Angel of Death.

di oswin_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


In pochi cuori regnava la verità: una verità che non veniva mai accennata, una verità che taceva nei ricordi di coloro che sapevano. Se ne raccontavano miti e leggende, come se la Sua esistenza fosse solo mera invenzione, ma la vera storia non venne più raccontata. Da vent’otto anni ormai non c’era più terrore nel regno, ma solo pace e serenità – e ignoranza. Ignoranza perché si preferì dimenticare, si preferì non divulgare la tumultuosa storia di quel regno: rimase tutto nelle mura di quel castello, e neanche in tutte. I regnanti ne erano a conoscenza, come anche i sette cavalieri ufficiali del regno: ma lei no. Viveva nella fittizia convinzione che nel regno fosse sempre regnata la pace e la serenità. Credeva questo, la principessa Emma. Non sapeva cosa realmente fosse successo in passato ai genitori, e loro non riuscivano a comprendere come lei potesse essere una principessa così maledettamente fuori dagli schemi.

 
« Padre, dov’è la Vostra armatura? » L’erede al trono fece irruzione nella camera da letto dei regnanti, spalancando la porta e trovandoli intenti a conversare sul possibile nome della prole in procinto di nascita. Emma roteò gli occhi e si avvicinò all’armadio – costruito in legno d’acero da Geppetto –, cercando gli abiti corazzati del re.
« L’ho lasciata alle scuderie, Emma. » All’affermazione dell’uomo seguì uno sbuffo da parte della principessa, subito interrotta dalla melodiosa voce di Biancaneve, che s’infranse nell’aria.
« Vieni, aiutaci a scegliere il nome. » Con aria sognante portò una mano sul proprio ventre, rigonfio di vita e di gioia. Emma aggrottò la fronte, nuovamente disturbata da quella vita principesca a cui era sottomessa, disturbata da quella vita principesca che le imponevano.
« Avanti, proponete. » E così dicendo si alzò le maniche del vestito celeste e incrociò le braccia dinnanzi al petto, con fare tutt’altro che femminile che James accolse con poco consenso, guardandola con uno sguardo di rimprovero che ben presto, però, svanì.
« Pensavamo ad Eleanor, in caso fosse una bambina. » Riflettendo sulle parole della madre, Emma andò a sedersi sul baule situato davanti al giaciglio dei genitori, rivolgendo loro lo sguardo.
« Che ne pensato di Regina? » Un sorriso divertito si manifestò sul viso di Emma, consapevole che – per qualche ragione a lei sconosciuta – quel nome riusciva a catturare l’attenzione dei genitori, in un modo o nell’altro. Notò infatti la madre sgranare lo sguardo, e riprese parola.
«Ma sì, come la donna di tutti quei miti… Ad ogni modo, spero sia un maschio. » Si alzò dal baule, dirigendosi verso la porta, ma venne interrotta dalla voce bassa del padre James, che intervenne con una ulteriore questione – dopo essersi calmato dall’aver udito il nome dell’EvilQueen.
« E come vorresti si chiamasse, in caso fosse maschio? »
« Henry. »

