Dragostea din tei

di Dante_Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il truzzo in azzurro ***
Capitolo 2: *** Tentativo uno - il buttafuori ***
Capitolo 3: *** Il capo, il geco e il piccoletto ***
Capitolo 4: *** Tentativo due - Il mio caro cugin-inetto ***
Capitolo 5: *** Tentativo tre - Nike! (non la marca XD) ***
Capitolo 6: *** Conoscenze ***
Capitolo 7: *** Delusioni, graffi e voci ***
Capitolo 8: *** Grandine ***
Capitolo 9: *** Tutto fa un po' male ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il truzzo in azzurro ***


Prima di iniziare, mi sento in dovere di fare qualche premessa:
1) La canzone omonima non c’entra nulla con questa storia xD ho usato questo titolo per il suo significato: tradotto letteralmente con “amore sotto al tiglio”, vorrebbe dire “amore a prima vista” o “amore non corrisposto”. Tutti e tre i significati c’entrano con questa storia, per cui mi sembrava che questo titolo calzasse a pennello [attenzione, io NON conosco il rumeno, è tutto frutto di Wikipedia xD quindi se ciò non è vero, beh…non posso saperlo]. Ancora, richiamando inevitabilmente la canzone, riesce a dare una certa atmosfera truzzica, e pure questo si adatta al racconto.
2) I personaggi principali vengono dalla storia di una mia amica, una divertentissima accozzaglia di nonsense e crossover dei crossover. I due protagonisti sono Dante e Virgilio, che DERIVANO dai D&V della Divina Commedia, ma che si sono trasformati in TUTT’ALTRO; il primo è metallaro e il secondo truzzo (Nonciclopedia docet) e degli originali è rimasto solo il nome. In questo racconto, quindi, non pensate a loro xD sono due normalissimi adolescenti, e stop. Poi, sempre in questa storia della mia amica, Trunks (sì, proprio quello di Dragon Ball) è un amico di Dante, quindi ho deciso di sfruttare questo personaggio anche nella mia storia; ma anche lui è completamente snaturato, col Trunks dell’anime non ha nulla a che fare! Per cui immaginatevelo come vi pare, ma sappiate che non fa la parte del sayan xD
Avrei potuto semplicemente cambiare i nomi e scrivere una premessa in meno, ma non mi sembrava giusto =w=
3) Io non ho mai, MAI messo piede in una discoteca, quindi ho solo una vaga idea di come questi ambienti possano funzionare. Non ho mai avuto vicinanza con la cultura né tamarra né metallara, le ho sempre viste da fuori. Quindi in realtà scrivo di un argomento che non conosco affatto! XD E con toni decisamente coloriti, credo. Non penso che nella realtà la rivalità sia così accentuata, per cui prendetelo come un mondo decisamente romanzato per i fini della storia e basta XD

Scusate il papiro di presentazione, ma mi sembrava il caso di precisare.

Oh! Un’ultima cosa: ho scritto in un italiano abbastanza informale. È una scelta stilistica, quindi è voluto :3 buona (spero) lettura!




Il suo respiro era accelerato per l’eccitazione e la paura, il suo cuore batteva a mille. Si era trovato in quella stanza estranea, anonima, proprio assieme a lui. Il ragazzo gli era sopra e gli stava accarezzando il corpo nudo; gli mormorò qualcosa per tranquillizzarlo, doveva essersi accorto della sua agitazione. Chiuse gli occhi e girò la testa quando la sua mano calda arrivò a sfiorarlo nella zona più sensibile; sentiva il formicolio del sangue che si fondeva col tocco gentile di quel giovane sconosciuto. L’aveva visto solo una volta, non era giusto quello che stava succedendo…e cos’avrebbero pensato i suoi amici…?
Gli afferrò la mano per fermarlo, ma il ragazzo lo scostò adagio e lo sormontò completamente. «Ssssst...non avere paura…» sussurrò; dolcemente, ma con una punta di malizia.
Aveva gli occhi di un profondo color nocciola; lo vedeva bene, aveva il volto a pochi centimetri dal suo. Mentre si perdeva in quello sguardo, sentì che il ragazzo spingeva per entrare in lui.
«Aspe-» annaspò, irrigidendosi e chiudendo un poco le gambe; strinse i denti per tentare di sopportare la fastidiosa intrusione, mentre ancora una volta l’altro gli sussurrava qualcosa di non ben definito. Una lacrima gli solcò una guancia, non per il dolore, ma più per la forte emozione che stava provando; la goccia percorse la sua faccia andando a scivolare fin dentro l’orecchio. Si svegliò di soprassalto a causa di quest’ultimo, reale fastidio mentre, ancora addormentato, stava portando una mano al viso per asciugarsi.
Si ritrovò nel buio nero di camera sua, le tapparelle chiuse al massimo per evitare che la luce aranciata dei lampioni filtrasse attraverso la tenda. Il suo cuore ancora batteva forte. Sentiva la sua erezione pulsare ferocemente, e pure un certo bruciore al di dietro, quasi come se il sogno fosse stato reale. Si tamponò l’orecchio bagnato col lenzuolo, dandosi dell’idiota. “Ok, ok. Calmati. Era solo un sogno.”. Sospirò. “Certo che se arrivi a fare sogni del genere sei messo male, eh…”. È vero, aveva passato gran parte del suo tempo pensando a quel tipo, da sveglio. Ma arrivare a sognarlo così, no! Oltrepassava ogni decenza! L’aveva visto una sola volta per tre secondi e gli faceva questo effetto?!
Ripensò intensamente al sogno: era stato così reale…aveva potuto sentire il suo peso, il suo calore, aveva potuto toccarlo…essere toccato...ma la sua voce era veramente quella…? E gli occhi ce li aveva davvero di quel colore…? Ricadde con la mente nella scena, e la sua mano scivolò automaticamente dentro ai boxer, andando ad eccitare ulteriormente l’organo già sveglio, con una pratica che aveva scoperto non molto tempo prima. In poco meno di due minuti venne con uno sbuffo liberatorio, seguito subito dopo da uno smadonnamento: non aveva nulla per pulirsi. Era proprio cretino.
Corse in bagno e si asciugò con della carta, dandosi più volte dell’idiota e dello sfigato. Sospirò nuovamente: si vergognava moltissimo, del sogno e di quello che era venuto dopo. «Dante, sei un porco.» si disse guardandosi allo specchio, per poi distogliere lo sguardo, il viso rosso come un peperone.
Guardò l’orologio attaccato al muro: erano le 6. Aveva il tempo di sciacquare via l’imbarazzo con una doccia fresca prima di prepararsi per andare a scuola. Si denudò completamente e aprì l’acqua; fece pipì mentre aspettava che la doccia raggiungesse la temperatura giusta –ci metteva sempre un paio di minuti alla mattina–, dopodiché entrò nella cabina.
Dante non capiva cosa l’avesse colpito di quel ragazzo. Era stato un fulmine a ciel sereno, non gli era mai successo prima di allora. Di vista non aveva nulla di particolare, anzi: un truzzetto disprezzabile come tutti gli altri. No, l’aveva colpito la sua audacia. O la sua faccia tosta: in realtà non sapeva bene come chiamarla.
Era uscito con i suoi amici, tre sere prima. O meglio, con gli amici del suo migliore amico, Trunks. Quelli grandi. La maggior parte di loro era maggiorenne, lui l’avevano accettato un po’ come la mascotte del gruppo. Pareva si divertissero a mostrarlo in giro come una specie di trofeo: “un piccoletto che ha già capito tutto della vita”, così lo presentavano di solito. Ma cerchiamo di far capire la situazione: gli amici del suo migliore amico –e il suo migliore amico compreso– erano metallari. Di quelli seri, s’intende, tutti borchie, vestiti neri, capelli lunghi, birra e rutti. Era difficile trovare un ragazzino dell’età di Dante che non fosse un modaiolo, un tamarro o ancor peggio un emo, e oltre a queste cose nemmeno uno sfigato. Insomma, un ragazzo normale, direbbe qualcuno. E non appena “il piccoletto” (non che Dante fosse giovanissimo, il fatto è che dimostrava meno anni di quanti ne avesse in realtà, e all’apparenza sembrava poco più che un bambino) si era presentato una sera a casa di Trunks per rifugiarsi da una litigata coi genitori interrompendo una riunione e aveva dato evidenti segni d’apprezzamento per la musica, era stato preso sotto la metallica ala protettiva di quel gruppo di darkettoni. Ora aveva amici importanti e soprattutto fighi, per cui si sentiva un po’ importante e figo anche lui. Da qualche mese aveva iniziato a uscire con quella compagnia il sabato sera, trovandosi a casa di qualcuno di loro o in un pub per bere birra. Non aveva nemmeno l’età legale per bere birra, in realtà, ma non faceva niente, gliela ordinavano/offrivano lo stesso. Stava approfondendo la propria cultura musicale –verso il metal, inutile dirlo– e stressava la madre affinché la smettesse di comprargli vestiti ridicolmente colorati. I suoi genitori avevano presto notato il cambiamento del figlio e ciò portava spesso a discussioni, ma Dante aveva smesso di scappare di casa per cercare asilo: si chiudeva semplicemente in camera sua e faceva partire a tutto volume il lettore cd, sfogando la propria rabbia attraverso le emozioni che la musica gli dava, spesso stando in compagnia di uno dei suoi tanti ratti. Avrebbe anche voluto farsi crescere i capelli, ma da quel punto di vista la madre era incorruttibile, non gliel’avrebbe mai permesso; Dante l’aveva capito dopo quella volta che l’aveva trascinato di peso dal barbiere dopo che i suoi capelli avevano superato i venti centimetri di lunghezza, ordinandogli di contro un taglio tanto corto da farlo sembrare appena uscito dall’esercito. Si era sentito talmente ridicolo da non aver più il coraggio di superare i dieci centimetri, nonostante la cosa lo infastidisse un sacco.
Ma tornando a quella sera, uno tra i metallari più grossi e metallici del gruppo aveva proposto di fare un salto alla discoteca più vicina, idea accolta da grande approvazione. Dante all’inizio era rimasto alquanto perplesso, ma Trunks gli aveva spiegato che non sarebbero andati per entrare. Aveva pure detto che non era sicuro che fosse un programma della serata adatto a lui, e che forse avrebbe fatto meglio ad andarsene a casa, ma un altro ragazzo aveva asserito che per Dante sarebbe stato un divertimento, e che sarebbe piaciuto anche a lui infastidire i discotecari. «Non si è veri metallari finché non si insulta un truzzetto.». Potremmo dilungarci spiegando che Trunks non era molto d’accordo con questa frase e che le sue idee a riguardo erano completamente diverse, ma faremo a meno.
Così, avevano passato la serata fuori da questa discoteca, prendendo di mira i ragazzi che passavano con battute con gradi di pesantezza diversi a seconda dell’abbigliamento e del modo di fare della vittima. Un divertimento piuttosto puerile, ma che li faceva sentire così fighi... Il più bravo e feroce era il Diama, diciannove anni e un metro e novantacinque per novanta chili (tutti muscoli e capelli). Già vederlo, grosso e nero, con addosso il suo cappottone in pelle lungo fino alle caviglie, metteva in soggezione i quindicenni la metà di lui; ma la sua abilità nell’insultare e nel ribattere li spiazzava completamente, facendoli defilare con la coda tra le gambe, umiliati. Dante se ne stava fieramente circondato da questi predatori scuri e sghignazzava ad ogni insulto seguito ogni volta da una diversa faccia arrabbiata od offesa. Lo affascinava il modo in cui, con un solo sguardo, riusciva a trovare il punto debole della preda e a ferirla con le parole giuste; per esempio, il modo migliore per offendere una ragazzina che si vestiva come una battona per dimostrare un’età maggiore di quella che aveva era sottolineare con crudeltà proprio la giovane età che stava tentando di nascondere. Se passava un gruppetto di ragazzi vestiti firmati dalla testa ai piedi, non si faceva altro che individuare il più debole (ovvero quello coi vestiti meno costosi) e iniziare a deriderlo sottolineando le differenze con gli altri per metterlo in difficoltà. Poi c’era chi faceva un gestaccio in risposta e se ne andava, e chi invece si accalorava e tentava di difendersi, e allora quella era la parte più divertente: smontare ogni sua convinzione su musica, vestiario, modo d’essere fighi e quant’altro. Era una soddisfazione migliore di qualsiasi orgasmo.
Era stato a metà circa di questa caccia al truzzo che si era avvicinato a loro, con passo veloce e deciso, un ragazzetto dall’aria combattiva che si era piazzato a gambe larghe davanti al Diama. Doveva avere più o meno l’età di Dante, aveva i capelli scuri tenuti leggermente su con del gel e indossava scarpe viola, jeans a vita bassa, un giubbottino azzurro evidenziatore aperto e sotto di esso una felpa di un altro azzurro sparaflash.
«La smettete?!» aveva sbottato, guardando tutto il gruppetto con cattiveria. «Che ci guadagnate a fracassare i maroni a tutti quelli che passano? Non avete nulla di più costruttivo da fare?».
«Uao, un nanetto che vuole insegnarci le buone maniere.» aveva ghignato divertito il Diama in risposta. «Cos’è, hanno mandato te perché agli altri del gregge non importa se diventi purè?». Evidentemente aveva deciso che doveva essere uno dei più bassi nella scala sociale truzza, e di dover mirare a quel punto debole. Ma il ragazzo non era sembrato essere toccato da quelle parole. Aveva fatto spallucce e risposto: «Sono venuto di mia iniziativa, perché mi state dando fastidio. State dando fastidio a tutti. Per cui andatevene.». Il Diama aveva allora rincarato la dose: «Ah, no, scusa, devi essere il cagnolino del capobranco. C’hai pure la medaglietta!» aveva detto, adocchiando al collo del ragazzino una catenina con una lastrina di metallo a mo’ di pendaglio su cui era inciso il suo nome. «Dietro cosa c’è scritto, il numero di telefono per riportarti dal proprietario?». Gli occhi del ragazzino avevano lampeggiato: «No, c’è scritto un promemoria per me: “pisciare sulla macchina del ciccione imbecille che mi sta davanti”.». Ecco, tutto si poteva dire al Diama, tranne qualcosa sulla sua macchina, che chiamava affettuosamente “la mia ragazza”. S’era inferocito all’istante, non era riuscito a rispondere ed era stato placcato da due suoi amici prima che potesse lanciarsi addosso al truzzo; quest’ultimo aveva fatto un balzo all’indietro, spaventato, ma non era scappato. Aveva ignorato i due che stavano tenendo il Diama che gli intimavano di sparire e aveva guardato il gruppo, continuando: «Vi portate dietro pure un bambino? Avrà al massimo tredici anni! Volete farlo crescere bene, vedo!». Dante aveva avuto un sussulto indignato e solo allora aveva parlato: «Veramente ne ho quindici. Da parecchi mesi.». L’altro l’aveva squadrato dalla testa ai piedi passandolo ai raggi X con un unico sguardo, come fanno le ragazze tra loro per cercare difetti e decidere chi è la più figa. «Scusami, ma non li dimostri proprio.». «Beh?! Crescerò! Non sono comunque affari tuoi!». Dante odiava quando glielo facevano notare, era già abbastanza umiliante senza che venisse sottolineato. Il ragazzo aveva aperto la bocca come per dire qualcosa, poi l’aveva richiusa. L’aveva fissato per qualche secondo e aveva mormorato qualcosa tra sé e sé. «Non diventare come loro.» aveva ripreso poi, quasi con tristezza. «Sei ancora in tempo per cambiare. Non ha senso prendersela con qualcuno solo per gusti musicali diversi.». «Hai anche il coraggio di chiamarla musica! Dante, lascialo stare.» aveva replicato Pab, un ventenne alto e magro, coi capelli neri e lisci come spaghetti. «E tu, sparisci!». Aveva preso il ragazzino per una manica, l’aveva trascinato per una decina di metri e poi spinto via violentemente. Questi aveva guardato un’ultima volta Dante da lontano e sputato per terra rabbiosamente prima di sparire all’interno della discoteca con la testa incassata fra le spalle.
Sembrerà idiota, ma Dante era rimasto particolarmente turbato da quell’incontro e non era riuscito a godersi il resto della serata. Mentre rideva come un mona alle battutacce dei suoi amici, una parte soffocata di coscienza tentava di dargli fastidio punzecchiandolo nell’intimo: era giusto fare cose del genere? Era davvero divertente o era un passatempo semplicemente cretino? Ebbene, l’intervento di quel ragazzino era riuscito a mettergli dei dubbi. Forse non ci sarebbe riuscito se fosse spuntato fuori alla seconda, alla terza volta in cui Dante partecipava ad una serata del genere. Forse, se il gioco non avesse avuto intoppi, la mattina seguente sarebbe stato convinto d’aver passato la notte più divertente che si ricordava. Ma non era andata così, e Dante si chiedeva allora se non sarebbe stato meglio restare al William Wallace ad ascoltare i divertenti aneddoti dell’università  del Pab, piuttosto che vederlo spingere via un ragazzo che stava dicendo cose del tutto legittime. Era turbato soprattutto dal fatto che, prima d’allora, mai avrebbe creduto di poter trovare un ragazzo di quel genere capace di rispondere sensatamente. Gli era crollato in mito del truzzo idiota senza cervello. Ma c’era qualcos’altro. Non capiva nemmeno lui cosa l’avesse preso, ma aveva un terribile bisogno di rivederlo e parlargli. Non gli piaceva l’idea di avergli detto tre parole sbottando…sentiva che avrebbero potuto avere una conversazione più articolata.
Chiuso nella doccia, con l’acqua tiepida che gli scivolava addosso, Dante si preoccupava di dare un senso al sogno. Sapeva già di essere attratto dai maschi, ormai da un paio di anni. Ne aveva pure già parlato con Trunks, che si era rivelato molto disponibile e comprensivo. Ma mica poteva dirsi attratto da quel tizio! L’aveva visto giusto per un minuto, non funzionava così! Ma perché sentiva quel bisogno di rivederlo, conoscerlo? Perché aveva quello strano formicolio alle mani quando pensava a lui? Ma insomma!! PERCHÉ MAI doveva pensarci, a lui??! Si diede uno schiaffo: “Basta, devi finirla!”.
Uscì dalla doccia, si asciugò, andò in camera a vestirsi e coi capelli ancora umidi s’infilò con la colazione nella stanza delle gabbie, di fianco alla sua. «Ciauuu piccoli!» miagolò entrando. Una quindicina di ratti lo fissò e corse alle sbarre, mettendo il musetto fuori per salutarlo. «Ciao, Dante!» si rivolse a un ratto che stava da solo in una gabbia, grosso il doppio di un ratto normale e col pelo arancio e gli occhi rubino.
Dante (l’umano) allevava ratti. Si divertiva a pasticciare con la genetica e a vedere cosa veniva fuori dai vari accoppiamenti; ne vendeva pure qualcuno, ma non era quello il suo fine primo; quella era una vera e propria passione, a cui si dedicava ogni giorno con zelo. Ogni mattina faceva colazione col suo ratto preferito, il primo che avesse mai avuto, a cui aveva dato il suo stesso nome e che gli era sempre addosso quando era a casa. Mentre divideva qualche biscotto e un po’ di latte con lui lo aggiornò riguardo ai suoi pensieri, di cui già l’aveva messo al corrente i giorni precedenti, chiedendogli consigli e ottenendo in risposta rumore di sgranocchio e una leccatina. “Mangia e ama senza pensieri, sempre”. Un ottimo consiglio, non c’è che dire. 

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Capitolo 2
*** Tentativo uno - il buttafuori ***


Questo capitolo è corto fino alla vergogna é_è ma quello dopo sarà più lungo, yup ùoù



