Crossroads of life

di herflowers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** prologo ***


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03: 00 a.m.

Avvolta dal buio, seduta su un seggiolino morbido dei primi posti di un autobus, tentavo di rimanere sveglia. L’autista frenava spesso, la mia testa stanca cadeva in avanti ogni volta e ognuna di esse brontolavo qualcosa di incomprensibile persino per me stessa. Avevo un bisogno disperato del mio amato letto sovrastato da piumone e coperta aggiuntiva. Nonostante amassi particolarmente le giornate invernali di inizio Novembre, dove il vento cominciava a farsi veramente freddo e pungente, soffrivo molto il freddo.
Con il cellulare tra le mani, rigirandolo più volte giocherellandoci, pensai se fosse opportuno mandare un messaggio a Lewis per incontrarci in caffetteria. Avevo bisogno di smaltire la mezza sbronza della notte passata tra drink, salatini e persone sudate ed eccitate che si muovevano a tempo di musica. Verso metà della festa avevo deciso saggiamente, cosa del tutto anomala, di andarmene lasciando due o tre della compagnia lì a divertirsi fino all’alba. A quel punto sbloccai lo schermo del cellulare e cominciai a comporre un messaggio:
A: Lewis
Adesso. Caffetteria?
X Gin.

Schiacciai il piccolo tasto a lato del cellulare, bloccandolo, e tornai ad ascoltare l’immenso e piacevole silenzio di quel momento. Solamente il rumore fievole del motore riecheggiava nell’abitacolo, ma non disturbava affatto. Mi aiutava a rimanere sveglia evitando che le palpebre superiori incontrassero le loro gemelle facendo combaciare le lunghe ciglia piene di mascara. Comincia a rivedere alcuni spezzoni della festa nella mia mente. Alcuni dicevano che quando si sogna ad occhi aperti è perché il cervello deve recuperare il sonno perduto e crea una sorta di sogno reale ad occhi aperti.
Finalmente era ora di scendere. Mi alzai dal mio posto con le gambe instabili e la testa pesante cercando a tastoni il tasto rosso per prenotare la mia fermata.
<< Dove cazzo..>> Sussurrai tra me e me.
<< Fanculo >> Sentenziai avviandomi verso la porta e chiedendo all’autista di fermarsi. Frenò di colpo e fortunatamente riuscii a stare in piedi senza fare figuracce come mio solito. Scesi dall’autobus e m’incamminai verso la caffetteria in centro dove avrei aspettato Lewis. Dopo circa un chilometro arrivai davanti all’edificio, in mattoni rossi separati l’uno dall’altro da un centimetro di cemento, ed entrando il suono di una campanella accompagnò l’aprirsi della porta. Quella caffetteria era aperta tutta notte nonostante non ci fosse quasi nessuno dopo la mezzanotte. Camminai lentamente verso il nostro tavolo abitudinario e mi sedetti vicino alla finestra. Solitamente piaceva a Lewis sedersi in quel posto per il semplice fatto che poteva guardare i fianchi e le lunghe gambe delle ragazze che passavano sculettando sul marciapiede. Io, invece, amavo quel posto perché mostrava i paesini lontani dal centro di Dublino. Con il buio non si vedeva molto, ovviamente, ma ne approfittavo comunque quando era possibile. La suoneria mi avvertì dell’arrivo di un messaggio.

Da: Lewis
Sarò lì tra due minuti, sono per strada.
X

 

