City of Expiation

di Clary F
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Twisted Souls ***
Capitolo 3: *** Hey, Cruel World ***
Capitolo 4: *** Heartache ***
Capitolo 5: *** Black and Gold ***
Capitolo 6: *** Epic Elaborations of Dark Magic ***
Capitolo 7: *** Sympathy for Devil ***
Capitolo 8: *** Two Minutes to Midnight ***
Capitolo 9: *** Idris After Midnight ***
Capitolo 10: *** This Perfect World ***
Capitolo 11: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Titolo: City of Expiation
Contesto: Dopo Città degli Angeli Caduti.
Personaggi: Clary, Jace, Jonathan, Simon, Isabelle, Magnus, Alec, Tessa, Jordan, Maia, Valentine, Sammael, Lilith.
Coppie: Clary/Jace, Clary/Jonathan, Isabelle/Simon, Magnus/Alec, Jordan/Maia.
Disclaimer: Nel testo sono presenti alcune citazioni da Buffy, Supernatural, Le Cronache di Magnus Bane. Le prime righe in corsivo provengono da Città degli Angeli Caduti.
Note: La storia è ambientata in universo in cui Valentine è ancora vivo. Il padre di Magnus è da considerarsi non-canon, visto che la storia è stata scritta prima dell'uscita di Città del Fuoco Celeste.

 

PROLOGUE
 

«Torno subito» gli disse stringendogli la mano. «Cinque minuti.»
«Vai» le disse lui in tono ruvido, lasciandole andare la mano, mentre lei si girava per percorrere il sentiero verso l'entrata del giardino. Nell'istante in cui Clary si allontanò da Jace, sentì di nuovo freddo e, quando raggiunse le porte dell'edificio, stava gelando. Aprendo i battenti si fermò per voltarsi a guardare Jace ancora una volta, ma lui era solo un'ombra, illuminata da dietro dal bagliore dello skyline di New York. L'amor che move il sole e l'altre stelle
.
 
 
Jace era rimasto solo. Il vento autunnale sferzava i suoi capelli d'oro, sul giardino pensile nell'Upper East Side, facendolo rabbrividire. Indossava ancora la camicia e i pantaloni del completo nero per la festa agli Ironworks; solamente che ora erano a brandelli e macchiati di sangue. Torno subito. Gli aveva detto Clary, un attimo prima. Ma il calore provocato dai suoi baci stava già svanendo, sostituito dalla piena consapevolezza che, da lì a poco, un'orda di Shadowhunters si sarebbe riversata sul tetto e allora, lui, avrebbe dovuto raccontare la verità. Aveva compiuto gesti orribili e il fatto di essere stato posseduto da un Demone Superiore potente come Lilith, non era una scusante, ai suoi occhi. Vide un bagliore argenteo a terra e si piegò a raccogliere il pugnale di suo padre, del suo vero padre, tra le mani. Ripensò a Jocelyn e Luke, e ai loro sguardi quando gli avrebbe raccontato di essere stato lui a portare lì Clary, con la forza, per di più. Su quel giardino pensile, ornato di rose e cespugli meticolosamente potati, un luogo incantevole se non fosse stato scenario di sangue e distruzione. Lilith, Jonathan e il suo folle piano di resuscitarlo. Jace abbassò lo sguardo sul marchio che imbrattava il suo petto. Era ancora lì, rosso come il sangue, brillante, pericoloso e … intatto? La runa era di nuovo intatta, il taglio provocatogli da Clary era guarito, nonostante lui non si fosse servito di alcun iratze. Con un senso di disagio crescente, Jace mosse alcuni passi verso il blocco di cemento su cui si ergeva la bara di vetro contenente il corpo di Jonathan. Non avrebbe voluto avvicinarsi, ma c'era una forza ad attrarlo che non riusciva a contrastare. Adesso era all'interno del cerchio nero adorno di rune, tracciato con una sostanza scura e viscosa, probabilmente icore. Le rune iniziarono a brillare, così come il liquido lattescente in cui era immerso Jonathan. Jace osservò con distacco e orrore la sua mano sinistra, quella con cui impugnava il coltello, alzarsi e calare dritta sul palmo della sua mano destra, aprendovi un taglio. Opponiti. Devi opporti. Ma non c'era nulla che potesse fare. Il suo corpo non obbediva più alla sua volontà. Il sangue iniziò a gocciolare sul viso pallido di Jonathan. Per alcuni attimi non successe nulla; poi lui aprì gli occhi neri. Prese il pugnale dalla mano di Jace e imitò il suo gesto. Le loro mani si intrecciarono, così come il loro sangue, che sgorgava dai tagli sui palmi. Jace era in preda all'orrore. Lilith era stata rispedita da Simon nella sua dimensione originaria, ma nonostante quello, il suo volere si era compiuto lo stesso. Jonathan Morgenstern era resuscitato.
Proprio così, fratellino.
Sentì la voce del ragazzo nella sua stessa testa, come se potesse leggergli nella mente. Vide un lampo di luce bianca. Le labbra di Jonathan incurvarsi in un sorriso perfido, che durò solo un attimo, però, lasciando spazio ad un'espressione stupita. La mano di Jonathan, serrata sopra la sua, sembrò andare a fuoco. Una sensazione di bruciore si estese lungo tutto il braccio di Jace, riscaldandolo, bruciandolo, come se la sua stessa pelle si stesse sciogliendo al calore di una fiamma. Soffocò nel suo respiro, cadendo a terra e sbucciandosi le ginocchia. Il suo corpo era un dolore unico; ma, notò, non senza una certa soddisfazione, che anche Jonathan sembrava essere rimasto senza ossigeno, con una mano alla gola, cadde anche lui al suolo. Poi Jace perse conoscenza, e non vide più nulla.
 
 
Il battito del suo cuore martellava impazzito contro il suo sterno. Era strano, riavere un cuore. Fece alcuni respiri profondi, cercando di placare quella sgradevole sensazione che aveva investito il suo corpo. Era vagamente conscio di trovarsi steso a terra, sentiva il corpo schiacciato contro il pavimento piastrellato, freddo e umido del giardino sul tetto. Aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il cielo stellato di New York. Rabbrividì nei suoi vestiti fradici e si accorse solo allora di essere nudo dalla vita in su e a piedi scalzi. Si tirò su a fatica, prima sui gomiti, poi con l'intero corpo. E, fu in quel momento che indietreggiò in preda allo stupore, andando a sbattere contro l'altare di pietra che sorreggeva la bara di cristallo. Questa traballò pericolosamente, acqua lattiginosa fuoriuscì dai bordi, ma non cadde. Si portò le mani al petto, sentiva il sudore freddo scorrergli lungo la spina dorsale, nonostante fosse fradicio d'acqua dalla testa ai piedi. I capelli gli si erano incollati al cranio. Fece due passi avanti, più vicino al corpo che giaceva disteso a terra. Era un corpo lungo e affusolato, le spalle larghe e le braccia muscolose. Sul torace si intravedeva il Marchio di Lilith, splendente del colore rosso sangue. I capelli erano di un biondo argenteo, alla luce della luna, quasi bianchi. Gli zigomi alti e appuntiti. La pelle pallida e, nonostante avesse gli occhi chiusi, avrebbe scommesso che dietro quelle palpebre si nascondessero occhi neri come il carbone. Certo, perché conosceva benissimo quel corpo. Sapeva che se lo avesse rivoltato sulla schiena e gli avesse alzato la camicia, avrebbe trovato le cicatrici delle frustate infertegli da suo padre. Conosceva tutto quello, perché il corpo che stava fissando, disteso e immobile in mezzo al giardino pensile, era il suo. Sgomento, si guardò le mani, non erano le sue solite pallide mani affusolate, erano più robuste e abbronzate. Guardò a terra, dove l'acqua colata dall'interno della bara aveva creato una specie di pozzanghera. Jonathan vi si specchiò alla luce della luna e delle stelle, e il volto che vide non era il suo. I suoi capelli erano più lunghi, più mossi e del colore dell'oro. I suoi occhi, da neri, si erano trasformati in un giallo ambrato. La sua pelle era più scura e dorata. Il suo fisico era rimasto quasi invariato, ma d'altronde, lui e Jace erano sempre stati simili. Il suo corpo si era trasformato in quello di Jace e, viceversa, quello di Jace si era trasformato nel suo. Non si fermò a pensare, ma corse fino al bordo del tetto e guardò in basso. Giù di sotto, una moltitudine di macchine nere era parcheggiata in fila sulla strada e una folla in divisa nera da Cacciatori sembrava affollare l'ingresso. Li vide dirigersi, come uno sciame d'api infuriate, all'interno dell'edificio. Aveva poco tempo, ma se lo sarebbe fatto bastare. Spogliò Jace dei suoi abiti e lì indossò. Raccolse le sue armi e vestì Jace con i suoi pantaloni fradici. Lo afferrò per le braccia e con un piccolo sforzo lo depose all'interno della teca di vetro. Il ragazzo mandò un lamento, ma rimase incosciente. A quel punto era troppo tardi per fare altro, sentì il rumore dell'ascensore, una marea di passi. Impugnò il coltello che aveva sottratto a Jace e rimase in attesa. Non aveva bisogno di altre armi. Lui era Jonathan Christopher Morgenstern, lui era più forte, più veloce, più scaltro di chiunque altro Cacciatore. La porta a vetri si spalancò e il primo viso che vide fu quello di Clarissa, sua sorella. Strinse il pugnale con maggior forza. Vide la ragazza corrergli incontro, con il vestito di seta d'oro, quasi completamente a brandelli, il corpo contuso e i capelli mossi al vento le avvolgevano le spalle come viticci rossi. Era a pochi centimetri da lui, adesso, e lo guardava con grandi occhi verdi spalancati, pieni di un qualcosa che Jonathan non riusciva a comprendere. Clary gli si gettò tra le braccia, affondando il suo viso nell'incavo della sua spalla e stringendolo a sé.
«Jace» la sentì sussurrare, sulla sua stessa pelle. «Sei qui.»
Jonathan, che era rimasto immobile come un pezzo di legno fino a quel momento, mosse le braccia attorno a Clary, accarezzandole la schiena lentamente e affondando il viso tra i suoi capelli profumati. Quanto aveva desiderato farlo.
Se solo sapessi chi sono realmente, sorella.
«Dove altro avrei dovuto essere, se non qui?» Jonathan sentì la voce di Jace fuoriuscire dalle sue labbra.
«Lo so, è assurdo ma … mentre ero di sotto ho avuto una bruttissima sensazione. Ho avuto paura che tornando qui sopra, tu non ci saresti più stato.» Clary alzò lo sguardo su di lui, luminoso e velato di lacrime. Nessuno lo aveva mai guardato così. Nessuno, lo aveva mai guardato con amore.
«Invece sono ancora qui. E ho intenzione di rimanerci.» Lui le sorrise.
Nel frattempo, una grande folla di Cacciatori si era riunita attorno alla bara di vetro, dove il corpo incosciente di Jace giaceva, sotto le sembianze di Jonathan. Jonathan colse stralci di conversazioni tra gli Shadowhunters adulti.
«Che ne facciamo?»
«Sento le pulsazioni. È vivo.»
«… mostro. Lo farei a pezzi con le mie stesse mani.»
Strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. Stupidi Nephilim, li avrebbe uccisi uno ad uno, a mani nude.
«Non possiamo. Hai sentito cosa ha detto la giovane Lightwood, forse è legato all'altro ragazzo.»
«Portatelo all'Istituto, se ne occuperanno i Fratelli Silenti.»

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Capitolo 2
*** Twisted Souls ***


CHAPTER 1
TWISTED SOULS
 
 
L'oscurità sembrava non voler abbandonare la mente di Jace. Fatta di strani sogni, incubi per la maggior parte del tempo, in cui il viso di Jonathan e quello di Valentine si sovrapponevano ad intermittenza. A volte gli capitava di sentire delle voci, voci che sussurravano attorno a lui.
«I Fratelli Silenti saranno qui fra poco.»
«Non dovrebbe stare qui, in infermeria, il suo posto è all'inferno.»
«Come sei tragico, Kadir,» disse la seconda voce di uomo. «Credo che la prigione alla Guardia andrà benissimo. Marcirà là dentro.»
Risate.
Con un'enorme sforzo di volontà, Jace aprì gli occhi. Sentiva le palpebre pesantissime, era quasi un dolore fisico riuscire ad alzarle. Le risate si zittirono all'improvviso. Con il cuore che batteva forte, tentò di mettersi seduto ma si accorse di avere polsi e gambe legati. Si sentiva la bocca arida come un deserto.
«C-cosa succede? Dove sono?» Biascicò ai due Cacciatori, in piedi ai lati del suo letto.
«Sei nell'infermeria dell'Istituto di New York, Jonathan Morgenstern. Ma ancora per poco. Presto verrai affidato al Conclave ed allora, rimpiangerai di essere nato.»
Spalancò gli occhi e si agitò nel letto. Un dolore gli trafisse il petto, ma non vi badò più di tanto.
«Cosa hai detto?» Sbottò ferocemente.
«Ho detto,» ripeté Kadir, in tono lento e autoritario. «Che ti trovi nell'infermeria -»
«No!» Lo interruppe Jace, quasi gridando. «Come mi hai chiamato? Come?»
Kadir sembrò confuso, per un attimo, poi disse in tono perentorio: «Jonathan Morgenstern.»
«Io non sono Jonathan Morgenstern!» Urlò il ragazzo, tentando invano di muovere braccia e gambe. Oltre alle catene, dovevano avergli fatto una runa vincolante. «Io … sono Jace Lightwood!»
«Sì, sì. Come no.» Rispose freddamente l'altro Cacciatore. «E io sono Jonathan Shadowhunters.»
«E io l'Angelo Raziel.»
Aggiunse una terza voce di uomo.
I Cacciatori risero.
Jace si sentì invadere da una rabbia ceca, ma prima che potesse aggiungere qualcosa, le sue guardie smisero di ridere. Sentì un rumore sordo, delle urla, il suono delle lame angeliche estratte dal fodero e poi, proprio mentre due mani fredde gli serravano le braccia, non vide più nulla. Cadde di nuovo nella nera oscurità, per la seconda volta in quel giorno.
 
 
La luce soffusa della biblioteca dell'Istituto gettava bagliori argentei sulla chiama dorata di Jonathan. Tecnicamente non era la sua chioma, ma quella di Jace. Le parole scritte sulle pagine ingiallite del volume che stava leggendo, Culti Indicibili, sembravano sovrapporsi l'una sull'altra. Sentì le palpebre farsi pesanti e chiuse gli occhi, posando il viso sulle braccia incrociate davanti a sé.
Jonathan ha otto anni. Valentine lo porta spesso a caccia con lui, nella foresta di Brocelind. La caccia si estende, oltre alla normale selvaggina, alle creature del Popolo Fatato, lupi mannari e vampiri. Valentine sguaina le sue spade angeliche, i suoi pugnali intrisi di acqua benedetta, l'arco con le frecce e la polvere d'argento. È pronto ad ogni evenienza contro i Nascosti che popolano il bosco. Valentine lo attira giù da cavallo, è strano il suo tocco. Non tocca mai suo figlio. Jonathan affonda con i piedi nella neve e stringe i piccoli pugni mentre osserva suo padre affondare le mani nel sangue di un giovane elfo, lacerato e scorticato, privo di vita. La neve si tinge di rosso e Jonathan guarda la scena rapito, intimorito. Suo padre si raddrizza e tocca, attraverso i guanti, il viso del ragazzo. Jonathan è piccolo e le lunghe dita di Valentine coprono quasi interamente il suo viso, una maschera di sangue e pelle. Quando allontana le mani, c'è sangue su tutto il volto del bambino, sangue nei suoi fini capelli biondo platino, sangue sulla sua bocca. Jonathan fa una smorfia, come se il sapore fosse amaro.
«Cosa devi dirmi, adesso, Jonathan?»
«Grazie, padre.»
I contorni innevati della foresta di Brocelind sembrano tremare, lasciando posto ad una stanza dalle pareti chiare, colma di letti bianchi e paraventi. Jonathan non capisce, questo non è un suo ricordo. Un rumore sordo, delle urla, il suono delle lame angeliche estratte dal fodero, Cacciatori a terra e due mani fredde gli afferrano le braccia.
Jonathan si svegliò di colpo, gli occhi sbarrati e il corpo in tensione. Era solo un sogno, si disse nella mente, anche se non ne era del tutto convinto. In quel momento sentì la porta della biblioteca cigolare ed una figura esile, con capelli rossi come il fuoco, entrò nel suo campo visivo. Clary si avvicinò a lui, con un sorriso incerto sulle labbra. Nonostante i suoi abiti da mondana, jeans e una felpa, Jonathan la trovava bellissima ugualmente. Il suo viso si illuminò in un sorriso.
«Clary.»
Con un gesto abile nascose la copertina di Culti Indicibili con un altro libro.
«Ehi. Che stai facendo?»
«Leggo, no?» Le rispose alzando un sopracciglio biondo, sorridendole angelicamente.
Clary si sedette sul bordo del tavolo e lanciò un'occhiata in tralice ai libri sparsi sul tavolo. «Orgoglio e Pregiudizio?» Trattene a stento un sorriso ironico. «Non credevo ti piacesse Jane Austen.»
«È cosa nota e universalmente riconosciuta che un Cacciatore largamente provvisto di spade angeliche debba sentire il bisogno di ammogliarsi … o di uccidere demoni, come preferisci tu.» Recitò lui, in una parodia dei primi versi del libro.
«Non credo dicesse esattamente così -»
Ma non riuscì a terminare la frase. Jonathan si era alzato dalla sedia ed ora si trovava in piedi davanti a lei. L'afferrò per la vita, attirandola sul bordo del tavolo, più vicina a sé. Le mise le mani sul viso, tracciando con i pollici i contorni degli zigomi. Il suo respiro era caldo e sfiorava le sue labbra socchiuse. La stava guardando con un'intensità che la bruciava dall'interno. I suoi occhi dorati erano più scuri, quasi neri, come ogni volta che la guardava con desiderio.
«È da ieri sera che ti aspetto. Mi chiedevo se saresti mai arrivata.» Le sussurrò sulle labbra, facendola rabbrividire.
«Scusa, mia madre ha voluto che le raccontassi tutto per filo e per segno.» Jonathan si irrigidì e Clary lo guardò con dolcezza. «Non preoccuparti, lei non ti incolpa per quello che è successo. Nessuno lo fa, Jace.»
Le sorrise, un sorriso freddo e tagliente come una lama.
«Quindi ora ho la sua benedizione per uscire con te?»
«Un passo alla volta.» Clary rise piano, poi abbassò lo sguardo. «È molto scossa per Sebastian. Insiste ancora che vuole vederlo, ma Luke sta cercando di convincerla in tutti i modi che non è una buona idea. Quel mostro -»
«Clary,» la interruppe. «Non ho voglia di parlare di lui, adesso.»
«E cosa hai voglia di fare, allora?» Chiese, nascondendo un sorrisino dietro una cascata di capelli rossi.
«Qualcosa come questo.»
Il cuore di Jonathan iniziò a battere più velocemente. Non gli capitava spesso di sentirsi così. Alzò il mento di Clary con due dita, avvicinando le sue labbra alle sue. La vide chiudere gli occhi e socchiudere la bocca. Aveva voglia di baciare ogni singola lentiggine sul suo viso. Era così piccola, così bella, così ingenua. Le sue labbra erano a pochi millimetri di distanza …
La porta della biblioteca si spalancò con un colpo, facendo sobbalzare entrambi.
«Non ti hanno insegnato a bussare, Isabelle?» Sibilò Jonathan, con forse un po’ troppa freddezza. Ma la ragazza non sembrò farci caso, aveva il fiatone ed era molto pallida.
«Oh, per l'Angelo, prendetevi una stanza! E comunque, Sebastian è scomparso.» Ribatté lei, altrettanto freddamente.
Vide Clary sbiancare letteralmente e saltare in piedi come una molla. Lui cercò di assumere un'espressione sorpresa, scossa, ma del resto, quella notizia non gli risultava nuova.
 
 
«Ancora non posso crederci,» stava dicendo Simon, camminando lungo il marciapiede del quartiere di Greenpoint. Era sera e la strada verso casa di Magnus era semideserta. «Sebastian è fuggito e noi cosa facciamo? Andiamo a una festa.» Scosse la testa esasperato e i capelli scivolarono via dalla fronte, mostrando parte del Marchio di Caino. Vide Jace guardarlo di sottecchi.
«Senti, Magnus dice che non da una festa dalla sera in cui ci ha conosciuti.» Disse Alec, con voce piatta. «E poi il Conclave ci ha espressamente detto di non intervenire, andare contro ordini così espliciti è andare contro la Legge. Quindi, comportatevi bene e non rovinate la festa.»
Clary mise il broncio. «Ma noi ci comportiamo sempre bene!»
«Certo, come no. L'ultima volta Simon si è fatto trasformare in un topo.» Borbottò Alec.
«Io mi sono fatto trasformare in un topo?!» Simon si puntò un dito al petto con fare esasperato. «Questo è assurdo …»
«Finitela.» Disse Isabelle in tono secco. Indossava un abito di velluto blu davvero corto, che lasciava ben poco all'immaginazione. Simon distolse lo sguardo in fretta. «Per stasera se ne può anche occupare il Conclave. Ci meritiamo un giorno di vacanza dopo tutto quel casino di ieri.»
Simon pensò che fosse tutto davvero troppo strano. La sera prima aveva ridotto ad una pioggia di sale un Demone Superiore antico milioni di anni e adesso, eccolo lì, come se nulla fosse, per le strade di Brooklyn, diretto ad una festa organizzata da uno stregone. Sospirò, guardandosi attorno. Jace era rimasto silenzioso per tutto il tragitto in metro, tanto che Alec lo affiancò mettendogli una mano sul braccio e sussurrandogli qualcosa che suonava molto come: «va tutto bene?» Vide Jace osservare con sguardo perso la mano di Alec sul suo braccio, poi il suo parabatai, con occhi altrettanto smarriti, come se nessuno gli avesse mai chiesto una cosa così assurda.
La casa di Magnus svettava tra gli altri magazzini di Greenpoint. Le finestre erano illuminate di una luce violacea, così forte e innaturale che Simon si ritrovò a chiedersi cosa ne pensassero i vicini. Probabilmente non la vedevano neanche, grazie ad un incantesimo. Alec aprì il portone e li precedette su per le scale. Non appena varcarono la porta di ingresso rimasero tutti e cinque immobili sulla soglia. La casa era irriconoscibile. Sembrava più grande, quasi priva di mobili ad eccezione di tavolini in stile liberty, divani in pelle e un bancone. Più che un appartamento somigliava ad uno di quei locali di lusso dell'Upper East Side. Tranne che per gli invitati ovviamente. Fate, stregoni, lupi mannari e vampiri si mescolavano in un turbinio di colori accesi, abiti stravaganti e musica assordante. Simon riconobbe una vampira dell'hotel Dumort, Lily. Distolse in fretta lo sguardo, mentre un ragazzo di circa diciannove anni, alto in modo spropositato e molto magro si avvicinava a loro a braccia aperte e un drink in mano. Magnus era più luccicante che mai: il glitter che aveva sugli occhi da gatto sembrava brillare di luce propria. I capelli neri erano ritti sulla testa, in un'acconciatura degna di un modello da prima copertina di Vogue. Indossava pantaloni di pelle strettissimi, una camicia argentea e una giacca elegante rosa shocking con borchie annesse sulle spalle. Alec sembrava terrorizzato, ed al tempo stesso affascinato, da quella luminosa visione.
«Ben arrivati!» Li invitò ad entrare con un gesto della mano, chinandosi a dare un rapido bacio sulle labbra ad Alec, che aveva l'aspetto di uno appena folgorato da un fulmine. «Ciao tesoro. Vedo che non hai messo la maglia che ti ho regalato.» Magnus alzò un sopracciglio, scrutando Alec.
«Ehm, no. Il colore non mi si addiceva.» Alec era visibilmente imbarazzato.
«Ma era cangiante! Avrebbe cambiato colore in base al tuo umore!» Aggiunse Magnus.
«Allora non sarebbe stata tanto diversa dalla maglia che indosso ora.» Borbottò Alec, abbastanza piano da farsi sentire solo dallo stregone. Magnus fece scivolare lo sguardo sui vestiti del Cacciatore. Maglia e pantaloni neri. Socchiuse gli occhi e fece un respiro esasperato.
Simon dovette trattenersi dal ridergli in faccia, guadagnandosi una gomitata in un fianco da parte di Clary.
«Non ridere di loro.» Gli disse con voce divertita. «Sono carinissimi.»
«Carinissimi.» Ripeté Jace sprezzante, parlando per la prima volta da quando erano usciti dall'Istituto.
«Hai ritrovato l'uso della parola, vedo.» Iniziò Simon. «Peccato, iniziavo ad abituarmi al tuo mutismo.»
«Portami da bere, vampiro.» Rispose Jace, con un ghigno storto.
«Non sono mica il tuo maggiordomo!»
«La volete smettere?» Sbottò Clary, dirigendosi verso un divanetto di pelle bianca. Tra le mani teneva un drink viola acceso. Simon si chiese quando lo avesse preso.
«Non vorrai berlo?» Farfugliò terrorizzato.
«Oh, smettila. Stasera nessuno si trasformerà in un roditore.»
Si sedettero sul divanetto. Isabelle era sparita, notò Simon con una piccola stretta allo stomaco. Alec e Magnus si stavano dando da fare in un angolo, evidentemente il loro litigio era già passato in secondo piano. E lui era rimasto intrappolato con Clary e il suo terrificante fidanzato. Beh, alla fine Jace non era poi così male … doveva ammetterlo. La voce di Clary lo risvegliò dai suoi pensieri, sovrastando la musica.
«Dovremmo essere là fuori a cercare Sebastian.»
«Forse dovremmo cercare la Kryptonite dei Cacciatori.» Disse Simon.
«Ma la Kryptonite uccide! Non possiamo uccidere Sebastian, è legato a Jace.»
«Vi ho già detto che per me potete farlo a pezzi.» Aggiunse Jace, che sedeva mollemente sul divano, un braccio attorno alla vita di Clary.
«Smettila con questa storia dell'autolesionismo. E comunque non dicevo la Kryptonite verde, mi riferivo, ovviamente, alla Kryptonite rossa, che priva Superman dei suoi poteri.» Disse Simon.
«Sbagli ancora, è la Kryptonite dorata che gli annienta i poteri, mentre quella rossa lo trasforma in...»
«Ragazzi … la realtà!» Isabelle era apparsa come una proiezione alle loro spalle.
«Stare con voi è delizioso! Non capisco neanche metà di quello che dite.» Disse Jace, con sarcasmo.
«Beh, neanche stare con te è il mio hobby preferito.» Sbuffò Simon.
«Ma questo è impossibile! Io sono … » Jace si picchiettò un dito sulle labbra, con aria pensierosa. «Ora che ci penso non c'è una parola umana abbastanza favolosa per descrivermi.»
Simon stava per aprire la bocca per controbattere ma non lo fece, era una causa persa.
«Okay, tregua. Che ne dici di ballare, Jace?» Intervenne Clary, a metà tra il divertito e l'esasperato.
 
 
«Perché continui a guardare la porta?» Chiese Alec a Magnus, che sembrava ascoltare le sue parole solo a metà.
«Come? Oh, scusa, Alexander.» Rispose Magnus con una scrollata di spalle. Piccoli brillantini gli caddero dai capelli.
«Cosa c'è?» Disse Alec, con rabbia crescente, svicolando dall'abbraccio dello stregone. «Stai forse pensando a Will
«Non essere sciocco, Alexander.» Lo liquidò lui, con un gesto teatrale della mano.
«Smettila di chiamarmi Alexander. Sembri mio padre.»
Magnus sembrò ferito da quel paragone. «Alec. Scusami, è che sto aspettando una persona. Le ho detto che avrei dato una festa e mi ha confermato che sarebbe venuta per le nove. Ma sono già le undici.»
«Ah, e chi è? Una dei tuoi innumerevoli ex?» Chiese freddamente il Nephilim. Magnus fece un respiro profondo, come a voler mantenere il controllo.
«Questa storia continuerà ancora per molto?» Disse, con voce stanca e piatta.
«Finché non mi dirai chi è Will e con quante persone, esseri viventi e non, sei stato a letto.»
Magnus fece una smorfia. «La persona che sto aspettando è una mia cara amica. Non vedevo l'ora che arrivasse per potervi presentare, ma ora non sono poi così sicuro di volerlo fare.»
E con queste parole si allontanò verso un gruppetto di fate danzanti, lasciando Alec solo, imbarazzato e con un pesante senso di colpa a schiacciargli il petto.
 
 
Clary era al centro dell'ampio salone di Magnus, le braccia allacciate attorno al collo di Jace e lo sguardo perso nei suoi occhi dorati. Sentiva la pressione delle dita di lui sui suoi fianchi e questo non le permetteva di pensare lucidamente. Chiuse gli occhi per un momento, ondeggiando al ritmo della musica che inondava la stanza.
«Questa musica è davvero pessima.» Le sussurrò Jace all'orecchio. Clary riaprì gli occhi e lo guardò divertita. Sul volto del ragazzo c'era quel suo ghigno inconfondibile e arrogante.
«A me piace.» Rispose lei, stringendosi più forte a lui. Ogni superficie dei loro corpi era a contatto. Una dolce agonia. «Sai perché mi piace?»
Jace alzò un sopracciglio, facendole scorrere le dita sulla schiena. «Perché?»
«Perché è molto simile alla musica che c'era al Pandemonium, la prima volta che ti ho visto.»
Era una cosa stupida da dire, Clary ne era cosciente. Ma forse Simon aveva ragione, non avrebbe dovuto bere quel drink dal dubbio colore. Vide gli occhi di Jace velarsi, per un istante, di una patina opaca, come se stesse cercando quel ricordo in un qualche cassetto nascosto della sua mente.
«Non ti ricordi?» Gli chiese Clary, confusa.
«Certo che mi ricordo. Tu credevi che fossi uno spietato assassino.» E lo sono.
«Non puoi certo biasimarmi!» Esclamò lei, fingendosi indignata.
Jace rimase in silenzio.
«Che ne dici di cercare un posto più appartato? Non sopporto più questo casino.» Le accarezzò il viso dolcemente, scostandole una ciocca di capelli e attorcigliandosela fra le dita. «Voglio stare da solo con te.»
Clary avrebbe voluto rispondere, ma le mancava il respiro e il battito furioso del suo cuore le rimbombava nelle orecchie, stordendola. «Anche io voglio stare sola con te.» Riuscì a sussurrare alla fine, così piano che temette di non essersi fatta udire. Ma il viso di Jace si era aperto in un sorriso luminoso, da togliere il fiato.
«Seguimi.»
Le disse prendendole una mano e avviandosi verso l'ingresso. Clary si lasciò trascinare come una marionetta, giù per le scale e poi fuori, nell'aria fredda della notte, nel giardino sul retro della casa. Non aveva bisogno di sapere dove la stesse portando o cosa volesse fare. Era Jace. E aveva la sua più piena e incondizionata fiducia. Lasciò andare la presa sulla sua mano e la guardò negli occhi. Non c'era niente in quel cortile. Solo erba bruciacchiata, il muro dell'edificio e loro due. Non si accorse neanche di stare tremando, fino a che lui non glielo chiese.
«Hai freddo?»
Certo, era autunno e indossava solamente un paio di stivali e un vestito nero corto, di un tessuto lucido e leggero simile alla seta. Ma non era per quello che stava tremando. Vide Jace avvicinarsi a lei, con passo agile e deciso. Posò le sue mani calde sulla sua vita, spingendola contro il muro di pietra. Fece scorrere le dita sulla sue gambe nude, poi fra i suoi capelli, facendola rabbrividire ancora di più. Le baciò il collo, prima con delicatezza, poi con più foga, mordendo e succhiando. Lei lo strinse a sé, aggrappandosi a lui con tutte le sue forze e cercando le sue labbra con le sue. Non si baciavano dalla sera prima, sul giardino sul tetto e Clary stava quasi impazzendo dalla voglia di farlo. Jace appoggiò la fronte sulla sua e chiuse gli occhi per un momento. Sembrava quasi che non volesse fare quello che stava per fare, come se temesse qualcosa. Riaprì gli occhi e finalmente le loro labbra si incontrarono. Prima dolcemente, poi con più passione. Clary si abbandonò al tocco familiare della sua lingua contro la sua, al tocco dei suoi capelli sul suo viso, al suo profumo. Profumo di sapone, di sole e di … pepe nero?
Lo allontanò bruscamente. Sgranò gli occhi e si appiattì contro il muro. Un freddo simile al ghiaccio si stava diffondendo dal suo petto fino in tutte le ossa del corpo. Il cuore era impazzito contro la gabbia toracica; ma non per la passione o il desiderio, ma per paura.
«Chi sei tu
Sibilò con rabbia. Anche se temeva già di sapere la risposta. Aveva già sentito quel vago sentore di pepe, prima di allora.

