Beautifully broken

di lilyhachi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I - Heartbeats ***
Capitolo 3: *** II - Human ***
Capitolo 4: *** III - Robbers ***
Capitolo 5: *** IV - Ocean tides ***
Capitolo 6: *** V - Feet on the ground ***
Capitolo 7: *** VI - Lies, don't wanna know ***
Capitolo 8: *** VII - Another arms ***
Capitolo 9: *** VIII - Ghost stories ***
Capitolo 10: *** IX - Gods and monsters ***
Capitolo 11: *** X - Echoes ***
Capitolo 12: *** XI - Half broken ***
Capitolo 13: *** XII - Disarm ***
Capitolo 14: *** XIII - Bad blood ***
Capitolo 15: *** XIV - Requiem ***
Capitolo 16: *** XV - Blood moon ***
Capitolo 17: *** XVI - My liar ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Beautifully broken

 
Prologo
 
“Now I’ll be bold as well as strong.
And use my head alongside my heart.
So tame my flesh and fix my eyes.
I tethered mind freed from the lies”.
(Mumford & Sons – I will wait)
 
Madison guardò la strada, sforzandosi di non chiudere le palpebre troppo pesanti.
Forse mettersi in macchina non era stata una buona idea, considerando il sonno arretrato, la testa piena di pensieri e un umore che non era certo dei migliori.
Una coppia che si teneva per mano le passò davanti e se Madison avesse perso completamente il suo buon senso, l’idea di eliminarli dalla faccia della terra l’avrebbe già sfiorata. Il suo pensiero, purtroppo, non poté fare altro che correre a Keith. Era un pensiero malsano e doloroso, troppo forte per essere fermato, come una freccia che una volta scoccata non può interrompere la sua traversata, ma deve solo centrare l’obiettivo.
Nel suo caso, la freccia l’aveva già colpita in pieno petto. C’era sempre un senso di mancanza che la perseguitava e che la portava a desiderare di fare la valige e cambiare completamente l’aria che respirava, troppo satura di ricordi e di dolore.
Tuttavia, Madison doveva riconoscere che cambiare città non era la soluzione a tutti i problemi, per quanto sarebbe stato troppo bello e semplice andare via, lasciando alle spalle tutto. Avrebbe potuto lasciarsi indietro soprattutto Keith, ma forse avrebbe dovuto smetterla di fare pensieri assurdi poiché lui non si era posto nessun tipo di problema. Credeva che l’amasse e anche se era passato un anno, lei era ancora ferma al solito punto di non ritorno, come fosse intrappolata, con il terrore di fare un passo avanti per paura che il piede le venisse mozzato ancor prima che riuscisse a gridare con tutte le tue forze.
Era rimasta indietro, l’unica che era rimasta sempre la stessa.
Era Madison Nolan e non era cambiata nemmeno di una virgola.
Aveva rotto con il suo fidanzato storico che aveva ridotto il suo cuore in mille pezzettini e cosa le era capitato da allora? Assolutamente niente, ma non poteva incolpare l’universo per questo. La colpa era soltanto sua, e avrebbe continuato ad esserlo.
Madison si portava dietro qualche cicatrice di un’infanzia che in parte le era stata negata nell’esatto momento in cui sua madre era morta.
Madison si portava dietro qualche cicatrice di un’adolescenza che aveva dovuto attraversare senza una forte figura femminile a guidarla come avrebbe desiderato.
Madison si portava dietro qualche cicatrice di una vita in cui tante persone avevano fatto capolino, lasciando un segno dolente sul suo cuore per poi andare via, senza mai voltarsi indietro, neanche per rivolgerle un saluto. Sii artefice del tuo destino…è questo che dicono sempre. La verità era che Madison non voleva esserlo, continuava a ripetersi che tutto sarebbe cambiato, che il meglio sarebbe giunto anche per lei ma non faceva niente per farlo accadere. Restava ferma, ad aspettare che arrivasse qualcosa che forse neanche esisteva. Restava immobile, a rifiutare occasioni che le venivano offerte ogni giorno ma era come se non le volesse. Il perché non lo sapeva nemmeno lei. Forse era più semplice aspettare che le cose venissero da sole, come il detto “se son rose fioriranno”, al quale si era appellata così tante volte che aveva perso il conto. I suoi pensieri vennero interrotti da un cane che le attraversò la strada così velocemente da farla frenare all’improvviso, senza darle neanche il tempo di realizzare cosa stesse facendo. Madison era così persa e distratta che quasi non lo aveva visto.
La macchina si fermò all’istante e un urto la fece protrarre leggermente in avanti, facendo scattare l’airbag che cercò di togliersi dalla faccia.
“Non ci posso credere”, esclamò, voltandosi e notando una macchina appena dietro la sua.
Era appena stata tamponata e le sembrava assurdo, da quando si era trasferita era stata in grado di non fare neanche un incidente o una qualsiasi cosa che si avvicinasse per poi lasciarsi distrarre da un cane e dai suoi pensieri stupidi. Scese di corsa dalla macchina per controllare il danno subito e non appena vide il paraurti quasi del tutto staccato portò le mani alla testa con fare esasperato.
“Ti sembra il caso di frenare così all’improvviso?”.
Una voce maschile e profonda la riscosse da quello stato di temporanea disperazione per la macchina alla quale aveva prestato tanta attenzione. Alzò lo sguardo e si ritrovò davanti una faccia appartenente ad un ragazzo che avrebbe voluto prendere praticamente a schiaffi per il tono burbero e maleducato con cui aveva rivolto quella domanda alla quale avrebbe dovuto rispondere. Gli occhi di lui la fissavano, quasi increduli e chiaramente infastiditi.
“Un cane mi ha tagliato la strada”, rispose Madison, puntando i piedi sull’asfalto mentre gli altri automobilisti li sorpassavano, alcuni suonando anche il clacson come rimprovero.
Ignorò beatamente quei suoni fastidiosi e si concentrò meglio sul ragazzo dinanzi a lei, che non credeva di aver mai visto prima di allora.
Era alto con un fisico ben piazzato che gli avrebbe permesso di sollevare una persona senza molte difficoltà. Aveva la pelle olivastra e i capelli scuri, mentre gli occhi erano verdi ma con qualche pagliuzza gialla che per un attimo le fecero perdere il filo conduttore dei suoi pensieri. Alla vista della giacca di pelle, le venne quasi da sorridere: quel ragazzo sembrava un perfetto cliché fatto a persona.
Magari faceva anche il personal trainer e probabilmente la sua macchina era una divinità che doveva essere idolatrata ogni santo giorno, motivo che probabilmente lo avrebbe portato a dirgliene di tutti i colori. Anche se a dirla tutta, le faceva una strana impressione: aveva qualcosa di rassicurante nella sua figura ma allo stesso tempo vi erano dei dettagli di lui che sembravano etichettarlo come qualcuno da cui fosse necessario stare assolutamente ed incondizionatamente alla larga.
Il suo volto era stranamente familiare…possibile che lo avesse già visto?
Odorava di erba appena tagliata e di dopobarba, ma c’era un altro odore che si mischiava agli altri, uno che non riusciva a riconoscere ma che arrivava pungente alle sue narici. Era un odore strano e a tratti quasi confortante…come il caffè di prima mattina.
“Un cane?”, ripeté con tono quasi canzonatorio che aumentò la voglia di insultarlo.
“No! Un unicorno”, ribatté lei, allargando le braccia e sembrando forse una pazza.
Lui incrociò le braccia al petto e alzò un sopracciglio, osservandola con una leggera confusione sul viso, probabilmente stava pensando che fosse del tutto fuori di testa ma Madison non vedeva come avrebbe potuto importarle dell’opinione di uno sconosciuto che l’aveva tamponata e che aveva quasi sfasciato la sua povera macchina.
“Mi hai rovinato la macchina”, continuò lei, sentendo la sua stessa voce che aumentava quasi di un’ottava. “Mai sentito parlare di distanza di sicurezza?”.
“La stavo rispettando ma sei tu che hai frenato all’improvviso”, insistette lui, facendo un passo verso Madison e per un attimo le sembrò di vedere i suoi occhi cambiare colore. Abbassò un attimo lo sguardo, pensando di aver dormito decisamente poco.
“Ho frenato e tu mi sei venuto addosso”, lo corresse, poggiando le mani sulla vita.
Lui prese un respiro profondo e infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle.
Lei lo osservò meglio e si chiese se magari avesse anche una moto, cosa che non l’avrebbe stupita minimamente, considerando il tipo, e il volto continuava a sembrarle conosciuto.
“D’accordo”, dichiarò con una nota di sconfitta nella voce, ritornando alla macchina.
Madison si sporse leggermente per vederlo armeggiare con qualcosa e poi chinarsi sul sedile. Non lo perse di vista nemmeno per un secondo mentre tornava verso di lei, porgendole un foglietto, dove evidentemente doveva esserci scritto il suo nome.
“Questo è il numero della mia assicurazione”, esclamò con una voce meno irritata e molto più calma, che le permise anche di ascoltarlo quasi volentieri. “Possiamo compilare un modulo di constatazione amichevole…o hai da ridire al riguardo?”.
Madison si corresse: non era per niente piacevole ascoltarlo.
Gli rivolse un’occhiata torva che lasciava intendere chiaramente la sua risposta e gli strappò il foglietto dalle mani, che lui allargò immediatamente e Madison tornò alla sua macchina per fare la stessa cosa che aveva fatto lui. Il suo atteggiamento non poteva far altro che disturbarla. Lasciò un pezzo di carta al ragazzo tutt’altro che simpatico, che lo afferrò con lo stesso modo che gli aveva riservato lei stessa poco fa e le sfiorò leggermente le dita.
Quel contatto appena accennato le provocò un brivido lungo la schiena e si irrigidì all’improvviso, alzando lo sguardo e trovando i suoi occhi verdi su di lei che la scrutavano con un’insistenza per nulla gradita. Avrebbe potuto classificarlo solo come “molesto”.
“Direi che siamo a posto”, disse mentre la sua voce si abbassava gradualmente, come se avesse riposto l’ascia di guerra il più lontano possibile da entrambi.
“Direi di sì”, rispose prontamente lui con un sorrisetto che sapeva di presa in giro.
Chissà se era in grado di mostrare un sorriso sentito o almeno spontaneo.
“Beh, ciao”, concluse lei con un sorriso finto, sentendosi imbarazzata per un motivo che faticava a comprendere, ma quel tipo la metteva decisamente a disagio.
Quel ragazzo senza nome la osservava, scrutava il suo viso con attenzione e la faceva sentire come se una luce fosse puntata costantemente su di lei, esponendola al mondo intero. La metteva in soggezione, portandola a distogliere lo sguardo perché non era in grado di reggerlo per più di qualche secondo…sembrava quasi che la stesse studiando.
“Ciao”, la salutò lui, aggrottando le sopracciglia e mostrando un cipiglio imbronciato, che la riportò a credere che fosse un tipo decisamente stereotipato ma decise di tenere il pensiero per sé. Accelerò il passo verso la sua macchina, ansiosa di chiudersi al suo interno.
“Attenta agli unicorni”.
Madison si fermò, con la mano vicino alla portiera e sfoggiò un sorriso genuino che sicuramente non gli era sfuggito. Lo osservò di sottecchi e vide sul suo volto il medesimo sorriso che sembrava tutto tranne che falso. Le sue labbra erano semplicemente piegate all’insù in un sorriso troppo sottile per essere definito tale, ma troppo chiaro per essere ignorato. Sembrava un modo tutto suo di sorridere.
Salì in macchina con ancora il sorriso in volto e si sentì tranquilla nell’abitacolo.
Gettò uno sguardo allo specchietto retrovisore e vide il ragazzo che finalmente si allontanava, gettandole uno sguardo, forse divertito, che fece finta di non notare mentre si rigirava il foglietto fra le mani: era un post-it giallo che stava quasi accartocciando.
Lo aprì, e quando lesse il suo nome, la familiarità di quel volto prese maggiore consistenza.
Il suo nome era Derek Hale e lei ricordava bene chi fosse.
 
“Posso dire in tutta sincerità che storia è una materia inutile?”, esclamò Lana una mattina, mentre Madison riponeva accuratamente i libri nel suo armadietto.
“Non per me”, rispose lei con tono quasi indignato.
“Già ti vedo tra dieci anni a riesumare resti fossili o a lavorare in qualche libreria impolverata”, la rimproverò Lana. “Poi non lamentarti con me quando non riuscirai a trovare un ragazzo, e mi dirai che dovevi sostenere il provino da cheerleader”.
Madison aveva alzato gli occhi al cielo e aveva riso di gusto, mentre Lana si lasciava coinvolgere dalla sua risata gioiosa, per poi abbracciarla, come era solita. In momenti del genere, Madison era riuscita a sentirsi completa, senza quel vuoto incolmabile a livello del petto, in ricordo della perdita che aveva segnato la sua vita.
Lana l’abbracciava e quel buco nero si dissolveva.
I suoi nonni la stringevano, ricordandole la famiglia meravigliosa che avevano creato, e quel vuoto veniva improvvisamente riempito, e tutto il dolore spariva insieme ad esso.
In quei momenti, Madison ricordava che sorridere non era poi tanto difficile.
D’un tratto, sentì Lana allontanarsi da lei e la scorse ad osservare verso un punto indefinito del corridoio alle sue spalle, per osservare con estrema attenzione qualcosa o qualcuno. Madison curvò le labbra in un sorriso divertito, intuendo immediatamente il significato di quell’espressione. Conosceva Lana meglio di chiunque altro, e riusciva a distinguere ogni sfumatura che il suo viso poteva assumere. Quella che Lana aveva mostrato una mattina di diversi anni fa, durante un normalissimo giorno di scuola, era dovuta alla vista di un ragazzo che aveva attirato il suo interesse. Lana Masters era incorreggibile: intelligente, brillante, bella, testarda come un mulo, per nulla incline al rispetto delle regole e con un particolare radar per i bei ragazzi con qualche serio problema caratteriale.
“Fusto”, disse tutto d’un fiato, squadrando la figura che percorreva il corridoio con lo zaino in spalla, senza prestare attenzione a tutti gli studenti che gli si muovevano attorno.
“Smetti di guardarlo”, esclamò Madison con sguardo perplesso, e osservando le sopracciglia aggrottate del ragazzo che non sembrava molto a suo agio. “Non è del nostro anno, quindi puoi mettere da parte le tue speranze di farti notare da Derek Hale”.
“Derek Hale”, ripeté Lana con una voce sognante che spinse Madison a darle uno strattone per cercare in qualche modo di ripotarla con i piedi per terra.
Aveva volto di nuovo lo sguardo alla ricerca del viso del suo proprietario e lo trovò a non molta distanza da loro mentre era intento a prendere un paio di libri dal suo armadietto.
Derek Hale era probabilmente uno dei ragazzi più emblematici che avesse mai visto.
Madison non fece neanche in tempo a formulare quel pensiero che il ragazzo venne avvolto da un paio di braccia magre e toniche appartenenti a Kate Argent, che lasciò fluttuare i boccoli biondi sulle spalle, scoccando a Derek un bacio che di dolce non aveva nulla.
Kate Argent sembrava una specie di uragano che travolgeva le persone in maniera violenta e distruttiva senza curarsi di nulla, e Derek sembrava pendere dalle sue labbra.
“Quella è una proprio una…”, Lana venne stoppata dal secondo strattone da parte di Madison, al quale ne sarebbero seguiti sicuramente altri con lo scopo di zittirla.
“Cosa?”, chiese la ragazza con finta innocenza. “Sono soltanto la voce della verità”.
“No, sei soltanto invidiosa”, sentenziò Madison, distogliendo lo sguardo dalla coppietta.
“Io? Ma per favore”, Lana fece un gesto della mano per poi incrociare le braccia e cercare con tutta sé stessa di non fissare Derek e Kate, che avrebbe sostituito volentieri.
Madison scosse la testa, prendendo l’amica per un braccio e dirigendosi verso l’aula.
 
Madison non aveva mai parlato con Derek Hale e raramente lo aveva incrociato per i corridoi, ma da ragazza nata a Beacon Hills era obbligatoriamente a conoscenza della storia della famiglia Hale e dei nomi dei suoi componenti, soprattutto se alcuni frequentavano la sua stessa scuola, come in quel caso specifico. Sorrise debolmente al pensiero che Beacon Hills le era corsa dietro, pur avendo lasciato la città diversi anni fa.
Ricordava vagamente Derek Hale anche da bambino, quando se ne stava accanto alla madre Talia il primo giorno delle elementari e lei gli teneva la mano in attesa degli insegnanti. Mentre tutti i bambini attorno piangevano e si dimenavano fra le braccia dei loro genitori perché non avevano intenzione di lasciare quel posto caldo e sicuro che era la loro casa, Derek sembrava placidamente calmo e per nulla turbato.
Madison lo ricordava pacato e sereno accanto a sua madre, mentre lei stessa spostava lo sguardo verso sua nonna. Derek era un bambino buffo con le solite sopracciglia aggrottate che gli conferivano un’aria infastidita e stranamente cauta. Lo aveva ricordato così fino al liceo. Ai suoi occhi conciliava perfettamente i due aggettivi. Derek era un mix di sensazioni strane e ogni volta che lo guardava non faceva che rimanerne incuriosita. Si chiedeva perché quello strano ragazzo fosse sempre così riservato, tranne quando era in compagnia di Kate, alla quale riservava dei sorrisi veri che all’apparenza non sembravano nemmeno sorrisi.
Aveva un modo tutto suo di sorridere, strano e decisamente raro. Ogni tanto si era ritrovata a guardarlo, vedendo al di là della facciata che lui stesso e tutti i loro compagni di scuola gli avevano costruito attorno, come fosse un muro ben dipinto, sotto al quale si nascondeva tutt’altro.
Madison aveva inizialmente creduto che non fosse normale, che anche lui dovesse essere più allegro qualche volta e che forse aveva dei problemi seri, ma quando un giorno lo vide per davvero il suo cuore le saltò praticamente in gola per poi tornare nella cassa toracica a causa di ciò che aveva visto.
Una mattina, che sembrava una delle solite, Derek Hale nascondeva un dolore inconsolabile negli occhi, solo che Madison non lo sapeva. Era seduto fuori la presidenza, con un’aria afflitta che non gli si addiceva minimamente. Derek non aveva detto niente, era rimasto seduto con accanto sua sorella Laura e un altro ragazzo che non conosceva ma sembrava essere un altro Hale, e quando Madison lo aveva visto dal corridoio, era inspiegabilmente rimasta a fissarlo.
Era stato a quel punto che Derek l’aveva forse vista per la prima volta in vita sua. Le aveva rivolto uno sguardo vacuo per poi tornare a fissare il pavimento.
Da un lato, Madison desiderava chiedergli cosa lo rendesse così abbattuto e triste, ma qualcosa la bloccò, come se sapesse che lo sguardo negli occhi di Derek era dovuto ad una mancanza che portava anche lei. Solo che Madison non sapeva cosa significasse amare qualcuno per poi perderlo, perché lei non aveva mai conosciuto la sua mamma, poichè non era cresciuta abbastanza da poter vedere il suo viso prima che morisse e nemmeno il suo papà, vivo in chissà quale continente. Quando lo sceriffo era arrivato, Derek si era alzato mollemente insieme a quelle che dovevano essere le rimanenze della sua famiglia e si era avviato fuori dalla scuola con il suo zaino in spalla. Sembrava un burattino che si muoveva solo perché guidato da fili invisibili e le dava l’impressione che sarebbe crollato a terra da un momento all’altro ma prima di uscire, si era voltato per poggiare delicatamente il braccio su quello di sua sorella appena dietro di lui e i suoi occhi avevano scorto Madison per un secondo, tornando poi a guardare dritto dinanzi a sé.
Quello fu l’unico contatto che aveva avuto con Derek Hale, per poi scoprire dell’incendio che gli aveva strappato via l’intera famiglia, dopodiché non ebbe più sue notizie. Madison lo aveva visto, solo che lei non contava.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Bene, alla fine l’ho fatto. Ci ho messo praticamente una vita per pubblicare questa storia, neanche fosse la storia del secolo, e probabilmente sarà un grosso buco nell’acqua. Ad ogni modo, spero che possa piacere. Derek Hale è uno dei personaggi che più mi sta a cuore nella serie, insieme a Stiles ed Isaac, e spero davvero che possa trovare un po’ di amore. Personalmente, sono una multishipper, mi piacciono tutte le coppie (Stydia, Sterek, Scallison, Pydia, Scira e quant’altro) ma mi piace anche immaginare Derek con un personaggio femminile che non sia una pazza psicopatica con un’ossessione per i sacrifici. So che nel vedere Derek abbinato ad un nuovo personaggio, si può storcere il naso, ma io cercherò di fare il possibile per rendere Madison un personaggio gradevole. In questo prologo, ho cercato di tratteggiarla il più possibile, aggiungendo anche uno stralcio della sua adolescenza: conosceva Derek di vista,  non si sono mai parlati e dopo aver letto il nome si ricorda di lui e delle poche volte in cui lo ha visto. Ovviamente, saprete di più su di lei nei capitoli successivi. La storia si svolge dopo la 3b ma non tiene conto degli spoilers sulla quarta stagione usciti in questi ultimi giorni. Non credo di dover aggiungere altro. Mi limito semplicemente e ringraziare le meravigliose personcine che mi hanno incitata a scrivere questa storia, la cui pubblicazione è stata un vero e proprio parto e spero di non avervi deluso. Un ulteriore ringraziamento alla pagina Photoshop is the secret to my power ~ per il meraviglioso banner.
Questo è quanto, spero che la storia vi piaccia.
Alla prossima, un abbraccio :)

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Capitolo 2
*** I - Heartbeats ***


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I

Heartbeats


“Eyes make their peace in difficulties with wounded lips and salted cheeks.
And finally we step to leave to the departure lounge of disbelief.
And I don’t know where I’m going but I know it’s gonna be a long time.
And I’ll be leaving in the morning, come the white wine bitter sunlight”.
(Ellie Goulding – Beating heart)
 
Odore acre di sudore e di alcool.
Aria così satura che a tratti le sembrava di non respirare.
Luci ad intermittenza che quasi facevano venire il mal di testa.
Musica a palla che le impediva di sentire i suoi stessi pensieri.
Il Wolf’s Strett non era esattamente il tipo di locale in cui Madison avrebbe voluto passare la serata ma quando un’amica aveva bisogno di aiuto non riusciva proprio a tirarsi indietro.
Madison Nolan era più una persona da caffetteria e cappuccino con panna, e il suo lavoro ne era la prova, ma per una sera poteva sicuramente fare un’eccezione.
Pulì l’ultimo bicchiere con uno strofinaccio, mentre Lana le sfrecciò accanto come una trottola per servire i due clienti al bancone con un sorriso coinvolgente sulle labbra. Le ritornò accanto, emettendo uno sbuffo e gettandosi una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio per poi buttarle le braccia al collo.
“Madison, sei la migliore!”, urlò, rischiando di farla diventare sorda. “Grazie per aver accettato di darmi una mano…il venerdì qui la situazione è tragica!”.
“Tranquilla, Lana”, la rassicurò, riponendo il bicchiere e lo straccio. “Per te posso sicuramente sopportare un posto simile”.
Ed era indubbiamente vero. Per la sua migliore amica poteva farlo, eccome.
Lana era come la sorella che non aveva mai avuto, la cui presenza l’aveva sempre accompagnata in tutti quegli anni senza mai abbandonarla neanche una volta.
Erano sempre state due amiche con il sogno di partire per andare lontano, e lo avevano realizzato, frequentando lo stesso college e passando il tempo insieme.
Avevano lasciato Beacon Hills per trovare qualcosa di più. Avevano trovato in Berkeley quell’aria di novità che tanto avevano cercato, quell’aria di serenità che forse le avrebbe indirizzate verso un futuro migliore di quello che avrebbero avuto rimanendo nella loro città natale. Inizialmente, Madison proprio non se la sentiva di lasciare i suoi nonni da soli che per ventidue anni di vita l’avevano accudita come fosse figlia loro. Avevano sostituito la madre che non aveva mai avuto tempo di conoscere e quel padre che aveva deciso di lavarsene le mani del fagotto che la mamma aveva tra le braccia, vivendo tranquillo e ignorando una figlia che non aveva voluto riconoscere come tale. Perché lui e sua madre avevano soltanto sedici anni, erano troppo giovani e lui non poteva gestire una bambina. Doveva finire il liceo, prendersi la sua laurea in economia e andare via, sua madre era soltanto un ostacolo, e nella sua tabella di marcia non potevano esserci problemi di questo genere…e così fece. Madison non aveva nulla di suo padre, neanche un nome, ma era meglio così, forse perché sapeva sarebbe stato inutile. I suoi nonni le avevano raccontato solo questa breve storia e lei, per qualche strano motivo, non aveva voluto saperne di più. Si girò verso Lana, sorridendo. La loro differenza di personalità era rimasta intatta nel corso degli anni e si notava tranquillamente dall’ambiente di lavoro: Lana faceva la cameriera in uno dei locali notturni più gettonati della zona per pagarsi il college, Madison lavorava in una caffetteria non molto lontana dall’università. A vederla, nessuno avrebbe mai pensato che Lana studiava per diventare avvocato, mentre lei aveva una passione viscerale per l’archeologia, cosa che, a detta dei suoi nonni, aveva ereditato da sua madre. Lana adorava divertirsi e andare in giro per locali, era selvaggia e impulsiva con un sorriso sulla labbra che non mancava mai e con una vitalità capace di rallegrare chiunque.
Il suo carattere era solo uno dei tanti motivi che spingeva Madison a volerle bene e a ringraziare il cielo di avere un’amica come lei: forte abbastanza per entrambe e leale come nessun altro. Lana versò un po’ di vodka in due bicchieri e gliene offrì uno.
“A noi”, esclamò, rivolgendole una di quelle espressioni gioiose che solo lei sapeva sfoggiare.
Seppur riluttante all’odore fin troppo forte di alcool, Madison alzò il bicchiere e assecondò il suo brindisi, ripetendo a sé stessa che, in fin dei conti, era solo vodka.
Il bruciore le faceva sempre lo stesso effetto spiacevole, portandola a contrarre il viso in una smorfia mentre un leggero calore percorreva tutta la sua gola e Lana sorrideva divertita.
L’arrivo di altri clienti le costrinse ad interrompere quella scenetta assurda che soltanto loro erano in grado di mettere su, così si concentrò sui drink da preparare.
Dopo aver servito gli altri clienti, Madison approfittò del fatto che fossero tutti in pista per gettare un’occhiata alla sala: la musica era praticamente assordante e tutti erano ammassati gli uni sugli altri, saltando e muovendosi a ritmo di musica.
Madison si sentiva fuori luogo, ma il fatto di trovarsi dietro al bancone compensava il tutto, come se fosse protetta, come se fosse un’entità a parte che non era compresa nella scena.
Era dietro al sipario, a guardare ciò che accadeva da dietro le quinte, con indosso i jeans e una semplice camicetta rossa a quadri. Sembrava una perfetta barista, a dirla tutta. Ad un tratto, Lana le rifilò una leggera gomitata, richiamandola.
“Ehi”, cominciò, facendosi vicina a lei come per non farsi sentire da altri. “Ho visto qualcosa che ha sicuramente attirato la mia attenzione”.
Madison seguì il suo sguardo incatenato a tre figure sedute ad un tavolino: erano due ragazzi, o meglio due uomini, di cui uno le dava le spalle, e una ragazza. La sua visuale le concedeva di vedere soltanto uno dei tre, che avrebbe dovuto avere almeno intorno ai trenta anni. Madison si voltò un attimo verso Lana che lo osservava quasi rapita e un sorriso divertito le spuntò sul viso, mentre scuoteva il capo in segno di dissenso.
Aveva la carnagione chiara, i capelli castani e la barba perfettamente curata lo faceva sembrare quasi un uomo d’affari. Nonostante fosse evidente un uomo maturo, riusciva a mimetizzarsi perfettamente nell’ambiente, guardandosi attorno con un aria fintamente distratta mentre gli occhi azzurri esaminavano l’ambiente che lo circondava. Era vestito in maniera molto semplice e sorrise parlando con i suoi interlocutori di cui Madison poteva vedere solo le schiene. Intanto, Lana continuava a guardarlo con aria interessata.
“Fusto”, esclamò in maniera così chiara e diretta che le fece alzare gli occhi al cielo.
Madison si prese qualche istante per osservarlo meglio e poté decretare con estrema facilità che quello non rispecchiava affatto un tipo interessante per lei, nonostante il fascino che sicuramente lo caratterizzava. Il suo fascino poteva essere classificato  “ipnotico”, come le sue movenze, il modo in cui muoveva le mani allo stesso tempo delle labbra che stavano pronunciando chissà quali frasi. Sembrava stesse dicendo qualcosa di interessante, dato che il suo amico era immobile ad ascoltarlo, anche se Madison non poteva guardarlo in viso.
Un serpente, ecco cosa le sembrava quello sconosciuto. Era un serpente che distraeva con i suoi modi di fare magnetici, in attesa di stoccare il colpo finale alla persona ignara che gli stava di fronte, senza avere la minima idea di cosa gli stesse per accadere.
Madison scosse la testa, mettendo da parte quei vaneggiamenti assurdi…quel lavoro da cameriera non faceva bene ai suoi viaggi mentali, portandola ad osservare minuziosamente i clienti che le passavano di fronte. In fin dei conti, le piaceva stare lì a scrutare le persone…era più interessante scandagliare l’animo degli altri che di sé stessa.
Lana sbuffò sonoramente quando vide di dover servire dei clienti e quindi interrompere la sua opera di ammirazione totale e devota di un tizio senza nome.
Madison trattene una risata e continuò il suo lavoro, scuotendo la testa.
“Una vodka con ghiaccio, un whisky e una soda, per favore”.
Madison fermò ciò che stava facendo, mentre una lampadina sembrava accendersi improvvisamente nella sua testa, dopo troppi minuti passati nel buio totale.
Sollevò leggermente lo sguardo, riconoscendo quella voce e con esso anche il suo proprietario che aveva spostato lo sguardo sul resto del locale con aria un po’ annoiata, come se si sentisse un pesce fuor d’acqua per nulla adatto a quell’ambiente.
Ricordò il post it giallo che aveva buttato da qualche parte dopo che i danni alla sua macchina erano stati ampliamente riparati: fra tanti posti, Derek Hale doveva trovarsi proprio al Wolf’s Street.
Derek Hale. Quel Derek Hale che aveva vissuto nella sua città natale, quel Derek Hale che aveva visto da bambina e che aveva frequentato il suo liceo per qualche anno, quel Derek Hale la cui famiglia era bruciata in un incendio che aveva allarmato tutta la città.
Madison bloccò la smorfia in procinto di nascere sul suo viso e si affrettò a servirlo, facendo finta di nulla, mentre una vocina dentro di lei si chiedeva se l’avrebbe riconosciuta o meno.
Mentre lei aveva fatto tutto ciò, Derek aveva tenuto lo sguardo altrove, permettendo a Madison di osservarlo e fare la differenza con la mattina in cui l’aveva visto alla caffetteria.
Una maglietta nera gli fasciava perfettamente i muscoli ben definiti.
Il volto era più disteso e meno stanco da come le era apparso quel giorno, senza occhiaie o segni di spossatezza, mentre la leggera barba era sempre impeccabile.
Derek frullava le ciglia mentre gli occhi si spostavano dal portafoglio in pelle marrone che aveva fra le mani e il tavolo dove era seduto, senza soffermarsi sulla figura dinanzi a lui.
“Ecco a te”, esclamò Madison, poggiando i bicchieri sul bancone, mentre lui alzava il volto di scatto con ancora i soldi fra le mani, ridestandosi.
Derek sollevò lo sguardo e alzò un sopracciglio, mostrando quello che secondo la sua mimica facciale poteva essere classificato come un sorriso, ma che sembrava più una smorfia sorpresa.
“Tu”, disse Derek con un tono di voce rassegnato, guardando il suo interlocutore.
“Il mondo è piccolo a quanto pare”, scherzò Madison, poggiando i gomiti sulla superficie del bancone, laccata di rosso, in tinta con la camicetta che indossava quel giorno.
“Hai intenzione di perseguitarmi, per caso?”, domandò lui, mostrandosi stufo.
Madison rizzò subito la schiena, guardandolo torva e chiedendosi se stesse scherzando o facesse sul serio, mentre la voglia di gettargli la vodka addosso si faceva prominente.
“Fino a prova contraria, sei venuto tu da queste parti”, lo contrastò lei, incrociando le braccia con aria di superiorità. “Io qui ci lavoro, magari sei tu a perseguitarmi”.
“Credimi, ho di meglio da fare…”, la guardò disorientato come se stesse cercando di ricordare qualcosa per completare la frase, precisamente qualcosa come il suo nome.
“Madison”, continuò lei, cercando di non far trapelare il leggero fastidio che aveva iniziato a farsi sentire, a partire dallo stomaco fino a risalire verso la gola. “Credevo ricordassi il nome di quella che ti ha spillato i soldi per riparare la propria macchina”.
Quello che Madison non sapeva, era che a Derek non era sfuggito nulla, cosa che lo portò a sorridere, ma lei era troppo impegnata a cercare di controllarsi per notarlo.
“Ah, Nolan”, dichiarò Derek, fingendo di ricordare un nome che, in realtà, non aveva dimenticato, perché ancora scritto su quel foglietto bianco e stropicciato. “Sai, cercavo di rimuovere quell’evento spiacevole dalla mia testa…unicorni compresi”.
Derek aveva buttato il foglio, non prima di averlo osservato un’ultima volta, ma giaceva ancora nella sua mente, con quella calligrafia così piccola e confusa da costringere un insegnante a prendere appuntamento con un oculista.
“Non hai nulla di meglio da fare?”, chiese lei leggermente irritata. “Come tornare dal tuo ragazzo?”.
Derek sgranò gli occhi, quasi spaventato dall’insinuazione che Madison aveva appena fatto, e scosse la testa, come disgustato per ciò che le sue orecchie avevano udito.
“Io sono suo zio e quella è sua sorella”, quello che Madison aveva classificato come “serpente”, si intromise, afferrando il bicchiere che conteneva il whisky per portarselo alle labbra, ma non prima di averlo alzato verso di lei, come per ringraziarla. “Grazie, bellezza!”.
Madison spostò lo sguardo da lui all’uomo che sembrava troppo giovane per fargli da zio, e la ragazza in loro compagnia, impegnata a parlare con altre persone, con un’espressione decisamente confusa. Lo osservò leggermente sorpresa, mentre l’uomo la guardava con una nota curiosa e vagamente interessata sul viso.
“Non bastano i soldi che mi hai spillato per la macchina?”, domandò Derek, ripetendo le sue stesse parole di prima. “Adesso devo anche darti la mancia?”.
Madison lo fulminò, incassando quella stilettata che il signor Derek “ce l’ho ancora con te per avermi fatto frenare all’improvviso” Hale le aveva appena donato, e decise di rispondere in maniera altrettanto diretta ma con più stile.
Quando Derek fece per pagare i drink, la ragazza lo fermò subito.
Nonostante le avesse rovinato la macchina, motivo valido per far parte della sua lista nera, si sentì costretta a riconoscere che poteva concedergli quei drink gratis, ma soltanto quelli e giusto per dimostrarsi più buona di quanto potesse sembrare.
“Questi li offre la casa”, disse con convinzione, spingendo in avanti il suo bicchiere.
“Stavo scherzando, sul serio”, ribatté Derek con una voce che si era fatta un po’ più seria e quasi…mortificata? Cosa aveva da dispiacersi, poi?
Madison non rispose ed emise un sospiro annoiato, per poi spostare nuovamente il bicchiere verso di lui, cercando di fargli intendere che non aveva alcuna intenzione di cambiare idea, così Derek afferrò il bicchiere, rassegnato.
Madison cercò con tutte le sue forze di non esibire un sorriso vittorioso.
“Ah, io sono Peter!”, intervenne l’altro, beccandosi uno sguardo seccato di Derek.
Madison sorrise a quell’uscita improvvisa di Peter, poiché sembrava proprio che non gradisse quando qualcuno lo ignorava chiaramente, come avevano fatto loro.
Derek la fissò per qualche secondo che sembrò durare ore ed ore interminabili, annullando la musica e tutto l’ambiente intorno, mentre quegli occhi verdi scandagliavano il suo volto stanco, chiedendosi forse il motivo di quel moto di gentilezza.
Aveva lo stesso sguardo di qualche mattina fa.
Madison sostenne quello sguardo, fin quando non venne richiamata da Lana, che stava tornando dalla parte opposta del bancone con dei bicchieri vuoti fra le mani.
L’amica notò subito Peter che ricambiò la sua occhiata a dir poco coinvolta, mentre Derek alzava gli occhi al cielo, per nulla interessato ad assistere alle esibizioni di suo zio.
Il ragazzo gli diede un colpetto sul gomito, richiamandolo all’ordine, così Peter dopo avergli rivolto un sorrisetto sardonico e un occhiolino sia a lei che a Lana, si allontanò.
Derek poggiò il bicchiere sul bancone, per poi rivolgere un cenno con il capo a Madison, lasciandosi distrarre dal sorriso leggermente imbarazzato che lei gli rivolse in saluto.
Avrebbe voluto sorriderle, ma qualcosa lo aveva fermato, forse l’istinto di autoconservazione che gli era rimasto dopo quell'ultimo evento che aveva reso la sua vita ancora più cupa di quanto non fosse già. Quello strano e spiacevole evento portava il nome di Jennifer Blake".
Madison lo osservò mentre usciva dal locale, con suo zio accanto, ancora leggermente stonata per quello strano secondo incontro che sembrava averle lasciato una sorta di inquietudine nell’animo, e senza farle staccare gli occhi dalla sua figura.
“Tu conosci il fusto?”, la domanda meravigliata di Lana le giunse alle orecchie come la campanella del liceo che segnava la fine delle lezioni, ma in quel caso sembrava indicare più la fine dei pensieri strani e incondizionatamente rivolti ad un mezzo sconosciuto.
Madison si abbandonò ad un sospiro e si voltò, pronta non soltanto a finire quella nottata ma anche a rivelare a Lana con chi avevano appena avuto a che fare.
 
Nadia fece un profondo respiro, cercando con tutta sé stessa di scacciare quel dolore che era ancora impresso completamente nelle sue membra, come marchiato a fuoco.
Riusciva a malapena a reggersi in piedi ma non aveva alcuna importanza, avrebbe tenuto duro perché era quello che faceva da una vita.
Non avrebbe permesso che quel bugiardo, quel mostro, mettesse le mani sull’unica cosa preziosa che le era stata donata.
Volse un ultimo sguardo al suo appartamento, giusto per ricordarlo così com’era, rammentando anche tutto il tempo che aveva passato al suo interno e poi guardò i suoi genitori.
Jonathan e Thiana Blanchard erano in piedi nel salotto di quell’appartamento piccolo e accogliente, osservando con espressione preoccupata ciò che la donna stringeva spasmodicamente tra le dita.
Nadia si avvicinò ai due, attirando la loro attenzione: aveva ancora il viso pallido e sconvolto , mentre le pupille erano leggermente dilatate e il petto si alzava e si abbassava freneticamente.
Sua madre, Thiana, poteva dire con certezza di non aver mai visto sua figlia così sconvolta, ma sapeva, così come suo marito, il motivo che le aveva causato tanta agitazione.
Si specchiava in quegli occhi verdi, che sapevano di ricordi felici: le rammentavano il verde dell’erba perfettamente curata in cui Nadia si rotolava da bambina, inseguita da suo padre mentre lei li osservava con un sorriso beato in viso.
Mai come in quel momento, Thiana capì la futilità della vita umana. Ogni cosa poteva esserle strappata da un momento all’altro, senza neanche il tempo di realizzare se stesse accadendo davvero e senza il tempo necessario per dire addio.
Stava perdendo sua figlia e non poteva far altro che guardarla.
“Partite, oggi stesso”, disse, mantenendo un tono calmo, per quanto le fosse possibile e porgendo loro una boccetta dal contenuto sconosciuto. “Questo vi aiuterà a non farvi rintracciare”.
Suo padre, Jonathan, si stava sforzando per assorbire le parole di sua figlia una ad una, chiedendosi perché dovesse capitare proprio a loro. Perché la sua unica figlia stava pregando loro di fuggire, consegnando loro la sua bambina, sapendo di non poterla più rivedere?
“Nadia”, tentò l’uomo, facendo un passo avanti ma la ragazza si ritrasse, con gli occhi colmi di lacrime e un’espressione contrita sul suo bel viso oscurato da quella notte tetra.
“Mi dispiace”, sussurrò lei, udendo la sua voce spezzarsi al pensiero di dover rinunciare alla sua famiglia per una sua azione, alla quale era troppo tardi per porre rimedio. “Vi voglio bene, e ne voglio anche a Madison…prendetevene cura come fosse vostra, so che sarete perfetti. Adesso dovete andare, l’effetto non durerà ancora per molto…il tempo sta finendo”.
I due coniugi si scambiarono un ultimo sguardo preoccupato, ammirando per l’ultima volta la loro unica figlia che li fissava con insistenza e timore.
Nadia avrebbe tanto voluto abbracciarli ma non poteva: quello doveva essere un addio silenzioso, fatto solo di sguardi malinconici e parole sussurrate. Nessuna stretta di mano, nessun abbraccio, nessun contatto…perché in quel caso, anche il più semplice sfioramento poteva essere fatale.
Quella fu l’ultima volta che i signori Blanchard videro la loro unica figlia, la quale, dopo aver aspettato che fossero andati via, si sedette sul divano, in attesa.
La bocca era ridotta ad una linea dura e sottile, gli occhi stanchi rimasero fissi sulla parete dinanzi a lei, mentre il suo volto non mostrava alcun segno di confusione o scompiglio.
Nadia era certa di ciò che aveva fatto e di ciò che sarebbe successo, ma questo non la turbava e nessun senso la ingannava: il battito del suo cuore era perfettamente calmo.
In realtà, si stava arrendendo…non avrebbe combattuto.
Semplicemente attese, fin quando un rumore familiare la costrinse a voltarsi.
“Sapevo che ti avrei trovata qui”, sibilò quella voce che conosceva bene, tanto che era in grado di cogliere ogni sua sfumatura…e sapeva che in quel caso, racchiudeva rabbia e frustrazione, miste ad una leggera ironia.
“E’ tardi”, rispose Nadia, riportando lo sguardo sulla parete tinta di rosso, evitando gli occhi azzurri che l’avevano tratta in inganno fin dal primo momento.
“Oh, io non credo”, la sua voce aveva assunto una sfumatura diretta: più arrogante e consapevole, quasi vittoriosa, come se gli sforzi di Nadia non fossero serviti proprio a niente, pensiero che portò la ragazza a tremare leggermente.
Quella fu l’ultima cosa che udì, dopodiché per Nadia ci fu solo una voragine oscura.
 


Angolo dell’autrice
 
Eccomi qui con il secondo capitolo, puntuale e senza alcun giorno di ritardo. Giuro che non l’avrei mai detto! Il capitolo era scritto ma a causa di un cambiamento improvviso nell’impostazione della storia, ho dovuto rivederlo, quindi non ero sicura di farcela. La storia sarà incentrata non soltanto su Derek e Madison ma anche sui nostri amati adolescenti di Beacon Hills, che appariranno più avanti. Intanto, in questo primo capitolo, vediamo Derek che per un qualche scherzo del destino incontra nuovamente Madison e spero di aver reso Derek abbastanza IC, poiché ho paura ad ogni parola che scrivo. So che forse l’immagine di Derek, Peter e Cora che vanno a bere una cosa insieme può essere abbastanza surreale, ma (per come la vedo io) ci può stare, soprattutto se Derek e Cora si coalizzano contro il loro zio preferito, mandandogli frecciatine. Infine, c’è questo stralcio passato della madre di Madison che la lascia ai suoi nonni per un motivo…secondo voi perché? Direi che questo è quanto, almeno per ora. Grazie a tutti, come sempre!
Alla prossima, un abbraccio!

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Capitolo 3
*** II - Human ***


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II

Human
 
“All I have, all I need, he’s the air I would kill to breathe.
Holds my love in his hands, still I’m searching for something.
Out of breath, I am left hoping someday I’ll breathe again”.
(Breathe again – Sara Bareilles)
 
 
Madison strinse gli occhi, giusto quel poco che le bastava per ritornare con i piedi per terra e con la presa ben salda su quella corda che la teneva ancorata ai pochi pensieri positivi che le erano rimasti. Quello era l’unico modo che l’aiutava a calmarsi, quando lo sconforto prendeva il sopravvento e mai come in quel momento le sembrò difficile. Fece un profondo respiro e continuò a riporre tutto ciò di cui non aveva più bisogno in quello scatolone senza nomi, etichette o qualsiasi altra cosa che potesse indentificarlo. Perché Madison non voleva riconoscerlo, non voleva guardarlo e leggere il nome di Keith Donovan a caratteri cubitali. Doveva essere un semplice scatolone e nulla di più. Non doveva rappresentare uno spioncino per ricordare il tempo passato con Keith. Non doveva essere un anno ormai andato in cui si rituffava durante le serate in cui si sarebbe sentita sola. Non doveva essere qualcosa da cui essere dipendente, ma solo uno scatolo da buttare.
“Ti serve una mano?”, la domanda di Lana, poggiata allo stipite della porta con una tazza fumante di caffè fra le mani, le arrivò alle orecchie, ridestandola.
“No, tranquilla”, rispose, sentendosi subito più serena. “Ho quasi finito”.
“L’ho incontrato ieri”, continuò la ragazza, sedendosi sul pavimento accanto a lei. “Era nella segreteria del campus per compilare alcuni moduli e mi ha chiesto di te”.
“Uhm”, Madison non seppe che altro dire, poiché in parte le veniva da ridere.
Keith Donovan era decisamente un tipo singolare, come la storia che avevano portato avanti per più di un anno. Non aveva molto di cui stupirsi: erano stati insieme, si erano amati e poi semplicemente erano arrivati ad un punto in cui ogni cosa fra loro era andata in tilt, e la voglia di aggiustare tutto sembrava mancare ogni giorno di più.
Era stato lui il primo ad accorgersene, Madison aveva preferito non vedere, perché convinta del fatto che si potesse ignorare beatamente un problema per farlo svanire del tutto.
Keith era diventato distante, ad ogni bacio che si scambiavano la mattina, lui sembrava allontanarsi sempre di più da lei, per un motivo che forse non avrebbe mai compreso.
Aveva creduto che dargli tempo fosse la scelta più saggia e che le cose si sarebbero aggiustate da sole. Tuttavia, quella sua voglia di sviare il problema non aveva fatto altro che renderlo più evidente agli occhi di Keith, motivo per cui si ritrovava in quella situazione.
La sera in cui aveva pronunciato la fatidica frase, non c’erano state sfuriate, urla o piatti rotti, era calato un silenzio così duro da far paura, e Madison gli aveva solo detto di andare via il prima possibile. Keith non aveva tentato di parlarle, sarebbe stato inutile.
Durante la notte, Madison era stata svegliata da un fruscio familiare ma non aveva avuto il coraggio di volgere lo sguardo dall’altra parte del letto, così aveva fissato il muro, mentre Keith si muoveva alle sue spalle, pronto a lasciare quella camera che avevano condiviso.
Fu solo dopo aver udito la porta chiudersi che Madison si sentì libera di piangere, avendo soltanto la notte come unica confidente di quello sfogo. Fu come smettere di respirare, realizzando che tutto ciò che era rimasto di lei e del ragazzo che amava non fosse altro che tanti pezzi sparsi per il pavimento e che mai sarebbero tornati insieme.  E continuava a perdere il respiro, ogni volta che lo incrociava nel campus, ogni volta che entrava nella caffetteria insieme ad un gruppo di amici perché non poteva certo impedire l’accesso a lui o a qualcuno dei suoi compagni di corso. Continuava a perdere il respiro ogni volta che quegli occhi chiari in cui si era persa tante volte, si scontravano con i suoi e poi guardavano altrove, perché il suo sguardo era troppo faticoso da reggere. Forse Keith non riusciva a guardarla negli occhi con la consapevolezza di averla delusa, di aver apertamente rifiutato di ricostruire ciò che restava di loro due. Correre via era stato più semplice.
Madison riportò l’attenzione su ciò che stava facendo. Il dolore non era altro che una conseguenza dell’essere umani, quindi avrebbe solo dovuto sopportarlo ed espellerlo.
Sigillò lo scatolo con del nastro adesivo, chiudendo definitivamente quel capitolo della sua vita e tirando un respiro profondo. Il suo era un respiro di rassegnazione, che forse un giorno si sarebbe trasformato in un sospiro di sollievo, ma Madison avrebbe dovuto pazientare ancora un po’ per arrivarci. Nel frattempo, era pronta per il suo turno di lavoro.
 
Ovviamente, neanche quella mattina ci fu bisogno per Derek Hale di permettere alla sveglia di suonare alle sette in punto. Non ce ne era mai bisogno, in effetti, poiché era Derek a comportarsi come una perfetta sveglia, alzandosi almeno mezz’ora prima dell’orario prestabilito e disattivando l’allarme prima che questo potesse rumorosamente risuonare all’interno del suo appartamento. Diede inizio a tutta la sua ruotine mattutina, cercando di non svegliare Cora, tentativo ovviamente inutile, vista la sensibilità della sua sorellina che la portava a maledirlo almeno ogni singola mattina, poiché le impediva di dormire. Sentì la ragazza mugolare dalla sua stanza per esprimere tutto l’odio nei confronti del suo amatissimo fratello maggiore, ma Derek non ci badò e sorrise, continuando a far finta di niente e rendendosi in ogni caso il meno fastidioso possibile.
Si appoggiò al tavolo della cucina, con lo sguardo rivolto verso la finestra che si affacciava su tutta Berkeley. Era strano per Derek doversi alzare al mattino senza qualche grattacapo per la testa, come succedeva praticamente ogni giorno a Beacon Hills. Era davvero qualcosa di completamente nuovo per lui. Era sempre stato così abituato a rischiare la vita per più di due volte al giorno che in quel momento, un meritato riposo sia del corpo che della mente dopo le ultime vicende gli sembrava praticamente inconcepibile. Faceva ancora fatica a credere che sua sorella Cora avesse deciso di spostarsi a Berkeley ed iscriversi al liceo della città con la seria intenzione di frequentare il college una volta diplomata. Tuttavia, sua sorella era pur sempre un’adolescente e, come tutti gli altri, aveva il diritto di mantenere normali alcuni aspetti della sua vita. Derek aveva deciso spontaneamente di provvedere economicamente a tutto ciò di cui sua sorella potesse avere bisogno e poi lei lo aveva pregato di correre a trovarla e per qualche strano motivo lui aveva acconsentito.
Certo, nessuno lo aveva costretto a farlo ma evidentemente ne aveva un forte bisogno, punto su cui Scott aveva posto decisamente attenzione, insieme a quel piantagrane di Stiles.
Si lasciò sfuggire un sorriso, sperando che quei due non si fossero cacciati in nessun tipo di guaio durante la sua assenza e che stessero entrambi bene.
Per un attimo, una domanda attraversò la sua mente…come avrebbe condotto la sua vita se non fosse nato licantropo? Come sarebbe stata la sua esistenza se fosse nato come un semplice ragazzo normale e senza abilità soprannaturali? Forse avrebbe frequentato il college, iscrivendosi ad una facoltà letteraria, perché continuava ad avere quella passione viscerale per i libri che lo portava a divorarne quanti più possibile. Scosse la testa, ritornando con i piedi per terra. Il riposo non gli faceva bene per niente. La sua mente era troppo leggera e quindi libera di spaziare fra i dubbi e le domande più strane, capaci di avvolgerlo con una patina di inquietudine che mai gli si era mostrata. Forse i disperati tentativi di salvare la vita sia di sé stesso che di altre persone gli avevano tenuto la mente costantemente impegnata e non abbastanza vuota per porsi domande simili.
La voce assonata e vagamente infastidita di Cora lo richiamò sull’attenti e si voltò verso la sorella che camminava verso di lui, sbadigliando e stiracchiandosi.
“Ho fame”, sentenziò con le palpebre semichiuse. “E visto che il frigo è vuoto andremo a fare colazione in quella caffetteria accanto al college che tanto mi piace”.
Derek scrutò sua sorella, realizzando l’ordine appena pronunciato ed emise un sospiro sconfitto, sapendo che non avrebbe avuto modo di contraddirla. Tuttavia, quella mattina Derek Hale si sentiva stranamente di buon umore e decise di aspettare pazientemente Cora, fin quando la sua pazienza venne gentilmente intaccata da Peter, come un brusio continuo che si faceva sentire ad intermittenza.
Derek riservò un secondo sospiro anche per quel piccolo particolare e una volta che Cora fu pronta, uscì di casa, afferrando la sua giacca di pelle e le chiavi della macchina, pronto per la mattinata. Mentre percorreva le strade di Berkeley insieme a Cora e Peter alla ricerca della fantomatica caffetteria, Derek controllò il cellulare, notando che nessuno lo aveva cercato e per un attimo, l’idea di chiamare Scott gli attraversò la mente, solo che non voleva preoccuparsi come il solito malpensante. Si fidava di Scott e non c’erano dubbi sul fatto che fosse un alpha migliore di lui ma non era stato poi tanto felice di lasciarli soli a Beacon Hills dopo tutta la faccenda del Nogitsune. Era ovvio che Scott fosse in grado di gestire la situazione ma non riusciva ad accantonare la cosa, poiché era abbastanza sicuro di come troppe responsabilità gravassero sulle spalle del ragazzo. Quando era diventato così apprensivo verso quella banda di ragazzini urlanti e fastidiosi? Era passato da babysitter costantemente irritato dalla loro presenza e dalla loro abilità a mettersi nei guai ad una specie di fratello maggiore. Ovviamente tutto ciò non combaciava moltissimo con la sua figura…poiché mai si sarebbe immaginato di cambiare così radicalmente atteggiamento, eppure era successo. Lui non aveva mai avuto un’adolescenza normale, gli era stata negata, mentre quei ragazzini facevano praticamente in modo che i problemi trovassero loro, come andare in giro per i boschi a cercare un cadavere e farsi mordere da un alpha psicopatico con manie di protagonismo e di grandezza. Per un certo periodo, Derek li aveva odiati, perché potevano vivere una vita normale, a differenza sua che non sapeva neanche cosa significasse il termine “normale”, ma questo Derek non l’aveva mai confessato a nessuno e non avrebbe cominciato allora. Per il momento, l’unica sua preoccupazione riguardava la sicurezza di Scott e di quel branco di cui non avrebbe mai fatto parte, almeno per come la vedeva lui. Tuttavia, lo stesso Scott aveva insistito affinché Derek andasse a trovare sua sorella a Berkeley e aveva deciso di farlo. D’altronde, non poteva dire che non avesse bisogno di un po’ tregua. La cosa che lo sorprese maggiormente fu trovare suo zio Peter appoggiato alla macchina con un borsone in spalla la mattina che aveva deciso di mettersi in viaggio verso Berkeley. Gli aveva chiesto se facesse sul serio ma Peter era stato abbastanza categorico sulla sua decisione e Derek sapeva che, anche se l’avesse mandato via a calci, il licantropo si sarebbe fatto trovare lì al suo arrivo, così si arrese, seppur a malincuore. Almeno, Peter non gli stava dando poi tanto fastidio, per sua fortuna.
“Ehi, terra chiama Derek”, lo rimbeccò Cora, sventolando la mano davanti al suo volto corrucciato e pensieroso come al solito. “Ho bisogno di carboidrati, quindi sai cosa fare”.
“Da quando sono diventato il tuo lacchè?”, chiese Derek, riflettendo sugli ordini che Cora gli aveva impartito negli ultimi giorni, anche per le cose più stupide.
“Devi solo essere premuroso con tua sorella”, ribatté lei, come  fosse la cosa più normale del mondo, mentre Peter rideva sotto i baffi. “Allora… un cappuccino, un caffè espresso,  un altro con caramello, crema al cioccolato e una spruzzata di vaniglia, e cinque muffin”.
Derek ricevette uno spintone da Peter ed entrò nella caffetteria, mentre suo zio e sua sorella se ne stavano fuori ad osservare l’università a ben poca distanza da loro.
Fece per avvicinarsi al bancone ma si bloccò a metà strada, notando una figura familiare.
Dietro al bancone della caffetteria poteva esserci chiunque: una simpatica vecchietta, un ragazzino fastidioso che si divertiva a far spazientire i clienti, una donna sulla quarantina, una ragazza bionda. Poteva esserci una persona qualsiasi che Derek Hale non aveva mai visto in vita sua, ma una strana concatenazione di eventi aveva fatto sì che dinanzi a lui ci fosse la ragazza dell’incidente e del Wolf’s Street.
Derek si chiese perché l’universo avesse deciso di punirlo a quel modo.
Madison. Era la seconda volta che la vedeva alla luce del giorno, ma dopo l’incidente non si era impegnato molto ad osservarla, poiché era leggermente più preoccupato per la macchina e per i soldi che avrebbe dovuto sborsare per riparare alla distrazione di una ragazzina.
Quella mattina, Madison sembrava una persona completamente diversa e quasi luminosa.
Indossava una maglietta a righe bianche e nere e aveva i capelli lunghi raccolti in uno chignon, mentre rivolgeva un sorriso affabile ad ogni cliente che le si presentava davanti come se li conoscesse. Le espressioni che riservava loro era completamente diverse da quelle che aveva rivolto a lui. Tuttavia, era chiaro che Derek Hale non suscitasse tanta simpatia agli sconosciuti e Scott e Stiles ne sapevano sicuramente qualcosa al riguardo, considerando i trascorsi. Quella sera al Wolf’s Strett, invece, le luci al neon e l’ambiente semibuio gli avevano permesso solo di notare qualche particolare sparso qua e là, come la camicetta rossa e le unghie laccate dello stesso colore, o i capelli castani lunghi fino alle spalle e le labbra che si arricciavano in un sorriso sardonico mentre gli si rivolgeva con una nota di ironia.
“Mi stai prendendo in giro?”, domandò lei, non appena si ritrovò Derek dinanzi.
“Felice di rivederti”, esclamò Derek, affondando le mani nelle tasche della giacca.
“Sei uno stalker?”, chiese Madison, poggiando le mani sui fianchi.
“Cosa?!”, ribatté lui, leggermente indignato. “Sei fuori? Sono qui per un’ordinazione”.
“E visto che sono una persona professionale, svolgerò il mio lavoro”, continuò lei con voce fiera, e trattenendo uno sbuffo, mentre Derek cercava di non ridere. “Cosa ti porto?”.
“Già”, aggiunse lui con tono serio. “Allora, un cappuccino, un caffè espresso,  un altro con caramello, crema al cioccolato e una spruzzata di vaniglia, e cinque muffin, da portare”.
 “Mangi tutta questa roba?”, continuò lei, alzando lo sguardo su di lui e spostandosi per prendere i cinque muffin e infilarli in un sacchetto che venne appositamente chiuso.
“Credi davvero che mangerei tutto questo?”, chiese Derek, di rimando, scrollando le spalle.
“Beh, scusa, cosa posso saperne?”, affermò Madison. “Dalla tua risposta deduco che la tua ordinazione è quella più banale, ovvero un caffè espresso”.
“Cosa hai contro l’espresso?”, le chiese lui, inclinando leggermente il capo da un lato.
“Nulla, è solo ordinario e semplice, con tutte le possibilità di scelta che ci sono”.
Intanto, il licantropo la stava fissando con una certa curiosità, studiandola e cercando di percepire ogni emozione che riusciva a far trapelare attraverso le sue espressioni facciali. Il suo ragionamento lo fece divertire, poiché Madison lo stava indirettamente definendo ordinario e magari banale, senza nemmeno conoscerlo e basandosi solo sul caffè.
“A me piace”, disse con sincerità mentre la sua voce prendeva un tono imbronciato.
Madison, che stava preparando le bevande, gli gettò uno sguardo, rivolgendogli un sorriso, e poi mise anche il cappuccino e i caffè sul bancone, incrociando le braccia.
“Allora devi essere un tradizionalista, Derek Hale”, convenne lei, pronunciando con maggiore enfasi il suo nome, cosa che stranì leggermente il ragazzo.
Perché Derek aveva la strana sensazione che quella ragazza lo conoscesse? Forse stava semplicemente dando i numeri, eppure non sembrava trattarlo come un estraneo, anzi.
“Probabile”, aggiunse Derek, prendendo il portafoglio, in attesa che lei parlasse ancora.
“Sono sei dollari e dieci”, affermò la ragazza, guardandolo con curiosità. “Cinque se smetti di seguirmi e farti trovare nei posti da me frequentati”.
Derek volse gli occhi verdi verso di lei, permettendo a Madison di osservarli ancora una volta alla luce del sole, e scosse lievemente il capo, come preso da una riflessione seria.
“Non ti sto seguendo”, disse lui con voce offesa e pagando l’ordinazione. “Non è colpa mia se ti fai trovare dinanzi ai piedi, non trovi?”.
“Se per ovunque intendi due posti in cui lavoro”, rispose con un finto tono naturale.
Una parte di Derek si sentì quasi irritata da tutte quelle insinuazioni, ma scrutandola con maggiore attenzione, sapeva che Madison lo stava praticamente prendendo in giro, come se si divertisse ad infastidirlo con tutte quelle parole messe accuratamente insieme per farlo spazientire. Derek le rivolse un cenno con il capo come saluto, prendendo la colazione per lui, Cora e Peter, rivolgendole un sorriso appena accennato e camminando verso l’uscita.
Derek poteva sentire lo sguardo della ragazza fisso sulla sua schiena e la parte di lui che desiderava voltarsi e dire qualcos’altro venne praticamente scazzottata dal ricordo di una scena abbastanza simile, dove lui era di spalle e un’altra donna era dietro di lui: Jennifer.
Il solo ricordo di Jennifer Blake lo fece rabbrividire e Derek si diresse velocemente fuori dalla caffetteria, cercando di espellere quel veleno che aveva ripreso a scorrergli fastidiosamente nelle vene. Nei momenti più bui, Jennifer Blake riprendeva nuovamente consistenza nella sua mente, ricordandogli quel nuovo sentimento che lo aveva praticamente schiaffeggiato, ricordandogli che lui, Derek Hale, non aveva diritto al più piccolo briciolo di felicità. Guardare più attentamente una sconosciuta, alla fine, lo conduceva sempre verso il ricordo di Jennifer, perché ormai la sua fiducia verso il genere umano non faceva che scarseggiare. Non che prima si fidasse maggiormente, ma con Jennifer aveva toccato il fondo e lo sapeva. Aveva giocato con lui, attirandolo come una sirena ammaliatrice e bugiarda per farlo cadere in una trappola dalla quale ne sarebbe uscito devastato come non mai, perché lui, Derek Hale, non aveva il diritto di uscire indenne da qualunque cosa in cui si invischiasse. Tentò di focalizzare tutta la sua attenzione su Cora che lo aspettava fuori, cercando espellere il più possibile quel veleno che continuava a circolare, facendogli male, proprio come il morso di un serpente. Non aveva mai sentito un gran bisogno di avere qualcuno vicino, non era come Scott e Stiles che facevano di tutto per tenersi stretto l’amore che meritavano. Derek, a differenza loro, non andava in cerca di nulla se non di un po’ di pace. Tutto quello che gli era capitato non era stato altro che un turbinio di eventi che lo avevano travolto quasi come uno tsunami: Kate per prima e poi Jennifer. Soltanto con Paige era stato tutto naturale, lento e delicato, prima di sforare nel sangue e nella tragedia. Perché ovunque Derek andasse, non c’era altro per lui: solo sangue e dolore.
Se fosse stato una persona normale e non un licantropo, avrebbe potuto mettere fine a quei capitoli della sua vita, voltando pagina come facevano tutti. Tuttavia, Derek non poteva, perché non era umano: era un licantropo, e le donne che aveva amato non erano donne comuni, bensì una cacciatrice e un mostro.
“Vorrei fare un giro per il college”, esordì Cora, mostrando un sorriso luminoso che gli strinse il cuore. “Mi piacerebbe mostrarvelo”.
Il licantropo non poté fare altro che sorriderle di rimando, cominciando a camminare con il suo caffè tra le mani, mentre Peter gli gettava un'occhiata delle sue.
Nel caso di Derek Hale, chiudere un capitolo non era tanto semplice, per quanto potesse desiderarlo. Forse un giorno, sarebbe riuscito a respirare di nuovo.
 

 
Alla fine, non ci voleva molto a premere un semplice tasto ed effettuare quella dannata chiamata, solo che per Keith sembrava la cosa più difficile da fare.
Non doveva essere coinvolto: aveva tentato il più possibile di essere freddo e distaccato.
Si trattava di semplice lavoro e lui lo stava svolgendo alla perfezione. Aveva fatto tutto ciò che gli era stato ordinato, aveva agito per conto di qualcun altro, tenendo sotto controllo la ragazza…ora faceva fatica persino a chiamarla per nome, tanto che desiderava mantenere le distanze.
Keith Donovan non era mai stato un bravo ragazzo, poiché questa espressione non poteva certo essere affibbiata a qualcuno che impiegava il suo tempo collaborando con un branco di licantropi, capitanato da un uomo tutt’altro che ragionevole e per nulla incline al rispetto del prossimo.
Non aveva mai dubitato di sé stesso, fino ad un anno fa. Freddo e manipolatore, così gli imponeva di essere il codice della sua famiglia, nonostante suo padre si stesse indubbiamente rivoltando nella tomba per il fondo che aveva toccato.
Prima di iniziare a svolgere quella strana missione per conto di un alpha, Keith non aveva mai avuto problemi del genere, né aveva mai dubitato di sé e non poteva credere che un paio di occhi verdi abbinati ad un sorriso da togliere il fiato potessero farlo vacillare.
Scosse la testa, ripetendo a sé stesso di non comportarsi da rammollito, e prese il cellulare.
Gli bastò poco per comporre quel numero che conosceva a memoria.
“Ehi, sono io”, esclamò lui, mantenendo un tono controllato. “Ci siamo?”.
La risposta che Keith ricevette dall’altro capo del telefono, fu proprio quella che temeva.
Avevano aspettato abbastanza, e il giorno tanto atteso, non da lui, era giunto.
Chiuse la chiamata e si prese qualche minuto per osservare il suo riflesso nello specchio.
Keith Donovan si odiava e se non fosse stato troppo impegnato a compatirsi o insultarsi forse si sarebbe fatto un esame di coscienza…ma quelli come lui non potevano permetterselo. Keith era un assassino, un bugiando…non un cacciatore, come suo padre, suo nonno e suo fratello prima di lui, la cui memoria non era stata più onorata da tempo. Sistemò la pistola, coprendola poi con la giacca e uscì, pronto a vedere ciò per cui aveva lavorato tanto tempo e ad assistere alle conseguenze di ciò che aveva tramato nell’ombra. Presto o tardi, sarebbe stato punito per questo.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Ed eccomi con il secondo capitolo di questa storia!
Qui abbiamo un po’ di Madison, un po’ di Derek, un po’ di Derek e Madison, e un po’ di Keith. Per quanto riguarda Madison, ci tengo a precisare che ha messo fine alla storia con il suo ex fidanzato Keith da circa due-tre mesi dopo che erano stati insieme un anno (inizialmente l’idea era che fosse passato un anno dalla rottura ma per motivi consoni alla trama ho dovuto modificare). Spero che l’espediente che ho ideato per far andare Derek a Berkeley non vi sembri banale, so che Cora dovrebbe trovarsi in Sud America ma non volevo allontanarli troppo da Beacon Hills e quindi ho pensato che Cora, essendo un’adolescente, deve pur frequentare il liceo e andare il college, no? Spero che non risulti stupido. Il terzo incontro tra Derek e Madison è abbastanza simile al secondo ma questa volta è avvenuto alla luce del giorno per un motivo preciso che verrà spiegato nel prossimo capitolo.
Qualche ipotesi su Keith e sull’ultima parte un po’ enigmatica? Spero tanto di avervi incuriositi! So che magari le cose vi potranno sembrare più ingarbugliate ma vi prometto che nel prossimo capitolo, si inizierà a fare un po' di chiarezza sulla vicenda! Infatti, il prossimo capitolo riprenderà proprio da dove è finito, quindi avremo sempre Derek, Peter e Cora impegnati in questo piccolo tour all’interno del college, e ovviamente rivredemo Madison, Lana e anche Keith.
Ci tengo a ringraziare immensamente tutti coloro che stanno leggendo!
Alla prossima settimana, un abbraccio :)

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Capitolo 4
*** III - Robbers ***


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III
 

Robbers
 
“Shadows settle on the place, that you left.
Our minds are troubled by the emptiness.
Destroy the middle, it's a waste of time.
From the perfect start to the finish line.
And if you're still breathing, you're the lucky ones”.
(Daughter – Youth)
 
Quattro cappuccini, sei caffè e circa dieci ciambelle dopo,  Madison si stiracchiò, voltandosi verso l’orologio appeso alla parete lilla che segnava le dieci.
“Buongiorno di nuovo, luce dei miei occhi!”.
Lana era appena entrata nella caffetteria con uno dei suoi sorrisi stampati sul volto e l’aria di chi non vedeva l’ora di fiondarsi in classe, perché Lana era esattamente così. La sua migliore amica attendeva sempre con impazienza di infilarsi in aula e seguire i corsi che più le interessavano, indubbiamente c’erano anche state quelle giornate che avevano visto Madison trascinarla dal letto per alzarsi ma di norma Lana amava l’università e le piaceva studiare. Nonostante Madison non capisse molto cosa potesse esserci di piacevole nello studiare un libro di diritto penale…ma Lana poteva chiedersi lo stesso di metodologie e tecniche dello scavo archeologico. A ognuno le sue passioni specifiche.
Lana si aggiustò il cappellino rosso, sistemando anche i capelli scuri perfettamente lisci che cadevano sulle spalle e strinse la mano attorno alla sua tracolla in tinta con il cappello. La sua entrata fece voltare non pochi clienti, ma Lana non ci faceva mai caso, poiché il suo desiderio era tutto tranne che attirare l’attenzione: Madison l’adorava anche per quello.
Lana Masters sapeva sicuramente di essere una delle più belle ragazze viste in circolazione, ma la cosa non sembrava importarle minimamente.
Si muoveva in modo naturale, senza badare agli occhi che potevano posarsi su di lei perché non li vedeva.
Conoscere una persona che sapeva concentrarsi più sugli altri che su sé stessa era raro, ma con Lana, Madison aveva davvero avuto un colpo di fortuna, poiché non l’avrebbe cambiata per nessun altro, tenendola stretta con tutti i suoi pregi e difetti.
“Avanti, Cenerentola!”, la richiamò Lana, poggiandosi al bancone. “Andiamo”.
Madison sorrise in risposta e prese la borsa e la giacca poggiate dietro al bancone per poi avvicinarsi all’amica che le portò un braccio attorno alle spalle.
L’entusiasmo che Lana sapeva mostrare di mattina era disarmante, le bastava alzarsi dal letto e camminare per il corridoio per potersi svegliare completamente, poiché appena sveglia sembrava un cadavere ambulante, cosa su cui Madison la scherniva continuamente.
Tuttavia, ci metteva pochissimo tempo a diventare attiva e pimpante.
Madison sorrise, ricordando la reazione che Lana aveva avuto giusto qualche sera fa, dopo aver scoperto che gli uomini con cui avevano conversato non erano altro che Derek e Peter Hale. Nonostante la musica assordante, Lana era stata in grado di romperle un timpano.
Li aveva fissati con la bocca spalancata mentre abbandonavano il locale e Madison dovette sfregarsi il viso con le mani per non scoppiare a ridere, data la scena alquanto comica. Dopodiché, Lana le aveva rifilato un colpo ben assestato sul braccio, accompagnato anche da un rimprovero per non averla chiamata subito. Secondo lei, Madison le aveva impedito di parlare il più possibile con Peter Hale, poiché era assodato che avesse un debole per lui.
Madison si era limitata ad assecondare la scenata della sua amica con un’espressione decisamente divertita che la fece infuriare ancora più di prima.
Se le avesse detto che aveva visto Derek anche prima, con suo zio Peter e una ragazza che lo aspettavano fuori, probabilmente l’avrebbe uccisa senza troppe cerimonie. Tuttavia, Madison pensò di non badarci e camminò con la sua amica verso l'università.
C’era qualcosa di diverso nell’aria quel giorno. Più Madison si guardava intorno più ogni cosa le appariva strana, quasi fittizia, come se stesse vivendo quella giornata con la consapevolezza che non fosse reale. Evidentemente aveva bevuto troppo caffè ma quella sensazione continuò a svolazzare intorno a lei, come fosse una farfalla che Madison poteva soltanto osservare fin quando non sarebbe volata via lontano da lei. Riusciva a malapena a percepire i colori che la circondavano.
Per qualche motivo che ancora non riusciva a comprendere, Madison aveva il vago sentore che quella giornata sarebbe quasi volata via da lei in un battito di ciglia, senza permetterle di afferrare ciò che la turbava realmente.
 
