Verba

di MyShadow19
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fortuna ***
Capitolo 2: *** Mausoleo ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Ara Verborum ***
Capitolo 5: *** Nome ***
Capitolo 6: *** Debolezza ***
Capitolo 7: *** Onore ***
Capitolo 8: *** Nulla ***
Capitolo 9: *** Empatia ***
Capitolo 10: *** Fuoco ***
Capitolo 11: *** Dolore ***
Capitolo 12: *** No ***
Capitolo 13: *** Ara Silentii ***
Capitolo 14: *** Ti voglio bene ***



Capitolo 1
*** Fortuna ***


Avanza Kadas per le scale rocciose dell’alta torre, pestando passo dopo passo gli scricchiolanti scalini. Impugna al contrario i suoi lunghi pugnali dall’elsa dorata, e impugna uno sguardo che perfora una tenebra più cupa di ogni torcia. Avanza Kadas trasportando le pieghe di un lurido mantello, gli squarci di un logoro cappuccio, a pretendere di coprirgli il corpo smunto. Avanza Kadas, vantando la leggiadra magrezza di un guerriero vinto dalla fatica di mille battaglie. Le sue iridi vendono onore all’umido cunicolo che inerme ha assistito all’avanzare indisturbato dei muschi che lo ricoprono, i suoi zigomi pronunciati esprimono quanto le sue labbra ormai incapaci di sorridere vorrebbero e non possono. Anche il metallo del suo cuoio borchiato è incapace di proteggerlo più di quanto la sua sola presenza già non faccia, anche i suoi stivali leggeri non l’aiutano a salire più di quanto il peso opprimente della sua anima ingrigita già non faccia.
E così avanza, impugnando i lunghi pugnali al contrario, fino alla porta d’ebano. Uno stridio, quasi un gemito accompagna l’apertura della fastosa porta, aperta con il pugno chiuso dalla morsa impenetrabile di Kadas Luthfelt.
  • Trascini ancora, dietro al tuo stanco avanzare, le grinze sudice di quel mantello, Kadas?
Voce grave di un uomo possente, che rimbomba nel cavernoso cunicolo della torre. Grandi le spalle, corti i capelli, non più minaccioso il suo sguardo delle sue braccia, non più spaventoso il suo ghigno della sua inumana stazza.
Senza parole Kadas cessa la sua avanzata, chiudendo le palpebre devastate da una cicatrice a croce che porta nell’eternità il segno di un frammento oscuro del suo passato.
  • Ora come allora silenzioso come la suola dei tuoi stivali, vero? Un uomo come me si chiede quale nobile motivazione spinga uno come te in un posto talmente ignobile.
Non un muscolo della sua figura vitrea e paralizzante si muove dalla posa meditativa in cui è caduto, e tace.
Non sembra avere alcun interesse nel rispondere.
  • Ancora con quel maledetto pendente, Kadas? Non pensi che ormai il suo tempo sia finito? Ogni cosa ha termine, vecchio assassino, non tutto quanto ha la fortuna di abbracciare il tuo medesimo destino.
Le palpebre, pesanti come il vuoto, si sollevano lentamente, e le pupille inquisitrici si spostano verso l’alto, a fissare l’interlocutore.
  • Fortuna?
Dice soltanto, cessando immediatamente il suono della sua voce gracchiante prima di aggiungere altro.
  • Lascia che ti illuda di nuovo, assassino, se vuoi che lo faccia; vai a vedere di nuovo quel pendente, vai a vedere di nuovo la sua fine ultima.
Spostandosi permette la ripresa della mortuaria avanzata di Kadas Luthfelt, che a rilento prosegue nel fetido cunicolo fino a raggiungere una teca costruita col cristallo di mille lacrime infrante. Giace un pendente al suo interno, nero come l’abisso. La mano rattrappita dell’assassino rimuove la teca, e afferra il pendente come a volerne assorbire ogni residuato di vita. Tuttavia, pare esserne privo.
  • Non pensi sia ormai il caso di arrendersi, Kadas? Perché ti ostini orsù?
Abbandonando nuovamente il pendente nel suo alloggio, lascia che il cristallo lo ricopra, e voltandosi inizia a fare ritorno nei suoi passi allo stesso cadenzato ritmo. E’ tempo di chiudere la porta d’ebano: nulla che si trovi dietro di essa desta interesse, Marcus compreso. E’ tempo di chiuderla, arriverà di nuovo il tempo di aprirla.
  • Sta volta non ti lascerò andare, assassino. Voglio la parola d’onore, non ritornerai in questo triste luogo.
La parola d’onore sancisce la irrimediabile inviolabilità di qualsiasi contratto verbale, o il corpo e l’anima si piegheranno sotto il peso del tempo così come qualsiasi creatura mortale abbia ricevuto il dono della vita. Immortale è soltanto chi mai, nel corso della propria esistenza, è venuto meno a questo nobile patto.
Kadas avanza, posando il suo peso sugli scricchiolanti gradini.
  • Kadas, ti intimo di fermarti subito, prima che debba costringerti a farlo.
Di nuovo la voce gracchiante, come provenisse dalle viscere del pianeta, proferisce la sua sentenziosa risposta:
  • No.
Inevitabile la reazione di Marcus, che come un leone con una gazzella si fionda affamato verso la sua preda.
Soltanto una parola è la risposta della gazzella, ogni parola è un’evocazione.
  • Morte.
Le zampe del leone spariscono all’interno della criniera e si accuccia, sconvolto dal panico che quell’evocazione ha provocato su di lui. E così, senza neanche voltarsi, la gazzella riprende ad avanzare.

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Capitolo 2
*** Mausoleo ***


Ticchettio dopo ticchettio la grande torre dell’orologio scandisce coi suoi battiti roboanti la camminata lenta di Kadas, battito dopo battito anche il suo cuore si unisce al rumore e genera una risonante sincronia amplificata dall’eco della città gelida. L’umidità pesante evapora sopra la pavimentazione del largo viale e lascia dietro di se un’aura paralizzante che accoglie Kadas nella sua morsa malinconica e confortante. Le abitazioni scassate che delimitano il perimetro del viale sembrano morte prima ancora di essere nate, l’interesse di Kadas mentre il suo occhio stanco si posa su di esse è morto prima ancora di essere nato, chi pretende di proteggersi dalla furia del clima abitandole è morto prima ancora di essere nato. Le sua labbra fredde e spaccate tremano ma le sue mani no, il suo cappuccio malridotto si impregna di condensa ma la sua pelle no, i blocchi di ghiaccio che calpesta si frammentano e si polverizzano ma i suoi stivali no.
In quella notte di morte, soltanto tre entità riescono ad accompagnare la città nel suo gelido tramonto: la solitudine, il freddo e Kadas. Il vento portatore di silenzio si alza alle spalle del morto che cammina mentre osserva la parete che rappresenta il vicolo cieco della sua vita.
 
  •  Mausoleo.
 
L’onda sonora della sua parola, più potente di qualsiasi incantesimo, si propaga e si infrange senza eco sulla parete congelandone il centro vitale. La macchia di ghiaccio si espande abbracciando ogni mattone fino a ricoprirla tutta. Non un muscolo della figura inesistente di Kadas Luthfelt si muove mentre il muro reso fragile cede al proprio peso infrangendosi e precipitando sotto forma di grosse scaglie gelate.
Oltre la parete è una scintillante lastra di ghiaccio, che sfoggia la sua purezza nella sua mancanza di rigonfiamenti e screpolature, cinta da picchi congelati che come colonne di un mausoleo sorreggono la struttura vuota di ogni energia. Un carosello di aspre punte circonda il mare solido e piattissimo non abbastanza vasto per spaventare Kadas. E così il morto che cammina varca la soglia di quella monotona distesa ben conscio di aver dimenticato cos’è la paura molto tempo prima, proprio in quel luogo.
La lastra di ghiaccio si crepa sotto i piedi di Kadas: la sua immacolata perfezione viene penetrata e distrutta dalla assente negatività del morto che cammina. Quando ha camminato abbastanza per raggiungere il centro pone le sue mani dure e rinsecchite sopra ad una bara. Una bara trasparente, purissima, limpida e lucente, liscia e gioiosa, più viva di quanto chi la sta toccando dia dimostrazione di essere. Kadas è vivo, la bara è morta, eppure direbbe che la bara è viva e Kadas è morto.
Dentro alla bara c’è una donna. Una donna bellissima, sorridente: la sua pelle delicata e glabra è ancora rosea come un tempo, le sue guance vive non hanno perso il loro colore così come i suoi capelli dalle tonalità ambrate. Le ciocche mosse sono disposte ordinatamente, alcune lungo le spalle sono raccolte in una treccia spolverata d’oro, altre sopra i seni coprono soavemente il suo corpo nudo. Le mani giacciono intrecciate poco sotto non come quelle di un morto ma come quelle di chi aspetta; muta all’interno del vitreo e gelido involucro non soffre del suo silenzio poiché muta era sempre stata. Kadas la fissa e i suo occhi tremano. Kadas la fissa e le sue labbra tremano, i suoi polsi tremano, le sue spalle tremano, i suoi pugnali tremano, il suo fiato trema, il suo cuore trema, la sua anima trema. Mentre la guarda un fremito anima la sua figura adagiata nello sfondo e spezza la sua proverbiale immobilità. Nulla lascerebbe pensare, continua a ripetersi, che sia morta. Il suo fiato delicato era così leggero da essere libero da ogni percezione, tanto che nessuno potrebbe mai distinguere la sua morte dal suo sonno.
Stringendo il coperchio trasparente con le sue mani contratte alle quali un cadavere ha dato nuova vita, Kadas medita qualche secondo per affrontare di nuovo l’inevitabile.
 
  • Vita.
 
Un dolore lancinante al petto, simile a mille tridenti che lo trafiggono con violenza, lo sbatte in ginocchio, la sua pelle si squarcia come la terra si apre dopo un terremoto, tossisce sangue dopo che la sua tempra si scoglie come si scoglie il burro al sole. Raggomitolato su se stesso cerca di vincere le lusinghe del freddo pavimento mentre le sue urla sono soffocate dal sangue che gorgoglia in gola. Sconfitto dalla sua stessa parola che questa volta sì, è tornata indietro come un eco letale, protende il suo palmo ferito verso l’angelo morto vivo come in cerca di una salvezza. L’angelo morto vivo però è destinato a rimanersene in silenzio, muto ora come allora, ma non più disposto ad elargire le premure che sempre aveva usato. Trascinandosi attraverso la pista gelata fuori dal mausoleo del suo passato riesce a portarsi fuori arrancando, e ricostruisce la parete di mattoni sperando di nuovo che lo tenga lontano dalla sua droga.
 
  • Oblio.
 
Pronuncia, sperando di nuovo che l’oblio lo accompagni all’inizio di una nuova vita. Si rialza e il fremito cessa, le vibrazioni evaporano lasciando di nuovo spazio alla fermezza e all’immobilità. La parete si ricostruisce dagli stessi frammenti ghiacciati in cui si era spezzata. Kadas si allontana a passo lento e la parete si ricostruisce. Per la novecento novantanovesima volta.

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


  • Ricordi.
 
