Sei pronta… ? – chiesi, non appena la porta si richiuse.
- Non proprio, ma va bene… - rispose, con un sospiro nervoso.
Quel walzer era decisamente troppo lento e morbido, osservai. Tuttavia, andava bene per una simile verifica. Lasciai che fosse lei a partire, ma fu un pasticcio di strani passi in diverse direzioni e un po’ fuori tempo.
Mi misi a ridere, spontaneamente: - Va bene…Basta così… -
Vivy si fermò, ma arricciò le labbra, tra l’offeso e l’imbarazzato, e si sottrasse dalla mia presa:
- Non ridere, però… So di essere piuttosto imbranata, ma in tutto questo tempo di inattività ho scordato come si fa… -
- Scusa… - dissi, cercando di apparire serio – Era un modo per vedere se ricordavi abbastanza i movimenti. Mi sembra di no. -
- Insomma, Tyki, però mi hai fatto portare… Ti sembra? Dovresti essere tu a condurre la danza… - protestò.
- Hai ragione, però te l’ho detto che era una prova. Dai vieni. – le dissi.
Allora mosse qualche passo inquieto e prese la mano che le avevo porto, lasciando che di nuovo la accostassi a me e riprendessi la posa.
- Ora conduco io, ok? Così ti senti più tranquilla? – chiesi, gentilmente.
- Si, è meglio… - rispose, ansiosa.

Sul subito fu piuttosto difficile. Era troppo rigida e tendeva ad incespicare, senza lasciarsi trasportare e condurre. Più di una volta dovetti contare per non farle perdere il ritmo dei passi. Sembrava che davvero stessimo cominciando dall’inizio…
- Vivy. Non guardarti intorno. – la richiamai di nuovo, quando vidi il suo sguardo vagabondare per la stanza.
- Eh? – chiese, con aria un po’ svanita.
- Dico, dovresti guardare me, non tutto il resto dell’arredamento. – osservai, con un sorrisetto.
- Si, hai ragione… - rispose, con tono mortificato, cercando disperatamente di tenere il suo sguardo fisso nei miei occhi.
Dopo qualche giro, tuttavia, stava di nuovo squadrando una sedia con aria cupa.  
Sospirai e mi fermai, per l’ennesima volta.
- Scusa… - disse subito, mordendosi un labbro.
- Niente scuse, Vivy. Lo sai che non mi interessano. – risposi, scuotendo la testa – Pian piano le cose stanno andando meglio. Non hai nulla di cui scusarti. –
- Non è vero. – commentò, con una smorfia affranta – La verità è che non sono per nulla capace e tu stai perdendo un sacco di tempo per permettermi di affrontare la serata di domani. E le speranze sono poche. –
- Non è vero. Ti dico che stai migliorando parecchio e in poco tempo. E tutto perché effettivamente avevi già imparato a ballare, te lo sei solo dimenticata. –
- Mi riprendi continuamente e hai ragione dato che sto sbagliando tutto. –
- Vivy… - sbuffai. Era già la seconda volta che si lasciava andare allo sconforto e non sapevo più davvero cosa dire per rassicurarla.
- E’ così. Mi dispiace… -
Più si lamentava e meno avremmo potuto risolvere. Così tentai l’ultima carta.
- Tu hai solo bisogno di un maestro di danza. - affermai, posandomi le mani sulla vita, con aria autoritaria – Ma nessuno può essere abbastanza qualificato da colmare le tue lacune in così poco tempo. Tranne forse qualcuno che abbia i passi e le posizioni nel sangue. Io non conosco nessuno del genere, tu? -
- Cosa intendi…? – chiese, guardandomi sospettosa.
- Rispondi. –
- No, nessuno di simile… - disse.
- Ecco… - ammisi – Del resto, io non sono un buon esempio… Io non ho mai imparato a ballare, ma come per il discorso del pianoforte, so suonare a causa di qualcosa di innato… Di stampato nel sangue, se vogliamo dire così… – la guardai di sottecchi – Tuttavia, pensi che non stia facendo un buon lavoro… Vuoi che ti cerchi un sostituto? –
Alzò gli occhi al cielo, con un sorriso: - No. –
- Bene. Perché credo in effetti di essere portato a questo compito. Sei d’accordo? -
- Si… -
- Quindi, io sono il tuo insegnante. E se io dico che domani ballerai come una regina, devi crederci e basta. Chiaro? –
Lei mi guardò per un momento e poi annuì: - Sissignore. –
- Brava. Adesso vediamo di continuare. – affermai, cercando di restare ben serio e deciso. Ma lo ero stato già per troppo e soffocai per poco una risata.

Nel giro di qualche ora, giusto in tempo per la cena, la situazione era decisamente migliorata. Teneva bene il tempo, si lasciava condurre senza opporre resistenza e pian piano aveva imparato ad assumere un po’ più di elasticità nel movimenti, senza apparire troppo rigida. Sicuramente era in grado di partecipare ad un ballo, anche se avrei dovuto evitare che qualcun altro la richiedesse per una danza. Cosa molto difficile, in effetti, e io certo non potevo negare un ballo ad alcuno che lo chiedesse… Era un gesto troppo maleducato…
Preferii non renderla partecipe dei miei timori, dato che sembrava rassicurata dal fatto che da un po’ ormai non la stavo più riprendendo. Era molto più tranquilla o almeno questa era la mia impressione.

Tuttavia, continuavano ad esserci cose che non potevo lasciarle passare…
A metà dell’ennesimo walzer, non sopportavo più di vederla fissare in quel modo ogni altra cosa mentre ballava con me. Mi faceva saltare i nervi.
In quel momento, in effetti mi stava andando già meglio di qualche giro prima, quando aveva guardato insistentemente un vago punto alla destra della mia faccia. Ora teneva gli occhi fissi sul mio petto, o meglio sulla mia camicia non completamente abbottonata. Non sapevo davvero se offendermi perché continuava a non guardarmi negli occhi o sentirmi lusingato del modo in cui osservava, imbarazzata, quel lembo di pelle scoperta…
Sospirai: - Però, Vivy, non puoi tenere la testa così bassa… -
Sobbalzò, come se non si aspettasse di essere interpellata, e per un attimo si sforzò di contraccambiare il mio sguardo, con aria smarrita. Però il suo viso, da rosso che già era, divenne paonazzo.
- Hai ragione… - osservò, cercando subito con gli occhi qualcosa su cui distogliere l’attenzione che mi aveva appena rivolto.
- Se ho ragione, perché non mi guardi? -
- E’ che… - cercò di difendersi - … io ho sempre e solo ballato con mia madre… -
- E quindi…? –
- Come!? Insomma, non crederai che sia come ballare con un uomo! - esclamò, sempre più in difficoltà
Non ci avevo pensato. Aggrottai le sopraciglia: - Quindi ti distraggo? –
- No… Non esattamente… Ma mi imbarazzo… - rispose, con voce fievole.
- Però dubito che guardarmi negli occhi ti sia più difficile che fissare ostentatamente il mio torace, ti sembra? – aggiunsi, con un sorrisetto malizioso e accostandomi un po’ di più a lei.
No, non avevo resistito. In effetti quelle parole e quell’atteggiamento insinuatore mi erano venuti spontanei, anche se, dato il carattere di Vivy avrei fatto meglio ad evitarmeli. Subito cercò di sottrarsi a me e dovetti fare forza con il braccio, mio malgrado, per evitare che si divincolasse.  
- Stai calma. Era una battuta. - cercai dire, anche se non avevo alcuna vera intenzione di scusarmi.
Lei tacque, riottosa. Però il suo viso spaesato e colorito esprimeva e scatenava ben altre emozioni. Imbarazzo. Timore. Tensione. Volevo credere, profonda attrazione. In me del resto, significava desiderio. In tutte le sue forme.
- Dici che se mi chiudo la camicia riuscirai a guardarmi negli occhi…? – chiesi, ancora malizioso.
Lei strinse le labbra, ma di nuovo si rifiutò di rispondere.
- Se non ti darò modo di distrarti, forse, riuscirai a pensare solo alla posizione… - spiegai, cercando di apparire razionale.
Perché il problema era quello, giusto? Il fatto che per ballare bisognasse tenere lo sguardo in quello del compagno. Era quello il problema… Per forza… Non che speravo, volevo, guardare a fondo nei suoi occhi… Non che volevo guardasse dritto nei miei… No di certo…
- La verità è che sei comunque troppo vicino... Per qualunque cosa… - disse infine, faticosamente.
No, non per qualunque cosa, sussurrò eccitato qualche recesso della mia mente. Non so come riuscii a farlo tacere. Non so come riuscii ad impormi di non trasformare quella semplice posizione di ballo in un abbraccio e…
- E’… comunque molto più ardito questo tuo modo di comportarti, piuttosto che contraccambiare una semplice occhiata, no…? – riuscii a dire, schiacciando ogni altro istinto.
- Ma… Non riesco a sostenere il tuo sguardo… - rispose, sincera, con un tremito della voce.
- Provaci… - dissi, d’istinto, lasciando la sua mano e posando invece le dita sul suo mento – Se non ci riesci con me, con un cavaliere qualunque cosa farai…? –
- Non importa… - disse, girando la testa e cercando di allontanare la mia mano.
- Si che importa… Non vorrai fare cattiva figura… - osservai, senza accorgermi di quanto il mio tono fosse diventato basso e privato.
- Non farò cattiva figura… Non mi importerà… Sei… -
- Cosa…? – chiesi, in un sospiro.
- Sei… tu a… -
- Io… sono una persona che conosci… Io dovrei rassicurarti… - dissi.
Ma non credevo ad una sola delle parole che avevo detto. Non ci stavo pensando, cercavo solo di imporle finalmente di ricambiare lo sguardo che tenevo fisso su di lei, intensamente.
Fu solo allora che abbassò la mano che cercava di scacciare la mia.
- Sei tu… ad essere… troppo… speciale… -
Sul subito non capii quel sussurro affranto e appassionato che mi aveva rivolto.
Probabilmente, perché, non appena smise di lottare, riuscii finalmente ad indirizzare il suo volto verso il mio e stavo gustando ciò che mi era stato negato per tutto quel tempo. Con le dita, il contatto con il suo mento sottile e morbido. Con gli occhi, il viso arrossato, le labbra di un delizioso rosso, il respiro un po’ mozzato che vi scaturiva e finalmente le sue iridi che fissavano me. Avevo vinto.
Solo dopo, udii l’eco che quelle parole producevano in me. Solo dopo, mi chiesi cosa voleva dire quel “speciale”. Solo dopo, percepii chiaramente il vero motivo della sua emozione, della sua ansia.
Perché era di certo lo stesso che, ora che i nostri occhi erano così legati, produceva la tentazione vorace che attraversava la mia pelle… Mi accorsi in quel momento che aveva ragione… Eravamo davvero troppo vicini…
Lei era inerte. Si lasciava sostenere da me, dalla stretta che tenevo intorno alla sua vita, come se avesse bisogno di essere tenuta in piedi. Mentre il destro era abbandonato al suo fianco, il braccio sinistro era ancora legato alla mia schiena e, mi accorsi vagamente, la mano stringeva forte un lembo della camicia.
Adoravo i suoi occhi. Questo semplice concetto passava nella mia mente, mentre altrettanto inconsciamente avvicinavo con cautela il mio viso al suo. Anche se in quel momento erano di quell’intenso giallo, erano così grandi, affettuosi e ora immensamente languidi.
Feci appena in tempo a rallegrarmi del fatto che il mio gesto non avesse provocato alcuna reazione contraria da parte sua. Restava immobile, ad aspettare ciò che avrei fatto. Sembrava che a quel punto non fosse più in grado di guardare altro che me.
Feci appena in tempo a sentire l’ennesima ondata di calore. L’ennesima prova, da pochi minuti a questa parte, che non potevo ribellarmi a quel desiderio folle. L’ennesima prova che non mi sarei fermato, che l’avrei baciata e poi stretta forte a me e poi assediata di mille e più attenzioni… Fino a farla mia… Non c’erano altre possibilità…
Feci appena in tempo a sentire appieno tutte quelle consapevolezze…
Quando qualcuno bussò alla porta.

Entrambi, come se l’ossigeno ci fosse stato sottratto improvvisamente, trattenemmo il respiro. Tuttavia, reagimmo con calma, quasi con rassegnazione, a quella odiosa e improvvisa interruzione.
Vivy si rimise in equilibrio stendendo la mano sulla mia spalla e solo allora tolse definitivamente l’altro arto che era avvolto alla mia schiena. A quel punto, anch’io la liberai del braccio che la stringeva, a malincuore.
- Tyki… - sussurrò.
Battei le palpebre.
Mi accarezzò piano la mano con cui tenevo ancora il suo mento sollevato. E sorrise, dolcemente, anche se con una vena di amarezza. Credevo di capire a cosa fosse dovuta… Sperai di non sbagliarmi…
- Scusami… - risposi, lasciandola andare.
Bussarono ancora, con maggiore insistenza.
- Avanti! – risposi.
Con un cigolio, da un piccolo spiraglio della porta si affacciò la testa di Road.
- E’ pronta la cena. -
- Arriviamo subito. Grazie, Road. – disse Vivy, dopo aver intercettato il mio sguardo, che di sicuro si era un po’ incupito alla vista della bambina.
Era bizzarro come riuscisse sempre ad essere inopportuna. E nel suo caso era difficile che fosse un caso.
Forse perché captò il mio fastidio, non disse nulla e non si azzardò ad esprimere alcuna particolare reazione. Si limitò a richiudere la porta.

Vivy mi guardò, smarrita, e capii che stavamo pensando la stessa cosa.
Non si poteva ricominciare da capo né da dove tutto si era interrotto. L’occasione era perduta.
- Andiamo…? – chiese, incerta.
- Si. – risposi, con un sospiro nervoso.
- Va bene. –
Eppure, mentre uscivamo per andare a cena, pensai che non sarebbe finita così. Pensai che assolutamente avrei creato un’altra occasione, presto o tardi…

- Quindi? Com’è andata? – chiese il Conte, allegro come sempre.
- Bene. Vivy se la caverà senz’altro. – risposi, sicuro.
- Davvero!? Mi fa piacere! – rispose, battendo le mani a tentacolo con ostentato entusiasmo.
– Se non si lascerà prendere dal nervosismo e dall’imbarazzo… - aggiunsi, incapace di trattenermi.
Lei chiaramente divenne ancora una volta paonazza in viso, ma annuì con vigore: - Assolutamente farò del mio meglio… -
Sorrisi vagamente, avvicinando alla bocca il bicchiere di vino.
- Quindi… Avete solo bisogno degli abiti adatti! – esclamò di nuovo il Conte.
- Veramente no… Ne ho un sacco… - commentai, scettico.
- Ma sono tutti usati! –
- Be’, certo… Sapete, quando si mettono addosso diventano usati… - alzai le sopraciglia, decisamente allibito.
- E’ logico! Ma non va bene! –
- Perché no? Non sono mica rovinati! -
- Insomma, Tyki! Ti ci vuole un vestito nuovo! –
- Direi di no… - sbuffai – Tuttavia se ci tenete tanto e pagate voi… D’accordo… -
- Sicuramente Vivy ne ha bisogno! –
- Dite? – chiese lei.
- Si! – rispose, tutto carico – Ti ci vuole qualcosa di molto più appariscente! Quasi un vestito di scena, per capirci! –
- Ma a me non piace quel genere… - tentò di lamentarsi.
- Ma è necessario! – concluse, intransigente.
Sospirammo entrambi. Una pessima giornata per i nostri tentativi di ribellione.
- Bene! Credo proprio che vi farò andare insieme! Almeno vi terrete d’occhio a vicenda! – concluse, ridendo.
- Quando? – chiesi, rassegnato.
- Domani mattina! Così avrete la scusa per svegliarvi presto! – passò lo sguardo su entrambi i nostri visi poco convinti - Tanto il pomeriggio sarà dedicato ai preparativi! E la cena al castello credo sarà piuttosto presto! –
- Va bene, Conte! – rispondemmo allora, con una sincronia che poteva rivaleggiare con quella dei gemelli.




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*si rannicchia in un angolo buio*
Però un commentino... Piccolo piccolo... So che siamo un po' tutti in giro per vacanze varie... Ma... Sob...

Ad ogni modo...
Questo capitolo doveva essere più lieve, molto meno "reattivo". Tuttavia, è andata così...
Dopo aver tentato di riscrivere le scene iniziali del pranzo quasi 8 volte, alla fine ho concluso per far esplodere un po' dell'irritazione repressa della povera Vivy... 
Non ho potuto fare a meno di questa scena della lezione di ballo, anche se doveva davvero essere molto meno... sensuale... XDDDD
Tuttavia, ripeto, l'ispirazione ha portato qui...
Tanto, non crediate che tutto sia destinato ad esplicitarsi così in fretta... *risata sadica*

Alla prossima!!!! ^_^



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Capitolo 17
*** XVI - The Party ***


Capitolo 16

The Party


“Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero.”
(Oscar Wilde)






- Avete finito, signorina? – chiese il padrone del negozio, in inedita veste di commesso.
Il suo tono cortese era già stato velato da una certa impazienza.
- Emh… Non proprio… - biascicai, attraverso la porta di legno del camerino.
- Vivy, ti scongiuro… Fai giudicare noi, per favore… - mi richiamò Tyki, con voce strascicata.
- E’ che non sono convinta… Ne provo un altro, va bene? – chiesi speranzosa.
Scrutai per l’ennesima volta il mio riflesso nel vasto specchio, con addosso quell’abito arancione che il responsabile mi aveva messo in mano appena entrata. Prima di tutto mi lasciava interdetta quel colore terribilmente brillante, secondo me del tutto inadatto ad una serata elegante. Le balze, evidenziate da un decoro fiorito tutt’altro che modesto, erano troppo numerose su un tessuto già così elaborato. La nuance prepotente si smorzava almeno sul nastro prezioso che, cucito ad abbracciare la schiena e le spalle, ricadeva in due capi sul petto e doveva essere legato in un fiocco sul seno, in teoria senza velare o coprire nulla della profonda scollatura. Chiaramente questa presunta condizione necessaria non mi interessava nulla…
- Prima di tutto fatti vedere con quello… Non fare storie… Pensaci… Rischi di offendere il signore che te l’ha consigliato… - soggiunse, sibillino.
- Ma no davvero… Non dite così… Non oserei mai… - balbettò il padrone.
A quel punto, messa con le spalle al muro, aprii la porta del camerino.
Mi trovai subito davanti il proprietario della boutique, un uomo sulla cinquantina con un gusto ossessivo per pizzi e colori arditi, che mi sorrise raggiante mostrando tutti e tre i suoi denti d’oro.
- Signorina, vi dona moltissimo! Avevo ragione! L’arancione si sposa perfettamente con i vostri splendidi occhi verdi! – esclamò.
Eppure a me, nonostante tutto, il ragionamento ancora non filava. Sapevo che il verde stava bene con il nero, il rosso, il bianco, in alcuni casi anche con il blu… L’arancione era una novità.
Mi rivolsi con lo sguardo a Tyki.
Era appoggiato con la schiena e la testa allo stipite di una porta, con aria pigra e annoiata. Ma dal modo in cui i suoi occhi neri avevano preso a scrutarmi dalla testa ai piedi con attenzione non sembrava per nulla così stanco e stufo.
Coprì una risata maliziosa con un gesto elegante della mano:
- Ma il nastro non è un po’ troppo in alto…? -
- Ti sembra…? – chiesi, fingendo innocenza. Ecco, quella dannata scollatura riusciva davvero a mettermi in imbarazzo.
- Ma no! – si intromise il padrone, pieno di entusiasmo – Se volete ve lo lego meglio! –
- No, no! Grazie! Davvero troppo gentile! Non preoccupatevi! – gli risposi, con imbarazzo e mal celata preoccupazione, mentre questo si avvicinava spedito. Se c’era una cosa che davvero non volevo era lasciare che qualcuno, anche la persona più innocente, allungasse le mani.
I miei occhi tornarono a cercare Tyki, ma si era spostato dal suo angolo. Dov’era andato?
- Allora, volete che vi faccia cucire il fiocco già fatto!? Vi prometto che non lo farò pesare sul prezzo dell’abito! –
Mi vergognavo quasi a spegnere il sacro fuoco del gestore.
- Veramente… Non avete… Per dire… Un modello anche simile, ma su toni più tenui…? – azzardai, supplicandolo con lo sguardo.
- Temo di no, signorina! E poi non sapete quanto vanno di moda i colori più forti quest’anno!? Davvero, sarete perfetta! –
Non sapevo più cosa dire e stavo davvero per arrendermi alla volontà del padrone.
Solo che proprio a quel punto un braccio da dietro le mie spalle mi protese davanti agli occhi, con un fruscio di tulle, un abito chiaro appeso ad una gruccia.
- Prova questo. – disse Tyki, ricomparendo alle mie spalle.
Presi l’appendiabiti dal gancio: - Quando…? Perché…? – chiesi, frastornata.
- L’ho intravisto appena siamo entrati… E perché… - esitò solo per un istante, malizioso - Forse perché ti conosco meglio di quanto credi… - commentò, con voce suadente.
Non osai guardare la sua espressione, che temetti essere troppo affascinante e attraente, piuttosto tornai a rifugiarmi in fretta nel camerino. Mentre mi voltavo per chiudere la porta, però, intravidi comunque lo sguardo contrariato che il gestore rivolse a Tyki, il quale scrollò le spalle con leggerezza, un sorriso colpevole in viso.

Mi stupii enormemente di quanto fosse stato abile a capire i miei gusti.
Il colore era perfetto, un lieve panna, in un tessuto morbido e liscio, abbastanza lucido da non sembrare bianco, abbastanza chiaro da non fluire in un semplice e cupo beige. La gonna, ampia, era corredata da moltissimi ricami dorati, minuti e fini fino all’inverosimile. A livello della vita i pizzi salivano fitti e verticali richiamando l’idea delle stecche di un corsetto. La scollatura, molto più sobria rispetto a quella che avevo vestito poco prima, aveva un fine nastro di seta che, inserito nel tessuto, lo movimentava creando delle lievi onde. Altri nastrini di uguale fattura si potevano legare intorno alle braccia perché le maniche apparissero leggermente a sbuffo.
Lo provai immediatamente e questa volta non ebbi problemi ad uscire dallo stanzino.
- Be’, voi siete sempre deliziosa, signorina… Ma un colore così smorto… - sentenziò, stizzito, il padrone.
- Come ti ci trovi, Vivy? – chiese invece Tyki, incurante degli sguardi assassini dell’altro.
- Molto bene! Grazie! – esclamai, incapace di trattenermi.
Lui sorrise giusto un istante e si spostò a guardare nella sezione maschile del negozio.
Dovetti scusarmi centinaia di volte con il negoziante, che sembrava offesissimo per non essere riuscito a convincermi a scegliere l’abito da lui prediletto. Una volta che sembrò almeno un po’ convinto dai miei argomenti, mi rivestii e lui pose l’abito ben piegato nella sua scatola.
Stava per consegnarmi il conto, quando la voce di Tyki provenne, forte, da un’altra stanza:
- Mi posso servire? –
- Ah, ma… Siete sicuro…? – chiese a sua volta, in ansia, il padrone.
- Si, ho trovato ciò che cerco. - e udimmo distintamente chiudersi la porta del camerino.
- Il vostro fidanzato è un tipo piuttosto esuberante… - sentenziò il gestore, con aria di disapprovazione.
Io alzai gli occhi al cielo, ma non trovai nulla da dire in sua discolpa.

In pochi minuti, uscì dalla stanzetta, mentre ancora si stava chiudendo la giacca e sistemando il colletto.
Il completo nero era di un tessuto pregiatissimo e lucido. Il lavoro di sartoria era stato tanto perfetto da rendere invisibili tutte le cuciture. La giacca, leggermente sancrata sui fianchi, era tagliata in modo tale che le fini linee verticali più chiare che formavano la fantasia della stoffa avessero esattamente lo stesso andamento dell’abito. Bottoni neri con impresso un piccolo simbolo argentato seguivano il bordo della giacca sul davanti e in tre per parte erano posti sulle maniche. I pantaloni, dello stesso particolare tessuto cangiante, avevano una piega perfetta sulle gambe, parallela alle righette della fantasia.
Stava divinamente, anche se…
- Avete un occhio incredibile! Questo è l’ultimo arrivo da Londra! – esclamò, favorevolmente colpito, il gestore – Solo che forse vi servirebbe una cravatta… Si, penso di si… - e si avviò spedito nell’altra stanza.
Tyki sospirò: - Ci spillerà denaro per tre generazioni… -
Ecco, improvvisamente capii cosa non andava nella sua immagine perfetta. Solo un piccolo dettaglio. Il colletto della camicia era piuttosto grande e in questo caso doveva essere ripiegato all’interno della giacca. Così finii per agire senza pensarci.
Mi parai di fronte a lui, mi misi sulle punte e semplicemente presi tra le dita di entrambe le mani quel tessuto bianco e fine. Era caldo, almeno quanto il suo collo che avevo sfiorato inconsciamente con il pollice. Lui non fece alcun particolare movimento, tranne abbassare la testa abbastanza da guardare cosa stavo facendo. Io quasi non me ne accorsi, tanto ero assorta in quel mio compito. Anche una volta che ormai la camicia era a posto, continuavo, come soprappensiero, a lisciare piano con i polpastrelli quella stoffa tiepida.
- Così va bene, Vivy…? – chiese lui, a bassa voce.
Alzai gli occhi per guardare il suo viso e non volli più distogliere lo sguardo:
- Si… - dissi, con un sospiro e tornai ad appoggiare i tacchi a terra.
La sua bocca elegante si increspò in un sorriso: - Non hai abbassato la testa… Stai migliorando… -
- Ho trovato! – esclamò il padrone, tornando verso di noi, come una furia.
Tyki fece una smorfia: - Ma ciò non toglie che siamo piuttosto sfortunati… -
A quelle parole, al ricordo del giorno precedente, arrossii e mi allontanai, mentre il gestore si lanciava sul suo cliente brandendo una cravatta di seta.