“Quello, invece, è uno dei due complessi più antichi di tutto il campus!”, Cora indicò un edificio che troneggiava a non molta distanza da loro, la cui imponenza lasciò Derek vagamente sorpreso.
Per Derek vedere Cora che si muoveva come se fosse a casa sua, fu uno dei momenti più belli e strani: sua sorella si sentiva a suo agio in quel luogo circondato dal verde dove orde di studenti con i libri stretti al petto si muovevano in maniera agitata e frettolosa, correndo di qua e di là.
Cora desiderava vivere all’interno di quel posto e Derek non poteva far altro che augurarglielo con tutto il cuore: era sua sorella e voleva solo che stesse bene, e possibilmente lontana dai guai.
Suo zio gli gettò uno sguardo divertito che Derek ricambiò con una delle sue occhiatacce sgradevoli, cosa che fece solo ridere Peter ancora di più.
La ragazza aveva mostrato loro ogni edificio e anche la biblioteca; se Cora non avesse avuto diciassette anni, Derek avrebbe detto con assoluta certezza che fosse una studentessa del campus, visto che ne conosceva ogni angolo…chissà quanto tempo ci trascorreva.
Riusciva ad immaginarla, immersa in quell’ambiente tranquillo e soleggiato, mentre si imbronciava dopo aver notato che un perfetto sconosciuto aveva occupato il suo posto preferito all’ombra di un albero, dove era solita mettersi per studiare e forzandosi per non ringhiargli contro.
“Devo dire che la fauna di queste parti non è niente male”.
Peter rincorse con lo sguardo un gruppetto di studentesse che dovevano avere almeno poco più di vent’anni a testa, e Derek corrucciò lo sguardo, scuotendo il capo in segno di dissenso verso i soliti apprezzamenti per nulla graditi di suo zio.
“Sei disgustoso”, sentenziò lui, facendo voltare Peter che arricciò le labbra, pensieroso.
“Oh andiamo!”, ribattè con un ingannevole tono innocente. “Sto solo ammirando quello che la natura mi offre, sono tanto disgustoso? Sono un uomo, non fare il santo con me”.
Cora roteò gli occhi, ignorando nuovamente suo zio che metteva lo sguardo su una ragazza bionda che gli stava passando accanto proprio in quel preciso momento.
Derek fu tentato dal tirargli un pugno in pieno viso ma non gli sembrava né il luogo né il momento adatto per dare un simile spettacolo, così si limitò ad ignorarlo.
Faceva ancora fatica a convivere civilmente con Peter, soprattutto dopo ciò che avevano passato. Sicuramente non si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi a passare una giornata insieme a lui e Cora, ma questo non stava certo ad indicare che avesse dimenticato ogni cosa. Ricordava alla perfezione ogni dettaglio di tutti i conflitti che li avevano visti l’uno contro l’altro, fin da ragazzini. Eppure, la sua presenza gli andava bene, soprattutto se Peter si limitava a farsi gli affari suoi e a non tentare di danneggiarlo in qualche modo. Senza disgrazie in giro, non vedeva come fosse possibile.
Continuò a camminare, fin quando un altro mugolio di apprezzamento da parte di Peter, decisamente più soddisfatto degli altri, lo costrinse a voltarsi, seguito a ruota da sua sorella. Suo zio aveva trovato qualcun altro su cui focalizzare tutta l’attenzione che era in grado di dare: si trattava di una ragazza piuttosto alta con dei lunghi capelli scuri e lisci che le scivolavano sulle spalle e un cappellino rosso. Era una ragazza decisamente singolare che Derek aveva già visto, e, in realtà, anche Peter…ma mentre suo zio si concentrava su di lei, Derek volse lo sguardo sulla figura che le stava accanto, cioè Madison. Forse l’universo stava cercando di dirgli qualcosa…ma nulla di positivo, almeno per come la vedeva lui. Possibile che dovesse incontrare quella Madison in ogni anfratto della città? Possibile che Cora dovesse costringerlo a fare un tour dell’università proprio quel giorno? Aveva raggiunto una specie di record, doveva riconoscerlo e se Stiles fosse stato insieme a loro lo avrebbe sicuramente punzecchiato con i suoi soliti modi fastidiosi.
Peter si voltò verso di lui, esibendosi in un sorrisetto compiaciuto e piegando il capo da un lato.
La ragazza con il capellino rosso stava parlando con Madison, continuando a camminare ma non appena alzò gli occhi, non ci mise molto per accorgersi di Peter, al quale sorrise subito.
L’espressione stomacata di Derek lasciava pochissimo spazio all’immaginazione e quella di Cora non era da meno, poiché vedere il proprio zio filtrare con una studentessa non era sicuramente nella lista dei loro desideri più reconditi.
“Ciao”, la salutò Peter senza farsi troppi problemi, come suo solito.
“Ciao anche a te”, rispose la ragazza, continuando a sorridergli come se lo conoscesse.
“L’altra sera non ho avuto modo di presentarmi”, continuò con tono mellifluo e tendendo la mano verso di lei, mentre Madison soffocò una risata “Io sono Peter”.
“Lana”, rispose l'altra, stringendogli la mano a sua volta e corrugando le labbra.
Madison si voltò verso Derek, senza dire nulla, ma esibendo uno sguardo che sembrava pizzicarlo, e Derek lo evitò prontamente, come fosse la peste.
“Hai finito?”, domandò Derek, rivolgendosi a suo zio con tono poco garbato, tanto che Peter lo fulminò con un’espressione talmente calma da far paura.
“Loro sono i miei nipoti, Derek”, ammise Peter, scrollando le spalle e facendo ridere Lana, la quale lo osservò con circospezione, senza nascondere minimamente il fatto che lo stesse praticamente studiando. “E Cora”.
“A prima vista non si direbbe”, constatò lei, continuando a squadrare prima Derek da capo a piedi, e poi Cora.
Quest'ultima si voltò verso il fratello, come se gli stesse rivolgendo una muta domanda.
“Lei è la mia amica Madison, ti ricordi di lei, suppongo”, esclamò Lana, indicando la ragazza alle sue spalle che però non tese alcuna mano, limitandosi a fare un cenno di saluto, rimanendo ferma sul posto.
Derek approfittò del suo attimo distrazione per osservarla meglio, notando la curva delle sue labbra e le ciocche di capelli castani che ricadevano sul viso baciato dal sole. Tuttavia, non appena Madison sembrò voltarsi verso di lui, Derek distolse immediatamente lo sguardo, come un bambino che era stato scoperto a rubare una caramella. Derek si dondolò sulle gambe, serrando le labbra e guardando lo zio, come se sperasse con tutto sé stesso di vederlo mettere fine a quella conversazione imbarazzante. Madison continuò a studiarlo con curiosità, notando quanto quel ragazzo fosse quasi inafferrabile, con lo sguardo di chi desiderava trovarsi altrove, a mille miglia dal posto in cui era costretto a restare. Intanto, Derek sentiva su di sé lo sguardo indagatore di Madison, cosa che non lo rassicurava molto: se non fosse stata una sconosciuta, le avrebbe ringhiato contro senza troppi preamboli, ma Madison era una ragazza normale, una studentessa che lavorava forse per pagarsi gli studi e che conduceva una vita perfettamente normale e diversa dalla sua.
Normale. Quante volte aveva ripetuto quel termine negli ultimi giorni?
Ormai, il senso perenne di frustrazione si faceva spazio nell’animo di Derek sempre in quei momenti in cui sembrava trovarsi ad un passo dalla normalità, come se l’universo stesse cercando di dirgli che non era adatto ad un vantaggio simile.
Ciò che per le persone comuni era ordinario e monotono, per Derek poteva essere il paradiso terrestre…ma le cose semplici non erano alla sua portata.
Quella bolla d’aria che Derek si stava costruendo per tentare in ogni modo di estraniarsi da quella situazione nuova e scomoda, venne scalfita dall’arrivo di qualcun altro, qualcuno che lui, Peter o Cora non potevano conoscere…o almeno così credeva.
Un ragazzo alto con i capelli biondo cenere che dall’aspetto sembrava essere uno studente si avvicinò a Lana e Madison, le quali si irrigidirono alla sua vista, come se quello sconosciuto non fosse per nulla gradito. Lana guardò subito Madison, come se aspettasse un suo gesto o qualsiasi parola che potesse dirle cosa fare, mentre Derek udiva chiaramente il cuore di lei mancare un battito.
Derek aveva il sentore che Madison fosse quasi inseguita da qualcosa o da qualcuno, correndo a perdifiato ma con la consapevolezza di non riuscire a scappare neanche volendo, perchè si trovava già intrappolata, con le spalle al muro.
“Posso parlarti un secondo?”, domandò il ragazzo, rivolgendosi a Madison.
Lei sembrò rifletterci per un momento, guardando un punto indefinito tra l’erba curata che li circondava e poi si limitò a fare un semplice cenno di assenso, senza guardarlo in viso. Quando il ragazzo si voltò verso di loro prima di andarsene, qualcosa nel suo viso mutò immediatamente: fu come una specie di folgorazione che non notò soltanto lui. Il battito del ragazzo aumentò immediatamente, rivelando qualcosa che a parole non poteva essere percepita, ma che Derek aveva colto e con lui anche Peter e Cora. Derek sostenne il suo sguardo, cercando di scrutarlo il più possibile, ma lui lo evitò quasi subito, come se avesse già fatto trapelare troppo in quei pochi secondi. Il ragazzo, da calmo e intimidito, era divenuto improvvisamente agitato, sembrava che avesse visto qualcuno che non doveva essere lì in quel preciso instante ma se non conosceva nessuno di loro, come poteva risultare un problema per lui e per ciò che sembrava voler dire a Madison?
Non appena il ragazzo si allontanò insieme a Madison, i tre si scambiarono uno sguardo leggermente perplesso, mentre Peter si avvicinava a Lana, prendendole delicatamente le mani, sotto gli occhi sorpresi e divertiti di lei.
“Mia cara, devo andare”, disse lui con voce carezzevole e mostrando uno sguardo mortificato, mentre Lana piegava la testa da un lato. “Ci rivedremo”.
Lana lo guardò, seguendo la sua figura mentre andava via, e accennò un sorriso, scuotendo poi la testa e recandosi finalmente in aula. Tuttavia, un suo pensiero corse a Madison e Keith, chiedendosi cosa avesse da dirle e sperando solo che Madison sarebbe stata bene. Intanto, Peter, dopo essersi accertato che Lana fosse a debita distanza da loro, si voltò verso Derek e Cora che aspettavano in silenzio ciò che lo zio aveva intenzione di dire.
“Conosco quel tizio”, esclamò Peter, riprendendo a camminare. “Keith Donovan. Era un cacciatore, prima che suo padre e suo fratello venissero uccisi. Ricordo di averlo visto da ragazzo, durante una sera in cui Talia stava prendendo accordi con suo padre e suo nonno”.
“Quindi erano tranquilli come cacciatori? Non come Gerard”, aggiunse Cora, perplessa da ciò che Peter aveva detto. “Perchè ci ha guardati in quel modo?".
“Era un cacciatore”, intervenne Derek con tono pacato e incrociando la braccia. “Magari non si aspettava di vedere dei lupi mannari da queste parti…forse sa chi siamo e quindi è rimasto semplicemente sorpreso dalla nostra presenza, no?”.
Per quanto il modo in cui Keith li aveva guardati lo avesse sorpreso, Derek non considerava quel dettaglio come qualcosa di reale e concreto, o forse, non voleva, perché intimorito dall’idea che quel semplice tremore in cui era incappato il suo battito cardiaco potesse significare qualcosa.
Peter assunse un’espressione pensierosa, grattandosi il mento con una mano, per poi portare un dito a mezz’aria, pronto sicuramente a far notare a Derek qualcosa che non aveva considerato.
“Sarebbe plausibile se non fosse per il semplice fatto che, pur non essendo più un cacciatore ma uno studente, aveva una pistola coperta dalla giacca in pieno giorno e in un campus. A te cosa sembra?”.
La domanda di Peter non ottenne alcuna risposta ma soltanto un sussulto da parte di Cora, che guardò Derek con un’espressione per nulla serena. A quel punto, non rimase altra scelta che seguire Peter mentre quest’ultimo affinava i suoi sensi per capire dove fossero Madison e Keith.
“Credo che dare una controllatina non sia una cattiva idea”.
 
Madison portò lo sguardo sull’orologio che aveva al polso, notando che per fortuna mancava ancora mezz’ora all’inizio della lezione, mentre seguiva Keith fuori dal campus.
“Non potevamo parlare lì?”, chiese la ragazza, voltandosi e accorgendosi di quanto fossero lontani dal punto in cui si erano incontrati…non ci volle molto a capire che erano quasi a casa di lui.
“Avevo bisogno di mostrarti una cosa”, rispose lui con voce serena, continuando a darle la schiena.
Madison lo osservò, lasciando riemergere tutti quei ricordi che aveva volutamente seppellito: rammentò tutte le volte in cui aveva abbracciato Keith da dietro, stringendo quella schiena che aveva davanti e tutte le mattine in cui si era svegliata con la testa poggiata contro le sue spalle.
Entrarono in un piccolo magazzino, che Madison aveva visto spesso ma mai dall’interno: da quello che le aveva detto una sera, quel magazzino apparteneva alla sua famiglia e lui lo aveva ereditato, ma senza mai metterci piede perché troppo pieno di ricordi . Per un attimo, Madison si diede della stupida ad averlo seguito con tanta facilità, come se si trattasse di un amico che doveva mostrarle qualcosa di importante. In realtà, Madison non aveva idea di cosa Keith volesse farle vedere: forse voleva ridarle qualcosa di suo che aveva trovato tra le cose da buttare, forse voleva chiederle di tornare insieme e o forse aveva messo in scena uno scherzo con l’unico scopo di renderla ridicola. Tuttavia, il fatto che stessero per entrare in quel luogo quasi sacro per lui la rese dubbiosa, in qualche modo.
Ad un tratto, Keith si fermò, voltandosi verso di lei e mettendo fine al flusso di immagini che avevano preso a scorrere nella sua mente. Fu strano ritrovarsi da sola con lui, mentre il suo cuore batteva e l’ansia percorreva tutto il suo corpo, facendole venire la pelle d’oca e creando un buco a livello dello stomaco. Per Madison non fu piacevole notare che Keith avesse ancora quell’ascendente su di lei: non lo aveva dimenticato e la cosa era anche palese, vista la rottura ancora troppo recente, eppure sperava di aver acquisito almeno un minimo di autocontrollo, cosa che ovviamente la mancava. Keith era ancora capace di farla sentire come una bambola di pezza, completamente piegata al suo volere e alle sue parole. Era in grado di farle tremare le ginocchia e di far vacillare quei pochi pensieri fermi e distaccati che riusciva a fare. Strinse i pugni e scosse la testa, ripetendo a sé stessa di non comportarsi come una ragazzina proprio in quel momento.
Madison era molto più forte di così.
Si guardò intorno, notando una libreria impolverata e piena di oggetti vari che non riusciva ad identificare a causa della polvere e della poca luce, e quella che sembrava essere una motocicletta, coperta da un telo quasi ingiallito…forse apparteneva a suo padre.
“Cosa devi mostrarmi?”, chiese Madison con voce ferma e riportando lo sguardo su di lui.
Keith non aveva una bella cera: il volto era segnato da profonde occhiaie ed era anche più magro da quando lo aveva visto l’ultima volta. Il suo viso era sempre stato luminoso, ma in quel momento Keith Donovan non le sembrava altro che il fantasma di sé stesso. Le apparve come un qualsiasi oggetto in bilico, sul punto di cadere e frantumarsi in mille pezzi da un momento all’altro.
“Keith, stai bene?”, domandò ancora Madison, notando che Keith non accennava a risponderle.
Madison si avvicinò a lui di qualche passo, mentre il ragazzo serrava i pugni, come se si stesse trattenendo, come se si stesse frenando dal dire, o peggio, dal fare qualcosa che non voleva. Allungò le dita, poggiandole appena sulla guancia ispida, sentendo il respiro di Keith che si mozzava, e accorgendosi del modo quasi sofferente in cui aveva chiuso gli occhi.
Keith si lasciò cullare dal tocco lieve e spaventato di Madison, beandosi della sensazione di benessere che quella ragazza era sempre riuscita a dargli. Desiderò mandare tutto al diavolo e rimanere per sempre così, con lei accanto che gli permetteva di essere una persona qualunque.
All’improvviso qualcosa lo riscosse, come un pugno allo stomaco, e Keith sgranò gli occhi, allontanandosi di scatto da Madison, la quale sembrò intimorita dai suoi occhi che in quel momento dovevano essere per certo la cosa più inquietante che avesse mai visto.
“Keith?”, lo chiamò ancora una volta, ma il ragazzo non sembrò sentirla.
Keith prese una pistola e la puntò contro di lei, senza però premere il grilletto: doveva solo assicurarsi che non si muovesse e che non corresse via.
“Perdonami”, disse lui mentre Madison lo guardava con il volto ridotto ad una maschera di paura.
Prima che Madison potesse rivolgergli un’altra domanda che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, qualcun altro entrò in quella specie di magazzino, rendendo la situazione ancora più confusa.
Cinque figure fecero il loro ingresso, una dietro l’altra e in un silenzio che la spaventò non poco. Rivolse un ultimo sguardo a Keith ma lui continuava a puntare la pistola senza dire nulla che potesse rassicurarla o almeno farle capire cosa diavolo stesse succedendo. L’unica persona su cui Madison riuscì a posare più attentamente gli occhi fu un uomo che si poneva dinanzi agli altri presenti come a voler sottolineare la sua importanza.
Gli occhi erano azzurri e spenti, due pozze di acqua profonda in grado di suscitare solo una cosa: terrore. Il suo sorriso era affilato come una vera e propria lama tenuta lì e pronta a sferrare il suo colpo mortale. Madison deglutì alla vista di quell’uomo che la guardava con un interesse che di normale non aveva niente.
Non sapeva chi fosse ma lui sembrava conoscerla. Si avvicinò a lei, mentre gli altri rimasero sullo sfondo, permettendo a Madison di scorgerli, nonostante il panico si facesse sentire sempre di più: accanto a Keith vi era una donna con i capelli di un rosso così acceso da sembrare di fuoco, e alle sue spalle un ragazzo e due uomini osservavano la scena. Uno dei due uomini più grandi aveva un viso completamente diverso dagli altri: sembrava triste, e Madison stessa non aveva idea di come potesse pensare una cosa del genere in un momento critico come quello. Indietreggiò, fino ad urtare qualcosa che la fece capitolare sul pavimento.
“Finalmente”, disse l’uomo, sfoggiando una voce così bassa e gentile che le fece venire quasi i brividi.
Non aveva un aspetto gentile e il contesto non girava a suo vantaggio.
“Cosa succede?”, chiese lei, rendendosi conto della banalità della domanda, e di come le parole fossero uscite in maniera confusa dalla sua bocca, quasi strozzandola.
L’uomo rise e si abbassò al suo livello, guardandola negli occhi verdi spaventati.
Il suo sguardo cambiò, facendosi più contrito, come se fosse dispiaciuto, e allungò una mano verso di lei, fino a sfiorarle i capelli castani e lo zigomo.
Sorrise…e sembrava quasi un sorriso vero.
“Sei proprio identica a tua madre”, snocciolò lui con tono affranto, incatenando gli occhi chiari nei suoi, per poi rivolgersi a Keith. “Se non fosse stato per lui, non sarei riuscito a trovarti”.
Madison cercò Keith ancora una volta, ritrovandolo esattamente come lo aveva lasciato: con la pistola ancora stretta fra le mani e lo sguardo spento che fissava il pavimento. Alle sue spalle, la donna dai capelli rossi fissava insistentemente l’uomo dinanzi a Madison, in attesa di una sua azione.
“Chi sei?”, domandò Madison, assottigliando lo sguardo e richiamando l’attenzione dell’uomo che spostò nuovamente lo sguardo sulla sua figura, rivolgendole un sorriso bonario.
“Per ora puoi chiamarmi Julian”.
Madison poteva giurare di aver visto i suoi occhi farsi rossi prima che un tonfo costringesse tutti i presenti a voltarsi: qualcun altro era giunto a far loro compagnia, ma lei era ancora troppo scossa per rendersi conto di chi fosse. Tentò di alzarsi ma qualcuno l’afferrò per un braccio.
Madison cercò di divincolarsi da quella stretta ferrea ma poi il tocco divenne più leggero e gentile, rivelando poco a poco la figura che da sfocata divenne più chiara: la sorella di Derek, Cora. La ragazza l’aiutò a rimettersi in piedi e la spinse in un angolo come per proteggerla dallo scontro che si stava svolgendo e non soltanto fisicamente, ma era troppo tardi.
Madison aveva davvero visto un paio di occhi rossi e continuò a vederli, mentre Cora le si parava davanti. Uno spettacolo di ringhi e strani luccichii si stava svolgendo in quel magazzino abbandonato, e Madison non aveva nemmeno la forza di formulare un’ipotesi sensata.
Riusciva solo a sentire la paura che prendeva possesso del suo corpo e della sua mente, mentre Keith puntava la pistola contro Peter per essere disarmato quasi subito e messo al tappeto. Vide l’uomo dagli occhi rossi scagliarsi su Derek, inchiodandolo al muro e spezzandogli sicuramente qualche osso. Si portò una mano alla bocca, tentando di soffocare un urlo di terrore. Cora si allontanò di lei, emettendo quello che sembrava essere un ringhio e fiondandosi su due figure che stavano per avvicinarsi a loro. Fu a quel punto che Madison vide chiaramente delle zanne.
Sentì le ginocchia cederle ma si aggrappò alla parete, cercando di mantenere i nervi saldi e respirando per mandare quanto più ossigeno possibile al cervello ma la situazione non migliorava.
Era tutto confuso: delle figure indefinite si lanciavano una contro l’altra, si muovevano, riconosciute solo da una strana luce proveniente dagli occhi che cambiava da persona a persona.
Rosso, giallo, azzurro: i colori si mischiavano e si confondevano, impedendo a Madison di distinguere la realtà dei fatti. Vedeva prima i colori e poi gli esseri umani, se così poteva definirli.
Di nuovo qualcuno l’afferrò all’improvviso, sorreggendola, mentre l’ambiente si faceva improvvisamente meno affollato e una voce risuonava nelle sue orecchie.
“Vi lascio uscire vivi da questo primo tempo, giusto per rendere le cose più divertenti. Sappiate che la prossima volta non sarò così buono, è un avvertimento”.
Derek era ancora a terra, puntellandosi con i gomiti sul pavimento, e aveva il respiro affaticato: tutto il suo corpo era in tensione, il petto si muoveva velocemente e le nocche erano ferme sul pavimento, così strette e bianche da farle una strana impressione. Sembrava un animale ferito, che tentava con tutte le sue forze di assorbire il dolore che lo aveva colpito senza preavviso.
Quando si voltò a guardare Madison, quest’ultima vide chiaramente il colore dei suoi occhi: il verde era sparito, per lasciare spazio al blu.
 
Gli occhi di Lydia si erano abituati all’oscurità di quel sonno tranquillo in cui era caduta, beandosi di quella sensazione di pace che le era mancato per molto tempo. Si era addormentata sul suo letto con il libro di matematica fra le mani, mentre Stiles probabilmente era ancora ricurvo sulla scrivania.
Eppure, quel sonno perfetto venne inspiegabilmente incrinato da qualcosa che cominciò a diventare sempre più reale: era come un continuo crescendo che poco alla volta si faceva spazio nella mente di Lydia, rubandole il sonno che tanto aveva agognato.
Lydia sentiva qualcosa che le montava dentro, facendosi spazio per uscire; sembrava un’entità a parte che doveva in qualche modo balzare fuori, annebbiando i suoi sensi…e quando Lydia, ancora persa in quel sonno ormai precario, capì di cosa si trattava, era già troppo tardi.
Un urlo acuto ruppe il silenzio della camera, facendo sobbalzare la ragazza che si stava liberando da quel peso enorme che aveva portato dentro durante il sonno.
Lydia cominciò a dimenarsi sul letto, urlando come non urlava da molto e non era certo un buon segno.
Era sempre così quando doveva cacciare un grido del genere.
Il suo corpo fremeva e qualcosa al suo interno sembrava muoversi: un agente estraneo che il suo corpo doveva assolutamente espellere perché troppo pericoloso.
Stiles si alzò dalla scrivania, precipitandosi al suo fianco, mentre Lydia ancora urlava, opponendosi al ragazzo che la scuoteva, cercando di farla tornare in sé ma lei non lo guardava nemmeno.
Quando il suo urlo andò scemando, Lydia poggiò la testa sulla spalla di Stiles, respirando a pieni polmoni e lasciando al suo corpo il tempo di abituarsi a ciò che non accadeva da molto.
Stiles la strinse senza dire nulla, aspettando che si calmasse da sola.
Lydia aveva paura: poteva sentirlo dai leggeri spasmi del suo corpo e dal suo respiro affannato, mentre il cuore batteva come impazzito contro il petto di Stiles, che provava la sua stessa paura.
Lydia Martin aveva urlato con tutto il fiato che aveva in corpo e Stiles sapeva con assoluta certezza che quel segnale di allarme poteva indicare una sola cosa: nessuno sarebbe stato al sicuro.
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
  • “Prima i colori. Poi gli esseri umani”, frase tratta da un libro meraviglioso che sto leggendo, ovvero “Storia di una ladra di libri”. Questa frase si è praticamente inserita da sola mentre scrivevo dei colori degli occhi dei licantropi…è stata una cosa improvvisa e spero piaccia.
 
Salve a tutti ed ecco il capitolo puntuale anche questa volta (sempre più strano).
Allora, spero che questo capitolo non vi faccia venir voglia di ammazzarmi: avevo detto che le cose sarebbero state più chiare e rileggendolo può sembrare diversamente ma le cose iniziano davvero a prendere forma (giusto un pochino) e spero tanto che stiate formulando qualche ipotesi sui cattivi che hanno fatto finalmente il loro ingresso nella storia. Secondo voi chi è Julian e cosa vuole?
Vi confesso che questo capitolo mi ha dato molto più filo da torcere rispetto a quelli precedenti per vari motivi. In primis, per l’inserimento di Keith e per via di Derek: scrivere di lui è difficile e ho sempre paura di renderlo OOC (se l’ho fatto, vi invito sempre a farmelo notare perché non mi dispiace affatto essere corretta). Nello scorso capitolo, l’incontro con Madison gli ha riportato Jennifer in mente. Ora che l’ha rivista, è in qualche modo più rigido.
Onestamente non mi è piaciuto tanto il modo in cui ho reso Derek, quindi mi scuso in anticipo: sarà che l’ho descritto in una situazione mai vista nel telefilm solo che non mi convince affatto. Nei primi capitoli, ho volutamente reso Derek un po’ più tranquillo visto che le cose sono abbastanza calme, dal prossimo capitolo però, il suo atteggiamento cambierà radicalmente, fino a far prevalere il Derek scorbutico ed emozionalmente costipato molto più del solito…di male in peggio, direi.
Infine, l’urlo di Lydia…inutile dirvi che non è certo un buon segno, il prossimo capitolo sarà ricco di angst, quindi il fluff che c’è stato nei primi capitoli uscirà di scena.
Direi che vi ho tediato abbastanza, grazie per essere arrivati fin qui <3
Fatemi sapere cosa ve ne pare con un commento piccino piccino ^^
Alla prossima settimana, un abbraccio :)
 
 

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Capitolo 5
*** IV - Ocean tides ***


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IV
 
Ocean tides

 
 “In the darkness. Before the dawn. In the swelling of this storm.
Running round and with apologies and hope is gone.
Leave a light, a light on”.
(Coldplay – Midnight)
 
Stiles guardò ancora una volta la ragazza accanto a lui, seduta sul letto con le dita pallide che indugiavano sulle tempie e gli occhi chiusi, in cerca di tranquillità.
Lydia stava probabilmente tentando di mettere in ordine quello che era appena successo. Si era addormentata con il libro poggiato sul ventre e a quel punto Stiles le si era avvicinato per adagiare la coperta su di lei, soffermandosi per un attimo sul suo viso rilassato.
Sembrava una bambina e Stiles aveva sorriso, godendo di quell’attimo di serenità, dopo tutto il dolore patito. Si era perso nelle riflessioni su quanto fossero cresciuti, tornando a sfogliare distrattamente il libro di matematica, ma poi ogni cosa si era sgretolata con l’urlo di Lydia.
Stiles era della vaga idea che quell’urlo fosse arrivato anche a Derek e Peter.
Il ragazzo si alzò, per controllare se Scott lo avesse cercato al cellulare, ma una leggera pressione sulle dita della sua mano lo costrinse a voltarsi di scatto.
Lydia aveva afferrato le sue dita affusolate, e lo guardava, con la bocca dischiusa e gli occhi grandi, di chi stava silenziosamente chiedendo qualcosa.
“Lydia?”, la richiamò Stiles, senza interrompere quel contatto sia visivo che fisico.
“Non andare via”, disse debolmente lei, con la voce bassa per via del troppo sforzo.
“Non avevo intenzione di farlo”, le rispose Stiles, lasciando perdere il cellulare, e sedendosi nuovamente sulla coperta color prugna, mentre le stringeva la mano piccola e morbida, forse grazie alla crema per le mani all’estratto di viola che Lydia usava quotidianamente.
Lydia sospirò, riportando lo sguardo sul letto, come se si vergognasse di ciò che era successo.
“Vuoi parlarne?”, domandò Stiles, senza preoccuparsi di essere invadente o altro.
Ormai, quel muro di timidezza e imbarazzo che c’era fra loro era stato abbattuto seppur a rilento.
Lydia sarebbe potuta scoppiare in lacrime e Stiles l’avrebbe guardata lo stesso, considerandola ugualmente bellissima e forte come poche persone.
“Credevo che le urla fossero finite”, sussurrò lei. “Sai, dopo...”.
Stiles vide l’espressione sofferente di Lydia e portò l’altra mano a fare compagnia a quella poggiata attorno alle dita della ragazza, come per darle maggiore sicurezza. Stiles lasciò che Lydia lo abbracciasse, beandosi del profumo che emanavano i suoi capelli biondo fragola, mentre le sue mani le avevano circondato la vita. Se Lydia ne avesse avuto bisogno, sarebbe rimasto tutta la vita stretto in quell’abbraccio, solo per darle conforto, solo per dimostrarle che le sarebbe stato accanto, sempre. Eppure, c’era un’ombra che aleggiava sulle loro figure incastrate alla perfezione.
Entrambi lo sapevano: presto o tardi, quell’urlo avrebbe avuto una spiegazione.
 
“Dove stai andando?”, aveva tuonato Derek, vedendo Madison che camminava tranquillamente verso la porta e raggiungendola con poche falcate.
Il polso di Madison venne immediatamente afferrato dalla presa salda di Derek che glielo strinse forte senza l'intenzione di lasciarlo.
Quell’ombra che era sempre stata nascosta sul suo viso, in quel momento lo aveva avvolto del tutto, mostrando un Derek del tutto differente da quello che aveva incontrato diverse volte per caso. Dire che la spaventava sarebbe stato riduttivo, eppure Madison rimase ferma, paralizzata.
“Via da qui, magari”, aveva risposto lei, alzando la voce e strattonandosi dalla sua presa ferrea.
Cora si era avvicinata, affiancandosi a Derek come per calmarlo, mentre anche Peter aveva deciso di prendere parte a quella scena.
“Non puoi”, sbottò Derek, senza preoccuparsi di essere comprensivo. “Potrebbero ancora essere in giro a cercarti".
“Sia qui dentro con voi che fuori con loro, sono comunque circondata da mostri!”.
A quel punto, gli occhi di Derek erano stati attraversati da uno scintillio blu, proprio come quello che aveva visto nel magazzino e l’unica cosa che Madison riuscì a fare fu indietreggiare. Qualunque cosa fosse Derek, Madison sapeva solo di esserne intimorita, al punto da non pronunciare nemmeno quella parola comune a tutto ciò che aveva visto, semplicemente perchè temeva che solo dicendola, sarebbe diventata reale.
Cora li raggiunse subito, mentre Peter avanzava di qualche passo nella loro direzione con estrema calma, senza sentire alcuna necessità di intervenire, forse perché sapeva che Derek non le avrebbe mai fatto del male. Tuttavia, Madison non poteva saperlo in alcun modo e per quel motivo si schiacciò contro la porta di quella casa, fissando Derek con gli occhi sgranati mentre l’afflusso di sangue aumentava e i suoi palmi si aprivano contro il legno, in cerca di una via di fuga.
Era stata Cora ad avvicinarla con estrema accortezza, senza perdere di vista suo fratello e assicurandosi che il leggero tremore che aveva iniziato a scuoterla svanisse del tutto. Dopodiché, la padrona di casa l’aveva condotta nella sua stanza, concedendole il tempo per calmarsi e porgendole una tazza con qualcosa di caldo al suo interno. Madison rimase lì, nella solitudine di quella stanza spoglia e anonima, come se il proprietario non fosse ancora del tutto pronto ad arredarla, perché in attesa di qualcosa, forse un segno che gli desse via libera. La ragazza strinse insistentemente le dita attorno alla tazza calda, senza preoccuparsi di sapere cosa ci fosse al suo interno, poiché la sua mente era rivolta altrove, completamente.
Ripercorreva ogni parola pronunciata da Keith e dall’uomo che aveva detto di chiamarsi Julian.
Ripercorreva ogni gesto da lei compiuto nel corso della giornata, alla spasmodica ricerca di un dettaglio minimo che potesse spiegare ciò che era accaduto. Rivedeva gli occhi che cambiavano colore, le zanne che si affilavano e gli artigli che si allungavano cercando una porzione di pelle in cui infilarli mentre il sangue usciva copioso. Sentiva ancora i ringhi nella sua testa, come se la sua mente fosse un giradischi difettoso, la cui puntina si era fermata su un momento preciso, facendo sì che quel suono fastidioso si ripetesse continuamente, fino a farle sanguinare le orecchie per il dolore.
Gli occhi luccicanti, le zanne, gli artigli: tre elementi che credeva fossero possibili soltanto nei film con effetti speciali molto realistici, eppure non c’era una camera da presa in quel magazzino. C’era soltanto lei con figure che si muovevano inesorabili, distruggendo ogni cosa.
Rivedeva gli occhi di Keith, completamente differenti da quelli che aveva avuto davanti per tanto tempo, mentre la guardavano con dolcezza.
Rivedeva Keith con una pistola tra le mani, mentre la consegnava a qualcuno che non aveva mai visto in vita sua, ma che sembrava la stesse cercando da tempo.
La storia con Keith si stava frantumando, perdeva consistenza, cedendo sotto i suoi piedi come terreno che crollava, e lasciandola sprofondare nell’abisso.
Cora la guardò un’ultima volta, seduta sulla poltrona della sua camera con gli occhi vacui che fissavano un punto indefinito del muro.
Se non fosse stata un licantropo, avrebbe fatto fatica a considerarla come “viva”, data l’immobilità del suo corpo: Madison sembrava congelata sul posto, ferma, senza dare alcun segno di vita, se non il battito regolare del suo cuore.
Dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, Cora inspirò profondamente, lasciando uscire la stanchezza che quello scontro strano e improvviso le aveva messo addosso, non tanto per la forza di quei licantropi, bensì per l’imprevedibilità con cui vi si erano trovati coinvolti.
Peter e Derek si girarono di scatto a guardarla, e lei fece un semplice cenno con la testa.
Non ci volle molto per capire cosa stesse pensando Derek in quell’istante, mentre aveva gli occhi rivolti alla finestra che si affacciava su Berkeley, le braccia incrociate al petto e lo sguardo corrucciato di chi aveva mille pensieri che gli frullavano in testa. La tranquillità che lo aveva accompagnato in quei giorni passati con lei era sparita del tutto, lasciando spazio alla sfiducia e a quei suoi modi di essere che sembrava aver seppellito.
“Cosa facciamo?”, domandò Peter, sedendosi su una delle sedie accanto al bancone della cucina, mantenendo quella placida calma che lo caratterizzava.
“Nulla, cosa vorresti fare?”, la voce di Derek era bassa e rancorosa, come Cora non la udiva da tempo, e attirò gli sguardi sia di lei che di Peter.
“Come sarebbe nulla?”, si oppose Cora, facendo un passo avanti. “Hai visto cosa è successo? C’era un branco in quel magazzino".
“Julian Jones non è certo un sempliciotto”, affermò Peter, adagiando la schiena sulla sedia e portando le braccia dietro il capo, come se si trovasse in spiaggia.
“Cosa sai di lui?”, chiese Cora, mentre Derek continuò a rimanere in silenzio, come se la questione non gli riguardasse, come se non fosse neanche lì.
Derek sembrava un fantasma, una presenza che si faceva vedere ad intermittenza, sparendo quando gli faceva più comodo.
“Nulla di particolare”, esclamò Peter, scrollando le spalle. “So soltanto che è abbastanza pericoloso, Talia ne ha parlato una volta, definendolo subdolo".
“Non possiamo lasciarla qui, a questo punto”, disse la ragazza, pur sapendo che si stavano cacciando in qualcosa di particolarmente scomodo e pericoloso.
“Invece, è proprio quello che faremo”, si intromise Derek, continuando a dare la schiena ai due, e mantenendo una voce ferma e incisiva, per nulla incline a delle opposizioni.
“Sei impazzito, vero?”, Cora non si preoccupò di inveire contro suo fratello, soprattutto quando quest’ultimo pensava di fare scelte insensate proprio come quella.
“Vuoi portare una bomba ad orologeria a Beacon Hills?”.
Derek si era voltato per fronteggiare sua sorella, con gli occhi stanchi e arrabbiati che assunsero una sfumatura azzurra.
“Abbiamo appena scampato la morte con il Nogitsune”, continuò Derek, rabbrividendo al pensiero di tutto il dolore, sia fisico che mentale, che avevano dovuto patire. “Stai davvero consigliando di portare questa sconosciuta a Beacon Hills per proteggerla da un alpha che ci seguirà chiaramente a ruota insieme a tutto il suo branco? Fai sul serio?”.
Derek aveva sputato ogni parola con rabbia, come per liberarsi di un peso che gli aveva attanagliato le viscere per tutto il tempo in cui era stato in silenzio, ad ascoltare lei e Peter. C’era rancore nelle parole di Derek ma anche paura, si faceva sentire su di lui come una patina di insicurezze quasi invisibile che lo avvolgeva, rendendolo  molto più umano di quanto non volesse sembrare.
Cora si limitò a guardarlo con le braccia lungo i fianchi, provando compassione per lui e per ciò che stava cercando di proteggere, evitando di trascinare una minaccia con il suo ritorno.
Derek non voleva essere il responsabile di tutte le disgrazie che si verificavano a Beacon Hills: il branco da lui stesso creato e destinato ad essere distrutto, crollando in mille pezzi che lo avevano trafitto uno ad uno come vetro appuntito;  il branco di Deaucalion che si era fatto strada tra loro con minacce e omicidi, facendoli cadere, solo per esortarlo ad unirsi a loro; Jennifer che aveva ucciso e messo a rischio tanti innocenti; il Nogitsune che si era inoltrato nella mente di Stiles, fino a mettere radici profonde e forti, mentre ognuno di loro cercava di estirparle a mani nude ed i segni erano ancora ben visibili sulle loro mani e nei loro cuori; la morte di Allison ed Aiden. Tutti quegli eventi lo portavano solo a sentirsi colpevole.
Forse qualcosa si poteva evitare. Forse se non ci fosse stato il sacrificio da parte di Scott, Stiles ed Allison, a causa di Jennifer, le cose sarebbero andate diversamente. Forse senza quelle conseguenze, avrebbero evitato tanto dolore.
Scott non avrebbe mai detto addio all’amore della sua vita.
Stiles non avrebbe messo a repentaglio le loro vite per mano di qualcuno che lo controllava, mentre lui se ne stava intrappolato in quel corpo che non gli apparteneva, forse urlando e sbattendo i pugni.
Lydia non avrebbe perso la sua migliore amica e il suo fidanzato nell’arco di due giorni.
Isaac non sarebbe stato nuovamente abbandonato da qualcuno a cui teneva.
Quella volta, Derek Hale non voleva commettere un fatale errore.
“Scott lo avrebbe fatto”, esclamò Cora, senza alcun segno di rabbia nella voce.
Sua sorella era posata e in attesa, sapendo di aver smosso qualcosa con quelle parole.
Scott, al suo posto, avrebbe aiutato Madison, pur sapendo di mettere sé stesso e i suoi amici in un mare di guai.
Non avrebbe avuto ripensamenti, perché la sua prerogativa era sempre quella di aiutare gli altri e fare la cosa giusta, come era successo con Malia: non era altro che una sconosciuta, eppure si erano coalizzati per aiutarla, senza neanche averla mai vista in viso.
Derek incrociò le braccia e si voltò istintivamente verso Peter che sollevò le mani verso l’alto, come per togliergli dalla testa l’idea di cercare appoggio in lui.
“Non guardare me, sono d’accordo con lo scricciolo di casa”, sentenziò Peter.
Derek si passò una mano tra i capelli in un gesto stizzito, traendo un profondo respiro, mentre lo sguardo di Cora gravava ancora su di lui non in attesa di una decisione ma della decisione. Guardò sua sorella un’ultima volta, facendole un segno di assenso con la testa, che la ragazza ricambiò con un sorriso grato, anche se un po’ spento, poiché non c’era nulla di cui gioire. Alzò lo sguardo verso quella porta chiusa, al di là della quale c’era qualcosa che Derek non era in grado di definire. Gli venivano in mente solo tante parole messe insieme senza un filo conduttore che fosse in grado di unirle e dar loro un senso: pericolo, dubbio, rischio, problema, sangue, dolore, mistero, lacrime, urla. Si susseguivano tutte nella mente di Derek, creando un andirivieni di immagini distorte e sature di brutti presentimenti: lo trascinavano giù verso l’ignoto, come le onde dell’oceano fameliche e violente, in attesa di divorarlo.
 
Ridley fissò le sue mani, quelle che aveva mosso solo per spingere via uno degli Hale che gli si era scagliato addosso, ma non aveva osato tirar fuori gli artigli e combattere davvero. In realtà, Ridley non voleva combattere: aveva solo sperato che quegli attimi di lotta interminabili finissero quanto prima, così da non vedere il sangue di qualcuno sul pavimento di quel magazzino dismesso e semibuio. Chiuse le mani a pugno e inspirò, chiedendosi cosa stesse facendo.
“A cosa pensi?”, quella voce familiare e da ragazzo lo richiamò.
Bastian gli si avvicinò, con lo sguardo basso e le mani infilate nelle tasche del jeans. Era solo un ragazzo, non lo guardava nemmeno in viso perché forse anche lui, come Ridley, sentiva che tutto ciò a cui stavano andando incontro non rientrava nei suoi desideri.
“A niente”, mentì Ridley, come aveva fatto negli ultimi dieci anni, gesto a cui ormai era abituato.
Non era più in grado di distinguere la verità dalla menzogna, per lui erano quasi la stessa cosa ed ogni sua parola poteva essere sia l’una che l’altra.
Da quando lei era andata via, ogni cosa aveva perso significato.
Bastian rise, fissando gli occhi stanchi sulla figura dell’uomo che gli dava le spalle, forse per inerzia o forse semplicemente perché non voleva che qualcuno lo vedesse mentire, ancora una volta. Probabilmente Bastian lo sapeva, ma non glielo avrebbe mai fatto notare.
“Perché combatti?”, domandò Ridley, lasciando che le parole gli scivolassero sulla lingua con naturalezza, senza frenarle, ma permettendo che uscissero fuori, vere e affrante…come lui.
Poté immaginare Bastian che scrollava le spalle, anche senza voltarsi, con i capelli scuri e spettinati che gli ricadevano sulla fronte, celando quegli occhi da ragazzo cresciuto troppo in fretta.
“Questo branco mi ha accolto quando ero un ragazzino”, rispose l’altro, senza alcuna traccia di rabbia nella voce, ma solo tanta malinconia…la malinconia di un ragazzo solo. “Ero senza casa, senza branco, senza nulla. Nadia mi ha cresciuto…mi ha sempre trattato come fossi suo figlio”.
Un sorriso smorzò la voce triste di Bastian, come un flebile raggio di sole nel bel mezzo di un cielo completamente nuvoloso e cupo: il ricordo di Nadia faceva sempre quell’effetto.
“Eppure stai facendo qualcosa che lei non vorrebbe”, esclamò Ridley, sferrando quella frase come fosse una stilettata forte e accusatoria. “Nadia non lo vorrebbe”.
“Allora perché lo stai facendo anche tu?”, chiese Bastian di rimando, con la voce che aveva assunto una sfumatura più rigida e lievemente ferita, come un mugolio strozzato di una bestia trafitta.
Forse era stato troppo duro, d’altronde Bastian era soltanto un ragazzo, un beta buono, intelligente e per nulla incline alla violenza. Aveva perso molto, proprio come lui. Eppure, ciò che stava facendo andava contro il suo modo di essere. Sapeva che Nadia non avrebbe mai voluto vederlo in quel modo, non avrebbe desiderato vedere nessuno di loro in quello stato, a combattere come delle vere e proprie belve per fare ciò che lei aveva cercato di impedire, mettendo a rischio la sua stessa vita. Se Nadia lo avesse saputo, non li avrebbe mai perdonati.
“Mi piacerebbe capirlo”, la sua voce era piatta e arrendevole, senza alcuna speranza, proprio come il suo stesso animo che lo aveva abbandonato molti anni fa.
Un rumore di passi vicini interruppe quella strana conversazione fatta di domande mai enunciate e speranze ormai perse, portando sia Ridley che Bastian a voltarsi verso il nuovo arrivato. Julian li guardò con circospezione, mantenendo un sorriso vittorioso sul volto per nulla affaticato da quel breve scontro che avevano tenuto con i licantropi della famiglia Hale. Se avessero continuato, Julian li avrebbe uccisi in pochissimo tempo ma la verità era che lui voleva giocare. Ora che delle nuove pedine si erano fatte strada sulla sua personale scacchiera, Julian non avrebbe mai rigettato l’occasione per divorarle, una per una.
“Signori”, li salutò, allargando le braccia. “Pensate alla prossima mossa?”.
L’espressione di Bastian s’indurì, cercando immediatamente quella di Ridley che rimase fissa sulla figura di Julian, chiedendosi perché non  l’avesse ucciso quando poteva: semplicemente perché non avrebbe mai potuto farlo. Julian era l’alpha e lui il suo beta, il suo sottoposto.
“Già”, rispose Ridley, ovviamente mentendo ma senza lasciar trasparire nulla che potesse far intendere le sue fandonie. “Pensavamo al fatto che ora gli Hale potrebbero darci problemi”.
Julian rise di gusto, puntando le braccia dietro la schiena ritta e camminando accanto a loro, fingendosi pensieroso, quando, in realtà, lui non pensava quasi mai…agiva e nulla di più.
Bastian rimase immobile, accettando quella bugia che li stava risparmiando da una qualunque sofferenza che il licantropo avrebbe potuto impartire loro, senza alcuna remora.
“Sono solo tre sassolini da scalciare”, ribattè lui, con tono calmo e sicuro, come sempre.
“La porteranno sicuramente a Beacon Hills”, continuò Ridley, constatando una certezza che ormai tutti loro conoscevano. “Lì si presenteranno altri problemi”.
“Solo altri sassolini, Ridley”, dichiarò l’uomo, senza mostrare alcun segno di turbamento.
Cosa poteva intimorire Julian? All’apparenza, nulla.
Quell’uomo, o meglio, quel licantropo era imprevedibile come un terremoto improvviso che dal basso rompeva ogni fondamenta, lasciando una scia di distruzione; era letale, come lava bollente che, una volta iniziato il suo percorso, poteva soltanto continuare fin quando non si solidificava; era devastante come uno tsunami, in grado di travolgere tutto ciò che gli si parava davanti.
Julian somigliava ad una qualsiasi catastrofe naturale, pericolosa e vendicativa.
Era stato addormentato per anni, senza fare azioni dirette e avventate, ma ora si stava risvegliando, e non avrebbe permesso a niente e nessuno di ostacolare il suo volere.
“Tanti sassolini potrebbero essere un ostacolo”, insistette Ridley, sorridendo appena, in maniera sarcastica. “Soprattutto se ti vengono lanciati addosso tutti insieme”.
Bastian corrugò le sopracciglia a quella affermazione, scrutando entrambi.
“Non ho in mente di essere lapidato”, dichiarò Julian, ricambiando il sorriso che, però, non nascondeva nulla di ironico o vagamente scherzoso, bensì inquietante.
 
Non stava succedendo davvero, ne era quasi certa.
Si trattava solo di un incubo, nulla di più. Quello non era davvero il suo corpo ma soltanto una proiezione onirica che si spacciava per lei. Nulla di cui aveva memoria era successo sul serio. Madison ripeteva continuamente quelle frasi a sé stessa, sperando che da un momento all’altro tutto ciò che la circondava sarebbe stato risucchiato da un vortice per poi riportarla alla realtà.
Eppure, nulla di ciò che aveva sperato avvenne. Madison continuava a rimanere ferma nel soggiorno di quella casa che aveva condiviso con la sua migliore amica, un borsone ai suoi piedi e gli occhi colmi di lacrime che spingevano furiosamente per uscire, come un fiume prossimo alla piena.
Strinse le palpebre, ricacciando indietro le lacrime ancora una volta, poiché da quando aveva messo piede lì lo aveva fatto così tante volte da perdere il conto.
Stava lasciando che quella strana corrente di eventi la portasse via, lontana da quel porto sicuro che era stata la sua vita, e non capiva neanche come fosse potuto accadere. Le onde si abbattevano sulla riva di tutti i suoi ricordi, cancellandoli e lasciando soltanto la sabbia bianca e intatta come unica cosa da ammirare.
Le onde stavano eliminando uno alla volta tutti i momenti felici che aveva vissuto in quella casa, a partire da Keith.
Madison non aveva neanche il tempo di rammentarli che quelli sparivano subito, senza lasciare alcuna traccia, se non un incolmabile senso di vuoto e smarrimento.
Evitò di guardare fuori dalla finestra, sapendo che Derek, Peter e Cora la stavano aspettando da qualche parte, anzi, forse erano più vicini di quanto potesse pensare ma non lo sapeva.
“Dobbiamo lasciare la città e portarti con noi”, la frase di Peter nascondeva un pizzico di divertimento, anche se Madison non aveva idea di cosa potesse esserci di esilarante.
“Portarmi dove?”, aveva domandato lei, trovando il coraggio di alzare gli occhi dalla tazza ancora piena, ma ormai fredda, che stringeva tra le mani, per appigliarsi a qualcosa.
“Beacon Hills”, la risposta di Derek era stata telegrafica e fredda, come quelle dei messaggi automatici già registrati.
Era incolore, inodore, insapore, proprio come il modo in cui era entrato nella stanza: le braccia incrociate al petto e la schiena dritta, guardandosi intorno alla ricerca di una via d’uscita. La piega in su delle labbra che si era curvata a formare un sorriso si era sciolta come neve al sole.
“E’ da lì che vengo”, aveva risposto lei, stupita, e dimenticando per un attimo che stava parlando con tre membri della famiglia Hale e che la loro risposta poteva essere solo Beacon Hills.
“Davvero?”, domandò Peter, guardandola con maggiore curiosità, come se quel dettaglio potesse influire su qualcosa che la sua testa stava macchinando. “Questa è una bella coincidenza”.
Intanto, anche in Derek ci fu un lievissimo cambiamento a quella notizia, solo che Madison non poteva vederlo in alcun modo.
Era stato come un prurito appena percepibile che gli aveva fatto portare la mano dietro la nuca per capire se lo avesse sentito davvero, ma prima che potesse rendersene conto, era già sparito. Sembrava che il suo corpo avesse tentato di dirgli qualcosa: una leggera scossa per ridestarlo, per far sì che si ponesse quella domanda che lo aveva già reso dubbioso la seconda volta che aveva incontrato Madison.
Derek si era chiesto se la ragazza lo conoscesse, visto il modo in cui aveva pronunciato il suo nome, e per un attimo era apparso anche a lui di averla già vista. Tuttavia, si trattava di un prurito, un ronzio che si era fatto sentire solo quando Madison aveva detto di essere originaria di Beacon Hills.

Derek Hale avrebbe potuto interpretare quell’esclamazione come un segno, magari positivo, ma Derek non era certo il tipo a cui piacevano le coincidenze, tutt’altro. Le trovava ignote e per nulla piacevoli, non erano altro che un velo sottile, dietro il quale si nascondevano i peggiori intenti.
Infatti, era stata una coincidenza il fatto che Jennifer si trovasse a scuola in una notte di luna piena, come lo era stato ciò che avevano iniziato.
Già, tutte perfette coincidenze. 
Per quel motivo, il fatto che Madison provenisse da Beacon Hills non lo rassicurò affatto e c’erano sempre più buone probabilità, almeno per lui, che quella ragazza nascondesse qualcosa.
Madison poteva ancora sentire gli occhi di Derek a poca distanza da lei, quasi rabbiosi, e ogni volta che li aveva incrociati aveva creduto che potessero cambiare colore da un momento all’altro. La paura che potessero diventare azzurri, mentre il resto del viso si deformava, l’aveva accompagnata per tutto il tempo in cui si era trovata sola con loro Se era vero che gli sguardi uccidevano più delle parole, Derek lo stava facendo lentamente.
Lasciare la città significava lasciare la sua vita, e soprattutto, Lana.
“Parlerò con lei”, aveva detto Madison, senza battere ciglio.
“E cosa le dirai? Devo andare via perché un licantropo mi cerca?”.
Non c’era tatto nella domanda retorica di Derek. Non c’era nulla che si potesse lontanamente paragonare alla gentilezza o alla compassione per ciò che stava succedendo. Cora non aveva rinunciato a guardarlo nel peggiore dei modi, concentrandosi poi su di lei.
“Se vuoi parlarle, fai solo attenzione”, aveva detto la ragazza con voce dolce. “Non vogliamo che qualcun altro sia coinvolto".
“Io avrei un’idea migliore”, la voce suadente di Peter destò la loro attenzione, attirando su di sé gli sguardi corrucciati. “Io direi di farla fuori!”.
“Peter!”, Derek quasi ringhiò alla proposta dello zio che sembrava stesse cercando in ogni modo di smorzare la tensione che si era venuta a creare.
“Come siamo suscettibili”, aveva aggiunto lui, sbuffando sonoramente. ”Stavo solo scherzando, sarebbe un inutile spreco di bellezza”.

Quando la porta di casa si aprì, Madison credette davvero di essere assalita da un attacco di panico, visto il modo in cui era sobbalzata e il battito del cuore che si era fatto più veloce della norma. La figura di Lana apparve poco dopo, con la borsa ancora tra le mani e un sorriso che le riscaldò il cuore, facendole venire voglia di piangere ancora di più per ciò che sarebbe successo a breve.
“Ehi”, la salutò l’amica, gettando la borsa sul divano per andarle incontro. “Sei sparita dopo quel siparietto molto interessante nel campus. Cosa voleva Keith?”.
Lana non aveva notato il borsone accanto a Madison, si era diretta verso la cucina, aprendo distrattamente il frigo per prendere qualcosa da mangiare.
“Peter è proprio niente male, sai?”, continuò lei imperterrita. “Spero di rivederlo, e se staremo appiccicate, accadrà di sicuro, mi porti fortuna”.
La ragazza, notando il silenzio di Madison, si voltò finalmente verso di lei e capì che qualcosa non era esattamente come sarebbe dovuta essere. Lana conosceva bene Madison e non ricordava di averla mai vista così sconvolta, neanche quando da bambina aveva scoperto che il suo gattino era sparito.
Si era presentata a casa sua, con il faccino triste e gli abiti zuppi di acqua a causa della pioggia, dicendole che non trovava il piccolo Bizet da nessuna parte.
“Madison?”, la richiamò Lana, facendo un passo verso di lei e prendendole le mani. “Tutto ok?”.
Madison le rivolse un debole sorriso e fece un cenno di assenso con la testa, traendo profondi respiri per trovare quella forza, sepolta sotto cumoli di paura e lacrime accumulate.
“Vai da qualche parte?”, chiese Lana, adocchiando il borsone blu accanto alla figura tesa di Madison, che aveva buttato solo oggetti a caso in quella borsa troppo leggera. “Cosa è successo con Keith? Ti ha detto qualcosa? Non dirmi che ti ha fatto del male”.
Madison leggeva chiaramente la paura dell’amica, al punto da percepirla sulla propria pelle, ed era abbastanza sicura che stessero tremando entrambe, temendo le stesse identiche cose.
“Devo andare via per un po’”, riuscì finalmente a dire Madison, parlando con una voce che non le apparteneva, roca e bassa, come se stesse confessando la peggiore delle colpe.
“Andare dove?”, chiese ancora Lana, continuando a non capire il motivo che aveva spinto Madison fino ad un tale punto di sconvolgimento. “Si può sapere cosa è successo con Keith?”.
“Lui non centra”, affermò l’altra, sperando di essere convincente, nonostante facesse lei stessa fatica a dare credito a ciò che stava dicendo, al castello di bugie che stava costruendo. “Devo solo andare via per un po’ di tempo e voglio che mi tu mi dia retta, per favore”.
“Come faccio a fidarmi di te, se non mi dici cosa sta succedendo?”.
A quel punto, Madison si avvicinò all’amica, afferrandola per le braccia con il viso sconvolto e il respiro affaticato di chi stava trascinando un masso enorme dietro di sé. Lana la guardò con quegli occhi esterrefatti e ancora più chiari, scrutando quel viso impaurito nella speranza di scorgervi la sua amica Madison, nascosta chissà dove, sotto quella maschera.
“Lana”, la supplicò Madison, con la voce spezzata dalla voglia di piangere. “Ho solo bisogno di andare via per un po' di tempo, non posso spiegarti tutto adesso, ma ho bisogno di andare via per un po' di tempo...tornerò, te lo prometto".
La ragazza rilassò di poco le spalle, senza smettere di guardare la sua amica.
Le lacrime le avevano rigato le guance e gli occhi erano rossi e lucidi, come se fossero pronti a cacciare tante altre lacrime ma che allo stesso tempo si stessero trattenendo. Le unghie di Madison affondarono leggermente nella sua pelle, senza farle male ma soltanto per aumentare quella stretta ferrea e il suo sguardo si faceva più bisognoso. Perché sembrava le stesse dicendo addio? Perché una parte di lei decise di crederle?
Lana non aveva idea del perché Madison la stesse pregando a quel modo, ma non ebbe il tempo necessario per pensarci, poiché la ragazza l’abbracciò all’improvviso. L’unica cosa che Lana sentiva con certezza era la morsa lacerante in cui le braccia di Madison la stavano stingendo e un buco allo stomaco.
Qualcosa era capitato alla sua migliore amica ma aveva deciso di non renderla partecipe, bensì di scappare, lontano da lei e da qualcosa che forse la stava inseguendo a perdifiato, solo che Lana Masters non aveva idea di cosa fosse.


 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Salve a tutti! Anche oggi sono qui che aggiorno con regolarità.
Non ho molto da dire su questo capitolo, solo le mie scuse per l’ultima scena tra Lana e Madison, poiché non sapevo come sbrogliare la situazione e visto che in TW non ci sono incantesimi che avrebbero potuto far dimenticare tutto a Lana, ho dovuto optare per questo addio tra le due amiche (avevo valutato anche la possibilità di farle estrarre i ricordi da Peter ma sarebbe stato alquanto surreale, poiché Lana non è certo l’unica che conosce Madison a Berkeley). Ovviamente, non è finita in modo così tranquillo. Lana rispetterà il volere di Madison e starà buona a Berkeley, almeno per ora, poi chissà. Per il resto, spero che vi piaccia la piega che sta prendendo la storia e che mi facciate sapere cosa ve ne pare al riguardo :)
Nel prossimo capitolo, saranno tutti a Beacon Hills e rivedremo anche i nostri eroi!
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che stanno spendendo anche solo un minutino per questa storiella e che mi stanno supportando. Grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui <3
Alla prossima, un abbraccio!

 

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Capitolo 6
*** V - Feet on the ground ***


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V
 
Feet on the ground

 
 “If I told you what I was, would you turn your back on me?
Even if I seem dangerous, would you be scared?
I get the feeling just because, everything I touch isn’t dark enough.
If this problem lies in me”.
(Imagine Dragons – Monster)
 
Madison si svegliò di soprassalto, a causa della musica che era risuonata nell’abitacolo e per un secondo, credette di trovarsi a casa sua, nel suo letto, con la sveglia che suonava. Tuttavia, non c’era un morbido cuscino dietro di lei, ma uno schienale di pelle così freddo e scomodo al punto che sentì il bisogno di spostarsi, trattenendo un mugolio. Un raggio di sole, che si stava facendo strada verso il tramonto, investì il suo visto, costringendola a strizzare gli occhi.
A breve sarebbe calata la sera, e magari Madison si sarebbe messa a dormire, con la speranza di risvegliarsi ancora una volta in quella casa che aveva lasciato.
“Vuoi togliere quelle mani dallo stereo?”.
La voce seccata di Derek le giunse all’orecchie come un fischio acuto, e si portò una mano alla fronte, notando come quelle poche ore di sonno non fossero servite proprio a nulla.
“Andiamo, nipote!”, lo richiamò Peter, prendendolo volutamente in giro. “Non ho neanche il diritto di ascoltare della musica decente in questa macchina?”.
“Tu non fai niente”, rispose Derek, senza ammettere proteste. “Stai seduto e in silenzio”.
“Mi hai preso per un cane?”, domandò l’altro, voltandosi a guardarlo, ma senza ricevere alcuna risposta, poiché Derek continuava a guidare, concentrandosi solo sulla strada.
Madison dedicò un’occhiata a Cora, seduta accanto a lei, che le rivolse un sorriso d’incoraggiamento che non fu di molto aiuto, nonostante la ragazza apprezzasse lo sforzo. Ripensò a Lana, al modo in cui le aveva praticamente detto addio, o forse era solo un arrivederci, non poteva ancora classificare quel saluto fatto solo di lacrime e frasi spezzate come “fidati di me” oppure “non posso spiegarti tutto adesso”.
Ad ogni modo, Madison  sapeva che Lana, nonostante la testa calda, avrebbe rispettato ciò che le aveva chiesto di fare, ovvero starne fuori.
Per un attimo, le sembrò di vedere Derek osservarla dallo specchietto retrovisore ma non ne era molto sicura poiché quello sguardo fugace si era dissolto dinanzi ai suoi occhi, come il battito delle ali di una farfalla. Poggiò nuovamente il capo sul vetro del finestrino, abbandonandosi a quella stanchezza che la prendeva delicatamente per mano e poi lo vide: un cartello che segnava il loro ingresso in quella città che aveva lasciato anni fa, Beacon Hills.
 
“Isaac, smettila di fare il bambino. Sarà solo un film”.
Stiles richiamò nuovamente il ragazzo che se ne stava seduto sul divano con un’espressione per nulla felice, voltandosi verso Stiles solo per fingere di non essere spaventato.
“Io non faccio il bambino”, ribattè prontamente il ragazzo, quasi sdegnato.
“Non dovevamo fargli vedere Supernatural”, dichiarò Lydia, con la schiena poggiata al bancone mentre osservava le sue unghie laccate di rosso, e Scott accanto a lei, sorridente.
“Non sembra apprezzare molto i clown”, continuò Scott, attirando su di sé lo sguardo leggermente accigliato di Isaac che invece di apparire minaccioso, sembrava più un bambino.
“Se vuoi posso regalarti un bel clown di peluche, cosa ne dici?”, gli chiese Stiles, prendendo posto accanto ad Isaac che nel frattempo stava trattenendo il suo istinto omicida.
Lydia rise, ma di una risata vera, che portò Scott ad osservarla, come se la cosa lo avesse sorpreso, ed in effetti era proprio così. Tornare alla normalità non era un’impresa facile ma forse con piccoli passi, soprattutto se sincronizzati, ogni cosa poteva sembrare meno dolorosa del solito. La risata di Lydia era stata un piccolo saltello lungo quel sentiero tortuoso e fangoso che stavano percorrendo insieme, tentando di lenire le loro ferite ancora pulsanti sulla pelle.
La ragazza si voltò verso di lui, come se avesse percepito qualcosa e gli rivolse un sorriso che sapeva un po’ di amarezza e un po’ di gratitudine.
Lydia lo stava ringraziando, forse per essere vivo.
“Cosa mi sono persa?”, Kira fece il suo ingresso nella cucina di casa Yukimura, facendo saettare gli occhi scuri dalle figure divertite di Stiles, Scott e Lydia a quella offesa del povero Isaac.
“Isaac è terrorizzato dai clown”, le rispose Lydia, giocherellando con una ciocca di capelli rossi e portandosi una mano sul fianco, mentre Kira guardava Isaac, trattenendosi dal ridere.
“In realtà, io non ho paura dei clown”, precisò il ragazzo, portando una mano a mezz’aria, mentre Stiles, seduto accanto a lui, divorava popcorn come se nulla fosse. “Semplicemente, li trovo inquietanti, come ogni persona normale sulla faccia della terra”.
“Inquietanti?”, chiese Kira, togliendo i popcorn a Stiles prima che quest’ultimo li finisse.
Intanto, Scott aveva iniziato ad agitare le braccia per farsi notare da Kira nella speranza che la ragazza si voltasse e mettesse fine a quella discussione ma la ragazza non lo vedeva.
“Sono divertenti, invece”, continuò Kira, con estrema tranquillità, mentre Scott poggiava le braccia sul bancone della cucina, con fare afflitto e Lydia gli dava delle leggere pacche sulla schiena.
“Divertenti?”, ripetè Isaac, ruotando completamente il busto verso Kira, in modo da poterla vedere in viso, e la ragazza non sapeva se ridere o meno per la sua faccia basita.
Stiles mise una mano sulla fronte e sprofondò nel materasso in pelle marrone, conoscendo la direzione che stava prendendo quel discorso: Isaac avrebbe rimproverato Kira solo perché considerava i clown divertenti, cosa che lui non riusciva a concepire.
Sia Scott che Stiles ne avevano già avuto un assaggio e avrebbero dovuto avvertire Kira, ancor prima che lei, da povera ingenua, intavolasse quello strano discorso.
Lydia si avvicinò al divano, accomodandosi accanto a Stiles e lasciando che quel clima di pace e sicurezze la cullasse con una ninna nanna nuova, di cui non aveva beneficiato spesso. Era circondata da certezze, persone che le avevano tenuto la mano nei momenti più bui e che probabilmente avrebbero continuato a farlo. C’era solo una persona che mancava all’appello e ogni volta che il pensiero di Lydia correva ad Allison, la stretta a livello del cuore sembrava farsi molto più intensa, mentre l’organo si lasciava schiacciare da quella morsa. In quei momenti, Stiles la sfiorava, e quella trappola mortale si affievoliva.
La ragazza si fece passare i popcorn da Kira, impegnata a dibattere con Isaac sulla vera natura dei clown, e cominciò a dividerli con Stiles, godendosi il teatrino che i due ragazzi gli stavano riservando. Intanto, Scott osservava la scena, da lontano come fosse uno spettatore.
Non sapeva nemmeno lui con precisione perché si stesse tenendo fuori, senza partecipare attivamente alla conversione. Semplicemente, gli piaceva guardare i suoi amici che battibeccavano come dei ragazzi normali, senza licantropi, banshee, kitsune e cacciatori a complicare quello scenario già molto strano. Provava una sensazione di calore mentre li osservava, constatando che, nonostante tutto, stavano bene. Avrebbe tanto voluto voltarsi e trovare Allison accanto a lui.
Le avrebbe rivolto un sorriso, dicendole semplicemente: “Lo vedi? Siamo vivi”.
Tuttavia, quando Scott volse il capo alla sua sinistra, non trovò nulla ed abituarsi a quella mancanza, a quel posto ombroso che Allison non avrebbe più occupato, era ancora difficile. Il flusso dei suoi pensieri venne distratto dal suono del cellulare e, dopo aver buttato un ultimo sguardo a Kira ed Isaac ancora intenti a discutere mentre Lydia e Stiles se la ridevano, aprì il messaggio che Derek gli aveva appena mandato.
Il ragazzo sorrise istintivamente, leggendo quelle parole accostate che non credeva di leggere così presto.
“Siamo tornati. Vi aspetto al loft”. Derek non aveva scritto altro, ed era decisamente da lui.
Scott trovava ancora strana l’evoluzione che il suo rapporto con Derek aveva subito. Nel momento in cui lo aveva incontrato nella riserva con lo sguardo meno amichevole del mondo, non avrebbe certo immaginato di considerarlo un fratello in un prossimo futuro.
“Ragazzi”, esclamò Scott, spezzando la tonalità giocosa di quella sera. “Derek è tornato”.
Kira si aprì in un largo sorriso, che Scott non poté fare a meno di ricambiare, per quanto ogni sguardo che scambiava con la ragazza fosse un po’ una fitta al cuore. La direzione che lui e Kira avevano intrapreso si era bruscamente interrotta, senza ripartire, poiché tutto ciò che era accaduto aveva avuto la priorità su tutto. Scott avrebbe desiderato parlarle ma ogni pensiero che rivolgeva a Kira gli sembrava quasi un’offesa nei confronti di colei che se ne era andata, esalando l’ultimo respiro tra le sue braccia. Sapeva che Allison non avrebbe mai voluto vederlo così. Qualche volta l’aveva sognata, era davanti a lui con i capelli morbidi lungo le spalle, gli occhi scuri resi ancora più grandi dalle lunghe ciglia e quelle fossette attorno alla bocca. Gli sorrideva e gli diceva di essere felice, di non guardarsi indietro, eppure non c’era altro modo in cui Scott potesse sentirsi, almeno per quel periodo.
Lydia, dopo aver udito quella notizia, cercò gli occhi ambrati di Stiles, trovandoli già su di lei. Era come se un filo legasse le loro menti connesse che avevano certamente formulato lo stesso identico pensiero: Lydia aveva urlato e Derek Hale era tornato a Beacon Hills.
Tuttavia, Stiles pregò con tutto il cuore che il suo ritorno non avesse nulla a che vedere con l’urlo di Lydia, perché non sarebbe stato affatto un buon segno.
 
“Io sono sempre propenso a trovarti qualcuno per pulire, Derek”.
Il proprietario ignorò beatamente il consiglio non richiesto di Peter e lasciò cadere il borsone sul letto al centro del loft, mentre Madison si guardava intorno.
La ragazza non era suo agio e osservava il loft come se fosse la cosa peggiore che avesse visto, continuava a squadrare ogni anfratto di quell’appartamento con una curiosità che non aveva nulla di vivace, non come quella dei bambini che vedevano qualcosa per la prima volta. Madison, con le dita ancora strette attorno alla sua borsa, faceva piccoli passi per il loft, facendo una leggera pressione, quasi come se volesse accertarsi di essere realmente lì.
“Beh, ora che ho visto casa vostra, posso andare”, esclamò all’improvviso, facendo voltare Derek.
Cora rimase accanto alla ragazza, scambiandosi un’occhiata perplessa con Peter.
“E dove vorresti andare, di grazia?”, chiese Derek, incrociando le braccia, forzandosi di essere educato e non rispondere alla ragazza con un ringhio disumano.
“A casa mia, dai miei nonni”, continuò lei, mantenendo salda la voce come se bastasse a tenerla con i piedi per terra.
“Neanche per sogno!”, esclamò Derek a denti stretti, mentre la ragazza serrava i pugni.
Si sentiva come ostaggio costretto a viaggiare con i suoi rapitori, costretto a muoversi insieme a loro, senza possibilità di scelta e senza alcun modo di sottrarsi al loro volere. Madison non voleva essere trattata a quel modo.
Derek si comportava come se dovesse essere lui quello con il bisogno di tutelarsi e proteggersi: lei non era altro che una bestia da rinchiudere, perché avrebbe potuto sbranarli da un momento all’altro. Non voleva essere tenuta al guinzaglio, né tantomeno guardare Derek mentre cercava ostinatamente di imporle le sue decisioni, senza possibilità di replica.
“Non provare a dirmi quello che devo fare”, si lamentò Madison, facendo un passo avanti e rendendo lo sguardo di Derek più ostile di quanto non fosse già.
“Non puoi scorrazzare in giro come se nulla fosse”, la voce di Derek echeggiava rancorosa per il loft, come un ululato.
“Derek”, lo richiamò Peter, avvicinandosi e sussurrando al nipote, tentando evidentemente di farlo ragionare ma lo sguardo di lui restava fisso su Madison. “La ragazza vorrà solo vedere la famiglia, farla stare con noi non fa molta differenza”.
“Derek, so che lo ritieni pericoloso”, continuò Cora, dando man forte allo zio. “Ma-“.
Derek non permise a sua sorella di terminare la frase, preferendo attaccare verbalmente Madison ancora una volta: stava diventando un’abitudine, piacevole solo per lui e nessun altro.
“Vuoi rimanere sola? Così puoi mettere in atto chissà cosa?”.
Madison lo fissò con la bocca dischiusa, strizzando le palpebre un paio di volte e tentando di ricevere quella strana frequenza che erano le sue parole dure e cariche di risentimento. La voce di Derek risuonava pungente come lo stridio delle ruote sull’asfalto, le stesse che avevano fermato la loro traversata quando la macchina di Derek le aveva urtate. Era impossibile sovrapporre quella voce, che in quel momento la stava accusando di qualcosa, alla voce pacata, anche se un po’ sgarbata, che si era rivolta a lei poco tempo addietro. Non potevano appartenere alla stessa persona. Derek non poteva credere che lei stesse mentendo, o peggio, nascondendo qualcosa di orribile che potesse danneggiarli. Perché Derek lo credeva possibile? Perché inveiva contro di lei?
“Non sto mettendo in atto nulla, Derek”, la sua voce si ruppe mentre percorreva disperatamente quel loft spoglio e abbandonato, con l’unico desiderio di farsi ascoltare ma Derek non udì quelle parole, forse perché semplicemente non voleva. "Cosa credi che sia? Un mostro?".
Se avessero chiesto a Madison come fosse finita quella conversazione, le sarebbe piaciuto rispondere che ogni cosa non era stata altro che un incubo, frutto di un sonno durato troppo tempo. Tuttavia, il dialogo con Derek, fatto di sguardi truci e parole nascoste come mine, era terminato semplicemente perché Cora le aveva sfiorato docilmente il braccio, indicandole le scale a chiocciola poco distanti da loro e conducendola al piano di sopra, per lasciare Derek solo con Peter.
Derek si lasciò andare contro la parete del loft, alzando gli occhi verso il soffitto, nella vana speranza di trovare una risposta a tutti i problemi che lo avevano sopraffatto in poco tempo. Una risposta alla domanda di lei c'era, solo che Derek aveva evitato di pronunciarla.
La sua mente aveva risposto in automatico, lasciando che un nome riecheggiasse nella sua testa: Jennifer.
Lui credeva che fosse come Jennifer Blake: un mostro nascosto dietro un viso candido e bellissimo.
“Sei proprio impossibile”, rantolò Peter, scuotendo il capo in segno di diniego.
Derek non si prese nemmeno il disturbo di guardarlo male, poiché abituato ai commenti critici di suo zio morto, risorto e assiduamente pronto a far valere la sua indesiderata opinione. Un rumore proveniente da fuori portò entrambi a voltarsi verso la porta del loft, che venne prontamente aperta da qualcuno, il cui odore era così familiare che Derek non riuscì neanche a sorprendersi: Scott aveva fatto scorrere la porta, entrando nel loft, insieme a Stiles, Isaac, Kira e Lydia.
Il ragazzo adocchiò Derek e sul suo volto nacque un sorriso bonario e felice, come quello di un fratellino che rivedeva il suo fratello maggiore dopo tanto tempo e Derek non riuscì ad ignorare la sensazione piacevole che quel momento gli provocò.
Erano tutti lì dinanzi a lui: Kira li osservò con il viso smosso da quell'espressione placida e realmente gentile, restando accanto Scott; Lydia strinse gli occhi, adagiandoli sulla figura di Peter, che alzò la mano in cenno di saluto, irritando particolarmente la ragazza, che si voltò verso Derek, sorridendogli; Isaac si dondolò sulle gambe lunghe, infilando le mani nelle tasche posteriori dei jeans e accennando un ghigno, tradito da una agitazione che lo smuoveva a livello del petto.
Persino Stiles sembrava felice di vederlo, lo sentiva sicuro, come se il suo ritorno fosse l’inizio della tranquillità che avevano agognato.
Il ragazzo gli rivolse un cenno, senza riuscire a trattenere le parole.
“Bentornato, sourwolf”, esclamò con tono gioviale e Derek dovette concedersi un sorriso.
Era ancora inusuale per Derek essere importante per qualcuno, soprattutto se quel qualcuno non era sempre stato in buoni rapporti con lui…proprio come coloro che aveva di fronte. Derek fece un respiro profondo, dandosi forza per ciò che doveva fare.
Spiegare a Scott tutta la questione che aveva dovuto affrontare a Berkeley gli costava molto. Rompere la felicità inespressa sui volti di quei ragazzi lo faceva sentire come un vero e proprio mostro: si sentiva un avvoltoio pronto a scendere in picchiata verso i corpi inermi con il sangue ancora fresco sulle ferite.
“Scott, c’è qualcosa che devo dirti”, esalò Derek, portando lo sguardo verso il pavimento.
A quella frase quasi incerta, Stiles ebbe un sussulto e con lui anche Lydia, convinti del fatto che le parole del licantropo potessero essere in qualche modo collegate all’urlo di lei. Il ragazzo corrugò le sopracciglia, osservando meglio Derek, per poi essere distratto da due figure che scendevano le scale: Cora entrò nella sua visuale insieme a qualcun altro...una ragazza.
Un odore di cappuccino appena fatto e di iris penetrò nelle sue narici, portandolo a concentrare la sua attenzione sulla nuova arrivata, intenta anche lei ad osservare i presenti un po’ intimorita. Per quanto Scott potesse essere poco perspicace, come Stiles gli faceva spesso notare, non aveva molti dubbi sul fatto che quella ragazza fosse ciò di cui Derek doveva parlargli.
“Lei è Madison”, dichiarò Cora, restando vicina alla ragazza che sollevò le dita, incerta.
Lydia fece attenzione alla suddetta ragazza, scrutandola con una curiosità che venne bruscamente interrotta da un brivido, una sensazione che le percorse la spina dorsale fino a farle girare la testa.
“Lydia”, la chiamò Stiles, afferrandola per le braccia prima che potesse cadere e stringendola a sé, senza il proposito di farla reggere in piedi da sola. “Stai bene?”.
“Ho solo-“, cominciò lei, portando una mano alla testa e posando gli occhi su Madison.
“E’ il momento di parlare un po’”, concluse Peter, sfregando le mani, mentre gli ultimi arrivati analizzavano quella situazione nuova e ricca di interrogativi.
 