La solenne immobilità del morto che cammina si ripercuote viziosamente nell’etere mentre le grosse lancette dell’orologio, simili a lance, rallentano il proprio corso. Mentre le cornee trasparenti del morto che cammina giacciono spalancate nel tentativo di assorbire la luce fredda della luna attraverso l’oscurità lo sguardo si dirige sulle punte acuminate del tempo che segnano le ore e i minuti. L’orologio della torre piano piano si ferma, le percezioni si fermano, la vita si ferma: la mente di Kadas Luthfelt tenta ancora una volta invano di impedire il fluire in avanti dei secondi per rifugiarsi nel luminoso e confortevole passato. E così con la leggerezza dell’autoillusione il suo corpo si svuota e diviene leggero, si libera del sangue cementificato dal dolore che scorre gelatinoso nel suo corpo e si libra nel vento sollevandosi. Risale la torre volando assieme ai propri ricordi finché, avvicinatosi troppo, il quadrante sfacciato non lo deride con la sua maestosità, ricordandogli che il suo campo visivo non è sufficiente per osservarne i movimenti se non lo si osserva dal basso verso l’alto. Umiliato dal tempo si avvicina all’orologio come Icaro al sole, e la sua poetica leggerezza viene soffocata dallo strozzante susseguirsi degli eventi.
Seduto sulla lancetta la fantasia di Kadas si risveglia, muovendosi tra gli stretti cunicoli dei ricordi, nel tentativo di raggiungere un orizzonte degli eventi dove il tempo che passa non è più in grado di fargli del male. Ma il peso di Kadas, il peso della sua anima, il peso delle sue spalle spigolose, il peso delle sue ginocchia cigolanti, il peso delle sue occhiaie scure, delle sue labbra spaccate e del suo petto scricchiolante fanno scendere la lancetta su cui è seduto; come un grave il suo spirito fa leva sulla lancetta facendo girare gli ingranaggi in senso opposto, e piano piano il pezzo di metallo che ha il privilegio di segnare le ore inizia a scorrere in senso anti-orario….
 
  • Taccuino.
 
Una piuma bianca. Una piuma bianca ora perduta veniva usata per scrivere nel taccuino. Quella che allora era l’unica forma di comunicazione, ora è l’unica fonte di ricordi. Ciò che allora era pragmatico, ora è astratto. Ciò che allora era un’aurora, ora è un tramonto. Ciò che allora era vita, ora è morte.
“Vorrei sapere esprimere a parole ciò che sono costretta a scrivere, Kadas. In un momento in cui il mio corpo distruttore viene a sua volta distrutto, la mia anima guaritrice viene a sua volta guarita. Sei tu a guarirla e vorrei tanto saperlo pronunciare.” Bianco su nero queste parole resistono alla beffa del tempo, impresse molte pagine addietro nel Taccuino di Kadas. Di seguito, nero su bianco, la risposta: “Ciò che ho ricevuto ti darò indietro, Aurora. Ho ricevuto la tua guarigione, e ora te la restituirò. Ho ricevuto il tuo silenzio, e il silenzio ti restituirò. Ciò che tu non puoi dire, io non voglio dire. Il risultato, in ogni caso, è il silenzio e con esso le pagine di questo taccuino.”
Scuote la testa Kadas, senza inerzia, come un’ombra che osserva dell’inchiostro nell’impercettibile sfondo. “Non odiare le parole Kadas. Le parole sono un veicolo neutro delle emozioni: generano odio solo se si pensa odio, generano amore solo se si pensa amore. Il loro compito è tradurre le emozioni, non interpretarle.” Bianco su nero, nero su bianco. “Come mezzo hanno la responsabilità e la colpa di portare l’odio dallo stato primitivo ed embrionale in cui nasce sino a forme più sensibili e complesse. Il tuo corpo è distrutto ed io anziché pronunciare una parola, compirò un gesto.” Le falangi rugose e avvizzite di Kadas si sollevano stanche dal taccuino per permettere agli occhi di scorgere le cicatrici di quel vecchio gesto. “Oh Aurora, so di essere impuro nello sfiorarti, ma non sono riuscito a rimanere indifferente di fronte al tuo corpo violato. Qualsiasi cosa ti sfiori sanguina poiché nulla è più puro di te, ma è proprio perché sono il più impuro tra gli impuri che posso permettermi di sanguinare.”
Kadas raccoglie le proprie mani, nella speranza di ricordare come allora fu Aurora a raccoglierle. “Non devi sanguinare, Kadas. Non sei impuro. Troppo forte il mio corpo, troppo deboli le mie parole; troppo forti le tue parole, troppo debole il tuo corpo. Ma ci sarà sempre comunicazione finché ci sarà la parola d’onore ad unirci. Non avrai bisogno di un corpo forte finché sarai immortale. Per questo voglio farti dono di me, del mio corpo e non della mia anima, poiché quest’ultima deve essere amata e non posseduta. Accetta questo pendente, Kadas, accettalo come affidamento del mio corpo nudo: la sua luce rosa ti ricorderà la mia pelle. La sua purezza ti renderà forte. Quando sarai forte tornerai ad amare le parole.” La risposta di Kadas a quelle parole è poco leggibile: ad ogni lettura due lacrime si posano su di essa distorcendola. La novecento novantanovesima non fa eccezione. “Accetto il tuo dono Aurora, poiché non sono abbastanza impuro da rifiutarlo. Nel tempo infinito dell’immortalità la tua purezza mi darà la forza fisica per tornare a parlare. E ti prometto che affronterò ogni nemico, persino Marcus, per trovare delle vesti in grado di coprirti senza sanguinare. E saranno le mie vesti, saranno intrise del mio calore, della mia luce, del mio corpo, della mia purezza, che avrò trovato, e ti scalderanno, come ora tu scaldi me. Ti darò indietro quello che ho ricevuto, ma non prima di aver cambiato me stesso.”
 
  • Risveglio.
 
Le lancette riprendono a scorrere in senso orario. La tenebra non si è ancora squarciata. Il tempo non si è ancora fermato. Ancora una volta, al sogno è seguito il risveglio.
 
 

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Capitolo 4
*** Ara Verborum ***


Passo dopo passo i gradini crettati dell’alta torre implorano pietà alla possanza di colui che li discende. Prive di segreti sono le tenebre che le torce non riescono ad illuminare, privi di resistenza sono i passamano la cui struttura non sorregge la mano pesante, privo di senso è quel mastio senza il suo guardiano in vetta per darglielo. E così scende, Marcus, gli scricchiolanti scalini fino a scorgere il valico che conduce all’ostile clima del mondo esterno.
La delicatezza del vuoto guida le mani di Kadas durante la sua discesa. Appiglio dopo appiglio la verticale precipitazione del peso morto della sua malinconia viene prevenuta dalla solida risposta che l’affidabile architettura della torre fornisce. Piene di segreti sono le tenebre che la luna riesce a schiarire, pieni di resistenza sono i mattoni che sorreggono gli arti avvizziti, pieno di sé è quel mastio senza il suo ricorrente visitatore in vetta per sfidarlo. E così scala in discesa, Kadas, le pietre della parete fino ad imbattersi nel valico che conduce all’ostile tensione dell’ambiente interno.
Una sola porta di ebano scuro come la notte impedisce lo scontro numero mille del leone e dell’assassino. E mentre la mano possente si contende i cardini con la mano avvizzita, sia il leone che l’assassino rivedono nelle pieghe del legno lo scontro numero uno, che riemerge dai vortici del passato attraverso l’immaginazione…
 
  • Ara Verborum.
 
L’onda sonora della sua parola, più potente di qualsiasi incantesimo, si propagò e si infranse senza eco sulla parete congelandone il centro vitale. La macchia di ghiaccio si espanse abbracciando ogni mattone fino a ricoprirla tutta. Non un muscolo della figura attraente di Kadas Luthfelt rimase immobile mentre il muro reso fragile cedeva al proprio peso infrangendosi e precipitando sotto forma di grosse scaglie gelate.
 
  • In questo luogo ti è concesso di parlare; la maledizione dell’Ara Verborum che congela e sterilizza ogni parola è per te una benedizione, amico mio.
 
Blu elettrico gli occhi magnetici del giovane moro dalla pelle color terra; né corta né lunga la liscia e scalata capigliatura dal taglio deciso, né regale né umile il mantello corvino satinato, né pesante né fragile il cuoio borchiato scintillante come un cielo stellato. Arguti ed agili gli stivali, affilati e taglienti i pugnali ondulati, rassicuranti e seducenti le labbra limpide.
 
  • Ho combattuto troppe battaglie per non sapere che l’unica immortalità è quella dello spirito. La tua stazza scultorea non ti permetterà di ritrovare te stesso una volta che avrai compiuto così tanti illeciti da rendere la tua anima uno straccio sporco.
 
Non altrettanto attraente era il giovane castano, ma ben più alto, ben più massiccio, ben più virile. La sottile delicatezza dei lineamenti androgini dell’altro era di ben poco conto di fronte alle linee spezzate del più prestante corpo maschile. La potenza muscolare del giovane castano sorreggeva glutei definiti, ampi pettorali e quadricipiti evidenti. La sicurezza di sé accompagnava il senso di protezione che quel fisico senza avversari riusciva a trasmettere. Privo di parti molli ogni centimetro era rigido ed imperturbabile come un pilastro a cui ci si poteva sempre appoggiare. Il giovane moro invece indossava sempre un’armatura per coprirsi; nessuno aveva mai avuto la fortuna di osservarne il fisico.
 
  • Un uomo senz’anima è un uomo morto, son d’accordo. Ma un uomo senza corpo cos’è? Nulla, soltanto un ricordo o una presenza aleggiante. Il corpo permette di esistere e pertanto l’immortalità è quella del corpo. E che rimanga di me soltanto il cadavere, se necessario, ma il mio cadavere esisterà sempre. Tu esisterai, Kadas, pur avendo la tua anima, quando avrai perso il tuo corpo? No, non esisterai.
 
Dinnanzi ai due giovani si apriva uno sterile cortile di marmo cinto da un colonnato dalla forma circolare. La vastità di quello spiazzo grigio suggeriva somma impotenza e somma neutralità. Tutto ciò che veniva pronunciato tra gli echi di quel luogo vuoto perdeva di importanza e di efficacia fino a che non ne fosse rimasto che vapore. Indifferente allo spazio, al tempo ed al destino giaceva uguale a se stesso, quel luogo caldo ma emotivamente gelido, mentre tentava di opprimerti con il carosello delle sue inutili quanto solenni colonne. Soltanto al centro un altare spezzava la monotonia e la non esistenza di quel luogo, a cui i due giovani si avvicinavano piano piano non senza paura. Sull’altare la statua di una donna senza vestiti con le braccia aperte a sottolineare accoglienza attendeva i visitatori le cui parole erano state abbastanza potenti da far cedere la parete col proprio spasmo. Con un ghigno incalzante il giovane castano ostentava la sua sicurezza cercando di insinuarsi tra le pieghe della mente del timido giovane moro.
 
  • Vedremo ora, dunque, se la tua spavalderia riuscirà a vincere il contenzioso col tuo imbarazzo Kadas. Per risvegliare Angelus Verborum occorre mostrare il proprio petto. Riuscirai a sottoporti al giudizio che scaturisce dallo sguardo di una donna, che non può leggere nello spirito tanto rapidamente quanto può osservare un fisico?
 
Nervosamente le mani si mescolano, nervosamente il respiro si affanna, nervosamente gli sguardi si spargono, nervosamente i tremiti si amplificano. La sicurezza del giovane castano trasmetteva inquietudine anziché protezione, stavolta; la paura del giovane moro trasmetteva inferiorità anziché rispetto, stavolta. Quando all’ansia seguì l’orgoglio, il giovane moro fece valere la propria superiorità spirituale così come il giovane castano stava facendo valere la propria superiorità fisica.
 
  • Proprio tu mi hai insegnato che due modi esistono per ottenere l’immortalità. Tramite lo spirito se si abbrutisce il corpo, rispettando sempre la parola d’onore; tramite il corpo se si abbrutisce lo spirito, violentando Angelus Verborum fonte di perfezione. Averti accompagnato in questo luogo freddo non è utile a chi, come me, non ha alcun interesse sull’immortalità del corpo. Ma mi spettorerò comunque, Marcus, perché nel farlo mostrerò onore e con esso mostrerò il mio spirito.
 