«E quindi ecco. È una situazione di merda e io sono un idiota.».
«Io ti avevo detto che forse era meglio se tornavi a casa…».
Era ricreazione; Trunks e Dante stavano seduti sopra ad un bancone. Il più giovane aveva spiegato nuovamente la propria situazione, questa volta all’amico, che forse sarebbe stato in grado di dargli consigli un po’ meno metafisici di quello che gli aveva dato il ratto. A Trunks si poteva parlare di ogni cosa, non si scandalizzava di niente e sapeva mettere gli altri a proprio agio; Dante gli raccontava sempre tutto, ma proprio tutto, anche le cose che faticava a discutere con se stesso. Era un ragazzo molto saggio nonostante i suoi soli diciassette anni e riusciva a dare sempre validi consigli e ottime motivazioni.
«Cosa mi sta succedendo, Trunks?».
«Oh, sono solo gli ormoni che iniziato a lavorare. All’inizio fa paura, ma presto ti ci abituerai, tranquillo, e ti piacerà pure.».
«No, no, ormoni un cavolo! Non può piacermi un truzzo!!».
Trunks sospirò. «I sogni non significano mai ciò che sembra palese, hanno sempre significati che bisogna cercare. Ma, certamente, un sogno simile credo stia ad indicare un forte legame, o un bisogno di attenzione da parte della persona sognata. Se è vero che quel ragazzino ti ha sconvolto l’idea che avevi del tamarro medio –oh, Dante! Mica uno è scemo solo perché va in discoteca! Anche le persone normali ci vanno!-, magari sta a sottolineare proprio questo sconvolgimento. Ma devi capirlo tu, amico mio. Hai sentito una qualche attrazione fisica quando l’hai visto?».
«Non mi si è nemmeno avvicinato, come faccio a dirlo?».  Abbassò gli occhi, pensieroso. «Però, le sue mani…».
«Mh? Cosa?».
«No, niente.». Dante si coprì la faccia portandosi il colletto del maglione fin sopra il naso, imbarazzato.
«No, dai, dimmi! Non ho sentito. Cos’hai detto?».
«Le sue mani…mi piaceva come muoveva le mani.» disse, con la voce soffocata dal vestito.
«Sì? Come le muoveva? Non c’ho fatto caso.».
«Non saprei dire…». Fece per ripetere la gestualità, ma si fermò subito. «Un po’ teatrale, tipo. Comunque...non è solo questo…non è tanto il sogno, nel senso…quello è un sogno e basta, non significa niente…ma perché sento di doverlo rivedere?».
«Ti ha colpito, è normale che tu voglia saperne di più su di lui. Non ci trovo nulla di strano.».
La campanella di fine ricreazione suonò, assordandoli: era proprio sopra la loro testa.
«Quindi non mi piace. Mi ha solo colpito perché mi sembra una persona interessante, ecco tutto! Grazie, ora mi sento un po’ meglio.».
«Mai dire mai…non credo che comunque sia normale avere una fissazione simile per qualcuno che hai visto una sola volta, eheh!».
«In ogni caso, voglio conoscerlo.» disse Dante saltando giù dal bancone, seguito da Trunks. «Voglio tornare alla discoteca, sabato. Prima o poi dovrei trovarlo, no?».
«Mah, non credo sia facile trovare qualcuno fra tutta quella gente, è una delle discoteche più affollate. Se credi che sia la soluzione giusta, comunque, tentare non nuoce. Ciao fratello, buona lezione. Non pensarci troppo, però!».
Dante credette che fosse la soluzione giusta. Si era detto che non sarebbe andato se in settimana la sua fissazione sarebbe scomparsa o anche solo affievolita, ma così non fu: passò i quattro giorni che mancavano a immaginarsi improbabili incontri di modalità sempre diversa. Aveva smesso di preoccuparsi della questione truzzo/non truzzo e si godeva gongolante l’attesa. Sognò pure il ragazzino un’altra volta, per fortuna in maniera più innocente rispetto alla precedente. Fece da culo entrambe le verifiche programmate in quella settimana, perché non era riuscito a concentrarsi a dovere. Trunks già aveva iniziato a preoccuparsi e non vedeva l’ora che quella storia finisse; in quei giorni il suo amico sembrava vivere fuori dal mondo. Che trovasse ‘sto tipo e si mettesse il cuore in pace!
 Dante gli aveva chiesto di non dire nulla agli altri, perché credeva che non sarebbero stati comprensivi come lui. Con loro si comportava normalmente, quindi era riuscito a non destare sospetti di alcun genere; non voleva avere questioni coi suoi amici per una cavolata simile. Non si sa mai, la gente. Ti mette in croce sempre per i motivi più stupidi, e il Diama non sembrava il tipo di persona capace di accettare un metallaro che sogna d’avere tresche con un truzzo, specialmente se il truzzo in questione ha osato dire qualcosa riguardo la sua macchina. Ci voleva poco per perdere la credibilità agli occhi degli altri, e voleva evitare che ciò succedesse.
Sabato, comunque, arrivò velocemente. Dante non sapeva cos’avrebbe fatto se avesse trovato quel ragazzo, tutte le sue fantasie non l’avevano aiutato a decidere un piano concreto; avrebbe improvvisato e tanti saluti. Tanto non sapeva nemmeno se l’avrebbe trovato, era un’impresa piuttosto ardua.
Fece credere agli amici di avere una cena con la sua vecchia classe delle medie, e di dover declinare il loro invito per quel motivo. All’uscita di scuola Trunks gli aveva arruffato i capelli in segno di buona fortuna e gli aveva raccomandato di informarlo sul risultato il prima possibile. Passò il pomeriggio pulendo gabbie e snobbando i compiti nel nervosismo più totale. “Il Target”, come aveva iniziato a chiamarlo nella sua testa per cercare di dare alla propria missione un alone di figosità, la settimana prima si era fatto vedere verso le 23, quindi era plausibile (sempre se sarebbe andato, quella sera) che a quella stessa ora si trovasse in discoteca. In ogni caso, Dante finse di doversi trovare come sempre con Trunks e gli altri e uscì di casa verso le 21. Non avendo alcun accompagnatore, dovette inforcare la bici e pedalare per trentacinque minuti buoni, lottando contro l’aria gelida di fine gennaio, chiedendosi mille volte chi glielo faceva fare, arrivando davanti alla disco congelato per metà.
Appena entrò una musicaccia trashissima lo aggredì, facendogli subito sentire il bisogno di uscire; si tappò le orecchie automaticamente, finché non si accorse di un tizio grande, grosso e con la testa rasata vicino alla porta. Il buttafuori, che sia selezionava la gente sia raccoglieva i soldi dell’ingresso, lo squadrò; Dante abbassò le braccia e fece un sorriso poco convinto, più simile a una smorfia imbarazzata.
«Ma tu ce li hai almeno quindici anni?» gli chiese l’omaccione con voce roca, osservandolo poco convinto.
Dante si gelò all’istante: la carta d’identità, quella fottutissima carta d’identità! Era riuscito a dimenticarsela! Perfetto. Non l’avrebbero mai fatto entrare. «Ehm, sì.» disse, cercando di avere un atteggiamento convincente. Si aprì la giacca: in quel posto faceva un caldo fottuto. D’altra parte, doveva esserci una temperatura tale da permettere alle varie zoccole di stare mezze nude.
Improvvisamente il buttafuori sgranò gli occhi, lo afferrò per un braccio e prese un’espressione leonina: «Ah, no! No, no, no! Se la metti così va’ via, tu non entri!».
«M-m-ma io ce li ho quindici anni, davvero!! È che mi sono dimenticato-».
«Fuori! Sciò!» prese a spingerlo l’uomo, non dandosi la pena di ascoltarlo.
«Va bene, VA BENE! Me ne vado!» si divincolò lui. «Ma perché tutta questa violenza???».
«Già la settimana scorsa sono arrivate lamentele, se vieni qui per fare casino ti conviene sparire alla svelta! Non li vogliamo quelli come te, qui! Per cui muovi quel culetto e vattene!».
Dante si guardò e capì: aprendosi la giacca aveva messo a nudo la felpa dei Megadeth. «Ma porca troia!!» sbottò, uscendo imbufalito dal locale.
 
«Sì?».
«Oi, Trunks. Senti…dove siete?».
«Ah, ciao. Siamo da Zanna, ma tecnicamente tra poco usciamo da qualche parte, stiamo ancora decidendo. Perché? Hai già finito?».
«Lasciamo perdere, ti racconterò. È che è un’ora che sono qui fuori e mi sono rotto i coglioni.».
«Ah…maa come sei andato? Sei in bici?».
«Sì, per forza.».
«No, perché è prevista neve per stanotte. Magari se vai a portare a casa la bici prima di venire qui dopo sei più comodo...».
«Non ho voglia di tornare a casa, è più vicina la casa di Zanna. In caso mi beccherò la neve, non m’importa.».
«Sicuro? …oh, maaa…quindi zero?».
«Stavo aspettando che eventualmente uscisse o arrivasse, dato che non mi hanno fatto entrare, ma sto iniziando ad avere troppo freddo e…oh cazzo, sì, SÌ, me ne vado, porca Eva!!! Me ne sto andando, ora me ne vado!! Rompicazzo!! Ma ‘sta calmo un po’!!».
«Dante?!».
«Scusami, è quel buttafuori di merda…si è accorto che sono ancora qui, s’è messo in testa che voglio dar fastidio. IO, capisci. Perfino il Grande Puffo è più minaccioso di me, cazzo!».
«Dio, mi dispiace… Mh? No, niente, la cena non gli è andata molto bene…sì…beh ma dai, aspettiamolo, poverino… Ok, Dante? Su, sbrigati ad arrivare, che ti aspettiamo.».
«’rrivo…».

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Capitolo 3
*** Il capo, il geco e il piccoletto ***


Più vado avanti a scrivere più questo povero ragazzino mi diventa amaro. Non doveva essere così, all'inizio XD ma fa tutto da solo...



Il primo tentativo, come abbiamo visto, non era andato a buon fine; ma Dante l’aveva messo in conto. Certo, non credeva che sarebbe andata in quel modo, ma sapeva che sarebbe stata una fortuna trovare il ragazzo già la prima volta.
«Sono stato cretino, ecco. Come sempre, del resto. Uff…a volte mi è proprio difficile sopportarmi. Mi prenderei a schiaffi da solo.».
Era domenica pomeriggio; Trunks aveva invitato l’amico a fare un giro in centro. I due camminavano sotto i salici del parco cittadino, spruzzato dalla neve caduta quella mattina, mentre Dante raccontava cos’era successo. Ora la fase di rabbia era passata, ed era entrato in quella depresso-commiserativa.
«Ma non c’ho proprio pensato. Non avrei nemmeno vestiti adatti, in realtà, ma almeno qualcosa di anonimo…».
«Oh, avanti, non prendertela troppo, adesso. Non avresti potuto immaginare di trovare il buttafuori scassapalle.».
«E pure la carta d’identità…! Non sarei entrato in ogni caso!».
«Ecco, quella forse. Ma così sei sicuro che la prossima volta non te la dimentichi.».
«Eh, LO SPERO. Non si sa mai, sai com’è.».
«Mi dispiace solo che tu debba aspettare un’altra settimana.». Trunks ridacchiò.
«Guarda, a questo punto io spero solo che mi passi!» rise Dante a sua volta.
Il più grande guardò il più piccolo sorridendo. «Ehm…che ne dici se c’imbuchiamo da qualche parte? Fa un freddo polare, ho una terribile voglia di qualcosa di caldo.».
Dante acconsentì più che volentieri; ritrovò subito il buonumore davanti a una tazza di cioccolata bollente e tornò ad essere l’amico di sempre. Per tutta la settimana successiva riuscì a essere più presente e a evitare di stressare qualcuno con quella storia, se non i suoi ratti. Nel frattempo, però, cercò di trovare un abbigliamento che non mandasse tutto in vacca di nuovo: in realtà non avrebbe dovuto procurarsi nulla, dato che di cose anonime ne aveva, ma non sapeva decidere quali vestiti sarebbero stati i più consoni. Di cose anonime, appunto, ne aveva, ma sentiva di voler essere il più convincente possibile. Paura del buttafuori, probabilmente. Il mercoledì pomeriggio andò nel negozio più tamarro della città, spendendo a malincuore mesi di paghette messe da parte per una maglia e dei pantaloni convincenti. Quale spreco, quale ingenuità! Ma di cagate ne abbiamo fatte tutti, per cui non sta a noi giudicare. Prese anche del gel per capelli, giusto il più scrauso e meno costoso, praticamente sputo. Tanto non sapeva nemmeno come usarlo. Sua madre fu felicissima degli acquisti, nella sua ignoranza in fatto di moda giovanile; ella non sapeva a quale categoria adolescenziale appartenessero quegli abiti, altrimenti sarebbe probabilmente scoppiata in lacrime. Vedeva solo che finalmente suo figlio era tornato a comprare vestiti colorati, e sperava che ciò fosse un sintomo di guarigione dalla malattia nera e satanica nel quale era caduto. Quello era uno dei casi in cui la cura è peggiore della malattia, ma sssst, meglio far finta di niente.
 Dante non disse di questo acquisto nemmeno a Trunks, da quanto sbagliato gli sembrava. Era forse la prima volta che gli teneva nascosto qualcosa, ma aveva tutte le ragioni per farlo: probabilmente in quel caso pure il suo amico gli avrebbe dato dello scemo.
Ma andiamo ora un attimo avanti, e arriviamo a venerdì mattina. Dante si trovava a scuola, durante una noiosissima quarta ora di storia. Aveva passato i primi venticinque minuti a osservare una mosca uscita non si sa da dove che gironzolava svolazzando a tempo perso per l’aula, e a scarabocchiare il libro scrivendoci in penna frasi delle canzoni che gli venivano in mente. Non aveva persone con cui cazzeggiare, dato che considerava tutta la gente della sua classe come disprezzabile, per un motivo o per l’altro; erano quasi tutti fighetti/e con cui non aveva nulla da spartire. In classe ci passava le ore di lezione perché costretto, ma i suoi amici stavano fuori da essa.
A ricreazione era riuscito a fregare metà pacchetto di patatine a Chele, e in quel momento aveva una sete terribile. Chiese il permesso di uscire e si diresse in bagno a bere; in quello più lontano, due piani di sotto, giusto per perdere qualche minuto di lezione in più. Scendendo le scale canticchiando (aveva ancora in mente l’ultima canzone che aveva annotato sul libro) andò a sbattere contro due ragazzi più grandi, tanto era con la testa tra le nuvole.
«S-scusate.» balbettò ripiombando alla realtà. Alzò lo sguardo su di loro: ma quella scuola era piena di truzzi o era lui a farci troppo caso?
«Tranquillo.» disse sorridendo il più alto dei due, prima di lanciare un’occhiata indecifrabile all’altro.
Dante riprese la sua strada mentre entrambi lo stavano ancora fissando. Giusto per perdere altro tempo, si fermò vicino alla portineria, dove si trovava una bacheca con annunci vari lasciati dagli studenti, da libri scolastici in vendita a dei ragazzi che cercavano un bassista per mettere in piedi un gruppo hardcore. Leggendo l’annuncio, il ragazzo sospirò: a lui sarebbe piaciuto un sacco imparare a suonare la batteria, la trovava troppo potente; ma aveva come l’idea che una batteria decente costasse un occhio della testa, senza contare che non aveva un posto dove potersi esercitare: avrebbe dovuto far insonorizzare camera sua.
Finalmente, camminando il più lentamente possibile, si decise a raggiungere il bagno; stava bevendo, quando sentì la porta chiudersi sbattendo e una mano lo afferrò per i capelli e gli ficcò la testa sotto il getto freddo. Ebbe un sussulto spaventato e aspirò dell’acqua col naso, mettendosi a tossire forte. Aveva ancora gli occhi chiusi quando venne sbattuto con violenza contro il muro e afferrato per il colletto con una presa d’acciaio. Riuscì ad alzare una palpebra e si trovò davanti i due ragazzi di pochi minuti prima, che lo guardavano uno con ferocia, l’altro ghignando. “Ha proprio una faccia da ebete” fu la prima cosa che venne da pensare a Dante guardando quest’ultimo, nonostante la situazione in cui si trovava non fosse delle migliori.
«Cosa…diavolo…state…?» ansimò dalla paura.
«Tu sei un amico di Diamanti, vero?» gli chiese minacciosamente il ragazzo che lo stava tenendo, gli occhi di ghiaccio puntati su di lui. «Sei sempre con lui, sì?».
«E con questo??».
«Non ci va a genio, Diamanti, ultimamente ha alzato un po’ troppo la cresta. Se crede di potersi comportare come cazzo gli pare si sbaglia. Sta giocando a fare il prepotente, ma adesso ha superato il limite».
«Che c-cosa c’entro io?? P-prendeteve…la con lui! Io non c’entro niente!!».
«Eh, è piuttosto difficile prendersela con lui.» spiegò sempre ghignando il ragazzo dai capelli scuri dietro a loro.
«S-s-siete dei codardi! Sono perché io sono-».
«Non osare insultarci, piccoletto. Sarai anche della stessa risma, ma non puoi concederti quello che si concede il tuo capo.» tornò a ringhiare il ragazzo dagli occhi azzurro gelo. Dante sentì la presa sul colletto farsi più forte e il tessuto strozzarlo leggermente.
«C-c-cosa vo…volete?» domandò sull’orlo delle lacrime.
«Solo mettergli un po’ di paura e fargli capire che ha oltrepassato il limite.». Il ragazzo, coi capelli color del grano, avvicinò la sua bocca a un orecchio di Dante, sussurrandogli quelle parole e riuscendo in quel modo a renderle ancora più minacciose. «Di’ al tuo amico che deve smetterla di comportarsi come se tutto gli fosse concesso. Se s’azzarderà ad attaccare anche solo verbalmente un altro dei miei, sappia che inizieremo a fare sul serio anche noi. E prova a immaginare chi sarà il primo ad andarci di mezzo…» disse, accarezzandogli una guancia.
Dante tremava come un pulcino bagnato. «M-ma io-io n-non c’en-».
«Mi hai capito?». Il ragazzino lo guardò terrorizzato, senza dare risposta. «Ho detto: mi hai capito??» ripeté allora il biondo, facendogli sbattere la testa contro il muro.
«S-sì…lasciami…».
«Oh, dai Luca, lascialo, adesso.» s’intromise il bruno, mantenendo la sua faccia da schiaffi. «Non vedi che se la sta facendo sotto? È solo un bimbetto!».
Il ragazzo lasciò la presa, lanciandogli un’ultima occhiata minatoria. «Spero per te che tu abbia capito. E, oh, portagli anche quest’altro messaggio.» disse, tirandogli subito dopo un pugno alla bocca dello stomaco, che portò Dante a piegarsi e a tossire di nuovo; dopo ciò, fece un cenno all’amico e si dileguò assieme a lui.
Dante cadde carponi, tremante, con l’acqua che gocciolava dai suoi capelli fin sul pavimento sporco, con lo stomaco sottosopra. «Non è giusto…» piagnucolò. «…bastardi…». Pian piano si rialzò, aggrappandosi al lavabo per aiutare le gambe instabili a sostenerlo. Si scostò la frangia bagnata dagli occhi, chiuse il rubinetto rimasto aperto e si prese qualche minuto per cercare di calmarsi. Cosa diavolo combinava il Diama? Quei due bulletti avevano solo cercato un pretesto per prendersela con lui o erano seri? “Ma la sfiga ha deciso che sono un soggetto divertente da prendere di mira o cosa??! Ultimamente, non so…!”. Tentò di asciugarsi un po’ i capelli con le salviette di carta per le mani prima di tornare in classe, ma rimasero irrimediabilmente fradici. Anche la sua maglietta era diventata bomba fino alle spalle, per colpa dell’acqua che vi era gocciolata.
Rientrò in aula aprendo lentamente la porta, sforzandosi di sembrare calmo e naturale.
«Dante!! Dov’eri finito?? Stavo per mandare qualcuno a cercarti!» disse la professoressa nel vederlo varcare la soglia, facendolo bloccare a metà strada tra l’entrata e il banco; il ragazzo non sapeva come giustificarsi: non aveva alcuna intenzione di raccontare l’accaduto. «Ma…! Perché sei bagnato??». L’insegnante si avvicinò a lui e lo prese per un braccio, guardandolo negli occhi. «Cos’hai fatto??».
«Ehm…io…».
«Spiegami cos’è successo!».
«Niente.». Dante cercava di mantenere un tono convincente. «Avevo…caldo. E ho pen-».
«Mi credi un’idiota?? No, dico, mi credi un’idiota?? Non venire a raccontare bugie a me, sai! ESIGO sapere cos’hai fatto!».
«…». Non sapeva come difendersi. La guardò con la bocca serrata, decidendo di starsene semplicemente in silenzio.
«Rispondi! Vuoi rispondermi??».
Scosse la testa, continuando a sostenere il suo sguardo. Un brivido di freddo gli percorse la schiena per colpa della maglietta bagnata.
«Bene. Bene! Una nota sul registro non te la toglie nessuno.» sbottò la prof, sgambettando velocemente fino alla cattedra. Aprì il quaderno di classe e si mise a scrivere, con piglio cattivo e labbra sottili. Dante era ancora in piedi nel mezzo della classe e la guardava con astio. Ciò era decisamente ingiusto, ma preferiva beccarsi la nota piuttosto che raccontare quello che aveva subito.
«Hai un maglione, vero?» abbaiò la docente quando ebbe finito di scrivere. «Togliti la maglietta e mettila ad asciugare sul termosifone, e indossa la felpa. Se non hai la canottiera sotto va’ a cambiarti in bagno, TI ACCOMPAGNO IO. Cos’è, stai cercando di ammalarti?? Ma dico io…!».


Circa due ore dopo, la campanella trillò finalmente la fine di quel giorno scolastico. Dante era, com’è facile immaginarsi, di pessimo umore, e ficcò velocemente la maglietta calda e ormai asciutta nello zaino per poi sparire dall’aula il prima possibile, facendosi i due piani di scale con muso duro e passo lesto. Voleva solo buttarsi sul divano davanti alla tv assieme al suo ratto preferito e non pensare più a nulla per le due ore successive.
Stava attraversando con grandi falcate il cortile, quando una mano gli strinse la spalla destra. Sussultò e si girò di scatto, in chiara posizione di difesa. «Ma sei scemo?!» sbottò poi, vedendo Trunks. «Mi hai fatto prendere un colpo!».
«Ehi, calmino!» rise lui in risposta. «Che c’è, sei nervoso?».
«No, scusa. Ero perso nei miei pensieri.».
«E a che pensavi?».
«A niente.».
Prima che Trunks potesse sottolineare la contraddizione, una voce zelante richiamò Dante. Quest’ultimo si girò e vide la professoressa di italiano e storia zampettare velocemente verso di lui. «Allora, ti sei asciugato?».
«Sì.» rispose a denti stretti.
«Non farmi mai più scherzi del genere! O la prossima volta mi sentirò costretta a chiamare i tuoi genitori. Hai capito?».
«Sì.».
«Non so cos’hai fatto, ma non è stato per niente divertente. …A volte non riesco proprio a capire cosa ti passi per la testa, vivi in un mondo tutto tuo. Cerca di essere un po’ più presente, va bene?».
«Sì. ‘Derci, prof.».
«…ah, quindi è successo qualcosa.» riprese Trunks quando si furono allontanati dall’insegnante.
«No!» rispose rabbioso Dante.
«Su, dimmi. Cos’hai fatto?».
«IO non ho fatto proprio niente! Lasciami in pace.».
«Quindi qualcun altro ha fatto qualcosa? Ti hanno dato la colpa per qualcosa che non hai fatto? …Eddai, dimmi cos’è successo!». Il giovane afferrò l’amico per lo zaino nel tentativo di trattenerlo, perché questi aveva accelerato il passo; Dante si liberò sfilandoselo di dosso e lasciandolo per terra, continuando imperterrito a camminare. Girò un angolo, ma Trunks lo prese e lo bloccò addosso al muretto di una casa, agguantandogli i polsi. «Dimmelo, dai!» insistette, mentre l’altro cercava di divincolarsi. Il ragazzo sorrideva, stava giocando, ma Dante era in uno stato talmente alterato da leggere il suo comportamento come un ulteriore abuso, e perse la pazienza.
«Lasciami!!».
«Eheh, no! Dimmi, dai!».
«Ma sai farti i fatti tuoi? Fatti i fatti tuoi! Non te lo voglio dire, quindi smettila!!».
«Ma se ti vedo così nervoso mi preoccupo... Dimmi, su! Tanto non ti lascio andare se non me lo dici!».
«Ma cazzo…! No, insomma…LASCIAMIIH!!!». Dante scoppiò a piangere senza preavviso e Trunks si scostò all’istante, perplesso.
«Sono STUFO di tutta la gente che si approfitta di me, sono stufo!!! Hic! Solo p-perché ho il corpo di un dodicenne tutti credono di potermi fregare, mi spintonano, mi spostano di qua e di là, fan-no quello c-che vogliono! Come se fossi una bambola!! Le persone in fila mi superano, i negozianti tentano di fregarmi sul resto, i miei c-che continuano a trattarmi come un bamboccio, e il buttafuori che fa il prepotente quando si vede benissimo che IO non posso far male a nessuno perché sono un bamboccio, e mio padre che mi rivolta appena lo faccio arrabbiare, i tizi di oggi che se la prendono CON ME perché Diama è troppo grosso, e adesso anche tu!! Basta!! Hic! I-io non c-ce la faccio più!! Non sono più un bambino, ho una d-dignità anch’io! Siete tutti degli stronzi e io non sono disposto a sopportare oltre!! Non s-sono il vostro chihuahua del cazzo!!!».
Trunks era basito e lo fissava senza parole. Non aveva mai visto l’amico esplodere e la cosa in verità faceva piuttosto paura. Non credeva che il non essersi ancora sviluppato fosse così pesante per lui, non gliel’aveva mai accennato prima…evidentemente era un problema di cui non riusciva a parlare, o che non era riuscito a formulare nemmeno a se stesso.
«Dante, m-mi dispiace, ma ora calmati!» balbettò afferrandogli le mani.
«HO DETTO BASTA!! Ti sto dicendo che non voglio essere bloccato così e continui a farlo!!!» urlò l’altro, liberandosi con un forte strattone.
«S-scusa, hai ragione, mi viene naturale!».
«Ma certo che viene naturale! Blocchiamo pure Dante tutte le volte che vogliamo, tanto lui è un tappo e non ha la forza di liberarsi!!!!».
«Calmati, Dante, per l’amor del cielo!! Non lo faccio più!!».
Il ragazzino aveva il respiro accelerato; tentò di asciugarsi gli occhi, ma grossi lacrimoni continuavano a solcargli le guance. Lanciò un’occhiataccia a Trunks e fece per andarsene, ma l’amico lo fermò parandoglisi davanti con le mani in alto, per resistere alla tentazione di ghermirlo. «No, no, no! Stai dimenticando lo zaino!».
«Non me ne frega un cazzo dello zaino!!».
«Non fare l’idiota, adesso. Va’ a prenderlo.».
Dante si passò per l’ultima volta con rabbia la manica sugli occhi, poi camminando lentamente tornò a recuperare la cartella.
«Allora non vuoi proprio dirmi cos’è successo?» gli chiese dolcemente Trunks. Dante sospirò e lo guardò torvo. «Te l’ho già detto.».
Il più grande si sedette sul bordo del marciapiede e fece segno all’altro di fare lo stesso. «Qualcuno se l’è presa con te invece che con Diama?». Dante annuì. «Chi erano? Che ti hanno fatto?».
«Due truzzi, direi, più grandi. Di quarta o di quinta. Mi hanno ficcato la testa sotto il getto del rubinetto mentre stavo bevendo. E mi hanno sbattuto sul muro e mi hanno detto che devo dire a Francesco che deve smetterla di fare il prepotente con loro. E quando gli ho chiesto perché se la stavano prendendo con me mi hanno detto che lui è troppo grosso, e che quindi è troppo difficile prendersela con lui.».
«…che bastardi…e non hai detto niente alla professoressa?? Perché??».
«No, e ha pensato che avessi fatto chissà cosa perché sono tornato in classe bagnato, e mi ha messo una nota.».
«Va’ dal preside e denunciali! Non possono mica passarla liscia!».
«Dovevo andare subito! E poi che prove ho?».
«Sono passate un paio d’ore, mica è troppo tardi! La tua classe ti ha visto bagnato!».
«E allora? Potrei essermi inventato tutto. E comunque no, non voglio dirlo, non mi va.».
«Comunque ora capisco perché sei così arrabbiato! Ma perché ti hanno detto queste cose??».
«Perché mi vedono sempre con voi.».
«Sì, ma…che diavolo fa il Diama che noi non sappiamo, allora…?».
«Non me ne frega niente, ma non vedo perché io devo andarci di mezzo!!».
«Quando hai intenzione di dirglielo?».
«Non ho alcuna intenzione di dirglielo.».
«Cosa?! Scusa, ci sei andato di mezzo e nemmeno vai a lamentarti?!». Dante scosse la testa. «Perché??».
«…perché mi vergogno, ecco.».
«Dovrebbero vergognarsi quei due, non tu.». Trunks si coprì la faccia con una mano. «Dante…tu sei troppo orgoglioso.».
«Che?! Orgoglioso io? Ma se ho l’autostima sotto i tacchi!».
«Autostima e orgoglio sono cose diverse. Tu…ti prendi troppo sul serio, ma te la prendi per cose per cui non vale la pena. Fai qualche cagata? Pazienza, tutti le fanno, che problema c’è? Qualcuno ti fa qualcosa? Che senso ha nasconderlo, hai paura di fare la figura del debole? Aiuti solo chi ti ha dato fastidio, stando in silenzio. E anche se passi per debole, ma chi se ne frega! Finisci di vivere per questo? No. E non prendertela troppo perché sembri piccolo, non è una cosa che dipende da te, ti avveleni il sangue e basta. Impara a ridere di te stesso, piuttosto, solo così si riesce ad affrontare la vita serenamente. Ci vuole un po’ autoironia, capisci.».
«…beh, scusa se me la prendo per cose stupide, sai…sono così, non posso farci niente.».
«Sì che puoi, invece. Basta metterci un po’ di buona volontà.».
«Non ti parte l’autobus?».
«…e a te non è già partito?».
«Sarei tornato a piedi comunque.».
Trunks aveva afferrato il messaggio: si alzò, diede una pacca sulla spalla a Dante e se ne andò, lasciando finalmente solo l’amico.