“Siamo sicuri di quello che stiamo facendo?”.
Gwen non diede peso alla domanda ansiosa di Bastian e non si voltò neanche per rispondergli, portando una mano a smuovere i capelli rossi in un gesto di noncuranza.
Bastian trattenne un ringhio, e per quanto non fosse ben disposto ai litigi con membri del suo branco, gli risultava molto difficile essere cordiale con quella donna.
La figura alta e sinuosa di Gwen continuava a dargli le spalle e se Bastian avesse avuto un po’ di coraggio in più le sarebbe già saltato al collo, dando inizio ad una rissa, ma era pur sempre una donna, e Bastian non era solito reagire in quel modo. Gli altri lo avrebbero definito “debole”.
“Lo siamo!”, esclamò Keith, entrando nella stanza per poggiare la pistola sul ripiano in legno.
Bastian osservò Keith mentre il disprezzo gli montava dentro come una valanga: avrebbe potuto farlo fuori da un momento all’altro, in fin dei conti era soltanto un umano che aveva finto di amare una ragazza con l’unico scopo di far avvicinare Julian.
Si chiese se quel ragazzo provasse almeno un minimo di malanimo mentre si muoveva insieme a loro, consapevole di ciò che aveva fatto e di come avesse certamente ferito e ingannato Madison.
“Dovresti smettere di preoccuparti, Bastian”, esclamò Gwen con voce bassa e persuasiva, dettaglio che poteva renderla piacevole agli occhi degli altri, ma non ai suoi.
“Scusa tanto se il fatto che stiamo per inoltrarci in un covo di altri licantropi mi desta preoccupazione”, rispose lui, incrociando le braccia e non accettando quella tranquillità.
Erano pur sempre dei beta, indubbiamente forti, ma non sapevano a ciò che stavano andando incontro, o meglio, gli altri lo sapevano e lui no, visto che con lui evitavano spesso i dettagli.
“Julian sa quello che fa”, continuò Gwen, degnandolo di uno dei suoi sguardi altezzosi e insolenti che risuonavano come un ringhio di avvertimento nei confronti di chi osava contraddirla.
“Lui lo sa, tu puoi solo assecondarlo”, brontolò il ragazzo, graffiando l’aria con quelle parole che non sapevano di risentimento, poiché le avrebbe dette più volte.
Gwen si voltò completamente verso di lui, con il viso avvolto da una calma serafica e gli occhi gialli che scintillavano: non ci furono ringhi o artigli, Gwen fece solo per avvicinarsi a Bastian ma venne fermata da qualcuno che si mise fra loro, evitando il peggio.
La chioma bionda di Blake limitava la visuale del ragazzo che a vederlo arrivare non aveva potuto fare a meno di sospirare con fare sollevato: in situazioni di quel tipo, Blake faceva sempre il suo ingresso, togliendolo dai guai spesso e volentieri. Blake era un po’ come un venticello leggero in una giornata afosa, abile nel portare ristoro a chi lo aspettava silenziosamente.
“Basta, bambini”, il tono di scherno di Blake annullò la tensione.
“Dì al tuo protetto di non fare troppe insinuazioni”, snocciolò Gwen, voltando le spalle.
Blake aspettò che la donna fosse uscita dalla stanza prima di concentrare la sua attenzione su Bastian, ancora immobile alle sue spalle con la mente così satura di pensieri che quasi gli mancava il respiro. L’uomo lo richiamò, poggiandogli una mano sulla spalla in modo cordiale.
“Dovresti smettere di discutere con lei”, disse, senza nascondere un tono di rimprovero nella voce.
“E tu dovresti smettere di comportarti da persona normale solo quando ci sono io”, lo rintuzzò Bastian, provocando uno sbuffo sonoro nell’uomo che poi scoppiò in un sorriso amaro.
“Noi non siamo normali, Bastian”, continuò lui con tono blando ma allo stesso tempo serio. “Julian è il nostro alpha e ha un obiettivo da raggiungere…ed è giusto supportarlo”.
Bastian strinse le labbra, desiderando smussare quegli angoli appuntiti che erano le parole di Blake: non trovava giusto ciò che Julian stava facendo e, nonostante fosse un suo beta, non riusciva ad essere completamente leale nei suoi confronti e non capiva come facesse Blake.
Blake Turner era un assassino, il secondo di Julian, che si era macchiato le mani di così tanto sangue che le sue dita avrebbero potuto prenderne tranquillamente il colore. Eppure, quando era con lui, veniva fuori un lato di Blake che non conosceva quasi nessuno: lo trattava come se fosse un fratello, e forse quell’atteggiamento così amorevole nei suoi confronti era dovuto alle perdite che aveva subito. Forse lo guardava e rivedeva qualcuno che aveva perso, un fratello o magari un figlio.
Bastian era molto più immaturo e fragile di allora quando lo avevano trovato, curato e accolto in quel branco.
Era stato proprio Blake a trovarlo sanguinante e quasi privo di sensi nel bel mezzo della foresta, portandolo dal resto del branco: durante il tragitto verso quella che sarebbe stata la sua nuova casa, Bastian aveva udito la sua voce, che gli intimava di stare sveglio e tenere duro. E lui aveva tenuto duro, si era aggrappato alla voce di Blake, facendo appello alla sua voglia di vivere e ci era riuscito: si era salvato, grazie a Blake, Julian e anche grazie a Nadia.
“D’accordo?”, lo richiamò Blake, provando a destarlo dal silenzio in cui si era chiuso.
“Sì”, si arrese Bastian, senza guardarlo negli occhi.
Blake immerse una mano nei suoi capelli scuri, scompigliandoli, nonostante il ragazzo avesse tentato inutilmente di sottrarsi a quel gesto giocoso che Blake riservava solo a lui.
L’uomo uscì, tornando forse da Julian per programmare la prossima mossa, e lasciando Bastian, ancora una volta, solo con i suoi pensieri angoscianti e pregni di sensi di colpa.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, chiedendosi se Nadia li stesse guardando.
 
Madison giocherellò con le dita per alleviare quello spasimo che la martoriava continuamente.
Ormai, aveva completamente accantonato la possibilità che quello fosse un sogno da cui si sarebbe presto svegliata, nonostante ogni tanto continuasse a darsi qualche pizzico quando nessuno la vedeva. Rimase in piedi, sopprimendo la voglia di gettarsi su un letto qualsiasi e affondare la testa nel cuscino, piangendo e urlando con tutta la forza che aveva in corpo, ma qualcosa la forzava a non farlo, a trattenersi ancora un po’.
Forse perché quello era solo l’inizio e magari il peggio doveva ancora arrivare. In realtà, il peggio sembrava avanzare inesorabilmente verso di lei, seppur a piccoli passi e in maniera così silenziosa che Madison faticava ad accorgersene.
Voleva trattenere quelle lacrime traditrici intente a percorrere silenziosamente le sue guance, al pensiero di trovarsi nella sua vecchia città con la quale aveva ben pochi collegamenti, mentre Lana era a Berkeley, forse a preoccuparsi e chiedersi dove fosse, e mentre Keith era chissà dove insieme a coloro che erano entrati nel magazzino. Licantropi…come Derek, Peter, Cora, e quei due ragazzi che erano arrivati prima, a cui avevano dovuto spiegare tutto. Sentiva i loro sguardi attenti su di sé e Madison non ne poteva più di stare chiusa in quel silenzio a lasciarsi scrutare.
“Potresti smetterla?”, pregò con tono irritato il ragazzo dalla pelle scura, che sembrava chiamarsi Scott, il quale, preso in contropiede, sussultò, mortificato.
Madison aveva inciso nella mente i loro volti e i loro nomi, soffermandosi maggiormente sulla ragazza dai capelli rossi e il ragazzo che le stava costantemente accanto, come se la stesse proteggendo da qualcosa. A prima vista, avrebbe detto che fossero una coppia.
Peter e Cora avevano raccontato ogni cosa a Scott, cercando di far parlare Derek il meno possibile, cosa che lui non sembrava aver gradito, poiché dava l’impressione di voler urlare il suo disappunto.
Ogni tanto si era voltato verso di lei, incrociando lo sguardo astioso con il suo e Madison avrebbe tanto voluto strappargli quell’espressione dalla faccia e mostrargliela, solo per fargli comprendere come ci si potesse sentire ad avere quello sguardo pieno di odio sordo su di sé.
“Quindi…un branco di licantropi verrà a farci visita?”, domandò il ragazzo più alto e dinoccolato, stringendo una mano a mezz’aria e increspando le labbra in una smorfia incerta.
“Sai sempre come essere di conforto, Isaac”, lo rimproverò l’altro ragazzo chiamato Stiles, il cui nome le risultava alquanto inusuale ma stranamente piacevole, tenendo sempre la mano attorno alla vita della ragazza dai capelli rossi, sorreggendola per non farla cadere.
Scott non le era parso turbato da quella constatazione, si voltava continuamente verso Derek, lanciandogli sguardi calmi come se volesse rassicurarlo mentre l’altro pareva volesse esplodere.
Madison si sentiva una povera e inutile spettatrice: aveva aperto bocca poche volte e la maggior parte di esse era stata zittita da Derek con uno sguardo intimidatore.
“Cosa vogliono da te?”, chiese Scott, voltandosi completamente verso Madison.
“Io non-“, la ragazza fece per rispondere ma poi fu la voce di Derek a sovrastarla.
“Deve essere qualcosa che loro cercano”, si intromise lui, senza preoccuparsi di averla interrotta e fissando Scott, senza neanche considerare Madison, come se non fosse presente.
“Io non sono niente!”, dichiarò la ragazza, esasperata da quel continuo sospetto verso di lei.
Cosa credeva Derek? Pensava che Madison fosse un mostro? La riteneva una specie di Idra a cui tagliare la testa solo per dimostrare che ne sarebbero cresciute altre tre? Derek la riservò un minimo attenzione, saggiando le sue parole e facendo un passo verso lei con un’aria che non sembrava affatto ben intenzionata.
“Un alpha ti cerca”, esclamò lui, sottolineando l’ovvio. “Dimmi cosa ti sembra”.
“Mi sembra che un alpha mi insegua ma io non ho idea del motivo”, sputò lei, sempre più stizzita con l’angoscia che scalava il suo petto solo per riversarsi all’esterno. “Smetti di accusarmi di essere qualcosa. Io non sono niente e tu non vuoi capirlo!”.
Dopo quella frase, gettata con rabbia, Madison aveva fatto fatica a realizzare ogni cosa: tutto ciò che era accaduto le appariva solo come una leggera foschia che oscurava gli eventi, senza concederle la possibilità di mettere a fuoco tutte quelle sensazioni troppo forti per essere classificate.
Le dita di Derek si strinsero attorno al suo braccio così velocemente che Madison non realizzò a pieno cosa stesse accadendo fin quando non sentì il suo respiro farsi più corto e il cuore scoppiarle nella cassa toracica per il dolore.
Derek la strattonò leggermente, guardandola con rabbia, considerandola alla stregua di un nemico da annientare perché dannoso per il resto dell’umanità.
“Derek!”, il ragazzo con la camicia a quadri, Stiles, lo richiamò, facendolo desistere.
L’altro non ci mise molto a mollare la presa, lasciando Madison con il respiro ansante e gli occhi lucidi, intenta a fissare il pavimento con una mano all’altezza del braccio. Cora le fu accanto immediatamente, guardando Derek con un’espressione così delusa che forse Derek non sembrò nemmeno farci caso, almeno all’inizio.
Lo sguardo di Derek era rigido ed immutabile proprio come quello di una statua di marmo perfettamente immobile che avrebbe tenuto sempre la stessa espressione fredda e priva di vita.
Cora la portò di sopra, mentre il silenzio calava nel loft, lasciando a tutti i presenti modo di riflettere su quanto appena accaduto, come Madison stessa.
Quando fu sola, portò le sue dita a contatto con la pelle ancora bollente per quella presa così ferrea da farle male. Intanto, al piano di sotto, avevano ripreso a discutere e sia lei che Cora avevano ascoltato, senza proferire parola, mentre Cora la osservava ogni tanto di sottecchi, smossa dalla voglia di dirle qualcosa ma senza trovare le parole giuste che potessero rincuorarla.
Tuttavia, quando tornarono ad affrontare la questione della sua “permanenza”, Madison decise di mettere da parte ciò che era accaduto, precipitandosi per le scale e rispondendo al rancore silenzioso di Derek con uno sguardo deciso che non ammetteva altri ostacoli.
“Starò a casa mia”, esclamò lei, senza alcun tremore nella voce.
“Potrebbe essere pericoloso, Madison”, aveva esclamato Scott con voce dolce e apprensiva.
“Voglio almeno rivederli”, continuò lei, sperando che le fosse concesso.
Scott sospirò, agguantando gli occhi di Derek che gonfiò il petto, come se volesse emettere un ringhio di ammonimento.
“Credo le spetti”, si intromise Cora, regalando un’occhiata a Madison. “Faremo attenzione”.
Derek non oppose alcuna resistenza a quella decisione probabilmente già presa, limitandosi solo un profondo respiro mentre Peter gli donava una pacca di incoraggiamento sulla spalla che non aveva mutato il suo stato d'animo.
“Nel frattempo, noi andremo da Deaton”, sentenziò Scott, tentando di tranquillizzare Derek, poiché il ragazzo aveva intuito fin da subito il suo umore.
Madison fece un cenno del capo a Cora come per ringraziarla, evitando ogni possibile contatto con Derek.
Non voleva guardarlo. Non voleva sentirsi ancora incredula, rotta più di quanto non lo fosse già e terrorizzata dal cambiamento repentino che Derek aveva assunto: mai avrebbe creduto che potesse arrivare a quello, come non avrebbe mai creduto che il ragazzo che l’aveva tamponata si potesse trasformare in qualcuno capace di fare ciò che aveva compiuto senza problemi. Non credeva di poterlo paragonare ad un mostro.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Eccomi anche oggi con il nuovo capitolo!
Allora cosa ve ne pare? Non ho molte precisazioni da fare, quindi spero semplicemente che la storia vi stia piacendo e che mi facciate sapere con un commento anche piccino cosa ve ne pare e se sto andando nella giusta direzione con questa storia, poiché ad ogni capitolo vengo sempre assalita da terribili dubbi.
Ci tengo solo a dire che la scena in cui Derek afferra Madison richiama un po' a quella della 3x10 in cui si avventa su Jennifer...inutile dirvi che Derek ha qualche piccolo problema di fiducia e, visti i suoi trascorsi, mi sembra giusto; e che con l'introduzione di Blake e Gwen, il branco di Julian è al completo.
Vi chiedo scusa se questi capitoli vi sembrano un po’ noiosi, ma diciamo che sono delle “scosse di assestamento” prima di quello che accadrà in seguito. Nel prossimo capitolo, sapremo qualcosa su Julian, su Keith e il motivo che lo ha spinto a fare quel che ha fatto.
Grazie, come sempre, a tutti quelli che hanno recensito, messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e che vi stanno dedicando un po’ del loro tempo <3
Alla prossima, un abbraccio :)

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Capitolo 7
*** VI - Lies, don't wanna know ***


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VI
 

Lies, don’t wanna know
 


“Send out the alarms, I'm all alone.
Wrap me in your arms, take me home”.
(Us – Take me home)
 

“Non esitare a chiamarci, per qualsiasi cosa”, esordì Cora con una voce tranquilla ma allo stesso tempo carica di apprensione. “D'accordo?".
Madison le fece un cenno di assenso, ricambiando il suo sorriso per poi tornare ad osservare la casa avvolta nell’aria fresca e scura della sera, ripercorrendo ogni suo angolo solo per ricordarlo meglio e riportare alla mente ogni dettaglio, ogni crepa e ogni profumo.
La sua casa non era cambiata di molto dalla sua ultima visita, risalente a diversi mesi addietro, prima dell’inizio dei corsi all’università.
Lo steccato bianco era perfettamente tinteggiato, poiché suo nonno Jonathan non avrebbe mai permesso che fosse rovinato, come se un semplice steccato potesse in qualche modo intaccare la perfezione di quella casetta accogliente. Qualche ginestra ornava il vialetto, mentre più avanti Madison riconobbe i gerani, fiori preferiti da sua nonna Thiana che proprio non riusciva a reprimere il suo pollice verde.
Madison inspirò tutti quegli odori che si mischiavano, abbinandoli al ricordo di lei bambina che si sedeva sul dondolo, la cui postazione non era cambiata, a godersi i pomeriggi primaverili, con sua nonna accanto che le leggeva un libro, tenendola stretta.
Quel dondolo era sempre stato uno dei suoi posti preferiti di quella casa: un piccolo angolo di paradiso che affacciava sul giardino e sulla strada principale di Beacon Hills. Tante volte vi si era seduta, sia da sola che con Lana, tra risate, compiti di francese, esercizi di matematica mai compresi, lacrime per un cuore spezzato e gioia in vista del ballo di fine anno.
Madison raggiunse la porta di legno color mattone che la separava dall’interno della casa e dalle facce sorprese dei suoi nonni che certamente non si sarebbero aspettati una visita senza preavviso.
La luce in casa era accesa, e Madison lo notò tranquillamente dalla finestra che filtrava la tenue luce dell’abatjour del soggiorno. Forse stavano vedendo uno dei film in bianco e nero che tanto amavano, seduti sul divano verde con la coperta color prugna in cui si erano avvolti spesso anche con lei.
Smise di tergiversare e premette il campanello, facendo un respiro profondo.
Dietro di lei, Cora avevano osservato la scena, mettendo in moto poco dopo che la porta venisse aperta da un uomo sicuramente avanti con gli anni ma che non avrebbe definito un “nonno”. Mentre Cora guidava, facendo scattare gli occhi castani da un punto all’altro della strada, alla ricerca di un movimento qualsiasi che potesse destarle sospetto, Isaac si voltò indietro, tentando di vedere Madison ma la visuale venne oscurata da alcuni alberi che ornavano il marciapiede.
“Potresti lasciarle un po’ di privacy”, lo rimbeccò Cora, senza voltarsi.
“Volevo solo assistere alla scena”, si giustificò lui, sprofondando nel sedile.
“Non ti facevo così sentimentale”, scherzò lei, trattenendo un risolino.
Isaac le fece una smorfia stizzita, ignorando il suo commento in stile Hale.
Solo dopo, Cora ricordò ciò Derek le aveva riferito sia sugli ultimi avvenimenti che su Isaac e per un attimo, pensò a quello che aveva detto.
Sentimentale. Isaac lo era, o almeno, lo era stato. Aveva avuto una storia con Allison, l’aveva vista morire sotto i suoi occhi, forse l’aveva amata, mettendosi anche in una situazione compromettente e lei aveva fatto un commento che la fece sentire leggermente spaesata e stupida.
 “Io non volevo dire che-“, cominciò lei, senza terminare quella frase, lasciata in sospeso dal fatto che non avesse la minima idea di come scusarsi o giustificarsi.
Forse Isaac non vi aveva colto nulla di offensivo che potesse ricordargli Allison, o forse era stata lei a leggerci qualcosa che non c’era, e continuava ad elaborare il tutto mentre Isaac si era voltato a guardarla, assottigliando gli occhi chiari e inclinando il capo con fare dubbioso.
Cora lasciò la frase in sospeso e inspirò con fare stizzito, socchiudendo leggermente le palpebre.
“Scusa”, disse semplicemente, decidendo di optare per la parola più stupida.
Isaac sorrise ma di un sorriso vero, non uno amaro o in qualche modo malinconico, visto che il suo volto non sembrava contenere altri tipi di sorrisi.
“Tranquilla, non c’è nulla di cui scusarsi”, le rispose lui, balbettando leggermente.
Se Isaac non aveva rivolto il suo pensiero ad Allison, Cora lo aveva fatto riemergere e si sarebbe data un colpo in testa per aver mostrato un delicatezza degna di suo fratello che era anche peggio di un elefante in una cristalleria, come aveva dimostrato nelle ultime dodici ore.
Cora si voltò verso di lui, osservando il profilo spigoloso e gli occhi chiari fissi sulla strada.
C’era poco del ragazzo spaventato che aveva alzato le braccia per proteggersi quando Derek gli aveva scagliato un bicchiere contro.
Ricordava ancora il suono di ogni singolo pezzo di vetro che si infrangeva contro il pavimento e l’odore salato delle lacrime che si erano accumulate attorno agli occhi di Isaac, senza trovare la giusta strada per uscire, perché ostacolate dal ragazzo. C’era poco del ragazzo che aveva aperto con furia la porta del loft, aggredendo Derek con parole dure e accuse che suo fratello aveva incassato come pugni dritti allo stomaco. Era un Isaac diverso quello seduto accanto a lei: forse più malinconico ma più forte, con più tragedie che si accumulavano sulle sue spalle larghe, con più lutti che pesavano sul suo petto.
Un rivolo d’aria fuoriuscì dalle sue labbra, continuando ad osservare la calma della sera in cui Beacon Hills sembrava avvolta: nessun licantropo in giro, a parte loro.
 
Derek si concentrò sul ticchettio delle dita di Stiles sul tavolo in metallo, pur di non dare credito al flusso confuso e continuo dei suoi pensieri.
Vacillava, rammentando ciò che era accaduto nel loft. L’ultima volta che aveva stretto qualcuno nella morsa lacerante delle sue dita, forzandosi per non cacciare gli artigli, era stato con Jennifer. Continuava ad interrogarsi, a torturarsi per capire cosa potesse esserci sotto tutta quella vicenda ma per quando si sforzasse, proprio non riusciva a venirne a capo. Madison non era diventata altro che una fotografia sbiadita di una ragazza sorridente dietro un bancone. Fra tutti i posti del mondo, fra tutte le persone esistenti, proprio lui doveva imbattersi in qualcuno coinvolto in qualcosa di soprannaturale? La verità era che Derek era troppo stanco.
Stanco di doversi guardare continuamente le spalle.
Stanco di dover scrutare ogni persona, chiedendosi se potesse fidarsi.
Stanco di vedere sempre le peggiori intenzioni dietro i sorrisi più belli.
Stanco di farsi tradire o pugnalare alle spalle.
Stanco di non riuscire a fidarsi di qualcuno senza timori.
Derek aveva impiegato così tanto tempo a riporre la sua fiducia in qualcuno che non fosse sé stesso che forse il destino, il fato o qualunque cosa si stesse prendendo gioco di lui, aveva deciso di punirlo, mettendo nuovamente a dura prova quei flebili buoni sentimenti che vagavano in lui senza meta.
Quei sentimenti restavano bloccati come particelle in sospensione: non arrivavano alla sua mente perché troppo ottenebrata da bisbigli di paura e diffidenza; non arrivavano al suo cuore perché serrato da una morsa stretta per permettere a qualsiasi cosa di attraversarla.
Derek si riscosse leggermente, notando l’agitazione di Stiles, palpabile nell’aria.
Il battito del suo cuore agitato scuoteva continuamente Derek come un tamburo battente di prima mattina mentre il suo odore trasudava ogni tipo di sensazione: ansia, nervosismo, aspettativa, curiosità. Quando il veterinario varcò la porta, il cuore di Stiles ebbe un sussulto che Derek udì senza nemmeno tendere le orecchie, dettaglio che lo spinse a chiedersi se il ragazzo stesse effettivamente nascondendo qualcosa o meno ma preferì non badarci, almeno per il momento.
“Era ora!”, esclamò Peter, leggermente stizzito per l’attesa a cui era stato sottoposto.
Deaton gli rivolse un sorriso divertito e si posizionò di fianco a Scott, aspettando che uno di loro cominciasse a parlare per spiegargli tutta la faccenda.
“Julian Jones”, cominciò Peter senza perdere tempo. “Ha un branco. Ci siamo trovati coinvolti in uno scontro e stava cercando una ragazza".
“Conciso e sintetico”, esclamò Stiles, facendo l'occhiolino a Peter e ricevendo una smorfia in risposta.
Deaton sembrò rabbuiarsi a quell’affermazione, mostrando sul suo viso corrucciato un’espressione che non lo rendeva affatto estraneo a ciò che aveva udito.
“Come l’hanno trovata?”, domandò semplicemente, attirando lo sguardo accigliato di Derek.
“Tu sai qualcosa”, dichiarò il licantropo, assottigliando lo sguardo e trattenendo un ringhio.
Tuttavia, Deaton lo ignorò, continuando a guardare Peter per avere una risposta.
“E’ stato un cacciatore a portarla via”, rispose Peter, placido, lasciando fluire le parole senza alcuna agitazione e mantenendosi quasi distaccato. “Keith Donovan”.
Deaton sospirò, osservando il pavimento dello studio e pensando a chissà cosa. Quel gesto non fece altro che aumentare la tensione nella stanza e l’ansia nei presenti, desiderosi di conoscere quella verità che Deaton sembrava stesse nascondendo.
“Ok”, intervenne Stiles, stanco di quel silenzio. “Quest’aria da Obi-Wan non mi è mai piaciuta onestamente, senza offesa. Qual è il problema?".
“Keith Donovan era un cacciatore”, cominciò l’uomo, inspirando profondamente.
“Fin qui ci eravamo arrivati”, aggiunse Derek, roteando gli occhi, seccato.
“Grazie a me, aggiungerei”, esalò Peter, beccandosi solo sguardi minacciosi.
“Come suo padre e suo nonno prima di lui”, continuò Deaton, permettendo agli altri di ascoltare attentamente ogni parola. “Suo fratello, invece, era un emissario”.
“Questo cosa centra con Julian?”, chiese Stiles, grattandosi la nuca e boccheggiando.
“Suo fratello, Graham, era l’emissario del branco di Ethan ed Aiden”.
Lo sguardo di Derek saettò fra Stiles e Scott che ricambiarono le sue occhiate in maniera altrettanto confusa e spaesata per ciò che era appena fuoriuscito dalla bocca del veterinario. Peter si limitò a schiudere le labbra come per dire qualcosa, lasciando la frase in sospeso.
Nel frattempo, Derek, Scott e Stiles sembravano aver tirato le stesse conclusioni nell’arco di pochissimo. Quella scoperta che a qualcuno altro poteva apparire come inutile aveva iniziato a mettere insieme quei tasselli sparpagliati che componevano la storia di fondo.
E quello era stato soltanto il primo a prendere forma.
 
Madison si specchiò negli occhi di suo nonno Jonathan così chiari da sembrare trasparenti e soffermandosi sul suo viso percorso da qualche ruga ma rilassato, con la barba grigia e incolta in cui Madison affondava le dita da bambina per tentare di giocare con il suo viso.
“Non siete felici di avere la vostra nipotina senza preavviso?”, domandò, sfoggiando il miglior sorriso complice del suo repertorio ma facendo sorridere suo nonno.
Jonathan non aveva problemi a capire perfettamente sua nipote, nonostante fosse stato una faticaccia crescere una ragazza e comprendere ogni sua espressione.
Ricordava ancora come, nel pieno periodo dell’adolescenza, tremasse al pensiero di doverla consolare, afflitto dalla paura di non riuscirci, dalla paura di non essere abbastanza per quella ragazza, di non colmare il vuoto dei genitori.
“Certo che lo siamo!”, rispose prontamente sua nonna, accarezzando con le dita il bordo della tazza fumante di thè, e guardando il marito. “Potevi avvisarci".
Madison fece un cenno con la testa, pesando con attenzione ogni parola prima di liberarla e rivolgerla ai suoi nonni.
Cosa poteva dire? C’erano tantissimi modi per rispondere e trovare una scusa credibile, solo che Madison non riusciva proprio a trovarne qualcuno che non le suonasse completamente ridicolo, se paragonato alla verità che solo lei conosceva.
“Avevo voglia di staccare e  ho pensato di venire qui”, disse semplicemente.
“Hai litigato con Lana?”, domandò sua nonna, portandosi una ciocca di capelli castani rigorosamente corti, dietro l’orecchio, mettendo in bella mostra quegli orecchini verdi un po’ etnici che tanto amava.
“No! Per niente, anzi. Va tutto alla grande, davvero…volevo solo passare da queste parti”.
“Ha a che fare con Keith?”, chiese suo nonno, senza fare a meno di imbarazzarsi al ricordo dell’ex-fidanzato di sua nipote che anche loro avevano conosciuto.
“Oddio, no”, rispose ancora lei, mentre la sua mente dava risposte del tutto diverse.
Tutte bugie…e una tirava l’altra, alimentando quel filo di menzogne.
I suoi nonni si scambiarono uno sguardo interrogativo, come quelle volte in cui Madison aveva detto loro di non essere stata fuori fino a tardi con Lana e ovviamente non le avevano creduto.
“Sbaglio o c’era Cora Hale nella macchina qui fuori?”, chiese sua nonna, rivolgendole un sorriso sornione, di quelli che sfoggiava quando sapeva di averla vinta. “Non credevo vi conosceste”.
“Oh, non la conosco”, esclamò lei, senza collegare il cervello alla bocca. “L'avrò vista un paio di volte, con suo fratello”.
“Non sei mai stata amica degli Hale”, constatò suo nonno, guardandola inciampare da sola nelle sue stesse parole.
“Non lo sono, infatti”, continuò lei con finta naturalezza che provocava ai suoi nonni solo una serie di sguardi complici. “Li ho incontrati a Berkeley”.
Jonathan si voltò ancora una volta verso Thiana, annegando in uno sguardo che conosceva alla perfezione: sua moglie era preoccupata e sospettosa, così come lui.
Avevano vissuto tutti quegli anni, crescendo Madison come se fosse loro, senza pensare a ciò che sarebbe potuto capitare un giorno. Avevano cercato di proteggerla, nella speranza che quel giorno non arrivasse mai. Eppure, sentivano che qualcosa era andato storto, che anche lasciare che Madison andasse via, lontana da Beacon Hills e da qualsiasi cosa che avesse a che fare con i licantropi fosse inutile...anzi, forse era stato proprio il suo allontanamento a metterla nei guai.
Suo nonno aveva riconosciuto Cora mentre apriva la porta e il ragazzo accanto a lei, Isaac Lahey, e aveva troppa dimestichezza nel soprannaturale per non sapere che qualcosa non andava se due licantropi che Madison neanche conosceva l’avevano scortata fino a casa.
“Julian”, quello di sua nonna fu un sussurro che bastò a congelare Madison sul posto.
Quando Madison sgranò gli occhi, sia Jonathan che Thiana non ebbero bisogno di aggiungere altro, limitandosi a trasalire entrambi, quasi in sincronia.
Suo nonno prese a camminare per il soggiorno, con le mani sui fianchi, trasmettendole non poca ansia e Madison era certa di non averli mai visti così preoccupati.
“Non ti ha fatto del male, vero?”, chiese sua nonna, sfiorandole una guancia con delicatezza.
“No, è arrivato Derek”, disse lei, quasi come un automa, come se stesse parlando con Scott o qualcuno dei ragazzi che aveva conosciuto e scuotendo la testa. “Ma come-“.
Madison non riuscì neanche a finire la frase, rischiando di strozzarsi con le sue parole e senza neanche provare a tentare di mentire, perché la situazione era troppo assurda.
Thiana si alzò, in un fruscio di seta morbida del suo vestito verde e scomparendo al piano di sopra, lasciando Madison seduta sulla poltrona come una stupida.
La ragazza cercò suo nonno con lo sguardo, trovandolo in silenzio e con un viso che faceva trasparire tutto lo sconforto possibile, come se fosse successo qualcosa che temeva. Sua nonna tornò al pieno di sotto prima che Madison potesse permettersi di formulare altri pensieri, notando che Thiana aveva qualcosa tra le mani nodose: un piccolo oggetto che non riuscì a distinguere fin quando sua nonna non le si avvicinò, posandolo tra le sue mani e stringendole.
Madison abbassò lo sguardo, percorrendo quell’anello con le dita e osservando il simbolo che vi era impresso: era una specie di nodo triangolare intrecciato che creava un groviglio perfettamente intarsiato nell’argento, ma che per lei non aveva alcun significato.
“Era di tua madre”, la voce di suo nonno le giunse come lontana, riportandola sulla terra.
“Vedi”, continuò sua nonna, riservando un’occhiata a Jonathan, come per farsi dare coraggio. “Tua madre, Nadia, non era una semplice curatrice di un museo come ti abbiamo detto. Era un emissario, precisamente l’emissario del branco di Julian…ti ha mandata via per darti una vita migliore”.
Madison schiuse le labbra, tentando di far arrivare quanto più ossigeno possibile al cervello per cercare di assorbire quelle informazioni improvvise che si aggiunsero al mucchio di quelle che aveva già ricevuto nelle ultime ore da parte di Derek, Cora e Peter.
“Ti ha affidata a noi”, aggiunse suo nonno, alzandosi dalla sedia in legno e producendo un cigolio a cui Madison non fece neanche caso, focalizzandosi solo su di loro.
“Eri solo una bambina, avevi appena due anni”, dichiarò sua nonna, tentando di nascondere il tono fioco che stava assumendo, perché sopraffatta dal dolore di quel ricordo. “Ci disse di portarti qui, di nasconderti e darti una vita nuova, togliendoti quei pochi ricordi che avevi”.
“Perché?”, quella non era certo l’unica domanda che voleva porre ma in quel momento Madison non riuscì a pronunciare altro se non la domanda più banale.
Ogni parola, ogni informazione, ogni sussulto stava arrivando alla sua mente con estrema lentezza e ritardo, facendole realizzare tutte quelle cose una per volta, prima che una valanga di domande invadesse la sua testa, che era già sul punto di scoppiare per le notizie ricevute senza preavviso.
“Tua madre era la compagna di Julian e-”.
Il guizzo che colpì Madison fu più forte dei precedenti, portandola ad alzarsi di scatto dalla poltrona e portare le mani davanti al busto mentre una teneva ancora stretto l’anello. Il battito incessante del suo cuore iniziò a percuoterle il petto. Una scintilla, una scossa aveva fatto irruzione dentro di lei, trasmettendole la conclusione di tutte quelle parole che i suoi nonni avevano pronunciato e in un attimo fu come se tutta la sua vita avesse iniziato a scorrerle davanti. Non perché stesse sul punto di morire, ma peggio. Quella vita che le era stata donata, quei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza cominciarono a susseguirsi nella sua mente, perdendo compostezza e lasciando solo un guscio vuoto. Il suo stesso viso cominciò a sbiadirsi, diventando solo una maschera opaca senza volto.
Il ricordo dei suoi genitori che le era stato incastonato nella mente come un diamante, iniziò a staccarsi e a precipitare, portando a galla una verità che prima non conosceva: sua madre non era morta in un incidente quando era piccola e suo padre non l’aveva abbandonata, lavandosene la mani di entrambi.
Era stata tutta una messa in scena che adesso le si stava scagliando addosso. La sua vita era una bugia e lei sentiva di non poter reggere, poiché non era abbastanza scombussolata per realizzare dove fosse davvero suo padre e che lo aveva incontrato.
“Mi avete mentito per tutto questo tempo”, sussurrò lei, senza guardarli in viso e respirando a pieni polmoni, per paura che l’aria venisse a mancare.
“Tesoro, dovevamo proteggerti”, cercò di dire Jonathan, affiancandosi a sua nonna, solo che Madison proprio non riusciva ad alzare gli occhi.
“Mia madre era in un branco ed era la compagna di questo Julian che sembrava cercarmi da tempo”, ripeté lei, trovando ogni parola ridicola. “Ora capisco perché”.
“Madison, aspetta tu-“, esalò sua nonna, sporgendosi verso di lei ma ottenendo solo una maggiore distanza dalla ragazza che, sconvolta, si fece indietro.
“Ho bisogno di aria”, dichiarò Madison, mentre le ginocchia sembravano cederle ma riuscendo a raggiungere la porta e afferrare la giacca.
Madison non aggiunse altro, percorse soltanto il vialetto a grandi falcate, infilando la giacca e allontanandosi il più possibile da quella casa che in quel momento sembrava fatta di cartapesta, lasciando i suoi nonni fermi al centro del soggiorno.
Thiana si portò una mano alle labbra, trattenendo un singhiozzo, mentre Jonathan le poggiava le mani sulle spalle per darle conforto.
"Deve sapere ogni cosa", sussurrò la donna, massaggiandosi la fronte e ripetendo a sé stessa che tutte quelle bugie erano state necessarie.
"Quando tornerà le parleremo", le disse Jonathan, continuando a stringere sua moglie e osservando la porta aperta.
Mentre Madison percorreva frettolosamente le strade di Beacon Hills, prese il cellulare fra le dita, sfiorando l’idea di chiamare Cora, ma non lo fece.
Voleva rimanere sola con sé stessa, almeno per un po'. Dedicò un ultimo sguardo a quell’anello per poi infilarlo in tasca e continuare a camminare.
 
“Lui, suo padre e suo nonno cercarono di vendicare il ragazzo”, continuò Deaton, come se quel ricordo intristiva anche lui.
“Credo di capire come sia finita”, intervenne Peter, poggiandosi ad uno scaffale dietro di lui e scoccando un’occhiata a Derek, ancora in silenzio accanto a lui.
“Risolta questa questione…cosa sai di Julian, perché sai qualcosa”, esalò il licantropo, attirando gli altri sguardi su di sé.
Scott storse un po’ la bocca, percependo chiaramente l’impazienza di Derek: sembrava che fosse deciso ad arrivare al fondo della questione, metterla in una scatola, etichettarla a riporla nell’archivio delle stranezze irrisolte da lasciarsi alle spalle.
“La madre di Madison, Nadia, era l’emissario del branco di Julian”, esclamò il veterinario, ricordando il suo viso che aveva visto tantissimi anni fa, prima che tutto quel turbinio che l’aveva travolta avesse inizio. “Era molto abile, anche più di me, e questo le ha permesso di allontanare la sua bambina e nasconderla da Julian e il suo branco”.
“Quale motivo aveva per nasconderla?”, domandò Scott, scrollando le spalle e tentando inutilmente di capirci qualcosa.
“Era la compagna di Julian”.
Un tonfo sordo, provocato da una serie di oggetti metallici che si abbattevano rumorosamente sul pavimento, fece sobbalzare tutti, persino Derek, mentre Stiles cercava di fingersi innocente, ovviamente con scarsi risultati.
“Tutto ok, ragazzi”, disse semplicemente lui, cominciando a raccoglierli, mentre Peter perse ogni tentativo di mantenersi serio, ghignando divertito.
Derek poggiò la mano sul piano in metallo, sentiva il suo cuore battere agitato, mentre quel puzzle intricato e irrisolvibile iniziava a mostrare un’immagine definita.
“Perché ho la sensazione che questa sia una faida familiare?”, domandò Stiles, mentre riponeva lo stetoscopio sul ripiano dal quale lo aveva fatto cadere.
“Quasi”, gli rispose Deaton, rammentando il giorno in cui Madison era arrivata a Beacon Hills. “Sua madre l’ha affidata ai nonni, facendoli venire qui. Si ricordava di me, dell'ultima volta che l'avevo vista. Aveva bisogno che un altro druido aiutasse a nasconderla con un rituale di occultamento e così abbiamo fatto”.
“Quindi, Madison è la figlia del simpatico licantropo che per poco non ci ha ammazzato”, concluse Peter, pensieroso. “Pero, insomma…non sembrava avesse tutto questo spirito paterno. Persino io posso averne più di lui, vero Derek?”.
“Allora la ragazza cos’è?”, intervenne Derek, tralasciando la domanda posta da suo zio.
“Nulla”, rispose tranquillamente Deaton, guardando Derek con maggiore interesse. “Quando hanno capito che la bambina era perfettamente umana, Julian ha insistito per trasformarla…non l’ha mai vista come una bambina da crescere, ma come qualcuno da assoldare”.
“Ma se è figlia di un’umana e un licantropo, non dovrebbe essere qualcosa?”, domandò ancora Stiles, appassionandosi sempre di più a quella storia e sedendosi su un ripiano sgombro da oggetti, per evitare qualche altro incidente.
“Non per forza”, esclamò Deaton con voce convinta. “E non è detto che abbia il richiamo”.
“Il morso poteva ucciderla”, aggiunse Derek, riflettendo su come effettivamente trasformare una bambina piccola potesse essere doppiamente rischioso.
“Per questo Nadia l’ha mandata via”, continuò l’uomo, rivolgendo un cenno con il capo a Derek, ma fingendo di non  aver notato l'espressione del licantropo.
Il tintinnio proveniente dall’entrata dello studio costrinse Deaton a recarsi nell’altra stanza, lasciandoli soli nei loro rispettivi silenzi, mentre lo sguardo di Stiles si muoveva da una figura all’altra, registrando le varie reazioni.  Scott sembrava esausto, come se il suo cervello non potesse reggere altro; Peter era sicuramente il più rilassato, un po’ perché la vicenda non lo toccava profondamente, un po’ perché era Peter Hale e non c’era bisogno di aggiungere altro; Derek era una statua di sale, immobile, con gli occhi verdi fissi verso il basso, il corpo in tensione e il viso oscurato da un’espressione sofferente. Stiles non fece fatica a provare dispiacere per lui, nonostante si trattasse di Derek Hale e per tutte le volte che lo aveva sbattuto con la testa contro una superficie solida, non era certo facile compatirlo, eppure lo stava facendo.
“Scott!”, la voce di Deaton ruppe i silenzi, e il ragazzo raggiunse il veterinario, seguito dagli altri.
Quando si affiancarono a Deaton, Scott e Stiles si limitarono a scrutare le due figure immobili all’entrata che ricambiavano gli sguardi corrucciati, ma la reazione di Peter e Derek fu completamente diversa, mentre i loro corpi si misero totalmente in allerta.
“Tu”, esclamò Derek, facendo virare il colore dei suoi occhi nel blu.
“Piacere di rivedervi”, li salutò Julian, incrociando le braccia dietro la schiena, mentre l’altro uomo accanto a lui rimaneva impassibile, fissando gli occhi azzurri su Derek e Peter. “Mi sembra educato fare le presentazioni. Io sono Julian e lui è Ridley, credo abbiate sentito parlare di me”.
Stiles sgranò gli occhi, voltandosi verso Scott, che fece un passo avanti, e bloccandolo in tempo.
“Carina l’idea della protezione, davvero”, continuò l’uomo, gironzolando per la sala d’aspetto ma tenendosi a debita distanza dal bancone per evitare sorprese spiacevoli.
Stiles lo trovò inquietante: sembrava un uomo come tanti ma non appena la sua voce li aveva sfiorati, uno strano brivido aveva percorso la sua schiena, facendolo trasalire.
“Cosa vuoi?”, chiese Peter, segregando il ringhio che voleva fuoriuscire.
“Voglio che non vi immischiate nei miei affari di famiglia”, dichiarò lui, fermandosi al centro della stanza e mutando lo sguardo che da amichevole era diventato così calmo da far paura. “Voglio solo ricongiungermi alla mia piccola e voi vi mettete in mezzo…non è carino”.
Sembrava un animale pacato e tranquillo, in grado di azzannarli da un momento all’altro.
“Vuoi trasformarla”, ringhiò Scott, serrando i pugni e guardandolo con disprezzo.
“E’ sangue del mio sangue, non sono affari tuoi”, asserì l’altro, lasciando che il suo tono assumesse una sfumature lieve, di una gentilezza che sapeva di astio e violenza. “Ci sono due modi per risolvere la questione. Quello buono, in cui vi togliete di mezzo e la risolviamo qui e quello cattivo, in cui voi mi costringete a farmi spazio con la forza. Entrambi finiscono allo stesso modo”.
Scott non si lasciò intimidire da quella minaccia velata, indurendo lo sguardo, mentre Derek al suo fianco liberò un ringhio di ammonimento.
“Sicuri?”, domandò ancora Julian, ricevendo un altro silenzio che equivaleva ad un no chiaro e tondo, per poi voltarsi verso Derek. “Tu non sembri molto convinto, vero?”.
Derek si irrigidì, senza proferire parola, mentre Julian faceva qualche passo verso di lui. Dopo averlo scrutato abbastanza, Julian si allontanò dal bancone con un passo così lento che Derek lo avrebbe strattonato volentieri solo per buttarlo fuori di lì e non sentirlo più ciarlare.
“Poi non dite che non vi avevo avvertito”, concluse lui, uscendo finalmente dallo studio.
Ridley non disse nulla, contenendosi con le parole e facendo esprimere solo la rigidità del suo corpo. In realtà, avrebbe voluto urlare a quei ragazzi di smettere di fare gli eroi e non imboccare quella strada che avevano deciso di prendere inconsapevolmente. Avevano optato per la soluzione peggiore per loro e di certo non per Julian che avrebbe ottenuto ciò che bramava senza problemi Una vocina ottimistica dentro la sua testa sussurrava che quei ragazzi forse nascondevano tante risorse e che avrebbero girato tutto a loro favore, gli diceva che non ci sarebbero stati spargimenti di sangue e che sarebbe finito tutto nel migliore dei modi.
Peccato che Ridley avesse smesso di ascoltare quella voce nell’esatto momento in cui avevano messo piede a Beacon Hills.
 
Un vento leggero smosse leggermente le fronde degli alberi che ornavano quel parco che Madison aveva trovato lasciandosi guidare dai ricordi, avvolto nella sera e illuminato da una luce fioca proveniente da qualche lampione più in là. Non pensò di correre via da qualche altra parte, poiché quel parco raccolto e nascosto dagli alberi che si susseguivano lungo il marciapiede lo rendevano sempre perfetto per chi voleva rimanere solo.
Si era seduta sulla prima panchina libera, scrutando qualche coppia che passeggiava mano nella mano alle dieci di sera e qualche famiglia che portava il proprio bambino sull’altalena o sullo scivolo poco distanti, come avevano fatto i suoi nonni con lei da piccola.
Prese l’anello che teneva nella tasca della giacca, rigirandoselo fra le dita, nella speranza che contenesse la risposta alle sue domande ma sembrava solo un vecchio cimelio di famiglia. Lo mise all’anulare, notando come le calzasse perfettamente: non era né troppo stretto né troppo largo, si adagiava naturalmente sul suo dito, come se fosse stato forgiato apposta per lei.
Rimase a guardare quei nodi intrecciati, fin quando osservarli divenne troppo difficile, perché colpita dal ricordo di ciò che le era stato rivelato poco fa, così lo tolse di scatto, tenendolo fra le dita.
“Non dovresti essere dai tuoi nonni?”.
Madison alzò lo sguardo, mentre i capelli mossi dal vento le coprivano il viso, ma riuscì a riconoscere le due ragazze che aveva incontrato al loft di Derek: Kira e Lydia, quest’ultima teneva fra le mani una coppetta di yogurt che mangiava a piccoli bocconi con un cucchiaino giallo di plastica.
Sembrava una bambina, avvolta in un cappottino blu e con un cappello in tinta.
“E voi non dovreste essere a casa perché lei non stava bene?”, chiese Madison, indicando Lydia e ricordando come la ragazza fosse leggermente stordita dopo il loro incontro. Non aveva ancora capito cosa fosse di preciso, ma sembrava speciale.
“Uno ad uno, palla al centro”, commentò Kira, infilando le mani nel giubbotto di pelle.
“Volevamo fare due passi”, aggiunse Lydia, continuando a gustarsi il suo gelato.
“Possiamo sederci?”, domandò Kira, regalandole un sorriso confortante che per poco riuscì a farle dimenticare tutti i malanni che la stavano affliggendo fino a poco prima.
“Certo, è un luogo pubblico”, rispose la ragazza, scrollando le spalle e facendo spazio.
“Tutto bene?”, chiese Kira, inclinando il capo e notando qualcosa di strano.
In fin dei conti, Madison non sembrava proprio il ritratto della felicità: i capelli lunghi le ricadevano alla rinfusa sulle spalle, gli occhi erano ancora lucidi per i tentativi forzati di ricacciare indietro le lacrime e per di più era da sola in un parco nel bel mezzo della sera.
Forse non era difficile guardarla e accorgersi che non aveva affatto passato una giornata piacevole.
“Sì, tutto bene”, mentì spudoratamente lei, fissando gli occhi verdi sull’anello di sua madre.
Kira non insistette oltre ma poggiò la schiena alla panchina, come in attesa.
Madison non si voltò perché immaginava il modo in cui la stavano certamente guardando, aspettando che parlasse da sola ma lei si disse che erano solo delle sconosciute che aveva incontrato soltanto quella sera. Tuttavia, Madison era così desiderosa di parlare con qualcuno che sentiva di non riuscire a trattenersi. Aveva subito in silenzio ogni avvenimento, ogni parola, ogni sguardo truce da parte di Derek, ogni rivelazione non gradita, ogni sussulto, ogni ricordo svanito e ogni sensazione di tristezza senza dire nulla, senza lamentarsi ma incassando ogni singolo colpo fino a capitolare.
“Io-”, cominciò senza pensare troppo a cosa potesse dire. “I miei nonni mi hanno appena rivelato qualcosa di cui non avevo idea e tutti questi anni sembrano non avere più alcun senso. Ho perso la mia vita a Berkeley, la mia migliore amica…”.
Chissà cosa stava facendo Lana in quel momento. Forse era a lavoro, controllando il cellulare ogni minuto per vedere se c’era qualche messaggio in segreteria.
“La tua amica sta bene?”, chiese all’improvviso Lydia, portando alle labbra color ciliegia un’altra cucchiaiata di yogurt e fissando Madison con espressione seria.
“Sì”, rispose Madison in un sussurro appena udibile, senza comprendere il senso della domanda.
“Almeno sai che è al sicuro”, Lydia aveva pronunciato quella frase con una voce leggera e carezzevole, provocando in Madison una strana sensazione a livello del petto.
L'aveva pronunciata senza guardarla direttamente negli occhi ma non sembrava una frase detta a caso, tanto per darle una risposta e farla stare in silenzio. Era qualcosa di molto più importante, un insieme di parole che nascondevano qualcosa a cui solo pochissime persone avevano avuto accesso: il cuore di Lydia.
Madison non disse altro, pensando che forse Lydia aveva già detto tutto: Lana era lontana da lei, ma era meglio saperla viva, in grado di respirare, mentre puliva i bicchieri dietro il bancone del Wolf's Street e non sanguinante dietro qualche vicolo per colpa di qualcuno che le dava la caccia.
“Cosa ne dici di tornare a casa?”, domandò Kira con voce gentile. “Facciamo la strada insieme”.
Madison semplicemente sorrise, alzandosi dalla panchina insieme alle due ragazze e camminando verso casa sua, pronta a sentire tutta la storia che i suoi avevano iniziato a raccontarle, seppur con un po’ di timore ancora percepibile in lei e nel pensiero di un possibile seguito.
Quando arrivarono di fronte casa sua, Madison salutò le ragazze con un cenno della mano, percorrendo il vialetto, ma quando Kira fece per andarsene, Lydia la trattenne.
La ragazza sentì un brivido, quella sensazione familiare che scuoteva il suo corpo mentre Madison si avvicinava alla porta di casa: quell’onda travolgente che iniziava a crescere dentro di lei. Le gambe di Lydia si mossero da sole, facendole superare Kira e avvicinandosi a Madison che, intanto, fece per bussare al campanello, ma trovando la porta di ingresso socchiusa. Quando Madison la aprì, entrando dentro casa, si guardò intorno. Sembrava che fosse passato un tornado: la poltrona era ribaltata, così come un paio di sedie, dei cocci rotti giacevano sul pavimento. Per poco non ne calpestò uno, e poi lo vide: il sangue.
Lydia urlò così forte da perforarle i timpani ma Madison non si portò le mani alle orecchie, perché impegnata a correre verso due figure distese in fondo alle scale.
 
 

 
Angolo dell’autrice
 
  • c’è un piccolo accenno di Corsaac (Cora/Isaac), poiché è stato recentemente rivelato che nella 3b ci doveva essere una storia fra loro ma poi l’attrice ha lasciato Teen Wolf per Reign, e visto che li avrei amati alla follia, li ho inseriti nel capitolo, spero vi piacciano;
  • http://www.cerchioceltico.com/nodi/nodi1.html qui trovate il simbolo inciso sull'anello (Nodo di lona), ho guardato tutti i simboli celtici su questa pagina e ho cercato di sceglierne uno che avesse anche un minimo collegamento con il triskele di Derek;
  • visto che nella 3A il branco dei gemelli è stato solo menzionato, ho pensato di usare questo espediente a mio favore e rendere Graham, il fratello di Keith, come emissario del suddetto branco e questo spiega molte cose.  
Ok, credetemi, ci sono tantissime cose che vorrei dire ma non posso aggiungere altro perché rischierei di fare spoiler, quindi mi cucio la bocca.
L’unica cosa che posso dire è che c’è un motivo dietro tutto questo e che dal prossimo capitolo, Madison comincerà ad interagire con il resto del branco (e con Derek ovviamente), poiché Julian ha fatto il suo primo danno e adesso aspetterà un po' prima del prossimo. Quanto vi sta simpatico da 1 a 10? In realtà, Julian doveva essere presente anche nella versione iniziale della storia (sempre come antagonista) poi quando ho avuto un'idea diversa per l'impostazione della storia, ho dovuto aggiungere il resto del branco per fargli da "spalla". Io mi auguro sempre che la storia vi stia piacendo e che non vi faccia troppo schifo per quello che sto combinando, perché certe volte mi sembra di sfornare polpettoni senza senso e più vado avanti più mi chiedo cosa sto facendo. So che le storie Derek/nuovo personaggio fanno sempre storcere il naso, ma mi sto impegnando e vi giuro che Madison è buona, carina, coccolosa e non gli farebbe mai del male (mica come le due psicopatiche precedenti!). Quindi, spero che vi stia intrigando almeno un pochino, senza deludervi.
Altrimenti, liberi di farmelo notare e lanciarmi ciabatte e ortaggi.
Ringrazio come sempre le personcine meravigliose che hanno recensito, messo fra le seguite/preferite/ricordate <3
Fatemi sapere cosa ve ne pare con un commento anche piccino, poiché mi farebbe sempre piacere sapere cosa ne pensate :)
Alla prossima, un abbraccio.
Ps: chi è ancora gasatissimo per il promo della quarta stagione? *-*

 

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Capitolo 8
*** VII - Another arms ***


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VII
 
Another arms

 
 “I'm building this house, on the moon.
Like a lost astronaut, looking at you, like a star.
From the place, the world forgot and there's nothing, that I can do.
Except bury my love for you”.
(Jaymes Young - Moondust)
 
Madison non sentì davvero il suono dell’ambulanza o forse fingeva di non sentirlo, mentre riprendeva familiarità con tutti i suoi sensi ancora intorpiditi da ciò che era successo quella sera. Non sapeva neanche che ora fosse, percepiva solo le ombre farsi più grandi e terrificanti mentre avvolgevano in una spirale di morte tutto ciò che toccava. L’unica cosa che era riuscita ad imprimere nella sua mente era stato il sangue e i corpi dei suoi nonni sul pavimento: gli occhi chiusi, i volti sereni e dormienti senza alcun segno di sofferenza. Sembrava che fossero solo immersi in un sonno profondo e privo di incubi ma per quanto avesse cercato di svegliarli, smuovendo i loro corpi con le mani imbrattate di sangue, nessuno di loro aveva mostrato alcun segno di vita.
Eppure, lei aveva continuato, nel disperato tentativo che riprendessero i sensi, sorridendole debolmente e dicendo che stavano bene entrambi.
Quando al suono dell’ambulanza si aggiunse anche quello della volante della polizia, Madison continuò a non distinguere nulla di ciò che le gravitava attorno.
Le voci che parlottavano fuori casa erano solo degli echi lontani, qualcosa a cui non si sarebbe mai avvicinata, per paura di scottarsi, così come i suoni.
Strinse gli occhi un’ultima volta, nella speranza che, una volta riaperti, lo scenario sarebbe cambiato. Ovviamente, quando gli occhi verdi di Madison videro la luce, tornarono a soffermarsi sul pavimento di casa, sul sangue e sui corpi inermi dell’unica famiglia che le era rimasta.
 
Keith tentennò mentre si adagiava sul divano di quella casa, quella specie di covo in cui Julian tesseva le trame che gli avrebbero permesso di ottenere ciò che cercava da tempo. Si portò le mani al volto, realizzando quello che era successo di cui neanche lui era a conoscenza.
Aveva gridato a sé stesso di non pensarci, di passare oltre e di non immaginare Madison inginocchiata con gli occhi colmi di lacrime e la mano al livello del petto per cercare inutilmente di sopperire quel dolore che la stava dilaniando direttamente dall’interno.
In realtà, Keith Donovan non avrebbe mai creduto di poter pensare a lei in quelle condizioni, poiché per lui Madison sarebbe sempre stata la ragazza dietro il bancone che consegnava le ordinazioni con un sorriso radioso in grado di illuminare la giornata anche alla persona più avvilita.
In effetti, era proprio quello che aveva fatto con lui.
Si era detto che era solo un lavoro da compiere, nulla di più, nulla di meno…e lo era stato davvero, almeno all’inizio. Per lui non era altro che una ragazza qualunque sempre impegnata a muoversi da un posto all’altro come una trottola, al punto che lo stesso Keith non riusciva neanche a definirla.
Una sera l’aveva vista lavorare ad un locale notturno, una mattina alla caffetteria nei pressi dell’università e poi aggirarsi nei corridoi del college con qualche libro premuto al petto e la fedele tracolla beige stretta tra le dita della mano destra.
Non gli era risultato difficile iniziare a parlarle con cautela, sperando di farle la migliore impressione possibile, ma dovette riconoscere che risultarle simpatico non fu cosa da niente. Madison lo osservava guardinga, scrutandolo alla ricerca di qualcosa, un dettaglio qualsiasi che le indicasse che quel ragazzo che le sorrideva era qualcuno da cui tenersi lontana. Tuttavia, Keith aveva fatto così bene il suo lavoro da lasciare che Madison lo vedesse diversamente, addolcendo lo sguardo e sollevando gli angoli delle labbra per sorridergli.
Keith era bravo a fingere, forse anche troppo, nascondendo tutti i suoi pensieri dietro una maschera da bravo ragazzo che non si avvicinava nemmeno di poco alla sua vera natura: non gli aveva provocato alcun senso di colpa chiederle di uscire, parlarle come se fosse una persona come le altre, tenerle la mano e posare le labbra sulle sue, trovandole morbide e al sapore di ciliegia.
Era stato così, per alcuni mesi, dopodiché qualcosa era cambiato.
Ad un tratto, la visione di Madison distesa al sole mentre i fili d’erba del giardino di Berkeley la circondavano, completamente rilassata e intenta a leggere un libro e a sorseggiare caffè di tanto in tanto, gli aveva provocato un effetto diverso, una sorta di tiepido conforto.
L’immagine di lei all’angolo della strada, avvolta nel cappotto, con la faccia sofferente per il freddo mentre lo aspettava che poi si apriva in un largo sorriso nel vedere Keith che le correva incontro, aveva iniziato a farlo arrancare, portandolo a dubitare di sé stesso.
Il suo viso disteso e rilassato di prima mattina, come il resto del corpo avvolto tra le lenzuola fresche mentre un raggio di sole la illuminava, aveva costretto i suoi occhi assonnati ad osservarla senza la minima intenzione di mettere da parte quell’immagine, quella fotografia di beatitudine.
I sorrisi e i baci a fior di labbra che Madison gli aveva donato, circondando il suo collo con le braccia e accoccolandosi a lui, avevano iniziato a sradicare tutte quelle costrizioni con cui aveva deciso di marchiarsi a fuoco, per tenere a mente il suo reale compito.
Madison era come una stella e Keith, poco a poco, si era accorto di non riuscire a fare a meno di gravitarle intorno.
Gli donava una luce che non lo scaldava da molto tempo, poiché gli ultimi attimi di felicità erano collegati a quel fratello che aveva brutalmente perso.
Madison non meritava di essere ingannata, ma lui aveva continuato a farlo, seppellendo quel sentimento che aveva messo radici e continuava a crescere, senza dargli via di scampo. Si era inoltrato nella sua vita, nella sua casa, stringendole la mano davanti agli occhi lieti dei suoi nonni che avevano osservato lui e Madison con lo sguardo luminoso e colmo di amore.
“Era proprio necessario?”, chiese, volgendo gli occhi stanchi verso Blake che aveva appena fatto il suo ingresso in quella specie di salotto disordinato.
“Ordini di Julian”, rispose semplicemente lui, scrollando le spalle, come se il fatto di aver appena tolto la vita a due persone innocenti non lo scalfisse minimante.
“Non avevano fatto niente”, tuonò il ragazzo, alzandosi in piedi e stringendo le nocche, mentre sul volto palesava una rabbia difficile da dominare e sopprimere.
Blake alzò gli occhi al cielo e ruotò il busto verso di lui, con un’espressione neutra sul volto mentre incrociava le braccia al petto con l’aria di chi ne sapeva sempre una più del diavolo.
“Senti, c’è già Bastian per le riflessioni esistenziali”, cominciò l’uomo, passandosi una mano tra i capelli biondi. “Non ti ci mettere anche tu. Gli ordini sono ordini e quei due non erano poi tanto innocenti. Ti ricordo che hanno tenuto nascosta la ragazza a suo padre”.
“E meritavano di morire?”, ringhiò ancora lui, incapace di trattenersi.
“Non ti riguarda”, la voce improvvisa di Gwen lo colpì alla schiena come una frusta. “Non ti riguardano le nostre decisioni. Sei con noi solo perché ci hai condotto da Madison, facendo il lavoro sporco e continui ad essere vivo solo perché Julian è così clemente da concederti ciò che brami da diversi anni. Quindi, smetti di piagnucolare e rifletti su dove deve risiedere la tua lealtà”.
Keith ridusse le labbra ad una linea dura, incapace di ribattere e mozzandosi il respiro per non rivolgere a quella donna gli insulti che meritava.
Aveva fatto una scelta che a quel tempo gli era sembrata consapevole.
Aveva deciso di aiutare un alpha per vendicare la morte di suo fratello.
Aveva fatto tutto ciò che gli era stato ordinato, ma solo perché a quel tempo non credeva che potesse provare qualcosa di diverso dalla rabbia.
Qualcosa che solo Madison gli aveva donato.
 
“Lei come sta?”, chiese lo Sceriffo Stilinski accanto alla superficie bianca dell’ospedale, dietro la quale una indaffarata Melissa si si passava una mano sul viso.
La donna emise un sospiro affranto, scuotendo il capo, mentre ripensava al viso di quella ragazza, Madison, che entrava in ospedale e si sedeva su una sedia, senza emettere una parola.
“Fisicamente bene”, esclamò Melissa, mentre adocchiava Stiles avvicinarsi a passo svelto insieme a Scott. “Per il resto, ha appena perso i nonni che si sono presi cura di lei…quindi”.
Quando lo Sceriffo si accorse della presenza di suo figlio, gli si avvicinò, storcendo le labbra in una smorfia sofferente e assicurandosi che nessun altro oltre loro fosse in ascolto.
“Quanto c’è di soprannaturale in questa faccenda?”, chiese lo Sceriffo con voce quasi rattristata, rivolgendo uno sguardo ai due ragazzi che non trasudava certo positività.
“Forse molto”, rispose Scott, deglutendo e grattandosi il capo con una mano, lievemente seccato dal dover comunicare a sua madre e al padre di Stiles che qualcosa di pericoloso era in città.
“Molto come?”, domandò Melissa, sgranando gli occhi scuri fissi sul proprio fisso.
“Come un branco di licantropi”, intervenne Stiles, mentre suo padre sussultava.
“Perché non vengono dei semplici turisti?”, si chiese lo Sceriffo, alzando gli occhi al cielo.
“Cosa dovrebbero visitare, scusa?”, domandò Stiles, attirando soltanto lo sguardo di suo padre che lo fulminò immediatamente, facendogli intuire quanto le battute fossero davvero poco gradite in quel momento.
“Stiamo lavorando sul da farsi”, esclamò Scott, tentando di rassicurare sia lo Sceriffo che sua madre, quasi nella speranza di tenerli fuori e impedire che venissero coinvolti più del dovuto. “Risolveremo questa situazione. Possiamo gestirla davvero, non è come il branco di Deucalion”.
“Questo non lo rende certo meno pericoloso”, constatò Melissa, inclinando il capo da un lato, mentre Scott faceva il possibile per non considerare troppo quel piccolo ma non insignificante dettaglio.
Non voleva pensare che il branco di Julian fosse forte come quello di Deucalion.
Non voleva pensare che, pur non essendo tutti alpha, potessero ugualmente farli tutti a brandelli e prendersi ciò per cui erano venuti in città, ovvero Madison.
Non voleva pensare al male che avrebbero potuto fare, ma che in realtà avevano già iniziato a fare proprio quella sera.
“Io torno alla centrale”, esclamò lo Sceriffo, pensando a come sbrogliare la situazione con l'aiuto di Parrish e dando una pacca sulla spalla a Stiles che aveva portato la sua mano a coprire quella del padre, confortandolo.
Quando Scott e Stiles si allontanarono, intravidero Madison ancora seduta sulla sedia in sala d’attesa, avvolta da quell’ambiente spoglio che sapeva di disinfettante e dolore secco fra le pareti. Vennero raggiunti da Derek, Isaac e Cora che si fermarono al loro fianco, gettando un’occhiata alla ragazza con lo sguardo perso ad osservare un punto indefinito del muro.
Cora non esitò ad avvicinarsi a lei, inginocchiandosi al suo fianco; intanto, Derek rammentava la minaccia di Julian che aveva già dato il suo primo frutto.
“Cosa facciamo?”, chiese Isaac con voce incerta, portando le mani ai fianchi.
“Cominceremo a fare dei turni”, gli rispose Scott, deciso, prendendo in mano le redini di quella situazione troppo stretta e pungente per tutti loro. “Non credo che Madison vorrà lasciare la casa”.
“Non è al sicuro in casa sua”, lo rimbeccò Derek, stizzito.
“Non lo è da nessuna parte”, gli fece notare Stiles. “Se Julian volesse fare qualcosa, potrebbe farlo tranquillamente. L’importante è che siamo con lei”.
“Già, per farci uccidere più lentamente”.
Nessuno di loro parve apprezzare il commento di Derek, al di sotto del quale vi era una malcelata ironia che il licantropo non si era neanche sforzato a nascondere, sbattendo in faccia a chiunque ciò che gli passava per la testa, anche il pensiero più spinoso.
“Stanotte iniziamo noi”, disse semplicemente Scott, indicando lui e Stiles, preferendo ignorare, almeno per il momento, quel commento non gradito.
Derek non era un egoista, non più ormai.
Non era lo stesso Derek che poco tempo fa aveva iniziato a trasformare adolescenti a caso, un po’ per potere, un po’ perché si sentiva solo. Era al pari di un fratello maggiore per lui, da quando aveva cominciato  a tenere particolarmente non più alla sua stessa vita, bensì a quella di coloro che lo circondavano.
Tuttavia, Scott non riusciva proprio a capire perché Derek si stesse comportando a quel modo, ed era ovvio che c’era qualcosa che gli stava nascondendo, cosa che Scott avrebbe presto scoperto.
 
L’odore di disinfettante era ancora nelle sue narici, proprio come se lo avesse accanto, mentre il disagio che gli ospedali le provocavano era ancora lì, come se non fosse uscita. Madison aveva sempre odiato gli ospedali, le avevano sempre suscitato qualcosa di poco piacevole, capace di irrigidire il suo corpo, senza farle emettere nemmeno una parola. Negli ospedali vedeva racchiuse emozioni di ogni tipo che aveva sempre percepito sulla pelle, come se fossero sue.
Osservava i volti attorno a lei, leggendovi una varietà immensa di sensazioni: dal dolore più incolmabile di chi aveva detto addio qualcuno alla gioia immensa di chi aveva evitato una perdita. Quel luogo era saturo di lacrime, sangue, alcool, aspettative, speranze, preghiere sussurrate con le mani giunte per chiedere un aiuto che poteva arrivare o meno. Era morte e vita, sospese alla stessa altezza su una bilancia che poteva sporgersi verso una delle due direzioni al minimo sfioramento, al minimo cambiamento di peso. Quella notte, la bilancia si era sporta verso la morte e Madison avrebbe solo desiderato sapere chi aveva deciso di spingerla verso quella direzione e soprattutto, perché.
Avrebbe dovuto congiungere le mani e pregare, ma non lo aveva fatto semplicemente perché non c’era stato nulla per cui farlo, nulla da aspettare, nulla che avrebbe potuto cambiare le cose e riportare indietro la famiglia che aveva perso in un solo colpo.
L’ultimo ricordo dei suoi nonni sarebbe stato legato per sempre ad una discussione lasciata a metà e ad una rabbia che l’aveva percorsa come scariche elettriche fino a farle provare rancore verso di loro, rancore per averle mentito e per non averle detto la verità che meritava di sapere.
Forse non se lo sarebbe mai perdonato.
Portò la coperta fin sopra il collo, agognando quel sonno che ovviamente non arrivava e rigirandosi ancora una volta nel letto, per poi alzarsi definitivamente.
Afferrò l'anello di sua madre che aveva riposto sul comodino e lo strinse, come se potesse trarvi forza.
Scese in quella cucina ormai pulita e ordinata, senza alcuna traccia di ciò che era accaduto: il sangue era stato lavato via, i cocci rotti avevano raggiunto l’immondizia, e ogni cosa era tornata al suo posto. Eppure, Madison vedeva ancora perfettamente la scena del “crimine” come se nulla fosse stato rimesso in ordine: era tutto lì, compresi i corpi senza vita dei suoi nonni.
Poggiò i palmi sul bancone della cucina immacolato e si lasciò circondare dalle braccia rassicuranti del buio in cui era immersa la stanza. Qualche lacrima silenziosa scivolò sul suo viso, rigandole le guance, mentre Madison tratteneva i singhiozzi, con il buio come unico testimone: odiava piangere alla luce del giorno, come se la notte potesse nascondere le sue debolezze e i suoi sospiri rotti dalle lacrime.
Quante volte aveva aspettato la sera per piangere, perché alla luce del giorno il dolore sembrava sempre troppo reale per essere sopportato, mentre nella notte svaniva nel buio senza lasciare traccia, permettendo a quelle scie umide di dissolversi contro il cuscino.
Si asciugò il viso giusto in tempo per accorgersi di qualcuno che a passi incerti raggiungeva l’interruttore della luce: Madison alzò il capo, trovando Stiles a poca distanza da lei con i capelli arruffati che si massaggiava con una mano il ventre piatto coperto da una maglietta grigia, mentre l’altra reggeva un computer portatile acceso. Sembrava un bambino appena sveglio che faceva fatica a realizzare di essere in piedi e non più nel suo letto, avvolto dalle coperte calde e confortanti.
“Ehi”, disse lui lentamente, facendo qualche passo verso Madison.
“Ti ho svegliato?”, domandò Madison, mortificata e stringendosi nella maglia del pigiama.
“No, non stavo dormendo”, rispose lui, indicando il computer con un sorriso per poi poggiarlo sul bancone e concentrarsi più attentamente su Madison.
“Cosa fai con un computer a quest’ora?”, Madison non riuscì proprio ad evitare di chiederlo.
Dovevano essere le tre del mattino e Stiles se ne stava sveglio ad usare il computer come se fosse la cosa più normale del mondo quando avrebbe potuto dormire e riposarsi dopo quella giornata.
“Ricerche”, dichiarò il ragazzo, trattenendo uno sbadiglio e chiudendo il laptop. “Tu, invece?”.
“Ho qualche problema a dormire”, lei abbassò lo sguardo, massaggiandosi le braccia un po’ dolenti e poi la spalla, evitando di incontrare lo sguardo da bambino di Stiles. “Non sono molto abituata a dormire sola, a Berkeley vivevo con Lana e quando ero qui con i nonni”.
Si pentì quasi subito di quella confessione, di aver lasciato che il suo dolore prendesse il sopravvento, facendola sentire solo prigioniera e non libera da un peso.
“Dov’è Scott?”, domandò Madison, prima che Stiles riuscisse a dire qualcosa.
“Fuori, sta controllando la zona”, dichiarò Stiles, tenendo gli occhi ambrati fissi su Madison e leggendo chiaramente lo smarrimento sul suo viso stanco e assonnato.
Quella ragazza aveva perso tutto nell’arco di pochissimo tempo, per colpa di qualcuno della sua stessa famiglia e adesso si ritrovava in una casa davvero troppo grande per una sola persona.
“Torno a dormire”, sussurrò Madison, accennando un sorriso. “Buonanotte, Stiles”.
Madison salì frettolosamente le scale con i piedi scalzi, senza neanche dargli modo di ricambiare il saluto o di rivolgerle una parola qualsiasi, anche se non c’era molto da dire che potesse colmare quella voragine che si era fatta strada nel suo petto, così gli venne un’idea.
Stiles ripose il laptop nella stanza degli ospiti che aveva diviso con Scott, per poi afferrare il cuscino e la coperta, pensando a Scott non sarebbe dispiaciuto avere la stanza tutta per lui. Quando il ragazzo salì al piano di sopra, cercando di fare meno rumore possibile, trovò la porta della camera di Madison aperta.
Non ebbe modo di osservare la stanza, poiché avvolta nella penombra ma dalla poca luce che filtrava dalla finestra, semicoperta da una tendina bianca con ricami florali, riuscì a vedere Madison avvolta dalle coperte del letto ad una piazza e mezzo che gli dava le spalle.
Il ragazzo adagiò le coperte su un divanetto poco distante proprio mentre Madison si voltava.
“Cosa fai?”, domandò lei con voce bassa e debole, a Stiles sembrava così fragile in quel momento che sarebbe potuta cadere in mille pezzi.
Madison gli ricordava le fotografie messe in ordine sul comodino per portare alla mente i bei ricordi di una vita passata che non sarebbe tornata; sapeva di nostalgia e tristezza nascosta dietro un sorriso e immaginò come poteva essere diversa prima di ritornare a Beacon Hills insieme a Derek.
“Hai detto che non sei abituata a dormire da sola”, le ricordò lui, rivolgendole un sorriso rassicurante e sistemando le coperte alla ben meglio sul divano. “E non dormirai sola”.
“Stiles, davvero, non-“, Madison non finì nemmeno di parlare che il ragazzo aveva già presto posto sul divanetto accanto alla finestra, sollevando la coperta blu e allargando le braccia come per indicarle che il danno ormai era fatto e che non poteva fare nulla per rimediare.
Madison gli rivolse un sorriso, di quelli sinceri e grati che credeva avrebbe dimenticato ma Stiles era così spontaneo e dolce nella sua semplicità, nel suo preoccuparsi per gli altri anche se non li conosceva, che proprio non riuscì a non ringraziarlo silenziosamente per quella premura.
Gli diede la buonanotte e si misero entrambi a dormire, ma prima che Madison potesse chiudere gli occhi, le parole di Stiles richiamarono la sua attenzione prima di sprofondare nel sonno.
“Mi dispiace”, mormorò il ragazzo, guardando il soffitto. “Davvero”.
Madison abbracciò il cuscino, tamburellando le dita contro la sua superficie morbida.
“Non gli ho detto addio”, bisbigliò lei, sentendo Stiles che si muoveva fra le coperte, forse per voltarsi di lei e guardarla, assorbendo quella confessione detta a fior di labbra. “Pensavano che li odiassi, e l’ho fatto, subito dopo aver messo piede fuori casa”.
Stiles sentì il tremolio nella sua voce, quella nota stonata che rompeva l’armonia fintamente perfetta e forte che Madison stessa aveva creato, forse per proteggersi, forse per forzarsi a non parlare. Ma Stiles sapeva che per quanto potesse frenarsi, non sarebbe mai riuscita a farcela, non perché fosse debole, semplicemente perché tutti avevano bisogno di pronunciare anche una parola per salvarsi, per farsi ascoltare, per portare alla luce le paure più brutali.
“Non lo pensano, Madison”, esclamò Stiles, maledicendosi per aver detto la frase più ovvia e banale che gli era passata per la testa, ma lo credeva davvero. “Non vogliono che ricordi solo questo”.
Madison voltò di poco il capo verso il divanetto, incontrando gli occhi ambrati di Stiles fissi su di lei e un sorriso incoraggiante sul volto pallido e in grado di trasmettere dolcezza.
“Lo spero”, esalò lei, guardandolo come per infondersi sicurezza. “Grazie”.
Stiles le sorrise, per poi sistemarsi meglio sotto le coperte e ottenere il suo meritato riposo.
A quel punto, Madison chiuse gli occhi e permise al sonno di avvolgerla, finalmente.
 
