The Best Part Of Me di May90 (/viewuser.php?uid=52043)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Remember the time... ***
Capitolo 2: *** I - My dear Sister ***
Capitolo 3: *** II - Fear ***
Capitolo 4: *** III - The Soul dies ***
Capitolo 5: *** IV - Songs from Paradise ***
Capitolo 6: *** V - The new way ***
Capitolo 7: *** VI - Remember and forget ***
Capitolo 8: *** VII - I Don't Care ***
Capitolo 9: *** VIII - Back Home ***
Capitolo 10: *** IX - Friends And Family ***
Capitolo 11: *** X - Carmen and Tosca ***
Capitolo 12: *** XI - White Roses ***
Capitolo 13: *** XII - Taboo Subjects ***
Capitolo 14: *** XIII - Lights Of The Night ***
Capitolo 15: *** XIV - Talk To Me ***
Capitolo 16: *** XV - I'm The Teacher ***
Capitolo 17: *** XVI - The Party ***
Capitolo 18: *** XVII - Unlucky ***
Capitolo 19: *** XVIII - My Only Trust ***
Capitolo 20: *** XIX - Feelings And Desires ***
Capitolo 1 *** Prologo - Remember the time... ***
Prologo
Remember
the time…
...
Tutte le storie
hanno un momento di svolta, almeno uno, perché gli
spettatori non perdano il filo e non si annoino. Se la mia vita fosse
stata solo quella che avevo prima, non sarei stato neanche un
personaggio, ma solo un’ombra di passaggio sul palcoscenico.
Un giovane, umilissimo operaio non avrebbe mai avuto modo di emergere
nel mondo. A quei tempi un po’ mi pesava. Ero un ragazzino
allora, pieno di sogni di gloria e onore, speranzoso di lasciare il
dietro le quinte e salire sul palco.
Con il tempo mi
ero anche abituato alla mia vita normale. Certo, la fatica, le
difficoltà, i momenti brutti non mancavano mai. A volte
sognavo ancora di andarmene, avere quel dannato colpo di fortuna che
per tutta la mia vita mi aveva evitato strenuamente.
Non sapevo che
l’impresario sarebbe giunto presto con la qualifica che tanto
aspettavo. Il prezzo di una parte da protagonista nello spettacolo era
decisamente alto. All’inizio sembrava bastare il mio sangue.
Poi ce ne volle altro, molto altro… Perché
nessuno mi aveva avvisato prima che avrei dovuto interpetare
l’antagonista…?
Ma è
arrivato il momento di parlare fuori metafora.
E’ vero,
io volevo superare la mia condizione di reietto della
società. E’ vero, con il tempo stavo
riconsiderando la mia situazione, grazie all’aiuto di alcuni
amici e di un po’ di tranquillità. E’
vero anche, però, che non ho mai scelto di diventare un
mostro. Il mio sangue aveva deciso per me.
E’ vero,
l’ho accettato senza troppi scrupoli. E’ vero, mi
divertiva avere due vite diverse insieme. E’ vero anche che
non possedevo più una coscienza capace di cogliere la
verità dietro l’esaltazione del male.
E’ vero
che non merito la possibilità concessami…
E’ vero che non merito alcun tipo di pietà e
comprensione… E’ vero che non merito il ruolo che
posseggo, che dovrebbe essere occupato da una persona migliore di
me…
E’ vero
che non merito lei e la sua grande comprensione per me…
Ma non si tratta
di una conseguenza. E’ stata lei a dare origine a tutto.
E’ stata lei a salvarmi.
Prima mia
salvatrice, poi regalata a me come un dono, poi troppo lontana per
poterla mai raggiungere davvero… Sembrava dover finire tutto
subito come era iniziato… Lei aveva scelto, ci era riuscita,
era salva… Eppure non sopportava l’idea che i miei
occhi restassero ciechi alla verità. Lei è stata
l’angelo mandato a salvarmi… Tuttora sono convinto
di questo…
---------------------------------------------------------------------------------
...
Ero felice.
Il mio cantuccio
era piccolo e comodo. La mia fede era più salda di qualunque
altra cosa. Vivevo per me stessa, per ciò che avevo scelto,
per la vita che avevo voluto e questo sembrava bastare…
Eppure avevo un
grave difetto. Irrilevante per l’ambiente in cui stavo, ma
gravissimo per quello che dovevo rappresentare: la carità,
la gioia, l’amore. Avevo un’enorme paura degli
altri esseri umani. Un terrore folle, ricacciato forte nel cuore grazie
alla vita solitaria che conducevo. Ma era lì, sempre in
agguato.
Proprio per questo
sono certa che, il giorno in cui aprii la porta a quel ragazzo e lo
aiutai istintivamente, qualcosa avesse operato in me… Mi
avesse guidato, mi avesse convinta, mi avesse influenzata…
Allora non capii fino a che punto la mia anima fosse stata
toccata… Ci sono cose che si possono percepire per intero
solo a posteriori e che solo dopo ci fanno comprendere come qualcuno
segni la nostra strada e ci porti a percorrerla, ignari e per questo
più deboli, ma anche più umani…
Poi, il colpo di
scena. Il risveglio del sangue. Qualcosa di insopportabile, irrazionale
e selvaggio. Tale che non poteva essere il destino scelto per me.
Cercavo di ragionare, capire. Se davvero ero nata con quella
maledizione, perché ero sempre stata tanto legata a Dio?
E poi,
lui… Io ero sua di diritto, così era stato
deciso, e io ne gioivo, come della prova che tutto ha un senso e forse
lo aveva anche la mia presenza là. Ma lui era insondabile.
Incomprensibile. A tratti contraddittorio. Volevo restare con lui, con
tutte le forze, ma dovevo anche scegliere…
Ciò che
infine avevo deciso, non riusciva a cambiare nulla… Lo amavo
tanto e ne soffrivo fino in fondo all’animo. Per questo avrei
fatto qualunque cosa per salvarlo dall’abisso del
male…
Consiglio: probabilmente se leggerete solo fin qui non vi
piacerà... Questo prologo lascia un po' troppi misteri in
effetti... Andate avanti almeno fino al secondo capitolo... Potreste
sempre cambiare idea...
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Capitolo 2 *** I - My dear Sister ***
Capitolo 1
My dear Sister
“Si
corre lo stesso rischio a credere troppo che a credere troppo
poco.”
(D.
Diderot)
I momenti precedenti alla scoperta della mia attitudine ai ruoli
principali e all’incontro con il mio
“impresario”, con quello strano essere che tutti
chiamano Conte, li ricordo solo vagamente.
Da quello che ne so, ho sempre lavorato. Anche parecchio, con fatica e
difficoltà, in ambienti impossibili, in condizioni disumane,
ma con la forza di chi deve mangiare e può farlo solo con il
sudore della fronte. Un bambino semplice e davvero infelice. Ma non
certo un eroe o una vittima, solo un triste caso della sorte, pensavo.
Poi c’è uno spazio vuoto. Ricordassi almeno come
ho incontrato Frank e Momo… Non ne ho idea… Ma
credo che mi abbiano avvicinato un po’ per lo stesso motivo
per cui io ho cercato di proteggere Iizu… Un bambino
piccolo, solo e abbandonato a se stesso faceva tenerezza,
credo… Soprattutto poi se non ha altro modo di sopravvivere
che faticare in lavori umili e pesanti come quelli degli
adulti…
La vita con loro divenne migliore. Ho degli ottimi ricordi di quei
momenti di vera amicizia. Furono i miei amici i primi a farmi sentire
una persona. Per questo associai a loro la mia sola famiglia.
Poi trovammo il piccolo Iizu… Loro dicevano che assomigliava
moltissimo a me, solo che non aveva la mia stessa testa calda e fisico
da minatore. Era piccolo, minuto e molto più debole di
salute. Riuscimmo addirittura a non farlo più avvicinare al
lavoro e alla fatica e cominciammo a mantenerlo con il nostro
stipendio. Non ci pesava, anzi, ci appariva una vittoria: stavamo
proteggendo un bimbo dalla sofferenza.
Quando pensavo alla mia situazione vedevo solo un uomo, quando guardavo
Iizu vedevo qualcuno che meritava di essere difeso da quel
mondo… A quei tempi ero ancora una persona vera…
Poi è di nuovo tutto vago. Solo un episodio spicca ancora
tra tutti. Lo ricordo come se fosse ieri.
Iizu si era ammalato ma aveva cercato di nascondercelo, come al solito.
Alla miniera era un periodaccio: dato che il padrone non aveva ancora
trovato il giacimento che cercava, ci aveva dimezzato lo stipendio,
già bassissimo. Eravamo di pessimo umore, ma non potevamo e
non volevamo licenziarci, per paura di dover di nuovo girare a vuoto e
aspettare di trovare un nuovo posto. Per questo probabilmente aveva
ancora più paura a mostrarsi malato, o forse fummo noi ad
essere troppo occupati a pensare al nostro sostentamento per
accorgercene da soli.
Un giorno, però, quando suonarono per il pranzo, non lo
trovammo. Andai al suo letto e cercai di svegliarlo. Continuai a
scuoterlo, ma non reagiva in alcun modo. Aveva la febbre altissima e
sembrava delirare.
Eravamo completamente nel panico. Noi avevamo solo una minuscola
cassetta del pronto soccorso e nient’altro. In miniera non
c’era di certo nessuno avesse medicine o qualcosa di utile
per curare un bimbo. Dovevamo assolutamente cercare qualcuno in
città, che per fortuna non distava molto.
Presi in braccio Iizu e mi allontanai di corsa. Gli altri volevano
seguirmi ma li obbligai a restare: lasciando il mio posto
all’improvviso avrei certo perso il lavoro, ma almeno loro
sarebbero riusciti a guadagnare abbastanza per permetterci di
sopravvivere.
Arrivato all’ospedale sperai di trovare un minimo di
assistenza, ma mi guardarono storto e chiesero senza mezzi termini se
potevo permettermi di pagare. Mi ribellai, sbraitai, mi offrii di fare
tutto per ricambiare le attenzioni rivolte al piccolo. Nulla. Rabbioso,
ma sempre più preoccupato ed agitato, bussai a tutte le case
dei dintorni, ma nessuno mi offrì aiuto. Disperato, offeso,
frustrato, con il mio amico che tremava vistosamente tra le mie
braccia, arrivai fino ai confini della città. Quando mi
trovai di fronte ad un edificio stranamente enorme, non mi feci
domande, ma angosciato bussai con tutte le mie forze, a lungo. Il
silenzio totale sembrava provenire dall’interno, ma continuai
imperterrito, senza arrendermi.
Solo dopo molti minuti, si aprì un piccolo spioncino
attraverso il quale due occhi verdi sospettosi si posarono su di me.
- Vi prego! – urlai nel panico – Vi prego, sta
male! Aiutatemi! -
Ma subito, il piccolo foro si richiuse con uno schiocco.
Sapevo di non essere per nulla rassicurante per il mio aspetto povero e
sciupato: i capelli mossi spettinati, pieni di polvere a coprirmi parte
del viso, la carnagione pallida di chi lavora alla luce delle fiaccole,
i vestiti sudati e laceri e gli occhiali finti, inventati un giorno per
scherzo con due fondi di bottiglia ma che da allora tenevo sempre
addosso, anche perché decisamente utili a proteggere gli
occhi durante il lavoro. Però una cosa simile non potevano
farla. Non potevo sopportare di ritrovarmi di nuovo una porta sbattuta
in faccia. Come poteva non far pena a nessuno quel povero bambino
malato? Come potevano ignorarci così?
- Ma che razza di persone siete!? Non vi vergognate!? Lo lasciate
morire così, maledetti!? -
Il rumore delle mie urla coprirono lo sferragliare della serratura.
Sulla soglia apparve una suora dal velo e dal lungo abito blu che senza
dire una parola mi tolse di mano Iizu e mi fece il cenno velocissimo di
entrare. Fece poi scattare in fretta e furia la chiave nella toppa e
prese a correre senza fare alcun rumore per il lungo e scuro corridoio.
Le stavo dietro a fatica, attento a non far scricchiolare le scarpe
usurate sul pavimento di pietra. Giunti di fronte ad una anonima porta,
mi fece entrare per primo, poi lanciò uno sguardo inquieto
da una parte e dall’altra prima di richiudere
l’uscio.
Ci trovavamo nella sua cella. Era spoglia, ma accuratamente pulita.
Appoggiò il bambino sul suo letto e lo coprì con
cura con tutte le coperte che riuscì a trovare. Poi
tirò fuori la sua bacinella piena di acqua e un fazzoletto
candido. Mi lanciò uno sguardo scuro e mi mise in mano il
pezzo di stoffa, poi per la prima volta mi rivolse la parola, con
asprezza: - Allora, volete darvi da fare!? Bagnatelo e passateglielo
sul viso! –
Poi, con un sonoro sbuffo uscì velocemente dalla stanzetta.
Io rimasi basito, ma feci come mi aveva ordinato. Iizu tremava ma la
sua pelle scottava…
Dopo lunghi minuti, tornò trafelata, in mano vari barattoli
di quelli che sembravano decotti, infusi e simili. La osservavo senza
parlare. Si comportava come chi si trova suo malgrado a fare qualcosa
che in realtà non vorrebbe, con irritazione. La cosa mi
faceva arrabbiare moltissimo, ma dato che sembrava volesse aiutare Iizu
mi trattenni e seguii le sue istruzioni.
- E’ chiaro!? Dovete fargli prendere questa medicina ogni tre
ore! Bagnate la garza in continuazione! Tenetelo per bene al caldo! Non
permettete che si scopra! Io sarò di ritorno tra parecchie
ore, per cui cercate di ricordarvi tutto! E non potete assolutamente
uscire dalla stanza, chiaro!? -
Ero sicuro che il mio sguardo tradisse il fastidio, ma mi sforzai di
sfoderare il mio più convincente sorriso falso e biascicai
un faticosissimo: - Si… Grazie… -
Lei sembrò placarsi per un attimo, poi immagino che
notò la mia sceneggiata e la sua espressione
tornò ostile. Uscì dalla porta senza aggiungere
altro.
Iizu migliorava a vista d’occhio. Ero davvero felice che le
cose andassero meglio e sentivo anche una certa riconoscenza verso
quella suora… In un certo senso…
Non ero mai stato un tipo religioso, per nulla. Strano per uno che
veniva dal Portogallo, paese cattolico molto praticante. Onestamente,
però, non avevo mai trovato alcuna soddisfazione nella
pratica religiosa. Immaginavo che fosse una cosa totalmente vuota,
priva di calore, irrazionale. Una buffonata, fatta apposta per mostrare
agli altri come un trofeo la propria figurata virtù. Ecco un
altro motivo per cui la “fede” non faceva per me:
le entità religiose mi davano ai nervi. Forse era stata
colpa di Fra Santiago, che ai tempi ci guardava dall’alto al
basso ogni volta che per necessità ci recavamo da lui a
chiedere un pezzo di pane. Oppure dalle figure ecclesiastiche che
sventolavano ai quattro venti la gioia che deriva dalla
carità e poi vivevano negli enormi palazzi senza neanche
considerare gli sfortunati che chiedevano le elemosine vicino alle loro
porte. Tutte falsità. Tutta apparenza. Tutta incuranza.
Tutta idealizzazione inutile.
Lo stesso per la concezione del divino. Ero sempre stato scettico,
più che dubbioso… Come poteva
quell’entità suprema guardarci, eppure accettare
ogni cosa che accadeva? Superstizione, stupida superstizione. In
effetti potevo ritenermi un ateo, anche se non era certo il caso di
andarlo a spiattellare in giro. E’ sempre stato pericoloso
pensarla diversamente dagli altri…
L’idea di trovarmi quindi ad avere a che fare con una
religiosa mi rendeva ancora più indigesta la
situazione… Però bisognava riconoscerle la
schiettezza di mostrare apertamente il proprio disgusto per noi, per i
poveracci della situazione. Tuttavia, avrei preferito trovarmi di
fronte una persona più simulatrice, ma anche più
collaborativa… Avrei deciso di testa mia se sondare il suo
animo e vedere la verità dietro il suo comportamento o
accettare per gratitudine la sua squallida facciata
misericordiosa… Mi rendeva molto difficile nascondere il mio
astio…
Quando tornò nella cella, mi allungò velocemente
in mano un piatto di minestra e un pezzo di pane e chiuse accuratamente
la porta a chiave.
- Quello è per il bambino. Il pane è per voi.
– disse, secca.
Io rimasi interdetto su cosa dire. “Grazie?”
“Non dovevate disturbarvi?” Non mi suonavano bene
visto l’atteggiamento pesante che mi stava usando. Mi imposi
di tacere e svegliai con delicatezza Iizu. Si strofinò gli
occhi assonnato. Aveva ripreso un colorito abbastanza sano, ma aveva
ancora un po’ di febbre.
- Hai voglia di mangiare un po’? -
Annuì piano.
Lo imboccai con il cucchiaio finché non mi disse basta.
- Sei sicuro…? -
- Si… Tu non mangi, Tyki? –
- Non ti preoccupare per me. Ho un bel panino che mi aspetta.
Piuttosto, cerca di finire la minestra… Ti fa
bene… -
- Non sforzatelo se non vuole. Quelle medicine danno problemi di
digestione. Se ne ha abbastanza, non insistete se non volete che stia
male. –
Solo in quel momento mi ricordai della sua presenza. Fino a quel
momento era rimasta seduta per terra, in silenzio, nel lato opposto
della stanza. Mi scrutava compunta e serissima.
Ricambiai il suo sguardo con un po’ di ostilità e
riappoggiai il piatto sul comodino:
- Allora va bene così… -
- Si. Grazie, Tyki. Grazie, signora suora. –
Intravidi un mezzo sorriso, sul suo volto scuro, ma tornò
immediatamente cupa.
Iizu si addormentò di nuovo molto in fretta.
Allora immersi di nuovo la garza nell’acqua e la rimisi al
suo posto, per poi sedermi per terra poco lontano dal letto per
mangiare quel po’ di pane. Restavo zitto per ignorare la
presenza della giovane, che continuava a guardarmi. Ogni tanto
anch’io alzavo gli occhi e incrociavo le sue iridi verdi che
scrutavano ogni mio gesto. Mi dava l’impressione di un
animale braccato da un cacciatore: schiacciato in un angolo, senza via
d’uscita, che fissa con timore crescente colui che lo
minaccia… Così era anche lei, appoggiata, o forse
sarebbe meglio dire addossata, al muro, avvolta stretta in una coperta,
inquieta nei confronti del casuale ospite… In questo non
potevo darle torto. E poi stava anche cercando di mettersi a dormire
per terra per lasciare il letto al mio piccolo amico malato. Dopo tutto
non poteva essere cattiva…
Quando alla fine decisi di sdraiarmi per terra per prendere un
po’ di sonno, mi resi conto di non riuscire a farlo. Era
insopportabile sentirsi così osservati! Per quanto cercassi
di pensare ad altro, di concentrarmi su qualcosa di diverso, sentivo
quella sottile insofferenza e irritazione pungermi la pelle. Quando
infine non ce la feci più, mi alzai in piedi, deciso ad
affrontarla.
Non mi importava più nulla di essere scortese o
irriconoscente. Volevo capire fino in fondo cosa accidenti aveva contro
di me. Io sapevo bene perché non avevo alcuna fiducia in
lei, in una suora. Ma lei non aveva alcun stramaledettissimo motivo di
fare altrettanto! Aveva o no deciso di aiutarmi!? Poteva lasciarmi
fuori! Piuttosto che aiutarmi e poi trattarmi in modo così
dannatamente insopportabile!
In realtà, mi alzai e andai verso di lei perché
non volevo svegliare Iizu parlandole da un capo all’altro
della stanza. Non voleva certo essere un’aggressione. Per
quanto non la stimassi granché, non le avrei mai torto un
capello.
Eppure la sua reazione fu immediata e impaurita. Ero ancora lontano un
paio di metri, ma lei si schiacciò al muro, si
coprì il volto e la bocca con le mani trattenendo un grido.
Uno strano tremore la sconvolse ed ebbi l’impressione di
sentire anche qualche basso singhiozzo.
Allora non osai andare più vicino e mi sedetti in quel
punto. La guardavo incuriosito, ormai, più che arrabbiato.
Mi resi allora conto che avevo avuto ragione. Lei aveva paura di me.
- Perché? – la domanda mi sfuggì di
bocca senza che me ne accorgessi.
Ci mise qualche momento a calmarsi. Attraverso le dita semi-aperte vide
dove mi trovavo e credo valutò che fossi ancora a distanza
di sicurezza. Si passò frettolosamente una mano sugli occhi
e poi cercò di recuperare la sua compattezza. Non
riuscì però a risultare di nuovo gelida quando mi
chiese, piano: - Perché cosa…? –
Con un leggero sorriso feci un gesto plateale: - Perché
tutto questo… Voi avete una paura incredibile di me e mi
siete totalmente nemica e ostile. Eppure mi avete fatto entrare e avete
aiutato Iizu. Perché? –
- Non avete capito un bel niente. -
- Come? Vorreste dirmi che non mi temete…? – con
un sorriso sghembo mi sporsi solo leggermente verso di lei. La reazione
fu immediata e tornò a schiacciarsi contro la parete.
- Appunto. –
- Io… non ho… paura di voi… -
- Beh, diciamo che oggi non lo dimostravate, ma ora si. Anche questo
non mi è chiaro. –
Abbassò la testa per fissare il pavimento e il velo
scivolò a coprirle il volto.
Io attesi una risposta invano per un po’. Poi decisi di porre
una domanda diversa: - Dite un po’, si può sapere
perché siete così insopportabile nei miei
confronti…? –
- Insopportabile!? - l’ostilità era tornata a
colorire la sua voce.
- Si esatto. –
- Avete il coraggio di dire una cosa simile!? Vi ho aiutato, no!?
–
- Si si… - annuii vigorosamente – Ma come se vi
fosse stato ordinato. Con irritazione. –
- Beh, certo! Non vi rendete conto in che guaio mi avete messa!
–
Manteneva la voce bassa per non fare rumore, ma questo non danneggiava
minimamente il tono delle parole.
Sfoderai la mia migliore gamma di sorrisi ironici per
l’occasione: - Guai!? Che guai!? Ecco, il classico
atteggiamento della gente di Chiesa! Fanno sempre le vittime in ogni
occasione. Per quanto siano nel torto. –
- Non vi siete reso conto che questo è un convento di
clausura, quando avete bussato!? -
Devo dire che quella frase mi lasciò un attimo confuso.
Allora tutto tornava. Tuttavia, non mi era sufficiente: - E quindi!? Se
c’è un poveraccio che rischia di morire lo
lasciate per la strada!? Tanto predicare, tanto parlare, e
poi… -
- Le mie sorelle se sapessero che voi, un uomo, passate la notte nella
mia cella… Il fatto che accompagniate un bambino malato non
cambierebbe nulla! Sarebbe la mia fine! -
- Certo! Perché è questa la cosa più
importante! La vostra posizione! E della gente che ha bisogno di aiuto
ve ne fregate! Sono le solite chiacchiere da preti! Si può
sapere che razza di ragionamenti sono!? Sono queste le cose che vi ha
insegnato QUEL VOSTRO DIO!? –
Lei sgranò gli occhi, allibita. Toccò a me allora
abbassare lo sguardo, sapendo di aver parlato troppo.
Dopo qualche secondo di silenzio mi rivolse la parola, con un tono
calmo e distaccato: - …Voi non siete cristiano…?
–
La guardai vagamente indispettito e decisi di stuzzicarla fino in
fondo: - Non credo neanche in Dio se è per questo.
–
Mi studiò per un po’ ma senza più
alcuna sorpresa o confusione, solo asprezza: - Quindi siete il classico
individuo che crede di contare solo su se stesso… -
- Qualcosa in contrario…? -
- Trovo irrazionale credere di essere soli nell’Universo
della creazione. –
- Siete una suora. E’ naturale. Sarebbe strano la pensaste
come me. –
- Sarebbe naturale, invece, che portaste un po’ di rispetto
all’Essere che vi ha donato la vita! –
- Sentite… -
- Come potete non percepire la sua grande forza?! –
- Non potreste provare ad essere un po’ più
diplomatica!? –
- Non è questione di diplomazia ma di giustizia! –
- Se cercate di predicare con me non avete speranze,
“santità”! –
- Lo vedo! Siete solo un arrogante blasfemo! –
- Non crediate di offendermi… Non mi importa un bel
niente… -
- Bene! Allora continuate a vivere nella vostra disumanità!
–
- …Amen… -
Fece un verso che assomigliava vagamente ad un ringhio e si richiuse
nel suo sdegno.
Non riuscii a trattenere una risata: - Eppure vi battete come una
leonessa! E dire che sembra davvero abbiate paura di me! –
- Non credete di essere speciale per questo! Io temo tutti gli esseri
umani… -
- Come prego? -
Teneva gli occhi bassi a terra mentre parlava in un sussurro triste: -
Ho una paura incontenibile delle altre persone, da sempre. Il fatto che
aggredisca spesso verbalmente gli altri è una forma di
autodifesa. Mi viene spontaneo e quando lo faccio riesco anche a
dimenticarmi il mio senso di inferiorità. –
- C’è almeno una ragione per tutto questo?
–
Astiosa: - No! Non c’è! –
Sospirai, sconfitto: - Allora va bene... –
Di nuovo i suoi occhi verdi si allargarono a dismisura: - Cosa? -
- Beh è decisamente controverso, ma spiega tutto. Non siete
neanche voi a volervi rendere così antipatica, è
una questione naturale. Quindi non ci metto più becco. -
Annuì, un po’ confusa e tacque.
Mi sembrò di aver dormito poco o nulla quando venni
svegliato da una campana. Non era ancora l’alba. La suora si
alzò subito e senza esitazioni, come chi era abituato. Io,
invece, ero distrutto.
- Che cos’è…? – chiesi
durante un lungo sbadiglio.
- La campana del Mattutino. Devo andare a messa. –
Si lisciò leggermente l’abito e prese dal comodino
un libretto.
- Perdonatemi, ma dovete proprio andare? -
Mi squadrò con rabbia: - Sentite un po’ voi,
signor ateo… Capisco che per voi andare o non andare ad una
messa… -
- No, non è per quello. – aggiunsi subito
– Solo che non so quando si sveglierà e vorrei ci
foste anche voi per controllarlo. -
- Voi tenete molto a quel bambino. – lo disse senza cambiare
tono ma anche come se ne fosse profondamente stupita.
- Certamente. E’ un mio carissimo amico. –
- Credevo fosse vostro figlio… Anche se non vi chiamerebbe
per nome… -
- No. –
- Ho capito. –
Mi fissò per qualche momento come se mi stesse rivalutando.
La cosa, non so perché, mi fece piacere.
- Comunque tornerò all’ora di pranzo. Non so se
riuscirò di nuovo a portarvi qualcosa da mangiare. -
- Non importa. –
- Vi prego di non fare rumore. Ora devo andare. Sono già in
ritardo. – e uscì.
Ben due giorni passarono in quello strano modo. Con il tempo, la
ragazza si faceva sempre meno ostile, ma non comunque propriamente
gentile. La cosa, però, strano a dirsi, non mi offendeva
più. Finalmente mi era chiaro ciò che era
nascosto dietro quello strano comportamento.
Tuttavia un giorno non potei fare a meno di chiederle, cercando di far
apparire la domanda il più naturale possibile, per quale
ragione ci avesse aperto la porta nonostante rischiasse così
tanto e d’altra parte non amasse minimamente gli esseri umani.
Ci pensò più seriamente di quanto avevo sperato.
Pensavo mi avrebbe liquidato con un pallido “non lo
so”.
Poi mi guardò molto intensamente, con i grandi occhi verdi
che brillavano sulla sua pallida carnagione, e rispose: -
Destino… -
- Come, prego…? – una parola simile non me
l’aspettavo proprio.
- …Io la chiamo Provvidenza, ma voi vi sareste lamentato
come al solito, così vi rendo accettabile il
concetto… -
- Avete capito cosa intendo. Voglio dire, perché non un
semplice caso? –
- Perché quel giorno dovevo andare a cantare nel coro, ma la
notte stranamente non ero stata bene. Ero andata a preparare uno
sciroppo e stavo giusto rientrando in camera quando sono passata
davanti al portone e voi avete bussato. –
- Si, ma non avreste voluto e dovuto aprire. –
- Lo so. Però fui presa dalla curiosità e anche
questo è decisamente anomalo. –
- Ma capita. -
- Si, certo. – si stava un po’ innervosendo, ma
volevo smentire il suo fatalismo. Era troppo divertente contraddirla.
– Però non mi interesso mai a nulla che esuli i
miei doveri. Aprii lo spioncino solo per quello strano istinto. Quando
vi vidi, pensai che dovevo esservi d’aiuto come potevo. E
anche se mi irritava permettervi di entrare, vedere il bambino privo di
conoscenza, mosse qualcosa… Non saprei cosa…
–
- Istinto materno…? –
- Perché no…? – chiese con irritazione.
- Ed è tutto qui? –
- Vi sembra poco!? Tenete conto che io tengo anche una certa naturale
distanza dalle mie sorelle! E invece nel vostro caso vi ho accolto
nella mia cella! Questa per me è una ispirazione divina!
Tanto più che avendo tirato fuori poco prima le cose utili
per il mio lieve malessere non ho dovuto usare sotterfugi per entrare
in erboristeria. Sembrava tutto costruito ad arte! –
- Sarà… -
Iizu ci guardava dal letto ridendo in silenzio. Io gli lanciavo ogni
tanto sguardi complici, fino a che lei ci vide. Mi preparai ad una
tremenda scenata e invece… Semplicemente mi
guardò per un attimo con espressione indecifrabile e poi si
girò verso Iizu indirizzandogli il primo e più
bel sorriso che avessi mai visto.
Era la notte del terzo giorno di permanenza al convento quando uscimmo
in silenzio dalla cella della suora e ci fiondammo verso la silenziosa
ala principale. Aprì il portone con estrema delicatezza. Io
e il mio amico eravamo pronti a scattare fuori per evitare che il
rumore richiamasse qualcuno, ma lei ci fermò e ci mise in
mano due gigantesche pagnotte a testa.
- Ma… - tentai di biascicare.
- Nessun problema. Sono la mia scorta personale. –
- Beh, ma vi abbiamo già portato via il cibo dal piatto per
tre giorni… -
Mi guardò un po’ stupita. Credeva che non avessi
capito che in quei giorni io e Iizu ci eravamo divisi la maggior parte
del suo pranzo e della sua cena.
Abbassò lo sguardo: - Non ha importanza. Questi sono un
regalo. –
Non aggiunse niente e si piegò verso il bambino: - Cerca di
stare bene… -
- Si! Grazie, signora suora! – e le schioccò un
bacio sulla guancia.
Rimasi colpito dal gesto perché Iizu non era solito alle
smancerie, ma mai quanto lei, che divenne rossissima e
riuscì solo a rivolgergli una leggera carezza.
Aprì il portone e noi due uscimmo.
Solo a quel punto mi girai e le porsi la mano.
Lei la guardò, indecisa. Mi ricordai allora dei suoi
problemi di rapporto con gli altri, anche se avevo agito
così convinto che li avesse, almeno in parte, superati.
Ritirai la mano e mi accontentai di dirle, sinceramente questa volta: -
Grazie davvero per tutto quello che avete fatto per Iizu… e
per me. Forse non diventerò mai un cristiano, ma mi
ricorderò delle vostre parole. In fondo è un
compromesso. –
Sorrise gentilmente e fu lei questa volta ad allungare la mano: -
Grazie a voi, Tyki. Grazie a voi ora ho un po’ meno paura. Vi
sono riconoscente, a voi e a Iizu. –
Dopo averla stretta con calore, ci allontanammo di qualche metro e le
rivolgemmo entrambi un cenno di saluto mentre stava per accostare la
porta che si chiuse poi con un leggero tonfo.
- Tyki… -
- Umh. –
- Non le hai neanche chiesto come si chiamava. –
Sbattei gli occhi. Aveva ragione.
- Be’, pazienza. Tanto il mondo è piccolo e la
gente si rincontra prima o poi. -
Lo dissi senza pensarci, anche se interiormente non ci credevo
minimamente. Lei aveva consacrato la vita al suo Dio, non sarebbe mai e
poi mai uscita da quel convento, quindi non avrei mai potuto
rincontrarla.
Non credevo al Destino, né tanto meno alla Provvidenza. Un
giorno me ne sarei ricreduto…
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Capitolo 3 *** II - Fear ***
Capitolo 2
Fear
“Le
religioni sono come le lucciole: per splendere hanno bisogno della
tenebra.”
(A.
Schopenhauer)
Padre François era mio padre, perché non ne avevo
altri.
Io non potevo fare altro che considerarlo tale: era colui che
più di tutti si occupava di me e di mia madre. Per quanto
sapessi che era decisamente sconveniente chiamare un uomo di Chiesa
“padre” in senso letterale, mi piaceva tanto
pensare che lui fosse davvero il mio genitore. Buffo come le cose siano
davvero ciò che sembrano…
Era un uomo alto ed elegante, anche nella sua veste sacerdotale aveva
un fascino particolare. I suoi occhi erano verdissimi, proprio come i
miei. Il suo viso era sempre dolce e tenero e la sua fede era enorme,
tanto profonda che non sarebbe riuscito ad evitare che attraverso di
lui si infondesse in tutti. Mi diceva sempre che l’amore per
Dio era qualcosa di incredibile e candido come un giglio. Io ascoltavo
sempre tutto quello che diceva con la massima attenzione, con il cuore
di chi vuole imparare tutto da colui che insegna. Fu così
che scoprii la religione e cominciai a professarla con enorme fiducia,
con grande cura…
Qualche volta ci veniva a visitare a casa. In genere restava molto a
lungo, ma quando ero piccola la cosa non mi stupiva affatto. Mi rendeva
felice che anche lui volesse vedermi e passare del tempo con me. In
queste situazioni mi chiamava “mia piccola Vivy”.
Quel soprannome mi piaceva tantissimo e cercavo sempre di convincere
tutti a chiamarmi così, piuttosto che Victoire.
Io e la mamma vivevamo in una casetta su una collina vicina ad un
villaggio della Provenza. Mia madre aveva origini borgognone, ma appena
aveva avuto l’età per lasciare
l’orfanotrofio aveva deciso di allontanarsi da quella zona e
cercare riparo da qualche altra parte. Non mi aveva mai spiegato come e
perché fosse arrivata fin lì, come avesse fatto a
procurarsi la casa in cui vivevamo, come mai non uscisse quasi mai di
casa. Allo stesso modo con cui era enormemente evasiva in certe
spiegazioni, mi ripeteva sempre che era stata davvero fortunata ad aver
incontrato Padre François, mi diceva che dovevo sempre
comportarmi bene con lui, che era il nostro benefattore più
grande. Comunque non mi era difficile fare come diceva.
Crebbi così, in un ambiente all’apparenza sereno,
calmo e sicuro.
L’unico vero problema era il mio rapportarmi con gli altri.
Per mia natura non ero timida, né chiusa o introversa.
Eppure c’era qualcosa in me che mi diceva di tenermi alla
larga da tutti e muoveva un timore innaturale per le altre persone.
L’unica eccezione era riservata a mia madre e a Padre
François.
D’altra parte non c’erano ugualmente molte speranze
per me di fare amicizia con qualcuno. I bambini, aizzati dai loro
genitori, mi tenevano ben alla larga quando andavo al villaggio. Non
una sola volta sentii alcuni che mentre passavo mi additavano
con epiteti quali “figlia del peccato” e simili. Un
giorno chiesi a mia madre cosa significasse e lei disse che poteva solo
essere un errore, che avevo sentito male e che di certo non dovevo
preoccuparmi di una cosa simile. Ricordo, però, che
parlò in un modo strano, quasi minaccioso, e c’era
come una vena di violenza nella sua voce, che per fortuna
sparì quasi subito quando cambiammo argomento. In quel
momento provai qualcosa di insolito che identificai ingenuamente come
innocua paura…
Avevo compiuto da poco diciannove anni, ma in realtà
già da un po’ cominciavo a domandarmi alcune cose
riguardo la nostra situazione e il nostro strano rapporto con Padre
François. Avevo finalmente cominciato a notare qualcosa di
misterioso tutt’intorno a me. Da un po’ di tempo
pregavo molto e anche in questo ero molto contraddittoria: a volte
chiedevo a Dio se poteva permettere che mi venisse mostrato
ciò che non capivo, a volte domandavo con un enorme
sofferenza nel cuore che mi permettesse di non sentirlo, di tenerlo
lontano da me. Vedevo che mia madre ogni tanto non si sentiva bene, ma
che si riprendeva molto in fretta quando sapeva che doveva avvenire la
visita di mio “padre”. Mi sembrava che molti miei
coetanei mi si volessero avvicinare, ma che fossero incerti e come
impauriti quando mi vedevano. Cominciai a chiedermi seriamente cosa
avevo di così strano e diverso dagli altri…
Quella era davvero una giornata come tante, potrei dire allora. Eppure
tutto, tutto sarebbe cambiato…
Soffro ancora enormemente a raccontarlo. Ma ne ho bisogno. Devo
ricostruire tutto quanto perché sia possibile capire il
legame che mi unisce alla vita che ho scelto e che conduco tuttora.
Padre François era arrivato verso l’una e ci aveva
portato un po’ di verdure della bella stagione.
Mia madre era stata male poco prima: ad un certo punto aveva cominciato
a tremare dalla testa ai piedi e appena mi ero avvicinata si era
coperta con il lenzuolo dicendo di non preoccuparmi, che le sarebbe
passato presto. Io avevo insistito e lei mi aveva spedita ad accendere
il fuoco.
Ero decisamente arrabbiata, così, quando lui
arrivò e vidi la mamma improvvisamente sgargiante e piena di
salute correre a salutarlo, gli diressi solo un leggero saluto e andai
fuori a prendere un po’ d’aria.
Passeggiai per il prato su e giù, senza fermarmi, cercando
di pensare a cosa potesse avere davvero mia madre. Era di certo una
malattia, qualcosa di grave…
Mentre guardavo tutt’intorno e insieme non guardavo
nulla… Fu forse il colore bianco, così innaturale
su quella grande distesa verdeggiante… Fu forse quello
strano brivido di terrore che mi percorreva ogni volta che i miei occhi
percepivano altre persone… Non ne sono sicura…
Tuttavia, benché fossi immersa in fitti pensieri, mi accorsi
di un folto gruppo di uomini vestiti di bianco che si accingevano a
salire la collina.
Corsi in casa presa dal panico. E urlai, come se la mia stessa vita
dipendesse da questo…
- CI SONO DEGLI UOMINI VESTITI DI BIANCO! STANNO DI SICURO VENENDO QUI!
-
Dopo aver pronunciato quella frase mi resi conto di quanto fosse stata
irrazionale. Perché preoccuparsi? Perché avere
tanta paura? Avranno i loro motivi per venire a visitarci, ma noi
ancora non li sappiamo. Mi sarei fatta ridere dietro da entrambi.
In realtà, però, la reazione di Padre
François e di mia madre fu agghiacciante. Entrambi
sbiancarono e si guardarono terrorizzati.
- François… - la voce di mia madre aveva qualcosa
di roco e inquietante.
- Nell’altra stanza, Rossane… Magari non
è nulla di così grave… Restate ad
origliare un attimo da là, se le cose si mettono male,
scappate dall’uscita sul retro… -
- Ma tu… Che ne sarà di te…?
–
- Lo sapevi anche tu che prima o poi sarebbero venuti. Sarò
processato. Non so come andrà a finire, ma non è
di me che devi preoccuparti. Sai dove trovare il sacchetto con i resti
dell’eredità di mio padre nella sagrestia,
giusto…? Andate in un posto sicuro. –
In quel momento bussarono alla porta, forte. Io ero raggelata. Non
capivo. Non potevo capire, ancora…
Mia madre mi trascinò per il braccio nell’altra
stanza e dopo aver lanciato un altro sguardo disperato al sacerdote,
chiuse la porta.
Entrambe ci appiattimmo contro la porta. Le voci non erano molto alte,
ma riuscimmo ad ascoltare alcune frasi.
La porta venne aperta con un netto cigolio.
- Buongiorno. – fece, con falsa spigliatezza e tono
incrinato, Padre François.
Una voce profonda e carica di autorità rispose con pungente
severità: - Voi siete Padre François Flauvers, il
sacerdote della cittadina…? –
- Si, esatto. E vossignoria…? -
Non riuscii ad udire la risposta.
- La signora Villois e la figlia non sono qui ora. -
- E voi cosa fate allora a casa loro…? –
Ancora un breve scambio di battute, che non ci fu possibile ascoltare.
Poi il tono inquieto di Padre Francçois: - Dunque siete
davvero qui per quelle dicerie…? –
- Ma non sono dicerie, Padre François. Noi sappiamo per
certo cosa è avvenuto. E proprio per questo, vorrei
presentarvi una persona… -
Si udì solo intervenire una voce bassa e calma, anche se
leggermente gracchiante, ma non riuscii a distinguere le parole.
L’esclamazione del sacerdote fu sorpresa come non mai: -
Esorcisti!?!?!? –
Di nuovo la voce profonda: - Conoscete l’Ordine,
dunque…? –
Questa volta il tono fu quasi sprezzante: - Non abbastanza forse, dato
che scopro oggi come si occupi anche di persone innocenti! –
Avrei voluto ascoltare ancora. Forse avrei dovuto. Avrei capito subito
cosa mi si presentava. Ma proprio in quel momento mi accorsi che mia
madre tremava di nuovo vistosamente e ripeteva sottovoce, ma
ossessivamente, come una cantilena storta, una parola: -
Esorcista… esorcista… esorcista… -
La presi per le spalle e cominciai a scuoterla… Non tanto
perché si riprendesse ma perché la
smettesse… Quella cantilena passava per le mie orecchie come
una scossa elettrica nella mia testa, mi riempiva la mente con qualcosa
di doloroso e mi faceva sentire malissimo…
- Mamma! Mamma! -
Lei allora mi guardò e sembrò riprendere il
controllo di sé, anche se il suo sguardo era febbrile:
- Andiamo via, Victoire! Andiamo via subito! -
Corremmo via. Mia madre, presa da un vigore e da una volontà
che non avevo mai visto, avanzava per le vie della città
ancora più veloce di me, non riuscivo a starle dietro.
Tuttavia era stata ottimista a pensare di passare davvero per la
chiesa… Aveva davvero pensato che non avessero mandato
nessuno a cercarci, dato che non ci avevano trovate a casa…?
Per conto mio ero invece troppo frastornata per ragionare. Era strano,
assurdo. Cosa volevano da noi? Perché dovevano processare
Padre François? Perché stavamo scappando? Cosa
sono gli esorcisti? E quando semplicemente pensavo quella parola era
come se uno spillo mi pungolasse la testa…
Mi accorsi che eravamo completamente circondate quando ormai tutte le
vie di fuga ci erano ostruite. Erano gli abitanti del villaggio ad
avanzare verso di noi. Nelle loro mani fucili e bastoni.
- Cosa fate…? – biascicai a fatica, mentre il
terrore mi immobilizzava sul posto.
Nessuno rispose. Le loro facce erano congelate nell’odio
più totale.
Fu allora che qualcosa di rabbioso e acuto si mosse in me. Sentivo una
forza orribile che sembrava nutrirsi della mia paura e sfruttarla per
crescere, sempre più forte.
- Dobbiamo andarcene da qui! Lasciateci passare! – urlai,
mentre il terrore cresceva e si mischiava a quell’acuta
frenesia.
Allora si alzò una voce dalla folla: - Voi sarete consegnate
all’Inquisizione! –
- A cosa…? Che state dicendo!? Non esiste più una
cosa simile! -
- Due streghe come voi meritano solo questo! Dannate meretrici!
–
Cominciarono ad avvicinarsi sempre di più.
Sentivo che li avrei aggrediti con tutte le mie forze. Mi sarei difesa
fino alla fine. Con tutto quell’odio che sentivo.
Poi di nuovo il mio sguardo cadde sulla mamma. Il suo respiro era
affannato e faticoso, il suo viso era terreo, qualcosa in lei sembrava
quasi morire e consumarsi in quel momento. I suoi occhi erano strani.
Brillavano di un colore giallo… Mi prese il polso,
sussurrò ancora piano il mio nome. Ma qualcosa mi
piombò sulla testa e la vista mi si spense.
Quando ripresi i sensi il buio intorno a me era ugualmente densissimo.
Ci misi qualche minuto a distinguere nettamente una cella umida e
fredda.
Stavo cercando di mettere un po’ d’ordine tra le
mie idee, ma mi era assolutamente impossibile. La sola cosa che ora
capivo con certezza era che non ci si poteva fidare di nessuno. Anche
gli abitanti del villaggio si erano alleati con quei presunti
inquisitori. Perché? Provai una dolorosa fitta alla testa,
probabilmente dove avevo ricevuto il colpo che mi aveva fatto perdere
conoscenza, e quando mi guardai le gambe e le braccia notai
distintamente molte escoriazioni ed ematomi. Di certo mi avevano anche
picchiata parecchio. Non sapevo perché mi trovavo
lì. La mia mente non riusciva a realizzarlo distintamente.
Poi, qualcosa tintinnò nel mio polso e mi accorsi di un
piccolo braccialetto con una croce. La mamma lo portava sempre al
polso. Pensai che me lo avesse messo mentre stavamo per essere
aggredite. Aveva parlato, aveva detto… Non riuscivo a
ricordarlo…
Un grido altissimo, atroce, si alzò da qualche parte che non
riuscivo a distinguere e mi scosse da ogni altro pensiero. Scattai in
piedi come se fossi stata colpita da un fulmine. Ma le grida
continuarono ancora e ancora. Le lacrime presero a scorrermi
velocemente sulle guance, quando capii di chi si trattava. Padre
François urlava di dolore e l’eco si propagava
ovunque.
Poi una porta sbatté forte e l’urlo di sofferenza
si poté udire in tutta la sua grande portata. Mi appiattii
alla parete, respirando a fatica. Poi una voce rimbombò per
il corridoio, un po’ acuta, ma appuntita e piena di
indignazione:
- … E’ orrendo! E’ inutile e atroce! Non
posso sopportare una cosa simile! -
- Non avete visto molti campi di battaglia. Ed in ogni caso sapete che
questo è il solo modo… -
- Per cosa!? Vi ho detto che è stato sicuramente accecato da
innocui sentimenti! Non è un malvagio! –
- Una mente debole in un corpo debole. E’ nostro
compito… –
- Non è con la tortura che otterrete qualcosa! Le centinaia
di anni passano su di voi come brezza estiva! Usate metodi irrazionali
e antichi! Quelli che vi avevano già resi odiosi ai vostri
contemporanei! –
- E voi dovreste portare più rispetto! Nonostante la vostra
età non siete che un novellino nel vostro ruolo! Dovreste
scrivere la storia così com’è e non
tentare di cambiarla, non è così!? Il vostro
comportamento non rende giustizia al vostro incarico! -
La porta sbatté di nuovo rendendo più deboli ma
ugualmente strazianti le urla.
Dei passi affrettati ma molto leggeri echeggiavano verso il luogo in
cui ero rinchiusa. Quando una delle piccole lampade del corridoio
riuscì ad illuminare la figura che avanzava, vidi un uomo
non più giovane e parecchio basso. Era completamente rasato
tranne per una piccola coda che gli spuntava da in cima alla testa.
Aveva degli occhi estremamente profondi e acuti, anche se segnati da
scurissime occhiaie. Indossava una lunga veste nera che sembrava quasi
brillare alla luce.
Mi guardò per qualche momento, come se mi stesse valutando.
Oppure, come se stesse decidendo cosa fare. Io non mossi un muscolo e
rimasi schiacciata in quell’angolo, ricambiando lo sguardo.
Poi decise, trasse fuori una piccola chiave e aprì la cella.
Mosse qualche passo verso di me, ma vedendo che cercavo di restargli il
più lontano possibile si fermò ad una certa
distanza.
- Victorie Villois, dico bene…? -
La sua voce bassa e un po’ gracchiante era la stessa che
avevo udito attraverso la porta di casa quel giorno. Questo non mi
rassicurò per nulla. La mia mancata risposta a quella
domanda, tra l’altro puramente convenzionale, non lo
stupì e continuò:
- Ho bisogno di sapere una cosa importante. E’ un metodo non
scientifico ma credo dovrò accontentarmi. Ho bisogno di
sapere che cosa provate ora. La prima emozione che vi viene in mente.-
Lo fissai un po’ sconcertata, ma non risposi. Sentivo di
nuovo quell’eco nella testa, che mi spingeva a reagire con
violenza, estrema violenza.
Ma la domanda tornò, incalzante: - Ho bisogno di saperlo,
Victoire. Poi vi spiegherò quanto mi sarà
possibile… -
Le parole uscirono da sole, forti, nette, senza incertezze: - VOI MI
DIRETE TUTTO ORA! NON INTENDO ASPETTARE UN BEL NIENTE! MI RITROVO
CHIUSA IN QUESTA GABBIA! MIA MADRE E’ SPARITA! IN QUELLA
DANNATA STANZA CHIUSA STATE TORTURANDO UNA DELLE PERSONE CHE HO
PIU’ CARE AL MONDO! NON HO TEMPO DI ASPETTARE! -
Sentii che avrei potuto aggredirlo con violenza, ma non lo feci.
Riuscii a trattenere quell’istinto primordiale meglio di
quanto potessi credere. Strinsi la croce appesa al braccialetto e presi
a respirare profondamente. L’uomo non si era mosso e anzi
studiava con attenzione ogni mio gesto:
- Vorrei tanto pensare che si tratti solo di una motivatissima crisi
isterica. Però so per esperienza che non lo è. Vi
prego, Victoire, spiegatemi cosa provate. Quando quella rabbia vi
riempie l’animo cosa sentite…? -
- Paura… Un’enorme paura… Di ogni
cosa… - riuscii a sussurrare a bassa voce.
- …Si… Ho capito… Ma vedo anche che
riuscite a controllarla… Questo mi rassicura molto. Credete
in Dio, Victoire? –
- Si. Fermamente. –
Avevo di nuovo il controllo di me stessa. Il pensiero di quanto avevo
imparato ad amare della fede mi rendeva più semplice parlare
e rilassarmi.
- Bene. Molto bene, davvero. Allora forse posso aiutarvi. -
Lo guardai senza capire.
- Ve la sentite di entrare in un convento? –
- Cosa…? –
- E’ tutto ciò che posso offrirvi. Non ho altro
modo per garantirvi la libertà. –
- Ma mia madre… Padre François… -
- Io… Non credo di poter fare nulla per loro… -
- Cosa significa…? –
Una porta si aprì di nuovo. Il vecchio mi guardò
intensamente.
- Dovete solo rispondere “sì”. Con
calma, con autocontrollo, come avete fatto poco fa. Tutto
andrà bene. -
Ma il mio sguardo si era già soffermato su
un’altra figura, imponente, avvolta in un saio bianco, che
avanzava verso l’apertura della mia cella. I suoi occhi scuri
mi scrutarono per qualche momento, mostrando chiaramente un enorme
disgusto. Poi si soffermarono sull’anziano con un misto di
divertimento e fastidio: - Cosa state facendo, Bookman!? Allora proprio
non avete paura di quella donna! – il tono era maestoso e
autoritario, lo stesso del primo interlocutore giunto a casa nostra.
Gli occhi dell’altro divennero fessure: - IO non ne ho
motivo, come ben sapete. –
- Certo, certo. – questa ultima affermazione sembrava aver
colpito nell’orgoglio l’uomo in bianco –
Però ora dovete portare con voi la ragazza. E’ ora
di chiedere la conferma finale. Del resto potete occuparvi solo voi,
giusto…? -
- Si. –
- Allora conducetela. –
- Dove…? – riuscii a chiedere, anche se la
presenza di quell’individuo sembrava impedirmi di respirare.
- Prima devo parlarvi… - intervenne l’anziano
rivolto a quell’arrogante individuo.
- No! – più l’autorità bruta
del grande e del forte, piuttosto che di qualche gerarchia,
pesò su quella sillaba – ORA devo portare a
termine il mio lavoro, Bookman! Conducete la ragazza! – e si
allontanò a grandi passi.
- Non avrei mai dovuto mettere in mezzo questi gradassi
dell’Inquisizione… Sono stato stupido…
- sussurrò a sé stesso. Poi si
avvicinò per tentare di aiutarmi, ma io respinsi la mano: -
Vi seguo da sola. –
Lui annuì: - Ma ricordatevi di controllare la paura,
Victoire. Altrimenti non potrò aiutarvi. –
- Come posso non avere paura…? -
- Non la paura in generale. QUELLA paura. Credo che voi abbiate capito
di cosa parlo. –
Annuii e poi presi a seguirlo per il corridoio scuro.
Ricordo il sangue. Tanto. Però cosa vidi di preciso in
quella stanza l’ho quasi rimosso del tutto. Persone, tante,
vestite di un bianco stranamente sgargiante in tutto quel rosso. Una
figura stava appesa alle catene. Dovevo sapere chi fosse. Di certo era
una persona che conoscevo. Ma davvero non riuscivo a riconoscere quella
maschera di sangue. Le lacrime scendevano senza che le chiamassi. Due
mani si posarono delicatamente sulle mie spalle ma ero tanto assorta
che neanche le percepii. Tremavo. Poi la voce profonda, con uno strano
atroce trionfo nella voce: - Ebbene, François Flauvers,
ex-sacerdote, riconoscete la qui presente Victoire Villois come vostra
figlia, avuta nel peccato con Rossane Villois? –
Quelle parole avrebbero dovuto destare in me qualcosa, ma non lo
fecero. Vero o falso che fosse, era solamente ciò che avevo
saputo da sempre tradotto in parole.
- S…si… -
Alzai gli occhi verso di lui. Aveva risposto al suo nome, doveva essere
lui. Eppure…
- Creatura dannata dal Cielo, che tu viva nel dolore! Maledetta
tentatrice! Vaga per l’Inferno insieme alla figlia nata dal
tuo sangue dannato! -
La presa sulle mie spalle si fece più forte e mi
trascinò via.
La voce pacata di Bookman mi risvegliò dal mio stato: -
Venite. Torniamo alla cella. –
- Non era lui… -
Il silenzio seguì le mie parole, ma poi disse, piano: - No,
state tranquilla… - si leggeva una dolce pietà in
quella frase menzognera.
- Portatela dalla madre! -
Una forza inaspettata comparve nella voce del mio anziano
accompagnatore: - No! Non è necessario! –
- Dobbiamo svegliare i suoi poteri! -
- So io cosa bisogna fare! Devo portarla…-
- Fate ciò che vi dico! –
Mia madre era perfettamente lucida, o almeno così sembrava.
Legata alle catene lanciava intorno occhiate malevole, ma taceva, come
se fosse in attesa di qualcosa. Mi avvicinai tentando di farmi
riconoscere, ma sembrava non mi vedesse e il suo sguardo mi passava
quasi attraverso.
- Lo vedete. – disse Bookman, con astio – Non
riconosce neanche sua figlia. -
- Ma voi ci avete chiesto di intervenire per ben altra
ragione, giusto!? –
- Si, però, adesso fatemi portare via la ragazza! –
- E’ tempo di piantarla con questa storia! Volete o no
controllare…? –
L’uomo prese un respiro profondo e si avvicinò
alla prigioniera:
- Victoire, allontanati. -
Poi guardò mia madre con un misto di pietà e
inquietudine: - Vorrei davvero essermi sbagliato… -
Ad alta voce: - Rossane Villois, io sono Bookman, legato
dell’Ordine Oscuro. Ora dimmi, riconosci
cos’è questo…? –
Allungò verso di lei la mano. Da questa, improvvisamente
spuntarono come delle punte di spillo acuminate. La reazione di mia
madre fu sconvolgente. I suoi occhi si spalancarono e guardarono quello
strano fenomeno con folle frenesia, le sue iridi divennero gialle e il
colore della sua carnagione diventava sempre più grigio. Poi
sangue scuro prese a scorrere dalla sua fronte. Un urlo selvaggio e
atroce: - INNOCENCE! –
Bookman abbassò la testa affranto. Mi guardò con
la coda dell’occhio e scosse la testa verso il grande
inquisitore in bianco.
- Quindi cosa aspettate a fare quello che dovete!? -
commentò quello, con scherno.
Sapevo per istinto cosa stava per succedere e chiusi gli occhi. Una
forte luce avvolse la stanza e il riverbero fu percepibile anche
attraverso le mie palpebre chiuse. Di nuovo piansi, ma in modo
innaturale, come se quelle lacrime non fossero mie. Quando due braccia
vigorose mi sollevarono, provai di nuovo la paura. Tanto intensa che
sembrava pronta a distruggere tutto e uccidere... Per fortuna, quando
mi gettarono nuovamente nella gabbia, quel timore si
trasformò in solo odio e infine svanì di nuovo
nella più assoluta disperazione.
Udii da lontano, di nuovo, la voce dell’anziano: - Ora che
tutto è concluso, devo parlarvi. –
- Ancora, Bookman!?!? E poi, no, non è concluso niente!
Quando vi occuperete di quella ragazza!? -
- E’ appunto di lei che devo parlarvi. Avete notato che
davanti alla dimostrazione dei miei poteri non ha reagito…? -
- Si, certo. Ma non capisco dove volete arrivare. Ha il sangue di
quella strega, giusto!? –
- Di questo sono ormai sicuro. Ciò è inevitabile.
Ma il nostro Ordine vuole tentare un esperimento… -
- Non sono stato avvisato di nulla di simile… -
- Ne sono a conoscenza. Ma è un progetto di un nobile
esorcista… Conoscete per caso, Cross Marian…?
–
- No, per nulla. –
- Non ha importanza. Egli sostiene che in determinate circostanze si
possa addirittura salvare delle anime dannate… -
- Questo non mi interessa e non mi compete. Il succo è che
non avete intenzione di uccidere la ragazza. –
- No. –
- E quindi cosa volete fare…? Spero non lasciarla libera! Ne
va anche dell’onore del MIO ordine! –
- Vorrei che le venisse permesso di entrare in un convento.
E’ una giovane molto religiosa nonostante la sua origine
nefasta. –
- Mi sembra un’idea assurda! Se tuttavia garantisse il VOSTRO
ordine… -
- Garantisco io. Spero vi sia sufficiente. –
- Comunque io non mi prendo responsabilità. –
Entrambi si avvicinarono alla mia cella. L’uomo in bianco
esclamò, inorridito: - Vuoi diventare davvero una suora per
il resto della tua vita…? –
Strinsi forte la croce del bracciale: - Si. –
Distolse lo sguardo da me e si rivolse all’altro: -
Chiederò che venga inserita in un convento di clausura
lontano da qui. Questa è l’ultima cosa che
farò. Il resto è responsabilità
dell’Ordine Oscuro. -
Bookman si inchinò con rispetto mentre
l’inquisitore si allontanava compunto.
L’anziano tentò di avvicinarsi ma lo tenni lontano
con uno sguardo ardente: - State lontano da me!-
Lui si fermò, per nulla colpito dalla mia reazione: - Vorrei
potervi spiegare, Victoire. –
La rabbia stava tornando. Il mio tono divenne alto e acuto: - Cosa
dovreste spiegare!? Avete ucciso mia madre e mi state salvando dalla
stessa fine solo in base ad un vostro misterioso esperimento!
Non mi fido di voi! Non mi fido di nessuno! –
- E’ naturale. Non avete incontrato nella vita altro che
persone che vi hanno fatto del male. E’ inevitabile. -
- Allora andatevene! –
- Certo. Lo farò. Ma prima voglio darvi ancora qualche
consiglio. Spero che li seguiate. Perché voi sarete
l’ultima persona a cui cercherò di dare il mio
aiuto. Davvero questo comportamento non fa parte del mio ruolo, quindi
non potrò farlo mai più. –
Alzai gli occhi e vidi profonda amarezza riflessa nei suoi: - Voi non
potete credere negli uomini, lo capisco. Ma dovete anche il
più possibile evitare di temerli. E’
l’unico modo che avete per sfuggire al male che ha colpito
vostra madre. Lei era la Follia. Voi siete la Paura. Lo so che non
capite, ma se cercassi di spiegarvi per voi sarebbe ancora
più difficile. Voi dovete sfuggirgli, Victoire. Voi non
dovete ascoltarlo. Lui vi parlerà, vi racconterà
tante cose, vi farà credere di essere solo lui nel giusto.
Ma non è così. Perché anche se gli
uomini vi hanno delusa, voi credete in Dio. Questo vi
salverà. Nutritevi di quell’amore, Victoire, e vi
salverete. – e lanciò un veloce sguardo al mio
ciondolo.
Si chiuse la cella alle spalle, ma poi si fermò e attraverso
le sbarre disse, piano: - E’ la prima volta che credo alle
parole di quel pazzo di Cross… Ma spero che abbia ragione e
che voi possiate davvero vivere… -
Entrai nel convento con la forza di chi vuole ricominciare, di chi
vuole dimenticare. Avevano avuto ancora molti dubbi gli inquisitori
sull’idea di permettermi di “sporcare” un
ambiente sacro. Non ci avevo fatto caso, non mi interessava. Contava
solo essere viva e lontana da tutti quegli orribili esseri umani.
La veste del convento era blu. Non avrei potuto chiedere nulla di
meglio. L’idea di vestirmi di bianco mi avrebbe tormentato.
Ogni tanto mi capitava ancora di sognare quegli individui con le
tuniche bianche…
Le altre sorelle mi trattavano bene. Certamente non sapevano come mai
fossi stata condotta presso di loro. Con il tempo riuscii anche a
sopportare tranquillamente la loro presenza, anche se non potevo fare a
meno di tenere ugualmente le distanze.
“Inevitabile”, aveva detto quell’anziano
uomo. Eppure, più restavo là, più mi
sembrava che il mio atteggiamento fosse sbagliato anche se non ne
conoscevo altri. Bisognava amare le altre creature, non temerle. Mi
sentivo di nuovo totalmente sbagliata…
Tuttavia, avevo scoperto di avere una bella voce ed ero stata inserita
come solista nel coro della cappella annessa. Amavo cantare e quando
ero immersa in quell’attività mi sembrava che il
cuore diventasse leggero. Cantavo per Dio, in risposta alla
bontà che mostrava per me garantendomi di vivere lo stesso,
nonostante tutto quello che era accaduto…
Ero rimasta là già da parecchi anni quando
avvenne quello strano incontro. Lo ricordo benissimo, quel magnifico
dono della Provvidenza. Quello straniero che bussò alla
porta del convento. Sperava anche di essere aperto! Sarei stata
cacciata e se lo avessero saputo quelli dell’inquisizione
questa volta mi avrebbero ammazzata davvero. Eppure la
curiosità mi spinse a guardare e bastò
quello… Quel ragazzo aveva la paura negli occhi…
Era molto semplice paragonarlo con lo sguardo impaurito di Padre
François quando ci intimò di
nasconderci… E poi… Quel bimbo svenuto in braccio
mi mosse un sentimento fino ad allora sconosciuto nel cuore…
Io potevo fare qualcosa. Dovevo farlo. Così insegnava la mia
fede, non potevo fare finta di nulla. Avevo una paura terribile,
però, e questa si trasformò di nuovo in quella
strana asprezza. Tuttavia, mi ripetevo continuamente che stavo facendo
del bene, che non c’era nulla di male, che andava bene
così, che non mi sarebbe successo nulla. Questo mi
aiutò molto. Mi permise di fare qualche passo verso il
superamento del mio terrore.
Certo, quell’uomo mi inquietava un po’…
Addirittura un ateo… Una vera e propria offesa a
ciò per cui avevo vissuto per tutto quel tempo…
Poi, dopo qualche giorno arrivai come a farci l’abitudine. Ci
misi poco a capire che nonostante fosse così strano e
bizzarro, era un bravo ragazzo. Tutto quell’affetto per quel
bambino, nonostante non avesse con lui alcun legame di sangue era
ammirevole e in un certo qual senso incomprensibile per me, che avevo
ricevuto amore solo da chi condivideva parte della mia
identità. Era gentile, in fondo, anche se un po’
insopportabile. Schietto e diretto fino all’eccesso. Negli
ultimi momenti passati assieme riuscivo addirittura a dimenticarmi di
aver paura…
Quando se ne andarono un po’ mi dispiacque anche…
Ma mi avevano donato qualcosa di bellissimo: la speranza, questa volta
più forte e motivata, di riuscire a superare la triste
malattia di mia madre. Ci sarei riuscita sicuramente. Avrei avuto la
possibilità di volgere quel sentimento di puro amore per
Dio, verso gli uomini, dimenticando per sempre quanto male avevo
ricevuto da loro… Dimenticando quell’oscuro
presentimento che mia aveva sempre tenuta lontana da tutti…
Passarono ancora alcuni anni, non saprei dire quanti, da
quell’incontro così felice. Quella sera ero
particolarmente in pace con me stessa e cercavo di prendere sonno.
Quando lo sognai.
Sognai Padre François appeso alle catene, i suoi occhi
sbarrati, i suoi urli atroci e poi quelle parole di maledizione,
crudeli e dolorose. Mi ripetevo che non era lui, che non poteva
esserlo, che lui mi voleva bene e che quindi doveva essere un altro.
Allora gli inquisitori mi avevano ingannata. Malvagi, crudeli,
maledetti. Poi mia madre, mi guardava ma non mi vedeva, folle. Mi aveva
sempre nascosto cosa aveva, cosa le succedeva. Mi aveva nascosto la
verità. Non mi voleva bene, no di certo. E quel
Bookman… L’aveva uccisa, mi aveva fatta chiudere
nel convento, per farmi morire da sola nella mia stanzetta, da sola.
Come gli abitanti del villaggio mi avevano catturata perché
morissi sola in una cella dell’Inquisizione! Eppure
l’aveva detto chiaramente che ero il suo esperimento e anche
in quel momento mi stava usando! “Gli uomini mi odiano! Ma
loro devono essere maledetti, loro!” urlava qualcosa di
strano e odioso nella mia testa.
Poi la mia mente sembrò scoppiare. Un dolore atroce sulla
fronte mi costrinse a stringermi le tempie tra le mani. Le sentivo
bagnate. Le guardai: erano piene di sangue, dello stesso sangue che
sentivo scendermi copioso dalla fronte. E ciò che ancora di
più mi lasciò sconvolta fu, però, il
colore della mia pelle: era scura, come grigia, come cadaverica.
Sentivo il bisogno di urlare ma mi trattenni con tutte le mie forze.
Quella voce rimbombava ancora nella mia mente, quando mi misi a correre
per il corridoio scuro, fino alla cappella. Rivoli di sangue mi
scivolavano anche sugli occhi e la fronte mi bruciava in modo
insopportabile.
Mi prostrai sotto l’altare, piangendo. Avrei voluto riuscire
a scacciare quella paura e quell’odio selvaggio che di questa
si nutriva. Avrei voluto sovrapporvi i visi sorridenti e gentili di
quei due giovani che tanto mi avevano aiutata, ma non ci riuscivo.
Allora guardai in alto il crocifisso, gridando con tutte le mie forze:
- Ti prego, Signore! Scaccia da me questo dolore! Non mi merito nulla
ma ti prego, scaccia da me questa sofferenza, questa orribile paura! -
- Non lo farà. Non può farlo. Perché
voi non gli appartenete per nulla, Victoire. –
Mi girai di scatto verso il punto da cui avevo udito quella voce
innaturale, allegra e giocosa mentre proferiva quella
condanna… Era l’essere più assurdo che
potessi immaginare e per qualche momento pensai davvero che fosse solo
frutto della mia immaginazione, ma quando venne alla luce e potei
vedere nettamente i suoi crudeli occhietti gialli… Allora
capii le parole di Bookman, capii che era di lui che
parlava… Quell’individuo oscuro che dovevo fuggire
ad ogni costo… Ma capii anche che in ogni caso non potevo
fare nulla per tenerlo lontano da me…
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Capitolo 4 *** III - The Soul dies ***
Capitolo
3
The soul dies
“Di
tutti i veleni l’anima è il più
forte.”
(Novalis)
Più il
tempo passava, più mi sembrava fresco e nitido quel
ricordo… Era una sensazione stranissima…
Questo mi
preoccupava un po’, in effetti. Anche perché ogni
volta che mi tornavano in mente quei giorni, decisamente troppo spesso
in realtà, gli occhi di quella suora, giovane, che poteva
avere in effetti più o meno la mia età,
diventavano sempre più profondi, brillanti, affascinanti. Mi
chiedevo allora di che colore fossero i suoi capelli, nascosti in
maniera così ineccepibile dal lungo velo. Mi domandavo anche
perché fosse entrata in un convento, una ragazza
così bella, che avrebbe avuto intorno a sé
centinaia di ragazzi a farle la corte. La risposta più
semplice era riconducibile proprio a quel suo profondissimo timore per
gli uomini. Una cosa decisamente fuori da comune, che mi incuriosiva
ancora di più…
Allora mi
immaginavo addirittura la sua voce compunta che mi riprendeva:
“Che razza di pensieri sconci avete in quella testa
blasfema!? Qui si vive in castità! Vedete di non
dimenticarvelo!” Ed ero capace di scoppiare a ridere da solo
come un idiota quando mi immaginavo la scena… No, non stavo
per nulla bene… Eppure sapevo benissimo che non avrei mai
più avuto la possibilità di rivederla.
E poi, insomma,
non credere in Dio era una cosa, fare la corte ad una suora era
un’altra! Anche a me, che con la religione avevo un rapporto
così controverso, una cosa simile sembrava decisamente
volgare. Nonostante il suo caratteraccio, il suo spirito era candido e
puro e a forza di vivere lontana da tutti, nutrito solo di sentimenti
puliti e limpidi, sembrava quasi divino. Anche se ben mi fosse stato
possibile riavvicinarmi a lei, mi sarei sentito un mostro a cercare di
insudiciare la sua perfezione con le mie stupide passioni
umane…
Sapevo bene che
era un simulacro che mi sarei ricordato per sempre, forse, ma che non
potevo in alcun modo raggiungere… E dopo parecchio tempo di
questi strani pensieri, decisi che era il momento di smetterla e di
tornare la persona di sempre… Quei discorsi irrazionali e
assurdi proprio non facevano per me…
Non avevo
però fatto i conti con Iizu. Se io mi consideravo un
po’ “fissato”, lui era quasi ossessivo.
Era anche comprensibile. Il bimbo non ricordava per nulla sua madre e
quella ragazza aveva avuto in quei giorni un po’ quella
funzione. Era chiaro. Però era incredibile come riuscisse
sempre a riportare in auge l’argomento mentre io cercavo di
allontanarmelo dalla mente…
- E poi ti
ricordi, Tyki…? – mi prese alla sprovvista un
mattino, quasi un anno dopo quegli avvenimenti.
Lo guardai un
po’ stranito: - Che cosa…? –
- Quando mi ha
detto che i miei capelli sembravano d’oro… -
- Ma
chi…? –
- La signora
suora! – esclamò come se fosse la cosa
più normale del mondo.
- Emh…
No… A dire la verità, no… -
- Tyki! Ma
l’ha detto! Mentre tu dormivi! –
- Scusami, ma
pretendi che io senta e capisca anche mentre dormo…?
– lo guardai ridendo.
Momo mi
batté una mano sulla spalla: - Sarebbe proprio da te, Tyki!
–
- Grazie, ma non
ho l’abitudine di origliare… -
- Era davvero
bella, no…? –
Di nuovo mi aveva
colto impreparato. Abbassai lo sguardo, proprio mentre mi si
ripresentava davanti agli occhi quel sorriso dolcissimo…
Cavolo!
- In qualche
modo… - proferii a fatica per poi tornare a mescolare con
cura eccessiva il caffè.
Sentivo su di me
lo sguardo interrogativo di Momo e anche di Frank, che era appena
arrivato e chiese subito: - Cosa!? Chi!? –
- Iizu
è di nuovo a parlare della suora di quel giorno…
- gli spiegò l’altro velocemente.
- Si! –
il bambino era raggiante – E poi era tanto gentile!
–
- Beh, non proprio
troppo così tanto… - suggerii con un sorrisetto.
- Però
anche voi andavate d’accordo! –
- Neanche questo
è proprio vero… -
- Già,
mi avrebbe stupito che andassi davvero d’accordo con un
suora! – commentò Frank ridendo come un pazzo.
Ma Iizu insisteva:
- Però è stata tanto buona con me, Tyki! E poi
alla fine ci ha dato quei due enormi panini! E sembrava le dispiacesse
che stavamo andando via! Era tanto brava! –
Sospirai,
sconfitto: - Si, è vero… E’ stata
davvero generosa… Questo è vero… -
- Non ci credo!
Stai davvero facendo dei complimenti ad una religiosa!? Questo da te
non me lo aspettavo! – esclamò Momo.
- Già,
be’, capita anche questo… Dopotutto le sono
comunque debitore… - ma la discussione si stava facendo un
po’ imbarazzante per me e per la prima volta fui felice di
udire la campana per il ritorno alla cava.
No, non stavo per
nulla bene. Non mi era mai successo di perdere la testa in quella
maniera. E dire che da quel paese ce ne eravamo andati definitivamente
giusto il mese dopo e che da allora avevamo girato per una decina di
giacimenti e miniere diverse. Possibile che dopo tutto quel tempo non
riuscissi a dimenticare…? E mi sentivo dannatamente stupido
a continuare ad inseguire quel controverso modello di bellezza. Io ero
sempre stato decisamente più materiale. Quella ragazza
poteva solo essere un ideale perché di persone
così nel mondo esterno non ne esistevano. E non ero neanche
convinto che fosse un male… Insomma, una pazza sempre
aggressiva con tutti ma che ha paura di ogni altro essere
umano… Ma la cosa non danneggiava minimamente il mito che
avevo costruito intorno a lei. Quindi era decisamente un sentimento
platonico, ma che mi stava facendo impazzire…
Mi ci sarebbe
voluto del tempo per escludere, totalmente, dalla mente quel
ricordo… Molto tempo e un fatto pazzesco che
cambiò per sempre le mie priorità e tutto il mio
mondo…
Io lo identifico
con uno scatto netto. Un qualcosa che si spalanca nella mente senza
motivo alcuno, di colpo. Fu improvviso e illogico. Eppure non ci
trovavo niente di strano. Ne godevo, senza controllo…
Se avessi avuto
vicini i miei amici in quel momento… avrei fatto del male
anche a loro… non ho dubbi.
Avevo poco meno di
ventisette anni. Era uno degli ultimi giorni di lavoro in una piccola
diga del nord Europa. Io e un altro operaio che non conoscevo eravamo
stati scelti per cominciare a riporre parte dell’attrezzatura
in un magazzino dall’altra parte del nostro campo. Nulla
preannunciava ciò che sarebbe successo.
Avevo le mani e le
braccia occupare da una gran quantità di strumenti vari e mi
trovavo esattamente a metà del percorso, quando
cominciò. Un desiderio crudele. Il mio collega era indietro
di qualche passo. Gli altri erano già tutti chiusi nei loro
quartieri. Mi fermai improvvisamente. Per me non fu una voce, come dice
qualcuno, ma una tentazione selvaggia. Sentivo che se
l’avessi fatto ne avrei ottenuto grande piacere. Avrei dovuto
ribellarmi, rifiutare una azione tanto irrazionale e malvagia. Ma non
lo feci…
Abbandonai per
terra tutte le cose che avevo in mano.
L’uomo
mi chiese cosa stavo facendo. Con l’ultimo barlume di
coscienza gli dissi sinceramente che non lo sapevo. Ma presi in mano un
badile e lo guardai.
Lì per
lì sembrò solo un po’
confuso… Poi pian piano si fece strada sul suo volto la
paura… Ma questo, invece che svegliarmi da mio delirio, mi
fece sorridere malvagiamente… Mi avvicinai,
lentamente… Mi guardava sgomento… Non sapeva se
fuggire o tentare di farmi ragionare e taceva, il panico riflesso negli
occhi…
Non so quante
volte calai su di lui quell’arma di fortuna… E
come un mostro, come un demone, ogni volta che sentivo
quell’urto orribile, uno sprazzo di piacere si apriva la
strada nel mio animo, ormai nero come la pece… Quando infine
mi fermai, cominciai a ridere come folle… Di sincera
felicità…
Feci tutto con
calmo, totale e irragionevole autocontrollo. Solo dopo aver fatto
sparire il cadavere buttandolo nell’acqua oltre la diga, mi
resi conto del sangue che mi sporcava il viso. Pensai che fosse della
mia vittima. La coscienza si era spenta. Presi di nuovo su il mio
carico e arrivai fino al capannone. Solo allora sentii le fitte di
dolore alla fronte e mi diressi ad una riva del lago artificiale. Sul
subito mi tolsi gli occhiali finti e mi passai le mani bagnate sulla
faccia ma non impiegai molto a capire che era la mia fronte a
sanguinare copiosamente. Del resto faceva un male atroce e non capivo
come avessi fatto a ferirmi…
Mi specchiai e per
un attimo non riuscii a riconoscermi. I miei occhi brillavano di un
sinistro colore giallo e la mia pelle era smunta e cadaverica. Proprio
non riuscivo poi a chiarirmi quei tagli sulla fronte: netti, regolari e
profondi. Avrei voluto agitarmi, preoccuparmi, avere almeno una
qualunque reazione. Invece mi sedetti sul prato aspettando
pazientemente che le fitte alle tempie si interrompessero. Non riuscivo
a provare alcuna emozione.
Non
passò molto che una voce allegra e sconosciuta mi
chiamò:
- Il giovane Tyki
Mikk, presumo… -
Mi voltai, il
volto fermo e inespressivo: - Si, esatto… -
Squadrai
quell’essere con pigra curiosità. Era sicuramente
più basso di me, ma anche molto più in carne.
L’alto cilindro, decorato con bizzarre orecchie da coniglio,
sembrava avere lo scopo recondito di nascondere la chiara pinguedine.
Vestiva un completo elegante, ma di un colore improponibile. Sul suo
volto di un innaturale colore grigio un sorriso enorme e anomalo
sembrava inciso a lettere infuocate e impossibile da cancellare. Due
occhiali piccolissimi nascondevano crudeli occhi gialli.
- E voi
sareste…? – chiesi con una tranquillità
quasi offensiva.
Una risata allegra
e rimbombante seguì le mie parole: - Siete davvero il primo
a prendere la cosa così bene! –
Rimasi serio e in
quel momento non mi sembrava di poter assumere alcuna altra espressione.
- Vossignoria, io
sono il Conte del Millennio! – proferì attraverso
quell’invariabile smorfia felice – E sono qui per
informarvi di quale sia la vostra sorte predestinata! -
- Sorte
predestinata, dite…? Non credo che mi interessi. La vita che
conduco ora mi è sufficiente. –
- Come fate ad
affermarlo!? Insomma, voi sembrate ai limiti della povertà!
– esclamò l’individuo in tono affabile.
- La mia vita mi
piace. Se volete scusarmi… -
- I vostri modi
ora non si addicono più ad un semplice operaio! Ora sembrate
un gran signore! – eppure non suonava per nulla stupito dalla
cosa.
Tornai a
guardarlo. La gaiezza più completa era racchiusa in quegli
occhietti malvagi.
- Questo
è il vostro vero essere, Sir Tyki Mikk! Voi siete un
nobilissimo rappresentante della gloriosa famiglia Noah! Con il sangue
aristocratico è comparso anche il vostro vero carattere!
Composto e inflessibile! -
Eh, no! Quella
frase aveva scatenato una ribellione nel mio animo, che era rinato
dallo strano abisso in cui era scomparso poco prima. Fu proprio grazie
a quella strana affermazione che riuscii a tornare in
possesso del mio tipico comportamento: - Vero carattere!? Starete
scherzando! Non so chi accidenti siate, ma smettetela di fingere di
conoscermi! –
- No, questa
è la vostra maschera pubblica! Il tono canzonatorio, la
parlata volgare, l’aspetto ordinario! Voi siete un nobile
signore della vostra nuova e vera famiglia! -
- Proprio non
riesco a capire quello di cui state parlando! Mi sembrate completamente
pazzo! –
Il Conte fece
apparire dal nulla una comoda sedia e vi si sedette.
Io lo guardavo
incuriosito. Pensavo ad uno strano scherzo. Quell’individuo
con quella assurda paresi era di certo una sorta di illusionista e
cabarettista. Di certo.
- Bene, dovete
sapere che esistono nel mondo ben quattordici individui,
all’apparenza comuni esseri umani, ma che possiedono il
sangue del grande profeta Noé! Costoro sono ben diversi
dagli ordinari “umani”, sono anzi veri e propri
“super-uomini”, se mi passate il termine, dotati di
poteri incredibili! Essendo tutti discendenti di un così
grande progenitore, vengono nel loro complesso chiamati i Noah! -
Si
fermò. Il suo sguardo non mi aveva lasciato neanche per un
momento e anche in quel momento mi fissava studiando ogni mio
movimento.
- Si, certo.
Immagino, che sia possibile, sicuramente… - per quanto mi
mostrassi spavaldo con la mia ironia, quell’individuo e
quello strano discorso mi avevano inquietato un po’
– Quindi, scusate, ma cosa comporta tutto questo…?
-
- Oh, si! Beh, io
desidero riunire in una sola e speciale famiglia tutti discendenti e
tutti i loro enormi poteri! –
- Beh,
si… E’ chiaro… - mi massaggiai
distrattamente la fronte che ricominciava a pulsare – E lo
scopo di questa riunione…? –
- Chiaramente la
distruzione del mondo! E soprattutto, inevitabilmente,
dell’indegna umanità che lo abita! –
- Giusto,
si… Inevitabilmente… -
Mi chiedevo se
quel tizio sentisse davvero quello che diceva e il modo in cui ne
parlava, con quel tono giocondo e festoso. Rendeva quasi esilaranti
quelle bizzarre risposte.
E continuava a
fissarmi, con sempre maggiore insistenza.
- Ho capito. Molto
bene. Le auguro tanta, tanta fortuna per il suo progetto. Certo che
quattordici persone su un mondo abitato da miliardi di anime,
è davvero complicato. Tanti auguri! Ora se non le
dispiace… -
Mi ero voltato per
andarmene, quando la sua voce risuonò alle mie spalle
facendomi rabbrividire. Era ancora gioviale, ma marcata da una vena di
crudeltà: - E pensate di ritornare dai vostri amici
tranquillamente…? –
Era ancora
lì seduto allegramente, ma era come se avesse iniziato ad
emanare una vera e propria nube oscura: - Con
quell’aspetto…? E con quello che avete
fatto…? –
- Che
cosa…? -
- Avete
dimenticato!? Lo shock emotivo, probabilmente! –
Mi si
avvicinò e mi fece cenno di specchiarmi nel lago.
L’avevo già fatto, me ne ricordai in quel momento,
ma incomprensibilmente avevo rimosso ciò che era davvero
comparso davanti ai miei occhi. Poi rividi quell’insano
colore della pelle, quelle cicatrici scure, quei rapaci occhi
gialli… Questa volta ero me stesso. E mi spaventai a morte.
- COSA
DIAVOLO…!? -
- Non urlate, vi
prego! Abbiate pietà delle mie povere orecchie! –
esclamò allegro.
- Non sono io!
Quella cosa non sono io! –
- Esattamente il
contrario! Questa è la vostra vera identità! Voi
siete il nobile Noah del Piacere! –
Ero troppo
allibito per controbattere. Lui approfittò subito della cosa
per infierire:
- Non vi stupite
troppo! Vi siete divertito molto, poco fa, vero!? Mentre uccidevate
quell’uomo! -
- Che
uomo…? –
- Quello che avete
massacrato con quest’arma e buttato nel lago! – mi
sventolò davanti agli occhi un badile, ancora macchiato di
sangue. Allora le scene mi scorsero davanti agli occhi e sbiancai.
- Io non
ho… non ho… IMPOSSIBILE! CHE RAZZA DI RAGIONE
AVREI AVUTO!? –
- Beh,
è stato per provare Piacere, senza dubbio! Non eravate
pienamente consenziente in quel momento perché il sangue si
era appena svegliato! Avete agito d’istinto! E grazie a
questo la vostra trasformazione si è completata! -
Prima scuotevo la
testa con forza, in silenzio, con totale rifiuto a quello che avevo
sentito e ricordato, poi sempre più lentamente, mentre
sentivo di aver realmente deciso quello che avevo fatto, anche se con
una parte che ancora non conoscevo della mia personalità, e
infine mi fermai e cominciai a valutare la situazione…
Già,
non a capire come fosse stato possibile, a ragionare sul modo migliore
per allontanarmi da quel tipo ambiguo. Solo a pensare alla cosa, come
se a quello che stava succedendo non ci fosse rimedio alcuno…
Avevo davvero
ucciso un uomo a sangue freddo? Si… E quando mi tornavano in
mente quelle scene, dopo lo spavento iniziale, da una parte della mia
anima si alzava un’onda acuta e insopprimibile di
piacere… Avrei potuto fare migliaia di paragoni ben volgari
con quella sensazione, ma avrei sempre e comunque dovuto aggiungere che
nulla che avevo mai provato era simile a quella selvaggia e sadica
emozione…
Come avevo fatto a
procurarmi quei tagli sulla fronte? Di certo, con quel badile non avevo
potuto farmeli… Non ci sarebbe stato da stupirsi se me li
fossi procurati senza accorgermene, ma non sapevo proprio
come… Avevano poi quella forma strana… Sembravano
i segni lasciati da una corona di spine… Dannatamente
ironico…
Perché
la mia pelle aveva assunto quel colore assurdo? La carnagione di un
cadavere non si addiceva per nulla ad una persona che conservava la
capacità di respirare e pensare e di conseguenza DOVEVA
essere viva…
Perché
i miei occhi erano diventati gialli? Nessun essere umano aveva gli
occhi gialli…
Nessun essere
umano…
Ma non mi persi in
questo pensiero, non mi interessava. Non mi importava di essere o non
essere una persona.
Potevo davvero
tornare dai miei compagni? E cosa avrei detto…? Come potevo
spiegare la scomparsa dell’uomo e quel mio assurdo
aspetto…?
Potevo davvero
lasciare perdere la mia attuale vita per seguire
quell’assurdo individuo? Non così. Non
d’impulso. NON PERCHE’ ME LO COMANDAVA! Quel
pensiero prese forma a forza, come affermazione della mia
volontà. Non lo avrei seguito se non ne fossi stato
veramente sicuro.
Potevo ignorare
quello che era successo, quelle strane parole, quegli incredibili
fatti? No… Lo vedevo, ero preso dalla
curiosità… L’inquietudine di prima era
già scomparsa…
- Quindi, Sir
Mikk? -
- Io quindi dovrei
essere un Noah, come dite voi? –
- Esattamente! Ho
avvertito chiaramente il momento in cui il vostro potere si
è svegliato! E poi, quei segni che tanto vi hanno spaventato
sono indicazioni evidenti! –
- E quel discorso
del “vero carattere”, come dite voi? –
Tornò a
sedersi sulla sedia. Il suo sorriso non si era neanche minimamente
attenuato.
- Si, certo!
Vedete, il vostro vero cuore, quello che appartiene alla vostra
famiglia, è segnato da razionale violenza. Una nobile e
spregiudicata vena distruttiva. Quando portate completamente alla luce
il vostro vero “io”, come ora, mostrate
ciò che ad esso compete, cioè il comportamento
fine ed elegante, educato e di stile sostenuto. La vostra vita umana
finora ha comportato, nella sua povertà, un decadimento
della morale e dei modi che rappresenta il vostro carattere fittizio,
legato solamente al gioco e all’ironia. -
In effetti, mi
stavo ora comportando in maniera completamente diversa da come ero
abituato. Ero seduto abbastanza composto e continuavo ad annuire piano
per mostrare che seguivo il discorso. Di solito proprio non prestavo
attenzione a cosa simili. Quando accidenti avevo imparato il Galateo!?
- Quindi credete
che il mio contegno attuale sia un effetto della
“trasformazione”? -
- Si! Comunque in
generale preferirei la chiamaste “risveglio del
sangue”, rende più l’idea! –
- Si, certo.
– tagliai corto – Insomma, io sarei un nobile nella
famiglia? –
- Oh, certamente!
Avreste sempre abiti eleganti e puliti, una abitazione enorme e
decisamente fine, molti camerieri-Akuma che credetemi sanno essere
altrettanto utili di quelli umani! Tutte le comodità!
–
- E in cambio di
questo…? –
- Perdonatemi, non
capisco… -
- Quale sarebbe il
mio compito specifico? –
- Oh, è
un discorso molto lungo! Mi sembra inutile affrontarlo ora… -
Lo interruppi un
po’ malamente, ma con una educazione che non mi era mai
appartenuta:
- Ricordatevi,
Conte, che come voi state valutando me, io sto giudicando voi e
ciò che dite… Quindi rispondete alle mie domande,
per favore… -
Forse mi ero fatto
troppo ardito, pensai. Ma lui scoppiò in una risata
divertita:
- Certo, certo!
Avete ragione! Per semplificare il discorso: prima di poter portare a
termine il piano per la caduta dell’umanità e del
suo “falso Dio”, è necessario eliminare
un grave ostacolo sulla nostra strada! Sono i nostri nemici da migliaia
di anni, gli Esorcisti e l’Ordine Oscuro! Per questa ragione
mi occupo di creare delle utilissime macchine chiamate Akuma, che oltre
a sterminare un gran numero di esseri umani, sono in grado di dare del
filo da torcere agli Esorcisti! Tuttavia questo non è
sufficiente e prevedo, piuttosto, di occupare le Vossignorie Noah in
questo compito! In quanto superiori di gran lunga ai normali umani,
dubito possiate aver difficoltà a spazzar via delle persone
comuni! -
Un leggero
sorrisetto mi comparve in volto: - Se fossero davvero solo persone
comuni le vostre macchine non avrebbero bisogno di aiuto… -
- Si beh, loro
sono in grado di distruggerle grazie a quella materia cristallina che
chiamiamo Innocence. Tuttavia, io e tutti i nobili discendenti della
vostra famiglia abbiamo l’innata capacità di
sbriciolare quei fastidiosi cristalli. Se riusciremo, poi, a trovare e
distruggere “il cuore” con lui
scomparirà tutta quanta l’Innocence esistente!
