Ti ho trovato.

di niiietta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bagagli. ***
Capitolo 2: *** Calore, occhi e luce. ***
Capitolo 3: *** Come fiori, incontri. ***
Capitolo 4: *** Neon. ***
Capitolo 5: *** Distante distanza. ***
Capitolo 6: *** Chiarezza. ***
Capitolo 7: *** Scrosciare di crema. ***



Capitolo 1
*** Bagagli. ***


Ti ho trovato.

Le rotelle dei nostri trolley sbatacchiavano e creavano rumore intorno noi, mischiandosi a quello delle altre persone e al loro vociare.
Isabella, aveva lo sguardo dritto in avanti. Era uno sguardo che sapevo riconoscere, sempre.

Ogni volta che mi trovavo di fronte ad una persona amavo catturarne gli occhi. Son sempre stata convinta, infatti, che se li si osserva a fondo si possono scorgere più cose di quanto le si può conoscere attraverso le parole, attraverso i gesti. La pelle.
E quelli di Isabella avevo imparato a scorgerli bene. Il colore, la profondità, la proiezione. La presenza o meno di striature dorate addensate al castano. E, ora, erano troppo densi e proiettati dentro di sé per essere all’interno di quell’aeroporto.
Spostai un ciuffo chiaro di capelli dal viso, portandolo dietro l’orecchio. I suoni e la gran voce degli avvisi continuava a disturbare anche i miei, di pensieri. Pensieri aggrovigliati, di tutti quegli anni - pochi, in effetti - che avevamo alle spalle. Pulsavano troppo pesanti sotto la pelle, per non essere dentro la testa. Persone, colori, parole, odori. Tutto, ruotava troppo in fretta, talmente tanto da essere in grado di coprire l’esterno.
Le porte scorrevoli degli arrivi, ogni tanto, lasciavano intravedere stralci di persone, sorrisi, sentimenti che scorrevano fra loro. L’ansia del groviglio non cedeva, continuava a disturbarmi e farmi sospirare. Di tanto in tanto guardavo il viso di Isabella, i suoi occhi, e non mi accorgevo che erano quasi identici ai miei.
Le porte scorrevoli si avvicinarono, sempre più, si aprirono, varie volte, finché, arrivate di fronte, lo fecero per noi. E bloccarono ogni suono, e mi fecero fischiare le orecchie.
Il passato, pesava addosso. Non sapevo cosa sarebbe potuto accadere: se ciò che ci eravamo prefisse sarebbe andato a buon fine, se la nostra nuova vita a Londra avrebbe davvero alleviato tutti i mali. Non potevo saperlo.
L’unica cosa certa era Isabella di fianco a me e il sorriso di Damon che, fra la folla, riportò a galla i suoni e mi fece superare le porte, per correre da lui.

 

Capitolo primo.

Bagagli.

Annalisa

 

L’aria chiusa e pungente di Londra mi colpiva le narici mentre correvo alla fermata del bus. Sorpassavo le vie incastrate di case in mattoni scuri e portoni colorati, passando di fronte al The Hart. Oggi non avrei avuto da lavorare e volevo proprio sbrigarmi ad arrivare a casa. Presi in velocità il cellulare dalla tasca della borsa a tracolla scura, sbuffando e tenendomi di fretta la cuffia. Quante volte aveva rischiato di volarmi dalla testa?
Il sole di tanto in tanto sorrideva fra le nuvole cupe, ricordandomi quelle strane giornate al corso di fotografia in cui Isabella e Roberto urlavano isterici contro le ISO delle loro reflex. O quelle al mare, a casa, in cui non si capiva se volesse piovere o meno.
Sorrisi per conto mio, gli occhi al cielo, e le dita a infilare le cuffie alle orecchie. Il volume non troppo alto, per sentire i rumori della strada, il passo più veloce - quasi sentivo la voce di Clelia dirmi di andare più piano, per i suoi crampi! – e sbucai poco dopo nella via principale. Un ultimo tratto verso la fermata e sospirai di sollievo, un motivetto per la testa. Restai in piedi, alcune persone ad aspettare come me.
Alex, un mio compagno di corso, mi salutò passando in sella alla sua bicicletta, quel sorriso grande che guardavo sempre durante le ore di speaking. Quei suoi occhioni castano chiaro rendevano migliore il tempo da passare a lezione, anche se studiare a Londra, per ora non ancora al College ma alla scuola d'inglese, rendeva le lezioni già entusiasmanti di suo.
Il rosso dell’enorme bus irruppe davanti ai miei occhi che ormai erano fissi nel grigiore intorno e mi affrettai a salire, obliterando la carta e prendendo posto al piano inferiore, nella parte centrale.
Era ormai Ottobre ma per me era ancora Settembre. Non mi sembravano reali quei mesi passati a Londra, dopo tutto quel tempo in cui, per me ed Isabella, era stato solo un sogno. Erano anni che organizzavamo di venire a studiare qui e appena diplomate l’unico problema era stato trovare una sistemazione perché per il resto era tutto pronto: un anno alla scuola d'inglese, per ottenere lo IELTS, così da poter fare la domanda di ammissione al College. Era stata dura capire cosa veramente volessimo fare, ma una volta deciso - che anni, quelli in cui la confusione ci torturava - unire Londra e le ambizioni era stato quasi ovvio.
La prospettiva di non trovare una casa stroncava tutti i nostri piani, ma ci aveva pensato Damon a mettere le cose a posto. Damon - oh Damon! - nostro caro - ricco - amico inglese che aveva studiato da noi in Italia durante la nostra terza superiore per imparare la lingua! Era stato mio vicino di casa e compagno di classe di due amici miei e di Isabella, Roberto e Giacomo. Le giuste coincidenze per fare amicizia. E anche una grande fortuna, perché grazie a lui avevamo trovato sistemazione in una delle case che il padre aveva messo a disposizione.
L’autobus si fermò al semaforo che avrebbe portato al ponte sul Tamigi quando una Porsche nera si fermò bruscamente, un’altra macchina di fronte a lei. Catturò i miei occhi, così come aveva fatto il grande bus rosso alla fermata. La musica di sottofondo e il rumore intorno non mi fecero sentire che diceva ma un ciuffo di capelli biondo scuro e un braccio che si agitava per aria, fuori dal finestrino, mi fece sbattere gli occhi perplessa e continuare a guardare la scena. Amavo osservare le macchine fuori e cominciai a fantasticare sul perché di quella fretta e su cosa potesse pensare chi stava alla guida della macchina di fronte e abbozzai un sorriso. Va bene, il semaforo era scattato, ma nemmeno il bus era partito!
Quando ebbe strada libera sfrecciò velocemente, lasciandomi ancora più perplessa.
Non si corre, nenno*, anche se hai una Porsche fighissima e tanti soldi in tasca. Le regole della strada sono importanti! - lo dico sempre anche a Damon.L’autobus ripartì poco dopo e ripresi a guardare i colori di Londra e del fiume. Per quanto potesse essere interessante un fiume sporco ma... era pur sempre il Tamigi!
Tempo di un po’ di canzoni e arrivai a Notting Hill Gate. Obliterai nuovamente e fui sulla strada, un breve tratto a piedi – frettoloso anche questo – e arrivai alla fermata di Roland Park Ave. Voltai gli occhi verso destra, aspettando arrivasse quello che mi avrebbe portata vicino a casa. Anche prendendo un secondo bus avrei dovuto fare un pezzo a piedi, figuriamoci non prendendolo per nulla!
Quando arrivò un bagliore scuro venne coperto dal rosso. Qualche fermata e Lansdowne Rise e Lansdowne Crescent furono più vicine, come il nostro stupendo palazzo bianco a quattro piani – l’ultimo un attico – identico a quello a fianco e non aspettavo altro che tornare a casa, ossia l’elegante e costoso appartamento al secondo piano. Probabilmente Damon era già a casa mentre Isabella non lo sapevo.
Se il secondo bus fosse arrivato due secondi più tardi avrei notato la Porsche nera fermarsi nel parcheggio della casa dietro alla fermata.

 

Harry


Il rumore della porta di Starbucks che si chiudeva alle mie spalle tenne con sé l’odore di cannella e miele.
Gongolai, afferrando la cannuccia verde con la lingua per gustarmi il mio frullato al mango. Sentivo gli occhi ridermi – quanto mi piaceva? – e continuai la mia passeggiata per Portobello Road.
Camminare da solo schiariva i pensieri e accendeva i particolari intorno. Le facciate colorate dei negozi, gli indaffarati con le spese, i vestiti, la frutta. Le librerie e il vociare dei negozianti. La strada pulita e l’odore di latte e cappuccino nei bar vicini.
Alcune ragazze si fermarono a fare una foto con me ma non mi disturbarono. Adoro stare con le fans ma a Portobello Road non ne avevo mai incontrato tante da non poter proseguire le mie camminate.
Una signora mi salutò e ricambiai ridacchiando, la cannuccia di nuovo fra le labbra.
Avevamo sempre tanti impegni con le uscite dei singoli e del nuovo album, “Take me home”, ed ero così entusiasta – sorrisi nuovamente fra me – ma il tempo libero era sempre la pausa perfetta.

Ripresi a catturare tutto ciò che mi stava intorno, rilassando le tempie. I sorrisi che mi circondavano rendevano migliori i colori.
L’aria e le ultime gocce di frullato fecero rumore dentro la cannuccia che scivolò dalle labbra – mi ero sporcato di frullato – quando una luce particolare attirò la mia attenzione.
Mi voltai. Capelli lunghi e scuri, si muovevano scomposti sopra un maglioncino rosa tirato sulle braccia. I polsini di una camicia bianca spuntavano dalle maniche, sotto una gonnellina blu a pois piccolissimi bianchi. Il laccio al collo e una Canon fra le dita.
Seguivo i suoi movimenti. S’era fermata per fare la foto all’insegna di un negozio. Pungevano le nocche, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Strinsi la plastica del contenitore prima di tenerlo lungo il fianco, ormai vuoto.
Le linee delle braccia mi fecero notare il tono di pelle – agli occhi odorava di noce – ma fu qualcos’altro a bloccarmi. Lo sguardo fisso e più scuro con la quale fissava la foto sul piccolo schermo. Mosse le labbra in un sospiro – la luce erano gli occhi? O i capelli? – e continuò a camminare.
Non decisi nulla, non ricordo nemmeno di aver respirato, quando cambiai direzione e seguii i suoi passi.
Il modo in cui si muoveva la gonna avrebbe attirato il mio sguardo, eppure continuavo a fissare quelle ciocche di capelli. La luce di Londra era sempre stata scura, eppure bastava un bagliore più intenso e cambiavano colore. Prendevano striature più intense e più chiare – dorate? – e mi chiesi se avessi già visto un colore simile.
I mocassini blu scuro, abbinati alla gonna, era come se saltellassero sotto i suoi passi, eppure erano lenti. Continuavano a muovere quei capelli dove attorcigliava le dita per spostarli dal viso, quando si fermava a fare una fotografia. Quando vidi il suo sguardo sorridere, guardando una foto, mi ricordai di affrettare il passo perché nel guardarla mi ero fermato.
Che cosa stavo facendo? Seguivo sul serio una ragazza lungo la strada senza sapere neanche chi fosse o il motivo? A quanto pare, lo stavo facendo.
Non mi andava nemmeno di pormi troppe domande. Se mi lasciavo ai pensieri avrei potuto distrarmi e perderla di vista.
Un venditore la fermò, cercando di venderle della frutta. Lei rise, gentile – lo capivo solo dall’espressione, troppo rumore per sentirne la voce – e cercò di rifiutare ma poi andò via con una busta di uva bianca e bruna.
Mi faceva sorridere, più delle facciate dei negozi, più degli indaffarati con le spese. Più dei vestiti, della frutta, delle librerie e del vociare dei negozianti. Della strada pulita e dell’odore di latte e cappuccino nei bar vicini.
Del profumo di miele e cannella che mi ero lasciato dietro la porta di Starbucks. Della cannuccia e del frullato al mango.
Mi ero perso nell’odore delle gambe quando si fermò e cambiò strada all’improvviso. Guardai velocemente il cartello della strada. Elgin Crescent?
Aggrottai la fronte e mi sbrigai un’altra volta, più curioso che mai. Stavo davvero sorridendo da solo per lei?
Buttai il contenitore di frullato vuoto in un bidone all’angolo della strada prima di rallentare. C’era più silenzio e non osavo immaginare cos’avrebbe potuto pensare nel trovarsi un tizio a seguirla. E se mi riconosceva? Ancora peggio.
Anche i suoi passi rallentarono e cominciò a guardarsi di più intorno. Cosa l’aveva attirata in quella strada? Si sentiva solo il rumore del vento.
Teneva il viso alzato, gli occhi fissi su qualcosa. Non capii cosa attirasse così la sua attenzione finché non si fermò sotto l’ombra degli alberi che sbucavano da un recinto. Era uno degli abituali giardini di Notting Hill. Entrò oltre il rumoroso cancelletto e, avvicinandomi di più, lessi il cartello: Colville Square Gardens.
Restai lì fermo. Non si voltava. Non l’aveva fatto nemmeno una volta. E quando la vidi sedersi sola, su una panchina, socchiusi le palpebre e tornai indietro. Le foglie degli alberi erano verde su noce.

 

Isabella

 

Era ormai imbrunito il cielo quando vibrò il cellulare dentro la borsa.
Il silenzio era tanto che riuscii pure a sentirlo, mentre mi dirigevo verso casa. Quella giornata al lavoro era stata seccante, soprattutto alla fine. Quell’uomo non voleva smetterla di darmi noia e il turno sembrava non voler finire. Quando era arrivato Sam a darmi il cambio, ero praticamente scappata per andare alla fermata del bus.
Infilai la mano dentro la borsa e lo presi – quanto si agitava! – per rispondere senza neanche vedere chi fosse.
«Pronto?» sbuffai, cercando di non farmelo cadere dalle mani.
«Isabella! Dove sei finita?» mi chiese la voce di Annalisa, preoccupata.
«Anna, sono praticamente dietro casa! Sam non voleva arrivare e ho fatto tardi per quello» le spiegai, mettendomi a posto e riprendendo il ritmo più svelto. Volevo davvero arrivare a casa!
«Quello scemo – rise lei, sospirando piano – Dai, ti aspetto a casa, allora. Volevo scendere a far la spesa ma tu come al solito non hai le chiavi e Damon è uscito» concluse.
Mi fece ridere: «Va bene, faccio in fretta, allora» le dissi solo, chiudendo dopo poco la telefonata.
Ero stanca. Io e Annalisa lavoravamo nello stesso bar vicino alla scuola e “quello scemo di Sam” lo conoscevamo bene entrambe. Lo perdonavo solo perché sapevo com’era fatto e non riuscivo a tenergli il muso.
La voglia di camminare di fretta non mi apparteneva e il fatto che stessi andando così veloce diceva tutto. Controllai persino l’orario!
Chi me l’aveva fatto fare, il giorno, di prendere il bus anziché la metro?
Svoltai per Ladbroke Groove e un qualcosa fece stringere il mio stomaco. M’imposi di tenere lo sguardo in avanti, tutto il tempo, senza guardarmi intorno finché non svoltai ancora per Lansdowne Crescent. Sapevo bene quanto non dovessi leggere il nome dei giardini che c’erano proprio dietro casa nostra e soprattutto quanto non dovessi guardare gli alberi che c’erano dentro. Erano pericolosi.
La porta di casa un sollievo, salire da Annalisa ancora meglio.
Anche se, nonostante fossi stanca, riuscì a convincermi a farle compagnia al supermercato. Già, sollievo...
Un ragazzo biondo di occhi ridenti azzurri salì su un Range Rover nero, in Lansdowne Rise, diretto verso casa.

 

Harry

 

«Harry, io esco» mi salutò Louis, infilandosi la giacca di jeans.
Lo guardai distrattamente. Non aveva la solita tuta, indossava i jeans scuri e una maglietta. Eleanor.
«Okay» risposi semplicemente, sorridendo verso di lui.
Ricambiò il sorriso ed entrò dentro l’ascensore interno alla casa euforico, come ogni volta che andava dalla sua ragazza. Eleanor...
Non mi era mai piaciuta tanto, però se lo rendeva felice ero contento uscisse con lei.
Stavo sulla poltrona bianca del salotto principale, al quarto piano e non facevo nulla di particolare se non mangiucchiare ogni tanto qualcosa e guardare la televisione.
Con Louis abitavamo insieme in un attico un po’ particolare che occupava la parte superiore di due palazzi identici. Dico particolare perché è complicato persino per me che ci vivevo raccontare com’era fatto.
Il piano dove mi trovavo ora comprendeva due saloni grandi, uno all’ingresso e uno subito dopo, di cui quell’altro era diciamo... la sala da pranzo. Poi un bagno e la cucina.
Sotto questo piano c’era il mio – che era come una casa a sé stante – mentre l’altra parte della casa si trovava nel palazzo a fianco a questo e comprendeva solo l’attico di quel palazzo – tutto di Louis – e la parte ancora superiore, una terrazza abbastanza grande.
Tutte e due gli attici erano circondati per tutto il perimetro da vetrate e ora, anziché la televisione, guardavo il cielo. Seguivo il percorso delle nuvole, la loro forma e avrei potuto fare una foto da mettere su Instagram ma non avevo idea di dove fosse il mio iPhone...
Sospirai e mi lasciai andare con capo sulla testiera della poltrona, le ciglia basse.
Non capivo perché il silenzio mi turbasse così tanto. Non lo capivo mai. Sentii un nodo allo stomaco, sensazione più che familiare. Cominciava sempre così, poi decidevo di vestirmi e uscire, andare da qualche parte. Sbuffai e scivolai ancora di più per il divano, sospirando forte.
Che potevo fare? Non volevo proprio uscire. Anche se... l’ultima volta era stato piacevole. Tanto.
Quella ragazza... mi chiedevo ancora il perché di quel giorno e mi piaceva pensarci e sorridere per conto mio, quando forse non avrei avuto nulla di cui sorridere.
I suoi capelli scuri... la pelle che era tutt’altro che candida. Quello soprattutto, mi chiedevo perché. E se fosse stata una turista? No, no doveva essere inglese. Eppure quella macchina fotografica...
Sorrisi nuovamente. Non avere risposta era meno piacevole, ma non aveva importanza. Perché crearsi cattivi pensieri quando poteva restare un sorriso?
Il cellulare cominciò a squillare, facendomi sollevare il capo. Quella maledetta suoneria.
Mi guardai intorno, di malavoglia, cercando di capire dove accidenti fosse finito. Non lo vedevo...
Sbuffai sonoramente, sollevandomi e trascinandomi intorno, seguendo la suoneria. Va bene, la casa era enorme ma il suono sembrava piuttosto vicino.
Sollevai tutti i cuscini, spostai tutte le cose inutili che trovavo in giro – quelli erano i boxer di Louis? - ma niente. La suoneria cessò e non feci in tempo a decidere se sedermi o meno che cominciò un’altra volta.
Marimba. Quella suoneria. Perché non mi decidevo a cambiarla?
Ancora più affrettato smontai la casa pur di trovarlo e alla fine lo vidi incastrato ai cuscini del divano dove poco prima era seduto Louis. Ovviamente.
Quando vidi che a chiamarmi era proprio lui restai perplesso. Louis?
«Pronto?» tentai, quando un’altra chiamata stava per chiudersi.
«Harry! – strillò, facendomi spaventare – Perché cazzo non rispondi al telefono?!»
Restai a bocca aperta. Cosa... come...
«Non importa! – continuò, senza neanche farmi parlare – Di chi cazzo è questa merda di Bentley ferma di fronte al parcheggio?!» strillava ancora e non prendeva nemmeno fiato. Che cazzo stava dicendo?
Feci prima ed uscii per andare sulla passerella che mi avrebbe portato alla parte di casa di Louis. Dalla sua sala giochi, affacciato ai vetri, lo vidi fermo all’entrata/uscita del garage, il motore della macchina ancora acceso e il clacson a suonare. Cercai di non ridere, nel vedere quella Bentley nera di fronte a lui a impedirgli di uscire. Se solo avessi osato farlo mi avrebbe ucciso.
«Harry ci sei ancora?! Harry, cazzo mi senti?!» continuò, sempre più isterico. Non ridere.
«Sì, sì – risposi subito, trattenendomi – Mi sono affacciato. Quella... mi sembra... di quel tizio... coi capelli ossigenati, quello... che... mi pare abbia la casa sotto di me».
«Cosa aspetti allora?! Chiamalo e digli di muovere quel fottuto culo e togliere questa cazzo di macchina da mezzo ai coglioni!».
Wow. Tutto il tempo per quelle parolacce e sarei già andato.

«Tranquillo, Lou, ora vado» risposi con calma, cercando di chiudere la chiamata. Ovviamente con Louis ancora a urlare.
Feci marcia indietro per scendere, sempre per la passerella, al mio piano, l’unico attraverso il quale si poteva accedere al palazzo.
Arrivai al piano di sotto e cercai di frenare la risatina che avevo liberato durante il tragitto.
Sì, mi stavo divertendo.
Suonai il campanello e aspettai, ridacchiando ancora. Chissà quanto stava impazzendo Louis lì sotto, con tutta la fretta che aveva. L’unica volta nella sua vita in cui era uscito in orario.
Non riuscivo a smettere di ridere.
Il rumore di passi, quello di come si fermarono davanti all’uscio e della porta aprirsi. Non ci fu bisogno di fermare la risata perché ci pensò la persona che mi aprì a farlo.
E capii che la luce erano i capelli e gli occhi.

 





Questa storia è una parte importante della mia vita. Per due anni scalpitava per mostrarsi, io troppo timorosa ma alla fine, beh... eccola qui.
(*nenno: ciccio, tizio... in english, dude ahah)
(nella trama, fra le virgolette, un estratto dalla canzone "Old pine" di Ben Howard)

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Capitolo 2
*** Calore, occhi e luce. ***


Capitolo secondo
Calore, occhi e luce.

 

Il marciapiede bollente del caldo cocente d'Agosto.
Uscito solo per non subirlo dentro casa, camminava senza averne voglia.

Odiava quel posto.
Certo, poteva stare lontano da suo padre, lontano dalla sua vecchia vita, lontano da tutte quelle storie a cui non gli andava mai di pensare ma decisamente odiava il sole ed il caldo.
Suo zio doveva proprio andare a vivere in un posto del genere? In Italia c'erano posti molto più freschi.
Al Nord, ad esempio. Milano, ad esempio.
E invece no. Il Sud. E, come se non bastasse, un'isola della quale non conosceva il nome fino a quel momento: la Sardegna.
Cosa c'era di così bello da aver convinto suo zio a stare lì? Probabilmente solo sua zia Milena.
Arrivò al parco di fronte al palazzo dove, ormai, abitava e superò uno dei tre cancelli verdi d'ingresso, quello che dava sulle altalene. Puntò alle panchine disposte a cerchio poco distanti, all'ombra di un grande albero posto al centro, in un aiuola. Perfetto.
Un sospiro, un'occhiata per vedere se sporco e poi i jeans scuri sul ferro più fresco.
Il rumore rilassante del vento e solo le voci di alcuni bambini distanti, ma quella era la parte più silenziosa del parco. Godeva così tanto, di quella pace, ad occhi chiusi, che perdette il senso del tempo.
Un altro sospiro, le mani nelle tasche dei jeans a cercare il pacchetto di sigarette quando dei singhiozzi troncarono l’idilliaco momento.
Dischiuse bruscamente le palpebre e cercò il colpevole. Altro non era che una ragazza.
Gli era passata davanti superandolo per raggiungere un’altalena. I palmi delle mani a fregare forte sulle palpebre, di fretta, anche il dorso delle dita.
La guardava e non sapeva perché la stava guardando. I capelli non troppo lunghi e lisci, di un biondo scuro, piccola di statura e abbronzata nei vestiti estivi.
La guardava e non pensava fosse particolarmente bella. Anzi. A malapena era carina.
Il punto era che quelle lacrime lo catturavano. Forte, gli inacidivano lo stomaco.
Piangere in un luogo pubblico come se fosse suo e disturbare la quiete degli altri.
E pensava, quanto poteva essere stupida?


Isabella

 

Erano ricci e occhi verdi.
Restai a guardarlo, con una strana sensazione addosso. Chi era?
L’avevo già visto da qualche parte...
Non diceva una parola, ma restava a fissarmi e, cercando di riconoscerlo, anche io non avevo ancora parlato. Mi resi conto del mio silenzio quando mi rivolse un sorriso.
«Hey» mi salutò, risvegliandomi dai pensieri.
«Ciao» ricambiai, mettendomi nervosamente a posto i capelli.
Era stato tutto molto veloce.
Che era successo?
Damon, quel giorno, era rientrato a casa scoglionato come non mai a disturbarmi mentre guardavo la tv.
Si era seduto come se non ci fosse nessun altro in casa e mi aveva rubato il telecomando.
«Oh! Guarda che c’è qualcuno, qui!» gli avevo urlato, ma mi aveva bellamente ignorata. Come - ogni - santissima - volta.
«Devo uscire, fra poco, Mademoiselle – mi disse, chiamandomi in quel modo che mi fece solo irritare di più – Lasciami un po’ in pace».
Io. Io.
Sentite le urla che ci eravamo lanciati, vero? Bene, perché le sento ancora anch’io e ne sono molto soddisfatta.
Ma chi cazzo si credeva?! Arriva, lì, fa quello che vuole! Bah.
Comunque.
Non riuscendo a farlo star zitto – mi chiedevo Annalisa come ci riuscisse – fui in grado solo di farmi lanciare il telecomando addosso prima che andasse a prendere il
portatile per controllare qualcosa e poi uscisse.

