All the lies have a price..

di ALEXIANDRAisMe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1# Mirrors ***
Capitolo 2: *** 2# Distance ***
Capitolo 3: *** 3# A Beautiful Lie ***



Capitolo 1
*** 1# Mirrors ***


Personaggi, eventi e luoghi (sebbene esistenti o meno) sono frutto della mia contorta fantasia e di quella della mia “Socia” Roh.
Ps: in seguito probabilmente volgerà al Rosso.
 

 
ELIJAH
 
Sospirai per il piacevole sollievo che dava l’acqua fresca a contatto con il mio viso accaldato. Ne avevo proprio bisogno, pensai.
Alzai la testa guardandomi allo specchio; i capelli neri e leggermente ondulati mi cadevano avanti incollandosi alla fronte. Li tirai indietro con un gesto irritato, spingendo il ciuffo di lato fin dietro le orecchie. Qualche ciocca ribelle ricadde davanti agli occhi e sbuffai, lasciando perdere. Molti mi ammiravano per l’eleganza impeccabile perfettamente abbinata a quell’eccezione che erano i miei indomabili capelli.
Sorrisi di fronte al mio riflesso, fissando i due occhi di colore diverso che ricambiavano il mio sguardo: il destro era verde, proprio come quelli di mia madre; mentre il sinistro era castano, preso probabilmente da mio nonno materno di origini italiane.
- Elijah! – una voce affannata pronunciò il mio nome, costringendomi a spostare lo sguardo verso di essa. Il ragazzo aveva spalancato la porta del bagno, consapevole di trovarmi all’interno.
Era uno di quei ragazzini nuovi che ultimamente mi stava sempre alle costole: neo giocatore di basket, passava la maggior parte del tempo in panchina ma sembrava determinato a far parte del gruppo.
- Che c’è? – chiesi svogliatamente, voltandomi verso di lui.
- Emm – l’interessato rimase imbambolato, come se si fosse perso a contemplarmi fino a dimenticare il motivo per cui era lì, infine si schiarì la gola e – Alcuni ragazzi della squadra stavano parlando con un novellino e qualcuno si è messo in mezzo.. se scoppia un’altra rissa tra i corridoi stavolta sarà il Preside Chambers a metterci in castigo! – continuò.
Sollevai un sopracciglio per nulla stupito, sapevo cosa significava “parlare” per i miei cari compagni e in genere finiva sempre con qualcuno maltrattato o costretto a rinunciare al proprio pranzo. Erano ovviamente tutti nelle condizioni economiche di permettersi da soli un pranzo più che adeguato, ma da ché io ricordassi era ormai una questione di principio quella di privare gli studenti più piccoli dei loro sacchetti accuratamente preparati dalle madri.
Negli ultimi tempi però, molti si erano armati di coraggio e si erano lamentati di quel ciclo naturale degli eventi. Questo aveva portato ad un aumento delle vittime in relazione direttamente proporzionale al malcontento della classe Elitè della scuola.
La Private High School of Sacramento vantava il più alto tasso di prole proveniente dalla classe capitalista della città e anche il più povero rientrava tra gli alti borghesi in grado di permettersi un auto per ogni componente della famiglia.
Tra questi c’era comunque chi era più importante di qualcun altro e più dei soldi a volte contava la popolarità e la fama che ti eri creato.
Io, ovviamente, avevo sia la popolarità che i soldi.
La mia famiglia era tra i vertici della piramide sociale, se non in vetta: mio padre, Jonathan Reynolds, era il direttore di una multinazionale che commerciava con ogni parte del mondo, la “Reynolds’s Corporation”; mia madre Lana D’Angelo in Reynolds, italiana sia nelle forme che nella mentalità, era una stilista diventata famosissima in America con il suo marchio, “Angel” appunto.
Io, d’altro canto, avevo preso la propensione alla leadership da mio padre e il carisma magnetico di mia madre. Nel primo anno delle superiori ero già quarterback della squadra di basket della scuola, i Kings, portandoli ai Play-Off e in seguito alla vittoria dei campionati di primavera. Nel contempo avevo ottenuto la Presidenza all’interno del Comitato Studentesco ed i miei voti nelle materie scientifiche erano tra i più alti.
Avevo tutto perciò, dal potere sugli studenti all’incolumità con gli insegnanti.
Non potevo negare che questo avesse incrementato ancora di più il mio ego già smisurato grazie alla mia vita agiata.
Dover risolvere i problemi degli altri come adesso, però, era la cosa che mi dava più noie in assoluto.
Annuii impercettibilmente mentre già lo affiancavo. – Fammi strada. – ordinai laconico.
Mi condusse così nelle vicinanze dell’aula di musica e nel corridoio dalle ampi finestre che si affacciavano nel piccolo cortile quadrato c’era una grande folla a circondare un punto ben preciso, quello in cui si stava già svolgendo la scazzottata.
Senza neanche dover ricorrere alle sgomitate mi feci largo tra la gente, trovando la strada spianata dal ragazzo che stavo seguendo.
Davanti a me si parò la scena di una ragazzo semi inginocchiato, reggendosi con una mano per terra, il braccio teso e in ginocchio opposto alzato, gli occhiali ad un metro e mezzo di distanza. Il ragazzetto di primo intanto doveva essersela già data a gambe. Il gruppetto artefice di tutto quel putiferio era in piedi e senza un graffio mentre sul viso del ragazzo capeggiavano già delle ferite evidenti e sanguinanti, come la spaccatura all’angolo del sopracciglio destro, altre lo sarebbero diventare come il chiaro ematoma che si sarebbe formato all’occhio.
Ciò non m’impedì di riconoscere il malcapitato, tanto che neanche trattenni il mio compiacimento quando si voltò verso di me con quello sguardo sprezzante e presi il comando della situazione.
- Ragazzi. – urlai, sorrisi accondiscendente per accompagnare un ampio gesto delle mani. Mi atteggiai, teatralmente, aprendo le braccia come a voler coinvolgere tutti a quello sceneggiato. – Siate più discreti. – cercai di assumere un tono più calmo possibile ma il mio era comunque un ordine.
I cinque giocatori mi guardarono, annuirono e dissi con fare conciliante – Potete continuare. – Le mie parole furono coperte dal calcio che Tyler si era già apprestato a dare alla figura per terra, che in un attimo cadde all’indietro lunga distesa.
Feci per andarmene quando mi scontrai con una ragazza. Era carina con quelle spalle strette come il bacino, gli occhi marroni e i capelli castani e ricci legati in un’alta coda laterale, un ciuffo sulla sinistra ad incorniciarle il viso tondo. Notai subito la bocca carnosa contratta in una smorfia di disappunto e preoccupazione, mi venne spontaneo sorriderle con ostentata malizia e poi senza aggiungere altro mi limitai ad andare verso l’aula di Anatomia. Da lì a poco la pausa pranzo si sarebbe conclusa e la campanella avrebbe intimato a tutti gli studenti di rientrare nelle proprie classi.
 