Dopo aver pagato una cifra che a detta di entrambi era poco meno che astronomica, ci avviammo verso casa, sempre a braccetto, anche se Tyki aveva insistito per tenere in mano il mio pacchetto, per evidenti ragioni di galateo.
Il Conte si interessò subito alle nostre spese parigine, non fu sbalordito dal conto, non volle controllare i capi, ma in tutto il suo atteggiamento si leggeva un malcelato entusiasmo per la serata che ci aspettava.
Il pranzo fu eterno, ancora più del solito. Non che avessimo fretta, dato che ci era stato comunicato che non era prevista l’offerta di una cena, prima del ballo.
In realtà, comunque, una volta liberati dall’impegno del pasto, i preparativi furono abbastanza veloci.
Inutile dire che finii di truccarmi e pettinarmi con un anticipo sorprendente. E dovetti attendere invece il mio cavaliere, che comparve comunque puntualissimo all’uscita.
- Da millenni si afferma che le donne sono le più lunghe a prepararsi… Cosa fai già qui? – chiese, indossando i suoi eleganti guanti bianchi.
- Non sarò normale! – risposi, ridendo, ma improvvisamente mi venne un dubbio terribile – Oppure mi sarò dimenticata qualcosa… Ti sembra che manchi qualcosa…? –
Feci una mezza giravolta su me stessa e poi lo guardai, piuttosto tesa.
Per un attimo sembrò interdetto o forse sovrappensiero, non saprei dirlo con certezza. Poi fece spallucce: - Vestito… Scarpe… Trucco… Gioielli… Acconciatura… Direi che c’è tutto… -
- Il copri spalle! – esclamai, battendomi una mano in fronte e scattai per il corridoio – Vado a prenderlo! -
- Attenta a correre così sui tacchi! – mi gridò dietro, mentre zampettavo spedita per il lungo corridoio nero.

Dopo questo imbarazzante contrattempo, riuscimmo finalmente ad uscire dalla porta preparata da Road. Questa volta, però, invece che in una strada polverosa, sbucammo in un salotto sobrio ma curato. Tuttavia non feci neanche in tempo a dare un’occhiata all’arredamento, che bussarono alla porta d’ingresso.
- E’ arrivata la carrozza. - affermò Tyki avviandosi nel corridoio, quindi lo seguii senza esitare oltre.  
Non appena mi porse la mano per salire sull’elegante veicolo di legno massiccio, mi voltai a guardare l’edificio da cui eravamo appena usciti: una villa a due piani enorme, con un portico sulla facciata e un alto tetto rosso. Mi bloccai con un piede sulla pensilina e uno a terra, gli occhi spalancati. Il conducente mi guardò con aria interrogativa.
- Tyki, ma cos’è questo posto…? – chiesi, a voce bassa, tenendo d’occhio l’uomo, che di fronte alla mia reazione, ancora si grattava la testa, perplesso.
- La mia dependance italiana… - rispose, tranquillo, anche lui sottovoce, un sorrisetto sulle labbra.
Poi a tono più alto: – Ma no, stai tranquilla, non hai dimenticato nulla… Su, andiamo, che facciamo tardi… -

- “Dependance italiana”… - sbuffai, a mezza voce, quando la carrozza raggiunse una strada affollata e ormai dal sedile all’esterno non si potevano più distinguere questi bisbigli – Stai scherzando, vero? -
- No, per nulla… - rise – Forse non lo sai, ma ho anche un titolo nobiliare, mia cara… -
- Ah, certo che il Conte fa miracoli… - commentai, acida.
Con un sussulto mi resi conto di essere stata scortese:
- No, cioè nel senso… Non volevo dire una cosa simile… Scusa, Tyki… - iniziai a scuotere la testa insistentemente - Stai così bene così… Sembri davvero un Sir… Insomma, un nobiluomo… Anzi, lo sei, si… Quindi insomma… -
Lui non si irritò né rise, ma mi sembrò preoccupato. Mi fermò con un cenno della mano:
- Vivy. Cerca di non essere così tesa là dentro. Sii naturale. - disse, guardandomi fisso.
- E se fossi troppo naturale…? E se fossi invece troppo ossequiosa…? Se sbagliassi qualcosa…? – sgranai gli occhi a dismisura immaginando facce contrariate e gravissime gaffe.
La sua espressione tesa sfumò velocemente in una molto più divertita.
- Tyki, io sono una sconosciuta chiunque lì dentro... Magari non si ricorderà mai nessuno il mio nome, ma sicuramente indicheranno te per qualunque mio errore... Io non voglio crearti problemi… - biascicai, lisciando la gonna dell’abito, in ansia.
- Guarda che là dentro una buona parte degli invitati ti avrà già vista almeno una volta. Saranno per la maggior parte francesi, dato che i Savoia hanno più di un antenato e di un legame matrimoniale in comune con i nobili del tuo paese di origine. E qualcuno sarà anche amante dell’opera, immagino… -  osservò, più che rilassato.
In realtà, quelle parole mi avevano agitato ancora di più.
- No… E’ anche peggio… Potrebbero avere grandi aspettative… Una donna colta, intelligente, che sappia discutere di musica e si tenga informata… Non ce la farò mai a fare una buona impressione… - e mi appoggiai, scoraggiata, al sedile.
- Aspetta. Non l’ho detto per farti preoccupare ancora di più. Intendevo dire che tu parti da un’ottima considerazione e per questo sarà ben difficile che tu possa deluderla tanto in fretta. Non hai nulla da dimostrare. Sei una nota ed affascinante cantante d’opera. Pensa a questo e poi comportati come sempre. – poi sorrise, leggermente ironico – Solo, cerca di farti scappare qualche battuta aspra. E se proprio non riesci a bloccarla sul nascere, mascherala con una risata scherzosa. Le battute di cattivo gusto sono molto diffuse, le faide decisamente meno. –
Lo guardai poco convinta.
- Cosa c’è…? – chiese, alzando gli occhi al cielo.
- Hai detto “affascinante”…? –
- Perché, credi davvero di non esserlo…? – chiese a sua volta, scuotendo la testa – Comunque, questa sera un sacco di gente di riempirà di complimenti, veri o falsi poco importa. Ringrazia sempre e non far trasparire il fastidio. –
- Questo lo faccio sempre… - storsi le labbra – E anche tu sarai pieno di attenzioni per qualunque dama… -
- Chiaramente… Questa è la legge delle occasioni pubbliche… - sospirò – E per ultima cosa, se hai paura di sbagliare, non dire nulla e sistemerò tutto io. -
- Spero di non averne bisogno… - soggiunsi, indispettita.
- Lo spero anch’io… - disse e prese a guardare disinteressato fuori dal finestrino.

Va bene, non avevo ragione di sentirmi così disturbata dal suo desiderio di darmi consigli. Del resto mi aveva vista agitata e voleva rassicurarmi. Eppure tutti i sotterfugi che mi stava chiedendo mi rendevano ancora più insicura e ansiosa, di conseguenza scorbutica. Anche se aveva ragione: alla fine lui si sarebbe occupato di tutto, per evitare che fossi coinvolta in qualche intrigo o maldicenza, perché conoscessi solo le persona giuste e, soprattutto, perché fossi preclusa dallo scoprire qualcosa di sconveniente.
Perché me lo sentivo dentro che c’era qualcosa che non voleva sapessi.
Così come sentivo qualcos’altro. Un groppo in gola amaro da mandare giù.
Quante donne avrebbe dovuto lusingare quella sera? A quante ragazzine ingenue e sognanti avrebbe dovuto offrire un ballo? Per quante donne avrebbe dovuto spargere complimenti ben superiori ad un semplice “affascinate”?
Si chiamava gelosia. E ne stavo già assaggiando il frutto amaro.
Io ero la sua dama per quella sera, la donna a cui doveva le maggiori attenzioni. Ma al di là dell’apparenza ufficiale, rigida e formale… Dietro il contegno netto e serio del contesto… Nel momento in cui gli sguardi assetati di scandalo di quei nobili annoiati si fossero staccati da noi… Nulla sarebbe cambiato. Io sarei rimasta la sua fidanzata impacciata e lui li mio cavaliere distaccato. Perché non bastava un bacio mancato a dimostrarmi di essere qualcosa di più di un suo obbligo…
Al che seguivano fantasie di donne magnifiche abbracciate a lui e alle quali solo un bacio non sarebbe mai bastato… E l’odiosa immagine non faceva che aumentare la stretta allo stomaco…

Per fortuna tutte queste sensazione sbagliate si assopirono quando la carrozza si avvicinò ad una vasta costruzione illuminata a giorno. Scostai la tenda per vedere al meglio il palazzo.
Enorme, bianco e immacolato, di almeno tre piani, con sobri stucchi e solo lievi spruzzi di un azzurro-grigio su alcune decorazioni, sui tetti e sulle inferiate delle finestre. Era composto da tre parti: una costruzione centrale circolare e due parti, uguali, squadrate, che con l’inclinazione in cui erano poste sembravano accogliere fisicamente gli ospiti nell’enorme piazzale anteriore, circondato da siepi, aiuole e alberi perfettamente curati.
Al nostro mezzo di trasporto fu permesso di attraversare la cancellata di ferro e proseguire nel lungo viale, girare intorno alla fontana preziosa davanti all’entrata e fermarsi comodamente proprio di fronte all’ingresso.
Il conducente aprì lo sportello. Tyki scese e mi offri la mano per aiutarmi a scendere, impeccabile. Così notai subito la tranquillità dei suoi gesti e del suo comportamento. Ma altrettanto in fretta mi accorsi che si trattava della sua solita maschera. Era diventato il nobile gentiluomo che normalmente interpretava, la persona fine e a suo agio che tutti volevano vedere. Improvvisamente pensai che se lui era in grado di apparire così impeccabile in quel ruolo, anch’io, apprezzata interprete teatrale, potevo e dovevo fare altrettanto…

- Monsieur Mikk, benvenu dans notre petit accueil... !* -
Un anziano signore, radi capelli bianchissimi sulla testa, ma baffoni foltissimi e diretti all’insù sotto il naso, addosso una splendida divisa bianca piena di intarsi e medagliette d’oro, ci venne incontro non appena ci dirigemmo sotto il piccolo portico.
Ero rimasta sorpresa dal sentir parlare in francese e guardavo il mio cavaliere, sicura che non avesse capito.
Tyki lasciò il mio braccio e fece un leggero inchino: - Je suis très honoré d’être ici, invité à la votre présence, Majesté…* -
Ero leggermente frastornata. Non sapevo che conoscesse così bene il francese…
Il sovrano rise e gli appoggiò fraternamente una mano sulla spalla: - Ah-Ah! Ce n’est pas un moment ainsi formal! Nous sommes ici pour une soir de tranquille « diversão », n’est pas?* –
- Oui, votre Potrugais est très améliorées...* – un sorriso gentile, di circostanza, affiorò sulle sue labbra.
- Mais voulez-vous introduire cette magnifique mademoiselle? – e il re sorrise nella mia direzione, cordiale.
- Oui. C’est Mademoiselle Victoire Villois, cantesuse à l’Operà de Nantes... – mi presentò, con un cenno nella mia direzione.
Io mi inchinai prontamente, chinando anche il capo con reverenza : - Onorata, Maestà… - dissi, con il mio francese madrelingua.
- … et ma fiancée… -
Il cuore prima si fermò e poi prese a martellare furiosamente. L’aveva fatto, l’aveva fatto davvero. Questa era la mia presentazione ufficiale.
- Oh, Mademoiselle! E’ magnifico! Congratulazioni! – esclamò, radioso, il sovrano – Francese, soprano, bellissima… Avete fatto un’ottima scelta… - e mi fece uno sdolcinato baciamano.
Tyki sorrise lievemente, ma non disse nulla.
- Troppo generoso, Maestà… - dissi, imbarazzata per la sua sincerità, non solo riguardo ai complimenti nei miei confronti, ma anche al comportamento, allegro e spensierato nonostante la sua alta carica.
- Assolutamente no… Tuttavia, bisogna dire che siete una bella coppia! Anche il nostro Monsieur Mikk, con il suo fascino latino, è decisamente di bell’aspetto! – sorrise.
- Votre Majesté… - fu chiamato da un uomo composto, in completo con papillon, all’apparenza un maggiordomo.
- Perdonatemi! Comunque, prego, entrate! Presto vi raggiungerò! – e si avviò a seguire il servitore.

- Sai il francese? Non me l’hai mai detto. – commentai, sempre a bassa voce, mentre camminavamo sul tappeto rosso nella direzione obbligata verso il salone.
- Il fatto che il Famiglia ci comprendiamo comunque, non significa che io non debba conoscere la lingua ufficiale della nobiltà europea. Altrimenti avrei bisogno di un interprete. – poi aggiunse, indicando con un cenno del capo un paggetto vecchio stile, con calzamaglia e berretto colorati – Ecco il tocco barocco della serata… -
- I signori? – ci interpellò quel bizzarro individuo, con in mano un registro degli ospiti.
 
I nostri nomi vibrarono nella sala già piena di gente, mentre muovevamo i primi passi all’interno.
- Le Duc Tyki Mikk e Mademoiselle Victoire Villois! –
Deglutii a fatica, ansiosa, mentre almeno venti persone, escluse quelle che stavano discutendo animatamente e non avevano sentito, si girarono a guardarci, chi curioso, chi già più malizioso.
Cercai allora di concentrarmi sull’ambiente, almeno per il tempo in cui nessuno aveva ancora tentato di avvicinarci.
Un lampadario ricchissimo e probabilmente davvero pesante, milioni di gocce di cristallo unite insieme in un oggetto degno di un museo, pendeva statico dal soffitto, diffondendo una luce gialla riflessa dai piccoli frammenti smerigliati. Il soffitto era altissimo e due piani di balconate correvano, con ringhiere di marmo scolpito, sopra il piano rialzato adibito alla danza. Le pareti, a cui erano appesi vari quadri dalla forgia antica e con larghe cornici dorate, vedevano un’alternanza di colonnine inserite in marmo grigio, che erano richiamate da quelle enormi e massicce che reggevano i corridoi superiori e il soffitto. Quest’ultimo, inoltre, era decorato riccamente con un affresco delizioso di nuvole e angioletti. Un’orchestra, composta da almeno venti membri in elegante manfrina rossa, era stata posizionata su un palchetto a lato della pista.
Ora ero davvero spaesata…

- Monsieur Mikk, che onore vedervi! –
Una matrona addobbata a festa, con ancora in testa un prezioso copricapo con piume di pavone, si fece strada verso di noi, un sorriso ampio e cerimonioso sul viso.
Un’altra, pensai, già abbastanza spazientita. Era la terza madama di alto rango che veniva a complimentarsi per la ricomparsa di Tyki. Anche se da quei discorsi vuoti avevo capito che per un po’ di tempo non si era fatto vedere in feste come quella, non avevo ancora avuto la possibilità di chiedergliene la ragione, dato che ogni cinque secondi qualcuno lo apostrofava con entusiasmo. E d’altra parte per lo stesso motivo, dopo il discorso e l’augurio di buona serata del re, non eravamo ancora riusciti neanche a mettere piede in pista.
- Madame, siete più elegante che mai… - si complimentò lui, sempre con finezza e grazia, ricevendo la mano della nobildonna.
- Parlate di questo? – chiese, come se il riferimento al terribile cappello fosse sottinteso – E’ il mio ultimo acquisto dall’oriente! Non è splendido!? Non lo toglierei mai! –
- Meraviglioso… - annuì lui.
Io strinsi i denti, non esattamente d’accordo.
La donna si volse nella mia direzione, con aria guardinga, come se avesse notato quel cenno lievissimo. Ero certa che non fosse possibile, ma a giudicare dalla sua espressione, non me la sentivo di dubitarne. Guai in vista…
- Sono assolutamente d’accordo, Madame. Non ho mai visto nulla di più bello. – mi affrettai a dire, anche se non riuscii a sostenere quegli occhietti aggressivi.
- Allora dovreste fare un giro nella mia collezione! Poche altre nobili possono vantare un simile guardaroba! –
La smorfia trionfante che nascose con un cenno della mano mi fece ribollire il sangue. Patetica e vanesia donnetta… Ma quando questo commento passò nella mia mente per un attimo non mi riconobbi. Non potevo perdere le staffe così.
Cercai di sembrare cordiale, con tutte le mie forze: - Non ne dubito! Mostrate un ottimo buongusto! –
- Vi ringrazio… - e sembrò placarsi, ma non esitò ugualmente a squadrarmi dalla testa ai piedi come se mi stesse sottoponendo al suo test personale. Mi imposi di non rivolgerle uno sguardo altrettanto maligno.
- Volete che faccia le presentazioni? – si intromise Tyki, pacato, con una calma sovrannaturale.
- Si, lo gradirei molto! – rispose, la matrona, aspra.
- La Marchesa Marie Dorant… - disse indicandomi la donna cappelluta, che sprecò solo un cenno del capo nella mia direzione.
- Mademoiselle Victoire Villois… - e io, molto più modesta, feci un forte inchino. Se non potevo batterla in nobiltà, potevo provarci in stile. E giovinezza, sussurrò un mio minuscolo sobborgo maligno, che non sapevo davvero se potesse rientrare nel mio animo Noah.
- Oh! La più giovane e promettente cantante d’opera di Nantes! Che piacere! – esclamò la matrona. Era la prima a dire di aver sentito parlare di me, ma era anche la prima a far passare ogni parola come un insulto, compreso questo semplice riconoscimento.
- Onorata della vostra conoscenza e di sentire che sapete chi sono… – azzardai, certa che più di così non avrei potuto osare.
- Oh, lo so certamente! Mio marito il marchese – puntualizzò, con una nota di orgoglio tutt’altro che velata – mi ha più volte celebrato le vostre qualità canore! Spesso con complimenti, a mio avviso, eccessivi! Tanto che avrei davvero voluto venire a vedervi, per giudicare con i miei occhi e le mie orecchie! Peccato però che sia sempre così impegnata! –
Sapevo che la mia espressione si era fatta cupa, nonostante i miei tentativi di restare calma. Perché potevano criticare ogni cosa, ma non il mio lavoro, non l’onore più grande che avevo, cioè quello di cantare presso quel teatro e di far valere la mia voce.
Tyki mi guardò storto, ma non si scompose minimamente. Recitava da professionista o forse, più semplicemente, si stava quasi divertendo.
- Mi dispiace molto, Madame. Vorrei che potessimo restare ancora qui a parlare, ma ho intravisto il Conte tra la folla e dobbiamo assolutamente raggiungerlo. Io e la mia fidanzata. – soggiunse, con altrettanto finta ingenuità, imitando la nostra interlocutrice.
Per un istante la donna sgranò gli occhi e un’ombra inquietante di invidia sembrò offuscarle la vista. Poi, netto come un fulmine a ciel sereno, lo stupore si trasformò in una smorfia maliziosa.
- Oh! Non ne ero a conoscenza! Congratulazioni! – e anche in questo caso si limitò ad un cenno del capo – Ma non voglio trattenervi! Prego! E buona serata! -

Camminammo piuttosto velocemente fino a poco lontano da lei, poi rilassammo l’andatura.
- Non abbiamo nessun “Conte” da raggiungere, giusto? – chiesi, la voce ancora leggermente tremante dalla rabbia.
Lui non rispose alla mia domanda, ma un attimo dopo, tra sé e sé, a bassa voce:
- Credevo di metterla a tacere, invece ha già sentito le dicerie… -
- Cosa…? – chiesi.
- Nulla… - rispose, ma la sua espressione tesa diceva ben altro.
Poi mi studiò un attimo: - Credo che tu abbia bisogno di sederti tranquilla per un po’… -

- A te piaceva quell’orrendo cappello!? – gli chiesi, guardandolo torva. Avevamo preso posto presso un tavolo del primo piano della balconata.
- No. Sembrava un pavone morto. –
Non mi sarei mai aspettata una risposta così netta.
- Tyki… - dissi, quasi con rimprovero, nonostante fosse il commento che volevo sentirgli fare.
- E se vuoi saperlo, quella nonnetta, che dimostra ottant’anni e poco importa se ne ha solo sessanta, è un’arpia ignorante e pettegola, sposata ad un marchese che batte i cento e che, al contrario di lei, non solo ha una cultura sconfinata e una mente lucida nonostante l’età, ma è anche così previdente da aver già iniziato a preparare le pratiche del divorzio. La lascerà su un marciapiede a capire cos’è la vita vera, dato che abborda più uomini lei di una nave scuola. – quando storsi il naso, aggiunse, senza cambiare intonazione - Parole del marchese in un attimo di debolezza, non mie, ma mi trovo completamente d’accordo. Una bagascia senza fine, falsa e ignobile. –
Onestamente questa volta, non potei che restare in silenzio. Non avevo mai sentito tanto disprezzo nelle sue parole, che erano risuonate spietate e cruente dalla sua bocca, nonostante l’apparente calma con cui le aveva pronunciate.
Si rilassò di fronte alla mia espressione basita e sorrise, ironico: - Il fatto che io vesta una maschera non significa che davvero tutto mi scorra addosso senza che senta anch’io il bisogno di sfogarmi, non ti pare? -
- Caspita… - dissi solamente, sgranando gli occhi – Io avrei paura ad averti come nemico… -
- Ma io non sono nemico di nessuno… Ho solo dei pareri personali, che devo nascondere per ragioni di cortesia… - il sorriso divenne repentinamente un ghigno – E dato che “Madame” ha già tentato più volte di sedurmi, credo di avere il diritto di provare un po’ di disgusto per lei… -
- Che donnaccia… - biascicai, al colmo dell’irritazione.
- Solo non ti arrabbiare più così, Vivy… Perché per un attimo ho temuto di dovervi dividere… - rise.
Tuttavia, d’improvviso, il suo sguardo indugiò su qualcosa, o più probabilmente qualcuno, alle mie spalle e si fece di nuovo serio, gli occhi ridotti a fessure aggressive.
- Cosa c’è? – chiesi, nervosa.
- Dannazione… - commentò, a bassa voce.
- Tyki? – chiesi, sempre più ansiosa.
Lui mi guardò per un solo breve istante e vidi per la prima volta qualcosa di simile alla mia stessa ansia nella sua espressione contrita.
- E ‘um prazer vê-lo, querido! **- esclamò una voce vibrante alle mie spalle.

Un uomo alto, dalla carnagione scurissima e gli occhi neri come la pece porse la mano a Tyki che si alzò cortesemente per stringerla. Era un individuo tutt’altro che affascinante, nonostante di certo proveniente da un paese sudamericano, cosa evidente già dal taglio del completo, in pochi ma evidenti dettagli diverso da quello europeo, come pure dai modi più informali e professionali che utilizzava. Al suo fianco stava una ragazza graziosa, ma decisamente esuberante per l’ambiente, nel suo abito di pizzo nero.
- E’ un piacere anche per me, Conte… - disse Tyki, piatto.
- Oh, perché non parlate portoghese, per una volta che siamo quasi tra compatrioti… - e rise in maniera alquanto sguaiata.
- Perché altrimenti la mia dama non potrebbe capire… –
Tyki non era scortese perché stava semplicemente segnalando la mia presenza. Tuttavia, era come se il suo tono celasse qualcosa di tagliente.
- Ah, certo! Chiedo scusa! Sono spesso così maleducato, Mademoiselle, perdonatemi! – disse, accostandosi con un altro passo alla tavola – Solo che io e Teresa parliamo sempre e solo tra noi la nostra lingua madre… -
- Victoire, - lo interruppe Tyki per fare le presentazioni – ti presento il Conte Jorge Campelo e sua moglie Teresa Ricardo… - ed entrambi fecero un lieve inchino.
- Madomoielle Victoire Villois… Umh… - ed ebbe un attimo di esitazione, che cercò di nascondere con un cenno della mano. Cosa aveva?
- E’ un onore! – disse lui, porgendo la mano verso di me. Quando io però vi posi la mia, lui semplicemente la strinse e la lasciò andare. Rimasi un po’ stupita, nonostante fossi a conoscenza degli atteggiamenti molto virili dei popoli d’oltreoceano.
- Possiamo accomodarci con voi? – chiese Teresa, con un sorriso conciliante.
Tyki esitò di nuovo. La sua maschera si stava frantumando urtando contro qualcosa che io però non potevo vedere.
- Certo! – dissi io, allora, con il massimo della cortesia.
Tyki distolse lo sguardo, stizzito. Ma sapevamo entrambi che non si poteva mai essere tanto scortesi da rifiutare una simile richiesta.

