La guerra fantasma

di Francesco Coterpa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il colle ***
Capitolo 2: *** Alessandria ***
Capitolo 3: *** Il tuono ***
Capitolo 4: *** Il sigillo ***
Capitolo 5: *** Il viaggio ***
Capitolo 6: *** Fredda terra ***
Capitolo 7: *** La Caduta (Prima Parte) ***
Capitolo 8: *** La Caduta (Seconda Parte) ***
Capitolo 9: *** Lama ***
Capitolo 10: *** La Caduta (Parte Terza) ***



Capitolo 1
*** Il colle ***


Il sole si stagliava oramai alto nel cielo. La mattina stava terminando e sia il timore sia il fremito della battaglia si erano insinuati nei cuori di tutti. Il cielo risultava stranamente limpido, forse perché anche esso voleva ammirare attentamente ciò che sarebbe accaduto nel giro di qualche ora. Il vento fresco delle colline coperte dal verde smeraldo accarezzavano le vesti stracciate che ci portavamo dietro da tempo, ci spostava la barba ed i capelli oramai incolti, smuoveva le tende montate in fretta e furia la notte precedente e riproduceva già il suono delle armi, facendo talvolta spostare o cadere una spada o una scudo o altro. Non eravamo ancora pronti, non lo eravamo mai stati. Eravamo giunti fin qui per il volere degli dei, non per nostra forza, né per strategia. Da uno che ero siamo divenuti due poi tre e così via fino a divenire un consistente battaglione. Avevamo passato il caldo torrido, la furia degli iberici, dei caledoni, dei galli, fino ad arrivare qui in questo preciso giorno, con questi precisi uomini. Cosa avremmo mai potuto fare noi branco di insulsi schiavi o mercanti o altro contro lei. Nessuno avrebbe potuto sapere cosa sarebbe successo. Nessuno sapeva nulla. Ma la nostra memoria spero rimanga nel futuro per decenni, millenni, per sempre. Mentre affogavo nei miei pensieri si piazzò davanti a me il Mercante, mi salutò e io ricambiai.

“Siamo pronti a partire, il Generale chiede come muoverci” disse con tono deciso.

“ Dobbiamo muovere ad est, dove i colli si fanno più alti. Di' al Generale di porre arcieri e frombolieri in cima, protetti da una fila unica di fanti, tutti coloro invece che brandiscono armi a breve gittata si devono posizionare ai piedi del colle, spade a destra, lance, mazze ed asce a sinistra, in questo modo saranno chiusi in una morsa. Speriamo che gli dei ci aiutino.” risposi scrutando l'orizzonte.

“La cavalleria? Dove dovrà attendere il segnale?” chiese.

“Dietro il colle, nascosta. Deve intervenire solo a tre quarti della battaglia per eliminare i superstiti, o nel caso in cui le cose si mettano male.” risposi.

“Bene, riferirò tutto al Generale.” salutò e tornò da dove era arrivato.

Il sole aveva quasi raggiunto la sua altezza massima. Non era caldo, ero abituato a peggio. Il riflesso dei suoi raggi rendeva le armature, le poche che avevamo, e le armi, offensive e difensive, più belle e lucenti di quanto erano. Alcune erano sporche ancora di sangue che non era stato pulito dalla scorsa battaglia. Il vento soffiava sempre più forte. Aria di pioggia, si avvertiva. Non era un buon presagio. Se il tempo fosse realmente cambiato così rapidamente i nostri piani saltavano. Scostai lo sguardo dalle mie riflessioni e dal cielo, la mia carta, e mi diressi verso la tenda del Generale.

La sua tenda era abbastanza grande, ma non molto, vi stavano solo cinque persone al massimo. E per quello di cui disponevamo era già parecchio. Mi fermai davanti all'entrata. Ascoltai. C'era qualcuno dentro. Entrai.

“Oh! Finalmente ti sei fatto vivo! Devo per forza mandare qualcuno a chiedere di te per avere informazioni?” esclamò.

“Il tempo sta cambiando rapidamente, dobbiamo muoverci.” risposi io con tono secco.

“Come, di già? Ma come!? Non vedi il sole, è il volto di Giove che ci sorride, vuol dire che è con noi! Non preoccuparti.” rispose con tono allegro. Forse troppo. Aveva sempre questo sfrenato eccessivo ottimismo.

Non credevo negli dei romani. Erano una falsa copia di quelli veri. Fasulli. E poi, erano venerati da loro.

“Credo che il sole lo vedano anche loro Generale, e anche loro potrebbero interpretare questo come un segnale positivo, quindi non vedo il motivo di prenderla con così tanta leggerezza. Dobbiamo fidarci solo di ciò che vediamo e possiamo prevedere con la nostra mente da uomini, il resto lasciamolo ai sacerdoti, saranno loro a darci i giusti responsi.” risposi.

Pensò un momento tra sé e sé con il bisbiglio di fondo dei presenti.

“Va bene, mi fido e mi sono sempre fidato del tuo giudizio, se siamo qui è anche e soprattutto grazie a te, quindi cosa consigli.” rispose lui riprendendo un minimo di serietà, ma con ancora un sorrisetto beffardo sul viso.

“Consiglio di muoverci immediatamente in modo da scegliere la posizione migliore per il conflitto, solo in questo modo potremmo avere maggiori probabilità di vittoria, considerato il nostro numero ed equipaggiamento” risposi.

Il Generale non parlò, si alzò, impugnò la spada con la mano sinistra e con un cenno del capo, accompagnato con un lieve movimento della mano destra fece capire ai presenti la sua approvazione per la mia scelta. Uscimmo dalla tenda. Il sole non era più al suo posto, era passato da non molto mezzogiorno, e in lontananza alcune nubi chiare miste ad altre più cupe iniziavano ad avvicinarsi alla nostra zona, come avevo previsto.

“In marcia! Prendete le vostre armi di argilla e terra cotta! La terra chiama sangue!” gridò il Generale con voce amplificata come in uno dei tanti teatri costruiti in Grecia.

Il tono forte e austero imposero una disciplina ferrea in pochissimi istanti. L'accampamento che poco prima vedeva soldati nudi, ubriachi o buffoni si trasformò in una caserma già pronta alla battaglia. I cavalli erano pronti, i soldati si preparano in poco tempo. Poco dopo le file erano formate, la partenza era alle porte. Il Generale con i quattro comandanti erano davanti a tutti. Fece un lieve cenno e gli uomini iniziarono ad incamminarsi verso il terreno prescelto per lo scontro. Il passo scoordinato delle file non creava timore, sembrava come se una lucertola stesse andando contro un alligatore del Nilo. Le spade erano alcune nei foderi, altre legate come si poteva intorno alla vita o vicino al fianco. Non era una armata, era un insieme di uomini di origine e lingue diverse, uniti da un unico scopo. La disciplina non poteva essere insegnata velocemente, tanto meno la cultura ed il sapere, ma vi era un qualcosa negli occhi di tutti loro, e non so se anche nei miei, che incuteva non paura, ma terrore. Speravo di utilizzare questo a nostro vantaggio nel combattimento. La parte psicologica influisce per una buona percentuale e non andava sottovalutata. Un nemico forte di corpo ma debole di spirito non avrebbe mai potuto vincere nemmeno contro un anziano. La marcia durò diverse ore ed il sole si stava preparando per andare sotto la terra, per poi ricomparire il giorno seguente. Il colle finalmente apparve. Eccolo.

Alla vista del colle decisi di andare più celere a visionare la zona col mio cavallo. Saltai in groppa e dalle file laterali dove ero stato lungo tutta la marcia, mi spinsi avanti a tutti, prima anche dei cinque. Sapevo qual'era il mio compito. Avevo carta bianca e potevo agire e decidere ciò che ritenevo giusto quasi sempre quando ne avevo voglia. Arrivai per primo al punto dove la terra sarebbe divenuta rossa. Lo ispezionai attentamente. Temevo che tra le nostre righe vi fosse una spia, quindi cercai possibili tranelli o soldati nascosti. Intanto mi avevano raggiunto altri tre cavalieri nel caso vi fosse stata la necessità di utilizzare le armi. Girammo intorno al colle per svariate volte ma nessuno di noi notò nulla. Non vi erano tranelli o trappole, né nessuno di loro. Ne ero lieto. Voleva dire che nessuno ci aveva tradito o che qualcuno ci aveva provato ma non aveva fatto in tempo quindi eravamo noi a decidere le sorti della battaglia. Noi decidevamo dove spingere loro. Questo era un grosso punto a favore. L'esercito arrivò poco dopo ed il Generale si avvicinò da solo verso di me col suo cavallo bianco.

“Bene! Non vi è nessuno. Siamo stati fortunati allora.” disse.

“La previsione non è fortuna. È calcolo attento di ciò che può accadere” gli risposi sorridendo “Troppe volte te l'ho detto.”

Rise.

“Già è vero. Che gli dei ci aiutino.” disse socchiudendo gli occhi.

Feci un cenno con il volto per indicare rispetto alle parole e alla sua persona stessa, era un modo augurale che ci scambiavamo spesso prima delle battaglie.

Gli uomini si posizionarono come avevo prestabilito senza grosse difficoltà.

Soldati con armi a lunga gittata sopra il colle in bella vista, mentre gli altri, esclusa la cavalleria che era dietro al colle in attesa, erano ai lati, offuscati dalla fitta vegetazione che circondava il colle.

Mentre guardavo attentamente dal fronte la mia opera il Generale inviò un esploratore verso la città avversaria per vedere a che punto erano gli avversari tanto attesi. Era tutto perfetto. Ma mancava qualcosa. Non sapevo. Provai a chiudere le palpebre per immaginare una possibile scena di battaglia. A che serviva la fanteria davanti ai tiratori? Si poteva mandare ai piedi del colle a dar man forte? Aprii gli occhi. Pensai. Anche se oramai il sole stava per sparire ed il cielo si tinse di un arancio fortissimo e magnifico, e le nubi prendevano un leggero colorito roseo, io pensavo.

L'esploratore non tornava. Era già passato parecchio tempo. Una idea mi colpì nell'attimo.

“Diamine! Una linea difensiva!” urlai.

Corsi immediatamente dal generale in groppa al mio cavallo, era già quasi tutto pronto, gli uomini non erano ancora in riga ma erano già nelle zone prestabilite. Trovai il Generale dove doveva essere. Lato destro della collina.

“Generale! Generale!” urlai con quanta voce avevo in corpo.

Lui si voltò di scatto con gli occhi sbarrati dall'urlo.

“Ho sbagliato generale! Ho sbagliato!” dissi a lui quando ero già più vicino col fiatone.

“Cosa! Cosa hai sbagliato?” mi urlò lui. “Dimmi! Non abbiamo tempo per modifiche!” rispose lui.

“Dobbiamo sbrigarci, vanno scavati dei fossati verso la cima del colle! Fungerebbero da difesa impenetrabile considerando anche l'altezza, la pendenza e la quantità di colpi che pioveranno. Non servono i fanti sopra! Li ritiri e faccia ciò che le ho detto, veloce! Si fidi di me” dissi io come un isterico.

“Va bene! Ce la faremo! Calma.” disse lui con voce rassicurante.

Mi calmai mentre lui inviò immediatamente due comandanti con alcuni soldati a compiere ciò che gli avevo appena riferito.

“Mi spiace. Non volevo creare questo disturbo. Non volevo creare tensione. Mi spiace.” dissi con tono profondamente dispiaciuto.

“Basta! Non preoccuparti. Non c'è nulla di cui scusarsi. Tu sei la mente della nostra armata, se decidi, anche nel mentre della battaglia, di cambiare strategia, io ti seguirò perché non mi hai mai deluso, e perché sei mio amico.” disse lui con voce pacata e sfoggiando un sorriso brillante.

Fissai il terreno. Ero comunque abbattuto. Avevo fatto un errore di calcolo, un grande errore di calcolo, che avrebbe potuto farci perdere la battaglia o la guerra, oppure sarebbe stato irrisorio.

Non importa, me ne ero accorto appena in tempo. C'era ancora tempo per rimediare, per poter creare la mia opera d'arte. I soldati in cima erano già al lavoro e alcuni pali di legno lavorati al momento erano già stati inseriti nel terreno con la punta aguzza verso l'esterno del colle, nel frattempo un consistente numero di soldati, precedentemente posti a difesa degli altri in cima, scendevano dall'altura ricevuti i nuovi ordini. Alcuni, ma pochi, rimanevano comunque sopra nel caso ve ne fosse stata necessità.

Mi sollevai alla vista del lavoro rapido che compievano i soldati.

Tirai un sospiro profondo e guardai il cielo. Dei corvi svolazzavano qua e là senza senso, mentre il vento, che nel frattempo si era placato, ora ispirava una brezza più morbida e soffice. Il sole era già sparito dietro al colle su cui eravamo posti e della sua presenza rimaneva solamente il colore tenue, quasi sfumato tra le nubi.

Sorrisi. Fissai il volto sereno dei soldati e del Generale che dava gli ultimi ordini. Fissai il termine dei lavori in cima al monte. Socchiusi anch'io gli occhi, come prima aveva fatto il Generale, e pregai. Poi abbassai lo sguardo verso terra. Il sorriso che era prima apparso sul mio volto, sparì. Alcuni sassolini si muovevano, altri era evidente che si spostavano. Poi un forte squillo di tromba in lontananza, e il rullo dei tamburi, e il suono delle armi, ma soprattutto, i passi. La loro marcia faceva letteralmente tramare la terra. Questo era terrore. Questa era paura che iniziava a sorgere nei volti dei soldati, dei comandanti, del Generale, del mio. Mi voltai piano, quasi come sperando che fosse tutto finto e che non ci fosse nessuno in realtà. Mi sbagliavo. Riconobbi il loro stendardo. Riconobbi le loro armature. Riconobbi il loro sguardo.
Erano arrivati. 

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Capitolo 2
*** Alessandria ***


Alessandria d'Egitto. Il caldo era terribile, afoso, asfissiante, qui l'ombra non esisteva, era perennemente giorno. La gente arrivava da ogni parte del mondo, studiosi, mercanti e schiavi, ma anche persone semplici, in viaggio. Nessuno poteva rimanere impassibile alla sua meraviglia. Nessuno era di ghiaccio e anche se lo fosse stato qui si sarebbe di sicuro sciolto. Camminavo pensieroso per la via maestra della città diretto alla biblioteca. Sì, proprio lì, nella immensa opera del genio umano, dove le conoscenze del mondo si fondevano fino a formarne una nuova. La cultura, il sapere. Qui passarono grandi menti e chissà quante ancore ne sarebbero passate. Qui misero piede tutte le opere dello Stagirita. Qui passarono i macedoni. Qui arrivò la cultura dell'estremo oriente, dell'India, della Persia. Tutto ciò che l'uomo scrisse col suo pugno, tutto ciò che pensò con la mente, tutto ciò che creò con le sue mani è contenuto in questo tempio. Stupenda creazione.

Forse neanche Atene disponeva di tale conoscenza. Ma a mio giudizio nemmeno Atena o Zeus avrebbero mai potuto concepire un'opera tanto straordinaria, tanto vasta. Migliaia, infiniti libri coprivano le sue pareti, era una città, anzi La Città.

Mentre riflettevo sulla sua vastità mi apparve, come un lampo, la sua ombra. Il tetto svettava tra l'Olimpo, la porta era talmente grande che sarebbe stata capace di accogliere anche i Titani o i ciclopi. Le colonne tanto belle che le muse stesse sarebbero rimaste ammaliate. I gradini erano tanto bianchi che i colori della natura dovevano ancora farne di strada per poter arrivare a tanta bellezza. Questa era la massima creazione dell'uomo, era l'Opera.

All'ingresso vi erano due biforcazione maestose con scaffali enormi che toccavano il soffitto. Non sarebbe stato possibile contare tutte le opere, sarebbe stata un'opera titanica, impossibile. Pergamene, papiri e chissà quanti altri materiali conteneva, legno e pietra anche dei tempi più antichi forse. Vi erano addirittura testi sacri, religiosi, che potevano vedere solo i sacerdoti, oppure scritture che solo pochi riuscivano a comprendere. Qui gli dei stessi scrissero e lasciarono la loro conoscenza. Si dice che sia gestita tutta da una sola persona. Una unica persona poteva realmente mantenere tutta quella cultura? Incredibile. Dubitavo.

Gli scaffali traboccavano di opere messe una sull'altra ma in ordine preciso a tal punto da renderlo innaturale. Al termine dei corridoi vi erano i laboratori, astronomia, botanica, anatomia e quant'altro, solo Apollo sapeva cosa ci fosse lì dentro. Incontrai nel mio cammino tra il sapere un vecchio amico e iniziammo una rapida discussione culturale sul testo che avevamo letto il mese prima e sulle vicende del momento. Aleggiava ovunque un aria di profondo rispetto, di sapere, di eleganza, solo entrando si diveniva più sapienti. Terminata la conversazione ci salutammo ed io continuai per la mia direzione.

Le statue contenute lì dentro erano tantissime e di una bellezza indescrivibile, non riuscivo a non commuovermi dinnanzi a tale bellezza, era la riproduzione fedele, o migliorata addirittura, della natura, era perfezione. Come poteva l'uomo, essere così imperfetto, compiere dei prodigi così grandi? Come poteva con la sola mente per pensare e le mani per costruire arrivare a tanto. Mi aveva sempre affascinato la maestria degli uomini e rimanevo ore intere nella biblioteca, immerso nei libri di autori che non conoscevo in cerca di un sapere sempre più profondo. Tutto era interessante, tutto era fantastico, tutto era sapere.

Presi una seggiola di legno che era appoggiata al lato sinistro di una delle sale e la spostai fino al tavolo che era in mezzo tra una fila di scaffali colmi di manuali ed un'altra. Vicino al tavolo vi erano montagne di manoscritti, erano ovunque, e sinceramente non capivo come poteva essere che la mattina erano in un posto e il giorno seguente erano già stati catalogati tutti. Da dove arrivavano e chi li poteva ordinare in maniera così precisa e rapida?

