I - The Spinner

di Equilibrista Bendata
(/viewuser.php?uid=662865)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Podismo e modestia ***
Capitolo 3: *** Una realtà da incubo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 
Circa 5.000 anni fa
 
I piedi nudi di Tepki calcavano tranquilli la sabbia rossa della savana silenziosa; portava in spalla una grossa antilope, bottino della caccia mattutina, e stava tornando al suo villaggio, dove l’avrebbe offerta al grande sciamano Traktut. Nonostante l’altezza notevole, il viso serio e le lunghe cicatrici che brillavano sulla pelle scura, Tepki aveva soli diciassette anni: viveva in una piccola comunità semi-nomade, installatasi su un altopiano a parecchi chilometri di distanza da dove era in quel momento, abbastanza in alto da sfuggire ai grandi felini e alle altre tribù. Non era solo un giovanissimo cacciatore in grado di abbattere un’antilope adulta con la sua lunga lancia acuminata, ma era anche un forte e abile guerriero, iniziato ai misteri del fuoco e del sangue, cioè un adulto agli occhi della sua gente.
Il giovane camminava sereno sotto il sole cocente; non aveva paura di essere attaccato né dai leoni né da altri cacciatori: le lunghe cicatrici sul corpo servivano da monito ai suoi aggressori poiché testimoniavano i suoi innumerevoli scontri e le sue innumerevoli vittorie: per ogni vittoria riportata, gli uomini si infliggevano quelle ferite, così da mostrare a tutti il loro valore. Famoso fra la sua gente, Tepki era temuto dai clan nemici e nonostante altri cacciatori si nascondessero fra i cespugli vicini in quel preciso istante, nessuno decise di muovere un attacco al ragazzo, sebbene fosse solo e loro fossero in quattro.
Sarebbe dovuto andare dritto a casa, ma decise che una deviazione non avrebbe fatto male a nessuno; svoltò a destra e si diresse verso un gruppo di colline, zigzagando fra gli alberi alti e secchi che adornavano quella savana brulla e arida. Con grosse falcate, raggiunse la sommità della collina più alta e guardò giù, godendosi uno spettacolo unico: una verde pianura si srotolava davanti agli occhi di Tepki, punteggiata da grandi mandrie di zebre e gnu che pascolavano placidi nella calura estiva; più lontani brillavano alla luce del sole i due fautori di tanta rigogliosità: i due fiumi blu, i silenti signori di quella piana fertile e rigogliosa.
Tepki fece vagare il proprio sguardo su quella distesa silenziosa e pacifica, e si sarebbe voltato per tornare a casa, se qualcosa non avesse attirato la sua attenzione. Una mandria di gnu stava scappando frenetica da qualcosa, alzando dietro di sé una gigantesca nuvola di polvere; il ragazzo aguzzò la vista, alla ricerca di un branco di leonesse o di un ghepardo, ma non vide nulla di tutto questo: gli animali sembravano fuggire lontani da un grande baobab che dominava la pianura con la sua mole titanica. Veniva chiamato il Grande Dio dai vecchi del villaggio e Tepki sapeva essere l’ultimo della sua specie dell’intera zona; era molto rispettato e considerato il padre di tutti loro.
Il ragazzo strizzò gli occhi e poi li sgranò di colpo; stava accadendo qualcosa all’albero: un grosso squarcio si era aperto lungo il tronco e si allargava, istante dopo istante. Avrebbe dovuto abbandonare l’antilope lì dov’era, girarsi e correre dagli sciamani, riferendo ciò che aveva visto, ma Tepki era, e rimaneva, un ragazzino e anche se poteva essere ritenuto un uomo fatto, la sua curiosità era e rimaneva quella di un diciassettenne.
Posò l’antilope a terra e dopo aver controllato che non ci fosse nessun felino in zona, si diede a una corsa a perdifiato lungo il pendio ripido delle colline, scendendo passo dopo passo verso la piana. Grazie alle agili gambe lunghe, raggiunse l’albero in breve tempo e rimase a bocca aperta, terrorizzato e stupito allo stesso tempo.
Un enorme porta si era aperta nella corteccia dell’imponente albero; aveva i contorni frastagliati, quasi fosse stata ricavata strappando il legno con le unghie e si apriva sul… cielo. Tepki stava guardando un frammento del cielo stellato che amava rimirare la sera, sdraiato sul ramo di un albero, contando le stelle e cercando di capirne il movimento; era come se qualcuno ne avesse intrappolato un pezzo nel legno del baobab o se il firmamento si fosse aperto e reso accessibile nella corteccia dell’albero.
Stringendo la lancia con forza, si avvicinò per osservare meglio. Le stelle sembravano alla sua portata, avrebbe potuto infilare una mano là dentro e afferrarne una, brillante e viva. Stava per farlo, quando la superficie scura e liscia fu disturbata da qualcosa, increspandosi in mille cerchi concentrici; il giovane arretrò e attese.
Prima un piede, poi una mano e infine un viso uscirono dall’albero; un uomo alto e dai capelli chiari come i raggi del sole si erse davanti ad un tremante Tepki in tutta la sua straordinaria altezza. A differenza del ragazzo che indossava un semplice perizoma polveroso, l’uomo portava una strana tuta nera, aderente e cangiante, ed era munito di un immenso scudo triangolare e di una peculiare spada a forma di saetta.
Si guardò attorno con fare fiero, osservando la grande pianura piena di vita, e posò i suoi occhi verdazzurri sul giovane, tremante nonostante il caldo afoso che li circondava. Tepki fu travolto dalla forza di quello sguardo e un pensiero folgorante gli attraversò la mente: quello che aveva davanti era un dio, un dio maestoso e terribile che lo avrebbe bruciato vivo se non avesse abbassato lo sguardo immediatamente e non si fosse inginocchiato al suo cospetto. Il giovane fece esattamente questo: lasciò cadere la lancia a terra e si prostrò ai piedi dell’uomo, il viso nella polvere; lui, Tepki l’impavido e Tepki il guerriero, si piegava per la prima volta davanti a un uomo, davanti a un dio.
L’uomo sorrise, bonario e disse qualcosa in una lingua strana; il ragazzo lo guardò, timoroso e il colosso sorrise nuovamente, facendogli segno di alzarsi.
Meeltà – sussurrò Tepki, prendendo la lancia e facendo dei piccoli inchini col capo; quello era il nome con cui gli sciamani del suo villaggio chiamavano il Grande Dio, signore di ogni cosa.
Ci fu un altro fruscio e un’altra figura emerse dalla porta di stelle. Un ragazzo dai capelli biondo fulvo armato di arco affiancò l’uomo raggiante e Tepki capì al volo, dagli occhi verdazzurri e dalla stessa fierezza nel portamento, che il nuovo venuto doveva essere figlio dell’uomo-luce. Si inchinò nuovamente, conscio che gli dei avrebbero potuto in qualsiasi momento ucciderlo.
In pochi minuti altre figure, altrettanto maestose uscirono da quella strana porta; tutti indossavano la bizzarra tuta iridescente, erano muniti di armi che non aveva mai visto ed erano belli e perfetti oltre ogni dire. Quelli erano dei venuti dal cielo e dalle stelle che il giovane cacciatore amava osservare la sera, dei grandi e potenti e terribili che avevano iniziato a parlare fra loro in una lingua incomprensibile. Sembrava stessero discutendo sul da farsi e alcuni indicavano con insistenza Tepki; anche se sarebbe voluto fuggire al villaggio per riferire tutto ai grandi saggi, il ragazzo tentò di controllare le proprie emozioni e si raddrizzò, guardandoli con decisione.
L’uomo-luce stava porgendo l’orecchio alle parole di un alto uomo dai capelli neri e riccioluti, con una barba ispida e gli occhi grigi, e a quelle di una donna dai capelli di fiamma; l’uno aveva una voce suadente e calma, l’altra interveniva con fervore e contrarietà che persino Tepik, per quanto non riuscisse a capire di cosa stessero parlando, riusciva ad intuire. Entrambi furono ascoltati con pazienza e educazione, perché l’uomo-luce era un capo calmo e molto saggio, e altrettante domande furono fatte loro per giungere alla soluzione del problema presentatosi.
Il cacciatore li stava osservando, tentando di capire quale fosse questo problema quando alcune risate lo fecero voltare. Un gruppetto di ragazzi si era allontanato dall’albero e si stava dirigendo verso un gruppo di leonesse, placidamente sdraiate a parecchi metri da loro; c’erano il ragazzo dai capelli ramati, una ragazza con bei capelli color della terra bagnata, anch’essa armata con un lungo arco, e un alto ragazzo con lunghi capelli scuri, disarmato. Tepki li guardò nervosamente: avevano idea di quello che stavano per fare? Le leonesse avevano dei cuccioli e non avrebbero permesso a quei di tre di avvicinarsi troppo.
Non ci volle molto perché le preoccupazioni di Tepki divenissero realtà; due leonesse si alzarono appena i ragazzi furono a meno di due metri da loro, fissandoli con i loro gelidi occhi gialli. Il ragazzo con l’arco e la ragazza si fermarono appena se ne resero conto, ma l’altro ragazzo proseguì, puntando proprio verso i felini. Altre leonesse si volsero a guardarlo e iniziarono a lamentarsi, infastidite; se non si fosse fermato subito, pensò Tepki, l’avrebbero sbranato vivo.
Il ragazzo con i capelli fulvi gli urlò qualcosa, ma l’altro parve non sentire e continuò la sua marcia; ormai tutte le leonesse si erano alzate e ruggivano rabbiose, senza più nascondere l’ostilità verso l’intruso. Due di loro si staccarono dal gruppo; una si spostò sulla destra e l’altra sulla sinistra del giovane, andando a disegnare un semicerchio. Tepki strinse la lancia; sapeva quale sarebbe stata la mossa successiva dei felini, glielo aveva visto fare tante volte con prede più grosse come giraffe ed elefanti, e il giovane poteva anche essere un dio, ma non sarebbe sfuggito a quelle zanne.
Una terza leonessa, la più grossa e forte del branco, iniziò a camminare verso il ragazzo; le scapole si alzavano e si abbassavano sotto il manto color miele, e le zampe possenti alzavano lievi nuvole di polvere a ogni passo felpato. Il ragazzo si fermò di colpo e Tepki temette che si fosse reso conto solo in quel momento del guaio in cui si era cacciato; lanciò un’occhiata ai suoi compagni e notò che lo fissavano, senza alcuna intenzione di intervenire, e lo stesso si poteva dire per gli altri, ancora intenti a discutere animatamente. Il cacciatore portò nuovamente la propria attenzione sul ragazzo.
Le leonesse si erano fermate e formavano un triangolo attorno alla loro preda; le loro code sferzavano l’aria e la terra, frenetiche, e i loro fianchi vibravano, eccitati. Il ragazzo fissava la leonessa davanti a sé e nonostante non fosse armato, non cercò l’aiuto di nessuno, neppure dei compagni a pochi metri da lui.
In un sol colpo, le due leonesse ai lati fermarono le code e balzarono, le bocche spalancate in un ruggito silenzioso. Velocissimo e senza apparenti problemi, il ragazzo le schivò; prese le teste dei felini e le fece cozzare con forza fra loro. Tepki le vide scivolare a terra, immobili.
La grossa leonessa non si fece sfuggire neppure un attimo e andò all’attacco a sua volta; saltò in pieno petto al giovane e lo fece cadere a terra. Era pronta a chiudere le fauci sul delicato collo del ragazzo, ma questi la fermò, tenendo aperta a pochi centimetri dal viso l’enorme bocca dell’animale. Il felino tentò di concludere il colpo, ma il ragazzo era più forte di qualsiasi altro umano avesse ucciso in vita sua e si stupì quando questi gli staccò di netto la mandibola con un movimento deciso; il sangue iniziò a fiottare dalla gola scoperta e la leonessa rovinò a terra, soffocando.
Coperto di sangue e polvere, il ragazzo si alzò e gettò a terra la mandibola del felino; avanzò con fare languido e lento verso i cuccioli e le altre leonesse fuggirono, impaurite. Spaventato, Tepki osservò i felini scomparire nel folto della savana; non le biasimava poiché quello sconosciuto appariva cento volte più temibile del re della savana; lo guardò soffocare senza pietà i piccoli leoncini piangenti, quasi a voler sancire con quel gesto chi fosse il vero signore di quella terra.
Finito il massacro, si volse verso i compagni; una luce folle brillava nei suoi occhi e un’espressione terribile sfigurava il bel viso, schizzato di sangue.
Fra i propri dei, Tepki non venerava alcun dio sanguinario o malvagio, ma solo grandi dei e dee buone e dispensatrici di fertilità e ricchezza. Rabbrividì quando il giovane tornò indietro verso gli amici e fu solo quando l’uomo-luce lo interpellò che riuscì a distogliere lo sguardo.
– Guidami dai tuoi padri – gli ordinò l’uomo nella sua lingua e l’idea che quelli fossero dei si consolidò ulteriormente nella mente del cacciatore vedendo la leggera luce che emanava la sua pelle. Il ragazzo annuì e fece strada all’uomo, mentre gli altri restarono attorno al baobab.
Giunti sulla cima della collina dove aveva lasciato l’antilope, Tepki si volse a guardare la pianura sotto di sé; persino da lassù poteva distinguere i corpi delle leonesse, il loro sangue e i loro cuccioli strangolati. Rabbrividì e volse le spalle a quello spettacolo: sperava che quegli dei portassero con loro pace e prosperità, ma aveva un brutto presentimento.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Podismo e modestia ***


Podismo e modestia


Il sole splendeva pallido sopra l’orizzonte, irradiando i suoi raggi dorati sopra i boschi e i campi coltivati che circondavano Bedville, una placida e addormentata cittadina incastonata fra le colline verdi e dorate, tranquilla e ordinaria in ogni suo tratto. I suoi abitanti, però, erano già svegli da un pezzo e si muovevano frenetici per le sue strade ordinate e pulite: il camino del panificio aveva fumato tutta la notte, e una volta aperto il negozio, l’odore di pane appena sfornato aveva avvolto tutte le strade circostanti; la fioraia stava allestendo lo stand con garofani e ciclamini di mille colori; la parrucchiera e il barbiere – moglie e marito – stavano aprendo per accogliere i primi clienti intenti a leggere il giornale e commentare le notizie; la biblioteca storica era ancora chiusa, avrebbe aperto solo un’ora dopo; il cortile e il giardino della Bedville High School era ancora vuoto, ma ben presto sarebbe stato popolato dalla viva e sfavillante gioventù di quel piccolo agglomerato di case.
Tuttavia, in una delle vie della città, in un quartiere fatto di belle abitazioni in stile vittoriano tutte allineate le une accanto alle altre, una sveglia era suonata da un pezzo e altrettanto da un pezzo era stata spenta dalla sua proprietaria.
La casa era apparentemente vuota, le finestre con delicate tende color crema tirate lasciavano entrare molta luce al piano inferiore, immergendo tutti gli ambienti in un chiarore caldo e confortevole; in cucina aleggiava odore di bacon appena preparato e in un piccolo piatto vicino al lavabo, ne era stato lasciato un po’ con delle uova strapazzate, assieme ad un bicchiere di latte fresco; in salotto il camino era stato pulito, pronto per essere acceso ai primi freddi, e quella mattina della legna era stata accumulata ordinatamente alla sua destra, in una rastrelliera; il bagno era immerso in una luce azzurrina a causa della tenda celeste, completamente tirata, e sembrava di entrare in un acquario dove il plic plic della cannella del lavandino rimbombava, amplificato dal silenzio che regnava nell’abitazione.
Al piano di sopra la luce del sole entrava potente e luminosa dall’ampia finestra del corridoio, che dava sulla strada principale, e la cui tenda era stata preventivamente aperta; la camera matrimoniale era in ordine, un pigiama da uomo era perfettamente ripiegato sul letto, le pantofole erano allineate accanto al comò su cui si innalzava una pila di libri, coronati da un paio di occhiali da lettura; ma l’altra camera che si affacciava sul piccolo corridoio era ancora occupata, e in disordine.
Era una stanza quadrata: le pareti color pesca era tappezzate di fotografie, ritagli di giornale, poster, disegni, schizzi; una grande finestra si affacciava sulla strada e sotto di essa si trovava un divano dormeuse color crema con rifiniture in legno bianco, carico di piccoli cuscini di varie forme e su cui era abbandonato un libro aperto, le pagine bloccate da un peluche; una scrivania molto elegante, e colma di libri, appunti, cartacce e penne, occupava il lato opposto della stanza, accompagnata da una libreria carica di libri di ogni sorta – scolastici e non; in mezzo stava un letto in ferro battuto, il piumone bianco con fantasie floreali rigonfio, un cuscino in piuma d’oca che si poteva intravedere solo in parte; una pantofola solitaria sbucava da sotto di esso.  Sul comodino lì vicino, oltre ad un abat-jour, stava una sveglia analogica, riversa sul davanti così da non poter mostrare l’ora.
Il piumone ebbe un sussulto, un altro ancora e poi si dischiuse lentamente. Indolenzita e spettinata, Cassandra si stiracchiò, gli occhi ancora chiusi e strizzati per quel doloroso momento che era il risveglio mattutino; lasciò cadere le braccia, ben aperte a formare una croce e, sbadigliato e biasciato qualcosa, aprì un occhio, fissò il soffitto; aprì anche l’altro, guardò il lampadario. Si chiese che ore fossero e si convinse che doveva essere l’alba poiché era troppo stanca per poter essere già ora di alzarsi; rimase in quella posizione per altri cinque minuti, cercando di ricordare il sogno che stava facendo. Più che sognato, quella notte aveva come rivissuto un ricordo di quando era piccola, ma non riusciva a richiamarlo alla mente in quel momento: ogni volta che cercava di metterlo a fuoco, le sfuggiva di mano come fumo argenteo.
E’ troppo presto, fu la sua conclusione. Devo tornare a dormire.
Tutta quella luce, però, insospettì la parte già lucida della sua mente e la portò a guardare la sveglia. Segnava le otto meno un quarto, quindi le lezioni sarebbero iniziate da lì a un quarto d’ora.
Era più che in ritardo.
Balzò a sedere in mezzo secondo e, districatasi dall’abbraccio caldo e soffocante del piumone e del lenzuolo, si fiondò nel bagno davanti a camera sua. Doveva essere veloce ed efficiente, altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta; accese la doccia per far scaldare l’acqua e nel frattempo tornò in camera, e dalla cassapanca che aveva dietro la porta tirò fuori i primi vestiti che trovò, senza stare troppo ad indugiare sull’abbinamento dei colori.
Tornò velocissima in bagno, si spogliò, si legò i capelli che aveva lavato la sera prima e, trattenendo il fiato, si infilò sotto il getto d’acqua ancora freddo, iniziando a lavarsi con dovizia e velocità allo stesso tempo.
Quando finalmente l’acqua era diventata bollente, stava già uscendo, avvolta in un morbido asciugamano bianco, i piedi scalzi che lasciavano chiazze di acqua sulle mattonelle azzurre del bagno. Attenta a non scivolare sul parquet lucidato, tornò in camera in punta di piedi e si vestì con rapidità, poi afferrò la borsa, il libro di filosofia che, per qualche strano motivo, era finito sotto il sofà, e caracollò giù dalle scale, le scarpe in mano assieme a un paio di calzini spaiati.
La sua idea era di andare a scuola senza colazione, ma giunta al piano inferiore l’odore di bacon appena cotto la investì in pieno e il suo stomaco lanciò un monito piuttosto rumoroso. Sospirò, angosciata, e, una volta in cucina, trangugiò famelica le uova strapazzate, masticò velocemente il bacon e cercò di ingoiare il tutto grazie all’aiuto del latte. Posò il bicchiere e il piatto sporco nel lavabo, ringraziò mentalmente suo zio per quella frugale colazione che senza di lui non avrebbe neppure sognato, e iniziò a saltellare verso la porta nel tentativo di mettersi prima un calzino e poi una scarpa.
Una volta fuori, le scarpe prontamente slegate, sbatté la porta alle spalle senza premurarsi di chiuderla a chiave – suo zio era andato a prendere il giornale e sarebbe sicuramente tornato prima di andare a lavoro nell’enoteca di proprietà – e corse verso la bicicletta. Aveva i capelli scompigliati e molto annodati, necessitavano di una spazzolata, e alcuni boccoli selvaggi riuscivano ad uscire dall’elastico per ricaderle, comunque eleganti, lungo il viso; la loro proprietaria, però, non vi fece molto caso, tanto era impegnata a cercare le chiavi della bici.
Dopo un “per Bacco!” che risuonò per tutta la strada silenziosa, riuscì finalmente a estrarre le chiavi dalla borsa e, aperto il lucchetto che assicurava la sua bicicletta arrugginita alla rastrelliera e fattala uscire dal piccolo cancello in ferro battuto nero, Cassandra la inforcò e imboccò con foga, e contromano, la strada che conduceva a scuola.
