Prinzessin

di edwardandbella4evah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Grandi cambiamenti ***
Capitolo 3: *** Imparare le regole ***
Capitolo 4: *** Un altro punto di vista ***
Capitolo 5: *** Le prime morti sono le peggiori ***
Capitolo 6: *** Anticipazione del capitolo 7 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Ogni azione ha le sue conseguenze ***
Capitolo 9: *** Colpe e più conseguenze ***
Capitolo 10: *** La nuova ragazza del campo ***
Capitolo 11: *** Mi manchi ***
Capitolo 12: *** Confessioni ***
Capitolo 13: *** Può davvero funzionare? ***
Capitolo 14: *** Non mi ami? ***
Capitolo 15: *** Realizzazioni ***
Capitolo 16: *** Speranze per il futuro ***
Capitolo 17: *** Dirglielo ***
Capitolo 18: *** Time Away ***
Capitolo 19: *** Das Ende, Meine Prinzessin ***
Capitolo 20: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Mi rigirai nel mio letto, il sudore che mi percorreva la fronte. Iniziai a svegliarmi per dei forti rumori provenienti dall’esterno. Velocemente mi alzai dal letto e mi stiracchiai, la schiena faceva male per il duro, grumoso materasso su cui dovevo dormire.
Mi vestii velocemente ed animatamente, per la fredda temperatura di Ottobre. Mia madre mi raggiunse fuori poco dopo, chiaramente volendo indagare anche lei sulla causa del rumore. C’erano molti camion, soldati che uscivano da essi e circondavano il piccolo ghetto, assicurandosi che nessuno potesse scappare. Il mio stomaco sprofondò, lasciando una voragine vuota come mi avvicinai a mia madre, la quale mi circondò con un braccio. Senza dubbio preoccupata e spaventata di cosa i Tedeschi ci avrebbero fatto adesso.
“Ebrei!” un soldato grosso e corpulento ci chiamò, facendomi raddrizzare, in modo da non mostrare alcun segno di debolezza. “Siete stati tutti ricollocati” . Il mio cuore si angosciò ancora di più, dove questa volta?
“Siamo appena arrivati qui!” disse un uomo.
“Dove adesso? E’ la terza volta che io e i miei figli siamo ricollocati!” esclamò una donna appena sulla trentina. Li riconobbi come nostri vicini nel ghetto; la donna era molto gentile, a dispetto della nostra situazione, si chiamava Leah. La aiutai con i suoi figli insieme ad altri bambini del ghetto. Ero responsabile dell’insegnamento dell’Inglese e del Giudaico ai bambini. Aveva quattro figli; la maggiore, Eliana, aveva 17 anni e un figlio, poiché violentata da un soldato tedesco l’anno scorso. Seguono due figli, uno di 13 e l’altro di 8 anni. Yitzchak e Reuben. Ed ultima, ma non meno importante per me, la piccola Rivkah. Rivkah era una piccola bimba malaticcia, un po’ troppo piccola per la sua età di sei anni, somigliava di più ad una di quattro. Era la bambina più tranquilla e dolce qui, e mi seguiva ovunque come se fosse la mia ombra.
Guardai la loro famiglia ed una volta incontrati i miei occhi con Rivkah, lei corse verso di me attraverso il mare di gente ed io la presi tra le mie braccia, carezzandole i ricci marrone chiaro e cercando di essere forte per lei.
“Silenzio sporchi ebrei! Farete quello che vi diciamo di fare o morirete! Ora avete dieci minuti per prendere le vostre cose prima di essere caricati per essere ricollocati alla vostra ultima meta”. I suoi occhi erano scuri ed accennavano a qualcosa di malizioso ma non ci badai molto; tutti questi Tedeschi erano malevoli, crudeli e malvagi.
“No! Non voglio essere ricollocata. Questo è contro i nostri diritti, anche noi siamo persone, sai!” urlai, facendo voltare un Tedesco che mi fissò. Sussurrò qualcosa a un altro compagno prima di venire verso di me. Barcollai, spingendo la piccola Rivkah dietro di me per la sua sicurezza. Prima che me ne rendessi conto, alzò una mano e mi schiaffeggiò su entrambi i lati del mio volto. Gridai, tentando di essere forte, ma fallendo miseramente.
“Tu, tu vieni con me” disse, con un chiaro accento tedesco.
I suoi capelli erano rasati in un taglio arronzato, ma il colore era nero-lucido. Il suo corpo era magro e muscoloso e, benché basso per un uomo della sua statura, mi superava di un paio di centimetri. Strabuzzai gli occhi quando capii.
“No!”. Fui ricompensata con un calcio nella schiena da uno dei suoi compagni, arrivato dietro di me.
Il calcio mi fece cadere in avanti, il mio vestito si sporcò per il terreno freddo e sporco.
“Pensi di avere una scelta, Ebrea? Ti sbagli. Ora vieni con me in questo preciso istante se non vuoi essere uccisa sul posto”. Per enfasi, tirò fuori la pistola e me la puntò alla fronte, facendone derivare bisbigli preoccupati tra lo sciame di persone. Potevo sentire mia madre che iniziava a piangere, e lottai per non iniziare a piangere anch’io.
“Allora qual è la tua scelta, Ebrea? Alzarti e venire con me, o morire proprio adesso?” . Guardai mia madre che piangeva, trattenuta da un soldato Tedesco, e la piccola Rivkah, che tornava dalla madre, guardandomi con grandi occhi terrorizzati. Sussultai, vedendo come non avevo altra scelta. Preferirei essere presa da quest’uomo, essere picchiata, violentata, e magari rimanere incinta, che lasciare mia madre da sola. Quasi sputai sulle scarpe dell’uomo. Mostro, un mostro, ecco che cos’era. Mi alzai lentamente, ignorando il forte dolore alla schiena, e rifiutai di guardare l’uomo, guardando a terra. Non volevo guardare l’uomo che avrebbe strappato via la mia dignità e probabilmente mi avrebbe violentata.
Lui afferrò la mia mano e mi guidò verso il suo camion, silenzioso tutto il tempo.
Rubai un ultimo sguardo a mia madre; il soldato l’aveva rilasciata, lei me ne diede un ultimo per rassicurarmi mentre gli altri iniziavano a dirigersi verso le loro piccole case e a fare i bagagli. Tenni il mio medaglione al sicuro, felice di non aver dimenticato quello e la mia foto. Ho imparato da esperienze precedenti di non dimenticare mai i miei due preziosi oggetti.
Lui mi spinse rozzamente sul retro del camion che sembrava una cassa di legno da dove ero seduta. Venne un’altra guardia che mi legò mani e piedi, lasciando i miei occhi aperti ed enormi. La zona dove le guardie guidavano il veicolo era sigillata, lasciando me e quel mostro da soli.
“ Come ti chiami, Ebrea?” . Girai la testa, rifiutando di guardarlo o rispondere alla sua domanda. Sentii ancora un rapido schiaffo, un po’ più forte del primo. Gridai di nuovo, mordendomi il labbro per non iniziare a piangere. Lo morsi così forte che il sangue iniziò a defluire.
“Se vuoi sopravvivere, ti consiglio di imparare un po’ di rispetto, Hundin” sputò, usando la parola tedesca per “puttana”.
“Ora, te lo chiedo ancora, come ti chiami, Hundin?”
“Courtney”. Dissi amaramente.
“Non mi risulta che sia un nome giudaico. Spiegati, Ebrea”.
“Il mio nome giudaico è Channa, ma solo mio padre mi chiamava così…prima di morire” . Si addolcì per un secondo prima di diventare di nuovo duro.
“Guardami negli occhi Courtney, quando ti parlo. Se non impari il rispetto, non sopravviverai qui”.
“Cosa intendi dire?”
“Capirai. Ora guardami” . Lentamente alzai gli occhi per incontrare i suoi, e finalmente lo vidi.
Occhi d’acqua-chiara, bellissimi occhi blu-acqua incontrarono i miei. Se non fosse stato per la crudeltà dietro di loro, e il fatto che era un mostro Tedesco, avrei detto che era uno degli uomini più belli che avessi mai incontrato.
“ Molto bene. Ora, ecco cosa succederà. Verrai con me alla tua nuova sistemazione insieme agli altri Ebrei. Lavorerai, o morirai. Non sarai più trattata in modo speciale, a meno che non decida di farti restare in giro. Capito, Hundin?”
“Sì” risposi bruscamente, non dicendo più di quanto ritenessi necessario. Sorrise crudelmente ma orgogliosamente ed iniziò a camminare per l’autocarro.
“D’ora in poi mi dirai “Sì signore” “ . Feci un cenno col capo, farò qualsiasi cosa che mi avrebbe risparmiato dal dolore.
“Bene, hai qualcosa da dire per te, Ebrea?”
“Rivedrò mia madre? E gli altri ebrei del ghetto?”.
Lui sogghignò, io gli lanciai un’occhiata gelida.
“Dipende da quanto sei poco disposta a morire”.
Quasi soffocai, ma tenni per me il mio fremito provando ad avvicinare le gambe al petto.
“Fa’ come ti dico, non opporre resistenza, e potrei anche aiutarti più avanti”. Annuii tremante quando mi abbassò le gambe e spostò le mani dietro il torace, in modo che non potessi fare nulla per fermarlo.
Lui mi tolse il lungo vestito di cotone marrone, lasciandomi in biancheria intima. Desideravo mettere le mani sul mio torace semi-nudo, ma non potevo perché erano state legate.
Il mio tremolio si fece più pesante quando lui si avvicinò a me, facendo correre le sue mani sopra e sotto le mie gambe, arrivando su ed ancora più su. Violò ogni territorio che avevo.
Una volta finito si allontanò, con me che tremavo come una foglia. Mi slegò, dandomi il privilegio di rivestirmi. Una volta fatto, mi legò ancora. Mi osservò soltanto, ancora e ancora e ancora, sembrarono passare ore, fino a quando non mi fissò di nuovo negli occhi.
“Che peccato. Sei così carina, soprattutto per i tuoi capelli. Un vero peccato che se ne debbano andare tutti…”. Se le mie mani non fossero state legate, sarebbero immediatamente volate alla mia lunga treccia.
“Cosa? Che vuol dire? Dimmelo ora!” soffocai con la vocina che mi era rimasta. Lui tirò l’estremità della treccia scherzosamente e si alzò, dirigendosi di fronte al camion.
“Dormi un po’. Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi” .
Lo guardai a bocca aperta, ma provai a mettermi comoda sul muro di legno.
“Ricorda, non sarai più trattata in modo speciale” .
“Lo so” .
“Sogni d’oro, Prinzessin”. Uscì dal compartimento dove mi trovavo ed il mio pensiero corse agli eventi passati. Che ipocrita…Dirmi che non sarei stata trattata in modo speciale, per poi chiamarmi Principessa.
Mostro, sudicio mostro.

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Capitolo 2
*** Grandi cambiamenti ***


“Svegliati, svegliati Prinzessin!” un violento calcio mi svegliò dal mio sonno senza sogni. Mi alzai barcollando, strofinandomi la coscia sofferente. Guardai il volto dell’uomo, iniziando a tremare quando realizzai che era lo stesso uomo che mi aveva violato la scorsa notte. Mi sentivo così violata, ero stata toccata da un Tedesco. Un mostro buono a nulla. Qualcuno con cui non dovrei nemmeno parlare, figuriamoci lasciarmi toccare a quel modo. Come ha potuto farmi una cosa del genere? Perché proprio io tra tutta quella gente? Non poteva scegliere qualcun altro, qualcuno in una condizione peggiore o con molto meno cervello? Il mio corpo si sentiva debole, scartato. Come se avessi fatto il bagno nel fango per maiali. Lo guardai, aveva un sorriso grave sul volto.
“Qui è dove starai, benvenuta ad Auschwitz” disse, mentre io strabuzzavo gli occhi. Auschwitz era il nome di uno di quei campi. Campi di lavoro…dove morirono in molti.
