Vita da college

di blackhina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** il viaggio ***
Capitolo 2: *** Nuovo gruppo ***
Capitolo 3: *** Arrivano i guai ***
Capitolo 4: *** Sorpresa ***
Capitolo 5: *** Grazie ***
Capitolo 6: *** Ingenua ***
Capitolo 7: *** Ci si vede a lezione ***
Capitolo 8: *** Il quaderno ***
Capitolo 9: *** Basta ***
Capitolo 10: *** La mia vita ***



Capitolo 1
*** il viaggio ***


Il movimento del treno mi faceva muovere la testa come quelle bamboline hawaiane dal collo a molla; era difficile tenerla ferma. Tenevo il libro semi chiuso, con l’indice che faceva da segnalibro, sulle gambe. Era da almeno venti minuti che avevo interrotto la lettura: quello che attirava la mia attenzione era il paesaggio che scorreva veloce fuori dal grande finestrino. Gli occhi seguivano rapidi ogni contorno disegnato dagli alberi e dalle case che si scorgevano qua e là. Eravamo nei pressi della città di New Haven, quella che sarebbe diventata a breve la mia nuova casa. Più il treno si avvicinava al centro abitato e più si vedeva il mare che si estendeva oltre ciò che era possibile vedere. Si formò un sorriso sulla mia bocca. Con un piede diedi un colpetto allo stinco della ragazza di fronte a me.
- Psss… Erin, siamo quasi arrivate. Svegliati che dobbiamo sistemare la roba.- il mio era più un sussurro che altro. Erin mugolò, e dopo una lunga ed interminabile stropicciata agli occhi, cominciò quello che poteva sembrare una sveglia. Piegò la schiena in avanti e aprì le gambe, ci si appoggiò con i gomiti e adagiò la testa sulle mani a pugni chiusi. Per qualche secondo osservò il pavimento, poi alzò lo sguardo e mi fissò.
- Siamo già arrivati?- la sua espressione era alquanto stupita.
-Già… e comunque saranno almeno più di tre ore che siamo in viaggio. Forse anche di più.-
- Mph- aveva liberato una mano e si grattava la nuca. Sospirai. Tornai a guardare fuori dal finestrino. Ora si vedeva perfettamente il mare e le spiagge: era una delle cose che amavo di più, l’oceano, l’acqua. Uno scossone più forte degli altri mi fece tornare alla realtà. Con lo sguardo imbambolato mi guardai intorno: eravamo in uno scompartimento molto carino, i grandi sedili occupavano i due lati opposti ed erano imbottiti con un qualcosa che li rendeva così soffici che sarei rimasta lì molto volentieri. Il colore che predominava era il rosso scuro, il che mi metteva molto a mio agio. C'erano un paio di tendine di un blu talmente scuro, che se non era attraversato dalla luce sembrava nero. Una voce calda e bassa parlò attraverso il piccolo interfono nell'angolo sopra la mia testa: stava annunciando l'imminente arrivo alla stazione di New Haven. Ci fu un attimo di silenzio, poi da entrambe le pareti cominciarono una serie di tonfi e ordini come: 'Tira giù quella dannata valigia!' o 'Muoviti che manca poco all'arrivo!'. La corsa del treno cominciò a rallentare e il rumore del movimento sulle rotaie si attenuò. L'ondeggiare della carrozza si fece più dolce e rilassante, e l'impulso di rimettermi seduta e dormire era molto forte.
- Connie- esitò per un momento- non trovo la borsa azzurra e bianca- deglutì fissando il pavimento.

- La borsa dove ci sono le scartoffie per il contratto della casa?- i miei occhi che si spalancarono lentamente.
- Probabilmente...-
-Probabilmente... PROBABILMENTE?! Di un po' Erin, mi dici cosa diamine ti passa per la testa?- il mio tono era piuttosto alto, ero sicura che mi sentissero negli scompartimenti di fianco al nostro.
- Io l'avevo messo sotto il sedile, così mi sarei ricordata dov'era alla prima.-
- Ok, ok. Scusa se ti ho urlato contro, è che sono agitata, e questo fatto della casa e tutto il resto mi mettono ancora più ansia.- sospirai, chiusi gli occhi e mi massaggiai le tempie con le dita.
-Dobbiamo trovare quella dannata borsa.- Il treno frenò e le rotaie stridettero rumorosamente: eravamo arrivati alla stazione. Ci prese il panico. Cominciammo a tirare fuori ogni valigia o bagaglio, e uno per uno li aprimmo tutti. Dovevamo trovare quella maledettissima borsa, scendere velocemente dal treno e andare verso la nostra nuova casa.
-Non c'è, non c'è! Come facciamo?- la voce di Erin traballava. Nel frattempo io imprecavo contro quella stupida borsa. Dovevamo prepararci per scendere.
- Mi passeresti la felpa, per favore? È sul tuo sedile.- mi faceva male la testa, con tutta quell'ansia. Erin sollevò il mio golf verde scuro con una mano, e un’espressione irritata comparve sul mio volto. Una borsa non troppo grande bianca con le strisce blu orizzontali sbucò da sotto il cappuccio.
- E così era lì… bene- Un fischio acuto rimbombò nella stazione pullula di gente. Il treno stava per partire e noi eravamo ancora a bordo.
- Cavolo! Noi partiamo col treno se non ci muoviamo. Connie prendi le valige sul porta bagagli in alto-
- Di un po’, ti sembro così alta da avere l’onore di compiere questa missione- trattenevo a stento una risata. Erin invece cominciò a ridere. Afferrammo le valige velocemente e a caso e corremmo impacciate verso l’uscita del treno. Saltammo l’ultimo gradino delle scalette, e le porte del treno si chiusero con un colpo secco alle nostre spalle. Eravamo scese, c’eravamo riuscite per un pelo. Ci guardammo intorno, lasciando cadere borsoni e valige. Un sospiro sincronizzato uscì dalle nostre bocche. Ci organizzammo per portare i bagagli, e una volta fatto il punto della situazione, Erin tirò fuori dalla tasca un bigliettino stropicciato, e lesse la lista delle cose da fare.
-Dovremmo prendere un taxi, a ‘sto punto. Dov’è l’uscita?- si guardava intorno con un’aria interrogativa. Mi faceva ridere e non avevo intenzione di contenermi. La mia risata contagiò anche lei, attirando l’attenzione di alcune persone lì intorno.
- Ok, ok. Qui ci vuole contegno –cercava di trattenersi inutilmente- andiamo. Dobbiamo trovare un taxi.- Ci caricammo le valige sulle spalle e ci incamminammo verso l’uscita della stazione. Sulla soglia ci soffermammo, osservammo le strade che avremmo percorso in futuro. Sorrisi. Erin scattò e corse verso il ciglio del marciapiede: c’era un taxi fermo davanti a lei. Si affacciò al finestrino e ci rimase per un po’, poi si girò e mi fece il cenno con la mano di raggiungerla. Feci un passo e mi sembrò di avere un macigno sulle spalle: maledissi la mia brillante idea di portarmi tutta quella roba in una volta sola. Tenendo la mente occupata a ripassare i piani di quel giorno, raggiunsi il taxi; il tassista scese e ci aprì cortesemente il portabagagli, dove scaricammo tutto l'arsenale di valige. Tirai un sospiro di sollievo, e poi presi a braccetto Erin.
-E che ora abbia inizio la nostra avventura!- ridemmo e ci infilammo nel taxi.

Eccovi il primo capitolo della storia! spero vi sia piaciuto, anche perchè ci sto mettendo impegno! il prossimo capitolo arriva entro la fine della settimana e non vedo l'ora di pubblicarlo, quindi se avete commenti da fare recensite, grazie!

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Capitolo 2
*** Nuovo gruppo ***


Il sole faceva capolino ad intermittenza dalle chiome tinte di rosso e arancio degli alberi, il finestrino abbassato a metà lasciava entrare, danzando, mille spirali di brezza autunnale. Io amavo l’autunno: le foglie che saltellano nell’aria spinte da spruzzi di vento, l’odore del legno bagnato, il profumo dei maglioni appena tirati fuori dagli scatoloni. Una buca mi fece sobbalzare e tornare alla realtà.
- Ti eri addormentata?- la voce di Erin mi sfiorò l’orecchio.
- Cos… no. Non mi ero addormentata. Ero semplicemente assopita nei miei pensieri.- sospirai. Ero stranamente inquieta: non vedevo l’ora di andare a vivere da sola, di diventare indipendente. E allora perché mi stava salendo il panico? Forse non mi sentivo abbastanza pronta per abitare in una casa tutta mia e di mia sorella? Una mano mi dette qualche colpetto sulla testa. Mi girai e vidi un enorme sorriso sul viso di Erin.
- Ormai siamo qui ed è ciò che abbiamo sempre desiderato fin dai primi tempi, ricordi? Quindi ora ti tiri su, mi sorridi e tiri fuori le chiavi di- esitò con un sorriso, tamburellando con le mani sulle ginocchia- di casa!!-  il suo sorriso si allargò ancora di più.
- Credo che dovrò abituarmi all’idea della nuova casa. Già, diventerà una tradizione.- la mia bocca si piegò e diede forma ad un bel sorriso, degno di quel momento.
Una voce spuntò dal sedile davanti a me: probabilmente ci avvertì del fatto che eravamo quasi arrivate, ma i miei pensieri ricascarono sotto l’ombra dei profili autunnali.
 
[…]
 
Le ruote del taxi sgommarono dietro di me; le valige circondavano le nostre gambe. Eravamo entrambe immobili con le braccia lungo i fianchi ad osservare la casa davanti a noi: era a due piani, con le pareti di legno tinte di bianco. Se osservavo bene un punto fisso, riuscivo ad intravedere le venature più scure che trapassavano la vernice. Qualche sospiro lieve di vento mi sfiorava e circondava il mio collo. Non eravamo molto lontano dal mare; a pochi metri da noi c’era già la sabbia sottile e bianca. Lo scroscio delle onde che si infrangevano sugli scogli in lontananza arrivava sino alla strada, come arrivava il profumo di salsedine. Misi la mano destra nella tasca dei jeans, e la punta del mio dito toccò il metallo fresco delle chiavi. Agganciai l’anello del portachiavi e le tirai fuori, un tintinnio risuonò nell’aria e fece voltare Erin.
- Andiamo?- sussurrò mia sorella.
- Beh, direi.- sorrisi.
Feci un passo, ma un qualcosa, qualcosa che io avrei sicuramente maledetto per le prossime ore, mi si agganciò alla caviglia. Naturalmente cascai, rischiando di slogarmi un polso. Una grassa risata uscì dalla bocca di Erin. Una risata ironica saltellò fuori dalla mia gola. Mi rialzai, spolverandomi i vestiti. Raccattai le borse intorno a me, e mi avviai verso la porta d’ingresso: da dove ero io non si vedeva granché, solo il pomello luccicante, a causa del roso che ostacolava la vista. La casa era circondata dagli alberi, principalmente da frutto, come meli, peri, limoni e aranci. Non ero sicura che potessero crescere lì, ma facevano un gran bel effetto. Sospirai, passando accanto al cespuglio, e un’ape particolarmente impetuosa, mi fece sobbalzare. Mi fermai avanti alla porta, e facendo cascare la borsa che tenevo nella mano destra, inserii le chiavi nella serratura. Clack. Un solo scatto.
- Mhm...- ero perplessa. Erin si avvicinò.
- Ehi! Perché non entri?- le feci cenno di fare silenzio. Appoggiai lentamente per terra le altre borse che tenevo sulle spalle. Serrai i pugni e aggrottai la fronte, alzando leggermente il piede destro da terra. Guardai Erin, e osservai la sua espressione: era preoccupata, ma più che altro perplessa. Annuii e girai di nuovo la testa verso la porta. Spinsi, non troppo forte, la porta con la punta del piede. Balzai dentro con le braccia e i pugni alzati pronti ad un ipotetico scontro.
- Esci fuori! Fatti sotto, io sono pronta.- il mio tono era deciso, alto. Dal grande arco nel muro, poco distante sulla destra rispetto alla porta d’ingresso , sbucarono due grandi occhi color del ghiaccio, che distraevano dalla bocca color rosa pallido. Il naso era all’insù ed a conferire al tutto un aspetto completo ci pensavano una massa di capelli corti, scuri come la pece. L’espressione era piuttosto perplessa, ma credo mai quanto la mia. Un grande sorriso si formò sulle sue labbra.
- Ciao- un voce squillante, non troppo- voi siete le ragazze che abiteranno qui, giusto?-
Sentii un piccolo suono provenire dalla bocca di Erin. Era difficile decifrarlo, anche perché non avevo la minima idea di che cosa potesse essere.
- Già… e tu saresti?- ero sempre più perplessa. Mi girai verso mia sorella, la guardai per un attimo, ma il suo sguardo era rivolto altrove. “ Ah… ho capito” sorrisi. Messaggio ricevuto e decifrato. Mi rigirai verso il ragazzo.
- Wayne, il mio nome è Wayne. Piacere.- non smetteva di sorridere.
- Connie-
- Erin- nella sua voce c’era un sottile tremolio. Mi scappò una risatina. Rimanemmo per qualche secondo fermi, in silenzio, poi Wayne si schiarì la voce.
- Beh, io ho già portato le mie cose dentro e ho già preso la camera. Se volete sistemarvi anche voi o se avete bisogno di una mano…-
- Oh, si certo. Grazie! Potresti prendere qualche borsa che è là fuori?- stavo sorridendo anch’io. Mi girai e mi avviai verso l’arsenale di valige. Quando mi trovai davanti ad esse mi sentii prendere per un braccio.
- Oddio… Connie, è lui il nostro coinquilino?- la mia testa roteò di novanta gradi verso la sua; la fissai per qualche secondo. Aveva un’espressione sognante.
- Beh, mi sa che dovrai fare un sacrificio.- il mio tono ironico nascondeva una risata. Mi piegai, presi una borsa e me ne tornai in quella casa, quella che sarebbe stata la nostra casa.
 
[…]
 
La mensola di legno massello sopra il mio letto fu la prima cosa che sentii, quella mattina. Un grugno si svegliò nella mia gola. Mi portai la mano destra sulla testa e mi massaggiai l’imminente bernoccolo. Sbuffai. Poi sentii delle risate provenire dalla cucina. Un lieve sorriso spuntò sulle mie labbra. Un pizzicorino al naso.
- Etciù! Etciù, etciù, etciù!- un sosta - Oh ma insomma! Ma che cavolo c’è nell’aria?- poi mi fermai, in silenzio “ c’è amore”. Una risatina. Alcune volte mi ritenevo proprio simpatica.
Dopo qualche minuto che me ne stavo seduta a gambe incrociate, con il lenzuolo intrecciato tra i piedi, mi accorsi che c’era qualcosa che mi dava fastidio. Mi girai verso sinistra, dalla parte della grande finestra, con lo scheletro in legno scuro, che occupava tutta la parete est: un raggio di sole filtrava attraverso la cima del piccolo nocciolo che si affacciava timidamente al davanzale. Rimasi per un po’ ferma, a farmi accecare dalla luce pigra del mattino, mi stropicciai gli occhi e mi alzai, dirigendomi verso la finestra. Con la mano destra sfiorai la maniglia d’ottone, che formava una ‘i’ curva, con due riccioli ad entrambe le punte. Un piccolo e quasi impercettibile brivido mi corse lungo il braccio; il ferro era freddo, come piaceva a me. Rimasi ad assaporare, ad occhi chiusi, quella superficie fresca, finché non divenne troppo tiepida perché potesse piacermi ancora come prima. Con uno scatto girai l’ansa, dando la possibilità ad uno spiraglio gelido di entrare. Mi avvolse la punta del naso, facendomi socchiudere gli occhi. Ancora la luce tiepida del sole che mi illuminava il viso. Mi venne la pelle d’oca su tutte le gambe: forse era il caso di mettere via i pantaloncini estivi. Sospirai. Automaticamente scattò uno sbadiglio. Spalancai i vetri, e le tende blu scuro, sottili, cominciarono a volteggiare ai miei lati, creando figure contorte e sinuose; lo fecero anche i miei capelli, e alcuni ciuffi ribelli caddero per qualche istante lungo il mio viso, sfiorandomi la bocca. Mi stirai, le braccia alzate sino a sfiorare l’asse di legno sopra la finestra, portando lo sguardo al giardino sottostante: c’era Wayne che mi salutava, con un rastrello in mano. Sorrisi e risposi al saluto. Portai i vetri al massimo dell’apertura: volevo che la stanza venisse travolta dall’aria mattutina. Mi girai verso il letto e arrotolai le coperte, bianche con ghirigori blu, fino all’altezza del posto dei piedi, facendo prendere aria fresca al materasso. Mi avviai verso la porta, davanti al letto, e presi la vestaglia verde scuro di cotone, che mi arrivava fino a poco prima delle ginocchia. Era morbida e comoda, ma rimanevo sempre dell’opinione che fosse tutto merito del colore scuro se era così confortevole. Mi strusciai qualche secondo la manica alla guancia, tanto per sentire il profumo del detersivo che usava la mamma. Gelsomino… Inspirai profondamente ancora una volta, poi girai il pomello della porta e mi avviai verso la cucina, guidata dal canticchiare di Erin.
[…]
Avevamo deciso che quel giorno saremmo andati ad esplorare gli isolati circostanti, sotto la guida del poco esperto e impavido Wayne.
- Ok. Io sono pronta! Aspetta un attimo… dov’è il mio portafogli?-
- Connie… non mi dire che l’hai perso di nuovo.- non sopportavo le riprese di mia sorella, ma ormai c’avevo fatto l’abitudine.
- Ragazze il tram passa tra sette minuti, e per arrivare alla fermata ce ne vogliono almeno cinque- Wayne era già posizionato sull’uscio della porta, impaziente di metter  fuori il piede.
- Eureka! Questo bastardo s’era nascosto nel cassetto.- la mia euforia era troppo, considerato che era per aver ritrovato un borsellino.
- Connie ce l’hai messo tu ieri sera- Erin stava ridendo- sei proprio un caso irrecuperabile!-
- Alla carica!- di nuovo troppa euforia. Partii spedita fuori dalla porta, seguendo il percorso del vialetto di pietre bianche, eccessivamente felice per poter aspettare gli altri.
- Le chiavi! Non hai preso le tue chiavi!- la voce di mia sorella mi arrivò, senza sconvolgermi.
- Tanto ce le avete voi, no? Andiamo che facciamo tardi!-
- Ma tu guarda da che pulpito- sentii i passi affrettati dirigersi verso di me, poi una mano s’intromise tra il mio braccio e il fianco, impossessandosi del gomito. Girai la testa e sorrisi alla pazza che prima mi faceva le prediche, e che poi si dimentica perfino del suo innamorato.
- Ehi, voi due, avete intenzione di lasciarmi qui?-
- Muoviti bradipo, che il tram non aspetta. Tradisce e scappa!- scoppiammo a ridere, Erin ed io, mentre Wayne chiudeva la porta e recuperava terreno. Il rumore dei nostri passi si mescolò, dando vita ad un susseguirsi di strusciate e scricchiolate sotto le suole. Wayne s’infilò tra me e mia sorella e ci prese sotto braccio, tirandoci a sé. Tutti e tre ridevamo, quando, sotto al naso di ognuno di noi, passò indisturbato e puntuale il tram. Troppo puntuale. I passi si fecero più affrettati, fino a che non ci ritrovammo a correre verso la fermata del quel maledetto aggeggio su rotaie.
Il fiatone che ci irrompeva in bocca non ci impediva di continuare a ridere come pazzi, attirando l’attenzione di quasi tutti i passeggeri.
 Quella giornata sarebbe stata fantastica, perché aveva già cominciato a plasmare un nuovo trio.

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Capitolo 3
*** Arrivano i guai ***


- AHIA!-
- Connie! Tutto bene?-
- Direi di no, dato che ho un’anta della libreria in mezzo alla materia grigia!- mi massaggiavo furiosamente il centro del cranio.
- Ma io dico… questa libreria ce l’ha con me o cosa? Sarà la quinta volta che ci lascio un pezzo di me!-
Sentii una risatina soffocata, poi un’altra- se trovate la cosa tanto divertente, voialtri, ve la tiro dietro la libreria!-
- Miss gentilezza  della New Haven University- gesticolò Erin con le mani, come per presentarmi ad un pubblico invisibile- un applauso, signore e signori!- continuavano a ridere, ma stavolta senza contenersi. La mia espressione era imbronciata che però, lentamente, si distese, dando vita ad un sorriso enorme.
- Connie, questi libri dove vanno messi?- Wayne trattenne, di nuovo, una sghignazzata.
- Nella librer… Aaaaah maledizione! Voi due, IO NON VI SOPPORTO!- un turbine di risate inarrestabili e particolarmente forti invase la stanza, e poi tutta la casa. Mi alzai di scatto, sfiorando nuovamente l’anta assassina, girai i tacchi e mi avviai, infastidita, verso le scale.
 
I miei passi facevano scricchiolare le assi di legno massello, del quale erano fatti tutti i pavimenti della casa, tranne la cucina e i due bagni. Mi fermai ad osservare il corridoio: i dipinti che avevo appeso poco fa davano un aspetto più vivo al passaggio sul quale si affacciavano tutte le camere. C’era un profumo di salsedine che usciva dalla porta di una stanza.  Mi affacciai, appoggiandomi allo stipite con la mano destra: rimasi perplessa e stupita. Una stanza che non avevo mai notato; mi chiesi se c’era sempre stata. Entrai ed un’ondata di luce mi travolse: anche in questa stanza c’era una  grande finestra che occupava metà della parete. Era aperta. Mi avvicinai ad essa e mi affacciai. Dava sul pontile, ad est. Era la stanza accanto alla mia, ed io non me n’ero neanche accorta. Wayne aveva la stanza ad ovest quella sopra l’ingresso, Erin invece, aveva quella a nord, in fondo al corridoio. Probabilmente era la stanza per gli ospiti. Feci spallucce e me ne andai.
 
Appena uscii dalla porta, una ventata particolarmente forte mi scompigliò i capelli, lasciando cadere un ciuffo sull’occhio sinistro. Mi pizzicò il naso, ma riuscii a trattenere uno starnuto: mi ero allenata. Mi guardai in giro, osservai il corridoio e le porte delle stanze. Sfiorai d’un millimetro lo spigolo di una scatola di cartone accanto alla porta di camera mia. Rimasi a fissarla: c’erano alcune foto. Ci fu fremito dentro la mia testa, gli occhi si appannarono. Mi piegai, prendendo la foto che stava sopra tutte le altre, la foto della mia famiglia. Ero abbracciata al mio babbo, e la mamma aveva i lacrimoni: quella foto l’avevamo scattata pochi minuti prima di partire. Avevo la stessa maglietta che indossavo nella foto. Tirai su col naso, e una lacrima scese indisturbata lungo la mia guancia destra. Rimisi la cornice nella scatola, e portai quest’ultima in camera: avrei sistemato la roba nella mia stanza.
 
- Erin dov’è la farina? Nella credenza non c’è!- la mia voce si propagò per tutto il piano terra.
- Prova nel cassetto del mobile all’ingresso!- Wayne mi rispose dal salotto.
- Che ci farebbe nel mobiletto dell’ingresso?-
- Le cartine della città sono lì! Ce le ha messe Erin!-
- Io cerco la farina!! F A R I N A! Quella cosa commestibile che si usa per fare gli impasti e che si ricava dal grano! Genio della lampada!- cominciai a ridere.
- Aaaaah! Oh, non avevo capito! Scusa se non esco da una lampada!- il tono della sua voce era alterato dalle risate.
- Va comprata. Me ne sono dimenticata quando ho fatto la spesa!- anche Erin era in salotto, probabilmente.
- Allora esco a comprarla, sarà aperto l’alimentari a quest’ora?- erano le 7.30 di sera, se mi muovevo ce l’avrei fatta. Sbucai in salotto pulendomi le mani all’asciughino.
- Si si. Di solito chiude alle 8.15.- Erin stava mangiando delle arachidi, sminuzzando ovunque.
- Allora vado a mettermi le scarpe e faccio un salto là.- detto ciò, presi le mie sneakers blu scuro, le indossai e mi avviai verso l’ingresso.
- Il cellulare l’ho preso, pure i soldi…- bisbigliavo- le chiavi devo prenderle o mi aprite voi?- alzai la voce per farmi sentire dai ragazzi.
- Ti s’apre noi. Ora vai, che poi chiude.-
Mi guardai nel riflesso di una delle due vetrate ai lati della porta, sistemandomi un ciuffo dietro l’orecchio. Girai la maniglia in ferro battuto della porta di legno scuro e uscii.
 