 
Si inoltrò nella Foresta Nera dopo aver recuperato l’armatura del padre. Amava quel luogo, l’affascinava particolarmente e spesso si rifugiava lì alla ricerca di misteri, misteri che raramente non si manifestavano – perché quello era la Foresta Nera, un colossale mistero celato dal silenzio. Celato da un silenzio troppo assordante per essere realmente considerato tale. Quello fu solo l’ennesimo pomeriggio trascorso a cavalcare tra le fronde fitte della foresta, l’ennesimo pomeriggio trascorso a essere sé stessa.
Perché lei non era nata per essere una principessa, lei era nata per essere un qualcuno che non sapeva neanche ben definire, e neanche avrebbe saputo dire con certezza se quello fosse il suo mondo, se quello fosse l’universo in cui sarebbe dovuta vivere – perché lei sapeva, tutti sapevano, che di altri – di altri mondi – ce n’erano a iosa. Lei non apparteneva a quella realtà, lei aveva bisogno di altro.
Non sapeva cosa, ma non quello.
Non voleva ereditare un regno, né tantomeno sposarsi con qualche principe. E non perché rifiutasse l’idea dell’amore, ma perché trovava estremamente noiosi quegli omaccioni buoni a nulla.
Raggiunse il ventre della selva quando il sole regnava in tutto il suo splendore nel cielo, donando alla foresta alcuni – frastagliati – raggi solari che riuscivano a far apparire quel luogo meno oscuro di quanto non raccontassero. Emma scese da cavallo, andando ad allacciare le briglie di cuoio ad un ramo basso del primo arbusto che le capitò a tiro. Recuperò la spada dall’armatura e iniziò a rigirarla tra le mani, essendo ormai esperta con quel tipo d’arma: non le permettevano di combattere, ma molte erano le giornate che trascorreva lì – nascosta dal resto del mondo – ad allenarsi. E così accadde anche quel giorno: si sistemò di fronte ad un vecchio salice, a qualche metro di distanza da esso, e iniziò a fissarlo con insistenza, con la spada salda tra le mani.
Temeva il peggio ogni volta che si soffermava ad osservare qualcosa con insistenza: troppo spesso le era capitato che degli oggetti, sotto al suo sguardo, –  in momenti di particolare tensione – prendessero fuoco d’improvviso, senza una spiegazione logica – ma, per fortuna, era consapevole che in quel mondo la magia non era poi così tabù.
Osservando il centro del salice alzò le mani sopra al capo, espirando profondamente e concentrandosi sul suo obiettivo: centrare il tronco dell’albero a distanza – erano giorni che ci provava. Tutti tentativi vani, inutili. Per quanto si sforzasse, non ci riusciva. E poi fu un attimo: le sue braccia scattarono in avanti e le mani lasciarono l’impugnatura dell’arma, permettendo alla spada di volteggiare nell’aria, dirottando il proprio volo e sparendo in un punto non ben preciso. Quello di Emma fu uno sbuffo esausto, subito seguito dal rumore dei suoi passi che si affrettavano ad andare a recuperare l’arma del padre – che mai  avrebbe dovuto perdere, o rovinare.
Perché i suoi genitori non dovevano assolutamente sapere che maneggiasse le armi.
Superò il salice piangente e s’infiltrò verso il lato più oscuro della foresta, rischiando più volte di farsi male. Il suo sguardo chiaro saltava da un lato all’altro dell’ambiente a lei circostante, senza però riuscire ad individuare l’arma.
Fu solo dopo una buona mezz’ora, che Emma riuscì a riconoscere lo scintillio della spada al fondo di una grotta. Inclinò il proprio busto e assottigliò lo sguardo, avanzando a passi lenti fin quando non sentì una spiacevole sensazione sotto ai piedi. Una sensazione di viscido, una sensazione che ben presto si trasformò nella causa che la fece scivolare all’interno di quel buco nero.
Scivolò per diversi istanti, sentendo l’aria divenir sempre più sgradevole e notando dell’acqua stagnate grondare dall’alto della caverna. Quando fu finalmente giunta al capolinea di quella fastidiosa scivolata, si ritrovò con la schiena poggiata contro un piedistallo in pietra al quale si aggrappò per sollevarsi. Non appena fu in piedi, il suo sguardo non poté far altro che soffermarsi su una scatola cubica presente sul piedistallo, emanante una luce rossa che di certo non era quella della spada.
Emanava anche uno strano calore, uno strano calore che la pervase e fu come se l’obbligasse ad allungare una mano verso di essa. Una mano che di fatto si allungò verso quel cubo e che, non appena lo sfiorò, fu obbligata a ritrarsi.
Fu obbligata a ritrarsi perché Emma fu colta da una scomoda sensazione di disagio, perché Emma fu colta da un terrore nel notare una strana luce sinistra irradiare tutto l’ambiente. Indietreggiò di qualche passo e socchiuse gli occhi, girando leggermente il viso da un lato.
Il suo sguardo riprese vita solo nel momento in cui la luce cessò di esistere, lasciando spazio ad un buio inquietante, che non permetteva alcuna visione.
« Chi devo ringraziare per questo? » Una voce di donna – che di certo non apparteneva ad Emma – si diffuse nell’aria, facendo indietreggiare ancor di più la principessa. Una voce tagliente, ironica, sarcastica… ma con del calore. Una voce contraddittoria che sconvolse Emma, che la terrorizzò a tal punto da farle mancare il fiato.
Una voce troppo misteriosa, troppo cupa – per essere vera.