 
<< Raccontami, cosa avete fatto?>> Mi domandò sbadigliando e tenendo tra le mani una tazza grande di ceramica contenente del caffè.
<< Le solite cose.>> Risposi semplicemente facendo spallucce e guardando i cerchi al centro della mia tazza di tè caldo.
<< Di che genere? Sai, ogni volta fate cose diverse dal solito, Gin..>> Precisò.
<< Abbiamo rotto il ghiaccio con una bevuta e abbiamo ballato, tutto qua. Le solite cose.>>
<< Strano che questa volta non vi siate fatti!>> Disse veramente sorpreso.
<< Quello è successo dopo >> Risposi alzando lo sguardo di colpo e incontrando i suoi occhi. Sul suo viso potevo notare un pizzico di delusione nei miei confronti e un po’ di ilarità.
<< Avanti! Scherzo!>> Risposi ridendo e appoggiandomi allo schienale della sedia di ferro con una piccola imbottitura al centro di esso. Portai la tazza alle labbra e sorseggiai il mio tè.
<< Lo sai che non fumo quella merda, non amo nemmeno particolarmente la nicotina e il tabacco, dovresti saperlo >> Aggiunsi appoggiando la tazza con delicatezza sopra il piccolo centrino davanti a me. Non ero totalmente d’accordo con quelle persone, come alcuni miei amici di New York, che fumavano per divertimento e per far vedere la loro “superiorità”. Vedere arrivare il proprio figlio a casa fatto, ubriaco e drogato non era il massimo della contentezza dal mio punto di vista. Io, quando abitavo con i miei prima di andarmene di casa, mi concedevo alcune serate insieme a loro, ma non toccavo mai quella roba. Bevevo solamente qualche drink fino quando non sentivo che era il momento di smettere. Non arrivava mai il momento in cui dovevano portarmi davanti alla porta di casa e io mi piegavo in due in mezzo alla siepe per riporre tutto l’alcool nel mio stomaco.
<< Lo so benissimo, ma non è che sei completamente “vergine ” riguardo queste cose >>
<< Lo so >> Risposi semplicemente, girai il viso verso la finestra e cominciai a guardare la luce fievole del lampione dall’altra parte della strada. Passò un cane che si fermò proprio sotto la luce del lampione e alzando la testa incontrò il mio sguardo attraverso la finestra. Mi sorpresi di poter vedere il suo sguardo da così tanta distanza, ma i suoi occhi indifesi e sinceri erano fissi nei miei fin quando non cominciò ad allontanarsi scodinzolando. A quel punto mi voltai verso Lewis e guardai il suo profilo. Era un tipo un po’vanitoso e gli piaceva quando una persona, specialmente una ragazza, lo ammirava. Io mi soffermavo spesso sui suoi lineamenti e ogni volta mi incantavo. La mano sotto il mento che sorreggeva la testa, le lunghe ciglia che sbattevano e si incontravano, pronte a proteggere i suoi occhi verdi. E le labbra carnose, di un rosso intenso erano pronunciate verso l’alto.  Notai quel filo di barba su tutta la lunghezza e sotto la mascella, arrivando a metà della lunghezza del collo. Gli donava particolarmente e lo faceva sembrare più maturo, ma le apparenze ingannano, no?
<< Ti dona quel filo di barba che hai >> Dissi con lo sguardo fisso sul suo profilo.
<< Ah, dici?>>
<< Certo, dammi retta.>> Risposi incrociando le braccia al petto e appoggiandole sulla superficie di legno a pochi millimetri da me. Mi rivolse proprio quello sguardo, quello che usava per dire “Visto? Non sono poi così male come dici..”. Odiavo quello sguardo perché se lo sarebbe ricordato a vita.
<< Non montarti la testa, femminuccia >> Dissi sorridendo, ma cercando di essere più acida del solito.
<< E tu non ridere sotto i baffi, nano >> Ribatté. Cominciai a ridere, la mia risata si diffuse in gran parte della caffetteria, forse mi avrebbe sentito anche il personale in cucina nonostante la porta chiusa.
<< Abbassa la voce!>> Mi ammonì.
<< Nano?>> Lo imitai ridendo a tratti cercando di calmarmi.
<< Esattamente >> Rispose sorridendo. Il suo sorriso, la cosa migliore che una persone potrebbe vedere durante tutto l’arco della giornata, meglio del tramonto e dell’alba. Quando mostrava quella fila di denti pari e bianchi come la neve candida ogni donna sarebbe caduta ai suoi piedi, ogni donna eccetto me. Non sarei mai riuscita ad innamorarmi del mio migliore amico. La vedevo strana come cosa. La persona che conosce tutto di me, proprio tutto e forse anche più di quanto io possa conoscere me stessa, che mi bacia e mi coccola. No, proprio no. Era come se avessi baciato mio fratello, orribile!
<< Senti nano..>> Cominciai  << ti va di venire da me per una maratona di film?>>
<< Mi farebbe piacere, ma..>> Disse abbassando lo sguardo e giocherellando con le dita, le parole gli morirono in gola. Alzai un braccio e aprii la mano scuotendola in segno di resa prima che quei quattro nervi rimasti addormentati si svegliassero e saltassero come molle dentro me.
<< Tranquillo, ma renditi conto che non abbiamo più un momento per stare insieme da quando frequenti quella. Ormai al centro del tuo cervellino in prognosi riservata c’è solo lei. Migliori amici del cazzo, proprio..>> Sentenziai chiudendo il discorso. Mi alzai di colpo prendendo tra le mani la tazza di tè sul tavolo e tracannandolo fino alla fine. Mi asciugai una goccia di tè appoggiando a lato della bocca il polsino della felpa che indossavo. Strappai decisa la giacca dallo schienale della sedia sulla quale ero seduta e infilandomela lasciai qualche Euro sul tavolo.
<< Ciao Lewis >> Dissi andandomene. Seriamente, non sopportavo quando mi rimpiazzava con altre ragazze. Odiavo come potesse dimenticarsi di me, la sua migliore amica da due anni, per una ragazzetta che lo avrebbe lasciato di lì a pochi mesi.
<< Ginger..>> Mi richiamò, ma lo ignorai.
Aprii la porta e quell’insulsa campanella suonò ancora. Il freddo pungente colpì il mio viso facendomi stringere nel giubbotto. Cominciai a camminare tranquillamente, tranquilla del fatto che non avrebbe provato a seguirmi, fermarmi o, meglio, scusarsi. Lo conoscevo troppo bene: sarebbe rimasto seduto a quel tavolo per un’altra ora buona a riflettere. Si sarebbe ucciso interiormente con tutti i suoi discorsi mentali, con tutti quei pensieri e prima o poi avrebbe saputo che cosa fare. Era sempre così.
Non avevo voglia di tornare a casa, ma nemmeno di starmene in mezzo alla strada al freddo. Per calmare i bollenti spiriti, ogni volta, inconsapevolmente mi ritrovavo sempre nello stesso posto, ero cresciuta in posti come quello. Il conservatorio.
Quando, da adolescente, abitavo ancora a New York mi rintanavo spesso in una stanza con un pianoforte al conservatorio dopo qualche litigata furiosa con i miei, dopo qualche discussione innocua con mio fratello o semplicemente per stare sola, solamente con me stessa e i miei pensieri. Da quando vivevo a Dublino non ero mai tornata nella mia madre patria e non ne avevo nemmeno la voglia. Da più di un anno, circa, Lewis mi aveva detto di una sottospecie di conservatorio pubblico dove le persone potevano entrare e imparare a suonare senza dover pagare nulla. Un uomo sulla trentina aveva trasformato completamente un vecchio garage in quell’edificio apportando delle modifiche alla struttura e allargandolo di parecchi metri quadrati. Infine si era offerto di insegnare a bambini, adolescenti e adulti a suonare uno o più strumenti programmando lezioni settimanali. Io ero andata a qualche lezione rimanendo in disparte, in un angolino buio, dove nessuno mi avrebbe potuto vedere per ascoltare le sue parole e ascoltare il modo in cui suonava il pianoforte. Un giorno, dopo una lunga lezione con dei bambini, gli chiesi se potevo avere una copia della chiave che apriva la porta principale dell’edificio. Ricordavo ancora le sue parole: “Se sai dimostrarmi che nasconderti nella penombra e ascoltare quei pochi conigli utili che do serve a qualcosa, okay”.
Quella sera mi fece suonare un pezzo a pianoforte e ci lavorammo tutta la notte mostrandomi i punti in cui sembravo più insicura. Infine, alle prime luci dell’alba decise di darmi una copia della chiave. Da allora uso quel posto quando più ne ho bisogno.
 