Qui dentro il caldo non si pativa molto, il marmo di cui era costituita la maggior parte della struttura la manteneva piuttosto fresca anche nei periodi in cui il sole poteva uccidere, quando il deserto ad ovest e a sud rendeva il clima intollerabile. Mi piaceva pensare che fosse un modo creato dalla biblioteca stessa per mantenere le sue opere, adoravo la biblioteca e mi piaceva molto immaginarla come un organismo vivente con un cuore da cui uscivano i nervi che permettevano alla mente di ragionare ed al corpo di vivere. Il cuore erano le persone stesse che contemplavano, studiavano ed insegnavano, la mente erano le opere. Nonostante fosse attraversata spesso da menti geniali e rivoluzionarie non ne incontrai molte, non mi piaceva parlare con loro, preferivo la solitudine che creavano i libri perché comunque non ero mai solo, ma in loro compagnia. Mi insegnavano di più e non dovevo parlare e far figuracce mostrando la mia bassa cultura. Preferivo leggere che parlare, spesso i libri mostravano il lato più bello delle persone, quando invece poi ci parlavi, tu non sapevi come comportarti, loro risultavano spesso presuntuosi ed ignoranti.

Filosofi scienziati e architetti toccavano ogni giorno, ogni ora, il pavimento della biblioteca. Ovunque vi erano persone che pensavano e discutevano e leggevano e inventavano. Era il cuore del mondo. Tutto partiva da Alessandria. Atene era oramai caduta, la Grecia era oramai in fase discendente, l'Egitto era il nuovo centro del sapere mondiale. Tutti passavano da qui, tutti conoscevano la grandezza di Alessandria e la sua importanza era riconosciuta persino in India. La nuova capitale delle armi non era niente in confronto. Se la mente non governa, il corpo è destinato a cadere inesorabilmente.

Decisi di leggere un poco per conto mio le ultime opere arrivate qui in biblioteca. Mi catturarono. Ero talmente preso che non mi accorsi che il cielo non ospitava più il sole se non i suoi ultimi raggi riflessi dal cielo. Decisi che era ora di andare. Anzi, era già tardi. Mi alzai e riposi ciò che avevo letto dove l'avevo trovato. Mentre sistemavo sentii ancora delle chiacchiere in fondo al corridoio, filosofi, erano gli unici che potevano rimanere fino al mattino, insieme anche agli astrologi, gli altri tendenzialmente tornavano alle loro dimore anche se non era raro che vi rimanessero altri gruppi o singoli a contemplare ancora la magnificenza della struttura. La biblioteca era perennemente aperta a tutti e con poche regole, tra cui: nessuno poteva portar via nulla. Mentre mi incamminavo per l'uscita, sentii i passi in un corridoio vicino di un persona, anziana forse perché aveva uno strumento con se per reggersi o altro, non capivo bene ed incuriosito spiai nel corridoio accanto, vi era un vecchietto che metteva a posto alcune opere con la mano destra mentre con la sinistra si portava dietro una piccola scala che non gli sarebbe bastata nemmeno a raggiungere il piano superiore degli scaffali, il secondo, mentre ogni scaffale disponeva circa di otto mensole, alcuni, dove il soffitto risultava più alto addirittura nove o dieci.

Uscii dal centro della cultura, e già sentivo avvertivo la sua mancanza. Era piuttosto noioso il mondo qui fuori. Mi incamminai per casa mia, non era molto lontana, in fondo alla via maestra a sinistra, poi a destra verso la grande fontana e una volta arrivati lì a destra ancora, la prima casa a sinistra era la mia, piccola ma calda ed accogliente.

Il terreno era un misto di sabbia e terra sporca e battuta dalle mille e più persone che l'avevano pestata oggi e continuavano anche in quest'istante. Per la via maestra vi erano poche persone, nessuno che conoscevo di persona, ma quasi tutti di vista. Pescatori, mercanti o gente che non voleva recarsi alla propria dimora o che faceva giusto una passeggiata prima di coricarsi. Svoltai a sinistra, si vedeva molto chiaramente la fontana, simbolo del quartiere sia per l'acqua che donava ai cittadini di quella zona sia perché era il tempio stesso di Nettuno. La gente che percorreva la strada era pochissima, due persone, tre al massimo non di più. La terra sotto i piedi era già meno smossa poiché vi era già meno gente che si recava per le vie minori. Un po' come il sangue che fluisce maggiormente per l'arteria principale per poi diramarsi verso le minori così erano le strade di Alessandria, le principali, che erano tre, tutte che si incontravano al porto, vedevano perennemente persone, le altre di meno, le viette più strette quasi nessuno, soprattutto a quest'ora tarda.

Andavo avanti con un passo piuttosto pensieroso e lento, come sempre, pensavo alle varie opere che avevo avuto modo di leggere nella giornata. Adoravo leggere opere di filosofia e di architettura, ma soprattutto amavo leggere manoscritti riguardanti la guerra, le battaglie, il tema storico, le strategie usate, e farmi poi un'idea mia a riguardo e cercando di prevedere ciò che sarebbe potuto accadere prima ancora che l'autore dello scritto lo svelasse. Avevo sempre ragione, raramente rimanevo stupito dall'esito, lo prevedevo quasi sempre. Ma questo non era indice di noia e monotonia, no anzi, l'opposto, amavo leggere le strategie adottate anche se già potevo ipotizzare gli esiti degli scontri.

Ero arrivato alla fontana, mi fermai un attimo, bevvi dell'acqua e pregai il dio Nettuno che ci potesse continuare a donare questa preziosa fonte per la nostra salute. Poi ripresi il cammino, svoltai a destra. La mia casa era oramai a pochi passi da me, tirai un sospiro di sollievo perché effettivamente la stanchezza cominciava a pesare e le gambe erano piuttosto stanche, non vedevo l'ora di riposare. Arrivai all'entrata della mia casa e aprii la porta.

Non feci in tempo ad entrare che mi sentii toccare, anzi preso, afferrato per le spalle e scaraventato a terra. Tentai di capire cosa stava succedendo, ma non capivo. Cos'era stato? Chi era o erano? Ero per terra e vidi distintamente due persone più grosse di me che si chinavano sul mio corpo, una mi fermò le gambe con una corda, l'altro mi tenne le braccia, mi si avvicinò con il viso e mi disse “Tu adesso vieni via con noi. E non fare alcun rumore.”

Ero terrorizzato. Avevo molta paura e non sapevo cosa fare, ero solo, assolutamente solo. Mi sollevarono di peso con una forza a cui non potevo chiaramente oppormi. Mi legarono anche le braccia e uno di loro mi tenne una mano davanti alla bocca poiché non si fidava. Chi poteva fidarsi di un uomo sollevato per aria che stava per essere rapito da chissà chi? Iniziarono a guardarsi in giro circospetti, io non feci nulla, per evitare che utilizzassero armi che non notavo dal panico che avevo ma potevano benissimo essere sotto le vesti, ben celate. Dopo essersi guardati circospetti intorno, iniziarono a correre verso una via ancora più stretta e desolata. Parlavano una lingua che non capivo bene, etrusco forse, non ne ero sicuro, forse iberico. Non sapevo, ero talmente confuso che non riuscivo nemmeno a distinguere chiaramente i loro abiti, pensavo avessero delle tuniche ma adesso che li guardavo più attentamente sembravano o armature o qualcosa del genere non ne ero certo, ero troppo confuso per far caso a questo. Pensavo solo a dove potevano portarmi e perché nessuno notava due persone che portavano via una persona per aria.

Ero esperto in linguistica ma non riuscivo proprio a comprendere che cosa si stessero dicendo questi due tizzi. Diamine! Mi stavano rapendo!

Sentii la voce di qualcun altro, morsicai così la mano che mi teneva la bocca e iniziai ad urlare con tutta l'aria che avevo nei polmoni. Poi sentii un forte dolore alla testa e nient'altro.

Mi risvegliai poche ore dopo, almeno pensavo. Ero vicino al mare, sentivo le onde e l'odore della salsedine. Ero ancora stordito con un forte mal di testa ed ora ero pure imbavagliato ed avevo anche una benda agli occhi. Mi sentivo nudo, potevo avvertire di non avere più la mia veste perché nonostante non potessi vedermi, non sentivo più sulla pelle alcun vestito se non qualcosa di ruvido che mi copriva le parti intime. Sentivo che ero coperto di terra e povere, la pelle era ruvida. Non sapevo cosa mi avevano fatto con precisione, potevo solo intuirlo da ciò che sentivo sulla pelle. Ero ancora legato sia ai polsi che alle caviglie e non potevo muovermi, probabilmente ero anche legato ad un palo o qualcosa di simile. Non udivo alcuna voce o perché ero stordito e mi fischiavano le orecchie o perché nessuno parlava. Era giusta la prima ipotesi. Infatti man mano che passava il tempo udivo sempre più voci diverse e che parlavano lingue differenti tra loro, ed alcune le riuscivo a comprendere anche abbastanza bene. Dov'ero? Con chi ero? Cosa mi era stato fatto? Odiavo tremendamente l'ignoranza e stare lì come un pesce lesso senza sapere nulla era un tormento. Ad un certo punto udii due voci familiari. Erano loro, i rapitori, ne ero certo. Non poteva essere altrimenti visto che parlavano anche una delle poche lingue di cui non conoscevo nulla. Non so effettivamente per quanto tempo rimasi lì seduto in quella posizione, legato, e con chi. Non potevo comunque parlare. Decisi di smuovermi un poco sperando di poter allentare in qualche modo la presa delle corde sul mio corpo, ma mi arrivò un ceffone abbastanza forte da farmi bere il mio stesso sangue. Bene. Almeno sapevo che c'era qualcuno che mi stava tenendo d'occhio in quel preciso istante. Almeno sapevo qualcosa in più. Anzi, potevo sapere anche che era giorno visto che nonostante la benda sugli occhi, la luce filtrava comunque, in quantità ovviamente ridotta, e mi permetteva di vedere il tessuto di cui era fatta. Stoffa? Non capivo neanche quello.

Il ceffone mi aveva aumentato il dolore alla testa ed ora ragionare era divenuto piuttosto complesso. Lo stesso non pensare mi creava dolori lancinanti. Mi sentii preso per le gambe, mi spaventai. Caddi col busto all'indietro e potei sentire l'odore della terra bagnata dall'acqua del mare. Qualcuno mi trascinò per i piedi su uno scafo, senza ovviamente preoccuparsi delle mie condizioni, visto che non solo mi stavo sporcando ancor di più, ma mi si stavano creando piccoli tagli da tutte le parti. Potevo chiaramente sentire i granelli di sabbia e sale entrare dentro i tagli che mi procuravo nel trascinamento, o che mi ero già procurato e non me ne ero reso conto, e sentire le ferite bruciare come se mi stessero ardendo tra le fiamme. Ad un certo punto il tizio che mi stava portando in quel modo su d'uno scafo, almeno così intuivo dal movimento ondoso della struttura, mi lanciò contro quello che potevo definire una parete o qualcosa di simile. Una spina mi si conficco nella schiena, lanciai un urlo di dolore che uscì smorzato dalla benda alla bocca. L'uomo che mi aveva portato lì, udito l'urlo e mi disse in una lingua a me nota “Zitto schiavo! Non devi fiatare!”

Ero uno schiavo? Che cosa mi era successo? Cosa mi avevano fatto? Chi mi aveva condotto lì? Chi mi avrebbe salvato?

Avevo dolori ovunque e non capivo nulla di quello che mi stava succedendo in quel momento. Tutto era buio, o quasi. Le onde erano piuttosto calme, la barca o nave su cui mi avevano portato non oscillava molto, probabilmente il mare era calmo quest'oggi. Sentii alcune voci che parlavano in greco, altre in latino, alcuni parlavano l'egiziano e molte altre che però si confondevano con le altre e quindi non riuscivo a distinguerle in modo chiaro.

Ad un certo punto sentii una mano poggiarsi sulla mia schiena. Iniziai a tremare. Ero spaventatissimo, che cosa mi avrebbero fatto ora. Ero già ridotto piuttosto male. Come era possibile che la mia vita potesse mutare all'improvviso così tanto. Come poteva un uomo semplice come me ritrovarsi in questa situazione tragica. Come è potuto succedere. Cosa mi era stato fatto e come era possibile che nessuno s'era accorto della mia mancanza, avevo amici qui ad Alessandria che mi vedevano quasi quotidianamente. Chi si sarebbe preoccupato di me?

La mano che si era appena posata sulla mia schiena era fredda e sporca, forse con sabbia.

“Stai fermo e non ti muovere.” mi disse il proprietario della mano. Almeno speravo che fosse così. Aveva un accento diverso.

Lanciai un urlo soffocato. La spina incastrata sotto pelle mi era stata tolta da quel qualcuno. Non era uno dei rapitori.

“Tutto bene? Capisci ciò che dico?” mi disse lui con un accento orientaleggiante.

Annuii in segno di affermazione.

“Bene! Almeno posso essere sicuro che capisci ciò che ti dico.” disse lui.

Rimase in silenzio per un tempo indeterminato finché tutte le voci si spensero. La porta, forse della stiva, era stata aperta, dunque doveva essere entrato qualcuno di importante, non sapevo.

Un uomo mi si avvicinò e mi levò la benda agli occhi e la fascia alla bocca. Sputai il sangue che si era coagulato nella mia bocca. Mi arrivò un altro ceffone. Questa volta però dalla parte opposta. Tanto per cambiare. Inizia a mettere a fuoco le figure intorno a me e soprattutto colui che mi aveva violentato e forse rapito, ma gli occhi mi bruciavano parecchio e non riuscivo a veder bene le figure.

La figura, o meglio l'ombra che vedevo si diresse verso l'uscita per poi richiudere la porta dietro di sé. Intorno a me vi erano diverse persone di cui ancora non riuscivo a distinguere bene il volto né il corpo.

La poca luce che filtrava dalle fessure tra un asse e l'altra dello scafo non permetteva di vedere chiaramente nessuno. Eravamo tutti quasi nudi, poco vestiti, sporchi, al buio.

Mi si avvicinò una figura strisciando, anche lui era legato sia alle caviglie che ai polsi.

Mi guardò bene gli occhi che ancora tenevo socchiusi. Sorrise e disse: “Benvenuto all'inferno amico.”

Rimasi un poco a scrutarlo in cerca di qualche dettaglio che potesse farmi capire chi fosse. Nulla, era qualcuno mai visto prima.

“Grazie.” risposi.

“Per cosa?” chiese lui.

“Per avermi levato la spina che avevo nella schiena.” gli risposi io.

“Hahaha! E come fai a sapere che sono stato io.” domandò ridendo.

“Perché sei l'unico qui che tiene gli occhi bene aperti, questo vuol dire che tutti i qui presenti avevano una benda che gli copriva gli occhi a parte te che dunque hai potuto vedere dove fosse la spina e toglierla.” Risposi.

“Non sono prove certe, anche altri qui non avevano la benda agli occhi.” rispose lui.

“Solo una persona che poteva vedere poteva sapere realmente chi aveva una benda e chi no. Inoltre non hai alcun segno intorno agli occhi, perciò sono certo che sia stato proprio tu. Grazie.” risposi allargando un po' le palpebre per veder meglio. Gli occhi bruciavano ancora, ma non molto. Non come prima.

“Bene, vedo che sei intelligente.” disse lui. Ed aggiunse “Ed anche perspicace, attento ai dettagli, complimenti.”

“Non ho bisogno di complimenti, se non l'avessi notato sono stato rapito.” risposi in tono deciso.

“Hahaha!” rise. “Perché secondo te noi qui cosa siamo, profughi in cerca di una nuova casa?” disse ridendo ancora.

Ci pensai un attimo. Questo voleva dire che eravamo stati tutti rapiti. Ma da chi. Chi poteva rapire così tante persone senza essere notato? Come mai non ci avevo pensato prima? Ero diventato scemo? No, era il colpo alla testa. Speravo.

“Chi sei?” gli chiesi.

Sorrise. Guardò il pavimento umido.

“Chi ero semmai, ora non lo sono più evidentemente.” rispose.

“Chi eri?” domandai ancora.

“Chi ero non importa, ora rimane da sapere chi diventeremo.”

Lo scafo iniziò ad ondeggiare di più. Due erano le possibilità. Primo, il mare si stava alzando, improbabile visto che si intravedeva il sole ed era appena mattina. Secondo, stavamo partendo per chissà dove. Nonostante il dubbio ero già certo che fosse la seconda. Stavamo partendo per una zona ignota, condotti da persone che ci avevano rapiti e che non conoscevamo, se non per la forza dei loro schiaffi.

“Non preoccuparti, non ti uccideranno. Non ci uccideranno.” disse lui con voce sicura.

“Capirai. Lo hanno già fatto. Non ho più la mia vita. Tutto è cambiato in poche ore. Non sono più nessuno. Sono Nessuno. In così poco tempo io non esisto più.” risposi.

“Cosa sei un filosofo?” disse in tono scherzoso.

“No. Chi ero non importa, ora rimane da sapere chi sarò.” risposi io.

Lui sorrise.

“Bé almeno so per certo che parli la mia lingua estremamente bene.” disse.

Era vero. Non mi ero accorto che stavo parlando il Persiano. Ero abituato, ad Alessandria. Se non sapevi almeno due lingue non potevi andare in giro. Era impossibile conoscerle tutte ma almeno le principali erano oramai un obbligo.

“Sì, parlo il persiano ebbene.” dissi io.

Lo scafo si mosse ancor di più. Eravamo veramente partiti verso l'ignoto.

“Ebbene tu non sei persiano.” rispose lui.

Lo guardai stupito.

“Ah, no? E cosa sarei allora?” chiesi marcando di più l'accento persiano.

Rise. “Bé è abbastanza evidente che hai un accento che non è orientale. Adesso non so da ove vieni ma penso sia un accento Greco.” disse lui.

Risi anch'io. “Mi sbaglio per caso?” aggiunse lui.

“No” risposi io. “Non ti sbagli.”

“Che zona della Grecia? Corinto? Sparta?”

“Atene” risposi io.

Poi passarono alcuni secondi di silenzio. Il mare non era mosso, ma potevamo sentire tutti le onde che si rompevano contro la nave. Aveva oramai preso il largo. Aveva preso velocità.

“Atene eh?” disse “Ci sono stato più di un a volta” disse in Greco.

Lo guardai attentamente in cerca di dettagli che mi permettessero di capire chi fosse costui. Non era più importante dove stavamo andando né cosa volevano farmi. Chi era costui?

“Non ci pensare troppo” disse lui.

“Te lo dirò dopo” aggiunse sorridendo.

Poi rimase solo il rumore delle onde ed il mare. 