Ricevetti una chiamata da parte di Anna che stava per tornare e fu quando staccò che suonò il campanello. Litigate a parte – ancora – per chi si sarebbe dovuto alzare, decisi di farlo io solo perché dovevo finire di preparami prima che fosse tornata la mia dolce sposina. Dovevamo, come raramente accadeva, uscire insieme!
Ed è lì che mi trovai di fronte quei ricci scuri e quegli occhioni verdi.
Avrei potuto giurare si trattasse di un ragazzino se non fosse stato così... enorme.
E dopo il mio saluto, solo «Io... sono... cioè, abito qui sopra» tentennò, spiegandomi e continuando a guardarmi.
«Ah, sì – “Ah sì”? – Dimmi pure» buttai lì.
Aveva proprio un aria familiare. Forse l’avevo incrociato nel palazzo ma... sentivo che non era così.
«Ecco, mi chiedevo se... ehm... come si chiama? Quel... ragazzo dai... capelli biondi fosse in casa» mi spiegò ancora, muovendo forte le pupille. Parlava in modo strano.
Ragazzo dai capelli biondi? Oh. Il platinato.
«Ah, cerchi Damon! Aspetta, te lo vado a chiamare, stava per uscire» dissi e feci per rivolgermi dentro casa ma mi fermò con uno strano suono di gola che sarebbe dovuto
essere un “aspetta”.

«Eh... è che... mi... serviva proprio quello. C’è... il mio amico che è rimasto bloccato nel garage perché... c’è... quella che... credo sia la sua macchina, una... Bentley nera parcheggiata all’uscita» continuò, balbettando varie volte e muovendo le pupille.
«Se... potessi chiedergli di spostarla... per favore» concluse e... non riuscivo a smettere di guardare il modo in cui balbettava. Muoveva le labbra in modo davvero strano.
«Ho... ho capito, vado... a dirglielo?» tentai, non capendo più bene cosa dovessi fare. Non potevo chiamarlo e diceva tutto a lui? Perché ne parlava con me?
«Eh? Oh... ehm... sì, grazie» mi rispose, stavolta più veloce. Cosa... Isabella, smettila di guardargli la bocca. Non è carino se gli ridi in faccia.
Buttai lì qualcosa e, prima che scoppiassi a ridere sul serio, mi diressi da Damon che... guardava una cosa al computer. Sì, guardava. Dove cazzo era andato?
Lo chiamai a gran voce per la casa e mi rispose dal bagno. Gli dissi – sempre urlando, ma in italiano – cos’era successo e, dopo essermi presa uno strillo per averlo chiamato “cazzone” tornai da quel ragazzo che mi aveva aspettata alla porta.
«Dice che sta arrivando» lo informai, perciò.
«Va bene» mi rispose e mi rivolse un piccolo sorriso, restando a guardarmi.
Io non sapevo bene che fare. Rimasi lì ad aspettare arrivasse Damon, ma era imbarazzante.
Non staccava gli occhi dal mio viso e sapeva solo crearmi più domande.
Mi conosceva e non mi ricordavo di lui? Penso me l’avrebbe detto...
«Come ti chiami?» mi chiese poi, prendendomi quasi alla sprovvista.
«Io? – dissi, stupidamente – Isabella» riparai poi.
Il sorriso che mi rivolse in quel momento fu molto più grande del precedente. Le guance gli si ammorbidirono in fossette.
«Isabella...» ripeté e centrò lo sguardo dentro il mio.
Che stava facendo?
Un “porca puttana” interruppe la situazione, con Damon che sfrecciò fuori dalla porta di casa lasciando entrambi basiti.
Io non potevo crederci. Questo si era fatto di qualcosa o quando è nato ha battuto la testa. Forte, però.
La risata del ragazzo mi fece staccare lo sguardo da quello psicopatico che aveva pure preso le scale invece che l’ascensore. Perfetto.
Che figura di merda.
«Davvero non ci badare, è fuori di testa» cercai di rimediare.
«È divertente!» esclamò invece quello, facendomi aprire perplessa le palpebre.
Tentai una risata: «Se lo dici tu» gli dissi, ancora più perplessa.
Restò un attimo in silenzio prima di leccarsi le labbra e farfugliare un «Allora ci vediamo».
Qualcosa la ricordai e qualcosa si mosse ma non saprei bene dirvi cosa.
Ci vediamo?
«Sì, va bene» risposi.
Era troppo assurdo che delle fossette, dei ricci e degli occhi chiari mi ricordassero qualcosa.
Poco prima di andare sorrise forte.
«Io sono Harry»

 

Annalisa

Quanto ci metteva ad arrivare?
Forse il primo bus era arrivato troppo tardi o troppo in anticipo creando confusione con gli orari, fatto sta che ero lì ad aspettarlo e sbuffavo.
Uffa! Oggi che dovevo uscire con Isabella e volevo far presto!
La pensilina mi sembrò un bel posto dove poggiarmi, gli occhi alla strada alberata, odore grigio e arpeggi alle orecchie. Tenevo la mia agendina in mano – durante il
precedente tragitto ci avevo scritto qualcosa – e mi stringevo con una mano la mia giacca in stile Montgomery al petto, decidendo solo dopo di allacciarne i bottoni.

Ricordo che amavo quella giacca così come le Timberland che portavo ai piedi. Quant’ero stata felice quando mio padre, dopo tanto tempo, era riuscito a regalarmi entrambe le cose e alla fine era diventato più grande il valore affettivo che l’oggetto stesso. Per quanto fossi una ragazza non avevo mai amato particolarmente i vestiti costosi e le grandi marche. Solo Isabella mi aveva un po’ contagiata ma continuavo a interessami ad essi solo collegandoli ad un qualcosa della mia vita, un evento od una persona, e a preferire le cose semplici.
I miei pensieri – per niente strano stessi pensando, non smetto mai di farlo– vennero stroncati dal rumore di un auto che parcheggiò a fianco alla fermata, di corsa.
Mi spaventai – la sentii nonostante la musica – e mi voltai di scatto.
Una Porsche nera.
Ancora?
Non so quante volte l’avessi incrociata dopo il giorno sul bus e sapevo per certo fosse quella. Una volta avevo anche rischiato di morirci investita.
Il proprietario scese di fretta, sbattendo bruscamente lo sportello e maledicendo qualcuno.
Mi sorpassò, suonando il campanello della casa dietro di me, piantando forte il piede per terra e sbuffando, le braccia conserte.
Aumentai di poco il volume infilando una mano nella tasca della giacca e guardai oltre la macchina per vedere se ci fosse il bus in arrivo.
Mi sentivo strana. Come una... sorta di agitazione allo stomaco.
Qualcosa mi diceva di guardare che stava facendo ma decisi di ignorare quell’inutile voce alla testa. Che problemi avevo?
Non ci fu bisogno che dessi ragione a quella voce perché, sbuffando, tornò indietro e si poggiò alla macchina, un piede a spingere sul marciapiede, lo sguardo basso e le braccia ancora conserte.
Come delle luci scoppiettanti alla bocca dello stomaco l’agitazione si fece più forte e, respirando profondamente , spostai i capelli lunghi su una spalla e mi diedi ancora della stupida.
Conoscevo quella sensazione e anche quella voce – quella che mi stava avvertendo di qualcosa – ma perché darle retta se quello era un perfetto sconosciuto?
Alla fine lo guardai, ma solo perché, non stando un attimo fermo, aveva attirato la mia attenzione.
Portava i capelli scompigliati, leggermente più scuri dei miei, un giubbotto di jeans con pellicciotto e dei pantaloni neri. Era più alto di me – non che ci volesse molto – e gli occhi erano... azzurri.
Aggrottai la fronte. Cos’era quella sensazione?
Un colpo al cuore e subito mi voltai quando quegli occhi incontrarono i miei, facendomi avvampare le guance. Ero una stupida! Davvero, che cazzo di problemi avevo?!
Si voltò subito quando la porta dietro di me si aprì.
Sollevai discretamente lo sguardo per vederlo staccarsi dalla macchina con un sorriso sul volto.
«Scusami tanto!» esclamò una voce leggera alle mie spalle.
Era di una ragazza dai capelli lunghi, mossi e bruni, alta, dal portamento perfetto. Era bellissima.
«Non preoccuparti» rise lui, stringendola in un abbraccio e baciandole rumorosamente una guancia.
Sorridendosi e tenendosi per mano l’accompagnò alla macchina ed il bus arrivò.
Non li vidi andar via. Solo il rumore della macchina e dietro di me la strada vuota.
Ancora, cos’era quella sensazione?

 

Louis

 

«Devi proprio andare?» le dissi, trattenendo un sospiro.
I suoi occhi mi guardarono e non riuscii più nemmeno a respirare.
«Sì – disse, le mani strette nelle mie – Ti chiamo, d’accordo?».
Non riuscivo a rispondere. Perché doveva essere sempre così presto?
Strinsi la mascella e sentii le tempie farmi male.
«Sì» dissi solo, ma non le lasciavo le mani. Quante volte la solita scena?
Sfilò le mani dalle mie e sentii perdere la presa.
Le mani di Eleanor.
Non erano molto piccole e avevano le dita lunghe. E la punta di queste sempre fredda, poteva anche esserci un caldo bestiale.
Anche ora, che mi si poggiarono sul viso, mi fecero rabbrividire il petto. E le sue labbra, che mi baciarono, lo strinsero.
«A più tardi» mi disse.
Mi punsero le labbra. Troppo poco, troppo presto.
Feci per baciarla ancora ma si strinse nelle spalle e mi guardò agitata.
Lo sapevo, si vergognava. I fotografi, le fans. Le persone.
Già. Louis Tomlinson.
Sospirai piano e la baciai su una guancia, allontanandomi e sorridendole piano.
«A più tardi» ripetei.
Sorrise più tranquilla e non ci volle molto prima che fosse sul treno diretto a Manchester. Aveva la scuola. Gli amici. La festa di compleanno di quella sua amica – non ne
ricordavo nemmeno il nome ed era finito il periodo in cui poteva stare nella casa che aveva lì a Londra.

Perché mi sentivo così? Lei era così tranquilla, dovevo capire.
Tranquilla...
La Porsche veloce, pochi minuti per essere lontano dalla stazione. Ci sarebbero stati i soliti impegni e non avrei avuto tempo per pensarci.
Era per via delle dita fredde che la presa di Eleanor non era calda?

 

Harry

 

Con gli occhi guardavo il cielo.
Sorridevo.
Isabella...

 

Damon

 

Quel tizio non la smetteva di parlare. Mio padre non la smetteva di parlare. E io dovevo sorridere, rispondere pacatamente, ascoltare e sorridere.
Mi facevano male le pieghe degli occhi e della bocca.
Anche quelle dei coglioni.
«E tu che ne pensi, Damon?» mi chiese mio padre.
Conoscevo quello sguardo. Mi stava controllando.
«Io penso dovremmo rischiare, invece» risposi, smontando tutti i discorsi fatti fino a quel momento.
Sollevò un sopracciglio, impassibile, ed io restai immune a quello sguardo. calmo come non mai.
«Nonostante sia rischioso investire su un’azienda così giovane, di questi tempi quello è un settore in notevole sviluppo, perciò penso possa essere una mossa con una
buona probabilità di successo quella di investire in questo campo» mi dilungai tenendo lo stesso tono pacato e di distacco.

Vidi il nostro importante ospite sorridere soddisfatto e cominciare a discutere con me della mia tesi.
Mio padre non accennava a smettere di guardarmi ma decisi di ignorarlo.
Pensava non mantenessi la parola? Non lo stavo di certo facendo per lui.
Eravamo nel bel mezzo di un discorso importante quando il cellulare cominciò a vibrare rumorosamente nella tasca della giacca.
Tutti mi guardarono e lo ignorai, maledicendo chiunque mi avesse chiamato.
Il telefono vibrò una seconda volta, indispettendo mio padre e continuò ancora quando mi diressi al bagno, unico luogo in disparte per vedere chi cazzo fosse.
Il mio nome che lampeggiava al centro dello schermo mi fece sbattere perplesso le palpebre.
No... non poteva essere.
«Pronto?» dissi, ma non volevo aver capito.
«Damon! – esclamò la voce di Annalisa, facendomi sospirare – Una catastrofe! Mi sono resa conto adesso che ci siamo scambiati i cellulari e qui è pieno di telefonate e
messaggi e non so cosa fare!» continuò, agitata.

Porcadi unaputtana.
Avevo quella riunione importante il giorno e le chiamate dovevano esserci per quel motivo. Mi sembrava strano non aver ricevuto alcuna chiamata, quel pomeriggio...
«Che cazzo, Anna! Come hai fatto a prendere il mio cellulare?!» dissi forte, cercando di non urlare.
Entrambi i telefoni li tenevamo sul tavolino di fronte al divano e lei era uscita prima di me perciò era per forza stata colpa sua.
«Damon, dai... – sospirò, stringendomi lo stomaco – non... l’ho fatto a posta e... dovevo lavorare, non potevo rispondere».
Stette in silenzio poi sospirò ancora: «Fra poco finisco il turno, perciò se passi di qui possiamo scambiarceli di nuovo» aggiunse.
I nervi, cercavo di tenerli calmi. Nervi, che saltavano per il modo in cui lo stomaco continuava a stringersi e a rendermi inquieto.
«Non importa» sbottai e chiusi secco la chiamata, cellulare di nuovo nella giacca ed un umore più cupo che potessi avere.
Quando tornai, il sorriso irritante, me lo stampai di nuovo sul volto.
«Scusatemi» dissi, un lieve sospiro dalle narici.
Mio padre continuava a guardarmi, continuava a studiarmi. Ed io continuavo ad irritarmi.
«Purtroppo ho ricevuto una chiamata per una riunione importante, e devo lasciarvi» dissi, sperando mio padre non mi desse noia.
Mi guardò, a fondo. Poi mi rivolse un sorriso: «Sì, so di che riunione si tratta. Continueremo noi, Damon, va pure» mi disse poi.
Per fortuna: «Va bene. È stato un piacere» dissi poi, rivolto a quello che era uno dei soliti azionisti con cui trattava mio padre.
Feci in fretta per dirigermi alla macchina. Se proprio dovevo dirlo, era stata una fortuna.
Corsi velocemente da Annalisa, il Tamigi alla mia sinistra.
Stavo per voltare per la strada interna che mi avrebbe portato al The Hart quando la vidi alla fermata dl bus.
Cambiai velocemente freccia e proseguii diritto, fermandomi poco distante.
Quando scesi dalla macchina mi diressi verso di lei. Mi guardava perplessa.
Io molto più alto di lei, lei sempre con quegli occhi molto più grandi.
«Non... pensavo saresti venuto» cominciò a spiegarsi.
Odiavo che mi dovesse spiegare. Odiavo che mi guardasse così.
«Sì, lo so – le dissi e porsi il cellulare in avanti – Tieni».
Mi guardò ancora, poi sospirò.
«Grazie – mi disse, e prese il suo cellulare per porgermi il mio – Ecco a te».
Lo presi e controllai subito le chiamate e i messaggi. Sentivo i suoi occhi ancora sul mio viso e poco dopo scostarsi.
Quante chiamate erano quelle? Tutte... di... lessi un messaggio.
La riunione era stata anticipata.
Alla riunione non mi ero presentato.
Strinsi le dita ed ebbi l’impulso di spaccare il cellulare a terra.
«Cazzo!» urlai, stringendolo talmente forte che avrei comunque potuto romperlo.
«Damon! – urlò a sua volta e cacciai il cellulare dentro la tasca – Che succede?» mi chiese. Preoccupata.
«Che succede?! Per colpa tua ho perso quella cazzo di riunione!» sbottai.
Restò immobile a guardarmi. Poi abbassò lo sguardo, prima di sospirare forte.
«Io... mi dispiace» tentò, ma la bloccai.
«Un cazzo! – urlai, per niente consapevole di star urlando per strada – Perché quando sei uscita non hai controllato? Eh?!» continuai.
«Mi dispiace! È che--» urlò a sua volta ma la bloccai.
«Non me ne sbatte un cazzo se ti dispiace, cosa faccio io adesso?! Porto le tue scuse come giustificazione?!»
I suoi occhi mi guardavano spaesati finché urlò ancora: «Mi spieghi qual'è il tuo problema? Nemmeno tu ti sei accorto che-» cominci, ma vidi che fissò la strada. Il bus che avrebbe dovuto prendere ci passò di fronte e alzò le braccia al cielo.
«Perfetto!» esclamò per aria, prima di lasciarle andare sbattendole lungo i fianchi.
Vidi gli occhi pulsarle forte e fu come una doccia d’acqua fredda. I suoi occhi...
Sentii stringersi nuovamente lo stomaco e sbuffai un sospiro. Il nervosismo si prosciugò.
Io... avevo esagerato.
«Annalisa» tentai.
«Lasciami stare» sbottò, frugando veloce dentro la borsa cercando chissà cosa. Lo faceva sempre, quand’era nervosa, per ignorarmi e impegnarsi.
Le dita sulle tempie, cercai di controllare il fiato.
Odiavo questa situazione.
La promessa fatta a mio padre, gli impegni dovuti da questo, la scuola, i falsi sorrisi. I mal di testa, gli affari da svolgere anche a casa. I nervi ad accumularsi.
E ora me la stavo prendendo con lei. Come al solito.
Con lei.
«Vieni con me a casa» sospirai, scostando la mano dal viso.
Mi fulminò: «Damon, non ne ho voglia. Davvero, lasciami stare» mi disse.
«Ti ho fatto perdere l’autobus. Siamo pari – tentai, non smettendo di guardarla – Non ho... neanche più nulla da fare».
Stavolta mi incenerì con lo sguardo: «Come pretendi di piombare qui, urlarmi come un pazzo in mezzo alla strada e poi di volermi riaccompagnare a casa?!» sbottò, con la
voce che le tremolava.

«Lo so – risposi, solo, ma non le diedi davvero ascolto – Dai, andiamo»
Continuò ad essere riluttante e a rifiutare categoricamente, ma alla fine accettò. Non rivolgendomi la parola.
Salimmo in macchina e andai più lento.
Avevo sbollito la rabbia e sentivo male al petto per averlo fatto su di lei. Ma che avrei potuto fare? Ero così pieno da esplodere. E lei faceva così... lei mi guardava così e...
Mi voltai, per vederla con lo sguardo fisso e distante, oltre il finestrino.
Lo stomaco si strinse più forte. Non riuscivo a guardarla.
Arrivammo ad un semaforo che il silenzio mi stava suonando nelle orecchie.
Mi voltai di nuovo.
Non riuscivo a stare così... il dolore allo stomaco mi torturava.
Fu come strapparmi la pelle quando, facendo tacere i pensieri, diedi retta all’impulso.
Sbuffai, ed allungai un braccio verso di lei. Le poggiai una mano sul capo, le dita fra i capelli, e glieli carezzai piano. Si voltò verso di me quasi di scatto, guardandomi confusa negli occhi.
Sì, lo sapevo. Non conoscevo la tenerezza, nemmeno sapevo consolare le persone. Ma sapevo quanto lei fosse sensibile e quanto fosse il mio esatto opposto. Quanto,
nonostante tutto, lei fosse tenerezza e consolazione.

E quanto la facevo star male urlandole contro così.
Lo stomaco cominciò a torturarmi davvero oltre la sopportazione quando sussurrai un “Mi dispiace”.
Sentivo quanto fosse sconvolta e schermai il mio sguardo. Non volevo vedesse. Sapevo avrebbe visto.
Scivolai con le dita sulla sua guancia prima di sospirare, mettere in marcia e partire di nuovo, il semaforo scattato.
Restò ancora in silenzio ma sentivo quanto fosse diverso. Anch’io mi sentivo diverso.
Quando fummo dentro il garage, fuori dalla macchina mi diressi all’ascensore che avrebbe portato al nostro piano ma sentii i suoi passi fermarsi. La guardai.
«Cosa?» chiesi.
Mi raggiunse e intrecciò un braccio al mio – che faceva, mi prendeva a braccetto?
«E’ tutto okay» disse, e – dopo un po’, facendo così mi aveva tolto il fiato – camminai con lei così.
«Alla fine sei un bravo ragazzo» rise e alzai gli occhi al cielo, sospirando piano.
«Stupida» dissi e la sentii ridere.
Dovevo concentrarmi ancora di più... dovevo sforzarmi.
Per lei. Solo per lei.






Ecco anche il secondo capitolo! Ringrazio tutti quelli che hanno letto il primo e chi leggerà questo... sperando il meglio.
Un bacio forte!

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Capitolo 3
*** Come fiori, incontri. ***


Capitolo terzo

Come fiori, incontri.

 

Le corde della chitarra lo lasciavano incantato.
Le piccole gambe di latte, dalle ginocchia arrossate, pendevano e dondolavano mentre stava seduto sulla sedia di legno di fronte alla poltrona, vicino alla finestra. Ed il padre affondava su quella poltrona, di pelle scura. Pareva quasi non tenesse la cassa chiara poggiata sul ginocchio. Leggera, come le dita che pizzicavano le note. La voce in fondo alla gola mormorava un motivetto. E lui ascoltava, memorizzava.


Le note più lente, il sole più calmo. A un passo dal crepuscolo.
E le manine paffute e i dentini bianchissimi sorridevano piano. Il profumo di torta al miele caldo, il cinguettare in cortile, la finestra semiaperta. Gli occhi del padre, si infittirono di luce.
Li guardava, profondamente. Uno sprazzo di verde e s’incantarono.
Incastrata, l’immagine della moglie, innaffiava i gelsomini.

 

Louis

 

Ero appena uscito dagli studi.
Solita strada, solita stanchezza. Solita giornata, solite registrazioni. Solita chiamata, durata troppo poco per riempire qualcosa.
Mi piaceva la mia vita, non potevo che essere grato. Chi poteva guadagnarsi da vivere – più che da vivere – facendo semplicemente ciò che amava e rendendo, così, felici le persone? Solo in pochi. Ed io non potevo che essere soddisfatto, di questo.
Ma le giornate passavano come se non ci fossi davvero. Guardavo gli altri e nei loro volti riuscivo a vedere nient'altro che il mio solito sorriso. Non che non mi divertissi, ma se avessi potuto scegliere non avrei sorriso. Tante, tantissime volte. E, tutte quelle volte, lo facevo solo per chi mi stava di fronte. Oppure solo non potevo permettermi di fare altrimenti.
Con Eleanor. Ecco, con lei mi divertivo davvero.
Adesso... era solo che i vari impegni, di entrambi, ci impedivano di stare insieme, ma quando stavo con lei era diverso. Quando mi raggiungeva durante il tour, era diverso. Quando stavamo insieme in vacanza, era diverso.
Tutto diverso.
E questo era l’unico pensiero a tenermi acceso fra gli impegni: il momento in cui, con lei, avrei fatto altro, ci saremmo divertiti insieme. Solo quello.
Arrivai ad un semaforo, la strada che mi avrebbe portato a quella sul Tamigi.
Sospirai.
Non ricordo nemmeno cosa stavo pensando – probabilmente ascoltavo musica – quando mi voltai. Restai alquanto perplesso nel vedere quell’enorme Bentley nera parcheggiata. Quanta voglia di rigargli la fiancata.
E poi... ancora più strano.
Con lui c’era una ragazza. Forse stavano litigando.
Lui le urlò contro e lei s’incupì. Qualcosa di strano punse dentro. Un qualcosa di piccolo, molto piccolo. Ma si impresse in una parte lontana, nel petto. Il semaforo stava per scattare e rimasi fino all’ultimo istante a fissarla. Fissare lei, non lui. Era da lei che tutto era partito.
Lei... mi ricordava qualcosa.
E quando partii di nuovo fui certo di sapere chi fosse.