Pedalò come se non vi fosse un domani, l’aria sorprendentemente calda di quell’autunno inusuale che la faceva sudare ancora di più e la borsa portata a tracolla che ostacolava le pedalate. Arrivò a scuola in un tempo record – anche se non distava poi così tanto –, entrò velocissima nel giardino immenso della Bedville High School, sfrecciò sul viale che solitamente percorreva a piedi conducendo la bicicletta a mano, zigzagò fra alcuni ritardatari come lei che, però, camminavano tranquilli e incuranti del ritardo, e, una volta scesa con un movimento fluido e veloce, assicurò la bici alla rastrelliera semivuota, e corse veloce dentro, diretta verso la sua prima lezione.
Entrò in classe proprio quando la campanella stava suonando per indicare che le lezioni sarebbero iniziate da quel momento e che chiunque fosse arrivato dopo quel suono sarebbe stato dichiarato “ingiustificatamente in ritardo”, e quindi spedito dal preside per una lavata di capo. La flessibilità non era di casa alla Bedville High School.
Il professore di matematica entrò, altero e snob, pochi istanti dopo che Cassandra si era seduta nell’unico posto libero, in prima fila, il respiro irregolare e la faccia arrossata; fra le molteplici persone a cui avrebbe potuto indirizzare la sua occhiata acida, l’uomo scelse proprio Cassandra che, abituata com’era ad essere trattata come studentessa di serie B, lo ignorò, concentrando la sua attenzione a legare le stringe delle scarpe, impolverate e sporche.
L’uomo riprese a spiegare lo studio di funzioni esattamente dove lo aveva lasciato la lezione precedente; aveva una voce monotona e nasale, piuttosto fastidiosa, e rendeva la materia ancora più pesante di quello che poteva risultare. Amante dei numeri e dello studio in generale, la ragazza si immerse nella lezione, dimentica dei capelli arruffati che avevano fatto arricciare il naso a tutte le ragazze perfettamente truccate e pettinate della classe, persino al professore che, ogni volta che si voltava accidentalmente nella sua direzione, assumeva un’espressione sdegnosa e la sua voce pareva farsi più acuta.
Cassandra se ne infischiava.
Nonostante Bedville fosse un paese piccolo che contava poco più di duemilacinquecento anime, questo non gli impediva di avere i difetti di una grande città, soprattutto a livello umano; la maggior parte dei suoi abitanti erano grandi proprietari terrieri, agricoltori arricchitisi grazie al sudore della fronte dei loro antenati, che avevano viziato i figli e i nipoti, quest’ultimi coetanei di Cassandra. Ovviamente, c’erano delle eccezioni: il barbiere e la parrucchiera, la fioraia, il panettiere, le bibliotecarie e altri ancora non facevano parte della cosiddetta “aristocrazia” che viveva da generazioni a Bedville, ma si erano aggiunti nel corso del tempo, guadagnandosi un posto in quel luogo regolato da regole per lo più non scritte.
La ragazza faceva parte di quest’ultima categoria: si era trasferita lì con suo zio quando aveva sei anni e, inizialmente, le cose erano andate piuttosto bene. Erano stati accolti con moderato calore, con sorrisi e gentili domande, e agli occhi della bambina quel paesino era sembrato uscito dalle fiabe: c’erano case antiche e bellissime in cui pareva vivessero re e regine i cui figli e figlie venivano con lei a scuola, bellissimi anche loro con i loro vestiti sempre eleganti e inappuntabili, con i loro zainetti nuovi e scintillanti, i quaderni fatti con carta spessa e pregiata. Andava a scuola con principi e principesse, questa era stata la convinzione della bambina, e aveva fatto di tutto per poter entrare in quel mondo dorato, quel mondo che nella sua testa aveva un valore incommensurabile, un valore che aveva cercato di trasporre in complimenti e risate nei confronti dei suoi alteri compagni di classe che si comportavano come piccoli despoti.
Le era sembrato tutto così bello, così speciale fino all’inizio della scuola quando aveva iniziato a rendersi conto che, oltre a quei bambini principeschi, c’erano altri bambini, meno scintillanti e apparentemente meno belli ai suoi occhi infantili: vestivano normalmente, parlavano in modo semplice e senza usare termini di cui lei, talvolta, non conosceva il significato, le sorridevano e la salutavano più spesso di quanto facessero gli altri, i reali.
Crescendo, Cassandra si era resa conto di due cose: la prima era che aveva molte cose in comune con quei ragazzi normali e non solo da un punto di vista di vestiario – molto più semplice e meno riccamente elaborato dei reali, ma anche caratteriale perché i figli dei ricchi non amavano colloquiare di argomenti importanti come l’andamento economico del paese, la situazione politica o sociale, e odiavano leggere, cosa che la ragazza non capiva visto che i libri erano la cosa migliore che l’uomo avesse mai ideato; invece, il figlio del panettiere o la figlia della fioraia erano amabili divoratori di libri, si erano formati una loro opinione sulla situazione economica e sulle questioni politiche che si distaccava, spesso e volentieri, dagli stereotipi forniti dalla società, o dalle rispettive famiglie a cui, solitamente, i ricchi facevano riferimento per salvarsi da una conversazione in cui, altrimenti, non avrebbero saputo cosa dire.
La seconda cosa che Cassandra aveva elaborato e portato a maturazione completa alla fine della scuola media fu che non voleva far parte di quel mondo.
Furono queste cose ad allontanare Cassandra da quel mondo dorato e colmo di serpi, e anche le serpi si resero ben presto conto che quella ragazza non poteva, e non doveva, far parte del loro mondo. Iniziarono a ignorarla, la isolarono e infine la dimenticarono.
Era entrata alla Bedville High School praticamente da sola poiché molti dei suoi compagni normali erano stati iscritti ad altre scuole, in altri paesini vicini, dove avevano trovato dei lavoretti con cui mantenersi e potersi tenere lontani da quell’ambiente. Suo malgrado, si era resa conto di aver scelto le compagnie sbagliate, di aver desiderato un mondo che non le apparteneva, di aver perso delle occasioni e si era ritrovata, un giorno, da sola, alla stazione dei treni, a salutare quelli che probabilmente sarebbero divenuti i suoi migliori amici se solo avesse avuto l’accortezza di apprezzarli prima: il figlio del panettiere era andato a Broken City dove si era iscritto ad un istituto tecnico per poter studiare meccanica e, allo stesso tempo, lavorare in un’officina, coltivando così il suo amore per i motori; la figlia della fioraia, invece, aveva preferito l’istituto d’arte di Little Crossville che le avrebbe dato il modo di esprimere tutta la sua passione per la pittura, e per potersi pagare l’affitto, aveva trovato lavoro come commessa ad un supermarket. Non era molto ma era un punto di partenza diverso da quello offerto da Bedville e, proprio per questa sua diversità, i due se ne erano andati sorridenti, tristi in cuor loro di dover lasciare i loro familiari, ma felici della nuova prospettiva di vita che si erano costruiti.
Erano passati ormai quattro anni da quando li aveva visti l’ultima volta perché, nonostante le loro promesse di ritornare a trovare più le loro famiglie che lei, non avevano fatto ritorno neppure una volta ed erano le loro famiglie a partire, per Natale e per Pasqua, tornando con grandi storie su di loro, il cuore colmo di felicità e gli occhi carichi di lacrime di gioia.
Cassandra non era rimasta in contatto con nessuno dei due; erano divenuti veramente “amici” solo alle porte della loro separazione e non avevano avuto modo di scambiarsi numeri di telefono o indirizzi mail. Per ovviare a questo, dalla loro partenza, la ragazza era andata, una volta ogni due o tre settimane, dalla fioraia e mentre si concentrava nel cercare una pianta o un fiore da portare a casa, aveva cercato di carpire qualcosa sulla sua vecchia amica dalla madre, che chiacchierava con questa o quella cliente; la stessa cosa accadeva per l’amico, quando andava a prendere il pane o uno spuntino o semplicemente un dolcetto da portare a suo zio. Aveva così sentito che i due stavano bene, gli studi proseguivano altrettanto speditamente e che l’uno era fidanzato con una ragazza di Broken City, e l’altra aveva cambiato lavoro, entrando come assistente gallerista in una nota galleria d’arte di una città vicina a quella dove studiava.
Aveva ottenuto queste informazioni dopo svariati viaggi, e al suo ennesimo rientro in casa con una bella pianta colorata e un pacchetto di biscotti appena sfornati per lo zio, l’uomo – seduto sulla poltrona in salotto, intento a leggere un libro sui vini – si era tolto gli occhiali e, dopo averla fissata un attimo, aveva osservato: – Questa casa diventerà una giungla e io morirò obeso se dobbiamo far affidamento sul tuo coraggio e la tua capacità di fare una semplice domanda.
Cassandra lo aveva guardato, torva, e non aveva professato parola, posando la pianta e i biscotti sul tavolinetto in legno di acero che si trovava davanti al caminetto e al divano. Aveva compreso che suo zio aveva capito quel giochetto da tempo, ma non aveva voluto ammettere di essere così patetica.
– Sono sicuro che non ci sarebbe nulla di male a chiedere informazioni, e loro te le darebbero senza problemi.
– Non voglio che pensino cose strane.
– Non vuoi che pensino che ti interessa la sorte dei loro figli? – Lei lo aveva incenerito con un’occhiata – Non c’è nulla di male ad avere a cuore qualcuno, Cassandra.
– Il problema è che loro non sanno niente di me; io e i loro figli eravamo amici, questo è chiaro, ma non si sono più fatti sentire e non hanno mai chiesto di me. Non voglio dare fastidio e sembrare impicciona. Non sarebbe giusto, ecco.
Lo zio aveva sospirato. – Tu e questa tua mania di essere giusta. Vivresti più serenamente se ti ponessi meno domande.
Cassandra lo aveva ignorato e aveva continuato a riempire la casa di piante e dolci. Il problema era che da quando aveva iniziato a porsi domande, le fatidiche domande che suo zio le diceva di lasciar perdere per godersi la vita, aveva iniziato anche a capire cosa era giusto e cosa era sbagliato, come giudicare le persone e da cosa non farsi ingannare. Il motivo per cui andava spesso dalla fioraia e dal panettiere era quasi un modo per riscattarsi di quel suo comportamento sciocco che aveva tenuto da bambina: riscattarsi per averli considerati bambini da poco, scoloriti e privi di interesse se paragonati agli sgargianti reali; per averli talvolta snobbati; per non aver risposto ai loro saluti e ai loro inviti a giocare. Era successo quando era una piccola e innocente, lo sapeva e se ne rendeva conto, ma si sentiva comunque in colpa nei loro confronti poiché le avevano sempre sorriso, erano sempre stati gioviali e gentili, e quando lei aveva finalmente aperto gli occhi, loro l’avevano accolta senza remore.
Il professore di matematica riproverò una ragazza in prima fila che, tranquillamente e senza vergogna, si stava limando un’unghia. Lei lo ignorò, senza alzare neppure lo sguardo dalla sua manicure. Quello era l’ambiente in cui era solita vivere, quello era l’ambiente di cui, quando era piccola, voleva fare parte, e quello era l’ambiente da cui ora si sentiva oppressa e rigettata.
L’ora si concluse con la solita sfilza di esercizi di matematica che tutti si sarebbero premurati di non fare, certi che questo non avrebbe avuto alcun effetto sul loro rendimento scolastico visto che la maggior parte dei loro genitori contribuiva, in modo più o meno velato, a finanziare i progetti della scuola. Tutti, tranne Cassandra che sapeva già di essere la predestinata alla correzione alla lavagna di quegli esercizi poiché non solo suo zio non aveva “un becco di un quattrino da buttare in quel ciarpame scolastico”, come amava sottolineare lui, ma anche perché il professore provava un piacere quasi sadico a vederla, arruffata e mal vestita, davanti a tutti, come se questo dovesse farla sentire in imbarazzo e farle capire quanto fosse poco appropriata per quel luogo. Al contrario, lei affrontava il tutto con grande calma, faceva e spiegava gli esercizi in ogni minimo particolare e infatti, suo malgrado, il professore era costretto a riconoscerle la bravura con votazioni piuttosto alte.
Fu l’ultima ad uscire dall’aula, i libri in braccio per non appesantire la borsa, le penne e le matite strette in mano, un lapis dietro l’orecchio destro; camminava a testa bassa verso la lezione successiva, immersa nei suoi pensieri, zigzagando fra i suoi coetanei che camminavano placidi oppure se ne stavano appoggiati ai muri, conversando del più e del meno. Anche se non ne aveva intenzione, spesso coglieva parti di quelle conversazioni e da ciò poteva ottenere uno schema, più o meno completo, dei pettegolezzi del giorno.
Quella mattina, la maggior parte delle conversazioni verteva su una novità, qualcosa che era accaduto il giorno prima o il giorno prima ancora, non ne era certa. Si soffermò un attimo per issare sulla spalla la borsa che le stava lentamente cadendo e sentì un ragazzo lì vicino dire: – Ho saputo da mio padre che si sono trasferiti da poco, non so dove vivano, sicuramente non molto lontano da qua.
– Hai idea di quanti siano? – chiese uno.
– No, ma sono certo che frequentino le lezioni già da qualche giorno.
– Non ho notato nessuna faccia nuova – osservò un altro.
– Si sono inseriti gradualmente, ho sentito, alcuni già la scorsa settimana, altri solo da oggi.
Cassandra riprese a camminare. Quindi, la novità del giorno erano dei nuovi studenti, e questa la si poteva definire una vera e propria novità rispetto a quelle che di solito venivano definite tali – come la nuova macchina di quel ragazzo o il nuovo flirt di quella ragazza. La giovane non si stupì affatto dell’arrivo di nuove persone; era normale che Bedville con le sue belle case e i suoi begli spazi comunitari attirasse nuove persone, e anche se negli ultimi tempi la maggior parte delle famiglie che si erano trasferite erano giovani coppie in attesa di un figlio o con figli piccoli, era scontato che prima o poi qualche trasferimento avrebbe portato un gruppo più o meno folto di loro coetanei. Non poteva negare di essere curiosa di vedere questi nuovi venuti, come chiunque del resto, visto che conosceva, direttamente o indirettamente, tutti i ragazzi e le ragazze della Bedville High School.
Il vociare attorno a lei si fece più alto, qualcuno indicò un punto impreciso nel corridoio ampio, fra la folla; i più alti allungarono il collo, i più bassi si affrettarono; Cassandra era arrivata davanti all’aula dove avrebbe dovuto passare l’ora successiva, non doveva proseguire verso il punto indicato dove – era una certezza – si trovava qualcuno dei ragazzi nuovi. Non resistette: si alzò in punta di piedi, e guardò nella direzione dove tutti, bene o male, stavano guardando; si morse il labbro: purtroppo, non riuscì a vedere niente: c’erano troppe persone che si stavano accalcando verso quel punto e coloro che non si erano mossi dalle loro postazioni si erano comunque erti nelle loro altezze più o meno imponenti e le bloccavano ulteriormente la visuale. Scoraggiata entrò in classe, si sedette e si mise a leggere Re Lear: tanto valeva la pena sedersi e aspettare l’inizio della lezione, aveva più possibilità di vedere qualcuno così che in altro modo.
Lentamente, la classe andò riempendosi di persone familiari e chiacchiere concitate, e quasi tutte vertevano sulla “grande novità”. Cassandra chiuse il libro quando la professoressa di filosofia entrò in classe salutandoli tutti e imponendo il silenzio con un solo sguardo ai gruppi più chiassosi; la ragazza ripose Re Lear ed estrasse il libro di filosofia.
Lanciò un’ultima occhiata alla porta che la donna lasciava immancabilmente aperta e proprio in quel momento passò, veloce, qualcuno. Non fu in grado di cogliere i minimi particolari di quella figura alta e slanciata, ma solo alcuni: gambe lunghe e snelle, passo leggero e agile, una nuvola selvaggia di capelli fulvi. Fissò la porta per qualche istante ancora e poi portò la sua attenzione nuovamente sulla professoressa, che aveva iniziato a spiegare con voce calma. Sorrise: era un’impressione sua o quella mattina non era stata la sola a non pettinarsi?
***
La lezione di filosofia finì qualche minuto prima e, una volta raccolti i libri e constatato di avere un’ora libera, Cassandra decise di godersi un po’ di sole autunnale e si andò a sedere sotto uno degli alberi più grandi nel cortile della scuola. Era un faggio di immane bellezza: la sua chioma non era solo alta, ma anche molto ampia e alla sua ombra era stata messa una panchina di granito su cui la ragazza era solita sedersi a leggere.
Tolse alcune foglie gialle e si accomodò. Con calma, estrasse Re Lear dalla borsa, ritrovò il punto in cui era rimasta e, dato un ultimo sguardo attorno a sé, si immerse nella lettura. In quel momento, sarebbe potuto accadere qualsiasi cosa ma nulla l’avrebbe distratta dalla sua passione principale, ovvero leggere.
Presa dalla trama shakespeariana, Cassandra non poté notare i tre ragazzi che camminavano tranquilli a pochi metri da lei, ma furono molti a voltare la testa per guardarli. Un brusio si alzò da un gruppo di ragazze, non molto distante dal faggio, e alcune si fecero scappare dei risolini sciocchi: erano tre dei nuovi studenti.
Uno dei tre stava parlando animosamente, aveva una voce roca e profonda, e intercalava le sue parole con gesti decisi. Era il più basso ma la sua corporatura era notevole: le gambe erano grosse e muscolose, il petto ampio e le spalle larghe; dalla maglia a maniche corte uscivano braccia possenti e definite in ogni muscolo, le mani erano grandi e coperte di cicatrici. Aveva lunghi capelli neri, ondulati che ricadevano scompostamente sulle spalle, il viso lungo, il mento appuntito, gli occhi neri come la pece e la sua espressione era un misto di rabbia e tormento. A prima vista, non lo si poteva definire un tipo amichevole. L’altro giovane con cui stava parlando e che lo affiancava con passo, era il più alto del gruppo e, da un punto di vista fisico, diametralmente opposto al compagno di conversazione: slanciato, la sua muscolatura era diversa, non possente e d’effetto come quella dell’amico, ma asciutta e definita e questo si notava ugualmente nonostante il suo fisico fosse castigato sotto un paio di jeans e un morbido giaccone blu. La sua pelle era ambrata come se fosse appena tornato dopo una lunga vacanza ai Tropici ed entrava in contrasto con altri particolari del suo viso, perfetto in ogni tratto: i capelli di un biondo cangiante, quasi bianco, gli occhi dorati e i denti bianchissimi che spuntavano ad ogni sorriso dello sconosciuto. L’attenzione di molte ragazze era subito ricaduta su quest’ultimo giovane, bello e aggraziato, che sorrideva e annuiva elegantemente alle parole dell’altro ragazzo, emanando allo stesso tempo un sentimento di forza e decisione.
Pochi passi dietro di loro, le mani affondate nelle tasche dei jeans e il passo tranquillo, l’ultimo venuto calciava pigramente le pietre del sentiero polveroso che stavano seguendo: aveva il viso voltato nella direzione opposta al faggio e l’unica cosa che si poteva vedere era la folta capigliatura biondo ardente, indomita e leggermente più lunga del dovuto.
Un gruppetto di ragazze si andò a sedere sotto il faggio, poco distante da Cassandra e iniziarono a cinguettare in modo così fastidioso da farla riemergere dal suo mondo cartaceo. Rivolse loro uno sguardo truce che avrebbe fatto tacere o comunque abbassare la voce a chiunque, ma le tre ochette erano troppo prese dal loro obiettivo da non farsi neppure sfiorare da quello sguardo ostico. Sbuffando, la ragazza chiuse il libro e ne cercò la causa.
Individuò immediatamente i tre ragazzi – erano evidentissimi, dato che erano gli unici a camminare sul sentiero che attraversava tutto il cortile – e comprese che dovevano essere tre dei nuovi venuti. Li osservò sommariamente: si soffermò per qualche istante sul ragazzo bruno e sull’alto ragazzo biondo che parlava assieme a lui, notando la sua notevole statura e il colore inusuale della sua pelle. Indugiò qualche istante in più sul terzo componente del gruppo che appariva più basso di quello che in realtà era, leggermente curvo, il viso in penombra.
Cassandra distolse lo sguardo e fece per tornare alla sua lettura quando le civettuole a poca distanza da lei, strillarono, probabilmente spaventate da una delle tante gatte pelose che in quel periodo cadevano dagli alberi, e che proprio quel giorno avevano avuto la malaugurata idea di cadere proprio addosso ad una di quelle sciocchine piuttosto che addosso a lei, ormai abituata a quelle bestiole pelose.
La malcapitata si alzò strillando e iniziò a correre in cerchio attorno alle amiche che non sapevano che fare, impaurite loro stesse. Divertita, Cassandra le osservò divertita per qualche secondo, il libro aperto davanti al viso a nascondere un sorriso a trentadue denti, e poi si decise ad intervenire, spinta dalla pietà per la povera gatta pelosa che si era aggrappata con tutte le sue minuscole zampette alla spalla sinistra della sua coetanea.
Con passo leggero raggiunse la ragazza, le intimò di fermarsi e con un veloce movimento di mano, fece cadere l’insetto ad una decina di centimetri da loro.