Le mani si mossero a slacciare lentamente l’armatura e gli occhi blu le fissavano. L’insicurezza assieme ad una goccia di sudore si faceva strada sempre più giù, accompagnando lo sfilarsi delle vesti. L’ultimo abito che cadde a terra permise di vedere un petto liscio nonostante le cicatrici. L’ultimo abito che cadde a terra permise alle mani delicate del giovane moro di sfiorare i propri addominali asciutti ed accennati. Nell’osservare la sua muscolatura forte ma addolcita da linee curve, le sue forme stabili ma sinuose, il suo petto eretto ma raffinato le sue ansie scivolavano via assieme alla goccia di sudore. E le sue ansie scendevano come un brivido lungo la sua spina dorsale; e la goccia scendeva come un fremito attraverso i suoi pettorali. Con quel brivido aveva riscaldato il suo spirito, con quel fremito aveva conquistato il suo onore. Carico di una nuova consapevolezza, carico della possibilità di parlare influenzando solo se stesso, carico di saggezza, osò dire:
 
  • Marcus, ora so perché averti accompagnato qua mi sarà utile. Tu non compirai violenza su Angelus Verborum. Do la mia parola d’onore.

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Capitolo 5
*** Nome ***


Come un fiore coraggioso che sboccia attraverso la neve, come una farfalla temeraria che fuoriesce da una crisalide di ghiaccio, l’involucro di pietra della statua si congelò e si sbriciolò facendo uscire una leggiadra figura femminile. Leggiadro e delicato il suo passo, leggiadre e delicate le sue labbra, leggiadro e delicato il suo sguardo che si apre lentamente. Attraente ed inviolabile sfoggiò il suo sorriso e riuscì a prendere parola malgrado il proprio stupore. Desiderabile e perfetta attese passivamente la prima mossa degli impavidi visitatori. Conturbante e proibita si arrese al destino di costrizione a cui era legata.

-    Avete dischiuso Angelus Verborum, l’incarnazione della perfezione del corpo. Sono ben conscia del motivo della vostra visita, in quanto sono ben conscia del mio ruolo. Il mio ruolo è sostanzialmente ribellarmi al mio ruolo stesso, affinché voi abbiate la vostra battaglia nel conquistarmi. Ma prima di non lasciarmi prendere, ditemi alcune parole, vi prego. Desidero una vostra frase, in quanto io amo le parole e all’infuori di qui ed ora non posso pronunciarne.

La voce della farfalla, a malapena udibile, si muoveva come un leggero sibilo attraverso l’etere, primordiale come il vento che vibra tagliato dalle linee spezzate di un organo di ghiaccio. Quella soave brezza tonale si propagava unica ed irripetibile sino ai timpani dei due uomini in ascolto, cullandoli. Nulla di mortale possedeva quella voce, nulla di mortale possedeva quella pelle, nulla di mortale possedeva quella donna. Incantati ed estraniati più dal significante che dal significato delle sue parole, Marcus e Kadas si sforzavano nel faticoso tentativo di cogliere il messaggio.
Dalla punta dei piedi sino alla cima del capo Marcus squadrò Angelus Verborum, affogando nell’oceano di piacere che osservare i suoi fianchi, i suoi capelli ed i suoi seni accoglienti provocava in lui. La bramosia e la lussuria si riflettevano nello specchio dei suoi occhi. Il desiderio di ottenere ed il desiderio di provare piacere nell’ottenerlo significavano per lui bramosia e lussuria. L’immortalità del corpo al prezzo dello spirito, violando la purezza.
Soltanto i suoi occhi fissava Kadas, affogando nell’oceano di misticismo che osservare le sue iridi luminose ma non accecanti provocava in lui. La saggezza e l’amore si leggevano tra le pieghe tremanti delle sue labbra. Il desiderio di migliorare ed il desiderio di innamorarsi migliorando significavano per lui saggezza e amore. L’immortalità dello spirito a prezzo del corpo, rispettando la parola d’onore.
Per primo Marcus pronunciò il suo discorso e lo iniziò con una menzogna:

-    Piegati, Angelo, poiché mie furono le parole abbastanza forti da spalancare le porte dell’Ara Verborum. Mio è lo spirito che ha sottomesso questo luogo e sono disposto a sacrificarlo interamente per poter esistere in eterno, preservando il mio corpo. La tua purezza appartiene a chi ti vince ed io ti ho conquistato; dunque ribadisco piegati Angelo, poiché non sarà facile resistermi.

Per secondo parlò invece Kadas, iniziando dopo molto silenzio ed altrettanta esitazione.

-    Qual è il vostro nome?

Disse soltanto. Qual è il vostro nome? Furono le sue uniche parole. Cinque parole composero il suo discorso. Un discorso che pretendeva di essere complesso in sole cinque parole, riuscendovi. Gli occhi incantevoli che sino a quel momento Kadas aveva rimirato, iniziarono a rimirare Kadas. Accecati, folgorati, scottati, sconvolti da quella domanda, gli occhi; accecata, folgorata, scottata, sconvolta da quello spirito, lei. Dovette scavare tra i più reconditi anfratti della sua millenaria memoria per rispondere a quella domanda che nessuno prima aveva osato porre. Dopo aver scavato molto parlò ancora, poiché quel ragazzo moro meritava una risposta.

-    Aurora.

Disse con altrettanta brevità e forza.
La presenza possente di Marcus spezzò l’incantevole atmosfera infangandola con uno sputo di riprovevole materialismo: grugnì, sogghignò, e disse:

-    Aspettavo il giorno in cui la nostra rivalità sarebbe diventata inimicizia, Kadas. Ebbene io spianerò qualsiasi ostacolo che si frapporrà tra me e l’immortalità del corpo. La tua domanda è futile, amico mio: quella donna non ha un nome, quella donna è solo la mia preda. Un nome si dà alle cose che brillano di luce propria. Ai mondi si danno nomi in base alle loro stelle, agli attori si danno nomi in base ai personaggi che interpretano. Ebbene il suo nome è il mio, perché lei vivrà del mio riflesso una volta che l’avrò battuta. Batterò lei… e batterò te, Kadas.

Kadas, sospirando, estrasse i suoi pugnali ondulati, reduci di tante battaglie, ma a lungo riposti.

-    Ti sto attendendo, nemico mio. Hai ragione, me la sono cercata, ma questa è per me qualcosa di ben più aulico che la lotta territoriale per una femmina.

Esitò qualche istante, per assaporare i propri pensieri, prima di pronunciarli.

-    Ma forse non puoi capire.

Aggiunse.

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Capitolo 6
*** Debolezza ***


Come un cinghiale affamato si getta in carica per atterrare la preda con la cui carne sfamarsi, Marcus caricò Kadas tenendosi il pugno e proiettando in avanti il gomito. Pieno controllo di ogni muscolo aveva Kadas mentre traendo un lento respiro raccoglieva la concentrazione: come se null’altro che se stesso ed il suo avversario fosse rimasto in quel luogo. Lento e preciso l’assassino si abbassò ondeggiando; sinuoso e dinamico molleggiò sugli arti inferiori; agile e cinetico evitò il gomito passandovi sotto. Un’ampia semicirconferenza fece il pugnale ondulato impugnato al contrario prima di tagliare la schiena del leone appena schivato. Un getto di sangue, doloroso ma non letale, impregnò l’aria dell’odore del ferro, nebulizzandola. Il leone ruggì e si voltò. L’assassino espirò e si fermò. L’angelo tremò e chiuse gli occhi. Sul marmo resistente il leone batté i piedi raccogliendo la propria forza. Nel marmo resistente affondò il suo pugno spaccandolo con gran fragore. Un urlo scomposto accompagnava il rumore del pavimento che si spaccava. L’assassino fu colto da paura: agile e preciso era lui, ma più forte, più veloce, migliore era il suo avversario. Conscio del suo destino si allontanò, preparandosi ad usare la sua arma più potente, l’arma del suo spirito: la parola. Due spicchi di marmo appuntiti divennero la spada e lo scudo del leone: resosi conto di aver sottovalutato il proprio avversario sfidò il limiti del proprio corpo maschile perfetto. Il leone divenne così velocissimo, fortissimo, mortale. I quadricipiti delle gambe, dotati di grande reattività e di grande spinta, propellevano il pesante corpo abbastanza velocemente per cui i bicipiti delle braccia, dotati di grande resistenza e di grande impatto, si trasformavano in una macchina d’assedio mentre impugnavano il marmo spezzato del terreno. In un baleno il leone fu abbastanza vicino all’assassino, in un baleno l’assassino si trovò in una situazione tale che nessun agile movimento gli avrebbe permesso di uscire dalla portata del leone. Schiarì la voce e con veemenza pronunciò:
 
  • Debolezza.
 
Ma nessun effetto sortì la sua parola. Appena pronunciata si congelò nell’indifferenza e si infranse. Travolto dal peso del marmo grigio, che aveva reso la sua parola inefficace e aveva travolto il suo corpo gracile, fu gettato per terra a coprire il suo stesso sangue.
 
  • E’ stata la forza dell’abitudine a renderti vittima Kadas? In questo luogo non c’è comunicazione, non ci sono esseri viventi, non c’è interesse. Qui le parole non hanno alcun effetto. Qui il tuo potere è inutile. Come pensi di aver potuto parlare con somma serenità sin’ora?
 
Troppo ferito, nello spirito e nel corpo, per poter parlare di nuovo, Kadas gemette nella speranza di espiare il suo dolore attraverso quel suono.
 
  • E’ la prova di quanto ti dicevo, Kadas. Tu hai solo il tuo spirito: in questo luogo lo spirito non conta, quindi tu non esisti. Nel momento in cui le tue parole distruttrici ti hanno abbandonato, il tuo corpo non ha saputo sorreggerti. Nell’Ara Verborum, il tempio del corpo perfetto, sono io il vincitore. E l’avevo pianificato.
 
La serietà nel volto di Marcus divenne soddisfazione. La soddisfazione nel volto di Marcus divenne godimento. Il godimento nel volto di Marcus divenne appagamento. Non fu difficile per Aurora doversi ribellare: il suo stesso istinto anziché il suo senso del dovere, per la prima volta, le suggerivano di farlo.
Come aveva egli stesso annunciato, tuttavia, nulla avrebbe fermato il leone affamato dinnanzi alla sua preda. E nulla lo fermò. Al limite tra senso di colpa ed incoscienza Kadas osservava inerme colui che un tempo era suo amico entrare nella purezza di Angelus Verborum, protendendo il braccio nell’estremo tentativo di impedire ciò che stava accadendo. Ben presto Kadas si trovò a lottare per la sua stessa vita, messa duramente alla prova nello stesso istante in cui la sua parola d’onore veniva violata. Non più immortale e gravemente ferito il tramonto dell’assassino era sempre più vicino. Aveva appena finito di nutrirsi quando Marcus iniziò a massaggiare i propri muscoli, saggiando la sua nuova immortalità corporea, accarezzando il proprio ventre stentoreo ancora pervaso dal piacere, leccandosi le sue labbra lussuriose ancora intrise di sapore. Compiacente di sé ridacchiava e faceva esercizi fisici mentre usciva dall’Ara Verborum come un conquistatore dopo aver piazzato la propria bandiera.
Tra le ombre del crepuscolo, quando ormai neppure il fiato gli rimaneva per esprimere le sue ultime volontà, gorgogliando nel sangue, Kadas riuscì a sussurrare:
 
  • Mi dispiace…
 
Con determinazione a quelle parole Aurora si alzò, si ripulì, e fece di nuovo uso della sua rara voce per gratificare i meriti di un raro spirito.
 
  • Nutrirti di me una sola volta non ti basterà per affrontare l’eternità, Marcus. Dovrai nutrirti di me, a tua scelta del mio corpo o del mio spirito, fino a quando non sarò avvizzita in un caso o morta nell’altro. Per questo io voglio venire con te.
 
La parola “voglio” fu pronunciata con una voce diversa: una voce sonora, massiccia, coraggiosa. Una voce non mistica, non solenne, non pura, non elevata… una voce innamorata. Kadas colse l’amore nella parola “voglio” e moribondo elaborò le conclusioni della sua vita. Le conclusioni erano che lo spirito è nobile, sì, ma è inconcludente; il mondo è fatto di oggetti materiali ed il corpo, incarnazione materiale che si muove in un mondo materiale, è destinato ad ottenere più risultati dello spirito, un’entità astratta senza manifestazioni che non esiste, in fin dei conti, che dentro di lui.
Appresa questa lezione, decise di abbandonarsi alle braccia di sorella morte.