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Capitolo 3
*** Hey, Cruel World ***


CHAPTER 2
HEY, CRUEL WORLD


«Chi sei tu
Per un attimo il volto del ragazzo fu attraversato da un'espressione di assoluta incredulità, ma andò via in un lampo, lasciando spazio ad una maschera di distaccata ironia.
«Credimi, non vorresti davvero saperlo.» Disse con voce fredda e divertita.
«Sebastian …» La voce di Clary uscì come un sussurro ruvido.
«Sebastian, Jonathan … preferirei Jonathan, in realtà. Quel Verlac era un vero idiota. Ingenuo, pronto a fidarsi del primo Shadowhunters incontrato in un pub. Direi che non mi si addice proprio come nome.» Ghignò Jonathan, facendo un passo avanti. Clary si schiacciò ancora di più contro il muro alle sue spalle, guardandosi attorno freneticamente e ricordando le parole di Jace. Ogni cosa può diventare un'arma.
«Stai cercando un'arma, sorellina?» Sbuffò lui, divertito. «Credo che non troverai nulla, in questo patetico cortile.»
Era terrificante guardare il bel viso di Jace, il suo corpo perfetto, i suoi capelli color oro e sapere che dentro quel guscio così familiare, si celava una delle persone che detestava di più al mondo.
«Dov'è Jace? Cosa gli hai fatto!»
Gridò Clary, scagliandosi in avanti come una furia. Sentiva la rabbia ribollirle nel sangue, anche se sapeva di non avere alcuna speranza contro Jonathan. E, infatti, il ragazzo le afferrò gli avambracci, immobilizzandola con la sua forza innaturale. Clary si dimenò, cercando di liberarsi dalla sua presa, ma fu tutto inutile, fino a che non rinunciò e si afflosciò ansimando, ancora intrappolata fra le sue braccia.
«Non ho fatto niente al tuo bel angioletto, se è questo che ti preoccupa.» Sussurrò Jonathan, appoggiando la fronte contro la sua. Quel contatto la nauseava, la bruciava; ma allora perché fino ad un momento prima aveva provato tutt'altre sensazioni al suo tocco?
«Dimmi perché sei come lui. Dimmelo, o io …»
«Tu cosa?» La sbeffeggiò. «In ogni caso, ne so quanto te riguardo a questo, come possiamo definirlo, scambio di corpi. È per questo che oggi pomeriggio ero in biblioteca, cercavo di capire cosa diavolo fosse successo su quel giardino sul tetto. Non avrai davvero pensato che stessi leggendo Jane Austen!» Sbottò in una risata fredda e priva di allegria, lasciandole andare gli avambracci. Le facevano male, nei punti in cui l'aveva stretta, ma non se ne preoccupò, alzò lo sguardo su di lui, in un misto di rabbia e sorpresa.
«Vuoi dire che non sei stato tu? Non sei stato tu a prendere il suo corpo?»
«No,» rispose con semplicità, incrociando le braccia. «Adoro il mio vero corpo, non lo cambierei per nulla al -»
«Taci.» Gridò Clary, senza fiato, mentre un'orribile consapevolezza si impossessava di lei. «Se tu sei nel corpo di Jace, allora Jace è …» la voce le si ruppe in un singhiozzo, mentre si portava le mani alla bocca, sotto shock. «Hanno detto che Jonathan è fuggito dall'infermeria, ma Jace non l'avrebbe mai fatto … Dov'è adesso!?»
«E io che ne so?»
Clary strinse gli occhi, riducendole a due fessure. «Stai mentendo.»
Jonathan sembrò scioccato, come se nessuno prima d'ora fosse riuscito a capire quando stava fingendo o no.
«Hai ragione. Un punto per te, sorellina.» Si guardò le unghie con nonchalance, storcendo la bocca. «Le mie mani erano molto più belle delle sue. Queste unghie fanno spavento.»
«Sebastian. Dimmi. Dove. È. Lui.» Scandì lei, al limite della sopportazione.
«Non così in fretta, io non do niente per niente.» Ribatté, improvvisamente serio.
«Cosa vuoi dire?» Sibilò Clary.
«Voglio dire, che se ora ti dico dove credo sia Jace, tu correrai dai tuoi amici, poi dal Conclave e così via. Ovviamente io potrei impedirti tutto ciò con la forza, ma davvero non ho voglia di lottare con te, Clarissa.»
«Arriva al dunque.»
«Questa è la mia proposta: io ti dico dov'è Jace. Tu apri un Portale e andiamo insieme a salvarlo.» Si fermò per un attimo, come ripensandoci. «Scelta sbagliata di parole, andiamo a riprenderlo, così finalmente potrò riavere il mio splendido corpo e tu il tuo stupido fidanzato. Ma andremo noi due e basta, non lo dirai ai tuoi patetici amici.»
«Perché? E come faccio a sapere che non è solo una delle tue trappole per portarmi chissà dove e uccidermi?»
«Uno, come sei tragica. Due, perché le regole le faccio io. Tre, tu sei Clarissa Morgenstern, sei sicura di non avere alcun modo per capire se i miei propositi sono buoni o no?» Concluse con un ghigno gelido.
«Io … non,» Clary incespicò nelle parole. «Non capisco.»
«Oh avanti, il tuo potere delle rune? Ti sei dimenticata di averlo?» Disse esasperato.
«Non l'ho dimenticato,» rispose fra i denti, cercando con tutte le forze di mantenere il controllo. «È che …» non capisco come possa essermi utile, ora. Non appena quel pensiero si concluse, nella sua mente iniziarono a prendere forma delle linea curve, fino a formare la traccia di una runa. Una runa che parlava di verità, di segreti svelati. Clary seppe subito che avrebbe funzionato, che era la runa giusta. Decise di chiamarla Runa della Verità. Sempre che l'avesse inventata lei, ma d'altra parte non ricordava di aver visto nulla di simile nel Libro Grigio.
«Dammi lo stilo di Jace.» Gli disse decisa, tendendo la mano aperta in avanti. Jonathan la fissò con un mezzo sorriso, era un'espressione indecifrabile, ma sembrava quasi fosse orgoglioso di lei. Sfilò lo stilo dalla cintura e glielo porse.
«Ora dammi un braccio.» Ordinò Clary, avvicinandosi a lui quel tanto che bastava per potergli disegnare la runa sulla pelle.
«La gentilezza non è il tuo forte, eh?» Ironizzò Jonathan, scoprendosi l'avambraccio.
«Spero faccia male.»
E con un gesto abile iniziò a tracciare le linee sulla sua carne. Sapeva di stare schiacciando un po’ troppo, ma il desiderio di fargli male era troppo forte. Nonostante questo, Jonathan rimase immobile e impassibile, solo quando la runa fu conclusa fece una smorfia di dolore. Si portò una mano al petto e ansimò.
«Sarai contenta di sapere che, sì, fa male. Ora muoviti a farmi le domande.» Le disse a mezza voce.
«Perché sei nel corpo di Jace?»
«Non lo so.»
Le parole uscivano dalla bocca di Jonathan con velocità innaturale e il suo viso era una smorfia di dolore.
«Da quanto tempo sei nel suo corpo?»
«Da quando mi sono risvegliato sul giardino sul tetto, ero morto credo, ma potevo sentire quello che accadeva attorno a me.»
Ora sembrava che facesse anche fatica a respirare, ma a Clary non importava.
«Come facevi a sapere quelle … quelle cose su me e Jace.» Clary non sapeva come formulare quella strana domanda. «Voglio dire, quando ti ho parlato del Pandemonium e della prima volta in cui ci siamo incontrati, tu sapevi.»
«Ho una specie di accesso riservato ai ricordi di Jace.» Jonathan rise. Ma la risata si trasformò in un accesso di tosse.
«È per questo che sai dove si trova? Perché riesci a vedere nella sua mente? Perché?»
Jonathan cadde in ginocchio. Piccole gocce di sudore gli imperlavano i capelli dorati di Jace, aveva il respiro pesante e la mani strette sul petto. Ma non le disse di fermarsi.
«Credo di sì … a volte … mi capita di vedere dove si trova e di condividere i suoi ricordi … non so perché.»
Clary sapeva di doversi fermare. Il viso di suo fratello era bianco come un lenzuolo e le labbra erano quasi incolori.
«Dov'è Jace?»
«A Idris, nella tenuta di campagna dei Morgenstern.»
«Perché mi hai baciata?»
La domanda le fuoriuscì dalle labbra involontariamente. Jonathan fece una smorfia, come se cercasse di contrastare la forza della runa della verità, che stava lentamente sbiadendosi sul suo braccio.
«No.» Ansimò lui. «Sei una -»
«Rispondi alla domanda.» Disse Clary in tono freddo.
«Perché … lo volevo. Volevo farlo.»
La runa sbiadì completamente, lasciando solo un'ombra di cicatrice bianca. Jonathan respirò l'aria notturna a grandi boccate, si passò una mano fra i capelli (proprio come faceva Jace, notò Clary con un brivido di disagio) e si alzò di nuovo sulle gambe.
«Abbiamo più in comune di quanto pensassi.»
Le disse una volta che riprese fiato, sorridendo in modo sinistro. Lei non si soffermò a pensare a quelle parole. Iniziò a camminare avanti e indietro, schiacciando l'erba rinsecchita. Doveva prendere una decisione e in fretta. Jonathan diceva la verità, su questo era sicura. Ma era davvero una buona idea intraprendere un viaggio a Idris insieme a lui, senza avvisare nessuno? Sua madre l'avrebbe uccisa. Poi pensò a Jace. Solo, nel corpo di Jonathan, ad Idris.
«Muoviamoci.» Sbottò all'improvviso. Diede le spalle al ragazzo e con lo stilo ancora in mano, iniziò a tracciare la runa per aprire un Portale, sul muro di pietra dell'edificio di Magnus. La pietra sfrigolò e un ampio arco vi si aprì all'interno. Dall'altra parte si intravedeva solo una foschia grigia.
«Vai tu per primo, io non ho idea di dove sia la tenuta dei Morgenstern.»
«Ci sono degli incantesimi difensivi attorno a quel terreno, sarà meglio arrivare fino alla foresta di Brocelind e poi proseguire a piedi.» Disse Jonathan. Dopodiché le afferrò la mano e si gettò dall'altra parte, trascinandosi dietro Clary, mentre la sensazione di saltare nel vuoto le attorcigliava lo stomaco.
 
 
Era buio nella camera da letto, ma Alec percepiva perfettamente la presenza di Magnus, steso accanto a lui. La festa era finita da un pezzo e la serata si era conclusa con Magnus che non gli rivolgeva parola e viceversa. Si erano infilati nel letto senza nemmeno degnarsi di uno sguardo e Alec avvertiva un profondo senso di vuoto a livello della bocca dello stomaco. Non avrebbe mai pensato di poter provare una gelosia tale nei suoi confronti. E l'assurda fissazione per il suo passato lo teneva sveglio la notte, a rimuginare su Will e chissà chi altri. Alec sospirò rumorosamente e si girò dall'altra parte. Sentì la voce di Magnus provenire da sotto le coperte, attutita e assonnata.
«Sei ancora sveglio?»
«Sì, non riesco a dormire.» Rispose secco Alec. Se ne pentì immediatamente. Aveva voglia di baciarlo, di toccarlo; non riusciva a tenergli il broncio per più di due ore di fila. Si avvicinò al corpo caldo dello stregone e lo strinse a sé, infilando le mani sotto la giacca del suo assurdo pigiama di seta color giallo canarino.
«Questa è la tua offerta di pace?» Sussurrò Magnus. Ogni traccia di sonno era sparita dalla sua voce.
«Mi dispiace, Magnus.» Sussurrò lui in risposta e poi lo baciò teneramente sulle labbra. Magnus rispose al bacio con foga e lo attirò sopra di sé. «Adoro le offerte di pace.» Gli disse tra un bacio e l'altro. «Se nel passato ci fossero state più offerte di pace come questa, sicuramente si sarebbero svolte molte meno guerre.»
«Vuoi stare zitto?» Gli disse Alec, ridendo sulle sue labbra.
Lo squillo di un cellulare impedì a Magnus di ribattere. Alec cercò di ignorarlo, ma al settimo squillo ci rinunciò e rispose.
«Iz, che diavolo, ma hai visto che ore sono?»
«Ho visto che ore sono. Io e Simon stiamo venendo a casa di Magnus. Rendetevi presentabili.»
La voce di sua sorella era più acida e tesa del solito.
«Ma ve ne siete andati neanche due ore fa!»
Protestò Alec, lanciando un'occhiata piena di rimpianto ad un Magnus mezzo nudo e arruffato accanto a lui.
«Credi che mi diverta ad andare in giro di notte con un vampiro» sentì la tenue protesta di Simon dall'altro capo del telefono. «A importunare mio fratello e il suo fidanzato?»
«Izzy, che succede?» Ora Alec era in piedi, in allerta.
«Clary e Jace sono scomparsi.» Rispose lei, con voce rotta.
«Ma … avete guardato all'Istituto, o a casa di Luke?»
«Abbiamo guardato ovunque e chiesto a chiunque. La madre di Clary sta dando di matto.» Ci fu una breve pausa in cui nessuno dei due parlò. «Alec, prima Sebastian. Ora Jace e Clary … c'è qualcosa che non va.»
Dopo neanche venti minuti dalla telefonata, i ragazzi erano riuniti nel salotto di Magnus, che aveva abbandonato il mobilio da locale alla moda, lasciando spazio al solito divano, al tappeto persiano e al caminetto scoppiettante di fiamme azzurre. Magnus era seduto su una delle poltrone rosse, avvolto in una vestaglia di seta verde smeraldo, Alec in piedi accanto a lui. Simon lanciava occhiate speranzose al cellulare, mentre Isabelle sedeva sul bracciolo del divano.
«Ancora non capisco quando casa mia sia diventata il quartier generale degli Shadowhunters in difficoltà.» Disse Magnus, socchiudendo gli occhi. Gli altri lo ignorarono, ripetendo gli stessi concetti per l'ennesima volta.
«Allora, tutti abbiamo visto Clary e Jace andare via dalla festa, diciamo verso le undici.» Ripeté Alec. Isabelle e Simon annuirono.
«E quando stavamo tornando a casa mi ha chiamato la madre di Clary, chiedendomi dove fosse finita.» Aggiunse Simon.
«Così siamo andati all'Istituto,» prese la parola Isabelle. «Ma lì non c'erano. Dunque abbiamo chiamato Jordan, per sapere se per caso fossero all'appartamento.»
«Cosa improbabile.» Intervenne Alec.
«Infatti non c'erano.» Concluse Simon, con voce tetra.
«Io oggi gli ho suggerito di prendersi una stanza … ma non credo abbiano seguito il mio consiglio così alla lettera.» Disse Isabelle, muovendosi a disagio sul bracciolo.
«È da escludersi. Clary non farebbe mai preoccupare così Jocelyn, senza una buona ragione. Soprattutto ora, con quella faccenda di Sebastian …» Rispose Simon.
«Dunque. Riassumendo i vostri assurdi sproloqui.» Disse Magnus, con fare esasperato. «Jace, Clary e Sebastian sono scomparsi.»
«Non sappiamo se le due cose siano collegate.»
«Fidati, Alec, sono abbastanza vecchio da sapere che, quando più di due persone scompaiono nello stesso giorno, non si tratta di semplici coincidenze.» Gli occhi da gatto dello stregone furono attraversati da un'ombra di preoccupazione. «In effetti, forse le persone scomparse di oggi potrebbero essere quattro, non tre.»
«Che vuoi dire?» Chiesero Isabelle e Alec, all'unisono.
«Sai l'amica di cui ti parlavo prima?» Magnus si rivolse ad Alec, che annuì col capo. «Non risponde ai miei messaggi di fuoco ormai da ieri. Inizio ad essere preoccupato.»
«E la tua amica cosa c'entrerebbe con Clary e Jace?» Disse Simon, alzando un sopracciglio, scettico. Si teneva una mano sullo stomaco, notò Alec, e le vene sulle sue tempie erano più scure del solito. Probabilmente deve nutrirsi, pensò il Nephilim.
«Si da il caso, che la mia amica in questione, abbia qualcosa in comune con Clary, Jace e Sebastian.»
«Avanti, Magnus!» Si lamentò Isabelle, con veemenza.
«Okay, okay. Beh, Jace e Clary hanno sangue di angelo. Sebastian ha sangue di demone. E, anche il sangue della mia amica è, diciamo, particolare. È una Mutaforma. Come ho detto prima, non possono essere solo coincidenze.»
«Una Mutaforma?!»
«Credevo fossero solo una leggenda.»
Isabelle e Alec erano sbigottiti e sorpresi. Simon invece era a dir poco perplesso.
«Volete dire che le mummie non esistono ma i Mutaforma si? Questo è assurdo …»
«Le mummie non esistono, Simon. Fattene una ragione.» Isabelle lo fulminò con lo sguardo.
«Ma -»
«Ragazzi, non abbiamo tempo da perdere in dibattiti mitologici. Mi avete portato quello che vi ho chiesto?» Li interruppe Magnus, con assai poca gentilezza.
Simon tirò fuori dalla tasca del suo giubbotto una spazzola con qualche capello rosso intricato fra i denti, appartenuta a Clary. Isabelle, invece, estrasse dalla borsa, con deliberata lentezza, un libro.
«Racconto di Due Città di Dickens?» Alec la guardò con aria sbalordita. «Izzy …»
«Beh, sulla spazzola di Jace non c'erano capelli, okay?!» Gli rispose in malo modo. «So che questo è il suo libro preferito, l'ho visto leggerlo almeno un migliaio di volte.»
«Non preoccuparti, andrà benissimo.» La rassicurò Magnus, prendendo i due oggetti dalle mani dei ragazzi e avviandosi verso il suo studio.
«E adesso che si fa?»
Chiese Simon, una volta che lo stregone si chiuse la porta alle spalle.
«Aspettiamo.»
«E preghiamo che l'incantesimo di localizzazione abbia successo.»
 
 
Gli occhi di Jace si spalancarono di botto. Come prima cosa vide il soffitto bianco al di sopra di lui e per un attimo pensò di trovarsi ancora nel letto dell'infermeria dell'Istituto. Si alzò a sedere, nonostante il dolore a tutti gli arti. Mani e gambe non erano più legati, però, e il Marchio di Lilith spiccava ancora come una macchia rossa sul suo petto nudo. Si trovava in una stanza da letto, grande e con pochi mobili. Un armadio di legno scuro, una scrivania, alcune lampade di ottone e il letto su cui era seduto. C'era uno specchio sopra la scrivania, la cornice era laccata in oro, con eleganti intagli in stile barocco ed un intricato motivo di stelle a cinque punte. Ma non furono questi dettagli ad attirare la sua attenzione. Si alzò di scatto dal letto e quasi corse allo specchio, toccandosi la faccia e guardando il suo riflesso con tutta la concentrazione del mondo. Il suo riflesso era sbagliato. I capelli erano fini e biondi, di un biondo così chiaro da sembrare bianco argenteo. Gli zigomi alti e pronunciati e i lineamenti del viso freddi e spigolosi. Gli occhi erano neri. Per poco non cadde a terra per lo shock. Perché diavolo era nel corpo di Jonathan? Ricordò i Cacciatori che lo chiamavano Jonathan Morgenstern e due mani fredde che gli afferravano gli avambracci, mentre un'orrenda consapevolezza si fece largo nella sua mente. C'era solo una persona che poteva averlo rapito e portato in una casa in cui le stelle a cinque punte sembravano il motivo ricorrente di ogni decorazione. Sì, perché le stelle erano incise anche sulla testiera di legno del letto. Sulla porta. Sull'armadio. E quella persona non poteva essere altro che ...
La porta della camera si era aperta senza fare il minimo rumore e, sulla soglia, appoggiato allo stipite con una spalla, c'era Valentine, in tenuta da Cacciatore. Jace rimase paralizzato in mezzo alla stanza.
«Finalmente ti sei svegliato, temevo che il rituale di Lilith non avesse funzionato.»
Jace lo fissò, pietrificato. Valentine sapeva chi fosse veramente? O credeva che fosse davvero Jonathan?
«Che c'è?» Disse Valentine, con voce gelida. La voce che precedeva la furia, ricordò Jace. «Sei resuscitato senza l'uso della parola?»
Con quelle parole Jace capì che lui non sapeva. Crede davvero che io sia Sebastian.
«No, padre.»
Riuscì a dire in un sussurro.
«Jonathan, Jonathan …» fece due passi più vicino a lui. «Quando sei morto, a Idris, ho pianto per te figliolo.» Bugiardo. «Nonostante tu mi avessi deliberatamente disobbedito. Hai liberato i demoni prima della mezzanotte. Io ti avevo ordinato di non farlo.» Lo guardò con occhi gelidi e Jace rabbrividì. «Dovrei punirti, ma sarò magnanimo. In fondo, sei rimasto morto per quasi due mesi, dovrebbe essere una punizione più che sufficiente.» Fece una pausa e gli voltò le spalle per osservare al di fuori della finestra. Solo in quell'istante Jace notò la luce arancione e rosa del tramonto, le cime degli alberi verde scuro e il cielo marezzato di nuvole. Un cielo così particolare e caratteristico, che si trovava solo a Idris.
«Ma quello che davvero non capisco, figliolo» riprese Valentine. «È come tu ti sia fatto uccidere da Jace.» Tornò a guardarlo negli occhi, con uno sguardo così feroce e folle, che Jace fu tentato di indietreggiare. Non lo aveva mai guardato così, anche durante gli anni della sua infanzia insieme a lui, quando disobbediva agli ordini. «Non dovevi essere tu il guerriero più forte? Così mi aveva assicurato, Lilith, almeno, prima che nascessi.» Strinse gli occhi, riducendoli a due fessure color carbone. «Il bimbo che nascerà con questo sangue dentro di sé avrà un potere più grande dei Demoni Superiori che popolano gli abissi tra i mondi. Non ci sarà nulla che non sarà in grado di fare. Ma ti avverto, questo sangue brucerà la sua umanità, come il veleno brucia la vita nel sangue.» Valentine finì di recitare quello che Jace già sapeva, grazie alle visioni che l'angelo Ithuriel aveva condiviso con lui e Clary, mesi prima.
«Sul fatto che tu sia privo di umanità, non ci sono più dubbi ormai. Ma per quanto riguarda la prima parte della profezia …»
«Erano in due.»
«Cosa?»
«Quando sono morto. Cioè, quando Jace mi ha ucciso, non era da solo. Mi hanno colto di sorpresa.» Jace non sapeva neanche perché si stesse giustificando.
«Questa non è una valida scusa.» Sibilò Valentine.
«E poi quel Jace, wow, davvero veloce. Forse avresti potuto evitare di rifilarci lo stesso regalo per il decimo compleanno. Sai, quando hai insegnato ad entrambi che esiste un punto, nella schiena di ogni uomo, attraverso il quale puoi trafiggere il cuore e spezzare la spina dorsale. È così che mi ha ucciso.»
Lo sguardo di Valentine era piatto.
«Portami rispetto, Jonathan, o hai già dimenticato il sapore delle frustate?»
Jace lo guardò sbigottito. Valentine non lo aveva mai frustato, durante gli anni passati insieme.
 «Ad ogni modo, chiederò ulteriori spiegazioni a Lilith, quando noi la invocheremo.»
«Noi … cosa? Ma … il vampiro … l'ha ridotta ad una manciata di sale.» Sbiascicò Jace.
«Credi che ad un Demone Superiore vecchio di milioni di anni, la madre di tutti i demoni, basti così poco per essere messa fuori gioco? È debole, certo, ma le restituiremo la forza.»
Jace abbassò lo sguardo sui suoi piedi nudi. Si sentiva nauseato e stanco come non lo era mai stato.
«Perché Lilith mi ha riportato in vita?»
«Come perché? Tu sei mio figlio. E anche lei ti considera il suo erede. In effetti,» aggiunse Valentine, pensieroso. «Ha sviluppato una sorta di affetto nei tuoi confronti, che va al di là della mia comprensione.»
Jace sbottò in una risata acida. «Solo per questo? Vi siete presi il disturbo di resuscitarmi solo perché vi mancavo
Valentine alzò un sopracciglio bianco. «Ovviamente no. Anche per quello.» Indicò con un cenno del mento il marchio che sfigurava il petto del ragazzo. «Credevo che Lilith avesse avuto il tempo di spiegarti alcune cose, ma evidentemente non l'ha fatto.»
«Cosa c'entra il Marchio di Lilith?» Chiese Jace, automaticamente.
«Quel marchio ti lega nell'anima e nel corpo a Jace Herondale. Ferisci uno e ferirai anche l'altro, uccidi uno e ucciderai anche l'altro.» Valentine sorrise allo sguardo inorridito di Jace. «Ma c'è di più, figliolo, sei tu il capo in questa coppia. Tu hai il potere di esercitare il controllo sulla mente di Jace. Teoricamente avresti dovuto rapire Jace mentre eravate sul giardino sul tetto e portarlo da me. Ma sei svenuto e sei rimasto privo di coscienza fino a poco fa. Non ti credevo così debole. Ma rimedieremo anche a questo tuo errore.»
Con una rapidità sbalorditiva, Valentine sfoderò un pugnale dalla sua cintura e con un gesto abile della mano affondò la lama nel braccio di Jace. Il sangue iniziò a sgorgare dal taglio verticale che si estendeva dalla spalla fino all'avambraccio. Jace non provò neanche dolore, da tanto che era stupito.
«Ora Jace saprà che c'è qualcosa che non va. Quando sarà il momento tu eserciterai il tuo potere sulla sua mente e gli dirai dove ti trovi. Lui e Clarissa non tarderanno ad arrivare ed allora ogni pezzo del puzzle sarà al suo posto. Ma, ogni cosa a suo tempo, per adesso, fatti una doccia e renditi presentabile. Ti voglio di sotto in sala da pranzo fra un'ora.»
E uscì dalla stanza, lasciando un Jace sotto shock, a gocciolare sangue sul pavimento di pietra. Recitare la parte di Sebastian sarà più difficile del previsto, pensò il ragazzo.
 
 
A Simon sembrava che Magnus si fosse rinchiuso nel suo studio da più di un secolo. Quando finalmente lo stregone uscì dalla stanza, era così teso, che scattò in piedi come un soldato al passaggio di un suo superiore. I morsi della fame non aiutavano di certo a tenere i suoi nervi saldi.
«Allora? Trovato qualcosa?»
Magnus lo guardò con espressione vuota, sbatté le palpebre due volte e sembrò mettere a fuoco solo allora le tre presenze che ingombravano il suo salotto.
«Sì, niente con il libro di Jace. Ma i capelli di Clary hanno funzionato. È a Idris.»
Simon, Isabelle e Alec aprirono la bocca contemporaneamente. «A Idris … dove?» Sussurrò Simon, con il panico che gli cresceva nel petto.
«Nei pressi della foresta di Brocelind. Non sono riuscito ad individuare il punto preciso a causa delle difese contro gli incantesimi del luogo e della vicinanza con il Lago Lynn. Ma posso dire con certezza che Clary è a Idris, insieme a Jace, presumibilmente.»
«Ma perché?»
«Per cercare Sebastian, credo.» Rispose Simon, alla domanda retorica di Isabelle.
«Ma perché non ci hanno avvisati se avevano scoperto qualcosa di nuovo? Saremmo potuti partire tutti insieme.» La ragazza andava avanti e indietro per la stanza, menando la sua frusta di elettro sui poveri mobili di Magnus.
«Senti, non lo so.» Disse brusco. «Ma dobbiamo andare a Idris, subito. Magnus tu puoi aprire un Portale -» Simon era già in piedi, quando lo stregone lo fermò con un gesto della mano.
«No. Questa volta non possiamo lanciarci a capofitto senza un piano.» Sospirò profondamente, sbattendo un piccolo libro bianco, dall'aria antica, sul tavolino del salotto. Era scritto in una lingua incomprensibile. «Questo è il Libro Bianco. Contiene quasi tutti gli incantesimi esistenti e … guardate questa.» Indicò una pagina, su cui spiccava un titolo scritto in caratteri sempre incomprensibili. Alec e Isabelle si sporsero in avanti per leggere.
«Ehm, Magnus potresti tradurre? Non tutti sono andati a scuola di lingue demoniache.» Disse Simon, con impazienza.
«Ah, giusto. È in ctonio, la lingua degli stregoni.» Si schiarì la voce. «Ci sarà un momento in cui vacillerà l'equilibrio delle dimensioni. Ed in questo tempo verrà il grande guerriero ... I tre verseranno il loro sangue, e da esso lui sorgerà. La signora di Edom gli verrà incontro e gli annuncerà il suo destino immortale ... I Cacciatori non lo riconosceranno, non lo arresteranno e lui li condurrà all'Inferno
Sotto le righe appena lette da Magnus, Simon scorse una specie di lista della spesa scritta in ctonio. Evidentemente era la descrizione del rituale con tanto di ingredienti per far sì che questo presunto guerriero immortale sorgesse.
«Qui, che c'è scritto?» Simon indicò un punto sulla pagina, intuendo già la risposta.
«Polvere di sorbo selvatico. Sangue di djinn. Sangue dei figli dell'angelo. Sangue di Mutaforma.» Magnus si interruppe. Lo sguardo cupo.
«Un sacco di sangue, insomma.» Sussurrò Simon, con la bocca secca come un deserto.
«Sarà meglio chiamare anche Maia e Jordan.» Disse Isabelle.
«Sarà meglio avvertire il Conclave.» Aggiunse Alec.

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Capitolo 4
*** Heartache ***