“Derek, so che ci sei”.
Scott trattenne uno sbuffo, incrociando le braccia e sentendo chiaramente la presenza silenziosa di Derek Hale nel giardino della casa di Madison.
Il licantropo si mostrò subito dopo, trovando Scott seduto sui gradini del portico che lo fissava con un’aria così soddisfatta e saccente che Derek fu tentato da prenderlo a pugni ma si limitò a soffocare un ringhio, alimentando il sorrisetto del ragazzo.
“Ricordavo toccasse a me stanotte”, dichiarò l’alpha, distendendo le gambe lungo i gradini e incrociando le braccia al petto con un finto atteggiamento accusatorio.
“Ho pensato che un paio di occhi in più ti facessero comodo”, esclamò Derek, mentre Scott gli faceva spazio, permettendogli di sedersi accanto a lui, scrutando le strade buie della città.
Derek tentennò prima di porre quella domanda immobile sulla punta della sua lingua, come se temesse di uscire, perché impaurita da ciò che avrebbe potuto far scattare.
“Madison?”, chiese lui, tenendo gli occhi fissi sulla casa dall’altra parte della strada e sentendo lo sguardo di Scott su di lui, alla ricerca di qualcosa. “Dorme?”.
“Credo di sì”, affermò Scott, percependo chiaramente un odore nuovo che pervadeva l’aria.
Era un odore che sapeva di timore, incertezza, rimorso e forse una punta di imbarazzo.
In realtà, Scott non aveva ancora idea di come si fosse sentito Derek negli ultimi giorni, sempre in combutta con sé stesso e con ciò che gli eventi lo avevano costretto a fare e pensare.
Derek era turbato dai giorni che aveva trascorso a Berkeley, tamponando una ragazza qualunque per poi rivederla prima in un locale e poi in una caffetteria, vedendola per davvero, come se fosse la prima volta, mentre una parte di lui gli faceva notare quanto fosse bella e luminosa, proprio quella luce di cui aveva bisogno la sua vita colma di buio e turbamenti.
Derek era turbato da ciò che era accaduto in quel magazzino, e da come quella ragazza apparentemente semplice con una vita altrettanto semplice nascondesse qualcosa.
Derek era turbato dalla minaccia di Julian e dal timore che Madison si trasformasse da un momento all’altro, che il suo volto niveo e dolce si tramutasse in una maschera sfregiata simile al vero volto di Jennifer o che le fiamme iniziassero a circondarla per poi correre fameliche verso di lui.
Derek era turbato perché aveva guardato quella ragazza, trattenendo i sorrisi che volevano scoppiare sul suo viso, rispondendo alle sue battute e provocazioni, e che poi si erano dissolti del tutto.
Derek era turbato perché si era trascinato dietro un altro pericolo.
“Dimmi la verità, Derek”, la voce di Scott era calma ma allo stesso tempo rigida, perché pretendeva a gran voce quello che Derek Hale aveva cercato di nascondere. “Come avete incontrato Madison?”.
“L’ho tamponata”, esclamò Derek tutto d’un fiato, mentre Scott voltava il capo verso di lui.
“Tu-“, cominciò il ragazzo, boccheggiando per qualche secondo. “Cosa?”.
“E’ stato un incidente”, si giustificò il licantropo, scrollando le spalle. “Aveva frenato all’improvviso. Le avevo pagato i danni per la macchina ed era finita lì, almeno così credevo”.
Derek soppesò le parole prima di proseguire in quel racconto così normale che sarebbe potuta sembrare una storiella qualunque, senza risvolti soprannaturali e scomodi.
“L’ho rivista una sera mentre ero con Cora e Peter”, continuò Derek, abbassando lo sguardo sui fili d’erba ben curati di quel giardino ormai colmo di solitudine. “E poi una mattina nella caffetteria in cui lavora, accanto all’università che Cora vorrebbe frequentare”.
Scott attese, osservando con estrema attenzione ogni sfumatura del volto imperscrutabile di Derek che sembrava provato ad ogni parola che usciva dalle sue labbra.
“L’abbiamo incontrata nel campus prima che si allontanasse con Keith”, aggiunse il licantropo, rammentando le emozioni che l’avevano travolta alla vista del cacciatore. “Sembrava una ragazza normale con una vita tranquilla fatta di studio, lavoro e amicizie, invece dietro quella normalità doveva per forza nascondersi qualcosa…qualcosa che ho portato qui”.
Scott incrociò le gambe, giocherellando con le dita e riflettendo sulle parole appena udite.
Proprio quando Derek cominciò a credere che il ragazzo non avrebbe detto nulla, quest’ultimo si voltò verso di lui, rivolgendogli un’espressione lievemente delusa.
“Derek!”, sbottò il ragazzo, corrugando lo sguardo. “Avresti preferito lasciarla lì a morire o chissà che altro? L’hai portata qui perché sapevi che era la cosa giusta da fare anche se avrebbe implicato dei pericoli maggiori”.
Il ragazzo era scattato in piedi e lo stava guardando dall’alto, sempre più preso dalle proprie parole e dalla realizzazione di ciò che aveva detto Derek.
“Quella ragazza”, continuò lui, indicando la porta di ingresso. “Madison a me sembra perfettamente normale e se non lo fosse, lo avremmo scoperto già. Ha perso tutto e tu sei così concentrato dall’idea che possa farci fuori che nemmeno ti metti un minimo nei suoi panni, Derek. L’hai vista prima di tutti di noi, l’hai conosciuta e ho la vaga idea che prima di tutto questo casino sia affiorato qualcosa nella tua mente, sto sbagliando?”.
A quel punto, Derek si mise in piedi, sovrastando il ragazzo con la sua stazza e fissandolo negli occhi scuri, mentre il suo corpo di irrigidiva a quello scatto.
“Stai divagando”, affermò Derek con un ringhio sordo.
Scott sollevò gli angoli delle labbra, mostrando un sorrisetto compiaciuto per poi alzare le mani in segno di resa, rendendosi conto che forse quella discussione non andava affrontata.
“Abbiamo sofferto tutti, Derek”, continuò Scott, facendo un passo indietro per guardarlo meglio negli occhi. “Ci stiamo ancora riprendendo ma questo non vuol dire che dobbiamo lasciar morire una persona innocente, soprattutto se possiamo salvarla…e tu devi smettere di incolparti”.
Derek alzò gli occhi verdi verso di lui, serrando le labbra e distogliendo subito lo sguardo, prendendo a riflettere su quanto gli era appena stato detto.
“Torna dentro a dormire”, gli disse Derek, donandogli uno sguardo che nascondeva gratitudine anche se celata dietro muri e muri di irritabilità. “Resto io".
Scott gli sorrise, posandogli una mano sulla spalla per poi allontanarsi.
Prima di entrare in casa, gettò un’ultima occhiata alla figura di Derek che gli dava la schiena, riuscendo a vedere tutti i macigni disordinatamente poggiati su di essa.
Una volta entrato in casa, si stiracchiò, liberando uno sbadiglio e dirigendosi verso la stanza degli ospiti. Quando la trovò vuota, sentì un attimo il suo cuore saltare un battito ma poi si accorse di due respiri regolari provenienti dal pieno di sopra e sorrise tranquillo, sospirando.
Salì le scale con il cuscino e la coperta sotto braccio, trovando Stiles che dormiva sul divano della camera di Madison con un braccio abbandonato verso terra e la bocca aperta. Scott evitò di scoppiare a ridere e si sistemò sul pavimento, preferendo dormire lì piuttosto che al piano di sotto. Prima di dormire per le poche ore che gli restavano, pensò alla discussione con Derek e alla figura incombente di Julian che ancora vedeva come se fosse lì.
Ce l’avrebbero fatta, loro ce la facevano sempre.
 
 
I timidi raggi di sole del mattino si infiltrarono nella stanza di Madison, andando a pizzicare i suoi occhi chiusi che, turbati dal quel fastidio, furono costretti ad aprirsi, incontrando la luce.
Madison si mise a sedere, passandosi distrattamente la mano fra i capelli in disordine a cui decise di non badare.
Quando mise meglio a fuoco la sua stanza, si accorse che Stiles era ancora immerso nel sonno, dormendo con la bocca semiaperta, ma accanto al divano, c’era un’altra figura dormiente, avvolta in un paio di coperte: Scott ronfava a poca distanza da lei e Madison non potè non trovare quella scena tenera e decisamente confortante. Erano rimasti entrambi a dormire lì, vegliando su di lei e facendola sentire un po’ meno sola anche se il dolore non si era affatto dissolto.
Camminò sulle punte fino alle scale per cercare di non svegliare i due ragazzi e scese in soggiorno, gettando uno sguardo all’orologio appeso sulla parete giallo ocra: erano appena le sei del mattino. Ancora assonnata si voltò verso la finestra che dava sulla veranda e notò una figura di spalle che non riuscì a distinguere perfettamente, visti ancora i residui del sonno e la luce dell’alba che le impediva una vista più completa.
Si precipitò fuori senza pensarci troppo, ma solo per notare che dove credeva di aver visto qualcuno non c’era nessuno, eppure ne era convinta, per quanto i contorni fossero sfocati. Guardò intorno a sé un’ultima volta e poi rientrò in casa, pensando che forse aveva bisogno di ancora qualche ora di sonno per riprendersi del tutto. Eppure, prima di entrare in casa, mentre dava le spalle al giardino, Madison sentì di non essere sola: c’era qualcun altro lì, la cui presenza non sembrava turbarla, anzi, era come se qualcun altro fosse lì per controllare, per assicurarsi che niente e nessuno oltrepassasse la soglia di casa.
La ragazza si disse che poteva essere Cora o quel ragazzo, Isaac e scuotendo la testa entrò dentro, ripercorrendo la strada fino alla sua camera.
Nel frattempo, Derek, dopo essersi assicurato che Madison fosse tornata dentro, si appoggiò nuovamente con la schiena alla colonna della veranda accanto ai gradini, incrociando le braccia al petto e puntando lo sguardo verso la strada deserta e illuminata dai raggi del sole.
L’atmosfera era tranquilla mentre un nuovo giorno si faceva strada nelle vite degli abitanti di Beacon Hills, ma in Derek tutto ciò che si faceva strada era soltanto la paura di un nuovo giorno in cui sarebbe potuto accadere qualcosa, magari a lui, a qualcuno che lo circondava o a Madison.
Portò lo sguardo verso la finestra di quella che doveva essere la stanza di lei e sospirò.
Derek desiderò davvero che ne uscissero illesi, con tutto il cuore.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Eccomi qui anche oggi, puntuale come sempre (?!?).
Allora cosa ve ne pare di questo capitolo? Non credo di dover fare molte precisazioni, semplicemente: Madison purtroppo ha perso i suoi nonni, la cui morte non è casuale, Julian sta continuando il suo lavoro, Keith prova qualche rimorso, Scott e il branco si impegnano per proteggere Madison da un padre con un istinto paterno pari a zero, e Derek inizia a realizzare (anche se poco a poco) quanto il suo comportamento sia sbagliato.
Nel prossimo capitolo, ritornerà finalmente un bel po’ di Dedison (Derek/Madison) che non vedo l’ora di farvi leggere.
Ci tengo a ringraziare immensamente tutte le persone che hanno recensito, messo fra le seguite/preferite/ricordate e che stanno seguendo questa storia: grazie.
Vi invito sempre a farmi sapere cosa ve ne pare, anche con un commento piccino piccino :)
Alla prossima, un abbraccio!

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Capitolo 9
*** VIII - Ghost stories ***


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Questo capitolo è per Bumbunì, Helena, Ally M e Marti che hanno sempre supportato il Dedison e questa storia fin dall’inizio.
Spero di non avervi deluse e vi ringrazio.
 
 
VIII
 
Ghost stories

 
“Maybe we were meant to be lonely. Maybe we were meant to be on our own.
Loneliness has always been with me but maybe we don't have to be all alone.
What breaks your bones is not the load you're carrying.
What breaks you down is all in how you carry”.
(The Fray – The fighter)
 
Bastian la ricordava ancora, come se vi fosse abbastanza vicino da poterla sfiorare.
Ricordava il sorriso bonario di Nadia e i suoi occhi chiari sempre vispi e dolci, capaci di scaldargli il cuore con un solo sguardo…uno sguardo che Bastian aveva ricevuto parecchio tempo fa, quando aveva ancora una famiglia, un branco, e soprattutto, una madre.
Nadia affondava le dita lunghe nei suoi capelli, scompigliandoli e scoccandogli un bacio sulla fronte, trattandolo come se fosse più di un semplice ragazzo trovato a vagare nei boschi con i vestiti imbrattati di sangue misto a terreno e il cuore che batteva così forte da potergli scoppiare nel petto.
Bastian ricordava una mattina in particolare, mentre se ne stava seduto sui gradini di quella magione che condividevano ad osservare il bosco dinanzi a lui che si espandeva, illuminato dai primi raggi dell’alba e permettendo ad un Bastian, allora ragazzino, di ammirare quel meraviglioso paesaggio in tutta la sua bellezza e maestosità. Sentì dei passi leggerissimi ma percepibili al suo udito da lupo e si voltò, adocchiando Nadia che si sedeva sui gradini accanto a lui con un fagotto stretto fra le braccia pallide ed esili.
I boccoli castani le ricadevano lungo le spalle, mentre i riflessi chiari erano evidenziati dalla luce.
“Buongiorno”, lo salutò lei, stringendo la presa sulla bambina nata giusto un giorno prima.
“Come stai?”, le domandò Bastian, spostando lo sguardo da lei alla piccola Madison.
“Stiamo bene”, rispose Nadia, sospirando e osservando il paesaggio dinanzi a loro.
C’era qualcosa in Nadia che lo lasciava turbato e confuso: era appena diventata madre ma non aveva l’aspetto di una donna felice con il volto illuminato e colmo di gioia.
C’era un’ombra su quel viso candido e sempre sorridente ma Bastian non aveva idea del motivo che avesse scatenato quell’offuscamento.
Si aspettava di vederla allegra, sempre sorridente mentre cullava quella bambina, il cui arrivo aveva portato un po’ di gioia all’interno del branco, ma in Nadia c’era soltanto malinconia.
Una malinconia di cui Bastian non aveva idea.
Una malinconia che l’avrebbe presto spinta a fuggire.
Il ragazzo si sporse leggermente per tentare di osservare la bambina e trovò un visetto assonnato ma attento ad aspettarlo per ricambiare il suo sguardo curioso. Un sorriso increspò le labbra di Bastian mentre la piccola allungava una manina verso di lui come se stesse cercando di rincorrere qualcosa e stringeva le dita attorno al pollice del ragazzo.
Bastian rise in risposta, sotto l’espressione di Nadia che vedeva il ragazzo come un perfetto fratello maggiore per la sua bambina, peccato che Madison non sarebbe rimasta con loro abbastanza da poterci passare del tempo insieme, riconoscendo Bastian come tale.
Il ragazzo avvicinò meglio il viso alla piccola, mettendo in allerta tutti i suoi sensi nella speranza di scovare ciò che non riusciva a percepire.
“Non sento il suo odore”, dichiarò con voce perplessa.
“I neonati non hanno odore”, rispose Nadia con un sorriso dolce. “Almeno fino al primo anno”.
Bastian fece un cenno di assenso con la testa, tornando a guardare la piccola.
“Lei non è come me”, esclamò ancora lui, percorrendo le piccole dita e pensando che non le sarebbe spuntato alcun artiglio. “E’ come te, perché?”.
“Può capitare”, rispose Nadia, scrollando le spalle. “Forse è meglio così”.
Bastian fece saettare uno sguardo allarmato verso di lei, chiedendosi come potesse essere un bene che Madison fosse completamente umana e indifesa.
Lui poteva difendersi, ma lei? Come avrebbe fatto a proteggersi, a vivere all’interno di un branco di lupi senza la possibilità di tutelarsi?
“Ma come farà a difendersi?”, domandò lui, sfiorando la fronte della piccola che emise un risolino.
“Ci sarai tu a vegliare su di lei”, lo rassicurò Nadia, osservandolo con dolcezza.
Bastian si incupì a tutta quella fiducia, allontanando la mano, come scottato.
“Avevo una sorellina”, disse lui con voce bassa. “Si chiamava Kara. La mamma diceva che sarei stato un bravo fratello maggiore".
Bastian non continuò la storia, e Nadia sapeva bene come si era conclusa. Sapeva di come la famiglia del ragazzo fosse stata sterminata da un gruppo di cacciatori e di come non gli fosse rimasto nulla, se non l’odore di sangue ad accompagnarlo per tutto il tempo, solo per ricordargli i cadaveri del suo branco sparsi per il rifugio, e la voce debole di sua madre che gli ordinava di correre a perdifiato e allontanarsi senza mai guardare indietro.
Nadia gli accarezzò la guancia con una mano, guardando poi Madison.
“Lo sarai con lei”, sussurrò, pur sapendo che non sarebbe mai successo, ma era certa che in un altro contesto, Bastian sarebbe stato perfetto.
Era una bugia, una menzogna detta a fin di bene, solo per alleviare il senso di colpa che pesava su quel corpicino troppo esile per portare un tale peso.
Bastian l’aveva guardata con gratitudine, lasciando che la donna gli porgesse Madison, permettendogli di tenerla fra le braccia e sorriderle estasiato.
In quel momento, Nadia vide gli occhi scuri del ragazzo riaccendersi solo tenendo la bambina in braccio, provando una gioia che gli era stata negata, il desiderio di avere qualcuno di cui prendersi cura, di dimostrare a tutti che si sarebbe stato un bravo fratello maggiore.
Nadia sarebbe rimasta solo per bearsi di quella scena, solo per vedere Madison crescere giorno per giorno e per gioire alla vista di Bastian che la prendeva sulle spalle o che le insegnava a difendersi.
Nadia sarebbe rimasta solo per illudersi che ogni cosa sarebbe andata bene ma sapeva che nulla di ciò che sperava nel profondo del suo cuore si sarebbe mai avverato.
Dal canto suo, Bastian non avrebbe mai capito perché in Nadia ci fosse quella tristezza celata, la tristezza di qualcuno a cui è stato strappato via qualcosa di importante.
A volte la guardava, e gli sembrava quasi che la donna avesse perso la voglia di combattere, di andare avanti…c osa turbava davvero Nadia?

Anche a distanza di anni Bastian, ormai cresciuto, non era in grado di dare una risposta a quella domanda. Ricordava solo il guscio vuoto in cui Nadia si era inspiegabilmente trasformata: un volto pallido e scarno che aveva le fattezze di un fantasma triste per qualche motivo sconosciuto.
Quando venne a sapere che Nadia era fuggita con la bambina, non poteva crederci.
Non riusciva a capire perché Nadia avesse fatto una cosa del genere senza neanche farne parola con qualcuno di loro. Credeva che quella fosse la notizia peggiore, ma quando addirittura Julian gli disse che si era tolta la vita, mandando la bambina chissà dove, Bastian sentì le ginocchia cedergli e ricordò lo sguardo incredulo che aveva rivolto a Blake, in piedi accanto a lui e con una mano stretta attorno alla sua spalla, come per dargli forza e allo stesso tempo trarla da lui.
Tutti gli altri avevano visto il corpo privo di vita di lei, Bastian non ci era riuscito.
Bastian ricordava e non capiva. Rifletteva continuamente alla ricerca di una risposta e rammentava come gli sarebbe piaciuto essere un fratello per Madison…allora perché tutto quello che stavano facendo gli sembrava sbagliato? Perché aveva una strana sensazione a livello del petto, una pressione leggera ma costante abbastanza da risultare fastidiosa, come un avvertimento? Riportare Madison dal padre che non aveva mai conosciuto era giusto? La risposta era sempre stata “sì”, ma c’era un dubbio che si aggirava in lui, senza mai prendere realmente consistenza. Era un nuvola di fumo senza forma che aspettava di concretizzarsi e permettere a Bastian di capire cosa lo stesse turbando in continuazione. Era una domanda che lo tartassava, ma senza una risposta precisa.
Nadia avrebbe approvato ciò che stavano compiendo?
 
Quando Madison si ridestò dopo un paio di ore dal suo primo risveglio, lo scenario non era cambiato neanche di una virgola: Scott e Stiles dormivano ancora come se nulla potesse turbarli e la casa era immersa nel silenzio. Si stropicciò gli occhi e fece per alzarsi quando dal piano inferiore, le sembrò di sentire delle voci familiari che conversavano fra loro. Le gambe di Madison si mossero in automatico, e la ragazza si precipitò giù per le scale, convinta di aver udito quelle voci tranquille e confortanti che sembravano ancora troppo presenti.
“Nonna?”, chiamò in un sussurro, guardandosi attorno. “Nonno?”.
Si voltò piano, ancora persa nella speranza che non si fosse trattato di una mera e dolorosa illusione.
Regolarizzò il respiro, e fece piccoli passi verso il tavolino del soggiorno, dove tante foto di lei bambina abbracciata ai suoi nonni erano in bella mostra, spezzando ciò che restava di lei. Si voltò di scatto, serrando le palpebre per non vedere, per non sentire, per non fare nulla che potesse portarle alla mente ciò che aveva perso e che si manifestava, come un fantasma dispettoso.
Madison si diresse verso la cucina, tentando di calmare il suo battito impazzito ma questo non aveva alcuna intenzione di rallentare, soprattutto quando un rumore improvviso fece scattare ulteriormente la ragazza che si voltò, cacciando un urlo spaventato e afferrando la padella posta sul ripiano.
“Ehi, ehi!”, esclamò il ragazzo che Madison riconobbe come Isaac, alzando le mani.
La porta di casa si aprì immediatamente, rivelando la figura di Derek tesa e completamente in allerta, con gli occhi blu e la mascella indurita, come se fosse pronto ad attaccare qualcuno. Madison gli rivolse un’espressione stranita per poi essere distratta da Scott che scendeva in cucina, seguito a ruota da Stiles che gli era quasi caduto addosso, agitato e ancora mezzo addormentato.
“Sono io!”, si giustificò Isaac, notando tutto il trambusto che si era creato.
Madison continuò a stringere fedelmente la padella, per poi poggiarla piano sul bancone e rendendosi conto che si era spaventata per niente. Sospirò, sollevata, accorgendosi solo allora del fatto che la sua cucina fosse affollata come non lo era mai stata. Guardò Derek, osservandolo con sguardo indagatore.
“Da dove sei arrivato?”, domandò la ragazza, stranita.
“Tu che dici? Da casa mia”, rispose Derek, preso in contropiede, ma facendo finta di nulla.
“Vivi dall’altra parte della città”, gli fece notare Madison, più che convinta.
“Corro velocemente”, ribatté il licantropo, reprimendo il timore di essere scoperto.
“Sei arrivato prima di loro che erano di sopra”, continuò lei, portando le mani ai fianchi e non riuscendo proprio a capire quanto potesse essere veloce.
Era assodato che fosse un licantropo e aveva compreso tutte le capacità che quello stato potesse comportare ma si trattava pur sempre di un lupo e non certo di Flash con la super velocità.
“Oddio, sourwolf! Era appostato lì fuori!”, sbottò Stiles, spazientito e salendo le scale, borbottando qualcosa che Madison non riuscì a sentire ma che fece ghignare Scott, poiché vedere Stiles tutto assonato con i capelli in disordine e la faccia di chi voleva continuare a dormire era esilarante.
Scott sbadigliò sonoramente, passandosi una mano fra i capelli e guardando Isaac.
“Amico, bussa la prossima volta”, gli disse Scott con un sorriso amichevole.
“Scusate”, dichiarò il ragazzo, imbarazzato e infilando le mani nelle tasche, come un cucciolo che sapeva di aver rotto qualcosa e cercava di non farsi sgridare.
Madison gli sorrise, per fargli capire che andava tutto bene e poi tornò a concentrarsi su Derek, il cui sguardo era fermo su Isaac e non sembrava intenzionato a spostarsi verso di lei. Il fatto che Derek fosse rimasto fuori casa sua tutto il tempo le permise di comprendere realmente chi avesse visto quella mattina appena aveva messo piede nel soggiorno. Sapeva che Scott avrebbe fatto la guardia mentre Derek era libero di starsene nel suo loft a dormire, allenarsi, leggere o fare qualsiasi altra cosa che non comportasse la sua presenza. Eppure, Derek era rimasto lì tutto il tempo: forse non era così egoista come voleva far credere, ma Madison più lo guardava, più faceva fatica a riconoscere il ragazzo che aveva visto al liceo.
Era una versione cresciuta e più scura del giovane Derek, del ragazzo spesso circondato da amici sorridenti e con l’espressione tranquilla sul viso.
Quello che aveva davanti era un fantasma del Derek che aveva visto, una versione più cupa che vagava attorno a loro, come sospeso, senza parlare, senza esporsi ma camminando avanti e indietro, come se cercasse di non farsi trovare da qualcosa o da qualcuno. Chiudeva gli occhi, sussurrava qualcosa che nessuno poteva sentire e restava nell’ombra ad assicurarsi che nulla andasse storto, che nessuno si facesse male.
Madison avrebbe desiderato chiamare il suo nome, per svegliarlo, per ricordargli ancora una volta che era solo una ragazza della sua vecchia scuola, che non avrebbe fatto del male a nessuno di loro e che le dispiaceva, ma Derek non l’avrebbe udita e lei avrebbe solo sprecato la voce.
Scott si avvicinò a Madison, attirando la sua attenzione.
“Stai bene?”, le chiese, sfiorandole il braccio con dolcezza.
“S-sì”, rispose la ragazza, incrociando le braccia e ovviamente mentendo, solo che quella risposta non era altro che la via più semplice su cui indirizzarsi.
“Dopo raggiungeremo un amico”, le comunicò Scott, aspettando quasi una conferma di Madison, come se non volesse sconvolgerla ancora. “Ti dirà ciò che ha detto a noi, se per te va bene”.
Madison fece un cenno di assenso con la testa, senza proferire parola e con ancora Derek e Isaac nella stanza che osservavano la scena, il primo con agitazione, il secondo con apprensione. Incrociò per un attimo gli occhi di Derek, che distolse immediatamente lo sguardo.
 
Stiles portò ancora una volta le mani sul viso, scrollandosi di dosso quel sonno che non era riuscito a recuperare per colpa delle ore piccole che aveva deciso di fare al computer alla ricerca di qualunque cosa che potesse dar loro delle risposte e per colpa di Isaac che si intrufolava nelle case altrui.
Lydia sorrise, osservando il ragazzo che cercava di nascondere inutilmente gli occhi stanchi e gli sbadigli troppo pesanti per essere evitati, così si avvicinò alla cucina, versando una buona dose di caffè in una tazza che poi porse a Stiles, il quale la prese senza fare complimenti.
Il ragazzo biascicò un “grazie” per poi bere il caffè tutto d’un dorso, lasciando Lydia di stucco.
“Da quanto non dormi?”, domandò lei, preoccupata e sedendosi dinanzi a lui.
“Stanotte ho dormito neanche quattro ore”, rispose Stiles, soffocando un altro sbadiglio.
“Come mai?”, chiese ancora Lydia, ricordando l’ultima volta che Stiles aveva avuto problemi a dormire e tremando leggermente al pensiero. “E’ tutto ok?”.
Stiles portò gli occhi ambrati su di lei, lasciando che Lydia li osservasse, e perdendosi ai sua volta in quelle pozze verdi che aveva notato per la prima volta quando era solo un bambino di otto anni, ugualmente iperattivo e con tanta, forse troppa, voglia di parlare.
“Sto bene, Lydia”, rispose lui, marcando volutamente le parole per non dare ansie inutili a quella ragazza che aveva perso tanto e che sembrava terrorizzata all’idea di perdere altro ancora. “Davvero, è stata soltanto colpa di Isaac che non conosce l’uso del campanello”.
Lydia curvò le labbra rosse in un sorriso sereno, e non disse nulla, riportando lo sguardo sullo schermo del computer e togliendosi dalla testa l’immagine di Stiles steso a terra agonizzante e immerso in una pozza del suo stesso sangue. Non osò immaginare l’urlo che avrebbe potuto cacciare, forse uno dei più strazianti, che l’avrebbe consumata dall’interno, facendo sì che il suo cuore si sciogliesse, come se avvolto dalle fiamme.
Scosse la testa, allontanando sempre più quel pensiero e l’immagine del corpo senza vita di Allison, al quale si affiancava quello di Stiles.
Stiles la osservò ancora, perdendosi nei ricordi di ciò che erano stati e di ciò che erano diventati: rammentò la Lydia di qualche anno fa che si aggirava per i corridoi della scuola con un sorriso soddisfatto, ancheggiando volutamente per sottolineare la sua bellezza e popolarità.
Quella Lydia era soltanto un fantasma, che non aveva nulla in comune con  la Lydia che aveva di fronte se non l’aspetto fisico.
Ora Lydia camminava per i corridoi con un’espressione un po’ più amareggiata ma diversa: adulta e, cosa più importante, vera.
Lydia Martin aveva smesso di mostrarsi come la ragazza popolare e aveva abbracciato la donna che era, rivelandosi ancora più meravigliosa di quanto potesse immaginare. Represse un sorriso, sentendo la suoneria del suo cellulare e controllando il display.
Lydia se ne accorse e saettò lo sguardo verso di lui.
“E’ Malia?”, domandò lei, con una naturalezza che lasciò Stiles inizialmente spiazzato.
Lydia era a conoscenza dei suoi trascorsi con Malia e sapeva che occasionalmente gli capitava di sentirla, poiché si era allontanata da Beacon Hills, almeno per qualche tempo. Quello che Stiles non sapeva era che la naturalezza di Lydia non era altro che una maschera, dietro la quale aveva nascosto un possibile tremore della sua voce al pensiero che Stiles fosse ancora legato a quella ragazza, ma Lydia Martin non lo avrebbe certo ammesso, anzi.
Il ragazzo lesse il messaggio, scoprendo che si trattava soltanto di Scott che gli diceva di trovarsi allo studio del Dr. Deaton insieme a Madison.
“No, è Scott”, rispose lui, cercando di non balbettare. “Perché credevi fosse Malia?”.
Lydia si strinse nelle spalle. “Sapevo che la sentivi, qualche volta”.
“Beh, sì…ogni tanto”, disse Stiles con sincerità e abbassando lo sguardo, mentre Lydia faceva lo stesso, come se quello fosse un argomento troppo spinoso.
Stiles, in realtà, ci aveva pensato a quello che poteva avere con Malia, e ci aveva anche provato, almeno un minimo, ma il problema era sempre e soltanto uno. Aveva provato sulla sua pelle cosa volesse dire avere l’occasione di essere felice, di voltare pagina e l’aveva rifiutata, sentendo che quella possibilità non sarebbe mai stata davvero sua, perché era una bugia. Per quanto Stiles tentasse di andare avanti, si ritrovava sempre al punto di partenza, sospinto verso Lydia Martin per forza di cose, e forse resistere era inutile, perché lui non voleva dimenticare.
Tuttavia, non c’era spazio per i suoi sentimenti, non dopo che Lydia aveva perso sia Allison che Aiden nell’arco di due giorni, e forse lui sarebbe passato solo per qualcuno che voleva trarre vantaggio dal dolore altrui, dolore di cui era anche responsabile, nonostante lo negassero tutti.
“Pensavo che voi due…sai”, Lydia non riuscì a terminare la frase, corrucciando le labbra in una smorfia colma di imbarazzo e maledicendosi per aver parlato.
Credeva di poter avere simili conversazioni con Stiles, come due vecchi amici che conversavano dei loro trascorsi ed eventuali interessi amorosi, ma si sbagliava.
“No, noi…no”, rispose Stiles, nascondendo un ghigno e gesticolando nervosamente.
La ragazza fece un lieve cenno di assenso con la testa, decretando la fine di quella discussione strana che avevano inconsapevolmente intrapreso, senza neanche sapere perché. Lydia guardò Stiles un’ultima volta per poi riportare la sua concentrazione sulla pagina internet che aveva aperto, in cerca di un significato da attribuire all’anello della madre di Madison.
“Per quanto ancora vuoi negarlo, Lydia?”.
Lydia sussultò al suono di quella voce dolce e cristallina che poteva essere attribuita ad una sola persona in tutto l’universo, e vide chiaramente quegli occhi castani circondati da lunghe ciglia nere e quel sorriso decorato da due fossette inconfondibili. Voltò il capo in direzione di quella voce che sembrava richiamarla, come il canto di una sirena ma c’era soltanto Stiles nella stanza insieme a lei, almeno fisicamente.
Allison Argent era lì, accanto a lei, facendosi sentire attraverso bisbigli e verità sussurrate a fior di labbra che soltanto Lydia poteva sentire, ma non erano reali, solo frutto della sua mente. Tuttavia, se Allison fosse stata presente, e soprattutto viva, le avrebbe davvero detto quella frase.
 
Fin da ragazzina, Madison aveva sempre amato immergersi nella lettura di libri di ogni tipo, nella visione di film da guardare al cinema oppure sul divano avvolta da una coperta e fare qualsiasi altra cosa che le permettesse di volare liberamente con la fantasia. Come ogni bambina, aveva desiderato anche lei di librarsi nell’aria, impugnare una bacchetta, fare cose possibili solo nella propria immaginazione, dove sarebbero sempre rimaste.
Erano sogni radicati nell’animo infantile di ogni adulto e andavano bene lì, protetti dalle insidie del mondo reale e crudele. Tuttavia, nel caso di Madison, ogni cosa era stata stravolta: realtà e sogno si erano confuse, aggiungendo un terzo elemento a quel miscuglio che aveva trasformato la vita di Madison in uno scherzo, qualcosa di buio e squallido, senza alcuna via di fuga. Non aveva proferito parola dopo essere tornata a casa, perché la sua mente ripeteva ciò che aveva udito dal veterinario. Aveva cercato di restare attenta, e non far percepire la sua stanchezza sia fisica che mentale ma quando Cora le aveva consigliato di riposare almeno un minimo, Madison non riuscì a rifiutare, così si era diretta in camera sua, sentendo le voci provenienti dal piano di sotto.
Rammentava le labbra dell’uomo che si muovevano fluide, rivelando cose che non avrebbe mai immaginato, ma lei riusciva a pensare soltanto al fatto che avesse conosciuto sua madre. Rammentava la fuga di cui le aveva parlato e di come avesse fatto sì che i suoi ricordi venissero estratti da una donna di nome Talia, ovvero dalla madre di Cora e Derek.
Cora le aveva rivolto un sorriso confortante a quella scoperta, come a volerle dire che erano connesse in un modo nell’altro e che non aveva nulla da temere, con lei anche Peter. Sicuramente Derek non sarebbe stato dello stato avviso, se fosse stato lì. Eppure, Derek aveva udito ogni cosa, nascosto fuori, come un fuggitivo, a concentrarsi sulle parole di Deaton e sui battiti nella stanza: quello di Madison era il più veloce, si infrangeva contro la cassa toracica, arrivando a lui.
Quando Madison si alzò dal letto, si rese conto dell’inutilità di quell’azione: non aveva riposato, non aveva dormito, non aveva fatto nulla, se non far passare un tempo indefinito. Era semplicemente rimasta distesa di schiena sul suo letto a guardare il soffitto con le mani giunte sul ventre e a chiedersi solo “perché?”.
Aveva visto suo padre, quel padre che a detta dei suoi nonni aveva deciso di non occuparsi della figlia che aveva avuto, quando in realtà non aveva fatto altro che cercarla ma non per ciò che sperava. Non c’erano stati abbracci riconcilianti o lacrime di gioia, solo dolore.
Si sentiva un vegetale che alternava il suo tempo girovagando per le stanze di quella casa troppo vuota e troppo silenziosa come un fantasma sospeso che non riusciva a lasciare il mondo terreno.
Il soggiorno era avvolto nella penombra, illuminato soltanto dalla luce dell’abatjour accanto al suo divano, sul quale era seduto qualcuno, precisamente l’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere: Derek Hale, ed era seduto a leggere qualcosa, completamente solo.
“Dove sono gli altri?”, chiese Madison, tirando verso il basso la sua maglietta e guardandosi intorno.
Derek si voltò nella sua direzione, quasi sobbalzando. “Peter ha portato Cora a casa e Scott è andato da sua madre”.
“Non eri obbligato a rimanere”, gli fece notare lei, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
“Dovevo”, si limitò a rispondere, riportando l’attenzione sul libro e ricordando che si era offerto lui stesso di restare, senza sapere perchè.
Madison represse una smorfia, cominciando a torturarsi le mani, senza avere la minima idea di come comportarsi.
Non si sentiva a suo agio, se ci fosse stato qualcun altro sarebbe stato più semplice ma la verità era che la presenza di Derek la faceva sentire così colpevole che a stento riusciva a stargli accanto. Potevano anche ripeterle a gran voce che non era colpa sua o che sarebbe andato tutto bene ma non avrebbe fatto alcuna differenza, perché la voce di Derek le avrebbe detto il contrario.
“Stai bene?”, le chiese lui, guardandola e sistemandosi meglio sul divano.
“Sì, pensavo”, esclamò Madison, girando attorno a lui, senza però accomodarsi.
“Intendevo se stai bene dopo tutto…questo”, si corresse Derek, sentendosi un vero stupido.
“E’ una bella domanda”, esalò lei, sedendosi accanto a lui sul divano. “Cosa leggi?”.
Derek si ricordò del libro che stringeva fra le mani nodose e tese, schiudendo le labbra e spostando lo sguardo dalla copertina al viso della ragazza che gli rivolgeva un sorriso dolce. Derek la guardava e leggeva nei suoi occhi una rassegnata calma. Si sarebbe aspettato di vederla crollare, chiedendo al mondo perché era successo tutto a lei, con gli occhi colmi di lacrime e la voce rotta dai singhiozzi. Invece, Madison se ne stava lì ad osservarlo con il capo inclinato in attesa di una risposta, alla ricerca di una distrazione, qualcosa che non la facesse cadere con le ginocchia sul pavimento. Madison non aveva le fiamme negli occhi, non aveva lo sguardo corrucciato e saturo di vendetta come quello che aveva avuto Derek per almeno metà della sua vita.
“Dr. Jekyll e Mr. Hyde”, rispose lui, ritrovando le parole. “Era nella libreria”.
La ragazza tolse il libro dalle mani di Derek che, sorpreso, le lasciò sospese con i palmi ancora aperti, osservando la ragazza che lo sfogliava con un sorriso amaro.
“E’ uno dei miei preferiti”, gli confessò, carezzando i bordi delle pagine ingiallite. “Quando ero al liceo il professor Doyle ci assegnò una relazione al riguardo”.
Derek storse le labbra, udendo quel nome. Doyle: un uomo non molto alto, con degli inconfondibili baffi grigi e delle cravatte davvero improponibili.
“Frequentavi il mio stesso liceo?”, chiese, mentre assumeva un’espressione sorpresa.
Madison si morse il labbro, come pentita di essersi lasciata sfuggire quella rivelazione.
“Sì”, si limitò a dire debolmente. “Frequentavamo lo stesso liceo”.
Derek rimase per qualche secondo ad osservarla, tentando di far riaffiorare qualche ricordo di lei ma senza un risultato concreto: erano solo fotogrammi, nulla che gli rammentasse il suo viso, forse intravisto frettolosamente qualche mattina nei corridoi.
Una parte di lui continuava a vagare nello sbigottimento mentre l’altra, quella molto meno fiduciosa, aveva iniziato già a ricamare trame degne di un film thriller.
Gli ripeteva che lo conosceva da tanto, che aveva aspettato nell’ombra per trarlo in inganno e che stava tramando qualcosa alle sue spalle.
Solo che Derek zittì quella vocetta irritante, quel poltergeist malefico che portava a galla solo i pensieri meno confortevoli; riuscì a metterlo a tacere per il momento.
“L’ho capito quando ho letto il tuo nome sul foglietto”, continuò lei, vedendo che Derek non accennava a parlare. “Te lo avrei fatto notare se, beh…”.
Derek abbassò il capo, ricordando come si erano svolte le cose e chiedendosi come sarebbero andate se Keith non fosse mai sbucato all’improvviso, trascinando via Madison. Dopo secondi di silenzio che apparivano quasi eterni, Derek tornò a parlare.
“Mi dispiace”, disse lui, mortificato. “Non ho avuto modo di dirtelo”.
“Derek, non è necessario”, ribatté Madison, portando una mano tra le loro figure, come a voler sottolineare una distanza, qualcosa che non andava superato.
A quelle parole, al quel gesto, Derek non riuscì a fare a meno di sentirsi un mostro, un reietto, una persona senza alcuna capacità di provare compassione, inconsapevole della bellezza e incapace di riconoscere la fiducia o la sincerità quando le aveva dinanzi agli occhi.
Non era altro che una sagoma trasparente e senza quel cuore, di cui una parte era sepolta sotto la cenere che ancora dominava la sua vecchia casa nella riserva, l’altra parte era sepolta tra le radici del Nemeton che gli facevano da barriera: Derek era un fantasma o almeno si comportava come tale.
“Lo è”, insistette Derek, sentendosi in dovere di parlare, di fare qualsiasi cosa per riscattarsi o almeno provarci. “Quando ho perso la mia famiglia ero quasi in stato catatonico”.
Il volto di Madison si curvò lentamente, mentre la ragazza si portava una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ascoltando con estrema attenzione le parole di Derek.
“Al silenzio era sormontata la rabbia”, continuò lui con tono neutro, senza guardare Madison che nel frattempo aveva poggiato la schiena sul divano bianco. “Poi era arrivata la frustrazione, il senso di colpa…se fossi stato più attento, forse Kate non avrebbe raggiunto subito il suo obiettivo”.
Madison non riuscì a trattenere un singulto. Kate? Quella Kate, la sua fidanzata del liceo, era la responsabile dell’incendio che aveva ucciso la famiglia di Derek? Erano tante le cose che non sapeva sulle stranezze di Beacon Hills e quella era sicuramente una della lista.
Fu tentata dal chiedergli una conferma ma non lo fece perché il suo sguardo diceva abbastanza.
Derek aveva parlato davvero con lei, per la prima volta da quando la sua macchina aveva frenato all’improvviso, provocando quella colluttazione casuale.
Madison immaginò ancora una volta quel ragazzo distrutto mentre scopriva che la sua fidanzata non aveva fatto altro che ingannarlo, raggirarlo con i suoi capelli dorati e le sue labbra rosee piene di baci e promesse sussurrate all’orecchio che non avrebbe mai mantenuto.
“Mi dispiace”, quella era l’unica cosa che Madison potesse dire, per quanto scontata.
“Anche a me”, rispose lui, guardandola distrattamente con la coda dell’occhio e lei sentì che Derek non si riferiva soltanto alla sua personale tragedia ma anche a quella di Madison.
Per un attimo, sentì la voglia di liberare le lacrime salate che tentavano disperatamente di incavare i suoi occhi ma non lo fece…avrebbe aspettato di essere sola, come sempre, d’altronde.
Lana diceva sempre che non bisognava permettere che gli altri vedessero le proprie debolezze ma per Madison era diverso: piangeva quando era sola semplicemente per non affliggere nessuno, nonostante la voglia di lasciarsi andare fosse spesso così pressante da farle male, come quella sera.
“Quindi, lo sei dalla nascita?”, domandò Madison, osservandolo di sottecchi e ricordando come quella mattina avesse visto il suo viso per metà trasformato.
Derek fece cenno di sì. “Nella mia famiglia eravamo tutti licantropi”.
“Oh”, Madison si lasciò andare ad un sospiro. “Licantropi come compagni di scuola”.
Derek nascose un mezzo sorriso, notando come il discorso potesse essere assurdo.
“Anche Scott?”, pigolò lei, pronunciando quella frase con voce bassa, come incerta.
“No, lui è stato morso”, rispose Derek, portando alla mente tutti i ricordi che vedevano Scott alle prese con la licantropia, i tumulti iniziali e gli ululati che non riusciva ad emettere. “Da Peter”.
Madison trasalì, come Derek si aspettava, e fece per dire qualcosa, bloccandosi a metà strada.
Derek la trovò davvero buffa, mentre chiudeva la mano a pugno e frenava un’altra smorfia.
“Quindi per lui è stato più traumatico?”, domandò poi, dopo averci riflettuto.
“Forse”, decretò lui, redendosi conto che non ci aveva mai pensato davvero.
“Fa male quando ti trasformi?”.
Il licantropo studiò con interesse sia Madison che la domanda che gli aveva posto: non ricordava perfettamente se fosse doloroso quando era un ragazzino, e nemmeno negli ultimi tempi, non tendeva a farci troppo caso. Semplicemente perché quando si trasformava erano altre emozioni a fare da padrone: rabbia, ansia, agitazione. Quando il suo volto mutava, c’era un vortice di sensazioni che avvolgeva Derek come un tornado, e se anche ci fosse stato un minimo di dolore, lui non lo avrebbe percepito, perché eclissato da ciò che aveva indotto la trasformazione in lupo mannaro.
Volse gli occhi verdi verso di lei, che si accorse del lento cambiamento del colore che virava verso il blu, mentre il viso di Derek si alterava a sua volta, mantenendo però quei lievi tratti che le permettessero di riconoscerlo, e di non ritenerlo uno sconosciuto.
Derek non provava nulla durante quella trasformazione: non pativa la collera che gli montava nel petto, o il fermento per uno scontro imminente da affrontare. Forse faceva davvero un po’ male, ma era più un intorpidimento che un dolore vero e proprio, e Derek si sentiva inerme come non mai, soprattutto quando Madison allungò con cautela la mano verso il suo viso.
Le dita lunghe di lei sfiorarono di poco la pelle increspata e Derek tremò.
Madison non emise un urlo spaventato, non lo guardò terrorizzata, forse perché nel magazzino aveva già visto zanne e artigli, ma quella sera era diverso e lei continuava a percorrere il suo viso come se nulla fosse, soffermandosi sul colore degli occhi, forse interrogandosi sul motivo.
Con la stessa lentezza, il volto di Derek riprese le sue fattezze naturali e Madison scostò la mano, rimanendo comunque a fissarlo, senza pronunciare la domanda che vagava nella sua testa. Qualche altro attimo di silenzio incorniciò quel momento singolare che c’era stato.
Madison spezzò il silenzio, alzandosi dal divano e raggiungendo la cucina, alla ricerca di qualcosa da mangiare e optando soltanto per qualche biscotto con crema al cioccolato. Derek la seguì con lo sguardo, corrugando le sopracciglia alla vista della sua cena e decidendo di raggiungerla, incrociando le braccia al petto.
“Mangi quello?”, chiese, con una punta di scetticismo.
“Sono le dieci passate e il frigo è vuoto”, constatò lei, scrollando le spalle. “Tu che dici?”.
Madison gli diede le spalle, cominciando a scavare nel barattolo di crema con il coltello per poi spalmarla sui biscotti in religioso silenzioso e con una concentrazione imperturbabile.
Derek sentiva chiaramente l’odore delle lacrime tumulate e se fosse stato qualcun altro, magari qualcuno meno sgradevole, le avrebbe detto che andava tutto bene e che era libera di piangere.
Se fosse stato meno diffidente verso il prossimo, lo avrebbe fatto, perché Madison ne era degna: meritava di essere abbracciata, cullata tra le braccia di qualcuno che la calmasse; meritava di udire parole di conforto in momenti tristi e troppo difficili per essere affrontati da soli; meritava carezze e abbracci forti che stringessero quella bellezza così fragile da potersi spezzare come un ramoscello.
Se fosse stato meno controllato, avrebbe portato le braccia attorno alla sua vita sottile e l’avrebbe tenuta stretta in silenzio, senza dire una parola per evitare di spaventarla, ma soltanto per toglierle il dolore che portava dentro di sé e che non voleva scaricare su altre persone.
Ma lui era Derek Hale e non fece nulla, se non guardarla, chiedendosi come sarebbe stato.
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Sono in ritardo di qualche giorno e mi scuso, sono pessima. In realtà, il capitolo era anche già scritto per buona parte ma dovevo rivedere alcune cose e non ho avuto il tempo per farlo prima di martedì (in realtà, mancava anche la voglia poiché ero un po’ abbattuta per lo scorso capitolo che mi convinceva poco e per la storia in generale che mi sta facendo salire qualche dubbio). Ad ogni modo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e con esso anche questo momento Dedison che mi ha fatto faticare non poco. Scriverlo è stato davvero difficile, ovviamente per colpa di Derek che non è facile da caratterizzare.
Se non vi convince o avete qualcosa da farmi notare, accetto consigli di ogni genere.
Se vi va, fatemi sapere cosa ve ne pare con un commentino.
Ringrazio come sempre tutte le persone che stanno leggendo la storia.
Alla prossima, un abbraccio :)

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Capitolo 10
*** IX - Gods and monsters ***


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IX
 
Gods and monsters

 
“There is love in your body but you can’t hold it in.
It pours from your eyes and spills from your skin.
Tenderest touch leaves the darkest of marks.
And the kindest of kisses break the hardest of hearts”.
(Florence and The Machine – Hardest f Hearts)
 
“Possiamo andarcene, se non te la senti”.
Madison si voltò verso Isaac, fermo accanto a lei, e gli rivolse quello che doveva essere un sorriso anche se le circostanze non lo rendevano tale.
“Non è necessario”, disse in un sussurro. “Grazie lo stesso”.
Il ragazzo le fece un cenno con il capo, smuovendo leggermente i riccioli scuri e unì le mani, raddrizzando le spalle e rimanendo accanto a lei, che tratteneva il respiro. Dopo che lo Sceriffo Stilinski aveva chiuso il caso riguardante i suoi nonni come una semplice rapina finita male, nonostante fosse a conoscenza della verità, era stato necessario svolgere i funerali. Il padre di Stiles le era sembrato subito un uomo diverso dagli altri, con uno sguardo tranquillo, caratterizzato da un rassicurante torpore che le aveva permesso di rilassarsi fin da subito.
Era stato gentile e paziente, trattandola come se fosse una conoscente stretta e in qualche modo lo era, visto che lo Sceriffo conosceva piuttosto bene i suoi nonni, come gli altri abitanti della città. Aveva rivelato che i suoi nonni parlavano spesso di lei e di come si fosse diplomata al liceo con il massimo dei voti, per poi raggiungere il college dei suoi sogni insieme alla sua migliore amica. Erano fieri, come dei genitori che rivolgevano i pensieri al proprio figlio.
Madison cercò di non voltarsi verso il gruppo di persone, non molto vasto per fortuna, e non ascoltò neanche la cerimonia. Aveva cercato di allontanare le ultime immagini che aveva di loro. Rimase solo con lo sguardo fisso sul primo scalino dell’altare, aspettando che tutto finisse, solo per tornare a casa e sentirsi al sicuro. Era stato strano uscire di casa, come era stato strano trovarsi lì insieme a persone di cui fino a poco tempo fa conosceva a stento l’esistenza, eppure era lì, seduta tra Scott e Isaac, mentre gli altri sedevano alle loro spalle. Vide anche Melissa qualche fila più indietro, e ovviamente lo Sceriffo.
La cerimonia fu breve e intima, senza persone impertinenti pronte a fare domande o ad elogiare chi era andato via, forse era merito dello Sceriffo che aveva chiesto rispetto e riservatezza e Madison desiderò ringraziarlo per averle impedito di affrontare l’ennesimo fardello.
Madison non badò al proprio stato d’animo, non cercò di sentirsi sollevata e non lasciò trapelare nulla che non fosse il silenzio, anche se forse i licantropi presenti non tardarono ad accorgersene. Derek era seduto esattamente dietro di lei, tra Cora e Peter, e lei sentiva chiaramente quella presenza rassicurante e al tempo stesso scomoda, eppure saperlo lì la faceva sentire meno persa. Madison portò lo sguardo sulle proprie mani, stringendole quanto più possibile per nascondere il tremore che aveva iniziato ad affliggerle, senza un motivo preciso. Aveva avuto inizio già prima di uscire per recarsi lì, quando aveva rischiato di far cadere la tazza con il caffè e poi lo spazzolino. Aveva cercato di nasconderlo a Kira e Lydia che avevano passato la notte a casa sua e sperò che nessuno ci avesse fatto caso, ma non aveva ricevuto alcuna domanda a riguardo.
Quando uscirono dalla chiesa, Derek portò lo sguardo alle mani giunte di Madison che avevano tremato per tutto il tempo.
Non era stato difficile notarlo per lui: aveva sentito un suono debole per tutta la mattina, come quello di un bicchiere di vetro appena sfiorato e aveva visto come Madison tenesse la mani quasi nascoste, allungandole verso qualcuno solo se necessario per poi congiungerle.
Per un momento, desiderò afferrare e stringere le sue mani, solo per mettere fine a quei fremiti.
“Potresti anche smettere di fissarla”, lo riprese Peter, arrivandogli alle spalle.
“Ti sembra il momento?”, gli fece notare Derek, indicando la chiesa con un cenno.
Nel frattempo, Scott e Stiles li raggiunsero, ascoltando ciò che i due Hale stavano dicendo.
Peter sbuffò, scrollando le spalle. “Tutte scuse. Ad ogni modo, credi che siano qui?”.
Derek riservò un’ultima occhiata all’ambiente circostante, senza lasciarsi sfuggire neanche un dettaglio e facendo sì che i suoi sensi fossero in allerta.
“Forse”, disse, immaginando Julian nascosto da qualche parte. “Anche se fossero effettivamente qui intorno, di certo non uscirebbero allo scoperto…forse ci stanno osservando”.
Stiles si strinse nelle spalle, sfoggiando una delle sue espressioni basite e oltraggiate.
“Mi sento violato”, sussurrò avvicinandosi a Scott e guardando verso gli alberi, impaurito.
Scott nascose una smorfia e seguì lo sguardo di Derek che si perse tra gli alberi, chiedendosi a quale gioco stesse giocando quel branco: potevano assalirli in un attimo, prendere Madison e mettere fine a tutta quella vicenda, eppure non lo avevano ancora fatto, ma stavano giocando.
Perchè portavano avanti un gioco di cui sarebbero stati probabilmente i vincitori?
 
Ridley rimase fermo, appollaiato su quel ramo posto più in alto rispetto agli altri e lasciando che la boscaglia circostante lo coprisse abbastanza da non essere visto ma da permettergli di avere ugualmente una visione d’insieme della scena a cui stava assistendo.
Dopo aver temuto il peggio, quando aveva visto Derek Hale puntare gli occhi nella sua direzione, scrutando alla ricerca di una presenza quasi invisibile per poi scostarsi, l’uomo si era rilassato.
Riconobbe le persone che aveva visto allo studio del veterinario dove si era recato insieme a Julian, e poi osservò attentamente quelle figure lontane e nuove: la prima cosa che gli saltò all’occhio fu una lunga chioma rossa, e al suo fianco una figura dai capelli scuri che percepì essere una kitsune.
Se quello era il branco di Scott McCall, Ridley dovette riconoscere che era un branco abbastanza vario e decisamente inusuale: si trattava di individui che non potevano essere concepiti insieme, eppure riuscivano a creare una combinazione perfetta in tutta la sua stranezza e novità.
Forse Julian li derideva proprio per quello, per l’eterogeneità che caratterizzava il loro branco di creature diversificate: lupi mannari, umani, kitsune, banshee…non suonava tanto male.
Mentre si perdeva in quella muta indagine, si accorse di qualcun altro accanto alla ragazza dalla chioma rossa e gli bastò un solo sguardo per capire: era Madison, ed era così identica a Nadia da fargli tremare le ginocchia. Se fosse stato meno attento, l’avrebbe presa per un fantasma.
Durante quell’incontro per nulla piacevole nel magazzino, per opera di Keith, Ridley non era riuscito ad osservarla come voleva, visto il caos che si era venuto a creare. Aveva scorto il suo volto, senza riuscire a coglierne i dettagli, come stava facendo in quel preciso istante.
Ogni tratto di Madison urlava il nome di Nadia: i capelli scuri che cadevano morbidi sulla curva delle spalle, gli occhi verdi con quelle pagliuzze dorate evidenziate dalla luce del sole, le dita lunghe che si muovevano lentamente creando un’armonia affascinante ed eterea, la linea delle labbra rosee che rimanevano dritte senza arcuarsi in un sorriso, la stessa tristezza negli occhi.
L’ultima volta che aveva visto Madison non era altro che una bambina, stretta fra le braccia magre di Nadia, e raramente le si era avvicinato, forse per timore, o forse perché faceva troppo male, come faceva male anche in quel momento, mentre il pensiero di Nadia si insinuava nel suo petto. I suoi pensieri vennero interrotti da un fruscio di foglie alle sue spalle, e Ridley si voltò, riconoscendo Bastian che si sedeva al suo fianco, lasciando ciondolare le gambe lunghe.
“Ti godi il panorama?”, domandò il ragazzo, scompigliandosi i capelli con una mano.
Ridley lo fissò con gli occhi chiari che sembravano la punta di un iceberg e scosse la testa.
“Faccio quello che mi hanno ordinato”, rispose senza battere ciglio. “Osservo”.
“Stasera faranno qualcosa, lo sai, vero?”, gli chiese Bastian e Ridley si limitò a fare segno di sì, con la testa, poiché aveva giù udito le istruzioni di Julian rilasciate a Blake e Gwen.
Bastian emise un mugolio di apprezzamento. “E’ un branco niente male”.
L’uomo non si scomodò a voltarsi verso di lui, colpendolo semplicemente con le nocche sulla spalla.
Bastian si sporse ancora un po’, per guardare meglio e riconobbe subito Madison: Ridley lo capì dal sussulto che il suo cuore aveva appena fatto, forse perché aveva notato le stesse cose viste da lui.
“E’-“, cominciò con voce incerta, mentre una sensazione di bruciore invadeva il suo stomaco.
“Sì, ragazzino”, dichiarò subito Ridley, guardando il ragazzo con la coda dell’occhio.
Bastian si accigliò un attimo. “Ragazzino? Ti ricordo che sono adulto e vaccinato”.
“Certe abitudini sono vecchie a morire”, ribatté Ridley, con un sorriso triste, e ricordando l’astio che nasceva in Bastian ogni volta che qualcuno usava quell’appellativo.
Nadia era l’unica che poteva chiamarlo a quel modo senza farlo infastidire.
“E’ identica a lei”, continuò Bastian, inclinando il capo da un lato e rivedendo nella ragazza un pizzico di quella tristezza che aveva scorto in Nadia, ma visto il giorno, era normale.
“Andiamo via”, dichiarò Ridley all’improvviso, alzandosi in piedi e guardando l’altro.
Bastian si mise al suo livello e lo guardò meglio, rilevando un velo di tristezza negli occhi che evaporò immediatamente, per volere di Ridley che volse lo sguardo altrove.
“Facciamo a chi arriva prima?”, gli chiese il ragazzo con un sorriso giocoso in viso e balzando giù dall’albero con un salto, mentre l’altro ancora lo guardava.
D’altronde, chi era Ridley per rifiutare?
 
 
“Quando ha cercato di ululare, sembrava più un coniglio che un lupo!”.
Dopo quell’affermazione, tutti i presenti presero a ridere con trasporto, tranne Derek che si limitò a strizzare gli occhi e a sfoggiare un sorriso contenuto, perché lasciarsi andare era vietato. Madison riusciva tranquillamente ad immaginare come Scott e Stiles fossero spesso coinvolti in bravate di quel genere, sospese tra il ridicolo e il tragico. Inoltre, apprezzava ciò che quei ragazzi, persino più piccoli rispetto a lei, stavano facendo non soltanto per farla sentire a suo agio ma anche per aiutarla ad affrontare eventi a cui di certo non era mai stata preparata.
Stiles proprio non ne voleva sapere di smettere di ridere, e come lui anche Kira, Cora e Isaac, seduto accanto a lei.
La ragazza si voltò, cercando il soggetto del racconto e accorgendosi della sua improvvisa assenza poiché Scott era uscito fuori qualche minuto prima senza fare ancora ritorno, così, approfittando dell’ennesima storia di Stiles, si alzò lentamente per raggiungere il ragazzo, attirando lo sguardo di Derek. Quando Madison chiuse la porta di casa alle spalle, trovò Scott che osservava guardingo la strada dinanzi a loro, e rimase ferma, aspettando che la notasse.
“Cosa fai?”, chiese Madison, infilando le mani nelle tasche della felpa.
Scott si voltò, rivolgendole un sorriso cordiale e permettendole di avvicinarsi.
“Mi assicuro che vada tutto bene”, esclamò con un tono che trasudava rigidità, come se quello fosse un compito che si era imposto di portare a termine.
“Sta andando tutto bene”, dichiarò lei, senza battere ciglio. “Torna dentro, ti stai perdendo Stiles”.
Scott sorrise, sollevando una mano e indicando il suo orecchio, per evidenziare il super udito e Madison rise, ricordandosi che aveva sentito ogni singola parola.
“Dovremmo essere noi a rassicurarti”, constatò Scott senza guardarla negli occhi.
“Mi rassicurate ogni giorno”, gli fece notare Madison. “Andrà tutto bene”.
“Non posso permettere che qualcuno si faccia male. Non di nuovo”.
Scott aveva pronunciato quella frase colma di rimpianti, fissando la strada e gli alberi in lontananza, senza voltarsi verso Madison, la quale riuscì ugualmente a cogliere una leggera sfumatura in quella frase che sapeva di un dolore incrostato e tenuto segreto, come se andasse protetto.
Il ragazzo sembrò accorgersi di ciò che aveva detto, senza riflettere troppo e lasciandosi solo guidare dal ricordo di una figura senza vita stretta tra le sue braccia mentre esalava l’ultimo respiro.
Fece per parlare, quando la presenza di qualcun altro attirò la loro attenzione: Cora li aveva appena raggiunti, sfoggiando un’espressione colpevole. Sorrise ad entrambi e Scott ne approfittò per tornare dentro, riservando un’ultima occhiata a Madison che continuò ad osservarlo, perplessa.
Cora notò la sua confusione e la guardò, aspettando che dicesse qualcosa.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”, chiese più a sé stessa che all’altra.
La ragazza fece qualche passo verso di lei, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e Madison lesse una punta di disagio in quel gesto, come se ci fosse qualcosa che non sapeva. Non era certo un licantropo ma sapeva riconoscere alcune cose e gli anni di esperienza con Lana le avevano permesso di capire alcuni atteggiamenti. Tremò un attimo al ricordo della sua amica ma decise di mettere momentaneamente da parte il dolore che aveva fatto capolino in lei.
“Cosa c’è?”, domandò ancora Madison con voce più diretta, tanto da far sospirare Cora.
“Prima che Derek venisse da me a Berkley è successa una cosa qui”, cominciò Cora, voltandosi verso la porta chiusa della casa. “Io non ero presente ma è stato Derek a raccontarmi tutto”.
Madison incrociò le braccia e le fece un cenno con il capo, aspettando che continuasse.
Per qualche strano motivo, la sola idea di ciò che potesse rivelarle la inquietava, come se stesse per dire qualcosa di maledetto, qualcosa che non andava divulgato nemmeno sotto tortura.
“Una loro amica è stata uccisa”, disse Cora tutto d’un fiato, facendo sussultare Madison. “Era la ragazza di Scott e la migliore amica di Lydia. Ognuno di loro teneva molto ad Allison”.
Madison aveva già sentito quel nome, anche se sussurrato con estrema attenzione, proprio come se andasse preservato, qualcosa che non doveva essere nominato e ogni cosa le fu finalmente più chiara. Ricordò cosa aveva detto Lydia la prima sera che si erano conosciute, chiedendole se Lana stesse bene; ricordò come Stiles si fosse guardato intorno un paio di giorni prima, pronunciando quel nome e beccandosi uno sguardo sofferente da parte di Scott, mentre l’espressione di Kira si era fatta ombrosa, particolare che proprio non le apparteneva; comprese i silenzi di Isaac; diede un senso all’espressione sofferente di Derek, come se si fosse caricato di tanti macigni su quelle spalle. Riuscì a dare un nome a quel ricordo dolente che si muoveva insieme a tutti loro, senza mai lasciarli. Madison voleva davvero provare a dire qualcosa ma non lo fece, consapevole del fatto che non ci fosse nulla, alcuna frase in grado di compensare ciò che era stato detto.
La morte non li aveva semplicemente sfiorati, ma li aveva colpiti in pieno petto, spingendoli a terra e lasciandoli inermi a piangere la scomparsa di qualcuno a cui sembravano tenere tanto.
Ripensò a Scott, al suo sguardo affranto e a come potesse sentirsi nel camminare sempre con una presenza accanto che non lo abbandonava mai, ricordandogli cosa aveva perso.
“Forse non dovevo dirtelo”, si pentì Cora, pensando di aver scatenato qualcosa. “Soprattutto oggi”.
Madison prese a scuotere la testa, allungando una mano verso di lei.
“Non devi proteggermi anche da questo”, le fece notare lei, con un sorriso amaro.
Madison era immensamente grata ad ogni singola cosa che stavano facendo, ad ogni secondo che sprecavano per assicurarsi che non le accadesse nulla e che nessuno le facesse del male. La stavano proteggendo da un branco ma non voleva che la proteggessero anche da cosa che non potevano essere una minaccia per lei. Una voce le chiamò da dentro casa e la ragazze si videro costrette a rientrare, trovando quasi tutti in piedi, che evidentemente erano in procinto di andarsene.
Scott prese il suo casco fra le mani. “Come si procede?”.
“Posso restare io, voi avete scuola domani”, gli rispose Derek  “Stiles, accompagni tu Cora al loft?”.
Il ragazzo alzò il pollice in risposta, rivolgendogli un gran sorriso e facendo alzare gli occhi di Derek al cielo, mentre Isaac sorrideva divertito a quel solito rapporto di odio-amicizia che avevano.
“D’accordo, io accompagno Kira”, intervenne Scott, mentre la ragazza gli sorrideva.
“Allora io vengo con voi”, dichiarò Isaac, avvicinandosi a Cora, ricevendo uno sguardo leggermente accigliato di Derek che non lo abbandonò, neanche quando si posizionò accanto a sua sorella.
Madison scrollò le spalle, osservandoli tutti e abbandonato le braccia sui fianchi, un po’ afflitta.
C’erano sere in cui le sembrava strano doverli salutare, come se ancora dovesse abituarsi a quella routine inusuale che avevano stabilito e che non si avvicinava a quella che aveva a Berkley.
“Allora buonanotte”, li salutò lei con un sorriso e trattenendo uno sbadiglio.
“Se Derek ti da fastidio, chiamaci”, esclamò Stiles, agitando la mano e sogghignando alla vista dello sguardo omicida di Derek che non tardò ad arrivare, puntuale come un orologio svizzero.
“Tranquillo, ultimamente sembra mansueto”, gli fece notare lei, ferma sulla porta.
Quando i ragazzi si allontanarono, Madison chiuse la porta alle sue spalle e trovò Derek che la fissava con il solito cipiglio imbronciato e le braccia conserte.
“Mansueto?”, ripeté cono tono canzonatorio. “Sono un animale?”.
“Tecnicamente sì!”.
Derek ignorò quella risposta, stringendo le labbra e guardando Madison che lo sorpassava con fare rassegnato e leggermente divertito, trattandolo come fosse un fenomeno da circo. Ormai ogni attimo che passava con quella ragazza, lo avvicinava sempre di più ad un punto indefinito che sapeva di nuovo, non riusciva a descriverlo ma sentiva solo che si trattava di qualcosa che non aveva mai sentito prima di allora.
C’erano momenti in cui le stava accanto e si sentiva normale, nonostante tutto e pentendosi quasi subito dei propri pensieri, come se la sua mente avesse concepito qualcosa di immondo che non doveva nemmeno considerare. Il punto era che Derek stava imparando a conoscere la ragazza, per colpa di quella specie di convivenza che aveva instaurato con tutti loro, al punto da sapere ogni sua abitudine.
Sapeva che Madison non era una tipa mattiniera, e alzarsi prima delle nove era sempre un sacrificio, tranne in quei giorni ovviamente, a differenza sua che era in piedi già dalle sette se non prima. Sapeva che studiava archeologia a Berkeley e sentiva anche quanto le mancasse. Sapeva che amava leggere e diverse volte l’aveva trovata adagiata sul divano con un libro in una mano e il caffè nell’altra, di cui consumava almeno tre tazze al giorno e mai caffè espresso.
Sapeva che non riusciva mai ad andare a letto presto, ma era solita addormentarsi sul divano, guardando qualche serie trasmessa in tv a tarda serata. Molte cose le aveva scoperte origliando le conversazioni della ragazza con Scott e Stiles o con Kira e Lydia che avevano passato la serata precedente insieme a lei, dandole una compagnia femminile. Sapeva che soffriva in silenzio, in particolare in quei giorni e il funerale di Jonathan e Thiana non aveva certo alleviato il dolore. Erano stati in allerta per tutta la giornata, rimanendo in quella casa davvero troppo grande per una sola persona e avevano desiderato riempire il vuoto, anche se temporaneamente e pur sapendo che forse non sarebbe servito a molto.
Derek Hale stava imparando a conoscere i dettagli di un’altra persona e a dirla tutta, la cosa non lo confortava, anzi, lo spaventava.
Anche quando non toccava a lui rimanere a casa di Madison, si svegliava nel suo loft nel bel mezzo della notte con una sensazione di ansia crescente che lo costringeva ad alzarsi poiché riprendere sonno era praticamente impossibile. Faceva qualche passo e rimaneva accanto alla vetrata, troppo timoroso per uscire ma troppo ansioso per tornare a dormire, così afferrava la giacca e usciva per recarsi a casa di Madison: si limitava a restare fuori con le braccia conserte e a guardarsi intorno, per verificare che non ci fosse nulla di simile ad un licantropo nelle vicinanze. Era diventata come una dipendenza: andava a dormire, sapendo che di lì a poche ore si sarebbe destato dal sonno che sapeva di non potersi concedere e sfrecciava fuori dal loft, per poi tornare poco dopo l’alba.
Cora probabilmente lo aveva capito ma non glielo aveva fatto notare, si limitava a scrutarlo.
Derek si voltò verso Madison che aveva preso posto su una delle sedie della cucina, rigirandosi l’anello di sua madre Nadia fra le mani, così il licantropo si avvicinò a lei. La ragazza alzò di poco lo sguardo per poi riportarlo sull’anello e sul motivo inciso su di esso. Derek decise di prendere posto accanto a lei, pur mantenendosi rigido e distante nella postura, come se il gesto fosse puramente involontario ma Madison non sembrò farci troppo caso.
“Lydia ha detto che è un nodo celtico”, esordì lei senza staccare gli occhi dall’oggetto, mentre Derek poggiava i gomiti sulle ginocchia, ascoltando. “Si chiama Nodo di nolo, rappresenta le tre forze della natura ma la fedeltà e la protezione. Se questo anello doveva proteggere qualcuno, credo abbia fallito”.
Derek inclinò il capo, mentre Madison percorreva con le dita il motivo scolpito nell’argento e glielo sfilò delicatamente dalle mani, lasciandola sorpresa mentre quel lieve contatto fra le loro dita sembrava ancora persistente, come un filo che li congiungeva.
Il licantropo osservò meglio quell’intreccio, ripensando al suo significato e rivolgendo il pensiero a quel simbolo che aveva fatto incidere sulla sua stessa pelle.
Ovviamente erano diversi, ma il significato non era poi tanto differente: i tre elementi, l’intreccio di passato, presente e futuro che Derek aveva impresso a fuoco sulla sua schiena per ricordare qualcosa che non doveva essere perso. E in quell’intreccio di nodi e figure dal mutevole significato, Derek scorse qualcosa che non avrebbe mai pronunciato a voce alta: una connessione. Forse aveva visto il male in qualcuno che aveva sofferto come tutti loro e che stava continuando a farlo, in qualcuno che non aveva avuto modo di dire addio a quello che restava della sua famiglia.
Madison era semplicemente tornata a casa, trovandosi catapultata in qualcosa che non aveva previsto e scoprendo che della sua famiglia non era rimasto nulla.
Forse aveva impiegato il suo tempo ad accusare qualcuno che aveva sopportato un dolore simile ad una delle tante afflizioni che gli era toccata, ossia il tradimento, l’inganno, donare la propria fiducia a qualcuno per poi vederla precipitare in mille pezzi per un motivo impensabile. Quel giorno aveva detto addio ai suoi nonni, a quelle persone che l’avevano cresciuta come una figlia e lui la guardava ancora chiedendosi cosa nascondesse dietro gli occhi verdi e stanchi.
“Non dire così”, rispose lui, riflettendo su ciò che la ragazza aveva detto.
Madison emise un mugolio di disapprovazione. “Ah, no? Non sembra che abbia protetto qualcuno. Di certo non mia madre e a dirla tutta neanche i miei nonni”.
Derek fece saettare lo sguardo su di lei, avvertendo la nota stridente nella sua voce, che aveva pronunciato quell’ultima frase con una tristezza così velata che farci caso non era facile, eppure Derek la sentì chiaramente, come se fosse stato un tamburo battente accanto a lui.
Il tremore alle dita di Madison si manifestò ancora una volta: dopo il funerale sembrava essersi arrestato e così anche durante la serata trascorsa insieme agli altri ma dopo quel pensiero sussurrato era tornato ancora una volta e la ragazza strinse le mani per calmarlo e nasconderlo.
Derek allungò la mano, solo per arrestare quelle scosse che martoriavano le sue mani e udì il respiro di Madison fermarsi, mentre volgeva gli occhi verso di lui.
Madison poteva sentire i fremiti farsi sempre più deboli fino a sparire del tutto, mentre una strana sensazione di tranquillità iniziava a destarsi dentro di lei, avvolgendola con un dolce tepore.
“Come-“, fece per domandare lei ma Derek la precedette senza guardarla negli occhi.
“Sto assorbendo un po’ del tuo dolore”, disse con voce schietta e sbrigativa, come se volesse che quel momento terminasse nell’esatto momento in cui era iniziato.
Quando Derek si impegnava a quel modo, riusciva sempre a far crollare le buone intenzioni fedelmente riposte nell’animo di chi decideva di parlare con lui o stargli accanto. Madison fece schioccare la lingua sul palato, ignorando la solita gentilezza di Derek Hale che a tratti si mostrava mentre ad altri preferiva celarsi dietro ante fatte di marmo. Quando il senso di benessere che l’aveva pervasa svanì, Madison osservò le loro mani ancora strette, mentre lo sguardo di Derek era perso ad osservare un punto morto della casa senza accennare ad allontanare la mano dalle sue. Nel silenzio della sua casa, Madison riuscì a vedere dettagli di Derek che prima non aveva colto perfettamente: le sopracciglia corrugate che forse indicavano una qualche riflessione che nessuno a parte lui avrebbe conosciuto; la linea delle labbra dritta e rigida, serrata per non permettere a parole precise di uscire; era una sagoma perfettamente intarsiata nella penombra.
Derek sembrò risvegliarsi, accorgendosi di avere ancora la sua mano stretta su quelle di Madison ma non le scostò, anzi, le lasciò lì, chiedendosi perché lo stesse facendo, come se fosse ibernato.
La sua mente si era chiusa completamente, impedendogli di formulare pensieri che lo avrebbero spinto ad interrompere quello strano contatto che si era instaurato.
In realtà, quello era il suo modo per consolarla, per farle sapere che andava bene e che non avrebbe affrontato le cose da sola, ma ovviamente Derek aveva molta strada da fare prima di capire cosa il suo istinto lo stesse portando a compiere, eppure Madison sembrò capirlo.
La mano di Derek era calda attorno alla sua così fredda da sembrare un blocco di ghiaccio, ed era una bella sensazione, che sapeva di affetto celato e protezione.
“Grazie”, gli disse con un sorriso caloroso che non ricevette risposta. “Potresti parlare, sai”.
Derek sorrise, sempre a modo suo, sollevando semplicemente gli angoli delle labbra e il sorriso di Madison si allargò, ripensando a quando si erano incontrati.
“Dovresti sorridere più spesso”, continuò Madison, inclinando il capo.
Le loro mani erano ancora intrecciate, i loro occhi incatenati ma nessuno dei due sembrò darci troppo peso, perché entrambi presi da quello scambio di parole e sguardi silenziosi. Derek trattenne una risata e fece per rispondere, quando qualcosa lo turbò.
Un suono acuto che ormai aveva imparato a riconoscere alla perfezione quasi gli perforò i timpani mentre un fremito percorreva il suo corpo: l’urlo di Lydia.
 