Il venticello che danzava sulle strade della periferia di New Haven era frizzante, mi scompigliava un po’ i capelli sfuggiti alla coda di cavallo, che mi ero fatta abbastanza in alto. Vedevo in lontananza la luce di un’insegna sulla quale c’era scritto MiniMarket. C’ero quasi. Pensai se c’era qualcos’altro da prendere. “uova, latte, succo di mela, pizze surgelate e… ah già! La farina! Quasi me ne dimenticavo. Ma che idiota che sono” ridacchiai.
La porta del negozio si aprì automaticamente. Entrai e fui investita da una luce con una sfumatura stile ‘candela’. I miei occhi ci misero un po’ ad abituarsi, dato che fuori era piuttosto buio e che le strade erano da alti lampioni che irradiavano poca luce. Quel negozietto era proprio carino: piccolo, ma provvisto di tutto e di più. Mi diressi verso gli scaffali con preparati in polvere e varie farine. “ farina 00… farina 00” mi ripetevo, cercandola.
- Eccola!- presi due confezioni, una delle quali rischiò di spappolarsi al suolo. – ah, giusto, il cestino.- tornai all’ingresso in cerca di un cestino per la spesa, tendendo in mano le due confezioni con scritto a caratteri cubitali ‘ Farina 00’, manco a vederlo. Trovai una pila di cestini di vimini, piuttosto grandi. Ne presi uno e ci infilai i due mattoni. Poco più in là, c’erano i banchi del ‘fresco’: c’erano le uova e il latte. Mi diressi verso essi e mi misi ad osservare la roba: c’era il latte di soia, di capra, di mucca, parzialmente scremato, al cioccolato, alla frutta… mi soffermai su un bottiglione di cartone blu e bianco, con su scritto ‘Latte intero’ o ‘ 500ml gratis’. Lo afferrai per il tappo, e con forza lo tirai su. Evidentemente all’interno della bottiglia c’era ferro liquido ed il banco era una calamita gigante, perché il peso mi fece cedere il braccio. O semplicemente i miei muscoli erano della stessa resistenza di quelli di un gerbillo. Sentii una risatina di fianco a me. Mi girai e vidi un ragazzo alto, con la pelle sfumata da un colorito bronzeo. Aveva i capelli piuttosto arruffati, di un colore castano chiaro, che dopotutto donavano ad un tipo come lui. Spostai il mio sguardo sui suoi occhi, ancora concentrati sulle confezioni di yogurt.
- Ci trovi qualcosa di divertente?- la mia voce lasciava trapassare un tono scocciato.
- No perché?- aveva una voce calda, profonda, ma non troppo.
- Mi è parso di sentire una risatina, sai com’è…- il mio tono si fece più dolce, ma il fastidio rimaneva. Lui si girò, afferrò il cartone del latte per il tappo, lo sollevò e lo infilò nel mio cestino. Osservai i suoi movimenti, sicuri e diretti, per quanto potessero esserlo prendendo una bottiglia di latte con 500ml in più gratis. Sentii il suo sguardo sopra i miei occhi, e alzai il mio verso i suoi: mi fissava. Rimasi bloccata, incantata del colore blu scuro che mi dava la sensazione di essere avvolta da un velo d’acqua. Erano così intensi, i suoi occhi. Un sorrisetto impertinente spuntò sulle sue labbra.
- Tsk. Nessuno ti ha chiesto nulla, biondino.- riuscii, finalmente, a spostare il mio sguardo sulle uova.
- Non sono biondo. Cos’è, hai bisogno degli occhiali?- il suo tono era divertito. Si diresse verso l’angolo che portava alla cassa. Prima di girare l’angolo aggiunse una che avrebbe dovuto essere una battuta – e vedi di andare in palestra, budino.- poi svoltò dietro il muro, sparendo. Sentii il mio viso avvampare. Se mi fossi vista allo specchio, avrei notato la mia faccia rossa come un pomodoro maturo.
Presi una confezione d’uova da 12, la prima che mi capitò a tiro, e la misi nel cestino. Pesava un po’, grazie alla farina e a quella dannata bottiglia di latte. Mi diressi verso la cassa, il banco dei surgelati e delle bibite erano davanti ad essa. Girai l’angolo, tenendo lo sguardo basso. Raggiunsi il freezer, lo aprii e acchiappai un confezione da quattro pizze. Richiusi il coperchio scorrevole con forza e alzai lo sguardo verso l’uscita: il ragazzo del latte non c’era più, ne alla cassa ne in strada. Mi girai e presi una bottiglia di succo di mela da un litro dallo scaffale dietro di me. M’avviai verso la cassa, dove c’era una donnina: doveva essere piuttosto bassa, da alzata. Poggiai con un tonfo il cestino-macigno sul piccolo piano accanto al registratore, e le due bottiglie cascarono a mo’ di domino. La cassiera non si preoccupò del trambusto: doveva esserci abituata, oppure non ci sentiva, visto che aveva più o meno sessant’anni. Mentre registrava la prima confezione di farina, si aggiustò un ciuffo, sfuggito allo chignon, dietro l’orecchio.
- 9.35 $, prego.- aveva fatto in fretta, ma non sembrava aver furia di finire il turno e tornarsene a casa. Le detti una banconota da 10$ e lei mi fece scontrino e resto.
- Carino, il ragazzo biondo.- stava finendo di imbustare l’ultimo acquisto.
- Non è biondo… comunque si, carino.- afferrai la busta, salutai e uscii dal minimarket. Tirava più vento di prima. “ Carino…” affrettai il passo, volevo arrivare il prima possibile a casa, la busta pesava.
 
[…]
 
Quella sera saremmo rimasti a casa, a bere una birra ed a raccontarci qualcosa su di noi. La spesa l’aveva già rimessa via Erin. Ero appena uscita dalla doccia, nella stanza si era diffuso il vapore caldo, e lo specchio si era appannato. Acchiappai il phon e mi phonai velocemente i capelli. Sistemai il bagno, stesi l’asciugamano che avevo usato per asciugarmi addosso. Aprii la porta e una spirale d’aria fredda mi legò le caviglie: avevo lasciato la finestra di camera mia aperta. Misi il piedi fuori dal bagno, sul parquet fresco. Non mi preoccupai di mettermi un asciugamano addosso, quindi uscii nuda. Mi diressi verso il mio cassettone, entrando in camera. La porta semi aperta. Aprii un cassetto in alto, quello della biancheria, e presi un paio di slip azzurri con dei fiorellini neri. Me li infilai. Mi girai verso il letto e rovistai sotto i guanciali in cerca del pigiama. Mi misi la magliettina a maniche corte e i pantaloncini. Andai alla finestra, mi affacciai e respirai l’aria della sera, impregnata del profumo di salsedine. Mi tirai indietro e chiusi le grandi vetrate lasciando le tende tirate. Quella sera c’era la luna piena, quando arrivai io c’era la luna nuova, il cielo era nero. Erano passate due settimane. Uscii dalla stanza e scesi le scale. Appena passai l’arco del salotto un profumino di pizza mi fece venire l’acquolina in bocca. Il caminetto era acceso, Wayne era l’incaricato che si occupava del fuoco. Saltai sul bracciolo del divano e caddi all’indietro, distesa sulla seduta, morbida e comoda, con la testa tra i cuscini. Wayne era seduto con le gambe incrociate davanti a me, per terra. Alzò la testa e mi sorrise. Gli battei due pacche sulla testa. Un tintinnio dalla cucina mi fece alzare.
- Arrivo!- Erin mi stava chiamando per prendere le birre.
- Mangiamo in salotto stasera. Davanti al fuoco, a raccontarci un po’ di roba.- vidi il sorrisone sul viso del moro poco prima di sparire dietro l’arco della sala da pranzo. Entrai in cucina e vidi mia sorella cimentarsi nel recupero delle pizze dal forno. Ridacchiai. Aveva un’aria buffa: i capelli erano strapazzati, probabilmente era merito di Wayne, la maglia a maniche lunghe e i pantaloni lunghi della tuta. In più aveva quei guantoni da forno che davano un aspetto, al tutto, molto bizzarro. Tirò fuori le prime due pizze, e aveva la fronte imperlata di sudore.
- Potresti anche dare una mano, sai?- stava sbuffando come una locomotiva a vapore.
- Si si, arrivo!- mi infilai al volo un altro paio di guanti, rossi con fiorellini bianchi. Era tutto a fiori. Altra risata. Corsi verso il forno e presi le altre due teglie, quelle rimanenti. Le poggiai sul tavolo, attaccato alla parete. Tagliai in spicchi entrambe le pizze, e fece lo stesso Erin. Le mettemmo su un grande piatto di coccio e le portammo in salotto con le birre.
Il fuoco scoppiettava allegramente, e il tappeto steso al centro del salotto era proprio invitante. Portai il piatto sotto il naso di Wayne e la sua mano cercò di afferrare uno spicchio, ma venne prontamente bloccata da una sberla di Erin. Anche le birre, che scontrandosi lievemente tra loro producevano tintinnii, vennero posate per terra. Ci si sedette intorno al camino, con la roba da mangiare al centro. Wayne prese una bottiglia e la stappò con l’apribottiglie. Il tappino rotolò sulle sue gambe e notai Erin seguirlo con lo sguardo. Sorrisi, accomodandomi e prendendo un pezzo di pizza.
- Ma voi due siete veramente sorelle?- bofonchiò Wayne, mentre ingoiava e azzannava. Attirò la nostra attenzione: era la prima volta che qualcuno ci faceva quella domanda. Ci guardammo e ci sorridemmo.
- Non di sangue.- la mia voce era dolce.
- Ma per tutto il resto si, giusto Connie?-
- Giustissimo.- le nostre labbra crearono due meravigliosi sorrisi.
- E tu Wayne, hai fratelli o sorelle?- Erin era curiosa.
- Un fratello più grande, Evan.- sorseggiò dalla bottiglia, ormai piena solo per un quarto. Ingoiò e aprì bocca, probabilmente per dire qualcosa, ma fu interrotto dal suono del campanello.
- Ditemi chi è quell’idiota che viene a rompere alle 9.20 di sera!- il mio tono era decisamente alto, noncurante di chi fosse fuori dalla porta.
- L’hai detto tu, un’idiota!- come al solito Wayne mi fece ridere. Era sempre di buonumore.
- Non preoccupatevi, vado ad aprire io.- l’espressione sconsolata di Erin mi fece ridere ancora di più. Si alzò, dirigendosi verso la porta, sbuffando e risbuffando. Voleva farmi sentire in colpa, ma per sua sfortuna non ci riusciva. Sentii girare la maniglia, lo scatto che fa la porta quando si apre. Un ‘ Oh’ mi fece preoccupare. Poi sentii borbottare qualcosa, due voci: una di mia sorella e una più profonda, maschile.
- Connie… puoi venire un attimo? Qui c’è un tizio che dice di abitare qui… dice di essere il nuovo coinquilino.- la voce di Erin mi arrivava forte e chiara.
- Arrivo!- mi alzai tutta d’un peso, e andai alla porta. Quando girai l’angolo dell’arco una ventata fredda mi scompigliò i capelli. Raggiunsi l’entrata e guardai il ‘tizio’. La mia bocca si socchiuse. I capelli castano chiaro, gli occhi blu intenso. Nell’iride destra una macchiolina più chiara. Non l’avevo notata prima all’alimentari.
- Il ragazzo del latte…- la voce uscì come un sussurro, che evidentemente lui sentì.
- Guarda chi si rivede. Hai cercato una palestra?- il sorriso impertinente sulle sue labbra.
- Vi conoscete già?- le parole di Erin mi arrivarono confuse all’orecchio.
- Porca miseria.- la mia risposta.
- Già- sorrise, ancora, lui.
 
 
 
Ecco il capitolo 3! Finalmente entra in scena il quarto, e forse il più importante, dei coinquilini! Ora Connie avrà una bella gatta da pelare… spero che finora vi piaccia leggere la mia storia, anche perché e da qui che inizia a farsi interessante! Se avete qualche consiglio o qualcos’altro da dire recensite!
Il quarto capitolo arriva presto! Grazie a tutti coloro che leggono quest’avventura!
Bacioni e al prossimo capitolo,
Tex

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Capitolo 4
*** Sorpresa ***


Preferivo rimanere in cucina, dopotutto era interessante: il tavolo di legno aveva tantissime venature più scure e più chiare, la finestra gigante era coperta da due tende color panna e sul frigo c’erano già tantissime calamite… ma chi volevo prendere in giro? Il solo e unico motivo per il quale rimanevo lì, era il fatto che in salotto c’era quel grandissimo stronzo.
- Andiamo Connie! Vieni di là con noi.-
- Ma non ci penso neanche! Quel fottutissimo idiota rimane un fottutissimo idiota, che sia al minimarket o nel salotto di casa mia. Tsk, io con quello non ci sto – agitai le mani per aria, imitando il comportamento, del ragazzo, di poche ore prima all’alimentari.- gne gne  ‘ cerca una palestra’ gne gne ‘budino’- la mia voce cercava di apparire bassa e calda, come quella del ragazzo del latte.
- Guarda che sono buoni consigli!- una voce profonda, quella che cercavo di imitare, mi arrivò alle orecchie. Mi si gelò il sangue; irrigidita, mi girai.
- Oh oh…- Erin trattenne una risata.
- Stai zitta. Non dire una sola, maledetta parola.- le mie parole uscirono sibilando tra i denti stretti. Una risata uscì dalla bocca di mia sorella, che riuscì, per sua fortuna, a trattenersi. Il mio sguardo incrociò quello del bastardo: mi fissava, ed io osservavo la sua macchiolina chiara nell’iride destra. Il colore dei suoi occhi era incredibilmente avvolgente. Sentii la mia bocca socchiudersi, di poco. Di nuovo quel maledetto sorriso impertinente. Sbuffai, distogliendo lo sguardo dal suo e posandolo sul cesto di frutta al centro del tavolo, che s’era fatto improvvisamente interessante.
- Allora… non mi chiedi neanche come mi chiamo, coinquilina?- si stava divertendo, e anche tanto a mio parere.
- Non me ne importa un fico secco di come di quale sia il tuo dannato nome, dato che non ci sarà nemmeno il bisogno di rivolgerti la parola!- ancora non mi andava giù il fatto che fosse il mio nuovo coinquilino, che avrei dovuto dividere ogni stanza della casa con lui, tranne la mia camera, ovviamente. Lentamente, la mia testa si svuotò: quale sarebbe stata la sua stanza? Sgranai gli occhi.
- No…- sussurrai – la tua stanza…- deglutii a fatica, e il mio battito si fece più veloce.
- Sai che siamo vicini di camera?- fece finta di non sentire il mio sussurro, giusto per darmi ancora più fastidio.
A quel punto Erin non ce la fece più: scoppiò in una grande risata, come poche volte la sentivo fare. Le braccia lungo i fianchi, i pugni serrati. In alcuni punti dei palmi sentivo delle piccole fitte: mi stavo piantando le unghie nella pelle. Ribollivo di rabbia. Mandai al diavolo entrambi con la testa, e mi avviai verso l’arco che portava alla sala da pranzo, al quale era appoggiato lo stronzo. Lo sentii seguirmi con lo sguardo. Attraversai la sala da pranzo e sbucai in salotto.
- Eh no, che cavolo.- altro sussurro. In salotto c’erano due persone: una di queste era Wayne, e l’altra… l’altra non avevo la minima idea di chi fosse.  Era un ragazzo piuttosto alto, più o meno come il ragazzo del latte. Aveva una chioma scompigliata, dal vento probabilmente, di un colore scuro, che alla luce del camino rifletteva piccoli fili più chiari. Gli occhi verdi scuri, simili ai miei. La pelle bronzea, più scura di quell’infame in cucina, e sulla faccia aveva un gran bel sorriso. Effettivamente doveva essere simpatico. Sulla mia bocca un accenno ad un sorriso.
- Ciao! Sono Darien, un amico di Kha…- mi bastava quello che aveva detto, o meglio quello che avevo interrotto. Il mio quasi-sorriso si spense miserabilmente. Un’occhiataccia a Wayne, una sfilata tra i mobili e la caterva di valige nere del nuovo arrivato e mi avviai su per le scale.
A metà, sentii una voce dietro di me, dal fondo delle scale.
- Comunque il mio nome è Khaled, scricciola.- la sua voce. Il suo nome era Khaled. Khaled.
- Tsk.- poi sparii al piano di sopra.
 
[…]
 
Insonnia del cavolo. A me piaceva rimanere sveglia durante la notte, quando nessuno ti vede, quando tutti sono a dormire, ignorando la tua presenza. Ma quella volta avrei preferito fare un lungo e rilassante sonno, e non pensare a quell’idiota nella stanza accanto, ammesso che ci fosse. Dopotutto avrebbe potuto essere tranquillamente in giro con una ragazza o con due, magari ci andava anche a letto. Ma che me ne importava di quello che faceva? Sospirai.
Mi alzai dal quel letto, ormai completamente disfatto, portandomi dietro il lenzuolo fino alla finestra. La aprii. Un vento gelido mi accarezzò entrambe le guance, come se volesse salutarmi, dandomi il bentornato. Lasciai cadere il lenzuolo a terra. Salii sul davanzale e mi misi a sedere, con la schiena appoggiata allo stipite. La testa all’indietro, inclinata verso il mare, il corpo a metà tra la mia camera e il vuoto che precedeva il sottile strato d’erba scura.
Il mare era calmo, le piccole increspature che si formavano sulla superficie riflettevano i raggi della luna. L’aria frizzante, che correva nella mia gola come un treno, mi portava i racconti dell’oceano, impregnato dell’odore pungente di salsedine e delle alghe. Sulla mia pelle una sensazione strana, rilassante, cullante.
Erin diceva sempre che era pericoloso lasciarmi sola col mare: era la cosa che più al mondo mi attraeva, mi trascinava verso di sé, ignorando tutto quello che ci fosse da ignorare. Forse aveva ragione, il mare era l’unica cosa che mi dava il vero sollievo.
La luna piena. Khaled era arrivato con la luna piena, come le maree. Chiusi gli occhi, desiderando di rimanere lì per l’eternità. Quando li riaprii, lo sguardo corse lungo il pontile di legno sbiadito dal tempo e dall’acqua che l’aveva segnato. La piccola lanterna in fondo era spenta, eppure riconoscevo bene  una figura scura seduta sul bordo. Riuscivo a vedere i capelli arricciati dal vento, lasciati ballare a mezz’aria. Mancò un battito. Non era possibile fosse lui.
- Khaled…- dopotutto non lo conoscevo neanche. Era a casa, non era con nessuno, se non col mare. Niente amici chiassosi o ragazze. Battei leggermente la testa al muro a cui ero appoggiata: poteva fare quello che voleva. Inclinai di nuovo la testa verso est. Stavolta la mia attenzione non andava solo al mare; com’era possibile che il ragazzo più maledettamente idiota che avessi mai incontrato fosse attratto dal mare? “ Non lo conosco, non lo conosco”. D’un tratto vidi la testa di Khaled girarsi. Rimase a guardare nella mia direzione, probabilmente. Non riuscivo a vedere i suoi occhi: la luce della luna che gli arrivava da dietro creava delle ombre sul viso. Si rigirò. Rimasi ancora qualche minuto in quella posizione, poi girai la testa, raddrizzandola. Chiusi gli occhi ancora una volta. Le palpebre, he fino a quel momento mi erano sembrate così leggere, si appesantirono di colpo, sigillando quella poca luce che filtrava. Sentii il torace abbassarsi lentamente, il cuore battere lentamente, i muscoli rilassati. Un sospiro, l’ultimo spillo di profumo marittimo.
 
[…]
 
Una mano sull’occhio, una stropicciata e uno sbadiglio. Quella notte avevo dormito poco, avrei voluto rilassarmi, dormire con il rumore del mare e lo spunto di luce che mi riscaldava la guancia quando tenevo la testa sul cuscino, di mattina. Il piano era perfetto, senza alcun tipo di dubbio, c’era solo un piccolo intoppo: quel giorno iniziavano i corsi al college. A pensarci bene era un intoppo piuttosto intasante.
Mugugnai, tirandomi su tutto d’un peso. Rimasi per qualche secondo con la faccia contratta, stile bulldog: mascella in avanti, fronte corrucciata, espressione di chi ce l’ha con mondo. Quando mi resi conto che se non mi fossi mossa mi sarebbe venuta una paralisi facciale, distesi i muscoli del viso, e aprii un solo occhio, chiudendo l’altro. Mi girai verso la finestra. Era aperta, lo era rimasta dalla sera prima. Aprii anche l’altro occhio, e ricordai che mi ero addormentata lì, non sul letto. Probabilmente ero diventata sonnambula, o lo ero da sempre. Mi grattai la nuca, perplessa.
D’un colpo la porta si aprì, e sulla soglia apparirono Erin e Wayne. Lei era sulle spalle di lui.  Entrambi avevano le braccia alzate e urlavano qualcosa, che non so cosa. Riuscii a capire poco.
- Andiamo, andiamo, andiamo – cantava a ritmo come una cheerleader – oggi inizia la scuola!- Wayne andava a passo con il ritmo della voce di Erin. Era una scena buffa, ma mi ero appena alzata. Avevano scelto la morte. Mi girai e presi un guanciale. Con una luce maligna negli occhi, scaraventai il grande cuscino verso la coppia di dementi davanti a me. Centrai in piena pancia Wayne. Traballò, aprendo un varco che potevo sfruttare per raggiungere il frigorifero. Mi alzai fulminea, per quanto potessi esserlo, e sgattaiolai in corridoio e poi giù per le scale. Sentii un tonfo, poi delle risate.
- Che scemi- un sussurro, seguiti da un sorriso ancora privo per sfoggiare tutta la sua bellezza.
Appena attraversai l’arco che dalla sala da pranzo sbucava sulla cucina, mi ritrovai davanti Khaled.
- Bei capelli, scricciola.- disse arricciandomi una ciocca di capelli intorno al suo dito.
- Ma stai zitto, faccia da iguana.- mi ripresi la ciocca e mi diressi verso il cibo. Aprii il frigo ne tirai fuori due uova e il latte. Li avevo comprati la sera prima, quando incontrai Khaled. Rimasi ferma per un po’ ad osservare la bottigliona.
- Che c’è? Non riesci a sollevarla? Vuoi un’altra mano?- un sorriso impertinente spuntò sulla sua bocca, mentre si appoggiava all’armadietto sopra il banco della cucina, a pochi passi da me. Afferrai la bottiglia per il collo, e presa da uno scatto di rabbia la sollevai tutta d’un colpo e, dopo due giri acrobatici per aria, la appoggiai sul piano di legno chiaro. Mi spostai verso la credenza alla quale s’era appoggiato Mr. Simpatia.
- Togliti.- fui diretta.
- A quanto pare sei intrattabile al mattino.-
- Ti sbagli, se te che non vai, al mattino.-
Si spostò di pochi passi, per lasciarmi prendere quella dannata farina.
- Il lievito…- era troppo in alto per me. Qualche genio l’aveva messo sull’ultimo ripiano, al quale io non arrivavo neanche in punta di piedi. Sentii un movimento dietro di me, mentre il mio sguardo era rivolto la vetta della credenza. Un profumo caldo, che dava senso di protezione, mi circondò, riempiendomi la testa. Un’ombra su di me. Nel mio campo visivo entrò il braccio dalla pelle sfumato di bronzo, resistente, forte, sicuro. Sentii il petto di Khaled appoggiarsi alla mia schiena, ne percepii il muscoli, i lineamenti. Il braccio che fino a quel momento era rimasto lungo il suo fianco, si appoggiò al piano di legno del bancone della cucina, intrappolandomi in quel ristretto spazio inondato del suo profumo naturale. Mi portai le mani al petto: sentivo il suo respiro veloce, il movimento del suo torace. Chiusi gli occhi per un secondo. Mi sentivo al sicuro.
- Preso…- un suo sussurro mi fece alzare le palpebre, girai la testa e lentamente anche il busto, e il mio sguardo si posò sulla punta del suo naso. Poi salì agli occhi. La macchiolina più chiara. I suoi occhi scesero dalla confezione di lievito ai miei. Rimanemmo così, lui con un braccio appoggiato alla credenza e uno al bancone, io con le mani al petto. I respiri lenti, il battito veloce.
Avrei voluto rimanere così, ma l’entrata di Erin in cucina fece tornare le cose alla realtà. Purtroppo.
 
