Faith.

di Letterenascoste
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo. ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo. ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo. ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto. ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto (pt. I). ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Faith.

Prologo.

 

Si sentiva un rumore di tacchi lungo i corridoi del dipartimento di Scienze comportamentali dell'FBI.
Due donne camminavano l'una di fianco all'altra.
«Ti ringrazio per essere venuta» disse Alana Bloom alla donna che l'affiancava «So della tua titubanza a causa di vecchi scontri con Jack.»
«Si» le rispose con un sorriso tirato l'altra «Per questo mi sono oltremodo meravigliata per la chiamata»
«E sono contenta che alla fine tu abbia accettato» disse Alana riprendendo il filo del discorso «Credo sia un'ottima via precauzionale per salvaguardare la salute psicofisica di Will. Sono pochi gli elementi che hanno dimostrato di possedere quella che viene definita 'empatia'... e sono ancora meno coloro i quali hanno acconsentito ad utilizzare questa loro dote e successivamente non abbiano accusato di disturbi della personalità»
L'altra donna annuiva, quasi annoiata. Non proferì ulteriore parola fin quando non arrivarono di fronte alla porta chiusa dell'ufficio di Jack Crawford.
«In bocca al lupo, allora»
La donna, in silenzio, mise mano alla maniglia.
«Grazie» disse ad Alana «Per il tuo interessamento nei confronti di Will. Inoltre tutto ciò andrà anche a mio favore, quindi credo di doverti dei doppi ringraziamenti»
Questa volta le riservò un sorriso sincero al quale Alana ricambiò di rimando per poi allontanarsi.

Inspirò profondamente prima di abbassare la maniglia e aprire la porta.
Inspirò profondamente come se, da lì a poco, avesse dovuto intraprendere un incontro di pugilato. L'ultima, e prima, volta che era stata nell'ufficio di Crawford risaliva a tre anni prima: aveva chiesto di prendere parte, in maniera discreta, a qualche indagine così da poterne trarre spunto. La risposta dell'agente fu sbatterla letteralmente fuori dall'ufficio, urlando. Quel giorno maledisse Jack Crawford così tante volte che, se ora l'avesse trovato con qualche strana deformazione, certo non si sarebbe meravigliata.
Inspirò e poi si decise ad aprire quella porta.

«Faith?»
Will pronunziò il suo nome con un tono che possedeva un vago velo di stupore e incredulità.
«Buongiorno a tutti» salutò lei, dopo aver preso un'ulteriore boccata di coraggio. Rimase però all'entrata. Diede un'occhiata veloce a Will: era seduto su una poltrona al di là della scrivania, accanto a lui un altro uomo.
Rimase all'entrata per qualche secondo. Scrutò lo sguardo di Jack, il suo volto, la sua espressione: forse questa mattina non si era svegliato con il piede sbagliato. Non poteva sempre avere la luna storta, dopotutto.
«Che ci fai qui?!» chiese ancora sorpreso Will, il quale si levò e rimise gli occhiali due volte per assicurarsi di vedere bene. «Che ci fa lei qui?» chiese poi a Jack Crawford.
«Entri pure signorina Williams» disse Jack, ignorando la domanda di Will e indicando, con lo sguardo, una sedia.
Faith allora chiuse la porta e se la lasciò alle spalle quando, con piccoli e rumorosi passi, si andò a sedere accanto al suo amico, accanto a Will.
«Che ci fai qui?» le chiese nuovamente Will, sottovoce.
«La signorina Williams» disse l'agente dell'FBI prendendo parola «E' qui per una sorta di supporto... o, almeno, così è come l'ha definito la dottoressa Bloom»
«Sono la tua àncora» sussurrò Faith all'amico.
«La mia cosa?» chiese Will, ora più incredulo di prima.
«La già citata dottoressa Bloom» riprese Jack «Mi ha fortemente e calorosamente sconsigliato di avvalermi dei tuo servigi» disse diretto a Will «Lei pensa che potresti... lacerarti. Dice che è già successo, in passato, ad altri soggetti che presentavo la tua stessa dote: si perdevano in altre realtà o cose del genere» concluse poi in fretta l'agente.
«Non è il mio caso» disse Will scandendo ogni singola parola.
Jack lo guardò un secondo prima di rispondere «Lo penso anche io. Purtroppo ho promesso alla dottoressa Bloom che non ti avrei fatto avvicinare troppo... non troppo da farti bruciare; così siamo giunti a un compromesso: la qui presente signorina ti affiancherà nelle indagini e, in caso di bisogno, ti riporterà alla realtà»
«Non so come, ma lo farò» aggiunse Faith, sorridente.
«No» rispose seccato Will scuotendo ripetutamente la testa.
«Oh si» disse Faith sorridendo e poggiando una mano sulla spalla dell'amico.
«Non desidero un'altra Freddie Lounds tra i piedi, quindi mi aspetto la massima discrezione, Williams» le disse Jack puntandole contro il suo grosso dito indice.
«E la avrà» gli confermò lei.
Faith guardò alla sua destra e vide una grande lavagna con su degli schemi e delle foto di diverse ragazze; tutte semplici, carine, quasi anonime.
«Cosa abbiamo qui?» chiese Faith tirando fuori dalla grande borsa un piccolo taccuino e una penna biro, poi si perse un momento nel seguire le linee rosse che segnavano i punti in comune nei singoli crimini «Stupri? Rapimenti? Riti satanici? ... O cos'altro?»
Jack la guardò già spazientito e dovette stringere un pugno per evitare di urlarle contro.
«Un cannibale» tagliò corto Will, la cui voce risentiva ancora di una nota di risentimento
«Cannibalismo» disse piano lei esprimendosi in una smorfia disgustata «Quindi le mangia e basta?»
«Le onora» precisò Will «Onora ogni parte di loro»
«Disgustoso» commentò mentre prendeva appunti.
«Il cannibalismo era una pratica molto comune nell'antichità o, addirittura, ancora oggi in piccole tribù» disse, prendendo parola, il terzo uomo presente «Designava una condizione di dominio e di forza sull'avversario. Secondo alcuni sciamani  si poteva avere un transfert di forza e coraggio nell'atto di mangiare il cuore del nemico.»
Faith ascoltò le parole dell'uomo e non abbassò lo sguardo quando si ritrovò il suo sguardo contro.
Alzò le spalle e poi ritornò al suo taccuino «Rimane comunque una cosa abbastanza disgustosa»
«Non siamo qui per ascoltare lei, Williasm» Faith si irrigidì dopo le parole dell'agente e si morse un labbro per evitare di rispondere e quindi di farsi poi cacciare.

L'argomento si spostò di nuovo al caso preso in esame.
Faith si limitò ad ascoltare e prendere appunti, cosa che fu fortemente gradita a Jack.

«Immagino» disse l'altro uomo, quando l'argomento si spostò dal caso alla dote di Will «Che ciò che vede e scopre tocchi tutta la sua mente. I suoi valori e il suo senso morale sono scioccati dalle sue associazioni, inorriditi dai suoi sogni. Nessuna fortezza, nel suo cranio, protegge le cose che ama»
«A quale profilo sta lavorando?» chiese, dopo un attimo di esitazione, Will con tono rabbioso, spostando il suo sguardo da Jack all'uomo che gli sedeva al fianco.
«Sembra al tuo» si insinuò Faith, tra un sorso e l'altro del lungo e disgustoso caffè che le era stato offerto.
Fu zittita da un'occhiataccia di Jack.
«Mi dispiace Will, il nostro lavoro è osservare. Non posso evitarlo, così come non può evitarlo lei»
«Non cerchi di psicanalizzarmi. Non le piacerei quando sono psicanalizzato» disse Will prima di alzarsi «Ora, se volete scusarmi devo tenere una lezione... sulla psicoanalisi!»
Faith restò in silenzio e guardò il suo amico andare via, rabbioso e infastidito come da molto tempo ormai non lo vedeva.
«Forse non dovremmo punzecchiarlo così, dottore. E' meglio un approccio un po' meno diretto» disse Jack a quello che, evidentemente, era uno psichiatra. Poi lo sguardo dell'agente si spostò sulla donna, chiedendosi come e quando avrebbe potuto rispedirla a casa con una scusa banale.

Pochi minuti dopo sia Faith che il dottore uscirono dall'ufficio di Jack.
«Ho riscontrato astio» disse lui «Tra lei e l'agente Crawford»
«Si» rispose lei mentre si incamminavano verso l'uscita «Da parte mia ci sono vecchi rancori, mentre da parte sua c'è solo un'elevata percentuale d'odio per chi, come me, si guadagna da vivere scrivendo»
«Giornalista?» le chiese aprendole una porta e facendole gesto di uscire per prima.
«Lo ero, sette anni fa» confermò Faith «Poi, dopo un lungo processo giudiziario, ho deciso che non era la professione che faceva al caso mio. Ho scritto un romanzo che ha avuto un discreto successo. Poi mi sono arenata e ora mi ritrovo a scrivere noiose autobiografie di persone troppo pigre, svogliate e incapaci per scrivere le loro memorie di proprio pugno... non che siano di interesse alcuno. E' da qualche anno che vorrei cimentarmi in un nuovo romanzo, ma non vorrei addentrarmi troppo nei meandri della mia fantasia scostandomi poi eccessivamente dalla realtà, così colgo quest'occasione per prendere spunto dai casi seguiti da Will»
«Qualcuno potrebbe definirla opportunista» le puntualizzò il dottore, con una punta di rimprovero nella voce.
Erano ormai al di fuori del grande edificio.
Faith si coprì gli occhi con il palmo di una mano per smorzare la luce troppo intensa dell'ora pomeridiana.
In quell'attimo l'uomo la scrutò: Faith Williams era una donna sulla trentina, lunghi capelli mossi e scuri le ricadevano fino a metà schiena. Bassa statura, forse un metro e sessantacinque, camuffata con tacchi alti che ne slanciavano la minuta figura. Indossava semplici jeans e una camicia bianca che contrastava col nero della giacca.
«Siamo tutti opportunisti» disse Faith riprendendo la conversazione «Non lo è anche lei, nel suo piccolo?» gli chiese incrociando il suo sguardo. Fu allora che il dottore notò la profondità dei suoi occhi neri. «Mi dica» continuò lei «Non è forse per curiosità nei confronti del meccanismo della mente di Will che lei si è prestato a tutto ciò?»
«La cosa sembra non suonarle nuova» constatò lui.
«No» affermò Faith «Molti si avvicinano a lui solo per curiosità. Ma le dico una cosa: Will non è un topo da laboratorio, non può essere 'testato' e poi gettato via, come immondizia.»
«Sembra avere davvero a cuore il destino del signor Graham»
«Ed è così»
Lo psichiatra annuì, poi estrasse dalla tasca un biglietto da visita.
«Qui trova i miei recapiti» le disse «Se l'agente Crawford mi ha chiamato è per fungere da supporto a Will, proprio come lei. Purtroppo registro ostilità da parte del signor Graham e sarei felice se mi aiutasse ad arginare questo divario.»
Faith scostò la mano che proteggeva i suoi occhi, ora costretti a socchiudersi per colpa del sole, e afferrò il biglietto da visita che l'uomo le stava offrendo.
«Va bene» disse in maniera sbrigativa, e poco convinta, lei.
Lui le sorrise, poi con un lieve gesto della testa accompagnò il suo saluto «Arrivederci, signorina Williams»
«Arrivederci» rispose lei di rimando.

Si girò e si incamminò poi verso la sua auto. Una volta dentro, prima di mettere in moto la macchina, sistemò il biglietto nel portafogli, insieme ad altri biglietti, scontrini e appunti. Accese la radio e la musica dei Muse la salutò con una delle sue canzoni preferite, Madness. Batté le dita, seguendo il suono della musica, sullo sterzo. Chiuse gli occhi e realizzò che l'uomo non si era presentato, o forse era lei che non aveva sentito il suo nome persa, com'era, nell'agitazione di quella mattina. Così li riaprì in un attimo. Frugò tra le mille cose inutili della borsa, afferrò il portafogli, poi il biglietto da visita
«Hannibal Lecter» sussurrò a se stessa continuando a battere le dita sullo sterzo.

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Capitolo 2
*** Capitolo primo. ***


Faith.

Capitolo primo.

 

Quella mattina Faith si era dovuta svegliare terribilmente presto. Will l’aveva avvertita che, durante la notte, era stato ritrovato un corpo  in un campo sperduto del Minnesota. Per questo si trovava, alle dieci del mattino, in quel grande campo dorato in compagnia di diversi agenti dell’FBI.
Via via che si avvicinavano al campo, una sagoma cominciava a delinearsi: uomo e animale, uniti in connubio fatale.
Faith restava dietro Will, come se potesse farle da scudo contro quell’orrore che le si presentava davanti. Inconsciamente gli strinse un lembo del giubbino, mentre con l’altra mano aveva strappato mezza pagina del suo taccuino. La penna le era caduta tra le sterpaglie ingiallite dall’autunno.
Dovette deglutire più volte per evitare di vomitare, cosa che non sarebbe stata sicuramente gradita a Jack.
I corvi volarono via veloci, lontani da quel corpo ormai esanime, quando Brian Zeller li cacciò via scuotendo animatamente le braccia.
La testa le girava e sembrava che il sole diventasse prima più caldo e poi repentinamente più freddo.
Forse è troppo per me, pensò.
Forse è meglio tornare a noiose autobiografie.
Si risvegliò dai suoi pensieri solo quando sentì Jack Crawford annunciare che il killer era stato denominato come ‘Averla del Minnesota’.
«L’averla è un passeriforme» disse Price «Impala le sue prede,  topi e lucertole, sulle spine dei rami. Strappa gli organi dai cadaveri, li mette in una specie di dispensa e… li mangia dopo»
«Voleva che la trovassimo così» commentò Will avvicinandosi al corpo.
Faith lo seguì, ancora stringendogli il lembo del giubbino, come una bambina che segue il padre a malincuore, consapevole di star andando incontro al dentista.
«Questa ragazza» disse Faith con un tono disgustato «Sembra che sia stata trasformata in un trofeo. C’è dell’arte, della raffinatezza, del sarcasmo in tutto ciò»
«Sento quasi che la prende in giro» confermò Will «O prende in giro noi»
«Dov’è finito tutto il suo amore?» chiese pensieroso Jack.
«Chi ha messo Elise Nichols a letto, non è l’autore di questo tabù» rispose Will scrutando il corpo della vittima e guardando i punti esatti in cui le corna si insinuavano prepotentemente e violentemente nel corpo della giovane donna «Le ha estratto i polmoni: quando l’ha uccisa credeva che fosse un maiale»
«Pensi che sia un emulatore?» chiese di rimando Jack.
«Un altro cannibale, forse?» propose Faith.
Raccolse la penna e cominciò a scrivere. Cominciò appena in tempo, perché da lì a pochi secondi Will espose un profilo dettagliato sull’Averla: aveva una figlia, un amore troppo sviscerato nei suoi confronti e uno strano modo di accettare la sua imminente lontananza.
«Credi che ucciderà la figlia, così come ha ucciso le altre?» chiese Faith mentre continuava a scrivere.
Jack le si avvicinò annuendo «Me lo stavo chiedendo anch’io»
«Lei è il suo biglietto d’oro» rispose Will.
Faith annuì e annotò.
I suoi occhi erano vispi ma spenti: si sposavano veloci dal corpo, al cervo, a Will, a Jack, alla terra sotto di lei che cominciò a sembrarle instabile. Dondolò leggermente e si dovette aggrappare a Jack per evitare di cadere.
L’agente Crawford la sorresse.
«Se la scena del crimine la disturba tanto» le disse «Dovrebbe evitarci la sua presenza. Non abbiamo tempo o voglia di badare anche a lei»
Faith dovette sbattere le palpebre diverse volte per riacquistare una vista limpida.
«E’ colpa mia. Non ho fatto colazione» mentì sorridendo «Non si libererà di me tanto facilmente» aggiunse poi facendogli un occhiolino ed estraendo la macchina fotografica così da immortalare quella scena dell’orrore.
Will le andò vicino, cingendola e sorreggendola.
«Ci penso io» disse allontanandola da Jack.
«No, Will» protestò lei allontanandosi «Sono io che devo occuparmi di te… E poi sto già meglio, molto meglio»
Jack le si avvicinò di un passo.
«Non mi contamini la scena del crimine» le intimò prima di allontanarsi.

Faith per un attimo ancora riguardò il corpo della vittima: piccoli pezzetti di carne erano stati portati via dal beccare dei corvi, la pelle era bianca come la carta sulla quale scriveva e i rivoli di sangue, ormai asciutto, marcavano la sua pelle come se fosse inchiostro. Per un attimo le venne l’impulso di accarezzarla, consolarla, dirle che d’ora in poi non avrebbe più dovuto soffrire… ormai aveva lasciato l’inferno alle spalle.
D’un tratto una leggera brezza accarezzò la sua pelle, portando con sé l’odore mortifero di quel corpo che sentiva tanto vicino.
D’un tratto si risentì a casa.
D’un tratto la terra sotto di lei ricominciò a girare vorticosamente.

Quella notte si fermarono a Duluth, in un piccolo e squallido motel.
Faith non riuscì a dormire: lì, da sola, nel buio, con quell’odore che ancora sentiva nell’aria, che ancora si sentiva addosso.
Faceva piccoli sonnellini che si concludevano in incubi di corna e sangue.
Si rigirava nel letto nervosa.
Accendeva e spegneva nevroticamente la televisione.
Si infilò in doccia diverse volte per togliersi quell’odore, inesistente, di dosso, strofinando con forza la sua pelle che man mano si arrossava sempre più.
Quando chiuse il getto d’acqua della sua terza doccia, continuò a sentire lo scrosciare dell’acqua della stanza affianco. Si avvicinò alle piastrelle verdi fino ad aderirvi completamente. Pose il suo orecchio in ascolto: anche Will, come lei, non riusciva a dormire.

La mattina seguente si vestì lentamente, assonnata e stanca.
Raccolse i capelli in una lunga coda, indossò dei comodi leggins e una strana maglia da cinque dollari comprata il giorno prima, degli anfibi neri, bassi e comodi.
Prese i vestiti indossati il giorno prima, li chiuse in un sacchetto e li gettò nella pattumiera che sostava fuori,  vicino la porta della sua camera.
Inspirò profondamente quell’aria fresca che sapeva di umidità.
Indossò degli occhiali da sole per nascondere le occhiaie livide.
Si accese una sigaretta, che l’accompagnò nel tragitto che la separava dalla caffetteria.