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Capitolo 7
*** Onore ***


Si fermò sulla soglia il leone, tempestivo appena udì le parole dell’angelo.
Aveva le mani chiuse, per nascondere gli squarci nei palmi. Aveva voltato le terga, per nascondere il sangue all’inguine. Aveva fatto sfoggio di un viso soddisfatto, per nascondere le smorfie di dolore.
Ma aveva la pelle smunta: questo il leone non poteva celarlo.
Alla notizia che aver giaciuto una sola volta non sarebbe bastato, la sacrificata grande vittoria del leone divenne un futile piccolo passo verso l’inarrivabile. I danneggiamenti che il suo bacino, colpo dopo colpo, aveva subito come estrema punizione per aver non solo sfiorato, ma addirittura violato, Angelus Verborum, erano stati prima adombrati dal suo trionfo; adesso il carro degli onori aveva perso le sue ruote e anche il più umile dei plebei poteva avvicinarsi per notare le sue gravi ammaccature.
L’umiliazione della sconfitta, per il feroce leone, era resa ancor più insopportabile dalla sensazione di non essere all’altezza. Sarebbe voluto morire, in quel momento, rinunciando alla sua vita assieme alla sua virilità ma decise di non farsi vincere dalla fretta e, pieno di rancore, sibilò:
 
  • La tua pelle ha distrutto il mio seme, Angelus Verborum, ma ho succhiato abbastanza della tua purezza da guarire in fretta; guarirò e verrò a prenderti, stanne certa. Il mio corpo diventerà sempre più resistente dopo ogni notte di sesso, cosicché potrò sopportarne una ulteriore prima di dover rimarginare le mie ferite; col tempo potrò servirmi di te per mesi senza interrompermi e allora avrai un tracollo vertiginoso. Mi hai posto in alternativa di potermi nutrire della tua purezza facendoti avvizzire da viva o facendoti morire, abbrutendo il corpo nel primo caso e lo spirito nel secondo. Ebbene per rifarmi dell’umiliazione che mi hai servito oggi ho deciso che abbrutirò il tuo spirito, cosicché tu possa rimanere bella per compiacermi fino al secondo prima di morire definitivamente. Il tuo debole paladino ha violato la parola d’onore ed ha subito ferite fatali, per cui non ci sarà a difenderti quando tornerò. Ti pentirai di essere nata, lo giuro sull’onore che mi rimane.
 
Piene di odio le parole del leone, come una tormenta nera che nasce nello stomaco e turbina salendo controcorrente finché nella bocca esplode, sfogando il peso di ogni rancore. I pugni di Marcus stretti forte per la rabbia laceravano ancor di più i palmi, che gocciavano sangue impuro scandendo i secondi. Quando la sensazione di ira lo abbandonò abbastanza da poter riprendere il controllo di sé, uscì dall’Ara Verborum a passi decisi.
Aurora lo osservò uscire e poi guardò il suo sangue caduto a terra evaporare, respinto dal negligente suolo del tempio della grigia indifferenza. I suo occhi tradivano sensi di colpa e compassione, poiché nulla aveva fatto per lenire l’odio feroce e l’avidità insaziabile di cui Marcus si rendeva costantemente vittima. Pronta a farsi usare come oggetto del sommo desiderio pur di riportare la pace nel suo cuore, decise però di occuparsi prima del moribondo Kadas, il quale aveva totalmente frainteso le intenzioni della donna.
Si chinò sopra al corpo moribondo di Kadas, avvicinò le sue braccia, i suoi seni, le sue gambe e la sua bocca a lui, abbastanza vicino da trasmettergli il suo calore, ma non abbastanza da fargli del male toccandolo. E così, cullato da questo sensuale tepore, il corpo di Kadas si ristabilì abbastanza da potergli permettere di parlare ancora. Avrebbe voluto trasmettergli il suo calore abbracciandolo, ma ogni abbraccio consensuale per lei era proibito. Si ritrovò a volergli passare il suo tepore baciandolo, ma ogni bacio consensuale per lei era proibito. Ogni abbraccio era un arma nelle sue mani. Ogni bacio era un’arma nelle sue mani.
Kadas, pieno di commozione e gratitudine, credette che l’angelo avesse proprietà guaritrici, ma il calore che gli aveva passato era servito a guarire il suo spirito e non il suo corpo. L’anima dell’assassino, ferita da quello che lui credeva essere un tradimento, vide in quel gesto di vicinanza la luce di una speranza. Per queste ragioni, non senza imbarazzo, chiese arrossendo:
 
  • Il mio corpo malridotto è testimone di una grave sconfitta, il mio udito ovattato è testimone di alcune vostre parole di interessamento verso Marcus, eppure siete qua accanto a me come chi vorrebbe abbracciarmi ma non può. Che succede?
 
Diffidente o forse incredulo si ritrasse, per paura che ella potesse usare il suo corpo per danneggiarlo.
 
  • Guarirvi, donandovi l’immortalità, perché in tutta la mia vita nessun uomo col vostro spirito ha mai osato valicare questo luogo. In verità io so che è stata vostra la parola stentorea che ha aperto le porte dell’Ara Verborum; sono parole pronunciate da voi e non da Marcus, o mi sbaglio?
 
Sommerso dall’imbarazzo o forse confuso si guardò attorno, poco abituato a parlare, per paura di dire qualcosa di sbagliato. Tuttavia rispose:
 
  • E’ la verità, sono le mie parole a cambiare la realtà quando pronunciate, pertanto solo io potevo aprire queste porte, dunque io l’ho fatto. Quello che Marcus si è preso io non giudico essere un merito ma, se in questi termini la vogliamo porre, sì, si è preso un merito che non gli apparteneva. In ogni caso io la vivo come una maledizione poiché io odio le parole: sono il più infame e nefasto veicolo di distruzione mai esistito. Ogni arma che l’uomo usa per uccidere ha un nome e le armi dell’uomo erano molto meno letali quando non avevano alcun nome.
 
L’angelo divenne un angelo custode quando si sedette accanto al guerriero malconcio per ascoltarlo. Gli sorrise, innamorata.
 
  • Il palpito d’amore che avete percepito era per voi, non per lui. Allo stesso modo, il merito di avere uno spirito così potente da cambiare il mondo col solo uso delle parole è vostro, non suo. Tuttavia è un peccato, per una persona come voi, odiare le parole: esse ci permettono di distinguere molte sfumature dell’esistenza che altrimenti sarebbero impossibili da esprimere di fronte alla chiarezza inespressiva del bianco e del nero. La prima parola tra tutte è la parola d’onore, che però ormai rappresenta lo iato tra voi e l’immortalità e quindi la connessione tra voi e la morte. Io di parole non posso pronunciare all’infuori di qui, per questo forse vi invidio.
 
L’assassino divenne un assassino pentito quando si sedette di fronte all’angelo per ricambiare lo sguardo innamorato con altrettanto amore.
 
  • Tuttavia preferisco morire piuttosto che obbligarvi a cedermi il vostro corpo, se è così che volete salvarmi. Ho combattuto molte battaglie durante la guerra ed ho ucciso molte persone. L’immortalità è forse un dono troppo grande e puro per me. Io sono un assassino, uccido con premeditazione; Marcus è un leone, uccide per nutrirsi. Per quanto lui appaia più bestiale, forse può essere considerato più innocente di me.
 
L’angelo piegò il capo di lato, facendo danzare le lunghe trecce; chiuse gli occhi con un gesto di grazia; sorrise facendo splendere le sue labbra; poggiò le mani sulle cosce, per coprire i seni con le braccia; aprì gli occhi facendo ondeggiare le ciglia; fissò il viso di Kadas, ferito ed insicuro e infine parlò, delicatamente:
 
  • Non vorrei mai farvi sopravvivere a costo dei vostri principi. Voi avete dato la vostra parola d’onore che egli non avrebbe compiuto violenza su Angelus Verborum. Ebbene Angelus Verborum sono io, porto il nome di Aurora, e lui non avrà compiuto violenza su di me se sarò stata io per prima ad aver voluto essere sua complice. In questo modo voi non avrete violato la vostra parola d’onore e, immortale, vi salverete dalla fine sicura.
 
Di pietra. Di pietra rimase Kadas dinnanzi a quelle parole.

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Capitolo 8
*** Nulla ***


Molti di più e molto più piacevoli sono i ricordi del leone rispetto a quelli dell’assassino. Molta di più e molto più piacevole è la forza che impiega per spingere l’anta della porta. Avvolto dalla propria presenza assente e annegando nell’ovatta dei ricordi, Kadas viene urtato dalla maniglia e, insignificante come un foglio di carta sottile, cade adagiandosi al terreno. Dall’alto verso il basso il leone scruta l’invasore del suo territorio. Dal basso verso alto l’assassino scruta la sua vittima muoversi.
Ma giovane, energico, fibroso è il corpo del leone mentre vecchio, stanco, polveroso è il corpo dell’assassino.
 
  • Nascondi ancora nel silenzio, Kadas, la tua monotona arrendevolezza? Riuscirà mai, il tuo spirito immortale, a superare il passato e guardare al futuro?
 
Esordisce con disprezzo il leone, infastidito dalla presenza di Kadas già più volte scacciato. Non si rialza Kadas, trovando agio a contatto col gelido pavimento. Il taccuino giace un metro distante, spinto via dall’urto della maniglia. Strisciando come un verme come se fosse privo di ossa, Kadas si sposta per mettere in atto un umiliante tentativo di recuperare il taccuino. Le ossa della mano di Kadas vengono fratturate dal pestone sferrato dal potente stivale di Marcus, trasformandolo nel verme a cui prima somigliava soltanto. Il gesto disperato di Kadas di recuperare l’affetto perduto dalla cellulosa del suo taccuino è l’emblema di un tempo che è andato e non ritornerà mai. Sollevata una torcia dalle pareti dei corridoi della torre, Marcus avvicina il fuoco al taccuino e lo distrugge. Fumo rimane dei ricordi, delle memorie, dei momenti che solo quel taccuino ancora conservava. Cenere rimane del calore di Aurora, della sua calligrafia, della sua piuma bianca. Nulla rimane ormai della felicità di Kadas.
 
  • Kadas di te non è rimasto che l’involucro del ricordo di un pensiero. Sei effimero. La scorsa volta che sei salito sulla torre non lo facevi da un po’. Dapprima ho sperato che fosse per dirmi che volevi cambiare. Eri lassù, invece, di nuovo per vedere quel pendente. Ti avevo avvertito che non avrei più tollerato un tuo ritorno. In nome della nostra antica amicizia io non posso più vederti mangiare la polvere del tuo passato e così, dato che io rappresento l’unica parte del tuo passato ancora in vita, io sarò lo iato che ti permetterà di guardare oltre.
 