“Potresti anche andare più veloce, sai?”.
Stiles decise di ignorare il consiglio di Isaac e continuò a guidare, cercando di non farsi distrarre dalla nebbia che dominava la strada, quella sera più del solito.
“E tu potresti anche smettere di parlare”, gli fece notare l’altro, mentre Cora sbuffava.
Isaac lanciò uno sguardo alla ragazza, seduta davanti, sistemandosi meglio sui sedili posteriori.
Stiles gli fece un cenno ironico di ringraziamento e tornò a guidare.
“Secondo voi quando ci attaccheranno?”, chiese il ragazzo, dubbioso.
“Spero non al più presto”, dichiarò Stiles, tamburellando le dita sul volante.
A dirla tutta, non voleva pensarci. Non voleva preoccuparsi troppo di qualcosa che sarebbe inevitabilmente successo e che li avrebbe di sicuro tramortiti.
Da un lato, era anche vero che ne avevano affrontate tante, e un altro branco non poteva essere peggio del Nogitsune.
Tuttavia, Stiles sentiva che c’era qualcosa di diverso in quella faccenda, qualcosa che non aveva tanto a che fare con il soprannaturale, con i demoni o con qualche strano rituale. Sembrava che quella questione fosse puramente personale: non si trattava di potere, di dominio del mondo o altre questioni apocalittiche. Sentiva come se fossero i sentimenti a fare da padroni. Inoltre, avevano qualcuno a cui badare, qualcuno in più da proteggere.
Stiles non aveva visto un pericolo in Madison, a differenza di Derek: aveva semplicemente scorto qualcuno che andava protetto a tutti i costi, qualcuno che doveva essere salvato prima che gli accadesse qualcosa di terribile. Era solo approdata in quella città, dopo averla lasciata senza essere coinvolta in qualche stranezza, per poi tornarci contro il suo volere. Era tornata in quella landa desolata piena di morte, pericolo e creature dietro ogni angolo.
Era strano tornare a preoccuparsi delle sorti di qualcun altro e non delle proprie. Quando era stato posseduto, tutti loro si erano mobilitati per colpa sua, mentre lui si trovava sotto l’influsso di una volpe demoniaca e sadica che gli aveva fatto credere di essere pazzo.
Adesso che era tornato ad essere quello di una volta, Stiles sentiva il bisogno pressante di riscattarsi, il desiderio di impegnare tutto sé stesso per il risolvere il problema che avevano davanti e per proteggere qualcuno che si era trovato catapultato in una faccenda quasi sconosciuta.
Dovevano pensare anche a Madison, e l’avrebbero aiutata, dovevano farlo.
“Stiles, attento!”, urlò Cora, indicando qualcosa davanti alla macchina.
Stiles non riuscì a definire la figura immobile nella nebbia e fu costretto a sterzare velocemente la macchina, frenando prima di centrare in pieno un albero.
“State tutti bene?”, domandò, osservando prima Cora che respirava pesantemente e poi Isaac.
Lo sguardo di Cora si perse nella nebbia, notando che quello che sembrava essere un animale era sparito, e la cosa non le piacque per niente.
“C’è qualcosa che non va”, sussurrò, senza staccare gli occhi dalla strada deserta.
Stiles si slacciò la cintura e scese, seguito anche da Isaac che si guardava intorno.
“Stare qui come dei bambocci non aiuta”, esclamò, guardando Isaac, con la voce un po’ tremante e per nulla rassicurato da quel silenzio agghiacciante.
“Già!”, convenne Isaac, avvicinandosi alla portiera della jeep.
I ragazzi fecero per salire in macchina, ma un paio di occhi rossi sbucarono dal buio, fermando ogni loro azione.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Eccomi qui anche se con qualche giorno di ritardo e mi scuso per questo.
Trovare il tempo per scrivere il capitolo è stato difficile, mi sono ridotta spesso a tarda serata ma ce l’ho fatta, nonostante si stia rivelando più difficile del solito visto che la trama si sta facendo abbastanza intricata. Comunque, vi era mancato il nostro Ridley? Anche in questo capitolo, ho voluto concedere un altro po’ di Dedison prima di riempirli di problemi, perché da come penso avrete letto, il finale del capitolo non preannuncia belle cose.
Inoltre, in questo capitolo c’è una specie di indizio (molto ma molto nascosto) su qualcosa che accadrà in seguito, di cui ovviamente non posso rivelare nulla, non odiatemi. Quindi, ringrazio come sempre tutti coloro che stanno seguendo questa storia e tutti quelli che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate, siete sempre gentilissimi. Fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino, se vi va!
Alla prossima, un abbraccio :)

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Capitolo 11
*** X - Echoes ***


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X
 
Echoes
 
“The walk has all been cleared by now.
Your voice is all I hear somehow, calling out winter.
Your voice is the splinter inside me while I wait”.
(Joshua Radin – Winter)
 
Derek doveva aspettarselo.
Doveva capire che qualcosa sarebbe andato storto, come doveva capire che le cose erano state davvero troppo tranquille, così calme da far paura, ma non aveva voluto vedere. Aveva preferito rimanere fermo, a fare la guardia dove nessuno era diretto, a concentrarsi su qualcuno che non sarebbe stato preso di mira, o almeno non in quel momento. Aveva permesso a sé stesso di distrarsi e respirare, lasciando che ci rimettesse qualcun altro.
Si posizionò con la schiena contro il muro del soggiorno di casa Nolan, guardando oltre il vetro della finestra, mentre il buio dominava ancora la scena e lui cercava di scorgere qualcosa, una qualsiasi sagoma, che appartenesse possibilmente a Cora o a Stiles.
Madison era seduta accanto a Lydia, agitata almeno quanto Derek ma lui non si voltò.
In quel momento non voleva guardare nessuno negli occhi. Non voleva leggere la preoccupazione, l’ansia, il dispiacere, tutte quelle emozioni che contrassegnavano una prossima sconfitta. Derek non voleva guardare, si limitava semplicemente a sentire.
Sentiva i battiti del cuore di Lydia e l’ansia che le scorreva nelle vene al pensiero che Stiles fosse in pericolo chissà dove e con chissà chi, così come sentiva quelli di Madison, abbattuta dal semplice pensiero che ogni cosa stesse accadendo solo ed esclusivamente per causa sua.
Ma Derek non ci badò lo stesso: era troppo da affrontare.
Il silenzio venne interrotto da Peter che, dopo aver gironzolato un po’ per casa senza dire nulla, si voltò all’improvviso per poi guardare Lydia, come ad indicarle la presenza di qualcuno. Anche Derek si destò e si diresse verso la porta insieme a suo zio, per trovare Scott, Kira e un Isaac ridotto piuttosto male sull’uscio della porta. Madison li fece entrare immediatamente senza troppi preamboli e senza preoccuparsi del fatto che  un ragazzo ferito alla testa e al busto stesse macchiando di sangue la moquette. Scott lo adagiò delicatamente sul divano, esaminando con attenzione le sue ferite che non accennavano ancora a guarire, perché procurate probabilmente dall’alpha in questione. Madison gli si avvicinò, scorgendo la sua espressione dolorante e gli occhi semichiusi.
“Isaac”, lo chiamò con delicatezza, ricevendo un mugolio in risposta.
“Cosa è successo?”, gli domandò Lydia con voce tremante.
Il ragazzo chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro per riordinare le idee e cercando di ricordare qualcosa, anche un minimo dettaglio che potesse spiegare quella serata. Ricordava Stiles che aveva fermato la macchina a causa di qualcosa sulla strada, ricordava di come fossero entrambi scesi dalla jeep per assicurarsi che fosse tutto a posto, mentre Cora era rimasta dentro a scrutare la strada e i boschi con sguardo sospetto e per nulla confortante.
“Ci siamo fermati”, disse lui in un rantolo, portandosi la mano al fianco. “Qualcosa non andava. C’era troppo silenzio, Cora lo aveva capito, poi ci siamo voltati".
Isaac sgranò gli occhi azzurri che si erano fatti così chiari da sembrare vitrei; strinse spasmodicamente il braccio di Madison, rilassandosi poi con estrema lentezza.
Derek osservava la scena in disparte, cercando di controllarsi, di non ringhiare e di non afferrare Isaac per forzarlo a parlare, poiché la preoccupazione per sua sorella lo spingeva a quei gesti.
“Ci hanno attaccati”, continuò Isaac, cercando di mettersi seduto. “Erano in tre. Sono forti, maledettamente forti…e lo sono più di noi”.
“Hanno fatto del male a Stiles e Cora?”, chiese Madison, ricevendo un’occhiata da Lydia, come se la stesse silenziosamente ringraziando, perché forse era la domanda che più le premeva.
“No”, dichiarò subito Isaac, scuotendo il capo. “Due si sono scagliati su di me. Erano l’alpha, e una donna dai capelli rossi. Invece, qualcun altro si è occupato di Cora e Stiles. Non era un lupo, ma un umano. Li ha presi, Cora ha cercato di fare resistenza ma lui era troppo forte, così l’ha colpita”.
Derek trattenne un ringhio che si bloccò giusto in gola, ma a nessuno sfuggì quella vibrazione che trasudava la frustrazione e la rabbia più assoluta. Nel frattempo, Madison riuscì ad intuire chi poteva essere l'umano che aveva aiutato il branco in quell'impresa.: Keith.
“E poi sono andati via”, concluse Isaac, mugolando per il dolore al fianco.
Madison lo tenne fermo, impedendogli di muoversi oltre e farsi male, mentre Lydia si alzava per cominciare a camminare nervosamente per la casa.
“Perché?”, domandò Scott, senza rivolgere la domanda ad un interlocutore specifico.
Derek diede le spalle ai presenti, riprendendo ad esaminare la città fuori dalla finestra, chiedendosi dove potessero essere Cora e Stiles, ma rendendosi conto di come non riuscisse neanche a pensare.
“Stanno giocando con noi”, dichiarò Peter, mantenendo bassi i suoi occhi chiari e mostrando un’espressione crucciata come se stesse formulando un’ipotesi complessa, mentre gli altri si limitarono ad osservarlo, in attesa di una delle sue solite constatazioni illuminanti.
“Non ci attaccano”, continuò l’uomo, facendo qualche passo nella stanza e portandosi la mano al mento. “Ci colpiscono sul personale”.
“Cosa intendi?”, chiese Scott, allargando le braccia e avvicinandosi a Peter.
“Intendo, caro il mio vero alpha, che non puntano sullo scontro fisico”, gli rispose lui, incrociando le mani dietro la schiena, “ma sui nostri punti deboli, sul lato affettivo. Insomma, guarda cosa hanno fatto! Hanno preso Stiles e Cora, sapendo che avrebbero innalzato un polverone”.
Scott corrugò le sopracciglia, cominciando a capire il discorso di Peter e notando quanto avesse effettivamente ragione: avevano preso Stiles, il suo migliore amico che stava a cuore ad ogni componente del branco, e Cora, la sorella di Derek. Stavano cercando di farli infuriare e di abbatterli già prima che ci fosse un vero e proprio scontro. Avevano scelto consapevolmente degli obiettivi da colpire e la decisione era ricaduta su coloro, la cui scomparsa sarebbe stata più sofferta.
“Hanno preso Stiles”, proseguì lui, mentre le sue parole prendevano più consistenza. “E Cora! Sapevano che Derek sarebbe andato su tutte le furie per sua sorella e per Stiles, come sapevano che tu avresti fatto lo stesso, e così anche gli altri. Hanno lasciato andare Isaac di proposito, non erano interessati a prendere anche lui perché non ne avevano alcun bisogno”.
“Grazie della considerazione”, lo rimbeccò un Isaac sofferente, alzando una mano mentre Peter si voltava verso di lui con il suo tipico ghigno e agitando la mano come a volersi scusare.
“Vogliono farci credere già di non avere speranze”, la frase di Kira riecheggiò nel soggiorno di Madison con fermezza, facendo voltare gli altri.
Peter le fece un cenno di assenso con la testa, ringraziando il cielo che qualcuno avesse capito subito senza perderci troppo tempo, e si voltò verso Derek, ancora assorto. Madison era ancora accanto ad Isaac, cercando di rassicurarlo ogni volta che un gemito di dolore fuoriusciva dalle sue labbra e prendendogli la mano quando cercava di muoversi perché la ferita al fianco faceva troppo male.
Non disse nulla, guardava gli altri parlare e ascoltava ogni parola, ogni idea, ogni sensazione che lasciavano trapelare senza il coraggio di intervenire.
Se il senso di colpa avesse avuto nome, forse sarebbe stato il suo.
Stiles era nelle mani di quei licantropi, capitanati da suo padre, anche se faceva ancora parecchia fatica a definirlo tale, con lui anche Cora e lei si chiedeva perché nessuno avesse ancora avuto il fegato di rivolgerle uno sguardo assassino o accusarla di qualcosa: forse Derek sarebbe stato il primo.
In quel momento, desiderò prendere il dolore con le sue stesse mani e gettarlo via. All’età di sette anni, Madison aveva trovato un peluche, un piccolo orsetto che secondo i suoi nonni era appartenuto a sua madre. Avrebbe potuto tenerlo stretto, stringerlo e sentire il suo profumo solo per essere ancora più vicina a sua madre ma non lo fece. Non poteva permettersi di ricordare, di lasciare che il senso di colpa per tutte le cose andate male nella sua vita prendesse il sopravvento ma Madison non ci riusciva:  non poteva allontanare o mettere via il senso di colpa, perché era lì e portava i nomi di Stiles e Cora.
“Possiamo trovarli”, esalò Scott, senza esitazioni nella voce.
Gli sguardi di tutti i presenti nella stanza si posarono sulla figura esile di Lydia, la quale decise di non voltarsi, rimanendo di spalle ma sentendo chiaramente tutti gli occhi che pesavano sulla sua schiena, insieme alle speranze silenziosamente riposte nelle sue abilità.
A quel punto, Madison rammentò ciò che Stiles le aveva detto un paio di sere fa, durante una delle tante serate insieme e una parola luccicò nella sua mente, come una punta di diamante: banshee.
 
Doveva suggerire a suo padre di rendere alcune strade meno inquietanti e buie.
Sì, doveva assolutamente pregare suo padre affinché venisse preso qualche provvedimento per evitare di percorrere strade completamente deserte con lupi mannari in agguato. Se mai fosse uscito vivo da quella situazione, lo avrebbe certamente fatto.
Stiles voltò il capo in direzione dell’unica fonte di luce che riusciva a scorgere, proveniente da uno spioncino su quella che sembrava essere una porta di legno, il resto era per la maggior parte ombra. Tentò di muoversi, accorgendosi del pavimento freddo sotto i suoi piedi mentre le braccia iniziavano a dolergli per lo sforzo: queste ultime erano tese verso l’alto, tenute su da quella che sembrava essere una specie di catena ma Stiles non la riconobbe a causa della poca luce intorno a lui.
Si sentiva completamente inerme, come una preda pronta ad essere uccisa.
Non soltanto quei licantropi lo avevano preso, ma avevano anche ben pensato di legarlo come un salame, togliendogli ogni possibilità di muoversi.
Per un attimo, Stiles ripensò ad una scena simile che lo vedeva rinchiuso in uno scantinato con il piede in una trappola per coyote.
Decise di mettere da parte quel ricordo che di vero aveva ben poco per concentrarsi su quello che gli stava accadendo attualmente. Strattonò i polsi, sentendo il metallo freddo contro di esso e dondolando leggermente, ma un mugolio strozzato fermò ogni suo tentativo.
Stiles si voltò alla sua destra, scorgendo una figura legata proprio come lui: Cora.
Aveva gli occhi semichiusi e sembrava addirittura messa peggio di lui, per qualche strano motivo. Non fece nemmeno in tempo a chiedersi l perché che si accorse di alcuni fili elettrici attaccati al suo corpo magro e che arrivavano ad un macchinario posto su un tavolo di legno rovinato.
“Cora!”, la chiamò lui, pregando per una risposta. “Se riesci a sentirmi, fai un verso”.
La ragazza mugolò ancora, schiudendo lievemente le palpebre e rivelando gli occhi rossi e lucidi.
Stiles le rivolse un sorriso sollevato, ringraziando il cielo che Cora fosse almeno cosciente, per poi riprendere a guardarsi intorno senza riuscire ancora a capire dove fossero andati a finire. A prima vista, Stiles avrebbe detto che si trattava di un sottoscala ma definirlo era parecchio difficile. Una sottile colonna in marmo non molto lontana attirò la sua attenzione, e ad essa seguì un arco che si raccordava a sua volta ad un’altra struttura simile: il tutto dava all’ambiente qualcosa di antico e tetro che non lo faceva certo sentire tranquillo, visto lo stato in cui erano tenuti.
Un rumore lo fece scattare, mentre qualcuno entrava a fargli visita. Stiles allungò il capo, cercando di scorgere cosa ci fosse dietro la porta ma le persone appena arrivate l’avevano chiusa così velocemente che non era riuscito a vedere nulla.
“Chi siete?”, sbraitò il ragazzo, sperando che la voce gli uscisse ferma e non tremante.
Qualcuno rise e Stiles riconobbe un risolino trattenuto di una donna: strizzò gli occhi, mentre una chioma rosso fuoco si faceva lentamente più vicina, rivelando il proprio volto. Una donna che Stiles non aveva mai visto prima di allora lo stava guardando dalla testa ai piedi con un’espressione decisamente troppo compiaciuta, spostandosi poi su Cora. Nel frattempo, l’altra persona che Stiles riconobbe come un uomo, rimaneva fermo nella penombra a giocherellare con qualcosa tra le dita senza affiancare la donna.
“Allora?”, insistette Stiles, stringendo le labbra e facendosi avanti con il busto.
La donna gli si parò davanti, precisamente ad un palmo dal suo viso, studiandolo con finta attenzione e Stiles fu tentato dal digrignare i denti: avrebbe desiderato essere un licantropo solo per cacciare le zanne e intimare a quella orribile donna di farsi ancora più vicina.
“Non deve interessarti”, gli rispose lei, dandogli le spalle e percorrendo con le dita lunghe i tasti di quel macchinario collegato a Cora che se ne stava immobile con la testa inclinata.
Stiles tentò nuovamente di farsi avanti, ignorando l’impedimento della catena e a quello scatto, la donna lo guardò con uno sguardo falsamente sorpreso, ghignando e sfiorando ancora i tasti, come per provocarlo e sottolineare ulteriormente il controllo che aveva, sbattendoglielo in faccia.
“Smetti di giocare, Gwen”, la figura nascosta nell’ombra aveva parlato, rivelando una voce profonda e conturbante che Stiles aveva già udito.
L’uomo si fece avanti, permettendo a Stiles di riconoscere Julian che continuava a giocherellare con un sassolino preso chissà dove e chissà quando, mentre lo osservava con espressione calma. Sembrava perfettamente a suo agio, come se nulla potesse turbarlo mentre Stiles non faceva che allarmarsi sempre di più ad ogni passo che compiva in sua direzione.
“Ah, il paparino”, dichiarò Stiles, senza far trasparire la sua paura anche se forse il licantropo poteva percepirla ma a lui non importava, non gli avrebbe permesso di prendersi gioco di lui.
Julian rise di gusto. “Apprezzo il tuo sarcasmo, davvero”.
Gwen incrociò le braccia al petto, ignorando quegli stupidi convenevoli che proprio non le andavano a genio: Julian si divertiva a giocare con le sue prede, farci conversazione come se niente fosse prima di agguantare la loro gola e strappargliela a morsi mentre lei preferiva arrivare al dunque.
Voleva torturare quei due, mentre Julian voleva divertirsi a parlare, le ripeteva che avrebbe dovuto godersi anche lei l’attimo prima di arrivare alla piena soddisfazione che provava quando faceva del male ad una delle sue prede, ma Gwen faceva parecchia fatica.
“E’ un tentativo per farti consegnare Madison e realizzare una riconciliazione da film?”, continuò Stiles, rivolgendogli un sorrisetto di scherno. “Tattica sbagliata, mi spiace”.
“Credi che tenervi qui non mi darà ciò che voglio?”, chiese Julian, incuriosito da quella spavalderia sotto la quale si nascondeva un battito decisamente troppo accelerato per essere definito calmo.
“Fammici pensare…no!”, dichiarò il ragazzo, fermamente convinto delle sue parole. “Potrai anche riportarci dagli altri con la testa mozzata, avrai soltanto firmato la tua condanna a morte…già firmata e consegnata il giorno in cui sei arrivato qui, ad esseri sinceri”.
Julian ghignò in risposta, sinceramente sorpreso. “Saresti un buon licantropo”.
Stiles sbuffò, intuendo ciò che quella frase nascondeva. “Me l’hanno già chiesto. No, grazie”.
Julian si voltò immediatamente verso Gwen. “Mi piace”.
La donna scrollò le spalle, senza preoccuparsi di nascondere il fastidio che tutta quella attesa le stava provocando ma ovviamente Julian la ignorò, tornando a concentrarsi su Stiles.
“Devo dire che mi piaci, Stiles”, affermò il licantropo, facendosi più vicino e lasciando che il ragazzo vedesse i suoi occhi chiarissimi e vacui. “Vorrei tanto che tu avessi ragione, ma vedi…io ottengo sempre ciò che voglio, e Madison rientra ovviamente nella lista”.
“Non faranno mai uno scambio”, Stiles aveva quasi urlato, indignato a sol pensiero che quel licantropo potesse credere che Scott avrebbe scambiato una vita innocente con lui.
Julian aggrottò le sopracciglia. “Chi ha detto che voglio fare uno scambio?”.
Stiles schiuse le labbra, raddrizzando la schiena e fissando l’uomo dinanzi a lui.
“Sarà lei a venire da me, fidati”, sussurrò lui, guardando Stiles negli occhi e sfoggiando un’espressione che il ragazzo non avrebbe dimenticato. “Quando tornerete dal vostro piccolo branco felice, sarete conciati così male che Madison non riuscirà a perdonarselo”.
Le labbra di Stiles erano serrate, incapaci di proferire parola, a causa di un groppo che opprimeva la sua gola e gli faceva tremare tutto il corpo, mentre assorbiva quelle parole che sapevano di inganno e sangue rosso come la sfumatura che i suoi occhi stavano assumendo.
Il ringhio di Julian quasi gli ruppe i timpani e chiuse gli occhi, voltando il capo verso sinistra, nell’attesa di essere ucciso o altro ma non accade nulla.
Stiles riaprì gli occhi, respirando affannosamente e trovando Julian ancora lì con gli occhi rossi e le zanne ben visibili ma stava sorridendo, divertito dal terrore che aveva suscitato in lui. Gwen, alle sue spalle, rideva di gusto, come se fosse fiera del suo alpha.
Julian riprese le sue fattezze umane e avvicinò la mano al volto di Stiles, che cercò invano di ritrarsi dal suo tocco, per dargli un buffetto sulla guancia.
“Sono tutti tuoi”, disse lui, dando le spalle a Stiles.
Mentre camminava verso la porta, Julian sfiorò con una carezza il fianco della donna che gli rivolse un sorriso ammaliante, per poi concentrarsi su di loro.
Fece schioccare la lingua sul palato, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e cominciando a guardarli con un’espressione che non aveva alcunché di rasserenante.
 
Lo Sceriffo si passò una mano sul volto stanco, portandola poi sul fianco, mentre tutti i presenti attorno a lui erano momentaneamente spariti, dopo aver appreso la notizia della scomparsa di suo figlio. Stava accadendo di nuovo, e improvvisamente le mura di casa Nolan gli erano sembrate di cartapesta e poteva vederle cadere, schiantandosi addosso a lui che neanche si spostava. Il volto contrito di Scott si era dissolto, insieme a quello corrucciato di Derek e a quello preoccupato di Lydia, insieme a loro anche tutti gli altri e lo Sceriffo non voleva tornare a vedere nulla.
“Sceriffo”, la voce di Scott lo richiamò e l’uomo dovette udirla. “Lo troveremo”.
“Già”, disse semplicemente lui, non troppo convinto da quelle parole.
A quella risposta, Lydia sentì una fitta dolorosa allo stomaco e sussultò, gesto che Scott non tardò a percepire, infatti si voltò immediatamente verso di lei.
“Senti qualcosa?”, le chiese, consapevole di come Lydia fosse la loro unica speranza.
“No”, rispose con tono affranto e percependo tutti gli sguardi su di sé.
Scott  non aggiunse altro, lasciando vagare lo sguardo mortificato sul resto della casa, e cercando di non dire o fare nulla che potesse mettere ulteriormente Lydia sotto pressione.
“Andiamo nel luogo della scomparsa, ok?”, chiese lo Sceriffo, osservando le mattonelle.
Scott fece un cenno di assenso con il capo, rivolgendo uno sguardo d’intesa a Derek, il quale non si fece pregare e si avvicinò, intenzionato ad accompagnarlo pur di non rimanere lì. Derek non si voltò a guardare Madison, la quale era rimasta ferma a farsi odiare, a lasciare che Derek non la vedesse nemmeno, come fosse invisibile, e uscì di casa con Scott, Kira e Peter.
La ragazza gettò un’occhiata ad Isaac che riposava sul divano e sorrise: sembrava un bambino, e le ferite erano sulla via della guarigione mentre il volto di Isaac era tranquillamente disteso per il sonno. Lydia era rimasta accanto a lei, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e lo sguardo perso a contemplare un punto qualsiasi del salotto, in cerca di chissà cosa.
“Lydia?”, la chiamò Madison, sedendosi accanto a lei e ridestandola con la sua voce.
La ragazza le riservò un debole sorriso in risposta che però non trasmetteva alcuna gioia o sollievo, anzi, era un sorriso spezzato, una matita priva di punta che non era in grado di scrivere.
Lydia avrebbe tanto desiderato prendere un foglio e disegnare un simbolo qualsiasi, un oggetto, un posto che le dicesse dove trovare Stiles ma sapeva di non poterlo fare. Era rotta, accasciata sul pavimento senza la capacità di muoversi, con le orecchie che fischiavano, impedendole di sentire un qualsiasi bisbiglio o la voce stessa di Stiles. Era una radio vecchia e malridotta, senza utilità alcuna.
“Non ci riesco”, sbottò lei ad un tratto, spazientita. “Non sono in grado di trovarlo”.
Lydia portò le mani alle tempie e chiuse gli occhi come se le facessero troppo male.
Madison posò dolcemente le mani sulle sue braccia, sfiorando il tessuto morbido e leggero della camicia azzurra che avvolgeva Lydia, fece per dire qualcosa ma l’altra la precedette.
“Tutto questo è già successo”, sussurrò con voce roca, senza preoccuparsi di parlare, forse perché non ne poteva più. “Sento ancora i loro sguardi. Aspettano che io senta qualcosa ma non riesco a sentire nulla. L’ultima volta che dovevo trovare Stiles ho fallito ed io-“.
Lydia non continuò la frase, ma si limitò ad abbassare nuovamente il capo, lasciando che i capelli rossi ricadessero in morbide onde lungo il suo collo, mentre Madison rimaneva inginocchiata accanto a lei, ascoltando con attenzione ciò che la ragazza le stava dicendo.
Madison avrebbe desiderato tanto avere una soluzione a quel problema, ma non c’era, l’unica cosa che restava in quel momento era la sparizione di due persone importanti, per colpa sua.
“Vattene”, disse Madison all’improvviso, senza neanche rifletterci.
Lydia alzò il capo in sua direzione, guardandola con un cipiglio sconcertato.
“Puoi trovare Stiles”, continuò lei con fermezza, rammentando le parole del ragazzo.
Stiles le aveva raccontato cosa fosse Lydia Martin durante una delle tante serate passate più a farle compagnia che la guardia, e rammentava ancora le aspettative che si erano diffuse nell’aria ad ogni parola riguardante Lydia che Stiles aveva pronunciato: si fidava di lei.
“Esci da qui”, continuò Madison, aumentando la presa sulla sua mano. “Non hai bisogno di persone attorno che ti dicano cosa fare. Stiles è fuori da qualche parte, e ti sta aspettando”.
Lydia rimase frastornata, con gli occhi ancora fissi in quelli di Madison mentre il suo animo si divideva tra due strade, incerto su quale di esse dovesse imboccare: una era intenta a non ascoltare quelle parole belle e confortanti come il sole in pieno inverno, ricordando come tutto ciò si fosse già verificato; mentre l’altra non desiderava altro che afferrare quelle parole solo per tenerle più strette a sé, nella speranza che potessero condurla direttamente da Stiles.
Afferrò la giacca e la borsa, dirigendosi verso la porta, ma prima di aprirla si voltò lentamente verso Madison che l’aveva osservata per tutto il tempo: le sorrise, provando tanta di quella gratitudine che quasi non riusciva a sopportarne il peso sul proprio cuore.
Poteva tentare, doveva farlo…per Stiles.
 
“Sentite qualcosa?”.
Derek si concentrò con maggiore attenzione sulla strada e sulla selva circostante nella speranza di captare qualcosa che proprio non voleva manifestarsi, mentre Scott e Peter erano chini nella jeep di Stiles, in cerca di qualcosa che potesse essergli sfuggito e Kira poco lontana da loro. Lo Sceriffo chiuse gli occhi e cercando inutilmente di nascondere lo sconvolgimento che albergava in lui. Evitò di guardare troppo la jeep del figlio, così come quelle macchie di sangue che ornavano l’asfalto, nonostante sia lui che Scott avessero appurato che non si trattava in alcun modo del sangue di Stiles, bensì di quello di Isaac.
“Non c’è nessuna traccia”, esclamò Derek, attirando lo sguardo meravigliato dello zio, poiché aveva tenuto la bocca chiusa per tutto il tempo, troppo preso dalle sue riflessioni.
Avevano già vissuto quella situazione, come avevano già cercato disperatamente Stiles che era svanito nel bel mezzo della notte per colpa del demone che annebbiava la sua mente. Solo che quella volta era diverso, non soltanto per il fatto che Cora fosse stata presa insieme a lui, ma anche per tutte le circostanze che si erano verificate, per come lui fosse stato in qualche modo “complice” di tutto ciò che era accaduto, poiché aveva portato Madison a Beacon Hills.
Forse Derek non avrebbe mai smesso di incolparsi per quel dettaglio: era stato come un effetto domino perfettamente calcolato. Aveva portato Madison con sé e la prima tessera era caduta sul pavimento, scatenando tutte le altre che avevano preso a crollare rovinosamente.
“Niente”, aggiunse Scott, scuotendo il capo con fare sconsolato, gettando uno sguardo allo Sceriffo che aveva tratto un profondo respiro, cercando di calmarsi.
Derek udiva chiaramente il suo battito accelerato che tradiva ogni suo tentativo di affrontare quella situazione in modo razionale e distaccato, ma si trattava di Stiles ed era stato preso da un branco di licantropi insieme a sua sorella Cora: nessuno di loro poteva essere tranquillo.
“Ok”, esclamò lo Sceriffo, portandosi le mani sui fianchi, riflettendo sul da farsi.
“Noi continuiamo a cercare”, intervenne Scott, allungando una mano verso l’uomo come se volesse richiamarlo da quello stato di semi-trance. “Sceriffo, dovrà tornare in centrale e Derek a casa ”.
Derek si voltò, alzando un sopracciglio in risposta ma Scott sembrava convinto.
“Anche tu, Derek”, gli diede man forte Peter. “Se ci guardi in quel modo, non sei di aiuto come non lo sei nemmeno a te stesso. Appena ci saranno novità, vi faremo sapere”.
“Inoltre, Madison e Lydia sono sole a casa con Isaac”, continuò il ragazzo, stringendosi nelle spalle. "Meglio che qualcuno le raggiunga".
Derek, pur roteando gli occhi per il fastidio, decise saggiamente di non ribattere e fece un semplice cenno con il capo, allontanandosi da lì insieme allo Sceriffo che, nonostante stesse camminando al suo fianco, sembrava assente.
“Sceriffo”, lo chiamò Derek, voltandosi verso di lui.
Quando l’uomo lo guardò negli occhi, per Derek fu quasi naturale sentirsi ancora più colpevole di prima, poiché negli occhi stanchi c’era tutta la preoccupazione e lo sconforto che aveva già visto tempo fa, e si sentiva maledettamente responsabile.
“Io, volevo dirle che-“, non fece in tempo a finire la frase che lo Sceriffo lo fermò.
“Non devi dire nulla, Derek”, lo rassicurò l’uomo, abbassando lo sguardo, forse perché se lo avesse guardato negli occhi tutti i suoi dubbi sarebbero venuti a galla. “Anche tua sorella è stata presa, non è colpa di nessuno…riusciranno a trovarli, deve essere così”.
Derek voleva credere alle sue parole, lo voleva davvero, eppure gli risultava impossibile.
Voleva credere che a distanza di qualche ora avrebbe rivisto il volto di sua sorella, ma quel desiderio forte era coperto dal terrore di perderla ancora una volta. Ripensò alla notte in cui Cora era stata in ospedale e lui era fedelmente rimasto al suo fianco, promettendole che non sarebbe andato via, non di nuovo.
Quando tornò a casa di Madison, il silenzio lo colpì come una ventata gelida e per un attimo pensò che fosse successo qualcosa ma il battito regolare di Isaac proveniente dal piano di sopra lo tranquillizzò. Tuttavia, riusciva a percepirne solo un altro e non un terzo.
Madison apparve sulle scale, bloccandosi non appena lo vide fermo sulla soglia di casa. Il suo cuore cominciò a battere furiosamente, come se avesse visto un nemico da cui fuggire e per un secondo Derek sentì qualcosa di simile al dispiacere montargli nel petto, ma lo ignorò.
“Dov’è Lydia?”, domandò lui, avvicinandosi alla cucina per prendere un bicchiere d’acqua.
“E’ andata a cercare Stiles e Cora”, rispose Madison con naturalezza.
Derek per poco non ruppe il bicchiere di vetro che aveva tra le mani e si voltò lentamente verso la ragazza che aveva pronunciato quelle parole come se niente fosse. La fissò con un’espressione per nulla compiaciuta e per un attimo temette che Madison potesse davvero fuggire ma si limitò a sostenere il suo sguardo rigido, seppur il suo cuore rivelasse timore.
“Perché è andata da sola?”, le chiese lui, mantenendo la calma.
“Perché non aveva bisogno di sentirsi sotto pressione”, rivelò Madison, pronunciando quella frase con cautela, come se volesse stare attenta a non ferire nessuno.
Eppure, quella risposta di certo non rese Derek più tranquillo, infatti, il licantropo alzò gli occhi al cielo e diede la schiena a Madison, poggiando i palmi sul ripiano della cucina. Sembrava una bomba ad orologeria pronta a scoppiare e colpire tutti coloro che le stavano attorno.
Madison poteva uscire di casa, o almeno salire al piano di sopra per assicurarsi che l’ira di Derek non le si abbattesse addosso ma non lo fece, bensì, pensò ingenuamente di avvicinarsi. Rimase a poca distanza da lui, fissandogli la schiena che si alzava e si abbassava in sincronia con il suo respiro affannoso mentre le braccia si rinvigorivano e le vene diventavano più visibili.
“So che vuoi urlarmi contro”, confessò Madison, prendendo un respiro profondo. “Fallo”.
Madison sentiva la collera di Derek che scalpitava per uscire fuori e riversarsi su di lei, come lava incandescente che non poteva interrompere il suo percorso, semplicemente doveva andare avanti. Sapeva perfettamente che Derek la riteneva responsabile, nonostante non lo dicesse a voce alta.
“Non voglio urlarti contro”, rispose il licantropo, senza voltarsi.
“Allora guardami negli occhi e dillo”, esclamò lei, senza paura di ricevere uno sguardo omicida che le intimasse di fare silenzio. “Voltati e dimmelo”.
Derek lasciò che le mani abbandonassero il ripiano in marmo della cucina per cadere sui propri fianchi, senza voltarsi ancora. La frustrazione per tutto ciò che stavano affrontando e la paura di perdere sua sorella ancora una volta stava diventando sempre più opprimente.
Madison, spinta da un moto di coraggio, afferrò il suo polso per costringerlo a voltarsi ma quel gesto inaspettato non fece altro che peggiorare la situazione, poiché Derek si girò di scatto verso di lei. Era come scottato e sfoderò le zanne, mentre i suoi occhi cambiavano colore.
Madison rimase pietrificata, mentre sentiva gli occhi inumidirsi ma non disse nulla, rimase a guardare Derek che riprendeva le sue fattezze umane.
Quando il licantropo si specchiò negli occhi di lei, non provò altro che disgusto verso di sé.
Gli occhi di Madison erano lucidi e stavano trattenendo con forza le lacrime provocate da quel suo scatto improvviso, come se lei fosse un nemico da abbattere. Derek avrebbe voluto dire qualcosa ma le parole erano annodate nella sua gola e non ne volevano sapere di sciogliersi.
 
Battito irregolare, respiro ansante, leggero senso di stordimento.
Quelli erano i sintomi che permettevano a Lydia di capire che aveva appena fatto qualcosa senza rendersene pienamente conto, proprio come in quel momento, quando si era guardata attorno. Lydia si portò le mani alle braccia, cercando di darsi un minimo di calore ma l’ondata fredda di vento che la travolse annullò ogni suo tentativo. Ricordava di avere lasciato casa di Madison con l’intenzione di trovare un luogo tranquillo che le permettesse di riflettere in pace.
Rammentava anche di essersi messa in macchina ma dopo che lo sportello della sua auto si era chiuso, solo il vuoto totale: nulla di più e nulla di meno.
Sperava almeno che il suo intuito altalenante da banshee l’avesse portata da Stiles.
Fece qualche passo avanti, gettando un ultimo sguardo alla sua macchina parcheggiata accanto al marciapiede e poi alzò gli occhi verso l’alto, scorgendo quelle lettere che le sembrarono fatte quasi di sangue e messe insieme a formare un nome troppo familiare: Eichen House.
Lydia continuò a camminare, fino a ritrovarsi in quello spiazzale abbandonato dove ogni cosa aveva trovato la sua fine: qualche vecchio scatolone giaceva accanto al muro, sul quale si estendeva una pianta rampicante che aveva un aspetto tutt’altro che curato. Non c’era nulla in quel luogo che potesse indicare un minimo di vita: nessuna illuminazione, nessun oggetto nuovo, solo ammassi di polvere, sporcizia, legno e vecchi attrezzi senza utilità alcuna. Un ronzio cominciò ad insinuarsi nelle orecchie di Lydia, costringendola a far scattare il capo prima verso destra e poi verso sinistra, come se qualcuno fosse accanto a lei.
“Proprio qui dovevi portarmi, vero?”, domandò Lydia, sentendosi quasi pazza a parlare da sola, lasciando che le sue parole riecheggiassero nell’aria.
Quando avevano seppellito Allison, Lydia aveva stretto spasmodicamente la mano di Stiles fino a fargli male e ripetendo a sé stessa che, nonostante il funerale, per lei la tomba di Allison sarebbe stata rappresentata sempre dal luogo in cui l’aveva vista morire, o meglio, “sentita”.
Mentre il terreno veniva gettato a manciate sulla bara, nella mente di Lydia continuava a ripetersi quella scena che a distanza di mesi non l’aveva ancora abbandonata: rivedeva sempre e soltanto Allison stesa nello spiazzale della Eichen House con una mano sul ventre e l’altra abbandonata per terra, mentre Scott la stringeva tra le sue braccia senza la forza di trattenere le lacrime.
Mentre il funerale si svolgeva, Lydia non ascoltava e non ci sarebbe riuscita neanche volendo, poiché le orecchie le fischiavano dolorosamente e la testa le pulsava come fosse sul punto di esplodere. A quel punto, aveva solo stretto più forte la mano di Stiles che si era voltato verso di lei mentre teneva lo sguardo puntato sull’erba, in attesa che tutto terminasse. Avrebbe desiderato urlare fino a sentire le corde vocali bruciare per il troppo sforzo ma non l’aveva fatto, un po’ perché c’erano troppe persone, un po’ perché non aveva avuto il coraggio.
Se Lydia avesse urlato, non ci sarebbe stato più alcun ronzio ma soltanto la voce di Allison che le sussurrava qualcosa, forse una parola di conforto, un consiglio o qualcosa di dolce e lei semplicemente non era pronta per ascoltarla, o almeno, non ancora.
“Mi stavi aspettando”, Lydia continuò a parlare, mentre il ronzio aumentava, diventando così insopportabile che la ragazza dovette coprirsi le orecchie con le mani.
“Urla, Lydia! Urla”.
Adesso era stata la voce di Stiles a parlare nella sua testa e per un secondo, Lydia valutò la possibilità di farsi rinchiudere nella Eichen House, perché quanto poteva essere normale sentire tutte quelle voci e quei ronzii indistinti nella sua testa?
Lydia urlò con tutto il fiato che aveva in gola, lasciandosi cadere sulle ginocchia e poggiando le mani per terra, senza preoccuparsi di sporcarle.
Fu un urlo più sfiancante degli altri e la fece sentire così priva di forze che pensò quasi di stendersi direttamente a terra e lasciare che il suo corpo si rimettesse in testo ma non lo fece. La scena del funerale di Allison si ripeteva ancora una volta nella sua mente debole e dilaniata dai troppi pensieri, come fosse un pezzo di carta stracciato e riattaccato troppe volte con il nastro adesivo. Vide ancora la bara, il terreno, quella schiera di persone tutte vestite di nero, tra esse non c’era nessun dettaglio che potesse almeno aiutarla a capire dove fosse Stiles.
Poi Lydia capì che non stava osservando la visione di insieme, ma si stava soffermando troppo sui dettagli: aveva bisogno di fare qualche passo indietro e guardare il quadro generale. Lo diceva anche Isaac, ricordando l’unico insegnamento tratto da suo padre. (1)
A quel punto, Lydia vide finalmente la scena nel suo insieme, e con essa il luogo in cui si era svolta.
L’erba, qualche albero non troppo cresciuto, un paio di fosse vuote, una statua e le lapidi: il cimitero.
Stiles e Cora dovevano trovarsi in un cimitero.
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
  • (1) dettaglio tratto dalla puntata 3x09 in cui Isaac dice ad Allison di guardare “il quadro di insieme”, proprio come gli aveva insegnato suo padre;
 
  • tutti i riferimenti alla puntata 3x18 sono voluti, ho cercato di riallacciarmi molto ad una situazione già vissuta (con Stiles rapito e Lydia che tenta di trovarlo);
 
  • mi sembra giusto soffermarmi un attimo su Derek: spero non vi sia sembrato stupido il suo cambiamento nei confronti di Madison, ma ho pensato che la sparizione di Cora potesse sconvolgerlo a tal punto da trattare Madison in questo modo, ritenendola responsabile.
 
  • per quanto riguarda la questione “cimitero”: inizialmente, volevo far sì che Lydia si recasse direttamente alla tomba di Allison per avere delle risposte ma visto che è lì che si trovano Stiles e Cora, ho preferito condurla prima in un luogo legato ugualmente ad Allison, ovvero la Eichen House, dove trova la risposta a ciò che sta cercando.
 
Sono un mostro, lo so. Aggiorno con un ritardo davvero imperdonabile ma purtroppo gli impegni sono sempre tanti e la voglia di terminare il capitolo era andata a farsi benedire. Mi mancava una sola scena e ci ho messo praticamente una vita per scriverla, perdonatemi (ma un paio di personcine hanno cercato di farmi scrivere senza ritegno u.u). Non credo di dover aggiungere altro, spero solo che vi sia piaciuto e mi scuso per il ritardo. Spero di riuscire a pubblicare il prossimo capitolo la settimana prossima, anche la voglia scarseggia un po’ ma una cosa è certa: porterò a termine questa storia, anche perché dovrebbero mancare altri 3-4 capitoli. Ringrazio come sempre tutte le persone che mi stanno seguendo e che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino e se ci sono strafalcioni, vi invito sempre a farmelo presente.
Alla prossima, un abbraccio.
 

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Capitolo 12
*** XI - Half broken ***


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XI


Half broken
 
“How many special people change? How many lives are living strange?
Where were you when we were getting high?
Slowly walking down the hall, faster than a cannon ball.
Where were you while we were getting high?
Some day you will find me, caught beneath the landslide.
In a champagne supernova in the sky”.
(Oasis – Champagne Supernova)
 
Un dolore pungente alla fronte riscosse Stiles dallo stordimento leggero in cui era caduto.
Aprì gli occhi a fatica, sentendo un rivolo di sangue caldo a livello del sopracciglio destro e strinse i denti per il fastidio, voltandosi poi verso Cora sempre priva di sensi al suo fianco. Il suo corpo era ancora tutto intero per miracolo ma ogni parte di esso sembrava addormentata e dolente per ciò che gli era stato fatto. Rammentò i colpi inferti da Blake e le grida di Cora mentre Gwen faceva in modo che tutte quelle scosse elettriche si propagassero lungo il suo corpo esile.
Rabbrividì a quel ricordo ancora impresso a fuoco sulla pelle diafana.
Un’ombra non molto lontana da lui lo fece sussultare, in preda al pensiero che qualcun altro fosse corso lì per torturarli ancora, come aveva fatto la licantropa dai capelli rossi. Tuttavia, quello che Stiles vide non aveva nulla a che fare con sangue o torture.
Un uomo gli si avvicinò: i capelli castani e leggermente spettinati ornavano il viso spigoloso ma rassicurante, completamente diverso da quello del suo alpha Julian.
Gli occhi chiari erano fissi nei suoi e lo guardavano senza odio alcuno: sembrava completamente diverso da Julian e gli trasmetteva sicurezza, un conforto quasi paterno. Stiles osservò con attenzione ogni suo movimento, mentre quello faceva qualche passo verso di lui con una borraccia tra le mani.
“Chi sei?”, domandò Stiles, rizzando la schiena e squadrandolo con sospetto.
L’altro non rispose e avanzò verso Cora, provocando uno scatto in Stiles che cercò inutilmente di spingersi nella sua direzione come per fermarlo, e regalandogli un’espressione truce. Ridley, tuttavia, lo ignorò e adagiò la borraccia sulle labbra di Cora, permettendole di prendere un sorso di acqua mentre il ragazzo lo fissava incredulo e abbastanza confuso da quel gesto.
La ragazza si ridestò leggermente, abbandonandosi a profondi respiri affaticati.
Dopodiché, Ridley ruotò il busto verso Stiles e sollevò la mano con la borraccia, come per chiedergli il permesso, che gli venne concesso dal silenzio del ragazzo.
Stiles bevve qualche sorso d’acqua e aspettò che Ridley si fosse allontanato abbastanza per riprendere a parlare, non prima di aver rivolto uno sguardo a Cora.
“Chi sei?”, ripeté ancora lui. “Sei qui per torturarci?”.
Ridley sorrise, ma il suo sorriso non mostrava alcuna nota di divertimento: era spento e amaro, come una luce che si affievoliva sempre di più, fino a spegnersi.
“Non è nei miei programmi”, esclamò semplicemente, voltandosi poi verso la porta, come attirato da un rumore, per poi avvicinarsi a Stiles e allentare la presa della catena sui polsi. Fece la stessa cosa con Cora, permettendo ad entrambi di muoversi con più facilità.
“Credo che i vostri amici stiano per arrivare…sento il loro odore in lontananza”.
“E lo dici così?”, gli chiese Stiles con un sorrisetto, macchiato dal taglio sul labbro superiore.
“Perché sei qui?”, intervenne Cora, pronunciando debolmente quella domanda.
“Non vi riguarda”, ribatté Ridley, lasciando brillare i suoi occhi da beta.
Stiles ghignò. “Un beta che disobbedisce al suo alpha?”.
Un altro rumore non diede modo a Ridley di rispondere, costringendolo a voltarsi verso l’entrata, pronto a ricevere uno del branco e sperando vivamente che non si trattasse di Julian. Ridley odiava discutere con qualcuno del branco che non fosse Bastian, e soprattutto odiava confrontarsi con Julian, non soltanto perché fosse il suo alpha. C’era una specie di obbligo morale che lo teneva vincolato a Julian, una catena avvolta attorno ai suoi polsi, e creata esclusivamente dalla sua mente: doveva la vita a Julian, doveva restare fedele al suo alpha, doveva obbedire ai suoi ordini e smettere di ribellarsi.
Ridley doveva ripagare quel torto, doveva lavare via quella macchia nera che si estendeva a dismisura sul suo cuore, doveva impedire che consumasse il suo cuore già marcio. Fece un respiro profondo, preparandosi al peggio, quando Bastian entrò nella cripta.
“Mi hai fatto prendere un colpo”, lo rimproverò Ridley, chiudendo gli occhi.
“Scusa”, esclamò l’altro, mortificato. “Li hanno trovati, Julian ordina di andare via”.
Ridley rivolse un ultimo sguardo verso i due ragazzi, mentre Stiles non riusciva a volgere lo sguardo stanco e confuso verso una direzione diversa, chiedendosi cosa fosse appena successo.
“Perché l’hai fatto?”, domandò Stiles senza staccare gli occhi dal licantropo.
Ridley non rispose e gli diede le spalle, facendo segno a Bastian di seguirlo, mentre anche quest’ultimo dedicava un’ultima occhiata ai due prigionieri per poi correre fuori.
Stiles rimase lì con mille domande che vorticavano nella sua testa, con quel gesto di bontà proveniente non da uno ma da ben due membri del branco di Julian.
Perché Ridley e Bastian sembravano non avere nulla in comune con il loro alpha?
Perché Ridley si era preoccupato del loro stato, quando nessun altro lo aveva fatto?
Si perse per un tempo così indefinito in tutte quelle questioni irrisolte, che quasi non si accorse del tonfo contro la porta e dell’arrivo di Scott, affiancato da Lydia e da suo padre. Non appena vide i loro volti, Stiles si lasciò andare ad un sorriso prima di perdere i sensi.
 
Il cellulare di Derek era suonato giusto in tempo.
Uno squillo improvviso aveva messo fine a quella disputa silenziosa che si stava svolgendo tra Madison e Derek, impedendo al licantropo di ferire ulteriormente la ragazza. Uno squillo improvviso e Derek si era catapultato fuori casa, ordinando a Madison di non muoversi da lì, ma nelle sue parole non c’era conforto, solo ordini dettati con leggero astio.
Derek andò incontro a Peter che teneva Cora tra le sue braccia, e la sfilò dalla presa di suo zio per portarla in casa, ignorando tutto il mondo circostante e concentrandosi su sua sorella. Derek la strinse come se ne andasse della sua stessa vita, come se Cora fosse un tesoro prezioso che andava protetto da ogni tipo di agente esterno pronto a farle del male. Nel momento esatto in cui la pelle di Cora sfiorò le mani di Derek, l’espressione di lui cambiò radicalmente, mentre il senso di frustrazione e protezione si faceva strada nel suo petto.
Madison rimase immobile con il capo chino sul pavimento, sentendo la presenza di Peter accanto.
Derek adagiò Cora sul divano e le passò una mano sulla fronte con fare apprensivo.
Cora riaprì lentamente gli occhi, respirando profondamente e riprendendo possesso del suo corpo, nonostante il dolore subito le circolasse ancora nelle vene.
Derek le strinse forte una mano, portandosela alle labbra e Madison si sentiva sempre più andare in pezzi per ciò che sarebbe potuto accadere: Cora e Stiles avevano rischiato la vita per causa sua.
Un rumore attirò l’attenzione di tutti loro, che si voltarono, scorgendo Isaac che scendeva le scale ancora barcollante e con una mano sul fianco in via di guarigione. Il ragazzo osservò Cora, sgranando gli occhi chiari che sembrarono farsi ancora più grandi e luminosi di quanto non fossero già, mentre si avvicinava al divano sotto lo sguardo indagatore e lievemente infastidito di Derek, appena entrato in modalità “fratello maggiore”.
Cora mise la mano libera sulla spalla di Derek, mentre cercava di rimettersi a sedere, seppur a fatica, e rivolgendo a suo fratello uno sguardo sereno, come per rassicurarlo. Isaac si sedette ai piedi del divano, notando la pelle estremamente pallida della ragazza e la sua fronte sudata, mentre il corpo sembrava ancora sconvolto da quella elettricità assassina.
“Stai bene?”, domandò lui, pentendosene subito e strizzando gli occhi, come per scusarsi della domanda stupida.
“Starò bene”, rispose Cora con voce flebile e rivolgendo un sorriso ad Isaac che Derek fece finta di non notare, come fece finta di non notare gli sguardi che i due di scambiavano.
Sembrava una complicità silenziosa quella di Cora e Isaac, e per quanto Derek fosse tentato dal ringhiare, intimando ad Isaac di tenere le zampe lontano da sua sorella, evitò almeno per quella sera.
Derek si accorse del leggero dolore che aveva ripreso posto fra le membra di Cora e portò un braccio attorno alla vita mentre l’altro si stringeva sotto le sue ginocchia, per sollevarla di peso.
Isaac li seguì silenziosamente, senza perdere di vista il volto di Cora che sorrise dolcemente prima a lui e poi a Madison che era rimasta lontana dal divano per tutto il tempo senza dire nulla.
Era possibile sentirsi di troppo nella sua stessa casa? Madison aveva desiderato avvicinarsi per assicurarsi che Cora stesse bene ma sembrava ci fosse una barriera attorno a loro che le negava l’accesso. Si era sentita semplicemente di troppo in quella scena, e soprattutto colpevole.
“Sento la tua preoccupazione, tesoro”, esclamò Peter, richiamandola con la sua voce melliflua.
Madison gli scoccò un’occhiataccia, ignorando quel commento e stringendosi le braccia al petto, come per chiudersi in quel senso di inadeguatezza che si faceva sempre più vivo, come la voglia di scappare e consegnarsi per mettere fine ad ogni cosa.
 
Stiles non voleva aprire gli occhi.
Stava così bene in quel torpore che riaprire gli occhi gli sembrava il gesto più gretto e insano che avrebbe potuto compiere: voleva rimanere con gli occhi chiusi a bearsi di quel calore. Non sentiva più il dolore che aveva percepito diverse ora fa, il suo corpo era ancora parecchio intorpidito ma in condizioni diverse, come se qualcuno lo avesse curato amorevolmente. Si vide costretto ad incontrare la luce della lampada sul comodino della sua camera, seppur controvoglia, e così lascio che i suoi occhi si beassero della luce che non aveva visto durante tutta quella notte infernale che aveva trascorso chiuso in una specie di cripta insieme a Cora.
Una lieve pressione al livello del fianco lo costrinse a cercare di sedersi, ma Stiles si bloccò non appena vide di cosa si trattava, o meglio, di chi: Lydia dormiva con la testa poggiata sul materasso e una mano abbandonata accanto alla sua, come a volerla sfiorare.
Il ragazzo sorrise dolcemente, carezzando le sue dita e facendo attenzione a non svegliarla ma quel tocco appena accennato bastò ad allontanare dal sonno Lydia, la quale rizzò subito il capo. Si voltò verso Stiles con gli occhi ancora stanchi e l’espressione allarmata che si rilassò immediatamente, vedendolo sano e salvo nel letto di casa sua. Lydia sospirò e poggiò il capo sulle braccia conserte, lasciando i capelli rossi sparsi sulla coperta, sorridendo tranquilla, sotto gli occhi curiosi e vispi di Stiles che inclinò il capo, guardandola.
“Cosa c’è?”, chiese Stiles, non riuscendo a nascondere l’ombra di un sorriso.
“Stai bene”, disse semplicemente lei, portando una mano dietro il collo. “Ti ho trovato”.
“Come?”, domandò ancora lui, sempre più stupito dalle abilità di Lydia.
“Ho avuto un piccolo aiutino”, confessò lei senza dire altro ma lanciando a Stiles uno sguardo abbastanza eloquente. “Non credevo di farcela”.
A quelle parole, Stiles vide chiaramente un lampo di sconforto nei suoi occhi ed ebbe quasi un flash di come si fosse sentita Lydia durante quelle ore insopportabili passate a cercare lui e Cora. Riuscì a vederla mentre si portava le mani alle tempie, cercando disperatamente di udire qualcosa: un suono, un sibilo, un bisbiglio, un segno qualsiasi che la portasse esattamente da lui.
Allora Stiles adagiò la mano sulla sua e la strinse forte. “Mi hai trovato, mi troverai sempre”.
Lydia sorrise come non gli aveva mai sorriso e ricambiò quella stretta che valeva più di mille parole.
Avrebbe sempre trovato Stiles, come lui avrebbe sempre trovato lei, ad ogni costo.
“Dovresti dormire”, continuò lui, accorgendosi di quelle occhiaie che martoriavano il suo sguardo sempre limpido e luminoso.
Lydia sembrò esitare, perché se lui non voleva aprire gli occhi, lei non voleva chiuderli di nuovo, per paura che fosse tutto un sogno: non voleva chiudere gli occhi e sognare ancora di Stiles in pericolo, senza riuscire a capire la differenza tra sogno e realtà. Voleva rimanere sveglia a guardare Stiles solo per constatare che stesse bene, che non ci fosse nessun lupo o demone a portarlo via da lei.
Stiles non fece fatica ad accorgersi della sua incertezza e, preso da un moto di coraggio che prima non avrebbe mai mostrato, si sedette alla ben meglio sul letto, facendole spazio. Lydia spostò gli occhi stanchi e lucidi dal suo viso al posto liberto accanto a Stiles che le sorrise, indicandole di sedersi con un cenno del capo e tendendole la mano per essere più chiaro. Non aveva paura di risultare troppo diretto, non aveva paura di intimorirla, perché Stiles non aveva più paura, o forse non ne aveva mai avuta, invece Lydia era terrorizzata e lui si sentiva in dovere di rassicurarla, di farla avvicinare solo per farle capire che non sarebbe andato via.
Lydia prese posto accanto a lui, sentendosi un po’ goffa perché Lydia Martin non poteva avere le gambe molli come una tredicenne.
“Puoi dormire, Lydia”, le sussurrò lui dolcemente ad un palmo dal suo viso. “Sono qui”.
Lydia si accoccolò accanto a Stiles, adagiando il viso sul suo petto, mentre le braccia di lui si stringevano attorno al suo corpo che sembrò farsi ancora più fragile.
Stiles immerse il volto nei suoi capelli che profumavano di shampoo alla fragola e chiuse gli occhi, cullando Lydia e lasciandosi cullare a sua volta dal calore che emanava il suo corpo. La ragazza si strinse ancora di più a Stiles, afferrandogli la maglietta con le dita.
Stiles sorrise e senza muoversi troppo, prese il bordo della coperta con la mano, adagiandola su entrambi, e osservando il volto rilassato di Lydia che dormiva tra le sue braccia. Erano al sicuro, almeno per quel momento, ed erano insieme.
 
Madison scelse quella notte come sua complice, poggiando i piedi sul pavimento freddo e facendo attenzione a non svegliare nessuno, nonostante in casa sua ci fossero soltanto licantropi. La telefonata di Scott l’aveva rassicurata, così come la voce di Lydia mentre le diceva che stavano bene e soprattutto che Stiles stava bene. Lydia l’aveva ringraziata, dicendo che senza il suo aiuto non ce l’avrebbe fatta…e Madison sarebbe scoppiata volentieri in lacrime, solo per liberarsi.
Si mosse piano per la sua stanza, infilando la giacca beige e le fidate converse, prima di recarsi al piano di sotto sempre nel massimo silenzio. Era abbastanza certa che Cora e Isaac non avrebbero fatto caso ai quei rumori non udibili ad occhio umano, ma Derek e Peter potevano essere un problema.
Tuttavia, doveva tentare di sgattaiolare via, non le importava come.
Quando scese in cucina, trovandola avvolta nel buio più totale, Madison credette davvero di avercela fatta e allungò la mano verso la maniglia della porta di casa, scontrandosi con l’aria fredda della notte. Respirò a pieni polmoni, soddisfatta e sorpresa di essere uscita di casa con facilità ma non appena mosse un passo verso gli scalini del portico di quella casa scarna e silenziosa, una presa salda sul braccio la costrinse a voltarsi immediatamente verso la fonte di quella pressione.
Derek la guardava con gli occhi verdi ridotti a due fessure ed un’espressione traboccante di rimprovero: magari l’avrebbe accusata di essere uscita per fare chissà cosa, quando Madison, in realtà, voleva soltanto mettere fine a tutto quello che aveva indirettamente causato.
“Vai da qualche parte?”, domandò Derek con una voce così dura e fredda che le fece chiedere se fosse davvero Derek ad essere lì oppure un blocco di marmo senza anima.
Madison strattonò via la sua mano, arretrando di un passo.
“Via”, rispose lei quasi sibilando, formulando quella risposta come fosse un’accusa. “Vado via da qui e da te, vado a mettere fine a tutto questo".
Le sopracciglia di Derek si arcuarono, rivelando una delle sue solite espressioni corrucciate e confuse, che poi divenne ancora più accigliata quando capì.
“Vuoi andare da loro?”, domandò con la voce ridotta ad un debole sussurro e sgranando gli occhi, come se non ci credesse nemmeno lui a quelle parole assurde.
Madison strinse le labbra ed evitò il suo sguardo che sembrava volerle scavare dentro, con il solo ed unico scopo di leggere i pensieri che teneva più nascosti e Madison odiava quel modo di fare. Odiava permettere che qualcuno la guardasse a quel modo, facendola sentire debole e mandando all’aria ogni proposito che aveva costruito e ideato con tanta intraprendenza. Odiava il fatto che Derek avesse tutto quell’ascendente su di lei.
Fece per dargli le spalle ma Derek la fermò ancora una volta, prendendola per le spalle e voltandola verso di lui in un’unica mossa. Madison sentiva le sue mani che sembravano fiamme pronte a bruciarla sul tessuto della giacca e ancora una volta sgusciò via dal suo tocco.
“Sei impazzita?”, le chiese Derek, guardandola davvero come se fosse fuori di testa.
“No, sono perfettamente sana”, rispose lei con sarcasmo. “I miei nonni mi hanno fatta controllare”.
Derek indurì ancora di più il suo sguardo. “Non c’è nulla su cui scherzare”.
“No, non c’è”, gli ricordò Madison, guardandolo con leggero disprezzo e ordinando a sé stessa di non scoppiare a piangere come una bambina, nonostante i suoi occhi non fossero d’accordo.
“Stiles e Cora potevano morire”, continuò Madison, stanca di resistere a tutto quel vento che tentava continuamente di abbatterla. “Per colpa mia. Julian vuole farvi del male, solo per me, allora perché continuare quando potrei facilitargli il compito? Questa storia finisce qui”.
“Ti rendi conto di quello che stai dicendo?”.
“Me ne rendo conto!”, Madison aveva quasi urlato per l’esasperazione. “Mi rendo conto che tu mi hai portata qui quando avresti preferito lasciarmi direttamente a loro. Mi rendo conto che tu, Derek, vedi soltanto ciò che vuoi vedere...vedi solo i danni, non vedi quanto mi senta responsabile. I miei nonni sono morti per mano di Julian. La mia vita non mi appartiene più. Delle persone innocenti hanno rischiato la vita per causa mia ed io potrei mettere fine a tutto, così forse la smetteresti di guardarmi come se volessi farmi a pezzi. Il mio fidanzato stava con me solo per consegnarmi ad un alpha psicopatico che sembra essere mio padre. Mi ha ingannata e tu dovresti sapere meglio di chiunque altro come ci si sente, per colpa di Kate”.
Madison si portò una mano alla bocca, spalancando gli occhi e rendendosi conto di ciò che aveva appena detto: aveva fatto un riferimento a Kate, senza volerlo e temeva davvero di aver acceso in Derek quella miccia che non doveva essere neanche lontanamente sfiorata.
Derek, tuttavia, dopo una sorpresa iniziale, non reagì male a quella confessione ma si sentì un vero e proprio verme, soprattutto quando gli occhi di Madison divennero lucidi. Lacrime silenziose cominciarono a rigarle le guance, ma Madison cercò di spingerle via, abbassando il capo e asciugandole con la manica della giacca, cercando di non fare caso agli occhi di Derek.
Derek era stato ingannato così tante volte da qualcuno di cui aveva avuto fiducia che avrebbe dovuto sapere come si sentiva Madison, ma non lo aveva fatto, perché accusarla era stato più facile. Aveva preferito vedere un male che non c’era, invece della ragazza forte che si stava rompendo in mille pezzi proprio davanti ai suoi occhi, sfiancata dai colpi che le erano stati inferti.
Quando Madison tentò di asciugarsi un’altra lacrima, Derek fermò quella mano tremante con la sua e senza dire nulla, riportò la ragazza in casa, tenendo la mano stretta nella sua. Madison si lasciò trascinare, come fosse un automa, sentendo chiaramente le forze che iniziavano a venirle meno, nonostante non avesse fatto nulla per stancarsi. Forse aveva portato dentro di sé così tanti pesi che adesso era bastata una piccola spinta per farla cadere, mentre tutti quei pesi si schiantavano al suolo, liberandola e permettendole di sentire quella stanchezza repressa, che Derek sembrava voler cancellare in qualche modo.
Era rotta, come un oggetto di vetro, i cui pezzi erano sparsi chissà dove, eppure Derek non sembrava da meno, solo che nessuno dei due era sembrato intento a vedere le rispettive incrinature.
Derek Hale era spezzato. Tutto il suo dolore era accompagnato da una bellezza suggestiva in grado di annullare tutte quelle scosse che sembravano martoriare il suo sguardo rigido. Tutta la sua sofferenza era perfettamente modellata, come fosse creta, per far in modo che non ci fossero crepe, così da impedire al più flebile spiraglio di luce di entrare. Tutti i suoi tormenti erano pericolosamente allineati come le tessere del domino, e anche il minimo fruscio avrebbe potuto segnare una reazione a catena irreversibile. Da lontano, sembrava tutto in ordine, ma bastava avvicinarsi per riconoscere quelle piccole imperfezioni che lo rendevano rotto…splendidamente rotto.
Una volta entrati in casa, Derek condusse lentamente Madison al divano, lasciando che si sedesse e prendendo posto al suo fianco per poi accendere la televisione in modo da riempire il silenzio. La ragazza non disse nulla, troppo spossata per parlare.
“Dovrei sapere come ti senti e non solo per Kate”, confessò improvvisamente Derek, attirando l’attenzione di Madison che volse lievemente il capo nella sua direzione. “La mia ultima fidanzata si è rivelata un mostro che se ne andava in giro a fare sacrifici umani sotto il nostro naso”.
“Hai un ottimo gusto in fatto di donne”, esclamò Madison, fissando la tv accesa su una puntata del telefilm Sherlock e sentendo subito gli occhi di Derek su di sé.
Gli occhi di Madison si chiusero subito dopo aver sussurrato quella frase pronunciata all’improvviso: la collera e la frustrazione erano sparite all’improvviso, come per magia. Derek non si mosse da lì ma rimase al suo fianco, guardandola cadere in un sonno profondo e vegliando su di lei, per assicurarsi che non scappasse.
 