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Capitolo 3
*** Il tuono ***


E così arrivò la sera ad abbracciare il mondo. Quel leggero fazzoletto di terra che galleggiava piatto nell'immenso spazio che volava attorno. Eravamo come statue, freddo marmo impassibile al tempo. Eravamo lì con sguardo impietrito contro l'orizzonte che si avvicinava. Probabilmente qualcuno pensava anche “Perché sono qui? Cosa ci faccio?”. Gli sguardi parlavano da soli. Non vidi mai così tanta paura, incredulità, stupore, e altre mille emozioni insieme come in quel momento, negli occhi dei nostri soldati. Gli sguardi non respiravano, erano divenuti tutti rigidi ed increduli. Quella non poteva essere una armata. Dov'era la fine? Quanti diamine erano? Quante donne avevano partorito per fare quell'esercito? Oh Zeus! Oh Atena! Aiutateci!

Oramai era ora di accendere le fiaccole, i nostri piccoli fuochi che non avrebbero illuminato nemmeno la metà dell'armata a noi di fronte. Mentre l'aquila s'avvicinava a noi, noi come conigli aspettavamo la nostra fine. Le nubi oscuravano il cielo. Sembrava che il Vesuvio avesse eruttato e le sue ceneri avessero coperto tutto ciò che era possibile coprire, come un largo e cupo manto. La luce sparì. Un tuono.

Iniziò intanto il vento a portare qualche gocciolina leggera d'acqua, ma ancora impercettibile, soprattutto perché eravamo tutti rivolti verso quella massa informe di uomini che sia avvicinava. Non sapevo cosa guardare se la paura nei nostri occhi o se la sete di sangue nei loro.

Erano troppi, un numero che nemmeno loro potevano sapere. Sarebbe stato più semplice contare le stelle, vedere gli dei e mangiarci assieme o salire l'Olimpo senza mani. Era sbalorditivo come in così poco tempo fossero riusciti a mettere assieme una armata così vasta, anzi un paese. Gli stendardi nostri erano montati con aste di legno e riportavano il nostre stemma: un'aquila trafitta, ma erano stati rotti talmente tante volte che oramai erano bassi, piegati e quasi a brandelli. I loro erano forniti di aste d'oro ed il loro stemma era alto, talmente alto che potevano vederlo anche i barbari a Nord dalle loro terre steppose e lontane. Le loro armature erano splendide, tutti avevano le stesse corazze montate al meglio, noi avevamo a malapena gli scudi. I loro scudi erano grandi nelle prime file, per assorbire l'impatto nel caso avessimo attaccato per primi, magari con la cavalleria. Previsto. Ma erano talmente grandi e robusti, lo si notava dagli uomini alti almeno due metri che vi erano nelle prime file ed i loro muscoli, che anche con i trabucchi sarebbe stato piuttosto complesso abbattere quel Vallo di Adriano che proteggeva il resto dell'esercito, anch'esso estremamente ben armato e difeso. Mi veniva quasi da ridere al vedere le enormi ed evidenti disparità che vi erano tra i due schieramenti. Era guerra. Era morte certa.

La loro avanzata faceva timore perfino agli alberi che tremavano al loro passo perfettamente coordinato. Non come era stato il nostro. I loro tamburi mettevano una tensione altissima nell'aria, e battevano a ritmo incessante e sempre maggiore la lor marcia, proprio come i nostri cuori, che scalpitavano alla vista della loro avanzata. Non si arrestavano. Non si arrestarono al punto che avevo pensato ma vennero avanti. Sempre più avanti. Sfrontati.

Erano troppo vicini, si stavano avvicinando paurosamente tanto. Cento passi da noi. Noi fissavamo. Cinquanta passi da noi. Venti passi. Dieci...

L'armata si fermò allo squillo di una tromba collocata chissà dove in quella formazione geometricamente perfetta.

Bastardi. Come si permettevano, questa era una sfida aperta, anzi una dichiarazione di vittoria a priori. Erano talmente convinti della loro vittoria che non avevano nemmeno bisogno di pensare dove fermare l'esercito, in un luogo più favorevole o sicuro per loro. Bastardi. La presunzione non era tollerata in guerra, poteva ritorcesi contro, questo era il pensiero che mi frullava per la testa ed era anche l'unico che mi permetteva di mantenere la calma difronte agli altri soldati. Mi voltai verso il nostro esercito, scesi da cavallo e lo spronai ad andar via. Inizia a muovere i miei passi verso il nostro esercito, se così poteva chiamarsi. Mi sciolsi il mantello che mi copriva le spalle inutilmente. Gettai l'elmo per terra. Iniziò a piovere.

Il forte ticchettio della pioggia accompagnava ritmicamente i miei passi verso il Generale. Arrivai di fronte al Generale, lui che come me cercava di mantenere la calma per i suoi uomini e per se stesso, con un cenno deciso e per nulla intimorito del capo mi fece capire che avevo il suo consenso. Sfilai la mia spada dal fodero e gliela consegnai. Era un prezioso regalo di un amico che avevamo perso durante il viaggio e non volevo che la impugnasse uno qualunque di loro. Tornai indietro verso l'armata dell'Inferno, con calma e determinazione. La pioggia aveva già bagnato tutto il mio corpo e dalla fronte ora penzolava una ciocca bagnata di capelli, mentre altre gocce mi cadevano ad ogni passo in avanti dagli occhi. Cercavo di mantenere la compostezza e la serietà, anche se dentro di me non sapevo più cosa fare. Una parte di me già pensava che solo con il loro arrivo avevamo perso, l'altra parte voleva vedere il loro sangue.

Nel terreno si erano già formate pozzanghere piuttosto vaste. Il silenzio avvolgeva entrambe le schiere di uomini, con la differenza che dalla nostra parte i muscoli involontari tremavano, dalla loro invece fremevano. Arrivai dinnanzi alle mura di scudi. Un lampo da sopra il colle illuminò il mio viso, ed i loro occhi che si intravidero dalle fessure degli elmi. Il tempo non passava. Non sapevo da quanto fossi faccia a faccia con quella muraglia. Mi avrebbero potuto eliminare quando volevano, senza rimorsi, ero un avversario in fondo. Sentivo i passi di un uomo che si avvicinava da dietro le file, ma non potevo chiaramente vederlo, la mia statura era più ridotta rispetto alle montagne che si ergevano lì davanti a me. Sentivo gli scudi muoversi, come le acque aperte da Mosè, era lui, ero certo che stava arrivando lui. Lo stronzo che ci aveva inseguiti per tutto questo tempo era qui e finalmente potevo vederlo in faccia. Strinsi i denti dalla foga di uccidere che mi salì in quell'istante. Strinsi i pugni e i muscoli delle gambe per contenermi. Poi i soldati a me difronte si scostarono, e finalmente mi apparve dinnanzi. I suoi occhi davanti ai miei. Il suo elmo difronte alla mia testa, la sua spada difronte al mio fodero vuoto, la sua tenacia contro la mia rabbia.

Dopo tempo di battaglie, finalmente era giunto il momento da me tanto atteso di guardarlo fisso negli occhi e trapassargli l'anima e, perché no, anche ucciderla e gettarla nel Tartaro. Non faceva paura, lui doveva invece averne. Ad un certo punto fece uno scatto con la mano destra e sfilò velocemente la spada. Sentii il sibilo del ferro temperato sul suo federo d'argento. Il gelo, il freddo della sua sua lama che scorreva e che oramai fu estratta in toto. Sentii il suo passo in avanti. Pesante poggiarsi sul terreno morbido senza erba. Sentii il tuono.  

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Capitolo 4
*** Il sigillo ***


Le coperte di seta sfioravano appena la pelle morbida. Lui posò la mano sulla testa di lei, smuovendole un poco i capelli e baciandola. Lei sorrise accennando appena la curva delle labbra. Era bellissima. Pelle ambrata liscia come la seta che la copriva, mani leggermente affusolate e leggere come le rose delle pianure dell'Est, occhi color nocciola, un dolce colore simile all'ambra che illuminava anche il sole, capelli color biondo scuro, lisci e lunghi che le coprivano la schiena come in dolce velo che cercava di coprire ciò che in realtà lasciava intravedere, labbra favolosamente morbide, come velluto, grandi seni, necessari per nutrire i futuri figli che probabilmente sarebbero sbocciati da lì a qualche anno. Era una ancella di Venere o meglio era la dea stessa in persona. Era bellissima. Dall'aspetto alla mente geniale e vivace, dalla curiosità all'energia. La notte che aveva appena lasciato il posto al giorno non li aveva visti dormienti ma fiamme che consumano il loro amore tra le i leggeri soffi del vento. Lui la amava. Lei pure. Erano insieme da parecchi anni e si avevano anche consacrato il loro amore grazie al volere degli dei e il tramite dei sacerdoti. Era da tempo che non giungevano notizie importanti il quel lato del mondo, a metà tra la terra del sole e quella del tramonto. Ma quello non era un giorno come gli altri. Lui si alzò dal letto nudo e andò verso la fonte che zampillava acqua chiara, lei rimase invece ancora un poco tra il mondo reale e quello onirico.

Per la stanza vi erano il canto degli uccellini e i leggeri sospiri del vento. Lui si avvicinò al letto per iniziare a vestirsi visto che oramai il sole stava accelerando il suo passo nel cielo. Lei lo spinse sul letto e gli saltò sopra, lo baciò e poi iniziò a scendere. Lui non aveva tempo da perdere ma non poteva ritrarsi al piacere. Quando l'essere bestia vince la parte razionale dell'uomo diventa troppo difficile riprendere la razionalità. Aspettò e lasciò che lei finisse il suo lavoro mentre lui emetteva solo qualche gemito di piacere ogni tanto. Così passò la mattinata, ancora tra le coperte del talamo nuziale che si sporcava spesso del loro amore.

Lei si coricò ancora nel letto, lui invece si alzò, lei gli afferrò le spalle e disse:

“Devi per forza andare a quello stupido concilio?”

“Mi spiace ma deve adempiere a tutti i miei doveri, non solo quelli qui con te” disse sospirando.

“Non puoi rimandare il tutto? In fondo tu sei l'imperatore e chi mai può mettersi contro il tuo volere, contro le tue decisioni.” il suo tono era ancora pienamente erotico e mentre parlava fece scivolare le mani lungo il suo corpo anche se prima ancora che arrivassero all'addome lui le scostò e la guardò negli occhi.

“Questa sera sarò completamente tuo, ma ora veramente non tentarmi ancora, devo andare.” disse lui con tono deciso ma anche un poco deluso, in fondo gli sarebbe piaciuto stare con lei nel letto senza limiti di tempo e senza impegni. Ma il lavoro di un imperatore era impegnativo e si richiedeva spesso la sua presenza nella sala del concilio.

Si vestì con calma, i gambali, la veste ben rifinita e poi la sua immancabile armatura. Nonostante la guerra non toccava più da anni la sua terra non gli importava, gli piaceva metterla per ricordare chi era agli altri e a se stesso, ma soprattutto per ricordare ciò che aveva fatto.

Non aveva mai voluto servi che lo aiutassero a montare la sua preziosa e scalfita armatura, nessuno se non le ancelle della sua amata, poteva mettere piede nelle sue stanze.

Fissò l'elmo che era posto ad un angolo della stanza battuta forte dal sole di mezzogiorno, luccicava quasi in richiamo dei tempi in cui tra la sabbia falciava vite su vite. Era temuto e rispettato per la sua grande maestria nelle armi e soprattutto per la sua ineguagliabile astuzia che lo aveva visto sempre vincente, sia quando la vittoria si profilava all'orizzonte, sia quando la vittoria doveva essere presa negli inferi e riportata in terra. Le leggende su di lui erano molte e troppe esageravano troppo la sua persona e la sua forza. C'era chi diceva che fosse riuscito ad uccidere un drago, chi un golem di pietra, chi uno stregone del Nord. Menzogne, sarebbe stato più facile ottenere l'immortalità che sconfiggere qualcuno dei personaggi che si diceva avesse ucciso. Era ancora muscoloso e vigoroso nonostante l'età iniziava ad avanzare. Uscì dalla stanza e lasciò la moglie in compagnia delle sue ancelle che erano all'uscio della porta ad aspettare degli ordini.

Si incamminò verso la sale dove oramai era quasi terminato il concilio. Si era fissato l'inizio al sorgere del sole e a quest'ora probabilmente era già finito tutto. Per il corridoio marmoreo che attraversava l'immenso palazzo in cui risiedeva come imperatore vide venirgli incontro il “borseggiatore”, colui che si occupava delle entrate ed uscite del regno, il soprannome gli era stato dato per la sua fama che aveva in estremo oriente, un grande succhiatore di denaro. In realtà non era affatto così, la sua era una figura ligia al dovere più di un soldato ben addestrato, e sapeva perfettamente cosa andava fatto e cosa non bisognava fare. Grazie al suo impegno il regno navigava letteralmente nell'oro e la popolazione era fedele, felice e benestante. Sapeva il fatto suo, era una di quelle persone che ogni volta che lo si guardava negli occhi no si poteva capire che cosa potesse pensare in quel preciso istante, la sua cultura era altissima. Si era istruito ad Atene per anni, poi ad Alessandria e infine andò in estremo oriente nel paese degli uomini della seta. Lavorò per i più importanti sovrani dei regni centrali e per l'imperatore dell'occidente. Era una fortuna averlo dalla propria parte. Era necessario. Si stava avvicinando e si iniziava ad intravedere il taglio che percorreva l'occhio sinistro fino alla guancia destra. A suo detto glielo aveva inferto uno spadaccino dell'oriente anche se poi lui lo aveva ammazzato. Infatti nonostante la magrezza e la pacatezza apparente fu uno dei migliori soldati mercenari del mondo valutato anche più di trecento monete d'oro per giornata. Preferiva averlo però a capo del sistema economico che vederselo in battaglia. Era più anziano di lui ma rimaneva una delle poche persone che era riuscita a pareggiare la sua straordinaria abilità combattiva.

“Buon giorno astro del giorno spero abbiate dormito bene” disse chinandosi leggermente col busto.

“Bene, bene. Allora il concilio è terminato?” chiese speranzoso in una risposta affermativa e un poco scocciato dai modi orientaleggianti che utilizzava frequentemente.

“Mi spiace contraddirla mio sovrano ma non è come pensate voi”

“Come sarebbe non avete ancora terminato?” disse con una punta di rassegnazione “Non mi sembravano molti o fondamentali gli argomenti che bisognava trattare” rispose.

“Ecco vede, purtroppo una notizia è arrivata quest'oggi dalla capitale.”

A queste parole si irrigidì di colpo, dalla capitale non potevano che arrivare problemi su problemi e quando non ve ne erano li creavano.

“Di che cosa si tratta?”

“Ecco è per questo che mi stavo dirigendo verso le sue stanze, vi è una estrema urgenza della sua presenza.”

“E perché mai? Avete voi in mano il monopolio economico d'oriente e gli altri hanno i loro ruoli precisi che potete compiere senza restrizione alcuna.” Rispose lui.

“Oh lei mi lusinga, ma vede noi non possiamo compiere quanto richiesto dalla capitale”

“Come sarebbe a dire? Non capisco.” disse confuso.

“Vede non è nei nostri poteri compiere questa missione, se così vogliamo intenderla”

“Di cosa si tratta dimmi così mi risparmio tempo sia io che voi altri.”

“Ecco, mio signore, vede non lo sappiamo o meglio non possiamo saperlo.”

Gli occhi dell'imperatore schizzarono fuori dalle orbite e si incamminò immediatamente verso la sede del concilio mentre il borseggiatore lo seguiva.

“Vede mio signore... il sigillo... noi non potevamo... non siamo autorizzati...”

disse cercando di stare al passo dell'imperatore e nel frattempo parlargli.

“Ti prego dimmi che non è quello che penso io, perché se lo è oggi inizio a decapitare gente” disse con un tono che sembrava ironico anche se un tempo riusciva realmente ad essere così.

“Mio signore purtroppo è così... è arrivato stamattina presto e non possiamo credere a ciò che arriva via voce quindi abbiamo aspettato lei...”

La sale era ora dinnanzi ai due, non vie erano porte ma solo due guardie con lance in mano che si incrociavano e che appena videro i due le scostarono, per poi, una volta entrati, incrociare nuovamente le armi. Vi erano due gradini per avvicinarsi al tavolo della riunione.

Vi erano quattro persone all'interno della riunione, escluso l'imperatore.

Il borseggiatore che lo aveva accompagnato cercando in tutti i modi di calmare la foga omicida e nello stesso tempo terrorizzata dell'imperatore, Nebbia, la spia dell'impero, doveva sapere tutto di tutti e nel caso anche intervenire, era infatti anche un assassino professionista, Il gioielliere, ovvero il capo dei commerci e delle attività lavorative dell'impero, ed infine il maestro di Atene, capo indiscusso della cultura ed istruzione, tutti i doveri militari invece erano propri dell'imperatore e del suo primo generale che non era presente al concilio poiché stava cercando di sedare una rivolta a sud dove, le nuove terre conquistate dall'occidente richiedevano un intervento diretto ed immediato, quindi dall'oriente.

“Oh finalmente sei arrivato!” esclamò il gioielliere nonché suo amico di infanzia ed unico che poteva dargli del tu, sempre però ricordando i diversi gradi che ora portavano.

“Non si dovrebbe accogliere in questo modo il nostro signore” intervenne in modo brusco il borseggiatore.

“Sempre stronzo come sempre tu vero?”

I due si squadrarono con occhi iniettati di sangue, se fossero stati in campo aperto avrebbero certamente sfoderato le loro armi anche se già si poteva intuire l'esito di un possibile scontro tra i due.

“Calma, calma cerchiamo di analizzare la situazione con calma e razionalità ricordandoci che abbiamo una importante...” intervenne il maestro subito fermato dall'attacca brighe.

“Sì, sì, bene, pace e amore per tutti caro il nostro maestro”

“Sarebbe meglio acquietare un poco i toni amici miei e cercare di non lottare tra di noi” intervenne l'imperatore.

I personaggi nella stanza non erano seduti tutti intorno al tavolo. Solo l'imperatore e il gioielliere erano posti davanti alle scartoffie che oscuravano il legno di cui era composto il tavolo, al lato destro vicino alla finestra vi era seduto in silenzio, come al solito, Nebbia, mentre il borseggiatore era in piedi dietro l'imperatore e Il maestro vagava qua e là in preda all'ansia.

“Signori stiamo calmi non vi è necessità di preoccuparsi, in fondo non potranno chiedere chissà cosa.... almeno lo spero” disse il maestro di Atene.

“A mio parere è inaccettabile che dipendiamo ancora de quella caretta che sta affondando e sopravvive solo grazie ai nostri eserciti e denari che non fanno altro che spendere” intervenne il gioielliere.