[…]
 
“ Riprenditi Connie, riprenditi. Solo perché ti ha preso il lievito, non significa che ti stia simpatico.” Pensavo e pensavo scendendo le scale di legno.
- Sorella! Pronta?- la voce di Erin mi investì. Un sorriso ironico comparve sulla mia faccia.
- Guarda, prontissima- anche il mio tono era ironico - Sono in forma nel caso si dovessero sezionare cadaveri.- l’ultima frase non era poi così sarcastica, dopotutto avevo bisogno di scaricare la tensione, anche perché avrei preferito evitare di vivisezionare un mio coinquilino con un coltellino da formaggio per sfogarmi.
- Se questi sono i tuoi propositi, allora auguro buona fortuna al professore che ti capiterà- ridacchiò.
- Ah ah ah. No davvero, aspetta che sta salendo la risata.- saltai l’ultimo scalino e mi avviai verso la porta.
- Non aspetti, scricciola?- ancora quella voce. Avrei preferito che non mi vedesse uscire, ma sapevo fin dall’inizio che sarebbe stato impossibile.
- Di sicuro non te.-
- Sentite amici del cuore, se non ci muoviamo arriveremo tardi alla prima lezione.- mi girai lentamente, con una luce maligna e furiosa negli occhi, e la fissai. La fronte corrucciata, le sopracciglia che si avvicinavano.
- Non osare dirlo mai più.-
- Andiamo scricciola, un po’ d’umorismo.-
 - Taci, pulce d’acqua.-
Mi avviai fuori, prendendo chiavi e borsellino ed infilandoli nello zainetto di cuoio marroncino. Quella mattina avremmo preso il taxi.
Mentre aprivo lo sportello, mi salì un attacco di rabbia nei confronti di Khaled: avrebbe fatto meglio a non rompermi le scatole lungo il tragitto, o si sarebbe ritrovato senza una parte intima.
Erin si fiondò nel taxi, appiccicandosi a me e stampandomi un bacio sulla guancia. Lo accettai volentieri, malgrado non mi piacessero i baci dati senza un motivo.
A ruota entrarono Wayne, che si mise accanto a mia sorella, e Khaled, che sedette davanti a me nel sedile del passeggero.
Durante il viaggio, che durò circa 25 minuti, notai che Khaled mi guardava. Mi osservava attraverso lo specchietto retrovisore, mi scrutava. Per qualche minuto lo lasciai perdere, ma non accennava a smettere. Mi avvicinai al suo orecchio, appoggiandomi allo schienale del suo sedile, e infilai la testa tra il poggiatesta e lo sportello del taxi, sfiorando i suoi capelli con la guancia sinistra.
- Cosa desideri tanto da fissarmi nello specchietto?- un sussurro.
- Sono curioso. Cos’è, ti da noia, scricciola?- il suo tono era impertinente e provocante.
- Vedi di esserlo meno.-
Mi riappoggiai allo schienale della mia seduta e tirai fuori cellulare e cuffie. Rimasi tutto il viaggio ad osservare il paesaggio che scorreva al di fuori del finestrino, ascoltando la musica.
Col passare dei secondi cominciai a socchiudere gli occhi, abbandonando la testa ai movimenti cullanti del taxi.
Non sapevo quanto tempo era passato, ma una leggera pressione sulla spalla sinistra mi fece riaprire gli occhi. Il tocco di Erin.
- Connie svegliati. Siamo arrivati.-
 
[…]
 
- Aula 404! Wayne l’ho trovata! Muoviti dai che facciamo tardi!- la voce di Erin mi pareva lontana, con tutto quel viavai di gente.
- Arrivo! Erin avrei dei polmoni a cui badare…-
- Non fare il cretino. Cammina e zitto.- gli agguantò l’avambraccio, trascinandolo dietro di se.
- Connie noi entriamo qui. Sei sicura di non volere una mano a cercare l’aula?-
- Si si, mi hanno detto che è l’aula 411, quindi dev’essere qui vicino. Ci si vede a mezzogiorno fuori all’aiuola di tulipani.- non ero molto convinta di riuscire a trovare la strada per arrivare alla mia aula, ma tentavo di presentare il tono più convinto possibile.
- D’accordo. Allora noi andiamo. A dopo!-
- A dopo Connie! Buona fortuna con medicina!- Wayne mi stava salutando agitando il braccio per aria, e fece un soffio alla testa di una ragazza che gli passò accanto.
Mi girai, intenzionata a trovare la mia aula, ma una voce mi bloccò.
- Connie… ti voglio bene.-
- Anch’io bischera.- sorrisi. Erin, che fino a quel momento sbucava da dietro la porta di legno chiaro, sparì, probabilmente trascinata da Wayne.
Ero agitata, molto. Non trovavo l’aula di medicina. Non la trovavo. “ Merda.”
- Ehi! Scusami, sapresti dov’è l’aula di medicina? Aula 411…- il tono della mia voce era alto, dovevo quasi urlare per farmi sentire.
- Certo! È in fondo al corridoio, sempre dritto!- anche lei urlava. Avrei voluto ringraziarla, ma fu portata via dal fiume di gente.
Rimasi interdetta, con un dito alzato, indicando la fine del corridoio. Sospirai. Era ora che mi muovessi anch’io. Mi scossi, dandomi un colpetto sulla guancia. Mossi un piede.
- Ah! È facile! ‘ndiamo!- cominciai a camminare. Mi parve di essere osservata da qualche ragazzo: non li biasimavo, dopotutto parlavo da sola.
Corsi per tutto il corridoio, arrivando alla fine. Mi voltai in cerca della porta con su scritto 411.
- 411: Medicina e Chirurgia. Trovata!- la soddisfazione mi pervase.
Girai il pomello in ottone lucidato e spinsi la porta. Un sorriso si aprì sulla mia faccia. Inspirai aria dell’aula del college, mi lasciai impregnare da quell’odore.
- Ehilà, scricciola!-
Mi girai. Il mio sorriso si spense, anche se non del tutto. Dentro di me, il risolino continuava a sbocciare, in tutta la sua bellezza, lasciandosi travolgere da quella sorpresa, che avrebbe potuto essere incredibilmente meravigliosa.

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Capitolo 5
*** Grazie ***


Questo capitolo lo voglio dedicare alla Bia, mia fedele seguace, nonchè aiutante. grazie di tutto carissima, e spero che questo capitolo ti piaccia!




 La grande aula era fatta ad anfiteatro. La cattedra era al centro, davanti alla lunga lavagna nera. Al lato della scrivania c’era uno scheletro finto appeso ad una struttura di legno con le rotelle, con un gancio sopra la testa. C’era un profumo di libri vecchi e legno, adoravo già da subito quell’aula.
- Gran bella stanza, eh Khaled?- mi girai. C’era Darien, quel ragazzo che aiutò Khaled a portare le valige a casa, due sere prima.
- Già, proprio bella. – rimasero in silenzio per qualche secondo- E tu scricciola, cosa ne pensi?- mi guardava, con un sorriso.
- Bella.- il mio tono era fermo.
- Te la sei presa per il fatto che chirurgia e medicina sono un corso unico?-
- Me la sono presa perché fra tutti i college che ci sono, tu hai scelto proprio questo.- un sorrisetto impertinente comparve sulla mia bocca, stavolta.
Khaled si avvicinò, tanto che rimasero solo pochi centimetri tra di noi. Si abbassò, in modo che i nostri occhi fossero alla stessa altezza. Mi prese la punta del mento tra il pollice e l’indice, delicatamente. Mi fissò. Il colore scuro e profondo dei suoi occhi mi avvolse. La sua bocca si avvicinò, sfiorandomi la pelle, scaricandomi brividi in tutto il corpo.
- A quanto pare, staremo più tempo del previsto…- sospese le parole nel vuoto, facendomi impazzire.- …insieme.- poco più di un sussurro. Il mio cuore mancò un battito.
Mi spostai di un passo, piuttosto bruscamente, e solo quando distolsi lo sguardo dal suo mi resi conto che ero stata in apnea fino a quel momento.
- La sfortuna mi segue ovunque.- sibilai tra i denti. Lo fissai male, ma mi accorsi che le mani mi tremavano.
La porta si aprì, lasciando entrare un uomo sulla trentina, alto con i capelli biondi. Aveva un paio d’occhiali quadrati e neri, moderni che si adattavano alla perfezione al suo viso. Il suo viso. I lineamenti erano delicati, seppur mascolini. E poi gli occhi.
Gli occhi.
Erano ghiaccio. Ghiaccio freddo. Si posarono su di me, sui miei occhi. Mi osservò per qualche secondo, poi, poco prima di scendere le scale verso la cattedra , sorrise.
Uno spintone. Mi girai di scatto, riprendendomi dalla visione di pochi secondi prima.
- Oddio scusa! Ti ho fatto male?- era una ragazza, alta più o meno quanto me, i capelli castani, con una sfumatura di rosso.
- No no, non mi hai fatto nulla.-
- Menomale!- un grande sorriso si aprì sulla sua faccia. Anch’io sorrisi. – mi chiamo Emma-
- Io sono Connie. Piacere di conoscerti-
- Piacere mio! Allora… tu quale dei due inferni hai scelto?- rimasi stranita a quella domanda. Poi capii.
- Medicina, inferno blu.- sorrisi.
- Pare che saremo compagne di corso, allora.- il suo sorriso si allargò ancora di più, come il mio all’udire di quella frase.
- Che dici, andiamo a prendere posto?-
- Beh, se non vogliamo seguire la lezione dalla porta, direi di si.- una risata. Ci avviammo verso le scale, in cerca di due posti. Quando li trovammo, sistemammo le nostre cose sotto il piano d’appoggio di legno scuro e ci preparammo alla lezione.
Passò qualche minuto prima che la voce del professore si espanse per la sala.
- E così voi sareste ‘i nuovi’ di quest’anno… bene, bene. Io sono il professore di medicina e chirurgia, come poteva essere sospettabile.- qualche risatina flebile qua e là. – Il mio nome è Derek Foster, ma per voi prof. Foster. Allora, dovremo vedere chi c’è e chi no, dico bene? Allora cominciamo…- iniziò una lunga serie di nomi, alcuni divertenti. – Connie Ethan.- quelle parole mi colsero alla sprovvista. Mi alzai.
- Eccomi.- il tono sicuro non era coerente con il tremolio delle ginocchia. Lo guardai. Lui guardò me. Aveva un sorriso. Ma perché diavolo sorrideva? Mi rimisi a sedere, sostenendo il suo sguardo.
Era una sfida?
Abbassò lo sguardo per leggere il nome dopo il mio, e continuò la sua lista. Ora sapeva dov’ero, qual era il mio posto.
 
[…]
 
La lezione era finita. Ogni cinque frasi mi lanciava un’occhiata. E io l’aspettavo.
- Scricciola. Interessante la lezione vero?-
- Khaled. Interessante, già.-
Mi mise un braccio intorno al collo.
- Cosa… cosa fai?- ero piuttosto perplessa. Però mi piaceva, insomma quasi. Ok no, mi piaceva veramente.
- Ethan, Connie Ethan. Così è questo il tuo nome?- la voce del professore mi arrivò da dietro. Cercai di divincolarmi dalla presa di Khaled e ci riuscii, anche se a fatica.
- Già, Connie Ethan.- avevo aperto bocca, ma non le avevo dato fiato.
- Da quando in qua tu ti chiami come me?- sorrisi.
In quel momento, due ragazzi erano con me. Ma non erano ragazzi qualunque: erano i più interessanti che potessi trovare.
- Direi che oggi ho fatto una bella scoperta.- lo sentii borbottare mentre usciva dalla porta.
Già, proprio una bella scoperta.
 
[…]
 
- Erin! Siamo qui!! Erin! E che cavolo, Erin ma sei demente o cosa? Ti vuoi girare? Siamo da questa parte non dalla parte opposta!- urlavo disperata a mia sorella, che si girava da ogni parte tranne dalla nostra.
- Scricciola è inutile, non ce la farà mai a capire dove siamo.- mi scappò una risatina. Me ne pentii subito dopo, di aver riso.- che strano… tu che ridi a qualcosa che dico. Molto strano. Sei sicura di stare bene?- mi prese la testa tra le mani e appoggiò le sue labbra sulla mia fronte. Erano calde. Mi spinse delicatamente contro il muro poco distante da me, alle mie spalle.
- Khaled…- sussurrai- cosa fai?- socchiusi gli occhi. Il tocco della sua bocca sulla mia pelle.
Oh porca merda.
- Calda non sei.- sussurrò staccandosi appena.
“Lo dici tu” avrei voluto dirglielo.
- Non ho la febbre. Spero solo che un giorno Erin riesca a sentirmi alla prima.- lui ridacchiò. Poi si fermò, guardandomi negli occhi. Di nuovo la macchiolina.
- Eccovi! È da mezz’ora che vi stavamo cercando!- Erin schizzò fuori da un gruppetto di gente in mezzo al corridoio.
- E lo vieni a dire a me?- mi scostai dalla presa di Khaled. Non volevo che mia sorella cominciasse a torturarmi con frasi del tipo ‘che ti avevo detto’ o ‘visto che c’era qualcosa?’.
- Guarda che eri te a non sentire me.-
- Si certo, ma quando?- cominciammo a ridere. Dallo stesso gruppetto uscì anche Wayne.
- Ehilà! Come è andata la lezione?- la sua voce cercava di sovrastare a quelle di tutte le atre persone che defluivano dalle varie aule che si affacciavano sul corridoio.
- Bene bene, tutto ok. Insomma si, alla grande. Meravigliosamente.- setacciavo ogni parola, aggettivo che potevo scovare nella mia mente per descrivere quella lezione. Avrei voluto finire lì l’argomento ‘Primo incontro con la nuova classe’ ma fui una frana, nel tentativo.
- Ah ah, certo. Io so cosa è successo… tu hai trovato qualcosa o qualcuno di interessante. È questo il tuo comportamento quando succede. – s’interruppe un attimo, e la sua espressione si fece altezzosa- e ora vieni a dirmi che non ti conosco.-
- Non ho mai detto che non i conosci.-
- Ma ci ho azzeccato. Ammettilo.- sentii la mia faccia prendere fuoco, quindi mi sembrò logico che fosse di tutte le sfumature di rosso esistenti.- AH! Io sono un fottutissimo genio.-
- No non lo sei, o altrimenti non faresti giurisprudenza.- subito dopo quelle parole notai un gruppetto di persone guardarmi male.
Ops.
- Non preoccupatevi, lo dice solo per farmi arrabbiare- Erin si era girata verso quelli che mi fulminavano con lo sguardo.
- Andiamo. Io ho fame.- Khaled sfiorò la mia mano con la sua. Non credevo l’avesse fatto accidentalmente.
- Andiamo.- ripetei sussurrando.
 
[…]
 
Eravamo fuori dal college, sul marciapiede poco distante dal parco esterno dell’università. Era il primo pomeriggio, e per me faceva abbastanza caldo da non mettermi il giubbotto.
Erin e Wayne chiacchieravano due passi dietro di me, mentre Khaled camminava tranquillo e silenzioso avanti a me.
Ci fermammo sul ciglio della strada, per attraversare: era molto trafficata a quell’ora. Misi un piede giù dal marciapiede e la voce di Erin attirò la mia attenzione.
- Connie stasera andiamo a mangiare una pizza per festeggiare la nostra prima giornata, ok?- aveva un sorriso enorme sulla bocca.
- Io ci sto! A parlare di pizza mi viene l’acquolina.- misi anche l’altro piede giù dallo scalino. Girai la testa verso destra, poi verso sinistra.
- Connie! ATTENTA!- un attimo. L’urlo di mia sorella. Un suono acuto e forte, un clacson, probabilmente.
Gli occhi spalancati, vitrei. Un cofano a pochi centimetri da me.
Mi sentii afferrare un polso, tirarmi via dalla traiettoria di quel veicolo infernale.
Il mio cuore stava impazzendo, al contrario i polmoni erano lenti. Respiravo affannosamente, anzi, proprio non sapevo più come si respirava.
Sentii del calore avvolgermi e stringermi saldamente. Il contatto della mia guancia con un petto forte e sicuro. Anche il cuore che stava lì dentro batteva veloce. Inspirai profondamente e un profumo caldo mi penetrò nella testa.
- Connie…- anche la voce era calda, profonda come l’incavo del suo collo, nel quale stavo sprofondando. Le mie mani appoggiate sul suo petto, il mio corpo interamente a contatto con il suo.
Volevo che mi tenesse stretta. Dio se lo volevo.
- Khaled, io…-
- Non… farlo… mai più. Mai più.- sussurrò tenendo la bocca sulla mia fronte.
- Connie! – sentivo la voce di mia sorella interrotta da singhiozzi- sorella mia, sei viva, sei viva.-
- Che fortuna eh?- e parole uscirono silenziosamente dalla mia bocca.
Erin mi strappò dalle calde e sicure braccia di Khaled.
Perché diavolo mi hai tolto da lì?
Mi strinse tra le sue di braccia, e non mi dispiacque poi così tanto quando cominciò a riempirmi di parole dolci. La mia sorellina. Le facevo sempre prendere colpi. Sorrisi.
- Connie… vieni qui moretta.- mi spostai verso Wayne, che mi diede un buffetto sul naso. – sei proprio una deficiente, sappilo.- sorrise.
Mi staccai e mi accorsi che l’autista della macchina che manca poco mi metteva sotto era sceso e ci stava venendo in contro: era un uomo dall’andatura altezzosa, con le spalle larghe e i capelli biondo chiarissimo tirati indietro e impiastrati di gel lucido.
- Ora quel coglione mi sente. Gli rompo il naso!- strinsi i pugni e feci per andare da lui, ma Erin e Wayne mi trattennero.
- No Connie, tu resti qui e non gli fai un bel niente.- la voce di mia sorella era ferma.
Nella mia visuale rientrò Khaled, che si dirigeva a passo svelto e sicuro verso quel deficiente dai vestiti firmati. Aveva i pugni stretti, tanto che le nocche erano bianche, le vene erano ingrossate e i muscoli del collo e delle braccia tesi e gonfi.
- Oh merda.-
Merda, si.
- Razza di idiota! Stavi per mettere sotto la mia… la ragazza che vive con me! La stavi per mettere sotto! Giuro che se le avessi fatto del male, ti avrei spaccato la faccia a suon di pugni maledetto coglione!-
“ Khaled… cosa dici? Non fare queste pazzie per me.”
Per me. L’aveva fatto per me.
- Dai andiamo. Gli idioti come questo non capiscono nulla.- Wayne era corso al fianco di Khaled, poggiandogli una mano sulla spalla cercando di portarlo via.
- Chi sarebbe l’idiota, razza di stupido? È lei la puttana che si è messa in mezzo alla strada. E poi cosa vuole da me questa sottospecie di mezza sega?- la voce di quel grandissimo stronzo era profonda.
- Puoi darmi della puttana quanto vuoi, ma non osare dare dello stupido a lui – indicai Wayne con la testa- e della mezza sega a lui. - il tono che assunsi mentre pronunciavo quella parola divenne più aggressivo, ma allo stesso tempo più protettivo.
- Connie torna da Erin- Khaled mi guardava e aveva una sfumatura di preoccupazione negli occhi.
- Io non torno da nessuno. Questo coglione vi ha offesi e io gliela faccio vedere brutta.- ora ero solo aggressiva.
- Tsk. Una pivellina. Quanti anni hai, 16? E questi sono i tuoi amichetti del giardinetto?- mi provocava.
- Hai mai sentito il termine ‘ fatti un tegamino di cazzi tuoi’?- i ragazzi risero e vidi una leggera forma d’imbarazzo formarsi nella sua espressione.
- Stai attenta a come parli, ragazzina…- si avvicinò a me, minaccioso.
Khaled mi si parò davanti, con le braccia aperte e le gambe distanziate. Voleva proteggermi un’altra volta.
- Stai lontano da lei.-
- Andate al diavolo.- l’energumeno si girò e tornò alla sua auto del cavolo con aria infastidita.
Il ragazzo che mi aveva presa in giro fino a quel momento, mi aveva protetta.
Si girò, mi osservò come in cerca di un qualche segno per verificare se stavo bene o meno, poi sorrise. Sorrisi anch’io.
- Credo che sia ora di tornare a casa, no?-
- Io mi devo fare una doccia.-
- Io devo compilare un modulo. Ce l’abbiamo delle penne a casa, io la mia l’ho persa…-
Cominciammo a borbottare, mentre ci avviavamo verso la nostra tana, stavolta evitando di attraversare.
 