Bussò alla porta di Will con in mano due caffè da portar via e qualche ciambella.
Si trovò sorpresa nel vedersi di fronte il dottor Lecter.
«Buongiorno» la salutò lui, invitandola a entrare.
Lei lo guardò da dietro i grandi occhiali scuri e dovette alzare il volto per incrociare lo sguardo dell’uomo.
«Buongiorno» gli rispose poi di rimando.
La stanza era in penombra e disordinata.
Un tavolino, proprio sotto la finestra, riportava due piatti e dei contenitori, qualche avanzo.
«Questa» disse sollevando la busta con la colazione a portar via «Suppongo che non serva più» aggiunse poi gettando, offesa, la colazione nel secchio dell’immondizia.
Hannibal la guardò nel suo fare nevrotico.
«Mi dispiace, non avevo pensato a una sua eventuale presenza, altrimenti avrei…» le disse composto, ritornando a sedersi.
«Will?» chiese lei interrompendolo bruscamente.
Hannibal Lecter si irrigidì.
«Si sta preparando» disse con un filo di voce che nascondeva irritazione.
Faith si avvicinò alla finestra, scostò la tendina impolverata e guardò fuori.
Fissò l’uomo che ora le dava le spalle.
Era infastidita da lui, si sentiva messa da parte, abbandonata
Inspirò profondamente quell’aria stantia e capì di stare esagerando.
«Mi scusi se l’ho interrotta» disse Faith rompendo quel silenzio pregno di irritazione reciproca che si era creato «Ho avuto una brutta nottata e mi sento solo un po’… frustrata. Ma non è giusto prendersela con lei, penso»
Lo psichiatra si alzò, si sistemò i pantaloni e con calma si rivolse di nuovo alla donna che lo fissava.
«Riconosce i proprio peccati, è una dote che pochi possiedono»
«Le capita spesso di essere frustrata?» le chiese dopo un attimo di silenzio.
Faith si strinse il petto tra le braccia, in segno di chiusura.
«Non ha bisogno di essere psicanalizzata» si intromise Will, uscendo dal bagno e afferrando il giubbotto.
«Possiamo andare»

Più tardi, quella stessa mattina, si recarono in un cantiere edile. Una scheggia di metallo li aveva condotti lì.
La terra era umida e fangosa, il cielo plumbeo in contrasto con gli occhiali scuri e pesanti di Faith.
Entrarono nell’ufficio rialzato del cantiere.
Bastò dire che erano dell’FBI e la segretaria li fece rovistare tra le varie schede dei dipendenti.
«Hai detto che dobbiamo cercare dei particolari, giusto?» chiese Faith sfogliando annoiata dei fogli, ma non ricevette risposta da Will.
«Oh guarda» disse sorridente sventolando il primo foglio che le capitò «Questo tizio ha allegato una sua foto… Strano, sembra che stia addentando un pezzo di braccio»
«Ti prego di evitare certe battute» l’ammonì Will.
«Probabilmente è solo una bistecca» aggiunse poi mentre il suo sorriso si spegneva.
«Magari è entrambe le cose» commentò, con un mezzo sorriso, lo psichiatra mentre continuava a rovistare tra le numero identità.
Faith sorrise, facendo cadere quel muro d’irritazione che si era creato.

Pochi minuti dopo, Will si ridestò analizzando la scheda di un dipendete: Garret Jacob Hobbs.
«Ha lasciato il numero di telefono ma nessun indirizzo» dichiarò Will, indicando l’uomo come probabile indiziato.
Presero degli scatoloni ricolmi di schede sui dipendenti e li trasportarono in macchina.
Vi fu un momento, poi, in cui il dottor Lecter, che porgeva gli scatoli dalla cime delle scale, fece sbadatamente scivolare dei fogli per terra.
Will e la segretaria si chinarono per raccogliere le numerose schede cadute ed evitare che venissero sporcate dal fango; Faith preferì portare lo scatolone in macchina.
Quando si voltò vide, dallo scorcio lasciato dalla porta semi chiusa, lo psichiatra digitare un numero dal telefono del cantiere. Dovette stringere gli occhi per vedere meglio il fazzoletto di carta tra la mano dell’uomo e la cornetta.
Rimase pensierosa e dubbiosa vicino alla macchina.
«Non ci resta che andare da Hobbs» disse Will, avvicinandosi e distogliendole l’attenzione.

Dopo una mezz’ora di viaggio in macchina, si ritrovarono nei pressi di una villetta immersa nel bosco rado del luogo.
Will scese per primo, seguito a ruota da Hannibal.
Faith rimase ancora qualche secondo sulla vettura, sfortunatamente  fu qualche secondo di troppo: un attimo dopo i suoi occhi registrarono la presenza di un uomo, il suo gettare una donna sgozzata sul portico, Will prendere la pistola per poi, veloce, scomparire dentro quella casa.
Faith sentì un pugno allo stomaco che la paralizzò.
Voleva correre dietro Will, ma era immobile.
Voleva in qualche modo proteggerlo, ma non ne era capace.
Voleva gridargli di non andare, ma dalla sua gola asciutta non uscì una sillaba.
Rimase in auto.
Fissava il sangue della donna che scivolava via troppo velocemente da quel corpo e impregnare la pietra sopra cui giaceva.
Sentì ancora quell’odore di morte ferrosa avvolgerla e soffocarla.
L’unica cosa che seppe fare fu spostare lo sguardo un po’ più a destra e notare l’attenta e precisa impassibilità con cui il dottor Lecter guardava quel corpo, sembrava quasi che stesse analizzando la scena con freddo raziocinio e vivida impazienza.
Poi il buio.
Immobile.
Piccola.
Con gli occhi pieni di lacrime che non scendevano.
Imprigionata da quell’odore di morte che solo lei percepiva.
Di nuovo la terra sotto di lei ricominciò a girare.
---

Passò qualche giorno da sola, chiusa in una sola camera della piccola casa di famiglia.
Sentiva freddo, dentro e fuori.
Sentiva male a ogni parte del corpo, muscoli e organi.
Quando fu riportata a casa da un agente, si fece una lunga doccia fredda.
Restò accovacciata per delle ore, sotto il getto d’acqua rumoroso e violento, su quel marmo ingiallito dal tempo.
Quando finalmente decise di uscire, si gettò a peso morto sul letto che, sotto il suo corpo bagnato, diventò prima zuppo, poi umido, poi asciutto.
L’unica cosa che fece fu telefonare a Will: sostava in ospedale per vegliare sulla salute di Abigail, la vittima del padre, il biglietto d’oro.
A distanza di diverse ore raccoglieva le forze e, ancora nuda e fredda, si gettava su un vecchio scatolone che teneva sotto il letto, in caso di ‘emergenza’: era ricolmo di ogni cosa le piacesse, piena di zuccheri, grassi, soffice o croccante non aveva importanza, doveva essere nocivo.
Mangiò quanto più riuscì a ingurgitare, senza gustarne un solo boccone.
Veloce e in silenzio, fissando il vuoto della sua mente e udendo il silenzioso urlo della sua anima.
Placando quella fame che si portava dietro, quella fame di affetto e di cibo, quella fame che la rendeva nervosa.
Non appena si sentì sufficientemente sazia e appagata ritornò in bagno, dove bevve l’acqua che fuoriusciva dal rubinetto e che sapeva di ferro e ruggine, a causa di vecchie e difettose condutture di cui nessuno si era mai interessato.
Bevve tanta acqua.
Poi, quasi con naturalezza, in un gesto che emanava sicurezza, liberazione, consuetudine e peccato, si infilò due dita in bocca, giù per la gola, ripetutamente, graffiandosi la pelle in un luogo in cui nessuno avrebbe potuto vedere le sue ferite e diagnosticare il suo disagio.
Lo fece quel giorno, quello dopo e il giorno dopo ancora. Fin quando non si sentì paga. Fin quando la frustrazione l’abbandonò, lasciando in lei solo un senso di vuoto, mentale e corporeo, e una testa che, stanca, le girava facendole vedere il mondo capovolto.
Si accasciò ancora sul letto, ancora nuda, ancora fredda.
Si accasciò appena in tempo.
Si accasciò per poi svenire e dimenticare ogni cosa.

Si ridestò solo il giorno seguente, per colpa del trillo del cellulare che, da lei, era stato gettato per terra in un gesto di rabbiosa violenza e inquietudine.
La testa le girava ancora e un senso di nausea la percorreva, facendola sentire a casa.
«Will» rispose lei, camuffando la voce.
«Ti ho svegliata?»
«Si, ma non ti preoccupare»
«Ti disturbo?»
«No»
«Jack vuole che il dottor Lecter rediga un profilo psicologico su di me. Devono accertare che io sia sano… psicologicamente»
Faith sembrò rispondere a quelle affermazioni con un mugugno.
«Il dottor Lecter, però, mi ha chiesto di portare anche te. Dice che ne avevate già parlato»
«Si, è vero»
«Allora più tardi ti passo a prendere»
Faith notò che Will non le riferì l’ora in cui sarebbe passato, ma non disse nulla e chiuse lì la conversazione.
Entrò di nuovo in doccia, questa volta sotto un getto d’acqua calda.
Si preparò, come se nulla fosse mai accaduto, come era accaduto tante volte.
Ogni tanto mandava giù grandi sorsi di caffè dolcissimo, per tenersi in piedi.

Non appena fu pronta, uscì di casa e si sedette sul marciapiede ad aspettare Will… proprio come quando lo aspettava per andare al cinema, il venerdì pomeriggio, quando la paghetta mensile glielo permetteva.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo. ***


Faith.

Capitolo secondo.

 

Quando Faith entrò nell'autovettura malconcia di Will, lui la salutò con un sorriso tirato.
Era nervoso per la visita, pensò lei
Era nervoso perché Abigail Hobbs era un'indiziata, le disse lui.
Faith passò molto del tempo, che impiegarono per arrivare a destinazione, ad ascoltare i pensieri dell'amico sul caso dell'Averla del Minnesota e su come Abigail fosse innocente.
Secondo il parere di Will, era impossibile che la ragazza fosse complice di una tale efferatezza.
Faith sentì nelle sue parole una sorta di rancore nei confronti di Jack, per le accuse mosse.
«E' più che normale che Jack sia sospettoso nei suoi riguardi» gli disse appoggiando un gomito allo sportello e reggendosi la testa con la mano, come se le pesasse «Devi ammettere che risulta difficile credere che Garret abbia avvicinato tutte quelle giovani, giovanissime, donne... tutto da solo. Insomma: non era un bell'uomo, era sposato, non era ricco né risulta da nessuna parte che fosse affascinante o carismatico... Era persino calvo» aggiunse, gesticolando con la mano libera, con un sottile velo di sarcasmo.
Arrivarono a destinazione e Faith vide presentarsi davanti ai suoi occhi una vecchia e raffinata struttura dal gusto leggermente classico.
Si portò una sigaretta alla bocca e l'accese. Inspirò a pieni polmoni quell'aria tossica che tanto la faceva sentire bene.
«Il problema» continuò lei mentre osservava Will girare le chiavi nel quadrante e arrestare il motore «E' che ti sei affezionato troppo, non sei obiettivo. Non è stato salutare passare con lei tutte quelle notti in ospedale, Will»
L'uomo si girò a guardarla, riservandole una smorfia.
«Smettila di fumare» le disse strappandole la sigaretta dalle dita, come per ripicca. Poi aprì lo sportello e uscì dalla vettura. Lasciò cadere il mozzicone ai suoi piedi e lo pestò e lo dilaniò contro l'asfalto ruvido e umidiccio.
Era confuso, ma sapeva di avere ragione.
Inspirò quell'aria autunnale, prima di riaffacciarsi in macchina.
«E comunque» le disse puntandole un dito indice incerto «Sono sicuro che lei sia innocente. E ora non ha più nessuno al mondo»
«E non è una tua colpa» sottolineò lei «Non te ne devi assumere il peso o la responsabilità»
Will picchiettò con le dita sulla lamiera sottile dell'auto. Infastidito, nervoso, confuso.
«Andiamo, siamo in ritardo»
- - -

«Buongiorno» li salutò il dottor Lecter quando varcarono la soglia del suo studio.
«Buongiorno» rispose Will di rimando addentrandosi nella grande stanza.
Faith invece non rispose, si sentiva quasi soffocata da quell'ambiente: le pareti porpora davano un senso di calore, ma veniva contrastato dal minuzioso ordine che regnava nella stanza e dalle colonne color fumo e classicheggianti che permeavano l'ambiente di freddezza.
«Le piace?» le chiese Hannibal, dopo aver chiuso la porta, essendosi accorto del vagare del suo sguardo.
«Non è il mio genere» ammise Faith con incertezza «Ma ammetto che è molto... teatrale»
«Spero sia un complimento» ribatté lui.
Hannibal dopo, senza aspettar risposta, le passò davanti per avvicinarsi alla scrivania.
Scansò qualche foglio e poi ne brandì uno. Con lunghi ma lenti passi si posizionò al centro della grande stanza, testa in alto per guardare Will, ora sul soppalco.
«Che cos'è quello?» chiese infastidito Will adocchiando il foglio che lo psichiatra teneva tra le mani.
«La sua valutazione psicologica» rispose Hannibal spostando lo sguardo da Will al foglio, e viceversa «Lei è del tutto funzionale e... più o meno sano. Ottimo lavoro»
Will fece qualche passo pesante, prima di parlare «Mi ha automaticamente approvato?»
«Jack Crawford può riposare, consapevole di non averla spezzata, e la nostra conversazione può procedere libera da scartoffie»
«Jack pensa che abbia bisogno di un sostegno psicologico» ribatté Will, fissando il dottore dall'alto della stanza.
«E di un supporto umano» aggiunse Hannibal spostando il suo sguardo su Faith, ancora sull'uscio, che fece un passo indietro scontrandosi con la porta fredda.
«Più che soffermarmi sulla sua singola persona, Will» continuò lo psichiatra «Oggi mi piacerebbe approfondire il legame tra lei e la signorina Williams, come espressamente chiestomi da Crawford. Suppongo che la dottoressa Bloom debba aver riscontrato un forte legame tra voi, al punto da proporla come 'ancora' per la realtà. E' di questo che vorrei parlare oggi» disse sbottonandosi la giacca e sedendosi su una poltrona di pelle marrone. «Accomodatevi, vi prego»
Faith e Will guardarono lo psichiatra sorpresi, lei dal basso e lui dall'alto.
Hannibal notò che gli riservarono lo stesso sguardo.
Lei, poi, si mosse in direzione del lettino di pelle scura. I suoi passi erano piccoli, rumorosi e fastidiosi, quasi irritanti per un orecchio abituato al silenzio. Si sfilò il giubbotto di pelle nera e poggiò la borsa ingombrante sulla poltrona singola.
Quando si sedette su quel lettino pensò che fosse tanto bello quanto scomodo. Gambe chiuse, leggermente inclinate. Con i palmi delle mani strofinò la stoffa dei pantaloni rossi che le fasciavano le cosce, come se volesse trovare calore in quella enorme e gelida bolla di sapone.
Will si sedette al suo fianco.
«Mi chiamo Faith, ho trentun anni e sono sobria da ben venti giorni» scherzò lei, sorridendo e facendo sorridere l'amico. Chi non sorrise fu invece Hannibal che con la sua espressione imperturbabile fece morire il riso della donna. La guardò e a Faith sembrò che la stesse sgridando.
«Mi scusi» mugugnò piano lei, abbassando lo sguardo.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Hannibal si fece scivolare via quella sensazione di fastidio procuratagli dalla battuta poco convenite all'occasione.

«Da quanto tempo vi conoscete?» chiese poi squarciando il silenzio.
«Diciannove anni, più o meno» rispose Will.
«Venti, per essere esatti» lo corresse Faith.
Will intuendo la prossima domanda, rispose senza che nulla gli fosse chiesto: «Ho passato la mia infanzia in giro con mio padre, non avevamo una situazione stabile. Poi, quando dovetti cominciare a frequentare la scuola con più regolarità, ci trasferimmo a Baltimora»

«Vi siete conosciuti nelle aule scolastiche, dunque?» chiese lo psichiatra.
«Si» rispose Will.
«No» lo corresse Faith «Sul pulmino diretto alla scuola, in verità. Quando salii vidi questo ragazzino con due grandi occhiali che gli ricadevano giù per il naso, i capelli arruffati, i vestiti stropicciati. Ricordo che guardava un punto fisso del sedile davanti a lui. Pensai che dovesse essere un tipo simpatico, strano ma simpatico, così mi sedetti accanto a lui e... e non me ne andai più via»
Will sorrise «E' vero» disse poi passandosi una mano tra gli occhi e gli occhiali «Volevo solo stare da solo e non riuscivo a farti allontanare. Eri così... irritante, stravagante e inopportuna»

«Ha provato a respingerla?» chiese Hannibal e Faith si sentì leggermente ferita.
«Si, ma non ci fu verso di farla andar via. Poi un giorno mi abituai» rispose sinceramente Will «Mi abituai e basta»
«Ed eccomi ancora qui» disse ironicamente la donna.
Si sorrisero vicendevolmente nel trovarsi catapultati in ricordi tanto lontani eppure tanto nitidi.
Hannibal li osservò: il suo sguardo zampillava da Will a Faith per capire gli ingranaggi che agivano in quel meccanismo ben oliato.

«Chiamereste il sentimento che provate l'uno per l'altra con il termine 'amore'?» chiese poi.
Hannibal si stupì dello scontrarsi delle due rispose, pronunciate allo stesso momento, con la stessa sicurezza, all'unisono: il «si» sicuro di lei si scontrò con il «no» perplesso di lui.
«Come sarebbe a dire 'no'?» chiese incrociando le braccia, con un tono vagamente isterico.
«Credo che il dottor Lecter si riferisca a un amore di tipo fisico» aggiunse Will.
Faith guardò lo psichiatra in segno di risposta, ma egli passò subito alla domanda successiva.

«Mi piacerebbe che l'uno definisca, nel modo che preferisce, l'altro»
«Noi siamo amici» rispose Will.
«Molto più che amici» lo corresse Faith.
Di nuovo lo sguardo di Hannibal registrava due aspetti diversi della stessa medaglia, si fermò su lei che sembrava più sicura, più consapevole, più determinata.

«Mi dica, per favore, a cosa associa l'affetto che prova per il signor Graham»
Faith sorrise, del sorriso più tenero che le portarono i ricordi e i sentimenti.
«Lui per me è tante cose: è l'amico da chiamare quando hai bisogno di distrarti; è il conoscente con cui ti scontri, versandogli del caffè bollente sulle scarpe scamosciate nuove, ti aspetti che ti mandi a quel paese e invece ti sorride; è la madre che ti bacia prima di andare a dormire; è il padre che rincasando ti porta il giocattolo per il quale avevi tanto pianto; è il fratello che ti protegge dai ragazzini più grandi; è il cugino che ti presta il fumetto appena uscito, che non ha ancora letto; è lo zio che ti abbraccia perché non ti vede da mesi; è il nonno che ti vizia e ti regala i dolci; è il fidanzato che si ricorda del vostro anniversario, quando tu l'avevi dimenticato; è il marito che, rientrando, porta per cena la pizza, per non farti cucinare; è il gatto che ti fa le fusa quando gli dai da mangiare; è il cane che scodinzola perché è felice che sei tornato a casa; è il mazzo di rose sull'uscio della porta dopo un'orribile giornata di lavoro. Will è tutto ciò che ho di bello e caro. Will è la mia famiglia. Will è la parte migliore di me.»
Sospirò sonoramente, felice.
Poggiò la sua mano sinistra su quella destra di Will, adagiata sul suo stesso ginocchio.
«Mi dispiace se ti ho paragonato a degli animali» gli disse poi scherzando.
Will sorrise incerto, «E'... molto bello quello che hai detto. Strano, ma ugualmente bello»
Hannibal Lecter si fissò su quell'incrocio di mani che emanava affetto, fratellanza e possessione.