 ≈
 
Sfilai le maniche della giacca dalle mie braccia appoggiandola sulla piccola sedia di legno classico e obsoleto, mi avvicinai al raccoglitore appoggiato su un tavolino basso. Sfogliando le varie buste di plastica trovai lo spartito che mi fece suonare quella sera. Il “Marcello” di Bach in adagio. Poteva sembrare un brano triste, ma rispecchiava il mio umore tutte le volte che lo suonavo. Forse, secondo me, lo migliorava in positivo. Dopo aver smesso di suonare, uscendo da quella sala, mi sentivo più.. rilassata.
Partii con la mano sinistra sui tasti bianchi seguita poi dalla destra. La melodia prendeva forma nella mia testa, ormai lo spartito era stampato nella mia mente, ma continuavo a prenderlo e ad appoggiarlo sul piccolo leggio per paura di dimenticare qualche cosa. Le dita leggiadre si appoggiavano sui tasti schiacciandoli con delicatezza e provocando quel suono malinconico, ma così dolce allo stesso tempo.
Finito il brano mi alzai mettendo via lo spartito e chiudendo il coperchio della tastiera. Presi le mie cose e tornai a casa. Entrata nel mio appartamentino andai direttamente in direzione della mia camera da letto. Buttai tutti i vestiti su una poltrona laccata di rosso antico e, infilandomi una maglietta soltanto, mi misi sotto le coperte chiudendo gli occhi e lasciandomi trasportare da Virgilio all’iferno.

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Capitolo 2
*** capitolo 1 ***


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1

Era come un suono fievole che si avvicinava molto lentamente, sparendo  per qualche secondo per poi iniziare nuovamente. Cercai di scacciarlo dalla mia testa, ma non ci riuscii. Nella stanza completamente bianca in cui mi trovavo non c’era nulla che potesse provocare quel suono perché l’ambiente era totalmente vuoto. Se non ci fossero state le pareti, forse avrei fluttuato nello spazio infinito senza trovare mai una fine in quell’assurdo viaggio. Cominciò di nuovo, ma quella volta riuscii ad aprire gli occhi a fatica, guardandomi intorno. Tutto quello che vedevo era una piccola luce che illuminava una parte della stanza immersa nel buio. Allungai un braccio verso il comodino nero davanti al mio viso.
<< Pronto >> Risposi con voce roca e impastata dal sonno.
<< Era ora! Che fine hai fatto, si può sapere?>> Urlò una voce familiare dall’apparecchio.
<< Lew non ora, ti prego >> Risposi lamentandomi e buttando la testa sul cuscino imbottito di piume. Il mio viso sprofondò completamente. Non avevo le forze e la voglia di sopportare una delle sue sfuriate.
<< Fatti trovare pronta, sarò li tra pochi minuti >> Disse serio, troppo serio e quando usava quel tono era deciso e pronto a precipitarsi a salvare casi persi e disperati come il mio.
<< Ma…>> Cercai di protestare.
<< “Ma” un cazzo, Gin >> Disse acido chiudendo poi la chiamata. Portai il cellulare davanti al mio viso continuando a leggere quella stupida scritta che diceva “Chiamata Terminata” , fin quando non scomparve.
<< Va al diavolo, Lew >> Dissi con un filo di voce roca buttando quell’aggeggio sul comodino e tornando sotto le coperte. Non mi interessavano i suoi tentativi di salvare la mia vita sociale e reale. L’unica cosa che volevo fare era stare a letto, poltrire dalla mattina alla sera e leggere qualche libro ogni tanto. La nebbia si fece spazio nella mia mente, seppellendo sotto se stessa ogni pensiero, ricordo o sensazione.