Pensavo che questi campi fossero solo dicerie; solo delle stupide storie per spaventarci. Mi svegliai completamente quando lui mi trascinò avanti.
Non potevo lavorare; non avevo lavorato un solo giorno in vita mia, tranne che per insegnare le lingue ai bambini. La mia famiglia era ricca nella mia vecchia città, prima di essere ricollocati nel ghetto. Avevo domestici, ed anche cameriere.
Non sapevo come si cucinava o si puliva. E se mi avessero ucciso perché non riuscivo a lavorare?
“Piantala Courtney”, provai a dire a me stessa. Sono una che impara velocemente, devo vivere.
Devo rivedere mia madre. Devo vivere per papà.
“Per quanto tempo ho dormito?” . Chiesi, accorgendomi di come i miei pori fossero scoloriti e di come puzzavo malamente. Lui mi slegò le braccia ed io le strofinai, poi toccai i miei capelli e sentii quanto fossero gelatinosi.
“Circa due giorni” . Avevo dormito due giorni, com’era possibile? Potrebbe essere che mi abbia iniettato dei sedativi mentre dormivo per farmi restare addormentata? E se mi avesse violentata nel sonno? Velocemente osservai il mio corpo cercando segni di puntura o di iniezione, ma non ne trovai. Provai a prendere un profondo respiro per calmarmi, ma l’aria polverosa mi riempì i polmoni, e cominciai a tossire pesantemente. La mia gola si sentiva secca ed arida, ed avevo un gran bisogno di acqua per placarla.
“Mi vedrai in giro per il campo, ma non aspettarti che ti tratti diversamente” . Annuii, salvando la mia gola da un ulteriore uso.
“Posso avere un bicchiere d’acqua? E sarebbe bello anche poter fare una doccia” . Lui sogghignò ed iniziò a ridere di me mentre alzavo un sopracciglio confusa. Anche nel ghetto mi era permessa una doccia calda. Non era molto privata, ma era pur sempre una doccia. Si fermò, pensando che la mia domanda avrebbe potuto essere uno scherzo, ma, quando vide la confusione nei miei occhi, sogghignò e spiegò velocemente.
“Sei proprio una Prinzessin. Quale parte di “nessun trattamento speciale” non capisci? Sei una müll, una shmatte, immondizia. Capisci? Sei un indegno pezzo di spazzatura” .
Restai in silenzio, trattenendo le lacrime. Sogghignò ancora e mi spinse all’indietro, inciampai e caddi ma rifiutai di emettere alcun suono di dolore.
“Non preoccuparti, Prinzessin, farai le tua doccia. Tutti voi shmatte siete sporchi quando arrivate al campo, per prima cosa dobbiamo pulirvi. Non possiamo permetterci che vi ammaliate. Se ti ammali, muori” . Rabbrividii, tentando di trattenere un altro giro di tosse. Come sapeva cos’era uno shmatte? Era una parola giudaica. Non poteva essere ebreo ed avere tutto questo odio nei nostri confronti.
“Come sai il giudaico? Sei Tedesco” . Si oscurò in volto e si voltò. Gli ci vollero pochi istanti per raccogliere se stesso e girarsi di nuovo verso di me.
“L’ho appreso da altri Ebrei nel campo. Ora smettila di kvetsch ed alzati. Compiangerti non ti farà del bene” . Sogghignò, usando ancora un ‘altra parola giudaica.
“Certamente, shmendrik Tedesco” sogghignai, sentendomi come se avessi avuto l’ultima parola. Potevo anche giocare al gioco del nome con lui. Mi accorsi di quanto mi sbagliavo quando lui improvvisamente mi sollevò e mi sentii senza peso, e mi gettò contro il muro. Non ebbi il tempo di avvertire il dolore che mi alzò velocemente e mi diede un violento colpo allo stomaco.
“Non sopravvivrai mai qui. Impara un po’ di rispetto. So che può sembrarti difficile da fare e tutto, Prinzessin, ma sei vuoi sopravvivere, sarà meglio per te. Capito? “ ruggì, mentre tentavo di alzarmi, stringendomi il ventre dal dolore mentre le lacrime scorrevano sul mio volto.
“S-sì signore” . Sogghignò malignamente per un istante ma non disse nulla. Mi sollevò, io sibilai dal dolore ma lui ricambiò schiaffeggiandomi in faccia. Aprì la porta e mi condusse fuori tirandomi per la lunga treccia.
Mi trascinò attraverso lo sporco sentiero, mentre io restavo in silenzio, tentando di soffocare le lacrime e di far passare il dolore.
Vidi molti camion , mucchi di persone e famiglie spinti fuori di essi come me. Mi guardai intorno, questo posto mi spaventava a morte. Grandi recinti di filo spinato circondavano ogni cosa, facendomi sentire in trappola, come un prigioniero. Guardie e soldati sorvegliavano ovunque, dando a colui che mi aveva catturato un brusco cenno del capo riferendosi a me. Era comune per le guardie prendere giovani ragazze come prigioniere? Mi sentii fuori posto, e terrorizzata al pensiero di non rivedere mai più mia madre. Un’insegna poco lontano diceva “il lavoro rende liberi” . C’erano delle tinozze d’acqua, dove stavano bevendo dei cavalli. Passammo accanto a loro, e sussultai d’orrore quando vidi un bambino morto galleggiare sull’acqua. Il Tedesco mi strinse la mano e, come ci avvicinammo, vidi più morti, e fui improvvisamente felice di essere venuta insieme a questo Tedesco che con gli altri.
“Zur hoelle mit dir”, mormorò crudelmente sotto il suo respiro. Tremai, sperando che non stesse parlando di me. Lui mi rialzò e mi spinse verso la folla di persone, cominciando a parlare.
“Qui sarai preparata per lavorare. Non sarai trattata come una Prinzessin, e quasi certamente non ci somiglierai nemmeno. Nessuna guardia ti tratterà tanto bene quanto l’ho fatto io”. Stavo per dire qualcosa di antipatico, ma mi trattenni, nel caso in cui m’avesse dato altre istruzioni utili.
“Non puoi ammalarti qui, in nessuna circostanza. Ti ammali, non puoi lavorare, e ti mandano lì” . Indicò una specie di capannone, solo più grande, il cui camino stava vomitando fumo nero che puzzava in un modo disgustoso. Mi colpì allora, la ciminiera. Gli Ebrei venivano bruciati quando non potevano lavorare. Annuii gravemente in segno di comprensione.
“Sarai il mio giocattolino qui, ho deciso di tenerti, Prinzessin. Ogni notte, sarai scortata da altre guardie ai miei alloggi. Non dovrai parlare con loro, e non sarai irrispettosa come lo sei con me, perché loro non ti perdoneranno tanto facilmente e verrai punita. Farò di te come mi pare, e tu non rifiuterai, capito? “ . Le lacrime fuoriuscirono dai miei occhi ed annuii, sperando cose che non potevo ottenere.
“Non ti rivolgerai a me in altro modo, o attaccherai discorso con me se mi vedi nel campo. Ti sparerò, paperella, e sarai rimpiazzata facilmente. Non capisci quanto sei fortunata”.
“Come posso rivolgermi a te quando siamo…” deglutii a fatica e soffocai la parola “…soli?”. Lui sogghignò, vedendo che capivo la situazione in cui mi trovavo.
“Chiamami Duncan. Sei stata una brava piccola anatroccola per me e mi hai lasciato fare come mi pareva di te, così ho deciso di farti rivedere tua madre ed i tuoi amici…finchè sono ancora vivi” . Mi spinse in avanti mentre guardavo la marea di gente alla quale ci stavamo avvicinando. Individuai velocemente mia madre, sporca e terrorizzata, tra la folla. Mi ravvivai e corsi verso di lei, chiamandola. Lei velocemente mi riconobbe e mi abbracciò, le lacrime che scendevano su entrambi i nostri volti.
“Oh…oh…yalda sheli…” cantava, iniziando a parlare in ebraico e a cullarmi avanti e indietro.
“Mamma…sto bene, davvero. Non mi ha fatto nulla, tranne che picchiarmi un po’” mentii per metà in un tentativo di farla sentire meglio.
“Mifletzet…oh vey…Grazie a Dio non ha…”
“ Lo so…Mamma, ero così spaventata…” soffocai, iniziando a singhiozzare. Lei mi strinse più forte, carezzandomi la testa e baciandomi le guance. “Mamma, dove sono tutti? Leah, Reuben, Yitzchak, Rivkah, Eliana, tutti?” . Lei indicò cupamente la famiglia, Eliana che stringeva suo figlio al petto, Leah che tratteneva dei terrorizzati Rivkah e Reuben, ed uno Yitzchak cupo.
Annuii tetramente quando le guardie si avvicinarono al grande gruppo di gente ebrea.
“Uomini a sinistra! Donne a destra! Schnell, schnell! “ gridarono, persone correvano ovunque. Reuben fu strappato via dalla madre, Yitzchak promise di prendersi cura di lui. Rivkah ci riconobbe, e quando fu separata dalla famiglia venne da noi, e noi ci riunimmo, fuori di testa dalla paura. Guardie e soldati ci guidarono in una delle caserme, dove fummo tutte stipate e forzate a stare nella larga, solitaria stanza.
Un’alta donna asiatica, con lunghi capelli scuri venne verso di noi. Ci osservò dall’ alto verso il basso, sprezzante ed aggrottando la fronte.
“ Voi Ebrei, siete tutti zugangi, nuovi venuti. Il peggio del peggio. Anche peggiori dei ratti”. Mi guardò altezzosa, facendomi sentire inferiore. Il fatto che era Tedesca, e poteva farmi peggio di quello che mi aveva fatto Duncan mi fece ricordare il suo avvertimento precedente.
 
“Nessuna guardia ti tratterà tanto bene quanto l’ho fatto io”
 
Rabbrividii leggermente sapendo che, per i Tedeschi, ero uguale a tanti altri Ebrei qui senza distinzione di condizione o classe. Altre ragazze mi guardarono scioccate per la mia strana manifestazione di emozioni, non avendomi mai visto prima se non quando una forte donna asiatica mi osservò dall’alto verso il basso, fermandosi al petto.
“ Tu, col vestito marrone” si rivolse a me. Guardai i suoi occhi grigi e senza cuore, e lei sorrise crudelmente.
“Dammi la tua collana. Starebbe bene su di me” .
Rimasi a bocca aperta, insieme a mia madre. Portai la mano alla mia collana, toccandola delicatamente.
“No! E’ mia, mio padre me la diede prima di morire!” urlai, con veemenza nella mia voce. Lei si avvicinò e mi schiaffeggiò duramente su entrambe le guance prima di darmi un pugno allo stomaco. Iniziai a piangere silenziosamente, una mano sulla mia guancia che bruciava per il colpo.
Ritirai la mano e vidi una sottile linea di sangue. La donna indossava degli anelli sulle dita, quando mi aveva schiaffeggiato. Gli anelli probabilmente mi avevano tagliato, questo spiegherebbe la pungente, bruciante sensazione sulla mia guancia.
“Non dirai mai no qui, Hundin, non se vuoi vivere” mi sputò in faccia,  mentre mi ritraevo per il colpo basso. Reagii facendo un passo in avanti, mostrandole che non ero spaventata.
“Vivrò” ringhiai, lei indietreggiò e sorrise maliziosamente.
“Allora dammi la preziosa collana del tuo paparino, s’intona alla mia uniforme”.
Lentamente e con riluttanza, sciolsi la collana da dietro, e gliela porsi. Lei sorrise, sputandoci sopra e strofinandola per farla splendere, poi se la mise al collo magro.
“Sono Blokova Heather. Dovete rivolgervi a me, per qualsiasi cosa, come Blokova. Ed ora, dovete andare tutte lì” , disse, indicando un corridoio lungo e stretto. Rabbrividii dal nervosismo, ma neanche il freddo aiutò.