«Ha mai provato attrazione sessuale per il signor Graham?»
Faith sgranò gli occhi e si lasciò andare in una piccola smorfia di disgusto, in un atteggiamento che Hannibal catalogò come infantile.
Subito spostò la sua mano, allontanandosi.
«Per carità, no!» rispose secca, guardando lo psichiatra come se avesse appena detto qualcosa di assolutamente folle.
Forse in quella situazione un altro uomo si sarebbe sentito offeso, ma Will sorrise divertito e Hannibal lo notò.

«Si deve sentire consolato» ipotizzò lo psichiatra «Nel sentirsi circondato da questo... affetto così importante. Ne è mai stato geloso?»
Will esitò un secondo, come se si stesse sforzando di ricordare qualche frammento di vita passata che aveva preso troppa polvere.
Si alzò e fece qualche passo nella stanza, come se gli conciliasse i pensieri.
«Non ne ho mai avuto occasione» constatò poi con un tono sorpreso.
Hannibal guardò la donna, che sorrideva tranquilla.

«Perché nasconde le sue relazioni al signor Graham?»
Faith corrucciò la fronte.
«Io non nascondo le mie relazioni» disse lei con un tono pungente «Will non le ricorda solo perché non ne ho mai avute»
«Non ha mai avuto una relazione?» le chiese il dottore, indugiando su di lei per capire se stesse mentendo. Non mentiva.
«No» rispose Faith, si grattò il collo mentre ripensava alla domanda «Se non teniamo conto di James. Ma non credo che il condividere il letto una sola notte possa chiamarsi relazione»
«Chi è James?» si sentì chiedere alle spalle, da Will.
«Oh» disse lei sventolandosi una mano davanti alla faccia, come se ciò l'aiutasse a scacciare via un ricordo indesiderato «Nulla di importante. Era un collega, un uomo carino, simpatico, a volte anche divertente»
«Perché non instaurò una relazione con James, allora?» chiese cauto il dottore
«Perché non volevo, non ho bisogno di un uomo» disse dispettosa lei.
«Ma ha bisogno di Will»
«Si»
«E ha condiviso il letto con James»
«Vedo che non le sfugge nulla»
«Aveva mai condiviso il suo corpo con qualcuno?» chiese Hannibal.
Faith si strinse sempre più tra le sue stesse braccia, mentre si obbligò nel non rispondergli male.
Lo sguardo severo e auto protettivo di lei si scontrò con quello curioso dello psichiatra.
«No» disse piano.
Lo vide sorridere, come chi è felice di indovinare una risposta.
«Perché allora ha dato a James un dono così speciale?»
«Mi sentivo incoerente» rispose piano lei perdendosi nel filo sottile dei suoi pensieri «Volevo solo essere coerente con me stessa»
Hannibal si alzò, si abbottonò di nuovo la giacca.
Le andò accanto e le poggiò una mano sulla spalla.
Sotto quel tocco è come se Faith si fosse risvegliata, portando lontano i ricordi e tornando alla realtà. Alzò lo sguardo e vide che lo psichiatra era accanto a lei, imponente e rassicurante.
«Grazie» le disse «Non era obbligata a un simile confidenza»
Faith lo vide allontanarsi da lei.
«Non accadrà più» disse lei pentendosi della sue parole «Lei non è il mio psichiatra»
Hannibal sorrise, con un angolo delle sue sottili labbra.
«E' un interessante, quanto inconsueto, rapporto amicale. Credo che la dottoressa Bloom abbia avuto buon occhio nel consigliare la sua presenza, signorina Williams. Lei è una persona onesta, sono rari i casi in cui non si tenta di mentire alle domande di uno psichiatra»
Faith ne fu felice, si sentì apprezzata, utile, in pace.
- - -


Il giorno dopo Jack li condusse nell'Elk Neck State Park, nel Maryland.
Faith camminava tra Jack e Will, sopra un manto di foglie gialle e fango, tra alberi e rami troppo lunghi.
«Allora» disse Jack rivoto a Will «Lecter ti ha dato l'okay... E anche a te» aggiunse poi irritato guardando Faith.
Fecero ancora qualche passo e poi li videro: nove corpi di uomini e donne completamente ricoperti dai grandi funghi.
«Stai indietro questa volta» le disse Jack obbligandola a stare dietro la linea gialla «Mi hanno già contaminato una scena del crimine, non lo permetterò ancora»
«Ma non sono stata io» rispose lei, ma era ormai troppo tardi: Jack e Will si stavano allontanando mentre lei veniva bloccata da un agente della polizia locale.
Passò parecchio tempo, forse un'ora o poco più, e la gente del luogo cominciò a radunarsi intorno alla scena del crimine.
C'era chi spingeva per guardare, chi cercava di scattare una foto, chi invece, dopo aver visto, andava via disgustato chiedendosi come un qualcuno potesse spingersi fino a compiere un tale crimine.
La scena era visibile, ma ovviamente non riusciva a capire cosa dicessero gli investigatori della scena del crimine su quei corpi.
Poteva essere così interessante, pensò Faith.
«E' così interessante» sentì dire da una sottile voce femminile accanto a lei.
Faith si voltò sorpresa nel trovarsi riflessa nel pensiero di qualcun'altra.
Si voltò e riconobbe la sua vecchia collega Freddie Lounds, con i suoi ricci rossi e una bugia sempre pronta in tasca.
La vide scattare qualche foto di nascosto, prima di rivolgere l'attenzione all'agente vicino a loro.
«Mi scusi, sono la madre di uno dei ragazzi che hanno trovato i cadaveri. La ringrazio per essere stato così gentile con loro»
Faith la guardò sorpresa: ecco il perché Freddie era ancora una giornalista e lei no.
«Le seccherebbe tanto se le chiedessi alcune cose?» continuò poi Freddie «I ragazzi avranno sicuramente delle domande, voglio essere sincera con loro»

Faith smise di ascoltare quando vide Will muoversi in maniera incerta vicino ai corpi. Lo vide accasciarsi, scuotere la testa.
D'un tratto vide il braccio del corpo accanto a Will alzarsi e cingerlo, come in uno dei peggiori film d'orrore.
Il cuore le andò in gola.
Strinse il nastro giallo così forte che lo squarciò.
Vide Will alzarsi, indietreggiare barcollando e Price urlargli di non toccare il corpo.
Faith approfittò della distrazione dell'agente e valicò il limite impostole da Jack.
Veloce corse accanto a Will, che si era appoggiato a un albero.

«Will, ci sono qui io»

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo. ***


Faith.

Capitolo terzo.




«Will» lo chiamò lei afferrandogli le spalle e scuotendolo con forza.
«Ci sono» affermò lui togliendosi gli occhiali e chinandosi sulle proprie ginocchia

« Va tutto bene »

Era già mezzogiorno inoltrato quando Jack ordinò di sgomberare il campo. Il superstite era stato trasportato su un'autovettura dell'FBI, pronto per il viaggio fino in Virginia.
 
«Dobbiamo essere veloci » disse Will «Non gli ci vorrà molto per vedere che abbiamo estirpato la sua coltura »
Faith guardò nevrotica l'orologio che segnava un quarto d'ora dopo l'una del pomeriggio.
 « E' tardi »  disse tra sé e sé.
« Faith »
Lei alzò gli occhi, sentendosi chiamare, e vide l'amico aprire lo sportello della macchina di Jack Crawford
«Cosa ti è sfuggito del 'dobbiamo essere veloci'?»
Faith si stropicciò le mani, si morse un labbro. Con passi veloci si avvicinò a Will.
«E' martedì» gli sussurrò.
Will corrugò la fronte cercando di capirne il senso e il fine della frase, senza riuscirci.
«Lo so bene che giorno della settimana è oggi» rispose lui «Ma grazie per tenermi aggiornato»
«Dobbiamo andare» si sentì da dentro l'auto da uno Jack Crawford tutt'altro che rilassato.
Faith si scorse leggermente, piegandosi, così da poter vedere l'agente.
«Non posso venire» disse a Jack.
L'agente Crawford poggiò un braccio sul sedile accanto a quello del conducente, inarcò entrambe le sopracciglia «Non si aspetterà che me ne importi qualcosa, suppongo»
Faith sospirò «Oh non si preoccupi per me, prenderò un taxi»  disse poi indossando gli occhiali da sole.
Si sollevò per salutare Will.
«Fai attenzione» gli disse baciandogli una guancia «Non accettare caramelle dagli sconosciuti»
«Dove devi andare?» chiese lui, come se si fosse fermato a un punto morto del discorso.
«Will» si sentì urlare dalla macchina.
Faith fece qualche passo indietro mentre l'amico entrava nell'autovettura, abbassava il finestrino e le alzava una mano in segno di saluto.
«E' martedì» gli disse più forte, mentre l'auto cominciava a muoversi lontano da lei.
Faith rimase da sola in quel parcheggio decentrato. Prese il cellulare e chiamò un taxi, sarebbe arrivato a breve, solo un paio di minuti d'attesa.
«E' martedì» si ripeté più volte, da sola, nella sua mente, in silenzio, in attesa.
E' martedì: è così semplice, così intuitivo.
E' martedì, non un martedì qualunque ma quel martedì di ogni due settimane.
E' martedì, ma forse Will non se n'era mai reso conto.

Quando Faith tornò, quel martedì giungeva al termine. Il sole accarezzava con i suoi raggi bassi la terra ombrosa, mentre la luna nascosta dalle nubi si affacciava distrattamente sull'orizzonte, per iniziare il suo ufficio notturno pregno di luci soffuse, parole sussurrate e calde carezze.
Il tassista le aveva chiesto un prezzo esorbitante.
Era stanca e assonnata, le cinque ore totali di taxi avevano dissanguato sia lei che il suo portafogli.
Aprì la porta di casa, si tolse stancamente le scarpe, camminò su quel legno freddo che dominava in quelle stanze vuote, polverose e chiuse.
Si buttò sul letto spossata, maledicendo Lewisburg e la Pennsylvania per sembrare ogni volta così lontane da Baltimora.
Chiuse gli occhi ignorando la vibrazione del cellulare che lampeggiava, di una luce bianca e forte, in cui risaltava, violento e spiccato, il nome di Will.
---

Era giovedì e Faith non usciva di casa da giorni: doveva scrivere qualcosa, doveva cominciare o non avrebbe mai finito.
Bevve a grandi sorsi della Coca Cola zero, che con la sua lattina nera tanto contrastava il bianco quasi ingrigito del bancone di marmo della cucina.
Piegò in collo, prima a destra e poi a sinistra, facendolo scrocchiare.
Incrociò le dita, facendo scrocchiare anch'esse: era pronta.
Scalza percosse quei pochi passi che la separavano dal piccolo cantuccio che si era creata: un tavolino tondo, troppo piccolo e malconcio, sovrastato dal computer, nuovo e pulito, e dal telefono cellulare rovinato dalle troppe cadute; a terra una stampante con qualche foglio pronto a essere mangiato prima e sputato poi.
Si sedette e la sedia scricchiolò, stanca di essere usata.
La luce dello schermo del computer illuminò la stanza buia a causa delle imposte serrate.
Si grattò nevroticamente la cute, infastidita per il nodo che tirava troppo i capelli scomposti e annodati.
Aprì la pagina per comporre: si inizia.
Le sue dita sottili picchiettavano sui tasti del suo notebook, creando una piccola sinfonia tanto soave per l'orecchio di uno scrittore.
Frase, punto, spazio, a capo, cancella, cancella, pausa.
Rilegge. Corregge. Riflette. Riprende.
Parole, pensieri, virgole, appunti.
Rilegge. Corregge. Riflette. Cancella.
Frase. Cancella.
Cancella.
Tre ore e mezza dopo Faith si trovava, di nuovo, di fronte a una pagina bianca. Chiuse con rabbia il suo notebook, diede un calcio alla stampante. Non era possibile che ancora non riuscisse a scrivere nulla: era circondata da mille elementi utili, dettagli succulenti e immagini raccapriccianti che si imponevano rapide e crudeli nei flash della sua memoria... Eppure le mancava qualcosa, quella scintilla che la portasse oltre l'ordinario scribacchiare di qualsiasi individuo, le mancava la musa, il suo biglietto d'oro.
La vibrazione del cellulare la destò dalla sua frustrazione: era Jack Crawford che le ordinava di andare, quanto prima le fosse possibile, nell'aula in cui Will stava già tenendo la sua lezione.
«Perché tutta questa fretta?» chiese svogliata lei al pensiero di togliersi quel pigiama di pile blu tanto comodo.
«Abigail Hobbs si è svegliata. Non farci perdere tempo ad aspettarti, perché non lo faremo»
Poi il click che chiude la conversazione.
Faith, velocemente e senza cura, andò in camera da letto e aprì i cassettoni del comò e prese la prima maglietta che le capitò a tiro, una nera a maniche corte con un teschio bianco che sovrastava la scritta 'rock'; aprì l'armadio e tirò giù un paio di jeans stropicciati, scoloriti, aderenti; calzò gli stivaletti di pelle nera, senza cambiarsi le calze ormai sporche della polvere del pavimento; indossò il giubbotto scuro e lo chiuse per ripararsi dal freddo; scese veloce quei dieci scalini che separavano il piano 'giorno' dal piano 'notte'; afferrò le chiavi che giacevano sul ripiano della cucina, rovesciando la Coca Cola che ora si insinuava tra le fessure del vecchio pavimento di legno.
Quando uscì fu investita da uno sbuffo d'aria autunnale che le fece infreddolire il viso.
Aprì la porta del garage e uscì la sua Crosstourer Abs, nera e lucida.
Salì sulla moto e si sistemò il giubbotto prima di indossare il grande casco scuro, mettere in moto e accelerare.

Arrivò appena in tempo di fronte all'aula e vide le figure del dottor Lecter e dell'agente Crawford entrare.
Accelerò il passo e quasi dovette correre per raggiungerli, casco sotto braccio.
Quando Faith entrò nell'aula si trovò di fronte, proiettata sul grande schermo dietro le spalle di Will, l'immagine della ragazza trovata poche settimane prima, in un campo di Duluth.
La voce di Will sovrastava il silenzio che regnava nella stanza; i suoi occhi vagavano bassi, senza incrociare gli sguardi degli alunni; i suoi passi erano nervosi, lenti e incerti.
«E' uno psicopatico intelligente» diceva Will parlando dell'emulatore dell'Averla del Minnesota «E' un sadico, non ucciderà mai più così. E come lo prendiamo?»
Il respiro affannoso di Faith destò l'attenzione di Jack, che si voltò a guardarla.
Faith poggiò le spalle sulla parate vicina e lasciò il casco per terra, per riposarsi.
«Tiene una lezione sull'emulatore di Hobbs?» sentì la voce nitida di Hannibal insinuarsi nell'attenzione di Jack.
«Ci servono più menti possibili» asserì Jack prima di prestare nuovamente attenzione a Will.
«Questo emulatore» continuò il professor Graham «E' un avido lettore di Freddie Lounds e Tattlecrime.com, aveva una conoscenza profonda degli omicidi di Garret Jacob Hobbs, movente, modalità, abbastanza per ricrearli e paradossalmente elevarli persino ad arte. Quanto conosceva Garret Jacob Hobbs? Lo apprezzava da lontano o l'aveva avvicinato? Hobbs conosceva il suo emulatore allo stesso modo?»
Will fece qualche secondo di pausa, si sedette leggermente sulla scrivania posta al centro dell'aula.
«Garret Jacob Hobbs, prima di uccidere la moglie e tentare di fare lo stesso alla figlia, ha ricevuto una telefonata non tracciabile. Sono convinto che l'autore non identificato di questa chiamata fosse il suo emulatore»
Una chiamata non tracciabile.
Una chiamata.

Faith spostò lo sguardo verso il dottor Lecter. Era leggermente più indietro di lui ma, essendo poggiata al muro sinistro, poteva vederne il profilo: due labbra sottili che si increspavano in un sorriso, in un piccolo ghigno di compiacimento.
L'attenzione di Faith fu poi richiamata dal rumore e dal vociare degli alunni dovuti alla fine della lezione. Prese il casco, prima riposto a terra, e se lo mise sotto braccio.
«Guida una moto o si è fatta accompagnare?» sentì chiedersi dallo psichiatra, avvicinatosi.
«Guido» rispose lei dubbiosa «Ma, se posso, preferisco farmi accompagnare»
Ci fu un piccolo e leggero movimento del capo da parte di Hannibal, Faith lo notò e ripensò a quando, la prima volta che si incontrarono, le diede dell'opportunista.
«Suppongo che non siate qui per assistere alla prossima lezione» affermò Will avvicinandosi.
Faith vide Jack fare un passo avanti, come se stesse prendendo coraggio per dire qualcosa che potesse sconvolgere Will.
«Abigail si è svegliata» sputò fuori tutto d'un fiato Faith, che si beccò l'ennesima occhiataccia da parte di Jack.

Si recarono alla struttura che ospitava Abigail Hobbs con la macchina, definita da Faith 'sciccosa', dello psichiatra.
Durante il tragitto il dottor Lecter chiese ulteriori dettagli sulla teoria d'emulatore collegato alla telefonata.
Ne è interessato.

Quando aprirono la porta della camera di Abigail, li accolse la voce stretta e stridente di Freddie.
Faith, sentendola, cercò di coprirsi un po' con i capelli, per evitare di farsi riconoscere. Entrò dopo di Will e prima di Hannibal in quella stanza fiorata con sfondo celeste, che ospitava un letto ospedaliero e qualche sedia.
«...cattura gli squilibrati perché pensa come loro»
Sentirono quest'ultima parte di quel discorso tra Freddie e Abigail.
Freddie si girò, sentendo aprire la porta e udendo i passi, e restò sorpresa nel vedersi di fronte l'oggetto del suo discorso, ma affondò lo stesso il colpo.
«Perché è uno squilibrato» disse accentuando il verbo essere affermativo.
Faith si sentì ferita da quelle parole e stava per dirgliene quattro, ma poi rispose Will per se stesso.
«Vuole scusarci, per cortesia?» le disse.
Freddie si alzò e prese la sua borsa.
«Sono l'agente speciale Will Graham» disse poi rivolto alla ragazza distesa sul letto.
« 'Agente speciale' vuol dire che non è un vero agente, non ha superato le selezioni... troppo instabile» commentò Freddie
«Lui non è instabile» si inserì furiosa Faith, piegando la gamba e poi sbattendola a terra con forza, come se il gesto desse autorevolezza alle sue parole.
Freddie la guardò e sembrò di ricordare.
«Le devo chiedere di andarsene» affermò Hannibal rivolto alla giornalista.
«Se vuoi parlare...» stava dicendo Freddie porgendo il suo bigliettino da visita ad Abigail, ma il gesto fu fermato da Will.
Faith guardò l'amico con orgoglio e piegò la testa in segno di consenso.
«Sono arrivata prima io, Williams» le sussurrò Freddie prima di lasciare la stanza.