Ripresasi dallo spavento in brevissimo tempo e lanciata un’occhiata alle spalle della sua salvatrice, probabilmente per accertarsi che il gruppo di ragazzi non avesse visto nulla, la sua compagna di scuola atteggiò il volto in una smorfia fra il superbo e il disgustato, più rivolto a Cassandra che all’insetto appena cacciato, e se ne uscì con un acido “avrei potuto fare da sola”.
– Certamente – osservò lei, di rimando – E pensavi di farla cadere grazie alla forza centrifuga che avresti generato correndo attorno alle tue compagne?
– Non ti ha chiesto nessuno di aiutarmi, Bright.
Tirale uno schiaffo, le suggerì una vocetta maligna nella testa.
La ragazza rabbrividì.
Fin da quando aveva memoria, quella voce era sempre stata con lei, nascosta negli angoli più bui della sua testa. Si presentava di quando in quando e Cassandra la odiava con tutta sé stessa; quando era bambina aveva trovato curioso, quasi divertente avere una vocetta nella testa, ma crescendo aveva compreso la gravità della situazione e aveva tentato di eliminarla in tutti i modi: ignorandola, cantando, alzando il volume della musica o recitando versi di poesie a memoria; ma quella stoica voce era sempre rimasta lì, pronta a pungerla e istigarla all’odio. Era questo che faceva solitamente: spronarla a fare del male a qualcuno, a rispondere in malo modo, a cacciarsi nei guai; quando aveva sette anni, le aveva suggerito di usare la lametta di suo zio sui polsi per vedere cosa sarebbe successo e per poco non era morta dissanguata; un’altra volta durante una gita al mare, aveva ingaggiato una gara, proponendole di tenere la testa sott’acqua ed aspettare fin quando non sarebbe più riuscita a sentirla. Per fortuna suo zio era intervenuto in tempo prima che morisse per asfissia. Dopo quegli eventi e altri che ne erano susseguiti, aveva imparato a non raccogliere le sue sfide e a ripetersi che era solo frutto della sua immaginazione, e che sarebbe passato tutto, prima o poi.
Come no.
Cassandra strinse i pugni e si morse la lingua per non rispondere in modo altrettanto scortese; le voltò le spalle. – Betta, siediti qua – sentì dire ad una delle altre ragazze. – Lascia perdere la Bright. Lei è strana.
Non ha tutti i torti, commentò la voce.
Ignorandola, sorrise fra sé e tornò a sedersi, incrociando le gambe. Era strana perché preferiva salvare una gatta pelosa piuttosto che una sua compagna di scuola; era strana solo perché non passava metà della sua vita a truccarsi e l’altra metà a cercare marito; era strana perché, anziché vestire con vestiti firmati e calzare scarpe costosissime, indossava abiti comprati al mercato del lunedì e scarpe ordinate su internet da un sito cinese, consumate e polverose per i chilometri che vi faceva a piedi o in bicicletta; era strana perché invece che uscire ogni sera per andare in un pub diverso di Bedville – che, comunque, ne contava assai pochi, solo tre –, preferiva sedersi sul sofà basso che aveva sotto la finestra e leggere un bel libro con della musica classica di sottofondo. Più che strana, l’avrebbero definita pazza se avessero saputo di quella presenza nella sua testa, e non avrebbero avuto tutti i torti.
Riaprì il libro, pronta a riprendere la lettura, ma una voce nuova e diversa da quelle alte e stridule delle sue compagne di lezione, la bloccò. La voce che le giunse alle orecchie era calda e profonda, gentile e molto attraente.
I tre ragazzi che avevano camminato fino a pochi minuti prima sul sentiero erano stati attirati dalle urla della ragazza e si erano avvicinati. Ad aver parlato era stato il più alto dei tre e stava chiedendo al gruppetto se fosse tutto apposto. Cassandra assistette al più indecente flirt mai visto fino a quel momento in tutta Bedville, eppure il biondone-capo pareva apprezzare: lasciava scivolare gli occhi sui volti delle varie pretendenti, faceva cadere un sorriso qua e là, passava anche lui una mano fra i capelli scompigliati mentre ascoltava il racconto dell’attacco da parte di un’immensa bestia pelosa; si metteva le mani nelle tasche dei jeans per far risaltare la sua altezza e perfezione.
Osservò anche l’altro ragazzo: aveva incrociato le braccia al petto immenso, facendo gonfiare i pettorali sotto la sottile maglia di flanella, e guardava torvo il compagno, lanciando occhiate fiammanti ad alcune delle componenti del gruppo, che parevano gradire quelle rudi attenzioni.
L’ultimo, quello che aveva camminato fino a poco prima dietro i compagni con indifferenza, se ne stava qualche passo indietro, il naso all’insù nell’ammirare la maestosità del faggio. Non avendo più il viso abbassato a terra, Cassandra riuscì finalmente a vederlo in faccia: la sua pelle era senza imperfezioni ed era leggermente dorata, sembrava lievemente abbronzata, il naso era lungo e affilato, gli occhi erano verdazzurri e impreziositi da ciglia folte e nere; il tutto era coronato da capelli biondo-ramati, unici nel loro genere, e abilmente spettinati così da creare un'imperfezione umana in quel quadro divinamente perfetto.
Cassandra socchiuse gli occhi. Aveva come l’impressione di averlo già visto, e forse era così visto quello che aveva sentito dire nei corridoi.
La ragazza indugiò forse troppo sul volto del ragazzo perché questi parve come punto o bruciato da quello sguardo insistente e, abbassata la testa, si trovò ad incrociare gli occhi con quelli di Cassandra. Dapprima gli rivolse uno sguardo annoiato e disinteressato, poi, man mano che indagava il suo viso e la sua persona, una smorfia divertita apparve sul bel viso. Gli fece l’occhiolino.
Come risposta, avvampò e tornò maldestramente a leggere il libro; non riuscì a riprendere il punto, però, perché aveva la netta sensazione che quegli occhi verdazzurri stessero pressantemente studiando la sua persona.
Rilesse tre volte la stessa frase, si rassettò i capelli dietro l’orecchio destro, allentò la sciarpa che pareva stringerle il collo con innata forza quasi a volerla strangolare, sciolse le gambe dall’incrocio divenuto di punto in bianco scomodo, assestò i jeans sulla pancia perché le stringevano troppo come se fosse ingrassata di tre chili in due secondi, si grattò una guancia, spostò delle foglie che si trovavano vicino a lei, rilesse nuovamente la frase a inizio pagina. Era inquieta.
Chiuse il libro. Non riusciva più a leggere, non ci sarebbe più riuscita. Le risate delle ragazze la irritavano; la voce del biondone le arrivava ancora alle orecchie, non sapeva cosa stesse dicendo; si sentiva prudere una guancia e aveva la netta sensazione che gli occhi dello sconosciuto stessero fissando esattamente quel punto.
Ripose il libro nella borsa a tracolla che le aveva regalato lo zio e ne accarezzò le bordature, consumate e sfilacciate. Non avrebbe retto un altro anno scolastico. Sospirò e alzò lo sguardo, ormai la mente già intenta a pensare a dove andare per avere un po’ di silenzio; notò che lo sconosciuto era ancora lì, intento a fissarla. Cassandra si domandò se avesse qualcosa in testa, magari una gatta pelosa, perché il giovane la guardava ancora con uno sguardo divertito, un sorriso ironico a trentadue denti che sfavillava perfetto.
Solitamente i ragazzi non la consideravano un granché alla Bedville High School e, in generale, in città: era la ragazza dalle scarpe impolverate, dai capelli perennemente arruffati, vestita con il cardigan sghembo e i pantaloni grinzosi, che non indossava mai gonne o vestiti. E di tutta risposta, lei non considerava il sesso opposto visto che fin da bambina era stata trattata da loro più come un cameriere che come un esponente del gentil sesso. Spesso suo zio le diceva che era un maschiaccio, che anche lei avrebbe dovuto usare più vestiti striminziti e meno jeans, chiedere i soldi per i lip gloss e non per un nuovo libro.
– E tu che ne sai di lip gloss? – rideva lei mentre prendeva i soldi che gli porgeva.
L’uomo borbottava che ne sapeva molto di lip gloss, che non perché non fosse sposato o fidanzato o accompagnato questo significava che di donne non ne capisse nulla e che forse era colpa sua se la ragazza era venuta su così cinica, avrebbe dovuto comprargli più bambole quando era piccola, invece che assecondare le sue stravaganti richieste di mappamondi, raccolte di pietre e altre cianfrusaglie scientifiche. Forse aveva ragione, forse no; Cassandra non se l’era mai presa.
Quel giorno, però, il ragazzo si stava comportando come mai nessuno si era comportato con lei: il giovane la fissò con uno sguardo tranquillo, si passò una mano fra i capelli già in disordine e la guardò in tralice per vedere l’effetto di quel gesto, un mezzo sorriso divertito sulle labbra rosate. Cassandra si concentrò sui suoi capelli: era quasi certa che la chioma ribelle che aveva visto passare all’inizio dell’ora di filosofia fosse la sua. Doveva ammettere che quei capelli erano veramente selvaggi, quasi quanto i suoi.
Una delle ragazze che aveva cinguettato fino a quel momento attorno al biondone notò quello scambio di sguardi e subito scoccò un’occhiataccia a Cassandra. Lei la guardò con distacco e decise di andarsene.
Si issò la borsa in spalla e si avviò alla volta della biblioteca scolastica, piccola ma comunque ricca di volumi antichi e interessanti fra i quali lei era solita passare le giornate grigie e piovose. Camminava guardando davanti a sé, la mente persa nei pensieri più disparati.
Doveva fare la lavatrice quella sera.
Suo zio era a lavoro oppure era rimasto a casa?
Dove aveva messo il suo vecchio walkman?
Scusami.
Il postino aveva lasciato una lettera qualche giorno prima, doveva sempre leggerla.
La voce nella sua testa era tornata a farle compagnia.
Honolulu quando distava da Bedville?
Ehm, scusa.
La biblioteca chiudeva alle sette.
Strano, solitamente era una voce femminile…
Re Lear le piaceva.
Potresti fermarti un attimo?
Romeo & Juliet era il suo preferito, però.
Forse era ora di andare da uno specialista.
Possibile che non fosse per nulla freddo nonostante fosse autunno inoltrato?
Quando qualcuno la costrinse a fermarsi e voltarsi, comprese che quella voce non era frutto della sua immaginazione, ma che lo sconosciuto dai capelli di fiamma l’aveva seguita fino a quel momento, cercando di attirare la sua attenzione. Da vicino era più alto di quanto sembrasse da lontano. Si stava nuovamente passando una mano fra i capelli,  mentre l’altra era affondata nella tasca dei jeans.
– Fai podismo? – esordì il ragazzo.
Cassandra restò basita. Sbatté le palpebre: una, due, tre volte. Scherzava? L’aveva fermata solo per chiederle se per sport correva? Incrociò le braccia al petto, sulla difensiva. – Ehm, no.
– Ah! – esclamò, una nota di ironia nella voce. – Correvi come una forsennata.
– Non stavo correndo.
– No?
– E’ il mio passo abituale.
– E abitualmente cammini come una maratoneta?
Cassandra lo guardò con durezza. – Senti, non ho tempo da perdere – tagliò corto e si volse, tornando a dirigersi verso la biblioteca. Effettivamente camminava veloce, ma il ragazzo non si lasciò distanziare troppo e si mise al passo.
– Vedi? Stai correndo.
– No, sto cercando di seminarti.
– Seminarmi? – Sorrise. – E perché mai?
– E me lo domandi?
– Ti infastidisco?
– Per nulla – rispose con sarcasmo.
Avevano raggiunto il viale principale del cortile; a differenza di tutti gli altri piccoli sentieri sterrati che si snodavano nell’immenso cortile che circondava la scuola, quello era l’unico piastrellato e portava direttamente davanti all’ingresso. Le loro scarpe polverose non facevano rumore sulle lastre di granito ruvido.
– Hai dei problemi con le gatte pelose?
Cassandra si fermò d’improvviso e il ragazzo fece altri tre passi prima di fermarsi e voltarsi verso di lei. Fra tutti i ragazzi che aveva incontrato, quello doveva essere o il più scemo o quello con la più strana tattica per attaccare bottone che avessero mai escogitato prima di allora. Ancora un’altra domanda stupida e quanto era vero che lei si chiamava Cassandra Bright, gli avrebbe tirato un calcio negli stinchi. Riprese a camminare, ignorando il suo accompagnatore.
Entrò nella scuola e si diresse verso la biblioteca, nell’ala ovest. Il ragazzo continuò a seguirla: quando restava qualche passo indietro e quando l’affiancava, fischiettando sommessamente e passandosi la mano fra i capelli con fare distratto e vanitoso, guardandosi attorno. Giunta davanti alla grande porta della biblioteca, Cassandra si fermò e attese. Il ragazzo non accennò ad andarsene, non proseguì la sua camminata e non la salutò congedandosi, preferibilmente per sempre. Si voltò a guardarlo e lui la guardò indolente dall’alto del suo metro e novanta. Possibile che non sapesse far altro che seguire le persone e infastidirle?
Preferiva rimanere con quel dubbio. – Addio – e aprì la pesante porta.
– Le biblioteche mi hanno sempre affascinato – gli sentì dire con voce divertita alle sue spalle, e con un movimento fluido entrò nello spiraglio che la ragazza aveva lasciato dietro di sé.
La Bedville School Library era il vanto di quella scuola: non molto grande per quanto riguardava i locali, conservava nei suoi alti scaffali di mogano rosso libri di ogni sorta e fattura, con rilegature più o meno preziose, e vantava anche una collezione di libri del diciottesimo secolo, gelosamente esposta sotto teche di vetro dislocate qua e là nell’unica stanza che costituiva la biblioteca stessa. Oltre agli scaffali che coprivano ogni metro quadrato disponibile delle pareti, basse librerie del solito tono di mogano dividevano gli spazi, creando nicchie dove piccoli tavoli per due o quattro persone erano stati posizionati così da dare modo agli studenti e ai lettori di ripararsi in quel luogo silenzioso e pacifico per leggere o studiare.
Cassandra fece un cenno di saluto alla bibliotecaria, Miss Long, una donna alta e flessuosa, dall’età incalcolabile, che portava i capelli grigio piombo strettamente legati in uno chignon e occhiali a gatto sulla punta del lungo naso adunco, e si fiondò fra le basse librerie. Mentre lei cercava un posto dove sedersi comodamente e leggere, svincolandosi in quel piccolo labirinto, il ragazzo le andava dietro calmo, le mani in tasca, il naso all’insù nell’ammirare il bell’affresco che decorava la volta della stanza.
Finalmente riuscì a trovare un tavolinetto con tre sedie completamente libero, ben nascosto fra le librerie e all’estremità opposta dove si trovava la porta, cosicché non sarebbe stata disturbata dall’andirivieni di utenti più o meno chiassosi. Posò la borsa su una sedia e si lasciò cadere sull’altra.
Il ragazzo spostò silenziosamente l’unica sedia rimasta libera con un piede e vi si sedette con grazia, si stiracchiò e incrociò le braccia dietro la testa, ancora una volta sorprendentemente calmo. Quel giorno, l’andirivieni degli altri utenti della biblioteca non sarebbe certo stato il primo e unico problema della ragazza. Decisa ad ignorarlo, estrasse Re Lear dalla borsa consumata e si immerse nella lettura. O almeno, ci provò.
Re Lear non è un po’ troppo noioso per una ragazza della tua età? – domandò, annoiato.
Re Lear non è un po’ troppo perché tu lo abbia anche solo letto? – rispose lei senza neppure alzare lo sguardo.
– Mi sottovaluti.
– Non ti valuto per niente.
– In cortile non mi sembrava proprio…
– Non è di certo un pretesto logico per seguirmi.
– Non ti sto seguendo.
Finalmente Cassandra alzò lo sguardo dalla solita pagina che non riusciva a leggere. – Sto forse inconsapevolmente partecipando ad un giro turistico della scuola?
– Può darsi.
– Allora posso tornare tranquillamente in cortile, lo hai già visitato – e chiuse il libro.
– Guarda che caso, volevo proprio rivedere quel bel faggio.
– Stai scherzando?
– Assolutamente – Era indolente e leggermente sprezzante nei suoi confronti, quasi infastidito.
– Hai qualche problema? – sbottò la ragazza, stufa.
– No – rispose candidamente lui. – Tu, piuttosto?
Che faccia tosta. – Sì, con le gatte pelose.
Lui sorrise, divertito. – Sei così tagliente.
– Non te l’ha ordinato il dottore di seguirmi – Riaprì il libro, ben decisa a non continuare quella conversazione.
– No, ancora Re Lear
– La porta sai perfettamente dov’è.
La sua voce si fece mansueta, la sua espressione furba. – Mi sono perso, dovresti aiutarmi.
Cassandra alzò gli occhi, entrambe le sopracciglia inarcate. – Non mi sembri così smemorato da non ricordare come raggiungerla.
– No, ma abbastanza smemorato da non ricordare il tuo nome, sì.
– Tranquillizzati. Non hai problemi di memoria, non ti ho detto il mio nome.
– Vedi? Ho dei problemi di memoria, ero convinto di sapere come ti chiamassi – e lasciò la frase in sospeso, invitando con lo sguardo a rispondere a quella sua domanda implicita.
Cassandra si arrese. – Immagino che dicendoti il mio nome non avrò comunque pace, vero?
– Probabilmente, no.
– Un po’ di silenzio?
– Da spendere con il noioso Lear invece che con me? – Scosse la testa, sdegnato. – Mi dispiace, ma anche questo no.
La ragazza sospirò. – Cassandra. Cassandra Bright.
Giocherellava con un anello che si era sfilato dall’anulare destro; era un anello dorato, massiccio e con sopra stampigliato qualcosa che la ragazza non riuscì a vedere bene poiché il ragazzo se lo rigirava fra le dita, senza sosta.
– Bel nome – commentò laconico.
– Grazie.
– Stavo pensando… – Tornò dritto sulla sedia, lo sguardo al soffitto, l’anello che veniva rigirato ininterrottamente fra le dita. – Hai sorelle o fratelli?
Solitamente, quando si incontra una persona e le si chiede come si chiama, la cosa successiva che si fa è quella di presentare sé stessi. Questo fu quello che Cassandra pensò nei pochi istanti prima di rispondere, ormai conscia del fatto che il ragazzo che aveva davanti era “leggermente” fuori dagli schemi.
– No. Vivo sola, con mio zio.
Lui distolse lo sguardo dal soffitto e lo fece scorrere sulle belle librerie antiche, cariche di libri fino all’ultimo scaffale, a parecchi metri da terra. – Tuo zio?
– Sì, mio zio Denis. – Come contagiata dal giocherellare dell’anello, iniziò a sfogliare le pagine del libro senza un ordine preciso: a due a due, poi a tre a tre.
– Una volta, – disse – ho vissuto in una casa con una biblioteca come questa: muri coperti da librerie alte e colme di libri antichi, un soffitto a volta con affreschi di angeli e santi che, da lassù, ti guardano e ti giudicano.
Anche lei alzò lo sguardo al soffitto, inconsciamente felice che il ragazzo avesse cambiato discorso e non le avesse chiesto dove erano i suoi genitori: su un cielo azzurro chiaro intercalato da delicate nuvole bianche, stavano angioletti nudi con arco e frecce che svolazzavano qua e là con le loro piccole alette piumate; il tutto era contornato da una cornice dorata che formava ghirigori e onde graziose sullo stucco verde spento del soffitto. Un soffitto importante a cui era appeso un lampadario altrettanto importante di cristallo, lungo in estensione e sporgente di poche decine di centimetri, applicato nel centro di quel cielo fittizio.
– Devi aver vissuto in una bella casa – osservò Cassandra che si immaginava un affresco del genere solo in una di quelle belle ville ottocentesche che si potevano vedere in quei programmi televisivi in cui mostravano le case dei ricchi nobili moderni.
Il ragazzo sogghignò. – Diciamo di sì.
Rimasero così, a fissare l’affresco per quelli che parvero minuti interminabili. Il silenzio della biblioteca era ovattato, sembrava di essere sordi tanto i rumori arrivavano attutiti all’orecchio; il sole entrava dalle alte finestre, insinuandosi fra le tende di pesate broccato verde scuro, e formava lunghi fasci di luce nei quali si poteva veder danzare la polvere, vera sovrana di quel luogo; il pavimento in parquet scricchiolava qua e là quando qualcuno si muoveva fra le librerie, non si era in grado di vedere chi fosse, quindi pareva che la biblioteca respirasse e quello scricchiolio fosse il rumore del pavimento che, come un petto, si alzava e si abbassava in ampi respiri.
– Sei bionda naturale? – La voce del ragazzo giunse alle sue orecchie come uno schiocco nel silenzio della notte, e Cassandra sobbalzò leggermente.
– Come, scusa?
Lui fece un gesto con il mento verso di lei. – Ho chiesto se sei bionda naturale.