“Qui non è la sede appropriata per poter discutere di certi argomenti, e non dimentichiamo che è grazie alla caretta che siamo sorti come nuovo impero” intervenne l'imperatore.

“Sì, sì come no, quando e dove potremmo mai discuterne se non in una riunione come questa?” rispose.

“Possiamo vedere di che si tratta almeno?” disse Nebbia.

Tutti si azzittirono in un istante, era raro che parlasse e non tutti ricordavano il suono della sua voce.

“Sono d'accordo siamo qui a disperarci per qualcosa che è possibile anche che sia un semplice errore di timbro” disse il maestro.

“Giusto vediamo la lettera, anche se mi spiace contraddirla ma dubito che un timbro raro come questo possa essere utilizzato in modo così sconsiderato” intervenne l'imperatore.

“Oltre cento anni senza vedere quel timbro ed ora invece eccolo lì sul tavolo apportato ad una pergamena mal arrotolata di cui non sappiamo nulla” disse il gioielliere “Apriamola subito! Cosa stiamo Aspettando!”

“Calma” intervenne ancora in borseggiatore “il timbro riportato è sacro e solo chi è di dovere può romperlo e leggerne il contenuto”

L'imperatore non sapeva cosa fare. Non era mai sceso in uno stato di ansia del genere. Nemmeno suo nonno avrebbe mai potuto vedere quel sigillo, lui invece sì. Era lì, davanti a lui.

Combatté per diversi anni nella fanterie e poi nella cavalleria fino a diventare imperatore, scalando tutti i gradini della carriera militare e avendo anche una buona dose di fortuna. Era la norma ricevere ordini dall'alto ma negli anni precedenti aveva visto morire molti suoi compagni, amici, fratelli, nel loro stesso sangue, aveva combattuto contro veri e propri mostri di crudeltà, contro ogni forma di essere, dall'animale più feroce all'uomo più esperto, era riuscito a uscire illeso dalla celebre battaglia dei Campi Rossi in cui due eserciti, il suo da poche centinaia di unità e l'altro di diverse migliaia, si scontrarono con tanta violenza che per giorni la battaglia andò avanti senza arrestarsi, gli uomini cadevano dopo minuti, ore, o addirittura giorni di strenua battaglia senza fine, anche se al terzo giorno, lui, intoccato, riuscì a stroncare la vita del generale avversario. Col morale a terra e senza più una unità, i pochi superstiti si ritirarono. Ma lì non vi era stato questo sigillo, ve ne era uno importante, una convocazione immediata alle armi, ma non era come questo. Questo non si vedeva da troppo tempo e nel durante erano state combattute battaglie ferocissime contro nemici inimmaginabili. Quindi perché era lì quella lettera? Cosa conteneva?

Iniziò a sudare freddo, mentre gli altri discutevano di sottofondo, tranne Nebbia che era sempre troppo pacato e rilassato e aveva lo sguardo indirizzato verso le mani dell'imperatore, in attesa che aprisse quella stramaledetta lettera che oramai marciva lì da alcune ore. Il cielo si annuvolò.

“Che diamine aprila! Sbrigati!” sbotto il gioielliere.

“Conviene non far attendere la capitale mio signore” aggiunse il borseggiatore.

L'imperatore deglutì poi avvicinò le mani verso la carta mal piegata. Le voci di tutti sprofondarono nel silenzio. Il sacro sigillo d'oro venne rimosso. Con un lieve tremore alle mani aprì la lettera ed iniziò a leggerne il contenuto.

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Capitolo 5
*** Il viaggio ***


La nave barcollava smossa dalle forti onde che si erano alzate questa mattina presto. Il giorno non era mai sorto, vi erano solo nubi nere del colore della pece o meglio dell'inchiostro con cui gli dei più alti scrivono nei cieli il nostro fato di uomini. Le nubi richiamavano la tempesta e in breve le saette di Zeus squarciarono l'aria. La pioggia iniziò a cadere pesante come dardi lanciati ad una breve distanza e che colpiscono in pieno il bersaglio. Noi eravamo il bersaglio, o meglio loro lo erano, noi eravamo il bottino del bersaglio.

Già cinque lune si erano levate in cielo da quando fui sottratto alla mia vita da persona normale. Rimasi per tempo imbavagliato, e quando non lo ero, l'unico con cui potevo realmente parlare era il tizio, di cui ancora non sapevo nulla, posto alla mia destra, l'unico con cui potevo parlare. Per giorni la stessa domanda mi trapanava il cranio e non mi lasciava dormire. Chi era?

Avevo i capelli sporchi e il corpo segnato dai giorni che avevano posto su di me una forte umidità che sentivo fin dentro le ossa. A volte gemevo quando l'acqua del mare, salata, mi penetrava nelle ferite che mi ero procurato quel giorno. Ogni giorno schegge mi incidevano la carne. Dove mi stavano portando? Chi era colui che sembrava sapere tutto?

Un tuono squarciò i pensieri. Mi svegliai. Non ero imbavagliato o forse mi ci ero abituato e non sentivo più il ruvido straccio che mi aveva oramai segnato i contorni delle labbra. No, non lo avevo. Mi guardai in giro, alcuni dormivano, alcuni piangevano, altri non riuscivo a vederli perché nascosti dalle casse che erano state caricate con noi in maniera totalmente disordinata. Alcuni erano morti. Altri gettati in mare. Altri uccisi perché non obbedivano. Cercai il volto conosciuto e speranzoso del mio compagno di disavventure. Era lì ora di fronte a me, distante forse sei passi, legato come me ad un palo dell'imbarcazione coi polsi legati dietro.

“Buon giorno principessa” mi disse lui in tono ironico.

“Buon giorno mio re” gli risposi io sorridendo o almeno provandoci.

“Ha dormito bene?” disse sorridendo anche lui “era di vostro gradimento il letto?”

“Un tantino scomodo, forse troppo duro”

Sorridemmo entrambi. Quei brevi scatti di divertimento, o meglio, di ironia erano gli unici momenti dove nessuno dei due pensava a cosa realmente stava succedendo. Meno pensieri e meno domande.

“Bé lei per caso ha un'idea, anche vaga, di cosa vogliono da noi questi tizi? ”

Non volevo realmente fargli questa domanda ma volevo invece chiedergli “Chi diamine sei tu?”, ma la mia lingua asciutta non riuscì a chiederlo, come non era riuscita i giorni precedenti.

Sorrise.

“Sinceramente non saprei, penso che ci abbiano catturati per farci schiavi o soldati semplici, magari anche regine se ci va di fortuna” rispose.

“Oh! Che bello, è sempre stato il mio sogno essere regina di una nazione.”

“Bene, sono felice per te, visto che secondo ciò che posso intuire dai raggi del sole che entrano dagli spiragli e delle onde... ci stiamo dirigendo alle colonne d'Ercole.”

“Cosa? Dove? Ma no, è impossibile.”

“Ebbene sì, invece.”

Mi iniziarono a frullare in mente troppe cose, miti, leggende, storie sulle terre di quella zona e sullo stretto che apriva ad un mare infinito e che portava all'abisso dove la terra poi termina.

“Bene adesso almeno sono consapevole di dove stiamo andando, ma perché e chi, rimangono ancora i miei dubbi più forti.”

Mi guardò per un istante tra le ombre della stiva senza fiatare mentre fuori si cercava di mantenere a galla la bagnarola.

“Non è questa la domanda giusta da porre.”

Lo guardai anch'io. Stupito e sorpreso dalla risposta.

“Come scusa? Cosa dovrei chiederti?”

“Bé, penso tu voglia chiedermi chi sono.”

Spalancai gli occhi.

“Adesso sì.”

“Perché prima non volevi?”

“No, prima non...”

“E ieri?”

“Ma sinceramente...”

“E ieri l'altro?”

Non parlai. Mi limitai a guardarlo, per quanto riuscivo, in volto in cerca di indizi. E se fosse un veggente? Oppure un sacerdote! Non riuscivo a cogliere nulla dal suo volto, solo astuzia, furbizia e un pizzico di spavalderia, che però poteva permettersi visto l'intuito.

“E se ti domandassi chi sei?” chiesi con fare deciso “tu cosa risponderesti?”

Pensò per un breve lasso di tempo, guardò le travi di legno umido sopra la testa e poi mi guardò dritto verso la mia anima.

“Penso ti risponderei allo stesso modo di quando ci siamo visti la prima volta.”

Non capivo. Sapeva già molto di me ma io non riuscivo a capire nulla di lui, non era umano. Chi era?

“Non continuare a chiedertelo o ti salterà la testa” mi disse lui ridendo.

“Senti allora ti devo chiedere...”

Non riuscii a terminare la frase che la porta si spalancò e sbatté contro la parete di legno marcio, un colpo un poco più forte l'avrebbe spezzata sicuramente.

“Fuori signorine! Abbiamo una nave da salvare!” urlò un uomo appena entrato “alzatevi subito e andate fuori a remare! Nettuno oggi vuole la vostra anima negli abissi del suo regno!”

Entrarono altri uomini con dei coltelli in mano e con quelli tagliarono le corde con cui la maggior parte di noi era legata ai sostegni della nave.

Fummo spinti fuori dalla nave e fatti sedere in alcune panche di legno, avevamo ancora delle catene alle caviglie. Il mare era in tempesta, l'acqua ci sputava addosso, il sale bruciava gli occhi, i pesci fuggivano via dove la tempesta era invece sereno.

L'orizzonte non si vedeva, né la terra. Solo acqua in burrasca e basta, nient'altro.

Arrivò un uomo grosso con una frusta in mano, ci colpì e ci incitò a prendere i remi che erano posti al lato sinistro nostro. Volevano usarci per muovere la nave, volevano dimezzarci. In quanti avrebbero potuto superare il giorno senza sole? In quanti potevano arrivare vivi alle colonne d'Ercole, e finalmente piantare lì le proprie gambe e finalmente urlare “Terra!”? In quanti?

La nave si alzava e cavalcava le onde che alzavano gli dei. Erano alte più di sei metri e ogni onda che riuscivamo a schivare due ci colpivano, ogni onda che cavalcavamo una colpiva in pieno lo scafo, danneggiandolo. Per quanto ancora avremmo potuto rimanere tra il cielo ed il mare? Uomini che istigavano e frustavano, uomini che remavano, urla, dolore, persone che venivano travolte inesorabilmente dalle onde e sparivano nel nulla. Dei miei aiutatemi!

Dopo alcune ore di instancabile fatica, il mare si placò e le nubi furono trafitte dai raggi del sole, che finalmente, in pieno pomeriggio, potevano schiarire il tetro cielo. Eravamo rimasti in quaranta sulla nave tra capitani, soldati e schiavi. Appena alcuni uomini si furono ripresi e il vento cominciò a soffiare nella giusta direzione, furono spiegate le vele e furono iniziati i lavori per poter tappezzare almeno le fratture più grandi dello scafo. Noi invece, stremati fummo portati giù nella stiva. Eravamo non solo magrissimi per il poco cibo che ricevevamo ma addirittura scheletrici e straziati dalla estrema fatica a cui fummo sottoposti. Ci riversammo a terra stremati e col fiatone, non avevo ancora aperto bene gli occhi e non avevo ancora guardato in faccia nessuno, avevo rischiato di perdere la vita cadendo in mare o in altri mille modi, non volevo più pensare, solo riprendermi o aspettare che il fato venisse a prendermi. Ero al mio limite, o almeno credevo di esserci arrivato. Feci ruotare la testa verso sinistra, ero sdraiato per terra nel pavimento spinoso e non mi importava più nulla della mia salute né della mia vita.

“Non pensare a quelle cose.”

Aprii gli occhi e guardai da dove proveniva la voce, senza alzarmi però, solo muovendo gli occhi in cerca della persona che aveva parlato. Era lui.

“A cosa non dovrei pensare?”

“Non dovresti pensare che la tua vita sia un nulla ora che hai usato un po' i muscoli al posto degli occhi e le meningi.”

Chi era? Chi era questo stronzo che sapeva sempre tutto di tutti e nessuno riusciva a levargli mai quello sguardo impassibile e rilassato, quasi soprannaturale.

“Sei un gran bastardo lo sai?” gli dissi.

“No, non credo, penso solo di aver avuto molta fortuna e un pizzico di impegno.”

Era tranquillo, sereno, non aveva il fiatone, aveva ancora i muscoli nonostante non mangiasse da giorni, da dove diamine prendeva tutta quell'energia? Chi diamine gli dava la forza a quell'uomo. Era Ulisse per caso o Achille?

“No mi spiace per te, loro erano eroi, io no.”

Alzai lo sguardo in aria cercando di non pensare più a nulla perché più mi sforzavo di capire chi fosse più capivo di essere lontano dal conoscerlo.

“Se ti va di distrarti ti potrei raccontare una storia?”

Sospirai oramai arreso alla sua conoscenza e risposi “sentiamo.”

Prese un attimo di tempo per organizzare le idee e iniziò.

“Un tempo molto lontano, c'era un mostro marino oltre a Scilla e Cariddi che dominava i mari. Era temuto da tutti, invincibile. Nessuno poteva non temerlo, il suo nome era Ceimòn, il mostro della tempesta. Era un uomo normale un tempo che viveva in terra come tutti gli uomini, ma gli Dei avevano altri progetti per lui, progetti che avrebbero scaraventato la sua vita negli abissi del profondo mare.” Nella stiva intanto tutti drizzarono le orecchie e rimasero ad ascoltare la leggenda, potevano distrarsi dalla fatica e il dolore.

“Ceimòn aveva una splendida famiglia, una moglie bellissima che era amata da tutti gli uomini, e purtroppo anche dagli Dei, un figlio giovane e robusto ed una dolce figlia, piccola nata da poco. Come detto gli Dei erano gelosi della sua felicità e avevano progetti che le nostre menti povere non possono comprendere. Se a tutto si unisce anche l'amore, la storia si risolve in un dramma. Poseidone, il Dio dei mari mise gli occhi sulla splendida donna di Ceimòn e decise di rubarla e farla divenire una delle sue serve nel palazzo che possiede nel fondo del mare. Ceimòn era ignaro di tutto non avrebbe mai potuto pensare al male, perché un uomo che vede solo bene e felicità non potrà mai concepire il dolore, la paura o la morte. Un giorno così Poseidone decise di intervenire, con l'approvazione del fratello Zeus, colui che tutto conosce. Il Dio scese in terra e si tramutò in un giovane stupendo, fantastico a cui nessuna donna mortale sarebbe mai potuta resistere, entrò nella casa di Ceimòn ed egli lo accolse calorosamente come suo ospite. Poseidone, come tutti gli dei, mentì sulla sua natura e sulla sua origine, mentì su tutto. E poi arrivò il vespro, la sera, la notte. Iniziò il piano, ma purtroppo per il Dio, non andò come voleva. La moglie di Ceimòn era tanto bella quanto fedele, e respinse le richieste del Dio, ma Poseidone voleva la donna e tentò in tutti i modi di averla per sé. La tensione si riscaldò in fretta e Ceimòn fu costretto a far uscire l'ospite dalla casa. Il Dio andò su tutte le furie e maledì Ceimòn assicurandogli che quando meno se lo sarebbe aspettato sarebbe tornato e gli avrebbe tolto tutto ciò a cui lui era più legato e gli avrebbe insegnato il dolore e la sofferenza. E così passarono gli anni, cinque anni, abbastanza da dimenticare. Ma la parola di un Dio non passa nel vuoto. Così un giorno Poseidone tornò nella casa di Ceimòn e rapì la moglie. Ma non solo, fece altro.”

Alzò gli occhi per vedere se poteva continuare e se non andava a toccare punti troppo sensibili.

“E poi...” chiese un uomo nel lato opposto della stiva.

“E poi... e poi... Poseidone, entrò nella stanza della giovane figlia di Ceimòn e lì, mentre con una mano teneva la madre, costrinse a guardare il Dio mentre stuprava la figlia, mentre la violentava, la picchiava e infine... la uccideva. La moglie cercava di urlare straziata dal dolore e piangeva forte ma in silenzio perché ammutolita dal Dio. Così poi il Dio rubò il figlio e tornò nel mare. Il giorno seguente Ceimòn impazzi. Vide l'orrore della figlia squartata e violentata e non trovava più né la moglie né il figlio. Stava imparando il dolore più grande di tutti, la morte. Così decise di andare al mare, e lì giunto sfoderò la spada ed iniziò a colpire l'acqua per sfogare la sua rabbia che oramai era divenuta follia. Strappò alle acque l'unità e i suoi fendenti erano tanto forti tanta era l'acqua nel mare, ma ad un certo punto l'acqua si tinse di rosso. Un rosso intenso. Salì a galla il corpo di un ragazzo. Lo girò e riconobbe appena il figlio strappato alla vita dai suoi fendenti. Un urlò tanto grande da rompere i cieli e aprire i cancelli del Tartaro ricoprì terra, mare e cielo. Ceimòn insultò gli dei e giurò vendetta. Accecato dalla follia e dalla rabbia, iniziò a colare sangue denso dalla sua pelle che si lacerava dalla rabbia contenuta. Così persa ogni caratteristica di umano ne uscì un demone, un mostro ed egli iniziò a vagare per i mari in cerca della moglie e per uccidere colui che aveva tolto a lui la felicità, Poseidone. E ancor oggi vaga in cerca del sangue del Dio, e quando rimembra la morte dei figli, le sue urla scuotono il mare, i suoi pugni fan tremare la terra e la sua collera annerisce il cielo.”

Il silenzio era oramai piombato nella stiva e solo il cigolio dell'imbarcazione che si muoveva appena nel mare, creavano un sottofondo. E così giunse la notte. E il viaggio continuava.

La mattina dopo da sopra di levò un forte grido che ci svegliò tutti di soprassalto, tutti tranne lui che continuava a dormire come se nulla fosse, come se lo avesse già previsto.

“Terra!”

Quale terra pensai io. Non la mia, di sicuro. Non la terra da cui ero stato sottratto, rapito e fatto schiavo. Che terra dovevano vedere ora i miei occhi, pestare i miei piedi, accarezzare le mie mani. Dove ci avevano portati. In quale luogo. Eravamo veramente alle colonne d'Ercole? Chi poteva dirmi dov'ero? Lui? Lo guardai dormire ancora con noncuranza e continuai a guardarlo in cerca di indizi. La nave questa mattina barcollava molto poco, evidentemente Ceimòn stava cercando e sinceramente speravo che avrebbe continuato finché i miei piedi non avessero toccato terra o sabbia.