Accompagnarono la ragazza a fare due passi, sotto suggerimento di Hannibal, nella piccola serra adiacente alla struttura.
«Mi dispiace, non siamo riusciti a salvare tua madre» le disse Will che la scortava «Abbiamo fatto il possibile ma lei era già morta»
«Lo so, l'ho vista ucciderla» disse Abigail mentre si sedeva «Era affettuoso, poi all'improvviso non lo è stato più. Continuava a dirmi che gli dispiaceva, che dovevo stare tranquilla, che sarebbe finito tutto»
Gli occhi chiari e ombrosi della ragazza vagavano tristi tra i ricordi.
«Tuo padre aveva molte cose che non andavano, ma non c'è niente che non va in te» le disse Will per confortarla.
Abigail lo guardò, con due occhi grandi e indifesi.
«Hai detto che era affettuoso e io ti credo. L'affetto glielo suscitavi tu»
«Non gli ho suscitato solo questo» disse piano Abigail.
«Sarò una persona disturbata?» chiese poi.
«Probabilmente si» si intromise Faith incrociando le braccia «Ma non per questo diventerai un'omicida»
Gli occhi di Abigail si posarono su di lei, indiscreti.
«Faith» la riproverò severo Will, facendole fare un passo indietro.
---

«Non è molto saggio far arrabbiare un uomo che pensa di uccidere le persone per guadagnarsi da vivere» diceva la voce pesante di Jack.
Si trovavano nello studio di Jack, al di là della scrivania.
Jack da una parte che leggeva l'articolo di Freddie; Alana Bloom, Will, Faith e Hannibal ascoltavano in silenzio quello che si preannunciava come un rimprovero.
«Sa cos'altro non è saggio?» chiese Jack picchiettando con le dita della mano destra sull'altra mano e spostando il suo sguardo su Hannibal «Che lei era lì con lui... e anche lei» disse poi spostando lo sguardo su Faith «Mi chiedo per cosa la paghiamo a fare»
Faith si scorse leggermente, appoggiando i gomiti sulla scrivania.
«Ma voi non mi pagate» affermò lei «Ma se vuole cominciare a farlo...»
Sorrise canzoniera in risposto al sorriso irritato di Jack.
«A quel punto però potrei licenziarla come e quando voglio» rispose Jack.
«Io sono felice che l'articolo non fosse su Abigail Hobbs» disse Alana intromettendosi con quella che, secondo Faith, fu solo un'opinione inutile e banale.

Cominciarono a discutere sul desiderio di Abigail di tornare a casa.
Alana Bloom affermava che sarebbe solo stato nocivo per lei a livello psicologico e pericoloso, a causa dell'emulatore. Tuttavia Jack chiese il parere di Hannibal Lecter, che risultò opposto a quello precedente.
Poco più di un'ora dopo, Faith si ritrovava sul sedile posteriore centrale di un auto dell'FBI guidata da Will; accanto a lei la dottoressa Bloom, sulla destra, e Abigail, sulla sinistra. 
Il silenzio era uno di quelli imbarazzanti: nessuno sapeva cosa dire, cosa fare
Faith sentì i muscoli delle cosce di Abigail contrarsi quando arrivarono a casa sua. Poggiò una mano sul suo ginocchio, per farle capire che non era sola, che poteva stare tranquilla. Abigail le afferrò quella mano e la strinse, come se volesse condividere paure e angosce, condividere e dividere.
Cannibals, era questa la scritta che li accolse quando scesero dall'autovettura.
Faith camminò piano, dietro l'intero gruppo, così da allontanarsi dalla ragazza.

Fecero un silenzioso giro della casa.
Le foto erano girate e tutto era o in ordine o dentro grandi scatoloni gialli con su scritto 'Evidence'.
Sostarono qualche minuto in più nella cucina, rievocando il ricordo di quel terribile giorno. Le parole di Abigail sembravano dure e severe nei confronti di quell'uomo che aveva levato la vita al padre, ma i suoi occhi erano riconoscenti perché, dopotutto, le aveva salvato la vita.
Si fermarono nel salotto più a lungo.
Il dottor Lecter, Alana e Will portarono diversi scatoloni così che la ragazza potesse cercare qualcosa di utile ai fini dell'indagine.
«Si può prendere la follia di un altro?» chiese Abigail rivolta a Faith, mentre rovistava tra i ricordi di una famiglia ormai inesistente.
«Temo di si» rispose lei a voce bassa.
I loro occhi si scontrarono e si riconobbero, neri e azzurri, così diversi ma così simili.
«Folie à deux» si intromise Alana portando il suo ultimo scatolone e spiegando la sua teoria alla ragazza.
«Una persona non può essere uno psicopatico se i suoi valori sono ritenuti normali nella sua cultura... o dalla sua famiglia» affermò Hannibal adagiando a terra anche il suo ultimo scatolone.
«Mio padre non sembrava uno psicopatico»
«Tutti gli psicopatici non sembrano psicopatici, fin quando non lo scopri a tue spese» disse Faith stropicciandosi il naso che le pungeva a causa della polvere.
Questa volta lo sguardo di Faith si scontrò con quello dello psichiatra. Repentinamente e istintivamente distolse subito il suo sguardo da lui, per dedicarsi alle increspature della moquette.
«Tuo padre non ha quasi lasciato prove» disse Will.
«Quindi mi avete portato qui per cercarle» dedusse, quasi infastidita, Abigail.
Faith notò come il suo fastidio si tramutò in un sadico divertimento.
«Quindi dobbiamo rivivere il crimine» disse con un mezzo sorriso sulle labbra «Lei sarà mio padre» disse a Will «e lei mia madre» affermò rivolta poi ad Alana «e lei...» disse soffermandosi sulla figura imponente e composta di Hannibal Lecter «lei sarà l'uomo al telefono»
Faith fu quasi scossa da quelle parole, alzò gli occhi e registrò, come in un'istantanea, lo sguardo che Abigail riservò al dottore.
Intesa.
Quella volta fu Hannibal che si sforzò di guardare altrove. 
Abigail posò la propria attenzione su delle vecchie foto di famiglia mentre, con voce annoiata, raccontava di come le ossa delle vittime stessero probabilmente tenendo insieme dei tubi; poi promise che l'indomani li avrebbe portati nella baita, dove il padre produceva da sé lo stucco. Dopo l'attenzione di tutti fu richiamata dai passi pesanti di qualcuno che si avvicinava, ora, a una delle entrate che davano sul salotto.
«Ciao Abigail» disse una ragazza di media altezza, occhi chiari e capelli scuri.

Abigail chiese se potesse scambiare due parole con l'amica.
Le lasciarono passeggiare sul retro della casa, che dava sul bosco. 
«Deve essere orribile per lei stare qui, in questa casa» affermò Alana chiudendo uno scatolone.
«Ma è pur sempre casa sua» le disse Faith sedendosi su una poltrona «Niente potrà mai farle dimenticare questa casa, l'odore di questo luogo, la sensazione che prova varcandone la soglia»
«Dalle sue parole» si intromise Hannibal sistemandosi la giacca che si era increspata a causa del movimento dell'uomo «Si potrebbe dire che lei per prima è molto legata alla sua casa d'infanzia»
Faith si voltò verso di lui.
«Il luogo dei desideri infranti, dei sospiri, delle lacrime, dei gemiti» continuò Hannibal che corrugò leggermente la fronte, nell'atto di ricordare « Una casa ricolma di solitudine, in cui risiedono solo fantasmi d'amore e parole troppo pesanti per essere pronunciate»
Faith rimase stupita, sorrise. Chiuse gli occhi ad una fessura, prima di rispondere.
«Lei ha letto il mio libro»
«Tutto in una notte» rispose Hannibal «Ho constatato con mano il motivo del suo successo»
Faith sorrise, ancora. Sapeva di doversi sentire lusingata da quelle parole ma, in realtà, ne fu solo infastidita.
«Immagino la sua noia durante una lettura così» Faith si fermò un secondo, come se stesse cercando la parola giusta per deludere qualsiasi risposta che lo psichiatra si sarebbe aspettato «Banale»
«Lei si sottovaluta. Le accade spesso di sottovalutarsi?»
Faith si alzò, indispettita da quella domanda. Alzò il suo sguardo che, ancora una volta, si urtò con quello del dottore.
«Credevo fossimo d'accordo sul fatto» disse lei facendo il giro della poltrona e piazzandosi davanti alla figura alta di Hannibal «Che non deve psicanalizzarmi. Non sono una sua paziente, né desidero esserlo in un futuro prossimo... Quindi, per favore, rispetti la mia volontà»
Lo vide sorridere lievemente con l'angolo sinistro delle bocca.
«Ma avrò sempre la possibilità di analizzare il suo scritto» disse lui «Non è forse vero che nelle parole si cela l'animo dello scrittore?»
Faith deglutì. Per un attimo le sembrò di far parte di una partita a scacchi... e Hannibal Lecter le aveva appena mangiato la regina.
«Può pensare quello che vuole del mio libro» disse a denti stretti con parole che nascondevano irritazione «Ma se mi farà ancora domande inopportune, come risposta avrà solo e soltanto un'altra domanda inopportuna»
«Do ut des» le disse lui.
Lo vide sorridere, di nuovo, di quel sorriso che le sembrò il più irritante e fastidioso di questo mondo.
«E' latino» continuò Hannibal «Vuol dire...»
«So perfettamente cosa vuol dire» rispose Faith a denti stretti.
Hannibal stava per replicare e la sua bocca sottile si mosse, ma non fece in tempo a emettere suono perché furono destati dalle urla e dagli insulti che si udirono dall'esterno. Così, in un attimo, corsero tutti fuori.
Ogni passo era contraddistinto dallo scricchiolio delle foglie calpestate che, gialle e secche, ricoprivano il manto erboso.
«Ha detto di essere il fratello di qualcuno» disse Abigail andandogli incontro.
Faith non vide il volto di quel ragazzo, ne vide solo la sagoma che fuggiva via tra gli alberi.
Le foglie si mossero ancora.
«Marissa» urlò una donna spuntando alle spalle del gruppo. Quando la vide, Faith pensò che fosse una classica casalinga del luogo, con jeans e maglioncino, con un mestolo in mano e un rimprovero in bocca.
«Vieni a casa» disse la signora, evidentemente madre dell'amica di Abigail.
Ci fu un astioso e breve battibecco tra le due, che si concluse con un «La vuoi smettere di rompere?!» da parte della figlia.
Le foglie registrarono i loro passi che, via via, si allontanavano.
«E' proprio quando pensi che la giornata non possa peggiorare» disse Faith infilandosi dei guanti di pelle per ripararsi, in parte, dal freddo autunnale «Che assisti a una crisi adolescenziale»
«Crisi?» chiese Hannibal porgendole attenzione.
Faith non rispose, ancora urtata dalla conversazione precedente.
«Io la chiamerei 'maleducazione'» suggerì lo psichiatra guardando un'ostinata Faith che continuava a fissarsi le scarpe pur di non prestargli attenzione.
«E' un argomento controverso» continuò lui imperterrito «La maleducazione è colpa del genitore, che non ha ben insegnato le regole del vivere civile, o del figlio che le infrange pur conoscendole?»
Faith sentiva lo sguardo dell'uomo pesare su di lei. Non capiva cosa volesse, non era di certo obbligato a parlare con lei.
Calciò una foglia che, dopo aver fatto una mezza capriola in aria, si adagiò sulle sue simili.
Faith lo guardò e si espresse ritraendo le labbra sulla parte sinistra, in una smorfia infantile e capricciosa.
«Non è una domanda volta a psicanalizzarla» le disse lui facendo un passo avanti verso Faith.
«Credo della figlia, in questo caso» si decise Faith a rispondere «E' abbastanza grande da capire cosa sia giusto o meno»
Subito dopo riportò la sua attenzione a quelle foglie, gialle e morte, che si muovevano con il leggero soffio del vento freddo: a destra e a sinistra, calpestate e distrutte, leggere e impotenti, vive ma pur sempre morte.
---

Il giorno dopo Abigail li portò nella baita in cui il padre svolgeva le mansioni inerenti alla caccia.
Faith si portò la macchina fotografica. Will, che aveva in precedenza già fatto un sopralluogo, le aveva descritto il piccolo edificio in maniera confusa: tutto ciò che era riuscita a capire era la molteplice e ossessiva presenza di palchi di cervi.
Quando arrivarono, Abigail solcò il terreno con passi grandi e veloci, anticipando tutti gli altri.
Un agente della polizia staccò il nastro giallo che vietava l'entrata, aprì la porta.
Per prima entrò Abigail, seguita da Faith che con un flash violento illuminò la stanza, poi Alana, Hannibal e Will. 
La porta fu chiusa alle loro spalle.
Abigail raccò di come il padre provvedesse a fare da sé stucco, colla, burro.
La ragazza sembrava ferita e sconvolta al pensiero che suo padre fosse un cannibale e che, inconsapevolmente, anche lei ne fosse partecipe.
«Prima di tagliarmi la gola, mi ha detto che aveva ucciso quelle ragazze per non uccidere me» aggiunse sotto shock.
«Tu non sei responsabile per quello che ha fatto tuo padre, Abigail» disse Alana facendo un passo avanti verso quella ragazza a cui, era ormai evidente, si era legata, partecipe del suo dolore.
«Se avesse ucciso me, nessuna di quelle ragazze sarebbe morta» continuò Abigail. 
Faith incrociò il suo sguardo e si capirono, le loro anime si riconobbero nel silenzio e di quello sguardo falso e veritiero contemporaneamente.
Concentrando il quel momento tutta la sua attenzione sulla ragazza, Faith poté vedere con precisione la goccia di sangue rosso e scuro che andò a sporcare la fronte pallida di Abigail.
Salirono sul soppalco, dal quale proveniva il rivolo di sangue.
Faith seguì Will su per le scale. Fecero qualche passo avanti rimanendo poi pietrificati di fronte al corpo esanime di una donna trafitta da grandi e possenti  corna.
Gli occhi di Faith fissarono per parecchi secondi quel nuovo trofeo esposto lì, per loro.
Non fu ridestata dalla chiamata che fece Will, ma fu scossa da un fremito di angoscia e turbolenza quando Abigail urlò il nome dell'amica.
Istintivamente fece qualche veloce passo indietro, gli occhi fissi sul pezzo d'esposizione. La testa era vuota, pesante, impotente. Non riuscì a muovere un muscolo quando la sua retromarcia fu fermata da mani, grandi e possenti, che le afferrarono le spalle. Non si seppe muovere, non riuscì a ribellarsi: restò immobile e pietrificata, incarcerata. Guardava il sangue grumoso lasciare il corpo di Marissa Schurr e adagiarsi sul pavimento di legno ormai impregnato di lei, della sua vita, della sua morte. Vide Will alzare, con un fazzoletto pulito, il volto della giovane donna; sentì una di quelle mani che l'imprigionavano stringere la sua e, in un atto di violenza che le fece sanguinare l'anima, farle schiacciare il pulsante che avrebbe dato vita allo scatto, che avrebbe immortalato Marissa Schurr per l'ultima volta. Poi un flash illuminò la stanza, ridestando la morte e la vita, e fu finalmente libera da quella presa.
---

Jack non permise a Will, e quindi anche a lei di conseguenza, di accompagnare Abigail Hobbs a casa, per l'ultima volta.
Quando Faith tornò a casa era agitata e nervosa. Si grattò con violenza e rabbia la pelle delle braccia che, sotto le sue unghie poco curate, diventò rosso sangue, riportando graffi e lividi. Si spogliò veloce sull'ingresso di casa, gettando gli abiti per terra. Il respiro affannoso le toglieva la lucidità, lasciandole un vago senso di terrore immotivato. Affondò le unghie nella pelle chiara e delicata dei polsi; si graffiò lo stomaco come se volesse eliminare pezzi di pelle morta e fastidiosa. Graffia, gratta, affonda. Se avesse seguito le sensazioni del suo corpo avrebbe cominciato a grattar via anche gli occhi, che placidi le prudevano di lacrime nascoste e inesistenti. Prurito, sporco, calore. Un violento tremore le scosse i muscoli del corpo, ogni minuto più forte. Prese un bicchiere, facendone cadere qualcuno per terra e calpestandone il vetro che si dipingeva di rosso, lo riempì per metà di acqua a cui aggiunse diverse, troppe, gocce di un vecchio sedativo. Si sdraiò a terra e aspettò inerme che i tremori le passassero. Tremava sopra quel legno freddo che calpestava ogni giorno con i piedi scaldi o con le suole delle scarpe. Tremava e non riusciva a pensare. Tremava e le sembrava che da un momento all'altro sarebbe morta. Poi, come una grossa nuvola in un caldo pomeriggio estivo, sentì la tiepida pesantezza del calmante che le fece chiudere le palpebre. Restò lì, per tutta la fredda notte, tra le schegge di vetro, il sangue e la polvere.

Faith si svegliò solo il pomeriggio dopo.
Era leggermente stordita e con della saliva che scendeva giù dalla sua bocca per bagnare il pavimento.
Si portò una mano alla bocca per pulirsi, con l'altra scostò i capelli che le oscuravano la vista.
Dovette muoversi piano perché i muscoli le dolevano.
Provò un dolore lancinante quando fece aderire i piedi al legno, svenne.
Si risvegliò e tutto intorno a lei girava. Aspettò qualche minuto e poi, portandosi le gambe al petto, si estrasse le schegge ormai incrostate alla pelle.
Zoppicando e lasciando piccoli segni di sangue, riuscì ad arrivare in camera da letto e si medicò.
Restò sdraiata sul suo letto perché il camminare le recare troppo dolore.
Si portò le mani agli occhi e li stropicciò. Poi, d'un tratto, sembrò che la memoria fu di nuovo libera, come se si fosse ricordata in quell'istante di qualcosa che le sembrava più un sogno che realtà. Incurante del dolore, si alzò e zoppicando e strisciando quei piedi gonfi, si sedette nell'unica sedia del salotto. La sedia la salutò con il solito scricchiolio. Accese il pc e collegò con il cavo usb la macchina fotografica da cui scaricò le foto. Eccola: Marissa Schurr.
Era vero.
Faith si fermò, raggelata.
La chiamata, lei aveva visto.
L'interesse, l'aveva percepito.
La reazione, l'aveva udita.
Chiuse la finestra che le mostrava la foto a tutto schermo.
Prese il telefono da terra e compose il numero di Will.
Picchiettò con le dita sul tavolino, nevrotica.
Doveva premere una cornetta: verde chiama; rossa cancella.
Rossa.
Aprì la pagina per comporre.
Frasi, parole, spazi, punteggiatura: tutto fluiva leggero e veloce sotto le sue dita e tra i suoi pensieri.
Scrive, rilegge, coregge. Questa volta non cancella.
Pensieri, immagini, vita e morte tra quelle parole nere su fondo bianco.
Scrive, rilegge. Non c'è nulla da correggere.
Faith guardò le parole scivolarle via dalla mente e prendere vita.
Scrisse per ore, paga e realizzata.
Scrisse senza pensare al bene o al male.