“Schnell, zugangi, se non avete ancora capito cosa significa, sarà meglio per voi che lo impariate velocemente, o morirete”. Capii che significava “veloce”, o “presto”. Ci affrettammo tutti per il lungo corridoio,  e ci trovammo in un’altra grande stanza, vuota. La piccola Rivkah venne affianco a me ed io la strinsi forte tra le mie braccia, come per proteggerla. Donne e ragazze iniziarono a parlare tra loro prima del ritorno di Heather, e quando lo fece, era più scorbutica di prima.
“Silenzio! Silenzio!” urlò, alzando le mani come se avesse autorità su di noi. “ Dato che puzzate e siete più sporchi della spazzatura per il vostro viaggio qui, dovete fare una doccia. Spogliatevi qui, e fatelo in fretta così possiamo tenervi composti” . Eliana restò a bocca aperta, stringendo più forte il suo bambino.
“Proprio qui? Davanti a tutti? “ Heather sembrava disgustata e sconcertata.
“Non avete ancora imparato la prima regola qui? Farete qualunque cosa vi diciamo di fare, e non replicherete. Ora spogliatevi velocemente, prima che i soldati maschi entrino. E tu” indicò verso di me “ sciogliti la treccia” . Annuii, chiedendomi il perché.
Cominciammo tutte a spogliarci lentamente. Mi chinai e lentamente sciolsi le scarpe, pensando tutto il tempo; cosa sarebbe accaduto dopo?
Dopo dieci minuti, eravamo tutte in piedi e nude, tremanti dal freddo. Ero vicina a mia madre, lei mi stava sciogliendo la treccia, lunga e stretta. La porta si spalancò, e due guardie di sesso maschile entrarono. Mi chinai, i miei lunghi capelli che coprivano il seno nudo e le mani che cercavano di coprire tutto il resto. Come osavano mandare i maschi per venire a vedere le donne, quei bastardi malati. Alzai lo sguardo, notando che una delle due guardie era Duncan. Il suo sguardo offuscato che cercava di non guardare il mio corpo nudo. Non osai tradire le sue regole e ammettere che sapevo chi era.
“Nelle docce signorine, e poi dal barbiere” . Quasi soffocai quando la mia testa scattò. Duncan non mi guardava, le sue labbra contratte in un sogghigno quando vedeva le altre ragazze nude. Chazzer malato. Non ci pensai molto, barbiere non poteva significare nulla, non poteva significare nulla, cercai di rassicurarmi quando le guardie ci spinsero alle docce.
Guaii quando l’acqua fredda mi colpì la schiena, faceva un freddo glaciale. Provai ad assorbirlo, come provai a lavare il mio corpo, e i capelli lunghi, cosa difficile da fare dato che non ci avevano dato del sapone. Inclinai la testa all’indietro per bere un po’ d’acqua. La gola mi ringraziò profusamente quando bevvi fino ad avere lo stomaco pieno. Improvvisamente l’acqua si arrestò e fummo introdotte da soldati urlanti e da guardie nella stanza accanto.
I nostri vestiti erano scomparsi, e non avevamo nulla con cui cambiarci. Neanche degli asciugamani per asciugarsi. Tremai, stringendomi nelle spalle incrociando le braccia sul mio petto nudo. Alcune ragazze iniziarono a piagnucolare e dovetti ricorrere a tutto il mio coraggio per non unirmi a loro. Aspettammo dieci minuti, tremanti, nella fredda stanza oscura quando una porta si aprì dall’esterno e Duncan entrò a grandi passi, un debole, tetro prigioniero sotto il suo braccio.
“Ecco il barbiere. Voi donne farete una fila e faremo questo lavoretto. Niente capelli, niente pidocchi” . Una mano lasciò il petto per stringere i miei capelli. Guardai Duncan, il quale ancora allontanava il suo sguardo da me, ma notai che sorrideva quando vedeva gli sguardi terrorizzati sui volti delle ragazze. Guardai con orrore quando il cosiddetto barbiere, per niente esperto, tagliava i capelli delle donne, di solito tirando via grandi ciuffi con le sue grandi forbici. Fu subito dopo la prima donna che iniziai a frignare, ma non ancora a piangere; tentando ancora di essere forte. Mia madre si alzò e cercai di guardarla orgogliosamente quando i suoi capelli vennero rasati, l’ammirai, sapendo che non avrei mai potuto essere orgogliosa come lei. La piccola Rivkah urlò e singhiozzò come il mio pensiero si rivolse a lei, mia madre la strinse forte quando il barbiere le tagliò i piccoli ricci, facendola singhiozzare più forte.
Quando arrivò il mio turno, vidi la testa di Duncan scattare, sentendomi imbarazzata tutto il tempo.
Duncan non distolse lo sguardo quando emisi un piccolo gemito, sentendomi molto infantile, soprattutto quando tutte le donne più anziane mi fissarono, alcune con vergogna, altre con pietà. Iniziai a singhiozzare quando iniziò a rasarmi grandi ciuffi di capelli e chiusi gli occhi, non volendo guardare nessuno, e fregandomene di restare forte. Quando terminò il suo lavoro, aprii gli occhi e vidi lunghe ciocche e pezzi di capelli sul pavimento, mi morsi il labbro per non gridare, e mia madre mi strinse tra le sue braccia. Non osavo mettere una mano sulla mia testa per vedere cosa era rimasto dei miei capelli. Guardai Duncan, il quale sogghignò soltanto per il mio momento di debolezza,  e quando incidentalmente camminai accanto a lui per raggiungere le panche, rise un po’, ed io resistetti dal voltarmi e dargli uno schiaffo.
Ci sedemmo su una panca per molto tempo, nude, senza capelli e tremanti. Dopo un po’,  non si avvertiva più il tempo che passava e l’unico suono che si udiva era lo snick-snack delle forbici e l’urlo occasionale o il pianto delle vittime del barbiere, nessuno tanto isterico quanto il mio.
Tempo dopo, Heather entrò di nuovo nella stanza, osservandoci tutti, ed una volta che i suoi occhi incontrarono i miei, mi squadrò sorridendo vittoriosamente. Guardò Duncan, e la vidi lanciargli un sorriso ammiccante, e lui lo ricambiò gravemente.
“Schnell! Sbrigatevi, nella stanza accanto! Avete bisogno di vestiti!” ci alzammo tutti ed io presi la mano di Rivkah, guidandola con me. Lei iniziò a succhiarsi il pollice, e notai che le sue labbra cominciavano a diventare blu. La stanza aveva un lungo tavolo con vecchi, vestiti disgustosi che sembravano shmatte. Feci una smorfia prendendo esitante una maglia blu.
“Scegli, Ebrea” disse lei, rivolta a me “ Non puoi essere schizzinosa adesso” .
Le parole precedenti di Duncan mi risuonarono in testa.
 
“Non sarai trattata come una Prinzessin, e quasi certamente non ci somiglierai nemmeno”
 
Aveva ragione, i capelli rasati, i vestiti logori. Certamente non adatti per una principessa. Nel mucchio raggiunsi e tirai fuori un vestito rosa, fortunatamente non puzzava così tanto ma non mi avrebbe tenuta al caldo, ed il tessuto era scomodo. Lo poggiai sul braccio velocemente e sussultai di pura gioia quando trovai un paio di vecchie mutande e una canottiera da indossare sotto il vestito. Non importava se era usato e vecchio. Solo trovare qualcosa qui sembrava un miracolo. Indossai tutto velocemente. Il vestito non mi stava bene, era informe e prudeva, e ci tremai dentro. Provai a non pensarci aiutando la piccola Rivkah a scegliere un paio di pantaloncini blu e un top verde. Sfortunatamente, non riuscii a trovare un paio di mutande per lei. Trovai due maglioni un po’ troppo larghi per noi e ne indossai uno, grata per il poco calore che forniva sul mio sottile vestito.
Una volta vestite, fummo subito introdotte in un’altra stanza. Fummo costrette a fare una fila al termine della quale ragazze e donne si sedevano ed un uomo lavorava su di loro, non riuscivo a vedere cosa stava facendo dal mio posto in fila, così aspettai impaziente il mio turno. Quando toccò a me mi sedetti ed un uomo con un volto senza sorriso mi guardò tristemente.
“Qual è il tuo nome? E l’età?”
“Courtney. Courtney Politzer. Ho diciassette anni”. Abbassò tristemente lo sguardo e premette una cosa dura di metallo sul mio braccio. Provai a togliere la mano, ma me la trattenne con l’altro braccio, espertamente dato che ci aveva avuto a che fare almeno un milione di volte. Faceva davvero male, soffocai i singhiozzi ed iniziai di nuovo a piangere. L’ago pungeva quando toccava la mia carne, e quando il tatuatore lo allontanava per ricaricare velocemente l’inchiostro, la pelle bruciava, e potevo vedere una sottile linea di sangue dove il mio braccio era abituato ad essere puro e indenne. Quando finì sul mio braccio lessi J17492.
“Qualunque sia stato il tuo nome, scordatelo. Ricordati il tuo numero, o morirai” mi alzai quando gridò “Il prossimo!” e vidi mia madre che stringeva in grembo una piangente Rivkah quando anche il suo braccio fu tatuato. Dopo quella che sembrava un’eternità, fummo tutte assegnate ad una baracca. I muri erano scarni e scoloriti, i ratti correvano senza una meta, come solo per spaventarci.
Ero disgustata alla vista. Quelli che sembravano dei letti a castello erano disposti in giro, ce n’erano molti. Io e mia madre coricammo Rivkah in uno di essi, con la promessa di cibo e calore per l’indomani.
Improvvisamente, un rumoroso bussare arrivò dalla porta ed una donna andò ad aprire. Un soldato stava in piedi all’ingresso, osservandoci tutte,i suoi occhi che s’imbatterono in me.
“Il Comandante Duncan mi ha chiesto di scortare il numero J17492 ai suoi alloggi” affermò, ed io spalancai gli occhi. Dopo tutti gli eventi già accaduti oggi, cos’altro avrebbe potuto infliggermi? Mi alzai cupamente, ignorando le occhiate scioccate di mia madre, di Leah, di Eliana, e di tutte le altre donne, e lasciai che il soldato mi scortasse ai suoi alloggi.
Attraversammo molti luoghi e sale mentre notavo che i comandanti sembravano tutti divertirsi. Resistetti alla tentazione di sputare a terra. Mormorai “diavoli dall’inferno” sotto il mio respiro, non abbastanza forte da farmi sentire. Mi guidò nella stanza scura e una volta lì, mi spinse dentro e chiuse la porta. Duncan alzò lo sguardo dal suo posto sul letto e mi fece segno di sedermi. Mi osservò dall’alto in basso, anche passando una mano sulla mia cenciosa testa macellata e togliendomi il maglione per esaminare il mio vestito rosa e informe.
“Ti avevo detto che non saresti somigliata ad una Prinzessin…” disse tranquillamente dopo un po’, distogliendo amaramente lo sguardo, io fissavo il pavimento ma lui mi alzò rozzamente il mento.
“Non potevi scegliere un abbigliamento diverso, però? Un vestito non è adatto a questo ambiente, dovrai lavorare, non scorrazzare da una festa all’altra. Ti ammalerai subito. Dovevi solo sembrare una Prinzessin, non è vero?”
“Non somiglio ad una Prinzessin” , sospirai amaramente. Per un istante mi poggiò una mano sulla faccia, poi subito si alzò e la tolse, come se gli bruciasse avere una mano sulla mia faccia. Strofinai la zona dove prima vi era la sua mano, tentando di sbarazzarmi del tocco persistente e della sensazione di sporcizia che aveva lasciato sul volto.