Involontariamente, si portò una mano ai boccoli dorati. – Perché me lo chiedi?
Fece spallucce e incrociò le braccia al petto, l’anello nuovamente al suo anulare destro. – Così, per parlare.
– Giusto. – Non era così tanto giusto e non così tanto normale andare in giro a chiedere a persone conosciute da meno di cinque minuti se o meno erano bionde naturali. – Per parlare.
– Non sei una tipa loquace. – Era tornato ad essere sprezzante, gli occhi socchiusi come quelli di un gatto a caccia.
Riaprì Re Lear. – In biblioteca, solitamente, si legge.
– E tu, solitamente, non fai altro che leggere?
– Se anche fosse, non c’è nulla di male.
– Sei sempre così sulla difensiva?
– Solo con chi mi fa domande stravaganti – rispose, affilata.
– Mi trovi stravagante? – domandò, distratto.
– No, per niente – ironizzò lei.
– Generalmente, – e incrociò le braccia dietro la testa, affondando le mani nei capelli e mettendo in risalto il suo fisico atletico e asciutto, – le ragazze mi trovano fico.
Cassandra alzò un sopracciglio. – Umile da parte tua.
– Modestia è il mio secondo nome.
– Fammi indovinare: Narciso è il primo?
Chiuse un attimo gli occhi come perso in pensieri lontani e che solo lui poteva vedere, un sorriso sulle labbra che via via si faceva sempre più ampio. – Narciso, Narciso – ripeté. Era veramente immerso nei suoi ricordi, il viso beato di chi non potrebbe stare meglio di così, pareva quasi che si potesse addormentare da un momento all’altro. Cassandra lo osservò per qualche istante, poi decise di cogliere quel momento di silenzio per tornare alla lettura, speranzosa che veramente il ragazzo si stesse addormentando. E invece…
– Feibush – disse d’improvviso, con voce ferma. Stava in equilibrio su una sola gamba della sedia, ruotando leggermente da destra verso sinistra come un bambino piccolo, gli occhi ora ben aperti e fissi sulla ragazza.
Quest’ultima aveva nuovamente alzato lo sguardo dal libro, rassegnata, e guardava il ragazzo con espressione interrogativa poiché non aveva ben capito cosa le fosse stato detto o, meglio, abbaiato e non voleva fare la figura della sorda o della scema che deve sempre farsi ripetere le cose minimo due volte. Attese, quindi, che il ragazzo ripetesse quello che aveva detto.
– Il mio nome è Feibush.
– Ah! – Che nome strano, pensò. – Carino.
La guardò, un sopracciglio alzato. – Carino?
Cassandra evitò di guardarlo negli occhi ed iniziò a gesticolare con le mani. – Sì, bel nome. Insomma, che devo dirti?
– Be’, normalmente mi viene detto che è un nome strano.
La ragazza evitò ancora di più il suo sguardo, arrossendo leggermente. – Anche il mio nome non è così comune come si crede.
Feibush disse qualcosa che la ragazza, però, non colse. Ebbe come l’impressione che avesse parlato in un’altra lingua. – Come?
– Dicevo che pensando al tuo nome, mi vengono in mente le opere virgiliane o omeriche, per non parlare di Eschilio, Pindaro e Bacchilide. Hai presente?
La ragazza era stupita. Se anche aveva incontrato ragazzi che, a grandi linee, sapessero di cosa parlavano l’Iliade e l’Eneide, nessuno di loro sarebbe mai stato in grado di dire chi fossero o anche solo pronunciare correttamente i nomi dei tre poeti greci appena rammentati. – Sì, li conosco.
– Immagino che ne sia venuta a conoscenza prevalentemente tramite questa biblioteca.
Cassandra annuì.
– Come potevo dubitarne?
La ragazza ignorò la frecciatina, non aggiunse niente e si limitò a guardare il ragazzo pettinarsi i capelli all’indietro, le mani dalle dita affusolate che affondavano in quel mare dorato, lo sguardo distratto, fuori dalla finestra. Si soffermò a osservare come era vestito: portava un giacchetto nero corto, in finta pelle con delle zip che dai polsi salivano sino al gomito dandogli l’aria da motociclista, e sotto di esso spuntava una semplice maglia nera, aderente, probabilmente a maniche corte. I jeans dello stesso colore erano stretti, attillati così da mettere in risalto la muscolatura forte e felina delle lunghe gambe che calzavano Prada scure.
– Non consumarmi, per favore – commentò lui, e Cassandra si rese conto che i suoi occhi stavano osservando da un po’ troppo tempo e con, forse, troppa insistenza le sue gambe, allungate e incrociate in una posizione pigra. Di colpo, divenne paonazza e iniziò a bofonchiare cose senza senso, scusandosi e dicendo che non voleva assolutamente importunarlo.
Feibush sghignazzò, stavolta passandosi volutamente entrambe le mani nei capelli e tirandoli indietro tutti così da scoprire il suo meraviglioso viso. In quel momento pareva un modello pronto per uno shooting. – Sono troppo bello.
– No, non è quello – si lasciò sfuggire Cassandra, e subito si pentì; non voleva dire che non fosse bello, ma non voleva neppure che fraintendesse il suo comportamento. Insomma, si conoscevano appena e già ci stava passando come una disperata con la bava alla bocca. Di certo, lui non aiutava con quelle pose plastiche, ma non era quella l’idea che voleva dare. Lei non era una disperata.
– Mi stai forse dicendo che sono brutto? – Aveva incrociato le braccia al petto, i capelli nuovamente scompigliati, un’aureola che i raggi di sole facevano brillare. Aveva assunto un’espressione astuta.
La ragazza contò fino a dieci, inspirò ed espirò. – Non ho detto questo. Stavo semplicemente pensando e mi ero fissata su un punto, nulla di più.
– E che punto!
Cassandra decise di ignorare l’ampio sorriso invitante che le veniva rivolto, ripose il libro e si alzò: la lezione successiva sarebbe iniziata di lì a poco e tanto valeva mettersi in moto, prima che tutta la scuola si riversasse nei corridoi.
Feibush si stiracchiò languidamente come un gatto, allungandosi in tutta la sua altezza e socchiudendo gli occhi, fermamente puntati su di lei. La ragazza lo guardò appena e si diresse, lentamente, verso l’uscita della biblioteca. Come c’era da immaginare, lui si mise immediatamente al seguito e i suoi passi leggeri si sentivano appena in quel silenzio ovattato. Uscirono senza far rumore e senza parlare, l’una persa nei suoi pensieri e l’altro intento a sistemare i propri abiti leggermente sgualciti.
La ragazza stava pensando nuovamente a cosa avrebbe dovuto fare quel pomeriggio: mettere su la lavatrice, finire di leggere quel benedetto Re Lear e riportalo alla biblioteca, stirare le sue camicie asciutte che aveva lasciato sul divano, concludere la relazione di biologia e cucinare in anticipo la cena prima di uscire per la sua quotidiana passeggiata. In tutto questo, doveva far rientrare il ripasso di storia e lo studio di quelle tre o quattro pagine di arte che le erano rimaste da fare. Le pareva riguardassero il gotico, ma non si ricordava bene…
– E’ un’impressione o qualcuno sta sognando a occhi aperti? – La voce beffarda del ragazzo la riportò alla realtà per la seconda volta, quella mattina. Cassandra si scusò, e spiegò che stava cercando di ricordarsi l’argomento di storia dell’arte che le restava da studiare.
Feibush assunse un’espressione indignata. – Tu devi rivedere le tue priorità.
Avevano appena superato l’atrio e stavano proseguendo verso l’ala est. – Perché?
– Hai qui, accanto a te, il ragazzo più bello della scuola, e pensi a storia dell’arte? – Scosse il capo. – Probabilmente nessuno ti ha insegnato a discernere fra ciò che è sacro e ciò che è profano.
– Probabilmente, la palma di ragazzo più bello della scuola non ti è ancora stata attribuita.
– Sono il più affascinante, incantevole, stuzzicante, attraente, allettante e seducente membro del genere maschile che tutta Bedville abbia mai accolto in vita sua. Non credo vi siano obiezioni su questo.
– Se lo dici tu…
– Io? – La sua voce era velata di stupore. – E tu, cosa obietteresti?
– Io non obietto – rispose, diplomatica.
– Quindi, qui tacet, consentire videtur.
In dubis abstine.
– Possibile che tu abbia sempre la risposta pronta?
Erano arrivati davanti alla classe in cui si sarebbe tenuta la lezione di storia dell’arte; la porta era leggermente accostata e sbirciando dentro, Cassandra notò che c’erano già parecchi dei suoi compagni seduti sui banchi, a chiacchierare. Feibush era dietro di lei, le mani in tasca, lo sguardo assorto oltre una delle tante alte finestre che costeggiavano tutti i corridoi della Bedville High School.
La ragazza aprì la porta per entrare.
– Te ne vai senza salutare? – disse lui con voce indolente. – Credevo fossi una ragazza educata.
Lei si volse a guardarlo, stizzita. – Ciao.
– Peccato, mi aspettavo di più.
Gli voltò le spalle nuovamente. – Sì, il mio numero di cellulare, magari.
– Potrebbe andare come inizio. Da come mi fissavi, un’ora fa, sotto il faggio, questo era il minimo che mi aspettassi.
Cassandra si voltò di nuovo, arruffata più che mai. – Non ti fissavo – sbottò.
– Giusto – Si grattò il mento con indifferenza. – La definizione giusta è che mi stavi mangiando con gli occhi.
Possibile che fosse così insolente? – Spiacente, avevo già fatto colazione stamani.
– E poi mi hai sorriso…
– Non era un sorriso, era una colica – disse lei, cupa e infastidita.
– Poverina, se vuoi posso portarti in infermeria. – Sorrise, invitante. – Sono un bravo dottore, sai?
– Non ne ho dubbi, ma no, grazie.
– Sei proprio una bambina testarda.
– Non sono una bambina.
– Mmmm, forse. – Fece due passi indietro e guardò il fondo del corridoio, come se stesse aspettando qualcuno. Anche Cassandra guardò in quella direzione, ma non vide nessuno. – Hai per caso una gomma da masticare? – le domandò tornando a guardarla.
Quella sua incostanza iniziava a irritare la ragazza. – No.
– Hai qualcosa in quella borsa che non sia un libro? – domandò, apparentemente seccato.
– No.
– Sai, dovresti essere più disinvolta con gli altri, non ti farebbe male.
– No – ripeté, dura.
– Hai intenzione di proseguire con questa sfilza di “no”?
– No – e si voltò, aprendo la porta dell’aula.
– Sei proprio una bambina – la schernì Feibush.
Incapace di trattenersi oltre, Cassandra si voltò, paonazza in volto, e controbatté ma il suono della campanella sovrastò la sua voce. Il ragazzo la guardò, sprezzante e indolente, s’indicò le orecchie e, con espressione strafottente, le fece capire di non aver sentito niente. Rimase lì a fissarla, le mani in tasca, le spalle leggermente curve, divertito.
Il trillo della campanella si perse nell’aria e il rumore della folla di studenti che si riversava nel corridoio lo sostituì. Irritata, la ragazza chiuse la porta dell’aula in faccia a Feibush per non dargli ulteriore modo di infastidirla e prenderla in giro: non era come i cafoni dei suoi compagni di scuola, era peggio. Si sedette e gettò la borsa sul banco, guardando torva altre ragazze e ragazzi prendere posto, ignorandola e parlando del più e del meno.
Bambina. Questa parola rimbombava nella sua testa, le orecchie le fischiavano più che mai per la rabbia. Se lo avesse avuto fra le mani, lo avrebbe quasi certamente strozzato. Un ragazzo si sedette alla sua destra, ma lei non lo notò. Per calmare i nervi, aveva estratto in malo modo Re Lear dalla borsa e si era immersa nella lettura, accigliata.
Quel giorno, però, o era molto fortunata in fatto di nuovi incontri o quel libro portava dannatamente iella.
Non se ne era resa conto, ma una ragazza si era seduta alla sua sinistra; non c’era nulla di male poiché si trovava in un’aula di una scuola pubblica ed era normale che le persone si sedessero attorno a lei e accanto a lei, ma la ragazza in questione attaccò a parlare con il ragazzo seduto alla sua destra, coinvolgendola indirettamente nella conversazione.
– Origen – chiamò. – Hai visto per caso mio fratello venendo qua?
Il ragazzo accanto a Cassandra si mosse leggermente, senza proferir parola. La ragazza doveva aver ricevuto una risposta a lei non gradita perché sbuffò e incrociò le braccia al petto. – Possibile che debba sempre gironzolare senza una meta precisa?
– Tuo fratello ha sempre una meta precisa. – Le parole del ragazzo suonarono dure e sprezzanti come se stesse parlando di qualcuno di sgradito.
– Una meta che solo lui conosce, però.
– Anche questo fa parte della sua indole.
– Un’indole ribelle.
– Se ribelle è l’aggettivo che ritieni giusto per descriverlo.
– Avrei voluto parlargli; da quando siamo arrivati, non ho avuto modo di rivolgergli la parola, tanto non è stato fermo un attimo. Theodore e Oscar mi hanno detto che è rimasto con loro per un po’, poi si è allontanato per seguire una ragazza.
– Classico.
Un sospiro profondo. – Non lo puoi biasimare, Origen.
– L’ho sempre biasimato, Aiman – spiegò il giovane. – E la sua condotta non è sempre stata delle migliori.
– La condotta di nessuno di noi è mai stata delle migliori, ricordalo.
– Mi stai forse accusando di qualcosa?
– Ho forse detto questo?
– Lo insinui.
– L’acidità non ti fa bene.
– Neppure la tua compagnia.
Colpita da queste risposte così caustiche e soprattutto dalla calma con cui l’interlocutrice rispondeva, Cassandra si volse a guardare il ragazzo, perplessa. Questi rispose al suo sguardo dubbioso e assieme curioso con fare superbo, drizzandosi sulla propria sedia; aveva capelli corvini, lunghi e lisci che sfioravano delicatamente le spalle angolose, la pelle era candida e contrastava con il rosso purpureo delle labbra sottili; gli occhi erano di una bella sfumatura violetta che rendevano il suo sguardo e la sua persona inusuali e misteriosi.
Origen la fissò per un attimo, il viso velatamente disgustato e aprì bocca per dirle qualcosa, sicuramente non parole gentili, ma la ragazza seduta a sinistra di Cassandra lo interruppe.
– Scusaci – disse. – Abbiamo interrotto la tua lettura.
Seduta compostamente al proprio posto, Aiman indossava un leggero abito bianco lungo fino alla caviglia, stretto in vita da una sottile cintura marrone, accompagnato da un corto copri-spalle azzurro chiaro, che le evitava di lasciare le spalle nude, e da scintillanti bracciali che tintinnavano alle sue braccia snelle. Rivolse a Cassandra un sorriso ampio e perfetto, scoprendo una fila di denti regolari e bianchi; aveva morbidi capelli castani che ricadevano in boccoli delicati sulle spalle minute, un naso all’insù che le davano un’aria aristocratica, e grandi occhi verdi, impercettibilmente truccati. Era semplice e bella, neppure lontanamente volgare in quell’abito che, addosso ad altre, sarebbe apparso popolano e scialbo.
– Ci dispiace molto – ripeté, e Cassandra si rese conto di essere rimasta a fissarla, la bocca leggermente aperta dallo stupore di come tanta semplicità e bellezza potessero essere unite in una sola persona. – Io e Origen non volevamo disturbati.
Cassandra ignorò il grugnito che venne dal ragazzo e si affrettò a dire che non era stata assolutamente disturbata: questo non era vero neppure in minima parte, ma quella ragazza era così bella e le infondeva una calma tale che non se la sentiva di dirle che era stata urtata da quella conversazione.
– Mi chiamo Aiman – e le porse una mano.
– Cassandra – rispose stringendola.
Il viso della ragazza si illuminò di felicità. – Bellissimo nome!
– G-Grazie – balbettò Cassandra, imbarazzata. Era la seconda volta nello stesso giorno che una persona sconosciuta si complimentava per il suo nome. Aiman dovette intuirlo e la sua espressione si fece dolce e comprensiva.
– Non prendermi per una pazza – spiegò. –Il tuo nome mi ricorda una lontana, lontanissima amica. – E il suo sguardo si alzò sopra la sua testa, facendosi vacuo come se viaggiasse nello spazio e nel tempo, lontano da loro e capace di raggiungere quell’amica.
– Curioso. – La voce del ragazzo fu come un sibilo velenoso e fece rabbrividire Cassandra, che si voltò, timorosa. Origen la guardava dall’alto in basso, lo sguardo in tralice, un’espressione strana sul volto, sorniona. – Cassandra.
La ragazza deglutì e si rese conto di aver trattenuto il fiato quando il suo nome era stato pronunciato, quasi potesse succederle qualcosa. Quel ragazzo non le piaceva per niente. Lui incrociò le mani e vi appoggiò sopra il mento, gli occhi socchiusi a studiarla con interesse; Cassandra si sentiva stranamente scoperta, nuda davanti a quello sguardo indagatore e non era a suo agio perché tutto in quel ragazzo la disturbava: la voce spettrale, la pelle chiarissima, cadaverica, le mani affusolate e dalle dita lunghissime come le zampe di un ragno, e gli occhi violetti, glaciali e razionali che stavano indugiando su di lei con troppa insistenza.
Nel frattempo, il professore di storia dell’arte era entrato senza far rumore e ora stava chiedendo silenzio ad un gruppetto particolarmente chiassoso di ragazze che, deluse e imbronciate, rivolsero occhiate torve all’uomo per poi voltarsi incerte, una ad una, verso Origen che le ignorò, lo sguardo fissò sulla lavagna; era ovvio che fossero rimaste incantate e, allo stesso tempo, intimorite da quel ragazzo, così bello e delicato come distante e gelido.
Come era ovvio, anche i ragazzi non avevano potuto non notare Aiman e la sua bellezza senza imperfezioni: molti erano seduti scompostamente nei loro posti, cercando di ottenere una prospettiva della bella ragazza, assumendo posture scomode ma, nella loro opinione, affascinanti; si passavano le mani nei capelli, sorridevano, ammiccavano fra di loro, lanciavano sguardi più o meno eloquenti verso la ragazza. Quest’ultima, però, non li guardava neppure, non civettava, pareva non interessarsi proprio alle loro attenzioni e sembrava che questo non facesse parte di una calcolata strategia attrattiva, ma che fosse puramente e limpidamente disinteressata: giocherellava con un boccolo, lo sguardo rivolto verso la finestra per ammirare uno scorcio di cortile illuminato dall’ambrato sole autunnale, il viso disteso e calmo.
Cassandra ascoltò la voce monotona del professore, assistette ad una penosa interrogazione di due suoi compagni di classe – palesemente impreparati – e si accinse a prendere appunti quando l’uomo iniziò a spiegare un nuovo argomento, una ventina di minuti prima che la lezione terminasse. Notò, con sorpresa, che i suoi compagni di banco non prendevano alcun appunto, nonostante avessero entrambi un quaderno immacolato aperto davanti a loro: Origen aveva incrociato le mani davanti al viso e fissava il professore che – o era solo un’impressione di Cassandra – era rabbrividito quando aveva incontrato il suo sguardo e aveva evitato, per tutto il tempo restante, di guardare nella sua direzione; Aiman, invece, aveva smesso di giocherellare con i capelli e seguiva, sempre sorridente e apparentemente interessata alla materia.
La lezione finì a mezzogiorno in punto, nel torpore generale indotto sia dalla materia che dal calore che si era fatto padrone della stanza, ricreando un ambiente ideale per dormire; il professore stava illustrando cosa avrebbero fatto durante la lezione successiva, ma nessuno lo stava ascoltando, tutti erano presi a rassettare le proprie cose, stiracchiarsi, chiacchierare.
Cassandra prese nota e poi iniziò a riporre l’astuccio e il quaderno. Quel giorno non avrebbe dovuto seguire le lezioni sino alle due del pomeriggio, come il suo orario normale prevedeva, poiché la professoressa di fisica era malata e aveva chiesto una settimana di malattia; dopo quella lezione, quindi, sarebbe dovuta andare diritta a casa. Non aveva voglia di rientrare, però, e decise che avrebbe passato un’oretta in biblioteca, tentando finalmente di finire Re Lear.
– Scusami ancora, sai mica dove si trova la biblioteca? – le domandò Aiman, di punto in bianco. Cassandra annuì e le spiegò che anche lei era diretta là, quindi poteva tranquillamente seguirla, così avrebbe evitato di perdersi. La ragazza le sorrise, illuminando tutta la stanza, e la ringraziò di cuore.
– Origen, vieni anche tu? – chiese educatamente.
Quest’ultimo si era già alzato e le guardò dall’alto con distacco, infastidito. – No – e, senza dare ulteriori spiegazioni, se ne andò.
Cassandra si sentì offesa da quel comportamento: le era bastato quel minimo contatto per averlo in antipatia. Alterata, spinse con eccessiva forza il libro di arte nella borsa, e Aiman lo notò: le pose gentilmente una mano sul braccio come per tranquillizzarla e le sorrise. – Non preoccuparti – disse. – Origen non è un tipo molto socievole.