CHAPTER 3
HEARTACHE


 
Clary saltò nel Portale ed un istante dopo ruzzolò al suolo. L'erba era umida di rugiada, gelida contro le sue gambe e braccia nude. Forse non era stata una poi così buona idea partire per Idris con addosso solo un misero vestito e nessun'arma. La sua scelta le parve immediatamente così stupida che le vennero le lacrime agli occhi. Jonathan, ovviamente, era atterrato in piedi, con grazia ed eleganza. Le tese una mano per aiutarla ad alzarsi, che lei rifiutò con una smorfia. Si trovavano in una piccola radura in mezzo ad una fitta foresta, il cielo sopra la sua testa era di un intensissimo azzurro indaco. Strano, pensò, visto che fino ad un attimo prima era notte.
«Si chiama fuso orario, sorellina.» Jonathan sembrò leggerle nel pensiero. «Qui a Idris siamo cinque ore avanti, rispetto a New York.»
«Non mi importa.» Disse sgarbatamente. «Stavo pensando che non ho nessun'arma con me. Ho solo lo stilo.» Aggiunse dando un colpetto alla piccola borsa che portava a tracolla.
«Ne ho abbastanza per entrambi.» Rispose Jonathan.
In effetti, poche ore prima, quando erano usciti tutti insieme dall'Istituto, Clary si era chiesta perché Jace si fosse vestito con la tenuta da Cacciatore e avesse portato con sé spada angelica e pugnali. Ora che aveva scoperto che non era in realtà Jace, ma Jonathan, capiva benissimo il perché.
«Siamo nella foresta di Brocelind, vero?»
«Esatto.»
«Ci saranno un sacco di Nascosti da queste parti.»
«No, non direi.»
Clary lo guardò con un sopracciglio alzato. «Cioè?» Abbaiò.
«Questa parte della foresta confina con il territorio della tenuta dei Morgenstern. Fidati, non ci sono più Nascosti, né animali. Ormai hanno capito e vedono bene di starsene alla larga.»
Lei continuò ad avere un'espressione perplessa, così Jonathan, con fare esasperato, continuò a parlare.
«Nostro padre era solito venire qui a caccia. Con me. Tutto ciò che prima abitava questa parte della foresta ora è morto.»
Clary rabbrividì, sia per il freddo che per altri motivi.
«È orribile.» Sussurrò, guardando per la prima volta Jonathan in faccia. I suoi occhi sembravano persi nei ricordi. Ricordi non proprio piacevoli.
«Sarà meglio incamminarci. Di qua.» Iniziò a camminare, poi si fermò. «Hai freddo. Ti do la mia giacca.» Fece per togliersi la giacca di pelle che indossava.
«Fermo. Non voglio niente di tuo.» Rispose, gelida.
«Tecnicamente non è proprio mia. È di Jace.» Le fece un sorriso altrettanto gelido.
«Come vorrei avere il mio ipod.» Borbottò Clary, seguendolo tra gli alberi.
«Perché? Volevi la colonna sonora per il nostro bel viaggetto?»
«No. Per non dover sentire in continuazione la tua stupida voce.»
«Beh, tecnicamente non è proprio la mia voce -»
«Oh, stai zitto!» Esclamò con veemenza.
Jonathan scrollò le spalle e si girò per continuare a camminare. Clary non vide che sul suo viso era spuntato un piccolo sorriso. Camminarono per circa un'ora in silenzio. Sentiva la terra bagnata affondare sotto la suola dei suoi stivali e, anche se non voleva ammetterlo, stava morendo di freddo. Vedeva il suo respiro condensarsi in piccole nuvolette bianche.
«Allora, quanto manca?»
Chiese dopo un po’, non tanto per curiosità, ma perché quel silenzio la stava mandando al manicomio. Non avrebbe mai ammesso neanche quello.
«Ancora un bel po’.»
«Non ho mai sentito parlare di una tenuta di campagna dei Morgenstern, qui a Idris.» Continuò Clary. «Jace mi aveva detto che eri cresciuto in una casetta vicino al Lago Lynn.»
Vide le spalle di Jonathan irrigidirsi. Ma quando parlò la sua voce era piatta e controllata come al solito.
«È così, infatti. Mentre Jace faceva la vita del principino nella tenuta dei Wayland, io ero in quella dannata casetta. Mi sono trasferito alla tenuta dei Morgenstern con mio padre quando avevo undici anni. Dopo che Jace fu mandato all'Istituto e dopo che Valentine si finse morto, sotto il nome di Michael Wayland. La usavano i genitori di Valentine, principalmente.»
Clary notò come Jonathan avesse chiamato i suoi nonni, genitori di Valentine. Il ragazzo era un metro più avanti, affrettò il passo, scivolando sui sassi, e lo affiancò.
«Perché stai facendo tutto questo? Perché mi stai aiutando ad arrivare a Jace?» Gli chiese, cercando di scorgere l'espressione sulla sua faccia.
«Te l'ho già detto. Voglio riavere il mio splendido corpo.» Rispose, senza guardarla.
«Quindi una volta che sarai tornato te stesso, rimarrai di nuovo dalla parte di Valentine?»
«No. Non sono più dalla parte di nessuno. Non dopo che lui mi ha lasciato morire come un cane.» Fece una piccola pausa. «Dopo che Jace mi ha ucciso, o meglio, quando mi ha quasi ucciso, una parte di me ha continuato a vivere,» la parte demoniaca, pensò Clary. «Sentivo la voce di Lilith che mi parlava. Capito? La voce di Lilith, non quella di mio padre. Fosse stato per lui mi avrebbe lasciato a marcire in quel fiumiciattolo.» Concluse con amarezza. Per una frazione di secondo, Clary provò dispiacere per Jonathan. Ma l'immagine di Max e Hodge scacciarono subito quel sentimento. Calò nuovamente un silenzio teso. Il cielo iniziava a rischiararsi, preannunciando l'alba. Era più di un'ora che camminavano senza interruzione e Clary faticava immensamente a tenere il suo passo.
«Basta!» Sbottò, senza fiato, appoggiandosi con la schiena al tronco di un albero. «Non ne posso più, ho freddo, ho fame e questa foresta è infinita.» Incrociò le braccia la petto, come una bambina piagnucolosa. Se ne rendeva conto, ma non le importava più di tanto. Il freddo le era penetrato nelle ossa, impedendole di ragionare. Jonathan tornò indietro sui suoi passi, fermandosi davanti a lei e guardandola con un sopracciglio alzato e l'aria divertita.
«Ti arrendi facilmente, eh?»
«Facile parlare quando hai addosso stivali, pantaloni e otto giacche.»
Sebastian si tolse la giacca, la prese per le braccia, staccandola dall'albero e gliela mise sulle spalle. Fece tutto questo con estrema delicatezza. Clary sentì le sue dita calde sulle braccia e quando alzò lo sguardo non vide altro che il viso angelico di Jace. Rabbrividì ancora di più. Tutto quello che voleva era appoggiare la testa contro il suo petto così familiare e farsi avvolgere dalle sue braccia. Ma non è Jace, si ripeté nella mente.
«Grazie.» Mugolò, ma non riuscì a finire la parola che le braccia di Jonathan le avevano davvero avvolto il corpo. Per un attimo rimase allibita e sconvolta. Poi una mano di Jonathan si posò sulla sua bocca e lo sentì sussurrarle all'orecchio: ssssh. Capì che il suo abbraccio non era una semplice questione di romanticismo.
«Che succede?» Sussurrò Clary, girandosi a guardarlo, ancora stretta fra le sue braccia.
«Non senti?»
Chiuse gli occhi per un momento e anche lei sentì rumore di foglie smosse e di rami spezzati. Fino a quel momento la foresta era rimasta immobile e silenziosa.
«Cos'è?»
«Non lo so, Clary. Sali sull'albero.»
Lei lo guardò come se fosse un folle, lui scrollò le spalle esasperato e si arrampicò con un balzò sul grosso albero. Si sedette su un ramo abbastanza spesso e poi si piegò, tendendole una mano per aiutarla a salire. Il rumore si faceva più forte ad ogni secondo che passava, Clary afferrò la sua mano e si arrampicò. Jonathan prese lo stilo e iniziò a tracciarsi delle rune sulla pelle. Forza. Agilità. Vista notturna. Quando ebbe finito con le sue braccia, passò a quelle di Clary. Ancora troppo scossa e imbambolata per controbattere, si lasciò marchiare. Rimasero lì appollaiati per qualche minuto, finché Jonathan non scoppiò in una risata silenziosa.
«Guarda. Sono solo Dimenticati.»
Un gruppetto di Dimenticati si trovava esattamente qualche metro sotto di loro. Clary li aveva sempre trovati spaventosi, con i loro sguardi vacui e il loro portamento inumano.
«Ti fa ridere?» Sibilò a Jonathan con rabbia crescente. «Quelli, una volta erano umani. Chiunque li abbia trasformati -»
«Chiunque?» Sibilò lui, incredulo. «Ti prego, sai benissimo chi è stato. Valentine. Ora che ha perso la Coppa Mortale e il controllo sui demoni, presumo si debba accontentare di loro.» Estrasse la spada angelica che portava nel fodero dietro la schiena. Poi passò agli stivali, estraendo due coltelli. Poi alla cintura, dove aveva appeso un kindjal. «Cosa vuoi?» Chiese a Clary, mostrandole le armi affinché potesse scegliere. Sgranò gli occhi.
«Vuoi che li uccidiamo?»
«Tesoro, o prima o dopo dovremo ucciderli. Meglio prima, vorrà dire che quando arriveremo alla tenuta ce ne saranno dieci in meno.» E con un ghigno che le fece gelare il sangue nelle vene, le lasciò la spada angelica fra le mani e spiccò un salto giù dal ramo. I  dieci Dimenticati si gettarono subito su di lui. Non avevano armi, ma non percepivano neanche il dolore. La cosa più umana che puoi fare per loro è ucciderli, si ripeté Clary nella mente. Poi saltò.
Atterrò esattamente dietro la schiena di uno di loro, alzò la spada angelica e con tutta la forza che aveva trafisse il torace della creatura, quella emise un sospiro e cadde subito a terra, morta. Si voltò a cercare la figura di Jonathan e lo vide impegnato a ferirne due alla volta con i pugnali stretti nei pugni. Era velocissimo e nonostante fosse identico a Jace, il suo modo di combattere era diverso dal suo. Ne aveva già uccisi cinque, i quali ora giacevano a terra, sporcando il suolo di sangue. Vide un terzo Dimenticato apparire alle spalle di Jonathan,  Clary corse e sguainò la spada in avanti, tranciandogli il braccio che aveva allungato per afferrare il ragazzo da dietro. Jonathan si voltò per un attimo a guardarla, sorrise. Il viso angelico di Jace sporco di schizzi di sangue. Clary si sentì forte e per la prima volta da quando aveva scoperto di essere una Cacciatrice, provò l'inebriante sensazione della battaglia. Uccise il Dimenticato a cui aveva tranciato il braccio con un affondo nel suo petto. Poi balzò all'indietro e ne ferì un altro, all'altezza della gola. La creatura si avventò su di lei, buttandola con la schiena a terra. Il suo viso distorto e famelico era a qualche centimetro dal suo, poi le cadde addosso, schiacciandola con il suo enorme peso. Lei rimase senza fiato, fino a che Jonathan non glielo tirò via di dosso, senza il minimo sforzo.
«Stai bene?» Le disse ansimando leggermente e l'afferrò per un braccio, rimettendola in piedi.
Attorno a loro, l'erba verde di Idris era macchiata di sangue e i corpi giacevano riversi su di essa, con espressioni grottesche e spaventose.
«Credo di essermi slogata una caviglia.» Disse Clary, traballando sulle sue stesse gambe. Non percepiva dolore, probabilmente a causa dell'ondata di adrenalina che ancora le circolava nel sangue.
«Vieni, è meglio andare via da qui.»
Jonathan le passò un braccio attorno alla vita e, zoppicando, si allontanarono da quel massacro. Quando furono sufficientemente lontani, Jonathan la fece appoggiare contro un tronco di un albero e si accucciò accanto a lei.
«Fammi vedere la gamba.» Ordinò, senza tanti complimenti. Riluttante, Clary allungò la gamba ferita con una smorfia. Jonathan posò le dita sulla sua pelle nuda e lei rabbrividì per un istante.
«Che c'è? Ti ho fatto male?» Chiese, alzando gli occhi dorati sui suoi.
«Sì.» Mentì Clary, distogliendo lo sguardo, a disagio.
«Ti faccio un iratze
Dopo la runa di guarigione, si sentì subito meglio. Il dolore era passato, lasciandole però, un'enorme stanchezza addosso.
«Forse è meglio se ci riposiamo per un'oretta.»
«No. Voglio continuare.» Rispose acida.
«Siamo arrivati, Clary. Vedi?»
Le indicò con un cenno del capo un punto poco più avanti. Dietro le cime degli alberi spuntava il contorno di una casa.
«È meglio riprenderci un attimo, prima di affrontare Valentine.»
Si sistemò accanto a lei. Sentì la sua spalla contro la sua. Chiuse gli occhi, godendosi la sensazione del calore emanato dal suo corpo contro il proprio. Tutto questo è sbagliato, pensò con rabbia. Strinse i pungi e si alzò in piedi di scatto. La caviglia non le faceva già più male.
«Ho bisogno di stare da sola.»
Jonathan alzò un sopracciglio dorato. «Non credo sia un lusso che puoi permetterti, sorellina -»
Ma Clary aveva già iniziato a camminare. Quando fu fuori dalla visuale di Jonathan si mise a correre, per poi cadere a terra in mezzo ad una piccola radura ingombra di cespugli. Si prese il viso tra le mani e iniziò a singhiozzare. Si sentiva esausta e l'ansia per Jace cresceva ogni minuto di più. Inoltre aveva iniziato a provare delle cose che non avrebbe dovuto provare. Voleva baciare Jace con tutta sé stessa. Ma il Jace che aveva vicino non era il vero Jace, era Jonathan, il suo fratello in parte demone. Eppure fino ad ora si era comportato come … un essere umano. Ricorda quando fingeva di essere Sebastian, Valentine lo ha addestrato per questo, per far credere agli altri cose che non sono vere.
Sentì un rumore di rami spezzati. Non era come quello di poco prima, era il rumore che poteva fare una singola persona camminando nel bosco. Si asciugò in fretta le lacrime.
«Ti ho detto che voglio stare sola!»
Clary gridò. Ma quando tra i cespugli apparve la persona, fonte di quel rumore, non era Jonathan. Era … sua madre?
«Mamma …?» Sussurrò con voce incredula, muovendosi per andarle più vicina.
Jocelyn mosse un passo e cadde a terra, Clary vide che i suoi vestiti erano macchiati di sangue. Un enorme alone rosso scuro si diffondeva dal suo ventre. Cadde a terra e non si mosse più.
«No!» Clary gridò, accasciandosi accanto al corpo della madre. Gli occhi erano chiusi, ma si vedeva che non c'era più vita dentro di lei. Iniziò a singhiozzare, stringendosi a Jocelyn. Si sentiva confusa, stordita e completamente paralizzata dal terrore. Anche le lacrime faticavano a scenderle giù dagli occhi. Ci fu un rumore sordo e il corpo di Jocelyn cominciò a muoversi e a mutare. Per un attimo Clary provò sollievo, credendo fosse ancora viva, ma quella sensazione venne presto spazzata via da una nuova ondata di terrore e disperazione.
Il corpo che ora teneva in grembo era quello di Luke. Privo di vita, il torace era aperto completamente a mostrare le interiora.
Crack.
Ora non era più Luke, ma Simon. La sua gola era tagliata e la testa penzolava in modo sinistro dal suo corpo.
Crack.
Alec morto.
Crack.
Isabelle morta.
Crack.
Jace morto. Sentì il suo cuore smettere di battere. Non aveva più la forza di combattere. Strinse Jace con tutte le sue forze, sussurrandogli all'orecchio di svegliarsi. Che doveva svegliarsi. Il ragazzo aprì gli occhi e Clary sussultò. Non erano i suoi bellissimo occhi color ambra, erano bianchi e vuoti. Sentì la spada angelica che aveva gettato a terra bruciare di calore. Una voce gridare: Israfiel e la spada si illuminò. Sentì il corpo di Jace mutare fra le sue braccia per l'ennesima volta, abbassò gli occhi e rimase ancora più scioccata. Stava stringendo il suo stesso corpo morto. Riconosceva le sue braccia e sue gambe esili. I capelli rossi sporchi di sangue. Le lentiggini sul suo viso. I suoi occhi non erano più verdi, ma completamente bianchi. Vide Jonathan, o Jace, affondare la lama nel petto di sé stessa e finalmente il demone si dissolse in una nuvola nera, lasciandola a stringere il vuoto. Alzò gli occhi su Jonathan, che la fissava dall'alto.
«Hai un sacco di paure, vedo.»
Lo sentì dire, nel suo solito tono arrogante, poi svenne.
Quando riaprì gli occhi, il cielo aveva assunto una tonalità di blu più chiaro. Si sentiva la testa pesantissima e si accorse di averla appoggiata sulle ginocchia di Jonathan. Tentò di alzarsi di scatto, ma con scarsi successi.
«Bentornata nel mondo dei vivi, sorellina.»
«Cos'era quella cosa?» Chiese senza voce. Aveva la gola secca e una gran sete.
«Un Demone Superiore. Agramon, per la precisione, il demone della paura.» Spiegò Jonathan con voce piatta. «Ti mostra le tue più grandi paure, fino a farti morire.»
Questa volta Clary si alzò di scatto a sedere, nonostante il dolore alla testa.
«Mi hai salvato la vita. Suppongo di doverti ringraziare.»
«Oh, fa' come ti pare. Non sono uno che da troppa importanza all'etichetta.» Disse, agitando una mano in aria.
«Quando sei arrivato … Agramon si è trasformato in me. Vuol dire che la tua più grande paura, sono io?»
Jonathan rise, ma senza allegria. «In un certo senso. La mia più grande paura sei tu, perché da quando ti ho incontrata non riesco a smettere di pensare a te. Sei la mia più grande paura perché amare è distruggere. Ma al tempo stesso, non voglio perderti.» Clary fece per aprire bocca ma lui le fece segno di tacere. «So che non mi amerai mai, so che sono un mostro. Lo so, perché ho visto le tue più grandi paure. Perdere Luke, i due fratelli Lightwood, il vampiro, Jace e addirittura tua madre, ma non me.»
«Non puoi certo biasimarmi se ho visto mia madre! È mia madre!»
«È anche la mia, ma io la odio.»
«Non dovresti.»
«E perché non dovrei odiare la donna che mi ha messo al mondo e poi mi ha abbandonato? Disgustata dal suo stesso figlio.»
«Non è andata così. Questa è la versione di Valentine. Sì, nostra madre provava disgusto per quello che eri, ma non ti avrebbe mai abbandonato senza lottare. Non l'ha mai fatto, stava per scappare e portarti via con sé, ma Valentine le ha fatto credere che tu fossi morto.»
Jonathan sembrava non aver ascoltato neanche una parola.
«Ogni anno, il giorno del tuo compleanno, tira fuori una ciocca dei tuoi capelli e piange.» Aggiunse Clary in un sussurro. Jonathan voltò la testa di scatto.
«Non è vero.»
«È vero. E tu lo sai che non sto mentendo. Sei solo spaventato dalla possibilità che lei ti abbia amato davvero.»
«Smettila. Questo non cambia le cose.»
«È vero, non cambia il fatto che tu abbia ucciso Hodge, Max e il vero Sebastian.» Ribatté lei, freddamente. Ci fu una lunga pausa. Entrambi guardavano il tetto della tenuta dei Morgenstern, che spiccava in lontananza contro il cielo.
«Erano ordini.» Sussurrò lui. «Ho eseguito gli ordini di Valentine.»
«Lui ti ha ordinato di uccidere Hodge, se ci avesse rivelato la verità sullo specchio mortale.»
«Sì.»
«Ti ha ordinato di uccidere Sebastian, per poter prendere il suo posto.»
«Sì.»
«E ti ha ordinato di uccidere Max, anche? Un pericoloso bambino di undici anni?» Chiese con voce come vetro.
«No. Quello è stato un mio errore.» Alzò lo sguardo su di lei. I suoi occhi erano quasi imploranti. «Io … non sono bravo coi bambini. Voglio dire, non avevo mai avuto a che fare con un bambino e non sono riuscito a trattenere la mia forza. Volevo solo tramortirlo, come ho fatto con sua sorella, davvero.»
«Ti credo.» Clary si sorprese quanto Jonathan di udire quelle parole. «E credo anche che questa faccenda dello scambio dei corpi ti abbia reso più umano.»
«Lo credo anche io.»
«Jace mi ha detto che Valentine teneva dei diari sui suoi esperimenti. Una volta che saremo dentro la tenuta, li cercheremo. Troveremo un modo per farvi tornare ognuno nel proprio corpo e troveremo anche qualcosa per te.»
«E cosa, esattamente?» Chiese, con freddezza.
«Troveremo un contro incantesimo o un'arma o una qualsiasi cosa che ti tolga il sangue demoniaco di Lilith dalle vene.»
Clary si era alzata in piedi e parlava con determinazione, i pugni stretti lungo i fianchi.
«Non essere sciocca. Non esiste niente del genere.»
«C'è sempre un contro incantesimo.»
In realtà non ne era affatto sicura, ma non voleva arrendersi. Voleva fare quello per Jonathan, per sua madre e anche un po’ per se stessa. In quel momento capì che, sì, Jonathan era un mostro, ma un mostro creato da Valentine. Non era stata una sua scelta, quella di diventare malvagio. Clary gli prese la mano e lo trascinò dietro di sé verso la tenuta. Gli dava le spalle, perciò non vide lo sguardo di Jonathan. Era la prima volta che Clary lo toccava volontariamente e questo lo aveva riempito di uno strano sentimento simile alla speranza.
«Non avevi detto che Valentine non aveva più il controllo sui demoni?»
«Evidentemente mi ero sbagliato. Fare combutta con Lilith deve avergli dato qualche sorta di potere.»
«Fantastico. Si può andare più in basso di così?»
«Credo di sì.» La prese per un braccio e la nascose dietro una fitta coltre di arbusti e cespugli. Di nuovo, sentì i brividi percorrerle la schiena. La tenuta dei Morgenstern era a dir poco imponente e immensa. Era fatta di pietra grigia e divisa in un edificio principale e varie torrette e guglie con i loro tetti rossi, che trafiggevano il cielo dell'alba ormai sorta. Sopra ogni guglia era appollaiato un demone uccello. Demoni Devrak e Ifrit erano all'entrata principale, di guardia. Clary riconobbe anche un Divoratore e qualche Behemoth. Insomma, il parco attorno alla tenuta pullulava di creature infernali.
«Pare che Valentine abbia ancora i suoi poteri suoi demoni.»
«Che acuto osservatore che sei.» Ironizzò, lei. «Allora, da dove entriamo?»
Jonathan fece una smorfia. «Quella,» e le indicò una grande finestra a bovindo su un lato della casa. «È la finestra della mia stanza. Ci arrampicheremo sul muro ed entreremo da lì.» 
«E i demoni?»
Le sorrise, poi sillabò le parole: «corri.»
Per una frazione di secondo, Clary osservò Jonathan sfrecciare lungo il prato, lontano dalla protezione degli alberi. Guardò i demoni e sembrò che nessuno lo avesse notato. Si tracciò una runa di velocità e iniziò a correre a perdifiato. Si fermò solo quando fu al riparo del muro, sbattendoci contro, da tanta era la velocità della sua corsa.
«Non sento nessun urlo disumano, perciò direi che nessuno ci ha visto. Forza.» Con un balzo iniziò a scalare il muro di pietra. Per fortuna i mattoni erano irregolari e Clary riuscì a trovare abbastanza facilmente dei punti di appoggio. Erano arrivati. A circa mezzo metro, c'era la finestra della camera di Jonathan, lui la spalancò con una gomitata e aiutò prima Clary ad infilarsi dentro. Ruzzolò a terra, ma si rialzò subito. Aveva lividi su braccia e gambe. Le ginocchia sporche di terra ed erba. Graffi sul viso e il vestito nero era strappato in alcuni punti.
«Cosa ci fai qui
La accolse una voce incredula e scioccata, una voce che conosceva bene, era quella di Jonathan, che però in questo caso era quella di Jace. Il ragazzo era in piedi a pochi passi da lei. Indossava la tenuta da Cacciatore e, inevitabilmente, era identico a Jonathan.
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Anche se fossi cieca ti troverei.»
Si avvicinò a lui, le labbra a pochissimi centimetri dalle sue. «Jace …» sussurrò Clary, con il cuore a mille e una voglia matta di stringerlo a sé e di baciarlo.

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Capitolo 5
*** Black and Gold ***


CHAPTER 4
BLACK AND GOLD


 
Quando Valentine lasciò la stanza, Jace decise che era meglio sottostare al suo volere, per il momento. Avrebbe cercato di scoprire il maggior numero di informazioni possibile sui suoi futuri piani diabolici. Nella stanza, che presumibilmente era di Jonathan, c'era una porta che conduceva ad un bagno privato con un'enorme vasca da bagno in marmo nero. I sanitari erano di marmo grigio, ma il resto del bagno era nero. Molto da Jonathan, pensò Jace con odio. Si fece un bagno caldo, grattando via il sangue secco della sera prima. Sembrava passato un secolo, eppure neanche quarantotto ore fa si trovava sul giardino sul tetto a combattere contro Lilith. Quando uscì dalla vasca, si avvolse subito in un asciugamano, ben determinato a non guardare niente del corpo di Jonathan. La cosa lo disgustava da morire. Indossò una delle innumerevoli tenute da Cacciatore appese nell'armadio ed uscì dalla camera. Era calata la notte e le torce di stregaluce illuminavano gli altrimenti bui corridoi della tenuta. Cercò di orientarsi, ma fu tutto inutile, sembrava di essere in un labirinto. Valentine gli aveva detto che avrebbe dovuto raggiungerlo nel salone al piano terra, ma come diavolo ci si arrivava? Andò a finire più volte in corridoi cechi. Imprecando a bassa voce, finalmente trovò delle scale che scendevano, le percorse e sentì delle voci. Seguì quel suono ed entrò in un enorme salone: il pavimento era di legno scuro e c'era un camino in cui scoppiettava il fuoco. A parte due poltrone e un lungo tavolo non c'era nient'altro. Valentine, che stava parlando con due uomini, entrambi Cacciatori, dedusse Jace dalle rune sulla loro pelle, si voltò a guardarlo con un ghigno.
«Ce l'hai fatta, finalmente. Pontmercy e Cartwright, qui» e indicò i due Cacciatori. «Mi stavano aggiornando sulla prima parte del piano.» Tornò a fissare i suoi occhi gelidi su di loro. «Allora?»
Pontmercy, quello che fra i due sembrava avere un'aria vagamente più furba, prese la parola. «Sì, ecco …» puntò lo sguardo incerto su Jace.
«Puoi parlare liberamente davanti a lui. È mio figlio, non mi tradirebbe mai.» Disse Valentine.
Il Cacciatore fece un piccolo sospiro ansioso e iniziò a parlare. «L'abbiamo chiusa nei sotterranei, Valentine, come avevi ordinato. Dalla cella che abbiamo preparato non può scappare.» Si esibì in un sorriso storto, che somigliava più ad una smorfia di dolore.
«Benissimo, benissimo.» Annuì, Valentine.
L'altro uomo, Cartwright, sembrò prendere coraggio dal buon umore del suo padrone e parlò a sua volta. «È davvero un osso duro, quella strega, ci ha quasi fatti saltare in aria, mentre cercavamo di catturarla.»
Valentine lo guardò gelido. «È una Nascosta, voi siete Shadowhunters, non dovreste avere problemi nel rapire un essere inferiore come quella. Ora sparite, devo parlare con mio figlio.»
I due Cacciatori si dileguarono alla velocità della luce.
«Voglio mostrarti una cosa.» Disse a Jace, facendogli segno di seguirlo. Jace obbedì e insieme entrarono in un'altra piccola stanza, adiacente al salone. Era priva di mobili, ad eccezione di un tappeto ed un enorme quadro raffigurante l'Angelo Raziel. Jace indugiò sul dipinto. Clary gli aveva raccontato di Raziel e della sua aura potentissima. Valentine notò il suo sguardo e sorrise.
«Devo decisamente disfarmene, considerando che quell'angelo bastardo stava per uccidermi.» E senza altri indugi sollevò il tappeto persiano, il quale nascondeva l'ingresso di una botola. L'aprì e sotto di loro apparve una scalinata di pietra, viscida e umida, che conduceva ai sotterranei. Jace continuò a seguire l'ombra di Valentine, che faceva strada con una stregaluce tra le mani. I sotterranei erano labirintici come il resto della casa, freddi e odoravano di muffa, di metallo e di marcio. Dopo quelle che gli parvero ore, Valentine si fermò davanti ad una delle innumerevoli celle. Erano tutte buie, aveva notato Jace, ma da alcune provenivano strani rumori, rantoli o sospiri. Questa era silenziosa come una tomba. Valentine sollevò la stregaluce ed illuminò l'interno della prigione, dove giaceva una ragazza di circa diciannove anni. Indossava dei jeans e un maglione azzurro, laceri e sporchi di sangue e terra. Aveva lunghi capelli castani, ondulati come quelli di Clary e grandi occhi azzurri, dietro i quali si poteva percepire una grande intelligenza. Osservò i due uomini come se non fossero i fautori della sua prigionia, ma due misere mosche piuttosto fastidiose.
«Jonathan, permettimi di presentarti Tessa Gray. La Mutaforma.» Disse Valentine, compiaciuto.
A Jace mancava il respiro e la parola, perciò quando parlò la sua voce uscì roca e impastata. «Mutaforma? Credevo fossero una leggenda, padre.»
«Nelle leggende c'è sempre qualcosa di vero. Avvicinati, guardala meglio.» Valentine sembrava un padre che mostrava al suo piccolo un cucciolo di tigre allo zoo particolarmente violento. Jace fece due passi avanti. La stregaluce illuminò meglio il viso della ragazza ed ebbe la netta sensazione di averla già vista. Ne era certo. Ora anche il suo nome, Tessa Gray, aveva un qualcosa di familiare alle sue orecchie.
«Non mi trasformerò in nessuno, Valentine.» La ragazza parlò con voce calma e risoluta. «Ho già fatto questo errore in passato e non ho intenzione di rifarlo.»
«Sono lusingato, la Mutaforma conosce il mio nome!» Rise, e la sua risata era come unghie raschiate sull'acciaio.
«Ho combattuto contro di te, a Idris. Quando tu e il tuo esercito di demoni siete stati schiacciati da noi Nascosti e Shadowhunters.»
Jace ricordò improvvisamente una ragazza vestita di bianco, che parlava con Magnus durante la festa nella Piazza dell'Angelo. Era lei, era Tessa.
«Ma dai?» Rispose Valentine in tono affabile, come se stesse tenendo un bel discorsetto da salotto. «Eravamo così vicini! Avrei potuto catturarti allora, se solo avessi saputo. Comunque, tornando a noi, non ho intenzione di chiederti di trasformarti in nessuno.» Aggiunse con voce tagliente e ironica. «Per quello ci sono i demoni Eidolon, no?» Rise, ma nessuno si unì a lui. «Povera piccola Nascosta, eri convinta che ti avessi catturato per i tuoi patetici poteri? Niente affatto. Ti sopravvaluti, mi serve solo il tuo sangue fresco per un certo rituale. Verrò a riscuotere quando sarà il momento.» Detto questo le voltò le spalle. «Andiamo, Jonathan.»
Una volta fuori dai sotterranei, Jace affiancò Valentine.
«Di che rituale parlavi, prima?» Sperò vivamente di non tradirsi, con quella domanda, ma doveva sapere. «Quello per invocare Lilith?»
«No. Invocare Lilith è abbastanza semplice. Il rituale di cui parlavo è molto più complesso e mi darà finalmente la possibilità di uccidere tutti i Nascosti di questa terra, senza l'aiuto di nessuno.»
«Cioè?» Azzardò Jace.
«Non tartassarmi con le tue domande, Jonathan. Va' di sopra, e inizia a fare quella cosa con la mente per richiamare Jace e Clarissa. Mi servono entro domani a mezzanotte.»
«Clarissa?»
Il nodo alla gola di Jace si strinse fino a togliergli il respiro. Non aveva parlato di Clary, non fino ad allora. Doveva assolutamente restare fuori da tutta quella follia. Per un attimo immaginò Clary insieme a Jonathan, sotto le sue sembianze e si sentì male da morire. No, lei capirebbe subito che non sono davvero io, pensò senza troppa convinzione. In fondo, lui stava ingannando Valentine, il mago degli inganni, proprio in quel momento.
«Sì, sarai contento di sapere che parteciperà anche tua sorella al rituale. Conosco la tua piccola ossessione.»
Jace impallidì. «Ma, cosa c'entra lei -»
«Ho detto basta. Fa' quello che ti ho ordinato e riposati, perché domani mattina alle sette, andremo a caccia di djinn
Jace conosceva abbastanza bene Valentine per sapere che la conversazione era conclusa, perciò se ne andò, pensando che, se anche ne avesse avuto le facoltà, mai e poi mai avrebbe attirato lì Jonathan e Clary. Ovviamente non andò in camera sua, ma vagò per la tenuta cercando di capirne la sua conformazione. Si imbatté in una biblioteca enorme, in uno studio e nell'armeria. L'armeria più grande, folle e assurda che avesse mai visto. Si riempì la cintura e gli stivali di spade, pugnali e quant'altro. Solo verso l'alba ritornò in camera sua. Era entrato da circa un secondo, quando sentì un tonfo. Si girò di scatto e rimase paralizzato dal terrore. Clary era sul suo pavimento. La vide raddrizzarsi e guardarlo con quei suoi stupendi occhi verdi, pieni di speranza e amore. La vide avvicinarsi sempre di più.
«Che ci fai tu qui?» Chiese con voce incredula. «Come hai fatto a trovarmi?»
«Anche se fossi cieca ti troverei.»
Era così vicina, così vicina che sentiva il suo respiro sulla pelle e il suo fantastico profumo di fiori. «Jace …»
«No.» Sibilò con voce simile al lamento di un animale ferito. «No. Stammi lontana e non provare a toccarmi. Non quando sono … così.» Indicò con un gesto della mano il corpo di Jonathan.
«Ti ringrazio, fratellino.»
Jace sembrò sul punto di vomitare, diventò pallidissimo poi rosso acceso. Tremava. Jonathan era appena apparso alle spalle di Clary. Era assurdo vederlo indossare il proprio corpo. Estrasse dalla cintura un pugnale, poi sembrò ripensarci. Se uccidi uno, uccidi anche l'altro, aveva detto Valentine.
«Che cosa diavolo ci fa lui qui? Cosa ci fai tu qui, con lui?» Gridò per un attimo, poi ricordò la presenza di Valentine e quasi soffocò per mantenere un tono di voce basso. Jonathan fece due passi avanti nella stanza, con studiata indifferenza.
«Che ci fai tu nella mia stanza, piuttosto. Ah, e rivoglio il mio corpo.» Aggirò Clary e si posizionò davanti a Jace. «Dio, sono davvero bello. Potrei baciare me stesso. Nel vero senso della parola, intendo!»
«Zitto, Jonathan!» Sibilò Clary, istericamente.
«Clary, vuoi spiegarmi cosa diavolo sei venuta a fare?» Il viso di Jace era una maschera di pietra fredda. Lei si sentì il cuore spaccato a metà, ma cercò di non scoppiare in lacrime.
«Siamo venuti a salvarti.»
«Come no! Si sa che Sebastian è un buon samaritano.»
«Jonathan, grazie.»
«Taci!» Dissero all'unisono Clary e Jace, rivolti al ragazzo, guardando l'uno negli occhi dell'altro, con rabbia feroce. Jonathan sbuffò ma rimase in silenzio.
«Se non fosse stato per lui non ti avrei mai trovato.» Disse Clary, stringendo i pugni.
«Oh, grazie tante, amico.» Rispose Jace, grondando sarcasmo. «Grazie per aver portato Clary e il mio corpo esattamente dove Valentine vuole che siano!»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire, Clary, che come al solito ti sei buttata a capofitto nelle cose senza riflettere! Il Conclave è stato avvisato?» Jace era furibondo e Clary, a quella domanda, non poté far altro che arrossire.
«Veramente … nessuno sa che siamo qui.»
«Cristo!»
«Sei davvero un ingrato,» Jonathan parlò per la prima volta da quando era stato zittito bruscamente. «Se Clary avesse fatto un viaggio di diecimila chilometri per salvarmi, mi prenderei la briga di dirle almeno grazie.»
«Jonathan, lascia stare davvero.» Sussurrò lei.
«Da quando tu e lui siete diventati grandi amici? Puoi spiegarmelo?»
«Lui era l'unico che potesse condurmi a te! Tu avresti fatto lo stesso, se ci fossi stata io al tuo posto.» Disse Clary, rabbiosamente. Jace non poté contraddirla questa volta. Si udì il rintocco di un orologio a pendolo, da qualche parte nei meandri della casa. Sette rintocchi. Jace guardò fuori dalla finestra, dove il sole era quasi sorto.
«Merda. Devo andare a caccia con Valentine, me n'ero quasi dimenticato.» Borbottò frustrato.
«Auguri.» Fece Jonathan. Jace lo ignorò.
«Voi due non muovetemi da qui finché non sarò tornato. Poi escogiteremo qualcosa.»
«A dire la verità pensavamo di dare un'occhiata ai libri di Valentine. Dobbiamo trovare un modo per farvi tornare nei vostri corpi.»
Jace sospirò rumorosamente, passandosi una mano sugli occhi. «Va bene. Non credo ci sia nessuno in casa. Ieri sera c'erano due membri del Circolo, ma ho idea che se ne siano tornati nelle proprie tenute.»
«C'è un Portale al piano terra, proprio dietro ad un quadro dove è ritratto l'Angelo Raziel. Valentine non permette a nessuno di alloggiare in questa casa, eccetto ai suoi prigionieri.» Jonathan fece un sorriso lugubre.
«Fantastico.» Jace era già sulla porta, senza degnare Clary di un ulteriore sguardo. Si fermò sulla soglia e si voltò a guardare Jonathan, invece, con un sorriso inquietante e sadico. «Cercherò di farmi molto male, mentre sono a caccia.»
«Accomodati, non sarò certo io ad impedirtelo.» Ribatté lui.
Jace rimase interdetto. Clary spostò lo sguardo dall'uno all'altro, perplessa. «Cosa stai dicendo?»
«Non ti sei ferito al braccio? Valentine mi ha detto che se io venivo ferito, anche tu lo saresti stato. Poi mi ha tagliato il braccio con un pugnale.» Mostrò loro la cicatrice che ancora sfoggiava sull'arto. Era stato un taglio piuttosto profondo, che neanche l'iratze era riuscito a curare del tutto, probabilmente perché la lama del pugnale di Valentine era stata creata con metallo demoniaco. 
«No. Nessun taglio al braccio. Credo che il rituale di Lilith sia andato nel verso completamente sbagliato.» Disse Jonathan.
«Puoi dirlo forte.» Rispose Jace con voce amara. Poi uscì dalla porta.
 
 
Simon infilò le chiavi nella toppa della porta del suo appartamento. La spalancò ed entrò nel salotto, seguito da Isabelle.
«Allora, cosa devo prendere?»
«Suppongo tu non abbia nessun'arma, quindi direi solo dei vestiti pesanti e la tua scorta di sangue. Dove diavolo è Jordan? Dobbiamo tornare a casa di Magnus entro un'ora, prima che Alec cambi idea e vada a spiattellare tutto ai nostri genitori.» Isabelle si sedette imbronciata sul divano sfondato. Simon la guardò per un istante, poi si avviò verso la porta della stanza di Jordan.
Bussò e l'aprì senza aspettare una risposta. «Ehi, amico. Dobbiamo muover-»
Jordan era a letto. Ma non da solo. Riconobbe subito la chioma a treccine di Maia. Intravide pezzi di pelle nuda, l'odore del sudore, della carne e più sotto del sangue, spinto forte nelle vene dai cuori tachicardici dei ragazzi. Sentì i canini perforargli le gengive. Stava morendo di fame. Le due figure di Maia e Jordan ruzzolarono fuori dal letto, avvolte nel lenzuolo bianco.
«Oh, merda. Oh. Scusa amico, io … io -»
Isabelle era accorsa alle sue spalle e la sentiva ridere a crepapelle.
«Simon chiudi quella dannata porta!» Ululò Jordan da dietro il letto.
«C-certo!»
Simon la chiuse con un colpo secco. Si voltò verso Isabelle, che era piegata su sé stessa e stava ancora ridendo.
«Izzy, non è divertente!»
«Eccome se lo è! È stata una scena esilarante.» La ragazza alzò lo sguardo e smise immediatamente di ridere. «Simon.»
«Che c'è? Che succede?»
Ormai aveva capito che le ragazze erano tutte un po’ lunatiche. Sbalzi d'umore e altre faccende. Ma il cambiamento improvviso di Isabelle era un po’ troppo anche per lei.
«Tu stai morendo di fame.» Gli si avvicinò e gli passò un dito sul labbro inferiore facendo rabbrividire Simon. Quando lo ritrasse era sporco di sangue. Il suo stesso sangue, dovuto alla discesa dei suoi canini.
«Perché non ti nutri?»
«Ho, diciamo, finito le scorte.»
«Simon sei un'idiota! Perché non l'hai detto subito? Potevamo passare in macelleria o da Taki!»
«Scusa, ma nutrirmi non è stata la mia preoccupazione principale, stasera.» Rispose sarcastico. «Non mi pare che voi vi siate fermati da un McDonald's tra un piano di salvataggio e l'altro.»
«Per te è diverso, lo sai. Non puoi continuare ad ignorare la tua natura. Il sangue per te è qualcosa di più che semplice cibo.» Isabelle era seria. Abbassò lo sguardo sul suo polso.
«Puoi nutrirti col mio sangue.»
La porta della camera di Jordan si aprì in quell'istante e Simon, agghiacciato dalla proposta di Isabelle, gliene fu immensamente grato.
«Ehm, ciao Izzy, Simon.»
I due ragazzi erano oltremodo imbarazzati.
«E così voi due ci date dentro invece che aiutarci a salvare Clary e Jace.» Disse lei, con fare superiore.
«Salvare Clary e Jace …» ripeté Maia, confusa. «Perché? Che è successo?»
«Non avete letto i milioni di messaggi che vi abbiamo mandato?»
«Ehm, no. Eravamo rimasti che Jace e Clary erano spariti, ma non in pericolo di vita! Poi ci siamo … ecco, lasciati trasportare dalla situazione.» Jordan era rosso come un peperone.
«Diciamo che a trasportarti sono stati i tuoi pantaloni.» Fece Isabelle, perfida.
«Ora basta. Volete dirci che cosa è successo?»
Simon raccontò brevemente tutta la storia, lasciando sui volti dei due ragazzi un'espressione scioccata. Dopo aver discusso con una alquanto riluttante Maia, che voleva a tutti i costi riferire il tutto al suo capo branco, cioè Luke, i ragazzi si prepararono e uscirono diretti nuovamente a casa di Magnus (il quartier generale degli Shadowhunters in difficoltà).
 
 
Magnus era a conoscenza della nuova residenza di Tessa, una piccola casetta unifamiliare in Connecticut, ed era proprio lì che si trovava in quel momento. Non ebbe bisogno di un'accurata indagine per scoprire quello che già temeva. La casa era sottosopra e c'era ancora la puzza di attività demoniaca. Non c'erano messaggi di alcun tipo, né indizi su dove potesse trovarsi la sua amica. A Magnus si strinse il cuore, mentre si accucciava nella cucina spaziosa, sopra una chiazza di sangue relativamente fresco.
«Tess, dove sei
Sussurrò a sé stesso. Si rialzò e attraversò il Portale che aveva creato per arrivare fino a lì.
Il salotto di Magnus era più affollato di prima. Isabelle e Alec erano in tenuta da Cacciatori e si dividevano meticolosamente le armi che Alec era andato a recuperare di soppiatto all'Istituto. Maia era in piedi vicino a Jordan, entrambi indossavano jeans, scarpe da tennis e un giubbotto di pelle. Simon stava bevendo la sua seconda bottiglietta di sangue animale, comprata poco prima da Taki, sotto le minacce di Isabelle. Magnus indossava pantaloni di pelle e un trench nero e lungo, dalla cui tasca spuntava il piccolo Libro Bianco, non c'era traccia di glitter sul suo viso e questa mancanza rendeva la situazione ancora più seria di quello che già era.
«Come pensavo, la mia amica Tessa Gray, la Mutaforma è stata rapita. Probabilmente da Valentine, come Clary e Jace.»
«E riguardo alla profezia che hai trovato? Sei riuscito a capirci qualcosa di più?» Gli chiese Simon, leccandosi le labbra sporche di sangue.
Magnus socchiuse gli occhi un istante. «Non direi. È un rituale davvero antico e molto controverso. Le istruzioni non sono chiare nemmeno per me, come non lo è il fine ultimo del rituale stesso. Posso solo presumere che serva a creare o evocare un guerriero infernale davvero potente.»
«Perfetto. Quindi ora si va a Idris e poi? Non sappiamo nemmeno dove andare!» Intervenne Maia, che era ancora piuttosto riluttante verso quella missione.
«Sappiamo che Clary era nella foresta di Brocelind. Inizieremo da lì.» Disse Simon, fiducioso.
«Possiamo sempre dare un indumento di Clary a Jordan e vedere se riesce a seguire una pista con il suo odore.» Intervenne Alec, lasciando tutti a guardarlo a bocca aperta. Il Nephilim arrossì vagamente.
«Non sono mica un segugio!» Borbottò Jordan.
«Era solo una battuta.» Si giustificò Alec, muovendosi a disagio e lasciando gli altri ancora più di stucco.
«Da quando fai battute?» Lo schernì Isabelle. «Hai avuto diciotto anni per fare battute e inizi proprio ora?»
«Già. La tensione, immagino.»
Magnus lo guardò divertito. Era uno sguardo carico di amore e affetto. Si avvicinò ad Alec, non riuscendo a trattenersi e gli accarezzò delicatamente i capelli castani.
«Non devi giustificarti, tesoro. Sei fantastico.» Alec arrossì furiosamente.
Isabelle roteò gli occhi al cielo. «Se abbiamo finito con le smancerie … Magnus vuoi aprire questo maledetto Portale?»
«Io credevo che i Nascosti non potessero entrare a Idris senza permesso.» Disse Jordan.
«Ti sbagli, non posso entrare ad Alicante, senza permesso.» Ribatté Isabelle, acida.
«Ma guarda chi è appena uscito dal barattolo del veleno!» Sussurrò Maia, anche sa nel silenzio del salotto la udirono tutti. Isabelle la fulminò con lo sguardo e aprì la bocca, per sputare altro veleno, probabilmente.
«Okay, ragazze, calmatevi» intervenne Simon, alzandosi dalla poltrona. «Non è questo il momento per ucciderci a vicenda. Jordan, quello che stiamo per fare va sicuramente contro le Leggi del Conclave. Se non te la senti, puoi rimanere, nessuno ti giudicherà.»
Jordan parve alquanto offeso. «Certo che vengo! Il Conclave non è affar mio, io appartengo al Preator.»
«Bene.» Continuò Simon. «Comunque Maia, in effetti ha ragione, dobbiamo capire cosa fare una volta che saremo nella foresta di Brocelind. Non abbiamo idea di dove Valentine tenga i suoi prigionieri, quindi potremmo andare per esclusione.»
«Escludi già la tenuta dei Fairchild e quella dei Wayland, sono entrambe andate distrutte.» Disse Alec.
«Potrebbero essere nella casetta sul fiume.» Isabelle saltò in piedi. «Sì! Quella dove io e Jace abbiamo ucciso Jonathan.»
«Quasi ucciso.» La corresse Magnus. «Anche se era davvero piccola. Dubito che Valentine riesca a tenere tre prigionieri là dentro. Più lui stesso e il suo demoniaco figlio. Sentite, possiamo andare e una volta che saremo là posso riprovare con l'incantesimo di localizzazione. Non posso assicurare che funzioni, ma credetemi, se passo un minuto di più nel mio salotto a fare teorie con voi potrei mettere fine alla mia immortalità e suicidarmi.» Concluse in tono tragico. Alec non sembrò apprezzare affatto la battuta di Magnus, infatti si divincolò dal suo abbraccio e sbraitò.
«Forza, allora. Andiamo.»
Magnus lo guardò con tristezza, poi agitò le mani, da cui fiammelle azzurre partirono all'impazzata fino a creare il contorno di un Portale.
 