“Ti sei resa ridicola oggi, singhiozzando in quel modo. Sono solo capelli, non è la fine del mondo, uccellino” Si prese acidamente gioco di me, facendomi sentire imbarazzata ed inferiore. Non sembravo spesso una debole, ma odiavo quando la gente mi vedeva in quello stato. Non osavo parlare, già troppo irritata per l’esito di quel giorno per fornire una rimonta o una controffensiva.
“Avresti potuto avvertirmi” finii col dire. Era tutto quello che potevo dire al momento. Lui sospirò e mi guardò, un accenno di un sogghigno sulla sua bocca.
“Avrebbe rovinato tutto il divertimento” . Volevo dargli uno schiaffo così forte, lo desideravo ardentemente, quel bastardo egoista. Stupido bastardo Tedesco.
“Tirati su uccellino, le cose non peggioreranno più di tanto. Ti ho appioppato un lavoro facile.Non puoi sbagliare in nessun modo” .
“Che lavoro?” chiesi docilmente.
“Servizio di lavaggio stoviglie, insieme a servire il cibo ai tavoli durante i pasti” disse con un sogghigno. “Ho pensato che per una Prinzessin come te sarebbe stato meglio un lavoro del genere che trainare il legno” Aggrottò le sopracciglia quando non risposi, ed iniziò a giocherellare leggermente con i miei pollici.
“Non so come fare dei lavoretti così, perché nel shtetle, avevo persone che li facevano per me” Lui alzò gli occhi su di me e mi guardò semplicemente, rimproverandomi con lo sguardo.
“Tu sei davvero, davvero una Prinzessin. Non ti preoccupare, sono sicuro che puoi imparare abbastanza velocemente. Qualcosa mi dice che sei una che impara in fretta. Inoltre, questo lavoro non ti farà ammalare tanto velocemente” . Al pensiero del lavoro stesso, pensai al cibo. Mi sentii improvvisamente molto affamata. Non sono mai stata una che mangia pesantemente, ma niente cibo per tre giorni era troppo. Gemetti e Duncan aspettò che mi spiegassi.
“Ho fame. Non mangio da giorni. Sono sicura che non hai mai sentito questa sensazione, Tedesco” commentai malignamente mentre lui, semplicemente, ridacchiava cupamente. Si girò, e frugò in una piccola borsa di tela ruvida, dalla quale tirò fuori una mezza fetta di pane.
“Ho capito che ne vorresti un po’, Ebrea, tutti sanno come ci si senta ad essere affamati. Ma questo pane ha un prezzo” .Teneva il pane verso di me quando sentii il mio volto infiammarsi. Anche se non volevo accettare il pane, non ho potuto fare a meno di chiedermi quale fosse il “prezzo”.
“Che tipo di prezzo, non ho soldi con me se è quello che intendi”. Iniziò di nuovo a ridere,  e giocò col pane come se fosse una palla, soltanto lanciandolo in alto e prendendolo mentre io lo fissavo affamata.
“Sono un uomo, Prinzessin, e chiedo favori. Favori sessuali” affermò senza mezzi termini mentre il mio volto diventò rosso al pensiero. Fare sesso con un Tedesco era una cosa impura, volevo solo un uomo Ebreo, e non avrei mai toccato questo mostro se potevo farne a meno.
“No. Mai. Non toccherei mai un sudicio, viziato, chazzer che gode a uccidere come te. Neanche se stessi per morire”. Lui si strinse nelle spalle, gettando il pane di lato e disse “ come vuoi” . Il mio stomaco brontolò mentre guardavo così tanto il pane e mi sentii uno schifo perché il pane era andato, anche se non avrei mai fatto quello che mi aveva chiesto.
“Che vuoi farmi stasera?” chiesi preoccupata, chiedendomi se non avesse intenzione di farmi peggio dell’ultima volta. Rabbrividii, iniziando a tremare.
“Ho deciso che hai passato abbastanza oggi. Penso di voler solo conoscere un po’ la piccola Prinzessin stasera”. Restai a bocca aperta; un Tedesco voleva conoscere me, un’Ebrea. Qualcuno che disprezzava così tanto. Perché mai vorrei conoscerlo? Sebbene fosse bello, era un mostro. Un dannato mostro dall’inferno che uccideva piccoli bambini, donne e uomini per il proprio piacere.
“Perché mai dovrei raccontarti di me stessa? Ti odio. Sei un fottuto mostro! Puoi rivedere tutto quello che è successo oggi, e non sentire un cazzo di niente! Uccidi i bambini e gli indifesi, donne e uomini per il tuo stupido piacere da egoista. Sei figlio di una fottuta puttana, e non vorrei mai, mai avere a che fare con tipi come te”. Ridacchiò ancora e i suoi occhi si offuscarono. Prima che me ne rendessi conto, mi lanciò sul pavimento e si mise a cavalcioni su di me. Mi prese a pugni in faccia dove faceva più male, ed io sibilai dal dolore.
“Sì ma, non hai realmente una scelta. Sei il mio giocattolo. Potrei anche stuprarti subito, e fregarmene di farti del male. Ti sto dando una scelta, nessun altro Tedesco la darebbe ad un’Ebrea come te. Allora, quale sarà la tua, Prinzessin?” sospirai tremante, e mi portai le ginocchia al petto. Non avevo realmente una scelta in questa situazione, o essere violentata, o soltanto parlare con un Tedesco.
“Cosa vuoi sentire?” borbottai amaramente, gli occhi rivolti allo squallido pavimento.
“Raccontami di te, e fanne una storia. Tutti i bastardi qui sono stupidi e senza fantasia” rispose irriverente e si appoggiò contro un muro, guardandomi con i suoi occhi blu intenso.
“A casa, vivevo con mamma e papà, ed eravamo felici” .
“Perché eravate ricchi?” m’interruppe bruscamente Duncan, lanciandomi un’occhiata gelida.
“No. Perché papà era ancora vivo” tagliai corto sollevando il mento, non ero così superficiale da pensare che i soldi facevano la felicità.
“E’ morto in uno dei nostri campi?” chiese Duncan compiaciuto.
“N-no. Una malattia che si stava diffondendo l-lo colse” balbettai, il mio orgoglio che svaniva nel giro di pochi secondi mentre fissavo lo schifoso pavimento sporco, osservando un ragno che si accingeva a catturare la preda. “E-e anche se…anche se il m-m-medico diceva che si sarebbe…” mi fermai, soffocando un singhiozzo. “..ripreso…non lo fece”. Le lacrime scorrevano sulle mie guance e non mi preoccupai di asciugarle, non m’importava.
“Smettila di piangere” disse Duncan duramente, poggiando il suo pollice sotto il mio mento, costringendomi ad incontrare i suoi occhi blu.
“Non hai ancora sofferto nulla. Ritorna da tua madre, avrai bisogno di dormire per domani”. Sogghignò ed indicò la porta. Mi alzai goffamente ed inciampai nei miei due piedi mentre quasi correvo alla mia baracca.
 

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Capitolo 3
*** Imparare le regole ***


La prima notte nel campo fu la più difficile. Nessuno poteva passare la notte senza piangere o senza un incubo che disturbasse il sonno tanto necessario. Io non facevo eccezione a questa tacita regola e restavo sveglia ore sdraiata sul mio maglione sulla mia mensola di legno a piangere.
Perché eravamo quelli soggetti a questo orrore? Cosa avevamo fatto di male? Queste domande senza risposta mi attraversarono la testa più volte, mentre più lacrime scorrevano sulle guance.  Fui improvvisamente felice che papà non era qui a vedermi così. Cosa avrebbe pensato? La mia dignità andata, i capelli massacrati e costretta ad indossare vecchi, consunti vestiti puzzolenti. Insieme alla fame che mi avrebbe presto sommerso completamente. Mi venne in mente però che non sapevo esattamente cosa papà avrebbe pensato di me in questo momento.
Mi girai e scacciai il pensiero, provando ad immaginare cosa sarebbe successo il giorno dopo.
Mi chiedevo cosa poteva succedere; peggio di oggi?
Ricordai vagamente Duncan che diceva qualcosa a proposito di un lavoro. Qualcosa a proposito di un lavoro facile; non ci riflettei molto perché ero troppo stanca.
Il mio stomaco brontolò di nuovo quando ricordai la mia precedente conversazione con Duncan. Ricordai affamata il pane, e quanto mi sembrava buono dalla fame.
“Forse avrei dovuto fare quello che mi ha chiesto. Sono così affamata, e non so neanche quando mangerò. Per una notte non sarebbe stato così male farlo…”pensai avidamente. Scossi la testa con rabbia, sbattendola contro la fredda asse per togliere quel pensiero dalla testa. Pensare a cosa mi avrebbe fatto Duncan mi fece rabbrividire. Sudicio schmeisser malato.
Frustrata, cercando di pensare a qualcosa di meglio che a quello chazzer rivoltante, chiusi gli occhi. Perché ha scelto me tra tutte le ragazze qui? Ce n’erano alcune molto più carine, anche se senza capelli e a digiuno. Sono sicura che ci sarebbe qualche ragazza disposta a fare le sue azioni peccaminose. Allora perché io?
Alla fine mi addormentai, pensando al pane ed alla fresca ch’allah di mamma. Non sognai quella notte, e lo presi come un piccolo miracolo di Dio.
Mi svegliai quando la porta della nostra baracca si spalancò,ed una guardia forte e malfida entrò.
“Voi Ebrei venite fuori ora se volete del cibo, schnell” disse burbero prima di uscire sbattendo la porta brutalmente così come è venuto.
Mi alzai, stropicciandomi lentamente gli occhi stanchi, poi senza pensarci mi strofinai la testa dolorante, sentendo per la prima volta cos’era rimasto dei miei capelli, un tempo belli e lunghi. La maggior parte era stata rasata, ma sentivo ancora dei ciuffi che sporgevano goffamente. Resistetti all’impulso di emettere un grido lamentoso e scesi dalla mia mensola, rabbrividendo quando il freddo colpì le mie spalle nude.
Raccolsi subito il mio maglione dalla mia mensola e lo infilai. Rabbrividii quando non mi aiutò contro il freddo intenso e velocemente mi avvicinai a mia madre, ancora profondamente addormentata.
“Mamma…mamma svegliati, ci daranno del cibo, se ci sbrighiamo. Andiamo” le sussurrai dolcemente scuotendola finchè lei non si svegliò di soprassalto. Mi diede un’occhiata e mi tirò vicino a lei, e la abbracciai per riscaldarmi. Lentamente ci alzammo tutti nella nostra baracca e velocemente ci mischiammo fuori dove si era già formata una lunga fila. Aspettammo in piedi con impazienza, tremando dal freddo.
Passò quasi mezz’ora- o era quello che sembrava per la mia mente affamata- prima che avanzassimo a un tavolo con accatastate ed ammaccate ciotole di metallo. Ci venne detto che quelle erano le nostre ciotole per tutto; cibo e acqua per lavarci, anche quando non ci sentivamo bene. Feci una smorfia, ma sentii che già sapevo che questo era il meglio che potevamo ottenere.
Ringraziai la giovane ragazza che mi porse la ciotola, e la osservai curiosamente. Aveva una scomoda ammaccatura al centro, che spuntava in mezzo. Questo mi avrebbe aiutato a ricordare che era mia, conclusi felicemente, procedendo nella fila verso persone con gigantesche pentole. Le osservai avidamente, sperando che ce ne avrebbero dato abbastanza per riempirci. Guardai la mia piccola ciotola accigliata.
La fila avanzò ulteriormente, le nostre ciotole furono presto riempite con un mestolo con quella che sembrava una specie di brodaglia e ci fu consegnato un pezzo di duro pane nero.Lo stomaco brontolò ed iniziai a mangiare affamata proprio lì e subito e, nonostante il pane insipido e la zuppa acquosa, era tutto buonissimo per il mio stomaco più che vuoto. In dieci minuti il mio cibo era sparito e non avevo niente da fare che osservare tutti che mangiavano silenziosamente. Quasi tutti sembrarono finire nei pochi minuti che seguirono, non esitando a mangiare la povera porzione di cibo. Ci fermammo poi alle baracche per mettere le ciotole sulle nostre “mensole da sonno”, non volendo perderle o portarle in giro tutto il giorno.