– Non ti irrita?
– Lo conosco da un po’ e posso dirti che fa parte della sua persona risultare un po’… – pensò un attimo, cercando la parola giusta per descriverlo, – sgradito, ecco. È solo una prima impressione, però, e chi lo conosce bene, sa amare anche questo suo lato cupo.
Cassandra guardò il viso della ragazza e notò che, ancora una volta, il suo sguardo si era fatto vuoto e lontano; si capiva perfettamente che i due dovevano conoscersi da molto tempo.
Si diressero verso la biblioteca, camminando nella folla e parlando del più e del meno, senza soffermarsi su cose troppo personali: parlarono del tempo, di libri, di arte, di pittura, di scultura. Per la prima volta, Cassandra aveva trovato una ragazza con un minimo di sale in zucca, bella e intelligente allo stesso tempo, con cui era possibile parlare di tutto, non solo di cose futili come i problemi di cuore, ma anche argomenti profondi e interessanti; era come essere tornata a parlare con la figlia della fioraia che era così intelligente e sveglia, delicata e calma. Più parlava con Aiman, più l’ammirava.
Giunsero davanti alla porta della biblioteca immerse in una conversazione sul Bernini e le sue opere, e non si accorsero di essere osservate da qualcuno appoggiato al muro, le braccia incrociate al petto.
– Non posso crederci – disse il ragazzo. – State parlando della lezione?
Cassandra riconobbe subito la voce di Feibush e aveva già la risposta pronta sulle labbra, quando Aiman la precedette: – Dov’eri finito?
– Un po’ qua, un po’ là. – Sventolò una mano affusolata.
– E’ tutta la mattina che ti cerco.
Alzò gli occhi al cielo in modo teatrale. – Che cosa avrai mai avuto da dirmi di così importante, io non lo so.
– Lo avresti saputo, se fossi rimasto con gli altri invece che correre dietro la prima ragazza che ti è passata sotto il naso – lo rimproverò lei, corrucciata.
Feibush sorrise e guardò Cassandra, divertito. – Dovevo chiederle se praticava podismo.
Lei lo guardò, torva; non si era certo dimenticata di come l’aveva trattata prima e non si sarebbe lasciata ammaliare dai suoi modi.
Aiman notò l’occhiata del ragazzo. – Come, scusa?
– Podismo, Aiman. Correre, hai presente? – disse esasperato e simulò una corsetta sul posto.
– Per favore, Feibush, so cos’è il podismo. – Si rivolse a Cassandra. – Temo tu abbia già conosciuto mio fratello.
Fratello? – Sì.
– Spero vivamente che non ti abbia turbato in alcun modo.
– Turbarla? – gli fece eco il ragazzo.
Lei lo ignorò. – Sa essere particolarmente… entrante e fastidioso.
– E straordinariamente affascinante – aggiunse l’altro.
– Con manie di protagonismo.
– Bello come il sole.
– Vanitoso.
– Atletico.
– Testardo.
– Intelligente.
Aiman si voltò verso il fratello, un sopracciglio pericolosamente inarcato e un’espressione dubbiosa sul volto; Cassandra guardò Feibush che sorrideva, falsamente angelico, alla sorella e avrebbe voluto schiaffeggiarlo. Optò per il raziocinio. – Mi ha semplicemente seguita – spiegò lei con tono disinteressato, cercando di minimizzare; era tale da far capire al ragazzo che quello che era successo non le importava minimamente, voleva dargli il minor peso possibile.
– Ah! Seguire è un suo vizio – commentò Aiman.
– Se lo si può definire tale. E poi – si voltò a guardare la ragazza; sembrava infastidito – non ti stavo seguendo.
– No, infatti – Cassandra si toccò un attimo il mento, imitando il gesto che aveva fatto lui, poche ore prima. – La definizione giusta è che mi stavi perseguitando.
Lui aprì bocca per controbattere, ma Aiman lo anticipò: – Ci avrei scommesso la testa. Mio fratello è fatto così: perseguita le ragazze.
– Molte di loro non definiscono le mie attenzioni come “persecuzioni” – obiettò lui, calmo. – Inoltre, come hai detto tu, io perseguito le ragazze –, e puntò i suoi occhi apparentemente tranquilli in quelli di Cassandra; nella sua mente rimbombò ancora una volta la parola “bambina”, poteva vederla scorrere all’infinito in quello sguardo che con la sua tranquillità la sfidava a reagire, a controbattere e un calore diffuso le salì dalla schiena, diffondendosi fino al viso. Inspirò e distolse lo sguardo, mordendosi la lingua tra i denti. Non aveva alcuna intenzione di dargli soddisfazione. Aiman parve non rendersi conto di niente.
– Non hai nient’altro da fare, caro fratello?
– Cosa può esserci di meglio che stare con la mia adorata sorella?
Aiman aprì la bocca per dire qualcosa, poi si arrese, scosse il capo e suggerì a Cassandra di entrare in biblioteca, tanto era una causa persa. La ragazza la seguì, vedendo fare la stessa cosa a Feibush. Nonostante la rabbia occupasse gran parte del suo cervello in quel momento, guardandoli bene aveva realmente notato una certa somiglianza fra i due: avevano lo stesso naso perfetto, la stessa bocca, la stessa forma del viso, le stesse lunghe mani affusolate; erano entrambi molto alti e atletici, ma Aiman era leggermente più bassa e gracile del fratello, mentre il colore dei capelli era opposto a quello del fratello e gli occhi erano diversi non solo per il colore, ma anche per la forma: lei aveva occhi grandi, rotondi; lui aveva penetranti occhi felini, adornati da lunghe ciglia nere che li facevano sembrare ancora di più gli occhi di un gatto.
Si sedettero ad un piccolo tavolino con tre sedie. Aiman e suo fratello iniziarono a parlare fra di loro, a voce relativamente bassa e Cassandra comprese che quel tono era stato assunto sia per il luogo in cui si trovavano, sia per non farsi sentire da lei – o, comunque, così lei concluse. Decisa a non interferire e, soprattutto, decisa a non parlare con Feibush, tirò fuori il suo libro e iniziò a leggere, chiudendosi nel suo mondo.
Per un tempo relativamente lungo e che le permise di finire un capitolo dopo l’altro, i due rimasero così, seduti l’uno accanto all’altra, lui con le braccia incrociate appoggiate sul tavolo, lei con le mani intrecciate su cui aveva posato il viso; parlavano a voce veramente bassa, era difficile capire come facesse l’una a sentire l’altro, eppure dovevano comprendersi tranquillamente perché Aiman ascoltava attentamente, lo sguardo serio, il capo che annuiva qua e là, la bocca che si muoveva impercettibilmente per aggiungere qualcosa o fare un commento; Feibush era voltato sulla sua destra, era serio e rigido sulla sedia.
Cassandra non sentì nulla di quello che si dissero e avrebbe continuato a leggere se, ad un certo punto, non si fosse sentita a disagio come se qualcosa che non dovrebbe succedere stesse avvenendo attorno a lei. Alzò lo sguardo e notò solo in quel momento che i suoi due compagni di tavolo avevano smesso di conversare da un bel po’, e la fissavano.
Aiman le sorrise. – Ancora una volta devo scusarmi per averti interrotto.
– No, no. – Chiuse il libro ormai quasi finito. – Nessun disturbo.
– Stavo ammirando i tuoi capelli – disse e i suoi occhi viaggiarono sui suoi boccoli.
– Grazie.
– E’ bionda naturale – commentò Feibush.
Cassandra lo guardò, torva. Era proprio necessario aggiungere un particolare di quel genere? Lui parve intuire il senso del suo sguardo e fece spallucce. – Mia sorella è si è tinta una volta.
– Ignoralo, gli piace criticare gli altri perché si sente più bello di chiunque.
– Io sono più bello di chiunque.
– Certo, certo – minimizzò lei sventolando una mano come per dissipare quella inutile precisazione. – Dimmi, Cassandra. Da quanto tempo vivi qui, a Bedville?
– Da quando avevo sei anni. Io e mio zio ci siamo trasferiti qua poco prima che io iniziassi la scuola.
– E’ un paesino pittoresco, vero?
– Sì, penso che nessuno lo avesse mai definito così.
– Le sue case, i suoi giardini, la stessa scuola: tutto mi fa pensare a quelle cittadine che si vedono nelle serie tv, delicate e perfette…
– Che nascondono serial killer spietati fra i muri delle loro case in stile vittoriano – aggiunse Feibush, interrompendo l’entusiasmo della ragazza che lo incenerì con un’occhiata. – Per favore, Aiman! Questo è un posto dimenticato dal mondo: nessuna discoteca, nessun locale alla moda, nessun pub.
– Veramente, ci sono tre pub – precisò Cassandra, che si sentì in dovere di difendere Bedville.
– Vuoi parlare di quei tre bar con più anziani che giovani? – Incrociò le braccia dietro la testa. – Sei mai stata in un vero pub, Cassandra?
– No, e non mi interessa.
– Scommetto che un giro con me ce lo faresti – affermò, arrogantemente sicuro di sé.
– Né con te né con nessun altro, non sono tipo da pub.
– Sei più un tipo da biblioteca, eh?
– E con ciò? Hai dei problemi con le biblioteche?
– No, anzi. È il luogo migliore per incontrare ragazze.
– Sei serio?
Aiman cercò di intervenire: – Cassandra, ovviamente mio fratello sta scherzando… – ma entrambi la ignorarono quasi avessero tacitamente dato vita ad uno scontro in piena regola.
– Serissimo. Dovresti conoscermi, ormai.
– Non ti conosco affatto.
– Conosciamoci.
– Anche no.
– Giusto – disse lui con tono annoiato, lo sguardo verso il soffitto. – Lear prima di tutto.
Cassandra si alzò di scatto. Quel ragazzo aveva dei problemi, e lei non sarebbe rimasta lì per risolverli o per fungere da parafulmine al suo caratteraccio volubile. – Basta. Vado a casa – e si voltò.
– Ciao – disse lui, la voce troppo calma e pacata.
La ragazza si stava già allontanando, quando Aiman disse: – Possibile che tu non possa mai tenere chiusa quella tua stramaledetta boccaccia?
Prima di essere troppo lontana, Cassandra sentì la risposta: – Oh, ma stai zitta.

--------------------

Spero qualcuno trovi la pazienza di leggere i miei malloppi :) delle recensioni sarebbero più che gradite, non ho mai fatto leggere a nessuno i miei lavori e un bel feedback mi servirebbe :) di ogni critica farò tesoro! EB
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Una realtà da incubo ***


UNA REALTA’ DA INCUBO

 
Nel pomeriggio Bedville cadeva nel torpore generale: i negozi si svuotavano di clienti, gli anziani sedevano vicino alle finestre per guardare fuori oppure per leggere un libro su cui si addormentavano, la biblioteca storica si riempiva di amanti della lettura o studenti in cerca di un luogo silenzioso, la maggior parte dei giovani restava in casa, più o meno occupati nello studio che fossero.
La campana della chiesa gotica suonò le quattro del pomeriggio e proprio in quel momento Cassandra stava togliendo i panni asciutti dal filo nel piccolo giardino sul retro. Una volta tornata a casa, aveva pranzato velocemente con una carota e due biscotti, aveva caricato la lavatrice e si era immersa nello studio dal quale era riemersa, indolenzita e stanca, solo in quel momento. Avrebbe voluto finire di leggere Re Lear per poterlo riportare alla biblioteca, ma era troppo sfiancata e rischiava di non ricordare quello che avrebbe letto. Inoltre, non aveva molta voglia di tornare dietro alla scrivania dove era stata fino a quel momento, china su quaderni e libri.
Finì di piegare gli ultimi abiti e li ripose nella cesta di vimini, poi si portò le mani alla schiena e si sgranchì un attimo. Aveva bisogno di fare una camminata o, meglio, una corsetta sia per smaltire lo stress, sia per farsi passare quel mal di schiena lancinante che la tormentava sempre dopo ogni pomeriggio di duro lavoro.
Posò la cesta di vimini sul tavolo in salotto e si diresse in camera. Indossò una leggera maglia a maniche corte con sopra una giacchetta azzurra, un paio di pantaloni grigi di cotone e le sneakers sformate con le quali era solita andare a correre o a fare lunghe passeggiate nei boschi. Andò in bagno e si rinfrescò il viso; si guardò allo specchio mentre si asciugava: i grandi occhi grigi erano cerchiati da spesse occhiaie violette e i morbidi capelli dorati avevano bisogno di una lavata; aveva un brufolo sul mento e un altro stava spuntando sulla guancia destra.
Che cesso, disse la vocetta, da un punto remoto della sua testa.
– Non hai tutti i torti – rispose la ragazza, uscendo dal bagno.
Si legò i capelli in una coda alta, scrisse un bigliettino per suo zio nell’eventualità rientrasse prima di lei e uscì.
L’aria era tiepida e ideale per fare un giro, così Cassandra si diresse con passo e respiro regolare verso il centro della città costituito da un bel parco, grande e ben curato dall’amministrazione di Bedville. Sovrappensiero, passò davanti al panificio, all’edicola, al negozio della fioraia e a quello della parrucchiera; attraversò la strada principale e si diresse verso il parco: visto dal secondo piano di una delle case che si affacciavano sul centro città, il Bedville Park appariva come un enorme rettangolo di verde che si apriva fra le strade asfaltate e i negozi. Si sviluppava attorno ad un laghetto e costituiva il fiore all’occhiello di tutti gli abitanti del paese: enormi ippocastani si innalzavano maestosi, affiancati da aceri possenti, delicati alberi dei tulipani e vecchie querce secolari, il tutto a formare un armonioso cerchio concentrico attorno all’acqua limpida del laghetto sul quale si affacciava il vero re del parco: un enorme salice si ripiegava in tutta la sua maestosità sulla superficie dell’acqua, i rami pendoli adornati da foglie lanceolate di un verde ceruleo a formare una campana segreta, la chioma folta che non lasciava intravedere il tronco ricurvo e rugoso. I vecchi del luogo solevano dire che quell’albero era lì prima ancora che Bedville fosse costruita, custode del lago e del parco che attorno ad esso era stato preservato, e che nessuno, neppure il fondatore della città, si diceva, avesse avuto il coraggio di abbattere per un motivo che, quando era bambina, Cassandra aveva domandato a un vecchietto vispo e arzillo che stava seduto su una panca proprio in quel parco, durante una fiera primaverile.
– Quel salice è la casa di un mostro – le aveva risposto l’anziano.
– Un mostro? – gli aveva fatto eco lei, un palloncino rosso nella mano destra, i capelli legati in simpatiche codine, l’espressione incuriosita.
– Si dice che nelle notti di luna piena, una luce si accenda sotto il grande salice e danze infernali vengano eseguite alla sua ombra. Ebbri di vino, demoni, diavoli e creature mostruose strisciano poi fuori dal suo tronco per poter catturare le giovani più belle della città e portarle con loro. Non faranno più ritorno a questo mondo.
L’ometto aveva raccontato questa storia con voce lugubre e gracchiante, e una volta conclusa aveva lanciato uno sguardo divertito alla bambina per vederne la reazione. Cassandra, di tutta risposta, si era portata un dito alla bocca, lo aveva battuto due volte sulle labbra carnose come era solita fare quando le veniva in mente una domanda complessa, e aveva chiesto: – Mi domandavo; come fanno demoni e diavoli a vivere nel tronco per tutto il mese? Deve essere parecchio stretto, là dentro – e aveva indicato il non lontano salice. – Nessuno che vive qua vicino rimane infastidito dalla confusione che fanno? Perché non chiamano la polizia?
Il suo flusso di domande, però, era stato interrotto dallo zio Denis che era tornato dal banco dei gelati e avendo udito le domande fatte da sua nipote, le aveva messo in mano il cono al cioccolato e le aveva detto, torvo: – Nessuno li può vedere, per questo non si può chiamare la polizia.
– Ma se nessuno li può vedere, come fate a dire che escono e rapiscono le persone?
– Infatti, tesoro, non esistono.
– Ma il signore…
– Ma il vecchio Tom, qui, è un po’ pazzo. Vero, Tom?
Sorridente, Tom aveva strizzato l’occhio alla bambina e stretto la mano allo zio, andandosene senza aggiungere altro e canticchiando fra sé e sé. Ovviamente, Cassandra era stata sempre una bambina curiosa e intelligente, e le volte successive che aveva visitato il parco aveva cercato, sfuggendo all’attenzione dello zio, di entrare sotto la campana di foglie creata dal salice: i tentativi erano stati molteplici, i fallimenti altrettanti poiché zio Denis l’aveva sempre beccata a pochissimi passi dai rami ricurvi e, nonostante fosse molto distante o addormentato su una panchina o girato di spalle a chiacchierare con una o più persone, immancabilmente si rendeva conto che Cassandra si era fatta troppo vicina al salice. Era stata sgridata più e più volte, ma questo non aveva fatto altro che aumentare il suo interesse per l’albero finché un giorno, poco tempo dopo il suo decimo compleanno, lo zio aveva soddisfatto la sua centomilionesima domanda sul salice e, scostati i rami penduli dell’albero, gli aveva mostrato cosa c’era sotto: la pianta aveva un tronco largo e possente con una corteccia scura e ruvida ricoperta da un edera rampicante, la luce sotto i rami arrivava filtrata e quell’ambiente poteva essere descritto in tre parole: fresco, verde e brillante. Non c’era, però, alcuna traccia di demoni, diavoli o che altro, nessuna luce, nessuna porta, solo un ordinario salice la cui quiete, negli ultimi anni, era stata spesso disturbata da quella bambina testarda. Era ovvio che il vecchio Tom si era inventato tutto e ben presto si era dimenticata del salice, dei diavoli e di tutte le sue possibili fantasie.
Cassandra imboccò una delle strade pedonali e ciclabili che si snodavano dentro il Bedville Park. In quella stagione, il parco offriva uno spettacolo meraviglioso poiché i colori dell’autunno ornavano le foglie degli alberi in modo tale da farle sembrare d’oro, bronzo, ottone e rame. L’erba verde e ben curata veniva impreziosita da un manto di foglie cadute che danzavano leggiadre nell’aria prima di posarsi a terra, oppure sulla superficie del laghetto, formando cerchi concentrici.
La ragazza correva tranquilla, ma non era l’unica ad aver avuto l’idea di sfruttare quella bella giornata per recarsi lì: anziani passeggiavano tranquilli qua e là, chiacchierando del più e del meno fra loro; un ragazzo sedeva su una panchina, dipingendo; dei bambini si rincorrevano sul prato; due innamoratini passeggiavano lungo il laghetto, abbracciati; due ragazzi correvano davanti a lei, perfettamente sincronizzati. Andare al parco la calmava, le permetteva di scaricare i nervi, di svuotare la mente e non era solo dovuto al movimento fisico che faceva, ma anche, e soprattutto, all’ambiente che la circondava: il prato verde, gli alberi rigogliosi, il laghetto tranquillo. Era come se entrasse in sintonia con quel posto e questo la tranquillizzasse da dento; Cassandra aveva sempre imputato il potere di quel luogo di metterle serenità al fatto che vi aveva passato la sua infanzia e i momenti felici con zio Denis.
Si stava beando del paesaggio e dei colori dell’autunno, persa nei suoi pensieri quando, voltandosi per guardare avanti, notò una persona che camminava nella sua direzione, a una decina di metri da lei, e di colpo la sua pace si frantumò in mille pezzi, facendole tornare i nervi a fior di pelle.
Vestito come quella mattina, eccetto per una maglia bianca con su la scritta nera “Fitch”, aveva le mani in tasca e il volto abbassato e in ombra, anfibi neri in pelle lucida avevano sostituito le belle e costose Prada. Rallentò la sua corsa, senza fermarsi; se lo avesse fatto si sarebbe resa più evidente e quindi continuò a procedere. Era a cinque metri di distanza. Avrebbe potuto voltarsi e tornare diretta a casa, ma se lui avesse alzato lo sguardo e l’avesse riconosciuta? E comunque non aveva intenzione di mostrargli le spalle. Meglio proseguire. Tre metri. La cosa migliore da fare era continuare a correre e forse lui non l’avrebbe notata, sembrava immerso nei suoi pensieri.
Trasse un profondo respiro e accelerò il passo. Quando ormai la ragazza pensava di essere in salvo, Feibush alzò la testa e la vide, a meno di un metro di distanza.
– Dunque, avevo ragione. Fai podismo.
– Addio – rispose lei senza fermarsi, sperando di liquidarlo senza problemi. Attese che da un momento all’altro apparisse alla sua sinistra, e invece percorse parecchi metri senza che nessuna chioma ribelle entrasse nella sua visuale. Continuò a correre ma la mente non si svuotava, come suo solito; ripensava a com’era vestito, agli anfibi che gli davano un’aria molto dark e ai capelli scompigliati e troppo lunghi che le facevano venire in mente i surfisti.
