Still you haunt me, phantomwise.

di Eiko Quinn
(/viewuser.php?uid=47831)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Limbo. ***
Capitolo 2: *** Nel Giardino delle Rose ***
Capitolo 3: *** Traumsprache. ***



Capitolo 1
*** Limbo. ***


E continuava a guardarla, ogni minuto. Lei scriveva, osservava, domandava, e il suo sguardo era rovente. La malediva durante la notte, quando era solo, per averlo sedotto, e la idolatrava di giorno, vicino al pregarla per restare un po' più a lungo.

Ogni mattina si riprometteva di scacciarla, di non prestarle attenzione, di trattarla con freddezza; ogni mattina falliva.

Ma era così giovane, lei! Il suo volto ancora infantile, gli occhi grandi e le ciglia scure, quelle poche lentiggini sulle guance e sulla punta del naso che lui tanto adorava, il suo piccolo corpo, un corpo da donna e da bambina, la bramava più di ogni cosa. La bramava. Desiderio. Era tutto ciò che provava per lei, e si sentiva sporco e colpevole. Non era solo per il suo aspetto fisico, cercava di convincersi, e sapeva che era vero e al contempo falso; lei era sola, una bambina abbandonata dagli occhi tristi e provocatori, lo sguardo scrutatore di chi vede e di chi sa, il sorriso malinconico e le mani impegnate a scrivere. Scriveva spesso, lei, immersa nelle proprie parole e nei propri sogni. Quasi non si accorgeva di lui.

O almeno, così credeva lui. Il povero John, il piccolo, tormentato, vecchio John.

Era un uomo, non un ragazzino. Un uomo adulto, responsabile, maturo. E lei, lei un'adolescente ancora acerba, ma splendente. Nessun'altra donna riluceva come lei.

Rose. Mai nome era stato più giusto e più sbagliato.

John Campbell, il saggio John Campbell, che aveva trascorso la vita tra morti autori e filosofi, diveniva uno sventurato Humbert, e lei una rosea Dolores, Lolita, un bocciolo di rosa da cogliere senza farsi scoprire.

«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia.»

Chiunque scrisse queste parole, forse aveva provato ciò che John Campbell provava per lei. Forse aveva avvertito sulla propria pelle il bruciore della presenza di lei, aveva avuto i suoi occhi incastrati sul suo corpo, pregato Dio di perdonarlo quando ebbe la sua pelle tra le mani. E fu la stessa pelle che fece scivolare tra le dita per molti, molti giorni, i capelli scuri di lei come un lago sulla superficie di legno, la sua bocca così rossa, i suoi sospiri così acuti.

 

Si svegliò con quelle parole nella mente. Tra il riecheggiare di voci lontane e vicine, canti perduti, grida, frastuono e pace, quelle esatte, perdute parole. Ricordava una lunga lettera, ricevuta quando era poco più di adolescente, durante il suo ultimo anno di scuola; ricordava il volto di quell'uomo, ne ricordava il corpo e il profumo, e spalancò gli occhi, cercandolo nella stanza, nella memoria, tra le voci.

Aveva sognato il sole. Il sole nei giardini, il sole sulle rose, il sole su persone senza volto che l'avevano lasciata ormai da tempo. Emise un sospiro, una lacrima purpurea le sfiorò le labbra, e rise.

A volte, si ricordava di cos'aveva perduto, e di come non desiderasse altro che ciò che invece aveva. Ma la malinconia che aveva fatto propria, fin da quando era integra, quella la cullava, la tratteneva, le serviva, sua compagna di sventura, sua Musa tra le Muse.

Intorno a lei, grida e canzoni e morte, e schegge di umanità che filtravano dalle finestre sbarrate. Per un istante, si sentì morta. Ma poi si sentì afferrare, e lui, colui che l'aveva salvata, colui che lei possedeva e che possedeva lei, lui la trasse a sé, e lei sentì le sue dita sulla pelle, le sue unghie tra le ossa, i suoi denti nelle vene, i suoi capelli sul seno, e se lo ricordò.

Si ricordò di essere viva.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Nel Giardino delle Rose ***


In quel Giardino la fissavano le rose, come giudici implacabili guardavano. intrecci di cavi spezzati, la guardavano sul sentiero del non sole, sul sentiero la portavano.

"Come posso uscire?" chiese lei, piangendo lacrime di fiori.

"Mai" rispose lui, esso, il corvo, il morto. "Io ti ho presa e posseduta, sei persa, sei perduta. Esci da me, entra in me, legata, sei cucita alla mia mano."

Pianse rosso di porpora, lei mangiò i cocci del suo cuore.