Percosse, erano come percosse, ma non ne sentivo il dolore. In quel momento ero con Dante e Virgilio nel II cerchio, dove i lussuriosi erano travolti da una bufera incessante. Improvvisamente, alla fine del racconto di Paolo e Francesca, Dante cadde al mio fianco senza sensi mentre io tornai alla realtà senza respiro. Gli occhi di Lewis erano di un verde cupo, arrabbiati e severi.
<< Alzati Gin >> Disse semplicemente, lasciandomi le spalle dalle quali mi scuoteva e allontanandosi di poco dal letto. Incrociò le braccia al petto e aspettò una mia reazione. Non mi rimaneva nulla da fare se non dargli ascolto. Scostai le coperte pesanti dal mio corpo e appena avvertii il freddo della camera, la pelle delle mie gambe nude divenne una distesa di pelle d’oca.
<< Adesso che sono in piedi va bene?>> Domandai lasciando che l’acidità nel mio tono sembrò ancora più accentuata.
<< Dai, Gin, Smettila di fare la persona offesa. Cambiati, che andiamo a pranzo e non voglio un no come risposta.>> Disse mettendosi le man dietro la testa e guardandomi con sguardo serio. Non aveva proprio voglia di discutere, ma non poteva fare come se nulla fosse successo. Portai le braccia al petto e le incrociai continuando a guardarlo. Non avevo intenzione di uscire con lui. Cos’era? Aveva trovato improvvisamente del tempo da passare con me?
<< Gin, o ti vesti e usciamo o prenoto cibo cinese e ciò vuol dire che mi avrai tutto il giorno in casa >>
<< Tssè.. cazzate. Hai trovato del tempo da dedicare a me dopo una settimana che non ti rivolgo la parola? Sai, sono capace di non parlarti per molto tempo, Lewis caro..>> Sputai acida. Non riuscivo a stare calma. Ero scesa dal letto con il piede sbagliato e si prevedeva una giornata veramente difficile.
<< Se non ti muovi, chiamo cibo d’asporto e rimango qui tutta la giornata, ti ho avvertita >> Disse, piegando le testa leggermente di lato e guardandomi con quell’espressione che tanto amavo; quell’espressione decisa e convinta.
<< Come vuoi >> Risposi tenendo il mio ruolo da donna sostenuta e mettendomi nuovamente sotto le coperte. Incrociai le game e buttai le mani sopra il piumone, continuando a guadarlo. L’aria calda uscita dalle coperte mi colpì il viso, facendomi provare una sensazione strana.
<< Bene..>> Rispose, togliendosi la giacca e mostrando un abbigliamento sportivo che consisteva in una felpa verde acido e un pantalone grigio della tuta. Glieli avevo regalati per il compleanno.
<< Bella la tuta >> puntualizzai, alzando la testa.
<< Lo so >> Rispose accennando un alzata di sopracciglia. Sempre il solito, pensai buttandomi all’indietro e coprendomi completamente con il piumone. Era quel tipo di rapporto che mi piaceva avere con Lewis. Essere come fratelli, in pratica. Quel rapporto dove uno cerca sempre di sostenere l’altro e cerca di risolvere ogni questione.
<< Pizza o cinese?>> Urlò dalla cucina. E c’era da chiederlo?
<< Pizza!>> Risposi alzando il tono della voce di qualche ottava, scostando di colpo le coperte. Rimasi immobile a guardare il soffitto bianco come un telo da disegno. Pensai che anche la mia vita fosse bianca, ma dovetti ricredermi. Rapporti travagliati che avevo lasciato chiusi in un cassetto senza cercarli più, litigate furiose con i miei genitori ai tempi dell’adolescenza, l’inizio di una nuova vita e il resto. Da quando avevo piantato le radici a Dublino la mia vita era diventata equilibrata e serena con quella tela bianca. Prima era tutt’altro di quel colore candido e puro. Non volevo rimuginare sul passato poiché mi avrebbe soltanto fatto venire il magone e la giornata sarebbe andata male per niente, infondo. Sentivo la cornea diventare fredda. Sbattei più volte le palpebre quando Lewis apparve al fianco del mio letto, senza scarpe e scostando le coperte, disse un semplice “Fatti in là”, mettendosi al mio fianco. Era da tanto che non succedeva, soprattutto da quando ha conosciuto la bella del momento.
<< Tutto questo affetto da dove salta fuori?>> Chiesi, sentendo il suo braccio sotto il collo.
<< Devi sempre commentare tutto?>> Scherzò. Appoggiai il capo sul suo petto, stringendo tra le dita il tessuto della sua felpa. Era caldo.
<< Infondo non saresti tu. >> Disse fievolmente. Lo disse così piano che per un attimo pensai che stesse parlando tra sé e sé, lasciano trapelare il suo pensiero. Non dissi nulla, ma mi limitai ad avvicinarmi a lui.
<< Ti va una maratona di film, oggi?>> Domandai, guardando un punto fisso.
<< Certo. Oggi la mia giornata è dedicata per intero e solamente a te, Gin..>> Rispose. Quello era Lewis, il mio migliore amico Lewis.