 

Isabella

 

«Hey!» mi salutò forte, scendendo le scale.
Lo guardai confusa.
«Ciao» lo salutai a mia volta. Che ci faceva lì?
Portava i ricci scompigliati acciuffati da cuffia alla testa, gli occhi più verdi di qualche giorno prima. Sorrideva tantissimo.
«Che strana coincidenza!» disse, fermandosi di fronte a me.
Qual’era il suo problema? Da quando era apparso la prima volta a suonare il campanello di casa mia non avevo smesso di incrociarlo. All’inizio si limitava mi salutava, poi, pian piano, aveva cominciato a fermarsi a parlare. Come stava facendo adesso.
«Anche oggi?» ridacchiai, senza trattenermi.
Rise anche lui, poggiandosi nella parete dell’ascensore. Ed io... dovevo scendere.
«Strana la vita, vero? - continuò, ridendo. Faceva sul serio? - Proprio oggi che ho deciso di prendere le scale!»
Sì, faceva sul serio.
«Wow! Cavolo... ma è incredibile!» gli diedi retta, fingendo, divertita, entusiasmo.
«Vero?! Proprio... wow!» continuava. Non capivo se mi stesse prendendo in giro o meno.
«Eh già... devi scendere a piedi, perciò?» accennai, cercando di arrivare ad un “Spostati”.
«Sì, nel senso... perché?» mi chiese.
Ma è stupido veramente?
«Perché... dovrei... usare l’ascensore...» gli dissi, usando un tono di ovvietà ma mi veniva da ridere.
Mi guardò con un espressione poco intelligente prima di scoppiare a ridere e spostarsi: «Allora scendo con te!» disse.
Mi venne da ridere ma cercai di trattenermi. Non potevo crederci!
«Va bene!» dissi, chiamando l’ascensore.
Restò in silenzio a fissarmi e ridacchiare per conto suo, facendomi sperare che quel momento finisse in fretta. E restò in silenzio a fissarmi e ridacchiare pure quando l’ascensore arrivò ed entrammo insieme.
Mi fece completamente impazzire finché arrivammo al piano e sospirai, uscendo velocemente.
Quando mi accorsi che non era più al mio fianco, mi voltai per trovarlo ancora dentro la cabina. Spalancai leggermente gli occhi, cercando di capire.
E lui che fece? Mi salutò con la mano, “ciao ciao” e pigiò un pulsante per andare chissà dove.

Perché mai aveva fatto tutto quel casino?
Quello era fuori di testa.

Una macchina frenò bruscamente di fianco a me, facendomi sbarrare gli occhi e sobbalzare forte.
Mi voltai pronta a mandare a fanculo il mal capitato prima di vedere di nuovo quell’enorme sorriso pieno di fossette e quegli occhioni verdi.
No eh.
«Hey, Isabella!»
No...
«Che coincidenza!»
ANCORA?
«Stai tornando da scuola?»
Io non...
«Ti va un passaggio?»
Completamente sconvolta, con una cuffia pendente dalle dita, il cuore a mille per lo spavento lo guardavo e giuro, giuro gli avrei urlato qualcosa ma solo girai i tacchi, ignorandolo, e corsi via a prendere la metro.
Sentivo la sua voce chiamarmi e poi ridere. Io l’avrei ucciso!

«Isabella!»
Oddio.
Oddio, oddio. Che qualcuno mi salvi.
«Harry, cosa c’è?!» sbuffai forte, voltandomi verso di lui.
Per l’ennesima volta aveva preso l’ascensore con me. Questo era un maniaco, io lo sapevo. Non dovevo fidarmi. Dovevo scappare, anche solo vedendolo da lontano.
Mi guardò - sempre, sempre quel solito sorriso - prima di scoppiare a ridere forte: «Allora ti ricordi come mi chiamo!»
Per l’ennesima volta, lo fissai sconvolta. Pensava a quello, ora?
«Dai! - mi lamentai - Cosa c’è?» sbuffai.
Sorrise ancora e gli occhi brillarono. Stava fra le portine dell’ascensore, attivando i sensori per non permettere a nessuno di chiamarlo. Si leccò piano le labbra.
Non riuscivo a capire per quale motivo fosse così tanto interessato a me. Due secondi davanti alla mia porta e si era innamorato? Si divertiva a darmi fastidio?
Io davvero non capivo.
Non capivo nemmeno cosa fosse quella strana sensazione ogni volta che mi stava intorno.
«Volevo solo dirti... buona giornata».

 

Annalisa

 

Sentii la porta d’ingresso chiudersi con forza e seppi certamente che Isabella era rientrata e che di nuovo aveva visto il nostro vicino di casa. Harry? Sì, Harry.
La prima volta che era stato a casa nostra e tutto il trambusto che era successo mi era stato raccontato insieme a tutte le volte in cui, nei giorni seguenti, l’aveva incontrato
di nuovo ed era rientrata a casa molto agitata.

Questo mi divertiva tantissimo, perché erano secoli che non la vedevo così accesa per qualcosa.
«Annabrisa!» mi chiamò. Quel nomignolo del cavolo...
«Dimmi» sospirai, aspettando si lasciasse andare seduta sul divano. Potevo dire addio allo studio...
«Stamattina» cominciò, ma la bloccai.
«Hai incontrato di nuovo Harry» finii per lei, ridendo.
Mi guardò perplessa: «Perché lo dici così?» mi chiese.
«Perché ormai lo incontri tutti i giorni?» dissi, alzando gli occhi al cielo.
Tenne lo sguardo su di me per cinque secondi esatti: «Io non so più che fare! Mi ha aspettata al rientro da scuola anche oggi!» mi raccontò.
Mi veniva da ridere. Infatti risi: «Dai, luv! Sul serio ti preoccupi?» le chiesi, sarcasticamente, conoscendola.
Sbuffò una risata - era una risata! - : «No, nel senso... alcune volte mi diverte... ma non capisco perché s’impegni così tanto. E non riesco nemmeno a capire se mi prende
in giro o fa sul serio» sospirò.

Continuava con questa storia del “non capisco” da... praticamente il primo giorno che l’aveva visto. Non potevo nemmeno dire che capivo quanto la turbassero quel tipo di
attenzioni perché dopo quello che... era successo, era già capitato che si ritrovasse qualcuno a girarle intorno - e quando mai non capitava? - ma non l'aveva mai presa in
questo modo.

Ero io quella a non capire se se ne rendesse conto o meno di quanto si stesse facendo turbare da lui. Ma non glielo volevo ancora far notare. Era troppo presto.
Mi limitai, perciò, a sollevare un’altra volta gli occhi al cielo.
«Chissà perché, Isabella, chissà perché!»

Latte.
Latte latte latte.
Dove cavolo erano i frigo in questo posto?
Era un market minuscolo e riuscivo comunque a perdermi. Possibile? Va beh che ero riuscita a farlo nella mia stessa piccola città in Sardegna...
I frigo...
Ero entrata da quella parte, li avevo visti, perché accidenti ora- trovati!
Con un sorriso mi avvicinai e spiegai il fogliettino con la lista della spesa dopo aver messo alcune bottiglie di latte nel cestino. Lessi che mancavano le uova per la torta e le
carote, insieme ad altre verdure per il pranzo.

Continuavamo a dividere il tempo dei pasti all’italiana, nonostante Damon si lamentasse.
Damon...
Sarebbe dovuto mancare qualche giorno per fare non so che cosa per poi partire non sapevo per quanto e nemmeno dove col padre e questa situazione continuava da
quando eravamo arrivate a Londra.

Non avevo ancora capito né perché, nonostante lo odiasse, avesse deciso di lavorare con lui, né perché il padre, pur sapendo che Damon stesse ancora studiando, gli desse
così tanto da fare e se lo portasse ovunque nei suoi viaggi. Damon, che si era messo contro il padre ed era stato spedito da suo zio in Sardegna, per via della vita da
“teppista” che conduceva a Londra. Proprio lui a far tutto questo con il padre!

Me lo ricordavo, quando l’avevo visto per la prima volta insieme a James, suo cugino. A quel tempo io e James non ci rivolgevamo nemmeno la parola - strano, a pensarci -
e li avevo notati alla fermata del pullman per andare a scuola.

Ci avevano messo pochissimo tempo le voci a girare perché io scoprissi che Damon fosse suo unico cugino inglese. Poco, anche, ci aveva messo a diventare famoso per il bell'aspetto, il suo giubbotto nero in pelle e la sua sigaretta.
Quanto l’avevo preso in giro, dopo, per la sua – finta – aria da ragazzo dannato?
E ora?
“Il ribelle” se ne andava a spasso con papino in giro per il mondo?
Mi sembrava troppo strano...
Ora che non c'era, anche se con me di solito era isterico, quasi mi mancava.
E per quanto alcune cose le avrei volute dimenticare, le giornate tutti insieme, in Sardegna - anche con Roberto, Giacomo e Clelia – mi sembravano un così lontano
ricordo da farmi star male.

Presi velocemente le uova e mi diressi al reparto di frutta e verdura.
Continuavo a chiedermi cosa fosse successo in quell’anno in cui non c’eravamo visti per nulla da cambiare così le cose quando, come se il tintinnio di un campanello mi
avesse risvegliata, sollevai lo sguardo.

Con una faccia schifatissima, tenendo per la punta delle dita delle banane, il proprietario della Porsche se ne stava proprio di fronte a me, la voce fine a borbottare dentro
la gola. Mi chiesi perché lo incontrassi ovunque andassi e, sospirando, cercai di lasciar perdere e continuai a prendere le mie carote. Quante ne sarebbero servite per qualche torta?

Cominciai ad abbondare - anche se Damon e Isabella me le avrebbero lanciate in fronte, adoravo la torta alle carote - quando sentii una risatina.
Sollevai nuovamente lo sguardo e mi venne un colpo quando notai che era stato quel ragazzo a ridere.
Lo guardai con la bocca di poco aperta - chiudila, deficiente! - e lo vidi ridere di nuovo.
«Ti piacciono le carote?» mi chiese, facendomi spalancare di poco anche gli occhi. Parlava con me?
Scoppiò forte a ridere. Aveva i capelli sciolti da alcun tipo di gel o che altro, stavolta, e gli occhi leggermente gonfi.
Non aspettò che rispondessi, sorrise ancora e «Ciao ciao!» mi salutò, andando oltre, diretto verso il reparto di... cereali e biscotti.
Non avevo ancora chiuso la bocca e lo seguii con lo sguardo per poi chiuderla subito quando me ne accorsi.
Mi ero persa qualcosa?

 

Harry

 

Il sole tiepido s’intravedeva dalle nuvole bianchissime. Era come se minacciasse di diventare coperto e restava freddo. Ottobre era quasi agli sgoccioli e queste belle giornate prevedevano giorni di tanta pioggia. In inverno, speravo tanta neve.
Ero di nuovo a Portobello Road, stavolta nel bicchiere di Starbucks cioccolata bianca. Mordicchiavo la cannuccia fra i denti e ogni tanto sorseggiavo. Era calda.
Chissà cosa stava facendo in quel momento Isabella.
Ridacchiai fra me, salutai la signora della libreria. Quant’erano stati belli, quei giorni in cui apparivo tutte le mattine prima che uscisse di casa?
Se ci penso è stato così casuale. La prima volta mi ero detto “Hey, perché non provare a uscire dal palazzo piuttosto che dall’ascensore interno?” e semplicemente l’avevo
trovata lì. Poi, solo, avevo provato a uscire più o meno alla stessa ora e lei - puff! - era sempre lì.

Ridacchiai ancora per conto mio, quasi saltellavo per strada come una ragazzina.
E quant’era stato divertente trovare ogni scusa possibile quando non sapevo nemmeno io come facessi ad incontrarla praticamente ogni giorno? Tanto.
Adoravo le sue espressioni. Come la volta in cui l’avevo incrociata mentre usciva da scuola... anche se aveva ignorato il mio passaggio, quanto avevo riso per quella sua
faccia sconvolta?

Ero diventato completamente scemo.
Percorsi tutta la via, questo giusto per prendere un po’ d’aria. Avevo chiesto a Louis di venire con me ma da quando la sua ragazza era tornata a Manchester si era come
spento. In verità era un periodo che lo trovavo sempre troppo cupo. E Louis non stava mai così. Odiava mostrare la sua tristezza agli altri, lo sapevo bene. Nonostante questo continuava a non preoccuparsi del suo sguardo spento e della mancanza di sorriso. Eppure si sentivano al telefono...

Quante preoccupazioni mi davo per lui... è che stava proprio male.
Sorseggiai del cioccolato, respirai l’aria fredda.
Mi voltai, un negozio di fiori.
Qualcosa si smosse.
Quella era Isabella.
Non saprei spiegarvi come mi vibrò la pelle. Nemmeno il calore al petto. Solo sentii luce agli occhi.
Un giacchino morbido chiaro, dei jeans non troppo scuri. Quei capelli sempre più suoi. E di nuovo la reflex.
Qualcosa mi diceva di andare da lei e trattenni forte un sorriso mentre mi avvicinai silenziosamente.
Quasi scoppiai a ridere. Quasi.
Le mani finirono sui suoi occhi e un profumo di fiori - familiare - mi distrasse.
«Chi sono?» chiesi, vicino al suo viso.
Sussultò forte e posò le mani sulle mie - le dita lunghe leggere sulle mie grandi - scostandole e voltandosi per guardarmi, confusa. Poi sorpresa.
«Non ci credo... ancora tu?!» esclamò, l’angolo delle labbra appena sollevato. Non si era accorta che mi teneva ancora le mani. E io non riuscivo a contenere il cuore. E la
pelle.

«È destino, Isabella! - risi, fin troppo felice non mi avesse lasciato le mani - Ci sta dicendo qualcosa» continuai a ridere.
Mi guardò scettica: «Destino?» ripeté.
«Sì, destino!» affermai, convinto. E lo ero sul serio.
Scoppiò a ridere e la guardai mentre lo faceva. Quella luce negli occhi...
«Tu mi segui» disse poi e stavolta risi io. Fu in quel momento che si rese conto di tenermi le mani e le lasciò, voltandosi nuovamente verso i fiori. Mi misi al suo fianco.
«Piccola, non sono io che ti seguo, è il destino che mi porta da te» insistetti e la vidi sorridere. Non mi credeva ma sorrideva.
«Abbastanza insistente, questo destino» mi diceva, distrattamente, la reflex di nuovo fra le dita.
«Dolcezza, lo giuro-» tentai, ma si voltò verso di me, bloccandomi.
«Senti, non voglio sentire né piccola né dolcezza» mi avvertì. Doveva essere seria ma aveva sempre quella parvenza di risata.
«Tesoro?» trattenni il sorriso.
Stette zitta per qualche secondo: «No!»
Scoppiai a ridere: «Bellezza!»
Rise: «Per favore!»
«Principessa?»
Mi guardò e basta, per un attimo, con uno sguardo che non decifrai poi con uno che evidentemente era un altro no. Non riuscivo a smettere di ridere.
«Lo so! Caramella
«Candy?! - fece sconvolta e rise forte - davvero, Harry, basta!»
«Bonbon!» scherzai, in francese.
Ora mi guardò davvero male e risi più forte.
«Va bene, ho capito!» mi arresi ma sapevo non mi ero arreso veramente.
Scosse la testa e tornò a guardare i fiori. Scattava loro delle foto e cominciai a chiedermi cosa ci vedesse, proprio in quelli. Restai in silenzio, ad osservarla. Il modo in cui le
dita la armeggiavano e in cui gli occhi si concentravano nell’obbiettivo - la luce catturata lì dentro. E non sembrò curarsi di me finché non scoppiò a ridere.

«Devi stare qui a fissarmi?»
Sorrisi: «Mi piace il modo in cui scatti le foto» ammisi, sinceramente.
Si voltò velocemente a guardarmi. Di nuovo non seppi decifrare il suo sguardo - quanto avrei voluto essere in grado di farlo - e quello che mi rivolse sembrò un sorriso
quando: «Sei troppo strano, tu»

La luce continuava ad essere dorata e non ricordai il momento in cui avevamo parlato così tanto. Effettivamente, era la prima volta.
E la luce continuò, non si spezzò. Nemmeno quando una ragazza, piccola e dai capelli biondo scuro, si avvicinò ad Isabella chiamandola.
«Ho trovato dei libri fantastici!» cominciò, ma si bloccò quando notò la mia presenza.
Non vidi il suo volto, ma Isabella farfugliò di fretta: «Quali libri?» per poi essere ignorata dalla ragazza che mi rivolse un sorriso.
«Tu devi essere Harry
Lo sapevo, era stupido. Ma quella sicuramente era una sua amica e il fatto che lei sapesse come mi chiamavo e sorridesse così voleva solo significare che Isabella le aveva
parlato di me. E io non potevo far altro che sentire le guance esplodere in un sorriso.

«Ciao! - la salutai, perciò, avvicinandomi - Sì, sono Harry» dissi, porgendole la mano. Isabella mi guardò e cercò di dire qualcosa ma lei la ignorò.
«Io sono Annalisa! - rispose, con un sorriso gentile - Abito con Isabella che mi ha parlato tanto di te!» ridacchiò.
«Anna!» la riprese forte Isabella che venne ignorata di nuovo e per poco non la sentii nemmeno io. Non potevo crederci! Scoppiai a ridere e sentii gli occhi pieni.
«Oh, mi fa piacere» le dissi, stavolta guardando più intensamente che potessi gli occhi di Isabella.
«Annalisa - cercai di ripeterne poi il nome e lei mi sorrise ancora. Mi stava simpatica! - Stavo per invitare Isabella ad una festa ma... ora che tu sei qui e abbiamo scoperto
essere vicini di casa, mi farebbe piacere invitare entrambe» cominciai.

Pochi attimi prima, stavo pensando ad un modo per poterle chiedere d’uscire con me ma i pensieri scivolavano velocemente fra i tasti piccoli della sua macchina fotografica quando mi rendevo conto che non ci sarebbe stata possibilità che lei accettasse. E ora, quella ragazza, era piombata con quel sorriso gentile, dicendo quelle cose e in pochi attimi mi aveva convinto. Forse, invitando entrambe, sarebbe potuta andar bene.
«Cosa?» esclamò Isabella – che aveva detto? Davvero non dovevano essere inglesi – ma Annalisa mi sorrise ancora più forte, scaldando le mie speranze.
«Certo! Perché no?» disse infatti, facendomi quasi esultare.
«Fantastico! - esclamai perciò - Dovrebbe essere questo sabato ma ci sentiremo per gli orari e altre cose, d’accordo? Tanto sappiamo dove trovarci» risi e ormai ero
euforico.

Annalisa rise con me e Isabella cercò di protestare dicendo che non aveva ancora accettato ma, velocemente, allungai una mano per afferrare dei fiori alle sue spalle e li
feci spuntare - per magia! - di fronte al suo viso. Questo la fece tacere perché ebbi il tempo di sorriderle - più caldo - e dirle «A sabato, va bene?».

Restò a guardare i fiori e li afferrò con attenzione dalle mie mani. I suoi occhi si scaldarono: «Va bene, ma ora sparisci!» rise. Rise!
Lo feci anch’io - non potevo crederci - e velocemente strinsi forte la mano della ragazza - «Grazie, Annalisa!» - che continuava a sembrare totalmente divertita dalla
situazione, prima di andare.

Il bicchiere di cioccolata ormai fredda - perché era così calda, alle mani? -, il sole che ormai si affievoliva con la sua luce e quel profumo di fiori che sentivo incollato ai
vestiti. O forse, era soltanto sulle dita.

Mi voltai per salutarle di nuovo quando un lampo agli occhi mi colpì.
«Ci sono! - esclamai, incontrando gli occhi scuri di Isabella che sembrarono sempre più vicini - A sabato, Cherie
Non sentii la sua risposta, mi ero già voltato con una risata.
Erano gelsomini bianchi.









Arrivato pure il terzo capitolo! Che dire... tutti questi capitoli d'introduzione - quelli dove si piantano i primi semi - sono stati i più difficili da scrivere, perché più importanti, ma spero siano venuti bene.
Dal prossimo capitolo le cose cominceranno a smuoversi ma... spero che a chi sta seguendo questa storia e a chiunque legga anche per sbaglio questo capitolo piaccia.
Spero anche di sapere anche il vostro parere! E se vi va date un'occhiata a questo blog http://tihotrovato.tumblr.com/ , l'ho fatto per questa la fanfiction :)
Un bacio forte!

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Capitolo 4
*** Neon. ***


Capitolo quarto

Neon

 

Quel vestitino corto e nero, le gambe lisce e lucide, avevano attirato la sua attenzione dal primo momento. Rideva, scherzava, un bicchiere con del cocktail, mezzo vuoto.
E la musica correva forte, correvano forti anche i suoi occhi sulle sue braccia e il profilo di quelle labbra carnose. Sui capelli lunghi e mossi, scuri. Sulla voce leggera e quelle dita lunghe.

Avvicinandosi, quell’alcool di troppo nelle vene, in circolo, fu uno scontrarsi d’occhi, poche parole. E le labbra erano il mosto più dolce e la pelle s’appiccicava ai tessuti. Con i corpi che danzavano, le mani toccarono e fu solo un nome.
Le dita ghiacciate, quella notte, diedero fuoco alla pelle.

 

Harry

 

Feci un’altra espressione - come la chiamavano? Cupcake? - e altri flash ci invasero.
Vestiti firmati, luci, movimento, eppure noi ci sentivamo totalmente a nostro agio. La risata di Niall riecheggiava per la stanza, la voce di Zayn balbettava ed esclamava qualcosa, ridendo, e Liam, con la sua aria pacata, sembrava cercasse di non ridere ma ormai, da noi, era stato corrotto. Louis, dal suo canto, continuava a pizzicarlo da qualche parte o lasciargli qualche colpo tanto che alla fine ci ritrovavamo aggrovigliati a ridere e ad essere, come sempre. A lavorare facendo qualcosa di totalmente nostro.
Io? Io ero la felicità fatta a persona.
Non ero più riuscito a incontrare Isabella, in quei pochi giorni, per via degli impegni, ma ormai ne mancava solo uno a dividerci da sabato.
Non potevo ancora crederci.
A quella festa avremmo dovuto partecipare tutti - era stato Liam, ad invitare tutti quanti, per nessun motivo - e si doveva tenere al Funky Buddha - quant’era fissato, Liam, col Funky Buddha? -, per cui mi era sembrata l’occasione migliore, a portata di mano. Quel locale è sempre stato riservato e non ci sarebbero stati problemi, anche perché non credo che né lei né l’amica, Annalisa, mi avessero riconosciuto o sapessero chi fossi.
Un’altra espressione stupida e buttai gli occhi su Louis. Sorrise.
Nonostante tutto - la nostra tranquillità, le foto naturali, la fotografa e gli addetti che si davano così da fare con noi che eravamo, in realtà, un completo disastro - l’aria di Louis non era affatto compatibile con l’umore dei giorni prima. Ed io, comunque, leggevo nei suoi occhi come si fosse imbarcato in un cumulo di pensieri e stesse cercando di riprendere quel sorriso che distrae e si scollega dal resto.
Dalla mia parte, ero stato così assurdamente di buon umore, in quei giorni, che non mi ero nemmeno accorto di come Louis avesse cambiato ogni rotta, come se non potesse più permettersi quegli occhi spenti. Solo ora, che lo vedevo fare l’idiota come al solito mi rendevo conto della differenza.
Forse, pensandoci a fondo, aveva cominciato ad incastrare le guance in quel sorriso dal giorno in cui era tornato col giubbotto di jeans fra le mani, stretto nelle spalle e il passo cadenzato. Sembrava seguisse il ritmo dei suoi pensieri quando lo chiamai e quegli occhi furono più scuri, più di ogni altro giorno.
Non sapevo dove fosse andato, non ci dicevamo quelle cose. Non ce le dicevamo perché erano difficili, complicate e forse ancora da spiegare a noi stessi.
Era più facile, quand’eravamo in tour e stavamo solo fra di noi seguirci durante la giornata e parlare e capirsi. Di quei lunghi viaggi in cui tutto è diverso poi torni a casa e tutto è come prima. Tutto complicato, tutto difficile. Torniamo distanti e restano solo le giornate raccontate dagli sguardi.
Si era seduto, aveva tenuto il giubbotto e gli avevo portato una birra. Era rimasto in silenzio - Louis, in silenzio - e solo dopo un sorriso accartocciato mi aveva detto che c’era poco sole. E gli avevo dato ragione.
Da quel momento in poi era nato quel sorriso, era tornato normale.
Potevo capire, però, perché stesse così. C’erano già state altre volte. Solo, questa, era più cupa.
Mi avvicinai da lui, quando gli scatti furono finiti e i flash familiari erano cessati. Si tirò via la maglietta di dosso mentre abbottonavo su la camicia e gli sorridevo contro:
«Pensi di esserci, domani?»

Mi guardò perplesso, scoppiando a ridere: «Domani? Dove?»
Sapeva di cosa stavo parlando, solo cercava di scherzarci su. Notavo già il tono.
«Fai in modo di esserci» continuai, non mettendo giù quel sorriso.
Mi guardò allo stesso modo e tentò di rispondermi ma aggiunsi: «Liam porterà Danielle. Con un po’ di preavviso, verrà».
Stette in silenzio tanto che sembrò tornare a quegli occhi cupi oltre le vetrate di casa nostra, al giubbotto fra le mani.«Sei furbo, Harold» mi prese in giro, ridendo, ma aveva cambiato sorriso.
Sperai mi desse retta e si tirasse su, almeno un po’. Posto tranquillo, persone indiscrete, un privé coi pass di Liam assicurato. E lei non avrebbe mai potuto dir di no ad una festa.