[…]
 
- Andiamo fatti un pochino più sexy!-
- Ma non ci penso nemmeno, cara la mia Connie! Mi hai presa per pazza o cosa?-
- Ti ho solo detto di renderti più seducente, non di andarci a letto.-
- Ma lo sottintendevi…-
- Beh, forse solo un poco, ma andiamo!-
- Ragazze ce ne avete ancora per molto?-
- Arriviamo!- la voce di Erin e la mia si mescolarono.
Finimmo di prepararci velocemente e uscimmo trionfanti dalla camera: avevamo trovato un compromesso sulla percentuale di sensualità nei nostri abiti.
- Non ti senti un po’ zoccoletta vestita così, scricciola?- Khaled mi si avvicinò da dietro. Mi girai di scatto, facendo cadere un ciuffo sottile e mosso, sfuggito alla mezza coda, sulla mia spalla.
- Ma quanto sei spiritoso!- lo guardai male.
Mi accorsi che il suo sguardo, la sua espressione, erano cambiati: aveva come un luccichio negli occhi. Un qualcosa simile ad un sorriso si abbozzò sulla sua bocca che vidi avvicinare a me. Si mise a pochi millimetri dal mio orecchio.
- Credo di aver fatto un errore. Troppo bella per essere una zoccoletta.- lo sentii sorridere, in seguito ad un sospiro lento e leggero che solleticò la mia pelle.
Un brivido corse lungo la mia schiena.
- Ok! Sono pronta. Andiamo a mangiare la pizza. Op op!- fece un gesto come a voler imitare un vigile quando defluisce il traffico. ‘Defluiva’ verso la porta.
Una volta fuori ci accorgemmo che Wayne era alla guida di un’auto, un Chevrolet bianca.
- E quella… quella cos’è?- ero piuttosto perplessa.
- La sua nuova macchina.- Erin aveva un sorriso enorme sulla faccia.
- Ah...- interdetta. Di nuovo.
Salimmo sull’auto: Erin davanti, io e Khaled dietro.
Il viaggio fu breve, cinque minuti massimo. Entrammo in un parcheggio, circondato da un fila d’alberi imbruniti dall’autunno. La macchina si fermò, il motore si spense e le portiere cominciarono ad aprirsi.
- Siamo arrivati. Di là dalla strada c’è la trattoria. Su muovetevi.- Erin quella sera era piuttosto autoritaria.
- Erin piantala di dare ordini.- mi stropicciai le mani e la fulminai.
- Va bene, miss pallosa.- sbuffammo entrambe. Poi ci fu un attimo di silenzio. Erin scoppiò a ridere ed io a ruota. Sentire la risata di mia sorella era una delle cose più divertenti che mi capitava.
Mi prese a braccetto e ci avviammo verso l’uscita del posteggio, mirando all’attraversamento pedonale.
Era sera, verso le 21.00. Non c’era molto traffico, soprattutto in quella strada.
Arrivati sulla soglia dello scalino notai con la coda dell’occhio la mano di Wayne intrecciarsi con quella di mia sorella. Sorrisi.
Scesi dal marciapiede, lasciandomi accarezzare da un improvviso soffio di vento freddo. Socchiusi gli occhi. Era buio, fuorché alcuni lampioni di ferro battuto qua e là che infondevano una corona di luce color fiamma tenue.
Mi sentii sfiorare. Una mano avvolse il mio polso destro, tenendolo saldo. Aprii gli occhi di scatto e girai la testa. I miei occhi si spalancarono, lasciando trasparire una sensazione di sorpresa e di calma. Il blu intenso di quegli occhi mi travolse, portandosi dietro calore e protezione. Mi fissava, lasciando rilassata e tesa la bocca. Mi accorsi lentamente che il battito del mio cuore era accelerato.
- Cosa fai?- un sussurrò sfuggì alla mia bocca.
- Voglio essere sicuro che tu non ti faccia niente.- un sorriso comparve sulla sua bocca. Oddio.
Oddio.
Attraversammo la strada, con Erin e Wayne davanti a noi.
Mi teneva stretto il polso, ma senza bloccarne il circolo sanguigno. Voleva proteggermi ancora. Ed io volevo farmi proteggere. Raggiungemmo l’altro lato della strada, e salimmo sul marciapiede.
Vidi Erin voltarsi e guardarmi, per poi tornare al fianco di Wayne, il suo pseudo-fidanzato. Sorrisi. Entrarono nella trattoria e sbucarono da dietro la grade vetrata del locale, coperta per metà da una tenda a quadretti bianchi e rossi.
Ci fermammo. Immobili, senza fiatare. Le sue dita sfioravano il palmo della mia mano, danzandoci sopra, creando linee e punti immaginari. Mi faceva un leggero solletico, ma mi piaceva e volevo che continuasse.
Poi la sua presa si allentò e mi lasciò scivolare via la mano. Mi girai lentamente e volsi il mio sguardo verso il suo. S’incrociarono timidamente. Gli misi le mani, una delle quali ancora calda, poco sotto le orecchie, a contatto con l’angolo non troppo marcato della mascella; le mie dita sprofondarono nei suoi capelli mossi. Avvicinai la sua testa a me, facendogli curvare leggermente la schiena.
Le mie labbra sfioravano il suo lobo sinistro.
- Per oggi…- poco più di un bisbiglio- …grazie- gli lasciai un bacio leggero sulla pelle, dove si attaccava il lobo. Il mio respiro caldo non riusciva a coprire il suo: era veloce, irregolare.
Le sue braccia si alzarono lentamente e le sue mani mi afferrarono delicatamente i gomiti, portandomi a sé.
Mi strinse e le mie mani scivolarono sul suo collo, che fu presto avvolto dalle mie braccia.
- Grazie a te, scricciola.- sussurro sopra la mia fronte.
Un bacio caldo, sulla punta del naso.
Le nostre prese si allentarono. Ci avviammo verso l’entrata, il mio passo più svelto del suo. Afferrai la maniglia d’ottone e aprii la porta.
- Si, proprio una bella giornata.- lo sentii borbottare, tra sé e sé.
Entrammo e una spirale di musica e risate ci riempì le orecchie. Ci sentimmo chiamare da Erin, e ci dirigemmo verso il tavolo al quale erano seduti.
Era davanti alla vetrata, dove al di là c’eravamo noi. Sorrisi. Erin lo sapeva già.
Grazie…





Ecco qua il mio 5° capitolo... wao come scorre il tempo! spero vi sia piaciuto, anche perchè qui ci sono state un po' di svolte!
l'ho scritto velocemente, fantastico. da domani mi metto subito all'opera per il prossimo capitolo! 
se ci sono commenti o critiche, aspetto solo le vostre recensioni!
bacioni e alla prossima, 
Tex

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Capitolo 6
*** Ingenua ***


Alla sorella più preziosa, alla luce che mi ispira tutti i giorni. Alla mia piccola Margie, che mi aiuta ogni volta.
Ti voglio bene piccola Pulce. Questo capitolo è per te!
 
 
 
 
 
Eravamo piuttosto stanchi, tutti quanti. Erin era leggermente ubriaca, non reggeva molto l’alcol. Camminava sbilenca, tutta piegata da un lato, appoggiata a me. Ogni tanto emetteva singhiozzi piuttosto rumorosi e ogni volta una risata soffocata usciva dalla mia bocca.
Il venticello che tirava era piacevole, e mi pizzicava il naso. Vidi Wayne inciampare davanti a me, riprendendosi prontamente con qualche bracciata in aria. Sembrava una gallina spaventata. Sorrisi. Si fermò e aspettò che io arrivassi al suo fianco per poter prendere mia sorella tra le braccia; fosse stato per me gliela avrei lanciata, pesava un po’ troppo.
Finalmente libera da quel peso, raggiunsi per prima la macchina e mi ci infilai dentro: la morbidezza dei sedili era meravigliosamente comoda, dato la percentuale altissima di stanchezza che, ero sicura, mia avrebbe reso un vegetale.
La portiera opposta alla mia si aprì e Khaled si accomodò con una grazia decisamente mancante. La macchina oscillò.
- Connie! Va bene andarci a letto, ma aspetta un attimo. Facci almeno arrivare a casa!- la voce di Erin mi arrivò squillante all’orecchio. Mi girai lentamente, con una luce fulminante negli occhi, e osservai malamente mia sorella attraverso il finestrino. La sua aria si fece innocente.
- Tua sorella a volte è veramente simpatica- mi girai di nuovo e, attraverso le ombre serali che offuscavano  il suo viso, lo osservai. Notai che l’ironia che mi aspettavo, non era presente nel suo tono di voce.
- Cosa vorresti dire, scusa?- sentii uno strano e leggero stringere allo stomaco. Lo vidi sorridere, malizioso.
- Nulla…- lo era anche la sua voce.
Quella che fino a pochi secondi fa era solo una specie di uggia, diventò una vera morsa.
Cosa diavolo mi prende?
Entrarono in macchina anche gli altri due sciagurati, e le portiere si chiusero contemporaneamente con un sonoro clock.
Sentii il rumore del motore che si accedeva e vidi il bagliore dei fari illuminare il muretto che circondava il parcheggio.
Era stata una serata piacevole, stavolta senza escludere Khaled. Nella mia mente cominciava ad annidarsi il desiderio di passare più tempo con lui, e i miei tentativi di reprimerlo lo rendeva sempre più grande.
 
[…]
 
 
Khaled ci mise un po’ a trovare il buco della serratura: era buio e la lampadina della luce esterna si era fulminata.
Al terzo tentativo decisi di aiutarlo. Poggiai la mano destra sulla sua e i nostri fianchi si sfiorarono, per poi attaccarsi completamente.
Vidi la sua testa girarsi, e il suo sguardo posarsi su di me, con la coda dell’occhio. Sentii le vene delle sue mani gonfiarsi e il polso sforzarsi. La chiave scattò e la porta si aprì. Rimanemmo per qualche secondo con le dita legate.
Mi staccai, dando un piccolo colpo di tosse.
Raggiunsi le scale, a passo svelto. Volevo nascondere il rossore delle mie guance, tenendo la faccia coperta dal colletto della giacca. Salii frettolosamente le scale e raggiunsi camera mia.
 Chiusi la porta con un piede, rimanendo in equilibrio precario sull’altro. Decisi di lasciarmi andare, ero così stanca che mi reggevo a fatica in piedi. Rimasi a faccia in giù sul cuscino, affondandoci, pensando alla doccia: avrei avuto voglia di farne una, ma neanche sapevo se mi sarei addormentata lì o meno. Sbuffai, riempendomi la faccia di aria calda. La posa ‘stella marina’ era piuttosto comoda, anche se a mano penzolante stava cominciando a diventare più un peso morto che vivo. Mi tirai su con i gomiti, e mi misi in ginocchio. Non ero un bello spettacolo con i capelli arruffati e la faccia stropicciata. Mi sistemai alla meno peggio la chioma ribelle e scesi dal letto. Raggiunsi la porta e appoggiai la mano sulla maniglia. Un brivido di freddo percorse il braccio.
Uscii dalla camera e mi avviai per le scale: avrei dovuto avvertire Erin, altrimenti mi avrebbe tenuta a chiacchiera per almeno mezz’ora.
- Dov’è quella ‘briaca?- il sussurro fu interrotto piuttosto bruscamente, come la scesa dei gradini, dalla scena che scorsi fuori dalla porta. Erin e Wayne erano circondati l’uno dalle braccia dell’altra, uniti dalle labbra che si nascondevano a vicenda.
Rimasi immobile per qualche secondo, osservando quello che stava accadendo a pochi metri da me. Mi accorsi di avere un sorriso sulla bocca.
- Non me lo sarei aspettato- una voce con un tono ironico piuttosto basso. Mi girai di scatto, rischiando di rotolare giù per le scale. Khaled era pochi scalini più in alto, con una spalla appoggiata al muro, in mano una tazza fumante, cioccolata calda a prescindere dall’odore che si era diffuso per l’ingresso.
- Ah no?- anche la mia voce aveva una sfumatura sarcastica.
Risalii di alcuni scalini fino a trovarmi di uno sopra Khaled. Ci fissammo con aria di sfida. Lui salì di un gradino, poi di un altro, trovandosi ancora più in alto di me, superandomi in altezza, più di quanto non facesse già di natura.
- Tsk, non è il momento di sfidarmi. Ed ora, con permesso, vado a farmi una doccia.- sussurrai, avvicinandomi appena al viso di Khaled.
- Nel nostro bagno, scricciola?-
- Azzardati ad entrare mentre sono sotto la doccia e ti rompo il naso.- avevo un tono minaccioso, ma dubitai che si fosse scosso.
- Mi rompi il naso eh? Provaci.- assottigliò gli occhi.
Strinsi leggermente la punta del suo naso, tra l’indice e il medio. Lui afferrò il mio polso e liberò il suo naso dalla mia presa, portando la mano vicino al suo fianco, sfiorandolo con essa. Mi tirò lentamente a sé, continuando a fissarmi con una punta di malizia.
- Ci proverò, se me ne darai l’occasione.-
Mi allontanai delicatamente e salii l‘ultimo scalino, dirigendomi verso il bagno. Aprii la porta di legno scuro e prima di entrare mi girai di nuovo verso il ragazzo che mi faceva impazzire in tutti i sensi: era ancora lì, stavolta seduto sull’ultimo scalino, che si girava la tazza tra le mani. Sospirai ed entrai.
 
[…]
 
Il getto d’acqua calda mi picchiettava sulla schiena piegata in avanti. Era calda e rilassante. Il vetro  della doccia era appannato e mi divertivo a disegnare faccine con il dito.
Da quando ero entrata nella cabina pensavo a quella giornata, a quella sera, a Khaled e alla sua presa sicura e protettiva. Il mio cuore batteva più veloce del solito: sapevo il motivo, ma non volevo che fosse la verità.
Aprii di poco lo sportello scorrevole della doccia e mi affacciai per prendere lo shampoo sul tavolino a pochi centimetri da me.
La porta della stanza si aprì di scatto e ne spuntò una chioma castano chiaro arruffata. Subito dopo un paio di occhi blu intenso, con una macchiolina chiara nell’iride destro. Mi ritirai velocemente all’interno della cabina doccia.
- Khaled! Si può sapere cosa diavolo stai facendo?!- ero furente.
- Sto prendendo degli asciugamani. Questo rimane sempre il nostro bagno, ricordi?- mi sfidava, e se solo non fossi stata chiusa dentro la cabina, con i vetri opachi, lo avrei guardato malissimo.
- E tu ricordi della mia minaccia?-
- Oh si… e mi pare che mi avessi detto che mi avresti rotto il naso, se io fossi entrato mentre ti facevi la doccia.-
- Già. Quindi vedi di evaporare!- stringevo i denti.
- Va bene va bene. Ho preso l’asciugamano e ora vado via.- notai una macchia violetta, l’asciugamano, svolazzare tra le mani di Khaled e poi quest’ultimo dirigersi verso la porta, aprendola.
Mi girai verso la parete ad osservare la finestrella rotonda in alto: filtrava la luce lunare.  Sentii lo scatto della porta, della sua chiusura. Era calato un silenzio rilassante.
“ Oh, lo shampoo, giusto”
Mi affacciai fuori dalla doccia. Mi accorsi che il tavolino con la roba per il bagno era più lontana rispetto a prima. Mi sporsi di più lasciando scoperto tutto il busto, fino all’inguine.
- Khaled e il suo dannato asciugamano. Appena fuori di qui li butto entrambi fuori dalla finestra!-
- Non hai abbastanza forza.-
La mia mano si bloccò, con il braccio sospesa a mezz’aria. Immobile, incapace di muovermi. Non si era mai mosso di lì.
Mi scossi  e con uno scatto fulmineo mi ritirai all’interno della doccia: mi batteva forte il cuore, fin troppo forte. Mio Dio
Mio Dio.
 Rimasi in silenzio per qualche attimo e mi coprii con il braccio destro il seno. Poi appoggiai la mano libera alla parete di piastrelle grigio chiaro e mi sporsi fuori.
- Tu… io ti trucido! Maledettissimo cogli…- non riuscii a finire la frase. Khaled si alzò così velocemente che non ebbi la minima possibilità di reagire.
Le sue braccia si strinsero delicatamente intorno ai miei fianchi.
Entrambe le mie braccia si distesero lungo i fianchi e le sue mani salirono al mio collo, poi mi presero dolcemente il viso, accarezzandomi con i pollici le guance.
Il suo indice destro scorse sotto il mio mento, facendomi alzare la testa lentamente, con una leggera pressione. Il mio sguardo corse lungo i suoi lineamenti mascolini, fino ad incontrare il suo.
Dio il suo sguardo, i suoi occhi.
La mia bocca si socchiuse leggermente.
La mano che fino a pochi attimi prima era sotto il mio mento scivolò dietro la mia testa, tra i capelli bagnati, poi sulla mia nuca, accarezzandomela.
Una scarica di brividi lungo la mia schiena.
Sospirai.
Mi avvicinò a se, e sentii il suo respiro caldo sul mio orecchio. La stretta della sua mano dietro la mia testa si fece leggermente più forte, e la distanza tra i nostri visi si faceva via via sempre più minore.
- Khaled…- sussurrai.
- Shhhh- il suo fu un sibilo dolce e delicato. Mi cullava.
Una mano lungo la mia schiena. Si fermò sulle fosse di venere.
Attirò il mio bacino al suo, e la pelle d’oca invase le mie gambe.
Mi spinse delicatamente dentro la doccia. Il getto d’acqua calda bagnò i vestiti di Khaled, che divennero quasi trasparenti. Si attaccarono al suo corpo, lasciandone trasparire i lineamenti decisi e forti.
Appoggiai il palmo della mano sinistra sul suo petto, e strinsi, con l’altra mano, la sua nuca, affondando le dita nei suoi capelli, abbastanza lunghi da cadere bagnati sul suo viso.
Sosteneva lo sguardo. Ed io non ero da meno.
Guardavo la macchia chiara nell’iride destra.
Con uno movimento veloce portò le mie labbra sulle sue.
Erano così calde, umide.
“ Non smettere. Non smettere.”
Sentivo il respiro veloce e bollente, il battito accelerare sempre più. Mi appoggiò piuttosto violentemente al muro dietro di me, proteggendo la mia testa con la sua mano.
Sentii intrufolarsi spacciatamente la sua lingua dentro la mia bocca; io non la volevo fermare, infatti non lo feci. S’intrecciarono, le nostre lingue, con un impeto malizioso.
Tutti gli dei scesi in terra, fermate il tempo.
La sua bocca si staccò, lasciando un sapore agrodolce sulla mia. Gli occhi che fino a quel momento erano chiusi, si riaprirono. Di nuovo quel blu, quell’infinito blu d’acqua.
Un sorriso nacque sulle sue labbra, illuminandogli il viso.
Gli accarezzai la guancia, dove le goccioline d’acqua limpida scorrevano leggere.
- Mi sono bagnato la maglietta…- sussurrò. Ridemmo a bassa voce, appoggiandoci l’un l’altro.
Si staccò di qualche centimetro, continuando a osservarmi. Il suo sguardo correva per tutto il mio corpo, ogni singolo anfratto visibile. - Io almeno ce l’ho la maglietta.-
- Stavo facendo la doccia, se tu non l’avessi notato.-
- E ora non la fai più?- aria da sbruffone.
Sbruffone dannatamente bello.
- Tu sei nella doccia.-
- Ah già… mai fatta una doccia in due?- una chiacchierata amichevole. Più che amichevole. Si decisamente di più.
- Mio fratello. Facevamo sempre la doccia insieme, da piccoli.- abbassai lo sguardo, sorridendo.
- E tu mi vedi come un fratello?- azzerò di nuovo i centimetri tra noi, stringendo più di prima.
- Perché dovrei?-
Mi accarezzò la guancia. Baciò la mia fronte, scese sulla punta del naso, poi sulla punta del labbro superiore.
L’acqua scorreva lungo il mio viso. Rialzai la testa. Il suo sorriso era così bello. Lui mi guardava negli occhi, senza distogliere un secondo il suo sguardo sveglio.
Fece un passo indietro uscendo dalla doccia: mi sorrise, lasciandomi una carezza sulla tempia, e si voltò. Si diresse verso la porta aprendola e uscendo.
Lo scatto della porta precedette il lungo silenzio, interrotto solo dallo scrosciare del getto d’acqua, che invase tutta la stanza.
Ragazzina stupida.
Ragazzina stupida e ingenua.
Ma che ha avuto la miglior esperienza.
Sorrisi e chiusi il getto.
 
[…]
 
La vestaglia verde scuro… penso che le avrei chiesto di sposarmi. Era dannatamente comoda. Mi stavo sfregando i polsi delle maniche mentre uscivo da camera mia.
Il corridoio era illuminato dalla flebile luce della piantana di vetro opaco. Era piacevole come atmosfera.
Ripensavo a quello che era successo in bagno, facendomi comparire un sorriso ebete sulla faccia.
Era strano, bizzarro. Insomma lo stronzo di turno che irrompeva in bagno mentre ero nuda sotto la doccia.
Sospirai. Sospirai di nuovo.
Volevo una tazza di the. Stavo andando in cucina a farmene una.
Misi la mano destra sul poggia mano di legno delle scale. Scesi di due scalini, con passo leggero e felino. Sentii delle voci, due toni maschili. Mi fermai: ero curiosa di sapere quello che dicevano. Feci silenzio, rallentando il respiro.
Riuscii a comprendere poche parole, all’inizio.
- Lei… lei è ingenua. Insomma non può credere davvero che mi piaccia.- la voce di Khaled.
Era la sua voce.
- Perché le hai fatto questo? Lo sai che potrebbe starci male.- Darien… l’amico di Khaled. Quello che portò le sue valige in casa, quella sera.
- Mi avrebbe complicato la vita qua dentro. Non posso e non voglio andare altrove. Quindi preferisco non avere alcun tipo di problema.-
- Illudendola e facendola soffrire? Andiamo…-
Il respiro era irregolare, il battito veloce. Le parole che tornavano e che io cercavo di scacciarle.
“ Inganno. È stato tutto un inganno. Dio, perché?”
Una lacrima corse sulla mia guancia, raggiungendo il mento. Cadde miseramente sulla mano che tenevo al petto.
Dio, perché?
Risalii il poco che avevo sceso, dirigendomi verso camera mia.
Sentii una porta aprirsi, poco più in là. Mi girai, vedendo mia sorella.
- Connie!- la sua espressione cambiò, diventando cupa e preoccupata.- Connie?- un sussurro.
Mi girai di nuovo verso la porta, la aprii ed entrai, richiudendola subito dopo. Non volevo che Erin mi vedesse così. Raramente piangevo e quando succedeva dovevo rimanere sola.
- Khaled…-
Sospirai, profondamente, appoggiata alla porta. Andai verso la finestra e la aprii.
Il vento freddo di sera mi avvolse, dandomi sollievo per alcuni secondi. Chiusi gli occhi. Sentii ancora l’odore di salsedine. Ci ero abituata, ormai.
Mi sedetti sul davanzale, coprendomi le guance con la stoffa calda della vestaglia.
Di nuovo, e successo di nuovo.
 
 
 
 
 
Ecco qua il sesto capitolo! Ce l’ho fatta! Due cambiamenti piuttosto importanti, e una storia passata di Connie si è ripresentata.
Spero di non aver annoiato nessuno con questo capitolo!
Come sempre se ci sono commenti o critiche lasciate un commentino ino ino.
A presto, col nuovo capitolo!
Tex

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Capitolo 7
*** Ci si vede a lezione ***


Questo capitolo lo dedico a BellaSwan_1999: grazie per avermi recensito ogni capitolo! Sei davvero fantastica e mi aiuti sempre con i tuoi commenti! Spero ti piaccia, lo spero davvero tanto :)
 
 
 
 
 
Ogni sera il mare era più bello. Le increspature, il rumore dello scroscio sugli scogli al largo, l’odore di salsedine.
Quella settimana l’università aveva chiuso i battenti, tranne la biblioteca fortunatamente. Mancavano tre giorni al Ringraziamento, e l’aria s’era fatta fredda. Ringraziavo gli dei perché ci fosse festa, altrimenti a lezione avrei avuto seri problemi.
Ero da più o meno tre ore seduta sul boro del pontile, appoggiata al palo di legno della lanterna con le gambe che penzolavano dall’orlo. I piedi nudi nell’acqua gelata mi rilassavano.
“- Connie! Ma che razza di pelle hai?” sorrisi. Erin mi diceva sempre che ero strana da ogni punto di vista, ma era proprio per questo che ero il suo tesoro segreto.
Il naso venne scosso da un brivido, poi un altro. Gli occhi si appannarono e la gola si seccò appena: non era proprio il momento di piangere. Avevo resistito fino a quel momento, non avevo intenzione di mettermi a fare la debole.
Mia mamma mi diceva sempre che la debolezza è un pregio, alcune volte. Io non ero poi così d’accordo, infatti rimandai indietro quello che voleva venir fuori.
Una corrente particolarmente forte mi bagnò le gambe fino a sotto il ginocchio.
Sentii dei passi delicati a contatto con le assi di legno del pontile. Si avvicinavano sempre più a me.
- Connie… ti ho portato la tua vestaglia, fa un po’ freddo qua fuori. Non vorrei ti prendessi un raffreddore.- la voce era dolce, quasi dal tono materno.
Mi trasmetteva sempre calore affettivo la voce di mia sorella.
Mi porse la vestaglia di cotone verde scuro, e il contatto tra la mia mano e la stoffa scatenò una serie di piccole sensazioni piacevoli e confortevoli. Mi infilai le maniche e me la chiusi davanti, affondando la testa nel colletto.
- Grazie- mormorio, seguito da un tentato sorriso, che invece risultò più una smorfia di dolore che altro.
- Stai bene?- 
Sentii la sua mano poggiarsi delicatamente sulla spalla.
- Si- il tono fu il più sicuro possibile.
- Sicura?-
- Ho solo mal di testa –
Sentii sospirare. Poi la vidi sedere accanto a me, facendo pressione sulla spalla mentre si abbassava.
Rimanemmo per qualche minuto in silenzio ad osservare le onde, ad ascoltarne la musica, la meravigliosa sinfonia che danzava nel vento che creava piccoli vortici intorno a noi.
- Ti voglio bene-
- Non ti piace il silenzio, vero?-
- No- la sua risposta nascondeva una risatina.
- Ti voglio bene anch’io-
Cominciarono frasi intervallate da lunghi silenzi, tanto per fare un compromesso.
- Sai quanto tempo siamo state qui?- Erin mi scosse un pochino.
Tolsi i piedi dall’acqua: a momenti mi sarebbero spuntate le squame. Sarebbe stato meraviglioso.
- Spara-
Alzò una mano e la mise a ‘elle’ orizzontale, puntata verso di me.
- Da un’ora- sparò.
- Credo che sia l’ora di andare in biblioteca- mi alzai, facendo scivolare i fianchi della vestaglia lungo i miei.- comunque ti sei dimenticata di inserire le munizioni- sorrisi.
Sorrise anche lei, con un’espressione comprensiva.
Mi avviai verso casa, tenendomi pronta a qualsiasi incontro.
Aprii la porta sul retro e un profumino di frittatina e pane tostato mi invase la testa.
Wayne comparve da dietro lo sportellone del frigo, che stava chiudendo.
- Dove sei diretta, mia prode guerriera?- mi mise un braccio intorno al collo e mi diede un buffetto sulla punta del naso.
- Alla raccolta segreta e polverosa di libri magici nella tetra terra universitaria- feci un movimento con le mani, come se stessi facendo una magia.
-Allora aspetterò il tuo ritorno per l’ora del tesoro.- il suo sguardo si fece eccitato e mistico.
- Tranquillo, mio fidato stregone, sarò di ritorno alla reggia per… la cena!- i miei occhi copiarono i suoi. I nostri corpi cominciarono a muoversi come se fossimo in acqua, volteggiando con le braccia a mezz’aria.
Scoppiammo in una risata interminabile, abbracciandoci.
Mi stringeva forte, come se quello che avrei dovuto fare, fosse davvero un lungo viaggio. Appoggiai le mie mani sulle sue scapole, facendo passare le braccia sotto le sue. Affondai il viso nel suo collo, inspirandone tutto il profumo.
Mi premette il petto contro il suo, e sentii il suo cuore battere veloce.
- Sto bene, davvero- la mia voce uscì soffocata contro la sua pelle, rendendola più calda di quanto non fosse già.
Mi strinse ancora di più.
- Ci sono io a proteggerti- il suo sussurro in un orecchio.
Ci allontanammo e mi sistemai i capelli che mi aveva scompigliato.
- Va ora, e torna con un libro. O anche due, a me non fa differenza…- ridemmo entrambi.
Mi girai e vidi, nel riflesso del vetro della credenza, Khaled. Era lì, aveva sentito ogni parola.
Decisi di ignorare l’istinto di voltarmi verso di lui e gridargli, e mi incamminai stringendo i pugni verso l’ingresso.
Buttai la vestaglia ancora calda, sul divano e acchiappai il giubbotto appeso all’attaccapanni, infilandomelo.
Sospirai, aprii la porta, facendomi scompigliare di nuovo i capelli dal vento, e la richiusi subito, alle mie spalle.
 