Ecco perché ho intenzione di affidarvi questo compito di
estrema importanza, ma capisco parecchio noioso. Spero comunque che
vogliano accettarlo. Come vedete non dubito della vostra
partecipazione. Questo chiaramente perché conosco la vostra
natura e credo che la gioia che provate nel portare la morte vi ripaghi
bene del vostro impegno. – e produsse di nuovo quella risata
allegra.
- Quindi, un posto
in una società di “super-uomini” e la
gloria della ricchezza e della nobiltà, in cambio della
trasformazione in un assassino? –
- Non la metterei
in questo modo! Voi avete un enorme potenziale che finora è
rimasto nascosto. Ora che si è mostrato, potete prendere il
posto che vi spetta tra coloro che creeranno il nuovo mondo dopo la
caduta di questa “umanità” ormai perduta
e la scomparsa di quel Dio che essa tanto venera! Questo è
li punto! Uccidere queste immonde creature non è per nulla
sbagliato! E voi dovreste saperlo meglio di ogni altro! Vi sto solo
mostrando il modo di sfuggire a questa realtà che non vi
valuta quanto dovrebbe, al vostro umilissimo status sociale, per
diventare signore e padrone di tutto quanto! -
Pensavo, meditavo
ancora, quasi per scrupolo, ma in fondo avevo già preso una
decisione.
- Voglio chiedervi
ancora una cosa… -
- Certamente!
–
Sapevo
già la risposta a quella domanda, ma mi domandavo cosa
avrebbe davvero potuto rispondermi. La formulai non potendo evitare un
caustico sorriso: - Voi siete Il Diavolo, Conte? –
Anche se il suo
volto non poteva materialmente mostrare un’espressione di
gioia più completa di quella che aveva sempre incisa, mi
sembrò per un attimo che quella stravagante paresi si
allargasse ancora di più.
- Non credevo che
foste così legato a simili dottrine popolari! -
- Infatti non lo
sono… -
-
Perché questa domanda, allora? –
-
Perché è la prima volta che vi incontro ma sapete
perfettamente da dove vengo, cosa faccio, cosa sono e
perché. Oltre tutto, continuate a toccare i miei tasti
dolenti, come la povertà e la bassa condizione, offrendo in
cambio dell’uccisione di tanti innocenti la rivalsa della mia
condizione. Sembrate proprio un diavolo tentatore. –
- Se la vostra
considerazione fosse corretta… - si alzò dalla
sedia e mi si avvicinò - … questo cambierebbe in
qualche modo la decisione che vedo riflessa sul vostro
volto…? –
Scoppiai a ridere.
Per un momento non riconobbi quel suono oscuro e malvagio, poi mi resi
conto che sicuramente faceva parte dei cambiamenti che stavano
avvenendo in me e mi abituai immediatamente: - No, certo che no!
–
- Oh! Allora
potete considerarlo un mio secondo nome…! -
Tuttavia
c’era ancora qualcosa che non mi andava a genio di tutta
quella faccenda. Ci misi qualche momento a metterlo a fuoco…
Poi capii. O
meglio, compresi di cosa si trattava, non come questo potesse convivere
con ciò che avevo detto poco prima. Però decisi
che non aveva importanza e che se era ciò che desideravo in
quel momento, il Conte avrebbe DOVUTO concedermela. Una debolezza, per
quanto controcorrente, era pur sempre una debolezza. E il suo ruolo
prestabilito prevedeva che sfruttasse abilmente i desideri altrui.
- Conte. -
-
Prego…? –
- Ho deciso di
seguirvi, di vedere fino a che punto può arrivare il vostro
progetto, di capire cosa significhi essere un Noah. Ma ad una
condizione. –
Sapevo benissimo
anche che aveva il potere di rifiutare. Ma speravo che avesse davvero
bisogno di me come mi aveva fatto credere.
- Quale
condizione…? -
- Voglio poter
tornare ad essere quello che sono sempre stato, ogni volta che ne
avrò desiderio. –
Attraverso i suoi
occhiali, intravidi gli occhi gialli sgranarsi, anche se sul resto del
suo volto deformato non si vedeva traccia di quello stupore.
-
Perché mai!? La ricchezza, la nobiltà, la vita
comoda, non è quello che avete sempre desiderato!? - -
Certo. Ma c’è una cosa che non mi piace della
nuova vita che ho appena sperimentato. -
- Che cosa?
–
- La mancanza di
ogni tipo di sensazione. –
Rimase in
silenzio. Non era un buon segno, ma continuai tranquillo:
- Il mio vero
“io” è privo di ogni forma di
vitalità, avete detto? Quindi non riesce a sentire altro che
quella gradevolissima ma distruttiva passione per uccidere. Il vuoto
totale delle emozioni è ciò che ho sperimentato
poco fa ed è una cosa che alla fine non mi interessa. Voglio
conservare almeno parte della mia umanità, questa mia
apparenza che vi disgusta, ma che mi permette di avere un carattere. E
il solo modo che mi viene in mente è questo: mantenere una
doppia identità.-
- Siete sicuro che
sia solo per questo…? –
Mi sembrava che
stesse diventando minaccioso, ma cercai di concentrarmi su
quell’invariabile sorriso: - Sappiate che io non approvo per
nulla questo vostro desiderio di
“umanità”. E tanto meno che desideriate
restare legato a quegli umani. –
Colpito ed
affondato. Avevo deciso di non toccare quel tasto perché
sapevo non lo avrebbe gradito. Tuttavia, sapeva bene cosa
c’era nel mio animo. Come un vero diavolo… A cosa
serviva mentire allora…?
- Si, anche questa
è una ragione. Sono molto affezionato a quei ragazzi. Non
voglio abbandonarli del tutto. -
- Il nostro
progetto prevede lo stermino degli esseri umani. E non illudetevi, quei
vostri “amici” sono compresi. –
- Lo so.
–
- Questa
è una contraddizione, Sir Tyki Mikk… -
- Ne sono a
conoscenza. Ma è mio desiderio far convivere queste due vite
contrapposte. –
Quello stupore
continuava tenergli spalancati gli occhietti.
- Cercate di
vederla in questo modo. – spiegai, con la maggiore
spensieratezza – Mi divertirò molto di
più. Due identità da gestire separatamente. Una
“bianca” e una “nera”. Non lo
fareste neanche per la mia felicità? -
Parve pensarci,
poi aggiunse allegro: - Certo! Se questo vi rende felice, per me va
bene. Ma non voglio che ciò interferisca con i vostri
compiti. –
- E io non voglio
che interferiate con la mia seconda vita e con i miei compagni.
Consideratela una zona franca. Niente “macchine
omicide”, niente interventi vostri o di altri miei parenti,
niente scherzetti. -
- Certo!
–
- Siamo
d’accordo allora? E’ un patto? – e gli
porsi la mano con un gesto elegante per suggellare l’accordo.
- Si! Voi
diventerete un nobile Noah in tutto e per tutto ma avrete il vostro
parco giochi riservato per giocare a fare
“l’umano”. – e mi strinse la
mano.
Con un sorrisetto
ironico aggiunsi, senza interrompere la stretta: - Manterrete la
promessa? Non siete il tipo di demone bugiardo, spero… -
- No di certo. Le
mie promesse le mantengo sempre! –
Ci eravamo
accordati anche in modo che io avessi tempo sufficiente ad inventarmi
qualche scusa con i miei compagni riguardo alle uscite che avrei
compiuto per adempiere ai miei doveri di Noah e a quelli puramente
familiari. Mi avrebbe dato due mesi giusti per risolvere la questione,
poi avrei dovuto andare con lui ad incontrare il parentado.
In quel frangente
mi insegnò anche ad usare la prima parte delle mie
abilità, quella per cambiare aspetto e abiti. Una cosa
decisamente utile e veloce, senza dubbio.
Solo dopo mi venne
in mente che avevo passato davvero troppo tempo a parlare e che ormai
di sicuro si erano accorti tutti della scomparsa mia e di quel tipo che
ora giaceva in fondo al lago. Mi stupii accorgendomi che non provavo
più nulla pensando a ciò che avevo fatto.
- Ho fermato il
tempo! – commentò il Conte, gaio.
- Ne siete davvero
in grado…? – chiesi, simulando uno stupore che in
realtà non sentivo per nulla.
- Certamente!
Nessuno vi ha visto né là – e fece
cenno al punto in cui avevo colpito quell’operaio –
né qui con me! –
- Si,
ma… -
- Riguardo alla
vostra osservazione, sappiate che è normale che non proviate
alcun rimorso al riguardo. Siete un vero Noah, ora. Il concetto di
coscienza è un’abitudine, lo capisco, ma per voi
non esiste più nulla di simile. Del resto, comunque, non
sentirete più il bisogno di uccidere le persone normali, per
fortuna vostra e…dei vostri amici umani. Il cacciatore deve
potersi mimetizzare con le sue prede e per questo avete la
possibilità di mutare il vostro aspetto. La prima uccisione
era necessaria a scatenare l’istinto, che però ora
si attiverà solo e soltanto in presenza di Innocence e di
conseguenza degli Esorcisti. –
- Bene. Un
problema in meno. Ma ora avrei bisogno di aiuto per inventare una scusa
logica per quello che ho fatto… Conte!? –
Mi guardai un
po’ intorno per cercarlo, ma non lo vedevo più.
La sua voce
provenne dall’alto, dove svolazzava attaccato ad un assurdo
ombrello:
- Mi dispiace
davvero, Sir Mikk, ma di questo dovrete occuparvi voi! Devo andare!
Ricordate, tra due mesi suonerà il vostro telefono! -
- Ma in senso
letterale o figurato!? –
- Letterale! A
presto! – e scomparve all’orizzonte.
Il silenzio
più totale era durato solo ancora un secondo. Poi il rumore
dell’acqua stagnante, tenue e debole, era tornato a farsi
sentire. Non mi ero davvero accorto durante quella discussione che
più nulla intorno a me sembrava soffrire dello scorrere del
tempo.
Cercavo di farmi
venire in mente qualcosa per coprire quanto era successo, ma non mi
veniva in mente nulla. Presi in fretta e furia la roba che avevo
già ritirato nel magazzino e tornai indietro fino al punto
in cui quella pazzia mi aveva invaso. Non potevo certo far finta di
niente: guardando meglio c’era una grande pozza di sangue per
terra.
- Sono stato
dannatamente violento… -
Cercavo di impormi
di provare qualcosa al riguardo, benché il Conte avesse
detto che era impossibile. Ed in effetti, non mi sembrava di aver
neanche fatto nulla di male. La mia anima, quella parte che si dice
riesca a considerare il Bene e il Male, era davvero morta…
Ragionai su cosa
potevo fare.
E pensai di
ribaltare le parti. Io ero stato aggredito da lui,
all’apparenza senza ragione, e mentre mi difendevo avevo
finito per farlo cadere nel lago. Fine.
La sceneggiata
poteva anche funzionare, ma non potevo arrivare lì, bello
bello, senza una ferita o qualche segno di lotta addosso. Bisognava
spiegare quel sangue. Perché se non era mio, era suo. Di
conseguenza poteva diventare come minimo “eccesso di
legittima difesa”: in risposta a due pugni, l’avevo
colpito con il badile, l’unico oggetto sporco di sangue, e
buttato in acqua. O peggio, potevano sospettare che tutto fosse nato da
me. Non potevo rischiare.
Dovevo
ferirmi… Sembra facile.
Pensavo che se
almeno ci fosse stato ancora il Conte gli avrei chiesto di tirarmi una
badilata in fronte, tanto per… Farlo da solo era proprio un
altro paio di maniche…
Optai per una
soluzione più semplice, ma forse anche più
dolorosa. Il muretto di pietra…
Orribile,
veramente. Mi lasciai cadere a piombo sullo spigolo della bassa
superficie di pietrisco. Una botta terribile. Era sicuramente rimasto
macchiato di sangue, ma pensai che con tutto quello che c’era
in giro non se ne sarebbe accorto nessuno. Con l’ultima
lucidità, rotolai fino in mezzo al passaggio.
- Maledizione se
mi ha fatto male… Ah... Ma almeno ho qualcosa di rotto
anch’io… - commentai piano, mentre la vista mi si
scuriva.
Mi risvegliai,
addirittura, in un letto d’ospedale.
Come prima cosa
pensai che non tutti i padroni sotto cui ero stato assunto erano
così generosi con gli operai.
Ma subito dopo
ricordai quello che era successo. E come sempre capita, mi chiesi se
non era stato tutto un sogno. Ma esclusi immediatamente quella
possibilità. Mi sembrava di sentire ancora quel dannato
spigolo ficcato nella mia testa… Quello non me lo ero
inventato… Di conseguenza doveva esserci qualcosa di vero
anche in quella specie di incubo che avevo vissuto…
La voce di Frank
mi distrasse da questi pensieri: - Tyki! Vecchia pellaccia! Allora
finalmente ti sei svegliato! –
Erano tutti e tre
schierati davanti alla porta della stanza.
-
Già… - dissi, ma sul subito feci un po’
fatica a parlare.
- Lo sai che hai
dormito per quattro giorni? – mi chiese Iizu che aveva appena
preso posto su una sedia vicino al letto.
-
Davvero…? – commentai cercando di sfoderare il mio
solito sorriso ironico. Ci riuscivo senza problemi. Almeno quando
volevo essere un normale umano ci riuscivo, per fortuna…
- Si! Figurati che
il capo ti aveva fatto portare al volo all’ospedale
perché pensava schiattassi là! Ci hai fatto
prendere un colpo! – spiegò Momo, andando ad
aprire la finestra e facendo entrare un po’ di brezza
primaverile.
- Cosa hanno detto
i dottori? –
- Che hai una
testa dura, e questo lo sapevamo, ma che per il colpo che hai preso
neanche tu potevi sfuggire ad una commozione
celebrale… -
“Addirittura!”
pensavo, stupito “Allora avevo ragione a dire che mi sono
applicato anche troppo contro quel muretto…”
- A cosa stai
pensando? – chiese subito Iizu. SI vedeva che era preoccupato
e mi stava studiando.
- Pensavo a cosa
accidenti era preso a quel tizio… -
- A
Jonah…? – chiese il buon Momo.
- Chi
è? –
- Quel tipo che
lavorava con te! Non ne abbiamo più notizie da giorni!
–
Nessuna reazione
dalla mia anima. Nessuna.
- … Non
ricordo bene… Ad un certo punto mi è saltato
praticamente addosso… Mi sono difeso in qualche
modo… Devo averlo colpito con il badile… Poi, mi
ha fatto sbattere la testa contro il muretto… Mi girava la
testa… L’ho spinto via con tutta la forza che
avevo… Poi sono caduto… Non ricordo
altro… -
Mai vista una
recitazione migliore.
- Non ti
preoccupare… - commentò per consolarmi Frank
– Quel ragazzo era sempre stato un po’ strano. Il
capo è stato attento a non sollevare un polverone e per
farti ricoverare ha inventato una scusa assurda, ma convincente:
ufficialmente hai preso una trave in testa! Per il resto, Jonah non ha
famiglia né recapito. Ha mandato un comunicato di scomparsa
alla polizia, ma dubito che se ne occuperanno…
L’importante è che tu stia bene, pellaccia!
–
- Ora ti lasciamo
riposare e torniamo alla diga! E’ l’ultima
settimana, poi saremo di nuovo disoccupati! Quindi vedi di riprenderti
che dobbiamo andare a caccia! –
- Certo!
–
Poi, mentre
stavano uscendo, chiamai Iizu. Era stato vicino a me, ma non abbastanza
perché ne potessi essere sicuro.
Lui si
avvicinò fino davanti al letto. Gli misi una mano sulla
spalla.
Non sentii niente
di malvagio, proprio come aveva detto il Conte. Gli esseri umani
normali non erano più in pericolo in mia presenza.
Il bambino mi
guardò stupito, con due occhi azzurri spalancati, pieni di
innocenza: - Cosa c’è, Tyki…?
–
- No, niente.
– mentii, a malincuore – Stavo guardando se eri
davvero cresciuto in questi quattro giorni. -
- Certo, come no!
– rise Momo dalla porta – Guarda che oltre a te
nessuno si ricorda di innaffiarlo!- – Spiritoso! –
Feci un buffetto
sulla guancia del bambino: - Ci vediamo dopo! –
Sorrise allegro: -
A dopo! – e salutò con la mano mentre chiudeva la
porta alle loro spalle.
Mi ero lasciato
tentare dall’offerta di quel demone, eppure non ero stato in
grado di rinunciare a quel piccolo cantuccio tranquillo. Del tutto
irrazionale. Dannatamente pericoloso. E follemente divertente.
Mi alzai dal letto
lentamente, cercando di non perdere l’equilibrio, dato che la
vista mi ballava. Mi posi davanti allo specchio e sollevai un
po’ il cerotto che mi copriva una parte della fronte. Il
taglio non era profondo e probabilmente una volta guarito sarebbe
scomparso.
“Nulla
in confronto a queste cicatrici…” pensai, mentre
il mio volto assumeva di nuovo il colore della morte e i miei occhi
gialli tornavano a fissare quei profondi tagli a forma di
croce…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Due
piccoli appunti alla fine del capitolo:
1)
Rompo un po' l'alternanza per motivi pratici: sia questo capitolo che il prossimo saranno
dal punto di vista di Tyki (per la felicità delle
fan... E ringrazio Lady Greedy... ^_^)
2) Ho notato
che nella maggior parte delle fanfiction si usa il nome Ease (tratto dal manga)
piuttosto che Iizu (che ho trovato
nell'anime)... Se è un problema posso anche modificare...
Spero che vi piaccia... Questo capitolo mi è stato parecchio
difficile da scrivere... Per
favore, commentatelo...
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Capitolo 5 *** IV - Songs from Paradise ***
Capitolo
4
Songs
from Paradise
“Sono
gli angeli tutti tremendi.”
(R.M.
Rilke)
Non avevo nessun
problema al mondo, nessun dubbio, nessun timore.
Del resto, come la
mia anima sembrava essersi dissolta nel nulla, così, con
quel primo dialogo con il Conte, anche la semplice
razionalità si era rintanata da qualche parte, nascondendosi
dalla piacevole oscurità che mi avvolgeva.
Quando cercai di
inventarmi una buona scusa per lasciare il mio lavoro ufficiale e
dedicarmi alla mia nuova vocazione, ci misi un tempo interminabile a
trovare qualcosa di furbo da dire. La doppiezza non era ancora il mio
forte.
Così,
quando, due mesi dopo, il telefono della fabbrica in cui avevamo
trovato la nostra nuova occupazione suonò, non ero ancora
riuscito a trovare una scusa convincente. Ma sapevo anche che non ne
sarei stato in grado neppure se avessi avuto più tempo.
Mi chiamarono alla
cornetta, nello stupore generale. Risposi.
- Sir Mikk?
– la voce melliflua del Conte era inconfondibile.
- Si. –
- E’ un
piacere risentirvi! Avete sistemato i vostri affari? –
- No, per
nulla… - risposi sinceramente e in completa
tranquillità – Ma ogni promessa è
debito. Troverò una soluzione. –
- Bene! Allora vi
aspetto all’uscita dell’edificio tra un paio
d’ore! –
- Certamente.
–
Invece di tornare
dai ragazzi, mi avviai verso l’ufficio del principale, per
fortuna una persona decisamente posata e paziente. Gli dissi che avevo
avuto un gravissimo impegno personale e che dovevo assentarmi per un
po’ di tempo, non sapevo quanto. Lui storse il naso
commentando che non poteva in nessun caso lasciar un posto vacante. E
io gli dissi che se fossi mancato a lungo avrebbe avuto sicuramente il
diritto di licenziarmi e che quindi non avrei recriminato.
Più
difficile fu invece chiarirmi con i miei amici, che sapevano che non
potevo avere alcun impegno personale e che finora erano quasi sempre
riusciti a capire quando mentivo. Cercai di dire qualcosa che a grandi
linee potesse essere considerata la verità…
- UN
PART-TIME!?!?!? Che razza di balla è, Tyki!?!? -
Una reazione
più che logica…
- E’ che
un tizio un giorno mi ha chiesto se ero in grado di svolgere un
lavoretto per lui… Avete presente poco fa quando mi hanno
chiamato al telefono…? Era lui che voleva la
conferma… -
- E
perché proprio tu!? E sei sicuro che non sia un lavoro
sporco!? –
Per un attimo
rimasi tanto perplesso che dovetti nascondere l’incertezza
dietro un commento scherzoso: - Beh, anche fosse…? Non siamo
forse dei bari quasi di professione…? –
Prima che Frank
potesse riprendere la ramanzina, intervenne Momo, parecchio
innervosito: - Si, certo! Ma barare a carte per sfizio e lavorare per
un misterioso faccendiere sono due cose ben diverse! Non vorrai perdere
la tua moralità per… -
Il discorso stava
prendendo una piega preoccupante così aggiunsi malizioso: -
… per un sacco di soldi che ci farebbero comodo… -
Non ero neanche
sicuro che il Conte mi avrebbe lasciato usare il suo denaro per
sostentare i miei amici, ma a quel punto…
- Non vorrai
venderti solo per denaro!? Noi viviamo bene anche così,
Tyki! Stiamo bene, sempre insieme! -
Momo era sempre
stato il più sentimentale del gruppo.
- Va bene, va
bene… Allora sentite, andrò ad incontrare questo
tizio… Se vedrò qualcosa di sospetto e se non
piacerà come vanno le cose lo pianterò in
asso… -
Non pensavo
davvero di poterlo e volerlo fare, ma riuscii ugualmente a convincerli.
-
D’accordo. Però saluta Iizu prima di andare, se no
il bambino ci resta male… Tornerai presto? -
- Non
credo… Sicuramente non per cena… Magari neanche
dopo… Ma non preoccupatevi per me…-
- Troppo tardi!
– commentò Frank con un mezzo sorriso, puntando
con il dito l’espressione ansiosa di Momo.
- Vedi di stare
attento, Tyki… - si vedeva che non gli andava per niente di
lasciarmi andare.
- Si
si… Andrà tutto bene! A presto!
– e uscii.
Passando davanti
alla casupola un po’ diroccata che avevamo preso in affitto,
andai a salutare il piccolo Iizu. Sembrò ancora
più stupito degli altri del fatto che dovessi assentarmi per
qualche tempo, ma non chiese nulla.
I ragazzi erano
davvero la mia famiglia. Momo e Frank i padrini premurosi, Iizu il mio
caro fratello minore. Eppure stavo per conoscere persone con cui avevo
davvero un legame di sangue, anche se non certo pulito. Non provavo
però alcun entusiasmo, ma solo una maliziosa
curiosità.
Del resto fu
un’esperienza decisamente strana. Non tanto perché
gli elementi soprannaturali mi avessero in qualche modo sconvolto. I
fenomeni fuori dalla norma mi interessavano ben poco. Fu più
che altro tutto il resto…
Appena
attraversata quella porta che sembrava condurre ad un mondo di nulla
indefinito, la temperatura sembrò abbassarsi repentinamente,
ma l’ambiente che mi si presentò di fronte agli
occhi mi apparve, per qualche assurda ragione, quasi accogliente. Un
lungo corridoio dalle pareti (ma c’erano davvero pareti?)
nere correva per diversi metri, con quadri dalle cornici scomposte e
mobilia eccentrica ma sicuramente preziosa.
“Di buon
gusto… “ pensai, benché un commento
simile non si addicesse per nulla ad un poveraccio che entra per la
prima volta in una dimora signorile “…anche tutto
questo nero è interessante… Elegantemente gotico,
un po’ pesante, ma… ”
- Oh, ma
l’arredamento è tutto opera della nostra giovane
signorina Road! Lei adora il nero in tutte le sue sfumature, proprio
come me! – commentò giocondo il Conte, che mi
camminava a fianco.
Aggrottai le
sopracciglia con fastidio divertito: - Spero non mi leggiate anche nel
pensiero, signor Conte… -
Lui non rispose,
ma ancora una volta sembrava che si divertisse enormemente a fare
l’indiscreto.
- Mi sono
consultato con lei per tutte le scelte! Mi ha aiutato molto!
E’ di vostro piacimento!? -
- Sicuramente ha
qualcosa di affascinante… -
- Splendido!
–
-
…Vossignoria, lero! La cena si starà
raffreddando, lero! –
Mi voltai a
guardare la direzione da cui era giunta quella voce gracchiante e vidi
la testa di zucca sull’ombrello del Conte ballonzolare
lamentandosi in modo insopportabile. Il Conte annuiva con enorme
pazienza:
- Certamente,
Lero. Stiamo andando. -
Aggrottai di nuovo
le sopraciglia ma non chiesi nulla. Un ombrello parlante non era la mia
priorità in quel momento, per nulla.
In fondo al
corridoio campeggiava una enorme porta decorata da una imbottitura a
bottoni color rosso sangue. Il Conte la aprì con grazia ed
entrò subito nella sala.
Anche questa area
era completamente nera e cupa: ormai ci avevo fatto l’occhio
e mi piaceva anche. Al centro era posto un grandissimo tavolo da almeno
una trentina di posti, ma del quale solo tre sedie erano occupate. La
tavola era imbandita in grande stile e i sedili erano tanto alti e
ricchi da sembrare quasi dei troni.
Stavo per posare
lo sguardo su coloro che stavano seduti, quando un’ombra si
alzò dal nulla e saltò al collo del
Conte a fianco a me. Mi girai verso di lui, questa volta parecchio
stupito, e vidi una ragazzina a cui non avrei dato più di
undici anni che stringeva tra le braccia allegramente il gigantesco
busto del Conte.
- E’
tardi, uffa! Avevo una fame incredibile! Siete arrivato tardi! -
Lui la fece
staccare da addosso con molta delicatezza e la posò a terra
con un sospiro: - Lo so! Ma sono andato a prendere il nostro Tyki,
Road! – e fece un gesto leggero verso di me.
Quei suoi occhi da
rapace, gialli come i miei, iniziarono a fissarmi con insistenza.
Vestiva una gonnellina molto corta e una camicetta con le maniche a
sbuffo, un completo nero con pizzi e merletti in tinta. I capelli scuri
erano tagliati parecchio corti e lasciavano scoperta la fronte scura
segnata dalla corona di cicatrici.
Il suo sguardo
sembrava passarmi da parte a parte. Per un attimo mi venne voglia di
dirle di piantarla di frugare nella mia mente, perché
sembrava fosse davvero ciò che stava facendo. Poi
tornò a concentrarsi sul mio aspetto esteriore e questo mi
tranquillizzò. Ma fino ad un certo punto. Sembrava mi stesse
sottoponendo ad un test.
Infine la sua
espressione, da riluttante e dubbiosa che era, divenne subito
più amichevole.
- Io sono Road
Camelot! – disse, ridendo, e facendo una finta riverenza.
A conclusione di
quel momento, che mi era sembrato sicuramente più lungo di
quanto era stato in realtà, sembrava che si fosse formato un
tacito accordo tra di noi. Lei non avrebbe rivelato a nessuno della mia
doppia vita e, anzi, avrebbe fatto finta di non averla mai neanche
scoperta, come aveva fatto in realtà sicuramente frugando
nella mia testa. Ma in cambio, io avrei dimenticato di aver visto per
qualche momento in quella figura giovane di bambina l’ombra
di una creatura ben più anziana e decisamente più
potente e pericolosa.
Mi abbassai per
guardarla direttamente in viso e con un sorriso complice:
- Io sono Tyki.
Molto piacere. -
Riuscivo sempre a
tenere un buon rapporto con i bambini e se fossi riuscito a vederla
davvero semplicemente come una bimba più matura della sua
età probabilmente le cose sarebbero andate bene. Con un
eccesso di famigliarità, buttò anche a me le
braccia al collo ed esclamò: - Ora sei parte della famiglia!
Benvenuto! –
- Ah,
grazie… - risposi, un po’ confuso.
Ed ebbi
l’impressione che Road avesse approfittato di quel gesto per
lanciare uno sguardo complice al Conte…
Imparai molto in
fretta che il Conte amava imitare la vita delle famiglie normali,
benché noi non potessimo di certo considerarci tali.
Road, saltellando
intorno alla tavola, mi presentò gli altri membri della
famiglia: Lulubell e Skin.
Li salutai
cortesemente. Lei, serissima e compunta, fece giusto un cenno con il
capo. Lui mi porse rudemente una mano che strinsi, tranquillamente.
- E tutti gli
altri…!? Come mai non sono qui…!? –
chiese il Conte, sembrando quasi offeso, nonostante la sua
felicità perenne.
- Non lo so.
– rispose annoiata la bambina – E comunque lo
sapete che non si fanno quasi mai vedere qui. Solo Jusdero e Debit, che
stavamo aspettando, hanno mandato a dire che avevano un
impegno… -
- Umh…
Che impegno!? –
- Non
l’hanno detto. –
- I signorini
Jusdebit non sanno proprio come ci si comporta, lero! –
commentò l’ombrello dando forma probabilmente al
pensiero amareggiato del Conte.
- Pazienza!
Pazienza! Sarà comunque un’ottima cena di
famiglia! – rispose allegramente lui.
- Finalmente si
mangia! – commentò famelico il gigantesco Skin.
- Un momento
però! – e sollevò un calice –
Brindiamo all’arrivo di un altro nobile elemento della nostra
gloriosa famiglia! Il nobile Sir Tyki Mikk! –
Mi schermii
educatamente: - Troppo gentile, Conte! – ma alzai il calice
con una grazia appena scoperta.
La cena fu ottima,
bisogna dire, anche se rimasi un po’ colpito quando
comparvero quei famosi Akuma-camerieri di cui mi aveva accennato il
Conte. Tanto che pensai che onestamente avrei voluto avere a che fare
il meno possibile con quelle macchine. Fu questione di istinto, che
però il Conte aveva sicuramente percepito, così
come Road, che per qualche momento mi aveva guardato dubbiosa.
Così
chiesi informazioni nella discussione che tenni in privato con lui al
termine di quella prima cena.
- Sono io che mi
occupo degli Akuma! E’ una cosa che mi piace moltissimo e che
non scambierei per nient’altro al mondo! -
Nella mia mente
passò per un attimo l’immagine del Conte che
saltellava affaccendato intorno ad un tavolo da lavoro e mi venne quasi
da ridere. Mi trattenni per poco e nel recuperare la calma chiesi:
- Siete quindi un
inventore…? -
- Preferisco dire
un Costruttore! Del resto io realizzo lo stampo, la materia prima sono
le anime umane e la sofferenza di coloro che sopravvivono! –
Appoggiai le mani
giunte alla scrivania e domandai allora:
- Quindi cosa sono
gli Akuma? -
- Si tratta di
involucri meccanici senza vita nei quali viene rinchiusa
l’anima di un morto, richiamata nel mondo grazie
all’invocazione di una persona che soffre particolarmente di
quella perdita. Proprio il dolore è il collante del
processo. Il passo successivo è l’uccisione
dell’evocatore in modo tale che l’Akuma possa
prenderne il posto e continuare la sua opera di morte. –
- Capisco.
–
Era chiaro, molto
sofisticato e razionale come sistema. Certo, era un buon metodo per lo
sterminio delle persone qualunque, che tanto non dovevano riguardarmi
direttamente.
- Voi, in quanto
nobili signori di questo mondo, potete farne uso a vostro piacimento e
portarli anche con voi durante i vostri compiti. La creazione spetta a
me, l’utilizzo è libero! –
- Quindi se ne
può anche fare a meno, Conte? –
- Certamente! Del
resto sono molto geloso dei miei Akuma! Spesso la giovane Road ci gioca
o li porta in giro così finiscono per essere distrutti! Per
non parlare di Skin, Lulubell e Jusdebit! Li creo anche
perché servano a voi, certo, ma sapere che qualcuno ne
farà a meno mi rende felice! -
Il fatto che
avessi provato quell’innato ribrezzo non gli era certamente
piaciuto, ma penso che valutasse la mia scelta come un tentativo di
tenere maggior divertimento per me e che in questi termini
l’accettasse.
Finita quella
discussione, durata almeno un paio d’ore, il Conte mi
accompagnò alla mia camera. Anche quel corridoio era
decisamente grande e alternate alle grandi porte di legno
c’erano ampi specchi o larghe cornici.
Molte camere non
erano occupate, perché si aspettava ancora il risveglio di
alcuni famigliari o appartenevano a parenti che si presentavano
raramente alle occasioni e ancora più sporadicamente
decidevano di fermarsi a dormire. Mi chiese se la stanza era di mio
gradimento e io annuii semplicemente, perché era molto
migliore di quanto immaginassi e soprattutto era quasi in fondo al
corridoio, in una parte abbastanza isolata. Fu un sollievo.
Tuttavia notai che
una stanza si apriva praticamente di fronte alla mia e domandai chi vi
dormisse.
- Oh, per ora
è vuota! Ma non credo lo sarà per molto, se le
cose andranno bene! -
Guardò
per qualche secondo la mia espressione, che probabilmente mostrava il
fastidio che provavo all’idea di avere un vicino di camera e
aggiunse:
- Fidatevi di me,
Sir Mikk! Non vi dispiacerà per niente la compagnia, ve lo
assicuro! – e fece un rumore sordo che doveva essere una
sorta di risata.
Non risposi, anche
se quelle parole non mi erano piaciute molto…
I mesi passarono
serenamente, senza quasi che me ne accorgessi.
Con il tempo
iniziai ad alternare la famiglia e gli amici senza provare alcuna
difficoltà. Mi sentivo a mio agio in entrambi i ruoli e il
mio carattere si era mantenuto integro, alla fine, nonostante il
“risveglio” delle buone maniere. Incredibilmente
riuscivo a restare me stesso. Del resto, a parte qualche sviolinata per
il Conte o qualche momento in cui era richiesta la finezza dei modi,
potevo comportarmi normalmente senza destare alcuna preoccupazione nel
parentado, che d’altra parte non sembrava appartenere ad
alcun grado di nobiltà, onestamente parlando.
Road era (o
sembrava solo?) una bambina viziata, ma parecchio indisciplinata e non
proprio una giovane aristocratica, come mi ricordava più per
gioco che per orgoglio. Sembrava che le stessi particolarmente
simpatico e trovava tutte le scuse possibili per entrare in camera a
chiedermi qualcosa. Da parte mia non potevo dire di non
ricambiare… Era diventata una sorta di sorellina, credo,
anche se ogni tanto rivelava di sapere cose estremamente complicate e
dimostrava una malizia davvero crudele. Dopo molta fatica, riuscii a
farmi promettere che non avrebbe mai più letto nella mia
mente. Era una cosa che mi infastidiva troppo: se ne era accorta e
aveva definitivamente smesso, in ogni caso tra mille sbuffi e lamentele.
In famiglia ci
sono anche i “parenti coltelli”, no? Io andavo
d’accordo relativamente con tutti, ma non è detto
che tutti mi dovessero stare per forza simpatici…
Skin era
decisamente un tipo brutale. La sua passione per i dolci era quasi
ossessiva, ma Road mi aveva spiegato che si trattava di una conseguenza
del risveglio, proprio come la sua continua aggressività. La
sua voce rimaneva sempre almeno di cinque toni più alta del
normale e il comportamento civile non era certo il suo forte. Per
entrare nelle sue simpatie bastava non stuzzicarlo e lasciarlo fare,
per questo ottenni molto in fretta la sua attenzione e, potrei dire, il
suo rispetto. Probabilmente mi avrebbe apprezzato di più
avesse saputo da dove provenivo, ma non mi interessava poi
familiarizzare con lui più del necessario.
Con Lulubell, poi,
era praticamente impossibile andare davvero d’accordo. Tranne
rarissime occasioni, preferiva andare in giro per casa in forma di
gatto, piuttosto che umana. Il suo temperamento era più
freddo di un ghiacciolo e la sua mente tanto calma e calcolatrice da
incutere brividi a chiunque. Certo, guardandola la si poteva
considerare una bella donna, anche molto curata, ma la fregava il suo
temperamento felino, parecchio inquietante.
Per ultimi
c’erano i gemelli Jusdebit… Ora, non è
che io avessi dei problemi con loro. Anzi, li trovavo divertenti, anche
se un po’ troppo chiassosi… Però ci
voleva sempre una pazienza da santo, che di certo io non possedevo, ma
che supplivo bene con un buona dose di sano menefreghismo, proprio come
piaceva al Conte. Avevano un ego smisurato e una abilità
nell’irritare le persone che superava la sopportazione umana.
In generale, comunque, ormai ci stuzzicavamo a vicenda senza problemi e
anzi era diventato il nostro sport preferito, anche se ero io a
stufarmi sempre per primo.
Il Conte
continuava a prometterci che prima o poi avremmo cominciato a lavorare
davvero, tuttavia io stavo bene anche così.
Finché non avessi riscoperto il piacere
dell’omicidio, potevo anche vivere in quel modo tranquillo.
Gli altri scalpitavano, chi più chi meno, all’idea
di combattere con gli Esorcisti, a me onestamente in quel periodo la
cosa era assolutamente indifferente come molte altre… Mi si
addiceva di più la vita rilassata…
Se fosse rimasta
rilassata e semplice…
Un giorno,
all’improvviso, quando ero appena tornato dal lavoro con i
ragazzi era squillato il telefono pubblico senza il minimo preavviso.
Mi avevano
guardato per un attimo in cagnesco, poi avevano sbuffato un
po’ tra di loro e infine mi avevano detto di tornare presto.
Ormai anche loro avevano accettato questo strano mistero e avevano
deciso di lasciarmi continuare, a meno che non avessero scoperto che
stavo davvero facendo qualcosa di illegale o avessero dovuto tirarmi
fuori dal carcere. Salutai tutti e mi avviai ad incontrare il Conte.
Svoltato l’angolo ero già vestito del mio completo
pulito.
- Buonasera,
Tykipon! – esclamò, più allegro che mai.
Sospirai: - Road
vi ha attaccato questa mania...? Lo sapete che non mi piace quel
soprannome… -
-
Perché!? Io lo trovo carino! -
- Ah… -
Da un
po’ di tempo le maniere del Capo erano diventate sempre
più amichevoli. Si vedeva che il concetto di
“famiglia” era sempre più radicato in
lui…
Appena entrati a
casa, esclamò come se nulla fosse: - Preparatevi! Questa
sera usciamo! –
Rimasi un attimo
stupito: - … Quando dite “usciamo”,
intendete che venite anche voi…? –
Prese
un’aria da cospiratore che non mi piacque per nulla: - Certo!
Cosa ci sarebbe di strano!? -
-
Nulla… - ammisi, anche se non era vero. In genere quando
andavamo in qualche ristorante proprietà di Akuma veniva in
effetti con noi, ma per il resto le rare passeggiate notturne le facevo
solo con Road.
Mi spinse
amichevolmente con una mano sulla schiena: - Forza! Andate a fare una
doccia, che tra poco si cena! Dopo di che, questa sera andiamo tutti a
teatro! –
- A teatro!? -
- Certo certo, a
teatro! Oggi rappresentano “La Traviata”! Su,
forza! –
- Che cosa!?
– tentai di esclamare, ma nel frattempo mi aveva
già spinto nel bagno chiudendo la porta dietro di me.
Mi chiedevo da
quando al Conte piacessero le opere liriche…
Di sicuro la
musica classica non aveva nulla a che fare con noi Noah: Road e Jusdero
e Debit sentivano in genere solo punk ed heavy metal, Skin sembrava non
essere mai interessato a
nulla in
particolare, alla fine l’unica che poteva magari coltivare
una simile passione era la fine Lulubell, ma da buon gatto non
apprezzava in realtà alcun tipo di rumore. Per conto mio,
insieme alle mie nuove innate maniere eleganti, avevo un giorno
scoperto di saper suonare il piano… E ne ero rimasto
talmente allibito che ogni tanto andavo a testare queste nuove
capacità sul pianoforte a coda del Conte… A detta
del padrone e della stessa Road, che studiava musica a scuola, non ero
neanche malvagio come musicista…
La cosa comunque
non mi quadrava per nulla e continuavo a pensarci ossessivamente mentre
l’acqua calda mi scorreva addosso. Il Conte non faceva mai
nulla per nulla. C’era di certo qualcosa che non mi aveva
ancora detto…
Ero appena uscito
dalla doccia quando Road cominciò a bussare alla porta:
- Tyki! I vestiti!
-
Mi
infilai pudicamente la camicia e i pantaloni e le aprii la porta:
- Credevo di poter
tenere questi… -
Mi
guardò con rimprovero: - Scherzi!? Questa sera il Conte ti
vuole al massimo splendore! Ha fatto andare addirittura Skin a
comprarti questo completo costosissimo! Volevo andare io, ma mi ha
detto che una bambina in un negozio per uomini sarebbe stata
sospetta… – e fece spallucce.
Sgranai gli occhi:
- Perché!? –
- Oh, andiamo!
– esclamò scuotendo la testa – Vorrai
mica fare una cattiva figura con LEI, spero! -
Mi sedetti sullo
sgabello, seriamente confuso: - “Massimo
splendore”…? – lanciai uno sguardo al
completo di cashmire che teneva sul braccio –
“Completo costosissimo”… ?
“Skin”…? E poi “cattiva
figura”…? “LEI”…?
Cosa…!? -
- Possibile che il
Conte non ti abbia ancora detto nulla!? E quanto pensa ancora di
aspettare! -
Presi allora a
ribellarmi e cominciai dalla cosa più stupida che mi venne
in mente, in effetti:
- Prima di tutto,
perché me l’ha scelto Skin!? Non poteva mandare
me!? Non si fida!? – e aggiunsi con un mezzo sorrisino
– Non che Dolcetto non abbia buon gusto, ma sarà
almeno di otto taglie più grande… -
- Tyki! Gli ho
dato io le misure giuste! Ma poi tra tutto è questo che ti
preoccupa!? –
- No,
certo… Ma è stata la prima cosa… -
- Cioè,
il Conte ti prepara una FIDANZATA a tua insaputa e tu ti preoccupi
della taglia del vestito e… -
Non fece in tempo
a terminare la frase che io, con addosso quella camicia e quei
pantaloni fradici, ero già nel corridoio davanti allo studio
“telefonico” del Conte.
Non mi piaceva
fare le scenate, ma in quel momento non potei davvero farne a meno.
Spalancai la porta e, con l’espressione più
stizzita che avevo, annunciai, tutto d’un fiato:
- Conte, cosa
accidenti è questa storia della
“fidanzata”!? Non è per nulla
divertente, sapete!? Non mi pare di aver mai espresso il mio parere ad
una cosa simile! E poi non ho nessuna intenzione di sposarmi! Non ho
neanche ancora trent’anni, che diavolo! E se poi ben fosse,
avrei intenzione di scegliermi io chi, dove e quando! In questo, mi
dispiace, ma non c’è famiglia che tenga!
E… - dovetti fermarmi o sarei crollato per terra senza fiato.
Lui non fece una
piega e guardò Road che si era affacciata alle mie spalle:
- Road, possibile
che tu debba sempre anticipare tutto…!? -
-
Scusa… E’ che non sapeva niente e mi sembrava
strano… Così, mi è
scappato… -
- Conte!
– cercai di richiamare la sua attenzione.
- Beh, ma questa
è una fidanzata speciale! Che solo io potevo procurarvi!
– esclamò giocondo, come se fossi entrato
educatamente e mi fossi seduto di fronte a lui a discutere civilmente
la cosa – Si tratta di una nostra nuova cugina, destinata ad
entrare presto in famiglia! Volevo invitarla questa sera a cena, ma ha
declinato, così ho organizzato questo incontro e per darci
una bella cornice ho pensato all’opera!
L’originalità prima di tutto! –
In quel momento,
quasi sfondando la porta, entrarono come un razzo i due gemelli,
piagnucolanti, ma sbraitando come dei pazzi: -
Conteeeeeeeeeeeeeeeee… Perché dobbiamo venire
anche noiiiiiiiiiiii…???????? -
- Ecco, ci
mancavano loro… - commentai, con uno sbuffo.
- Silenzio,
Stupid-Tyki! – poi Debit, ancora rivolto al Conte –
Perché dobbiamo venire anche noi a quella cosa
noiosissimaaaaaaaaa… A noi non importa di vedere oggi la
fidanzata di questo qui, vogliamo restare a casaaaaaaaaaa… -
- Ma ragazzi, non
dimenticatevi che sarà anche una vostra cugina! –
- Appunto e la
vedremo qui quasi tutti i giorni… Per favore… -
- Conte, io non
sono per nulla intenzionato né a fidanzarmi né
niente di simile. Credo di avere ancora il diritto di decidere. E poi
soprattutto, non aspettatevi che faccia quello che volete, dal momento
che non ritenete neanche opportuno di parlarne prima con me. –
Mi stavo
arrabbiando e il tono di voce che usavo era tanto serio e scuro, che
anche i gemelli si fermarono e mi guardavano silenziosi. Ma non potevo
neanche aspettarmi che questo spazientisse il mio interlocutore, che
come al solito, con un ghigno felice, rispose calmo:
- Non ve ne ho
parlato perché vi conosco bene e non ho dubbi che gradirete
la mia scelta! E poi se avessi lasciato fare a voi, mi dispiace dirlo,
ma avreste finito certamente per scegliere un’umana
qualunque! Non vi preoccupate, comunque, perché non ne avete
davvero motivo! E ora per favore, preparatevi per la cena, che poi
usciamo subito! -
Fu una cena
estremamente fredda e per questa volta non fu colpa di
Lulubell…
I gemelli tenevano
il muso come due bambini delle elementari ed io…
beh… probabilmente facevo lo stesso…
Mi stavano
appioppando una fidanzata! Una che non avevo mai visto e che
probabilmente non potevo neanche rifiutare, dato che era sponsorizzata
dal Conte! Conoscendo poi le sue opinioni, ad esempio il fatto che non
si considerava per nulla grasso, poteva tranquillamente essere un peso
massimo, maledizione! E poi non si era neanche messo a commentare se
fosse bella o meno e questo se possibile mi preoccupava ancora di
più! Tra l’altro era una Noah… La cosa
mi lasciava stranito, perché negli anni e nonostante la mia
nuova vita, avevo sempre avuto solo donne umane… Cosa
significava stare con una della famiglia (a parte l’incesto
simbolico…)? Beh, la mia mente vagabondava in idee alquanto
bizzarre e strane che è meglio non ripetere…
D’altra
parte eravamo al dolce quando la voce di Road ruppe il corso delle mie
fantasie:
- Quindi per farla
breve, parla di una giovane prostituta che si innamora di un suo
ammiratore. Si lascia però convincere dal padre di lui a
lasciare l’amato per evitargli una cattiva reputazione. Non
gli spiega i motivi della rottura, per cui quello crede
l’abbia fatto per tornare al vecchio mestiere e le fa una
scenata assurda. Lei, già malata di tisi, è alla
fine quando il padre si pente di ciò che l’ha
obbligata a fare e l’uomo fa giusto in tempo a tornare da lei
per vederla morire. – teneva in mano un libretto che
probabilmente aveva appena finito di leggere.
- Si, esatto!
– rispose il Conte.
- Che strazio!
– esclamarono all’unisono i gemelli.
-
Già… - commentò lei, storcendo il naso.
- … Ma
è fatto per essere straziante… - aggiunsi
pigramente.
- Però
anche la protagonista magari non è male… -
riprese lei – Una vera peccatrice… - con una
leggera ammirazione nella voce.
- … Ma
con l’amore si redime, no? –
- Ma che
“si redime”, Tyki! Si rammollisce,
nient’altro! Certi marchi non si lavano via in nessun modo! E
poi, “l’amore”… Bah, sono
concetti fatti solo per gente come gli Esorcisti… -
Quando parlava
così sembrava la versione più piccola e
fortunatamente più graziosa del Conte…
- Su , allora!
Altrimenti faremo tardi! – la interruppe
quest’ultimo e ci alzammo tutti insieme da tavola.
Il teatro era
affollatissimo, ma il Conte non poteva ugualmente mostrarsi in
pubblico, per questo ci mollò lì quasi subito.
Aveva prenotato un palchetto, a mio nome. E per fortuna fui io a
parlare con l’addetto che concentrandosi su di me forse non
notò quanto fosse bizzarro il nostro gruppetto…
Skin era
totalmente fuori luogo: era certo impeccabile per abbigliamento e se se
ne stava zitto e tranquillo poteva anche passare, il problema era che
per stazza sembrava più la nostra guardia del corpo. I
gemelli erano impacciatissimi in quegli abiti eleganti: Jusdero in
particolare aveva addirittura dovuto togliersi quel suo strano percing
sulla bocca e a tratti si massaggiava i punti in cui si era appena
strappato i chiodini. Lulubell vestiva come al solito: un completo BLU
con i PANTALONI e la maggior parte delle signore in abito da sera la
guardavano male. L’unica ancora passabile era Road, ma
avrebbe forse dovuto evitare di vestirsi completamente di nero e
soprattutto di portare con lei l’ombrello Lero.
La salvezza fu
raggiungere alla fine i posti prenotati.
Una volta che il
separatorio fu chiuso, ricomparve il Conte, ma ormai
l’effetto era perduto: i Jusdebit si erano stravaccati
scompostamente, la gatta aveva cominciato ad aggiustarsi le unghie, il
body-guard aveva estratto la sua scorta eterna di dolciumi e la bambina
aveva ricominciato a saltellare in giro. Quell’area era
già diventata la caotica succursale di casa
nostra…
Quando le luci si
abbassarono, Road venne a sedersi nei posti vicini alla balaustra con
me, mentre dietro il vocio offeso dei gemelli diminuì di
intensità ma non si spense.
Chiesi allora al
Conte: - Quando arriverà chi deve arrivare…?
–
- Ah, non lo so!
– esclamò allegro – Forse tra non molto,
forse, chissà…! -
- Come sarebbe a
dire…? –
Alzò le
spalle e non rispose…
In
realtà, strano a dirsi, non ero per nulla tranquillo. La
venuta di questa misteriosa fidanzata era riuscita a scalfire la mia
impassibilità. Mettevo e toglievo i guanti, stropicciandoli
tra le mani e il mio sguardo correva tutt’intorno, come se
sperassi di riconoscerla. Vedendo come i miei parenti erano
così bravi a confondersi tra la folla, pensavo di poterla
vedere distintamente. Eppure niente e l’attesa mi irritava in
maniera assurda…
Proprio per
riprendere il controllo di me decisi di prestare attenzione
all’opera, che altrimenti avrei ignorato del tutto…
Le ultime parole
che udii furono di Road (“Ah, ecco la protagonista!
Però questa musica è davvero una
lagna… Vero, Tyki?”), poi più
nulla… Non riuscii neanche a risponderle… La mia
mente fu assorbita completamente dallo spettacolo che si offriva ai
miei occhi e, strano a dirsi, alle mie orecchie…
Sul palco era
entrata una donna bellissima…
Io ne avevo viste
molte di donne con quel tipo di bellezza: eleganza sfatta, sensuale,
atta ad attirare gli uomini nel modo più diretto e chiaro.
L’abito, lungo, ampliamente decorato, aveva una lieve
scollatura e il trucco sul suo viso era fine ma molto appariscente.
Eppure, anche se la sua interpretazione prevedeva tutto questo, si
vedeva chiaramente qualcosa di infinitamente puro e candido in quel
volto… Certo Violetta, la giovane prostituta, era
innamorata, quindi anche l’aria pulita e felice poteva
derivare solo dal personaggio presente sulla scena. Eppure quella
dolcezza infinita e devastante sembrava essere solo sua, provenire
direttamente dal suo animo…
Poi, qualche
istante dopo, fu la sua voce… Forte, chiara, brillante,
simile a quella che poteva avere un vero angelo… Ne fui
rapito, come potrebbe capitare ad un comune essere umano…
Non ad un Noah…
Fu un gesto, un
movimento o forse piuttosto il tono astioso che aveva assunto per un
attimo mentre cantava le sue ragioni al padre dell’amato. E
la riconobbi proprio per quella ostilità, velata dalla
paura…
Non poteva essere
altri che lei, la giovane suora che aveva aiutato Iizu…
Non che avessi la
possibilità di averne la piena certezza: la cantante aveva
lunghi capelli neri che scendevano molto sotto le spalle e
un’abilità canora che non avevo mai potuto trovare
nella religiosa, che pure, pensandoci, aveva parlato di far parte del
coro. Cercai di focalizzare bene il viso, ma coperto di trucco non
poteva essere paragonato a quel volto acqua e sapone appartenuto ai
miei ricordi. Da quella distanza non era possibile poi neanche tentare
di verificare il colore dei suoi occhi.
Mi sarebbe
piaciuto crederlo, ma c’erano una lunga serie di motivi per
cui dovevo sbagliarmi. Come poteva essere uscita dal convento?
Soprattutto, perché sarebbe uscita dal convento? Dopotutto
là stava benone o almeno così mi era sembrato.
Poi in così poco tempo come avrebbe potuto diventare una
cantante lirica? Come avrebbe ottenuto la capacità di farsi
strada nel mondo? Come avrebbe mai superato le sue paure?
Impossibile…
Eppure per un
attimo mi si aprì nella mente un’ipotesi ancora
più assurda, ancora più crudele, ancora
più irrazionale. Se quella donna fosse stata davvero la
giovane suora che, devo dirlo sinceramente, mi aveva rubato il cuore,
allora sarebbe potuta essere sempre lei la ragione per cui ci trovavamo
lì… Era una coincidenza troppo bizzarra, troppo
assurda, troppo casuale perché non si trattasse di un
simpatico giochetto del Conte… Ma questo avrebbe portato
anche un’altra idea, che non avevo alcun modo di considerare
ragionevole… Lei la Noah, lei la persona che a detta del
capo non avrei mai rifiutato… Lei la fidanzata preparata per
me…
Per un attimo
l’idea mi affascinò, ma era tanto assurda che
cadde da sé…
D’altra
parte i ricordi riportavano alla luce una creatura splendente e
meravigliosa… Non certo una mia parente, senza
dubbio…
Non riuscivo a
fare a meno di fissarla, assorto completamente in quella voce splendida
che riempiva in modo perfetto la melodia…
Aveva del bello e
del buono la mia parte “nera” a sbraitare dentro di
me… Solo poche frasi riuscivano a invadere la mia
mente… E non potevo evitare di riconoscerle come
vere…
Non ero
più quel ragazzo generoso e allegrotto… O forse
lo ero ancora, ma solo per una parte che conviveva in modo davvero
bizzarro con l’altra, più forte e
oscura… Ero un uomo “nero” che doveva
incontrare una donna altrettanto “nera”…
Un essere candido e pulito, per quanto affascinante, non poteva avere
nulla a che fare con me…
Cosa
c’era di più vero…? Non era questione
di Bene o Male, ma solo di forma e apparenza, di carattere e
conformazione... Di Anima… Da quanto tempo non percepivo
l’esistenza di questa parola…? Potevo ancora
parlarne…? Mi importava avere o catalogare una componente
simile…? Ad un Noah serviva un’anima…?
La risposta era semplicemente no…
L’opera
terminò e non mi ne accorsi.
La cantante del
resto era ancora sul palco, che si inchinava al pubblico che dalle
prime file lanciava fiori intorno a lei. Fu come al solito Road a
scuotermi dal torpore:
- Tyki! Vuoi
tornare fra noi!? -
Sobbalzai sulla
sedia e la guardai, sicuramente con sguardo stranito:
-
Perché? Cosa? -
- Be’,
forse perché è tutta l’opera che ti
parlo insieme per scacciare la noia ma non mi hai mai risposto!
–
- Ero preso dalla
storia… - cercai di giustificarmi con un sorriso colpevole.
- Figurati! Una
cosa così strappalacrime! –
- Preferisci
sentirti dire che mi interessava la musica…? –
- No, preferirei
che mi dicessi sinceramente chi è quella cantante!
–
- Mi hai di nuovo
letto nel pensiero! – esclamai
- No, molto
più semplicemente ti ho osservato! Ti mancava solo la bava
alla bocca! –
- Road…
- cominciai cercando il modo di chiarire la mia posizione, ma Debit
interruppe questo pietoso tentativo.
- Ehi voi! Dove
accidenti è finito il Conte!? Mica se la sarà
svignata! –
-
Probabile… - Lulubell aveva aperto bocca forse per la prima
volta in tutta la giornata.
- Uff, magari
è andato a prendere la nostra cugina… Dai,
andiamo nell’atrio da aspettarlo… - poi rivolta a
me, con un sorriso malizioso – Così Tyki
può andare a parlare con la nostra primadonna…
Anche se non sarà un po’ maleducato farlo di
fronte alla tua promessa…? –
Sospirai.
D’altra
parte, però, andare a fare i complimenti alla soprano non
era certo reato…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Difficilotto
anche portare a termine questo...
Ho fatto una sintesi abbastanza selvaggia di lunghi mesi di convivenza
a "casa Noah" perchè se no diventava un romanzo...
Grazie davvero dei complimenti, Lady Greedy!
Mi hanno fatto davvero molto piacere! Spero di non deluderti, dato che
finora sei la mia sola lettrice... ^_^ Spero comunque sempre
che prima o poi anche altri commentino, mi raccomando!
|
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Capitolo 6 *** V - The new way ***
Capitolo 5
The
new way
“Volli,
e volli sempre, e fortissimamente volli.”
(V.
Alfieri)
Avevo promesso di
non farmi ingannare da quel demone malvagio.
Eppure lo
ascoltai, anche se forse avrei potuto andarmene. Tentai di ribellarmi,
anche se era logico che lui sapesse bene dove colpire. Mi opposi e lo
insultai cercando però di mantenere il controllo, di tornare
umana, anche se lui non si scalfiva minimamente nel suo volto crudele.
Sbagliai enormemente anche nel solo pensare che in qualcosa potesse
avere ragione e bastò questo perché lui si
sentisse in diritto di farmi la sua proposta…
Decise di
prendermi con sé come un giocattolo guasto da aggiustare,
come una sfida alle sue arti, come una serpe in seno che lui avrebbe
trasformato in una delizia addomesticata nel suo giardino…
Non gli importava quanto gli fossi ostile, quanto lo
combattessi… Il Conte sapeva esattamente che alla fine
sarebbe bastato corrompere fino al più profondo una sola
anima per farmi capitolare…
Di certo non mi
aveva obbligata a predisporre questa guerra di trincea nel suo
territorio, un progetto assurdo e destinato al fallimento, secondo lui.
Mi aveva detto di seguirlo, che il mio sangue parlava da sé,
che essere parte della famiglia sarebbe stato il mio orgoglio e se ora
non potevo capirlo un giorno lo avrei fatto. Io l’avevo
sfidato e lui aveva fatto la sua infame mossa. Eppure potevo anche,
soffrendone certo, tirarmi indietro, lasciare che tutto andasse come
era stato concordato, restare al mio posto. Con quelle parole
però mi aveva convinta a provare, sulla base della mia
stessa fiducia nella vittoria del Bene. Convinta, non obbligata.
La colpa era solo
e solamente mia…
Quella sera stessa
il Conte aveva proposto una fuga notturna dal convento, ma le mie
esatte parole di risposta erano state: “Non se ne parla,
Conte… Conosco un solo modo di uscire di qui e questo
userò…” Non si indispettì
neanche questa volta e semplicemente alzò le sue ridicole
spalle grassocce.
Parlai con la
superiora chiaramente e senza mezzi termini di una seria crisi
personale dovuta alla completa solitudine della condizione monacale ed
espressi il più assoluto bisogno di vivere nel mondo. Fu
semplice, estremamente semplice, anche se mi fece più male
di quanto immaginassi mentire alle sue domande. Era decisamente stupita
di sentirmi parlare in quel modo e dovetti trovare il modo di
convincerla della necessità di lasciare il convento, per
quanto quell’ipotesi in fondo al cuore mi procurasse una
paura incontenibile. Tutto andò bene, comunque, e la
cerimonia di proscioglimento dei voti avvenne subito il giorno dopo.
Mentre preparavo
le valigie, proprio come mi aspettavo, ricevetti la classica visita del
Conte, comparso praticamente dal nulla.
- Vivy... Sai che
la superiora sta mandando proprio in questo momento una lettera alla
più vicina sede dell’Inquisizione…? -
Già
quel giorno, durante il nostro primo colloquio, era passato dal
“voi” rituale al “tu” nel giro
di un nulla.
- Lo immaginavo.
– risposi, ritirando una delle poche camicie che avevo tenuto
con me dalla mia vita secolare.
- Non ti
stupisce… -
- Neanche un
po’. Di fronte a me non ne aveva fatto parola, ma si capiva
che una delle sue preoccupazioni era data appunto dal consiglio
dell’Inquisizione. E’ normale che scriva una
lettera a Padre Rouelle. – continuai, decisa e continuando a
ritirare, evitando ostinatamente di rivolgergli uno sguardo.
- Oh, si! Quel
famoso inquisitore che ha fatto torturare tuo padre e uccidere tua
madre! Un povero idiota che non sapeva distinguere una strega da una
Noah! Quell’uomo privo di alcun tipo di pietà che
non vedeva l’ora di stringere tra le sue grinfie anche te e
ammazzarti come un cane… -
Un terribile
brivido mi percorse la schiena e dovetti fermarmi per non cedere ancora
a quella mia Paura che il Conte tanto amava. Non avevo intenzione di
mostrare alcuna debolezza.
Presi un respiro e
annuii, fissando immobile il muro di fronte a me: - Esatto.
“Quel” Padre Rouelle, Conte. In ogni caso la
missiva gli arriverà troppo tardi per riuscire a fermarmi.
–
-
Strano… Non provi un enorme odio per lui…?
–
Sapeva solo
istigare il mio animo, ma non sapeva quanto potesse essere forte.
- E’
vero… Ma non mi importa… Presto sarà
ancora più distante da me, per fortuna. Non avrà
più alcun potere sulla mia vita… -
- Certo!
Perché la stai votando a me e alla causa della tua famiglia!
–
- Sempre la solita
frase. Vedete di ricordarvi – puntualizzai, voltando per la
prima volta il viso per fissare il suo aspetto di insana
malignità – che io non vi appartengo per
nulla… Non è per voi che mi trovo a questo
punto… -
Un breve momento
colmo di silenzio e ostilità corse tra di noi.
- Lo so bene!
– ridacchiò come se nulla potesse irritarlo
– Però non sarà così per
molto! Presto… -
- Smettetela di
ripeterlo! Io farò qualunque cosa per evitarlo! –
- E non ci
riuscirai… -
- Pensatela come
volete… - e chiusi di scatto la valigia ormai piena.
Come potevo
avviarmi ad una vita che sarebbe consistita semplicemente in una lotta
inutile contro un potere tale da contrastare Dio? Chi credevo di essere
io per fare qualcosa di simile? Possibile che mi sentissi tanto
speciale? Non si trattava di combattere contro le tentazioni di tutti i
giorni, quelle che ogni uomo ha e che con un impegno corrispondente
può annientare. Mi stavo inoltrando fino alla radice della
pura malvagità e proprio da quell’abisso
più oscuro credevo di poter portare avanti una rivolta. Mi
consideravo come una specie di “paladina della
Fede”? Ero probabilmente impazzita… La speranza
è la matrice della vita, ma anche la sua morte…
Portavo ancora la
mia piccola croce d’oro al polso. Era un simbolo di
ciò che più di tutto avevo a cuore: il ricordo di
mia madre, la prima Noah ad aver rifiutato il suo sangue, di mio padre,
che non sapevo più dove potesse essere, di quegli anni di
pace e solitudine che tanto mi avevano aiutata a trovare un
equilibrio… Mi capitava anche che il bracciale mi facesse
ricordare le esatte parole di quell’anziano generoso Bookman
e mi chiedevo come avevo potuto farmi trascinare dal Diavolo fino a
questo punto. Non avrei dovuto ribellarmi? Stare attenta a non farmi
ingannare? Ormai anche dire cose simili non aveva più senso.
Più di
una volta avevo notato quell’assurdo demonio fissare il mio
prezioso cimelio con ostilità beffarda. Non me ne fregava
nulla. Doveva solo osare portarmelo via, non immaginava cosa avrei
potuto fare davvero. Al pensiero di un affronto simile scorreva
però di nuovo furioso il mio potere nero e per questo dovevo
placarmi con l’uso di tutte le mie forze e di una preghiera.
Vivevo ormai
così fuori dal convento, in continua lotta con
quell’oscurità che minacciava ogni momento di
prendere il sopravvento. Del resto, avevo abbandonato Dio…
Avevo deciso di fare parte del suo più ostile schieramento
nemico, poco importava se lo scopo fondamentale fosse nobile…
- Hai una voce
degna di una cantante d’opera! – esclamò
un giorno il Conte.
Mi bloccai di
scatto nel bel mezzo dei miei salmi, che come sempre stavo cantando.
Non mi piaceva che fosse presente quando pregavo. Anche se, in effetti,
mi trovavo in una camera d’albergo che aveva prenotato lui.
Mi chiedevo come. Ad ogni modo ero certa che fosse un complimento, ma
non riuscivo a capire in che termini.
-
Cos’è una “cantante
d’opera”…? - chiesi, sospettosa,
sedendomi sul letto.
Rise allegramente
e ciò mi irritò parecchio.
- Sentite un
po’… Vi divertite a prendermi in giro…?
-
- Possibile che
davvero tu non lo sappia!? Eppure hai vissuto secolarmente fino alla
maggiore età! -
- E con
questo…? O mi spiegate… -
- Certo, certo! Si
tratta di una donna che recita a teatro cantando. Si tratta in genere
di recite piene di patos e disgrazie di ogni tipo, ma accompagnate da
melodie che hanno fatto la storia della musica. Insomma, è
un mestiere, ma anche una vocazione, per certi termini.-
Sbuffai: - Fatemi
il piacere di non usare il termine “vocazione”
così alla leggera… -
- Parlo sul serio!
Ci vuole un’abilità canora notevole, che non tutti
hanno… -
Mi stava
lusingando. Una cosa che davvero non sopportavo. Tuttavia cantare era
una mia passione, quindi un’attività simile mi
sarebbe piaciuta davvero. Decisi di stare al suo gioco.
- Quindi cosa vi
fa pensare che io la possegga? -
Lui si sedette
allegro sulla sedia imbottita dello scrittoio e mi guardò
nel suo solito modo abbastanza maligno:
- Oh, io sono un
grande amante della lirica! Sono l’unico in famiglia! Quindi
me ne intendo, per certi versi! -
- Uhm…
-
- Non ti
fidi…? –
- Sapete
com’è… La fiducia bisogna
conquistarsela… -
- Va bene, va
bene! Però l’idea ti piace, giusto…?
–
Ci pensai qualche
momento. La risposta era si. Tuttavia sapevo cosa comportava fare tutto
ciò che lui predisponeva? Affidarsi a lui significava
entrare a far parte della sua schiera di giocattoli.
- Quando avete
intenzione di presentarmi in famiglia? -
Lo fissai. Quel
cambio repentino di argomento l’aveva leggermente colpito, ma
non quanto avevo sperato.
- Non pensavo
avessi tutta questa fretta. -
- Rispondete e
basta, Conte. –
Sospirò,
ma senza perdere la sua gaiezza: - Possibile che parlare con te diventi
sempre uno scontro dialettico…? –
- Vi rendete
conto, vero, che siete sempre voi a cominciare? La colpa non
è certo mia. -
- Come farei a
scatenare la tua irritazione? –
Risposi, pronta: -
Cercate di sfruttare ogni mia parola o gesto a vostro vantaggio.
–
- No di certo!
Cerco solo di fare un utile servizio prima di tutto per te, poi la
nostra famiglia ed esclusivamente alla fine per me! Non faccio mai
nulla per me solo! -
Ingannatore senza
scrupoli.
- Vi ostinate a
gestire ogni cosa che mi riguardi. -
- Gestire!? Per
niente! Io do solo dei consigli! Non potrei mai importi nulla!
–
Finto modesto.
- Non prendete mai
in considerazione che io potrei rifiutarmi. -
-
Perché io ti conosco anche meglio di te stessa. E
soprattutto molto meglio di quel Dio che tu tanto adori. –
Bastardo
egocentrico.
- Credete non
sappia che mi leggete nel pensiero? -
- No, no! Sarebbe
un insulto alla tua intelligenza! –
Infame.
- Vi comportate
nel modo più falso che esita. -
- Forse
perché tu sei invece un po’ troppo onesta nei tuoi
sentimenti. –
- Voi sapevate
già da prima cosa pensavo di voi. –
- Appunto. Che
senso avrebbe esserti anch’io così
ostile…? –
Gira frittata.
Basta.
- Vorreste
rispondere ora!? – esclamai esasperata.
- E’ una
resa…? – chiese con un risolino.
- Come volete.
– commentai, stufa, scuotendo la testa.
- Va bene, allora.
– tossicchiò elegantemente e si assestò
sulla sedia – Vorrei aspettare ancora un po’ prima
farti incontrare gli altri nobili parenti. –
-
Perché? –
- Credo che tu
voglia trovare un tuo ambito d’azione, no? Una
“vocazione” che sia solo tua. Del resto a te non va
bene essere solo una Noah, o sbaglio? –
Rimasi basita. Era
vero, certo. Ma c’era qualcosa di quel discorso che non mi
quadrava.
- Una volta che ti
sarai costruita una tua identità, parleremo
dell’incontro con la famiglia. Non posso certo portare loro
una ex-suora! Sarebbe un po’ scandaloso! Ma presentare ai
nostri parenti, per esempio, una cantante lirica, è
tutt’altra cosa, anche se, ripeto, solo io mi intendo di
musica classica… -
- Ma non avete
detto che io devo entrare a far parte in tutto e per tutto della
famiglia? –
- Be’,
certo! Ma penso anche che vogliate un’alternativa alla sola
esistenza a casa… -
Ora era chiaro.
Avevo intuito le sue intenzioni, per la prima volta. Volli quindi
declamare ad alta voce la sentenza, come una piccola rivincita
personale.
- Restando sempre
presso i miei parenti mi sarebbe più semplice integrarmi, ma
contemporaneamente potrebbe risultarmi più facile creare
scompiglio nei vostri piani…-
Quelle parole
ebbero un effetto incredibile.
Tacque per qualche
momento, guardandomi intensamente. Poi, con il tono più
serio che gli avessi mai udito:
- Non devo
dimenticarmi della tua intelligenza e del fatto che mi sei nemica. -
- Si, penso
proprio di si. –
Il silenzio che ne
seguì fu abbastanza inquietante. L’enorme sorriso
che ingombrava il suo volto non si era scalfito, eppure la mia
deduzione lo aveva fatto arrabbiare a morte.
- Siete le due
personalità più assurde che mi siano mai
capitate. Ma siete miei. Non riuscirete mai ad allontanarvi dal piano
che ho creato per voi. -
Per un attimo mi
mancò il respiro: - Di chi state parlando…?
–
- Ricordatelo
bene, Vivy. Il tuo piano non può realizzarsi. E te ne
accorgerai non appena incontrerai la famiglia. Rimpiangerai di non aver
potuto rimandare per tutta la vita quel momento. Dovrai fare una
scelta, ma ti dico una cosa: io me ne intendo di tentazioni e la carne
è sempre stata debole. Vi avrò in pugno per
sempre. -
Tremai di
autentica paura.
Il Conte si
alzò dalla sedia con calma, con movimenti lenti che
sembravano voler nascondere la tensione di tutti i suoi nervi. Mi
passò davanti e infine, giunto davanti alla porta, si
fermò. Io non osai muovermi da dove mi trovavo.
- Ad ogni modo,
cosa devo fare…? -
Ci misi un momento
a riprendermi e pensare a rispondere.
-
…Per…per cosa…? -
- Per la tua
attività. Per la lirica. –
Deglutii,
pavidamente.
- Si. Per me va
bene. Credo che mi possa piacere come lavoro. Però non
conosco nulla, né storie né musiche. -
Allora si
voltò di nuovo verso di me. Il suo sorriso era placido e
tranquillo.
- Non ti
preoccupare. Rimedierò io. - e se ne andò,
scomparendo teatralmente nel nulla.
La sfida mi
trovava ancora impaurita ed indifesa. Era normale. Il Conte era
un’entità talmente ingannevole, piena di opposti
ritmi di spirito e di comportamento, che le sue reazioni erano
assolutamente imprevedibili. Io, schietta fino
all’inverosimile, non ero in grado di fingere odio o
simpatia, ma almeno riuscivo a capire quando altri invece tentavano di
fare lo stesso con me. Non era certo abbastanza però per
affrontarlo. Bastava una sua minaccia per impaurirmi.
Eppure cosa ci
facevo lì se la fede non riusciva ad impedirmi di
contrastare il timore del male?
Iniziai a
studiare. Il Conte mi prenotava i posti per assistere alle opere e io
fingevo di essere accompagnata, dato che lui non poteva farsi vedere in
pubblico e una donna sola a teatro non faceva una buona impressione.
Quando una nuova rappresentazione arrivava sulle scene, andavo ad
assistere ad ogni spettacolo. Una volta arrivai a vedere otto volte di
seguito “La traviata”, ripresentata anche in
settimana per gli instancabili. Utilizzando i libretti di sala che il
Conte mi procurava, riuscivo a memorizzare le parole e le melodie. Mi
allenavo poi in albergo, cercando di ricordare al meglio ogni cosa.
Mi piaceva
tantissimo. Prima di tutto perché mi permetteva di cantare,
e poi perché quelle storie avevano qualcosa di
incredibilmente affascinante. Certo, spesso le vicende parlavano di
questioni abbastanza scandalose: prostitute, amanti, adulteri,
assassini, violenze… Ma non aveva importanza. Erano il punto
d’incontro tra la bontà dell’amore e la
perversione dell’odio. Rappresentavano un po’
quello che entrava e usciva dalla mia vita, alternatamente, senza
freno, prima il Bene, poi il Male, poi la gioia, poi il dolore, poi la
felicità, poi la sofferenza. Le opere erano dolci e crudeli
proprio come la mia vita…
Certo non potevo
sperare di diventare una primadonna. Non ne sarei stata in grado. Ma
dopo un annetto di questo allenamento, il Conte mi propose di
partecipare ad un’audizione.
- Di
già…? – esclamai, poco sicura.
- Be’
si! Non volevi metterti a posto il prima possibile per entrare in
famiglia? –
- Si,
ma… -
- Appunto, fidati
di me! –
Di nuovo mi
chiedeva una cosa impossibile, ma che non potevo rifiutare.
Le selezioni erano
state organizzate per trovare una sostituta ad una primadonna che aveva
avuto dei problemi alla gola qualche tempo prima. Non volendo rischiare
poi di dover cancellare delle date, cercavano qualcuno che potesse
salire sul palco al suo posto, ma solo se fosse stato assolutamente
necessario. Era perfetto. Forse non avrei neanche dovuto dare il mio
contributo, ma era comunque utile per entrare nel ciclo dei teatri. Se
non fossi stata scelta, pazienza, ma avrei cercato di capire parlando
con gli esperti della giuria che cosa non andasse bene nella mia
pratica.
Quando ormai
toccava a me ero nervosissima.
- Non ti
preoccupare, Vivy! Tu hai una splendida voce! Non innervosirti e tutto
andrà bene! -
-
Grazie… - proferii, non troppo tranquilla.
Solo quando salii
sul palco mi accorsi della verità. Quei
selezionatori… Erano tutti maledetti Akuma.
Mi sentivo
umiliata da morire, ma lanciai uno sguardo di fuoco al Conte che mi
guardava da dietro le quinte ed iniziai a cantare. Ci misi tutta la mia
buona volontà, anche se era una infame farsa.
Questa era
un’altra delle sue dimostrazioni. Come al solito voleva farmi
vedere come tutto dipendesse solo ed esclusivamente dal suo volere. In
più, ancora una volta mi sminuiva, facendo giudicare il mio
lavoro da suoi alleati che mi avrebbero certo scelta. Ma non
perché me lo meritavo, solo perché ero una Noah.
Quando interruppi
la mia esibizione, partì un grande applauso e un gran numero
di complimenti. Feci un mezzo inchino, arrabbiatissima, mentre mi
apprestavo per lasciare il palco. In quel momento chiamarono
un’altra candidata, ma una voce li fermò:
-
Un’altra!? Non ne vedo la ragione! -
Mi voltai e vidi
un anziano vestito in maniera impeccabile, con dei baffoni impomatati e
un’aria imperiosa che ne faceva dedurre il potere
decisionale. Era sicuramente umano.
- Ma signor
impresario… Tutte le altre candidate… -
biascicò un Akuma che aveva l’aspetto di un
giovane musicista.
- Io non ho dubbi!
–
- Neanche
noi… - tentò di ribattere – Ma non
possiamo sospendere le audizioni… -
- Per quale
ragione…!? Non sono io a decidere!? –
Uno degli Akuma si
stava agitando e dava l’idea di voler aggredire
l’impresario. Io mi voltai verso il Conte e gli feci un
chiarissimo cenno di diniego. Lui mi guardò male, poi
semplicemente sollevò le spalle e schioccò le
dita. Subito l’Akuma si calmò.
- Signorina!
– esclamò il padrone della compagnia.
- Ditemi, signore!
– esclamai verso di lui, facendo un profondo inchino nella
sua direzione.
- Il vostro nome!
–
- Victoire
Villois. –
- Bene, signorina.
Complimenti per la vostra abilità canora! Siete
ufficialmente la sostituta della soprano! –
- Vi sono
immensamente riconoscente, signore. –
- Grazie a voi!
Ora venite! Vi porto a conoscere tutta la compagnia! –
- Certo!
– e scesi dal palco quasi di corsa, lanciando al Conte
un’occhiata di sfida.
Mi ero guadagnata
quel posto con le mie forze. Era un vero dono dal cielo che mi
permetteva ancora una volta di sentirmi più serena. Non era
dipeso dal Conte, ma quell’uomo mi aveva scelta di sua
spontanea volontà.
In
quell’occasione la soprano non ebbe alcun problema e
riuscì a portare a termine l’intera serie di
rappresentazioni. Quando la compagnia scelse una nuova opera da portare
sulla scena, però, il signor Galeazzo Retino,
l’impresario appunto, mi chiese di restare ancora per essere
la sostituta. Addirittura, dato che il direttore d’orchestra
aveva notato nelle prove qualche mio difetto nei vocalizzi, mi
pagò un maestro di canto per sviluppare il mio stile. Anche
se, quando dissi che non avevo avuto alcun vero insegnante prima
d’ora, nessuno ci credette.
- Impossibile!
– scosse la testa il maestro dopo qualche lezione –
Davvero! Nessuno può imparare a cantare in questo modo senza
aver frequentato una scuola! Sarebbe solo e soltanto un miracolo! -
Spalancai gli
occhi: - Cosa avete detto, maestro!? –
- Victoire, un
simile dono naturale può essere solo un miracolo! Volete ora
dirmi per favore il nome del vostro precedente insegnante…? -
Mi misi a ridere,
felice.
-
Perché ridete…? -
- Nulla. Nulla
davvero. –
Ma il mio cuore
era pieno di gioia. Quello era l’ultimo dono che Dio mi aveva
concesso prima di lasciare la pace della vita per la guerra con il
male…
Qualche mese dopo,
Gabriella Sentrioni, la soprano, si sentì male.
In quel periodo
eravamo quasi diventate amiche: non era per nulla montata o dispotica
come in genere si addice alle primedonne. Solo che quello che avvenne
dopo mi lasciò sconvolta.
- Conte! -
- Dimmi, Vivy!
– comparve con il suo solito sorriso tatuato sulla faccia.
- Ditemi che non
siete stato voi! –
- A fare cosa
esattamente…? –
- A tentare di
avvelenare Gabriella! –
- Chi
sarebbe…? –
- Non prendetemi
in giro! – fuori di me, battei la mano più forte
che potevo sullo scrittoio della camera dell’albergo
– La soprano! E’ stata male questa notte e afferma
di avermi vista versare del veleno nel suo bicchiere! Voglio sapere
cosa significa! –
Anche se
chiaramente si divertiva da morire a vedermi arrabbiata,
pensò che non era il caso di peggiorare le cose girando
intorno alla questione.
Prese
un’aria da cospiratore: - Credi davvero che avresti mai
potuto recitare davvero con quella sempre davanti…?
–
- Questo cosa
c’entra!? Questo non giustifica un bel niente! -
- Sai la
verità, Vivy? No, ma te la dirò io. Gabriella sa
benissimo che non sei stata tu a versare quella sostanza nel suo
bicchiere. –
-
Cosa…? – scossi la testa incredula.
- In
realtà ammetto che la proposta di questa truffa è
partita dal mio Akuma, ma lei ha accettato immediatamente. Vedi, tu
stavi cominciando a diventare troppo pericolosa per lei e del resto
Retino stravede per te. Così un mio Akuma è
andato da lei offrendole la maniera di metterti fuori gioco inscenando
un tentato omicidio. –
- Basta!
Smettetela! Io mi fido di Gabriella, non l’avrebbe mai fatto!
–
- Puoi non
crederci. Ma presto saprai la verità. –
- Cosa significa?
–
- Non vorrai mica
perdere il tuo posto qui per queste accuse infondate…?
Presto il mio Akuma si recherà alla stazione di polizia
ammettendo la sua complicità. In questo modo sarai
scagionata ed otterrai grande pubblicità. Nonché
il posto di primadonna… -
- NON VOGLIO!
–
La Paura mi
avvolgeva come una coperta fredda. Tremavo dalla testa ai piedi e avevo
assunto senza accorgermene i terribili colori dei Noah. Le mie mani
erano grigie come nella morte, strette convulsamente una
sull’altra e certo i miei occhi erano diventati
gialli e la mia fronte si era coperta delle cicatrici.
Io mi ero fidata
di quella donna di enorme abilità e altrettanto grande
esperienza. Mi aveva trattata bene, mi aveva consigliata e aiutata,
quasi protetta. Ma in realtà nascondeva la gelosia e la
crudeltà nel suo animo. Ancora una volta gli esseri umani
erano riusciti a farmi paura. E a provocare il mio odio più
nero.
- Così,
Vivy! Vedi che riesci a capire quanto vale
l’umanità che tanto pretendi di amare!?-
Il Conte batteva
le mani, pieno di allegria.
Lo spettacolo
odioso di quell’essere che gioiva, mi permise di riprendere
abbastanza controllo da stringere la mia piccola croce appesa al polso.
Piano, con calma, il mio animo si placò e infine ripresi il
mio aspetto umano.
- Umh…
- commentò lui – Sempre la solita
storia… Si può sapere come riesci a sottrarti
alla Paura…? -
- Credendo che
qualcuno, in questo mondo creato da Dio e segnato dal suo volere, sia
pulito e buono. –
Respirai
profondamente e mi rimisi a sedere composta, rilassando la tensione.
- Pulito come
te…? – sghignazzò.
- No. –
- Già,
tu non puoi esserlo. –
Neanche questa
volta permisi che mi stuzzicasse e risposi: - Non pensavo a me. Ad
altre persone… Al signor Retino, che mi ha difesa
davanti a tutti nonostante mi conosca da così poco... A
Bookman, che mi aveva messa in guardia per proteggermi…
A… - mi bloccai.
- …a
quei due giovani che hai ospitato nella tua cella… -
terminò la frase il Conte.
Impallidii e
abbassai lo sguardo.
- Sei
un’illusa… - commentò, scuotendo la
testa.
- E voi siete un
maledetto bastardo. –
L’insulto
mi venne così spontaneo da lasciarlo per un attimo senza
parole.
- Oh, che offesa!
Incredibile sentirti dire una cosa simile a cuor leggero! Come se
sapessi che ho ragione! -
- Non osate mai
più fare qualcosa di simile per me. – alzai di
nuovo gli occhi fissandolo ostile – Non lo sopporto.
–
- Va bene, va
bene… -
Debuttai come
primadonna la sera dopo. Fu un’esperienza incredibile e
immensamente gratificante, ma non abbastanza da farmi dimenticare come
vi ero arrivata. Il mio ego usciva decisamente glorificato da quel
momento, ma non tanto da godere di quella gioia senza vedere me stessa
come una pedina del “Costruttore” che era stata
semplicemente ricondotta sulla via da lui voluta…
Era evidente che
sarebbe prima o poi arrivata la conferma della mia impressione...
Era la quinta
serata, una domenica di grande pubblico e biglietti esauriti.
Nei giorni
precedenti l’ansia si era attenuata e ormai ci avevo fatto
quasi l’abitudine, eppure quel giorno era terribile, peggio
del solito. Un nervosismo incontenibile mi pesava sullo stomaco. Forse
era colpa del Conte, che dal giorno in cui aveva confessato la vicenda
di Gabriella non si era più fatto vivo. Era strana e molto
angosciante questa sua assenza.
Lo spettacolo
andò molto bene e non ci furono imprevisti. Fu veramente
fantastico. Ero stata sommersa di complimenti. Tantissimi avevano
addirittura detto, ma dubito ci fosse da crederci, che la mia era la
Violetta migliore che avessero mai visto. Tutto era perfetto, ma non
riuscivo a togliermi quell’impressione da addosso.
Ad un certo punto,
Retino mi chiamò per andare a incontrare alcuni ospiti
importanti della serata che volevano complimentarsi. Erano nobiluomini
che sovvenzionavano il teatro e la compagnia. Anche loro mi elogiarono
fino all’adulazione, ma nascosi il mio fastidio con sorrisi
falsi. Quando infine se ne andarono, tentai di tornare al camerino, ma
Retino mi trattenne. Era talmente entusiasta che voleva parlare
immediatamente della prossima opera da portare sulla scena. In effetti
era anche comprensibile: i due ricchi signori gli avevano appena messo
a disposizione una cifra esorbitante.
Poi,
all’improvviso, mi si fermò il cuore.
Un giovane era
appena sceso dalla scalinata delle balconate. Il volto sottile e serio,
la carnagione scura, gli occhi neri affilati ma espressivi, i mossi
capelli neri pettinati con cura all’indietro e un elegante
piccolo neo sotto l’occhio sinistro. Vestiva un completo
impeccabile, probabilmente di seta, con il colletto bianco della
camicia che ne usciva in un decoro elaborato. Al braccio teneva un
soprabito nero e stretto in mano un cilindro.
Era il ragazzo
più bello che avessi mai visto.
Il problema era
che non si trattava per nulla della prima volta che lo vedevo.
L’impresario
vide la mia espressione smarrita e si voltò indietro
educatamente. Non ci mise più di un secondo a capire chi
stavo guardando.
- Lo conoscete,
Victoire? – mi sussurrò all’orecchio
mentre quello si avvicinava a noi timidamente, facendosi strada tra la
calca.
- Non ne sono
sicura. -
Certo che sapevo
chi era. Nessuno avrebbe mai potuto riconoscerlo, vestito in quel modo,
senza quegli strani occhiali sul naso. Ma io sapevo perfettamente che
era lui. Quel giovane operaio che con la sua sfacciataggine, ma anche
con quella gentilezza tutta strana, mi aveva permesso di sentirmi
più a mio agio nel mondo.
Prima che
diventassi una Noah... Prima che lo diventasse anche lui…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Eccomi qua dopo le
vacanze! XD
Ancora tanti ringraziamenti a Lady
Greedy: mi dispiace, ma non so quanto spazio
riserverò ai cari JD, però terrò conto
della tua preferenza... Spero che il capitolo ti
piacerà
anche se è dal punto di vista di Victoire... Del resto il
reincontro è sempre più vicino, quindi... ^_^
Ringrazio anche due mie amiche non iscritte, che però hanno
letto la fanfiction e mi hanno per fortuna dato pareri positivi: grazie
mille a Seles-chan e ad Ari...
Lo so che questa è una fanfiction tutt'insieme un po'
tranquillina (molto "peace and love"), in generale abbastanza
psicologica e specialmente si prospetta parecchio lunga...
Però
per favore, se la leggete lasciatemi almeno due righe... Almeno mi
sento più motivata... Grazie!
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Capitolo 7 *** VI - Remember and forget ***
Capitolo 6
Remember
and forget
“Nel
cogliere il frutto della memoria si corre il rischio di sciuparne il
fiore.”
(J.
Conrad)
Mi aspettavo che arrivasse su di noi come un uragano improvviso,
determinato, saldo, sicuro e implacabile e io non facessi neanche in
tempo a capacitarmi di quello che avevo visto, della sua presenza.
Sarebbe arrivato subito a salutarmi, a venire a conoscere la sua cugina
appena arrivata, mi avrebbe proposto il suo solito sorriso sghembo da
ragazzotto furbo, anche se condito di mille maniere e forse di
allusioni alla famiglia, mettendomi per divertimento in seria
difficoltà con il mio impresario. Credevo decidesse di fare
un’entrata in scena clamorosa e spettacolare, come si addice
al personaggio che tutti aspettano, ma che resta nell’ombra,
per poi arrivare solo all’ultimo sotto i riflettori, sicuro
comunque di essere accolto da un applauso scrosciante.
Forse conoscevo troppo poco di lui per azzardare simili ipotesi, in
effetti.
Al contrario di ogni mia immaginazione, ci guardò qualche
momento con curiosità, poi si fermò, come
incerto, a pochi metri da dove ci trovavamo io e il signor Retino. Il
suo sguardo vagava tutt’intorno per l’androne del
teatro, ma con discrezione, e lanciando di tanto in tanto occhiate
vaghe e brevi verso di noi.
Quella sua reazione mi lasciò tantissimi dubbi, come logico
da parte sua. Mi chiesi se davvero sapeva chi ero. Anche se il pensiero
che mi riconoscesse come la suora scorbutica di quella volta mi
emozionava e preoccupava insieme…
Retino non si era minimamente scostato. Mi fissava insistentemente e
restava impalato di fronte a me:
- Cosa significa che non ne siete sicura…? -
La domanda calò come una pietra sullo scorrere libero dei
miei pensieri.