Svoltando l’angolo, lanciò un’occhiata alle sue spalle e vide che il percorso dietro di lei era sgombro, non c’era traccia di Feibush. Probabilmente si era andato a sedere da qualche parte oppure era uscito dal parco, diretto a casa. Che gliene importava?
Continuò a correre attorno al parco cercando di evitare di pensare a qualcosa che le richiamasse alla mente il ragazzo; finito un giro del parco decise di farne un altro e accelerò il passo poiché non era ancora sufficientemente stanca.
Concluso il secondo giro, era madida di sudore, il petto le si alzava veloce e alcuni capelli erano sfuggiti dalla coda e le si erano appiccicati al collo sudato. Era abbastanza stanca e soprattutto, nell’ultima mezz’ora, aveva smesso di pensare a qualsiasi cosa per concentrarsi sul respiro e sul ritmo; soddisfatta, ritornò verso casa con passo costante e tranquillo, finalmente pacificata con sé stessa. Superata la fioraia, che nel frattempo aveva chiuso, fu avvolta da un odore di dolce appena sfornato che arrivava dal panificio e, rammentandosi di avere degli spiccioli nella tasca dei pantaloni, decise di fermarsi per concedersi un dolcetto. Entrò e si mise in fila dietro ad una signora anziana che aveva già ordinato.
– Allora, signora Bird, come li vuole questi muffin? Al cioccolato, ai mirtilli oppure all’arancia? – Il panettiere era basso e grassottello, dai baffoni neri e folti, gli occhi scuri e luccicanti come bottoni; indossava un grembiule bianco sopra una maglietta arancione leggermente sporca di farina.
– Cinque al cioccolato e cinque ai mirtilli, signor Branson – rispose l’anziana. – Mi dica, suo figlio come sta?
Immersa nell’osservare i dolci esposti, Cassandra drizzò le orecchie; non era venuta lì per quel motivo, era stata guidata semplicemente dall’odore e dalla sua golosità e aveva avuto notizie del figlio di Branson la settimana prima, da suo zio.
– Benissimo, signora Bird! Benissimo! Gli studi procedono alla grande, ha veramente dei buoni voti e all’officina si sente come a casa; quel ragazzo adora i motori!
– Sono contenta di sentirlo. E’ così tanto tempo che non lo vediamo qui, in città
– E’ sempre stato un ragazzo indipendente – spiegò il signor Branson mentre incartava i muffin. – Sin da bambino gli piaceva uscire da solo, andare a scuola a piedi invece che con il pullman scolastico, restare sotto la pioggia a guardare i fulmini finché sua madre non lo sgridava. Un ragazzo indipendente e forte che ha trovato la sua strada, la sua vocazione lontano da casa, però. Con tutto me stesso desirerei tornasse a vivere di nuovo con noi, signora Bird, ma non posso ignorare i suoi sogni.
– Certo che no.
– Mi accontento del fatto che da domani Liam sarà da noi, per una settimana.
– Signor Branson! Questa sì che è una buona notizia!
– Veramente. – L’uomo si era illuminato ed era al settimo cielo. – Starà un po’ da noi in questi giorni, ha detto di aver bisogno dell’aria di casa. Signora Bird, – gli porse la busta di carta con dentro i dolci da lei richiesti, – ci pensa? È quattro anni che non dorme sotto il nostro tetto, assieme a me e mia moglie.
Lui e la signora Bird continuarono a parlare della meraviglia che erano i figli e quanto era bello riaverli con sé dopo così tanto tempo, ma Cassandra non li ascoltava più. Fissava con sguardo perso le scaffalature vuote dove la mattina il signor Branson esponeva il pane fresco, pronto per la vendita, e pensava a quello che aveva appena sentito: Liam sarebbe tornato e, non solo, sarebbe rimasto per una settimana. Sette giorni, sette giorni in cui avrebbe potuto incontrarlo e vederlo di nuovo, dopo quattro lunghi anni. Chissà com’era diventato. Era diventato ancora più alto di quanto non fosse? Aveva fatto ricrescere i capelli che aveva rasato a zero prima di partire oppure aveva mantenuto quel taglio militare? Quando sorrideva, aveva sempre le fossette ai lati della bocca? E poi, com’era Bronken City? La scuola, procedeva davvero così bene? E la sua ragazza?
Si ritrovò a sorridere, coinvolta dalla felicità del signor Branson e della signora Bird e avvolta dalla sua stessa gioia di rivedere uno dei pochi, veri amici che aveva mai avuto. Solo per un momento, la vocetta malefica nella sua testa le fece notare che non sentiva Liam da quattro anni e che probabilmente non sarebbe stato così interessato a rivedere una persona che non aveva mai avuto l’accortezza di chiedere di lui o mettersi in contatto in qualche modo. Cassandra cacciò via quel pensiero perché non si sarebbe fatta frenare da quelle congetture – in parte veritiere, doveva ammetterlo, lasciandosi sfuggire l’occasione di ritrovare un amico, di riprendere in quel brevissimo tempo che le sarebbe stato concesso un’amicizia che si pentiva di non aver sviluppato prima. Almeno avrebbe potuto smettere di riempire la casa di dolci e suo zio non si sarebbe più lamentato dell’aumento del suo adipe.
Acquistato anche lei un muffin e salutato i due sorridenti presenti, Cassandra uscì dal panificio con passò baldanzoso e un espressione felice, anche la stanchezza sembrava passata. Si domandava se anche la figlia della fioraia, Esther, sarebbe tornata a Bedville, uno di quei giorni; sarebbe stato fantastico se anche lei fosse rientrata, anche per pochissimo tempo, nella stessa settimana in cui Liam veniva a trovare i suoi. Avrebbe raggiunto l’apice della felicità nel rivederli entrambi, assieme, e anche se fra loro le cose erano andate raffreddandosi, lei ci avrebbe messo tutta sé stessa per farsi perdonare di quella sua sciocca infantilità che non le aveva permesso di riconoscere il loro valore sin da bambini. Imboccò la strada di casa sua ed estrasse il muffin, addentandolo contenta.
– Lo sai che i dolci fanno ingrassare?
Un po’ era sovrappensiero, un po’ non se lo aspettava, Cassandra ebbe un sussulto, il muffin le sfuggì di mano e per non farlo cadere, lo fece danzare in aria come un giocoliere finché non lo afferrò. Il respiro accelerato per lo spavento e gli occhi sgranati, si voltò a guardare Feibush che se ne stava pigramente appoggiato al muro, le braccia conserte.
– Non. Farlo. Mai. Più – sibilò a denti stretti.
– Lo dicevo per te.
– Risparmiatelo – e riprese a camminare, dando un altro morso al dolce, con il rumore delle suole gommate di un paio di anfibi che calcavano la ghiaia del marciapiede al suo seguito. Decise di ignorarlo, un paio di metri e sarebbe stata a casa.
Si fermò davanti al cancello in ferro battuto nero, si leccò le dita per pulire i bricioli di muffin ed estrasse le chiavi di tasca. Non badò assolutamente al fatto che Feibush si era fermato al suo fianco, le mani nelle tasche del giacchetto di pelle nera e lo sguardo fisso sulla casa.
– Quindi, è qui che abiti – considerò con voce piatta.
– No, è qui che compirò la prossima rapina. – Aprì il cancello ed entrò, chiudendoselo alle spalle. – Sai, faccio la ladra professionista.
– Hai delle briciole qui – osservò con tono indolente e si indicò l’angolo destro della bocca.
Cassandra si spolverò infastidita le labbra e si diresse verso la porta. Salì i tre gradini del portico, inserì le chiavi nella toppa e si voltò. Feibush era sempre lì, le mani in tasca, lo sguardo su di lei.
– Hai bisogno di qualcosa? – La sua era una domanda retorica, era ovvio.
– Se proprio insisti, entrerei volentieri per un tè.
– Mi dispiace, ma bevo solo Coca Cola.
– Andrà bene lo stesso – fece lui, distaccato.
Girò la chiave e aprì la porta. – Vuoi che ti indichi qual è la strada più veloce per tornare a casa? Questo lo farei volentieri.
– Non ce n’è bisogno, sono già arrivato.
Lei alzò un sopracciglio. – Sì, certo.
– No, davvero. – Detto questo si volse, attraversò la strada senza aver controllato prima se arrivassero macchine o meno, percorse pochi metri lungo il marciapiede opposto, si fermò davanti ad un cancello uguale a quello di Cassandra, lo aprì e dopo aver tirato fuori un mazzo di chiavi dalla tasca del giacchetto, le infilò nella porta ed entrò. Gli fece un cenno con la testa come a dire “Hai visto? Io sono sempre serio” e poi, con quel suo solito sorriso divertito stampato sul viso, le chiuse la porta in faccia.
Con foga, la ragazza entrò in casa, sbatté la porta alle sue spalle e andò alla finestra del salotto per controllare: scostò la tenda e vide una luce accedersi al piano superiore nella casa davanti alla sua, e l’ombra di Feibush avvicinarsi alla finestra di quello che doveva essere un corridoio. Cassandra lasciò andare la tenda e gettò le chiavi di casa sul tavolinetto del salotto; per un attimo aveva creduto che il ragazzo mentisse e che per qualche strano motivo fosse riuscito ad entrare nella casa di fronte alla sua, per poi, però, uscirvene subito dopo. Invece, aveva detto la verità e questo le diede modo di chiedersi, per la prima volta da quando stava lì, se non vi abitasse già qualcun altro in quella casa fino al giorno prima; si rese conto di ricordarsi aver visto due, forse tre volte una donna anziana, poco loquace e molto acida aggirarsi vicino alla porta dell’edificio. Cercò di ricordarsi quando era stata l’ultima volta che l’aveva vista. Non ci riuscì.
Persa nei suoi pensieri, non si rese conto che suo zio Denis la stava chiamando; si voltò a guardarlo, stupita di trovarlo in casa.
Cassandra era orfana.
Non sapeva chi fossero sua madre e suo padre, non sapeva da dove venissero, non sapeva dove fosse nata e se loro l’avessero mai amata. Per quello che poteva immaginare, sarebbe potuta essere la figlia di una qualche prostituta. Non li aveva mai cercati, né mai amati o rimpianti. Era stata lasciata, ancora in fasce e sporca di sangue, di fronte ad un orfanotrofio, dove aveva passato i suoi primi mesi di vita. Perché mai avrebbe dovuto cercare quelle persone che con la stessa facilità con cui l’avevano messa al mondo, l’avevano anche abbandonata in una fredda notte d’inverno? Li doveva cercare per sapere il motivo?
Non le era mai interessato, perché aveva sempre avuto zio Denis a rallegrale la vita.
Non era lo zio naturale, ma lei era cresciuta chiamandolo in quel modo e solo quando era stata parecchio grandicella, aveva iniziato a chiedere dei suoi genitori e a chiedere perché lui fosse lo “zio” e non il “papà”. Denis era stato gentile e aveva dimostrato moltissimo tatto spiegandole che, durante una visita a un orfanotrofio per consegnare una bottiglia di vino della sua enoteca alla direttrice, l’aveva vista in una culla e, rapito dai suoi grandi occhioni, era tornato lì il giorno successivo, e quello successivo ancora, fin quando la direttrice non gli aveva suggerito l’adozione. Così era nata quella convivenza felice.
– Scusa, non ti avevo sentito.
– Questo l’ho notato. – Indossava un grembiule giallo con fantasie floreali stampate sopra, aveva gli occhiali tondi adagiati sul naso socratico e un mestolo in mano ad indicare che stava cucinando. – Con chi stavi parlando?
– Parlando? – Era distratta, la luce della casa davanti brillava da dietro la tenda.
– Ti ho sentita parlare.
– Con nessuno. – Attraversò la stanza e salì due gradini delle scale che conducevano al piano di sopra, poi si volse verso Denis. – Cosa c’è stasera per cena?
Lo zio la fissò serio per alcuni istanti, poi sorrise gioviale. – Pizza, stavo preparando la salsa. Mi vieni a dare una mano?
– Il tempo di una doccia e arrivo – e scomparve al piano di sopra.
Denis ne ascoltò i passi leggeri fin sopra la sua testa, poi lo scrosciare dell’acqua della doccia e lo sbattere di una porta gli fecero capire che si era chiusa in bagno. Si diresse alla finestra dove aveva trovato sua nipote e guardò dallo spiraglio lasciato dalla tenda appena spostata: il sole era calato oltre l’orizzonte e un’ombra bluastra si era impossessata della strada; le luci della casa di fronte erano accese e le tende tirate, tre figure si ergevano come ombre al piano inferiore, in una stanza equivalente a quella in cui si trovava lui in quel momento. Erano immobili, le une di fronte all’altra, nessuna muoveva mani o braccia, pareva che non respirassero neppure; le osservò per parecchi minuti.
Improvvisamente, due delle tre figure sparirono in un sol movimento, come dissolte nell’aria; Denis non ebbe alcuna reazione, aguzzò semplicemente la vista e pochi istanti dopo vide uscire dal caminetto della casa due enormi corvi che si alzarono nel cielo violetto e si diressero a sud, scomparendo velocemente dal suo campo visivo. Riportò l’attenzione sull’ombra che se ne stava in piedi, ormai sola, al centro di quello che doveva essere un salotto simile al suo; la luce si spense, l’ombra si unì alle altre ombre. L’uomo continuò a fissare la casa ora immersa nel buio; strinse il mestolo che aveva in mano e lo spezzò, un’espressione cupa sul volto sempre bonario e allegro. La voce di sua nipote che cantava sotto la doccia lo risvegliò, il pensiero ostile che aveva ottenebrato il suo viso passò e l’odore di salsa che bruciava lo riportò alla realtà delle cose; lasciò la finestra e corse in cucina.
Nello stesso momento, una tenda al piano superiore nella casa di fronte frusciò leggera.
***
Quella sera suo zio era riuscito a superare sé stesso in quanto a capacità culinarie e le pizze che aveva cucinato erano sublimi. Avevano appena finito ed erano seduti al tavolo in cucina, Cassandra giocherellava con un pezzo crosta che non aveva mangiato e Denis sorseggiava del buon vino rosso, gli occhi chiusi per godersi quel momento di estasi.
– Ho visto che sei passata dal panificio prima di tornare a casa – osservò l’uomo posando il bicchiere vuoto sul tavolo.
– Avevo voglia di mangiare qualcosa di dolce.
– Meno male, credevo tu fossi andata là a fare il tuo solito giro spionistico.
– No, stavolta no – Con la forchetta aveva disegnato una faccia sorridente usando delle gocce di olio. – Liam torna in città per questa settimana.
– Ne sarai contenta.
– Certo – rispose sovrappensiero. – Mi stavo chiedendo, da quanto tempo la casa davanti alla nostra è disabitata?
Denis si era rilassato sulla sedia, le mani incrociate sul pancione rotondo, gli occhi socchiusi. A quella domanda, i suoi occhi porcini si aprirono di scatto e indagarono dubbiosi la nipote. – Perché?
– Sarà un’impressione – alzò la testa e guardò l’uomo, concentrata, – ma ho pochi ricordi dei suoi abitanti. Mi ricordo solo di un’anziana signora. Il fatto è che si trova esattamente davanti alla nostra casa e da camera mia posso vedere tutte le sue finestre, eppure mi sembra di non aver mai visto una luce accesa la sera o di avervi visto qualcuno, negli ultimi anni.
– La sua proprietaria se ne è andata qualche tempo fa; che io sappia non vi è tornato a vivere nessuno da allora e non è stata mai affittata.
– Credo che l’abbiano appena fatto – L’immagine di Feibush che le chiudeva la porta in faccia balenò nella mente della ragazza. – Quando sono tornata, c’era una luce accesa.
Denis si alzò e iniziò a sparecchiare. – Forse sono solo venuti a controllare che tutto fosse in ordine. Si saranno finalmente decisi a venderla oppure, come hai detto tu, hanno intenzione di affittarla. Mi passeresti il tuo piatto, per cortesia? – Suo zio non capiva, l’avevano già affittata. – Mi stavi dicendo che Liam tornerà in città, giusto? Una settimana, hai detto?
– Sì, una settimana. – Gli passò il piatto sporco e si poggiò al mobile della cucina, mentre lui, indossati un paio di guanti di gomma rosa, iniziava a pulire le stoviglie sporche. – Pensavo di andare a trovarlo, non so, magari domani pomeriggio.
– E’ una splendida idea, Cassie. Sono sicuro che gli farà piacere.
– Tu credi? – La vocetta malefica si era fatta padrona della sua bocca. – Non vorrei risultare inopportuna. – Suo zio fece saettare gli occhi nella sua direzione, accigliato. – Sì, insomma, capisci cosa intendo? Sono quattro anni che non ci vediamo e non ci sentiamo, non ho mai chiesto di lui e forse… forse è meglio se non vado.
– Apri bene le orecchie. – Denis la minacciò con una spazzola insaponata che usava per raschiare i residui di cibo più tenaci. – Sono quattro anni che mi fai rimpinzare di dolci, panini e muffin, e ora che ne hai la possibilità, mi stai dicendo che non andrai a trovare il ragazzo che io potrei accusare di aver causato la mia obesità? – Sventolò la spazzola in modo minaccioso. – Tu ci andrai e, soprattutto, tutto andrà alla grande.
– Sì, ma se lui mi chiede come mai non mi sono mai fatta sentire? – Prese il bicchiere e se lo riempì di succo alla pera. – Al posto suo, lo farei.
– Invece, non te lo chiederà – affermò, sicuro. – Non ne avrà ragione.
– Be’, veramente ne avrebbe. – Bevve un sorso di succo.
– No, ci ho già pensato io. – Cassandra si versò un po’ di succo sulla maglietta e per poco non soffocò dallo stupore, ma lui la ignorò. – Cosa credevi? Il signor Branson è nato molto prima di te e ha capito il tuo giochetto da parecchio tempo. Inoltre, ogni volta che andavo là e facevo domande su Liam, lui mi diceva di salutarti da parte sua e che era felice che suo figlio avesse una cara amica che si interessava di lui in modo così delicato e indiscreto. – Guardò la nipote che lo fissava a bocca aperta. – E non guardarmi con quella faccia, hai fatto tutto da sola.
Ripresasi dallo shock iniziale, la ragazza prese uno strofinaccio e cercò di tamponare la macchia di succo. – Oggi, però, quando ero lì, non mi ha dato l’impressione di sapere qualcosa. Effettivamente, neppure tutte le altre volte che ci sono andata.
– E’ un uomo dal cuore d’oro e non ti metterebbe mai in imbarazzo. Gli ricordi suo figlio e sono certo che gli abbia parlato di te ogni volta che ne ha avuto modo. – L’idea che il signor Branson avesse raccontato a Liam il suo sciocco stratagemma per sapere come stava la fece arrossire e vergognare. Avrebbe preferito sapere subito che era stata scoperta, così avrebbe smesso di andare al panificio per passare decine e decine di minuti a scegliere quale dolce prendere oppure quale taglio di pane sarebbe stato il migliore per quello che suo zio avrebbe cucinato quella sera. – Non crucciarti, troppo – disse Denis che aveva notato la sua espressione. – Quel che è fatto, è fatto.
– Avresti potuto dirmelo.
– E precludermi la possibilità di avere dolci a domicilio? – Cassandra lo guardò, oltraggiata. – Non sia mai!
Continuarono a scambiarsi delle battute, l’uno che finiva di pulire la cucina, l’altra che finiva di sparecchiare e spazzare, e la giovialità e la leggerezza dello zio fecero dimenticare a Cassandra le preoccupazioni legate a Liam, la storia della casa davanti, persino Feibush uscì dalla sua testa.
Finito in cucina, Denis si sedette in salotto e disse che avrebbe finito di leggere il libro sui vini, mentre la ragazza se ne andò in camera sua dopo aver dato la buonanotte all’uomo. Indossò un pigiama bianco con piccoli e dolci orsetti sorridenti, prese Re Lear dalla borsa, si rannicchiò sul divano sotto la finestra e, alla luce tenue e rosata dell’abat-jour, si mise a leggere.
Denis si affacciò verso le undici e le consigliò di andare a letto, altrimenti sarebbe stata troppo stanca il giorno successivo. Lei annuì e disse che avrebbe finito il libro, così lo avrebbe potuto portare indietro alla biblioteca. Lo zio scrollò le spalle e andò a letto. Lesse ancora e ancora fin quando, coccolata dalla morbidezza del divano e dei cuscini e sopraffatta dalla stanchezza, ad un’ora imprecisa, si addormentò, la testa poggiata sul davanzale della finestra, le gambe ripiegate e Re Lear aperto sul petto.
***
Il parco era buio come non mai, anche le luci dei lampioni erano insolitamente spente e l’unica fonte di luce proveniva da un lampione rotto ad un angolo della strada che illuminava debolmente e ad intermittenza i dintorni. Bastò quella luce a rendere evidente il profilo indistinto di una creatura che, immensa e silenziosa, passava lì vicino: a prima vista sembrava un cane, ma entrando nel cono di luce si mostrò in tutta la sua mostruosità. Alto due metri e con un manto nero e lucido come la pece, il lupo a due teste alzò i due musi e annusò l’aria, le bocche irte di lunghi denti giallastri aperte per assaporarla in ogni sua particella. Miagolii nel buio proruppero da un punto indistinto, poi il baccano di un bidone divelto lo sostituì, un gatto impaurito corse nel cono di luce; ci fu un movimento fulmineo, il rumore sinistro di ossa rotte, un rantolo.