Sconcertato ed impotente osserva il taccuino bruciare. Sconvolto ed inerme subisce la distruzione della propria identità. Svuotato e privato della voglia di vivere volge lo sguardo trasparente alle ultime pagine che può ancora leggere, prima che tutto vada distrutto. Non può parlare. Non può piangere. Non può morire. Non può nulla: può soltanto leggere fino all’ultimo istante.
Bianco su nero. “Ti sono profondamente grata di questo pensiero poiché molto sento il bisogno di una veste calda che mi avvolga senza intridersi di sangue. Quando troverai la tua purezza sarai in grado di cambiare anche me poiché tu sei in grado di cambiare ogni cosa con facilità, fuorché te stesso. Marcus ha scelto con crudeltà di privarmi dell’anima per mantenermi bella. L’ha fatto per rabbia, per odio, ma gliene sono profondamente grata perché adesso posso donare il mio corpo a te, per fare in modo che non si avvizzisca troppo finché non riuscirai a guarirlo del tutto da solo. Finché avrò un alito di vita, quel pendente brillerà per te.”
Nero su bianco. “Oh Aurora parli come chi è destinato a morire. Io toglierò dalle tue spalle il peso del mio onore. Non affiderò alla tua candida pelle l’onere di mantenermi immortale. Verrò da Marcus una, dieci, cento volte per recuperare l’onore perduto e per portarti via da lui. Il tuo gesto mi ha permesso di sopravvivere e ora io ti renderò la vita, liberandoti da quel mostro.”
Bianco su nero. “Non mi sento vittima di un mostro, Kadas. Sobbarcarsi da solo il peso di un altro significa viziarlo, non mi lascerei morire per aiutarti sapendo che puoi riuscirci da solo. Al contrario di te, Marcus non può riuscire ad aiutarsi da solo. Devo essere io ad aiutarlo, anche a costo della vita, poiché lui non ha e forse non avrà mai la forza di spirito per superare le sue difficoltà.”
Nero su bianco. “Aurora sei irragionevole: non è compito tuo prendersi cura di chi ti ha fatto del male. Non dico che provare rancore sia giusto, dico che giusto non è neppure quello che ti sta facendo, poiché per nulla te lo sei meritato.”
Bianco su Nero: “Un uomo non è ciò che fa, un uomo è solo ciò che è. Quello che adesso Marcus mi sta facendo non identifica quello che lui è davvero. Marcus è un individuo brusco ed istintivo, violento e poco raffinato, ma non crudele o ingiusto. Come ogni altra persona che abbia sentito la necessità di risvegliarmi io devo aiutarlo. Attraverso un corpo immortale egli tenta di esorcizzare il demone che la morte per malattia di sua sorella ha fatto nascere in lui. Ha osservato per mesi, standole accanto durante il suo lento precipitare verso la morte, il corpo del suo unico famigliare distruggersi pezzo dopo pezzo. Settimana dopo settimana la paralisi progressiva della donna a cui lui teneva di più divorava un altro muscolo, fino a che non ha divorato anche il cuore. Sarei cieca se non notassi che si sta comportando in modo crudele, ma come ho già detto non ritengo che sia crudele solo perché compie atti crudeli. Anzi, è per me occasione di capire perché un uomo gentile come lui si sia ridotto così.”
 
Fumo, cenere, nulla. Vuoto, freddo, nulla. Pavimento, umidità, nulla. Sopra alla nuda pietra con gli occhi ricolmi di angoscia e la bocca piena di vomito, la realtà del presente ha sfondato la porta chiusa a cui ha lungo ha bussato. Tremante, singhiozzante, urlante e in preda alle convulsioni l’assassino è percorso dalla scarica elettrica della folgorante verità. Non può più scappare dal presente. Non può più scappare dal tempo. Ormai non ha più vie di scampo. Ormai Aurora è morta definitivamente. Fumo, cenere, nulla.
La vista si annebbia mentre i muscoli si rilassano. La negatività aumenta mentre lo sconforto si fa strada. I sensi lo abbandonano mentre il coraggio se ne va. Un forte dolore. Un forte dolore alla mano è l’unica sensazione che Kadas è in grado di sentire. Quell’unica percezione, che prende possesso dei suoi nervi, arriva fino al cervello e lo sveglia, come uno shock. La sua mano dolorante, già fasciata, è presa da un’altra mano protesa, che le lacrime e la penombra offuscano allo sguardo.
 
  • Rialzati e cammina, assassino. Tu puoi andare avanti, tu puoi cambiare, tu puoi vivere. Resuscita, assassino. Io credo in te.
 
Ora riesce a riconoscere quella presenza tranquillizzante, rassicurante, che quelle spalle ampie danno. Riesce a riconoscere quella sensazione di sicurezza che quell’uomo gli aveva sempre trasmesso. Riesce a ricordare finalmente qualcosa: il motivo per cui divenne suo amico quando ancora era un assassino.
 
  • Perdonami per la mano, era necessario.
 
Aggiunge sorridendo Marcus.
 
 

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Capitolo 9
*** Empatia ***


  • Aurora, perdonami, ti supplico. Ho bisogno di essere accolto. Ho bisogno di un abbraccio forte, di un abbraccio che non trema, di un abbraccio che non sa di addio, di un abbraccio che non molla. Ho bisogno di essere accolto tra le braccia di una donna che nessuna forza superiore potrà mai portarmi via. Solo ora mi rendo conto di aver io stesso compiuto il delitto che ha portato allo stesso finale per cui così tanto ho sofferto allora. Perdonami, te lo chiedo in ginocchio, ed accoglimi tra le tue braccia. Ogni uomo, anche coloro che col tempo sono rimasti accecati dall’ira e dalla frustrazione come me, vuole soltanto essere accolto da una donna, per avere una famiglia, una vita oppure dei sentimenti da proteggere e custodire. Io chiedo invece soltanto un abbraccio… un abbraccio per quest’uomo distrutto il cui peggior nemico è soltanto se stesso.
 
Il leone accucciato sull’altare dell’Ara Verborum era un leone mansueto. Un leone mansueto ed affranto era accucciato sull’altare dell’Ara Verborum. Un piccolo gatto spaventato dalle proprie zanne e bisognoso di un abbraccio piangeva lamentandosi forte. Le più sincere ed amare lacrime, le lacrime del pentimento, pesanti come macigni e veloci come proiettili, cadevano sopra all’altare dell’Ara Verborum macchiandolo. Stringendo il grigio marmo nel tentativo di distruggerlo per sfogare la propria ira cercava di far defluire tutto ciò che custodiva dentro. Ormai aveva ceduto ogni orgoglio, relegandolo all’irraggiungibile passato. Ormai si era liberato dell’irraggiungibile passato che custodiva il suo orgoglio.
 
  • Non posso perdonarti, Marcus, poiché non ho nulla da recriminarti. Ho usato tutte le forze che mi rimanevano per aiutarti, poiché sapevo che se io non l’avessi fatto tu non avresti avuto abbastanza spirito per impedire a te stesso di renderti vittima. Non ho mai avuto alcun risentimento verso di te e coerentemente non ne avrò ora in punto di morte. Io ti ho accolto sin dal primo momento, amico mio, io mi sono concessa per salvare Kadas dalla morte, me stessa dal rimpianto e te dall’odio. Per questi motivi io, vedendo le tue lacrime, muoio felice, piena di gioia per essere riuscita a tirarti su dal baratro in cui stavi cadendo. Non sentirti colpevole, Marcus, ho dato la vita volentieri per te. Abbracciami adesso.
 
Mai più amore, altruismo, gioia e umanità fu messa in un abbraccio. Mai più saggezza, solidarietà, purezza e sincerità fu messa in un abbraccio. Mai più espressivo potrà essere, questo gesto di contatto umano, di quel momento in cui la comprensione del dolore ha permesso al perdono di guarire un uomo. L’aria circostante, divenuta timida ed impalpabile, sublima in piccole gocce di nebbia, solide ma microscopiche. Un profumo di felce permea lo sterile ambiente dell’Ara Verborum. L’indifferenza di quel tempio grigio, dove ogni parola viene congelata e distrutta, viene sconfitta una volta e per sempre da un gesto. Laddove nessuna parola può avere effetto è stato un gesto a portare il trionfo dell’empatia sull’indifferenza. L’empatia è la più semplice e potente forma di comunicazione a disposizione degli esseri umani; non fa uso di parole, fa uso solo di un abbraccio. L’empatia è quell’abbraccio; quell’abbraccio che congela il duro marmo rendendolo fragile e puro, quell’abbraccio che trasforma un perimetro di colonne decorate, tutte uguali e perfette, in un carosello di iceberg selvaggi ed imperfetti, quell’abbraccio che trasforma un impenetrabile altare di pietra in una trasparente bara di ghiaccio. Quell’abbraccio che trasforma l’Altare delle Parole nel Mausoleo dell’Empatia. Durante quell’abbraccio il passato se ne va, svanisce, e il futuro sorride; avviene un cambiamento, che si accetta grazie ad un gesto d’amore. Un cambiamento difficile che si accetta per via di un gesto d’amore porta il nome di crescita. La crescita serve per diventare persone migliori, persone empatiche, per le quali le parole sono un mezzo e non un fine.
 
  • Grazie Aurora. Avresti potuto odiarmi, avresti potuto punirmi, avresti potuto vendicarti, aggiungendo altro odio, altro rammarico ed altra disperazione a questo mondo. Avresti potuto farmi del male ed invece mi hai cambiato, perché hai saputo leggere nel mio cuore anziché giudicarmi. Io ti prometto che d’ora in avanti sarò una persona diversa: non sarò più il Marcus ossessionato dalla morte di Karula. Guarderò avanti.
 
L’angelo, in procinto di spegnersi, si accinse a baciare il suo uccisore sulla fronte, per portare affetto anche con le ultime forze in suo possesso. Le delicate labbra si posarono sul capo del leone come per battezzarlo; il suo quasi umido bacio si posò sulla fronte del leone come per battezzarlo; una goccia di sangue uscì dal punto esatto in cui si era posato un angelo… come per battezzarlo.
 
  • Promettimi solo una cosa: aiuterai Kadas ad avere la forza fisica per affrontare il tempo. Non riuscirà a superare la mia morte per molto tempo. Egli non si arrenderà mai: avrà sufficiente forza di spirito per avere la volontà di rialzarsi ancora e ancora, dieci, cento o forse mille volte. Aiutalo a rialzarsi quando i contraccolpi ed il tempo gli avranno giocato un brutto scherzo. Dagli uno schiaffo, aiutalo a superare il passato. Fino a che non ci sarà riuscito, custodisci tu il pendente. Fallo per me, ti prego.
 
Pace era nel cuore del leone mentre annuiva soddisfatto. Pace era nel suo cuore mentre vedeva morire l’angelo. Pace era nel suo cuore mentre sistemava le mani dell’angelo sul petto, non come quelle di un morto ma come quelle di chi aspetta, i capelli delicati sopra i seni, il corpo leggiadro dentro all’eterna bara. Non più esile il suo fiato ora di poco prima, non più turbato il suo viso ora di poco prima, non più spente le sue labbra ora di poco prima. Non era più morta, non era ancora morta, non sarebbe mai morta. Sarebbe morta solo quando sarebbe stata dimenticata.
Ma né Kadas, né Marcus, l’avrebbero mai dimenticata.