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Capitolo 4
*** Tentativo due - Il mio caro cugin-inetto ***


Mi scuso ancora per la brevità dei capitoli. Mi trovo meglio a dividere la storia in piccole parti.
E anche in questo capitoletto il povero Dante si caccerà in un piccolo guaio. Giusto per precisare, quel negozio di animali esiste sul serio. L'ho purtroppo visto coi miei occhi.




Dante rimase mesto per tutta la giornata. Decise di coccolarsi restando tutto il pomeriggio a giocare ad Assassin’s Creed davanti al computer, ma nemmeno ciò riuscì a ridargli il buon umore; non ci riuscivano nemmeno i ratti, e se non ci riuscivano loro non ci riusciva nessuno. Inizialmente si era arrabbiato per quello che gli aveva detto Trunks, ma poi ci aveva pensato su e si era reso conto che l’amico aveva ragione. Ma cosa poteva farci? Non voleva riferire al Diama quello che era successo, avrebbe iniziato un casino, e Dante voleva starsene tranquillo. Per il resto, avrebbe cercato di prendersela meno, anche se non credeva che sarebbe stato facile cambiare.
Alla sera si sentiva un po’ più tranquillo, ma non riuscì comunque a prendere sonno facilmente; aveva mille pensieri che lo agitavano, e la giornata trascorsa era solo uno fra tanti. Un paio di ratti stavano male e aveva paura che fossero vicini al termine della vita; gli dispiaceva un sacco, perché erano stati tra i primi che aveva preso. A scuola non riusciva a concentrarsi e studiare gli era diventato pesantissimo; si distraeva con niente e i voti ne avevano risentito, per cui temeva l’ira dei genitori e le conseguenti punizioni. Ma ciò che più lo agitava era che la sera successiva avrebbe riprovato a cercare quel ragazzo: chissà se quella sarebbe stata la volta buona…
Si addormentò solo alle due passate, e la mattina non sentì la sveglia e si alzò in ritardo; nonostante la foga, non arrivò in orario a scuola e fu costretto ad attendere la seconda ora per entrare in aula. Odiava le giustificazioni, specialmente quelle di ritardo: è un RITARDO. Tralasciando le visite mediche, solitamente se qualcuno arriva in ritardo è perché, appunto, è in ritardo, PUNTO. Perché è pigro, perché aveva sonno, perché non è suonata la sveglia, perché è andato a fare colazione al bar, e che cavolo! Cosa minchia si doveva scrivere, su quelle giustificazioni?? “Sono arrivato in ritardo”, e basta!
Raggiunse i suoi amici a ricreazione 5 minuti dopo, perché il professore aveva insistito per finire il capitolo trattato nonostante la campanella già suonata e le proteste degli alunni. Appena lo vide da lontano, il Diama lo chiamò con un veloce segno della mano; al ragazzino la cosa non piacque per niente.
«Ehi, è vero che sei stato minacciato da due tizi?».
«Trunks!!» Dante guardò l’amico. «Sei davvero andato a dirglielo? Ti credevo una persona discreta! Sai che non volevo!!».
«L’ho fatto proprio perché non volevi.» si difese lui. «Lo sai che puoi fidarti di me, ma questa volta andava detto.».
«Sei un bas-» iniziò Dante, ma Zanna lo zittì stringendogli una spalla. «Sta’ buono, ha fatto bene. Devi dirci chi è stato.».
«Credo di saperlo.» interloquì il Diama. «Devono essere due della 5^C. Erano uno moro e uno biondo, vero? Quello biondo non tanto alto.». Mentre il Diama diceva ciò, Dante vide proprio quei due passare alle spalle del ragazzo; fu solo un attimo, ma fece uno scatto all’indietro e finì addosso a Zanna. Il Diama si girò per capire cos’aveva visto, ma i due erano già spariti tra la folla delle macchinette. «Beh?» fece, guardando il più piccolo.
«Non mi va di parlarne.» mugugnò lui guardando altrove. Il moro aveva un geco tatuato sul braccio, l’aveva visto perché indossava una maglietta con le maniche piuttosto corte. Il Geco e il Capo, dunque, perché l’altro era chiaramente il capo. No, Geko. Perché con la k dava un’impressione più dura.
 «Oh, eddai! Ormai lo sanno!» lo spronò Trunks.
«Ma non voglio che vengano fuori casini…non è niente…».
«A proposito, Diama.» disse a quel punto Chele. «Che cavolo hai fatto, eh?».
«…bah, una cagata. L’altro giorno ero in centro con Massimo e dei bambocci hanno iniziato a fare battutine. Li abbiamo ignorati e loro hanno continuato, finché…beh, non ho perso la pazienza.». Tutto il gruppetto lo fissò con gli occhi spalancati. «Hai…ucciso qualcuno!».
«No, macché! Ho solo dato un pugno in faccia al più fastidioso. Non gli ho fatto niente!».
«…era un ragazzo di questa scuola?».
«Boh? Può darsi, mi pareva d’averlo già visto. Perché?».
«…oddio, allora dev’essere quello di 4^C…ho degli amici in quella classe, mi avevan raccontato qualcosa. Diama, se è lui gli hai rotto il naso!».
«Oh beh, mi dispiace, ma se l’è cercata!».
«Quindi questo è successo.» sospirò Trunks.
«Nessuno tratta male il mio fratellino, specialmente se è colpa mia! Per cui sputa il rospo e dimmi: sono i tizi che ho detto?».
«…sì, credo di sì…» si arrese infine Dante. «Ma non è che hai fatto una descrizione dettagliata, eh… Diama per favore, lascia stare! Non-fare-niente!». Che se fai qualcosa dopo se la prendono di nuovo con me.
«Tranquillo, lascia fare a me.» gli rispose il Diama dandogli colpetti affettuosi sulla testa.
Dante mugolò disperato. Aveva capito. Diama avrebbe cercato rogne. Poteva considerarsi morto.


Il pomeriggio non lo passò in ansia come il sabato precedente: quella settimana aveva pensato molto di meno a Target, nonostante la sua voglia di conoscerlo non si fosse affievolita, ed era un po’ più calmo. Ancora non aveva deciso cos’avrebbe fatto se l’avesse trovato, ma quella era l’ultima cosa a cui pensare.
Il cibo secco dei suoi animali era quasi finito, per cui si recò al negozio dove era solito rifornirsi; una volta arrivato, però, non lo trovò: il proprietario aveva fatto l’ordine in ritardo e i prodotti sarebbero arrivati solo la settimana dopo. Dato che Dante ne aveva urgente bisogno, tornò a casa e cercò su internet un altro negozio che vendesse mangime per ratti; purtroppo non era facile trovarne in giro, perché non erano animali domestici comuni. Trovò un negozio di caccia e pesca un po’ fuori città, nella campagna periferica. Prese la bici e dopo una ventina di minuti di pedalate arrivò al cospetto di un magazzino grigio, circondato da un grande parcheggio; aveva più di un’entrata, una che dava al negozio e un’altra che portava a una specie di garage pieno di sacchi e gabbie vuote, che aveva in un angolo una scala di ferro che finiva in un piano interrato da cui provenivano fischi, trilli, zirli e squittii. Dante entrò nel negozio e trovò con sollievo le crocchette che cercava; prima di andarsene, però, fu attirato dai tanti versi provenienti dall’altra stanza e decise di andare a dare un’occhiata. Se ne pentì: trovò davanti a sé una sfilza di gabbiette una sopra l’altra, con all’interno i più svariati tipi di uccello, da piccioni a quaglie a cose che non aveva nemmeno mai visto; e poi ancora ratti tenuti separati uno dall’altro, chiusi in gabbie divise da grate; e topolini ammassati in uno scatolone, così tanti che erano costretti a camminarsi sopra. Fece un giro della stanza col cuore in una morsa, mentre un uomo in un angolo lo teneva d’occhio; si fermò davanti a una grande scatola con all’interno dei ratti, maschi e femmine assieme, resti di semi di girasole e cacche mescolati con la segatura del fondo, orecchie smangiucchiate, graffi sui musi. Erano quasi tutti degli albini da pasto, ma il ragazzo si bloccò di colpo quando vide tra questi, in un angolino, un ratto nero con delle grandi, grandi orecchie: “Ma quello lì è un dumbo! Come osano venderlo come ratto da pasto??! Non si usano i dumbo come ratti da pasto!!!”.
Non voleva lasciarlo lì. Ma non voleva nemmeno comprarlo e dare altri soldi a quel negozio, già ne aveva dati e se ne pentiva. Si girò a guardare l’uomo: ancora lo osservava distrattamente, ma Dante gli dava la schiena e non riusciva a vedere quello che facevano le sue mani. Prese il ratto nero e se lo ficcò velocemente sotto la felpa; mentre lo afferrava, un ratto bianco che stava di fianco a lui fece uno scatto e si mise in piedi seguendo l’altro con gli occhi, quasi a voler dire “No!”. Dante non ci pensò due volte: agguantò anche lui e si chiuse ben bene il giubbotto. Si alzò con nonchalance e camminò verso l’uscita cercando di mantenere un’andatura tranquilla; sentì che uno dei due animali si stava arrampicando verso l’ascella e che riusciva poi a infilarsi fin sotto la maglietta, graffiandogli petto e pancia con le unghie. Cercò di dissimulare le smorfie di dolore e solletico mentre imboccava di fretta le scale, ma proprio quando era vicino all’uscita del garage uno dei due si mise a squittire di paura; lo stava pure smerdando con cacca e pipì, lo sentiva! Maledetto!
«Ehi, tu!» lo richiamò allora un secondo uomo, che stava mettendo delle gabbie in un angolo. I ratti si agitavano sempre di più, e due bozzi sospetti presero a muoversi sotto il cappotto di Dante. «Hai preso qualcosa? Vieni qui!».
Il ragazzino si lasciò sfuggire una bestemmia e prese a correre per raggiungere la bici: se lo avessero beccato a rubare e avessero avvertito i suoi genitori poteva davvero considerarsi morto, altro che bulletti!
«Vieni qui!!».
“Ma anche no, cazzo!!”. Per sua fortuna, l’uomo era sovrappeso e non riusciva a correre velocemente, così Dante raggiunse la mountain bike e scappò via il più rapidamente possibile, noncurante del sacchetto con dentro le buste di mangime che rimbalzava continuamente grattando sui raggi della ruota anteriore.
Fece un sospiro di sollievo solo una volta che ebbe chiuso la porta di casa dietro di sé. Si spogliò e prese i due animaletti spaventati, mettendoli in una gabbia non tanto grande che usava per tenere i ratti nuovi in quarantena prima di cercare di inserirli nel gruppo. Mise a lavare i vestiti sporchi, si sciacquò nella vasca e indossò una tuta comoda da casa, mettendosi ad osservare e a giudicare i nuovi arrivati. I suoi genitori non si sarebbero mai accorti di loro: non guardavano mai i ratti e, comunque, ormai avevano perso il conto.


Quella sera, come scusa disse agli amici non sentirsi troppo bene e di preferire andare a letto presto. Indossò i vestiti presi qualche giorno prima, una felpa rossa (che tanto si sarebbe tolto, perché in quel posto c’era davvero un caldo soffocante) e delle scarpe da ginnastica (tanto nessuno gli avrebbe guardato le scarpe. No?). Provò anche a mettersi il gel, ma l’incontro ravvicinato non fu dei migliori: la prima volta ne utilizzò troppo e come risultato i suoi capelli vennero fuori impastati in una posizione assurda e disordinatissima che faceva sembrare mancassero ciuffi di qua e di là; se li lavò, si asciugò e il secondo tentativo non andò tanto meglio; al terzo, dopo essersi sciacquato e asciugato di nuovo, venne fuori qualcosa di un po’ più accettabile e si tenne i capelli così com’erano venuti, nonostante l’impressione fosse quella di un vecchio istrice appena scampato a una lotta. Si ricordò la carta d’identità e lo fecero entrare senza fargli storie; Dante aveva paura di essere riconosciuto dal buttafuori, ma quella sera c’era un’altra persona all’entrata. Toltosi giaccone e felpa, non sapeva bene come muoversi: c’era un bordello di gente che all’inizio, tra le luci colorate e lampeggianti del soffitto, sembrava tutta uguale; Dante non sapeva da dove cominciare, perciò si buttò tra la folla e aguzzò gli occhi, sperando almeno di poter riconoscere la faccia di Target, semmai l’avesse visto.
Quando si fu abituato al casino e alle luci, iniziò a riconoscere alcune persone nella calca: ne riconobbe qualcuna della sua scuola (anche gente per bene, cioè! Discotecari insospettabili!), ma rimase di pietra quando intravide alcuni suoi compagni di classe: se l’avessero visto la sua reputazione poteva dirsi rovinata. “Ma bene!”. Cambiò direzione all’istante e ebbe anche l’impulso di scappare fuori, ma si trattenne. Si mimetizzò tra i ragazzi al bancone che vendeva alcolici, continuando a scrutare la gente. Si sentiva proprio a disagio, stando lì da solo come un pirla in un mondo del tutto sconosciuto…tanto valeva farsi una birretta, se non gli facevano storie. Tentò di prendere un’aria adulta e si accinse a ordinare, quando una voce lo fermò: «Nooo! Dante, tu qui! Non ci credo!!». Un braccio gli circondò le spalle e lo trascinò via dal bancone di qualche passo. «Il mio cuginetto in una discoteca! Che c’è, hai preso una botta in testa?!».
«Oh…ciao.». Ecco, Dante avrebbe voluto sparire. Suo cugino: ventun anni per niente, cervello grande quanto un fagiolo, re dei discotecari casinisti, puttaniere, adolescenza in gran parte passata a farsi foto disgustose al cesso. Cosa peggiore: adorava prenderlo per il culo.
«No ma sul serio, cioè, racconta! Com’è che sei in “questa merda di posto circondato da cerebrolesi vestiti come dementi che ballano a ritmo di frecce di auto rotte”?». La sua voce si sentiva appena, fra tutto quel rumore. Per fortuna.
«Ehm…devo fare una cosa.».
«Cosa, ti sei dato al terrorismo, tesoro?».
«Devo…cercare…una persona. Non ti interessa, comunque.».
«NOO! Non me lo dire! Ti sei preso una cotta per una discotecara?? Non ci credo nemmeno se me lo dici! Ma davvero, ma come ti sei conciato i capelli? Non farai mai colpo così, cioè, si vede proprio che non ce la puoi fare, nel senso, tu sei così fuori moda che balli il twist, non puoi pensare di venire qui una sera e fare colpo ridotto così…ma oddio!! Ma cosa sono quelle scarpe poi, ci stanno troppo male, ci vogliono come minimo delle Vans per come sei vestito! Cioè quelle ciabatte rovinano tutto, guarda! Ma perché non hai chiesto aiuto al tuo cuginetto, io sì che potevo aiutarti per bene! Senti, dai, ora la cerchiamo e mi dici chi è e lasci fare a me, ok zio?».
«Veramente sto cercando un ragazzo.».
«Eh…mannò, ma davvero? Mi stai dicendo che sei frocio? No, questa però proprio non me l’aspettavo guarda, cioè, un frocio in famiglia, mi prendi in contropiede! Beh ma in effetti se ci penso, basta guardarti, cioè, ce l’hai scritto in faccia, come ho potuto pensare che uno tanto effemminato fosse-».
«Dov’è che sarei effemminato???!».
«Beh cioè, guardati, non è che sei proprio il top della mascolinità, eh zio!».
«Solo perché il mio corpo non si decide a svilupparsi, che cazzo c’entra la mascolinità!!!! E non sono innamorato di nessuno comunque, quindi ‘sta zitto e fatti i cazzi tuoi!!».
«Ahah amore, io mi faccio le patate, i cazzi li lascio pure a te! Su dai, adesso non fare l’acido, vieni che ti offro qualcosa, il mio cuginetto in disco, cioè, è troppo una cosa da festeggiare!».
«No, guarda, grazie. Me ne stavo giusto andando…».
«Che, sei matto? Ti sei conciato così per trovare quel tipo e te ne vai? Beh ma sul serio, con quei capelli messi da cesso proprio forse è meglio se lasci, sei messo troppo male! Senti, in settimana ti chiamo e ti do qualche dritta, ok? Hai tipo troppo bisogno di aiuto!».
«Non mi interessa, grazie.».
«Guarda che voglio darti una mano, giovane!».
«Mi va benissimo così. Dovevo solo mimetizzarmi un attimo.».
«Vabbè, io non so perché sei qui, ma meglio non fare una cosa piuttosto che farla male…».
Dante cercò di mandarlo via. Accettò che suo cugino gli offrisse una birra. Ascoltò le sue ciance, si fece presentare ai suoi amici e intanto si guardava in giro, cercando il ragazzo senza trovarlo. Un’ora di ciarle dopo, la testa gli stava scoppiando, si stava annoiando a morte e decise di arrendersi per la seconda volta. Decisamente, quel posto non faceva per lui.

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Capitolo 5
*** Tentativo tre - Nike! (non la marca XD) ***


Mu, altro stupido capitoletto. Dopo di questo ho un buco nella storia che sto cercando di colmare, ma la mia fantasia, già a livelli bassi di suo, è portata a zero da esami e stanchezza e scazzo. Oppure mi vengono in mente situazioni assurde non adatte a un racconto realistico :°D sono proprio un genio <3
(p.s. ma quanto scemi sono i miei titoli?)