ROY
 
Misi i quaderni nella borsa. Quel giorno non avevo studiato granché.
L’aula di musica era deserta ormai da un’oretta ma mi piaceva rimanere lì anche dopo le lezioni, per provare un po’ da solo. Mi riusciva più facile.
Dopo aver preso lo zaino aprì la porta dell’aula, dei rumori catturarono la mia attenzione. Alzai lo sguardo verso la parte destra del corridoio sul quale affacciava l’aula.
Un gruppo di ragazzi circondava qualcosa, o meglio qualcuno, che non riuscivo a vedere.
Li conoscevo quasi tutti, soprattutto uno che spiccava un po’ di più per l’altezza e per la stazza. Tyler, così si chiamava, sporgeva rispetto agli altri, con un ghigno in viso e lo sguardo rivolto a terra.
Un gemito. Evidentemente era troppo sperare in qualcosa di diverso da ciò che mi aveva suggerito il mio istinto.
Feci delle rapide falcate, iniziai a sentire anche quello che il più grande stava blaterando.
- Così impari a rispondere ai più grandi, moccioso. –
Misi così, con molta naturalezza, una mano sulla spalla di uno dei ragazzi che mi stava davanti ormai.
- Ehi. – dissi con tono calmo. – Che succede qui? –
Appena sentirono la mia voce si voltarono, ebbi il tempo di lanciare uno sguardo alla figura stesa a terra e proprio come pensavo era un primino.
I giocatori di basket sapevano essere davvero stronzi.
Nel vedere il mio viso il sorriso di Tyler si incurvò ancora di più e ridacchiò.
- Ma guarda chi si vede, il mio sacco da boxe preferito! – disse sarcastico.
- Incredibile quando ti senta figo.. – risposi prontamente io, prima di aggiungere dopo una breve pausa - ..soprattutto in assenza del vero capo! –
La sua espressione cambiò. Ovviamente lo punsi sul vivo.
Con la coda dell’occhio vidi il ragazzino prendere velocemente lo zaino e indietreggiare. Non si resero nemmeno conto della sua assenza, probabilmente perché ora avevano un nuovo bersaglio.
Non mi mossi nemmeno quando Mr. Muscolo, così lo chiamavo ormai per abitudine, diminuì la distanza che ci separava con pochi passi.
Sapevo cosa stava per fare, aveva un’espressione che voleva sembrare arrabbiata ma dovetti trattenere una risata perché quel tic all’occhio era troppo divertente. Ora la mano stretta in un pugno gli tremava e fu l’ultima cosa che vidi prima di riceverlo in pieno viso.
Bhè, diciamo che fece più male che bene, ovviamente.
Gli occhiali mi si sfilarono. Persi l’equilibrio sbilanciandomi di lato e mi ritrovai a poggiare un ginocchio a terra per non cadere e a cercare l’equilibrio con la mano tesa verso il pavimento. Aprì gli occhi e attraverso la mia vista appannata riuscì a distinguere qualcosa di sottile giacere a terra, proprio a pochi metri da me.
Il leggero astigmatismo e l’ipermetropia mi portarono a vedere distintamente le figure ma questo non valeva altrettanto per i loro particolari.
Tyler era davanti a me, la mano ora tesa in un evidente dito medio.
- Lo riesci a vedere questo? O te lo devo ficcare nel culo perché tu lo senta come si deve? – qualcuno dei ragazzi dietro di lui rise.
- È impossibile per me non vedere la tua faccia da culo anche senza occhiali, credimi! – risposi.
Per chiunque se lo stesse chiedendo, si. Sono masochista, ma almeno ho stile.
Mi parve di sentire un ringhio prima che si preparasse a tirarmi un calcio ma fu allora che successe qualcosa.
Qualcosa che bloccò tutti, tanto che non sentivo quasi più respirare nessuno dei ragazzi che prima mi stavano guardando. Una reazione del genere poteva suscitarla soltanto una persona.
- Elijah. – Tyler disse il suo nome come un sussurrò ma io non avevo bisogno di quella conferma perché lo stavo già fissando.
Lui mi osservò per qualche secondo e sorrise prima di rivolgersi a chi mi stava di fronte e alla piccola ma fitta folla che spinta dalla curiosità ora ci circondava, a cui fino ad allora non avevo fatto proprio caso – Ragazzi.. – alzò le mani con fare plateale, come da suo solito, il ché m’irritò più di altre volte.
- ..Siate più discreti! – ed ecco l’ordine, lui non riusciva a comunicare se non con gli ordini. Come se fosse un dio, come se fosse il figlio unico di se stesso.
Mi aspettavo tutto, anche la sua indifferenza, forse soprattutto la sua indifferenza.
Non lo vidi allontanarsi perchè ormai mi ero distratto, colpito in fallo da un calcio diretto alla mia bocca.
Questo, fu leggermente più dannoso e per un attimo, stupidamente, ebbi il terrore di non poterla più usare per mangiare o per cantare.
 
Angolo Autrici:
Come avrete capito è una storia scritta a quattro mani.
Ad  ispirarmi è stato un disegno chibi fatto dalla mia Socia (Aurora alias Roh) in cui si rappresentava nella sua versione maschile. Da lì è nata anche la mia, di versione maschile. Per questo, qui mi firmerò con il mio vero nome (Eleonora.. meglio El) per la prima e forse unica volta.
Così facendo due più due la trama, a mio parere davvero controversa, si è praticamente scritta da sola.
Un pensiero ci è sorto naturale, rivolto ovviamente alla mia Persona tanto ispiratrice.
Bene, questo è il risultato del dramma!
Spero che questo primo capitolo sia di vostro gradimento.
Scritto ascoltando Mirrors di Justin Timberlake.. che non centra molto in realtà, ma il concetto mi attirava e presto capirete perché.
Ringrazio già da ora chi ci seguirà etc, commentate per farci sapere le vostre opinioni al riguardo!^^
Saluti Alex e Roh

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Capitolo 2
*** 2# Distance ***


Personaggi, eventi e luoghi (sebbene esistenti o meno) sono frutto della mia contorta fantasia e di quella della mia “Socia” Roh.
Ps: in seguito probabilmente volgerà al Rosso.
 