[…]
 
Tenevo le mani in tasca, il colletto alzato per coprire il collo, la lampo chiusa fino in cima.
Le dita giocavano con le chiavi nella tasca destra e gli occhi saltavano dalla strada davanti a me al cielo sfumato di rosa. Il sole che tramontava dietro di me.
C’era poco traffico quel giorno.
Decisi di prendere il tram: i binari che si nascondevano nelle lastre di pietra marroncina in mezzo alla strada riflettevano  a tratti la luce dei lampioni.
Scesi dal marciapiede con un piccolo salto e attraversai velocemente. Camminai fino alla fermata tenendomi in equilibrio sul paracarro di pietra a bordo della strada.
Sentii dietro di me il suono della campana del vagoncino rosso che mi avrebbe portata davanti al parco del college.
Mi voltai appena raggiunta la panchina della fermata e la luce del faretto mi accecò. Feci una smorfia e il tram si fermò pochi centimetri da me: la porticina si aprì ed io salii cercando un posto a sedere.
Occupai quello accanto all’uscita, anche se in tutto c’erano cinque persone, compresa me.
Ci vollero dieci minuti per arrivare.
Il piccolo interfono nell’angolo del vagone emise alcuni suoni: annunciava l’imminente arrivo all’università.
Mi alzai, attirando l’attenzione di due vecchiette.
Mi appoggiai alla porta di vetro, in attesa che il tram si fermasse.
Mi tirai su, allontanandomi di qualche centimetro dall’uscita, che si aprì appena arrivati alla fermata.
Scesi e l’aria fredda mi bruciò nei polmoni, dandomi la sensazione di avere tanti piccoli buchini in gola. Chiusi gli e inspirai profondamente: la sera si faceva vicina. Avrei chiamato Wayne egli avrei detto che non sarei tornata per cena. Ci avrei pensato più tardi.
Mi incamminai verso il college, passando per il parco davanti ad esso. La luce soffusa delle ultime ore di luce del giorno proiettavano le lunghe ombre degli alberi, ormai spogli, sul prato.
Arrivai all’ingresso dopo qualche minuto di camminata rilassante: spinsi la porta di vetro ed entrai. La luce, che illuminava i vari corridoi che portavano alla biblioteca, era soffusa e delicata.
Lessi il cartello con su scritto ‘Biblioteca’ ed una freccia affianco. Andai nella direzione indicata dalla freccia e dopo qualche corridoio sbucai in biblioteca.
Era enorme, immensa. Era una meraviglia. Colma di libri e di volumi, divanetti e tavoli di legno qua e là e le lampade sui tavolini illuminavano perfettamente l’area lettura.
La tappezzeria era scura, sul verde, e c’era molto legno, tanto che il suo odore impregnava i vestiti di chiunque rimanesse lì per almeno cinque minuti.
Posai lo zainetto di pelle marroncina e il giubbotto nel guardaroba. Frugai nella tasca sinistra e ne tirai fuori un elastico blu. Mi legai i capelli in una coda di cavallo alta, faceva caldo lì dentro, ma l’atmosfera era una delle mie preferite.
A quell’ora di sera c’era poca gente, quasi tutti studenti in preda agli esami di fine trimestre.
Mi avviai verso il reparto romanzi: avevo una gran voglia di leggere un qualcosa d’avventura.
Mi addentrai tra gli alti scaffali colmi di libri di ogni grandezza e dimensione. Scorsi con lo sguardo lungo alcune file, poi mi fermai.
- Trovato!- un sussurro impercettibile.
La mia mano si alzò e feci qualche passo in avanti, con un’espressione sognante e illuminata. Le mie dita sfiorarono la costola liscia e fredda di un libro, né tanto grande né tanto piccolo.
‘Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban’. Il mio preferito.
Lo sfilai dal suo posticino e lo aprii: ne annusai le pagine, le parole impresse sulla carta.
I libri erano la cosa che mi allietava di più, dopo il mare. La mia mente usciva dal mio corpo, viaggiava in mondi diversi, ogni volta, ogni storia.
Li preferivo di gran lunga alle persone. Non avevo mai detto a nessuno quello che pensavo.
Mi ripresi da quella fragranza estasiante, e mi diressi verso uno dei tanti divanetti.
Arrivata poggiai il libro sulla seduta e mi diressi verso la caffetteria. Mi fermai e feci retro front: il libro sarebbe venuto con me, al diavolo il posto sul divano.
Mi trovai davanti ad un tavolo con bicchieri di cartone col logo del college sopra, tazze di coccio colorate, varie caffettiere con vari tipi di caffè caldo dentro e bustine di zucchero.
Acchiappai il manico della brocca con caffè americano semplice e lo versai in una tazza azzurra, aggiungendoci una bustina di zucchero.
Recuperato il libro e afferrata per bene la tazza, mi diressi verso il posto prescelto gustandomi il fatto che fosse ancora libero.
Mi sedetti , togliendomi le scarpe e mi misi a gambe incrociate. Aprii il libro, alla prima pagina.
Avrei ricominciato a leggerlo per la quindicesima volta. O sedicesima, avevo perso il conto.
 
Era passata almeno un’ora da quando avevo cominciato a leggere. Dovevo mandare un messaggio a Wayne. Chiusi il libro, che avevo divorato per metà. Lo posai sul tavolino accanto a me, sotto la lampada di vetro verde.
- Il telefono è nello zaino… mi sembra logico- il tono era basso, ma lasciava trasparire una punta di nervosismo.
- Puoi usare il mio- un tono caldo, niente di sconosciuto.
Mi girai lentamente: dietro di me, al di là dello schienale c’era un uomo alto, dal fisico sicuro e forte. Alzai lo sguardo verso il viso.
Porca merda.
- Prof… professore. Buonasera- balbettavo. Santo cielo, balbettavo.
- Faccio quest’effetto agli studenti?- la sua voce era suadente.
I nostri sguardi s’incrociarono. I suoi occhi. Era proprio bello: i lineamenti mascolini e decisi del viso, i capelli mossi di un biondo miele, che addolcivano il nero della montatura degli occhiali.
- Si… cioè no, volevo dire no, assolutamente no- rise, e anche se si contenne, sapevo che dentro si stava sganasciando dalle risate.
- Allora, vuoi usare il mio?-
- Oh, si grazie!- ero piuttosto imbarazzata.
Tirò fuori dalla tasca il suo smartphone e me lo porse gentilmente. Lo presi, sfiorando le sue dita.
Composi il numero e inviai il messaggio. Sentivo i suoi occhi addosso a me, scrutarmi e osservare attentamente i miei movimenti.
- Ecco… grazie di nuovo prof- gli porsi il cellulare.
- Non è necessario che tu mi dia del lei fuori dalle lezioni. Chiamami Derek. Semplicemente Derek, ok?-
- Ok, Derek- sorrise, sorrisi anch’io.
- Posso sedermi qui con te?-
Rimasi interdetta, col fiato sospeso. Non me lo aspettavo. O forse si.
- Certo!-
Fece il giro e notai i jeans attillati: non ne ero sicura, ma pensai che mi fosse saltato un nervo e qualcosa di simile.
Si sedette delicatamente, e vidi i muscoli delle gambe sorreggere il peso. Si accomodò, si girò e i suoi occhi ghiaccio si posarono nuovamente sui miei.
- Allora… Connie Ethan… la nuova studentessa di medicina. Come ti trovi, qui?-
- Bene, insomma è forte, interessante, fico…- balbettavo. Connie Ethan balbettava, la forte e intrepida ragazza-guerriera  non riusciva a comporre ordinatamente una frase, per di più davanti al professore di medicina.
E che professore.
Mi scossi e cercai di riprendermi dalla ‘bella’ figura appena fatta.
Si schiarì la voce.
- Dunque… tu vieni spesso in biblioteca?- piegò di poco la testa, tenendo fisso lo sguardo nel mio.
- Oh si! Io adoro leggere, sentire il profumo dei libri, sfiorarne le pagine e la copertina-
- I tuoi occhi…- la sua voce era sfumata da un tono sognante.
- I miei occhi? Cos’hanno?-
- Si sono illuminati. Sono così belli.-
Arrossii, e abbassai la testa, guardandomi le mani appoggiate sulle ginocchia.
Sentii le sue dita sfiorare delicatamente il mio mento, alzandomi il viso lentamente.
- Vuoi nascondermelo?-
Riportai lo sguardo sul suo, trovando un sorriso dolce e avvolgente, oltre alla distesa di ghiaccio nelle sue iridi.
- Potrei-
- Sono il tuo professore- il tono si fece scherzosamente più serio.
- Non qui-
La mia bocca si piegò, formando un sorriso malizioso e ingannatore.
- Fregato-
- Puoi dirlo forte-
Le dita sotto il mio mento scorsero lungo la guancia fino a posarsi dietro l’orecchio, accarezzando la pelle ed i capelli.
Avvicinò il viso al mio, lentamente, fino a sfiorare la punta del naso.
- Voglio portarti in un posto speciale- mi sussurrò appena.
- Dove?- sussurro di rimando.
- Il reparto dei libri proibiti- la sua allusione ad Harry Potter mi fece sorridere ancora di più.
- Allora portamici-
Si allontanò dal mio viso, prendendomi la mano. Si alzò e mi aiutò a fare lo stesso.
Con la coda dell’occhio vidi la bibliotecaria osservarci attentamente.
Fece un passo, poi un altro, scivolando via lentamente, tenendomi per mano e portandomi con se.
Ci allontanammo sufficientemente per non essere visti dalla bisbetica bibliotecaria e cominciammo a correre, poggiando i piedi per terra come se fossero nuvole.
Ogni tanto si girava verso di me, guardandomi e sorridendomi, per poi tornare a guardare avanti stringendomi di più la mano.
Dopo qualche minuto di corsa per i passaggi e gli scaffali bui della grande biblioteca, arrivammo davanti ad un arco semi nascosto. In cima ad esso c’era un cartello di legno.
Libri Dimenticati.
- Libri dimenticati…- la mia voce uscì leggera.
- Angolo segreto…- mi sorrise, avvolgendomi nuovamente col suo sguardo gelato.
 
[…]
 
Eravamo là dentro da non so quanto. Eravamo seduti per terra, con due lampade poggiate sugli scaffali intorno a noi. Pile di libri ci circondavano, alcuni aperti altri con poggiati con le pagine rivolte verso il basso.
- Guarda qui! C’è scritto che in Giappone c’è un vortice in mare che si chiama Naruto!-
- Fa vedere!- io amavo il Giappone.
- No- allontanò il libro, impedendomi di vedere cosa c’era scritto.
- Ehi!- mi buttai addosso a lui, agitando le braccia in aria cercando di afferrare il libro. Troppo alto, era decisamente troppo alto, lui e il suo braccio.
Appoggiai la mano sul pavimento morbido, in mezzo alle sue gambe incrociate. Il mio petto contro il suo, il mio viso che sfiorava il suo collo.
- Na na na… voglio qualcosa in cambio, cosa credi?- la sua voce si abbassò, divenendo dolce e soave.
- Cos… cosa vuoi in cambio?- balbettavo. Di nuovo.
Piegò la testa sulla mia, ed io alzai lo sguardo verso il suo: le punte dei nostri nasi si sfiorarono. Socchiuse la bocca e gli occhi.
Sentii il suo respiro sfiorare la mia pelle, sentii la sua mano accarezzarmi la nuca delicatamente.
I battiti di entrambi i cuori accelerarono. I respiri veloci e caldi.
La mano libera abbracciò la mia vita, tirandomi a sé.
Dalla nuca, le sue dita, scivolarono sotto il mento. Mi alzò il viso.
Un senso di calore invase la testa, irradiandosi nella pelle. L’umidità delle sue labbra, la dolce pressione che imprimevano su esse.
Oddio.
Si staccò di qualche millimetro, tenendo sempre le dita sotto il mio mento.
- Questo. Ma all’infinito- un sussurro.
Portai le mie mani sotto i suoi orecchi, affondando le dita nei capelli morbidi e arruffati. Scivolai a sedere in mezzo alle se gambe, che si sciolsero dall’intreccio e che mi strinsero. Le mie passarono sopra le sue, nel senso contrario al loro.
Le sue braccia passarono sotto le mia, stringendo delicatamente le mani sulle mie scapole.
Poggiai nuovamente le labbra sulle sue.
Sentivo le sue dita giocare con la stoffa della mia maglietta.
Le sue mani scesero lungo i miei fianchi, afferrandomi la maglia e tirandola leggermente su.
I nostri respiri si fecero alterati.
Le mie mani corsero anch’esse sulle sue anche, afferrando il golf rosso bordeaux. Strinsi ancora più forte la stoffa e sentii le sue mani poggiarsi sulle mie.
Lentamente tirammo su la sua maglia, scoprendo l’addome e il petto.
Rimasi incantata, lo sguardo correva per il suo corpo.
La pelle sfumata di bronzo, scolpita perfettamente.
Il cuore stava esplodendo, sentivo le pulsazioni fin nei polpastrelli.
Mi attirò a sé, togliendomi la maglietta: rimasi in reggiseno. Un brivido corse per la mia schiena, facendomi uscire un gemito dalla bocca.
La sua mano afferrò delicata la mia guancia, portandomi la bocca sulla sua.
Sentii la sua lingua bussare alle mie labbra, che aprii, lasciando così intrecciare le nostre lingue.
La mano libera scivolava e saliva per il mio corpo, sfiorando e solleticando la pelle nuda.
Chiusi gli occhi e Derek mi avvolse nelle sue braccia.
Mi sentivo al sicuro.
Movimenti rapidi. Aprii gli occhi e guardai oltre la sua spalla: c’erano i nostri vestiti sparsi sopra i libri, compresi i pantaloni. Non ricordavo di averli tolti.
Sorrisi.
Sentii il tocco della sua bocca lasciare boccioli umidi sul collo. Socchiusi la bocca, e inclinai di poco la testa all’indietro.
L’ultimo lembo di stoffa che indossavo, scivolò via. Anche il suo.
Le sue carezze percorrevano tutto il mio corpo, tutto. Piccoli frammenti di gemiti scivolavano fuori dalla mia bocca, quando il suo tocco raggiungeva la mia delicatezza.
La stretta delle sue dita si fece più forte, e le mie braccia intorno al suo collo si strinsero.
Mi prese in collo. Una scarica di calore si irradiò nel mio corpo.
Tutto si fece silenzioso, incredibilmente sospeso tra il caos e la pazzia.
La mia bocca aperta, non emetteva alcun suono, solo un lento e sibilante respiro irregolare.
Anche lui, come il tempo, si fermò.
Il suo petto si alzava e si abbassava velocemente. Sentivo il suo battito incalzante e impazzito. Lo sentii deglutire, i suoi capelli che sfioravano il mio collo.
Il suo viso si mosse lentamente e piccoli baci si posarono sul mio seno.
Cominciammo a muoverci, ed agni piccola mossa una scarica di brividi elettrizzanti mi percorrevano da capo a piedi.
Passarono minuti, ore. Persi la cognizione del tempo.
 
[…]
 
Avevo il fiatone, ce l’aveva anche lui.
Era sdraiato per terra, io sopra di lui, la sua mano abbandonata sulla mia schiena nuda. Il mio viso sprofondava nel suo petto, che si alzava e si abbassava velocemente.
Ero cullata dal profumo di sudore caldo e di libri vecchi.
Aprii gli occhi e si tirò su, sui gomiti. I muscoli delle braccia si gonfiarono e le vene si resero evidenti.
Con una mano mi accarezzò la fronte, poi la guancia, scendendo dietro l’orecchio.
Io alzai lo sguardo, fino ad incrociare il suo.
- Stai bene?- mi sussurrò delicatamente.
- Mai stata meglio- il mio era un punto di voce in mezzo al mare di silenzio che ci circondava.
Mi sorrise. Io gli risposi con uno dei più bei sorrisi che avevo, cercando di sconfiggere al meglio la stanchezza.
Sentii i rintocchi della mezzanotte della chiesa vicino.
- Io… io devo andare. È tardi- Osservai la sua espressione: era triste, sconsolata. – Guarda che non scappo mica, vado semplicemente a nanna- gli sorrisi ancora di più.
- Va bene, ti lascio andare-
Mi alzai, cercando alla cieca i vestiti: ci trovavamo vicino alla finestra, e da essa filtravano i raggi di luna che illuminavano un po’ la roba per terra.
Mi rivestii in fretta e riordinai le mie cose. Mi fermai un attimo e sorrisi. Mi abbassai e acchiappai i suoi pantaloni. Glieli lanciai.
- Pensi di rimanere come mamma ti ha fatto ancora per molto?- ridacchiai.
- Mah.. ci stavo pensando. È così comodo…- rise anche lui.
Mi avvicinai a gattoni a lui, ed una volta davanti a lui mi sporsi sulle sue labbra. Chiusi gli occhi e rimanemmo così per alcuni secondi.
Mi staccai e mi rialzai. Presi lo zainetto che mi ero portata dietro e mi avviai verso la porta d’uscita.
Mi girai poco prima di uscire.
- Ci si vede a lezione, professore…- sorrisi ed uscii, pronta per tornare a casa.
 
 
 
 
Ed ecco il settimo capitolo! Accidenti siamo già a questo punto… bene bene…
Ringrazio tutti quelli che leggono la mia storia, spero che vi piaccia e che non vi annoi.
In questo capitolo sono successe un po’ di cose, e per Connie il peso dell’inganno si sta facendo più leggero, grazie soprattutto ad il professore Derek! Dovranno stare attenti se non vogliono finire nei guai…
Beh non mi resta che dirvi alla prossima!
Bacioni, Tex.

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Capitolo 8
*** Il quaderno ***


ECCOMI QUI! Scusate per l’enorme ritardo! In questi giorni ho avuto da fare con la scuola e tutto il resto, ma finalmente ce l’ho fatta J
Spero vi piaccia e buona lettura!
 
 
 
 
 
Quel venerdì mattina era particolarmente rilassante: ero sdraiata sul letto più morbido e comodo del mondo, la finestra era socchiusa e ne traspariva un raggio debole di luce.
Ma c’erano anche altri motivi per i quali ero ‘sollevata’, per quanto lo potessi essere in quei tempi.
Mi poggiai un braccio sulla fronte, e la testa sprofondò ancora di più nell’ipotetico cuscino, che nella notte avevo trasformato in una palla di piume.
Uno dei due occhi era nascosto dal mio avambraccio, l’altro era semi aperto, che fissava il soffitto. L’altro braccio era piegato sul mio ventre, la mano aperta, a riscaldare la pelle scoperta.
Mi scappò un sorriso. “ Derek…”.
- Connie! Scendi, le frittelle sono pronte!- stava urlando come una pazza- ma dove diavolo ho messo lo sciroppo? Porca miseria!- si, stava decisamente urlando.
Mi tirai su, appoggiando l’avambraccio che avevo sulla fronte sul cuscino, per darmi la spinta, grattandomi uno zigomo con l’altra mano. Mi partii uno sbadiglio, che apparentemente durò più di cinque minuti.
- Oddio… ma che diamin…- altro sbadiglio.
Misi le gambe giù dal letto, portandomi dietro metà lenzuolo. I miei piedi si appoggiarono delicatamente sul parquet freddo. Mi vidi nel rifesso della finestra: se andavo a giro così per il quartiere mi portavano allo zoo, nella gabbia dei leoni, o dei bradipi, ammesso ce ne fosse una.
Mi alzai quasi di scatto e feci un passo; il lenzuolo blu si era attorcigliato intorno alla caviglia e quasi non caddi, agitando le braccia in aria ed imprecando. Non ne ero sicura, ma probabilmente avevo creato una nuova parolaccia.
Spalancai i vetri della finestra, e come quasi ogni mattina un vento freddo mi avvolse, pungendomi delicatamente la pelle.
Mi girai e mi avviai verso la porta, aprendola ed infilandomi la vestaglia. Mi chiusi la porta alle spalle, poi venni inondata da un profumo di pancake e sciroppo d’acero.
 