Ridley cominciò a camminare nervosamente per il salotto di quella casa dismessa e abbandonata che avevano scelto come base, perché ben lontana dal centro di Beacon Hills. Stava aspettando l’arrivo di Julian e Gwen, insieme a Bastian, Blake e Keith, i quali se ne stavano in silenzio e a debita distanza, fatta eccezione per Blake che era rimasto accanto a Bastian. Non avrebbe mai capito il motivo che spingeva Blake a comportarsi in quel modo, mostrando due personalità completamente diverse a seconda della persona che aveva dinanzi. Ma, in fin dei conti, erano tutti sottoposti di un alpha a cui dovevano la vita, e non sembrava esserci spazio per la verità o per i sentimenti, di quelli puri e colmi di speranza.
Non c’era spazio per la verità, come non c’era spazio per l’amore…lui aveva tentato di far prevalere quei sentimenti, di metterli al primo posto ma non aveva avuto molto successo. Infatti, si ritrovava lì, ad obbedire senza possibilità di replica.
Quando Julian arrivò, accompagnato da Gwen che sembrava l’unica pronta a seguirlo anche fino in capo al mondo, Bastian si voltò verso l’uomo con un’espressione eloquente.
“Li hanno trovati”, esclamò Blake, guardando il suo alpha, in attesa del prossimo ordine. “Come la mettiamo adesso? Credi che Madison si sarà convinta?”.
“Credo abbia bisogno di un’altra piccola spinta”, convenne Julian, scrutando con i suoi occhi di ghiaccio le figure attorno a lui. “Presto li attaccheremo direttamente, e voglio che facciate quanti più danni possibili, senza distinzioni fra umani, banshee, licantropi o kitsune”.
Persino Keith mostrò una lieve incertezza a quell’intenzione, sussultando.
“Non credo che il ragazzo e la banshee possano darci qualche problema”, esclamò il cacciatore. “Perché non ci occupiamo solo dei licantropi? I gemelli possono essere fastidiosi, in quanto alpha”.
Gwen trattenne un risolino a quella frase, passando una mano nei capelli rosso fuoco che le cadevano sulla spalla e a nessuno dei presenti sfuggì quel gesto fin troppo eloquente. Keith spostò lo sguardo da lei a Julian, aspettando una risposta.
“Dubito che i gemelli siano fastidiosi”, convenne Julian, incrociando le mani dietro la schiena e facendo un passo verso Keith, seduto sul bracciolo del divano. “Uno è morto, tanto per cominciare, mentre l’altro…deve essere andato via chissà dove e chissà con chi”.
L’espressione di Keith divenne una tavolozza di colori tutti mischiati insieme: nessuna emozione era ben definita, ma erano tutte lì, presenti sotto forma di macchie irregolari che prima si espandevano e poi venivano sovrastate da macchie di colore diverso.
Keith non sapeva esattamente cosa dire ma riusciva a sentirsi semplicemente confuso e ingannato.
Possibile che Julian gli avesse mentito per tutto quel tempo?
Possibile che avesse ricevuto lo stesso trattamento che aveva riservato a Madison?
Si scagliò semplicemente verso Julian, guidato da una rabbia cieca e dalla realizzazione di tutto ciò che aveva fatto, di tutti i sentimenti che aveva rinnegato per lasciare spazio ad una vendetta che non avrebbe mai visto la sua realizzazione e che non gli era mai sembrata così inutile come allora.
Julian lo afferrò per la gola, allontanandolo da lui, senza il minimo segno di sconvolgimento su quel volto caratterizzato da una calma serafica e assassina, per poi scagliarlo sul divano impolverato.
“I due gemelli non sono qui?”, chiese Ridley incredulo per ciò che aveva udito.
Gwen scosse il capo in segno di diniego mentre Julian circuiva ancora Keith.
Per un attimo, Ridley desiderò saltare alla gola del suo alpha, perché mai avrebbe ritenuto Julian capace di un simile gesto, aveva sempre tenuto fede ad un accordo ma era evidente che li rispettava più nel modo convenzionale. Aveva segnato la vita di Keith Donovan, assoldandolo per ingannare Madison con il semplice intento di portarla da lui e ci era riuscito, nonostante avesse iniziato a provare qualcosa di profondo per la ragazza. Ridley non aveva tardato a capirlo.
Adesso Keith non aveva più nulla: non aveva amore, amicizia, famiglia o una vendetta su cui concentrare tutte le sue energie.
Aveva perso ogni cosa, per colpa di Julian.
“Domani notte ci muoveremo”, esclamò il licantropo, girandosi per andare via.
“Perché ci giri tanto intorno?”, domandò Ridley, lievemente spazientito. “Potresti portare qui Madison da un momento all’altro, perché perdere tempo?".
“Rischierei di togliermi tutto il divertimento”, disse lui con tono pacato e scrollando le spalle.
Ridley inclinò il capo. “E’ così che vuoi ricongiungerti a tua figlia?”.
Julian non rispose ma si limitò a sfoggiare uno sguardo minaccioso, lasciando scintillare i suoi occhi rossi proprio in direzione di Ridley. “Stai mettendo in discussione i miei ordini?”.
L’altro cercò di trattenere il ringhio che voleva squarciare il suo petto per uscire e abbassò il capo, sottostando per l’ennesima volta agli ordini di quell’alpha a cui doveva ogni cosa.
Eppure, a volte Ridley si chiedeva se ne valesse davvero la pena, se obbedire a Julian come un cagnolino da guardia fosse abbastanza per farlo sentire meno colpevole e riscattato.
Julian andò via insieme a Gwen, lasciando i tre beta da soli insieme a Keith che era ancora immobile sul divano con i pugni serrati e gli occhi colmi di rabbia.
Bastian scattò in piedi, fissando i suoi occhi scuri in quelli di Blake, mostrando una determinazione che nessuno di loro gli aveva mai visto prima di allora.
“Io non voglio più far parte di questo gioco assurdo”, esclamò con tono risentito e quando Blake fece per parlare, l’altro lo sovrastò con la sua voce. “Non dire nulla. Avete visto cosa ha fatto? Avete visto cosa ha intenzione di fare? Per quale barbaro motivo lo seguiamo? Nadia non vorrebbe questo, non vorrebbe che a sua figlia venisse fatto questo. Ma non vedete che a Julian non gliene importa nulla di Madison? Come diavolo fate ad ignorare tutto questo?”.
“Bastian, calmati”, esalò Blake, portandosi una mano tra i capelli biondi.
“No!”, abbaiò il ragazzo, spingendo via l’altro. “Come posso calmarmi? Nadia non sarebbe orgogliosa di noi, sarebbe disgustata…e tu Ridley, proprio tu dovresti opporti a questa carneficina”.
Ridley incurvò leggermente la schiena, stringendo spasmodicamente la manica della sua giacca, e fissando lo sguardo sul legno rovinato del pavimento, soffermandosi su qualche crepa sparsa un po’ ovunque e su tutta la polvere che faceva da contorno.
“Io me ne vado”, concluse Bastian, uscendo a grandi passi dalla stanza per poi inoltrarsi nella boscaglia che si ergeva dietro la loro casa. 
Ridley osservò Bastian andare via e il peso che portava a livello del petto diventava sempre più opprimente, come un vero e proprio macigno, rischiando quasi di togliergli il respiro. Nulla di ciò che stava facendo aveva senso. Nulla di ciò che stavano facendo era giusto.
Lui, Ridley Allen, era soltanto un illuso che credeva di poter trovare una redenzione che non sarebbe mai arrivata. Non avrebbe mai trovato alcun riscatto, solo altro dolore.

 
 
Quando Derek aprì gli occhi, sentì il bisogno di prendersi ancora qualche minuto per realizzare dove fosse, con chi fosse, e quali ricordi avesse della sera precedente. Gli sembrava di aver dormito per mesi e ora il risveglio poteva essere paragonato ad uno sforzo indicibile che non riusciva a compiere, semplicemente perché era stato troppo bene in quel calore. La coperta blu copriva solo una parte del suo corpo, avvolto ancora nei vestiti della sera prima, mentre la restante parte era quasi completamente adagiata su Madison che dormiva al suo fianco.
Derek la osservò in silenzio, senza il coraggio di svegliarla, ricordando con maggiore chiarezza il modo in cui avevano passato la sera precedente.
Ricordò la sfumatura che avevano assunto i suoi occhi, così simili ai suoi solo nel colore, ma che nascondevano paure del tutto differenti, quando Derek li aveva fissati come se non fosse in grado di guardare altrove. I suoi occhi gli erano sembrati un faro nel bel mezzo della notte.
Dietro gli occhi di Derek c’era il fuoco, quello che aveva bruciato la sua famiglia e la sua casa, mentre le sue spire partivano dalla figura di Kate che lo fissava con il solito ghigno compiaciuto.
Dietro gli occhi di Derek c’era tutta la responsabilità che gli era crollata addosso, come il legno bruciato e distrutto della sua vecchia casa nel bosco, sovrastandolo con violenza.
Dietro gli occhi di Derek c’era il dolore di un cuore frantumato troppe volte.
Invece, dietro gli occhi di Madison c’era tutt’altro: sicuramente dolore, abbandono ma anche speranza, la voglia di rialzarsi dopo ogni sofferenza patita, la forza di lasciarsi il passato alle spalle e prendere fra le mani la propria vita, dimostrando di poterla plasmare a proprio piacimento.
Gli occhi di Madison erano luminosi e Derek sarebbe stato per ore a guardarli, lasciandosi rischiarare e scaldare dal tepore che emanavano, come il sole in pieno inverno.
Derek aveva condotto Madison sul divano di quella casa che era diventata una semplice scatola fredda, con al suo interno ricordi di una vita felice, svanita come sabbia tra le dita. Prima le si era seduto accanto, prestando attenzione a ciò che la ragazza stava vedendo prima di dormire e poi si era alzato per sistemare la coperta blu su di lei. Infine, si era addormentato accanto a Madison, preso dalla stanchezza, prima di scoprire se Sherlock avesse ingerito la pillola (1).
Troppo sopraffatto da quella sensazione di benessere che aveva iniziato a fare capolino dentro di lui, permettendo a quel lieve calore si irradiarsi anche nel suo petto, Derek fece per alzarsi dal divano ma un mugolio emesso da Madison lo costrinse a rimanere al suo posto, vedendola svegliarsi.
Madison aprì gli occhi e lo osservò, sbattendo le ciglia un paio di volte con fare incredulo, come se fosse convinta di trovarsi ancora nel mondo dei sogni, e quando capì di essere sveglia, Derek sentì perfettamente il suo cuore saltare un battito. Era certo che non si aspettava di trovarlo ancora lì.
Eppure, Derek era esattamente accanto a lei e non avrebbe saputo spiegarne il motivo.
Aveva solo sentito di dover restare su quel divano verde e troppo grande per una sola persona, perché Madison vi si era sempre seduta con qualcuno accanto: con i suoi nonni, magari con Lana quando frequentavano il liceo mentre in quel momento occupava un angolino del divano, da sola.
“Ciao”, lo salutò Madison con la voce ancora impastata dal sonno e portando uno sguardo alla tv accesa, per poi soffermarsi su Derek. “Hai dormito qui?”.
“Già”, rispose semplicemente lui, rendendosi conto della veridicità delle sue parole. “Stavo guardando Sherlock e poi mi sono addormentato di colpo”.
Madison si sistemò meglio sul divano, guardandolo meglio e trovando quella frase come la peggiore delle scuse, poiché una parte di lei voleva credere che Derek avesse deciso di starle vicino.
Tuttavia, accantonò il pensiero quasi subito, considerando il soggetto con cui aveva a che fare.
“E’ una bella serie”, continuò Madison, stringendosi nelle spalle e carezzando la coperta con la mano, accorgendosi di non averla presa la sera prima.
“Questa che ci fa qui?”.
Non c’era alcuna allusione nella sua domanda, solo una reale confusione e Derek preferì evitare di guardarla in viso, poiché non si era mai sentito così a disagio prima di allora. Madison si voltò a guardarlo, mentre aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e le dita intrecciate che lo rendevano perfettamente immobile nel suo silenzio, come fosse una statua.
“Sai, a volte mi domando...”, cominciò Madison bloccandosi quasi subito, titubante, mentre Derek si voltava verso di lei, attirato da quel mezzo sorriso. “Se io non fossi stata la ricercata figlia di un licantropo che vuole trasformarmi, ma solo la ragazza tamponata che lavora ad una caffetteria e che ha frequentato il tuo stesso liceo, mentre tu un ragazzo scorbutico che beve solo caffè espresso”.
Fece una pausa, rendendosi conto delle sue stesse parole e Derek trattenne il respiro, lasciandosi travolgere da un’orda di immagini su come sarebbero state le loro vite se Keith non avesse portato Madison in un magazzino per consegnarla a Julian. Forse avrebbe concentrato tutte le sue energie per non vederla, per far sì che il fato non li facesse incontrare di nuovo ma Peter vi avrebbe messo sicuramente lo zampino, e probabilmente si sarebbero visti ancora una volta.
Avrebbe cercato di ritrovare il suo numero di telefono, giustificandosi con Cora e Peter dicendo che aveva perso un documento importante e loro si sarebbero guardati, ghignando divertiti. Peter gli avrebbe consegnato il numero di Madison, sgraffignato in qualche modo da Lana, e gli avrebbe fatto l’occhiolino, invogliandolo a chiamarla ma Derek non l’avrebbe fatto, no. Derek avrebbe evitato di telefonarle, limitandosi ad osservare così insistentemente quei numeri fino a ricordarli a memoria. Avrebbe potuto comporli subito ma avrebbe esitato ugualmente.
Derek avrebbe schivato quella possibilità, fino a ritrovarsi casualmente nella caffetteria dove lavorava per chiedere un espresso.
“Forse io e te ci saremmo odiati meno”, continuò lei, congiungendo le mani sulle gambe e guardando le sue dita che si intrecciavano, giocherellando solo per non concentrare la attenzione su altro. “Magari saremmo anche stati amici”.
“Madison, non-“, la interruppe lui, sentendosi strano, come mortificato al pensiero che Madison credesse addirittura di essere odiata da lui ma la ragazza lo fermò con un gesto della mano.
“Non mentire, Derek. Non è necessario”, gli disse con un sorriso amaro, privo di risentimento o rancore ma sincero, seppur un po’ malinconico. “Forse capisco la tua avversione”.
Derek la guardò in silenzio, mentre una parte di lui continuava a perdersi in quell’ipotetica versione della loro conoscenza, in quella dimensione parallela senza lupi, senza soprannaturale, senza niente che potesse ostacolare la nascita di un sentimento vero e nuovo.
Madison gli avrebbe sorriso, vedendolo lì e lo avrebbe costretto a provare qualcosa di diverso dal caffè espresso, consigliandogli di prendere il latte con cannella, panna e crema di nocciole. Derek lo avrebbe provato e lei avrebbe riso di gusto, notando un ciuffo di panna rimasto sul suo labbro superiore ma non glielo avrebbe fatto notare, solo per vedere quel Derek così buffo da annullare l’aria rigida che si era costruito attorno. Da allora, ogni cosa sarebbe venuta da sé.
Ci sarebbero stati altri incontri, uno dopo l’altro, innocenti e fatti solo di bevande calde e chiacchiere a fior di labbra, fingendo che fosse tutto casuale. Ci sarebbero stati altri sguardi complici, permettendo a quegli occhi della stessa tonalità ma con diverse sfumature di studiarsi più a fondo, cogliendo ogni cambiamento. Ci sarebbero stati milioni di sorrisi, sia da parte di Derek, mentre la osservava al bancone della caffetteria che si gustava la sua pausa con un libro tra le mani; sia da parte di Madison, mentre si concentrava sul suo libro per impedirgli di distrarla, con scarsi risultati. Ci sarebbero stati dei debolissimi sfioramenti fra le loro mani che si sarebbero ritirate incerte, come se si fossero scottate; sfioramenti che sarebbero diventati pian piano più consistenti, più reali, fino a lasciare che le loro dita si intrecciassero una buona volta per tutte, senza timori. Derek non l’avrebbe mai vista come una minaccia al pari di Kate o Jennifer. Certo, sarebbe stato ugualmente impaurito dall’idea di soffrire ancora una volta e in maniera sempre peggiore rispetto alle precedenti, ma mai come aveva avuto paura realmente. L’avrebbe guardata con devozione, chiedendosi cosa avesse fatto per meritarsi qualcosa di così bello e prezioso. Si sarebbe fatto abbracciare, sbuffando divertito ogni volta che Madison gli avrebbe stretto le braccia al collo, inspirando il suo profumo e sfiorando il naso sul suo collo con fare giocoso.
Derek l’avrebbe baciata continuamente: le avrebbe baciato la fronte, gli occhi, il naso e gli zigomi, facendola sorridere, per poi arrivare alle labbra dischiuse e perdersi in lei con la certezza di potersi abbandonare perché Madison non lo avrebbe fatto cadere, mai.
“So di non averti ispirato molta fiducia”, sussurrò Madison, ricordando il modo in cui Derek l’aveva sempre trattata, ritenendola un pericolo per chiunque. “Ma…io non potrei mai fare quello che hanno fatto altri. Non potrei mai mettere in pericolo te, Scott o Stiles, voi mi avete aiutata e lo state facendo ancora, nonostante il pericolo che correte ogni giorno che passa”.
Nella parola “altri”, sussurrata con voce più bassa e incerta, c’era quello che Madison aveva udito la sera prima ma che fingeva di non sapere. Gli altri non erano che Kate e Jennifer. Derek lesse qualcosa di nuovo nei suoi occhi, qualcosa che c’era sempre stato ma che lui non aveva mai voluto vedere perché non credeva potesse esserci: sincerità. Madison non era un serpente nascosto sotto un fiore, non era un mostro nascosto dietro un viso niveo e dolce, non era una cacciatrice affamata di sangue nascosta dietro una ragazza qualsiasi.
Madison era reale, a differenza delle donne che aveva incontrato nel corso della sua vita.
“In un’altra vita, forse avremmo discusso solo per il tuo stupido caffè espresso”.
Derek sorrise, accorgendosi solo dopo di come avessero fatto entrambi lo stesso pensiero, ma non glielo comunicò, semplicemente perché il fatto che fossero quasi sulla stessa lunghezza d’onda non faceva che rendere ogni cosa sempre più grande e soprattutto reale.
“Magari avremmo litigato anche per quale telefilm guardare”, aggiunse Derek, senza riflettere su cosa avesse detto realmente e rendendosene conto solo dopo, quando Madison stava già ridendo.
“Io avrei optato per C’era Una Volta”, disse Madison con tono fiero, beccandosi uno sguardo truce da parte di Derek. “Avresti lanciato popcorn contro il televisore per esprimere il tuo odio verso Biancaneve e Azzurro anche se in fondo avresti amato la loro storia, o magari verso Henry, ma la versione di Cappuccetto Rosso ti sarebbe piaciuta”.
“Probabile”, ribatté Derek, incrociando le braccia al petto. “Io avrei scelto Doctor Who”.
“Beh, questo lo avrei guardato”, ammise Madison, facendo un cenno con il capo e portando una mano fra i capelli fluenti che Derek avrebbe desiderato sfiorare per tastarne la morbidezza.
“Davvero?”, le chiese Derek, aggrottando un sopracciglio in risposta.
“Certo!”, rispose lei, permettendo a Derek di scorgere un lato nerd che proprio non conosceva.
Derek rise di una risata così vera che Madison avrebbe voluto urlare al miracolo perché non credeva di poter assistere ad un evento del genere. Insomma, era risaputo che vedere Derek Hale ridere era un evento a dir poco raro, e sia Scott che Stiles non avevano esitato a ricordarglielo.
Eppure, Derek stava ridendo, accanto a lei, e Madison pensò davvero che avrebbe dovuto ridere molto più spesso: il suo sorriso stringeva il cuore, era qualcosa di nuovo in grado di infondere calore, perché quando Derek rideva era come se quel sorriso gli scoppiasse nel petto.
Era come una supernova, una vera e propria esplosione stellare.
Quando le loro risa cessarono, calò quel silenzio imbarazzante che entrambi sembravano temere e continuarono a trovare il pavimento della casa più interessante.
Madison unì le proprie mani e si strinse nelle spalle, pensando di alzarsi dal divano ma la voce di Derek la fermò, costringendola a restare immobile.
“Io mi fido di te”, dichiarò lui, guardandola dritto negli occhi e per nulla intenzionato a distogliere lo sguardo, come se Madison in quel modo potesse leggere la verità nei suoi occhi.
Madison gli sorrise grata e quando afferrò la sua mano lo fece in maniera così naturale che non si accorse del sussulto che quel gesto aveva provocato in Derek, il quale si irrigidì, portando lo sguardo su quelle dita lunghe e affusolate sulle sue, creando un’immagine perfetta.
Madison si accorse di quel cambiamento repentino e fece per togliere la mano ma Derek l’afferrò giusto in tempo, invitandola a lasciarla lì sopra la sua, senza modificare quella combinazione, quell’incastro perfetto dato dalle loro mani congiunte.
Poi furono solo labbra.
 
 
Angolo dell’autrice
 
- (1) riferimento alla puntata di Sherlock "Uno studio in rosa".

Il nuovo capitolo è arrivato!
Chiedo immensamente scusa per il ritardo ma purtroppo ho avuto tanti di quegli impegni che non sono riuscita mai a mettermi seriamente al pc per scrivere il nuovo capitolo. Tra ieri ed oggi sono riuscita magicamente a scriverlo e vi invito a farmi presente qualche strafalcione, perché ho fatto giusto una rilettura veloce prima di pubblicarlo. Mi scuso anche per la sua lunghezza, perché è un po’ più corposo rispetto agli altri ma spero non sia pesante da leggere.
Non ci sono moltissime precisazioni di fare su questo capitolo: vi dico semplicemente che niente è come sembra, quindi fate un po’ voi u.u
Spero che vi piaccia e fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va. Ringrazio di vero cuore le persone che hanno recensito (in particolare Marti, Helena e Clare che mi hanno lasciato tre poemi come recensioni *.*), letto e messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate…grazie a tutti <3
Al prossimo capitolo, un abbraccio!

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Capitolo 13
*** XII - Disarm ***


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XII
 
Disarm
 
 “Wake up. Look me in the eyes again .
I need to feel your hand upon my face.
Words can relay nice, they can cut you open.
And then the silence surrounds you and haunts you .
I think I might have inhaled you, I could feel you behind my eyes.
You've gotten into my bloodstream, I could feel you floating in me”.
(Stateless – Bloodstream)
 
Bastian aveva corso. Aveva mosso le gambe, attraversando il bosco che si ergeva dietro la casa e aveva corso, senza guardarsi indietro, senza pensare a ciò che lo opprimeva ma lasciandosi guidare solo ed esclusivamente dal ricordo di Nadia e dal suo sorriso amorevole.
Bastian aveva corso, lasciando che qualche ramo gli si infrangesse contro il viso, provocandogli graffi pronti a rimarginarsi.
Bastian aveva corso, senza fare caso al freddo della notte ed rimasto nel bosco, guardando l’alba che sfociava in un nuovo giorno, illuminando tutta Beacon Hills.
Bastian aveva corso, per poi osservare attentamente la casa alla quale desiderava avvicinarsi, ma aveva esitato, impaurito da ciò che sarebbe potuto accadere.
Ma lui sapeva che la situazione non era certo delle migliori, quindi il suo gesto non avrebbe fatto molta differenza, o almeno non per Julian.
Per lui, invece, avrebbe fatto la differenza. Bastian si sentiva in dovere di agire come il suo cuore gli ordinava: doveva mettere fine a tutto quel dolore, o almeno alleggerirlo, fare qualsiasi cosa che potesse cambiare le carte in tavola.
Per quel motivo, Bastian si trovava fuori casa Stilinski, guidato dall’odore del ragazzo che avevano tenuto prigioniero e da quello dell’alpha, Scott McCall.
Era soltanto un ragazzino, eppure eccolo lì: oltre quella porta e a capo di un branco, formato da componenti fedeli. Aveva visto Scott solo una volta ma gli aveva trasmesso uno strano senso di fiducia, e non gli sembrava una cosa positiva, visto che apparteneva ad un altro branco.
Il problema era che Julian non era più l’alpha che lo aveva accolto nel branco, o forse non lo era mai stato, ogni cosa era cambiata da quando era nata la piccola Madison. Era soltanto un ragazzino a quel tempo, ma riusciva a vedere molte cose, e quello che aveva visto sia in Julian che in Nadia non era certo ciò che si aspettava ad una notizia del genere. Rimase per qualche minuto fuori la porta, respirando profondamente per trovare tutto il coraggio che iniziava a venire sempre meno ad ogni passo in avanti che compiva, poi finalmente bussò.
Scott doveva essersi accorto di lui già da tempo, perché aprì la porta quasi subito, con l’aria di chi si aspettava di ricevere un attacco, gli occhi rossi e la postura eretta, pronto a difendersi. Tuttavia, quando Scott notò l’espressione arrendevole di Bastian, i suoi muscoli si rilassarono subito, portandolo a squadrare la figura dinanzi a lui che sembrava intento a seppellire l’ascia di guerra.
“Tu”, esclamò Scott, restando ugualmente sull’attenti. “Cosa vuoi?”.
Bastian non disse nulla, osservò i lineamenti di Scott, cercando nel suo viso il motivo che lo avesse portato a diventare un alpha originale.
“Scott, chi c’è?”, la voce di Stiles risuonò dalle scale insieme a dei passi leggeri che dovevano appartenere a due ragazze, probabilmente la banshee e la kitsune.
Stiles si piazzò dietro la schiena di Scott e quando si accorse di Bastian, si immobilizzò sul posto, sgranando gli occhi ambrati e inclinando il capo, mentre Lydia gli si faceva più vicina e Kira accanto a loro stringeva saldamente i pugni.
“Mi ricordo di te”, disse Stiles, rammentando la notte scorsa, quando quel ragazzo era entrato nella cripta dove li tenevano rinchiusi per avvisare l’altro licantropo. “Cosa fai qui?”.
“Vi aiuto”.
Bastian sapeva che in quella frase era racchiusa la sua rovina.
Bastian sapeva di essersi appena auto-escluso dal branco, ma non gli importava.
La voce di Nadia gli stava sussurrando che era la cosa giusta da fare, e Bastian pregava con tutto sé stesso che la voce di Nadia raggiungesse anche qualcun altro, precisamente Blake e Ridley.
 
Madison non sapeva dire come fossero arrivati a quel punto, né sapeva dire con certezza se fosse reale, ma le labbra di Derek erano sulle sue e sembrava la cosa più giusta in tutto l’universo.
Quando Derek l’aveva baciata, le era sembrato di sentire il sapore del fumo sulle sue labbra, tutta quella sofferenza che sapeva di cenere, forse ancora intatta nella sua vecchia casa. Quando Derek l’aveva baciata, le era sembrato di sentire il mondo intorno rompersi completamente per poi tornare insieme in un battito di ciglia, senza permetterle di rendersi conto. Le labbra di Derek combaciavano perfettamente con le sue.
Era stato strano avvicinarsi ad esse, come un lento crescendo che li aveva portati a far incontrare le labbra già schiuse, come se non aspettassero altro.
Era come se le labbra di entrambi non desiderassero altro, e quelle di Derek le aveva percepite roventi sulle sue, bramose di quel bacio tanto anelato che tardava ad arrivare. La mano destra di Derek era immersa nei suoi capelli, tenendo saldamente la nuca di Madison, come se non volesse farla andare via da lui, via da quel divano, via da quella casa.
C’era incertezza e convincimento nel bacio di Derek che alternava quei due sentimenti opposti, perché quando le sue labbra sembravano sicure, poi ad un tratto diventavano caute. Ma Madison faticava a capire se fosse perché Derek voleva assaporare quel momento oppure perché in lui albergava ancora qualche minima forma di dubbio nei suoi confronti. Alle volte, Derek sapeva essere così inafferrabile e sfuggente da farle venire mal di testa.
Derek Hale non era mai stato un libro aperto e lei non avrebbe dovuto sforzarsi di leggerlo, perché al suo interno forse non avrebbe trovato altro che pagine bianche e parole scritte in una lingua che non poteva essere tradotta, questo era ciò che Madison aveva sempre creduto, almeno fino a qualche momento fa, prima che tutto cambiasse in poco tempo. La risposta ai suoi dubbi arrivò quando il bacio si fece più intenso, e Derek circondò il suo viso con la mano libera, allontanandolo di poco per poterlo scrutare, lasciando che gli occhi vagassero su di lei. Madison non si era mai sentita così indifesa, mentre gli occhi verdi di Derek sondavano il suo volto, dagli occhi fino ad arrivare alle labbra dischiuse dalle quali esalava un respiro ansante.
Dal canto suo, Derek intuiva di essere completamente disarmato: non aveva coscienza della possibilità di cambiare il colore dei suoi occhi o di cacciare gli artigli, nessuna delle difese che era solito utilizzare sembrava intenta ad attivarsi, perché erano come svanite.
Derek aveva messo da parte la consapevolezza di essere un licantropo e si era abbandonato ad un contatto che sapeva di normalità e di serenità, si era fatto trasportare dall’odore di lei, perchè Madison sapeva di “vita”, una vita alla quale sarebbe dovuta tornare, prima o poi.
Madison sapeva di quella vita che Derek avrebbe desiderato per sé stesso e per sua sorella: una vita tranquilla.
Quando Derek riprese a baciarla, Madison si spinse maggiormente verso di lui, portando le braccia attorno al suo collo e sistemandosi alla ben meglio sul divano per dargli più facilità di movimento. Madison poggiò la fronte sulla sua, mentre le mani scesero sul colletto della maglia nera di Derek, stringendola con le dita.
“Mi stai baciando”, esalò Madison, come per rendersi pienamente conto.
“Intuitiva”, rispose Derek, abbozzando un mezzo sorriso che fece ridere Madison.
Derek carezzò la sua guancia con le dita, percorrendo i contorni del suo viso e con essi anche i contorni di quella possibile vita che si era lasciato alle spalle.
“Sarebbe andata così, credo”, continuò lui, riprendendo il discorso che la ragazza aveva intrapreso prima, chiedendosi come sarebbero andate le cose fra loro due, senza nessun licantropo. (1)
“Non saresti riuscito a resistermi, vero?”, domandò Madison, posando la sua mano su quella di Derek ancora ferma e calda sul suo viso.
Derek chinò il capo, sorridendo e lasciando che Madison vedesse il modo in cui quel sorriso gli aveva illuminato il viso; lei gli sollevò il volto con le dita, semplicemente perché voleva vedere quella luce, bearsene completamente ed essere investita da essa.
“Lo avevo dimenticato”, confessò lei con voce bassa, pentendosi subito di aver parlato.
Derek la guardò con un velo di curiosità negli occhi. “Cosa?”.
“Cosa significa legarsi a qualcuno”, disse lei con tono imbarazzato, come se provasse un terrore immenso solo per aver pronunciato quelle parole a fior di labbra.
Derek poteva comprendere le sue parole e il significato che nascondevano. Non era l’unico a portare il dolore negli occhi, né era l’unico ad essere stato ingannato da qualcuno a cui teneva. Con Madison non era successo tutto troppo velocemente, non era stata una tempesta improvvisa che lo aveva travolto senza lasciargli possibilità di scelta. L’aveva incontrata nel modo più normale che ci fosse e da lì era accaduto tutto così normalmente che mai avrebbe potuto dedurne i risvolti.
Con Kate era stato tutto febbrile ed esasperato ai limiti del doloroso.
Con Jennifer era stato tutto improvviso e fintamente dolce, per poi rivelarsi l’opposto.
Madison era arrivata da lui a piccoli passi, e muovendosi solo perché trasportata da quella corrente che aveva fatto sì che si avvicinassero sempre di più.
Madison si era fatta odiare, aveva permesso a Derek di guardarla con astio, ricambiando il suo sguardo con forza e fierezza.
Derek avrebbe solo desiderato stringerla forte e rimanere lì, lontano da tutto e da tutti per far sì che niente potesse far loro del male.
“Dovrei mettere fine a tutto questo”, disse improvvisamente Madison, ridestando Derek.
“Non dire stupidaggini, non te lo permetterei”, esclamò Derek e quella frase suonò quasi come una confessione sofferta tenuta nascosta per troppo tempo.
Madison affondò il viso nel suo collo, respirando l’odore intenso del suo dopobarba e di erba appena tagliata, come lo aveva sentito il giorno in cui si erano incontrati a Berkeley. Strinse maggiormente la presa sul bordo della sua maglia e voltò di poco il capo, facendo scontrare il suo naso con il collo di Derek che emise un sospiro spezzato e osservando la sua espressione.
“Non voglio che ti facciano del male”, sussurrò lei, ancorandosi così forte alla stoffa sottile della maglia di lui che quasi vi lasciò il segno. “Né a te, né agli altri”.
Derek portò lo sguardo sul volto di Madison e afferrò la sua mano, allontanandola solo per stringerla nella sua e cercare di rassicurarla, per quanto possibile.
“Starò bene. Staremo bene”, aggiunse lui, ripetendolo come fosse un mantra ma sapendo che quelle poche parole messe insieme non sarebbero bastate.
Allora Derek la baciò ancora, prima il più lentamente possibile, aspettando la sua risposta a quel bacio, e poi con maggiore sicurezza, beandosi di tutto quel contatto che aveva desiderato e represso fin dal momento in cui i suoi occhi avevano incontrato quelli di Madison.
Derek davvero non capiva come fossero passati dall’urlarsi contro a baciarsi come se non avessero aspettato altro per tutto quel tempo, ma conosceva per certo quella verità che aveva sempre represso, lasciandola seppellita in un angolo buio del suo petto: lo aveva desiderato fin dall’inizio.
“Ehm, questo è imbarazzante”.
Sia Derek che Madison si voltarono verso la voce, accorgendosi di Isaac che se ne stava fermo sulle scale con una mano immersa nei capelli ricci un po’ scompigliati e Cora alle sue spalle.
Cora sembrava stare molto meglio, e il suo sorriso ne era la prova tangibile, si voltò verso Isaac, donandogli un’espressione divertita per la scena a cui avevano spesso assistito. A completare quel quadretto già abbastanza molesto ci pensò Peter che fece il suo ingresso nella cucina con la sua solita disinvoltura.
“Era ora, io ci avrei messo meno tempo”, esclamò, riservando una pacca sulla spalla a Derek che sfoggiò un mugolio infastidito, mentre Madison cercava con tutta sé stessa di non scoppiare a ridere.
Il suono del campanello mise fine a quel breve sprazzo di serenità, irrompendo nella casa di Madison come una scossa di terremoto appena tangibile, presagio di una più violenta che sarebbe giunta.
 
“Lui cosa diamine ci fa qui?”.
La voce di Derek era stata come un tuono inatteso, mentre il cielo era limpido e senza nessuna nuvola scura a sovrastarlo, ma il licantropo era come esploso alla vista di Bastian.
Il corpo di Cora tremò al ricordo delle scariche elettriche che l’avevano martoriata, e Derek ringhiò, accorgendosi del sussulto di sua sorella, mentre Isaac si posizionava dinanzi a Cora senza alcuna esitazione, lasciando la ragazza sorpresa a quel gesto istintivo di protezione.
Quando lo sguardo di Bastian si soffermò su Madison, Derek si mise davanti al suo corpo senza pensarci, mentre la ragazza osservava la figura di Bastian un po’ tesa ma tranquilla accanto a Scott che allungò una mano in avanti verso Derek e Isaac.
“Va tutto bene”, esclamò il ragazzo, con la sua voce tranquilla e rilassante. “Bastian non è qui per farci del male o per ingannarci".
“Allora cosa vuole?”, chiese ancora il licantropo, mentre il blu dei suoi occhi brillava, risuonando come un vero e proprio avvertimento verso chiunque avesse provato ad avvicinarsi.
“Voglio aiutarvi”, proruppe Bastian, facendo un passo avanti che fece scattare Derek ma l’altro non se ne curò, continuando a camminare. “Julian vi attaccherà stanotte…per lei”.
Il suo sguardo saettò verso Madison e si perse sul suo viso, ammirando la somiglianza con sua madre, quella donna che tante volte lo aveva abbracciato durante le notti che lo vedevano prigioniero dei suoi brutti ricordi, del suo dolore e della mancanza che lo affliggeva.
“Uccideranno chiunque si metterà fra lui e Madison”, continuò il ragazzo, passandosi una mano fra i capelli scuri ed allontanando l’immagine di Blake e Ridley che uccidevano qualcuno di loro.
“Perché sei venuto a dircelo?”, chiese Madison, squadrando Bastian e aspettando di cogliere quella nota diversa, in completo contrasto con tutto il suo essere. “Perché ci aiuti?”.
“Julian è spietato”, rispose Bastian, alzando lo sguardo e affrontando sia lei che Derek, che continuava a studiare ogni suo minimo cambiamento di espressione. “Non gli importa di te, vuole solo rivendicare ciò che gli appartiene…Nadia non lo avrebbe voluto”.
Nel sentire quel nome, pronunciato con una voce bassissima quasi impercettibile ad orecchio umano, Madison si irrigidì, fissando ancora di più Bastian e chiedendosi quanto ne sapesse di sua madre.
“C’è qualcosa che non ci dice”, continuò Bastian con gli occhi che vagavano alla disperata ricerca di un punto fermo su cui fissarsi, qualcosa da osservare per non far tremare la sua stessa voce al pensiero di quella possibilità. “Ed io sono stanco di stare a guardare. Ha ingannato Keith, facendogli credere che i due gemelli alpha fossero ancora qui, solo per costringerlo ad agire per conto suo. Nessuno di noi ne aveva idea, e non voglio immaginare su quanto altro ci abbia mentito”.
Un altro tremore scosse il corpo di Madison nell’udire il nome di Keith, mentre un’altra crepa si apriva nel suo petto e lei non aveva idea di come avrebbe fatto a risanarle. La mano di Derek cercò silenziosamente la sua, stringendola da dietro la schiena, impedendo a chiunque di intercettarlo: a quel contatto, ogni cosa sembrò ricomporsi lentamente.
“Quindi dobbiamo prepararci ad un attacco”, constatò Cora, incrociando le braccia al petto e avvicinandosi ad Isaac che non sembrava molto convinto da quelle novità.
“E il tuo amico?”, domandò Stiles, indicando Bastian. “Quello che ci ha fatto visita mentre eravamo prigionieri. Ricordo di non averlo visto molto…sicuro”.
“Ridley”, gli disse Bastian, facendo un cenno con il capo. “Non sa che sono qui, e quando si verrà a sapere, probabilmente avrà l’ordine di farmi fuori”.
“Lo farebbe?”, chiese Kira, prendendo posto accanto a Lydia.
Scott esaminò lo sguardo di Bastian, notando un cambiamento repentino sul suo volto: se prima sembrava leggermente preoccupato, ora lo era maggiormente, come se sapesse perfettamente cosa gli sarebbe capitato…come se fosse consapevole di ciò che gli avrebbero fatto.
Scott non si fidava completamente di Bastian ma sentiva chiaramente che non c’era alcuna menzogna nelle sue parole: Bastian era come sperduto, diviso tra un sentimento e la realizzazione che il loro obiettivo non fosse giusto ma solo insano e perfido, proprio come colui che aveva intenzione di raggiungerlo, ossia Julian.
“Stanotte, giusto?”, gli domandò Scott, notando come gli occhi di Bastian non rispecchiassero il suo aspetto, erano spaesati, come quelli di un bambino che non sapeva dove andare.
Bastian fece un cenno di assenso con il capo, un po’ sorpreso, forse perché non si aspettava di ricevere aiuto, soprattutto da Scott McCall, ma lui sentiva che c’era qualcosa di diverso in lui. Non aveva nulla in comune con Julian: più Bastian lo guardava, più comprendeva come avesse fatto a diventare un alpha originale. C’era del buono nel suo cuore e poteva sentirlo anche a distanza, ogni suo gesto e ogni sua parola derivavano da quel cuore puro che batteva nel suo petto.
Era un cuore umano, un cuore che aveva affrontato battaglie e perdite che si riflettevano ancora nel suo sguardo ma Bastian sentiva di poter fare affidamento su di lei, di potersi fidare più di lui, alpha a capo del branco “nemico”, che del suo alpha, pronto ad ucciderli pur di vincere.
“Saremo pronti”.
 
Gwen tornò con un sorriso trionfante in viso, pronta a rivelare ciò che aveva visto: finalmente quel bambino nascosto in un corpo da adulto si era tolto di mezzo.
Gwen Atherton aveva sempre considerato Bastian come un peso, e lei era solita considerare ingombranti tutti coloro che si mettevano tra lei e i suoi obiettivi, come Nadia. Odiava il fatto che quasi tutti i componenti del branco le fossero fedeli e leali, nonostante avesse tirato le cuoia già molto tempo addietro, solo ed esclusivamente per il suo volere. Non aveva mai tollerato Nadia, e non solo per semplice gelosia, ma per il poco rispetto che provava verso ciò che aveva avuto la fortuna di trovare: Nadia Blanchard, che poi aveva stupidamente cambiato il suo cognome in Nolan nella speranza di non essere trovata, aveva tutto ciò che lei stessa aveva sempre desiderato. Era l’emissario di un branco che la rispettava, era la compagna di un alpha e aveva dato alla luce la sua bambina, eppure, non sembrava apprezzare nulla di tutto ciò.
Ricordava come Nadia fosse spenta e quasi infelice in quel periodo, ricordava come deviasse le attenzioni di Julian, nascondendole distintamente perché un emissario era perfettamente capace di nascondere ogni possibile segreto ad un branco di lupi mannari.
Per quel motivo, non aveva mai compreso cosa nascondesse realmente Nadia ma aveva trovato veritieri le parole di Julian, ricordando ancora quella notte piovosa, durante la quale Nadia era fuggita per portare la bambina lontana da suo padre e dal branco a cui era destinata.
Gwen ricordava ancora come Julian fosse tornato da loro, fradicio e afflitto, informandoli su come avesse trovato il corpo senza vita di Nadia nella sua vecchia casa e nessuna traccia della bambina. Gwen ricordava ancora il suo corpo senza vita e il dolore sul volto di tutti loro. Gwen forse avrebbe dovuto sapere di non essere nulla più di una sostituta, perché Julian aveva amato quella donna, la sua compagna, ma per lei Nadia non era degna di esserlo.
Aprì la porta, trovando Julian in piedi dinanzi agli altri licantropi, sorridendo anche per l’assenza di Keith, il quale aveva deciso di togliersi dai piedi.
“Bastian è con Scott McCall”, dichiarò lei, portando una mano sul fianco sottile.
Julian emise un finto mugolio insoddisfatto, accompagnato da una smorfia altrettanto finta che doveva apparire dispiaciuta, ma era chiaro che si stesse profondamente divertendo.
Ridley si voltò a guardare Blake, leggendo chiaramente il terrore sul suo volto, perché quella frase non aveva bisogno di spiegazioni e l’espressione di Julian era abbastanza.
“Il ragazzo non ha polso”, esalò l’alpha, sospirando afflitto per poi concentrarsi sui due beta dinanzi a lui, completamente immobili. “Sapete cosa significa. Bastian ha deciso di passare dalla parte del nemico, la prossima volta che lo vedremo sarà morto”.
Ridley sentì Blake tendersi come una corda di violino a tremare a quell’ordine sottinteso, perché nessuno dei due poteva credere che Julian facesse sul serio. Stava davvero ordinando loro di uccidere Bastian, un componente del branco, cresciuto proprio da loro?
“Avrà fatto una stupidaggine”, cercò di giustificarlo Blake, parlando con un tono di voce così affranto che non sembrava neanche lui.
Non aveva nulla di Blake Turner, quel beta spietato che aveva sempre eseguito gli ordini, togliendo tante vite senza preoccuparsi di chi avesse davanti, ma quando si trattava di Bastian, Blake diventava apprensivo, perché lui stesso aveva trovato quel bambino nel mezzo della foresta.
Blake aveva trovato Bastian ferito, con il sangue rappreso sulle braccia e l’espressione spaesata con gli occhi colmi di lacrime per la famiglia che aveva visto morire davanti ai suoi occhi. Blake aveva assistito Bastian durante tutte le lune piene che aveva dovuto affrontare, aiutandolo a trovare una nuova ancora, a riprendere possesso di sé e dei suoi poteri.
“Il tuo cucciolo ci ha traditi, Blake”, gli fece notare Julian, come se stesse impugnando un coltello, piantandoglielo dritto nello stomaco e girandolo continuamente, incurante del dolore. “Non credo ci sia nient’altro da dire, oltre al fatto che morirà…insieme al branco di Scott, quello che ha scelto”.
“Ma-“, Blake non fece in tempo a continuare che Julian sfoderò gli artigli, stringendo una mano attorno al proprio collo, mentre Ridley interveniva, ringhiando e afferrando la mano di Julian.
Quel gesto fece indispettire l’alpha che si allontanò da Blake per concentrare tutte le sue attenzioni su Ridley, quasi meravigliandosi di quell’atto di ribellione che aveva osato compiere. Ridley era sempre stato alla stregua di un cagnolino al guinzaglio per lui, pronto ad eseguire i suoi ordini senza riserve, restando all’interno di un branco che per lui aveva perso significato. Tutto solo per ripulire la sua coscienza, e credeva che Julian non lo sapesse. Ma, in realtà, Julian vedeva ogni cosa e aveva visto ogni cosa, anche se inizialmente non aveva voluto credere.
“Fate sul serio?”, ringhiò, rivolgendosi ai due uomini, mostrando gli occhi rossi.
Gwen, nel frattempo, rimaneva impassibile alle loro spalle, aspettando che Julian l’avesse vinta, perché non c’era altro modo in cui potesse finire.
Ridley sfoderò le zanne e Julian rise di una risata sadica per poi scagliare l’uomo contro il muro come se non aspettasse altro.
“Nadia non lo avrebbe voluto”, abbaiò Ridley, riversando fuori tutta la collera che teneva gelosamente nascosta, perché non poteva permettersi di portarla alla luce ma non ne poteva più. Era arrivato ad un limite estremo di sopportazione, e nominare Nadia era stato quasi un bisogno fisico, non gli importava delle conseguenze, non gli importava che il suo cuore lo avesse vietato e che forse Julian lo avrebbe ucciso con un unico sguardo…nulla aveva più importanza.
Si erano spinti troppo oltre per preoccuparsi di ciò che sarebbe accaduto.
“E tu sapevi cosa voleva Nadia, giusto?”, chiese Julian con una punta di sarcasmo e di cattiveria che fece irrigidire Ridley, mentre tutte le sue membra diventavano rattrappite.
Non disse nulla, si limitò a guardare Julian con un misto di confusione e rabbia in viso, senza trovare altro coraggio per rispondere, perché lui sapeva davvero cosa volesse Nadia. Ridley aveva sempre saputo tutto di Nadia: sapeva quando era triste, sapeva cosa la facesse ridere, sapeva della vita che avrebbe desiderato condurre, lontana da quel branco, lontana da Julian Ridley sapeva tutto di Nadia, forse troppo, come aveva sempre saputo che non avrebbe mai desiderato quella vita per la sua bambina, e come lei, Ridley non avrebbe augurato quella sorte neanche al suo peggior nemico. Per quel motivo, Ridley rimpiangeva spesso la sua umanità, quella umanità che aveva rivisto in Nadia, prima che se la strappasse, insieme alla sua vita. (2)
 
Madison si guardò allo specchio, portandosi una mano al viso e cercando i cambiamenti che aveva subito nel corso di quegli ultimi mesi.
All’apparenza, sembrava tutto uguale: era sempre la stessa, forse più dimagrita, con il viso più scarno di prima ma Madison sentiva e vedeva tutte le differenze, presenti come tante cicatrici sul suo volto e sul corpo che ancora non erano sparite.
Ricordava di avere uno sguardo più radioso, mentre adesso i suoi occhi non sembravano altro che due pozze scure alla ricerca di uno spiraglio di luce, anche se debole. Ricordava di avere le mani più ferme, che non venivano scosse quasi mai da tremori ma rimanevano salde attorno ad un libro mentre il suo naso era tra le pagine, e le sue dita le sfogliavano con delicatezza, facendo attenzione a non rovinarle ma assaporando la gioia ad ogni pagina. Ricordava molte cose, prima che la sua vita imboccasse una strada nuova e completamente oscura, rappresentata dal vialetto del campus sul quale aveva seguito Keith, completamente ignara.
Madison uscì dal bagno, sforzandosi di non guardare verso la finestra: non voleva vedere né la luce del sole né il buio che si avvicinava, non voleva sapere quanto mancasse all’arrivo della sera, non voleva rendersi pienamente conto del fatto che da un momento all’altro Julian sarebbe arrivato.
Diede le spalle alla finestra senza guardarla e camminò verso la sua stanza ma, una volta entrata, la luce del tramonto la investì, facendole socchiudere le palpebre, come se stesse provando dolore. Madison guardò quella tonalità aranciata che ai suoi occhi sembrava più rossa, come il sangue che sarebbe stato versato quella notte, solo ed esclusivamente per colpa sua. Osservò il tramonto con lo sguardo vitreo, mentre percepiva le sue labbra tremare. Udiva le voci di Scott e di tutti gli altri dal piano inferiore, soffermandosi su quella di Derek e poggiando la schiena al muro, tranquillizzandosi.
Madison desiderava soltanto che il giorno successivo a quella stessa ora, potesse continuare a sentire la voce di Derek accanto a lei, accompagnata da tutto il branco: voleva udire la voce petulante di Stiles mentre parlava rapidamente senza dare importanza a qualche sguardo infastidito; voleva udire la voce imbarazzata di Isaac che balbettava ; il tono lievemente saccente di Lydia mentre nascondeva e insultava la sua intelligenza con il solito “devo averlo letto da qualche parte”; la voce pacata di Scott che tentava di trovare una soluzione pacifica al peggiore dei problemi; la voce ferma di Cora, accompagnata dalle braccia incrociate al petto, mentre scrutava malamente il suo interlocutore; il tono dolce di Kira che tentava inutilmente di nascondere una figuraccia; avrebbe risentito volentieri persino la voce di Peter. A quel punto, Madison capì di non essere pronta a quella notte.
“Ehi”, una voce nuova, arrivata qualche ora fa, la ridestò. “Stai bene?”.
Bastian era dinanzi a lei, con le mani piantate nelle tasche dei jeans logori, e la guardava come fosse un fantasma, come fosse il ricordo di qualcuno che non credeva di rivedere.
“Sì”, rispose lei debolmente, voltandosi verso di lui e incrociando le braccia. “Conoscevi Nadia”.
Madison non intendeva perdersi in troppi preamboli: quel ragazzo era chiaramente cresciuto con sua madre, la conosceva e guardava lei così profondamente da farla sentire a disagio. Voleva sapere qualcosa, anche il più banale dei dettagli, qualcosa che le dicesse che Nadia era realmente esistita, che non era una figura mitologica nascosta dietro un anello e un alpha. Istintivamente, Madison cominciò a rigirare l’anello di sua madre che teneva al dito medio, come fosse una sorta di gesto calmante, per aiutarla a riflettere e a controllarsi.
Bastian notò subito quel dettaglio e sorrise, osservando l’anello di Nadia.
“Sì, la conoscevo e conosco te anche se l’ultima volta che ti ho vista era decisamente più piccola”, disse l’altro con voce atona. “Nadia mi ha aiutato e si è presa cura di me”.
“Quindi lo fai per lei?”, domandò Madison, poco convinta.
“Per lei e per noi”, rispose Bastian, incastrando gli occhi scuri nei suoi, così simili a quelli di Nadia da far paura. “Nadia non parlava mai dei suoi turbamenti ma capiva quelli degli altri. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa la tormentasse, e voglio aiutarla ora, per quanto possibile. Voglio farlo per lei, per noi e per quello in cui ha sempre creduto fin da quando l’ho conosciuta”.
“Ovvero?”, chiese ancora Madison ancora più perplessa, come se le parole di Bastian non le arrivassero completamente alle orecchie perché ovattate. “In cosa credeva mia madre?”.
“Nella possibilità di cambiare il proprio destino”.
Madison rimase inizialmente paralizzata, per poi accorgersi di come quelle parole le avessero provocato una sorta di scossa, qualcosa che non credeva possibile, eppure era lì, perfettamente tangibile sulla propria pelle. C’erano tante domande che avrebbe desiderato porre a Bastian, ma in quel momento non riusciva neanche a ricordare se fosse in grado di parlare o meno.
Il respiro pesante di Derek mise fine a quella conversazione, mentre il licantropo li raggiungeva nel corridoio, squadrando Bastian con una delle sue espressioni minacciose da repertorio. Derek sapeva incutere timore pur rimanendo immobile: fissava il volto di Bastian con le labbra dritte e le sopracciglia corrucciate, mentre tutto il corpo era dritto e in tensione, pronto a scattare al più insignificante passo falso. Se Bastian avesse fatto qualcosa, Derek gli sarebbe saltato alla gola.
“Me ne vado, tranquillo”, disse l’altro, alzando le mani in segno di resa.
Derek, tuttavia, era ancora in allerta, e seguì con lo sguardo la figura di Bastian fino a vederla scomparire al piano di sotto, mentre Madison gli si avvicinò, sfiorandogli il braccio. A quel tocco, Derek sembrò tornare sulla terra, sollevando lo sguardo per incontrare gli occhi di lei, mentre i suoi occhi erano di un blu così intenso che le sembrava di perdersi in un mare agitato.
Madison gli circondò il volto con le mani, portandoselo più vicino e vedendolo chiudere gli occhi, mentre faceva dei respiri profondi per calmarsi. Non poteva evitare di sentirsi male a vederlo in quello stato, sempre in posizione di attacco, senza mai respirare neanche per un attimo.
Derek riaprì gli occhi, mostrando il loro colore naturale, ossia quel verde paragonabile ad una distesa erbosa da attraversare, mentre le dita ne sfioravano i fili d’erba.
Madison gli sorrise debolmente. “Ciao”.
La ragazza sfiorò le sue labbra, ma in quel bacio lieve, Derek percepì un’imperfezione proprio sotto le sue dita: Madison era nervosa e impaurita, nonostante cercasse di nasconderlo.
La stretta delle sue mani si fece più salda e Derek dovette faticare molto per mettervi fine, sfiorandole i polsi e guardandola negli occhi.
La ragazza sospirò affranta. “Odio i tuoi sensi da lupo”.
Derek ghignò, visibilmente soddisfatto e aspettò che Madison parlasse.
“Non voglio che arrivi la notte”, sussurrò lei, prendendo posto sul materasso e torturandosi le dita.
Derek si sedette al suo fianco, rendendosi conto di quanto fosse strano trovarsi in quella situazione e rendendosi conto di quanto Madison non fosse poi così forte come gli era apparsa. Derek aveva visto davvero Madison, non era più solo la ragazza della caffetteria e dei turni notturni dalla risposta sempre pronta ma era qualcosa di più profondo, di più intimo.
“E so che sei preoccupato, anche se non lo dici”.
Era vero: Derek Hale era maledettamente e dolorosamente ansioso per quella notte ma non voleva trasmettere tutti i suoi timori a Madison, nonostante fossero già albergati in lei. Non sapeva se ne sarebbero usciti vivi ma sapeva che ci avrebbero provato.
“Vuoi che ti dica che siamo fregati?”, le domandò Derek, fingendo tranquillità.
“Il sarcasmo è per Stiles. A te non è mai appartenuto, neanche al liceo”.
Derek trattenne un sorriso, come al solito, e tornò a guardare Madison, mentre una domanda faceva capolino nella sua testa, scalpitando per uscire, così Derek decise di assecondarla. “Quanto sapevi di me al liceo?”.
Madison sfoggiò un’espressione corrucciata, guardando Derek con curiosità, perché tra tutte le domande che poteva porle, quella proprio non se l’aspettava o almeno non in quel momento.
“Abbastanza da poter dire che eri poco socievole”, rispose lei con un sorrisetto sardonico.
Derek alzò gli occhi al cielo e attese che la ragazza continuasse a parlare, come se quella voce le stesse raccontando la più avvincente delle storie mai esistite.
“Ti vedevo sempre nei corridoi della scuola e non capivo perché fossi sempre riservato, non ridevi quasi mai e sembravi eccessivamente guardingo, come se qualcuno potesse ucciderti da un momento all’altro”, confessò Madison, ricordando uno dei loro incontri. “Poi una mattina, ti ho visto mentre aspettavi qualcuno fuori dall’ufficio del Preside…e c’era tua sorella con te”. (3)
Derek non riuscì a trattenere un brivido. “Il giorno dell’incendio”.
Madison fece un cenno con il capo. “Per un attimo, ho pensato di avvicinarmi e chiederti cosa fosse successo ma poi tu mi hai guardata ed io ti ho visto mentre eri sconvolto, come se potessi crollare all’improvviso ma non lo avresti fatto…o almeno non a scuola”.
Madison lo aveva visto, lo aveva visto davvero e Derek avrebbe voluto pronunciare quella frase.
Avrebbe desiderato dirle “Tu mi hai visto”, ma non lo fece perché ancora troppo provato dalle parole di Madison e dalla realizzazione del loro significato.
Derek stava assorbendo quelle parole una ad una, lasciando che gli entrassero sottopelle proprio come stava facendo Madison, arrivando quasi a scorrergli nelle vene. Sarebbe tornato indietro nel tempo, solo per ricordare meglio quel momento e per soffermarsi maggiormente sulla ragazza del corridoio di cui rammentava a malapena la sagoma. Ma la verità era che Derek a quel tempo era troppo preso dalle fiamme per fare caso ad altro, era troppo avvolto dalle spire fameliche di Kate per accorgersi di ciò che c’era aldilà delle fiamme.
Madison era oltre le fiamme, lontana da lui e dal fuoco, a tendergli la mano.
Si guardarono a lungo, senza dire nient’altro, e Derek si sentì un vero stupido quando portò una mano tra i suoi capelli, carezzandoli come se non avesse mai visto niente di simile. Aveva perso così tanta familiarità con certe situazioni che spesso faceva fatica a capire come muoversi ma in quel caso, Derek Hale preferì solo farsi guidare da ciò che stava sentendo e si avventò sulle sue labbra come se non vi si imbattesse da troppo tempo, nonostante il loro ultimo bacio fosse avvenuto poco tempo prima. Baciare Madison era deleterio e benefico allo stesso tempo: aveva assaporato poche volte quelle labbra e già sapeva di non poterne fare a meno, come non poteva fare a meno di assicurarsi dove lei fosse, se stesse bene o meno, cosa che aveva fatto fin dall’inizio, quando si svegliava nel mezzo della notte solo per arrivare fuori casa sua e sentire il suo battito regolare.
Quel bacio era intenso e febbrile, quasi disperato, come se entrambi sentissero di aver tardato a capire cosa c’era fra loro e che adesso fosse troppo tardi per rimediare. La paura di non avere più tempo da trascorrere insieme, il timore che da un momento all’altro Julian sarebbe arrivato e avrebbe strappato via Madison dalle sue braccia, gravava su Derek come un masso pronto a sovrastarlo del tutto. Forse Peter non aveva tutti i torti quando lo aveva scherzosamente ripreso, affermando che al suo posto avrebbe impiegato meno tempo. Ma Peter non era lui. Derek poteva sentire la sua stessa paura montargli dentro ma solo qualcosa di vitale importanza lo avrebbe costretto a interrompere quel contatto quasi salutare, in grado di spazzare via ogni dubbio e ogni preoccupazione.
Derek continuò a baciarla, stringendole la vita con le Madison e sentì la ragazza sussultare leggermente, buttandogli le braccia al collo per farsi ancora più vicina a lui. Ma poi Derek lo sentì: quel masso che iniziava ad incombere sempre di più sulla sua testa, vedeva l’ombra sul pavimento che si allargava maggiormente, segnando il suo arrivo.
Madison sembrò capire, notando il suo sguardo preoccupato ma fermo.
Il licantropo guardò Madison negli occhi, quegli occhi che sperava con tutto il cuore di incrociare di nuovo per ritrovarli aperti e del loro colore naturale, non gialli come quelli di un beta.
 

Angolo dell’autrice
 
  • (1) nello scorso capitolo, ho dimenticato di fare una precisazione e la faccio adesso: il dialogo tra Derek e Madison in cui si chiedono come sarebbero andate le cose tra loro, è nato dal ricordo di un film vecchio ma che a me personalmente piace molto, ossia “C’è posta per te” con Meg Ryan e Tom Hanks. Insomma, pensando alla loro storia in un contesto diverso mi è venuto in mente il dialogo tra i due protagonisti del film;
  • (2) la morte di Nadia è accennata in un flashback del capitolo I;
  • (3) richiamo al prologo, in cui Madison ricorda Derek.
 
Ce l’ho fatta! Non mi sembra vero. Allora cosa ve ne pare?
Io sinceramente ho qualche dubbio su questo capitolo, principalmente per Derek: insomma, scrivere di lui con una ragazza è difficilissimo, se poi i momenti sono fluff è anche peggio. Io spero di averlo reso abbastanza credibile insieme a Madison, anche perché avendo visto poco Derek alle prese con una relazione vera, non sapevo bene come muovermi ma ho cercato di fare del mio meglio. Alla fine, li ho fatti litigare abbastanza, quindi un po’ di dolcezza (senza esagerare) ci voleva, no? Comunque, il prossimo capitolo sarà incentrato su Nadia, la madre di Madison di cui ho scritto solo un paio di flashback sparsi. Il prossimo capitolo sarà maggiormente incentrato su di lei, riprenderà i flashback già visti e sarà cruciale. Non voglio essere melodrammatica ma mi sento in dovere di avvertirvi perché molti mi vorranno male, quindi stay tuned. Ormai siamo agli sgoccioli.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, recensito con poemi meravigliosi che mi hanno fatta sciogliere vergnosamente, messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino, se vi va!
Al prossimo capitolo, un abbraccio!

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Capitolo 14
*** XIII - Bad blood ***


Nota: il capitolo è ambientato completamente nel passato e riguarda la madre di Madison.


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XIII
 
Bad blood
 
“You've got a warm heart, you've got a beautiful brain.
But it's disintegrating, from all the medicine.
You could still be, what you want to.
What you said you were, when you met me”.
(Daughter – Medicine)
 
Francia, 1993

Nadia guardò fuori dalla finestra e scorse in lontananza un campo di lavanda, inspirandone il profumo e rilassandosi all’improvviso, dimenticando tutte le sue preoccupazioni. Nadia amava la Provenza e ci sarebbe rimasta fino alla fine dei suoi giorni.
Era lì che aveva impostato la sua vita, era lì che si era fatta affascinare dall’archeologia e da tutte le leggende che essa nascondeva, era lì che si era ritrovata a contatto con quel mondo nuovo, scoprendo l’esistenza di cose che non riteneva possibili.
Era lì che i suoi genitori, anche loro coinvolti nel soprannaturale, le avevano rivelato ciò che erano stati un tempo, quando lei era ancora una bambina.
I suoi genitori, Jonathan e Thiana, si erano fatti affascinare dal soprannaturale, da tutte le storie antiche che lo componevano e dalle persone che ne erano a conoscenza, così come i suoi nonni prima di loro. Sorrise al ricordo del suo primo incontro con il dottor Deaton, suo amico di vecchia data che le aveva insegnato qualcosa, durante il breve periodo in cui si erano incontrati.
Tuttavia, ogni minuto che trascorreva in quel luogo, Nadia non faceva altro che chiedersi come avrebbe fatto a resistere, per quanto altro tempo avrebbe represso ciò che sentiva davvero. Una parte di lei voleva soltanto correre dai genitori, abbracciarli e urlare loro che non era felice come aveva sperato, che le sue parole erano tante bugie messe accuratamente insieme come un quadro immensamente bello e perfetto nella tecnica che nascondeva una tristezza immensa e difficile da colmare. Nadia si sentiva vuota, spinta verso qualcosa che non apprezzava davvero: andava avanti per inerzia, solo per dimostrare di essere viva.
Odiava sentire addosso gli sguardi accigliati di Gwen che la osservava come se fosse la cosa peggiore che potesse capitare al branco.
Odiava notare le sue espressioni disgustate ogni volta che lo sguardo di Julian si posava su di lei, come se Gwen volesse staccarle la testa.
Odiava sentire la sua voce saccente e arrogante che contrastava ogni sua frase solo per il gusto di contraddirla e farsi notare dal suo alpha.
In realtà, a Nadia non importava nemmeno lontanamente: se fosse dipeso da lei, Gwen avrebbe potuto tranquillamente gettarsi fra le braccia di Julian e lasciarla libera. Non era un mistero ciò che Julian provava per lei, ma Nadia non era per nulla convinta su di lui, né su quello che voleva essere per lui.
Credeva che Julian fosse un buon alpha per il suo branco ma più passava il tempo più Nadia si rendeva conto di come quell’uomo nascondesse le peggiori barbarie dietro un effimero e falsamente corretto senso di giustizia. Sembrava più un comandante a capo di un piccolo esercito composto dai suoi beta e da lei.
Il potere di Julian aumentava e la sua umanità diminuiva. Il comportamento verso Nadia non era diverso da quello verso gli altri.
Non era rimasto nulla dell’uomo, del licantropo che suo padre le aveva chiesto di salvare, mentre una freccia intrisa di strozzalupo era conficcata nel suo fianco e il corpo tremava per gli spasmi. A quel tempo, Julian era ancora un alpha alle prime armi, completamente differente da ciò che era diventato nel corso del tempo, e Nadia gli aveva salvato la vita, impedendo che lo strozzalupo continuasse il suo percorso per arrivare direttamente al cuore.
Quel gesto aveva dato inizio ad ogni cosa, trascinandola verso quell’abisso dal quale difficilmente avrebbe trovato modo di scappare, poiché quel salvataggio improvviso e ben riuscito aveva portato Julian a chiedere che Nadia diventasse l’emissario del suo branco e forse anche qualcosa di più.
Evidentemente i suoi sentimenti non contavano né sarebbero mai contati.
Poteva fuggire e abbandonare il branco, a volte l’idea si insidiava così profondamente nella sua mente che Nadia poteva essere pronta a fare i bagagli.
Quella poteva essere l’occasione giusta per lei: Julian era partito insieme a Blake e Gwen per definire delle trattative con un gruppo di cacciatori, noti con il nome Argent. Aveva deciso di partire senza far muovere tutto il branco, così Nadia era rimasta lì, in quella casa che tutti loro condividevano insieme a Ridley e Bastian.
Poteva andare via per sempre e non tornare mai più, ma poi Nadia udì un mugolio proveniente dal divano alle sue spalle e si voltò, trovando Bastian che dormiva con espressione rilassata e serena, in netto contrasto con quella che gli aveva visto la notte in cui lo avevano portato da lei, ferito e impaurito come non mai.
Nadia sospirò, carezzando con una mano i capelli di Bastian e ricordando a sé stessa che non sarebbe mai stata in grado di abbandonare quel ragazzino.
Si avviò verso la porta, ma nel farlo Nadia andò a sbattere contro qualcosa, o meglio contro qualcuno che le afferrò le braccia per impedire che capitolasse.
Ridley la fissò con sguardo preoccupato, rivolgendole un sorriso rassicurante.
“Scusa, tutto bene?”, le domandò con una voce bassa e gentile che non mutava mai.
Ridley era un licantropo particolare, a prima vista non lo avrebbe mai definito tale, poiché i suoi modi erano così discreti e gentili che poteva apparire un essere umano come gli altri. Raramente prendeva la parola nelle discussioni del branco ma quell’unica volta che interveniva, i suoi punti di vista venivano sempre apprezzati, specialmente da Julian che aveva trovato in lui un buon beta, nonostante il trattamento che spesso gli riservava, trattandolo come un burattino.
Nadia fece un cenno di sì con la testa e poi si voltò verso Bastian che dormiva.
Ridley sembrò capire e così uscì dalla camera insieme a lei, sedendosi sui gradini del portico, lasciando che Nadia prendesse posto al suo fianco.
La osservò di sottecchi, notando come avesse poggiato la testa sulle ginocchia piegate e lasciando che i suoi lunghi capelli castani venissero illuminati dai raggi del sole, creando dei riflessi così luminosi da sembrare quasi ipnotici.
Nadia aveva una strana malinconia che camminava al suo fianco, rendendola allo stesso tempo triste ma ugualmente bellissima, come fosse uno spirito che vagava sulla terra in cerca di una pace che forse non avrebbe mai trovato. C’era qualcosa in lei che nessuno sembrava capire: non l’aveva mai vista sorridere davvero con gli angoli delle labbra del tutto sollevati all’insù. I suoi sorrisi erano appena accennati e deboli, come se fossero frutto di uno sforzo che non riusciva a compiere.
Era come se dovesse muovere un braccio che le doleva così tanto da toglierle il respiro, lo sollevava di poco, credendo di poter compiere quel semplice movimento e poi lo riportava verso il basso, consapevole del fatto che non potesse fare qualcosa di più.
“Ti manca Julian?”, domandò Ridley, giocherellando con qualcosa fra le mani.
Nadia emise uno sbuffo divertito. “Non è questo”, disse semplicemente.
“Allora cosa ti turba?”, chiese ancora lui, mentre Nadia osservava le sue mani.
“La voglia di andare avanti”, confessò lei, senza sapere perché stesse parlando proprio con lui.
Ridley non disse nulla, piuttosto, si voltò verso la donna che aveva sollevato il capo, rimanendo con gli occhi fissi sul bosco dinanzi a loro, e aspettò che continuasse. Nadia aveva qualche difficoltà a parlare di sé e una strana forza misteriosa sembrava spingerla a parlare con Ridley, invogliandola a dargli maggiore fiducia. In diverse occasioni si era sempre dimostrato leale verso tutti i componenti del branco, soprattutto verso di lei, nonostante la conoscesse solo come l’emissario del branco e la compagna scelta dal suo alpha. Tuttavia, c’erano momenti in cui Ridley sembrava guardarla in maniera diversa, andando al di là di quelle due definizioni incomplete e riduttive, come se Nadia fosse molto di più.
“Scusa, non so quello che ho detto”, ammise Nadia, chinando il viso ma sentendo chiaramente gli occhi indagatori di Ridley su di lei.
“Non lo so neanche io, ma mi piacerebbe sentirlo”.
Quando Nadia si voltò verso di lui, incontrando finalmente i suoi occhi che sembravano più azzurri di come li ricordasse, Ridley vide per la prima qualcosa di nuovo, qualcosa che non avrebbe mai pensato di scorgere: un sorriso vero.
 
“Possiamo ordinare una pizza?”.
Nadia alzò gli occhi dal sushi che stava preparando per rivolgere uno sguardo indignato a Bastian che, in risposta, sfoggiò uno dei suoi sorrisi più convincenti.
“Ragazzino, sto già cucinando”, esclamò Nadia, voltandosi completamente verso di lui.
Bastian gettò uno sguardo al sushi e si esibì in una smorfia disgustata, tornando a sedersi sul divano con un’espressione poco convinta che lo fece apparire quasi offeso. Ridley rise di gusto, notando il broncio del ragazzo, e rivolse uno sguardo eloquente a Nadia, cercando di non perdersi in quella scena che quasi lo distraeva: Nadia era bellissima, sapeva di una bellezza completamente diversa, una bellezza luminosa e spensierata che non aveva nulla a che fare con quella che le calzava di solito. In quei giorni trascorsi insieme a lui e Bastian, Nadia aveva smesso di sembrare un fantasma, ma era quasi tornata a vivere.
La donna, sospirando, afferrò un tovagliolo per pulirsi le mani e si avvicinò al telefono.
“E pizza sia”, affermò lei, facendo esultare Bastian mentre Ridley le sorrideva. “Ma visto che mi hai fatto preparare sushi inutilmente, andrai ad allenarti con Ridley”.
“Sei il male”, protestò il ragazzo, lasciandosi cadere sul divano e allargando le braccia, come era solito fare quando si arrendeva durante una sessione di allenamento.
“Fila”, lo rimbeccò Nadia, indicandogli la porta con la mano e osservando Bastian che, con una smorfia di fastidio, si dirigeva fuori ma questo non le impedì di dargli un buffetto.
Una volta che Bastian si ritrovò fuori, aspettando Ridley, Nadia si voltò per afferrare il telefono e chiamare la pizzeria più vicina ma una mano sulla sua vita la fece sussultare.
Ridley poggiò il viso sulla sua spalla e le scoccò un bacio sulla guancia, assaporando la morbidezza della sua pelle nivea e il profumo di lavanda che emanava.
Nadia fece per scostarsi ma non riuscì a trattenere una risata mentre Ridley cercava di rubarle un altro bacio, donandole una dolcezza che non aveva mai conosciuto.
“Bastian ti aspetta fuori”, gli ricordò Nadia, facendo un cenno alla porta e voltandosi nell’abbraccio per posargli le mani sul petto e spingerlo delicatamente via.
Ridley inarcò un sopracciglio e fece per avvicinarsi ancora ma Nadia glielo impedì, riservandogli un sorriso fintamente dispiaciuto e facendo segno alla porta.
“Sei malvagia”, la accusò lui con tono offeso.
Nadia posò le mani sui fianchi e scosse la testa, sentendosi quasi un’adolescente alle prese con il primo amore, ma l’effetto che Ridley aveva su di lei era qualcosa di completamente nuovo, per nulla paragonabile a ciò che aveva vissuto prima di allora.
“No, sono prudente”, rispose lei, mentre il tuo tono diventava lievemente ansioso.
“E’ un ragazzo”, esclamò Ridley, prendendole una mano e cercando di rincuorarla per evitare che entrasse nel panico. “Non lo capirebbe mai, credimi”.
Nadia non rispose, limitandosi a fare un cenno con il capo e ad allontanare tutti i brutti pensieri che l’assalivano in quei momenti, quando ricordava che quello che stava vivendo non era un sogno e che presto o tardi ci sarebbero state delle conseguenze.
“Credi che continuerà a stare bene?”, domandò Nadia, cambiando argomento mentre il ricordo di Bastian che si svegliava in preda agli incubi faceva capolino nella sua mente.
“Lo spero”, rispose Ridley, convinto. “E’ ovvio che senta la mancanza della sua famiglia. E’ così giovane, un ragazzino non dovrebbe gestire tutto questo…è ingiusto”.
“Bastian è nato licantropo”, gli fece notare Nadia, cogliendo una nota di amarezza nella voce di lui. “Lo so, ma non augurerei mai questa vita ad un ragazzo”, affermò Ridley, facendo un passo indietro mentre i suoi occhi mostravano quell’inquietudine che Nadia aveva conosciuto.
Nadia allungò una mano, carezzandogli il braccio come per dargli conforto a quel ricordo orribile che aveva preso piede nel suo cuore: Ridley era stato morso quando era ancora giovane, per puro caso e per uno stupido scherzo del destino. Era stato costretto a fuggire, ad abbandonare la sua famiglia, facendo credere loro che fosse scomparso o semplicemente morto, perché la sua natura lo rendeva troppo pericoloso. Aveva rischiato di fare del male al suo fratellino e non poteva permettere che accadesse ancora. Non aveva una guida, nessuno che potesse aiutarlo a trovare un controllo, un’ancora. Ridley era sempre stato solo da allora, aveva imparato a gestire i suoi poteri e i suoi istinti ma aveva preferito fuggire piuttosto che coinvolgere qualcuno a lui caro. Non avrebbe augurato quella vita a nessuno, nemmeno al suo peggior nemico. Aveva visto altri bambini e ragazzi costretti a quel genere di vita, ma un conto era nascere licantropo e avere una famiglia accanto pronta a indicare loro la strada, un conto era ritrovarsi solo con un potere più grande e difficile da gestire.
“Bastian è un po’ come un fratello minore”, disse lui, mostrando un debole sorriso. “Mi ricorda Leo, e non augurerei questa vita a nessuno di loro”. (1)
Nadia sorrise, ricordando delle parole in particolare pronunciate da Ridley qualche tempo fa.
“Non vorrei che mio figlio fosse un licantropo, dovrebbe avere una vita normale”.
Quella frase era impressa a fuoco nella sua mente fin dal giorno in cui Ridley l’aveva enunciata, dinanzi a lei, Julian e al resto del branco. Gwen aveva ovviamente ribattuto, ricordandogli che bisognava mandare avanti la licantropia e la linea della famiglia.
Julian aveva trattenuto uno sbuffo divertito a quella piccola diatriba ma non si era espresso, poiché tutti loro sapevano quanto il loro alpha fosse legato al suo essere licantropo. A differenza di Ridley, Julian sembrava augurare ad altri quella vita: credeva che i più giovani andassero cresciuti e addestrati. Quando Nadia lo sentiva parlare, credeva si riferisse a dei soldati.
“Ehi, Ridley! Io sarei qui fuori”, urlò Bastian dall’esterno.
Ridley si ridestò e baciò teneramente la fronte di Nadia, sfiorando la sua guancia con le dita e allontanandosi definitivamente per raggiungere Bastian.
“Preparati, ragazzino!”, disse lui ad alta voce, rivolgendo un ultimo sguardo a Nadia prima di aprire la porta di casa e precipitarsi fuori dove lo aspettava il ragazzo.
Nadia poggiò le mani sul bancone della cucina, abbandonandosi ad un profondo sospiro e passandosi una mano sulla fronte. Sperava che Ridley non facesse troppo caso al suo nervosismo in quel momento ma Nadia era pur sempre un druido e sapeva come nascondere determinate cose al suo branco, anche quelle più banali. Tuttavia, si chiedeva per quanto tempo sarebbe riuscita a nascondere i suoi veri sentimenti al ritorno di Julian. Sapeva che quella favola avrebbe trovato la sua fine, che lei e Ridley non avrebbero avuto alcun futuro, perché come potevano averlo?
 