ROY
 
Mi ritrovai a terra senza accorgermene, occhi chiusi.
Non mi sembrava una cattiva idea quella di rimanere lì finché il dolore al labbro e alla testa non si fosse attenuato ma evidentemente qualcuno non era d’accordo con me.
Qualcosa mi punzecchiò la spalla. Aprì gli occhi.
- Ehi. – una ragazza, o così sembrava, aveva i miei occhiali in mano – Stai bene? –
Mi morsi un labbro per impedirmi di rispondere in un modo acido e sarcastico, limitandomi a riprendermi gli occhiali per indossarli e annuire.
Ora che la vedevo più chiaramente mi ritrovai a pensare che: Wow, era davvero carina. Il mio cervello però non era in vena di analizzare i dettagli che la tendevano tale, forse per il trauma subito qualche minuto prima.
Lei si alzò e mi porse la mano per aiutarmi a rimettermi in piedi.
Io rifiutai, da vero gentiluomo, e da vero idiota rischiai di perdere l’equilibrio una volta alzatomi troppo in fretta.
L’altra rise. Scossi il capo trovando incredibile la mia capacità di sembrare uno scemo e ancora di più quella di capire di sembrare scemo.
La mano della ragazza mi ripulì la felpa con un paio di colpetti.
- Piacere, Diana. – me la ritrovai poi vicino al petto, tesa. Scrollai le spalle sorridendo – Roy. – dissi stringendola subito dopo.
Da quanto qualcuno non mi si presentava con aria tanto amichevole? Forse qualche mese.
Lei fece una smorfia, ora sembrava imbarazzata? – Vorrei accompagnarti in infermeria ma.. non so dove si trova. In effetti non so neanche dove siamo, mi sono appena trasferita in questa scuola. –
Ah, ecco perché.. pensai sarcastico. Mi sembrava strano infatti, che qualcuno di facesse avanti in quel modo dopo che il gruppetto Vip aveva colpito ancora.
Scossi il capo sbuffando. – Non ne ho bisogno, sto bene. – risposi mentre le davo le spalle, occupato a cogliere lo zaino da terra. Di certo non ero il tipo da portare con orgoglio in infermeria i miei trofei, soprattutto non dopo una scazzottata a senso unico.
Evidentemente lei era di tutt’altro avviso.
- Tu non hai capito niente! adesso vai in infermeria e ti fai disinfettare il taglio sul labbro e poi devi farti controllare quel livido sulla tempia. – disse con aria seccata, che non ammetteva repliche.
Mi voltai, sospirai, ecco un’altra persona che pensava di darmi una mano con il suo stupido moralismo. Solo perché non conosceva le regole di questa scuola, solo perché non conosceva Elijah.
Ignorai il suo sguardo e indurì il mio – Senti, si vede chiaramente che sei una brava persona e per questo ti darò ben tre consigli. – ad accompagnare le mie parole alzai tre dita della mano che non era impegnata a massaggiarsi il dolore pulsante alla testa – Uno: stammi lontano, non solo per il tuo bene ma anche per il mio. Due: stai lontana da quel ragazzo, Elijah. Non fare nulla che possa infastidirlo e non contraddirlo. – sospira ancora una volta prima di concludere – Tre: sotterra con tanto di lapide i tuoi sogni di una scuola libera dagli stronzi e dalla merda, e magari nella bara mettici anche la voglia di cambiare le cose perché tanto non ci riusciresti, nessuno ci è riuscito. –
Lei ascoltò con attenzione le mie parole, attese qualche secondo prima di puntarmi addosso i suoi grandi occhi castani. Incredibilmente, non fece una piega anzi – Capisco, sembra una questione delicata. –
- Sei seria? – diedi così voce ai miei pensieri.
- No, sono di New York. Quello che ho visto oggi, lì, lo vedevo almeno cinque volte al giorno! – rispose sprezzante incrociando le braccia al petto.
- Perché ti sei trasferita? –
Il suo sguardo mutò passando dal sorpreso al divertito. – Non sono fatti tuoi! – la sua presa sul braccio mi stupì perché a dispetto della sua corporatura minuta era inaspettatamente forte.
- Scusami! – fermò un ragazzino che probabilmente era diretto alla sua aula. Che ore erano?! La campanella del pranzo era suonata sicuramente da un pezzo. - Sapresti dirmi dove si trova l’infermeria? – continuò allo sguardo interrogativo del più piccolo che passò in rassegno il mio volto prima di risponderle - Basta attraversare questo corridoio e girare a destra, è vicina ad alcune aule di laboratorio. –
Stavo per liberarmi della sua presa ma prima ancora di provarci mi trovai trapassato da uno sguardo ammonitore. Dio santo, quella ragazza era inquietante.
Iniziò a camminare e automaticamente io la seguì, imitando la sua andatura svelta nonostante i passi piccoli. - Mi sembra di capire che non ho voce in capitolo. – borbottai.
- Esattamente. Quindi la prossima volta che ti fai pestare, perché qualcosa mi dice che questa non è la prima né sarà l’ultima volta che succede, vedi di farlo lontano da me in modo da non costringermi a prendermi cura di te per avere la coscienza apposto! –
Risi, sia per il suo modo di dire le cose con fare impettito ché per la situazione.
Solo dopo mi resi conto che la mia era una risata liberatoria e che decisamente da troppo tempo nessuno mi faceva ridere per davvero.
 