Mi ci volle un po’ di tempo in questo caso, ma mi resi conto del motivo per cui il mio cavaliere si comportava così.
Jorge era una persona molto a modo, nonostante gli atteggiamenti un po’ bruschi, americani, che aveva, di cui si scusava adducendo la colpa al suo periodo di permanenza negli Stati Uniti. Eppure non erano solo i comportamenti un po’ troppo amichevoli e pragmatici ad essere strani, e neppure l’inquietante pizzetto luciferino, ma l’aria saccente e maligna celata dietro l’apparente cortesia. Tyki aveva detto che in occasioni simili nessuno portava avanti faide e puntigli. In realtà, quello che il conte nascondeva dietro eleganza artificiosa era proprio questo. Qualcosa di personale e segreto… Che io a questo punto volevo scoprire…

- Oh! Splendido questo walzer! – esclamò all’improvviso il nobile brasiliano. Si alzò e mi offrì di nuovo la mano, questa volta con ben altro intento che una stretta di mano – Mi concedete questo ballo, Mademoiselle…? -
Immaginai subito che Tyki avrebbe preferito che qualunque altra persona ballasse con me, compresa per assurdo la Marchesa Dorant. E nonostante questo, mai mi sarei aspettata la sua reazione.
La sua mano scattò d’impulso sulla mia, deposta sul mio grembo, come per evitare che potesse essere raccolta da quella di Jorge. Premette tanto tra il palmo e le sue dita le mie da farmi male. Sobbalzai, ma mi costrinsi a non guardarlo e piuttosto a rivolgere la mia attenzione sul conte, sperando che non avesse notato quel gesto avventato.
Chiaramente speravo invano, mentre qualcosa simile al trionfo si poteva cogliere nell’aria seria con cui squadrava quel messaggio silenzioso. Non potevo permetterlo.
- Tyki, - dissi ad alta voce, a costo di sembrare ridicola – non preoccuparti così! Starò attenta a non pestare i piedi al signor conte! –
Ancora una volta dovetti sforzarmi per non finire assorta a fissare quell’espressione tesa che mi rivolgeva e guardai ridendo molto poco sinceramente il nobile in piedi di fianco a me: - Dovete sapere che sono piuttosto imbranata con il ballo! Preferirebbe che non ballassi con nessuno oltre a lui! Teme che possa fare brutta figura con voi, che certo siete un ballerino nato! –
A queste parole, la sua mano, molto lentamente, si ritirò.

Avevo ragione. Il conte era decisamente abile con la danza e guidava splendidamente. E come avevo previsto in tempi non sospetti, non provavo alcuna particolare emozione ballando con un estraneo, quindi riuscivo a dare il meglio di me.
- Siete molto più brava di quanto avevate preannunciato… - disse, a voce bassa.
- Vi ringrazio… - risposi.
Poi come se non avesse aspettato altro che quel momento, chiese, con una strana foga: - Come mai siete qui in compagnia del duca? –
Ci misi un istante a capire che si stava riferendo a Tyki.
- Ma cosa intendete con “come mai”? -
- Nel senso, come mai vi ha invitata? –
Era decisamente brusco, oppure stava già scadendo nella scortesia? Anche se, certo, gli avevo chiesto spiegazioni proprio perché speravo diventasse subito più esplicito.
- Be’, perché sono la sua fidanzata, immagino… -
Feci ancora fatica a dirlo e lui credo se ne accorse. Restò in silenzio per qualche secondo, poi disse, pacato: - Immagino sappiate di non essere né la prima né l’ultima… -
Queste parole caddero come un masso sulla mia testa. Non so come riuscii a tenermi in piedi e a terminare la sequenza della danza.
- Perdonatemi? - chiesi, anche se mi mancava un po’ il respiro.
- Non siete la prima a cui promette molte cose. Una volta si presentava ad ogni festa con una donna diversa. Molte volte queste si aspettavano una certa considerazione, una certa presentazione. Eppure, come voi stessa avete potuto notare, non ha minimamente intenzione di concedervela. -
- Continuo a non capire… Cosa c’entro io con questo…? –
Seguivo i passi schematicamente, ma la mia testa era altrove. Veleggiava sulle parole nefaste di quell’uomo.
- Non l’avete notato…? Non vi ha presentato come la sua fidanzata. -
Ricordai improvvisamente l’interruzione forzata che aveva compiuto una volta detto il mio nome.
- Con altre persone l’ha fatto! Con il re, con la Marchesa Dorant… - cercai di dire.
- Il re non si cura mai dei pettegolezzi… E poi il duca non sopporta la Marchesa… E’ l’unica donna, e dico l’unica, che abbia mai rifiutato… Questo dovrebbe dirvi molto… Compreso il motivo per cui ha deciso di fare per la prima volta sfoggio di voi nei suoi confronti… -
Ricordai quel sussurro quasi indistinto dopo che avevamo lasciato la matrona alla sua invidia… No, quella non era più invidia… Improvvisamente mi aveva fulminata con quell’aria maliziosa… La stessa di Jorge ora, mentre si rivolgeva a me…
- Io non scommetterei un centesimo sul vostro matrimonio, Mademoiselle…- disse infine con un sorriso infingardo sulle labbra.
- Come vi permettete…? – biascicai a fatica, cercando di riprendere il controllo.
- Per quanto siate molto bella, non credo che il portoghese – e mise un accento crudele su questo appellativo – vi consideri più che una delle tante… -
Fu solo a quel punto che distolsi gli occhi da quell’uomo gongolante della propria malvagità, anche se più volte Tyki mi aveva rimproverata proprio per la mancanza di contatto visivo durante il ballo. Stavo contravvenendo, ma non riuscivo più a contrastare quelle parole crudeli che ora mi ronzavano nella mente.
Fu allora che lo vidi. Il mio fidanzato ballava con Teresa a pochi metri da noi e, invece che guardare la sua dama, fissava me, con uno sguardo impenetrabile. Incrociare quello sguardo fu per me più duro di ogni altra cosa.

La musica si interruppe e Jorge mi lasciò andare rivolgendomi un inchino.
Non appena sua moglie si avvicinò, seguita da Tyki, la apostrofò bruscamente: - Credo che tu possa anche ballare con tuo marito, che ne dici, Teresa? –
Feci giusto in tempo a vedere la donna abbassare gli occhi, tristemente, che Tyki mi prese per il braccio, allontanandomi da loro.
- Cosa ti ha detto quel bastardo!? Dimmelo, Vivy! - sibilò, trattenendosi dall’alzare la voce.
C’era qualcosa di spietato e tremendo nei suoi occhi, tanto che per un attimo mi sembrò che affiorasse il giallo dei Noah. La maschera si era spezzata.
- Nulla… - dissi, sperando che bastasse a calmarlo.
- Non mentirmi! – e la sua stretta aumentò, facendomi male.
- Tyki… - sentivo le lacrime agli occhi, ma non volevo fare una sceneggiata in mezzo a quella sala piena di malelingue. Provvidenziale, l’orchestra ricominciò a suonare.
- Ti prego… Balliamo e basta… - dissi, mentre ricacciavo indietro il pianto isterico che tentava di sfociarmi direttamente dal petto.
Lasciò il mio braccio e senza una parola mi prese la mano, preparando la posizione.

Passai tutto il tempo a guardarlo dritto negli occhi, cercando disperatamente un sostegno per la mia sofferenza. Non avevo più paura di scrutare il suo bel viso così da vicino, di lasciarmi trasportare, di provare quella dolce emozione nel restare fra le sue braccia. Perché forse, una volta che fossi stata obbligata a ripetere ciò che avevo sentito, tutte quelle malignità sarebbero diventate realtà e forse non avrei più sopportato di vedermi riflessa nelle sue iridi scure, una fra le tante.
Credo che lui avesse intuito quanto fosse importante per me, perché improvvisamente tornò calmo. Prese a condurmi con delicatezza, come se camminassimo sulle nuvole, rivolgendomi un volto più che poteva sereno. Eppure la stretta protettiva della sua mano sulla mia mostrava un’altra volta il timore che nascondeva. Per la prima volta, aveva timore di qualcosa… E io con lui…

La strada era umida e fredda. Eravamo usciti prima dal palazzo e ci eravamo accomiatati in fretta dal re, assicurandolo che la carrozza ci stava già aspettando. In realtà, non l’avevamo chiamata.
Avevamo fatto giusto pochi metri oltre la cancellata di ferro, quando Tyki si fermò e parlò, con forzata tranquillità: - Cosa ti ha detto Jorge…? –
Scossi la testa: - Cosa credi che mi abbia detto…? –
Non rispose alla mia domanda: - Adora seminare zizzania. E’ peggio di un uccello del malaugurio. Dove compare, qualcosa va sempre storto… - sibilò, di nuovo con parole spietate.
- Cos’ha contro di te? – chiesi, decisa, interrompendo i suoi sproloqui.
- Tutto l’odio ancestrale dei colonizzati per i colonizzatori… Il Brasile era possedimento portoghese… -
Forse c’entrava anche questo e mi ritornò alla mente quella punta di disprezzo con cui il conte aveva sottolineato la sua nazionalità. Ma non poteva essere solo quello…
- Cos’altro? -
- Nient’altro… -
- Non prendermi in giro, per favore. Questa è stata una serata dura. – sentenziai, impaziente.
- … Teresa… - disse solamente, in un sospiro, ma capii subito.
- Prima o dopo che si sposassero…? –
- Per chi mi hai preso…? – chiese, con amarezza.
- Rispondi… -
- Prima… Ma lui ha creduto che lei l’avesse scelto come ripiego… Quindi mi porta rancore, come un bambino… Eppure la sfoggia come un trofeo, come una vittoria su di me… E’ un idiota… - scosse la testa, una smorfia impressa sul viso.
Seguì un momento di silenzio, che non avevo intenzione di rompere.
- Che bugie ti ha raccontato? – chiese, serio.
- Nulla che non potessi sospettare… -
- Vivy! – mi richiamò, irritato.
- Quante donne hai avuto, Tyki…? –
Un’espressione rabbiosa affiorò per un istante, ma si spense quando intercettò il mio viso: - …Vuoi una stima…? –
- Un numero. - risposi, netta.
- Non lo so. Parecchie. Ti basti questo. – disse, come se bastasse a chiudere l’argomento.
- Dovrai fare molto di più se vuoi che tutto torni a posto, Tyki! – sbottai – Mi avevi detto di non aver nulla da nascondermi nel mondo della nobiltà! Eppure ecco che alla mia prima apparizione pubblica scatta già l’inghippo! –
- Sei tu che credi a quello che ti racconta una persona che mi porta rancore! Potrebbe dire qualunque cosa per mettermi in cattiva luce! – esclamò, sempre più arrabbiato.
- Quante donne…!? – insistetti.
- … Ne cambiavo una a festa, va bene!? Qualche volte sono andato con Lulubell, qualche volta con mio fratello… Se avevo una dama era sempre una diversa! E’ un problema che non abbia mai avuto relazioni durature!? –
- Non capisci! Non è questo il punto! –
- Si che lo è! – mi interruppe – Ma erano tutte avventure! Le sfoggiavo per un po’ di tempo, ma loro stesse non volevano più di questo! –
- Jorge ha detto che molte avrebbero voluto qualcosa di più! –
- Se l’è inventato! Perché fai tutta questa fatica a crederlo!? – sbraitò, con espressione incredula.
- Perché avresti dovuto dirmelo! – sentii la mia voce incrinarsi lievemente.
- A che scopo!? Sono tutte cose passate! – esclamò, esasperato.
- Almeno di Teresa! Avresti dovuto parlarmi almeno di lei! Se temevi che li avremmo incontrati, avresti dovuto anticiparmelo! –
- … Teresa… E’ ancora interessata a me… Per questo non te l’ho detto prima… - e distolse lo sguardo, indispettito da ciò che lui stesso si era trovato a dire.
Deglutii a fatica e cercai di combattere il dolore: - E’ la tua amante…? Per questo Jorge ce l’ha ancora con te…? –
- No. Non ho più nessuna da quando sono stato promesso a te. -
Volevo crederci, con tutte le mie forze. Forse ci sarei riuscita, con il tempo, ragionandoci sopra a mente fredda. Perché quella sembrava la verità, finalmente.
Eppure in quel momento la mia espressione si fece incredula.
La sua, al contrario, divenne contrita, di nuovo: - Proprio non riesci a credermi…? –
- La verità va detta sempre. Non avrei dovuto strappartela in questo modo, ma sentirla uscire dalle tue labbra… - scossi la testa, triste. Storsi le labbra, combattendo di nuovo il desiderio di scoppiare a piangere: – Invece ho dovuto aspettare di sentirmi dire che sarò sempre e solo “una delle tante”… -
- Non lo sei… Perché io ti sposerò… - e poi, più a bassa voce – Così è stato deciso… -
- Già… Ecco perché soffrirò per sempre… - dissi, amaramente.
- Non ne avrai ragione… - tentò di rassicurarmi, mesto.
- Per sempre sarò tormentata dall’idea che tu possa trovarti qualcuna più attraente di me… Non basteranno le rassicurazioni… Sono troppo gelosa, Tyki… -
Mi pentii subito di averlo detto, stringendo i denti rabbiosamente. Era come ammettere che lui era importante per me. Era come un tentativo di impietosirlo. Stavo sbagliando tutto, non era questo il modo. Almeno non mi ero messa a piangere, questa era l’unica cosa di cui potevo gioire.

- Andiamo… - disse, senza alcuna inflessione e senza incrociare il mio sguardo.
Ma, quando tentai di legare il mio braccio al suo, mi prese la mano e la strinse nella sua, in silenzio. Era la seconda volta che lo faceva quel giorno, ma in questo caso sembrava non avesse più intenzione di lasciarla. Ora non era un avvertimento, non era una muta richiesta, ma un desiderio, era una necessità improvvisa…
- Tyki… Ma non avevi detto che… - azzardai, insicura.
- Va bene così. – disse, zittendomi.

Il suo guanto di pelle si scaldò subito a contatto con la mia mano, con cui avevo subito ricambiato il gesto. Il modo in cui quelle dita affusolate tenevano strette le mie era stranamente dolce e mi riempiva il cuore di tenerezza.
Come aveva guardato male quei due ragazzini che si tenevano per mano, quella notte a Budapest. Eppure ora era lui a scegliere questo gesto per riconciliarsi con me, incurante che non fosse consono. “Non importa il grado di famigliarità che si abbia…” aveva detto, con stizza, ma mi sembrava che lo desiderasse, che volesse abbastanza confidenza da farlo. Ora se l’era presa, ma non avrei mai potuto essere più felice di questa forzatura.
Almeno ero sicura che con nessun’altra si fosse presa questa affettuosa confidenza…



------------------

* (francese)
Re: - Signor Mikk, benvenuto nella nostra piccola dimora... ! –
Tyki: - Sono molto onorato di essere qui, invitato alla vostra presenza, Maestà… -
R: - Ah-ah! Non è un momento così formale! Noi siamo qui per una sera di tranquillo “divertimento” (portoghese), non è così? –
T: - Si, il vostro portoghese è molto migliorato… -
R: - Ma volete presentare questa splendida signorina? –
T: - Si. E’ la Signorina Victoire Villois, cantante all’Opera di Nantes… e mia fidanzata… -

** (portoghese)
J: - E’ un piacere vedervi, carissimo! –




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Questo capitolo è eterno!!!! YUPPY!!!  ^_^ ;;;;;
Mi dispiace sinceramente di essere arrivata ad un simile "capitolo-sfilza", ma come sempre non sono riuscita a sacrificare nessuna delle idee che mi passavano per la testa...
Così mi sono venute 10 pagine di Word.... Emh... Mi scuso...

Allora, le precisazioni...
- Come modello per l'esterno del palazzo ho preso la Palazzina di caccia di Stupinigi e qualche sua foto d'interno... ^_^ Poi il tocco personale non è mancato, ma come riferimento di base...
- Il mio francese è piuttosto arruginito (e già quando lo usavo a scuola non era il massimo) e non ho mai studiato il portoghese, chiaramente... Quindi chiedo scusa per qualunque errore nelle parti che ho voluto inserire in lingua... Tanto per complicarmi la vita, no...? XD (Chiaramente in seguito continuano a parlare in francese, ma non mi sembrava il caso di insistere per poi mettere tre pagine di traduzione dei dialoghi... )
- Ho lasciato nel vago il discorso del modo in cui ci si capisce in Famiglia... In effetti, se ci pensate, sono tutti di nazionalità diverse... Non volevo forzare la mano ipotizzando che, per dire, parlassero tra di loro in inglese...  Meglio non specificare... ^_^
- Perchè Tyki è Duca...? Bel mistero... Solo che, con buona pace della Sensei Hoshino, "sir" lo si diventa solo come "baronetto inglesi"... u_u Quindi ho scelto un titolo nobiliare a mia scelta... XD

Per il resto la domanda è: PERCHE' SEI COSI' SADICA!?!?!?
A volte me lo chiedo anch'io... ^_^
Solo che penso sia abbastanza comprensibile che, se esistono difficoltà nella nascita dei sentimenti tra le persone normali, qui ci sono decisamente molte complicanti...
Non avrebbe senso che tutto capitasse a caso e velocemente, senza guai e incomprensioni...
(Anche se ciò non giustifica la mia crudeltà... u_u)

Grazie a tutti coloro che leggeranno, si lasceranno incuriosire e vorranno lasciare un commentino!!!!
Grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite o le seguite!!!

P.S. Ho ritardato tanto a causa delle vacanze al mare e di un periodo di inattività narrativa... Tra poco comincerò l'università... Spero di non lasciare più passare così tanto tra gli aggiornamenti, però... -_-


yuki689 = Ti ringrazio davvero per aver letto e aver commentato (anche se probabilmente leggerai questo messaggio piuttosto tardi, quando arriverai a leggere fino qui)!!! XD
Soprattutto perchè io, lo so bene, non sono stata altrettanto gentile... -_- Sto seguendo la tua fanfiction "Ambizione e fuoco", ma non sto commentando... -_- *si sente un mostro e sbatte la testa contro il muro* Ma credimi, non lo faccio per cattiveria, né perché l'avessi semplicemente aggiunta tra le seguite e poi dimenticata... La sto leggendo man mano che aggiungi i nuovi capitoli (e sei davvero regolare... a differenza di qualcun altro... la sottoscritta... Emh... )!
Ma il punto è che... Io non la dovrei leggere!!!!!! Non seguendo il manga, mi faccio spoiler ogni volta che la apro!!! ç_ç  Solo che non riesco a resistere!!! Di conseguenza, ho preso l'abitudine di leggere l'aggiornamento e... pentirmi... -_- Per questo non lascio commenti... Ti chiedo sinceramente scusa, perchè so quanto sia odioso... -_-


mangaka94 = ... Non ho postato presto... Scusa... ^_^  Molte grazie per il commento "vissuto"!!! XDDDDDD Mi fa piacere vedere che ti prende così tanto!!! Come hai letto, la situazione è ancora abbastanza altalenante... La parte del negozio é quasi un mondo a parte rispetto al malefico ambiente dell'aristocrazia... Spero che anche questo capitolo (un po'  negativo) ti sia piaciuto!!! E grazie ancora per i complimenti!!! ^_^


Tyki Mikk = Oh, che piacere vederti commentare fino a qui!!!! ^_^  E ti ringrazio per il sostegno... In effetti mi sono lasciata un po' andare alla depressione e alle lamentele gli scorsi capitoli, ma hai ragione: non posso stare sempre a lamentarmi, quando a molti altri autori capiterà spesso la stessa cosa!!!  ^_^  Grazie mille!!!
Per la tua osservazione sui Noah "festaioli", non hai torto. Tuttavia, questa parte della fanfiction vuole essere ambientata in un ipotetico "prima"... Del resto anche nel manga la Famiglia spuntava fuori abbastanza all'improvviso, mentre prima la maggior parte del lavoro sporco toccava a semplici akuma... Questa vicenda vuole rappresentare quel periodo di semi-tranquillità, per questo lascio a tutti la possibilità di vivere nela bambagia, senza esorcisti di mezzo! XD
Comunque il mio progetto per questa storia si sta allargando sempre di più, con risvolti a volte traumatizzanti anche per me (tipo: "Ma dove me la sono inventata sta cosa...? O_O").  Quindi ho già in mente continuazioni in cui mi riunirò alle scelte del manga, anche se con qualche tocco originale... ^_^
 
L'unico rischio è che, a forza di aggiornamenti così lontani l'uno dall'altro,  sia la Sensei mi rompa tutte le uova nel paniere (esattamente come sta facendo ora, come giustamente hai ricordato, svelando le identità di tutti e tredici i Noah), sia che se ne veda la fine nella notte dei tempi... -_- Insomma, mi devo impegnare!!!
Grazie mille, quindi, per i complimenti e per il sostegno (e i consigli, ce n'è sempre bisogno!) !!!! XD




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Capitolo 18
*** XVII - Unlucky ***


Capitolo 17

Unlucky


"Il futuro lo conoscerete quando sarà arrivato. Prima di allora, dimenticatelo."  
(Eschilo)






Non esiste una vera e propria ragione per cui lo feci. Se qualcuno avesse potuto frugare nel mio cervello in quel momento, ci avrebbe trovato il vuoto totale. Non mi dispiace per nulla deludere chi credeva che vi fosse comparsa chissà quale idea romantica o chissà quale sentimento idilliaco… Nella mia mente non c’era nulla.
Ma ammetto la domanda: “Se non stavi ragionando, non ci sarà un’altra parte di te che ti ha spinto a prendere la sua mano…?”
Ammetto la domanda, ma non la risposta che vorreste sentire. Credete davvero che ci sia qualcosa di simile ad “un cuore” a battere nel mio petto…? Non siate sciocchi. Vi posso assicurare che non c’è nulla che faccia rumore, nulla che segnali un qualcosa di simile all’umanità.
Chi, che fosse davvero umano, avrebbe permesso che quella ragazza generosa e dolce sentisse quel tormento? Chi, che fosse una persona vera, avrebbe avuto il coraggio di rivelarle l’unica relazione “sentimentale” di una qualche sostanza della propria esistenza quella sera, in quel momento convulso? Chi, che non fosse vuoto come un sasso, avrebbe aggiunto quel “così è stato deciso” alla fine della prima frase gentile dell’intera serata? Chi, che non avesse la gabbia toracica deserta da ogni emozione, avrebbe lasciato che quella persona pura e sincera provasse gelosia per un uomo così insensibile?
Avevo fatto tutto questo. E per la prima volta in vita mia, me ne pentivo amaramente…