- Quello che ho detto… Io… Potrei sbagliarmi
credendo di conoscerlo… - commentai, forse lasciando
trasparire in parte la verità, per quanto non lo
desiderassi. La mia voce appariva probabilmente più bassa
del necessario, ma, poiché continuavo a guardare con la coda
dell’occhio il ragazzo alle sue spalle, avevo
l’immotivata paura che riuscisse a sentirci.
- Impossibile. Si vede dalla vostra espressione che sapete
perfettamente chi sia. - mi interruppe serissimo. Era impossibile per
lui comprendere il senso remoto delle mie parole.
Però quel suo commento mi inquietò. Finii per
concentrare tutta la mia attenzione sul mio interlocutore, distraendomi
infine da quell’osservazione furtiva:
- Che cosa vi vedete? Ho una faccia strana? – chiesi,
preoccupata.
- Be’… - si lisciò i baffi con la mano
inguantata di nero, assumendo l’aria di chi la sa lunga
– Prima di tutto è chiaro che non è la
prima volta che lo vedete… Ecco, ne siete come ammirata e
ammaliata… Ma non come chi vede per la prima volta un buon
partito… Che quello è sicuramente un buon
partito, se mi date retta… -
- Lo so… - sussurrai, dando voce ad un pensiero improvviso
che mi era passato per la testa.
Il mio capo annuì, sorridendo con gentilezza del mio rossore.
- Date l’idea di averlo aspettato a lungo… E
contemporaneamente di essere sorpresa della sua presenza… -
ma il suo sguardo si fece scuro - Allo stesso modo credo che lo temiate
profondamente, quasi da avere paura di avvicinarlo… Ho
ragione? –
Gli sorrisi, ma forse un po’ di amarezza era trasparsa sul
mio volto. Aveva pienamente ragione. Questo incontro mi preoccupava
più di ogni altra cosa. Fossero stati altri membri della mia
famiglia la vicenda avrebbe avuto un’importanza relativa. Ma
di fronte a lui, di fronte a Tyki, non potevo assolutamente sembrare
inquieta, ma felice. Era necessario.
- Come fate a capire così bene le persone, signor Retino?
–
- Signorina mia! – esclamò ridendo di gusto
– Potrei spiegarvi per filo e per segno tutti i segnali e le
indicazioni che ho letto nella vostra espressione… Ma, per
farla breve, dirò solo che sono molto più vecchio
di voi e che conosco bene il mondo! – di nuovo si
voltò leggermente a studiarlo, poi aggiunse – Devo
solo essere sicuro che vogliate che si avvicini... Altrimenti posso
difendervi, Victoire… -
Era gentile da parte sua, ma assolutamente fuori luogo.
- No, no. Non ce n’è bisogno, signore. Non
è un pericolo per me. E’ solo che mi preoccupa
quello che avete detto… Perché vedete, non
è questo mio timore che voglio trasmettergli… Non
voglio che veda questo in me ora… -
- Voi siete una donna estremamente sincera, Victoire. Non riuscite a
nascondere ciò che provate. – commentò
sicuro, annuendo tra sé.
- Ma signor Retino… -
- Be’, potete sempre recitare una parte se questo vi rende
felice. Ma volete mostrarvi per come siete o per come gli altri
potrebbero preferirvi? – aggiunse, risoluto.
Per tutta risposta non potei fare altro che abbassare gli occhi,
colpevole.
Scosse la testa, vedendomi così dispiaciuta e soggiunse
subito: - Perdonatemi la ramanzina, signorina Victoire. Non conosco
neanche cosa vi lega a quel giovane e mi metto a farvi la morale. Del
resto sono solo un vecchiaccio vecchia maniera… -
- Non dite così! – esclamai, sincera –
Non lo penso per nulla! Anzi, avete ragione! Grazie! –
Lui sorrise gentilmente: - Meno male! Mi fate felice! – poi
abbassò la voce – Credo comunque che il vostro
conoscente stia aspettando che me ne vada per venire a
salutarvi… Ditemi quando siete pronta e vi
lascio… -
Non sapevo cosa potesse servirmi o come potermi preparare per questo
salto nel vuoto. Per l’ennesima volta maledissi il Conte e i
suoi oscuri progetti con i quali riusciva a mettermi sempre in
difficoltà. Ormai sapevo con certezza che tutto quello che
accadeva intorno a me non poteva mai essere un caso, compresa
soprattutto quella situazione.
- Sono a posto… -
- Siete sicura? -
- Non è una cosa che posso rimandare per sempre…
- sorrisi, a fatica.
- Potreste. Si può sempre. Ma voi non siete capace di
scappare. Siete coraggiosa. –
Fece un inchino elegante e mi baciò la mano: - Buonanotte,
Victoire. Ancora lietissimo di avervi nella mia compagnia. –
Mi inchinai a mia volta sollevando con due dita il lungo abito rosso: -
Grazie a voi di tutto, Signore.-
Il momento peggiore fu quando Retino si allontanò. A quel
punto smisi di fare finta di nulla e guardai Tyki fisso.
Mi sentii incredibilmente stupida a fare una cosa simile, ma davvero
non avevo idea di come comportarmi. Un’estranea non aveva
certo il diritto di fissare in quel modo una persona… Era
indiscreto, volgare, fuori luogo… Ma non potei
evitarmelo… Una parte di me voleva disperatamente percepire
ogni suo gesto, a costo di soffrirne…
Poco meno di un secondo dopo, anche i suoi occhi scuri si alzarono
nella mia direzione. Non c’era più riflessa alcuna
incertezza, ma la calma assoluta. Neanche il fatto che restassi
lì immobile a guardare nella sua direzione riusciva a
scalfire la sicurezza con la quale ricambiava la mia attenzione. Ma non
capivo cosa questo significasse… Era un mistero, come
sempre…
Mosse qualche passo tranquillo nella mia direzione ponendosi proprio
davanti a me. Dal canto mio ero completamente imbambolata a fissarlo,
come se sperassi di leggergli addosso la trascrizione dei suoi
pensieri.
- Signorina… La vostra interpretazione è stata
sublime… Volevo complimentarmi… -
La sua voce era calda, morbida, piena di eleganza, ma con una punta di
malizia.
Perché parlava con me o era una sua cadenza fissa?
Si inchinò con molta grazia e infine con la mano destra
fasciata da un guanto bianco immacolato prese la mia e se la
portò alla bocca per un perfetto baciamano.
Non sapevo davvero che cosa dire, come comportarmi. Tutto quello che
stava facendo, benché normale tra la gente perbene, riusciva
a confondermi.
Si rimise in piedi e mi guardò. Vide probabilmente una
ragazza allibita, sconvolta e in particolare, ne ero certa, rossa come
un pomodoro.
Lentamente la sua facciata di perfezione si sgretolò e sul
suo viso si affacciò un’espressione stupita e
divertita:
- Emh… Vi sentite bene…? -
Riuscii ad impormi di annuire e con quel gesto pian piano la mia mente
si riprese dallo shock.
- S-si… N-non preoccupatevi… -
- Meno male… - rise – Sembravate in preda ad un
svenimento… -
- Svenimento!? – esclamai, punta sul vivo.
Un sorriso carico di ironia riempiva di un’aria insinuatrice
tutto il suo volto.
- Per che cosa, di grazia…? - domandai, offesa.
Cercavo di calmarmi, ma già stavo diventando scortese.
Perché aveva quell’innata capacità di
darmi ai nervi!?
- Calmatevi… Davvero… Non volevo
offendervi… - ma nello scusarsi continuava a nascondere le
risa.
- Signore, non c’è nulla di divertente! Non vi
siete neanche presentato! –
La frase mi uscì di bocca senza che riuscissi a
controllarla. Non ci avevo minimamente pensato e tanto meno avevo
già preso una decisione al riguardo, cioè se
fingere o meno di essere al nostro primo incontro.
La sua ilarità si spense di botto. Per qualche secondo mi
parve di cogliere una strana delusione in quel viso… Poi con
un sorriso leggero e molto formale:
- Avete ragione. Vi chiedo perdono. Il mio nome è Tyki Mikk.
E’ un piacere conoscervi. -
Non sapevo più neanch’io cosa desiderare.
Avevo a lungo sperato che si ricordasse di me e di quei giorni presso
il convento. Anche dopo il “risveglio del sangue”,
anche dopo aver saputo di doverlo rincontrare ora che entrambi non
eravamo più quelli di prima, anche mentre mi angosciavo al
pensiero della maledizione che mi accompagnava. Era un attaccamento
furibondo e insensato a qualcosa che non ero più…
E che forse non era più neanche lui…Eppure non mi
piaceva conciliare quella persona pulita alla me stessa attuale. Era
come pretendere di unire la luce al buio. Era assurdo. Io non volevo
essere il buio, ma non potevo neanche più sperare di essere
la luce. Avevo una battaglia da combattere, ma era una risalita dal
baratro. Nell’oscurità totale una fiammella non
illumina e viene solo soffocata da quel nero profondo e vuoto. Doveva
essere alimentata da zero per rendersi visibile.
Quell’atmosfera che era nata tra di noi così,
naturalmente, era tanto simile a quella dei giorni che ricordavo da
farmi sperare che non fosse in alcun modo cambiato. Ma era
così davvero? No… Per nulla… Un uomo
elegante, curato, fine ed estremamente educato, anche se a tratti
disinteressato e intimidatorio… Quello sguardo che lanciava
intorno non aveva nulla di quella spigliatezza e allegria che mi aveva
trasmesso in passato… Metteva quasi paura e il mio cuore la
leggeva come l’unica vera prova della sua esistenza da
Noah…
Io, dal canto mio, non avevo la forza di tornare alla mia essenza
pulita. Avrebbe avuto senso mostrare la mia passata
identità? Era un gesto privo di significato in ogni caso. Se
sapeva già della mia trasformazione, avrei subito dato
l’idea di un pesce fuor d’acqua, una persona che
non riesce ad adattarsi alla nuova realtà. D’altra
parte, se ancora non ne era al corrente per il classico gioco al
massacro attuato da quell’infame del Conte, presto
l’avrebbe scoperto in ogni caso…
E che reazione ne avrebbe avuto lui? Impossibile prevederlo. Magari
nessuna, magari non gli sarebbe importato, magari era un episodio che
aveva dimenticato e che quindi non aveva alcuna importanza, di
conseguenza poteva benissimo accantonarlo, come aveva fatto con la sua
vecchia vita… E se invece ne conservasse una buona
impressione? Si sarebbe arrabbiato? Si sarebbe sentito imbrogliato? E
perché? Io stavo fingendo di non sapere della sua nuova
identità, del suo legame con i Noah… Potevo fare
in modo di mostrarmi stupita di fronte alla scoperta, magari
più offesa di lui se fosse stato necessario…
Era assurdo… La mia mente stava esagerando
nell’immaginare le situazioni più disparate, ma
era il chiaro sintomo del caos che stavo affrontando…
Davvero non sapevo più chi o che cosa voler essere per
lui…
Ma se tutto questo mi spaventava e preoccupava, nulla riusciva ad
angosciarmi quanto il cambiamento repentino che avevo visto un attimo
prima nel suo sguardo: ora c’era di nuovo la distanza,
abissale e incolmabile. Erano bastate quelle mie parole brusche a
chiudere di colpo quell’allegra atmosfera. La sua espressione
era ancora interessata, ma gli occhi scuri mi squadravano come una cosa
qualunque. Non mi piaceva, non lo sopportavo.
Ed ecco, ancora una volta non potevo in alcun modo presagire la sua
reazione… Ero troppo ambiziosa a pensare di giudicare una
persona da pochi giorni di conoscenza… E ogni secondo che
restavo in sua presenza, mi rendevo sempre più conto della
mia difficoltà a capire le sue reazioni, i suoi gesti, le
sue parole e tutto quello che dietro di essi si nascondeva…
- Sono stato brusco, ma credevo di avervi già
conosciuta… Probabilmente mi sono sbagliato… -
La frase, improvvisa dopo quella brevissima presentazione, ebbe su di
me la stessa potenza emotiva di quel baciamano. Probabilmente anche gli
stessi effetti, dovuti in parte anche a quegli occhi serissimi e scuri
che avevano ripreso a fissarmi, con un’intensità
da far tremare le ginocchia.
La mia mente combatteva tra troppe opposte intenzioni. Solo che
quell’accenno, che mi convinceva di essere stata
riconosciuta, mi spinse anche a sperare di passare in pace quei momenti
di sereno rincontro, sapendo che sarebbero durati troppo poco una volta
che tutto fosse stato svelato…
Lui non lesse fino a questo punto le mie angosce, ma vide probabilmente
solo sul mio volto la stessa stupefatta espressione di poco prima.
Tanto bastò però.
Il suo volto si distese e apparve ancora quell’espressione
ironica e divertita a colorire un sorriso di sincera simpatia:
- Avete per caso qualcosa da dirmi…? –
- Tyki… - facevo fatica a parlare, ma tentai di
giustificarmi, mentendo spudoratamente – Io… Per
qualche momento non vi ho riconosciuto… Poi non credevo
ricordaste… Quindi… -
Lui non commentò queste parole, ma rise, celando una leggera
ironia. Impossibile non sovrapporre il passato e il presente.
- Lieto di rivedervi… Temo di dovermi ancora sdebitare per
quelle pagnotte… -
A sentite questa frase per poco non scoppiai a piangere di
gioia…
Il Conte non mi aveva mai neanche descritto gli altri membri della
famiglia. Eppure mi bastò vederli da lontano per capire chi
erano. Erano un gruppetto parecchio bizzarro, è vero, ma non
fu questo a convincermi della loro vera identità. Era
l’oscurità netta che sembrava seguirli. La stessa
aria d’abisso che avevo letto negli occhi del ragazzo che mi
stava di fronte, ma che non mi aveva in alcun modo schiacciato
duramente come quella che spirava da loro…
Si avvicinarono con cautela, senza fretta, tranne una bambina che
sembrava avere circa dieci anni, che balzellava di fronte agli altri.
- Tyki! Cosa stai facendo!? -
Nella sua voce c’era una giocosità molto umana, ma
anche una certa inquietante malvagità intrinseca. Un brivido
mi attraversò la schiena.
Lui sorrise, calmissimo: - Road… Cerca di non fare rumore a
teatro… -
La guardai simulando la massima innocenza possibile, anche se intuivo
che non poteva essere sufficiente.
I suoi occhi si soffermarono su di me, squadrandomi in maniera
insopportabile. E mi sembrò che quel blu così
sereno e calmo che li riempiva fosse un’ipocrisia odiosa
rispetto al nero della sua anima. Non impiegò più
di due secondi a leggere dentro di me ciò che voleva. Ebbi
subito una sincera e atroce paura che volesse tradire il mio segreto.
- Insomma, Tyki! Non ci presenti neanche!? –
sbuffò poi sonoramente.
- Esatto, esatto! Forza! – esclamarono all’unisono
altri due ragazzini del gruppo, slanciandosi nella mia direzione e
lanciando una smorfia beffarda al mio interlocutore.
- Si… - sospirò lui stancamente, passandosi con
aria distratta una mano tra i capelli scuri.
– Lei è la piccola Road… - con un
piccolo cenno alla sua sinistra, dove si era posizionata la strana
bimba.
- Piccola!?!? –commentò lei, offesa, ma insieme
fece un inchino falsissimo nella mia direzione.
- I due casinisti sono i gemelli Jusdero e Debit… -
- Incantati! – dissero insieme, per poi scambiarsi subito uno
sguardo di intesa e una risata complice.
- Quello enorme che sembra una guardia del corpo è
Skin… -
- Sgrunt… - fu l’unico verso che provenne dalla
sua direzione.
- La signorina vestita da uomo è Lulubell… -
Non pronunciò parola, ma mi porse la mano con un gesto molto
autoritario e professionale. Io gliela strinsi, incerta.
Seguì un momento di silenzio. Gli altri Noah guardarono
Tyki, ansiosi che terminasse le presentazioni. Lui, per canto suo, mi
guardava con aria vaga. Già, non sapeva il mio
nome…
Così dovetti introdurmi da sola: - Ehm…
E’ un vero piacere… Il mio nome è
Victoire Villois. Lietissima di conoscervi. -
- Come fai a conoscere la signorina Villois, Tyki…? -
Lo chiese immediatamente, ma con un’aria assolutamente
innocua, che in ogni caso mi apparve falsa proprio come il suo aspetto
di bambina.
Lui sorrise, gentilmente, tarando con dovizia le parole: -
L’ho conosciuta molto tempo fa e le sono debitore per la
gentilezza che mi mostrò in una situazione di
bisogno… Sono lieto di averla ritrovata qui, per entrambi in
circostanze decisamente diverse dal previsto… - poi si
abbassò a guardarla negli occhi e aggiunse, come per un
avvertimento – Questo è quanto devi sapere,
Road… Ti basti… -
- Uhm… - bofonchiò, fissandomi in maniera
estremamente esplicita.
Sentivo che stava per dire qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. Aveva
una gran voglia di farlo, glielo si leggeva in faccia. Stava giocando
con le mie emozioni con un’abilità paragonabile a
quella del Conte…
Ma sorrise, crudele: - Siete stata fantastica sul palco… -
Non lo pensava davvero. Adulazione, pessimo vizio.
- Grazie mille! – ma ero sicura che il fastidio fosse
filtrato sul mio volto.
Tyki passò lo sguardo sulle nostre espressioni aggrottando
le sopracciglia, ma poi scrollò le spalle.
- Signorina Victoire. -
La sua voce era galante e profonda. Mi voltai nella sua direzione un
po’ frastornata:
- Ditemi… - stavo per chiamarlo per nome, proprio come aveva
appena fatto lui in effetti, ma per qualche ragione non mi
sembrò appropriato e tacqui appena in tempo.
- Avete degli impegni per questa notte…? –
Presumibilmente arrossii fino alla punta dei capelli. Sembrava una
proposta indecente!
Sgranò gli occhi alla mia reazione, totalmente ignaro del
suo sbaglio.
- Si vede che vai solo a donnacce, Tyki! – sibilò
ridendo uno dei gemelli, ma a voce abbastanza alta perché lo
sentissimo entrambi.
- No, no! – esclamò allora, ma l’altro
lo superò in tono ridendo scompostamente: - Tyki
pervertito… Ihhhhh-ihhhh!! –
- Sul serio! Non volevo offendervi! – era imbarazzato ma il
suo volto non mostrò alcun rossore – Volevo
solamente chiedervi se vi andrebbe di andare a bere
qualcosa… Ma solo se vi fidate, se questa richiesta non vi
mette in difficoltà, se non avete altri
programmi… -
Road saltò su subito, pimpante: - Ma Tyki, che ne
sarà del nostro appuntamento!? –
Lui, per tutta risposta, cominciò tranquillamente ad
infilarsi il soprabito: - In ogni caso, non ho nessuna voglia di
aspettare ancora i comodi del nostro accompagnatore… Quindi
andrei comunque a farmi un giro… - poi mi sorrise, riuscendo
ad eliminare ogni possibile ironia o malizia dal suo volto –
Solo preferirei non andare da solo… E fare così
qualche parola ricordando i vecchi tempi… -
Sorrisi a mia volta, anche se un po’ inquieta, giusto per
mostrare che non ero per nulla offesa dalle sue parole di poco
prima…
Stavo per rispondere, quando Road sentenziò: - E noi
dovremmo aspettare!? Possiamo anche farlo, ma saresti tu la persona che
deve davvero restare qui! –
- L’ho già detto. Questa storia
dell’incontro a sorpresa non mi interessa. Avrei potuto
sopportarlo se ci fosse stato almeno un briciolo di rispetto da parte
loro. Dato che ci mollano qui ad aspettare non sappiamo neanche cosa,
io ho fretta e me ne vado. -
C’era qualcosa di netto e glaciale in quelle parole. Era
rabbia. Ma non nel senso umano del termine…
Ma Road insisteva: - Non puoi! E’ importante che tu resti a
conoscere la tua fidanzata! Se ha detto che arriverà,
bisogna solo attendere! –
Era assurdo come quella frase avesse fermato il tempo…
Avevo già capito che stavano aspettando qualcuno. Avevo
pensato che fosse il Conte, proprio come lo attendevo io. Ma stavano
parlando di una ragazza… Una persona designata con il
termine “fidanzata”… Fidanzata di
Tyki…
Era possibile che si trattasse di un’altra persona? Poteva
essere un comune essere umano? Quante altre Noah potevano trovarsi per
caso o per abile macchinazione in un teatro?
Oppure il Conte stava di nuovo tentando di farmi impazzire? Magari
aveva invitato questa “fidanzata” a teatro dove mi
trovavo io proprio per sbattermi in faccia il fatto che io non avrei
mai avuto a che vedere con la sua vita… Che per
l’ennesima volta ero destinata a fare la
spettatrice…
- Lo sappiamo che tu vivi solo per il tuo divertimento,
Tyki… - riprese lei e si mise a ridere, in modo piuttosto
nefasto – Proprio per questo dovresti attendere la tua
promessa… Che ne sai, potrebbe essere divertente…
-
E mi guardò, nel modo più eloquente di mille
parole…
Ora ero veramente preoccupata e quasi spaventata. Io la sua
promessa…? Questo era… era…
era…
Le lanciò uno sguardo irritato: - Pazienza. Tanto se non si
toglie dalla testa questa storia, sicuramente troverà il
modo di farmela incontrare anche domani. Per questa sera ne ho
abbastanza. -
Poi il ghiaccio nella sua voce si sciolse e si voltò verso
di me:
- Ditemi, venite con me…? -
- Si… Va bene… - pronunciai con calma –
Vado a prendere la giacca… -
- Perfetto. Vi aspettiamo fuori. – e appoggiò una
mano sulla piccola spalla di Road, spingendola delicatamente verso
l’uscita.
Gli occhi blu della bambina mi scrutarono ancora per qualche momento e
poi la sua voce risuonò nella mia mente: “Le bugie
hanno le gambe corte, Vivy… Dovresti
saperlo…”
Mi morsi il labbro e trattenni a fatica la Paura che con
quel’odioso gioco psicologico tentava di
risvegliare…
Non voleva una fidanzata… Se io lo fossi diventata,
automaticamente avrei rappresentato un peso e un’imposizione
scomoda per lui. Mi avrebbe tenuta lontana, magari mi avrebbe
odiata…
Il pensiero mi straziava…
Quante possibilità c’erano che mi accettasse quale
Noah? Era impossibile prevederlo, visto come riuscisse a sbalordirmi
continuamente.
Quante che decidesse di seguire i dettami del Conte? Vista la sua
reazione, pochissime.
Quante che prendesse sul serio il fatto di avere una fidanzata?
Probabilmente nessuna.
Quante che potesse provare qualcosa per la sua promessa…?
Potevo sperarlo, ma dipendeva solo da lui e
dall’oscurità con la quale conviveva…
Corsi al camerino più veloce che mai. Raccolsi le mie cose
nella borsa alla rinfusa e mi infilai la lunga giacca marrone. Passai
di fronte allo specchio, diretta alla porta… Poi cedetti
alla vanità e mi specchiai… Il mio volto era un
po’ arrossato dall’emozione e dalla frenesia e i
miei occhi verdi erano pieni di aspettative inutili…
Dopotutto ero ancora una ragazza, per tanto tempo rimasta lontana dal
mondo e che ora vi stava rientrando… Per poi uscirne
nuovamente, presto o tardi…
Eppure non riuscivo ad evitarmi di immaginare una poltrona foderata di
rosso in un locale elegante. Noi seduti uno di fianco
all’altra, ma girati lievemente per guardarci negli occhi.
Due bicchieri di cristallo in mano e qualche musicista su un palchetto
a suonare. I ricordi di quei momenti avrebbero riempito la serata:
avremmo riso delle nostre diatribe di quei giorni e gioito del
rincontro, magari lui mi avrebbe raccontato di Iizu e io gli avrei
parlato del mio lavoro. Non gli avrei chiesto nulla della sua nuova
vita, ma lui l’avrebbe certo tirata in causa e, credendo che
io non sapessi nulla, mi avrebbe raccontato una tonnellata di
bugie… Avrei fatto finta di nulla, le avrei accettate come
la verità, giusto per dimenticare la realtà che
avevamo intorno… E se fosse stato necessario ne avrei
raccontate anch’io, solo per passare qualche ora in
pace…
Se poi ogni cosa fosse finita male, almeno avrei avuto quei momenti di
serenità da ricordare… Per credere…
Per sopravvivere…
Quando uscii dal teatro non vidi nessuno davanti alla porta a vetri.
Mi guardai intorno, nervosa, stringendo convulsamente il manico della
mia borsa.
Poi, da un angolo poco lontano, spuntò un ombrello, il SUO
ombrello, con in cima quella petulante testa di zucca, e una mano
grigia somigliante più ad un fascio di tentacoli…
Mi crollò il mondo addosso…
Seguii quel segnale, cacciando indietro le lacrime con tutta la forza
della mia volontà. Non volevo farlo, non volevo piangere.
Avevo detto che avrei nascosto la mia sofferenza, che mi sarei mostrata
felice, anche più felice di quanto potesse mai essere
un’oscura Noah, anche a costo di sembrare strana o anomala,
non mi importava. Ma aveva ragione Retino… Nella vita reale
la mia abilità di attrice si scioglieva come neve al
sole…
Svoltai l’angolo e mi trovai di fronte al figura panciuta e
gioconda del Conte:
- Oh, eccoti finalmente, Vivy! Benvenuta in famiglia! -
Alzai gli occhi e vidi sei Noah, seri, all’apparenza
impassibili, gli occhi da rapace, la pelle grigia e le cicatrici a
coronare la fronte. Silenziosi, in attesa di assistere allo spettacolo.
Non impiegai alcun impegno per trasformarmi, per far affiorare la
Paura. La mia voce suonò probabilmente dura, ma roca e
affranta:
- E’ una gioia far parte della vostra famiglia, adorati
parenti… -
Volsi gli occhi a cercare Tyki. I suoi occhi, ora gialli e crudeli, mi
scrutarono prima increduli, poi aspri. Infine tutta la sua espressione
si deformò sotto l’effetto di
un’emozione che non riuscii a comprendere… E
comunque non ne ebbi il tempo… In un attimo girò
sui tacchi e si allontanò senza una parola nella strada
silenziosa che si apriva alle sue spalle…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Eccomi!
Chiedo scusa per il ritardo, ma ho ricominciato questo capitolo quasi
tre volte cercando di scriverlo al meglio possibile... Questo
è il risultato... Non ne sono soddisfatta proprio al 100%,
ma davvero non avrei saputo fare di meglio... Spero che vi piaccia!!!
Lady Greedy:
Ti ringrazio tantissimo per i complimenti!!! Mi rende felice
soprattutto l'essere paragonata alla grande Hoshino... Non mi merito
tanta gentilezza!!! ^_^ Sono contenta anche che Vivy stia diventando un
personaggio così apprezzato!!! In questo capitolo mi sono
resa conto davvero di quanto sia difficile descrivere Tyki dal suo
punto di vista... Non so per quale ragione, forse perchè in
fondo anche lei, a modo suo, è una persona disperatamente
complessa... Davvero usi anche tu quel soprannome!? Credevo non
esistesse... Quando mi è venuto in mente ( e mi è
piaciuto perchè aveva una strana assonanza con "Tyki", a
parte l'accento sulla "y" finale), ho fatto una fatica a trovare un
nome proprio che fosse ricollegabile!
Freija: Grazie mille per i complimenti!!! Anche
perchè sei stata gentilissima a lasciarmi commenti in tutti
i capitoli, anche se li hai trovati pubblicati insieme!!! Grazie
davvero!!! Io in effetti ho già scritto una fanfiction su un
videogioco, ma l'avevo pubblicata su un forum quasi un anno fa...
Emh... Diciamo che forse ho fatto la grandiosa dicendo che era la prima
in assoluto... Ma certo è la prima volta che pubblico su un
sito esclusivamente di fanfiction... ^_^
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Capitolo 8 *** VII - I Don't Care ***
Capitolo 7
I
Don’t Care
“Non
si scopre la verità: la si crea.”
(Antoine
de Saint-Exupéry)
Camminavo senza
meta da un po’ di tempo, non sapevo quanto.
Me ne resi conto
improvvisamente, come se prima quell’azione non mi
riguardasse. La mia mente era del tutto vuota, quindi non poteva essere
stata questa a determinare l’azione… Qualcosa
muoveva le mie gambe istintivamente, in quel passo spedito e nervoso.
Qualcosa che mi percorreva dalla testa ai piedi e sentiva il bisogno di
sfogarsi… E soprattutto qualcosa che andava a scuotere una
parte del mio interiore che ero sicuro di non avere
più…
Mi bloccai di
scatto.
Avevo addirittura
il fiatone dopo quella lunga e veloce camminata. Mi guardai intorno.
Era un vicolo buio e vuoto, leggermente sudicio. Mi affacciai da quella
strada stretta e studiai per qualche momento le vie che vi si
incrociavano. Non riuscii a riconoscerne neanche una… Mi ero
perso…
Sbuffai, cercando
di ignorare il respiro ancora affannato. Fingevo che tutto fosse
normale…
Estrassi dalla
tasca una scatola di fiammiferi. Sfregandolo, il pezzetto di legno si
bruciò ma non si accese. Imprecai a denti stretti.
Dannazione, in
veste da Noah non lo facevo mai. Era sintomo di un’emozione
forte e improvvisa. Non coincideva con l’immagine calma che
dovevo dare… Che poi in realtà ero sempre stato
un tipo calmo, giusto…? Ironico, indisponente forse, ma
tranquillo, rilassato… Allora qual’era il
problema!?
Ne estrassi un
altro e impiegai tutte le mie energie per evitare di spezzarlo dalla
rabbia. Questa volta si accese normalmente. Mi misi in bocca la
sigaretta e vi accostai il fiammifero. L’odore del tabacco mi
calmò lievemente e, strano a dirsi per qualcosa che
danneggia gravemente i polmoni, mi permise di riprendere un respiro
regolare.
Lanciai uno
sguardo per terra: peggio di un immondezzaio…
D’altra parte, cosa mi aspettavo? Problemi della lavanderia.
Scrollai le spalle, posai sul lastricato il mio mantello ripiegato e mi
ci sedetti sopra. La buona vecchia indifferenza, compagna di mille
giornate da Noah. Stavo rinsavendo.
Potevo solo
aspettare che mi venissero a prendere…
Me ne ero andato
come un ragazzino offeso…
Ma offeso da cosa?
Inutile
prendersela a causa del “capo”. Non era certo la
prima volta che il Conte mi mostrava la sua immensa abilità
nel gestire ogni singolo attimo della mia esistenza. I suoi scherzi
erano sempre di pessimo gusto e immaginavo che si fosse divertito da
morire a guardare quelle scene. Ma pazienza, non era una
novità…
Non ero arrabbiato
con il Conte, credevo, o almeno non più del solito.
Arrabbiato, poi?
Si trattava di rabbia?
Allora non potevo
essere arrabbiato con lei.
Cosa mi aveva
fatto di male…? Non c’era nulla di male. Alla
fine, veramente, non c’era proprio più il male,
nella mia mente intendo e anche quindi nella realtà che essa
aveva di fronte.
Di certo non
provavo rabbia nei suoi confronti. Anzi, tentai di auto-convincermi di
non provare assolutamente nulla. Niente poteva scalfire un Noah.
Addirittura, avevo sbagliato fin dall’inizio ad interessarmi
a quell’opera e a quella ragazza, punto.
Eppure non potevo
nascondere di essere turbato, irritato…deluso…
Delusione, poi?
Sospirai cercando
di mostrare ancora la mia serena noncuranza, come se mi trovassi di
fronte ad un pubblico a cui dovevo un determinato atteggiamento. La
verità era un’altra. Se non mi fossi controllato,
di certo avrei continuato a camminare a vuoto per ore sfogando in
qualche maniera oscura quella “cosa” ed evitando
addirittura di darle un nome.
Non aveva
importanza! E non volevo dargliene!
Passò
un buon quarto d’ora.
Avevo
già fumato tre sigarette di seguito, cercando di rilassarmi,
ed ero ormai alla quarta. L’effetto positivo di qualche
momento prima era bello che svanito. Appoggiato al muro gelato,
sbuffavo tra me e guardavo il cielo nero… Neanche una
dannatissima stella da osservare! Dove diavolo erano finite!?
Ma così
non andava bene per nulla… Tutta la mia irritante calma
dov’era finita…?
Sorrisi tra me.
Certo che avevo davvero qualcosa che non andava.
Per certi versi
era come se fossi tornato indietro nel tempo, nei giorni dopo il
soggiorno segreto a quel convento. Anche allora avevo un solo
determinato pensiero nella mente. Mi rendeva nervoso, suscettibile,
quasi sognante… Quello non ero io… E
più ci pensavo più mi rendevo conto che non
c’era nulla di salutare, eppure continuavo in quel modo, come
se ne fossi dipendente.
Come ora non
volevo giustificare la presenza di quel pensiero fastidioso dandoci un
nome, allora, invece, non avevo neanche potuto denominarlo.
Perché, come Iizu mi aveva ricordato troppo tardi, non le
avevo neppure chiesto come si chiamasse…
Ora lo sapevo:
Victoire Villois, meglio nota come Vivy, a detta del Conte…
E va bene, tanto
valeva ragionarci. Al diavolo questa simulazione! Certo che ero curioso
di capire cosa accidenti mi aveva fatto percorrere chilometri a vuoto,
mollando quattro a zero tutti quanti! Tanto cosa avevo da fare in quel
momento…? Cosa avevo da perdere…?
Estrassi la quinta
sigaretta e la accesi. Presi una bella boccata e iniziai a ripensare a
tutto ciò che era appena accaduto.
Il Conte mi aveva
obbligato ad andare a teatro per incontrare la mia nuova fidanzata, la
donna che dovrei sposare. Avevo assistito ad un’opera lirica
e mi ero interessato ad una giovane soprano che assomigliava in maniera
particolare alla suora che aveva salvato la vita a Iizu. Questa ragazza
si era rivelata essere davvero la persona che credevo, ma non solo,
anche la mia promessa, una Noah…
Detto
così sembrava stranamente perfetto. Non solo
perché si trattava di una grande dimostrazione di arte da
parte del Conte, ma anche perché appariva a prima vista la
soluzione più positiva per me.
Mi ero o no preso
una sbandata per lei quando ero ancora un normale essere umano? Certe
cose, mi era già stato mostrato, si erano mantenute stabili
anche dopo il famoso “risveglio del sangue” ed in
effetti non ero certo diventato insensibile a quella ragazza. Me ne ero
dimenticato a lungo, era vero. Ma ciò non significava che
non mi fossi subito ricordato di lei. Del resto era ancora bellissima,
fiera, un po’ suscettibile, ma perfetta…
Inutile girarci
intorno, dato che ormai io non ero più un santo e lei non
era più una religiosa… Ero incredibilmente
attratto da lei. Anche più di allora. Era talmente evidente
che mi dava fastidio ammetterlo… Ancora una volta la mia
impassibilità impallidiva…
Quindi
l’idea di sposarla… Insomma, non mi dava fastidio.
Come imposizione non era neanche così pesante, in
fondo… Mi sarei legato ad una mia parente, come voleva il
“capo”, e magari ne sarei anche stato
contento…
Fin qui tutto
bene…
Il problema era
quella “purezza”…
Una cosa del
genere non mi era mai interessata nella mia vita
“bianca” e tanto meno era importante adesso. Eppure
l’avevo percepita e faceva parte delle cose che mi avevano
colpito di lei, ora come allora. Era possibile che avessi visto tutto
ciò anche poco prima della sua trasformazione in Noah? Si,
in effetti. Aveva qualcosa di incredibilmente pudico nonostante
l’abito rosso e lo sguardo aperto.
Allora o i conti
non tornavano o mi stavo convincendo di qualcosa che non esisteva.
Delle due una.
Era del tutto
inconcepibile una qualità simile assegnata ad una Noah.
Poteva anche non
aver ancora perduto le sue virtù umane. Questa poteva essere
la spiegazione. Ma se le possedeva ancora era comunque destinata a
perderle. Inutile pensarci, inutile ritenerle necessarie.
Eppure ero
scappato.
Tossii, come se il
fumo mi fosse andato per traverso. La sesta sigaretta era forse un
po’ eccessiva.
Assolutamente no.
Quella non era una fuga. Era un istinto improvviso di allontanarmi da
lì.
Ero stato
eccessivo a designarla come un’emozione. Io sapevo
controllare le mie emozioni. Soprattutto quando ero in vesti
“nere”. Non c’entrava niente…
Forse…
Oppure, non mi
piaceva pensare che lei, la donna più pulita che avessi mai
visto, fosse una creatura “nera”. Come se fossi
ancora semplicemente quel giovane operaio squattrinato. Come se non
condividessi quel sangue oscuro con lei.
Assolutamente no.
- Ti sei offeso,
Tyki-pon…!? -
Qualche momento
dopo la voce allegra del Conte vibrò nel vicolo scuro.
Sorrisi
malignamente.
-
Offeso…!? Per cosa…!? -
-
Perché non ti ho detto che la tua promessa è
anche stata la giovane suora che ha aiutato il tuo amico umano.- anche
se la sua voce prese note leggermente cupe nel pronunciare le ultime
due parole, per il resto era terribilmente cordiale.
- Non dite
assurdità. – fissai deciso i miei occhi in quelli
gialli del Conte – Perché mai dovrei essere
arrabbiato…? –
- Allora era solo
una mia impressione! –
- E’
molto probabile. –
Con la mia
più compassata indifferenza, buttai per terra
l’ultimo mozzicone e mi alzai in piedi. Raccolsi da terra il
mantello e lo scossi solo un attimo. Non era neanche così
sporco come credevo.
- Vivy era molto
dispiaciuta… -
La sua noncuranza
era invece totalmente falsa. Avrebbe dovuto prendere esempio da me.
Mi passai una mano
tra i capelli e chiesi vagamente: - Ah. Come mai? –
-
Perché non ha capito la tua reazione. Crede di aver
sbagliato a non dirti subito che è una Noah.
Invece di richiamare quel passato, ormai del tutto morto e
sepolto… -
Una persona
normale doveva arrabbiarsi sapendo di essere stata, per certi versi,
ingannata. Sapeva già chi ero diventato eppure aveva fatto
finta di nulla: prima di non conoscermi e dopo di ignorare la mia nuova
vita.
In ogni caso,
quando non trovai in me traccia di rabbia o di qualunque altra forma di
reazione, neanche della specie misteriosa che aveva mosso i miei passi
poco prima, non mi stupii minimamente.
Mi fu
semplicissimo sorridere in modo del tutto neutro: - Pazienza.
–
- Non sei
arrabbiato con lei, quindi, Tyki-pon…? -
- Per nulla. Non
sono emozioni che possano riguardarmi, Conte. Non mi interessano.
– scrollai le spalle per chiarire il concetto.
- Almeno sei
contento della mia scelta…? –
- Umh…
Penso di si. E’ una nostra parente... E’ certo una
bella donna... –
- …ha
perso quel peso di purezza che si portava dietro… –
Era
divertentissimo vedere come mi stesse mettendo alla prova. Non mi dava
neanche fastidio.
- Non avete appena
detto che per lei quel passato è sepolto…? A voi
non credo che riguardi poi tanto. Per me poi non conta nulla. Mi
è del tutto indifferente. -
Ancora una volta
ebbi la spiacevole sensazione che quell’enorme sorriso
plastificato si allargasse a dismisura: - Ne sono lieto! –
Due braccine magre
mi strinsero una gamba destra. Non ebbi alcuna reazione.
- Road…
- commentai in un sospiro.
Lei mi
lasciò e trotterellò davanti a me:
- Non è
divertente, Tyki! Potevi almeno far finta di esserti spaventato!
–
Aggrottai le
sopraciglia: - E tu ci avresti creduto…? –
- Avrei fatto
finta! -
-
Già… - sorrisi, accondiscendente.
Il Conte rise
allegramente: - Volete andare a farvi un giretto!? La notte
è ancora giovane! –
- Si, dai!
– esclamò, contentissima.
- Se proprio non
se ne può fare a meno… - commentai, con
sufficienza.
Mi preparai a
rientrare tardissimo. Così la mattina successiva non sarei
potuto tornare dai ragazzi… Il gioco preferito del
Conte…
Road non mi chiese
nulla. Un record. Del resto, comunque, ebbi tutto il tempo della
passeggiata la fastidiosa sensazione di avere i miei pensieri stampati
in fronte. Lamentarsi sarebbe stato inutile, così la lasciai
fare.
Non
c’era nulla che dovessi nasconderle. Nulla che non sapesse
già. Nulla che potesse crearmi dei problemi. La mia mente
era di nuovo vuota da impressioni ed emozioni. Indifferente a tutto e
tutti.
Rientrai
all’alba da quella giornata lunghissima con la sola idea di
dormire qualche ora. Nessun bisogno di meditare avrebbe turbato il mio
sonno…
Mi svegliai nella
perenne oscurità di “casa Noah”.
Sbirciai ancora rintontito il piccolo l’orologio a pendolo
sul tavolo al centro della stanza e vidi che mancava poco
all’orario abituale del pranzo. Mi girai dall’altra
parte cercando di riaddormentarmi, ma non mi fu possibile.
Ripercorsi
mentalmente le scene dell’unica volta che mi ero azzardato a
saltare un pasto in famiglia dicendo di essere troppo
stanco… Il Conte si era gaiamente lamentato per qualche ora,
impedendomi comunque di riposare… Tanto valeva quindi fare
che alzarsi…
Stiracchiandomi
scompostamente, aprii la porta sul corridoio e mi trovai subito di
fronte subito un’altra persona.
Victoire si
voltò di scatto nella mia direzione. Indossava un abito nero
diritto, accollato ma che segnava gentilmente le curve. I lunghi
capelli scuri erano raccolti da un becco d’anatra, lasciando
ampiamente scoperte le cicatrici sulla fronte e gli occhi, che,
benché colorati di giallo, mancavano del tutto di malizia ed
erano anzi spalancati dallo stupore.
Mi ritrovai
comunque ad esitare, più per scrupolo che per altro. Lei
invece sembrava non sapere davvero cosa fare. Teneva stretta in maniera
alquanto convulsa la maniglia della porta che si trovava quasi di
fronte alla mia e non osava più rialzare lo sguardo.
- Buongiorno.
– dissi semplicemente.
Mi
guardò per qualche momento, stranita, poi cercò
di sorridere: - Buongiorno. –
Sembrava cercare
le parole per dire qualcosa, ma non avevo intenzione di ascoltare.
Sarebbe stata una discussione del tutto inutile. Non mi andava bene che
desse così peso a quella mia reazione immotivata della notte
scorsa. Tutto quel timore non le era consono. Doveva dimenticare e
basta. Come stavo facendo io.
Senza attendere
mossi qualche passo per il corridoio, poi mi voltai: - Vado a fare una
doccia. Potreste dire al Conte che arrivo più tardi a
salutare…? –
Annuì,
con decisione mista a meraviglia: - Certo, nessun problema. –
- Grazie. -
Il getto
d’acqua mi svegliò del tutto.
Indossai una
camicia bianca pulita e ignorai il cravattino che il
“capo” aveva fatto lasciare appositamente. Faceva
troppo caldo in casa per stringermi quel laccio al collo e, anche se
non era molto decoroso, come di certo mi avrebbe fatto notare, preferii
lasciare aperti un paio di bottoni della camicia. Tentai di pettinarmi
i capelli, ma rimasero comunque parecchio disordinati, come sempre
appena asciugati.
Quando arrivai
alla sala da pranzo, però, non c’era nessuno.
Rimasi incerto
sulla soglia: - Cosa succede…? –
Dalla cucina
sbucò un akuma abbigliato da cameriera con in mano un grande
vassoio:
- Sua signoria
Noah… - fece la voce metallica – Il nobile Conte
si è premurato che pranzaste… -
- Si, ma dove sono
gli altri…? –
- L’ora
di pranzo è passata da diverse ore… -
Sbuffai: - Allora
vedi di mandare qualcuno a ricaricare l’orologio della mia
stanza, che si è fermato.-
- Sarà
fatto immediatamente… Accomodatevi… -
Appoggiò
il vassoio sul grande tavolo e fece un gesto verso la sedia posta
davanti all’ultima parte apparecchiata del piano.
Mi sedetti di
malavoglia. Pranzare da solo circondato da quei
“giocattoli” non mi piaceva per nulla. Solo che non
avevo molta scelta, ma parecchia fame.
- Conte!
–
Per istinto
riconobbi subito la voce di Victoire. Eppure da tanto tempo non
l’avevo più udita così aspra ed
irritata. Dannazione, un’altra volta mi riferivo a
quell’inutile passato…
Sbuffai tra me,
poi mi voltai a guardarla.
Il suo volto e il
suo tono divennero subito più mansueti:
- Emh…
Il Conte è qui…? -
Sorrisi
elegantemente: - Pare di no. –
- Avete idea di
dove sia…? -
Scossi la testa: -
No. –
- Capisco.
Scusatemi allora. -
Proprio in quel
momento stava sbucando dalla cucina la cameriera di metallo con la
prima portata. Squadrai con sincero disgusto quella figura.
- Victoire,
aspettate. -
Si
voltò nella mia direzione, sempre con quell’aria
dubbiosa sul viso: - Si…? –
- Avete
già pranzato? -
- Emh, in
realtà no… -
- Allora fatemi
compagnia, per favore. –
Non sapevo se lo
stavo facendo a causa di quel silenzio e di quelle entità
senza vita, oppure per mettere alla prova la mia
impassibilità. O per ultimo perché mi faceva
davvero piacere la sua presenza.
-
Siete…sicuro…? -
- Si, certo.
–
Quando la vidi
muovere i suoi passi leggeri nella direzione del tavolo, mi alzai ed
andai al posto davanti al mio a scostarle la sedia.
Il rosso vivo che
colorò le sue guance fu distinguibile anche sulla pelle
grigia della nostra famiglia. Non avevo mai visto una Noah arrossire.
Tuttavia si sedette e io avvicinai la sua sedia prima di tornare al mio
posto.
Per qualche
momento il silenzio corse tra di noi.
Lei era
impacciatissima, le spalle in tensione, gli occhi che vagavano per la
stanza evitando accuratamente di posarsi su di me. Per canto mio,
benché non fosse molto educato, la stavo fissando.
Infine si
voltò a guardarmi: - Perché mi fissate in questo
modo…? –
Distolsi allora lo
sguardo, con una scrollata di spalle: - E voi perché evitate
accuratamente di guardarmi…? –
- Vi dà
fastidio…? -
- Un
po’. – risposi d’istinto, pentendomene
comunque immediatamente.
- Vi chiedo scusa.
E’ che non so come comportarmi. – disse subito.
Era assolutamente
sincera e ancora una volta un rosso fuoco invase il suo viso. Evitai
accuratamente che il discorso andasse però di nuovo
all’argomento del giorno prima.
- Non vi
preoccupate. – tagliai corto e assaggiai il piatto
occidentale che mi era stato posto davanti.
Allora
guardò con un moto di repulsione la creatura del Conte che
le aveva posto davanti il piatto, si sforzò di seguire il
mio esempio e assaggiò la pietanza.
- Come vi
sembra…? – chiesi.
-
E’…buono… - rispose, ma con un leggero
brivido.
Sorrisi
maliziosamente, benché anch’io soffrissi della
stessa insofferenza agli akuma. Vederla negli altri era divertente.
- Non ridete di
me, per favore… - disse con una certa asprezza, ma a bassa
voce – E’ solo che non sono abituata… -
- Scusatemi
l’indelicatezza… - ma una punta di ironia era
ancora presente nel mio tono.
Il pranzo
andò abbastanza bene. Parlammo vagamente di tutto e di
nulla. Non toccammo alcun tasto particolare, ma le chiesi della sua
attività di soprano e lei mi interrogò su alcune
questioni di casa. Tutto estremamente formale, come alle tipiche
riunioni di famiglia.
Eravamo ormai al
dolce quando ricomparve il Conte in tutto il suo splendore. Un cappello
terribile decorato con le note musicali e una giacchetta preziosa ma
striminzita che mi chiedevo come avesse fatto ad indossare.
- Cosa vedo! Sono
le quattro del pomeriggio e vi trovo ancora qui a mangiare! –
esclamò allegro.
Prima che potessi
rispondere, Victorie commentò, irritata: - Vi ho cercato
dappertutto… Avevo bisogno di parlarvi… -
- Ti chiedo
perdono! Solo che a quanto ho visto entrambi avete il vizio di
svegliarvi tardi e io non potevo certo attendere! Avevo degli affari
urgenti! Comunque ora sono qui, Vivy! -
SI sedette sul suo
solito scranno viola anche se era parecchio lontano da noi.
- Retino vuole
portare in scena “La Carmen” e avrò
bisogno di parecchio tempo per le prove. Cosa avete intenzione di fare?
Mi concederete ancora la camera d’albergo e preferite che
venga ogni sera qui? -
- Oh, ma qui!
Certo! Ormai sei parte della famiglia! Per forza! Non è
così, Tyki-pon!? –
Essere citato in
causa così all’improvviso mi colse impreparato.
- Certo, questo
è il centro fondamentale della famiglia e tutti i nostri
parenti sono i benvenuti. -
La mia classica
risposta del tutto neutra.
Vivy mi
lanciò uno sguardo che non riuscii a comprendere. Che cosa
voleva che dicessi…?
- Allora va bene.
Il mio viavai non sarà un fastidio per i nostri
parenti…? -
- Assolutamente
no! Anzi! Giusto…? – di nuovo verso di me.
- Io non posso
parlare al riguardo. Non sto così spesso e così a
lungo qui. - risposi in tono di scuse.
- Però
qui potrei creare problemi con i miei esercizi vocali… -
Era ormai chiaro
anche a me che non aveva alcuna intenzione di restare nella nostra
casa. La cosa non mi interessava. Ognuno era libero di vivere dove
voleva. E a tal proposito anch’io avevo una cosa da
chiedere…
- Ma abbiamo un
ottimo pianoforte e un esperto musicista: il nostro Tyki! Aiuterai tu
Vivy con i suoi esercizi canori, no…? -
Interruppi questa
ennesima scenetta. Ero parecchio stufo di quello scaricabarile. Ignorai
la domanda, ma dissi subito:
- Mi dispiace,
Conte, ma io devo assolutamente portare avanti i miei affari. Dato che
questa notte ho accompagnato Road a fare quel giro, questa mattina non
sono riuscito a tornare ai miei compiti. Ho il vostro permesso di stare
via per qualche tempo, allora…? -
Il
“capo” mi scrutò attentamente, come chi
studia una strategia. Pessimo segno.
Poi rispose, gaio:
- Certo! Ma ricordatevi che il telefono squilla…! –
Sorrisi, ironico:
- … e per i Noah solo una volta… -
Mi alzai e rimisi
a posto la sedia: - In questo caso vado a prepararmi, con il vostro
permesso… Conte, Victoire… A presto… -
e senza aspettare risposta, mi avviai per il corridoio.
Avevo voglia di
tornare alla mia vita normale. Forse più del solito. Quei
due giorni mi avevano spossato.
Indossai la giacca
del completo, il cravattino, il mantello e il cappello. Mi sarei
cambiato solo poco prima di arrivare alla cava. Mi stavo già
avviando alla porta di Road, quando una voce mi chiamò.
Mi voltai sapendo
già chi fosse.
-
Ascoltate… Io… - cominciò a fatica.
Qualche ciocca dei
suoi capelli corvini era scappata dal fermaglio e scivolava gentile
sulla sua pelle scura.
-
Perché non ci diamo de “tu”…?
– dissi improvvisamente, interrompendo il suo dubbioso
tormento.
I suoi occhi si
allargarono di stupore.
- Non è
così strano. – cercai di spiegare – Solo
al Conte è praticamente obbligatorio dare del
“voi”, tra noi Noah non è necessario.
–
- Mi chiamerai
Vivy…? –
Le sue parole ora
erano molto più decise. Appariva molto meno intimorita di
prima. Da una parte mi faceva piacere, dall’altra mi
preoccupava perché non prometteva bene per il seguito.
- Se lo desideri,
si. Ma in genere a nessuno piace il soprannome affibbiato dal Conte. -
- Io ero
già chiamata Vivy prima di incontrare il Conte. Quindi si,
mi fa piacere. –
Sorrise in maniera
splendida. Ma pulita, troppo per quelle cicatrici e quel volto colorato
di morte.
- Allora
è perfetto. -
- Per
favore… - mi fermò ancora una volta, aveva capito
che stavo cercando di sfuggirle.
- Dimmi, Vivy.
– c’era una leggera impazienza nel mio tono.
- Io volevo
chiederti perdono per quelle scene di poco fa con il Conte. Io e lui
abbiamo… emh… un rapporto un po’
tormentato, ma mi è dispiaciuto che abbia tentato di
metterti in mezzo. –
- Non importa.
– risposi subito, netto.
- Beh, anche per
quella reazione a causa della tua risata. Solo stata fastidiosa,
immagino. –
- Non importa.
–
- E
poi…per ieri sera… -
- Non importa.
–
- …non
volevo ingannarti… E’ solo che quando mi hai
riconosciuta io non me la sono sentita di parlare della
famiglia… -
- Non importa.
–
- Ma
io… -
- Non importa, te
lo ripeto. –
Tutta la mia
indifferenza regnava in quelle due parole e me ne lasciai trasportare:
- Non mi importa niente di ciò che è stato. Il
passato è ormai morto. Non ha alcun modo di influenzare il
presente. Quindi qualunque cosa abbia a che fare con il passato, dalle
azioni più recenti a quelle più remote, non
può essere un problema. Per cui non devi preoccuparti
riguardo a nulla. -
Pronunciai quelle
frasi senza alcun ripensamento o alcun peso. Credevo che rinnegare
tutto ciò che era stato mi sarebbe pesato, ma non avevo
percepito alcun rimorso. Solo dovetti impegnarmi per distogliere lo
sguardo dal volto desolato di Vivy.
Il Conte mi aveva
lasciato intuire che fosse stata lei la prima a dire quelle cose. Io le
avevo solo imitate, infondo. Ma il volto terreo diceva
tutt’altro. Possibile che invece a lei facesse
così male sentirsi dire una cosa simile…? Mi
nutrii del mio disinteresse e ignorai la domanda retorica.
Le voltai le
spalle e sentenziai:
- Non ha senso
restare attaccati con le unghie a ciò che non torna. Se vuoi
essere una vera Noah devi dimenticare il passato e vivere per le uniche
due dimensioni che ci appartengono, il presente e il futuro. A me non
interessa altro, anche per te dovrebbe essere così. -
Poi, mi girai
quanto bastava per posare gli occhi su di lei. Il suo sguardo era fermo
deciso, fermo, quasi bruciante, la sua espressione fredda, la postura
rigida e formale.
- Spetta a me
decidere in che dimensione vivere, Tyki. -
Non potei evitarmi
di ridere sonoramente:
- I miei sono solo
consigli! -
Mi avviai verso la
fine del corridoio senza più voltarmi indietro: - Ci vediamo
presto, Vivy. – con un cenno della mano
- Già.
A presto, Tyki. –
La sua voce era di
nuovo cupa e desolata… Ma non mi importava…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Eccomi! XD
Tentare
di ragionare come Tyki mi è veramente
difficile… Spero però di essere riuscita a
rendere almeno un po’ ciò che credo potrebbe
pensare in una situazione simile… Dato che sono eventi del
tutto lontani dallo svolgimento della vicenda originale, sono
tormentata dall’idea di finire OOC! Datemi il vostro parere:
sto esagerando? Sto uscendo dal seminato? Anche perché
dovete tenere conto che più la storia andrà
avanti, più il rischio di snaturare il personaggio
sarà grande (anche se io metterò tutta la mia
buona volontà per non farlo)…
Ilmprossimo
capitolo è dal punto di vista di Vivy… Non le
sarà semplice fare i conti con quel comportamento
oscuro… Continuate a seguirmi, please… ^_^
Lady Greedy:
spero di essere riuscita a farti comprendere i motivi per cui
l’incontro non è stato felice come si poteva
presagire. Il rapporto tra loro si muove tra il
“bianco” e “nero” ed
è quindi difficile per entrambi rapportarsi con le proprie
emozioni e la propria identità. Se Vivy non sapeva se
mostrarsi o meno, dubbiosa sulla reazione di lui, Tyki era per certi
versi del tutto immerso nel suo personaggio: non aveva fatto in tempo a
sciogliersi del tutto dalla sua veste elegante prima di scoprire la
verità, che gli ha creato più problemi e
ripensamenti di quanto pensasse... A questo punto la domanda
è: riuscirà davvero a restare indifferente per sempre…? I
miei capitoli, me ne rendo conto, si stanno facendo sempre
più netti e definiti, ma mi sforzerò
d’ora in poi di evitare il senso di chiusura che hai
notato… ^_^
P.S. Mi dispiace ma non ho la possibilità di partecipare
alle fiere, per quanto mi piacerebbe molto... Ma ammiro moltissimo i
cosplayers: i miei complimenti!!!
Freija:
grazie molte davvero per i complimenti!!! E come sempre ti devo
ringraziare per l’apprezzamento per Vivy, la mia creatura!!!
XD Come vedi Tyki non ha reagito molto bene… Diciamo
comunque che come al solito è riuscito a tornare
composto… Anche troppo… Spero che ti sia piaciuto
anche questo capitolo! ^_^
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“I
migliori rapporti sono quelli di cui si conoscono gli ostacoli, e che
tuttavia si vogliono conservare.”
(F.S.
Fitzgerald)
Lo vidi svanire
nel vicolo deserto. Senza una parola, nel silenzio. Del tutto oscuro,
attraverso un abisso buio. Lontano da me, senza alcuna speranza.
Cosa potevo dire
in un momento simile? Tutte cose inutili, pietose, stupide.
“Aspetta”?
Che cosa doveva aspettare? Me? Perché? Quello che doveva
sapere era già stampato sul mio volto scurito e segnato dal
sangue della famiglia.
“Mi
dispiace”? “Perdonami”? Pietoso e
insensato. Avevo fatto finta di non sapere. Avevo mentito. Cosa
c’era da dispiacersi, ormai? Chiedere perdono non avrebbe
cambiato nulla.
“Perché”?
Questa era l’unica parola che avesse senso, ma a che titolo
gli avrei potuto chiedere spiegazioni? Cosa rappresentavo in quella
circostanza? Potevo accamparmi un simile diritto?
Aveva deciso di
andarsene e io tacqui, come era giusto facesse chi ha agito
male…
- Ho bisogno di
parlarvi, Conte… -
Tutti gli altri
Noah tenevano fissi gli occhi rapaci su di me. Non li avevano ancora
distolti un momento. Ma più di tutti mi angosciavano quelli
della bambina, che leggevano ininterrottamente ogni mio pensiero.
- Si, certo! Dimmi
pure, Vivy! – mi rispose, benevolo, anche troppo. Quegli
occhietti mettevano in mostra una studiata pietà, atta a
farmi sentire una povera sfortunata ragazza abbandonata.
…Maledetto…
- Non avete
capito. Intendo in privato. – pronunciai a fatica, cercando
di nascondere la rabbia che mi bruciava l’animo.
- Cosa
può esserci di così privato da non poter essere
esposto alla presenza di tutti i nostri famigliari…?
– e fece un ampio gesto per indicare nel complesso tutti i
presenti.
“Vi
comportate così perché non volete
parlarne…? Perché vi rode…?”
pensai intensamente, sapendo che avrebbe letto questo pensiero privato
rivolto a lui solo. Ma ad alta voce dissi semplicemente:
- No, nulla.
Niente di così importante. –
- Bene, meglio
così allora. Se non c’è nulla che ti
turba… - commentò, con un’asprezza non
del tutto velata.
Di certo aveva
ricevuto il mio messaggio.
Tuttavia irritarmi
così e scagliare la mia rabbia contro di lui non serviva
proprio a nulla e anzi avrei finito per fare il suo gioco.
Del resto, era
certo avvenuto un cambiamento che egli non si aspettava nel nostro
incontro. Anche lui era rimasto stupito, per certi versi, da come Tyki
si era comportato. Non era opera sua, allora. Eppure non era il caso
né di gioire né di badarci troppo: il Conte
impiegava sempre molto poco a rimescolare le carte e a far tendere le
sorti nuovamente dalla sua parte. Più mi distraevo a
crogiolarmi nelle vane speranze, più lui trovava modo di
rivolgere ancora gli avvenimenti a suo piacimento…
E
cos’altro potevo fare se non seguire lo scorrere degli
eventi? In quel momento non avevo alcuna influenza, alcun potere, forse
alcun ruolo. Dovevo lasciarmi sballottare dalla corrente fino a quando
avessi trovato un appoggio stabile da cui ripartire alla scalata.
Così
non feci rimostranze quando andammo tutti a prendere un drink ad un bar
isolato, pieno di quelle amate macchine del nostro nobile
accompagnatore, e neanche quando quest’ultimo andò
a cercare Tyki che non tornava e mi affidò a Lulubell
perché mi accompagnasse a casa e poi alla mia camera.
Tacevo ed
eseguivo.
Forse anche
perché ero decisamente disorientata e desolata. Avevo fatto
arrabbiare (ma era rabbia o chissà
cos’altro…?) l’unica persona per la
quale mi trovavo in quella situazione. Avevo scatenato
l’astio di colui che mi poteva aiutare a sopportare quella
vita. Adesso sì che ero sola. Uno strumento in balia del
Conte.
Quella seguente fu
una giornata assurda, della quale non riuscii proprio a capire nulla,
se non che potevo solo prendere atto delle cose senza agire, ancora una
volta.
Tyki mi aveva
salutata, mi parlava, di certo non mi ignorava. Questo era
già un buon passo avanti rispetto a tutte le prospettive che
mi si erano affacciate alla mente il giorno prima. Non poteva odiarmi
se non faceva nulla per evitarmi, mi dissi subito, ingenuamente
rincuorata da questa idea. Forse nulla era perduto, neanche con i
maneggi del Conte.
Solo che volevo
ugualmente parlarne con lui. Volevo chiedergli scusa, volevo spiegare
le cose. Non mi sembrava un gesto inutile, serviva soprattutto a fare
chiarezza e a non lasciare nulla di nascosto. Stavo tentando
disperatamente di imparare dai miei errori: avevo taciuto le cose una
volta sola e queste si erano rivoltate contro di me creando situazioni
spiacevoli, volevo evitare che capitasse ancora.
Eppure, lui non ne
voleva sapere. Era semplice, doveva solo starmi a sentire, permettermi
di spiegare. Diventò subito sfuggente, sbrigativo, quasi
aggressivo, tranciante. L’ironia più crudele ed
infida affiorava dalla sue parole.
“Non
importa”. Che cosa orribile da dire: non significa nulla, non
vale nulla, non ha significato, non ha qualificazione, non ha
necessità. E’ un’espressione vuota.
Proprio come il modo in cui lo disse, tante volte di seguito da
imprimersi nella mia mente in modo indelebile. Anche quella lieve
ribellione che avevo messo in atto contro il suo menefreghismo, oltre a
non essere servita a nulla, mi aveva lasciata ancora più
stanca e affranta.
Anche
perché non mi aveva convinta.
Se non gli fosse
importato non sarebbe fuggito da me quella sera. Se non gli fosse
importato non mi avrebbe impedito in ogni modo di parlarne. Se non gli
fosse importato sarebbe stato lui il primo a dire di metterci una
pietra sopra.
Così
come non credevo che volesse dimenticare davvero il passato. Quel
passato.
Non ne aveva il
diritto. Non lo avrebbe fatto.
Se la sera prima
sembrava contento di aver rivisto quella stupida suora scorbutica, come
poteva il giorno dopo scoprirsi disinteressato ai momenti passati?
Anche ben volesse
farlo, non poteva cancellare tutto in una sola notte. Questo potevo
almeno sperarlo, anche se ancora una volta dovevo anche accettare
l’idea di non conoscerlo affatto. Probabilmente avevo ancora
tempo prima di diventare davvero solo una Noah ai suoi occhi…
Ma questi erano
semplici pensieri razionali. E io potevo essere certa che lui
percepisse le cose come me, come chiunque altro…?
Passò
un mese e di Tyki nessuno sapeva nulla.
Io non toccai
l’argomento con nessuno e affrontai la cosa con estremo
rigore. Non una sola volta colsi nelle parole del Conte o di Road
qualche frecciatina, neanche troppo velata, sui fatti dei giorni
passati. Ci misi poco ad imparare l’unico metodo per
sopportare queste allusioni fastidiose: tacere, ascoltare in quieto e
rassegnato silenzio e ingoiare tutto come grossi rospi.
Forse dovevo
dimostrare che non avevo paura, ogni tanto mi dicevo. Forse avrei fatto
meglio a fare sfoggio di un po’ dell’irritazione e
del fastidio che provavo, tanto per dimostrarmi qualcosa di
più di una bambolina muta. Dovevo far vedere che non
potevano prendersi per sempre gioco di me. Subito dopo mi chiedevo a
cosa sarebbe servito. Le malignità non devono ferire, non
devono essere ascoltate. Lo avevo imparato da piccola ed ero ancora in
grado di tenermelo bene in mente. Poi certamente la mia posizione
attuale non mi permetteva di essere tanto spavalda. Avevo troppi
scheletri nel mio armadio per potermi ergere, per poter sfidare
apertamente chi in teoria mi aveva fatto un favore permettendomi di
essere me stessa. Non era ancora tempo… Per sopravvivere a
casa Noah non potevo che comportarmi così.
D’altra
parte mi ritrovai molto spesso a dormire nel mio camerino a teatro dopo
nottate eterne di prove a raffica. Retino era davvero infaticabile per
un uomo della sua età. Neanch’io riuscivo a
stargli dietro. Ma non mi lamentavo. Forse perché ero anche
abbastanza felice di non dover tornare tutti i giorni a casa.
Un mesetto di
prove quasi continuative e finalmente uscirono i manifesti della
rappresentazione della “Carmen”. Avevo chiesto
espressamente all’impresario di non far mettere il mio nome o
un mio ritratto, ma non aveva voluto sentire ragioni...
- Non vedo
perché dobbiate essere così modesta, Victoire! -
- Non è
questione di modestia, signore… -
- Forse non
solo… E allora di cosa…!? –
esclamò puntandomi addosso uno sguardo educatamente
indagatore.
Abbassai gli
occhi.
Avevo davvero
ragione di credere che gli Inquisitori mi avrebbero trovata per un
semplice schizzo su un manifesto o da un nome che forse non ricordavano
neanche? Forse stavo diventando paranoica…
Sospirai: - Va
bene, Signor Retino… Fate quello che desiderate… -
- Bene! Molto
bene! – commentò sorridendo radioso e cominciando
a camminare animatamente per la stanza – Voi fate la mia
felicità, Victoire! Da quando siete arrivata in questo
teatro si respira nuova vita! E’ per questo che voglio che
tutti sappiano chi siete, che tutti vi ammirino! Sapete che siete una
splendida fanciulla, no? -
Immaginai di
essere diventata di ogni colore possibile: - Se lo dite voi…
-
Si
bloccò di scatto e si diresse verso di me a passo di marcia:
- Ne dubitate…? –
- Emh,
ecco… Nella mia vita… E’ la prima volta
che me lo sento dire… -
- Impossibile! Non
posso credere che nessuno vi abbia mai detto quanto siete bella! Avessi
cinquant’anni di meno! Oh, cielo! – si
batté con enfasi teatrale una mano sulla fronte.
Non feci in tempo
a dire nulla o a reagire. Mi prese le mani e disse solennemente: - Mi
credete quando dico che non siete solo una soprano incredibile, ma una
creatura fantastica e di indubbio fascino…? –
- Non siete
eccessivo ora…? – commentai timidamente,
frastornata.
Si
bloccò per qualche momento, poi aggiunse: - Voi potreste
essere mia figlia, ma questo non significa che non possa dirvi quello
che penso davvero… Siete una donna meravigliosa, una delle
più belle su cui abbia mai posato gli occhi… E
credetemi, sono stato attore per decenni e ho molti anni di carriera
come impresario nel mondo della lirica: ne ho viste di primedonne!
–
Il mio colore si
era forse almeno assestato sul rosso vivo, ma ero imbarazzata da
morire. Mi ero subito accorta che non c’era traccia di
adulazione in quelle parole.
- Ditemi allora,
mi credete? -
Non potei fare
altro che annuire, benché in realtà credessi
ancora che quelle parole fossero troppo per me. Comunque Retino
sembrò rassicurato e mi lasciò le mani:
- Meno male! -
Credevo che il
caso si fosse risolto, ma egli riprese: - Mi chiedo davvero come sia
possibile che in vita vostra non abbiate mai ricevuto dei complimenti!
Dove siete vissuta!? –
Sperai che fosse
una domanda retorica, ma mi ritrovai di nuovo assediata dallo sguardo
penetrante dell’impresario.
Sospirai: - Se ve
lo dicessi non ci credereste… -
Restò
ancora qualche momento a scrutarmi, sperando forse di convincermi a
parlarne, ma vedendo il mio cenno di diniego si arrese.
- Ah…
Ma non credo sia possibile… Possibile che nessun uomo si sia
degnato di tesservi le sue lodi…? Non ci sono più
i gentiluomini di una volta… -
Mi accorsi subito
cosa sarebbe successo, ma non feci in tempo ad impedire che lo dicesse.
- Neanche quel
giovanotto dell’ultima serata…? -
Cercai di apparire
il più possibile normale nel rispondere: - No… -
- Pazzesco! E dire
che nonostante tutto mi sembrava un tipo estremamente educato! -
- Si è
complimentato per lo spettacolo… -
- Si, ma
è di rigore anche lodare lo splendore
dell’interlocutrice! –
- Se
l’avesse fatto forse non gli avrei creduto… Odio
le adulazioni… Soprattutto se puramente formali…
-
L’impresario
sembrò interdetto: - Ma a me avete creduto, giusto?
–
- Si… -
divenni probabilmente di nuovo color pomodoro –
Perché ho visto dalla vostra espressione che eravate
sincero… Anche se comunque troppo buono… -
- Nel suo caso no?
–
Ripensai agli
occhi di Tyki. Splendidi, sottili, scuri e profondi, pieni di fascino.
Tuttavia non erano riusciti ad esprimere alcuna vera espressione nel
momento in cui mi si era rivolto e mi aveva fatto
quell’elegantissimo baciamano. Erano vuoti e formali, acuti
ma in un certo qual modo indifferenti, come tutto il suo comportamento.
Scossi la testa: -
No… -
-
Perché…? -
-
Perché non sono pensieri ed emozioni che gli si addicono e a
lui non importa che io sia brutta o meno. –
Fu una frase che
mi uscì da sola di bocca e solo dopo mi accorsi di quanto
fosse amara…
Guardai Retino
quasi spaventata. Temevo che questo potesse metterlo in allarme e
convincerlo a fare altre domande. In effetti, sembrava preoccupato.
-
Signor… -
- No, non ditemi
nulla se non ve la sentite… Chiudiamo qui il discorso,
d’accordo? Permettetemi solo di dirvi una cosa: -
l’espressione seria che assunse mi fece inquietò
– se una persona riesce a rendervi così addolorata
e sofferente dovreste tenerla il più lontano possibile e
dimenticarvi di lei. Non c’è nulla di
più brutto di non sapere cosa c’è nel
cuore di una persona, tranne forse sapere che non vi è
spazio per noi. –
Avrei voluto
rispondere almeno con una cosa qualunque. Dire qualcosa per
giustificare la mia condotta. Per giustificare anche quella di Tyki, se
fosse stato necessario. Eppure la mia mente si era svuotata. Abbassai
la testa e tacqui. Era un’ammissione di colpa, probabilmente.
- Comunque, -
riprese, come se fosse davvero presente un filo logico in quello che
stava dicendo - credo sia ora di tornare alle prove. Mi sembra che la
pausa sia finita e che il nostro “Josè”
si stia lamentando, signorina “Carmen”…
- sorrise e mi aprì la porta con galanteria, lasciando che
il discorso e le sue parole cadessero da sé.
Non sapevo davvero
dire quale delle due condizioni espresse da Retino mi si addicesse di
più, ma entrambe erano tremende prospettive.
Per ora
ciò che lui provava era un mistero. Potevo pensare che mi
sarebbe bastato conoscerlo meglio. Ma poteva anche non essere
sufficiente. Se non lo fosse stato, cosa avrei dovuto fare? Sarei
riuscita ad accettarlo o avrei seguito il consiglio che mi era appena
stato dato?
E se alla fine
avessi capito che non avevo proprio alcuna speranza? In effetti, finora
non me ne aveva date molte… E quelle poche era anche
già riuscito a rimangiarsele… Da quello che
sapevo, un vero Noah non aveva un cuore e anche se l’avesse
avuto, era tutto da dimostrare che ci fosse modo di ritagliarsene un
angolino…
L’unica
certezza era che in ogni caso avrei sofferto da morire…
Era una giornata
normale come poteva essere in quel periodo di prove asfissianti, quando
il custode del teatro, pericolosamente ardito e cupo in volto, mi
disse, senza mezzi termini:
- Non potete
più dormire qui. -
- So che per voi
è un problema, ma… -
- No, signorina,
non avete capito. E’ un grave problema! –
esclamò arrabbiato – E’ quasi un mese
che a causa vostra non posso dormire nel mio letto, ma qui in guardina!
–
- Mi dispiace, ma
le prove si protraggono sempre fino a tardi… - tentai
timidamente a giustificarmi.
- Ho
già parlato con Retino! Da oggi tutto finirà ad
un’ora presentabile! Quindi siete pregata di andare a dormire
a casa vostra! –
-
Certo… - pronunciai vagamente sconcerta, mentre quello, a
passo di marcia, con l’aria di chi ha vinto una grande
guerra, se ne andava spedito.
Così
dovevo tornare a casa Noah.
Non che mancassi
da molto: mio malgrado vi ero tornata anche il giorno prima. Per una
decina di volte il Conte mi aveva tirato le più diverse
coltellate alle spalle prima che riuscissi ad andarmene finalmente a
dormire. Solo Road era stata brava e tranquilla, cosa quasi
incredibile, e anzi avevamo addirittura giocato un po’
assieme. Quando ci ripensavo, stentavo a crederci. Forse le cose erano
davvero destinate ad andare meglio, con il tempo.
Mancava solo una
cosa… Ma avrebbe migliorato o peggiorato la situazione?
- Ciao…
-
Appena varcata la
soglia, mi ritrovai davanti la bambina. Sorrideva in quella maniera
vagamente oscura, come al solito. In fondo, anche se ancora non
riusciva a piacermi, mi stavo abituando a quell’espressione
maliziosa.
- Ciao, Road. -
- Sei
già qua, Vivy? E’ presto rispetto al
solito… - commentò, poi aggiunse argutamente
– Il custode ti ha cacciata…? –
Mi sforzai di
sorridere: - Non dovresti fare queste cose… Comunque, se lo
sai, perché me lo chiedi…? –
-
Così… -
Mi avviai verso la
mia stanza con lei alle calcagna.
- Tra quanto si
mangia? – chiesi, tanto per dire qualcosa.
- Il Conte ha
detto tra non molto. Posa le tue cose poi comincia a venire. –
-
D’accordo. Arrivo subito. –
Mentre parlavo si
era già avviata saltellando per il corridoio.
Dopo una
spazzolata ai capelli sciolti e un veloce cambio di abito, aprii la
porta della sala da pranzo.
- Buonasera a
tutti. – dissi entrando, come facevo di solito.
- Bentornata,
Vivy! – esclamò subito il Conte.
Gli rivolsi un
breve inchino: - Vi ringrazio, Conte. –
- Ciao, Vivy.
– risposero i gemelli.
Ma quasi in
contemporanea con loro anche un’altra voce aveva parlato.
- La smetti di
rubarci le parole, stupid-Tyki impiastro!? –
commentò Debit.
- Se mai quelli
siete voi… Dovreste darmi la priorità…
-
Si alzò
con un gesto estremamente fluido, ignorando le lamentele che ancora
provenivano dagli altri due e cancellando l’aria di scherno
che aveva assunto per un attimo:
- Bentornata. -
Lo disse
tranquillamente, senza alcuna inflessione particolare, come se fosse la
cosa più normale del mondo.
Avrei dovuto pormi
mille domande, ma mi resi conto che in quel momento non ne avevo
bisogno. Ero solo felice di vederlo.
Sorrisi: -
Bentornato a te! –
Rispose
tranquillamente al mio sorriso. Nulla di malizioso era nascosto in
quell’espressione. Avrei voluto sospirare di sollievo.
Scostò
la sedia posta accanto a lui e mi fece accomodare.
Solo allora il
Conte batté le mani, facendo portare la prima portata.
- Per quando
è fissata la prima!? -
La voce del Conte
mi interrogò improvvisamente, lasciandomi per un attimo
sconcerta.
Alzai gli occhi e
incrociai per un momento quelli del mio vicino di posto, forse per la
prima volta, vagamente interessati. Sbattei le palpebre, leggermente
incredula, poi riuscii a rispondere:
- Tra due
sabati… -
- Di cosa
parlate!? – esclamò più che mai
allarmato Skin. Non l’avevo ancora sentito parlare in tutta
la sera, preso com’era dalla sua sfilza di dolciumi.
- Della
“Carmen”… Giusto, Vivy? Non è
splendido!? – commentò, allegro come sempre, il
capo.
Notai subito gli
sguardi cupi dei commensali e aggiunsi – Ma non è
il caso che veniate! –
- Io ci terrei!
– disse ancora quello.
- Davvero, Conte!
A me va bene così! Non preoccupatevi! –
- E’ la
messinscena che segna il vero inizio della tua carriera! –
-
Però… -
- Non insistete,
Conte. – si intromise Tyki, mentre si puliva la bocca con
studiata cura.
Mi sentivo
già un po’ rincuorata dal suo aiuto, quando mi
lanciò uno sguardo obliquo e aggiunse: - Non ci
vuole. Ha pur il diritto di scegliere. –
- Ma!? –
esclamai, scandalizzata – Non è questo!
E’ solo che ho paura che vi annoiate! -
- Può
anche darsi. Ma insistere perché non veniamo a vederti
è comunque inopportuno, no? –
Un sorriso
sardonico e ironico era impresso sul suo volto. Stava giocando e magari
si stava anche divertendo. Beato lui.
- Lo
so… Ma… Insomma… - non sapevo
più cosa dire, infine, con le spalle al muro, chiesi: - Ma
dite la verità, voi volete venire? -
- Io si!
– esclamò il Conte subito, felicissimo, e toccando
con uno sguardo accorato ognuno dei presenti.
Silenzio. Non era
semplice contraddire il capo.
La prima a parlare
fu Road. Alzò la mano con aria stanca e disse solo: - Io no.
–
- Ma Road!
– commentò il Conte, con impalpabile amarezza.
- Scusa. Ma quella
volta mi sono annoiata a morte. Non voglio ripetere
l’esperienza. –
- Avevate detto
che era solo per quella voltaaaaaaaaaa! Bastaaaaaaaaaa, per
favooooooreeeeeeeee! – anche i gemelli avevano preso coraggio
e si erano opposti.
- Lulubell!?
Skin!? – chiese il Conte, sempre più offeso.
- Non mi piace.
– disse tranquillamente la gatta, studiandosi con attenzione
la manicure.
-
Sgrunt… Noia… - biascicò con la bocca
piena il gigante.
- Uffa…
Tyki!? Almeno tu! –
Vidi che stava
valutando la cosa. Guardò il Conte, poi me. Per un attimo il
suo sguardo fissò il vuoto, poi disse solo:
- Troppo tempo.
Non posso restare qui per due settimane. Ho delle cose da fare.
Scusate, Conte. Se davvero ci tenete dovrete andare da solo. -
-
Ahhhhh… - sospirò – Da solo
però non mi diverto… Be’
vedremo… -
Il discorso si
stava già spostando su altro, quando Tyki mi
sussurrò, parlando a fior di labbra e guardando avanti a
sé, come per nascondere a chi si stava rivolgendo:
- Spero non ti
dispiaccia. –
Malizia allo stato
puro. Non resistetti.
- Non sei cambiato
per nulla. Nonostante tutte le arie che ti dai… -
Anch’io
guardavo un punto indefinito davanti a me per mascherare che parlavo
con lui.
- Ti ho
già detto che non devi fare riferimento ad
allora… - il suo tono si era un po’ irritato
– E comunque io non mi do arie… -
- Ah
no…? – mi trattenni a fatica dal ridere,
all’apparenza da sola.
- No. Solo
perché mostro il mio stile elegante, non significa che sia
vanitoso. –
-
Sarà… -
- Tu, invece,
sempre così carina con tutti… Si vede che non sei
sincera… -
- Tu lo sei
mai…? –
Anche se non lo
stavo guardando, mi immaginavo stampato sul suo volto il solito
sorrisetto ironico:
- E chi
può dirlo…? -
- Buonanotte. - fu
il secco saluto di Lulubel, prima di chiudersi la porta alle spalle.
- Umph…
‘Notte. – e anche la porta di Skin
sbatté.
- Allora facciamo
che andare a letto tutti. – commentò, Tyki,
stiracchiandosi scompostamente.
- Eh!? Ma il
giretto serale!? – la voce di Road, resa stridula dal
capriccio, echeggiava per tutta la casa.
- Ti prego, Road.
Ho davvero sonno. – poi si voltò indietro come a
cercare qualcuno – Puoi sempre chiedere a… -
Da una porta poco
lontano rimbombò la voce di Debit: - Non provarci, falso
elegante! Tutto ieri, mentre tu te la spassavi, siamo stati costretti
ad accompagnarla a fare spese! –
-
Uhhhh… Immagino… -
- Tutto
perché voi tre non avete buon gusto! – fece il
broncio lei – Senza di me chissà cosa portereste a
casa! –
La scena era tanto
divertente che nonostante tutto mi misi a ridere.
- Lei
ride… Non ha idea di cosa significhi farsi consigliare da
una bambina di dieci anni… - scosse la testa Tyki, comunque
anche lui divertito.
- Insomma!!!!!!!
– Road cominciò a sbattere i piedi per terra
– Potresti sempre venire tu, Vivy! –
- Mi dispiace, ma
domani la sveglia è molto presto. Devo fare le prove con
l’orchestra. –
- Siete degli
antipatici! –
Lui
però le appoggiò una mano sulla testa:
- Ho dovuto
promettere al Conte che starò un po’ di
più qui a casa, quindi avremo molto tempo da passare
insieme. Non puoi stare buona almeno per questa sera? -
Il tono era
posato, quasi affettuoso. Quasi. Non era neanche paragonabile a quello
che aveva usato con il piccolo Iizu tanto tempo fa…
Solo dopo pensai
che non erano cose che potevano passarmi nella testa in presenza di
Road. La studiai per qualche momento, ma non sembrava che avesse
percepito quel mio pensiero un po’ crudele nei suoi
confronti. Era certo che Tyki le volesse bene. Ma come potesse volerne
un Noah e quindi era comunque tutto da dimostrare.
- Allora va bene?
– le chiese, ancora accondiscendente.
- Si! –
esclamò la bambina.
- Quindi posso
andare a letto? Meno male. – commentò, con un
sospiro sollevato.
Road ci
salutò e andò alla sua stanza.
Giungemmo alla
fine del corridoio dove si trovavano i nostri alloggi.
- Allora a domani.
-
Mi
guardò per qualche momento fisso, come soprappensiero, poi
si riscosse e rispose:
- Si, certo.
Buonanotte, Vivy. -
- Anche a te!
Sogni d’oro, Tyki. –
Quasi allo stesso
tempo ci chiudemmo la porta alle spalle.
Era incredibile
come fossi riuscita in qualche momento a sentirmi davvero a casa. Io
che con i Noah non c’entravo nulla. Io che per fede in Dio
ero lì per condurre una battaglia. Io che non sopportavo
quel luogo.
Se le cose fossero
continuate così, sarei forse anche riuscita a farmi piacere
quella vita.
Il problema era
che prima o poi le cose sarebbero comunque cambiate. Prima o poi la
guerra sarebbe ricominciata. Prima o poi le
“cameriere” del Conte sarebbero tornate ad essere
soprattutto armi. Prima o poi gli Esorcisti avrebbero fatto il loro
ingresso nella vita dei Noah.
E una creatura
priva di un suo giusto habitat come me cosa avrebbe fatto?
L’unica
certezza che avevo era la mia Fede assoluta. E non era certo un punto a
favore della mia appartenenza a quel luogo… Definitiva,
presunta o apparente che fosse…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Rieccomi!!!
Visto che alla
fine in qualche maniera sono tornata? Non è un capitolo con
i fuochi d'artificio ed è effettivamente un po' diverso da
come me lo ero immaginato io stessa in origine... Doveva esserci
più...emh...canto... Diciamo che ho aggiunto e tolto cose...
Che spero comunque di inserire altrove... Chiedo ancora disperatamente
scusa per aver mollato quattro a zero la fiction per quasi due mesi ma
sono state cause di forza maggiore... Sigh... Ora troverò il
modo, almeno in queste vacanze di Natale, di rimettermi per bene in
carreggiata... ^_^
Spero che
continuerete almeno a leggere questa fanfiction!!! Grazie a tutti!!! A
presto!!!
Bohemienne = credimi,
ti capisco perfettamente... Anch'io non riesco a farmi andare
giù i personaggi femminili di anime, manga, a volte anche
libri... Ho pochissime eccezioni (una delle quali è Miranda
di DGM... Mi è piaciuta subito, non so
perchè...). Per il resto ho sempre la tendenza ad inventare
e inserire personaggi che piacciano a me, lasciando da parte gli
altri... Comunque mi fa piacere che nonostante queste premesse Vivy
raccolga almeno un po' del tuo favore!!! Grazie mille per i
complimenti!!! E soprattutto per le rassicurazioni... Sono davvero
preoccupata per questa storia dell'OOC... Comunque ti garantisco che
qualcunque variazione psicologica debba avvenire a Tyki sarà
documentata da una lunghissima auto-analisi, che leggerai dalle "sue"
(mie) stesse parole, e dai fatti che la causeranno, che per provocare
simili effetti saranno per forza "straordinari" rispetto alla vicenda
del manga... Continua a seguirmi, please!!! XD
Freija = come
sempre devo ringraziarti moltissimo!!! Mi sommergi sempre di
complimenti!!! ^_^ Mi fa piacere saper che non credi che abbia inflitto
danni al carattere del povero Tyki... E grazie ancora per
quell'offerta!!! Per ora mi trovo molto bene in quei forum, ma mi sento
inopportuna, dato che sono proprio ancora una nuova arrivata, ad
occupare già la sezione per le fanfiction... Aspetto ancora
un po' di ambientarmi... A presto!!!
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Capitolo 10 *** IX - Friends And Family ***
Capitolo
9
Friends
And Family
“Talvolta,
la menzogna dice meglio della verità ciò che
avviene nell’anima.”
(M.
Gorkij)
Me ne andai
tranquillo. Impassibile. Come si addice a noi Noah.
Appunto. Non ad un
essere umano.
- Sei distratto! -
E lo scappellotto
di Frank mi colpì in pieno collo.
- Ahia! Ma che
diavolo…! – esclamai, vagamente offeso,
massaggiandomi il punto colpito.
- Hai sempre la
testa fra le nuvole! E’ il minimo che ti dovevi aspettare!
– rise, più allegro del necessario alle mie
lamentele.
- Ciò
non toglie che sei un vero bastardo, Frank… - bofonchiai.
- Ma quanto ti
lamenti, Tyki! – infierì Momo.
Prima che potessi
replicare, mi ritrovai faccia a faccia con gli occhi cristallini di
Iizu: - Perché sei distratto…? –
- Non sono
distratto… - risposi, a tutti e a nessuno, aggrottando le
sopraciglia.
- Oh si che lo
sei! Sei assente! Pensi sempre ad altro da quando sei tornato dal
part-time… -
Questo loro modo
di assediarmi mi stava già irritando parecchio.
-
Insomma… - cercai di dire, sovrastando i loro commenti.
- Io dico che
c’entra una donna… - buttò
lì Frank.
Io rimasi
letteralmente a bocca aperta, ma non trovai la voce per parlare, cosa
che invece fece Momo, con una smorfia comica:
- DONNA!?
SCHERZI!? -
- Oh si! Il nostro
Tyki sembra proprio innamorato! Io metterei la mano sul fuoco che
è colpa della bella amante del suo misterioso capo o magari
della sua giovane figlioletta… -
- State vagando un
po’ troppo con la fantasia… - commentai, cercando
di non immaginare Vivy nel ruolo di Violetta.
- Ha ragione!
– esclamò Momo, con un cenno d’intesa,
chiaramente non rivolto a me – Non stai
esagerando…? Non è il tipo da gestire una
relazione clandestina… -
-
Ragazzi… - sbuffai, appoggiando la schiena al muro, stizzito.
- Eh
già! Allora sarà la cameriera… -
- O la
segretaria… -
- O
l’infermiera… -
- Ma avete
finito!? – esclamai sempre più allibito e
scocciato.
- Comunque
conciato così mi chiedo come hai fatto a conquistare
qualcuna… Non oso immaginare che creatura possa
essere… - scherzò Frank guardandomi di sottecchi.
Forse temeva mi
offendessi seriamente. No, non ero il tipo da prendermela per davvero.
Un sorrisino
malizioso mi venne spontaneo: - Guardate che quando voglio riesco ad
avere il necessario fascino… -
- Seeeee! Come
no!? – sbraitò Momo, con un gesto eloquente del
braccio.
- Ah! Allora hai
usato il portafoglio! – commentò l’altro
ridendo più che mai.
- Se hai sprecato
i tuoi sudati guadagni per fare colpo su una donnina della notte sappi
che sei immediatamente radiato…! –
- State
cominciando a diventare avidi… Non vi bastano quelli che ho
portato a casa…? –
- Allora ammetti
che sei stato con una donnina!!! – e le loro dita accusatrici
si indirizzarono immediatamente sul mio volto.