 
Jace era appena uscito dalla stanza e Clary si sentiva fredda e vuota, paralizzata al centro della camera. Vide Jonathan muoversi attorno al letto e sfilarsi la casacca della divisa da Cacciatore, gettandola a terra.
«Cosa stai facendo?» Gli sibilò contro.
«Una doccia, no? Sono pieno di sangue di Dimenticato, bleah.» Iniziò a sbottonarsi anche i pantaloni di pelle nera e Clary si girò di scatto, dandogli la schiena. Sentì lo sbuffo di una risata provenire da Jonathan.
«Non fare la timida, presumo che tu abbia già visto il corpo di Jace.»
Clary arrossì furiosamente e fu grata del fatto che lui non potesse vederla in viso.
«No?» Continuò il ragazzo, implacabile. «Vuoi dire che voi non avete mai ... ?»
«Questi non sono davvero affari tuoi.» Disse, irata e imbarazzata.
«Non c'è bisogno che rispondi, frugherò tra i ricordi di Jace.» Scoppiò a ridere.
«Sei un bastardo. E comunque non dovevamo andare in biblioteca e renderci utili?» Clary tentò disperatamente di cambiare argomento.
«Rilassati, abbiamo tempo per una doccia.» Si fermò e sembrò ripensarci. «Forse poi non così tanto tempo, dovremmo farla insieme.»
Clary chiuse gli occhi per evitare di voltarsi e tirargli addosso il primo oggetto contundente. «Idiota.»
«A parte gli scherzi, anche tu dovresti farti una doccia. Fai proprio schifo.»
«Grazie tante.» Sibilò, mentre la porta del bagno si richiudeva alle sue spalle. Clary si sentiva esausta, si tolse gli stivali e sprofondò nel letto di Jonathan. Era soffice e confortevole, in un attimo cadde addormentata. Non seppe per quanto dormì, probabilmente solo qualche minuto, ma gli sembrò di sentire un tocco leggero che gli spostava i capelli dal viso. Aprì gli occhi e vide il viso di Jace, i capelli color oro erano ancora umidi e piccole goccioline d'acqua brillavano sul suo petto sfregiato dal Marchio di Lilith. Indossava solo un asciugamano stretto in vita. Vide la sua mano appoggiata sul materasso e la coprì con la sua, stringendola. Le ci vollero alcuni minuti per svegliarsi completamente e comprendere che quello non era Jace. Si alzò di scatto.
«Vuoi metterti qualcosa addosso?!»
Urlò, arrossendo. Jonathan alzò un sopracciglio.
«Ai tuoi ordini. Il bagno è libero.»
Clary si diresse nel bagno come un furia, sbattendosi la porta dietro di sé. Si lavò velocemente e si avvolse in un grosso asciugamano, osservando con dispiacere il suo vestito reso a brandelli e sporco di terra e sangue. Sentì la voce di Jonathan al di là della porta.
«Ti ho preso dei vestiti puliti. Non c'è bisogno che ti rimetti quegli stracci.»
Diavolo, quel ragazzo sembrava leggerle nella mente. Uscì dal bagno e trovò Jonathan completamente vestito e armato. Inoltre, piegata sul letto, c'era una divisa da Cacciatrice.
«E questa dove l'hai trovata?» Gli chiese dubbiosa, accarezzando il tessuto pesante e nero.
«Era di tua madre quando era giovane, l'ho presa da una delle camere matrimoniali.» Rispose con voce piatta.
«È anche tua madre.»
«Fino a prova contraria.»
Clary roteò gli occhi e lasciò perdere. Quando anche lei fu vestita si diressero in punta di piedi verso lo studio di Valentine, attraverso i corridoi illuminati dal sole e apparentemente deserti.
«Non è meglio andare in biblioteca? C'è più scelta.»
«Fidati, se Valentine ha a cuore un certo libro, lo troveremo di sicuro nel suo studio.»
Lo studio in questione si trovava nell'altra ala della tenuta che, notò Clary, era immensa. La stanza era quadrata e abbastanza spaziosa, delle tende di velluto rosso lasciavano trasparire una tenute striscia di luce solare. C'era una grande scrivania al centro, ingombra di carte e oggetti non identificati e lungo le pareti c'erano un sacco di volumi dall'aria antica e magica. Sarebbe stata una lunga ricerca. Vide Jonathan dirigersi sicuro verso un angolo della stanza, dove un mobiletto di legno spiccava solitario. Jonathan lo aprì ed estrasse una bottiglia di vetro, contenente un liquido ambrato e un bicchiere dello stesso materiale.
«Hai intenzione di bere?!»
«Perché no?»
«Jonathan, dobbiamo cercare tra i libri e -»
Lui le fece segno di stare zitta e si sedette sulla sedia alla scrivania. Nel frattempo si era versato un bicchiere di quel che a Clary sembrava whisky e l'aveva ingoiato in un colpo. C'era un piccolo libro con la copertina di pelle nera e l'aria antica sopra il tavolo. Jonathan lo sfogliò, fino ad arrivare alla pagina in cui c'era il segnalibro, un piccolo pezzo di corda.
«Vieni a vedere, questo sembra fare al caso nostro.» Lei si avvicinò, guardando il piccolo libro da dietro la spalla del ragazzo.
«Non ci capisco niente. Che lingua è?» Borbottò Clary, frustrata.
«Purgatico, la lingua dei demoni.»
«Tu la sai leggere?»
«Abbastanza.» Le indicò la pagina contrassegnata. «Vedi? Questo è il rituale che ha usato Lilith per riportarmi in vita. È un rituale di rinascita e di legame. Da quello che c'è scritto, Jace e io saremmo dovuti essere connessi l'uno all'altro, come diceva lui prima, sia nel corpo che nella mente e io, essendo quello riportato in vita dalla parte del male, sarei dovuto essere in grado di controllare la mente di Jace.»
«C'è scritto qualcosa riguardo a delle possibili complicanze, come nel vostro caso?» Lui strinse gli occhi e continuò a leggere quella lingua incomprensibile. «Direi di no.»
«E c'è scritto come spezzare quel legame?» Chiese ancora, mentre un piccolo barlume di speranza si insidiava in lei.
«Sì … dice che il legame avviene attraverso il Marchio che abbiamo sul petto, ma non può essere spezzato, se non da colei che lo ha creato. Cioè Lilith.» Finì di tradurre per lei e alzò lo sguardo sul suo viso.
Clary rabbrividì, nonostante il materiale spesso della divisa. Prese il contenitore di vetro e versò del whisky nel bicchiere, poi lo bevve tutto d'un fiato. Il liquido le mandò a fuoco la gola e iniziò a tossire. Non era mai stata un gran bevitrice.
«Vai così, sorella.» Le sorrise Jonathan.
«Questa non è affatto una bella notizia, Jonathan.» Quel nome le uscì dalle labbra senza neanche riflette. Era la prima volta che si rivolgeva a lui chiamandolo per nome. Lui sembrò piuttosto compiaciuto. «Quindi dovresti toglierti dalla faccia quel sorrisino arrogante.»
«Beh, almeno ora sappiamo che una speranza c'è. Lilith può liberarci da questo casino, l'unico problema è riuscire a convincerla a farlo. Posso tentare, in fondo si può dire che siamo parenti.»
«È disgustoso.» Disse Clary e bevve un altro sorso dal bicchiere. L'alcol iniziava a rendere i suoi muscoli tesi più caldi e rilassati, facendoli formicolare piacevolmente. Jonathan le tolse il bicchiere dalla mani e bevve a sua volta.
«Troveremo il modo.» Ribatté fiducioso.
«Cerca ancora, quel libro sembra un ricettacolo di piani demoniaci.» Clary si diresse verso gli scaffali, analizzando il dorso dei libri uno ad uno. «Io intanto cerco qualcosa per quell'altra faccenda
«Clary, ti ho già detto che è inutile.»
«No.»
Con quel monosillabo mise fine alla conversazione e iniziò la ricerca sugli scaffali.
 
 
I sei ragazzi si ritrovarono catapultati nella valle di Idris dove l'affluente del Lago Lynn scorreva placidamente. Magnus si spazzò via dal trench nero del terriccio e tirò fuori la spazzola di Clary con un po’ dei suoi capelli.
«Riprovo subito con l'incantesimo di localizzazione.»
Gli altri annuirono e lo videro armeggiare con la sua magia, fatta di fiammelle colorate e lucenti che si avvolgevano attorno alla spazzola, mentre lo stregone recitava sotto voce parole sconosciute. Rimasero tutti in attesa per qualche minuto. Quando Magnus alzò la testa, il suo sguardo non era tra i più rassicuranti.
«Niente.» Disse con voce atona. «Devono esserci delle difese piuttosto potenti, ovunque si trovino.»
«Fantastico.» Mugolò Simon. Era l'unico che indossava una maglietta a maniche corte, nonostante l'aria fredda di Idris fosse davvero pungente in autunno. Ma d'altronde, lui non percepiva più il caldo o il freddo.
«Andiamo alla casa dove è cresciuto Sebastian, è la nostra unica speranza.» Isabelle si era già messa in marcia, senza aspettare il consenso degli altri. Ricordava perfettamente la strada per arrivare alla vallata, anche se quando l'aveva percorsa la sua mente era distorta dalla rabbia per la perdita di Max. Magnus fece un segno di assenso e tutti cominciarono a camminare dietro Isabelle. Dopo mezz'ora di cammino, i contorni di quella casetta isolata furono visibili a tutti.
«Come procediamo?» Chiese Jordan, nascosto dietro una coltre di alberi.
«Non c'è fumo dal camino, sembra disabitata.» Constatò Magnus.
«Vado a vedere,» Simon si lanciò in direzione della casa, ma Isabelle, nonostante la velocità del vampiro, riuscì ad afferrarlo per un polso.
«No, Simon. Vado io.»
«Iz, non essere stupida. Nessuno può farmi del male,» si alzò la frangia castana per mostrarle il Marchio di Caino che ancora spiccava lucente sulla sua pelle. «Ricordi?»
Isabelle emise un verso di disapprovazione, ma lo liberò dalla sua stretta con sguardo riluttante. Magnus, Alec, Maia e Jordan rimasero nascosti dietro la vegetazione, guardando Simon muoversi rapido e agile come solo un vampiro poteva fare. Alec si voltò verso la sorella e vide che stava trattenendo il respiro; le mise una mano sulla spalla nel tentativo di rassicurarla. «Andrà bene. Simon ha ragione, nessuno può fargli del male.»
Nel frattempo il vampiro era scomparso dalla loro visuale, passarono alcuni minuti in cui tutti pensarono al peggio, poi la sua figura magra e pallida riapparve davanti a loro, senza il minimo rumore.
«Libero.»
«Eh?» Chiese Alec, alzando un sopracciglio castano.
«Libero … voglio dire, la casa è disabitata.»
«È un modo di dire dei telefilm polizieschi dei mondani.» Lo informò Jordan. Alec fece un'espressione disgustata e si avviò verso la casetta. «Potrebbero esserci degli indizi all'interno, è meglio controllare.»
Si trovarono tutti d'accordo, perciò uno ad uno entrarono nella casa abbandonata, guardandosi alle spalle con circospezione.
«Sembra che nessuno venga qui da molto tempo.» Disse Magnus, passando una mano sulla superficie di un mobile polveroso. La casa era costituita da un'unica stanza grande più un bagno e una camera da letto; c'era un tavolo, un divano e alcune armi buttate alla rinfusa, ma niente sembrava essere stato mosso da tempo. Alec tirò fuori dalla tasca il sensore, un pezzo di metallo inciso di rune, e attraversò la stanza.
 «E nessuna attività demoniaca.» Concluse.
«Un altro buco nell'acqua insomma.» Sbuffò Maia. «Siamo fregati.»
«Cerchiamo ancora.» Sbottò Simon, iniziando a frugare nei cassetti e a mettere tutto sotto sopra. Magnus si era seduto su uno sgabello polveroso e sembrava intenzionato a non prendere parte alle ricerche. Aveva uno sguardo cupo, fisso in un punto del pavimento e i capelli neri gli ricadevano sugli occhi. Alec gli si avvicinò, mentre gli altri frugavano e spostavano mobili.
«Stai bene?» Gli chiese con tono preoccupato, inginocchiandosi accanto a lui.
«No, non direi.» Rispose lui, criptico.
«Magnus, ti prego, parlami!» Sibilò Alec, esasperato, per non farsi udire dagli altri.
«Stavo pensando,» iniziò lo stregone, sempre fissando il vuoto. «Che qui a Idris ho già perso un amico, per mano di Valentine. Non voglio perderne un altro.»
«Un amico? Chi
«Ragnor Fell.»
Alec annuì, ricordando improvvisamente. Ragnor era lo stregone amico della madre di Clary.
«A volte passavano secoli tra un nostro incontro e l'altro. Ma quando sei immortale questo non ha molta importanza. Ciò che era importante invece, è che lui era una delle poche costanti nella mia vita, come lo è Tessa.»
«Magnus, mi dispiace.» Alec non sapeva proprio cosa dire, non era mai stato bravo con le parole, neanche con i gesti d'affetto, a dir la verità.
Lo stregone scrollò le spalle. «Non voglio che Tessa muoia. Sai chi è davvero Tessa, Alec?»
Il Nephilim rimase spiazzato da quella domanda. Si passò una mano fra i capelli, confuso. «Sì, la Mutaforma.»
«No, Tessa è molto di più. L'ho conosciuta nella Londra Vittoriana, lei era solo una ragazzina di sedici anni. Lei è la moglie di Will … o forse dovrei dire, era.»
Per Alec era come aver ricevuto uno schiaffo in pieno viso. Magnus si era sempre e categoricamente rifiutato di parlare di Will, ed ora questa confessione del tutto inaspettata.
«Cioè, vuoi dire Will, quel Will di cui parlava Camille? Lui era, ecco, sposato? Non era un tuo ex?» Arrossì furiosamente, ma non gli importò. Quel nome aveva ossessionato le sue notti insonni ormai da settimane.
«Non ho mai detto che era un mio ex, tu l'hai dedotto semplicemente. Non ti biasimo, Camille è la regina delle manipolazioni. Sì, Will Herondale era il marito di Tessa e sì, l'ho amato, ma non nel modo in cui amo te, Alec. Verso di lui nutrivo un altro genere di affetto, come quello che ho per Tessa.»
«Herondale?» Chiese Alec a bocca aperta. «Will è un antenato di Jace?»
Magnus sorrise leggermente. «Sì, ed è anche un tuo antenato, per così dire, visto che sua sorella ha sposato un Lightwood.»
Il ragazzo era sempre più scioccato, ma infondo l'albero genealogico della sua famiglia non lo aveva mai interessato più di tanto, quello che invece gli interessava era sapere che Will non era stato un ex di Magnus, e che lui gli aveva appena detto che lo amava.
Posò le mani sulle gambe magre di Magnus, per rimanere in equilibrio sulle punte dei piedi e lo attrasse a sé tirandolo per un lembo del trench. Gli diede un leggero bacio a fior di labbra, strofinando il naso contro il suo zigomo e sfregando contemporaneamente le labbra contro le sue.
«Scusami, Magnus. Per tutto.»
Lui rispose al bacio, senza troppa convinzione, sembrava ancora perso nei meandri della memoria. «È che io voglio sapere tutto del tuo passato e tu invece non dici mai niente …» continuò Alec.
«Forse perché l'unica cosa di cui mi importa è il mio futuro con te?» Ribatté Magnus.
«Per l'Angelo, possibile che qui tutti si danno alle effusioni in pubblico tranne me?»
La voce di Isabelle penetrò alle orecchie di Alec come un coltello. Si era praticamente dimenticato di non essere solo con Magnus.
«Qui, non c'è niente. Meglio andare via.» Aggiunse sua sorella e uscì dalla porta sbattendola così forte che alcuni pezzi di intonaco si staccarono dal muro già provato dal tempo.
«Dio, gli servirebbe proprio una bella -» iniziò Maia.
«Forza, andiamo!» Strillò Simon con voce acuta, era rosso in viso e uscì di fretta dietro a Isabelle, senza un motivo apparente per essere a disagio.
Una volta che furono tutti fuori dalla casetta, si inoltrarono nuovamente nel bosco. Nessuno parlava, ma tutti condividevano lo stesso pensiero: e adesso che si fa? Ad un certo punto Simon si arrestò bruscamente e Maia, che stava camminando dietro di lui, gli finì addosso.
«Che diavolo fai?»
«Non sentite niente?» Fece Simon.
Tutti aguzzarono le orecchie, ma sui loro visi rimase un'espressione perplessa.
«È un rumore di zoccoli. Di quattro paia di zoccoli, precisamente. Stanno venendo verso di noi.»
Le doti uditive da vampiro di Simon non furono apprezzate a causa dell'ondata di terrore che pervase i ragazzi. Non c'era niente dove nascondersi a parte qualche albero e cespuglio che non fornivano certo una degna protezione. Ora il rumore di zoccoli era udibile alle orecchie di tutti.
«Mettetevi dietro di me.» Disse Magnus, con fare risoluto.
«Senti, non possiamo combattere. Non abbiamo idea -» iniziò a lamentarsi Isabelle.
«Ho detto mettetevi dietro di me e state zitti. Nessuno deve fiatare.»
Il tono duro di Magnus convinse i ragazzi a fare come voleva. Formarono un gruppetto alle sue spalle e videro lo stregone agitare le mani in aria e sussurrare a bassa voce. Non era cambiato nulla. C'era stato solo uno spostamento d'aria e basta, tutto qui. Intanto i musi dei cavalli erano spuntati nella loro visuale.
«Magnus che -» sussurrò Simon.
«Zitto.»
Simon si sarebbe zittito ugualmente perché vide le due figure sedute sopra i cavalli. Erano Valentine e Jonathan. Vedeva le loro mani attaccate alle briglie sporche di sangue e ne sentiva anche l'odore. I due stavano andando ad un trotto lento, perciò le loro voci erano udibili al di là del fracasso degli zoccoli. Rimasero tutti e sei paralizzati dal terrore, o meglio, tutti e cinque visto che Magnus non sembrava affatto preoccupato dal fatto che da lì ad un secondo padre e figlio li avrebbero visti impalati, nascosti dietro la schiena magra dello stregone, come dei bambini stupidi che giocano a nascondino con scarsi successi. Ma questo non accadde. Valentine e Jonathan gli passarono accanto senza degnarli di uno sguardo. Le loro voci arrivavano leggermente attutite ai ragazzi, come se si trovassero sotto una campana di vetro.
«Sei sicuro che la Regina della Corte Seelie non se la prenderà? Di solito non è proprio felice quando la gente uccide a sangue freddo i membri del suo Popolo.»
Stava dicendo Jonathan.
«Credi che alla Regina importi di un piccolo, patetico djinn
Il momento era passato. Le loro voci iniziavano a confondersi con lo scalpiccio dei cavalli. Li avevano superati, passando a neanche un metro di distanza, senza nemmeno vederli di striscio.
«Wow, Magnus, che diavolo era quello?» Sussurrò Jordan e indicò con un ampio gesto del braccio l'aria attorno a lui.
«Non c'è tempo.» Lo interruppe Alec. «Dobbiamo seguirli.»
«No. Stiamo parlando di Valentine e Jonathan, se ne accorgeranno subito se ci mettiamo a seguirli in massa.» Sussurrò Magnus.
«Vado io.» Disse Simon per la seconda volta in un'ora.
«Guarda che non devi fare sempre tutto tu.» Sibilò Isabelle.
Ma Simon era già sgusciato tra i cespugli come un fantasma. «Aspettatemi qui. Tornerò a riprendervi.»
 
 
Jonathan si stava davvero impegnando nel cercare qualcosa di utile in quel libro nero, ma l'intera bottiglia di whisky che aveva bevuto a stomaco vuoto e la presenza di Clary che si muoveva per la stanza, sfogliando libri, non aiutava affatto la sua concentrazione. Chiuse il libro nero e iniziò a perlustrare altri scaffali, dopo aver rimesso a posto la bottiglia e il bicchiere. Ad un tratto sentì il rumore di una porta sbattuta e delle voci al piano di sotto. Vide Clary infilarsi un libro, più un piccolo volume, nella tasca della giacca, ma non era il tempo per le domande.
«Dobbiamo andare.» La prese per un polso e la strattonò verso l'uscita.
«Perché?» Protestò lei. Aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi dall'alcol.
«Perché sono tornati.»
Vide la sua espressione di protesta sparire dal viso. Rimisero tutto a posto e schizzarono via dallo studio, sgusciando per i corridoi come due ladri e scambiandosi occhiate. Clary gli sussurrò che gli sembrava di essere in un film di 007 e lui non poté fare a meno di ridacchiare, nonostante non avesse di idea di cosa lei stesse parlando. Forse Clary aveva ragione, non avrebbero dovuto bere. Entrambi sentirono il rumore di passi che si avvicinava a loro.
«Dobbiamo nasconderci.»
Sussurrò, incespicando nelle parole, ma lei aveva già aperto una porta e gli faceva segno di seguirla là dentro. Jonathan non pensò e si infilò nella stanza, appoggiandosi con la schiena alla porta chiusa. Solo quando ebbe ripreso fiato si rese conto in quale stanza della casa fossero finiti e il suo stomaco si rivoltò.
Clary era in piedi al centro delle quattro mura e si guardava attorno con occhi stupiti e confusi. Non c'erano finestre, solo un piccolo lucernaio nella parete in alto, per cui l'atmosfera era immersa nella penombra. La ragazza si stava muovendo in cerchio, osservando il pavimento di pietra sotto i suoi piedi, dove compariva un pentacolo inciso di rune. Non era niente di nuovo né di troppo terrorizzante, se sopra le incisioni non spiccassero una moltitudine di macchie di sangue vecchio.
«È sangue, questo?» Sussurrò Clary, alzando lo sguardo.
Lui annuì e la vide camminare verso la parete opposta, dove fruste di diverse forme e dimensioni erano appese a dei ganci arrugginiti. Clary passò un dito su una di esse, c'era del sangue vecchio anche lì. Jonathan lo sapeva, anche se da quella distanza non poteva vederlo, perché era il suo sangue. Clary tornò da lui, con il viso nauseato.
«Cos'è questa stanza?»
«Mi piace chiamarla stanza delle punizioni.» Rispose con voce piatta. «Una delle preferite di Valentine.»
«Lui … ti puniva con quelle?» Indicò le fruste e deglutì a fatica.
«Diciamo che il termine infanzia felice non fa proprio al caso mio. Ma non fare quella faccia, c'è di peggio.»
La vide fare un altro passo più vicina a lui. Era così piccola, pensò Jonathan. La sua testa gli arrivava al mento.
«Mi dispiace. Non sarebbe dovuta andare così.» Jonathan sentì il respiro di Clary sul proprio collo da quanto era vicina. Rabbrividì appena.
«E come sarebbe dovuta andare? Sarei dovuto essere il bambino demoniaco nella vostra perfetta famigliola?» Rispose con amarezza. «Clary, non importa …» le sussurrò, appoggiando la fronte contro la sua e prendendole il viso tra le mani. Si aspettò che lei lo respingesse da un momento all'altro, ma non lo fece. Rimasero in quella posizione, immobili. Jonathan sentiva il cuore martellargli nel petto, era una sensazione così nuova e assurda che quasi ne era nauseato. Avrebbe voluto spingersi più in là e posare le labbra sulle sue, ma sapeva che se lo avesse fatto, quel momento perfetto sarebbe andato in frantumi, avrebbe rovinato tutto, come al solito. Sentirono gli stessi passi di prima rimbombare nel corridoio vuoto, così si staccarono l'uno dall'altro, rimanendo vicini. Ascoltarono con attenzione il rumore degli stivali contro la pietra, sempre più vicini e poi il silenzio. Stavano per essere scoperti e non c'era nulla che potessero fare. Clary gli strinse il braccio e la porta si spalancò con forza.
«Cristo, ma che diavolo fate?» Sibilò Jace piano, anche se la sua voce era un mix di gelida furia.

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Capitolo 6
*** Epic Elaborations of Dark Magic ***


CHAPTER 5
EPIC ELABORATIONS OF DARK MAGIC


 
Erano passate ore da quando Jace e Valentine avevano lasciato la tenuta; il sole era alto nel cielo azzurro di Idris e gettava bagliori dorati sulle foglie secche sparse sul terreno. Jace aveva seriamente pensato che non ci fossero djinn, da quelle parti, fino a quando non avevano superato la grande vallata e il Lago Lynn, dove il panorama erboso aveva lasciato spazio ad una sequenza di rocce aride e grotte umide, obbligandoli ad abbandonare i cavalli e a proseguire a piedi. Era lì, tra quelle rocce, che finalmente avevano trovato la creatura appartenente al Popolo Fatato. Valentine l'aveva avvistata come un falco avvisterebbe la sua preda, dopodiché aveva mandato Jace all'attacco.
«Uccidilo, Jonathan» gli aveva sussurrato. «E raccogli il suo sangue. Fallo come ti ho insegnato.»
E Jace lo aveva ucciso, squartato e dissanguato, mentre la povera creatura si dimenava, impotente, e lanciava lamenti strazianti. Era facile uccidere, mentre era nel corpo di Jonathan. Lui era più veloce e più forte di quanto Jace volesse ammettere. Avrebbe dovuto provare pietà per quel djinn, che non aveva alcuna colpa se non quella di esistere, ma mentre raccoglieva le ultime gocce di sangue fatato, Jace si era sentito forte e potente. Non lo avrebbe mai ammesso, ma uccidere gli era piaciuto. Il ritorno alla tenuta fu silenzioso come l'andata. Si godette il sole autunnale che gli scaldava la schiena e il ritmico e rilassante scalpiccio dei cavalli. Per un attimo gli sembrò che fosse tutto al suo esatto posto, poi tornò bruscamente alla realtà. A Clary, a Jonathan, al rituale e alla sua promessa di scoprire il più possibile sulle intenzioni di Valentine. Si schiarì la gola, roca per il prolungato silenzio e parlò.
«Sei sicuro che la Regina della Corte Seelie non se la prenderà? Di solito non è proprio felice quando la gente uccide a sangue freddo i membri del suo Popolo.»
«Credi che alla Regina importi di un piccolo, patetico djinn?» Rispose Valentine, con voce ironica.
«Perché lo hai ucciso? Non ti serviva il suo sangue fresco, come quello della Mutaforma? È per questo che la stai tenendo in vita, no?»
«Oh no, il sangue del djinn mi serve semplicemente per disegnare il pentagramma e le rune di evocazione. Ti pare che una creatura così stupida possa essere il centro di un rituale antico mille anni?»
Valentine sembrava decisamente di buon umore, così Jace ne approfittò per fare altre domande.
«Vorrei chiederti una cosa, padre.» Iniziò cauto. Valentine gli fece cenno di proseguire. «Come hai fatto a fuggire all'ira dell'Angelo Raziel? Me lo sto chiedendo da quando sono tornato in vita.»
«Pare che tu sia ben informato, figliolo.» Disse gelido. Jace temette seriamente di aver mandato a monte tutta la sua copertura. D'altronde lui, ovvero Jonathan, era già morto da un pezzo quando l'Angelo Raziel era stato invocato; aveva avuto tutte le informazioni da Clary. Gli aveva raccontato dell'imponente Angelo dorato, delle sue ali dai mille occhi e di come avesse scagliato la sua potenza contro Valentine. «Lilith deve averti parlato molto mentre ti teneva in quella bara di vetro.»
Jace fece un piccolo e impercettibile sospiro di sollievo.
«Ho usato questo.» Continuò Valentine, compiaciuto, alzando la mano destra in aria e mostrandogli un anello d'argento che portava al dito indice. «Questo anello mi permette di teletrasportami ovunque io voglia. Non solo nel nostro mondo, mi permette di viaggiare tra le dimensioni. Così, quando ho capito che Raziel mi avrebbe punito, per l'unica colpa di voler riportare i Nephilim al loro antico splendore, mi sono teletrasportato in un luogo in cui neanche l'Angelo avrebbe avuto accesso.» Fece una piccola pausa enfatica, sorridendo come un folle. «Sono stato in un luogo in cui nessuno Shadowhunters ha mai messo piede … il regno dei demoni. Là, c'era Lilith ad aspettarmi, senza il suoi aiuto non sarei mai arrivato laggiù, nessun uomo sa come arrivarci. Io e Lilith siamo legati, vuoi sapere da cosa?» Chiese Valentine, osservando l'espressione del ragazzo. «Da te, ovviamente.»
Jace lo guardava rapito e, al tempo stesso, terrorizzato. «Com'è?» Sussurrò il ragazzo.
«Cosa? Il regno dei demoni? Nessuna parola può descrivere com'è.» Rispose frettolosamente Valentine.
Jace stava per aprire la bocca e fare altre domande, ma la facciata della tenuta dei Morgenstern spiccò ai suoi occhi. «Ora basta. Porta i cavalli nella scuderia, io andrò nei sotterranei ad assicurarmi che sia tutto in ordine.»
Una volta dentro casa, Jace andò diretto nella stanza di Jonathan, ma la trovò vuota. Con passo svelto, allora, si diresse verso lo studio di Valentine, ma quando fu in procinto di svoltare l'ultimo labirintico corridoio prima della sua meta, udì il lieve sussurro di Clary e una risata smorzata. Era la risata di Jonathan. Vide una porta chiudersi di scatto. Si avvicinò lentamente e si fermò davanti a quella stessa porta, poi la spalancò. Clary e Jonathan erano lì in piedi, maledettamente vicini e lei gli stringeva il braccio. Quando videro che era lui e non Valentine fecero entrambi un sospiro di sollievo, poi Clary mollò velocemente la presa su Jonathan, arrossendo.
«Cristo, ma che diavolo fate?» Disse con gelida furia.
«Ci hai fatto venire un infarto.» Ribatté Jonathan, con voce piatta.
«Ripeto, che diavolo fate?»
«Ci stavamo nascondendo!» Squittì Clary, ancora con il viso arrossato. Jace annusò l'aria. Mischiato all'odore della tenuta e al profumo di fiori di Clary c'era un vago sentore di … whisky?
«Avete bevuto?» Chiese incredulo.
«Oh, andiamo! Sembri una vecchia zitella.» Sbuffò Jonathan, incrociando le braccia al petto. «Non saremo giovani e stupidi per sempre.»
«No, non sarai giovane per sempre, ma sarai per sempre stupido.» Sibilò Jace, distogliendo lo sguardo da Clary. «Basta così. Andiamo in camera, prima che Valentine torni dai sotterranei.» Così dicendo, Jace afferrò Clary per un braccio in modo decisamente possessivo e la trascinò fino alla stanza di Jonathan, richiudendosi la porta alle spalle.
La vide arrampicarsi sul letto e sdraiarcisi sopra, appoggiando le schiena dritta alla testiera. Si domandò per un attimo dove avesse trovato quella tenuta da Cacciatrice, ma visto che quello non era certo il momento di parlare di abbigliamento lasciò cadere la domanda che aveva sulle labbra, per porne un'altra decisamente più urgente.
«Allora, cosa avete scoperto?» Abbaiò, mentre Jonathan si sedeva sul bordo del letto opposto a quello di Clary. Jace rimase in piedi, rigido come una statua di cera.
«Beh,» iniziò lei, timidamente. «Abbiamo trovato un libro che descriveva il rituale di Lilith. Ma non c'era nessun riferimento alla vostra … condizione. C'era scritto, però, che l'incantesimo può essere sciolto solo da Lilith stessa.»
«Siamo fottuti, in poche parole.» Disse Jace, sedendosi sul davanzale della finestra e osservando il sole autunnale che iniziava a calare verso ovest.
«Tu, invece, hai scoperto qualcosa?» Gli chiese Clary, indugiando sulle sue mani ancora imbrattate del sangue di djinn.
«Il rituale avverrà a mezzanotte, stasera. Valentine non mi ha voluto dire di preciso come funzionerà, so solo che è convinto che con questo incantesimo sarà in grado di uccidere tutti i Nascosti senza l'aiuto di nessun altro. Inoltre, ha imprigionato nei sotterranei una Mutaforma, pare che gli serva il suo sangue per compiere il rituale.»
Clary spalancò gli occhi e aprì la bocca: «Credevo che i Mutaforma -»
«fossero solo delle leggende, sì, anche io lo credevo.» La interruppe sbrigativamente Jace. «Dovete andarvene da qui prima della mezzanotte.» Si rivolse per la prima volta a Jonathan, che sedeva in silenzio sul letto.
«Jace, non posso lasciarti qui. Non voglio lasciarti qui.» Iniziò Clary, con voce supplichevole.
«Clary, non possiamo permettere che Valentine riesca a concludere il rituale, lo capisci? Ha già la Mutaforma. Tu e lui» disse sprezzante, indicando Jonathan, «dovete andarvene da qui.»
Clary protestò ancora.
«Io starò bene, almeno finché sarò nel suo corpo, non sono in pericolo.» Continuò Jace con voce atona. «Dovete andarvene, quando farà buio.» Concluse stancamente.
«È davvero triste dirlo, ma Jace ha ragione.» Disse Jonathan, improvvisamente. «Se ci trova avrà i pezzi mancanti per il suo rituale e chiunque o qualunque cosa voglia evocare, non ispira molta simpatia.»
Jace sgranò impercettibilmente gli occhi. Probabilmente perché non si aspettava di trovare un alleato proprio in Jonathan.
«Perfetto, è deciso. Quando inizierà a tramontare il sole, Valentine sarà impegnato nei preparativi e voi potrete andarvene. Hai detto che c'è un Portale, dietro il ritratto di Raziel, giusto?» Si rivolse all'altro ragazzo, che annuì. «Potrete tornare indietro con quello, senza dover uscire dalla casa e affrontare l'orda di demoni che c'è là fuori.»
«E tu?» Sussurrò Clary, miseramente.
«Io vi raggiungerò appena possibile.»
Calò un silenzio teso e imbarazzante, che fu Jonathan a spezzare.
«C'erano un sacco di libri interessanti, nello studio di Valentine, no?» Disse, guardando Clary dritta negli occhi.
«Sì.» Rispose lei, arrossendo.
Jace li guardò come se fossero due pazzi.
«Tipo quel fantastico volume: Perché Mi Piace Farlo Con I Demoni Femmina, davvero interessante.» Continuò Jonathan, imperterrito, senza che Jace capisse perché si stessero comportando in modo così strano. «E tu, Clary, hai trovato qualcosa di interessante?»
Lei scosse il capo.
«Oh, avanti. Ti ho vista mentre prendevi due libri e te li nascondevi nel reggiseno o ovunque voi donne mettiate la roba.» Sbottò Jonathan. «Che cosa hai preso?»
«Clary, di cosa diavolo sta parlando?» Chiese Jace, confuso. Poi capì; la ragazza estrasse dalla tasca della casacca da Cacciatrice due volumi, con aria riluttante. Uno era sottile e piccolo, sembrava un diario, mentre l'altro era leggermente più grosso e aveva la rilegatura in pelle color crema.
«Cosa sono?»
«Questi,» e sventolò il piccolo quaderno in aria, «sono gli appunti di Valentine su Jonathan. Ce n'erano molti altri, ma non mi ci stavano nel reggiseno.» Aggiunse con ironia tagliente verso Jonathan. «Quest'altro invece … beh, in realtà non so cosa sia. L'ho preso perché ha subito attirato la mia attenzione. E poi è scritto in inglese, almeno è in una lingua che capisco.»
Clary appoggiò il libro sul letto. Sulla copertina, incise in una calligrafia dorata, le lettere recitavano: Elaborazioni Epiche sulla Magia Oscura.
«Mai sentito.» Asserì Jonathan.
«Certo che no, se le tue letture si basano solo su pornografia demoniaca.» Sibilò Jace.
«Ah, perché invece tu sai tutto su queste Elaborazioni Epiche, scommetto.»
«No, ma io scommetto, invece, che Valentine non ti ha fatto leggere L'Arte della Guerra, a sei anni.»
«Vedi, a sei anni a me la insegnava l'arte della guerra, non si limitava a farmela leggere. Ma forse tu eri troppo sensibile e piagnucoloso per -»
«Zitto. Solo perché Clary ha deciso che vuole aiutarti, non significa che io sia costretto a sopportare la tua inutile presenza. Clary -» Jace si interruppe, lanciando uno sguardo alla ragazza, che giaceva addormentata sul letto. Guardò l'ombra delle sue ciglia lunghe sugli zigomi e l'espressione rilassata del sonno. Lo sguardo gli si addolcì per un attimo, anche se si ricordò subito della presenza di Jonathan. Quando rivolse gli occhi sul ragazzo, però, vide sul suo viso lo stesso identico sguardo, mentre osservava Clary dormire. Gli si rivoltò lo stomaco.
«Senti,» disse bruscamente, «voglio sapere come hai fatto a trovarmi.»
Jonathan si voltò a guardarlo con occhi vuoti.
«Clary ha detto che senza di te non mi avrebbe mai trovato. Cos'è, hai delle visioni o … che ne so.» Scrollò le spalle, senza sapere cosa aggiungere.
«Sì, ho avuto delle specie di visioni, se così si possono chiamare. Ho visto che ti trovavi qui e ho visto anche i tuoi ricordi. Alcuni dei tuoi ricordi.» Si corresse con un ghigno.
«Come?» Sussultò Jace. «Perché? Io invece non posso vedere nei tuoi ricordi.» Sussurrò, sempre con la solita voce sgarbata, come ogni volta che si rivolgeva a Jonathan.
«Sono sicuro che puoi. Forse non ti impegni abbastanza.»
Jace si limitò a fissarlo. Se lui poteva frugare nella sua memoria, allora perché lui non avrebbe dovuto? Chiuse gli occhi e cercò di escludere tutto ciò che lo circondava. Non vide nulla, solo il nero delle sue palpebre. Riaprì gli occhi e trovò Jonathan intento a fissarlo, un ghigno di superiorità dipinto sul volto. Venne invaso da una rabbia cieca, chiuse gli occhi e ritentò …
Jonathan ha cinque anni. L'inverno a Idris è molto freddo. Fuori dalla casetta nella vallata, il panorama è innevato e il bambino è lì, mentre Valentine lo guarda da dietro il vetro della casa, dove il fuoco arde. Quando Valentine esce sulla soglia, Jonathan alza lo sguardo. Le labbra sono bianche e la pelle tende al blu.
«Posso entrare ora?»
«Non ancora, figliolo. Non finché non avrai imparato la lezione.»
«Ho freddo.»
«Quale è la lezione?»
«Non devo mai più avvicinarmi alla tenuta dei Wayland.»
Valentine sorride soddisfatto.
La scena mutò rapidamente nella mente di Jace.
Jonathan ha sei anni. È un piccolo torturatore di farfalle e di indifese creature. Da fuoco alle ali degli insetti e poi li guarda bruciare. Valentine lo osserva da lontano, lo sguardo perplesso.
La scena cambiò ancora.
Jonathan ha nove anni. È una notte molto fredda e lui è scappato di casa. Valentine lo trova nella buia foresta di Brocelind, nascosto tra la fitta vegetazione, e lo riporta a casa. Scaraventato all'interno della stanza, ai piedi del padre. Valentine si inginocchia e tocca delicatamente i capelli bianchi e il viso del bambino.
«Non puoi scappare da me.» Gli dice, dolcemente. «Tu mi appartieni. Tu sei mio, come questa casa, come i cavalli che vedi là fuori, come i quadri appesi alle pareti. Combatti contro di me e io ti spezzerò. Corri via da me e io ti troverò. Non c'è luogo in questa terra in cui io non riuscirei a trovarti, nessun luogo così lontano dove tu non sia più mio figlio.»
Il bambino non chiede perdono, non dice nulla, si limita a fissarlo con quei suoi occhi neri.
E ancora.
Jonathan ha dieci anni. È un bambino crudele e disobbediente. Salta gli allenamenti; rompe la serratura della botola ed esplora i sotterranei; prende i cavalli senza permesso e sta via per ore. Valentine lo punisce per ognuna di queste singole cose, così come lo dimostrano i segni sulla schiena di Jonathan, sempre più profondi e indelebili. Valentine abbatte la frusta con forza sulla pelle del bambino, il quale emette un solo piccolo verso di dolore.
«È così che andrà,» e colpisce ancora. «Finché non sarai obbediente.»
Il ragazzo alza gli occhi sul padre. «Non capisco perché non mi hai semplicemente lasciato andare, quando sono scappato.» C'è un vuoto amaro nella sua voce, che non si addice affatto ai suoi dieci anni. «Tu non mi vuoi qui.»
E ancora.
Jonathan ha undici anni. Lo sfondo è lo stesso di adesso: la camera nella tenuta dei Morgenstern, identica in ogni dettaglio. Solo Jonathan è diverso, più esile, il viso pallido ancora infantile.
«Padre, cosa è successo a mia mamma?»
Valentine lo fissa con occhi gelidi.
«Ti ha abbandonato. Vuoi davvero sprecare il tuo tempo a chiederti dove sia una persona che non ti vuole?»
«Ma perché?» Chiese il bambino, con voce piatta.
«Perché sei un mostro. Nessuno può amare un mostro.»
Jace tornò alla realtà, sbattendo le palpebre più volte e fissando lo sguardo sul ragazzo che aveva di fronte, sentendo per la prima volta … pena?
«Deduco dalla tua faccia che tu ci sia riuscito.» Ribatté lui, con un sorriso freddo. Jace rimase a fissarlo con crescente disagio.
«Molto loquace. Beh,» Jonathan si alzò dal letto, come se non potesse più sopportare lo sguardo di Jace fisso su di lui. «Sarà meglio che vada a fare rifornimento d'armi. Il sole sta per tramontare ed è meglio essere preparati ad ogni evenienza.»
«Vado io.» Disse Jace. «Non vorrai andartene in giro rischiando che Valentine ti veda.»
«Non ci sarà bisogno di andare in giro.» Ghignò Jonathan, spalancando l'anta del grande armadio e aprendosi un varco fra i vestiti appesi.
«Che stai facendo?» Gli chiese Jace, gelidamente. «Vuoi fare un cambio d'abito per l'occasione?»
«Ti piace proprio il suono della tua voce, eh? O forse dovrei dire, della mia voce.» Premette una mano sul fondo dell'armadio e questo si aprì con un lieve cigolio. Il contorno di un corridoio di pietra si stagliò davanti ai due ragazzi, buio e umido come i sotterranei in cui era stato Jace, la sera prima. «Questo passaggio porta direttamente all'armeria. Non ho scelto a caso questa stanza come camera da letto.» Spiegò brevemente Jonathan, infilandosi nell'angusto corridoio. «Ci vediamo fra un po’.» E scomparve nel buio.
Jace rimase qualche minuti impalato, ad ascoltare il rimbombo dei passi del ragazzo, fino a che non udì più nulla. Prese un profondo respiro e si sedette sul letto accanto a Clary. Era la prima volta che si trovava da solo con lei da quando si era trasformato in Jonathan e la cosa lo rendeva nervoso, ma al tempo stesso desiderava ardentemente toccarla e baciarla. Si sdraiò accanto a lei, con una mano sotto la guancia e la guardò respirare regolarmente.
 