“Se ti fai poche domande, avrai tutte le riposte” mi disse lui con gli occhi ancora sbarrati.

Feci finta di non guardarlo. Ma la mia mente continuava a porsi la medesima domanda. Chi era?

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Capitolo 6
*** Fredda terra ***


Dove sono i sogni in questa profonda guerra, utile solo a bagnare la fredda terra? Perché combattiamo? Per chi o cosa moriamo se infine saremo dimenticati dal mondo e spariremo nello stesso abisso da cui siamo sorti? Freddo il sangue. Fredda la terra. Fredda la lama. Lo sguardo si perdeva nell'attimo in cui la saetta di Zeus mostrò come giorno il terrore radicato nelle tremanti menti dei soldati. La guerra non è altro che una finzione, un apparire per poi sparire tra il proprio sangue. Non ha senso. Il tuono aveva scosso le cime degli alberi come il vento faceva al sud con i fragili e fini fili d'erba. La potenza del suono aveva fatto vibrare il ferro, o era il ferro stesso che, preso dall'eccitamento, voleva fermare la vita di qualcuno e bere la sua linfa. L'impeto era confuso dalla paura, le forza nascosta da Atropo che già s'aggirava per quel luogo in attesa di anime da sottrarre al mondo dei vivi.

Il freddo della lama, il freddo della pioggia, il freddo della terra che ci chiamava.

Fu come vedere un lampo che sboccia dall'oscurità della terra e vola verso l'alto dei cieli. La lama tagliò l'aria e le gocce d'acqua per poi impiantarsi pesantemente nel terreno ammorbidito dalla pioggia. Lo sguardo mio era paralizzato e fisso sulla lama. Sudavo freddo. Avevo paura anche se non volevo dare la soddisfazione di farla vedere. Le vene del braccio gli pulsavano come le nubi dietro di lui per i fulmini. La spada era per metà conficcata nel terreno, lui la teneva ancora con la mano con cui l'aveva sfilata dal prezioso fodero mentre manteneva lo sguardo perso in un punto del terreno. Il silenzio era agghiacciante, solo il ticchettio della pioggia sul ferro e gli stendardi bagnati che provavano a sventolare alla tempesta rompevano quei secondi. Poi lui lasciò piano l'impugnatura dell'arma, distolse gli occhi e tornò a fissarmi. Erano passati cinque secondi.

“Voglio fare un patto con te stronzo ribelle” disse in latino con aria di sfida.

“Non siamo venuti qui con l'intenzione di sancire patti senza alcun senso con gente come voi, ma per spedire negli abissi le vostre anime impure e bagnare col vostro sangue questo terreno.”

“Oh, non ti dispiacerebbe per i fiori e l'erbetta che crescono in questi campi?” ribatte subito lui con tono troppo ironico.

“Quelli li avete già uccisi voi portando qui questa armata di fantocci.”

“Non osare fare la predica a me. Stai istigando l'uomo sbagliato ragazzo” rispose.

“Bene allora visto che sto istigando l'uomo sbagliato perché non mi uccidi?”

Nemmeno riuscii a finire la frase che me lo trovai davanti, piegato per prendere potenza dalle gambe e col braccio contratto pronto a sferrare un colpo col suo poderoso pugno ferreo. Non feci nemmeno in tempo a respirare che era già accaduto tutto. Il suo pugno scattò come una molla compressa al limite. Si udì un sibilo da tanto era veloce il destro, poi si fermò appena venuto a contatto con il mio addome e sorrise. Dio mio se era stato veloce. Con il pugno ancora fermo sul mio addome mi disse “Bene ora possiamo fare il patto o dobbiamo fare un'altra pagliacciata?”

Non avevo ancora capito cosa fosse successo realmente, mi limitai solo a deglutire e accennare un sì col capo.

Lui si alzò allora in piedi in tutta la sua maestosità. La sua armatura era perfetta, gli occhi gelidi come le notti di pieno inverno, le braccia possenti, il respiro potente come un giavellotto, le gambe ferme come colonne doriche, era un colosso dalla velocità, ingegno e forza straordinari. Era il soldato per antonomasia, per eccellenza, anzi lui era l'eccellenza.

“Adesso basta con i giochi, se devo dirla tutta devo complimentarmi con voi ribelli, siete riusciti a portare un gran scompiglio in tutta Europa e addirittura siete riusciti a riunire un notevole esercito per la vostra causa.” guardò la collina dove era collocato l'esercito “Ora c'è da chiedersi quanto siete disposti a puntare e quante fosse dovremmo scavare per voi.”

Cercai di rimanere impassibile, fermo, ma non riuscivo. La sua voce roca aveva un accento che sembrava provenire dall'oltretomba, chiedeva sangue e morte e siccome sapeva già di poter averlo, mirava a divertirsi. Uccidere divertendosi.

“Senti femminuccia facciamo così, la vedi la spada che ho impiantato nel terreno?”

Feci solo cenno di sì col capo, non parlai per evitare di mostrare la voce troppo tremante, impaurita.

“Bene ragazzo. Allora il gioco è molto facile, i due eserciti si scontreranno non appena la luna uscirà dalle nubi in modo tale da vedere di che colore è il sangue o il cervello, sempre che lo abbiate. Mentre gli uomini stroncheranno vite per Plutone io e te dobbiamo riuscire ad arrivare a prendere la spada che è nel terreno, il primo che la prende potrà usarla, l'altro dovrà combattere a mani nude fino alla morte. Allora? Che ne dici si stai?” disse allungando la mano destra aperta.

“E se mi rifiutassi di “giocare” con te, cosa succederebbe?”

“Non mi divertirei abbastanza e questo mi renderebbe molto triste, capisci?” disse con un ghigno arrogante sul volto.

“Accetto” risposi.

“Molto bene allora, che i giochi abbiano inizio.” disse stringendomi come una tenaglia la mano che gli avevo posto anch'io.

Lui si voltò verso il suo esercito e io verso il mio ma rimanemmo fermi in silenzio mentre lo scroscio dell'acqua man mano calava e il vento si acquietava.

“Vedremo chi vincerà bastardo” dissi io in greco.

“Staremo a vedere.” rispose lui in greco ridendo.

Mi voltai si scatto, ma lui era già sparito dietro il muro di difensori che formavano la prima fila dell'esercito e che si era ricomposto. Mi rivoltai e iniziai a dirigermi verso i nostri fissando il cielo per cercare di capire da dove sarebbe sbucata la luna e soprattutto quando. Lui lo sapeva, ne ero certo.

Ero distante pochi passi quanto sentii il Generale urlare “Allora? Cosa vi siete detti?”

“Nulla. Niente. Vuole solo giocare e noi lo accontenteremo” dissi in modo freddo e fermo “Appena uscirà quella stramaledetta luna da quelle nubi, dai l'ordine di scagliare una pioggia di frecce come quella appena avvenuta d'acqua. Nessuna pietà. Nessun risparmio.”

Lui non fece altre domande anche se non aveva chiara la situazione, diede il segnale di prepararsi agli arcieri e tornò alla postazione mentre io tornavo alla mia.

Iniziò l'attesa. La lunga e straziante attesa di quel puntino bianco nel cielo che sembrava non voler affatto uscire. Le nubi ancora dominavano sopra di noi. Il vento era oramai quasi svanito se non pochi e leggeri soffi che smuovevano poco le foglie degli alberi. La terra era fangosa ma già il terreno iniziava a risucchiare l'acqua in superficie.

Passarono ancora alcuni momenti di strazio in cui i nostri iniziavano a dare segno di impazienza o alcuni addirittura di stanchezza. Stavamo per scontrarci contro un avversario potente, calcolatore, furbo, agile e tutti gli aggettivi che si potrebbero solo attribuire agli eroi. Loro erano immobili come statue di marmo fisse sul terreno, noi eravamo statue d'argilla ammorbidita dall'acqua.

Ad un tratto in una pozzanghera comparve un riflesso chiaro. Era una stella. Le nubi si stavano scostando lentamente. Stava per uscire la luna. Eccola!

I fischi delle frecce iniziarono a squarciare l'aria sopra le nostre teste, i nostri arcieri avevano scoccato i primi colpi, come suggerito non dovevano essere infuocati in modo tale che non avrebbero potuto vederle. Dovevano essere fantasmi nella notte. Caddero sulle schiere nemiche e a distanza si udirono gemiti di dolore e morte.

“Fuoco a volontà!” urlò il generale agli arcieri.

“Attaccate! Attaccate!” urlò uno dei cinque cavalieri ai frombolieri.

E così noi iniziammo la guerra, iniziò una valanga di colpi nella scura notte che mietevano vittime. Il loro campo doveva essere già irrorato dalla loro linfa. Partirono alcune grida di felicità nel sentire il dolore che attanagliava gli avversari e i colpi che andavano a segno. Ma era appena cominciata. Loro erano immobili. Ero preoccupato. Cosa diamine stavano architettando con la loro deviata mente? Dove erano i loro arcieri? Cosa aspettavano a tirare? Volevano morire?

La mia mente continuava preoccupata a porsi domande e mi guardavo rapidamente in giro per vedere solo soldati felici di aver colpito qualche povero sfortunato. Non capivano che stavano preparando qualcosa di grande.

“Cosa diamine stanno facendo?” mi chiese il generale appena giunto lì a cavallo “Perché non rispondono al fuoco?”

“Non capisco! La luna è uscita ma non...”

Ad un tratto nel campo avversario a partire dalla nostra sinistra al suono di una tromba si accesero delle fiaccole poi dei marchingegni. Merda erano catapulte!

Quando le avevano portate lì! Non ci fu nemmeno il tempo per pensare che un mare di frecce iniziò a tagliare il cielo accompagnato da enormi massi infuocati lanciati dalle loro armi d'assedio. Avevano addirittura portato le armi d'assedio pur di vincere questa guerra. Maledetti.

“Avanzate con gli scudi in alto! Non lasciatevi intimorire da nulla! Avanti!” Urlò il Generale che si era subito accorto che rimanendo in quella posizione non avremmo potuto far molto e saremmo stati ben presto sconfitti. Così iniziò realmente lo scontro, la fanteria ai piedi del colle iniziò l'avanzata, accompagnata da alcuni arcieri che iniziarono a scendere dalla collina, mentre la maggior parte dei tiratori rimase al sicuro sopra il monte e la cavalleria rimase coperta dietro. Le gigantesche palle di fuoco piovvero sui nostri e sul terreno, aprendo veri e propri crateri mentre le loro frecce si mischiavano alle nostre. Anche le loro prime linee iniziarono a muovere i primi passi verso di noi. Noi correvamo verso di loro mossi dalla rabbia, loro verso di noi mossi dal fremito delle armi. Anch'io ero partito, senza cavallo, all'attacco, per poter levare quel sorrisino arrogante dalla sua faccia, una volta per tutte. Vi fu un momento particolare in cui le armi in perfetta sincronia si levarono verso il cielo o si ritrassero per caricare un colpo, poi iniziarono a schizzare getti di sangue da entrambi gli schieramenti. Urla, grida, attacchi e difese. Era guerra, era morte. Un fante avversario mi si piazzò difronte, io sfoderai la lama tenendo il fodero con la mano sinistra e lo uccisi con un sol colpo che gli aprì l'addome. Rinfilai la spada e continuai a cercare la spada del patto nel terreno e soprattutto cercavo lui, mosso dall'ira. Nessuno poteva ostacolarmi, chi provava non sopravviveva. Il Generale era nell'altra parte del campo che dimenava le sue doppie spade gemelle tagliando teste e scudi. Le sue erano spade forgiate con un particolare tipo di acciaio nordico che permetteva di spezzare facilmente anche il ferro temperato. Le frecce continuavano a schizzare sopra di noi e le armi tra spade, mazze, lance e quant'altro caricavano la potenza per poi essere rilasciate nella carne di un avversario qualunque, senza nome. A livello di forza erano loro avvantaggiati ma noi eravamo dotati di un equipaggiamento più leggero e armature resistenti ma fini che ci permettevano di essere più rapidi. Il sangue aveva già coperto le pozzanghere e le foglie cadute nella tempesta. Le urla spezzavano l'aria insieme al frastuono delle armi contro armi e delle ossa rotte. Dove diamine era la spada? Dov'era lui? Non riuscivo a vedere nulla, avevo i vestiti già completamente sporchi come i capelli, la barba e il viso. Ovunque mi voltavo vedevo morti. La terra fredda ne era già piena e continuava a chiamarne, mentre essi continuavano a cadere. Non si poteva dire come era la battaglia perché guardandosi intorno sembrava che gli schieramenti fossero in stallo, pari caduti e pari combattenti, anche se in realtà ero convinto che stessero vincendo loro, ma non potevo avere una buona panoramica dal basso, inoltre i miei occhi erano attenti ad altro, proprio come il mio pensiero.

Dov'era la spada? Dov'era lui? Mi guardavo intorno ma continuavano a piantarsi davanti a me nemici che non facevano altro che distrarmi. Mi voltai di scatto avendo sentito un urlo a me vicino, non feci in tempo a pararmi che un lanciere conficcò nella mia coscia destra la sua arma. Sentii il caldo sangue in bocca e lo sputai. Sfoderai di colpo la spada e lo uccisi senza la minima esitazione. Poi con cautela estrassi la lancia che mi aveva lacerato. Merda che male, non riuscivo a capire bene come era messa la ferita ma non era un buon segno non sentire la gamba, né il vedere colare sangue denso. Strinsi i denti e strappato un pezzo di stoffa dalla maglia lo strinsi intorno alla ferita. Zoppicavo. Non riuscivo a vedere più bene come prima per il fatto che le grosse perdite di sangue annebbiavano la vista. Ma il tutto non bastò ad evitare di farmi vedere il suo corpo, la sua faccia e i suoi occhi. Era lì ad una decina di metri da una spada nel terreno ed io ero lì alla stessa distanza dalla medesima arma. Io ero ferito, lui come si poteva prevedere no. Ci guardammo come avevamo fatto qualche ora prima. Tra di noi c'era solo il silenzio. Chi avrebbe accolto questa fredda terra? 

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Capitolo 7
*** La Caduta (Prima Parte) ***


Come possono un ammasso di schiavi, liberti ed ex soldati, mettere in scacco uno degli imperi più grandi e potenti della storia nota all'uomo. I passi erano forti sul lastricato di marmo, l'armatura era già scintillante all'ombra. L'imperatore teneva l'elmo sotto il braccio destro e la lunga spada con un fine rivestimento d'oro nel fianco sinistro. Gli occhi inespressivi erano come dardi scagliati sul nulla dinnanzi a lui. Al suo seguito due ufficiali e due senatori. Mai nella storia accadde una cosa del genere. I ticchetti dei ciondoli delle pesanti e possenti armature e i fruscii dei mantelli lunghi che toccavano quasi in terra erano gli unici frastuoni che rompevano il silenzio che aleggiava nel palazzo e fuori. Non poteva allungarsi fino all'infinito il corridoio che portava all'uscita ricca di raggi dorati del sole di pomeriggio.

Ci vollero solamente poche ore per organizzare l'esercito intero e preparare una prima e valida strategia d'attacco e di marcia. Nessun gabbiano quest'oggi tagliava con le sue fresche e libere ali le bianche e poche nubi del cielo. Il mare era piatto, l'acqua era uno specchio limpido senza pieghe. Le imbarcazioni di tutti i tipi erano state fermate e armate per la partenza delle truppe. Le porte delle case erano state barricate e le vie, sempre piene di mercanti e curiosi, erano deserte. Sulle finestre croci rosse, un rosso vivo come il sangue.

I capelli erano fermi fino a quando non uscì dal vecchio e robusto portone che dava alla immensa piazza. La luce rifletteva la lucida armatura ancor più di prima, le barbe dei senatori erano bianchissime e gli ufficiali stavano ritti in silenzio. Nessuno parlava. Nessun rumore spezzava la monotonia del silenzio. Tutto taceva.

Gli sguardi di quasi centomila uomini erano fissi su un solo punto sopraelevato, lì sulle gradinate di marmo vi era l'unico uomo che teneva in mano le terre d'oriente. Tanto potere concentrato nella mente e l'ingegno di un unico uomo. Mentre si alzavano piccoli soffi di vento dal mare un senatore avanzò lentamente e porse, con un lieve inchino, una pergamena bianca senza più sigillo. La mano dell'imperatore la afferrò senza volgere né il capo né lo sguardo a chi gli stava porgendo il prezioso documento. Senza l'esitazione che lo aveva segnato poco tempo prima, srotolò la pergamena e la mostrò all'esercito. Il documento oscillava leggermente per via del vento caldo d'oriente, ma non vi era alcuna necessità di tenerla ferma per leggere. Anche soldati posti a buona distanza riuscirono a comprenderne il significato. In breve tempo partirono bisbiglii, sconcerto, anche qualche lacrima di incredulità. In pochi, forse i più forti anche in battaglia o i più anziani e più esperti, mantennero i nervi saldi e riuscirono a rimanere imperturbabili, immobili. Come era possibile. Come si era arrivato a tanto.

La potenza più grande dai tempi del fragile ricordo umano aveva sottovalutato a tal punto un nemico, fino ad arrivare a questo. Era inconcepibile, le ripercussioni sarebbero state tremende ed immediate. I confini sarebbero saltati in brevissimo tempo e avversari di ogni tipo sarebbero piombati nei territori dell'impero. I commerci sarebbero implosi fino a sparire, le casse dello stato sarebbero si sarebbero presto svuotate, il popolo si sarebbe ribellato e così sarebbe sorta anche la guerra civile che molto probabilmente avrebbe dato il colpo di grazia alla cadente struttura imperiale. Le soluzioni a tale tragedia potevano essere solamente due, la separazione dei territori, con salvezza di metà dell'impero o il disperato tentativo di recuperare metà dell'impero in un tempo tanto breve che non avrebbe permesso una fuga di notizie né rivolte o invasioni.

Per il momento solo le due città e poche altre sapevano cosa era successo, il resto del mondo ancora ignorava il tutto e tale situazione doveva durare almeno fino a quando non sarebbero andate meglio le cose, almeno fino a quando l'ago della bilancia non avesse iniziato a pendere dalla parte dell'impero. Questa era una delle poche armi a disposizione dell'imperatore. Se vi fosse stata una fuga di notizie sarebbe stato impossibile recuperare i territori perduti e la rottura tra le frazioni sarebbe stata inevitabile.