- Fermo. –
- Come diavolo faccio!? Tamponi le ferite in modo pessimo. – sbottai stringendo la presa contro la pelle della sedia.
Appena entrati in infermeria non trovammo nessuno, neanche la dottoressa di turno. Pensai che probabilmente si era presa una pausa, una delle tante. Così Diana prese di sua iniziativa batuffoli di ovatta e disinfettante.
- Hai fatto male  a farti pestare. Ora stai zitto e subisci. – il labbro bruciava in una maniera assurda.
- Non è stata colpa mia! –
- A me non è sembrato.. –
Preferì, per la seconda volta nell’ultima mezz’ora, non rispondere in modo sgarbato e lasciar cadere il discorso lì, lasciando posto al silenzio.
- Com’è iniziato il vostro amorevole rapporto? – il modo in cui me lo chiese sembrava disinteressato ma sapevo che l’argomento, almeno un po’, la incuriosiva.
- Tyler? Sinceramente non ne ho idea, forse sembro davvero un sacco da boxe ai suoi occhi da babbuino. –
Lei di tutta risposta spinse di più l’ovatta imbevuta sul taglio, facendomi sobbalzare – Non fare finta di non capire. – disse – Non mi riferivo al tizio tutto muscoli e niente cervello, infondo lui è una pedina nelle mani di quell’altro no? –
Avevo capito da subito a cosa di riferiva. Insomma, non ero così stupido come davo a vedere. – Ah intendi Elijah! – scrollai le spalle. – Nemmeno con lui c’è un motivo preciso. Ci siamo conosciuti che eravamo molto piccoli, eravamo molto amici. Poi abbiamo iniziato il liceo insieme ma a quel punto le nostre strade si stavano già separando; così mentre lui era stato scelto come playmaker nella squadra di basket e veniva eletto Presidente del Comitato Studentesco, io me ne stavo chiuso nell’aula di musica a suonare la chitarra.. da solo. – rimasi qualche secondo a fissare il vuoto prima di essere riportato alla realtà dalla sua voce.
- In pratica la mia prima impressione su di te, e cioè che sei uno sfigato, era giusta! – disse cercando di non farmi notare il suo sorriso.
- Và a quel paese. Ho solo un mio stile di vita! Piuttosto, tu.. – decisi di cambiare il discorso, giusto per non calpestare di più la mia dignità. - Che ci fai qui? –
Lei prese quello che sembrava un cerotto e lo mise delicatamente sul labbro inferiore – Mi sono trasferita da New York una settimana fa insieme a mia madre a mia sorella gemella per motivi di lavoro. –
- Mmh-mmh. – aggrottai le sopracciglia. – Non vedo tua sorella da nessuna parte ora.. di solito i gemelli non hanno un rapporto molto.. stretto? – domandai.
Indietreggio per sedersi sullo sgabello davanti a me con un sorriso storto – I nostri caratteri sono molto diversi, così abbiamo fatto un tacito accordo per cui più lontane siamo e più ci vogliamo bene! –
Da questo capì subito che nemmeno la vita di quella ragazza era una passeggiata e per questo dava l’impressione che fosse il tipo di persona che odiava essere compatita, proprio come me.
- Non ci capisco molto di relazioni.. – borbottai allora.
- Ma dai, davvero? – era sarcastica, ovviamente. – Ora devo andare! – si alzò d’un tratto.
- Dove? –
- Faccio parte della redazione del giornalino della scuola quindi devo rimanere oltre l’orario delle lezioni. Se rimango qui farò tardi alla mia prima riunione e non vorrei farli aspettare.. –
Aggrottai la fronte – Fai giornalismo? –
Annuì mentre già prendeva la borsa – Mi piace molto! –
- Ma.. non è che alla fine questo è stato solo un espediente per poter scrivere un articolo su di me? –
Mi guardò di sottecchi con aria colpevole ma scoppiò subito a ridere e disse – Forse. –
Per me non c’era nulla di divertente, non mi andava a fatto di diventare famoso a causa di uno stupido articolo che poteva, oltretutto, minare alla mia incolumità.
- Ehi, ora si che hai una faccia che fa paura! Guarda che non scriverò nulla se è questo quello ch ti preoccupa, tranquillo. – poi con un ultimo sorriso si incamminò verso la porta. - Allora ci vediamo. – furono le ultime parole che disse prima di oltrepassare la soglia e chiudendosela alle spalle.
 
***Flaskback***
La giornata era primaverile, di quelle che ti mettono di buon umore appena svegli.
Era suonata la campanella del pranzo da dieci minuti, uscimmo subito per andare nel parco giochi della scuola, com’eravamo soliti fare.
L’altalena era occupata e questo mi irritò molto. Tutto per colpa della maestra che ci aveva trattenuti più del dovuto.
- Proviamo quella! – indicai con il dito la giostra formata da due torri collegate da un ponticello di corda con le ringhiere di legno, una delle due casette terminava con un largo scivolo.
Salimmo dalla scaletta di legno verticale. A pensarci ora, la vista dalla torre non era un granché ma si sa, quando si ha solo sei anni tutto appare più alto e bello di quel che è realmente. Quel panorama che si estendeva di fronte a noi piaceva anche al bambino dai capelli corvini, uguali ai miei, che era al mio fianco. Probabilmente perché sovrastare il quel modo il parco lo faceva sentire il padrone di tutto. Già d’allora aveva manie di grandezza.
- Dai vieni! – dissi avanzando attraverso il ponte di corde. Mi tenevo saldamente al legno ai lati, camminare sulle corde sospese per aria dava la sensazione di camminare su una barca mentre il mare e agitato e ti senti traballare da una parte all’altra.
Ancora pochi passi e mi ritrovai coperto dal tetto della seconda torre e solo una volta toccato il suolo stabile mi accorsi che non sentivo più la sua presenza vicino a me.
Mi voltai e lo vidi, era ancora al centro del ponte. – Elijah! – lo chiamai.
Aveva le mani serrate alla ringhiera, paralizzato guardava in basso il vuoto sotto i suoi piedi ma proprio non capivo perché sembrasse così spaventato. In genere ero io l’imbranato; lui sapeva fare tutto, figuriamoci attraversare un misero ponticello!
- Elijah, perché ti sei fermato? Che hai? – chiesi allora.
- Roy.. giù non c’è niente! Ho paura.. – sussurrò. Continuavo a non capire.
- Ci sono le corde! – dissi.
- No. No, no, no. Sotto è vuoto! – le poche parole che pronunciò erano stentate, come se gli mancasse l’aria.
- Va tutto bene! Basta che continui a camminare.. – non aggiunsi altro. Mi fissava ad occhi sgranati, come se fossi pazzo anche solo a pensare una cosa del genere. Non si mosse, ricordo che iniziai seriamente a preoccuparmi per lui.
- Elijah vieni! – feci un passo in avanti porgendo la mano verso di lui, gli sarebbe bastato tendere il braccio per afferrarla. – Va tutto bene, prendi la mia mano. – continuai, sentivo il suo respiro affannoso e il leggero tremore delle corde sotto i suoi piedi. – Avanti! – lo incitai ancora, con un sorriso.
Incerto lasciò il legno con la mano destra per stringere forte la mia. Quello che successe dopo fu molto confuso. In uno slancio di coraggio corse improvvisamente contro di me.
Nello scontro persi l’equilibrio e caddi all’indietro.
Avevo dimenticato persino che ci fosse uno scivolo alle mie spalle e in men che non si dica mi ritrovai a terra, senza nemmeno accorgermene.
- Stai bene? – chiese Elijah ancora sopra la struttura.
Sentivo qualcosa di umido sotto i palmi, era un po’ di fanghiglia che si era formata ai piedi dello scivolo a causa delle piogge recenti.
- Si, mi sono solo sporcato! – ridacchiai mostrando le mani imbrattate.
- L’avete visto? L’imbranato è caduto! – sentì una voce dietro di me, mi voltai. Era il gruppetto dei bambini dell’ultimo anno delle elementari e mi fissavano.
Mi alzai subito ma questo non fece che peggiorare le cose. Il ragazzino di prima rise ancora – Si è anche fatto addosso! –
Tutto il gruppetto sghignazzò nel guardare il fango che sporcava il retro dei pantaloni.
Non ero bravo ad ignorare, perciò feci del mio meglio per stringere i denti e non arrossire.
- Almeno se fossi caduto di faccia avremmo potuto chiamarti faccia di merda! – commentò qualcuno.
- Già avresti fatto una figura migliore! – continuarono.
Non ero bravo neanche a rispondere allora.
Mi limitai solo a deglutire e voltare loro le spalle, andandomene.
Mi ero quasi completamente dimenticato di Elijah, ancora in cima alla torre. Così nel voltarmi a cercarlo, lo vidi scivolare giù con la coda dell’occhio.
Le sue scarpe era sporche di fango ma solo quelle, perché i suoi vestiti erano ordinati e puliti come sempre.
Sorrise nella mia direzione, poi girò intorno al gruppetto e io pensai che mi avrebbe raggiunto così, senza fare nulla.
Invece stupì tutti, dando un calcio sul sedere del bulletto ancora impegnato a sghignazzare. Ora anche quei jeans immacolati erano macchiati sfoderò un sorrisino compiaciuto.
L’avevo già detto che amava sentirsi un leader affermato già allora, no?
- Ecco chi è lo scemo cacasotto adesso? – lo derise.
Tutti si zittirono, fissando la scena a occhi sgranati.
- Vieni Roy – disse raggiungendomi. – Mamma e papà hanno detto di non parlare con i pezzenti! –
***Fine Flashback***
 