 
Simon era via da ormai alcune ore e Isabelle iniziava davvero a dare di matto. Non sapeva, precisamente, quando la vita di Simon fosse diventata così importante per lei. Prima era solo uno stupido mondano che non faceva altro che sbavare dietro a Clary, ma da quando si era trasformato in vampiro era cambiato, pensò Isabelle. I suoi capelli sembravano più scuri e lucidi, la mancanza degli occhiali da vista lo rendevano meno bambino e più adulto, la sua pelle era levigata e priva di pori, tipica dei vampiri, così candida … Isabelle sbuffò rumorosamente. In una situazione del genere non poteva pensare alla pelle di Simon. Eppure non riusciva a farne a meno, la sua stupida faccia sembrava impressa a fuoco nelle palpebre della ragazza, ben visibile ogni volta che chiudeva gli occhi nella vana speranza di scacciarla via. Non poteva ancora credere di avergli raccontato dell'infedeltà di sua madre, era il suo segreto da sempre e lei lo aveva spiattellato ad un Nascosto che sembrava avere a cuore solamente l'incolumità di Clary. Sbuffò ancora più forte e Alec le lanciò un'occhiata apprensiva. Devo farmene una ragione, pensò la ragazza, guardando le due coppiette felici sedute sul prato: Maia e Jordan non riuscivano a staccarsi le mani di dosso l'uno dall'altra, mentre Alec e Magnus, nonostante il comportamento contenuto, si vedeva lontano un miglio che condividevano un grande sentimento, sono sola e rimarrò sola. In quel momento Simon apparve tra la boscaglia. Aveva delle foglie secche fra i capelli e il suo petto si alzava e abbassava rapidamente, come se avesse corso fino a lì, nonostante non avesse più bisogno di respirare. Abitudine, pensò Isabelle saltando in piedi come una molla. Avrebbe voluto gettargli le braccia al collo, ma si limitò ad avvicinarlo e a chiedergli con voce controllata.
«Allora?»
«Lì ho seguiti fino a quando non ho visto la facciata di una tenuta, poco lontano. Erano sicuramente diretti lì. Se andiamo veloci dovremmo metterci due ore circa.»
Il gruppo si era riunito attorno a Simon e ascoltava attentamente. Senza dire una parola si misero in marcia dietro di lui.
Dopo quasi due ore e vari lamenti da parte di Magnus («ho male ai piedi.» «Ci credo con quelle scarpe.» «Ma sono stivali di Gucci!»), il gruppo raggiunse l'imponente tenuta dei Morgenstern, che spiccava contro il cielo sfumato di arancione. Il sole era tramontato e da lì a poco avrebbe fatto buio. Nessuno parlò per alcuni istanti, mentre nascosti dietro una coltre di alberi, osservavano agghiacciati il panorama che pullulava di demoni e Dimenticati.
«La situazione è peggiore di quanto immaginassimo.» Sussurrò Magnus.
«Non riusciremo mai a non farci notare da quegli esseri.» Aggiunse Isabelle.
«Dobbiamo avvertire il Conclave. Anche se riuscissimo ad entrare, sono davvero troppi per noi.»
Guardarono tutti Alec, che aveva parlato, e annuirono uno dopo l'altro. Prima che potessero cambiare idea, Isabelle vide il fratello mandare frettolosamente due messaggi di fuoco, uno al Conclave, l'altro all'Istituto di New York.
«E ora?» Chiese Maia, rabbrividendo nella sua giacca di pelle. L'aria serale si era fatta gelida.
«Aspettiamo i rinforzi.» Rispose Alec.
«Non possiamo.» Sbottò Simon. Sul viso aveva un'espressione cocciuta e risoluta. «Non possiamo, è quasi buio e non sappiamo neanche se siano ancora vivi …» gli si ruppe la voce, anche al solo pensare a quella possibilità.
«Certo che sono ancora vivi! Sono il parabatai di Jace, lo saprei se lui fosse morto!» Gli urlò contro Alec. Questo non sembrò confortare per nulla Simon, che era ancora più pallido del solito, sempre che fosse possibile.
«Non mi sembra che qui nessuno sia il parabatai di Clary, però.» Rispose con voce gelida, squadrando i presenti.
«Simon -» fece Isabelle.
Ma il vampiro aveva già iniziato a correre.
 
 
Clary aprì gli occhi di scatto. Non si era nemmeno accorta di essersi addormentata, semplicemente la stanchezza di quelle ultime ventiquattro ore aveva preso il sopravvento sul suo corpo. Durante quei pochi minuti di sonno, la parte inconscia della sua mente non aveva smesso di lavorare, trasmettendole sotto forma di sogni, visioni di corpi che si sovrapponevano. Qualche volta la figura aveva il viso di Jace, altre volte quello di Jonathan, altre volte ancora, invece, erano un'unica persona. E, ritrovarsi il viso di Jonathan a pochi centimetri dal suo, non aiutò certo la sua mente a fare chiarezza. Sbatté le palpebre, domandandosi se non stesse ancora sognando. Allungò la mano e accarezzò il viso accanto al suo; lo vide socchiudere gli occhi, godendosi il suo tocco.
«Jace,» sussurrò Clary. «Siamo soli?»
Il ragazzo annuì, senza staccare gli occhi dai suoi. Erano così neri, come la superficie dell'East River di notte. Lei continuò ad accarezzargli il viso con il dorso delle dita.
«Non toccarmi, ti prego.» Sussurrò Jace, la voce spezzata e gli occhi ancora socchiusi.
«Perché non dovrei?»
«Perché non voglio che tocchi il corpo di Jonathan.»
«Quando ti guardo vedo solo te. Vedo te, Jace. Non il tuo aspetto.» Gli rispose Clary, dolcemente. Lo sentì rilassarsi, sotto la sua carezza.
«Ora mi confesserai che mi ami per la mia mente e non per il mio corpo?» Sorrise Jace, in modo impertinente. «Questa ipotesi è totalmente assurda.»
«Beh,» disse lei, trattenendo a stento un sorriso, «il tuo corpo non è niente male. Direi un novanta per cento corpo e il resto dieci per cento mente.»
«Così mi ferisci, ragazza perfida
Lei rise piano e lo attirò a sé, afferrandogli un lembo della giacca.
«Clary, no …»
«Non mi importa.» Lo interruppe, posò le labbra sulle sue e chiuse gli occhi. Venne subito investita dalla familiare scarica elettrica, come ogni volta che entrava a contatto con il corpo del ragazzo. All'inizio la bocca di Jace rimase chiusa e rigida contro quella di lei, poi le mise entrambe le braccia attorno alla vita e le sue labbra si dischiusero. Le prese il volto fra le mani, baciandola prima leggermente poi con più forza. Rotolarono sul letto, fino a che Jace non fu sopra di lei, ogni parte del suo corpo aderiva perfettamente al suo e Clary si abbandonò al tocco familiare della sua lingua contro la sua e al battito del suo cuore, in perfetta sincronica con il proprio. Strinse i pugni sulla camicia di lui, attirandolo con forza contro sé stessa, incrociando le gambe alle sue e sospirando al lieve tocco delle labbra di Jace, che tracciavano la linea del suo zigomo fino a scendere all'incavo del collo. Mollò la presa sui suoi vestiti e intrecciò le dita fra i suoi capelli, così fini e morbidi e … diversi da quelli del vero Jace. Aprì gli occhi e, avendo per tutto il tempo immaginato il viso di Jace e i suoi occhi color oro, non fu preparata a quello che vide: gli zigomi alti e i lineamenti freddi, i capelli così chiari da sembrare bianchi. Stava baciando le labbra di Jonathan. Jace avvertì il cambiamento nel suo corpo, che si era ad un tratto irrigidito.
«Vuoi che mi fermi?»
Clary lo guardò negli occhi, così neri e cupi.
Gli sorrise.
«No.»
E lo attrasse a sé con forza. Nonostante la tenuta da Cacciatori che entrambi indossavano, Clary sentiva il calore di Jace ardere attraverso la stoffa. Gli strappò via la giacca, le sue dita esploravano il suo corpo come la lingua di Jace esplorava la sua bocca. Pelle soffice contro muscoli forti. Gli accarezzò la schiena e percepì il lieve innalzamento della carne, dove le punizioni di Valentine avevano lasciato i segni, sotto forma di cicatrici indelebili. Le girò la testa e per un attimo le sembrò tutto così assurdo e sbagliato.
«Forse …» balbettò, «dovremmo,» il suo corpo sembrava ribellarsi alla sua mente, non volendo farle pronunciare quelle parole. «Fermarci.»
Jace sollevò la testa, puntellandosi sui gomiti, ancora sopra di lei. Sul viso gli apparve un'espressione ferita, che lasciò subito il posto ad una maschera di studiata indifferenza.
«Sì, dovremmo.» Disse a bassa voce.
«Insomma, lui potrebbe tornare da un momento all'altro.» Clary sembrò realizzare solo in quel momento che Jonathan non si trovava nella stanza. «Dove è andato, a proposito?» Chiese con una sfumatura di panico nella voce.
«Nell'armeria. È passato dall'armadio,» Jace anticipò la domanda di Clary, che aveva già assunto un cipiglio preoccupato. «Dubito che qualcuno possa vederlo.»
Il ragazzo si alzò dal letto e andò di nuovo alla finestra, scrutando il buio incombente e i demoni di guardia all'entrata. Clary approfittò per recuperare il diario di Valentine e dargli un'occhiata. Sfogliò le pagine a caso e riconobbe il suo nome, scritto con la calligrafia di Valentine. Iniziò a leggere, con crescente curiosità.
8 agosto, 2004.
La forza di Jonathan aumenta ogni giorno di più, come la sua abilità nel combattimento. Le sue doti fisiche sono in continuo miglioramento, quello che mi preoccupa, invece, è il suo lato umano. Il ragazzo continua a mostrarsi completamente insensibile a ciò che accade attorno a lui, sembra essere capace di provare solo emozioni negative: rabbia, invidia, vendicatività. Quando Lilith mi disse che il suo sangue avrebbe bruciato completamente la sua umanità, devo ammettere di non aver speso troppo tempo a riflettere sulle conseguenze. Non mi serve un ragazzo che non sa riconoscere tra cosa è giusto e sbagliato. Che non sappia riconoscere quando è il momento di agire, o il momento di nascondersi nell'ombra. L'unico argomento che sembra scuotere la sua anima infetta è la sorella. Ogni volta che nomina Clarissa i suoi occhi si accendono di una curiosità mai palesata per altri argomenti. Continua a chiedermi quando lei si unirà a noi, quando lei tornerà a far parte della nostra famiglia. Gli ho detto che lo farà presto, ma è una menzogna. La sua ossessione inizia a preoccuparmi …
Clary smise di leggere, le mani le tremavano e si sentiva un nodo allo stomaco che le impediva di muoversi. Sfogliò le pagine all'indietro …
12 gennaio, 2003.
Jonathan si sta dimostrando una vera spina nel fianco. La sua sfacciata disobbedienza sembra essere radicata in lui, come la malerba che cresce nel giardino. Le punizioni corporali non sembrano servire a niente. A volte mi chiedo se la sua totale mancanza di empatia lo porti anche a non provare dolore. Oggi mi ha chiesto della madre, per l'ennesima volta. Gli ho risposto che nessuno al mondo potrà mai amare un mostro. Perché è quello che lui è, un mostro …
Clary non si accorse di Jace che la chiamava per nome; né di Jonathan, appena apparso dall'armadio con in braccio una moltitudine di armi sferraglianti; non si accorse neppure delle lacrime calde che le rigavano le guance.
 
 
Jordan osservò la figura di Simon muoversi verso la tenuta ad una velocità incredibile. Dopo pochi attimi era già scomparso dalla loro vista. Non passò neanche un minuto, che Isabelle si mise a correre dietro di lui, senza dire una parola.
«Izzy!» Sibilò Alec, prima di seguirla a ruota. Jordan osservò le sagome dei due Nephilm scomparire nel buio, che era calato rapidamente su di loro.
«Alec! No, aspetta!» Anche Magnus si lanciò all'inseguimento del suo ragazzo, con i suoi stivali firmati a conferirgli un'aria traballante e instabile.
Jordan si voltò verso Maia. Amava gli occhi di Maia, luminosi, tra il verde e il castano.
«Questa sì che si può definire una reazione a catena
Lei sorrise leggermente, poi lo prese per mano e iniziarono a correre.
 
 
Simon correva a perdifiato lungo il prato che circondava la tenuta dei Morgenstern. In una frazione di secondo aveva percorso l'intero perimetro della casa, alla ricerca di una via d'entrata. Ed eccola lì, proprio davanti ai suoi occhi: una botola aperta, che probabilmente conduceva ai sotterranei. Stupidi, pensò il ragazzo fra sé e si tuffò nell'apertura. Non appena i suoi piedi toccarono il suolo, avvertì l'odore metallico e pungente del sotterraneo; alzò lo sguardo e si rese conto di trovarsi in una cella. Una sensazione crescente di disagio si insinuò il lui. Percepì il suono di una risata soffocata, alle sue spalle e si voltò di scatto. La botola era stata chiusa dall'esterno, con una spessa lamina di metallo. Vi si scagliò contro con tutta la forza che possedeva, certo che con le sue abilità di vampiro l'avrebbe sfondata in un istante.  Ma quando la pelle nuda delle sue mani entrò a contatto con l'acciaio, avvertì un bruciore intenso propagarsi in tutto il corpo. Guardò meglio e vide che la lamina era incisa di rune e simboli religiosi, così come le sbarre della cella. Simon ebbe un'orribile sensazione di déjà vu, ricordando la sua permanenza nella prigione della Guardia. Emise un verso soffocato: era caduto in una trappola.
«Piuttosto ingenuo per essere il Diurno portatore del Marchio di Caino.» Disse una voce fredda e tagliente, al di là delle sbarre.
«Valentine.» Sibilò il ragazzo.
«Davvero credevi che non mi fosso accorto che ci stavi seguendo, nella foresta?» L'uomo esplose in una risata cristallina.
«Sei un sadico bastardo.» Ringhiò Simon, afferrando le sbarre della cella e bruciandosi la carne. Si ritrasse come un animale ferito.
«Ho ricevuto appellativi peggiori. Sai, ho speso un sacco di tempo prezioso per prepararti questo confortevole angolino. Dovresti almeno ringraziarmi.» Fece una pausa. «Appena ti ho visto, nascosto tra gli alberi, mi sono chiesto: come farò a bloccare il Diurno senza essere trasformato in un mucchio di sale? Beh, ecco qua la risposta.» Concluse con un gesto del braccio ad indicare la cella, sogghignando.
«Dov'è Clary?» Sputò Simon.
«Non so dove sia Clarissa, ma presumo che, se tu sei qui, sia da queste parti anche lei. Esattamente come avevo pianificato.»
Simon emise un verso di rabbia, mostrando i canini appuntiti a Valentine, che sorrise con accondiscendenza.
«Sei venuto da solo?»
«Sì.» Mentì Simon, prontamente.
«Non importa se menti, vampiro. Chiunque si avvicinerà alla tenuta, questa notte, morirà.»
Il ragazzo rabbrividì nella sua maglietta a maniche corte, nonostante non fosse più in grado di percepire il freddo.
«Ora, se non ti dispiace, ho una compagnia decisamente più interessante che mi attende al piano di sopra.» Gli voltò le spalle e fece per andarsene, poi si fermò. «Non proverei ad uscire se fossi in te. Questa cella è a prova di Nascosto e comunque, quello che troverai fuori potrebbe essere molto peggio.» Se ne andò, lasciando Simon in preda alla rabbia e all'angoscia.

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Capitolo 7
*** Sympathy for Devil ***


CHAPTER 6
SYMPATHY FOR DEVIL


 
Clary si asciugò velocemente le lacrime con il dorso della mano e mise via il diario nella piccola borsa a tracolla che si era portata da New York. Entrambi i ragazzi l'avevano guardata con occhi sorpresi, poi il loro sguardo era caduto sul diario di Valentine che stava leggendo e, dopo aver fatto due più due, avevano distolto lo sguardo in evidente disagio. In quanto a conforto, Jace e Jonathan, non erano proprio il massimo, pensò Clary, alzandosi e andando verso la scrivania dove suo fratello aveva deposto il mucchio di armi. Spade angeliche, coltelli e pugnali, un arco e addirittura una balestra. Jonathan si riempì la cintura di pugnali e si mise su una spalla l'arco.
«Tieni,» le disse con voce atona, mettendole in mano la balestra. «Sarà meglio sbrigarsi, il sole è tramontato.»
«Ma non so nemmeno come si usa questo affare!» Sbottò Clary, agitandogli davanti al naso l'arma che aveva in mano. Jonathan sbuffò e le mostrò brevemente il suo funzionamento.
«Basta puntare la freccia qui, prendere la mira e tendere l'arco e poi sganciarlo, così.» La punta di ferro della freccia si andò a conficcare nell'anta dell'armadio con un suono secco.
«Lascia perdere,» disse Jace, infilando una spada angelica nel fodero. «Finirebbe solo per tirarsela in testa.» Le prese la balestra dalle mani e le diede invece un mucchio di pugnali.
«Fantastico.» Borbottò Clary. «Grazie per la fiducia.»
Jace la guardò per un attimo, un lieve sorriso gli incurvava le labbra, poi il suo viso tornò freddo e distaccato come sempre. «Scendo io per primo. Terrò Valentine impegnato, così voi potrete passare dal salone e raggiungere il Portale.» Fece per andarsene con passo sicuro, ma Clary lo fermò, toccandogli un braccio.
«Jace, io …» Iniziò la ragazza, ma si rese subito conto di non sapere cosa aggiungere. Non voleva abbandonarlo lì, le sembrava quasi un tradimento. Ma d'altra parte, non poteva neanche permettere che il piano di Valentine si realizzasse. Jace la guardò con quegli occhi neri. Rimasero a fissarsi per alcuni secondi, senza dire una parola e Clary si sentì soffocare dalla voglia di stringersi a lui. Ma non poteva, c'era Jonathan a mezzo metro da loro e non avrebbe condiviso quel momento intimo con uno spettatore indesiderato. Jace si liberò dalla sua presa e uscì dalla stanza senza aggiungere una parola. Aspettarono alcuni minuti, prima di uscire a loro volta e scendere al piano di sotto. I corridoi della tenuta erano bui e completamente deserti. Clary e Jonathan strisciarono lungo di essi, nascondendosi nell'ombra, finché non raggiunsero il salone. La grande stanza era vuota, ma a terra, sopra il parquet di legno scuro, c'era un enorme pentagramma disegnato con quello che sembrava sangue. Attorno ad esso una marea di rune, che Clary riconobbe come oscuri presagi di evocazione. Rimase immobile a fissare la scena fino a quando Jonathan non la afferrò per una spalla e le sibilò all'orecchio di darsi una mossa. Attraversarono il salone e varcarono la porta che conduceva ad una stanza adiacente; era piccola e priva di mobilio, ad eccezione di un tappeto persiano e ad un enorme quadro a parete, raffigurante l'Angelo Raziel. Clary pensò che il dipinto non gli rendesse affatto giustizia, dal vivo era decisamente più inquietante. Jonathan prese con entrambe le mani i lati del quadro e lo sollevò dalla parete, appoggiandolo a terra. Clary sapeva che dietro di esso si trovava l'unico Portale della tenuta, perciò si era immaginata di vedere la nebulosa sostanza che si intravedeva nei Portali, prima che la destinazione fosse scelta. Quello che vide, però, fu solo pietra. Non c'era alcuno Portale nel muro. Sentì Jonathan imprecare a bassa voce.
«Non può essere …» stava dicendo il ragazzo, scuotendo la testa. «L'ha chiuso. Valentine l'ha chiuso.»
Clary deglutì a fatica, mentre iniziava ad agitarsi. «Come sarebbe a dire?» Sbottò, mettendosi al fianco di Jonathan ed estraendo dalla cintura il suo stilo. «Fammi spazio, provo ad aprirne uno io.»
«Non puoi, le difese che circondano la tenuta non permettono di aprire nessun Portale, lo sai.»
«Vale la pena provare, no? O hai qualche idea migliore?» Sibilò Clary, grattando la pietra con la punta dello stilo. Tracciò la runa una, due volte, fino a che lo stilo non diventò incandescente nella sua mano, ma lei continuò, incurante del dolore lancinante alla mano e alle vesciche da bruciatura che iniziavano a spuntare sul suo palmo. La pietra rimase pietra. Sentì la mano di Jonathan sopra la sua, mentre delicatamente le toglieva l'oggetto rovente tra le dita. Clary oppose resistenza. «No. No, lasciami fare … ci deve essere un modo …» sussurrò affannosamente, più a se stessa che a Jonathan. La fece voltare verso di lui, prendendole il mento con una mano.
«Clary,» le sussurrò dolcemente. «Lascia perdere.»
«E ora che si fa?» Chiese lei stancamente, senza alzare lo sguardo sul suo viso.
«Credo che la nostra unica via d'uscita sia la porta d'ingresso, o una finestra, come preferisci.»
«Ma là fuori ci saranno almeno un centinaio di demoni. Tu sei forte, ma io sono un peso morto. Non so nemmeno usare una balestra.» Disse con voce amara.
«Sarei più forte se avessi il mio vero corpo,» rispose Jonathan con una smorfia. «E tu non sei un peso morto. Ricordi quando abbiamo combattuto contro quei Dimenticati, nella foresta?» Clary annuì appena. «Sei stata fantastica. Mi hai quasi salvato la vita, no?»
Lei scoppiò in una risata priva di divertimento. «Certo, come no. E comunque erano solo dei Dimenticati. Sono stupidi, non ci vuole tanto a farli fuori.»
«Clary, non credo che Valentine abbia intenzione di riaprire il Portale tanto presto. Per ciò, o rimaniamo qui, e lui ci troverà, oppure tentiamo di raggiungere la foresta di Brocelind e lì finalmente tu potrai aprire un Portale.»
«Mi sembra di capire che non abbiamo una scelta.» Mormorò Clary, sempre guardandosi i piedi. Percepiva l'intera presenza di Jonathan, in piedi di fronte a lei. La mano che ancora le teneva il mento sembrava bruciarle la pelle. Era consapevole della loro vicinanza e questo la stordiva senza un apparente motivo. «Se andiamo là fuori moriremo.» Continuò lei.
«Preferisco morire piuttosto che aiutare per l'ennesima volta Valentine a realizzare i suoi folli piani.» Disse Jonathan con disprezzo. «E tu?» Le chiese, obbligandola ad alzare il viso e a guardarlo negli occhi.
«Non lo so,» rispose confusa. «Non credo di voler morire … non adesso, insomma … non proprio ora …» si ritrovò a balbettare frasi sconclusionate.
«Neanche io in realtà. Non ora che tu sei con me. Non ora che tu mi vuoi aiutare.»
Quella frase sarebbe potuta risultare romantica, ma il tono di voce con cui la pronunciò Jonathan, freddo e piatto, la fece sembrare tutto fuorché romantica. Clary lo guardò dritto negli occhi dorati.
«Odio tutto questo, odio dover essere qui. E che voi dobbiate essere qui. Odio che esista il male.» Sussurrò con un filo di voce. Jonathan rimase per un attimo immobile, il viso di pietra, non tradiva alcuna espressione. Poi lo vide chinarsi lentamente su di lei e i loro nasi si sfiorarono appena, le loro labbra a pochi millimetri di distanza. Spalancò gli occhi verdi mentre il suo respiro le solleticava la pelle e il ritmo del suo cuore le martellava nelle orecchie.
«Non farlo, tutto questo è immorale.» Riuscì a sussurrare a malapena, paralizzata dal terrore di ciò che stava per accadere.
«La morale è la debolezza del cervello.» Rispose lui, sulle sue labbra.
«E questo cosa vorrebbe dire?»
«Ora non te lo saprei spiegare, al momento mi sento un po’ confuso. Ma se l'ha detto Rimbaud, sarà sicuramente vero.» E così dicendo, Jonathan posò le labbra su quelle di Clary. In un secondo si ritrovò con la schiena al muro, lo stesso muro che doveva essere la loro via d'uscita e che ora si era trasformato in una trappola. Le labbra di Jonathan erano quelle morbide e familiari di Jace, ma il bacio era completamente diverso. Jonathan aveva spinto la sua lingua contro la sua, senza aspettare neanche che lei avesse il tempo di realizzare ciò che stava accadendo, forse perché se glielo avesse dato, l'avrebbe sicuramente respinto. Ma Clary non lo fece: rimase schiena al muro, le braccia ciondolanti lungo i fianchi, gli occhi spalancati e la tensione nel suo corpo come un dolore fisico. Lo sentì bisbigliare qualcosa sottovoce, contro la sua bocca, qualcosa di morbido e rilassante.
«Chiudi gli occhi. Chiudi gli occhi, Clary.»
Da quel luogo nessun viaggiatore era mai tornato, c'era il percorso e il precipizio. Clary chiuse gli occhi e mise le mani sul suo corpo. Lui la afferrò per la vita, strofinò le sue labbra umide sulla sua guancia, trovò la sua bocca, lo sentì sospirare nelle sue labbra bagnate e schiuse. Si trattò di un bacio disordinato, frenetico, inesperto, che durò attimi o ore, non seppe dirlo. Quando si allontanarono l'uno dall'altro Clary si sentì male, svuotata, nauseata da sé stessa. Non poteva aver fatto una cosa tanto sbagliata. Cercò di trovare una giustificazione nella sua mente annebbiata; si disse che l'aveva fatto perché lui era nel corpo di Jace, era questo il motivo, sì, un semplice errore. Ma non riuscì a convincere nemmeno sé stessa. Jonathan sembrò vedere il disgusto nei suoi occhi e tornò ad essere la solita maschera di studiata indifferenza.
«Beh, andiamo a uccidere il maggior numero di demoni possibile.»
La stanza in cui si trovavano era priva di finestre, perciò il ragazzo allungò la mano verso la maniglia della porta che conduceva al salone, ma quella si spalancò di scatto nello stesso istante, come animata di vita propria e sulla soglia comparve Valentine, affiancato da Cartwright e Pontmercy. Un ghigno soddisfatto gli si disegnò sul volto.
«Tempismo perfetto. Prendeteli.» Ordinò ai suoi due Cacciatori.
Clary era ancora stordita dal bacio, perciò osservò la scena con distaccato interesse, come fosse la spettatrice di un film. Vide Jonathan sfoderare la spada angelica, sussurrarne il nome «Nakir,» e ferire il torace di Cartwright, lo prese per il colletto della divisa e lo sbatté contro il muro con tale forza che l'uomo perse i sensi, accasciato al suolo. Dopodiché lo vide scagliarsi contro Valentine, in quell'istante sentì una lama fredda e appuntita sul suo collo e due grosse mani che si serravano sulle sue braccia. Si risvegliò dalla sua specie di trance e iniziò a divincolarsi con forza, ma la lama si conficcò più a fondo sulla sua pelle, provocandole un taglio superficiale da cui scese una goccia di sangue caldo. Jonathan aveva la spada puntata contro il petto di Valentine, ma l'uomo non sembrava per nulla turbato.
«Non lo farei se fossi in te, Jace.» Disse calmo, indicando con un cenno del capo Clary, braccata dalle possenti braccia di Pontmercy. «Non vorrai che la tua adorabile fidanzata si faccia male.» Aggiunse Valentine con un sorriso. Jonathan si voltò di scatto e vide Clary lottare senza successo contro la sua prigionia. Quell'attimo di esitazione bastò, perché dal salone si riversarono orde di uomini che accerchiarono Jonathan. Non erano Cacciatori, perché sulla loro pelle non c'erano rune e non portavano la divisa, sembravano semplicemente dei mondani, ma il loro modo di muoversi era strano. Demoni Eidolon, pensò Clary, ricordando il ragazzo dai capelli blu che aveva visto al Pandemonium Club circa un anno prima.
«No!» Urlò Clary, ma Jonathan si era già arreso, buttando a terra la spada e osservandola con sguardo vuoto.
«Saggia decisione, Jace. Le rune.» Sibilò poi Valentine a Pontmercy. E in un attimo, Clary e Jonathan si ritrovarono con braccia e gambe inutilizzabili a causa delle rune invalidanti, tracciate da Pontmercy sui loro arti. «Portateli nel salone.» Ordinò.
 