Con una gamba penzoloni dallo sgabello alto di legno e l’altra piegata e appoggiata su esso, mangiavo pizza e guardavo film.
 “Perché io so che ci sono persone che dicono che queste cose non esistono, e che ci sono persone che quando compiono diciassette anni dimenticano com'è averne sedici; so che un giorno queste diventeranno delle storie e le immagini diventeranno vecchie fotografie, e noi diventeremo il padre o la madre di qualcuno, ma qui, adesso, questi momenti non sono storie, questo sta succedendo, io sono qui, e sto guardando lei.. ed è bellissima. Ora lo vedo: il momento in cui sai di non essere una storia triste, sei vivo, e ti alzi in piedi, e vedi la luce dei palazzi, e tutto quello che ti fa stare a bocca aperta. E senti quella canzone, su quella strada, insieme alle persone a cui vuoi più bene al mondo, e in questo momento, te lo giuro, noi siamo infinito!”
<< Anche io quando compii diciassette anni mi dimenticai completamente com’era averne sedici. Forse sarà stupido, ma penso che anno dopo anno io mi dimentichi di com’era esser più giovani..>>
<< Forse perché pensando di avere un anno in più, non ci pensi a com’era prima e ti dimentichi ogni cosa, e penso anche..>> Disse Lewis mandando giù un boccone di pizza << Che stiamo facendo discorsi senza senso >> Aggiunse sorridendo.
<< Decisamente >> Sorrisi << Lo credo anche io. Però, non mi dispiacerebbe essere come Sam..>>
<< Cos’ha che tu non hai?>> Domandò.
<< Molto probabilmente, la voglia di amare una persona nonostante mi faccia del male e- >> dissi, bevendo un sorso d’acqua << Un fratellastro come Patrick. Anche io voglio degli orologi originali come i suoi!>> Conclusi decisa. Talmente decisa da far ridere Lewis. Rise a squarciagola, muovendosi e buttando la testa all’indietro. Scossi la testa, accennando un sorriso sghembo e tornai a guardare la televisione.
<< Non ti basto io? Se vuoi te lo faccio un orologio più figo di quello di “Niente”, ovviamente..>> Disse, appoggiando il pezzo di pizza nel cartone posto sulla superficie lucida della penisola e pulendosi le mani. Occhi verdi contro occhi Grigi. Ci scambiammo un sorriso, tornando a seguire le scene del film.
È decisamente stupido pensare di voler essere qualcun altro, ma chiunque è meglio di me.
Stavamo pulendo buttando via i cartoni della pizza vuoti e riassettando gli sgabelli.
<< Senti, Ginger, ti va di venire da me domani sera? Ci sono..>> Disse.
<< Se stai per dire che c’è anche la signorina bionda, la risposta la sai. >> Lo interruppi. Non riuscivo a sopportarla, seriamente. Era troppo vanitosa, troppo sofisticata, infantile, superficiale e veramente troppo idiota per i miei gusti.
<< Ma l’hai vista una sola volta! Non la conosci, dalle una possibilità!>> Disse bloccandosi a braccia aperte.
<< Senti, quella volta mi è bastata per andare in bagno e restarci tutta la sera fingendo un attacco di panico >> Spiegai.
<< Lo sapevo che era tutta una finta, sei brava in questo >> Sentenziò, interrompendomi e guardandomi con gli occhi socchiusi.
<< Lo so >> Risposi fiera, voltandomi.
<< Dai Gin, fallo per me.. ci saranno anche altri amici con le loro fidanzate, conoscerai gente nuova che ha le tue stesse ideologie ed esci un po’ da casa. Sei sempre rintanata qui, sul divano o a letto a guardare film in DVD e a leggere libri. La realtà non si concentra attorno a questi due passatempi, Gin. Almeno vieni per me, dai..>> Mi pregò, facendo rilassare i muscoli di tutto il suo corpo.
<< Ci penserò, comunque, penso che tu sia razzista. Io, l’unica single, in mezzo a persone tristemente accompagnate. Bravo Sig. Lewis Sedley. Mi complimento con lei >> Sentenziai scocciata.
<< Avanti Gin..>> Disse con Tono mieloso, abbracciandomi da dietro e stringendo le sue mani sul mio grembo << Lo so che, infondo, mi vuoi bene comunque >>
<< Molto nel profondo, idiota >> Risi.

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Capitolo 3
*** capitolo 2 ***