La visione della
giovane prostituta Violetta, vestita di rosso nel salone addobbato a
festa, mi passò per la mente immediatamente. Così
come i suoi intensissimi occhi verdi.
Ma davvero potevo
far passare per una poco di buono la “candida” Vivy?
Tenendo poi conto
che in realtà non l’avevo sfiorata con un
dito…
Avevo davvero
pensato “Purtroppo…”?
- Nahhh! Non era
una come le solite… -
- Allora non si
è fatta pagare…!? Ma come diavolo hai fatto!?
– esclamò Momo più ammirato che stupito.
- Ma si
può sapere cosa avete oggi…? – chiesi,
sgranando di nuovo gli occhi a questi commenti assurdi.
- Allora racconta
di questa donna, Tyki! – ordinò Frank sedendosi di
fronte a me con le braccia incrociate e l’aria di un
pericoloso mafioso.
- Ho perso un
pezzo. Quando mai vi ho confermato che ci sia una donna…?
–
- Piantala di fare
l’idiota e l’innocentino e parla! –
confermò l’altro sedendosi anche lui di fronte a
me.
- Ma non ho niente
da dire di lei… - sospirai – Tranne che non
è una prostituta… Punto. Fatevelo bastare.
–
- Ah-ah!
– esclamò Frank allungando la mano verso Momo con
un gesto plateale – Lo sapevo che c’era una donna
di mezzo! Paga! –
- Che diavolo! Mi
hai fregato! Si può sapere come hai fatto a capirlo!?
–
- Quando uno
assume quell’aria da pesce lesso, vuol dire che è
proprio cotto perso. Il dubbio era solo se fosse per una donna o un
uomo… -
- Tsz! Avete pure
di sti dubbi!? – commentai, scuotendo la testa e lasciandomi
cadere sfinito sullo schienale della sedia sgangherata.
- Allora sei
innamorato, eh, Tyki? –
Passai uno sguardo
scettico su di loro: - Cosa sono questi paroloni…? Non
esageriamo. –
- Be’,
comunque sia la ragazza ti ha centrato in pieno, altrimenti non
staresti tutto il giorno con quell’aria sognante. –
-
Sognante…? – ma quasi non avevo più
forza di lottare – Non sono sognante, insomma… -
Mentre stavo
ancora svogliatamente tentando di far ragionare quei due balordi, mi
sentii tirare la maglia.
- Cosa
c’è, Iizu? – chiesi abbassando lo
sguardo sul bambino.
La sua vocina
flebile faceva fatica a passare attraverso la mascherina che doveva
tenere sulla bocca: - Davvero ti piace una ragazza, Tyki? –
- Emh…
Forse si… - dissi vagamente evitando i suoi occhi sinceri.
- Ma allora lei
non ti piace più? –
- Lei chi?
–
Non poteva dire
sul serio.
- La ragazza che
mi ha aiutato… Non la sposerai, Tyki? -
Aprii la bocca
senza sapere davvero cosa avrei detto.
Per fortuna Frank
si intromise giusto in tempo:
- Dannazione,
Momo! Non eri tu quello tutto religioso che doveva insegnare qualcosa
al bambino!?-
Allora quello si
piegò verso Iizu con tono comprensivo: - Ehi, Iizu! Ascolta,
la tua amica non era una suora? –
- Si… -
- E lo sai, no,
che loro sono Spose di Dio e quindi non possono sposare nessun altro?
–
Si
voltò verso di me, triste, poi rispose: - Si, lo
so… Ma… -
- Ecco,
appunto… Capito quindi perché Tyki non potrebbe
comunque sposarsi con lei…? -
- Si… -
disse, abbassando gli occhi triste.
Momo
sorrise e commentò: - E poi scusa da dove viene sta storia
del matrimonio!? Ma dico ve lo immaginate Tyki tutto impettito
all’altare!? –
- Infatti!
– esclamò anche Frank – Poi proprio
questo miscredente! Gli partirebbero sicuramente una decina bestemmie
tutte insieme! -
- Continuate a
stimarmi poco… -
Comunque neanche
sta volta mi ascoltarono, anzi, si presero a braccetto ed iniziarono
gioiosamente a cantare: - Tyki è innamorato! Tyki
è innamorato! –
- Ma che due
stronzi… - commentai a bassa voce, tra me e me, ridendo.
Poi vidi Iizu che
si era seduto sconsolato su una cassa lì vicino.
Feci cenno ai due
pazzi. Si voltarono verso di lui per poi prenderlo in braccio e
iniziare a sballottarlo. Allora finalmente, con mio sollievo, anche su
suo volto tornò un’espressione felice…
In effetti su una
cosa fondamentale ci avevano preso. Pensavo a lei. E sapevo che non era
una buona idea, soprattutto quando riprendevo la mia vita
“bianca”, perché in quel momento
l’indifferenza non riusciva a riprendere il suo posto sovrano
nella mia mente. Senza la noncuranza ogni cosa prendeva un aspetto di
importanza decisamente superiore al necessario…
Vivy la religiosa,
Vivy la soprano, Vivy la Noah.
Tutte e tre la
stessa persona. Persona alla quale pensavo anche troppo ossessivamente.
E i miei pensieri
non erano rosa confetto come pensavano loro. Non proprio.
Dominava il nero:
di casa Noah, della vita che si conduce laggiù,
dell’oscurità del palcoscenico prima che le luci
svelino tutti i misteri, dei suoi capelli raccolti ma sfuggenti e del
suo lungo abito…
Così
era anche per quanto riguardava il futuro. Di fronte a me non
c’era nulla che potesse tornare a legare la mia vita
“bianca” con quella ragazza. Ciò che ci
accostava era solo l’esistenza “nera”
verso cui ci eravamo diretti e quindi solo quella aveva la
possibilità di rivestire, forse, una qualche importanza.
Ecco perché DOVEVA essere semplice abbandonare il passato,
perché lei restasse solo “la soprano e la
Noah”.
Magari
“la sposa”, ma questo per fortuna per ora mi
toccava decisamente meno. Come loro, anch’io facevo fatica ad
immaginarmi in un contesto simile, anche se il fatto che Dio di certo
non c’entrasse con quella cerimonia di famiglia mi toglieva
molte ragioni di scetticismo.
Per il
resto…
Per un attimo
avevo provato l’istinto di spiegare a Iizu la
verità, che davvero avrei prima o poi sposato la sua
preziosa amica suora. Ma avrei dovuto aggiungere molti altri
interrogativi nella sua mente innocente, compreso il motivo per cui
nonostante questo non avrebbe mai più avuto
possibilità di rivederla.
E poi quanto di
lei era rimasto come allora dopo il “risveglio”?
Chi l’avesse chiesto a me non credo avrebbe ricevuto una
risposta soddisfacente, quindi neanch’io avrei mai avuto
ragione di domandarlo.
E
l’amore? No, assolutamente. I Noah non provano cose simili,
di certo. Quindi era proprio un’idiozia.
Mi chiedevo quindi
cosa ci fosse da spremersi così tanto le meningi per quel
mese intero. Non ne avevo idea, chiaro. Tranne forse per altri
pensieri, molto più terreni, che accompagnavano questi
ragionamenti.
Al che sembravo un
vero schizofrenico…
“Per
esempio che era davvero bella da morire.”
“Idiota!
Che razza di indifferente sei!?”
“Eppure
potrebbe essere considerato un dato di fatto più che un mio
giudizio.”
“Dì
allora che bella com’è te la porteresti a letto
volentieri!”
“Ma non
è questo che intendevo.”
“Tutta
passione, tutto desiderio, pezzo di cretino, datti una
sveglia!”
“Insomma,
mi piacerebbe, è sicuro. Ma non è mica tutto qui
in questo caso. Non è una che si può prendere
così a casaccio…”
“E cosa
avrebbe di speciale? Non è tua proprietà? Allora
puoi farne quello che vuoi!”
“Anche
fosse, c’è in ballo sta storia del
matrimonio…”
“Allora
vuoi davvero sposarla!?”
“…
E che cosa ne so!?”
“Quindi
puoi cominciare a spassartela e pensare dopo…”
“Non mi
interessa comportarmi così.”
“Allora
ne sei innamorato!?”
“No. Non
credo.”
“Allora
puoi farne quello che vuoi:”
Eccetera, eccetera.
E no, non
chiedetemi chi dei due fosse il “buono” e chi il
“cattivo” perché ne so anche meno di
voi. Sapete che nella mia mente non esiste più nulla di
simile… E che quindi entrambi questi due sono IO…
Quando un mese
dopo il Conte si fece alla fine sentire, avevo già deciso
che il mio desiderio, il mio sentimento, quello che diavolo era e che
non volevo sapere cosa fosse, sarebbe venuto dopo tutto il resto. Prima
di tutto sarei stato un Noah, molto dopo Tyki e solo alla fine, come
ultima carta, quella persona che pensava a lei in maniera
così...eccessivamente speciale. E mi odio quando devo usare
la parola “speciale”.
Fu un incontro
decisamente formale ma velato di qualcosa che non capì,
almeno finché non vidi spalancarsi sul suo volto quel
sorriso radioso… Era felice, molto anche… Anche
se mi rivedeva dopo quella scena del nostro saluto… E io
cosa provavo…?
Un qualcosa di
oscuro e suadente. Piacere. O gioia? Lasciamo stare…
Piuttosto quella
confidenza che era nata tra noi immediatamente mi era sembrata del
tutto naturale, solo ripensandoci dopo ci rimasi un po’
stranito. Era stata una cena tranquilla, anche piacevole, per certi
versi. Il clima riusciva ad essere almeno relativamente sereno anche in
quella casa quando lei vi si trovava… Non era
naturale… Non era logico per una Noah… Mi
ritrovai su questi pensieri proprio quando dovevo augurarle la
buonanotte. E per poco mi dimenticai di farlo…
La mattina dopo
poltrii fino a tardi. O almeno quella era l’idea.
- Tykiiiiiiii! -
- No…
Qualunque cosa sia mi rifiuto, Road… - mi lamentai, cercando
di sottrarmi alla sua mano che continuava ossessivamente a scuotermi il
braccio.
- Come
sarebbe…? Non puoi dormire! – insisteva lei.
La solita sadica.
-
Perché…? – commentai, aprendo solo uno
spiraglio delle palpebre.
- Non mi va!
–
- Ma che razza di
giustificazione è!? – e cercai di girarmi
sull’altro fianco sperando bastasse a chiudere la discussione.
Da quando ero
diventato così speranzoso?
- Non mi va di
andare ad accompagnare Lulubel! Non c’è neanche
Lero! Vieni tu! -
- …Non
mi riguarda… Non lo voglio sapere… Non ti avevo
detto che… volevo dormire? –
Già,
peccato che…
- Avevi parlato di
ieri notte, non di stamattina…! -
…appunto…
- E’
sempre la solita storia… Quante volte si è
già ripetuta sta scena…? – sfregai la
testa al cuscino, cercando di assaporare ancora qualche momento di
riposo.
- Con me solo tre
volte. Con il Conte, ogni volta che dormi fino a tardi. Lo sai che non
gli piace. –
- Ma lui NON
dorme… Che cosa accidenti ne sa…? –
Dannato anche lui!
Il salutista dell’accidenti!
- Lo so. Comunque,
adesso alzati! –
- No, per nulla.
Vai a scocciare qualcun altro, Road. –
Non penso mai
quando dico queste cose.
Si mise in piedi
sul letto e cominciò a saltellare: - Guarda che
finché non ti alzi non me ne vado! –
Le minacce,
poi…
- Fai quello che
ti pare… Io non mi smuovo di qui… - risposi,
determinato, nonostante in effetti quel materasso ballonzolante mi
stesse già dando i nervi.
- Come
vuoi… - rispose, senza per nulla cedere.
Non so per quanto
continuò, ma alla fine il letto tornò stabile.
- Ti sei
arresa…? – chiesi, pregustando la prima vittoria
sui capricci della bambina.
- No, per nulla.
Solo che adesso arriva Lulubel. – rispose, calmissima.
- …Oh.
Così magari ti porta via da qui. –
Rise,
più malevola del solito: - Tu credi…? –
No, pure
l’ottimismo di prima mattina... Si vedeva che avevo troppo
sonno…
Passi di marcia
per il corridoio e poi due colpi decisi alla porta:
- Road. Sei qui
dentro? -
- Si… -
rispose lei, tranquilla, lisciandosi l’elegante gonnellina a
pieghe.
- Allora andiamo?
–
- No! Tyki non si
vuole alzare! –
- Lulubel, ti
prego. Portala via, voglio solo dormire. –
Tentai di
impietosirla, benché fosse inutile. D’altra parte
anche lei voleva andare via quindi avrebbe fatto qualcosa. Qualsiasi
cosa…
Un attimo di
silenzio oltre la porta e poi una delle sue solite risposte pragmatiche:
- E come dovrei
fare? -
Mi battei una mano
sulla fronte. Perché nonostante tutto ci avevo sperato?
- Magari entrando
e prendendola di peso. – proposi, cercando di non andare
fuori le righe.
Altro breve
silenzio.
- Io non entro
nella tua stanza, Tyki. -
- E…
perché…? –
- Non entro nella
camera di un uomo. –
- Ma cosa credi di
dimostrare!? Che diavolo di ragione moralista è!? –
Non ne potevo
davvero più. Oltretutto Road si sbellicava dalle risate.
- Road. Esci. -
Allora anche
Lulubel sapeva cos’era l’ottimismo…
- No, se non esce
con noi anche Tyki. – e mi sorrise.
Io scossi la
testa: - Ti ho già detto che non se ne parla. -
- E io ti ho
già detto che non mi interessa! -
- Esci, Road,
basta con questa storia. –
Eppure quella
gatta non usciva mai dai gangheri. Assurdo.
- Hai capito,
Tyki? – commentò Road - Tanto tra me e Lulubel qua
fuori sai già che non riuscirai comunque a dormire! -
Dieci minuti dopo
ero pronto. E parecchio più insofferente del solito.
Uscimmo nella
prima città che avevamo trovato. Non avevo idea di quale
potesse essere, ma sapevo almeno che ci trovavamo in Francia.
Cittadina elegante
e tranquilla. Strade pulite. Carrozze ricchissime e lucidate di fresco.
Negozi di moda a prezzi esorbitanti. Botteghe di giocattolai che dal
denaro che serviva a comprare qualunque cosa i prodotti potevano essere
placati d’oro. Ristoranti dodicimila stelle.
Tutte cose belle e
piacevoli. Per il Noah che poteva permettersele…
- Allora, Tyki.
Dobbiamo solo… -
- Ho
già detto che non lo voglio sapere. Vi seguo dove volete,
d’accordo? – sospirai.
- Uffa! Se avessi
immaginato che saresti stato così sverso, non ti avrei
chiamato! – esclamò Road avvinghiandosi al mio
braccio.
- E non potevi
pensarci prima e lasciarmi dormire…? –
Chiaramente non
rispose e si limitò a trascinarmi per la strada.
Capivo
perché non voleva andare in giro da sola con Lulubel.
Al contrario di
quello che ci si aspettava da un gatto, era sempre tutt’altro
che carezzevole e graziosa. Riusciva a trasmettere
un’inquietante aura di comando semplicemente guardando
qualcuno. Era sempre seria e compunta, autoritaria e intransigente.
Soprattutto, poi riusciva a vestire in maniera dal tutto innaturale per
una donna.
Quindi il viso
femminile ed i modi comunque delicati si perdevano in un’aria
tutt’insieme un po’ rude. In fondo pensavo che
fosse un peccato…
- Cosa significa
che aspetti fuori!? – commentò Road battendo con
irritazione i bassi tacchi delle sue scarpe nere lucide.
- Vorrete mica
farmi entrare in un negozio di abiti da donna… - sbuffai.
- Si, invece!
Vero, Lulubel!? –
Lei per tutta
risposta si assestò gli occhialini sul naso: - Se non vuole
non è il caso di obbligarlo. –
- Invece deve!
Vieni! -
Questa volta
sottrassi il braccio dalla sua presa, ma fui costretto ad annuire: - Ho
capito. Ma non mi tirare… -
Alcuni di quei
vestiti erano seriamente eccessivi. Guardavo tutte quelle balze e quei
pizzi quasi con disgusto. Lo stesso per quei colori assurdi: viola
scuro, arancione, verde chiaro… Veramente atroci.
Ero stanchissimo e
annoiato da morire. Così, non mi chiesi neanche per quale
dannata ragione mi trovassi lì e dove fossero finite le
altre due. Appena un inserviente mi indicò una sedia,
semplicemente mi sedetti. Ne avevo davvero abbastanza.
- Ma siete davvero
splendida!!! -
L’urlo
deliziato del proprietario mi svegliò. Sperai onestamente
che fossero passati giusto pochi minuti e che quindi nessuno avesse
assistito a quella scena ridicola di un tizio che dorme su una sedia.
- Andate a farvi
vedere!!! -
Road si
affacciò dal corridoio che dava ai camerini:
- Credevo te ne
fossi andato… -
Sorrisi: - Per
andare dove…? – la breve dormita mi aveva ridato
un minimo di buonumore – Allora, non ti fai
vedere…? –
Lei
inclinò la testa, dubbiosa: - Ma davvero credevi fossimo qui
per me…? –
Poi la bambina
ritirò la testa e uscì Lulubel.
Era probabilmente
uno dei pochi abiti sobri del negozio, verde scuro, con giusto un paio
di piccoli pizzi sparsi e neanche gonfio di molto tulle, visto
così. Un vestito scuro era chiaramente perfetto a
contrastare con i capelli biondi e la carnagione chiara. Senza quegli
occhialini, poi, riusciva a togliere un po’ di
severità al volto. Un cambiamento decisamente evidente.
Infatti rimasi sbalordito. Certo, scendeva i gradini con molta
prudenza, probabilmente vacillando anche sui tacchi alti, e manteneva
un’espressione seria e cupa, ma sembrava davvero
un’altra persona.
- Che cosa ne
dite!? – esclamò il negoziante rivolto a me.
-
…Impressionante, direi. – commentai con un
elegante cenno del capo.
Questo mi sorrise
radioso, mentre Lulubel mi fissava:
- Sto male? -
- Direi proprio di
no. – risposi, scuotendo la testa con enfasi – Ma
come mai questo cambio di stile?-
- Me
l’ha proposto Road. – poi si guardò allo
specchio, leggermente sconcerta – Non credo sia una buona
idea. Non mi ci trovo. –
- Tu invece che ne
pensi, Tyki!? – esclamò Road dirigendosi verso di
noi.
- Secondo me sei
decisamente diversa dal solito. Devi solo farci l’abitudine,
sempre se riesci a trovartici almeno un po’... –
Mi interruppe con
una frase improvvisa ma netta, mentre continuava a scrutarsi incerta: -
Le donne si vestono così. –
- E’
vero. – passai gli occhi accuratamente su tutta la figura e
poi sul suo riflesso nello specchio – Io penso che tu stia
molto bene vestita così. Pensaci. -
Annuì,
fissandomi attraverso lo specchio.
- Comunque direi
che questo cominciamo a comprarlo! – disse allegra Road.
Così
Lulubel tenne addosso il suo abito nuovo. Meglio così, anche
se dava ancora più nell’occhio. Vidi diversi
individui per strada lanciarle occhiate neanche troppo furtive. Me la
risi sotto i baffi. Tentassero di rivolgerle la parola e avrebbero
visto dove li avrebbe mandati!
Era certo,
comunque, che il vestiario femminile le restituiva tutta la bellezza
che nascondeva con quell’aria superba e quello stile
eccentrico. Traspariva la sensualità felina. Era stato
davvero un cambiamento improvviso e incredibile…
- Lulubel!
– esclamai, poco prima di vederla cadere di nuovo per terra
dalle sue scarpe con il tacco.
Soffiò
di rabbia e si rimise in piedi da sola, rifiutando la mano che le avevo
offerto.
- Insomma! Cosa ti
costa accettare il braccio di Tyki!? Stai continuando a cadere! - si
lamentò Road.
Mi
guardò per un attimo, poi scosse la testa: - Ce la faccio da
sola a camminare. –
Io mi strinsi
nelle spalle: - Come vuoi. –
Eravamo
già diretti a casa, quando un uomo con una macchina
fotografica al collo, probabilmente un venditore di
souvenirs, ci venne incontro:
- Ma che bella
famigliola! Volete una foto ricordo? -
- Che bello! -
Non avevo dubbi
che Road avrebbe risposto così.
- No, grazie!
– risposi, subito.
- Ma almeno i due
coniugi… -
Questa frase non
mi piacque. Guardai Lulubel.
Quel cambiamento
mi aveva colpito. La sua ritrovata bellezza mi attirava molto. Mentirei
se dicessi il contrario. Eppure l’idea di essere scambiato
per il suo compagno mi parve improvvisamente inaccettabile, anche se
formulata da uno sconosciuto…
-
Coniugi…!? Credo vi siate fatto un’idea
sbagliata… - commentai con un sorriso formale.
- Infatti.
– confermò Lulubel.
- Oh, chiedo
scusa… - rispose il fotografo e non insistette oltre con la
sua proposta.
Alla quarta
caduta, Lulubel mi puntò uno sguardo serissimo e disse
semplicemente: - Ci ho pensato. Non fa per me. –
- E’ un
peccato. – lo dissi seriamente, ma non potei evitarmi un
sorrisetto ironico.
Questa volta
comunque non rifiutò il mio appoggio, che fu decisamente
utile ad evitarle diversi altri scivoloni, e continuammo sulla via del
ritorno.
“Dovresti
smettere di mettere sempre e comunque su un piedistallo quella ragazza,
Tyki.”
I pensieri di Road
mi invasero la mente, conditi da una certa irritazione.
“Piantala…”
le risposi subito cercando di non far trasparire all’esterno
il fastidio che provavo ogni volta che usava i suoi dannati poteri con
me.
“Tu
idealizzi Vivy e lo fai nonostante sia una Noah. E’ stupido e
immaturo da parte tua. E dire che dovresti trattarla esattamente come
Lulubel. Non ha niente più di lei.”
“…La
discussione è finita, Road.”
Le indirizzai un
chiaro sguardo di avvertimento, prima che varcassimo la soglia di casa.
Aveva capito, ma sapevo che la cosa non l’avrebbe fermata. Se
voleva una cosa non c’era davvero verso di farle cambiare
idea.
Il problema era
che non avevo proprio idea di che cosa avesse contro Vivy…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
...Non ho davvero idea di
come questo capitolo sia diventato questa sorta di raffronto tra la
vita "bianca" e la vita "nera". E' tutto nato così mentre
scrivevo. Spero che vi sia piaciuto!!!
Come avrete notato, Tyki diventa molto più "materialista"...
XD Del resto Vivy non è più un'entità
del tutto eterea, quindi mi sembrava anche logico che alla fine tutte
le remore filosofiche passassero in cavalleria e si cominciasse a
sentire (anche se ancora alla lontana) un po' della
passionalità che ci si aspetta da un Noah... ^_^ Come se non
ci fossero già abbastanza problemi in questa vicenda, ho
aggiunto un primo accenno ad un noto dubbio amletico: il complicato
rapporto tra "attrazione fisica" e "amore platonico"... Non so
neanch'io come si risolverà... Come sempre rimando ai fatti
man mano che mi vengono in mente...
[Perchè
Lulubel sia diventata una tentazione è uno dei classici
difetti della mia mente malata... Non fateci caso... XDDD]
Grazie
a tutti coloro che hanno letto, coloro che leggeranno e coloro che si
sono fortunatamente accorti che non ho abbandonato la storia... Siamo
ancora all'inizio... ^_^
Lady Greedy =
meno male che ti ritrovo!!! Temevo di averti perduta con quel messaggio
di sospensione della pubblicazione... Contentissima che ti sia piaciuto
il precedente capitolo e di conseguenza mi scuso se anche stavolta ho
sorvolato i cari Jusdebit... Prima o poi torneranno di certo... Magari
dalla prossima parte, chi può dirlo (neanch'io saprei dirlo
con certezza, ora come ora...)? Infine, grazie davvero per le
consolazioni da OOC... Mi fa sempre piacere che mi si dica che non sto
compiendo involontariamente un peccato capitale snaturando il mio
adorato... (e questa dichiarazione improvvisa...? Emh, fate finta di
niente... XD). A presto!!!
kuro = come
avrai letto due righe sopra e probabilmente dedotto da come ne parlo,
anch'io adoro Tyki in maniera semi-morbosa... ^_^ Grazie moltissimo per
i complimenti e spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!!!
Oh, quasi
dimenticavo, a tutti anche tantissimi
auguri di Buon Natale!!!!
|
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Capitolo 11 *** X - Carmen and Tosca ***
Capitolo
10
Carmen
and Tosca
“Chi
desia è posseduto: a quel che ama s’è
venduto.”
(Iacopone
da Todi)
Era bello essere
Carmen, ma altrettanto difficile.
Se avessi dovuto
trovare il modo di descriverla, avrei detto semplicemente che Carmen
era una donna libera. Libera di essere ciò che voleva, di
vivere come voleva, di credere e pensare ciò che voleva.
Forse per questo autorizzata anche ad essere un po’ crudele,
un po’ folle, un po’ ardente, un po’
gitana, un po’ vagabonda, un po’
un’estranea del mondo…
Ma
perché solo “un po’”?
Probabilmente anche più di quanto lo sarei stata io in
qualunque circostanza.
Io non potevo
essere così, non era la mia natura.
E la colpa non era
certo del sangue dei Noah, che anzi forse avrebbe gioito e mi avrebbe
presa per mano nel trasformarmi in una donna fatta di sola passione,
che passa da un uomo all’altro senza la minima cura, reietta
della società, violenta, piena di sé.
Allora era
semplicemente perché quella libertà le permetteva
di fare ed essere tutto ciò che desiderava…
Le invidiavo
enormemente quell’onestà nell’esprimere
chiaramente i suoi sentimenti, le sue decisioni, i suoi pensieri
più nascosti. Non aveva nulla da nascondere, nulla da temere
e poteva esibire ogni tensione del suo animo.
Retino diceva
sempre che io ero estremamente sincera, ma non poteva vedermi
nell’ambiente di menzogna in cui mi ero inserita con le mie
mani. Un luogo in cui potevo essere felice solo se scordavo della mia
identità e mi lasciavo trasportare dal clima
e…dal sangue.
Altrimenti, quando
percepivo la mia diversità o ricordavo il mio dovere morale,
dovevo fingere, velare, nascondere, simulare perché nessuno
oltre a me sapesse ciò che nascondeva il mio
cuore…
Non tutti i miei
parenti, comunque, ci cascavano…
Road sapeva e
vedeva più di ogni altro. A volte, pensavo, ancora
più del Conte. E rispondeva al mio atteggiamento
forzatamente cordiale con sguardi e parole che nascondevano la
minaccia. Mi era ostile e sentivo che avrebbe fatto qualunque cosa per
cacciarmi. Forse non per uccidermi, non sarebbe arrivata a tanto. Ma
quando guardava me, nel suo sguardo non c’era la tenera e
affettuosa malizia che riservava a tutti i nostri famigliari, ma solo
la crudele attitudine dell’odio più oscuro.
A differenza del
Conte, che sembrava non sperare altro che la mia conversione, prova
definitiva della sua onnipotenza, quella bambina provava solo il
desiderio che lasciassi il suo territorio, fossi o meno una Noah non
aveva importanza…
Carmen non ero io,
in nessuno modo. Lei non mi rappresentava.
Nell’interpretarla,
però, semplicemente mi calavo in lei come l’acqua
versata in una bottiglia: priva di forma assumevo semplicemente quel
contorno di libero peccato…
Forse anche questo
era un effetto del mio essere Noah. Non potevo che nutrire questa
impressione e provarne timore.
L’amore
di quell’ardente sigaraia era sincero, su questo non ponevo
dubbi. Ma lo trovavo davvero troppo leggero, superficiale, evanescente.
Lei non avrebbe rinunciato a nulla, neanche per affetto. Perdere la
libertà per lei significava svendere la sua anima.
Ecco
perché alla fine José la uccise, folle per il suo
rifiuto di tornare ad amarsi, folle di passione e gelosia.
Ancora
più di questa troppo generica e vaga definizione di
“libertà”, quella che desideravo sul
serio era la capacità di amare senza preoccupazioni, senza
dubbi o paure.
Perché
io nonostante tutto quello che avevo fatto, in fondo avevo ancora paura
di amare Tyki. Non per mie strane remore mentali, ma perché
sapevo di agire da ingenua e sognatrice.
Forse mi
sbagliavo, ma allora credevo che Tyki non potesse in alcun modo essere
come José, passionale, geloso, possessivo fino alla follia.
Lui era
indipendente, pieno di atteggiamenti esteriori perché
nessuno potesse neanche tentare di sfiorare la sua
interiorità, oscuro, misterioso, disinteressato, distante in
ogni sua parola o gesto, come se nulla potesse turbarlo o interessarlo
davvero.
Eppure in un
contrato quasi irrazionale, non riuscivo a considerarlo un misogino o
un solitario.
La sua essenza era
composta di incontenibile passionalità. Forse desiderava di
uno o più amori solo passeggeri, fatti di istanti e attimi
destinati a bruciare in un battito di ciglia. Ma sembrava che emanasse
lo sprezzo di quell’amore sentimentale e duraturo che tante
donne sperano in segreto, anche se alla fine si lasciano attrarre dagli
uomini in cerca di semplici avventure della notte. Non riuscivo a
leggere che questo in quell’aria sicura e spavalda, quello
sguardo a tratti penetrante e superbo, quell’eleganza sfatta
della camicia semi-sbottonata e l’aria un po’ dandy
e un po’ bohemien con la quale fumava lentamente e
intensamente.
Ecco, se
c’era qualcuno che capiva e condivideva lo spirito di Carmen
era certo lui…
Quindi come al
solito dovevo ammettere che ogni mio gesto, ogni mio pensiero, ogni
pulsione del mio animo era immancabilmente rivolta a lui, nel bene o
nel male.
- E’ una
tragedia, Victoire! – sbraitò Dallas Johnson,
aprendo senza la minima cura la porta del mio camerino, che
sbatté addirittura contro la parete.
- Guarda che NULLA
davvero è peggio delle cattive maniere! Quante volte ti ho
già detto che devi bussare prima di entrare nella camera di
una donna!? – puntualizzai subito. Lo scatto di fastidio fu
molto utile per aiutare la spazzola a sciogliere un nodo tra i miei
capelli, anche se mi feci un po’ male e rivolsi una smorfia
di fastidio al mio riflesso nello specchio.
- Si si, lo so!
– rispose senza prestare la minima attenzione al mio
rimprovero.
Stava per
ricominciare a parlare quando lo fermai ancora, fissandolo nella sua
immagine riflessa:
- Insomma, Dallas!
Che razza di maniere sono!? E se mi stessi cambiando!? -
- In quel caso
avrei fatto e visto la cosa migliore del mondo… - rispose,
sorridendo.
Alzai gli occhi al
cielo: - Dovrò ricordarmi di chiudere il camerino a chiave,
d’ora in poi… -
- Però,
Victoire! E’ successa una cosa gravissima! –
riprese ancora, con un impeto che gli faceva scivolare i capelli
biondicci sugli occhi – Devi venire immediatamente! -
Solo allora mi
accorsi che al di là degli scherzi il ragazzo sembrava
davvero preoccupato.
Quando arrivai nel
magazzino strapieno e in una suggestiva penombra, vidi il panico
più incredibile riflesso negli occhi di tutti i presenti.
- Cosa
succede…? – chiesi, incerta e a mia volta
preoccupata.
- Victoire, mia
cara! – esclamò subito Retino, come sempre pieno
di sussiego – E’ un disastro! – e prese
uno degli appendini del guardaroba.
Vi era appeso un
abito da uomo. Il problema era che per la nostra rappresentazione
avrebbe dovuto essere una divisa spagnola, ma sembrava piuttosto un
abito elegante di foggia italiana o francese con uno stravagante ed
esageratamente grande bavero bianco.
- Ma questi sono i
costumi…? – chiesi ingenuamente.
- No, infatti!
Hanno sbagliato a spedirceli dal Teatro di Mosca! Questi sono i costumi
della “Tosca”!- rispose l’impresario,
asciugandosi il sudore nervoso dalla fronte con un fazzoletto.
- E non fanno in
tempo a mandarcene degli altri, giusto? – chiesi, nel
disperato tentativo di mantenere almeno io la calma.
- Assolutamente
no, mia cara! Da Mosca la strada è ben lunga e poi il costo
di una nuova spedizione ci distruggerebbe il bilancio! Non possiamo
permettercelo! – l’uomo cominciò a
camminare in circolo con l’aria di chi vorrebbe sprofondare
nell’abisso più nero – In
più, come se non bastasse, pagheremo la penale se non
verranno utilizzate le attrezzature russe! Ho firmato una
sponsorizzazione! Oh, cielo! – e con un gesto estremamente
teatrale crollò su una sedia.
- Vi sentite bene?
– chiesi, inginocchiandomi vicino a lui. L’anziano
padrone sembrava rischiare un collasso ed era bianco come un cadavere.
- Si, io sto bene.
Non è questo il problema! Oh no, oh no! Che disastro per la
compagnia… - continuava a ripetere scuotendo la testa.
- Ma, signore, non
si può semplicemente preparare la
“Tosca”? La prima è tra due settimane!
Il tempo c’è… - dissi, con calma,
cercando di trasmettere un po’ di coraggio a Retino.
Lui per un attimo
sembrò illuminarsi, poi scosse la testa e crollò
nuovamente sullo schienale: - Oh no. Abbiamo già mandato a
stampare i cartelloni… -
- Se si chiama
subito la casa editrice andrà bene. -
- La penale,
Victoire, la penale… -
- Se ci
sarà una penale la pagherò io! –
esclamai, convinta, appoggiandomi una mano sul petto.
- No, davvero, non
posso chiedervi questo… -
- Ha ragione,
Victoire. – disse Dallas, poggiando una mano sulla mia
spalla, ma sorrise: – Faremo una colletta tra tutti e
tireremo su il denaro. Giusto? – chiese ai presenti, che
annuirono subito.
- Ma le
prove… - sospirò ancora l’impresario,
triste.
- Su due
settimane, signore, ce la faremo senz’altro!
Basterà un po’ di impegno in più, ma
credo proprio che nessuno si tirerà indietro! –
- Victoire, in due
settimane posso riorganizzare il coro, fare le prove per le comparse,
ma non preparare le esibizioni dei solisti… Il signor Dallas
ha già interpretato Cavaradossi, nella sua precedente
compagnia… Per voi è la prima volta con
Tosca… Non è un compito semplice e non posso
dedicarvi quanto tempo vi servirebbe… -
Lanciai
un’occhiata al tenore, che annuì, ma con estrema
modestia. Era già molto famoso prima di unirsi alla nostra
compagnia, sia per le sue doti canore, sia per la sua sfacciataggine da
donnaiolo. Eppure quando si trattava di lavoro era davvero responsabile
ed efficiente.
In
realtà Retino aveva ragione. Se Dallas se la sarebbe cavata
con qualche prova supplementare, io dovevo preparare dal nulla una
nuova interpretazione e non avevo certo abbastanza esperienza da
impiegare così poco tempo quanto ne avevamo.
- Signor Retino,
se io mi esercitassi a casa? Del resto all’inizio mi basta lo
spartito e la musica. Poi dovrei solo presentarmi per qualche prova sul
palco, ma avrei già pronto il personaggio e non sarebbe
necessario far perdere tempo a tutti. -
L’impresario
a queste parole aveva ripreso colore e un atteggiamento più
tranquillo. Si lisciò i baffi scrutandomi serissimo, poi
sorrise e infine annuì.
- Allora va bene!
Vi voglio tutti attivi e al massimo della forma! Abbiamo un tempo
limite per mettere in campo un’opera del tutto diversa da
quella che abbiamo preparato in questo mese! -
Balzò
in piedi come se fosse ringiovanito di trent’anni in un colpo
e prese ad arringare ancora più arditamente tutti gli
addetti: - E’ un’impresa titanica! Ma se noi non
fossimo titani non lavoreremmo al cospetto di Melpomene, la nostra
gloriosa Musa! Vi chiedo sforzo e fatica per rendere onore alla nostra
arte, signori miei! Nulla è più eroico di una
compagnia teatrale che sfrutta ogni sua energia più residua
per il suo grande orgoglio e dovere! Siate orgogliosi di chi siete e di
che mestiere fate! Tutti, musicisti, cantanti, coristi, costumisti,
scenografi, direttori di palcoscenico e magazzinieri, siete parte
onorevole di questo nostro enorme progetto e proprio per questo bisogna
che agiamo come un corpo solo per gestire questa crisi, da cui possiamo
e dobbiamo uscire vincitori! –
- Si! –
il coro festoso si alzò spontaneamente dai presenti.
Io sorridevo
allegra. Sentire parlare il padrone con tanta passione era inebriante.
- Il percorso
geografico – continuò l’anziano gestore,
sempre più agguerrito – è vasto ed
estraniante, me ne rendo conto: stiamo passando dalla Spagna dei
masnadieri, alla Roma dei papi e degli artisti! Tuttavia, non
sarà questo a fermarci! I teatranti sono cittadini del
mondo! Sappiamo chi siamo ma anche chi dobbiamo essere! Quindi,
preparatevi a ricevere ciascuno i vostri primi compiti! –
puntò il dito verso un giovane magazziniere –
Randal Webster, nostro grande amico dal Paese del sommo Shakespeare,
voi siete incaricato di andare immediatamente alla casa editrice a
fermare la stampa e ad ordinare un cambio di locandina: al Teatro
“Racine” di Nantes si rappresenta “La
Tosca”! -
Si levarono
spontaneamente altre grida di giubilo e tutti avevano già
smesso di pensare alla fatica che avrebbero dovuto sostenere.
- Pensi davvero di
farcela, Victoire? Preparare il personaggio di Tosca da sola non
è una passeggiata. Cantare è il meno, ormai
dovresti saperlo. Potrei darti una mano, se vuoi. -
Dallas mi stava
seguendo per il corridoio senza alcun tipo di ritegno. Snocciolava
quelle frasi galanti mettendo solo brevi pause come se si aspettasse
una mia risposta, che chiaramente non avevo intenzione di concedergli.
Arrivata alla fine alla porta del mio camerino fui costretta a dargli
retta e mi voltai.
La sua offerta era
sincera perché per ragioni di professionalità
desiderava davvero che la rappresentazione andasse al meglio. Ma
nonostante questo l’espressione sorniona dei suoi smunti
occhi azzurri, quell’aria compunta con la quale si scostava i
capelli biondi dal viso e il petto gonfio d’orgoglio facevano
presupporre ragioni ben diverse. E chiaramente queste sue idee non mi
interessavano per nulla.
Per un attimo mi
passarono per la mente diversi momenti in cui avevo visto Tyki
elegantemente provocatorio, ma mi resi subito conto della netta
differenza tra i due: in lui il fascino e lo stile di approccio erano
più studiati e quindi fini e gradevoli, mentre
l’americano era decisamente troppo spudorato, pomposo,
insistente e, di conseguenza, indecente. Riusciva ad innervosirmi da
morire.
- Tranquillo,
Dallas, me la caverò benissimo. – risposi,
cercando di restare cordiale, anche se non vedevo l’ora di
togliermelo dai piedi.
- Da sola!?
Insomma, avrai bisogno di qualcuno che ti segua e ti aiuti…
- e insistendo assumeva sempre più l’aria della
provola. Tanto che mi veniva quasi da ridere, nonostante tutto.
- Ho
già chi lo farà. Non hai bisogno di scomodarti.
–
- Non
sarà per caso il tuo tanto famoso quanto sconosciuto
fidanzato… - commentò con un sorriso che dire
malizioso era troppo poco. L’aggettivo
“malevolo” si adattava di più.
- Esatto!
– risposi, prontissima, sorridendo sfacciatamente.
Ad essere onesta,
quando avevo pensato che qualcuno avrebbe potuto e voluto aiutarmi con
le prove, purtroppo mi era venuto in mente il Conte… Forza
di inerzia, immagino… Con mio sommo rammarico, sarei finita
a cantare con quell’essere bizzarro al pianoforte…
Il pensiero non mi piaceva.
Tuttavia, ero
quasi certa di aver capito alla cena di qualche tempo prima che anche
Tyki sapeva suonare… Era una prospettiva imbarazzante, ma
molto più gratificante… Anche se del tutto
improbabile…
Quindi alla fine
quella risposta decisa era più una menzogna che altro. Per
fortuna, comunque, Dallas non aveva intuito né mi conosceva
abbastanza da capire quando mentivo.
Sbuffò,
insoddisfatto: - Vorrei proprio vederlo questo tale… -
Alzai gli occhi al
cielo: - Me l’hai già detto. E poi comunque non
sono affari tuoi. Se vuoi parlare di questa tua solita, insopportabile
polemica, faccio che entrare in camerino e mollarti qui! –
- Insomma,
Victoire… Un inesperto piuttosto che aiutarti può
portarti fuori strada… Io invece, che conosco bene il
personaggio oltre che le arie, posso aiutarti certo molto di
più… -
Stava cambiando
tecnica, ora era quasi implorante.
Comunque non mi
sarei certo commossa per quelle due moine.
- Sai
perché Retino non ha avuto alcun dubbio quando gli ho detto
che avrei preparato da sola la mia Tosca? – gli sorrisi
candidamente – Perché io SONO Tosca. Quindi
smettila di tormentarmi, d’accordo? –
Rimase basito e ne
approfittai per aprire la porta e infilarmi nella stanza: - Ah, quindi
non ci vedremo per un po’. Probabilmente fino alle ultime
prove del prossimo-prossimo mercoledì… Ciao!
– e gli richiusi la porta in faccia.
Passare da Carmen
a Tosca in fondo era un sollievo.
Lei era un
personaggio davvero romantico e tenero, una donna piena di illusioni,
speranze insoddisfatte e scelte dolorose. Una persona onesta, tanto da
fidarsi anche della promessa di un suo nemico e tanto ardita da
ucciderlo con le sue mani. Una donna gelosa, ma razionale, forte, anche
se troppo innamorata da fare la scelta più giusta e
coraggiosa.
Quindi sentivo di
assomigliare molto di più alla cantante che alla sigaraia,
non c’erano dubbi.
Per riflesso,
Cavaradossi doveva essere lui. Ma in cosa? L’unica vera
somiglianza era l’intemperanza interiore,
quell’ardore rivoluzionario che animava il pittore
pontificio… Troppo poco…
Ma sapevo che
sarei riuscita a sentirmi davvero coinvolta dalla vicenda.
Perché nella mia mente il barone Scarpia era diventato
subito il Conte.
Un uomo disposto a
tutto per prendere possesso di Tosca, per attirarla a sé.
Fino alla disposizione del ricatto crudele con posta in gioco la vita
del suo amato. Un malvagio che fin dall’inizio gioca
crudelmente con i sentimenti della ragazza, convincendola di volerla
aiutare quando invece predispone tutto per l’inganno finale,
il più odioso, il più nero.
Il finale mi
chiudeva il cuore. Scarpia aveva promesso a Tosca di salvare il suo
amato in cambio del suo corpo. Le armi sarebbero state caricate a
salve, Cavaradossi si sarebbe salvato. Lei cedette, ma al momento del
suo pagamento ebbe abbastanza volontà da uccidere il
malvagio…
La giovane illusa
credeva nonostante tutto nella buona fede del suo ricattatore e si vide
invece morire di fronte ai suoi occhi l’uomo amato. Affranta,
sola, distrutta decise per il suicido.
Troppo crudele.
Troppo ingiusto. Troppo parallelo al reale…
Anche il capo
aveva agito così. La merce di scambio non era tanto la mia
anima quanto quella della persona a cui tenevo. E infondo anche il
piano era un po’ lo stesso. La morte come la definitiva
sottomissione al sangue dei Noah. Prima avrebbe fatto cadere lui, poi
immancabilmente sarei crollata anch’io, proprio come Tosca si
buttò da Castel Sant’Angelo…
Questa era la sua
idea… Non glielo avrei permesso… Non sapevo come,
ma sarei stata più attenta e meno ingenua di
Tosca… A qualunque costo…
- Buon pomeriggio,
famiglia. – esclamai entrando nella sala di casa.
- Oh, guarda chi
si vede… - commentò Debit rivolgendomi un cenno
della mano.
Fui davvero felice
che non avesse in mano al solito la sua pistola dorata. Vedermela
puntare addosso non mi metteva molto a mio agio.
- Oh,
già, Vivy! Così presto… Ih-ih-ih!!!
– fece subito eco il gemello,
“accartocciato” su una sedia in una posizione che
io avrei considerato scomodissima.
- Già.
E’ che ci sono stati di nuovo guai a teatro… -
risposi sedendomi su una poltrona di velluto nero.
- Ma non mi
dire… -
- Lo dici
sempre… Ih-ih! –
Sospirai: - Ma
questa volta, è grave davvero… -
Da svogliati e
distratti, entrambi si voltarono di scatto verso di me e mi si pararono
davanti, prendendomi letteralmente d’assedio:
- Niente
rappresentazione!?!? – chiesero, con un entusiasmo che mi
fece sorridere.
- Beh, niente
“Carmen”… - risposi, lasciando
appositamente una pausa più lunga del necessario.
Chissà
da dove veniva tutta quella mia voglia di scherzare…
- Oh,
be’… Che vuoi farci, Vivy…? Capita,
no… - riprese Debit, rinfrancato, fingendo di nuovo assoluto
disinteresse e sedendosi ancora sulla sua sedia imbottita,
scompostamente.
E Jusdero gli si
affiancò subito, con lo stesso atteggiamento soave, anche se
con quella risata un po’ stridula: - Vero, vero…
Succede, succede… Ih-ih… -
Si scambiarono uno
sguardo complice e presero a ridere di gusto, visibilmente sollevati.
- Ma… -
al che entrambi sgranarono gli occhi – Non significa che non
faremo nulla… Devo preparare un’altra
opera… -
- VIVY!!!!
– sbraitarono, angosciati – NON DIRAI SUL SERIO!!!
–
- Be’
si… Vi prego, però, non fate quelle
facce… - aggrottai le sopraciglia.
D’accordo,
li avevo stuzzicati, ma erano davvero anche troppo
drammatici…
- Oh no!!! Il
Conte ci vorrà portare ancora a teatro!!! -
- No, il teatro
no!!! – e, probabilmente per lo shock, invece della classica
risatina, Jusdero interpretò un magnifico lamento greco.
Pensai di
rassicurarli sul fatto che il capo probabilmente, viste le voci di
dissenso che aveva ricevuto il giorno prima, non si sarebbe
più illuso di portarli a vedermi. Tuttavia avevo ormai
capito che quando i gemelli arrivavano a quei livelli di panico
c’era poco da fare. Si sarebbero calmati solo di fronte a
qualche grave distrazione. E speravo di non procurare loro qualcosa di
simile o ne temevo i risultati.
- A proposito di
lui… Avete per caso idea di dove sia il Conte? -
- Nello studio,
credo. – rispose Debit, improvvisamente calmo, prima di
tornare altrettanto repentinamente a lamentarsi a voce altissima.
-
Grazie… - risposi e mi avviai verso la porta.
Poi mi venne in
mente una cosa veramente stupida… Al solito…
- E Tyki?
Dov’è? – chiesi ancora e questa volta mi
sforzai di essere ancora più controllata e neutra.
- AH-AH!!!
– esclamarono entrambi, distraendosi subito dalla loro
occupazione e correndo di nuovo entusiasti nella mia direzione. Pessimo
segno.
-
Perché lo vuoi sapere!? Ih-ih!!! Ih! –
Rimasi per un
momento sconcertata dal sentir parlare Jusdero prima del fratello,
verso il quale per istinto mi ero rivolta subito.
- No, nulla di
particolare… Dovevo chiedergli una cosa… -
risposi vaga e ancora stranita.
Mi fissarono, i
visi truccati segnati dalla curiosità, poi si strinsero
semplicemente nelle spalle:
- Affari vostri.
Meglio non mettersi tra i fidanzatini, no, fratello? -
- Si-si!
“Tra… “ –
-
“…moglie…” –
-
“…e…” –
-
“…marito…” –
-
“…non…” –
-
“…mettere…” –
- …
Eh… Cosa…? Ih-ih-ih!!! –
- Ma si,
Jusdero… - lo interruppe l’altro, sicuro -
…Non mettere… la… il… Cosa
accidenti era!?!? –
Sospirai,
scuotendo la testa: - “…il dito.”
–
- Già,
ecco, appunto!!! – esclamarono all’unisono.
- Ma non vi sembra
un po’ prestino per questi proverbi…? –
commentai, spazientita.
Chiaramente non mi
stavano neanche ascoltando.
Per quel giorno ne
avevo davvero abbastanza di gente che parlava invece di
ascoltare…
- Comunque,
è chiuso in camera a dormire. Questa mattina Road e Lulubell
lo hanno trascinato a fare spese. -
- Ah… -
Dopo una cosa
simile, dubitavo fosse in forma o quantomeno di buon umore…
- Però
Lulubell lo mette il dito… Vero…? –
rise Debit, estraendo alla fine la sua preziosa pistola, che da come
brillava sembrava lucidata di fresco.
Sgranai gli occhi:
- In che senso…? –
- Ma si, ma si!
Oggi era davvero spettacolare! Ih-ih! – aggiunse il gemello,
cominciando anche lui a passarsi la pistola da una mano
all’atra.
- Cosa significa
questa storia? –
Non mi piacevano
le malelingue, ma quelle frasi misteriose mi inquietavano e mi
lasciavano un retrogusto fastidioso.
- L’hai
mai vista elegante!? Oggi è tornata con un vestito verde!
Addosso! -
- E
quindi…? – chiesi, perplessa – Non
è un bene che vesta femminile, finalmente…? -
- E proprio dopo
una sua strana e non programmata uscita…? In compagnia di
quel tiratissimo di Tyki…? Fossi in te, comincerei a
preoccuparmi, Vivy… -
- Ma… -
tentai di ribattere, poi me ne pentii e per poco arrivai anche a
mordermi la lingua per non parlare.
Chiacchiere,
stupide chiacchiere. Non mi importava di cose simili. E poi i gemelli
erano dei gran chiacchieroni e non sempre a proposito.
- Ho capito,
tranquilli. Ora vado dal Conte, però. A dopo. –
risposi, sbrigativa, uscendo dalla sala.
- Ottimo, Vivy!
Veramente ottimo! -
Sapevo che il
Conte avrebbe risposto così, con tutto quello spensierato
entusiasmo.
Niente frasi tipo:
“Non ho tempo, cara… Però puoi sempre
chiedere al secondo musicista migliore della
casa…”, oppure un più malizioso
“Eppure sono sicuro che preferisci un altro
pianista… Vado a chiamarlo…”.
Troppo tardi mi
ricordai che in presenza del capo dovevo evitare di pensare, troppo
intensamente almeno. Però lui non reagì in alcun
modo:
- Vieni con me!
Cominciamo subito! –
Mi
portò, quasi saltellando, in una stanza che non avevo mai
visto. Pareti nerissime su cui erano appesi solo specchi con cornici
spesse ed elaborate. Un paio di mobili di legno colorato di
tonalità shocking carichi di carte, libri e cianfrusaglie di
vario e discutibile gusto. Infine, al centro della camera, un
grandissimo pianoforte a coda, scuro e lucido, di foggia moderna, che
occupava mezza stanza.
- Come mai qui?
– chiesi – Credevo saremmo andati nella sala del
pianoforte d’oro… -
Il Conte si
voltò nel massimo splendore del suo ghigno giocondo:
- Eh
no… Quello è un pianoforte speciale che posso
toccare solo io e che ha delle virtù particolari! Non ci
posso suonare tutta la musica che voglio, ma solo quella
“necessaria”! La musica di quello strumento ha dei
poteri molto importanti per noi! -
-
Davvero…? – dissi, sperando che continuasse a
spiegare.
- Già!
Quindi dobbiamo esercitarci qui! – rispose, assestandosi
comodamente sulla panchetta di fronte alla tastiera. Mi chiesi come
facesse a reggerlo, ma non mi stupii che miracolosamente non si fosse
sbriciolata sotto il suo imponente peso.
Comunque aveva
iniziato a fare finta di nulla. Non era interessato a continuare quella
discussione e tantomeno con me…
- Non avete
bisogno dello spartito, Conte? -
- Per nulla, Vivy!
Io mi ricordo tutte le opere a memoria! – rispose,
più che mai divertito – Però su quel
mobile laggiù deve esserci un libretto con il testo e
qualche indicazione di tonalità! –
- Ah, grazie.
– risposi, andando subito a cercare in quegli scaffali
polverosi.
- L’hai
trovato!? –
- Si. –
e passai una mano su una copertina grigia, che dopo quel gesto,
liberata dalla polvere, si rivelò essere bianca.
- Bene, allora,
all’opera! – esclamò sogghignando.
Le prove con il
Conte si rivelavano meno dannose e antipatiche di quanto credevo.
Certo, la sua presenza mi metteva comunque in difficoltà e
per questo non riuscivo a calarmi davvero nel personaggio.
Collaboravano poi alla tensione i suoi tentacoli che scorrevano
velocissimi, pieni di virtuosismi, sui tasti e mi facevano in effetti
un po’ impressione. Quindi mi riuscivo a dedicare solo al
canto, a renderlo il più possibile corretto e dosato. Alla
fine di ogni aria, il capo si scioglieva in mille complimenti, anche
talmente pazzeschi da darmi parecchio fastidio… Ma a parte
questi elementi negativi, non stava andando male…
Solo che alla fine
della quinta aria, si udirono degli applausi leggeri e moderati.
- Molto
bene… -
Era appoggiato
mollemente allo stipite della porta, che non mi ero neanche accorta che
fosse stata aperta. Un sorrisetto furbo sul volto, tipico di
quell’orgoglio infido che accompagna chi stupisce con
un’entrata ad effetto e inaspettata. Le cicatrici coperte dai
capelli scompigliati con una strana grazia sulla fronte. Gli occhi
gialli ancora un po’ assonnati, ma attenti, che ci
scrutavano. E si, l’immancabile camicia bianca aperta per un
paio di bottoni dal colletto, anche se al contrario accuratamente
infilata nei pantaloni neri.
Dopo lo stupore e
lo spavento iniziale, non potei che sorridere, imbarazzata:
- Grazie mille,
Tyki… Dormito bene? -
- Si, finalmente.
Ora mi sento meglio… - rispose accompagnando il commento con
un plastico stiracchiamento.
- Ti abbiamo
svegliato, Tyki-pon!? – chiese il Conte, con innata carineria.
- A dir la
verità, si. Però non è stato un brutto
risveglio. – sorrise, cordiale.
Che davvero non
fossero parole leggere e bugiarde? Nonostante l’apparenza
formale, non sembrava che fingesse. Allora erano complimenti
sinceri… Probabilmente stavo arrossendo…e sentivo
di non potermelo permettere…
- Oh, bene! Quindi
ti piace l’opera!? – esclamò il Conte,
sempre più arzillo.
Aggrottò
le sopraciglia: - Non esageriamo. Non è che la conosca
abbastanza da dire una cosa simile. Però ammetto che ha
qualcosa di interessante… -
- E’
già molto! Vero, Vivy!? -
- Assolutamente.
– risposi – Meglio di certo delle reazioni dei
gemelli… -
-
Perché…? – mi chiese il ragazzo,
già ridendo.
- Be’,
poco fa hanno fatto di nuovo una scena incredibile, quando hanno saputo
della nuova rappresentazione… - sorrisi, comprensiva.
- Che maleducati!
– si intromise il Conte, con fervore – I Jusdebit
non dovrebbero fare così! –
Tyki si
lasciò andare ad una risata maliziosa: - Mi immagino la
scena…! Che deficienti…! –
- Ma Tyki-pon!!!! -
- Su, Conte! Sono
bambini alla fine! Non fate il fiscale! – e
scrollò le spalle – Tanto non credo che Vivy si
sia offesa! –
- Proprio no.
Ognuno ha i suoi gusti… -
- Allora,
d’accordo! – poi si voltò verso di me
– Comunque, Vivy, temo di doverti lasciare…! Ho
alcuni impegni importanti…! Ti posso lasciare con Tyki!?
–
-
…Io…? – chiese lui, puntandosi addosso
l’indice, confuso.
- Si! Vivy deve
continuare a provare per la rappresentazione che avrà luogo
tra due settimane! Vero che suonerai tu al posto mio!? –
chiese il Conte, alzandosi dalla panchetta con un bizzarro saltello.
Si vedeva
distintamente che stava gongolando per come andavano le cose. Mi chiesi
quale fosse esattamente il suo piano, ma alla fine mi accontentai di
prendere atto che per una volta la sua idea coincideva con la mia
speranza. Forse non era un bene. Comunque, nonostante lo desiderassi,
stavo già diventando molto nervosa…
- Se mi ritenete
all’altezza… - disse con un’aria ancora
un po’ incerta.
- Si, certo! Suoni
piuttosto bene, Tyki! Basterà andare a cercare gli spartiti!
Dovrebbero essere anche quelli lì in mezzo! – e
indicò ancora la vasta libreria.
- Be’,
allora Vivy…? Per te va bene? – e un sorriso
ironico gli comparve sul viso a quella domanda.
- Si, nessun
problema… -
Anche se il
problema c’era eccome perché mi sentivo addosso
un’emozione e un panico non indifferente.
- Umph…
- bofonchiò, fissando dubbioso i tasti del pianoforte.
- Qualche
problema? – chiesi guardandolo in quello strano atteggiamento.
Si
voltò con un’espressione di sufficienza: - Non
credo. Penso che l’istinto del musicista mi verrà
con le note davanti… - poi tornò a scrutare lo
strumento e aggiunse a voce più bassa - Per ora questa
alternanza bianca e nera mi è sconosciuta… -
-
Com’è possibile? – domandai, mentre
continuavo a spostare libri e tonnellate di polvere in cerca degli
spartiti.
- Credo sia un
misterioso potere Noah… - rispose, indifferente.
- In effetti mi
sembrava strano che avessi imparato volontariamente a suonare! Quindi
tu sei capace di usare il pianoforte d’oro, dato che possiedi
questa capacità innata? –
- No. Quella
è una prerogativa del Conte. In realtà
è solo perché è il nostro
“suonatore” che sa suonare ogni diversa musica
desidera.. -
- Continuo a non
capire… - risposi.
Ma Tyki non aveva
voglia di spiegarmi: - Lascia perdere, Vivy… Il punto
è che il Conte è in ogni caso molto
più bravo di me con il pianoforte, quindi ti devi
accontentare di un musicista piuttosto mediocre. -
- Figurati se
è un problema… L’importante
è che suoni le note giuste… - risi.
- Allora qual
è il problema…? – mi chiese
all’improvviso.
-
Problema…? – dissi, cercando di restare
indifferente, anche se due libri parecchio pesanti mi stavano per
cadere di mano.
- Vivy…
Lo sai che mi accorgo quando menti… Anche se non so
perché… Ti ho chiesto se c’erano
problemi e hai detto di no, ma con un’aria del tutto
stranita. Quindi? –
Si vedeva che ero
in difficoltà!? Malissimo… Tanto più
che lui amava sempre un sacco approfittare dei miei momenti di
confusione…
- Niente,
Tyki… Non ho alcun problema, davvero… - risposi,
continuando ad evitare di guardarlo con la scusa della ricerca negli
scaffali zeppi.
- Sicura?
– con un tono insinuatore.
- Trovati!
– esclamai cambiando provvidenzialmente discorso e mi voltai
per soffiare via parte della sporcizia dall’insieme di fogli.
Non mi ero accorta
che lui si era avvicinato e finii per mandargli tutta quella polvere
addosso come una nuvola.
- Ah! In faccia,
Vivy!? – con tono un po’ irritato.
- Oddio! Scusami!
– dissi, forse anche più allarmata del necessario.
Sorrise, gentile:
- Sto scherzando! Non mi hai fatto niente! – ma si sfregava
insistentemente gli occhi.
- Ti ho mandato la
polvere negli occhi! Che stupida! Aspetta! Vieni a sederti! –
- Non
preoccuparti! Non sto morendo! Stai tranquilla! – ma si
lasciò condurre fino al sedile del pianoforte.
Rideva
allegramente, anche se gli occhi gli lacrimavano. Probabilmente per la
scena, che ripensandoci era stata davvero demenziale…
- Ok, adesso cerca
di tenere gli occhi aperti…! – gli chiesi.
Lui
annuì, un sorriso divertito impresso sulle labbra.
Mi accostai al suo
viso e soffiai piano su quegli occhi spalancati a forza.
- Come va ora?
– chiesi, preoccupata.
Sbatté
un paio di volte le palpebre e poi mi guardò:
- Molto meglio.
–
Solo che poi
avvenne qualcosa che non mi aspettavo. Il suo sorriso mutò e
divenne stranamente aperto e sincero: - Non dovresti preoccuparti
così tanto per cose così stupide,
Vivy… Non l’hai fatto apposta… - e poi,
come se fosse la cosa più naturale del mondo, mi prese la
mano e se la portò alla bocca.
Ecco.
Probabilmente avevo assunto un rossore tutt’altro che lieve,
a giudicare anche dalla frequenza dei battiti del mio cuore, ma non
potevo evitarlo. Oltretutto, mi ero anche appena accorta che il mio
viso era rimasto pericolosamente vicino al suo…
Ma che pericolo
c’era? Perché mi preoccupavo? Cosa c’era
di male? Non era uno sconosciuto con il quale una cosa simile sarebbe
stata impudente o maleducata…
Bastava un
momento. Non serviva molto altro.
Perché
anche quella breve distanza non poteva annullarsi e basta?
Perché nonostante quella vicinanza, lui aveva pensato
istintivamente alla mia mano e non alla mia bocca…?
Io non ero
abbastanza coraggiosa da farmi avanti. Provavo troppa paura di
sbagliare. Di mostrarmi una donna facile, che lui potesse usare e
buttare via. Di essere troppo diretta e rompere quel misterioso
equilibrio che stavamo costruendo. Di vedere quei miei sentimenti, quel
mio desiderio di averlo vicino, sfruttati o peggio ancora rifiutati da
lui. O trasformati in armi per farmi annullare dal Conte.
Ma stava
già succedendo in realtà. Io soprattutto in quel
momento ero Tosca, che avrebbe venduto se stessa per avere
l’uomo che amava…
Tyki aveva
già lasciato la mia mano, ma restava fermo, improvvisamente
serio, a ricambiare il mio sguardo e basta. Avrei fatto di tutto per
sapere cosa stava pensando.
Per quanto mi
riguardava, i miei occhi sembravano non saziarsi mai di vederlo da
così vicino e non facevano che attraversare e riattraversare
tutti i tratti del suo volto. Avrei voluto abbracciarlo forte, poi
prendere quel viso tra le mani e baciare quelle labbra con tutto quel
sentimento assurdo che provavo.
Ma non ero Carmen.
Non ne avevo la forza né la libertà…
E in un attimo
tutto cambiò ancora.
Tyki distolse lo
sguardo, prese in mano gli spartiti e disse, con una calma innaturale:
- Però
ora è meglio se cominciamo o non finiremo mai… -
Il mio cuore
batté due volte più veloce della norma per tutto
il tempo delle prove. Ormai non ne avevo più il controllo.
Eppure cantai
meglio di sempre e mai fui così felice di aver dato il
meglio di me. Tyki suonava con calma, senza sbagliare neanche una nota,
proprio come gli avevo chiesto per scherzo. Era concentratissimo e,
anche se non si lanciava negli strani virtuosismi del Conte, il suo
modo di suonare era fluido e rilassato. Perfetto…
- Secondo me, vai
già benissimo così. –
commentò sinceramente quando finimmo.
- Sei gentile, ma
non posso accontentarmi. Senza prove in teatro tranne gli ultimi giorni
devo continuare a darmi da fare… -
- Certo, capisco. -
Mi feci coraggio e
chiesi, probabilmente con maggiore timidezza del necessario: - Senti,
Tyki… Potresti suonare per me anche domani…?
– presi fiato e aggiunsi – Quando puoi, non appena
hai tempo… E non sei obbligato… Però
finché resti a casa… Mi farebbe
piacere… -
Mi
guardò assolutamente neutrale, come a studiarmi, e infine
rispose, con un sorriso ironico: - Se non verrò obbligato ad
altre misteriose commissioni, non ci sono problemi. –
Gli sorrisi di
rimando e poi uscimmo insieme dalla stanza.
Riusciva
addirittura a rendermi una ragazzina timida e timorosa. Mi chiedevo se
tra tutte queste sue strane abilità non ci fosse per caso
ancora quella di voler bene come un essere umano…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Salve a tutti!
Eccomi con un capitolo (un po' lunghino, in effetti) narrato da Vivy,
anche lei presa da strani contrasti, guidati in questo caso da due
famosissime figure femminili del mondo operistico...
Tra l'altro ho trovato delle citazioni molto azzeccate per tutti i
capitoli come questa del caro Iacopone... Appena avrò un po'
di tempo, le aggiungerò sotto a tutti i titoli precedenti...
XD
Mi dispiace un po' di non aver ricevuto commenti riguardo il capitolo
scorso, ma ho visto di aver avuto quasi 90 visite e questo mi gratifica
molto di più... Grazie
infinite a tutti coloro che hanno letto e spero continueranno a farlo!!!
Rispondo anche ad una recensione lasciata su un altro capitolo:
Tyki Mikk = caspita! Vedersi recensire da
un nickname simile fa davvero uno strano effetto... O_O Ti
ringrazio moltissimo per i complimenti generosissimi! Cerco di
fare del mio meglio per trattare Tyki con i guanti di velluto (ogni
gioco di parole è assolutamente voluto... ^_^)! Si, in
effetti quel capitolo è uno dei più apprezzati e
condivido che è uno di quelli che ho scritto meglio...
Grazie mille davvero! Non sono riuscita a capire se hai letto anche i
capitoli seguenti (lo spero), in ogni caso spero arriverai fino qui a
leggere questi ringraziamenti! XD
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Capitolo 12 *** XI - White Roses ***
Capitolo 11
White Roses
“Solo
chi non è amata da Cipride / non sa quali rose siano i suoi
fiori.”
(Nosside)
Si dice che il pianto di un bambino può smuovere chiunque.
Io, molto modestamente, aggiungerei che per fare e disfare ogni cosa
basta il semplice capriccio di una bambina...
Non mi stupisco però che nessuno prenda seriamente in
considerazione questo concetto. Credo di essere l’unico
adulto che finisce per perdere del tutto la sua autonomia per il
semplice richiamo di una undicenne…
Volevo… no, è esagerato…
“Volere” è qualcosa di troppo
forte…
“Mi andava bene”… si, meglio…
Mi andava bene aiutare Vivy a preparare l’opera.
Suonare e accompagnare il suo canto era affascinante. Mi era piaciuto,
comunque. Poteva essere interessante rifarlo.
Sarà stato proprio questo mio interesse a spingere la mia
piccola despota a volermelo impedire ad ogni costo…?
- Tyki, oggi andiamo al parco! – se ne uscì
allegra il giorno dopo a colazione.
Non c’era tono interrogativo. Non mi stava guardando per
capire la mia espressione alla notizia. Non voleva la mia opinione.
Anzi, si stava servendo della marmellata sporgendosi serenamente sul
mio piatto, priva di ogni minimo ritegno.
- Ah, no. – risposi, con molta calma, sollevando
delicatamente la tazzina del caffè.
Effetto immediato.
- Cosa vuol dire “ah, no”!? – chiese Road
con la voce che, nonostante la serenità di poco prima,
già tendeva allo stridulo.
Fin dall’inizio si prospettava una dura lotta. Non ne avevo
proprio voglia.
D’istinto mi voltai verso la sedia alla mia sinistra,
benché sapessi che era ancora vuota. Vivy non era ancora
arrivata a fare colazione. Sbuffai. Avevo proprio voglia di lasciare a
lei l’ingrato compito di spartirmi con Road. Faceva tanto
“uomo-oggetto”, ma la pigrizia comportava questo ed
altro.
Tanto tutti i miei tentativi di lottare contro la
“dittatrice” risultavano sempre vani. Almeno, se la
mia vicina di posto avesse mostrato un po’ di quella sua
celata ma sprezzante volontà, il loro scontro sarebbe stato
quasi pari.
Anche se probabilmente una disputa tra loro, contando oltretutto
l’ostilità evidente della bimba, non mi avrebbe
favorito, ma reso una posta in palio decisamente indisposta…
- Ho semplicemente preso altri impegni, Road. – risposi,
tranquillo, sorseggiando con cura la bevanda calda.
In mancanza dell’altra disputante, mi toccava difendere da
solo la sua posizione. Una bella scocciatura. Oltretutto le mie
possibilità di vincere con Road erano uguali a zero.
- Ma sai che riuscirò a farti fare quello che voglio!
– sorrise, tagliando una fetta di burro con
un’inquietante perizia – Mi fa piacere! -
Aggrottai le sopraciglia: - Lo sai che non lo sopporto… -
Quel suo modo di leggere nella mia mente senza permesso mi innervosiva
troppo…
- Ma il Conte dice che posso! – esclamò, cercando
subito con gli occhi rapaci il capo, seduto a capotavola –
Non è così!? -
Lui rise di gioconda dolcezza: - Ma certo! Non dire così,
Tyki-pon! E’ giusto che usi i suoi poteri, altrimenti che
senso avrebbe!? E poi tu non hai nulla da nascondere, no!? –
- No… - risposi stizzito, ma senza perdere la calma.
- Comunque ha ragione lui, Road! Ha promesso a Vivy di aiutarla a fare
i suoi esercizi! -
Anche il Conte aveva lo stesso vizio e mi faceva parecchio arrabbiare,
però almeno lo faceva con più…
discrezione…
Lei per tutta risposta mise un broncio terribile e prese a
stropicciarsi la gonnellina, con aria offesa e rabbia trattenuta a
fatica, poi sbottò, con un tono parecchio più
alto del necessario: - Non mi interessa! –
- Lo so che non ti interessa. Lo dici sempre. La volontà
altrui è nulla per te. – risposi,
benché sapessi di essere un po’ troppo duro,
probabilmente – Ma quando si tratta di persone che non ti
riguardano, posso capirlo. Verso una nostra parente è
scortese. Dovresti saperlo. -
- Tyki-pon!!! Non essere così cattivo!!! –
esclamò il Conte, che prontamente, dopo essere rimasto per
qualche momento dalla mia parte, era subito tornato a tifare per Road.
- Non è cattiveria. Penso solo che dovreste essere anche voi
un po’ più imparziale. – ripresi,
terminando finalmente il caffè e posando piano la tazzina
sul piattino.
Non valeva la pena di scomporsi, anche se in poteva tranquillamente
essere l’occasione perfetta per una bella scenata. E poi
altrimenti dove finiva il mio retto disinteresse?
- Ma non puoi fare così! E’ una bambina! Devi
essere più gentile! – e nel dire queste parole si
alzò e prese ad accarezzare Road con una tenerezza quasi
nauseante.
E Road, quella stessa Road che quando le si dava della bambina lanciava
fuoco dagli occhi, si appese triste al collo del Conte e si
lasciò abbracciare in un atteggiamento davvero mieloso.
“Si, una bambina… Come no…?”
pensai, irritato.
Sbuffai, distogliendo lo sguardo da quella scena insopportabile: -
Sarò stato brusco, ma la sostanza non cambia… Ho
detto a Vivy che l’avrei aiutata e mi dispiace, questo
significa che non posso uscire con te. –
Solo allora rividi la despota al massimo splendore. A queste parole mi
fulminò con lo sguardo giallo più arrabbiato che
le avevo mai visto…
- Andiamo via. – disse solo e il Conte uscì dalla
stanza tenendola in braccio.
- Buongiorno! – esclamò Vivy, parecchio affannata,
entrando qualche tempo dopo e quasi di corsa nella sala da pranzo.
- Alla buon’ora… - commentai, mesto, rendendomi
conto solo dopo di essere stato alquanto sgarbato.
Lei si fermò sulla soglia, basita, gli occhi sbarrati dalla
sorpresa.
Dopo un attimo, però, si mise a ridere: - Allora ogni tanto
anche tu ti alzi con la luna storta! –
Appoggiato con i gomiti sul tavolo, mi voltai senza potermi evitare un
sorrisetto: - Veramente ero perfettamente di buon umore…
Prima… -
- Cosa è successo? Qualcosa di grave…?
– domandò, tornando subito seria.
- Nulla di simile. – risposi subito, dato che sembrava
già preoccupata - Vieni… Non stare in
piedi…- e mi alzai per farla accomodare al suo solito posto.
Si avvicinò, un po’ titubante, e si sedette sulla
sedia imbottita, sistemandosi delicatamente la lunga gonna scura.
Stavo per avvicinarle il sedile al tavolo, quando mi fermò:
- Emh, ti dispiace se tolgo la giacchetta… E’ che
ho un po’ caldo… Mi sono messa a correre quando ho
visto l’ora…- chiese, imbarazzatissima.
- Per me non ci sono problemi. – risposi, più
candidamente che potei.
- Anche se è un po’ indecoroso…?
– chiese, ancora poco convinta.
- Ti pare che io mi faccia problemi simili? – le domandai,
facendo un gesto eloquente a mostrarle il mio solito abbigliamento
casalingo, cioè la camicia bianca con qualche bottone aperto.
- Si, ma lo sai che per una donna… - iniziò,
sempre più a disagio.
- Si,si… So tutto… Però sei in casa
tua, è giusto che tu faccia quello che vuoi… -
Come sempre si faceva troppe fisime…
Storse un po’ il naso, probabilmente per la mia espressione
impaziente, poi si sfilò la giacca grigia che
appoggiò con cura sullo schienale. Indossava una camicia
bianca con le maniche a sbuffo e il colletto ricamato e frastagliato,
che lasciava solo intravedere un laccetto accollato. Come ciondolo
aveva una piccola pietra nera, perfettamente in tinta con i lunghissimi
capelli che aveva lasciato sciolti e scivolavano graziosamente sulle
sue spalle.
Nel caso di una donna qualunque avrei formulato qualche malizioso e
languido complimento. Mi veniva naturale. Eppure, con lei dovevo
prendere atto di non riuscirci spontaneamente. E se l’avessi
fatto comunque, sarei apparso troppo sincero… No, meglio di
no.
Le accompagnai la sedia e presi il mio posto a fianco a lei: -
E’ solo che avrei preferito fossi stata tu a difendere
personalmente il tuo diritto di precedenza… -
- A cosa ti riferisci…? –
- Road mi ha… - esitai, ironicamente –
…ordinato… Se mi passi il termine… -
Sorrise: - Conoscendola, “ordinato” è
l’unico termine… -
- Già… - sbuffai, svogliato –
Be’, mi avrebbe ordinato di andare a fare un giro con lei
oggi… -
Notò subito il condizionale e sgranò di nuovo
quei grandi occhi segnati di giallo dal nostro potere:
- Non le avrai mica detto di no! – esclamò,
incredula.
Aggrottai le sopraciglia di fronte alla sua reazione: - Scusa se ho
difeso gli accordi che avevamo preso… -
- Ma no, ma no… - si affrettò a rispondere,
scuotendo la testa concitatamente.
Ero offeso…?
Non era da me, certo. Tenendo però conto che mi ero anche
dato da fare e l’avevo fatto per nulla, c’era poco
da restare impassibili…
- Insomma, mi sembrava che avessi detto che ti ero utile… -
- Tyki! Mi lasci parlare!? – esclamò, con cipiglio
offeso.
- Guarda che se c’è uno che deve essere
offeso… -
- Si, va bene… Ma mi lasci spiegare…? –
- Guarda che non c’è nulla da spiegare! Se non ti
va, posso sempre… -
Inaspettatamente, forse ad entrambi, si allungò verso di me
per posarmi un dito sulle labbra.
Mi bloccai quasi di scatto.
Anche lei sembrò colpita dalla sua stessa reazione
spontanea, ma si riprese in fretta:
- Hai finito? Ora posso parlare? -
Alzai gli occhi al cielo: - Si… -
- Bene. – rispose, tornando ad appoggiarsi elegantemente allo
schienale intarsiato – Ascolta. Il mio stupore e il mio
commento erano solo dovuti al fatto che è pazzesco anche
solo pensare a te che prendi una posizione contro i capricci di
Road… -
- Non è un complimento, Vivy. – commentai, con una
lieve smorfia.
- Ma è un fatto. – sorrise, tranquilla.
- D’accordo, ma… - tentai di controbattere.
- Allora, la prossima volta che cosa potrei usare per
impedirti di interrompermi…? – diede una vaga
occhiata alla tavola imbandita – Che ne dici del panetto di
burro…? –
- Ho capito. Non parlo più… - risposi, divertito.
Rise di gusto, poi riprese: - Mi sembra giusto. Comunque, davvero
Tyki… - tornò subito molto seria e
tornò a fissarmi negli occhi con
un’intensità sincera – Non sai quanto mi
fa felice pensare che tu sia dato tanto da fare per non mancare ai
nostri accordi. Mi fa piacere quanto poco altro sapere che vuoi davvero
aiutarmi. -
Questo fu troppo. C’era troppa umanità in lei.
Veniva decisamente spontaneo chiedersi se era davvero una Noah. Quando
parlava così, lasciando trasparire tutti quei buoni
sentimenti, tornava quel fastidioso e insidioso ricordo del passato.
No, meglio di no.
- L’ho fatto perché tu non c’eri ed era
giusto che entrambe le parti fossero rappresentate. Non poteva prendere
decisioni senza neanche considerare la tua posizione. Per questo.
– cercai di giustificarmi, a fatica.
Come se fosse necessario. Come se fosse sensato. Perché
sentivo il bisogno di farlo?
- Certo, lo so. Però credo che se fosse stato solo per
questo avresti ugualmente lasciato che come sempre ti obbligasse.
E… - mi bloccò dall’interromperla
afferrandomi il polso che avevo appoggiato alla tavola -
…non voglio che tu mi dica di no. Anche se non fosse
vero… Lasciamelo pensare, ok? -
C’era quasi una supplica nel modo in cui lo disse. Teneva
stretto il mio polso come per un bisogno morboso di restare attaccata a
questa sua visione di me. Voleva vivere nel passato. Io non potevo
permetterglielo, in assoluto.
Però non tentai più di contraddirla. Non solo per
le sue minacce, ma perché in quel caso aveva ragione. Non lo
avrei mai ammesso apertamente, per mille e una ragione, ma avevo
davvero scelto lei, piuttosto che Road. E forse lo avrei fatto anche se
non avessimo preso quel mezzo accordo.
Ma lasciarsi andare a ipotesi… No, meglio di no.
- Tuttavia, - e mi lasciò, per riprendere a guardarmi con
un’espressione un po’ triste – vorrei che
tu andassi con lei. -
Non vedendo alcuna mia reazione, prese a spiegare cautamente: - Tyki,
credo tu sappia che per ora io e Road non abbiamo ancora stabilito un
ottimo rapporto. Non vorrei che questo nostro impegno
mettesse a rischio la possibilità di creare una convivenza
civile tra me e lei. Vorrei piuttosto evitare quanto posso ogni
occasione di attrito. -
In realtà dubitavo che questo sarebbe bastato. Vivy si
illudeva che l’ostilità di Road fosse solo
momentanea e destinata a finire con il tempo e la conoscenza. Era
meglio che non riuscisse a vedere ciò che vedevo io,
cioè l’odio profondo, e secondo me immotivato, che
la bambina aveva per lei.
- Ho capito. E’ chiaro. Vuoi conquistare Road riconsegnandole
il suo giocattolo. -
- Tyki… - disse, con aria affranta – Non voglio
trattarti come un oggetto. –
- Lo so. Non te la prendere. Doveva essere una battuta. Quando
imparerai a capire quando scherzo…? – ribattei,
scrollando le spalle.
- Non scherzare. – rispose, seria e dispiaciuta - Io avrei
davvero bisogno di te per le prove. –
Sorrisi, lasciando volontariamente trasparire l’ironia:
– Comunque è una scelta tua… -
- Mi dispiace… -
- Si vede. Non ti preoccupare. – mi alzai in piedi con un
mezzo stiracchio – Allora vorrà dire che mi
sacrificherò. – e mi diressi verso la porta -
Buona giornata, Vivy. Ci vediamo più tardi. –
- Anche a te. A dopo. – mi salutò.
Infatti Road apparve estremamente soddisfatta della resa di Vivy. Tanto
soddisfatta che non volle lasciarmi nemmeno un giorno per assisterla,
ma in ogni occasione mi trovava qualcosa che bisognava assolutamente
fare.
Così mi ritrovai a fine settimana disperatamente
stanco… L’idea di tornare in miniera era un
idillio rispetto ai giorni densissimi che avevo passato…
Tentai anche di farlo presente a Road, la quale non batté
ciglio e con candore mi rispose che probabilmente non avevo il fisico...
A giudicare dalle poche volte che riuscii a vederla, la nostra soprano
era ancora più stravolta di me. Comunque era evidente che la
stanchezza non era l’unico problema. Come sempre tentava di
nascondere quanto più poteva le sue tensioni
d’animo, ma non ci riusciva mai pienamente. A pranzo e a
cena, quando ci ritrovavamo tutti insieme, notavo magari qualche
commento di fuoco diretto al Conte, oppure occhiate furtive a Road, o
ancora sorrisi un po’ amari nei miei confronti…
Le conclusioni più logiche per questi gesti erano che
probabilmente stava di nuovo litigando con il Conte e cercava almeno
con lo sguardo la famosa riconoscenza che Road le doveva ma che, al
solito, le faceva sudare. Però non mi quadrava
quell’aria sofferente che mi rivolgeva. Di certo si era
pentita della scelta fatta, ma non era corretto che cercasse di farmela
pesare così tanto… Sempre se era solo per
quello…
Appena c’era una mezza occasione, tentavo di chiederle
qualcosa, ma, prendendo evidentemente esempio da me, dal maestro in
questo ambito, arrivava sempre a svicolare abilmente…
Alla fine, decisi che erano affari suoi. Non ero il tipo da impormi
troppo interessamento. Questione di carattere.
- Be’, allora, famiglia… Alla prossima…
- biascicai, mezzo addormentato, tentando a fatica di alzarmi dalla
poltrona su cui mi ero abbioccato.
- Vai già via, Tyki!? – esclamò Road,
balzando in piedi, almeno lei arzillissima.
- Come “già”… - risposi,
alzando gli occhi al cielo, spazientito – Non ne hai proprio
mai abbastanza, eh…? –
- Tyki-pon! Non ti fermi a cena!? – chiese il Conte,
altrettanto giocondo.
- No davvero, Conte… Devo andare prima di farmi vincere di
nuovo dal sonno… Scusatemi… - gli risposi, per
poi sbadigliare sonoramente.
- Stupid-Tyki vuole farci analizzare le sue tonsille! –
esclamò pronto Debit, seguito a ruota dal fratello:
– Hi-hi! Che sbadiglio! Hihihi! –
Sbuffai: - Non voglio lezioni di buone maniere da voi… -
- Ricordati di andare a salutare anche Lulù e
Skin…! – disse Road, sovrastando la voce dei
gemelli infervorati.
- Ne sentiranno la mancanza? – le chiesi, ironico.
- Tyki! – esclamò lei, con aria di rimprovero.
- Ho capito… Ho capito… - poi aggiunsi, a voce
più bassa, perché solo lei potesse sentire
– Tu però fai la brava in mia assenza. Metti da
parte un po’ della tua ostilità. Lo sai cosa
intendo… -
- Si, si… - rispose, annoiata, per poi gettarmi come al
solito le braccia al collo.
Stavo per uscire dalla sala, quando dalla stanzetta attigua comparve
anche Vivy, con in mano un enorme libro rilegato, probabilmente
l’ennesimo romanzo russo che stava divorando.
- Stai andando via? – mi chiese.
- Già… E si… Stavo dimenticando di
salutarti… - aggiunsi subito, con un sorrisetto falso.
- Come al solito. – commentò lei, per nulla offesa
– Allora alla prossima, Tyki. –
- A presto, Vivy. E buona fortuna per la prima… - la
salutai.
Impiegai quasi tre giorni a riprendermi del tutto dalla sonnolenza.
I ragazzi erano sconvolti e mi chiesero più volte come avevo
fatto a ridurmi come uno straccio fino a quel punto. Chiaramente non
risposi, o almeno non con quello che volevano sentirsi dire. Del resto
stavano ancora tirando fuori vaghe ipotesi sulla mia misteriosa amante,
senza sapere che se quella che mi aveva ridotto così fosse
stata la mia donna sarei stato un pedofilo.
Il resto della settimana, comunque, passò abbastanza bene.
Fino a sabato…
Non so cosa mi successe. Non so spiegarmelo. Non avevo più
pensato all’occasione che cadeva in quel giorno da quando
avevo ripreso i miei panni umani, eppure quel mattino mi svegliai con
una martellante e irrazionale ossessione che non riuscivo a scacciare.
Volevo a tutti i costi andare a vedere Vivy cantare alla prima di
quella sera.
Più ragionavo sul fatto che interessarmi tanto a quel suo
atteggiamento umano, a quella voce angelica, a quel passato splendore
fosse del tutto contrario ad ogni cognizione della mia parte Noah, e
più quell’idea mi riempiva la mente e un desiderio
incontrollabile mi tormentava.
Rifiutarmi e oppormi non avrebbe significato nulla. Io subivo troppo il
fascino delle tentazioni e dei più piccoli e occulti
piaceri. Erano il mio forte.
Se mi andava bene così, cosa c’era da chiedersi di
più?
Verso sera, comunicai ai miei amici che dovevo assentarmi per qualche
ora e lasciai intendere che fosse colpa del
“part-time”. Non fecero domande, ma mi annunciarono
che mi avrebbero aspettato svegli e che era il caso che tornassi
presto.
Mi sentivo una ragazzina con il coprifuoco dei genitori…
Era un pessimo periodo per la mia autostima…
Per arrivare a Nantes l’unico mezzo che avevo a disposizione
erano le porte di Road. Questo chiaramente significava palesare quello
che stavo facendo. Si sarebbe certo accorta di come stavo sfruttando i
suoi preziosi passaggi dimensionali. Tuttavia, avevo imparato che era
ugualmente impossibile fare qualcosa senza che lei o il Conte lo
sapessero, quindi tanto valeva che ne fossero a conoscenza
già fin da subito, così che poi non mi
stressassero troppo per farmelo confessare.
Il passaggio sbucava poco lontano dal teatro e vi arrivai appena in
tempo per accaparrarmi l’ultimo palchetto.
Ci fu qualcosa di controverso e incomprensibile in tutto quello che
vidi e pensai quella sera. Non che fosse una novità per me,
ma certo non mi era mai capitato di sentire tanto forte il conflitto.
Da una parte c’era il mio lato Noah, apparentemente in
minoranza, ma che suppliva la sua condizione di sfavorito con dei
picchi improvvisi e quasi incontrollabili.
Mi bastava semplicemente guardare Vivy. I suoi abiti sgargianti,
preziosi, decorati con una perizia incredibile, che avvolgevano il suo
fisico snello come se glieli avessero cuciti addosso. Quella sua pelle
lattea e delicata che, complice forse il trucco, sembrava brillare alla
luce dei riflettori. I capelli acconciati con pochi riccioli sciolti a
sfiorare il suo viso elegante e concentrato. I suoi occhi verdissimi
che lanciavano sguardi intensi, prima appassionati, poi acuti, poi
disperati, seguendo gli stati d’animo del suo personaggio.
Trovavo che fosse la donna più attraente e desiderabile che
avessi mai visto.
Mentre raggiungevo questa coscienza della passione che mi scuoteva,
mentre percepivo distintamente ancora una volta la volontà
di prenderne pieno possesso, riconoscevo anche la più
piacevole verità: lei era mia. Mia proprietà. Mia
promessa. Mia futura sposa. Nessuno poteva portarmela via. Non avevano
speranze. Solo io sapevo tutto di lei, anche di quell’anima
nera che si portava dentro e nascondeva con tanta cura. Solo io avevo
il diritto e la possibilità di desiderarla tanto.
L’orgoglio più spietato e infuocato si impadroniva
di me quando gli uomini in sala la applaudivano con tanto ardore, pieni
di loro stessi e ammirati per la sua bravura, per la sua
bellezza, che mi appartenevano, senza possibilità di errore.
Anche se lei non lo volesse…
Dall’altra parte il lato “bianco”, capace
di lottare quasi ad armi pari con la passione più ardita.
L’avevo già sentita cantare quelle arie, ma non
così. Tutto sembrava tremare al suono modulato e struggente
dei suoi acuti. Ogni gorgheggio riempiva la sala di
un’atmosfera irreale.
Eppure non era solo a causa del teatro o del diverso clima che vi si
respirava. Era lei stessa che si era trasformata. Non era
più la umile Vivy, ma la gelosa Tosca, pronta ad ogni
sacrificio per quel tale Cavaradossi. Se addirittura io ero in grado di
cogliere quanto si fosse immedesimata nel personaggio, di certo quei
grandi e ricchi esperti operistici che sedevano in sala dovevano
essersi resi conto dell’immedesimazione perfetta a cui
stavano assistendo.
Ma era tutta capacità di attrice? Non riuscivo a capirlo
fino in fondo.
Nella donna che stava interpretando c’era qualcosa di
sbagliato, qualcosa che stonava con Vivy. Forse l’omicidio.
Si, quello era certamente un gesto che non faceva per lei. Anche se era
più che perfetto per una Noah...
Per il resto, in fondo, vedevo lei in persona. L’amore
incondizionato, la passione per il canto, il sacrificio di se stessa,
la forza vana della speranza, la disperazione e il senso di
colpa… Era perfetto per lei o sapeva renderlo alla
perfezione.
Il finale poi mi lasciò stranito e definitivamente incerto.