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Capitolo 10
*** Fuoco ***


Incerti e cedevoli gli arti inferiori tentano con fatica di vincere il peso del vuoto. Il vuoto non è leggero quando incarna la disperazione. Il vuoto non è leggero quando è un effetto di distruzione. Dalla pietra la pesante ma vuota figura di Kadas rasa al suolo si solleva trascinata dalla mano del robusto rivale. L’autocoscienza non esiste più: un barlume nero tradiscono gli occhi dell’assassino. L’autocoscienza non esiste più: un sorriso instabile mistificano le labbra dell’assassino. Eretto ed immobile il corpo fragile è sorretto dagli arti inferiori di polvere solida. Non un passo può essere compiuto senza che questi diventino di nuovo polvere libera. Ritrovato il sennò nell’immobilità, esamina il suo io e vi trova del buio; ritrovata la calma nella stabilità, esamina il suo rivale e vi trova della luce.
  • Condoglianze; Karula.
Una tempesta invisibile scuote la statica tensione, un’onda di calore unisce i due cuori in tempesta, un naviglio temerario sfida l’ondata di oppressione. Le parole di Kadas generano un indistinto turbinio di luce ed ombra ai piedi della alta torre, sulla soglia del vasto mondo. L’empatia è l’umido pennello che sfuma le brusche tonalità della luce e dell’ombra. Non altre parole ma il sentimento di chi ha amato ed ha perso uniscono per un breve momento dopo anni i due nemici. Non altre parole ma la comprensione verso chi ha visto perire un corpo o uno spirito uniscono per un momento dopo anni i due nemici. Nulla più, tuttavia; così com’era venuta quella tempesta, quell’onda e quel naviglio si placano, si infrangono e si perdono all’orizzonte. In un momento ancor più breve di quant’era rimasta quell’unione se ne va.
  • Mai te ne parlai e mai tu me lo chiedesti; apprezzo queste tue due parole perché sono lieto di aver infranto un’ulteriore barriera tra noi due, ma la morte di Karula non mi fa più soffrire. Appartiene al passato, ormai.
Sembra quasi di udire gli scricchiolii quando Kadas si abbassa per raggiungere con le mani i suoi stivali; sembra quasi di vedere un manichino muoversi quando Kadas estrae qualcosa dall’interno dei suoi stivali. Il barlume nero alla luce della luna arride al sorrido instabile riflesso nel fuoco. Il lampo di spirito della poesia del nulla affretta la voglia di nullificare ogni passato. La compulsione segue l’accettazione della cancellazione dei propri ricordi, laddove tutto ciò che era deve essere distrutto. Non più la mente governa l’automa troppo forte per rompersi. Tra l’indice e il medio, rattrappiti e serrati, Kadas stringe un nastro, il cui colore rosso del tessuto mimetizza le chiazze di sangue infetto. Strappato via da una coppia di nastri gemelli, esso porta con sé i residui di uno scabroso passato. Il leone vede il nastro. Le sue ampie spalle cedono, schiacciate dal peso dei possenti bicipiti, che cedono; i possenti bicipiti cedono, schiacciati dal peso delle energiche mani, che cedono; le mani cedono, schiacciate dal peso della sua mente, che cede. Mai aveva tremato un leone dinnanzi ad un assassino, ma l’assassino aveva fatto ora tremare il leone. Il leone, l’uccisore selvaggio, e l’assassino, l’uccisore a freddo. Specularmente a Kadas, anche Marcus estrae un nastro, quasi identico, da sotto la sua pelle, vicino al cuore.
  • Parla ora, Kadas, dicendo parole a sufficienza per rispondermi. Chi ti ha dato quel nastro? Come sei venuto in possesso del nastro gemello di Karula che troppo a lungo ho cercato?
Nessuna parola esce dalla bocca dell’assassino stavolta. Nessuna parola è stata pronunciata sta volta, perché l’empatia è troppo forte. E così, messa al servizio di una verità sconcertante, l’empatia è complice di quel misfatto. Si limitano a fissarlo, quegli occhi distratti da un barlume nero. Ruggisce, il leone.
  • Parla!
Incalzato, ma non spaventato, dal ruggito, infine Kadas parla.
  • Fuoco.
Il fuoco più selvaggio e innaturale divampa e divora i due nastri, ardendo ogni residua briciola di un passato. Ricambiato il favore, il leone vede sconcertato le fiamme dell’oblio avvolgere e distruggere anche i propri ricordi.
  • Come ti ho detto, Kadas, ho superato il mio dolore. Ciò che hai distrutto era solo un simbolo di affetto e dolcezza. Il tuo gesto è stato superfluo e in cuor mio spero che non sia stata vendetta, altrimenti dovrei ammettere a malincuore che non solo non sei riuscito a migliorarti, ma addirittura saresti riuscito a peggiorarti.
Invertite le parti, Kadas è adesso sicuro di sé. Invertite le parti, Marcus è adesso dubbioso. Dall’alto verso il basso, Kadas, ritrovato lo spirito di assassino che aveva agli albori perduto, ritrovata assieme ad esso la forza di imporsi sul presente, ritrovato infine il coraggio di affrontare il futuro, lo scruta, pronunciando la parola che rappresentano il colpo di grazia.
  • Taccuino.
Una piuma nera è quella che usa per scrivere sul taccuino vuoto. Una piuma nera macchiata di peccato, una piuma nera pervasa da impurezza, una piuma nera che ferisce come una spada è quella che usa per scrivere sul taccuino vuoto. “Non credo che tu vorrai aiutarmi, Marcus. Io sono il più impuro tra gli impuri, non c’è salvezza per me. Dopo averci per molto tempo provato, con Aurora e senza, sono giunto alla conclusione che ella si sbagliava. Io non sono in grado di guarirmi da solo. Karula non è morta per malattia. L’ho uccisa io. L’ho avvelenata.”
Lancia con disprezzo, addosso al leone confuso, il taccuino maledetto. Il leone legge, le sue pupille svaniscono, la torre inizia a crollare. Un urlo, potentissimo, di dolore e di rabbia, un urlo dissennato, il ruggito del leone immortale spacca ogni singola pietra dell’alta torre fino a che, raggiunto l’orologio, l’immensa potenza vocale generata dall’ira sconquassa le fondamenta dell’obelisco dei ricordi. Niente di ciò che era, ormai, è ancora come prima. Digrignando i denti, a voce bassa, il leone travolto dall’istinto stritola il taccuino e sibila:
  • No adesso basta. Supererai il tuo dolore nell’oltretomba. E’ giunta la tua ora, verme schifoso.  

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Capitolo 11
*** Dolore ***


Il cielo ha scelto di essere bello, quel giorno. Il cielo ha scelto di diventare bianco, macchiandosi di candore, per far scendere delicati cristalli di ghiaccio così fragili da infrangersi al suolo. Il cielo ha scelto di essere bello, quel giorno, nevicando. E cosa di più perverso c’è nell’ostentare la bellezza sopra alla tragedia? Cosa di più perverso c’è di una cascata di fiocchi di neve sopra alla più ingiusta delle battaglie?
La battaglia stessa. La battaglia stessa è la sola cosa più perversa della neve che la ricopre. La battaglia tra due amici che si uccidono perché non hanno saputo capirsi. La battaglia tra due anime che si liberano perché non hanno saputo trattenersi. L’assassino ed il leone sono due specchi che si guardano, pronti a liberarsi dal fardello fatale che ha impedito loro di capirsi: l’immortalità. Ogni specchio riflette l’altro e non c’è un’ultima immagine se non il vuoto. Il vuoto causato dall’assenza della morte usata come assenza di dolore.
Nella città muta sotto le macerie di una torre stanno alcune torce come stelle.
Il fuoco. Il fuoco è l’arma del leone: la più primordiale e veemente forza che l’uomo possiede per dare la vita e toglierla. Il leone impugna le torce. La parola. La parola è l’arma dell’assassino: la più evoluta e sofisticata forza che l’uomo possiede per dare speranza e toglierla. L’assassino muove le labbra.
 
  • Morte.
 
Alla parola truce e vibrante viene coordinata la spalla. La spalla spinge il gomito, il gomito spinge l’avambraccio, l’avambraccio spinge la mano e il pugnale per inerzia si solleva fendendo l’aria verso il leone spaventato.
 
  • Quella parola, o assassino, non è utile per uccidermi perché io non posso morire. Riesce soltanto a terrorizzarmi, ma adesso l’ira è troppo grande persino per questo.
 
Scacciato anche l’ultimo spettro del timore il leone scaglia il proprio petto contro il pugnale e lo ferma con la sola potenza dei propri muscoli pettorali. Sogghignando sicuro in virtù del proprio coraggio il leone destreggia la torcia infuocata contro l’assassino e lo schiaffeggia con la potenza ustionante fornita dal fuoco. Un unico secco impatto della sua mano pensante è sufficiente per far precipitare a terra l’assassino. Un'unica arida falciata della sua fiamma ardente è sufficiente per far raggrinzire a morte la pelle del suo viso. E così, menomato, è di nuovo a terra. E’ così, ustionato, è di nuovo a terra.
 
  • Sarà meglio che tu trovi rapidamente la parola utile al tuo scopo, assassino, o altrimenti questa battaglia non risulterà emozionante.
 
La bruciatura, impressa nel suo volto, non è più repellente delle pieghe cadenti del suo viso. La bruciatura, impressa nel suo volto, rimarrà anche quando la luce avrà irradiato di nuovo la sua pelle. Con sprezzo il leone getta la torcia ed estrae il pugnale dal suo petto, come un coltello da caccia conficcato nella spessa corteccia di una quercia.
 
  • Dolore.
 
Novecentonovantanove chiodi crescono sotto la pelle del leone per ricordargli che in assenza della morte sopravvive il dolore. Novecentonovantanove chiodi che costringano l’indistruttibile ad implorare la distruzione. Ma nessun dolore, nessun timore può fermare l’ira. Nessun dolore, nessun timore fermerà il pugnale, adesso in mano al leone, dall’essere scagliato contro il petto dell’assassino. Brutale ed istintivo, la caccia del leone non verrà arrestata dalle emozioni. Crudele e calcolatore, il piano dell’assassino non verrà arrestato da un fallimento. Il pugnale lacera la carne e ben più lancinante è il dolore in chi è immortale nello spirito. Il pugnale lacera la carne e urla e lacrime sconvolgono chi non riconosce l’importanza del corpo.
 
  • La morte non può fermarmi, le emozioni non possono fermarmi, gli attacchi non possono fermarmi; cosa premediterai, ancora, assassino?
 
Con cupa freddezza l’assassino recupera e pulisce la propria arma. Con la stessa cupa freddezza non si rialza e colpisce di nuovo.
 
  • Debolezza.
 
La fame ed il sonno attaccano la fibra corporea del leone nel tentativo di rendere debole il suo tratto più forte. Adesso sembrano molti di più quei novecentonovantanove chiodi. Adesso sembra molto di più quel timore. La fame ed il sonno sfidano la perfezione del corpo travolgendolo con nuovi non supposti bisogni che attraverso il desiderio dell’irraggiungibile sazietà abbattono la sicurezza nelle proprie capacità. Ma la fame ed il sonno alimentano l’istinto. La fame e il sonno alimentano il cacciatore. La fame e il sonno distruggono un assassino, ma alimentano un leone. Il leone coraggioso e adirato adesso è anche un leone affamato. Agganciata la preda per le gambe il leone la finisce lentamente, bruciando la ferita del pugnale con l’altro fuoco. Cuoce a fuoco lento la sua carne per banchettare con essa.
 
  • Non sia mai che la tua ferita ti faccia morir dissanguato, assassino; lascia che il fuoco che dà e toglie la vita te la cauterizzi mentre ti consuma!
 
Ma l’assassino, che mai perde la calma durante l’omicidio, studia il punto debole della vittima anche immerso nel più profondo dolore. La mente mantiene se stessa lucida ignorando il dolore per massimizzare il profitto. Un assassino che riesce ad ignorare il dolore della propria coscienza ha lo spirito abbastanza forte per ignorare qualsiasi altro tipo di dolore. E così con imperitura forza di spirito colpisce ancora:
 
  • Karula.
 
E questa volta fatalmente.
 

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Capitolo 12
*** No ***


Rovine decadenti di una città transiente; squallore delicato di un tempo rovinato; regime piovoso, plumbeo e nimboso. Grani di sale e polvere di neve. Briciole di calce e stralci di legno. Gramigna mal tagliata e sassi sbriciolati. Danzano tremebondi i fiocchi nell’etere, cadono tumefatti i corpi al suolo, spasma grottescamente la pelle sul cuore. Circoli di odio e circoli di gioia, memorie che arrivano e memorie che vanno. Comete nere riscrivono le menti, rabbie primordiali riaprono le carni. Il laccio stringe la ferita, aspetta che la garza la avvolga, un giorno si riaprirà. Il riparare vuol più tempo che il distruggere. La garza verrà distrutta. La verità si riaprirà. Una combinazione di sei suoni rappresentati da caratteri disposti in sequenza può distruggere un immortale?
Sì, può.
E’ una parola.
Un trauma ormai superato, fatto riemergere con la violenza di una parola, in un momento di ira ed instabilità. Un doloroso attacco allo spirito, più doloroso del fuoco sulla pelle. Con orrenda premeditazione l’assassino aveva atteso il momento giusto per colpire nell’emotività facendo sì che il leone si mangiasse da solo, divorato dal demone interiore contro cui così tanto a lungo aveva lottato. E ciò che in anni era stato riparato, in secondi è distrutto. Nessuno spirito, ormai, alberga più nel corpo vuoto del leone, vivo ma esanime, immortale ma immobile.
Vuota la vittima, vuoto il carnefice. Il barlume nero occupa ancora i suoi occhi. Il nulla occupa ancora la sua mente. Distrutto il taccuino, null’altro doveva più rimanere di ciò che glielo ricordava. Nessuna traccia di ciò che era diventato dopo la guerra doveva rimanere. L’assassino doveva tornare ciò che era durante la notte, dimenticando l’aurora. Durante la notte l’assassino era un assassino. Durante il giorno, dopo l’aurora, l’assassino era stato amante ed amico. Non è più amante e non è più amico ormai, il giorno è finito e con una nuova notte si va avanti. La vita prosegue, alternandosi tra giorno e notte. Ha potuto andare avanti con le proprie forze, ma soltanto così, con una nuova notte.
Stasi e vuotezza, dunque. Morte e silenzio, dunque. L’immortale nel corpo ferito allo spirito dall’immortale nello spirito ferito al corpo. Si osservano senza scopo alcuno; il vincitore guarda lo sconfitto allontanandosi dalla purezza che ha sempre cercato e aspetta che il proprio corpo marcisca sempre di più. Lo sconfitto dal corpo purissimo non sa più cosa vuole, non vuole più niente mentre guarda dal basso il vincitore aspettando un conforto che non arriverà mai.
Stasi e vuotezza, quindi. Ma il barlume svanisce. Ecco che il barlume nero se ne va. Ecco che aver superato il passato porta nuova luce assieme al sacrificio. Ecco che Kadas Luthfelt finalmente smette di osservare Marcus ed inizia a sentirlo. Nella stasi, nella vuotezza, nella morte e nel silenzio sopravvive solo l’empatia. L’empatia fa svegliare Kadas e il risveglio di Kadas fornisce lo sperato conforto a Marcus. Marcus allora può di nuovo parlare e Kadas può di nuovo ritrovare la sua purezza.
 