La settimana seguente passò senza episodi rilevanti. Il cugino molesto chiamò il nostro amico più volte, senza mai ottenere risposta. Meglio lui che un suo compagno di classe, per carità! Almeno non l’avevano visto o, per lo meno, così sperava. Comunque, in quei giorni si sentiva piuttosto triste; non sapeva bene dire perché, era una specie di tedio misto ad angoscia. Gli era dispiaciuto non trovare il ragazzo, più della volta precedente; la voglia di conoscerlo era tornata prepotente, portando con sé quella malinconia.
«Ho provato solo due volte, ma…è dura sprecare i sabati sera per andare in quel postaccio. È la cosa più noiosa del mondo, e mi sento pure uno scemo a buttare via i soldi per entrare lì. Mi vien male all’idea di tornare anche questo sabato…» si lamentava con Trunks, a scuola.
«Se è così tedioso lascia stare, allora.» rispondeva logicamente lui.
«Ma…non voglio. Ehm…è difficile spiegare…voglio solo trovarlo il più presto possibile, ecco. Anzi, vorrei averlo già trovato. E magari ci riuscivo pure, se non incontravo mio cugino, che non mi mollava più. E poi…ho paura di dimenticarmi la sua faccia, se passa troppo tempo. Già ora non sono sicuro di poterlo riconoscere, in realtà…».
«Dante…perché ti complichi così la vita…? Non starci troppo male, su. Se lo trovi bene, altrimenti pazienza. Non lo conosci nemmeno, non riporre troppe aspettative, dai.». Il ragazzo gli accarezzò i capelli con fare quasi paterno, e l’altro lo guardò interrogativamente.
«Oi Dante, qualcosa non va?» si avvicinò Chele, azzannando un panino al prosciutto grande come la sua faccia.
«Perché?».
«Gno, è che vedo che Trunksh…chomp…vedo che Trunks è entrato in modalità protettivo - coccolosa. Ma in realtà lo fa solo con te…».
«No, tranquillo. È solo…un po’ le verifiche, i miei…sono stanco.».
«Ah beh, aspetta la quinta per essere stanco! I prof non ti danno un attimo di tregua, hai verifiche, interrogazioni o simulazioni ogni settimana, da nausea! A volte mi trovo costretto a svegliarmi alle 4 di mattina per studiare.».
«Cosa?? Noo, per carità, io preferirei prendere un voto di merda, piuttosto!».
«Eh, all’ultimo anno mica te lo puoi permettere…».
«No, sei solo tu che sei una secchia…!».
«Beh, che c’è di male? Comunque dai, non buttarti giù, vedrai che sabato dal Diama ci sfondiamo di Halo e ti riprendi.».
«Mmh, sabato non ci sono, mi spiace…devoo…sono via coi miei.».
«Uh, non vieni di nuovo? Mi dispiace…che, non è che quei due truzzetti stronzi t’hanno spaventato, vero?».
«No, no, non è questo, davvero. È solo una coincidenza, sì. Tranquillo.».
«Non farti intimidire, capito, fratellino? Cercano solo di fare i prepotenti per sentirsi più forti, ma in realtà non hanno il coraggio di fare sul serio qualcosa.».
«Massì, certo. Tranquillo, non è per quello. Grazie, comunque, sei un amico.».
Il pomeriggio, Dante si recò ad un parco non lontano da casa sua; andava lì ogni tanto, per stare solo, godersi un po’ di pace, nascondersi dai genitori, pensare, ascoltare musica o, nelle giornate più calde di maggio, studiare. Ci aveva passato le estati a giocare, quand’era piccolo, coi suoi amici delle elementari, perché anni prima la casetta bianca che si poteva vedere lontana dall’altro lato del campo fatto a L, mezza nascosta dai salici, era una ludoteca; diventata, col tempo, una qualche sede temporanea di circoscrizione, era stata infine abbandonata. E con lei il parco, che si trovava allora con gli alberi non potati, l’erba alta e stopposa, le vecchie porte da calcio arrugginite e senza più rete, le poche panchine di legno marcescenti e sempre umide. Ma a Dante piaceva quel posto: non poteva dimenticarsi le ore passate a divertirsi, era affezionato a tutto ciò che crollava e imbruttiva sotto il peso del tempo e dell’abbandono. Poi era sempre deserto, ed era l’unico luogo in cui poteva trovare un po’ di solitudine stando vicino a casa sua; entrando dal piccolo cancello posteriore, salutava con lo sguardo la casetta lontana alla sua destra, attraversava tutta la lunghezza del campo da calcio, passava di fianco a un imponente e solitario salice malinconico (ah! Quante fruste aveva ricavato dai suoi rami sottili, quando era solito giocare alla guerra! Si ricordava ancora il dolore di quando lo colpivano…), raggiungeva una parte del parco nascosta dalle frasche disordinate dei cespugli lasciati a se stessi e si adagiava infine sotto a un tiglio, anche quando d’inverno il terreno era bagnato, e quando in primavera nascevano tanti rametti rigogliosi alla sua base, e quando poi tornava a casa tutto appiccicoso per via della melata, d’estate. Quel pomeriggio si sedette sull’umido della rugiada che col freddo non evaporava mai, con in grembo il suo ratto arancione (si fidava a portarlo in giro, tanto era così pigro che non muoveva più di qualche passo, per cui non si sarebbe mai sognato di scappare via); sentiva un vago bisogno di piangere, ma da bravo uomo lo soppresse.
Fissò un carpino lontano una trentina di metri: una volta, un autunno di parecchi anni prima, aveva sommerso un suo amico con le foglie cadute. Non sentiva quel suo amico da anni…è proprio un peccato perdere i contatti. Quel bambino era stato il suo compagno di giochi per tutta l’infanzia, e nonostante ciò ora si trovava a ricordare a malapena il suo viso…e la sua voce, chissà com’era cambiata…chissà di quanto si era alzato, se gli era già spuntata la barba… «Forse i mesi per voi sono come gli anni.» mormorò al roditore, che già si era spaparanzato su una sua coscia con gli occhi semichiusi. «Per esempio, se uno di voi muore e passa un mese, magari per voi è come se fosse passato un anno, e quindi già dopo una settimana vi siete abituati alla sua scomparsa e non soffrite più. E dopo un anno reale ve lo siete completamente dimenticato…Noi invece riusciamo a soffrire per qualcuno che non fa più parte della nostra vita da decenni. Nonna pensa ancora al nonno, e lui è morto da qualcosa come quarant’anni; anche se non so se tu riesci ad immaginarti cosa significa quarant’anni di tempo, in realtà. E io torno ancora in questo parco solo perché sono cresciuto qui, anche se ora è solo brutto e abbandonato. La memoria è una bruttissima cosa…». Ma perché stava facendo quel discorso? Dio, stava parlando come un vecchio! E fortuna che all’apparenza era ancora un ragazzino! Si grattò la testa imbarazzato (sì, riusciva ad imbarazzarsi da solo), poi si mise a fare i grattini dietro le orecchie all’animaletto, che si addormentò all’istante. «Che cazzo il passato, quello che conta è il futuro, pensiamo a quello, piuttosto!». Sì. Al sabato successivo, per esempio.
La musica quella sera gli pareva ad un volume più alto del solito, era assordante: ad ogni “tunz” Dante si sentiva le tempie pulsare, la testa esplodere. Quella mattina si era svegliato stanco e sul pomeriggio tardo gli era venuto mal di testa; aveva seriamente pensato di starsene a casa e andare a letto subito dopo cena, ma alla fine la voglia di tentare di nuovo aveva avuto il sopravvento e, presa un’aspirina, era tornato alla discoteca per la terza volta. Ora però, appoggiato con le spalle a un muro, tentando di tenere gli occhi aperti e di resistere al dolore, quasi se ne pentiva. Era passata quasi un’ora e si era stancato di girare tra la bolgia mentre la gente continuava a urtarlo; stava pure iniziando a salirgli una certa nausea, ma non voleva andarsene, era una questione di principio. “Magari viene più tardi. Se me ne vado sempre presto non lo troverò mai. Ancora un’altra oretta, almeno un’altra oretta.”. E intanto la discoteca si riempiva sempre più, rendendo sempre più arduo il compito.
Indossava i vestiti della settimana prima; si era però risparmiato il gel. Suo cugino aveva ragione, la volta precedente aveva fatto ridere i sassi, per cui non aveva provato a rimetterselo.
Ad un certo punto incrociò lo sguardo con un suo compagno di classe, uno con cui non parlava quasi mai; si scambiarono un cenno di saluto, ma il ragazzo non andò da Dante a chiedergli come mai fosse lì o cose del genere; almeno i suoi genitori gli avevano insegnato a farsi gli affari suoi, eh! Non era da tutti.
Mentre rimuginava e sperava che il suo compagno continuasse a ignorarlo, la sua attenzione fu catturata da un tono di voce che si era fatto strada fino alle sue orecchie in tutto quel rumore, giusto per un secondo; Dante si girò di scatto per vedere la persona che aveva sentito parlare, ma non individuò nessuno. “Che fosse proprio la sua voce…? Boh…ma sono sicuro d’averla già sentita…”. Riprese a muoversi tra la folla, evitando la zona dove la gente ballava. “Ma davvero, che ci faccio qui…nemmeno so ballare, anche volessi…”. Stava iniziando a deprimersi. E la nausea stava pure peggiorando. No, davvero: se non avesse trovato Target quella sera –e non l’avrebbe trovato, lo sapeva, lo sentiva­– il sabato successivo non sarebbe tornato di nuovo, era inutile e aveva voglia di passare una sera in compagnia dei suoi amici; li vedeva qualche pomeriggio, ogni tanto, ma il sabato sera era diverso: il sabato sera era sacro.
Sbuffò annoiato, girò lo sguardo e improvvisamente quasi ebbe un colpo. Sgranò gli occhi: l’aveva trovato. Era lì, a parlare con altri due ragazzi, in mezzo alla folla, noncurante del casino attorno. Il suo cuore prese a battere all’impazzata, mentre sia mal di testa che nausea sparivano di colpo. E adesso? Come si doveva comportare?
Mosse qualche passo nella sua direzione avvicinandosi per timore di perderlo di vista tra la calca, poi rimase fermo a fissarlo a qualche metro di distanza; quella sera indossava una camicia a quadri in stile boscaiolo, una di quelle che andavano di moda e che Dante riteneva orripilanti…però, doveva ammetterlo, gli stava bene: aveva un fisico asciutto, adatto. Era piegato in due dal ridere, e Dante sorrise a sua volta: la sua faccia metteva allegria. Ma il nostro eroe non sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi finché l’altro sarebbe rimasto in compagnia: già si vergognava da morire e non sapeva cosa fare, se poi con Target c’erano altre persone non avrebbe mai trovato il coraggio necessario per attaccare bottone. Dunque, aspettò: e parlavano. Aspettò ancora: continuavano a parlare; lui gesticolava, si vedeva che si trovava a proprio agio in quel posto, al perfetto contrario di Dante. E di nuovo: non la smettevano di parlare (“Ma come minchia fanno a sentirsi con tutto questo rumore?”). Parlarono per qualcosa come mezz’ora; poi il Target fece un gesto di assenso con la mano e si allontanò in direzione del bancone del bar: era il momento di agire!
Dante deglutì e lo seguì, avvicinandosi a lui mentre il ragazzo s’accingeva a ordinare qualcosa; a solo un paio di metri di lui, ancora non sapeva cosa dire; le mani gli tremavano. Avrebbe voluto poter aspettare ancora per prendere maggiore coraggio, ma sapeva che probabilmente quella sarebbe stata la sua unica occasione. Il suo sguardo si posò sulla catenina che, scomposta, scivolava fuori dalla camicia del ragazzo; “Virgilio” lesse, ripetendo poi tra sé e sé il nome, muovendo in silenzio le labbra. Virgilio, dunque, ordinò qualcosa da bere per sé e per i suoi due amici; mentre aspettava tamburellando le dita sul bancone e muovendo con noncuranza la testa a ritmo di musica, Dante si fece coraggio e gli mise una mano sulla spalla; rendendosi poi conto che probabilmente a lui avrebbe dato fastidio essere toccato così da uno sconosciuto, la ritrasse subito dopo. «Ehm…ciao.» mugolò dopo che l’altro si fu girato verso di lui. Virgilio lo guardò inizialmente smarrito, poi con sguardo interrogativo, strizzando un poco gli occhi, chiaramente chiedendosi in quale occasione aveva già visto il ragazzino che lo stava salutando. «Pro…probabilmente non ti ricordi di me, ehmm…».
«Oh…oh, massì! Non sei il piccoletto che era assieme a quei metallari che davano fastidio quella volta…? Ciao.». La spalla di Dante ebbe uno spasmo per quel “piccoletto”. «Che ci fai qui?» continuò Virgilio guardandolo. «Hai cambiato sponda?» sorrise.
«Nno…io, ehm…sono qui per…ehm…».
«Scusa un attimo.» fu interrotto Dante: erano pronti i tre cocktail che Virgilio aveva ordinato. Il ragazzo ne prese due in mano: «Li porto ai miei amici, arrivo subito.».
“E ora che cacchio gli dico?” pensò disperato Dante appena fu solo. “Merda merda merda…”. Ma non ebbe il tempo di escogitare una scusa soddisfacente, perché dopo meno di mezzo minuto l’altro era già di ritorno. «Allora!» gli diede una pacca sulla schiena. «Ti sei salvato, dobbiamo festeggiare! Cosa ti offro?».
«Salvato…?» domandò Dante, guardandolo confuso.
«Dal diventare come quelli lì! Hai seguito il mio consiglio.».
«Loro sono i miei amici, non devo “salvarmi” da loro.».
«Ma sei qui, ora, questo basta! Allora, cosa ti offro?».
«Offrirmi…? Ma no, non voglio che tu…ehm, vabbè, magari una birra, allora. Grazie.».
«Una birra? Ma ce le hai le papille gustative? Senti, ti piacciono i mirtilli, vero? Scusi! Me ne fa un altro, per piacere?» decise Virgilio per Dante, facendo vedere al barista il proprio bicchiere.
«Che roba è?».
«Succo di mirtillo, vodka e calvados. Ti piacerà, vedrai, è dolce.».
Virgilio si mise a parlare con lui come se lo conoscesse da tempo, senza nemmeno chiedergli il nome; non voleva sapere come mai era lì e Dante si sentì subito a proprio agio a conversare con lui. Scoprirono pure di andare nella stessa scuola; non si erano mai incrociati perché la classe di Virgilio era situata al pianoterra, mentre quella di Dante al secondo, ed erano due mondi separati («Ah, così fai parte di quegli stronzi della A e della B che non devono farsi due rampe di scale alla mattina appena svegli!». «Ehiii, siete voi che siete sfigati!!»). La prima impressione del nostro amico si era rivelata giusta: Virgilio gli sembrava proprio una persona piacevole, allegra e gioviale; continuava a offrirgli cose da bere, nonostante a Dante paresse di sfruttarlo; però quei cocktail erano così buoni…praticamente zero alcol, ma buoni…e Virgilio insisteva così tanto…mica poteva rifiutare! Anche perché sembrava che lì non facessero storie per l’età. Meglio approfittarne…
Dopo un po’, quando la tensione fu scesa, il mal di testa bussò però nuovamente alle tempie di Dante; il ragazzo a quel punto, portata a termine la missione e con la certezza di poter beccare il nuovo amico a scuola, avrebbe desiderato arrendersi alla stanchezza e andarsene; l’altro però non sembrava d’accordo.
«Balli?».
«Cosa?».
«T’ho chiesto se vuoi ballare.».
«Nno no no. Pensavo di andarmene, in realtà…e poi non so ballare.».
«Oh, eddai! Che ci sei venuto a fare qui, se no??».
«Non…a ballare, sicuramente…».
Virgilio insisté e lo trascinò verso il centro della sala, l’altro sgusciò via e si rifugiò vicino a una parete; il ragazzo tornò a prenderlo e dopo tanti dai e dai riuscì a portarlo in mezzo alla gente che ballava. Una volta lì, Dante ancora non si muoveva e se ne stava impalato e imbarazzato, guardandosi in giro, con la testa che iniziava a girargli leggermente a causa dell’alcol; ad un certo punto, però, si sentì prendere le braccia da dietro e qualcuno iniziò a muovergliele a ritmo; s’irrigidì come uno stecco quando si rese conto che era Virgilio che stava cercando di coinvolgerlo. Lo prese, gli fece fare giravolte, salti, tentava di condurlo nonostante la durezza del suo corpo; Dante apprezzò il tentativo, anche se si sentiva maledettamente goffo e impacciato.
«Ma guarda un po’ che ragazza carina s’è trovato Virgilio stasera!» commentò uno dei due suoi amici ridacchiando scherzosamente; il ragazzo in risposta lo mandò a cagare con un gesto della mano, senza però spegnere il sorriso che gl’illuminava il volto.
Il qualche modo Virgilio riuscì a sciogliere un poco Dante, e non gli permise di fermarsi nemmeno quando questi si disse senza fiato. Dopo un po’, al ragazzino sembrò quasi diventare divertente…
***
«…p-porc…».
Era notte fonda, anzi quasi mattina. Qualcosa come le quattro e un quarto. Dante era fermo a bordo strada, di fianco a un fosso, piegato in due, a vomitare l’anima. La sua bicicletta era buttata malamente a terra, abbandonata in mezzo alla carreggiata. Non si ricordava d’essersi sentito così male in tutta la sua vita; la testa era lì lì per esplodergli e la nausea gli faceva vedere doppio; stava pure morendo di stanchezza. “E pensare che c’era pochissimo alcol in quei cocktail…”. Già, ma non riusciva a contare quanti ne aveva ingollati. E l’agitarsi, e la musica ad alto volume, e le emozioni provate quella sera non avevano aiutato il suo malessere ad andar via, anzi. “Che coglione…è tanto se riuscirò a tornare a casa…”. Virgilio gli aveva proposto un passaggio col suo motorino («Ho pure due caschi, ho spesso dei passeggeri. Se ti va…»), ma avendo la bici Dante aveva dovuto rifiutare.
Riuscì ad essere a casa per le quattro e mezza; non vedeva l’ora di buttarsi a letto, ma appena entrò si ricordò di un dettaglio importante, anzi, importantissimo: i suoi genitori.
«Dante!!!». Sua madre, in camicia da notte, si alzò di scatto dal divano in soggiorno e corse alla porta d’entrata, dove stava il figlio, puzzolente di alcol e di vomito.
«Ehm…cia-».
«Dove sei stato?? Ti pare l’ora di tornare a casa??». Questo invece era suo padre. Vestito di tutto punto, lui. E incazzato nero. «Sono persino uscito per andare a cercarti, ti rendi conto?? Dov’eri??» abbaiò, scuotendo il figlio per le spalle.
«Abbiamo provato a contattarti ma avevi lasciato il telefono a casa! Abbiamo scomodato Trunks chiamandolo alle due, e lui era già a letto! Non s-sapevamo se chiamare i carabinieri! Non sapevamo dove potevi essere!». Sua madre aveva gli occhi rossi: doveva aver pianto.
«Io…io sono…s-scusate…». Si sentiva un verme, non sapeva come difendersi. Li aveva fatti preoccupare, lo sapeva. Si era completamente dimenticato di loro.
«Puzzi d’alcol, sì?? Hai bevuto, sei ubriaco?? Cos’è, ora vai in giro a fare l’alcolizzato??! Non dovrebbero nemmeno vendertelo, alcol!!».
«S-sì, ho bevuto un po’, mi hanno offerto un po’ di roba, ma…».
«Si può sapere dove sei stato…?».
«Oddio, no, mamma, ti prego, n-non guardarmi così…sono stato…ehm…io…sono…stato in una discoteca…».
«Oh, Dante…».
«Ma bene! Quindi ti sarai pure drogato! Bravo ragazzo, questa sì che è una buona strada, inizia ad impasticcarti a quindici anni! Ubriacati fino a stare male, così sì che diventerai qualcuno!».
«No, papà, io non ho-».
«Non m’interessa se vuoi rovinarti la vita facendo il debosciato, ma sappi che se questa è la strada che vuoi prendere devi fare i bagagli, e andare fuori da casa MIA!».
«Papà, PAPÀ!! Non farne una tragedia solo perché sono andato una volta!!! È la prima volta che vado, e sarà anche l’ultima, lo prometto! Non mi-» ma non finì la frase, perché gli arrivò un manrovescio.
«Non alzare la voce con me, guarda!!».
«…n-non con la sinistra, con l’anello fai male…» piagnucolò il figlio portandosi una mano alla guancia, riferendosi alla fede. «…non andrò mai più. Ho provato una volta, non mi piace, basta! Non fatene una tragedia! Mi dispiace di essere tornato a quest’ora, non mi sono reso conto di che ore erano! Mi dispiace, non volevo farvi preoccupare!».
Sua madre scuoteva la testa e guardava il pavimento, chiaramente delusa; aveva di nuovo gli occhi lucidi.
«Non credere di passarla liscia scusandoti, signorino! Ci hai fatto perdere dieci anni di vita! Da adesso sei in punizione, a tempo indeterminato! Guai a te se esci di casa per un motivo diverso dall’andare a scuola! Niente playstation, niente computer! Il cellulare te lo sequestriamo! Basta cazzate, adesso! Tu devi metterti a studiare, altro che discoteche e alcolici!! Se stai crescendo storto ti raddrizzo io, vedi come ti raddrizzo!!».
«NO! NON È GIUSTO!! Non sono andato a sgozzare le vecchiette in chiesa, che cazzo!!!».
«Sparisci! Non far più vedere quel tuo brutto muso ALMENO fino a mattina! Sparisci o ti faccio sparire io a calci in culo!!».
«Sei uno stronzo! Siete degli stronzi!! I ragazzi con dei genitori normali tornano tranquillamente a casa a quest’ora!! E se io non vi vado bene come figlio, divertitevi a farne un altro allora!! VAFFANCULO!!!». E una volta sbraitato ciò, Dante corse a barricarsi in camera prima che suo padre potesse reagire agli insulti.

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Capitolo 6
*** Conoscenze ***


Ultimamente sono preso dal cazzeggio, nonché da un'altra storia (che non so se posterò qua, ma in fondo a nessuno importa) e da una tesina di epigrafia latina; perciò il capitolo dopo questo sta andando un po' a rilento, ma non mi va di scrivere quando non ho l'ispirazione, altrimenti verrebbe fuori un horror peggiore di quello che già è (no, non lo dico per ricevere complimenti, lo dico perché lo penso seriamente :P). Quindi se non aggiorno spessissimo è tutto normale, devo seguire i miei tempi.
Venendo alla storia, io trovo questo capitolo super-noioso e scriverlo è stato assai arduo. Proverò a metterci maggior brio in quelli seguenti, ma si fa quel che si può.