Come era stato possibile perdere un esercito tanto grande nel giro di mesi. È stata una follia, non vi è alcuna spiegazione razionale. Si erano combattute guerre molto più difficili e svantaggiose, ma mai si era arrivato a tanto, mai la storia fu tanto vicina da cambiare in modo tanto drastico.

Le mura impenetrabili erano cadute. Le pietre mai scalfite erano state spezzate e ridotte in semplice calce al vento. Mai, mai l'impero subì una disfatta simile.

Vi era nervosismo e voglia di combattere nella piazza. I soldati continuavano a a bisbigliare tra loro. Le armi come se impossessate da una strana entità divina erano scosse contro il ferro delle armature. Gli scudi alti e robusti erano come colonne saldamente saldati al terreno. Gli elmi erano lucenti quasi più del sole e riflettevano e raggi rendendo difficile la visione chiara dell'intero esercito. Gli stendardi erano alti contro gli dei malvagi che avevano architettato il piano della caduta, e come una decisa sfida si agitavano tra i leggeri soffi della brezza marina che saliva.

Il mare era pronto ad accogliere i caduti e i vincitori, la terra era già scavata e i tumuli di pietra erano già creati da madre natura. Non vi erano mezzi termini per questa guerra. Non poteva esistere la pace. O si conquistava la vittoria o la sconfitta. La vittoria avrebbe permesso di ricostruire la sede del potere, la sconfitta avrebbe invece fatto decadere ogni speranza e avrebbe probabilmente messo in ginocchio anche l'oriente. Non si poteva mai scherzare in guerra, specie contro un nemico così imprevedibile e forte. Gli errori non erano concessi, anche un piccolo sbaglio avrebbe potuto rovinare l'intero progetto, l'intera guerra, portando dunque ad una sconfitta totale. L'occidente aveva già dato prova di come anche con una potenza in grado di sottomettere il mondo intero non vi era comunque la certezza di una vittoria. Senza strategia era stata la difesa, erano stati bestie che cercavano di spolpare una preda senza rendersi conto che la preda erano loro stessi. Continui errori di calcolo, strategie sbagliate, poca preparazione dell'esercito, arroganza, erano stati questi i fattori principali che avevano infine decretato la sconfitta.

A tutto aveva inoltre contribuito la buona preparazione dell'esercito avversario, un buon comando, ma soprattutto, la strategia, anzi le strategie. Ogni passo era stato calcolato con una precisione incredibile, stupefacente. Ogni fendente era stato previsto attentamente. Loro avevano certamente lo svantaggio numerico e territoriale, ma potevano ben vantare uno dei comandanti e uno degli strateghi più abili.

Dai primi scontri vinti, alle battaglia nei territori dei Galli, fino alla discesa dalle Alpi, tutto è stato incredibile. Poche perdite, abili manovre, arruolamento continuo di soldati, continui allenamenti e forte spirito avevano portato un gruppetto di semplici schiavi alla vittoria sulla maggiore potenza del mondo.

Il vento si placò del tutto e il rotolo di pergamena srotolato non si muoveva più. L'imperatore alzò la gamba destra, poi la sinistra, ed iniziò a scendere gli ampi gradini fino a giungere all'ultimo. L'esercito ripiombò nel silenzio. Egli si diresse tra le file tenendo in mano la pergamena in modo da mostrarla chiaramente a tutti. Passarono diversi minuti sanciti dal passo ferreo dell'imperatore tra i soldati. Poi, raggiunta la fine della piazza, si girò e tornò indietro, sicuro di aver fatto vedere a tutti il rotolo. Con calma e sguardo fisso e freddo tornò verso i gradini, con la mano destra tenente l'elmo e la sinistra, rigida in avanti, il documento. Risalì verso l'ingresso. Guardò i senatori e i comandanti, i primi con il capo piegato i secondi invece con lo stesso sguardo gelido dell'imperatore.

Si voltò verso l'esercito, l'asciò cadere a terra la pergamena aprendo lentamente la mano che poi fece scivolare verso il fianco sinistro. La mano destra fece cadere l'elmo troppo pesante per il caldo afoso. Il silenzio continuava a regnare sovrano nella piazza e nella città intera. La mano destra si diresse verso l'impugnatura della spada, la prese stretta, poi la sfilò lentamente mostrandola a uomini e dei. Il luccichio della lama era come un faro perso nel mare di notte che permette alle anime sparse di trovare la via del ritorno. Il vento si alzò ancora e la pergamena caduta ai piedi dell'imperatore si alzò in volo.

Il contenuto non c'era. I lati erano completamente bianchi, vuoti. L'inchiostro non aveva mai toccato quella superficie. Nessuna mano aveva mai provato a scriverci sopra. Roma era caduta. Mentre nel silenzio tutti fissavano un unico punto lucente sopra i gradini, il documento sparì tra i soffi del vento, confondendosi con le bianche nuvole.

--- Volevo scusarmi per l'attesa del capitolo. Ho avuto diversi problemi tra rete internet e salute però ora tutto bene quindi si riparte! --- Volevo inoltre ringraziare Alima per la sua puntualità e interesse e per le sue correzioni! grazie mille! :) ---

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Capitolo 8
*** La Caduta (Seconda Parte) ***


La spada era ancora lì, alta e splendente come la saetta di Zeus re degli dei dell'Olimpo. L'imperatore si chinò per prendere l'elmo lasciato prima cadere pesantemente e nel medesimo istante rinfonderò la spada con un movimento deciso e sicuro, degno della carica che portava il suo nome. Infilò l'elmo e come un attore, aperto il sipario, si accinge ad introdurre lo spettacolo, così fece lui per il discorso che stava per pronunciare. L'armata era immobile ed impaziente. Voltò il capo a destra e sinistra per vedere bene tutte la file di soldati, anche quelle che mantenendo una sguardo dritto e rigido non avrebbe potuto vedere per via della restrizione del campo visivo dato dalla struttura dell'elmo. Il mondo era pronto per ascoltare il discorso. Il primo discorso dopo la caduta. E forse l'unico.

Prese un gran respiro e socchiuse gli occhi, poi con tutta la voce e rabbia che aveva in corpo, urlò “La capitale è caduta!” I soldati rimasero immobili. E Per sottolineare il dolore che provava e la gravità del fatto urlò ancora “La capitale è caduta! La capitale è caduta!”

Nessuno si mosse. Nessun rumore.

In una delle ultime file un soldato alzò il possente scudo e fece un passo avanti facendo ricadere l'arma difensiva con violenza e urlando “No, non è caduta!”

Le parole furono chiare e distinte e non lasciavano margine di interpretazione. L'imperatore non si mosse e fisso il punto lontano da cui veniva la voce.

“La capitale è stata distrutta! Le mura sono cadute! I nostri fratelli sono stati uccisi!”

Alle parole dell'imperatore un altro soldato, questa volta di una delle file più vicine a lui, una delle prime, avanzò ed urlò “No, non è caduta!”

Il cielo si annuvolò ma nella piazza regnava ancora il silenzio, poi un altro uomo avanzò e ripeté le stesse identiche parole degli altri due con la stessa ferocia e precisione.

“L'occidente è stato preso! Le armate sono state distrutte!” disse ancora il capo dell'esercito a squarciagola.

Una ventina di soldati avanzarono e pronunciarono la frase “No, non è caduta!” Dai lati dell'armata iniziarono a tuonare i tamburi. Colpi secchi e decisi a ritmo costante.

“Uomini, donne, bambini e anziani sono stati uccisi! La nostra libertà è stata soffocata! Le nostre vite saranno le prossime a cadere negli oscuri inferi! Senza guerra moriremo senza onore e vivremo da codardi! Presto verranno a prenderci, tutti quanti!”

Centinaia di soldati ripeterono il gesto. Avanzarono ed urlarono all'unisono “No, non è caduta!”

Ora insieme ai tamburi i lancieri iniziarono a picchiare sul pavimento lastricato della grande piazza le armi, alzandole e scagliandole violentemente per terra. Il mare iniziò a muoversi, in parte per il vento, in parte per il suono delle armi e tamburi e forse anche per le parole che uscivano dai polmoni come proiettili scagliati senza nemico alcuno.

“Il nostro sangue! È il nostro sangue che bagna il terreno dei nostri avi e fratelli! Non il loro, non il loro! Abbiamo perso! Siamo stati le prede, scuoiati e martoriati come bestie! Noi siamo morti! Noi! Non loro!”

Quasi tutto l'esercito avanzò e ripeterono il mantra battendo anche gli scudi al suolo. L'atmosfera si era trasformata in poco tempo. Anche i due comandanti posti alle spalle dell'imperatore avanzarono, gettarono per terra gli elmi e urlarono con i soldati.

“Ogni nostro passo è già stato calcolato! Tutto quello che per decenni abbiamo conquistato è morto e sepolto sotto i loro colpi! Tutto è sparito! L'impero sta cadendo! Nessuno può più fermare la loro avanzata!”

Ora l'esercito intero e anche i due senatori avanzarono. La piazza esplose in un urlo fortissimo che persino in Caledonia avrebbero potuto udire. Il mare tremava e faceva oscillare le imbarcazioni già pronte per salpare. Il cielo era diventato grigio ma non pioveva. Il lastricato della piazza in alcuni punti si era frantumato dai colpi, e ridotto in piccoli sassolini che si alzavano ad ogni colpo scagliato contro il terreno. Alcune finestre delle case più vicine si staccarono e caddero, rompendosi.

Un ultimo colpo all'unisono, poi ancora il silenzio. Lo sguardo gelido dell'imperatore. I soldati indietreggiarono tutti di un passo. Si schiarì la voce poi mantenendo il suo sguardo impenetrabile disse a piena voce “Andiamo a riprendere Roma!” E nel contempo sfoderò nuovamente la spada, puntandola verso il cielo. L'esercito gridò più forte ancora di prima, come se fosse stato un unico meccanismo programmato, alzando gli stendardi e le armi a imitazione del gesto del capo dell'esercito. Nello stesso istante gli dei fecero tuonare le nubi, rompendo la monotonia del cielo.

“Preparatevi! La guerra ci aspetta!” poi l'imperatore si voltò ed entrò nuovamente nel palazzo mentre l'esercito con forte animo sciolse le file e ognuno si diresse in direzioni diverse, verso le rispettive caserme, per terminare in brevissimo tempo la preparazione e marciare sulla penisola. Le urla di eccitazione continuarono ad invadere la piazza.

“Vostra grazia, è stato un discorso memorabile. I bardi e i cantori racconteranno per i secoli a venire ciò che oggi e nei prossimi mesi accadrà! Della vostra futura ma vicina vittoria e...”

“Senatore, lei è davvero convinto che io possa battere, almeno in breve tempo, una intera armata e per di più non una semplice armata ma quella che ha distrutto la capitale e l'esercito d'occidente?”

“No, mio signore, cioè sì... speriamo tutti che lei vinca... senza tirare troppo i tempi... capisce, l'economia, il senato poi...”

“No, senatore non comprendo. Mi spieghi il perché. Perché dovrei affrettare una guerra come questa, rischiando di perdere definitivamente le terre dell'ovest e mettere in ginocchio le mie. Mi spieghi la prego.” Il passo dell'imperatore si arrestò e il suo possente corpo si voltò di scatto verso il corpo gracile dell'anziano che lo guardava intimorito dal basso all'alto.

“Vede mio signore, non possiamo permetterci di non avere un saldo controllo sulle terre dell'ovest per troppo tempo, come potremmo fare nel caso di rivolte o per la riscossione di tasse o il nuovo arruolamento della milizia.”

“Primo, lei mi sta facendo perdere tempo e io ho un esercito da portare alla vittoria, secondo, se in occidente scoppieranno guerre civili le soffocherò io stesso nel sangue, terzo, non possiamo pretendere tasse su territori che hanno già sofferto e pagato con le loro vite e di conseguenza non potremmo arruolare nemmeno giovani reclute, quarto, non mi importa nulla di voi vecchi bavosi del senato sempre in cerca di denaro e potere come avvoltoi in cerca di carcasse, e ora vada a dire ai suoi colleghi che per motivi di guerra il senato verrà sciolto fino a nuovo ordine e la reggenza verrà affidata al primo ministro.”

“Ma, mio signore... non credo sia una scelta saggia... penso che debba riflettere e prendere una decisione più razionale...”

“La mia prossima risposta sarà avere il suo sangue sulla lama della mia spada per aver ostacolato un mio comando diretto.”

Il senatore si voltò ed andò via borbottando tra sé e sé e gesticolando con le sue fragili braccia, poi sparì in fondo al corridoio.

L'imperatore invece continuò per la sua direzione verso le stalle per poter montare la sella al suo cavallo e raggiungere in seguito l'esercito. Era una delle tante cose che preferiva fare di persona senza alcun aiuto da altri.

“Perché la reggenza dell'impero è passata nelle mie mani?”

L'imperatore non sentii la voce che proveniva da una delle troppe diramazioni del corridoio che attraversava tutto il palazzo. Era troppo occupato con la mente, ed irato, per poter fare caso a una voce sola nel vuoto del labirinto.

Dalle grossa finestre vuote senza chiusure del palazzo si poteva intravedere il vecchio acquedotto. Un numero indefinito di pietre che una sull'altra formavano un capolavoro di ingegneria idraulica romana. Archi perfetti che poggiavano l'uno sull'altro e che permettevano la giusta distribuzione del peso su ogni arco fino allo scarico delle forze in terra. Perfetta inclinazione che permetteva di far defluire l'acqua pian piano verso il bacino di raccolta ed evitava al contempo di far depositare l'acqua e far deteriorare le pietre per corrosione.

Quale altro impero aveva costruito dopo la conquista. Solo il suo. Nessun re poteva sacrificare il proprio denaro, le proprie risorse e i propri uomini solo per avere in cambio un regno più grande e più attaccabile, dunque più nemici. Niente poteva mai mettersi a confronto con l'ingegno romano. Nessuno. Dalle colonne e i templi greci ai maestosi palazzi di Creta alle straordinarie piramidi d'Egitto, nulla era paragonabile alle straordinarie strutture nate dal genio romano. Palazzi, anfiteatri, acquedotti, strade, uffici, tribunali e quant'altro. Questo voleva dire avere un impero, avere tutte le terre sotto il proprio dominio giustamente abitate e stabili. Un impero non muore ma sopravvive per millenni, un regno invece decade, perché anche se più grande di un impero, tutti sono lasciati a sé, soli e senza risorse. Tutto è solo terra arida senza vita. Tutto è destinato a decadere nel giro di pochi anni, non appena la stabile reggenza decade o peggio, viene eliminata.

Una figura si impose dinnanzi all'imperatore costringendolo a fermarsi di colpo ed interrompere il flusso libero dei suoi pensieri.

La lunga barba bianca si confondeva con la tunica del medesimo colore, il maestro d'Atene era lì, davanti all'imperatore, e lo fissava con aria interrogativa, in attesa di qualche chiarimento, di una risposta che avesse potuto schiarire le scure nebbie della sua anziana mente.

“Mi scuso mio signore per averla interrotta, non era mia intenzione e so che il momento non è certamente dei migliori vista l'imminente partenza dell'armata ad occidente, ma devo chiederle e riferirle delle cose piuttosto urgenti.”

“Dimmi, ma in fretta, non ho tempo da perdere in parole.”

“Vede mio signore, penso di aver trovato il modo di vincere la guerra in un tempo relativamente breve, ma mi servirebbe un suo parere da soldato esperto quale lei è.”

“Parla.”

“Vede mio signore, penso che vi sia la necessità di inviare i corvi neri ad oriente e a sud, in Egitto e Mauritania, in questo modo forse potremmo avere non solo maggiori speranze di vittoria, ma anche tempi di guerra ridotti il che verrà a beneficio delle casse dello stato e richiederà meno soldati arruolati dall'impero centrale.”

L'imperatore rimase a pensare per qualche attimo fissando coi suoi profondi occhi lo sguardo vissuto del maestro.

Non poteva ignorare le sue parole, era consapevole dell'esperienza che aveva anche in campo militare il maestro d'Atene. Figura emblematica, misteriosa. Ricco di cultura quanto di strategie militari, alcune delle più grandi vittorie in oriente furono vinte solo grazie alle sue geniali trovate, che avevano permesso di portare a casa la vittoria anche in situazioni drammatiche o di netto svantaggio. Non si poteva non dargli retta, era una figura che ispirava fiducia e sicurezza, ma soprattutto consiglio.

“Sì, penso sia una scelta saggia, quando ha intenzione di inviare i corvi neri?”

“Mio signore, non sottovalutiamo il nemico, nonostante numericamente sia in svantaggio, non dobbiamo dimenticare che la capitale è pur sempre caduta.”

“Capisco, faccia come crede giusto, mi fido di lei.”

“Grazie signore per la sua fiducia, farò volare subito i corvi neri nelle zone che ritengo strategicamente più importanti e vedrà che andrà tutto bene, anzi meglio.”

“Lo spero per il bene di tutti.”

L'imperatore considerato finito il colloquio, passo avanti lasciando fermo dove era il maestro e continuò a camminare verso le stalle.

“Un'ultima domanda mio signore.”

L'imperatore arrestò il passo a circa sette metri dall'anziano, voltati entrambi di spalle. Il silenzio dell'imperatore voleva dire che lo stava ascoltando e poteva parlare.

“Perché mi ha nominato primo ministro a pieni poteri?”

L'imperatore accennò un sorriso e senza proferire parola riprese a camminare verso la sua destinazione. Il maestro si voltò a lo vide poi sparire svoltato l'angolo del corridoio, poi si incamminò anch'egli.

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Capitolo 9
*** Lama ***


Il caldo sangue colava ancora dalla mia coscia destra, giù verso il freddo terreno che accoglieva i morti di questa inutile battaglia. Cercavo di mantenere la calma il più possibile in modo tale da non farmi vedere indebolito dal colosso che mi stava di fronte, lì, poco oltre la spada conficcata nel terreno. Nulla mi potrebbe fermare in questo momento, è quello che avrei pensato se non fossi stato ferito in quel modo. Lui invece sembrava un demone salito dagli inferi apposta per mietere vittime. Nessun graffio all'armatura, tanto meno alla pelle. Avanzammo entrambi verso l'arma, ma cautamente, io per la ferita, lui, perché da grande combattente qual'era, non voleva fare l'errore di sottovalutarmi e per questo cercava di mantenere sempre alta l'attenzione, l'allerta. Il suo sguardo non guardava l'arma ma solo me, la sua vera preda. Solo quando fummo arrivati entrambi a circa tre passi dalla spada ci fermammo. Cercai in tutti i modi di ergermi in tutta la mia altezza, ma il dolore lancinante che stavo provando non mi permetteva di farlo, per cui risultavo chiaramente piegato sul lato destro per premere con il mio intero peso sulla ferita.