ELIJAH
 
Uscì dall’edificio scolastico.
Le lezioni erano finite e quel giorno gli allenamenti di basket erano stati interrotti poco prima che iniziassero. Alcuni ragazzi erano stati accusati di aver partecipato e incitato altri ad atti di bullismo nei corridoi dell’ala sud.
Sembrava esserci persino un testimone pronto a dare il nome del capo gruppo della rissa, Tyler Darby. Proprio questi ora si trovava di fronte al preside Chambers, sicuramente intento a corromperlo con la grana e l’influenza del padre. D’altronde poteva permetterselo essendo lui il manager dei Sacramento Kings, la squadra da cui la nostra scuola aveva preso il nome.
Ancora irritato dai recenti avvenimenti quasi mi sbattei alle spalle lo sportello della Mercedes Benz nera e lucida sui cui ero salito.
- Non è stato quello sfigato ma allora chi? – mormorai tra me e me prima di rivolgermi a Nill, l’uomo che lavorava per noi come autista da quando ne avevo memoria.
- Suo fratello non è ancora uscito, signorino Elijah. Ho ricevuto l’ordine di venire a prendere entrambi e riportarvi a casa per la cena con i vostri genitori. – rispose Nill, guardandomi dallo specchetto con l’espressione stanca di chi spera di non dover convincere un bambino a non fare i capricci.
La cena del venerdì a cui si riferiva era intoccabile per mamma e papà. Niente poteva impedirla, tranne l’assenza di questi ultimi. Sbuffai.
Proprio in quel momento il lato destro si aprì. Il ragazzo mi guardò e, ben conscio del fatto che non mi sarei spostato, richiuse lo sportello.
Il tempo di fare il giro salendo dall’altro lato e finalmente Nill mise in moto.
Attraversammo le strade della città e imboccammo l’autostrada che ci avrebbe portato subito nel quartiere delle villette a schiera con piscina privata, tutto questo quasi in religioso silenzio.
Nill, l’uomo nero al volante, seguiva la musica della radia con la testa.
Mio fratello aveva gli occhi chiusi e un paio di cuffie enormi di un colore improponibile, arancione evidenziatore, da cui sentivo alla perfezione la musica dai ritmi rock che trasmettevano a tutto volume nelle sue orecchie.
Io ero concentrato sull’icona della chat sul display del mio Blackberry Q10, le cui notifiche aumentavano in maniera snervante, ignorando alcuni sms e rispondendo solo ad un paio di mittenti.
Quando passammo oltre il cancello in ferro color petrolio della Residenza Reynolds e Nill parcheggiò nel cortile, sentì con rammarico la mancanza della mia Jeep Cherokee SRT8 grigia cromata. Era il motivo per cui ero stato costretto a farmi scorrazzare dall’autista: il mio bisogno di d’indipendenza era in qualche modo alimentato dal mio amore per la guida e non era strano perciò che la punizione perfetta, secondo mio padre, fosse proprio quella di requisirmi le chiavi.
Cosa che andava avanti da oltre una settimana ormai.
Io e mio fratello scendemmo insieme dall’auto; io con un movimento fluido, lui con fare impacciato mentre cercava di non ingarbugliarsi con il filo collegato all’iPod.
Lo affiancai e insieme entrammo in casa, senza parlare o accennare a nessun saluto.
La signora Katy, la governante che ci aveva visti crescere, ci accolse con un sorriso e ordinò in topo professionale a Lenny di annunciarci – Avverti anche la signora Lana che i gemelli sono arrivati! – poi si rivolse a noi, più premurosa – Signorino Elijah, signorino Roy, avete il tempo di rinfrescarvi prima della cena con i vostri genitori. –
 
Angolo Autrici:
Sorpresa! Nel primo capitolo non si poteva certo pensare ad una possibile relazione di questo tipo tra i nostri due protagonisti ma ci sono ancora tante cose da scoprire, segreti da svelare e avvenimenti che rivoluzioneranno la vita dei gemelli.
Speriamo di non avervi fatto perdere l’entusiasmo già dal secondo capitolo di questa storia ma possiamo assicurarvi che tutto vogliamo tranne deludervi.
(El): Il titolo di questo capitolo è anche il nome della canzone di Christina Perri feat Jason Mraz che ho ascoltato durante la stesura della flashback.. in effetti è abbastanza azzeccata.. immagino..^^
Ringraziamo i lettori, chi salva questo storia tra i seguiti o i preferiti.
Speriamo di leggere dei vostri commenti con le considerazioni al riguardo

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Capitolo 3
*** 3# A Beautiful Lie ***