 

Isabella

 

Nero dal tessuto liscio, stesso modello verde scuro. Rossi, blu opaco. Turchese, rosa chiaro. Altri modelli, più scollati o meno. Vari tessuti, vestiti lunghi, corti.
Continuavo a far slittare le grucce e a creare rumore eppure la presenza di Annalisa continuava ad essere più rumorosa. Era irrilevante il fatto che stesse lì a canticchiare non capivo quale canzone di tanto in tanto o stesse la maggior parte del tempo silenziosa e concentrata a trovare chissà quale senso a un vestito o ad un altro: lei, comunque, continuava ad agitarmi.
Era stata lei ad accettare l’invito a quella festa e dal giorno aveva cominciato con le sue domandine stupide che stavo prontamente evitando. Sapevo dove voleva arrivare, con i suoi “hai esitato!” e “pensaci, da quanto non fai così per qualcosa?” e “vedi, t’importa!”. No, no era quello il punto, a me non importava!
E per quanto continuassi a ripeterglielo lei rideva e non mi dava retta. Ma la colpa era mia ed era quello che mi faceva incazzare di più. Non me la prendevo abbastanza, per quello continuava con quella storia.
In una situazione come questa sarei dovuta essere talmente arrabbiata che già dalla prima volta in cui ne avevamo parlato - lì al negozio di fiori, quando se n’era andato - non avrebbe neanche cominciato a far così. E allora cominciavo a chiedermi, perché non me la prendevo abbastanza? E dentro di me cercavo una soluzione, la cercavo da giorni ma non ero mai stata brava a capirmi.
Per niente.
«Che ne dici di questo?» mi chiese, incerta.
Era un vestito nero, corto, sbracciato, accollato. Aveva un cinturino all’altezza della vita e da quello che potevo vedere, lì appeso alla gruccia, doveva starle stretto fino alla vita e poi morbido sulle cosce.
Di solito andava “a sentimento”, coi vestiti, e se me l’aveva fatto vedere doveva averci già incollato qualche situazione alla mente, altrimenti non lo avrebbe fatto come per tutti gli altri che aveva guardato per conto suo.
«Secondo me ti sta bene - le dissi sinceramente, quindi - Dovresti provartelo».
Storse il naso - strano - e mugugnò in assenso, poggiandoselo sull’avambraccio.
«Tu hai trovato qualcosa?» mi chiese poi, dando un’occhiata ai vestiti che stavo guardando poco prima.
Mi voltai verso quei vestiti e le risposi “Sì, qualcuno...”, distrattamente, ma era solo uno quello che tenevo veramente d’occhio. Era a tubino, anche questo, come quello di Annalisa, sbracciato e accollato. Bianco e di tessuto liscio, a parte per le spalle in pizzo, si legava dietro con un bottoncino sotto la linea del collo, formando uno scollo fino a quasi metà schiena, nel punto che sarebbe risultato poco sopra il reggiseno.
«Ti piace quello bianco, vero?» mi beccò subito e mi fece ridere.
«Sì... è bellissimo» non mi trattenni.
Un tempo sarei impazzita, per cose del genere. Avrei cominciato a prendere ogni sorta di vestito e a provarlo, con lei, piacendomi allo specchio del camerino e immaginandolo in altre situazioni, immaginandolo più caldo.
Ora, invece, lo guardavo e riuscivo solo a vedere uno stralcio di quella che ero un tempo, un pizzicore alla pancia che non riusciva a diventare entusiasmo.
Era normale, solo un vestito. Mi sarei piaciuta allo specchio ma sarebbe rimasto solo un bel vestito.
Ora capivo perché Annalisa comprasse vestiti solo collegandoli ai sentimenti...
Sicuramente nel vedermi assorta, saltò su con “Prendiamone un sacco, divertiamoci un po’!”.
Una stretta mi prese al petto e sentii gli occhi pungermi. Fu come tornare indietro nel tempo, quand’eravamo solo delle ragazzine e sognavamo occasioni in cui indossarli e ci rendeva tristi essere ancora troppo piccole, non avere nessuna di quelle situazioni. La vita che avevamo sempre sognato, ora la stavamo vivendo e io sentivo nostalgia delle prime speranze. Nostalgia delle risate, delle camminate con la mia migliore amica sottobraccio per via Manno e via Garibaldi, a Cagliari. Le corse per negozi e la paura per la vita.
Mi ritrovai in un camerino con così tanti vestiti fra le braccia - quello bianco, primo fra tutti - che mi fece dimenticare il muso che gli stavo tenendo per le domande riguardanti Harry, per tutti quegli “hai esitato!” e “t’importa!”. Cominciai a provarne tanti con lei e a costringerla a farlo con me, perché in quello non era cambiata per nulla. Sempre a dire “sono brutta”, “sono grassa”, “ho le gambe corte”, al punto da farmi venir voglia di prenderle la testa fra le mani, scuoterla e urlare “Sei bellissima, Anna, sei bellissima” e farglieli provare tutti - o comprarli - pur di farmi star zitta.
E quello nero che aveva trovato le stava benissimo addosso, ora che avevo notato anche i particolari. Come un foro a goccia su entrambe le spalline che le divideva in due e scopriva la pelle. O il bottoncino sulla schiena che si allacciava lasciando uno scollo simile a quello del mio, solo più piccolo. O il doppio tessuto, quello superiore più leggero, che continuava a lisciare mentre si guardava incerta allo specchio.
Ci vedevo grandi, su quello specchio, e mi ricordavo il giorno preciso in cui Annalisa si era resa conto che stavamo crescendo. Lei, sempre con le sue consapevolezze, con le sue spiegazioni della vita tanto chiare che potrebbero farla apparire semplice, erroneamente. Lei che me l’aveva fatto notare e da cui era nato il desiderio di realizzare i nostri sogni, di renderli possibili. Di lasciar dietro quell’anno buio che aveva coperto la nostra amicizia.
Tutti quei pensieri sapevo li avesse notati - notava sempre tutto, guardandomi negli occhi. Era che, al solito, mi veniva difficile esprimerli a parole - era lei quella brava a farlo. Mi sarebbe piaciuto cercare di dirglieli, più tardi. Magari quando avrei assimilato tutto al meglio e l’avrei trovata lì ad ascoltarmi.
L'avrei trovata lì...
«Ti sta bene!» esclamò, quando finì di allacciare il bottoncino sulla schiena. Si mise accanto a me, allo specchio e la sentii ridere.
«Guarda, sembriamo gli opposti».
Lei bionda, io mora. Lei più bassa di me, io più alta. Lei formosa - quanto gliel’avrei dovuto ripetere? Formosa, non grassa - io più magra. La mia pelle più scura, la sua più chiara. Io vestita di bianco, lei di nero.
«È vero!» risi e l’unica cosa simile erano i nostri occhi.
«Harry avrà sicuramente voglia di togliertelo» scoppiò a ridere.
«Anna!» saltai su, sbuffando. Lo nominava di nuovo? Non potevo distrarmi un attimo!
«È la verità! - continuò a ridere, intrecciando un braccio al mio - Tanto, ormai, gli hai già fatto perdere la testa!»
Non risposi, sbuffai di nuovo: «Anna, ti prego» mi lamentai perché sapevo avrebbe ricominciato.
«Luv, continui a prendertela troppo a cuore» continuò a ridere e sbottai in un “Che palle!” prima di voltarmi verso di lei.
«Guarda che di lui non m’importa niente!» esclamai, cercando di non farmi tremare la voce. Succedeva sempre, quando ero ansiosa o quando dovevo “farmi valere”. Non ci riuscivo mai, ad essere ferma.
In questo, non ero cambiata.
«Sai bene che... non riesco a pensare a qualcun altro... è inutile che mi dici così» finii, con poca voce e abbassai lo sguardo. Che alla fine, rinunciai ad apparire arrabbiata, a far qualcosa per farla smettere. Fui sincera.
«Sei proprio sicura di questo?» mi chiese lei. E lei era sempre ferma, con la voce.
La guardai negli occhi, confusa: «Che vuoi dire?»
«A me sembra che Harry, per quanto in piccola parte, qualcosa la smuova».
Mi lasciò ferma a guardarla perché mi aveva mandata ancora più in confusione. Poi scossi forte la testa e no, no, che stava dicendo?
«Ma che dici? Guarda che Harry è totalmente innocuo».
«Innocuo?» ripeté, sollevando un sopracciglio. Tratteneva pure una risata!
«Sì, innocuo. È che quello che fa è carino, innocente, allora mi diverte. Ma è pure troppo piccolo per me».
Continuò con quel sorriso di chi la sapeva lunga e restò in silenzio prima di ridacchiare un “Sarà” e liquidare il discorso.
Sperai con tutta me stessa di averla convinta. In fondo ero stata sincera, no?

 

Damon

 

Il tempo di una sigaretta l’avevo ritagliato e cucito a quel telefono, quell’unico suono a dividermi da un attimo di pace. Quanto ci metteva a rispondere?
«Damon!» mi risvegliò la sua voce, facendomi sorridere.
«Perché non mi rispondevi? Ti sembra modo di trattarmi? Ho dovuto anche richiamarti!» la inondai, liberandomi dell’ansia non l'avesse fatto subito.
Stette zitta prima di balbettare un: «Ero... in doccia, sono uscita ora e...» ma sospirai, non facendola finire.
«Non importa! Come stai?» cambiai subito modo.
«Damon, che ti sei fumato?» mi chiese, stavolta scoppiando a ridere, come alleggerita.
«Solo una sigaretta. Avevo bisogno di rilassarmi e ne ho approfittato per chiamarti e sapere se era tutto a posto» le dissi, sentendo gli occhi caldi. Era un sollievo averla
con me, averla a Londra, averla lì a casa, a “portata di sguardo” ma c’erano delle volte in cui ringraziavo la lontananza e il cellulare, perché in questo modo non avrebbe potuto vedere il mio viso, vederlo, il mio sguardo. Lei, la persona a cui era più difficile nasconderti, con quegli occhi - grandi - che ti guardavano dentro, che vedevano tutto. Che scaldavano tutto.

E in quel momento potevo lasciarmi andare totalmente, potevo ascoltare la sua voce e bearmi del momento in cui sarei tornato e lei sarebbe stata lì. Il momento in cui tutto quell’odio e rancore che dovevo sopportare avrebbero avuto un senso.
Quando avrei potuto farle conoscere tutto questo? Semplicemente mai.
«Ah, capisco... qui va tutto bene - mi rispose e sentii che si stava affaccendando in qualcosa dai rumori che provenivano dalla sua parte - Io e Isabella, stasera, dobbiamo andare ad una festa. Ci ha invitate il vicino di casa... quello fissato con lei» ridacchiò.
Subito fui all’erta: «Quella cosa coi ricci?» le chiesi.
«Damon! Harry non è una cosa!» mi sgridò e alzai gli occhi al cielo.
«Lo chiami per nome? Cosa siete, qualcosa tipo... amici?» dissi, col mio solito tono disgustato. Per forza, disgustato. Chi era quello che la portava alle feste mentre io non ero in casa?
«È ovvio! Dovrò pur vedere con chi si fidanzerà Isabella, sì o no?» sbuffò, scocciata.
Oh, già. Era fissato con Isabella.
«Sì sì... vedi di bere almeno un po’» la sfottei allora, con una risatina ironica. «Ah - ah. Quanto siamo simpatici! - mi fece il verso - Tu vedi di non fumare troppo» si preoccupò. Sorrisi.
«Sì, mamma» la presi ancora in giro e sbottò in un “Damon!” prima di farmi scoppiare a ridere, che non riuscii a contenermi.
Quando chiusi la telefonata la sigaretta si era consumata. Ma sulle mie labbra, ancora il sorriso.

 

Louis


Ripensavo, ed ero fuori, punto dal freddo di Manchester che mai per me era stato un problema se non in quel momento. Un momento, solo un momento in cui tutto era diventato terribilmente pesante da strozzarmi il fiato e senza nemmeno respirare ero corso, con tutte le mie forze, fino a te.
Tutto quel freddo, che mi faceva stringere nel giubbotto di jeans, avevo solo bisogno di stringerti al petto.
Ed ero corso così in fretta, fuori da quella macchina, verso il tuo cancello, contro il campanello. La bocca secca e il petto che doleva di aria ghiacciata tirata troppo forte, buttata fuori bruciante.
Ed avevo aspettato la voce di qualcuno, forse tua madre, a rispondere, aprirmi. Aspettavo, per vederti uscire coi tuoi capelli raccolti, un maglione largo, le tue gambe. Le tue dita fredde a risvegliarmi, farmi rabbrividire e scaldare, ad abbracciarmi.
Ed avevo aspettato, impaziente, chiedendomi dove fossi.
Era stata così stupida, un’improvvisata? Ero stato così pazzo? Pazzo era stupido?
Ti aspettavo, Eleanor. Ti aspettavo e con le dita avevo suonato di nuovo il campanello. E l’aria s’era fatta calda in petto, e l’aria calda mi ghiacciava ancora di più. Mi stringevo le mani addosso, mi poggiavo sulla macchina. Dovevo chiamarti, dovevo prendere il cellulare. Ma non volevo sapere che non eri in casa. Non volevo sapere che c’era qualcos’altro, un'altra volta. E nonostante questo, con gli occhi che non sentivo più e tiravano da quanto erano asciutti ti avevo chiamata.
E la tua voce, Eleanor, mi aveva strozzato la gola. Aver poca voce era pazzo era stupido?
«Louis».
Avevi chiamato il mio nome, mi avevi fatto sperare in petto. Quella voce leggera somigliava alle tue dita e quanto avevo sperato mi scaldasse, almeno un po’?
«Sono alla festa della mia amica, quella di cui ti ho parlato l’ultima volta. Tu che cosa stai facendo?».
E ti aveva chiamato qualcuno e avevi risposto che eri al telefono. E avevi riso e mi avevi fatto sprofondare il petto.
«Nulla» avevo sorriso fuori, con gli occhi che mi vagavano talmente veloci contro l’ingresso di casa tua - asciutti, secchi - che quasi s’appannava.
«Avevo solo... voglia di sentirti» ti avevo detto. Ero stupido? Stupido era pazzo?
E ti eri messa a ridere, mi avevi detto che avevi voglia di sentirmi anche tu. E la tua voce fredda - le dita - non mi aveva scaldato. Il cuore pulsava, pulsava e s’affannava, cercando di sbattere, cercando di provare e provare a scaldarmi.
E la gola si stringeva, non voleva chiederti dove fossi. Ti avrei potuta raggiungere? Son pazzo, d’impulso? Sono stupido? Davvero d’impulso?
La gola era troppo stretta, Eleanor, e non riuscivo a chiedertelo. Forse ero deluso, forse avevo troppo poco fiato per correre. Forse per quello avevo parlato di cose che neanche ricordo, ti avevo detto di divertirti e avevo chiuso la telefonata.
E il cuore, lentamente, aveva cominciato ad affannari sempre meno, sempre di meno, tanto che mi sembrò non battesse più. E quanto tempo era passato di fronte agli occhi?
Non te lo saprei dire. Nemmeno quanto ne sia passato in viaggio, il viaggio di rientro più lungo che avessi mai vissuto. Ed era davvero così cupo, il cielo, così freddo che mi veniva da ridere.
Anche Harry mi aveva dato ragione, non c’era il sole.
E quando tornai dal photoshoot, che quasi consumavo il cellulare fra le mani e fra i pensieri, mi chiesi se sarebbe stato veramente giusto chiamarti. Mi chiesi come sarebbe stata la tua voce, mi chiesi di tutto e non volli sapere risposte. Nemmeno quando ti chiamai e accettasti di venire. Nemmeno in quel momento, Eleanor, non volli sapere.
Non volli ascoltare nessuno, nessuna voce, nemmeno una. Aspettavo il momento di vederti, aspettavo quello.
E quando, alla festa, le luci nere e al neon sulle tue gambe, un nuovo vestito, arrivasti e mi raggiunsi, mi chiesi perché io non pizzicassi, perché le tue labbra erano spente e perché le tue dita mi dessero solo brividi ghiacciati alla spina dorsale.
E perché quell’unico singolo battito mi aveva dato dolore.

 

Harry

 

Sospirai forte, arrotolando le maniche della camicia bianca, per ora non troppo stropicciata, fino ai gomiti e la sbottonai sul petto. Non capivo perché proprio quella sera avevo deciso di mettermi i jeans chiari. Almeno per le scarpe avevo le mie solite, marrone scuro.
Mi sentivo impazzire dall’agitazione, tutti quanti fra la mischia, fuori dal privé che avevamo occupato, ed io ad aggirarmi per l’ingresso. Non riuscivo a farne a meno: Isabella e Annalisa non erano ancora arrivate.
Era passata un ora dall’orario che avevo dato loro e ancora niente. Avevo cominciato a impormi ogni scusa finché mi ero detto che non sarebbero venute, ma ancora non riuscivo a scollare gli occhi dall'entrata.
E quante, quante, quante persone, quella sera. Tante, così tante. Tante anche le ragazze che si fermavano da me a chiedermi qualcosa, nei loro soliti vestiti ristretti,
a provarci con me e io gentile a rispondere.

Odiavo essere famoso. Non davo retta a tutte quelle persone che mi si avvicinavano solo per quel motivo. Al massimo potevo scherzarci, ma nulla di più. Odiavo anche come delle ragazze si sarebbero date volentieri a me solo per questo motivo. Lo odiavo più di ogni altra cosa.
Un occhiata al liquido nel bicchiere - nell’attesa, mi ero preso da bere - e mi poggiai sulla parete, ormai rassegnato. Cominciai a chiedermi che vestito avrebbe indossato lei, invece. Come sarebbero stati, i suoi capelli, quanto luminosi sarebbero stati, i suoi occhi, sotto quelle luci. Continuavo a chiedermi e ad abbinare colori di tessuti alla sua pelle finché distrattamente voltai gli occhi.
E i suoi capelli, e i suoi occhi e quel vestito bianco a stringerle il corpo spazzarono via, mi seccarono la bocca e mi spruzzarono di luce gli occhi.

 

Annalisa

 

«Fa troppo caldo qui!» urlò Isabella, ridendo talmente forte che, nonostante la musica a palla, probabilmente l’avevano sentita tutti.
Oscurità, colori delle luci al neon. Divani di pelle, persone ammassate nella grande pista, bancone liscio di cocktail e alcool di ogni tipo, di quelli che “poco costoso” non esiste. Ragazze svestite, scoppi di Champagne e cascata con grande Buddha che frizzava di luce. E noi? Eravamo capitate ad una serata dove solo con Damon ci sarebbe capitato di partecipare.
Abitando nel nostro stesso palazzo era ovvio che Harry fosse più che ricco ma non pensavamo... così.
Appena arrivate - con tanto ritardo, perse a capire dove fosse il posto e optando alla fine per un semplice taxi - ci eravamo imbattute in una muraglia di giornalisti e fotografi che difficilmente ci avevano fatte passare, impegnati a circondare l’entrata segnata da un tappeto rosso con le loro domande e flash per alcune persone che erano entrate. Noi, allibite, ci eravamo imbattute nella sicurezza e per fortuna, grazie alla prenotazione di Harry e alle direttive che ci aveva dato, eravamo entrate senza problemi.
Non doveva essere una normale festa in un normale locale a Londra?
«Hai ragione! - rise Harry, la musica a rimbombare e lui a ridere, con gli occhi incantati da Isabella - Annie, vieni, andiamo un po’ a prendere aria!» disse verso di me ma subito un’idea balenò per la mia mente. Dopo aver passato tutta una serata insieme, aveva ben deciso che chiamarmi Annie sarebbe stato carino. Ne fui felice perché, oltre a piacermi il diminutivo, Harry si era occupato di farmi sentire a mio agio tutto il tempo nonostante si notasse che era lì a morire per la mia migliore amica. Cherie, la chiamava.
Sapevo bene quanto l’avesse sconvolta, proprio quel soprannome, proprio il francese, ma era riuscita a cercare di dirglielo solo una volta perché poi l’avevo portata a bere e, brilla, si era lasciata andare.
Aveva persino ballato! E lei non ballava mai.
E in mezzo a tutta quella mischia, con quei flussi di balli e corpi che ogni tanto cozzavano fra loro, quel DJ per cui ci era stato il pienone e di cui nemmeno ricordo il nome - quante volte me l’avrà ripetuto Harry? - ci eravamo imbattute in alcune persone che, praticamente, ci avevano aperto gli occhi.
Fra tutte quelle ragazze che cercavano di abbordare Harry e alla quale lui rispondeva sempre in modo distaccato ma gentile prima di prenderci entrambe sotto le braccia e portarci via, c’erano stati tre ragazzi - per la verità quattro - che avevano lasciato me ed Isabella totalmente sconvolte.
Scoprimmo fossero loro gli “alcuni amici” con cui Harry era venuto alla festa e con cui avremmo condiviso il privé. Il primo era stato un sorriso gentile ed occhi caldissimi che oltre ad avermi fatto venire un attacco di cuore si era presentato come Liam. Stava insieme ad un certo Andy - molto bello anche lui, per la verità - che non ho nemmeno ben capito chi fosse. Forse amico di Liam.
Harry ci aveva presentate a lui per prime, come sue amiche.
«Dov’è finita Danielle?» gli aveva chiesto, subito dopo.
«È andata al bagno, con Daisie e Eleanor», gli rispose.
In quel momento, qualcosa si era mosso, dentro di me, ma, ovviamente, l’avevo ignorata. Perché avrei dovuto darle retta? Non ne conoscevo la ragione.
Dopo che Andy si buttò sulle spalle di Liam, implorandolo di portarlo a prendere qualcosa da bere e facendolo scoppiare a ridere, i due finirono la brevissima conversazione e si salutarono con un “a più tardi”.
Una voce mi stava dicendo che c’era qualcosa di importante che mi stavo dimenticando ma non riuscivo a ricordare. Ci volle poco, però, perché lo capissi.
Mentre continuavamo a farci spazio fra la gente, ballare, ridere ed Harry continuava ad essere la persona più gentile che avessi mai conosciuto, ci imbattemmo in altri due ragazzi e furono loro a lasciarci sconvolte.
Uno dei due aveva i capelli neri, un ciuffo biondo alto sulla fronte, la pelle scura - poteva essere spacciato per un fratello di Isabella, un ragazzo sardo in verità, tranquillamente, non un inglese - e se ne stava buttato su di un altro, biondo, dagli occhi azzurri, che rideva talmente forte da farsi notare da tutti e spiccava per il colore rosso fosforescente del volto con un’enorme vena a pulsargli sulla fronte.
Harry, vedendoli, era scoppiato a ridere e ci aveva portato da loro, dicendo che voleva presentarceli.
Non saprei dirvi l’attimo esatto in cui sia io che Isabella spalancammo gli occhi.
Forse quando ci fu davanti e vedemmo la sua faccia. Una cosa è certa, quel nome non potevamo dimenticarcelo.
«Com’è che ti chiami?» avevamo esclamato quasi in coro io e Isabella, guardandoci a vicenda e poi puntando gli occhi su di lui.
Doveva essere abbastanza brillo, se non ubriaco, perché aveva cominciato a strascicare un “Zeeh” che poi ripeté l’amico - Niall - essere un “Zayn”.
Ecco, ecco il preciso ed esatto problema. Zayn.
Mille immagini di tre ragazze disperate per l’esame di maturità riempirono la mia mente. E quelle tre povere ragazze eravamo io, Isabella e Clelia.
Clelia...
«Ragazze, vi prego, dovete ascoltarli!» implorava, per l’ennesima volta.
Continuavo a sbattere le pagine del libro e: «Ti prego, Cle! Non vedi che siamo disperate?! Pensa a studiare!» la riprendevo, frenetica fra le righe a non capirci nulla e disperarmi.
«Ma ragazze, è importante! Io vi giuro che sono fantastici! E poi voglio farvi vedere Zayn!» insisteva, facendoci sbattere la testa nei libri.
«Clelia, per favore. Non ricominciare con Zayn» piagnucolava Isabella, più disperata di me.
L’esame di maturità alle porte, un caldo pazzesco, neanche un filo di vento e lei? Lei parlava di quel... Zayn?
«Ma è importante! L’altro giorno l’ho visto, portava una collanina con una croce al petto. L’ho detto, io, l’ho detto, io!, che non è musulmano! Non può esserlo!» non si fermava lei. E chi l’avrebbe fermata?
«Clelia...» tentavo, senza successo.
«Secondo voi è cattolico? Oh, dovrei farvi vedere la foto però» continuava, infatti.
«Clelia! Sì, partirai a Londra, andrai ad un loro concerto, lo incontrerai, vi innamorerete e avrete un bel matrimonio cattolico e tanti bambini ma ora, per favore, studia!».
Un attimo e seppi che le immagini avevano colpito anche Isabella. Un attimo.
«Non posso crederci» dissi per prima, sconvolta.
«Io meno di te» diceva Isabella, dandomi conferma pensassimo - al solito - la stessa cosa.
«Che cosa?» ci aveva chiesto Harry e ormai era fatta: mi ero ricordata.
E, povero, mai ci avesse posto quella domanda! Cominciammo ad inondarlo di racconti della nostra amica che ci parlava di Zayn e della sua band e sì, esatto, eravamo ad una festa con gli One Direction. E quello che ci aveva invitate e andava dietro ad Isabella era uno di loro.
Clelia ci avrebbe ammazzate. O amate. O sarebbe venuta a nuoto a Londra o col primo volo aereo, a seconda di come le prendeva la pazzia.
Dopo quell’attimo di sconvolgimento, promettemmo che saremmo state sicuramente riservate anche perché, detto con sincerità e pensandoci a fondo, non era cambiato nulla.
E ci unimmo a quei due, completamente fuori di testa, con un Zayn talmente depresso perché si era lasciato con la ragazza ed era lì che stava per fare una pazzia da un momento all’altro e rischiava di far morire il povero Niall di un embolo cerebrale dalle risate.
La serata scivolò, si riempì ancora più di luci. E dopo essere praticamente svenute dalle risate per tutte le scemenze che Harry faceva ballando - non lo sapeva proprio fare ma era un portento! -, esserci bruciate la gola con ancora più alcolici - probabilmente non ne avremmo mai più potuto bere, di così costosi, in vita nostra - ed essere ovviamente rimasta l’unica appena brilla e non ubriaca, Niall e Zayn ci avevano lasciati, diretti chissà dove e, coi vestiti incollati addosso e il fiato fortissimo, ci eravamo ritrovati in quel preciso momento.
«Harry, passo stavolta! - gli risposi allora, dopo troppi sì, per i miei gusti, per quella serata e ora, comunque, ben convinta della mia idea - Vado un attimo al bagno, magari vi raggiungo fra poco».
«Vengo con te?» mi chiese Isabella, con l’effetto dell’alcool che un po’ la lasciava - non aveva bevuto così tanto da sbronzarsi, almeno così pareva - ma gli occhi sempre lucidi. Ed io avevo rifiutato, un sorriso furbissimo trattenuto nelle guance e un Harry che, probabilmente senza pensarci, le aveva stretto una mano e mi aveva detto il posto in cui andavano, per raggiungerli dopo, ovviamente non senza prima avermi chiesto anche lui se ero sicura.
Poco prima che andassero, Isabella che lo lasciava fare - chissà quando se ne sarebbe accorta -, gli feci un occhiolino che prima ricambiò con aria perplessa poi lo fece scoppiare a ridere.
Ed eccomi qui, sola. Che fare, adesso?
Di ballare da sola, non se ne parlava, nonostante ne avessi ancora voglia, e non se ne parlava nemmeno di andare al bagno da sola. Chi si fidava? Per quanto ci fossero persone ricche e quant’altro era pur sempre un locale con gente ubriaca o chissà che altro. Anzi, forse era anche peggio.
Perciò, praticamente subito, decisi di andare a prendermi qualcos’altro da bere, magari di non alcolico.
Tutte quelle persone continuavano a muoversi, continuavano a ridere, alcune ad urlare. Le canzoni cambiavano e anche io ne sorridevo perché mi piacevano.
Poi - un attimo, davvero un attimo - e fra la mischia, un dolore allo stomaco e qualcosa mi bloccò. Una persona mi passò davanti e mi sbatté contro, si scusò ma nemmeno ci feci caso.
Di fronte a me, alta, magra e bella, la ragazza del proprietario della Porsche rideva, con un bicchiere di cocktail in mano. Aveva i capelli lisci e raccolti sulla fronte, un vestito bianco a mezze maniche, corto, con una gonna a pieghe morbida, scarpe col tacco alte e un colletto nero a circondarle il collo.
Quella stupida sensazione alla bocca dello stomaco continuava a torturarmi. Ogni volta, ogni santissima volta che li incontravo - a quanto pare o l’uno, o l’altra - si stringeva a tal punto che sembrava mi urlasse “Vedi! Te l’avevo detto! Sta per succedere qualcosa!”. Quella sensazione che ho da tutta una vita e non parla mai chiaro ma, col senno di poi, è sempre nel giusto. Come una sorta di... sesto senso.
La vidi spostare lo sguardo da alcune sue amiche e guardare qualcuno che stava arrivando verso di lei e - un attimo, in un attimo - scrollai la testa e mi affrettai al grande bancone scuro e luminoso di blu.
Chiesi perciò qualcosa di analcolico, nonostante ricevetti un’occhiata stranita da parte del barista. Che problema c’era se volevo qualcosa di buono senza ubriacarmi?
Restai a combattere contro le - tante - mie voci interiori e, rischiando un’emicrania, pagai e col bicchiere di bibita in mano mi diressi al nostro privè. Al massimo avrei incontrato Liam, Andy, Niall o Zayn. Oppure le ragazze di Liam o Andy, avrei potuto fare amicizia con loro. O sarei potuta restarmene tranquilla, a riposarmi un po’. Era insonorizzato, da quel che avevo capito, e ci sarebbe stato silenzio.
Presi la via con poche persone, solo alcune passavano ed era come se sfrecciassero in ogni direzione. Forse ero io troppo lenta, ancora presa fra le pieghe dei pensieri.
Ed Harry a farci vedere dove fosse, poco prima, mi guidò verso quella stanza. I sospiri che mi uscivano dal petto, non riuscivo a spiegarmeli.
E poi solo - un attimo, un attimo - non capii e avevo aperto la porta.
«Per me non è abbastanza!» urlava una voce e la riconobbi subito.
Gli occhi più aperti, pietrificata, mi chiesi fortemente che cosa ci fosse di sbagliato in me.