Non perché non sapessi come finiscono questi
drammi… Piuttosto perché la sofferenza che vedevo
sul volto stravolto di Vivy era tanto reale da lasciarmi allibito. Era
Tosca che piangeva Cavaradossi, era tutta finzione scenica,
oppure…
Oppure cosa…? Cosa poteva esserci d’altro? Non ero
in grado di capirlo.
Finita la rappresentazione, rimasi abbastanza stordito. Impiegai
qualche momento a riprendermi e a darmi una regolata. Quella lotta
interiore mi aveva sfiancato e non avevo quei casinisti di Road e dei
gemelli che mi facessero rinsavire.
Alla fine, tornai nella hall.
C’era un caos incredibile di persone che si assiepavano in
capannelli o si affrettavano verso l’uscita. Comunque la
maggiore calca era concentrata intorno agli attori che erano da poco
usciti dai camerini per il bagno di folla. Non mi sarei mischiato a
quegli individui infervorati neanche per tutto l’oro del
mondo e in ogni caso non ero neanche certo di volermi far vedere da
Vivy. Di conseguenza, mi appoggiai alla parete a qualche metro
dall’inizio dell’assembramento e osservai
tranquillamente la scena.
Necessariamente quelli che più attiravano i curiosi erano i
due protagonisti e l’antagonista.
Mi stupii notando quanto visivamente Scarpia potesse assomigliare al
Conte: non molto alto, decisamente sovrappeso e strizzato in un
completo di velluto di qualche taglia più piccolo. Tuttavia
anche le differenze erano evidenti: era quasi calvo, ogni tanto si
apriva in un sorriso sincero e amichevole e mostrava un atteggiamento
molto cavalleresco e fine.
Vivy era come sempre impeccabile: un leggero e timido rossore sulle
guance, una risata cristallina per tutti gli ammiratori, anche se per
alcuni un po’ più sforzata, e tutta la sua
elegante sobrietà.
Al contrario di quel tenore, il co-protagonista Cavaradossi…
Un sorrisetto tronfio e vanesio gli riempiva il volto, baciava mani a
profusione, partiva in eccessi di riso decisamente fastidiosi e i suoi
occhi avidi percorrevano senza scrupoli dalla testa ai piedi tutte le
donne che si trovava davanti…
Invadendo ogni tanto di sottecchi anche un territorio che non gli
apparteneva per nulla… Quelle occhiatine languide rivolte
alla sua collega non mi piacevano per nulla, ma notavo con piacere che
lei non ci prestava attenzione, anzi, ogni tanto lo squadrava con
un’aria di rimprovero.
La folla si era abbastanza sfoltita e c’era ormai il rischio
di essere visto. Non avevo ancora deciso se fare finta di niente
finché ero in tempo oppure presentarmi davanti a lei per
mostrarle che ero venuto spontaneamente ad assistere alla messinscena.
Ancora una volta era tutta una lotta tra le mie due inguaribili
metà…
- Buonasera! -
Mi voltai nella direzione di quella voce sconosciuta e mi ritrovai di
fronte una ventenne di primo pelo, pesantemente truccata, con
un’espressione che era tutta un programma… Mi
trattenni dallo sbuffare e cercai di apparire il più
possibile controllato e moderato: - Buonasera a voi! –
Sperai che fosse bastato questo, ma con quelle ragazzine intraprendenti
e spudorate non poteva essere sufficiente a troncare il dialogo.
- Una splendida opera, non credete…? –
- Si… Deliziosa… - risposi, tornando a voltarmi
verso gli attori rimasti a discutere con gli ultimi ammiratori.
- Assolutamente! C’era un’atmosfera incredibile! Ho
veramente apprezzato tutti gli interpreti! – poi
più a bassa voce – Soprattutto Dallas
Conrad… Davvero una grande stella della lirica…-
Intuii subito che doveva trattarsi del tenore. Ci mancava solo una fan
di quel damerino tutto fumo.
- Si… Un’ottima compagnia… - risposi,
sempre più spazientito, lanciando solo qualche vaga occhiata
alla fanciulla per restare invece concentrato sul resto dei presenti.
- E voi chi avete preferito…? - chiese.
Notando probabilmente che avevo smesso del tutto di darle retta,
sbottò: - Scommetto che siete anche voi uno degli ammiratori
di quella primadonna montata e arrampicatrice! Sempre attaccata a
Monsieur Dallas, quell’impudente! Un sacco di gente pensa
addirittura che stiano assieme… ma io non ci credo! Lui ha
certamente dei gusti molto migliori e lei comunque non sembra neanche
questa gran bellezza… -
A sentire queste cose mi irritai parecchio. Non se se di più
per i commenti malevoli rivolti a Vivy o per quelle insinuazioni su una
relazione tra i due. Entrambe cose che non potevo concepire.
Probabilmente le avrei risposto male, se non fossi tornato a guardare
la ragazzina e ne avessi provato un po’ di vaga e sprezzante
pietà… Un’appariscente e impertinente
cacciatrice di uomini…
Le sorrisi, senza più celare la malizia, e risposi,
tranquillamente: - Se la pensate così temo che non abbiamo
nulla di cui parlare, signorina. Se voleste gentilmente smettere di
importunarmi, vi sarei immensamente grato. –
La vidi diventare color melanzana e strabuzzare gli occhi, biascicare
qualcosa tipo “che razza di educazione” e poi
marciare offesa verso la porta. Con mio enorme sollievo.
Dopo poco, anch’io d’istinto mi avviai verso
l’uscita. Tanto ero giunto alla conclusione che era meglio
non mostrare a Vivy di essermi recato laggiù. Poteva essere
dannoso. Se nel mio caso quella decisione era stata il degno campo di
battaglia dei miei opposti moti interiori, in lei poteva scatenare solo
speranze vane per quel suo spirito umano e nostalgico. Non lo potevo
permettere.
Solo che stavo per avere il mio secondo incontro imprevisto della
serata.
- Buonasera. -
La strada verso la porta mi fu bloccata da un uomo sulla sessantina,
non molto alto, ma estremamente elegante e curato. Lo scrutai cercando
di capire dove l’avevo già visto: capelli bianchi
perfettamente pettinati, occhi azzurri, due baffoni da generale
abilmente impomatati e un piccolo monocolo e un fazzoletto nel
taschino. A questo primo sguardo non mi venne in mente. Al contrario
lui sembrava sapere benissimo chi fossi e mi aveva puntato addosso uno
sguardo tanto ostile quanto diretto.
Decisi di fare finta di nulla: - Buonasera. – lo salutai di
rimando con un cenno del capo.
Contai che il caso venisse chiuso così, ma subito mi
apostrofò ancora:
- Non siete il fidanzato della nostra soprano…? -
Bastò questa frase, decisamente diretta e inaspettata, per
farmi tornare in mente quando ero venuto a teatro per incontrare Vivy e
in particolare quell’uomo anziano con il quale stava parlando
e che, per tutto il tempo in cui restai con lei, sentivo che continuava
a squadrarmi da lontano. Doveva essere quel tale… Quel
Retino… Il padrone della compagnia…Che cosa
accidenti voleva da me…? Non avevo voglia di scoprirlo.
Risposi subito, senza pensarci:
- Credo mi confondiate con qualcun altro. -
Mi fissò con sempre maggiore astio e, mi accorsi per caso,
stringendo minacciosamente il mazzo di rose rosse che teneva in mano.
Portò avanti questo scambio di occhiate per un tempo
decisamente più lungo del necessario. Se avessi avuto la
coscienza a posto, avrei anche avuto il diritto se non il dovere di
chiedere candidamente perché lo stava facendo. In
realtà, però, mi ero già pentito di
aver mentito...
- Allora vi chiedo scusa. Devo essermi sbagliato. –
commentò, acido, dandomi le spalle – Del resto una
persona tanto importante per lei starebbe al suo fianco, in questo
momento sereno, e non se ne andrebbe così, senza dire nulla.
-
Quel vecchiaccio…
- E se fossi la persona che voi dite – sbottai, ancora una
volta per pura reazione istintiva – che cosa pensate che
dovrei fare? -
Quello si fermò e tornò a fissarmi insolentemente
negli occhi: - Prego!? –
- Dovrei andare laggiù a disturbarla e a rubarle il suo
momento di gloria…? A farle le congratulazioni, come le
diecimila persone prima di me? A fare una scenata di gelosia per quel
pesce lesso del tenore…? Oppure… - e guardai
quasi disgustato quel fascio infiocchettato che teneva in mano -
… a portarle l’ennesimo insieme informe di fiori
come ne avrà milioni nel suo camerino…? -
Rimase per qualche momento interdetto, ma con un’espressione
che sembrava quasi di pietà. Poi, con uno sforzo di
autocontrollo, mi rispose con calma: - Se non siete in grado di fare
qualcosa per vostro puro desiderio, meglio che non facciate nulla del
tutto… La “vostra” Victoire odia ogni
forma di ipocrisia… -
E se ne andò, senza aggiungere altro.
Così feci una cosa idiota… Una delle tante di
quei giorni.
Entrai nel fiorista a neanche dieci metri dal teatro. E senza la minima
idea di cosa andarci a fare.
Sul subito pensai che la signora sapeva come fare affari: per questione
di vicinanza, tutti gli allestimenti floreali delle rappresentazioni e
tutti i bouquet per le primedonne venivano sicuramente dal suo negozio.
- Buonasera , Monsieur. – mi salutò,
più che gioviale la fioraia.
Già, probabilmente la cassa era proprio piena.
- Buonasera, signora. –
- Posso esservi utile? – chiese, sollecita.
Tuttavia, mi ritrovai a guardarla, stranito: - Non saprei. –
- Be’, immagino siate qui per dei fiori… -
sorrise, gentile – Per quale occasione? -
- Per una donna. – dissi, renitente.
- Oh, certo! – e il suo sorriso si allargò ancora
di più. Probabilmente la divertiva vedermi così
esitante, forse pensava ad una questione di timidezza. Era lontanissima
dalla verità… Era colpa
dell’inesperienza, della situazione insolita, del conflitto
tra “bianco” e
“nero”…
- Allora il meglio sono le rose rosse! Ve ne faccio un
mazzo…? –
- No… A me non piacciono le rose… - commentai
subito, scrutando un vaso di quei fiori color sangue.
- Come no!? – esclamò la signora – Ma le
rose sono i fiori femminili per eccellenza... –
- Non so cosa dirvi… E poi comunque le regalano
tutti… -
- Certo! E in particolare le rose rosse perché sono il
simbolo della passione! Non c’è nulla di strano!
–
Ecco il problema. Per quello che rappresentavano potevano essere
perfette, al di là che mi piacessero o meno. Allungai una
mano a toccare quei petali morbidi ma quasi mi stupii notando che non
lasciavano sulle dita un po’ di colore. Un po’ del
sangue di cui sembravano impregnate…
Tutti le regalavano, tutti le sceglievano. Io non l’avrei
fatto. Mi rimbombavano nella mente le parole di poco prima di quel
Retino… Fare qualcosa per mia scelta, per mio
desiderio…
Lo sguardo mi cadde su un altro vaso, esposto dall’altra
parte del negozio. Una semplice macchia bianca…
- Perché non quelle? – chiesi alla fiorista.
- Intendete… -
- Sono rose bianche, giusto? – domandai avvicinandomi.
- Si, ma… Non so se siano adatte… -
osservò, guardandomi dubbiosa.
Sfiorai anche quel petali candidi e li trovai deliziosamente morbidi,
come quelli di prima, anche se molto meno inquietanti.
- Perché? - e tornai a guardarla, stupito.
- Vedete… Le rose bianche sono simbolo di…
purezza… Certamente un gesto carino, senza
dubbio… Ma un po’ impegnativo… E poi
sono utilizzate soprattutto per i matrimoni… -
- E’ perfetto. – risposi, all’unisono con
il pensiero che mi era passato per la mente.
- Siete sicuro…? –
- Si. Solo io posso regalarle rose bianche. – agguinsi,
ancora una volta dando voce ad un’idea improvvisa.
Il vero problema venne dopo. Non avevo nessuna intenzione di
consegnargliele di persona. Ero ancora dell’idea che mettermi
così in evidenza con lei fosse una pessima idea. E per un
attimo mi domandai anche per quale ragione avevo dovuto comprare quelle
rose. Ormai comunque non sarei tornato indietro.
Decisi di lasciare il mazzo nel suo camerino così. Senza
biglietto, senza intestazione. Senza che lei capisse. Non avrebbe
potuto farlo. Io avrei compiuto il mio gesto di gentilezza e
lei… Be’, magari avrebbe pensato ad un errore o a
qualche bizzarria di un ammiratore un po’ originale. Non ero
sicuro che mi andasse bene così, ma ormai avevo deciso.
Essere riconosciuto non mi interessava poi così tanto.
Perché avrebbe dovuto?
Sfruttai per una delle prime volte i miei poteri Noah ed entrai nel
teatro per una parete e feci lo stesso per violare il camerino.
Come da mia previsione era zeppo di rose ovunque. Sembrava avessero
sparato vernice rossa su tutte le pareti. Appoggiai semplicemente il
mio bouquet anonimo sul piano vicino allo specchio, ma non pensai ad
andarmene il prima possibile. Così, quando la serratura
scattò, praticamente subito, mi ritrovai nascosto
nell’armadio. Che scena stupida e pietosa…
Stavo già per uscire di nuovo attraverso il legno
dell’armadio e la parete di mattoni, quando vidi Vivy
chiudersi la porta alle spalle e buttarsi sulla brandina, stravolta.
Presi ad osservarla da un piccolo spiraglio tra le due ante e quasi
senza accorgermene. Ogni tanto stirava leggermente le spalle o la
schiena o si passava le mani sugli occhi per il sonno. I capelli neri
sparsi sul cuscino e sul viso assonnato.
Poi improvvisamente, sbuffò e si rimise seduta: - Se mi
addormento qui è finita… - e si coprì
la bocca con le mani al sopraggiungere di uno sbadiglio. Infine si
alzò in piedi e fece per afferrare il soprabito
dall’attaccapanni. Solo che proprio in quel momento
notò il mazzo sulla specchiera.
Allora fui davvero tentato di andarmene. Cosa ci facevo ancora
lì? Solo che ormai ero curioso di veder cosa avrebbe fatto.
- Ma… - commentò, tra sé, sollevando
il bouquet e cercando un biglietto attaccato alla carta della
confezione – Sono proprio… bianche… -
Aggrottò le sopraciglia, confusa. Accarezzò piano
uno dei fiori, come soprapensiero, e poi sfiorò con le dita
un petalo, con un gesto parecchio simile al mio di poco prima. Strano
più che altro perché sembrava che
l’avesse fatto anche con il mio stesso scopo, quello di
testare la delicatezza dei petali… Ma mai nulla mi
lasciò stupito quanto ciò che fece
dopo…
Un sorriso luminoso e quanto mai splendido le comparve in viso. Strinse
tra le braccia, dolcemente il mazzo di rose e annusò piano
il profumo di quei fiori.
Poi sussurrò con un fil di voce e una tenera risata, ma non
abbastanza piano perché non potessi sentirlo:
- Tyki… -
- Ma come avrà fatto…? – sbottai,
più che altro rivolto a me stesso.
- Di che accidenti stai parlando, Tyki!? – esclamò
Momo, con la voce roca dal sonno.
- Ma di nessuno… - risposi, irritato e con una smorfia.
- Allora fammi il piacere di andare a dormire e smettere di
scocciare… - sbuffò il mio amico lanciandomi
addosso il cuscino.
- Torna tardi… E ancora parla da solo… -
commentò Frank, scuotendo la testa, e si ficcò
sotto le coperte con un sospiro.
Allora andai a letto anch’io, ma impiegai un po’ di
tempo a prendere sonno.
Ero un po’ irritato dal fatto che avesse capito chi era il
mandante. Allora ero una persona decisamente prevedibile, anche se mi
sentivo di escludere questa ipotesi in quanto del tutto infondata.
Avevo troppi contrasti interiori perché fosse possibile
immaginarne il funzionamento. In caso questo dovevo ammettere che
probabilmente lei mi aveva capito molto più di quanto
riuscivo a comprendermi io stesso. Neanche questo era rassicurante. La
mia patina di mistero mi proteggeva molto meglio di ogni altra cosa. Ed
ero certo che fosse del tutto infrangibile. Nessuno mi avrebbe convinto
del contrario. Dovevo scartare anche questa opzione.
Tuttavia, molto più grave di una qualunque di queste analisi
frettolose, mi addormentai con un altro pensiero fisso. Se mi avesse
mai abbracciato così teneramente e stretto come aveva fatto
con quei fiori, non le avrei mai più permesso di staccarsi
da me.
Dannazione, non andava per nulla bene!
Dovevo smetterla immediatamente, prima di pentirmene…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Eccomi
qui!!! Oggi posto TUTTO!!!! XDDDDDD
Questo capitolo è un po' lunghetto e può darsi
che troviate che nella parte finale sia stata un po' sbrigativa... E'
che purtroppo avevo ben chiara tutta la scena del teatro, ma quando ho
cominciato a scrivere mi sono persa nelle prime scene a "casa Noah" e
poi mi è dispiaciuto pensare di ridurle o tagliarle del
tutto...
La vicenda del mazzo di rose bianche ce l'avevo in mente quasi
dall'inizio, ma chiaramente dovevo inserirla piuttosto avanti nella
storia o non avrebbe avuto molto senso. Anche a questo punto in effetti
stride leggermente, ma ci sono tante altre cose che devono accadere,
anche molto più sconvolgenti di questa... ^_^
Chiaramente la funzione della "fanciullina golosa" è
nulla... Solo che lasciarlo semplicemente lì una vita a
squadrare gli attori da lontano sembrava abbastanza vuoto... (E,
onestamente, nonostante la faccia trattare un po' male da Tyki, aveva
tutte le ragioni di questo mondo per provarci...)
Spero che vi sia piaciuto e aspetto con impazienza qualche
commentino!!!! XD
Per quanto mi riguarda, appena riuscirò a tornare a
ritagliarmi un po' di tempo, mi metterò a scrivere
il prossimo capitolo!!!
Quindi, (spero) a presto!!!!!
Lady Greedy = oh, ma figurati... Non ti
scusare e non preoccuparti!!!! Mi fa piacere piuttosto che tu abbia
gradito il ritorno in scena dei gemelli!!!
Non ho mai letto "Il ritratto di Dorian Gray", tranne qualche pagina a
scuola... ^_^ Anche se devo dire che mi affascina...
Più che rispetto al protagonista, in un passo della
descrizione di Lord Henry Wotton mi è venuto subito in mente
Tyki... Non solo per gli accenni all'atteggiamento insofferente, alla
carnagione un po' scura, alla gestualità e allo stile,
ma anche perchè Dorian afferma di provarne fascino
e insieme paura... E' un'impressione molto diffusa... XD Riguardo a
Sibyl... Non so... Per ora posso dirti che un finale simile per Vivy
non rientra nei miei programmi... Si vedrà... ^_^ A
presto!!!
Bohemienne = in
effetti quel mezzo "sbrodolamento" su Vivy era piuttosto strumentale
(anche se l'intento di darle un'immagine del tutto umile ammetto che
c'era...): mi serviva per permettere a Retino di accennare a Tyki, in
modo tale che lei dimostrasse parte del suo tormento e che l'impresario
se ne uscisse con quella sentenza netta e amara, che apre direttamente
la strada a questa sua incursione arrabbiata sul fidanzato della sua
primadonna preferita... Come vedi, tutto ha un
perchè... XDDDDD In ogni caso, ti ringrazio molto per aver
accettato così volentieri questo mio personaggio
originale!!!! Spero che continuerai ad apprezzarlo anche in futuro
(anche se ne capiteranno delle belle...)!!!! Riguardo a Tyki... Amo i
suoi contrasti irrazionali e farlo sguazzare in questo caos di
sentimenti umani... Ma mi diverto anche a parlare della sua parte solo
passionale e sensuale (vedi sopra, monologo delle sensazioni "nere")...
Con questa fanfiction, voglio realizzare tra l'altro un mio piccolo
sogno al suo riguardo... Ma preferisco non anticipare nulla!!!! XD
Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!!!
kuro = ti
ringrazio molto!!!! Quella scena dolciosa è stata
un'ispirazione improvvisa, ma mi fa piacere che ti sia piaciuta!!!
Spero valga anche per gli strani momenti di questo
capitolo!!!! Alla prossima!!! ^_^
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Capitolo 13 *** XII - Taboo Subjects ***
Capitolo
12
Taboo
Subjects
“Chi
ha visto la verità resterà per sempre
inconsolabile”
(A.
Baricco)
- Vivy, sono
sinceramente ammirato! – esclamò il Conte, con
quell’aria socievole e insieme agghiacciante che ne faceva
una figura da incubo.
Sbattei un paio di
volte gli occhi, con inconscio stupore: - Di cosa state parlando
esattamente…? – chiesi, con calma, non del tutto
sicura di volerlo sapere davvero.
- Ma, chiaramente,
del tuo coraggio nel cedere così amabilmente alla richiesta
di Road! – mi rispose, facendo trasparire una vena sprezzante
nella voce.
Ormai non
c’era più nessuno a casa. I gemelli erano usciti
per qualche motivo a loro soli noto e le domande erano state sedate da
qualche risatina complice dei due. Lulubell era di ronda in forma di
gatto, o forse andava solamente a farsi una passeggiata. Skin, per
conto suo, era andato in pasticceria e molti avevano messo anche in
dubbio SE sarebbe tornato.
Per ultimi, Road,
Tyki e Lero erano usciti poco prima in direzione
“parco”. La bambina aveva sorriso vagamente nella
mia direzione, ma non ero certa che fosse un buon segno.
L’ombrello si era lamentato in lacrime con il Conte
perchè non voleva andare. Tyki aveva sospirato con
sufficienza ed era uscito con gli altri indirizzandoci solo un vago
cenno della mano.
Io ero quindi
rimasta con il Conte a provare. Ormai non mi stupivo più del
modo incredibile con cui quelle dita tentacolari correvano sui tasti.
Solo era strano come riuscisse a suonare tanto velocemente essendo pure
distratto a parlare con me.
-
Davvero…? – commentai, certa che un po’
del mio fastidio fosse comunque filtrato da quella semplice parola.
- Certo!
–
Odiavo vedere
quella sua espressione. Quell’immobile ghigno, che per il
Conte rappresentava il massimo della serenità
trascendentale, si stava amplificando e sembrava quasi allargarsi
più di quanto potesse in realtà, su quel volto
così piccolo al confronto. Ad uno sguardo esterno
probabilmente in nulla sarebbe apparso diverso, ma io percepivo
nettamente il cambiamento. Non sapevo se fosse una sensazione fisica,
mentale o solo istintiva, ma il suo sorriso era sempre più
ampio, sintomo evidente del trionfo che assaporava.
Non sapere che
cosa nel suo progetto si fosse avverato e lo stesse rallegrando tanto,
legava profondamente nel mio animo la rabbia con la Paura…
- Cosa ci sarebbe
di così “coraggioso”? –
domandai, frenando entrambi gli impulsi con tutta la mia buona
volontà.
- Mia cara! Hai
offerto a Road la possibilità di prevaricarti senza sforzo!
Anche tu capisci che aprire un simile precedente… -
- Io veramente non
ho fatto niente di simile. – gli risposi, pacata –
Non è corretto che diciate questo. –
- Allora spiegami
il tuo piano! – esclamò, con un’aria
complice spiccatamente fuori luogo.
- Voi mi
spiegherete il vostro…? – chiesi, irritata,
stringendo gli occhi in una smorfia infastidita.
Il Conte si
limitò a ridere, sardonico più del solito.
Mi trattenni
ancora, anche se il violento desiderio di rompergli almeno uno di quei
brillanti denti bianchi mi rodeva parecchio… La mia indole
pacifica e rassegnata si era rintanata in un angolo, quieta come
sempre…
- Comunque, la mia
idea era semplicemente di viziarla un po’. Lei fa sempre e
solo riferimento a persone che non le fanno mancare nulla,
così ho pensato di fare come voi, Conte… -
- Ma no, Vivy!
Road non è viziata! – mi rispose, con un lieve
accento di biasimo nel tono.
- Ah si!? Non mi
dite! – esclamai incredula, alzando le braccia, insofferente.
- A ben vedere
dovresti essere tu a farti un esame di coscienza…!
–
- Io!? Io!? Ma
starete scherzando! – commentai, sempre più
allibita e a voce decisamente più alta del necessario.
- Ma certo, Vivy!
– rise di gusto, in quella maschera di invariata e
spassionata soddisfazione – In realtà proprio tu e
Tyki siete i viziati della famiglia! –
- E
perché…? – chiesi. Avevo istintivamente
abbassato il tono per la sorpresa. Quella frase non aveva proprio senso.
Eppure, invece di
rispondere, riprese a schiacciare il tasti del pianoforte con aria
saccente. Anche quello era un gesto con il solo scopo di farmi
arrabbiare, lo sapevo. Ci stava riuscendo senza problemi e non riuscivo
ad impormi la calma.
- Lanciate la
pietra e poi, come tutti i peccatori, ritirate la mano e guardate con
noncuranza chi avete colpito agonizzare in solitudine… -
commentai.
Cercavo di
comprimere mentalmente la Paura nel suo cantuccio, mentre sembrava che
attraverso la mia pelle cadaverica e quelle cicatrici sulla fronte
volesse invadere ogni centimetro del mio essere.
Non riuscivo a
mentire a me stessa tanto da rassicurarmi con parole vuote. In
realtà sapevo per certo non solo che ciò che il
Conte aveva in mente era qualcosa che non solo avrei finito per subire,
che non avrei mai potuto anticipare, ma che soprattutto ogni volta che
mi parlava di Tyki portava avanti il suo piano nei miei confronti e
nient’altro…
- Oh,
Vivy… - sospirò per tutta risposta – Se
impegnassi più energie nel capire quello che posso e non
posso dirti, piuttosto che nel reprimere la tua natura
primitiva… -
- E che cosa non
potete dirmi…? –
- Non vuoi
lasciare che la tua vera identità… -
- No. –
lo interruppi, stringendo i denti convulsamente per lo sforzo di
piegare l’anima Noah – E adesso
spiegatemi… -
- Non capisco cosa
vuoi sapere! – sghignazzò serenamente, con gli
occhi brillanti di furberia che mi squadravano divertiti, senza
più prestare attenzione ai tasti bianchi e neri schierati
davanti a lui e che alternava a memoria quasi meglio che guardandoli.
- Cosa non
capite!? – scattai, tremando di rabbia e dal timore di cadere
nel suo gioco psicologico – In che cosa sarei viziata!? Di
cosa parlate!? Del fatto che non mi lascio assorbire dalle vostre
parole!? Non sono una stupida! L’avete ammesso voi stesso! IO
SONO UNA VOSTRA NEMICA! –
-
Strano… Da un po’ di tempo, invece, ti trovo molto
partecipe della famiglia… - mi stuzzicò, sempre
raggiante – Altrimenti perché saresti interessata
a dare tanta corda a Road!? –
- Non è
evidente!? – sbottai, sempre più furiosa.
- No, per
nulla… - mi osservò qualche momento, solo dopo
sembrò capire e aggiunse, in una risata – AH!
Allora stai arrivando a tanto!? Ti svaluti davvero molto! –
- Solo
perché mi batto per sconfiggervi!? Sapete che non mi
farò schiacciare in nessun caso! –
- Infatti
accadrà quando meno te lo aspetti, nel silenzio e in modo
che tu te ne accorga neppure… -
- Conte!
– lo interpellai, pronta a rispondere.
Ma lui riprese: -
Tu devi capire che il tuo impegno non porterà a nulla! Non
riuscirai ad avere un vero ascendente su Road! Soprattutto se cerchi di
usarla come un oggetto! -
- Usarla!? Io non
voglio usarla! Voglio salvarla! – gridai, rabbiosa.
- Da se stessa?
– disse, quanto mai scettico e divertito – E
comunque non è vero! Tu non lo fai per lei! Ma solo
perché tu non hai fiducia in te stessa e cerchi di rimediare
alle tue mancanze usandola come un mezzo per il tuo scopo! E pensi:
“Se non darà retta a me perché sono
solo un’estranea ai suoi occhi…” -
- No, non
ditelo… Vi prego…- pronunciai in un rantolo.
Improvvisamente
l’ira si spense e la voce non riuscì
più a salirmi in gola. Non volevo sentirlo. Non volevo che
lo dicesse. La sola idea di aver pensato una cosa simile mi disgustava.
Cosa stavo diventando? Perché cedevo a
quest’utilitarismo, invece di desiderare davvero solo la
salvezza di quante anime possibile? Ecco, stavo già vendendo
la mia anima al Diavolo e senza neanche accorgermene… Un
solo piccolo desiderio riusciva a divorarmi a tal punto…?
Per un attimo il
Conte mi fissò. Probabilmente sentì la Paura
lasciare il posto all’angoscia e alla pietà e
stava cercando di capire cosa fare. Alla fine però,
accondiscese alla mia richiesta e non terminò la frase.
- Oh, Vivy! Te
l’ho detto, ti svendi e basta! -
- E questo cosa
significa…? – chiesi, fissandolo dubbiosa.
- Nulla di
particolare! – esclamò allegro – Se te
lo spiegassi andrei contro i miei interessi… E lo sai che
non sono tipo da farlo… -
Per qualche
momento fu il silenzio a dominare la stanza, poi il Conte riprese a
suonare, senza più proferire parola.
Strinsi tra le
mani lo spartito, contratta da una febbrile tentazione. Probabilmente
avrei fatto il suo gioco, ma in fondo non potevo sottrarmene.
L’impulso che provavo sembrava quasi bruciarmi in gola.
Così, presi fiato e dissi semplicemente:
- E
perché avete detto che Tyki sarebbe viziato? -
Il pianista si
fermò di nuovo e si voltò. Fui stupita nel vedere
i suoi occhietti stringersi, anche se solo per un istante, in una
smorfia nervosa:
- In che senso,
Vivy? – chiese, mostrando una giovialità per la
prima volta non troppo veritiera.
Decisi quindi di
muovermi con cautela. Magari, se non avessi parlato con troppa foga e
aggressività, avrebbe risposto per davvero:
- Avete detto che
io non sto ai vostri ordini, che cerco di oppormi, e che quindi, dato
che voi mi trattate con accondiscendenza e mi lasciate fare, io devo
essere abbastanza viziata… Dal vostro punto di vista,
può essere… - cercai di mediare – Ma
per quanto riguarda Tyki? Lui, a quanto vedo fa esattamente quello che
gli dite… Sta via anche a lungo per i vostri
affari… - non potei impedirmi di abbassare lievemente la
voce – E’ esattamente come voi lo
volete… -
- E’
solo apparenza… -
Per la sorpresa
sgranai gli occhi. L’avevo sentito davvero?
- Cosa volete
dire? - tentai di chiedere, ma mi ritrovai fulminata dai suoi occhietti
malvagi e non potei che tacere. Per un attimo che apparve eterno, il
Conte misurò in maniera evidente la situazione e le parole
da usare ed infine disse, più che mai tranquillo:
- Non è
a me che devi chiedere. –
- Il diretto
interessato non credo me ne parlerebbe… - osservai subito,
in tensione.
- Ma se non sai
neanche a cosa mi riferisco! – esclamò, di nuovo
con una risata allegra – Magari se mai, e bada solo se,
riuscirai ad avere la sua fiducia proprio come la intendi tu, te ne
parlerà lui… Io non posso… Va
decisamente contro i miei interessi! -
Non sapevo cosa
pensare. Tranne che odiavo in maniera viscerale il suo modo di dire e
non dire, che mi lasciava sempre in un vicolo cieco…
Alla fine, con una
punta di rammarico nella voce, chiesi: - Quindi devo considerarlo un
argomento tabù…anche nei suoi confronti?
–
- Solo se ci tieni
a mantenere quel minimo di armonia nel vostro rapporto… Ma
questi non sono affari miei… - mi rispose, giocondo, e
aggiunse subito – Allora, cominciamo a provare!? -
La frustrazione
profonda che mi era stata causata dal comportamento del Conte in
quell’occasione, continuò a tormentarmi a lungo.
Ripensavo spesso a quei misteri a cui il capo mi aveva esclusa e mi
irritavo da morire. Tuttavia, anche nelle prove dei giorni successivi
non riuscii a smuovere il Conte sull’argomento, che anzi
continuava fastidiosamente a liquidare il tutto con vaghi commenti
alternativamente sul mio e sul suo interesse.
Il fatto che mi
fosse proibito chiedere cosa volesse effettivamente dire che io mi
“svalutavo”, non mi infastidiva più di
un altro interrogativo senza risposta: cosa c’era di
così misterioso in Tyki?
“E’
solo apparenza…” aveva detto il Conte, quasi
contro voglia. Era difficile capirci qualcosa, anche perché
non potevo sapere se fosse stato davvero un suo sfogo o
l’ennesima manovra meschina per incastrarmi in qualche
misterioso groviglio mentale.
Cosa ci poteva
essere di apparente nel modo in cui si faceva partecipe degli affari
della famiglia? Era abbastanza attento alle buone maniere, vestiva in
modo estremamente signorile, teneva sempre le distanze definite dal
bon-ton, tranne qualche abbraccio di Road o qualche frecciata malvagia
ai gemelli… Ma più che i modi era
l’atteggiamento. Si prestava sempre a tutto, a volte con
calma, a volte con qualche sbuffo, ma sempre con subordinazione alla
causa. Si manteneva il più possibile distante da ogni cosa,
chiuso quasi in una sdegnosa indifferenza, che rompeva solo
sporadicamente, forse anche senza accorgersene. Con me, nonostante
tutte le libertà che avrebbe potuto prendersi, restava
sempre signorile, educato ed enormemente distaccato. Certo, non
c’era da escludere che non gli piacessi per nulla, che per
lui rappresentassi solo un’imposizione odiosa, che non fossi
nei suoi interessi. Già, probabilmente era proprio
così. Altrimenti come si spiegavano tutti quegli insistenti
e vuoti baciamano…?
Buffo quanto
invece io desiderassi essere abbastanza spudorata almeno per baciarlo
sulla guancia… Non era molto, Road poteva farlo
liberamente… Eppure ogni volta che mi preparavo (duramente e
faticosamente) a prendermi questa libertà, mi sembrava
improvvisamente di rivolgermi ad un lord troppo nobile che si degnava
solo per garbo di rivolgermi la parola e da cui non potevo aspettarmi
più di quanto lui stesso mi offriva… Se avevo
ragione, sarei per sempre rimasta imprigionata in un sentimento non
corrisposto…
Road si era molto
allargata, dovevo aspettarmelo. Ormai il danno era fatto, quindi non
potevo certo piangermi addosso. Per tutta la settimana si presentarono
solo per la cena, che comunque raggiungevo sempre dolorante e stremata
per lo stress mentale e fisico a cui il Conte mi sottoponeva. Mi sedevo
su quella poltrona, mangiavo in silenzio, sforzandomi di annuire alle
parole di quell’infame del mio despota, di scrutare qualche
cenno della bambina e di mantenere il contatto visivo con chi parlava.
Compreso Tyki, per quanto guardare dritto nei suoi occhi mi fosse
particolarmente difficile… Solo per colpa delle mie fisime
mentali, del resto…
- Vivy. -
La sua voce mi
scosse improvvisamente mentre cercavo di avviarmi verso la mia stanza.
Avevo una tremenda sonnolenza, che però sembrò in
parte sparire a quell’inaspettato accenno.
- Dimmi.
– gli risposi, voltandomi.
Anche lui non
scherzava in quanto a stanchezza, mi ritrovai a pensare. Avevo notato
un leggero accenno di occhiaie sotto i suoi occhi affilati, visibile
solo perché in genere del tutto assente. La schiena era un
po’ curva e il viso parecchio serioso, come sempre quando
qualcosa gli andava storto. - Non hai per caso voglia di fare un giro
questa sera? – chiese, vagamente.
- A dirti tutta la
verità… Sto morendo di sonno… -
risposi, cercando di ignorare il bruciore degli occhi stanchi che
rischiava in ogni momento di farmi chiudere le palpebre.
- Si
vede… - commentò, con un breve sorriso sulle
labbra, che non so perché mi apparvero come secche.
- Anche tu
però non mi sembri molto in forma. – gli dissi,
preoccupata.
-
Pazienza… – scrollò le spalle, cupo
– Tra un po’ starò via ancora per due
settimane… Mi rimetterò in sesto… -
A quelle parole mi
sentii in colpa, senza ragione in effetti. Doveva solo dire a Road che
non ce la faceva più. Invece continuava ad assecondarla,
sempre, come il Conte… E dire che ques’ultimo
aveva ancora il coraggio di lamentarsi, perché lo
considerava un viziato…
Mi sentii un
po’ stringere il cuore ricordando le mie stesse parole:
“E’ esattamente come volete che
sia…” Allora davvero non avevo speranze…
- Mi dispiace,
Tyki… -
- Di
cosa…? Guarda che non è colpa tua se sono
stanco… Salvo che tu stia ripensando alla tua
scelta… -
Ero troppo stanca
per la sua arguzia. Avevo troppa voglia di riposare. Se lui invece
desiderava farsi spremere come un limone da quella bambina, doveva solo
continuare così… L’unica cosa che
sentii d’istinto fu quanto quel “mi
dispiace” fosse stato fuori luogo…
- No,
niente… - tagliai corto – Scusa se non vengo con
voi questa sera, ma sono distrutta… Buonanotte
allora… -
- Sei sicura che
vada tutto bene? –
Per un attimo
pensai di essermi sognata quella domanda, ma poi vidi che continuava a
fissarmi sfacciatamente e con tutta l’aria di chi aspetta una
risposta. Allora si era davvero preoccupato per me? Ma in fondo cosa
potevo dirgli, cosa potevo chiedergli…? Era già
difficile così andare d’accordo, in quel mondo
così strano e oscuro… E se il Conte avesse avuto
ragione e rischiassi di tirare in ballo qualche argomento
tabù...? Come sarebbe finita allora?
- Si…
Ti dico, sono solo stanchissima… - e tentai di sorridere,
anche se notai distintamente i suoi occhi chiudersi in fessure
sospettose. Non ci stava cascando.
- Allora buona
serata... E vedi di riguardarti un po’, Tyki. A
domani…sera… - mi corressi, prima di chiudermi in
stanza, senza aspettare la sua risposta.
Per tutto il resto
della settimana quasi non ci rivolgemmo la parola, salvo qualche vago
accenno a cena o i saluti di rito la mattina e prima di andare a
dormire.
Non mi sembrava
logico preoccuparmi, però. Per una volta che ero io a
chiudermi un po’, a non voler rivelare qualche mio pensiero,
non pensavo davvero che ciò potesse essere un vero problema.
Per tutte le cose che lui mi teneva sempre nascoste! E a questo
pensiero finivo per ritornare con la mente a tutti i misteri che il
Conte mi aveva segnalato e mi arrabbiavo moltissimo, ma con
l’impotenza di chi non può cambiare le cose.
Non avevamo
litigato, non avevamo toccato argomenti pericolosi, non avevamo neanche
davvero parlato. Non era cambiato nulla. Eravamo solo enormemente
stanchi tutti e due, mi convinsi infine.
Pochi giorni dopo
lasciò di nuovo la casa, diretto chissà dove.
Ancora qualche
giorno di sofferenti prove con il mio maestro privato e poi altri tre a
teatro. Arrivai a sabato sana e salva solo grazie ad una innata buona
volontà e all’agitazione che precede ogni prima.
Il teatro era
ancora una volta pienissimo. Dallas, galvanizzato al massimo, aveva
cantato da esaltato. Io ero rimasta tranquilla nel mio ruolo, senza
sforare. Un sacco di gente era venuta per lui, per il suo ritorno alle
scene, e per quanto fosse un gasato tremendo non potevo né
volevo portargli via i suoi momenti di gloria… Tuttavia,
alla fine della rappresentazione, fui costretta anch’io ad
uscire per incontrare gli ammiratori. Una situazione decisamente
imbarazzante, anche perché, certo ero la protagonista, ma
una soprano di poco conto rispetto al famoso Dallas Johnson. Per
qualche momento pensai che si sarebbe offeso dell’attenzione
che gli stavo rubando… Poi notai il suo civettare fastidioso
e noncurante con le signorine che lo circondavano e soprattutto qualche
occhiatina languida verso di me e capii che era più che
felice della mia presenza…
- Dallas!
Smettila! – bisbigliai nella sua direzione, quando
l’ultima delle sue ammiratrici si era allontanata.
- Di fare cosa,
Victoire!? – mi chiese, con la sua solita faccia da schiaffi.
- Di sbirciarmi
così sfacciatamente il decolté, insomma! Che
gesto volgare! – commentai, tenendo comunque la voce bassa,
per l’imbarazzo, che tra l’altro mi aveva
sicuramente colorito le gote.
- Chi in questo
teatro non vorrebbe!? E chi non ha tentato di farlo!? –
esordì, con enfasi.
- Ma…
Che dici!? – chiesi, arrabbiata.
- Insomma! Non hai
detto niente a quei vecchiacci che allungavano l’occhio e fai
tutte queste scene a me! – esclamò, offeso.
- Signor Dallas
Johnson… -
La voce di Retino
lo mise praticamente sull’attenti: - Emh… Signor
impresario… -
- Mi spiegate il
perché di questi commenti volgari? –
proferì, con un atteggiamento minaccioso che gli faceva
quasi tremare i baffoni bianchi.
-
Signore… Mi scuso molto, signore… -
- Ringrazio il
cielo che nessuno dei nobili signori che frequentano questo teatro
fosse presente… - osservò, guardando la hall
quasi vuota.
-
Anch’io signore… Sono molto
dispiaciuto… -
Non avevo mai
visto Dallas tanto umile in vita mia. Ogni tanto rivolgeva anche
qualche inchino a Retino, quasi per rendere ancora più
evidente il pentimento.
- Bene, allora vi
raccomando due cose: la prima di smettere di importunare la nostra
signorina Victoire, affascinante, certo, ma anche impegnata, e spero
abbiate abbastanza autocontrollo per farcela… -
Il tenore mi
lanciò una breve occhiata e poi con rammarico
annuì: - Assolutamente, signore… -
- Bene…
E la seconda è che non includiate anche me nei vostri
“vecchiacci”, dato che sto per fare
anch’io, molto umilmente, un dono alla nostra
soprano… - e mi porse finemente un mazzo di rose rosse.
- Vi ringrazio
moltissimo, signor Retino… - sorrisi all’anziano
signore e gli rivolsi un inchino profondo.
Mentre Dallas,
dopo aver chiesto perdono per l’ennesima volta, si
avviò per il suo camerino, Retino aggiunse: - Oh, so bene
che avete ricevuto moltissimi fiori questa sera, ma non potevo proprio
esimermi, capite? Non è un gesto originale, ma… -
- Non dovete
scusarvi. – lo rassicurai, scuotendo la testa –
L’importante è sempre il pensiero. E non lo dico
per formalità, credetemi. -
- No, certo. IO lo
so. – commentò, con una nota di sarcasmo che non
capii.
Mi buttai di sasso
sul letto posto nel mio camerino, come se fosse la mia sola salvezza.
Per qualche momento assaporai anche l’idea allettante di
addormentarmi serenamente lì, così, vestita, con
le luci accese. Dovetti però ammettere che ciò
non sarebbe stato gradito dal custode… Allora mi feci forza
e mi imposi di alzarmi e tornare a casa. Ma…
Solo allora vidi
quella macchia bianca in quell’enorme insieme rosso
brillante. Anche se la mia mente era del tutto insensibile per la
stanchezza, quella bizzarra novità attirò la mia
attenzione.
Sollevai incerta
quel mazzo di fiori.
Ormai da parecchio
tempo ricevevo rose rosse dopo ogni rappresentazione. Mi ci ero
abituata, anche se da piccola quei fiori nobili riempivano solo i miei
sogni, mentre li fissavo attraverso le vetrine dei fiorai. Mi piacevano
abbastanza. Non tanto per il colore, che anzi mi richiamava
immediatamente alla mente il sangue, ma per la deliziosa morbidezza al
tatto.
Ripresami dallo
stupore andai allora ad accarezzare qualche petalo e percepii la stessa
splendida sensazione. Ma nel frattempo non potevo che chiedermi chi
potesse avermeli mandati…
Non avevo proprio
nessun tipo di conoscenza del significato dei fiori, quindi non sapevo
davvero cosa pensare. Solo che percepii qualcosa… Un vago
pensiero, un’immagine, una semplice idea…
Un gesto
particolare, anonimo ma abbastanza assurdo da restare nella memoria, un
dono che, ne ero certa, aveva molto più significato di ogni
altra cosa… Era la sua firma, pensai. In fondo senza una
vera ragione: poteva essere stato chiunque altro... Solo il bianco era
come inequivocabile. Bianco su rosso. Candore su Tosca, rosa dalla
passione e dall’omicidio. Era un gesto contorto che poteva
compiere solo una persona che conoscesse il mio passato e il mio
presente almeno quanto la cantante che ero diventata…
Ecco
perché non potei esimermi dal fantasticare che fosse stato
davvero Tyki a mandarmele… E mi ritrovai inconsciamente a
stringerle al petto, come la cosa più dolce e speciale che
avessi ricevuto.
Ciò di
cui mi rammaricai molto fu che già il giorno successivo,
nonostante tutte le mie cure, sembravano sul punto di appassire. Era
strano soprattutto, perché tutti i fiori, tra alti e bassi,
reggevano almeno qualche giorno. Le rose rosse restarono addirittura in
buona parte intatte per le due settimane di messinscena.
Tutta la serie di
rappresentazioni andò più che bene. Retino era
entusiasta come mai in vita sua e io con lui: niente sembrava rendermi
soddisfatta di me stessa più che vedere
quell’anziano così felice. Dal canto suo, invece,
Dallas aveva ricominciato piuttosto presto a disturbarmi, anche se con
molta meno frequenza del solito, per mia fortuna. In fondo sapevo che
era un bravo ragazzo e che quindi di certo non aveva cattive
intenzioni. Il fatto era solo che mi dava fastidio proprio essere al
centro di quelle sue attenzioni del tutto fuori luogo.
Non so come feci a
perdere così tanto la nozione del tempo, ma
un’altra settimana passò senza che neanche me ne
accorgessi. L’esaltazione per quella grande partecipazione ai
nostri spettacoli aveva spinto l’impresario a mettere mano il
prima possibile alla rappresentazione della
“Carmen” che avevamo sospeso a causa di quel
problema degli abiti giunti da Mosca. Questa volta sperava che non ci
sarebbero stati intoppi ed eravamo quindi tornati quasi subito al
lavoro, anche se con ritmi abbastanza rilassati.
Nella mia mente
quel giorno della prima sembrava essere talmente vicino da percepire
ancora ogni singola emozione. Forse per questo la delusione fu ancora
più dolorosa.
Mi ero svegliata
da poco e dopo essermi cambiata mi stavo ancora spazzolando i capelli
quando sentii bussare alla porta della mia camera.
- Avanti!
– risposi, senza far minimamente attenzione. Il Conte aveva
il vizio di venire a controllare che mi alzassi presto, quindi spesso
arrivava anche a bussare alla mia stanza.
Udii la porta
aprirsi, ma nessun altro rumore o parola.
- Conte, dato che
avete bussato, fate che entrare. – osservai, un po’
acida.
- Ma davvero
rispondi così al nostro Conte…? – rise
una calda voce dall’ingresso.
- Tyki!? Ma sei
già tornato!? – esclamai, stupita, girandomi
prontamente verso la porta, che ora lui stava chiudendo tranquillamente
alle sue spalle.
- Era
ora… Sono passate due settimane… - sorrise nel
suo solito modo un po’ ironico.
- Ah
si…? –
- Già.
–
Era ancora in
tutto lo splendore del suo completo nero. La giacca nera era
sbottonata, lasciando scoperti il gilè perfettamente in
tinta, la camicia fina e preziosa, oltre che la cura del nodo della
cravatta intorno al collo. Il suo viso era davvero tornato
perfettamente intatto e riposato, come gli occhi affilati impregnati
ancora dal giallo dei Noah. Le sue labbra, increspate in quel sorriso
ammiccante quanto infingardo, non potevano essere più
fresche e, mi ritrovai a pensare, invitanti. Almeno quanto quei capelli
scuri, pettinati all’indietro con una grazia quasi
innaturale, si dimostravano morbidi alla semplice vista.
Fece qualche passo
nella mia direzione e allungò una mano guantata verso di me.
Lo guardai un po’ stranita prima di capire cosa voleva fare,
allora posai la spazzola per porgergli la mano. Le sue labbra ne
toccarono il dorso solo per un secondo, ma abbastanza perché
provassi il desiderio di sentirle ancora posarsi sulla mia
pelle…
- Come mai sei
passato così presto qui da me? – chiesi
candidamente.
- In che senso?
– aggrottò le sopraciglia.
- Be’,
sei ancora vestito elegante… - gli sorrisi, con un
po’ di furberia.
- Il Conte mi ha
fermato prima che potessi andarmi a cambiare. Ha detto di avere una
breve commissione da mandarmi a fare e quindi mi ha chiesto di farti
alzare per venire a colazione, per poi far che andare un
attimo… - rispose, alzando gli occhi al cielo, dimostrando
chiaramente la sua insofferenza.
- Ancora!? Ma,
scusa, non sei appena tornato…? – esclamai.
Era stato uno
sfogo improvviso che potevo evitarmi. Avevo appena toccato uno di
quegli argomenti chiusi nel segreto: quali erano le misteriose mansioni
di Tyki fuori dalla casa.
Tuttavia lui non
raccolse minimamente l’idea di raccontarmi qualcosa.
Alzò le spalle: - Cosa vuoi che ti dica? A volte gli vengono
queste idee improvvise… -
Stavo per cercare
qualcosa da dire, qualcosa di un minimo sensato e privo di conseguenze,
quando di punto in bianco starnutì.
- Oh! Salute!
–
-
…Grazie… - rispose, tirando fuori un fazzoletto
ancora stirato dalla tasca.
- Sei
raffreddato…? –
Scosse la testa: -
Deve essere un’intolleranza al polline a scoppio
ritardato… - sbuffò, trattenendo a fatica un
altro starnuto.
Quella frase mi
fece ricordare quel mazzo di rose bianche. O meglio mi fece ricordare
un’altra cosa che avrei dovuto dimenticare…
Cercai di prendere
il discorso da lontano: - Al polline? – domandai, guardandolo
nel modo più innocente che potevo.
Alzò
gli occhi gialli e acuti nella mia direzione –
Perché sarebbe così strano? –
- Non è
strano… Solo che sei tu che hai fatto
un’osservazione particolare… -
Riusciva sempre a
confondermi le idee. Ora ciò che dicevo appariva privo di
senso…
Aggrottò
le sopraciglia: - Sei tu quella che è rimasta per giorni
circondata di fiori, a teatro. Magari ti era rimasto del polline sulle
mani. Io ne ho molto poco a che fare. –
Ecco, se
continuavo a girare intorno al fatto non sarei mai riuscita a condurlo
dove volevo…
Sospirai: - Ma
davvero non voi chiedermi qualcosa…? –
Per un attimo mi
guardò, come se fosse in grado di leggermi in faccia quello
che pensavo.
- Ah
si… - disse infine, appoggiandosi sbadatamente una mano
sulla fronte – E’ andata bene la prima, Vivy?
Scusa, se non te l’ho chiesto prima… -
Si sforzava tanto
per apparire del tutto ingenuo che si faceva fatica a dubitarne, se non
lo si conosceva abbastanza. E comunque io non potevo ammettere di
essermi sbagliata tanto… Chi altri poteva avermi lasciato
quelle rose? Perché lui avrebbe dovuto negarlo?
- E’
andato tutto bene. Ma questo dovresti averlo visto da solo…
- commentai, amareggiata.
Non disse niente,
ma vidi un cambiamento netto nella sua espressione. Il suo sguardo era
diventato di ghiaccio, insondabile e quasi acuminato. Era come se, non
solo avesse capito benissimo a cosa mi riferivo, ma lo considerasse
anche… orribile e sbagliato…
- Non
c’eri, Tyki? Davvero non eri a teatro quel giorno?
– ripresi, sentendo già il peso di quegli occhi
che mi squadravano dall’alto.
- No. –
Pronunciò
questa sillaba con una calma tanto sovrannaturale da sembrare
aggressiva, come un contrattacco studiato e intransigente. Come per
coprire una verità scomoda. Quale?
- Non capisco. Non
è vero. Io lo so. Per favore, non mentirmi. – lo
supplicai, stringendo i braccioli della sedia, tesissima.
-
Perché dovrei? –
Il suo viso, calmo
e serissimo, del tutto vuoto di ogni espressione mi sconvolse, quasi
quanto quella risposta, piatta ma forte di una crudeltà di
fondo.
- Non sei stata tu
a chiedermelo? A pregarmi disperatamente di mentire, piuttosto che dire
cose che potrebbero non piacerti? –
Ricordai
improvvisamente a cosa si riferiva. Quando avevamo parlato di Road,
delle mie prove e soprattutto di quanto volevo credere che lui volesse
davvero aiutarmi. Avevo detto che non avrebbe dovuto contraddirmi, che
io volevo continuare ad avere questa certezza e che avrei preferito non
mi dicesse mai il contrario. Si, anche quello in fondo era
mentire…
- Cosa vuoi
esattamente da me, Vivy? Non puoi cambiare idea ogni singola
volta… - insistette lui, fissandomi ostinatamente.
- Io voglio solo
la tua sincerità, Tyki. – risposi infine,
scuotendo la testa, amaramente.
Era ingiusto che
fosse così spietato nei miei confronti, ma potevo negare di
aver sbagliato? Volevo la verità, ma non solo una parte.
Sapevo che in ogni caso mi avrebbe dimostrato sempre e solo
ciò che avrebbe voluto, proprio come il Conte. Per questo
avevo tentato di riservarmi solo il frammento migliore di quella
realtà che cercavo, eliminando tutto ciò che mi
faceva male…
- Ah
si…? – per un momento i suoi occhi si strinsero,
crudeli - Per ora non mi è sembrato questo il tuo desiderio.
– poi infierì, più a bassa voce, con
qualcosa di violento che traspirava da quelle parole –
Perché se credi che io sia solo quello che tu vuoi vedere,
quello che tu vuoi che mostri, quello che tu pensi, allora non hai
ancora ben chiaro il concetto di
“sincerità”… -
- Smettila. Ho
sbagliato, lo ammetto. Ho parlato a sproposito. -
Cercavo di
mostrarmi pacata, anche se improvvisamente una certa rabbia si stava
diffondendo in me. Mi disgustava quel desiderio di comode
falsità che avevo provato e certo non potevo che sentirmi
provata e angosciata da quella sua reazione tanto venata di
malignità, ma ora ero stanca. Mi aveva mortificata
abbastanza mostrandomi quel suo lato oscuro e trattandomi da persona
incoerente… Ora era lui a dover smettere di mentire.
- Non dovevo dirti
una cosa simile. Ma ora non mi parlare più questo modo. Lo
sai che non me lo merito. – dissi, cercando di frenare, come
sempre, il nervoso. Non potevo lasciarmene trascinare perché
era l’emozione che accompagnava immancabilmente la
Paura…
- Non lo so se non
te lo meriti… Smettila di trattarmi come un giocattolo da
usare come meglio desideri, Vivy… Altrimenti potrei decidere
di fare lo stesso con te… -
La minaccia mi
fece quasi dubitare di chi avevo davanti. Eppure… Era solo
dolore spirituale. Era solo sofferenza nel notare quanto ci teneva ad
arginare la sua umanità. Perché era inutile, mi
faceva paura, ma continuavo ad avere una pregnante fiducia in
lui…
- E con
questo…? Ma se non riesci neanche a… -
“baciarmi…”, ma mi morsi un labbro prima
di terminare una frase che avrebbe mostrato una mia debolezza - Tu non
saresti mai in grado di farmi del male… -
- Ne sei sicura?
Hai la tendenza a dimenticarti chi siamo, dove siamo, ma anche che cosa
siamo. Non sai quello che dici. Non sai quanta oscurità
alberga nell’animo di un Noah? –
- Basta, non
voglio sentire altro! Mi tratti da stupida, mi critichi, mi minacci e,
soprattutto, menti! Menti spudoratamente sperando di ingannarmi! Esci
da qui, Tyki! -
L’ira mi
aveva invasa senza che me ne accorgessi.
Lui mi
guardò per qualche momento, impassibile, poi semplicemente
aprì la porta e se ne andò.
Era nel suo stile
andarsene senza più prestarsi a controbattere. Era il suo
classico modo impassibile di mostrarsi. Eppure ero certissima di averlo
fatto arrabbiare almeno quanto mi ero infuriata io. Anche simulare
l’indifferenza più totale era un po’
mentire, se proprio si voleva essere sofisticati. Ma non era quello ad
irritarmi del suo comportamento…
Comunque, dopo
poco, quell’emozione sparì per lasciare il posto
solo ad una profonda amarezza. Avevo litigato con lui solo
perché non aveva ammesso di avermi portato un innocuo mazzo
di rose. Era talmente stupido che quasi non riuscivo a capacitarmene.
Cosa ci poteva essere di male? E a quella domanda centrata mi risposi
subito, istintivamente, perché in parte l’avevo
capito già da sola quel giorno in camerino: era il simbolo
del passato, di quella parte della mia esistenza che voleva
cancellare… Questo mi rese ancora più indigesto
il tutto… Aveva fatto qualcosa di così
disinteressato e apprezzabile e poi mi aveva aggredita in quel modo nel
negare la sua azione. Era contorto, come sempre se non di
più…
Per
l’intera giornata rimuginai su tutto quello che ci eravamo
detti, fra una colazione e un pranzo tranquillo a causa della sua
assenza e una cena agitata ma estremamente silenziosa al suo fianco.
Rientrai nella mia camera per avere ancora un po’ di tempo
per riflettere.
Se questa semplice
discussione, invece, avesse avuto la forza di distruggere quel nostro
equilibrio?
Smise subito di
importarmi qualunque altra cosa, dalle questioni di principio, al
bisogno di scoprire la verità. Prima o poi avrei avuto
ancora a che fare con quegli interrogativi, ma per ora desideravo solo
che tutto tornasse almeno com’era prima.
Quando udii
bussare alla porta, andai semplicemente ad aprire e per la seconda
volta in una giornata mi ritrovai di fronte lui, in mano il soprabito e
il cappello.
- Vivy, noi stiamo
andando a fare un giro… Vuoi venire con noi…? -
Era stranamente
sereno e tranquillo. Non mi importava se non fosse del tutto logico. Se
andava bene così, era semplicemente perfetto.
- Si,
d’accordo! – gli sorrisi, spontanea –
Prendo la giacca. -
Lasciai aperta la
porta e andai solo a prendere l’indumento appeso ad un
attaccapanni.
- Vivy…
-
Lo guardai,
incerta.
- Questa mattina
non è successo nulla di importante, giusto? -
Non capii fino a
che punto mi chiedesse conferma della sua intenzione di chiudere
così la questione o mi volesse obbligare a fare come lui e
dimenticare quelle parole.
- No. Nulla
davvero, Tyki. -
Mi rivolse un
mezzo sorriso e si scostò per lasciarmi uscire dalla camera.
Infine, mi porse il braccio e io vi appesi il mio, stranamente felice
di quel semplice gesto.
Era un altro dei
tanti argomenti tabù che avremmo finito per collezionare. Lo
sapevo, ma decisi che forse era meglio, finché potevo,
accontentarmi di una gioia passeggera e lasciar perdere tutto il
resto…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Hello!!!
Mi prostro ai piedi di chiunque aspettasse l'aggiornarmento per tempo,
quindi almeno un mese fa (se c'è davvero qualcuno che lo
aspettava)...
Mi dispiace, ma la scuola ha dominato con violenza sulla mia vita per
tutto marzo... Mi stupisco di essere sopravvissuta...
Come sempre chiedo scusa per tutte le cose che non c'entravano niente
che sono fluite in questo capitolo...
Il fatto fondamentale era chiaramente questo "litigio" tra Tyki e Vivy,
il resto, a parte il dialogo con il Conte (che deve spiegare
l'atteggiamento rammaricato che era stato rilevato nella ragazza il
capitolo precedente), sono chiaramente elementi accessori, che
allungano inutilmente e non servono molto...
Mi dispiace soprattutto
perchè temo che molti vedendo la lunghezza di questi
capitoli si facciano passare la voglia di leggere...
Non so davvero che fare, però,
perchè queste ispirazioni improvvise mi prendono mentre
scrivo e alla fine non reisco a sottrarmici...
Spero che questo capitolo, nonostante questo, vi sia piaciuto!!!! Se
avete tempo e vi viene in mente qualcosa da scrivere, QUALUNQUE cosa,
please, lasciate un commentino!!!! ^_^ In ogni caso, grazie infinite a
chiunque leggerà!!!!
A presto (spero davvero)! XDDDD
kuro = Grazie infinite!!! Allora
l'idea delle rose non era così balorda, anche se alla fine
mi ha dato un po' di problemi per far quadrare la storia!!! Spero che
anche questo capitolo (lo ammetto, un po' cupo e ben poco romanticoso)
ti sia piaciuto!!! ^_^
P.S. Ho tolto la frase nel sottotitolo della fanfiction
perchè...emhh... perchè si!!! XDDDD Mi sono resa
conto che era una frase troppo azzardata rispetto al contenuto della
vicenda... Suonava come introduzione ad un pentimento che... be',
capirete in seguito... Da adesso in poi lascerò solo
l'estratto dal capitolo postato, se non mi verrà un'idea
migliore... ^_^
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Capitolo 14 *** XIII - Lights Of The Night ***
Capitolo
13
Lights
Of The Night
“Le
stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto: / e
tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma
c’è […]”
(D.
Campana)
Incrociò
il suo braccio con il mio tranquillamente, come se ne provasse un
enorme sollievo.
Io sicuramente ne
provavo molto. Non solo perché aveva compiuto quel gesto
senza crearmi le solite difficoltà moralistiche, ma anche
perché significava che non aveva intenzione di ricominciare
a discutere su quell’inutile questione.
Forse ero riuscito
a chiudere così tutta la vicenda. Era decisamente la cosa
migliore.
Ci avevo messo
molto poco, neanche un giorno, a capire che quel mazzo di fiori era
stata la cosa più controproducente e stupida che avessi mai
fatto.
Tutto quello che
era capitato era riuscito a far sorgere qualcosa di simile alla
tenerezza nel mio animo. Un errore gravissimo su tutti i fronti. Potevo
provare qualcosa di simile per Iizu, quando avevo sembianze del tutto
umane. Era qualcosa che riservavo a lui, mentre in generale qualunque
altro bambino, anche più sfortunato, mi era abbastanza
indifferente. Una forma di emozione comunque scorretta e inadeguata
agli occhi del Conte. Ormai lo era anche ai miei. Il mio amico era
l’unica eccezione che era giusto concedermi. Non potevo
comprendere anche lei.
Era uno sbaglio
enorme. Quel gesto irrazionale era la riprova di un attaccamento al
passato che non potevo permettermi. Visto a posteriori, tutto di
quell’accidenti di bouquet era terribilmente simbolico.
Quante dannate volte avevo detto che quello che c’era stato
tra noi prima della famiglia non mi importava? Eppure ci ero ricascato,
come un idiota.
Dovevo negare ad
ogni costo qualunque coinvolgimento. Se la mia coscienza aveva dei
problemi e dei contrasti interni, era un problema che avrei sbrigato da
solo. Non potevo permettere che le sue speranze e le sue reminescenze
mi creassero ulteriori difficoltà. Non sapevo come avesse
potuto intuire il mio coinvolgimento con quei fiori, ma ora questo mi
importava molto meno che mettere una pietra sopra tutta alla faccenda,
prima di perdere ancora il controllo della situazione.
Stava andando
tutto bene, poi ci fu quel maledetto starnuto. Forse era stato davvero
del polline rimasto sulla sua mano. Perché ero
così sincero quando non serviva a niente? Una scusa valida
quando serviva…? Non ci voleva davvero nulla per portare la
discussione da lì ai fiori. Fregato.
Dovevo
semplicemente dire di non essere mai stato a teatro e così
escludere qualunque coinvolgimento. Io non avevo detto né
fatto intuire che ci sarei stato. Aveva una bella fantasia per
immaginarmi là. Per vedere lei. Perché mai avrei
dovuto?
Solo che non le
era sufficiente. Non ci credeva.
Cominciai in quel
momento ad odiare la parola “verità”.
Era stata lei a
dire che c’erano determinate cose che voleva sapere ed altre
no, vere o false che fossero. Ma dovevo per forza stare dietro ai suoi
parametri? Per nulla. In realtà ero solo io a sapere cosa
dovesse o meno conoscere. Il suo parere aveva poca importanza. Le sue
ricordanze erano ciò che dovevo evitare. Che invece le
piacessero era incidentale. Ne avrebbe fatto a meno.
Non ero arrabbiato
davvero, ma neanche molto in me. Il punto era solo che a volte avevo
l’impressione che cercasse di plasmarmi a suo piacimento. O
anche di sfruttarmi, per certi versi, come aveva fatto nel momento in
cui mi aveva offerto a Road per quella settimana infernale. Era chiaro
che non lo facesse apposta e aveva ragione, le mie parole crudeli erano
immeritate. Eppure arrivai alle minacce, per la prima volta in vita
mia. Le dissi che avrei anche potuto farle del male, ancora una volta
senza sapere se avrei realmente avuto la capacità di andare
fino in fondo. No, probabilmente no.
Ma il Noah
l’avrebbe fatto, era lampante… In alcuni momenti
sembrava chiedermi un Piacere che solo il…possesso di lei
poteva darmi… Con o senza il suo permesso…
Dannazione…
A volte la mia
parte bianca era davvero la salvezza per non diventare un
animale…
Chissà
quanto sarebbe durata questa quiete. Chissà per quanto avrei
potuto mantenere la mia prospettiva umana. Chissà per quanto
il Noah sarebbe rimasto in equilibrio con il resto di me.
Chissà…
Bizzarro come la
cosa mi toccasse solo lievemente. Quando sarebbe dovuto succedere,
sarebbe successo. Magari nel frattempo anche lei sarebbe cambiata,
chissà, magari sarebbe anche lei diventata una vera Noah,
pronta a dedicarsi alle pulsioni più nascoste…
Basta suorina,
basta purezza ad ogni costo, basta passato… Prima o poi
sarebbe successo, per forza…
- Dove usciamo,
Road? – chiese Vivy, con voce cristallina, scuotendomi da
questi pensieri.
La bimba
trotterellava allegra vicino ad una grande porta smaltata di nero, una
delle creazioni del suo potere. Si era stirata i capelli scuri e aveva
indossato un abito elegante azzurrino pieno di pizzi e merletti, tipico
di quando usciva pubblicamente. Si fermò per venirci
incontro, i grandi occhi gialli ancora brillanti sulla carnagione
cinerea del viso, solo le cicatrici nascoste dalla frangia lisciata
sulla fronte.
- Non ho ancora
deciso… – rispose lei, con un sorriso un
po’ enigmatico.
- Ma noi si!
– sbraitarono all’unisono due voci dal fondo del
corridoio.
Mi voltai subito
per gustarmi lo spettacolo.
I gemelli erano
finiti tra le grinfie di Lulubell, che aveva ricevuto dal Conte la
richiesta di renderli quanto più possibile delle persone
normali. Quando si trattava di tirare a lucido gli altri, la gatta
mostrava un buon gusto incredibile. Il problema, però, non
era la scelta del vestiario, ma il modo in cui veniva indossato. E
addosso a loro due era sempre terribilmente comico…
Jusdero si stava
ancora passando il fondotinta del Conte per coprire i segni del
piercing che si era dovuto togliere. Passando davanti ad uno specchio,
fece una smorfia di fronte al suo volto versione acqua e sapone,
già privo dei colori dei Noah e ricoperto con un leggero
strato di “pittura”. Scosse la testa, facendo
ondeggiare la coda alta che Lulubell aveva dovuto fargli per nascondere
un po’ l’eccessiva lunghezza dei capelli biondi, e
infine fissò inorridito il completo nero che aveva dovuto
indossare e in particolare lo strettissimo farfallino. Nel ficcare un
dito tra il laccio e il collo per allargarlo, rischiò di
soffocare…
Debit non era da
meno. Continuava ostinatamente a passarsi le mani tra i capelli
pettinati e leggermente laccati, come se sperasse di scompigliarli il
prima possibile. In alternativa, si sistemava i pantaloni scuri con la
riga, tentando per dispetto di lisciare la stiratura passandosi le mani
sulle gambe. Dato che non sopportava per nulla i pantaloni a vita alta,
cercava di smollare la cintura per abbassarli quanto poteva, senza
molto successo, comunque. Si era già tolto la giacca scura e
la teneva malamente in mano, con aria molto irritata.
- Sembrate quasi
normali… Per quanto possiate esserlo… -
commentai, con un sorriso maligno.
Road
cominciò a ridere fortissimo, ma poi si lanciò
verso di loro e il afferrò entrambi per le braccia,
affettuosa: - Siete davvero strani, ma carini! Farete un figurone!
–
Per un attimo
sembrarono lasciarsi andare all’imbarazzo, poi Debit
biascicò, acidissimo:
-
Seeee… Un figurone vestiti come
“quello”… - e mi puntò un
dito addosso, disgustato.
- Non fare tanto
il superiore. Al mondo ci si veste come me, non come voi,
ragazzini… - risposi, con una smorfia.
- Purtroppo ha
ragione lui. – annuì Road, comprensiva.
-
Però… Non vale… -
piagnucolò Jusdero.
- Non state male.
–
Mi girai alla mia
sinistra, incredulo. Era stata Vivy a parlare.
Sorrideva ai
gemelli, piegando un po’ la testa, con dolcezza. Non appena
si accorse che la stavo guardando, si voltò verso di me,
allargando ancora di più il sorriso: - Dai, Tyki, non
guardarmi così… E’ vero. –
poi tornò a rivolgersi a loro – Il vostro
vestiario di sempre vi si addice di più, ma non è
che così eleganti stiate male, per nulla. -
Quelli non
sembrarono stupiti quanto me, per quanto si fossero girati subito verso
di lei, raggianti.
- Visto!? Ve
l’ho detto! Ma come al solito credete più a lei
che a me! – esclamò Road, lievemente offesa di
fronte ai sorrisoni allegri che avevano rivolto alla loro cugina.
- Be’,
lo pensi davvero, Vivy? – chiese Debit, improvvisamente
serissimo, avvicinandosi a noi. Le prese la mano e si lanciò
in un baciamano del tutto informale, trattenendo a fatica una risata,
che invece sfociò sincera dalla bocca del gemello. Mi stava
di nuovo facendo il verso.
Stavo per
sbottare, infastidito, quando Road mi si gettò al collo,
obbligandomi a lasciare anche il braccio di Vivy.
- Tyki, almeno
tu… E’ vero che l’ho detto prima io che
stanno bene…? – chiese, tutta affettuosa.
- Si, è
vero… - risposi, con voce strozzata dalla stretta delle sue
braccia. Non era una bambina di pochi anni e nonostante tutto pesava
abbastanza, quindi dovetti prenderla in braccio prima che finisse per
spezzarmi il collo.
- Visto!? Visto!?
– esclamò, rassicurata dalla mia ammissione.
- Si! Lo sappiamo!
Lo sappiamo! – risposero entrambi – Grazie, Road!
– aggiunsero allora. Anche loro erano ormai abituati alle
scenate della nostra piccola despota.
Lei fece
un’espressione soddisfatta e si accoccolò stretta
al mio collo a guardare le scene tutti inchini e finezze che i due
riservavano a Vivy, che sembrava divertirsi tantissimo.
Più che
i balordi malvestiti, però, io osservai incuriosito
l’improvvisa allegria della mia promessa.
A differenza anche
di solo un’ora prima, a cena, ora era del tutto rilassata e
serena, tanto da lasciarsi andare a quei giochi stupidi dei cugini. Era
quasi irriconoscibile con quel sorriso aperto e felice che le faceva
brillare anche gli occhi, benché ancora gialli e rapaci. Di
nuovo mi ritrovai in uno dei miei classici errori, ma scacciai con
forza questo pensiero, memore dei miei ragionamenti di poco
prima… Cercai di concentrarmi piuttosto su
qualcos’altro. Studiai con attenzione l’abito viola
dai piccoli ricami bianchi, che si riusciva a vedere bene attraverso il
soprabito scuro ancora aperto. Era abbastanza lungo da coprire
perfettamente le gambe, ma non da toccare terra. Mentre la gonna
appariva solo lievemente gonfiata, come di moda, dal rivestimento
interno di tulle, dalla vita in su l’abito la segnava
leggermente, lasciando però intuire perfettamente che il suo
vitino sottile non era causato da alcun corpetto particolare. Lo scollo
molto decoroso non le rendeva molta giustizia, mi ritrovai a pensare,
benché non fosse poi eccessivamente formosa. Dal canto mio,
preferivo le figure proporzionate e non avrei comunque trovato
gradevole, su un corpo così fine, forme più
prepotenti. I capelli neri e lucenti erano di nuovo raccolti dal suo
becco d’oca, anche se qualche ciocca accarezzava il suo collo
lungo e sottile.
Ogni tanto
guardava verso di noi, posando gli occhi prima su di me e poi su Road,
che sembrava in quei momenti, accostarsi ancora di più a me,
maliziosamente.
Infine i gemelli,
non appena furono d’accordo, si misero in posa al suo fianco,
assumendo assurdi atteggiamenti da uomini vissuti e passando le braccia
intorno alla sua vita.
- Foto, Road!
– esclamarono, sorridendo a tutti denti. Lei si
staccò per un attimo da me, mentre continuavo a tenerla in
braccio, e fece il gesto di scattare una fotografia. Vivy
scoppiò a ridere, diffondendo un suono delizioso
all’udito e contagioso, tanto che io stesso non potei che
mettermi a ridere di riflesso.
- Quindi, dove
volete andare? – domandò Road, lasciandomi alla
fine andare e facendosi depositare a terra.
- Non volevi
decidere tu? – chiesi, stupito.
- Va
be’… - scrollò le spalle – Se
hanno delle preferenze, vediamo… -
- Budapest!
– esclamarono, annuendo, soddisfatti.
- Eh…?
Perché…? – chiese, Road, confusa.
- Feste, vita
notturna… - cominciarono ad elencare, sognanti.
-
Freddo… - osservò Road, che aveva indossato un
abitino piuttosto leggero per la stagione.
- Corte
ungherese… - sbuffai, ricordando pessimi momenti passati in
incontri ufficiali con nobili locali.
- Battelli sul
fiume, vie illuminate… - aggiunse Vivy, allegra –
Non ci sono mai stata, ma dicono che di notte sia splendida! –
- Davvero non ci
sei mai stata!? – chiesero i gemelli, stupiti,
sballonzolandole intorno.
Ricordai solo
allora che loro non sapevano davvero nulla di lei e mai avevano chiesto
qualcosa, in effetti. Era strano davvero che invece le rivolgessero
tanta attenzione…
- No…
Prima di entrare in famiglia ho sempre vissuto in Francia…
Purtroppo… - ammise, a malincuore, gli occhi tristi rivolti
a terra.
- Allora dobbiamo
andarci! Dai, Road! – esclamarono.
Ma la bambina non
aveva nessuna voglia, quindi iniziarono subito a discutere. Sbuffai,
svogliato all’idea di doverli sentire litigare, soprattutto
per una questione così insensata. Un posto valeva
l’altro, alla fine. Tanto dovevamo solo fare un giretto, non
molto altro.
A quel punto,
notai però che Vivy aveva alzato lo sguardo e mi stava
guardando fisso. Solo che appena notò che mi ero girato,
distolse prontamente l’attenzione per fingere di essere
ancora interessata al pavimento scuro.
- Cosa
c’è? – chiesi, vagamente di fronte a
quel gesto.
- Io…?
– chiese, fingendo vaga indifferenza. Per niente credibile.
- Si. –
insistetti, scrutandola, per nulla persuaso.
- No,
niente… - rispose, dispiaciuta, poi, a fatica, ammise
– Poco fa… Non avrei dovuto accennare al
passato… Giusto…? Scusami… -
Poi si morse il
labbro e tacque, come se fosse intimorita da quello che avrei potuto
dirle o da come mi sarei comportato.
Quella conclusione
mi lasciò per un momento spiazzato. Improvvisamente aveva
paura di me.
Be’,
sarebbe più corretto dire che temeva le mie reazioni, ma in
fondo non era la stessa cosa? Ne provai una delusione e
un’amarezza improvvisa e odiosa che mi fecero stringere i
denti dal nervoso. Tuttavia potevo accusarla di qualcosa? Ero stato io
a spezzare l’equilibrio. Chi si era comportato con sdegno e
rabbia? Chi aveva cominciato ad usarle minacce? Era la reazione
più logica da parte sua. Eppure mi dava parecchio fastidio.
- Va bene, allora!
– sbuffò Road, ricomparendo per il corridoio con
un vestitino più pesante che si era appena andata a cambiare
– Andiamo… -
Era da molto che
non finivamo a fare un giro in Ungheria. Più o meno da
quando Lulubell aveva rifiutato bruscamente la proposta di un giovane
conte. O forse da quando il Conte aveva dovuto reclinare
l’invito a cena dell’Imperatore e quello si era
leggermente offeso. Poco importava, comunque. Anche se non ero rimasto
personalmente coinvolto in nessuna particolare vicissitudine, non
conservavo un buon ricordo della nobiltà ungherese. Troppo
pieni di loro e gonfi d’orgoglio, tanto da non capire davvero
la condizione di sudditanza a cui si erano ridotti. Queste
però non erano parole mie. Era mio fratello che si occupava
delle questioni politiche. A me non importa un bel niente. Certo
è che infastidiva anche il sottoscritto discutere con
persone che a seconda di come tirava il tempo esaltavano lo stretto
legame con l’Austria o tenevano le distanze da qualunque
legame o accordo, celebrando una presunta indipendenza del tutto
fasulla. Tanto più che per noi, come amava ripetere il
Conte, i Paesi erano solo entità temporanee. Tutte vanterie
inutili di fronte all’assoluta supremazia della stirpe di
Noah… Ma alla fine neanche queste sono parole
mie…
Uscimmo in una
strada laterale, poco lontano dal centro di Pest, la parte nuova della
città. Un vicoletto stretto e umido tra due casupole.
- Come mai da
questo lato del fiume? – chiesi a Road.
-
Perché è molto più discreto, piuttosto
che in una via trafficata della città vecchia. –
rispose, molto pratica, infilandosi in tasca la chiave.
- Si,
però qui non c’è mai niente…
- sbuffarono i gemelli – Andiamo dall’altra
parte… -
- Ci fosse una
carrozza… - sbuffò la bambina, battendo irritata
i tacchi a terra.
Ci eravamo diretti
verso una via illuminata, ma non c’era anima viva. Le case,
addossate le une alle altre, erano di povero laterizio e quasi tutte le
luci alle finestre erano spente. Quello era il quartiere industriale ed
economico in cui alloggiava la gente comune, che aveva ben altro per la
testa che restare sveglia a notte inoltrata, rischiando il giorno dopo
di non svegliarsi in tempo per andare a lavorare. Una triste
verità che probabilmente solo io sperimentavo e conoscevo,
rispetto ai miei viziatissimi parenti.
Solo Vivy si
guardava intorno con aria smarrita. Poi, semplicemente, prese ad
osservare, assorta e cupa, un mendicante che dormiva sdraiato a terra,
difendendosi dal freddo solo con la sua macilenta coperta di cotone.
- Quando si deve
esaltare qualcosa, la povertà e la vita umile non hanno
nessuna importanza… Invece, anche qui ci sarebbe
così tanto da fare… - sussurrò, tra
sé. Tuttavia, di nuovo, appena notò che le stavo
rivolgendo la mia attenzione, tacque, con una smorfia nervosa a
deformare la sua bocca sottile.
- Eh, va
be’… Niente carrozze! Andiamo a piedi! –
esclamarono i gemelli, alimentati da un improvviso sacro fuoco.
Road li
guardò, un’espressione incredula sul volto, poi
scrollò le spalle: - Se non c’è altra
possibilità… -
Evitai di
ricordare ai due disgraziati che per arrivare a Buda, l’area
più antica e ricca, bisognava arrivare al fiume e poi
attraversare un lunghissimo ponte sul Danubio. A me non importava
camminare, a loro non altrettanto…
- Il bel Danubio
blu… - commentai ironicamente, quando finalmente giungemmo
sulla sponda del vasto corso d’acqua. Avevamo percorso vie e
viottoli per quasi un’ora, prima di riuscire ad uscire
dall’area abitata.
- Era ora! -
rispose, irritata, Road. Non le importava tanto il fatto di camminare,
ma il tempo che ci avevamo impiegato e si lamentava ad alta voce della
mancanza di mezzi di servizio in città.
I gemelli, invece,
proprio come immaginavo, erano letteralmente distrutti. Curvi sulla
schiena, piedi che strisciavano a terra, occhi bassi e acquosi dal
nervoso, sembravano dei reduci di guerra. Erano talmente stanchi che
non osavano neanche sbraitare contrariati come al solito. Anche
perché avrebbero fatto ancora di più la figura
dei dementi, visto che l’idea della passeggiata era stata
loro.
-
C’è una panchina… Andiamo a
sederci… - osservò Vivy, guardando preoccupata il
portamento stravolto dei gemelli.
- Si… -
biascicarono quelli, prendendo la palla al balzo.
- Non
c’è fretta… Ci riposeremo una volta
arrivati al quartiere nuovo… - dissi, volutamente malevolo,
sicuro di ricevere il sostegno altrettanto crudele di Road.
- Già!
Poche storie! – esclamò, infatti, pronta.
Vivy ci
guardò, aggrottando le sopraciglia, ma non osò
parlare.
-
L’ultima parola però spetta a Vivy. Ce la fai a
camminare ancora un po’? – le chiesi.
- Si…
Io si… - rispose, renitente. Non riusciva proprio a mentire,
neanche per una “buona causa”.
- Tre a due.
Peccato, ragazzi. Dai, andiamo. – sorrisi alle loro occhiate
minacciose.
Camminava al mio
fianco senza parlare, con un passo leggero e cadenzato, il soprabito
chiuso dalle braccia strette sul petto. L’aria fresca della
notte sferzava il ponte sul quale camminavamo e ci faceva sentire un
po’ di freddo. Avrei voluto dirle di decidersi a chiudere la
giacca, ma poi pensai che era giusto facesse quello che voleva. Non ero
il tipo da preoccuparmi della salute altrui. Anche se mi chiesi
vagamente se quel comportamento fosse dovuto alla civetteria femminile:
il desiderio di mostrare al meglio l’abito viola, senza
nasconderlo del tutto sotto il soprabito. Non credevo che questo genere
di cose la interessassero. Vanterie simili sembravano troppo distanti
dal suo carattere e poi contrastavano del tutto con il resto del suo
atteggiamento.
Se fosse stata
davvero interessata a cogliere una mia reazione a proposito della sue
eleganza mi avrebbe tenuto in qualche considerazione. In
realtà i suoi occhi continuavano incessantemente a fissare,
affascinati, il profilo illuminato della città vecchia, le
luci colorate alternate sui palazzi e lungo le vie. Dal mio punto di
vista, più le guardavo, più le consideravo del
tutto ordinarie e pacchiane. Moltissime città avevano quel
tipo di panorama e non mi avevano mai fatto tanto effetto quanto ne
stavano facendo a lei. Certo, da quello che aveva detto, era la prima
volta che visitava una grande città. Tuttavia,
c’erano cose molto più importanti da considerare.
Per esempio, che era anche la prima volta che usciva con noi per una
passeggiata notturna. Capivo benissimo che non volesse prestare
attenzione a Road che trascinava i Jusdebi per la strada, impietosa e
crudele come al solito.
D’altra
parte, quell’isolamento nel quale si stava chiudendo era
quasi insopportabile. Quanto meno poteva considerare la mia di
presenza. Non mi era mai successo di passare così
inosservato. Tanto più da parte sua, che in genere sembrava
sempre notare e contare sulla mia considerazione e partecipazione.
Pensai, decisamente irritato, che non era neanche questione di
timidezza o meno, ma che normalmente le donne, per loro istinto
naturale, in una notte simile cercano voracemente un cavaliere a cui
porgere il braccio. Finivo sempre a dover fare da accompagnatore
galante per matrone lascive, ogni dannata volta che bisognava
anche solo fare due passi all’aperto. Questa volta poteva
andarmi davvero meglio, del resto anche poco prima mi si era accostata
senza difficoltà. Mentre ora, nonostante continuasse ad
avermi a fianco, si teneva ostinatamente stretta e distaccata e non
faceva un gesto, non rivolgeva un’occhiata neanche a pagarla.
Ecco, volevo
reagire, rompere questa situazione che, a me almeno, risultava
parecchio imbarazzante. Eppure come sempre non ero completamente teso
in una sola direzione. Da una parte spingeva il mio proverbiale
disinteresse, che si ostinava a voler indurre in me il solito
atteggiamento di sufficienza, e dall’altra fremeva
l’inquietante timore di avere di nuovo una reazione
sbagliata. L’ultima che avevo avuto, quel giorno, aveva dato
già parecchi frutti, del tutto sgradevoli.
Come potevano una
semplice menzogna e una frase detta senza pensare avere un simile
effetto? Alla mia domanda aveva ammesso che non fosse successo niente,
ma ora come spiegava questo atteggiamento?
E io, come potevo
giustificare l’improvviso desiderio di sentirla di nuovo
parlare, sinceramente, dolcemente, anche per dire cose assurde e
dannose alla mia condotta da Noah?
- Basta, per
favore… - chiese lamentoso Debit, quasi accasciandosi,
esausto.
Road
alzò gli occhi al cielo con uno sbuffo sonoro: - Possibile
che non riusciate neanche a sostenere una mezza passeggiata!?
–
Jusdero si
inginocchiò a terra e la guardò sofferente, gli
occhi pieni di lacrime: - Please, Roaddy… -
- Ahh…
- sospirò – Tyki, Vivy! Facciamo che andarci a
sedere… -
Io feci spallucce,
del tutto indifferente alla cosa. Vivy puntò il dito a due
metri da noi, dove era posta una panchina, poco oltre la
metà del vasto ponte.
Ci schiacciammo
per riuscire a ritagliarci un piccolo spazio sul minuscolo sedile di
pietra, che idealmente doveva ospitare al massimo tre persone comode.
Io nello specifico ero abbastanza pigiato tra Road, che si era
conquistata un vasto angolo all’estrema sinistra della panca,
e Vivy, che cercava quanto poteva di occupare meno spazio possibile.
Sul lato destro, Jusdero era seduto abbastanza composto per lasciare
almeno un angolo a Debit, che però stava girato di lato per
non cadere a terra.
- Uff…
- sospirarono i due – Finalmente… -
Road,
benché tra tutti si fosse accaparrata il maggiore spazio,
commentò, subito: - Comunque, siamo
schiacciatissimi… - al che mi lanciò uno sguardo
ben eloquente.
Naturalmente le
soluzioni per riuscire a stare un briciolo comodo erano due. O spingere
la bambina al margine massimo della panca, rischiando anche di farla
cadere (ipotesi di fronte alla quale mi ritrovai a ridere
silenziosamente come un bambino pestifero). Oppure limitare al massimo
la distanza dalla mia promessa. Opportunità molto
più interessante, in effetti. Era tra i miei diritti. Non ci
sarebbe stato nulla di strano nell’allungare semplicemente un
braccio e cingerle la schiena, accostandomi a lei quanto bastava da non
sentire più quel senso di schiacciamento, ma sensazioni
decisamente diverse…
“Più
piacevoli… Molto più
piacevoli…” concluse saggiamente Road con un
pensiero che fece passare forzatamente nella mia mente.
L’idea
mi tentava moltissimo. Era l’occasione per rompere quel
bizzarro e insensato momento di contrasto e difficoltà.
Tutte le donne si scioglievano di fronte ad un gesto simile.
“Lei
no… Sarebbe in difficoltà…”
pensai subito, scettico.
“E
allora!?” esclamò, insoddisfatta.
“Perché
ci tieni tanto…? Quando tu ti impunti così su
qualcosa c’è sempre una
ragione…”
“Perché
sei tu che ci tieni. Tu lo desideri.”
“Infatti,
proprio per questo non lo farò…”
risposi, con un pensiero fulmineo, risoluto.
Mi voltai nella
sua direzione e non mi stupii di vederla assorta
nell’osservazione, un’espressione serena e
rilassata che coinvolgeva anche i suoi occhi verdi, che brillavano alla
luce della luna.
- Vivy, cosa
guardi così intensamente? – chiesi, tranquillo,
anche se nel mio tono di voce, parecchio confidenziale e intimo,
filtrava probabilmente ciò che pulsava ancora nella mia
mente.
Udii un vago
sospiro di rimprovero alle mie spalle, ma lo ignorai.
Si girò
d’istinto verso di me, scossa dall’improvvisa
domanda, e si ritrovò a pochi centimetri dal mio viso. Per
un attimo restò bloccata dalla sorpresa, poi notai
distintamente lo sforzo che compì per voltarsi nuovamente
verso il panorama di fronte a lei, il viso rosso di imbarazzo. Mi venne
spontaneo chiedermi cosa sarebbe successo se al posto di una innocua
domanda le avessi rivolto quel gesto così evidentemente
privato. Sicuramente qualcosa di sbagliato che avrebbe peggiorato il
suo timore nei miei confronti. Forse allora era questo che desiderava
Road…
- Il
fiume… - rispose semplicemente – Guarda i riflessi
della luna sulla sua superficie… Non è
bellissimo…? – chiese, intensamente, come di
fronte ad un incredibile fenomeno.