- Tyler, basta rompere adesso. Smettila di lamentarti! –
- Stai zitto tu, Pivot! – fece Tyler, offeso davanti al tono scocciato del ragazzo al suo fianco, mentre si passava una mano fra i capelli fintamente ossigenati.
Garry Davidson, alias Pivot per via del suo ruolo di centro sul campo di basket, era un energumeno in confronto a tutti gli altri membri della squadra. Capelli biondi brizzolati, occhi neri e pelle resa ancora più scura dall’abbronzatura. Alto 1.98, superava perfino il metro e novantadue di Ty, aveva spalle larghe, braccia e gambe muscolose e si accettavano scommesse riguardo ad suo peso complessivo.
Grazie alla forza data dalla sua corporatura robusta, avevamo avuto la meglio su molte squadre che vantavano ciccioni dalla scarsa resistenza. Il nostro centro campo invece era agile e veloce!
- Ty, te lo chiedo anche io, basta ti prego! – sbottò Jared mentre indossava la maglia numero 8 dei Kings per il ruolo di ala grande.
Jared era un paio di centimetri più basso di Tyler, era l’ala piccola e insieme formavano una grande accoppiata in campo: Tyler, con il suo ampio petto e la forza, marcava gli avversari lasciandomi la possibilità di tirare a canestro liberamente e Jared, con le sue finte e i suoi scatti stupiva i giocatori dell’altra squadra andando lui stesso a canestro se io ero bloccato.
Lanciai uno sguardo al ragazzo che avevo di fianco, Mason Gold, l’ultimo membro dei Kings. Eravamo entrambi guardie e co-capitani dal secondo anno, quando durante le selezioni prese il mio posto di playmaker e io divenni guardia tiratrice.
Gold superava di poco il mio metro e ottantotto ma non andava oltre il metro e novantacinque circa di Ty.
Rispecchiava alla perfezione i canoni californiani: pelle sufficientemente abbronzata ma non troppo scura, occhi verdi e capelli castani screziati da ciocche bionde naturalmente schiarite dal sole.
Noi due eravamo amici inseparabili da quando eravamo piccoli e abitando nello stesso quartiere, vicini di villa, quel rapporto aveva avuto modo di cementificarsi nel tempo.
Non aveva ancora aperto bocca e conoscendolo non gli interessava neanche commentare al proposito e come lui, anch’io avevo deciso di astenermi dal proferire parola. Perciò, quando sistemai la maglia blu con il numero 11 sui pantaloni bianchi e larghi che mi fasciavano i fianchi e le cosce, mi limitai ad uscire dallo spogliatoio e dirigermi verso il campo di basket esterno con Mason al mio fianco.
Sul suo viso era possibile leggere la mia stessa aria annoiata, lo stesso passo leggero.
Alle nostre spalle i ragazzi, sia titolari che riserve, rimasero in silenzio prima di affrettarsi a seguirci.
Tyler si piazzò alla mia destra – Ehi capitano! Stavamo parlando! – mi accusò. Come suo solito sembrava non aspettare altro che sfidarmi.
Le sue gambe lunghe seguivano spedite il mio passo, come volessero superarmi senza averne però il coraggio.
- In realtà visto che tu non dovresti neanche partecipare agli allenamenti, ti sto solo facendo un favore ad ignorarti Darby! – la frecciatina andò a segno ma prima ancora di potermi compiacere della reazione dell’altro, Mason mi diede una piccola spinta passandomi accanto.
- Forza Reynolds! – m’incitò a buttarmi in campo con lui che già palleggiava prossimo al canestro.
Senza degnare Tyler di ulteriore considerazione corsi a rubare la palla dalla mano attenta del playmaker che con una finta mi scartò.
Riuscì comunque a non farmelo sfuggire del tutto e in un attimo di distrazione presi il controllo della palla correndo a tirare. Entrai nell’area delimitata dal semicerchio scuro e feci centro. Tre punti.
La palla ricadde sul terreno asfaltato rimbalzando e rotolando fuori dal campo, che non era come quello in parquet lucido all’interno della palestra. Rimasi pochi secondi a fissarla prima di voltarmi verso i ragazzi con un sorriso compiaciuto sulle labbra – Sapete, io penso che i Kings vinceranno anche quest’anno. Ora forse, inizia l’allenamento! –
 
Uscì dall’acqua clorata della piscina gremita di gente abbandonando la capo cheerleader con cui stavo limonando. Le labbra di Chanel sapevano di alcool; cosa davvero poco elegante per una ragazza che vantava, solo in teoria, una certa classe.
Rientrai nel salone della casa attraverso le ampie porte di vetro per riempirmi un bicchiere con il contenuto del barilotto d’acciaio. Mi avvicinai al rubinetto e azionando la pompetta osservai il liquido giallo e trasparente scendere.
Scolai la birra in pochi sorsi e poi mi voltai a lanciare uno sguardo verso l’esterno dove il party aveva trovato il suo miglior svolgimento.
In casa, infatti, non c’era nessuno tranne qualche ragazzo seduto sul divano a guardare una partita registrata di football con qualche cheerleader per terra a fare l’ochetta facile.
Mi stupì di non averle beccate impegnate lavorare di bocca, con i miei compagni di squadra ad approfittarne.
Pensai che probabilmente qualcuno di loro aveva già usufruito delle stanze al piano di sopra se stavano così tranquilli e concentrati su di un punteggio che già conoscevano.
Così, non avendo bevuto ancora abbastanza per definirmi ubriaco e poiché l’assenza di nicotina si faceva sentire, ne approfittai per abbandonare momentaneamente entrambe le scene e ritirarmi nel portico che precedeva il giardino per fumare.
Di nuovo fuori dall’abitazione in vento della notte s’infranse contro il mio corpo coperto solo dai bermuda ancora bagnati, tirai fuori alla svelta dal pacco di sigarette che avevo recuperato dalla giacca in sala e me l’accesi. Ispirai forte quel primo tiro sentendo i muscoli tesi dal freddo rilassarsi, anche se solo in minima parte.
Prima finivo e prima sarei tornato nel calore dell’acqua riscaldata, pensai sovrappensiero.
- Oh, hai d’accendere? – chiese una voce che non riconobbi come famigliare.
Voltai lo sguardo verso la provenienza di quel tono sicuro.
Era una ragazza, anche molto carina in effetti, nel suo bel caftano corto in varie tonalità di magenta. Mi limitai a far scattare l’accendino avvicinandolo di più a lei che ne approfittò subito per infiammare l’estremità, riempiendo così di fumo la mano a coppa che aveva messo per impedire alla fiammella di spegnersi.
Non accennò a muoversi o ad allontanarsi da me, non sembrava neanche intenzionata a parlare per prima.
 Sfiatai divertito. - Potresti anche presentarti ora, no? –
Lei sorrise spostandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio. – Non volevo infastidirti. – disse, ma mi suonava tanto come una bugia, forse per via della luce strana che si accese negli occhi rendendo le sue parole in qualche modo inaffidabili.
Scossi il capo e le tesi la mano pronto a presentarmi – Io sono.. –
Lei prese subito la mano e la strinse nella sua, più delicata – So chi sei, Elijah Reynolds o preferisci Capitano? – m’interruppe per poi lasciare la presa e spegnere la cicca a metà nel posacenere posato sulla ringhiera.
Aggrottai la fronte, non ricordavo affatto di averla mai vista a scuola eppure lei conosceva il mio nome. L’unica spiegazione era che qualcuno doveva averle parlato di me. Forse proprio Chanel che come ogni anno era l’organizzatrice di quel party per l’inizio della stagione autunnale.
- Sei una cheerleader? – chiesi allora, poco convinto.
- Aspirante.. sono nuova nella vostra scuola. – ridacchiò, sicuramente per qualcosa che non potevo capire.
Stavo per chiederglielo quando sentì il mio nome urlato dalla voce alta e squillante di Chanel che già mi correva incontro con un nuovo bicchiere in mano, perché non poteva essere quello con cui l’avevo lasciata qualche minuto fa.
Probabilmente lo credeva vuoto visto che, tutta intenta ad arpionarmi il braccio, non si curò di fare attenzione a come lo agitava. Questo portò in automatico ad investire in pieno me e la ragazza che avevo davanti con il contenuto rosa. Era passata ai cocktails, perfetto.
- Oh scusami tesoro.. – fece la mora, con un tono talmente finto che mi fece sorridere in previsione della reazione dell’altra.
Questo mi fece capire anche che quella ragazza era davvero nuova all’interno di quell’ambiente perché Chanel era la proprietaria della casa e, aspettandosi già di aver tutto concesso, non badò oltre alla questione. Per la ragazza però non era affatto conclusa lì, lo capii subito nel vedere il suo sguardo assottigliarsi prima ancora che con una mano sulla spalla portasse la capo cheerleader a voltarsi.
- Le tue scuse sai dove te le puoi mettere!? Questo non è di certo uno straccetto da quattro soldi come quello che indossi tu sopra quelle striscette che chiami bikini! È tessuto indiano, tesoro! – indurì volutamente il tono nel ripetere il vezzeggiativo che la stessa Chanel, che ora aveva un’espressione paralizzata dallo shock, aveva usato per lei.
Io invece, piacevolmente divertito mi limitai a scrollarmi di dosso la mora attaccata la mio braccio. Non sarei rimasto tanto a lungo da assistere a due ragazze che si prendevano per capelli e iniziavano una lotta poco carismatica.
Prima però mi sporsi verso la ragazza misteriosa di cui, rendendomene conto solo in quel momento, ancora non conoscevo il nome. – Se sarai ancora intenzionata a venire nella nostra scuola, dopo tutta questa cattiva pubblicità, potrai finalmente dirmi il tuo nome! –
Sperai di averla convinta a ignorare qualunque cosa Chanel avrebbe fatto dopo la mia assenza. Ero convinto che sarebbe diventata divertente la scuola con un personalità come la sua, anche se già immaginavo l’invidia e le angherie che le altre ragazze le avrebbero rivolto.
 