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2
 
A quella festicciola, gente con le mie stesse ideologie, come aveva sostenuto Lewis, non ne avevo ancora trovate. Piccioncini che stavano mano nella mano, si lanciavano occhiatine depravate della serie Appena siamo soli ti sgualcisco quel vestitino attillato che indossi, bevevano bicchieri di vino e mangiavano salatini. Le solite feste di Lewis con musica in sottofondo. Almeno, la scelta musicale era decente, per evitare di non esprimere opinioni sulla compagnia che invadeva la sua casa. Un piccolo Loft con mura in mattoni rossi e soffitto bianco alto molti metri. Mi incantava il modo in cui era arredata: un divano di tessuto scuro appoggiato alla parete tra due finestre stupefacenti, un tavolino di legno di ciliegio basso posto proprio di fronte al divano, un paio di quadri dipinti a colori ad olio che fece sua madre in gioventù. Un grosso tappeto era proprio sotto i miei piedi e si allargava per un metro e mezzo al centro della sala. In un angolo, vicino al camino, c’era una piccola poltrona isolata di un beige notevole accompagnato da stampe di fiori dello stesso colore, blu, rossi e bianchi. Amavo particolarmente quella poltrona, adatta a me, dove mi sedevo quando andavo a trovarlo e ascoltavo la musica chiudendo le palpebre oppure dove leggevo libri, senza sosta. Ogni volta, infatti, mi rimproverava dicendomi sempre le stesse parole «Sei venuta per me o per la poltrona?» e ogni volta rispondevo assolta «Entrambi, che domande..».
« Sei proprio la solita » Disse Lewis alle mie spalle. Si era piegato in avanti, verso di me, appoggiandosi con le mani allo schienale del divanetto dove ero seduta.
« Ti divertirai, certo Sherlock..» Commentai con le braccia incrociate.
« Allora dedurrò che sei venuta per me, grazie Watson..» rispose dandomi un bacio sulla guancia per poi tornare a rialzarsi. Non aveva affatto voglia di rimanere seduta lì, ferma in mobile e in silenzio tutta la sera. Mi alzai lisciandomi il maglioncino e dando un’occhiata ai Dr. Martens dall’alto. Camminai in direzione del bagno, forse la mia stanza preferita. Le pareti, appena qualche mese dopo la nostra conoscenza, le dipinsi insieme a lui. Era fissato col fare una parete artistica dalla parte della vasca, così eccola ancora lì come nuova. Entrai e i rami fatti di vernice catturarono la mia attenzione. Fortunatamente la ragazza di Lewis non aveva ancora avuto la brillante di apportare modifiche all’ambiente casalingo, anche se il suo tocco si poteva vedere sul tavolo della cucina: Una tovaglia in pizzo con sopra un vaso di girasoli. Andiamo, chi è che metterebbe dei girasoli in cucina? Forse lo avrei fatto anche io, non era male come idea. Chiusi la porta alle mie spalle e mi avvicinai alla finestra accanto alla lavasciuga. Come fa Lewis a vivere in questo “lusso”? sono di gran lunga meglio le cose semplici, carine e uniche.. come la vista da questa finestra. Mi sedetti sul davanzale interno della finestra guardando il parco sparso di foglie rosse, come la tinta dei miei capelli, e illuminato da lampioni tutt’intorno. Il comune spenderà un sacco dei nostri soldi per pagare tutta quella luce. Le macchine passavano una alla volta con intervalli di dieci minuti proprio sulla strada, sotto quella finestra. Io avrei tanto voluto una vista del genere nel mio appartamentino, invece, però, avevo avuto la fortuna di poter vedere il fisicaccio del mio vicino anziano e sovrappeso, molto sovrappeso, senza maglietta. Ogni volta che mi trovavo nello sgabuzzino chiudevo una persiana sverniciata proprio per evitare incontri ravvicinati dal vivo del genere. Soprattutto d’estate.  Sospirai e mi tornai a mettere sui miei stessi piedi. Avvicinandomi alla porta chiusa, mi soffermai davanti allo specchio a guardare il mio aspetto; quei capelli rossi, di natura castani, e quegli occhi grigi stanchi e ricoperti da una riga sottile di eyeliner che li rendevano ancora più.. dolci, sensibili. Scossi la testa notando il pallore della mia pelle e il naso arrossato proprio dove sostava un anellino attaccato alla narice destra. Avrei voluto cambiarlo, ormai lo portavo da tre, quattro anni e vedevo sempre la stessa ragazza. Forse, se avessi cambiato qualcosa del mio aspetto avrei potuto sembrare diversa, cambiata in qualche modo. Mi ripresi del tutto tornando a liberare la mente da tutto e uscii dal bagno.
Mi sedetti su quella poltrona tanto amata e raccolsi le gambe contro il petto. Stavo guardando tutta quella gente camminare, scherzare e incazzarsi cercando di capire cosa potessero mai pensare. Ovviamente non ci sarei mai riuscita, non avevo il potere di leggere nel pensiero. L’unico che mi colpì, con onestà, fu un ragazzo dalle lunghe gambe snelle e i capelli biondi seduto sul divano dove pochi minuti mi trovavo io. Possibile che in tutto quel tempo, seduta ad osservare ogni minimo movimento, non mi ero accorta della presenza di quel ragazzo? Si, era possibile. Infondo, nessuno si sarebbe accorto di me, come di lui; entrambi fermi senza fare niente se non intenti a pensare, pensare e ascoltare sciocchezze su sciocchezze. Portò una gamba in alto accavallandola sull’altra. Lo sguardo perso al soffitto fino a quando non abbassò il viso e incontrando il mio sguardo. Distolsi lo sguardo da lui sentendomi terribilmente in soggezione, nervosa, e in colpa. In colpa per cosa? Non lo sapevo nemmeno io, a dire il vero. Mi alzai andando verso la libreria di Lewis e presi uno dei miei libri preferiti. Mi voltai per tornare alla poltrona e in lontananza, vicino alla finestra intravidi il corpo snello del ragazzo biondo. Guardava concentrato fuori dalla finestra e teneva le mani infilate nelle tasche di un jeans nero strappato su entrambe le ginocchia. Nelle tasche, sotto i palmi delle mani, si era incastrato il tessuto della sua maglia, nera a maniche lunghe e con una