 
I demoni si abbatterono su Isabelle, Alec e Magnus come uccelli rapaci sulle loro prede. C'erano demoni Behemoth, mostruosità enormi e viscide. Devrak, con le loro bocche spinate, simili a vermi bianchi. Hydra dalle molteplici teste; i Raum agitavano i loro tentacoli come pale di un mulino; Poi demoni Scorpios, Vetis, Shax e moltissimi altri. Isabelle agitava la sua frusta di elettro a destra e a sinistra. Alec scoccava frecce con il suo arco e dalle mani di Magnus uscivano potenti fiamme di colore azzurro. Sembrava di essere finiti in un quadro di Bosch. Presto vennero raggiunti anche da Maia e Jordan, che avevano completato la loro trasformazione in lupi e azzannavano i demoni con i loro denti affilati. La battaglia durò per alcuni interminabili minuti; l'icore macchiava l'erba del prato e si fondeva con il sangue dei Nephilim e dei Nascosti. All'improvviso il putiferio cessò e i demoni batterono in ritirata, sparendo dalla visuale dei ragazzi.
«Questo è davvero strano,» ansimò Alec, dopo essersi assicurato che la sorella e Magnus non fossero feriti gravemente. «Perché se ne sono andati via così? Ci avrebbero ucciso nel giro di minuti, erano troppi.»
«Non lo so, ma non mi piace.» Disse lo stregone, asciugandosi il sangue che colava da un taglio sulla guancia e volgendo lo sguardo al cielo ormai scuro. Aveva gli occhi persi nel vuoto ed era molto pallido, nonostante la sua carnagione olivastra.
«Dove diavolo si è cacciato Simon!» Isabelle interruppe i loro ragionamenti, con voce acuta e vagamente isterica.
«Non lo so Izzy, è un vampiro, forse si è trasformato in un pipistrello ed è volato sul tetto.» Rispose Alec, stancamente. La sorella lo fulminò con lo sguardo.
«Il tuo senso dell'umorismo arriva sempre nei momenti meno opportuni, vedo.»
Alec aprì la bocca per controbattere ma un lamento lo interruppe bruscamente. Era un suono basso, disperato e animalesco. I tre ragazzi si guardarono attorno, furtivamente, poi capirono da chi proveniva quel suono. Era Jordan, inginocchiato a terra, poco lontano, in grembo teneva la testa di Maia, apparentemente priva di coscienza, accarezzandole i capelli e dondolandosi avanti e indietro. Corsero verso di lui, fino a che non gli furono accanto, abbastanza vicini per vedere il ventre di Maia, sfigurato da un enorme ferita.
«Cos'è successo?» Chiese Isabelle, inginocchiandosi a sua volta e guardando la giovane ragazza sanguinante.
«Un demone …» singhiozzò Jordan. «Credo che la ferita sia infetta …»
Gli occhi di Maia erano immobili, ma il suo petto si alzava e abbassava ancora. Isabelle fece un sospiro di sollievo.
«Lascia fare a me,» disse Magnus dolcemente e prese il corpo di Maia dalle braccia di Jordan, iniziando ad armeggiare con la sua magia. Rimasero tutti a guardare, fino a che Maia non riaprì gli occhi, faticosamente, emettendo un verso di dolore e svenendo nuovamente.
«La ferita è molto profonda e infetta.» Asserì Magnus. «Tranquillo,» aggiunse in fretta vedendo l'espressione agghiacciata del giovane lupo. «L'ho guarita, si riprenderà. Solo … credo ci vorrà un po’, non sarà in grado di combattere per minimo qualche ora.»
«Noi dobbiamo andare,» si lamentò Isabelle, «dobbiamo trovare Simon!»
«Vuoi dire Jace e Clary.» La corresse Alec.
«Simon, Jace e Clary, sì. Dobbiamo andare.» Ripeté la ragazza, sbattendo un piede a terra nervosamente.
«Andate,» disse piano Jordan, cullando Maia, nuovamente fra le sue braccia e ancora addormentata. «Io rimarrò con lei. Troverò un posto sicuro e quando avrete risolto tutta la faccenda tornerete e riprenderci.» Concluse serio.
«Perfetto!» Sbottò Isabelle.
«Hai molta fiducia in noi, ragazzo.» Sospirò Magnus, con un'alzata di sopracciglia.
«Sì.» Rispose Jordan, con un sorriso stanco.
Isabelle, Magnus e Alec percorsero l'intero perimetro della tenuta, senza trovare nessun passaggio aperto per entrare nella casa, le finestre erano tutte sigillate da rune di chiusura; per cui decisero di arrampicarsi fino ad una delle finestre del secondo piano e di entrare da lì. Magnus non era molto allettato all'idea di una scalata in verticale ma doveva ammettere che quella era la loro unica possibilità. Fu così che, rovinando in modo irreversibile i suoi stivali firmati, si ritrovò sul pavimento di pietra di uno studio. C'era una grande scrivania in mogano e scaffali ricolmi di libri antichi.
«Credete sia lo studio di Valentine?» Sussurrò Alec, guardandosi intorno.
Magnus stava facendo scorrere un dito sulle copertine dei libri di uno scaffale in alto. «Direi di sì, a giudicare dai titoli.» Si spostò alla scrivania, dove un oggetto piccolo e nero aveva subito attirato il suo interesse. Lo stregone posò una mano sulla copertina del libro.
«Non abbiamo tempo per leggere, ora.» Disse Isabelle, bruscamente e si avviò verso la porta che conduceva ai corridoi. «Forza, che aspettate?!» Sibilò, assicurandosi che non ci fosse nessuno in giro.
«Magnus?» Disse Alec, avvicinandosi al suo ragazzo, che sembrava completamente assorbito da quel piccolo libro. Lo guardava con un tale desiderio che quasi Alec si sentì in imbarazzo.
«Magnus?» Ripeté posandogli una mano sulla spalla.
«Oh, per l'Angelo! Io vado a cercare Simon e gli altri, voi fate come volete.» Isabelle schizzò via lungo i corridoi bui, prima che Alec potesse dirle di fermarsi.
«Merda.» Sbottò il Nephilim. «Magnus, dobbiamo andare. Lascia perdere questo affare.» E gli tolse il libro dalle mani. Lui alzò lo sguardo sul ragazzo per la prima volta, la sua espressione era un misto di terrore e gioia.
«Non capisci, Alec? Questo è il Libro Nero.» Sussurrò riprendendo il volume dalle mani di Alec e iniziando a sfogliarlo freneticamente. «Questo libro è una leggenda. Tutti conoscono il Libro Bianco e il Libro Grigio ma questo … credevo fosse andato perduto da secoli.» Continuò Magnus, parlando più a sé stesso che a Alec.
«Senti, non puoi chiedermi di scegliere tra te e mia sorella. Izzy è andata, dobbiamo raggiungerla, per favore Magnus.» Il ragazzo stava quasi supplicando e questo non era davvero da lui, ma lo stregone sembrava non aver sentito nemmeno una parola. Si era fermato ad una pagina e i suoi occhi verde oro schizzavano avanti e indietro, in una febbrile lettura delle parole che vi erano scritte sopra.
«Magnus!» Questa volta, Alec, quasi urlò dalla frustrazione. Lo vide alzare a malapena gli occhi dalle pagine ingiallite, la gioia di poco prima aveva lasciato spazio unicamente al terrore.
«Non ti ho mai chiesto di scegliere tra me e tua sorella.» Disse Magnus, con voce piatta. «Va' da lei.»
Alec sbuffò. «Si può sapere che ti prende? Tienilo, puoi leggerlo dopo, ora andiamo, ti prego.»
«No, non posso.» Rispose lui, criptico.
«Magnus, mi stai spaventando …»
«Va' da Isabelle, Alexander.»
Alec assunse un'espressione ferita, poi si voltò dall'altra parte. «Perfetto. Vado. Anche perché mi hai davvero stufato.» E iniziò a correre nella direzione presa da Isabelle, lasciando Magnus a fissare con sguardo vuoto il Libro Nero.
 
 
«Chi sei?» Sussurrò, aggrappandosi con le dita sottili alle sbarre della cella.
Il ragazzo smise di agitarsi come un animale in gabbia e fissò i suoi occhi castani nei suoi. Era giovane, pelle pallida, capelli castani ed era un vampiro. Tessa lo sapeva perché aveva ascoltato la conversazione che aveva avuto con Valentine pochi minuti prima.
«Mi chiamo Simon,» rispose lui, dopo un momento di incertezza. «E tu?»
«Io sono Tessa. Perché ti trovi qui?»
«Tessa? Tessa Gray, la Mutaforma?» Sussurrò il ragazzo di nome Simon con voce stupita e impaziente. Lei rimase un attimo interdetta. Sapeva che il suo status di Mutaforma la rendeva in qualche modo molto speciale, ma in tutti quegli anni aveva tenuto un basso profilo e non riusciva a capacitarsi di come uno sconosciuto qualunque potesse conoscere la sua identità.
«Sì. Come fai a saperlo?» Rispose con diffidenza.
«Me lo ha detto Magnus. Magnus Bane, è un tuo amico, no?»
Il cuore di Tessa accelerò i battiti e si ritrovò a sorridere nonostante la situazione disastrosa. Magnus era stato una persona molto importante per lei, e per Will.
«Sì certo, anche tu sei un suo amico?»
Simon annuì vigorosamente, poi abbassò la voce. «Sono venuto qui con lui e altri Cacciatori. Siamo qui per salvarti e salvare i nostri amici che Valentine ha catturato.»
Tessa sgranò gli occhi grigi. Magnus era lì, non poteva crederci. Un barlume di speranza le si accese nel petto.
«Dov'è ora?» Chiese a bassa voce.
Il vampiro aprì la bocca per rispondere ma venne interrotto da una terza voce, proveniente da una cella adiacente.
«Tessa Gray?»
Tessa sporse la testa per vedere meglio. Si graffiò il viso sul metallo arrugginito ma finalmente riuscì a vedere che, dietro le sbarre di un'altra cella, c'era una fata, aveva la pelle di un blu pallido e mani e piedi erano palmati.
«Hyacinth.» Sussurrò Tessa, incredula. Aveva riconosciuto subito la fata, l'aveva vista per la prima volta ad una festa a casa di Benedict Lightwood, circa duecento anni prima e la ricordava perfettamente, perché, a quei tempi, le aveva confessato di aver conosciuto sua madre, Elizabeth. La vide annuire in risposta.
«Cosa ci fai qui?» L'incredulità di Tessa aumentava ogni minuti di più. Prima Magnus, ora Hyacinth … sembrava che il passato, da cui si era allontanata, fosse tornato a tormentarla.
«Non so perché mi trovo qui. Valentine mi ha catturato e mi ha intrappolato in questa prigione di ferro. Il ferro è velenoso per noi fate. Non so altro.» Rispose Hyacinth, il suo tono di voce suadente che Tessa ricordava, aveva lasciato spazio alla paura.
«Voi due vi conoscete?» Chiese Simon, con voce incredula.
«Ssssh.» Lo zittì Tessa, mentre un rumore di passi rimbombò nei sotterranei.
 
 
Clary venne raccolta da terra da due demoni Eidolon, con assai poca gentilezza. Si sentiva le gambe completamente molli, così come le braccia, come se fossero due paia di arti non appartenenti al suo corpo. Aveva già provato quella sensazione alle gambe, a causa della runa invalidante che le aveva fatto Valentine sulla riva del Lago Lynn, due mesi prima. Suo padre sembrava aver imparato la lezione: quella volta Clary era riuscita a trascinarsi con le braccia fino al cerchio di rune che aveva creato per invocare l'Angelo Raziel, ma questa volta non c'era speranza di muoversi, con sia gambe e arti superiori fuori uso. Venne depositata come un sacco di patate sul parquet del salone, lungo il confine del pentagramma tracciato a terra ed ebbe modo di constatare che era stato davvero tracciato con del sangue. Vide Jonathan, nella sua stessa identica situazione, scaraventato esattamente davanti a lei, sulla linea del cerchio, opposta alla sua, che conteneva il pentagramma. Jonathan non la stava guardando, ma muoveva il collo in ogni direzione, l'unico muscolo che ancora poteva muovere, pensò Clary. E fu in quel momento che vide Jonathan smettere di cercare e fissare i suoi occhi in quelli di un altro ragazzo. Jace era in piedi a pochi metri da loro; nonostante avesse ancora i lineamenti di Jonathan, il suo viso era una maschera di orrore che non riusciva a nascondere. I suoi occhi saettavano da Clary a suo fratello, cercando di capacitarsi del perché fossero ancora lì e non al sicuro a New York. Vide Jonathan fissare Jace con tutta la concentrazione possibile, sembrava che tra i due ci fosse in atto una muta conversazione. Clary sentì le lacrime pungerle gli occhi, da un momento all'altro Jace si sarebbe tradito, cercando di aiutarla e Valentine avrebbe scoperto il suo travestimento. Ma Jace rimase immobile, sempre con gli occhi allacciati a quelli di Jonathan. Le sembrò di vederlo annuire appena.
«Cosa vuoi fare?» Sibilò contro Valentine, con tutta la cattiveria che riuscì a mettere in quella frase.
«Ora lo vedrai con i tuoi stessi occhi, Clarissa.» Rispose Valentine, affabile. Il salone era illuminato dalla luce lunare e dalle fiammelle delle candele che erano disposte attorno al cerchio. Clary notò che lei, Jonathan e Valentine erano disposti secondo un ordine, attorno al pentagramma. Clary si trovava ad ovest, Jonathan a sud e Valentine a nord. Il quarto punto cardinale era vuoto. La stanza era affollata di demoni Eidolon, più i due Cacciatori, Pontmercy e Cartwright, ancora un po’ ammaccato per la precedente lotta, e tutti stavano in piedi, immobili e in attesa.
«Jonathan.» Ordinò Valentine, con voce gelida. «Avvicinati, ho bisogno del tuo sangue.»
Clary pensò che fosse arrivato il momento. Jace non avrebbe obbedito e Valentine lo avrebbe scoperto. Strinse i denti, con il cuore che batteva furiosamente contro il suo sterno. Ma Jace la stupì di nuovo e si avvicinò obbediente a Valentine, porgendogli un polso scoperto. Clary non seppe se esserne contenta o devastata. Valentine affondò la lama dell'athame, il pugnale usato nei rituali demoniaci, sulla carne di Jace e raccolse il suo sangue in un calice argentato. Lo gettò al centro del pentagramma e iniziò a recitare in latino.
«Abyssum invoco. Lilith invoco. Domina est Edom invoco.» Continuò a recitare le sue formule demoniache, fino a che il pentagramma non iniziò a ardere, Clary lo sentì scottare sotto le sue gambe molli, e una palla di fuoco iniziò a prendere forma al centro di esso. Avrebbe voluto urlare a Valentine di smetterla, urlare a Jace di fare qualcosa, urlare e basta. Ma rimase immobile a fissare le fiamme districarsi fino a raffigurare l'ombra di una donna, piccola e alta la metà di un normale essere umano. Era nuda, ma i suoi lunghi capelli neri le avvolgevano l'intero corpo e i suoi occhi erano serpenti color carbone.
«Lilith.» Sussurrò Valentine, osservando il Demone Superiore, affascinato. Ma Lilith sembrava non avere nessun interesse verso l'uomo. I suoi occhi serpentini erano subito scattati in direzione di Jace.
«Figlio mio.» La sentì sussurrare Clary e la sua voce era ruvida e tagliente come tanti granelli di vetro rotto.
«Jonathan,» Disse Valentine, contrariato, «ha bisogno di altro sangue. È debole.»
Jace, questa volta, rimase immobile. Gli occhi neri riflettevano le fiamme in cui era avvolta Lilith.
«Non mi serve altro sangue.» Lilith parlò ancora. «Soprattutto non il suo sangue.»
«Ma sei ancora debole, mia signora. E dobbiamo completare l'evocazione.» Sibilò Valentine, con una nota di impazienza nella voce. «Pontmercy, Cartwright, andate a prendere la Mutaforma.» Ordinò seccamente. I due Cacciatori scattarono, evidentemente felici di potersi allontanare dal Demone Superiore, diretti nei sotterranei.
Lilith, ancora nel centro del pentagramma iniziò a muoversi. Nonostante fosse dotata di un corpo semi umano, il suo modo di spostarsi era simile al fumo nero che si leva dopo un incendio. Lento e fluido.
«Buffo.»
Lilith scoppiò a ridere e la sua risata penetrò nelle orecchie di Clary come mille artigli che graffiano una lavagna. Valentine la guardò confuso.
«Lilith … dobbiamo evocare -»
Ma il demone lo interruppe. «So benissimo chi dobbiamo invocare, Cacciatore. Fremo dalla voglia di rivederlo, tutti questi secoli passati a chiedermi dove fosse e se sarebbe mai tornato da me.» La sua voce sembrava più dolce e morbida, come persa in deliziose reminescenze del passato. «Ma non riuscirai ad invocare un bel niente, non così.» I serpenti negli occhi di Lilith saettarono in direzione di Valentine, che si ritrasse involontariamente. «È una specie di scherzo, Nephilim?»
«Non capisco.» Rispose lui, con voce soffocata.
«Certo che non capisci, sei solo un mortale. Ma credevo che anche i mortali, quando si tratta di amore filiale, avessero la capacità di vedere oltre.»
Valentine sembrava sempre più confuso e impaziente.
«Quello,» Lilith puntò un dito contro Jace, che era ritto e immobile a pochi passi da lei. «Non è tuo figlio. Non è mio figlio. Quello non è Jonathan Morgenstern.»
Il viso di Valentine impallidì. «Non è … Jonathan?» L'uomo cercò di riprendere il controllo sulla sua voce e sibilò con rabbia: «Chi sei tu?»
Lilith uscì dal pentagramma e si avvicinò a Jace, lentamente. Con un gesto della mano la tenuta da Cacciatore che indossava Jace si lacerò sul petto, scoprendo i suoi muscoli e la sua pelle sfregiata dal Marchio di Lilith. Il demone posò la mano proprio sopra di esso e quello iniziò a brillare.
«Fa male?» Sussurrò Lilith, dolcemente, all'orecchio del ragazzo, che rimase immobile, come pietrificato.
Per un attimo non successe niente e Clary pensò che l'incantesimo non avesse funzionato. Poi vide Jace annaspare e contorcersi, mentre il suo corpo cambiava lentamente. Lo stesso accadde a Jonathan, ancora accasciato sul bordo del pentagramma. Clary guardò la scena inorridita, fino a che i due ragazzi non furono ritornati completamente al loro aspetto originale. Jace, con i suoi capelli e occhi dorati e Jonathan, con i suoi capelli biondo platino e gli occhi neri come la notte. Valentine osservava suo figlio, all'interno del cerchio di evocazione; gli occhi spalancati pieni di stupore e gelida furia.
«Ciao, padre.»
Disse Jonathan, con un ghigno ad incurvargli le labbra.

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Capitolo 8
*** Two Minutes to Midnight ***


CHAPTER 7
TWO MINUTES TO MIDNIGHT


 
Il volto di Valentine era una maschera di incredulità, mentre osservava il viso di suo figlio, ghignargli beffardo. L'incredulità fu presto sostituita da una gelida rabbia.
«Jonathan,» sibilò, senza riuscire a mascherare lo shock nella sua voce. «Cosa hai fatto?»
«Tecnicamente, io non ho fatto niente. Mi sono svegliato con un nuovo corpo, così ho deciso di giocarci un po’.» Scoppiò in una risata cristallina che fece accapponare la pelle di Clary.
Nel frattempo, Jace sembrava aver ripreso controllo sul suo corpo, ancora stordito e frastornato dal tocco di Lilith, si lanciò in direzione di Clary, sguainando la spada angelica che teneva nel fodero e pronunciandone il nome ad alta voce. I suoi occhi erano rivolti unicamente a Clary, ancora accasciata a terra sulla linea del pentagramma, a causa delle rune invalidanti che portava sugli arti.
«Jace, no!» Urlò.
Tutto successe nell'arco di un secondo: Lilith agitò una mano in aria, con fare annoiato e Jace fu subito scaraventato contro il muro della parete opposta, cadde al suolo con un tonfo sordo. Dopo attimi di terrore, Clary lo vide muovere le dita di una mano e un'ondata di sollievo la travolse istantaneamente. Jace cercò di rimettersi in piedi a fatica, ma Lilith agitò la mano una seconda volta e dal pavimento, sotto il corpo del ragazzo, iniziarono a formarsi delle crepe nel legno e dal sottosuolo spuntarono delle corde nere, simili a rovi con tanto di spine appuntite. I rovi si aggrovigliarono sinuosamente attorno al corpo di Jace, ferendo la pelle che non era coperta dallo spesso materiale della divisa da Cacciatore. Jace emise un verso di dolore, ma continuò a dimenarsi e a cercare di rialzarsi.
«Se fossi in te starei il più fermo possibile.» Sussurrò Lilith, compiaciuta.
Jace, in risposta, si dimenò con più forza e i rovi si moltiplicarono, arrampicandosi sopra ogni superficie ancora libera delle sue braccia e delle sue gambe. Le spine iniziarono a lacerare anche la divisa, penetrando nella sua carne.
«Jace, sta fermo!» Lo supplicò Clary, con le lacrime agli occhi, impotente nel suo corpo fiacco.
Valentine non sembrava interessato alla scena che si stava svolgendo nell'angolo del suo salone. Tutta la sua concentrazione era rivolta a Jonathan, che non aveva smesso di sorridere neppure per un istante e guardava il padre con aria di sfida.
«Mi hai tradito. Io avevo fiducia in te.» Sibilò Valentine.
Jonathan fece una smorfia di disgusto. «Tu mi hai lasciato morire.»
«Posso perdonarti. Posso ancora perdonarti, nonostante tutti i tuoi errori. Sei mio figlio e ti perdonerò.» Disse, senza dar segno di aver ascoltato le parole del ragazzo. Il sorriso di Jonathan defluì dal suo volto.
«Oh, non farla tanto lunga, Valentine. Il ragazzo si è comportato in quel modo solo perché era nel corpo di Jace Herondale. Parte della sua nobiltà d'animo deve aver rovinato il nostro ragazzo.» Disse Lilith, freddamente, lasciando Jace in trappola e avvicinandosi al pentagramma. «Ma non temere, lui è ancora qui.» Si chinò su Jonathan e gli accarezzò dolcemente i capelli. «Lo vedo nei suoi occhi. Dagli qualche minuto e tornerà completamente in sé. Vero, figliolo?» Il demone fissò i suoi occhi serpentini su di lui.
Clary osservava la scena agghiacciata. Vide Jonathan alzare il viso verso Lilith e vide i suoi occhi già neri, scurirsi ancora di più, se possibile. Le si strinse lo stomaco. Non poteva credere che Jonathan si fosse comportato così solo perché era nel corpo di Jace, non dopo tutto quello che aveva letto e scoperto sul suo passato.
«Jonathan, sai che non è così.» Provò a dire in un sussurro. «Tu sei migliore di così.»
Jonathan si voltò a guardarla, lo sguardo vuoto, e Lilith scoppiò a ridere di gusto.
«Come sei ingenua piccola ragazzina. Mio figlio è un demone e non cambierà mai.»
«No.» Clary soffocò nella sua stessa bile. Un forte senso di nausea la stordiva e le impediva di pensare lucidamente. «Non è vero …» sussurrò con voce rotta. «Jonathan, diglielo, ti prego.»
Il ragazzo le rivolse un ultimo sguardo prima di tornare a fissare Lilith. Era impossibile capire cosa gli passasse per la mente, era così freddo e distaccato.
«Sei con me, non è così? Tu sei mio?» Sussurrò Lilith, con voce suadente.
«Sì.» Rispose Jonathan.
A Clary mancò il fiato. Jace urlò una marea di insulti indirizzati a Jonathan, prima che i rovi non raggiunsero anche il suo viso e la sua bocca, impedendogli di parlare e graffiandogli la faccia. Lilith fece una parvenza di sorriso e liberò il ragazzo dalle rune invalidanti e questo si rimise in piedi, massaggiandosi distrattamente i polsi. Valentine sembrò soddisfatto, scrollandosi dal suo torpore incredulo di poco prima.
«Perfetto.» Disse, riprendendo il controllo. «Jonathan, tu saprai farti perdonare. Ora possiamo procedere. Lilith?»
Lilith lo guardò con sufficienza e un'espressione che sembrava di ironico divertimento, anche se era difficile dirlo con tutti quei serpenti che le fluttuavano davanti al viso.
«Certamente. Vai pure avanti con il rituale. Non vedo l'ora.»
Pontmercy e Cartwright, come richiamati da un muto ordine, entrarono nel salone, trascinandosi appresso una ragazza, legata dalla testa ai piedi con delle catene. Clary suppose che si trattasse della Mutaforma. Se l'era immaginata diversa, non così giovane e apparentemente fragile.
«Gli Eidolon stanno per portare di sopra gli altri prigionieri, Valentine.» Disse Pontmercy, con voce melliflua e servizievole. Lui gli rispose con un cenno di approvazione, poi indicò un punto poco lontano da Clary.
«Mettetela lì.» Ordinò Valentine. «E prendete Jace.»
I due Cacciatori trascinarono un riluttante Jace sul confine del pentagramma. I rovi di Lilith erano stati sostituiti da rune invalidanti e ora il ragazzo giaceva al posto di Jonathan. Lo sguardo furioso e la pelle ustionata e graffiata dalle spine. Il pentagramma era completo e in corrispondenza di ogni punto cardinale si trovava una persona: Jace, Clary, Tessa e Valentine.
 

«Sta arrivando qualcuno,» sussurrò Simon. Il sotterraneo si illuminò per un attimo della luce filtrata attraverso la botola aperta, il rumore di passi riecheggiò lungo le mura di pietra.
«Sono qui per me.» Disse Tessa, cercando di mantenere la voce ferma. «Io gli servo per completare il rituale.»
«Non preoccuparti, Tessa. Magnus e gli altri erano dietro di me, abbiamo mandato un messaggio di fuoco ai rinforzi, presto saranno qui.» Simon cercò di tranquillizzarla ma si vedeva che neanche lui credeva troppo alle sue parole. Le figure di Cartwright e Pontmercy, armate fino ai denti, apparvero davanti alla cella di Tessa. Dietro di loro, la Mutaforma vide altre sagome, volti comuni e sfocati, dallo sguardo maligno. Erano una decina di demoni Eidolon, che iniziarono ad aprire le porte delle altre celle e a prelevare gli altri prigionieri, tenendoli a bada per mezzo delle loro debolezze: le fate con il ferro, i vampiri con croci e acqua santa, i lupi con la polvere d’argento e gli stregoni con la loro stessa magia. Fu così che vide Hyacinth, la fata che un tempo aveva conosciuto sua madre, intrappolata in una moltitudine di catene di ferro. Intravide anche una vampira dai capelli tinti di blu, ringhiare e urlare a contatto con l’acqua benedetta, mostrando i canini affilati ai demoni Eidolon.
«Che sta succedendo?» Chiese Simon, con un filo di voce, il quale non poteva sporgersi al di là dalle sbarre senza scottarsi la pelle.
«Non lo so.» Rispose Tessa, con una vaga sfumatura di panico. Il rumore del ferro delle celle sbattute e gli urli di dolore dei prigionieri, si fondevano in una melodia inquietante.
«Sta’ indietro, Nascosta.» Le sbraitò uno dei due Cacciatori, aprendo la sua cella.
Tessa fu prelevata dalla sua prigione. L’avevano costretta ad indossare delle catene di ferro incise di simboli magici che annullavano la sua magia. Si sentiva impotente e fragile, proprio come quando aveva sedici anni ed era in balia delle Sorelle Oscure. Detestava sentirsi così. Quando arrivò nel grande salone, comunque, si sentì ancora peggio, se possibile. Il pentagramma sul parquet, il Demone Superiore dagli occhi di serpente, che riconobbe come Lilith grazie ad una illustrazione che aveva visto nel Codice, e Valentine, con lo sguardo più folle o oscuro che mai. Ma quello che attirò davvero la sua attenzione, paradossalmente, fu il ragazzo inginocchiato al suo fianco, il suo sguardo e il suo portamento le ricordavano Will in un modo così sconcertante da far quasi male. E quando il ragazzo aprì la bocca, non poté che aumentare quella sensazione.
«Sei sempre il solito fanatico, padre.» Sibilò in direzione di Valentine, il quale gli rivolse un’occhiata di sommo disprezzo.
«Hai perso il diritto di chiamarmi così, molto tempo fa, Jace. Ora stai zitto, se non vuoi che ti faccia applicare una runa del silenzio su quella tua bocca saccente.»
«Così mi ferisci!» Disse il ragazzo, ostentando un’espressione di finta delusione. «Tutti quei giorni passati insieme nella tenuta dei Wayland, tu che mi punivi e spezzavi il collo a miei animaletti domestici … non significano niente per te?» Continuò beffardo.
Valentine non abboccò alle provocazioni, ma Tessa vide un muscolo guizzare sulla sua mascella, sintomo che si stava innervosendo.
«Jace, finiscila.» Sentì il sussurro della ragazza con i capelli rossi, anche lei parte di quel rituale misterioso. Doveva essere Clary, pensò Tessa, ripensando alle descrizioni che le aveva fatto Simon dei suoi amici, giù nella prigione.
«Jonathan.» Chiamò Valentine e il ragazzo che aveva visto nei sotterranei il giorno precedente si avvicinò al gruppo. Era bello, notò la Mutaforma, ma la sua bellezza aveva un che di inquietante e spigoloso da risultare non umana. «Adesso potrai dare prova della tua fedeltà,» continuò Valentine, in tono perentorio. «Il mio sangue è già stato versato. Ora tocca al sangue dei figli dell’Angelo e della Mutaforma.» Gli allungò l’athame e Jonathan lo prese tra le mani. «A te l’onore, figliolo.» Concluse l’uomo, con un ghigno.
Il ragazzo sembrò esitare, per una frazione di secondo, poi si mosse verso di lei, rapido e agile, le afferrò un braccio con violenza e incise la carne con il pugnale. Tessa gridò e il suo sangue gocciolò all’interno del pentagramma, scorrendo verso il centro di esso. Tessa alzò lo sguardo su Jonathan e vide i suoi occhi neri, così scuri e profondi e demoniaci. Le sembrò che un lampo li attraversasse, prima che la voce rabbiosa di Jace lo fece voltare in sua direzione.
«Schifoso verme, prova a toccare Clary e giuro che ti ammazzo con le mie stesse mani.»
Jonathan sollevò le sopracciglia bianche. La sua espressione era affabile e annoiata, come se i rituali di sangue fossero la sua attività giornaliera. Magari è proprio così, rifletté Tessa. In fondo non conosceva affatto le abitudini di Valentine e di suo figlio.
«Questa minaccia mi intimorisce parecchio, Herondale.» Ghignò Jonathan, divertito.
«Ti ho già ucciso una volta, credi che non sia capace di rifarlo?» Gridò Jace, cercando di muoversi con tutte le sue forze, ma senza successo.
«Mi hai preso alla sprovvista una volta, ti assicuro che non succederà di nuovo, fratellino.» Aggiunse l’ultima parola con tale disprezzo e ironia che Tessa avvertì dei brividi lungo la schiena. Lilith osservava la scena con un sorriso compiaciuto sul viso demoniaco.
«Io non sono tuo fratello, grazie a Dio.» Aggiunse Jace, gelidamente.
«Sono forse il custode di mio fratello?» Citò Jonathan, visibilmente divertito.
«Se hai finito con le citazioni bibliche, consiglierei di andare avanti.» Disse Valentine, con voce piatta.
«Io credo che la storia di Caino e Abele si addica molto al nostro caso, perché appena mi libererò da queste rune invalidanti ti ucciderò.» Sibilò Jace.
Jonathan scrollò le spalle e si avvicinò al ragazzo, replicò lo stesso gesto di prima, incidendo un taglio profondo sul suo braccio inerte e facendo gocciolare il sangue di Jace nel pentagramma. Quando arrivò accanto a Clary, nonostante tutto, sembrò tentennare. Tessa riusciva a vedere al di là di quegli occhi demoniaci e quello che vide fu che il ragazzo non voleva farle del male.
«Avanti. Mancano due minuti a mezzanotte.» Disse Valentine.
 
 
Clary osservava il viso di Jonathan a pochi centimetri dal suo naso. Non riusciva ancora a crederci. Sentiva che nel suo petto si era allargato un vuoto incolmabile. Aveva scelto di credergli, di aiutarlo, lo aveva addirittura baciato.
«So che non vuoi farlo, Jonathan, ti prego. Ti ho promesso che ti avrei aiutato, perché fai tutto questo?» Gli sussurrò Clary, così piano che lei stessa riuscì a malapena a sentire la sua voce. Lui le rivolse uno dei suoi classici sguardi vuoti e piatti.
«Non mi serve il tuo aiuto. Anzi, non voglio il tuo aiuto.» Rispose ad alta voce, così che tutti potessero sentirlo e le prese il braccio, incidendolo. Un orologio a pendolo risuonò in lontananza in uno dei meandri della casa. Il pentagramma iniziò a brillare di luce propria. Le candele si spensero a causa di una brezza leggera e la stanza cadde nella penombra, ad eccezione della luce rossastra che si sprigionava dalle rune. Il rituale di sangue era completato. Valentine iniziò a recitare in latino.
«Ergo draco maledicte et omnis legio diabolica, adjuramus te. Persevera decipere humanas creaturas, eisque aeternae Perditionis venenum propinare. Venii, Sammael, inventor et magister, omnis fallaciae, hostis humanae salutis. Invocato a nobis sancto et terribili nomine, quem caeli tremunt.»
Vide Jonathan allontanarsi dal cerchio e un rombo assordante si diffuse per tutto il salone. Il terreno al centro del pentagramma iniziò a sgretolarsi e la luce si fece più intensa, proveniente direttamente dal sottosuolo. La forza centripeta era davvero forte e Clary si ritrovò a pregare di non finire all’interno di quella crepa nel vuoto, che si stava formando ed allargando a vista d’occhio. Valentine non aveva mai smesso di recitare le sue formule, lo sguardo di un folle e gli occhi neri illuminati dalla luce. Poi, tutto fu oscurità. Le vetrate del salone si frantumarono in mille pezzi, alcuni le caddero sul viso e tra i capelli, non avendo la possibilità di usare le braccia per proteggersi, e orde di demoni si riversarono all’interno, oscurando persino la luce della luna. C’erano Raum, Hydra e Shax, demoni di ogni tipo, che sembravano arrivare dall’esterno, richiamati da chissà quale forza oscura. Sentì in lontananza la risata di Lilith e un’ombra gigantesca sembrò ergersi al centro del pentagramma. L'ombra era avvolta da una spessa coltre di fumo nero e a Clary sembrò, per un istante, di scorgere un paio di corna e degli occhi rossi, prima che il fumo fluttuasse nel buio della sala ed entrasse, letteralmente, in Valentine. Clary chiuse gli occhi e probabilmente svenne per qualche istante, perché quando li riaprì sentì la voce di Jace chiamare il suo nome, con foga e disperazione. Cercò di incrociare i suoi occhi ma non ci riuscì, da quanto la stanza era ricolma di demoni. Tra tutte quelle orrende creature Clary distinse quattro figure differenti, che fino ad un attimo prima non c’erano. Una fata dalla pelle di un pallido blu, una vampira con i canini sguainati e una folta chioma blu e i tratti asiatici, che Clary riconobbe con il nome di Lily, una vampira dell’Hotel Dumort, di cui Simon le aveva accennato una volta. Poi c’era un ragazzo giovane, apparentemente normale, ad eccezione della sua trasformazione in atto in lupo mannaro ed infine un altro ragazzo sulla ventina circa, con al posto delle unghie dei lunghi artigli ricurvi, uno dei segni distintivi degli stregoni. I quattro Nascosti erano liberi, privi di catene o di altri mezzi di contenzione, ma sembravano essere troppo paralizzati dalla paura anche per fare un solo passo. Fu allora che Clary tornò a guardare suo padre. Un uomo così stupido da aver evocato un Demone Superiore e avergli offerto il suo corpo, o almeno era questo che Clary aveva capito dalle formule in latino che Valentine aveva recitato fino allo sfinimento. Ora, l’uomo era in piedi, apparentemente nulla era cambiato in lui, stessa divisa, stesso corpo muscoloso, stessi capelli bianchi, ad eccezione, forse, degli occhi, i quali avevano assunto una strana tonalità di rosso, in tutto quel nero. Valentine si osservava le mani, sgranchendosi le articolazioni, come se non avesse mai visto un paio di dita da secoli. In tutto questo delirio, Lilith se ne stava immobile e ferma, con la schiena appoggiata alla parete e le mani al petto e osservava Valentine con grande interesse e fervore.
«Ha funzionato,» sentì Valentine, sussurrare a sé stesso.
«Non vuoi provare i tuoi nuovi poteri?» Lo incitò Lilith, da lontano.
Valentine ghignò, un ghigno ancora più terribile del solito. «Siete liberi di andarvene, Nascosti.» Disse, rivolgendosi alla fata, al vampiro, al lupo mannaro e allo stregone. Questi rimasero immobili. «Ho detto,» scandì Valentine. «Andatevene!»
I quattro ebbero ancora un attimo di esitazione, dopodiché si dispersero per la stanza in una fuga generale. Valentine balzò in avanti ed estrasse la spada e con un unico movimento fluido tranciò la testa al vampiro, trafisse il petto del licantropo e i due caddero al suolo, morti. Si preparò ad attaccare lo stregone, il quale, fiutando il pericolo imminente, fece zampillare delle potenti fiamme verdi dai suoi artigli, in direzione di Valentine. Lui, rispose agitando una mano, da cui uscirono delle fiammelle rossastre e lo stregone, con un sonoro rumore di ossa spezzate, cadde anch’egli al suolo. Fu il turno della fata dalla pelle blu. Le fate erano conosciute per la loro innaturale velocità nei movimenti, ma non era nulla in confronto alla velocità di Valentine e ben presto fu uccisa anche lei. 
Quando Valentine alzò la testa, però, il suo viso non aveva più l'espressione compiaciuta di poco prima. Un rivolo di sangue gli gocciolò dal naso, lui vi posò sopra due dita, osservando la sostanza rossa con occhi colmi di stupore. Sotto la sua pelle del viso e delle braccia si intravedevano reti di vene blu scuro, sempre più marcate, come le venature all'interno di un blocco di marmo.
«Cosa mi sta succedendo?» Chiese a nessuno in particolare. La voce sfumata di panico, mentre altri rivoli di sangue iniziavano a colargli dall'estremità degli occhi, come lacrime di vampiro. «Cosa sta succedendo al mio corpo?!» Urlò con rabbia ceca.
Lilith scoppiò a ridere di gusto.
«Andiamo, Valentine. Credevi davvero di poter intrappolare nel tuo corpo mortale un Demone Superiore? Un angelo caduto dai più alti ranghi del cielo, al pari di Lucifero e Azazel?» Lilith parlò con la sua voce tagliente come la lama di un rasoio. «Io e Sammael siamo i creatori di tutti i demoni. Tutte queste creature,» e indicò con un ampio gesto del braccio, la massa brulicante di demoni ancora nel salotto. «Sono i nostri figli. E tu, misero Nephilim, stupido mortale, credi che un demone della sua potenza possa sottostare al tuo volere? Sei più ingenuo di quanto pensassi …»
«Ma … cosa mi succede?» Sussurrò Valentine di nuovo, con un filo di voce. La sua pelle si stava riempiendo di ulcere nere e profonde.
«Il tuo corpo non regge tutto quel potere. Lascia andare Sammael e potrai vivere. Costringilo ancora ad abitare il tuo corpo e presto morirai.» Disse Lilith, con fare pratico. «Lascialo venire da me.» Concluse con voce più dolce.
Clary era troppo traumatizzata e affascinata dalla scena che si stava svolgendo a pochi passi da lei, per vedere Jace, le cui braccia avevano iniziato a muoversi un po’, affannarsi per cercare di estrarre uno stilo dalla cintura. Quando finalmente lo vide, il ragazzo si stava incidendo una runa contro la runa invalidante e poco dopo fu in grado di muovere braccia e gambe. Clary lo fissò a bocca aperta e fece per dire qualcosa, ma lui la zittì con un cenno e iniziò a strisciare verso di lei, per poter liberare anche i suoi arti.
«Ma tu, tu mi avevi detto che il rituale avrebbe funzionato.» La accusò Valentine, puntandole un dito tremante contro, mentre la sua carne si sfasciava a vista d'occhio.
Lilith sorrise. «E infatti ha funzionato. Ora, fa' il bravo e lascialo andare.»
«No!» Urlò Valentine con ferocia.
«Se non lo fai, morirai.» Sibilò Lilith.
«E tutti voi verrete con me.» Disse Valentine, sguainando la spada e preparandosi a spiccare un balzo verso Lilith, che fece un'espressione orripilata. Ma l'uomo non ebbe mai modo di spiccare quel salto, perché una lama angelica gli penetrò nella schiena e lo trafisse da parte a parte, spuntando sul suo sterno.
«Esiste un punto, nella schiena di ogni uomo, attraverso il quale puoi trafiggere il cuore e spezzare la spina dorsale. Dovresti ricordartelo, me lo hai insegnato tu.»
 