Il garofano si strappò, il glicine impazzì, il gladiolo la ferì.

"Sei nel Giardino delle Rose, loro col tuo volto, tu legata a loro."

E non seppe come uscire dal cielo così rosso.

 

I sogni sono la realtà. La realtà è una prigione.

"Io camminai ad occhi cuciti per il Giardino."

I sogni sono una prigione.

"E come ne uscisti?"

Le rose sfiorirono.

"Non ne uscii mai. Non posso vedere. Io che non vedo non posso svegliarmi."
 

C'è uno specchio, nel giardino.

Mi osserva.

Ha dei grandi occhi con cui scruta il mondo e l'avvenire.

Ho paura. Mi spaventa.

È incrinato.”

 

Camminò sul sentiero senza luce, il tramonto era bruciato già da ore. Era sola, sola tra le siepi, tra i rovi, tra le edere. Mentre camminava, piovevano pietre.

Ogni pietra che la colpiva lasciava un graffio sulla sua pelle; il sangue le sferzava il viso, le mani, le gambe, lasciava tracce di colpa e di morte.

“Perdono!”, gridò lei, serrandosi il petto e la gola, cercando un macigno che la seppellisse e la abbandonasse ai suoi peccati. “Salvatemi”, pregò, sussurrando, coprendosi il volto, cercando la via scarlatta che la portasse alla distruzione.

“Non v'è pace per noi, quaggiù”, sentì lui che bisbigliava, afferrandola, salvandola, dannandola.

E la ferì, guarendola.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Traumsprache. ***


“Tutto ciò che so è che un attimo prima era in piedi, parlando del suo Merlot preferito, e l’attimo dopo era sul pavimento in una pozza di sangue”.

 

-Hai il suo sangue sulle mani-, gemette il ragazzo, reggendosi saldamente ad uno spigolo della tavola.

-Chi, io? No, non è vero-, rispose lei, distrattamente, intenta ad osservare la collezione di libri sullo scaffale, risistemandone qualcuno di tanto in tanto.

-E anche sul volto-, proseguì lui, digrignando i denti.

Lei, senza neanche voltarsi a guardarlo, si sfiorò il mento con le dita, per poi toccarle con la punta della lingua.

-Ah, sì, questo è vero-, mormorò, ripulendosi. -Davvero abiti in questo posto orribile?-.

Lui batté il pugno sul tavolo. -Cosa gli hai fatto?-.

E lei si voltò finalmente a guardarlo. L’incarnato era pallido, le labbra ancora macchiate del sangue di Robert, gli occhi scrutatori e trasparenti alla luce della luna.

E ancora non rispondeva.

-Da dove sei entrata? Chi sei? Cosa ci facevi in casa? Come…-, e s’interruppe, spezzato da un attacco di singhiozzi. Lei gli si avvicinò, pacata, poggiando una mano sul capo di lui.

-Su-, sussurrò. -So cosa provi-.

-Io… io non credo-.

-Hai ragione. Non ne ho idea. Ti capita spesso di avere ragione? Io credo di sì-.

Lui si scosse, scrollandosi la mano di lei di dosso, che aveva iniziato a tracciare arabeschi e ghirigori astratti. -L’hai… l’hai ucciso-.

-Io? Oh, no, io no. Io mai. Non mi piace uccidere. È complicato e disordinato-. Mentre parlava, prese a spostarsi per la sala, muovendosi quasi come stesse danzando: un passo leggero in avanti, una mezza giravolta, un saltello appena accennato. -Ha fatto tutto da sé-.

-Voglio sapere-, ringhiò lui. -Dimmi il tuo nome-.

Lei, che si stava intrecciando dello spago da cucina tra i capelli, sorrise. Un sorriso profondamente sbagliato. -Tu come pensi che mi chiami?-.

-Non voglio giocare con te-.

-Solo perché non conosci la risposta. Eri un bambino triste e noioso, tu. Nessuno voleva giocare con te. E tu dicevi che eri tu a non voler giocare con gli altri. Ma avresti venduto gli organi di tuo padre pur di essere come loro. Ah, perdonami: tuo padre era già morto-.

Lui ammutolì. -Come lo sai?-.

-Io so-, replicò lei, il sorriso che si ampliava, le dita che lavoravano tra le ciocche scure.

-Come?-, insistette lui, alterato, confuso, disperato.

Lei rise. Una risata che lui avrebbe voluto dimenticare per sempre. -Noi sappiamo sempre-. Finì di intrecciarsi i capelli, e tornò volteggiando verso di lui. -Loro sanno tutto. Noi sentiamo tutto. Noi vediamo tutto-. S’interruppe, sgranando gli occhi, fissando un punto oltre le spalle del ragazzo, terrorizzata, allarmata. Ma non appena lui fece per voltarsi, lei riprese a parlare, quasi direttamente nel suo orecchio. -Tu non puoi sapere. Tu non vuoi sapere…-.