Ero seduta sullo schienale della sedia, con i piedi nudi appoggiati sul cuscino che rendeva più comoda la seduta di paglia e legno.
Giocavo con le mie dita, e ogni tanto un ciuffo di capelli scivolava e mi solleticava la guancia.
- Alloooooora…- Erin poggiò al centro del tavolo tondo un piatto con una montagna di frittelle dolci fumanti- ieri sera, dove sei stata?- il suo sguardo era quello di uno psicopatico in cerca di segreti di stato.
- In biblioteca- ero ancora assonata.
- A fare?-
“ Eh… sapessi con chi sono stata…” riuscii a trattenermi , mordicchiandomi il labbro inferiore. – A leggere-
- Ah ah, non ci casco scricciola-
Alzai di scatto la testa, fulminando mia sorella con uno sguardo infuocato. – Non dire più, non chiamarmi più, con quel fottutissimo soprannome, ok?-
- Ok… scusami, non volevo offenderti- aveva un tono afflitto.
- Io… io non volevo. Scusa Erin, non volevo. È che sono stanca e non ho voglia di affrontare alcune cose, non ne ho proprio voglia- il mio sguardo era di nuovo quello stanco di pochi attimi prima.
- Non preoccuparti, so cosa stai passando. Avanti vieni qui, grulla- si avvicinò a me e mi mise le braccia intorno al collo. Rimanemmo per alcuni secondi abbracciate. Gli occhi mi bruciavano, la bocca mi tremava.
- Erin… ti voglio così tanto bene- lacrime cominciarono a scivolare lungo il mio viso- te ne voglio davvero tanto- la mia voce tremava, gli occhi erano ormai solo un punto di luce sfuocata e offuscata dalle lacrime che avevano inumidito il mio viso.
- Anch’io, sorella balena- la sentii sorridere.
Rimasi per qualche attimo in silenzio, poi mi staccai e mi asciugai le lacrime col bordo della manica della vestaglia.
- Questo…- deglutii- questo dovrebbe essere un complimento?- un sorriso timido faceva capolino sulla mia bocca.
- A te piacciono le balene, giusto?-
-Beh, certo-
- Sono i tuoi animali preferiti, ovvio che ti piacciono. Quindi teoricamente dovrebbe essere un complimento- mi osservò perplessa dalle sue stesse parole. Ricambiai lo sguardo.
- Lo sarà teoricamente, ma non praticamente- cominciai a ridacchiare.
Lei scoppiò in una grossa risata, mentre distribuiva le frittelle nei piatti.
- Ah ah… io ho una frittella in meno, ciccia- le puntai un dito contro e assottigliai gli occhi.
- Va bene va bene, pensavo di farla franca e invece Miss Detective Ethan  colpisce ancora!-
- Io preferivo essere il colpevole, è più eccitante, e comunque sei sicura che si possa mettere ‘Miss’ con ‘Detective’?-
- Rispettivamente: si, sei tu il colpevole e no, non ne sono sicura- detto questo si sedette in un modo leggermente buffo, e si infilò mezzo pancake in bocca.
- Ti sei dimenticata dello sciroppo d’acero, genia- ridacchiai. Mi accomodai anch’io sulla seduta della sedia e mi versai un po’ di sciroppo sui pancake, mi versai del succo di mela nel bicchiere più alto che avessi mai avuto e mi portai i capelli dietro l’orecchio.
- Parla quella che ne ha spanto sul tutto il mento!- Erin cominciò a ridere.
- Cos… che diamine!- mandai giù il boccone, bevvi un sorso dal bicchiere e mi alzai, diretta verso il lavabo.
Aprii l’acqua fredda e cominciai a sciacquarmi la parte inferiore del viso: i brividi che mi provocava l’acqua scrosciante gelata erano meravigliosi di prima mattina.
- Si, davvero affascinante. Con quella stria di sciroppo sul naso. Ma santo cielo! Ce l’hai anche lì?- rise di gusto, come d’altronde stava facendo da almeno venti minuti.
- Il prof Foster  non la pensava così ieri sera- rimasi interdetta- porca miseria. Ma perché non so mai zitta- mancava poco che quasi mi strozzai con dell’acqua di traverso.
- Il prof Foster… il prof del tuo corso di medicina… tu e lui, in biblioteca. Quanto aspettavi a dirmelo?-
- Sinceramente?-
- Direi di si- ammiccò.
- Credo che non te lo avrei mai detto- sorrisi, mentre l’acqua mi rinfrescava la punta del naso.
Sentii dei colpi di tosse, troppo profondi perché fossero di Erin. Ancora piegata sul lavabo, allungai la mano verso il rubinetto e girai la manopola d’acciaio, chiudendo il flusso d’acqua che mi schizzava a tratti il braccio.
Mi tirai su, e senza girarmi acchiappai un asciugamano, usandolo per asciugarmi quel che era bagnato del mio viso.
Mi girai. Ma perché cazzo mi girai?
- Buongiorno- voce profonda, occhi scuri, macchiolina chiara.
Porca miseria. Anzi no, merda.
- ‘Giorno- abbassai lo sguardo, facendolo scorrere su mia sorella. Era girata, ma naturalmente, il suo orecchio era ben attento.
Provai a muovermi facendo un passo verso destra. L’intenzione era quella di andare al tavolo, ma anche lui si mosse, bloccandomi il passaggio. Evidentemente l’obbiettivo era di non lasciarmi andare a mangiare, oppure era stata semplicemente una coincidenza.
Si, lo era stata. Sicuramente.
- Tu va a sinistra e io a destra, così forse riesco a raggiungere il tavolo- avevo il tono piuttosto seccato.
Lui annuì.
Ci muovemmo simultaneamente, ma la mia faccia finì comunque contro il suo petto.
Sentii il suo battito, più veloce di quanto dovrebbe essere normalmente.
Non andava affatto bene, affatto.
Appoggiai il palmo della mia mano sul suo petto: era caldo, a differenza di quella sensazione che mi scatenava addosso quando mi guardava.
Mi scostai, arretrando, e solo così mi accorsi che le sue mani sfioravano i miei fianchi. Erano a soli pochi millimetri da me.
Non sarebbe dovuto accadere; lui non dovrebbe essere stato dietro di me, non avrebbe dovuto fissarmi ne parlarmi. Ma no! Tutto il mio piano di evitarlo per il resto dei giorni che sarei rimasta in quella casa era sfumato non appena lui, e sottolineo il ‘lui’, aveva tossito.
Maledetto lui e la sua tosse. Lui e la sua voglia di attirare l’attenzione, di essere osservato o di essere desiderato, perché in fondo lo sapevo bene. Io sapevo benissimo che lo desideravo. Desideravo il suo sguardo, la sua bocca, il suo incessante e esasperante nomignolo affibbiatomi senza alcun preavviso.
- Hai sbagliato direzione, scricciola- la sua voce mi penetrò come uno spillo.
Di nuovo. Voleva ricominciare con la solita routine, voleva infastidirmi con varie stronzate che però mi facevano sorridere, voleva farmi soffrire di nuovo.
- La mia di sinistra, ma non importa, faccio da me- mi soffermai un attimo- come sempre-
Mi girai e mi avviai verso il tavolo, col viso che si faceva sempre più scuro.
Mi sedetti e misi in bocca un altro pezzettino di frittella, ormai quasi fredda. Qualche volta lanciavo un’occhiata di verifica ad Erin, che, ne ero sicura, stava analizzando punto per punto la situazione.
- Non dire nulla, assolutamente nulla, d’accordo?- sussurrai abbastanza arrabbiata a mia sorella.
- D’accordo- mi fece un sorrisetto. Io adoravo quel tipo di sorriso, il genere di colpisci e fuggi, fuggi per scherzo, per il gusto di dare noia.
Finii velocemente la colazione, misi le stoviglie nel lavello e mi diressi verso il salotto. Notai che Khaled era rimasto lì, immobile, ad osservare ciò che facevo. Una sensazione mi avvolse: non capivo se fosse fastidio oppure soddisfazione, piacere di essere ancora ‘interessante’, in qualche modo.
Sulla soglia del soggiorno, sotto l’arco di mattoni, mi fermai e lasciai correre il mio sguardo su quel maledetto fardello vivente, dopo minuti tenuto sotto stretta sorveglianza.
Con mio stupore anche i suoi occhi mi cercavano. Io volevo farmi trovare. S’incontrarono a mezz’aria, capaci di dire tutto quello che la bocca non era capace di fare.
Avrei dovuto muovermi, invece di stare lì come un’idiota. Perché lo ero, ero decisamente demente.
Una scarica di adrenalina invase le mie vene, dovevo spostarmi, dovevo andare via da lì e sfuggire al suo sguardo ipnotizzante. Feci un passo indietro e mi risvegliai, accorgendomi del fatto che Erin se n’era andata. Eravamo soli, e questo non andava affatto bene. Motivo in più di spicciarmi e andarmi a cambiare, dopotutto ero in pigiama.
Ero in pigiama, solo con quei due veli di stoffa addosso.
Merda.
Mi resi conto solo e soltanto in quel momento della grandissima cazzata che avevo fatto: non avevo messo il reggiseno. Andare a giro per casa, dove sapevo che c’era colui da evitare, con le tette praticamente al vento era stata una delle idee più brillanti della storia. Ne approfittai di qualche secondo per farmi dei complimenti.
Mi aspettavo un qualche commento del tipo ‘ Ehi, bei capezzoli!’.
Sentii avvampare la faccia. Ero al top: faccia rossa come uno a cui hanno appena spruzzato uno spray al peperoncino negli occhi, pseudo nudità alla quale potevano dare un premio come ‘ miglior mortadella dell’anno’  infine, come ciliegina sulla torta, un probabile terzo o quarto baffo di sciroppo da qualche parte sul mio viso.
- Carino il pigiama- appunto. La speranza che avesse un po’ di tatto era evaporata quando sollevò per me la bottigliona di latte al supermarket, ma in fondo in fondo un puntino di illusione mi era rimasto- mette in risalto le ‘forme’- addio anche al puntino.
- Già… carino- abbassai la testa, evidentemente imbarazzata.
Lo sentii avvicinarsi a me, poi nella mia visuale, che comprendeva il pavimento e tutte le sue striature, apparvero i suoi piedi, nudi. Si spostarono di poco, giusto per fermarsi al mio fianco. Il mio braccio sfiorava il suo.
Un brivido mi fece venire la pelle d’oca. Provavo ancora quella sensazione.
- Tranquilla. Ti ho già vista- un suo sussurro mi arrivò all’orecchio.
Alzai di scatto la testa, affondando il mio sguardo nei suoi occhi, concentrandomi su quella macchiolina.
Mi sorrise. Tentai di ricambiare, ma ne uscì solo una specie di smorfia.
Il mio corpo era desideroso, annebbiato dalla voglia di averlo, possederlo, poi arrivava la mente, la morale che mi impediva di rispondere ad uno stupido, maledetto sorriso. A pensarci bene, probabilmente era un sistema di autodifesa.
- Tsk- sbuffai e me ne andai. C’ero già cascata una volta, e non avevo intenzione di rendermi di nuovo la compatita della situazione.
Fare anche solo un passo sembrava di essere una delle pedine di Jumanji, che non si muovono se il turno non era il proprio. A pensare al paragone tra il gioco di un film e la mia vita mi sentivo particolarmente strana, presa in giro per essere precisi.
Sfiorai lo schienale del divano e un’improvvisa voglia di buttarmici sopra m’invase. Mi affacciai sull’ingresso e feci un mezzo giro aggrappata al corrimano di legno scuro delle scale.
Il povero disgraziato di Wayne stava per saltare l’ultimo scalino, quando contro il suo petto andò a sbatterci piuttosto violentemente la mia faccia.
- Connie! Questa era una tentata imboscata andata male oppure un gesto d’affetto fatto passare per una pura coincidenza?- lo sentivo ridacchiare, mentre le sue braccia calde mi circondavano inondandomi di profumo all’aroma di pino dello shampoo.
- Ti sei fatto la doccia? Adoro il tuo profumo, che ora sento anche fin troppo bene, dato che sto diventando parte integrante del tuo petto!- cercai di divincolarmi, ma la sua stretta era troppo resistente.
- Su su, un po’ di coccole non ti faranno di certo male-
Riuscii ad alzare la testa, e vidi il suo enorme sorriso. Era contagioso.
- Mollami che devo andare a vestirmi. Sai, non so se te ne sei accorto, ma sarei leggermente mezza nuda…-
Lui scoppiò in una grossa risata.
- Scusi signorina, vada pure-
- Non chiamarmi signorina, ti prego- stavo ridendo.
- Certamente, signorina-
Lo mandai a quel paese con un gesto rapido e poi mi avviai frettolosamente su per le scale.
- Connie, oggi usciamo insieme?-
Alzai lo sguardo verso la cima delle scale: mia sorella era in piedi, in reggiseno e pantaloni del pigiama. Salii l’ultimo gradino e mi avvicinai a lei.
- Certo! Dove vuoi andare?-
- A comprare un paio di mutande per Wayne!- la voce di Wayne arrivò dal salotto.
- Ti ho detto che le compro appena ne trovo un paio!- Erin stava vociando, ammazzandomi senza pietà il timpano destro.
- Non sapevo che sponsorizzassi una ditta di apparecchi acustici- risi.
- Ah ah ah ah, la tua simpatia va oltre ogni limite! Allora dove si va?-
- Andiamo a comprare le mutande, mi sembra una scelta ovvia. Poi magari compriamo anche qualcos’altro- passare del tempo insieme ad Erin mi avrebbe aiutata sicuramente, mi sarei distratta e rilassata per qualche ora.
Mi diressi verso camera mia, lasciando mia sorella a conversare con toni degni del coro di uno stadio di baseball con Wayne, che non era da meno.
Aprii la porta e l’aria gelida che si aveva trovato ormai fissa dimora nella stanza mi sfiorò il collo, scatenando una serie di brividi.
Chiusi la finestra dando uno sguardo al mare leggermente mosso.
Mi girai verso il cassettone al di là del letto e lo raggiunsi. Aprii il cassetto più grande, e mi misi ad osservare concentrata ogni vestito, passandolo in rassegna molto attentamente. Acchiappai un paio di jeans, una maglietta color panna e un golf, fregato a Wayne, di cotone pesante bordeaux.
Li buttai sul letto, poi aprii il secondo cassetto partendo dall’angolo più in alto a sinistra e ne tirai fuori un reggiseno e un paio di slip coordinati, blu scuri.
Mi tolsi il pigiama e anche la biancheria, e li buttai nella cesta di vimini dei panni da lavare.
Mi vestii velocemente e mi infilai le mie adorate converse nere.
- Dove diamine ho messo il cellulare?- imprecai borbottando, finché, lasciando sospesa a metà una parolaccia, lo vidi: era in bella vista sul comodino.- Dio sono così stupida-
Lo afferrai al volo, rischiando per un pelo di farlo cadere.
- Connie, ci sei?- Erin aveva aperto la porta, irrompendo con un’aria da comandante della guerra civile del 1864 in camera mia.
- Bussare è un nostro diritto! Peace and love!- formai una ‘v’ con l’indice e il medio della mano destra.- e comunque si sono pronta- sorrisi.
Erin prese la mia borsa di cuoio marroncina e controllò che dentro ci fossero le chiavi e il borsellino.
- Cos’è, ora mi perquisisci la borsa?- incrociai le braccia.
- Certo! Magari trovo qualche prova schiacciante che ieri sei stata col prof… o meglio Derry…- fece lo sguardo malizioso, di una che ha appena scoperto che il libro della sua saga preferita è in sconto del 70%.
- Derry? No sul serio, Derry?? No, proprio no. E comunque non penso che lì dentro ci sia un preservativo- mi misi a ridere.
 - Se devo essere sincera, spero proprio di no- rise anche lei.
Smise di trafficare nella mia borsa e, ne ero sicura, se quel giorno fossi morta, facendo le corna parlando, e la scientifica avesse preso le impronte nella mia borsa, avrebbero trovato solo quelle di mia sorella.
Uscimmo dalla camera dandoci delle spintarelle delicate e scendemmo le scale, avviandoci verso la porta.
- Noi usciamo e mangiamo fuori! Quindi arrangiatevi voialtri- fece un sorrisetto maligno.
- Erin, le mutande…- mia sorella e Wayne, che era appoggiato all’arco che ci separava dal salotto, avevano pronunciato quelle parole contemporaneamente.
- Lo so! Quante volte vuoi ripetermelo? Quando sarò fuori evita di farmi da promemoria mandandomi segnali di fumo!- vidi Wayne ridere, e scacciare le parole di mia sorella con una mano- Ah, a proposito, che taglia devo prendere?-
- Credo che tu lo sappia… l’hai visto l’altra sera…- ammiccò un paio di volte, con l’espressione maliziosa.
- Si certo… quando facevo il bucato- risero entrambi e risi anch’io, anche se mi era difficile essere allegra quando vedevo il fantastico legame che c’era tra loro.
Perché era così difficile pensare ad altro? Qualunque cosa mi passasse per la testa si trasformava in lui. Il suo viso, il suo sguardo, il suo corpo, il suo respiro.
Avevo bisogno d’aiuto.
Erin mi strattonò, facendomi tornare alla realtà.
- Siamo pronte! Avanti march!-
Detto questo uscimmo salutando Wayne, che aveva ancora stampato sulla faccia il sorrisetto da ebete.
Percorremmo il vialetto di pietra e raggiungemmo la mia piccola jeep blu scuro opaco: amavo la mia macchina, era simbolo della mia libertà.
Ci accomodammo, ed infilai la chiave nel quadro d’accensione. Misi in moto e partimmo verso il centro.
Furono cinque minuti di viaggio divertenti.
 
[…]
 
Avevamo girato per più di tre ore il centro di New Haven, ero stanca morta.
Eravamo tornate a casa da circa quaranta minuti e ce ne vollero altrettanti per mettere a posto la roba nuova. Avevo comprato nuovi vestiti, per la prima volta dopo tempo invernali, e vari accessori; non ero una tipa tanto vanitosa, ma quando vedevo qualcosa di metallo, era quasi sicuro che sarebbe tornato a casa con me.
Dalla stanza accanto sentivo parlottare allegramente mia sorella e Wayne, che discutevano animatamente sull’indiscutibile grandezza del suo gingillo. Ne andavano fieri entrambi.
Sorrisi pensando che gente più pazza non avrei potuto trovarne.
Appena finito mi buttai sul letto, rimbalzando e facendolo stridulare tremendamente. Allungai il braccio, stirandomi un muscolo, per acchiappare il libro che avevo comprato quel pomeriggio; ne avevo già letto un quarto.
Mi accomodai, disfando inesorabilmente il letto, e sprofondai della lettura, oltre che nel cuscino.
La lampada di legno e stoffa sul comodino emetteva una luce soffusa, tipo quelle della biblioteca.
“ La biblioteca…”
Automaticamente mi si accese un sorriso, ripensando alla sera prima.
Sbadigliai, mi grattai il collo e BUM! Addio mondo.
 
[…]
 
- Connie!! Ho bisogno di te e di un tuo favore!- Erin stava urlando da dietro la porta.
- Cosa…- il libro mi cascò sulla faccia, rischiando di rompermi il naso. Imprecai- Cosa c’è?-
- Dovresti portare un quaderno a Jimmie!-
- Jimmie? Quello del corso di matematica?- ero perplessa e giusto un po’ scocciata, dato che avevo intuito l’intenzione di Erin.
- Si!- sembrava frettolosa.
Mi alzai di scatto e mi diressi verso la porta. La aprii e mi ritrovai mia sorella di fronte con un aria a dir poco disperata.
- Sta dopo il parco in quella casetta gialla che si vede quando dobbiamo andare all’università-
- Perché dovrei andarci io e soprattutto alle nove di sera?- ero decisamente scocciata.
- Perché me ne sono dimenticata stamattina e mi vergogno. Mi ha telefonato poco fa con un tono leggermente irritato- era abbattuta: le dispiaceva di essersi dimenticata di fare una cosa importante per qualcuno. Mi faceva tenerezza.
- Va bene ci penso io…-
- Io ti amo!- le si illuminarono gli occhi.
- Sia chiaro che questo è l’ultimo favore che ti faccio per almeno due giorni!-
- L’ultimissimissimissimo!- appena terminata la parola ricca d’entusiasmo, Erin fece una mezza piroetta, o meglio un quarto, e si avviò verso le scale. Poco prima di scendere il primo scalino si girò e mi sorrise con un’espressione beata. Fece un passo e d’un tratto sentii una specie di crack: la faccia sorridente e rilassata di mia sorella si fece improvvisamente cupa.
- Erin… stai bene?- la mia voce era tremolante, ero preoccupata, ma nascondevo una risatina.
- MA PORCA DI QUELLA ZOCCOLA!- Pensavo andasse peggio- CAZZUTISSIMA PUTTANELLA DI CAMPAGNA- ecco appunto.
- Il… il mignolo?- la risata stava venendo alla luce.
- MALEDETTA SCALA DEL CAZZO! IL MIO DITO! IL MIO DITO!!- ok stava decisamente dando di matto.
- Erin, calmati su- andai da lei e le grattai la spalla- tutto ok?-
- Oddio…  santissimi cieli. Il mio dito. Credo di essermelo rotto- cominciai a ridere. Una grande, grossa, grassa risata- cosa ci trovi di tanto divertente in un mignolo piegato come non dovrebbe fare di natura?- il suo tono era leggermente arrabbiato, ma sapevo che stava per ridere anche lei.
Boccheggiavo.
- Sputo un polmone!- avevo le lacrime agli occhi- io ora vado. Altrimenti mi mandano a quel paese con qualche calcio nei bassi fondi-
- Ok ok. Vai, scappa da tua sorella in rischio di paralisi del piede destro- rise.
Le diedi un bacio sul naso e scesi le scale.
Salutai Wayne che stava scrivendo un qualcosa su un grosso quaderno ad anelli, poi acchiappai il Woolrich marrone scuro attaccato all’attaccapanni: adoravo quel giubbotto, era così morbido e comodo.
Aprii la porta, presi le chiavi e il quaderno di cui mi aveva parlato Erin dal mobiletto dell’ingresso. Uscii e partii alla ricerca della casetta gialla dopo il parco.
 
[…]
 
Ero fuori da almeno cinque minuti e già mi ero stancata di camminare: ero nel parco, avrei preso la scorciatoia attraverso esso.
Il rumore dei miei passi che spezzavano le foglie secche rimaste sul tappeto d’erma scura mi rilassava. Era silenzioso intorno a me.
Un improvviso passo frettoloso dietro di me mi fece rabbrividire: strinsi i pugni e mi preparai ad una lotta corpo a corpo.
Si avvicinava sempre più, sempre più veloce e impaziente di raggiungermi.
Un paio di mani si strinsero intorno alle mie spalle. Mi girai di scatto e un pugno partì veloce, puntando alla mascella dell’uomo che cercava di tenermi ferma.
- Connie! Ferma sono io!- il mio pugno venne prontamente fermato da una mano calda. I miei occhi si posarono sui suoi, sotto un gioco di ombre causato dai lampioni e dai rami che si muovevano davanti ad essi.
- Khaled! Cristo santo! Ma sei pazzo? Dio sei così stupido, maledettamente idiota!- non ero sicura che quelle parole fossero dirette a lui solamente per lo spavento- Cretino! Pezzo d’imbecille!- tiravo cazzotti sul suo petto, che a quanto pare non lo scalfivano neanche con palle di fuoco.
- Calmati! Connie, calmati ho detto!- mi strinse a sé, mentre io cercavo di divincolarmi.
- No, no, NO! Non  mi calmo! Tu non dovresti neanche toccarmi! Sei solo un fottutissimo stronzo che gioca a calcio con i sentimenti e la mente di una ragazzina ingenua del college! Non voglio starti vicino, ne sentire il tuo respiro o vedere quella dannata macchiolina chiara nel tuo occhio destro! Io ti odio. Hai capito ti odio!- sentii un fiume che solcava la mia guancia sinistra, poi anche quella destra. Nel naso il suo profumo di sudore e mare, che si insinuava nella mia testa e che non andava più via - Perché mi fai questo? Perché mi costringi a stare con te quando sai che puoi farmi solo del male?- la mia voce tremava.
- Io… io ti voglio. Non voglio che tu faccia sesso con altri, non voglio che quegli altri ti posino lo sguardo addosso-
- Non vuoi? Non vuoi? Io sono stata male e ci sto ancora. Quindi non venirmi a dire che no vuoi, perché quello che hai detto a Wayne fa pensare tutt’altro- ora ero arrabbiata. Riuscii a staccarmi con una certa violenza dal suo corpo caldo.
- Quello che ho detto a Wayne erano solo cazzate-
- Si cazzate…- roteai gli occhi. Ero stufa di quelle bugie.
- Io voglio stare con te. Voglio baciarti, ridere prendendoti in giro per scherzo, sentire il tuo profumo la notte quando ti addormenti sul davanzale ed io ti rimetto nel letto- era lui che mi metteva nel letto tutte le sere, quando mi mettevo a guardare il mare di notte, seduta sul davanzale- solo che…-
- Solo che ti vergogni. Ti vergogni di una come me…- il mio tono calò improvvisamente. Non avevo più voglia di affrontare quella situazione.
- Io non…- Non gli lasciai finire la frase.
- Lascia fare. Non importa- mi girai e andai nella direzione della casetta gialla che si vedeva spuntare dietro il cancello secondario del parco. La mia mano stringeva troppo forte il quaderno di matematica di Jimmie.
Lo sentii urlare il mio nome nel vano tentativo di farmi cambiare idea e tornare da lui.
Non l’avrei fatto.
Non quella sera.
 
 
 
Ecco qui l’ottavo capitolo! Cavolo… sono tanti…
Questo capitolo non è molto importante, ed è anche abbastanza noioso. Ma non tutti i capitoli possono essere agitati! Spero vi sia piaciuto lo stesso!
Come al solito ringrazio tutti quelli che mi seguono e un ringraziamento speciale va alla Bia, che con le sue minacce mi ha spronato a pubblicare finalmente questo capitolo.
Se lasciate un commentino mi farebbe piacere!
Grazie di nuovo a tutti e a presto,
Baci, Tex

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Capitolo 9
*** Basta ***


Promessa da marinaio… avevo detto avrei pubblicato presto capitolo ed invece ne è passato più di prima.
Ma ora eccovi il nono capitolo!! Spero vivamente vi piaccia, anche perché ci ho messo molto impegno…
Vi anticipo che qui ci saranno due Pov: uno di Connie e uno di Khaled, e molto probabilmente sarà così anche nel prossimo capitolo.
Ora non mi resta che augurarvi buona lettura!



Pov Connie.