BEEEEEEEENE!
Prima di tutto, faccio una piccola premessa: fra le coppie reali, non ho nessuna preferenza ed ovviamente, questa, è solo una fanfiction haha
Perciò, ecco pure il quarto capitolo :) un po' più lungo ma necessario.
Le cose cominciano davvero a complicarsi e più avanti si complicheranno ancora di più (che bello! haha)
Spero vi andrà di leggere e di recensire... un bacio, a presto col quinto!

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Capitolo 5
*** Distante distanza. ***


Capitolo quinto

Distante distanza.

 

Ansimava, si affannava e le mani premevano sul suo corpo. La bocca lasciava saliva, sulla pelle vagava e ansimava. Spingeva, ansimava. Le sue braccia lo stringevano, le loro voci aumentavano.
Il ritmo si affrettava, più forte, entrava. Sbatteva, gemeva. Per quei mesi in cui non c’era stata, si lasciava andare e si scaldava. Il calore lo cercava, lo cercava, spingeva e lo cercava.

La faceva gemere e cercava. Le mani aggrappate alla schiena, voleva lo stringesse e affondava nella sua pelle. Poi le dita fredde s’aggrapparono alla sua schiena e un liquido gelido scivolò ghiacciando la spina dorsale. La gola si strozzò, vacillò.
E non seppe più dov’era, non si ritrovò.
Un unico istante a gelargli il sangue gli sfuggì, non riuscì ad afferrarlo.
Un unico istante perché poi, nel vuoto completo, veniva.

 

Louis

 

Mi pulsava la testa. Quanto alcool avevo bevuto? Niente, in realtà niente.
Mi aveva appena lasciato al bancone e pensavo di prenderne dell’altro. Tutto, pur di non calmare il sangue.

E quello shot in più di tequila, sale e limone. Bruciarmi il cervello, bruciarmi le tempie. Bruciarmi gli occhi mentre ridevo e non trovavo un senso.
Mentre poi di sfuggita la vidi tornare. Che avrei dovuto fare? Il sangue si stava calmando.
La pelle pizzicava e, a ridere con le altre, le afferrai la mano.
I suoi occhi m’incontrarono e la musica rimbombava. Le amiche risero, la lasciarono a me. Ed io, un sorriso che sapeva d’amaro in bocca, la portai di nuovo fra la mischia.
Divertirmi. Non pensare. Le mani ai suoi fianchi e lei mi circondò il collo. Freddo.
M’infuriai, m’imbestialii. Altro alcool, rubato dal suo bicchiere. Lei mi sorrideva, mi accarezzava la pelle. Le sue dita erano così fredde o ero io troppo bollente? Ero io troppo bollente e sentivo troppo freddo? Premetti il suo corpo al mio e lei sussurrava.
Sei ubriaco...”.
Ci guardano tutti”.
E a me non fotteva niente, io volevo sentir lei. Volevo sentirla, disperatamente. E cercavo di premerla a me sempre più forte, col fiato che mi bruciava la bocca. E lei s’irrigidiva ed io m’infuriavo. Quelle dita che non premevano, avevo bisogno di più. Di più. Mentre chiamai piano il suo nome e m’incollai alle sue labbra. E gelai, ancora, m’infuriai.
Avevo bisogno di altro alcool. Perché non bruciavo? Volevo bruciare.
Eleanor fammi bruciare. Ti prego, fammi bruciare.
Di quella serata passata in maniera così normale. Ci divertivamo, sì. Divertivamo. Ed io urlavo.
E mi chiedevo, non mi sentiva? Era così facile non sentirmi? Sentire che c’era qualcosa, sentire che avevo bisogno di lei? E lei rideva, alleggeriva. E perché, stavolta, per me leggero non era leggero?
Non era leggero. Non era leggero. Non era leggero, non era timido, non era di brividi e sangue forte.
«Louis... aspetta» era scivolata da me. Così bruscamente che il sangue si freddò.
Volevo baciarla per bruciare. Volevo stringerla per bruciare. E mi ritrovavo a bere, disperarmi e congelare.
«Perché?» sputai, quasi subito. Veloce, pulsante, pur di non sentire il freddo.
E la vidi aprire le labbra a vuoto, la vidi incespicare.
Distante. Sempre più distante.
«Io... Louis... lo sai».
E la sua voce era gelida. E le sue dita mi lasciarono. E le mie s’aggrapparono, strinsero.
«Che cosa so?» le chiesi e mi facevo del male.
«Louis, sei ubriaco» tentò e mi sbatté il sangue. E dolevo.
«Non sono ubriaco» contrassi gli occhi e non poteva immaginare quanto male mi facesse non esserlo.
«Io... non - tentò ancora e - vieni...» farfugliò, prima di afferrarmi un polso - freddo - e condurmi chissà dove. Perché gelavo e non vedevo e non bruciavo e non sentivo.
Una calca di persone, ci guardava. La voce doveva essere girata perché più passava il tempo e più il numero di ragazze, a urlacchiare e guardarci, aumentava.
E quella di fronte a noi era la porta bianca del privé. Con lei che prima mi trascinava e poi fui io a trascinarla.
Per un attimo sperai, quasi singhiozzai. La porta chiusa e non aspettai nulla, solo bocca contro bocca.
E la sentivo incespicare col corpo, ora incespicava con le mani. Le mie a premere per quel vestito e non bruciavo. M’infuriavo, m’imbestialivo. Perché cazzo non bruciavo?
Le sue mani mi allontanarono e sentii un vuoto rimbombarmi nella testa.
«Louis, smettila» mi disse e sentii frantumarmi.
Fu un attimo in cui la guardai perso. In cui la guardai e quegli occhi che mi avevano sempre lasciato senza possibilità di risposta e quelle dita che sempre mi avevano risvegliato e quella voce che sempre avevo voluto conservare, non li sentii più. Non sentii più e con gli occhi a contrarsi ancora, a farmi male, le chiesi di nuovo: «Perché?».
E mi guardò e incespicò, di nuovo.
«Perché... potrebbe entrare qualcuno... ci hanno visti entrare qui e... Louis, sei ubriaco» continuava a farfugliare e ora, definitivamente, qualcosa dentro di me si stracciò.
E non erano più i capelli raccolti e disordinati. E non erano più le sue gambe lisce. E non c’era nessun maglione largo e nessun vestito stretto. C’era Eleanor che i miei occhi non riconoscevano. Non collegavano.
C’era Eleanor che non sentiva, Eleanor che non premeva. Eleanor che smetteva, Eleanor che congelava.
Eleanor che io avevo bisogno di caldo e mi spingeva via.
«No... non è vero» gorgogliai e mi bruciava la gola. E bruciava e doleva. Era questo il bruciore che avevo voluto così tanto? No. Non era questo.
Era tutto sbagliato.
«Non... è vero?» ripeté e sembrò non capirmi.
Non capirmi.
Distante. Distante.
«No... non è vero niente. Tu credi sia davvero quello il problema?»
In tutta la mia vita non ero mai stato così calmo. E bruciare in quella calma mi stava ancora strappando.
«Louis, di che cosa stai parlando? Quale dovrebbe essere il problema?»
La sua voce era tranquilla. Anche la sua era tranquilla. Che problema ci sarebbe dovuto essere?
Il mondo si spaccava.
«Eleanor... io non ti sento più»
Mai, la mia voce, era stata così disperata. Quegli occhi che stavo aprendo di fronte a lei e che indurivo. Perché non c’erano le sue mani ad accogliermi. Perché non c’erano i suoi occhi a raccogliermi.
«Cosa?» riuscì solo a sussurrare dopo quel silenzio rimbombante di mura che s’induriva sulla mia pelle.
«Io ti sto cercando. Io continuo a cercarti. E ad aver bisogno di te. E tu continui ad allontanarti»
Con quale coraggio riuscivo a dirle tutto quello? Con quale? La voce cominciava ad alzarsi e dentro, i miei pezzi, si stracciavano.
«Louis, non capisco di cosa parli!» alzò la voce e quasi urlai. Non capiva, continuava a non capirmi!
«Non puoi non capire di che parlo, Eleanor. Io sono venuto a cercarti. Ero a Manchester, quando ti ho chiamata. Ero fuori casa tua. E tu dov’eri? Tu non c’eri» le spiegai e mi guardò come se fosse la cosa più stupida del mondo.
«Tu... Louis, io te l’avevo detto che c’era il compleanno di Ingrid. Che sta per partire a Los Angeles e volevamo festeggiare con lei. Mi spieghi, poi, perché non me l’hai detto?»
Perché. Perché. Stava per partire.
«Questa non è la prima volta che succede, Eleanor. Che dev’essere così difficile incontrarci. Che dev’essere così doloroso organizzarci. Che nulla deve essere semplice, nulla deve essere... ovvio! Perché Ingrid sta per partire ed io per te non sto per partire, Eleanor? Perché?»
Mancava poco alla mia partenza. E lei già sapevo che stanotte non sarebbe stata con me, che quei giorni avrebbe avuto da fare. E io dolevo e lei c’era... c’era? Dov’era?
«Louis... io non posso crederci... pensi che anche a me tu non manchi? Pensi che... io non abbia voglia di vederti? È una cosa che sapevamo dall’inizio, questa. Come tu hai... i tour e... tutte le cose, io ho le mie» mi disse e riusciva solo a farmi montare di più la rabbia.
«Tu... non mi stai davvero dicendo questo» risi, amaro, e quasi mi sferravo un pugno da solo. Sarebbe stato meglio.
«È... ovvio che io te lo dica. Poi non cambia il fatto che... quando ci vediamo stiamo bene insieme. Nonostante la... distanza e... e tutto quanto. Vuoi negare questo?» continuava a dirmi e quella sua calma, le avrei voluto urlare di tutto addosso. E poi lo feci.
«Non me ne sbatte un cazzo di divertirci! - scoppiai e sentii per la prima volta, in tutta quella serata, esplodermi il sangue - Non me ne sbatte un cazzo di nessuna festa, di nessun viaggio, di nessuno intorno! Non me ne fotte un cazzo, Eleanor, di vederci per un po’ e poi tutto finisce. Io ho bisogno di poter tornare e trovarti. Ho bisogno di un impegno alla quale puoi... dir di no, per stare con me. E non la scuola, non il lavoro. Perché io non sto parlando di questo. Ogni cosa è più importante di me».
Ogni parola l’avevo quasi sputata, ogni sguardo aveva bruciato. Per tutta quella voglia di calore che solo in questo modo avevo potuto avere e quasi mi ci aggrappavo disperatamente. Mentre qualcuno nella mia testa urlava “No! Non è così, non è così” e dava ragione alle parole di Eleanor. Dava ragione a tutte quelle scuse che mi dicevo per tacere, per rimettermi in sesto. E invece, ora, non riuscivo più a star zitto.
«Cosa... mi vuoi dire, con questo?» riuscì a sussurrare, gli occhi più spalancati, completamente immobile di fronte a me.
Stavo per cedere. Sentivo di star per cedere. I suoi occhi, stavo per cedere e ricominciare a schiacciare i pensieri ma quelli erano talmente forti da far male anche a me.
«Che tutto questo... non mi basta più»
La verità che mi ero sempre negato. La verità per non ferirla, per non ferirmi. Per non dover pensare a ciò che comportava tutto questo.
«Vuoi dire che... anche il fatto che io sia qui, stasera, per te non conta nulla? Non conta nulla, Louis?» sollevò la voce e ci mancò poco che urlassi per averla smossa. E, quasi senza farla finire di parlare, il sangue a pungermi e scorrere e bruciare che neanche io sapevo come riuscissi a contenerlo ancora dentro le vene, sputai la risposta che da tempo mi torturava e a cui non volevo dare ascolto.
«Per me non è abbastanza»
Il tempo si congelò ed io stesso non capii cosa fosse successo.
Eleanor mi guardava senza parlare, le mura rimbombavano più forte e il mio sguardo vagava senza trovare respiro. Sentivo la gola bruciarmi - bruciava - e tutto ciò che era rimasto di me, di lei, di quell’istante s’appannò agli occhi.
Un momento, bastò perché io, quasi distorta, vidi l’immagine di qualcuno sulla soglia. Eleanor doveva averla vista come me perché, svuotandomi stavolta completamente, lasciandomi ancora più gelido, raccattò le sue cose e se ne andò.
Senza una risposta, senza nessuna soluzione. Senza che nulla importasse. Neanche stavolta.
Mi sentivo cedere più perdevo ogni cosa e mi ritrovavo senza nulla. Solo l’immagine di lei che se ne andava via e della musica che entrava nella stanza.
E stavo per perdere ogni cosa, davvero tutto, quando incontrai degli occhi e spalancai i miei.
Com’era possibile?
Fra tutte le persone che avrebbero potuto apparire in quel momento – Liam, Andy, Harry, Danielle, non so chi altro – era... era lei. Quella ragazza, quante volte l’avevo incontrata?
Appena incontrai i suoi occhi rimasi bloccato. Perché, in quello spazio di tempo in cui ti aspetti di trovare uno sguardo estraneo – vuoto, come il resto, o troppo pieno d’indifferenza, quasi da far male – succede che, invece, quegli occhi li conosci.
E non diventa vuoto totale, solo sai chi ti sta guardando. E sei certo che quella persona sa lo stesso.
E ora lei mi guardava ed era come se avesse assistito a tutto ma io ero certo lei fosse entrata solo all’ultimo momento – probabilmente l’ultima frase.
Potevo giurare di averla vista solo qualche volta ma la ricordavo perfettamente. E quelle volte s’intrecciarono in una maniera quasi folle da sembrare avessero un senso e invece non ne avevano alcuno. Senso che ora ritrovavo nel fatto fossero quegli occhi e non di qualcun altro.
Cos’era?
«Ah... io... scusami» farfugliò, risvegliandomi. Tanto che la musica sembrò musica e non solo un rimbombo.
«No» trascinai in fretta la voce che non riuscii a percepire nemmeno da dove fosse uscita. Ero io?
«Ti... serviva qualcosa?» le chiesi, per il fatto fosse lì.
Riuscivo a parlare eppure ancora stavo cedendo. E mi chiedevo, chi aveva potuto invitarla? Chi fra noi la conosceva? Sentivo che forse, conoscendo la risposta, qualcosa avrebbe potuto avere una spiegazione.
Restò di nuovo ferma a guardarmi e qualcosa passò dentro a quegli occhi.
«Ero... solo venuta a... riposarmi un po’» tentò e decisi – lo decisi – di continuare a guardarla anche io.
Sorrisi – quanto amaro si poteva accumulare in bocca? – e scostai lo sguardo solo per un momento.
«Allora entra. Non è successo niente» asciugai la voce, per apparire distante da tutto.
E così volevo che fosse.

Non so perché mi diede retta. Forse non voleva farmi pesare il momento. Forse l’aveva fatto senza pensarci.
So solo che dentro i miei occhi – ne sono certo – qualcosa aveva visto.

 

Isabella

 

La sua mano stretta sulla mia, ci misi un po’ a percepirla. Quando lo feci, però, con disinvoltura la sciolsi dalla sua.
Dovevo essere quasi ubriaca – dico quasi perché le cose me le ricordo ancora – per non essermi accorta di una cosa simile da subito. Risi però – brilla, ecco, ero brilla – e gli chiesi dove stessimo andando.
«Cherie, stavamo andando a prendere un po’ d’aria» rise lui e avrei voluto davvero dirgli qualcosa per quel “Cherie” ma... mi persi a ragionarci e ridere ancora, “Ah, giusto”.
Ci ritrovammo in una parte di locale all’aperto, una sorta di uscita secondaria. Non ricordo bene come ci fossimo arrivati, l’unica cosa che ricordo era la musica in lontananza, all’interno, e i fiati caldi dell’alcool e del movimento che ora parevano sentirsi più nitidi.
«Ti stai divertendo?» mi chiese, poggiato sulla parete che faceva angolo con quella in cui ero poggiata io. C’erano alcuni vasi di piante, il pavimento chiaro e lucido. Voltai gli occhi verso Harry.
Chi avrebbe mai pensato che la serata sarebbe andata in quella maniera? Ed io che non volevo nemmeno andarci.
«Sì... sì, tanto» sorrisi e guardai di nuovo verso l’alto.
Di cielo, se ne vedeva davvero poco ed era così scuro che lo si poteva scambiare per una parete.
Lo sentii in silenzio e quando lo guardai di nuovo sorrideva talmente tanto caldo che sentii qualcosa in fondo al petto.
«Nulla... – mi rispose subito, scostando lo sguardo – Mi rende felice sapere questo».
Continuavo a guardarlo, ferma.
Per tutta la serata era stato così semplice parlare con lui ed era stato tanto gentile anche con Annalisa che ne ero stata felice. Ci eravamo divertiti un sacco e mi ero sentita come se fossimo amici da un sacco di tempo.
Mi ero anche convinta di quanto avessi ragione nel dire ad Annalisa che Harry fosse innocuo.
Ora lo guardavo e mi sentivo così tranquilla, a mio agio. Se, come diceva lei, almeno un po’ m’interessava non avrebbe dovuto mettermi in agitazione?
«Così sei famoso» cambiai discorso, puntando lo sguardo su quella parete nera. Era così scura.
Non notai il suo sguardo ma immaginai dovesse essere come la sua voce perché, dopo del silenzio, sospirò: «Sì, così pare».
«Ne sei sicuro? Io neanche ti conoscevo» provai a scherzare, allora, stavolta guardando verso di lui, vidi che si aprì appena in un sorriso, anche se piccolo: «Non lo so ma meglio così. Almeno sei qui».
Di nuovo era caldo.
«Non cambia nulla, anche se sei famoso, lo sai?» ridacchiai.
Era ancora più caldo?
«Davvero?»
Non smetteva di sorridere.
«Certo! Sei anche più piccolo di me. Quanti anni hai? Sei maggiorenne, vero?» straparlai. Sì, forse ero un po’ più che brilla.
«Hey! – si mise a ridere, voltandosi un po’ di più verso di me – Che cosa significa? Perché, quanti anni hai tu?»
Lo guardai con un sopracciglio appena alzato: «Diciannove da questo mese» gli risposi, ben certa fosse più piccolo. Doveva essere più piccolo.
«Io ne ho diciotto ma ne avrò diciannove fra poco, perciò abbiamo praticamente la stessa età» sorrise soddisfatto.
Continuai con la stessa espressione: «Ah sì? E quando sarebbe il tuo compleanno?»
Trattenne una risata: «A Febbraio, il primo!» mi rispose poi.
Ci misi un po’ a ragionare sulle date – un po’ di comprensione, ero brilla – poi alla fine scoppiai a ridere: «Non c’entra nulla! Risulti sempre un anno più piccolo di me»
«Sono solo quattro mesi!» ribatté, facendomi ancora ridere.
«Quattro mesi importanti, piccolo Harry, se diventano un anno» non demorsi.
Mi guardò un po’ più serio e non ne capii il motivo: «Non pensi davvero che io sia piccolo?».
Lo guardai con ovvietà: «Certo, lo sei!».
Io stavo ancora scherzando. Nel senso, era vero che mi trovassi a mio agio con lui ma non pensavo fosse per questo motivo. Era solo per indispettirlo un po’, sapevo che fossero pochi quattro mesi.
Lui però non sembrò capirlo o fui io a non farmi capire perché mi ritrovai col suo braccio al lato del mio viso, contro il muro.
«Lo pensi davvero?» mi chiese.
La sua voce era grossa e il modo in cui muoveva le labbra troppo morbido. Il calore troppo vicino, il petto scoperto e il rumore delle sue catenine. I capelli un po’ umidi sulla fronte e l’espressione ferma ma quello che m’incollò col fiato alla parete seppi subito cos’era.
Quegli occhi verdi e grandi che sembrarono avvolgermi tutta, totalmente.
Quel qualcosa che si era smosso dentro al petto capii non era casuale. Le parole di Annalisa rimbombarono per la testa e “innocuo” si perdeva fra la parete di cielo scuro.
Poggiai una mano sul suo petto, cercando di alleggerire l’aria e scostarmi, magari ridendo. Ma riuscii ad abbozzare solo un sorriso perché mi afferrò lento il polso, trattenendomi, e le mie dita, ferme per troppo tempo, sentirono quel battito di cuore caldo che mi fece vacillare.
Presa da uno scatto che veniva da dentro di me – scappa, scappa – lo scostai bruscamente e farfugliai qualcosa prima di aprire la porta e tornare dentro, senza guardarlo negli occhi.
Sentii la sua voce chiamarmi confusa ma ormai la musica forte mi aveva inondata ed io cercavo solo Annalisa. La cercai fra la folla e non la trovai. La cercai al punto che mi venne da urlare.
La trovai dentro il privè – chi era, quel ragazzo insieme a lei? – quando decisi ormai di prendere le mie cose ed andar via.
Il battito di cuore vibrava sulle dita più di tutta quella musica.