E si allontanò, riprendendo la sua esplorazione della sala.

-Oh, e comunque, mi hanno parlato solo di tuo padre. Il resto l’ho saputo guardandoti in volto-, aggiunse, inginocchiandosi sul pavimento, esaminando una pila di riviste.

-Chi sei?-, ricalcò lui, il tono più violento. Lei ridacchiò.

-Lo sai. Guardami bene. Dammi un nome-.

-Ho detto che non voglio giocare-.

-Giocare? Chi sta giocando, Paul? Nessuno sta giocando, Paul. Smettila, Paul, ci stai facendo paura. Oh, Paul, quella giacca è orribile. Jimmy ne è quasi spaventato-.

Lui deglutì. Lei gli scoccò un’occhiata.

-Dimmi il tuo nome-, ripeté.

Un’altra risata.

-Dimmelo-.

Un fruscio di carta, piccoli tonfi.

-Voglio solo sapere come ti chiami…-.

A quel punto, lei si alzò in piedi. Si diresse verso di lui in un paio di falcate, avvicinandogli nuovamente la bocca all’orecchio, questa volta tanto vicino che lui poté sentire la punta della sua lingua toccargli la pelle.

Sussultò.

Era gelida.

-Ci chiamano in tanti modi-, bisbigliò, e sembrava così aliena, con il suo tocco freddo e morto, con le sue parole senza logica. -Ci chiamano Legione, perché siamo in molti-.

Paul indietreggiò, boccheggiando, ansimando. Pregò che fosse solo un incubo.

-James mi chiama Rose. Anche Christine mi chiama Rose. Anche mio padre mi chiamava Rose-.

Si bloccò. Si guardò alle spalle, e poi a destra e a sinistra, frenetica. -Perché c’è buio, qui? Nel buio c’è il silenzio. Non mi piace il silenzio. James, restami vicino!-. E si rannicchiò accanto al divano.

Tremava. O almeno, Paul giurò di averla vista tremare. Era come se vedesse qualcosa che lui non poteva vedere. Come se sentisse qualcosa che lui non poteva sentire.

-Rose…-, sussurrò, con un filo di voce. -Chi sei?-.

Lei cessò immediatamente il suo delirio. Si rialzò, gli occhi sgranati e le mani ferme.

Rise. Una risata più gelida della sua pelle, più agghiacciante della penombra in cui si trovava.

-Robert è morto-, annunciò Rose, passandosi un dito sulla pelle nuda del braccio, come se stesse scrivendoci sopra.

-Lo so-, sussurrò Paul, le lacrime agli occhi.

-Non sono stata io. A James piaceva tanto. Stavamo solo parlando-.

-E chi altri è stato?-, domandò, il volto tra le mani. -E chi è James?-.

Rose non rispose.

-Dovrei farti arrestare-, singhiozzò Paul.

-Non riusciresti-, fece lei, accarezzandogli i capelli. -Non ti crederebbero. Non crederebbero neanche a me. Tu crederesti a te? E a me? Forse a James crederebbero. È ben vestito. È una cosa molto importante-.

Paul era ormai in preda al pianto e alla disperazione.

-Hai paura del mondo, Paul?-.

Lui scosse la testa. -Ho paura di te, e di questa notte-.

-Guardami, Paul. Paul Evans. Guardami-.

Lui la guardò. E avvertì come se mani invisibili scavassero dentro di lui, come se una bocca invisibile soffiasse su parti di se stesso che non sentiva di avere, spegnendole, annullandole, annientandole.

E lei lo baciò. E a lui sembrò il bacio della Morte. Fu dolore, terrore, silenzio, e il piacere più intenso che avesse mai provato.

-Tu non ricorderai niente, Paul. Tu non dirai niente, Paul. Tu mi temi, Paul. Tu hai troppa paura, Paul. Non dirai niente a nessuno-. E si passò la lingua sulle labbra, cancellando un residuo di sangue. -Chiama la polizia, Paul. Di’ loro che sei appena rientrato. Di’ loro che non sai. Chi non sa, vive. Chi non sa, vive tranquillo-.

La guardò allontanarsi, uno svolazzare lieve dei suoi capelli nell’aria, il suo profumo alieno.

E fu solo quando lei ebbe chiuso la porta, andandosene, che Paul collassò sulla sedia più vicina, afferrando il revolver posato sul tavolo e puntandoselo alla tempia.

Non si era mai sentito così vuoto.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2538446