Il ragazzo rimase in coma per tutta la domenica. Passò gran parte della giornata a letto a lottare con la nausea e col dolore che gli segava la testa, senza riuscire a mangiare qualcosa fino a sera. Giurò più volte a se stesso che non avrebbe più messo piede in una discoteca, e che anzi se ne sarebbe tenuto ben lontano. Dopotutto, però, era felice della buona riuscita della serata; non trovò la forza di chiamare Trunks col telefono di casa per raccontargli tutto, anche se sapeva che probabilmente l’amico l’avrebbe cercato al cellulare, perché il parlare gli aumentava solo il malessere, così come lo stare in piedi. I suoi genitori, suo padre in particolar modo, erano furiosi e le poche volte che si fece vedere fuori da camera sua furono piene di tensione difficile da sopportare. Lasciò i compiti a marcire in cartella, incapace di trovare l’energia necessaria per affrontarli; il giorno dopo probabilmente se ne sarebbe pentito, ma non poteva farci niente, stava troppo male.
Il lunedì mattina si svegliò con la testa nel pallone e con ancora un po’ di nausea (“Ma con cosa diavolo erano fatti quei cocktail?? Sono micidiali!”), ma non avendo il coraggio di dire ai genitori di essere ancora mezzo intossicato preferì sforzarsi e andare a scuola ugualmente. Sotto il solito alberello dell’abituale aiuola davanti all’ingresso trovò ad aspettarlo un Trunks assai curioso, che gli chiese notizie non appena lo vide arrivare. Dante gli raccontò in generale l’accaduto, promettendogli i dettagli a ricreazione; l’amico si disse felice per il risultato finale, ma avanzò qualche dubbio riguardo al prezzo che s’era ritrovato a dover pagare.
«No, guarda, va più che bene così.» gli rispose Dante, sicuro. «Sono stato un coglione a non accorgermi che si stava facendo tardi, ma se avessi la possibilità di tornare indietro rifarei la stessa cazzata. Almeno mi sono tolto un peso e non riesci a immaginare quanto meglio mi sento, dopotutto! Se lo sapevo, che anche lui va in questa scuola…ma va bene così. È certamente più di quello che mi aspettavo.». E ora che lo sapeva, si vergognava anche un po’ a muoversi e a guardarsi in giro: aveva timore che Virgilio potesse osservarlo da lontano senza che lui se ne accorgesse. Sì, a volte ci vergogniamo proprio per le cose più stupide! Eh, ma così è la vita (?).
Effettivamente, Virgilio gli fece sentire subito la sua presenza. A ricreazione, stava aspettando che gli altri della compagnia si disperdessero un po’ per poter parlare con calma con Trunks; Diama e Zanna già erano partiti alla volta della macchinetta del caffè prima che si formasse la solita coda interminabile, quando un bolide a stelline gli si lanciò addosso, facendolo cadere e cadendogli sopra a sua volta.
«M…ma…!! Ma sei impazzito?!!» urlò una volta che ebbe inquadrato l’aggressore. «AHIA, mi sono fracassato il culo…!».
«Scusa, scusa!» rise sguaiatamente Virgilio, aiutando Dante a tirarsi in piedi.
«Un attacco nemico!» esclamò Chele, puntando il dito verso il nuovo arrivato, che era vestito con dei pantaloni lilla e una felpa verde chiaro con sopra disegnate delle stelle bianche; un pugno in un occhio, insomma.
«Ma no, noi due siamo amiconi!» continuò sempre ridendo l’accusato, cingendo Dante per le spalle. «Sì o no??».
«Sì, lo conosco, tranquilli…! Ehm, andiamo via??».
«Eeeeh, ma tu non sei quello che qualche settimana fa ha rischiato il collo facendo arrabbiare il Diama?» osservò Massimo.
«Se il Diama è il mastodonte imbecille tutto capelli sì, sono io! E sapete, lui» qui Virgilio diede una pacchetta a Dante «è molto più simpatico di voi! Ha ascoltato quello che gli ho detto!» spiegò sorridendo. «Ha imparato a non giudicare le persone dalla musica che ascoltano!».
«Mmh? Cosa cavolo…?».
«Ehhh, ehmmm, ssssì. Vi spiegherò, eh? Ora, prima che torni il Diama, io lo porterei via, comunque...» e lo afferrò per un polso trascinandolo lontano, mentre Trunks cercava di non ridere e gli altri guardavano Dante perplessi.
«Vuoi – rovinarmi – la reputazione?» ringhiò quando ebbe deciso d’essersi allontanato abbastanza.
«Ho fatto qualcosa di male?» chiese con sguardo ingenuo Virgilio.
«Non so come reagirebbero se sapessero che sono andato in quella discoteca! Per favore! Li hai visti come fanno, no??».
«Sì, ma…e allora? Se sono tuoi amici non vedo dove sta il problema…».
«Non sono sicuro che capirebbero! E per fortuna che non c’era Francesco –il mastodonte, come l’hai chiamato tu– non si dimentica gli insulti lui! Se ti vede con me-».
«Ma andiamo, non gli ho fatto niente! Che dovrebbe fare, picchiarmi? Per nulla? Come no! E guarda che se se la prendono con te solo perché sei andato in discoteca non sono tuoi amici. Per cui se è così è meglio se li lasci perdere il prima possibile.».
«Perché dovrei? Io ci sto bene con loro. E comunque è stata un’eccezione, non mi piace andare in discoteca.».
«Come mai ci sei andato allora?». Quello era il quesito che Dante non voleva che Virgilio facesse.
«…in realtà loro sono amici di Trunks, comunque. E lui è il mio migliore amico, e non se la prende con me perché sono stato in discoteca.» cercò di ignorare la domanda.
«Perché ci sei andato?» richiese l’altro, risoluto.
No, non poteva ignorarla: «…cercavo te.».
«…ah. Perché?».
«Non lo so. M’eri sembrato una persona interessante.».
Virgilio sorrise incredulo. «E sei andato sul serio per questo?».
«Sì…sì, LO SO, sono un idiota, non devi dirmelo.».
«Non intendevo dire questo, anzi. La cosa in realtà mi fa piacere. Non…credevo di sembrare interessante.».
«Ora che ho fatto la figura di merda, ascolta: a me piace stare con quei ragazzi, ok? E non voglio che se la prendano con me o mi escludano o altro. E il fatto che possano farlo non significa che non sono miei amici. Non ho mai finto con loro, se è questo che intendi, solo ho paura che possano prendersela se sanno ‘sta cosa, basta. Mi fa piacere averti conosciuto dato che ho buttato nel cesso due sabati (e mezzo) per andare in quella discoteca, ma ti prego di non andare a sbandierarlo così proprio davanti a loro.».
«Io sono dell’idea che se sono tuoi amici accettano ogni cosa di te, anche quello che a loro non piace. Comunque…beh, in realtà –ahah– io non vado spesso lì; non dovevo andarci nemmeno l’altro giorno, è che quei due miei amici che hai visto mi hanno chiamato all’ultimo momento e non avevo di meglio da fare. Non sopporterei di andarci ogni settimana! Ci vado solo ogni tanto, ecco, saltuariamente. Preferisco fare altro, se posso. La musica preferisco ascoltarla piuttosto che ballarla…ma ogni tanto è divertente.».
«Ah…AH.». E che cazzo, però!
«Eheh dai, se sei libero sabato ti porto in un posto speciale per ripagarti!».
«Mmh, sabato non posso. Per i miei sono arrivato a casa troppo tardi e mi hanno proibito di uscire non so fino a quando…».
«Oh, mi spiace, zio. È colpa mia?».
«No, no, figurati! Sono stato io a non accorgermi che si stava facendo troppo tardi.».
«Beh, allora quando potrai uscire di nuovo dimmelo. Ci vado sempre coi miei migliori amici.».
«Mmmma…che posto è?».
«Tutto quello che c’è di diverso da una discoteca, tranquillo! Mmmh, che poi in realtà…vabbè.».
«Cosa?».
«No, è che non so se effettivamente può interessarti. Spero possa piacerti, comunque!».
«Non so cosa immaginarmi…uffaaaa, perché dovevano mettermi in punizione?? Brutti stronzi!».
«Quanto pensi durerà?».
«Sono capaci di tenermi il muso per più di un mese. Mio padre ieri ha aperto bocca solo per minacciarmi e probabilmente anche stasera sarà così. Argh, che nervoso!!».
«Pensa ad altro, dai, non avvelenarti il sangue. Certo che sono severi, eh. I miei non mi rompono più di tanto, sono piuttosto permissivi, e non sono un criminale…».
«Penso sia più probabile che lo diventi io, guarda. Prima o poi perderò il controllo e li farò fuori.».
«Sì, ecco, non credo che essere cattivi coi figli aiuti a crescerli…ma vabbè, scusa, non sono affari miei.».
«Sono affari miei, e io sono d’accordissimo con te. Sgrunt.».
«Comunque…sai che mi sono dimenticato di chiederti come ti chiami?».
«…oh, davvero non te l’ho detto? Sono Dante!».

La punizione per Dante non poteva arrivare nel momento più sbagliato; oltre al fatto che gli precludeva la possibilità di iniziare a conoscere Virgilio in modo più approfondito, se non per quei miseri quindici minuti di svago a scuola, la cosa che lo tormentava maggiormente era l’idea di non potersi trovare coi suoi amici per altre forse tre, quattro settimane. E aveva un tale bisogno di trovarsi con loro! Non poteva proprio pensarci. Anche Trunks sembrava parecchio dispiaciuto per lui; dato che non poteva sentire Dante nemmeno via cellulare, avrebbe voluto godere della sua compagnia e tirarlo un po’ su di morale quanto meno a scuola, ma la metà delle volte saltava fuori “il truzzetto” a portarglielo via; se da un lato era felice che l’amico avesse raggiunto il suo obiettivo e fosse riuscito a conoscere quel ragazzo, dall’altro il modo in cui questi glielo rubava gli dava alquanto fastidio. Dante si era accorto della sua gelosia (comunque ben celata) e per il poco tempo in cui stavano assieme evitava di nominargli Virgilio nonostante fosse completamente assorbito dalla conoscenza in corso.
Dopo tre settimane, i suoi genitori sembravano non avere ancora l’intenzione di levargli la punizione e nemmeno di alleggerirla. Dante non si ricordava un castigo tanto duro da quando, in prima media, era tornato a casa con la guancia destra tumefatta e una sospensione da scuola di tre giorni per aver fatto a botte e rotto il naso ad un compagno che aveva cercato di fare il bullo rubandogli la merenda; quella volta aveva dovuto sopportare una punizione di addirittura due mesi. Solitamente, però, le costrizioni che gli davano difficilmente superavano le due settimane, oppure se gli proibivano di vedere gli amici gli lasciavano cellulare e computer, o viceversa; il ragazzino aveva imparato negli anni che protestare e chiedere indietro qualcosa serviva solo ad allungare il periodo di costrizione, quindi sopportava in silenzio e aspettava solo che i genitori decidessero d’essere rimasti arrabbiati abbastanza. Perciò, passò i pomeriggi di quelle settimane alla scrivania in camera sua o buttato sul tappeto del soggiorno cercando di studiare –era sicuro che un buon voto li avrebbe addolciti un poco– oppure a leggere, o ancora a scrivere, o ad insegnare ai ratti qualche giochetto; ma, passato metà mese, già si sentiva morire di noia; non poteva nemmeno uscire a farsi un giro! Quasi cedeva alla tentazione di andare da sua madre in lacrime a chiedere venia.
Il mercoledì della quinta settimana, mentre s’accingeva mestamente a tornare a casa dopo scuola, gli corse incontro Virgilio, che non si era fatto vivo dal venerdì precedente, chiedendogli se il giorno dopo gli sarebbe andato di fare un giro in centro, o da qualche altra parte.
«Ti ricordo la mia punizione…» rispose tristemente lui.
«Oh, ma…ancora? Che cacchio…».
«Non dirlo a me…».
«Ma scusa, a questo punto fregatene, insomma!».
«Così faccio solo peggio. Non può durare ancora tanto…».
«Ma i tuoi stanno a casa?».
«No, sono solo tutto il giorno. Ma mia mamma al pomeriggio mi chiama per assicurarsi che io sia a casa. Anche due o tre volte…guarda, non farmici pensare!!».
«Ma che puttana!».
«Ehi!!».
«Ooops, scusa, scusa! Ehm, ma quindi non puoi proprio uscire…?».
«Se potessi l’avrei già fatto…».
«…mmmmmh…e se venissi io a casa tua?».
«Cosa, tu? Beh, non lo scoprirebbero…ma a casa mia al momento non c’è nulla da fare, lascia stare. È  una noia mortale, mi han tolto tutto quello che c’era di divertente. A meno che tu non voglia giocare coi soldatini che usavo a dieci anni, eh.».
«Ahah beh, possono essere divertenti anche quelli! Dai, al massimo ti faccio compagnia e ci annoiamo in due!».
«No, davvero, lascia stare…non mi va di farti venire se devi annoiarti…».
«Mica ci vuole chissà cosa per divertirsi, sai, basta un foglio di carta. E se vuoi posso sempre portare qualcosa io!».
«Mh…davvero?».
«Massì! Eddai! Non ho nulla da fare in ogni caso!».
«Oh…beh…sse proprio vuoi…ma non ti costringo, eh…».
Così, Dante quel giorno se n’era tornato a casa felice. Era un po’ agitato all’idea che il giorno dopo Virgilio sarebbe andato a casa sua, ma finalmente avrebbero potuto parlare senza fretta e, almeno, avrebbe avuto un po’ di compagnia. Perché non aveva mai pensato di invitare qualcuno? Era una cosa talmente ovvia che non gli era mai passata per la testa! Ma ecco, sarebbe bastato farlo andare via verso le 18.00 e sicuramente i suoi genitori non sarebbero mai venuti a sapere che aveva visto un amico nonostante il loro divieto. Alla facciaccia loro.
Ora, vorrei spendere giusto qualche riga per far capire cosa stesse succedendo nell’animo del giovane Dante. I due si conoscevano da poco più di un mese, si vedevano ogni tanto a ricreazione (quando era Virgilio a cercare Dante, perché quest’ultimo in parte era troppo timido e in parte sentiva che Trunks si sarebbe segretamente offeso se l’avesse lasciato per andare a cercare l’altro. Virgilio, comunque, si teneva sempre a una certa distanza dai suoi amici e o gli faceva un cenno da lontano o si avvicinava solo quando vedeva che il Diama non era presente), parlavano del più e del meno. Ma a Dante Virgilio già piaceva. Perché lo faceva sentire a proprio agio, perché era molto più maturo di quello che si sarebbe detto vedendolo, perché era solare e sempre allegro, aperto, lo faceva ridere e lo metteva di buon umore; e lo trovava proprio carino, oltretutto. Era una persona semplice, ma in grado di dare molto; o almeno, così gli sembrava per quel poco che lo conosceva. Sentiva di poter parlare con lui come parlava con Trunks; solo che Trunks era il suo migliore amico da anni. Truzzo o non truzzo, sembrava una persona meravigliosa.
Dante non sapeva come comportarsi. Stava ancora decidendo quanto gli piacesse: d’altra parte si conoscevano poco. E non aveva la benché minima esperienza in queste cose, per cui si sentiva impacciato al massimo. E non conosceva l’orientamento sessuale di Virgilio…e un po’ aveva anche paura di scoprirlo. Quindi faceva finta di niente, cercando di capire la situazione e di captare segnali.
Il giorno seguente, a ricreazione, si fece coraggio e scese al primo piano per cercarlo, dato che dovevano mettersi d’accordo per il pomeriggio.
«Ehilààà!» lo abbracciò Virgilio quando lo vide: era sempre molto espansivo. Forse troppo.
«Allora, per oggi va bene se torno a casa con te?».
«Ah. Ma dici subito dopo scuola quindi?».
«Beh, sì, non ha senso che torni a casa, faccio prima a venir subito da te. Se posso…».
«Sì sì, non c’è problema. È che non credevo…sì, non so cosa ci sarà da mangiare.».
«E chi se ne frega, mica vengo per mangiare! Oh, già che sei sceso tra la plebe ti presento i miei migliori amici!» e così dicendo gli fece cenno di seguirlo, per poi mettere la testa dentro l’aula e chiamare due persone, un ragazzo e una ragazza. Il primo era alto e magro, tanto magro, e aveva i capelli tinti di verde (“Estremo!” pensò Dante); la seconda era carina, con un bel sorriso e capelli lunghi, lisci e castani. Nessuno dei due sembrava discotecaro, anzi. Lo salutarono calorosamente e Dante riuscì a fare una figuraccia scoppiando a ridere in faccia allo spilungone una volta che questi ebbe detto il suo nome.
«Scu-scusa! Ma sei sicuro che si dica Elìo e non Èlio?».
«Sgrunf, credo di sapere come si pronuncia il mio nome.».
«Scusami! È che non l’avevo mai sentito! Eh-e tu sei…?».
«Star, chiamami Star.» rispose la ragazza con un sorriso. “Sì,” si disse Dante ”effettivamente avrei dovuto aspettarmi persone un po’ particolari…”.
Quel giorno, dunque, i due presero l’autobus assieme. Dante aveva iniziato ad essere nervoso, perché era sicuro che Virgilio si sarebbe annoiato: non c’era un tubo da fare; ma più di avvisarlo, cosa poteva fare? Durante il tragitto stettero in silenzio, guardando uno fuori dal finestrino, l’altro le proprie gambe.
«Ehm, sì, ecco…» balbettò il padrone di casa una volta arrivati, aprendo un armadietto della cucina e sbirciandoci dentro. «Non c’è un granché, ma della pasta riusciamo a farla…mettiti pure comodo, sentiti a casa tua…io metto su l’acqua…».
«Va bene, grazie. Eeh, posso andare in bagno?».
«Certo. È di là, in fondo al corridoio.».
«Ma hai una stanza piena di gabbie!» esclamò Virgilio una volta tornato, entrando in cucina con passo saltellato.
«Sì, lo so.» rispose Dante. Virgilio sbuffò ridendo e l’altro si rese conto della stupidità della risposta, mettendosi a ridere a sua volta. «Uhauha, scusa! Ho dei ratti.».
«Dei ratti??».
«Sì, lo so che è strano. Li allevo. Sono carini e sono anche buoni animali domestici. Sul serio!».
«Credevo che si allevassero solo come cibo per i serpenti…».
«E invece sono davvero intelligenti e affettuosi. Dopo te li faccio vedere, se l’idea non ti schifa.».
«No, anzi. Sono curioso, adesso!».
E così, una volta finito di pranzare, si trasferirono nella stanza delle gabbie. «Questa camera ormai era inutilizzata (ci tenevo i miei giochi quando ero piccolo), per cui sono riuscito a convincere i miei e ora la uso per tenere loro. All’inizio, quando non ne avevo così tanti, stavano in camera mia; ma fanno troppo casino di notte.» spiegò Dante, aprendo una delle gabbie e tirando fuori il suo grosso rattone omonimo.
«Ooh, ma che bello!».
«Questo è il primo che ho avuto, ha circa due anni e mezzo. Ho fatto una cavolata all’inizio perché ho preso solo lui, mentre andrebbero presi almeno in coppia. S’è abituato a stare da solo e quando ho provato a prendergli un paio di compagni li ha quasi sbranati, per cui ora devo tenerlo isolato…».
«Ha proprio un pelo bellissimo! Ed è davvero grande, una vera pantegana! Come si chiama?».
Dante si grattò la testa prima di rispondere, imbarazzato. «Come me.».
«Gli hai dato il tuo nome? Come mai?».
«Non sono egocentrico o altro…è una cosa mia, in realtà. Una cretinata. Ehmm, lui non è l’unico ad avere il nome di una persona. Ognuno di questi ratti ha il nome di una persona che conosco...».
«Ma dai.».
«Perché…praticamente, li addestro. Fanno giochetti, percorsi di agility, rispondono ai miei comandi. Quindi…mh, mi vergogno a dirlo…in pratica, beh, se mi obbediscono mi pare di avere sotto controllo anche quelle persone. So che non è così! Ma è qualcosa di simbolico, tipo. Mi aiuta a rilassarmi, a calmare la rabbia. La persona con cui mi arrabbio più spesso sono io, in realtà, per questo lui si chiama Dante. E sarà che è quello che sta con me da più tempo, ma è anche quello meglio addestrato. Come dire…è bello vedere che almeno la tua controparte è disciplinata e riesce in qualcosa.».
«Uao…che cosa originale, davvero.».
«M’hai preso per pazzo, lo so!».
«No, affatto! Tutti hanno bisogno di un metodo di catarsi, se tu hai trovato il tuo è un bene.».
Dante, ancora imbarazzato, dette la schiena a Virgilio col pretesto di prendere altri ratti. «Ehm, comunque se vuoi ti faccio vedere un po’ cosa sanno fare.».
«Volentieri!».
Virgilio si divertì e stupì un sacco nel vedere i roditori che giravano su se stessi e si alzavano su due zampe a comando, facevano corti percorsi di agility e, i più bravi, riportavano una pallina che Dante lanciava loro, oppure la facevano cadere dentro un cestino a mo’ di basket. «Non credevo che fossero così intelligenti.».
«Hanno quasi l’intelligenza di un cane…e possono essere affettuosi allo stesso modo.».
«Vedo!». Virgilio ad un certo punto s’era trovato ad avere addosso cinque-sei ratti che, curiosi, gli si erano arrampicati addosso e gli ficcavano il muso dappertutto, annusandolo, leccandolo e “assaggiandolo”. «Oddio, è…è un po’ terrificante da un certo punto di vista…però sono così carini! Non avrei mai pensato di poterlo dire a dei ratti.».
Ridacchiando, Dante afferrò un rattino color panna e lo mise sulla testa dell’amico. «Ahahah! Bisognerebbe farti una foto!».
«Tu sai che tornerò per rubarteli, vero?» scherzò Virgilio, mentre faceva i grattini al ratto nero dalle grandi orecchie che Dante aveva rubato dal negozio un mese e mezzo prima. «Oddio, ma è troppo morbido questo qua!!! Ma che bello sei??».
«Oh, lui si chiama Geko.».
«Eh, Geko? Ma non avevi detto che si chiamano come delle persone?».
«Sì, è così. Geko è il soprannome che ho dato a una persona. Il suo nome in realtà non lo so.».
«Ah. E come mai questo soprannome?».
«Perché ha un geco tatuato sul braccio.».
Sentendo ciò, Virgilio cambiò espressione per un attimo, fissando Dante tra lo stupito e il sognante: «Un geco tatuato, hai detto…?».
«Sì…è uno che va nella nostra scuola…lo conosci?».
«Ah, ehm…moro, pelle piuttosto scura…?».
«Lui. Non credo che a scuola ci siano tante persone con gechi tatuati sul braccio.».
«Beh, solo di vista, in realtà…cioè, non c’ho mai parlato…maaa come mai hai chiamato il ratto così? Conosci bene quel tipo?».
«Non proprio, ma non mi va di entrare nei dettagli…». Dante raccontò all’altro ragazzo come avesse ottenuto sia lui sia il ratto albino suo compagno (che, guarda un po’, aveva chiamato Capo); dato che Virgilio si disse interessato, gli spiegò le basi della genetica e in breve le modalità di allevamento e selezione degli animali da riprodurre. «Il ratto della mia vita però non riuscirò mai a ottenerlo. È col pelo scuro e gli occhi rossi, il Marten. Ma ha una genetica complicata e non ci capisco molto…tecnicamente, non è naturale. Dovrei avere un ratto portatore di quel gene per farne nascere qualcuno, quindi dovrei comprarne uno. Ma sono rari…».
«Beh, ma anche quelli che hai adesso sono bellissimi…».
«Oh, sì. Non è facile tenerli, mi portano via un sacco di tempo. Ogni giorno devo pulire e lavare qualche gabbia, bisogna passarci del tempo assieme, devono poter stare liberi almeno un’oretta al giorno…e la gran parte delle mie paghette la uso per loro. Senza parlare dei soldi che spendo quando si ammalano!! Però danno tanta soddisfazione, e quando si è tristi sono un rimedio efficacissimo per stare meglio!».
«Da come parli, sembra che tu sia di cattivo umore spesso.».
«Beh, coi genitori che ho…è soprattutto colpa loro. Sembra che facciano di tutto per farmi incazzare!».
«Mi dispiace…cerca di non darci troppo peso. Alla fine ci stai male solo tu.».
Quel pomeriggio passò velocemente, contro ogni aspettativa di Dante: Virgilio gli chiese dei fogli usati e con quelli gli insegnò a fare qualche origami; giocarono a battaglia navale, all’impiccato, fecero disegnini stupidi e caricature di amici e professori. E parlarono, parlarono tanto, e Dante non avrebbe mai smesso di parlare con Virgilio, se avesse potuto; a fine pomeriggio lo salutò a malincuore, grato per le ore passate assieme.
Quella sera salutò i genitori di ritorno dal lavoro con un sorriso a trentadue denti e, per finire in bene la giornata, i due gli revocarono infine la punizione. Deh Virgilio, porti pure culo!