La ramanzina che mi beccai al posto di Erin fu lunga e dolorosa. Alla fine avrei voluto morsicarmi il braccio per staccarmelo, dato che ce l’avevo attaccato alla maniglia della porta sotto le grinfie di quel Jimmie, e scappare via. Ero sicura che i miei occhi stessero scivolando pericolosamente fuori dalle orbite. 
“ Ma come si fa a spengere questo qui?” 
Mi stavo esasperando. Dio, se non ce la facevo più.
Nella mia testa cominciò il concerto dei Beach Boys. Musica folk del piffero. Neanche a dire che ne ero appassionata, anzi li avevo sentiti solamente due volte alla radio. In effetti non sapevo perché si chiamassero così: forse erano ragazzi abbronzati e alti e belli, con la pelle bronzea e gli occhi color del mare.
Khaled…
Perché doveva farmi quel discorso, fermarmi e dirmi cose che, detto francamente, risultavano piuttosto squallide.
Mah. Io proprio non capivo il verso del mondo. Insomma, che cazzo, dovevamo avercela tutti con me? Mr. ‘Non lasciare in giro calzini, altrimenti li uso per frustare la tua sensibilità e strozzare le tue arterie, per poi sbarazzarmene’ provocava troppi danni, come distruggermi l’emotività o polverizzare i calzini. 
Lo odiavo. Lo avrei odiato. Ma alcuni dubbi mi rendevano impossibile esserne sicura.

Dopo una qualche eternità Jimmie finì di parlare. Solo che non avevo capito una mazza. Speravo vivamente che non mi dedicasse un interrogatorio. Lo speravo tanto tanto.
- Allora ciao, e salutami Erin- pronunciò il suo nome con una smorfia, anche se lui stesso era un’enorme, gigantesca smorfia umana. 
Mi sbattè letteralmente la porta in faccia. Non dovevo stargli troppo simpatica… tutta colpa di Erin. Si era decisamente colpa sua. Colpa dell’odio di Jimmie (non che me ne fregasse particolarmente), colpa della mia testardaggine che, tra l’altro, mi aveva resa nota, colpa della forzata convivenza con due perfetti sconosciuti, e colpa, soprattutto, di avermi costretto a conoscere fin troppo bene una grandissima faccia di culo che rende afosa l’aria in cui respira. 
Mi tremavano le mani. E non era un tremolio di freddo. No, non lo era affatto, proprio per nulla.
Non era colpa sua.
Sorrisi.
“Erin… ti do sempre la colpa” ridacchiai.
Ero rimasta davanti alla porta laccata di rosso, che detto francamente faceva proprio schifo. Mi scossi e mi girai, intenta a tornare a casa.
Passai fuori dal giardino, dalla strada più lunga: volevo riflettere, non so su cosa di preciso, ma volevo pensare e chiacchierare con me stessa… pazzia portami via.

Ero stata fuori per almeno quaranta minuti se non un’ora. 
La porta fece clock, cercai di fare il meno rumore possibile, ma quando sentii un urletto capii che erano ancora svegli.
- CONNIE! Vieni qui! C’è una sorpresina!!- che tono elettrizzato per una ragazza che appena calava il buio diventava una specie di tasso in pieno letargo.
“La mia piccola tassina” Sghignazzai. 
Attraversai il salotto, grattandomi l’anca, sollevando leggermente la maglia. Uno spiraglino freddo mi solleticò. Svoltai l’arco della cucina e mi gustai per un attimo Wayne che tentava di nascondere la ingozzata di nutella, senza però ottenere un gran risultato.
- Via… illustrami la sorpresina-
- Guarda che la so cogliere l’ironia quando la usi- era offesa.
- Mmm mmm. Su su che devo andare a leggere-
- Ecco a proposito di questo…- si spostò di poco, lasciando una completa visuale sul tavolo e su, oggetto misterioso, uno scatolone che sembrava piuttosto sofferente ai viaggi.
- Cos’è?- 
- La sorpresa- Erin sfoderò un bellissimo sorriso, e con la coda dell’occhio vidi Wayne sull’orlo dello sbavìo osservandola.
- Ma che bello! Cosa c’è esattamente dentro?-
- Libri- la parola pronunciata con il più nonchalance dell’ultimo mese mi colpì.
- Libri? LIBRI?! –
- Ah ah- 
Mi girai verso Wayne, che nel frattempo s’era ripreso dalla fulminante bellezza di mia sorella, rischiante di ridere come un pazzoide rinchiuso. 
- Way… ti fa così tanto ridere la sua passione da topo di biblioteca?- era abbastanza sconvolta, non era abituata alle persone estranee al mio amore per i libri.
- Way? Non dici sul serio, Erin? Prima Derry e ora Way?! Oddio, aiutatemi-
Ridemmo tutti insieme. Mi accorsi che Khaled non c’era, non era nel suo solito anfratto buio a spiare i miei movimenti. Sai cosa? Non me ne fragava nulla.
Tornai nell’ingresso, portandomi dietro lo scatolone dei libri.
- Erin i tuoi te li lascio in camera. Prendo i miei e poi scarico la tua roba sul tuo letto- stavo semi urlando, alle 10 di sera.
- Va bene!-
Salii le scale e andai in camera. La finestra era socchiusa: mia sorella mi conosceva, molto bene direi. 
Mi chiusi la porta dietro e sospirai. Ero stanca, ma volevo leggere. Quella sera avrei cominciato un nuovo libro. Poggiai lo scatolone sul letto e frugai delicatamente all’interno. Tirai fuori due pile di libri e le posai, con rimbalzo in allegato, accanto alla scatola. 
Cercando Alaska, John Green.
- Colpito e affondato- sussurrai.
Acchiappai la scatola ormai semi vuota, e la portai in camera di Erin. La appoggiai sul suo letto. 
Quella stanza era particolarmente calda, l’esatto opposto della mia. Era illuminata, cosa che la mia non era affatto se non dalla luna. Era anche colorata di sfumature accese, diversamente dalla tavolozza dei miei mobili.
Chiaro e scuro. Bianco e nero. Erin ed io. Dio quanto mi piaceva il nostro essere opposte.
Feci retro front e tornai in camera, chiudendomi nuovamente la porta dietro. Divisi le pile dei libri in pile più piccole, tanto per evitare il crollo definitivo della torre di Pisa.
Acchiappai Cercando Alaska, ma subito dopo lo riposai: mi sarei prima messa il pigiama. Mi cambiai alla svelta e finalmente mi diressi verso la finestra col libro in mano.
Spalancai le grandi ante di vetro e un venticello leggero e piacevole mi pizzicò dolcemente la pelle, scoperta sul decolté e sulle anche. 
Mi sedetti sul davanzale, tenendomi in equilibrio sul braccio e gamba destri. Distesi la gamba sinistra fino a toccare, con la pianta del piede lo stipite della finestra, appoggiandomi con la schiena su quello opposto. L’altra gamba la abbandonai dolcemente, facendola scivolare piano piano lungo il muro esterno.
Aprii il libro e cominciai a leggere.
“Alla mia famiglia:
Sydney Green, Mike Green e Hank Green
‘ Ce l’ho messa tutta per far bene’
(le ultime parole del Presidente Grover Cleveland)”
Altro sospiro.
Passai minuti, ore a leggere. Non sapevo come i miei occhi erano riusciti a rimanere aperti per così tanto tempo. Le palpebre si appesantivano e cadevano lentamente, coprendo più della metà della pupilla.
Ero arrivata ad un buon punto col libro, così decisi di smettere. Anzi, per dirla tutta non decisi: furono i miei occhi a cadere vittime del sonno.

Sentivo caldo. Oddio si. Lo sentivo davvero tanto.
Detta francamente, non sapevo esattamente in quale posizione fosse il mio corpo, sapevo soltanto che stavo bene e che il palmo della mia mano era appoggiato a qualcosa di morbido, caldo, resistente e…
… e vivo.
Porca di quella miseria.
Aprii gli occhi, quasi di scatto.
Anche la mia testa era appoggiata a qualcosa di uguale. Si muoveva. Mi muovevo. Ci stavamo muovendo.
Strinsi lentamente il pugno, chiudendo con esso anche un qualche materiale soffice e sottile. Stoffa. Si era decisamente stoffa. Cotone per l’esattezza, con un profumo di salsedine e aria notturna. 
Sollevai lo sguardo verso l’alto e osservai la figura che stava sopra di me, o meglio che mi teneva in braccio.
Ebbi un sussulto.
- Sei sveglia. Di solito dormi sempre quando ti metto a letto- un suo bisbiglio.
Di solito? Quando ti metto a letto?
- Khaled? Cosa… cosa fai?- avevo una voce assonnata.
Era lui che ogni sera mi metteva nel letto. Era lui quello che ogni sera mi prendeva in collo, appoggiando accuratamente il libro col suo segnalibro sul comodino e che evitava che io cascassi giù dal davanzale.
- Ti metto a letto. Mi sembrava di averlo già chiarito- nella penombra notturna lo vidi sorridere.
Il mio corpo si staccò dal suo, quando mi posò dolcemente sul letto, e il suo calore che fino a quel momento si era irradiato in me, scomparve.
Prima che la mia mano cascasse a peso morto sul letto, la feci correre sulla sua nuca e lo tirai a me prima che riuscisse a tirarsi su.
La sua testa sul mio petto. Il mio battito troppo veloce per essere quello di una mezza addormentata che troneggiava nel suo orecchio. La pelle d’oca.
Cosa stavo facendo? 
Impulsiva. Ero impulsiva, e mi piaceva.
- Non smetti mai di sorprendermi- altro bisbiglio.
- Se rovini tutto con le tue frasi da idiota, ti azzanno- sorrisi e lui se ne accorse.
- Ok, scricciola-
Scricciola. Scricciola. Scricciola.
Scricciola.
- Mi sei mancato- 
Aprì la bocca, ma lo zittii. Mi sentivo la padrona, una volta ogni tanto, e non avrei sprecato quella occasione.
Rimanemmo così per qualche minuto, fino a quando capii che la schiena di Khaled era troppo vertebrata per stare ancora in quella posizione. Lo liberai dalla mia stretta e lui si tirò su, facendo risuonare nella camera silenziosa un piccolo scrocchio della colonna vertebrale.
Alzai le coperte e mi ci infilai sotto: erano calde, e piacevoli.
Fece un quarto giro intorno al mio letto, rimanendo davanti a esso, con le spalle rivolte verso la porta e l’ipotetico sguardo nascosto dalle ombre su di me.
Stava aspettando.
- Rimani qui- la mia voce uscii delicata e leggera.
- Non ho mai avuto l’intenzione di andarmene- mi sorrise, ancora una volta.
Fece l’altro quarto di giro e raggiunse l’altra parte del letto. Si infilò sotto le coperte e si sfilò la maglia.
Dio, com’era bello. 
I miei occhi scivolarono lungo il suo corpo, scoperto dalle lenzuola mentre sistemava la maglia sull’attaccapanni.
Anche con le ombre notturne che lo oscuravano, riuscivo a distinguere ogni sua curva, ogni suo centimetro di pelle. 
Girò la testa e si soffermò, con le braccia a mezz’aria a fissarmi. Il mio sguardo incatenato al suo addome e al suo petto. 
Mi sentivo un’idiota. Una grandissima, fottutissima idiota.
- Ti è mancato anche questo?- 
- Si… cioè no! No. Assolutamente no- alzai di colpo lo sguardo. Dio, ma che imbecille. Annotai mentalmente di prendere lezioni di autocontrollo.
Si avvicinò lentamente, facendomi scivolare addosso il suo respiro caldo. 
Socchiusi la bocca, e continuai a immergermi e perdermi nei suoi occhi. 
Il suo petto sfiorò il mio e la sua mano scorse dietro la mia nuca. Un brivido saltellò velocemente lungo la spina dorsale, e riuscii ad intravedere la pelle d’oca sulle sue braccia.
Avvicinò il suo viso al mio, facendo sfiorare i nostri nasi. 
Socchiusi anche gli occhi. Spinsi la mia bocca verso la sua e le nostre labbra si scontrarono delicatamente.
La mano sulla mia nuca si strinse lentamente e chiuse in un pugno allentato qualche ciocca di capelli.
Abbassai del tutto le palpebre, lasciandomi trasportare dalle sue carezze. 
Sentii l’altro suo braccio avvolgermi la vita e stringermi ancora di più, facendomi sfuggire un piccolo gemito.
Lo sentii sorridere.
Mi baciò ancora e ancora e ancora. Portai le miei mani intorno al suo collo abbracciandolo, facendogli scorrere le labbra umide sulla mia gola.
Stringendomi, si girò e si tirò su a sedere, facendomi accomodare in mezzo alle sue gambe. Misi le mie a cavalcioni del suo busto e serrai di più la mia stretta.
Sentii qualcosa di diverso dal solito, qualcosa di più grande.
Un altro gemito corse fuori dalla mia gola. Stavolta era di piacere, oltre che di sorpresa.
Sorrise ancora emettendo un sospiro più caldo degli altri, che mi bruciò la pelle del collo.
Strinsi gli occhi. Era così piacevole stare con lui. Mi aveva fatto male, molto male, ma avevo voglia di dimenticare il dolore almeno per quella sera.
Sentii le sue dita scorrere lungo i fianchi alimentando ancora di più la pelle d’oca; agganciò i pantaloni del pigiama e li trascinò via, sfilandomeli e portandosi dietro anche gli slip.
Ero per metà nuda. Lo era anche lui e quella sua parte ancora coperta sembrava voler spuntare fuori e dire ‘Bum Baby!’
Avevo davvero pensato ad un pene parlante? 
Porca miseria, ero messa proprio male.
Sorrisi, divertita e la sua mano destra, che fino a quel momento era rimasta a solleticare la mia coscia denudata di quei pochi veli notturni, salì fino al seno.
Una vampata di vergogna mi si arrampicò dentro le vene, lungo tutto il corpo: mi stava toccando e io ero a sedere a cavalcioni sopra di lui e la sua prorompente zona bassa, con la mia completamente al vento, nel vero senso della parola, dato che la finestra era aperta.
Decisi che non m’importava nulla. Lo imposi alla mia parte logica e razionale. 
Lo baciai con impeto. La sua lingua bussò alla mia porta e la lasciai entrare. 
Lo sentii sfilarsi quello che rimaneva dell’abbigliamento di quel giorno. La tensione aumentava e sentivo il suo respiro uscire furioso dalla sua bocca.
Era eccitante. Dio se lo era.
Una fitta. Una fitta lunga, calda, erotica.
Mi accorsi solo in quel momento che stavo graffiando la sua schiena e che lui stava ringhiando sotto voce. Era sensuale, e mi piaceva quel verso emesso in preda all’eccitazione.
Cominciò a muoversi ed io con lui. Ad ogni movimento la fitta aumentava e diminuiva ad intermittenza e la furia dentro di me aumentava.
Il suo petto si gonfiava come le vele spinte dal vento. La sua stretta intorno ai miei seni.
Quella notte sarebbe stata il mio piccolo sogno, e avevo la piena intenzione di godermelo.

[…]

Pov Khaled.

Quella mattina fu particolarmente felice. Mi svegliai  con il busto avvolto dalla pelle fredda di Connie: era così piacevole. Il suo viso era diventato parte integrante del mio petto, e potevo tranquillamente dire che il mio capezzolo sinistro era andato a farsi benedire. 
Le sue dita si muovevano a scatti ogni tanto, probabilmente scosse dai sogni. Mi faceva il solletico, ed era maledettamente eccitante.
La mattina era tradizione che anche qualcosa di intimamente familiare si svegliasse. Ma quella mattina c’era Connie sopra di me, e farle trovare una sorpresa del genere appena sveglia, prima di andare a lezione, era decisamente una pessima idea, anche se mi attirava.
Le dita che fino a quel momento avevano solleticato la mia pelle nuda, si strinsero in un debole pugno.
Abbassai lo sguardo, verso il suo viso in fase di risveglio-stiracchiamento: portai le mie mani intorno alla sua testolina, ed infilai le dita nella chioma scompigliata.
Era buffa, ma incredibilmente meravigliosa.
Le vidi spuntare un enorme sorriso sotto gli occhi verdi scuri ancora assonnati. Il loro sguardo poco attento era del tutto dedicato al mio addome. 
- Ti amo…- la mia voce uscii sotto forma di sussurro.
Si stropicciò gli occhi. Poi biascicò un qualcosa:
- Cos… che hai detto?- sorrise di nuovo. La sua voce era bassa e confusa- ho le orecchie ovattate- ridacchiò.
- Nulla…- le sorrisi anch’io.
- ‘Giorno- si avvicinò al mio viso, appoggiando le mani sulle mie spalle e facendoci leva. Mi diede un morsetto sulla punta del naso, ma io volevo la sua bocca. La volevo da impazzire. 
- Buongiorno scricciola- la tirai verso le mie labbra e la baciai appassionatamente. Aveva quel sapore di mela e the, che le invadeva vestiti e pelle.
Avrei voluto rimanere lì, sul suo letto, con la finestra aperta e i suoi capelli che mi facevano il pizzicorino al petto, ma il college ci ordinava di andare a lezione, e noi dovevamo ubbidire.

[…]

Pov Connie.

Quella giornata era sfumata in poco tempo: durante medicina i miei pensieri erano rivolti a tutt’altro che al prof Foster. Avevamo deciso che quella notte in biblioteca doveva rimanere passato e che in nessun modo avrebbe influito sui voti, ma  saremmo rimasti amici.
Khaled quel giorno era in ospedale a fare tirocinio in sala operatoria. Fico. Era decisamente fico.
Erin, Wayne ed io eravamo fuori e stavamo attraversando i grandi prati ricoperti di brina di inizio inverno. Erin rischiò di scivolare. Anzi, fece un vero e proprio scivolone, battendo una tronata pazzesca. Non avrei voluto batterne anch’io una. Ma invece, quella fottutissima geniaccia di mia sorella, mi si aggrappò alla spalla e mi trascinò inesorabilmente giù con lei.
Addio natica destra, anche se dopotutto quella sinistra non era poi messa così bene. 
Arrivai al marciapiede con il fondoschiena dolorante. Wayne era piegato in due dalle risate da più o meno quaranta minuti, tempo necessario per andare al chioschetto delle bevande calde Pink’s Drinks, berci una cioccolata e partire alla volta di casa.
La risata dell’ormai ragazzo di mia sorella mi contagiò. Attaccai a sghignazzare sputacchiando e cercando di trattenermi: ero arrabbiata e dovevo fare l’arrabbiata.
Cominciai a correre verso il ciglio della strada, e misi il piede destro giù dal marciapiede, sulle strisce pedonali.
Sentivo le risatine di Erin alternate allo sbaciucchio con Wayne.
Mi girai in avanti e mi avviai a passo svelto, seguita dagli altri, verso l’altro lato della strada. 
Guardai attentamente prima a sinistra e poi a destra.
Sentii uno rumore acuto e trapanante, il rumore della gomma frenare e strusciare sull’asfalto gelato.
La mia testa si girò di scatto verso sinistra.
Avevo guardato attentamente, lo avevo fatto, e quella macchina non c’era.
Non c’erano quei fari abbaglianti, non c’era la carrozzeria nera metallizzata dalle curve sinuose.
Non c’era.
Quella macchina non era là quando mi sono girata prima di attraversare.
Un urlo. La voce era sconosciuta.
Ruotai ancora la testa, in cerca degli occhi di mia sorella. La trovai, trovai il suo sguardo gelato, come l’aria che mi traforava la gola, i suoi occhi spalancati, tele su cui si era dipinto il terrore.
La vidi socchiudere la bocca, con il rossore delle guance solcate da una lacrima cristallina.
Poi una fitta. Non era in una parte ben definita del corpo, ma c’era. Sentii anche un qualcosa di appuntito e tagliente lacerarmi la pancia all’altezza del rene destro. 
Mi sentii sbalzare in aria, senza peso, senza gravità. Poi toccai il suolo, probabilmente. Era duro, l’asfalto era dannatamente duro e ruvido.
Chiusi gli occhi, sicura che con il buio avrei trovato pace da quel mondo pieno di rumori, striduli e urla.
Ero distesa, rilassata. O forse ero paralizzata. Avrei voluto sbuffare, ma sentivo il torace schiacciato, pressato a terra da un peso invisibile.
Basta. Basta pensieri. Volevo rimanere in silenzio, con la mente vuota.
Khaled.
Il suo nome riecheggiò per la strada, poi nella mia testa.
Lui non mi aveva salvata, non era stato lì per tirarmi via dalla strada. 
Immaginai il sapore della sua bocca che aveva quella mattina: frittelle di Erin.
Un sussulto. 
Freddo. Sentivo freddo, e per la prima volta non avrei voluto provarlo.




Eccovi il nono capitolo! Siamo andati parecchio in là… vi annuncio che molto probabilmente questo è il penultimo capitolo della mia storia, e beh, i ringraziamenti li lascerò alla fine 
È successa una cosa abbastanza brutta, insomma, la protagonista è stata investita e non c’era Khaled ad evitarlo, come ha fatto già in passato.
Se devo essere franca, non so ancora come finire tutta questa avventura. Dilemma.
Ma per ora mi limito ad aspettare i vostri commenti o critiche (se ne avete)!
Grazie per aver letto e speso un po’ del vostro tempo per questa penultima tappa del mio primo viaggio!
Un grande abbraccio a tutti e a presto, 
Tex

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Capitolo 10
*** La mia vita ***


Ehilà! Eccovi il decimo e l’ultimo capitolo! Dopo tanto tempo, per la gioia della Bianca :’), vi ho portato l’ultima tappa della mia prima storia! Ora dato che voglio che voi vi annoiate i ringraziamenti li lascio alla fine. Buona lettura ragazzi! Spero che vi piaccia.
 
Pov Khaled.
La sala operatoria era eccitante. Vedere con i propri occhi uno stomaco e poter osservare una rimozione di una cellula tumorale da esso era decisamente forte. Quelle quattro ore furono le uniche in cui fui del tutto risucchiato dalla ‘lezione’: quella notte tornava in mente, il suo profumo, le sue labbra, la sua pelle.
Quella sera l’avrei portata fuori a cena, in un bel ristorante. Se lo meritava, si meritava tutto il mio sangue e le mie fatiche.
Schivai due infermiere entrambe intente ad avere ragione su quale dei primari fosse più attraente.
- Khaled! Ti stavo cercando. In corsia hanno appena portato un codice blu! Muoviti che se arriviamo primi ce lo prendiamo noi!- un mio compagno di corso mi aveva colto di sorpresa, rischiando di farmi quasi andare a sbattere contro gli scaffali dell’attrezzatura medica.
Codice blu: incidente grave. Fortuna spacciata, per noi.
Correvamo sparati tra le infermiere e le barelle, zigzagando tra vecchietti con la flebo e parenti preoccupati. Il respiro veloce e il petto in turbine.
Arrivammo all’atrio, dove a breve sarebbe giunta la barella con il codice blu.
Sentii un tonfo, i vetri vibrare e una fiumana di paramedici entrare correndo e urlando.
Il lettino. Eccolo, il corpo quasi senza vita. Faceva impressione. Quell’essere umano che si avvicinava a me, circondato da chi tentava di salvargli la vita.
La porta continuava a sbatacchiare, spinta dal vento. Faceva rumore, e a momenti temevo che i vetri si potessero rompere.
Stonck. Stonck. Stonck. Silenzio.
La porta si era fermata. Troppo presto, per essersi bloccata da sola.
Alzai lo sguardo verso l’entrata. C’era una figura sottile, alta. Familiare.
Erin.
Sorrisi, la salutai. Una nuvola in quel momento oscurò la luce che rendeva impossibile vedere chiaro il suo viso.
Oddio. La prima cosa che vidi fu una rigolina argentea sul suo zigomo, che correva veloce, silenziosa.
La sua bocca si mosse, formava parole. Una parola.
- Connie…- un suo sussurro. Mi arrivò il suo sibilo troppo lontano.
La barella gocciolava sangue. Gocciolava sangue.
Mi passò accanto. Il movimento fulmineo della mia testa.
Era lì, distesa, immobile, bloccata da stringhe e pezzi di plastica. Un filo liquido rosso usciva dalla sua bocca.
Nel suo braccio era stata infilata un ago, con un tubicino che le forniva ciò che stava perdendo.
- Ha fratture multiple alle costole e al cranio, un’emorragia celebrale e all’altezza del fegato- da una qualche parte mi arrivarono commenti simili.
Aveva un’emorragia celebrale.
Gocciolava sangue.
Un sibilo scivolò fuori dalla mia bocca.
Non avrebbe dovuto essere lì.
Il mio compagno di corsia mi poggiò una mano sulla spalla.
- Non ci tocca. Hanno detto che è fin troppo urgente per dei sempliciotti. Tsk-  sbuffò, attento a far rumore.
Era urgente. Lo avevano detto i medici.
Fra i mille passi che risuonavano nel corridoio, ne riconobbi uno in particolare. Erano lenti, leggeri.
Mi girai di nuovo, vedendo Erin a pochi passi da me.
- Tu non c’eri… non eri lì per tirarla via…- la voce era rotta, lo scorrere delle lacrime sul suo viso- TU NON ERI Lì!- qualcuno si girò, turbato dalle grida di Erin.
L’avevo tirata via più volte. Ma non quel giorno.
Connie stava morendo.
Non usciva un singolo filo di fiato dalla mia bocca. La stavo lasciando andare via da me.
Sentii urlare il nome alle mie spalle, mi cercavano.
 