  • Così vado avanti.
 
Pronuncia Kadas. Le tre parole non vengono sovrastate dal rumore del vento. Si odono bene, anche tra le macerie, anche tra i fiocchi di neve. Senza timore allora Kadas parla ancora:
 
  • Così andai avanti.
 
Un tempo finisce. Un tempo inizia. Un sacrificio sancisce la fine di un tempo e l’inizio di un altro. Karula allora, Marcus adesso. Fratello e sorella parte di un unico destino: il destino di Kadas. Parla, Marcus, perché ha trovato parole che ha senso dire:
 
  • Ritrovando la calma, sono in ultimo felice che tu stia andando avanti, Kadas. Le mie iridi diventano sempre più chiare poiché sempre più vana è la mia vita. Prima che il mio spirito si esali, tuttavia, voglio correggerti un’ultima volta. Lascia che ti dica le ultime parole che hanno senso per me. Sei andato avanti, Kadas, io ero l’ultimo legame col tuo passato e l’hai estirpato. Ti imploro, tuttavia, non far sì che la notte cali di nuovo su di te. Non tornare ad essere l’assassino che eri prima di conoscere Karula. Ritrova invece la tua purezza. Hai promesso a Karula che avresti migliorato il tuo spirito. Hai promesso ad Aurora che avresti migliorato il tuo corpo. Non violare le tue parole d’onore.
 
Le lacrime di Kadas, perle lucenti che solo ad Aurora furono mai dedicate, ora vengono dedicate a Marcus. La vita di un uomo, quanto di più sacro. Sorride, Marcus, prima del suo eterno coma.
 
  • Io non sono perfetto come Aurora, bada bene Kadas; non ti perdonerò mai per quello che hai fatto a me e a mia sorella. Ma risorgerò dal limbo che mi attende se scoprirò che sarà stato un sacrificio inutile oltre che un sacrificio doloroso. Temi sempre il mio spettro, Kadas: se renderai la nostra morte vana, do la mia parola d’onore che verrò a cercarti. E non sospetteresti mai quanto sia potente la prima ed ultima parola d’onore di uomo, Kadas. Non sospetteresti mai come possa permettergli di risorgere dalla tomba del fato!
 
Con l’ultima fiamma che arde nel petto ancora vivida, il leone così si spegne. Le sue palpebre non si chiudono ma le sue iridi si spengono, come chi continua a guardare il cielo anche nell’incoscienza. Dignitoso e perfetto, il corpo di Marcus giace senza spirito ma sfida l’orizzonte, giace senza volontà ma sfida il destino, giace esanime ma sfida le intemperie. Un atto di forza che gli ha dato un’anima la quale latente giacerà dentro di lui, conservando il suo onore per sempre, anche nell’immobilità. E nessuno potrà mai vincerlo ancora. Nessuno potrà mai più umiliarlo. Lo sconfitto muore e diventa vincitore. Il vincitore vive e diventa sconfitto.
Dalla sconfitta si impara. Dall’amicizia si apprende. Non violerà le sue parole d’onore: non l’hai mai fatto Kadas Luthfelt e non lo farà ora. Non renderà effimera la sua esistenza, l’esistenza di Aurora, Marcus e Karula. Non l’ha mai fatto e non lo farà ora. La notte non calerà di nuovo, la notte non calerà mai più. Dopo il giorno c’è sempre la notte, dice il fato.
 
  • No.
 
Dice Kadas. Non se il mondo smette di girare. Allora Kadas fermerà il mondo, Kadas fermerà il fato, Kadas realizzerà l’impossibile. Perché Kadas Luthfelt non ha mai reso vana una vita. Perché Kadas Luthfelt non ha mai violato una parola d’onore.
Rovine decadenti di una città transiente; squallore delicato di un tempo rovinato; regime piovoso, plumbeo e nimboso. Questa caduta si fermerà. Un uomo, un popolo, un mondo intero… rinascerà.
 

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Capitolo 13
*** Ara Silentii ***


Gelidi incontri nel tetro nero ancestrale ritmato rovinosamente dagli ingranaggi degli orologi. Notte eternamente scardinata dall’alternarsi turbinante di giorno ed ombra. Drammatico freddo raccoglie viaggiatori sotto drappeggi sporchi. Vibrante paura penetra nelle terre del crimine, protette dal vespro senza requie. 
Caldo sfiancante nel cangiante chiarore che rende candido tutto ciò che chiunque può calpestare. Luce costantemente scardinata dal susseguirsi incessante di canto e sonno. Decadente calura fa cessare qualsiasi cammino. Consensi passivi lasciano accadere cose, asfissiate dalla luce senza concilio.
Perché il mondo si fermò. Siccome il mondo si fermò. In effetti il mondo si era fermato.
Fermo; e perciò le giornate erano soltanto convenzioni. Fermo; e perciò nessuno avrebbe mai più visto sorgere o tramontare il sole. Fermo: c’era il giorno oppure c’era la notte. Il mondo non girava più.
Nelle terre dell’eterna notte si lavorava; la fatica riscaldava dal freddo, ma il crimine ripagava di più.
Nelle terre dell’eterno giorno si oziava; la noia alleggeriva il peso del sole, ma non esistevano lati nascosti.
Una metà attiva ma pericolosa, tremebonda e reticente; una metà passiva ma candida, onesta e raggiante.
Questo era il mondo, dopo che per scherno si era fermato.
Nelle terre dell’eterna notte c’era chi dormiva e chi vegliava in silenzio. L’assenza di suono vigeva imperante in tutto l’emisfero. Vegliava in silenzio chi aveva rispetto e non voleva privare i dormienti del loro riposo, vegliava in silenzio chi non aveva rispetto e voleva privare i dormienti della loro vita.  Il silenzio era l’unico dio che regnava nell’emisfero buio.
Nelle terre dell’eterno giorno c’era chi dormiva e chi vegliava oziando. L’assenza di movimento vigeva imperante in tutto l’emisfero. Vegliava oziando chi voleva muoversi per parlare urlando guaiti e lamentele passo dopo passo, vegliava oziando chi non voleva muoversi per parlare urlando domande e risposte conversazione dopo conversazione. La parola era l’unica dea che regnava nell’emisfero luminoso.
L’eterna notte e l’eterno giorno si abbracciavano sul mondo e, laddove i loro corpi si univano, nascevano le terre temperate, dove la noia era vinta dal freddo e l’inganno era sconfitto dal caldo, dove il caldo era sconfitto dal lavoro ed il freddo era sconfitto dalla parole. Queste terre sacre furono divise equamente dagli abitanti della notte e dagli abitanti del giorno, chiamando terre dell’eterna alba il semianello in cui il sole era fermo nel sorgere e terre dell’eterno tramonto il semianello in cui il sole era fermo nel tramontare. I popoli fecero di questi semianelli un luogo di venerazione, nella speranza di aggraziarsi qualche divinità regalando loro l’unico luogo in cui regnava l’equilibrio.
I popoli dell’eterno giorno, fautori della grande immobilità, vi costruirono un altare di marmo con una solida statua, poiché la loro unica dea era la parola. I popoli dell’eterna notte, fautori del grande silenzio, vi lasciarono un bimbo muto, poiché il loro unico dio era il silenzio.
Le genti continuarono ad adorare i propri dei ed a nutrire le proprie speranze fino a quando, anni dopo, a causa dei lievi spostamenti del sole, l’abbraccio cambiò posizione; il bambino investito dalla luce fuggì e l’altare coperto d’ombra fu murato. Fu così che i popoli del giorno abbandonarono le speranze. Fu così che i popoli della notte abbandonarono le speranze. Fu così che scoppiò una guerra.
Non fu compreso tuttavia che l’abbraccio non era ultimato fino a quando silenzio e parola non sarebbero stati conciliati. Non fu compreso che il dio del silenzio e la dea della parola non dovevano essere venerati nella solitudine delle proprie convinzioni. Non fu compreso che Angelus Silentii e Angelus Verborum dovevano incontrarsi. Quest’incontro avvenne poi; quest’incontro avvenne grazie alla guerra.
Il bimbo, Angelus Silentii, crebbe. Così come uomo e donna sono complementari poiché sono nati per unirsi, così Angelus Silentii, il dio mobile del silenzio, sviluppò il dono di avere la parola che muove il mondo e Angelus Verborum, la dea marmorea della parola, aveva il dono di avere il silenzio che parla agli animi.
Il bimbo, Angelus Silentii, crebbe. Nulla di diverso aveva dagli altri suoi coetanei, eccetto che ogni sua parola era un cataclisma, ma egli odiava ogni parola e mai ne aveva proferita una. Doveva accettare il suo destino: era nato nel lato oscuro e silenzioso del mondo e doveva combattere assieme a chi lo abitava e lo aveva venerato. Rapido e furtivo come un serpente velenoso, il ragazzo divenne il più letale e spietato degli assassini che il popolo della notte avesse mai conosciuto. Uomini, donne, bambini ed animali: nessuna creatura poteva sopravvivere alla letale lama ondulata di Angelus Silentii, colui che uccide nella notte. Ma come ogni altro suo coetaneo, anche Angelus Silentii un giorno ebbe un amico. Un unico amico e rivale, conosciuto in guerra ed appartenente alla fazione opposta. Un unico amico e rivale, che l’assassino tradì, in modo oscuro e silenzioso, così come la sua gente lo venerava. Quell’unico amico fu colui che salvò il mondo quando condusse Angelus Silentii da Angelus Verborum, per pregare la dea marmorea di dargli il soffio di vita che a causa di Angelus Silentii si era visto sfuggire di mano. E allora il bimbo cambiò. Da bimbo divenne ragazzo, maturò e sorse. Nel momento in cui tradì l’amico, la notte in lui finì ed iniziò la sua alba. Nel momento in cui vide Angelus Verborum, la notte in lui finì ed iniziò la sua alba. Le due divinità si incontrarono e si completarono. L’immortalità, la capacità di sfuggire alla fine ultima che solo gli dei potevano avere, era elargita a chi metteva alla prova il proprio corpo, vincendo l’immobilità, o la propria parola, vincendo lo spergiuro. Quell’unico amico fu colui che salvò il mondo.
Angelus Verborum, la dea di pietra, si chiamava Aurora perché proteggeva l’eterna alba.
Angelus Silentii, il dio sinuoso, nacque senza nome, perché nacque fra gli uomini della notte. Fu l’amico, Marcus Luthfeldt, a dargli un nome: lo chiamò Kadas, come il suo fragile fratello minore, scomparso aldilà del confine. Kadas, nella lingua dei suoi avi, significava Crepuscolo. E ora, dopo il sacrificio di Marcus, il giovane e completo Crepuscolo era pronto a muovere di nuovo il mondo.
 