- Nah! –
risposero i gemelli che stavano ascoltando, scuotendo la testa
– Cosa c’è di così
particolare!? E’ chiaro che la luce abbia questo effetto
sull’acqua. –
Si
voltò nella mia direzione e probabilmente vide la stessa
reazione indifferente riflessa sul mio volto.
-
Scusate… E’ solo che io… - e si fece
piccola piccola, incapace di finire la frase.
- Non ti scusare,
Vivy. – commentò Road, rivolgendomi uno sguardo
scettico - Se è proprio la prima volta che vedi una scena
simile, è normale che tu abbia una reazione così
ingenua… Noi siamo abituati, tu sei ancora così
umana… -
Lei
trasalì a quelle parole e abbassò la testa, tesa.
Era come se fosse pronta a giustificarsi, anche con foga, ma non fosse
del tutto certa di cosa dire. Ebbi anche come l’impressione
che istintivamente si fosse leggermente spostata verso Jusdero, ponendo
una timorosa distanza da me. Di nuovo. Ma ora ne ero stufo.
- Be’,
se proprio bisogna guardare qualcosa, preferisco di gran lunga il
cielo. – dissi, tanto per rompere quell’improvviso
momento di gelo. In realtà mi era capitato solo una volta di
dare un’occhiata alle stelle: una sera che Iizu non riusciva
a dormire eravamo usciti per un giro di osservazione stellare ed
eravamo tornati indietro con il collo indolenzito dal continuo guardare
in alto.
Non mi stupii,
comunque, quando mi rivolse di sfuggita uno sguardo carico di
riconoscenza. Me lo ero meritato, anche se con una stupida bugia.
- Mah, puntini
bianchi… - fu il commento piatto di Debit.
- Non sono solo
puntini bianchi… - rispose Vivy, prendendo un po’
di coraggio – Formano dei disegni e hanno una
storia… E poi lo sai, no…? Le stelle solo enormi
pianeti lontanissimi da noi… Dovrebbe bastare questo a
renderle interessanti, secondo me! –
-
Sarà… -
- Quindi sai
riconoscere le costellazioni? – chiese, con falso interesse,
la bambina – Ce ne mostri qualcuna? – e riprese a
gustare il suo dolce.
Lei si
voltò, presa di sorpresa. Fece per un attimo una strana
smorfia, come se fosse concentrata a ricordare, poi puntò un
dito poco lontano dalla brillante luna piena: - Ecco! Lì,
per esempio! –
A
quell’indicazione, Jusdero si sporse sulla panca, come per
avvicinarsi per vedere meglio: - Dove?-
- Vedi quelle tre
stelle a destra? Devi unirle a quelle due poco più in basso
e a quella a sinistra, un po’ nascosta dalla luce della luna.
Quello è “il pulcino”! –
Sgranai gli occhi.
Mai sentita una costellazione con un nome simile. Tuttavia non dissi
nulla, sapendo bene di non avere in realtà particolari
conoscenze in merito.
- Ho capito!
Hi-hi! –
Vivy sorrise
subito di riflesso e indicò un altro punto brillante: -
Adesso guarda questa. Vedi che ha altre cinque stelle
tutt’intorno? Questo è “il fiocco di
neve”! –
- Eh!? Dove
sarebbe!? – chiese Debit, rompendo infine il suo
atteggiamento svogliato, anche se con un po’ di scetticismo.
- Guarda!
– disse lei, indicandole pazientemente una seconda volta
anche a lui.
- Ah,
be’… Può darsi… -
commentò, annuendo, saccente.
Road aveva preso a
guardarla con aria strana, come se non capisse cosa stava facendo.
- Ok, allora
lì in alto, vedete la stella che brilla subito sopra al
bagliore della luna? Con le tre a destra e a sinistra forma
“il pesce”. -
-
Ah-ah… - annuirono insieme, i gemelli, rapiti.
Andò
avanti così per un po’, indicando quasi venti
costellazioni, onestamente mai sentite nominare. In poco tempo,
comunque, aveva attirato anche l’attenzione della nostra
dittatrice, che dopo qualche momento di sconvolto stupore ormai
guardava sogghignando ma con attenzione le strane spiegazioni di Vivy.
Per conto mio, ascoltavo in silenzio, gustando l’entusiasmo
con il quale si dedicava a quelle lezioni di astronomia. Solo che,
improvvisamente, mi resi conto di qualcosa che non mi tornava. Insomma,
qualche nozione minima l’avevo ricevuta, una volta, da un
capo-cava parecchio preoccupato che sbagliassi zona di lavoro nelle
sessioni notturne. Quindi, quando trovai quella serie di stelle che era
certamente la coda del “Piccolo Carro” coinvolta in
un misterioso “camaleonte”…
Scoppiai a ridere
senza neanche accorgermene.
Tutti quanti si
voltarono, stupiti.
- Vivy!
– esclamai, continuando a sghignazzare – Non vale!
Te le stai inventando! -
Per un istante
aprì solo la bocca, incerta, poi iniziò anche lei
a ridere forte.
- Temo che tu
abbia ragione...! – rispose, mentre la sua risata sincera si
propagava, con un’eco cristallina.
- Non vale!
– esclamarono in coro i gemelli, lasciandosi però
subito contagiare. Alla fine, persino Road si mise a ridere,
sinceramente, facendo ondeggiare le gambe sospese dal sedile.
Quando tutti
riuscimmo a tornare un minimo seri, Vivy disse, semplicemente: - Non
conosco le costellazioni ufficiali, ma penso che tutti, usando un
po’ di fantasia si possano creare le proprie…
Provate… -
- Lero!
– esclamò la bambina alla mia destra, unendo quasi
venti stelle per tracciare con il dito la sagoma di
quell’ombrello ciarliero.
- Cartello!
– indicò invece, Jusdero, pieno di entusiasmo.
Passammo
moltissimo tempo lì seduti a guardare il cielo, mentre i tre
ragazzini di casa si dedicavano ad immaginare i più strani
disegni comparire ad un loro comando. Vivy sorrideva delle idee
più assurde e sembrava divertirsi moltissimo. Io mi
riflettevo facilmente nell’allegria generale, senza tuttavia
riuscire del tutto ad entrarci. Ero troppo preso dai miei pensieri.
Continuavo a far
fatica ad accettare il suo portamento eccessivamente composto, quella
lieve ma quasi inevitabile distanza che poneva tra noi e le mani
appoggiate in grembo. Quegli occhi grandi mi sfioravano solo, quasi
dolorosamente, quando si voltava per prestare attenzione ai disegni
scelti dall’altra mia vicina di posto. Volevo ordinarle di
smetterla con quell’atteggiamento difficile, che mi rendeva
parecchio irritabile. Volevo che si sciogliesse un po’,
almeno abbastanza da permettermi di compiere qualche logico gesto
galante senza conseguenze. Eppure in quelle condizioni non era
possibile… L’idea giusta mi passò per
la mente improvvisamente, con in sottofondo lo scrosciare
dell’acqua ai fianchi di un veloce battello…
- E’
già ora di tornare a casa… - sbuffarono i
gemelli, alzandosi a fatica dalla panca.
- Temo di si, dato
quanto tempo ci abbiamo impiegato ad arrivare… - rispose
Road, lisciando e pulendo con le mani la gonnellina.
La mia promessa,
già in piedi da un po’, continuava ostinatamente a
fissare la città vecchia che alla fine non saremmo riusciti
a visitare.
- Ci vorresti
andare? – chiesi, immaginando chiaramente la risposta che
avrei ricevuto.
- Si…
Mi piacerebbe… - sospirò – Ma dobbiamo
tornare, giusto? – e mi voltò le spalle,
silenziosamente, per seguire gli altri.
In un impeto che
non riuscii a frenare, le afferrai il braccio. Lei sobbalzò,
spaventata, posando su di me un’occhiata tra
l’allarmato e l’interrogativo.
-
Scusa… - dissi, piano – Però non
dovresti spaventarti così… Sono o non sono il tuo
fidanzato? -
L’ultima
parola ebbe un effetto evidente su di lei che divenne in un secondo
rossa.
- Si…
E’ vero… - ammise, tenendo la testa bassa.
- Allora, - dissi,
alzando piano il suo viso con le due dita – non avere
più paura di me… -
Il contatto aveva
se possibile aumentato il rossore, eppure a questa frase il suo sguardo
incrociò il mio. Non so cosa vi avesse letto, ma le sue
labbra si incresparono in un sorriso triste, pieno di rassegnazione.
Fece per dire qualcosa, quando una ben nota voce stridula mi
riportò alla realtà.
- Dai! Venite!
E’ ora! -
- Per i bambini,
forse! – commentai con un sorrisetto beffardo – Noi
adulti credo proprio che possiamo permetterci un’eccezione.
–
Prima che Vivy
potesse dire qualcosa in merito, sussurrai: - Sempre se non hai sonno,
potremmo anche fare un giro laggiù… -
- Ma… -
cercò di mostrare dell’esitazione, ma la sua
espressione raggiante parlava di una decisione già presa.
- Insomma! Volete
farmi tornare a casa da sola di notte! Il Conte si
arrabbierà! – esclamò Road, con una
smorfia.
- Ci sono i
gemelli. – risposi, risoluto – Poi tu sai benissimo
difenderti contro degli esseri umani, se si presentasse
l’occasione. –
- Dai, Road,
lascia stare i fidanzatini! – disse Debit rivolgendoci un
ghigno malizioso.
- Tsz…
- rispose solo, lanciandomi una delle sue chiavi – Usala con
cautela dove non possano vedervi… -
- Lo so,
tranquilla… - la rassicurai, avvicinandomi a farle un
buffetto sulla guancia, cosa che gradì ancora meno della mia
decisione.
Quando si furono
avviati, porsi il braccio a Vivy. Esitò un attimo ad
accettarlo.
- Guarda che
è il minimo che possa fare per la mia promessa…
Non dovresti aver paura di me… - commentai, di nuovo,
celando meglio che potevo il risentimento.
- Non dire
così… Non è paura… -
spiegò, attaccandosi dolcemente a me –
E’ solo che… Tu non hai mai timore di dire o fare
qualcosa di cui potresti pentirti? – e nel dire questo,
alzò piano il suo tenero viso latteo verso di me.
- No, non
direi… - mentii spudoratamente.
Lei
abbassò gli occhi, ma sorrise: - Ah… Allora
sarà uno dei miei soliti problemi
“umani”… -
- Dici?
– risposi, spavaldo.
Ma sapevo che
aveva di nuovo smascherato una mia menzogna…
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Buongiorno
a tutti!!!! XDDDDDDD
Sono riemersa dalle tonnellate di libri di scuola ed eccomi finalmente
a riprendere il controllo della vicenda... Come posso, almeno, dato che
ho fatto un po' di fatica a reinserirmi in pieno nella, dopo
questi mesi di inattività... Quindi, se non troverete questo
capitolo molto all'altezza, sarà solo colpa della
maturità... Be', no... Sarà comunque colpa mia,
ma non uccidetemi... ^_^
Dunque, Budapest perchè ci sono andata in gita scolastica e
ne conservo un ottimo ricordo!!! *_* E' una città
bellissima e di notte è spettacolare!!!
Non dirò cosa mi è piaciuto in particolare della
vita notturna in quella città perchè rischierei
di rovinarvi la sorpresa per il prossimo capitolo!!! ^_^
Quindi, grazie in generale a tutti coloro che hanno letto, leggeranno o
rimandano sempre di leggere (conosco il problema) ma hanno inserito
volentieri la mia fanfiction tra le seguite o le preferite!!!
GRAZIE!!!! XDDDDD
kuro = Road e il Conte sono i
personaggi che mi vengono più malvagi... Non c'è
niente da fare... ISTINTO... XDDDDD Lo faccio apposta ad insinuare
dubbi, altrimenti ci si stuferebbe subito di leggere, credo... ^_^
Grazie ancora!!!!
Alera = Grazie mille!!!! *_* Mi fa
sempre felice trovare una persona a cui piaccia Vivy... Dato
appunto che ha il ruolo (ingrato solo perchè attira molte
inimicizie ed invidie XDDDD) di conquistare Tyki, adorato,
adoratissimo... *vagheggia sognante* Purtroppo ho potuto aggiornare
solo ora... Spero che tu continui comunque a seguire gli sviluppi!!!
Ringrazio poi ancora infinitamente kuro per il sostegno alla
mission di maturità e Clown (mi ricordo! Commentavi "Tutte
le ragioni per cui..." vero??? XDDD) per la comprensione: spero che sia
andata bene anche a te!!! Io ero il 10 e avevo un'ansia... O_O
Infine, da un capitolo
precedente:
Tyki Mikk = Grazie davvero per i
complimenti!!! Be', se continui a leggere, comunque, anche se non hai
voglia di lasciare commenti, va bene così!!! ^_^
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Capitolo 15 *** XIV - Talk To Me ***
Capitolo 14
Talk
To Me
“Il tuo dono tremendo / di parole, Signore, / sconto
assiduamente.”
(S.
Quasimodo)
Erano ormai le quattro del mattino quando mi chiusi la porta della
camera alle spalle. Solo in quel momento mi resi pienamente conto di
tutto quello che era successo quella notte e quasi mi vennero le
vertigini. Avevo finalmente capito cosa significava vivere intensamente.
Camminate, tensione, stelle, risate… E luci, acqua, vino,
colori… E parole, davvero tante, troppe…
Molte erano state veramente sbagliate, soprattutto da parte mia. Lui
sapeva come comportarsi, come gestire le proprie reazioni e il rapporto
con gli altri, anche se a volte rivelava ugualmente tentennamenti e
tormenti. Io mi lasciavo trascinare, invece, e sfoderavo una
sincerità che lo spiazzava o che metteva entrambi in
eccessivo imbarazzo. Doveva essere la mia prima uscita di famiglia ed
ero riuscita a trasformarla in uno scambio di opinioni decisamente
pungente.
Tuttavia, quando mi misi nel letto con la speranza di non essere
svegliata prima delle due del pomeriggio, pensai anche che era stata
una bella nottata. E che Tyki mi aveva quasi promesso di portarmi a
ballare… Ma non mi era chiaro se fosse stata una minaccia o
un vero invito…
…
Arrivammo in poco tempo dall’altra parte del ponte.
- Abbiamo un passo veloce… - commentai, inconsciamente.
- Non abbiamo più la zavorra… - mi rispose, con
fare indifferente.
In effetti, probabilmente non avremmo fatto tanta strada se fossimo
rimasti in cinque come poco prima. Ricordai vagamente il commento
infingardo dei gemelli e l’aria contrariata di Road. Del
resto, ero troppo presa a ragionare su quelle poche parole e gesti che
Tyki mi aveva rivolto poco prima per accorgermi davvero di
ciò che mi accadeva intorno.
La Paura era sempre stata il mio segno, inevitabilmente. Solo che se
adesso si riversava anche su di lui, su una persona che contava tanto
per me, non poteva più essere sopportata. Si, certo, prima
di uscire gli avevo garantito che per me non era successo niente quel
giorno. L’avevo detto, l’avevo assicurato, volevo
che fosse così. Eppure non era il mio atteggiamento
abituale. Era stato un argomento semplice ma che poteva essere condotto
in maniera migliore per arrivare ad una conclusione sensata. Non mi era
ancora chiaro perché fosse invece finita così,
con minacce sue e grida mie.
Per il resto, comunque, l’effetto più immediato
era che stavo cominciando a chiedermi cosa potesse farlo arrabbiare, se
non bastasse una cosa davvero stupida per scatenare una sua reazione
inconsulta. Non era successo nulla quella mattina, chiaro, ma qualcosa
si era rotto. Da solo, chiaramente, da sempre le cose si spaccavano da
sole. Ma non volevo essere polemica, né avrebbe avuto senso.
Volevo solo essere tranquilla e felice con il mio promesso sposo, che
aveva addirittura deciso di accondiscendere ad un mio desiderio senza
che gli chiedessi nulla. Come se volesse farsi perdonare
qualcosa… Ma aver imparato a riconoscere le sue bugie non
significava poter anche capire cosa gli passasse per la mente.
- Quella è la via che costeggia il fiume. – disse,
improvvisamente, indicando con un gesto finissimo della mano, una
strada piuttosto piccola, ma piena di luci – Ci sono botteghe
e negozi, frotte di gente e – sorrise, con aria astuta
– grande vita mondana. -
- Ah-ah! - esclamai, ridendo – Infondo anche tu hai
intenzione di fare vita aristocratica… -
- No, non sono come i Jusdebi. – commentò, con una
smorfia – Far sfoggio di chissà quale
nobiltà è una cosa utile più che
interessante. Mi diverte solo quando serve a qualcosa. –
- Be’, quindi… - cercai di dire, ma lui mi
interruppe.
- E poi, se fossi venuto per incontrare dei nobili signori, non credo
proprio ti avrei portata con me… -
Sincero. Fuori luogo. Guardò con la coda
dell’occhio la mia espressione, che in effetti non era delle
più lusingate.
- Perché…? Non è che per
caso… -
- … Mi vergogno di te…? –
terminò la mia frase con un sorrisetto – Figurati.
–
- E allora, cosa…? – domandai ancora, tesa.
Era chiaro che il suo intento fosse principalmente prendermi in giro.
Ma il discorso non mi piaceva per niente. Perché avrebbe
dovuto tenermi nascosta? Perché mi considerava inadeguata?
- Perché non sai quanto sia pericolosa una corte piena di
gente ricca e vanitosa. – rispose, tranquillamente, volgendo
i suoi occhi neri profondissimi verso di me.
- Quindi è come dire che ti vergogni di me... Non saprei
come comportarmi, quindi rischierei di fare qualche stupidaggine e
metterti in difficoltà… - sbuffai, un
po’ offesa.
- Guarda che io credo molto nelle tue buone maniere e nella tua
capacità di adattamento. Meno nel tuo carattere, che da
mansueto e gentile riesce a diventare aggressivo in pochi
secondi… -
- Tyki… - sbuffai, anche se non potei evitarmi di sorridere.
- Prova a negarlo… - mi sfidò, con
un’espressione maliziosa sul suo bel viso fine.
- Va bene, hai ragione... Ma ho molto autocontrollo, anche nei miei
cambiamenti di umore. – risposi, divertita.
- Il problema è l’ambiente, Vivy. –
disse, finalmente del tutto serio – Sono tutti squali, capaci
di aggredirti alle spalle con qualunque genere di maldicenza o
cattiveria. Se non hai le spalle larghe e capisci fino in fondo quanto
e come i loro commenti possano danneggiarti, al di là del
fastidio che ti possono provocare, non puoi sperare di sopravvivere. Tu
non mi sembri adatta a questo tipo di infida lotta… -
Non aveva idea di come fosse difficile per me sopportare le staffilate
del Conte e condurre la mia guerra contro la sua influenza oscura. Per
un attimo fui più felice che mai dell’assenza di
Road, che facilmente avrebbe captato questi miei pensieri. Trattenni un
sbuffo e semplicemente partii con un contrattacco istintivo,
più che ragionato:
- Davvero è solo questo…? Oppure hai delle amanti
a cui non vuoi dover presentare la tua promessa…? -
Lui sgranò gli occhi: - In che senso? –
- Chissà in quale! – esclamai, cominciando a
ridere nervosamente.
Mi stavo facendo del male da sola, ma volevo sentire cosa avrebbe
inventato.
- Guarda che alle amanti in quanto tali non importa un bel niente se si
è fidanzati, sposati o divorziati. Mal che vada partono con
qualche scenata di gelosia poi in privato. Ma lo status civile non le
ferma minimamente, sempre se non inquieta il loro amato… E
non capita quasi mai, in realtà…-
Sembrò soddisfatto quando, a queste parole, il mio viso
divenne rosso di imbarazzo. Avevo cominciato io, ma lui come al solito
mi aveva spiazzata.
- Va bene… Ho sbagliato a chiederlo…
Scusa… - biascicai, senza sapere esattamente
perché stessi anche chiedendo perdono.
- No… Era tuo diritto chiederlo. Ma non sperare che io ti
risponda sinceramente. –
Si, in effetti le sue parole non mi erano piaciute. Mi avevano
provocato un doloroso puntiglio al cuore e da quel momento, lo sapevo
per certo, la gelosia non mi avrebbe mai dato scampo. Tuttavia, mi
ritrovai a pensare ingenuamente quanto era affascinante
quell’espressione da orgoglioso seduttore che gli era
comparsa in volto. Non potevo dare torto a nessuna donna che volesse
finire tra le sue braccia almeno una volta.
Solo quando terminò questo strano battibecco giunsi a porre
la mia attenzione sulla stradina luminosa che avevamo da poco
imboccato. Le vetrate, spesso riempite di oggetti per turisti, erano
ancora illuminate nonostante l’ora tarda. I negozi di abiti e
prodotti di lusso erano per la maggior parte chiusi, ma vi erano poste
spesso piccole lampade che rendevano ugualmente giustizia alle
splendide creazioni esposte. Dai locali, sia da quelli eleganti e
signorili, sia da quelli più umili che si intravedevano
nelle viottole laterali, proveniva il rumore e le risate
dell’allegra vita notturna. Per la strada lastricata
perfettamente c’erano ormai soprattutto coppie o giovani
festaioli. Non era certo più l’orario adatto agli
sposi con figli al seguito.
Ogni tanto, quando notavo qualcosa di carino su qualche scaffale
illuminato, mi avvicinavo per guardare meglio. Nonostante sbuffasse,
notai con un certo piacere che Tyki mi seguiva senza lasciare che mi
allontanassi e tenendo sempre il mio braccio legato al suo.
- Dai, Vivy, quella è roba da turisti… -
commentò, un po’ seccato.
- Ma io sono una turista, no? –
- No, è qui che ti sbagli. – rispose, facendo un
cenno di diniego con il dito avvolto dal candido guanto – Fai
parte di una nobile famiglia che è sempre la benvenuta in
questa città. –
- Però… - sbuffai.
- Questi sono capricci “alla Road”, eh? –
esclamò, il sorrisetto crudele pronto sul suo viso.
- Ripensandoci, hai proprio ragione. Sono cose che non mi servono e
poi… torneremo spesso qui, no? Allora, lasciamo
perdere… - e cercai di allontanarmi, tirando anche lui per
il braccio.
Si mise a ridere di gusto, senza muovere un passo da dove di trovava.
- Insomma, Tyki, andiamo allora… - gli chiesi, imbarazzata.
- Sei un po’ prevedibile! – sorrise ancora, gentile
– Ma non ti preoccupare! Scherzavo! Dimmi cosa vuoi prendere!
-
- Adesso più niente… Davvero… - gli
risposi, un po’ risentita.
Sospirò: - Be’, è un peccato. A questo
punto te lo avrei comprato volentieri. – e sbirciò
la mia espressione, per controllare se ci stavo ripensando.
Ma io avevo già deciso di lasciar perdere. Pensavo che il
regalo più bello che potesse farmi fosse già
stato quella risata, un po’ dispettosa, come sempre, ma tanto
dolce alle mie orecchie. Non avevo ancora idea di quali fossero i suoi
piani…
- No, Tyki, va bene così… - e come reazione
spontanea finii per appoggiare piano la testa alla sua spalla. Mi resi
conto solo dopo che non l’avevo mai fatto e che forse non era
il caso. Lui comunque non disse nulla e, anzi, ne sembrò
vagamente sollevato.
- Meglio… Almeno non rischierò di non avere
abbastanza soldi con me… - disse, quasi tra sé,
mentre ricominciavamo a camminare per la strada.
- Perché? – chiesi, piano.
- Perché il Conte, così liberale a detta di
tutti, è in realtà un gran spilorcio! -
affermò, con una smorfia.
- No. Perché ti servono soldi. –
- Non credo di potertelo ancora dire. Lo scoprirai più
tardi. –
La viottola diventava sempre meno affollata e più cupa.
Sembrava che tutta la vita notturna si fosse spostata sul lungofiume.
Infatti, ad un certo momento della nostra passeggiata, Tyki
indicò vagamente una via laterale che imboccammo
tranquillamente, trovandoci proprio di fronte ai moli sul Danubio.
Lì tutte le luci erano ancora accese e la folla si riuniva
in capannelli lungo la passeggiata.
Notai che il mio compagno guardava vagamente una giovane coppietta che
si teneva la mano e quasi saltellava, allegra, per la strada lastricata.
- Li conosci? – chiesi, ingenuamente, notando la sua
espressione un po’ stranita.
- No… Dovrei? – chiese in risposta. Il suo tono si
era leggermente indurito.
- E’ che da come erano vestiti, sembravano nobili…
Mi chiedevo se li stessi guardando perché sai chi
sono… - risposi, con calma. Ma neanche questo commento
disinteressato servì.
I suoi occhi si ridussero a due fessure nervose: - No, non so proprio
chi siano. Comunque non ci si comporta così in pubblico. Ad
una giovane si offre sempre il braccio, non la mano quando ci si trova
in mezzo agli altri. Non importa il grado di famigliarità.
–
Sembrava che lo stesse dicendo più a sé stesso
che a me. Tuttavia, di fronte a quella reazione irritata e a mio avviso
immotivata, sollevai la testa dalla sua spalla, senza osare dire nulla.
Quando si fermò improvvisamente di fronte ad un piccolo
molo, notai finalmente che il suo volto si era di nuovo disteso.
Sospirai piano di sollievo.
Si avvicinò all’uomo seduto poco lontano
dall’approdo e chiese qualche indicazione, infine vidi che
gli offriva qualche banconota.
Incuriosita, mi avvicinai: - Cosa succede…? –
L’uomo sconosciuto mi porse un pezzo di carta su cui era
semplicemente scritto: “Una corsa”.
- Di cosa…? - chiesi, esitante.
- Sul battello, Vivy. – disse dolcemente Tyki, con
un’espressione soddisfatta.
- Su cosa…? Ma io non sono mai salita su un battello...
– aggrottai le sopraciglia, un po’ preoccupata.
- Ah! – esclamò lui, ripresosi da un istante di
stupore – Però, non ti preoccupare, non
è pericoloso. Giusto, signore? – e si rivolse
all’anziano responsabile seduto su quella sedia sgangherata,
che mi rivolse un sorriso e scosse la testa.
- Ma se per caso stessi male… -
- Be’… Non sarai mica da sola… -
commentò, con voce suadente.
- Ci mancherebbe! Se non ci fossi tu avrei una paura matta…
- esclamai, con un tono forse troppo acuto, perché lui rise,
divertito.
- Ti tocca provare, temo. - disse, mentre il grande veicolo a vapore si
avvicinava.
- Non tirarmi… - lo supplicai, mentre dirigevo con cautela i
miei passi lungo la passerella e lui mi precedeva, reggendomi il
braccio.
Il battello si era appena svuotato dei passeggeri della corsa
precedente, quando il responsabile lasciò che ci avviassimo
per salire a bordo. Eravamo tra i primi a passare, mentre gli altri,
che si erano avvicinati per prendere i biglietti solo quando avevano
visto approdare il barcone, stavano ancora pagando.
- Non ti sto tirando. – sospirò, voltandosi a
guardare l’eccessiva calma con cui mi muovevo.
- Lo so, sono un po’ ridicola, ma… - gli dissi, a
mo’ di scusa.
Tyki mi rivolse un vago sorriso di scherno: - Non dico questo, ma
vorrei che non stessi indietro… Se non ti fidi, reggiti a
me, almeno… -
Inutile dire che dovetti seguire il suo consiglio.
Quando posi i primi passi sull’imbarcazione, ne ebbi
un’impressione davvero strana. Dondolava gentilmente sotto i
miei piedi, provocandomi un leggero senso di vertigine, ma per fortuna
niente di più.
- Tutto bene? – chiese.
- Si… E’ solo… Strano… -
osservai.
- Basta non pensarci. Vieni. – e con gentilezza mi condusse
ad una scalinata che dava sulla piattaforma superiore del battello.
Piccoli tavoli erano disposti tutt’intorno sul largo
pavimento di legno, limitato da parapetti metallici di sicurezza. Un
telone bianco era stato steso al di sopra dell’ampio spazio
aperto per difendere almeno un po’ dalle possibili intemperie
o dal freddo della cattiva stagione. Su ogni tavolo era fissata una
lanterna che rischiarava una tovaglia chiara e una bottiglia di vino
posta su un apposito sostegno con due bicchieri. Poco altro si riusciva
a vedere nel buio della notte, ma del resto la vera attrazione, oltre
all’intimità, sarebbe stata il panorama.
- E’ bellissimo… - dichiarai, più che
mai sincera.
Lui mi lasciò il braccio e disse, semplicemente: - Scegli il
tavolo che preferisci. –
- Posso…? – gli chiesi, sorpresa.
- Certo. Altrimenti che utilità avrebbe avuto salire per
primi? – chiese, ironico.
- Uno vicino al parapetto, secondo me. Altrimenti non si riesce a
vedere la riva… - commentai, insicura – Tu cosa
dici? –
- Be’, allora magari quello. – e mi
indicò un tavolinetto sul fondo, un po’ isolato.
- Va bene! – esclamai e mi accaparrai subito una sedia,
mentre dietro di noi stavano cominciando a salire molti altri
passeggeri.
- Cosa fai…? – commentai, dubbiosa, quando
appoggiò i bicchieri sul tavolo e prese ad armeggiare con la
bottiglia.
- Verso da bere. – rispose, tranquillo.
- Ma io non bevo… -
- Pure!? – commentò, incredulo, ma non smise di
cercare di stappare la bottiglia.
- Scusa… Temo di essere astemia… - risposi,
scuotendo la testa.
La bottiglia produsse un rumore secco e dall’imboccatura
uscì un po’ di fumo bianco.
- Pazienza, berrò io allora. Tanto è compresa nel
prezzo. -
Nel frattempo, il battello aveva iniziato a muoversi e a fare manovra
per mettersi in linea per il percorso abituale. Alcune ragazzine
lanciarono urletti agitati, mentre i loro accompagnatori ridevano della
loro allegria. Il mio compagno di viaggio lanciò
un’occhiata di traverso a qualche passeggero, anche se il suo
fastidio era probabilmente rivolto al baccano. Comunque, dopo qualche
momento, i toni tornarono sommessi e privati.
- Mi dispiace. Devo essere una bella scocciatura con tutte queste
fisime. – me ne uscii allora, ancora preoccupata.
Devo dire che mi dispiaceva davvero di comportarmi in quel modo. Finivo
sempre per muovergli quelle lamentele per qualunque cosa mi offrisse.
Ero davvero molto petulante, me ne rendevo conto. Infondo,
però, dovevamo ancora conoscerci meglio. Forse
più avanti sarebbe stato più facile.
Tyki sollevò il calice che aveva appena riempito e prese
qualche sorso. Poi lo posò sul tavolo con delicatezza e mi
guardò fisso, appoggiando il gomito alla tavola.
Reclinò la testa sulla mano e disse solo: - Non scusarti.
–
- Ma mi dispiace, Tyki, di crearti tutti questi problemi. Tu sei
così gentile, galante, attento… - e dovetti
fermarmi. Il complimento successivo sarebbe stato su quegli splendidi
occhi affilati che mi stavano fissando, negando alla mia mente
qualunque altro pensiero.
- E tu sei diversa dalle altre donne. Devo solo ragionare in questo
senso e non prendere nulla per scontato. - sorrise, malizioso
– Sarà solo più divertente…
Assecondare una principessina particolare… -
- Ah… - sospirai, alzando gli occhi al cielo –
Anche ad un grande corteggiatore come te passerà la voglia. -
- Non potrei neanche se volessi. Dovrò sposarti, no? Se non
imparo come trattarti, finché sono in tempo… -
- Tyki, ma tu sei sicuro di volermi sposare? –
La domanda mi uscì improvvisamente, senza che vi potessi
porre alcun freno e fu peggio di un fulmine a ciel sereno. Avrei voluto
essermi morsa a sangue la lingua piuttosto che aver finito di
pronunciare quella frase nefasta.
Lui abbassò lo sguardo di scatto e poi lo diresse
imperscrutabile verso la riva che stavamo costeggiando. Era un
“no” tanto evidente che mi sentii gelare.
- Non importa… - dissi, sfruttando il poco coraggio che mi
era rimasto – Lo capisco… E’ un
matrimonio combinato… E’ normale che non ti vada
giù… -
Notai che si stava di nuovo girando a guardarmi, ma, prima che lo
facesse, fui io questa volta a dedicarmi al panorama.
Molti grandi edifici avevano numerose lampade accese alle finestre,
appositamente per rendere più gradevole la vista dal fiume,
le cui acque, nere come la pece, riflettevano i bagliori anche se
smosse dal passaggio del battello. Per le vie tutti i lampioni erano
ancora in funzione e notai addirittura che alcuni tra i palazzi
più grandi e ricchi avevano finestre coloratissime dietro
alle quali la luce brillava ad irradiare tutt’intorno quei
toni particolari. Tuttavia, ciò che più mi
lasciò meravigliata fu lo splendido Palazzo del Parlamento.
Era grande ed imponente con la sua cupola rossa, decorato con eleganti
stucchi e tantissime delicate gugliette. Il suo colore bianchissimo era
un po’ sporcato dalla luce gialla, ma la costruzione appariva
talmente vasta e fiera che anche questo difetto nella sua presentazione
notturna lasciava il posto ad un alto stupore.
Questa visione mi aveva un po’ rincuorata anche dalle parole
di poco prima, tanto che non feci nessuna fatica a sorridere.
- E’ davvero bellissimo! – esclamai, indicandogli
l’edificio illuminato.
Anche lui stava guardando, un po’ pensieroso, mentre
l’aria sollevata dallo spostamento del battello gli muoveva
leggermente i capelli pettinati all’indietro e gli
accarezzava il viso e il collo attraverso il colletto del soprabito.
- Tyki… - lo chiamai, ma dato che non rispondeva richiamai
la sua attenzione posando una mano sul braccio appoggiato alla tavola.
Appena rivolse lo sguardo su di me, vidi netto il cambiamento. La sua
bocca si tese leggermente e i suoi occhi assunsero
un’intensità ansiosa da spezzarmi il fiato.
- Vivy…? - e lo sforzo che fece per sorridere gli fece
aggrottare un po’ la fronte.
All’inizio volevo chiedergli tranquillamente cosa pensasse di
quella vista, ma in quel momento mi resi conto che c’era
qualcosa di molto più serio a cui dedicarsi.
Il suo cambiamento d’umore significava qualcosa, che dovevo
comprendere. Certo aveva a che fare con quella mia pessima domanda di
poco prima. Non avevo intenzione di lasciar cadere con vana leggerezza
la questione. Questa volta, tanto più, non c’era
nulla da nascondere, da chiudere a chiave e dimenticare per sempre.
L’aveva ammesso anche lui. Se il Conte non avesse cambiato
opinione, ci avrebbe condotti personalmente ad uno sposalizio, al di
là della nostra volontà. Dovevo assolutamente
sapere cosa ne pensasse. Avrei accettato ogni cosa mi avesse detto.
Forse ci sarei stata male, ma con il tempo l’avrei accettato.
Era giusto così.
- Non fare così… - lo supplicai.
- Così come? – ed evitò di nuovo il mio
sguardo.
- Esattamente così… - gli risposi, angosciata
– Non evitare di guardarmi, di parlarmi… -
- Non voglio rovinarti la serata, Vivy. – sbottò.
Anche se lo disse fingendo di guardare il fiume, mi resi conto, pur
senza poter valutare la sua espressione, che aveva detto la
verità, era ciò che davvero pensava. Credeva che
lasciar cadere il discorso fosse un modo per far finta che non fosse
mai esistito. Normalmente, nel caso di qualunque altra persona,
l’avrei considerato un comportamento un po’
codardo. Ma chiaramente lui non era una persona qualunque per
me…
E poi vedevo distintamente cosa significava per lui quel boccone amaro,
quella risposta che aveva lì e non poteva darmi. Neanche lui
riusciva a mandar giù quelle parole senza mostrare una certa
angoscia. Anche per lui era uno sforzo e, con una gioia deliziosa,
pensai che lo faceva perché riuscissi a divertirmi senza
tutte quelle ansie.
- Ma io non sono qui da sola, Tyki. E se non ti vedo a tuo agio, non
riesco comunque a divertirmi. Dimmi qual è il problema.
Parliamone, almeno questa volta. –
Cercai di mostrarmi decisa e lui si arrese subito alla mia richiesta.
Si voltò completamente, sedendosi più dritto
sulla sedia, in modo da essere proprio di fronte a me. Giunse le mani
guantate e mi rivolse tutta la sua attenzione e
un’espressione serissima.
- Perché mi hai fatto improvvisamente quella domanda, Vivy?
- se ne uscì subito.
- Dovrò pur sapere cosa ne pensi. Hai sempre e solo perso
atto del fatto che ti sia stata promessa in moglie. Non ho mai capito
cosa ne pensi. – risposi, con calma.
- Non era il momento per una simile domanda. –
constatò, con una smorfia di fastidio.
- Hai ragione. Ho sbagliato a lanciarla in quel modo. Ma ti giuro che
non l’ho fatto apposta. –
- Si, ma non capisco perché. – insistette,
piegandosi ancora di più nella mia direzione.
- Perché… Forse perché avevamo parlato
poco prima delle tue amanti… - cominciai a dire, tradendo il
primo imbarazzo.
- Presunte amanti… - specificò, serio.
- Non cambia molto. – sospirai – Ma non
è di questo che voglio parlare. –
- Di cosa allora? –
- Perché non mi hai risposto? – chiesi, decisa.
Lui mi fisso dritta negli occhi, cupo: - Perché non mi
sembrava il caso. Era una domanda inadatta e volevo lasciarla cadere.
–
- Ma nel frattempo ti ronza nelle orecchie e non sai come affrontare la
questione. -
Non tradì una particolare emozione, ma disse molto
semplicemente: - Si. E’ così. –
Per un attimo rimasi stupita dalla sua semplice ammissione, ma cercai
di non darlo a vedere.
- Cosa hai pensato, Tyki? Dimmi cosa ne pensi. -
- Vuoi saperlo davvero? – e per un attimo sembrò
tentare di leggermi dentro con uno sguardo, proprio come Road.
L’unica cosa che mi diede sollievo fu ricordare che non era
tra le sue abilità.
- Si. –
Fu la sillaba più difficile che avessi mai pronunciato.
- Io non voglio sposarmi, Vivy. Non voglio finire ingabbiato in un
matrimonio. – rispose semplicemente, serio come mai
l’avevo visto.
- Lo capisco. – dissi.
- No, non credo che tu possa. – disse, scuotendo la testa
enfaticamente – Tu sei stata a lungo una persona estremamente
religiosa, quindi credi nel Vincolo Eterno. Io vedo come va il mondo e
lo considero una presa in giro. Uomini d’affari
rispettabilissimi, con moglie devota e figli adorati, che fuggono
dall’ufficio per cercare spogliarelliste o prostitute. Questa
è la direzione che prende il legame matrimoniale. –
Aveva toccato volontariamente il tasto del mio passato. Era
così serio!?
- Dubito che esista un qualche dovere religioso nel caso della nostra
Famiglia… - commentai, mettendo enfasi sull’ultima
parola per fargli capire cosa intendevo.
- Non è questo il punto. Noi in società saremo
considerati comunque due cristiani sposati in chiesa. Non
c’entra di che natura sarà il rito. –
- E tu non sei il tipico marito fedele. – osservai, con un
sorriso parecchio falso.
- Non posso saperlo perché non capisco cosa significhi.
– disse – Non voglio scoprire cosa cambi dopo una
“cosa” simile. Non voglio un legame che non possa
essere infranto senza provocare dolore o scandalo. Questa è
la libertà che desidero. –
Seguì un momento di silenzio che lasciai correre, incapace
di trovare qualcosa di brillante da dire.
- Lo sapevo che questo genere di osservazioni non ti sarebbero
piaciute. Perché, di qualunque natura fosse il matrimonio,
qualunque cosa ti dicesse il Conte o il tuo animo Noah, tu vorresti
onorare il legame. Io non posso assicurarti che farei altrettanto. -
Sospirai.
- Non credo che il nostro parere sarà mai ascoltato,
né il mio né il tuo, qualunque esso sia. Quindi
ciò che ho appena detto non cambia nulla nella nostra sorte,
se questo può rassicurarti. - riprese.
- Cambia per me. – risposi, a bassa voce.
- Lo sospettavo. –
- Però… - aggiunsi, cercando con queste
stesse parole di provocarmi l’effetto desiderato –
Sono contenta che tu me l’abbia detto. Rispetto la tua idea e
non penso che sia sbagliata, alla fine. Quindi se vorrai fare le tue
rimostranze al Conte, sarò dalla tua parte. Va bene?
–
Mi studiò per qualche momento: - Tu vorresti
sposarmi…? –
Sapevo che il discorso sarebbe arrivato a questo punto. Purtroppo era
inevitabile.
- Se tu non ne fossi felice, no di certo… - risposi, evasiva.
- Non è quello che ti ho chiesto. –
osservò, con un mezzo sorriso.
- Già. – ammisi, spaesata – Dunque,
diciamo che… -
- Non girarci intorno. Rispondi e basta. –
- Io ti sposerei, Tyki. – risposi tutto d’un fiato.
- Capisco. – commentò, con una punta di ironia.
- Non vorrei che il Conte si mettesse in testa di cercarmi un promesso
diverso da te. Io posso pensare di essere tua moglie, o qualunque nome
si voglia usare a casa nostra per identificare il mio stato, ma di
chiunque altro mi sarebbe molto più difficile. –
- Non è detto che invece con il tempo ti renda conto che
è impossibile convivere con me. –
- Correrei il rischio. –
- Perché nonostante le persone che siamo, tu riesci ancora
ad essere leale. – sospirò – Beata te.
–
Corse un altro momento di silenzio, ma io sentivo uno strano sollievo
dopo aver sentito per intero ciò che lui ne pensava. Questo
argomento non era più un tabù. Almeno questo.
Erano cose difficili da accettare per me, ma era meglio che intuire che
mi nascondeva chissà quali ragionamenti che non avevo la
possibilità di capire o percepire.
- Vivy… - mi interpellò infine.
- Dimmi… - gli risposi, questa volta riuscendo a rivolgergli
un vero sorriso, anche se ancora piuttosto lieve.
- Forse è meglio se ti godi gli ultimi minuti di traversata.
Altrimenti sarà stato tutto inutile. – disse, con
il suo solito sorrisetto, che mi rese stranamente felice.
- E’ vero! – esclamai, un po’ dispiaciuta
di essermi persa un bel pezzo della gita.
Lui rise, elegantemente, e si versò un altro bicchiere di
vino.
La gita in battello era stata meno lunga di quanto credevo. Quando mi
lamentai della cosa, però, lo feci solo per far ridere di
nuovo Tyki.
- E’ colpa tua che hai voluto chiacchierare! Altrimenti
avresti fatto anche in tempo a stufarti del panorama! Proprio come
molti degli altri passeggeri! - sogghignò.
- Perché? –
Non appena scendemmo gli ultimi gradini per tornare nella parte interna
dell’imbarcazione, mi indicò una saletta
illuminata: - Perché coloro che sono ormai abituati al
paesaggio del fiume vengono più che altro per ballare.
–
- Davvero!? Si poteva ballare!? Perché non me
l’hai detto!? – esclamai, tutta entusiasta, ma con
un tono di rimprovero.
- Ma se quando siamo saliti facevi anche quasi fatica a stare in piedi!
– rise, facendomi strada verso l’uscita.
- Però mi sarebbe piaciuto ballare! –
- Sei capace? – chiese, interessato.
- Be’, quando ero bambina mia madre mi ha
insegnato… - risposi, cauta.
- Sei brava? – chiese ancora, con un sorrisetto ironico.
- Non esageriamo… Non ballo da una vita… -
risposi abbastanza imbarazzata.
- Allora la prossima volta andremo a ballare… Oppure
semplicemente ti farò di nuovo una sorpresa…
Così non potrai sottrarti neanche se lo volessi…
- aggiunse, sibillino.
- Temo andrà a finire così, vero? –
commentai, con lieve sarcasmo.
- Ti consiglio di non fare programmi… -
Non potei che adorare, mio malgrado, il sorrisetto malizioso che mi
indirizzò, come la promessa che avrebbe voluto di nuovo
avermi con sé per una bella serata.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Eh,
lo so... La colpa è mia che ho lasciato tanto a lungo
giacere la mia vena artistica...
Solo che mi mancano i commenti... u_u
Comunque, a parte questa lamentela nostalgica...
Ebbene si, in gita a Budapest abbiamo fatto il giro notturno sul
battello!!! XDDDD Mi era piaciuta un sacco la città
illuminata: i palazzi moderni in particolare erano luminosissimi, ma
anche su quelli antichi (come il Palazzo del Parlamento) avevano
installato delle luci bianche!!!
Be', va bene che parliamo di un tempo "immaginario", ma non sapevo se
fosse il caso di parlare di luce elettrica... Insomma, sono rimasta
volontariamente nel vago (anche se l'idea delle lucerne sui tavoli,
almeno quella, è di sicuro molto retrò... ^_^)...
Insomma, come sempre avevo ben altri programmi per questo capitolo...
Poi sarebbe stato troppo lungo e quindi ho dovuto tagliare un sacco di
roba, lasciando il mio solito (sadico) retrogusto dolce-amaro... ^_^
Però, insomma, si parla anche di un ballo... La speranza
è l'ultima a morire...
Grazie a coloro
che preferiscono, seguono o hanno solo letto questa fanfiction!!!
P.S. Andrò due settimane in montagna e dubito
riuscirò a scrivere qualcosa... Quindi il prossimo
appuntamento sarà probabilmente un po' ritardato... Mi
dispiace... -_-
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Capitolo 16 *** XV - I'm The Teacher ***
Capitolo 15
I’m
The Teacher
"Non
aspettare il momento opportuno: crealo!"
(George
Bernard Shaw)
Grazie al Conte, perché qualsiasi altro riferimento divino
sarebbe fuori luogo, il giorno successivo nessuno venne a disturbare il
mio sonno.
Mi aspettavo che almeno Road avrebbe avuto l’indecenza di
lasciarmi dormire sono le inevitabili quattro ore, per avermi a
disposizione semi-scattante per le nove. In realtà mi
svegliai all’una al suono sincronizzato di tutti gli orologi
di casa, quando ero ormai in un tranquillo dormiveglia che mi stava
preparando ad un sereno risveglio.
Dopo l’inevitabile doccia, mi stupii di trovare ancora quasi
tutti nel salone del pranzo.
- Buongiorno. – salutai educatamente appena oltrepassata la
porta.
- “Buongiorno”, Tyki-pon…! –
rispose subito il Conte, con una nota di sarcasmo nella voce gioiosa.
Dovuta all’ora tarda, molto probabilmente.
Road, immersa in un libro di scuola con una smorfia disgustata stampata
in faccia, lasciò scoppiare il palloncino di chewing-gum e
mi rivolse un cenno della mano. Skin era ancora seduto al suo posto
solo perché si stava accaparrando forse il terzo bis del
dolce, mentre Lulubel si stava giusto alzando e mi si parò
davanti per imboccare la porta.
- Buongiorno. – disse, con voce piatta e mi
svicolò per uscire. Chiuse la porta dietro di sé
con un tonfo sonoro.
L’ultima che notai fu Vivy, ma solo perché
sembrava del tutto assente. Era presissima dalla lettura di un fascio
di fogli che stringeva tra le mani, notai, con una certa agitazione. Si
accorse della mia presenza solo quando spostai la sedia alla sua destra
per prendere posto e allora alzò il viso, rivolgendomi un
immediato sorriso.
Mi accorsi vagamente che i colori dei Noah le donavano ancora meno del
solito. Quella tonalità mortifera della pelle contrastava in
modo insopportabile con i suoi lunghi capelli neri, sciolti e con le
ciocche leggere che le sfioravano ancora più liberamente del
solito le guance e il collo fine. Le scure cicatrici sembravano un
affronto al suo volto delicato e liscio, mentre il modo in cui si
strofinava gli occhi assonnati e segnati era troppo naturale e ingenuo
per essere messo in relazione con il crudele bagliore giallo che
illuminava le sue iridi.
Mi salutò, dolcemente: - Buongiorno, Tyki… - e
riportò tutta l sua attenzione sulla lettura.
- Cosa stai facendo? – chiesi, sporgendomi lievemente verso
di lei per sbirciare. Erano spartiti e testi di romanze con in cima una
titolatura in un perfetto corsivo: “Carmen”.
- Ripasso… In teoria… - rispose, con
un’espressione un po’ inquieta – Tra poco
riusciremo finalmente a portare in scena “La
Carmen”… -
- Perché la scorsa rappresentazione era saltata, giusto?
– ricordai improvvisamente.
- Si. Un problema di abiti di scena… Adesso sarà
la volta buona… Sempre se riuscirò a memorizzare
di nuovo la parte… - sospirò e tornò a
sillabare in silenzio le strofe, aiutandosi con gesti della mano per
richiamare alla mente i movimenti della musica.
Mi chiesi da quanto tempo fosse così occupata a studiare
l’opera. Forse era una sveglia prematura la causa della sua
aria assonnata. Mi dava un’impressione strana… Ma
non feci in tempo né a chiedere né ad indugiare
su questo pensiero.
- Pranzate, allora? – chiese il Conte, convocando una
cameriera-akuma con un battito di mani.
- Be’ si… - annuii, con sufficienza –
Anche se è tardi, non posso pensare di resistere fino a
stasera… -
- Vivy, mia cara…? – chiese ancora il Conte,
richiamando anche la sua attenzione.
- Si. – rispose, tranquilla.
- Credevo avessi già mangiato… - osservai,
stupito, mentre appoggiava le sue carte poco lontano e tornava a
voltarsi, raggiante.
- Aspettavo te, no? –
Non potei che sorriderle di riflesso e rivolgerle un cenno di
ringraziamento con il capo.
Eravamo da poco arrivati al contorno, in tempo record dato che
l’ora era già parecchio tarda per essere ancora a
tavola, quando il Conte parlò, rompendo definitivamente la
sinfonia di posate, calici e piatti che aveva accompagnato la prima
parte del pasto. Alzammo tutti e due insieme la testa, sicuri di non
aver capito bene le sue parole.
- Scusate, Conte…? – esclamammo, quasi
all’unisono.
- Non fate finta di non aver capito… - insinuò
Road, con un sorrisetto nefasto, ma senza alzare gli occhi dai suoi
compiti. Capii in quel momento perché si trovasse ancora
lì a studiare nonostante non stesse chiedendo aiuto al
Conte…
- Domani – ripeté il Conte, con ancora maggiore
enfasi – ci sarà una splendida serata indetta
dalla Corte Piemontese! Vorrei che voi due partecipaste! –
Per un momento restammo in silenzio.
Io cercavo di trovare qualcosa di dire, qualcosa che non risultasse
offensivo a nessuno.
Del resto, il Conte sembrava seriamente prendersi gioco dei dubbi che
appena la sera prima avevo condiviso con Vivy.
Non volevo che avesse troppa confidenza con gli ambienti cortigiani.
Ciò mi avrebbe messo nella condizione di doverla tenere
d’occhio, di dovermi preoccupare anche del suo buon nome, di
doverle guardare le spalle. A volte era così fastidiosamente
indifesa.
E dire che a quanto mi ricordavo da quel giorno al convento, in quel
passato decisamente passato, doveva avere un bel caratterino. Adesso
che era una Noah, adesso che le serviva, dove l’aveva messo!?
Al di là che lei potesse essere interessata a questa
esperienza, dovevo impedirglielo per quanto mi era possibile. Non
volevo ulteriori problemi. E non potevo certo lasciarla in balia di
pettegolezzi vari…
Solo che se mi fossi opposto con troppa veemenza, non solo avrei
probabilmente offeso lei, ma avrei anche finito per scatenare la difesa
sfrenata del Conte al progetto, cosa che mi avrebbe impedito
definitivamente di liberarmi da quell’impiccio.
Se si aggiungeva che probabilmente, oltretutto, il capo poteva avere un
piano in proposito, la situazione non poteva essere peggiore…
Odiavo finire invischiato in questi vicoli ciechi…
Sbuffai sonoramente e guardai Vivy.
Lei sbirciò la mia espressione insofferente per qualche
istante, poi alzò gli occhi al cielo e sospirò:
- Ho capito, tocca a me… -
- Sapete che cosa comporterebbe questo, Conte? – chiese Vivy,
celando il fastidio senza risultati davvero evidenti.
- Ma certo! La risoluzione di tutti i vostri problemi! –
rispose lui, gioviale.
- Di quali problemi parlate? – riprese lei, gli occhi gialli
già in due fessure.
- Quelli riguardanti la vostra promessa di matrimonio! –
- Non abbiamo problemi al riguardo. Non abbiamo mai acconsentito a
questa vostra imposizione.-
La guardai vagamente incuriosito. Stava davvero dando man forte alla
mia posizione? Nonostante di certo non fosse la sua? Con uno strano
sollievo, mi accorsi che si stritolava le mani sotto il tavolo e che
forse quell’aria fiera era più che altro causata
dallo sforzo che compiva nel dire una cosa simile.
- Vivy… Bugiarda… - rise Road, da dietro il libro.
Tuttavia, lei la ignorò del tutto, anche se la sua
espressione aveva per un attimo mostrato qualcosa di simile al panico,
prima di tornare a concentrarsi sul suo interlocutore.
- Se lo dici tu, mia cara! – accondiscese il Conte,
allargando ancora la vasta paresi – Capisco le tue remore e
il tuo rispetto per Tyki! Comunque, è necessario che tu
venga presentata al mondo nella sua massima nobiltà! Al di
là di ogni obbligo questo comporti… - e mi
scoccò un’occhiatina tutt’altro che
benevola - …è giusto che tu prenda il tuo posto
in società! E al fianco di una persona che possa non solo
aiutarti nell’ambientarti, ma anche farti da appoggio con la
sua ottima fama!-
- Sentite, non potete girare intorno al problema… -
cercò di rispondere Vivy, con gli occhi ardenti di collera.
- Non ci giro intorno! – rispose, tranquillo.
- Non scherzate! Non si parla solo della presentazione in
società! Non si tratta solo del mio parere!
Piuttosto il… - saltò su.
Finalmente riconobbi nel massimo splendore l’altezzosa monaca
che avevo conosciuto. Se questo era un “purtroppo”
o un “per fortuna”, non mi era chiaro. Tuttavia
l’impressione durò poco, giusto fino alla brusca
interruzione.
- E fossi in te non direi nient’altro! O potrei toccare
davvero il centro del problema! – riprese gioioso il capo, ma
con una punta minacciosa nel tono e senza lasciarla finire.
Lei assottigliò le labbra in una maschera di contrizione e
mi rivolse uno sguardo inquieto.
Davvero non capivo di cosa stessero parlando ora, ma certamente era
qualcosa che nessuno dei due avrebbe gradito spiegarmi. Anche se non
sopportavo di essere tenuto così all’oscuro delle
cose, non aveva senso obbligarla a percorrere quella strada tortuosa
ora che il Conte sembrava essere così irritato.
Ci sarebbero state altre occasioni per ribellarsi, ormai non aveva
senso.
- Va bene così… - le dissi, a bassa voce, anche
se sapevo che il Conte avrebbe sentito ugualmente.
- Davvero, Tyki? Ti pieghi così in fretta a fare la sua
“guardia del corpo”? –
commentò inaspettatamente Road, con aria malevola.
- Non ha molto senso discutere con voi… Tanto ormai
è stato già tutto deciso, no? –
commentai, indifferente.
- Toglietemi solo una curiosità! –
Mi voltai verso Vivy, il cui viso contratto mostrava chiaramente
l’onda di ira che la attraversava. Scattò in piedi
dal suo sedile come una belva pronta al balzo.
Ora potevo davvero dire che faceva quasi paura…
- Con che ruolo mi presenterò a quelle persone!? Qui nessuno
ha acconsentito ad alcun legame legittimo! Cosa sarò domani
sera!? -
Il Conte rise, di una risata sarcastica agghiacciante.
- Non è a me che devi chiederlo! Dipende dal nostro
Tyki-pon! Se desiderasse farti passare per una semplice amante saresti
più contenta!? -
Il suo viso divenne improvvisamente rossissimo. Di imbarazzo,
conoscendola. Nello stesso tempo, però, sembrava che non
vedesse l’ora di trovare parole abbastanza taglienti con cui
rispondere. In quel caso poteva davvero finire male…
Perché per quanto normalmente fosse del tutto indifesa, in
quello stato temevo avrebbe finito per far arrabbiare davvero il
Conte… Ciò che ne sarebbe venuto avrebbe
probabilmente messo in mezzo anche qualche malcapitato… Me,
per esempio…
- D’accordo. Ho capito. Dato che la scelta è mia,
non intromettetevi per favore. – mi inserii, prima che si
potesse scatenare il finimondo – E comunque ho abbastanza
onore da non voler umiliare la mia dama con simili insulti alla sua
integrità. -
Questo sembrò calmarla almeno un po’. Abbastanza
comunque da indurla a tornare a sedersi, con un gesto fluido. Non so
come feci a trattenere un qualunque segno di sollievo.
- Bene! Hai ragione! Non dirò più nulla!
– acconsentì il Conte, con un cenno pacificatore
del capo – Anche se mi dispiace, Tyki, che tu non sia
soddisfatto di questo impegno mondano! Eppure c’è
un lato positivo, non credi? -
- Quale? – chiesi, scettico, accettando il dolce che la
cameriera-akuma mi stava porgendo.
- Con domani avrai mantenuto la tua “promessa” di
portare Vivy a ballare! –
La diretta interessata non disse nulla, ma spostò, nauseata,
la coppa di fragole e gelato che le era stata posta davanti. Skin,
noncurante, la afferrò con entrambe le mani e la
attaccò voracemente con il cucchiaino alzato. Road, da parte
sua, a quelle parole fece una smorfia disgustata, ma non disse nulla e
finse di girare un’altra pagina del libro di scuola.
Chiaramente, come per un tacito accordo, nessuno dei due
cercò di toccare il discorso del pranzo.
In effetti, mi era stato pienamente dimostrato che non era sempre
così docile come sembrava. Eppure questo non mi rassicurava
poi molto per l’ormai prossima presentazione in
società. Mi sbagliavo a immaginare che avrebbe taciuto a
qualunque osservazione malvagia, che avrebbe sofferto per qualunque
stoccata a fior di labbra che avrebbe potuto captare. Molto
probabilmente avrebbe risposto a tono a qualunque frase leggermente
allusiva e avrebbe dimostrato chiaro disprezzo a chi sapeva
meritarselo. Onestamente non sapevo dire quale delle due prospettive
sarebbe stata più adatta ad un ambiente pieno di malelingue,
ma ormai c’era poco da fare. In ogni caso, avrei dovuto
tenerla d’occhio…
Solo che il Conte l’aveva in pugno. Era talmente evidente da
rodermi di curiosità. Cosa poteva essere stato ad obbligarla
a tacere, nonostante la rabbia che la scuoteva? Perché mai
odiava così tanto il Conte? E lui che cosa sapeva di
così importante e segreto da poterle imporre il silenzio con
una semplice minaccia?
D’altra parte, comunque, non avevo diritto di chiederle nulla
in merito. Dovevo accontentarmi della sua generosa collaborazione al
mio desiderio di sottrarmi al contratto matrimoniale. Onestamente avevo
creduto che la sua garanzia di sostenere la mia posizione fosse stata
più cortese che sincera. Adesso le ero riconoscente, anche
se… Ad essere sincero mi aveva rassicurato non poco capire
che lei non aveva cambiato idea… Che aveva parlato
così solo per quell’accordo che lei stessa aveva
liberamente siglato nei miei confronti… Lei la pensava
diversamente… Lei voleva sposarmi… E quando ci
pensavo, la risposta era sempre e solo
“bene”… Perché
“bene”?
- Sei proprio sicuro? -
- Tu no? – la presi in giro, con un sorrisetto.
- Voglio dire… Proprio adesso che abbiamo appena mangiato?
– chiese, incerta.
- Non vorrei insistere, credimi, ma il ballo non è domani?
Quanto tempo credi che abbiamo a disposizione per fare questa prova?
–
- Hai ragione, scusa… - rispose, annuendo.
- E poi non dovresti essere così scarsa nel ballo, no?
– osservai, malizioso.
- Ma no… Non credo… - rispose, ma per il
nervosissimo incrociò le braccia sul petto, guardando a
terra.
Avevamo stranamente trovato un salone semivuoto e l’avevamo
appena eletto a luogo per la simulazione del ballo del giorno
successivo. Del resto, dato che era così insicura, temevo
seriamente che davvero non fosse così brava a ballare. Il
giorno successivo sarebbe stato un bel problema e un pessimo inizio per
la sua reputazione.
- Bene… Allora, prova la posizione… - la incitai
allargando le braccia per spingerla ad avvicinarsi.
Lei comunque non mosse un passo e mi guardò stranita: - In
che senso? –
- Fammi vedere che posizione tieni… - le spiegai,
aggrottando le sopraciglia alla sua aria stupita.
- Quindi… -
- Vieni qui e prova a legarti a me con mani e braccia nella posizione
di partenza… In che altro modo te lo devo
spiegare…? –
- Emh… - distolse lo sguardo, con aria imbarazzata
– Che ne dici di farlo tu…? –
Sospirai e mi stupii di provare una sorta di fastidiosa impazienza. Non
tanto per la sua chiara inesperienza, ma perché non capivo
come potesse provare un simile imbarazzo per un semplice ballo.
Mi avvicinai e le passai il braccio sinistro dietro la schiena, con
assoluta naturalezza, per poi prenderle la mano destra nella mia. Mi
accorsi solo dopo di non portare neanche i guanti, ma chi me lo faceva
fare di tenerli anche in casa? E poi la sua mano non era fastidiosa, ma
piccola, delicata e fresca al contatto. Almeno quanto la sua vita era
sottile fino ad apparire fragile, nonostante la rigidità che
in quel momento la tensione le provocava.
- Ti ci ritrovi? – le chiesi, abbassando lo sguardo quanto
bastava per guardarla in viso.
- Si… Ora che me l’hai mostrato, si… -
Ma in realtà sembrava molto più concentrata sui
suoi piedi che sulla posizione del busto.
- Vivy… Guarda che dovresti starmi un po’
più vicina… - osservai.
- Dici…? – chiese, con vaga inquietudine.
- Si. – risposi. Volontariamente fui un po’ brusco
nel momento in cui strinsi improvvisamente il braccio intorno alla sua
vita per accostarla di più a me. Lei sobbalzò, ma
alzò finalmente lo sguardo sul mio volto.
- Così và meglio… - le risposi, con un
sorriso che voleva essere conciliante, ma, ne ero certo, appariva molto
più malizioso.
- Bene… - rispose, gli occhi grandi e gialli spalancati e il
colore smunto dei Noah che era andato colorandosi in un tenero rossore
– Meno male… -
- Se ti sembra di ricordare la posa, possiamo mettere la musica,
giusto? -
Prima ancora che potesse rispondere, con uno schiocco di dita intimai
di far partire la musica ad un akuma appollaiato su una sedia poco
distante. Una volta che ebbe svolto il suo compito, gli feci un cenno
perché uscisse e lui ubbidì, silenziosamente. Di
certo non volevo uno spettatore tra i piedi.
- Sei pronta… ? – chiesi, non appena la porta si
richiuse.
- Non proprio, ma va bene… - rispose, con un sospiro nervoso.
Quel walzer era decisamente troppo lento e morbido, osservai. Tuttavia,
andava bene per una simile verifica. Lasciai che fosse lei a partire,
ma fu un pasticcio di strani passi in diverse direzioni e un
po’ fuori tempo.
Mi misi a ridere, spontaneamente: - Va bene…Basta
così… -
Vivy si fermò, ma arricciò le labbra, tra
l’offeso e l’imbarazzato, e si sottrasse dalla mia
presa:
- Non ridere, però… So di essere piuttosto
imbranata, ma in tutto questo tempo di inattività ho
scordato come si fa… -
- Scusa… - dissi, cercando di apparire serio – Era
un modo per vedere se ricordavi abbastanza i movimenti. Mi sembra di
no. -
- Insomma, Tyki, però mi hai fatto portare… Ti
sembra? Dovresti essere tu a condurre la danza… -
protestò.
- Hai ragione, però te l’ho detto che era una
prova. Dai vieni. – le dissi.
Allora mosse qualche passo inquieto e prese la mano che le avevo porto,
lasciando che di nuovo la accostassi a me e riprendessi la posa.
- Ora conduco io, ok? Così ti senti più
tranquilla? – chiesi, gentilmente.
- Si, è meglio… - rispose, ansiosa.
Sul subito fu piuttosto difficile. Era troppo rigida e tendeva ad
incespicare, senza lasciarsi trasportare e condurre. Più di
una volta dovetti contare per non farle perdere il ritmo dei passi.
Sembrava che davvero stessimo cominciando
dall’inizio…
- Vivy. Non guardarti intorno. – la richiamai di nuovo,
quando vidi il suo sguardo vagabondare per la stanza.
- Eh? – chiese, con aria un po’ svanita.
- Dico, dovresti guardare me, non tutto il resto
dell’arredamento. – osservai, con un sorrisetto.
- Si, hai ragione… - rispose, con tono mortificato, cercando
disperatamente di tenere il suo sguardo fisso nei miei occhi.
Dopo qualche giro, tuttavia, stava di nuovo squadrando una sedia con
aria cupa.
Sospirai e mi fermai, per l’ennesima volta.
- Scusa… - disse subito, mordendosi un labbro.
- Niente scuse, Vivy. Lo sai che non mi interessano. –
risposi, scuotendo la testa – Pian piano le cose stanno
andando meglio. Non hai nulla di cui scusarti. –
- Non è vero. – commentò, con una
smorfia affranta – La verità è che non
sono per nulla capace e tu stai perdendo un sacco di tempo per
permettermi di affrontare la serata di domani. E le speranze sono
poche. –
- Non è vero. Ti dico che stai migliorando parecchio e in
poco tempo. E tutto perché effettivamente avevi
già imparato a ballare, te lo sei solo dimenticata.
–
- Mi riprendi continuamente e hai ragione dato che sto sbagliando
tutto. –
- Vivy… - sbuffai. Era già la seconda volta che
si lasciava andare allo sconforto e non sapevo più davvero
cosa dire per rassicurarla.
- E’ così. Mi dispiace… -
Più si lamentava e meno avremmo potuto risolvere.
Così tentai l’ultima carta.
- Tu hai solo bisogno di un maestro di danza. - affermai, posandomi le
mani sulla vita, con aria autoritaria – Ma nessuno
può essere abbastanza qualificato da colmare le tue lacune
in così poco tempo. Tranne forse qualcuno che abbia i passi
e le posizioni nel sangue. Io non conosco nessuno del genere, tu? -
- Cosa intendi…? – chiese, guardandomi sospettosa.
- Rispondi. –
- No, nessuno di simile… - disse.
- Ecco… - ammisi – Del resto, io non sono un buon
esempio… Io non ho mai imparato a ballare, ma come per il
discorso del pianoforte, so suonare a causa di qualcosa di
innato… Di stampato nel sangue, se vogliamo dire
così… – la guardai di sottecchi
– Tuttavia, pensi che non stia facendo un buon
lavoro… Vuoi che ti cerchi un sostituto? –
Alzò gli occhi al cielo, con un sorriso: - No. –
- Bene. Perché credo in effetti di essere portato a questo
compito. Sei d’accordo? -
- Si… -
- Quindi, io sono il tuo insegnante. E se io dico che domani ballerai
come una regina, devi crederci e basta. Chiaro? –
Lei mi guardò per un momento e poi annuì: -
Sissignore. –
- Brava. Adesso vediamo di continuare. – affermai, cercando
di restare ben serio e deciso. Ma lo ero stato già per
troppo e soffocai per poco una risata.
Nel giro di qualche ora, giusto in tempo per la cena, la situazione era
decisamente migliorata. Teneva bene il tempo, si lasciava condurre
senza opporre resistenza e pian piano aveva imparato ad assumere un
po’ più di elasticità nel movimenti,
senza apparire troppo rigida. Sicuramente era in grado di partecipare
ad un ballo, anche se avrei dovuto evitare che qualcun altro la
richiedesse per una danza. Cosa molto difficile, in effetti, e io certo
non potevo negare un ballo ad alcuno che lo chiedesse… Era
un gesto troppo maleducato…
Preferii non renderla partecipe dei miei timori, dato che sembrava
rassicurata dal fatto che da un po’ ormai non la stavo
più riprendendo. Era molto più tranquilla o
almeno questa era la mia impressione.
Tuttavia, continuavano ad esserci cose che non potevo lasciarle
passare…
A metà dell’ennesimo walzer, non sopportavo
più di vederla fissare in quel modo ogni altra cosa mentre
ballava con me. Mi faceva saltare i nervi.
In quel momento, in effetti mi stava andando già meglio di
qualche giro prima, quando aveva guardato insistentemente un vago punto
alla destra della mia faccia. Ora teneva gli occhi fissi sul mio petto,
o meglio sulla mia camicia non completamente abbottonata. Non sapevo
davvero se offendermi perché continuava a non guardarmi
negli occhi o sentirmi lusingato del modo in cui osservava,
imbarazzata, quel lembo di pelle scoperta…
Sospirai: - Però, Vivy, non puoi tenere la testa
così bassa… -
Sobbalzò, come se non si aspettasse di essere interpellata,
e per un attimo si sforzò di contraccambiare il mio sguardo,
con aria smarrita. Però il suo viso, da rosso che
già era, divenne paonazzo.
- Hai ragione… - osservò, cercando subito con gli
occhi qualcosa su cui distogliere l’attenzione che mi aveva
appena rivolto.
- Se ho ragione, perché non mi guardi? -
- E’ che… - cercò di difendersi -
… io ho sempre e solo ballato con mia madre… -
- E quindi…? –
- Come!? Insomma, non crederai che sia come ballare con un uomo! -
esclamò, sempre più in difficoltà
Non ci avevo pensato. Aggrottai le sopraciglia: - Quindi ti distraggo?
–
- No… Non esattamente… Ma mi
imbarazzo… - rispose, con voce fievole.
- Però dubito che guardarmi negli occhi ti sia
più difficile che fissare ostentatamente il mio torace, ti
sembra? – aggiunsi, con un sorrisetto malizioso e
accostandomi un po’ di più a lei.
No, non avevo resistito. In effetti quelle parole e
quell’atteggiamento insinuatore mi erano venuti spontanei,
anche se, dato il carattere di Vivy avrei fatto meglio ad evitarmeli.
Subito cercò di sottrarsi a me e dovetti fare forza con il
braccio, mio malgrado, per evitare che si divincolasse.
- Stai calma. Era una battuta. - cercai dire, anche se non avevo alcuna
vera intenzione di scusarmi.
Lei tacque, riottosa. Però il suo viso spaesato e colorito
esprimeva e scatenava ben altre emozioni. Imbarazzo. Timore. Tensione.
Volevo credere, profonda attrazione. In me del resto, significava
desiderio. In tutte le sue forme.
- Dici che se mi chiudo la camicia riuscirai a guardarmi negli
occhi…? – chiesi, ancora malizioso.
Lei strinse le labbra, ma di nuovo si rifiutò di rispondere.
- Se non ti darò modo di distrarti, forse, riuscirai a
pensare solo alla posizione… - spiegai, cercando di apparire
razionale.
Perché il problema era quello, giusto? Il fatto che per
ballare bisognasse tenere lo sguardo in quello del compagno. Era quello
il problema… Per forza… Non che speravo, volevo,
guardare a fondo nei suoi occhi… Non che volevo guardasse
dritto nei miei… No di certo…
- La verità è che sei comunque troppo vicino...
Per qualunque cosa… - disse infine, faticosamente.
No, non per qualunque cosa, sussurrò eccitato qualche
recesso della mia mente. Non so come riuscii a farlo tacere. Non so
come riuscii ad impormi di non trasformare quella semplice posizione di
ballo in un abbraccio e…
- E’… comunque molto più ardito questo
tuo modo di comportarti, piuttosto che contraccambiare una semplice
occhiata, no…? – riuscii a dire, schiacciando ogni
altro istinto.
- Ma… Non riesco a sostenere il tuo sguardo… -
rispose, sincera, con un tremito della voce.
- Provaci… - dissi, d’istinto, lasciando la sua
mano e posando invece le dita sul suo mento – Se non ci
riesci con me, con un cavaliere qualunque cosa farai…?
–
- Non importa… - disse, girando la testa e cercando di
allontanare la mia mano.
- Si che importa… Non vorrai fare cattiva figura…
- osservai, senza accorgermi di quanto il mio tono fosse diventato
basso e privato.
- Non farò cattiva figura… Non mi
importerà… Sei… -
- Cosa…? – chiesi, in un sospiro.
- Sei… tu a… -
- Io… sono una persona che conosci… Io dovrei
rassicurarti… - dissi.
Ma non credevo ad una sola delle parole che avevo detto. Non ci stavo
pensando, cercavo solo di imporle finalmente di ricambiare lo sguardo
che tenevo fisso su di lei, intensamente.
Fu solo allora che abbassò la mano che cercava di scacciare
la mia.
- Sei tu… ad essere… troppo…
speciale… -
Sul subito non capii quel sussurro affranto e appassionato che mi aveva
rivolto.
Probabilmente, perché, non appena smise di lottare, riuscii
finalmente ad indirizzare il suo volto verso il mio e stavo gustando
ciò che mi era stato negato per tutto quel tempo. Con le
dita, il contatto con il suo mento sottile e morbido. Con gli occhi, il
viso arrossato, le labbra di un delizioso rosso, il respiro un
po’ mozzato che vi scaturiva e finalmente le sue iridi che
fissavano me. Avevo vinto.
Solo dopo, udii l’eco che quelle parole producevano in me.
Solo dopo, mi chiesi cosa voleva dire quel
“speciale”. Solo dopo, percepii chiaramente il vero
motivo della sua emozione, della sua ansia.
Perché era di certo lo stesso che, ora che i nostri occhi
erano così legati, produceva la tentazione vorace che
attraversava la mia pelle… Mi accorsi in quel momento che
aveva ragione… Eravamo davvero troppo vicini…
Lei era inerte. Si lasciava sostenere da me, dalla stretta che tenevo
intorno alla sua vita, come se avesse bisogno di essere tenuta in
piedi. Mentre il destro era abbandonato al suo fianco, il braccio
sinistro era ancora legato alla mia schiena e, mi accorsi vagamente, la
mano stringeva forte un lembo della camicia.
Adoravo i suoi occhi. Questo semplice concetto passava nella mia mente,
mentre altrettanto inconsciamente avvicinavo con cautela il mio viso al
suo. Anche se in quel momento erano di quell’intenso giallo,
erano così grandi, affettuosi e ora immensamente languidi.
Feci appena in tempo a rallegrarmi del fatto che il mio gesto non
avesse provocato alcuna reazione contraria da parte sua. Restava
immobile, ad aspettare ciò che avrei fatto. Sembrava che a
quel punto non fosse più in grado di guardare altro che me.
Feci appena in tempo a sentire l’ennesima ondata di calore.
L’ennesima prova, da pochi minuti a questa parte, che non
potevo ribellarmi a quel desiderio folle. L’ennesima prova
che non mi sarei fermato, che l’avrei baciata e poi stretta
forte a me e poi assediata di mille e più
attenzioni… Fino a farla mia… Non
c’erano altre possibilità…
Feci appena in tempo a sentire appieno tutte quelle
consapevolezze…
Quando qualcuno bussò alla porta.
Entrambi, come se l’ossigeno ci fosse stato sottratto
improvvisamente, trattenemmo il respiro. Tuttavia, reagimmo con calma,
quasi con rassegnazione, a quella odiosa e improvvisa interruzione.
Vivy si rimise in equilibrio stendendo la mano sulla mia spalla e solo
allora tolse definitivamente l’altro arto che era avvolto
alla mia schiena. A quel punto, anch’io la liberai del
braccio che la stringeva, a malincuore.
- Tyki… - sussurrò.
Battei le palpebre.
Mi accarezzò piano la mano con cui tenevo ancora il suo
mento sollevato. E sorrise, dolcemente, anche se con una vena di
amarezza. Credevo di capire a cosa fosse dovuta… Sperai di
non sbagliarmi…
- Scusami… - risposi, lasciandola andare.
Bussarono ancora, con maggiore insistenza.
- Avanti! – risposi.
Con un cigolio, da un piccolo spiraglio della porta si
affacciò la testa di Road.
- E’ pronta la cena. -
- Arriviamo subito. Grazie, Road. – disse Vivy, dopo aver
intercettato il mio sguardo, che di sicuro si era un po’
incupito alla vista della bambina.
Era bizzarro come riuscisse sempre ad essere inopportuna. E nel suo
caso era difficile che fosse un caso.
Forse perché captò il mio fastidio, non disse
nulla e non si azzardò ad esprimere alcuna particolare
reazione. Si limitò a richiudere la porta.
Vivy mi guardò, smarrita, e capii che stavamo pensando la
stessa cosa.
Non si poteva ricominciare da capo né da dove tutto si era
interrotto. L’occasione era perduta.
- Andiamo…? – chiese, incerta.
- Si. – risposi, con un sospiro nervoso.
- Va bene. –
Eppure, mentre uscivamo per andare a cena, pensai che non sarebbe
finita così. Pensai che assolutamente avrei creato
un’altra occasione, presto o tardi…
- Quindi? Com’è andata? – chiese il
Conte, allegro come sempre.
- Bene. Vivy se la caverà senz’altro. –
risposi, sicuro.
- Davvero!? Mi fa piacere! – rispose, battendo le mani a
tentacolo con ostentato entusiasmo.
– Se non si lascerà prendere dal nervosismo e
dall’imbarazzo… - aggiunsi, incapace di
trattenermi.
Lei chiaramente divenne ancora una volta paonazza in viso, ma
annuì con vigore: - Assolutamente farò del mio
meglio… -
Sorrisi vagamente, avvicinando alla bocca il bicchiere di vino.
- Quindi… Avete solo bisogno degli abiti adatti! –
esclamò di nuovo il Conte.
- Veramente no… Ne ho un sacco… - commentai,
scettico.
- Ma sono tutti usati! –
- Be’, certo… Sapete, quando si mettono addosso
diventano usati… - alzai le sopraciglia, decisamente
allibito.
- E’ logico! Ma non va bene! –
- Perché no? Non sono mica rovinati! -
- Insomma, Tyki! Ti ci vuole un vestito nuovo! –
- Direi di no… - sbuffai – Tuttavia se ci tenete
tanto e pagate voi… D’accordo… -
- Sicuramente Vivy ne ha bisogno! –
- Dite? – chiese lei.
- Si! – rispose, tutto carico – Ti ci vuole
qualcosa di molto più appariscente! Quasi un vestito di
scena, per capirci! –
- Ma a me non piace quel genere… - tentò di
lamentarsi.
- Ma è necessario! – concluse, intransigente.
Sospirammo entrambi. Una pessima giornata per i nostri tentativi di
ribellione.
- Bene! Credo proprio che vi farò andare insieme! Almeno vi
terrete d’occhio a vicenda! – concluse, ridendo.
- Quando? – chiesi, rassegnato.
- Domani mattina! Così avrete la scusa per svegliarvi
presto! – passò lo sguardo su entrambi i nostri
visi poco convinti - Tanto il pomeriggio sarà dedicato ai
preparativi! E la cena al castello credo sarà piuttosto
presto! –
- Va bene, Conte! – rispondemmo allora, con una sincronia che
poteva rivaleggiare con quella dei gemelli.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
*si
rannicchia in un angolo buio*
Però un commentino... Piccolo piccolo... So che siamo un po'
tutti in giro per vacanze varie... Ma... Sob...
Ad ogni modo...
Questo capitolo doveva essere più lieve, molto meno
"reattivo". Tuttavia, è andata così...
Dopo aver tentato di riscrivere le scene iniziali del pranzo quasi 8
volte, alla fine ho concluso per far esplodere un po' dell'irritazione
repressa della povera Vivy...
Non ho potuto fare a meno di questa scena della lezione di ballo, anche
se doveva davvero essere molto meno... sensuale... XDDDD
Tuttavia, ripeto, l'ispirazione ha portato qui...
Tanto, non crediate che tutto sia destinato ad esplicitarsi
così in fretta... *risata sadica*
Alla prossima!!!! ^_^
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Capitolo 17 *** XVI - The Party ***
Capitolo
16
The
Party
“Ogni
uomo mente, ma dategli una maschera e sarà
sincero.”
(Oscar
Wilde)
- Avete finito,
signorina? – chiese il padrone del negozio, in inedita veste
di commesso.
Il suo tono
cortese era già stato velato da una certa impazienza.
- Emh…
Non proprio… - biascicai, attraverso la porta di legno del
camerino.
- Vivy, ti
scongiuro… Fai giudicare noi, per favore… - mi
richiamò Tyki, con voce strascicata.
- E’ che
non sono convinta… Ne provo un altro, va bene? –
chiesi speranzosa.
Scrutai per
l’ennesima volta il mio riflesso nel vasto specchio, con
addosso quell’abito arancione che il responsabile mi aveva
messo in mano appena entrata. Prima di tutto mi lasciava interdetta
quel colore terribilmente brillante, secondo me del tutto inadatto ad
una serata elegante. Le balze, evidenziate da un decoro fiorito
tutt’altro che modesto, erano troppo numerose su un tessuto
già così elaborato. La nuance prepotente si
smorzava almeno sul nastro prezioso che, cucito ad abbracciare la
schiena e le spalle, ricadeva in due capi sul petto e doveva essere
legato in un fiocco sul seno, in teoria senza velare o coprire nulla
della profonda scollatura. Chiaramente questa presunta condizione
necessaria non mi interessava nulla…
- Prima di tutto
fatti vedere con quello… Non fare storie…
Pensaci… Rischi di offendere il signore che te
l’ha consigliato… - soggiunse, sibillino.
- Ma no
davvero… Non dite così… Non oserei
mai… - balbettò il padrone.
A quel punto,
messa con le spalle al muro, aprii la porta del camerino.
Mi trovai subito
davanti il proprietario della boutique, un uomo sulla cinquantina con
un gusto ossessivo per pizzi e colori arditi, che mi sorrise raggiante
mostrando tutti e tre i suoi denti d’oro.
- Signorina, vi
dona moltissimo! Avevo ragione! L’arancione si sposa
perfettamente con i vostri splendidi occhi verdi! –
esclamò.
Eppure a me,
nonostante tutto, il ragionamento ancora non filava. Sapevo che il
verde stava bene con il nero, il rosso, il bianco, in alcuni casi anche
con il blu… L’arancione era una novità.
Mi rivolsi con lo
sguardo a Tyki.
Era appoggiato con
la schiena e la testa allo stipite di una porta, con aria pigra e
annoiata. Ma dal modo in cui i suoi occhi neri avevano preso a
scrutarmi dalla testa ai piedi con attenzione non sembrava per nulla
così stanco e stufo.
Coprì
una risata maliziosa con un gesto elegante della mano:
- Ma il nastro non
è un po’ troppo in alto…? -
- Ti
sembra…? – chiesi, fingendo innocenza. Ecco,
quella dannata scollatura riusciva davvero a mettermi in imbarazzo.
- Ma no!
– si intromise il padrone, pieno di entusiasmo – Se
volete ve lo lego meglio! –
- No, no! Grazie!
Davvero troppo gentile! Non preoccupatevi! – gli risposi, con
imbarazzo e mal celata preoccupazione, mentre questo si avvicinava
spedito. Se c’era una cosa che davvero non volevo era
lasciare che qualcuno, anche la persona più innocente,
allungasse le mani.
I miei occhi
tornarono a cercare Tyki, ma si era spostato dal suo angolo.
Dov’era andato?
- Allora, volete
che vi faccia cucire il fiocco già fatto!? Vi prometto che
non lo farò pesare sul prezzo dell’abito!
–
Mi vergognavo
quasi a spegnere il sacro fuoco del gestore.
-
Veramente… Non avete… Per dire… Un
modello anche simile, ma su toni più tenui…?
– azzardai, supplicandolo con lo sguardo.
- Temo di no,
signorina! E poi non sapete quanto vanno di moda i colori
più forti quest’anno!? Davvero, sarete perfetta!
–
Non sapevo
più cosa dire e stavo davvero per arrendermi alla
volontà del padrone.
Solo che proprio a
quel punto un braccio da dietro le mie spalle mi protese davanti agli
occhi, con un fruscio di tulle, un abito chiaro appeso ad una gruccia.
- Prova questo.
– disse Tyki, ricomparendo alle mie spalle.
Presi
l’appendiabiti dal gancio: - Quando…?
Perché…? – chiesi, frastornata.
- L’ho
intravisto appena siamo entrati… E
perché… - esitò solo per un istante,
malizioso - Forse perché ti conosco meglio di quanto
credi… - commentò, con voce suadente.
Non osai guardare
la sua espressione, che temetti essere troppo affascinante e attraente,
piuttosto tornai a rifugiarmi in fretta nel camerino. Mentre mi voltavo
per chiudere la porta, però, intravidi comunque lo sguardo
contrariato che il gestore rivolse a Tyki, il quale scrollò
le spalle con leggerezza, un sorriso colpevole in viso.
Mi stupii
enormemente di quanto fosse stato abile a capire i miei gusti.
Il colore era
perfetto, un lieve panna, in un tessuto morbido e liscio, abbastanza
lucido da non sembrare bianco, abbastanza chiaro da non fluire in un
semplice e cupo beige. La gonna, ampia, era corredata da moltissimi
ricami dorati, minuti e fini fino all’inverosimile. A livello
della vita i pizzi salivano fitti e verticali richiamando
l’idea delle stecche di un corsetto. La scollatura, molto
più sobria rispetto a quella che avevo vestito poco prima,
aveva un fine nastro di seta che, inserito nel tessuto, lo movimentava
creando delle lievi onde. Altri nastrini di uguale fattura si potevano
legare intorno alle braccia perché le maniche apparissero
leggermente a sbuffo.
Lo provai
immediatamente e questa volta non ebbi problemi ad uscire dallo
stanzino.
- Be’,
voi siete sempre deliziosa, signorina… Ma un colore
così smorto… - sentenziò, stizzito, il
padrone.
- Come ti ci
trovi, Vivy? – chiese invece Tyki, incurante degli sguardi
assassini dell’altro.
- Molto bene!
Grazie! – esclamai, incapace di trattenermi.
Lui sorrise giusto
un istante e si spostò a guardare nella sezione maschile del
negozio.
Dovetti scusarmi
centinaia di volte con il negoziante, che sembrava offesissimo per non
essere riuscito a convincermi a scegliere l’abito da lui
prediletto. Una volta che sembrò almeno un po’
convinto dai miei argomenti, mi rivestii e lui pose l’abito
ben piegato nella sua scatola.
Stava per
consegnarmi il conto, quando la voce di Tyki provenne, forte, da
un’altra stanza:
- Mi posso
servire? –
- Ah,
ma… Siete sicuro…? – chiese a sua
volta, in ansia, il padrone.
- Si, ho trovato
ciò che cerco. - e udimmo distintamente chiudersi la porta
del camerino.
- Il vostro
fidanzato è un tipo piuttosto esuberante… -
sentenziò il gestore, con aria di disapprovazione.
Io alzai gli occhi
al cielo, ma non trovai nulla da dire in sua discolpa.
In pochi minuti,
uscì dalla stanzetta, mentre ancora si stava chiudendo la
giacca e sistemando il colletto.
Il completo nero
era di un tessuto pregiatissimo e lucido. Il lavoro di sartoria era
stato tanto perfetto da rendere invisibili tutte le cuciture. La
giacca, leggermente sancrata sui fianchi, era tagliata in modo tale che
le fini linee verticali più chiare che formavano la fantasia
della stoffa avessero esattamente lo stesso andamento
dell’abito. Bottoni neri con impresso un piccolo simbolo
argentato seguivano il bordo della giacca sul davanti e in tre per
parte erano posti sulle maniche. I pantaloni, dello stesso particolare
tessuto cangiante, avevano una piega perfetta sulle gambe, parallela
alle righette della fantasia.
Stava divinamente,
anche se…
- Avete un occhio
incredibile! Questo è l’ultimo arrivo da Londra!
– esclamò, favorevolmente colpito, il gestore
– Solo che forse vi servirebbe una cravatta… Si,
penso di si… - e si avviò spedito
nell’altra stanza.
Tyki
sospirò: - Ci spillerà denaro per tre
generazioni… -
Ecco,
improvvisamente capii cosa non andava nella sua immagine perfetta. Solo
un piccolo dettaglio. Il colletto della camicia era piuttosto grande e
in questo caso doveva essere ripiegato all’interno della
giacca. Così finii per agire senza pensarci.
Mi parai di fronte
a lui, mi misi sulle punte e semplicemente presi tra le dita di
entrambe le mani quel tessuto bianco e fine. Era caldo, almeno quanto
il suo collo che avevo sfiorato inconsciamente con il pollice. Lui non
fece alcun particolare movimento, tranne abbassare la testa abbastanza
da guardare cosa stavo facendo. Io quasi non me ne accorsi, tanto ero
assorta in quel mio compito. Anche una volta che ormai la camicia era a
posto, continuavo, come soprappensiero, a lisciare piano con i
polpastrelli quella stoffa tiepida.
- Così
va bene, Vivy…? – chiese lui, a bassa voce.
Alzai gli occhi
per guardare il suo viso e non volli più distogliere lo
sguardo:
- Si… -
dissi, con un sospiro e tornai ad appoggiare i tacchi a terra.
La sua bocca
elegante si increspò in un sorriso: - Non hai abbassato la
testa… Stai migliorando… -
- Ho trovato!
– esclamò il padrone, tornando verso di noi, come
una furia.
Tyki fece una
smorfia: - Ma ciò non toglie che siamo piuttosto
sfortunati… -
A quelle parole,
al ricordo del giorno precedente, arrossii e mi allontanai, mentre il
gestore si lanciava sul suo cliente brandendo una cravatta di seta.