Prese un altro respiro, decisa a non farsi prendere dal panico, almeno per quel giorno, perché quel giorno Nadia doveva indossare la sua maschera per il ritorno del loro alpha. Rivedere Julian che faceva il suo ritorno a casa, insieme a Gwen e Blake, fu un po’ come vedere una ferita che si riapriva subito dopo aver completato la sua guarigione. Dopo aver impiegato tanto tempo per fare in modo che quella ferita si rimarginasse, ecco che veniva colpita ancora una volta, mentre il sangue riprendeva a fuoriuscire a fiotti.
Nadia guardò Julian che le andava incontro, sorridendole da lontano con la solita espressione soddisfatta, come se non aspettasse altro che rivedere lei.
Vide Blake che correva ad abbracciare Bastian, scompigliandogli i capelli, mentre il ragazzo si stringeva a lui come se avesse visto tornare un fratello maggiore, e Ridley gli diede un’amichevole pacca sulla schiena, ricambiata da uno spintone e un sorriso amorevole.
Invece, Gwen si limitò a dei sorrisi tirati verso tutti loro, in particolare verso Nadia, tenendosi in disparte con le braccia incrociate, come se quella non fosse la scena a cui voleva assistere. Era chiaro che Gwen avrebbe preferito non tornare mai più.
Julian portò una mano attorno alla vita di Nadia, stringendola forte come per rimarcare ciò che ormai sapevano tutti, e l’abbracciò.
“Mi sei mancata, Nadia”, esclamò con voce bassa e sorridendo sulle labbra, mettendo Nadia più a disagio di quanto non fosse già.
La sola presenza di Julian riprendeva a farla sentire intrappolata in una prigione, mentre le mani di lui erano le sue catene.
Nadia gli rivolse un sorriso poco convinto, che non sembrò destare troppi sospetti, complice il suo carattere poco espansivo e molto discreto.
Intanto, Ridley aveva dovuto fare appello a tutte le sue forze per non voltarsi e guardare quella scena, mentre il sangue gli ribolliva nelle vene e il suo cuore martellava per tentare di svegliarlo, urlandogli che non poteva assistere a qualcosa del genere. Si sentiva un verme. Dopo tutto quello che Julian aveva fatto per lui, accogliendolo nel suo branco, lui si ritrova ad amare immensamente una donna che non sarebbe mai stata sua. Poteva esserci forma peggiore di tradimento?
Era così orribile desiderare di fuggire insieme alla donna di cui era innamorato, lasciandosi alle spalle tutto e tutto? Qualcun altro avrebbe agito in maniera più impulsiva, forse senza farsi troppi scrupoli, ma Ridley si sentiva ancora troppo umano per ignorarli.
Mentre ascoltava le parole di Blake su come il viaggio fosse stato esaltante e su quanto avesse preso in odio la famiglia Argent, Ridley si voltò piano verso Nadia, ancora stretta tra le braccia di Julian. La guardò negli occhi, leggendo il suo sguardo che cambiava ancora, mostrando tutta la tristezza che aveva messo da parte in quel mese passato insieme a lui. Non sarebbe riuscito a sopportare di vederla nuovamente in quello stato, mentre il suo corpo riprendeva a diventare trasparente, perdendo la sua consistenza e trasformandola di nuovo in quel fantasma senza vita che vagava per i boschi, in cerca di pace.
Forse erano destinati all’infelicità e alla tragedia.
 
 
Era la vertigine, la consapevolezza di potersi abbandonare a qualcosa, sapendo che niente e nessuno gliela avrebbe strappata via dalle mani: Nadia non credeva che avrebbe mai provato sulla propria pelle sensazioni simili, eppure era accaduto. Fino a qualche tempo fa, avrebbe fatto qualsiasi cosa per fuggire, mentre in quel momento, avrebbe desiderato fare qualsiasi cosa per restare oppure per fuggire ma non da sola.
Si era persa nell’immagine delle sue dita intrecciate perfettamente con quelle di Ridley, dando vita ad un incastro che non avrebbe mai creduto possibile.
Si era persa nella sensazione suscitata dalla labbra ruvide di Ridley sulle sue che l’aveva baciata all’improvviso, senza dare a nessuno dei due la possibilità di realizzare cosa stesse accadendo.
Era stato un bacio diverso, un bacio nuovo e delicato, che nascondeva una domanda che forse non le avrebbe mai pronunciato ad alta voce, una domanda dettata dal cuore. Ma la felicità, la gioia di aver trovato qualcuno che la facesse sentire finalmente viva, senza alcuna voglia di dire addio a quella vita che le stava troppo stretta, era subentrata la paura.
Nadia prese a camminare nervosamente per la casa, cercando di calmare l’ansia che aveva messo radici in tutto il suo corpo, al pensiero di ciò che sarebbe successo. Come avrebbe fatto a guardare il volto di Julian, se la sua mente la costringeva a visualizzare continuamente quello dolce e sorridente di Ridley?
Nadia impose a sé stessa di calmarsi e prese a fare piccoli respiri per riprendere il controllo: era certa del fatto che Julian non avrebbe sospettato nulla, grazie ad un infuso, contenente un pizzico di strozzalupo che era in grado di inibire leggermente i sensi dei licantropi quel tanto che bastava e bacche di Gaia per evitare che riconoscessero ogni odore. (2)
Tuttavia, non poteva usarlo per sempre. A quel punto, la sua vita sarebbe diventata solo un’enorme menzogna dalla quale non avrebbe avuto alcuna via d’uscita.
Stava iniziando a sudare freddo e a sentire il proprio battito sempre più accelerato, ma quando Ridley varcò la soglia della sua camera, ogni malessere sparì.
L’uomo le corse incontro e Nadia si gettò tra le sue braccia, lasciandosi cullare, mentre Ridley le carezzava i capelli, ignaro di ciò che fosse appena successo.
“Ehi, Nadia?”, la richiamò lui, prendendole il viso tra le mani.
“Non posso andare avanti”, confessò Nadia, tentando di arrestare le lacrime. “Non possiamo andare avanti. Julian è tornato, e per noi due non c’è futuro. Io-“.
Ridley posò dolcemente un dito sulle sue labbra. “Andremo via”.
“Cosa?”, domandò Nadia, confusa e incredula a ciò che aveva udito.
“Scapperemo. Domani”, si spiegò lui, quasi entusiasta all’idea.
“Ma…il branco”, gli fece notare lei, riacquistando lucidità. “Bastian. Saresti davvero disposto a lasciare tutto questo? Ad andare via…per me?”.
“Per noi”, la corresse Ridley. “Blake baderà a Bastian, tiene a lui almeno quanto noi”.
Nadia gli sorrise, riprendendo quella luminosità che per un attimo Ridley aveva visto offuscata, ma la sua proposta era bastata a far tornare il sole sul suo viso.
“E’ da pazzi”, dichiarò Nadia, mentre Ridley le asciugava un’ultima lacrima.
“Noi lo siamo. L’uno per l’altra”.
Ridley le prese una mano, posandole un bacio sulle nocche e poi voltandosi per assicurarsi che fossero soli e non ci fosse nessuno nelle vicinanze.
“Domani a mezzanotte alla stazione dei treni. Siamo solo io e te, intesi?”.
Nadia fece un cenno di assenso, trattenendo le lacrime, mentre Ridley le baciava la fronte e cominciava ad allontanarsi, tenendo stretta la sua mano fino a quando non fosse stato abbastanza lontano da doverla lasciare per forza.
Quando Nadia rimase sola, tuttavia, quella sensazione di ansia e paura tornò alla carica, come se avesse aspettato nell’ombra che lei fosse abbastanza debole per attaccare. Il cuore di Nadia riprese a martellarle nel petto e il suo respiro si faceva più affaticato, mentre un senso di nausea si faceva spazio nel suo corpo: l’ultimo attacco di panico c’era stato quando Nadia aveva soltanto dieci anni e un incubo terribile a tormentarla.
Si sedette sul letto della sua camera, ma non appena il suo corpo toccò il materasso, Nadia sentì una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco che la spinse ad alzarsi di botto dal letto e a coprire la bocca con una mano. Corse in bagno, sentendo tutta l’ansia e tutto il disagio da lei provato che veniva rigettato. I sintomi erano sempre stati quelli: sudorazione, battito accelerato, nausea…Nadia credeva di aver superato la fase degli attacchi di panico.
Si sciacquò il viso, sentendosi leggermente meglio, anche se la sensazione di fastidio a livello del ventre non sembrava essersi volatilizzata. Per un attimo, Nadia incontrò il suo riflesso nello specchio e quello che vide la lasciò di stucco: c’era qualcosa di diverso nel suo viso, qualcosa che la faceva sembrare cambiata. Il suo volto era più pieno e luminoso, diverso da quel volto scarno e pallido che aveva sempre mostrato prima della partenza di Julian. Le venne da sorridere, pensando che forse era stato Ridley ad indurre quel cambiamento sia interno che esterno.
Tuttavia, quando Nadia portò una mano sul ventre senza neanche sapere perché lo avesse fatto, un’epifania la colpì in pieno proprio come un treno in corsa, mentre la realizzazione di ciò che forse era accaduto prendeva consistenza anche sul suo viso.
Le pupille divennero lievemente dilatate, mentre le labbra cominciarono a tremare al pensiero di cosa potessero significare quei sintomi e di cosa sarebbe accaduto. Non poteva essere vero. Non doveva essere vero.
 
 
Venire a capo di quella situazione non fu difficile, almeno non dal punto di vista pratico.
Funzionava in quel modo: ci si sottoponeva ad una visita medica, si facevano delle analisi del sangue o un semplice test per scoprire se le proprie impressioni erano fondate. Ed era esattamente ciò che Nadia aveva fatto, aiutata anche da sua madre.
Avere l’appoggio di Thiana fu qualcosa di così confortante che per un attimo Nadia aveva dimenticato la gravità della situazione, che era poi tornata a tormentarla.
Avrebbe desiderato che le cose fossero diverse, che non si era davvero ritrovata ad aspettare un bambino, un bambino che non era di Julian, e di quello ne era più che certa. Tuttavia, nella sua mente gli ingranaggi avevano già iniziato a muoversi e prendere vita per trovare una soluzione, anche se temporanea.
Tutto il tempo che aveva passato con Julian da quando era tornato, non aveva fatto altro che infliggerle sempre più dolore, mentre una parte di lei si spezzava sempre di più al pensiero di Ridley e di come lo avrebbe voluto accanto.
Si portò una mano sul ventre e per un attimo immaginò quel bambino, un bambino umano, senza la licantropia ad opprimerlo e a cambiare radicalmente la sua vita. Per un attimo, pensò a quel bambino o forse a quella bambina, Nadia aveva immaginato entrambe le varianti, ma il problema era che nessuna delle due avrebbe mai potuto passeggiare mano nella mano con i suoi genitori: avrebbe vissuto solo con uno di loro o forse con nessuno. Vide quel volto dolce e si chiese il colore dei capelli che avrebbero incorniciato il suo viso, oppure il colore degli occhi che poteva essere come il suo o come quello di Ridley.
“Sei sicura di quello che fai, Nadia?”, le chiese sua madre, stringendole una mano.
Nadia fece un cenno con il capo, senza aprire bocca per parlare perché la sua mente era troppo affollata da pensieri che non riusciva a mettere correttamente insieme. Aveva pensato ad ogni via d’uscita, ad ogni alternativa e scappatoia ma nessuna di esse era in grado di metterla completamente fuori pericolo: ognuna di esse era rischiosa e ognuna avrebbe potuto avere conseguenze difficili da risolvere e sopportare.
Scappare subito significava morire.
Dire la verità significava morire.
Restare significava morire.
Ogni cosa significava morire.
Così, Nadia fece l’unica scelta che le avrebbe permesso di vivere quel tanto che bastava per elaborare un piano di fuga e far nascere il suo bambino: mentire.
Quando tornò a casa, Nadia guardò l’orologio, notando che mancavano appena venti minuti a mezzanotte mentre l’ora che segnava la fine della sua vita era scoccata da molto. Pensò a Ridley che la stava aspettando alla stazione dei treni, invano.
Chissà cosa avrebbe fatto: sarebbe andato via, senza tornare mai più o sarebbe tornato indietro, sopportando la vista di lei e della scelta sbagliata che aveva fatto?
Nadia avrebbe tanto voluto dirgli la verità, svelargli ciò che l’aveva costretta a fare quella scelta, con l’intento di proteggere lui e quel bambino che portava in grembo. Fu come riavvolgere un nastro, sul quale era incisa tutta la sua vita, iniziata nel momento in cui gli occhi di lei e Ridley si erano incontrati.
Nadia vide la sua vita passarle davanti agli occhi, passato, presente e futuro, quello che non avrebbe mai avuto insieme a Ridley e al loro bambino, perché l’immagine di loro tre era sfocata e macchiata dal sangue che avrebbero versato.
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Qualche precisazione prima di andare avanti e salutarvi:
  • (1) Leo è il fratello minore di Ridley;
  • (2) l’idea dell’infuso mi è venuta all’improvviso, e le bacche di Gaia che neutralizzano gli odori provengono dalla puntata 2x04 di Merlin;
  • come ho già detto, la morte di Nadia è accennata nei capitoli I e VIII, le dinamiche precise verranno fuori più avanti;
  • Nadia: è chiaro che stesse con un uomo di cui non era innamorata e che non l’ha mai amata (perché Julian non è certo un personaggio incline ai buoni sentimenti), quindi si innamora, ricambiata, di Ridley e riescono a nascondere al branco che hanno avuto questa relazione. Decidono di scappare ma quando Nadia scopre di aspettare un bambino cambia idea e decide di restare per dare al bambino la possibilità di sopravvivere. Questa è solo la prima parte, i prossimi eventi verranno fuori nei capitoli successivi, così come anche la reazione di Ridley in seguito alla decisione di Nadia.
Lo so, sono in ritardo mostruoso e vi chiedo immensamente scusa ma questo capitolo è stato un parto. Scriverlo è stato davvero difficile perché avevo prima scritto una versione con flashback e scene del presente che si alternavano ma non riuscivo a gestirle come volevo, quindi alla fine ho optato per un capitolo ambientato completamente nel passato.  Direi di aver fatto tutte le precisazioni necessarie, se avete domande o dubbi non esitate a chiedere.
Questo capitolo non mi soddisfa per niente, credo di aver fatto un pastrocchio bello e buono, quando ho avuto l’idea di tutta questa vicenda, sapevo che sarebbe stata difficile da raccontare, ma non pensavo lo fosse così tanto, quindi vi chiedo scusa per questa “cosa” senza capo né capo.
Spero che nessuno di voi mi voglia male per la questione di Ridley (mi sento un mostro, davvero u.u), ma era una cosa che mi frullava in mente fin dall’inizio e non volevo farmi scoprire. Quindi, non potevo certo rivelarla, no? Allora, secondo voi qual è la verità e cosa vuole Julian?
Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Ringrazio tutti coloro che hanno letto la storia, messo tra le seguite/preferite/ricordate e che mi hanno lasciato recensioni stupende...grazie di vero cuore <3
Alla prossima, un abbraccio!

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Capitolo 15
*** XIV - Requiem ***


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XIV
 
Requiem
 
“Really too late to call, so we wait for
morning to wake you; it’s all we got
to know me as hardly golden
is to know me all wrong, they were”.
(Band of Horses – The Funeral)
 
Lana cercò di non sentire la solitudine che le stava piombando addosso, nel momento in cui aveva aperto la porta di casa, quella casa che aveva sempre diviso con Madison. Ogni volta che tornava dai suoi turni improponibili del Wolf’s Street, accendeva la luce dell’ingresso, nella speranza di trovare Madison con due caffè fumanti tra le mani. Quello era soltanto uno dei loro rituali.
Un altro prevedeva che vedessero almeno un film quando non riuscivano a prendere sonno. Lana sentiva così tanto la mancanza di Madison, che aveva passato diverse serate a guardare alcuni dei suoi film preferiti, solo per ricordarla.
Fingeva di averla accanto e costruiva dialoghi immaginari nella sua testa, che terminavano quasi sempre con una cuscinata sferrata da lei.
Quando sullo schermo apparivano i titoli di coda, Lana si voltava...e accanto a lei non c'era nessuno.
Nessuno che ripeteva quanto Lo Hobbit fosse un film straordinario; nessuno che blaterava sul trauma che avesse colpito Luke Skywalker nell'apprendere la vera identità di suo padre; nessuno che la rimproverava per il poco interesse che mostrava verso quei film.
Prima che Lana trovasse il coraggio di accendere la luce, notò la finestra aperta e poteva assolutamente giurare di averla chiusa prima di uscire.
Non fece in tempo ad elaborare quel pensiero che una mano si posò sulla sua bocca, intimandole di fare silenzio. Le mani che l’avevano afferrata saldamente non avevano un tocco rude, anzi, cercavano quasi di proteggerla. Tuttavia, pestò un piede del suddetto ladro, aggressore o qualunque cosa fosse, facendolo gemere per il dolore provocato dal suo fidato tacco dodici e afferrò l’ombrello, puntandolo contro di lui.
Quando la luce fioca dell’appartamento illuminò il volto dello sconosciuto, Lana pensò davvero di essere semplicemente impazzita, mentre osservava il volto sofferente di Keith dinanzi a lei.
“Keith?”, domandò con una leggera incertezza nella voce, abbassando l’ombrello.
Il ragazzo si teneva il piede in una mano e aveva sollevato l’altra, in segno di saluto.
“Ciao, anche io sono felice di vederti”, dichiarò con un sorriso tirato.
Sembrava completamente diverso da come lo ricordava: il volto era stanco e scarno, la fronte era piena di rughe come se mille pensieri lo cruciassero ed era completamente zuppo.
Keith Donovan aveva sempre mantenuto un aspetto curato e impeccabile, mostrandosi alle persone come il ragazzo irresistibile dal sorriso sornione e la battuta sempre pronta, ma in quel momento a Lana parve tutt’altro: un uomo distrutto, il fantasma di sé stesso.
“Cosa diamine ci fai qui?”, chiese Lana, mentre un pizzico di isteria irrompeva nella sua voce.
Keith si voltò, incastrando gli occhi verdi stanchi ma decisi in quelli di Lana, resi ancora più grandi dalla paura e dal nervosismo che aveva preso a pervadere le sue membra.
Per qualche strano motivo, Lana percepiva quanto la presenza di Keith fosse importante.
“Dobbiamo parlare”.
 

Lo sguardo di Derek era rivolto al paesaggio che si ergeva fuori dalla finestra di quella stanza.
Il lieve fruscio degli alberi gli permetteva di sentire quell’evento sempre più vicino. Non si voltò verso Scott,  Stiles, Isaac e Cora, ma si incamminò verso la porta, pronto a scendere al piano di sotto e parlare con gli altri ma la voce di Stiles lo trattenne.
“Sei sicuro di volerlo fare?”.
Derek fece un cenno di assenso. Sapeva quanto fosse rischioso per tutti, come sapeva che Madison non avrebbe approvato quell’idea ma non poteva permettere che fosse coinvolta nello scontro. Doveva proteggerla e l’unico modo per farlo era tenerla lontana da quella casa.
Gli fece uno strano effetto sentire quei suoi stessi pensieri, come un segreto tenuto nascosto tanto a lungo e che veniva finalmente portato alla luce. Il suo cuore aveva iniziato a ricomporsi così lentamente che Derek quasi non ci aveva fatto caso: gli era solo capitato di sentire un calore appena percepibile a livello del petto.
“Ce ne occuperemo noi, insieme a Lydia e Isaac”, aggiunse Cora, più che convinta.
Derek portò lo sguardo su sua sorella, in una muta richiesta che la ragazza percepì non appena gli occhi verdi di Derek si posarono su di lei. Suo fratello le stava silenziosamente chiedendo di fare attenzione, di tornare tutta intera, di proteggere non soltanto sé stessa ma anche Madison.
“La proteggeremo”, intervenne Stiles, capendo subito il significato degli sguardi tra i due.
Prima di dirigersi verso le scale, Derek non poté fare a meno di osservare Isaac che camminava accanto a Cora, come se la stesse scortando, e la cosa lo fece sorridere, perché non avrebbe mai pensato di vedere Isaac preoccuparsi per qualcuno a quel modo, dopo Allison. Ricordò la notte in cui Isaac aveva cercato di parlare di Cora e lo sguardo assassino che lui gli aveva rivolto, captando le sue intenzioni ancor prima che le formulasse lui stesso. Vide il braccio di lei che sfiorò distrattamente quello di Isaac, e i suoi occhi chiari da bambino che la osservavano.
Isaac sentì lo sguardo di Derek su di sé, e si voltò, leggendo chiaramente una raccomandazione silenziosa nei suoi occhi. Isaac semplicemente lo guardò fisso, deciso a fare il possibile per tenere sia Cora che gli altri al sicuro, e a tornare a casa tutti insieme, possibilmente illesi.
Quando scesero al piano inferiore, notarono il cambiamento allarmante che aveva preso il sopravvento all’interno del soggiorno di casa: Kira e Peter erano accanto alla finestra; Lydia se ne stava in piedi al centro della stanza con le braccia strette al petto e l’espressione terrorizzata mentre Bastian li osservava, preoccupato. Stiles si avvicinò a Madison, mostrandole la fiala.
Derek osservò la scena con attenzione, guardando Madison che portava la fiala alle labbra, stringendole in una smorfia così buffa che quasi gli venne da ridere, per poi riaffondare nel buio.
Madison ebbe modo di osservare il viso di Derek, ridotto ad una maschera di preoccupazione e pentimento, come se quel clima avesse cancellato ciò che era appena accaduto fra loro. Improvvisamente, Derek era tornato ad essere sfuggente ed inafferrabile, con quello sguardo che valeva sempre più di mille parole e che racchiudeva tutta la sofferenza possibile.
Tuttavia, Madison non voleva che andasse incontro a ciò che lo aspettava, non in quel modo. Gli si avvicinò e portò le mani attorno al suo viso, leggendovi tutto il senso di colpa che Derek si era sempre portato addosso fin da ragazzo.
Il licantropo rivolse i suoi occhi a Madison, permettendole di leggere tutte le cose che avrebbe tanto desiderato dirle, ma il momento non glielo permetteva, così le strinse la mano.
Scott si voltò verso Derek, avvicinandosi a lui.
“Bastian dice che, conoscendo Julian, ci attaccheranno direttamente qui”, esordì il ragazzo.
“Con tutto il rispetto, amico”, intervenne Stiles. “Va bene che sei venuto da noi ma abbiamo ricevuto fin troppi calci nel sedere per evitare di essere sospettosi. Non puoi mica biasimarci?”.
Derek fece un cenno di approvazione a Stiles, tornando a guardare Bastian mentre Madison fremeva accanto a lui, chiedendosi cosa avesse spinto Bastian da loro.
“Non mi importa di essere compreso, quello che mi interessa è impedire che Julian faccia ciò che ha in mente. Io resterò qui a scontrarmi con il mio stesso branco se necessario”.
Madison rimase colpita da quelle parole, riflettendo sulle azioni di Bastian e sua madre.
Nadia era una completa sconosciuta per lei e l’unica cosa che Madison potesse fare era guardare sua madre attraverso gli occhi e i ricordi degli altri. Aveva ricordato Nadia grazie a ciò che i suoi nonni le avevano raccontato, aveva ascoltato con entusiasmo le loro parole, immaginando sua madre che camminava a passo svelto per raggiungere il museo in cui lavorava, nella speranza di non fare ritardo. Aveva visto solo quel viso pulito e meraviglioso, senza sapere come fosse la sua voce o cosa pensasse davvero: poteva dedurlo soltanto dalla sua espressione o da ciò che le veniva detto.
Non aveva la più pallida idea degli ideali in cui credesse sua madre, ma quel Bastian sembrava conoscerli così profondamente da averne tratto qualcosa.
Portò una mano sul braccio di Derek, facendo in modo che si voltasse a guardarla con espressione confusa, in attesa che dicesse qualcosa. Madison si limitò a fare un cenno con il capo, dovevano accettare l’aiuto di Bastian, per quanto inaspettato: era l’unica alternativa.
“Stai scherzando, vero?”, le domandò Derek, facendo un passo indietro. “Se fosse un piano ideato apposta per ingannarci? Se Julian stesse solo aspettando una sua mossa?”.
Bastian fremette a quelle parole, come per trattenere la rabbia e l’indignazione.
“Allora ne usciremo ugualmente”, rispose Madison con voce tranquilla, nonostante la calma fosse proprio una qualità che aveva perso da quando era iniziato tutto.
Non era tranquilla, tremava dalla paura e probabilmente sia Derek che gli altri licantropi presenti in quella stanza riuscivano a percepirla come fosse la loro, ma a Madison non importava. Le sue paure non potevano peggiorare la situazione. Il suo dolore non poteva far vacillare nessuno di loro. La sua tristezza e la sua voglia di scappare, correre via e raggiungere Lana non potevano prendere il sopravvento, non in quel momento. Voleva essere forte per Lana, che in quel momento doveva trovarsi al Wolf’s Street a servire drink con la mente rivolta altrove, forse verso lei. Voleva essere forte per i suoi nonni che avevano perso la vita. Voleva essere forte per quei ragazzi sopravvissuti che la circondavano. Voleva essere forte per sua madre. Voleva essere forte per Derek che sicuramente stava lasciando che ogni immagine di morte e distruzione attraversasse la sua mente come se niente fosse. Forse si stava pentendo dei loro baci, delle loro parole e forse stava maledicendo sé stesso per averla incontrata, per essere andato a Berkeley e per averla portata a Beacon Hills, lasciando che venisse coinvolta. Madison poteva anche non essere un licantropo, poteva anche non avere i loro sensi, ma ormai aveva imparato a leggere Derek, a guardarlo e a vedere tante parole disposte a caso che lei doveva mettere insieme.
“Non posso permettere che accada il peggio. Stiamo per darti a Julian su un piatto d’argento”.
“Non succederà”, insistette Madison, costringendo Derek a guardarla negli occhi, come per sottolineare ciò che aveva appena detto. “Io non verrò data a nessuno su un piatto d’argento, d’accordo? Andrà tutto bene, fin quando ci sarai tu”.
“E’ proprio grazie a me che qualcuno non ne è mai uscito salvo”.
Derek aveva quasi confessato quelle parole. Non aveva assistito alla morte di Allison ma aveva letto il dolore nel viso di Scott, aveva letto la disperazione in quello di Lydia e il senso di colpa sul viso di Stiles che aveva creduto di impazzire per colpa del Nogitsune. Tutti quei problemi si erano verificati in seguito a tutti gli errori che Derek aveva compiuto. Aveva lasciato che i suoi beta si allontanassero da lui, andando incontro alla morte: aveva perso Erica, aveva praticamente ucciso Boyd, aveva visto Isaac trovare sicurezza in un alpha migliore di lui. Aveva visto Aiden morire tra le braccia di suo fratello, e lui era rimasto inerme a guardare qualcun altro che perdeva la vita.
Non era stato un buon alpha, non era una giusta guida e non era in grado di salvare qualcuno, perché con Madison doveva essere diverso? Avrebbe fallito, ancora una volta.
Madison aveva colto la nota di rammarico nei suoi occhi e con lei anche Scott, spinto dal desiderio di dirgli qualcosa, ma Stiles gli posò una mano sul braccio, come per trattenerlo perché loro, per quanto presenti, non centravano nulla con quel momento. Era come vedere una bolla di sapone con Derek e Madison al suo interno, e parlare a Derek avrebbe significato infrangere quell’idillio.
“E’ grazie a te se sono ancora viva e umana”, sussurrò Madison. “Tu mi hai trovata , anche se all’inizio avresti preferito farti investire da un’auto ricoperta di strozzalupo”.
Derek non riuscì a reprimere un sorriso sincero a quelle ultime parole.
Tuttavia, a quella frase seguì un tonfo che riuscì ad abbattere ogni cosa che si era appena creata o consolidata all’interno di quella casa.
Derek rivolse un cenno del capo a Stiles e Cora, scambiando con entrambi un qualche messaggio segreto di cui Madison non era a conoscenza. Portò le labbra alle sue, beandosi di quel contatto che riusciva a lavare via tutto il sangue che sporcava le sue mani luride e tutto il dolore che gli annebbiava la mente, come una foschia continua che sembrava non avere mai fine.
“E intendo salvarti ancora. Non odiarmi per questo”.
Madison lo fissò, sentendosi disorientata, ma prima che potesse chiedergli qualsiasi cosa, sentì delle mani fredde poggiarsi sulle sue spalle, allontanandola da Derek e dalla sua casa. Vide Cora dinanzi a lei e cercare di dibattersi non portò a niente. Aveva udito un ululato e il suono di vetri che si infrangevano contro il pavimento ma il suo essere umana non l’aveva aiutata a districarsi dalla presa ferrea di Isaac che l’aveva stretta sempre più forte, come per farle da scudo.
Madison sentì i suoi occhi inondarsi di lacrime, mentre nella sua testa affiorava l’immagine di Derek chino sul pavimento con la maglietta imbrattata di sangue e Julian dinanzi a lui, pronto a lacerargli la gola con i suoi artigli. Derek era lì, a morire in casa sua, insieme agli altri, mentre lei veniva portata via, come se tutta quella vicenda non le interessasse, come se non dovesse esservi coinvolta, ma era lei la causa scatenante e non meritava di starne fuori.
Poi, fu soltanto buio: nessun rumore, nessuna voce.
 
“Stiamo per giocare a nascondino?”.
La voce acuta di Julian risuonò all’interno della casa, come una melodia perfetta.
Derek sfoderò gli artigli e lasciò che il blu dei suoi occhi scintillasse, provocando in Julian una leggera risatina che lo fece soltanto infervorare maggiormente, e dovette fare ricorso a tutto l’autocontrollo che aveva in corpo per non saltargli alla gola.
Il ringhio di Bastian catturò l’attenzione di Julian che si voltò verso di lui per rivolgergli uno sguardo di puro rancore, accompagnato da quella smorfia che non aveva l’aspetto di un sorriso gentile.
Peter si fece più vicino a Scott e Kira che stringeva fedelmente la sua katana, pronta allo scontro mentre Bastian faceva un passo avanti, sempre più determinato a continuare la strada intrapresa.
Ridley non poté fare a meno di guardarlo e aprì la bocca per dire qualcosa, mentre Bastian lo osservava, mortificato, come se sapesse che, in cuor suo, Ridley avrebbe tanto desiderato combattere al suo fianco ma qualcosa glielo impediva.
Ogni pensiero venne brutalmente interrotto da Julian che, dopo essersi voltato verso Blake e Gwen, si scagliò a tradimento contro Derek, cogliendolo di sorpresa. A quel gesto, tutti i presenti nella stanza cominciarono a lottare, senza sprecare tempo, come se quello non fosse stato altro che un segnale, una scossa, una sirena che aveva dato inizio a tutto.
Bastian puntò subito Gwen, mostrando le zanne e colpendola con la mano destra. La donna rise malignamente ed evitò il colpo quasi con grazia e leggerezza, compiendo un movimento appena percettibile che lo destabilizzò, e ne approfittò per sferrargli un calcio. Tuttavia, prima che riuscisse a colpirla, la sua gamba venne bloccata dalle mani di Bastian che guardò la donna con aria di sfida.
“Perché diamine vi sto aiutando?”, domandò Peter, gettando un’occhiata malevola a Kira, mentre entrambi cercavano inutilmente di fronteggiare Blake.
Potevano anche essere in maggioranza, ma il branco di Julian era molto più forte: Blake aveva una forza non indifferente che lo rendeva capace di lottare contro due esseri soprannaturali come se nulla fosse, mentre Kira e Peter quasi non ne potevano più.
“Non credo sia il momento adatto per queste domande”, lo rimbeccò Kira, affondando la katana in avanti per colpire il fianco di Blake che si spostò appena in tempo.
Nel frattempo, Scott sentiva chiaramente l’incertezza e il dubbio nei colpi inferti da Ridley che stava portando avanti uno scontro alla pari come se in lui non ci fosse l’intenzione di combattere.
“Non sei obbligato a farlo”, sussurrò Scott, parando con facilità un colpo di Ridley che, a quelle parole, afferrò il braccio del licantropo, spingendo il suo corpo contro il muro.
Ridley sembrava rifiutare ogni tentativo che potesse spingerlo a schierarsi dalla loro parte, perché qualcosa lo tormentava ed era chiaro, come un demone che si era insidiato dentro di lui, vivendo a sue spese e senza mai abbandonarlo per davvero. In realtà, Ridley stava lottando con sé stesso.
Ad un tratto, qualcos’altro attirò l’attenzione di Scott: un colpo sordo sul pavimento, provocato dal corpo di Kira che era stata scaraventata a terra da Blake, perdendo la sua spada.
Bastian tentava di mettere Gwen alle strette ma quella donna era così determinata da far paura, e la sconfitta non doveva essere una sua prerogativa.
Erano troppo forti, e se Stiles li avesse visti, forse avrebbe parlato di steroidi soprannaturali, ma la verità era che contava poco lo stato di ogni licantropo: quello era un branco forte e vissuto, non un gruppo di ragazzini inesperti che si ritrovavano in situazioni assurde.
Erano giovani e tutti non facevano che dire loro come sarebbe stato giusto tornare a fare gli adolescenti, invece di improvvisarsi guerrieri forti e capaci, come i licantropi con cui stavano combattendo. Quante speranze potevano avere? Quell’ampio soggiorno non era altro che un campo di battaglia, all’interno del quale ognuno sembrava lottare contro i proprio demoni interiori.
Allo stesso modo, Derek si sforzava di tenere testa a Julian, che si stava soltanto prendendo gioco di lui, poiché era più che convinto di poterlo atterrare con un unico colpo ma non lo avrebbe fatto, perché giocare con lui e fargli credere di avere una chance era più stimolante.
Una chiazza rossa svettava sul fianco di Derek, impregnando completamente il tessuto della sua maglia, ma nulla avrebbe impedito a Derek di continuare a combattere.
Si rialzò da terra, poggiando una mano contro il muro, lasciando una traccia di sangue.
“Non prendiamoci in giro”, disse Julian, incrociando le braccia. “Potrei tranquillamente tagliarti la gola e seguire la scia dei poveri idioti che non sono qui, ma l’idea di torturarti è più allettante”.
L’alpha fece per avventarsi contro Derek ma un colpo di pistola sferzò l’aria, facendo voltare tutti i presenti, mentre Derek leggeva il puro divertimento negli occhi di Julian, alla vista di Keith, fermo a pochi metri da loro che impugnava la pistola contro il licantropo, affiancato da Lana.
“Sul serio?”, chiese con tono di scherno e fingendo di provare dolore alla spalla offesa.
In risposta, Keith sparò un altro colpo di avvertimento, ben intento a far capire le proprie intenzioni. Aveva sbagliato, aveva risposto la sua fiducia in un uomo che non era in grado di dare nulla agli altri, se non rabbia, ma era deciso a rimediare al suo errore, prima che fosse troppo tardi.
La distanza fra Julian e Keith diminuiva sempre di più, e Derek ne approfittò per rialzarsi, posizionandosi alle spalle dell’alpha che continuava a fissare il cacciatore.
“Sei qui per vendicarti o per dare una mano a questi bravi ragazzi?”.
“Entrambe”. Keith caricò nuovamente la pistola, pronto a sparare.
Julian sbuffò e Lana si allontanò, giusto in tempo per non essere attaccata.
Derek fece un passo avanti per aiutarlo ma il ringhio di Scott riuscì a distrarlo, così si volto e lo vide ringhiare in direzione di Kira, ancora inerme a terra con Blake che la sovrastava mentre lui era bloccato al muro dalla presa ferrea di Ridley.
Derek si scagliò su Blake, sentendo i suoi artigli che gli penetravano la cute, facendolo gemere per il dolore acuto. Il licantropo lo fronteggiò con tutte le sue forze, nonostante i graffi sul suo corpo stessero aumentando a dismisura e con essi il sangue che si accumulava.
Le figure di Scott e Ridley che ancora si fronteggiavano era sfocate, e così anche quella di Bastian che si chinava su Kira, aiutato da Lana, mentre Peter scattava in piedi.
“Blake, fermo!”.
Derek vide chiaramente gli occhi gialli di Blake tornare al loro colore naturale solo grazie alla voce di Bastian che era sembrata quasi un richiamo, qualcosa in grado di scuotere gli animi di quel branco unito e allo stesso tempo così diviso. L’uomo rimase ancora immobile, con i crini biondi imbrattati di rosso e il volto sconvolto per gli scontri simultanei che aveva dovuto affrontare…e per cosa?
Derek, intanto, notò che anche Ridley sembrava essersi fermato e con essi anche il tempo in quella stanza. Tuttavia, quando un urlo di dolore si librò all’improvviso, il tempo riprese a scorrere troppo velocemente, e Derek non riusciva quasi ad afferrarlo. Si alzò all’improvviso, accorrendo in aiuto di Keith che non sembrava avere la meglio su un alpha, ma prima che potesse fare qualcosa, vide gli artigli di Julian che si conficcavano nello stomaco del ragazzo.
Il sangue cominciò ad uscire a fiotti e il tempo tornò di nuovo a fermarsi, mentre Julian lasciava cadere il corpo di Keith sul pavimento, grondante di sangue.
A quel punto, Derek si gettò con violenza contro il corpo del licantropo, ringhiando.
 
Madison non aveva mai visto la vecchia tenuta della famiglia Hale. Non si era mai inoltrata nei boschi per osservarla, mentre altri studenti sembravano quasi rapiti dall’idea di ammirare quella casa fatiscente, all’interno della quale era scoppiato un violento incendio.
Quando varcò la soglia di casa, le sembrò quasi di udire le urla disperate dei suoi abitanti, mentre si dimenavano tra le fiamme, in cerca di una via d’uscita, e vide Derek, sereno tra i banchi di scuola e completamente ignaro di ciò che si stava verificando a non molta distanza da lui.
Pensò a tutti i ricordi felici della vita di Derek, sepolti sotto cumuli di cenere, come anche quelli di Cora. Come poteva sentirsi a mettere di nuovo piede in quella casa?
“Quanto dovremmo restare qui con le mani in mano?”, chiese.
Lydia la osservò, preoccupata almeno quanto lei, mentre Stiles le sfiorava delicatamente un braccio, come per segnalarle la sua presenza e farle capire che sarebbe andato tutto per il meglio.
Quella scena le fece provare una sorta di tenerezza e anche un pizzico di invidia, poiché in quel momento avrebbe desiderato avere Derek accanto a lei, soltanto per stringerlo a sé.
Stiles controllò il cellulare. “Fin quando non ci faranno sapere qualcosa”.
Madison si mostrò stizzita all’idea di non fare nulla e Stiles le riservò uno sguardo comprensivo: proprio lui, in tutto il branco, era quello che mai si sarebbe sognato di correre a nascondersi. Tutti loro avrebbero preferito uscire fuori per raggiungere gli altri e lottare, ma non quella volta.
“Julian è venuto per te”, aggiunse Cora, mortificata dalle sue stesse parole. “Non potevi rimanere lì. Era troppo pericoloso…e poi Stiles e Lydia non sarebbero stati di alcuna utilità”.
“Ehi!”, esclamò il diretto interessato, brandendo la sua fidata mazza da baseball, mentre Lydia incrociava le braccia al petto con aria un po’ risentita, ma ugualmente consapevole.
“Cosa credi di fare con quella?”, domandò Isaac, suscitando in Stiles un’espressione di puro astio, poiché il ragazzo ridusse gli occhi a due fessure, puntando la mazza contro di lui.
Madison voltò le spalle, posizionandosi accanto alla finestra per osservare l’ambiente esterno. Cercò con tutte le sue forze di non pensare a Derek e a cosa stesse accadendo in casa sua, ma quella mente traditrice non voleva saperne di volgere altrove: Derek era un chiodo fisso, insieme agli altri.
Tremò al pensiero di Julian che si scagliava contro di lui, per colpa sua.
Stiles e Isaac battibeccavano ancora come due perfetti ragazzini e Cora cercava di mantenerli, soffermandosi maggiormente su Isaac, che sembrava un bambino cresciuto troppo in fretta.
Isaac era capace di farle provare una tenerezza immensa, con il suo essere spaesato ma allo stesso tempo pronto a darsi da fare per quelle persone che reputava davvero importanti.
Sentì la mano calda di Lydia avvolgerle la spalla e si voltò, trovando il suo sorriso.
Lydia sembrò sul punto di dire qualcosa, ma la sua espressione cambiò all’improvviso, diventando quasi funerea, come se avesse avuto un’epifania improvvisa: qualcosa si era come risvegliato in lei.
“Lydia?”, la chiamò Madison, mentre la ragazza rimaneva in silenzio. “Ti senti bene?”.
“Mi sento-“, cominciò lei con voce incerta, scavando dentro di sé per trovare le parole.
Il rumore della porta che si spalancava li destò, mostrando Gwen che faceva il suo ingresso con passo lento e fiero, come un animale pronto a braccare finalmente la sua preda.
La donna sfoderò le zanne, ed emise un ringhio che fece tremare le ginocchia di Madison.
Isaac e Cora non persero tempo a piazzarsi dinanzi a loro, mentre Stiles stringeva la mazza da baseball, per nulla intento a starsene in un angolino ad osservare la scena.
Lydia si avvicinò a Madison, facendo qualche passo indietro mentre i licantropi si scrutavano.
Quando un altro ringhio, più feroce del precedente, proruppe nell’aria, Madison strinse Lydia, mentre quest’ultima si portava le mani alle orecchie.
 
La risata roca di Julian riecheggiò per la casa, mentre la mano di Derek teneva salda la presa sul suo collo, sperando di impedire a Julian di scioglierla facilmente.
“Credi che basti, Derek Hale?”, domandò Julian, tossendo lievemente, anche se era chiaro che la sua fosse soltanto una scenetta ben allestita, come fosse uno spettacolo. “Siete solo un branco di ragazzini. Guardati intorno, credo ti sia sfuggito qualcosa”.
Derek lasciò vagare lo sguardo sul resto della casa, notando come ognuno di loro fosse allo stremo delle forze, ma qualcosa non andava: Bastian e Lana erano accanto a Keith, Peter stava aiutando Scott a risollevare Kira da terra, tenendola per le braccia, mentre Ridley era vicino a Blake.
Qualcuno mancava all’appello: Gwen era sparita.
Derek lasciò andare piano Julian, giungendo alla conclusione di ciò che era appena accaduto.
Julian rise ancora, riportando Derek alla realtà. La sua rabbia era così forte, che prese ad estendersi a dismisura dentro di lui, incrementando sempre di più la voglia che aveva di uccidere Julian.
Voleva affondare gli artigli nel suo petto, a livello del cuore, e mettere fine a quella vita trascorsa solo per rendere invivibile quella degli altri, quella del suo branco e quella di sua figlia.
Era come una bomba pronta ad esplodere e sterminare tutto ciò che c’era attorno a lui.
Derek sentì le zanne che si formavano nella sua bocca e le unghie che si tramutavano in artigli, ripensando a Madison quando gli aveva chiesto se provasse dolore. In quel momento, lo sentiva.
Sentiva la sua pelle lacerarsi e percepiva quasi il tocco di Madison sul suo viso sfigurato.
Ovviamente, tutta la voglia di salvare Madison non bastò, perché quando attaccò di nuovo Julian, quest’ultimo non sembrava avere più voglia di giocare.
Lo colpì al fianco, sferzandogli un colpo con una mano e con l’altra intimava a Scott e Peter di non muoversi, poiché entrambi erano avanzati per fermarlo ma era bastato un suo ammonimento.
Julian lo lasciò andare, mantenendo la sua immancabile risata e facendo cenno a ciò che era rimasto del suo branco: Blake e Ridley lo seguirono, osservando ciò che si stavano lasciando alle spalle.
Derek rimase lì, immobile e stremato, mentre riprendeva consapevolezza di ciò che stava accadendo.
Gli sembrò di sentire delle urla in lontananza e allora scattò a sedere, la voce di Madison lo chiamava: era confusa ma riusciva a percepire il tono impaurito e irrequieto.
Il ringhio addolorato e furente di Derek ruppe ogni cosa, insieme alle urla di Madison.
 
 
Angolo dell’autrice
 
Disonore su di me. Sono in ritardissimo, lo so e vi chiedo umilmente scusa.
Il periodo non è stato dei migliori per dedicarsi alla scrittura, la voglia ha fatto un po’ cilecca, nonostante l’ispirazione ci fosse, ma sono finalmente qui con questo capitolo che poco mi piace, come il precedente e tutti gli altri. Insomma, il solito.
Comunque, vi erano mancati Keith e Lana? Per chi si stesse facendo ancora qualche domanda sulla questione Nadia/Ridley/Julian, ci tengo a dire che nel prossimo capitolo mi ricollegherò alle vicende di Nadia, si saprà cosa ha spinto Julian a fare tutto questo e cosa vuole. Spero che adesso i sensi di colpa di Ridley che ho sparso in ogni capitolo, vi abbiano fatto capire: oscilla tra l'amore per Nadia e la fedeltà al suo alpha. L'idea che fosse lui il padre di Madison l'avevo decisa fin dall'inizio della storia, ma ho cercato di non accennare alla storia d'amore avuta con Nadia, altrimenti si sarebbe subito capito. Per questo motivo, mi sono limitata a piazzare nei vari capitoli le incertezze e i sensi di colpa di Ridley, dovuti al tradimento verso il suo alpha. Inoltre, mi sembra giusto aggiungere che il branco di Julian non sa assolutamente nulla delle sue reali intenzioni, né di ciò che riguardava Nadia e Ridley. Sanno soltanto che c'è stato uno "scontro" tra lui e Nadia (flashback nel capitolo I) e che Nadia ha sacrificato sé stessa per proteggere la sua bambina ed impedire che venissero a conoscenza del luogo in cui l’aveva mandata (il che è vero).
Scusate tutte le precisazioni, ma voglio essere quanto più chiara possibile.
Forse il prossimo capitolo sarà l’ultimo, al quale seguirà un epilogo (non è sicuro, dipende dalla lunghezza del capitolo successivo). Quindi, direi che questo è quanto. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va, e ringrazio sempre tutti coloro che seguono la storia.
Alla prossima, un abbraccio!

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Capitolo 16
*** XV - Blood moon ***


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XV
 
Blood moon

 
“When I was a child I'd sit for hours, staring into open flames.
Something in it had a power, could barely tear my eyes away”.
(Hozier – Arsonist’s lullaby)
 
Madison sentiva la testa girarle vorticosamente. Un odore forte di chiuso le inondò le narici, mentre si sollevava sui gomiti, storcendo il naso per quell’odore che sembrava appartenere ad un ambiente angusto dove nessuno metteva piede.
Sollevò lo sguardo, osservando le pareti rovinate e percorse da qualche crepa. Seguì con gli occhi quelle linee ispide ed irregolari per poi posare gli occhi su una statua così vecchia che Madison non riusciva nemmeno ad identificarne il volto. Un rumore richiamò la sua attenzione.
Solo quando cercò di voltarsi verso la fonte, Madison si accorse di avere i polsi legati da una catena che faceva capo al muro che si trovava alle sue spalle. Emise un mugolio frustrato e prese a tirare la catena per tastarne la resistenza ma quando vide che non si era mossa di un centimetro, Madison si sentì solo più angosciata di prima. Qualcuno cominciò a ridere di lei, paralizzandola sul posto: Julian
I suoi passi riecheggiarono all’interno della struttura, permettendogli di farsi più vicino.
Madison trovò la forza di guardare il suo carceriere in volto e vide quegli occhi di ghiaccio ad attenderla: la osservavano dall’alto con un’aria trionfante, di chi sapeva di aver vinto. Avrebbe tanto desiderato ringhiargli addosso, ma lei non era un lupo, non era come lui.
“Sei bella come tua madre”, dichiarò con voce melliflua, sfiorandole una ciocca di capelli. “Stesso sguardo, stessi capelli scuri",
Madison si ritrasse a quel contatto, come se un viscido serpente la stesse toccando.
Julian rise sommessamente a quel gesto, ritrovandovi qualcosa di divertente che lei non vedeva.
“Sfuggente come lei”, continuò il lupo, senza staccare lo sguardo da Madison.
“Tu non sai nulla”, proclamò lei con sdegno. “Potrai anche avere un legame di sangue con me ma questo non vuol dire un bel niente".
Fu a quel punto che la risata di Julian si fece ancora più forte di prima, costringendo Madison ad osservarlo con turbamento perché proprio non capiva cosa spingesse Julian a ridere come se stesse assistendo ad un film comico. Nel frattempo, scorse Gwen poco più in là, accanto a Blake.
“E’ proprio questo il bello, sai?”, continuò lui con espressione allietata.
Gwen sorrideva soddisfatta con le mani giunte dietro la schiena, mentre Blake sembrava parecchio irrequieto, come se avesse la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato con le persone sbagliate. Ridley li raggiunse, spostando lo sguardo da lei a Julian, in allerta: c’era qualcosa di diverso in lui, non si avvicinò ai suoi compagni ma nemmeno al suo alpha. Rimase lì, fermo nel mezzo, ad aspettare che un segno, un gesto, una parola qualsiasi gli indicasse la strada giusta. I suoi occhi incrociarono per un attimo quelli di Ridley e lei vi lesse qualcosa di appena percettibile: sembrava quasi una specie di codice, una lingua antica e difficile da decifrare che nascondeva qualcosa di importante che doveva essere necessariamente tradotta e svelata al mondo.
Perché le sembrava sempre che Ridley avesse tantissime cose da dire?
“Cosa vuoi?”, chiese Madison, riportando gli occhi su Julian. “Uccidermi?”.
“Oh, no!”, rispose Julian, sollevando le mani a mezz’aria. “La morte è per i codardi…basti pensare a tua madre Nadia che si è tolta la vita".
“Non si sarebbe fatta tenere in pugno da te”, sputò Madison, desiderando alzarsi per fronteggiarlo ed impedirgli di parlare di sua madre a quel modo.
“Io la tengo in pugno anche ora che è morta”, la rimbeccò il licantropo, sfoggiando un sorrisetto sardonico.
Si chinò nuovamente accanto a lei. “Vedi, tesoro…la tua mamma si è tolta la vita davanti a me, credendo di proteggerti, sperando che in quel modo io non avrei avuto nulla tra le mani. In realtà, Nadia mi ha lasciato tutto ciò che mi serviva per trovarti e avere ciò che bramo di più”.
Madison sentì un brivido lungo la schiena.
Come poteva avere nelle vene lo stesso sangue di quell’uomo viscido ed egoista? Come poteva Julian essere suo padre?
Quello non era il tono di un familiare felice di rivedere qualcuno a lui caro, ma il tono di un assassino spietato che stava circuendo la sua vittima, pronto a farla fuori. Guardò verso una finestra poco lontana e adocchiò una luna spaventosamente rossa in cielo. Sembrava quasi ricoperta di sangue, come quello che presto avrebbe macchiato le mani di Julian e forse anche la sua gola, visto ciò che il licantropo aveva in mente.
“Cosa?”, domandò Madison, con la voce ridotta ad un flebile sussurro.
“La vendetta”.
 
Per un secondo, un interminabile e meraviglioso secondo, Derek credette di aver fatto soltanto un brutto sogno, e per quel motivo lo scontro con la realtà fu più violento del solito. Sussultò, accorgendosi di essere sul divano ma non ricordava di aver dormito.
Si portò una mano alla testa ancora dolorante, mentre un urlo risuonava ancora nella sua mente, risvegliando i ricordi sbiaditi che aveva dello scontro avvenuto. Ricordava le labbra di Madison, lui che la spingeva via, Julian, il sangue, Keith che faceva irruzione in casa, Scott e gli altri che lottavano fino allo stremo delle forze e le sue mani attorno alla gola del licantropo, poi un urlo.
Venne distratto da una moltitudine di odori provenienti dall’esterno che si facevano più presenti.
Quando la porta si aprì e Isaac mise piede in casa di Madison, arretrò subito di qualche passo mentre si guardava intorno, smarrito. Aveva una ferita molto profonda a livello del petto e stava in piedi soltanto grazie a Scott e Cora che lo sorreggevano.
Scott era corso da loro nella vecchia casa di Derek, trovando Isaac steso a terra con uno squarcio sanguinolento sul petto che si era beccato nel tentativo di proteggere Cora da Gwen. Si era assicurato che nessuno di loro quattro fosse in punto di morte e li aveva riportati indietro.
Stiles aveva solo qualche ferita superficiale, poiché la sua mazza da baseball non aveva fatto molto contro Gwen, mentre Lydia aveva ricevuto un colpo alla testa quando Gwen l’aveva scaraventata contro la parete, facendo compagnia a Stiles e Cora. Quest’ultima si era prima gettata su Gwen senza intenzione di lasciare che l’avesse vinta ma la donna sembrava quasi divertirsi mente Cora ringhiava e la guardava con una rabbia così forte da terrorizzare chiunque. Purtroppo, la rabbia non era bastata e Cora aveva rischiato di farsi male sul serio, ma prima che gli artigli di Gwen venissero piantati nel corpo della ragazza, Isaac si era messo in mezzo.
Gwen lo aveva colpito così forte da fargli girare la testa mentre il sangue scorreva sulla sua pelle.
Nel frattempo, Madison era stata china accanto a Stiles e Lydia, accertandosi delle loro condizioni ma quando aveva visto Gwen ad un punto dall’uccidere Isaac, le aveva urlato di fermarsi. Si era alzata e aveva semplicemente lasciato che Gwen la portasse via, salvandoli.
Scott li aveva trovati così: a terra e stravolti da ciò che era accaduto.
Quando arrivarono a casa, Isaac notò come la situazione sembrava essere pressoché la stessa.
Erano turbati e feriti, come se uno tsunami li avesse colpiti, lasciando solo pezzettini sparsi di ognuno di loro e ed erano troppo stanchi per recuperarli.
“Quelli chi sarebbero?”, domandò Stiles, adocchiando Keith con la schiena poggiata contro il muro e Lana al suo fianco, insieme a Bastian e Peter.
Il diretto interessato alzò la mano, facendo un cenno di saluto, nonostante le sue condizioni non fossero delle migliori poiché Stiles vedeva chiaramente la chiazza scura a livello dello stomaco.
Isaac incrociò lo sguardo di Derek e un tremore iniziò a percuoterlo: aveva fallito. Doveva proteggere Madison e invece, eccolo lì, ferito a morte e senza nulla tra le mani. Gli sembrò di trovarsi dinanzi a suo padre e per un attimo temette che un bicchiere gli venisse gettato contro.
Ritornò a qualche anno fa, sentendosi ancora quel ragazzino spaurito che non sapeva difendersi.
Derek si alzò in piedi, seppur a fatica, e si avvicinò al licantropo.
“Derek”, disse l’altro, arrestandosi e con la voce quasi roca. “Mi dispiace. Io-“.
Isaac non riuscì a terminare la frase, poiché una mano di Derek si strinse sulla sua spalla in un contatto imprevisto che sapeva di apprensione e sicurezza, come se lo stesse calmando. Il licantropo lo guardò negli occhi azzurri e stanchi, permettendo ad Isaac di ritrovare nei suoi la stessa spossatezza che lo aveva colto da quando aveva ripreso i sensi, sentendo l’assenza di Madison.
“Va tutto bene”, disse Derek, celando la tristezza che lo avvolgeva. “State tutti bene”.
“Lei-“, riprese Isaac, mentre un singulto spezzava le sue parole. “Lei ha fermato Gwen”.
Per quanto la situazione fosse abbastanza tragica, Derek non rimase sorpreso.
Quando aveva realizzato, grazie alle parole di Julian, cosa stesse accadendo sotto i loro nasi, aveva percepito come sarebbero andate le cose: Gwen non avrebbe preso Madison con la forza, ma si sarebbe consegnata lei stessa. Quel comportamento era proprio da lei: stupido e coraggioso.
Derek rafforzò la stretta sulla spalla di Isaac e poi guardò Cora, notando con piacere che era tutta intera, molto probabilmente grazie ad Isaac, poiché vedeva il modo in cui sua sorella lo fissava. Non aveva mai visto Cora così preoccupata per qualcuno che non fosse della sua famiglia.
Si allontanò, permettendo a Cora di adagiare Isaac sul divano e controllargli la ferita.
Isaac si sedette sui morbidi cuscini, mordendosi a sangue le labbra per reprimere il dolore e guardò Scott che si scambiava qualche parola con Derek, mentre Kira si occupava di Stiles e Lydia.
“Non avresti dovuto”, sussurrò Cora, sollevando i lembi della t-shirt di Isaac mentre una smorfia corrucciata faceva capolino sul suo volto alla vista della ferita. “Sei stato stupido”.
“Lo prendo come un ringraziamento”, esclamò lui, sussultando appena per il contatto delle dita fredde di Cora contro la sua pelle. “Non avrei mai lasciato che ti facesse del male”.
Cora riportò lo sguardo sul suo viso, basita da quelle parole e da tutta quella preoccupazione che pochissime persone avevano mostrato verso di lei. Nessuno l’aveva mai guardata in quel modo, come se lei dovesse essere assolutamente protetta, nessuno aveva mai cercato di difenderla, o almeno nessuno al di fuori della sua famiglia. Cora aveva sempre saputo come proteggersi. Poi era arrivato Isaac, che cercava sempre di tutelare le persone che gli erano vicine, anche quando non doveva…non era la prima volta che la salvava da qualcosa, danneggiando sé stesso. Cora non era abituata a quel comportamento, lo aveva sempre ritenuto immaturo e impulsivo, ma quando aveva visto Isaac grondante di sangue dopo essersi preso un colpo per lei, il suo metro di giudizio era cambiato. Le importava di lui e sapere che era lo stesso per Isaac l’aveva fatta sentire strana.
“Grazie”, mormorò Cora, lasciando le sue dita ferme sulla sua pelle in una morbida carezza.
“Dovevo”, rispose il ragazzo, guardandola negli occhi con un sorriso.
Un colpo di tosse proveniente dall’altra parte della stanza ripristinò quello strano e silenzioso clima di decadimento che aleggiava nella casa: sembrava che Madison avesse portato via tutto. Keith cercò di sollevarsi, ma senza risultato e si portò una mano sulla ferita, abbandonando la testa contro il muro.
“Non credo mi resti molto tempo”, disse mentre un tratteneva un grumo di sangue fra le labbra.
Lana, accanto a lui, aveva lo sguardo stralunato e neanche una parola era fuoriuscita dalla sua bocca, come se non volesse porre alcuna domanda perché le possibili risposte la scuotevano più di ciò a cui aveva assistito in quel breve arco di tempo. Tuttavia, qualcosa doveva pur saperla, grazie a Keith.
“Tu sei quello che ha consegnato Madison a Julian, eh?”, berciò Stiles, emettendo un sibilo quando Lydia poggiò l’ovatta sulla ferita al braccio.
“Presente”, dichiarò Keith, adombrandosi ancora di più, mentre Derek lo guardava piuttosto male.
Keith si soffermò sul viso accigliato di Derek e non gli volle tanto per intuire il senso di tutta quella rabbia mal celata: gli risultò chiaro che doveva avere un qualche tipo di legame con Madison. Lo aveva capito mentre lottava con Julian e lo capiva anche in quel momento.
Derek, dal canto suo, non sapeva se aiutare il cacciatore ad alzarsi o stare fermo lì per guardarlo morire come era stato fermo lui mentre Julian si avvicinava a Madison in quel magazzino. Ricordava ancora il suo sguardo vacuo, mentre Madison tremava per la paura.
Aveva etichettato Keith come un perfetto traditore, perché ogni cosa era accaduta per colpa sua. Voleva odiarlo, voleva ringhiargli addosso anche se era corso lì per aiutarli, ma non ci riusciva del tutto. Quando guardò il suo viso pallido e gli occhi spenti contornati da profonde occhiaie, il pensiero di Derek corse a Madison, rivelando come, al posto suo, Madison avrebbe messo da parte l’odio.
“Ho sbagliato tutto”, continuò lui, trattenendo un altro colpo di tosse e rivolgendosi principalmente a Derek, perché sentiva di dover parlare a lui. “Ma forse posso ancora fare qualcosa per aiutarvi”.
Si scostò di poco dal muro per infilare una mano nella giacca malmessa, dalla quale estrasse un foglietto ingiallito e rovinato che doveva risalire a parecchi anni addietro. Fece segno a Derek di avvicinarsi e il licantropo notò che Keith lo teneva nella tasca interna della giacca, vicino al cuore.
“Questo doveva essere il modo per vendicare la morte di mio fratello”, esclamò mentre la sua voce perdeva sempre più tonalità. “Doveva aiutarmi ad uccidere i gemelli alpha ma…lo sai, no?”.
Già, Derek lo sapeva bene e fu in quel momento che provò pena per lui: era stato ingannato, un po’ come la maggior parte delle persone presenti in quella stanza. Tutti loro erano stati traditi, avevano perso la fiducia di qualcuno su cui credevano di poter contare e Keith non era poi tanto diverso.
La vendetta costringeva le persone ad imboccare le strade più buie e inesplorate, portandole su un sentiero deserto e sconosciuto dove nessuno avrebbe più sentito le loro grida di aiuto.
“Vi aiuterà”, continuò l’altro, porgendo il biglietto a Derek. “ L'ho avuto tempo fa da mio fratello, Graham”.
Derek fece un segno di intesa a Keith senza dire nulla, nonostante diverse parole gli frullassero in testa ma sapeva che non c’era niente da dire, non in quel momento, non mentre Keith sembrava diventare sempre più debole e Lana accanto a lui aveva gli occhi lucidi.
Keith guardò Bastian con occhi dispiaciuti, come se si stesse scusando per qualcosa.
Il ragazzo gli strinse la spalla, avvicinandosi. “Non è mai troppo tardi per fare la cosa giusta”.
“Lo diceva sempre Madison”, rispose Keith, trattenendo uno sbuffo divertito e sorridendo in modo triste. “Ma dubito che questo riesca a farmi perdonare. Non crederà che io abbia fatto la cosa giusta”.
Derek e Bastian si scambiarono uno sguardo complice, formulando forse lo stesso pensiero.
“Crederà a noi”, dichiarò il ragazzo con fermezza e guardando ancora Derek. (1)
“Grazie”, aggiunse l’altro, senza allontanare gli occhi dal volto di Keith che, intanto, cominciò a rilassarsi come se fosse appena tornato ad essere in pace con sé stesso, consapevole del suo gesto.
Quando Keith chiuse gli occhi una volta per tutte, Lana iniziò a piangere sommessamente e Peter si avvicinò alla ragazza, rimanendo al suo fianco senza dire nulla. Derek promise a sé stesso che non sarebbe morto invano.
 
“Per cosa vuoi vendicarti?”, domandò Madison, strattonando con rabbia la catena. “Perché mia madre ha impedito che mi facessi diventare come uno dei tuoi cani da compagnia?”.
Gwen vibrò dalla rabbia per quella frase e fece un passo avanti ma Julian la fermò.
Nel frattempo, Ridley teneva le braccia incrociate al petto e spostava lo sguardo da Julian alla ragazza: voleva fare qualcosa, perché proprio non riusciva a guardare la figlia della donna di cui era innamorato in catene dinanzi a qualcuno che era intenzionato a trasformarla.
Perché Julian stava temporeggiando? Perché sembrava un attore sul suo palcoscenico?
“Beh, sai…quello è solo il secondo motivo”, convenne l’alpha, grattandosi il mento e cominciando a girare attorno alla ragazza, il cui sguardo saettava da una direzione all’altra, senza sosta. “Tua madre era una traditrice, ha ripudiato il suo branco, ha agito alle nostre spalle e ha tradito me”.
Ridley sentì il cuore balzargli in gola quando Julian pronunciò quelle ultime parole. Una parte di lui voleva ancora credere che stesse parlando della notte in cui Nadia era fuggita, scegliendo la morte ma per qualche strana ragione sentiva che non era affatto quello che sperava.
Julian continuò a parlare. “Vedi, tua madre pensava che io fossi stupido. Certo, era un emissario con i fiocchi: furba, intelligente, sapeva come ingannare la gente, persino noi del suo branco. Non ci ha pensato due volte prima di prendersi gioco di tutti noi e di me, soprattutto”.
Ridley divenne ancora più inquieto mentre Julian parlava come un oratore dinanzi alla folla, al punto che Blake lo osservò con trepidazione, chiedendogli se andasse tutto bene.
“Mi sarebbe piaciuto averti come figlia…buon sangue non mente, sai”, esclamò il lupo, mantenendo quella calma apparente e così placida da apparire surreale e disumana. “Ma, ahimè, non lo sei”.
Madison non capiva quasi nulla delle parole di Julian. Gli aveva appena detto di non essere suo padre o lo aveva immaginato?
Possibile che fosse tutta una menzogna? Voleva una risposta e la voleva prima che la testa le esplodesse per lo sforzo di capire il senso di tutto ciò.
Guardò il volto impassibile di Julian, in attesa di una spiegazione più precisa, ma quando il licantropo voltò leggermente il capo, guardando Ridley a poca distanza da lui, le cose presero a diventare molto più nitide. Era come se dinanzi a lei ci fosse un vetro appannato che nascondeva qualcosa dall’altro lato: sfregava la mano contro di esso, cominciando a vedere qualcosa.
“Vero, Ridley?”, chiese Julian con tono perfido ma senza accenni di rabbia nella voce.
Ridley rimase immobile, a carpire una verità di cui lui non aveva idea dalle parole del suo alpha, mentre una parte della sua mente scavava nei ricordi, andando a ripescare il momento esatto in cui Ridley aveva sperato che Nadia fosse in attesa del suo bambino.
Rammentava la rabbia con cui le aveva chiesto il motivo di tutte le sue azioni.
Rammentava la tranquillità di Nadia che gli diceva di voler stare con Julian.
“Si tratta di fare le scelte giuste e tu non lo sei”.
Gli occhi di Ridley erano vuoti e feriti, mentre le parole di lei si facevano strada nel suo petto.
“Guardami negli occhi”, aveva detto. “Guardami negli occhi e dimmi che non mi ami”.
Quello che Ridley non sapeva era che c’erano troppe cose in ballo e Nadia non poteva esitare: non stava proteggendo soltanto sé stessa, ma anche Ridley e il loro bambino.
“Io non ti amo”, aveva detto Nadia, fissando Ridley negli occhi e sentendo il suo battito regolare, senza alcuna variazione perché lei sapeva come ingannare i lupi mannari.
“Avrete un bambino! Un bambino”, le aveva urlato lui tempo dopo, in un giorno in cui erano soli, con Bastian al piano superiore che dormiva tranquillamente. “Perché credo che tu stia mentendo?”.
“Non sto mentendo, Ridley!”, aveva contestato lei, senza tremore nella voce. “Io e Julian  avremo un bambino. Io e Julian, d’accordo? Questa è la vita che ho scelto, e non ti riguarda”.
“Cos-“, cominciò Ridley senza però riuscire a trovare un collegamento fra testa e bocca, mentre Gwen fremeva per l’incredulità di quel racconto e con lei anche Blake.
“Vuoi sapere come l’ho capito?”, sibilò Julian, facendo qualche passo verso di loro. “Ma che domande! Certo che vuoi saperlo. Vedi, il modo in cui ti guardava non mi era estraneo, ed è stato quando la nostra amata Nadia ha insistito per preservare l’umanità della bambina che ho iniziato ad interrogarmi su di lei e sulla sua lealtà. Diceva… «Non vorrei che mio figlio fosse un licantropo, dovrebbe avere una vita normale ». Considerava il morso come una condanna, dicendo che non avrebbe augurato a nessuno quella vita…proprio come il nostro Ridley”. (2)
Ridley non sapeva cosa pensare o cosa dire, riusciva soltanto a guardare l’espressione soddisfatta di Julian e il volto spaventato e sorpreso di Madison che lo guardava con gli occhi sgranati e lucidi, portatori di una stanchezza e di una sorpresa davvero troppo pesante da sopportare.
La ragazza prese ad osservare Ridley con più attenzione, soffermandosi sui lineamenti morbidi del suo viso, sul colore scuro dei capelli  e sulla simmetria del suo volto, nel quale vide qualcosa di lei, seppur accennato.
Ridley fece lo stesso, guardando Madison sotto una luce diversa, facendo caso non soltanto alla somiglianza con Nadia: gli bastò accostare il suo volto alle parole di Julian per sentire nel suo cuore la conferma di quella verità che Nadia aveva nascosto e che Julian aveva tenuto per sé.
“Ora mi duole annullare la riunione di famiglia”.
Julian si scagliò contro Ridley, inchiodandolo al muro e costringendolo ad annaspare mentre le sue mani gli impedivano di respirare correttamente. Madison gli urlò di fermarsi ma lui non lo fece, anzi, strinse ancora più forte e quando Blake tentò di fermarlo, lo spinse via con la mano libera.
“Adesso, mi guarderai mentre dono a tua figlia un destino che tu non le augureresti mai”.
 
Scott e gli altri fissavano Derek e Peter con trepidante attesa, mentre i due licantropi osservavano il foglio consegnato loro da Keith, leggendo con attenzione e silenzio assoluto.
“Allora, si può sapere di cosa si tratta?”, domandò Stiles, spazientito. “Quest’attesa mi logora e le vostre facce poco espressive non mi mettono certo di buon umore, accidenti!”.
Derek sollevò lo sguardo giusto per fulminare Stiles, il quale si limitò e rispondere con una smorfia.
“E’ un rituale”, dichiarò Peter, sbattendo le palpebre come se leggere fosse stato uno sforzo enorme.
“Beh, facciamolo, no?”, esclamò Stiles, sollevando i pugni in aria come se stesse facendo il tifo.
“Non è così semplice”, lo smontò subito Derek, passandosi una mano dietro la nuca.
Lydia si avvicinò ai due licantropi, togliendo il foglio dalle mani di Derek senza troppi complimenti e cominciando a leggerlo velocemente.
Stiles la osservava fiero e rifilò una gomitata a Bastian. “Quella ragazza è un fenomeno”.
Bastian squadrò Stiles come se fosse fuori di testa e si allontanò di poco, riportando l’attenzione su Lydia e suscitando in Stiles un’espressione offesa.
“Accidenti”, proruppe Lydia dopo aver terminato la lettura.
“Ma insomma!”, esclamò Lana, poggiata sul bracciolo del divano e parlando a voce così alta che ritrovò gli sguardi di tutti i presenti su di sé. “Vi decidete a parlare? E’ una tortura”.
“E’ un rituale al contrario”, spiegò Peter, accontentandola ma ricevendo uno sguardo di puro smarrimento da parte di Lana. “Permette ad un beta di privare un alpha dei propri poteri durante una particolare notte di luna piena. Quando Derek ha assorbito il dolore di Cora, si è spinto oltre un certo limite e ha perso i suoi poteri per salvarla, c’è stato un contatto da alpha a beta: ha perso i suoi poteri di alpha per salvare un beta e permetterle di vivere. Questo rituale prevede un contatto inverso: un beta priva un alpha dei suoi poteri, rendendolo più debole e avendo la possibilità di farlo regredire a beta o anche ad omega se il contatto si protrae più a lungo del previsto”. (3)
Derek si trovò a riflettere sul significato del rituale. Era sempre lo stesso motivo, che tornava a tormentarli anche in circostanze nuove e completamente diverse: alpha, beta, omega.
“Quindi un beta deve semplicemente compiere questo rituale su Julian?”, chiese Isaac.
“Non è così semplice”, rispose Peter. “Il beta in questione può morire e il tutto deve avvenire durante la cosiddetta luna di sangue che termina esattamente fra tre ore”.
“Cosa?”, esclamò Scott, non riuscendo a credere a quelle parole.
Erano con le spalle al muro e il tempo stava per terminare.
“Siamo ancora in tempo”, cercò di rassicurarlo Kira, stringendogli una mano e guardandolo negli occhi spaesati e afflitti per cercare di dargli maggiore sicurezza. “Possiamo farcela”.
“Ed io so dove trovare Madison”, aggiunse Bastian. “Possiamo farlo”.
“Allora, chi proverà il rituale?”, chiese Lydia, tornando a posizionarsi accanto a Stiles.
Derek si sporse verso la finestra, osservando quella luna rossa che gli mise addosso una strana sensazione di paura mista a rassegnazione: sembrava gli stesse dicendo qualcosa e Derek aveva ben recepito il messaggio che gli stava mandando.
Nella tonalità rossastra di quella luna, Derek vide il sangue che era stato versato da quando Julian era comparso a Beacon Hills, ma non solo.
Vide il sangue di Erica, di Boyd, di Allison, di Aiden, dei nonni di Madison, di sua madre che aveva tentato di salvarla, di Keith e suo fratello, della sua famiglia. Vedeva tutto il sangue che era sgorgato a fiotti, fino a riversarsi sulle loro mani e poi sui loro volti, condannandoli.
C’era un motivo se Keith si era rivolto a lui, come c’era un motivo se doveva essere proprio un beta a compiere quel rituale inverso.
Come aveva rinunciato ai poteri per salvare Cora, adesso Derek poteva fare in modo che qualcuno di pericoloso li perdesse a sua volta, smettendo di fare del male a loro e a Madison. Poteva perdere la vita, poteva ignorare la gravità di quel processo e pensare che non ci fosse uno svantaggio, proprio come la prima volta che si era imbarcato in una simile impresa.
Eppure, a Derek non importava, come non gli importava quando aveva deciso di rinunciare al potere di alpha per salvare sua sorella. In quel momento, la sua vita non contava, non ne voleva sapere di vivere in un mondo in cui Madison fosse morta o trasformata: doveva fare qualcosa.
Gli sembrò di sentire un dolore a livello del petto ma non era fisico, qualcosa lo chiamava a distanza. Pensò a Madison, sperando che stesse bene perché stava per raggiungerla. Sarebbe andato da lei, sarebbe corso a salvarla anche se significava vederla andare via senza lui.
Guardò un’ultima volta la luna rossa che svettava in cielo. “Lo farò io”.
 
 
Angolo dell’autrice
 
  • (1) la scena della morte di Keith è ispirata a quella di Aiden nella 3x24;
  • (2) le parole a cui si riferisce Julian sono quelle pronunciate anche da Ridley nel capitolo 13;
  • (3) l’idea del rituale e della luna rossa è nata dalla puntata 3x11. Ho bazzicato un po’ su internet per trovare informazioni sulla “luna di sangue”,  ho ricordato il rituale che Derek compie nella 3x11 per salvare Cora, e ho pensato di idearne uno simile ma “al contrario” (come spiegato da Peter) per dare al gruppo qualcosa da cui partire.
 