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Capitolo 2
*** II ***


Passarono dei secondi, dei minuti, senza che nessuna voce si diffondesse più nell’aria. Passarono quegli istanti, gremiti di ansia e di freddo terrore – terrore di un qualcosa che Emma non conosceva, terrore per un qualcosa di cui Emma ignorava l’esistenza. Terrore, null’altro – solo quello, solo quel terrore che quella voce aveva scaturito. Era sempre stata coraggiosa, Emma: talvolta le veniva confermato di aver maggior coraggio di quanto non ne avesse suo padre, ma in quel momento tutto il coraggio sembrava esser rimasto al di fuori della grotta. Tutto era fuori dalla caverna: il coraggio, la forza, la volontà di scoprire. Ora avrebbe solo voluto andare via – neanche le interessava cosa ci fosse lì, semplicemente non ci sarebbe tornata. Ma dopo quei minuti – minuti di silenzio, interminabili attimi cupi e colmi di mistero – la principessa della Foresta Incantata iniziò a credere di aver avuto un’allucinazione, perché non avvenne più nulla. Solo quel silenzio che l’aveva sconvolta: e quindi si sistemò, si ricompose ed esalò un profondo respiro. Osservò invano quello spazio vuoto, non potendo vedere nulla, e si voltò, con tutta l’intenzione di ritornare al regno il prima possibile – dimenticatasi anche della spada del padre, ormai. S’incamminò verso l’uscita, e sarebbe uscita, se solo una luce ed un calore non si fossero diffusi nella grotta. Voltò immediatamente il viso, vedendo come prima cosa due occhi.
Occhi bui, più di quanto non lo fosse l’ambiente circostante.
Infinito oceano di inquietudine.
I suoi occhi – così chiari – incrociarono un altro sguardo – così scuro.
Diamante contro carbone.
Petrolio nell’oceano.
Inevitabile catastrofe – per qualche ragione, pensò a quello.
Per qualche ragione, quegli occhi che incrociò non furono capaci di suscitarle alcun pensiero positivo, ma solo inquietudine – catastrofe, morte, tenebra.
Non disse nulla. Il suo sguardo era fermo ma assente, le sue labbra leggermente dischiuse ma mute.
Il suo cervello elaborava le immagini ed i pensieri, ma senza alcuna logica.
« Togli già il disturbo? » Fu solo lì che Emma rinsavì, al nuovo sopraggiungere della voce di donna. Donna, perché finalmente Emma la vide. Dopo essere riuscita a staccarsi dai suoi occhi – con enorme fatica, erano peggio d’una calamita – notò una luce illuminare il volto di una donna, un volto tanto affascinante quanto… silenzioso. Non traspariva alcuna gioia da quel volto, e Emma fu certa di aver disturbato chiunque-lei-fosse, nell’aver aperto quello strano cubo – aperto, non sapeva neanche se pensare questo. Dopotutto, aveva solo avvicinato la mano a quel cubo e… beh, era successo ciò che era successo. La sua mente – la mente di Emma, una mente solitamente molto più sveglia – viaggiava a rallentatore, e dopo altri – ennesimi – istanti, la ragazza si rese conto della fonte di quella luce, e di quel calore. Si rese conto di una fiammella presente sulla mano destra dell’altra donna, una fiamma capace di illuminare tutta la caverna e di donar essa del piacevole calore – meraviglioso torpore.
«Chi sei? » Banale questione, stupida domanda – perché avrebbe dovuto risponderle, d’altronde? Erano così – immobili, ad un paio di metri di distanza l’una dall’altra.
Non si conoscevano eppure una aveva liberato l’altra.
Non si conoscevano eppure una aveva ricorso alla magia pur di sapere chi l’avesse salvata.
« L’ultima persona che vorresti incontrare. » Emma poté chiaramente notare un ghigno farsi strada sul volto dell’altra donna, ed avvicinandosi ad ella mostrò un bastone, che poco dopo avvicinò alla mano della donna, per permettersi un’ulteriore luce. Ma fu un attimo, ci mise un attimo a recuperare da terra la spada – spada che finalmente aveva ritrovato, spada che aveva notato nel momento in cui la grotta era stata illuminata – e a puntarla alla gola della donna che si ritrovava davanti, sollevando leggermente il volto e guardandola con serietà.
« Chi sei? » Ripeté, con meno tranquillità – perché quella figura la metteva in tremenda soggezione, perché quella figura le faceva vibrare i nervi come raramente le capitava. E non sapeva se era positivo, e non sapeva se era negativo.
Dischiuse le labbra, la donna liberata dal cubo, le dischiuse ed Emma notò quanto fossero rosse.
Le dischiuse e da esse fuoriuscì solo un sospiro smorzato a metà strada, le dischiuse e le sue gambe si incurvarono per una frazione d’istante. Una frazione d’istante durante la quale la fiamma ondeggiante su quella mano mise fine alla propria “vita”, una frazione d’istante durante la quale i movimenti della donna furono abbastanza bruschi da far giungere la lama dell’arma di Emma sulla guancia dell’altra donna, abbastanza vicino alla pelle da provocarle una ferita superficiale. Dovette appoggiarsi al piedistallo su cui era ancora poggiato il cubo, dovette appoggiarsi lì ed alzare lo sguardo verso quello chiaro ma non molto limpido – confuso – di Emma. Quest’ultima la guardò ancora per qualche istante – ma la sua voce tacque, ma le sue labbra non si dischiusero più.
E solo dopo diversi minuti si decise a darle le spalle e ad abbandonare definitivamente la grotta, fingendo di aver sognato.
Mentendo a sé stessa, cercando di convincersi di aver avuto solo un’allucinazione.
Ma quegli occhi.
Quegli occhi… non lo erano.
Non erano un’allucinazione, era impossibile che lo fossero.
 