“Vedo che sei già stato rovinato, peccato.” disse con voce tuonante.

“Non sarà una ferita così superficiale che mi fermerà dall'ucciderti, puoi starne certo.” risposi con tono di sfida e ovviamente mentendo spudoratamente sulle mie condizioni di salute.

“Quando la smetterai di pavoneggiarti in questo modo?”

“Ti ammazzerò!”

“Hai una ferita profonda, mi basterebbe prolungare il nostro scontro e tu moriresti comunque per dissanguamento.”

“Fatti sotto e non parlare a vanvera! Ammazzami se riesci!”

“Te l'ho già detto una volta ragazzo” la sua mano si fiondò immediatamente sull'impugnatura della sua seconda arma e le gambe si piegarono “Non stuzzicarmi!”

In un istante aveva passato l'arma conficcata nel terreno ed era chinato dinnanzi a me. Il suo sguardo era cupo come le nubi che annunciano la tempesta. La lama uscì sibilando dal fodero sopra quello vuoto. Era un gladio. La sua velocità, nonostante la stazza, era innaturale, inumana. Il mio braccio fece appena in tempo a dirigersi verso la mia spada ed estrarla per parare il colpo. La mia lama si graffiò da tanto l'ira aveva spinto la sua lama contro la mia. Ma anche la sua lama si rovinò per l'urto.

Indietreggiò istintivamente con la leggera arma rovinata nella mano destra.

“In pochi sono riusciti a parare la mia potenza, posso considerarti un buon avversario, soprattutto fortunato.”

Ero ancora scosso per quanto accaduto, se avessi atteso, indugiato per meno di un secondo, non avrei avuto alcuna speranza di sopravvivere.

“Hai un'arma davvero interessante, non si fabbricano armi del genere nella penisola, quel materiale si può trovare solo in due luoghi, le terre del Nord oppure nei territori ispanici.”

Non capivo se era un complimento o una osservazione che doveva servire a me per capire quanto grande fosse la sua conoscenza nel mondo della guerra, specialmente dei materiali e delle strategie per vincerla.

Merda! La ferita era peggiorata per via dei movimenti troppo rapidi che avevo appena eseguito. Quanto poteva essere grave. Maledette lance e chi le aveva create.

“Attento! Mai distrarsi nel bel mezzo di un duello!”

Non appena indirizzai nuovamente lo sguardo verso il mio avversario, lui non c'era. Mi guardai subito attorno ma non riuscivo a vederlo. Dov'era?! Era uno spettro, poteva anche sparire?!

“Dietro di te...” bisbiglio lui da dietro.

Mi voltai lentamente, sudavo freddo. Ero paralizzato. Quando era riuscito a raggiungermi? Troppo veloce oppure io troppo ferito, lento? Il suo lucente gladio danneggiato era puntato contro il mio fianco destro, la punta aveva già scavano nella carne ma non mi aveva ancora lanciato un colpo deciso. Perché? Perché stava indugiando?

“Sei troppo debole, pensavo di meglio da te... “stratega”, mi spiace finire ora il gioco...” dette queste parole allontanò l'arma, fece poi un passo alla mia sinistra e mi lacerò con un potente tondo dritto il fianco sinistro.

Il sangue iniziò a schizzare forte, il dolore era lancinante, con questo colpo rischiavo di morire. Lui si piazzò dinnanzi a me, come una montagna guarda il piccolo torrente a valle, lui era così e mi fissava. Non potevo più far finta di nulla, i due dolori assieme erano tremendi, inoltre col fatto che ora il fianco sinistro era squarciato non potevo più premere col peso del corpo sulla gamba destra perché avrei rischiato di aprire di più la ferita sul fianco e così viceversa. La vista mi si stava annebbiando troppo rapidamente, il respiro faticava a proseguire regolarmente. Stavo morendo? No, non potevo morire, non ora. Si abbassò col volto e mi piantò un sorriso arrogante davanti.

“Quindi? Abbiamo finito la guerra? Chi vuoi salutare prima di lasciare come carne da macello questo mondo perduto, bastardo?”

Non riuscivo più a vederlo chiaramente, e nonostante non avessi forza alcuna nel mio corpo malridotto, ebbi la forza di estrarre la spada nuovamente e con un gesto deciso, raccogliendo le mie ultimissime energie, voltai il busto per caricare meglio il colpo. Forse l'ultimo, ma se dovevo piombare nell'Ade, lui sarebbe venuto con me a costo di rubare la catena ad Andromeda e legarmi a lui con essa. Il mio montante fu fulmineo. Gli riuscii a colpire il volto. Cadde. Il suo robusto corpo cadde violentemente a terra. Era morto.

La mia mano ancora proiettata in alto e con la lama sporca di sangue iniziò a tremare e la spada divenne troppo pesante. Le dita pian piano si aprirono lentamente facendola cadere al suolo. Molti soldati avevano visto la scena, soldati di entrambi gli schieramenti. Alcuni nemici indietreggiarono mentre alcuni mi corsero incontro per uccidermi, per vendetta. Alcuni alleati si piantarono davanti a me con la guardia alzata per difendermi, io non vidi più nulla e caddi sfinito e dolorante anch'io.

La guerra continuò senza sosta apparente, nessuno voleva in qualche modo perdere. Molto probabilmente era l'ultimo scoglio che ci separava dalla capitale. Riaprii lentamente gli occhi, davanti a me vi erano soldati che combattevano, non so come eravamo messi, ma con la perdita del loro capo, il loro morale si doveva essere abbassato notevolmente, probabilmente avevano perso terreno. Non potevo più continuare a combattere viste le mie gravi condizioni ma dovevo alzarmi per far vedere chi era realmente il vincitore di quella estenuante battaglia.

Allungai la mano destra per quanto riuscivo verso la spada precedentemente caduta, sarebbe divenuta il mio appoggio, il mio bastone. Se dovevo morire non potevo morire davanti agli altri, sarebbe stato un colpo tremendo per i nostri alleati vedermi morire, dovevo allontanarmi, dovevo andare nella foresta e lì poi abbandonarmi al destino.

Finalmente la mia mano rovinata dello scontro e ancora tremante riuscì ad afferrare la mia spada. Alzai piano il braccio ed impiantai il mio sostegno nel terreno con forza. Oramai la pioggia era cessata da diverso tempo e l'acqua che prima aveva allagato l'intero campo di battaglia era andata via via sparendo, assorbita dal terreno. La spada si impiantò abbastanza bene e potei alzare il busto scaricando il peso sul “bastone”. Appena mi alzai in piedi barcollante e sanguinante alcuni soldati si pietrificarono, sembravano aver visto un morto resuscitare fuggendo dalle grinfie dei demoni degli inferi.

“Lo stratega è vivo! È vivo!” urlò un soldato che era vicino a me a combattere.

“Lo stratega è vivo! Ha vinto! Ha vinto!” urlò un altro.

Urla di gioia si levarono dal nostro fronte. Nessun pezzo grosso era ancora caduto dei nostri, anche se io ero in fin di vita. Invece della loro parte non solo il capo dell'armata era caduto esanime, ma anche tre dei più valorosi ed importanti militari. Almeno pensavo, in base a ciò che dicevano le urla tra la folla.

Barcollando a destra e a sinistra cercai di voltarmi per raggiungere un punto smarrito della foresta dove poter morire senza che nessuno mi vedesse, ma non riuscivo a camminare, era già un miracolo che mi fossi alzato in piedi da solo. Caddi nuovamente per terra, non avevo energie, né adrenalina che potesse concedermene qualcuna per breve tempo. Rimasi appoggiato alla spada in modo da poter sorreggere almeno il busto, visto che le gambe erano oramai quasi completamente andate.

Un soldato a cavallo arrivò vicino a me, era uno dei cinque comandanti, anche lui con diverse ferite seppur non gravi come le mie.

“Stratega! Stratega! La prego si ritiri, monti sul mio cavallo e vada via, la battaglia oramai è quasi terminata, stiamo vincendo noi, il generale ha dato ordine di chiamare la cavalleria e sta arrivando, ben presto tutto sarà finito e potremo finalmente marciare sulla capitale portando con noi un'altra splendida vittoria.”

“Le armi... le armi d'assedio... sono... sono distrutte?” chiesi interrompendo ogni tanto il respiro per emettere quei pochi suoni.

“Sì, sì signore, quasi tutte! Anche la loro fanteria è caduta e la cavalleria sta perdendo terreno. Stiamo vincen...” dalla bocca del comandante uscì del sangue e gli occhi che prima emettevano gioia per la tanto attesa vittoria si spensero come il sole che cade oltre la terra e porta solo le tenebre. L'ultima parola del comandante fu un lento ed agonizzante gemito di dolore che si prolungava nell'aria in cerca della Moira. Il suo sguardo bianco, spento e vuoto, si chinò col capo verso l'addome, nel punto dove una lama lo aveva passato da lato a lato, eliminandolo con un sol colpo fatale. Mi paralizzai, era stato un mio amico. Un valido guerriero. Morto perché attaccato alle spalle. Morto di fronte ai miei già deboli occhi.

“Nooo!” urlai tra le lacrime. La mia mente non riusciva ad immaginare la morte di qualcuno a me caro, specialmente se a distanza di pochi centimetri. Avevo il suo sangue, che intanto continuava a colargli dalla bocca, in faccia e sulla mia armatura, o meglio i pezzi che rimanevano attaccati dell'armatura. Sopra di noi, un morto ed un defunto che cammina, le frecce volavano ancora alte e in lontananza le grida di dolore e gli strazi si levavano per l'aria tetra. Le armi continuavano a scontrarsi violentemente, senza sosta. Per quanto ancora doveva continuare questa insulsa guerra? In quanti erano già caduti per mano di persone che non si conoscevano?

Vidi chiaramente uno spettro vicino al mio amico che stava abbandonando questo mondo. Atropo! Lei era lì, senza occhi, avvolta in un manto scuro, che le copriva quasi tutto il corpo. Non riuscivo bene a distinguerla. Ma era lì. Dalle sue dita scheletriche pendevano un'infinità di fili, così tanti che si avvolgevano per intero su tutte le sue dita. Quelle mani continuavano a muoversi e alcuni fili le cadevano o si spezzavano. Uno di quelli era legato al cuore del comandante ed era molto teso. L'indice di Atropo si fece indietro e il filo d'un tratto si spezzò, nello stesso istante la spada che aveva lo trafitto venne sfilata lentamente, ed il suo corpo vuoto cadde di lato senza più un'anima che lo riempiva.

“Atropooo!” urlai. “Essere bastardo! Perché!? Perché lo hai ucciso?”

Il fato era lontano ma sentito il suo nome si voltò mentre le dita continuavano a muoversi, alla mia destra per aver piegato indietro il mignolo morì un soldato per una freccia che lo centrò nella fronte, nell'esatto punto dove era legato il filo, che si spezzò e cadde al suolo sparendo nel nulla.

Mi voltai dove doveva in teoria essere quell'essere. Invece, era davanti a me a poco più di cinque centimetri dal mio volto, dal mio sguardo oramai congelato. Guardai dentro le sue vuote orbite. Tremavo, sudavo e mi ero pisciato addosso. Mai nella mia vita la morte mi fu tanto vicina da poterne sentire l'odore. E da poterla vedere. Le parole non riuscivano ad uscire dalle mie labbra, nessun mio movimento, nemmeno il pensiero, né il cuore riuscivano a muoversi. Ero paralizzato.

Mi fissava come un dottore studia il suo paziente, forse per capire dove e come avrebbe dovuto uccidermi.

“Tu. Non morirai. Oggi.”

Ero pietrificato. Le statue forse sarebbero sembrate più ferme di me in quel momento.

Poi alzò un dito, l'anulare destro, dove vi era un filo lungo, lo tirò leggermente e vidi uscire dal mio cuore quel filo e tendersi fino ad essere parallelo al suo dito. Chinò il capo leggermente. Io non riuscivo ancora a muovermi.

“Tu. Mi. Temi? ” chiese col capo chinato.

Aprii poco la bocca ma non non riuscivo a parlare. Non riuscivo nemmeno a respirare. E le ferite continuavano a pulsare, anche se il dolore non era una delle mie priorità in quel momento. Ero dinnanzi al fato in persona. Ero dinnanzi alla morte. A lei.

Iniziai a tremare e piano piano bisbigliai “N-n-no...”

Il fato saltò in aria volando e chiuse le braccia a croce sul petto tirando un centinaio di fili nello stesso momento. Rideva. La sua risata era un suono assordante, acuto e profondo, come il dolore prima dell'ultimo attimo di vita. Poi sparì dalla mia vista. Sapevo che era lì, ma non riuscivo più a vederla.

Sbattei le palpebre per poter snebbiare la vista, anche solo un poco. Di fronte a me c'era ancora il comandante, la lama era ancora nel suo addome. Cosa stava succedendo? Non capivo. Lui doveva essere morto, lo avevo visto coi miei stessi occhi. Eppure era lì, ancora una volta.

D'un tratto la spada che lo aveva ucciso si sfilò lentamente e il comandante senza più vita cadde sul lato. Era agghiacciante rivivere ancora una volta la sua morte. Piangevo senza interruzione ed urlavo parole di disperazione in greco. Non potevo più controllare il mio corpo, la mia fragile mente non aveva più alcun controllo sul mio fisico.

Voltai lo sguardo alla mia destra, sapevo già chi doveva morire. E così fu. Il soldato venne centrato da una freccia in piena fronte cadendo poi in terra.

Due armi di assedio esplosero tra le fiamme ed un centinaio di soldati che stavano combattendo lì vicino e non fecero in tempo a fuggire vennero arsi dalle potenti fiamme o scaraventati chissà dove. Quanti uomini avevano perso la loro vita in questo scontro?

Il mio respiro pian piano si stava calmando ma il dolore tornava più impetuoso di prima, dovevo scappare, ero ancora nel mezzo dello scontro.

Cercai di alzarmi, sempre reggendomi sulla mia spada. Poi sentii una voce vicino a me.

“Dove credi di andare ragazzo? Ti avevo detto di non provocarmi!”

Alzai subito lo sguardo terrorizzato. Era lui. Era ancora vivo. Merda! Il suo volto era sfregiato da un profondo taglio e aveva un occhio chiuso, probabilmente lo aveva perso. Anche lui ora era messo male, ma contrariamente a me lui non barcollava, e non dava segni di dolore, nonostante il sangue continuasse a colare. Sorrisi alla vista della ferita che gli avevo causato. Era arte. Arte della guerra. Chissà quanto dolore stava nascondendo.

Iniziò a correre velocemente verso di me, io cercai in tutti i modi di indietreggiare ma non riuscivo a voltarmi, mi bastava anche solo fare due passi che dietro di me c'era il cavallo lasciatomi per fuggire. Si stava scagliando contro di me come un animale feroce attacca la sua preda, come il Minotauro contro il grande Teseo, se solo mi avesse travolto col suo possente corpo mi avrebbe ucciso, dovevo a tutti i costi uscire dalla sua traiettoria, dovevo assolutamente salvarmi e schivare la sua carica impetuosa.

Alzai la spada con tutte le mie energie, ma non superava nemmeno il bacino.

“Getta immediatamente quella spada uomo! Se sei di parola, gettala a terra!”

Guardai la sua mano destra. Merda! Impugnava l'arma del patto. L'aveva presa ed io me ne ero completamente dimenticato. Gettai la mia arma al suolo.

“Adesso tu morirai!” urlò.

In quell'istante mi vennero in mente le parole della Moira “Tu. Non morirai. Oggi.” e mi ricordai che eravamo in mezzo ad un duello di fondamentale importanza. Dovevo assolutamente vincerlo, vincere a tutti i costi. Vincere! Ma come? Come vincere?

Una freccia scagliata dalla sua destra lo colpì nel fianco. Il colpo lo passo da parte a parte, era un lancio inumano. La freccia intera era passata in mezzo al possente corpo senza fermarsi. Chi era stato? Qual'era la divinità che lo aveva colpito con tanta violenza e che mi aveva salvato la vita? Chi era?

Il colpo fu tremendo, tanto da fargli cadere la spada di mano e farlo tentennare per qualche passo, ma non abbastanza da fermarlo. Era un colosso, un colpo del genere avrebbe dovuto uccidere una persona normale anche dopo un allenamento di anni. Anzi già il mio colpo precedente avrebbe dovuto ucciderlo. Ed invece era ancora vivo.

Affondò il suo passo titanico sul terreno e caricò il destro. Io di riflesso feci lo stesso, speravo che il danno si sarebbe potuto ripercuotere solo sul braccio, ma almeno il busto non avrebbe subito ulteriori danni, potendo aggravare ulteriormente la mia già drastica situazione. Sfortunatamente per me, il mio pugno lo mancò o il suo mancò il mio. Il mio fragile destro riuscì comunque a farlo ciondolare, anche se sapevo che erano state le ferite subite e non il mio colpo; invece il suo destro era carico di rabbia e violenza. Mi ruppe le costole, non so quante, ma lo scricchiolio delle ossa rotte era chiaro. L'urto mi fece alzare da terra e poi cadere tre metri più indietro, più vicino all'animale che fortunatamente non si imbizzarrì.

Lui poi tornò a prendere l'arma prima caduta. Tornò da me e mi salì sopra in modo non solo da amplificare il mio dolore ma anche per evitare che potessi fuggire o che il colpo fatele potesse mancarmi.

“Adesso... tu... morirai... stronzo!”

Potevo chiaramente sentire i miei sensi attivarsi in contemporanea, era accesi per vedere il mio ultimo respiro. Lui tremava. Non poteva resistere nemmeno lui senza cure adeguate, era gravemente ferito. Il suo sangue colava sul mio corpo, sul mio viso. Alzò la spada. Io, anche avendo energie per brandire un'arma, non avrei potuto per via del patto sancito. Se dovevo morire allora sarei morto con onore, conscio di aver ridotto in fin di vita uno come lui.

“Vai all'inferno!” urlò con tutta la furia che aveva in corpo.

Poi non riuscii più a sentire nulla. Chiusi gli occhi e strinsi forte per l'ultima volta la terra che avrebbe accolto il mio cadavere. Poi la lama si abbassò. 