Erano le sei del pomeriggio quando fu costretta a interrompere per la mancanza di luce.
Avrei dovuto cambiare la lampadina.
Guardò lo schermo e vide che era sbagliato.
Picchiettò le dita scarne ancora sul tavolino, più forte di prima.
Prese il telefono, compose il numero di Will.
Stava per premere la cornetta verde quando il cellulare si illuminò con un numero che non conosceva.
«Pronto?»
«Faith Williams?»
«Si»
«Sono Abigail Hobbs»

Faith si vestì e con molto dolore calzò di nuovo i suoi stivali.
Zoppicando e cercando di ignorare le pulsazioni del piede ogni volta che lo poggiava a terra, si diresse in garage e mise in moto la sua Crosstourer Abs.
Arrivò nei pressi del centro di riabilitazione, fece il giro da dietro come le era stato detto.
Aspettò dieci minuti circa, poi vide Abigail scavalcare le mura che cingevano la struttura, la vide correre verso di lei.
Faith prese un casco e lo glielo lanciò.
«Andiamo via, prima che se ne accorgano» disse Abigail indossando il casco e montando sulla moto.
Faith vagò un po' per le strade deserte della periferia di Baltimora, poi si fermò in un piccolo e vecchio locale.
«La locanda di Barney» lesse Abigail seguendo la donna dentro il pub.
Una sola stanza con carta da parati rovinata, un bar poco fornito.
Si sedettero a uno dei tavoli, l'imbottitura delle sedie si mostrava loro a causa dei grandi tagli che riportavano.
«Un posticino carino» disse Abigail guardandosi intorno e vedendo che erano le uniche presenti in sala.
«Sicuramente qui nessuno verrà a chiedere alla cameriera se ti ha vista» obiettò Faith.
Abigail stava per rispondere ma si bloccò alla vista di un uomo che si dirigeva verso di loro.
Grasso, unticcio, stempiato e sudato. Strisciava i piedi per noia e per lo stesso motivo non si tirava su i pantaloni che lasciavano intravedere il solco del sedere peloso.
«Cosa vi porto, dolcezze?»
Abigail guardò Faith dubbiosa.
«Per me un mojito e per lei uova strapazzate e salsiccia» rispose Faith sorridendo all'uomo che, dopo aver annuito ripetutamente col capo, entrò nella cucina grattandosi una natica.
«Non ho voglia di uova» disse Abigail.
«Non ti porteranno uova o salsicce, se la cosa ti può consolare. Qui hanno solo due cose: whisky e hamburger. Ma non ti preoccupare» continuò Faith vedendo la ragazza disgustata «Il cuoco è un amico mio, è pulito... Solo che gli piace cucinare gli hamburger in questo periodo»
«Cosa hai fatto alla gamba?» chiese Abigail cambiando repentinamente discorso.
Faith si guardò la parte dolente «E' il piede, è stato un incidente con un po' di vetro»
«Guarda un po’ chi è venuto a trovarmi!» sentì Faith dirsi alle spalle.
Si girò e sorrise nel vedere il vecchio John, vispo e arzillo come sempre, con in mano un piatto con un panino.
«Qual buon vento ti porta in questo posto dimenticato da Dio?» gli chiese mentre si lisciava prima la canottiera bianca e poi i capelli grigi.
«La mia amica aveva fame e l'ho portata nel paradiso degli hamburger» mentì lei.
John posò il piatto di fronte ad Abigail e poi, girando il bancone del bar, versò del whisky in un vecchio bicchiere.
«Devi guidare?» le chiese poi prima di servirlo.
Faith annuì col capo e lui per tutta risposta mandò giù la bevanda in un sol sorso «Allora per te niente» disse poi prima di andarsene.
Faith rise.
«Ci conosciamo da molto» spiegò alla ragazza che addentò il panino.
Faith la guardò per un po'.
«Chi ti ha dato il mio numero?» le chiese.
«Il dottor Lecter» rispose Abigail prima di dare un altro morso.
«E... per quale motivo mi hai chiamato?» chiese Faith incrociando le braccia «Non credo che dovresti uscire dal centro, soprattutto dopo quello che è successo a casa tua, dopo l'aggressione»
«Non ce la facevo più a stare là dentro» rispose lei mandando giù un boccone.
Faith la guardò mangiare, boccone dopo boccone, e la invidiò.
«Vorrei pubblicare la mia storia» le disse la ragazza «Puoi aiutarmi?»
Faith scosse la testa «E' meglio se ne parli con Freddie Lounds»
Abigail poggiò l'ultimo pezzo di panino sul piatto.
«Non mi vuoi aiutare perché non credi che sia innocente?» le chiese con quegli occhi azzurri che imploravano perdono «Pensi che io sia come mio padre, l'hai detto l'altro giorno!» fece una pausa «Pensi che io l'abbia aiutato?»
«Io penso che tu non sia innocente come ti crede invece Will» confermò Faith poggiando i gomiti sul tavolo e avvicinandosi alla ragazza «Credo che qualsiasi cosa tu abbia fatto, è stato per sopravvivere»
Abigail si avvicinò anche lei e le due donne si ritrovarono occhi negli occhi a pochi centimetri di distanza.
«Non è una colpa scegliere di vivere, Abigail»
«Secondo te sono un mostro, come lo era mio padre?» le sussurrò piano la ragazza, mentre due lacrimoni lucenti le rigavano il viso.
«Si» sussurrò ancora più sommessamente Faith.
Allungò una mano e le asciugò le lacrime «Ma puoi decidere di non esserlo più, puoi decidere di essere migliore di lui»

Quando uscirono dal locale Abigail le chiese di accompagnarla allo studio del dottor Lecter.
Faith non chiese il perché, lo fece e basta.
«Digli che ti ho accompagnato io e che ti aspetto qui, non di nuovo» disse poi slacciandosi il casco e spegnendo la moto.
Abigail annuì.
«Grazie»
Faith la vide entrare nell'edificio, poco dopo una mano scostare una tenda e poi vide il dottor Lecter scrutarla dall'alto del suo studio.
Faith gli volto le spalle, si accese una sigaretta e aspettò Abigail mentre l'ombra primeggiava sulla luce e i lampioni si accendevano in serie illuminando le strade.

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto. ***


Faith.

Capitolo quarto.

 

Erano le otto e un quarto di sera quando Abigail tornò al centro di riabilitazione.
Faith non le chiese cosa lei, Abigail, potesse avere a che fare con Hannibal Lecter; non le chiese cosa si fossero detti; non le disse di stare attenta.
Sono solo sospetti, pensò mentre la velocità della Crosstourer rompeva il freddo cristallino dell'aria sempre più invernale.
Non può essere vero, si ripeté ancora e ancora nella sua testa mentre aspettava che il semaforo cambiasse il suo colore in verde.
Devo essere pazza, credette spegnendo la moto e togliendosi il casco.
Si passò una mano fra i capelli che erano rimasti imprigionati dal casco, per volumizzarli. Affondò le scarpe tra le erbacce di quel giardino poco curato, isolato e buio. Si spaventò un attimo quando, tutto d'un colpo, sentì un coro di cani salutarla da dietro la porta.
Stava per suonare al campanello, ma poi vide il volto di Will insinuarsi tra le tende, fissarla da dietro il vetro leggermente appannato e sorriderle.
Faith inspirò abbondantemente.
«Non sembrare paranoica, non sembrare paranoica, non sembrare paranoica!» si sussurrò piano, cingendo il casco nero sotto braccio e fissando l'unica luce del porticato.
«Non ti preoccupare» disse Will che aprì la porta «Io risulto gravemente instabile»
Faith si era talmente tanto soffermata su quella luce gialla e fioca, che donava luce a intermittenza, che non si rese conto che la porta si aprì.
Arrossì quando vide Will di fronte.
Ora sembrerò paranoica.
Si schiarì la voce, come se volesse assumere un certo tono di determinazione.
«E' bene che tu cambi la lampadina» esordì poi guardandolo. Testa alta, sguardo fisso. Will la guardò perplesso.
Un ciuffo interruppe quello sguardo incerto perché gli occhi di Faith, scontrandosi, lo seguirono. Soffiò forte per farlo spostare, ci riuscì. Di nuovo sguardo fisso su Will, che incerto e quasi a disagio sembrò raddrizzarsi in quella posizione eretta.
«Allora mi fai entrare oppure no?» chiese infine con voce stridula la donna, facendo qualche passo avanti.
Will scosse la testa. 
«Non ero certo che stessi molto bene» le disse vedendola entrare e richiudendosi la porta alle spalle.
Faith si voltò: prima irritata, poi preoccupata.
«Ti sembravo particolarmente paranoica?» gli chiese veloce, mangiandosi le parole.
«No» rispose l'amico «Non particolarmente»
Faith dovette alzare le braccia, che reggevano il casco, sopra la testa per evitare che i cani lo facessero cadere.
«Buoni» disse Will ai suoi animali prima di allontanarsi e andare in cucina.
Faith restò ferma in mezzo all'ingresso, in mezzo a quei cani che la guardavano scodinzolando. Uno si fece avanti, alzò le sue zampe anteriori e si appoggiò su di lei. Faith lo guardò torvo e poi cominciò a muovere la gamba sulla quale era poggiato per farlo spostare.
«Posso offrirti qualcosa?» sentì chiedersi dalla cucina.
«Un antiparassitario sarebbe senz'altro gradito» rispose lei ironica.
Faith sussultò ancora, con il rischio di far cadere il casco, quando i cani abbaiarono sonoramente, tutti all'unisono. Li vide dirigersi in cucina.
«E' ora di cena» disse Will tornando in quel piccolo salotto che fungeva anche da ingresso. 
Faith tirò un sospiro di sollievo e poté abbassare le braccia, poi posare il casco sul pavimento vicino alla vecchia poltrona sulla quale si sedette.
Will si poggiò, col suo fianco sinistro al caminetto che scoppiettava piano nel tentativo di rimanere ancora vivo.
«Cosa è successo?» le chiese piano con un tono dolce, caldo e familiare.
Faith spostò lo sguardo sul caminetto, mentre si torturava le mani affondando le unghie nella pelle.
E' giusto che glielo dica, anche se sono solo supposizioni.
Lo deve sapere, anche se poi mi prenderà per pazza.
Basta, ora glielo dico.
Faith voltò subitaneamente i suoi occhi su Will.
Apri quella bocca e parla Faith, maledizione!
«Ora mi sembri leggermente più paranoica del normale» affermò Will che le si avvicinò, sedendosi sulla poltrona di fronte, dando le spalle al caminetto.
Devi dire tutto, devi raccontare, devi confessare, devi testimoniare, devi parlare.
«Faith?» chiese ancora Will vedendo l'amica rigida e immobile, con le labbra schiuse e leggermente incurvate, lo sguardo fisso su di lui e sul vuoto «C'è qualcosa che non va? E' successo qualcosa?»
Parla!
«L'emulatore» disse poi, quasi sputando fuori quella parola che non voleva venir fuori «Sono qui per parlare dell'emulatore»
Chiuse gli occhi e respirò profondamente. 
«Non ci sono novità» asserì Will strofinandosi la barba che ricominciava a crescere ispida «E' tutto fermo: non ci sono indizi, non ci sono tracce, non c'è persino un movente.»
«E allora perché lo fa?» chiese con voce supplichevole lei, come se dipendesse da tutto da Will.
«Non lo so, non lo capisco. Non riesco a... sintonizzarmi con lui»
«Beh se vuoi chiamo un tecnico della tv, magari lui sa come aggiustarti» scherzò lei «O magari ti potrei aiutare io» suggerì poi.
Will la guardò divertito e sorpreso «Tu scrivi storie, questo non è il tuo campo»
Faith cercò di trattenere una smorfia di insoddisfazione, frustrazione e umiliazione. Si fece sprofondare in quella poltrona comoda. Con lo sguardo seguì Will, che si alzò e camminò avanti e indietro per diverse volte.
«E' diventanto un pensiero fisso» le confessò «Mi sfugge tutto di lui e io non posso fare altro che corrergli dietro e cercare di afferrarlo... ma è più veloce e agile e non riesco neanche ad avvicinarmi»
Faith abbandonò quel fugace e acidulo sentimento di rancore per le parole precedenti.
«E' come se sapesse i fatti dall'interno» suggerì lei.
«Si, ma non è così semplice» continuò lui «Riesce a prevedere le nostre mosse, mette in mostra la sua superiorità, sta giocando con noi. Mi sta facendo impazzire»
«Will, ho bisogno di dirti una cosa» disse Faith alzandosi di colpo. Voleva andare in soccorso dell'amico, voleva poterlo aiutare. «L'altro giorno è successa una cosa quando eravamo nella baita, ma anche prima» continuò poi con parole che sembravano sconnesse «Ero sotto shock e non sapevo cosa fare. Volevo chiamarti ma poi ho cominciato a scrivere e allora non ho avuto tempo di parlarti»
«Vuoi davvero parlare del tuo romanzo, ora?» chiese Will infastidito e infastidendo.
«No» sussurrò lei risentita, fece un passo indietro e si scontrò con la poltrona sulla quale prima era seduta. «Io voglio aiutarti»
«Ma non puoi, non è nelle tue facoltà!» le rispose lui alzando la voce.
Si guardarono e Faith non lo riconobbe.
Lei non rispose, annuì solamente.
Le accade spesso di sottovalutarsi?
Fece indietreggiare qualche lacrima, voleva conservare integra la sua dignità.
«Mi dispiace» sussurrò Will «Non volevo dire quello che ho detto... Ho solo un gran mal di testa che mi fa innervosire»
«Non fa niente» affermò con voce rancorosa lei «Hai ragione tu, non è nelle mie competenze»
Si voltò fece qualche passo, estrasse le chiavi che aveva in tasca e aprì la porta.
«Aspetta, Faith» la chiamò lui mentre la seguiva con lo sguardo e con il corpo.
Faith non si girò, camminò veloce fino alla moto, infilò la chiave e mise in moto. Vide Will venirle incontro veloce, allora lei senza ancora accendere le luci, accelerò e se ne andò via alzando un cumulo di polvere, straziando le foglie sotto le sue ruote, immergendosi nell'ombra del luogo deserto e calmo.
Will restò lì, appena qualche passo oltre gli scalini del porticato, con il casco nero e lucido di Faith tra le mani.

Faith non accese le luci del suo veicolo, si immise in autostrada portando al massimo la velocità.
Il freddo e la corsa le tagliavano il viso, la ferivano come piccole e violente spine che le pungevano, attimo dopo attimo, il volto che cominciò ad arrossarsi. Gli occhi le bruciavano, le lacrimavano caldi e rancorosi. Socchiuse le palpebre perché il vento aggressivo non le faceva vedere niente; socchiuse le palpebre come unico gesto riparatore; socchiuse le palpebre e riuscì a intravedere un passaggio a livello: le barre stavano per scendere, il segnale lampeggiava di arancione e il suono ammonitore era sempre più vicino. Svicolò veloce tra la fila di macchine che rallentavano e poi lo fece: girò ancora una volta l'acceleratore e l'ultima cosa che vide fu la lancetta che segnava i chilometri orari. Chiuse gli occhi e lasciò che il destino decidesse per sé; chiuse gli occhi mentre la sua moto solcava la strada e attraversava il binario ferroviario; chiuse gli occhi e assecondò il suo istinto di morte e accontentò Saturno. Passarono diversi secondi e lei poteva ancora sentire il freddo lacerarla, il motore rombare sotto di lei, le lacrime calde scendere e cadere nel vuoto e nel buio della sera. Si aspettava un urto da un momento all'altro, un urto e poi il nulla e poi la pace e il silenzio della coscienza. Invece no, nessun silenzio, nessuna pace: sentiva ancora il vento farle fischiare le orecchie: era viva, il destino aveva preso la sua decisione. Decelerò e aprì gli occhi, felice e delusa contemporaneamente. Fu improvvisamente abbagliata dalla luce impetuosa di due fari che le si ponevano di fronte, il rumore del clacson riecheggiò per l'aria. Faith sgranò gli occhi e per evitare lo scontro con l'autovettura, sterzò bruscamente uscendo dalla strada asfaltata, venendo scaraventata lontano dalla sua amata moto. Poi l'urto, il dolore e finalmente il buio.

Improvvisamente sentì delle mani toccarle il viso, udiva voci confuse e lontane, percepiva l'umido sotto di lei.
Aprì gli occhi e vide tutto appannato: una luce, un volto.
Aprì e chiuse gli occhi più volte e poi vide più chiaramente il viso di quell'uomo che le sorrideva giocondo.
«Non avrei scommetto neanche un centesimo che fosse viva» le disse sorridendo.
I suoi occhi chiari e limpidi, nascosti dietro lenti sottili e trasparenti, sembravano quelli di un bambino curioso e dispettoso.
Faith si portò una mano in direzione degli occhi per ripararsi dalla luce dei fari. Evidentemente avevano portato la macchina fuori strada per potere usufruire degli abbaglianti.
«Mi dispiace» mugugnò lei guardando la macchina e cercando di capire se avesse arrecato danni all'autovettura dell'uomo.
«Per cosa? L'unica cosa che si è schiantata è stata lei» le rispose sornione «Lei e la sua moto»
La moto.
Faith si alzò di scatto, nonostante la sua schiena urlasse di dolore, e andò a cercarla. Non la vide in quel fascio di campo illuminato dai fari. Barcollando e trascinandosi il piede che le aveva ripreso a pulsare dolorosamente, si aggirò nel buio del campo. Non sapeva quanto tempo fosse rimasta svenuta, ma l'ombra molto più scura della sera le faceva pensare che fosse già tardi. Non riusciva a vedere nulla, allora tastò le tasche, afferrò il cellulare e accese il flash. Barcollava nel buio con questa lucetta in mano, cercando di ritrovare il modo per tornare a casa. Si girava e rigirava su se stessa, in un vorticoso movimento spasmodico, e poi d'un tratto vide un piccolo riflesso in risposta al suo flash e la vide: la sua amata Crosstourer era tutta infangata, graffiata e ferita. Le andò incontro più veloce che poté, ma non riuscì a sorvolare sul forte dolore al piede che aveva progressivamente cominciato a diffondersi all'intera gamba. Raggiunse il suo mezzo e quasi lo accarezzò, come se fosse un affetto a lei caro, un amante ritrovato, un compagno d'armi ferito in battaglia. Si abbassò sullo sterzo, lo afferrò e con tutta la forza che aveva in corpo cercò di tirarla su. Quando però fece perno sulle gambe, un crampo forte e veloce come un fulmine colpì tutta la parte lesa, le mancarono le forze, lasciò la presa, la moto cadde di nuovo in mezzo al fango e lei al suo fianco.
Faith urlò per dolore e per rabbia.
Urlava e piangeva.
Le accade spesso di sottovalutarsi?
Di nuovo un fascio di luce la illuminò, questa volta da dietro.
Di nuovo rivide il volto allegro dell'uomo che le si pose dinnanzi. Lo vide frugare nelle tasche del cappotto ed estrarre una scatolina dorata, poi quella che le sembrò una velina più spessa e morbida del solito.
«Per quale motivo sta piangendo?» le chiese lui asciugandole le lacrime, una per una, guardandole, studiandole.
Faith sentiva un grosso nodo alla gola e uno ancora più grosso allo stomaco.
«Il male di vivere» rispose lei portandosi una mano vicino alla guancia e cercando di asciugarsi da quelle lacrime che le portavano vergogna. Sentì la mano dell'uomo stringerle il polso, in maniera quasi violenta, e allontanarlo dal suo volto.
«Così le sprecherà» l'ammonì lui che si perdeva nel fluire di ogni stilla.
Quando le lacrime finirono, lui ripose quella velina nella sua scatoletta dorata e poi ancora al sicuro nella sua giacca.
Ancora le sue mani pesanti sul volto di Faith: le prese il mento e la girò, prima a destra e poi a sinistra, come se non fosse fatta di carne.
«E' ferita» disse sorridendo e toccandole la fronte per poi rivelarle il suo stesso sangue «Vuole andare in ospedale?»
Faith lo vide guardare, in contrasto con la luce forte degli abbaglianti, le sue dita bagnate di lei e strofinarle le une contro le altre; lo vide estrarre un candido fazzolettino di tessuto dalla tasca destra dei pantaloni e asciugarsi.
«No» rispose secca Faith «Preferisco tornare a casa, ma grazie comunque»
L'uomo si alzò e si sistemò il giaccone che lo proteggeva dal freddo, poi si chinò di nuovo su di lei e l'aiutò ad alzarsi.
«La gamba non la regge a causa della caduta» le disse sorreggendola per non farla cadere.
«No, ho camminato sui vetri l'altro giorno» ammise Faith, come se fosse una cosa normale.
Era a un palmo di mano da quell'uomo evidentemente strano e poté vederne il sorriso, mostratole fin ora, trasformarsi in una fragorosa risata.
Lui rise davanti al suo volto, naso contro naso.
Lui rise e i suoi occhi si illuminarono.
Lui rise e lei gli andò dietro e risero insieme.