Tutto ricominciò a scorrere normalmente solo quando aprii gli occhi la mattina seguente. D’altra parte, qualche ora di sonno non cancella nulla, se mai tende a rendere tutto ancora più sostanzioso, ancora più reale. Se non c’è qualcosa, o qualcuno, a mischiare le carte in tavola...
- Buongiorno, Tyki! –
Prima ancora che potessi mettere a fuoco la sua figura minuta, seduta sul tavolino di legno poco lontano dal mio letto, la voce di Road mi salutò, squillante.
- Uh… Buongiorno… - bofonchiai, scontento.
Le sue entrate in scena nella mia camera significavano sempre due cose negative: potevo abbandonare ogni speranza di dormicchiare ancora un po’ e stava di certo progettando qualcosa. Le nove del mattino, a giudicare dalla posizione delle lancette dell’orologio poco lontano, non erano il mio orario preferito per i suoi allegri scherzetti.
- Tutto bene? – chiese, con aria mielosa.
- No, lo sai… che non va bene… - le risposi, tra uno sbadiglio e l’altro.
- Tutto questo sonno per un uomo di mondo come te… - rise, più allegra del solito.
Mi sentivo già piuttosto insofferente a tutto quell’entusiasmo, più che altro perché temevo cosa nascondeva. C’erano momenti in cui adoravo Road, davvero. Questo però non era uno di quelli.
- Tu non dovresti essere a scuola, lavativa…? – le risposi, mentre pian piano la mia mente si schiariva.
- Dettagli… – sorrise, con aria saccente - Comunque, com’è andata la festa? –
- Bene. – risposi subito, alzandomi da sdraiato e sedendo sul bordo del letto. Mi stavo impegnando ad allontanare dai miei pensieri qualunque cosa avesse qualche attinenza a quella serata. Non avevo nessuna intenzione di farle frugare nei miei ricordi.
Mi guardò per qualche momento, con uno sguardo troppo intenso per passare inosservato. Poi nel suo viso passò una smorfia irritata, che nascose con una risatina:
- Se cerchi di nascondermi quello che è successo, deve esserci qualcosa di interessante. Quindi… - finse di pensarci per qualche istante, poi esclamò - … te la sei portata a letto!? -
Sgranai gli occhi e lei rise, un dito posato sulla bocca, con un’espressione maliziosa.
- Parli come uno scaricatore di porto. – commentai, distogliendo la sguardo.
- E allora!? – rispose, indifferente alla mia osservazione – Comunque, è un si, giusto!? –
- No. –
- Eh!? Ma almeno te la sarai fatta! – osservò di nuovo, incredula.
- … No. – risposi solamente, cercando di ignorare quel linguaggio mascolino.
- Tyki! Possibile!? – e balzò giù dal tavolinetto.
- Si. E poi queste non sono cose che riguardino una bambina. –
Mi irritava parlare di una cosa simile, dal momento che proprio il mio vizio da donnaiolo mi aveva provocato un sacco di guai quella sera. Quella sera in cui tutto doveva andare bene.
Ma il “bene” che rientrava nei miei progetti riguardava qualche tranquillo ballo con Vivy, non certo qualcosa di più ardito… E questo davvero non era da me. Su questo Road aveva ragione in pieno.
A questo mio commento acido alzò gli occhi al cielo, ma non lasciò che il suo buonumore venisse scalfito:
- Comunque, ti sei divertito? –
- Si… - e non era vero per nulla.
- Ma pensa… - sospirò lei, per nulla convinta.
Si, in effetti l’avevo detta troppo grossa. Soprattutto perché, anche dopo occasioni mondane meno movimentate, mi ero sempre limitato a commentare l’evento con convenevoli leggeri.
Mi trovai costretto a ritrattare: - D’accordo. Niente di che. Non è stato il massimo. -
- Già… - sorrise, quasi sollevata – Incontrato qualcuno di interessante? -
Mi stupii tanto di quella domanda che non riuscii a non rievocare nella mente quella befana della marchesa Marie e quell’idiota di Jorge.
- Uh… Dorant e Campelo… Che sorpresa… - commentò.
Ma il sorriso nefasto e il tono sarcastico che trapelarono a quella frase mi spinsero a ragionare per un istante. La conclusione mi avrebbe sconvolto solo se non ci fossi stato abituato.
- … Sheryl aveva la lista degli ospiti… - sbuffai, scuotendo la testa.
- Papà me l’ha fatta vedere ieri. Volevo farmi un’idea. – e mi si avvicinò zampettando.
- Potevi dirmi cosa mi aspettava, Road. –
- E tu potevi chiederlo al tuo fratellone. – replicò, scrutando incuriosita la mia aria cupa – Insomma, non vi vedete da una vita, ma si aspettava che almeno la curiosità ti avrebbe spinto ad andare a trovarlo. Ci sperava. –
- Non ci ho pensato. – risposi, indispettito – Però una certa nipote poteva degnarsi di avvisarmi dei rischi… -
- Che rischi!? – rispose, piegandosi perché il suo visetto malizioso, con i grandi occhi gialli più brillanti del solito, si trovasse proprio di fronte al mio, con atteggiamento di sfida.
- … Non sono begli incontri da fare, mai… Soprattutto quando c’è una persona estranea che deve trovarsi a suo agio… - dissi, sostenendo il suo sguardo senza problemi.
- Dici? – interloquì, scettica – Secondo me la Dorant è solo un po’ nauseante… Per il resto il suo modo di spendere e spandere solo per apparire sempre più ridicola è divertentissimo! –
- Si, una barzelletta. – ammisi, con un sorriso – Ma la madama non è solo questo… - tentai di aggiungere, ma venni del tutto ignorato.
- Jorge Campelo è adorabile! La sua malvagità, la sua capacità di custodire il rancore e farlo valere in ogni occasione, oltre ad essere tremendamente affascinante, me lo rende davvero simpatico! –
- … Non avevo dubbi… - sentenziai, intenzionato a non mettermi comunque a discutere su cosa pensavo IO di quel verme di Jorge.
- … e poi Teresa! – aggiunse, ancora più entusiasta.
Capii a quel punto che il tentativo di chiuderle la mia mente aveva smesso di dare frutto e decisi di lasciar perdere. Piuttosto sconfortato, appoggiai la testa e la schiena al muro, in cenno di resa.
- Lo sai che è sempre stata la mia preferita! -
- Una storia da due mesi… - osservai, con noncuranza.
- Si, ma per uno come te è stato un record! – mi ricordò, allegra – E poi, per essere un’inutile umana, era piuttosto promettente! Bruna, un guardaroba affascinante, eccentrico e dark con tutti quei pizzi neri, un’apparenza mite per un carattere abbastanza passionale da portare l’incostanza in persona a scaldare il suo letto per due mesi, infida quanto basta da sposare quel barbaro fatto e vestito… Una che sa come si sta al mondo! –
- Hai delle idee strane… - potei solo dire.
In effetti erano state proprio le caratteristiche che aveva citato a muovere quel vago interesse nei confronti della giovane brasiliana.
Era stata sfortunata, alla fine.
La sua fissazione per i romanzetti rosa l’aveva traviata al punto da cercare sempre, ossessivamente, la storia complicata, contorta, sensuale, con uomini oscuri e di reputazione controversa.
Io all’apparenza sembravo l’unica eccezione nella costellazione di storie poco raccomandabili che aveva avuto. A quanto si sussurrava nelle sale da the, ero stato il più galante, il più presentabile, il più nobile e, qualcuno aggiungeva con una certa malizia e ben poca eleganza, il più ardente dei suoi numerosi amanti. Non sapevo se esserne lusingato…
Ad ogni modo, già agli inizi del loro rapporto, si vedeva che quel proprietario terriero senza scrupoli le piaceva parecchio. Ettari ed ettari di coltivazioni e un’enorme villa sulla costa, soldi da spendere e vaste conoscenze nella nobiltà europea, un uomo di mondo, non bello di certo, ma con quell’aria burbera che attira per ciò che potrebbe nascondere. Forse, potrebbe nascondere… In realtà dietro non c’era mai stato nulla. Jorge era sempre stato arrogante, velenoso come un serpente e viscido altrettanto, abbastanza crudele da applicare ancora una spietata forma di schiavitù sui contadini delle sue monocolture, calcolatore e, soprattutto, possessivo fino all’inverosimile. Avevamo avuto occasione di incontrarci a qualche festa e non era mai stato un piacere. Avevo avuto la possibilità di sentirne parlare da molti aristocratici più o meno malparlanti, ma tutte le versioni concordavano sulla minaccia che rappresentava e sul fatto che c’erano state poche persone verso cui aveva manifestato a pelle il più assoluto sdegno… Sheryl Camelot, il ministro, e tutto il suo gruppetto di alleati, me compreso, chiaramente…
Insomma, tutti si preoccuparono per Teresa quando cominciò a frequentare il nobile brasiliano. Nessuno mosse un dito per avvertirla del pericolo. Del resto era molto più divertente vedere una donna dimenarsi tra i disagi di un matrimonio sbagliato, piuttosto che cercare di farla ragionare in anticipo. Il fatto che io, invece, mi applicassi per convincerla del suo errore faceva molto scalpore e certo arrivò anche alle orecchie sbagliate. Inutile dire che questo lo rese ancora più possessivo nei confronti della sua fidanzata...
In poche parole, Teresa era stata sfortunata, ma anche sciocca. Invece che lamentarsi delle mie interferenze, mi lodava sempre con il suo futuro marito, facendogli intuire un po’ di quell’attrazione che ancora provava… La gelosia di Jorge la ingabbiò per sempre e provocò continue, ossessive e odiose interferenze nella mia vita sociale. In particolare provava un sadico piacere nell’intromettersi nelle mie relazioni e nell’infangare la mia reputazione agli occhi delle mie dame. Semplice e innocua ripicca, dato che nessuna di loro si aspettava davvero di instaurare una relazione stabile.
Solo che questa volta, con Vivy, aveva toccato il fondo…
- Cosa ti importa? – proruppe Road, con gli occhietti gialli particolarmente luminosi e inquieti.
- Cosa c’è…? – chiesi, guardandola storto. Possibile che non potesse, almeno per una volta, farmi seguire il filo dei miei pensieri senza interrompermi così bruscamente?
- Parlo di Vivy. Per la scenata che ti ha fatto avresti dovuto arrabbiarti parecchio, invece te la prendi ancora con Jorge… -
- Non sono affari di Jorge Campelo il mio rapporto con Vivy. – sentenziai, cupo.
- Ma andiamo, Tyki! In fondo l’ha solo rimessa al suo posto! – esclamò.
- … Che…? – chiesi, stringendo le labbra.
- Non fingere di indignarti, per favore! E’ ridicolo! – sbuffò, incrociando le braccia – Jorge le ha solo fatto presente che non ha nulla di speciale! Dovresti essere contento che sia stato lui a parlarne con lei, un problema in meno per te! –
- Road… - tentai di interromperla, senza molto successo.
- Davvero non capisco! Tu hai il vizio di darle troppa corda! Sempre! Vuoi davvero lasciarti ingabbiare in un matrimonio vincolante, con obbligo di fedeltà!? Come Teresa!? – sbottò, sempre più irritata.
- Non è questo che… - tentai di dire, storcendo la bocca.
- A meno che… - soggiunse, sibillina - … a meno che… tu la consideri davvero “speciale”… - e lasciò cadere un accento minaccioso su quella parola, ma riprese subito, con sempre maggiore enfasi - A meno che volessi davvero consolarla, spinto da un improvviso slancio di affetto! A meno che prenderla per mano fosse una specie di contentino! A meno che non ti avesse intenerito, ti avesse fatto provare una certa dolcezza sbandierandoti davanti agli occhi la sua gelosia! -
La guardai, smarrito. Cosa potevo rispondere? Cos’era successo esattamente? In realtà non ne avevo idea. Sapevo solo di non averci ragionato sopra, di aver agito d’istinto. Ma cosa significava?
Improvvisamente, però, sorrise, soddisfatta.
- Ma Tyki, chiaramente… Tu provi nulla di simile, no? -
Sbattei gli occhi, imbambolato.
- A differenza di quanto si possa pensare da come ti comporti, in modo sempre molto conveniente alle situazioni, al tuo dovere di “essere umano”, alla correttezza che ci si aspetta, tu non senti certo emozioni simili. Un Noah non ha bisogno di affetto, tenerezza, dolcezza e comprensione… Così come non è in grado di provarli… -
Mi guardò in modo molto eloquente, facendo qualche passo verso la porta.
- In questo senso, sei davvero uno dei più bravi. Simuli davvero bene. L’importante è che poi non ti lasci convincere di provare davvero sensazioni simili… Perché non puoi. E in fondo, non vuoi. -
Mi sorrise di nuovo e aprì la porta: - Ci vediamo dopo! –
Non le risposi e semplicemente le rivolsi un cenno stanco della mano.

Ci pensai, ci pensai a lungo.
Non trovai una spiegazione. Non c’era nulla di oggettivo da constatare dentro di me. Perché alla fine non c’era nulla, giusto? Non c’era nulla nel discorso di Road che potessi contestare, tranne forse quell’atteggiamento irriverente. Perché in fondo aveva solo spiegato la natura di noi Noah.
E se Vivy era come tutti noi, forse si illudeva di essere gelosa. Forse non soffriva davvero per quello che era successo. Perché nessuno che fosse come noi poteva farlo…
Qualcuno avrebbe detto che era solo una mia soluzione di comodo, di quelle che si prendono per smettere di pensarci. Non mi importava, perché era un ragionamento senza soluzione e non avevo intenzione di fondermi il cervello, per quanto fosse importante scoprire la presunta verità.

Sentii bussare e, meccanicamente, ancora piuttosto frastornato per quel pensiero insistente che Road mi aveva ficcato in testa, mi alzai per andare ad aprire.
Mi trovai davanti un viso sorridente: - Buongiorno, Tyki! –
Sbattei gli occhi un paio di volte, incerto: - Buongiorno, Vivy… -
- Dormito bene? – chiese, premurosa, un sorriso dolcissimo sulle labbra.
Mi appoggiai allo stipite e la guardai attentamente. Era una mia parente perché gli occhi gialli, la carnagione di quel colore insano e la fila di cicatrici sulla fronte non mentivano. Ma era come se non lo fosse quando quell’espressione illuminava il suo viso delicato. Era come se fosse un’eccezione… Quindi era vero… Quindi quella regola per lei non valeva… Ma non era bene, per niente. Perché questo significava che, per agire nel modo migliore, dovevo imparare a controllare il mio comportamento, evitare di farle del male. Uno sforzo fastidioso, ma…
- Si, grazie. – risposi, quando vidi che il mio silenzio la stava inquietando.
- Mi fa piacere! – esclamò, serena – Anche se probabilmente non è vero… -
Sorrisi: - Ho dormito bene. Ma sono ancora un po’ stordito… - sospirai, poggiando anche la testa allo stipite – Tu piuttosto mi sembri molto allegra… -
- Ma io sono sempre allegra! – disse, con un sorriso furbo, ma innocente e candido. Quello di una bambina tenera, quello che non vedevo mai sulle labbra dell’unica infante della famiglia, che invece sapeva sempre di malizia crudele.
- Già… - commentai, preferendo lasciar cadere il discorso – Dimmi… -
- So che tra poco dovrai andare via di nuovo per un po’… - disse, con calma.
Ci pensai un istante ed annuii: - Si, mi sembra già domani. – osservai, ricordandomene in realtà solo in quel momento.
- Capisco. – esitò un istante, come se stesse prendendo coraggio.
Poi, strinse un attimo le labbra per poi mostrare di nuovo un sorriso, anche se un po’ più tirato di prima: - Senti, non ti andrebbe per caso di venire con me a fare un giro? –
- Va bene… - mi limitai a dire, scostandomi dalla porta.
- Davvero…? Se sei stanco non importa, facciamo per un’altra volta… - mi rassicurò, premurosa, anche se la sua espressione rifletteva ora con evidenza il sollievo che la mia decisione le stava provocando.
- No, va bene. –



Mi piagai, incuriosito, per vedere meglio il simbolo impresso sull’insegna del locale in cui stavamo per entrare. Mi sembrava stranamente famigliare.
- Vivy, hai idea di… - mi rivolsi a lei, ma girandomi mi accorsi che non era più al mio fianco.
Mi guardai intorno, incerto, ma per fortuna vidi subito il cappotto bianco e il cappello beige di fronte ad una vetrina poco lontano. Sospirai di vago sollievo e mi avvicinai.
- Finalmente credo di aver trovato una borsa che mi possa andare bene! – esclamò, rivolgendo un sorriso al mio riflesso, che aveva subito intercettato sul vetro lucido. E dire che io invece speravo quasi di riuscire a farla spaventare…
- Mi fa piacere. Ma la prossima volta avvisami se ti allontani. – sospirai, prendendola sottobraccio.
Dopo lo strano episodio della notte prima, non sapevo più come comportarmi e avevo preferito non prendere nessuna iniziativa. Chiaramente neanche lei aveva osato fare qualcosa di preciso e di conseguenza avevamo finito per camminare semplicemente uno a fianco all’altra, fino a quel momento. A quel punto, però, capii che il meglio era tornare alle buone vecchie abitudini, prima di perderla tra la folla...
- Non credevo ti saresti preoccupato. Non lo faccio più. – e, con un altro tenero sguardo alla mia immagine e al braccio che avevo legato al suo, appoggiò la mano sul mio polso e si accostò un po’ di più a me.
- Non preoccupato… - tentai di ritrattare, ma mi accorsi che non aveva molto senso e tagliai corto – Comunque, non farlo più… -
- D’accordo… Ma cosa ne pensi di quella…? – chiese, indicandomi uno dei tanti modelli esposti.
- Non… è male… - mi sforzai di dire. Tuttavia lei sfruttava ancora il trucco del riflesso e si accorse della smorfia di disappunto che la vista di quella borsa mi aveva strappato.
- Ho capito. Non ti piace. – sospirò – Allora ne dovrò cercare un’altra… - e fece per allontanarsi dalla vetrina portandomi con sé.
- Almeno entriamo, così... – cercai di dire.
- No, se quella non va bene, lasciamo stare. Durante il giro vedrò qualche altra vetrina e deciderò. Adesso è meglio che andiamo a pranzare… - disse, indicando il locale in cui poco prima stavamo già per entrare.

Il pranzo passò in fretta. In primo luogo perché i camerieri ci servirono quasi per primi e con estrema cura, passando spessissimo a chiedere e a servire. Anche troppo sovente, secondo me, in particolare quando bisognava riempire il bicchiere d’acqua della mia compagna. Inutile dire che ciò le causava non poco imbarazzo. Ma il momento del pasto passò velocemente anche perché parlammo con tutta la serenità possibile, in particolare sulla serata del giorno precedente. Non nominammo né Jorge né Teresa, anche se, nel caso lei avesse preso l’iniziativa, non avrei avuto problemi a spiegarle con calma e in tutti i dettagli il mio legame con i nobili brasiliani. Non lo fece, forse per non toccare poi il risvolto imprevisto della nostra discussione fuori dal palazzo. Una positiva nota di buon senso, direi…
Certo, per sparlare di tutti i nobili vanitosi e prepotenti con cui avevamo avuto a che fare, dovevamo aspettare che i camerieri inopportuni si allontanassero e parlare a voce molto bassa. Al contrario di me, non si lanciava mai in commenti troppo aspri o malvagi e si limitava a prendere atto della cattiva creanza di vari personaggi illustri. Io invece consideravo quell’attività come uno sport connaturato, che lei sopportava con qualche lieve sospiro divertito.
Dopo poco, tornammo all’aria aperta a percorrere la larga strada pedonale, immersi nella folla delle grandi occasioni. Cercavamo di camminare in linea retta, sperando che fossero gli altri a svicolare per lasciarci passare e quasi sempre era così. Probabilmente facevamo una bella impressione.

Poi cominciò ad avvenire qualcosa di strano…
Qualche vetrina più avanti, improvvisamente mi resi conto che la faccia del fattorino del lattaio di fronte mi era piuttosto familiare, tanto che mi ritrovai a fissarlo mentre mi sfrecciava davanti in sella al suo velocipede.
Quando Vivy perse il cappello e mi fermai a raccoglierlo, intravidi il cartello di una via laterale il cui nome mi sembrava familiare. Eppure chissà quante strade al mondo avevano il nome di quel famoso inventore…
Per ultimo fu un edificio ad attirare la mia attenzione. Era azzurro e dominava uno scorcio di tetti che mi appariva particolarmente noto. Questo era bizzarro sul serio perché decisamente non era un colore comune.
A quel punto interpellai Vivy, che si stava dedicando ad osservare con attenta curiosità una giostra meccanica esposta sulla bancarella esterna del negozio di un artigiano.
- Vivy… Come si chiama questa città…? – le chiesi.
- Tubinga, in Germania… - mi disse, voltandosi – Perché…? –
Esitai un istante, poi minimizzai con un sorrisetto e una scrollata di spalle: - Non me l’hai detto… -
- Ah, è vero! Scusami, non ci ho pensato! – disse, ponendo i suoi grandi occhi verdi sul mio volto con aria di scusa, prima di tornare a dirigerli sul marchingegno in movimento.
Eppure c’era qualcosa che non mi tornava…
Ero certo di non essere mai andato a visitare quella città con la Famiglia. Ero abbastanza sicuro, per quanto la memoria poco allenata mi permettesse, che non fosse sede di una qualche manifestazione di alta aristocrazia. Potevo scommettere di non aver mai visto un quadro o una immagine di quella città o tanto meno di conoscere qualcuno originario di quel luogo. Allora perché quello scorcio della via principale mi diventava lentamente sempre più familiare? Un dannato dejà-vu? Un’illusione da autosuggestione dopo tutti gli elementi che poco prima mi sembrava di riconoscere? Oppure…

- Quindi niente borsa… - commentò Vivy, con un sospiro, e appoggiò anche l’altra mano sul mio braccio legato al suo, come per attirare la mia attenzione, che in effetti stava ancora mettendo ordine mentalmente tra quei dettagli all’apparenza assurdi.
Sorrisi, tornando in me: - Abbiamo passato una decina di negozi e non ne hai trovata nessuna. –
- Tre me le hai bocciate tu… - precisò, ridendo.
- …Ma non hai neanche voluto entrare per vederti addosso le altre… - osservai, lanciando uno sguardo di sufficienza al cielo nuvolo sopra di noi.
- Non ero convinta… - spiegò, sollevando le spalle in un cenno indifferente.
- E’ un incubo fare spese con te… - scherzai, scuotendo la testa.
- Sul serio!? – esclamò, punta sul vivo.
- No. - risposi, seriamente – Anche perché fai di tutto perché non lo sia. Un’altra donna sarebbe entrata in tutti i negozi uno per uno, anche a costo di far impazzire l’accompagnatore. -
- E’ quello che volevo evitare… - cominciò, ma non sentii la fine della sua frase.
Nella folla che percorreva quella via piena di vita, dritte verso di noi e in direzione opposta, stavano arrivando le ultime persone al mondo che avrei dovuto incontrare in quella situazione.
So che sbiancai improvvisamente e ancora oggi mi domando come feci a mantenere il controllo della situazione nonostante il sudore freddo che mi sentivo scorrere addosso.
Credo che Vivy avesse fatto ancora in tempo a chiamarmi per nome, accorgendosi con stupore del mio repentino cambio di espressione, prima di vederli.

Tre persone avanzavano tranquille per la strada affollata. Incuranti dei loro vestiti rozzi, un po’ sporchi e inadatti all’elegante viale del centro storico. Disinteressate agli sguardi curiosi e infidi dei riccastri in abiti firmati che passavano loro vicino, ma inevitabilmente inquiete per l’aria truce che alcuni riservavano loro. Tranquille, immerse in una allegra discussione e sorridenti.
Due omoni imponenti, spalle larghe temprate dalle fatiche del lavoro, aria protettiva e attenta nel difendere, tenendolo per mano in mezzo a loro, un angioletto biondo dai capelli scompigliati, gli occhi azzurri brillanti e una mascherina usurata sulla bocca probabilmente piegata in una risata. Un gigante dal lungo cappotto e una inquietante cicatrice sulla fronte. Un individuo dall’aria truce, con un cappello di lana calato sulla fronte.
Non avevo mai creduto di poter essere così sfortunato da incrociare Momo, Frank e Iizu in simili circostanze. Ma come avevo potuto essere così distratto da non ricordare il nome della città in cui avevamo trovato l’ultimo impiego!?
Cercai di restare calmo e continuai a camminare, anche se ci venivano incontro, anche se noi o loro ci saremmo ritrovati a scansarci per non scontrarci. Dovevo solo mantenere il controllo della situazione. Continuavo ad osservarli, a studiarli, mentre ci avvicinavamo inevitabilmente gli uni agli altri. Vivy esitava a lasciarsi condurre sottobraccio, ma non potevo distrarmi per spiegarle la mia reazione. Anzi, in realtà avrei preferito non trovarmi mai nella condizione di doverle parlare di questa situazione, anche se inevitabilmente sarebbe successo tra poco, non appena li avessimo superati. Perché ero certo che se ne fosse accorta e proprio per questo si fosse irrigidita.
Ma avevo ancora la speranza che, se non avessi fatto gesti avventati, nessuno si sarebbe accorto di nulla.
All’ultimo mi spostai leggermente verso sinistra, spingendo la mia compagna a prendere un po’ di spazio di fianco a noi. Ci saremmo semplicemente passati di fianco, senza un gesto, senza una parola, senza che mi notassero…
L’ostacolo era quasi superato, quando il tempo sembrò rallentare e un istante solo divenne eterno. Abbassando lo sguardo, un po’ rasserenato dallo scampato pericolo, incrociai quello del piccolo Iizu. I suoi occhi azzurri mi guardarono per un istante solo, ma forse non avrebbero notato nulla se poi non si fossero spostati alla mia sinistra, sulla donna che avevo al mio fianco. Le sue iridi color del cielo sembrarono diventare ancora più grandi, travolte dallo stupore. Perché di certo Vivy non aveva usato la mia stessa cautela e aveva ricambiato, attonita, lo sguardo del piccolo che lei stessa, anni prima, aveva salvato dalla morte. Strinsi i denti, maledicendo un’altra volta la dannata sfortuna che in quei giorni non riusciva ad abbandonarmi. Quando di nuovo l’angioletto guardò me, feci l’unica cosa che mi era concesso tentare. Afferrai tra le due dita il bordo del cilindro, cercando di abbassarmelo ancora di più, tentando di coprire almeno parte del viso. Ma ormai era troppo tardi.
Li avevo superati di pochi passi quando la voce di Iizu vibrò alle mie spalle: - Tyki! –
Trattenni il respiro, nonostante la smorfia tesa che mi aveva di certo deformato il volto, e cercai di continuare a camminare senza cedere alla tentazione di girarmi. Vivy fu abbastanza intuitiva da fare altrettanto.
Nonostante il rumore, le loro voci mi vibravano nelle orecchie come se non sentissi altro.
- Che!? Ma che dici, Iizu!? – esclamò Momo, sbalordito – Dove lo vedi!? -
- Lì! E’ lui! Con la Signora Suora! –
- Ma dai! Torna domani, Iizu! So che ti manca, ma… - poi le parole di Frank si persero nei rumori della via affollata, mentre noi due imboccavamo un vicolo poco lontano.