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Capitolo 10
*** La Caduta (Parte Terza) ***


Il passo era sempre più affrettato. Il tempo correva troppo rapidamente, un'eterna scansione di vita e morte che si alternano come il giorno e la notte. Chi avrebbe mai potuto dire che il giorno fosse la vita o viceversa? Chi poteva mai sapere se oltre il decadimento fisico vi era una rinascita spirituale? Da secoli si creavano dei su dei senza senso. Come era possibile l'esistenza di tutti queste divinità? Se vi era realmente un unico credo, non si spiegava il perché di tante divinità, fortemente differenti tra loro, tra l'altro. Una mente confusa è una mente persa. Chi dunque poteva considerarsi certo senza certezze? Chi avrebbe vinto questa lunga guerra?

Perché pensava a certe cose. La partenza era oramai alle porte. Non aveva tempo per porsi certe domande, i filosofi di ogni era che avevano scommesso la loro intera vita non erano ancora giunti a nulla. C'è chi si era gettato nei vulcani per provare la propria teoria di immortalità, chi fissava talmente a lungo il cielo da cadere sottoterra e anche chi, nonostante sapesse lo scibile umano, non si rendeva conto di sapere ciò che la sua mente realmente possedeva. Come è possibile che gli uomini, considerati illuminati da Atena, dotati di enorme sapere e conoscenza arrivassero a tal punto? Ah, se solo lo Stagirita fosse ancora qui! Dove ha nascosto i suoi volumi? Chi li ha nascosti? Perché?

No, no, non doveva pensare a certe cose, era in guerra. Una delle guerre più importanti della storia, uno di quegli scontri che si ricorderanno nei secoli a venire e che segneranno per sempre l'evolversi della storia dell'intera umanità. Nonostante tutto ciò non riusciva a fermare il suo continuo flusso di pensieri, che come un torrente in piena travolgeva il suo fragile essere.

La morte è veramente il male peggiore? Oppure solo una semplificazione malvagia della realtà. Perché stava accadendo tutto questo? Chi lo ha voluto? Chi lo ha deciso?

Nel fondo del lungo corridoio che attraversava e sembrava non finire mai, vi era un'ombra. Non era una semplice ombra di un edificio, ma nemmeno di una semplice persona, era troppo deformata. Mentre continuava a camminare celermente verso le stalle, cercò di capire chi fosse o cosa.

“Tu! Laggiù! Chi sei? Cosa ci fai qui?”

La lontana ombra si mosse ma non riusciva a comprendere se avesse mosso solo il volto oppure il corpo. Non capiva. Iniziò a correre per capire realmente cosa fosse, chi fosse, ma appena avvicinato un poco, l'ombra sparì nel nulla. Egli cercò delle tracce che potessero aiutarlo a comprendere chi fosse stato lì e come fosse sparito così all'improvviso. Nulla. Sparito nel nulla. Lo sguardo suo cadde poi oltre una delle finestre del corridoio. Giù a distanza di circa duecento metri, vicino alla piazza centrale dove aveva tenuto il discorso e che ora era quasi del tutto svuotata, c'era quell'ombra vista precedentemente.

Le pupille si allargarono per amplificare meglio la vista. Non poteva crederci, quale essere vivente avrebbe potuto mai saltare da un'altezza simile e spostarsi per altri metri in così poco tempo. Ma soprattutto, solo il salto avrebbe dovuto ucciderlo. Chi era?

Appoggiò con forza la mano sul muro e cercò di urlare a qualche soldato che era rimasto in piazza di catturare quell'individuo ma d'un tratto la voce non gli apparteneva più. Non riusciva più a parlare, non emetteva più alcun suono. Era muto. Non era dolore né paura, aveva semplicemente perso la voce. Iniziò a sbattere contro i muri calci e pugni ma nessuno lo poteva né sentire né vedere, era come uno spettro in mezzo alla folla. Una folla solitaria.

L'ombra nel frattempo alzò ciò che sembrava una mano e la tirò indietro. L'imperatore vide uscire dal suo cuore un lungo filo blu. Cosa diamine era? Il terrore iniziò la sua ascesa dalle gambe fino alla gola, soffocandolo. Non respirava. Sudava.

Non fece in tempo a tirarsi indietro che l'ombra si avvicinò talmente tanto a lui da farlo cadere pesantemente a terra. Cercava in tutti i modi di urlare, di chiedere aiuto, ma non vi riusciva. Era una foglia dinnanzi ad un albero, una nullità di fronte ad una entità sovrannaturale. Ad un certo punto l'ombra chinò in dietro il capo, ed emise un urlo agghiacciante, freddo come un cadavere e lungo, eterno come la morte. Cercò in tutti i modi l'imperatore di tapparsi le orecchie con le mani e di urlare per il dolore all'udito ma non vi riusciva, nonostante i suoi sforzi il suono era troppo forte e la sua voce era completamente sparita.

Si dimenava come poteva, come un bambino troppo pretenzioso che non aveva ricevuto ciò che voleva. Era stato atterrito solo due volte nella sua vita intera, e in combattimento. Ma contro quell'essere non poteva pretendere di essere un suo pari. La differenza era chiara. Lui era un mortale quell'essere chiaramente no.

Poi, nel momento in cui la sua testa stava per scoppiare, l'ombra sparì. Tutto cadde nel silenzio. L'imperatore era disteso a terra e fissava un punto fisso sul soffitto. Era terrorizzato. La testa gli faceva un gran male e le mani non riuscivano a calmarsi. Le guance vennero rigate da una scia sottile e lunga d'acqua, sia da un lato che dall'altro. Stava piangendo. Lui, il terrore dei ribelli, piangeva. Chi non teme la morte? Chi è così stolto da credere di non temerla? Fino a che essa non ti si presenta dinnanzi le parole rimangono vuoti soffi insulsi d'aria, ma quando la senti così vicina, nessuno riuscirebbe mai a non temerla. Solo un bugiardo affermerebbe il contrario, lei è la paura più grande che ogni uomo possiede nel fondo del proprio cuore. Nessuno è escluso, nessuno è salvo.

Le meningi gli pulsavano ancora. Appoggiò abbastanza saldamente la gamba destra al suolo e cercò di poggiare lì il suo peso per poi, reggendosi un po' al muro, alzarsi. Pian piano riuscì a tornare in piedi. Si asciugò il volto e prese da terra l'elmo che, senza nemmeno essersene accorto, gli era caduto precedentemente. Voleva correre ad informare tutti dell'accaduto e che forse quello era un chiaro segno del destino per cui non dovevano partire, non avrebbero dovuto andare a salvare la capitale. No. Non poteva chiaramente presentarsi senza voce e terrorizzato dinnanzi al consiglio e non poteva chiaramente annullare l'oramai iniziata marcia. Doveva far finta di nulla e proseguire ciò che aveva iniziato. Avrebbe chiesto consiglio in seguito al suo primo comandante una volta che le due frazione dell'esercito d'oriente si sarebbero incontrate nei pressi delle Alpi. Per il momento poteva fare anche a meno di parlare. Doveva riuscire a non insospettire nessuno. I più credenti avrebbero preso la sua rapida sparizione della voce come un segno divino, e in quel caso l'esercito si sarebbe facilmente spezzato e la vittoria sarebbe stata un'impresa molto più ardua di quanto già non fosse.

Una volta tranquillizzato e tornato sufficientemente lucido con la mente tornò sui suoi passi e si diresse verso la stalla, dove lo stava aspettando il suo cavallo e le ultime parti dell'armatura. Scese i gradini sulla sinistra e finalmente riuscì ad arrivare alla sua destinazione. I cavalli, però, non c'erano. Cercò per la vasta stalla del palazzo ed infine li trovò tutti ammassati in una celletta minuscola, poco più grande di due metri quadrati. Era morti. Tutti con la gola tagliata. Anche il suo amato stallone che lo aveva condotto durante le più grandi battaglie d'oriente. Santi numi! Oh dei!

“Spiacente ma lei non può andarsene via da qua, lei non partirà oggi.”

L'imperatore si voltò di scatto per vedere il volto di colui che gli stava rivolgendo la parola in modo tanto arrogante e che probabilmente aveva anche commesso quel tremendo crimine, quella carneficina insulsa contro dei semplici animali. Dal fondo della stalla vi era una grande finestra posta a circa mezzo metro da terra e lì, incappucciato, vi era un uomo seduto che lo fissava con un sorrisetto malvagio stampato sul volto. La luce dietro quel personaggio lo rendeva quasi divino, era il tramonto, era in ritardo. La figura aveva nella mano sinistra una spada lunga e ricurva sporca di sangue, che ancora fresco gocciolava al suolo dopo aver attraversato la lama.

L'imperatore non riusciva a vedere chiaramente chi fosse e se avesse aperto la bocca e non fosse riuscito a parlare avrebbe svelato subito la sua posizione di svantaggio. Doveva tacere e mostrarsi freddo ed impenetrabile. E in questo lui era estremamente capace di natura. Il suo gelido sguardo era rivolto all'uomo che aveva parlato. Rimaneva comunque fermo per non farlo fuggire. Se fosse stato veloce lo avrebbe seminato di sicuro vista la distanza che già li separava. Uno da un lato della stalla, l'altro nel lato opposto.

Scese dalla finestra e si avvicinò a passi decisi e sicuri verso l'imperatore. Passi scanditi, lenti.

“Vede, se la lascio andare proprio ora lei condurrebbe l'armata a destinazione. E questo ovviamente io non posso permetterlo.” disse mentre con un panno sporco sfilato dalla sua tasca destra pulì la sua arma.

La luce che filtrava dal fondo non permetteva di distinguere chiaramente il viso ed i lineamenti del personaggio che si stava avvicinando.

“Perché non parla? Ha perso la parola?” rise. L'imperatore rimase impassibile.

“Ah, capisco. Non vuole svelare il suo segreto. Stia tranquillo non dirò a nessuno chi ha visto né che non può più parlare. Anche perché tra pochi secondi lei non apparterrà più a questo mondo.”

L'imperatore fece un passo indietro, poi due, tre. Come lo sapeva? Chi era quell'uomo? Lo doveva uccidere, sapeva troppo e queste informazioni avrebbero potuto, se trapelate, ribaltare l'esito dello scontro in qualunque momento.

“Mi vuoi uccidere, ti capisco. Sarà piuttosto difficile, si fidi.”

Come poteva leggere ciò che pensava? Assurdo. Chi era?

“Stia tranquillo. Lo scoprirà prima di esalare l'ultimo respiro.”

L'imperatore iniziò a tremare, la testa continuava a dolergli. Nel momento esatto in cui posò la mano sulla fronte per il dolore, l'avversario era già davanti a lui, pronto per scoccare il primo colpo. Senza esitazione sfilò la sua arma e riuscì in tempo a deviare il colpo diretto al suo cuore. Sapeva utilizzare bene la spada, era sicuro.

“Non si monti la testa, solo perché è riuscito a deviare un mio colpo, prima o poi le cadrà. È solo questione di tempo.”

Lo scontro iniziò. Una scoccata rapidissima del misterioso personaggio sfiorò il fianco dell'imperatore, egli notando la schiena del suo nemico scoperta freddamente cercò di colpirlo mentre era scoperto, ma il suo avversario posando una mano a terra si girò facendo leva col braccio e respinse l'attacco sfiorando la gamba destra dell'imperatore. Non era chiaramente un dilettante, anzi. Era chiaramente un maestro con la spada. Lo scontro continuò senza esclusione di colpi. Ma nessuno dei due dava segni di tentennamento o stanchezza. Era uno scontro epico, uno scontro misterioso senza pubblico. Solo gli altissimi forse guardavano con distrazione la loro battaglia. L'imperatore manteneva il suo nome. Stava pensando ad altro mentre combatteva, l'abitudine e la memorizzazione di tutti i possibili colpi con armi e senza gli fornivano un vantaggio notevole, senza considerare che non si stava ancora impegnando. Ma anche il suo avversario sembrava non impegnarsi, forse perché non voleva svelare subito tutte le sue carte o forse stava aspettando il momento giusto per eliminare l'imperatore con un sol colpo ben piazzato.

L'imperatore stava pensando alla sua situazione e come uscirne senza creare un'onda anomala come invece temeva sarebbe potuto succedere se avesse fatto passi falsi.

“Non le consiglio di distrarsi nel mezzo dello scontro, potrebbe perdere per questa arroganza.”

Mentre terminava la frase ruotando con l'intero corpo caricò un colpo secco e velocissimo che se non fosse stato tempestivamente parato avrebbe potuto facilmente uccidere chiunque. L'imperatore come svegliato da un sogno, distolto dai suoi pensieri, strinse più deciso la sua spada e scagliò un colpo talmente potente da rompere un robusto palo di legno che sorreggeva il piano soprastante. Il legno, tagliato di netto in due parti, non fermò nemmeno per un istante la spada. Fu tagliato come si taglia una sottile canna di palude. L'avversario però aveva schivato il potente attacco dell'arma, abbassandosi poco prima il lancio del colpo. Sorrideva.

“Mi stavo annoiando. Meno male che si è svegliato.” rise ancora.

Voleva sgozzarlo subito. Decise che prima avrebbe ucciso quel tizio, meglio era. Sfoderò l'altra arma e iniziò a tempestarlo con una serie di colpi a doppia lama. Precisione e potenza erano state portate a livelli inimmaginabili. Ogni colpo risuonava in tutta la stalla e non finiva mai contro altro se non la spada del suo avversario. Era una furia distruttiva, e ancora non si stava impegnando fino in fondo. Aveva solo negli occhi una forte sete di sangue che si esprimeva chiaramente ad ogni fendente che lanciava.

“Mai farsi prendere dalle emozioni, potrebbe risultarle fatale.”

Nella foga dei colpi che assestava l'imperatore non notò di aver lasciato una apertura nella sua difesa e come se il rivale non aspettasse altro che quella piccola debolezza scoccò un colpo ben assestato alla gamba sinistra che per poco non tagliò di netto l'arto. Svantaggio nello svantaggio. La ferita era abbastanza profonda. Ma l'imperatore un po' perché non poteva urlare dal dolore ed un po' perché durante tutti quegli anni aveva sentito di peggio, non tentennò nemmeno per un istante dinnanzi all'avversario. Il dolore alla testa era forte. Caricò con la sua spada destra un colpo, che doveva essere a suo giudizio il decisivo. L'urtò fece quasi tremare l'aria. La lama saltò via e si conficcò due metri e mezzo più indietro. La spada era stata spezzata di netto. Il nemico ora era disarmato.

“Ammetto la sua superiorità con la spada.” disse indietreggiando e tenendo la metà della spada in posizione difensiva.

Lui non poteva che accennare un sorriso semi vittorioso. A abbassò le spade con la punta verso il terreno. Era oramai certo del risultato. Anzi il risultato era oramai certo.

“Vede io non credo che ciò che lei pensa sia del tutto vero. E gliene darò una prova se vuole.” disse sorridendo con fare arrogante e presuntuoso.

La furia turbò nuovamente la mente ed il cuore dell'imperatore che si fiondò contro la sua preda disarmata. Ma ad un tratto i muscoli non rispondevano più ai suoi comandi, era completamente paralizzato. Immobile nel mezzo di un attacco. Come una piuma ferma tra i soffi del vento, sospesa eternamente e misteriosamente nel vuoto. Il personaggio misterioso si avvicinò e lo guardò dritto negli occhi, poi prese con la sua mano la mandibola dell'imperatore e strinse la mano, non tanto però da romperla.

“Capisci ora?”

Non capiva. Cosa diamine succedeva al suo corpo? Perché non poteva muoversi? Cosa sarebbe successo?

“Non pensavo che tu fossi così scemo. Allora ti farò capire io.”

Continuava a non capire. Lo avrebbe ucciso? Alzò il braccio tenente la spada alla gola.

“Adesso guarda attentamente.”

La sua arma iniziò a brillare di luce propria , una luce forte, accecante, incantevole. Ciò che vide era folle. Inimmaginabile,impossibile per qualsiasi essere vivente. L'arma si ricompose. La lama si allungò pian piano fino a che non si completò con la punta e la luce che fuoriusciva dalla lama sparì.

“Vedi io ora potrei ucciderti ma se lo facessi non potrei poi sapere cosa potrebbe accadere in futuro, solo lei può far questo. Il mio scopo l'ho raggiunto, la mia missione l'ho completata. Posso anche andare.”

Indietreggiò di qualche passo.

“Signore signore! É quasi notte!” era un suo capitano che stava scendendo nelle stalle.

L'imperatore era ancora paralizzato posto dinnanzi a quello stronzo che lo aveva battuto.

“Alla prossima.” disse sorridendo, prima di sparire nel nulla proprio davanti ai suoi occhi.

Nello stesso istante la paralisi perse il suo lungo e sofferto effetto e il corpo dell'imperatore cadde pesantemente a terra con un tonfo.

Il capitano appena giunto sul luogo lo aiutò ad alzarsi. Non sentiva più dolore alla gamba, la guardò ancora tremando lasciando le spade a terra. La ferita non c'era più. Era come se non avesse mai combattuto. Come se tutto fosse stato un lungo e terribile incubo. La voce però non l'aveva ancora. Merda!

“Signore bisogna partire subito!” aggiunse il capitano.

Non parlò, si limitò a prendere le spade da terra e rinfoderarle. Poi a piedi si diresse verso l'uscita della stalla per cercare un altro cavallo pronto. Ma nello stesso istante in cui egli fece il primo passo, udì nitrire nelle cellette dei cavalli. Non era possibile. Corse verso tutte le piccole cellette e sbigottito notò come i cavalli non solo erano ognuno nella propria cella, ma erano anche tutti vivi. Non poteva crederci. Il suo sguardo era divenuto spento e vuoto.

“Signore si sente bene? Mi risponda la prego.”

Indossò velocemente le ultime parti dell'armatura e arrivato di fronte al suo stallone lo abbraccio e posta la sella gli saltò in groppa ed uscì dalla stalla. Nella cavalcata fino alla porta principale che dava sull'occidente indossò l'elmo.

Pochi minuti dopo era in testa all'esercito, pronto per partire. Uno stratega fidato anche lui a cavallo si avvicinò a lui e gli bisbigliò all'orecchio “tutto bene mio signore?”

Lui accennò solo col capo, ma il suo pensiero era ancora tormentato profondamente dall'accaduto. Fece segno di partire e l'armata iniziò ad uscire dalla capitale d'oriente. Uno degli eserciti più potenti della terra stava lasciando la sua casa verso le terre dell'ovest per una guerra di importanza vitale. Costantinopoli si apprestava a salvare la capitale. Costantinopoli aveva fatto il primo passo verso una lunga guerra.

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