 

Annalisa

 

Perché ero lì? Bella domanda.
«Come ti chiami?» mi aveva chiesto, appena ero entrata dentro la stanza.
Dire che mi aveva sconvolta, assistere ad una situazione simile che riguardasse lui, era davvero troppo poco.
Londra era davvero piccola e non me n’ero resa conto? Perché altrimenti non capivo.
Tutte quelle volte in cui l’avevo incontrato potevano anche avere senso, se sfogliavo fra i pensieri una serie di coincidenze, ma quello? Quello era decisamente troppo.
Era pure amico di Harry?
Ma per me, in quel momento, non era quello l’importante. Strane coincidenze o meno, vederlo così mi aveva... sconvolta ancora di più. La ragazza fuggita via ed io mi ero... bloccata a fissarlo. Quegli occhi così azzurri sembravano vetro pronto a spezzarsi. E sapevo che non era giusto guardare in quel modo gli occhi di un estraneo ma il punto era che per me non era estraneo. E, in qualche modo, seguendo quell’istinto che ogni volta, inconsciamente, mi portava ad occuparmi degli altri a prescindere da chi fossero, mi ero ritrovata a preoccuparmi per lui e non riuscire a smettere di guardarlo. Solo quando mi ero resa conto di esagerare avevo chiesto scusa ed avevo fatto per andarmene ma... che fare, dopo che mi aveva chiesto di non preoccuparmi ed entrare comunque?
Aveva pure detto che andava tutto bene in quel modo...
Ed ora, che mi aveva chiesto il nome, mi ero voltata quasi di scatto, la pochette ed il bicchiere in mano: «Io? Eh... ecco... mi chiamo Annalisa» avevo farfugliato. Quanta intelligenza.
Mi rivolse un sorriso così stretto ma feci finta di non notarlo, aspettando dicesse qualcosa.
«A... Anna?» tentò, confuso.
«Lo so, forse è difficile...» sorrisi un po’, abbassando lo sguardo sul mio bicchiere pieno, non ancora bevuto.
Mi sedetti nel divanetto di fronte al suo. Lui, lì dove si trovava, si era lasciato andare pochi attimi prima.

«Non è inglese, vero?» mi chiese.
Non riuscivo bene a capire il perché facesse conversazione ma sembrava come se... avesse bisogno di rumore.
«No... italiano - gli risposi - Puoi chiamarmi come vuoi, comunque» tentai. Quando l’avevo detto ad Harry, aveva deciso di chiamarmi Annie.
«Carota?» saltò su allora, facendomi spalancare gli occhi perplessa.
«“Carota”? Cosa carota?» gli chiesi. Che... che stava dicendo?
«Ti piacciono le carote, no?»
Sentii morirmi il petto. Si... si ricordava di me?
Qualcosa di ancora più strano cominciò a vorticare forte - sempre, sempre quella sensazione - e a urlarmi qualcosa che ancora non capivo.
«Oh... sì» riuscii solo a dire.
«Allora sarai “Carota”» proclamò facendomi sorridere un po’. Continuare a fare rumore...
«E tu? Come ti chiami?» gli chiesi allora, notando il suo sguardo che veloce si spostava regolarmente verso la porta. M’imposi di far finta di niente.
«Io? Non mi conosci?» mi chiese e sembrava sorpreso di questo.
Lo guardai perplessa: «Tanto quanto mi conosci tu... credo... - farfugliai - Perché, per caso il tuo nome dovrei conoscerlo?» gli chiesi allora. Cos’era, famoso come Harry e non lo sapevo? Faceva parte anche lui della band? Oh, che casino...
«Ah, no, no, non importa - stirò un sorriso - Io sono Louis» mi disse.
«Louis» ripetei, con uno strano accento, che pareva più francese che inglese.
Tentò di sorridere ancora, forse per la mia pronuncia: «E quindi, Carota, cosa ti porta ad essere qui a condividere lo stesso privé senza che io ne sapessi nulla?».
Notavo che quel tono che usava era come uno sforzo d’abitudine. Un tono forzatamente felice e divertente che sapeva di “messo su così tante volte”. Ancora, feci finta di nulla e feci finta di crederci.
«Solamente Harry, Louis» risposi, provando ancora a pronunciare bene il suo nome con scarsi risultati.
«Harry? - mi chiese, con un tono di chi non se l’aspettava - Strano...» aggiunse, infatti.
«Beh... diciamo che... è stato un invito di cortesia. Ad Harry credo piaccia la mia migliore amica che ora è con lui» gli spiegai, forse per cambiare un po’ argomento.
«Ora si spiega» si mise a ridere, con appena una luce a muoversi negli occhi che sembrò quasi malinconica.
Ci fu un momento di silenzio in cui non seppi bene che fare. Forse si era perso, fece qualche battuta su Harry e Isabella - gli dissi come si chiamava ed il suo nome lo seppe pronunciare, conoscendolo - e poi fu troppo evidente come stesse cercando di trovare un argomento qualunque da tirar fuori. E quando lo notai senza più nulla da dire e il silenzio prese la stanza, non riuscii a starmene buona e, stupidamente, porsi il mio bicchiere in avanti.
«Vuoi?» gli chiesi.
Guardò un po’ il bicchiere - ancora pieno, completamente pieno - poi, biascicando un grazie, lo prese dalle mani e ne bevve un po’. Mi guardò con le sopracciglia esageratamente corrucciate.
«Ma questo... non è alcolico, vero?» mi chiese poi.
... oh Dio.
«Ah! Sì eh... non... mi andava più di bere troppo alcol, così...» mi giustificai, sentendo la faccia in fiamme e la risata di Damon prendermi in giro.
Poi così, inaspettato, vidi i vetri quasi fondersi di nuovo e riparare le crepe - di un infinitesimo, che forse avevo pure visto male - e lo sentii scoppiare a ridere.
«Va bene, va bene lo stesso» rideva e bevve un po’ più calmo.
Lo guardai e mi sentii felice, infinitamente, per avergli strappato almeno una risata. Il proprietario della Porsche, il ragazzo dagli occhi azzurri, quello della fermata del bus, quello delle carote al supermercato era diventato Louis, amico di Harry e, di quella risata, mi sentii ancora più felice.
La porta si aprì di scatto, un’altra volta, e vidi i suoi occhi accendersi e spegnersi. Io, invece, rimasi allibita.
Reduce da non so quale avvenimento, Isabella aveva spalancato la porta e, prendendo le sue cose e lanciandomi solo un’occhiata preoccupante, sparì di nuovo, in fretta.
«Ma cosa...» riuscii a farfugliare prima di incontrare lo sguardo altrettanto confuso di Louis poi Harry raggiungere la porta, agitato.
«Che è successo?» gli chiesi subito, sollevandomi dal posto.
«Io... non lo so» mi rispose e capii subito che era meglio andare da lei.
«Stai tranquillo - dissi ad Harry, sospirando - Ci penso io. Ci sentiamo presto, d’accordo? Grazie per averci invitate» e annuì confuso prima che prendessi le mie cose e lo salutassi.
Senza potermene dimenticare e ringraziando lì ci fosse almeno Harry, mi voltai verso Louis con un grande sorriso.
«Ciao»
 

Harry

 

Che cos’era successo? Mi ero perso qualcosa e non me n’ero accorto?
Un attimo prima ci stavamo guardando, le labbra a respirare fra i fiati caldi e un attimo dopo, come uno schiaffo che pizzica, era scappata da me senza che neanche potessi chiederle delle spiegazioni o spiegarmi.
Ero stato uno stupido a prendermela in quel modo. Era stato così difficile impormi di non interessarmi al giudizio degli altri e... era bastata una sua battuta a mettermi in crisi.
Non volevo lei pensasse certe cose di me. O volevo capire almeno perché le pensasse.
Con quell’aria leggera che aveva, mi ero incupito quando aveva tirato fuori la storia dell’essere famoso. Avevo fatto di tutto, durante la serata, per fare in modo che sia Isabella che Annalisa non dessero peso a questo e ci eravamo divertiti, perciò quando lei mi aveva dimostrato di non preoccuparsi della mia fama ne ero stato felice. E con quel vestito bianco e gli occhi a ridere e quei capelli sempre più da stringere e tirare, Isabella mi aveva prosciugato la bocca solo per riempirla ancora di cocktail. E fuori, quell’aria fredda che poteva solo farmi rendere conto di quanto fossi accaldato, ancora quegli occhi al cielo e quelle labbra così piccole ma piene da cui continuava a tirare la pelle coi denti, sembravano le più buone. Più lucide di quel pavimento laccato, più lucide dei miei occhi e più lucide di me. Non volevo mi vedesse piccolo.
Continuavo a non capire perché se ne fosse andata ma, per forza, sapevo fosse stata colpa mia. Avevo esagerato? Non l’avevo nemmeno baciata... o non ero riuscito a baciarla?
Annalisa mi aveva detto di star tranquillo ma... non ci riuscivo. E cominciavo a chiedermi perché il cuore mi stesse martellando così impunemente.
«Perciò è lei, Isabella» disse Louis, nel silenzio chiassoso di musica, con la porta del privé chiusa.
Continuavo a fissarla e presi un respiro profondo, giusto il tempo di rendermi conto che non avevo mai parlato di lei a Louis e che lui l’aveva appena nominata. E... poco prima, era insieme ad Annalisa.
«E tu... conosci Annalisa» risposi, che non era una risposta.
«A quanto pare tu prima di me» mi disse e già non ci stavo capendo molto, con tutto quanto, ora ancora di meno dalle sue risposte.
Così mi voltai e stavo davvero per chiedergli qualcosa ma... vidi un viso cupo e vuoto d’occhi che fece spalancare i miei e aggrovigliare dolorosamente la mente.
Tutti quei giorni in cui mai gli avevo chiesto qualcosa così esplicitamente si riassunsero in un’unica frase.
«Louis... che ti è successo?»

 

Louis

 

Era stato complicato, capire. Forse non avevo nemmeno capito, alla fine. Di come Annalisa ed Isabella fossero nostre vicine di casa ed io non lo sapessi. Di Harry che l’aveva scoperto il giorno che quel coglione della Bentley mi aveva bloccato l’uscita dal parcheggio perché, a quanto pare, loro abitavano con lui.
Di come intanto io continuassi ad incontrare Annalisa ovunque tranne che nel nostro palazzo, vicino a casa, ma questo non lo raccontai ad Harry. Mi contrassi ad accennargli parole e frasi di come io ed Eleanor avessimo litigato e che si strinsero in un “Stavolta... non so come andrà a finire” che fu la frase più semplice, dolorosa ed ovvia di quella sera. E, quella sera, ce n’erano state tante, di frasi del genere.
Ascoltai Harry parlare per non voler sentire urlare e scoppiare le tempie o rompere il bicchiere fra le mani.
Bicchiere... quel bicchiere.
Mi perdevo nella sua forma, in quella cannuccia scura e nel poco liquido rimasto, dolce. Era quello che volevo guardare e la voce di Harry, solo quella da ascoltare. Per distrarmi.
Quel liquido non mi aveva bruciato ma mi aveva scaldato. Gli occhi di una sconosciuta, che proprio quello non poteva essere, mi avevano scaldato.
Io così perso a fissarlo e di tutto si muoveva nel petto.
Le dita gelide di Eleanor e il sorriso rassicurante di quella ragazza. La voce a distrarmi di Harry e quella di Eleanor a congelarmi.
E quel semplice bicchiere di plastica lo tenni talmente stretto da portarlo fino a casa, ormai vuoto. Lo portai e nemmeno me ne accorsi.
Nessun messaggio sul mio numero, nessuna chiamata. Una, da parte mia, che non ebbi il coraggio di fare.
Poi quel letto asciutto, la testa in fiamme, i vestiti scomodi e incollati addosso, il freddo in petto.
E il bicchiere, poggiato da qualche parte, per quella notte, non riuscii a buttarlo via.






 

Non so bene cosa dire di questo capitolo se non che mi ha impegnata parecchio. Ora che lo pubblico spero solo che a qualcuno di voi trasmetta ciò che ha trasmesso me scriverlo!
La storia si srotola ancora e tutto si complica... spero davvero, se qualcuno leggerà questo capitolo, di sapere cosa ne pensa! Ci tengo un sacco...
A presto con il sesto, un bacio a tutti e grazie a chiunque segue questa storia :)

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Capitolo 6
*** Chiarezza. ***


Capitolo sesto.

Chiarezza

 

Le lacrime agli occhi poche volte rendono le immagini più nitide. Sempre appannano e chiassose di pianto bruciano e arrossano. Ma lei, in quel momento, lo vedeva brillare d’acqua.
Stretto nella giacca a quadri, scura, la sciarpa soffice gli avvolgeva la gola. Sorrideva morbidamente e con le mani grandi le avvolse il viso.

Calde e forti, erano sempre state come lui.
«Non piangere»le aveva sussurrato, quel calore dritto alle guance che mai le aveva dato così pienamente.
E, sorpresa, le lacrime le aveva scacciate via mentre erano scivolate senza che lo volesse.
Una risata leggera s’incrinò impercettibilmente.
Quel rapporto senza un nome, quei baci che avevano scaldato gli spazi - baci lunghi e pochi, nel bisogno di stringersi i petti.
E lei lo guardava e non riusciva a crederci ma i suoi occhi si scurirono e le labbra presero le sue.
Era verde chiarissimo l’ultimo sprazzo agli angoli.
Poi il tempo si consumò, gli occhi si gonfiarono e la sciarpa lascio la gola di lui per stringersi alla gola di lei senza fiato, attorcigliata, stupidamente.
Le porte della partenza s’aprirono troppo in fretta e lei non poté far altro che restare a guardarlo fino all’ultimo istante, lo sforzo di un sorriso.

Alle loro spalle, gli occhi quasi grigi dolevano e gorgogliavano cupi.

 

Damon

 

Presi la valigia così velocemente che rischiai di sbatterla contro il pavimento.
Quel lungo ed inutile viaggio era finito e finalmente mi sarei potuto riposare almeno per quella giornata, visto che già l’indomani sarei stato nuovamente impegnato.
Avevo lasciato la macchina lì all’aeroporto - soluzione più ottimale, con tutti i viaggi che facevo - e stavo pensando al modo in cui mi sarei dovuto sbrigare a prenderla quando il sorriso chiarissimo di Annalisa mi colpì in petto.
La guardai scuotendo la testa e ridendo appena, perché mai mi sarei aspettato di trovarla lì, e lei, intanto, seguita da un’Isabella alquanto cupa, mi aveva raggiunto.
«Guarda un po’ chi si vede» risi di nuovo, optando per un’alzata di occhi al cielo sarcastica, ma lei mi strinse in un abbraccio.
Avrei potuto giurarlo, che mi era mancata. Tanto forte e amaramente, come l’odio per mio padre.
E non avrei mai potuto ammettere che sarei partito tutte le volte, senza smettere, solo per ricevere un abbraccio come quello.
«Sorpresa!» rise anche lei, staccandosi da me e aprendo le braccia, come a mostrarsi.
Cercò con gli occhi Isabella che mi salutò con una sorta di sorriso, facendole corrucciare la fronte.
Quasi mi fece ridere.
«Oh, ma che sorpresa! - feci, poco interessato - Piuttosto, aiutami con questi» le dissi e le lasciai sulle braccia il bagaglio a mano, che fissò per cinque interi secondi prima di rendersi conto che mi ero già avviato verso l’uscita.
«Damon! - mi strillò dietro e stavolta, che non poteva vedermi in volto e comunque avevo un pretesto, sorrisi fortissimo - Cosa significa questo?! E io che ho convinto Isabella a venire qui a farti una sorpresa!»
«Oh, quanto son stanco!» la ignorai e continuai a camminare, più svelto.
La sentii ancora lamentarsi e raggiungermi.
«Damon non sei un uomo, sei un idiota
Solo... un momento...
Che cosa vuol dire?

 

Annalisa

 

«Nemmeno oggi resti... per pranzo?» gli chiesi, sbattendo varie volte le palpebre.
«Sì» mi rispose, secco, annodandosi la cravatta al collo.
Gli impegni e l’atteggiamento di Damon continuavano a preoccuparmi e non riuscivo a non pensarci.
«Damon non... starà diventando troppo pesante, fra scuola e... gli impegni che ti da tuo padre?» tentai, la voce che quasi non voleva uscire per paura di una sua brutta reazione.
«No - mi rispose, secco ancora, sospirando solo dopo - E poi sono questioni importanti, devo» aggiunse.
Era un pretesto troppo buono per non chiedere di più: «In che senso? - chiesi infatti, subito - Hai deciso di lavorare con tuo padre?»
Eravamo di fronte alla porta d’ingresso. Io, le mani aggrappate e ferme sulla maglia che avevo indosso - quella grossa e grigia, che già da qualche anno usavo in casa, prima per uscire - mi resi conto di quanto fosse l’unica cosa a far parte del passato.
«È complicato - disse, duro, e non ne capii nemmeno il tono di voce - ora son di fretta, ne parleremo» tagliò corto e mentre parlava allacciò velocemente i bottoni del cappotto, le chiavi in mano e uscì di casa, senza neanche lasciarmi modo di rispondere.
Aveva evitato tutto il tempo di guardarmi e questo voleva solo significare che stava evitando di dirmi qualcosa e di questo ne ero già più che certa.
Che cosa l’aveva spinto a fare tutto questo? Davvero voleva lavorare col padre? Cos’era successo in quel periodo in cui non ci eravamo visti?
Mille domande mi assalirono nuovamente e, abbassando lo sguardo, tornai in cucina, lì dove avrei dovuto preparare il pranzo.
Era domenica e a parte studiare - quando non avevo da studiare? - non avevo niente da fare. In casa nessuna faccenda da svolgere, Isabella era sparita non so dove, ed io?
Sì, Isabella...
Dal giorno della festa si era spenta. Io, che pensavo così forte Harry la stesse accendendo, neanche un attimo e tutto si era spento.
Lei mi aveva raccontato cos’era successo, ma l’avevo trovata talmente turbata che non avevo nemmeno avuto il coraggio di dirle qualcosa.
E ciò che mi aveva raccontato era stato così assurdo che... non potevo crederci.
Nel senso, io l’avevo già capito che per quanto dicesse fosse innocuo, così innocuo non lo era ma non mi sarei mai aspettata una reazione del genere da parte sua. Insomma, sapevamo che lei a lui piaceva e non sarebbe stato poi così strano, dopo tutta quella serata insieme, un tentativo di baciarla. E nonostante questo lui si era solo, solo avvicinato. E lei? Reagiva così.
C’era qualcosa di sbagliato, in tutto questo. E quel qualcosa, a riempirmi la bocca d’amaro da sputare, aveva un nome.
Con Harry, che continuava a non capire - avendo più che ragione -, ci eravamo scambiati i numeri di telefono e alla fine ci eravamo visti, così gli dovetti spiegare che non riuscivo nemmeno io a comprendere cosa fosse successo ma che doveva stare tranquillo, ad Isabella sarebbe passata e ne avrebbero parlato.
Persa di nuovo, cercai di sgomberare la mente - quante preoccupazioni mi davano, tutti - e di pensare a qualcosa da cucinare ma i pensieri non sarebbero finiti lì. Mai, se aprendo il frigo ti ritrovi quelle carote, spavalde, a ricordarti.
Sgomberare la mente, avevo detto?
Certo che no.
Perché, quella festa, mi aveva dato non solo un pensiero ma ben due. E anche l’altro, d’amaro al petto, aveva un nome. E quel nome era Louis.
Ciò che era successo, non ero riuscita a smettere di pensarci.
Era una di quelle persone che son solita guardare. Quelle che si incontrano per strada, quelle che magari vedi quotidianamente. Quelle di cui nemmeno conosci il nome eppure sai tutto di loro. Quelle di cui mi piace guardare gli occhi, ragionare sul linguaggio del loro corpo, sulla loro vita. Quelle persone che non pensi ti conoscano e magari ti conoscono.
Quelle persone che resteranno sconosciute ma che tu conosci. E fra Damon, Isabella, Harry, quello che era successo con Louis non era il più assurdo in assoluto?
Ed in lui c’era qualcosa in più. Non riuscivo bene a comprendere ma... l’avevo percepita ed era chiara. Solo inesprimibile anche per me stessa. Per quello, stupidamente, continuavo a ragionarci. In lui c’era qualcosa in più degli altri passanti e non la capivo ma ora speravo stesse bene.
Spostai gli sgabelli e decisi di far qualcosa sull’isola imponente e scura. Forse qualcosa di particolare?
Era domenica...
Isabella non tornava. Era andata chissà dove a scattare fotografie e non sapevo se le facesse perché depressa, perché arrabbiata, confusa o tutte le cose insieme.
In generale, speravo tornasse meno turbata e avrebbe potuto farlo anche subito... avevo bisogno di una mano!
Il campanello suonò e me ne stupii. Neanche detto ed era tornata? Come se l’avessi chiamata io!
Sollevata - in realtà ero solo maledettamente preoccupata per lei, nonostante sapevo che preoccuparmi per lei provocava dolore solo a me stessa - lasciai ciò che stavo facendo - cioè nulla - ed arrivata di fronte alla porta d’ingresso l’aprii senza nemmeno pensarci.
E giuro che mi si strozzò il respiro tanto da farmi sbattere il cuore, tanto che non seppi nemmeno capirlo o impedirlo.
«Ciao!» mi salutò la voce profonda di Harry.
I miei occhi continuavano a fissare quelli azzurri Louis, senza capire.
Erano troppo spenti per poter essere anche solo paragonati al cielo.

 

Louis

 

Che ore sono?
Che giorno è oggi?
Luce troppo bianca agli occhi, vetrate inutili.
Camera troppo grande, letto freddo e secco.
C’è qualcosa da fare? Giorni di ferie?
Nessuno mi ha svegliato, perciò dovrebbe essere tutto okay.
Occhi gonfi dai tratti di ore riempiti dal ridicolo sonno. Nessuna voglia di alzarsi, gli occhi al cellulare vicino, troppo silenzioso e vuoto per potermi dire qualcosa.
Quante mattine aperte in questo modo?
Quante notti non concluse?
Inutili ore passate a divorarmi lo stomaco. A farmi scoppiare le vene d’ossigeno e rabbia per poi sentire annullarsi tutto e non sapere più nulla.
Che sarebbe successo, se quel cellulare fosse rimasto troppo silenzioso e vuoto?
Il cielo fuori dalla finestra era troppo chiaro e quel bianco lo sentivo offuscato agli occhi.
Sollevarmi dalle coperte, uno scatto impreciso, reggermi la fronte.
Ogni quanto passavano, i minuti?
Quanto erano lunghi, i giorni?
Chi ero, io?
Fottuti pensieri a stringermi le tempie e spaccarmi il petto. Perché non mi riconoscevo, perché era così lontano l’orizzonte alla finestra?
Mattine cupe e ovattate, opprimenti.
«Sei sveglio»
I suoi passi lenti, contro il silenzio, mi avevano avvertito del suo arrivo che servì solo a aggrovigliarmi la fronte.
«Sono sveglio?» sollevai l’angolo delle labbra. Perché cazzo quella non era una risata?
«Intendi fare qualcosa, oggi?» mi chiese.
La mano continuava a coprirmi il viso e comunque stringevo gli occhi chiusi.
«Probabilmente sì, forse no» continuai e le labbra tiravano e quel sorriso non esisteva.
Quando lo guardai è perché il silenzio pareva aggregarsi al bianco del cielo.
Come stava Harry?
Cos’era successo in quei giorni?
Com’era andata, con quella ragazza?
Il non riuscire a connettere i pensieri, a bruciare l’aria e ignorare tutto il resto mi corrodeva.
Eppure fuori nulla batteva. Quasi, neanche le ciglia.
«Vieni con me» mi disse e mi collegò un’altra volta.
«Cosa?» gli chiesi. Domanda sbagliata.
«Penso che andrò a... trovare Isabella - mi spiegò. Le cose, allora, andavano bene? - Vieni con me. Stare qui a casa non è di certo il massimo» sorrise.
Il sorriso di Harry e i suoi capelli arruffati, continuavano ad essere una sorta di calmante, anche se stavolta non riuscivano ad esserlo fino in fondo.
Troppo silenzioso, troppo vuoto.
«Non credo sia una buona idea» sospirai. Perché non aggiungevo nient’altro?
«Preparati e vieni con me» non mi diede ascolto.
Sparì dalla stanza e mi lasciò in un sospiro brusco.
Guardai nuovamente il cellulare che pareva inghiottire sempre più scuro all’interno dello schermo. Non s’illuminava, non vibrava. Il bianco continuava ad opprimermi incollato al cielo.
Finii a strappare qualche vestito all’armadio e a seguire Harry senza neanche capirne il motivo. Il telefono chiuso in tasca, ebbi il desiderio di lasciarlo e dimenticarmi dov’era ma masticai denti fra denti e l’ebbi con me.
Bastò scendere all’interno del palazzo ed Harry mi fece vedere come Isabella ed “Annie” abitassero sotto di noi. Annie che... era quella ragazza.
Dov’era finito, il bicchiere vuoto? Era ancora pieno, da qualche parte in quella serata?
Camminavo, seguivo Harry di fronte a quella porta e nemmeno realizzavo che stavo facendo. Era davvero casa di quella ragazza, questa?
Vidi Harry affondare lo sguardo al legno laccato scuro prima di pigiare con decisione il pollice sul campanello.
Che ore sono?
Che giorno è oggi?
La porta si aprì e non capii.
Il bicchiere era ancora pieno in quegli occhi che incontrarono i miei.