Mi appoggiai al muro umido, riprendendo finalmente fiato. Poi, lentamente mi afflosciai a terra, rilassato dopo la tensione insopportabile di quel minuto eterno.
- Spiegami. –
La voce di Vivy, autoritaria come solo raramente l’avevo sentita, mi fulminò dall’alto. Era in piedi di fronte a me, le braccia incrociate e l’espressione più rabbiosa che le avessi mai visto. Almeno quando si rivolgeva a me e non al Conte…
La sfidai con uno sguardo: - Non ho niente da spiegarti questa volta. Non ti riguarda. –
Ignorò completamente questa frase offensiva: - Non mi importa nulla del tuo atteggiamento indisponente. Voglio sapere a che gioco stai giocando. –
Sospirai: - Sbagli se credi che stia giocando. Non è un gioco. –
- No? Allora cos’è? – insistette, con una smorfia.
Ci pensai un istante. Non avevo mai pensato di dare una definizione a quella scelta istintiva che mi aveva portato a sottoscrivere un altro controverso articolo nell’accordo con il Conte, quel giorno tanto lontano.
- L’unico modo in cui riesco a vivere, ora come ora. – conclusi, con una punta di amarezza del tutto insolita al mio carattere.
- Ma Tyki, capisci cosa stai facendo!? – esclamò, con un’espressione contrita sul viso candido.
- Non potevo staccarmi del tutto da loro. – scattai, concitatamente – Non mi sentivo in grado di lasciarli soli. –
Scosse la testa: - Tu vai da loro, quando lasci casa nostra! Tu domani li raggiungerai e poi tornerai a fare il nobile ricco e snob! Possibile che tu non riesca a sentire come tutto questo sia illogico!? –
- Te l’ho detto. E’ l’unico modo che conosco. - dissi, alzando le mani in segno di resa.
- Ma non è una festa, Tyki! Noi non siamo solo nobili da feste e palazzi! Noi non siamo solo sciocchi saltimbanchi dell’alta società! Tu sai cosa siamo! – e queste esclamazioni probabilmente vibrarono tanto nella sua mente da farle assumere in un attimo tutte le caratteristiche dei Noah.
- Lo so! Certo che lo so! – scattai di nuovo, insofferente.
- Non potrai impedire in eterno che i due mondi collidano! Quello che è successo poco fa te lo sta dimostrando chiaramente! –
- Il patto che ho fatto con il Conte… - cercai di interromperla, ma lei mi bloccò con un gesto rabbioso.
- Che patto!? Tu poni fede in quello che ti dice!? In realtà gli hai offerto degli ostaggi per tenerti stretto a sé! – e i suoi occhi ormai gialli si chiusero in due fessure crudeli.
- Mi lascerà fare questa doppia vita e farà in modo di tenere gli akuma lontani da loro! E’ quanto ho bisogno! – commentai, risoluto.
- E tu credi che perderà tempo a tenerli sotto controllo!? Credi che sprecherà il tempo utile ad uccidere più umani possibile per difendere quelli che per lui non sono alto che bersagli!? –
Allora aspettò che rispondessi in qualche modo. Non lo feci. Non avevo argomenti convincenti, di nessun tipo. Mi limitai a ricambiare il suo sguardo, inerte.
Vivy sospirò, con profonda tristezza, e si sedette a fianco a me, incurante di poter sporcare il suo bel cappotto bianco.  
- Capisco cosa stai cercando di dire, Vivy… - dissi, istintivamente.
- No, non lo capisci. – commentò – Perché tu hai fatto la scelta che ti avrebbe permesso di essere felice. Non hai pensato a nient’altro – prese un difficile respiro affranto – Tuttavia, hai la vana speranza che questo servirà anche a loro, che in questo modo tu stia difendendo i tuoi amici dall’Apocalisse. Ma quando le carte saranno scoperte, se il piano del Conte avrà successo… Di quante persone avrai causato la morte per difendere le loro vite? Credi che questo sarà loro di aiuto? Il loro amico più caro si è macchiato dei sangue innocente per difenderli…da cosa? Alla fine, secondo il soggetto che il Conte ha scritto per noi, tutti gli esseri umani scompariranno… Toccherà anche a loro… Ogni cosa sarà stata inutile… -
Tacque per un istante e lasciammo che il silenzio riempisse quel vicolo quanto bastava per fare accettare ad entrambi questi bui pensieri.
- Però, davvero non so cosa avrei fatto al tuo posto, quindi… - soggiunse, infine, stringendo, ansiosamente, il bordo della giacca.
Io mi passai una mano tra i capelli ed estrassi il pacchetto di sigarette. Vivy sbirciò con un lampo di disapprovazione quel gesto, ma non disse nulla a tal proposito.
La prima boccata fu più amara e forte del solito.
- A volte mi chiedo perché proprio noi, marchiati da questo male crudele e nefasto, - e si guardò le mani di quel colore cadaverico che ancora le rendeva innaturali – saremo le uniche persone a salvarci… -
Soffiai via il fumo dai polmoni e sentenziai, senza guardarla: - Non pensarci. Quando sarà tempo…-
- Dimenticare il futuro, al quale abbiamo già dato il nostro consenso accettando di convivere con questo sangue oscuro, ti dà per caso sicurezza, Tyki…? – mi chiese. L’insinuazione mi punse come uno spillo, ma non ribattei. Aspirai ancora dalla sigaretta e dopo aver espirato una nuvoletta bianca, semplicemente risposi alla sua precedente affermazione:
- Ci salveremo perché non siamo più umani, Vivy… Era questo il patto… -
- Non è vero. – rispose, sicura – Tu oggi me l’hai dimostrato. –
Scossi la testa, respirando ancora una boccata.
Mi appoggiò una mano sulla spalla, quindi mi voltai a guardarla.
Sorrise, finalmente, e lentamente mi mostrò come i tratti tipici della nostra famiglia svanivano dal suo corpo: - E poi finché potremo fare questo e tornare al nostro aspetto originario, non saremo mai solo Noah… -
- Lo credi davvero…? – dissi, scettico, guardandola un po’ storto.
- Io si. E finora l’hai fatto anche tu, quindi non trattarmi come un’ingenua. – commentò, ricambiando senza alcuna esitazione la mia occhiata dubbiosa.
- Va bene… Mi arrendo… - sbuffai, buttando il resto della sigaretta poco lontano – Lasciamo stare… -
Mi alzai in piedi, seguito da Vivy, che mi prese per il braccio e si attaccò di nuovo a me: - Non lasciamo stare proprio nulla! Ora devi parlare! – esclamò, entusiasta.
Rientrammo nella folla della via centrale. Io mi limitai a calarmi di nuovo il cappello sulla testa al meglio che potevo.
- Di cosa…? – chiesi, con lieve disappunto.
- Come sta Iizu? Come si chiamano quei due uomini che lo stavano accompagnando? Sono tuoi amici, giusto? – chiese tutto d’un fiato.
Istintivamente mi misi a ridere: - Una domanda per volta, “Signora Suora”! –
- E’ vero che mi ha chiamata così! – esclamò allora – Si ricorda anche di me! E’ fantastico! Che bambino adorabile! – e gli occhi le si illuminarono di vera gioia.

Fino a che dovemmo rientrare a casa, camminammo sereni per le vie di Tubinga. Vivy mi assediò di domande sui miei amici e io le risposi, tranquillo, senza preoccupazioni. Ciò la rese particolarmente felice e non avevo bisogno di chiederle il perché. Credeva che questo fosse un sintomo significativo dell’umanità che ancora dovevo possedere. Non sapevo se questo avesse senso o meno, ma intuivo che questa illusione le avrebbe provocato ancora molti pensieri inutili nel futuro. E questo non era certo un bene, per nessuno dei due…

D’altra parte, in realtà, da quel giorno l’immagine del futuro che lei mi aveva presentato non poté che restarmi impressa a lettere di fuoco nella mente.
Quando avessero scoperto la verità, come avrebbero potuto reagire?
Probabilmente, Momo avrebbe preso a sbraitare e mi avrebbe aggredito, come minimo, maledicendomi per il male che avevo causato. Probabilmente, Frank non avrebbe detto nulla, ma avrebbe solo scosso la testa, gli occhi rivolti a terra, capendomi ma non potendo accettare ciò che avevo dovuto fare. Probabilmente, Iizu avrebbe pianto disperatamente, di fronte a quello che aveva sempre considerato il suo buon amico e che in realtà era un mostro omicida.
Sarebbe andata così.

E non potevo fare nulla per evitarlo, ormai… Se non autoconvincermi, come sempre, di aver fatto davvero la scelta migliore tra tutte quelle possibili.




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Chiedo scusa per la prolungata assenza di aggiornamenti...
La condizione di universitaria non è leggera quanto credevo, quindi sto sacrificando molte cose per tentare di IMPORMI di studiare come si deve...
In più questo capitolo non è stato esattamente una scampagnata... -_-

Spero di riuscire a mettere presto mano al nuovo capitolo!!!
Nel frattempo grazie a tutti coloro che hanno la storia tra i preferiti o i seguiti e a tutti coloro che leggono volentieri!!! ^^

Un enorme grazie ad Akure, che dopo essere stata lungamente stressata, ha cominciato la lettura!!!! XDDDDDD



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Capitolo 19
*** XVIII - My Only Trust ***


Capitolo 18

My Only Trust


“La paura non può essere senza speranza e nessuna speranza senza paura.”
(B. B. Spinoza)






Vibravo di fede e speranza, quel giorno.
Mi addormentai subito, cullata dal tiepido fuoco che mi avvolgeva anche meglio delle morbide coperte del mio ricco letto a baldacchino. Nella mia mente c’era la dolce immagine di quell’umano indigente, un po’ rude ma spontaneo e generoso, che per la prima volta riusciva quasi a surclassare quella del magnifico gentiluomo dal fascino misterioso che riempiva le mie giornate.
Vedevo Tyki in una catapecchia abbandonata, lontano dalle ricchezze di un mondo tentatore, ma affrancato dai sentimenti delle persone che lo circondavano. Vedevo Iizu corrergli incontro, sotto un sole tiepido che rendesse brillanti i suoi riccioli d’angelo e quegli occhi limpidi. Vedevo Tyki prenderlo in braccio e avviarsi con un sorriso, solo un po’ furbo e malizioso, ad una giornata di intenso lavoro fisico, snervante, terribile forse, ma tanto degno e necessario da avvicinarlo ancora un po’ alla salvezza.
La luce della sognata redenzione della persona che mi era più cara al mondo rischiarava il mio mondo, ancora una volta…
Un sogno che finalmente vedevo come non troppo impossibile e irraggiungibile, anche se ci sarebbe voluto del tempo e tanto sforzo da parte mia, l’unica persona che sperava davvero per un suo ritorno all’umanità…

Arrivò a quel punto, credo, lo spasmo d’ansia, seguito subito da una stretta al cuore.
Tutto sarebbe finito. La vita in comune in quella casa oscura, la vicinanza e la prospettiva che ci congiungeva e, non ultimo, il legame che ci era imposto e che avrebbe dovuto congiungerci per sempre…
Stringevo i denti e mi rigiravo nel letto nella vana speranza di spezzare quel senso di sofferenza e timore che mi stava annebbiando la mente.
Una tentazione demoniaca, certamente.
Perché io fin da principio avevo sempre e solo desiderato salvare quella cara persona dalle spire del Male. Nulla più. Avevo accettato il sangue Noah solo per questo. Vivevo laggiù solo per minare i piani del Conte dal loro interno. Questo era ciò che mi ero ripromessa per chiedere perdono a Dio del mio tradimento.
Non c’era altro, non doveva esserci nient’altro.
Eppure bruciava forte nella mia anima lo spasmodico desiderio di stare con lui. Mi tormentava come una spina nel cuore la sola probabilità che salvare la sua vita di uomo comune ci allontanasse per sempre. Senza l’obbligo del Conte, non mi avrebbe mai desiderata al suo fianco e soprattutto non per fargli sempre tornare alla mente una doppia vita che, a quel punto, gli avrebbe solo provocato rimorsi e tentazioni.
Avrebbe tagliato nettamente con tutto ciò che era stato il passato, me compresa.
Mi sentii fremere di rabbia contro la mia stessa debolezza e poi, subito, sorgere violenta la Paura. E sedare il Demonio, questa volta, mi sembrava impossibile.
Dovevo sperare in Dio, sperare che salvasse quella persona.
Avevo cominciato a perdere la mia anima e ora non sapevo più distinguere Bene e Male.
Dovevo volere il suo bene sopra ogni altra cosa… Quando ero diventata così egoista, Signore?
Lo amavo tanto, tanto da impazzire. Avevo bisogno di lui, ad ogni costo.
Prima lui, prima la sua vita eterna, prima il suo cuore salvato dalle nebbie oscure.
Non meritavo di soffrire tanto, non sempre così. Non ero una martire, non volevo esserlo.
Ma lo sarei stata. Qualcuno doveva farlo e ne valeva la pena per proteggere una vittima ignara.
Se mi amasse, se mi volesse con lui, cosa mi importerebbe del mondo?

Un incubo dopo l’altro, per tutta la notte. E per quella successiva.
La lotta tra gli impulsi più disperati si consumava nel mio sonno e non vedeva vincitore.
Avevo sbagliato a lasciare che passasse tanto tempo. Avevo finito per svilire la mia determinazione tra le mille e più tentazioni che mi circondavano.
Ma Tyki non era forse sempre stato la mia più invincibile tentazione?



- “Victoire cara!” –
Jusdero imitò il Conte tanto bene da farmi rabbrividire.
- Jassy, ti scongiuro… - sospirai, affranta dallo spavento appena subito – Smettila di allenarti con le imitazioni… -
- Allenarsi!? Guarda che ormai il mio gemello è il re dell’imitazione del Conte! – esclamò, Debit comparendo dal lato opposto del corridoio e avvicinandosi svelto a me, annuendo soddisfatto della bravura del fratello.
Mi limitai a sospirare. Sapevo cosa mi aspettava.
- “Vivy carissima! Come mai sei sempre così in ritardo per la colazione!?” – continuò imperterrito il gemello, posandosi una teatrale mano sul petto e sfoggiando un sorriso tanto largo da tendere all’inverosimile i fili di quel suo strano piercing.
- E questo non è nulla! – si esaltò Debit, con aria infingarda – Bisogna vedere anche Skin! – e, come un presentatore professionista, fece un ampio gesto del braccio indicando il teatrante al suo fianco.
Si scostò i lunghi capelli biondi dalle spalle e la sua aria allegra scomparve in un lampo lasciando spazio a un ghigno famelico: - “Non è… DOLCE! Perché!? Perché non è DOLCE!?” – e si scagliò contro Debit fingendo di strangolarlo per la rabbia.
- Caspita… Di certo reagirebbe così… - annuii e mi sforzai di sorridere. In realtà quell’atteggiamento iroso del nostro gigante di casa mi aveva sempre messo i brividi e anche vederlo imitato non mi metteva a mio agio…
Lieti degli elogi, si staccarono, probabilmente per dare inizio ad una nuova sceneggiata, ma non avevo nessuna voglia di vederla in quel momento, quindi approfittai subito della pausa.
- Avevate bisogno di dirmi qualcosa immagino… - cominciai, posando una mano sulla spalla di ciascuno dei due, per fermarli anche fisicamente dall’avviare un nuovo teatrino – Convocazione del Conte? – provai ad indovinare.
- No. – sentenziò netto Debit, scuotendo anche il dito a qualche centimetro dal mio viso, come per sottolineare quella negazione.
- Ha detto solo – si intromise Jusdero, reclinando un po’ la testa e stuzzicandosi il mento, come per ricordare qualcosa – di farti molti auguri per l’ultima prova di giovedì e per la prima di venerdì sera… -
Aggrottai lievemente le sopraciglia: - Perché mi manda a dire questo? E’ solo martedì… -
- Andrà via per qualche giorno. -
Tutti e tre ci voltammo sorpresi, intercettando subito gli occhi gialli di Road, apparsa quasi dal nulla all’inizio del corridoio dalle pareti nere. Il brillio inquietante di quelle iridi crudeli e quella sentenza perentoria mi impressero subito una pessima sensazione.  
- Come mai? – mi azzardai a chiedere, decisa a sfidare il suo sguardo ostile con la mia migliore tranquillità e moderazione.
- Ti interessa davvero saperlo? – chiese, con voce priva di inflessione, quindi, se possibile, ancora più terribile. Non acuta, non fanciullesca, ma vuota, oscura, senza tempo.
Strinsi i denti per non mostrare evidenti segni esteriori del timore che mi attraversava. Perché Road ora sembrava quasi voler incutere timore referenziale e, al di là del suo aspetto di bambina, ci stava anche riuscendo, purtroppo.
- Be’, noi andiamo… - commentarono quasi all’unisono gli altri due, passando cupamente i loro occhi da me alla mia interlocutrice. Nascondevano qualcosa.
- Perché? – chiesi, confusa da quel loro bizzarro tentativo di fuga.
Distolsero frettolosamente lo sguardo ed entrambi immersero le mani nelle tasche dei pantaloni aderenti, impacciati.
- Vi lasciamo parlare… - spiegò infine Debit.
- Non credo sia necessario… - tentai di dire, sconfitta evidentemente dalla Paura. Possibile che non avessi il coraggio di affrontarla da sola?
- Tanto dobbiamo chiamare Lulù… - ammise Jusdero, alzando solo per un istante gli occhi grandi e un po’ acquosi.
- Perché? – ripetei ancora, anche se non ero ansiosa di saperlo.
- Ci aveva chiesto di cercarti, perché voleva parlarti, ma a questo punto… - e Debit lanciò uno sguardo inquieto a Road che, serissima, si limitò ad annuire.
Non potei evitarmi di pensare che anche questo era un pessimo segno e non mi interessava se Road avesse intenzione di leggere anche questa mia oscura previsione. Sentivo già la sua mente premere violentemente per entrare nella mia e la rabbia tornava a mescolarsi soavemente con la Paura.