Il lunedì quando incrociai Chanel uscendo dall’aula di Matematica, quasi mi venne da ridere a vederla ancora intenta a tenermi il muso e quasi non riuscì a trattenermi quando raggiungendo la mensa dove alcuni studenti stavano già in fila per il pranzo scorsi la ragazza che ne era la causa.
Ammirai come i capelli biondi e ondulati, lunghi quasi fino ai fianchi, accompagnassero la sua camminata così fluida e sicura; questo nonostante ai piedi avesse degli alti stivali lunghi fino al ginocchio.
Come se non bastasse sfoggiava una gonna corta di jeans e un maglioncino bordeaux che le fasciavano il corpo alla perfezione, quest’ultima aveva il collo a barca che le andava da un’estremità all’altra delle spalle in un altrettanta ampia scollatura.
Aveva un’aria provocante soprattutto perché lasciava intravedere senza scoprirsi troppo, infatti la pelle esposta era di quantità minima.
Le curve naturali dei fianchi e il seno facevano il resto.
Sentendosi osservata si voltò verso di me e incrociando i suoi occhi con i miei sorrise.
Feci per ricambiare quando vidi verso dove era diretta.
Era passata con non chalance dal tavolo a cui era seduto Roy con la sua nuova amichetta e aveva sfiorato la spalla di quest’ultima; poi, continuò a camminare spedita fino a che non prese posto al tavolo all’angolo, coperto su due lati dalle finestre.
Alzai un sopracciglio e neanche un secondo dopo stavo già attraversando la mensa per raggiungerla.
Lei non aveva distolto lo sguardo da me neanche per un secondo, neanche quando arrivai e tenendo una mano sul tavolo mi sporsi verso di lei, per parlarle all’orecchio.
- Tesoro, non vorrei essere scortese ma questo è il mio posto e a meno che, magicamente, tu non sia diventata la migliore amica di Chanel.. bè nessun posto in questo tavolo è ancora tuo! – spiegai. Volevo essere gentile, quella ragazza era nuova e in qualche modo la trovavo davvero interessante. Mi sarebbe dispiaciuto trattarla male come con le altre perciò le avrei fatto capire, con le buone, quali erano le regole.
Lei si tirò un po’ indietro e abbassò lo sguardo per un attimo, prima che le sue labbra si aprissero in un sorriso che non scopriva i denti e i suoi occhi si fissassero su di me di sottecchi.
- Quindi per sedermi qui dovrei diventare qualcuno, vero? – la sua non era una domanda innocente come voleva farla sembrare. Lei aveva capito benissimo.
– Si. – risposi atono.
- Vedi, a me però non interessa diventare qualcuno e basta. Io voglio diventare come te! – disse, ancora con quel sorriso sulle labbra.
Assottigliai lo sguardo, attento ad analizzarla. – Cosa intendi con “come me”? –
- Voglio lo stesso potere che hai tu. – il suo tono era serio, come la determinazione che leggevo nei suoi occhi. Tanto che rimasi paralizzato per qualche secondo prima di scoppiare a ridere.
Ero ancora chinato leggermente su di lei, quindi quello che gli altri videro era solo la mia schiena scossa dalle risate.
- E come pensi di fare ad ottenerlo? – riuscì a chiedere quando finalmente smisi.
Mi ero appena rimesso dritto che lei si era già alzata e, senza lasciarmi il tempo di elaborare qualunque cosa, mi avvolse le braccia esili intorno al collo e si spinse contro di me.
Sentì il calore di quel bacio invadermi sin dal primo contatto, lieve e casto, poi riunì le nostre labbra con più foga. Ricambiai quel bacio sotto lo sguardo di tutti.
Quando ci staccammo scoprì di avere le mani a tenerle i fianchi. Cercai di allontanarla ulteriormente ma lei, come ormai avevo capito, non faceva mai qualcosa che non voleva fare. Infatti, nascose il fiso nell’incavo del mio collo per poi iniziare a sussurrare al mio orecchio – Pensavo di usare te, in effetti. Posso esserti utile ha risolvere parecchie delle tue questioni, se vuoi. In cambio chiedo solo di essere qualcosa di Più di un semplice Qualcuno.. –
Guardandomi intorno trovai tutti gli sguardi su di noi.
Quattro paia di occhi in particolare osservavano ogni mia mossa con estrema attenzione: Roy, la ragazza vicino a lui, Chanel e Mason.
Mi ritrovai, in un attimo, a vagliare la proposta della ragazza ancora tra le mie braccia.
Avevo capito subito che lei era interessante e ora ne capivo anche il motivo. Lei era come me e soprattutto ragionava come me. Quindi sì, poteva essermi utile.
L’idea di essere usato m’infastidiva non poco ma la curiosità e l’aspettativa che iniziavo a nutrire verso di lei erano più forti.
Forse proprio per questo, quando la staccai da me, le feci cenno di sedersi a quello che era il mio posto e, spostando una sedia a capo del tavolo rettangolare, presi posto vicino a lei.
Davanti a quel gesto la mensa sembrò riprendere vita.
Tutti tornarono a fare quello che stavano facendo. Mason fu il primo ad avvicinarsi al tavolo, occupando il posto al mio fianco e facendomi scivolare davanti un vassoio. Chanel accanto a lui in modo da essere lontana da lei ma abbastanza vicina a me, gli altri poi si adattarono a questo cambiamento.
Prima di iniziare a mangiare la biondina mi prese una mano avvicinandosi di nuovo a me, pensai che volesse dare ancora scena ma quando strinse impercettibilmente la presa mi chinai a mia volta verso di lei.
Mi schioccò una bacio sulla guancia prima di sussurrarmi all’orecchio – Lilith, è questo il mio nome! –
Si allontanò di scatto.
Scocci la testa per l’ironia della cosa, quella ragazza era davvero un demonio.
 