Non ci fu ragione di chiuder occhio, per le due notti successive a quell’avventura avvenuta nella Foresta Nera. Si rigirava nel proprio letto a baldacchino, con gli occhi sbarrati e il respiro smorzato.
Occhi sbarrati – perché ogni volta che si chiudevano, ogni volta che Emma si metteva ad attendere il piacevole torpore del sonno, quello sguardo scuro balenava nuovamente nella sua mente. Un’immagine troppo vivida per essere stata immaginata, un qualcosa di troppo bello per non essere vissuto.
Aveva una crescente voglia di scoprire – di scoprire chi fosse quella donna, di scoprire qualcosa su quel cubo magico.
Voleva anche scoprire qualcosa sulla magia – ma quello da sempre, e anche se lei era consapevole di poterla maneggiare ormai quella curiosità era stata catastroficamente superata dall’altra ben più impellente.
Avrebbe voluto domandare qualcosa ai propri genitori, ma consapevole che si sarebbero infuriati per essersi spinta fino a quella foresta dilaniò quella proposta che s’era fatta, rigirandosi per l’ennesima volta tra le lenzuola di seta. Non era da lei preoccuparsi così tanto per qualcosa – se quella era preoccupazione. Perché non ne era certa, perché era un qualcosa di strano – un qualcosa che non sapeva proprio decifrare, un qualcosa che nessuno avrebbe saputo decifrare.
Era come se fosse stregata dalla voglia di conoscere, ma avvolta dal terrore di scoprire. Sensazioni totalmente contraddittorie che in quella situazione si amalgamavano alla perfezione, situazioni totalmente contraddittorie che s’erano dichiarate guerra – nello spirito di Emma.
Nello spirito, nella mente, nel cuore.
Sbuffò e scostò il lenzuolo dal proprio corpo, sistemandosi seduta sul letto e passandosi una mano tra i capelli biondi. Aveva tutte le intenzioni di rimettersi a dormire – o a provarci, almeno – ma alcune voci proveniente dalla camera dei genitori le fecero cambiare rotta di pensiero, obbligandola ad alzarsi da letto e ad abbandonare la propria stanza. I suoi passi strisciavano lenti e silenziosi sul pavimento, e il suo sguardo era attento sull’ambiente circostante, per timore d’esser scoperta – non che la terrorizzasse l’idea di essere ritrovata sveglia nel cuore della notte, dopotutto aveva vent’otto anni. Semplicemente preferì evitare, per quella volta.
Arrivata davanti alla camera dei propri genitori, Emma notò la porta non totalmente chiusa e si avvicinò nuovamente, riuscendo a scorgere il viso preoccupato della madre, seduta a letto. Re James, invece, camminava per la stanza, come colto da un’improvvisa inquietudine d’animo.
« Ne sei sicuro? » La voce di Biancaneve risuonò nell’aria tremante, e le sue mani andarono a poggiarsi sul ventre, con fare protettivo.
« C’ero anch’io lì, con Brontolo. La caverna si è illuminata davvero – per qualche istante. E questo vuol dire solo una cosa… » Emma corrugò la fronte all’affermazione del padre, sentendo un nodo alla bocca dello stomaco e il respiro farsi più pesante – dovette controllarsi, però. Perché doveva capire tutto, e  non doveva farsi scoprire.
« Vuol dire che è tornata. » Ennesima affermazione della donna, ennesimo respiro mancato di Emma.