tasca larga sulla parte sinistra del petto, facendo vedere la sua magrezza. Le mani che erano tirate su all’altezza dei gomiti e, il suo spetto lo faceva sembrare un tipo.. misterioso. Scossi la testa e tornai a camminare in direzione della poltrona, a pochi passi da lui. Fino a quando non mi voltai per sedermi. Tenni lo sguardo sulla sua chioma bionda. Incrociai le gambe e aprii la prima pagina di quel libro. Cominciai col leggere quelle prime righe nonostante ne conoscessi già le parole. Mi persi completamente nella lettura senza nemmeno accorgermi di essere completamente sola in quell’angolo di stanza. Anche il ragazzo biondo se n’era andato. Quando mi guardai in giro incontrai gli occhi di Lewis. Gli sorrisi appena e lui ricambiò abbassando appena lo sguardo. Jules, la sua famosa ragazza dai capelli biondi, era molto gelosa persino della nostra amicizia. Infatti, come previsto, richiamò Lewis facendolo voltare. Gli mise un palmo sulla guancia con fare delicato, sussurrandogli qualcosa e baciandolo successivamente. La gelosia porta a questo, ma è gelosia sprecata. Continuava a non importarmene nulla della sua presenza nella vita di Lewis, ma quando faceva una delle sue sfuriate, per uno sguardo tra me e lui o per due parole scambiate, lì mi si alzava la rabbia a mille.
Passai l’intera sera leggendo, alternando un paio di capitoli con un bicchiere di vino fermo e delicato. Ormai tutti gli invitati se n’erano andati, rimanevano meno di una decina di persone in tutto l’appartamento compresa me. Lewis, incatenato al corpo della sua bella, non mi aveva rivolto la parola per tutta la durata della festicciola, nemmeno per chiedermi di andarmene, ne vedevo la necessità visto la mia utilità in quel posto. Mi alzai da quella poltrona, chiudendo il libro, e mi avvicinai al tavolo per un altro bicchiere di vino e qualche stuzzichino. Tamburellando le dita sulla superficie del tavolo scelsi una ciotola piccola di patatine. Ne presi una manciata, mi voltai  e appoggiai la schiena contro la sedia alle mie spalle posta sotto al tavolo. Cominciai a guardare Lewis e Jules salutare una coppia di amici, sorridendogli. Spesso invidiavo il suo modo di vestire e di apparire alla gente; maledettamente bella, così bionda e con due occhi da cerbiatto seguiti da un sorriso smagliante. Era totalmente il mio opposto. Scossi la testa, sentendo un vuoto improvviso e alzai lo sguardo notando la presenza del biondino. È ancora qui? Mi domandai mentalmente guardandolo portarsi una bottiglia di birra alle labbra, bevendone un sorso. Sospirai mangiando l’ultima patatina tra le mie mani, bevvi un sorso di vino e mi avvicinai a Lewis, intento a chiudere la porta d’entrata. Non avevo più voglia di rimanere lì, mi ero annoiata già abbastanza quella sera.
«Gin » Disse sorridendomi.
« Vado a casa, Lew…»
« Adesso? Non ti va di rimanere qui?» Domandò.
« E dormire sul divano mentre tu e la tua bella ci dante dentro, tutta la notte?» Chiesi sottovoce « No grazie » Scossi la testa.
« La mia “Bella”, come la chiami tu, non rimane qui. Domani mattina ha degli impegni importanti » Disse abbassandosi al mio livello.
« Più importanti di te, da come vedo » Sentenziai. Il suo corpo si raddrizzò, l’espressione seria e stanca fissa su di me e un senso di disagio cominciò ad affiorare dentro il mio corpo. Non potevo rispondere semplicemente “no”? Pensai rabbiosamente.
« Ginger, per favore..» Si passò una mano tra i capelli castani, portandoli all’indietro. Aveva l’aria di chi proprio non ce la faceva più di ascoltare le mie parole. Lo capivo, in qualche assurda maniera.
« Scusami, Lewis » Sussurrai, abbassando lo sguardo e voltandomi per andare verso l’attaccapanni. Attraversai il salone sotto gli occhi di Lewis, ai quali si aggiunse lo sguardo del ragazzo appoggiato alla parete. Scossi la testa e mi fermai prendendo la mia giacca. Dovevo rovinare proprio tutto, d’altronde non era la prima volta che lo pensavo. Tutte le persone con cui avevo chiuso i ponti da tempo, mi dissero che ero io a rovinare tutto. Inizialmente non ci diedi molto penso, mi limitai a pensare che fossero loro ad avere problemi sul vedere la verità davanti ai loro occhi, ma poi aveva capito che avevano ragione. Lewis era l’unico che mi rimaneva, a cui tenevo, ma stranamente era come se la mia testa stesse cercando di far allontanare anche lui.
« Hey, ti stai dimenticando il cellulare » Parlò una voce calda, adulta mai sentita prima di allora. Mi voltai, fermandomi di colpo e puntando il ragazzo, ancora appoggiato alla parete, intento a rigirarsi la bottiglia di vetro tra le dita, guardandomi da sotto le ciglia chiare.
« Grazie » Mi limitai camminando verso il salone. Mi bloccai, Dov’è?
« Sulla poltrona » Disse, come avesse risposto alla mia domanda implicita. Lo guardai senza dire nulla, presi il cellulare e mi avviai alla porta d’ingresso.
« Ci vediamo » Dissi guardando i miei anfibi, passo dopo passo. Appena arrivai al suo fianco sentii il suo profumo. Chiusi gli occhi percependo quelle lacrime tanto oppresse negli ultimi anni. Non potevo piangere, non volevo piangere. Sentii i tentativi di provare a dire qualcosa, di trovare il coraggio di dirmi qualcosa, ma non lo fece. Sentii la sua voce pronunciare un semplice Ciao prima di chiudere la porta alle mie spalle.
Il pomeriggio seguente…
« Robert, non dovremmo studiare matematica?» Chiesi sorridendo e arricciando il naso, « infondo sono qui per questo. »
« Si, ma prendere una pausa dallo studio non penso sia diventato un reato, per ora. » Rispose, portandosi il pacchetto delle sigarette alle labbra ed estraendone una. Quei ricci scuri, che circondavano il suo viso di carnagione chiara e che risaltavano i suoi occhi verdi, ricadevano sulla sua fronte. Rimasi in silenzio guardando i suoi movimenti, i muscoli che si contraevano sotto i vestiti, sottili e leggeri nonostante il tempo all’esterno del salotto di casa sua. Quei gesti lo rendevano diverso dal solito. Sembrava veramente assorto nei suoi pensieri, era come se si lasciasse tutta la voglia di dire stronzate senza senso da parte.