 
Magnus si lasciò cadere sulla sedia di legno accanto alla scrivania. Si trovava ancora nello studio di Valentine e stava davvero male per come aveva trattato Alec poco prima, ma voleva allontanarlo per un buon motivo e per poter leggere con attenzione quello che aveva intravisto nel Libro Nero. Ancora non riusciva a credere di star tenendo in mano il libro più demoniaco della storia, pensava fosse solo una leggenda e che i demoni fossero troppo impegnati a fare … i demoni, per avere il tempo e la volontà di tramandare le loro conoscenze attraverso la scrittura. Si passò una mano fra i capelli neri e iniziò a leggere il purgatico, la lingua demoniaca, cercando di cogliere al meglio ogni parola e analogia. La pagina che aveva attirato subito il suo interesse recitava come titolo: Evocazione di Malkira. Magnus sapeva che Malkira, tradotto letteralmente significava "il re dei malvagi" e già questo non prometteva bene. Subito sotto il grande titolo, le parole recitavano la profezia di cui era già a conoscenza e che si trovava anche nel Libro Bianco che possedeva. Ci sarà un momento in cui vacillerà l'equilibrio delle dimensioni. Ed in questo tempo verrà il grande guerriero ... I tre verseranno il loro sangue, e da esso lui sorgerà. La signora di Edom gli verrà incontro e gli annuncerà il suo destino immortale ... I Cacciatori non lo riconosceranno, non lo arresteranno e lui li condurrà all'Inferno. Ma mentre le informazioni sul Libro Bianco si interrompevano bruscamente, nel Libro Nero era tutto spiegato con particolare dettaglio. Trovò il rituale di evocazione di questo presunto Demone Superiore e rimase paralizzato dal terrore. Venii, Sammael, inventor et magister, omnis fallaciae, hostis humanae salutis. Sammael. Magnus trovò la conferma che già sospettava. Malkira era uno dei tanti nomi di Sammael, il Demone che, insieme a Lilith, aveva creato l'intera stirpe dei demoni, delle fate e degli stregoni. Sammael, il demone che … Magnus non riuscì a concludere quel pensiero, deglutendo a fatica, la bocca arida come un deserto e il cuore che gli batteva dolorosamente contro lo sterno. Se Valentine era stato così stupido da evocare Sammael doveva portare Alec via da lì, e subito. Chiuse il libro con un tonfo, se lo infilò in tasca e corse via lungo i corridoi bui, con panico crescente e con la speranza che non fosse già troppo tardi.
 
 
«Izzy! Izzy, aspettami!»
Alec aveva seguito il rimbombo dei tacchi degli stivali della sorella, attraverso quei corridoi labirintici. Il ticchettio cessò e presto il ragazzo si ritrovò faccia a faccia con Isabelle, che ansimava leggermente.
«Sei diventata sorda? È un'ora che grido il tuo nome.» Disse, fermandosi per riprendere fiato.
«Devo trovare Simon.» Rispose lei, sembrava che quelle tre parole fossero diventate il suo nuovo mantra. Avvolse con una mano il rubino che portava al collo. «Il mio ciondolo è impazzito. Non pulsava con così tanta forza dai tempi della nave infestata dai demoni di Valentine.»
«Non è un buon segno e questa casa è un labirinto, ci metteremo ore a trovarli.»
«Magnus?» Chiese Isabelle.
«Lascia perdere, ha trovato un libro interessante e ha deciso di rimanere nello studio e organizzare un club di lettura, immagino.» Sbuffò lui, sprezzante. «A volta non lo capisco, davvero io non so che fare …»
Isabelle fece un verso di impazienza.
«Zitta.» Sussurrò Alec, mettendosi un dito sulle labbra. Isabelle lo guardò con aria di rimprovero, poi capì il gesto del fratello. C'erano delle voci che provenivano poco lontano dal loro angolo nascosto. Si tracciarono a vicenda delle rune per camminare senza produrre alcun suono e si avvicinarono di soppiatto alla porta a doppi battenti da cui si udivano le voci. Alec allungò la mano verso la porta, per aprire uno spiraglio sulla scena che si celava dietro di essa.
«Non farlo!»
Sibilò una voce alle sue spalle e il ragazzo sobbalzò di scatto e per poco non finì a terra insieme alla sorella.
«Sta' attento!» Sussurrò Isabelle, stizzita, scrollandosi il fratello di dosso. «Ti sei deciso a lasciare il club del libro e a raggiungerci, Magnus?» Continuò la ragazza a bassa voce, alzando un sopracciglio perfettamente curato.
«Alec, Izzy,» iniziò lo stregone con il fiato corto. Alec notò quanto fosse pallido e piccole gocce di sudore imperlavano la sua fronte. Gli occhi da gatto verde e oro erano spalancati e pieni di terrore. «Dovete andarvene, ora, subito. Ti prego, Alec, fa' come ti dico per una volta.» Supplicò Magnus, facendo guizzare lo sguardo sui due fratelli, che lo fissavano sconcertati. Magnus era sempre stato un modello di perfetta compostezza anche nelle situazioni più disparate. Vederlo così fece aumentare notevolmente i battiti cardiaci di Alec.
«Cosa stai dicendo? C'è Jace di là. E Clary e Simon. Non ti aspetterai che li abbandoniamo qui solo perché tu stai vaneggiando.»
«Temevo avresti risposto così.» Rispose Magnus, con aria riluttante. «Se non vuoi andartene di tua volontà, sarò costretto a usare la magia.» Lo stregone alzò le mani in aria e le sue dita iniziarono a brillare di fiamme blu.
«Magnus, cosa stai facendo?» Gli chiese Alec, completamente sbalordito dal comportamento del suo ragazzo.
«Alec, lo faccio per te, ho sempre fatto tutto per te. Non puoi stare qui, sei in pericolo, Valentine ha evocato un Demone Superiore molto potente, lui, lui è -»
Magnus, con gli occhi lucidi dalla frustrazione non riuscì a concludere la frase. Isabelle, che i due ragazzi avevano ignorato fino a quel momento, aveva aperto la porta del salone e dallo spiraglio da lei creato, si aveva una visuale completa dell'intera stanza e dei mostri celati in essa. Ammutolirono tutti, troppo attratti dalla scena che si stava svolgendo al dì là. L'orda di demoni, immobili e sull'attenti, come ad aspettare un ordine superiore. Clary e Jace, uno accanto all'altra, Jace le si era messo davanti come a volerla proteggere da tutto. Tessa, incatenata sul bordo dell'enorme pentagramma. Valentine, in piedi al centro della stanza, il suo viso sembrava sciogliersi come cera accanto al fuoco, stava gridando in direzione di Lilith.

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Capitolo 9
*** Idris After Midnight ***


CHAPTER 8
IDRIS AFTER MIDNIGHT

 
«Esiste un punto, nella schiena di ogni uomo, attraverso il quale puoi trafiggere il cuore e spezzare la spina dorsale. Dovresti ricordartelo, me lo hai insegnato tu.»
Jonathan girò la spada nello sterno di suo padre, dopodiché la ritrasse con un movimento fluido del polso. Valentine voltò il viso al di sopra della spalla, i suoi occhi venati di rosso colmi di stupore, non fece quasi in tempo a sillabare il nome del figlio, prima di accasciarsi al suolo, immerso nel suo stesso sangue rosso e nero, che si allargava inesorabile sul pavimento. Per un attimo Clary avvertì la stretta gelida allo stomaco sciogliersi, accompagnata ad un sentimento di sollievo, che però duro poco. Jace la aiutò a rialzarsi, prendendole il viso fra le sue mani calde e sussurrandole parole di conforto che lei sentì a malapena. I suoi occhi verdi erano ancora fissi su Jonathan, in piedi, immobile, accanto al cadavere del padre. La porta del salone si aprì con forza e come tre angeli vendicatori, Isabelle, Alec e Magnus entrarono nella stanza, i visi pallidi e scioccati. Tutti credettero per un breve istante che il pericolo fosse stato sventato. Poi, il corpo di Valentine iniziò a brillare di una sinistra luce rossa, la sua bocca e i suoi occhi si spalancarono e una nuvola di fumo nero ne uscì, risalendo verso il soffitto in ampie spirali e iniziando a prendere forma. Sammael ovviamente non era morto. Non bastava una misera spada angelica ad uccidere un Demone Superiore di quel livello. Vide Magnus correre incontro a Tessa e cercare di liberarla in fretta e furia dalla sua prigione di catene. Sammael fluttuò accanto a Lilith, che non gli toglieva gli occhi, o meglio i serpenti, di dosso; nonostante fosse difficile decifrare la sua espressione, Clary avrebbe giurato che fosse piena di amore e devozione. Il fumo non smise di fluttuare a pochi centimetri da terra, ma ormai era facile distinguere la forma demoniaca di Sammael, il suo viso rosso e rugoso, le sue corna arricciate, i suoi occhi vermigli, i lunghi artigli ricurvi che prendevano il posto delle dita e i suoi zoccoli neri. Clary pensò che fosse molto simile ad una raffigurazione del Fauno, una creatura appartenente alla mitologia greca, metà uomo e metà capra, nonostante il viso di Sammael fosse tutto tranne che umano. I demoni iniziarono ad agitarsi in una danza macabra, emettendo i loro lamenti orripilanti di giubilio. Sembrava il ritratto di una famiglia infernale: Lilith la madre, Sammael il padre e i loro piccoli figli demoniaci.
«Ti ho aspettato così a lungo. Non ho mai smesso di sperare che tu tornassi. Sapevo, che saresti tornato da me, nonostante il terribile castigo a cui ti ha sottoposto Michele.» Lilith tese le sue braccia magre verso il suo vecchio amante e lui le strinse tra i suoi artigli.
Magnus e Isabelle si stavano, nel frattempo, affaccendando per liberare Tessa dalle catene. Mentre Alec si era messo al fianco di Jace e si assicurava che stesse bene. Alla fine, con un colpo secco della frusta di elettro di Isabelle, Tessa fu libera e i sei ragazzi si schierarono come un piccolo esercito, pronto a combattere. Quel colpo secco sembrò attirare nuovamente l'attenzione dei due Demoni Superiori su di loro. Lo sguardo di Sammael era come un tizzone ardente e Clary si ritrovò inconsciamente ad indietreggiare di qualche passo. Ma il demone non sembrava particolarmente interessato a lei, ne agli altri, i suoi occhi infuocati erano puntati su Magnus, il quale ricambiava lo sguardo con l'espressione più terrorizzata e disgustata che gli avesse mai visto sul viso.
«Non riconosceresti tuo padre, nemmeno se gli parlassi? Stai sentendo il tuo stesso sangue, stregone.»
La voce di Sammael era ancora peggiore di quella di Lilith. Era roca e ruvida, come se non l'avesse usata per millenni e aveva un'inflessione dura e spaventosa, come un pietra raschiata al suolo. Lo stregone rimase paralizzato, ovviamente nessuno tranne lui, poteva comprendere appieno il significato di quelle parole.
«Lasciali andare,» Magnus parlò con voce ferma, anche se il panico e l'angoscia era tangibile.
«Certo che lo farò, e tu, verrai con me? Magnus, vieni da me …»
Sammael scoppiò in una risata dura e ruvida come la sua voce. Magnus era impallidito a tal punto da sembrare quasi grigiastro. Tutti facevano scorrere lo sguardo da lui al demone, interdetti, stupiti e scioccati.
«Ricordi?» Continuò il demone, visibilmente divertito.
«Non verrò mai con te, grazie dell'offerta, ma sto bene qui.» Magnus tentò senza successo di usare un tono sarcastico e ironico, ma suonò vuoto anche alle sue stesse orecchie. «Lascia andare loro,» ripeté lo stregone, indicando con un gesto del braccio Alec, Isabelle, Tessa, Jace e Clary. Sammael assunse un'espressione pensierosa, se così si poteva definire.
«Non ho alcun interesse verso di loro. Ma sono sicuro che ci rivedremo, prima o poi. Ho aspettato secoli, intrappolato nel Vuoto, attendendo che il mio corpo si rigenerasse dopo che l'arcangelo mi fece a pezzi con la sua spada. Come puoi intuire, sono paziente, Magnus …» Rise di nuovo, il suo corpo vibrò, il fumo si espanse, avvolgendo in sé anche Lilith, in un unico turbine di nuvole nere; dopodiché sparirono, fluttuando al di là dei vetri rotti delle finestre. Molti demoni li seguirono, altri rimasero nella stanza e si fiondarono su di loro. La battaglia riniziò più cruenta che mai. Con l'aiuto di Tessa, che si rivelò essere molto potente, e Magnus, molti demoni ebbero però vita breve. Ma fra tutti loro, quello che uccideva, tranciava e feriva con maggior foga e successo era Jonathan. Presto non rimase altro che la puzza demoniaca e l'icore nero sparso sulle pareti e sul pavimento. Passarono alcuni istanti di quiete, in cui tutti ripresero fiato e si fissarono a vicenda, sconcertati da tutte quelle stranezze, fino a che Isabelle non esclamò:
«Simon! Dov'è? Dove diavolo si trova!»
«Simon è qui?» Chiese Clary, incredula, mentre un'ondata di preoccupazione la travolgeva.
«Se ti riferisci al ragazzo vampiro è ancora nei sotterranei, Valentine lo ha imprigionato, ma quando mi hanno portata qui stava bene.» Tessa indicò a Isabelle la botola che conduceva nei sotterranei e lei vi si fiondò alla velocità della luce. Clary fece per seguirla ma, con sua grande sorpresa, Alec la bloccò per un braccio.
«Lasciala andare da sola.» Le disse in un tono saggio che non ammetteva repliche. Clary annuì piano, lanciando uno sguardo rapido a Tessa, che si era gettata tra le braccia di Magnus e gli sussurrava parole incomprensibili, per poi voltarsi verso l'altro suo problema prioritario. Jonathan. Il ragazzo, dopo aver fatto fuori da solo la maggior parte dei demoni, era rimasto in piedi in disparte. Lo sguardo vuoto e vacuo, la spada insanguinata ancora tra le mani e gli occhi puntati sul cadavere di Valentine. Fece per avvicinarsi a lui, ma venne di nuovo bloccata per un braccio, questa volta da Jace, che si era appena alzato da vicino il corpo di Valentine. Clary avrebbe giurato che il ragazzo avesse sfilato qualcosa dalle dita del cadavere e se lo fosse infilato in tasca, ma non vi badò più di tanto.
«Sei sicura che sia una buona idea? Ormai dovresti averlo capito che è un mostro.» Le sibilò con voce fredda.
«No.» Disse Clary con voce risoluta, mentre un'ondata di rabbia irrazionale la travolgeva. «Avete visto tutti, no?» Gridò agli altri. Tessa, Magnus e Alec, smisero di parlare fra loro e si voltarono a fissarla. «L'avete visto? Valentine ha minacciato di ucciderci tutti e lui l'ha ucciso, ci ha salvato.»
«Certo, dopo averci ferito, rubato il sangue e averlo aiutato a invocare quel mostro orrendo,» fece Jace, con il suo solito tono arrogante e presuntuoso. «Senza offesa, Magnus. Mi pare di aver capito che sia tuo padre, giusto?» La mancanza totale di tatto di Jace lasciò tutti a bocca aperta. Magnus si irrigidì sul posto e rimase in silenzio. Ovviamente tutti avevano capito, ma nessuno aveva osato chiedergli spiegazioni. Ogni stregone aveva un genitore demone, e questo si poteva accettare in qualche modo, ma che suo padre fosse Sammael, il creatore di tutti i demoni, era una faccenda molto più delicata. Alec fulminò Jace con uno sguardo gelido e lui scrollò le spalle, indifferente.
«Che c'è? Ho solo detto la verità, no? E poi, se ti può consolare, non vi assomigliate nemmeno un po’.»
Tra lo sgomento generale Tessa non riuscì a soffocare una risata. Non era una risata di vero e proprio divertimento, era più un riso isterico e pieno di nostalgia e affetto.
«Per l'Angelo, è uguale a Will.» Sussurrò piano, più a sé stessa che a Magnus, il quale sembrò rilassarsi un pochino.
«A volte è anche peggio,» asserì lo stregone, con aria esasperata. «Jace, ti presento la tua bis-bis-bis-bis-misonoperso-bis nonna, Tessa Gray, o Tessa Herondale, come preferisci.»
Jace fissò la Mutaforma scioccato. Clary strinse i pugni, la rabbia non intendeva lasciarla e si avvicinò a Jonathan, approfittando della momentanea distrazione degli altri. In altre situazione avrebbe trovato interessante conoscere un antenato di Jace, ma non ora. Lui non si era mosso dalla sua postazione, sembrava completamente estraniato da ciò che gli accadeva intorno.
«Come stai?» Sussurrò Clary, a pochi passi da lui. Il giovane non rispose e non alzò lo sguardo. «Jonathan, guardami!» Sibilò lei, esasperata. Questa volta alzò gli occhi, erano così vuoti e neri che le si strinse lo stomaco.
«Lasciami stare, Clarissa. So che non mi amerai mai, so che sono un mostro. Sei l'unica che ancora non lo vuole capire.»
Clary fece un verso strozzato, un misto di esasperazione e dolore. Non si era accorta che il resto del gruppo li aveva accerchiati, tenendo d'occhio Jonathan come fosse una belva feroce pronta ad attaccare. Ma quello che lei vedeva, era solo un ragazzo disperato, suo fratello, cresciuto con un padre pieno d'odio e violenza, che lo aveva istruito nel modo sbagliato, facendogli credere che fosse solo al mondo.
«Eccoli! Sono lì!»
Le grandi finestre del salone erano andate in frantumi e l'alba stava sorgendo al di là del prato verde, con i suoi colori rosso e oro e su quello sfondo vide la faccia di Jordan, che aveva parlato, con al fianco Maia, molto pallida e zoppicante ma per il resto illesa. Dietro di loro si intravedeva un'orda di Cacciatori, tutti armati fino ai denti, che si riversarono nel salone, scavalcando direttamente le finestre. Clary vide sua madre, Luke e riconobbe qualche viso noto, come quello di Kadir, Helen Blackthorn e Aline Penhallow. Jocelyn corse incontro alla figlia con in mano una spada angelica e lo sguardo di ferro.
«Sta' lontana da lei!» Ringhiò a Jonathan, afferrando Clary per un braccio e puntando la lama della spada alla gola del figlio.
«Mamma, no!» Clary si divincolò dalla presa ferrea della madre e si mise davanti a Jonathan. Le braccia aperte a formare uno scudo con il suo stesso corpo. «Non è come credi! È stato lui a salvarci, lui ha ucciso Valentine e lui ha, ha -»
Clary balbettò frasi sconclusionate, Jocelyn si irrigidì e la sua bocca si spalancò in un'espressione di stupore, osservando il cadavere di Valentine a pochi passi da loro. Nessuno ebbe il tempo di ragionare, perché il nuovo Console, Jia Penhallow, ordinò ai Cacciatori di prendere il giovane Morgenstern, e lui, tra lo sgomento generale, non opposte resistenza, mentre lo incatenavano e lo portavano via, tra gli urli di protesta di Clary, con Jace e Luke che tentavano inutilmente di calmarla.
 
 
Isabelle corse lungo le scale scivolose dei sotterranei, gridando il nome di Simon a squarciagola. Per poco non cadde a terra, scivolando in una pozza vischiosa di quello che sembrava sangue. Con panico crescente si avventurò in un altro corridoio di pietra, finché non udì la voce del ragazzo, proveniente da una delle celle ancora chiuse.
«Izzy! Sono qui!»
La ragazza si fermò di botto e vide la sagoma di Simon, al di là delle sbarre.
«Grazie a Dio! Stai bene?» Quasi urlò per il sollievo.
«Starò meglio quando mi avrai tirato fuori da questa prigione,» fece lui con una smorfia. Aveva la pelle delle mani completamente bruciata e scorticata. «Avete trovato gli altri?»
Isabelle lo aggiornò brevemente su tutto l'accaduto, mentre si affaccendava per demolire la sua prigione. Fortunatamente l'acciaio con cui era stata costruita era a prova di vampiro, ma non di Nephilim. Isabelle riuscì ad aprire un varco a suon di colpi con la sua frusta e Simon finalmente fu libero di uscire.
«Quindi Jonathan ha ucciso Valentine? Ma è assurdo! E Clary sta bene?» Chiese Simon con voce ansiosa, avviandosi verso l'uscita dei sotterranei. «E Tessa? Quella ragazza è in gamba e … ehi, perché mi guardi così?» Disse, tutto ad un tratto imbarazzato, osservando Isabelle a braccia incrociate e uno sguardo di fuoco dipinto sul volto.
«Brutto idiota di un vampiro. Sono ore che ti cerco, in preda alla disperazione e tu sai dire solo: come sta Clary? e Tessa è una brava ragazza. Sei davvero un imbecille.» Isabelle imitò la sua voce e la cosa sarebbe anche potuta risultare buffa se non avesse avuto uno sguardo così minaccioso. In ogni caso aveva ragione, pensò Simon, sentendosi subito in colpa.
«Iz, scusami. Sono davvero un ingrato.» Disse, grattandosi la testa con fare colpevole.
«Un ingrato patetico. Un ingrato patetico vampiro nerd.» Continuò a snocciolare insulti, finché Simon non si mise a ridere. Gli sembrava fosse passata un'eternità dall'ultima volta che aveva riso.
«Fantastico, un ingrato patetico vampiro nerd che ride di me!» Esclamò Isabelle esasperata. «Mi trovi buffa, eh?» Aggiunse minacciosa.
«Beh, buffa non è proprio la parola che avrei scelto per descriverti, in realtà.» Commentò Simon, smettendo di ridere, ma conservando un sorrisino sulle labbra.
«Ah no?» Fece lei, ancora arrabbiata.
«No, direi più fantastica Cacciatrice con un grandissimo sex appeal.» Ribatté lui, allungando un braccio per sfiorarle lo zigomo imbronciato.
«Sex appeal? Dio, non sentivo questa parola dal milleduecento, cosa sei, mio nonno?» Sbuffò Isabelle, anche se i suoi occhi si erano notevolmente addolciti.
«Grazie per essere corsa in mio soccorso, Izzy, per la seconda volta nel giro di una settimana a dire la verità.» Riferendosi all'episodio sul giardino pensile accaduto solo pochi giorni prima. «Non è una cosa molto mascolina da dire, vero?» Disse Simon, ripensandoci. «Insomma, sono io l'uomo della coppia, sono io che dovrei correre a salvarti, non il contrario.»
«Scusa, hai detto coppia?» Lo interruppe lei, incredula.
Simon, se non fosse stato un vampiro, sarebbe arrossito furiosamente e per la prima volta si ritrovò a ringraziare il suo stato di morto vivente.
«Ho detto coppia? Ehm, volevo dire … insomma, se per te va bene.» Scandì le ultime parole, visibilmente a disagio. In realtà non aveva mai pensato a lui e Isabelle come una coppia, non seriamente, almeno. Credeva che lei non fosse pronta, o comunque che non volesse di certo far coppia con uno come lui, ma la parola gli era uscita dalle labbra involontariamente e ripensandoci, non gli dispiaceva affatto come suonava. Isabelle non rispose, rimase per lunghi istanti a fissarlo, poi lo afferrò per il colletto della maglia sporca e insanguinata, attirandolo a sé con una forza che nessuna normale ragazza avrebbe avuto e posò le sua labbra carnose sulle sue. Simon l'avvolse con le sue braccia, facendo scorrere le mani lungo la sua schiena e i suoi fianchi, schiudendo le labbra e baciandola con forza. Sentì i canini perforargli le gengive e poi il gusto del suo stesso sangue, mescolato a quello di Isabelle. Fece per fermarsi, ma la ragazza lo strinse a sé più forte, evidentemente non le importava, quindi, perché mai avrebbe dovuto importare a lui? La baciò con più forza e passione, senza pensare a nulla, tranne al cuore di lei che pompava il sangue nel suo corpo vivo. Continuarono a baciarsi per lungo tempo, fino a che entrambi non sentirono il rumore di una marea di passi, sopra le loro teste. Isabelle si staccò a fatica dalle sue labbra.
«Sono arrivati i rinforzi.» Sussurrò, senza fiato.
«Un po’ in ritardo, no?» Sorrise Simon e riprese a baciarla.
 
 
Erano passati quattro giorni ormai, da quella terribile notte in cui Magnus aveva visto suo padre. Ricordava alla perfezione ogni dettaglio, la sua voce ruvida e terribile e il suo viso da diavolo. Non si era mai molto interessato a lui, fino ad allora, ma da quella notte non riusciva a smettere di pensarci, al fatto che fosse di nuovo libero e non più intrappolato nel Vuoto. Gli aveva chiesto di lasciare in pace i suoi amici e lui aveva obbedito? O semplicemente quelli erano i suoi piani già da tempo? Scappare con Lilith, per poi seminare il terrore sulla terra, come già avevano fatto secoli prima. Non sapeva dare una risposta a questa domanda, ma la strana quiete di quegli ultimi giorni non prometteva nulla di buono, su questo ne era certo. Si lasciò cadere sul divano della piccola casetta che un tempo era appartenuta al suo amico, Ragnor Fell, a Idris. Ragnor non aveva mai avuto un gran senso estetico, difficile quando la tua pelle è di un verde simile ad un cavolfiore, così Magnus aveva apportato qualche modifica all'arredamento scarno. Un divano viola brillante, qualche fiore magico, un tappeto persiano … Ma, in fondo, si era tenuto impegnato con le faccende domestiche solo per non dover pensare. Pensare alla faccia di Alec quando Sammael aveva parlato. Pensare al fatto che ormai non lo vedeva da più di tre giorni. Non che lui avesse cercato un confronto, non era pronto a subire il terzo grado sul suo padre biologico demoniaco. Sospirò e sentì Tessa agitarsi nella camera da letto accanto al salotto. La sua amica aveva stanziato lì per tutti quei giorni, siccome era parte integrante di tutto quel putiferio e il Conclave aveva detto ad entrambi di tenersi a portata di mano, nel caso avessero bisogno di interrogarli. L'esile figura di Tessa sbucò timidamente da dietro la porta. Indossava una camicia da notte bianca, che la rendeva ancora più pallida e i suoi capelli castano chiaro erano arruffati dal sonno.
«Ehi,» lo salutò con un sorriso, andando a sedersi accanto a lui sul divano. Magnus, con uno schiocco di dita, fece apparire due tazze di carta, da cui proveniva un profumino invitante di caffè fumante. Tessa lo guardò con aria di disapprovazione.
«E queste da dove vengono?» Gli chiese, alzando un sopracciglio sottile.
«Dallo Starbucks di Praga, spero non ti dispiaccia.» Rispose Magnus, sbattendo le ciglia innocentemente. La ragazza sbuffò esasperata.
«Normalmente ti rimprovererei, ma la mia voglia di caffè è troppa per farlo.» E con un sorriso prese la tazza di cartone fra le mani, sorseggiando la bevanda calda.
«Allora …» iniziò dopo aver buttato giù qualche sorso, poi ammutolì di colpo.
«Vuoi chiedermi qualcosa, cara Tessa?» Chiese lui, agitando una mano in aria con nonchalance.
«Beh, insomma,» iniziò lei, titubante. «Quell'Alec mi ricorda molto una persona. Per non parlare di sua sorella. È uguale a Cecily!» Disse, non riuscendo più a trattenere lo stupore.
«Sì, hai ragione. Ma comunque non ha molta importanza, ormai. Dubito che quell'Alec voglia rivedermi ancora, ora che sa con chi sono imparentato.» Magnus non era solito crogiolarsi nell'autocommiserazione, ma quel giorno non poteva farne a meno. Nell'arco della sua vita aveva perso milioni di persone amate. Chi più, chi meno. Ma la prospettiva di una vita immortale senza Alec al suo fianco era fin troppo dolorosa.
«Non fare lo sciocco!» Esclamò lei, dandogli un piccolo colpetto sul braccio. «Ho visto come ti guardava, se credi che non ti rivolgerà più parola solo per le tue indesiderabili parentele sei più stupido di quanto pensassi.»
«Non conosci Alexander, non puoi sapere.»
Tessa non rispose, fissò lo sguardo sul paesaggio al di là della finestra.
«Ti sbagli.» Disse infine.
«Oh, non credo proprio.» Ribatté Magnus, melanconico.
«E allora perché il ragazzo è qua fuori, nel nostro vialetto?»
Magnus balzò dal divano e lanciò un'occhiata dalla finestra. Alec stava smontando da cavallo e ora si dirigeva a passo incerto verso l'ingresso della casa.
«Oh, cavolo!» Esclamò lo stregone, girando in tondo per il salotto come un ossesso. «I miei capelli sono un disastro! Presto! Portami un phon!» Strillò con voce isterica.
Tessa nascose un sorriso dietro la tazza del suo caffè. «Sei uno stregone, puoi usare la magia invece che un phon.»
Magnus scappò in bagno come una furia e Tessa decise che era giunta l'ora di farsi una passeggiata. Si infilò dei vestiti puliti e uscì dalla porta sul retro.
Quando Magnus andò ad aprire la porta la sua chioma nera pendeva floscia da un lato. C'erano cosa per cui la magia non bastava.
«Alec,» salutò impacciato, cercando di mantenere una dignità. Il Nephilim corrugò la fronte.
«Che ti è successo ai capelli?»
Lo stregone sbuffò esasperato.
«Sei venuto fin qui per criticare i miei capelli? No, perché oggi non sono dell'umore adatto, Alexander.»
Alec si colorò di un rosso acceso e fissò gli occhi sulla punta dei suoi stivali. «No.» Disse dopo attimi di silenzio imbarazzante, prendendo coraggio. «Sono venuto qua per dirti che non mi importa.»
Magnus alzò le sopracciglia, confuso. «Che non ti importa di me? Beh, grazie non c'era bisogno di tutto questo disturbo, lo avevo già capito da solo. Sono tre giorni che mi ignori, so che qui a Idris i cellulari non funzionano, ma esistono altri sistemi di comunicazione, sai? La nuova generazione di giovani è così ottusa a volte, sembra che tutto il vostro mondo sia racchiuso in quel piccolo oggetto inanimato che -»
Alec lo zittì posandogli due dita sulle labbra. «Vuoi farmi finire di parlare? Ho detto che non mi importa, ma non di te, di te mi importa eccome. Non mi importa chi sia tuo padre, non voglio sapere niente, può essere Sammael o Lucifero in persona che la cosa non mi potrebbe importare di meno.»
«Sul serio?»
«Sì.» Disse Alec, con un sorriso sincero che gli illuminò gli occhi blu.
«Beh, in questo caso … vuoi entrare?» Gli chiese Magnus, vagamente imbarazzato per il suo sproloquio di prima.
«Vorrei fare molto più che entrare.» Rispose Alec, arrossendo ma al tempo stesso rivolgendogli un sorriso malizioso.
«È per questo che amo i ragazzi della nuova generazione. Dritti al sodo!» Esclamò Magnus scherzano e afferrando Alec per un braccio. Rotolarono insieme sul divano, braccia e gambe avvinghiate, mentre le loro labbra si sfioravano, prima con incertezza, poi con passione crescente.
«Sei proprio fissato con questa nuova generazione, eh?» Lo schernì Alec, tra un bacio e l'altro.
«Oh, non sai quanto, fiorellino.» E lo strinse a sé, sfilandogli la camicia e accarezzando il torace del ragazzo marchiato dalla rune.
 