Anche quando i gemelli si allontanarono, la bambina non diede segno di voler parlare, ma in silenzio si diresse a passi leggeri nel salotto. La seguii altrettanto silenziosa, non sapendo esattamente né cosa aspettarmi né cosa dire.
Quando il portone scuro si chiuse con un tonfo, si sedette con grazia su una poltroncina viola e mi scrutò con la solita intensità da sensitiva.
Dato che la pazienza stava sfumando dal mio contegno, dopo aver deglutito cautamente ma silenziosamente, risposi a quella domanda di poco prima:
- In realtà normalmente non mi interesserebbe dov’è finito il Conte, ma dato che sembra che non me lo si possa dire, ora mi interessa… -
Quella affermazione ebbe almeno il merito di causarle una smorfia di fastidio. Certo meglio della precedente espressione vuota.
- Prepara una sorpresa. – sentenziò, cupa.
- Una bella sorpresa? – chiesi, tesa, per rompere il silenzio che sembrava voler riprendere il controllo di quella stanza.
- Si, certo. Di quelle che non si dimenticano. – rispose ancora, ma non c’era nulla di lieto nel suo volto. Tutti i suoi tratti, comprese le labbra sottili, erano tesi, pericolosamente sospesi sopra un fastidio accennato o, peggio ancora, un prevedibile scatto di ira.
Non sapevo quanto ancora potevo tirare la corda, ma non avevo scelta. Tacere non mi avrebbe aiutata a capirne di più o a combattere l’ansia.
Per nulla desiderosa di sedermi, cosa che invece di rilassarmi mi avrebbe fatta sentire in trappola, mossi qualche passo sospeso verso di lei.   
- Allora perché non mi sembri contenta? – chiesi, senza neanche tentare di mostrarmi innocente.
Il sottinteso nascosto in quella domanda era fin troppo evidente per lei. Perché se la sorpresa, evidentemente, era per me e me la preparava il Conte, non c’era davvero nulla di cui rallegrarsi, almeno per quanto riguardava la mia posizione. La piccola e diabolica Road, invece, in linea di massima avrebbe dovuto divertirsi da morire alle mie spalle. Il fatto che non lo stesse facendo mi incuriosiva quasi più di quanto mi atterrisse la notizia di un oscuro piano del nostro capo.
- Perché non sono d’accordo con lui. -
Sbattei gli occhi con stupore genuino. E la domanda sarebbe stata di nuovo “perché”, ma non me la fece neanche formulare.
- Il suo progetto è sbagliato, dall’inizio alla fine. Non ci credo per nulla. E ora sono stufa di nasconderlo. -
- Allora accordati con me… - dissi, d’istinto, senza ragionare neanche un istante su quello che le stavo proponendo.
Ecco, ero riuscita di nuovo a fare la figura dell’ingenua.
Un ghigno malvagio, il primo che le avessi visto fare in quel modo così inquietante, stravolse completamente il suo viso:
- E cosa ti fa pensare che questo comporti che siamo dalla stessa parte, “sorella”? -
Avvertii una dolorosissima fitta al petto e un forte formicolio di panico in tutto il corpo.
Ma non feci in tempo a pensare nulla, che la porta alle mie spalle cigolò, aprendosi.
Lulubell entrò nella camera con il suo solito piglio autoritario, ma con la minaccia scritta sul viso elegante. Cominciai a sperare di poter scappare, in qualche modo, subito, mentre il mio cuore perdeva l’ennesimo battito. La volontà di sapere si era spenta, sostituita velocemente dal desiderio di fuga.   
Road non mutò minimamente espressione, continuando a fissarmi, mentre la ragazza si posizionava al suo fianco, le braccia incrociate.
- Io sono dalla SUA parte. – specificò la bambina, come se la scena non fosse stata abbastanza eloquente.
- Quindi… ? – chiesi, ben sapendo che se avessi formulato una frase completa, la voce mi avrebbe tradita. Mi sentivo ghiacciare.
- Smetterò di fare finta di nulla, smetterò di compiere solo lievi gesti di dissenso e, infine, smetterò di fingere con te, Vivy. Da oggi siamo nemiche. – commentò Road, con una tranquilla alzata di spalle.
Per fortuna finalmente un po’ della mia presenza di spirito era tornata al suo posto, abbastanza da indurmi a prendere parte attiva all’assurdo momento che si stava svolgendo davanti ai miei occhi.
- Perché tutto questo…? – chiesi allora, guardando per abitudine sempre verso la bambina.
Ma la risposta arrivò da poco lontano.
- Perché ritengo che mi sia stato fatto uno sgarbo. -
Alzai lo sguardo per incontrare gli occhi gialli di Lulubell. Mi ricordai in quell’istante che probabilmente non avevamo mai parlato e che quindi forse non ci eravamo mai trovate faccia a faccia in quel modo. Eppure non aveva più importanza tutto quello che sapevo su di lei: il suo aspetto implacabile e rigido, la compostezza glaciale di ogni parola, la devozione da soldato con cui seguiva le indicazioni del capo-clan, la patina di perfezione che sembrava lucidare ogni giorno per mostrarsi, a detta dei gemelli che ogni tanto arrivavano a battere su quel chiodo, molto più devota alla causa di tutti gli altri Noah messi insieme.
Ora contava solo quello sguardo vivido, animato da una chiara e forte tensione d’animo, ma che sembrava pronto a mostrare ogni genere di emozione nella forma più prepotente e forte. Nelle iridi brillanti del colore diabolico e quasi tanto ardenti da rendere difficile fissarle, c’era solo odio, disgusto, astio. Rivolto a me, esclusivamente a me.
- Non capisco… - tentai di dire, scuotendo la testa per nascondere la verità: quella semplice occhiata sembrava incenerirmi e non riuscivo a sostenerla più di qualche istante.
- Oh, Vivy! – Road si intromise, con un’allegria contagiosa, nonostante l’atmosfera tesa che lei stessa era riuscita a creare – Non essere sciocca! Sono sicura che tu sappia perfettamente qual è il progetto del Conte per te, no? –
- Mi state parlando per enigmi… - borbottai a bassa voce.
- Lo stai pensando ora. “Vuole farmi diventare una degna Noah.” Brava, è vero. Ed è palese cosa sta usando per tentare di “corromperti”… -
Strinsi i denti perché altrimenti le avrei immediatamente urlato di uscire dalla mia mente. Il mio spirito combattivo stava tornando a vibrare nelle vene, ma la verità era che mi trovavo in una situazione di completa impotenza.
- Vedi, Vivy, io credo che non sia giusto usarti tutti questi riguardi. – sorrise ancora una volta di un ghigno crudele – Una spina nel fianco deve essere sradicata prima che faccia infezione. E’ vero. Ma urge cautela. Soprattutto se la si cerca di asportare con un bisturi. Anche il bisturi può fare molti danni, in mani non del tutto attente. E poi, se ci si fa male davvero, valeva la pena di preoccuparsi di un forellino, quando ci si è tagliati mezzo addome…? –
- Continuo a non capire la metafora… A parte il fatto che mi identifichi con una spina… - e una smorfia di fastidio probabilmente superò la patina di terrore.
- Non togliermi il divertimento facendomi svelare tutti i misteri… - e gli occhi le si ridussero in due fessure crudeli mentre il tono tornò ad essere poco più di un sinistro mormorio – Io non voglio che il Conte lo usi in questo modo. Non voglio gli succeda nulla. E’ ancora così instabile… E poi, non sono sicura che il dottore si renda conto delle conseguenze che può avere un qualunque gesto sbagliato con lui… Te l’ho già detto, no? Considero un bisturi molto più pericoloso di una generica minaccia. – mi rivolse una liberatoria scrollata di spalle – Tanto più che in molti casi il corpo espelle da solo le spine dalla pelle… -
Chiusi gli occhi, sperando per un istante di riaprirli in un altro luogo, in un altro mondo, in un’altra vita. Invece li riaprii sull’espressione ridente del piccolo diavolo che sedeva di fronte a me:
- Capito ora, Vivy? –
Mi sentii girare la testa, ma ebbi ancora la presenza di spirito di non scappare via dandogliela vinta. Non sapevo dove fosse esattamente nascosto il mio orgoglio, ma era un antro ben difeso dall’influsso della Paura.
- Non ti sto minacciando, comunque. Non ancora. Questo lo lascio fare a Lulù. – e rivolse un gesto alla ragazza ancora in piedi di fianco a lei.
D’istinto tentai ancora di guardare la mia nuova interlocutrice, senza molto successo. Feci in tempo, comunque, a percepire il lampo di muta soddisfazione che passò sul suo viso. Poi la sua voce fu dura e crudele, forse ancora più di prima, forse perché ora era cosciente di avere una qualche superiorità su di me:
- Ti è stato assegnato ciò che è mio. Ora ho dei doveri, ma appena mi sentirò abbastanza libera di agire, ti consiglio di non trovarti sulla mia strada. -
- Di cosa parli…? – chiesi al pavimento più che a lei.
Mosse due passi verso di me, obbligandomi mio malgrado ad alzare la testa:
- Il Conte mi ha dato un compito. Sono tenuta ad eseguirlo, ma anche ad interpretare le sue disposizioni, quando non sono del tutto precise. -
- Tu non ti faresti problemi a farmi del male…? – chiesi, osando una smorfia di scherno che però si spense subito.
- No. Non mi farò problemi ad ucciderti. Lui è MIO. –
E lo vidi, quello che mi era sfuggito poco prima, il motivo che stava alla base del suo odio e della sua stessa natura. La Lussuria folle, feroce, quasi animale. Un desiderio di possesso malato, degenerato e privo di scampo. E rivolto interamente all’arma che il Conte usava per comprarmi, al “bisturi” con il quale sperava di evitare che facessi infezione nella Famiglia, a colui che mi aveva assegnato al solo fine di ottenere la mia anima.
Rivolto all’uomo che amavo e che volevo al mio fianco…
Ecco allora, entrambe mi volevano lontane da Tyki, senza mezze misure, senza mediazioni, anche a costo di contrastare il Conte, che voleva unirci proprio al fine di inserirmi a viva forza nel mondo oscuro…
Road sapeva cosa speravo e non poteva accettare che il progetto del nostro capo-clan mi avvicinasse al suo “zietto” al punto che un loro ipotetico fallimento mi aprisse la strada a portare il mio amato via dalle tenebre insieme a me. Il gioco non valeva la candela e se io volevo fare la rivoluzionaria potevo farlo, ma da sola, senza osare trascinare nessuno con me. Questo era solo un avvertimento, certo, ma forse non ce ne sarebbero stati altri.
Lulubell, con quegli occhi di brace, era disposta a tutto. Se appena il Conte avesse allentato il guinzaglio che la legava per mezzo dei suoi ordini ben precisi, me la sarei ritrovata addosso, disposta a sbranarmi come una tigre, a costo di tenermi lontana dalla sua preda. Quell’uomo elegante e malizioso, lussurioso quanto bastava ad attirarla a sé, aveva fatto breccia nei suoi desideri ed ora non poteva essere altri che suo. Ad ogni costo…
- Con la mia sola esistenza vi ho rese mie nemiche… - sussurrai, volgendo la testa verso sinistra, alla bimba che sedeva ondeggiando le gambe sulla poltrona.
- Cominci a capire? Brava, ora sai. – sentenziò lei, netta.
Sentivo ancora gli occhi della più grande che mi fulminavano con quell’odio innaturale, ma, nonostante il fastidio che mi provocavano, la comprensione di ogni cosa mi rendeva a poco a poco più forte.
- E ora? Credi che mi inginocchierò ai tuoi piedi e chiederò perdono perché mi sento ancora una buona cristiana? Credi forse che sarò tanto impaurita da prometterti di smettere di lottare per ciò in cui credo? Credi che ti concederò il piacere di trattare chi amo come desideri? –
- Umh, ammetto che un po’ ci ho sperato… Ti facevo più intelligente… - rispose, sbeffeggiandomi.
Tuttavia, avevo finalmente ripreso coraggio, e, ignorando volutamente la provocazione, riuscii invece a contrastare apertamente colei che si trovava ancora in piedi di fronte a me. Mi dimostrai abbastanza risoluta da squadrarla con altrettanto disprezzo:
- Non permetterò a nessuno di competere con me. Se volete togliermi di mezzo, si, dovrete ammazzarmi. Ma dovrete riuscirci. Sono sopravvissuta a cose ben peggiori di una zitella isterica, comunque. Questo solo per avvisarti, Lulubell. -
Una lieve tensione della mascella mi fece intuire quanto si stesse impegnando per non scoppiare. Mi venne quasi da ridere: la donna lussuriosa stava tornando ad essere l’umile soldatino. E il Conte di certo non le aveva ordinato di squartarmi pezzo per pezzo, cosa che invece sembrava essere al centro dei suoi pensieri in quel momento.
- Riempiti la bocca parlando di lui come se fosse “tuo”, perché Tyki non è di nessuno. Io, che lo so, faccio del mio meglio e spero con tutte le mie forze di essere ricambiata. Perché io voglio essere “sua”, non accampare ridicoli desideri di possesso per limitare la sua libertà. E in ogni caso non mi farò da parte, non mi farò sconfiggere, non perderò contro di te. -
Feci solo un passo indietro, soprattutto per sottrarmi all’ombra della “gatta”, e rivolsi un’occhiata sferzante ad entrambe le mie avversarie:
- Se questo è quanto, me ne vorrei andare. -
- Vattene. – sentenziò Lulù, imponendosi poi di richiudere la bocca e voltarmi le spalle, prima di perdere definitivamente le staffe.
- Certo, per ora non c’è altro… Ma il divertimento comincia ora, è chiaro… - sorrise, tiepida, la bambina, con viso angelicato.
Uscii dalla stanza prima di rivolgerle la sberla per la quale mi prudevano le mani da alcuni minuti. L’unico gesto che poteva meritare una bambina così malvagia e magari poteva mettere a tacere per un po’ una creatura demoniaca.

Certo, che avevo Paura. Una terribile paura, tale da fermarmi il cuore. E avrei continuato ad averla e a sentirla crescere ogni giorno in più, nel dubbio perenne di essere ormai pronta a diventare la vittima designata della mia stessa “Famiglia”.
Ma se quella scena di intimidazione mi aveva dimostrato qualcosa, era che facevo bene a continuare a sperare. Perché la mia speranza aveva fondamento. Lo dimostrava ampiamente il modo in cui le altre due femmine di casa si erano sforzate di organizzare quello spettacolino al solo fine di fermarmi.
Solo a mente fredda ricordai quella stupida battuta dei gemelli: “Ma Lulù lo mette il dito…”. Avevo sbagliato a non darci peso, ma in fondo, cosa sarebbe cambiato? Di certo non potevo affrontarla apertamente per semplici insinuazioni, così come non aveva senso sperare che ciò avrebbe ottenuto qualche risultato. Non si poteva accampare una tregua o un’alleanza su un simile argomento, questo era evidente. Me o lei.
E improvvisamente non ero più certa che avrei davvero potuto vincere…



Dallas quasi saltellava, esaltato, nella mia direzione. Dire che fosse entusiasta probabilmente poteva considerarsi riduttivo.
- Victoire! Sono meravigliosi! Li hai già visti!? – mi investì, con un’allegria devastante, a pochi metri dall’entrata del teatro.
- Sono appena arrivata… - mi limitai a dire e cercai di superarlo sgattaiolando alla sua sinistra.
- Davvero! Non potevano farli meglio! La stampa è perfetta! L’incisione è divina! – insisteva, cercando a fatica di stare dietro al mio passo affrettato.
- Di cosa parli…? – chiesi.
Mi sentii prendere per il braccio: - Ma ti senti bene!? I manifesti della prima di domani! –
- Ah, quelli. – minimizzai, sottraendomi alla meglio dalla sua presa.
- Si può sapere cosa ti prende? Fino a ieri sembravi al settimo cielo, come normale, all’idea dell’opera di domani! – chiese, ora sinceramente preoccupato.
Perché se Dallas aveva imparato qualcosa di me, era che amavo il mio lavoro. Il resto continuava a sfuggirgli, soprattutto il fatto che continuassi a non aver alcuna intenzione di tradire il mio fidanzato con lui… Cosa che in effetti poteva irritarmi.
Nonostante il fatto che avesse allungato le mani per fermarmi non mi fosse piaciuto per nulla, era comunque evidente che la sua ansia per il mio comportamento era spontanea. Ma non avevo nessuna spiegazione da dargli…
Dovevo dirgli che la sera prima ero stata minacciata di morte da ben due demoni inquietanti e molto pericolosi e che la cosa mi lasciava ancora un po’ scossa? Dovevo dirgli che ormai ero quasi insonne da tre giorni, tormentata da un acuito conflitto interiore e, dopo l’esperienza del giorno precedente, dalla perenne sensazione di essere osservata e minacciata? Dovevo dirgli che avevo un disperato bisogno di rivedere Tyki, di essere sicura che lui fosse ancora dei nostri, una persona vera, e che non fosse già in pericolo di precipitare nel Piacere volgare che “la gatta” avrebbe volentieri aiutato ad alimentare?
- Sono solo un po’ stanca, Dallas… - mi limitai a dire, abbozzando un sorriso quasi credibile.
- Sarà… In questo caso, comunque, devi riguardarti… Vuoi che parli con l’impresario? Tanto sei già più che preparata per la rappresentazione. La prova generale è solo una simulazione e magari è meglio se la salti e ti riposi, almeno oggi. – chiese, apprensivo, muovendo una carezza melensa sulla mia guancia, gesto al quale risposi con una smorfia.
- Non è necessario. – conclusi, fissandolo con decisione.
Lui apparve imbarazzato di fronte al mio netto rifiuto delle sue cure e infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, distogliendo lo sguardo. Poteva fare tenerezza, è vero, ma si stava sbilanciando troppo nei miei confronti e non doveva permettersi di andare oltre il rapporto di lavoro e di amicizia. Quei gesti, invece, erano troppo accentuati ed evidenti da meritare solo un silenzioso rifiuto.
- Entra pure, Dallas… Ti seguo tra un attimo… - dissi, fingendo di aver visto, dall’altra parte della strada, qualcosa di interessante.
- Va bene, Victoire… - disse solo, leggermente irritato precedendomi a grandi passi nell’edificio illuminato.
Appena fu abbastanza lontano, emisi un lieve sospiro e mi aggiustai in un gesto meccanico i pettini che mi ero infilata tra i capelli. Altrettanto automaticamente andai davvero a guardare per un istante la vetrina opposta alle porte del teatro, ma non tanto per studiare le scarpe che vi erano esposte, piuttosto per scrutare la mia espressione. Proprio come immaginavo, sembravo un soldato pronto alla guerra: pupille dilatate, labbra serrate e tese, pallida e quasi livida dalla tensione. Come se non fosse bastato questo, la cipria e il fondotinta non coprivano in modo soddisfacente le occhiaie, che si distinguevano ancora, anche se non ci si poneva troppa attenzione. Sbuffai, questa volta con dispetto. Come si poteva fare finta di nulla quando l’aspetto parlava da solo?
In quel momento, un lampo brillante squarciò il cielo nuvoloso, seguito quasi subito da un rombo che, nonostante il segnale di avviso che l’aveva preceduto, mi fece sussultare. Già nel tardo pomeriggio il tempo si era fatto meno gradevole, ma nulla aveva fatto presagire una simile deriva, prima.
Non fui la sola a restarne turbata: tutti i passanti accelerarono il passo, soprattutto le dame dai lunghi e ingombranti vestiti da sera. La loro passeggiata serale stava probabilmente per essere rovinata da un bel temporale e i loro begli abiti ricamati erano in procinto di essere appesantiti, stropicciati e magari sporcati dalla pioggia e dalla fanghiglia che si sarebbe formata ai lati delle strade. Anche per loro, in fondo, le circostanze erano piuttosto sfavorevoli.
Non che la cosa mi consolasse molto dai miei problemi, ma era un inizio…

Attraversai la strada e entrai nel teatro mentre due inservienti stavano mettendo al riparo dal vicino acquazzone due grandi cartelloni che pubblicizzavano “La Carmen”.
Ricordando l’allegria di Dallas, mi attardai un istante a guardare i manifesti appesi ai due lati del banco della biglietteria. La sala d’ingresso era quieta, silenziosa, illuminata certo, ma di un lume artefatto, reso cupo dall’ombra nera che proveniva dall’esterno, dalle grandi finestre sulla facciata.
Ero concentrata squadrare la netta violazione alla richiesta mossa al mio datore di lavoro, quell’incisione enorme del mio busto che riempiva da sola metà del foglio pubblicitario e che io lo avevo pregato di evitare.
Per questo non udii i passi alle mie spalle, che probabilmente erano invece rimbombati pesantemente nell’atrio silenzioso.
Poi fu un soffio, viscido, strisciante come un serpente, osceno come una carezza volgare non richiesta e malvagio come una violenza perpetrata alla luce del giorno.
- Ecco la piccola strega… -
Non mi voltai. Non subito. E sbagliai, enormemente.
Solo che il campanello d’allarme fu tanto brusco da pietrificarmi e il riflesso che avrebbe portato chiunque a voltarsi subito verso un richiamo improvviso alle proprie spalle si spense in un brivido.

Una voce che sapeva di un passato da troppo tempo chiuso in un cassetto, ma indimenticabile. Il richiamo di un incubo, intensificato da quell’inflessione sadica e perversa che aveva assunto per quelle poche e semplici parole.
- Non mi ingannavo, dunque. La meretrice assetata di sangue… nemica del genere umano… rinnegata da Dio… -
Volevo voltarmi, ma non ci riuscivo. Più lo sentivo parlare, più la sua immagine fisica si mostrava ai miei occhi e mi impediva di muovermi. Insieme al flash inquietante del bianco di quelle vesti, rovinosamente macchiato di sangue…
- … la bella tentatrice… -
Pregai che sparisse. Soprattutto perché c’era qualcosa di ancora peggiore. Quel tono era stato ardito, autoritario, vanaglorioso, imperioso e disgustato, mai così volgare e roco.
In un istante, due mani si posarono sulle mie braccia e mi obbligarono a voltarmi.
E un lampo bruciante, congiunto ad un tuono potente, riempì la sala.
Era un uomo alto, robusto, dai radi capelli bianchi e dalla lunga barba ormai solo lievemente rossiccia. Una cicatrice passava sulla guancia, in una linea netta sotto il suo occhio sinistro.
Non volli incontrare il suo sguardo. Non volli mostrargli che avevo Paura.
- Ci rivediamo. Sei cresciuta, piccola strega. Anche più di quanto credessi… -
Un’inflessione acuta, rauca. Un’occhiata che percorse tutta la mia figura. Un sospiro e un mugugno di approvazione scosse lievemente la veste bianca, tesa sul petto.
Quelle mani pesavano ancora sulle mie spalle, inchiodandomi al suolo, ma cogliendo anche ogni mio piccolo tremito. Non potevo concedergli la mia debolezza…
- Voi siete invecchiato, invece… Invecchiato male, direi… - ribattei, dura, ma a voce tanto bassa da non risultare quasi udibile, contrastata anche dallo scrosciare intenso della pioggia, oltre i battenti ancora spalancati.
Combattere, dovevo combattere. Mi ripetevo questo verbo nella mente, ma ad ogni ripresa perdeva un po’ della sua forza.
E Padre Rouelle sorrise, scoprendo i denti marci e tutto ciò che le sue parole lasciavano solo intuire.
- Pungente e offensiva. Mi dovresti rispetto, ma non posso pretenderla da gente come voi. – rispose.
Però non si limitò a questa osservazione. Sporse il suo viso rugoso e insinuatore verso il mio, quasi a volermi rubare l’aria che respiravo già a fatica, quasi a ridurre ogni distanza e a imporre il suo controllo totale su di me. Mi sentii morire quando quelle mani violente scesero sulle mie braccia, scivolando verso il basso come una chiara minaccia.
- Ci sono poche cose che si possono pretendere da creature come voi… Del resto vi acconciate come donne affascinanti per predare gli uomini, no? Si vede che hai imparato da tua madre le vostre arti… Anche lei era una forte tentazione… -
Fu sentire nominare mia madre che improvvisamente mi riaccese.
Sgranai gli occhi e presi a divincolarmi, tirando finalmente fuori la voce:
- Non osate nominare mia madre! Voi, animale! Voi, dannato mostro! Uomo senza Dio! –
Appena avevano avvertito i miei tentativi di ribellione, le sue estremità si erano strette con più forza, quasi volessero spezzare i miei deboli arti. Ma quell’uomo rideva, sadico e per nulla intimorito. E non solo perché nella realtà dei fatti mi avesse davvero del tutto sotto il suo controllo…
- Urli? Vuoi chiamare qualcuno? – domandò, infingardo, attirandomi con uno strattone più vicino alla sua figura falsamente immacolata.
- Si! Lasciatemi andare! O vi faccio portare via! – urlai, ma con il tono incrinato dal terrore.
Una risata diabolica fu evocata dal frate. Un riso privo di gioia, animato da un divertimento comprensibile solo a chi amava vedere soffrire e sanguinare persone innocenti.
- Si, certo! – esclamò, ironico, per poi sussurrare vicino al mio orecchio, con un atteggiamento intimo che mi provocò un lancinante moto di disgusto – Così avrò una buona scusa per portarti via, proprio come era mia intenzione… E sai che ho l’autorità di farlo… - e si interruppe per un istante, per emettere un vago mugolio divertito – Forse non te ne sei accorta, piccola strega… No, piccola Villois… Ma il tuo vero aspetto di meretrice è affiorato sul tuo volto… -
La Paura era sovrana del mio corpo. La Paura era mostrata con i colori dei Noah senza che io potessi controllarla.
No, assolutamente. Non poteva essere.
Sentii da lontano il mio nome. Dallas stava correndo ad aiutarmi.
Ma non potevo farmi vedere così. Non dovevo…
- Lasciatemi! – gridai ancora, mentre i passi affrettati si facevano sempre più vicini.
Afferrai d’istinto le braccia protese verso di me e che ancora mi tenevano ferma. Ma non potrei spiegare cosa avvenne.
Per un istante vidi solo nero, profondo, intangibile. Nel momento in cui l’abisso riprese colore, Padre Rouelle mi aveva lasciata andare. E l’istinto fu allora più forte di ogni altra cosa. Anche se la gambe tremavano senza controllo, riuscii a mettermi a correre, più veloce che potevo, verso l’esterno, incurante del temporale.

Non andai molto lontano. Due isolati più avanti mi ritrovai malamente nascosta in un vicolo scuro, già bagnata fradicia e del tutto priva di forze. Mi coprii il volto con le mani e cercai di non pensare al potere oscuro che sentivo ancora scorrere sulla mia pelle. Pensai piuttosto alla pioggia che picchiettava sul mio abito e su ogni parte del mio corpo trovasse scoperta, senza tregua, aumentando sempre più la mia fiacchezza. Tentai di prendere fiato, soprattutto, ma la corsa mi aveva tolto quel poco di respiro che l’ansia di quell’orribile incontro mi aveva lasciato. La vista quasi mi si scuriva, come se l’apnea che non riuscivo a superare rischiasse di farmi perdere i sensi. Il cuore mi batteva troppo forte, sembrava volesse di consumare la mia stessa energia vitale e che presto si sarebbe trovato tanto stanco da fermarsi, per sempre. Appoggiandomi al muro, scivolai fuori dall’ombra e controllai che nessuno mi stesse seguendo.
Non avevo la forza di pensare, non riuscivo pensare a nulla.
Ora credo invece, che ci fosse molto su cui ragionare, immediatamente, per tentare di schiarirmi le idee. Per esempio, come quell’infido inquisitore fosse riuscito a trovarmi. Come fosse possibile che si ricordasse perfettamente il mio nome e cognome al punto da riconoscermi nella soprano di quel teatro così noto ma del tutto fuorimano.
Ma anche se avessi formulato quelle domande, ogni altro pensiero sarebbe stato scacciato da un solo improvviso, indelebile fatto casuale.
Non seppi mai come considerarlo, in realtà, ma sicuramente non un vero e proprio evento fortuito: era stato voluto e studiato. Ma Dio per aiutarmi? O dal Conte per tentarmi?

Proprio di fronte al breve vicolo nel quale mi ero rintanata e dal quale in quel momento stavo riemergendo, si trovava un locale rinomato. Subito dietro alla larga vetrata illuminata che dava sull’ampio corso, c’erano alcuni tavoli, ben visibili dall’esterno, soprattutto in una notte oscura come quella.
Presso una di quelle postazioni, sedeva un uomo affascinante che mai avrei potuto confondere con un altro al mondo.
Dal lato opposto, intenta in una piana conversazione, però, era accomodata una elegante donna dallo sguardo felino…
Lo scontro con la verità fu violento.
Il mio cavaliere era impegnato, non sarebbe venuto a salvarmi.



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Ehilà!!! Chi non muore si rivede!!! (E grazie a Dio non sono morta, quindi... XD)
Che dire, sono stati mesi piuttosto impegnativi e la mia mente ha sventagliato un po' ovunque...
Tranne che dove serviva una degna ispirazione per terminare l'opera cominciata... -_-
Quindi il capitolo che avete letto é stato un parto lungo, contrastato, che a lungo mi é sembrato uno scoglio che avrebbe chiuso per sempre l'esperienza con questo scritto...
Non é stato così per fortuna...
In questo senso, ringrazio infinitamente la mia Allieva, che non ha mai perso le speranze di vedermi riprendere in mano questo lavoro... ^_^ Thank you, my dear!!!

L'incontro a sorpresa è sempre stato nei miei piani (e in quelli del Conte, come immagino abbiate intuito), diversamente dalla scena "mafiosa" con Road e Lulu, che é nata in maniera abbastanza misteriosa in un momento di laspus (direi proprio così) di qualche mese fa, nel mio primo tentativo di rimettermi all'opera... Ma alla fine ci sta, mi sembra.
Del resto é anche vero che ho sempre voluto fare di Lulubel la rivale di Vivy... Per principio! XD

Per il prossimo capitolo, temo che l'attesa sarà lunghetta...
Non solo perché ho cominciato un'altra longfic (mi scuso molto), ma anche perché il tempo continua a non abbondare...
E nelle vacanze dovrò preparare un esame da dare a settembre...
Insomma, sarà un disastro... -_-

Però, ragazzi, aspetto recensioni, come sempre.
Perché chiaramente sono anche ciò che mi spinge a continuare a spremermi per scrivere qualcosa anche se tempo e ispirazione si assentano volentieri...
Quindi, se qualcuno ancora ricorda questa storia ed é stato felice di leggere la continuazione, me lo dica!!! Mi farà felice!!! ^_^

Bye-Bye!!!!


  

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Capitolo 20
*** XIX - Feelings And Desires ***


Capitolo 19

Feelings And Desires



“Chiunque è come la Luna, e ha una parte che non viene mai mostrata a nessuno”
(Mark Twain)






Ebbene, mi era stato chiesto di andare a prendere Vivy a teatro.
Non avevo fatto neanche in tempo a passare completamente il varco creato da Road, che mi ero ritrovato il Conte addosso. Un sorriso smagliante. Domande inutili, mentre mi bloccava la strada per la mia camera. Un’insolita voglia di vedermi uscire di nuovo e in gran fretta.
- E Lulù ti accompagnerà, va bene!? – chiese, con tanta allegria da togliere il fiato.
- Perché dovrebbe farlo…? – domandai allora, scettico.
- Perché glielo dico io! – fu la perentoria risposta e neanche il suo tono entusiasta smorzò in maniera rilevante il comando che vi era espresso.
Alzai gli occhi al cielo.
- Mi mettete in difficoltà... Io non ho bisogno di essere accompagnato… E lei non vorrà farlo… -
- Si, ti metto in difficoltà, lo so bene! No, io credo che tu ne abbia bisogno! E credimi, lei sarà ben contenta, alla fine! – sintetizzò il capo, annuendo convinto tra sé e prendendo autorevolmente il mio braccio, pronto a trascinarmi dietro, se fosse stato necessario.
- Lasciatemi… - sospirai, senza alcuna volontà a sostenere quell’esortazione.
Aveva già progettato tutto in anticipo. Non avevo possibilità di replicare. Proprio nessuna voce in capitolo. Tutto programmato per spedirmi alla stregua di uno chaperon. Fantastico. E la miseria che mi passava una tantum non era nemmeno lontanamente paragonabile allo stipendio medio per un mestiere simile…
- Bistrattato… - mi ritrovai a sussurrare, dando voce ai pensieri sulla mia situazione.
Non mi stupii che il Conte non tentasse neanche di replicare. Ormai era abituato a leggere le più pigre lamentele nella mia mente.