Dopo aver pagato
una cifra che a detta di entrambi era poco meno che astronomica, ci
avviammo verso casa, sempre a braccetto, anche se Tyki aveva insistito
per tenere in mano il mio pacchetto, per evidenti ragioni di galateo.
Il Conte si
interessò subito alle nostre spese parigine, non fu
sbalordito dal conto, non volle controllare i capi, ma in tutto il suo
atteggiamento si leggeva un malcelato entusiasmo per la serata che ci
aspettava.
Il pranzo fu
eterno, ancora più del solito. Non che avessimo fretta, dato
che ci era stato comunicato che non era prevista l’offerta di
una cena, prima del ballo.
In
realtà, comunque, una volta liberati dall’impegno
del pasto, i preparativi furono abbastanza veloci.
Inutile dire che
finii di truccarmi e pettinarmi con un anticipo sorprendente. E dovetti
attendere invece il mio cavaliere, che comparve comunque puntualissimo
all’uscita.
- Da millenni si
afferma che le donne sono le più lunghe a
prepararsi… Cosa fai già qui? – chiese,
indossando i suoi eleganti guanti bianchi.
- Non
sarò normale! – risposi, ridendo, ma
improvvisamente mi venne un dubbio terribile – Oppure mi
sarò dimenticata qualcosa… Ti sembra che manchi
qualcosa…? –
Feci una mezza
giravolta su me stessa e poi lo guardai, piuttosto tesa.
Per un attimo
sembrò interdetto o forse sovrappensiero, non saprei dirlo
con certezza. Poi fece spallucce: - Vestito…
Scarpe… Trucco… Gioielli…
Acconciatura… Direi che c’è
tutto… -
- Il copri spalle!
– esclamai, battendomi una mano in fronte e scattai per il
corridoio – Vado a prenderlo! -
- Attenta a
correre così sui tacchi! – mi gridò
dietro, mentre zampettavo spedita per il lungo corridoio nero.
Dopo questo
imbarazzante contrattempo, riuscimmo finalmente ad uscire dalla porta
preparata da Road. Questa volta, però, invece che in una
strada polverosa, sbucammo in un salotto sobrio ma curato. Tuttavia non
feci neanche in tempo a dare un’occhiata
all’arredamento, che bussarono alla porta
d’ingresso.
- E’
arrivata la carrozza. - affermò Tyki avviandosi nel
corridoio, quindi lo seguii senza esitare oltre.
Non appena mi
porse la mano per salire sull’elegante veicolo di legno
massiccio, mi voltai a guardare l’edificio da cui eravamo
appena usciti: una villa a due piani enorme, con un portico sulla
facciata e un alto tetto rosso. Mi bloccai con un piede sulla pensilina
e uno a terra, gli occhi spalancati. Il conducente mi guardò
con aria interrogativa.
- Tyki, ma
cos’è questo posto…? –
chiesi, a voce bassa, tenendo d’occhio l’uomo, che
di fronte alla mia reazione, ancora si grattava la testa, perplesso.
- La mia
dependance italiana… - rispose, tranquillo, anche lui
sottovoce, un sorrisetto sulle labbra.
Poi a tono
più alto: – Ma no, stai tranquilla, non hai
dimenticato nulla… Su, andiamo, che facciamo
tardi… -
-
“Dependance italiana”… - sbuffai, a
mezza voce, quando la carrozza raggiunse una strada affollata e ormai
dal sedile all’esterno non si potevano più
distinguere questi bisbigli – Stai scherzando, vero? -
- No, per
nulla… - rise – Forse non lo sai, ma ho anche un
titolo nobiliare, mia cara… -
- Ah, certo che il
Conte fa miracoli… - commentai, acida.
Con un sussulto mi
resi conto di essere stata scortese:
- No,
cioè nel senso… Non volevo dire una cosa
simile… Scusa, Tyki… - iniziai a scuotere la
testa insistentemente - Stai così bene
così… Sembri davvero un Sir… Insomma,
un nobiluomo… Anzi, lo sei, si… Quindi
insomma… -
Lui non si
irritò né rise, ma mi sembrò
preoccupato. Mi fermò con un cenno della mano:
- Vivy. Cerca di
non essere così tesa là dentro. Sii naturale. -
disse, guardandomi fisso.
- E se fossi
troppo naturale…? E se fossi invece troppo
ossequiosa…? Se sbagliassi qualcosa…? –
sgranai gli occhi a dismisura immaginando facce contrariate e
gravissime gaffe.
La sua espressione
tesa sfumò velocemente in una molto più divertita.
- Tyki, io sono
una sconosciuta chiunque lì dentro... Magari non si
ricorderà mai nessuno il mio nome, ma sicuramente
indicheranno te per qualunque mio errore... Io non voglio crearti
problemi… - biascicai, lisciando la gonna
dell’abito, in ansia.
- Guarda che
là dentro una buona parte degli invitati ti avrà
già vista almeno una volta. Saranno per la maggior parte
francesi, dato che i Savoia hanno più di un antenato e di un
legame matrimoniale in comune con i nobili del tuo paese di origine. E
qualcuno sarà anche amante dell’opera,
immagino… - osservò, più che
rilassato.
In
realtà, quelle parole mi avevano agitato ancora di
più.
- No…
E’ anche peggio… Potrebbero avere grandi
aspettative… Una donna colta, intelligente, che sappia
discutere di musica e si tenga informata… Non ce la
farò mai a fare una buona impressione… - e mi
appoggiai, scoraggiata, al sedile.
- Aspetta. Non
l’ho detto per farti preoccupare ancora di più.
Intendevo dire che tu parti da un’ottima considerazione e per
questo sarà ben difficile che tu possa deluderla tanto in
fretta. Non hai nulla da dimostrare. Sei una nota ed affascinante
cantante d’opera. Pensa a questo e poi comportati come
sempre. – poi sorrise, leggermente ironico – Solo,
cerca di farti scappare qualche battuta aspra. E se proprio non riesci
a bloccarla sul nascere, mascherala con una risata scherzosa. Le
battute di cattivo gusto sono molto diffuse, le faide decisamente meno.
–
Lo guardai poco
convinta.
- Cosa
c’è…? – chiese, alzando gli
occhi al cielo.
- Hai detto
“affascinante”…? –
-
Perché, credi davvero di non esserlo…?
– chiese a sua volta, scuotendo la testa –
Comunque, questa sera un sacco di gente di riempirà di
complimenti, veri o falsi poco importa. Ringrazia sempre e non far
trasparire il fastidio. –
- Questo lo faccio
sempre… - storsi le labbra – E anche tu sarai
pieno di attenzioni per qualunque dama… -
-
Chiaramente… Questa è la legge delle occasioni
pubbliche… - sospirò – E per ultima
cosa, se hai paura di sbagliare, non dire nulla e sistemerò
tutto io. -
- Spero di non
averne bisogno… - soggiunsi, indispettita.
- Lo spero
anch’io… - disse e prese a guardare disinteressato
fuori dal finestrino.
Va bene, non avevo
ragione di sentirmi così disturbata dal suo desiderio di
darmi consigli. Del resto mi aveva vista agitata e voleva rassicurarmi.
Eppure tutti i sotterfugi che mi stava chiedendo mi rendevano ancora
più insicura e ansiosa, di conseguenza scorbutica. Anche se
aveva ragione: alla fine lui si sarebbe occupato di tutto, per evitare
che fossi coinvolta in qualche intrigo o maldicenza, perché
conoscessi solo le persona giuste e, soprattutto, perché
fossi preclusa dallo scoprire qualcosa di sconveniente.
Perché
me lo sentivo dentro che c’era qualcosa che non voleva
sapessi.
Così
come sentivo qualcos’altro. Un groppo in gola amaro da
mandare giù.
Quante donne
avrebbe dovuto lusingare quella sera? A quante ragazzine ingenue e
sognanti avrebbe dovuto offrire un ballo? Per quante donne avrebbe
dovuto spargere complimenti ben superiori ad un semplice
“affascinate”?
Si chiamava
gelosia. E ne stavo già assaggiando il frutto amaro.
Io ero la sua dama
per quella sera, la donna a cui doveva le maggiori attenzioni. Ma al di
là dell’apparenza ufficiale, rigida e
formale… Dietro il contegno netto e serio del
contesto… Nel momento in cui gli sguardi assetati di
scandalo di quei nobili annoiati si fossero staccati da noi…
Nulla sarebbe cambiato. Io sarei rimasta la sua fidanzata impacciata e
lui li mio cavaliere distaccato. Perché non bastava un bacio
mancato a dimostrarmi di essere qualcosa di più di un suo
obbligo…
Al che seguivano
fantasie di donne magnifiche abbracciate a lui e alle quali solo un
bacio non sarebbe mai bastato… E l’odiosa immagine
non faceva che aumentare la stretta allo stomaco…
Per fortuna tutte
queste sensazione sbagliate si assopirono quando la carrozza si
avvicinò ad una vasta costruzione illuminata a giorno.
Scostai la tenda per vedere al meglio il palazzo.
Enorme, bianco e
immacolato, di almeno tre piani, con sobri stucchi e solo lievi spruzzi
di un azzurro-grigio su alcune decorazioni, sui tetti e sulle inferiate
delle finestre. Era composto da tre parti: una costruzione centrale
circolare e due parti, uguali, squadrate, che con
l’inclinazione in cui erano poste sembravano accogliere
fisicamente gli ospiti nell’enorme piazzale anteriore,
circondato da siepi, aiuole e alberi perfettamente curati.
Al nostro mezzo di
trasporto fu permesso di attraversare la cancellata di ferro e
proseguire nel lungo viale, girare intorno alla fontana preziosa
davanti all’entrata e fermarsi comodamente proprio di fronte
all’ingresso.
Il conducente
aprì lo sportello. Tyki scese e mi offri la mano per
aiutarmi a scendere, impeccabile. Così notai subito la
tranquillità dei suoi gesti e del suo comportamento. Ma
altrettanto in fretta mi accorsi che si trattava della sua solita
maschera. Era diventato il nobile gentiluomo che normalmente
interpretava, la persona fine e a suo agio che tutti volevano vedere.
Improvvisamente pensai che se lui era in grado di apparire
così impeccabile in quel ruolo, anch’io,
apprezzata interprete teatrale, potevo e dovevo fare
altrettanto…
- Monsieur Mikk,
benvenu dans notre petit accueil... !* -
Un anziano
signore, radi capelli bianchissimi sulla testa, ma baffoni foltissimi e
diretti all’insù sotto il naso, addosso una
splendida divisa bianca piena di intarsi e medagliette d’oro,
ci venne incontro non appena ci dirigemmo sotto il piccolo portico.
Ero rimasta
sorpresa dal sentir parlare in francese e guardavo il mio cavaliere,
sicura che non avesse capito.
Tyki
lasciò il mio braccio e fece un leggero inchino: - Je suis
très honoré d’être ici,
invité à la votre présence,
Majesté…* -
Ero leggermente
frastornata. Non sapevo che conoscesse così bene il
francese…
Il sovrano rise e
gli appoggiò fraternamente una mano sulla spalla: - Ah-Ah!
Ce n’est pas un moment ainsi formal! Nous sommes ici pour une
soir de tranquille
« diversão »,
n’est pas?* –
- Oui, votre
Potrugais est très améliorées...*
– un sorriso gentile, di circostanza, affiorò
sulle sue labbra.
- Mais voulez-vous
introduire cette magnifique mademoiselle? – e il re sorrise
nella mia direzione, cordiale.
- Oui.
C’est Mademoiselle Victoire Villois, cantesuse à
l’Operà de Nantes... – mi
presentò, con un cenno nella mia direzione.
Io mi inchinai
prontamente, chinando anche il capo con reverenza : - Onorata,
Maestà… - dissi, con il mio francese madrelingua.
- … et
ma fiancée… -
Il cuore prima si
fermò e poi prese a martellare furiosamente.
L’aveva fatto, l’aveva fatto davvero. Questa era la
mia presentazione ufficiale.
- Oh,
Mademoiselle! E’ magnifico! Congratulazioni! –
esclamò, radioso, il sovrano – Francese, soprano,
bellissima… Avete fatto un’ottima
scelta… - e mi fece uno sdolcinato baciamano.
Tyki sorrise
lievemente, ma non disse nulla.
- Troppo generoso,
Maestà… - dissi, imbarazzata per la sua
sincerità, non solo riguardo ai complimenti nei miei
confronti, ma anche al comportamento, allegro e spensierato nonostante
la sua alta carica.
- Assolutamente
no… Tuttavia, bisogna dire che siete una bella coppia! Anche
il nostro Monsieur Mikk, con il suo fascino latino, è
decisamente di bell’aspetto! – sorrise.
- Votre
Majesté… - fu chiamato da un uomo composto, in
completo con papillon, all’apparenza un maggiordomo.
- Perdonatemi!
Comunque, prego, entrate! Presto vi raggiungerò! –
e si avviò a seguire il servitore.
- Sai il francese?
Non me l’hai mai detto. – commentai, sempre a bassa
voce, mentre camminavamo sul tappeto rosso nella direzione obbligata
verso il salone.
- Il fatto che il
Famiglia ci comprendiamo comunque, non significa che io non debba
conoscere la lingua ufficiale della nobiltà europea.
Altrimenti avrei bisogno di un interprete. – poi aggiunse,
indicando con un cenno del capo un paggetto vecchio stile, con
calzamaglia e berretto colorati – Ecco il tocco barocco della
serata… -
- I signori?
– ci interpellò quel bizzarro individuo, con in
mano un registro degli ospiti.
I nostri nomi
vibrarono nella sala già piena di gente, mentre muovevamo i
primi passi all’interno.
- Le Duc Tyki Mikk
e Mademoiselle Victoire Villois! –
Deglutii a fatica,
ansiosa, mentre almeno venti persone, escluse quelle che stavano
discutendo animatamente e non avevano sentito, si girarono a guardarci,
chi curioso, chi già più malizioso.
Cercai allora di
concentrarmi sull’ambiente, almeno per il tempo in cui
nessuno aveva ancora tentato di avvicinarci.
Un lampadario
ricchissimo e probabilmente davvero pesante, milioni di gocce di
cristallo unite insieme in un oggetto degno di un museo, pendeva
statico dal soffitto, diffondendo una luce gialla riflessa dai piccoli
frammenti smerigliati. Il soffitto era altissimo e due piani di
balconate correvano, con ringhiere di marmo scolpito, sopra il piano
rialzato adibito alla danza. Le pareti, a cui erano appesi vari quadri
dalla forgia antica e con larghe cornici dorate, vedevano
un’alternanza di colonnine inserite in marmo grigio, che
erano richiamate da quelle enormi e massicce che reggevano i corridoi
superiori e il soffitto. Quest’ultimo, inoltre, era decorato
riccamente con un affresco delizioso di nuvole e angioletti.
Un’orchestra, composta da almeno venti membri in elegante
manfrina rossa, era stata posizionata su un palchetto a lato della
pista.
Ora ero davvero
spaesata…
- Monsieur Mikk,
che onore vedervi! –
Una matrona
addobbata a festa, con ancora in testa un prezioso copricapo con piume
di pavone, si fece strada verso di noi, un sorriso ampio e cerimonioso
sul viso.
Un’altra,
pensai, già abbastanza spazientita. Era la terza madama di
alto rango che veniva a complimentarsi per la ricomparsa di Tyki. Anche
se da quei discorsi vuoti avevo capito che per un po’ di
tempo non si era fatto vedere in feste come quella, non avevo ancora
avuto la possibilità di chiedergliene la ragione, dato che
ogni cinque secondi qualcuno lo apostrofava con entusiasmo. E
d’altra parte per lo stesso motivo, dopo il discorso e
l’augurio di buona serata del re, non eravamo ancora riusciti
neanche a mettere piede in pista.
- Madame, siete
più elegante che mai… - si complimentò
lui, sempre con finezza e grazia, ricevendo la mano della nobildonna.
- Parlate di
questo? – chiese, come se il riferimento al terribile
cappello fosse sottinteso – E’ il mio ultimo
acquisto dall’oriente! Non è splendido!? Non lo
toglierei mai! –
-
Meraviglioso… - annuì lui.
Io strinsi i
denti, non esattamente d’accordo.
La donna si volse
nella mia direzione, con aria guardinga, come se avesse notato quel
cenno lievissimo. Ero certa che non fosse possibile, ma a giudicare
dalla sua espressione, non me la sentivo di dubitarne. Guai in
vista…
- Sono
assolutamente d’accordo, Madame. Non ho mai visto nulla di
più bello. – mi affrettai a dire, anche se non
riuscii a sostenere quegli occhietti aggressivi.
- Allora dovreste
fare un giro nella mia collezione! Poche altre nobili possono vantare
un simile guardaroba! –
La smorfia
trionfante che nascose con un cenno della mano mi fece ribollire il
sangue. Patetica e vanesia donnetta… Ma quando questo
commento passò nella mia mente per un attimo non mi
riconobbi. Non potevo perdere le staffe così.
Cercai di sembrare
cordiale, con tutte le mie forze: - Non ne dubito! Mostrate un ottimo
buongusto! –
- Vi
ringrazio… - e sembrò placarsi, ma non
esitò ugualmente a squadrarmi dalla testa ai piedi come se
mi stesse sottoponendo al suo test personale. Mi imposi di non
rivolgerle uno sguardo altrettanto maligno.
- Volete che
faccia le presentazioni? – si intromise Tyki, pacato, con una
calma sovrannaturale.
- Si, lo gradirei
molto! – rispose, la matrona, aspra.
- La Marchesa
Marie Dorant… - disse indicandomi la donna cappelluta, che
sprecò solo un cenno del capo nella mia direzione.
- Mademoiselle
Victoire Villois… - e io, molto più modesta, feci
un forte inchino. Se non potevo batterla in nobiltà, potevo
provarci in stile. E giovinezza, sussurrò un mio minuscolo
sobborgo maligno, che non sapevo davvero se potesse rientrare nel mio
animo Noah.
- Oh! La
più giovane e promettente cantante d’opera di
Nantes! Che piacere! – esclamò la matrona. Era la
prima a dire di aver sentito parlare di me, ma era anche la prima a far
passare ogni parola come un insulto, compreso questo semplice
riconoscimento.
- Onorata della
vostra conoscenza e di sentire che sapete chi sono…
– azzardai, certa che più di così non
avrei potuto osare.
- Oh, lo so
certamente! Mio marito il marchese – puntualizzò,
con una nota di orgoglio tutt’altro che velata – mi
ha più volte celebrato le vostre qualità canore!
Spesso con complimenti, a mio avviso, eccessivi! Tanto che avrei
davvero voluto venire a vedervi, per giudicare con i miei occhi e le
mie orecchie! Peccato però che sia sempre così
impegnata! –
Sapevo che la mia
espressione si era fatta cupa, nonostante i miei tentativi di restare
calma. Perché potevano criticare ogni cosa, ma non il mio
lavoro, non l’onore più grande che avevo,
cioè quello di cantare presso quel teatro e di far valere la
mia voce.
Tyki mi
guardò storto, ma non si scompose minimamente. Recitava da
professionista o forse, più semplicemente, si stava quasi
divertendo.
- Mi dispiace
molto, Madame. Vorrei che potessimo restare ancora qui a parlare, ma ho
intravisto il Conte tra la folla e dobbiamo assolutamente raggiungerlo.
Io e la mia fidanzata. – soggiunse, con altrettanto finta
ingenuità, imitando la nostra interlocutrice.
Per un istante la
donna sgranò gli occhi e un’ombra inquietante di
invidia sembrò offuscarle la vista. Poi, netto come un
fulmine a ciel sereno, lo stupore si trasformò in una
smorfia maliziosa.
- Oh! Non ne ero a
conoscenza! Congratulazioni! – e anche in questo caso si
limitò ad un cenno del capo – Ma non voglio
trattenervi! Prego! E buona serata! -
Camminammo
piuttosto velocemente fino a poco lontano da lei, poi rilassammo
l’andatura.
- Non abbiamo
nessun “Conte” da raggiungere, giusto? –
chiesi, la voce ancora leggermente tremante dalla rabbia.
Lui non rispose
alla mia domanda, ma un attimo dopo, tra sé e sé,
a bassa voce:
- Credevo di
metterla a tacere, invece ha già sentito le
dicerie… -
-
Cosa…? – chiesi.
-
Nulla… - rispose, ma la sua espressione tesa diceva ben
altro.
Poi mi
studiò un attimo: - Credo che tu abbia bisogno di sederti
tranquilla per un po’… -
- A te piaceva
quell’orrendo cappello!? – gli chiesi, guardandolo
torva. Avevamo preso posto presso un tavolo del primo piano della
balconata.
- No. Sembrava un
pavone morto. –
Non mi sarei mai
aspettata una risposta così netta.
- Tyki…
- dissi, quasi con rimprovero, nonostante fosse il commento che volevo
sentirgli fare.
- E se vuoi
saperlo, quella nonnetta, che dimostra ottant’anni e poco
importa se ne ha solo sessanta, è un’arpia
ignorante e pettegola, sposata ad un marchese che batte i cento e che,
al contrario di lei, non solo ha una cultura sconfinata e una mente
lucida nonostante l’età, ma è anche
così previdente da aver già iniziato a preparare
le pratiche del divorzio. La lascerà su un marciapiede a
capire cos’è la vita vera, dato che abborda
più uomini lei di una nave scuola. – quando storsi
il naso, aggiunse, senza cambiare intonazione - Parole del marchese in
un attimo di debolezza, non mie, ma mi trovo completamente
d’accordo. Una bagascia senza fine, falsa e ignobile.
–
Onestamente questa
volta, non potei che restare in silenzio. Non avevo mai sentito tanto
disprezzo nelle sue parole, che erano risuonate spietate e cruente
dalla sua bocca, nonostante l’apparente calma con cui le
aveva pronunciate.
Si
rilassò di fronte alla mia espressione basita e sorrise,
ironico: - Il fatto che io vesta una maschera non significa che davvero
tutto mi scorra addosso senza che senta anch’io il bisogno di
sfogarmi, non ti pare? -
-
Caspita… - dissi solamente, sgranando gli occhi –
Io avrei paura ad averti come nemico… -
- Ma io non sono
nemico di nessuno… Ho solo dei pareri personali, che devo
nascondere per ragioni di cortesia… - il sorriso divenne
repentinamente un ghigno – E dato che
“Madame” ha già tentato più
volte di sedurmi, credo di avere il diritto di provare un po’
di disgusto per lei… -
- Che
donnaccia… - biascicai, al colmo dell’irritazione.
- Solo non ti
arrabbiare più così, Vivy…
Perché per un attimo ho temuto di dovervi
dividere… - rise.
Tuttavia,
d’improvviso, il suo sguardo indugiò su qualcosa,
o più probabilmente qualcuno, alle mie spalle e si fece di
nuovo serio, gli occhi ridotti a fessure aggressive.
- Cosa
c’è? – chiesi, nervosa.
-
Dannazione… - commentò, a bassa voce.
- Tyki?
– chiesi, sempre più ansiosa.
Lui mi
guardò per un solo breve istante e vidi per la prima volta
qualcosa di simile alla mia stessa ansia nella sua espressione contrita.
- E ‘um
prazer vê-lo, querido! **- esclamò una voce
vibrante alle mie spalle.
Un uomo alto,
dalla carnagione scurissima e gli occhi neri come la pece porse la mano
a Tyki che si alzò cortesemente per stringerla. Era un
individuo tutt’altro che affascinante, nonostante di certo
proveniente da un paese sudamericano, cosa evidente già dal
taglio del completo, in pochi ma evidenti dettagli diverso da quello
europeo, come pure dai modi più informali e professionali
che utilizzava. Al suo fianco stava una ragazza graziosa, ma
decisamente esuberante per l’ambiente, nel suo abito di pizzo
nero.
- E’ un
piacere anche per me, Conte… - disse Tyki, piatto.
- Oh,
perché non parlate portoghese, per una volta che siamo quasi
tra compatrioti… - e rise in maniera alquanto sguaiata.
-
Perché altrimenti la mia dama non potrebbe
capire… –
Tyki non era
scortese perché stava semplicemente segnalando la mia
presenza. Tuttavia, era come se il suo tono celasse qualcosa di
tagliente.
- Ah, certo!
Chiedo scusa! Sono spesso così maleducato, Mademoiselle,
perdonatemi! – disse, accostandosi con un altro passo alla
tavola – Solo che io e Teresa parliamo sempre e solo tra noi
la nostra lingua madre… -
- Victoire, - lo
interruppe Tyki per fare le presentazioni – ti presento il
Conte Jorge Campelo e sua moglie Teresa Ricardo… - ed
entrambi fecero un lieve inchino.
- Madomoielle
Victoire Villois… Umh… - ed ebbe un attimo di
esitazione, che cercò di nascondere con un cenno della mano.
Cosa aveva?
- E’ un
onore! – disse lui, porgendo la mano verso di me. Quando io
però vi posi la mia, lui semplicemente la strinse e la
lasciò andare. Rimasi un po’ stupita, nonostante
fossi a conoscenza degli atteggiamenti molto virili dei popoli
d’oltreoceano.
- Possiamo
accomodarci con voi? – chiese Teresa, con un sorriso
conciliante.
Tyki
esitò di nuovo. La sua maschera si stava frantumando urtando
contro qualcosa che io però non potevo vedere.
- Certo!
– dissi io, allora, con il massimo della cortesia.
Tyki distolse lo
sguardo, stizzito. Ma sapevamo entrambi che non si poteva mai essere
tanto scortesi da rifiutare una simile richiesta.
Mi ci volle un
po’ di tempo in questo caso, ma mi resi conto del motivo per
cui il mio cavaliere si comportava così.
Jorge era una
persona molto a modo, nonostante gli atteggiamenti un po’
bruschi, americani, che aveva, di cui si scusava adducendo la colpa al
suo periodo di permanenza negli Stati Uniti. Eppure non erano solo i
comportamenti un po’ troppo amichevoli e pragmatici ad essere
strani, e neppure l’inquietante pizzetto luciferino, ma
l’aria saccente e maligna celata dietro l’apparente
cortesia. Tyki aveva detto che in occasioni simili nessuno portava
avanti faide e puntigli. In realtà, quello che il conte
nascondeva dietro eleganza artificiosa era proprio questo. Qualcosa di
personale e segreto… Che io a questo punto volevo
scoprire…
- Oh! Splendido
questo walzer! – esclamò all’improvviso
il nobile brasiliano. Si alzò e mi offrì di nuovo
la mano, questa volta con ben altro intento che una stretta di mano
– Mi concedete questo ballo, Mademoiselle…? -
Immaginai subito
che Tyki avrebbe preferito che qualunque altra persona ballasse con me,
compresa per assurdo la Marchesa Dorant. E nonostante questo, mai mi
sarei aspettata la sua reazione.
La sua mano
scattò d’impulso sulla mia, deposta sul mio
grembo, come per evitare che potesse essere raccolta da quella di
Jorge. Premette tanto tra il palmo e le sue dita le mie da farmi male.
Sobbalzai, ma mi costrinsi a non guardarlo e piuttosto a rivolgere la
mia attenzione sul conte, sperando che non avesse notato quel gesto
avventato.
Chiaramente
speravo invano, mentre qualcosa simile al trionfo si poteva cogliere
nell’aria seria con cui squadrava quel messaggio silenzioso.
Non potevo permetterlo.
- Tyki, - dissi ad
alta voce, a costo di sembrare ridicola – non preoccuparti
così! Starò attenta a non pestare i piedi al
signor conte! –
Ancora una volta
dovetti sforzarmi per non finire assorta a fissare
quell’espressione tesa che mi rivolgeva e guardai ridendo
molto poco sinceramente il nobile in piedi di fianco a me: - Dovete
sapere che sono piuttosto imbranata con il ballo! Preferirebbe che non
ballassi con nessuno oltre a lui! Teme che possa fare brutta figura con
voi, che certo siete un ballerino nato! –
A queste parole,
la sua mano, molto lentamente, si ritirò.
Avevo ragione. Il
conte era decisamente abile con la danza e guidava splendidamente. E
come avevo previsto in tempi non sospetti, non provavo alcuna
particolare emozione ballando con un estraneo, quindi riuscivo a dare
il meglio di me.
- Siete molto
più brava di quanto avevate preannunciato… -
disse, a voce bassa.
- Vi
ringrazio… - risposi.
Poi come se non
avesse aspettato altro che quel momento, chiese, con una strana foga: -
Come mai siete qui in compagnia del duca? –
Ci misi un istante
a capire che si stava riferendo a Tyki.
- Ma cosa
intendete con “come mai”? -
- Nel senso, come
mai vi ha invitata? –
Era decisamente
brusco, oppure stava già scadendo nella scortesia? Anche se,
certo, gli avevo chiesto spiegazioni proprio perché speravo
diventasse subito più esplicito.
- Be’,
perché sono la sua fidanzata, immagino… -
Feci ancora fatica
a dirlo e lui credo se ne accorse. Restò in silenzio per
qualche secondo, poi disse, pacato: - Immagino sappiate di non essere
né la prima né l’ultima… -
Queste parole
caddero come un masso sulla mia testa. Non so come riuscii a tenermi in
piedi e a terminare la sequenza della danza.
- Perdonatemi? -
chiesi, anche se mi mancava un po’ il respiro.
- Non siete la
prima a cui promette molte cose. Una volta si presentava ad ogni festa
con una donna diversa. Molte volte queste si aspettavano una certa
considerazione, una certa presentazione. Eppure, come voi stessa avete
potuto notare, non ha minimamente intenzione di concedervela. -
- Continuo a non
capire… Cosa c’entro io con questo…?
–
Seguivo i passi
schematicamente, ma la mia testa era altrove. Veleggiava sulle parole
nefaste di quell’uomo.
- Non
l’avete notato…? Non vi ha presentato come la sua
fidanzata. -
Ricordai
improvvisamente l’interruzione forzata che aveva compiuto una
volta detto il mio nome.
- Con altre
persone l’ha fatto! Con il re, con la Marchesa
Dorant… - cercai di dire.
- Il re non si
cura mai dei pettegolezzi… E poi il duca non sopporta la
Marchesa… E’ l’unica donna, e dico
l’unica, che abbia mai rifiutato… Questo dovrebbe
dirvi molto… Compreso il motivo per cui ha deciso di fare
per la prima volta sfoggio di voi nei suoi confronti… -
Ricordai quel
sussurro quasi indistinto dopo che avevamo lasciato la matrona alla sua
invidia… No, quella non era più
invidia… Improvvisamente mi aveva fulminata con
quell’aria maliziosa… La stessa di Jorge ora,
mentre si rivolgeva a me…
- Io non
scommetterei un centesimo sul vostro matrimonio,
Mademoiselle…- disse infine con un sorriso infingardo sulle
labbra.
- Come vi
permettete…? – biascicai a fatica, cercando di
riprendere il controllo.
- Per quanto siate
molto bella, non credo che il portoghese – e mise un accento
crudele su questo appellativo – vi consideri più
che una delle tante… -
Fu solo a quel
punto che distolsi gli occhi da quell’uomo gongolante della
propria malvagità, anche se più volte Tyki mi
aveva rimproverata proprio per la mancanza di contatto visivo durante
il ballo. Stavo contravvenendo, ma non riuscivo più a
contrastare quelle parole crudeli che ora mi ronzavano nella mente.
Fu allora che lo
vidi. Il mio fidanzato ballava con Teresa a pochi metri da noi e,
invece che guardare la sua dama, fissava me, con uno sguardo
impenetrabile. Incrociare quello sguardo fu per me più duro
di ogni altra cosa.
La musica si
interruppe e Jorge mi lasciò andare rivolgendomi un inchino.
Non appena sua
moglie si avvicinò, seguita da Tyki, la apostrofò
bruscamente: - Credo che tu possa anche ballare con tuo marito, che ne
dici, Teresa? –
Feci giusto in
tempo a vedere la donna abbassare gli occhi, tristemente, che Tyki mi
prese per il braccio, allontanandomi da loro.
- Cosa ti ha detto
quel bastardo!? Dimmelo, Vivy! - sibilò, trattenendosi
dall’alzare la voce.
C’era
qualcosa di spietato e tremendo nei suoi occhi, tanto che per un attimo
mi sembrò che affiorasse il giallo dei Noah. La maschera si
era spezzata.
-
Nulla… - dissi, sperando che bastasse a calmarlo.
- Non mentirmi!
– e la sua stretta aumentò, facendomi male.
- Tyki…
- sentivo le lacrime agli occhi, ma non volevo fare una sceneggiata in
mezzo a quella sala piena di malelingue. Provvidenziale,
l’orchestra ricominciò a suonare.
- Ti
prego… Balliamo e basta… - dissi, mentre
ricacciavo indietro il pianto isterico che tentava di sfociarmi
direttamente dal petto.
Lasciò
il mio braccio e senza una parola mi prese la mano, preparando la
posizione.
Passai tutto il
tempo a guardarlo dritto negli occhi, cercando disperatamente un
sostegno per la mia sofferenza. Non avevo più paura di
scrutare il suo bel viso così da vicino, di lasciarmi
trasportare, di provare quella dolce emozione nel restare fra le sue
braccia. Perché forse, una volta che fossi stata obbligata a
ripetere ciò che avevo sentito, tutte quelle
malignità sarebbero diventate realtà e forse non
avrei più sopportato di vedermi riflessa nelle sue iridi
scure, una fra le tante.
Credo che lui
avesse intuito quanto fosse importante per me, perché
improvvisamente tornò calmo. Prese a condurmi con
delicatezza, come se camminassimo sulle nuvole, rivolgendomi un volto
più che poteva sereno. Eppure la stretta protettiva della
sua mano sulla mia mostrava un’altra volta il timore che
nascondeva. Per la prima volta, aveva timore di qualcosa… E
io con lui…
La strada era
umida e fredda. Eravamo usciti prima dal palazzo e ci eravamo
accomiatati in fretta dal re, assicurandolo che la carrozza ci stava
già aspettando. In realtà, non
l’avevamo chiamata.
Avevamo fatto
giusto pochi metri oltre la cancellata di ferro, quando Tyki si
fermò e parlò, con forzata
tranquillità: - Cosa ti ha detto Jorge…?
–
Scossi la testa: -
Cosa credi che mi abbia detto…? –
Non rispose alla
mia domanda: - Adora seminare zizzania. E’ peggio di un
uccello del malaugurio. Dove compare, qualcosa va sempre
storto… - sibilò, di nuovo con parole spietate.
- Cos’ha
contro di te? – chiesi, decisa, interrompendo i suoi
sproloqui.
- Tutto
l’odio ancestrale dei colonizzati per i
colonizzatori… Il Brasile era possedimento
portoghese… -
Forse
c’entrava anche questo e mi ritornò alla mente
quella punta di disprezzo con cui il conte aveva sottolineato la sua
nazionalità. Ma non poteva essere solo quello…
-
Cos’altro? -
-
Nient’altro… -
- Non prendermi in
giro, per favore. Questa è stata una serata dura.
– sentenziai, impaziente.
- …
Teresa… - disse solamente, in un sospiro, ma capii subito.
- Prima o dopo che
si sposassero…? –
- Per chi mi hai
preso…? – chiese, con amarezza.
-
Rispondi… -
-
Prima… Ma lui ha creduto che lei l’avesse scelto
come ripiego… Quindi mi porta rancore, come un
bambino… Eppure la sfoggia come un trofeo, come una vittoria
su di me… E’ un idiota… - scosse la
testa, una smorfia impressa sul viso.
Seguì
un momento di silenzio, che non avevo intenzione di rompere.
- Che bugie ti ha
raccontato? – chiese, serio.
- Nulla che non
potessi sospettare… -
- Vivy!
– mi richiamò, irritato.
- Quante donne hai
avuto, Tyki…? –
Un’espressione
rabbiosa affiorò per un istante, ma si spense quando
intercettò il mio viso: - …Vuoi una
stima…? –
- Un numero. -
risposi, netta.
- Non lo so.
Parecchie. Ti basti questo. – disse, come se bastasse a
chiudere l’argomento.
- Dovrai fare
molto di più se vuoi che tutto torni a posto, Tyki!
– sbottai – Mi avevi detto di non aver nulla da
nascondermi nel mondo della nobiltà! Eppure ecco che alla
mia prima apparizione pubblica scatta già
l’inghippo! –
- Sei tu che credi
a quello che ti racconta una persona che mi porta rancore! Potrebbe
dire qualunque cosa per mettermi in cattiva luce! –
esclamò, sempre più arrabbiato.
- Quante
donne…!? – insistetti.
- … Ne
cambiavo una a festa, va bene!? Qualche volte sono andato con Lulubell,
qualche volta con mio fratello… Se avevo una dama era sempre
una diversa! E’ un problema che non abbia mai avuto relazioni
durature!? –
- Non capisci! Non
è questo il punto! –
- Si che lo
è! – mi interruppe – Ma erano tutte
avventure! Le sfoggiavo per un po’ di tempo, ma loro stesse
non volevano più di questo! –
- Jorge ha detto
che molte avrebbero voluto qualcosa di più! –
- Se
l’è inventato! Perché fai tutta questa
fatica a crederlo!? – sbraitò, con espressione
incredula.
-
Perché avresti dovuto dirmelo! – sentii la mia
voce incrinarsi lievemente.
- A che scopo!?
Sono tutte cose passate! – esclamò, esasperato.
- Almeno di
Teresa! Avresti dovuto parlarmi almeno di lei! Se temevi che li avremmo
incontrati, avresti dovuto anticiparmelo! –
- …
Teresa… E’ ancora interessata a me… Per
questo non te l’ho detto prima… - e distolse lo
sguardo, indispettito da ciò che lui stesso si era trovato a
dire.
Deglutii a fatica
e cercai di combattere il dolore: - E’ la tua
amante…? Per questo Jorge ce l’ha ancora con
te…? –
- No. Non ho
più nessuna da quando sono stato promesso a te. -
Volevo crederci,
con tutte le mie forze. Forse ci sarei riuscita, con il tempo,
ragionandoci sopra a mente fredda. Perché quella sembrava la
verità, finalmente.
Eppure in quel
momento la mia espressione si fece incredula.
La sua, al
contrario, divenne contrita, di nuovo: - Proprio non riesci a
credermi…? –
- La
verità va detta sempre. Non avrei dovuto strappartela in
questo modo, ma sentirla uscire dalle tue labbra… - scossi
la testa, triste. Storsi le labbra, combattendo di nuovo il desiderio
di scoppiare a piangere: – Invece ho dovuto aspettare di
sentirmi dire che sarò sempre e solo “una delle
tante”… -
- Non lo
sei… Perché io ti sposerò…
- e poi, più a bassa voce – Così
è stato deciso… -
-
Già… Ecco perché soffrirò
per sempre… - dissi, amaramente.
- Non ne avrai
ragione… - tentò di rassicurarmi, mesto.
- Per sempre
sarò tormentata dall’idea che tu possa trovarti
qualcuna più attraente di me… Non basteranno le
rassicurazioni… Sono troppo gelosa, Tyki… -
Mi pentii subito
di averlo detto, stringendo i denti rabbiosamente. Era come ammettere
che lui era importante per me. Era come un tentativo di impietosirlo.
Stavo sbagliando tutto, non era questo il modo. Almeno non mi ero messa
a piangere, questa era l’unica cosa di cui potevo gioire.
-
Andiamo… - disse, senza alcuna inflessione e senza
incrociare il mio sguardo.
Ma, quando tentai
di legare il mio braccio al suo, mi prese la mano e la strinse nella
sua, in silenzio. Era la seconda volta che lo faceva quel giorno, ma in
questo caso sembrava non avesse più intenzione di lasciarla.
Ora non era un avvertimento, non era una muta richiesta, ma un
desiderio, era una necessità improvvisa…
- Tyki…
Ma non avevi detto che… - azzardai, insicura.
- Va bene
così. – disse, zittendomi.
Il suo guanto di
pelle si scaldò subito a contatto con la mia mano, con cui
avevo subito ricambiato il gesto. Il modo in cui quelle dita affusolate
tenevano strette le mie era stranamente dolce e mi riempiva il cuore di
tenerezza.
Come aveva
guardato male quei due ragazzini che si tenevano per mano, quella notte
a Budapest. Eppure ora era lui a scegliere questo gesto per
riconciliarsi con me, incurante che non fosse consono. “Non
importa il grado di famigliarità che si
abbia…” aveva detto, con stizza, ma mi sembrava
che lo desiderasse, che volesse abbastanza confidenza da farlo. Ora se
l’era presa, ma non avrei mai potuto essere più
felice di questa forzatura.
Almeno ero sicura
che con nessun’altra si fosse presa questa affettuosa
confidenza…
------------------
* (francese)
Re: - Signor Mikk,
benvenuto nella nostra piccola dimora... ! –
Tyki: - Sono molto
onorato di essere qui, invitato alla vostra presenza,
Maestà… -
R: - Ah-ah! Non
è un momento così formale! Noi siamo qui per una
sera di tranquillo “divertimento” (portoghese), non
è così? –
T: - Si, il vostro
portoghese è molto migliorato… -
R: - Ma volete
presentare questa splendida signorina? –
T: - Si.
E’ la Signorina Victoire Villois, cantante
all’Opera di Nantes… e mia fidanzata… -
** (portoghese)
J: - E’
un piacere vedervi, carissimo! –
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Questo
capitolo è eterno!!!! YUPPY!!! ^_^ ;;;;;
Mi dispiace sinceramente di essere arrivata ad un simile
"capitolo-sfilza", ma come sempre non sono riuscita a sacrificare
nessuna delle idee che mi passavano per la testa...
Così mi sono venute 10 pagine di Word.... Emh... Mi scuso...
Allora, le precisazioni...
- Come modello per l'esterno del palazzo ho preso la Palazzina di
caccia di Stupinigi e qualche sua foto d'interno... ^_^ Poi il tocco
personale non è mancato, ma come riferimento di base...
- Il mio francese è piuttosto arruginito (e già
quando lo usavo a scuola non era il massimo) e non ho mai studiato il
portoghese, chiaramente... Quindi chiedo scusa per qualunque errore
nelle parti che ho voluto inserire in lingua... Tanto per complicarmi
la vita, no...? XD (Chiaramente in seguito continuano a parlare in
francese, ma non mi sembrava il caso di insistere per poi mettere tre
pagine di traduzione dei dialoghi... )
- Ho lasciato nel vago il discorso del modo in cui ci si capisce in
Famiglia... In effetti, se ci pensate, sono tutti di
nazionalità diverse... Non volevo forzare la mano
ipotizzando che, per dire, parlassero tra di loro in inglese...
Meglio non specificare... ^_^
- Perchè Tyki è Duca...? Bel mistero... Solo che,
con buona pace della Sensei Hoshino, "sir" lo si diventa solo come
"baronetto inglesi"... u_u Quindi ho scelto un titolo nobiliare a mia
scelta... XD
Per il resto la domanda è: PERCHE' SEI COSI' SADICA!?!?!?
A volte me lo chiedo anch'io... ^_^
Solo che penso sia abbastanza comprensibile che, se esistono
difficoltà nella nascita dei sentimenti tra le persone
normali, qui ci sono decisamente molte complicanti...
Non avrebbe senso che tutto capitasse a caso e velocemente, senza guai
e incomprensioni...
(Anche se ciò non giustifica la mia crudeltà...
u_u)
Grazie a tutti
coloro che leggeranno, si lasceranno incuriosire e vorranno lasciare un
commentino!!!!
Grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite o
le seguite!!!
P.S. Ho ritardato tanto a causa delle vacanze al mare e di
un periodo di inattività narrativa... Tra poco
comincerò l'università... Spero di non lasciare
più passare così tanto tra gli aggiornamenti,
però... -_-
yuki689 = Ti ringrazio
davvero per aver letto e aver commentato (anche se probabilmente
leggerai questo messaggio piuttosto tardi, quando arriverai a leggere
fino qui)!!! XD
Soprattutto perchè io, lo so bene, non sono stata
altrettanto gentile... -_- Sto seguendo la tua fanfiction "Ambizione e
fuoco", ma non sto commentando... -_- *si sente un mostro e sbatte la
testa contro il muro* Ma credimi, non lo faccio per cattiveria,
né perché l'avessi semplicemente aggiunta tra le
seguite e poi dimenticata... La sto leggendo man mano che aggiungi i
nuovi capitoli (e sei davvero regolare... a differenza di qualcun
altro... la sottoscritta... Emh... )!
Ma il punto è che... Io non la dovrei leggere!!!!!! Non
seguendo il manga, mi faccio spoiler ogni volta che la apro!!!
ç_ç Solo che non riesco a resistere!!!
Di conseguenza, ho preso l'abitudine di leggere l'aggiornamento e...
pentirmi... -_- Per questo non lascio commenti... Ti chiedo
sinceramente scusa, perchè so quanto sia odioso...
-_-
mangaka94 = ... Non ho postato presto...
Scusa... ^_^ Molte grazie per il commento "vissuto"!!!
XDDDDDD Mi fa piacere vedere che ti prende così tanto!!!
Come hai letto, la situazione è ancora abbastanza
altalenante... La parte del negozio é quasi un mondo a parte
rispetto al malefico ambiente dell'aristocrazia... Spero che anche
questo capitolo (un po' negativo) ti sia piaciuto!!! E grazie
ancora per i complimenti!!! ^_^
Tyki Mikk = Oh, che piacere vederti
commentare fino a qui!!!! ^_^ E ti ringrazio per il
sostegno... In effetti mi sono lasciata un po' andare alla depressione
e alle lamentele gli scorsi capitoli, ma hai ragione: non posso stare
sempre a lamentarmi, quando a molti altri autori capiterà
spesso la stessa cosa!!! ^_^ Grazie mille!!!
Per la tua osservazione sui Noah "festaioli", non hai torto. Tuttavia,
questa parte della fanfiction vuole essere ambientata in un ipotetico
"prima"... Del resto anche nel manga la Famiglia spuntava fuori
abbastanza all'improvviso, mentre prima la maggior parte del lavoro
sporco toccava a semplici akuma... Questa vicenda vuole rappresentare
quel periodo di semi-tranquillità, per questo lascio a tutti
la possibilità di vivere nela bambagia, senza esorcisti di
mezzo! XD
Comunque il mio progetto per questa storia si sta allargando sempre di
più, con risvolti a volte traumatizzanti anche per me (tipo:
"Ma dove me la sono inventata sta cosa...? O_O"). Quindi ho
già in mente continuazioni in cui mi riunirò alle
scelte del manga, anche se con qualche tocco originale... ^_^
L'unico rischio è che, a forza di
aggiornamenti così lontani l'uno dall'altro, sia
la Sensei mi rompa tutte le uova nel paniere (esattamente come
sta facendo ora, come giustamente hai ricordato, svelando le
identità di tutti e tredici i Noah), sia che se ne veda la
fine nella notte dei tempi... -_- Insomma, mi devo impegnare!!!
Grazie mille, quindi, per i complimenti e per il sostegno (e i
consigli, ce n'è sempre bisogno!) !!!! XD
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Capitolo 18 *** XVII - Unlucky ***
Capitolo
17
Unlucky
"Il
futuro lo conoscerete quando sarà arrivato. Prima di allora,
dimenticatelo."
(Eschilo)
Non esiste una
vera e propria ragione per cui lo feci. Se qualcuno avesse potuto
frugare nel mio cervello in quel momento, ci avrebbe trovato il vuoto
totale. Non mi dispiace per nulla deludere chi credeva che vi fosse
comparsa chissà quale idea romantica o chissà
quale sentimento idilliaco… Nella mia mente non
c’era nulla.
Ma ammetto la
domanda: “Se non stavi ragionando, non ci sarà
un’altra parte di te che ti ha spinto a prendere la sua
mano…?”
Ammetto la
domanda, ma non la risposta che vorreste sentire. Credete davvero che
ci sia qualcosa di simile ad “un cuore” a battere
nel mio petto…? Non siate sciocchi. Vi posso assicurare che
non c’è nulla che faccia rumore, nulla che segnali
un qualcosa di simile all’umanità.
Chi, che fosse
davvero umano, avrebbe permesso che quella ragazza generosa e dolce
sentisse quel tormento? Chi, che fosse una persona vera, avrebbe avuto
il coraggio di rivelarle l’unica relazione
“sentimentale” di una qualche sostanza della
propria esistenza quella sera, in quel momento convulso? Chi, che non
fosse vuoto come un sasso, avrebbe aggiunto quel
“così è stato deciso” alla
fine della prima frase gentile dell’intera serata? Chi, che
non avesse la gabbia toracica deserta da ogni emozione, avrebbe
lasciato che quella persona pura e sincera provasse gelosia per un uomo
così insensibile?
Avevo fatto tutto
questo. E per la prima volta in vita mia, me ne pentivo
amaramente…
Tutto
ricominciò a scorrere normalmente solo quando aprii gli
occhi la mattina seguente. D’altra parte, qualche ora di
sonno non cancella nulla, se mai tende a rendere tutto ancora
più sostanzioso, ancora più reale. Se non
c’è qualcosa, o qualcuno, a mischiare le carte in
tavola...
- Buongiorno,
Tyki! –
Prima ancora che
potessi mettere a fuoco la sua figura minuta, seduta sul tavolino di
legno poco lontano dal mio letto, la voce di Road mi salutò,
squillante.
- Uh…
Buongiorno… - bofonchiai, scontento.
Le sue entrate in
scena nella mia camera significavano sempre due cose negative: potevo
abbandonare ogni speranza di dormicchiare ancora un po’ e
stava di certo progettando qualcosa. Le nove del mattino, a giudicare
dalla posizione delle lancette dell’orologio poco lontano,
non erano il mio orario preferito per i suoi allegri scherzetti.
- Tutto bene?
– chiese, con aria mielosa.
- No, lo
sai… che non va bene… - le risposi, tra uno
sbadiglio e l’altro.
- Tutto questo
sonno per un uomo di mondo come te… - rise, più
allegra del solito.
Mi sentivo
già piuttosto insofferente a tutto
quell’entusiasmo, più che altro perché
temevo cosa nascondeva. C’erano momenti in cui adoravo Road,
davvero. Questo però non era uno di quelli.
- Tu non dovresti
essere a scuola, lavativa…? – le risposi, mentre
pian piano la mia mente si schiariva.
-
Dettagli… – sorrise, con aria saccente - Comunque,
com’è andata la festa? –
- Bene.
– risposi subito, alzandomi da sdraiato e sedendo sul bordo
del letto. Mi stavo impegnando ad allontanare dai miei pensieri
qualunque cosa avesse qualche attinenza a quella serata. Non avevo
nessuna intenzione di farle frugare nei miei ricordi.
Mi
guardò per qualche momento, con uno sguardo troppo intenso
per passare inosservato. Poi nel suo viso passò una smorfia
irritata, che nascose con una risatina:
- Se cerchi di
nascondermi quello che è successo, deve esserci qualcosa di
interessante. Quindi… - finse di pensarci per qualche
istante, poi esclamò - … te la sei portata a
letto!? -
Sgranai gli occhi
e lei rise, un dito posato sulla bocca, con un’espressione
maliziosa.
- Parli come uno
scaricatore di porto. – commentai, distogliendo la sguardo.
- E allora!?
– rispose, indifferente alla mia osservazione –
Comunque, è un si, giusto!? –
- No. –
- Eh!? Ma almeno
te la sarai fatta! – osservò di nuovo, incredula.
- … No.
– risposi solamente, cercando di ignorare quel linguaggio
mascolino.
- Tyki!
Possibile!? – e balzò giù dal
tavolinetto.
- Si. E poi queste
non sono cose che riguardino una bambina. –
Mi irritava
parlare di una cosa simile, dal momento che proprio il mio vizio da
donnaiolo mi aveva provocato un sacco di guai quella sera. Quella sera
in cui tutto doveva andare bene.
Ma il
“bene” che rientrava nei miei progetti riguardava
qualche tranquillo ballo con Vivy, non certo qualcosa di più
ardito… E questo davvero non era da me. Su questo Road aveva
ragione in pieno.
A questo mio
commento acido alzò gli occhi al cielo, ma non
lasciò che il suo buonumore venisse scalfito:
- Comunque, ti sei
divertito? –
- Si… -
e non era vero per nulla.
- Ma
pensa… - sospirò lei, per nulla convinta.
Si, in effetti
l’avevo detta troppo grossa. Soprattutto perché,
anche dopo occasioni mondane meno movimentate, mi ero sempre limitato a
commentare l’evento con convenevoli leggeri.
Mi trovai
costretto a ritrattare: - D’accordo. Niente di che. Non
è stato il massimo. -
-
Già… - sorrise, quasi sollevata –
Incontrato qualcuno di interessante? -
Mi stupii tanto di
quella domanda che non riuscii a non rievocare nella mente quella
befana della marchesa Marie e quell’idiota di Jorge.
- Uh…
Dorant e Campelo… Che sorpresa… -
commentò.
Ma il sorriso
nefasto e il tono sarcastico che trapelarono a quella frase mi spinsero
a ragionare per un istante. La conclusione mi avrebbe sconvolto solo se
non ci fossi stato abituato.
- …
Sheryl aveva la lista degli ospiti… - sbuffai, scuotendo la
testa.
- Papà
me l’ha fatta vedere ieri. Volevo farmi un’idea.
– e mi si avvicinò zampettando.
- Potevi dirmi
cosa mi aspettava, Road. –
- E tu potevi
chiederlo al tuo fratellone. – replicò, scrutando
incuriosita la mia aria cupa – Insomma, non vi vedete da una
vita, ma si aspettava che almeno la curiosità ti avrebbe
spinto ad andare a trovarlo. Ci sperava. –
- Non ci ho
pensato. – risposi, indispettito – Però
una certa nipote poteva degnarsi di avvisarmi dei rischi… -
- Che rischi!?
– rispose, piegandosi perché il suo visetto
malizioso, con i grandi occhi gialli più brillanti del
solito, si trovasse proprio di fronte al mio, con atteggiamento di
sfida.
- … Non
sono begli incontri da fare, mai… Soprattutto quando
c’è una persona estranea che deve trovarsi a suo
agio… - dissi, sostenendo il suo sguardo senza problemi.
- Dici?
– interloquì, scettica – Secondo me la
Dorant è solo un po’ nauseante… Per il
resto il suo modo di spendere e spandere solo per apparire sempre
più ridicola è divertentissimo! –
- Si, una
barzelletta. – ammisi, con un sorriso – Ma la
madama non è solo questo… - tentai di aggiungere,
ma venni del tutto ignorato.
- Jorge Campelo
è adorabile! La sua malvagità, la sua
capacità di custodire il rancore e farlo valere in ogni
occasione, oltre ad essere tremendamente affascinante, me lo rende
davvero simpatico! –
- … Non
avevo dubbi… - sentenziai, intenzionato a non mettermi
comunque a discutere su cosa pensavo IO di quel verme di Jorge.
- … e
poi Teresa! – aggiunse, ancora più entusiasta.
Capii a quel punto
che il tentativo di chiuderle la mia mente aveva smesso di dare frutto
e decisi di lasciar perdere. Piuttosto sconfortato, appoggiai la testa
e la schiena al muro, in cenno di resa.
- Lo sai che
è sempre stata la mia preferita! -
- Una storia da
due mesi… - osservai, con noncuranza.
- Si, ma per uno
come te è stato un record! – mi
ricordò, allegra – E poi, per essere
un’inutile umana, era piuttosto promettente! Bruna, un
guardaroba affascinante, eccentrico e dark con tutti quei pizzi neri,
un’apparenza mite per un carattere abbastanza passionale da
portare l’incostanza in persona a scaldare il suo letto per
due mesi, infida quanto basta da sposare quel barbaro fatto e
vestito… Una che sa come si sta al mondo! –
- Hai delle idee
strane… - potei solo dire.
In effetti erano
state proprio le caratteristiche che aveva citato a muovere quel vago
interesse nei confronti della giovane brasiliana.
Era stata
sfortunata, alla fine.
La sua fissazione
per i romanzetti rosa l’aveva traviata al punto da cercare
sempre, ossessivamente, la storia complicata, contorta, sensuale, con
uomini oscuri e di reputazione controversa.
Io
all’apparenza sembravo l’unica eccezione nella
costellazione di storie poco raccomandabili che aveva avuto. A quanto
si sussurrava nelle sale da the, ero stato il più galante,
il più presentabile, il più nobile e, qualcuno
aggiungeva con una certa malizia e ben poca eleganza, il più
ardente dei suoi numerosi amanti. Non sapevo se esserne
lusingato…
Ad ogni modo,
già agli inizi del loro rapporto, si vedeva che quel
proprietario terriero senza scrupoli le piaceva parecchio. Ettari ed
ettari di coltivazioni e un’enorme villa sulla costa, soldi
da spendere e vaste conoscenze nella nobiltà europea, un
uomo di mondo, non bello di certo, ma con quell’aria burbera
che attira per ciò che potrebbe nascondere. Forse, potrebbe
nascondere… In realtà dietro non c’era
mai stato nulla. Jorge era sempre stato arrogante, velenoso come un
serpente e viscido altrettanto, abbastanza crudele da applicare ancora
una spietata forma di schiavitù sui contadini delle sue
monocolture, calcolatore e, soprattutto, possessivo fino
all’inverosimile. Avevamo avuto occasione di incontrarci a
qualche festa e non era mai stato un piacere. Avevo avuto la
possibilità di sentirne parlare da molti aristocratici
più o meno malparlanti, ma tutte le versioni concordavano
sulla minaccia che rappresentava e sul fatto che c’erano
state poche persone verso cui aveva manifestato a pelle il
più assoluto sdegno… Sheryl Camelot, il ministro,
e tutto il suo gruppetto di alleati, me compreso,
chiaramente…
Insomma, tutti si
preoccuparono per Teresa quando cominciò a frequentare il
nobile brasiliano. Nessuno mosse un dito per avvertirla del pericolo.
Del resto era molto più divertente vedere una donna
dimenarsi tra i disagi di un matrimonio sbagliato, piuttosto che
cercare di farla ragionare in anticipo. Il fatto che io, invece, mi
applicassi per convincerla del suo errore faceva molto scalpore e certo
arrivò anche alle orecchie sbagliate. Inutile dire che
questo lo rese ancora più possessivo nei confronti della sua
fidanzata...
In poche parole,
Teresa era stata sfortunata, ma anche sciocca. Invece che lamentarsi
delle mie interferenze, mi lodava sempre con il suo futuro marito,
facendogli intuire un po’ di quell’attrazione che
ancora provava… La gelosia di Jorge la ingabbiò
per sempre e provocò continue, ossessive e odiose
interferenze nella mia vita sociale. In particolare provava un sadico
piacere nell’intromettersi nelle mie relazioni e
nell’infangare la mia reputazione agli occhi delle mie dame.
Semplice e innocua ripicca, dato che nessuna di loro si aspettava
davvero di instaurare una relazione stabile.
Solo che questa
volta, con Vivy, aveva toccato il fondo…
- Cosa ti importa?
– proruppe Road, con gli occhietti gialli particolarmente
luminosi e inquieti.
- Cosa
c’è…? – chiesi, guardandola
storto. Possibile che non potesse, almeno per una volta, farmi seguire
il filo dei miei pensieri senza interrompermi così
bruscamente?
- Parlo di Vivy.
Per la scenata che ti ha fatto avresti dovuto arrabbiarti parecchio,
invece te la prendi ancora con Jorge… -
- Non sono affari
di Jorge Campelo il mio rapporto con Vivy. – sentenziai, cupo.
- Ma andiamo,
Tyki! In fondo l’ha solo rimessa al suo posto! –
esclamò.
- …
Che…? – chiesi, stringendo le labbra.
- Non fingere di
indignarti, per favore! E’ ridicolo! –
sbuffò, incrociando le braccia – Jorge le ha solo
fatto presente che non ha nulla di speciale! Dovresti essere contento
che sia stato lui a parlarne con lei, un problema in meno per te!
–
- Road…
- tentai di interromperla, senza molto successo.
- Davvero non
capisco! Tu hai il vizio di darle troppa corda! Sempre! Vuoi davvero
lasciarti ingabbiare in un matrimonio vincolante, con obbligo di
fedeltà!? Come Teresa!? – sbottò,
sempre più irritata.
- Non è
questo che… - tentai di dire, storcendo la bocca.
- A meno
che… - soggiunse, sibillina - … a meno
che… tu la consideri davvero
“speciale”… - e lasciò cadere
un accento minaccioso su quella parola, ma riprese subito, con sempre
maggiore enfasi - A meno che volessi davvero consolarla, spinto da un
improvviso slancio di affetto! A meno che prenderla per mano fosse una
specie di contentino! A meno che non ti avesse intenerito, ti avesse
fatto provare una certa dolcezza sbandierandoti davanti agli occhi la
sua gelosia! -
La guardai,
smarrito. Cosa potevo rispondere? Cos’era successo
esattamente? In realtà non ne avevo idea. Sapevo solo di non
averci ragionato sopra, di aver agito d’istinto. Ma cosa
significava?
Improvvisamente,
però, sorrise, soddisfatta.
- Ma Tyki,
chiaramente… Tu provi nulla di simile, no? -
Sbattei gli occhi,
imbambolato.
- A differenza di
quanto si possa pensare da come ti comporti, in modo sempre molto
conveniente alle situazioni, al tuo dovere di “essere
umano”, alla correttezza che ci si aspetta, tu non senti
certo emozioni simili. Un Noah non ha bisogno di affetto, tenerezza,
dolcezza e comprensione… Così come non
è in grado di provarli… -
Mi
guardò in modo molto eloquente, facendo qualche passo verso
la porta.
- In questo senso,
sei davvero uno dei più bravi. Simuli davvero bene.
L’importante è che poi non ti lasci convincere di
provare davvero sensazioni simili… Perché non
puoi. E in fondo, non vuoi. -
Mi sorrise di
nuovo e aprì la porta: - Ci vediamo dopo! –
Non le risposi e
semplicemente le rivolsi un cenno stanco della mano.
Ci pensai, ci
pensai a lungo.
Non trovai una
spiegazione. Non c’era nulla di oggettivo da constatare
dentro di me. Perché alla fine non c’era nulla,
giusto? Non c’era nulla nel discorso di Road che potessi
contestare, tranne forse quell’atteggiamento irriverente.
Perché in fondo aveva solo spiegato la natura di noi Noah.
E se Vivy era come
tutti noi, forse si illudeva di essere gelosa. Forse non soffriva
davvero per quello che era successo. Perché nessuno che
fosse come noi poteva farlo…
Qualcuno avrebbe
detto che era solo una mia soluzione di comodo, di quelle che si
prendono per smettere di pensarci. Non mi importava, perché
era un ragionamento senza soluzione e non avevo intenzione di fondermi
il cervello, per quanto fosse importante scoprire la presunta
verità.
Sentii bussare e,
meccanicamente, ancora piuttosto frastornato per quel pensiero
insistente che Road mi aveva ficcato in testa, mi alzai per andare ad
aprire.
Mi trovai davanti
un viso sorridente: - Buongiorno, Tyki! –
Sbattei gli occhi
un paio di volte, incerto: - Buongiorno, Vivy… -
- Dormito bene?
– chiese, premurosa, un sorriso dolcissimo sulle labbra.
Mi appoggiai allo
stipite e la guardai attentamente. Era una mia parente
perché gli occhi gialli, la carnagione di quel colore insano
e la fila di cicatrici sulla fronte non mentivano. Ma era come se non
lo fosse quando quell’espressione illuminava il suo viso
delicato. Era come se fosse un’eccezione… Quindi
era vero… Quindi quella regola per lei non
valeva… Ma non era bene, per niente. Perché
questo significava che, per agire nel modo migliore, dovevo imparare a
controllare il mio comportamento, evitare di farle del male. Uno sforzo
fastidioso, ma…
- Si, grazie.
– risposi, quando vidi che il mio silenzio la stava
inquietando.
- Mi fa piacere!
– esclamò, serena – Anche se
probabilmente non è vero… -
Sorrisi: - Ho
dormito bene. Ma sono ancora un po’ stordito… -
sospirai, poggiando anche la testa allo stipite – Tu
piuttosto mi sembri molto allegra… -
- Ma io sono
sempre allegra! – disse, con un sorriso furbo, ma innocente e
candido. Quello di una bambina tenera, quello che non vedevo mai sulle
labbra dell’unica infante della famiglia, che invece sapeva
sempre di malizia crudele.
-
Già… - commentai, preferendo lasciar cadere il
discorso – Dimmi… -
- So che tra poco
dovrai andare via di nuovo per un po’… - disse,
con calma.
Ci pensai un
istante ed annuii: - Si, mi sembra già domani. –
osservai, ricordandomene in realtà solo in quel momento.
- Capisco.
– esitò un istante, come se stesse prendendo
coraggio.
Poi, strinse un
attimo le labbra per poi mostrare di nuovo un sorriso, anche se un
po’ più tirato di prima: - Senti, non ti andrebbe
per caso di venire con me a fare un giro? –
- Va
bene… - mi limitai a dire, scostandomi dalla porta.
-
Davvero…? Se sei stanco non importa, facciamo per
un’altra volta… - mi rassicurò,
premurosa, anche se la sua espressione rifletteva ora con evidenza il
sollievo che la mia decisione le stava provocando.
- No, va bene.
–
…
Mi piagai,
incuriosito, per vedere meglio il simbolo impresso
sull’insegna del locale in cui stavamo per entrare. Mi
sembrava stranamente famigliare.
- Vivy, hai idea
di… - mi rivolsi a lei, ma girandomi mi accorsi che non era
più al mio fianco.
Mi guardai
intorno, incerto, ma per fortuna vidi subito il cappotto bianco e il
cappello beige di fronte ad una vetrina poco lontano. Sospirai di vago
sollievo e mi avvicinai.
- Finalmente credo
di aver trovato una borsa che mi possa andare bene! –
esclamò, rivolgendo un sorriso al mio riflesso, che aveva
subito intercettato sul vetro lucido. E dire che io invece speravo
quasi di riuscire a farla spaventare…
- Mi fa piacere.
Ma la prossima volta avvisami se ti allontani. – sospirai,
prendendola sottobraccio.
Dopo lo strano
episodio della notte prima, non sapevo più come comportarmi
e avevo preferito non prendere nessuna iniziativa. Chiaramente neanche
lei aveva osato fare qualcosa di preciso e di conseguenza avevamo
finito per camminare semplicemente uno a fianco all’altra,
fino a quel momento. A quel punto, però, capii che il meglio
era tornare alle buone vecchie abitudini, prima di perderla tra la
folla...
- Non credevo ti
saresti preoccupato. Non lo faccio più. – e, con
un altro tenero sguardo alla mia immagine e al braccio che avevo legato
al suo, appoggiò la mano sul mio polso e si
accostò un po’ di più a me.
- Non
preoccupato… - tentai di ritrattare, ma mi accorsi che non
aveva molto senso e tagliai corto – Comunque, non farlo
più… -
-
D’accordo… Ma cosa ne pensi di quella…?
– chiese, indicandomi uno dei tanti modelli esposti.
- Non…
è male… - mi sforzai di dire. Tuttavia lei
sfruttava ancora il trucco del riflesso e si accorse della smorfia di
disappunto che la vista di quella borsa mi aveva strappato.
- Ho capito. Non
ti piace. – sospirò – Allora ne
dovrò cercare un’altra… - e fece per
allontanarsi dalla vetrina portandomi con sé.
- Almeno entriamo,
così... – cercai di dire.
- No, se quella
non va bene, lasciamo stare. Durante il giro vedrò qualche
altra vetrina e deciderò. Adesso è meglio che
andiamo a pranzare… - disse, indicando il locale in cui poco
prima stavamo già per entrare.
Il pranzo
passò in fretta. In primo luogo perché i
camerieri ci servirono quasi per primi e con estrema cura, passando
spessissimo a chiedere e a servire. Anche troppo sovente, secondo me,
in particolare quando bisognava riempire il bicchiere d’acqua
della mia compagna. Inutile dire che ciò le causava non poco
imbarazzo. Ma il momento del pasto passò velocemente anche
perché parlammo con tutta la serenità possibile,
in particolare sulla serata del giorno precedente. Non nominammo
né Jorge né Teresa, anche se, nel caso lei avesse
preso l’iniziativa, non avrei avuto problemi a spiegarle con
calma e in tutti i dettagli il mio legame con i nobili brasiliani. Non
lo fece, forse per non toccare poi il risvolto imprevisto della nostra
discussione fuori dal palazzo. Una positiva nota di buon senso,
direi…
Certo, per
sparlare di tutti i nobili vanitosi e prepotenti con cui avevamo avuto
a che fare, dovevamo aspettare che i camerieri inopportuni si
allontanassero e parlare a voce molto bassa. Al contrario di me, non si
lanciava mai in commenti troppo aspri o malvagi e si limitava a
prendere atto della cattiva creanza di vari personaggi illustri. Io
invece consideravo quell’attività come uno sport
connaturato, che lei sopportava con qualche lieve sospiro divertito.
Dopo poco,
tornammo all’aria aperta a percorrere la larga strada
pedonale, immersi nella folla delle grandi occasioni. Cercavamo di
camminare in linea retta, sperando che fossero gli altri a svicolare
per lasciarci passare e quasi sempre era così. Probabilmente
facevamo una bella impressione.
Poi
cominciò ad avvenire qualcosa di strano…
Qualche vetrina
più avanti, improvvisamente mi resi conto che la faccia del
fattorino del lattaio di fronte mi era piuttosto familiare, tanto che
mi ritrovai a fissarlo mentre mi sfrecciava davanti in sella al suo
velocipede.
Quando Vivy perse
il cappello e mi fermai a raccoglierlo, intravidi il cartello di una
via laterale il cui nome mi sembrava familiare. Eppure
chissà quante strade al mondo avevano il nome di quel famoso
inventore…
Per ultimo fu un
edificio ad attirare la mia attenzione. Era azzurro e dominava uno
scorcio di tetti che mi appariva particolarmente noto. Questo era
bizzarro sul serio perché decisamente non era un colore
comune.
A quel punto
interpellai Vivy, che si stava dedicando ad osservare con attenta
curiosità una giostra meccanica esposta sulla bancarella
esterna del negozio di un artigiano.
- Vivy…
Come si chiama questa città…? – le
chiesi.
- Tubinga, in
Germania… - mi disse, voltandosi –
Perché…? –
Esitai un istante,
poi minimizzai con un sorrisetto e una scrollata di spalle: - Non me
l’hai detto… -
- Ah, è
vero! Scusami, non ci ho pensato! – disse, ponendo i suoi
grandi occhi verdi sul mio volto con aria di scusa, prima di tornare a
dirigerli sul marchingegno in movimento.
Eppure
c’era qualcosa che non mi tornava…
Ero certo di non
essere mai andato a visitare quella città con la Famiglia.
Ero abbastanza sicuro, per quanto la memoria poco allenata mi
permettesse, che non fosse sede di una qualche manifestazione di alta
aristocrazia. Potevo scommettere di non aver mai visto un quadro o una
immagine di quella città o tanto meno di conoscere qualcuno
originario di quel luogo. Allora perché quello scorcio della
via principale mi diventava lentamente sempre più familiare?
Un dannato dejà-vu? Un’illusione da
autosuggestione dopo tutti gli elementi che poco prima mi sembrava di
riconoscere? Oppure…
- Quindi niente
borsa… - commentò Vivy, con un sospiro, e
appoggiò anche l’altra mano sul mio braccio legato
al suo, come per attirare la mia attenzione, che in effetti stava
ancora mettendo ordine mentalmente tra quei dettagli
all’apparenza assurdi.
Sorrisi, tornando
in me: - Abbiamo passato una decina di negozi e non ne hai trovata
nessuna. –
- Tre me le hai
bocciate tu… - precisò, ridendo.
- …Ma
non hai neanche voluto entrare per vederti addosso le altre…
- osservai, lanciando uno sguardo di sufficienza al cielo nuvolo sopra
di noi.
- Non ero
convinta… - spiegò, sollevando le spalle in un
cenno indifferente.
- E’ un
incubo fare spese con te… - scherzai, scuotendo la testa.
- Sul serio!?
– esclamò, punta sul vivo.
- No. - risposi,
seriamente – Anche perché fai di tutto
perché non lo sia. Un’altra donna sarebbe entrata
in tutti i negozi uno per uno, anche a costo di far impazzire
l’accompagnatore. -
- E’
quello che volevo evitare… - cominciò, ma non
sentii la fine della sua frase.
Nella folla che
percorreva quella via piena di vita, dritte verso di noi e in direzione
opposta, stavano arrivando le ultime persone al mondo che avrei dovuto
incontrare in quella situazione.
So che sbiancai
improvvisamente e ancora oggi mi domando come feci a mantenere il
controllo della situazione nonostante il sudore freddo che mi sentivo
scorrere addosso.
Credo che Vivy
avesse fatto ancora in tempo a chiamarmi per nome, accorgendosi con
stupore del mio repentino cambio di espressione, prima di vederli.
Tre persone
avanzavano tranquille per la strada affollata. Incuranti dei loro
vestiti rozzi, un po’ sporchi e inadatti
all’elegante viale del centro storico. Disinteressate agli
sguardi curiosi e infidi dei riccastri in abiti firmati che passavano
loro vicino, ma inevitabilmente inquiete per l’aria truce che
alcuni riservavano loro. Tranquille, immerse in una allegra discussione
e sorridenti.
Due omoni
imponenti, spalle larghe temprate dalle fatiche del lavoro, aria
protettiva e attenta nel difendere, tenendolo per mano in mezzo a loro,
un angioletto biondo dai capelli scompigliati, gli occhi azzurri
brillanti e una mascherina usurata sulla bocca probabilmente piegata in
una risata. Un gigante dal lungo cappotto e una inquietante cicatrice
sulla fronte. Un individuo dall’aria truce, con un cappello
di lana calato sulla fronte.
Non avevo mai
creduto di poter essere così sfortunato da incrociare Momo,
Frank e Iizu in simili circostanze. Ma come avevo potuto essere
così distratto da non ricordare il nome della
città in cui avevamo trovato l’ultimo impiego!?
Cercai di restare
calmo e continuai a camminare, anche se ci venivano incontro, anche se
noi o loro ci saremmo ritrovati a scansarci per non scontrarci. Dovevo
solo mantenere il controllo della situazione. Continuavo ad osservarli,
a studiarli, mentre ci avvicinavamo inevitabilmente gli uni agli altri.
Vivy esitava a lasciarsi condurre sottobraccio, ma non potevo distrarmi
per spiegarle la mia reazione. Anzi, in realtà avrei
preferito non trovarmi mai nella condizione di doverle parlare di
questa situazione, anche se inevitabilmente sarebbe successo tra poco,
non appena li avessimo superati. Perché ero certo che se ne
fosse accorta e proprio per questo si fosse irrigidita.
Ma avevo ancora la
speranza che, se non avessi fatto gesti avventati, nessuno si sarebbe
accorto di nulla.
All’ultimo
mi spostai leggermente verso sinistra, spingendo la mia compagna a
prendere un po’ di spazio di fianco a noi. Ci saremmo
semplicemente passati di fianco, senza un gesto, senza una parola,
senza che mi notassero…
L’ostacolo
era quasi superato, quando il tempo sembrò rallentare e un
istante solo divenne eterno. Abbassando lo sguardo, un po’
rasserenato dallo scampato pericolo, incrociai quello del piccolo Iizu.
I suoi occhi azzurri mi guardarono per un istante solo, ma forse non
avrebbero notato nulla se poi non si fossero spostati alla mia
sinistra, sulla donna che avevo al mio fianco. Le sue iridi color del
cielo sembrarono diventare ancora più grandi, travolte dallo
stupore. Perché di certo Vivy non aveva usato la mia stessa
cautela e aveva ricambiato, attonita, lo sguardo del piccolo che lei
stessa, anni prima, aveva salvato dalla morte. Strinsi i denti,
maledicendo un’altra volta la dannata sfortuna che in quei
giorni non riusciva ad abbandonarmi. Quando di nuovo
l’angioletto guardò me, feci l’unica
cosa che mi era concesso tentare. Afferrai tra le due dita il bordo del
cilindro, cercando di abbassarmelo ancora di più, tentando
di coprire almeno parte del viso. Ma ormai era troppo tardi.
Li avevo superati
di pochi passi quando la voce di Iizu vibrò alle mie spalle:
- Tyki! –
Trattenni il
respiro, nonostante la smorfia tesa che mi aveva di certo deformato il
volto, e cercai di continuare a camminare senza cedere alla tentazione
di girarmi. Vivy fu abbastanza intuitiva da fare altrettanto.
Nonostante il
rumore, le loro voci mi vibravano nelle orecchie come se non sentissi
altro.
- Che!? Ma che
dici, Iizu!? – esclamò Momo, sbalordito
– Dove lo vedi!? -
- Lì!
E’ lui! Con la Signora Suora! –
- Ma dai! Torna
domani, Iizu! So che ti manca, ma… - poi le parole di Frank
si persero nei rumori della via affollata, mentre noi due imboccavamo
un vicolo poco lontano.
Mi appoggiai al
muro umido, riprendendo finalmente fiato. Poi, lentamente mi afflosciai
a terra, rilassato dopo la tensione insopportabile di quel minuto
eterno.
- Spiegami.
–
La voce di Vivy,
autoritaria come solo raramente l’avevo sentita, mi
fulminò dall’alto. Era in piedi di fronte a me, le
braccia incrociate e l’espressione più rabbiosa
che le avessi mai visto. Almeno quando si rivolgeva a me e non al
Conte…
La sfidai con uno
sguardo: - Non ho niente da spiegarti questa volta. Non ti riguarda.
–
Ignorò
completamente questa frase offensiva: - Non mi importa nulla del tuo
atteggiamento indisponente. Voglio sapere a che gioco stai giocando.
–
Sospirai: - Sbagli
se credi che stia giocando. Non è un gioco. –
- No? Allora
cos’è? – insistette, con una smorfia.
Ci pensai un
istante. Non avevo mai pensato di dare una definizione a quella scelta
istintiva che mi aveva portato a sottoscrivere un altro controverso
articolo nell’accordo con il Conte, quel giorno tanto lontano.
-
L’unico modo in cui riesco a vivere, ora come ora.
– conclusi, con una punta di amarezza del tutto insolita al
mio carattere.
- Ma Tyki, capisci
cosa stai facendo!? – esclamò, con
un’espressione contrita sul viso candido.
- Non potevo
staccarmi del tutto da loro. – scattai, concitatamente
– Non mi sentivo in grado di lasciarli soli. –
Scosse la testa: -
Tu vai da loro, quando lasci casa nostra! Tu domani li raggiungerai e
poi tornerai a fare il nobile ricco e snob! Possibile che tu non riesca
a sentire come tutto questo sia illogico!? –
- Te
l’ho detto. E’ l’unico modo che conosco.
- dissi, alzando le mani in segno di resa.
- Ma non
è una festa, Tyki! Noi non siamo solo nobili da feste e
palazzi! Noi non siamo solo sciocchi saltimbanchi dell’alta
società! Tu sai cosa siamo! – e queste
esclamazioni probabilmente vibrarono tanto nella sua mente da farle
assumere in un attimo tutte le caratteristiche dei Noah.
- Lo so! Certo che
lo so! – scattai di nuovo, insofferente.
- Non potrai
impedire in eterno che i due mondi collidano! Quello che è
successo poco fa te lo sta dimostrando chiaramente! –
- Il patto che ho
fatto con il Conte… - cercai di interromperla, ma lei mi
bloccò con un gesto rabbioso.
- Che patto!? Tu
poni fede in quello che ti dice!? In realtà gli hai offerto
degli ostaggi per tenerti stretto a sé! – e i suoi
occhi ormai gialli si chiusero in due fessure crudeli.
- Mi
lascerà fare questa doppia vita e farà in modo di
tenere gli akuma lontani da loro! E’ quanto ho bisogno!
– commentai, risoluto.
- E tu credi che
perderà tempo a tenerli sotto controllo!? Credi che
sprecherà il tempo utile ad uccidere più umani
possibile per difendere quelli che per lui non sono alto che bersagli!?
–
Allora
aspettò che rispondessi in qualche modo. Non lo feci. Non
avevo argomenti convincenti, di nessun tipo. Mi limitai a ricambiare il
suo sguardo, inerte.
Vivy
sospirò, con profonda tristezza, e si sedette a fianco a me,
incurante di poter sporcare il suo bel cappotto bianco.
- Capisco cosa
stai cercando di dire, Vivy… - dissi, istintivamente.
- No, non lo
capisci. – commentò – Perché
tu hai fatto la scelta che ti avrebbe permesso di essere felice. Non
hai pensato a nient’altro – prese un difficile
respiro affranto – Tuttavia, hai la vana speranza che questo
servirà anche a loro, che in questo modo tu stia difendendo
i tuoi amici dall’Apocalisse. Ma quando le carte saranno
scoperte, se il piano del Conte avrà successo… Di
quante persone avrai causato la morte per difendere le loro vite? Credi
che questo sarà loro di aiuto? Il loro amico più
caro si è macchiato dei sangue innocente per
difenderli…da cosa? Alla fine, secondo il soggetto che il
Conte ha scritto per noi, tutti gli esseri umani
scompariranno… Toccherà anche a loro…
Ogni cosa sarà stata inutile… -
Tacque per un
istante e lasciammo che il silenzio riempisse quel vicolo quanto
bastava per fare accettare ad entrambi questi bui pensieri.
- Però,
davvero non so cosa avrei fatto al tuo posto, quindi… -
soggiunse, infine, stringendo, ansiosamente, il bordo della giacca.
Io mi passai una
mano tra i capelli ed estrassi il pacchetto di sigarette. Vivy
sbirciò con un lampo di disapprovazione quel gesto, ma non
disse nulla a tal proposito.
La prima boccata
fu più amara e forte del solito.
- A volte mi
chiedo perché proprio noi, marchiati da questo male crudele
e nefasto, - e si guardò le mani di quel colore cadaverico
che ancora le rendeva innaturali – saremo le uniche persone a
salvarci… -
Soffiai via il
fumo dai polmoni e sentenziai, senza guardarla: - Non pensarci. Quando
sarà tempo…-
- Dimenticare il
futuro, al quale abbiamo già dato il nostro consenso
accettando di convivere con questo sangue oscuro, ti dà per
caso sicurezza, Tyki…? – mi chiese.
L’insinuazione mi punse come uno spillo, ma non ribattei.
Aspirai ancora dalla sigaretta e dopo aver espirato una nuvoletta
bianca, semplicemente risposi alla sua precedente affermazione:
- Ci salveremo
perché non siamo più umani, Vivy… Era
questo il patto… -
- Non è
vero. – rispose, sicura – Tu oggi me
l’hai dimostrato. –
Scossi la testa,
respirando ancora una boccata.
Mi
appoggiò una mano sulla spalla, quindi mi voltai a guardarla.
Sorrise,
finalmente, e lentamente mi mostrò come i tratti tipici
della nostra famiglia svanivano dal suo corpo: - E poi
finché potremo fare questo e tornare al nostro aspetto
originario, non saremo mai solo Noah… -
- Lo credi
davvero…? – dissi, scettico, guardandola un
po’ storto.
- Io si. E finora
l’hai fatto anche tu, quindi non trattarmi come
un’ingenua. – commentò, ricambiando
senza alcuna esitazione la mia occhiata dubbiosa.
- Va
bene… Mi arrendo… - sbuffai, buttando il resto
della sigaretta poco lontano – Lasciamo stare… -
Mi alzai in piedi,
seguito da Vivy, che mi prese per il braccio e si attaccò di
nuovo a me: - Non lasciamo stare proprio nulla! Ora devi parlare!
– esclamò, entusiasta.
Rientrammo nella
folla della via centrale. Io mi limitai a calarmi di nuovo il cappello
sulla testa al meglio che potevo.
- Di
cosa…? – chiesi, con lieve disappunto.
- Come sta Iizu?
Come si chiamano quei due uomini che lo stavano accompagnando? Sono
tuoi amici, giusto? – chiese tutto d’un fiato.
Istintivamente mi
misi a ridere: - Una domanda per volta, “Signora
Suora”! –
- E’
vero che mi ha chiamata così! – esclamò
allora – Si ricorda anche di me! E’ fantastico! Che
bambino adorabile! – e gli occhi le si illuminarono di vera
gioia.
Fino a che dovemmo
rientrare a casa, camminammo sereni per le vie di Tubinga. Vivy mi
assediò di domande sui miei amici e io le risposi,
tranquillo, senza preoccupazioni. Ciò la rese
particolarmente felice e non avevo bisogno di chiederle il
perché. Credeva che questo fosse un sintomo significativo
dell’umanità che ancora dovevo possedere. Non
sapevo se questo avesse senso o meno, ma intuivo che questa illusione
le avrebbe provocato ancora molti pensieri inutili nel futuro. E questo
non era certo un bene, per nessuno dei due…
D’altra
parte, in realtà, da quel giorno l’immagine del
futuro che lei mi aveva presentato non poté che restarmi
impressa a lettere di fuoco nella mente.
Quando avessero
scoperto la verità, come avrebbero potuto reagire?
Probabilmente,
Momo avrebbe preso a sbraitare e mi avrebbe aggredito, come minimo,
maledicendomi per il male che avevo causato. Probabilmente, Frank non
avrebbe detto nulla, ma avrebbe solo scosso la testa, gli occhi rivolti
a terra, capendomi ma non potendo accettare ciò che avevo
dovuto fare. Probabilmente, Iizu avrebbe pianto disperatamente, di
fronte a quello che aveva sempre considerato il suo buon amico e che in
realtà era un mostro omicida.
Sarebbe andata
così.
E non potevo fare
nulla per evitarlo, ormai… Se non autoconvincermi, come
sempre, di aver fatto davvero la scelta migliore tra tutte quelle
possibili.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Chiedo scusa per la prolungata assenza di aggiornamenti...
La condizione di universitaria non è leggera quanto credevo,
quindi sto sacrificando molte cose per tentare di IMPORMI di studiare
come si deve...
In più questo capitolo non è stato esattamente
una scampagnata... -_-
Spero di riuscire a mettere presto mano al nuovo capitolo!!!
Nel frattempo grazie a tutti coloro che hanno la storia tra i preferiti
o i seguiti e a tutti coloro che leggono volentieri!!! ^^
Un enorme grazie ad Akure, che dopo essere stata
lungamente stressata, ha cominciato la lettura!!!! XDDDDDD
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Capitolo 19 *** XVIII - My Only Trust ***
Capitolo 18
My
Only Trust
“La
paura non può essere senza speranza e nessuna speranza senza
paura.”
(B.
B. Spinoza)
Vibravo di fede e
speranza, quel giorno.
Mi addormentai
subito, cullata dal tiepido fuoco che mi avvolgeva anche meglio delle
morbide coperte del mio ricco letto a baldacchino. Nella mia mente
c’era la dolce immagine di quell’umano indigente,
un po’ rude ma spontaneo e generoso, che per la prima volta
riusciva quasi a surclassare quella del magnifico gentiluomo dal
fascino misterioso che riempiva le mie giornate.
Vedevo Tyki in una
catapecchia abbandonata, lontano dalle ricchezze di un mondo tentatore,
ma affrancato dai sentimenti delle persone che lo circondavano. Vedevo
Iizu corrergli incontro, sotto un sole tiepido che rendesse brillanti i
suoi riccioli d’angelo e quegli occhi limpidi. Vedevo Tyki
prenderlo in braccio e avviarsi con un sorriso, solo un po’
furbo e malizioso, ad una giornata di intenso lavoro fisico, snervante,
terribile forse, ma tanto degno e necessario da avvicinarlo ancora un
po’ alla salvezza.
La luce della
sognata redenzione della persona che mi era più cara al
mondo rischiarava il mio mondo, ancora una volta…
Un sogno che
finalmente vedevo come non troppo impossibile e irraggiungibile, anche
se ci sarebbe voluto del tempo e tanto sforzo da parte mia,
l’unica persona che sperava davvero per un suo ritorno
all’umanità…
Arrivò
a quel punto, credo, lo spasmo d’ansia, seguito subito da una
stretta al cuore.
Tutto sarebbe
finito. La vita in comune in quella casa oscura, la vicinanza e la
prospettiva che ci congiungeva e, non ultimo, il legame che ci era
imposto e che avrebbe dovuto congiungerci per sempre…
Stringevo i denti
e mi rigiravo nel letto nella vana speranza di spezzare quel senso di
sofferenza e timore che mi stava annebbiando la mente.
Una tentazione
demoniaca, certamente.
Perché
io fin da principio avevo sempre e solo desiderato salvare quella cara
persona dalle spire del Male. Nulla più. Avevo accettato il
sangue Noah solo per questo. Vivevo laggiù solo per minare i
piani del Conte dal loro interno. Questo era ciò che mi ero
ripromessa per chiedere perdono a Dio del mio tradimento.
Non
c’era altro, non doveva esserci nient’altro.
Eppure bruciava
forte nella mia anima lo spasmodico desiderio di stare con lui. Mi
tormentava come una spina nel cuore la sola probabilità che
salvare la sua vita di uomo comune ci allontanasse per sempre. Senza
l’obbligo del Conte, non mi avrebbe mai desiderata al suo
fianco e soprattutto non per fargli sempre tornare alla mente una
doppia vita che, a quel punto, gli avrebbe solo provocato rimorsi e
tentazioni.
Avrebbe tagliato
nettamente con tutto ciò che era stato il passato, me
compresa.
Mi sentii fremere
di rabbia contro la mia stessa debolezza e poi, subito, sorgere
violenta la Paura. E sedare il Demonio, questa volta, mi sembrava
impossibile.
Dovevo sperare in
Dio, sperare che salvasse quella persona.
Avevo cominciato a
perdere la mia anima e ora non sapevo più distinguere Bene e
Male.
Dovevo volere il
suo bene sopra ogni altra cosa… Quando ero diventata
così egoista, Signore?
Lo amavo tanto,
tanto da impazzire. Avevo bisogno di lui, ad ogni costo.
Prima lui, prima
la sua vita eterna, prima il suo cuore salvato dalle nebbie oscure.