[…]
 
Erano passati nove giorni. Connie era in coma, ancora. Le flebo venivano cambiate ogni tre ore, da me, e non c’era attimo che Erin non inumidisse il viso di sua sorella con un panno umido.
Il quarto giorno di Marzo erano una sdraiata accanto all’altra. Erin le teneva la mano, e le raccontava ogni singolo ricordo che le veniva in mente, con la voce spezzata dal pianto.
- Ti ricordi di quella corsa in bici, di quando avevamo quattordici anni? Dio, che tronata battesti. Eri…- deglutì- …eri un turbine di risate, appena ti rialzasti. Io mi presi un colpo. Tu e le tue dannatissime stupidaggini!-
Ti prego Erin basta.
- Poi… poi c’è anche l’episodio delle porte dell’autobus…- strozzò un singhiozzo- te lo ricordi, eh? Il mio piede era inesorabilmente zoppo, e prendemmo l’autobus. La porta si ti si chiuse contro, mentre scendevi- rise, con una sfumatura di pianto.
- Erin! Ti prego, smettila. Non è morta!- le mani che fino a quel momento sorreggevano la mia testa lasciarono un segno rosso. Mi alzai dalla sedia imbottita nell’angolo della stanza.
- Oddio!- trascinò la ‘o’ finale, in un lento e lungo soffocare del suo pianto.
Si alzò, perdendo momentaneamente l’equilibrio. Si diresse verso la porta, aprendola, uscendo, girandosi verso Connie, e richiudendola dietro di sé.
Vidi, attraverso il vetro, Wayne abbracciarla. Piangeva. Piangevano.
Mi avvicinai al lettino di Connie; le presi la mano. Era così fredda.
“ è sempre fredda”. Sorrisi.
- Allora… com’è la flebo? Da fastidio vero? Mi manchi. Dio se mi manchi. Sono nove giorni che non mi parli. Si può sapere perché non ti svegli? Non ce la faccio più a stare solo. Voglio ricominciare a portarti a letto la notte, quando ti addormenti sul davanzale. Merda- le guardai il viso.
Dormiva. Oh si, dormiva beata.
La porta si riaprì. Entrò un tizio alto, dall’aria seria, ma con un faccione buono. Rimasi impalato a fissarlo. Era il Dot. Brough, Dot. Mought, un qualcosa del genere.
- Ha…- deglutii a forza- … ha delle notizie buone? Perché altrimenti non voglio sapere nulla- e non stavo scherzando. Affatto.
- Bene, allora rizzi le orecchie: la tua amichetta ha il 60% possibilità di risvegliarsi. Quindi non crogiolarti e cambiale la flebo, dato che lo sai fare- mi guardò con un fare scherzoso. Sorrisi appena.
Poteva risvegliarsi di nuovo. L’avrei riavuta per me.
Il dottore uscì, e a ruota entrarono Wayne e Erin.
- Cosa ha detto?-
Esitai.
- Khaled… apri quella cazzo di bocca e dimmi le sue fottute parole- era arrabbiata.
Sorrisi, alzando lo sguardo verso di loro.
- Connie ha più del 50% di probabilità di rimettersi in piedi- la mia voce era bassa, come se fosse tutto un grande dubbio. Il Grande Dubbio.
Erin rimase immobile, con la mano di Wayne poggiata sulla spalla.
- Ha detto cosa?- tremava.
- Ha detto che Connie…-
- LO SO COSA DIAVOLO HA DETTO!- aveva il viso rosso.
- E ALLORA COSA CAZZO ME LO CHIEDI?-
- IO… io…- si bloccò per un attimo, poi mi urlò come un bue, in faccia.
- Okay, okay… ora calmati Erin. Altrimenti vengono a sedarti. E non sto scherzando, lo hanno già fatto in passato e non credo si possano trattenere per una seconda volta- Wayne la abbracciò da dietro, stringendole le braccia intorno al ventre.
Ci fu una serie di frequenze cardiache veloci. Catturò la nostra attenzione, facendo calare sui nostri volti un velo di silenzio.
Andava veloce, troppo veloce.
Cominciò ad agitarsi, il suo corpo si contorceva e i suoi arti scattavano come serrature appena oliate.
Connie aveva le convulsioni.
- Chiama il medico, chiama il medico! Chiamalo!!- Erin era agitata, le gambe le cedevano.
Corsi al pulsante rosso vivo al fianco del letto. Ci scaraventai tutta la forza che le mie braccia riuscivano a darmi in quel momento. Un campanello dal suono stridulo diffuse velocemente il suo acuto pizzicante per tutta la stanza, poi nel corridoio.
Arrivò velocemente il medico di Connie. Aveva lo sguardo freddo.
I suoi movimenti erano veloci e sicuri, al contrario di quello che poteva dare a crede il suo aspetto. 
Afferrò qualche boccetta di liquido trasparente dal carrellino metallico che l’infermiera gli aveva portato, tirò fuori una siringa e iniettò il contenuto nella flebo.
I movimenti non si fermavano, continuava a stirarsi e ritirarsi nel letto.
Il dottore acchiappò un’altra boccetta, stavolta con un liquido giallognolo: lo svuotò completamente nella flebo, mentre l’infermiera tirava indietro la testa, appiattendo la sua lingua.
Gli scatti si placarono lentamente: le gambe si distesero, le braccia si abbandonarono dapprima lungo il corpo, poi fuori dal lettino, ciondolando. L’infermiera vestita col camice a fiori le rimise accanto ai fianchi.
- La sua condizione ora è stabile. Questo attacco è dovuto alla stabilizzazione dei suoi organi. Solitamente nei pazienti che hanno subito un grave trauma, avvengono reazioni simili alle convulsioni: in questo caso si sono presentate esse stesse. Dovete stare tranquilli, okay?- la voce del dottore di Connie aveva assunto un tono dolce e tranquillo. Il suo sguardo era tornato calmo.
Ci guardò qualche secondo.
- Se accade un’altra volta rimanete tranquilli. Chiamatemi e rimanete tranquilli. Non temete- ci sorrise.
Annuimmo.
Mi girai verso Connie.
Dio, era così bella. Aveva le occhiaie, anche se erano ciò di meno evidente di tutto l’insieme: aveva tagli e abrasioni su tutto il viso. Le sue braccia e le sue gambe, coperte dal lenzuolo bianco, erano anch’esse ricoperte di croste.
Mi avvicinai. Le sfiorai le mani: erano fresche, come lo erano il giorno in cui riuscii a renderla un po’ più mia.
Le accarezzai la fronte, scostandole i capelli dal viso.
Erin si avvicinò lentamente e si risedette sulla sedia imbottita.
- Tu… prima o poi mi manderai al manicomio. Anche da… così, mi fai impazzire- sorrise- sai, mi hanno detto che tu mi puoi sentire. Io voglio credere che sia così, perché ho bisogno di sentire le tue chiacchiere. Oddio… mi manchi tanto- sospirò.
Wayne si accomodò sul tavolino nell’angolo.
Volevo che si svegliasse, volevo che sapesse che cosa era per me.
C’era la probabilità di non vedere più i suoi occhi, ed io non potevo fare nulla.
 
[…]
 
Altri tre giorni. Erano passati altri tre giorni. Dodici giorni sprofondata in un sonno impossibile da spezzare artificialmente.
L’unico dialogo che si poteva definire tale era stata la decisione su quale tramezzino prendere dal paninare dell’ospedale. E neanche era andata a finire bene. Il tonno era finito e mi era toccato il salame.
Erin ormai era diventata parte integrante della poltrona blu imbottita, e le sue mani erano impegnate a creare piccoli cerci sul palmo delle mani di Connie.
-Ti ha mai raccontato del regalo che mi fece in prima liceo?- la voce le uscì leggera, quasi inesistente.
- Non mi parlava molto spesso dei regali…-
- Quello fu un regalo speciale… lei mi diede un libro. Me lo portò la mattina del penultimo giorno di scuola. Il prezzo in fondo era coperto da un pezzettino di carta. C’era scritto ‘Tu non puoi guardare’ e un disegnino di Gandalf del Signore degli Anelli. Risi molto per quel cosino. Poi un giorno cascò. Si staccò e mi cadde sul tavolo. Guardai il prezzo, ma era oscurato dal pennarello. Acchiappai il pezzettino dove c’era il disegnino e lo girai: sul retro c’era scritto ‘tanto non si vede lo stesso!’. C’era anche una faccina sorridente- sorrideva, guardando le mani che ora teneva in grembo.
- Dio… era, è sempre stata così… così diversa?- mi si strozzò la voce- insomma, lei ha sempre fatto cose così starne e uniche?-
- Già. Mi sorprendeva. Ogni singola volta imparavo un qualcosa di strano- si sfiorò le labbra con il pollice- le veniva naturale lottare con tutta la determinazione che riusciva a trovarsi in corpo. Ha imparato ad essere forte col tempo. Ad ogni sfida sguainava la spada e falciava chiunque le impedisse di andare avanti. Certe volte, però, è rimasta ferita. Perché non era invulnerabile, non era indistruttibile. Non lo è neanche adesso. E questo Alan lo sapeva- il suo volto si oscurò.
- Chi è Alan?- un impulso irrefrenabile, un desiderio malvagio si stava arrampicando dentro di me.
Erin alzò la testa e mi fissò: i suoi occhi si erano coperti di un velo di dolore.
- Era…- deglutì- é un ragazzo di venticinque anni, ormai, ma all’epoca ne aveva ancora venti. Lui… lui… Dio è così difficile. Lui tentò di stuprare Connie- l’ultima frase la sputò con acidità e disprezzo. Boccheggiò per qualche istante.
- Tentò?-
- Riuscimmo a bloccarlo in tempo. Connie aveva temporeggiato. Aveva lottato finché non arrivammo noi. Per questo è diffidente verso i ragazzi-
Nella mia mente calò un macigno di sconforto, schiacciando quel sentimento che aveva ribollito fino a quel momento. Era stata quasi violentata ed io le avevo fatto del male. L’avevo delusa.
- Avevo promesso di proteggerla da chiunque, e invece ora è in coma…- la sua voce era un misto fra il dolore e la rabbia che teneva segregati dentro.
Si alzò di scatto, svegliando Wayne che fino a quel momento stava dormendo- ODDIO! MIA SORELLA È IN COMA! CAZZO! È IN COMA!- la sua voce era spezzata, le lacrime scorrevano impetuose sulle sue guance. Si portò le mani al viso.
- Erin! Erin, amore mio. Guardami- Wayne le prese la testa fra le mani delicatamente, infilando le sue dita nei capelli- Connie è forte, lo è sempre stata, ricordi?- Erin annuì- ricordi le sue battute? Le sue minacce rivolte contro i coglioni rompi scatole del campus, le sue manate a destra e a manca, la sua determinazione? Ti ricordi di com’è tua sorella?-
Erin abbassò lentamente le mani, fino a farle cadere lungo i fianchi. Crollò tra le braccia di Wayne, che la strinse a sé, coprendole il viso col petto.
- Usciamo. Andiamo a prendere una boccata d’aria, ti farà bene- si sorrisero. Erin aveva il viso sconvolto, ma anche lei era forte. Lo era senza rendersene conto. Lo era per sua sorella.
 
[…]
 
Dall’ultima volta che avevo sentito la sua voce, erano passati sedici giorni. Se fossimo arrivati a tre settimane avremmo dovuto chiamare i suoi. Avremmo dovuto chiamare i suoi per dirgli che la loro figlia era a metà tra la vita e la morte.
Il senso di colpa non si era attenuato, ma avevo trovato un modo per nasconderlo.
Quella notte avevo dormito con la testa appoggiata tra il braccio e il fianco di Connie. Erin era tornata a casa, sarebbe tornata in ospedale la mattina dopo.
Mi svegliai con il profumo di salsedine nella testa. Aprii gli occhi e alzai lo sguardo alla mia destra: Connie aveva la testa girata di lato, verso di me. Mi alzai lentamente e le accarezzai il viso.
- Ti amo. Connie io ti amo. Sei l’unico essere vivente che mi abbia tenuto testa. L’unica ragazza talmente pazza da essere  bella grazie alla sua follia. Ti voglio con me, nonostante tutto il male che ti ho fatto, non voglio rinunciare al tuo sorriso e alle tue battutine. Ti amo e ho lasciato che un bastardo ti mettesse sotto- sprofondai nuovamente tra il suo profumo- ti amo e non lo sai. Dormivi quando te l’ho detto, come stai facendo ora. Ma sono innamorato di te e voglio che tu lo sappia- sentivo lacrime fredde solcare i miei zigomi.
- Lo sapevo da tempo- un sussurro.
Calò il silenzio. I miei occhi erano chiusi, nel buio tra gli arti del suo corpo.
Il mio respiro s’infiltrava tra le pieghe del lenzuolo, e il suo calore ritornava verso di me, s’infrangeva sul mio viso. Sentivo la pelle tirare leggermente.
I muscoli del mio collo si tesero, pronti a sollevare la testa.
Mi tirai su lentamente, tenendo gli occhi chiusi, la testa dritta.
Sentivo la macchina, alla quale erano collegati gli elettrodi che raggiungevano il suo petto, segnare un ritmo calmo, normale.
I miei occhi non avevano intenzione di aprirsi. Avevo paura che non fosse lei, che fosse un altro dannato sogno.
Le lenzuola si mossero, facendo scivolare nell’aria della stanza un fruscio leggero.
Aprii gli occhi lentamente.
Vedevo appannato, ma quella sensazione durò solo qualche secondo.
- Guarda che sono qui…-
Di nuovo. La sua voce.
Di nuovo.
Le lacrime corsero lungo il collo.
Girai la testa.
- Connie…-
- Ti amo, scricciolo- sorrideva, un occhio chiuso, l’altro assonnato.
Le presi la testa fra le mani, creando semicerchi con i pollici. Le dita affondate nei capelli castani.
Una bomba di calore esplose nelle mie labbra, si espanse in ogni angolo del viso. Le sue mani avvolsero il mio collo, accarezzandolo e solleticandolo leggermente con le unghie.
Aumentai la pressione, le catturai le labbra, ogni anfratto della sua bocca percorso dalla mia lingua.
La stretta delle sue mani aumentò, il suo corpo si contrasse lentamente, scosso dalla malizia.
La nostre lingue intrecciate.
- Dio, quanto ti amo-
- Scricciola indistruttibilmente sexy- ridevamo, immersi nelle lacrime.
- Scricciolo dannatamente puntuale da essere all’ospedale proprio quando vengo investita- la sua voce si spezzò.
- Erin mi odia. Mi detesta per non averti tirato via una seconda volta dalla strada. Ed io concordo pienamente- sorrisi tristemente.
- Non è stata colpa tua- gemette, tenendosi il fianco destro- tu eri a fare ciò che dovevi fare. E sono viva, sono qui. Quindi vedi di piantarla e sorridi, altrimenti ti cucio la bocca a sorriso- rideva di gusto, come se il suo incidente fosse sotterrato dal tempo. Il suo tono tuttavia era affaticato, e ciò non lo riusciva a nascondere.
- Cosa fai scusa? Era una minaccia?-
- Ti sguinzaglio Erin. E non sarà vita facile. È peggio di Terminator- il suo sguardo si fece minaccioso.
La maniglia della porta scattò, e lasciò entrare il ‘Terminator’.
Altro silenzio. Lo sguardo di Erin fisso su sua sorella, il volto scosso da un tremito.
- Oddio…- si girò e riuscì.
Wayne rimase per qualche istante immobile, fissando Connie, col sorriso stampato sul viso.
- È fatta così, lei…- fu interrotto dal nuovo rientro di Erin. Era di corsa. Poteva decollare da un momento all’altro.
- CONNIE! DIO, SEI SVEGLIA!- si catapultò sul lettino, circondando Connie in un abbraccio.
Io volai giù dalla sedia. Mi sfuggì un rantolo d’aiuto, naturalmente pestato e ignorato dalle urla di Erin.
- La mia sorellina…- Erin piangeva.
- Sorellona vorrai dire. Sono nata qualche ora prima di te- ridacchiava, con un’aria da prepotente.
- Vaffanculo. Tu e le tue battutine di merda, tu e il tuo vizio di farti investire, tu e la tua mania di farmi preoccupare! Io… io…-
- …Mi vuoi bene-
- Ti voglio bene. Te ne voglio anche troppo- si staccò, e incrociò le braccia- Wayne hai intenzione di rimanere lì a vita e diventare un pezzo d’ornamento d’ospedale, o venire ad abbracciare mia sorella?-
Wayne si avvicinò, la strinse forte nelle braccia, tanto che temevo di che potesse essere fatta fuori.
Io nel fra mentre assaporavo col mio didietro il pavimento glaciale della stanza d’ospedale.
- Connie… mi sei mancata così tanto…- la sua voce profonda rimaneva intrappolata tra il pigiama e i capelli della scricciola, e le sue risatine erano allegre.
- Su, su! Largo, che qui deve intervenire la sorella!- sentii arrivare qualcun altro sul suolo: Wayne era stato liquidato più velocemente di un venditore porta a porta.
- Stesso destino, fratello- sospirò.
- Ragazzi, emergete dall’escursione e venite ad abbracciarmi. Voglio sentire di nuovo i vostri profumi mescolati-la voce di Connie era soave, delicata, e tendeva al sussurro.
Ci alzammo e circondammo entrambe le ragazze in una stretta unita e indissolubile.
Il nostro gruppo esisteva ancora, eravamo uniti, stretti come le radici al suolo.
Connie era viva, respirava, parlava, sorrideva. Ed io mi perdevo ogni minuto di più nel suo sorriso.
 
[…]
 
Pov. Connie
 
Quando mi risvegliai Khaled era piegato sul mio lettino, con la testa fra il mio braccio e il mio fianco. I suoi capelli mi solleticavano la pelle.
Ero convinta che quello fu il miglior risveglio della mia vita.
Ma ce ne furono molti altri, uno più bello dell’altro. Alcune mattine mi portavano la colazione da casa, come pancake o muffin ai mirtilli, altre mi portavano tre o quattro libri da leggere dalla mia libreria.
Di solito Khaled dormiva sul divanetto sotto la finestra, anche se secondo me era scomodo quanto dormire su materasso di biglie. La mattina lo chiamavo sul letto:  volevo che dormisse almeno qualche altra ora su un qualcosa di morbido.
Non era così male dopotutto.
 
Nei giorni seguenti rimanemmo all’ospedale per i controlli e per la riabilitazione: avevo perso un po’ di memoria, ma il dottore ci disse che era solo una cosa temporanea.
Arrivavano ogni giorno gruppetti di amici, con fiori, cioccolatini, libri (stavo come un pascià), e pian piano la memoria e i ricordi riaffioravano.
Dopo tre giorni dal mio risveglio ebbi alcuni improvvisi abbassamenti di pressione, dopo il quale decisi di finire con le pappine e gli omogenizzati.
Ero convinta fosse colpa loro. E in effetti, dopo aver smesso con la ‘Pappino-dieta’, gli attacchi cessarono.
Esclusi gli esercizi per rimediare alla frattura della gamba e delle costole, stavo bene: le ferite sul viso e sul resto del corpo stavano guarendo, alcune erano già sparite, quelle più profonde invece avrebbero lasciato il segno. Ne avevo una lungo la tempia destra, che correva fino alla guancia. Erin diceva che faceva effetto, e dopotutto le davo ragione.
Ogni lastra che facevo dava risultati migliori, le ossa stavano tornando ad essere intere e forti.
Stavo guarendo, e lo stavo facendo con le risate dei miei amici accanto.
 
Tornai a casa due settimane dopo il risveglio e al college tre. Avevo perso mezzo semestre, quindi decisi di recuperarlo d’estate. Ma intanto mi godevo il ritorno a casa.
Il dottore aveva detto che potevo andare in bicicletta, ma non guidare. Quindi il primo sabato a casa, io ed Erin decidemmo di andare a fare una girata in bici, come ai vecchi tempi del liceo.
Andammo al parco.
- Ti ricordi quando caddi dalla bici? Eravamo insieme e tu ti prendesti un colpo- cominciai a ridere- ero volata per terra, e una macchina mi fece un pelo. Quando alzai lo sguardo avevi il volto terrorizzato-
- Facesti la stronza. Eri quasi finita sotto un furgoncino e te la ridevi prendendo in giro la mia faccia- cominciò a ridere anche lei, sputacchiando parolacce.
- Così imparavi a farmi impazzire!-
- Io? Io ti facevo impazzire?-
- No guarda! L’eschimese in vacanza in Lapponia! E chi sennò?-
- È un modo di dire!-
- Si si, certo… dicono tutti così- canzonarla era il mio hobby preferito.
- Ma proprio te dovevano appiopparmi?-ora stava soffocando dal ridere. La vedevo rimbalzare sulle buche.
- Grazie!-
Mi arrivò un messaggio. Mi fermai e tirai fuori il cellulare. Era di Khaled:
Aroha ana ahau ki a koutou, Scricciola.
(Ti amo in lingua maori)
Sorrisi.
Quel pomeriggio fu divertente, mangiammo anche un hamburger dal Mc Donald’s vicino.
Era da tempo che aspettavo di tornare a casa, mangiare con mia sorella, ridere ricordandosi delle avventure passate.
Ora ero a casa, con una sorella, un migliore amico, e un ragazzo, uno più pazzo dell’altro.
Non desideravo altro, poiché quella era la vita che mi aspettava per i prossimi anni, quella era la vita migliore che potessi desiderare.
 
 
Ragazzi, questo è l’ultimo capitolo… oddio! Sembra ieri che ho iniziato questa storia. Insomma ho scritto dieci capitoli (non che sia Guerra e Pace, ma comunque sono abbastanza fiera) e ora che sono finiti mi sento un po’ vuota. Non so se scriverò a breve un’altra storia, anche perché è iniziata l’estate.
Ma veniamo al dunque: come da copione qui ci servono i ringraziamenti.
Prima di tutto devo riconoscere un particolare merito alla mia piccola Bia, che mi ha spronato, o meglio minacciato, per andare avanti. Sei davvero incredibile, per ogni cosa: sei un’amica fantastica, una scrittrice piena di risorse e una lettrice ossessionata quanto me. Probabilmente se tu non ci fossi stata non avrei finito o addirittura iniziato questa storia. Ti sono davvero grata. E ti voglio un bene dell’anima.
Poi devo ringraziare le ragazze che mi hanno recensito, incoraggiato e aiutato: Mydreamofthestory, Chiara, Bellaswan_1999, Ida, Silvia_3 e infine Ely_lely. Grazie di tutto ragazze, e speriamo a presto con una nuova storia! Siete state davvero un aiuto importante.
Infine, un ringraziamento speciale ad Erin, che nella vita reale si chiama Margherita. Lei è la mia sorella, lei è la mia migliore amica, lei è quella ragazza che ad ogni caduta mi aiuta a tirarmi su. Senza di te, topina, non credo che ce l’avrei fatta a superare ‘sto anno.
Tu sei importante come il giorno lo è per la notte, come la luce lo è per il buio. Ti ringrazio per essere la mia punta di luce, la mia scintilla. Ti amo come una ragazza può amare una sorella.
 
Beh, non mi resta che dire ciao e alla prossima. Grazie ragazzi, di tutto.
La vostra Tex

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