“Zugangi al centro del campo, schnell!” urlò la nostra Blokova dall’esterno e tutti ci affrettammo così non avrebbe avuto una ragione in più per odiarci o farci male in qualche modo.  Una volta arrivati tutti ci fece stare in una grande fila davanti a lei. Ci diede calci e schiaffi come le pareva, bersagliando me più duramente per un motivo a me ignoto. Questa volta non gridai per l’abuso, almeno non esternamente. Quando finì con l’abuso fisico, assegnò un lavoro a tutti; uscì fuori che Duncan aveva mantenuto la sua promessa. Presi posto al servizio cucine; non ero sola, ma non sapevo che anche Eliana e due ragazze fossero state assegnate qui. Tutti gli altri erano per lo più stati assegnati ai capannoni di smistamento.
Sentii una fitta al cuore quando anche mia madre fu assegnata ai capannoni di smistamento. E se mi fosse successo qualcosa mentre era lì, ed io mi trovavo in cucina? Come avrebbe potuto raggiungermi in tempo? Sembrò avere il mio stesso pensiero perché i nostri occhi si incrociarono, e quando la Blokova ci congedò affinché iniziassimo a lavorare ci abbracciammo un’altra volta per pochi minuti prima che lei mi dicesse che dovevamo iniziare a lavorare e che mi avrebbe presto rivisto.
La salutai, e camminai con Eliana in direzione delle cucine. Camminammo per circa dieci minuti, e a circa metà strada portai in braccio il bambino di Eliana per lei perché si lamentava che le braccia le facevano male per averlo stretto tutto il giorno. Cullai il bambino di quasi due anni tra le mie braccia e lo feci rimbalzare delicatamente. Stava dormendo, i suoi occhi verde-acqua chiusi e il vento che gli scompigliava i capelli biondo chiaro. Sorrisi e gli diedi un bacio sulla fronte, poi mi incupii. Chi avrebbe mai potuto pensare che una creatura così innocente e carina potesse essere stata concepita da un Tedesco buono a nulla? Non lascerò mai che un Tedesco mi tocchi e abusi di me a quel modo, ripromisi a me stessa. Mai.
Quello che mi aveva fatto Duncan non contava, ero legata e non avevo altra scelta. Non accadrà mai di nuovo e se non sarà così, andrò a farmi bruciare nella ciminiera piuttosto che lasciarmi violentare da lui. Piuttosto, e se finissi con un bambino, proprio come Eliana? Come avrei potuto prendermi cura di lui in questo campo quando a malapena riuscivo a prendermi cura di me stessa? In più, cosa avrebbero fatto questi brutti Tedeschi vedendo una donna incinta nel campo? Non ne vedevo in giro. Rabbrividii. Non volevo più conoscere davvero la risposta alla mia domanda perché non sarebbe stata una risposta che mi avrei voluto sapere.
Guardai di nuovo il bambino tra le mie braccia e gli scostai gentilmente una ciocca di capelli dagli occhi. Sebbene fosse semplicemente bellissimo, non avrei mai potuto capire perché Eliana decise di tenerlo invece di abbandonarlo. Era un mostro mezzo-Tedesco. Ricordai che era quasi morta per darlo alla luce. Non rischierei mai la mia vita per un mostro,bambino o non bambino. Scossi la testa come per dare conferma al mio pensiero quando il bambino si chinò sulle mie braccia e lo feci riposare su un fianco. Arrivammo quindi alle cucine ed iniziammo a lavorare.
Dopo aver pulito una pentola di zuppa e raschiato tutti i pezzi di patate sul fondo, la schiena e le braccia facevano male. Questa era la cosa più difficile che avessi mai fatto in vita mia; non avevo mai lavorato prima ed iniziare adesso era un’agonia. Mi sedetti contro il muro sporco, provando a fare una pausa. Improvvisamente la porta si spalancò e Duncan entrò, osservando le altre ragazze che lavoravano duramente, gli occhi verde acqua che si soffermarono su di me, l’unica che stava facendo una pausa.
“Tu, nel kleid rosa. Dovresti lavorare. Qual è il tuo numero?” mi morsi il labbro e cercai di ricordare il mio numero. Quando non mi venne in mente, guardai sul mio braccio e risposi docilmente “J17492” . Mi schiaffeggiò senza avvertirmi, e mi morsi il labbro più forte, provando ancora a non gridare e sembrare debole di fronte a lui. Se lo avessi fatto, ne avrei sicuramente sentito parlare più tardi.
“Devi sempre ricordare il tuo numero, sudicia shmatte. Altrimenti, muori. Capito?”
“Capito” dissi senza batter ciglio. Sapevo che aveva ragione; dovevo ricordare il mio numero perché una guardia diversa, molto meno “clemente”, mi avrebbe sicuramente mandata a cremare.
“Ora, dovresti lavorare. Ti senti malata? Puoi lavorare?” chiese con falsità, chiaramente mettendo su uno spettacolo per gli altri.
“Sì signore. Posso lavorare. Mi sento perfettamente, signore” risposi, in piedi dritta e guardandolo negli occhi. Mi squadrò con apprensione e sorrise.
“Be’, solo la gente che può lavorare può vivere qui. Ma posso dedurre che stavi facendo una pausa. Chiaramente, non puoi lavorare. Pertanto, devi morire”. Spalancai gli occhi quando le lacrime iniziarono a scorrermi sulle guance. Diceva sul serio? Aveva intenzione di farmi morire? Non potevo morire adesso! Avevo bisogno di rivedere mia madre ancora una volta, e non mi ero ancora sposata, e non avevo avuto neanche dei figli, pensai istericamente. Davvero la mia vita finiva così? Iniziai a singhiozzare, e caddi sulle ginocchia, quasi supplicandolo.
“Posso lavorare! Per favore, non farmi morire! Posso pienamente lavorare, e non farò mai più una pausa, per favore!” ,singhiozzai, guardando le sue scarpe nere di vernice invece dei suoi occhi blu. Esitò, poi mi diede un calcio ed io andai a sbattere contro il muro, ancora singhiozzando.
“Sudicia Hundin, non mi parlare in questo modo. Ti risparmierò, questa volta. Ma fai un altro passo falso e ti ucciderò io stesso. Capito?” ringhiò mentre io potevo solo annuire. Mi afferrò per il collo del maglione e mi tirò su con uno strattone, costringendomi a guardarlo.
“Non è abbastanza. Dimmi, quanto sei grata che abbia risparmiato la tua fottuta, indegna vita, Hundin?” deglutii, lo chazzer malato mi faceva lavorare per questo, facendomi sembrare debole ed indifesa davanti a tutti.
“Grazie, grazie mille signore. Prometto che lavorerò due volte di più d’ora in poi, grazie a voi. Grazie mille”. Dissi, mentendo a denti serrati mentre ancora piangevo. Avvicinò il volto al mio e mi sussurrò all’orecchio, facendomi scorrere un brivido in tutto il corpo:
“ Le prenderai stasera, Channa. Non abbiamo ancora finito, verrai punita per questo spettacolino” iniziai a tremare, rannicchiata dalla paura. Mi spaventai soprattutto per quello che mi aveva fatto l’ultima volta che mi aveva chiamato Channa. Ciò mi paralizzò dalla vita in giù, lui mi lasciò andare, lanciandomi in direzione delle altre ragazze. Come risultato, mi scontrai contro una ragazza che stava trasportando un secchio d’acqua. Tossii fuori l’acqua, sputacchiandola in giro e stringendomi tra le braccia perché stavo congelando. Lui ridacchiò semplicemente di noi e diede anche alle altre ragazze un avvertimento prima di andarsene tanto bruscamente quanto è venuto.
“Oh! Dovevi proprio fare una pausa adesso non è vero? Ci ho messo dieci minuti per prendere quell’acqua! Ora devo andare a prenderla di nuovo! Complimenti” sputò la ragazza che aveva lasciato cadere il secchio d’acqua, prima di precipitarsi fuori per riempire il gigantesco contenitore. Eliana mi aiutò a sedermi e mi porse un asciugamano sporco ma asciutto, ed io lo accettai con gratitudine, solo trasalendo leggermente.
“Non preoccuparti di lei, è solo irritata per il fatto che deve di nuovo portare quell’acqua. Stai bene?” annuii, tremando ancora per la pungente aria fredda che colpiva i miei vestiti bagnati.
“E’ colpa mia, lavorerò di più, te lo prometto” . Lei annuì seccamente, e quando la ragazza tornò con l’acqua ci mettemmo tutte a strofinare i pavimenti e i muri della cucina. Fu atrocemente doloroso, e quando terminò anche la cena tornai alla mia mensola, mi faceva male tutto. Strofinai la schiena dolorante per la quinta volta mentre mi accingevo a raccontare una storia a Rivkah per metterla a letto. Era stata tutto il giorno con una delle ragazze più grandi, ed era infelice, i suoi occhi offuscati e sconvolti. Mi arrampicai sulla sua mensola lentamente e faticosamente, ed iniziai a raccontarle la stessa vecchia storia della principessa quando lei mi interruppe.
“Courtney, potresti inventare una storia, questa volta? Non voglio sentire di nuovo la stessa storia sulla prietzeth” sussurrò delicatamente, mentre le carezzavo le guance.
“Bene, be’, c’era una volta questa piccola bimba. E il nome della piccola bimba era…”
“Chaya!” mi interruppe. Ridacchiai e continuai.
“Il suo nome era Chaya. Era la bimba più carina di tutto il regno e…”
“ Courtney”. Mi chiamò mamma, in tono sconvolto. Mi girai per vedere cosa voleva quando improvvisamente notai la guardia sulla porta. Deglutii, non essendomi resa conto che era già ora di andare a vedere Duncan. Mi alzai, ma esitai quando una mano dietro di me afferrò la mia.
“Non puoi andare Courtney! Non hai finito di raccontarmi la storia!” Le lacrime già si stavano formando sui suoi occhi e presi un profondo respiro sedendomi un istante sul letto.
“Ti prometto che finirò di raccontarti la storia domani. Ora vai a dormire, più velocemente lo fai, e più velocemente avrai il finale della storia “. Mi alzai e la baciai sulla fronte prima di dirigermi verso la porta e lasciare che la guardia mi scortasse agli alloggi di Duncan. Camminavo lentamente, strofinandomi leggermente le braccia dal dolore che era da poco cominciato e che si fermò appena arrivammo. Meglio non dare a Duncan una ragione in più per punirmi.
“Siediti sul letto, Prinzessin” disse, una volta soli nella stanza, e chiuse la porta a chiave. Mi sedetti tremante, stringendomi dalla paura.
o 0 O 0 o
Piansi pesantemente quando mi sciolse le braccia, e per una volta non gliene importava. Le sue mani continuavano a vagare pigramente sul mio corpo nudo, prima di darmi finalmente il privilegio di vestirmi. Lo feci velocemente, provando ad ignorare gli spasmi sul mio corpo. Mi sentivo tradita dal mio corpo, odiai quando mi fece questo ma da qualche parte in fondo, mi sentivo soddisfatta. Rimossi la sensazione, cercando di convincermi che erano ormoni, o uno strano bisogno sessuale del mio corpo quasi adulto.
“Penso che tu abbia imparato la lezione stasera, Prinzessin. E non penso che vorresti impararla di nuovo, perché te lo insegnerò tante volte fino a quando non sarà sufficiente” . Annuii paurosamente, soffocando a stento un “Sì signore” prima di continuare a tremare come una foglia.
“Ora torna alla tua baracca, e non devi dire a nessuno cosa succede durante le tue piccole visite da me. Capito Prinzessin?”