Nantes era coperta da una massa di nuvole nere da fare spavento.
Si preparava un bell’acquazzone ma, se non avessi avuto un impegno a cui presentarmi nella migliore dell’ufficialità richiesta e non fossi stato nella mia veste signorile, avrei volentieri sfidato il tempo e la probabile pioggia, quasi con la speranza, più che il timore, di finire bagnato fradicio. Con Iizu e gli altri lo facevo spesso…
E d’istinto, chiesi a Lulubell se le andasse di passeggiare e sfidare l’ormai prossima pioggia.
Fu un bizzarro momento di collisione tra i miei due mondi, me ne resi conto appena terminai quell’improvvisa domanda. Avevo parlato come se non ricordassi più chi avevo di fianco: la persona più formale e rigorosa che avessi mai incontrato. Certo, avevo reagito con quell’improvviso impeto anche per spezzare il fastidioso mutismo che aleggiava tra noi, oltre che per tentare di trovare un’occupazione capace di alleviare almeno per un poco le tre ore di attesa della nostra soprano. Detto ciò ero sicuro che una proposta simile non avrebbe mai potuto incontrare la sua approvazione.
Si girò prontamente verso di me e per un istante sembrò studiarmi con un’attenzione sovrannaturale. Mi stupì di quanta cura stesse usando nello scrutare la mia figura dalla testa ai piedi, come se lo facesse per la prima volta. Mi preparai a trovare una scusa qualsiasi per giustificare quella mia proposta fuori luogo, dato che sembrava sconvolgerla tanto.
Poi, vidi quell’espressione strana…
- A cosa stai pensando, Lulù…? – dissi ad alta voce, senza neanche rendermi conto di averlo fatto. Mi ritrovavo del tutto interdetto, come uno scienziato di fronte ad un fenomeno inspiegabile. E cercavo una spiegazione, anche se, seguendo il mio intuito, avrei potuto benissimo fare a meno di chiederlo a lei e domandarlo a me stesso…
- Per me va bene. – sentenziò, quieta.
Sollevai involontariamente le sopraciglia a quella inaspettata risposta. Ed ecco che anch’io mi ritrovavo a guardarla come se fosse la prima volta in vita mia.
- No, forse è meglio trovare riparo. – riformulai, frettolosamente ed indicai il locale dall’altra parte della strada.
Si limitò a seguirmi, in silenzio.

Qualcosa non quadrava. Avevo addosso una pessima sensazione.
Scrutavo fuori dall’ampia vetrata di fronte alla quale ci avevano fatti sedere i minacciosi bagliori che anticipavano di un nonnulla l’immediato rombo del tuono. Non aveva ancora iniziato a piovere, ma già quei segni dal cielo nero e tenebroso si susseguivano come colpi di tamburo.
Non avevo mai avuto timore del temporale, neanche quando l’avevo dovuto affrontare all’aperto, privo di alcun tipo di difesa. Anzi per certi versi mi aveva sempre divertito. Le persone che vedevo sfrecciare per strada, affaccendate a raggiungere la loro meta e il loro riparo prima dell’inizio della tempesta, erano di tutt’altra opinione probabilmente. Non potevo biasimarle, ad ogni modo: quei tessuti di ottima lavorazione rischiavano di perdere colore o di macchiarsi irreparabilmente con la fanghiglia ai lati della strada. Pensavo il contrario di quelle donne che quasi sobbalzavano ad ogni rombo sonoro e si facevano fare scudo dai loro accompagnatori, come se questi potessero combattere la natura. Un atteggiamento inutile, dettato dal solo desiderio di sentirsi rivolgere da questi qualche parolina dolce e di vederli ergersi a loro paladini. Quando non si ha il potere di fare nulla (e volevo proprio vedere come avrebbero evitato di venire colpiti da un fulmine), bisognerebbe tacere e basta, cercando piuttosto di trovare un luogo in cui nascondersi entrambi. Solo chi può reagire davvero dovrebbe poter pronunciare parola…
E poiché io, come tutti, ero del tutto disarmato di fronte allo scatenarsi della natura, avevo trovato un riparo per me e la mia accompagnatrice, come ogni umile essere vivente. Sapevo di cosa parlavo.
Comunque, non poteva essere il temporale all’esterno a farmi provare quella vaga insofferenza.

La cameriera dalla divisa rossa depose sulla tovaglia scarlatta due calici di vino color sangue.
I miei occhi corsero allora sull’intero ambiente che, nella fretta di entrare, non avevo degnato di molta attenzione. Tendaggi di velluto scorrevano sulle vetrate laterali, il bancone era coperto da una morbido raso, ogni inserviente portava una divisa specifica secondo le sue mansioni, il lampadario centrale era chiuso da un vetro resina che lanciava bagliori per tutta la sala. Tutte queste cose erano completamente rosse.
Guardai vagamente quella tonalità ridondante e me ne sentii un po’ soffocato. Come se qualcosa di inconcepibile con la ragione rimbombasse nella mia mente. Un formicolio, un sibilo, un remoto messaggio subliminale. Non lo capivo, comunque.
Che fosse quello a lasciarmi uno strano senso di inquietudine?
Sollevai di solo pochi centimetri il calice brillante e, con lievi movimenti del polso, feci dondolare quel vino di ottima qualità come un mare in tempesta, osservando le onde assassine lasciare per qualche secondo un alone carminio sulla superficie trasparente.
No, il rosso non mi faceva impressione. Il sangue non mi aveva mai fatto ribrezzo, anzi forse una parte di me lo amava fino alla follia. Se fosse stato il Piacere a vibrare in quel modo, poi, perché solo ora? No, non era questo.
Solo allora vidi con la coda dell’occhio il calice gemello al mio venirmi porto dalla mano sottile e curata di Lulubell.
Scosso dai miei pensieri, alzai lo sguardo.

I capelli biondi, per la prima volta sciolti in tutta la loro lunghezza, scivolavano liscissimi dalle spalle a incorniciare il decolté parecchio pronunciato. Non che non avessi già notato vagamente in precedenza come l’abito che indossava, rosso con inserti dorati, fosse eccessivamente fasciante e scollato per una signora per bene. O comunque come la lunghezza della gonna fosse quasi indecente, dato che lasciava scoperta non solo la caviglia ma quasi anche metà polpaccio. Però, con quell’ampia stola di ermellino che si era procurata e che aveva indossato fino a poco prima, non era stato tutto così eccessivamente evidente. Ora, invece, leggermente piegata sul tavolo per allungare il braccio nella mia direzione in una posa alquanto azzardata, evidenziava quanto fosse ardito quello scollo che quasi metteva in mostra l’inizio del seno. La collana d’oro, di fili sottili, ma molto grande, impegnava quasi tutta la parte scoperta del petto, scivolando a cascata dal filo stretto iniziale che segnava la curva del collo. Le labbra fini, in quel momento leggermente semiaperte, sembravano essersi rimpolpate improvvisamente, grazie al rossetto color fiamma che vi aveva applicato. Gli occhi, animati da uno strano e febbrile fremito, mi fissavano in un modo invitante e minaccioso allo stesso tempo.
Ecco, quella era la stessa espressione che aveva avuto poco prima e che non avevo compreso.
O meglio avevo preferito non farlo…
Una bella gatta era pronta a “giocare” con il suo topo.

Mi riscossi con notevole difficoltà dall’improvvisa consapevolezza di quella visione e i miei riflessi furono piuttosto lenti nel far tintinnare il mio bicchiere con il suo, rispondendo a quell’invito muto ad un veloce brindisi. Sperai che non l’avesse notato, ma ormai non potevo più avere certezze.
Quella che avevo di fronte non era la Lulubell che conoscevo.
A patto che io conoscessi in qualche modo quella ragazza, cosa che non era così scontata, dato il ben poco tempo che avevo passato finora in sua compagnia. In ogni caso, era irriconoscibile.
- A cosa abbiamo brindato? – chiesi, evitando per un istante di guardarla, nel tentativo di non sembrare così sconcertato come mi sentivo. Bastò cominciare a parlare, comunque, per apparire subito più sciolto. Del resto, non ero certo un novellino nell’arte della seduzione e ora che avevo scoperto le sue intenzioni potevo difendermi facilmente. A patto di volerlo davvero, chiaro.
- Ad una bella serata? –
Fu ancora una volta agghiacciante sentire un tono così vellutato e suadente da parte del serio soldatino del Conte. Tuttavia, la curiosità di scoprire fino a che punto si sarebbe spinta ebbe il sopravvento e un sorrisetto mi comparve sulle labbra.
- Nonostante questo tempaccio? – e feci un cenno alla vetrata.
- Non vedo perché debba essere un problema. – sentenziò, quieta – Del resto, te l’ho detto. Ti avrei seguito anche sotto il peggior temporale. –
- E’ vero. Non me lo aspettavo, devo dire. – annuii, studiando una ad una le sue espressioni – Però dopo mi sono ricordato che per un bel gatto la pioggia è quanto di peggiore possa capitare. -
Prese un altro sorso di vino e, una volta riappoggiato il bicchiere sul tavolo, si mise a giocare passando con finta non curanza l’indice smaltato di rosso sul bordo del calice. Un’altra scena di repertorio, ma sempre molto efficace, dovevo ammetterlo.
- Fai bene a parlare di gatti. – riprese, senza mutare l’espressione rilassata, ma fissando intensamente quel gesto che fingeva essere spontaneo – In quanto felini, hanno molti istinti feroci insiti in loro e un innato desiderio di scoprire le cose di persona. Non si tirano mai indietro. Quando hanno uno scopo, poi, diventano implacabili. -
- Quindi l’avresti presa come una sfida? Non voleva esserlo in ogni caso. – scrollai le spalle – Strano, comunque. Credevo che i gatti fossero soprattutto animali nobili, eleganti, amanti del benessere e della tranquillità. Non questi grandi avventurieri. –
- Quando sono allo stato selvatico, finiscono per essere più simili alle tigri che ai cagnetti domestici. A meno che tu non mi stia paragonando ad un innocuo barboncino. – e alzò gli occhi affilati come lame sul mio volto.
- Tu invece ti stai paragonando ad una tigre…? – commentai con una smorfia dubbiosa – E soprattutto, in che modo dovresti sembrare così selvatica? Vivi in una ricca dimora, partecipi spesso a serate mondane, hai sempre una perfetta manicure… -
Il dito smise improvvisamente il suo gioco e la mano aperta accarezzò con lentezza il calice. Dalle mie parole si era accorta che avevo osservato bene quel gesto e stava diventando più “persuasiva”.
Un punto per lei.
D’accordo, tacitamente riusciva a trasmettere i suoi messaggi subliminali. Ora volevo capire se vi riusciva anche a parole, dato che per ora sembrava preferire girare intorno ad ogni concetto.
- Non è importante sembrarlo agli occhi di tutti. Ma bisogna svelare quella parte che nessuno immaginerebbe mai esista solo a chi potrà apprezzarla. -
Appoggiai i gomiti al piano dalla tovaglia rossa e posi il mento sulle mani giunte. Il sorrisetto malizioso con il quale avevo accompagnato quel metaforico scambio di battute fu ancora più funzionale quando domandai: – Quindi qual’era il tuo scopo? Accompagnarmi in un luogo appartato per poi sbranarmi come una belva feroce? –
La prima espressione allusiva che avessi mai visto su quel volto compassato rispose prima di lei: - Perché no? –
Secondo punto per lei.
Le mie labbra si stirarono ancora di più trattenendo una vera risata: - Sensibile alla carne, eh…? –
- Come chiunque altro. O sbaglio…? –
Diventava sempre più carezzevole quella voce. Lo sguardo penetrante, che traduceva ogni sottinteso in un invito. Quelle labbra rosse che sembravano aver finalmente trovato la loro vera funzione in un’espressione maliziosa. Ecco la Noah della Lussuria nella sua forma migliore, dedicata al Piacere, che per sua natura non poteva che assecondarla in quel vortice di desiderio.
- Non posso negarlo. – risposi e non feci nulla per nascondere l’occhiata che percorse tutta la sua figura visibile.
Ormai giocavamo a carte scoperte, come in una sfida a poker nella quale entrambi scoprivamo lo stesso full di semi diversi: una piccola passione, un piccolo bisogno, una tentazione che condividevamo, rendeva automaticamente la sfida pari, ma poteva diventare un pericoloso precedente.
Lei, civettuola, prese a solleticare con le dita i fili dorati che scendevano sul decolté, per attirare ancora una volta il mio sguardo su quella parte così interessante della sua figura.
- Rivelami il tuo trucco. – dissi improvvisamente, non facendomi pregare nel seguire i gesti della sua mano – Come pensavi di sedurmi? -
- Credo solo che questo vestito diventi terribilmente aderente se bagnato. – e i suoi occhi affilati passarono lentamente dalle mie labbra al collo e più in basso alla stoffa bianca che si intravedeva sotto la giacca nera – Almeno quanto la tua camicia immagino finisca per apparire trasparente. Pensavo solo che a quel punto la natura, mia o tua, avrebbe fatto il resto. –
Già, sarebbe di certo andata così. Vestiti fradici, pelle bagnata ma rovente, baci umidi e non solo di pioggia, brividi e sospiri, istinto selvaggio incurante di luogo e momento…
Eppure… Avrei davvero preso l’iniziativa? Domanda stupida all’apparenza: non avevo mai rinunciato ad un’avventura di una notte, non avevo mai evitato di sedurre qualunque donna mi fosse apparsa desiderabile a costo di illuderla malamente, non contavo le situazioni limite in cui mi ero imbattuto nella ricerca di un piacere sfrenato... Lulubell che allungava una mano suadente sul mio petto, Lulubell che si slanciava sul mio collo o sulla mia bocca, Lulubell che si sfilava la stola di ermellino per sfoggiare curve ancora più evidenti e sfidarmi a non sfiorarla nemmeno con un dito… Vedevo lei agire con tutta la sua sfrontatezza appena scoperta e io seguirla come se ciò non fosse che inevitabile.
Presi in mano il bicchiere di vino e ne bevvi un lungo sorso.
Anche in quel momento mi sentivo bruciare e se mi fossi trovato in un luogo meno affollato e meno compromettente, sarei arrivato decisamente vicino al punto in questione. Impossibile non farlo dopo tutto quello che ci eravamo detti. Questa era facilmente l’idea che si era fatta Lulubell: divorarmi parte per parte in un luogo appartato, anche subito, meglio subito. Allettante, certo, ma c’era un problema… Non lo volevo davvero, non completamente, altrimenti sarei stato io a prenderla per un braccio e portarla dove il tutto poteva avere luogo. E qual’era il problema…?
Non feci in tempo a formulare un’altrettanto interiore risposta…
Quando alzai di nuovo gli occhi sulla mia compagna, inaspettatamente guardava fuori dalla finestra, gli occhi affilati a fissare con astio all’esterno, come un gatto intento a soffiare contro un nemico. O un rivale.
- Cosa c’é…? – chiesi, facendo per girarmi al fine di scoprire cosa avesse attirato la sua attenzione.
Una mano dalle lunghe unghie rosse artigliò il mio polso appoggiato al tavolo e lei si voltò prontamente, una vibrazione sinistra nel tono: - Prendiamo una sala appartata. Andiamoci subito. Ora. –
- Lulù, cosa… - tentai di chiedere, ma la stretta divenne ferrea.
- Se mi vuoi devi decidere ora! – esclamò a bassa voce accostando il viso il più possibile al mio.
Ero sicuro di cosa avrei risposto? La foga di quel comportamento richiamava la necessità di lasciarsi andare all’attrazione: non me la sentivo di negarne la forza bruciante. Eppure presi tempo e cercai di farlo distogliendo lo sguardo. Dirigendolo alla finestra.
Una persona lì fuori, bagnata da capo a piedi, visibile grazie all’ultimo lampione ancora ardente nonostante il temporale, che fino a poco prima non mi ero neanche accorto essere scoppiato con tutto il suo corredo di lampi e tuoni, fissava, come allucinata, il locale. O meglio proprio noi due che vi sedevamo. Quella era sicuramente Vivy.

Sgranai gli occhi a quella visione inaspettata e sussurrai, ancora incerto: - Vivy…? –
- Tyki! -
Quando, a quel richiamo, tornai a posare lo sguardo su Lulù, l’incantesimo che aveva su di me era svanito. Tutto ciò che era passato nella mia mente, non saprei dire per quale prodigio, era scomparso, lasciando il posto a domande che riguardavano la giovane soprano appostata in quel vicolo scuro. Cosa ci faceva lì? Perché non era alle prove? Perché non aveva un ombrello? Cosa le era successo per avere quell’espressione sconvolta?
Approfittando della mia esitazione scivolò dal polso fino alla mia mano, che imprigionò nella sua: - Non fare sciocchezze. Resta qui con me! – Non era una supplica, non era una richiesta, appariva come un ordine, un richiamo alla mia parte selvaggia.
Fallì. Senza esitazione mi sottrassi da quella presa e afferrai il cappotto e l’ombrello, deciso a raggiungere la mia promessa.

Nel tempo in cui aprii quell’utile strumento sull’uscio del locale, feci solo in tempo a vederla allontanarsi in fretta, attraverso quel vicolo scuro. La seguii con passo veloce, senza tuttavia capire perché stesse scappando.
Comunque, non andò lontano. La trovai nella traversa successiva, afflosciata contro la parete, tremante, che si stringeva addosso il cappotto fradicio. Mi dava le spalle, convinta forse che non l’avessi raggiunta. Mi avvicinai lentamente, quanto bastava per coprirla con l’ombrello, ma scelsi la tempistica peggiore che esistesse per metterle una mano sulla spalla, perché quasi contemporaneamente un lampo e un tuono suggellarono all’unisono quel contatto. Lanciò un grido acutissimo, isterico, e scivolò a terra, singhiozzando come folle. Io stesso mi spaventai parecchio e sobbalzai sul posto, riuscendo comunque subito a reagire.
- Vivy, sono io! Calmati! – esclamai, piegandomi sulle ginocchia per arrivare a sua altezza.
Allora, molto lentamente, voltò il viso verso di me. Prima, a quella debole luce non me ne ero accorto, ma il suo volto terreo come la morte mostrava cicatrici crociate, mentre gli occhi erano gialli e indemoniati. Era tanto bagnata da non lasciarmi distinguere le lacrime dalla pioggia, ma ero certo che stesse piangendo fino a poco prima, anche se, non appena intercettò i miei occhi, cercò di darsi un evidente contegno. I denti battevano lievemente, quando tentò infine di parlare: - Tyki… Sto bene… -
- Mi fa piacere. – commentai, ironico – Ma domani ti verrà la polmonite se starai ancora sotto la pioggia. – mi misi in piedi e le porsi la mano per aiutarla ad alzarsi – Andiamo al riparo. -
- No… Stai con… Lulù… Io vado a casa… - sussurrò, tremando tanto forte da sembrare scossa in ogni parte del suo corpo.
- E l’opera? E le prove? – chiesi, cercando di risultare quanto più posato riuscivo.
- Nulla… Voglio… andare a casa… - rispose ancora, scuotendo la testa, tesa.
- Cosa ti è successo, Vivy? – domandai allora, posandole una mano sul capo, sui capelli bagnati, ormai tutti appiccicati.
Non giunse nessuna risposta se non un brivido forte che le fece stringere ancora di più le braccia intorno al petto.
- Ti porto io a casa. – dissi allora, ancora una volta alla sua schiena, che non aveva smesso di rivolgermi dopo il primo, sfuggente, sguardo – Ma prima voglio che tu prenda qualcosa di caldo e ti asciughi un po’. Vieni con me, per favore? -
Di nuovo tacque ma si lasciò aiutare ad alzarsi da terra.
- Però prima devi far sparire i colori dei Noah, se no… -
Avevo intenzione di lasciare la frase in sospeso in quel punto, ma fu vedere i suoi occhi sgranarsi e le sue labbra tremare a farmi smettere di parlare. Solo panico fluì dalle sue parole sconnesse:
- Non… Ti prego… dimmi che… dimmi che non è vero… - si prese il volto tra le mani – Io… non riesco… Non ci riesco! – esclamò infine, con una Paura pulsante che perfino a distanza riuscivo a percepire nettamente.
Aveva perso il controllo del sangue Noah…? Poteva accedere davvero qualcosa di simile…?
- Ora stai calma. – la presi per le spalle con fermezza – Sei sicura di non riuscire a ritornare in te? -
Annuì, senza alzare il capo dalle mani giunte.
Insistere non avrebbe portato a nulla, contando quanto fosse sconvolta. Allora semplicemente mi sfilai il soprabito e glielo posai sulle spalle. Alzai il colletto per coprirle quanto possibile il viso ingrigito e le scompigliai frettolosamente la frangia annacquata per coprire alla meglio le cicatrici.
- Non si vede nulla. Ricordati solo di tenere gli occhi bassi e socchiusi quanto puoi. Appoggiati a me. Andiamo. – dissi, risoluto, passandole una mano intorno alle spalle per guidarla e coprirla con l’ombrello.