Non si pose il problema della notte. Raggiunse la caverna con la luna piena ad illuminare tutto il regno.
Raggiunse la grotta all’oscuro di tutti, raggiunse quell’antro di magia nera scappando dal suo piccolo, accogliente nido materno. Quando scese da cavallo, non si pose neppure il problema di assicurarsi che non si verificasse alcuna fuga da parte del destriero. Non aveva voluto sentire altro – pretendeva che fosse lei, quella donna, a svelarle la libertà. Dopotutto l’aveva liberata, si meritava una ricompensa.
Fortunatamente quella notte si era precedentemente procurata  qualcosa che le permettesse di non girovagare nel buio più assoluto, e raggiunse il ventre della grotta con quella fiammella che illuminava l’ambiente circostante – con quella fiammella che divorava il legno. Quella fiammella che divorava il legno, esattamente come quegli occhi avevano divorato Emma in quei giorni.
« Dove sei? » La voce di Emma riecheggiò turbata nell’antro di silenzio, finché non sentì la voce risponderle.
« Evita di urlare. » Una mano sfiorò il piedistallo e ad esso si aggrappò, permettendo ad un corpo decisamente debole di alzarsi e sorreggersi malamente in piedi, osservando colei che qualche giorno prima aveva reso possibile tutto quello. « Cosa vuoi? »
La principessa non fiatò per alcuni minuti, minuti durante i quali la sua fronte non poté far altro che aggrottarsi e il suo sguardo posarsi sul viso dell’altra donna. Il taglio superficiale provocatole involontariamente un paio di giorni prima era ancora visibile, ma la cosa che più colpì Emma fu il ritrovare l’altra donna in una condizione che non poteva essere paragonata alla prima volta che l’aveva vista. Era stata forte, tenebrosa, inquietante. Ora era solo un qualcosa di debole che tentava di racimolare quanta più forza potesse.
« Tu non stai bene, dobbiamo uscire di qui. » Non attese risposta, Emma, si avvicinò all’altra donna e posò una mano sul suo polso. E gli occhi dell’altra donna scattarono sulla mano di Emma, perché era stato un contatto troppo improvviso. Un contatto troppo caldo, un contatto troppo… umano.
« N – no! » La voce dell’altra donna vibrò nell’aria, come colta da un’improvvisa preoccupazione, ma Emma non ci badò troppo. Continuò a camminare verso l’uscita della grotta, obbligando la donna a seguirla.
E sarebbero uscite, se solo non fosse successo l’inimmaginabile. Sarebbero uscite se solo Regina non fosse stata scaraventata contro la parete opposta non appena tentarono di aver un contatto con l’esterno. Emma uscì, ma lei no. Lei fu spinta nuovamente in quel ventre della terra, con una violenza che fu capace solo di peggiorare la sua situazione già critica. La raggiunse, Emma, senza porsi troppe domande. La raggiunse per assicurarsi che stesse bene, ma l’unica cosa che constatò era il fatto che la donna fosse ormai svenuta.
 

L’alba era sorta senza che la donna si fosse ancora svegliata, e la principessa della Foresta Incantata non avrebbe saputo dire quanto sarebbe ancora dovuta rimanere lì. Non aveva chiuso occhio – come non le succedeva da giorni, ormai. – ma una strana preoccupazione l’aveva accolta quando quella donna era stata impossibilitata dall’uscire. Lei poteva uscire, tornare a casa, Emma poteva.
Eppure qualcosa la teneva lì – qualcosa che andava oltre la magia, qualcosa che non aveva nulla a che fare con le prigionie. Una sorta di senso del dovere la teneva legata a quel posto, era certa che sarebbe rimasta lì volontariamente almeno fino al risveglio di quel mistero che ora, sdraiato a terra, esalava profondi e lenti sospiri.

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