La testa sinistra della bestia lasciò scivolare dalle proprie fauci insanguinate il corpo spezzato a metà del felino, mentre l’altra guardava indifferente in un’altra direzione; la bestia uscì dal cono di luce e si diresse verso il parco. Si soffermò altre due volte per inspirare l’aria con un rumore roco e sinistro finché non giunse davanti al salice; annusò ancora, girò intorno all’albero ed entrò sotto la sua campana di foglie. Osservò il tronco, lo ispezionò e poi strappò l’edera con i denti e sgraffiò la corteccia con un solo movimento della zampa, lasciandovi tre enormi solchi. Attese e le due teste ghignarono davanti allo spettacolo che si andò manifestando davanti ai loro occhi: piano piano un nero marciume si andò diffondendo sul tronco dai tre graffi che brillavano rossi, salì verso la chioma e scese verso le radici, e lentamente il possente salice morì, i suoi rami cadenti si rattrappirono, le foglie ingrigirono e caddero.
Il lupo bicefalo uscì da sotto la campana di rami ormai morti, alzò nuovamente le teste al cielo e annusò. L’aria era carica di una miriade di odori: l’odore dolciastro di marciume, quello salato di terra bagnata, quello acre di benzina, quello invitante di carne mortale, e poi c’era un odore peculiare, un odore che solo i suoi nasi potevano percepire, un odore che prima era solo minimamente percepibile nell’aria ma che andava crescendo e aumentando di intensità. Aprì gli occhi e la poté vedere: dorata e finissima, arrivava da tutti i punti della città e andava a depositarsi ovunque. Ambrosia.
Il lupo aveva la bava alla bocca, gli occhi rossi saettavano frenetici ovunque, i suoi sensi elettrizzati da tutta quell’ambrosia che, leggiadra e sottile, stava ricoprendo tutta la città. Trattenendosi dall’ululare dall’eccitazione, le due teste si concentrarono e notarono che l’ambrosia confluiva verso un punto preciso della cittadina; la bestia si mise a seguire quella traccia leggera, ignorando due cani randagi che, tremanti, si erano rannicchiati in un angolo ombroso, speranzosi di non essere visti. Si fermò davanti ad una casa che sembrava una comune casa umana, se non fosse stato per l’enorme quantitativo di polvere dorata che si era depositata sul suo tetto e che aveva aderito alle sue pareti.
Le due teste si guardarono attorno e notarono che una luce fioca era accesa nella casa a fronte. C’era la possibilità di essere visti da un mortale, ma la bestia se ne disinteressò: se qualcuno avesse ficcato il naso, avrebbe avuto un pretesto per saziare la sua fame. Il lupo chiuse gli occhi e si concentrò: le due teste iniziarono a staccarsi fra loro, il corpo era scosso da sussulti e si stava liquefacendo, sembrava catrame. Con un guaito, si spezzò a metà e rimase così per pochi istanti in uno spettacolo macabro, le due metà del corpo in bilico su un paio di zampe ciascuno; la pelle iniziò poi a bollire e alle due gambe che ogni metà del corpo già aveva se ne aggiunsero altre due, e anche una coda. A processo finito, due lupi immensi si guardarono e digrignarono i denti in un ghigno che sembrava quasi umano.
Silenzioso, il primo dei due aprì il cancello col muso, salì i gradini e arrivato davanti alla porta, guardò prima la serratura con attenzione e poi si osservò la zampa destra. La zampa parve diventare liquida, perse la sua conformazione usuale e assunse una forma appuntita. L’animale l’avvicinò alla serratura, la punta vi entrò senza problemi e anche il resto della zampa, che si adattò senza problemi come plastica liquida. Pochi istanti e la serratura scattò. Il lupo fece segno al compagno ed entrarono.
L’ambrosia aveva visto giusto: da fuori l’edificio sembrava una comunissima casa, ma all’interno mostrava la sua vera natura. Appena entrati, i lupi si ritrovarono in un atrio immenso, l’intero ambiente era immerso in una penombra grigia e nera e l’unica luce penetrava dalla coppia di alte bifore incrostate che affiancavano l’immenso portone in legno scuro. Nonostante questo, gli occhi sensibili delle due bestie notarono che fra le varie nicchie che si aprivano nei muri, apparivano delle porte che davano su quell’immenso ingresso e, silenziosi e discreti, diedero un’occhiata veloce dentro ognuna di esse: scoprirono una biblioteca, un salone con un immenso tavolo e una cucina adiacente, una stanza completamente vuota; sulla loro destra c’era anche un lungo corridoio con varie altre porte che vi si affacciavano.
Si concentrarono su quest’ultimo e finalmente i loro orecchi dall’udito finissimo sentirono quello che avevano sperato: il suono di respiri stava ad indicare che oltre quelle porte c’erano parecchie persone addormentate, ed era esattamente per loro che i lupi erano lì.
Come fulminato, il secondo dei due si immobilizzò davanti ad un uscio, rizzò le orecchie, inspirò rumorosamente e i suoi occhi guizzarono famelici in quelli del compagno che si avvicinò e, come aveva fatto prima, aprì la porta. Era una camera: una luce debole entrava da una piccola finestrella quadrata, incrostata, e permetteva di distinguere i mobili che adornavano quella stanza: un armadio con motivi floreali, una cassapanca con i medesimi motivi e un letto molto particolare: era fatto con dei rami intrecciati e sopra di esso, tesa fra quattro grandi rami che salivano a coppia dalla testata e dal fondo, c’era una tela bianca con sopra ricamata una luna crescente. Fra le leggere lenzuola bianche, qualcuno si mosse e gli occhi rossi dei lupi brillarono, malevoli. Quello che si era fermato davanti alla porta, si fece avanti fremente, mentre l’altro lo osservava, ugualmente smanioso.
Il muso era a pochi centimetri dalla testa della preda quando vi fu un guizzò e il lupo proruppe in un uggiolio dolorante; indietreggiò, la coda fra le gambe, scuoteva l’enorme testa a destra e a sinistra, senza sosta, come infastidito da una mosca. Gocce di sangue scuro e denso cadevano ad ogni suo movimento; una freccia era stata piantata nell’occhio sinistro e la punta aguzza spuntava da dietro la nuca.
Dal letto si era alzata una figura esile e ansante che aveva afferrato, fulminea qualcosa da sotto il materasso: un arco. Incoccò una freccia dalla faretra appesa alla testata del letto e prese la mira: il lupo ferito la guardò folle e tentò un ultimo disperato assalto. Un sibilo e la freccia si piantò nel petto della bestia che stramazzò a terra, il respiro rauco, la bocca gorgogliante di schiuma e sangue.
Il compagno era indietreggiato nel corridoio e quando vide l’esile figura inforcare un’altra freccia e puntarla nella sua direzione, decise di darsi alla fuga ma si ritrovò la strada sbarrata. L’ululato di dolore e il tumulto generale avevano svegliato gli altri abitanti del luogo e ora erano tutti lì, attorno a lui. I suoi occhi rossi e irosi non riuscivano a distinguere i loro visi in penombra, ma potevano vedere senza problemi il baluginare di varie armi.
– Chi ti manda? – domandò una voce profonda alle sue spalle.
Il lupo non rispose, i suoi occhi saettavano in tutte le direzioni alla ricerca di una via di fuga.
– Evidentemente è duro d’orecchi – gli fece eco un’altra voce maschile, sprezzante.
La figura armata di arco comparve sulla porta, la freccia incoccata puntata alla testa del lupo. – Rispondi, o farai la fine di tuo fratello.
– Uccidendomi di certo non fareste il vostro interesse – L’animale si leccò le labbra e digrignò i denti. La sua voce era rauca e aspra. – Non credo siate così sciocchi.
– Da quando in qua il nostro interesse ti sta così a cuore? – gli domandò la voce sprezzante. – A proposito, ce l’hai un cuore?
– Lo sapete perfettamente – Aveva fatto scattare i denti come una tagliola, infastidito. – Potrei esservi utile.
– Sì, mi hai letto nel pensiero: avrei proprio bisogno di una nuova pelliccia per il prossimo inverno. – La voce del ragazzo era calma e irriverente come se stesse scherzando con un lontano amico. – Ti prego, rendi meno scenica la tua fine e dicci l’unica cosa che vogliamo sapere: chi è il tuo committente?
Il lupo fissò una a una le figure scure che lo circondavano e ghignò. – Piuttosto la morte.
Un sospiro. – Peccato.
Fu un attimo: il lupo scattò in avanti e molteplici armi trapassarono l’enorme bestia che riempiva tutto il corridoio con la sua mole. Qualcuno esultò, ma non vi fu alcun guaito, alcun stramazzo al suolo, neppure una goccia di sangue: infatti, il corpo del lupo iniziò a ribollire, pezzi di carne nera infilzati da armi di vario tipo caddero a terra e iniziarono a gonfiarsi, facendo cadere le armi affilate che li trapassavano. In brevissimo tempo, una decina di copie più piccole del lupo originale fissavano sghignazzanti i presenti. La voce sprezzante imprecò e si avventò sul primo lupo che trovò, seguito dalle altre figure.
La colluttazione durò una decina di minuti e, alla fine, del lupo non rimanevano che delle chiazze scure per terra e sui muri. Le figure si guardarono fra loro, affannate. Una risata malvagia riecheggiò alle loro spalle, tutti si voltarono e videro un minuscolo gatto nero con gli occhi di bragia nell’atrio, illuminato dal fascio di luce tenue che entrava dalla porta lasciata aperta. Era l’alba.
Un’altra imprecazione, qualcosa di argenteo guizzò nell’aria verso l’animale, il gatto sparì ridacchiando fuori dalla porta, un coltello tintinnò sul marmo scuro proprio nel punto in cui l’animale era stato fino ad un istante prima.
– Maledizione – sibilò la voce sprezzante e nella penombra tutte le figure lo guardarono, preoccupate.
***
Cassandra si svegliò di colpo.
Era sudatissima, il pigiama le aderiva al corpo in modo soffocante, i capelli formavano una rete sottile sul suo viso, il respiro era affannato. Si mise lentamente a sedere sul divano, togliendosi i capelli di faccia, e si guardò attorno.
La luce del sole entrava tenue dalla finestra e immergeva la stanza in una luce pescata, la sveglia segnava le sette e un quarto, l’abat-jour era rimasta accesa dalla sera prima, il letto era intatto. Guardò a terra e vide Re Lear spuntare da sotto il divano. Lo raccolse e lo posò accanto a sé.
Si passò una mano sul viso. Aveva fatto un incubo orrendo, ma ora che si era svegliata i particolari le sfuggivano: c’era una specie di cane a due teste, una strana abitazione, tetra e cupa; e poi sangue, rabbia, armi e infine un senso di crudele soddisfazione. Sfregò gli occhi: e dire che la sera prima non aveva mangiato pesante.
Il cinguettio dei passerotti giungeva allegro dall’esterno. Si volse a guardare fuori dalla finestra: il cielo era una mistura di rosa, arancio, verde e azzurro, le nuvole sfilacciate dal vento transitavano pigre su quella tela delicata, le strisce degli aerei apparivano scolorite qua e là. Lo sguardo di Cassandra vagò leggermente addormentato dal cielo alla strada sottostante, indugiò per un attimo sulla porta della casa di fronte e poi passò oltre.
Dato che ormai era sveglia e non aveva alcuna voglia di rimettersi a dormire, concluse che era meglio mettersi in movimento. Avrebbe fatto una scappata alla biblioteca storica che, nonostante l’apertura fosse attorno alle nove, aveva messo a disposizione un’enorme cassetta della posta verde nel quale gli utenti potevano lasciare i libri che dovevano restituire. Le bibliotecarie avrebbero poi pensato a prelevarli e ad inviare tramite e-mail una ricevuta di consegna.
Passò in bagno per una sciacquata veloce, si vestì e poi andò in cucina dove fece colazione con un bicchiere di latte fresco e una banana; più tardi si sarebbe fermata a prendere un caffè da qualche parte.
Uscì di casa silenziosamente e aprì il lucchetto della bicicletta. Mentre si chiudeva alle spalle il cancello, notò una polvere finissima e brillante che ricopriva il sellino. Ne prese un po’ sulle dita e l’avvicinò al viso per capire cos’era: sembrava sabbia e aveva dei bei riflessi dorati. La strofinò fra le dita e scoprì che non era granulosa e ruvida, ma setosa come la farina. Il naso iniziò a pizzicarle e starnutì. Doveva essere una qualche sorta di polline, si convinse; il che era strano visto che erano in autunno inoltrato, un autunno molto caldo, ma non così caldo da far saltare alle piante il periodo di riposo per tornare automaticamente a quello dell’impollinazione.
Spolverò via tutta la polvere lasciandosi sfuggire altre due starnuti e partì alla volta della biblioteca che si trovava dall’altra parte di Bedville. La maggior parte delle case aveva ancora le finestre chiuse e le luci spente, ma le strade erano già trafficate da persone che lavoravano fuori città. Arrivò alla biblioteca in dieci minuti, lasciò il libro e poi si diresse all’Eagle’s Eye per un caffè.
Era un bar piccolo ma pittoresco il cui proprietario, di origini italiane, aveva tappezzato il locale di foto di Roma, la sua città natale. Parlava con un accento divertente e spesso intercalava l’inglese all’italiano.
Appena entrata, Cassandra fu investita dal calore dei locali e dall’odore di caffè. C’erano altre due persone che stavano facendo colazione, leggendo il giornale.
Il signor Rostagno si volse a guardare chi era entrato e un sorriso brillante apparve sul faccione rosso. – La bella Cassandra! Il solito mocaccino?
– Sì, grazie. – Si sedette su una delle alte sedie. Era straordinario, ma si ricordava i caffè preferiti di tutti i suoi clienti. Oppure era semplicemente una deformazione professionale.
Le due persone sedute accanto a lei stavano parlando, tetre.
– E’ un vero peccato – disse uno. Era un uomo sui cinquant’anni con calvizie incipienti e occhi acquosi. – Era il simbolo della città.
– Credi che lo toglieranno? – L’interlocutrice era una donna più giovane con un corto caschetto di capelli grigio metallico e un lungo naso adunco.
– Devono toglierlo. Per quanto sia sempre stato parte integrante del parco, non possono lasciarlo lì. Marcirebbe e rischierebbe di far ammalare tutti gli alberi attorno. Per non parlare dell’estetica, completamente rovinata.
Chissà di cosa stavano parlando, pensò la ragazza. L’unione del caffè e del cioccolato del suo mocaccino la occuparono per il restante tempo e la svegliarono completamente, dandole la carica necessaria per quella nuova giornata iniziata così presto.
Godutasi sino in fondo il calore piacevole del mocaccino e il sapore amaro del caffè unito al cioccolato, pagò il conto e salutò il signor Rostagno che gli sorrise, allegro.
Inforcò la bici e si diresse a scuola, decidendo sul momento di fare il giro più lungo dato che era in largo, larghissimo anticipo. Sovrappensiero pedalò tranquilla e passò davanti al parco, quando vide una piccola folla riunita all’imboccatura della strada pedonale e ciclabile che aveva percorso il giorno prima, a corsa. Incuriosita, vide la madre di Esther fra i presenti e decise di fermarsi per sentire cosa fosse successo.
Frenò e si fermò proprio accanto alla donna che, stretta in un cardigan giallo di lana, si volse a guardarla, il viso intristito. – Buongiorno, signora Evans.
– Buongiorno Cassandra. – Si strinse ancora di più nel cardigan come se avesse molto freddo. – Hai saputo la notizia?
– Quale notizia?
– Il salice. È morto. – Indicò con la testa l’albero al centro del parco. Rattrappito, i rami neri e spogli, l’imponente signore del Bedville Park se ne stava lì, silenzioso e triste. Ora capiva di cosa parlavano i due signori all’Eagle’s Eye.
– Com’è possibile? – domandò la ragazza, incredula. – Ieri stava benissimo, l’ho visto con i miei occhi.
– Sono solo ipotesi, ma potrebbe essere un’infestazione di qualche parassita o di un fungo. Sai, con questo clima insolito, troppo caldo ed umido, non ci sarebbe da stupirsene.
– Non è recuperabile in alcun modo? – Non poteva crederci, non voleva crederci. Quell’albero era l’emblema della sua infanzia, ma anche di tutta Bedville.
La signora Evans scosse il capo. – No, assolutamente. Le radici sono andate. Il sindacato ha già disposto il suo abbattimento.
Cassandra rimase lì, impotente come gli altri, a guardare quell’enorme pianta, che fino al giorno prima aveva come vegliato sull’intero parco con la sua ombra rassicurante, stagliarsi scheletrica contro il cielo. Le persone vicino a lei parlottavano a voce bassa come in casa di un morto.
Arrivò a scuola circa cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni. Nonostante avesse avuto la possibilità di arrivare molto prima, era rimasta, come altri assieme a lei, a fissare, quasi vegliare, il salice del parco, ben sapendo che al prossimo passaggio la sua figura ormai familiare non l’avrebbe più rassicurata.
L’inizio per nulla positivo di quella giornata la rese ancora più apatica: quella mattina rispose in malo modo a quasi tutti coloro che le rivolsero la parola, compreso il professore di matematica che, malevolmente contento, colse l’occasione e le mise un bel cinque. Fumante di rabbia, nell’ora di educazione motoria corse davanti a tutti per scaricare la sua energia negativa e mise un po’ troppa forza nel lancio della palla medica, colpendo un innocente compagno di classe e causandogli un taglio al sopracciglio; passò l’ora di storia a scarabocchiare ai bordi della pagina del libro, le due di latino a braccia conserte e nel laboratorio di scienze appiccò il fuoco alla propria giacca che aveva maldestramente appoggiato sul tavolo degli strumenti.
Dopo essere stata sgridata dalla professoressa di biologia e punita per la sua disattenzione con l’obbligo di ripulire tutti i tavoli dopo la fine della lezione, uscì dalla scuola semivuota con mezz’ora di ritardo rispetto al suono dell’ultima campanella: puzzava di alcol, i suoi capelli erano leggermente bruciacchiati sulle punte e aveva una striscia nerastra sulla guancia destra.
Si diresse torva alla rastrelliera delle biciclette e quando vide Feibush, appoggiato al muro che giocherellava con il suo anello dorato, per poco non bestemmiò. Fra le tante giornate schifose che aveva vissuto, quella aveva già raggiunto il top del top, e di certo Feibush non avrebbe aiutato a renderla migliore. Girò sui tacchi, pronta a tornare a casa a piedi.
– Non stai dimenticando qualcosa?
– Preferisco camminare – rispose lei, senza voltarsi. In realtà sarebbe voluta tornare a casa il prima possibile per farsi una doccia e togliersi quell’odore di alcol di dosso, e quindi desiderava ardentemente la sua bicicletta, ma camminare le avrebbe fatto bene, si disse.
Feibush la raggiunse. – Sono qua solo per riferirti un messaggio. – Le sue sopracciglia si inarcarono stupite nel vedere lo stato in cui versava. – Però, bella cera.
– Da parte di chi?
– Tuo zio, credo. Mi ha detto di dirti che è arrivato.
– Mio zio?
Fece spallucce. – Ti aspettava all’uscita e visto che non arrivavi più, mi ha lasciato detto questo.
– E fra tutte le persone a cui avrebbe potuto lasciare questo messaggio, proprio a te, uno sconosciuto? – Lo guardò, insospettita.
– Veramente, ci siamo conosciuti stamattina – Lei continuò a guardalo, dubbiosa. – Se non ricordo male, viviamo uno di fronte all’altra. – Cassandra ignorò l’espressione impudente che Feibush le rivolse e ritornò indietro, verso la bicicletta. Era ufficiale: doveva tornare a casa il più velocemente possibile.
– Tuo zio è tornato da qualche viaggio?
– No – Suo zio odiava viaggiare. – Mette difficilmente piede fuori da Bedville.
– Interessante.
Liberata la bicicletta dalla rastrelliera, Cassandra si voltò per chiedere al ragazzo cosa fosse interessante, ma questi era sparito. Montò sulla bici e si rammentò di non fargliela passare liscia la prossima volta che le avesse dato della maleducata.
***
Cassandra suonò il campanello di casa Branson con nervosismo.
Tornata da scuola, si era fatta una bella doccia e asciugata i capelli con cura. Aveva poi passato le due ore successive a decidere come vestirsi, cosa che solitamente non avveniva vista la sua propensione a indossare abiti scompagnati. Per quelle due ore aveva desiderato avere un guardaroba un po’ più femminile, il che era nuovo per lei, amante dei jeans e nemica delle gonne com’era. Alla fine aveva optato per un morbido maglione in angora e un classico paio di jeans.
Aveva persino tentato di truccarsi.