 
Clary si svegliò di soprassalto, dopo l'ennesimo incubo della nottata. La luce filtrava insistentemente attraverso le tende della camera da letto di Amatis, in cui si era rinchiusa dopo quella notte infernale, ad eccezione delle sue visite alla Guardia, per essere sottoposta al rito della Spada Mortale e per cercare di elemosinare qualche informazione su Jonathan. Sapeva che lui e Jace erano stati sottoposti più e più volte al rito e interrogatori, ma a differenza di Jace, che una volta finito era libero di tornare nella casa occupata dai Lightwood, Jonathan veniva riportato in cella e, a detta di qualche Cacciatore anziano, non ne sarebbe mai uscito, nonostante alla fine si fosse ribellato a Valentine e lo avesse ucciso. Clary scese in cucina e trovò Amatis intenta a preparare una parvenza di colazione.
«Luke e Jocelyn sono alla Guardia. Ma hai una visita.» Disse con un gran sorriso, indicando una sagoma che si dondolava sulle gambe posteriori della sedia, alla luce del sole pomeridiano. La salutò con un cenno della mano.
«Jace!» Sussurrò Clary, senza fiato.
«Sono ufficialmente un uomo libero, non più agli arresti domiciliari.» Rispose lui con uno dei suoi sorrisi irresistibili.
Clary fece per aprire bocca, poi ricordò la presenza di Amatis, che li osservava con un sorrisetto divertito. «Amatis, ti dispiace se andiamo a parlare in camera?»
Il sorriso della donna defluì dal suo viso. «Ora si chiama così … parlare …» borbottò, voltandogli le spalle e asciugandosi le mani bagnate in uno straccio. «No, andate pure. Ma verrò a controllare ogni mezz'ora. Non voglio di certo far arrabbiare Jocelyn, quella donna a volte mi fa paura.» Continuò a borbottare con espressione corrucciata. Era bello vederla di buon umore, pensò Clary, nonostante stesse cercando con scarsi risultati di fare l'adulta responsabile.
«Non preoccuparti, Amatis, mezz'ora sarà più che sufficiente.» Rispose Jace e afferrò la mano di Clary, trascinandola al piano di sopra e lasciando Amatis con un espressione scioccata sul volto. Clary non poté fare a meno di scoppiare a ridere.
«Dovevi proprio farla agitare, eh?» Disse a Jace, fra una risata e l'altra.
«Che divertimento c'è, se no?» Rispose impertinente, richiudendosi la porta della camera degli ospiti alle spalle e appoggiandovisi con la schiena. Attirò Clary fra le sue braccia, affondando le dita fra i suoi capelli rossi e stringendole un fianco con l'altra, spingendola contro di sé.
«Jace,» lei cercò di resistere, facendo appello alla sua parte razionale, ma la familiare scarica elettrica le percorse la schiena, facendola rabbrividire. Le sembrava che fossero passati secoli dall'ultima volta in cui era rimasta sola con Jace e il suo vero corpo. Lo vide chinarsi su di lei, senza smettere di tenerla stretta a lui.
«Jonathan!» Esclamò Clary, senza neanche sapere perché. Jace si irrigidì, serrando la mascella in una smorfia ferita.
«Devo ricordarti che siamo tornati uno nel corpo dell'altro o hai qualche problema di memoria?» Chiese gelido.
«No. Volevo dire, sai niente di Jonathan? Alla Guardia ti hanno detto qualcosa?» Sussurrò lei, arrossendo sotto le lentiggini.
«Clary, io davvero non capisco. Rimane pur sempre un mostro, devo ricordarti le vite che ha spezzato?» Le disse, cercando di reprimere l'esasperazione nella voce. Sapeva che l'argomento Jonathan era un tasto delicato per lei.
«Perché nessuno mi vuole ascoltare? So quello che ha fatto, ma lo ha fatto solo perché era sotto l'influenza del sangue demoniaco. Ricordi anche tu, no? Il sangue brucerà la sua umanità.» Clary citò le parole di Lilith, per l'ennesima volta. «Se noi riuscissimo a trovare un modo -»
Jace la interruppe con un gesto della mano. «È proprio questo il punto, non c'è un modo. Lui rimarrà così per sempre, per cui dubito che lo lasceranno mai uscire da quella prigione.»
«Pensi mai al fatto che potresti esserci tu al suo posto? O io.» Rispose Clary con voce ruvida. «Il fatto che Valentine abbia deciso di iniettare a lui sangue di demone e a noi sangue di angelo è solo una semplice casualità. Entrambi potevamo trovarci al suo posto, e se ci fossi stato tu? Vorresti essere abbandonato da tutti, così?»
Jace sembrò riflettere attentamente sulle sue parole. «Se avessi ucciso delle persone innocenti, credo che sarebbe la punizione migliore, quella di rimanere in prigione.»
«Ma se ci fosse un modo …» riniziò Clary.
«Ho sentito tua madre, alla Guardia, che ripeteva le tue stesse parole. Sei riuscita a convincerla, alla fine.» Disse con tono amaro.
«Beh, è suo figlio. Mio fratello. Credi che se ci fosse un modo per farlo tornare buono non tenteremmo di scoprirlo?»
«Ma lui non è mai stato buono!» Sbottò Jace, lasciandola andare a percorrendo la stanza a grandi passi. «Comunque il Conclave ha emesso il suo verdetto. Rimarrà in prigione, per sempre.»
«Anche se trovassimo una cura?»
«Su quello non hanno ancora discusso. Anche perché, ammettilo, è un'ipotesi abbastanza assurda. Hai chiesto a Magnus di cercare in quel Libro Nero, ma non c'era niente neanche lì, il ricettacolo di magie demoniache più ben fornito della storia.»
Clary si appoggiò alla porta chiusa, torcendosi le mani. Aveva uno sguardo triste e amareggiato, che Jace non sopportava. Le andò accanto.
«È così importante per te?» Chiese con voce piatta. «Lui, intendo.»
Lei realizzò che sì, lo era. «È mio fratello.»
«Lo era anche mesi fa, cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«Quando era nel tuo corpo, senza l'influenza del sangue demoniaco, io l'ho visto per quello che è veramente. Per quello che sarebbe potuto essere se non fosse cresciuto con Valentine e con il sangue di Lilith.» Sussurrò lei, alzando lo sguardo su Jace.
«Se è questo che vuoi, Clary, ti aiuterò a cercare un modo per …» Jace sembrò non trovare la parola adatta. «Liberarlo.» Concluse. Non stava sorridendo, anzi, non sembrava affatto felice, ma gli occhi di Clary si illuminarono. «Anche se ritengo che sia comunque una pessima idea.» Aggiunse, con voce piatta.
«Grazie,» gli sussurrò lei all'orecchio. Fece finta di lanciare un'occhiata alla sveglia sul comodino. «Abbiamo ancora venticinque minuti prima che Amatis salga a controllare. Vuoi sprecarli a fare il musone
Jace alzò la testa di scatto, incontrando gli occhi verdi di lei, che sembravano brillare alla luce del pomeriggio. «Questa è una tipica battuta da Jace. Non ti fa bene passare così tanto tempo con me, ragazza.» Parlò con voce di finto rimprovero, ma gli angoli della sua bocca si erano sollevati all'insù. Clary gli accarezzò il viso, perdendosi nei suoi occhi dorati, sfiorando con le dita le sue labbra piene e avvicinandole alle sue. Jace la tirò contrò di lui e la baciò sugli zigomi, e le sue labbra erano calde sul suo viso, facendola rabbrividire. Lei fece scivolare le mani sotto il tessuto della camicia, graffiando leggermente con le unghie la pelle sopra le sue scapole. Slittarono lungo la parete della porta, andando a sbattere contro il muro, Jace con la schiena contro di esso, mentre la riempiva di baci affamati. Clary infilò le mani fra i suoi capelli d'oro. Afferrò i bordi della giacca, spingendola giù dalle sue spalle e facendola cadere a terra. Le sue mani si fecero strada sotto la camicia, artigliando le spalle, mentre le dita scavavano nella pelle dei suoi muscoli. La baciò con forza e lei gli strinse le spalle mentre lui succhiava e mordeva il suo labbro inferiore, inviandole una scarica di piacere misto a dolore lungo tutte le terminazioni nervose. La strinse tra le braccia, facendo girare entrambi così che fu Clary ad essere intrappolata tra il suo corpo e la parete. La guardò negli occhi, il respiro accelerato, mentre passava le mani sulle sue gambe nude, arrivando fino all'orlo della vecchia camicia da notte un tempo appartenuta ad Amatis, sollevandolo e percorrendo la linea dei suoi fianchi, afferrandoli e spingendoli contro i suoi. Jace iniziò a baciarle il collo, poi la linea della clavicola, le braccia ed ogni centimetro di pelle nuda. Clary chiuse gli occhi, appoggiando la testa contro il muro e abbandonandosi completamente a quelle sensazioni, ascoltando il battito martellante del suo cuore nelle sue stesse orecchie. Solo che il suo cuore non poteva battere così forte. Infatti si accorse che i colpi che sentiva provenivano da un sonoro bussare alla porta, che li fece sobbalzare entrambi, seguito dalla voce acuta di Amatis.
«La mezz'ora è scaduta!» La sentirono gridare dal corridoio.
I due ragazzi sorrisero, trattenendo a stento le risate. «Ma allora diceva sul serio?» Sussurrò Clary, ancora senza fiato.
«Jace Herondale, esci da quella stanza, immediatamente
«Sarà meglio che vada, prima che Amatis si faccia venire una crisi di nervi.» Sorrise, dandole un piccolo bacio sulle labbra e riprendendosi la giacca che ancora giaceva a terra.
«Ah, e puoi dire al tuo amico vampiro di tornare a casa sua, per favore? Non ne posso più di vederlo girare in mutande per la nostra tenuta.» Disse Jace, alzando il mento con superbia.
Clary lo guardò scioccata, era difficile immaginarsi Simon girare in mutande per una casa non sua, con il rischio di incontrare i genitori della sua attuale fidanzata; soprattutto perché Maryse Lightwood incuteva non poco timore. «E va bene,» riprese Jace, sbuffando. «Magari non era proprio in mutande. Aveva anche i pantaloni.» Fece una breve pausa. «E la maglietta, ma, in ogni caso, non lo sopporto più. Ha così tanti capelli e la mattina li trovo tutti nel lavandino, sembra di convivere con un barboncino nano
Lei scoppiò a ridere. «Dovrai farci l'abitudine, ora che lui e Isabelle escono insieme.»
«Sai, non vedo l'ora di tornare all'Istituto. Lì i vampiri non possono entrare.» Fece un ghigno perfido.
Clary si finse scioccata e gli rifilò un piccolo schiaffo sul braccio. «Malvagio.»
«Jace!»
La voce di Amatis penetrò nella stanza, acuta e tintinnante. Jace alzò le braccia in segno di resa, abbottonandosi la giacca. «E va bene, va bene. Sto uscendo!» Sbuffò.
 
 
Jonathan giaceva supino sopra il misero letto della sua cella, alla Guardia. Non c'erano finestre, quindi non aveva idea di che ora fosse, né di quanto tempo avesse passato lì. Non riusciva a smettere di pensare a Clary e alla sua espressione disperata, quando i membri del Conclave lo avevano portato via. Tutte le sensazione che aveva provato stando con lei e nel corpo di Jace, sembravano un ricordo ormai lontano e distante. E quella parte che lui definiva come buona, era magicamente scomparsa quando era tornato in sé. Sì, perché il gesto di uccidere Valentine non era stato dettato dalla voglia di riscattarsi, o di compiere qualcosa di nobile, era stato semplicemente dettato dall'odio, come tutto nella vita di Jonathan. Valentine aveva minacciato di uccidere tutti, compresa Clary, e questo lui non poteva tollerarlo, così lo aveva ucciso e non sentiva nemmeno una punta di rimorso per ciò che aveva fatto. Vide una delle innumerevoli guardie, che lo controllavano giorno e notte, avvicinarsi con cautela alle sbarre della cella. Lo fissò con odio e disprezzo e gli ringhiò contro, senza troppi complimenti: «hai una visita.»
Jonathan rimase disteso, un braccio ciondolante al di fuori del letto, ostentando noia e superiorità, anche se il suo cuore iniziò a battere più veloce. «Credevo di non poter ricevere alcuna visita.» Disse con voce atona.
«Infatti questa è una gentile concessione del Console, e poi è un tuo familiare.» Ringhiò in risposta la guardia, prima di allontanarsi di qualche passo. Ora il cuore di Jonathan batteva furioso contro il suo sterno. Se era un familiare, allora l'unica possibilità era …
La figura alta e magra di Jocelyn si stagliò al di là delle sbarre, illuminata fiocamente dall'unica torcia di stregaluce che brillava alle sue spalle. Jonathan, tra un senso di delusione che gli attanagliava lo stomaco, rimase attonito a guardare la donna. Si era aspettato di vedere Clary. Voleva ardentemente vedere Clary.
«Ciao, Jonathan.» Disse Jocelyn, la voce tremula. Lui rimase disteso e immobile.
«Risparmiati il discorsetto che ti sei preparata. Tu mi hai abbandonato e io non ho niente da dirti.» Rispose secco, senza darle il tempo di parlare. Jonathan continuò a fissare il soffitto della cella, ma con la coda dell'occhio la vide portarsi le mani al petto.
«Mia figlia mi ha raccontato tutto quello che è successo e io, volevo dirti, che le credo. Voglio davvero trovare un modo per liberarti dal sangue di demone, avrei dovuto farlo tanto tempo fa, ma credevo fossi morto. Valentine mi ha fatto credere che foste entrambi morti, tu questo lo sai.» Vide una lacrima rotolare sulla guancia della donna.
«Risparmia anche la scusa del 'credevo fossi morto' è davvero patetica. Ehi, scusa se non ti ho mandato gli auguri di Natale quest'anno, ma sai, credevo fossi morto. Davvero patetica.» Si puntellò sul gomito, girandosi su un fianco, per poterla guardare in faccia. «Non voglio la tua pietà, non voglio niente da te. E ora vattene.» Sibilò con voce velenosa.
«Jonathan, mi dispiace tanto.» Sussurrò lei, le lacrime ora scendevano copiose.
Il ragazzo si alzò in piedi, fece qualche passo in avanti e afferrò le sbarre della cella con entrambe le mani, il viso a pochi centimetri da quello della madre. «Ho detto … vattene!» Urlò, la voce corrosa dalla rabbia. Jocelyn fece un balzo indietro, nascondendosi il viso fra le mani, mentre una guardia le cingeva le spalle con un braccio e la conduceva fuori dalle prigioni. Jonathan tornò a sedersi sul letto e si sentì ancora più vuoto di prima.

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Capitolo 10
*** This Perfect World ***


CHAPTER 9
THIS PERFECT WORLD

 
Era passato quasi un mese ormai e Clary iniziava seriamente a perdere ogni speranza. Jonathan era ancora in prigione, ma non più a Idris; era stato trasferito nelle celle della Città Silente, decisamente più controllate e impossibili da evadere. Lei e tutti gli altri erano tornati a New York e, sotto i suoi occhi increduli, avevano ripreso le loro vite come se niente fosse, come se Jonathan non fosse mai esistito. Il Conclave aveva smesso di torturarlo sottoponendolo al rito della Spada Mortale, ormai aveva detto tutto ciò che sapeva e in ogni caso, la questione Sammael era diventata la più urgente. Il Demone Superiore, insieme a Lilith, si era come volatilizzato nel nulla, non erano state percepite strane attività demoniache e questo rendeva i Cacciatori ancora più nervosi. Ma per Clary, la questione prioritaria rimaneva sempre e comunque Jonathan. Jace, Simon e Magnus si erano offerti di aiutarla a trovare qualcosa per poterlo liberare dal sangue demoniaco, ma non sembravano crederci fino in fondo e le loro ricerche erano spesso superficiali. Mentre Isabelle e Alec le avevano detto dal principio che per loro Jonathan era, e sarebbe rimasto, per sempre un mostro. Clary non poteva biasimarli, ripensare a Max era difficile, anche per lei, ma d'altra parte sapeva che non era stato il vero Jonathan ad ucciderlo, quello vero non lo avrebbe mai fatto, Clary ne era certa. Aveva trovato sostegno anche in Luke e sua madre, ma anche loro si erano rivelati fonti inutili e spreco di tempo. Clary giaceva ogni notte supina, gli occhi sbarrati nella camera degli ospiti di Luke, a pensare e ripensare senza concludere nulla. Aveva preso dalla tenuta dei Morgenstern tutti i diari di Valentine riguardanti Jonathan, nella speranza che tra quelle righe ci fosse un qualche indizio per rendere reversibile l'incantesimo del sangue di demone, ma anche in quel caso non aveva trovato niente. Li aveva letti e riletti mille volte, ma oltre che a provare una gran pena per il ragazzo e un ancor più grande odio per Valentine, non era servito a niente. Quel giorno era un lunedì pomeriggio, fuori c'era un'aria gelida che preannunciava l'inverno e Simon avrebbe dovuto raggiungerla da un momento all'altro a casa di Luke, per guardare un film e leggere qualche fumetto. Ma Clary non era dell'umore adatto. In realtà non era mai dell'umore adatto in quelle ultime settimane; l'immagine di Jonathan imprigionato a vita in una città fatta di ossa, nel sottosuolo, era quasi insopportabile. Percorse la sua camera avanti e indietro, la frustrazione non le permetteva di ragionare. Si sedette alla scrivania, afferrando un blocco da disegno per cercare di distrarsi e frugando in uno dei cassetti alla ricerca di una matita. Fu così che lo trovò. La sua mano si agitava frenetica sul fondo di legno del cassetto e incappò per caso in un piccolo ciondolo a forma di campanellino. Lei lo guardò a lungo, ricordando quando Kaelie, alla festa agli Ironworks, glielo aveva lasciato tra le mani, dileguandosi poi alla velocità della luce. Aveva odiato quel ciondolo fin dal principio, perché sapeva che la Regina della Corte Seelie era solo un'esperta manipolatrice, ma in quel momento non poté fare a meno di essere felice di possederlo. Clary non pensò, agitò il campanellino, che emise un suono delicato e al tempo stesso squillante, dopodiché avvertì uno strappo a livello dello stomaco e fu come essere sopra una giostra troppo veloce. Senza respiro e nauseata si ritrovò a terra, in quel corridoio sotterraneo che aveva già visto in precedenza. Il pavimento era di marmo, consumato da millenni di passi fatati e lì c'era Meliorn ad aspettarla. La guardò con aria di sufficienza e non le offrì la mano per aiutarla ad alzarsi.
«La regina ti aspetta, faresti meglio a sbrigarti.»
Clary si alzò senza dire una parola. Non era mai stata da sola alla Corte Seelie e solo in quel momento pensò alle possibili conseguenze della sua azione. Se si fosse fermata ad ascoltare la musica fatata? O se avesse iniziato a ballare con loro? Sarebbe rimasta lì per sempre, con i piedi sanguinati e il fisico stremato, senza che nessuno potesse mai ritrovarla. Deglutì a fatica. Ma quando attraversarono la tenda fatta di farfalle vive, non c'era alcuna festa, alcun incantesimo, solo la Regina della Corte Seelie, seduta elegantemente su un divano bianco e senza alcun cortigiano ai suoi piedi. Clary non poté trattenere un sospiro di sollievo. Meliorn abbandonò la stanza, lasciandola sola con la regina. Lei scosse la sua chioma scarlatta, fissando i suoi occhi azzurri simili a vetro nei suoi e facendole segno di avvicinarsi. Clary obbedì.
«Vedo che alla fine hai richiesto il mio aiuto, figlia di Valentine.» Disse la regina, con la sua voce intrisa di perfida ironia. Clary strinse i pugni, odiava essere chiamata figlia di Valentine e in realtà, odiava anche la Regina Seelie. Ma non era lì per sé stessa, era lì per Jonathan e avrebbe fatto qualunque cosa.
«Sì, mia signora.» Rispose, facendo un piccolo inchino con il capo.
«Parla.»
Beh, almeno va dritta al sodo, pensò Clary, rialzando la testa e guardandola in viso. «Ecco … io avrei bisogno … di qualcosa che possa liberare mio fratello, Jonathan Morgenstern, dal sangue di demone che Valentine gli ha iniettato quando non era ancora nato.» Sputò tutto d'un fiato, dopo un breve attimo di smarrimento.
La regina sorrise, un sorriso tagliente come la lama di un rasoio. «Credevo odiassi tuo fratello, non è così?»
«L'ho odiato, ma adesso ho capito che non era lui che odiavo, era la sua parte demoniaca.» Rispose Clary, acida.
«Quello che mi chiedi, figlia di Valentine, è un favore davvero grande. Lo sai questo, vero?»
«Sì.»
«Sei disposta a ricambiare con un favore altrettanto grande, quando sarà il momento?»
«Sì, qualunque cosa.» Ribadì Clary, con il cuore che iniziava a batterle forte nel petto.
«In questo caso …» la regina sorrise enigmatica e si sporse dal divano, come a volerle sussurrare un terribile segreto. «Quel che è magico è epico, l'elaborazione dell'oscurità è ciò che lo libererà.» Cantilenò con voce chiara. Clary corrugò la fronte.
«E questo cosa vorrebbe dire?» Chiese alla regina, confusa.
«È la tua risposta,» rispose lei, facendo un cenno col capo. Clary non ebbe neanche modo di realizzare quello che aveva detto, che due mani forti la presero per le braccia e la trascinarono via dalla stanza dove sedeva la regina. Lei si divincolò, scalciando e urlando, ma la presa di Meliorn era salda.
«Questa non è una risposta! È una truffa, tu non mi hai detto niente!» Si rese conto di avere le lacrime agli occhi, ma cercò lo stesso di non piangere e di non dare quella soddisfazione alla regina, che le sorrideva di rimando.
«Voi umani avete una mente così ristretta. In ogni caso, io ho mantenuto la mia parte del patto, ed è quello che farai anche tu, Clarissa Morgenstern, quando verrò a riscuotere, fra uno o dieci anni, chi lo sa …» Scoppiò in una risata fredda, Clary la vide buttare indietro la testa, prima che la tenda di farfalle le impedì di vedere altro.
Quella notte, Clary non dormì, neanche quella dopo e quella dopo ancora. Era letteralmente ossessionata dalle parole della Regina Seelie, tanto che le aveva scritte su foglietti volanti, quaderni e perfino sullo specchio di camera sua. Non voleva correre il rischio di dimenticarsele, anche se iniziava a pensare che fossero semplici parole buttate lì a caso. Non può essere, si disse nella mente rigirandosi nel letto, le fate non mentono. Chiuse gli occhi, stremata da tutto e dalla mancanza di sonno. Voleva solo dormire e magari sognare qualcosa di bello e piacevole per evadere dalla realtà. Sentì i muscoli del corpo rilassarsi, il torpore del sonno arrivare, finalmente. Quel che è magico è epico, l'elaborazione dell'oscurità è ciò che lo libererà. Quel che è magico è epico, l'elaborazione dell'oscurità è ciò che lo libererà. Elaborazione. Epico. Magico. Oscurità. Le parole spiccarono nella sua mente annebbiata, nitide e vivide, acquistando un senso per la prima volta. Scattò a sedere sul letto come un'ossessa, picchiandosi la fronte con il palmo della mano. Era stata così stupida. Per tutto quel tempo era stato lì, a portata di mano, e lei non lo aveva nemmeno considerato, finendo per dimenticarselo. Corse verso l'appendiabiti, dove la piccola borsa a tracolla sbrindellata e macchiata di sangue era ancora appesa da quando era tornata da Idris. La aprì e tirò fuori il piccolo volume che aveva rubato dalla biblioteca privata di Valentine, la rilegatura era in pelle e il titolo, inciso in lettere dorate, recitava: Elaborazioni Epiche sulla Magia Oscura. Iniziò a sfogliarlo con foga.
 
 
Magnus sfogliava il piccolo libro che una Clary trafelata e agitata gli aveva portato, chiedendosi per l'ennesima volta se il suo appartamento a Brooklyn fosse stato scambiato per un ritrovo di Shadowhunters, ma soprattutto rimpiangendo ciò che lui e Alec stavano facendo prima che la giovane si attaccasse al campanello di casa sua. C'erano tutti, riuniti nel suo salotto, Jace, Isabelle e Simon, e tutti condividevano la stessa identica espressione da funerale, mischiata alla sonnolenza, visto che era notte fonda. Tranne Clary, lei era raggiante ed eccitata come mai l'aveva vista. Probabilmente tutti gli altri credevano che non ce l'avrebbe fatta a trovare un modo per salvare Jonathan, ma Magnus era abbastanza vecchio da sapere che la ragazza non si sarebbe mai arresa fino a che non avesse trovato un modo. Ed effettivamente, lo aveva trovato. Lo stregone alzò gli occhi dal libro e si accorse che tutti lo stavano fissando in attesa di un verdetto.
«Beh, credo che questo Rituale della Restituzione possa davvero eliminare la parte demoniaca di tuo fratello.»
Ci fu un lieve brusio e uno squittio eccitato da parte di Clary. «Allora? Cosa serve? Che dobbiamo fare?»
«Dobbiamo?» Intervenne Isabelle, acida. «Io non farò proprio un bel niente per aiutare quel mostro.»
Clary la fulminò con lo sguardo. «Nessuno di voi è obbligato ad aiutarmi, farò tutto da sola.»
Jace la sorprese mettendole un braccio attorno alla vita. «Cosa serve per questo rituale, Magnus?» Chiese con voce piatta. Si vedeva che dentro di lui si stava svolgendo una terribile lotta interiore: l'odio per Jonathan, contro l'amore per Clary.
«Per eseguire il rituale servono quattro candele, dell'incenso, alcune ossa di animali, delle pietre runiche …» Magnus fece una breve pausa.
«Sembra facile!» Esclamò Clary estasiata.
«… e un'Orbita di Thessalia.» Concluse lo stregone.
«Una cosa?» Disse Simon, con aria confusa.
«Orbita di Thessalia, è un oggetto molto potente. È una piccola sfera, di un materiale indefinito, trasparente e luminescente, simile ad una biglia. Dentro di essa può essere rinchiuso il male, simile ad una di quelle scatole che usate voi Nephilim per intrappolare i demoni, le pyxis. Solo molto più potente, una volta che il male è stato intrappolato non può mai più uscirne, a meno che non si rompa l'Orbita, ma credo sia più facile a dirsi che a farsi. Il materiale con cui è costruita è praticamente indistruttibile.»
«Quindi il rituale intrappolerebbe la parte demoniaca di Jonathan in questa Orbita di … ehm, com'era?» Chiese Simon.
«Thessalia.» Rispose Clary, con entusiasmo. «Dove possiamo trovarne una?»
«Beh, questo direi che è il nostro problema principale. Nell'arco dei secoli in cui ho vissuto, non ne ho mai vista una. Sono oggetti misteriosi e potenti, ce ne saranno al massimo tre o quattro al mondo e c'è davvero poco nei libri su di loro.»
«Sono introvabili, insomma.» Concluse Alec.
«Praticamente.» Rispose Magnus, distogliendo lo sguardo da Clary. «Inoltre, visto che Jonathan è nato con il sangue di demone ed è praticamente parte integrante della sua vita, non dovrà mai separarsi dall'Orbita, se mai ne trovassimo una. Se lo farà, morirà.»
Clary si irrigidì. «Cioè … dovrà portarla per sempre addosso, tipo in tasca?»
«Sarebbe meglio in un ciondolo, meno probabilità che muoia sfilandosi in pantaloni per fare la doccia.» Rispose Magnus, acuto.
«Possiamo provare su Ebay, lì si trova l'introvabile.» Disse Simon, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Clary e Magnus.
«Ebay? Cos'è un mercato dell'occulto?» Chiese Jace.
«Se vuoi definirlo così …» Ribatté Simon, sarcastico, alzando un sopracciglio.
«Non mi importa se nessuno sa dove trovare questo oggetto. Io lo troverò.»
 
 
Era notte. Clary non riusciva a prendere sonno, come sempre. Non le era ancora permesso andare a trovare Jonathan, erano mesi ormai che non lo vedeva. La ricerca dell'Orbita di Thessalia si era rivelata una vera e propria impresa epica. Nessuno conosceva un simile oggetto, alcuni credevano fosse solo una leggenda. Clary e Simon avevano girato ogni rigattiere, mercatino dell'occulto, negozi gestiti da demoni, ma niente. E sì, avevano anche provato a digitare su Ebay, Orbita di Thessalia, ma la ricerca non aveva dato alcun risultato. L'iniziale eccitazione che l'aveva pervasa dopo aver scoperto il Rituale della Restituzione stava scemando, lasciando spazio all'ormai familiare senso di vuoto e disperazione. Finché il piccolo cellulare rosa di Clary iniziò a vibrare insistentemente sul comodino.
«Pronto?» Rispose con voce assonnata, senza nemmeno controllare chi fosse.
«L'ho trovata.» Disse la voce di Magnus, dall'altro capo del telefono.
Clary balzò in piedi come una furia, provocandosi un giramento di testa.
«Davvero? Come? Dove?»
«Ho i miei contatti, sai. Era in un piccolo negozio di antiquariato di Praga, gestito da un demone Vetis, davvero sgradevole. Non sapeva nemmeno a cosa servisse, credeva fosse una biglia incantata o qualcosa del genere. Ma la descrizione combaciava alla perfezione, così ho pensato che fosse il caso di andare a vedere di persona. E così l'ho comprata.»
«Magnus, sei lo stregone più bello, affascinante, talentuoso, magnifico, straordinario, con i capelli più perfetti, che esista al modo.» Esalò Clary, senza fiato.
«Non sottolineare l'ovvio, mia cara.»
«Dobbiamo andare dai Fratelli Silenti. Dobbiamo dirgli che siamo pronti per il rituale e -»
Magnus la interruppe. «Ho già mandato Tessa a parlare con Fratello Zaccaria, sai, quei due se la intendono alla perfezione e i Fratelli hanno risposto che sono disposti a provare questo rituale, domani.»
La conversazione si interruppe. Clary aveva lanciato il cellulare sul letto ed era corsa a chiamare sua madre.
«Pronto? … Pronto? Mah, Nephilim, uno si fa in quattro per loro e questi non sanno neanche dire un semplice grazie …» borbottò Magnus al cellulare.
 
 
La stanza delle Stelle Parlanti era illuminata dalla luce delle fiammelle delle candele. Jonathan era stato prelevato dalla sua cella e adesso si trovava al centro di essa, circondato dai Fratelli e in ginocchio davanti al cerchio composto da pietre runiche, incenso e piccole ossa di animale. Era ancora incatenato, i Fratelli non volevano certo rischiare una fuga, perciò non riusciva a muovere braccia e gambe. Lo stregone Magnus Bane era in piedi davanti a lui, e lo fissava con sguardo enigmatico, tenendo in mano un piccolo globo trasparente, simile ad una biglia, incastrato in una catenella d'oro. Jonathan non aveva idea di cosa stesse per fare, ma aveva visto Clary, percepiva la sua presenza alle sue spalle, incoraggiante e sorridente. E seppe subito che lei aveva trovato una soluzione. Lo shock di quella notizia lo fece vacillare per un istante, ma fu solo un attimo, prima che la speranza fosse inghiottita dal suo innaturale pessimismo. Non esisteva niente in grado di liberarlo dal suo male.
«Ehm, Fratelli, credo ci sia stata un'incomprensione. Il giovane Morgenstern dovrebbe avere le mani libere, deve tenere in mano questa.» Lo stregone mostrò ai Fratelli il piccolo globo e Jonathan percepì la voce di Fratello Zaccaria nella sua stessa testa. Poi delle dita lunghe e sottili lo liberarono dalle manette. Si massaggiò i polsi, guardandosi attorno e scorse di nuovo la chioma scarlatta di Clary e quella altrettanto scarlatta di sua madre. C'erano solo loro, oltre a Magnus e ai Fratelli Silenti.
«Perfetto, perfetto …» borbottò Magnus, mettendogli tra le mani quella piccola sfera, senza guardarlo negli occhi. «Dopo che il rituale sarà completo, la sfera si illuminerà, se tutto andrà a buon fine ovviamente, e tu non dovrai mai separarti da quel ciondolo. O morirai. Mi hai capito?»
Jonathan annuì a malapena, affascinato da quella piccola sfera simile a cristallo. «Questo servirà a ridarmi un'anima?» Sussurrò ironico, allo stregone.
«Se la vuoi metter in questi termini, sì. Ora, procediamo.» Magnus si schiarì la voce e iniziò a recitare. Scintille azzurre scoppiettarono dalle sue dita affusolate.
«Quod perditum est, invenietur. Spiritus interregnum, vi invoco. Liberate il suo cuore dal regno del male. Sic et globo vitreo amet.»
La luce delle candele divampò, il globo tra le sue mani iniziò a bruciare, ustionandogli la pelle, fece per lasciarlo andare, ma sentì il gemito di Clary provenire alle sue spalle. Strinse più forte, non l'avrebbe delusa, non questa volta. Sentì il suo corpo andare letteralmente a fuoco, come se fosse avvolto dalle fiamme dell'inferno. La lenta litania recitata da Magnus lo accompagnò durante quel viaggio di dolore, mentre sentiva il suo sangue scorrere nelle vene e tutta la rabbia, il disprezzo, l'odio e ogni sensazione negativa che si annidava da anni nel suo cuore, scemarono, come lavate via da quel dolore insistente che provava in ogni singola cellula. Non si accorse che stava gridando, ma quando Magnus finì di recitare e il bruciore si estinse, cadde al suolo, boccheggiando. Percepì due mani fredde sul suo viso e alzò il capo a fatica, guardando il viso di Clary, a pochi centimetri dal suo. Aveva le guance striate di lacrime e le lentiggini spiccavano come macchie d'inchiostro sulla sua pelle fin troppo pallida. Jonathan sentì il suo cuore perdere un battito. Clary piangeva, il rituale non aveva funzionato.
«I tuoi occhi …» sussurrò lei, guardandolo con la vista annebbiata dalle lacrime.
Jonathan la guardò confuso. «Cos'hanno i miei occhi?» Sussurrò, con la voce roca.
«Sono uguali ai miei.»
Rispose lei, e sorrise, stringendo più forte il suo viso che ancora teneva tra le mani. In quell'istante, Jonathan abbassò lo sguardo sull'Orbita di Thessalia, che ancora teneva stretta in un palmo. Il globo luccicava e sembrava contenere una sostanza lattescente, che vorticava inesorabile al suo interno. In quell'istante, Jonathan capì che il rituale aveva funzionato.

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Capitolo 11
*** Epilogue ***


EPILOGUE

 
Era passata una settimana dal Rituale di Restituzione avvenuto nella Città Silente, ma Jonathan era ancora intrappolato nella Città di Ossa, nonostante la sua parte malvagia fosse ormai al sicuro in quel piccolo globo di vetro che teneva appeso al collo. I Fratelli Silenti erano stati categorici, prima di liberarlo e riabilitare il suo nome, avrebbero fatto ogni sorta di indagine e incantesimo per assicurarsi che il male fosse stato davvero estirpato. Era tarda mattinata e Clary andò in camera sua, Luke le aveva lasciato sul tavolo una tazza di caffè e un biglietto con scritto che era andato dal branco, a Chinatown. Sua madre non era in casa, perciò si godette quell'innaturale silenzio, scarabocchiando sul blocco da disegno sagome familiari. Solo quando sentì la nuca formicolare si girò di scatto. Jonathan era sulla soglia della sua camera, appoggiato con una spalla contro lo stipite della porta e un mazzo di chiavi in una mano. Indossava dei jeans e degli stivali neri e una camicia bianca da cui si intravedevano i marchi sul collo e sul torace e la piccola Orbita di Thessalia appesa al collo. I suoi lineamenti erano rimasti gli stessi: zigomi appuntiti, naso affilato e labbra piene; così come i capelli, sempre di un biondo così pallido da sembrare argenteo. Ma gli occhi … non erano più neri come carbone, erano di uno squisito verde smeraldo, luminosi e grandi, conferendogli un aspetto più dolce e decisamente più umano.
«Jonathan,» sussurrò lei, balzando in piedi, senza riuscire a trattenere un piccolo sorriso.
«Sorellina. Jocelyn mi ha dato le chiavi per entrare.» Sventolò il mazzo di chiavi davanti a sé, facendo tintinnare il metallo. «Spero non ti dispiaccia. Mi fermerò qui per un po’, prima di capire dove andare.»
«Certo che non mi dispiace!» Esclamò Clary con voce un po’ troppo stridula, dandogli le spalle e iniziando a riordinare la scrivania senza nemmeno guardare dove metteva le mani. Il pensiero di Jonathan a casa sua, sotto il suo stesso tetto la turbava non poco. Devi smetterla, è tuo fratello, sì disse fra sé e sé. Se non c'era più il demone in lui, questo voleva dire che anche i sentimenti sbagliati se ne erano andati. Rifletté con una piccola punta di tristezza.
«Inizialmente credevo che fosse solo uno scherzo, sai, un modo per quel lupo mannaro di potermi uccidere nel sonno.»  Continuò Jonathan, ancora incollato allo stipite della porta. Clary notò che sembrava perfettamente a suo agio, come sempre in ogni situazione.
«Si chiama Luke.» Sibilò, scontrosa.
«Sì, come vuoi. Luke.» Rispose con voce annoiata, roteando gli occhi verdi.
Clary si voltò di nuovo a guardarlo. «Vedo che la tua anima nuova di zecca non è riuscita a cancellare il tuo brutto carattere. Sempre che tu ce l'abbia un anima.» Concluse a bassa voce, ironica.
«La sento, Clary. Punge anche un po’.»
Lei scoppiò a ridere nonostante tutto e fece per tirargli una matita, ma non ne ebbe il tempo. Jonathan aveva percorso l'intera distanza che li separava in un attimo ed ora le afferrava il polso, bloccandolo; Clary poteva sentire il suo respiro solleticarle il viso.
«Ammettilo, l'alchimia fra noi è innegabile.» Le sussurrò in un orecchio.
Lei deglutì a fatica, il cuore iniziò a battere forte. Allora non era cambiato niente …
«Sai cosa è innegabile?» Sibilò in risposta.
«Cosa?»
«Il dolore che ti farà questa matita quando te la ficcherò nel collo.»
«Dolce come sempre, sorellina.» Sorrise lui, lasciandole andare il polso ma rimanendole pericolosamente vicino.
«Io sto con Jace. Io amo Jace, e non smetterò mai di farlo.» Riuscì a bofonchiare Clary, abbassando lo sguardo sui suoi piedi e cercando di evitare i suoi occhi verdi, così nuovi e magnetici.
«Questo lo so, ma scommetto che non gli hai raccontato del nostro piccolo momento di passione, alla tenuta dei Morgenstern.» La schernì, mettendole due dita sotto il mento e obbligandola a guardarlo in faccia. «Giusto?»
Clary ricordò il loro bacio frenetico, dopo aver scoperto che dietro il quadro di Raziel non c'era più alcun Portale. «No, non gliel'ho detto. E nemmeno tu lo farai. Non dovrà mai venirlo a sapere, è stato uno sbaglio, un errore e non accadrà mai più. Credevo che sarei morta da lì a poco, per quello ti ho baciato.»
«Questo non cambia le cose.»
«Infatti, non cambia le cose, noi siamo fratello e sorella.» Ribatté con rabbia. «Se lo avessi dimenticato …»
«Non l'ho dimenticato. Ma continua a non importarmi, è sbagliato? Forse, non lo so. Quello che so è che tra noi c'è passione. Ogni volta che siamo vicini io la sento. La passione alberga in noi, è la fonte dei momenti migliori ... La gioia dell'amore, la lucidità dell'odio e l'estasi del dolore ... La passione può ferire profondamente. Se potessimo vivere senza conosceremmo certamente la pace, ma saremmo esseri vuoti, stanze vuote, buie e inutili. Saremmo come morti
Clary percepì le dita di Jonathan correrle lungo un braccio nudo, facendola rabbrividire. Sospirò profondamente, cercando di trovare le forze per spingerlo via o, meglio, dargli un pugno in faccia.
«Hai finito?» Gli chiese gelida, scostandosi da lui. Sentiva il viso bruciare sotto le sue lentiggini. «Hai deciso di rendermi la vita un inferno?» Continuò, girando in tondo per la stanza. «Mi sono fatta in quattro per cercare di aiutarti, sono dovuta ricorrere all'aiuto della Regina Seelie, per aiutarti. Probabilmente quando verrà a riscuotere mi chiederà di uccidere una vecchietta o picchiare un cucciolo nelle migliori delle ipotesi e io dovrò farlo, e lo farò solo per te e tu mi ringrazi così?» Sbottò senza riuscire più a trattenersi.
Jonathan sembrava impressionato, la osservava con gli occhi verdi spalancati e le pupille dilatate.
«Non sapevo avessi chiesto l'aiuto della Regina Seelie, Clary.» Disse a bassa voce. Sembrava quasi mortificato, ma era impossibile, no? Jonathan Christopher Morgenstern non era mai mortificato.
«Beh, ora lo sai.»
«Mi dispiace.»
«Non devi dispiacerti. Sono felice di averlo fatto. E … sono felice che tu sia qui. Davvero.» Clary arrossì nuovamente.
Sentirono la porta dell'ingresso sbattere. Jocelyn e Luke erano tornati a casa, Clary percepì le loro voci allegre chiacchierare.
«Clary, Jonathan? Siete in casa?» Gridò Jocelyn dal salotto.
«È arrivata mia madre. Anzi, nostra madre. Comportati bene, ti prego.» Lo supplicò Clary, con un'occhiata significativa. Jonathan sorrise, era il suo solito ghigno arrogante.
«Ma se sono un angelo.» Disse, incamminandosi verso il salone.
Clary roteò gli occhi al cielo. Un angelo caduto, sì disse fra sé, pensando che quella convivenza sarebbe stata più difficile del previsto.

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