L'uomo la scortò fino alla sua macchina e le disse di non sporcare la pelle bianca dei sedili con 'quel suo sangue che le usciva dalla fronte'.
«Ci penserà Carlo a portare la moto da un meccanico» le aveva detto. «O da un carrozziere... o da entrambi»
Faith annuì in maniera confusa, vedendo da lontano un uomo avvicinarsi alla sua moto, poi le portiere si chiusero.
La luce interna della macchina rivelava un uomo giovane, forse della sua età, con occhi azzurri e capelli biondi.
Di nuovo la macchina fu sulla strada. Faith gli disse il suo indirizzo e lui lo inserì nel navigatore.

La macchina si allontanò abbandonando quel luogo e quel buio.
Il cellulare si illuminò per una chiamata, rischiarò ancora quel campo e quella moto, prima di essere afferrato da Carlo.

«Cosa l'ha fatta finire fuori strada?» le chiese l'uomo dopo un modesto silenzio.
«Avevo deciso di morire» disse lei, mentre pressava un fazzoletto di stoffa sulla fronte sanguinolenta.
Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, sperò di non dover dare spiegazioni o subirsi qualche lungo discorso sulla bellezza della vita; nel momento in cui pronunciò quelle parole, lo vide ridere di nuovo. Si chinò persino sullo sterzo per quanto rise di gusto.
«Lei è davvero, davvero, divertente» le disse poi poggiandole una mano, protetta dal guanto di pelle nera, sulla spalla.
«Grazie»
Faith era quasi divertita da quella situazione: divertita, interessata, curiosa, sorpresa e quanto mai confusa e contusa.
Riconobbe le vie, le luci e i locali di Baltimora che le passavano a fianco, veloci e in disordine.
«Il suo nome?» chiese lui curioso voltandosi.
«Faith Williams» rispose lei «E non l'ho ancora ringraziata a sufficienza per l'aiuto prestatomi»
La macchina si accostò al marciapiede, lui la guardò e le riservò una smorfia che la fece sorridere, perché le sembrava tanto simile a una delle sue.
«Sembra che abbia visite» aggiunse poi rabbuiando lo sguardo e corrugando la fronte.
Faith si voltò: in direzione della porta c'era lui, ancora e come sempre. Abbassò lo sguardo per l'umiliazione.
L'uomo la guardò e poi guardò ancora la persona che bussava sonoramente alla porta di quella casa.
«Sembra che sia insistente»
«Mi dispiace» rispose lei «E' solo un vecchio barbone sempre ubriaco. Ci sono periodi che si presenta ogni notte per chiedere denaro, così da comprarsi della droga o che so io»
Riprese a strofinarsi le mani, forte.
«A volte vorrei avere soldi sufficienti per fargli comprare tutta la droga che desidera e poi... Poi dovrei solo aspettare il suo necrologio sul giornale» disse con voce rabbiosa e crudele.
Faith alzò lo sguardo e vide l'uomo fissarla: un gomito poggiato sullo sterzo e una mano che cingeva in suo mento donandogli un'aria pensierosa.
«Perché non lo fa allora?» le sussurrò piano.
Faith non capì perché stesse sussurrando, ma lo stesso fece lei «Non ho soldi»
E lui rise, ancora e per l'ultima volta quella sera. 
«Ma io si» disse poi estraendo un manipolo di soldi e sventolandoglielo davanti agli occhi.
Faith notò il prezioso fermasoldi, probabilmente d'oro, che imprigionava le banconote di grosso taglio.
Lei aprì e chiuse la bocca: era incredula, le sembrava uno strano sogno.
L'uomo, senza avvisare, uscì dall'autovettura e si avvicinò, con passi veloci, verso il barbone.
No! Urlò l'anima di Faith.
Lei, in fretta e furia, aprì la portiera e scese, ma non ebbe il tempo di fermarli perché già il barbone era andavo via, furtivo e fortunato, svicolando tra le case.
«Non doveva» disse lei vedendo l'uomo venirle incontro. Il suo tono era accusatore, ma al tempo stesso portava con sé una nota di ringraziamento.
Lui le rispose con una strana smorfia, un’alzata di spalle.
Le passò vicino e si diresse di nuovo in macchina.
«Come si chiama?» gli urlò Faith prima che lui entrasse nella sua autovettura.
«Mason Verger»

Faith restò in mezzo al suo vialetto di casa, vide la macchina lussuosa andare via. Si guardò intorno perché tutto le sembrava così strano e paradossale. Si grattò la testa, come se il gesto le donasse lucidità. Camminò piano fino alla porta di casa. Digrignava i denti per il dolore e fu costretta a trascinare la gamba ferita con la forza delle braccia. Si dovette poggiare al muro per riuscire a salire quei tre scalini di pietra che la separavano dalla porta. Quando finalmente riuscì a girare la chiave nella toppa e quindi riuscì a entrare in casa, si accasciò per terra, nell'angolo destro dell'ingresso. La testa le pulsava di dolore e per trovare conforto si portò la mano destra sulla fronte. Scostandola vide il suo sangue defluire ancora. Si maledisse per non essersi fatta portare in ospedale, per non aver chiamato un'ambulanza. L'ambulanza! Si frugò con le mani sporche di sangue le tasche del giubbotto di pelle alla ricerca del cellulare.
«Maledizione, maledizione, maledizione!» urlò, non trovando l'apparecchio telefonico, picchiando i pugni per terra. 
Urlare non fu una mossa giusta, la testa fu chiusa in una morsa di dolore lancinante che le annebbiò la vista.
Desiderò di morire, ancora, per la seconda volta in quella notte. Alzò gli occhi al cielo e rise: il destino l'aveva salvata poco prima solo per farla morire tra dolore, sangue e stenti poco più tardi.
Ma non le importava, era pronta. 
Rise, ancora, perché il destino l'aveva dopotutto accontentata; rise, sonoramente, perché non aveva nulla da perdere; rise, più forte, perché la certezza della morte la consolava.
Sarebbe tutto finito lì, dove era tutto iniziato.
Chiuse gli occhi piangendo per la felicità che le recava la morte; ridendo chiuse gli occhi per l'assurdità della vita.
Prese una sigaretta, pensandola l'ultima e l'assaporò come tale: ogni boccata, ogni respiro, ogni sapore.
La sua attesta fu interrotta dal suono, acuto e fastidioso, del campanello di casa che le portò un altro crampo.
«E' aperto» biascicò lei.
In quel momento le venne in mente quando sua madre le insegnò che non bisognava aprire agli sconosciuti, bisognava chiedere chi fosse prima di aprire la porta, bisognava guardare dallo spioncino. Ma cosa importava ormai? Era seduta in un angolo pregno del suo sangue. I ladri? Potevano pure prendere quel poco che aveva, non le sarebbe servito nella tomba. Assassini? Non importa, stava già morendo.
Girò lo sguardo e vide, nel suo mondo sfocato e doloroso, la sagoma di una persona massiccia. Non riusciva a coglierne i tratti: era tutto immerso in una grande nebbia. Sentì le sue mani forzare i suoi occhi, aprire le sue palpebre e illuminarli con un sottile fascio di luce. Faith voleva chiedergli chi fosse, ma non trovò le forze necessarie... e così lo lasciò fare. Tra la foschia della sua mente riuscì a capire che l'uomo aveva portato con sé delle borse. Si sentì afferrare il busto, togliere il giubbotto e la maglia, poi un pizzicore sul braccio.
«Cos'è?» chiese lei in un mormorio confuso tra il ronzio delle orecchie, il dolore, la confusione e il buio che si era imprigionato dei suoi occhi. «Solo una flebo» sentì rispondersi da quella voce sconosciuta, prima di cadere in un limbo scuro dove il dolore non esisteva.

Aprì gli occhi e la luce delle imposte spalancate le ferì la vista.
Era sul suo letto disfatto, con molti cuscini sotto la nuca che le facevano assumere una posizione rialzata, il braccio doloroso per l'ago ancora inserito della flebo. La gamba era fasciata, visibilmente gonfia, e la testa non le recava più quel dolore atroce che l'aveva accompagnata durante la notte.
Si voltò e vide un uomo di mezz'età: i capelli scuri e lunghi legati in una coda bassa, la barba ombrosa costellata di qualche tocco argenteo, il viso pieno di chi non si priva di nessun vizio.
«Riesce a sentirmi?» le chiese in maniera brusca, senza calore.
«Si»
«E la vista? Le è tornata?» chiese ancora, puntandole di nuovo quel fascio di luce sottile contro.
Lei seguì istintivamente la luce e lo vide annuire.
L'uomo si sedette sul materasso, avvicinandosi a Faith.
«Deve prendere le compresse che le ho lasciato sul comò, due volte al giorno, fin quando non le passa il mal di testa» le disse estraendole l'ago dal braccio e riappropriandosi della sacca da flebo «Se dovessero ancora presentarsi forti fitte, vada in ospedale senza perdere tempo; in caso contrario potrà togliere i punti in fronte con l'ausilio di una semplice forbicina da manicure»
Faith annuì, silenziosa.
L'uomo si alzò e sistemò garze, flebo e disinfettanti nella sua borsa.
«La gamba è infetta: delle schegge, sembrerebbe di vetro, nel piede hanno causato l'infezione. Le ho rimosse, medicato, disinfettato. Deve prendere queste» continuò lui mostrandole delle altre pillole «Fin quando non le passa il gonfiore. E' meglio se per il momento evita di camminarci su»
Lui, dopo essersi assicurato di non aver dimenticato nulla, si voltò ancora verso la ragazza. 
«Ha altre domande?»
Faith annuì ripetutamente col capo, la bocca semi aperta in un'espressione da ebete.
«Prego, ne approfitti»
«Chi è lei? Cosa ci fa qui? Chi l'ha chiamata?» esordì Faith gesticolando con le mani, un atto che le causò dolore ai muscoli delle braccia.
Lui le sorrise e annuì. «Non si muova troppo, ancora per qualche ora. Poi potrà cominciare con piccoli e lenti movimenti. E' stato un brutto incidente, mi sorprende che sia viva»
Faith aprì e chiuse la bocca, come se non avesse colto qualcosa «Non ha risposto alle mie domande»
«Mi creda se le dico» disse lui indossando un capello di lana marrone «Che non mi capita spesso di salvare una vita. E' stata fortunata, non tenti ancora la sorte»
Faith corrucciò la fronte, poi lo vide scomparire oltre la porta. Si guardò intorno: le aveva portato un paio di bottiglie d'acqua, le pillole erano lontane dal letto ma tra qualche ora avrebbe potuto muoversi di nuovo; nella parte sinistra del letto un piccolo vassoio con un pranzo al sacco.
Deve essere già pomeriggio.
Frugò tra le coperte per cercare il cellulare: nulla, trovò solo il suo solito pacchetto di sigarette, ne accese una... ma non era buona come la sua ultima sigaretta
*

Solo nel pomeriggio riuscì a muoversi un po', quel tanto che bastava per arrivare alle pillole e al gabinetto. Non camminò molto perché non voleva sforzare la gamba che continuava a essere gonfia. Ogni tanto, ogni paio d'ore, il campanello della porta suonava, ripetutamente, e lei si alzava e scrutava dalla finestra: era Will, sempre lui. Qualche volta lo sentì anche parlare, ma dal piano superiore non riusciva a capirne le parole. Avrebbe, forse e in altre circostanze, aperto la finestra per origliare ma i muscoli le facevano ancora troppo male.
Passarono ancora diverse ore e calò la notte e calò il dolore. La testa aveva ricominciato a farle male e le pillole sembravano non produrre alcun effetto. 
Si alzò e fece due passi, sperando che il mal di testa si placasse. Forse aveva solo bisogno di distrarsi e non pensare alle parti dolenti.
Scese le scale, molto lentamente e cercando di non poggiare la gamba lesa.
Arrivò nel suo cantuccio, si sedette, accese il pc: se Will non voleva il suo aiuto allora lei avrebbe fatto a modo suo, avrebbe fatto l'unica cosa che sapeva fare: scrivere. Poco importava che fosse sbagliato e nocivo per qualcun altro, nulla importava se il suo personaggio fosse reale e reale fosse il dolore da lui apportato. Scrisse e le nitide parole portarono sicurezza in quel suo mare d'incertezza.
---

Passarono alcuni giorni e pian piano Faith sentì tornare le forze, i muscoli non le facevano più male, i punti sulla fronte li aveva tolti da sé. Diverse volte aveva controllato il piede: non le faceva più male camminare e il gonfiore era quasi totalmente passato.
Non le era mai piaciuto stare per troppo tempo chiusa in casa ma, in compenso, aveva scritto fogli e fogli del suo nuovo romanzo. I fatti erano riportati in maniera differente: un'altra epoca, un'altra professione, un altro continente.
Era lunedì mattina
** e lei era finalmente felice per qualcosa, era felice che il blocco fosse passato... anche se non per merito suo. Perché avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire un'occasione del genere se nessuno era disposto ad ascoltarla?
Si era appena vestita, dopo una lunga doccia rinvigorente, perché aveva voglia di andare a prendere un buon caffè. Con un gesto d'abitudine afferrò le chiavi della Crosstourer Abs, ma poi le poggiò sul marmo del bancone da cucina, ricordandosi di non avere la sua moto con sé. Forse non l'avrebbe più rivista, forse stava già solcando qualche strada sotto la guida di qualcun altro.
Il suono del campanello interruppe il fluire dei suoi pensieri.
D'istinto credette che fosse Will, ancora una volta. Non aveva voglia di parlare con lui, non gli avrebbe aperto.
Di nuovo il campanello suonò e poi si decise a guardare dallo spioncino: pose un dito su quel piccolo pezzetto di metallo laminato, per attrito lo spostò, si avvicinò e accostò il suo occhio rivelando, oltre la porta in legno, una quasi sorridente Abigail Hobbs.
Ci pensò due volte prima di girare la maniglia, poi lo fece.
«Buongiorno» le disse subitaneamente Abigail in maniera calorosa.
«Buongiorno» rispose incerta Faith «A cosa è dovuta questa felicità?»
«Posso uscire» disse d'un fiato la ragazza «Accompagnata da un tutore... ma posso uscire!»
«E il tutore sarebbe?» chiese incalzante Faith.
«Il dottor Lecter» asserì Abigail mostrando con il dito indice della mano sinistra la macchina che attendeva accostata al vialetto. Il finestrino era abbassato e lo psichiatra alzò una mano in segno di saluto.
«Ah» emise Faith incrociando le braccia «Buona fortuna» disse poi voltandosi in direzione della porta.
«Aspetta» la esortò la ragazza afferrandola per un braccio «Ho bisogno di un favore»
Faith prestò di nuovo attenzione alla ragazza e al suo spiegare di come il dottor Lecter richiedesse la presenza di una terza persona per evitare equivoci di sorta. Ci pensò un attimo: dopotutto, era un'occasione da non perdere, un colloquio diretto con il suo personaggio. Quanto materiale ancora le avrebbe fornito? Quanti altri spunti era capace di darle? Faith aveva tutta l'intenzione di scoprirlo. Così, senza farsi pregare oltre, chiuse la porta alle sue spalle e percosse quel vialetto con al fianco la giovane ragazza.
«Sembra che tu abbia posta» le disse Abigail, fermandosi e aprendo la cassetta ed estraendone un cellulare «Sembrerebbe posta prioritaria» scherzò la ragazza porgendoglielo.
Faith rimase basita, incerta e leggermente incredula.

Il viaggio in macchina non fu molto lungo, forse una decina di minuti: giusto il tempo di passare dai quartieri poveri a quelli ben più ricchi.
«Dove andiamo?» chiese Faith, seduta sul sedile centrale posteriore, avvicinandosi ai posti anteriori.
«A casa mia» le rispose Hannibal, guardandola dallo specchietto retrovisore.
Faith deglutì e un piccolo brivido di orrore la percosse, mentre le mani cominciarono a sudarle.
Non ci pensare, andrà tutto bene.

La casa era imponente, proprio come il dottore.
Per lo meno non è isolata, pensò lei varcandone la soglia.
«Va tutto bene?» le chiese Hannibal chiedendole, con un gesto della mano destra, il giubbotto.
Faith, lentamente e scrutando le intenzioni dell'uomo, si tolse il giubbotto «Tutto bene» rispose lei.
«Mi sembrava un po'... terrorizzata, a dire il vero» asserì lui sorridendole.
Lo sono.
«Mi rasserena la sua presenza» le disse poi continuando «Non vorrei dar adito a certe voci. Con lei, senza dubbio, sarà garantita la trasparenza delle mie azioni e la sicurezza, in questa casa, di Abigail»
«Ovviamente» rispose con tono sottile Faith «Perché io sarei capace di bloccare un uomo altro e grosso il doppio di me, se lo volessi» concluse sarcastica per poi dirigersi verso Abigail.