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Capitolo 7
*** Delusioni, graffi e voci ***


Muhahahah, rieccomi. Le insistenze della mia ragazza mi hanno obbligato a riprendere in mano questa storia. Nulla di particolare da dire a riguardo.



«E quindi, e quindi ecco insomma, è una persona fantastica, mi piace un sacco! Mi trovo proprio bene con lui!».
«Ti sei innamorato, eh?».
«Nooo, no. “Innamorato” è una  parola grossa! E poi sarebbe troppo presto per dirlo! …però è apprezzabile, ecco.».
Il giorno dopo, Trunks e Dante camminavano finalmente fuori casa, nel parchetto dei salici; il secondo aveva raccontato al primo il pomeriggio precedente nel dettaglio, sotto insistenza dell’amico.
«Comunqueeeee…sarà una mia impressione, ma mi sembri un po’ geloso. Quindi ci tengo a dirti che non ho alcuna intenzione di rimpiazzarti, se è di questo che hai paura.».
«Oh Dante, figurati, no! E comunque, anche se fosse, mica posso evitare che succeda. È un bene se trovi altri amici, sai.».
«Sì beh, ma…io mi offenderei se tu trovassi un altro migliore amico.».
«Succede prima o poi di cambiare amicizie…». Trunks sorrise e arruffò i capelli a Dante; lo faceva spesso, in realtà.
«Oh, dai, sai che non mi piace! Non sono un cane!» brontolò l’altro. «…sai, stamattina poi mi ha chiesto se domani potevamo andare in centro…ma dato che già oggi volevo uscire con te ho dovuto dirgli di no, che se esco troppo spesso i miei sono in grado di richiudermi di nuovo in casa per farmi studiare…però sabato mi porta non so dove.» continuò poi.
«Bene! E sì, magari evita di farti rinchiudere di nuovo.».
«Non lo farò.».
«Ah, ma…hai…più avuto incontri con i due tizi a scuola…?».
«No…li ho visti un paio di volte in giro, ma per fortuna non mi hanno più dato fastidio. Il Diama non voleva, ehm, fare qualcosa per tipo vendicarmi? Non ha fatto niente, vero?».
«Non che io sappia…sarebbe idiota, ma vai a farglielo capire…».
«Se va tutto a posto così, bene. Non è successo niente, alla fine.».
«Beh, proprio niente no, eh. Che provino a toccarti ancora…!».
«Oh, avanti, non sono mica morto! Ho solo preso paura…ah, a proposito, Virgilio conosce Geko, sai. Cioè, mi ha detto che lo conosce solo di vista, ma mi sembrava un po’ preso in verità.».
«Davvero…? Mmh…».
«Che c’è?».
«Basta che non sia uno di quelli lì, allora…».
«Ma cosa dici? Guarda che sono stato io ad avvicinarmi a lui, mica il contrario. Potrei forse pensarlo se fosse stato lui a venire da me, ma non è stato così, e comunque NO, fidati.».
«Ma magari, sai…lui sapeva chi eri, e…insomma, nel senso, ti aveva visto col Diama quella volta davanti alla disco, no? Quindi sapeva che sei un suo amico. E se conosce Geko...poi non hai detto che è stato amichevole fin da subito? Non è sospetto?».
«Trunks…dimmi, è la gelosia che sta parlando?».
«Non è gelosia, è un’ipotesi verosimile!».
«Non puoi andare a pensare certe cose solo perché mi ha detto che conosce Geko DI VISTA! E poi cosa otterrebbe a essere mio amico??».
«Non so, ti tiene d’occhio. Sei un aggancio nella cerchia del Diama, magari carpisce informazioni riguardo al Diama indirettamente da te.».
«E cosa starebbe facendo il Diama di così…importante? da dover esser tenuto sott’occhio?  Manco fosse un capo mafioso!».
«Non so cosa combini il Diama nel tempo libero e nemmeno voglio saperlo, ma proprio per questo non possiamo giudicare.».
«Oh, non farmi ridere, dai! Se ci parlassi capiresti che non è possibile. E non mi ha mai chiesto nulla riguardo a nessuno di voi, se t’interessa.».
«Io comunque se fossi in te starei un attimo attento…».
«…non credevo che fossi così. Anzi, una volta non eri così. E sei stato tu a dirmi che non c’era niente di male se facevo amicizia con lui, quando io mi facevo pare perché era truzzo!».
«Ma non ti sto dicendo che è una persona cattiva, solo di stare un po’ attento! È un’ipotesi. E poi non ci avevo pensato a questa cosa, mi è venuta adesso che mi hai detto che conosce quell’altro ragazzo, basta!».
«Di vista, Trunks, DI VISTA!».
«Hai detto che non ti sembrava da come ha reagito. L’hai detto tu, eh!».
«Sì, e avrei dovuto starmene zitto.».
«Ma non prendertela, dai! Non l’ho detto per cattiveria, perché ti arrabbi?».
«Perché non devi permetterti di giudicare persone che non conosci così, gratuitamente.».
«Era solo un pensiero, mica ho detto che è un criminale! Ma che è, hai le tue cose??».
«Ma…!!». Dante si impettì gonfiandosi come un tacchino, pronto a girarsi e ad andarsene offeso; l’amico riuscì a fermarlo prima che muovesse un passo, prendendolo per le spalle.
«No no no, scusa, non volevo! Non litighiamo per questa cavolata, dai!» si scusò, quasi supplicandolo.
«Non è una cavolata!» sbottò il più piccolo in risposta, liberandosi dalla presa. Si girò poi di nuovo verso l’altro, guardandolo risentito.
«Sì che lo è. Dimentica cosa ho detto, ok? Non importa. Ritiro. Era solo un’idea stupida. Non farne un dramma, va bene?».
«Non ne faccio un dramma, però evita di sparare sentenze così contro gente che non conosci.» abbassò gli occhi Dante.
«Ma io non ho…! Uff, sì, va bene, scusa.». Intrattabile e permaloso!
E Dante era davvero intrattabile e permaloso: se l’era presa sul serio per quell’ipotesi e il giorno dopo, a scuola, non si fece vedere dai suoi amici a ricreazione; andò giù da Virgilio appena suonata la campanella, perché aveva voglia di vedere lui soltanto. Il ragazzo fu felice della visita, anche se non si aspettava di incontrare lì l’altro fin dal primo dei quindici minuti di pausa. «Ma dai, è già la seconda volta che scendi, tutto in una settimana. Potrei abituarmici.» scherzò.
«Abituatici pure. Piuttosto che stare con gli altri al momento preferisco di gran lunga te!».
«È capitato qualcosa?».
«In realtà no, nulla di che. Sarà che oggi mi girano particolarmente le balle.».
«…mi spiace, non so cosa dire…».
Dante tentò di essere aperto come al solito, ma era troppo infastidito e allo stesso tempo dispiaciuto per la pseudo-litigata con Trunks per non far trasparire il suo cattivo umore anche con Virgilio; quest’ultimo gli stava chiedendo per la terza volta cosa fosse successo quando si bloccò di colpo, guardando fisso verso la fine del corridoio. Girando lo sguardo, Dante vide cosa l’aveva distratto: stava passando Geko, insieme al Capo come sempre.
«Ehh, sì, scusa.» riprese il ragazzo dopo pochi secondi di silenzio. «Dicevo,  se c’è qual-».
«Ecco, quello è Geko. È quello il tizio di cui parlavamo l’altro giorno, giusto?».
«Ssì, lui.»
«…!». Dante all’improvviso ebbe un’illuminazione; prese un’espressione concentrata e fissò il pavimento, grattandosi il mento.
«…sì?».
«Nulla…mi stavo solo chiedendo una cosa.».
«Cosa…?».
«…beh, io…posso…posso chiederti…?».
«Chiedimi, sì.».
«Ma non prendertela se non è così, eh…è solo-».
«Non me la prendo per una domanda, domandare è legittimo. Dimmi.».
«Sì, ma…non si sa mai…eccoo…Virgilio, può essere…può essere che ti piaccia Geko?».
Bingo: Virgilio avvampò all’istante e girò la testa di scatto da un lato, colto alla sprovvista. «B-beh, ehhh, no, io…» balbettò; vedendo di non riuscire a mentire, imbarazzatissimo, si coprì la faccia con le mani: «Dio, si vede così tanto?».
«Ah…sul serio quindi…io l’avevo buttata lì…».
 «Ma non è che mi piace, cioè, non lo conosco, è che è carino e…cioè, no, proprio figo, cioè, lo vedi no? Eehm no scusa, magari tu non se-».
«Secondo me ha la faccia da scemo, scusa.».
«…oh. Vabbè.».
«Intendi fare qualcosa?».
«Mh…behhh, ora come ora nnno…non lo conosco…non riesco ad andare lì…e boh…». Il viso di Virgilio aveva raggiunto la tonalità cremisi. «Tanto…tanto non credo che gli piacciano i maschi, comunque. È sempre attorniato da belle ragazze, e si permette pure di snobbarle praticamente tutte da quante oche gli van dietro.».
«L’hai osservato bene, eh!».
«Ahah, diciamo che lo stalkero da qualche mese!».
A fine ricreazione, Dante se ne tornò in aula con un amaro sapore in bocca, meno nervoso ma più triste di prima; era riuscito a non darlo a vedere, ma quando Virgilio gli aveva confessato che gli piaceva Geko si era sentito cadere addosso un macigno. Anzi, una montagna intera. Non tanto perché gli piaceva qualcuno, anzi almeno quel qualcuno era un ragazzo e non una ragazza. Ma accidenti, che ragazzo! Il giorno dopo Dante andò a cercarselo in giro per la scuola e lo osservò: effettivamente, guardandolo bene, ma bene bene eh, quando non aveva quel sorriso ebete stampato in faccia –il che era raro– era abbastanza un pezzo di figo. Se davvero il tipo ideale di Virgilio era il brunaccio avvenente vestito di marca, Dante poteva mettersela via: lui era tutto il contrario; altre qualità su cui puntare non ne aveva, sapeva solo allevare ratti. Che sono adorabili, certo; ma non si conquista i ragazzi coi ratti. [vaccate, con me funzionerebbe alla grande - nda]
La tristezza del nostro amico, in ogni caso, si tramutò in aspettativa e contentezza solo quel pomeriggio, in quanto era sabato e Virgilio gli aveva promesso di portarlo in quel tal posto speciale che Dante proprio non riusciva a immaginare. L’amico passò a prenderlo col motorino a casa sua alle 15; Dante lo fece salire per qualche minuto, perché sua madre voleva sapere con chi sarebbe andato in giro il figlio. Virgilio le fece una buonissima impressione: finalmente un ragazzo normale, aperto e vivace! Era stufa di vedere corvi all’uscio di casa sua.
«Spero che tu non rimanga deluso.» disse Virgilio a Dante, mentre avviava il motorino con un colpo secco e porgeva all’altro un caschetto bianco. «Magari hai pensato a chissà quale posto! Non è nulla di che in realtà, ma io lo trovo rilassante.». Ma non ci fu pericolo; appena arrivati, Dante parve sorpreso e deliziato allo stesso tempo: davanti a loro si stagliava un grande prato verdissimo, con a lato un campo arato ancora spoglio e, tra i due, una stretta stradina sterrata che andava a perdersi in mezzo a gelsi e alberi da frutto ibridi a causa dei numerosi innesti.
«Oooh, ma…! È bellissimo!».
Virgilio sorrise: «Davvero ti piace?».
«Sì! Non credevo che ci fosse un posto del genere appena fuori città.».
«Beh, è solo campagna…ma qui non ci viene mai nessuno, vedi solo qualche contadino ogni tanto. È silenzioso e si vedono bene le stelle di sera.». i due s’incamminarono lentamente seguendo il sentierino, Dante appena un paio di passi dietro a Virgilio.
«Vieni qui di sera? Non fa paura?».
«Ahah, da solo non andrei mai! Ma ci vengo con la Star ed Elìo. Vedi, preferisco questo alla discoteca.».
«E ci credo, è una figata! Grazie per avermi portato qui! Voglio vederlo anche di sera una volta, allora!».
La primavera era convenzionalmente iniziata solamente da un paio di giorni, ma già quella settimana la temperatura aveva deciso di mitigarsi un po’ e le piante avevano colto l’occasione per esplodere in tante piccole gemme fresche e tenere; solo qualche albero coraggioso che aveva deciso di germogliare quand’ancora era freddo aveva già fatto spuntare dei timidi fiorellini. Il clima quel giorno era ottimo, in felpa si aveva quasi caldo e in cielo non c’era una singola nuvola. Il terreno era solo leggermente umido e dopo una passeggiata, in mezzo a creature che alla nascita dovevano essere state semplici cotogni, i due ragazzi decisero di buttarsi tra l’erba per godere delle favorevoli condizioni atmosferiche fino in fondo. Dante era al settimo cielo; ogni tanto guardava sottecchi Virgilio il quale, pacifico, aveva chiuso gli occhi ed era lì lì per addormentarsi. Diavolo, perché doveva piacergli Geko? Perché proprio lui?? Palesemente Virgilio non lo conosceva, altrimenti avrebbe sicuramente cambiato idea a riguardo. Geko era uno stronzo, Virgilio al contrario era la persona più adorabile del mondo. Non li avrebbe mai visti insieme, mai. L’amico stava perdendo tempo. E intanto lui rimuginava e ci stava male, e così ci rimettevano entrambi.
Decise di intavolare il discorso e vedere cosa riusciva a capire in più riguardo la faccenda, ma nel momento in cui aprì la bocca una suoneria di quelle polifoniche ruppe il silenzio prima di lui: Trunks lo stava chiamando (per la cronaca, Dante non era più arrabbiato con lui. Era andato a cercare la sua spalla consolatrice la sera precedente, lo stesso giorno in cui l’aveva snobbato, riportandogli la situazione e godendo terribilmente nel rinfacciargli più volte che aveva avuto torto marcio).
«Trunks?».
«Oi, Dante…». La sua voce suonava particolarmente mogia e un poco preoccupata.
«Sì, dimmi.».
«Scusa se ti chiamo…sei con Virgilio, vero?».
«Sì.».
«So di disturbarti, spero di non aver…interrotto qualcosa, o-».
«Non fare l’idiota, dai! Che c’è?».
«Non faccio l’idiota, si sente che sei seccato. Si tratta di Francesco…non ho capito nulla di quello che è successo perché mi ha chiamato Chele agitatissimo che era stato chiamato a sua volta da Massi che era ancora più agitato che era stato contattato proprio dal Diama, ma tecnicamente gli è successo qualcosa. Sai che ha i suoi giri strani, che cheddiavolo, maledizione a lui…!».
«Oddio…ma tipo? È stato picchiato, o altro?».
«Non ho capito, Dan. Per esser vivo è vivo, so che anzi è fuori di sé dalla rabbia quindi è pure cosciente. Chele ha capito che c’entra una ragazza, e poi che forse è graffiato, guarda non so come si fa a non capirsi così tanto! Vado a casa di Fra e poi ti faccio sapere. Non dev’essere una cosa così grave per quello che ho afferrato, ma quanto meno bisogna calmarlo.».
«Vuoi che venga anch’io?».
«No, lascia stare, non c’è bisogno. Ti ho chiamato solo per avvisarti, che mi sa che eri l’ultimo rimasto a non saperlo e non mi sembrava giusto. Scusa per il disturbo, non preoccuparti troppo e goditi la compagnia! Vedrai che non è niente.».
«È successo qualcosa?» chiese Virgilio una volta che Dante ebbe chiuso la telefonata.
«Sì…pare che abbiano fatto qualcosa al Diama…è sempre ad attaccar briga coi tamarri, se la merita anche probabilmente. Trunks sta andando da lui, mi dirà meglio dopo.».
«Oh…sei preoccupato? Vuoi raggiungerli?».
«Beh, solo un po’…Trunks mi ha detto che non c’è bisogno, ma io sono curioso in effetti.».
«Ti accompagno, se vuoi.».
«Davvero? È che mi dispiace andarmene…è un posto così bello…».
«Ci possiamo ritornare quando vuoi, tranquillo! Ma ora il tuo amico è più importante. Dai, andiamo.».
Così, salutarono gli alberi e fecero la stradina al contrario, fino a dove era parcheggiato il motorino. In un quarto d’ora arrivarono a casa del Diama, una modesta villetta con giardino, e davanti al cancello trovarono la moto di Massimo e la mountain bike di Trunks. Come suonarono, il cancello del giardino si aprì e venne ad accoglierli alla porta proprio quest’ultimo; «Dante, ti avevo detto che non era-» cominciò, ma si interruppe appena notò Virgilio, che era dietro all’amico, raggelando. «No, NO! Lui no!! Ma sei impazzito?? Se lo vede il Diama lo ammazza!».
«Eh? E perché mai? Non ha fatto niente!».
«Gli hanno rigato la macchina, Dante! La macchina, era questa la “ragazza” di cui nessuno aveva capito! Sai quanto ci tiene, se vede lui si ricorda sicuramente di quella volta in discoteca! E in ogni caso, se ora vede un truzzo lo sbrana a prescindere, come ti è venuto in mente?? Sai com’è! Guardalo, diamine!». Dante non ci aveva pensato. Guardò atterrito Virgilio e solo allora notò la felpa a stelline (la preferita del ragazzo), i jeans a vita bassa e i lacci delle scarpe giallo evidenziatore. Li notò solo allora perché ormai non ci faceva più caso, quando era l’amico a indossarli. Il Diama non l’avrebbe sbranato, l’avrebbe proprio scannato. «Va’ via…!» gemette, proprio un attimo prima che Francesco e Massimo, un ragazzo biondo con la faccia da componente di boy band, facessero capolino sull’uscio.
«Ah, ma allora non c’è solo Dantino.» fece il secondo ragazzo, prima di rendersi conto di cosa fosse l’altro nuovo arrivato.
«Ssì, lui, lui mi ha solo accompagnato…» balbettò Dante, notando che un secondo dopo aver inquadrato Virgilio gli occhi del Diama erano diventati due fessure. Nessuno fu abbastanza pronto di riflessi per riuscire a bloccarlo: il gigante si scagliò contro il ragazzino subito dopo, senza preavviso, afferrandolo per la gola con una mano, ululando di rabbia.
«TU!! Sei stato tu, brutto figlio di puttana!!».
«Ma che c-cazzo fai??!» boccheggiò l’aggredito, preso completamente alla sprovvista. Si ricordava a malapena quello che aveva detto quella fatidica sera, qualcosa come due mesi prima!
 «Mi ricordo di te, piccolo verme schifoso, cosa credi?!! Ma io ti ammazzo, ti ammazzo e vediamo se hai il coraggio di rifarlo!!!».
«DIAMA, NO!!». Dante si era aggrappato al braccio che ora stringeva Virgilio appena l’aveva visto scattare e gli dava strattoni per cercare di fargli mollare la presa, senza riuscire nell’intento. Anche Massimo e Trunks si erano uniti nel tentativo di dividerli, ma nemmeno in tre potevano tener testa al ragazzo infuriato, che anzi per reazione stringeva sempre più forte. Dante lo implorava di lasciar andare l’amico, perché non aveva fatto proprio nulla, ma in quel momento le parole arrivavano a Francesco solo parzialmente.
«Ti appendo per le palle e ti scortico vivo, hai capito??!! Non basta che mi ripaghi il danno, devi soffrire, perché cose del genere a me- CHE CAZZO, E NON ROMPETE I COGLIONI VOI!!! Dante, finiscila o ti torco il collo con l’altra mano!!».
«No, basta, basta!! Non vedi che sta diventando viola?! Basta!» lo scongiurò Trunks. Era vero: il viso di Virgilio da rosso stava iniziando a prendere una tonalità violacea; al ragazzino mancava il fiato e non riusciva più a parlare, così per difendersi aveva iniziato a dare ginocchiate all’aggressore tentando di colpirgli le parti basse. Nel mentre, Dante aveva preso a tirar pugni all’omone, partendo a piangere dall’angoscia.
«Smettila! Ti ha visto solo una volta! È stato con me fino ad adesso, non è stato lui! La-scialo!». Ma ancora non lo mollava. «È uno striscio sulla macchina, se anche fosse stato lui non puoi strozzarlo così!».
«È la mia macchina, la MIA macchina cazzo! Per la MIA macchina questo ed altro!».
«M-ma se non è nemmeno tua! Manco l’avessi comprata con soldi tuoi lavorando e facendo sacrifici, te l’ha regalata tuo padre solo perché è pieno di soldi!!».
Quest’ultima frase funzionò: il Diama lasciò la presa e Virgilio cadde carponi, prendendo grandi boccate d’aria e recuperando poco a poco il colore consueto. Imbufalito, l’altro si era girato verso Dante e gli si era avvicinato. «Che ne sai tu? Ma CHE CAZZO ne sai di mio padre?!!» gridò dandogli uno spintone che lo fece arretrare di parecchi metri. «Non devi permetterti di parlare, tu, non devi permetterti!!».
«No! TU non devi permetterti di strangolare così la gente! Sei un pazzo, Diama, un pazzo!! Fatti curare!».
«Vattene subito, pulce! Vattene e porta con te quel rifiuto prima che lo butti fuori io!! Andatevene tutti, VIA!!».
Nessuno aveva mai visto il Diama in quelle condizioni; gli amici sapevano che era piuttosto irascibile, ma non credevano che potesse diventare violento a quei livelli. Massimo, Dante e Virgilio schizzarono fuori al suo comando, il primo guardandolo sconvolto, il secondo lanciandogli occhiatacce tra le lacrime e il terzo massaggiandosi il collo; Trunks invece rimase, nel tentativo di parlargli e farlo ragionare.
I due ragazzini montarono sul motorino stralunati, senza dire una parola; solo una volta che furono arrivati davanti a casa di Dante questi smontò, si sfilò il casco e fissando il terreno –perché non riusciva a guardare Virgilio in faccia– mormorò flebilmente: «Scusa. È stata colpa mia.». Aveva ancora le guance bagnate e dopo qualche secondo nuove lacrime tornarono a scorrergli sul viso, seguite da un singhiozzo che cercò di soffocare; poi gli saltò al collo, abbracciandolo forte.
«…tranquillo, calmati…non importa, davvero…» rispose a bassa voce Virgilio; ma non sembrava troppo convinto. Evidentemente era ancora mezzo sconvolto.
Dante scosse la testa, sempre standogli avvinghiato. Si sentiva malissimo e in colpa, e non sapeva come comunicargli tutto il suo dispiacere. Fu allora che quella vocina parlò per la prima volta:
Bacialo.
“Come, scusa?”.
Bacialo.
“Ma che, sei fuori?? Se lo faccio si mette di nuovo a tirare ginocchiate, e a me mi becca.”.
Così gli fai capire quanto tieni a lui. Bacialo!
“Ma t’ho detto di no, nemmeno per sogno!!”.
Spaventato da questo suo impulso, e deciso a proteggere i suoi gioielli di famiglia, si staccò dall’amico e fece qualche passo indietro allontanandoglisi.
«Davvero, non preoccuparti…» gli disse ancora Virgilio. Dante non rispose, ora non tanto perché si sentiva troppo male per farlo, ma perché era concentrato a contenere quella sua nuova brama.
«…beh, ciao allora. Ci vediamo.» proseguì l’altro abbassandosi la visiera del casco.
«Ciao.» lo salutò Dante in risposta con un filo di voce, mentre il rombo del motorino tornava a mangiare la quiete e copriva le sue parole.
Si lasciarono così, entrambi agitati e un poco tremanti.