“S-s-sì s-s-signore” soffocai prima che mi aiutasse rozzamente ad alzarmi. Questa volta, non esitai a correre alla mia baracca, piangendo tutto il tempo.

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Capitolo 4
*** Un altro punto di vista ***


Restai sveglio nel mio letto per un po’, riflettendo sugli eventi di stasera. L’avevo fatta sentire tradita, sporca, disgustosa. Ho violato l’unica cosa che era importante per lei, la sua purezza. Sebbene non le avessi fatto molto, non avevo intenzione di stuprarla, almeno non ancora. Non potevo stuprarla quando più se lo aspettava, dov’era il divertimento? Avevo bisogno di aspettare fino a quando non avesse fatto un passo falso, qualcosa di sbagliato. Qualcosa che mi avrebbe dato ragione per punirla. Mi distesi sui miei cuscini, sorridendo al pensiero. Eppure la mia mente si avventurò su un sentiero diverso.
Lei urlava, mi supplicava di fermarmi, ma ho continuato. Mi sentivo davvero bene per aver disonorato una sporca Ebrea e di averne tratto qualche fatto, ma non potevo fare a meno neanche di sentirmi male. Voglio dire, le ho letteralmente strappato via l’orgoglio, la dignità. Diavolo, ho anche preso la sua innocenza.
“No, non ti senti male, è solo una sporca Ebrea, come tutti gli altri” dissi tra me e me. Scossi la testa, provando ad eliminare i miei pensieri turbati. Mi hanno insegnato ad odiare gli Ebrei sin da quando ero piccolo. Erano diversi da noi, e sudici, e meritavano di bruciare nelle fiamme dell’inferno. Avevano più successo di noi, e bisognava che fossero soppressi prima che si rendessero conto del grande potere che avevano su di noi.
Ma, non ho potuto fare a meno di pensare, cosa avevano davvero fatto di male? Non hanno cospirato contro di noi e nemmeno pianificato di ucciderci, come stiamo facendo noi adesso con loro. Alcuni di loro erano brave persone. Ho visto alcuni di loro nel campo, cercando di fare le cose al meglio e di vivere difficilmente con le dure condizioni che gli diamo. E’ uno stile di vita il nostro modo di pensare di loro, conclusi dubbioso.
Mi girai, provando a sbarazzarmi dei miei pensieri erranti. Ugh, stupidi Ebrei che mi fanno pensare a loro. Penso che mi sfogherò su Prinzessin la prossima volta che la vedo. Oggi era solo il primo giorno, poteva essere ingannata ed umiliata facilmente. Aspetta fino a quando non avrà acquisito una certa conoscenza del luogo.
Schifo. Era uno schifo. Sebbene avessi accumulato tanto odio nei confronti degli Ebrei, e non potevo sopportare molti di loro, questo non significava necessariamente che dovevano morire. Mandati a lavorare ed imprigionati, forse; ma uccisi? Non era un po’ troppo estremo? Ho visto neonati usati dai soldati al tiro al bersaglio. Ho gassato personalmente mucchi di ragazzine come quella attaccata a Prinzessin. Ho separato famiglie intere.
o 0 O 0 o
Il giorno dopo ricevetti la notizia che la mattina seguente ci sarebbe stato un controllo. Sorrisi pensando che questo sarebbe stato il primo controllo di Prinzessin. Potrebbe risultare molto divertente giocarci. Prinzessin non sapeva ancora nulla della vita del campo, e questa sarebbe stata l’opportunità perfetta per giocare con lei.
Quello che non sapeva era che il comandante si aspettava che non ci fossero bambini sotto l’età di quattordici anni nel campo. Quindi, all’altezza di questa aspettativa, dovevano tutti nascondersi nella discarica. Certo, per noi era tutto uno scherzo perché lui sapeva che si nascondevano lì, lo sapevamo tutti. Era solo un altro modo per rendere le loro vite ancora più miserabili. Un senso di colpa mi tormentava in fondo allo stomaco ma me lo scrollai di dosso. Se i bambini non raggiungevano la discarica in tempo, erano spediti ad essere gassati, di solito venendo ingannati nel processo.
L’ho già visto succedere prima, l’inferno che ho fatto ai bambini. Non potevo farci nulla, anche se un crampo allo stomaco mi tormentava ogni volta che vedevo un ragazzino che non riusciva a correre velocemente alla discarica e farcela.
Sarebbe stata la punizione perfetta per Prinzessin, anche se non se la meritava. Non aveva ancora fatto nulla di sbagliato. Ma quando lo farà, questo scherzo le farà sicuramente ricordare quanto posso rendere la sua vita infelice.
La giornata passò in un’amara, lenta agonia. Degli Ebrei tentarono di ribellarsi, li spedii ad essere gassati. Catturai un uomo che stava rubando del cibo dalla cucina per sua moglie, mi supplicò di avere pietà di lui, sua moglie era incinta ed affamata. Ignorando di nuovo l’irritante sensazione alla pancia, l’ho scagliato contro il muro e gli ho calpestato una gamba, rompendola volontariamente. Quando arriverà il comandante domani e lo vedrà in infermeria, lo manderà ad essere gassato insieme a tutti gli altri che erano là o non riuscivano ad alzarsi dal letto.
Un forte dolore allo stomaco mi disse che questo era sbagliato. Non avrei dovuto far questo ad un uomo che stava solo cercando di aiutare la moglie. Il bambino sarebbe morto comunque, non importa quanto cibo avesse preso, mi dissi cupamente. Inoltre, sua moglie sarebbe probabilmente morta cercando di farlo nascere, o ammalandosi per qualche altra ragione. Qualche altra guardia l’avrebbe trovata e strappato quella merda vivente fuori di lei, uccidendo il neonato nell’azione. Non potevo farci nulla; quello era il sistema, c’erano delle regole alle quali dovevo obbedire e che dovevo seguire se volevo vivere.
Dopo aver consumato la cena e la mia serale bottiglia di birra lo stomaco mi faceva davvero male; come quando ogni volta che facevo qualcosa di sbagliato ad un Ebreo e passavo la notte a riflettere su quanto fosse moralmente sbagliato. Poco dopo, Prinzessin entrò,  avendo un contatto visivo con me prima di guardare il pavimento sporco.
“Cosa vuoi che faccia oggi?” chiese, trattenendo le lacrime. “Dovrei spogliarmi, signore? O volete farlo voi stesso?” continuò spaventata quando la sensazione nel mio stomaco diventò più profonda, facendomi rabbrividire.
“No, no, nulla del genere oggi. Vieni a sederti accanto a me” ordinai tranquillamente, accarezzando il posto accanto a me  sul letto. Lei si avvicinò in silenzio, alzando i suoi occhi onice per incontrare i miei affinché non la sgridassi per non avermi guardato. Senza una parola le presi il volto tra le mani e lo osservai lentamente cercando qualche segno di una malattia. La sua pelle aveva ancora la stessa carnagione scura, non troppo pallida, il che era un buon segno. I suoi occhi non sembravano troppo scarni, così mi rassicurai e lasciai andare il suo viso, guardando come il suo corpo si rilassò nell’azione.
“Come ti senti?” chiesi, volendo indagare ulteriormente sulla sua salute.
“In che senso, signore?” sollevai le sopracciglia, volendo sapere cosa voleva dire.
“Spiegati, Ebrea”
“Come mi sento fisicamente o emotivamente, signore?” disse con voce tremante. Mi fece un po’ male guardare come aveva paura di me per la notte precedente. Ciò fece riaffiorare le emozioni mascherate e nascoste nel mio guscio freddo di un cuore. Con tutto me stesso repressi questi sentimenti e misi su il ghigno più spavaldo di cui ero capace.
“Sorprendimi Prinzessin” vidi il suo volto contorcersi dalle diverse emozioni: rabbia, dolore, tradimento, e la lista continua. Rimasi in silenzio, guardandola lottare con i suoi sentimenti per vedere quale mi avrebbe almeno turbato.
“Mi sento bene, non mi sento malata, signore” disse finalmente dopo pochi minuti di silenzio. La sua testa si chinò verso il basso e la vomitevole sensazione riaffiorò. Diamine, perché riaffiorava adesso? Cosa c’era di così speciale in lei che mi faceva sentire di merda quando la ferivo? Perché era così diversa dagli altri? Ragazze tedesche, ragazze ebree, erano tutte uguali; ferisco, violento e abuso di entrambe.
“Be’, Prinzessin, ho delle notizie da darti” mi guardò torva ed io feci una smorfia, non sembrava sconvolta. Avrei potuto stuprarla. Non le ho fatto nulla di troppo cattivo, era lei che era esagerata.
“Hai intenzione di stuprarmi? O vuoi farmi qualcosa come mandarmi a morire?”
Ringhiai e la schiaffeggiai duramente sul volto senza pensare.
“Non parlarmi in quel modo, ora siediti dritta e non stare tutta depressa. So cosa ti ho fatto la scorsa notte. Piantala” sputai duramente. Lei tremò prima di fare quello che avevo detto e cercò di non sembrare tanto turbata.
“Domani avrai il tuo primo controllo. Il comandante girerà intorno al campo ed ispezionerà tutti per assicurarsi che nessuno sia malato. Tutti quelli che sono in infermeria e che domani non riusciranno ad alzarsi dal letto, non continueranno a vivere qui” Lei si limitò ad annuire, ed io sorrisi prima di continuare.
“Il comandante suppone che non ci siano persone sotto i 18 anni nel campo. Questo dovrebbe essere un campo per soli adulti” mentii, guardando il suo lento andare in crisi isterica.
“Così questo è quello che devi fare. Tutte le persone di età inferiore ai requisiti devono andare nella discarica, così il comandante non vi vedrà. E se fossi in te, mi toglierei i vestiti prima di andarci. Puzza di merda, e se vai con i vestiti, buona fortuna a sbarazzarti dell’odore”conclusi, godendo nel vedere la sua faccia abbattuta e dura.
“Va bene”
“E’ giunta l’ora di divertirsi” i suoi occhi mi supplicarono di non farle nulla, ma li ignorai e le presi il volto tra le mani, costringendola a guardarmi negli occhi, ed iniziai a baciarla, e stavolta non me ne fregava nulla che non voleva ricambiare il bacio.
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Mi svegliai e mi stiracchiai felice, ricordando gli avvenimenti della scorsa notte. Prinzessin stava per prenderle oggi. Vederla essere umiliata davanti a tutti i suoi piccoli amici Ebrei e alla sua famiglia sarebbe sicuramente stato il momento clou della giornata, conclusi. Trascorsi in fretta la mia routine quotidiana, mandando giù frettolosamente una leggera colazione ed affrettandomi a fare la doccia.
Mi allineai con le altre guardie Tedesche quando una grande auto bianca si fermò. Dato che ero stato incaricato, mi fu permesso di andare a salutare il comandante. Conoscemmo velocemente gli altri prima di iniziare la valutazione. Iniziò dalle baracche, e noi radunammo tutti quelli che erano malati a letto e che pensavano che se non fossero andati in infermeria, avrebbero potuto salvarsi. Poveri, stupidi bastardi. Strinsi i denti sottilmente mentre la valutazione continuava.
Appena uscimmo, sentii chiocciare- segnale che il comandante era qui per i bambini- e mi sedetti per vedere come il mio piano veniva messo in scena.
I bambini si stavano già accumulando nella discarica, togliendosi i vestiti vivaci e gettandoli a terra. Iniziai a ridere quando Prinzessin, sorprendentemente in ritardo da parte sua, corse alla discarica, dimenticandosi di togliersi il vestito e il maglione, e saltò nella sporcizia.
Mi vennero le lacrime agli occhi dalle risate quando il comandante mi guardò e poi iniziò a ridere tra sé e sé alla vista.