Si recarono in cucina perché, secondo il parere del dottor Lecter, un buon pasto ha bisogno del suo tempo per essere preparato a regola d'arte.
La cucina era d'ampio respiro, bella e molto illuminata. Le rifiniture degli infissi erano curate, in pietra levigata e pregiata, e richiamavano lo stile di una cascina italiana; il bancone in marmo era ben diverso da quello di casa sua, era liscio e bianco come se fosse nuovo; i mobili in legno e i centrotavola ordinatamente ornati con frutta di stagione.
Ben presto Hannibal si adoperò nell'adagiare gli ingredienti che gli servivano sul bancone marmoreo: aglio, pomodori, olio, uova, salsicce. Prima di 'mettersi ai fornelli', Hannibal fece bollire dell'acqua che versò, poi, in una bellissima teiera di vetro e ne fece un infuso scuro, ma non troppo.
Faith si posizionò sul lato sinistro del bancone, vicino ai coltelli... per ogni evenienza.
«E' importante capire quand'è ora di voltare pagina» disse rivolto ad Abigail «Hai fatto domanda a qualche scuola?»
«Mio padre ha ucciso ragazze ovunque io abbia fatto domanda» rispose lei.
«Allora questo può attendere» concluse Hannibal dopo un attimo di indecisione.
«Voglio lavorare per l'FBI» annunciò la ragazza con tono autoritario.
Faith sorrise e alzò una mano «Voglio diventare regina di un'isola abitata da elefanti volanti»
Si attirò lo sguardo di Abigail contro. «Non me lo permetteranno, giusto? Per quello che ha fatto mio padre»
«Solo se credono che faccia parte della tua natura» le rispose Hannibal intento a maneggiare una patata, lanciandola in aria e facendola capovolgere su se stessa per poi accoglierla, al suo atterraggio, con la lama del coltello.
«Natura contro educazione»
«Tu non sei figlia di tuo padre, non più ormai» le disse Hannibal, interrompendo il suo ufficio culinario e prestandole tutta la sua attenzione. «E se non fosse più tanto doloroso pensare a lui?»
«A mio padre?»
«Si» rispose lo psichiatra «Hai mai provato la psilocibina?»
«Funghi?» chiese incerta Abigail.
«Droga» si intromise Faith, scambiandosi uno sguardo dubbioso con Abigail.
«Esistono psichiatri che credono che stati alterati facciano accedere a ricordi traumatici» disse Hannibal mentre si prodigava nel versare il contenuto della teiera in una tazza di porcellana ricamata da un bordino blu.
«Questa non mi sembra affatto un'azione trasparente» obiettò Faith intromettendosi.
Droga nel tè, davvero?
«Ho tutto l'accesso che mi serve ai ricordi traumatici» asserì Abigail incrociando le braccia e scontrandosi con lo sguardo di Hannibal «Accesso illimitato»
«Per questo dobbiamo integrarli con associazioni positive» rispose lui «Niente più brutti sogni, Abigail»
Ci fu ancora uno scambio di battute tra lo psichiatra e la ragazza sul bere o meno quella bevanda.
«Ti fidi di me?» fu la conclusione di Hannibal.
Abigail, costretta da quelle parole, prese in mano la tazzina.
«Obietto» disse Faith accostandosi alla ragazza «In qualità di testimone sulla trasparenza, inesistente a dire il vero, e la sicurezza di Abigail, obietto»
Ma non ci fu parola che fermò il gesto di Abigail che, non curante, bevve quell'infuso.
Faith si portò una mano sugli occhi. Non è possibile.

Già dopo pochi attimi la droga sembrava aver fatto il suo effetto.
Hannibal Lecter aveva cominciato a cucinare e Abigail lo guardava con bocca semichiusa e sguardo perso nei meandri dei suoi pensieri.
Faith cercò il più possibile di sostare vicino ai coltelli esposti in ordine sul bancone e fu tentata di afferrarne uno quando il rumore della tazza contro il pavimento squarciò il silenzio.
«La dottoressa Bloom ha detto che va bene?» chiese Abigail, aggirandosi nella cucina in maniera svampita e scoordinata. Poi si sedette su una sedia riposta nell'angolo destro della cucina.
«Già» si intromise sospettosa e ironica Faith «Cosa dice la dottoressa Bloom?»
«Abbiamo spesso pareri contrastanti» confessò lui.
Abigail sorrise, in direzione dei fornelli.
«Prepara la colazione per pranzo?» chiese «Uova e salsiccia è stato l'ultimo pasto che ho avuto con i miei»
«Lo so» rispose Hannibal con tono suadente «Ed è anche il primo pasto che avrai con noi»
Abigail sorrise e si allontanò, andando nella stanza accanto.
«Io non faccio parte del 'noi', non è vero?» chiese Faith quasi supplichevole «Mi dica che non ne faccio parte perché tutto ciò non mi piace per niente»
«Non si preoccupi» le disse Hannibal «Avrebbe voglia di aiutarmi?» le chiese poi di rimando indicando i fornelli.
Faith spostò il suo sguardo dal cibo a lui e viceversa. «Mi occupo della verdura però»
Guardò lo psichiatra mentre estrasse il coltello dal blocco di legno, come se volesse fargli notare che era armata.
Passò poi a tagliare dei pomodori, mentre Hannibal si occupava della padella sul fuoco e delle salsicce.
«Ha trovato una soluzione al litigio con Will?» le chiese.
In quel momento la voce del dottore sembrò insinuarsi nell'orecchio di Faith in modo furtivo ed elegante. Lei si fermò un attimo, poi riprese a tagliare i pomodori.
«Si confida con lei» osservò.
«Sono il suo psichiatra» affermò Hannibal «E' più che normale»
Faith fu infastidita nel dover parlare della sua lite con l'amico, ma era proprio un buono spunto per il suo argomento d'apertura.
«Will» sussurrò lei mentre la lama tagliente e lucida del coltello divideva lo spicchio di pomodoro «E' il suo biglietto d'oro, non è vero?»
Alzò lo sguardo e si scontrò con quello di Hannibal.
«Non capisco» mentì lui.
«Il biglietto d'oro, è la metafora usata da Will per descrivere l'ossessione di Garret per la figlia. Non faccia finta di non ricordare» lo ammonì Faith.
Hannibal girò lievemente la testa, come con un piccolo scatto. Forse era stato preso in contropiede.
«Sembra già averne la certezza» rispose lui «Perché me lo chiede?»
Faith alzò le spalle «Per scrupolo. Credo che tutti abbiamo il nostro biglietto d'oro, da qualche parte»
Aveva lanciato l'esca, così come lui si era divertito a lanciarla a lei.
«E quale sarebbe il suo?» le chiese lui, curioso.
Faith sorrise, adagiò i pomodori già tagliati nella ciotola di fronte a lei e ne prese altri.
«L'emulatore» disse secca accompagnata dal rumore metallico e stidente del coltello che toccò il marmo, tagliando l'ennesimo pomodoro. «Credo che mi abbia dato diversi spunti interessanti per il mio nuovo romanzo»
«L'emulatore?» chiese Hannibal scrutando le parole e la mimica della donna «Perché non l'Averla del Minnesota?»
«E' molto più interessante scrivere di chi agisce per un motivo che non si comprende, piuttosto che di un semplice uomo preda della sua stessa malattia mentale... non trova?»
«Non crede che l'emulatore sia uno psicopatico?» chiese lui quasi sorpreso.
«Oh si» rispose lei prestando attenzione ai semi compatti e grumosi del pomodoro che aveva tra le mani «Credo che sia il più grande psicopatico di tutti i tempi... e per questo» disse poi scambiandosi uno sguardo con Hannibal «Merita di essere il personaggio più memorabile della narrativa moderna»
«Interessante presa di posizione» asserì lui girando una salsiccia. Il tono era basso, pensieroso, quasi dubbioso. Forse la sue esca si aspettava una preda diversa, forse alla tavolata si era aggiunto un ospite inatteso. «Cosa le interessa di lui?» le chiese poi, sempre più curioso «Cosa gli chiederebbe se avesse l'opportunità di parlargli?»
«Nulla» rispose lei quasi trasognante «Vorrei solo registrare il fluire delle sue azioni e carpirne l'abilità e l'ingegno che si celano dietro le sue... opere» disse poi ripensando ai corpi resi trofei e opere d'arte. 
Faith sapeva, grazie alle conversazioni avute con Will, che i sociopatici amavano sentirsi apprezzati ed elogiati, e così fece.
«Qualcuno potrebbe dire che il suo ipotetico agire sarebbe riprovevole»la imbeccò lui.
Faith alzò lo sguardo.
«Forse non mi ha creduta quando le ho detto che Will è la parte migliore di me» lo ammonì ancora una volta lei.
Aveva tra le mani l'ultimo spicchio dell'ultimo pomodoro. Se lo passò tra le dita e poi fece scorrere la lama tagliente tra quella polpa, andando più a fondo, ferendosi volutamente il palmo della mano.
Hannibal fissò la scena e poté vedere distintamente ogni goccia di quel sangue che cadde nella ciotola d'insalata rossa.
«Ops» fece lei in un sussurro, poi si portò alla bocca quell'ultimo spicchio che teneva ancora tra le dita. Assaporò la freschezza dell'ortaggio e il sapore del suo sangue. «Credo che sia finito qualcosa qui dentro» disse lei sorridendo, maliziosa e istigatrice «Ma non credo che, in fin dei conti, per lei sia un grosso problema» concluse poi in un sussurro.
Hannibal reclinò leggermente la testa verso destra e lei gli fece un occhiolino «Do ut des, l'ha detto lei l'altro giorno... o vuole far finta di aver dimenticato anche questo?!» disse infine, asciugandosi la mano ferita con un tovagliolo e andando via ondeggiando lentamente, come le onde del mare di notte, come un ruscello che costeggia una riva, come le dive che ammirava da bambina.

Portò con sé l'insalata rossa e il contorno di patate.
La tavola era già stata apparecchiata per ospitare un pranzo a tre.
«Abigail, come ti senti?» le chiese andandole incontro.
La ragazza la accolse raggiante «E' tutto passato, tutte le paure, tutto il dolore. Boom, non ci sono più» disse aiutandosi con uno strano gesto della mano.
«A tavola» annunciò Hannibal entrando in sala da pranzo.
Abigail si affrettò a prendere posto, Faith tentennò: non sapeva come reggere il gioco, forse aveva lanciato un amo troppo piccolo per un pesce troppo grande.
Con passi lenti e misurati decise infine di sedersi, di fronte Abigail e alla sinistra di Hannibal.
«Hai fame?» le chiese la ragazza «Hannibal ha fatto la colazione per cena»
«Lo so» rispose Faith con tono quasi apprensivo nei confronti della ragazza.
Hannibal prese il bicchiere di Faith e lo riempì di succo d'arancia.
Faith restò fissa a guardare Abigail che la fissava di rimando, imbambolata e inebetita.
«Cosa c'è?» le chiese Hannibal con fare innocente «Abigail, cosa vedi?»
Il volto di Abigail si esplicò in un grande sorriso e due occhi gonfi di lacrime, forse di gioia, forse di malinconia.
«Vedo la famiglia»
Faith bevve un sorso di quella spremuta, che reputò troppo dolce.
«Doveva essere roba buona» commentò poi mandando giù un pezzetto di patata.
Guardò ancora una volta Abigail e la vide mangiare un boccone di salsiccia. Faith dovette chiudere gli occhi e sbarrare la bocca col tovagliolo per evitare il peggio. Forse non sarebbe stato poi un buon incipit, forse la cosa giusta era mangiare ciò che era stato servito, forse non era carne umana. Forse si.
Bevve un altro sorso di spremuta, poi si armò di coltello e forchetta: infilzò la carne, la tagliò. L'odore che emanava era davvero ottimo e Faith senza dubbio si sarebbe gettata a capofitto in quella cibaria, se non fosse che... forse. Probabilmente. Certamente, ma era una cosa che andava fatta. Alzò la forchetta e l'avvicinò alla bocca, aveva già dischiuso le labbra quando il trillo chiassoso e funesto del cellulare le diede la scusa per procrastinare quell'atto d'odio per l'umanità.
«Mi scuso» disse falsa e grata per quella chiamata «Ho dimenticato di spegnerlo»
Hannibal fece una smorfia più che eloquente.
Faith si alzò, portandosi il bicchiere con la spremuta. Infilò la mano nella borsa e ne estrasse il cellulare urlante.
Bevve ancora qualche sorso mentre guardava quel numero che conosceva bene. Non pensava che l'avrebbe chiamata ancora, non se lo meritava. Fu felice nel vedere quel numero, di quella felicità che non si compra, che non si gusta, che non si ode.
«Papà?» chiese lei con voce entusiasta e incredula «Finalmente» Aveva aspettato dodici anni quella chiamata, ora era giunta.
Ci fu un attimo di esitazione dall'altro capo del telefono, poi una voce, quella sbagliata.
«Faith, sono Isobel»
La delusione fu evidente e palese nel volto di Faith: il suo sorriso si capovolse, così come le sue speranze, le dita strinsero il vetro del bicchiere.
«Volevo solo chiederti se dobbiamo aspettarti» disse l'interlocutrice «La cerimonia dovrebbe cominciare tra poco»
Faith allora chiese delucidazioni, spiegazioni che non avrebbe voluto sentire.
«Arrivo» sussurrò prima che la conversazione venisse chiusa dall'altra parte del telefono.
Faith restò immobile, con il telefono in mano che strideva con i suoi 'bip' che segnalavano una linea interrotta. Il bicchiere le scivolò di mano, cadde a terra fragorosamente riversando tutto il suo contenuto arancione.
Hannibal Lecter le venne vicino e lo stesso avrebbe voluto fare Abigail, poi fermata da un gesto dello psichiatra.
«Mi dispiace» disse piano la donna, evidentemente sotto shock «Non volevo, giuro che non volevo»
Hannibal le prese il telefono dalla sua mano, visualizzò l'ultimo numero in entrata e lo richiamò. Con molto senso pratico annotò il luogo e il nome della chiesa in cui si sarebbe tenuto il funerale.
«Faith, mi sente?» chiese, con un sottile filo di entusiasmo, il dottore porgendole il giubbotto e facendo cenno ad Abigail di uscire «Dobbiamo andare, o finirà col fare tardi»
Faith scosse la testa più volte «Prenderò un taxi»
«Farà prima se l'accompagneremo noi» insistette lui, curioso.

Quando arrivarono in chiesa la messa era già iniziata. Il prete stava celebrando l'ultimo eterno saluto a quel corpo, a quell'anima. Non vi erano fiori adibiti all'addobbo, non vi erano orde d'amici: solo una bara opaca, sicuramente la meno costosa, solo un moglie che non piangeva il proprio marito, solo una figlia colpevole.
Presero posto all'ultima fila, il più lontano possibile. Si avvicinarono al corpo solo a messa ultimata.
Faith poggiò le sue mani su quel legno freddo e fu punta da una scheggia. Allungò una mano e accarezzò quei bei capelli chiari come la luna e le stelle, sottili e lucenti; accarezzò il viso bianco segnato dalle rughe, solcandole una dopo l'altra come mai aveva avuto modo di fare.
«Lo hanno trovato qualche giorno fa, dentro un vecchio capannone abbandonato» disse Isobel, rotonda e bionda, avvicinandosi «Overdose»
Faith chiuse gli occhi e proprio lì, in mezzo alla chiesa sussurrò a Dio parole di perdono, biascicò a suo padre innocenti scuse.
Non volevo. Non sono stata io. Non l'ho fatto apposta. 
Sentì la mano di Isobel stringere la sua, schiuderla e adagiarvi qualcosa.
«Questo è l'unico oggetto che hanno trovato con lui. E' giusto che lo tenga tu»
Faith abbassò lo sguardo e riconobbe quel fermasoldi dorato, in cui ora poteva toccare la lettera V che predominava in rilievo. Lo nascose nella tasca del giubbotto quando sentì avvicinarsi il dottor Lecter.
Si fermò vicino a lei, fece le condoglianze a Isobel. La mani erano incrociate all'altezza del bacino, i capelli perfettamente ordinati e pettinati, il completo marrone.
«C'è qualcosa che posso fare?» le chiese.
«Chiami Will, ho bisogno solo di lui» sussurrò Faith mentre guardava la bara essere chiusa e portata via dagli addetti al servizio funebre.

Ci furono pochi saluti, di qualche senzatetto, di qualche altro drogato o alcolizzato, di pochi e pessimi amici.
Le condoglianze, a cosa servono?  Pensava lei mentre Isobel ringraziava i pochissimi presenti e cercava al tempo stesso di liberarsene. Condoglianza significa ' partecipare al dolore ', ma chi avrebbe mai partecipato al suo dolore? Chi avrebbe mai condiviso il suo ammontare di colpe innocenti? Chi o cosa avrebbe potuto mutare quel destino avverso che si scagliava contro la sua vita seguendo sempre la stessa melodia lugubre e funesta?
«Dobbiamo andare» le disse Abigail, prendendole una mano e trascinandola lentamente e dolcemente lontano dall'altare della chiesa, fuori la navata, in mezzo al vicino cimitero.
Faith si fece trascinare via, come in preda alla corrente del mare che ti culla e che ti porta in mare aperto.
Camminarono in mezzo ai morti, ai fiori, alle lapidi, all'amore per i cari. Arrivarono infine presso il giusto luogo di sepoltura.
Era già pomeriggio e il manto erboso era giallo ma senza foglie, il sole cominciava a tramontare e i suoi raggi pensanti e sempre più scuri si accostavano alla morte porgendo i loro ultimi saluti. Ancora il prete con le sue ultime parole d'addio alla salma; ancora vecchi e pessimi amici nel loro addio doloso; ancora Isobel e il suo amore, ormai lontano, per quell'uomo disperso nel mal di vivere. Ognuno lasciava e lanciava un fiore sulla tomba chiusa per sempre, poi un pugno di terra per sancirne il definitivo viaggio, i passi lenti che si allontanavano dalla tomba: pochi passi e la loro mente era già altrove. Faith li guardò uno ad uno compiere questi gesti vuoti e li invidiò perché quel peso non gravava sulle loro spalle.
Rimasero solo Abigail, Faith e Hannibal presso quel loculo ombroso, persino il prete era andato via. Solo Faith doveva congedarsi ma teneva stretti pugni: in uno un fiore ormai sgualcito, nell'altro un pugno di terra umida. La sua mente era un groviglio di scuse, rancori, paure, amore e disperazione; un groviglio che non riusciva a farla agire, che le lasciava l'indipendenza di una statua di creta. D'improvviso un tuono squarciò il silenzioso cielo, risvegliando lacrime nascoste e pungenti. Con una spinta in avanti e un piccolo salto balzò nel fosso, sotto la terra e sopra la morte, si chinò carponi su quella bara che le lasciava ancora schegge di legno al tocco. Con i palmi delle mani spazzò via quei pochi pugni di terra che erano stati gettati, con le unghie graffiò quella parete fissa, con le lacrime bagnò l'umidità del sottosuolo. Sentiva la voce di Abigail chiamarla, lo sguardo di Hannibal studiarla. Continuava a tirare via la terra, che piano scendeva dalla parete in cui si era appoggiata per discendere nell'Ade.
Mi dispiace, continuava a ripete la sua anima mentre la terra avanzava.
Non volevo, piagnucolò nella sua mente, facendosi spazio con le mani.
Te lo sei meritato, ammise poi quando si sentì afferrare e trascinare con forza e violenza di nuovo nel mondo dei vivi.

«Cosa le succede?» chiese Abigail, i cui occhi erano grandi, forse spaventati, forse sconcertati.
«E' sotto shock» le rispose Hannibal, leggermente sporco di terra, mentre con le grandi mani bloccava il viso di Faith, che aveva cominciato a muoversi a scatti incoerenti. «Non sei sola» le disse con voce fredda e calcolata «Mi senti?» le chiese ancora non vedendo alcuna risposta da parte della donna.
Faith abbassò il capo in senso di consenso e, carpendo di nuovo la sua lucidità, portò le mani su quelle di Hannibal e lo allontanò dal suo viso. «Voglio andare a casa, può accompagnarmi?»