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Capitolo 8
*** Grandine ***


Fortuna che dovevo continuare presto, l'ispirazione se n'è andata com'era tornata. Ora dovrebbe esserci di nuovo, e spero che rimanga e che mi permetta di fare lo sprint finale. Sto scrivendo altre due storie ed ho più ispirazione per quelle in realtà, ma ce la faremo comunque U_U gne.




La settimana che seguì per Dante fu orrenda: aveva paura di farsi vedere dal Diama, quindi evitava l’intero suo gruppetto; senza contare che, comunque, Trunks si era arrabbiato con lui. Lunedì mattina, all’entrata di scuola, quando il ragazzino gli si era avvicinato per salutarlo gli aveva risposto con freddezza, dicendogli apertamente che ce l’aveva con lui perché due giorni prima aveva superato il limite della stupidità. Dante aveva notato un livido attorno al suo occhio sinistro e venire a sapere che era il segno della reazione che il Diama aveva avuto quando era rimasto a casa sua per tentare di calmarlo non lo fece sentire meglio; per cui, il più giovane aveva compreso l’umore dell’altro e aveva deciso di lasciarlo in pace finché non l’avesse perdonato, ritirandosi nel senso di colpa. Ma la cosa che forse lo fece stare peggio fu che anche Virgilio non sembrava ben disposto nei suoi confronti: sempre all’entrata di scuola, l’aveva visto da lontano e lo stava osservando senza il coraggio di appropinquarglisi; sperava che l’amico lo scorgesse e gli facesse un cenno, o che gli si avvicinasse, ma la sensazione che ebbe fu che l’altro stesse evitando di guardare nella sua direzione apposta. Anche perché, come lui non andò a cercarlo a ricreazione, nemmeno Virgilio si fece vedere. Non se la sentì di biasimarlo, dopotutto. Aveva tutto il diritto di prendersela.
Perciò aveva passato quei giorni da solo, chiuso in casa, mezzo depresso, con addosso almeno due ratti per patire meno la malinconia. Non che non conoscesse qualcun altro con cui vedersi: aveva due amici d’infanzia, si sentiva ogni tanto con qualche compagno delle medie…ma era troppo infelice per trovare la voglia di uscire.
Vista la situazione, non si sarebbe mai aspettato che, in un giorno d’inizio aprile, l’amico si sarebbe presentato a casa sua spontaneamente. Dante era in camera sua, sui libri di matematica, e stava tentando inutilmente di concentrarsi; mentre il suo rattone arancio gli rosicchiava un angolo del quaderno, lui perdeva tempo cercando di capire equazioni che proprio non riuscivano a dargli il risultato giusto. La giornata era iniziata con un fresco sole primaverile, ma verso le 15.30 all’orizzonte si erano presentati grossi nuvoloni neri, che presto avevano oscurato il cielo su tutta la città, facendolo diventare dello stesso colore dell’umore di Dante; in venti minuti si era scatenato l’inferno e scrosciava tutta l’acqua che la volta celeste era in grado di contenere. L’acquazzone era accompagnato da grossi chicchi di grandine quando il ragazzo udì uno scampanellio disperato: era per l’appunto Virgilio, che implorava riparo.
«S-s-scusa.» tremò entrando gocciolante, una volta che Dante gli ebbe aperto. «Ero d-da queste parti e ho pensato a c-c-casa tua, il temporale mi ha preso alla sprovvista.».
«Diavolo, sei fradicio! Vieni, ti do un asciugamano.». Virgilio seguì Dante in camera, lasciando una scia di goccioline dietro di sé; si asciugò un po’ i capelli, continuando a battere i denti per il freddo.
«Vuoi farti una doccia calda? Ti presto qualcosa di asciutto.» gli propose l’amico vedendolo in quelle condizioni.
«Oh, beh, s-sì per favore.». Dante gli diede dei vestiti (dovette prendergli dei pantaloni di suo padre, perché non ne aveva di suoi che gli andassero bene) e mise quelli di Virgilio ad asciugare sopra il termosifone, anche se era praticamente spento.
Mentre uno era chiuso in bagno, l’altro rimuginava. Dante era imbarazzato e non sapeva come comportarsi, non sapeva se Virgilio fosse arrabbiato con lui, non sapeva se essere naturale o se mantenere le distanze…d’altra parte si era presentato da lui per necessità, per cui poteva benissimo essere ancora risentito…
Eh, ed è nudo sotto la doccia…
“…ehm-ehm…?”.
Se fossi uomo ne approfitteresti…
“Ne approfitterei se fossi un pervertito!!”.
Dai, almeno una sbirciatina…
“No. NO. IO NON TI ASCOLTO. NON TI STO ASCOLTANDO.”.
Lalalà…
“Taci. TACI!!”.
E quindi sì, oltre alle pare mentali aveva anche questo problemuccio di ormoni da controllare; la cosa fu ardua, ma riuscì a tenerlo a bada andando a preparare del tè.
«Ti ho disturbato? Stavi studiando?» gli domandò Virgilio una volta uscito dal bagno, finalmente asciutto e riscaldato, raggiungendo Dante in cucina; aveva adocchiato i libri abbandonati sul tavolo della camera.
«Ahh, tanto non ci capisco niente, perdo solo tempo.».
«Il ratto si stava mangiando il quaderno, sai?».
Il ragazzino ebbe un sussulto: «Porca…! Me lo sono dimenticato fuori!!». Schizzò nella sua stanza e recuperò l’animale, ma ormai le pagine erano rosicchiate in più punti e, come se non bastasse, esattamente al centro una pozzetta di pipì aveva completato l’opera di devastazione. Dante sbatté in un angolo il quaderno rovinato, maledicendo l’animale e rimettendolo in gabbia sgarbatamente; Virgilio lo raggiunse con le due tazze di tè che l’altro aveva preparato e si misero in camera, Dante sul letto e Virgilio sulla sedia davanti alla scrivania. Il secondo sembrava fare un po’ il sostenuto, perciò anche il primo si comportava in modo piuttosto rigido; parlavano, ma era essenzialmente una conversazione fredda, innaturale, con molte pause. Entrambi ne sentivano il disagio e Virgilio fu il primo ad azzardare un chiarimento; in uno dei momenti di silenzio, guardò l’amico intensamente, con un pizzico di dispiacere e imbarazzo, e domandò: «…Dante…sei arrabbiato con me per quello che è successo l’ultima volta, vero?».
L’altro lo guardò perplesso prima di rispondere sorpreso: «Ma che dici? Sei tu quello che dovrebbe essere arrabbiato. Sei tu quello che si è quasi giocato il collo…».
«Beh…immagino che tu ti sia quasi giocato gli amici…credo…».
«…togli pure quel “quasi”…». Dante sentì improvvisamente tutta la tristezza piombargli addosso, ma non volle darlo a vedere e si stravaccò sul letto prendendo una posa noncurante. «…nemmeno Trunks mi rivolge più la parola…è un cretino, mi ha detto che da quando ti conosco mi instupidisco sempre di più. Che dovrei tornare un po’ in me prima di ripresentarmi di nuovo, specialmente agli altri, perché anche gli altri hanno notato che sono cambiato, in peggio dicono.».
«…e tu credi che sia così?».
Dante scosse la testa lentamente: «No…io da quando ti conosco mi sento solo più felice, e più libero.».
«…che cosa carina hai detto…! Grazie!». Gli occhi di Virgilio s’illuminarono e sorrise; fu un sorriso che mozzò il fiato a Dante, perché era splendido e perché gli toglieva finalmente un grande peso dall’animo; poi il ragazzino non capì più nulla per qualche attimo, perché Virgilio si era lanciato sopra di lui abbracciandolo: «Oh Dante, sei adorabile! Mi dispiace che tu abbia pensato che fossi arrabbiato! Io pensavo la stessa cosa di te, per questo non venivo a cercarti! ».
«G-già…che polli…». Dante era divenuto bordeaux all’istante; una parte di lui non vedeva l’ora che Virgilio si staccasse presto, ma ciò non avvenne; l’amico si adagiò anzi ben bene con la testa sul suo petto e ridacchiò del loro fraintendimento, elencando le pare mentali che si era fatto a riguardo. Sotto di lui, Dante non lo ascoltava minimamente: aveva il terrore che così appoggiato l’altro potesse notare i battiti velocizzati del suo cuore, passati da sessantacinque a centodieci al minuto in un solo istante. Anche la distanza decisamente troppo ravvicinata lo turbava: tentò di concentrarsi su altro per evitare di eccitarsi, fissando insistentemente il muro, ma quando percepì sulla coscia il rigonfiamento morbido del sesso a riposo di Virgilio non riuscì a trattenere la fantasia, che esplose in mille immagini censurabili. Sentì la sua erezione risvegliarsi contro ogni suo volere e a quel punto, boccheggiando, supplicò l’amico di togliersi di dosso; Virgilio si scusò credendo di averlo schiacciato col suo peso e Dante poté tornare a respirare, allontanandosi un poco da lui per calmare l’eccitazione e portandosi le gambe al petto per nasconderla.
Quel gesto, che Virgilio aveva fatto senza pensare, gli diede un mare di grattacapi. Perché l’aveva fatto? Cosa significava? Era stata una cosa così tanto per fare o stava cercando di fargli arrivare un messaggio? In fondo gli era saltato addosso, eh, mica bruscolini. Qualcun altro avrebbe potuto fraintendere. Dante lo guardò sottecchi e vide Virgilio sorridergli; a quel punto gli si allontanò ancora di un poco e, notando il movimento, l’amico gli chiese, sempre sorridendo: «Cosa c’è?». Il ragazzino non sapeva cosa rispondere e allora, dopo aver aperto e richiuso la bocca un paio di volte, decise di starsene zitto; Virgilio interpretò il silenzio e la posizione rannicchiata nel modo sbagliato e si rabbuiò un poco, prendendo un’espressione dispiaciuta. «…mi dispiace per i tuoi amici. Davvero.» disse.
«Mah…avevi ragione tu, non sono dei veri amici se si comportano così…ma Trunks…ci conosciamo dall’asilo diavolo, non può buttare via tutti questi anni nel cesso per niente! Perché non ho fatto niente!».
«Sarà stata la reazione del momento…vedrai che cambierà idea.».
«Fosse anche, perché cazzo t’arrabbi così?? Manco fosse colpa mia se il Diama è da ricovero! Dovrei arrabbiarmi io con lui! Se dovesse venire a cercarmi non so se lo perdonerei subito.».
«Mi spiace…beh, intanto io ci sono. Puoi uscire con me e i miei amici se ti senti solo.».
«Grazie…». Il ragazzino sorrise e Virgilio gli sorrise di rimando. Se avesse avuto abbastanza fegato, sarebbe stato lui a saltargli addosso, ora.

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Capitolo 9
*** Tutto fa un po' male ***


Ok, ok, ok, nessuno è morto e sono ancora qua! Ho avuto parecchi grilli per la testa e zero voglia di postare nonostante io abbia terminato la storia un bel po' di tempo fa, ma rieccomi qui. Giuro che il prossimo capitolo sarà postato fra qualche giorno :P



Da allora, la vita sociale di Dante, per forza di cose, cambiò; si vedeva ogni tanto, solitamente il sabato sera, con Virgilio, Elìo e la Star (che, per non si sa quale ragione, Virgilio chiamava “zia” nonostante la ragazza non fosse affatto la sua vera zia. La “zia” Star, di rimando, si divertiva a chiamarlo “moglie”. Dante non ne afferrava il motivo, ma non si prese la briga di informarsi: è normale che tra amici si formino finte famiglie con parentele improbabili), ma era una cosa più tranquilla e intima rispetto a quello a cui era abituato. I tre erano simpaticissimi e lui si divertiva tantissimo in loro compagnia, ma ogni tanto gli mancavano i suoi vecchi amici corvi e, più di tutti, il sostegno emotivo di Trunks, che veniva a mancare proprio nel periodo di maggior bisogno. Da quando usciva regolarmente con lui, infatti, ciò che Dante provava per Virgilio si era scatenato e non avere nessuno con cui parlare di quello che sentiva lo obbligava ad accumulare tutto dentro di sé, cosa a cui non era abituato. Il ragazzo non sapeva come sfogare quella furia mai provata prima, che lo rendeva irrequieto e gli faceva avere sbalzi d’umore degni di un disturbo bipolare; aveva come un fuoco che ardeva in corpo, partendo dal basso ventre e dipanandosi fin dentro ogni sua cellula, facendolo sentire da cani, chiudendogli lo stomaco durante i pasti, non lasciandolo dormire, facendogli mordere forte il cuscino nel buio delle notti insonni. Tante cose si potevano dire sull’amore, tranne che fosse piacevole.
Fu forse la mancanza di Trunks che portò Dante a confidarsi con la Star, quando ormai non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. La ragazza aveva già immaginato la situazione, disse, ma non si era permessa di chiedergli conferma. Gli domandò se volesse che parlasse con Virgilio, quanto meno per capire le sue possibilità, ma Dante la pregò di non farlo, perché aveva paura che se fosse venuto a sapere di piacergli si sarebbe allontanato, e lui non poteva permettersi di perdere altri amici.
Virgilio, dal canto suo, sembrava non accorgersi di nulla. Si comportava a suo solito modo, con un approccio molto fisico che metteva Dante in difficoltà: non si rendeva conto di scatenare il suo già frustrato desiderio a ogni abbraccio scherzoso, a ogni mano sulla spalla, a ogni tocco che gli dava. Ma il colpo di grazia glielo diede quando, un lunedì mattina dopo un weekend in cui non si erano visti, gli si approcciò tutto baldanzoso raccontandogli felice di aver conosciuto Geko di persona il sabato passato, in discoteca. «È così simpatico, mi ha fatto ridere un sacco! Non dev’essere proprio una cima eh, però diavolo, ahah, proprio per questo fa ridere! E, e, aveva, aveva addosso una camicia di un viola bellissimo che non gli avevo mai visto, ma che metteva in risalto il colore dei suoi occhi e tipo, tipo, oh Dante, è troppo carino!» aveva detto. Una coltellata sul petto a ogni parola. Quella volta Dante aveva rischiato di non riuscire a trattenersi; con la voce tremante gli aveva risposto che poteva essere bello quanto voleva, ma che con ogni probabilità aveva importanti carenze a livello sia intellettivo che caratteriale e che sicuramente –esperienza personale– era uno stronzo. Stava per dirglielo, che quell’idiota non si meritava attenzioni da lui. Che ci stava male a vedere che un ragazzo come lui perdesse tempo ed energie pensando a una persona simile. Che lui forse non era tanto meglio di Geko, ma che gli voleva un bene dell’anima e mai l’avrebbe usato né fatto stare male. Che andava a fuoco appena lo vedeva e che non ce la faceva più a stargli vicino sapendo di non poterlo avere. S’era trattenuto, ma aveva veramente rischiato di cedere e di dirglielo. Poi gli aveva raccontato l’atto di bullismo subito mesi prima, perché Virgilio esigé sapere cosa fosse successo tra loro due; il ragazzo ci rimase male sentendo la storia, ma nonostante non approvasse la violenza nei confronti di Dante tentò di giustificare Geko sostenendo che non era stato lui direttamente a maltrattarlo e che, avendo conosciuto Diamanti, poteva anche capire in qualche modo il gesto contro di lui. Non poteva giudicare una persona solo per un’azione. Dante non aveva voluto credere alle proprie orecchie e si era offeso tantissimo, sfogandosi più tardi con la Star. La ragazza l’aveva consolato dicendogli che la cosa non sarebbe durata e che la storia che Virgilio sognava era finita ancora prima di iniziare, perché mai Geko avrebbe dato retta al suo amico; tra l’altro, quest’ultimo era decisamente e inspiegabilmente attaccato a lui, che secondo lei avrebbe avuto delle possibilità una volta che Virgilio si sarebbe dimenticato di Geko.
Sua madre, nel contempo, era felice da un lato e preoccupata dall’altro. Se per un verso le dispiaceva che il figlio avesse litigato con Trunks (Dante le aveva detto solo questo, senza voler spiegare il perché), almeno aveva smesso di uscire con quei ragazzoni inquietanti; la sua nuova compagnia, che aveva conosciuto in un’occasione, le sembrava più allegra e genuina. Ma nonostante ciò, Dante negli ultimi tempi le sembrava stanco. Più volte l’aveva sentito girare per casa la notte e spesso alla mattina esibiva occhiaie preoccupanti; mangiava meno del solito sostenendo di non avere fame e aveva perennemente la testa tra le nuvole. Per quanto poco importassero a lei, le pareva che stesse trascurando un po’ anche le sue bestiole. I voti a scuola, quelli non parevano essere cambiati, né in meglio né in peggio. Ogni volta che chiedeva al figlio cos’avesse, questi le diceva che non c’era proprio nulla, e che secondo lui le sue preoccupazioni erano infondate; lei era sicura che ciò non fosse vero, ma più di pregarlo di confidarsi non poteva fare. Che fosse depresso per aver perso il migliore amico? Ciò era possibile, ma più il tempo passava più la cosa sembrava peggiorare, mentre di solito succede che i giorni cancellano il dolore; perciò non sapeva darsi una risposta.
Tra giornate piene di sospiri, illuminate talvolta da un barlume di speranza dato da un qualche gesto di Virgilio, per Dante fine maggio arrivò in fretta. Compiva sedici anni il giorno in cui Trunks tornò a cercarlo, fermandolo all’uscita di scuola. In ragazzino sentì qualcuno ticchettargli sulla spalla con un dito e voltandosi scoprì con sorpresa il suo (ex?) migliore amico. «Oh.» disse vedendolo.
«Ciao Dante. Come stai?» chiese Trunks, un poco a disagio.
«Mh...» scrollò le spalle lui. «Cosa c’è?».
«Beh…tanti auguri.».
«Grazie…».
«…ti sei alzato un po’, eh?».
«Sì? Non l’ho notato.».
Trunks confermò annuendo: «Di qualche centimetro, sì…».
«Beh, sarebbe anche ora.».
«Ahah, già…».
«…».
«…».
«Come va con gli altri?».
«Volevo giusto dirti…Dante, ci manchi. Mi manchi. Il Diama è un idiota e se n’è reso conto. Ci ha giurato che vuole smetterla di fare il bambino, pare che i genitori di un ragazzo che aveva infastidito siano andati a parlare coi suoi e devono avergli fatto una ramanzina epocale. E…anch’io sono un idiota. Mi dispiace di averti allontanato.».
«…forse sarebbe stato meglio capirlo prima.».
«Non ti do torto…».
«Ci hai messo un po’ a sentire la mia mancanza.».
«Ero arrabbiato, Dan…non so nemmeno perché in realtà. Forse mi dava fastidio che fossi tanto preso da Virgilio…e vedendoti arrivare con lui dal Diama, insomma…”Anche qui?” ho pensato. Specialmente col Diama già arrabbiato di suo, avresti dovuto pensare che avrebbe perso le staffe…mi ha dato fastidio, mi sono chiesto se eri veramente così preso da non capire più niente.».
«Non ci ho pensato. Non ci ho pensato perché non ragiono come il Diama, non più. Virgilio è un mio amico come lo sei tu, non conta niente se va in discoteca. È Francesco ad essere nel torto per quanto mi riguarda, non io, e non cambierò idea se era quello che si aspettava.».
«Non lo sei. Lo sa anche lui.».
«Vabbè. Ne riparliamo, eh? Se no mi parte l’autobus.».
«Sono una cosa! La sera dell’ultimo giorno di scuola quelli di quinta hanno organizzato una festa a casa di un tizio. Sarebbe solo per quelli dell’ultimo anno, ma io sono stato invitato dal Diama e mi ha detto di chiedere anche a te. Alla fine ci saranno un sacco di imbucati.».
«Ah, quella…sì, ci andrò. Mi ha già invitato Virgilio…che è stato invitato da Geko, vabbè…».
«Oh. Ok, allora. Ci sarai.».
«Sì.».
«Bene.».
«Beh, ciao.».
«Ciao…ancora auguri. E scusa...».