Non meritavo di
soffrire tanto, non sempre così. Non ero una martire, non
volevo esserlo.
Ma lo sarei stata.
Qualcuno doveva farlo e ne valeva la pena per proteggere una vittima
ignara.
Se mi amasse, se
mi volesse con lui, cosa mi importerebbe del mondo?
Un incubo dopo
l’altro, per tutta la notte. E per quella successiva.
La lotta tra gli
impulsi più disperati si consumava nel mio sonno e non
vedeva vincitore.
Avevo sbagliato a
lasciare che passasse tanto tempo. Avevo finito per svilire la mia
determinazione tra le mille e più tentazioni che mi
circondavano.
Ma Tyki non era
forse sempre stato la mia più invincibile tentazione?
…
-
“Victoire cara!” –
Jusdero
imitò il Conte tanto bene da farmi rabbrividire.
- Jassy, ti
scongiuro… - sospirai, affranta dallo spavento appena subito
– Smettila di allenarti con le imitazioni… -
- Allenarsi!?
Guarda che ormai il mio gemello è il re
dell’imitazione del Conte! – esclamò,
Debit comparendo dal lato opposto del corridoio e avvicinandosi svelto
a me, annuendo soddisfatto della bravura del fratello.
Mi limitai a
sospirare. Sapevo cosa mi aspettava.
- “Vivy
carissima! Come mai sei sempre così in ritardo per la
colazione!?” – continuò imperterrito il
gemello, posandosi una teatrale mano sul petto e sfoggiando un sorriso
tanto largo da tendere all’inverosimile i fili di quel suo
strano piercing.
- E questo non
è nulla! – si esaltò Debit, con aria
infingarda – Bisogna vedere anche Skin! – e, come
un presentatore professionista, fece un ampio gesto del braccio
indicando il teatrante al suo fianco.
Si
scostò i lunghi capelli biondi dalle spalle e la sua aria
allegra scomparve in un lampo lasciando spazio a un ghigno famelico: -
“Non è… DOLCE! Perché!?
Perché non è DOLCE!?” – e si
scagliò contro Debit fingendo di strangolarlo per la rabbia.
-
Caspita… Di certo reagirebbe così… -
annuii e mi sforzai di sorridere. In realtà
quell’atteggiamento iroso del nostro gigante di casa mi aveva
sempre messo i brividi e anche vederlo imitato non mi metteva a mio
agio…
Lieti degli elogi,
si staccarono, probabilmente per dare inizio ad una nuova sceneggiata,
ma non avevo nessuna voglia di vederla in quel momento, quindi
approfittai subito della pausa.
- Avevate bisogno
di dirmi qualcosa immagino… - cominciai, posando una mano
sulla spalla di ciascuno dei due, per fermarli anche fisicamente
dall’avviare un nuovo teatrino – Convocazione del
Conte? – provai ad indovinare.
- No. –
sentenziò netto Debit, scuotendo anche il dito a qualche
centimetro dal mio viso, come per sottolineare quella negazione.
- Ha detto solo
– si intromise Jusdero, reclinando un po’ la testa
e stuzzicandosi il mento, come per ricordare qualcosa – di
farti molti auguri per l’ultima prova di giovedì e
per la prima di venerdì sera… -
Aggrottai
lievemente le sopraciglia: - Perché mi manda a dire questo?
E’ solo martedì… -
- Andrà
via per qualche giorno. -
Tutti e tre ci
voltammo sorpresi, intercettando subito gli occhi gialli di Road,
apparsa quasi dal nulla all’inizio del corridoio dalle pareti
nere. Il brillio inquietante di quelle iridi crudeli e quella sentenza
perentoria mi impressero subito una pessima sensazione.
- Come mai?
– mi azzardai a chiedere, decisa a sfidare il suo sguardo
ostile con la mia migliore tranquillità e moderazione.
- Ti interessa
davvero saperlo? – chiese, con voce priva di inflessione,
quindi, se possibile, ancora più terribile. Non acuta, non
fanciullesca, ma vuota, oscura, senza tempo.
Strinsi i denti
per non mostrare evidenti segni esteriori del timore che mi
attraversava. Perché Road ora sembrava quasi voler incutere
timore referenziale e, al di là del suo aspetto di bambina,
ci stava anche riuscendo, purtroppo.
- Be’,
noi andiamo… - commentarono quasi all’unisono gli
altri due, passando cupamente i loro occhi da me alla mia
interlocutrice. Nascondevano qualcosa.
-
Perché? – chiesi, confusa da quel loro bizzarro
tentativo di fuga.
Distolsero
frettolosamente lo sguardo ed entrambi immersero le mani nelle tasche
dei pantaloni aderenti, impacciati.
- Vi lasciamo
parlare… - spiegò infine Debit.
- Non credo sia
necessario… - tentai di dire, sconfitta evidentemente dalla
Paura. Possibile che non avessi il coraggio di affrontarla da sola?
- Tanto dobbiamo
chiamare Lulù… - ammise Jusdero, alzando solo per
un istante gli occhi grandi e un po’ acquosi.
-
Perché? – ripetei ancora, anche se non ero ansiosa
di saperlo.
- Ci aveva chiesto
di cercarti, perché voleva parlarti, ma a questo
punto… - e Debit lanciò uno sguardo inquieto a
Road che, serissima, si limitò ad annuire.
Non potei evitarmi
di pensare che anche questo era un pessimo segno e non mi interessava
se Road avesse intenzione di leggere anche questa mia oscura
previsione. Sentivo già la sua mente premere violentemente
per entrare nella mia e la rabbia tornava a mescolarsi soavemente con
la Paura.
Anche quando i
gemelli si allontanarono, la bambina non diede segno di voler parlare,
ma in silenzio si diresse a passi leggeri nel salotto. La seguii
altrettanto silenziosa, non sapendo esattamente né cosa
aspettarmi né cosa dire.
Quando il portone
scuro si chiuse con un tonfo, si sedette con grazia su una poltroncina
viola e mi scrutò con la solita intensità da
sensitiva.
Dato che la
pazienza stava sfumando dal mio contegno, dopo aver deglutito
cautamente ma silenziosamente, risposi a quella domanda di poco prima:
- In
realtà normalmente non mi interesserebbe
dov’è finito il Conte, ma dato che sembra che non
me lo si possa dire, ora mi interessa… -
Quella
affermazione ebbe almeno il merito di causarle una smorfia di fastidio.
Certo meglio della precedente espressione vuota.
- Prepara una
sorpresa. – sentenziò, cupa.
- Una bella
sorpresa? – chiesi, tesa, per rompere il silenzio che
sembrava voler riprendere il controllo di quella stanza.
- Si, certo. Di
quelle che non si dimenticano. – rispose ancora, ma non
c’era nulla di lieto nel suo volto. Tutti i suoi tratti,
comprese le labbra sottili, erano tesi, pericolosamente sospesi sopra
un fastidio accennato o, peggio ancora, un prevedibile scatto di ira.
Non sapevo quanto
ancora potevo tirare la corda, ma non avevo scelta. Tacere non mi
avrebbe aiutata a capirne di più o a combattere
l’ansia.
Per nulla
desiderosa di sedermi, cosa che invece di rilassarmi mi avrebbe fatta
sentire in trappola, mossi qualche passo sospeso verso di
lei.
- Allora
perché non mi sembri contenta? – chiesi, senza
neanche tentare di mostrarmi innocente.
Il sottinteso
nascosto in quella domanda era fin troppo evidente per lei.
Perché se la sorpresa, evidentemente, era per me e me la
preparava il Conte, non c’era davvero nulla di cui
rallegrarsi, almeno per quanto riguardava la mia posizione. La piccola
e diabolica Road, invece, in linea di massima avrebbe dovuto divertirsi
da morire alle mie spalle. Il fatto che non lo stesse facendo mi
incuriosiva quasi più di quanto mi atterrisse la notizia di
un oscuro piano del nostro capo.
-
Perché non sono d’accordo con lui. -
Sbattei gli occhi
con stupore genuino. E la domanda sarebbe stata di nuovo
“perché”, ma non me la fece neanche
formulare.
- Il suo progetto
è sbagliato, dall’inizio alla fine. Non ci credo
per nulla. E ora sono stufa di nasconderlo. -
- Allora accordati
con me… - dissi, d’istinto, senza ragionare
neanche un istante su quello che le stavo proponendo.
Ecco, ero riuscita
di nuovo a fare la figura dell’ingenua.
Un ghigno
malvagio, il primo che le avessi visto fare in quel modo
così inquietante, stravolse completamente il suo viso:
- E cosa ti fa
pensare che questo comporti che siamo dalla stessa parte,
“sorella”? -
Avvertii una
dolorosissima fitta al petto e un forte formicolio di panico in tutto
il corpo.
Ma non feci in
tempo a pensare nulla, che la porta alle mie spalle cigolò,
aprendosi.
Lulubell
entrò nella camera con il suo solito piglio autoritario, ma
con la minaccia scritta sul viso elegante. Cominciai a sperare di poter
scappare, in qualche modo, subito, mentre il mio cuore perdeva
l’ennesimo battito. La volontà di sapere si era
spenta, sostituita velocemente dal desiderio di fuga.
Road non
mutò minimamente espressione, continuando a fissarmi, mentre
la ragazza si posizionava al suo fianco, le braccia incrociate.
- Io sono dalla
SUA parte. – specificò la bambina, come se la
scena non fosse stata abbastanza eloquente.
-
Quindi… ? – chiesi, ben sapendo che se avessi
formulato una frase completa, la voce mi avrebbe tradita. Mi sentivo
ghiacciare.
-
Smetterò di fare finta di nulla, smetterò di
compiere solo lievi gesti di dissenso e, infine, smetterò di
fingere con te, Vivy. Da oggi siamo nemiche. –
commentò Road, con una tranquilla alzata di spalle.
Per fortuna
finalmente un po’ della mia presenza di spirito era tornata
al suo posto, abbastanza da indurmi a prendere parte attiva
all’assurdo momento che si stava svolgendo davanti ai miei
occhi.
-
Perché tutto questo…? – chiesi allora,
guardando per abitudine sempre verso la bambina.
Ma la risposta
arrivò da poco lontano.
-
Perché ritengo che mi sia stato fatto uno sgarbo. -
Alzai lo sguardo
per incontrare gli occhi gialli di Lulubell. Mi ricordai in
quell’istante che probabilmente non avevamo mai parlato e che
quindi forse non ci eravamo mai trovate faccia a faccia in quel modo.
Eppure non aveva più importanza tutto quello che sapevo su
di lei: il suo aspetto implacabile e rigido, la compostezza glaciale di
ogni parola, la devozione da soldato con cui seguiva le indicazioni del
capo-clan, la patina di perfezione che sembrava lucidare ogni giorno
per mostrarsi, a detta dei gemelli che ogni tanto arrivavano a battere
su quel chiodo, molto più devota alla causa di tutti gli
altri Noah messi insieme.
Ora contava solo
quello sguardo vivido, animato da una chiara e forte tensione
d’animo, ma che sembrava pronto a mostrare ogni genere di
emozione nella forma più prepotente e forte. Nelle iridi
brillanti del colore diabolico e quasi tanto ardenti da rendere
difficile fissarle, c’era solo odio, disgusto, astio. Rivolto
a me, esclusivamente a me.
- Non
capisco… - tentai di dire, scuotendo la testa per nascondere
la verità: quella semplice occhiata sembrava incenerirmi e
non riuscivo a sostenerla più di qualche istante.
- Oh, Vivy!
– Road si intromise, con un’allegria contagiosa,
nonostante l’atmosfera tesa che lei stessa era riuscita a
creare – Non essere sciocca! Sono sicura che tu sappia
perfettamente qual è il progetto del Conte per te, no?
–
- Mi state
parlando per enigmi… - borbottai a bassa voce.
- Lo stai pensando
ora. “Vuole farmi diventare una degna Noah.” Brava,
è vero. Ed è palese cosa sta usando per tentare
di “corromperti”… -
Strinsi i denti
perché altrimenti le avrei immediatamente urlato di uscire
dalla mia mente. Il mio spirito combattivo stava tornando a vibrare
nelle vene, ma la verità era che mi trovavo in una
situazione di completa impotenza.
- Vedi, Vivy, io
credo che non sia giusto usarti tutti questi riguardi. –
sorrise ancora una volta di un ghigno crudele – Una spina nel
fianco deve essere sradicata prima che faccia infezione. E’
vero. Ma urge cautela. Soprattutto se la si cerca di asportare con un
bisturi. Anche il bisturi può fare molti danni, in mani non
del tutto attente. E poi, se ci si fa male davvero, valeva la pena di
preoccuparsi di un forellino, quando ci si è tagliati mezzo
addome…? –
- Continuo a non
capire la metafora… A parte il fatto che mi identifichi con
una spina… - e una smorfia di fastidio probabilmente
superò la patina di terrore.
- Non togliermi il
divertimento facendomi svelare tutti i misteri… - e gli
occhi le si ridussero in due fessure crudeli mentre il tono
tornò ad essere poco più di un sinistro mormorio
– Io non voglio che il Conte lo usi in questo modo. Non
voglio gli succeda nulla. E’ ancora così
instabile… E poi, non sono sicura che il dottore si renda
conto delle conseguenze che può avere un qualunque gesto
sbagliato con lui… Te l’ho già detto,
no? Considero un bisturi molto più pericoloso di una
generica minaccia. – mi rivolse una liberatoria scrollata di
spalle – Tanto più che in molti casi il corpo
espelle da solo le spine dalla pelle… -
Chiusi gli occhi,
sperando per un istante di riaprirli in un altro luogo, in un altro
mondo, in un’altra vita. Invece li riaprii
sull’espressione ridente del piccolo diavolo che sedeva di
fronte a me:
- Capito ora,
Vivy? –
Mi sentii girare
la testa, ma ebbi ancora la presenza di spirito di non scappare via
dandogliela vinta. Non sapevo dove fosse esattamente nascosto il mio
orgoglio, ma era un antro ben difeso dall’influsso della
Paura.
- Non ti sto
minacciando, comunque. Non ancora. Questo lo lascio fare a
Lulù. – e rivolse un gesto alla ragazza ancora in
piedi di fianco a lei.
D’istinto
tentai ancora di guardare la mia nuova interlocutrice, senza molto
successo. Feci in tempo, comunque, a percepire il lampo di muta
soddisfazione che passò sul suo viso. Poi la sua voce fu
dura e crudele, forse ancora più di prima, forse
perché ora era cosciente di avere una qualche
superiorità su di me:
- Ti è
stato assegnato ciò che è mio. Ora ho dei doveri,
ma appena mi sentirò abbastanza libera di agire, ti
consiglio di non trovarti sulla mia strada. -
- Di cosa
parli…? – chiesi al pavimento più che a
lei.
Mosse due passi
verso di me, obbligandomi mio malgrado ad alzare la testa:
- Il Conte mi ha
dato un compito. Sono tenuta ad eseguirlo, ma anche ad interpretare le
sue disposizioni, quando non sono del tutto precise. -
- Tu non ti
faresti problemi a farmi del male…? – chiesi,
osando una smorfia di scherno che però si spense subito.
- No. Non mi
farò problemi ad ucciderti. Lui è MIO.
–
E lo vidi, quello
che mi era sfuggito poco prima, il motivo che stava alla base del suo
odio e della sua stessa natura. La Lussuria folle, feroce, quasi
animale. Un desiderio di possesso malato, degenerato e privo di scampo.
E rivolto interamente all’arma che il Conte usava per
comprarmi, al “bisturi” con il quale sperava di
evitare che facessi infezione nella Famiglia, a colui che mi aveva
assegnato al solo fine di ottenere la mia anima.
Rivolto
all’uomo che amavo e che volevo al mio fianco…
Ecco allora,
entrambe mi volevano lontane da Tyki, senza mezze misure, senza
mediazioni, anche a costo di contrastare il Conte, che voleva unirci
proprio al fine di inserirmi a viva forza nel mondo oscuro…
Road sapeva cosa
speravo e non poteva accettare che il progetto del nostro capo-clan mi
avvicinasse al suo “zietto” al punto che un loro
ipotetico fallimento mi aprisse la strada a portare il mio amato via
dalle tenebre insieme a me. Il gioco non valeva la candela e se io
volevo fare la rivoluzionaria potevo farlo, ma da sola, senza osare
trascinare nessuno con me. Questo era solo un avvertimento, certo, ma
forse non ce ne sarebbero stati altri.
Lulubell, con
quegli occhi di brace, era disposta a tutto. Se appena il Conte avesse
allentato il guinzaglio che la legava per mezzo dei suoi ordini ben
precisi, me la sarei ritrovata addosso, disposta a sbranarmi come una
tigre, a costo di tenermi lontana dalla sua preda. Quell’uomo
elegante e malizioso, lussurioso quanto bastava ad attirarla a
sé, aveva fatto breccia nei suoi desideri ed ora non poteva
essere altri che suo. Ad ogni costo…
- Con la mia sola
esistenza vi ho rese mie nemiche… - sussurrai, volgendo la
testa verso sinistra, alla bimba che sedeva ondeggiando le gambe sulla
poltrona.
- Cominci a
capire? Brava, ora sai. – sentenziò lei, netta.
Sentivo ancora gli
occhi della più grande che mi fulminavano con
quell’odio innaturale, ma, nonostante il fastidio che mi
provocavano, la comprensione di ogni cosa mi rendeva a poco a poco
più forte.
- E ora? Credi che
mi inginocchierò ai tuoi piedi e chiederò perdono
perché mi sento ancora una buona cristiana? Credi forse che
sarò tanto impaurita da prometterti di smettere di lottare
per ciò in cui credo? Credi che ti concederò il
piacere di trattare chi amo come desideri? –
- Umh, ammetto che
un po’ ci ho sperato… Ti facevo più
intelligente… - rispose, sbeffeggiandomi.
Tuttavia, avevo
finalmente ripreso coraggio, e, ignorando volutamente la provocazione,
riuscii invece a contrastare apertamente colei che si trovava ancora in
piedi di fronte a me. Mi dimostrai abbastanza risoluta da squadrarla
con altrettanto disprezzo:
- Non
permetterò a nessuno di competere con me. Se volete
togliermi di mezzo, si, dovrete ammazzarmi. Ma dovrete riuscirci. Sono
sopravvissuta a cose ben peggiori di una zitella isterica, comunque.
Questo solo per avvisarti, Lulubell. -
Una lieve tensione
della mascella mi fece intuire quanto si stesse impegnando per non
scoppiare. Mi venne quasi da ridere: la donna lussuriosa stava tornando
ad essere l’umile soldatino. E il Conte di certo non le aveva
ordinato di squartarmi pezzo per pezzo, cosa che invece sembrava essere
al centro dei suoi pensieri in quel momento.
- Riempiti la
bocca parlando di lui come se fosse “tuo”,
perché Tyki non è di nessuno. Io, che lo so,
faccio del mio meglio e spero con tutte le mie forze di essere
ricambiata. Perché io voglio essere
“sua”, non accampare ridicoli desideri di possesso
per limitare la sua libertà. E in ogni caso non mi
farò da parte, non mi farò sconfiggere, non
perderò contro di te. -
Feci solo un passo
indietro, soprattutto per sottrarmi all’ombra della
“gatta”, e rivolsi un’occhiata sferzante
ad entrambe le mie avversarie:
- Se questo
è quanto, me ne vorrei andare. -
- Vattene.
– sentenziò Lulù, imponendosi poi di
richiudere la bocca e voltarmi le spalle, prima di perdere
definitivamente le staffe.
- Certo, per ora
non c’è altro… Ma il divertimento
comincia ora, è chiaro… - sorrise, tiepida, la
bambina, con viso angelicato.
Uscii dalla stanza
prima di rivolgerle la sberla per la quale mi prudevano le mani da
alcuni minuti. L’unico gesto che poteva meritare una bambina
così malvagia e magari poteva mettere a tacere per un
po’ una creatura demoniaca.
Certo, che avevo
Paura. Una terribile paura, tale da fermarmi il cuore. E avrei
continuato ad averla e a sentirla crescere ogni giorno in
più, nel dubbio perenne di essere ormai pronta a diventare
la vittima designata della mia stessa “Famiglia”.
Ma se quella scena
di intimidazione mi aveva dimostrato qualcosa, era che facevo bene a
continuare a sperare. Perché la mia speranza aveva
fondamento. Lo dimostrava ampiamente il modo in cui le altre due
femmine di casa si erano sforzate di organizzare quello spettacolino al
solo fine di fermarmi.
Solo a mente
fredda ricordai quella stupida battuta dei gemelli: “Ma
Lulù lo mette il dito…”. Avevo
sbagliato a non darci peso, ma in fondo, cosa sarebbe cambiato? Di
certo non potevo affrontarla apertamente per semplici insinuazioni,
così come non aveva senso sperare che ciò avrebbe
ottenuto qualche risultato. Non si poteva accampare una tregua o
un’alleanza su un simile argomento, questo era evidente. Me o
lei.
E improvvisamente
non ero più certa che avrei davvero potuto
vincere…
…
Dallas quasi
saltellava, esaltato, nella mia direzione. Dire che fosse entusiasta
probabilmente poteva considerarsi riduttivo.
- Victoire! Sono
meravigliosi! Li hai già visti!? – mi
investì, con un’allegria devastante, a pochi metri
dall’entrata del teatro.
- Sono appena
arrivata… - mi limitai a dire e cercai di superarlo
sgattaiolando alla sua sinistra.
- Davvero! Non
potevano farli meglio! La stampa è perfetta!
L’incisione è divina! – insisteva,
cercando a fatica di stare dietro al mio passo affrettato.
- Di cosa
parli…? – chiesi.
Mi sentii prendere
per il braccio: - Ma ti senti bene!? I manifesti della prima di domani!
–
- Ah, quelli.
– minimizzai, sottraendomi alla meglio dalla sua presa.
- Si
può sapere cosa ti prende? Fino a ieri sembravi al settimo
cielo, come normale, all’idea dell’opera di domani!
– chiese, ora sinceramente preoccupato.
Perché
se Dallas aveva imparato qualcosa di me, era che amavo il mio lavoro.
Il resto continuava a sfuggirgli, soprattutto il fatto che continuassi
a non aver alcuna intenzione di tradire il mio fidanzato con
lui… Cosa che in effetti poteva irritarmi.
Nonostante il
fatto che avesse allungato le mani per fermarmi non mi fosse piaciuto
per nulla, era comunque evidente che la sua ansia per il mio
comportamento era spontanea. Ma non avevo nessuna spiegazione da
dargli…
Dovevo dirgli che
la sera prima ero stata minacciata di morte da ben due demoni
inquietanti e molto pericolosi e che la cosa mi lasciava ancora un
po’ scossa? Dovevo dirgli che ormai ero quasi insonne da tre
giorni, tormentata da un acuito conflitto interiore e, dopo
l’esperienza del giorno precedente, dalla perenne sensazione
di essere osservata e minacciata? Dovevo dirgli che avevo un disperato
bisogno di rivedere Tyki, di essere sicura che lui fosse ancora dei
nostri, una persona vera, e che non fosse già in pericolo di
precipitare nel Piacere volgare che “la gatta”
avrebbe volentieri aiutato ad alimentare?
- Sono solo un
po’ stanca, Dallas… - mi limitai a dire,
abbozzando un sorriso quasi credibile.
-
Sarà… In questo caso, comunque, devi
riguardarti… Vuoi che parli con l’impresario?
Tanto sei già più che preparata per la
rappresentazione. La prova generale è solo una simulazione e
magari è meglio se la salti e ti riposi, almeno oggi.
– chiese, apprensivo, muovendo una carezza melensa sulla mia
guancia, gesto al quale risposi con una smorfia.
- Non è
necessario. – conclusi, fissandolo con decisione.
Lui apparve
imbarazzato di fronte al mio netto rifiuto delle sue cure e
infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, distogliendo lo
sguardo. Poteva fare tenerezza, è vero, ma si stava
sbilanciando troppo nei miei confronti e non doveva permettersi di
andare oltre il rapporto di lavoro e di amicizia. Quei gesti, invece,
erano troppo accentuati ed evidenti da meritare solo un silenzioso
rifiuto.
- Entra pure,
Dallas… Ti seguo tra un attimo… - dissi, fingendo
di aver visto, dall’altra parte della strada, qualcosa di
interessante.
- Va bene,
Victoire… - disse solo, leggermente irritato precedendomi a
grandi passi nell’edificio illuminato.
Appena fu
abbastanza lontano, emisi un lieve sospiro e mi aggiustai in un gesto
meccanico i pettini che mi ero infilata tra i capelli. Altrettanto
automaticamente andai davvero a guardare per un istante la vetrina
opposta alle porte del teatro, ma non tanto per studiare le scarpe che
vi erano esposte, piuttosto per scrutare la mia espressione. Proprio
come immaginavo, sembravo un soldato pronto alla guerra: pupille
dilatate, labbra serrate e tese, pallida e quasi livida dalla tensione.
Come se non fosse bastato questo, la cipria e il fondotinta non
coprivano in modo soddisfacente le occhiaie, che si distinguevano
ancora, anche se non ci si poneva troppa attenzione. Sbuffai, questa
volta con dispetto. Come si poteva fare finta di nulla quando
l’aspetto parlava da solo?
In quel momento,
un lampo brillante squarciò il cielo nuvoloso, seguito quasi
subito da un rombo che, nonostante il segnale di avviso che
l’aveva preceduto, mi fece sussultare. Già nel
tardo pomeriggio il tempo si era fatto meno gradevole, ma nulla aveva
fatto presagire una simile deriva, prima.
Non fui la sola a
restarne turbata: tutti i passanti accelerarono il passo, soprattutto
le dame dai lunghi e ingombranti vestiti da sera. La loro passeggiata
serale stava probabilmente per essere rovinata da un bel temporale e i
loro begli abiti ricamati erano in procinto di essere appesantiti,
stropicciati e magari sporcati dalla pioggia e dalla fanghiglia che si
sarebbe formata ai lati delle strade. Anche per loro, in fondo, le
circostanze erano piuttosto sfavorevoli.
Non che la cosa mi
consolasse molto dai miei problemi, ma era un inizio…
Attraversai la
strada e entrai nel teatro mentre due inservienti stavano mettendo al
riparo dal vicino acquazzone due grandi cartelloni che pubblicizzavano
“La Carmen”.
Ricordando
l’allegria di Dallas, mi attardai un istante a guardare i
manifesti appesi ai due lati del banco della biglietteria. La sala
d’ingresso era quieta, silenziosa, illuminata certo, ma di un
lume artefatto, reso cupo dall’ombra nera che proveniva
dall’esterno, dalle grandi finestre sulla facciata.
Ero concentrata
squadrare la netta violazione alla richiesta mossa al mio datore di
lavoro, quell’incisione enorme del mio busto che riempiva da
sola metà del foglio pubblicitario e che io lo avevo pregato
di evitare.
Per questo non
udii i passi alle mie spalle, che probabilmente erano invece rimbombati
pesantemente nell’atrio silenzioso.
Poi fu un soffio,
viscido, strisciante come un serpente, osceno come una carezza volgare
non richiesta e malvagio come una violenza perpetrata alla luce del
giorno.
- Ecco la piccola
strega… -
Non mi voltai. Non
subito. E sbagliai, enormemente.
Solo che il
campanello d’allarme fu tanto brusco da pietrificarmi e il
riflesso che avrebbe portato chiunque a voltarsi subito verso un
richiamo improvviso alle proprie spalle si spense in un brivido.
Una voce che
sapeva di un passato da troppo tempo chiuso in un cassetto, ma
indimenticabile. Il richiamo di un incubo, intensificato da
quell’inflessione sadica e perversa che aveva assunto per
quelle poche e semplici parole.
- Non mi
ingannavo, dunque. La meretrice assetata di sangue… nemica
del genere umano… rinnegata da Dio… -
Volevo voltarmi,
ma non ci riuscivo. Più lo sentivo parlare, più
la sua immagine fisica si mostrava ai miei occhi e mi impediva di
muovermi. Insieme al flash inquietante del bianco di quelle vesti,
rovinosamente macchiato di sangue…
- … la
bella tentatrice… -
Pregai che
sparisse. Soprattutto perché c’era qualcosa di
ancora peggiore. Quel tono era stato ardito, autoritario, vanaglorioso,
imperioso e disgustato, mai così volgare e roco.
In un istante, due
mani si posarono sulle mie braccia e mi obbligarono a voltarmi.
E un lampo
bruciante, congiunto ad un tuono potente, riempì la sala.
Era un uomo alto,
robusto, dai radi capelli bianchi e dalla lunga barba ormai solo
lievemente rossiccia. Una cicatrice passava sulla guancia, in una linea
netta sotto il suo occhio sinistro.
Non volli
incontrare il suo sguardo. Non volli mostrargli che avevo Paura.
- Ci rivediamo.
Sei cresciuta, piccola strega. Anche più di quanto
credessi… -
Un’inflessione
acuta, rauca. Un’occhiata che percorse tutta la mia figura.
Un sospiro e un mugugno di approvazione scosse lievemente la veste
bianca, tesa sul petto.
Quelle mani
pesavano ancora sulle mie spalle, inchiodandomi al suolo, ma cogliendo
anche ogni mio piccolo tremito. Non potevo concedergli la mia
debolezza…
- Voi siete
invecchiato, invece… Invecchiato male, direi… -
ribattei, dura, ma a voce tanto bassa da non risultare quasi udibile,
contrastata anche dallo scrosciare intenso della pioggia, oltre i
battenti ancora spalancati.
Combattere, dovevo
combattere. Mi ripetevo questo verbo nella mente, ma ad ogni ripresa
perdeva un po’ della sua forza.
E Padre Rouelle
sorrise, scoprendo i denti marci e tutto ciò che le sue
parole lasciavano solo intuire.
- Pungente e
offensiva. Mi dovresti rispetto, ma non posso pretenderla da gente come
voi. – rispose.
Però
non si limitò a questa osservazione. Sporse il suo viso
rugoso e insinuatore verso il mio, quasi a volermi rubare
l’aria che respiravo già a fatica, quasi a ridurre
ogni distanza e a imporre il suo controllo totale su di me. Mi sentii
morire quando quelle mani violente scesero sulle mie braccia,
scivolando verso il basso come una chiara minaccia.
- Ci sono poche
cose che si possono pretendere da creature come voi… Del
resto vi acconciate come donne affascinanti per predare gli uomini, no?
Si vede che hai imparato da tua madre le vostre arti… Anche
lei era una forte tentazione… -
Fu sentire
nominare mia madre che improvvisamente mi riaccese.
Sgranai gli occhi
e presi a divincolarmi, tirando finalmente fuori la voce:
- Non osate
nominare mia madre! Voi, animale! Voi, dannato mostro! Uomo senza Dio!
–
Appena avevano
avvertito i miei tentativi di ribellione, le sue estremità
si erano strette con più forza, quasi volessero spezzare i
miei deboli arti. Ma quell’uomo rideva, sadico e per nulla
intimorito. E non solo perché nella realtà dei
fatti mi avesse davvero del tutto sotto il suo controllo…
- Urli? Vuoi
chiamare qualcuno? – domandò, infingardo,
attirandomi con uno strattone più vicino alla sua figura
falsamente immacolata.
- Si! Lasciatemi
andare! O vi faccio portare via! – urlai, ma con il tono
incrinato dal terrore.
Una risata
diabolica fu evocata dal frate. Un riso privo di gioia, animato da un
divertimento comprensibile solo a chi amava vedere soffrire e
sanguinare persone innocenti.
- Si, certo!
– esclamò, ironico, per poi sussurrare vicino al
mio orecchio, con un atteggiamento intimo che mi provocò un
lancinante moto di disgusto – Così avrò
una buona scusa per portarti via, proprio come era mia
intenzione… E sai che ho l’autorità di
farlo… - e si interruppe per un istante, per emettere un
vago mugolio divertito – Forse non te ne sei accorta, piccola
strega… No, piccola Villois… Ma il tuo vero
aspetto di meretrice è affiorato sul tuo volto… -
La Paura era
sovrana del mio corpo. La Paura era mostrata con i colori dei Noah
senza che io potessi controllarla.
No, assolutamente.
Non poteva essere.
Sentii da lontano
il mio nome. Dallas stava correndo ad aiutarmi.
Ma non potevo
farmi vedere così. Non dovevo…
- Lasciatemi!
– gridai ancora, mentre i passi affrettati si facevano sempre
più vicini.
Afferrai
d’istinto le braccia protese verso di me e che ancora mi
tenevano ferma. Ma non potrei spiegare cosa avvenne.
Per un istante
vidi solo nero, profondo, intangibile. Nel momento in cui
l’abisso riprese colore, Padre Rouelle mi aveva lasciata
andare. E l’istinto fu allora più forte di ogni
altra cosa. Anche se la gambe tremavano senza controllo, riuscii a
mettermi a correre, più veloce che potevo, verso
l’esterno, incurante del temporale.
Non andai molto
lontano. Due isolati più avanti mi ritrovai malamente
nascosta in un vicolo scuro, già bagnata fradicia e del
tutto priva di forze. Mi coprii il volto con le mani e cercai di non
pensare al potere oscuro che sentivo ancora scorrere sulla mia pelle.
Pensai piuttosto alla pioggia che picchiettava sul mio abito e su ogni
parte del mio corpo trovasse scoperta, senza tregua, aumentando sempre
più la mia fiacchezza. Tentai di prendere fiato,
soprattutto, ma la corsa mi aveva tolto quel poco di respiro che
l’ansia di quell’orribile incontro mi aveva
lasciato. La vista quasi mi si scuriva, come se l’apnea che
non riuscivo a superare rischiasse di farmi perdere i sensi. Il cuore
mi batteva troppo forte, sembrava volesse di consumare la mia stessa
energia vitale e che presto si sarebbe trovato tanto stanco da
fermarsi, per sempre. Appoggiandomi al muro, scivolai fuori
dall’ombra e controllai che nessuno mi stesse seguendo.
Non avevo la forza
di pensare, non riuscivo pensare a nulla.
Ora credo invece,
che ci fosse molto su cui ragionare, immediatamente, per tentare di
schiarirmi le idee. Per esempio, come quell’infido
inquisitore fosse riuscito a trovarmi. Come fosse possibile che si
ricordasse perfettamente il mio nome e cognome al punto da riconoscermi
nella soprano di quel teatro così noto ma del tutto
fuorimano.
Ma anche se avessi
formulato quelle domande, ogni altro pensiero sarebbe stato scacciato
da un solo improvviso, indelebile fatto casuale.
Non seppi mai come
considerarlo, in realtà, ma sicuramente non un vero e
proprio evento fortuito: era stato voluto e studiato. Ma Dio per
aiutarmi? O dal Conte per tentarmi?
Proprio di fronte
al breve vicolo nel quale mi ero rintanata e dal quale in quel momento
stavo riemergendo, si trovava un locale rinomato. Subito dietro alla
larga vetrata illuminata che dava sull’ampio corso,
c’erano alcuni tavoli, ben visibili dall’esterno,
soprattutto in una notte oscura come quella.
Presso una di
quelle postazioni, sedeva un uomo affascinante che mai avrei potuto
confondere con un altro al mondo.
Dal lato opposto,
intenta in una piana conversazione, però, era accomodata una
elegante donna dallo sguardo felino…
Lo scontro con la
verità fu violento.
Il mio cavaliere
era impegnato, non sarebbe venuto a salvarmi.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Ehilà!!!
Chi non muore si rivede!!! (E grazie a Dio non sono morta, quindi... XD)
Che dire, sono stati mesi piuttosto impegnativi e la mia mente ha
sventagliato un po' ovunque...
Tranne che dove serviva una degna ispirazione per terminare l'opera
cominciata... -_-
Quindi il capitolo che avete letto é stato un parto lungo,
contrastato, che a lungo mi é sembrato uno scoglio che
avrebbe chiuso per sempre l'esperienza con questo scritto...
Non é stato così per fortuna...
In questo senso, ringrazio infinitamente la mia Allieva, che non ha mai perso le
speranze di vedermi riprendere in mano questo lavoro... ^_^ Thank you,
my dear!!!
L'incontro a sorpresa è sempre stato nei miei piani (e in
quelli del Conte, come immagino abbiate intuito), diversamente dalla
scena "mafiosa" con Road e Lulu, che é nata in maniera
abbastanza misteriosa in un momento di laspus (direi proprio
così) di qualche mese fa, nel mio primo tentativo di
rimettermi all'opera... Ma alla fine ci sta, mi sembra.
Del resto é anche vero che ho sempre voluto fare di Lulubel
la rivale di Vivy... Per principio! XD
Per il prossimo capitolo, temo che l'attesa sarà lunghetta...
Non solo perché ho cominciato un'altra longfic (mi scuso
molto), ma anche perché il tempo continua a non abbondare...
E nelle vacanze dovrò preparare un esame da dare a
settembre...
Insomma, sarà un disastro... -_-
Però, ragazzi, aspetto recensioni, come sempre.
Perché chiaramente sono anche ciò che mi spinge a
continuare a spremermi per scrivere qualcosa anche se tempo e
ispirazione si assentano volentieri...
Quindi, se qualcuno
ancora ricorda questa storia ed é stato felice di leggere la
continuazione, me lo dica!!! Mi farà felice!!! ^_^
Bye-Bye!!!!
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Capitolo 20 *** XIX - Feelings And Desires ***
Capitolo
19
Feelings
And Desires
“Chiunque
è come la Luna, e ha una parte che non viene mai mostrata a
nessuno”
(Mark
Twain)
Ebbene, mi era
stato chiesto di andare a prendere Vivy a teatro.
Non avevo fatto
neanche in tempo a passare completamente il varco creato da Road, che
mi ero ritrovato il Conte addosso. Un sorriso smagliante. Domande
inutili, mentre mi bloccava la strada per la mia camera.
Un’insolita voglia di vedermi uscire di nuovo e in gran
fretta.
- E
Lulù ti accompagnerà, va bene!? –
chiese, con tanta allegria da togliere il fiato.
-
Perché dovrebbe farlo…? – domandai
allora, scettico.
-
Perché glielo dico io! – fu la perentoria risposta
e neanche il suo tono entusiasta smorzò in maniera rilevante
il comando che vi era espresso.
Alzai gli occhi al
cielo.
- Mi mettete in
difficoltà... Io non ho bisogno di essere
accompagnato… E lei non vorrà farlo… -
- Si, ti metto in
difficoltà, lo so bene! No, io credo che tu ne abbia
bisogno! E credimi, lei sarà ben contenta, alla fine!
– sintetizzò il capo, annuendo convinto tra
sé e prendendo autorevolmente il mio braccio, pronto a
trascinarmi dietro, se fosse stato necessario.
-
Lasciatemi… - sospirai, senza alcuna volontà a
sostenere quell’esortazione.
Aveva
già progettato tutto in anticipo. Non avevo
possibilità di replicare. Proprio nessuna voce in capitolo.
Tutto programmato per spedirmi alla stregua di uno chaperon.
Fantastico. E la miseria che mi passava una tantum non era nemmeno
lontanamente paragonabile allo stipendio medio per un mestiere
simile…
-
Bistrattato… - mi ritrovai a sussurrare, dando voce ai
pensieri sulla mia situazione.
Non mi stupii che
il Conte non tentasse neanche di replicare. Ormai era abituato a
leggere le più pigre lamentele nella mia mente.
Nantes era coperta
da una massa di nuvole nere da fare spavento.
Si preparava un
bell’acquazzone ma, se non avessi avuto un impegno a cui
presentarmi nella migliore dell’ufficialità
richiesta e non fossi stato nella mia veste signorile, avrei volentieri
sfidato il tempo e la probabile pioggia, quasi con la speranza,
più che il timore, di finire bagnato fradicio. Con Iizu e
gli altri lo facevo spesso…
E
d’istinto, chiesi a Lulubell se le andasse di passeggiare e
sfidare l’ormai prossima pioggia.
Fu un bizzarro
momento di collisione tra i miei due mondi, me ne resi conto appena
terminai quell’improvvisa domanda. Avevo parlato come se non
ricordassi più chi avevo di fianco: la persona
più formale e rigorosa che avessi mai incontrato. Certo,
avevo reagito con quell’improvviso impeto anche per spezzare
il fastidioso mutismo che aleggiava tra noi, oltre che per tentare di
trovare un’occupazione capace di alleviare almeno per un poco
le tre ore di attesa della nostra soprano. Detto ciò ero
sicuro che una proposta simile non avrebbe mai potuto incontrare la sua
approvazione.
Si girò
prontamente verso di me e per un istante sembrò studiarmi
con un’attenzione sovrannaturale. Mi stupì di
quanta cura stesse usando nello scrutare la mia figura dalla testa ai
piedi, come se lo facesse per la prima volta. Mi preparai a trovare una
scusa qualsiasi per giustificare quella mia proposta fuori luogo, dato
che sembrava sconvolgerla tanto.
Poi, vidi
quell’espressione strana…
- A cosa stai
pensando, Lulù…? – dissi ad alta voce,
senza neanche rendermi conto di averlo fatto. Mi ritrovavo del tutto
interdetto, come uno scienziato di fronte ad un fenomeno inspiegabile.
E cercavo una spiegazione, anche se, seguendo il mio intuito, avrei
potuto benissimo fare a meno di chiederlo a lei e domandarlo a me
stesso…
- Per me va bene.
– sentenziò, quieta.
Sollevai
involontariamente le sopraciglia a quella inaspettata risposta. Ed ecco
che anch’io mi ritrovavo a guardarla come se fosse la prima
volta in vita mia.
- No, forse
è meglio trovare riparo. – riformulai,
frettolosamente ed indicai il locale dall’altra parte della
strada.
Si
limitò a seguirmi, in silenzio.
Qualcosa non
quadrava. Avevo addosso una pessima sensazione.
Scrutavo fuori
dall’ampia vetrata di fronte alla quale ci avevano fatti
sedere i minacciosi bagliori che anticipavano di un nonnulla
l’immediato rombo del tuono. Non aveva ancora iniziato a
piovere, ma già quei segni dal cielo nero e tenebroso si
susseguivano come colpi di tamburo.
Non avevo mai
avuto timore del temporale, neanche quando l’avevo dovuto
affrontare all’aperto, privo di alcun tipo di difesa. Anzi
per certi versi mi aveva sempre divertito. Le persone che vedevo
sfrecciare per strada, affaccendate a raggiungere la loro meta e il
loro riparo prima dell’inizio della tempesta, erano di
tutt’altra opinione probabilmente. Non potevo biasimarle, ad
ogni modo: quei tessuti di ottima lavorazione rischiavano di perdere
colore o di macchiarsi irreparabilmente con la fanghiglia ai lati della
strada. Pensavo il contrario di quelle donne che quasi sobbalzavano ad
ogni rombo sonoro e si facevano fare scudo dai loro accompagnatori,
come se questi potessero combattere la natura. Un atteggiamento
inutile, dettato dal solo desiderio di sentirsi rivolgere da questi
qualche parolina dolce e di vederli ergersi a loro paladini. Quando non
si ha il potere di fare nulla (e volevo proprio vedere come avrebbero
evitato di venire colpiti da un fulmine), bisognerebbe tacere e basta,
cercando piuttosto di trovare un luogo in cui nascondersi entrambi.
Solo chi può reagire davvero dovrebbe poter pronunciare
parola…
E
poiché io, come tutti, ero del tutto disarmato di fronte
allo scatenarsi della natura, avevo trovato un riparo per me e la mia
accompagnatrice, come ogni umile essere vivente. Sapevo di cosa parlavo.
Comunque, non
poteva essere il temporale all’esterno a farmi provare quella
vaga insofferenza.
La cameriera dalla
divisa rossa depose sulla tovaglia scarlatta due calici di vino color
sangue.
I miei occhi
corsero allora sull’intero ambiente che, nella fretta di
entrare, non avevo degnato di molta attenzione. Tendaggi di velluto
scorrevano sulle vetrate laterali, il bancone era coperto da una
morbido raso, ogni inserviente portava una divisa specifica secondo le
sue mansioni, il lampadario centrale era chiuso da un vetro resina che
lanciava bagliori per tutta la sala. Tutte queste cose erano
completamente rosse.
Guardai vagamente
quella tonalità ridondante e me ne sentii un po’
soffocato. Come se qualcosa di inconcepibile con la ragione rimbombasse
nella mia mente. Un formicolio, un sibilo, un remoto messaggio
subliminale. Non lo capivo, comunque.
Che fosse quello a
lasciarmi uno strano senso di inquietudine?
Sollevai di solo
pochi centimetri il calice brillante e, con lievi movimenti del polso,
feci dondolare quel vino di ottima qualità come un mare in
tempesta, osservando le onde assassine lasciare per qualche secondo un
alone carminio sulla superficie trasparente.
No, il rosso non
mi faceva impressione. Il sangue non mi aveva mai fatto ribrezzo, anzi
forse una parte di me lo amava fino alla follia. Se fosse stato il
Piacere a vibrare in quel modo, poi, perché solo ora? No,
non era questo.
Solo allora vidi
con la coda dell’occhio il calice gemello al mio venirmi
porto dalla mano sottile e curata di Lulubell.
Scosso dai miei
pensieri, alzai lo sguardo.
I capelli biondi,
per la prima volta sciolti in tutta la loro lunghezza, scivolavano
liscissimi dalle spalle a incorniciare il decolté parecchio
pronunciato. Non che non avessi già notato vagamente in
precedenza come l’abito che indossava, rosso con inserti
dorati, fosse eccessivamente fasciante e scollato per una signora per
bene. O comunque come la lunghezza della gonna fosse quasi indecente,
dato che lasciava scoperta non solo la caviglia ma quasi anche
metà polpaccio. Però, con quell’ampia
stola di ermellino che si era procurata e che aveva indossato fino a
poco prima, non era stato tutto così eccessivamente
evidente. Ora, invece, leggermente piegata sul tavolo per allungare il
braccio nella mia direzione in una posa alquanto azzardata, evidenziava
quanto fosse ardito quello scollo che quasi metteva in mostra
l’inizio del seno. La collana d’oro, di fili
sottili, ma molto grande, impegnava quasi tutta la parte scoperta del
petto, scivolando a cascata dal filo stretto iniziale che segnava la
curva del collo. Le labbra fini, in quel momento leggermente
semiaperte, sembravano essersi rimpolpate improvvisamente, grazie al
rossetto color fiamma che vi aveva applicato. Gli occhi, animati da uno
strano e febbrile fremito, mi fissavano in un modo invitante e
minaccioso allo stesso tempo.
Ecco, quella era
la stessa espressione che aveva avuto poco prima e che non avevo
compreso.
O meglio avevo
preferito non farlo…
Una bella gatta
era pronta a “giocare” con il suo topo.
Mi riscossi con
notevole difficoltà dall’improvvisa consapevolezza
di quella visione e i miei riflessi furono piuttosto lenti nel far
tintinnare il mio bicchiere con il suo, rispondendo a
quell’invito muto ad un veloce brindisi. Sperai che non
l’avesse notato, ma ormai non potevo più avere
certezze.
Quella che avevo
di fronte non era la Lulubell che conoscevo.
A patto che io
conoscessi in qualche modo quella ragazza, cosa che non era
così scontata, dato il ben poco tempo che avevo passato
finora in sua compagnia. In ogni caso, era irriconoscibile.
- A cosa abbiamo
brindato? – chiesi, evitando per un istante di guardarla, nel
tentativo di non sembrare così sconcertato come mi sentivo.
Bastò cominciare a parlare, comunque, per apparire subito
più sciolto. Del resto, non ero certo un novellino
nell’arte della seduzione e ora che avevo scoperto le sue
intenzioni potevo difendermi facilmente. A patto di volerlo davvero,
chiaro.
- Ad una bella
serata? –
Fu ancora una
volta agghiacciante sentire un tono così vellutato e
suadente da parte del serio soldatino del Conte. Tuttavia, la
curiosità di scoprire fino a che punto si sarebbe spinta
ebbe il sopravvento e un sorrisetto mi comparve sulle labbra.
- Nonostante
questo tempaccio? – e feci un cenno alla vetrata.
- Non vedo
perché debba essere un problema. –
sentenziò, quieta – Del resto, te l’ho
detto. Ti avrei seguito anche sotto il peggior temporale. –
- E’
vero. Non me lo aspettavo, devo dire. – annuii, studiando una
ad una le sue espressioni – Però dopo mi sono
ricordato che per un bel gatto la pioggia è quanto di
peggiore possa capitare. -
Prese un altro
sorso di vino e, una volta riappoggiato il bicchiere sul tavolo, si
mise a giocare passando con finta non curanza l’indice
smaltato di rosso sul bordo del calice. Un’altra scena di
repertorio, ma sempre molto efficace, dovevo ammetterlo.
- Fai bene a
parlare di gatti. – riprese, senza mutare
l’espressione rilassata, ma fissando intensamente quel gesto
che fingeva essere spontaneo – In quanto felini, hanno molti
istinti feroci insiti in loro e un innato desiderio di scoprire le cose
di persona. Non si tirano mai indietro. Quando hanno uno scopo, poi,
diventano implacabili. -
- Quindi
l’avresti presa come una sfida? Non voleva esserlo in ogni
caso. – scrollai le spalle – Strano, comunque.
Credevo che i gatti fossero soprattutto animali nobili, eleganti,
amanti del benessere e della tranquillità. Non questi grandi
avventurieri. –
- Quando sono allo
stato selvatico, finiscono per essere più simili alle tigri
che ai cagnetti domestici. A meno che tu non mi stia paragonando ad un
innocuo barboncino. – e alzò gli occhi affilati
come lame sul mio volto.
- Tu invece ti
stai paragonando ad una tigre…? – commentai con
una smorfia dubbiosa – E soprattutto, in che modo dovresti
sembrare così selvatica? Vivi in una ricca dimora, partecipi
spesso a serate mondane, hai sempre una perfetta manicure… -
Il dito smise
improvvisamente il suo gioco e la mano aperta accarezzò con
lentezza il calice. Dalle mie parole si era accorta che avevo osservato
bene quel gesto e stava diventando più
“persuasiva”.
Un punto per lei.
D’accordo,
tacitamente riusciva a trasmettere i suoi messaggi subliminali. Ora
volevo capire se vi riusciva anche a parole, dato che per ora sembrava
preferire girare intorno ad ogni concetto.
- Non è
importante sembrarlo agli occhi di tutti. Ma bisogna svelare quella
parte che nessuno immaginerebbe mai esista solo a chi potrà
apprezzarla. -
Appoggiai i gomiti
al piano dalla tovaglia rossa e posi il mento sulle mani giunte. Il
sorrisetto malizioso con il quale avevo accompagnato quel metaforico
scambio di battute fu ancora più funzionale quando domandai:
– Quindi qual’era il tuo scopo? Accompagnarmi in un
luogo appartato per poi sbranarmi come una belva feroce? –
La prima
espressione allusiva che avessi mai visto su quel volto compassato
rispose prima di lei: - Perché no? –
Secondo punto per
lei.
Le mie labbra si
stirarono ancora di più trattenendo una vera risata: -
Sensibile alla carne, eh…? –
- Come chiunque
altro. O sbaglio…? –
Diventava sempre
più carezzevole quella voce. Lo sguardo penetrante, che
traduceva ogni sottinteso in un invito. Quelle labbra rosse che
sembravano aver finalmente trovato la loro vera funzione in
un’espressione maliziosa. Ecco la Noah della Lussuria nella
sua forma migliore, dedicata al Piacere, che per sua natura non poteva
che assecondarla in quel vortice di desiderio.
- Non posso
negarlo. – risposi e non feci nulla per nascondere
l’occhiata che percorse tutta la sua figura visibile.
Ormai giocavamo a
carte scoperte, come in una sfida a poker nella quale entrambi
scoprivamo lo stesso full di semi diversi: una piccola passione, un
piccolo bisogno, una tentazione che condividevamo, rendeva
automaticamente la sfida pari, ma poteva diventare un pericoloso
precedente.
Lei, civettuola,
prese a solleticare con le dita i fili dorati che scendevano sul
decolté, per attirare ancora una volta il mio sguardo su
quella parte così interessante della sua figura.
- Rivelami il tuo
trucco. – dissi improvvisamente, non facendomi pregare nel
seguire i gesti della sua mano – Come pensavi di sedurmi? -
- Credo solo che
questo vestito diventi terribilmente aderente se bagnato. – e
i suoi occhi affilati passarono lentamente dalle mie labbra al collo e
più in basso alla stoffa bianca che si intravedeva sotto la
giacca nera – Almeno quanto la tua camicia immagino finisca
per apparire trasparente. Pensavo solo che a quel punto la natura, mia
o tua, avrebbe fatto il resto. –
Già,
sarebbe di certo andata così. Vestiti fradici, pelle bagnata
ma rovente, baci umidi e non solo di pioggia, brividi e sospiri,
istinto selvaggio incurante di luogo e momento…
Eppure…
Avrei davvero preso l’iniziativa? Domanda stupida
all’apparenza: non avevo mai rinunciato ad
un’avventura di una notte, non avevo mai evitato di sedurre
qualunque donna mi fosse apparsa desiderabile a costo di illuderla
malamente, non contavo le situazioni limite in cui mi ero imbattuto
nella ricerca di un piacere sfrenato... Lulubell che allungava una mano
suadente sul mio petto, Lulubell che si slanciava sul mio collo o sulla
mia bocca, Lulubell che si sfilava la stola di ermellino per sfoggiare
curve ancora più evidenti e sfidarmi a non sfiorarla nemmeno
con un dito… Vedevo lei agire con tutta la sua sfrontatezza
appena scoperta e io seguirla come se ciò non fosse che
inevitabile.
Presi in mano il
bicchiere di vino e ne bevvi un lungo sorso.
Anche in quel
momento mi sentivo bruciare e se mi fossi trovato in un luogo meno
affollato e meno compromettente, sarei arrivato decisamente vicino al
punto in questione. Impossibile non farlo dopo tutto quello che ci
eravamo detti. Questa era facilmente l’idea che si era fatta
Lulubell: divorarmi parte per parte in un luogo appartato, anche
subito, meglio subito. Allettante, certo, ma c’era un
problema… Non lo volevo davvero, non completamente,
altrimenti sarei stato io a prenderla per un braccio e portarla dove il
tutto poteva avere luogo. E qual’era il problema…?
Non feci in tempo
a formulare un’altrettanto interiore risposta…
Quando alzai di
nuovo gli occhi sulla mia compagna, inaspettatamente guardava fuori
dalla finestra, gli occhi affilati a fissare con astio
all’esterno, come un gatto intento a soffiare contro un
nemico. O un rivale.
- Cosa
c’é…? – chiesi, facendo per
girarmi al fine di scoprire cosa avesse attirato la sua attenzione.
Una mano dalle
lunghe unghie rosse artigliò il mio polso appoggiato al
tavolo e lei si voltò prontamente, una vibrazione sinistra
nel tono: - Prendiamo una sala appartata. Andiamoci subito. Ora.
–
- Lulù,
cosa… - tentai di chiedere, ma la stretta divenne ferrea.
- Se mi vuoi devi
decidere ora! – esclamò a bassa voce accostando il
viso il più possibile al mio.
Ero sicuro di cosa
avrei risposto? La foga di quel comportamento richiamava la
necessità di lasciarsi andare all’attrazione: non
me la sentivo di negarne la forza bruciante. Eppure presi tempo e
cercai di farlo distogliendo lo sguardo. Dirigendolo alla finestra.
Una persona
lì fuori, bagnata da capo a piedi, visibile grazie
all’ultimo lampione ancora ardente nonostante il temporale,
che fino a poco prima non mi ero neanche accorto essere scoppiato con
tutto il suo corredo di lampi e tuoni, fissava, come allucinata, il
locale. O meglio proprio noi due che vi sedevamo. Quella era
sicuramente Vivy.
Sgranai gli occhi
a quella visione inaspettata e sussurrai, ancora incerto: -
Vivy…? –
- Tyki! -
Quando, a quel
richiamo, tornai a posare lo sguardo su Lulù,
l’incantesimo che aveva su di me era svanito. Tutto
ciò che era passato nella mia mente, non saprei dire per
quale prodigio, era scomparso, lasciando il posto a domande che
riguardavano la giovane soprano appostata in quel vicolo scuro. Cosa ci
faceva lì? Perché non era alle prove?
Perché non aveva un ombrello? Cosa le era successo per avere
quell’espressione sconvolta?
Approfittando
della mia esitazione scivolò dal polso fino alla mia mano,
che imprigionò nella sua: - Non fare sciocchezze. Resta qui
con me! – Non era una supplica, non era una richiesta,
appariva come un ordine, un richiamo alla mia parte selvaggia.
Fallì.
Senza esitazione mi sottrassi da quella presa e afferrai il cappotto e
l’ombrello, deciso a raggiungere la mia promessa.
Nel tempo in cui
aprii quell’utile strumento sull’uscio del locale,
feci solo in tempo a vederla allontanarsi in fretta, attraverso quel
vicolo scuro. La seguii con passo veloce, senza tuttavia capire
perché stesse scappando.
Comunque, non
andò lontano. La trovai nella traversa successiva,
afflosciata contro la parete, tremante, che si stringeva addosso il
cappotto fradicio. Mi dava le spalle, convinta forse che non
l’avessi raggiunta. Mi avvicinai lentamente, quanto bastava
per coprirla con l’ombrello, ma scelsi la tempistica peggiore
che esistesse per metterle una mano sulla spalla, perché
quasi contemporaneamente un lampo e un tuono suggellarono
all’unisono quel contatto. Lanciò un grido
acutissimo, isterico, e scivolò a terra, singhiozzando come
folle. Io stesso mi spaventai parecchio e sobbalzai sul posto,
riuscendo comunque subito a reagire.
- Vivy, sono io!
Calmati! – esclamai, piegandomi sulle ginocchia per arrivare
a sua altezza.
Allora, molto
lentamente, voltò il viso verso di me. Prima, a quella
debole luce non me ne ero accorto, ma il suo volto terreo come la morte
mostrava cicatrici crociate, mentre gli occhi erano gialli e
indemoniati. Era tanto bagnata da non lasciarmi distinguere le lacrime
dalla pioggia, ma ero certo che stesse piangendo fino a poco prima,
anche se, non appena intercettò i miei occhi,
cercò di darsi un evidente contegno. I denti battevano
lievemente, quando tentò infine di parlare: -
Tyki… Sto bene… -
- Mi fa piacere.
– commentai, ironico – Ma domani ti
verrà la polmonite se starai ancora sotto la pioggia.
– mi misi in piedi e le porsi la mano per aiutarla ad alzarsi
– Andiamo al riparo. -
- No…
Stai con… Lulù… Io vado a
casa… - sussurrò, tremando tanto forte da
sembrare scossa in ogni parte del suo corpo.
- E
l’opera? E le prove? – chiesi, cercando di
risultare quanto più posato riuscivo.
-
Nulla… Voglio… andare a casa… -
rispose ancora, scuotendo la testa, tesa.
- Cosa ti
è successo, Vivy? – domandai allora, posandole una
mano sul capo, sui capelli bagnati, ormai tutti appiccicati.
Non giunse nessuna
risposta se non un brivido forte che le fece stringere ancora di
più le braccia intorno al petto.
- Ti porto io a
casa. – dissi allora, ancora una volta alla sua schiena, che
non aveva smesso di rivolgermi dopo il primo, sfuggente, sguardo
– Ma prima voglio che tu prenda qualcosa di caldo e ti
asciughi un po’. Vieni con me, per favore? -
Di nuovo tacque ma
si lasciò aiutare ad alzarsi da terra.
- Però
prima devi far sparire i colori dei Noah, se no… -
Avevo intenzione
di lasciare la frase in sospeso in quel punto, ma fu vedere i suoi
occhi sgranarsi e le sue labbra tremare a farmi smettere di parlare.
Solo panico fluì dalle sue parole sconnesse:
- Non…
Ti prego… dimmi che… dimmi che non è
vero… - si prese il volto tra le mani –
Io… non riesco… Non ci riesco! –
esclamò infine, con una Paura pulsante che perfino a
distanza riuscivo a percepire nettamente.
Aveva perso il
controllo del sangue Noah…? Poteva accedere davvero qualcosa
di simile…?
- Ora stai calma.
– la presi per le spalle con fermezza – Sei sicura
di non riuscire a ritornare in te? -
Annuì,
senza alzare il capo dalle mani giunte.
Insistere non
avrebbe portato a nulla, contando quanto fosse sconvolta. Allora
semplicemente mi sfilai il soprabito e glielo posai sulle spalle. Alzai
il colletto per coprirle quanto possibile il viso ingrigito e le
scompigliai frettolosamente la frangia annacquata per coprire alla
meglio le cicatrici.
- Non si vede
nulla. Ricordati solo di tenere gli occhi bassi e socchiusi quanto
puoi. Appoggiati a me. Andiamo. – dissi, risoluto, passandole
una mano intorno alle spalle per guidarla e coprirla con
l’ombrello.
Lulubell se ne
andò immediatamente. Quando entrammo nel locale era
già in piedi, con la stola a coprirle parte dello scostumato
abito. Non la fermai, anche se la cortesia avrebbe voluto che almeno le
offrissi di restare, con la sicurezza che comunque non avrebbe
accettato. Non fece caso alla mia mancanza, ma ero certo che avesse
fulminato con vivo odio sia Vivy sia il mio braccio che ancora la
avvolgeva. Accettò il mio ombrello e salutò
entrambi con rigida cortesia, senza concedere neanche
un’occhiata alla ragazza.
Chiesi ad una
delle cameriere rosso vestite se poteva concederci una sala privata e
portarci un tè caldo e un calice di vino rosso, oltre ad un
paio di asciugamani.
Ci
accompagnò ad una stanzetta illuminata solo da un candelabro
posto su un tavolinetto di mogano, arredata all’orientale,
anche se ancora con i più vari toni del sanguigno.
L’addetta si chiuse i pannelli a scorrimento alle spalle
prima di andare procurarsi ciò che le avevo chiesto.
Vivy prese a
muoversi lentamente, ma quasi a scatti. Prima si tolse dalle spalle il
mio soprabito e lo piegò sul bracciolo del divano rivestito
di tessuto carminio, ricamato con aironi in volo e fiori di loto. Poi
si passò una mano incerta tra i capelli scuri,
tentò d lisciarsi il vestito verde per quanto la stoffa
fosse scomposta dall’effetto bagnato, cercò di
asciugarsi il viso con una manica del tutto fradicia…
- Per favore,
siediti. – la invitai, indicandole lo spazio rimasto tra me,
che avevo già preso posto, e il mio cappotto abbandonato
nell’angolo opposto.
- Io…
dopo… ora devo… - cercò di opporsi,
senza trovare una scusa soddisfacente.
- Non
c’è nulla che tu possa fare finché non
arriva qualcosa per asciugarti e per scaldarti. Quindi, puoi solo
sederti e calmarti. – risposi, risoluto.
Sospirò
un po’ più forte e si sedette, rigida, con le
braccia conserte. Meglio che nulla. Vederla ancora a lungo affannarsi
per evitare di fermarsi e sentire scorrere la piena del panico mi
avrebbe reso ancora più suscettibile di quanto
già non fossi. Era la terza volta da dieci minuti che
cercava di contraddirmi e, nonostante avessi imparato che dove non
bastava un “per favore” aveva maggiore effetto una
seria risoluzione, non avrei permesso che tentasse ancora una volta a
prendere le distanze.
-
Perché… non siamo… andati a
casa…? – chiese improvvisamente, con voce spezzata
dai tremiti.
-
Perché sei sotto la mia responsabilità e non
posso permettere che il Conte ti veda in queste condizioni. Prima devo
essere sicuro che tu stia bene. – risposi, con la scusa
più logica che avessi in mente.
Vera, certo, ma
anche falsa. In realtà ero convinto che una volta tornati si
sarebbe chiusa in bagno per farsi una doccia calda, sarebbe tornata
frettolosamente nella sua camera, impedendomi di entrare con qualche
pretesto, poi ne sarebbe uscita qualche ora dopo, se non proprio il
giorno successivo, con uno dei suoi sorrisi concilianti e tutta
l’intenzione di sviare ogni mia domanda sul tema. Non potevo
premetterlo, dovevo capire cosa fosse successo.
Per quanto avrei
preferito mille volte ammettere di essere meramente incuriosito dal suo
stato, piuttosto che preoccupato, probabilmente le proporzioni delle
mie sensazioni erano molto diverse. Mi chiedevo cosa avesse potuto
ridurla a questo stato di sconvolgimento e Paura, tale da renderla del
tutto indifesa e sofferente.
- Io…
sto bene… - disse ancora, anche se nel farlo notai
distintamente la brutta piega che assunse la sua bocca, quasi si
rifiutasse di formulare l’ennesima bugia.
Stavo per
ricordarle malignamente che in quel caso sarebbe riuscita a cancellare
le cicatrici scure dalla fronte, ma l’idea di una sua nuova
crisi isterica mi trattenne. Anche perché non era il momento
di punzecchiarla, per nulla. Allora, cosa dovevo fare esattamente?
Il pannello di
velina scarlatta si aprì per accogliere la cameriera con una
pila di asciugamani bianchi. Ringraziai la prontezza di spirito che
Vivy dimostrava di avere nonostante tutto: per evitare che la ragazza
notasse quella sua stranezza, tuffò quasi la testa nel mio
cappotto, fingendo di cercare qualcosa in una tasca. Tornò a
sedersi compostamente non appena l’estranea uscì.
- Poteva anche
portare tutto insieme, asciugamani e ordinazioni. –
commentai, afferrando un telo perfettamente stirato e spiegandolo
davanti a me. Glielo posai piano sulle spalle. Era il più
grande dei due e poteva avvolgerle completamente spalle e petto. Passai
piano le mani su quel tessuto, dalle spalle alle braccia, cercando di
raccogliere almeno l’acqua che ancora impregnava la pelle e
eccedeva nel tessuto lucido.
Lei non mosse un
muscolo e mi lasciò fare, in silenzio, anche se la tensione
stringeva le sue membra in una rigidità soprannaturale. Mi
sarei sentito troppo un animale ad approfittare della situazione per
continuare ad accarezzarla attraverso quel morbido mezzo. Non era
proprio il caso né il momento per quei pensieri.
Evidentemente stavo ancora degenerando, almeno mentalmente, dopo tutte
le bizzarre esperienze di quella serata, per altro non ancora finita.
- Stringitelo bene
addosso. – le consigliai, limitandomi ad avvicinare i due
opposti lembi del telo perché se lo avvolgesse secondo suo
gusto. Sfiorai involontariamente la sua pelle, gelata e scivolosa.
Continuava a guardare altrove, come per un’incomprensibile
vergogna e pudicizia.
Tutta quella sua
eccessiva vulnerabilità mi rendeva strano. Da una parte
ardito, dall’altra timoroso. Non in me di certo, proprio come
lei sembrava lo spettro di se stessa.
Presi prontamente
un altro asciugamano: - Vivy. – e sentendosi chiamare quasi
sobbalzò, richiamata alla realtà fuori
dall’incubo da cui era immersa – Dovresti
asciugarti un po’ anche i capelli. –
Ancora non
ricevetti risposta, quindi non mi sentii in dovere di chiederle altro.
Le sfilai,
lentamente per non farle male, i pettini che la acconciavano e con le
mani, non senza difficoltà, le districai i capelli neri,
folti e leggermente mossi. Poi il massaggiai al meglio che potevo con
quel tessuto spugnoso, dalla loro considerevole lunghezza alla cute
delicata. Continuai anche quando sentii la maggior parte del telo
umido, ipnotizzato da quel gesto a me stesso inconsueto e dalla strana
accondiscendenza della mia fidanzata.
- Perdonate
l’attesa! – intervenne la cameriera, prima ancora
di entrare, cosa che mi permise di calare prontamente
l’asciugamano sul capo di Vivy, che abbassò
altrettanto in fretta la testa per nascondere i segni dei Noah, ancora
visibili. La ragazza posò un vassoio scuro sul tavolo
modanato e appoggiò le ordinazioni, poi ci esortò
a chiamarla se avessimo avuto bisogno di altro.
Una volta che un
delicato tonfo le segnalò la chiusura della stanza, Vivy si
tolse il telo che l’aveva nascosta, ma si strinse ancora al
petto quel tessuto che continuava ad avvolgerle le spalle, mentre si
piegava sul basso tavolino per raccogliere la caraffa bollente e
versarne il contenuto nella tazza. Notai con un po’ di
disappunto il ticchettio provocato dai tremiti continui delle mani
bianche. Presi un sorso di vino, prima di allungare istintivamente una
arto per aiutarla a reggere la teiera, che sembrava prossima a
fracassarsi a terra.
- Stai ancora
tremando, Vivy. Non puoi negare di stare male. - osservai, trattenendo
le sue dita tra le mie e il calore della porcellana – Devi
dirmi cosa posso fare per aiutarti… -
Sapevo che la mia
condizione di impotenza era perfettamente compresa in quella frase.
Sapevo come questa rappresentasse una debolezza del tutto
inaccettabile. Sapevo che comportarmi così segnalava una
compassione che non dovevo neanche pensare di manifestare. Eppure stavo
arrivando all’esasperazione.
Sentii,
più che vederli, dato che erano ancora molto lontani
dall’incontrare i miei, i suoi occhi riempirsi di lacrime,
che però trattenne prontamente. Udii un solo lieve
singhiozzo e poi sospiri ripetuti, per imporsi la calma. Non voleva
piangere di fronte a me, evidentemente. Come se non immaginassi che
anche lei avesse un lato sofferente, debole e sconfitto…
Sciocca, pensai, in un istante di stizza, ma mi trattenni
dall’intervenire.
Allontanai le mani
e lei fu libera di sollevare il piattino, che però si alzava
instabile, facendo tintinnare anche la tazza che vi era appoggiata.
Sospirai, distogliendo lo sguardo. Non aveva senso che restassi
lì, se si ostinava a non volere nessuno, a non volere aiuto.
E l’amarezza che mi avvolse fu la sensazione più
intensa che mi scoprii a provare.
- Non…
mi puoi aiutare… - la sua voce era debole, lieve e fragile.
- Non puoi saperlo
se continui a non volermi parlare. – le risposi, volgendo
anche il capo lontano da lei, come se fossi un immaturo ragazzino
offeso.
Prese un respiro
affranto, che mi riempì di mestizia. Cercai di scacciare
quella sensazione, segno dell’empatia che non potevo
permettermi di avere, a nessun costo.
-
Volevo… dimenticare… Voglio
dimenticare… - sussurrò – E…
non ci riesco… mai… -
- Cosa?
– chiesi, cercando di apparire ancora distaccato, anche se
sentirla finalmente pronunciare tante parole di seguito mi stava quasi
svegliando dal letargo.
- Era
lì… Quel volto… Quelle
parole… Mi ha… mi ha toccata…
Dio… -
- Chi? Chi era?
– domandai ancora, voltandomi finalmente.
- Si chiama...
Rouelle… Padre Rouelle… -
-
Raccontami… - le chiesi, appoggiando una mano sulla sua, che
teneva in grembo – Cosa vuole quel monaco da te? –
e non potei evitare di mostrare tutta la mia disapprovazione di
principio sulla qualifica di quell’uomo a me ignoto.
Quel contatto
attirò i suoi occhi affranti su di me. Le labbra tese,
arrossate forse dall’essere state a lungo mordicchiate
nervosamente, si curvarono piano verso il basso, infelici.
- Lui…
Ha catturato me… e mia madre… Ci accusava
di… essere streghe… - spiegò
brevemente, ma con dolorosa fatica – Io non so…
Lui… Credeva che… i poteri… dei
Noah… fossero… stregoneria… -
Aggrottai le
sopraciglia: - Un inquisitore fuori dal suo tempo… -
sentenziai, sentendo il disgusto per quella persona che neanche
conoscevo crescere oltremisura - Anche tua madre è una
Noah…? – domandai subito dopo, notando che lei
sembrava pronta a chiudersi di nuovo, a seguito della mia
osservazione irriverente. Del resto il suo sguardo era tornato basso e
distante.
- Si…
Lei… Insomma… Quel tipo ha detto… che
era la Follia… - rispose, scuotendo la testa, come per
scacciare qualcosa di peggiore.
Rimasi un secondo
in silenzio perché qualcosa non quadrava. Chi era
“quel tipo”? Se il prete non sapeva neanche cosa
fossero i Noah, chi era stato a riconoscere per tale la madre di Vivy?
- Di chi stai
parlando ora? – chiesi allora, confuso.
Scosse la testa
sempre più forte, come se non volesse prendere coscienza di
quello che diceva: - Non lo so… L’hanno
chiamato… Bookman… Non so altro…
Però ha usato… quella cosa…
Quel… cristallo… -
-
Innocence…? – chiesi, io stesso abbastanza
sconvolto all’idea di dover davvero usare quella parola, per
la prima volta. In effetti aveva un suono molto fastidioso…
- Quando
l’ha usata… la mamma… - sentii le sue
mani artigliarsi in parte sulla mia in parte sul tessuto della gonna,
mentre il silenzio sospeso lasciava intendere ogni cosa.
- Vivy…
- cercai di intervenire, sentendola esitare.
- Ma è
stato Rouelle ad ordinarglielo! Quel vecchio mi ha… mi ha
salvato la vita, Tyki! – esclamò improvvisamente,
come se mi avesse letto nella mente la disapprovazione per quella
nostra misteriosa nemesi.
- Calmati, ho
capito. Devi la vita a questo Bookman. – assentii, con una
smorfia poco convinta.
- Lui mi ha
protetta… Ha convinto… quel…
demonio… Quello… credeva
già… di vedermi… - il suo tono divenne
improvvisamente stridulo - … diventare polvere…
ai suoi piedi…! –
- Vivy…
- tentai di interromperla ancora, questa volta alzando la mano deposta
sul suo grembo e portandola a quel viso diretto a terra, sul quale
vedevo luccicare il riflesso delle prime lacrime.
Fece resistenza
per qualche istante al mio desiderio di guardarla, finché
giunsi ad accarezzarle la guancia con maggiore delicatezza. La Paura
regnava sul suo volto d’angelo, sporcandolo in un modo che
solo io potevo accettare e comprendere. Questo mi rendeva anche
l’unico che potesse aiutarla a liberarsi dal suo incubo.
-
Scusa… - bisbigliò, come se quelle lacrime
fossero un tremendo peccato.
- Non devi
scusarti. Hai guardato negli occhi la parte peggiore del tuo passato,
è normale restarne scioccati. – ma non riuscii a
reprimere del tutto il dispetto che mi provocava la sua vergogna nei
miei confronti e sentenziai, severo: – Non vergognarti di me.
–
Trattenne un
singhiozzo e si passò le dita sugli occhi: - E’
stato Bookman… a dirgli… che avevano
ordinato… entrassi nel… convento… Non
credo… fosse vero… Ma
l’altro… non poteva opporsi…
Ora… come ha fatto… a trovarmi…?
– mi chiese, come se potessi spiegarle perché le
fossero avvenute tutte quelle cose tremende.
- Non lo so.
Doveva accadere e basta. -
Eppure sentivo una
sensazione nota vibrarmi nella testa. Quel marchingegno che funziona
solo quando qualcuno lo attiva, non può trovare energia che
nell’accensione di un interruttore. Un meccanismo che solo un
artigiano poteva far funzionare. Nell’ombra, nel silenzio.
Aveva un nome, poteva averne uno solo…
Fu a causa di
questo pensiero inquietante che mi distrassi. Altrimenti non avrei
fatto un errore tanto clamoroso.
- Non sai nulla di
tuo padre? – chiesi.
Fui ingenuo e
stupido a parlare di qualcosa a cui lei, volontariamente, non aveva
neanche accennato. Anche se non l’avesse mai conosciuto,
sarebbe stata piuttosto fuori luogo come interrogazione. Oltretutto era
assurdo toccare quel tasto dopo tutti i sottintesi che aveva lasciato
sulla sorte della madre.
La sua reazione fu
anche peggio di quello che avevo visto finora.
I suoi occhi
divennero vitrei, mentre un orrore che non potevo immaginare si
materializzava nella sua mente. Uno spasmo la attraversò e
la Paura vibrò in ogni sua fibra. Faceva quasi male
percepirne la manifestazione, tanta fu la sua forza in
quell’istante. Si prese il viso tra le mani e
cominciò a gridare. Gli urli ne uscivano soffocati ma
riempivano la stanza con un lugubre rimbombo.
Scattai senza
neanche accorgermene.
Le mie braccia la
avvolsero con foga e concitazione, ma manifestando una naturale
attitudine a quel gesto così raro. La strinsi più
forte che potevo e una mia mano corse alla sua nuca, facendole
appoggiare la fronte sulla mia spalla.
- Perdonami. Sono
stato un idiota. Ti chiedo scusa. – dissi, sinceramente
pentito della mia leggerezza. La cullai piano tra le braccia fino a che
smise di gridare.
- Tyki…
Io… - sussurrò, rauca, facendo per staccarsi.
- No, non dire
più nulla. La colpa è mia. Tu resta qui fino a
che vorrai. Sfogati. – la incitai, tenendo le braccia avvolte
alla sua schiena scossa dai singhiozzi.
Allora si strinse
altrettanto disperatamente a me, afferrando forte la mia giacca con le
dita e immergendo il viso nella mia spalla, e prese a piangere forte,
istericamente. Sentendola abbandonarsi contro di me, assunsi una
posizione più comoda facendola sedere sulle mie gambe, i
suoi piedi giunti a penzoloni del divano, e poggiandole la schiena al
sedile e al mio braccio disteso, finendo per sostenermi contro lo
schienale solo con la spalla a cui era accoccolata.
Non so per quanto
tempo rimanemmo così prima che riuscissi a sentire il suo
respiro regolarsi lievemente, anche se i singhiozzi ritmati
persistevano. Il suo abito bagnato a contatto mi aveva inumidito il
completo fino alla pelle sottostante, ma non mi importava. I bei
capelli neri, sciupati dal tempo e dall’asciugamano,
accarezzavano comunque con una certa grazia e gradevolezza la mia
guancia e il mio collo. Il contatto della sua mano delicata con la nuca
a cui si era aggrappata con tanta disperazione era qualcosa di tenero e
inaspettato. Le mie dita accarezzavano pudicamente un corpo sottile e
delicato, magro e desideroso di protezione, nonostante un palmo, nella
nuova posa, non potesse arrivare che ad un fianco della giovane. Anche
se l’acqua l’aveva diluito e svalorizzato, riuscivo
a sentire a tratti qualche nota del suo profumo di pesca. Quella
vicinanza, che in qualunque altra situazione mi avrebbe provocato solo
pensieri poco casti, ora mi ammantava di una tenerezza inaspettata.
E quando un luogo
imprecisato del mio inconscio diceva che non era questa la sensazione
che mi si addiceva, lo mettevo a tacere beandomi di quella dolce figura
che cercava in me una fuga dal suo spaventoso passato.
- Tyki…
- mi chiamò, con una dolcezza flebile e candida –
Ti ho bagnato tutto… Scusa… -
- Non importa.
– le risposi, con i sensi intorpiditi dalla lunga posa
pressoché immobile.
Staccai piano una
mano dalla sua schiena per afferrare il calice di vino e berne un
sorso. Anche lei si mosse: staccò le mani da me, ma solo per
prendere a lisciare piano la spalla della mia giacca, ormai bagnata.
Allora avvicinai lentamente il bicchiere al suo viso:
- Bevine un
po’. – la incitai.
- Sai che sono
astemia... – si lamentò lei, cercando di
allontanarlo con un gesto.
- Si, ma un sorso
non ti farà male. Anzi, proprio perché non sei
abituata, potrebbe farti un buon effetto rilassante. –
insistetti.
- Sei
sicuro…? – chiese, lieve, ma lasciò che
le accostassi infine il bordo del cristallo alla bocca. Permise solo un
piccolo sorso prima di fermarmi la mano, che insisteva ad inclinare e
versare.
- …
E’… - cercò un momento la parola
migliore - … Brucia… - commentò,
infine, scontenta.
- Se brucia fa
bene. – sentenziai, come se sapessi di cosa parlavo.
Posai nuovamente
il bicchiere al suo posto, ma la sua voce mi interpellò
prima che potessi avvolgerla di nuovo in quell’abbraccio,
ormai tanto famigliare:
- Tyki…
Ho ancora… - esitò un istante - … la
Paura…? –
Le alzai piano il
capo dalla mia spalla prendendolo tra le mani. Il volto era piuttosto
roseo, le cicatrici lasciavano solo un delicato alone, ma le iridi
erano ancora rapaci e diaboliche.
- Un
po’… - minimizzai – Hai ancora gli occhi
un po’ gialli… -
- Oh,
no… E ora come faccio? – domandò
preoccupata, mentre le lacrime si preparavano a scendere nuovamente.
- Non ti agitare.
E’ peggio. Ci vuole solo un altro po’ di tempo per
riprenderti. – conclusi, mentre il pianto bagnava le mie mani
ancora appoggiate sulle sue guance.
- Non volevo che
mi… vedessi così… Io voglio essere
forte… - disse infine, dando voce a quei gesti che avevo io
stesso interpretato poco prima.
- Non ne hai
bisogno. Questo tuo lato più fragile, ora che lo conosco,
non è più un punto debole. –
sentenziai, serio, senza smettere di ricambiare il suo sguardo
lacrimevole – Fidati di me. –
- Tyki…
- intervenne, preoccupata.
Sapevo
perché lo era, ma non potevo evitarlo.
Volevo eliminare
quel monaco. Volevo cancellare quell’incubo dalla mente di
Vivy. Volevo vedere il terrore nello sguardo di quel verme assassino,
lo stesso terrore che instaurava nelle sue vittime. Volevo sentirlo
implorare la mia pietà e poi, nella disperazione totale,
abbassarsi a chiedere a lei quella misericordia che lui non avrebbe mai
usato alla sua prigioniera. Volevo vedere quell’orrendo
essere umano, quel violento uomo di Dio, pregare noi, segnati da un
sangue diabolico, ma suoi unici giudici. Volevo sentire la
soddisfazione di negargli ogni speranza.
Ucciderlo con
queste mani. Ucciderlo macchiandomi del suo sangue infetto, ma provare
la sensazione di infilzare quel corpo debole alla voluttà
della violenza. Sentirlo agonizzare, mentre lo obbligo, con le sue
ultime forze, a guardare negli occhi la donna che porterà
sempre nell’anima il ricordo del male che lui le ha fatto.
Ordinargli di chiederle perdono. E infliggergli infine la morte, la sua
condanna, con tutto il Piacere che me ne sarebbe derivato.
Ricordai allora il
discorso di Lulubell. Aveva deciso di svelare il suo lato segreto solo
a me.
Poco prima Vivy
era stata obbligata dalle circostanze a mostrarmi il suo.
Ora il mio mi
appariva sul volto, inevitabilmente, con i tratti malvagi dei Noah,
mentre mi inebriavo di quella deliziosa fantasia di vendetta.
Sorrisi a quel
volto affranto e spaventato che stringevo tanto bene tra le mani: - Ti
proteggerò da quell’uomo. Ti libererò
di lui. Ad ogni costo. Con Piacere cancellerò quello
schifoso da questo mondo. –
- Tyki, ti
prego… No, non farlo… - sussurrò,
spaventata, afferrandomi spasmodicamente i lembi della giacca.
- Credi che meriti
tanti riguardi da parte tua? Non temere, ci sono io… - e
seppi che ormai un ghigno carico di aspettativa per quel momento
riempiva il mio viso.
- Non voglio
che… tu uccida nessuno…! Promettimi che non
ucciderai nessuno! – esclamò, liberandosi dalle
mie mani.
Temetti per un
secondo eterno che il suo animo immacolato si sarebbe ribellato al
punto da allontanarsi del tutto da me. Temetti che a quel punto
cominciasse ad avere Paura anche di me.
Invece, appena
libera, si slanciò contro di me, cercando ancora riparo e
sicurezza tra le mie braccia.
Poteva odiare quel
mio improvviso desiderio omicida, ma non poteva negare che fosse tutto
rivolto alla sua difesa. In quel momento, ero certo che avrei fatto di
tutto per difenderla. Nel lato più insicuro e fragile del
suo carattere non poteva che essermene, suo malgrado, riconoscente.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Holà-Holà!|
Sono tornata ancora, sempre più drammaticamente in ritardo...
Mi scuso fin da subito con coloro che (magari) mi hanno aspettata al
varco finora... Avrete fatto provviste per accamparvi lì
nella selva più selvaggia per... 5 MESI...
ò_ò
Ad ogni modo, quello che leggete é per l'80% il risultato
del lavoro esclusivamente serale di queste ultime due settimane. Mi
sono resa conto con disperazione che se non aggiornavo ora, non l'avrei
più fatto probabilmente per questo intero anno, quindi ho
cercato di non lasciare alla deriva questa fanfiction per un altro
numero indefinito di mesi.
Devo dirvi che tre parole hanno rischiato di farmi impazzire in questo
capitolo: nell'ordine, "mani", "occhi" e "asciugamano"... Non sapevo
più dove trovare sinonimi elaganti a questi
termini... Quindi, se trovate ripetizioni (ma spero di no!) abbiate
pietà... ç_ç
Come si suol dire, non si conosce mai abbastanza una persona.
Trovo sia indispensabile che Lulù sia anche così,
una diabolica gatta morta. Altrettanto che Vivy non riesca sempre a
combattere contro tutto e tutti, riuscendo alla meglio a nascondere i
suoi incubi. Allo stesso modo, che Tyki senta in qualche modo
quell'istinto alla violenza che é connaturato alla sua
figura (anche se, in questo punto della mia storia, é ancora
lontano dal diventare il diabolico persecutore di cui abbiamo tutti una
chiara immagine).
Ecco, spero di non aver esagerato con le smancerie, soprattutto quelle
compiute da lui, piuttosto contrverse rispetto alla sua figura
tradizionale... Se vi sembra che l'abbia "rammollito" troppo, pensate
che alla fine é stata una strana serata anche per
lui e non sapeva bene quello che faceva, ormai... ^^''''
Con questo, finisce il mio angolino, perché non so che altro
aggiungere. u_u
Mi dispiace per l'attesa lunga che vi ho preannunciato, ma vi prego di
portare pazienza: gli esami si preannunciano drammatici, questo
trimestre... ç_ç
Grazie a tutti
coloro che leggono, leggeranno, daranno un'occhiata, lasceranno una
recensione (siate numerosi!)!!!
Grazie a tutti coloro che nonostante tutto non hanno ancora tolto
questa storia dalle preferite e/o dalle seguite!!!
Lady Greedy = Oh, grazie per essere tornata a
recensire! *_* Mi ricompari sempre sui gemelli, sarà un
caso... XD Devo dirti che anch'io ho sempre avuto forti pregiudizi su
Lulubell, ma a forza di cercare di parlare di lei, comincio a vederla
come un personaggio normale. Certo, con questo, sarà sempre
e comunque dal lato sbagliato della mia personale barricata... Eh,
si... ^^
TriggerHappy = Dato che nel frattempo hai
cambiato nick, ci ho messo un secondo a riconoscerti, ma ora ci sono,
"ex-Bohemienne"!!! ^^ Spero di non trovarti eccessivamente languente,
dato il tempo interminabile che ho lasciato passare... Mi dispiace, ma
i miei trip mentali mi hanno condotta altrove per un po' e
l'università ha fatto il resto... Grazie perla comprensione!
Come vedi bene anche da questi messaggi, il "puntini-puntini"
é un mio vizio. Mi sto sforzando di rimediare, comunque, e
appena avrò un po' di tempo, cercherò di dare un
occhio ai vecchi capitoli per minimizzare l'effetto. I puntini
abbondano anche in questo capitolo, ma era l'unico modo che avevo per
cercare di mostrare chiaramente le interruzioni e i tremiti di Vivy. Ad
ogni modo, ti ringrazio molto per la segnalazione!!! Spero che questo
capitolo ti piaccia!!! ^^
Loveless_ = Ti ringrazio da subito per la
preferenza e l'apprezzamento di Vivy!!! *_* Non finirò mai
di inneggiare a tutti coloro che apprezzano il mio personaggio
originale, nonostante tutte le sue fisime e il suo stile
melodrammatico! Grazie mille!!!
Il potere di Vivy... dunque... *pensa* ò_ò ...
verrà fuori più avanti... Decisamente
più avanti... In effetti devo ancora definire un paio di
cose al riguardo, ma qualche tempo fa ho avuto l'illuminazione che mi
é servita per quella scena del capitolo precendente. Se non
cambierò idea in futuro, quello che si può
intuire di quel passaggio non é che un frammento del potere
che le voglio assegnare, ma é ancora tutto da specificare. E
poi, anche se avessi vere certezze, non credo potrei fare questo
spoiler colossale... Ad ogni modo, la tua curiosità
verrà appagata: ti ci vorrà parecchia pazienza
con me, ma non disperare!
I Am NOT = Aiko, ti ringrazio molto per la
recensione e la preferenza!!! XD
Tutti questi complimenti al mio modo di scrivere mi
commuovono sempre (soprattutto in questi casi, quando, cioé,
ho dato di sclero per tentare di dare una forma un po' lineare
all'intricata mentalita di Tyki e ai miei random mentali, uniti insieme
in un minestrone di follia... ò_ò)!!!
Devo dirti che, incuriosita, ho dato una scorsa alla tua storia, ma la
scarsità di tempo non mi ha permesso di leggere tutto, se
mai di farmi giusto un'idea. Quando riuscirò a fare le cose
per bene, ti lascerò volentieri un commento! ^^ E ti
saprò dire se vedo davvero l'ipotetico plagio di cui mi
avvisi preventivamente... Per quello che ho potuto vedere in uno dei
capitoli che avevo aperto a campione, non devi farti questi problemi!
L'idea di Tease é decisamente diversa e originale, basta
questo direi, poi le situazioni possono essere simili, é
inevitabile! ^^
Spero ti piaccia questo capitolo e ti ringrazio anche della
pubblicità che mi hai fatto!!! XD
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