Lulubell se ne andò immediatamente. Quando entrammo nel locale era già in piedi, con la stola a coprirle parte dello scostumato abito. Non la fermai, anche se la cortesia avrebbe voluto che almeno le offrissi di restare, con la sicurezza che comunque non avrebbe accettato. Non fece caso alla mia mancanza, ma ero certo che avesse fulminato con vivo odio sia Vivy sia il mio braccio che ancora la avvolgeva. Accettò il mio ombrello e salutò entrambi con rigida cortesia, senza concedere neanche un’occhiata alla ragazza.
Chiesi ad una delle cameriere rosso vestite se poteva concederci una sala privata e portarci un tè caldo e un calice di vino rosso, oltre ad un paio di asciugamani.
Ci accompagnò ad una stanzetta illuminata solo da un candelabro posto su un tavolinetto di mogano, arredata all’orientale, anche se ancora con i più vari toni del sanguigno. L’addetta si chiuse i pannelli a scorrimento alle spalle prima di andare procurarsi ciò che le avevo chiesto.
Vivy prese a muoversi lentamente, ma quasi a scatti. Prima si tolse dalle spalle il mio soprabito e lo piegò sul bracciolo del divano rivestito di tessuto carminio, ricamato con aironi in volo e fiori di loto. Poi si passò una mano incerta tra i capelli scuri, tentò d lisciarsi il vestito verde per quanto la stoffa fosse scomposta dall’effetto bagnato, cercò di asciugarsi il viso con una manica del tutto fradicia…
- Per favore, siediti. – la invitai, indicandole lo spazio rimasto tra me, che avevo già preso posto, e il mio cappotto abbandonato nell’angolo opposto.
- Io… dopo… ora devo… - cercò di opporsi, senza trovare una scusa soddisfacente.
- Non c’è nulla che tu possa fare finché non arriva qualcosa per asciugarti e per scaldarti. Quindi, puoi solo sederti e calmarti. – risposi, risoluto.
Sospirò un po’ più forte e si sedette, rigida, con le braccia conserte. Meglio che nulla. Vederla ancora a lungo affannarsi per evitare di fermarsi e sentire scorrere la piena del panico mi avrebbe reso ancora più suscettibile di quanto già non fossi. Era la terza volta da dieci minuti che cercava di contraddirmi e, nonostante avessi imparato che dove non bastava un “per favore” aveva maggiore effetto una seria risoluzione, non avrei permesso che tentasse ancora una volta a prendere le distanze.
- Perché… non siamo… andati a casa…? – chiese improvvisamente, con voce spezzata dai tremiti.
- Perché sei sotto la mia responsabilità e non posso permettere che il Conte ti veda in queste condizioni. Prima devo essere sicuro che tu stia bene. – risposi, con la scusa più logica che avessi in mente.
Vera, certo, ma anche falsa. In realtà ero convinto che una volta tornati si sarebbe chiusa in bagno per farsi una doccia calda, sarebbe tornata frettolosamente nella sua camera, impedendomi di entrare con qualche pretesto, poi ne sarebbe uscita qualche ora dopo, se non proprio il giorno successivo, con uno dei suoi sorrisi concilianti e tutta l’intenzione di sviare ogni mia domanda sul tema. Non potevo premetterlo, dovevo capire cosa fosse successo.
Per quanto avrei preferito mille volte ammettere di essere meramente incuriosito dal suo stato, piuttosto che preoccupato, probabilmente le proporzioni delle mie sensazioni erano molto diverse. Mi chiedevo cosa avesse potuto ridurla a questo stato di sconvolgimento e Paura, tale da renderla del tutto indifesa e sofferente.
- Io… sto bene… - disse ancora, anche se nel farlo notai distintamente la brutta piega che assunse la sua bocca, quasi si rifiutasse di formulare l’ennesima bugia.
Stavo per ricordarle malignamente che in quel caso sarebbe riuscita a cancellare le cicatrici scure dalla fronte, ma l’idea di una sua nuova crisi isterica mi trattenne. Anche perché non era il momento di punzecchiarla, per nulla. Allora, cosa dovevo fare esattamente?
Il pannello di velina scarlatta si aprì per accogliere la cameriera con una pila di asciugamani bianchi. Ringraziai la prontezza di spirito che Vivy dimostrava di avere nonostante tutto: per evitare che la ragazza notasse quella sua stranezza, tuffò quasi la testa nel mio cappotto, fingendo di cercare qualcosa in una tasca. Tornò a sedersi compostamente non appena l’estranea uscì.
- Poteva anche portare tutto insieme, asciugamani e ordinazioni. – commentai, afferrando un telo perfettamente stirato e spiegandolo davanti a me. Glielo posai piano sulle spalle. Era il più grande dei due e poteva avvolgerle completamente spalle e petto. Passai piano le mani su quel tessuto, dalle spalle alle braccia, cercando di raccogliere almeno l’acqua che ancora impregnava la pelle e eccedeva nel tessuto lucido.
Lei non mosse un muscolo e mi lasciò fare, in silenzio, anche se la tensione stringeva le sue membra in una rigidità soprannaturale. Mi sarei sentito troppo un animale ad approfittare della situazione per continuare ad accarezzarla attraverso quel morbido mezzo. Non era proprio il caso né il momento per quei pensieri. Evidentemente stavo ancora degenerando, almeno mentalmente, dopo tutte le bizzarre esperienze di quella serata, per altro non ancora finita.
- Stringitelo bene addosso. – le consigliai, limitandomi ad avvicinare i due opposti lembi del telo perché se lo avvolgesse secondo suo gusto. Sfiorai involontariamente la sua pelle, gelata e scivolosa. Continuava a guardare altrove, come per un’incomprensibile vergogna e pudicizia.
Tutta quella sua eccessiva vulnerabilità mi rendeva strano. Da una parte ardito, dall’altra timoroso. Non in me di certo, proprio come lei sembrava lo spettro di se stessa.
Presi prontamente un altro asciugamano: - Vivy. – e sentendosi chiamare quasi sobbalzò, richiamata alla realtà fuori dall’incubo da cui era immersa – Dovresti asciugarti un po’ anche i capelli. –
Ancora non ricevetti risposta, quindi non mi sentii in dovere di chiederle altro.
Le sfilai, lentamente per non farle male, i pettini che la acconciavano e con le mani, non senza difficoltà, le districai i capelli neri, folti e leggermente mossi. Poi il massaggiai al meglio che potevo con quel tessuto spugnoso, dalla loro considerevole lunghezza alla cute delicata. Continuai anche quando sentii la maggior parte del telo umido, ipnotizzato da quel gesto a me stesso inconsueto e dalla strana accondiscendenza della mia fidanzata.
- Perdonate l’attesa! – intervenne la cameriera, prima ancora di entrare, cosa che mi permise di calare prontamente l’asciugamano sul capo di Vivy, che abbassò altrettanto in fretta la testa per nascondere i segni dei Noah, ancora visibili. La ragazza posò un vassoio scuro sul tavolo modanato e appoggiò le ordinazioni, poi ci esortò a chiamarla se avessimo avuto bisogno di altro.
Una volta che un delicato tonfo le segnalò la chiusura della stanza, Vivy si tolse il telo che l’aveva nascosta, ma si strinse ancora al petto quel tessuto che continuava ad avvolgerle le spalle, mentre si piegava sul basso tavolino per raccogliere la caraffa bollente e versarne il contenuto nella tazza. Notai con un po’ di disappunto il ticchettio provocato dai tremiti continui delle mani bianche. Presi un sorso di vino, prima di allungare istintivamente una arto per aiutarla a reggere la teiera, che sembrava prossima a fracassarsi a terra.
- Stai ancora tremando, Vivy. Non puoi negare di stare male. - osservai, trattenendo le sue dita tra le mie e il calore della porcellana – Devi dirmi cosa posso fare per aiutarti… -
Sapevo che la mia condizione di impotenza era perfettamente compresa in quella frase. Sapevo come questa rappresentasse una debolezza del tutto inaccettabile. Sapevo che comportarmi così segnalava una compassione che non dovevo neanche pensare di manifestare. Eppure stavo arrivando all’esasperazione.
Sentii, più che vederli, dato che erano ancora molto lontani dall’incontrare i miei, i suoi occhi riempirsi di lacrime, che però trattenne prontamente. Udii un solo lieve singhiozzo e poi sospiri ripetuti, per imporsi la calma. Non voleva piangere di fronte a me, evidentemente. Come se non immaginassi che anche lei avesse un lato sofferente, debole e sconfitto… Sciocca, pensai, in un istante di stizza, ma mi trattenni dall’intervenire.
Allontanai le mani e lei fu libera di sollevare il piattino, che però si alzava instabile, facendo tintinnare anche la tazza che vi era appoggiata. Sospirai, distogliendo lo sguardo. Non aveva senso che restassi lì, se si ostinava a non volere nessuno, a non volere aiuto. E l’amarezza che mi avvolse fu la sensazione più intensa che mi scoprii a provare.
- Non… mi puoi aiutare… - la sua voce era debole, lieve e fragile.
- Non puoi saperlo se continui a non volermi parlare. – le risposi, volgendo anche il capo lontano da lei, come se fossi un immaturo ragazzino offeso.
Prese un respiro affranto, che mi riempì di mestizia. Cercai di scacciare quella sensazione, segno dell’empatia che non potevo permettermi di avere, a nessun costo.
- Volevo… dimenticare… Voglio dimenticare… - sussurrò – E… non ci riesco… mai… -
- Cosa? – chiesi, cercando di apparire ancora distaccato, anche se sentirla finalmente pronunciare tante parole di seguito mi stava quasi svegliando dal letargo.
- Era lì… Quel volto… Quelle parole… Mi ha… mi ha toccata… Dio… -
- Chi? Chi era? – domandai ancora, voltandomi finalmente.
- Si chiama... Rouelle… Padre Rouelle… -
- Raccontami… - le chiesi, appoggiando una mano sulla sua, che teneva in grembo – Cosa vuole quel monaco da te? – e non potei evitare di mostrare tutta la mia disapprovazione di principio sulla qualifica di quell’uomo a me ignoto.
Quel contatto attirò i suoi occhi affranti su di me. Le labbra tese, arrossate forse dall’essere state a lungo mordicchiate nervosamente, si curvarono piano verso il basso, infelici.
- Lui… Ha catturato me… e mia madre… Ci accusava di… essere streghe… - spiegò brevemente, ma con dolorosa fatica – Io non so… Lui… Credeva che… i poteri… dei Noah… fossero… stregoneria… -
Aggrottai le sopraciglia: - Un inquisitore fuori dal suo tempo… - sentenziai, sentendo il disgusto per quella persona che neanche conoscevo crescere oltremisura - Anche tua madre è una Noah…? – domandai subito dopo, notando che lei sembrava  pronta a chiudersi di nuovo, a seguito della mia osservazione irriverente. Del resto il suo sguardo era tornato basso e distante.
- Si… Lei… Insomma… Quel tipo ha detto… che era la Follia… - rispose, scuotendo la testa, come per scacciare qualcosa di peggiore.
Rimasi un secondo in silenzio perché qualcosa non quadrava. Chi era “quel tipo”? Se il prete non sapeva neanche cosa fossero i Noah, chi era stato a riconoscere per tale la madre di Vivy?
- Di chi stai parlando ora? – chiesi allora, confuso.
Scosse la testa sempre più forte, come se non volesse prendere coscienza di quello che diceva: - Non lo so… L’hanno chiamato… Bookman… Non so altro… Però ha usato… quella cosa… Quel… cristallo… -
- Innocence…? – chiesi, io stesso abbastanza sconvolto all’idea di dover davvero usare quella parola, per la prima volta. In effetti aveva un suono molto fastidioso…
- Quando l’ha usata… la mamma… - sentii le sue mani artigliarsi in parte sulla mia in parte sul tessuto della gonna, mentre il silenzio sospeso lasciava intendere ogni cosa.
- Vivy… - cercai di intervenire, sentendola esitare.
- Ma è stato Rouelle ad ordinarglielo! Quel vecchio mi ha… mi ha salvato la vita, Tyki! – esclamò improvvisamente, come se mi avesse letto nella mente la disapprovazione per quella nostra misteriosa nemesi.
- Calmati, ho capito. Devi la vita a questo Bookman. – assentii, con una smorfia poco convinta.
- Lui mi ha protetta… Ha convinto… quel… demonio… Quello… credeva già… di vedermi… - il suo tono divenne improvvisamente stridulo - … diventare polvere… ai suoi piedi…! –
- Vivy… - tentai di interromperla ancora, questa volta alzando la mano deposta sul suo grembo e portandola a quel viso diretto a terra, sul quale vedevo luccicare il riflesso delle prime lacrime.
Fece resistenza per qualche istante al mio desiderio di guardarla, finché giunsi ad accarezzarle la guancia con maggiore delicatezza. La Paura regnava sul suo volto d’angelo, sporcandolo in un modo che solo io potevo accettare e comprendere. Questo mi rendeva anche l’unico che potesse aiutarla a liberarsi dal suo incubo.
- Scusa… - bisbigliò, come se quelle lacrime fossero un tremendo peccato.
- Non devi scusarti. Hai guardato negli occhi la parte peggiore del tuo passato, è normale restarne scioccati. – ma non riuscii a reprimere del tutto il dispetto che mi provocava la sua vergogna nei miei confronti e sentenziai, severo: – Non vergognarti di me. –
Trattenne un singhiozzo e si passò le dita sugli occhi: - E’ stato Bookman… a dirgli… che avevano ordinato… entrassi nel… convento… Non credo… fosse vero… Ma l’altro… non poteva opporsi… Ora… come ha fatto… a trovarmi…? – mi chiese, come se potessi spiegarle perché le fossero avvenute tutte quelle cose tremende.
- Non lo so. Doveva accadere e basta. -
Eppure sentivo una sensazione nota vibrarmi nella testa. Quel marchingegno che funziona solo quando qualcuno lo attiva, non può trovare energia che nell’accensione di un interruttore. Un meccanismo che solo un artigiano poteva far funzionare. Nell’ombra, nel silenzio. Aveva un nome, poteva averne uno solo…
Fu a causa di questo pensiero inquietante che mi distrassi. Altrimenti non avrei fatto un errore tanto clamoroso.
- Non sai nulla di tuo padre? – chiesi.
Fui ingenuo e stupido a parlare di qualcosa a cui lei, volontariamente, non aveva neanche accennato. Anche se non l’avesse mai conosciuto, sarebbe stata piuttosto fuori luogo come interrogazione. Oltretutto era assurdo toccare quel tasto dopo tutti i sottintesi che aveva lasciato sulla sorte della madre.
La sua reazione fu anche peggio di quello che avevo visto finora.
I suoi occhi divennero vitrei, mentre un orrore che non potevo immaginare si materializzava nella sua mente. Uno spasmo la attraversò e la Paura vibrò in ogni sua fibra. Faceva quasi male percepirne la manifestazione, tanta fu la sua forza in quell’istante. Si prese il viso tra le mani e cominciò a gridare. Gli urli ne uscivano soffocati ma riempivano la stanza con un lugubre rimbombo.
Scattai senza neanche accorgermene.
Le mie braccia la avvolsero con foga e concitazione, ma manifestando una naturale attitudine a quel gesto così raro. La strinsi più forte che potevo e una mia mano corse alla sua nuca, facendole appoggiare la fronte sulla mia spalla.
- Perdonami. Sono stato un idiota. Ti chiedo scusa. – dissi, sinceramente pentito della mia leggerezza. La cullai piano tra le braccia fino a che smise di gridare.
- Tyki… Io… - sussurrò, rauca, facendo per staccarsi.
- No, non dire più nulla. La colpa è mia. Tu resta qui fino a che vorrai. Sfogati. – la incitai, tenendo le braccia avvolte alla sua schiena scossa dai singhiozzi.
Allora si strinse altrettanto disperatamente a me, afferrando forte la mia giacca con le dita e immergendo il viso nella mia spalla, e prese a piangere forte, istericamente. Sentendola abbandonarsi contro di me, assunsi una posizione più comoda facendola sedere sulle mie gambe, i suoi piedi giunti a penzoloni del divano, e poggiandole la schiena al sedile e al mio braccio disteso, finendo per sostenermi contro lo schienale solo con la spalla a cui era accoccolata.

Non so per quanto tempo rimanemmo così prima che riuscissi a sentire il suo respiro regolarsi lievemente, anche se i singhiozzi ritmati persistevano. Il suo abito bagnato a contatto mi aveva inumidito il completo fino alla pelle sottostante, ma non mi importava. I bei capelli neri, sciupati dal tempo e dall’asciugamano, accarezzavano comunque con una certa grazia e gradevolezza la mia guancia e il mio collo. Il contatto della sua mano delicata con la nuca a cui si era aggrappata con tanta disperazione era qualcosa di tenero e inaspettato. Le mie dita accarezzavano pudicamente un corpo sottile e delicato, magro e desideroso di protezione, nonostante un palmo, nella nuova posa, non potesse arrivare che ad un fianco della giovane. Anche se l’acqua l’aveva diluito e svalorizzato, riuscivo a sentire a tratti qualche nota del suo profumo di pesca. Quella vicinanza, che in qualunque altra situazione mi avrebbe provocato solo pensieri poco casti, ora mi ammantava di una tenerezza inaspettata.
E quando un luogo imprecisato del mio inconscio diceva che non era questa la sensazione che mi si addiceva, lo mettevo a tacere beandomi di quella dolce figura che cercava in me una fuga dal suo spaventoso passato.
- Tyki… - mi chiamò, con una dolcezza flebile e candida – Ti ho bagnato tutto… Scusa… -
- Non importa. – le risposi, con i sensi intorpiditi dalla lunga posa pressoché immobile.
Staccai piano una mano dalla sua schiena per afferrare il calice di vino e berne un sorso. Anche lei si mosse: staccò le mani da me, ma solo per prendere a lisciare piano la spalla della mia giacca, ormai bagnata. Allora avvicinai lentamente il bicchiere al suo viso:
- Bevine un po’. – la incitai.
- Sai che sono astemia... – si lamentò lei, cercando di allontanarlo con un gesto.
- Si, ma un sorso non ti farà male. Anzi, proprio perché non sei abituata, potrebbe farti un buon effetto rilassante. – insistetti.
- Sei sicuro…? – chiese, lieve, ma lasciò che le accostassi infine il bordo del cristallo alla bocca. Permise solo un piccolo sorso prima di fermarmi la mano, che insisteva ad inclinare e versare.
- … E’… - cercò un momento la parola migliore - … Brucia… - commentò, infine, scontenta.
- Se brucia fa bene. – sentenziai, come se sapessi di cosa parlavo.
Posai nuovamente il bicchiere al suo posto, ma la sua voce mi interpellò prima che potessi avvolgerla di nuovo in quell’abbraccio, ormai tanto famigliare:
- Tyki… Ho ancora… - esitò un istante - … la Paura…? –
Le alzai piano il capo dalla mia spalla prendendolo tra le mani. Il volto era piuttosto roseo, le cicatrici lasciavano solo un delicato alone, ma le iridi erano ancora rapaci e diaboliche.
- Un po’… - minimizzai – Hai ancora gli occhi un po’ gialli… -
- Oh, no… E ora come faccio? – domandò preoccupata, mentre le lacrime si preparavano a scendere nuovamente.
- Non ti agitare. E’ peggio. Ci vuole solo un altro po’ di tempo per riprenderti. – conclusi, mentre il pianto bagnava le mie mani ancora appoggiate sulle sue guance.
- Non volevo che mi… vedessi così… Io voglio essere forte… - disse infine, dando voce a quei gesti che avevo io stesso interpretato poco prima.
- Non ne hai bisogno. Questo tuo lato più fragile, ora che lo conosco, non è più un punto debole. – sentenziai, serio, senza smettere di ricambiare il suo sguardo lacrimevole – Fidati di me. –
- Tyki… - intervenne, preoccupata.
Sapevo perché lo era, ma non potevo evitarlo.
Volevo eliminare quel monaco. Volevo cancellare quell’incubo dalla mente di Vivy. Volevo vedere il terrore nello sguardo di quel verme assassino, lo stesso terrore che instaurava nelle sue vittime. Volevo sentirlo implorare la mia pietà e poi, nella disperazione totale, abbassarsi a chiedere a lei quella misericordia che lui non avrebbe mai usato alla sua prigioniera. Volevo vedere quell’orrendo essere umano, quel violento uomo di Dio, pregare noi, segnati da un sangue diabolico, ma suoi unici giudici. Volevo sentire la soddisfazione di negargli ogni speranza.
Ucciderlo con queste mani. Ucciderlo macchiandomi del suo sangue infetto, ma provare la sensazione di infilzare quel corpo debole alla voluttà della violenza. Sentirlo agonizzare, mentre lo obbligo, con le sue ultime forze, a guardare negli occhi la donna che porterà sempre nell’anima il ricordo del male che lui le ha fatto. Ordinargli di chiederle perdono. E infliggergli infine la morte, la sua condanna, con tutto il Piacere che me ne sarebbe derivato.

Ricordai allora il discorso di Lulubell. Aveva deciso di svelare il suo lato segreto solo a me.
Poco prima Vivy era stata obbligata dalle circostanze a mostrarmi il suo.
Ora il mio mi appariva sul volto, inevitabilmente, con i tratti malvagi dei Noah, mentre mi inebriavo di quella deliziosa fantasia di vendetta.

Sorrisi a quel volto affranto e spaventato che stringevo tanto bene tra le mani: - Ti proteggerò da quell’uomo. Ti libererò di lui. Ad ogni costo. Con Piacere cancellerò quello schifoso da questo mondo. –
- Tyki, ti prego… No, non farlo… - sussurrò, spaventata, afferrandomi spasmodicamente i lembi della giacca.
- Credi che meriti tanti riguardi da parte tua? Non temere, ci sono io… - e seppi che ormai un ghigno carico di aspettativa per quel momento riempiva il mio viso.
- Non voglio che… tu uccida nessuno…! Promettimi che non ucciderai nessuno! – esclamò, liberandosi dalle mie mani.
Temetti per un secondo eterno che il suo animo immacolato si sarebbe ribellato al punto da allontanarsi del tutto da me. Temetti che a quel punto cominciasse ad avere Paura anche di me.
Invece, appena libera, si slanciò contro di me, cercando ancora riparo e sicurezza tra le mie braccia.
Poteva odiare quel mio improvviso desiderio omicida, ma non poteva negare che fosse tutto rivolto alla sua difesa. In quel momento, ero certo che avrei fatto di tutto per difenderla. Nel lato più insicuro e fragile del suo carattere non poteva che essermene, suo malgrado, riconoscente.


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Holà-Holà!|
Sono tornata ancora, sempre più drammaticamente in ritardo...
Mi scuso fin da subito con coloro che (magari) mi hanno aspettata al varco finora... Avrete fatto provviste per accamparvi lì nella selva più selvaggia per... 5 MESI... ò_ò

Ad ogni modo, quello che leggete é per l'80% il risultato del lavoro esclusivamente serale di queste ultime due settimane. Mi sono resa conto con disperazione che se non aggiornavo ora, non l'avrei più fatto probabilmente per questo intero anno, quindi ho cercato di non lasciare alla deriva questa fanfiction per un altro numero indefinito di mesi.
Devo dirvi che tre parole hanno rischiato di farmi impazzire in questo capitolo: nell'ordine, "mani", "occhi" e "asciugamano"... Non sapevo  più dove trovare sinonimi elaganti a questi termini... Quindi, se trovate ripetizioni (ma spero di no!) abbiate pietà... ç_ç
Come si suol dire, non si conosce mai abbastanza una persona.
Trovo sia indispensabile che Lulù sia anche così, una diabolica gatta morta. Altrettanto che Vivy non riesca sempre a combattere contro tutto e tutti, riuscendo alla meglio a nascondere i suoi incubi. Allo stesso modo, che Tyki senta in qualche modo quell'istinto alla violenza che é connaturato alla sua figura (anche se, in questo punto della mia storia, é ancora lontano dal diventare il diabolico persecutore di cui abbiamo tutti una chiara immagine).
Ecco, spero di non aver esagerato con le smancerie, soprattutto quelle compiute da lui, piuttosto contrverse rispetto alla sua figura tradizionale... Se vi sembra che l'abbia "rammollito" troppo, pensate che alla fine é  stata una strana serata anche per lui e non sapeva bene quello che faceva, ormai... ^^''''
Con questo, finisce il mio angolino, perché non so che altro aggiungere. u_u
Mi dispiace per l'attesa lunga che vi ho preannunciato, ma vi prego di portare pazienza: gli esami si preannunciano drammatici, questo trimestre... ç_ç

Grazie a tutti coloro che leggono, leggeranno, daranno un'occhiata, lasceranno una recensione (siate numerosi!)!!!
Grazie a tutti coloro che nonostante tutto non hanno ancora tolto questa storia dalle preferite e/o dalle seguite!!!

Lady Greedy = Oh, grazie per essere tornata a recensire! *_* Mi ricompari sempre sui gemelli, sarà un caso... XD Devo dirti che anch'io ho sempre avuto forti pregiudizi su Lulubell, ma a forza di cercare di parlare di lei, comincio a vederla come un personaggio normale. Certo, con questo, sarà sempre e comunque dal lato sbagliato della mia personale barricata... Eh, si... ^^

TriggerHappy = Dato che nel frattempo hai cambiato nick, ci ho messo un secondo a riconoscerti, ma ora ci sono, "ex-Bohemienne"!!! ^^ Spero di non trovarti eccessivamente languente, dato il tempo interminabile che ho lasciato passare... Mi dispiace, ma i miei trip mentali mi hanno condotta altrove per un po' e l'università ha fatto il resto... Grazie perla comprensione!
Come vedi bene anche da questi messaggi, il "puntini-puntini" é un mio vizio. Mi sto sforzando di rimediare, comunque, e appena avrò un po' di tempo, cercherò di dare un occhio ai vecchi capitoli per minimizzare l'effetto. I puntini abbondano anche in questo capitolo, ma era l'unico modo che avevo per cercare di mostrare chiaramente le interruzioni e i tremiti di Vivy. Ad ogni modo, ti ringrazio molto per la segnalazione!!! Spero che questo capitolo ti piaccia!!! ^^


Loveless_ = Ti ringrazio da subito per la preferenza e l'apprezzamento di Vivy!!! *_* Non finirò mai di inneggiare a tutti coloro che apprezzano il mio personaggio originale, nonostante tutte le sue fisime e il suo stile melodrammatico! Grazie mille!!!
Il potere di Vivy... dunque... *pensa* ò_ò ... verrà fuori più avanti... Decisamente più avanti... In effetti devo ancora definire un paio di cose al riguardo, ma qualche tempo fa ho avuto l'illuminazione che mi é servita per quella scena del capitolo precendente. Se non cambierò idea in futuro, quello che si può intuire di quel passaggio non é che un frammento del potere che le voglio assegnare, ma é ancora tutto da specificare. E poi, anche se avessi vere certezze, non credo potrei fare questo spoiler colossale... Ad ogni modo, la tua curiosità verrà appagata: ti ci vorrà parecchia pazienza con me, ma non disperare!


I Am NOT = Aiko, ti ringrazio molto per la recensione e la preferenza!!! XD  Tutti questi complimenti al mio modo di scrivere mi commuovono sempre (soprattutto in questi casi, quando, cioé, ho dato di sclero per tentare di dare una forma un po' lineare all'intricata mentalita di Tyki e ai miei random mentali, uniti insieme in un minestrone di follia... ò_ò)!!!
Devo dirti che, incuriosita, ho dato una scorsa alla tua storia, ma la scarsità di tempo non mi ha permesso di leggere tutto, se mai di farmi giusto un'idea. Quando riuscirò a fare le cose per bene, ti lascerò volentieri un commento! ^^ E ti saprò dire se vedo davvero l'ipotetico plagio di cui mi avvisi preventivamente... Per quello che ho potuto vedere in uno dei capitoli che avevo aperto a campione, non devi farti questi problemi! L'idea di Tease é decisamente diversa e originale, basta questo direi, poi le situazioni possono essere simili, é inevitabile! ^^
Spero ti piaccia questo capitolo e ti ringrazio anche della pubblicità che mi hai fatto!!! XD




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