ROY
 
- Fanculo. – ringhiai trattenendomi dallo scaraventare la chitarra contro la sedia vicina. Avevo perso il conto degli accordi sbagliati negli ultimi venti minuti e l’irritazione che mi prese non fece che peggiorare le cose.
Sospirai, massaggiandomi la tempia sana. Avrei fatto meglio ad andarmene a casa visto che evidentemente l’aula di musica quel giorno non mi era affatto utile ad evitare una crisi isterica e dire che sin da piccolo suonare mi aveva sostenuto nelle più disparate circostanze.
I due professori, di pratica e di teoria, ormai mi conoscevano e sapevano che amavo rinchiudermi in quelle quattro mura insonorizzate infischiandomene di tutto il resto. A maggior ragione quando anche gli altri studenti del corso non c’erano, questo perché le sei ore a settimane mi sembravano dannatamente poche per imparare tutto quello che avrei voluto sapere.
Ma il pessimo umore quel giorno m’impediva di muovere decentemente le dita sulle corde. Avevo persino provato a sfogarmi sul pianoforte ma ebbi lo stesso risultato.
- Ehi. –
Era una voce che mi fece rivoltare lo stomaco e appesantire ulteriormente l’umore nero che mi ritrovavo.
Poggiai nella custodia ai miei piedi la chitarra, facendo appello a tutto il mio autocontrollo per non lanciargliela contro.
Mi voltai scontrandomi con quei suoi occhi verdi. – Hai bisogno di qualcosa? – mi decisi a rispondere con voce gelida ma lui sembrava osservare qualcos’altro ora, con un’espressione leggermente più attenta di prima.
La porta d’entrata era nella parte opposta della stanza rispetto a dove mi trovavo io, eppure non lo sentii avvicinarsi coprendo con poche falcate la distanza che ci separava.
Storse la bocca in una strana piega e con la mano andò a tastare la ferita sulla tempia destra.
- Ty ci è andato giù pesante stavolta. – disse atono.
- Ty? – ripetei, odiando l’uso di quel diminutivo. – Posso farti una domanda? – chiesi mentre con un leggero buffetto allontanai la sua mano dal mio viso.
La sua espressione confusa e allo stesso tempo curiosa mi invitò a continuare.
- Mi stai prendendo per il culo, vero? – nel dire ciò mi trattenni dall’urlare e dal riprendere la chitarra per fracassargliela davvero sul cranio.
Lui di tutta risposta continuò a rivolgermi uno sguardo più confuso di prima, se possibile. – In che senso, scusa? –
- Con che coraggio vieni qui a commentare il mio stato quando tu eri lì e non hai fatto niente per impedirlo? – a quelle parole di comportò come tutte le volte che si rendeva conto che stavo per aprire quel discorso.
Appoggiò una mano sul tavolo vicino, con il fare di chi ascolta le stesse parole per troppe volte finché alla fine ne è annoiato. – Non puoi negare che tu non te la sia cercata. – disse infatti.
Ecco il primo passo per avere la meglio, incolpare lo sfigato che quasi sempre a ragione nell’accusarti.
- Certo, perchè per te è giusto restare con le mani in mano mentre un ragazzino viene pestato da un coglione senza cervello! – l’irritazione mi faceva tramare le mani che neanche mi ero reso conto di star stringendo a pugno, cercando disperatamente un bersaglio sul quale sfogarmi.
Incrocia le braccia per non farglielo notare, non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi debole in quel modo.
- Infatti. – continuò lui, senza una minima traccia di sarcasmo.
Passo numero due, sminuire la ragione altrui con la propria.
A volte mi domandavo se ero davvero io quello strano, perché mai come in quelle determinate circostanze mi sentivo completamente estraneo a quel mondo e soprattutto al Suo pensiero che, sapevo ormai troppo bene, essere un credo collettivo in quel maledetto istituto.
- Bhè, tanto tu sei stato al tuo posto, no? Quindi va tutto bene, non hai nessun problema per colpa mia. Sono stato io a prender un calcio in faccia, la tua bella immagine davanti al Capo è salva! – sputai con rabbia per poi voltarmi e prendere le ultime cose, prossimo ad andarmene.
– Mi raccomando, la prossima volta prendi un pacco di popcorn. Probabilmente vedere il proprio ragazzo pestato da un gruppo di imbecilli è un evento davvero noioso senza qualche snack. – dissi, non avevo bisogno di aspettare una risposta che sicuramente non sarebbe arrivate. Anzi, non volevo semplicemente rimanere un minuto di più con lui.
Feci per mettermi lo zaino in spalla ma qualcosa mi bloccò, qualcosa di forte e dal profumo inconfondibile.
Infine, passo numero tre: usare l’asso nella mania, perché tutti i bulli migliori ne hanno uno.
- I tuoi abbracci sono soffocanti. – sbottai con la poca rabbia rimastami dentro che, conoscendomi, non mi avrebbe abbandonato mai del tutto.
Lui non sembrò badare alle mie parole e mi strinse più forte, tanto da limitarmi i movimenti.
Rotei gli occhi. – Dico sul serio, Mason.. – mormorai, prima di vedere il suo viso avvicinarsi al mio e le sue labbra sulle mie.
 
Angolo Autrici:
Ecco la comparsa di alcuni nuovi personaggi.
Abbiamo anche capito cosa spinge Roy a sopportare “in silenzio” tutto quello che subisce e diciamocelo, per Mason ne varrebbe anche la pena se non fosse per il suo carattere del c***o.
Bando alle ciance, stavolta la canzone ispiratrice e omonima al titolo è A Beautiful Lie dei 30 Seconds to Mars.
Ringraziamo come sempre chi legge e saremo liete di sapere le vostre opinioni su questo terzo capitolo.
Sperando che vi sia piaciuto.
Saluti El & Roh

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