Ce l’ho fatta e quasi non mi sembra vero. Come al solito, pubblico con un ritardo vergognoso e se penso alla puntualità con cui postavo i primi capitoli, mi sento davvero un mostro ma ultimamente scrivere sta diventando un’impresa…un po’ per gli impegni, un po’ perché questa storia non mi sta piacendo, cioè mi sembra sempre di sbagliare qualcosa. Comunque, mi sono impegnata e ho scritto questo capitolo negli ultimi due giorni, e spero che il risultato vi piaccia. Mi dispiace per la morte di Keith (non sarà l'ultima) che era sopravvissuto allo scorso capitolo (chiedo venia ad Helena Kanbara che lo aveva dato per morto già prima e mi dispiace troppo) ma l’avevo programmato fin dall’inizio: diciamo che ormai non aveva nulla che lo tenesse in vita e quindi ha compiuto un ultimo sacrificio per aiutare il branco e riscattarsi con Madison. Il prossimo sarà l’ultimo capitolo, al quale seguirà un epilogo! Fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino e grazie a tutti coloro che stanno seguendo la storia <3
Alla prossima, un abbraccio!
 

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Capitolo 17
*** XVI - My liar ***


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XVI

My liar
 
“Wrapped up in the clouds.
I tried to get up there but then I found.
I’m still gravity bound. I’m gravity bound”.
(Dan Henig – Gravity bound)
 
“Non intendo restare qui con le mani in mano!”.
Lana stava quasi urlando per lo sdegno mentre Derek cercava di farle capire che non c’era tempo da perdere e che dovevano assolutamente dividersi.
“Lana, non possiamo andare insieme” cercò di farle capire Peter, usando un tono così comprensivo che quasi non sembrava appartenergli. “E’ pericoloso, qualcuno potrebbe farsi male”.
“E’ la mia migliore amica”, ribattè Lana mentre qualche lacrima si perdeva tra le sue lunghe ciglia scure. “Devo vederla, sapere che sta bene”.
Derek provò quasi pena per quella ragazza che era stata portata lì all’improvviso senza alcuna spiegazione concreta e ritrovandosi immersa in una realtà sconosciuta, un po’ come era capitato a Madison. Leggeva nei suoi occhi la gioia nell’aver saputo che la sua amica stesse bene e la rabbia mista al dolore nel realizzare che fosse sul punto di perderla ancora, e forse per sempre.
Quanto poteva essere doloroso ritrovare qualcuno per poi rischiare di perderlo ancora?
“La riporterò da te”, intervenne Derek, attirando l’attenzione di Lana che stringeva ancora il braccio di Peter che si era voltato verso di lui.
Lana lo guardò con gli occhi colmi di lacrime e lesse la determinazione nel suo sguardo che bastò per calmarla, nonostante la voglia di seguirli fosse ancora forte. Lo ringraziò silenziosamente con un cenno del capo e un singulto, poiché sembrava ancora davvero troppo scossa per parlare.
Lydia si avvicinò a loro, poggiando le mani sulla braccia di Lana e facendo sì che si allontanasse, per poi guardare Derek e fargli capire che era arrivato il momento di andare. La ragazza guardò Stiles che le si fermò accanto prima di seguire gli altri che stavano discutendo con Bastian e stringendo la sua fedele mazza da baseball in una mano. Lydia sorrise, cercando di nascondere la paura.
“Non ne vuoi proprio sapere di trovare qualcosa di meglio, eh?”.
“Ci sono troppo affezionato, lo sai”, disse lui con tono fiero. “Stavo anche pensando di darle un nome…sarebbe figo”.
Lydia sospirò, trattenendo la voglia di dirgli che non c’era nulla da scherzare perché Stiles stava per andare nel covo di un branco di lupi dove un alpha aspettava solo il loro arrivo per farli fuori. Lydia si sentiva ancora come se fosse nel bel mezzo di un cimitero con delle fosse appena scavate e il terreno pronto ad accogliere un mucchio di corpi senza vita e ricoperti di sangue. Uno di quei corpi poteva essere Stiles e Lydia non voleva assistere a quella scena. Sentì gli occhi inumidirsi e sapeva che non voleva vivere ancora con il terrore di non poterlo rivedere dinanzi a lei.
“Non mi farò ammazzare, Lydia”, dichiarò lui, quasi leggendole nel pensiero. “Ho la pelle dura”.
“Anche la testa, se è per questo”, convenne Lydia, incrociando le braccia. “Lo sai, vero?”.
“Sempre saputo”, confermò il ragazzo, grattandosi la nuca e guardando ancora Lydia.
Una parte di lui avrebbe desiderato tanto baciarla, come in una scena struggente di un film dove il protagonista sta per andare incontro ad un pericolo e saluta la sua amata con un bacio passionale, promettendole che tornerà da lei. Tuttavia, quello non era un film e Stiles era ancora troppo imbranato per simulare una scena di quel genere, ma forse poteva riadattarla. Prese una mano di Lydia tra le sue e la guardò in quegli occhi verdi che lo fissarono di rimando, brillando più del solito, come se quel tocco avesse risvegliato Lydia da un sonno profondo.
“Torneremo”, sussurrò Stiles, suggellando una delle promesse più serie ed importanti che avesse mai fatto in tutta la sua vita. “Tornerò…qui da te”.
Quando Lydia gli gettò le braccia al collo, Stiles quasi faticò a crederci: Lydia Martin lo stava abbracciando, lo stava stringendo come se ne valesse della sua stessa vita e come se quel gesto fosse la cosa più giusta e necessaria da fare in quel preciso istante.
Stiles ricambiò la stretta e quando Lydia si allontanò da lui, una leggera ondata di freddo lo invase, facendolo sentire smarrito.
“Non farti prendere a calci”, lo salutò Lydia, abbassando di colpo lo sguardo, come imbarazzata.
Stiles sorrise e si voltò verso il resto del gruppo, ancora impegnato a parlare con Bastian.
Rivolse un ultimo cenno di saluto anche a Cora e Lana, che sarebbero rimaste lì insieme a Lydia.
Quando uscirono dalla casa, qualcosa nell’aria sembrò cambiare e Lydia pregò con tutto il cuore che avrebbero varcato nuovamente quella porta.
 
Per un attimo, Madison credette di aver perso la capacità di parlare mentre osservava la scena di Julian che schiacciava Ridley contro il muro, stringendo sempre più la presa sul suo collo. Ad un tratto, la sua voce risuonò così alta che le sembrò quasi di somigliare a Lydia.
“Lascialo andare!”, urlò con tutta la voce che aveva in corpo. “Lascialo andare!”.
Julian si voltò verso Madison, allontanandosi da Ridley che ricadde sul pavimento, producendo un tonfo sordo e portando una mano alla gola dolorante.
“Sono quasi certo che se tua madre fosse qui avrebbe reagito allo stesso modo”.
“Forse perché teneva a lui più di quanto tenesse a te”, lo provocò Madison, per fare in modo che si allontanasse il più possibile da Ridley.
Qualcosa di inquietante saettò negli occhi di Julian e per un attimo a Madison sembrò di vedere le sue pupille tingersi di rosso.
“Tu credi?”, domandò Julian, facendo un passo avanti, con fare minaccioso.
“Ne sono certa”, dichiarò lei, guardandolo dal basso. “Come avrebbe potuto amarti? Sei solo un egoista e maniaco del potere!".
Madison non fece neanche in tempo a realizzare del tutto le sue parole che un colpo dritto in viso la costrinse a voltarsi dall’altro lato della stanza, sentendo un dolore che si diramava lungo la guancia. Fece per portarsi una mano al volto ma questa venne intercettata da Julian che si posizionò a pochi centimetri dal suo viso con gli occhi che brillavano di un rosso sangue simile a quello della luna.
“Attenta a quello che dici, ragazzina!”, sibilò lui, facendosi così vicino che Madison poteva sentire la rabbia percorrergli il corpo mentre lei quasi tremava. “Così velocizzi solo la tua condanna”.
“Toglile le mani di dosso!”, Ridley si era rialzato e si stava dirigendo verso Julian ma prima che potesse anche solo sfiorarlo, l’alpha lo fermò ancora una volta, esaltando la sua forza fisica. “Se c’è qualcuno da condannare quello sono soltanto io…e non Madison”.
Julian rise: l’ennesima risata amara che provocò solo maggiore odio in Madison.
“Non fare il martire”, rispose l’uomo, mostrandosi più calmo nonostante sembrasse nascondere tutto il rancore che aveva accumulato nel corso di quegli anni all’insegna della menzogna. “Vuoi dirmi di prendermela con te? Di punire te? Oh no, troppo facile…perché quando uno dei tuoi beta ti tradisce alle spalle, la situazione non può certo risolversi in maniera così semplice, non trovi?”.
“Tu non l’hai mai amata”, esclamò Ridley all’improvviso, lasciando Julian sorpreso quanto irato.
Julian sembrava sapere che Ridley stesse dicendo la verità, perché lui non amava davvero Nadia, o almeno non come l’amava Ridley. Per lui era sempre stata una questione di potere e di possesso, ma quel piccolo e insignificante dettaglio non gli avrebbe certo permesso di cambiare idea.
La verità era che Julian era così intrappolato nella sua ossessione per il potere da non voler minimamente valutare la possibilità di guardare dentro di sé e capire che lui non aveva mai provato nulla per Nadia.
“E questo dovrebbe giustificarti?”, ribattè Julian, incrociando le braccia e fingendo di voler portare avanti una conversazione civile. “Questo basta per giustificare il tradimento e la menzogna che Nadia ha portato avanti fino alla nascita di questa piccola e inutile umana?”.
Madison sentì il sangue ribollirle nelle vene mentre la voglia di rompere quelle catene si faceva sempre più forte. Per un attimo, quasi provò tristezza per il suo essere umana poiché se avesse avuto almeno un minimo della forza dei licantropi, si sarebbe già avventata su Julian.
“Certo che no!”, rispose Ridley con fermezza. “Ma non giustifica quello che vuoi fare tu”.
“Hai ragione”, convenne Julia, passandosi una mano tra i capelli. “Sono un vero sciocco”.
Ovviamente, Julian non era sincero e subito dopo aver parlato colpì ancora Ridley al petto, scagliandosi su di lui mentre Madison gli urlava inutilmente di fermarsi. Blake, rimasto immobile a fissare quella scena assurda, si riscosse finalmente e cercò di aiutare Ridley per quanto possibile ma il suo tentativo fu inutile, a causa della forza del suo alpha. Gwen continuava a guardare senza dire nulla, appariva quasi in trance mentre realizzava qualcosa di cui soltanto lei sembrava essere a conoscenza: una realizzazione personale e troppo scioccante per essere condivisa con qualcun altro.
Guardava Julian come se lo vedesse per la prima volta, capendo a pieno le sue reali intenzioni e non sentendosi altro che una stupida pedina, parte del suo gioco sadico. Nadia era la causa scatenante di tutta quella vicenda: la donna che lei non avrebbe mai potuto sostituire, perché Julian era troppo accecato da lei per potersi guardare realmente attorno.
“Ci hai usato per tutto questo tempo?”, domandò Blake, mentre la voce si riempiva di collera. “Ci hai condotti fino a qui soltanto per una vendetta puramente personale. Stai cercando di trasformare una ragazza con cui non hai nessun legame di sangue. Sei fuori di testa!”.
“Devo dubitare anche della vostra lealtà?”, urlò Julian, rivolgendosi sia a Blake che Gwen. “Ve la farò molto semplice…state dalla mia parte o morite, chiaro? Non credo che Blake voglia vedermi mentre apro in due il torace di Bastian non appena metterà piede qui, giusto?”.
Blake strinse così forte i pugni fino a farsi sanguinare le nocche e ripeté a sé stesso di desistere dall’impulso di fare ciò che l’istinto gli stava ordinando.
“Bastian sarà qui a momenti”, rispose Julian, quasi canticchiando.
“Fai come dice”, esclamò Ridley, rivolgendosi a Blake, quasi pregandolo, poiché sapeva che se Blake avesse mosso anche un solo dito, non avrebbe più visto la luce del sole e neanche Bastian.
Blake sembrò rilassarsi e si voltò a guardare Julian con immenso odio, pensando al momento in cui il branco di Derek li avrebbe raggiunti insieme a Bastian e allora le cose sarebbero andate diversamente. Almeno così sperava.
Intanto, Gwen continuava a restare impassibile, fissando Julian.
“Bene”, Julian si rilassò, guardando di nuovo Ridley e sferrandogli un calcio. “Gwen, porta Madison qui e poi preparati a ricevere visite”.
Gwen tremò sul posto, sorpresa dal fatto che Julian avesse deciso di coinvolgere qualcun altro e guardò Madison che se ne stava a terra con le mani tenute ferme dalle catene.
“Allora?”, la richiamò Julian, impaziente. “Sei ancora dalla mia parte?”.
Gwen non sembrava molto convinta, eppure guardare Julian negli occhi sembrò riscuoterla, così si avvicinò a Madison, costringendola a sollevarsi e togliendole le catene. Sentiva il suo cuore che batteva violentemente e pensava a ciò che aveva fatto Nadia. Aveva ingannato tutti, a partire da Julian, eppure lui era ancora lì per quella donna…aveva trascorso gli ultimi anni cercando non di trovare la figlia che gli era stata portata via ma la bambina frutto di qualcosa che per Julian era del tutto sconosciuto. E lei? Era soltanto una pedina, mossa da un amore mai ricambiato.
Il suo sguardo incrociò quello di Blake, cercando una risposta che nessuno poteva darle davvero.
 
“E’ lì che dobbiamo andare?”.
Derek osservò lo scenario che gli si parava davanti, concentrandosi su quella casa ridotta in rovina e nascosta nel bel mezzo dei boschi, quasi al confine della città. La vegetazione era molto fitta, particolare che aveva permesso a Julian e al suo branco di tenersi ben isolato dalla città e non dare nell’occhio allo Sceriffo o a qualche altro abitante che avrebbe notato facce nuove. A vederla, la casa sembrava ovviamente abbandonata ed era così malridotta che Derek temette potesse crollare da un momento all’altro, con Madison al suo interno, dettaglio che lo terrorizzò.
Cercò di acuire i sensi per sentire anche il minimo sibilo proveniente dall’interno dalla casa ma l’unica cosa che riuscì a captare era un silenzio inquietante e innaturale. Spazzò via il senso di agitazione che correva nelle sue vene, e finalmente udì dei battiti accelerati e indistinti.
La mano di Peter sulla sua spalle lo costrinse a riaprire gli occhi per guardare gli altri.
“Probabilmente Julian si trova nella stanza sotto le scale”, spiegò Bastian cominciando a camminare, mentre le foglie secche scricchiolavano sotto i suoi piedi. “Era lì che stava preparando tutto, in attesa del giorno in cui avrebbe dovuto trasformare Madison. Ci sarà Gwen ad aspettarci…con Blake”.
“Ci daranno molti problemi?”, chiese Scott, sinceramente preoccupato.
“Gwen indubbiamente”, affermò Bastian, gettando uno sguardo alla luce che proveniva dall’interno della casa. “Blake…spero davvero di no”.
“Solo io ho la sensazione che le cose stiano per mettersi male?”, domandò Stiles, preoccupato.
Isaac impugnò una lama d’argento che teneva nella tasca posteriore dei jeans, attirando su di sé gli sguardi curiosi del resto del branco.
“E’ di Chris, me lo ha lasciato tempo fa, potrebbe servire”.
“Cosa ci fai con quel coltellino?”, chiese Bastian, squadrandolo con fare derisorio.
“Coltellino d’argento. Puoi testarlo, se vuoi”, proruppe Isaac, facendo sussultare l’altro per poi sfoggiare un sorrisetto soddisfatto.
“Ok, basta con la gara a chi è più macho”, li interruppe Stiles.
Derek fece un passo avanti ma Scott lo fermò, poiché Derek gli sembrava più un automa che un essere dotato di testa e cuore.
Non aveva proferito parola per tutto il tragitto, limitandosi a guardare dritto dinanzi a sé come qualcuno pronto a morire senza nessun ripensamento.
Era chiaro che Derek fosse pronto a tutto per salvare Madison, ma Scott continuava ad essere ugualmente in pensiero per lui. Quel rituale avrebbe potuto ucciderlo, e Derek sarebbe morto senza pensarci.
“Derek”, lo chiamò il ragazzo, facendo sì che si fermasse. “Come funziona il rituale?”.
“Entro e mi getto su quel bastardo”, rispose l’altro, laconico.
“Piano geniale”, lo rimbeccò Peter, alzando gli occhi al cielo.
“Noi distraiamo Gwen e Blake”, dichiarò Isaac, facendo un cenno complice a Kira. “Mentre voi vi occupate di Julian, Ridley e Madison. Se riusciamo a muoverci separatamente, Derek avrà modo di tendergli un agguato e mettere in atto il rituale…giusto?”.
“Accidenti!”, esclamò Stiles, sorpreso. “Di solito dici soltanto stupidaggini”.
Isaac gli risolve un sorrisetto ironico e ricevette una semplice occhiata in risposta, mentre Bastian scuoteva il capo in segno di diniego verso quelle marachelle poco adatte alla situazione.
“Cosa stiamo aspettando?”, chiese Kira, spostando lo sguardo sulle persone attorno a lei.
Scott guardò ancora una volta Derek, pensando che l’unica cosa da lui attesa fosse la certezza che Derek non sarebbe colato a picco insieme a Julian, idea che certamente lo stava sfiorando.
Voleva essere sicuro che Derek avrebbe messo in atto il rituale, cercando almeno una minima possibilità di salvezza. Voleva essere sicuro che Derek non sarebbe morto insieme a Julian. Tuttavia, lo sguardo del licantropo sembrava completamente privo di ogni senso di sopravvivenza.
“Nulla. Andiamo”, dichiarò Derek, seguendo Bastian che mostrava loro la strada.
Quando furono finalmente abbastanza vicini da rendersi conto di ciò che stava accadendo, Derek vide Bastian aprire una porta di legno con un calcio, mostrando loro delle scale che davano su quello che sembrava essere una specie di deposito. Una flebile luce proveniva dal fondo delle scale e Derek seguì a ruota Bastian in modo così veloce che quasi non si accorso di ciò che stava accadendo.
Vide Julian accanto al muro con Ridley accasciato ai suoi piedi e Madison con i polsi legati: il volto di Ridley era madido di sangue mentre Madison aveva un graffio sulla guancia. Senza pensarci, fece per dirigersi verso di lei ma Gwen gli si parò davanti con aria di sfida.
Derek sbuffò mentre i suoi occhi cambiavano colore e un ringhio si levava dalla sua gola. La spinse indietro con uno strattone, lasciando che Isaac e Kira si avventassero su di lei, mentre lui continuava a camminare verso Julian. Gli sembrava di essere in un sogno, nel quale tentava disperatamente di raggiungere qualcosa ma più si avvicinava e più l’oggetto dei suoi sogni si faceva più distante.
Adocchiò Bastian e Scott che correvano verso Blake, mentre Stiles si avvicinava a Madison per accertarsi che stesse bene. Tentò con tutte le sue forze di non pensare troppo a lei, poiché il suo obiettivo era Julian e doveva mettere fine a tutto prima che procurasse altro dolore.
Era ad un passo da Julian, quando quest’ultimo con uno scatto fulmineo si ritrovò accanto a Stiles, spingendolo via e afferrò Madison per le braccia.
Il tempo parve fermarsi in quella casa.
“Nessuno si muove, eh?”, disse con tono di scherno, mentre con una mano scostava i capelli di lei, puntando alla sua gola esposta. “Forse nessuno vuole che qualcuno venga morso”.
“Non-“, tentò di parlare Ridley, ancora malconcio, mentre si rimetteva in piedi.
Derek sgranò gli occhi, lasciando che tornassero al suo colore naturale.
Tutta la rabbia era svanita, per fare posto al terrore, alla paura che i denti di Julian affondassero nella gola di Madison, dando inizio a quel processo irreversibile che avrebbe potuto portare solo a due conseguenze, e nessuna di quelle sembrava presagire una via di salvezza per lei. Si sentì come un bambino spaurito che non aveva la forza di affrontare l’Uomo Nero che minava la sua serenità.
Incrociò lo sguardo di Madison che sembrava quasi lieta di rivederlo anche se in quella circostanza.
Lei fece un cenno con il capo allungando una mano per far sì che Derek si fermasse senza muovere alcun passo, come per dirgli che andava bene, che non doveva avere paura. Ricordò tutti i momenti passati insieme e le sue mani attorno al suo braccio, mentre lo confortava e gli ripeteva che andava bene, che non c’era nulla da temere. Eppure, quello non bastò a rasserenarlo.
Madison stava per essere morsa e Derek non sapeva cos’altro fare per impedirlo.
Non aspettò oltre, ma quando fece l’ultimo passo che lo separava da Julian, quest’ultimo sfoggiò i canini per poi conficcarli nella gola di Madison, provocandole un urlo acuto di dolore. A quel punto, il tempo sembrò riprendere la sua corsa naturale e quando Madison cadde sul pavimento polveroso con il sangue che le imbrattava la gola e la spalla, Derek desiderò soltanto uccidere con le sue mani l’Uomo Nero che aveva le sembianze di Julian.
Gli fu addosso, dando sfogo a tutta la furia che aveva in corpo ed emise un ringhio di dolore e frustrazione per ciò che era appena accaduto a Madison. Strinse la presa sulle braccia di Julian, mentre lui rideva del suo dolore, quasi felice di avergli causato tutto quel male in un sol colpo.
Si liberò dalla sua morsa e iniziò a colpirlo, trovando risposta in Derek che non diede alcun peso al fatto di essere in totale svantaggio contro un alpha poiché i suoi occhi erano annebbiati dal rosso del sangue di Madison che si diramava per terra, come le radici di un grande albero.
Intanto, Ridley si era precipitato accanto a quella che aveva scoperto essere sua figlia, mentre Blake aveva finalmente smesso di combattere, spostando lo sguardo su Bastian che gli aveva teso una mano per aiutarlo a rialzarsi.
Gwen continuava a lottare imperterrita contro Isaac e Kira ma per qualche strano motivo, non sembrava avere la meglio sui due.
“Gwen! E’ finita”, le urlò Blake, cercando di risvegliare la donna ma Gwen non lo ascoltava.
Cercò di attaccare Isaac a tradimento, approfittando della sua distrazione dovuta a Blake, ma Kira si accorse di lei giusto in tempo per colpirla con la katana, tagliandole la gola. La donna finì con la schiena contro il muro mentre la sua gola grondava sangue che non arrestava a fermarsi e il suo respiro andava sempre più mancando. Guardò il suo alpha che ancora stava lottando con Derek, e riuscì ad incrociare i suoi occhi per un brevissimo momento.
“Julian”, sussurrò, quasi pregandolo ma lui la ignorò, scrollando semplicemente le spalle.
“Mi spiace, mia cara”, esclamò senza alcun rimorso e lasciando che Gwen morisse dinanzi a lui.
Peter afferrò improvvisamente Julian per le braccia, usando tutta la forza che aveva per tenerlo fermo quanto possibile e fece un cenno a Derek che chiuse l’alpha in una morsa. Derek lo stringeva così forte che gli artigli quasi affondavano nella carne di Julian, il quale iniziò a provare dolore, rendendosi conto che c’era qualcosa che non andava. Intanto, la luna continuava ad essere rossa fuori dalla finestra, così come il sangue ai loro piedi.
Stiles teneva il corpo di Madison sollevato, mentre Ridley le spostava i capelli dal viso, anch’essi imbrattati di sangue e la ragazza non dava alcun cenno di vita, se non il battito irregolare.
Derek sentì uno spasmo che gli percorse tutto il corpo, mentre le forze sembravano aumentare e poi svanire al tempo stesso e i suoi occhi cambiavano colore rapidamente, alternandosi tra il loro colore naturale e le sfumature dovute alla trasformazione.
Le braccia si rinvigorirono e le vene divennero più sporgenti e nere, segno dell’efficacia che il rituale stava avendo su di lui e anche su Julian.
Derek sentì un lieve capogiro e quando abbassò lo sguardo vide del sangue nero che gli imbrattava la maglietta e del liquido caldo dall’odore ferroso che gli colava dal naso. L’alpha, intanto, sembrò capire che Derek stesse facendo qualcosa di strano e cercò di divincolarsi dalla sua presa, senza risultato e prese a guardarsi intorno confuso mentre la sua forza veniva meno.
“Cosa mi stai facendo?”, chiese con voce rabbiosa, scattando con il capo in avanti verso Peter.
“Ti priviamo del potere che hai sempre voluto”, esclamò Bastian, mentre la voce quasi gli tremava poiché anche lui, come tutti, era scosso dalla vista di Madison. “Meriti questo e anche di peggio”.
“Già. Merito di essere pugnalato alle spalle”, ribatté Julian con un tono sempre più debole. “Come ha fatto sua madre e come ha fatto Ridley. Avevo detto che le avrei dato una sorte irreparabile”.
A quelle parole, Derek lo strattonò maggiormente, quasi per punirlo per ciò che aveva detto e gettò uno sguardo a Madison, desiderando abbandonare tutto solo per stringerla a sé, ma non lo fece.
Doveva resistere. Doveva portare a terminare quel rituale prima che la Luna di Sangue volgesse al termine. Doveva fare in modo che Julian perdesse i suoi poteri da alpha, così da farla finita.
“Potrete anche uccidermi”, Julian sorrideva, fiero del suo operato. “Non cambierà nulla”.
Ridley continuava a carezzare il volto pallido e madido di sudore di sua figlia, percorrendone i tratti quasi identici a quelli della sua Nadia e trovando in lei anche qualcosa dello stesso Ridley. Non sapeva se sperare di vederla aprire gli occhi di una tonalità diversa da quella originale, o di vederla andare incontro alla morte. Voleva che sua figlia trovasse un modo per sopravvivere, ma la trasformazione cosa avrebbe comportato? Una vita trascorsa a nascondersi? A cercare di vivere una quotidianità che le sarebbe sempre stata negata. Derek l’avrebbe protetta, ne era certo, ma sarebbe bastato? Sarebbero riusciti a fronteggiare altri pericoli, come un nuovo branco o qualcosa di peggio?
Intanto, guardò Derek che si indeboliva sempre più insieme a Julian, senza trovare ancora una risposta precisa a ciò che stavano facendo ma che sembrava funzionare: Derek stava portando via la forza di Julian e il suo potere da alpha, insieme a ciò che restava di lui.
Quanto ancora sarebbe sopravvissuto? Guardò un’ultima volta Madison, capendo che nel caso in cui ce l’avesse fatta, sua figlia non avrebbe potuto risvegliarsi in un mondo di cui Derek non faceva parte. Aveva perso già troppo.
Ad un tratto, il corpo di Madison prese a tremare, scosso da una serie di violenti spasmi.
Ridley le circondò la guancia con la mano mentre gli occhi di lei si aprivano e si chiudevano a scatti, senza permettere loro di capire cosa le stesse realmente accadendo. Si alzò di scatto e spinse via Derek, prendendo il suo posto accanto a Julian che intanto aveva spalancato gli occhi, mentre il suo respiro si mozzava. Derek lo guardò dal basso con un misto di rabbia e confusione.
“Cosa diavolo fai?”, domandò, reprimendo la voglia di dargli un pugno per averlo fermato.
“Faccio in modo che mia figlia non resti sola”, rispose l’uomo, mentre un velo di tristezza gli attraversava il volto stanco e carico di dolore.
Derek rimase interdetto, mentre il significato del suo gesto lo colpiva in viso come una stilettata.
Si precipitò accanto a Madison senza perdere altro tempo, mentre Ridley teneva fermo Julian.
“Se devo morire, verrai con me”, sussurrò Ridley, facendo risuonare quella frase come una minaccia.
“Forse rivedremo Nadia, non credi?”, lo colpì Julian con sarcasmo.
“Forse”, convenne Ridley con assoluta calma. “Magari lei farà il resto”.
Gli occhi di Julian scintillarono un’ultima volta, mostrando l'azzurro, come testimonianza dell'efficacia del rituale. Ogni suo potere era andato perduto e adesso Julian si mostrava per quello che era realmente, mentre Ridley aveva compiuto l’ultimo passo decisivo.
Il corpo di Madison continuava a tremare mentre la ferita sul collo non accennava a guarire.
“Cosa le succede?”, chiese Stiles, cercando inutilmente di tenerla ferma.
“Non ne ho idea”, esclamò Derek, agitato. “Possibile che si stia trasformando?”.
La Luna Rossa continuava a svettare nel cielo ma il suo colore stava mutando.
Il rosso andava sempre più sfumando, facendo sì che la luna perdesse quel colore innaturale e sinistro. Madison aprì gli occhi di colpo, scontrandoli con la luce della stanza e prendendo un profondo respiro, mentre iniziava a tossire violentemente, come fosse stata sott’acqua per tutto il tempo.
Insieme a lei, anche gli occhi di Ridley e Julian si spalancarono di scatto, mostrando il loro colore naturale. La presa di Ridley si fece più debole, lasciando andare lentamente il corpo di Julian, ma prima di crollare a terra, il licantropo conficcò gli artigli nello stomaco di Julian.
A quel gesto, Scott fece un segno di avvertimento a Kira, poiché se dovevano uccidere Julian non potevano permettersi alcun errore. Così, mentre Ridley si sforzava di piantare gli artigli nel corpo del licantropo ormai privo del suo potere, Kira lo infilzò con la katana senza alcuna riserva. (1)
Quando Ridley urtò il pavimento, Madison perse ancora una volta il respiro. Si portò una mano alla gola, trovando ancora qualche residuo del suo sangue ma nessuna ferita ancora aperta, soltanto una cicatrice sulla parte sinistra della clavicola.
“Ma che diamine?”, esclamò Scott, confuso mentre il suo sguardo incontrava quello di Derek.
Madison fissò Derek che le portò una mano al volto, tastandolo, come se volessi accertarsi della sua presenza.
Temeva che Madison sarebbe svanita da un momento all’altro, sgretolandosi fra le sue mani. La ragazza lo guardò altrettanto confusa ma con una luce negli occhi che la rendeva più viva e vera di tutto ciò che lo circondava in quel preciso momento e luogo.
Blake guardò il corpo senza vita del suo alpha che teneva ancora gli occhi aperti, mentre il sangue scorreva lungo il suo addome e le braccia restavano abbandonate lungo il pavimento. Stiles voltò il capo dall’altra parte, perché tutto quel sangue iniziava a dargli allo stomaco.
Derek aiutò Madison ad alzarsi, chiedendosi ancora cosa le fosse successo davvero ma quello non era il momento adatto per le domande, poiché la ragazza si avvicinò a Ridley, disteso a terra. Voltò il suo busto nella sua direzione e vide con gioia che respirava ancora ma debolmente.
“Ehi”, la salutò lui, aprendo leggermente gli occhi e sfiorandole la guancia. “Sei viva”.
“Lo sono?”, domandò Madison, guardando Derek che le fece un cenno con il capo.
“Hai ancora parecchio tempo da vivere”, sussurrò lui, guardandola con affetto e rivedendo in lei tutto quello che aveva sempre amato di Nadia, dalla bellezza alla testardaggine difficile da eliminare.
“E tu?”, domandò Madison, quasi intuendo che a Ridley non restava molto da vivere.
“Io ho fatto quello che dovevo”, Ridley, nonostante tutto, non era pentito di nulla. “Non potevo lasciare che Derek morisse insieme a Julian. Tu saresti rimasta sola”.
Madison e Derek si guardarono ancora una volta, e la ragazza sentì la mano di Derek stringersi attorno alla sua, per darle forza e aiutarla ad affrontare ciò che sarebbe accaduto a momenti.
Per un attimo, Madison provò odio nei confronti di Nadia, chiedendosi come sarebbero andate le cose se avesse detto la verità fin dall’inizio. Forse avrebbe conosciuto entrambi i suoi genitori, e forse non sarebbe mai arrivato il momento di dire addio a Ridley, o almeno non a quel modo.
“Ti ho appena conosciuto”, disse lei, trattenendo i singhiozzi che le trapassavano la gola come spilli.
“Anche io”, esclamò Ridley con un sorriso amaro. “Forse è meglio così. In un’altra situazione, forse tu non avresti mai visto la luce e saremmo tutti morti molto tempo fa, non credi?”.
Madison singhiozzò ancora, sentendo di non riuscire a respirare più come prima.
“Mi sarebbe piaciuto farti da padre”, continuò Ridley, voltandosi poi verso Derek. “Ti avrei insegnato ad andare in bici e avrei guardato male tutti i ragazzi che ti avrebbero chiesto di uscire”.
Madison rise, tra le lacrime che si facevano strada tra le ciglia.
“La mamma sarebbe fiera di te. Di noi”.
“Lo sarebbe”, confermò lui, respirando a fondo e lasciando che il suo sacrificio si realizzasse definitamente, mentre la mano poggiata sul volto di Madison perdeva appiglio.
Quando le dita di Ridley la sfiorarono un’ultima volta per poi cadere a peso morto sul suo addome, Madison sussultò, vedendo gli occhi del padre che non avrebbe mai conosciuto, chiudersi.
“Ridley”, lo chiamò lei, nella speranza di vederlo risvegliarsi. “Papà?”.
Si sentì strana e stupida a pronunciare quell'appellativo quasi sconosciuto ma lo aveva pronunciato senza rifletterci, come se fosse la cosa giusta da fare.
A quel punto, Madison sentì solo la consistenza del tessuto morbido della maglia di Derek contro il suo volto, ignorando le voci che vorticavano intorno a lei. Le lacrime bagnavano la maglia di Derek e Madison pensò che si sarebbe scusata, magari offrendogli un bucato, ma continuava a piangere mentre le braccia forti di Derek la avvolgevano, riportandola al sicuro e facendola sentire a casa.
Sentiva ancora quella sensazione di morte che la faceva compagnia e l’odore pungente di sangue che le colpiva le narici, arrivandole fino alla testa. Il sangue era tanto e i corpi senza vita erano troppi per i suoi gusti. Non voleva vedere nient’altro, non voleva guardare ancora suo padre, Julian e Gwen.
Voleva solo andare via, stringersi a Derek e lasciare che la portasse via da quel posto.
Sentì Derek che la sollevava e Madison gli si strinse maggiormente, affondando il volto nel suo collo e tenendo gli occhi così serrati che forse avrebbero preso a bruciare se li avesse aperti per guardare.
 
 

Angolo dell’autrice
  • (1) ci sono diversi modi per uccidere un licantropo ma visto che l’idea di tagliargli il busto o la testa non tanto mi piaceva, mi sono ricordata di come uccidono il Nogitsune (la prima volta nella puntata 3x19) con la katana di Kira e gli artigli di Satomi.
 
Siete liberi di insultarmi e di prendermi a padellate, me lo merito!
Pensavo che sarei riuscita a pubblicare quanto prima ma gli impegni sono tanti e quindi eccomi qui. Comunque, il capitolo ovviamente non mi piace affatto. Ho la sensazione di aver realizzato un finale privo di senso e deludente: la questione del rituale è andata come previsto, cioè Derek lo ha messo in atto ma all’ultimo momento Ridley si è messo in mezzo per evitare che Derek perdesse la vita e quindi è morto lui, ovviamente insieme a Julian. Anche il destino di Ridley è stato molto difficile da scrivere ma, per quanto una reunion sarebbe stata bellissima, ho pensato che anche lui ormai aveva fatto il suo corso come personaggio e ha sacrificato sé stesso per dare un futuro a sua figlia.
Per quanto riguarda Madison: il motivo per cui è sopravvissuta verrà chiarito da Deaton.
Credo di non dover fare altre precisazioni. Il prossimo capitolo sarà l’epilogo.
Ringrazio tutti quelli che stanno seguendo la storia, e lasciate un commento se vi va :)
Alla prossima, un abbraccio!

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Capitolo 18
*** Epilogo ***


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Epilogo

“So beautifully broken. You can barely see the flaw.
Especially from a distance, which is always how I fall”.
 
Derek osservava i movimenti di Deaton come se stesse tenendo la vita di Madison appesa ad un filo, quando, in realtà, stava semplicemente spostando la  piccola fonte di luce da un occhio all’altro, assicurandosi che la ragazza la seguisse e osservandola con maggiore attenzione.
“Non si è trasformata”, esclamò il veterinario, scrollando le spalle.
Stiles corrugò le sopracciglia, con espressione confusa. “Ma è viva”.
“Questo lo vedo”, rispose l’uomo, accennando un sorriso. “Quanto ne sapete di genetica?”.
Un silenzio imbarazzante calò nella stanza, Madison osservò le espressioni colpevoli di Stiles, Scott e Isaac, mentre Lydia sbuffava, quasi rimproverando i suoi amici, e Derek guardò Cora che sogghignava per l’imbarazzo che aveva improvvisamente riempito la stanza.
“Ok, non siamo al liceo”, intervenne Bastian, senza troppi preamboli e portando le mani ai fianchi con fare impaziente. Sembrava quasi un fratello maggiore. “Allora?”.
“Credo di aver capito come sono andate le cose”, proseguì Deaton con calma. “Anche se Madison è nata umana, c’è sangue di licantropo nelle sue vene, ereditato da suo padre. La licantropia è, in questo caso, un gene recessivo. Non si manifesta e mai si manifesterà, ma c’è. Non ha subito la trasformazione, perché è come se fosse già intrisa nel suo organismo”.
“Figo”, esclamò Stiles, quasi saltando sul posto e beccandosi uno scappellotto da Derek.
“E’ un male?”, chiese Bastian, incrociando le braccia e guardando Madison con preoccupazione.
“Affatto”, rispose Deaton, massaggiandosi il mento. “Non ha subito mutazioni. Le è rimasto solo un souvenir”.
Madison abbassò il capo, portando la mano alla cicatrice su cui Deaton aveva posto una benda. Quello era il marchio che Julian le aveva lasciato. La cicatrice era rimasta, il che stava a dimostrare la sua umanità più che presente, ma quel morso le aveva ugualmente lasciato un segno indelebile.
Derek ripensò alla scena di lei con il collo imbrattato di sangue e gli occhi chiusi, tremando.
“Non c’è nessun pericolo, Madison”, la rincuorò Deaton.
Madison ci mise qualche minuto per realizzare che stava andando tutto bene e che le cose stavano lentamente ritornando al loro posto: erano vivi, lei non era morta e non si era trasformata. Aveva evitato quel destino che Julian voleva riservarle, solo per ferire i suoi genitori. Guardò Derek e gli altri licantropi presenti nella stanza, domandosi se approvassero la speranza di suo padre.
Derek percepì il suo disagio, e Madison afferrò la sua mano, stringendo fino a farsi male. Ormai, quella ragazza non aveva più nessuno al mondo: nessun riferimento, nessuna casa a cui tornare, nessun famigliare a cui rivolgersi…come avrebbe fatto a sopperire quella mancanza?
Pensò che lui aveva subito la stessa sorte ed era vero, ma soltanto in parte, poiché, nonostante tutto, Derek aveva ancora suo zio Peter e sua sorella Cora. Sarebbe stato capace di aiutare Madison? Un senso di agitazione lo pervase, accompagnato da un macigno che cominciava a gravargli sulle spalle, facendolo sentire impotente e per nulla in grado di aiutare qualcuno. Non era mai stato capace di aiutare sé stesso, non aveva fiducia negli altri e nemmeno verso di sé, come avrebbe fatto a fare in modo che Madison superasse quel periodo buio della sua vita?
Non sarebbero bastati stupidi incoraggiamenti che con lui non erano mai serviti e nemmeno parole dolci, Madison aveva bisogno di una presenza stabile e determinante al suo fianco. Era lui quella presenza? Era lui, Derek Hale, con tutte le tragedie che gli schiantavano addosso, travolgendo sia lui che le persone che aveva accanto in una spirale di morte?
Deaton, nel frattempo, sembrò intuire di dover lasciare Derek e Madison da soli, così fece un cenno agli altri, e nonostante gli sguardi confusi di Stiles che non sembrava intenzionato ad andarsene, uscirono tutti fuori, lasciando soltanto Derek e Madison nella stanza.
In un secondo, ogni cosa sembrò perdere consistenza e attorno a Madison non c’era altro che una nube opprimente e tossica, che l’avvolgeva fino a toglierle completamente il respiro. Ridley era morto, per salvare lei; Nadia era morta, per impedire che Julian le facesse del male; Keith era morto, per cercare di rimediare ai suoi errori verso di lei; i suoi nonni erano morti, perchè a conoscenza di un segreto che doveva essere mantenuto.
Non aveva detto addio a nessuno di loro, a parte Ridley. Aveva perso sua madre senza sapere chi fosse davvero. Aveva perso Ridley, senza sapere come sarebbe stata la loro vita insieme. Aveva perso Keith, e quando Bastian le aveva detto che era morto, aiutandoli contro Julian, aveva sentito qualcosa dentro di lei rompersi in mille pezzi con la consapevolezza di avergli portato rancore, chiedendosi il motivo del suo gesto. Aveva provato sulla propria pelle l'amarezza degli addii silenziosi: quelli pronunciati dopo la perdita reale, dopo l'addio effettivo...quando restava solo un grande rimpianto al centro del petto.
Keith l'aveva fatta sentire tradita e presa in giro, senza farle sapere il motivo delle sue azioni, senza farle sapere delle false promesse che Julian gli aveva fatto, solo per attirarlo nella sua rete con l'illusoria speranza di vendicare la morte di suo fratello Graham. Se era viva, era anche grazie a lui e all'aiuto che aveva offerto al branco, con il rituale. Tuttavia, Madison non avrebbe mai più avuto modo di ringraziarlo e di dirgli che lo aveva perdonato. Le erano rimaste soltanto le parole di Derek e Bastian a confermare ciò che aveva fatto per lei.
Aveva perso i suoi nonni, vedendo solo le bugie dette per proteggerla. Ricordò la notte in cui era corsa via, decisa ad ignorare ogni cosa che le avevano detto. Se fosse rimasta, forse avrebbe saputo la verità fin dall'inizio...invece, li aveva messi alla mercé di Julian e del suo branco.
Voleva urlare, sfogare il suo dolore per poi correre lontano senza fare mai più ritorno.
“Madison”, quella voce accanto a lei la richiamò, come un filo che la tirava verso il basso, riportandola con i piedi per terra e ancorandola a quella realtà che le sfuggiva dalle mani. Madison non si voltò, pur sentendo la presenza costante di Derek, perché troppo presa dalla realizzazione di tutte quelle perdite subite in troppo poco tempo. Aveva rischiato di perdere anche Derek, per colpa di quello stupido rituale.
“Potevi farti uccidere ”, affermò lei con voce rabbiosa. "Volevi aggiungerti alla lista?".
A quel punto, Derek riuscì a spiegare la sua inquietudine e fece un passo avanti.
“Anche tu. Madison-”, disse lui, ripetendo con calma il suo nome ma lei lo fermò.
“Cosa dovrei essere?”, domandò la ragazza, quasi a sé stessa. “Uno scherzo della natura…lo avresti mai detto? Forse i tuoi sospetti su di me non erano tanto infondati, dopotutto. Da quando sono arrivata qui, ogni cosa è semplicemente peggiorata”.
“Smettila”, esclamò Derek, afferrando le sue mani che avevano preso a gesticolare.
“Guardami”, Madison aveva quasi urlato. “E’ successo tutto per colpa mia. Sono tutti morti per causa mia...mia madre, Ridley, i miei nonni, Keith. Tutti loro hanno perso la vita. Ho visto Ridley morire e mi chiederò sempre come sarebbe stato averlo con me. Adesso questo”.
"Sono morti per colpa di un alpha vendicativo", ribattè Derek, con tono grave. "La colpa è solo di Julian e della sua ossessione per la vendetta".
Derek la guardò, inclinando il capo e sentì come i suoi pensieri combaciassero con quelli che lui stesso aveva formulato anni fa.
A quel tempo, era scappato a New York con Laura. Forse anche Madison aveva bisogno della stessa cosa: allontanarsi da quella città che puzzava di morte e che le ricordava la famiglia che aveva perso nel giro di pochissimo tempo.
Tuttavia, Derek sapeva fin troppo bene come i problemi si infilassero nelle valigie, seguendo costantemente tutti coloro che cercavano di lasciarseli alle spalle, scappando altrove. Derek prese un profondo respiro, guardando Madison che in quel momento gli appariva persa, ma con ancora un barlume di speranza negli occhi. Forse per lei non era ancora troppo tardi. Forse quella era l’ultima possibilità che aveva di allontanarsi da quella città e ricominciare. Una vocina nella sua testa gli diceva di desistere, di non cadere nella trappola che era solito costruirsi da solo ogni volta che cominciava a provare sentimenti forti per qualcuno. L’altra vocina gli urlava, invece, di lasciarla andare, di far sì che corresse via da lui.
"Questo non cambia nulla", rispose Madison, osservando un punto sul muro alle spalle di Derek. "Restano comunque morti".
Derek, diversamente da come credeva che avrebbe fatto, la strinse semplicemente a sé, lasciando che i suoi muscoli si rilassassero e che ogni paura scivolasse via, lontana da loro. Non c’era nulla che potesse intaccare la visione che Derek aveva di lei, non più.
Quel particolare impercettibile sotto pelle non era nulla, non per Derek. Vedeva le sue incrinature, riconoscendole proprio come aveva fatto con le sue, e anche se da lontano ogni cosa appariva in ordine, Derek era più che deciso a sanare quelle crepe che la rendevano rotta.
Per troppo tempo era corso via, scappando da sé stesso e da ciò che poteva avere.
Quella volta, Derek Hale aveva scelto una strada nuova e che non avrebbe percorso da solo.
Quella volta, Derek Hale non voleva scappare.
 
“Adesso cosa farete?”.
Bastian si guardò intorno con fare incerto, cercando una risposta che non aveva ancora trovato a quella domanda e guardando Blake, come per cercare il suo aiuto. Il loro branco era stato distrutto in mille pezzi dalle manie di potere e vendetta del loro alpha egoista.
Cosa ne sarebbe stato di loro? Una parte di lui desiderava restare lì a Beacon Hills, insieme a Madison ma non sapeva quanto Blake potesse essere d’accordo. Avrebbero accettato due beta senza branco che avevano combattuto contro di loro per una causa che credevano giusta ma che si era rivelata del tutto ingannevole?

“Andremo in giro”, rispose Bastian, evitando lo sguardo di Madison.
La ragazza guardò Derek che sembrò capire le sue intenzioni, anche se la sua espressione non si mostrava molto accondiscendente all’idea di averli con loro. A quel punto, intervenne Scott.
“Potreste restare”, disse il ragazzo, senza segni di forzatura nella voce.
“Ma quest’abitudine di accogliere licantropi senza branco?”, chiese Stiles, ripensando a come fosse successa una cosa abbastanza simile con Ethan e Aiden e ricevendo l’occhiata di Lydia che, per zittirlo, aveva stretto forte la sua mano, destabilizzandolo non poco.
“Bastian ci ha aiutati”, dichiarò Scott con sincerità, per poi guardare Blake. “Vi hanno ingannati. Credevate di combattere per una giusta causa e lo avete capito, almeno quasi tutti”.
Blake si passò una mano tra i capelli biondi, riflettendo sulle parole di quel ragazzino a capo di un branco decisamente inusuale. Ormai avevano perso tutto: Julian era morto, come giusto che fosse, ma portando con sé anche Ridley, Gwen e Keith. Era felice del fatto che Bastian stesse bene, anche se avrebbe preferito vedere tutti vivi e fuori pericolo…ad eccezione di Julian.
Guardò Bastian, sapendo in cuor suo che lo avrebbe seguito, qualunque fosse stata la sua scelta. Non aveva più nulla e sentiva con assoluta certezza che Bastian fosse il più adatto a decidere. D’altronde, era stato lui a recarsi per primo dal branco di Scott per aiutare Madison e salvare quel che restava del loro branco. “Mi andrà bene ciò che deciderai”.
Bastian lo fissò, accorgendosi di come il guscio che era Blake avesse perso quella parte decisa e combattiva che fuoriusciva ogni volta che Julian dava loro un compito da svolgere. Quello che aveva dinanzi era il Blake che aveva sempre conosciuto: il suo fratello maggiore, l’uomo che lo aveva trovato nei boschi con il corpo ricoperto di sangue e che lo aveva soccorso, salvandolo e accogliendolo nel branco, prendendolo sotto la sua ala quando era un ragazzino.
Bastian gli si avvicinò, lasciando che Blake gli stringesse la spalla.
Adesso erano liberi. Non c’era più nessun vincolo a stabilire le loro decisioni e a costringerli ad agire in funzione di Julian. Non c’era più nessun debito che li vincolava a Julian. Potevano scegliere e Bastian voleva scegliere di restare.
“Restiamo”, disse lui e sapeva che a Blake andava bene.
Madison sorrise in maniera così radiosa che Bastian e Blake trovarono maggior senso in quella decisione: quello era il sorriso di Nadia, e rivederlo provocò una stretta nel cuore di entrambi.
 
“Allora, come sei messa?”, domandò Lana, porgendo un caffè a Madison che squadrava i fogli che aveva tra le mani con un cipiglio dubbioso. “Ho tanti appunti da darti”.
Il sole era alto nel cielo e creava giochi di luce, infrangendosi fra gli alberi del campus.
“Beh, meglio di quanto sperassi”, disse, osservando il piano di studi e accertandosi di non aver saltato qualche passaggio o letto qualcosa che non c’era. “Ho cinque esami da recuperare”.
Per un attimo, un senso di avvilimento le inondò il corpo, facendola sentire più afflitta del dovuto.
Sarebbe riuscita a reggere quel ritmo e recuperare o sarebbe finita per lasciare tutto?
Lana le circondò le spalle con il braccio, attirandola a sé. “Andrà tutto bene, ci sono io!”.
Madison si voltò verso di lei, chiedendosi come avrebbe fatto a far tutto senza Lana e notando come la sua amica stesse affrontando ogni cosa diversamente da come aveva sospettato. Le urla iniziali verso di lei c’erano state, seguite poi da un abbraccio soffocante in cui Lana aveva ben deciso di stringerla per farle capire quanto le fosse mancata in tutto quel tempo. Aveva pianto a dirotto, sussurrandole che credeva di non vederla più. Le giornate a Berkeley erano state logoranti senza lei: le aveva detto che per un momento aveva pensato che fosse tutto un sogno.
“Ho temuto che tu non fossi reale”, aveva detto tra le lacrime. “Credevo fossi solo parte della mia mente, che forse non avevo fatto altro che sognarti quando non eri mai esistita”.
Lana non aveva accettato tutto con facilità ma a piccoli passi, ogni cosa era andata per il verso giusto, riportando le loro vite all’equilibrio iniziale che era stato minato. Il cellulare di Lana squillò, indicando l’arrivo di un messaggio e la ragazza si precipitò a leggere, gettando in Madison una punta di sospetto per tutta quella foga improvvisa.
“Chi ti scrive?”, chiese, fingendo indifferenza. “Un certo Hale?”.
Lana alzò gli occhi al cielo, senza riuscire a nascondere un sorriso. “Forse”.
“Quindi Derek dovrebbe chiamarti zia?”, continuò Madison, sorridendo divertita.
Lana le rifilò una spinta, scoppiando a ridere, seguita a ruota da Madison che proprio non riusciva ad evitare di trovare imbarazzante e divertente tutto quel contesto in cui si erano ritrovate.
Mentre continuavano a camminare, lo sguardo di Madison si fermò su una figura che la stava aspettando a pochi metri dall’entrata del campus con espressione un po’ smarrita. Derek era lì, con le mani affondate nelle tasche della giacca di pelle nera e la maglia blu che risaltava in mezzo a tutto quel verde. Vederlo la fece sentire ancora più serena e sicura, mentre il colore dei suoi occhi la riportava con i piedi per terra, costringendola a chiedersi il perché di quell’effetto. Derek la guardò e quando i loro sguardi si incontrarono a metà strada, Madison non riuscì a fare a meno di andargli incontro a passo più svelto solo per buttargli le braccia al collo. Sapeva che Derek era poco incline a quelle manifestazioni di affetto ma poteva sentire il battito del cuore contro il suo e sapeva che avrebbe desiderato farlo lui, anche se non lo diceva.
“A cosa devo tutto questo trasporto?”, chiese, guardandola in viso e fingendosi curioso.
Madison gli fece una smorfia e gli scoccò un bacio sulle labbra. Derek sentì il sapore di caffè misto a vaniglia e si beò ancora un po’ di quel bacio, assaporandone la dolcezza.
“Sto per vomitare”, berciò Lana a poca distanza da loro e beccandosi un’occhiataccia di Derek.
“Davvero?”, le fece notare lui con voce sarcastica. “Esci con mio zio”.
Lana mostrò un’espressione offesa che non aveva alcuna credibilità, poiché era sul punto di scoppiare a ridere, così fece una linguaccia a Derek che ricambiò con un sorriso divertito.
“Io devo scappare, piccioncini”, esclamò Lana, guardando Derek con un finto sguardo minaccioso per costringerlo ad allontanarsi da Madison, così da permetterle di salutarla.
Madison la strinse, nonostante sapesse che l’avrebbe rivista quella sera stessa. In realtà, da quando si erano separate la prima volta, entrambe avevano quasi paura di non rincontrarsi e questo le spingeva ad abbracciarsi sempre con maggiore intensità…e andava bene. Lana salutò Derek con una pacca sul braccio e si allontanò da loro con un sorriso sul volto, portandosi il telefono all’orecchio, probabilmente per chiamare Peter.
Madison tornò a guardare Derek, portandogli le braccia al collo e rubandogli un bacio.
Dopo essersi separati, Derek le porse un pacchetto che Madison osservò con stupore, poiché sapeva quanto Derek fosse poco avvezzo ai regali.
“E questo? E’ da parte di Cora?”.
Derek sorrise, senza rispondere, e le fece segno di aprirlo, guardando Madison che lo scartava con impazienza. Poteva sentire chiaramente il formicolio dell’eccitazione che le percorreva le dita e che la spingeva a rimuovere la carta da regalo come una bambina nel giorno di natale.
Il cuore di Madison saltò un battito, mentre la ragazza osservava una foto perfettamente incorniciata di Ridley e Nadia che doveva risalire al loro periodo felice, prima che le cose degenerassero.
“L’ha trovata Bastian tra le cose di Ridley”, esclamò Derek, stringendole un braccio attorno alla vita, come per sorreggerla e tenerla stretta a sé. “Ha detto che appartiene tutto a te, come giusto che sia”.
Madison si voltò nella sua direzione, poggiando la fronte sulla sua.
Portò la foto all’altezza del suo petto e la fissò, adocchiando Derek di tanto in tanto: quello era tutto ciò di cui aveva bisogno.
Con Derek al suo fianco e il ricordo della sua famiglia poteva tornare a respirare.
Madison non ricordava che la normalità fosse così piacevole.

 

Derek voleva rimanere bloccato per sempre in quel momento, nascosto dal resto del mondo e oscurando la loro presenza, come se non esistessero. Voleva restare protetto, mentre ad avvolgerlo c’era solo il calore di un corpo accanto al suo e un respiro di Madison sul suo collo.
Derek voleva sfiorare il suo viso, il suo naso e la curva delle sue labbra ma temeva che anche un minimo contatto potesse destarla dal sonno in cui si lasciava cullare. Voleva darle un bacio, vederla mentre sorrideva con ancora gli occhi chiusi mentre cominciava a svegliarsi.
Voleva smettere di sentirsi così strano da provare una sensazione particolare a livello dello stomaco: una cosa che non gli apparteneva affatto.
Voleva capire perché si sentisse così  terrorizzato, perseguitato dal timore che il suo volto pallido e delicato si potesse trasformare all’improvviso in una maschera sfigurata e senza labbra, oppure che la sua mano si muovesse da sotto le coperte per puntargli una balestra contro, pronta ad ucciderlo senza alcuna pietà. Voleva sapere perché la paura di sentire qualcosa di diverso dal dolore gli attanagliasse le viscere ogni volta, come se non lo meritasse, come se non potesse provare nessun tipo di sentimento piacevole, come se sotto dovesse sempre esserci qualcosa di losco.
Voleva capire perché dovesse portare bagagli emotivi devastanti di cui si era fatto carico nel corso della sua vita.
Voleva sapere come, dopo tutto quello che aveva passato, fosse ancora in grado di respirare.
Derek sorrise impercettibilmente, ricordando la prima volta che l’aveva vista, precisamente quando l’aveva tamponata ed era scesa dalla macchina con un’espressione omicida. Sarebbe stato tutto semplice e del tutto normale, se fosse stato solo un umano, ma non voleva rovinare la vita ad una persona sconosciuta, per quanto una parte di lui volesse buttarsi a capofitto e tentare la sorte. Tuttavia, Derek Hale l’aveva tentata troppe volte.
Madison si mosse accanto a lui, affondando maggiormente il viso sul suo collo ed emettendo un mugolio di frustrazione che gli strappò un sorriso.
“Cosa sei? Un cane?”, chiese Derek prendendola in giro, mentre lei sorrideva.
“Siamo di buon umore?”, rispose con la voce ancora arrochita dal sonno ma sempre con quella punta di ironia di cui non riusciva a fare a meno.
“Sei tu che fai mugolii strani”, ribatté lui, alzando gli occhi al cielo con fare seccato.
“L’unico animale qui dentro sei tu”, esclamò lei, punzecchiandolo sulla sua natura da licantropo che spesso la divertiva.
Madison continuava a fissarlo con le mani poggiate sul suo petto e la testa su di esse senza dire niente, lo guardava e basta, sorridendo e per un attimo temette che il suo viso si trasformasse.
Derek avvicinò cautamente una mano, spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio e lei ne approfittò per sfiorare le sue dita con la guancia, poggiandola sul palmo della mano.
“Mi correggo”, esclamò Derek senza interrompere quel contatto. “Sei un gatto che fa le fusa”.
Lei lo guardò come se volesse fulminarlo e la sua espressione appariva ancora più buffa con i capelli lisci tutti arruffati che le ricadevano sul viso. Tentò di dargli uno strattone, senza risultato.
Madison sfoggiò un’espressione arrendevole, avvicinandosi a Derek per lasciargli un bacio.
Quando le sue labbra entrarono in contatto, Derek perse completamente rapporto con i suoi sensi.
Derek continuò a baciarla, come se non dovesse fare altro per tutta la vita.
Ben presto, quella piccola e stupida guerriglia notturna era diventata un vago ricordo perché sopperita dalle loro labbra che si cercavano, mentre le mani di Derek erano corse al suo viso, circondandolo e attirandola di più verso di lui. Madison sorrise, mentre portava le dita fra i suoi capelli, regalandogli brividi lungo la schiena e rimanendo stretta a lui, con gli occhi assonnati.
Derek voleva capire perché le provocava tutto ciò ma sapeva che Madison aveva qualcosa di diverso che lo tranquillizzava ogni volta che un dubbio terrificante e assettato lo assaliva.
 
Derek quasi non si accorse, perso in tutti quei pensieri, di essersi appisolato ed era strano, perché sapeva di sentirsi così sereno da potersi addormentare senza la paura che qualcosa di pericoloso potesse accadere. Una tenue luce filtrava dalla finestra e la sua mano si mosse quasi istintivamente, per tastare l’altro lato del letto, trovandolo vuoto. Qualcosa nel suo stomaco si mosse, come un sussulto, un leggero tremore che spingeva la sua mente a pensare alle conseguenze più orribili. Derek rivide Julian e il suo branco, i denti del licantropo che affondavano nella sua gola e il sangue che sgorgava a fiotti mentre il volto di Madison cambiava, perdendo la sua umanità.
Derek, intanto, aveva alzato di poco il busto, poggiandosi sui gomiti mentre il fruscio delle lenzuola mappava i suoi spostamenti confusi e un po’ ansiosi, come se si stesse svegliando da un coma.
Si alzò dal letto quasi di slancio, così preso dal battito frenetico del suo cuore da non accorgersi di un battito calmo e regolare proveniente da quella stanza adiacente. Si avvicinò alla porta ma nello stesso momento, Madison  ritornò nella camera, trovando Derek dinanzi a lei.
Madison indossava la maglia blu di Derek e i pantaloni del pigiama.
Si accorse del suo sguardo stralunato e lo fissò di rimando, sorridendo.
“Ehi ben sveglio!”, esclamò avvicinandosi, mentre i piedi nudi percorrevano il pavimento freddo.
Madison sfiorò il suo collo con la mano libera, osservando il suo volto. “Derek”.
Lo sguardo di lui cadde sul suo collo e su quella cicatrice appena visibile che testimoniava ciò che Julian le aveva fatto e il momento in cui aveva seriamente rischiato di perderla del tutto.
Madison si accorse del motivo che rendeva Derek così inquieto, lo guardò negli occhi per poi stringergli una mano e poggiarla con delicatezza sulla cicatrice, tremando leggermente.
Era radiosa, con indosso la sua maglia e l’odore fresco del suo profumo.
Derek percorse la cicatrice con le dita, per poi posarvi un bacio e stringere il corpo di lei contro il suo. A volte, dubitava che fosse tutto vero: spesso credeva che ogni cosa potesse scomparire.
Osservò la maglia, calmandosi e percorrendone i lembi con le dita.
“Perché hai la mia maglia addosso?”, domandò, fingendosi infastidito.
“Mi piaceva”, rispose, scrollando le spalle con una naturalezza tale da lasciarlo spiazzato.
Era sempre così, con lei. Voleva capire perché i suoi occhi gli provocassero una stretta lacerante a livello del petto, scrutandolo con l’unico scopo di leggerlo, come fosse un libro vecchio e ingiallito che lei doveva assolutamente ricomporre. Si sentiva sempre come un reperto antico ai suoi occhi ma non nel senso positivo, eppure Madison sembrava sempre intenzionata a sfogliare ogni singola pagina per cercare anche la più piccola traccia che le permettesse di ricomporre i pezzi di quella storia assurda che era stata la vita di Derek Hale prima del loro incontro.
A volte, Derek si sentiva ancora terrorizzato, come se fosse tutta una farsa e che Madison fosse solo un’altra Kate o Jennifer ma gli bastava guardarla in volto per annullare quei timori.
Derek si mise a sedere sul letto, baciandola senza preavviso, permettendo ai rispettivi sapori e respiri di mischiarsi ancora, tirandola sempre più verso di lui. Riusciva a sentire il suo cuore perdere un battito mentre gli si stringeva addosso come se fosse un’ancora a cui aggrapparsi forte per non perdersi. Le mani di Madison tremavano mentre gli circondavano il collo, come se avessero sempre paura di sfiorarlo o di fargli male, pur sapendo di non esserne affatto in grado.
Le dita di lei corsero al suo tatuaggio, e Derek sentì l’anello della madre di Madison che si scontrava con la sua pelle, immaginando quei due simboli diversi ma connessi: proprio come loro.
Madison non poteva sentire tutte quelle sensazioni che scaturivano in Derek, ma soltanto sperare che non fossero frutto della sua immaginazione e che fossero reali, come quello che sentiva per lui.
“Non possiamo tornare a dormire?”, domandò Derek, mentre Madison allontanava il volto dalla sua spalla e lo guardava con un’espressione di totale sorpresa impressa sul volto assonato.
“Tu vuoi tornare a letto?”, chiese lei con voce incredula, ripensando a tutte le volte che Derek si svegliava alle sette del mattino, costringendola ad alzarsi solo per il trambusto che produceva. “Tu, Derek Hale, così mattiniero da provocare nausea e attacchi di rabbia nel prossimo, mi stai chiedendo se possiamo tornare a letto? Sei sicuro di sentirti bene? Non è che sei malato?”.
Derek rise, mostrando quel sorriso da schiaffi che Madison amava e ricadde sul materasso, portando una mano sull’addome e osservando Madison come per invogliarla a fare lo stesso.
Madison poggiò il gomito sull’addome di Derek, in attesa di una risposta.
“Non dobbiamo andare per forza al liceo”, disse, sembrando quasi un bambino che non voleva andare a scuola. “Insomma, c’è tanta gente. Bastian può anche andare con Blake”.
Madison gli riservò uno sguardo che non lasciava spazio ad ulteriori commenti. Sapeva che, in fin dei conti, non gli avrebbe mai dato corda, come non avrebbe mai permesso a Bastian di presentarsi da solo ad una cerimonia del diploma. Gli sembrava ancora strano il fatto che Bastian avesse preso a fare parte delle loro vite, soprattutto di quella di Madison: era chiaro a tutti il fatto che tra i due ci fosse sempre stato un legame di tipo familiare, come fossero fratello e sorella separati per tanto tempo. A Derek andava bene, semplicemente per il sorriso che illuminava Madison.
“Oggi i componenti del tuo branco- perché è il tuo branco, non ribattere- si diplomano, e so che vuoi andarci anche se hai bisogno di essere tirato di peso dal letto”.
Derek aggrottò le sopracciglia. “Riusciresti a tirarmi di peso dal letto?”.
La mano di lei lo colpì ancora. “Tanto lo so che non vuoi vederli andare via da qui”.
A quella frase, Derek si zittì, provando quasi un senso di disagio, poiché Madison aveva colto in pieno il punto della situazione, come al solito. Non credeva che quel giorno sarebbe arrivato, o meglio, credeva che quando sarebbe giunto, lui non sarebbe stato presente. Invece, Scott e gli altri si sarebbero diplomati e lui avrebbe assistito. Avrebbe visto sua sorella indossare la toga, poiché dopo tutta la questione di Julian aveva deciso di tornare a Beacon Hills, sia per stare più vicina a lui che per trascorrere del tempo con Isaac, che prima di uscire con Cora aveva dovuto sopportare le occhiate omicide di Derek e quelle divertite di Peter che se la rideva alle loro spalle.
Si sentiva anche lui come in una fase di passaggio, come se stesse per oltrepassare un traguardo insieme a tutti, un po’ perché lo aveva vissuto con loro. Ricordò i pomeriggi che avevano trascorso a casa di Madison, occupandola come fosse un ritrovo per un gruppo di studio. Ricordò come Peter avesse aiutato Isaac e Cora con la matematica, anche se controvoglia e solo perché costretto da loro, visto che avrebbe preferito uscire con Lana. Ricordò come Madison e Lydia si fossero prodigate per aiutare Scott con la biologia, e di come lui avesse cercato di inculcare un po’ di storia nella testaccia dura di Stiles che non sembrava volerne sapere. Ricordò le facce buffe di Kira mentre leggeva il libro di economia e persino l’espressione annoiata di Bastian mentre li guardava studiare.
Fece un profondo respiro e si alzò dal letto, sotto lo sguardo soddisfatto di Madison che gli rifilò un altro bacio, alzandosi sulle punte dei piedi. “Forza. A vestirsi”.
Derek non ricordava che affrontare la quotidianità fosse così difficile.
 
Derek aveva poca familiarità con la stanchezza mentale, soprattutto se arrivava a tormentarlo da sola. Di solito, non era altro che una conseguenza della stanchezza fisica, dovuta ad uno scontro difficile o ad un allenamento particolarmente estenuante. Eppure, quella volta Derek si sentiva davvero stanco, ma senza aver compiuto nessun tipo di sforzo fisico, anzi. Era rimasto in piedi per un po’ di tempo, ma quello non poteva essere catalogato come sforzo. Aveva assistito al diploma degli studenti dell’ultimo anno con Madison al suo fianco che gli stringeva la mano, mentre Peter, Lana, Blake e Bastian erano alle loro spalle. Quella fatica, in realtà, era dovuta a tutti i pensieri che avevano iniziato a popolare la sua mente nel momento in cui Scott, Stiles, Lydia, Kira, Isaac e Cora avevano messo i piedi sul palco, con indosso le loro toghe. L’effetto sortito su di lui era stato a dir poco strano, e aveva lottato con tutto sé stesso per evitare di sentirsi come un fratello maggiore che guardava le persone a lui care affrontare un momento del genere.
Certo, si sentiva in quel modo per Cora, e sarebbe stato un bugiardo a dire il contrario per gli altri, ma non lo avrebbe mai ammesso
Si accasciò sul divano, chiudendo gli occhi. La sua tranquillità durò giusto pochi secondi, poiché interrotta da una cuscinata ben calibrata sul suo volto.
“Dovresti rivedere la tua vita sociale, nonno Hale”, gli fece notare lei. “Sei già stanco?”.
“Beh, una festa per il diploma con adolescenti da tutte le parti è abbastanza estenuante”.
“Tanto so che ti sei divertito”, continuò lei, sedendosi accanto a lui.
“Se vedere Stiles che cerca di ubriacarsi lo consideri divertente”, constatò lui.
“Direi che Lydia domani striglierà per bene il suo ragazzo”, disse Madison, riferendosi chiaramente a Stiles
Madison dovette trattenersi dal ridere, ripensando alla cerimonia e alla successiva festa.
Ricordò lo Sceriffo, seduto nelle prime file, con Melissa seduta al suo fianco che applaudiva felice mentre Scott, Stiles e Isaac percorrevano il palco con le loro pergamene tra le mani. Quando era stato il turno di Lydia, Madison si era accorta che la ragazza stringeva non solo la sua pergamena ma anche un’altra nella mano sinistra e quando l’aveva sventolata verso una persona precisa, aveva capito: Chris Argent, il padre di Allison, in piedi, qualche metro davanti a lei e Derek, aveva sorriso e lei aveva visto i suoi occhi incresparsi, come per trattenere le lacrime.
In fin dei conti, sembrava che Allison fosse con loro, anche in quel momento.
Kira aveva rischiato di inciampare sugli ultimi gradini, ma Scott l’aveva afferrata in tempo.
Cora era così sorridente che non Derek l’aveva guardata rapito: sua sorella non aveva mai dimostrato la propria età, poiché il suo comportamento non apparteneva certo ad un’adolescente. Alla fine della cerimonia, Cora lo aveva abbracciato, dicendogli che era fiera di lui e di loro, per poi correre da Isaac, sempre sotto lo sguardo di Derek, diventato improvvisamente accigliato alla vista dei due insieme.
Madison ripercorse quella giornata, notando come quei ragazzi fossero entrati poco a poco nel suo cuore. A volte, parlare di famiglia la faceva sentire ridicola, perché c’erano momenti in cui si sentiva ancora come qualcuno che non centrava un bel niente con quella città e con quel piccolo branco tanto diversificato quanto unito da un legame profondo. Tuttavia, non poteva ignorare il senso di benessere che la inondava quando era con loro e con Derek. Persino Bastian e Blake erano diventati parte integrante della sua vita: sorrise, pensando a tutte le cose che Bastian le aveva raccontato. Le aveva parlato di Keith, di come se la sua presenza nel loro branco fosse sbagliata, come una nota stonata in una sinfonia quasi perfetta: come se dovesse trovarsi in tutt'altro luogo. Aveva parlato di Nadia e Ridley, di come entrambi si fossero presi cura di lui e di come fossero felici proprio sotto il suo naso.
In realtà, Bastian aveva sempre notato un legame particolare fra loro ma a quel tempo era troppo giovane per accorgersene, eppure guardarli lo faceva sentire sereno e al sicuro...proprio come se fossero una famiglia perfettamente unita e difficile da separare.
“Adesso sei tu ad essere stanca?”, le chiese Derek, con un sorrisetto sarcastico.
Madison gli fece una smorfia e poi gli lasciò un bacio a fior di labbra, accucciandosi maggiormente contro il suo corpo, mentre la stanchezza e il sonno cominciavano a farsi sentire. Quel momento sapeva di pace e di tranquillità, e Madison avrebbe desiderato tanto fotografarlo e metterlo in una cassaforte per tenerlo sempre con sé negli attimi di incertezza e dolore. Durante tutta la faccenda di Julian, non erano molti quei pensieri che riuscivano a ricordarle che ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto, se non qualche ricordo sparso della sua famiglia.
Vedere il diploma dei ragazzi le aveva ricordato un po’ il suo, con i suoi nonni in prima fila che applaudivano e volle credere che ad assistere ci fossero anche Nadia e Ridley, perché sentiva che in un modo o nell’altro, il loro pensiero correva a lei in ogni momento delle loro vite.
Derek si mosse leggermente al suo fianco e le sembrò quasi di percepire tutti i pensieri che iniziavano ad affollare la mente di lui: come se quell’attimo di pace avesse portato a galla nuove preoccupazioni sul futuro e su ciò che sarebbe capitato.
“Derek”, lo richiamò lei, facendolo voltare. “Puoi respirare adesso”.
Derek accennò un sorriso, assorbendo la veridicità di quelle parole.
Rimasero così, ancorati l’uno all’altra, mentre la mano di Derek le stringeva il fianco, tenendola stretta a lui, e la osservava, chiedendosi per quale assurdo motivo l'avesse incontrata, senza alcuna aspettativa. C’erano tante cose che voleva dirle ma pronunciarle a voce alta sarebbe stato in parte inutile, poichè Madison sembrava spesso intuire i suoi pensieri.
Lei gli toglieva il respiro, donandoglielo allo stesso tempo. Lei non era Jennifer o Kate, non era un serpente velenoso nascosto sotto un fiore, in attesa di morderlo per togliergli la vita.
Lei non era un essere senza cuore che voleva vederlo bruciare tra le fiamme ardenti che ancora popolavano quegli incubi che lo scuotevano a notte fonda, facendogli credere di essere circondato dal fuoco; poi Derek si svegliava, e lei era accoccolata accanto a lui.
Lei non era uno spirito maligno che voleva intrappolarlo nell’oscurità con l’unico scopo di togliere anche quel poco di luce che gli era rimasto. Lei non era un mostro con sembianze angeliche che gli mozzava il fiato, facendolo rovinare a terra e arrancare in fin di vita. Lei era diversa, e fino a quel momento gli aveva solo ridato qualcosa che non credeva avrebbe più trovato.
Derek era insieme a lei…ed era in grado di respirare.
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Eccoci qui, sempre con un po’ di ritardo, chiedo perdono. Non credo di avere molte precisazioni da fare. Derek, come al solito, mi ha dato qualche problemino: spero di non essere uscita troppo fuori personaggio ma ho pensato che, senza pericoli e preoccupazioni, dovrebbe essere sereno (?!).
Questo epilogo, come al solito, non mi soddisfa del tutto: penso continuamente che potevo fare di meglio, sia per la conclusione che per il resto della storia. Ad ogni modo, spero che vi sia piaciuto questo finale (più di quanto sia piaciuto a me) e fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino, se vi va. Inoltre, ci tengo a ringraziare di vero cuore tutte le persone che hanno seguito questa storia, un grazie in particolare va ad Helena Kanbara, che ha sempre fatto centro quando si trattava dei “misteri” della storia e che mi ha sempre resa felice con le sue parole e i suoi scleri; Marti Lestrange, il cui supporto e le cui parole per questa storia hanno sempre significato tanto per me; inoltre, ringrazio tanto Ally M, Clare e Bumbuni che mi hanno resa felicissima con le loro parole e con tutto l’entusiasmo. Ovviamente, un grazie immenso va anche a tutte le persone che mi hanno seguita, regalandomi pareri e consigli preziosi, tutti coloro che non hanno abbandonato la storia, tutti i recensori e i lettori silenziosi: davvero grazie a tutti.
Direi che questo è quanto, grazie per essere arrivati fin qui!
Alla prossima, un abbraccio :)

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