« Vuoi favorire?» Mi chiese senza rivolgermi lo sguardo.  Tenne la testa china nell’accendere la sigaretta mentre io continuavo a guardarlo, concentrata. Forse era il suo modo di essere spavaldo o forse per il suo aspetto, ma quando mi trovavo con lui, a pochi centimetri di distanza, nella stessa stanza, una sensazione strana pervadeva i muscoli del mio corpo, fremevano come non mai. È dovuto sicuramente alla sua bellezza, infondo… guardalo! Pensai inopportunamente.
« Mh…?» Mugolò fievolmente, alzando lo sguardo su di me.
« Non fumo, lo sai.» Risposi, incrociando le gambe.
« Nemmeno una prova? Potresti farlo indirettamente, semplice fumo passivo.» Spiegò alzando un angolo della bocca, accennando un sorriso.
« Non sarebbe la prima volta. » Sentenziai.
« Avvicinati…» Disse incrociando le gambe e mettendosi la sigaretta tra le labbra con un movimento veloce. Le sue mani si appoggiarono sulle mie ginocchia e il suo corpo si mosse, cercando di sistemarsi e diminuire la distanza tra noi. Seguii i suoi movimenti, appoggiò un gomito sulla sua gamba mentre con l’altra prese l’involucro tra le labbra all’altezza del filtrino.
« Avvicina il viso al mio, dischiudi appena le labbra. » Spiegò con voce semplice, come se stesse insegnando a un bambino qualcosa di importante. Seguii le sue parole alla lettera, ritrovandomi a pochi millimetri dalle sue labbra. A quel punto si portò la sigaretta tra le labbra e tirò una boccata di fumo abbastanza abbondante. Staccò la sigaretta ed ispirò unpo’d’aria, poi disse trattenendo il fumo:
« Ispira.» E lo lasciò uscire in modo lento e delicato, come se fosse più leggero di quello che era in realtà. Ispirai sentendo i polmoni riempirsi e il spore di fumo, mischiato a quello di Robert, venire assorbito dai miei organi sensitivi. Le lunghe ciglia scure di lui si incontravano delicatamente, ma da sotto le palpebre socchiuse, riuscii a scorgere comunque il colore dei suoi occhi, fissare i miei lineamenti. Tutta quella nebbia si adagiò sulla mia pelle, ma fece presto ad issarsi e salire verso il soffitto, disperdendosi nell’ambiente. Si raddrizzò e aprì completamente gli occhi, portandosi nuovamente la sigaretta tra le labbra.
« Bene, com’è stato?» Mi domandò sorridendo e alzando un paio di volte le sopracciglia. Com’è stato?
« Rob, in genere una cosa così la si chiede in altri casi, ma questo… avanti, novellino.» Risposi prendendo le punte dei miei anfibi tra le mani, sbilanciandomi appena all’indietro.
« Hey, cercavo di… lasciamo perdere. E sentiamo, tu che sai tutto della vita, in quali casi si dovrebbe usare questa domanda specifica?»
« Per esempio per chiedere come è stato un giro sulle montagne russe, com’è stata una serata passata in un locale esclusivo…»
« Oppure per chiedere com’è stata una nottata di sesso selvaggio, eh.» Disse, alzando le sopracciglia e mettendo la punta della lingua tra i denti.
« Tu, novellino, pensi solo al sesso?» Domandai, scherzosa.
« No, ovviamente. Quello è il secondo punto della mia lista.»
« Il primo quale sarebbe, sentiamo?»
« Abbordare una bella ragazza e offrire il pacchetto completo, che domande. C’è tanto Robert da donare »  Disse come se fosse la cosa più scontata al mondo.
« Sei squallido.» Risi. Mi alzai appoggiando una mano sulla spalla di Robert, cercando un sostegno per darmi più forza.
« Avanti, casanova. Al lavoro.» Dissi avvicinandomi al grande tavolo di legno, ricoperto da fogli volanti e libri di algebra aperti a caso. Mi sedetti al mio posto, portando la sedia ben sotto il tavolo e ripresi a controllare il lavoro svolto da Robert qualche minuto prima.
« Hey, la pausa non è ancora finita. Se diventerò un vegetale perché troppa matematica rischia di fondermi il cervello, ti denuncio.» Protestò alzandosi, mettendosi la sigaretta penzoloni tra le labbra.
« Senti, non sono io quella ad avere bisogno di una mano, a venticinque anni, in matematica per passare un esame.» Replicai, appoggiando il foglio sulla superficie occupata da un quaderno.
« Solo perché mi sto facendo aiutare da una novellina più piccola di qualche anno, nonostante la mia età matura, non è da ignoranti. È solamente la buona volontà che manca, ma sono sempre il più intelligente della famiglia.» Sentenziò gesticolando e camminando in quel suo modo così strano, come imitando i vecchi film western in bianco e nero.
« Si, come vuoi.» Scossi la testa. La sedia, di legno scuro, alla mia sinistra strisciò sul pavimento. Robert si sedette e appoggiò svogliatamente le braccia incrociate sul bordo del tavolo, guardandomi correggere gli esercizi.
« Senti, Gin…» Parlò, seriamente questa volta. Alcune ciocche dei miei capelli rossi, vivaci, caddero in avanti formando una sottospecie di barriera che mi impediva di vedere oltre il mio campo visivo. Alzai di colpo lo sguardo dal foglio, rivolgendolo alla figura al mio fianco.
« Dimmi.» Risposi, imitando la sua posizione e guardandolo interessata.
« Se ti chiedessi di uscire accetteresti o rifiuteresti, per il mio essere idiota?» Domandò, stavolta facendo una smorfia ridicola, provocando una mia risata che cercai di trattenere a tutti i costi. Abbassai lo sguardo tornando ad essere delimitata dai mie capelli, poi lo alzai guardando il soffitto.
« Bhè, Rob » Cercai le parole, « Okay, forse lo sei- e non poco- ma penso che tu sia un idiota piacevole…»
« Quindi, sarebbe un si?»
« Può darsi » Alzai un angolo della bocca, abbassando lo sguardo sui fogli proprio sotto i miei palmi. Il suo respiro mi diede l’impressione di un esulto silenzioso e non espresso, improvviso. Sospirai leggermente giocherellando con la biro tra di dita.

 

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