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Capitolo 14
*** Ti voglio bene ***


Marcia Kadas per le scale rocciose dell’alta torre, pestando passo dopo passo gli scricchiolanti scalini. Impugna al contrario i suoi lunghi pugnali dall’elsa dorata, e impugna uno sguardo che perfora una tenebra più cupa di ogni torcia. Marcia Kadas trasportando le pieghe di un vissuto mantello, gli squarci di un eroico cappuccio, a pretendere di coprirgli il corpo agile. Marcia Kadas, vantando la leggiadra magrezza di un guerriero spinto dalla fatica di mille battaglie. Le sue iridi vendono onore all’asciutto cunicolo che complice ha assistito all’indisturbato gioco di luci che lo ricopre, i suoi zigomi pronunciati esprimono quanto le sue labbra per ora incapaci di parlare vorrebbero e non possono. Anche il metallo del suo cuoio borchiato è incapace di proteggerlo più di quanto la sua parola d’onore già non faccia, anche i suoi stivali leggeri non l’aiutano a salire più di quanto la carica nascente della sua anima guarita già non faccia.
E così avanza, impugnando i lunghi pugnali al contrario, fino alla porta d’ebano. Un boato, quasi un esulto accompagna l’apertura della fastosa porta, aperta con il pugno chiuso dalla morsa inarrestabile di Kadas Luthfelt.
  • Babele.
 
Aveva detto, poco prima che una nuova torre sorgesse maestosa per piangere la caduta della precedente. Livelli di marmo lucente alleggeriti da arcate di bifore doriche si sovrappongono come gradoni dal diametro in diminuendo e godono come unica decorazione di cimase dallo stile indelicato che fanno sfoggio di sé sopra le aperture. Nell’interno più un deambulatorio che un corridoio avvolge gli ambienti interni della costruzione conica e sale verso la cittadella posta in cima; paraste e bianchi mosaici interrompono e riflettono la luce insanguinata dell’eterno tramonto o dell’eterna alba, luogo in cui la babele è stata fatta sorgere senza distinzione. Dal matroneo della cattedrale della cittadella un passaggio conduce al più alto pergamo della torre, quasi un pulpito posto sopra ed al centro di luce ed ombra, notte e giorno, silenzio e caos. E da quel ballatoio, dal luogo più alto, dal luogo più insanguinato, dal luogo più sacro, dal luogo più avvolto tra la luce e le ombre, Kadas parla alle genti con voce potente. Come un tuono, un terremoto, un uragano è la sua apocalittica voce. Sono le parole di un dio che, parzialmente coperto dalle nubi, le squarcia per dettare la sua legge sui mortali che dal basso lo ascoltano. Raccolto dal suo corpo ogni residuo di fiato, Kadas pronuncia roboante il suo primo, intero, discorso:
  • Gente della luce, gente della notte, vi ordino di ascoltarmi. Voi mi avete invocato, voi mi avete dato alla luce e voi mi avete fatto incontrare con Angelus Verborum. Ebbene io sono Angelus Silentii! Ciechi siete stati!
Il mondo attonito si incendia e si congela nel sentire quelle parole simili ad un cataclisma abbattersi nei loro animi. Non c’è uomo che non cessi pietrificato qualsiasi attività stesse compiendo, non c’è uomo che non volga lo sguardo reverenziale verso l’alto, non c’è uomo che non subisca quelle parole così come subisce il sole e la pioggia. Un misto di timore, colpevolezza e senso di sicurezza fa sussultare i popoli.
  • Ciechi siete stati nell’attendere che le ombre avvolgessero Ara Verborum! Avete dimenticato ciò che voi avete chiesto! Ci avete invocato e ci avete gettato, attendendo che l’ombra si abbattesse sulla dea e che la luce accecante mi facesse dimenticare chi sono! Voi ci avete donato le vostre terre di pace, le terre dell’alba e del tramonto, ma avete lasciato che ci sfuggissero via. Grazie ad uno di voi, ad uno solo che è morto per voi, io ora ho ritrovato la luce del tramonto che avevo perso. Costui si chiamava Marcus Luthfelt… adoratelo! Adoratelo perché a lui dovete la pace! Non io ma lui è il vostro salvatore! Lui aveva capito il vostro errore. Non doveva esistere alcuna distinzione tra alba e tramonto, in queste terre. Io e la dea dovevamo stare assieme e invece siamo stati divisi in alba e tramonto. Ora io non sono più alba, io non sono più tramonto, e pertanto da questo anello imprecisato di luce tiepida che voi mi avete regalato io vi parlo, e prometto di realizzare i vostri desideri, prometto di far tornare l’alternarsi del giorno e della notte, della luce e dell’ombra, poiché di continuo cambiamento noi tutti abbiamo bisogno per migliorarci, io compreso ne ho avuto. Così come io sono stato salvato dall’alternarsi del giorno e della notte in me, voi sarete salvati dall’alternarsi del giorno e della notte nel mondo. Allora ascoltate questa parola, ascoltatela bene, perché questa parola è tutto ciò che avete per unire il silenzio alla gestualità, la comprensione all’immobilità. Questa parola è tutto ciò di cui avete bisogno per unire i vostri mondi spaccati senza muovervi e senza parlare.
Prende una pausa, Angelus Silentii, prima di pronunciare l’ultima parola. Prende una pausa in cui il mondo rimane sospeso, si blocca, il tempo e lo spazio si bloccano, una pausa in cui gli spiriti si riposano, in cui il creato realizza se stesso, una pausa in cui c’è tutto e non c’è niente, in cui un momento dura in eterno e un’eternità passa in un momento, una pausa in cui ogni coscienza diventa un’autocoscienza per interagire con gli altri ma nessuno si muove e nessuno parla. Prende una pausa, Angelus Silentii, per permettere ai popoli di meditare, ma infine, solenne, divino, onnipotente e imperscrutabile, pronuncia con grande eco:
  • Empatia.
E il mondo riprende a girare.
 
Era una casa umile, in periferia, in quelle che un tempo erano le terre del giorno. Il primo piano soltanto era costruito in mattoni, il secondo era in legno, rischiarato dal sole che più volte l’aveva incendiato. Nonostante questo la piccola casetta era tenuta con somma cura, come se ogni oggetto avesse un’anima, come se ogni pianta potesse parlare. Dei vasi ora vuoti dovevano contenere un tempo dei graziosi fiori gialli che abbellivano la veranda di legno. Giacigli di paglia e panieri di vimini erano gli oggetti più preziosi che potevi trovare ma l’amore infuso nella cura, nella pulizia e nella semplice bellezza di quel luogo umile gli donava un valore intrinseco inestimabile. Come fosse sospeso in cielo la luce filtra tra le spaccature del legno e si posa sulle cornici, sui vasi di fiori, sulla sedia a dondolo, sul libro. Scene di vita quotidiana, semplici ma spensierate, vengono rievocate nella mente di Kadas mentre cammina a passo lento, con rispetto, in quella casa. Ed è proprio in un piccolo armadietto semiaperto accanto ad un giaciglio che Kadas trova ciò di cui aveva bisogno. Un ambito candido, bianco come l’inverno ma caldo come l’estate, intrecciato con grande maestria per dare l’illusione che le maglie siano come fiocchi di neve legati. Un abito lungo con una spilla su cui giace una margherita, il fiore preferito di Karula, che per ragioni troppo importanti per essere spiegate non è mai appassita. Un inchino, rivolge Kadas, prima di uscire dalla nostalgica casetta. Un inchino che rivolge un dio dinnanzi ad una margherita. Un inchino per ricordare che non c’è più elevata grandezza che l’umiltà.
 
La teca di vetro è ancora là. Maledettamente indistruttibile, maledettamente dura, maledettamente maledetta dal suo contenuto. Quella teca di vetro è ancora là sommersa da mattoni, metallo, lancette, disperazione e ricordi, ma non si spacca. E’ quando Kadas la tocca che si spacca. La sua mano si posa sulla teca, come molte altre volte aveva fatto, ma sta volta si spacca, si frantuma, si cristallizza, si polverizza. La teca nulla può adesso. La teca si è arresa. La luce rosea del pendente risplende forte. La luce rosea di Aurora è con lui. L’unica donna che abbia mai amato sarà sempre con lui, nella luce che riscalda la pelle vicino al suo cuore. Quando indossa il pendente la sente, sente il suo calore, sente il suo sorriso, sente le sue critiche, sente l’empatia. Non avrebbe mai creduto che una presenza aleggiante, un ricordo, una semplice luce avrebbe potuto sostituire la presenza fisica di un corpo vivo. Non avrebbe mai creduto che un sentimento da solo avrebbe potuto vincere la solitudine. Invece l’ha fatto. Il suo amore è abbastanza forte da esistere aldilà della materia. Il vero amore vince la solitudine senza aver bisogno di un corpo fisico. Kadas se ne sta già convincendo ma Aurora, che lo ama, vuole mantenere la sua promessa; il corpo di Aurora, che aveva mantenuto perfetto per poter guarire quello maltrattato di Kadas, si sarebbe trasmesso attraverso il pendente, un giorno. Quando Kadas avrebbe ritrovato l’onore perduto, il pendente avrebbe ripreso a brillare e lo avrebbe guarito dalla sua debolezza. Quel giorno è giunto e Aurora riprende a vivere, con Kadas, dentro Kadas e per Kadas. Con Kadas perché di fianco a lui è ogni giorno, nel pendente; dentro Kadas perché il suo corpo è dentro di lui e rende di nuovo giovane, forte e puro quello Kadas, restituendogli la purezza che da tanto credeva di aver perso; per Kadas perché lo ama e lo amerà sempre.
 
Kadas non ha mai tradito la sua parola d’onore ed anche lui ha una promessa da rispettare. L’Ara Verborum si è sciolta ed Aurora giace distesa, dormiente e sorridente, nuda ed inavvicinabile, sull’altare. Non c’è più involucro di ghiaccio a separarla da lui, ma sta volta Kadas non è lì per egoismo. Sta volta non è lì per implorare il suo aiuto o per sperare che si svegli. Sta volta è lì per mantenere la sua ultima parola d’onore.
  • Aurora, amore mio, avevo promesso che un giorno avrei trovato un vestito in grado di riscaldarti. Nei miei lunghi viaggi ho finalmente trovato un vestito bianco come l’inverno ma caldo come l’estate. E’ il vestito della più umile delle donne, un vestito che non oltraggia la tua purezza, un vestito che protegga il tuo pudore. Devo molto a questa donna perché ne sono l’assassino e dapprima avrei voluto farla conoscere al mondo come Marcus, ma poi ho pensato che non era la fama ciò che lei avrebbe voluto. Ho pensato che lei avrebbe voluto semplicemente prestarti un vestito, se ti avesse conosciuto. Lo so, non c’è niente di solenne, non c’è niente di epico, non c’è niente di elevato. Tuttavia sono sicuro che avrebbe semplicemente voluto prestarti un vestito, come un’amica. Tutto qui. Spero che ti piacerà indossarlo, in modo che possa tenerti al caldo così come il mio cuore ti terrà al caldo tramite il pendente.
 
In quel momento Angelus Silentii ebbe l’impressione che la luce rosea del pendente avesse lampeggiato. Poco dopo ricevette una consapevolezza, come una sorta di comunicazione non verbale, di telepatia o anzi, ancora meglio, di empatia. Capì che la margherita non era mai appassita perché Karula l’aveva perdonato. Fu Aurora a farglielo capire, facendolo piangere. Ma a farlo piangere come mai aveva pianto fu una lettera, nascosta tra le pieghe del vestito, che cadde per terra. Prese la lettera, la ripose con cura e si trasferì nella umile casetta doveva aveva trovato il vestito, deciso a trascorrere un’eternità nell’umiltà assieme alla persona a cui si era unito per sempre, poiché ormai solo di umiltà era privo. Ogni sera rileggeva la lettera piangendo e il pendente lampeggiava per ricordargli che gli era sempre vicino.
 
Al mio assassino – citava la lettera – ti voglio bene.
Karula.
 
(Verba… Fine.)

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