Il viaggio in macchina fu silenzioso e pesante, nonostante non fu per nulla lungo.
Ci fu solo qualche sguardo dello psichiatra verso Faith, che fissava un punto nel vuoto, e verso la terra che si era portata dietro, tra i vestiti, nelle suole, tra i capelli.
Quando varcarono la soglia di casa e la luce fu accesa si mostrò agli occhi di Hannibal e Abigail, un salotto grande e vuoto, senza mobili, senza quadri, senza foto. Il caminetto era spento e con qualche ceppo impolverato. Solo l'angolo sinistro del salotto sembrava vissuto, con il suo tavolinetto tondo, la sedia, il notebook, la stampante. Sulla destra una vecchia cucina, probabilmente risalente agli anni '80, ingrigita e ingiallita dal tempo, dall'usura passata e dal tedio odierno. In posizione centrale quei dieci scalini che portavano al piano superiore e il corrimano in legno usurato dalle tante mani che lo avevano accarezzato.
«Grazie per il passaggio» disse Faith «Arrivederci»
Il suo tono era vuoto e spento, svuotato e distrutto, laconico e ombroso.
«In realtà sarebbe meglio che rimanesse in compagnia questa notte» affermò Hannibal, il cui sguardo si perdeva ancora nel vuoto della casa «Non mi sembra nel pieno delle sue facoltà mentali»
«Sono in possesso delle mie facoltà mentali» soffiò Faith «E poi Will starà per arrivare»
Lo sguardo dello psichiatra si posò su Faith e, per la prima volta, si capirono. Lei chiuse gli occhi e scosse la testa.
«Ti faccio vedere la tua stanza Abigail» dissepoi, consapevole, invitando la ragazza a seguirla.
Salirono la scala e si trovarono di fronte a un corto corridoio con quattro porte di colore chiaro: una alla loro sinistra, tre alla loro destra. I passi lenti e sonori nel corridoio vuoto facevano eco. Si fermarono di fronte a una porta rosa, con chiazze di colore azzurro, viola, bianco. Faith sospirò prima di girare quella maniglia che non toccava da tempo, poi aprì la porta rivelando una parete, bianca e pura, che faceva tanto contrasto con la porta chiassosa e rovinata. Abigail entrò con passi incerti e curiosi, mentre Faith non ne varcò la soglia. C'erano solo tanti scatoloni pieni e vuoti, un letto impolverato e una finestra dalle imposte sbarrate.
«Era camera mia» disse Faith con un moto di malinconia «Se frughi in qualche scatolone troverai coperte e lenzuola; il bagno è oltre la porta di fronte a questa stanza»
«Stai traslocando?» le chiese Abigail avvicinandosi agli scatoloni polverosi.
«Non ne ho mai avuto intenzione»
Faith guardò Abigail rovistare tra le sue cose, tra i suoi vecchi e sbiaditi ricordi, e provò rabbia e gelosia. Picchiettò contro il legno colorato dell'infisso su cui era poggiata. «C'è qualcosa da mangiare nel frigo, in caso vi venisse fame. Non aspettatemi»
Fece qualche passo, poi si rigirò verso la ragazza e le punto i due indici contro «Controlla la data di scadenza prima» le disse in un sussurro e un mezzo sorriso.

Passò delle ore sotto il getto d'acqua della doccia. La mente tornava a vecchi ricordi, vecchie foto, vecchie polveri. Ogni tanto si ridestava sentendo rumore di passi o di porte e le sembrò strano avere qualcuno per casa, non ne era abituata. Fece aderire la schiena alle piastrelle fredde, reclinò la testa verso il getto altalenante e instabile: caldo, freddo, tiepido, di nuovo caldo. Gli occhi chiusi e la bocca aperta. Le gocce che le massaggiavano il volto e le districavano le emozioni.
Uscì solo quando da parecchio tempo ormai non sentiva rumori di sorta.
Aveva le mani rugose per via della troppa umidità, i capelli ancora bagnati, i piedi scalzi. Indossò il suo pigiama di pile blu, una vestaglia per coprirsi di più dal freddo.
Uscì piano, dalla sua stanza, senza far rumore. Vide tutte le porte del corridoio chiuse e pensò che ormai stessero dormendo. Si avvicinò alle scale e scese i suoi gradini. La luce era spenta e l'unica fonte di luminosità era il camino acceso e scoppiettante.
«E' stato difficile togliere tutta quella polvere per poterne usufruire» le disse Hannibal, alla sua sinistra.
«Le pulizie non sono il mio forte» rispose Faith in quella che sembrava una discolpa.
Avanzò nel salotto e si recò verso la finestra, proprio a fianco alla porta. Le imposte erano state spalancate e la luce notturna e la pioggia, che aveva preso a scrosciare forte contro l'asfalto, le davano uno strano senso di libertà. Si sedette sul ripiano della finestra e si portò le gambe al petto, incrociandole.
«Non ha mai chiamato Will, non è vero?» gli chiese con un tono sereno e pacato.
Hannibal prese un bicchiere poggiato sul bancone, già colmo a metà d'acqua.
«No» le disse porgendole il bicchiere.
Faith sorrise «La preferivo quando mentiva». Prese il bicchiere, se lo passò tra le mani, ne odorò il contenuto.
«E' solo acqua» asserì lo psichiatra «Con qualche goccia di un blando calmante, si può fidare»
«Niente droghe per me?» chiese ironica, bevendone il contenuto. Sapeva che non doveva fidarsi ma non le importava molto in quel momento. 
Hannibal prese l'unica sedia a disposizione, la sollevò e la posizionò di fronte alla donna. Il suo volto liscio e ossuto era illuminato dalla luce del fuoco, ma solo dalla parte destra. Faith ne guardò ogni particolare, ogni ruga, ogni segno del tempo.
«Il trauma della perdita di un genitore lascia un segno indelebile nell'essere di una persona» le disse Hannibal invogliandola a parlare «Ci mostra le nostre debolezze ed enfatizza i nostri bisogni: affetto, denaro, famiglia, sicurezza»
«Tutti questi bisogni li avevo anche qualche ora fa, quando ancora non sapevo nulla della morte di mio padre» lo imbeccò lei.
«Non crede che tale circostanza l'abbia segnata?» le chiese lui poggiando i gomiti sulle ginocchia per supporto.
«Direi che mi abbia cambiata, credo» ammise Faith poggiando la testa sulle sue ginocchia piegate e vicine al busto «Ho imparato che bisogna far attenzione quando si esprime un desiderio, potrebbe avverarsi in ogni istante»
«Ha desiderato la morte di suo padre?»
«Si» sussurrò lei «L'ho desiderata ogni giorno, da quando ha varcato quella soglia e non è più tornato»
Faith sapeva che non poteva, non doveva, confidarsi con nessuno ma, questa volta, era solo un problema suo.
«In psicologia vi è un gran numero di disturbi comportamentali legati alle figure genitoriali, giusto?» chiese lei e vide un capo abbassarsi in segno d'assenso.
«Mia madre è una persona orribile» continuò lei «Venale e prepotente. Ricordo che avevo cinque anni quando decise di lasciare mio padre. Lui era uno scansafatiche cronico e non portava mai soldi a sufficienza, ma era una brava persona: sempre sorridente e positivo, forse anche passivo. Lui mi promise che ci sarebbe sempre stato per me e io gli credetti. Mantenne la sua parola e ogni tanto ci incontravamo al parco, o in qualche triste bar di periferia. Un giorno poi ha smesso di presentarsi, avevo quattordici anni forse. Quando fui grande abbastanza lo cercai e, grazie all'aiuto di qualche vecchio amico, lo trovai in un vicolo buio vicino a un bidone infuocato. Gli andai incontro e gli offrii il mio aiuto, gli diedi tutto quello che avevo al momento e gli dissi di tornare da Isobel e di rimettersi in sesto. La sera dopo bussò a questa porta, ma fu solo per chiedere altri soldi, ancora e ancora, notte dopo notte. Iniziai a non rispondere, a non farmi trovare in casa. Per lunghi periodi si dimenticava di presentarsi, ma alla fine tornava sempre. Ogni notte che si presentava ho desiderato che morisse di stenti, di qualche malattia, d'overdose» disse piano sussurrando l'ultima parola «Qualche notte fa, ho sperato che avesse tutti i soldi che potesse desiderare fino a morirne... evidentemente qualcuno mi ha ascoltata»
«Si sente colpevole per questo desiderio?» le chiese Hannibal, penetrando nei suoi pensieri e cercando di carpirne il fulcro.
«No» rispose lei, sorprendendolo e sorprendendosi «Mi sento grata»
«Verso chi?»
«Verso chi ha realizzato il mio desiderio» Faith sorrise «La colpevolezza è ben altra cosa dottor Lecter, lei per primo lo dovrebbe sapere bene»
«La colpevolezza è un sentimento che colpisce solo chi si pente delle sue azioni» affermò lui poggiandosi sullo schienale della sedia, tornando in posizione eretta.
«E lei non ne prova neanche un po', scommetto» continuò lei.
Si fissarono qualche secondo.
«Lei crede in Dio, dottor Lecter?» chiese Faith, poi alzò una mano per fermarlo: non le interessava la sua risposta. «Io si, ma credo anche che mi abbia abbandonata, credo di trovarmi di fronte a una grande bivio» disse lei unendo i palmi delle mani e scostandone le punte «Da una parte c'è tutto ciò che è giusto fare, dall'altra c'è lei, con il suoi completi d'alta sartoria e i capelli ben pettinati, che mi indica un'altra strada, una più verde e rigogliosa»
Faith lo guardò e lo colse curioso delle sue parole «Come pensava che avessi agito, una volta mostratosi così chiaramente?»
Hannibal sorrise «Sicuramente non mi sarei aspettato questo colloquio»
Faith si alzò e si chiuse nella sua vestaglia rosa. «Farò di lei il più grande personaggio mai esistito nella narrativa americana, se me lo permetterà»
«E' una proposta senza dubbio lusinghiera» ammise lui «Ma come potrei essere sicuro di potermi fidare di lei?»
Faith sorrise, poggiò il bicchiere sul bancone della cucina. «Posso assicurarle che mi hanno insegnato bene a mantenere i segreti»

 

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto (pt. I). ***


Faith.

Capitolo quinto (pt I).



Faith provò un brivido di agitazione e qualcosa di strano, una sensazione mai provata prima: che fosse questa la famosa ‘adrenalina’? Il suo pensiero zampillava tra mille possibilità in cui la situazione si sarebbe potuta evolvere... e tutte terminavano con la sua morte.
Chissà che sapore avrò!
Con passi pesanti e rumore di piedi che strisciano stanchi e svogliati sul pavimento, Faith arrivò nella sua stanza, chiuse la porta alle sue spalle e l’aria silenziosa trasportò il rumore metallico e sordo della serratura che veniva chiusa da Faith, con due mandate… non si sa mai!
Si abbandonò sul letto, mentre ancora la vestaglia la cingeva in vita, avvolgendola di un calore inumano.

Furono dei rumori a interrompere il suo sonno pesante: voci, passi e qualcosa che le sembrò lo stridere di un bollitore. Si stropicciò gli occhi mentre si sentiva ancora un po’ pesante per l’effetto del calmante. Quando voltò lo sguardo alla sua destra, notò che, poggiato sul comodino scheggiato e macchiato, vi era una tazza rosa, quella che vinse suo padre a una fiera di un paesino vicino perché tanto le piaceva. Riconobbe subito l’odore del caffè che aveva inondato la stanza. Per un attimo si sentì coccolata e prese quel ricordo doloroso e lieto tra le mani, cullandosi in quell’odore che tanto le piaceva, avvicinò la bocca alla ceramica colorata e stava quasi per berne il contenuto quando, fulminea, si accorse della porta spalancata. Di nuovo quello strano brivido la percorse. D’istinto, dopo aver lasciato in modo brusco e rumoroso la tazza sul comodino, si buttò a terra per sbirciare sotto il letto: era sparito. Il suo segreto, il suo conforto, la sua adolescenza e la sua malattia era stata trafugata. Balzò di nuovo in piedi e il movimento brusco le provocò una vertigine e un forte giramento di testa, lo stomaco vuoto da giorni si faceva sentire. Si appoggiò, come succedeva spesso, alla parete in attesa che la vista fosse di nuovo limpida e appena ne fu capace analizzò la serratura della porta che, ne era sicura, aveva chiuso la sera precedente: un segno di un qualcosa di lungo, forse un piede di porco, era stato impresso a forza nel legno dell’imposta. Come aveva fatto a non sentire nulla? Ci pensò per qualche minuto, mentre un labbro veniva torturato dai denti nervosi: doveva essere stato quel ‘blando’ calmante datole la notte prima dal dottore. Si diede della sciocca per essersi fidata, poi prese la tazza colma di caffè e la svuotò nel lavandino del bagno della camera. Fece scorrere abbondantemente l’acqua per evitare che l’odore della bevanda rimanesse nel piccolo bagno senza finestre. Si avvolse ancora nella sua vestaglia e la strinse più forte, poi con passi sicuri si decise a scendere al piano inferiore.

«Buongiorno» le disse Abigail, riservandole un sorriso timido al quale Faith non seppe rispondere.
«Dormito bene?» le chiese Hannibal con un tono di malizia che non era difficile da cogliere.
«Profondamente» rispose lei cercando di nascondere la sua stizza e al tempo stesso la sua umiliazione per essere stata ‘scoperta’.
Hannibal Lecter prese due uova, le ruppe e le riversò in una padella troppo nuova per appartenere a Faith.
«Sono uscito presto per comprare qualcosa per la colazione» spiegò lui «Mi sono permesso di acquistare anche una padella che non avesse ruggine»
Faith si sentì rimproverata e si strinse, quasi in segno di autodifesa, tra le sue stesse braccia. «Non avrebbe dovuto» sussurrò poi, in parole che fuoriuscirono da una bocca serrata e astiosa.
Lo guardò frantumare quelle uova con l’ausilio di una forchetta, mentre diventavano sode e dorate, dopo un paio di minuti le adagiò su un piatto aiutandosi solo con un movimento rapido di un polso abituato a destreggiarsi nella cucina.
«Sale?» le chiese soffermandosi un secondo a guardarla, ma prima che lei potesse rispondere lo aggiunse comunque alle uova.
«Ma certo, grazie» aggiunse ironica Faith, scambiandosi uno sguardo perplesso con Abigail.
Afferrò la forchetta, che le era stata messa di fianco al piatto, e mangiò ciò che le era stato servito, come in un gesto di sfida. Si sbaglia se crede che non lo mangerò!
«Purtroppo non c’era nulla in dispensa o in frigo» aggiunse Abigail sorseggiando un bicchiere di latte «Anzi, credo che il frigo non sia neanche attaccato alla corrente»
«E’ rotto da un po’ di tempo» mugugnò Faith mentre combatteva contro la forte e ormai naturale sensazione di disgusto nei confronti del cibo. Aiutò ogni boccone a scendere giù con un sorso di quel latte, sicuramente non scremato, che le era stato versato nel frattempo dal dottore. Ogni sorso era una sfida con lui e con se stessa. Mangia e bevi, mastica e inghiotti… rimetti!
«In effetti pensavo che avrei trovato qualcosa, tanto meno per Abigail» aggiunse Hannibal appoggiando le sue grandi mani sul bancone da cucina «Biscotti, cioccolato, patatine… Queste cose che piacciono ai ragazzi»
Faith ebbe l’impulso di tirargli contro quelle uova stomachevoli quando vide un piccolo sorriso dipingersi sul volto dello psichiatra; al tempo stesso era percorsa dalla voglia di urlargli contro e chiedergli che fine avesse fatto il suo prezioso scatolone. Tuttavia si limitò a chiudere gli occhi e respirare profondamente per pacare la rabbia e la frustrazione che crescevano sapendo che quello era un gesto d’umiliazione, che solo loro comprendevano, e al tempo stesso di imposizione. Faith sapeva bene che non vi erano dubbi sul fatto che Hannibal Lecter avesse carpito la sua malattia in un nanosecondo una volta trovata ‘quella’ scatola, e la stava sfruttando per dimostrare, chi tra i due, dettasse le regole del gioco: il leone più grosso vince sempre su quello più debole.
D’un tratto squillò un cellulare e Hannibal, con un gesto fluido, estrasse l’apparecchio telefonico dalla tasca della sua giacca, guardò il nome del chiamante e aggrottò lievemente la fronte.
«Abigail, è ora di andare: la dottoressa Bloom ha scoperto la tua assenza dal centro di recupero»
In pochi minuti raccolsero le loro poche cose e lasciarono quell’abitazione.
«Mi dispiace doverle lasciare delle stoviglie da lavare» le disse Hannibal congedandosi. Lei non rispose e si limitò a guardarli andar via: oltre la porta, fuori dal vialetto, lontano dalla sua casa.
Fu solo quando la macchina dello psichiatra non rientrava più nella sua visuale che Faith, correndo, si precipitò in bagno, testa china sul wc.

Aveva da poco finito la sua pratica di ‘pulizia’ quando suonò ripetutamente il campanello della porta d’ingresso.
«Posta prioritaria» disse l’uomo dall’altra parte della porta.
Lei aprì, controvoglia. Socchiuse un occhio quando la luce le colpì il viso. Aveva i capelli arruffati tenuti in una coda ormai disfatta, le occhiaie livide, gli occhi lucidi e i polpastrelli rugosi. Il ragazzo addetto alla consegna la guardò un attimo prima di parlare.
«Faith Williams?»
«Si» biascicò lei accendendosi una sigaretta e appoggiandosi allo stipite della porta, per risparmiare energie.
«Una firma qui» le disse rivolgendole un sorriso.
Firmò distrattamente, mentre con la coda dell’occhio poteva vedere il sorriso rivoltole: umanità.
«Ho avuto la febbre per qualche giorno» sentì il bisogno di mentire per ricambiare quel sorriso distratto ed estraneo «Di solito non sono in queste condizioni» continuò poi accennando una risata, nascondendo i polpastrelli della mano destra nella tasca della felpa grigia, mentre con l’altra mano afferrava il pacco.
«Si rimetta presto allora» le augurò il giovane postino dandole poi le spalle.
Richiusasi in casa, Faith consumò la sua sigaretta con il pacco ancora tra le mani e poi con un gesto noncurante aprì il biglietto allegato, in cui serpeggiava sempre la solita scritta: “Con affetto, Mamma”. Stava quasi per buttare il pacchetto grosso circa una ventina di centimetri, quando un rumore familiare richiamò la sua attenzione. Scostò la tenda e riconobbe la sua bella Crosstourer. Provò un moto di gioia nel rivedere la sua moto e senza accorgersene si precipitò fuori.
«Grazie» disse, quasi urlando, a quell’uomo un po’ più alto di lei «Grazie, grazie, grazie» e per un momento ebbe l’istinto d’abbracciarlo.
«Non deve ringraziare me, io sono solo il fattorino» disse l’uomo con un accento marcatamente italiano «Il signor Verger ne ha ordinato la riparazione»
Faith sorrise e quasi rise per la contentezza. «Sembra che ormai io abbia molti debiti col signor Verger!»
«Sembra che lei abbia dei debiti con le persone sbagliate» disse lui quasi in cantilena, quasi in un rimprovero. Ma Faith non ascoltò: era solo felice di riavere la sua moto. Si guardò le mani e ancora aveva dietro quel pacchetto tanto indesiderato: lo allungò verso Carlo. «Lo dia al signor Verger, da parte mia. E’ solo un pensiero, dei cupcake, ma gli dica che lo ringrazio vivamente»
Carlo fece una smorfia, afferrò il pacchetto e andò via pensando a quanto fosse sciocca quella ragazza intenta ancora a rimirarsi sulla superficie lucida della sua moto.


Note: mi scuso per gli eventuali problemi di grafica, purtroppo la scheda video del pc ha deciso di far le bizze, quindi non riesco a capire se vada bene. Rimedierò appena ne avrò l'occasione. Vi ringrazio per la lettura.

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