Già, la festa. Il party di fine anno, pianificato per consolarsi all’idea degli esami finali, era organizzato a casa di un certo Sebastiano Rappo, un ragazzo di 5^E bruttarello e un po’ sfigato ma che viveva in una villetta che aveva deciso di mettere a disposizione per una cena a base di carne e verdure alla griglia; si sapeva fin da subito che ci sarebbe stata molta più gente di quella che effettivamente si sarebbe diplomata di lì a poco, per cui quando i padroni di casa si trovarono davanti poco meno di un quarto di tutta la scuola non si stupirono più di tanto; chiaramente, gli ultimi che iniziarono a mangiare finirono quando i primi ormai avevano completamente digerito, ma anche quello era messo in conto, e fu piacevole sentire per l’intera serata l’odore delle braci aleggiare in mezzo alla folla, mescolandosi con il vociare, le risate, il caldo degli angoli più gremiti e i fasci di luce dei lampioni del giardino, che insieme formavano un cocktail che confondeva i sensi e rendeva leggermente storditi. La villa era in collina, dispersa tra i campi, e per raggiungerla si dovevano seguire diversi chilometri di una strada tortuosa e in salita che metteva a dura prova le macchine meno potenti o gli automobilisti poco esperti. Il padre di Dante si perse due volte prima di riuscire a far arrivare il figlio a destinazione; il ragazzo aveva categoricamente escluso la possibilità di raggiungere la festa assieme a Virgilio perché l’amico sarebbe salito con Geko e giustamente lui non voleva averci nulla a che fare, ma aveva anche declinato l’offerta di passaggio da parte del Diama, perché non era ancora del tutto sicuro di averlo perdonato; così, arrivò quando buona parte della gente era già lì.
Nel vederlo davanti al cancello d’entrata, Virgilio gli corse incontro gioioso, lo salutò con una pacca sulla schiena e gli ficcò in mano un bicchiere che si era portato dietro dal tavolo, praticamente urlando che conteneva il mix di alcolici più buono che avesse mai assaggiato; solo dopo si rese conto che il padre dell’amico l’aveva sentito, e allora lo salutò con un gesto della mano e un sorrisetto colpevole. «Sì, vedi di non ubriacarti, siamo intesi?» intimò severamente il babbo al figlio dall’auto, per sciogliersi poi a sua volta in un sorriso quando fu ripartito: aveva avuto sedici anni anche lui.
La festa era iniziata alle diciotto e aveva intenzione di durare fino dopo mezzanotte; per Dante durò un paio d’ore di meno, a causa di ciò che successe.
Durante la serata, Virgilio si divideva inizialmente tra il nostro amico e la compagnia di Geko; né la Star né Elìo, invitati, erano potuti esser presenti, la prima per un impegno pregresso e il secondo per un’influenza intestinale che lo costringeva a letto con la nausea da due giorni. Il ragazzo per evitarsi di fare la spola tra i due aveva tentato di spronare Dante a conoscere il suo nuovo amico, ma l’altro aveva opposto resistenza e a nulla erano valse le sue moine volte a convincerlo; anzi, Dante si era rifugiato da Trunks, dopo averlo scorto da lontano. Il diciassettenne dovette sorbirsi tutte le lamentele del più giovane contro Geko e la sua presenza, ma tutto sommato gli erano mancate anche quelle e le sopportò stoicamente, come faceva sempre. Gli consigliò di lasciar perdere Virgilio almeno per quella sera, perché era ovvio che se si fosse messo in competizione con Geko per la sua attenzione l’altro avrebbe avuta vinta, e prima di restarci male sarebbe stato meglio ritirarsi dignitosamente. Ma in amore la dignità scivola spesso sotto a tutto il resto e Dante non voleva darsi per vinto; aspettava che Virgilio si ricordasse di lui ogni tanto, ma arrivò il momento in cui se ne dimenticò completamente e non tornò a cercarlo. Non era cattiveria, era sbadataggine, testa tra le nuvole, vista annebbiata dai cuoricini. Non avrebbe voluto trascurarlo, semplicemente fu assorbito dalla presenza gekesca e non fu più in grado di staccarsene.
Offesissimo, come aveva previsto Trunks, Dante ci rimase male. L’amico dovette subire un’altra sfilza di lamentele (di cui, poverino, iniziava a stufarsi) e alla fine, esasperato, gli disse che se davvero ci teneva così tanto, e ci stava così tanto male, la cosa più giusta da fare secondo lui sarebbe stato farlo presente a Virgilio. «Non c’è bisogno che ti dichiari,» si spiegò meglio dopo che Dante l’aveva guardato con gli occhi sbarrati «basta che vai lì e gli dici che ti dà fastidio in fatto che non ti stia più cagando di striscio, ecco.». Ma a Dante la cosa sembrava poco carina e non accolse l’idea, passando il resto del tempo con Trunks, il Diama, Massimo e Chele. Aveva timore che stando assieme a loro Virgilio non si sarebbe avvicinato nel caso in cui fosse venuto a cercarlo, ma oh, evidentemente quella sera doveva andare così. Passò il tempo riformando i legami che temeva perduti e scoprì che gli erano mancati in quei due mesi di assenza, e che riaverli era una cosa meravigliosa. Il Diama ripeté la parola “scusa” forse venti volte cercando di spiegare al più giovane amico come si era sentito, perché aveva perso la testa e che si pentiva un sacco, ma a Dante bastava che tornasse tutto come prima e non voleva parlare dell’accaduto.
Era poco prima delle ventidue quando Trunks fece un cenno a Dante e gli indicò un viottolo a circa trenta metri di distanza, dove avanzava Geko assieme al Capo e a altri tre dei suoi, ridendo e scherzando su non si sentiva cosa. Dante capì che voleva fargli notare che Virgilio non era tra loro e che doveva essersi liberato, perciò prima si allontanò di qualche passo dal gruppo e scrutò la folla, poi vi ci si inoltrò per andare a cercarlo.
Dieci minuti dopo si era fatto il giro del giardino tre volte e ancora non l’aveva trovato. Iniziò a chiedersi se se ne fosse andato senza nemmeno salutarlo, ma non riusciva a trovare un buon motivo per cui potesse averlo fatto. Chiese alla madre di Rappo se qualcuno fosse entrato in casa ma lei negò, allora Dante decise di tornare dai suoi amici ma, sul punto di raggiungerli, si rese conto di aver guardato solo nel giardino davanti alla casa, dove stava tutta la gente, e non sul retro; ormai sicuro che Virgilio se ne fosse andato, procedette a dare un’occhiata giusto per togliersi il pensiero. Non credeva di trovarlo veramente, e invece lo trovò. Lo intravide nella penombra, perché sul retro non c’erano luci se non quella che passava dalla finestra della cucina. Era seduto su un grande sasso, da solo, e da lontano sembrava quasi che stesse tremando; avvicinandosi, Dante si rese conto invece che stava singhiozzando.
Vedendolo arrivare, Virgilio trasalì e si calmò di botto, asciugandosi le guance, ma era troppo tardi per fingere che fosse tutto a posto e non tentò di farglielo credere.
«Ehi…che succede?» chiese dolcemente Dante, sedendoglisi affianco. Virgilio scosse la testa sorridendo tristemente prima di rispondere con voce rotta: «Sono stato geniale. Non avrei dovuto farlo, ma e-era lì, ed è così bello, p-praticamente dei suoi amici stavano apprezzando una tipa e quando hanno chiesto il mio parere ho detto –c-che scemo, perché?! – ho detto “sinceramente io preferisco Ema”, sai, Geko, si chiama Emanuele, no? Ma l’ho fatto senza pensarci e q-quando me ne sono reso conto ormai l’avevo detto ed era stupido rimangiarselo, si vedeva che l’avevo detto convinto, e allora che potevo fare? Hanno iniziato a fare battutine e io ho, tipo…ormai me l’ero lasciato sfuggire, era un’occasione, perciò…m-mi sono dichiarato, tipo…».
«Virgi…davanti a tutti, così…? E a uno come lui…?». Virgilio si nascose la faccia con le mani, sentendo la vergogna salire. «Me ne sono pentito subito! Hanno iniziato a prendermi per il culo, lui per primo! Anche lui!».
Dante non sapeva cosa rispondere. Virgilio gli sembrò un enorme sprovveduto. Come aveva potuto pensare che non l’avrebbero preso in giro? Non era quello il modo di dichiararsi a un altro ragazzo, ci vuole discrezione! Da che pianeta veniva? «Non dovrebbero permettersi di farti star male, quel bastardi...».
Bacialo.
«Mi sono procurato un soprannome per il resto dei miei giorni in quella scuola: “frocio di merda”. …scommetto che già lo sapranno tutti entro la fine della festa.».
«Non pensarci, sono scemi. Non dovrebbe essere un’offesa, sai che non c’è nulla di male. E lo so anch’io.».
Bacialo.
Virgilio ricominciò a lacrimare. «Non me ne frega più di tanto per gli insulti, è che…che…fa un male cahahahne!». A Dante si spezzò il cuore a vederlo in quello stato, era la prima volta che lo vedeva piangere, e sperava anche che fosse l’ultima. Gli saliva la rabbia se pensava che era colpa di Geko, era proprio un idiota. Un imbecille. L’avrebbe preso a pugni alla prima occasione, poco importava che fosse più alto e muscoloso di lui. «N-non credevo nem-meno di t-tenerci c-così tanto! S-sigh! Ma era così simpatico, avevo iniziato a c-credere che…».
«Virgi, calmati, ti prego. Non versare lacrime per quell’idiota, non se le merita.».
Bacialo.
«Grazie, Dante, s-sei dolcissimo…scusa, mi p-passerà…snifff…». I due si abbracciarono, Virgilio nascondendo la faccia nell’incavo del collo dell’altro che, sentendosi un verme, si lasciò sfuggire un ampio sorriso: gli dispiaceva ammetterlo, ma per lui quella era una vittoria.
Restarono abbracciati per un paio di minuti, con Dante che coccolava l’amico tentando di consolarlo come poteva, mentre la sua vocina interiore gli urlava cose oscene che cercava di ignorare.
Si separarono imbarazzati, per due motivi diversi; Dante si sentiva un mattone sullo stomaco, era come se avesse mangiato pietre. Guardava Virgilio e le pietre si divertivano a ballare il mambo cozzando tra loro e formando schegge che diventavano tanti aghetti che gli si conficcavano in pancia, procurandogli un bruciore di stomaco che mai aveva provato prima. Accarezzò il volto dell’amico asciugandogli un’ultima, solitaria lacrima, poi fece scivolare la mano dietro la sua testa, grattandogli dolcemente la nuca. Virgilio prese un’espressione interrogativa, ma prima che potesse chiedersi qualcosa Dante strinse la presa sui suoi capelli e lo baciò; aveva agognato quella bocca per settimane e, preso dall’euforia, non era più riuscito a trattenersi. Virgilio s’irrigidì all’istante e non reagì per qualche secondo, colto di sorpresa; Dante avrebbe continuato il contatto in eterno, ma i due si separarono quando il ragazzino sentì le mani dell’altro spingergli il petto per allontanarlo.
«Virgilio…» riuscì solo a dire, ritraendosi e aspettando una reazione. Virgilio lo guardava scioccato, muto, con le labbra violate ancora umide; non si capiva se stesse pensando o se avesse solo ronzio in testa, ma dovette prendere una decisione perché dopo pochi secondi interminabili la sua espressione cambiò e da stupefatta divenne desolata. Distolse lo sguardo dall’altro abbassando gli occhi, in segno di rifiuto, e non ebbe più il coraggio di smettere di guardare il terreno; Dante sentì qualcosa spezzarsi in un luogo non meglio precisato della sua anima.

 
***

“Ciao dante…come stai? Ho saputo dell’altra sera, scusa se tiro fuori l’argomento… :(“
“Te l ha detto virgilio immagino…quindi bo sai già…nn mi va molto di parlarne…”
“Scusa :( ma cos’hai intenzione di fare ora?”
“Nn so, niente, ke dovrei fare…ma nn credo che avrò tanta voglia di uscire cn voi x il mom…”
“Capisco… :( però mi dispiacerà non vederti più ç_ç”
“Anke a me :( ma nn me la sento proprio x ora. Magari c sentiamo ogni tanto xò”
“Va bene. Stai su, vedrai che presto ti sentirai meglio e il sole tornerà a splendere ;)”
“Si, lo spero. Grazie cmq star :)”
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Capitolo 10
*** Epilogo ***


Alleluia alleluia, ultimo capitolo :P nulla da commentare, se non "dannazione, perchè i ratti marten sono così fighi e impossibili da trovare in Italia??"



Era il 9 settembre, e quel giorno era cominciato il nuovo anno scolastico; era un placido pomeriggio, con un clima ancora piuttosto caldo che manteneva vividi i ricordi estivi di tutti, studenti e lavoratori che volenti o nolenti erano costretti a riprendere le loro attività di routine dopo le vacanze. Già gli alberi avevano iniziato a ingiallirsi e le prime foglie cedevano alla forza di gravità, prendendo a formare cuscinetti giallognoli sotto le piante. Il sole era in parte coperto dalle nubi e sulla città una cappa di umidità rendeva l’aria ferma, anche se non soffocante come avveniva durante i mesi più caldi. Il ragazzo stava percorrendo una strada che sarebbe stata deserta se non fosse stato per una vecchia signora che portava a spasso un carlino nero; avanzava lentamente, quasi con circospezione, chiedendosi se quello che stava per fare sarebbe stata la cosa giusta: aveva paura di rivedere l’amico, non sapeva come avrebbe reagito. Aveva il timore che sarebbe stato respinto, ma sentiva che toccava a lui fare il primo passo per riprendere i contatti. Si fermò con indecisione a fissare una casa color salmone dall’altra parte della strada, restio ad attraversarla, e guardò quella che se non si sbagliava doveva essere la finestra della camera del suo amico: era aperta, per cui era probabile che fosse in casa. Una parte di lui aveva sperato che fosse assente, quindi dovette farsi coraggio per attraversare la strada e raggiungere il marciapiede di fronte. Non dovette, però, fare il grande sforzo di suonare il campanello: quando era lontano ancora una decina di metri dal cancello del condominio, sentì dei passi e, non molti secondi dopo, apparve proprio la persona che era venuto a cercare. Sobbalzò e, sentendosi ancora impreparato, si nascose dietro a una macchina parcheggiata. Dante gli apparì uguale a come l’aveva visto quella mattina a scuola, più grosso e coi capelli un po’ più lunghi rispetto a com’era l’ultima volta che si erano parlati; era palesemente cresciuto durante quei tre mesi, anche se da lontano non era in grado di quantificare. Indossava una maglietta rossa, non una delle solite t-shirt di bande metal a lui sconosciute, e sulla spalla aveva il suo ratto nero, quello che doveva avere il nome di Geko. Prese coraggio, fece un profondo respiro e mentre il ragazzo si avviava verso la parte opposta di quella dove lui era nascosto lo raggiunse, trotterellandogli dietro. «…Dante!» lo chiamò, affinché si fermasse. Udendo il suo nome l’altro si girò, facendosi scappare un’esclamazione di sorpresa quando individuò chi l’aveva chiamato. «Virgilio…ciao.» borbottò arrestandosi. Ecco, non doveva essere felice di rivederlo. Aveva preso uno sguardo quasi truce.
«C-ciao.» balbettò Virgilio, cercando di ricordarsi come aveva deciso di iniziare la conversazione. Non se lo ricordò, e la prima cosa che gli venne da fare fu chiedere all’altro come stava.
«Mah, non c’è male.» rispose Dante scrollando le spalle.
«T-ti disturbo? Stai andando da qualche parte?».
«Stavo solo andando in un parchetto qui vicino. Ci vado spesso quando non ho nulla da fare.».
Diavolo se era cresciuto. In tre mesi si era alzato di qualcosa come quindici centimetri; ora era alto circa come lui, anzi, forse addirittura un paio di centimetri in più. Ma proprio un paio, eh, non di più. L’avrebbe raggiunto e superato di nuovo un giorno, eccheccavolo!
«Senti…ti rompe se vengo anch’io? Vorrei parlarti un attimo…».
«…sì, va bene.».
Anche la sua voce era cambiata, era più profonda. Sul collo e sul mento aveva i primi accenni di barba, e anche i baffi e le basette gli si stavano scurendo. Le spalle gli si erano allargate e il volto aveva lineamenti meno morbidi. Finalmente dimostrava la sua vera età, e diavolo se la dimostrava bene! Virgilio non poté non notare che si stava facendo un bel ragazzo.
«Oh…ma io credevo che fosse il tuo ratto nero, invece è un altro.» disse per togliersi l’imbarazzo e prendere tempo, notando che l’animale non era Geko, mentre ricominciavano a camminare. «Ha gli occhi rossi! È il ratto che volevi, giusto? Non ricordo come si chiama…».
«Un Marten, sì. O Red Eyed Devil. Ma è l’unico che ho adesso, in verità.».
«Eh…? L’unico? Perché, che fine hanno fatto gli altri??».
«Li ho dati via. Venduti o regalati. A fine giugno mi è morto Dante. Era vecchio…aveva tipo due anni e nove mesi, è difficile che superino i tre…ma ci sono rimasto così male che non ho più avuto la forza di occuparmi degli altri, e piuttosto che occuparmene male…ho preferito darli via…».
«Mi dispiace…e quindi hai tenuto solo lui?».
«No. Li avevo dati via tutti. Questo qui me l’ha regalato una mia amica olandese quest’estate, quando sono andato a trovarla…sapeva che ne volevo uno e non sapeva che avevo smesso da poco di allevarli, me l’aveva preso per farmi una sorpresa e a quel punto non potevo rifiutarlo. Mi dispiace per lui, ma dovrà stare solo. Non ho proprio voglia di prenderne altri, al momento…».
«Non ti sei ancora ripreso dal lutto…? E come si chiama lui allora?».
«Mpf…potresti immaginarlo, in realtà…».
«Mh??».
«…lascia stare…».
«N-no, dimmi…!».
«Arrivaci.».
Oh, non che Virgilio non ci fosse arrivato. C’era arrivato subito. È solo che se avesse ammesso d’aver capito, dopo avrebbe dovuto affrontare l’argomento per cui era venuto a parlargli, e ancora non se la sentiva. Stette zitto finché non raggiunsero il parchetto, il solito parchetto di Dante con le porte da calcio senza rete, le panchine marce e il tiglio imboscato, verso il quale si diressero.
«…sì…lo so che devo averti fatto star male.» iniziò Virgilio una volta che ebbe raccolto il coraggio.
«”Fatto star male”? Virgilio, mi ci sono voluti due mesi per sopprimere la delusione e smetterla di piangere prima di addormentarmi.».
«M-mi dispiace…io, io-».
«Siediti.».
«Eh?».
«Siediti. Ci fermiamo qui.». Dante indicò la base del tiglio dov’era solito sedersi e attese che l’altro ebbe eseguito il suo ordine prima di imitarlo. «Ogni giorno ti pensavo e mi mancavi. E mi davo la colpa, ripetendomi più e più volte che ero stato stupido, che avevo rovinato la nostra amicizia con un solo gesto, che quella sera mi sarei dovuto controllare invece di buttare tutto a puttane, perché più che il tuo amore quello che mi mancava era la tua amicizia, il non poterti più vedere.».
«Anch’io ti-».
«E per quanto riguarda il resto…non posso vedere il mio cuore per cui non so dirti in quante parti si è spezzato, ma posso sentirlo e ti dico con sicurezza che ancora non sono riuscito a raccoglierle tutte. Ma quello…beh, in fondo non è colpa tua. Non posso pretendere di piacerti. Ho visto fin da subito che non sarei mai potuto piacerti, se ti piacciono quelli come quell’Emanuele ti so dire quante possibilità avevo…ma adesso perché, perché ti fai rivedere? Ero appena riuscito a rimettermi in piedi e spunti fuori dicendomi “so di averti fatto star male e gne gne gne”, che è, vuoi prendermi in giro?!».
«Dante, non hai pensato che se sono venuto a cercarti non è per prendermi gioco di quello che provi?!».
Dante ridacchiò sarcasticamente, ghignando: «Ohohoh, cos’è? Vuoi chiedermi scusa? Non devi chiedermi scusa, non hai colpe se io sto male, ma ti prego almeno di lasciarmi in pace e di non farti vedere da me! Abbi un minimo di di di, di sensibilità, ecco!».
«Sì che ti chiedo scusa, invece. Ti chiedo scusa perché potevo evitarti tutta questa sofferenza.».
«E come, sentiamo?».
«…Dante…tu mi piacevi.».
«Cos-??».
«Sì! Mi piacevi! Il fatto è che…mi piaceva anche Ema.». Virgilio sospirò, si passò le mani sugli occhi e poi riprese: «Ema mi piaceva dal maggio dell’anno scorso. L’avevo notato all’ultima assemblea d’istituto, ed era stato un colpo di fulmine. Non avevo motivi per farmelo piacere, a parte il fatto che fosse bello, bello, bello, e non sapevo assolutamente come avvicinarlo, anche perché in queste cose sono timidissimo e impacciato tanto quanto una foca nella foresta pluviale. Hai visto tu stesso, non so come muovermi. Quando ti ho conosciuto…mi hai subito colpito, infatti se ricordi sono venuto a cercarti a scuola il lunedì dopo che ci siamo conosciuti. Insomma, un giorno ti vedo assieme a metallari cerca-rogne e un altro ti trovo in discoteca…era curioso. E più approfondivamo la conoscenza più mi affezionavo a te, finché non mi sono accorto che forse l’affetto che sentivo significava qualcosa. Ma era diverso da quello che sentivo per Ema. Lui, se ci pensavo mi faceva palpitare il cuore, tremare le gambe, vederlo mi faceva arrossire e mi seccava la gola. Per te era un affetto quasi fraterno, era un sentimento più calmo ma più intimo, più difficile da comprendere. Essendo meno forte a livello fisico, ho iniziato ad aver paura che mi stessi piacendo solo perché non potevo avere Ema. Per rimpiazzarlo. E quando, quella sera…mi hai baciato…beh, a parte che mi hai preso proprio di sorpresa perché non avevo affatto capito di piacerti, non sospettavo nulla. Ma non ho voluto usarti. Non volevo rischiare di mettermi con te solo per consolarmi.».
«…d-dici davvero?». Dante stava tremando.
«Davvero. Sapevo che avresti sofferto, ma…era meglio farti soffrire così che darti false speranze prima per far finire la storia poco dopo.».
«…».
«Ma sono stato io a essere stupido. Una settimana dopo già non stavo più male per Ema. Era tutto fumo e niente arrosto, evidentemente. Ma ho iniziato a pentirmi di aver buttato via l’occasione di stare con te.».
Dante non riusciva più a parlare. Batteva i denti dall’emozione e aveva gli occhi lucidi; sembrava quasi che fosse tornato ad avere il faccino da dodicenne di pochi mesi prima, aveva le guance color porpora e le labbra serrate, sottili. Guardava il ratto che aveva in grembo senza vederlo.
«So che chiederti un’altra possibilità è chiederti troppo. Ma volevo perlomeno che lo sapessi. Non so se è il caso di tornare a essere amici, a questo punto…hai ragione tu, è meglio se non mi faccio più vedere, è più semplice e rispettoso nei confronti di entrambi.». Sentendo  questa frase, Dante afferrò il polso di Virgilio e scosse forte forte la testa. «Perché dovremmo essere così stupidi? Perché dovremmo farci del male da soli?» chiese poi, con tono disperato. «Siamo qui, siamo insieme, vogliamo entrambi la stessa cosa! Che senso ha lasciar perdere??».
«…Dante, io credevo che tu non volessi più sape-». Virgilio non riuscì a terminare la frase: Dante l’aveva preso per la maglia e con uno strattone l’aveva fatto praticamente cadere su di sé, chiudendogli la bocca con un bacio, il secondo, che stavolta non venne rifiutato, ma anzi accolto con calore. Una volta che le loro bocche si furono separate Virgilio fece per tornare seduto, con l’intenzione di continuare il discorso, ma Dante lo trattenne e gli fece intendere che non aveva intenzione di proseguire la conversazione: le parole rovinano solo certi momenti, quando sono di troppo; e allora si diedero un altro bacio, poi un altro, e un altro ancora, e finirono per darsene così tanti che quando si divisero avevano le labbra screpolate. Ai baci si aggiunsero le carezze, e con le carezze i sospiri e i brividi, in un climax di piacere che avevano entrambi atteso per mesi, ignari uno del desiderio dell’altro. Una piccola felicità si creò in quel parco abbandonato e squallido, che ai loro occhi divenne improvvisamente il luogo più bello e piacevole del mondo.
Mentre tutto ciò succedeva, il Marten di nome Virgilio prendeva e, completamente dimenticato, scappava via.

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