Lui andò all’infermeria mentre io restai a guardare il casino creatosi. I ragazzini iniziavano ad uscire e a rimettersi i vestiti mentre gli amici di Prinzessin circondavano la discarica, la più sconcertata era sua madre. Lei inciampò tentando di uscire da lì e cadde a terra di faccia. Non potei trattenere le risate e quasi mi piegai in due dal divertimento. La mia sensazione interiore mi schiaffeggiò letteralmente, ma questa volta lo ignorai allegramente, guardando come i suoi amici cercavano di tirarla fuori e come sua madre la sgridava per essere stata così stupida da correre nella discarica quando tutti la stavano cercando.
Si voltò arrabbiata, i suoi occhi scuri incrociarono i miei. Si accorse della mia espressione divertita e diventò rossa, chiaramente imbarazzata. Anche a distanza riuscivo a vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime quando i suoi amici la condussero via. Lo stomaco mi fece male e girai i tacchi, il sorriso non padroneggiava più il mio volto. L’ho ferita di nuovo, mi dissi cupamente tornando ai miei alloggi.
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Aspettai nervoso sul letto che Prinzessin entrasse. Mi sentivo uno schifo; e non potevo farne a meno, o negarlo. Come una sorta di scuse, le avevo preso un secchio d’acqua di medie dimensioni così avrebbe potuto lavarsi i vestiti in modo che non puzzassero malamente ogni volta che veniva a trovarmi.
La porta all’imrpovviso si aprì silenziosamente e lei entrò senza una parola, guardando a terra tutto il tempo.
“Mi sono preso la libertà di prenderti un secchio d’acqua così potrai lavarti i vestiti. Puzzi di merda”  Lei allora alzò gli occhi, ma non fece nulla, né chiedermi qualcosa, né annuire. Il suo volto era tranquillo, senza espressioni; non mostrando alcun segno di quel qualcosa che l’ha estremamente umiliata l’ora scorsa.
“Be’? Perché stai lì impalata? Inizia a spogliarti, Prinzessin, e lavati”. Il suo viso s’indurì, ma restò col naso all’insù ed incrociò le braccia intorno a sé.
“Non mi spoglierò di fronte a te. Hai già avuto un ottimo spettacolo questo pomeriggio” sputò. Stavo per ricordarle che avevo già visto tutto quello che aveva da offrire, quando un’idea migliore mi venne in mente. “Come vuoi” dissi prima di spingerla a terra. Oppose un po’ di resistenza insieme ad un urlo sorpreso. Attraversai la stanza in un gran passo, prendendo il secchio pieno d’acqua fredda e senza esitazione gliela gettai addosso mentre fissava il pavimento.
Sorrisi di piacere quando ansimò per l’acqua fredda. Alzò lentamente lo sguardo, ed aspettai la sgridata che stava per darmi, ma non successe nulla. Nessun espressione arrabbiata, nessuna parola che usciva dalla sua bocca, neanche un segno di umiliazione negli occhi. Sospirai, e la schiaffeggiai in faccia per farle dire qualcosa.
“Sì signore, volevate qualcosa?” . Feci correre una mano sulla faccia e mi sedetti sul letto.
“Vattene, adesso” .
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Passeggiavo per i capannoni di smistamento un paio di giorni dopo, semplicemente osservando abbastanza a lungo gli Ebrei che lavoravano duro per assicurarmi che stessero lavorando e che nessuno di loro sembrasse malato. Una volta finita l’ispezione mi stiracchiai e sorrisi, iniziando a dirigermi verso la postazione di lavoro di Prinzessin. Fischiettai un brano vago mentre camminavo, salutando occasionalmente le altre guardie con un brusco cenno del capo.
Entrando poco dopo in cucina, la vidi. Stava lavorando duramente lavando i pavimenti da sola, vidi gli altri andare a prendere più acqua. Dopo pochi istanti, si fermò e si riposò, strofinandosi le braccia ma tornando subito al lavoro. Per qualche ragione, mi sentii fiero di lei per aver ascoltato il mio avvertimento la scorsa volta. Sorrisi ammirato e mi appoggiai dietro il mio nascondiglio appartato.
Era così diversa dai molti Ebrei che avevo visto. La maggior parte di loro si lamentava, e non ci provava nemmeno, e si aspettava di essere trattata con lusso estremo. Quelli erano i primi che andavano nella ciminiera. L’avevo avvertita, e mi aveva ascoltato. Le avevo detto di non essere debole, e lei provava ad essere forte in pubblico. Le ho detto che era spazzatura, e che non avrebbe ricevuto trattamenti speciali, e lei lo ha accettato, senza replicare.
Le ho dato il nome Prinzessin per la sua natura orgogliosa e per lo stereotipo che fosse come tutti gli altri; lamentosa, che rende meno del previsto e che si aspetta ogni singola cosa su un fottuto piatto d’argento. A dispetto di questo tipico stereotipo, lei non lo era per niente e lavorava duro per provarmelo, quando già lo sapevo. Ridacchiai leggermente tra me e me; che ragazza che era.
Restai nel mio nascondiglio, semplicemente guardandola con estrema curiosità. Era una creaturina davvero strana; orgogliosa e che non lasciava mai che qualcuno la distraesse un momento, e subito dopo una cagasotto spaventata e piagnucolante. Quella notte, dopo averle giocato quello scherzo, avevo sentito qualcosa di strano. In realtà avevo lasciato che il senso di colpa mi sovrastasse invece di seppellirlo nel profondo degli oscuri meandri del mio cuore.
Come poteva essere così forte e coraggiosa quando tutto quello che avevo pensato di lei era un mucchio di stronzate?  L’avevo imbarazzata, e non se n’era importata ed era rimasta fiera. L’avevo violata, aveva continuato ad ascoltarmi e mi aveva permesso di continuare a farle cose che non mi avrebbe mai permesso di fare nella sua vecchia vita. Allora iniziai ad ammirarla, era così unica. Così speciale paragonata alle altre ragazze. Mi ritrovai più attaccato e a pensare molto di più alla mia piccola Prinzessin.

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Capitolo 5
*** Le prime morti sono le peggiori ***


Nota dalla vera Edwardandbella4evah:
Ho appena letto tutte le vostre meravigliose recensioni, gentili, belle e…così toccanti. Davvero, sono così allegre, ed amorevoli, mi hanno scaldato il cuore, e mi hanno fatto sorridere, dopo aver perso una breve gara di scrittura alla quale ho partecipato oggi. Mi piacerebbe ringraziare Kissina, per averla tradotta, e lasciarvi leggere questa storia che non ha fatto altro che portarmi gioia…Grazie. Grazie tantissimo. Non potrei mai ringraziarvi abbastanza, per quanto mi avete reso felice. Ci sono molte sorprese in serbo per voi,che leggete questa storia, e spero vi piaccia. Sentitevi liberi di contattarmi, o di visitare la mia pagina su Fanfiction.net, o su Deviantart, e parlare con me di persona (anche se siete italiani) . Scrivetemi a writergurl411@hotmail.com , e sarò più che felice di parlare con voi. Ho molte cose in serbo per voi, miei cari, perché ieri ho postato il finale alternativo ed il seguito della storia…
Godetevela, miei cari.
Baci,
~Ariel
 
Nelle poche settimane che seguirono mi abituai alla routine quotidiana. Sveglia, appello, caffè nero e pane duro, lavoro, ancora lavoro, zuppa acquosa e ancora pane, lavoro, ancora zuppa e pane, un’ora di attività serali, appello, Duncan e poi a letto. A poche settimane tra loro vi erano delle selezioni; sicuramente la prima era stata un passo falso per me, ma la seconda fu spaventosa. Il mio cuore batteva così forte che ero certa che tutti nella stanza lo avessero sentito. Ma, quando arrivò, il comandante ridacchiò semplicemente, mi pizzicò una guancia, e continuò a camminare. Dopodichè i controlli divennero parte della routine; e diventò semplice. Se uno lavorava sempre e non cedeva mai, non lavorava troppo lentamente, non diceva una cosa sbagliata al momento sbagliato, non minacciava o diceva qualcosa della Blokova alle sue spalle, non inciampava o si ammalava, allora c’erano delle possibilità di non essere scelti. Questa volta.
Contavo i giorni che passavano lentamente, contando ogni giorno in cui sopravvivevo in questo dannato posto. Le mie visite da Duncan sono state sempre meno forti e dolorose. Ho da poco accettato il fatto che non importa quanto urlavo o resistevo, nulla sarebbe cambiato; mi avrebbe solo inflitto più dolore, e le visite non sarebbero cessate, allora perché lottare ancora? Gli ho lasciato fare quello che gli pareva di me, gli ho lasciato sussurrare cose disgustose al mio orecchio, gli ho lasciato fare cose vili, gli ho lasciato accarezzare il mio viso e baciarmi come gli pareva. Mi spaventava quanto questo campo mi stesse cambiando; non ero resistente e indipendente come una volta, se lo fossi stata, sarei stata uccisa.
Mi stavo abituando al lavoro del campo, lentamente ma costantemente. Ora ci è stato dato il compito di preparare i pasti giornalieri, qualcosa per cui ci misi molto tempo ad abituarmi. Fortunatamente, pulire pentole e padelle insieme a preparare il cibo mi fornì il piccolo beneficio di poter raschiare qua e là piccoli bocconi. Ero affamata, come al solito. Le scarse porzioni che ci servivano non erano abbastanza. In poche settimane ero sicura di aver perso almeno un paio di chili; il mio corpo formoso adesso era più simile a un bastoncino, e non mi piaceva neanche un po’. Quanto peso potevo ancora perdere prima di ammalarmi per malnutrizione? Asciugai discretamente il naso che colava leggermente, rabbrividendo per la leggera corrente d’aria venuta dalle porte della cucina.
Eliana entrò trasportando un grande secchio di patate, assistita dalle altre due ragazze. Avevo iniziato a disprezzarle di nascosto. Non portavano nient’altro che guai, si lamentavano silenziosamente, ed incolpavano tutti tranne se stesse. Saranno scelte presto, se non subito. Mordendomi un labbro, feci una smorfia per la mia franchezza al fatto che due ragazze sarebbero state uccise perché non riuscivano a lavorare. In cosa mi aveva trasformato questo posto? Una volta ero una di quelle ragazze! Fortunatamente Duncan mi mise in guardia per il mio comportamento, ma queste ragazze non erano state così fortunate.
“Andiamo Courtney, ti insegnerò come preparare la zuppa. Devi impararlo prima del prossimo controllo o…bè, lo sai” disse Eliana, facendomi risvegliare dalle mie fantasticherie. Aveva sicuramente ragione, così la seguii al banco, tirandomi su le maniche del maglione. Indicò la patata con il pelatore, e mi mostrò come pelarla. Subito la seguii, pelando con qualche difficoltà la patata in linee rette, ma ci riuscii. Almeno così pensavo.
“Courtney! Attenta, quasi ti tagli!” Eliana mi avvertì piuttosto rumorosamente, facendo agitare il suo bambino che iniziò a contorcersi. Mi ritrassi quando cacciò un forte gemito, e mi misi ad aiutare Eliana per farlo smettere. Nessuno avrebbe potuto dire cosa avrebbero fatto questi bastardi Tedeschi se lo avessero sentito.
“Shh, shh, shh” sussurrai freneticamente, mentre Eliana lo faceva rimbalzare su e giù abbastanza in fretta. I nostri disperati tentativi di farlo calmare non funzionarono, anzi lui piangeva ancora più forte.
“Fai subito star zitto quel dannato bambino! Ci farà finire nei guai!” gridò una delle ragazze, presa dal panico e con le orecchie coperte per il baccano. Indicai i nostri disperati tentativi per comunicarle che ci stavamo provando con il meglio che potevamo. Tutti si irrigidirono e si zittirono- ovviamente tranne il bambino piagnucolante- quando una guardia sbottò dalla porta, chiedendo chi stesse facendo tutto quel rumore. Osservò il bambino urlante, ed abbaiò qualcosa in Tedesco, che nessuno nella stanza capì.