 

Isabella

 

Tenevo gli occhi puntati al cielo.
Affondarli dentro l’obbiettivo, muovere le dita, mettere a fuoco. Scattare.
Ne avevo scattate talmente tante da non riuscire a contarle più, cercando le fronde più scure che si stagliavano contro il bianco del cielo.
Non ci capivo nulla, mi limitavo a non pensare, lasciar scorrere, guardare.
Cercavo qualcosa che sapesse di lui senza trovarla.
Quegli alberi erano rimasti a scorrere contro i finestrini dell’auto di mio padre, in Sardegna, per l’autostrada dei viaggi. Degli aeroporti.
Ricordavo nitidamente quando, con Annalisa, tornando a casa da un periodo in paese da mia nonna, d’estate, ci eravamo rese conto di quanto quegli alberi sembrassero delle persone. Quando mi aveva detto di come paressero bloccate nella loro esistenza, a guardare la vita degli altri scorrere. Per noi in movimento eppure immobili.
Quei giorni in cui desideravamo scorrere forti e senza fiato, quando nel guardarli rispecchiavamo le nostre vite.
Ci pensavo e mi rendevo conto di quanto tempo fosse passato.
Di come, nonostante quel che pensassi, avevo cominciato a vivere aggrappandomi ad un albero e ora lo cercavo, lo aspettavo e scattavo.
L’avevo perso venendo qui a Londra?
No. Tutti i discorsi, di silenzi.
La pelle era macchiata dalle fronde, si erano ramificate nella carne e non mi avrebbero lasciata. Non era nulla quell’inutile istante in cui avevo sentito... cambiare.
Era stato l’alcool, era stato il momento. Era stato il fiato, l’odore, il profumo del cielo laccato scuro.
Ora ero tornata in me.
Allora perché mi sentivo così?
Il giorno della festa, dopo essere fuggita dal locale, Annalisa mi aveva raggiunta. Pensandoci, me ne vergognavo infinitamente. Fuori, lontane dall’entrata, per la strada
con ancora le persone a passare ma ignorarci, lei col cappotto infilato alla meno peggio e l’affanno, mi aveva chiesto: «Che è successo?» ed io ero scoppiata a piangere talmente forte che ancora sentivo il bruciore dei singhiozzi.

Aveva chiamato di fretta un taxi ed eravamo tornate a casa senza che spiccicassi parola. E così era continuato per tutti quei giorni, senza che riuscissi a pensare a nient’altro che “perché, perché, perché”...
Era continuato e, anche oggi, aveva deciso di lasciarmi ai miei spazi. Qualcosa - il necessario - gliel’avevo raccontata ma... di più non ero riuscita a dirle. Mi sentivo così affaticata che era stato meglio così.
Allontanai la macchina dal viso e, proprio pensando ad Annalisa, controllai l’orario: era ormai ora di pranzo.
Decidendo che era decisamente meglio tornare per darle una mano, riposi la macchina nella sua custodia e, incamminandomi, uscii dal parco.
Era uno dei tanti che avevo trovato, il più vicino a casa.
St. John Park.
Catturando ancora immagini di alberi e cielo con gli occhi, lasciai pure l’insegna del parco alle mie spalle, dicendomi che andava tutto bene. Come una promessa.
Non mi affrettai verso casa ma mi ci diressi ancora lenta, prendendomi fino all’ultimo istante.
Anche dentro il palazzo - suonai, ovviamente non avevo con me le chiavi -, anche dentro l’ascensore.
Poi arrivai alla porta, a casa e... e io giuro che sentii ghiacciarmi il sangue.
Cosa ci faceva, lì?

 

Harry

 

Non tornava.
Sarebbe arrivata?
Annie mi aveva detto di sì, sarebbe per forza tornata.
Ma quando?
La casa era pulita, ampia, elegante e lineare. Un profumo particolare l’avvolgeva totalmente e scontrava con tutto quella linearità, totalità. Mi piaceva ma ora, seduto sul divano di pelle nera, non potevo essere altro che irrequieto.
Quando avevo suonato al campanello, sinceramente, non mi sarei aspettato subito una risposta.
Quei giorni erano passati in un completo tormento. Non riuscivo ad incontrarla, se così succedeva mi sfuggiva, scappava. Annie mi aveva detto che ci sarebbe stato bisogno di tempo ma io... io sentivo dovessi fare qualcosa. E non aveva senso, non capivo. Perché m’importava così tanto? Perché continuavo a sentire quel senso di colpa?
Io non capivo nemmeno cosa fosse successo.
«Ormai è quasi... ora di pranzo. Credo stia per tornare» mi disse Annalisa improvvisamente, sorridendomi caldissima.
Quella ragazza... così piccola, si era impegnata per me in maniera così grande.
Effettivamente, non converrebbe a nessuno aiutare il ragazzo che va dietro alla tua migliore amica eppure... era come se lei avesse capito qualcosa che io - forse nemmeno Isabella – non ero riuscito a capire.
Qualcosa che riguardava me e riguardava anche Isabella.
«Sì... grazie. Non avrei voluto disturbarti così tanto» risi un po’, nervoso.
Eravamo piombati così a casa sua e lei mi dava pure delle spiegazioni...
«Harry, tranquillo! Mi fa piacere vedervi» sorrise.
Disse quella frase e mi voltai automaticamente verso Louis che, per fortuna, avevo portato con me.
Quanto era stato solo? Quanto ancora lo era?
Non sapevo fare molto, per lui, perciò mi sforzavo di farlo, cercavo di distrarlo. Perché di solito sapevo ciò di cui aveva bisogno - ormai eravamo amici da tanto tempo -, l’unico problema era che stavolta non riuscivo neppure a capire cos’avesse.
Ma ora, avendolo portato con me, riuscivo a vedere come si fosse rilassato di più...
Annie, la conosceva da così tanto?
Non capivo...
Gli occhi di Louis si erano rivolti e lei e mi stupii quando vidi l’angolo delle sue labbra sollevarsi.
Per quanto fosse solo un accenno, per quanto fosse solo un sorriso sinceramente divertito... almeno lo era.
E sorrisi a mia volta ma lo contenni, non glielo feci notare.
Rigirare gli anelli fra le dita e rendermi conto di essere troppo ansioso e troppo impaziente.
M’interessava davvero così tanto, sapere come stava? Mi interessava davvero così a fondo sapere che era tutto a posto? Che non avevo rovinato tutto?
La risposta era sì ma quel sì non rispondeva ai miei perché.
Il rumore del campanello mi fece destare e mi sollevai così forte dal divano solo per rendermi conto di non sapere ora che fare.
Era lei? Doveva essere lei.
«Eccola» disse Annalisa e non c’erano dubbi.
Andò ad aprire la porta. Pensai, espirai.
Finché mi apparve di fronte agli occhi e sentii bloccarsi il cuore per un istante.
Ero stupido? Che stavo facendo?
«Ciao» la salutai.
Rivederla, rivedere i suoi capelli, il suo volto, non mi toccò quanto guardarla negli occhi.
E durò poco, scostò lo sguardo.
Perché?
Guardò Annalisa e non mi salutò... non prima di sospirare.
«Ciao», mi disse.
Pantaloni chiari, scarpe piccole, un maglione caldo. Quel vestito bianco sembrava lontano e sperai non lo fosse anche il resto. O che se ci fosse, non fosse qualcosa di brutto.
Che potessimo parlare.

 

Annalisa

 

«Wow... perciò dovete essere proprio brave...» disse meravigliato Harry, prendendo la pasta sulla lingua per assaggiarla e tastare fosse pronta prima di farfugliare di come fosse ancora dura.
Era particolarmente strano il modo in cui mangiava, ma non era l’unica cosa strana.
Forse quello di più particolare che stava accadendo erano Harry e Louis a pranzo a casa nostra. Oppure Isabella che non mi aveva mai odiata così tanto... ma fa nulla.
Che cos’era successo? Semplice.
Una volta rientrata, Isabella, avendo visto chi c’era in casa da noi aveva ben deciso di chiudersi in se stessa e non rivolgere la parola ad Harry se non qualche fredda risposta secca. Lui che era venuto a casa da noi solo per lei! E cos’altro potevo fare se non dargli più tempo?
Se mi aveste chiesto il perché ci tenessi a fargli far pace, non avrei saputo rispondervi con precisione. Forse era perché ero stanca di vederla immobile. Forse era solo che quell’uomo non l’avevo mai sopportato. Forse era solo che speravo in un qualsiasi modo che Isabella tornasse a voler scorrere forte e non restare immobile a guardar sfocarsi gli alberi.
Dargli più tempo, perciò, significò invitarli a pranzo. E per quanto mi avesse odiato, per questo, decisi di ignorarla deliberatamente.
Harry fu molto felice, del mio invito. Scoppiò in un sorriso e mi ringraziò pienamente prima di offrirsi di dare una mano a cucinare.
Isabella, oltremodo sconvolta, andò a poggiare le cose in camera sua e sparì senza che avessi anche solo la minima intenzione di fermarla.
Sarebbe tornata per mangiare... e comunque non avrebbe mai potuto permettersi di far qualcosa di scomodo o maleducato come puntare i piedi e non uscire più dalla sua stanza, per quanto forse lo avrebbe potuto desiderare. Non poteva mai scomporre il suo mondo.
Era per questo che ora mi ritrovavo con la cucina affollata.
Perché, anche se non me lo sarei aspettata, era bastato uno sguardo di Harry per far sì che Louis – anche se appariva... scocciato - acconsentisse a restare con noi.
Louis...
Non riuscivo a star calma. Il fatto che fosse dentro casa nostra, ora con precisione dentro la cucina, a curiosare e aiutarci in qualcosa, era troppo strano.
E lo giuro, che dopo averlo visto mi ero resa conto di quanto, quello accaduto alla festa, fosse reale e di quanto prima non ci credessi fino in fondo.
E forse ora era un po’ quella consapevolezza. Forse erano i suoi occhi chiusi e le sue dita a infilarsi nelle tasche per prendere il cellulare e controllarne lo schermo. Forse era semplicemente il modo in cui poi mi guardava che mi rendeva inquieta.
Forse era solo quella sensazione che avevo avuto allo stomaco fin dall’inizio che ora mi chiedevo quale significato avesse.
«No... può sembrare ma... siamo davvero nella norma! Abbiamo solo faticato tantissimo» risposi ad Harry, distogliendo lo sguardo dal viso di Louis, chino a controllare proprio in quel momento il cellulare.
«Sei troppo modesta! - continuò Harry, con quel tono incredulo che mi faceva ridere – A... studiare tutto questo per poi parlare l'inglese così bene e riuscire a venire a vivere qui... davvero, non credo sarei riuscito a fare lo stesso», rise.
«Non puoi dirlo! - gli risposi subito - Davvero, ci vuole fatica ma non è impossibile» continuai sinceramente, poi sentii Louis ridere piano.
«No, Carota, credi in ciò che dice Harry. Non ci sarebbe mai riuscito» e lo guardò con un ghigno così lieve che pensai non ci fosse.
Nel sentirlo rivolgersi a me con quel soprannome e... nel sentirlo semplicemente rivolgersi a me... ancora lo stomaco si strinse di quella sensazione e solo “Carota?” riuscii a dire mentre Harry, invece di prendersela, scoppiò a ridere.
«Sei uno stronzo, Louis» gli sorrise, girando la pasta così come gli avevo detto.
«Lo so, Harry» sorrise anche lui... e sì, mi sentii anch’io sorridere.
Fu proprio in quel momento, mentre finivo di tagliare le verdure e mi mancava solo da preparare il condimento per la pasta - cara amica Carbonara - che Isabella arrivò di fronte alla porta e mi fece sorridere. Dentro di me, sentivo una punta di soddisfazione ma era solo che ero felice fosse uscita dalla camera.
«Posso aiutarvi?» chiese.
Non notai gli occhi di Harry illuminarsi ma una parte di me era come se lo sapesse.
«Certo» le sorrisi e ci mancò quasi mi mandasse a quel paese - bonariamente, almeno spero - per la mia espressione.
«Serviva proprio che qualcuno andasse ad apparecchiare... potresti farlo tu?» che era quello che faceva sempre.
«Va bene...» sospirò, trascinandosi a prendere le cose, tovaglia per prima.
Si era cambiata ed indossava un maglione quasi identico al mio, il che faceva un po’ ridere...
«Posso darti una mano?» le chiese Harry e lei si voltò a guardarlo per un po’. Fu solo un attimo perché abbassasse lo sguardo e gli fece cenno di sì, facendolo sorridere così sereno che fui sollevata per lui.
Cominciarono a parlarsi dal momento in cui Harry chiese dove fossero le cose e lei, per forza, dovette rispondergli. Mi divertì la situazione anche perché Harry sembrava un ragazzino alla sua prima cotta...
«Che cosa devi cucinare?» mi chiese la voce di Louis e quasi mi venne un infarto quando mi resi conto di non essermi accorta si fosse avvicinato.
«Carbonara» cercai di sorridergli, mentre avevo già preparato tutto e mancava solo cucinarlo.
«Oh! Amo la Carbonara!» esclamò e mi venne da ridere, per il suo tono di voce che vidi sorridere anche lui.
Per quanto la tristezza sembrava essere inevitabilmente nei suoi occhi capii il modo in cui cercasse di impegnarsi in qualche modo. Per quello poi mi venne spontaneo chiedergli: «Ti va di aiutarmi?»
Mi guardò sorpreso prima di ammettere, con una risata più contenuta: «Harry di solito non osa farmi toccare i fornelli, ma potrei accettare per dimostrargli che non ha per niente ragione di farlo».
Sorrisi forte e subito gli diedi qualcosa da fare, chiedendogli se, allora, vivessero insieme e lui cominciò a raccontarmi di come fossero diventati molto amici da XFactor - sì, avevano partecipato ad XFactor -, di quando avessero deciso di andare ad abitare insieme una volta finito il programma e conseguentemente altre cose sulla loro band. Io mi ricordai di tutti gli altri membri - i visi, non i nomi - e continuai a guardarlo in viso mentre parlava.
E più che potei cercai di farlo parlare, più che potei cercai di distrarlo finché il pranzo fu pronto e ci sedemmo a tavola.
Mangiammo comodamente, senza fretta, e mi fece arrossire ricevere dei complimenti da parte di entrambi.
In realtà non avevo cucinato nulla di speciale e mi divertì il modo in cui sembrassero non assaggiare del cibo vero da secoli.
Era stato mio padre ad insegnarmi a cucinare. In Sardegna avevamo avuto una piccola pizzeria e oltre ad essere un bravo pizzaiolo era sempre stato un bravo cuoco.
Era da lui che avevo visto come cucinare tante cose e un po’ me la cavavo ma non meritavo di certo tutti quei complimenti...
E se avessero assaggiato la cucina di mio padre?
Tutta colpa del cibo spazzatura!
Una volta finito insistetti per preparare il caffè, dopo aver sparecchiato, così che mi aspettassero sul divano. Non si poteva finire di pranzare senza un signor caffé.
Stavo finendo di pre-lavare piatti e pentole da mettere nella lavastoviglie quando notai che Louis mi aveva raggiunta in cucina.
Lo guardai e sorrise lieve: «Meglio lasciarli soli, quei due» mi disse e risi piano.
«Sì, era anche il mio intento» gli dissi e infilai le ultime cose prima di chiuderla e metterla in funzione.
Mi asciugai le mani sullo strofinaccio appeso al forno e mi voltai verso di lui.
Se ne stava in piedi poggiato sullo stipite. Perché ancora quella sensazione?
«Vieni, siediti pure qui» cercai di sorridergli.
Ricambiò il sorriso e sembrava stesse prendendo in giro sé stesso quando si sedette nello sgabello dell’isola centrale, di fronte a me. Dondolava appena e mi ricordò un bambino, con quel sorrisetto e quegli occhi leggermente gonfi.
Avevo appena preso il barattolo del caffè e stavo cominciando a preparare la caffettiera che mi chiese: «Oggi il cielo non è troppo bianco?»
Non so se mi stupì di più il fatto che avesse nominato il bianco - bianco... - o se mi avesse lasciata sorpresa quella domanda. Il significato che potesse avere.
«L’ho pensato anche io... ma mi piace» risposi, dopo aver seguito il suo sguardo fuori dalla finestra accanto a me.
«Sembra stia per nevicare» sorrise ancora.
Pareva perso e mi chiesi forte come stesse.
Non sapevo nulla della sua ragazza, ancora meno di lui, eppure mi stavo chiedendo tanto cosa stesse sentendo in quel momento. Sentivo tirare forte lo stomaco e doveva essere quella mia stupida empatia, se così la si può definire. Io che guardavo gli occhi di ogni persona ma i suoi più che mai non riuscivo a decifrare cosa avessero dentro, non riuscivo a capire quale sensazione mi trasmettessero.
«Sarebbe strano se nevicasse a Novembre» constatai e puntai di nuovo su di lui la mia attenzione.
Anche ora, non riuscivo a decifrarlo bene - mi stava studiando? Soppesando? - ma più di tutto non capivo come dovessi decifrare.
«Non mi stupirebbe» rise piano e fui certa non stesse parlando del tempo.
Non gli chiesi perché.
Avevo finito di preparare la caffettiera e l’avevo messa sul fuoco. La controllai velocemente prima di chiedergli: «Non pensi sia calda, la neve?».
Quando incontrai i suoi occhi m’imbarazzai perché erano leggermente perplessi e scoppiò a ridere.
«Calda?!» mi chiese e m’insultai mentalmente.
Quant’ero stupida...
Risi per non apparirlo fin troppo... tutto come se fosse uno scherzo: «Non ho mai visto la neve e forse mi sbaglio ma... come può essere fredda con quella luce bianchissima? Prima che nevichi mi hanno raccontato... tuoni il cielo. Poi dopo, però, non è bellissimo? Fra tutto quel gelo puoi trovare calore».
Avevo balbettato così tanto, stando attenta a non perdermi nella mia testa così come ero solita fare quando intraprendevo discorsi riguardanti cosa vedevo che mi accorsi solo dopo della sua espressione sconvolta.
Oh Dio...
Balbettai ancora come una stupida, scoppiai a ridere e mi scusai prima di voltarmi a controllare il caffè.
Che problemi avevo in testa? Non dovevo dire certe cose, è ovvio che non posso sempre dar voce ai miei pensieri... non i miei... vaneggiamenti.
Probabilmente ero pure arrossita. Ancora più stupida...
«Allora... devo aspettare che nevichi?» mi chiese invece lui e mi voltai velocemente, sorpresa. Mi aveva risposto...?
I suoi occhi parevano creare una parete, per nascondere quanto fossero contratti e le pieghette, sulle tempie, s’infossavano debolmente con le guance che, tirate agli angoli, desideravano rendere tutto più leggero.
Perché proprio ora dovevo riuscire a scorgere qualcosa? Dopo quel tempo in cui non riuscivo a decifrarlo...
Faceva male vederlo così.
«Sì... ma stai tranquillo, il cielo è bianco. Nevicherà presto».

 

Harry

 

La guardavo silenziosamente.
Continuava a prendere il tessuto dei pantaloni e pizzicarlo fra le dita. Per guardare la tv aveva indossato degli occhiali e ancora di più non riuscivo a smettere di catturare ogni suo particolare.
Quando era uscita dalla stanza e ci aveva raggiunti mi aveva reso così felice che mi diedi dello stupido da solo.
Ero stato attento a non esagerare, nel studiarla, cercando di capire un modo per poter aprire un discorso con lei ma...
Non sapevo nemmeno io bene cosa chiederle. Ero sicuro del fatto di voler capire qualcosa, certo, ma solo di quello.
E l’avevo guardata. Tutto il tempo, tutto il tempo per cercare di trovare una domanda da porle, qualcosa da dirle per poi solo essermi ritrovato a ridere e a dirle qualche sciocchezza.
Rischiare di far cadere i bicchieri, aver fatto poi cadere le posate. Averle strappato una risata ed essermi sentito così stupidamente felice.
Aver deciso di parlarle per forza, essere arrivato fino a quel momento... e poi?
Ancora riuscivo solo a guardarla.
Che era bella - molto bella - era ovvio, ma c’era qualcos’altro che mi spingeva a non staccarle gli occhi di dosso.
Quella luce particolare che mi smuoveva il petto.
Voltai gli occhi verso il televisore. Quello... era un documentario sui facoceri?
Quasi sputai una risata.
Mi guardò alquanto perplessa e a me stava venendo troppo da ridere.
«Ti piace Discovery Channel?»non trattenni una risata.
Aprì la bocca senza emettere suono prima di guardare la TV, poi ancora me. Era sovrappensiero?
«C-Certo» rispose, incerta. Sorrisi più forte.
«Anche a me piace. Lo guardo sempre» le diedi retta. Sollevò un sopracciglio, poi l’angolo delle labbra.
«Sul serio?» mi chiese, gli occhi meno distanti.
«Certo! Guarda come... - » cominciai a dire, voltandomi verso la televisione per vedere quei due esemplari di facoceri accoppiarsi come...
Beh, facoceri.
La sentii scoppiare a ridere e scoppiai a ridere con lei.
«Si trattano bene» scherzò e risi più forte, lasciandomi andare.
«Che suini!» esclamai, ora serissimo in volto, e mi guardò sconvolta prima di scoppiare con “Cosa?!” ma non risposi. Sentivo gli occhi caldi e non ebbi più il coraggio di dirle nulla.
Ora che rideva così...
Non potevo farlo, però... dovevo per forza parlarle, sentivo che era necessario, anche se ora sembrava tranquilla io...
Io...
«Isabella» la chiamai, perciò, ma lei “No” mi bloccò e... non capii.
Sbattei perplesso le palpebre e fu come se l’ilarità di poco prima si fosse dissolta in un silenzio innaturale. Io volevo solo...
«Non dire nulla. Non preoccuparti. E’ tutto okay».
Sembrava si sforzasse di non incontrare il mio sguardo e io mi sforzai di star seduto dov’ero e non andare da lei per dirle comunque qualunque cosa.
Ma solo: «Sì, va bene» dissi, fermo.
E le diedi retta ma mi lasciò una strana sensazione alla bocca dello stomaco.

 

Louis

 

Mi buttai sul letto, come se non mi fossi alzato.
Dopo essere stati a casa loro eravamo andati a bere qualcosa insieme ed ero persino riuscito a ridere.
La testa la sentivo intorpidita e socchiusi gli occhi affondando la testa fra i cuscini.
Annalisa e Isabella erano venute con noi e non eravamo rientrati molto tardi. Durante tutta la sera non mi ero voluto preoccupare di nulla ma ora, solo, la prima cosa che mi venne in mente di fare fu controllare, prendendolo mollemente dalla tasca, il cellulare.
Nessuna chiamata, nessun messaggio.
Mi venne da lanciarlo contro il pavimento ma l’unica cosa che feci fu contrarre i tendini, stringerlo e buttarlo sul letto.
Incastrai le dita al viso, ai capelli, e tirai.
La voce mi stringeva la gola e cercai di aggrapparmi ad altri pensieri, ma non ci riuscii.
Non ce la facevo, non potevo riuscirci.
Il silenzio era stato fin troppo, io non stavo in silenzio.
Voltandomi verso la vetrata, quella notte sembrò bianca di neve.
Fui felice di non pensare quando decisi che sarei andato a Manchester.










Finalmente son riuscita a pubblicare anche questo capitolo! La scuola mi uccide ç.ç
Comunque! Questo capitolo è un po' intrecciato ma ancora la storia si evolve... Damon coi suoi segreti, Harry e la sua "prima cotta" (povero...!), Annalisa e le sue sensazioni allo stomaco, Isabella e le sue negazioni e Louis... con le sue decisioni. Ho fatto pure rima (perdono.)
Anyway, spero che vi piaccia e che recensiate! Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate...
A presto! :)

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Capitolo 7
*** Scrosciare di crema. ***


Capitolo settimo

Scrosciare di crema

 

«Tu pensi seriamente che qualcuno lascerebbe a me suo figlio? Si certo!» esclamò, scoppiando a ridere e riempiendo, come al solito, i corridoi fra le aule.
«Sì, forse hai ragione» non rise nemmeno l’altra, continuando a far scorrere gli occhi fra i fogli di quel piccolo plico che aveva accuratamente fatto stampare contenete concorsi e annunci di piccoli lavori. «Dogsitter non se ne parla - continuò a risponderle - se non ti lascerebbero guardare dei bambini, allora nemmeno degli animali... forse... non so... potresti chiedere a qualcuno se puoi dare una mano in negozio, a casa... come ho fatto io con mio padre!»