Cosa stai cercando di fare?, le era stato chiesto, mentre tentava di applicare dell’eyeliner.
– E’ evidente – aveva risposto automaticamente, nonostante le sue varie promesse di non dare filo a quella sua pazzia galoppante. – Tento di truccarmi.
Che è un tentativo lo noto. Tutto questo per il figlio del panettiere?
– E’ un mio caro amico.
Certo, e io ho scritto scema sulla fronte. Fammi indovinare: ti piace.
– Ovvio che no – aveva detto Cassandra, contemplando il pastrocchio che era riuscita a ottenere e concludendo che sarebbe stato meglio andare struccata.
Bell’occhio nero, non c’è che dire. Peccato non ti possa aiutare con l’altro, lo farei volentieri.
– Sempre gentile, vero?
Ti odio, lo sai.
– Anch’io, e ora fammi il piacere di stare zitta – aveva replicato la ragazza, uscendo dal bagno e dirigendosi al piano di sopra, pronta per uscire. La voce aveva ubbidito ed era scomparsa.
Non c’era voluto molto per arrivare a casa Branson e lei si ricordava perfettamente la strada. Era una bella casa in stile georgiano con le pareti esterne in mattoni rossi, un bel portico, le finestre regolari con infissi bianchi come la grande porta con un batacchio dorato. Era stata lì solo altre due volte e nulla sembrava cambiato se non il rampicante che adornava una parte della facciata, più grande ed esteso di quanto ricordasse.
A rispondere fu una voce maschile. – Sì?
– Ehm, sono Cassandra. Cassandra Bright.
– Bright! – La voce tonante risuonò emozionata in tutta la strada e la porta d’ingresso si aprì ancora prima del cancello. Sulla soglia comparve statuario, Liam Branson. La ragazza lo salutò con una mano, imbarazzata. Era cambiato: cresciuto d’altezza, ora sfiorava il metro e novanta, le sue spalle si era fatte più larghe e le braccia che uscivano da sotto le maniche rimboccate di una maglietta verde scuro erano muscolose. Per sua fortuna, aveva fatto ricrescere i capelli che ora ricadevano, lisci e scompigliati, attorno ad un viso sorridente e radioso. Notò che le fossette erano sempre lì.
– Liam. – Lo salutò nuovamente una volta giunta sotto il portico e rimase lì, leggermente imbarazzata.
– Cassandra! Dio, quanto tempo è passato. Entra, dai. Ho appena fatto i muffin. – Per lo meno in quello non era cambiato: Liam era un cuoco provetto come il padre e amava preparare dolci. Soprattutto i muffin, i preferiti di Cassandra. Le prese il cappotto e lo appese all’appendiabiti. – Vado un attimo in cucina a tirarli fuori dal forno prima che brucino. Accomodati pure in salotto.
Seguendo più il suo istinto che la sua memoria, trovò il soggiorno e si andò a sedere sul divano color crema. Nel caminetto scoppiettava allegro un fuoco che emanava un caldo gradevole e confortante.
Liam arrivò con un vassoio in cui aveva messo dei muffin alle gocce di cioccolato spolverati di zucchero a velo. Li posò sul tavolino davanti al divano e si andò a sedere sulla poltrona lì vicino. Rivolse un ampio sorriso a Cassandra. – Prendi pure e non fare complimenti.
Aveva lo stomaco chiuso e avrebbe preferito qualcosa da bere piuttosto che da mangiare, ma non volle essere scortese. – Grazie.
– I muffin sono i tuoi preferiti, giusto? – Lei annuì mentre masticava. – Papà mi ha detto che ieri sei passata da lui e ne hai comprato uno. Così mi sono ricordato che erano i tuoi preferiti.
Cassandra sorrise, le guance gonfie di muffin.
– Da quanto tempo non ci vedevamo?
Lei deglutì. – Quattro anni.
– Quattro anni. – Ripeté e si strofinò le mani, lo sguardo perso a fissare le fiamme nel camino. – Com’è andata qua, a Bedville? Novità interessanti? Sai, mio padre non faceva che raccontarmi di come tutto fosse tranquillo e normale e semplice e molto… Bedville, insomma. Per esempio, che mi dici della vecchia Demelza?
Cassandra si fece scappare un risolino. La vecchia Demelza era una delle tante anziane signore che abitavano in città, una di quelle che vivono in una grande casa con tanti gatti e molti centrini e pizzi dispersi per la casa. Loro, però, la ricordavano come la signora a cui durante l’estate rubavano le albicocche del suo albero che sconfinava nel campo adiacente. Quando la donna li beccava in flagranza di reato e li rincorreva goffamente minacciandoli con una teiera, loro fuggivano ridendo con le tasche piene di frutti per andarsi a rifugiare in qualche fienile vuoto, dove si dividevano il malloppo. – E’ sempre là, con le sue teiere.
– E con tutti i suoi Pallino, Tippy e Duchessa – osservò lui facendo riferimento ai gatti di Demelza. – Cavoli, quanto mi mancano quei tempi.
– Anche a me. E tu? Cosa porti da Broken City?
Il suo viso si rabbuiò un poco. – Nulla di che. Le grandi città sono tutte uguali: caotiche, sporche e dispersive. Broken City non è una grande città, ma è comunque dispersiva, sporca e caotica come una metropoli, il che è anche peggio visto che è tutto concentrato in uno spazio più piccolo.
La ragazza lo guardò con attenzione. Suo padre aveva sempre detto che si trovava benissimo nella nuova città, che gli piaceva e ora gli confessava questo. Forse aveva raccontato una bugia al padre per evitare di dargli dei dispiaceri.
– La scuola mi piace e con il lavoro che faccio ci guadagno abbastanza da vivere senza dover gravare su mio padre e mia madre – proseguì. – Questi sono i soli lati positivi di quest’avventura fuori porta. Non nego di avere degli amici laggiù, a differenza di qua, e non voglio dire che non mi diverto, non sarei onesto. È solo che talvolta mi sento un po’ come un pesce fuor d’acqua e, nonostante tutto, Bedville mi manca. – Guardò Cassandra negli occhi. – Patetico, vero?
Lei scosse il capo. – No, perché mai? È normale che ti manchi Bedville, in fin dei conti è dove sei cresciuto e dove hai lasciato la tua famiglia. Non c’è nulla di patetico in questo.
Lui le sorrise. – E di te, cosa mi dici?
– Le solite cose. – Giocherellò con l’orlo del maglione rosa cipria che indossava. – Mio zio è ingrassato di dieci chili, quest’estate ho lavorato alla biblioteca e lo scorso anno mi sono rotta una gamba.
– Se la normalità è rompersi una gamba, be’, tuo zio dovrebbe stare molto più attento a quello che fai.
– E’ stato un incidente sciocco, sono caduta da un albero.
Lui inarcò un sopracciglio. – Un albero? E cosa ci facevi su un albero?
– Stavo recuperando un pallone di alcuni bambini, giù al parco. – Lui la fissava, divertito. – Che dovevo fare? Erano disperati e me lo hanno chiesto quasi in ginocchio. Non potevo dire di no.
– Certo. – Si stava trattenendo dal ridere. – Tu, che ti arrampichi su un albero. Ripeto: quanto mi manca Bedville. – E scoppiò a ridere davanti all’espressione contrariata di Cassandra che si fece contagiare dalle sue risate.
Parlarono un altro po’ della gente di Bedville, di quello che non era cambiato e di quello che sarebbe dovuto cambiare, mangiando i muffin di Liam e sorseggiando dell’aranciata che era andato a prendere in cucina. Era da tempo che la ragazza non passava un pomeriggio come quello e si rese conto che la vocetta malvagia aveva avuto torto: era come se lei e Liam si fossero visti per l’ultima volta la scorsa settimana. Nulla sembrava essere cambiato.
Verso le sei e mezzo decise che era ora di rientrare. Uscendo sul portico notò che nuvole cupe coprivano le stelle e un vento freddo soffiava da nord.
– Mi ha fatto piacere vederti – disse Liam.
– Anche a me.
Si passò una mano fra i capelli castano scuro, lo sguardo basso. Per chissà quale motivo, nella testa di Cassandra apparve la faccia strafottente di Feibush. – Domani pomeriggio sei libera?
– Sì, credo di sì.
– Che ne dici di un caffè? Potremmo andare al parco e così potresti farmi vedere l’albero da cui sei caduta. – Gli sorrise. Liam riusciva ad essere piacevole anche quando scherzava.
– Va bene.
– A domani, allora.
Cassandra uscì dal cancello e lo chiuse. – A domani.
Si allontanò tranquilla, sentendo la porta di casa Branson chiudersi dietro di lei. Aveva fatto bene ad andare a trovarlo perché aveva passato un pomeriggio gradevole e aveva ritrovato una persona a lei cara. Sulla strada del ritorno incontrò il signor Branson che la salutò e le chiese se fosse tutto a posto. Le domandò anche se fosse andata a trovare Liam e quando gli rispose positivamente, l’uomo si illuminò, felice come una pasqua, e la salutò allegro, lasciandosi dietro una scia di odore di pane caldo.
Ti rendi conto che spera in un matrimonio fra te e suo figlio?
– Ma fammi il favore – commentò la ragazza a voce alta, un lieve sorriso sulle labbra.
La cosa che più mi disgusta è che l’idea non ti dispiace.
Non aveva mai pensato a Liam in quel senso e non era assolutamente vero quello che la voce insinuava; aveva sempre visto il ragazzo come un amico, quasi un fratello e non vedeva il perché avrebbe dovuto cambiare opinione proprio dopo quell’incontro.
Perché lo trovi bello, ecco perché.
– Come dovrei trovarlo? Brutto e antipatico?
E’ un pappamolla, disse la voce. E cucina.
– Fammi indovinare – sussurrò la ragazza, inviperita. – Il tuo ragazzo ideale sarebbe uno stronzetto senza ritegno, troppo innamorato di sé per poterti anche solo apprezzare, pronto a infrangerti il cuore alla prima occasione. Se tu fossi una persona, sono sicura che apprezzeresti quel cafone idiota di Feibush che…
Non finì la frase. Fu come se le avessero dato uno schiaffo: un dolore bruciante si diffuse all’altezza dello zigomo sinistro e una fitta le attraversò la testa. La voce sibilò velenosa e scomparve. Cassandra si passò una mano sulla guancia e proseguì, preoccupata. Non era mai successo nulla di tutto ciò in vita sua e si domandò cosa fosse realmente successo – si era data uno schiaffo da sola senza rendersene conto oppure una corrente di aria gelida aveva sferzato il suo viso fino a provocarle quel bruciore? Entrambe le alternative le sembravano piuttosto inverosimili, e quale fosse stato il fattore scatenante, l’essersi presa semplicemente gioco della voce o l’aver nominato Feibush? Archiviò quelle domande per il prossimo scontro con quella presenza folle.
Cassandra imboccò la strada di casa con passò leggero. Vide che le luci in casa erano spente e questo significava che suo zio era ancora all’enoteca. Lanciò un’occhiata veloce anche alla casa di Feibush e vide che anche lì non c’era neppure una luce accesa.
Entrò nel cancello e cercò le chiavi nella borsa, ma quando alzò lo sguardo, il panico le chiuse lo stomaco. La porta era accostata. Si guardò velocemente attorno e vide che la bici di suo zio non c’era. Non poteva essere lui.
Lasciò andare le chiavi nella borsa, deglutì e spinse la porta per entrare. Si aspettava di vedere tutto messo a soqquadro e invece tutto appariva completamente in ordine, come lo aveva lasciato lei prima di uscire. Controllò la porta per vedere se era stata forzata, ma non c’era alcun segno di effrazione. Eppure era sicura di averla chiusa prima di uscire.
Silenziosa, andò in cucina, aprì il cassetto dei coltelli e prese una mannaia. Avrebbe dovuto chiamare la polizia, lo sapeva, ma l’adrenalina stava avendo la meglio sulla sua razionalità.
Lasciò la borsa sul divano e con il passo più silenzioso che potesse avere, salì le scale. Poteva sentire il suo cuore batterle in gola, lo scricchiolare debole delle scale sotto i suoi piedi e il suo respiro accelerato.
La porta della sua camera era aperta. Diede un’occhiata veloce e vide che, a parte l’usuale disordine che lasciava, non c’era nulla fuori posto, neppure il computer portatile che aveva lasciato sul letto. Iniziò a convincersi che forse aveva chiuso male la porta e questa si era aperta da sola.
Indipendentemente dalle sue convinzioni, proseguì l’ispezione nel bagno dove tutto era a posto. Quando uscì, quasi completamente convinta che non ci fosse nessuno, si voltò verso la porta della camera di suo zio e un brivido la percorse: la porta era chiusa. Lei non l’aveva chiusa e Denis la lasciava sempre aperta perché, per qualche ragione a lei sconosciuta, odiava i corridoi con le porte chiuse a tal punto che lei doveva studiare e dormire con la porta spalancata.
Cassandra strinse il manico della mannaia e posò la mano sudata sulla maniglia di camera sua. Il suo cervello stava analizzando i possibili scenari che potevano prospettarsi oltre quella porta: ladri in procinto di svuotare i cassetti, la finestra aperta e la stanza in subbuglio, suo zio che dormiva placidamente e a cui sarebbe venuto un infarto nel vederla entrare con un coltello oppure la stanza vuota e ordinata.
Deglutì e aprì di scattò la porta facendola sbattere contro il muro. La stanza le apparve in tutta la sua normalità e perfezione, come suo zio era solita lasciarla, e lei si lasciò andare in un sospiro di sollievo. Abbassò la mannaia ed entrò. Era entrata poche volte in quella stanza, ma i muri color carta da zucchero con rifiniture bianche in alto la facevano sembrare quasi una grotta, un “covo” che suo zio aveva arredato con un letto, un comò, una cassettiera e una bella scrivania. Poteva sembrare spartana se non fosse stato per il piumone riccamente rifinito che copriva il materasso, il lampadario elaborato che pendeva dal soffitto, uno strano bastone dorato sormontato da una pigna e decorato con foglie di vite appoggiato vicino alla porta, e dei vasi di cristallo adagiati sulla cassettiera.
La ragazza stava osservando proprio questi ultimi quando una sensazione sgradevole la indusse a voltarsi e ciò che si trovò a fronteggiare era molto, ma molto peggio di tutti i possibili scenari apocalittici che la sua mente avesse mai elaborato.
Era rimasto rannicchiato sotto la scrivania per tutto quel tempo e poi il lupo era sgusciato fuori, enorme e mostruoso, ergendosi al centro della stanza e puntando i suoi occhi rossi sull’unico altro essere vivente in quella casa. Non era lei che stava aspettando, ma sarebbe andata comunque bene.
Il lupo saltò sul letto facendolo scricchiolare sotto il suo peso notevole e si leccò i baffi, ringhiando sommessamente.
Cassandra era sbiancata. In un recesso della sua mente paralizzata dalla paura, si rese conto che quella era la bestia mostruosa del sogno, solo che non aveva due teste. Comunque, questo non la rendeva meno spaventosa.
In uno scatto rapidissimo, il lupo tentò di avventarsi su di lei ma, spinta dall’istinto primordiale di sopravvivenza, si spostò di lato, la bocca aperta in un urlo senza rumore, e l’animale andò a sbattere contro la cassettiera, facendo cadere tutti i bei vasi.
Confusa dalla paura, Cassandra si era dimenticata della mannaia e quando stringendo le mani in una morsa terrorizzata sentì il legno intarsiato del manico rinfrancarla con la sua solidità, in un attimo agì: si avventò sulla testa del lupo stordito e iniziò a colpirlo all’altezza del collo. Sentì uno schizzo caldo sulla guancia: sangue corposo e scuro le macchiò le mani, le impregnò i vestiti e le scarpe. Quello che stava facendo era orribile e abominevole, ma la bestia che aveva davanti lo era allo stesso modo e, soprattutto, la sua mente continuava a ripetere: o te o lui, o te o lui, o te o lui, o te o lui, o te o lui.
Il lupo lanciò un ululato di dolore e cercò di morderle una gamba e lei, per sfuggirgli, fece qualche passo indietro, inciampò e cadde. La mannaia le sfuggì di mano e volò lontano, sotto il letto; indietreggiò fino a sentire dietro di sé la porta, intanto che il lupo scuoteva la testa e si rimetteva in piedi, tremante. Disperata e con le spalle al muro, Cassandra si guardò attorno e mentre la creatura si girava verso di lei, prese lo strano bastone dello zio. Non era propriamente un’arma, ma in quel momento qualsiasi cosa le sarebbe parsa tale.
L’animale ringhiò infastidito, enormi gocce di sangue cadevano dalle ferite che aveva sul collo, il pelo raggrumato e scuro. Si erse in tutta la sua mole e la sovrastò prima di avventarsi su di lei. Cassandra chiuse gli occhi e affondò il bastone alla cieca proprio mentre l’animale si avventava su di lei.
Il lupo guaì e si ritrasse. L’idea della ragazza era stata quella di infilargli il bastone in bocca, preferibilmente nel palato molle, ma avendo chiuso gli occhi aveva mancato il bersaglio e aveva infilato il bastone nell’occhio sinistro dell’animale. Quest’ultimo stava scuotendo freneticamente la testa sia per il dolore che per liberarsi del bastone, affondato abbastanza da accecarlo, ma non abbastanza da trapassargli la testa da parte a parte.
Cassandra lo fissò per alcuni istanti e, resasi conto di avere via libera, si alzò e corse fuori dalla stanza, verso le scale. L’animale si liberò del bastone con un ultimo scossone e con un balzo colpì la ragazza alle spalle. Lei cadde in avanti, battendo la testa sul primo gradino delle scale; il lupo le addentò un polpaccio, i denti affilati e grossi entrarono nella carne morbida della ragazza e questa urlò così forte che sentì un fiotto di sangue in gola. Era dolore puro quello che stava provando, un dolore senza paragone e uguali, un dolore che le perforò la mente, le mozzò il fiato, le appannò la vista.
Il lupo mantenne salda la presa e la tirò leggermente verso di sé. Lasciò la gamba per un attimo, il petto ansante, la bocca aperta con la lingua penzoloni da una parte e i denti gialli coronati di rosso. I suoi occhi erano folli, i suoi sensi in estasi per l’odore del sangue, il sapore della carne, le urla di quella mortale. Si lasciò andare in un ululato prolungato.
Gli occhi appannati dalle lacrime e gli orecchi sordi per il dolore, Cassandra approfittò di quel momento di distrazione: si allungò sul primo scalino e si spinse con tutto il corpo in avanti. Rotolò giù dalle scale ripide; il polpaccio le doleva ad ogni colpo, la spina dorsale colpiva con un rumore sinistramente osseo gli spigoli dei gradini, picchiò la testa una volta, due volte, perse il conto.
Atterrò ai piedi delle scale in posizione fetale. Aveva il viso gonfio, le mani sporche di sangue non suo, la gamba dolorante e calda. Alzò stancamente la testa e vide in cima alla scala gli occhi rossi del suo mattatore. Una parte della sua mente le gridava di alzarsi, di zoppicare in cucina e di prendere un altro coltello. Le diceva che ce la poteva fare. Concentrò tutta la sua forza sulle gambe e tentò di alzarsi, ma l’arto ferito cedette sotto il suo maldestro tentativo e il lupo emise un suono, quasi uno sbuffo beffardo.
Madida di sudore, esausta e rabbiosa per quella situazione inverosimile, guardò la bestia fermarsi a metà scala, leccarsi i baffi e fare un balzo. Che cosa strana: non aveva mai immaginato la sua morte, eppure se l’era aspettata un po’ diversa, un po’ più da vecchia, un po’ più normale. La vista si andava appannando; batté le palpebre e quando le fauci del lupo furono vicinissime, vide un lampo argenteo.
Poi, il nulla.
-------
E riecco qua un altro capitolo di 'The Pillar'! In questo capitolo (finalmente) la storia decolla, nubi scure si addensano all'orizzonte. Chissà cos'altro si cela dietro quello che è appena successo. Be', causa impegni improrogabili, non potrò pubblicare presto il prossimo capitolo, quindi siate pazienti e prendetevi pure la briga di immaginare e cercare di capire cosa succederà :) A presto, EB
-------
Spoiler del prossimo capitolo:
Denis dondolò la testa. – Più o meno. La verità è che creature come noi, Cassie, emanano un’energia molto, molto speciale e tale energia aziona una polvere che i nostri nemici, negli ultimi millenni, hanno usato per darci la caccia, l’ambrosia.
[...]
Liam l’accompagnò fino a camera sua e si fermò sulla soglia. La ragazza lo guardò, interrogativa. – Devi disinfettarti.
– Cosa?
Indicò il taglio. – E’ meglio se lo disinfetti, eviterai inutili rogne.
– Ah, questo – e si passò una mano sullo zigomo. – Guarirà da solo, non ti preoccupare. Piuttosto, posso chiederti una cosa?
La ragazza annuì, mentre cercava nella cassapanca un paio di pantaloni più comodi di quelli che indossava.
– Riesci a credere anche in minima parte a quello che ti è stato detto?
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2546962