«Certo, tu hai tuo padre con la pizzeria... - sbuffò lei, portandosi dietro un ciuffo scuro di capelli - Io a chi potrei chiedere?» le domandò.
«Scusami, non avevi tua zia con la farmacia? Potresti chiederlo a lei» le propose l’altra.
«Mia zia? Ha fin troppi problemi, non credo mi potrebbe essere d’aiuto...» sospirò, scoraggiandosi.
I passi camminavano all’unisono, uniti più dall’amore che dagli anni. E si tenevano sottobraccio, perché erano sempre state qualcosa che andava oltre, di quelle che profumano e non possono essere sporcate se scritte.
E «Ragazze!» le distrasse una voce, prima che un coro di “Nick!” si levasse nell’aria gremita e perché gli corressero incontro, abbracciandolo.
I soliti baci, i soliti saluti. Vociare di corridoio, qualcuno derideva e altri ridevano. Varie conoscenze, quelle persone con la quale forse non hai mai scambiato neanche una parola ma che conosci, che ti conoscono e che saluti col sorriso.
Nick era occhi grandi e gentili e «Perciò resta a te da trovare un lavoro» concluse, dopo un discorso in cui entrambe gli avevano raccontato che cosa stavano cercando.
«Sì... non ho proprio idea di che cosa fare!» rise lei, con quel suo sorriso grande che faceva un po’ innamorare tutti e che la rendeva forse più piccola e incosciente.
Nick pensò, soppesò. Poi l’idea lo illuminò e sorrise verso di lei.
«So io come aiutarti».

La vita scorre. Una sequenza frenetica di persone, viaggi, passioni, apatie che coagulano e addensano.
Forti dai crudi, risanati dai morbidi, scorgiamo e cadiamo, incrociamo. Persone e luoghi, fatiche, per arrivare. Pene a costruire, incastrare.
Poi, è un attimo.

La luce scoppia, irradia.
E tutto finisce.

O si capovolge, si rialza.

E patisce.

Annalisa

 

L’aria fredda di Novembre mi stava entrando nelle ossa.
Quanto freddo faceva? E fosse quello l’unico problema! Pioggia, freddo, pioggia, freddo. Vento e pioggia.
Dov’era la mia isola?
Il mio mare, dov’era?
In Sardegna, il freddo non era poco ma il mare si sa che si può sempre scappare a vederlo, cautamente e silenziosamente. Lui che è la poesia più travagliata che esista. La musica più impetuosa di calma e gloria.
Giravo con la mia piccola agenda.
Osavo romperle, ora. Forse perché era l’unico mio disordine che avevo bisogno di distruggerle.
Mucchi di pagine bianche fatte a pezzi e incastrate fra le altre pagine, colori interi di nero e immagini, poi frasi, forse poesie. L’avevo racchiusa in lacci e graffette che quasi mi ricordava i book di Isabella ed i suoi occhi quando immersi nel loro indecifrabile andare impressi dentro.
Giravo, nella mia giornata di pausa, e ripensavo ai giorni in cui era impossibile, per me ed Isabella senza l'una o l'altra. Strano, a dirsi, eppure era così.
Se c’era un qualcosa da fare, dei momenti in cui pensare, lo si faceva insieme. Non che ognuna non avesse una propria linea di pensieri ma la si condivideva, come un qualcosa di spontaneo e involontario.
Poi le cose semplicemente erano cambiate ed era difficile poter tornare indietro. Ci eravamo abituate così tanto a star da sole che qualche momento, anche se ora la nostra amicizia non aveva alcun problema, lo dedicavamo a noi stesse.
Ed un esempio pratico era la nostra scuola. Quanto sarebbe stato ovvio tornar insieme, utilizzare gli stessi mezzi di trasporto, la stessa strada?
Frequentavamo lo stesso posto eppure andavamo per strade diverse. Lei con la sua metro, io nei miei autobus, a perderci nella strada di ritorno, allungarla, dilatarla per poi ritrovarci a casa ed essere sempre le stesse. Non che non ci rivolgessimo la parola fuori o quant’altro, semplicemente c’erano dei momenti silenziosi in cui nemmeno i nostri silenzi parlavano più.
Quando ci pensavo, non riuscivo più a trovare qualcosa che mi tirasse fuori della mia bolla di pensieri.
Sapevo bene cosa aveva provocato tutto questo e semplicemente, ora, andava così. Quando stavamo insieme tutto pareva tornare al principio ma bastava un attimo e ci ricordavamo di essere diverse. Perché nell’affrontare quel lasso di tempo da sole si erano persi quei momenti importanti della vita che non possono essere recuperati. Ormai erano andati via.
Cercai di non impazzire dal freddo e mi lamentai, sbrigandomi verso la fermata.
Quando salii sul bus chiusi l’ombrello – totalmente inutile – e mi lasciai in nuvole calde di fiato.
Presi il primo posto disponibile, vicino al finestrino.
Conoscevo gli orari meno frequentati, i luoghi con meno persone ad aspettarlo e la maggior parte delle volte, un posto, riuscivo a prenderlo.
Aprii ancora l’agenda e, lo sguardo fuori dal finestrino, rilessi quelle poche righe che ero riuscita a scrivere e puntai gli occhi al cielo.
Louis... alla fine, non ha nevicato.
Quel freddo continuava ad esserci ma la neve pareva sia vicina che lontana. Con quella pioggia non sarebbe potuta arrivare di certo, non nell’immediato, così mi chiesi se anche il suo male si fosse sciolto, placato, e non fosse tuonato.
Poggiai lo sguardo ancora fra le righe bianche create fra le parole e sospirai.
Parole sulla neve, parole sul cielo. Parole che erano quelle che ci eravamo detti e mi chiesi perché erano state proprio quelle a fuoriuscire dai pensieri dritte sul foglio senza che le potessi controllare.
Tutto questo mi scaldava e contemporaneamente mi rendeva inquieta.
Era complesso definire cosa realmente pensassi e cosa sentissi e quel foglio sembrava volesse parlare per me.
Sospirai ancora, sfogliai svogliatamente l’agenda, senza uno scopo, la parte non scritta, finché non la riallacciai e la chiusi.
Spazio solo per la musica e il bianco, mi accorsi che era da un po’ che non guardavo così il cielo. Avevo letto da qualche parte che il primo segnale della tua tristezza era non guardarlo ma guardare le strade, durante il tragitto sul bus.
Era vero?
Arrivai a alla fermata del secondo bus per prendere poco dopo l’altro.
Fu abbastanza veloce l'ultimo tratto a piedi e in pochi minuti nella via di casa. Quando fui vicina rischiai d’inciampare e ruzzolare a terra per tutta quell’acqua e ci arrivai perciò imprecando come una pazza.
Poi, all’inizio della strada, vidi un Range Rover dirigersi - quasi m’inzuppava - verso il garage.
Era Harry?
Un attimo e decisi di aspettarlo, giusto per poterlo salutare.
Ieri ci eravamo divertiti molto, avrei potuto chiedergli come stava e magari fare la strada insieme.
Poi però scese dalla macchina ed io, stretta nel mio montgomery, mi bloccai.
Aveva una strana espressione, pareva preoccupato, e, stringendo più forte l’ombrello, decisi di non aspettarlo ma di andargli incontro.
Quando mi vide si aprì in un piccolo sorriso.
«Ciao» mi salutò, pigiando per chiudere l’auto con l’antifurto.
«Ciao a te» gli sorrisi, cercando di essere il più convinta possibile, ma ci pensò lui a smontare il mio tentativo con quel un sospiro.
Non gli chiesi subito che stesse succedendo, anche se avrei voluto farlo.
Prima gli chiesi di fare la strada insieme, poi come stava.
Lui, arrivati dentro, si scompigliò i capelli, schizzando fini gocce d’acqua, e restò perso fra i suoi pensieri mentre mi disse di star bene, un po' incerto
Forse era successo qualcosa con Isabella?
Nel caso non erano fatti miei però... ero preoccupata per lei. E per lui. Al solito...
M'imposi di far finta di nulla – nel caso si fosse trattato di Isabella e io avessi potuto dargli una mano, me ne avrebbe parlato lui come l’ultima volta – e, sospirando piano, gli chiesi : «Come sta Louis?», distrattamente.
Le sopracciglia si aggrottarono e potei rivedere la stessa espressione di poco prima. Non capii.
«Non saprei dirtelo perché... non so dove sia finito» sospirò.
Spalancai un poco più lo sguardo e... «Cosa significa?», gli chiesi.
Mi guardò e vidi che sorrideva ma era solo per... non lo so perché.
«Stamattina, quando mi son svegliato, in casa non c’era. Ho provato a chiamarlo ma non mi ha risposto perciò... non saprei cosa risponderti».
Qualcosa creò un vuoto all’altezza dello stomaco e mi vergognai di me stessa.
Perché?

 

Louis

 

La strada sfrecciava e non vedevo.
L’unica cosa premuta a fuoco erano i suoi occhi. I suoi occhi, quei suoi occhi. M’infuriavo e acceleravo.

Eleanor guardami. Non scostare i tuoi occhi, guardami.
«Allora cosa vuoi fare?» mi chiese e la voce le tremava un po’.
Ti avevo detto ciò che pensavo. Ti avevo detto che anche stavolta, non mi avevi chiamato. Ti avevo chiesto se ti importava qualcosa di ciò che ti avevo detto alla festa. Ti avevo chiesto perché non mi rispondevi.
Mi avevi tolto ogni energia, tanto che stavolta dal principio non ero riuscito a urlare.
Tu in silenzio, solo in silenzio.

Acceleravo, acceleravo. Quelle cazzo di immagini, non smettevano.

Tu solo in silenzio e non vedevi.
Perché non vedevi? Ti stavo chiedendo di fare qualcosa. Ti stavo chiedendo di non dirmi, in quel modo, che non mi amavi davvero. Ti stavo chiedendo di non distruggere tutto quel tempo passato insieme. Ti stavo chiedendo di farmi ricredere, di dirmelo, di provarlo, forte, quanto ciò che dicessi non fosse vero.

Perché, perché dovevo continuare a pensarci? Perché dovevo continuare a bruciare in quel gelo? Perché doveva essere maledettamente freddo?

Ogni mio gesto, ogni mia singola parola ti chiedeva di dirmelo, che mi amavi. Di farlo, solo di farlo.
Ma tu in silenzio, solo in silenzio.
E allora capii. Capii che non c’era nulla fa fare. Capii che non c’era nulla da dirmi. Capii che non c’era nulla da rimettere in sesto. Capii che non c’era nulla di cui dovevo ricredermi, da provare, nulla che non fosse vero. Capii che non potevi dirmi d’amarmi perché...
«Lasciamoci» strozzai la voce.
Dopo tutto quel tumulto, il cielo a ingrigirsi, le nocche a dolere e tu «Va bene», sussurrasti.
Vidi i tuoi occhi piangere e solo in quel momento mi guardasti.
Era tutto lì il nostro amore? Era quello, ciò che avevamo passato insieme? Era quello?
Era nulla.

Spaccai la voce con altri respiri, le tempie a pulsarmi.
Che non vedevo più, non capivo più, non sentivo più.
Correre per la strada di ritorno - ritorno a casa? Ritorno dove? - e sentir bruciare freddo. Pioveva, pioveva e la neve era così distante. Così distante che tuonava, tuonava e non avrebbe nevicato. Non ci sarebbe stata neve, nessuna calda neve.
Annalisa, nessuna neve.

 

Harry

 

Avevo bisogno di rilassarmi.
Louis era sparito - anche gli altri ragazzi l’avevano chiamato ma lui non aveva risposto, così supponemmo si trovasse con Eleanor per non mettere troppe persone in allarme -, niente da fare intorno e nemmeno a casa. Perciò che fare se non uscire da solo?
La sera era già densa e il cielo, già buio, continuava ad essere tormentato da nuvole che minacciavano pioggia. L’umido s’incollava alla pelle ma ormai ci ero abituato. Ero uscito a piedi, avevo preso la metro, incontrato qualche fan e, al solito, non mi preoccupavo di essere fotografato, seguito, visto.
Ma solo quando fui quasi certo di non essere notato m’infilai in un locale, in una di quelle viuzze vicino al fiume e al London Eye. Un via vai di persone, vivace, mi convinse a sedermi su un tavolino, vicino alla finestra, e aspettare per prendere qualcosa da bere.
Le pareti riportavano le piastrelle chiare che componevano la facciata all’esterno e il color panna era un po’ ovunque. I tavoli, gli sgabelli, le panche, tutto era in legno non troppo scuro e la quantità di cartelli con dei menù per colazioni e pranzi, compresa la clientela, mi convinsero che quello doveva essere un posto frequentato principalmente da studenti.
Tracciai linee sul vetro appannato, scaldandomi d’odore morbido.
Seguivo le gocce di pioggia che intanto aveva ripreso a scrosciare quando l’arrivo della cameriera a chiedermi se volessi ordinare mi fece sobbalzare. Spalmando una mano sopra, subito cercai di cancellare i ghirigori che avevo creato non risolvendo niente. Cazzo...
Mi voltai e fui pronto a far finta di nulla e a trasudare nonchalance ma... mi accorsi piacevolmente che la cameriera ad avermi colto di sorpresa altri non era che Isabella.
Tutto era strano oltre che maledettamente complicato.
Quei giorni, stavano passando così diversamente che non riuscivo più a star loro dietro. Come se la vita scorresse frenetica ed io fossi lì, sotto, a prenderne la piena e non capirci più nulla.
Sorrisi fortissimo e vidi lei aprire un po’ più gli occhi tanto che non feci in tempo a pronunciare il suo nome che lei: «Harry?» fece, fra il confuso e il sorpreso e scoppiai a ridere.
«Ciao» la salutai, sentendomi riempire gli occhi.
Le sue ciglia scure e quegli occhi caldi mi fecero sospirare piano. Pianissimo.
«Che cosa ci fai qui?» mi chiese e risi di nuovo.
«Non lo so. Ero qua in giro e sono entrato nel primo locale che mi è capitato. E ho fatto bene» le risposi, sincero. Ero felice di vederla, anche se l’ultima volta in cui ci eravamo visti era stato il giorno prima e non era stata una delle volte migliori.
Quasi mi ero dimenticato di tutto quello che era successo - di ciò che ancora non capivo – e vederla mi aveva reso felice... senza pensarci.
«Sì... - sospirò lei, prima di mettere su un blocchetto d’appunti e una penna - Allora, cosa posso portarti?» mi domandò.
Mi inumidii le labbra e cercai di restare lucido - ora che l’avevo vista, avevo voglia di parlare con lei - quando, la prima cosa che mi venne in mente, «Un caffè» ordinai.
Non appuntò e vidi le sue palpebre agitarsi, come il giorno prima, prima che si congedasse e tornasse alle sue faccende. Potrei giurare che le sue dita, in quel momento, avrebbero voluto pizzicarsi i jeans.
Come il giorno prima...
Sorrisi, guardandola, e aspettai il mio caffè pazientemente.
La musica, ora, pareva più chiara alle orecchie, col vociare degli altri.
Strano. Strano, come tutto pareva avesse seguito la luce che si portava addosso. Come ogni suo movimento mi aveva fatto sorridere. Lei, che cercava di ignorarmi ed io mi ritrovavo a ridere.
Che cosa potevo fare? La bocca fremeva dalla voglia di chiederle di fermarsi al tavolo, sorridermi in quel modo meraviglioso - i suoi occhi, davvero, sapevano scaldarti come il liquore più forte - e parlare.
Semplicemente parlare con lei.
Che quando la vedevo sentivo che non avevo più voglia di stare da solo.
«Ecco il caffè» sospirò, portandolo e posando la tazzina e lo zucchero attentamente più che come un gesto abituale.
«Grazie» le dissi, in italiano.
Mi lanciò uno sguardo e notai gli angoli delle sue labbra sollevarsi ma trattenersi prima che scuotesse la testa.
«Prego» mi disse e... feci finta di capire.
«A che ora stacchi?» le chiesi.
Lei stava già per andar via e la fermai in tempo.
«Tardi - mi rispose, vaga - Perché?»
Perché... perché...
«Ti aspetto. Torniamo insieme.» le dissi, senza spiegare o aggiungere altro.
Corrugò le sopracciglia e aprì la bocca cercando di dire qualcosa. Poi sembrò incupirsi e semplicemente annuì prima di dirmi «Torno a lavoro» e non cercare nemmeno di distogliermi dal farlo, così come avrebbe solitamente cercato di fare.
Tenni la tazza di caffè tra le mani e aspettai.
Pazientemente, aspettai.

 

Annalisa

 

Aspettavo.
Incollata a quel vetro, aspettavo.
Le finestre della casa in cui abitavamo erano così fredde e rumorose, con quel picchiare di pioggia. Fredde come i mobili, fredde come il divano. Fredde come la poltrona che avevo avvicinato alla finestra per poter stare più comoda. Fredde come il cellulare che tenevo in mano.
E la pioggia scivolava, scivolava e restavo da sola e mi dicevo che era il ritorno di Isabella che stavo aspettando, ma non era così.
Aspettavo, aspettavo e non era nemmeno Damon che aspettavo.
Tutto, tutto il giorno, un chiodo fisso a tormentarmi. E quell’acqua a piovere, piovere, piovere fitta e nelle ossa sentivo solo il freddo di quando ero fuori casa, nella pelle solo i brividi del vento.
E aspettavo, aspettavo stretta nel mio maglione.
Mi dicevo che avrei potuto accendere la tv e non lo facevo. Mi dicevo che avrei potuto accendere il computer e non lo facevo. Mi dicevo che avrei potuto leggere e non lo facevo. Perché tutto il giorno era stato un’occupazione finché sapevo che, arrivata la notte, sarebbe finita così: sul letto sarebbe stata troppo lontana la finestra. Dalla mia camera, non avrei visto la strada. Dalla mia camera, non avrei potuto sapere.
Mi stringevo, mi misi sulle spalle una coperta. Sospirai.
Avevo gli occhi spalancati a dolermi e sapevo non sarei riuscita a dormire.
Ed Isabella, prima di uscire di casa per andare a lavoro, me l’aveva chiesto, se volessi andare con lei. Avrei mangiato qualcosa al locale e mi sarei distratta. Invece no, no.
Come una stupida le avevo detto che stavo bene, che avrei studiato, mi sarei riposata e ora?
Ora riuscivo solo ad odiarmi per essere lì dov’ero.
La notte era inoltrata, la cena lontana di qualche ora.
Tante, diceva il telefono.
Mi chiesi per quanto sarei stata lì. Mi chiesi se avevo davvero intenzione di stare lì.
E mi guardavo le mani e guardavo il cielo. Quella pioggia non si placava, solo per quello non potevo spostarmi.
Diedi un’occhiata al cellulare quando il rumore di un’altra macchina colpì la pioggia e mi distrasse. Guizzò veloce, il nero, prima che il petto mi esplodesse dall’ansia e lo vedessi scendere dalla macchina.
Qualcosa mi disse di andare da lui. Quella voce che mi diceva che avrei potuto fare qualcosa, quella voce che mi diceva che avrei potuto aiutarlo.
Sentii gli occhi pungermi, da quanto ero stupida, che sospirai più forte e seguii la sua immagine finché non entrò nel palazzo, dal portone che dava solo a casa loro.
Chi ero, io? Che cosa volevo? Che cosa avrei potuto fare?
Voce, stai zitta. Preoccupazione, stai zitta. Io non c’entro niente.

Come un tuono, era passato.
Il vento continuava a picchiare, la pioggia a scendere.
Stretta nella mia coperta, infilarmi nel letto freddo, fu ancora peggio.

 

Isabella

 

Il locale stava ormai per chiudere e, per l’ennesima volta, mi ritrovai, brusca, a sospirare.
Era stato lì. Tutto il tempo, lì. A farsi portare un piatto caldo da mangiare, a stuzzicarmi quando passavo vicino al suo tavolo. A guardarmi. E a stare lì. Da solo, stare lì.
Solo ad aspettare mentre la decisione che avevo preso già vacillava.
A casa, mi ero convinta a trovare un punto. Un punto in cui io, dalle sue attenzioni, non mi sarei lasciata toccare e in cui lui sarebbe stato solo un... vicino? Un conoscente? Amico?
Sarebbe stato Harry. Semplicemente Harry. Harry a spuntare ovunque, Harry a farmi sentire in colpa quando lo mandavo via, Harry a ridere forte, Harry a darmi il tormento...
Harry. Semplicemente Harry.
Per questo avevo deciso di lasciar stare. Lui non c’entrava niente, con la mia situazione. Lui non sapeva nulla e col nulla mi sarei potuta arrabbiare, prendendomela con lui.
E cercavo, davvero, di continuare a vedere tutto con quell’ottica. Di non lasciarmi toccare, di non preoccuparmi di lui. E invece... e invece, anche ora, mi dispiaceva fosse lì ad aspettarmi. Mi dispiaceva vedere i suoi occhi guardarmi così. Mi dispiaceva il fatto che lui mi stesse aspettando.
Mi dispiaceva.
Non riuscivo a lasciarlo fare, Harry aveva qualcosa di diverso. Non potevo semplicemente ignorarlo o essergli amica. Semplicemente non potevo ignorare quando mi sorrideva o quando rideva per me.
Innocuo? Nulla di più sbagliato...
Ora, lo guardavo e mi sentivo agitare. Perché... perché dovevo fare qualcosa.
Questa storia doveva finire... ciò che stava succedendo, mi spaventava. Ciò che Harry faceva, mi intimoriva. E volevo che finisse, ciò che sentivo non mi piaceva e non volevo conoscerlo.
Fu così che l’orario di chiusura arrivò - Sam mi chiese se volessi un passaggio ma rifiutai - e, infilandomi il cappotto, mi avvicinai da lui. Quando mi vide s’illuminò e, ancora, mi fece male lo stomaco...
«Hai finito?» mi chiese ed io annuii.
S’infilo la grande giacca a quadri e salutai le ultime persone rimaste prima di uscire fuori dal locale.
Sollevai gli occhi al cielo e notai che aveva smesso di piovere. Non feci in tempo a voltarmi per vedere se Harry mi avesse seguita che lo ebbi al mio fianco, forse troppo vicino.
«Hai cenato?» mi chiese, sempre quel sorriso e le mani dentro le tasche.
Durante una pausa, ero riuscita a mangiare qualcosa e nonostante avessi ancora fame gli dissi: «Sì... sì, ho mangiato» fissandomi insistentemente i piedi e non dovevo essere sembrata molto convincente perché mi disse: «Ti offro qualcosa», senza ascoltarmi.
Mi faceva male il petto. Cercai di dire qualcosa per impormi ma lui mi sorrise e io... mi ero appena detta che era tutto a posto...
Gli avevo detto che era tutto a posto.
«Non ho la macchina, oggi, ma possiamo andarci in taxi. A piedi. In metro» rise, aggiungendo che non sapeva se ci fosse qualcosa aperto e che forse avrebbe dovuto offrirmi qualcosa prima.
Lo guardavo e sentivo il petto ancora più stretto.
Io... non so bene perché.
Il cielo era scuro e minacciava nuova pioggia.
Forse fu quella stessa fretta, quella stessa incombenza – quella della nuova pioggia – a farmi srotolare fuori dalla bocca: «Io amo qualcuno».
Ci fu un silenzio così grande che Harry, la mano protesa, forse a voler afferrare la mia pochi attimi prima, restò immobile a guardarmi.
Non sapevo cosa pensare. Le labbra mi tremavano, così come le dita e sentivo le palpebre sbattere, veloci, senza motivo: «Io... amo già qualcuno, Harry. Amo... profondamente questa persona. Io... non posso venire con te».
Il silenzio fu ancora più grande e lo guardai come mai l’avevo guardato. A scappare sempre dai suoi occhi, ora vi cercavo una risposta ma trovai solo una parete scura che mi ricordò il cielo di qualche notte prima.
Lo vidi chinare il viso e non so quanto tempo passò - forse qualche attimo ma a me parvero secoli - prima di poter vedere dalle sue labbra spuntare un sorriso.
«Perché me lo stai dicendo?» mi chiese.
Io... perché glielo stavo dicendo?
Non... sapevo perché.
E non potevo stare zitta.
Sollevò il viso e forse non si aspettava davvero una risposta perché: «Io non sono innamorato di te» mi disse.
Sentii sprofondare qualcosa dentro di me.
Cosa?
«Io non ho mai detto di amarti - sorrise, calmo, che nuovamente non riuscii a porre freno alle mie palpebre - Ho solo voglia di stare con te, uscire un po' insieme. E, se devo essere sincero, proprio oggi è stata una fortuna capitare nel locale dove lavori perché non mi andava di restare solo».
Faceva spallucce, continuava a sorridere e... sentii gli occhi pungermi.
«Ora... so che non hai mangiato molto, indaffarata com’eri. Perciò, andiamo a mangiare qualcosa?».
Le sue fossette erano più profonde e quella parete era sparita lasciando una chiarezza che... mi lasciò senza parole.
Quando annuii lasciai che mi afferrasse il polso per correre via, sotto un riparo.
La pioggia aveva ricominciato a battere e un taxi non ci avrebbe di certo fatto aspettare per poco tempo.





 



Bene.
È passato probabilmente un secolo da quando ho postato il sesto capitolo ma questo periodo estivo è stato così pieno da togliere il fiato...
Ora, ben felice di Harry che per una buona volta ha smontato Isabella – e ci voleva – ringrazio chi è arrivato sino a questo mio spazio in cui blatero inutilmente (?) e spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Se vi va lasciate una recensione.
Un bacio a tutti :)

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