“Fate chiudere quella cazzo di bocca a quello Scheib, o la pagherete tutte!”  abbaiò, facendo provare ancor di più me ed Eliana a calmarlo. Ci provai canticchiando una canzone che mia madre mi cantava una volta nello shtetle, ma senza alcun risultato. Senza avvertire, la guardia strappò il neonato urlante dalle braccia di Eliana, lo gettò contro il muro e lei gridò. Non potei fare nulla se non paralizzarmi dall’orrore per quello che stava per succedere dopo. Volevo chiudere gli occhi, qualunque cosa per sfuggire a quella dannata situazione. Non avrebbero ucciso un bambino di proposito, tentai di assicurarmi. Non ci sarebbe stato motivo, tutti i bambini piangevano, non potevamo farci nulla. Ripetevo questi pensieri mentalmente ancora e ancora quando Eliana iniziò a piangere rumorosamente tra sé e sé, e costrinsi il mio corpo a muoversi e ad abbracciare il suo corpo tremante. La guardia sorrise falsamente ed aspramente, tirando fuori la pistola dalla fondina e puntandola verso il bambino urlante. Eliana urlò ancora, io le coprii la bocca con la mano come per ordinarle di trattenersi; non avrebbe dovuto mettersi nei guai.
“Questo vi mostrerà, Hundin, che tutti devono seguire le regole. Quelli che non lo fanno, finiscono morti” disse la guardia ed Eliana singhiozzò più forte tra le mie braccia mentre le strofinavo la schiena in modo confortante, mordendomi il labbro per non iniziare a piangere. La guardia sollevò la pistola verso il neonato che, con un rumoroso sparo ed un urlo agghiacciante di Eliana, giacque a terra silenzioso, morto. Non potendo più farne a meno, iniziai a piangere anch’io, scioccata dal fatto che il dolce piccolo angelo adesso era morto. Certo, pensavo fosse un errore impuro in precedenza, ma era solo un bambino. Sarebbe potuto diventare come la madre, e non come il padre. Eliana si precipitò dal suo povero bambino e lo cullò tra le sue braccia, singhiozzando per la sua sfortunata morte. La seguii poco dopo, entrambe ignorando che la guardia era ancora lì.
Lui tirò fuori un fischietto, ci soffiò dentro, facendo riempire la zona con un acuto rumore. In pochi secondi, un enorme gruppo di uomini in tute grigie strappò il bambino morto dalle sue braccia e corse via. Coprii la bocca ad Eliana nel caso avesse urlato di nuovo, ma lei continuò a singhiozzare, ancora di più.
“Ora, continuate col vostro lavoro” . La guardia se ne andò tanto brutalmente come era venuto, ed io rimasi segnata dalla mia prima esperienza con un omicidio inutile.
o 0 O 0 o
Mi dirigevo lentamente agli alloggi di Duncan, facendo attenzione a fare anche il più piccolo suono. L’incidente di prima mi aveva quasi traumatizzata, ed era niente in confronto a quello che provava Eliana. Poveretta, non aveva mangiato nulla tutto il giorno. Aveva smesso di piangere e a parte il lavoro non aveva fatto nulla. Non aveva parlato, muovendosi a mala pena e con gli occhi spalancati e pieni di terrore. Quando ci ritirammo alle nostre baracche dopo cena, era strisciata silenziosamente al suo ripiano, non emettendo alcun suono tranne che per dei piccoli gemiti; l’abbiamo lasciata sola, non volendo disturbarla nel suo lutto. Ho adottato similarmente il suo atteggiamento, non volendo necessariamente parlare con qualcuno dopo quello a cui avevo appena assistito. La morte del piccolo angelo mi aveva provato che non potevo fidarmi di nessuno in questo campo. Loro ucciderebbero chiunque per la più piccola ragione. Il solo pensiero mi fece sentire a disagio, dovevo continuare a lavorare duro per prima cosa.
Duncan alzò lo sguardo con indifferenza quando entrai, notando la mia sottile figura tremante e i miei occhi enormi, presumibilmente terrorizzati. Mi fece cenno di avvicinarmi, facendomi sedere sulle sue ginocchia. Ero così spaventata che acconsentii senza un lamento. Mi prese il viso tra le sue forti mani callose e lo accarezzò gentilmente, esaminandolo.
“Che è successo?” chiese finalmente dopo un po’. Scossi la testa e risposi semplicemente “niente, signore” . Non se la bevve e mi costrinse a guardarlo negli occhi, facendomi tremare ancora di più.
C’era qualcosa nei suoi occhi che stranamente mi attraeva, ma mi spaventava allo stesso tempo.
In quel momento, ero così spaventata che non mi presi nemmeno la briga di negare che ero egoisticamente attratta dai suoi occhi.
“Chiaramente c’è qualcosa che non va, tremi come una foglia. Ti sei messa nei guai? Ti senti malata?” Scossi di nuovo la testa per dire “no”, prendendo un respiro tremante mentre mi lasciava il volto e mi faceva scendere dalle ginocchia per farmi rispondere.
“Il bambino di Eliana…lui…è stato ucciso oggi. Da un soldato. Solo per aver pianto…è stato così orribile Duncan…così orribile”piagnucolai, le lacrime iniziavano a scendere al terribile ricordo, facendomi guadagnare un’occhiata di disapprovazione da parte di Duncan.
“Succede. Facci l’abitudine. I bambini non ce la fanno comunque in questi campi. Meglio che sia morto in quel modo, che per la fame e la povertà. E chi lo sa, sua madre sarebbe potuta morire prima di lui e tu saresti finita col prendertene cura! Come la mettiamo?” Provai a girare la testa dall’altra parte ma lui mi bloccò fermamente con il pollice e l’indice.
“Non ci avrei dato troppa importanza. Eliana è mia amica e suo figlio era anche come mio. Come puoi parlare con tale…tale indifferenza di un povero, innocente bambino? E il bambino è un lui, mica un esso” sputai, parlando per me stessa per la prima volta da settimane.
Per una volta, Duncan non mi schiaffeggiò, semplicemente fece spallucce e si sistemò ulteriormente sul letto.
“ Te l’ho detto, non sarebbe sopravvissuto comunque. Questo è stato per lui il miglior modo per andarsene” Tenni il naso all’insù con aria di sfida, incazzata per il fatto che stesse prendendo l’argomento così superficialmente. Fece di nuovo cenno di sedermi sulle sue ginocchia, per iniziare la tortura psicologica. Scossi la testa, il mio corpo si tese automaticamente. Lui ringhiò leggermente, divertito dalla mia resistenza.
“ Ooh, siamo grintose oggi, non è vero? Faresti meglio a superare immediatamente questa morte, altrimenti, ti punirò. Ora, sii una brava piccola hure e vieni a sederti sulle mie ginocchia”
“Sì, signore” .
E così la tortura ebbe inizio.
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Era passata una settimana dall’inutile morte del figlio di Eliana. Lei non fu mai in grado di trovare un nome per lui; diceva che tutti i nomi sembravano banali e tipici e che aveva bisogno di qualcosa di speciale per il suo neonato. Ma ora, lo aveva trovato; il nome perfetto. Malach. Angelo. Avevamo pianto tutte quando aveva tranquillamente pronunciato il suo nome. Eliana rimaneva ancora solenne, e noi la lasciavamo per conto suo, assicurandoci soltanto che mangiasse e lavorasse. Sfortunatamente, oggi c’era un controllo, quindi da noi ci si aspettava il migliore dei comportamenti.
Ero fuori a prendere acqua per la cucina quando vidi la macchina fermarsi. In altre circostanze avrei sputato a terra, invece mi misi le mani attorno alla bocca, iniziando a schioccare la lingua.
Vidi i bambini che iniziavano immediatamente a correre verso la discarica; allarmati ovunque, arrivarono goffamente al letamaio, togliendosi i vestiti, e saltando nella sporcizia. Rabbrividii, ricordando la disgustosa sensazione nel sguazzare nella sudicia spazzatura.
Guardai con attenzione, sorpresa dalla loro velocità e agilità. I primi due erano una coppia di gemelli, che si toglievano le fragili scarpe e i vestiti e i maglioni. Si accumularono ancora e ancora fino a quando non furono tutti nella discarica, silenziosi. Il comandante scese dalla macchina lentamente mentre io iniziavo a riempire il secchio, cercando qualcosa da fare per sembrare impegnata e non inutile; altrimenti sarei potuta essere scelta. Lui iniziò con la baracca accanto alla nostra e vi entrò, uscendone pochi minuti più tardi, la sua lista già contava molti numeri. Chinai il capo, impietosendomi per la povera gente che non riusciva ad alzarsi dal letto oggi. Improvvisamente, la porta della nostra baracca si spalancò, e ne uscì una sorridente Rivkah, saltellando. Quando mi vide iniziò a correre verso di me, ed io feci cadere il secchio, l’acqua scorreva ovunque.
“Coouurtney! Mi annoio!” si lamentò con voce cantilenante. Cercai di spingerla verso la discarica ma lei non si mosse. Il comandante si stava avvicinando.
“Rivkah, per favore. Corri alla discarica, nasconditi, per favore, tesoro, per favore”
Lei rimase ostinatamente dov’era e non si mosse mentre io iniziavo a piangere, spaventata molto da cosa stava per succedere.
“Non mi piace la discarica! Mi fa puzzare i vestiti! E poi, non ha senso. Gioca con me Courtney, gioca con me!” si lamentò mentre guardavo il cielo in segno di preghiera.
“Per favore, ascoltami Rivkah, per favore nasconditi nel letamaio, per favore piccola, per favore, giocherò con te dopo…”
“Che cosa abbiamo qui?” chiese una voce dolce che mi fece congelare. C’era il comandante, a meno di un passo da noi. Strinsi la povera bimba tra le braccia, la mia mano che le carezzava il volto ora impallidito. “Gottenyu”sussurrai tra me e me, grosse lacrime iniziarono a scendere quando mi resi conto di cosa sarebbe successo. Lui si abbassò sulle ginocchia, raggiungendo il livello di Rivkah, che iniziò a tremare tra le mie deboli braccia. Le tese la mano, lei la prese esitante, mentre stringevo i denti, non potendo chiudere gli occhi stavolta.
“Ho sentito che ti lamentavi, mia cara bambina. Ti annoi qui? Vuoi giocare, tesoro mio?” chiese con la sua voce mortalmente dolce. Non potei respirare quando lei annuì con entusiasmo.
“Non ti piace la discarica, non è vero, piccola?” lei scosse la testa per dire “no”, lui continuò “Bè, allora mi assicurerò personalmente che non dovrai mai tornarci di nuovo. Andiamo a giocare” le prese la mano e si alzò, iniziando a condurla via. Mi strinsi forte a lei, rifiutando di lasciarla andare, a dispetto del guaio in cui mi sarei cacciata. Avrei preso il suo posto, sarei morta io per lei. Qualunque cosa per non togliere la vita dai suoi occhi blu.
“Sei sua madre?” mi chiese mentre scuotevo meccanicamente la testa per dire “no”. “ Zia? Sorella? Cugina?” chiese ancora, mentre io rispondevo di no per ognuna di queste parentele.
“Buon per te” fece un movimento, e senza prendere un altro respiro una guardia venne rapidamente dietro di me e mi strinse a lui,il legame delle mie braccia con quelle della guardia magra era irriconoscibile; diverso, forse nuovo. La guardia odorava di spazzatura ed il suo alito puzzava pesantemente di birra. Non sarebbe durato a lungo, conclusi. Una guardia ubriaca non era per niente una guardia.
Gridai, e lui reagì mettendomi la sua mano sporca sulla mia bocca. Iniziai a singhiozzare quando il comandante prese in braccio Rivkah e le sussurrò qualcosa all’orecchio che la fece ridere.
“Non preoccuparti, Courtney, sto solo andando a giocare! Tornerò subito. Di’ a mammina che le voglio bene!” mi assicurò eccitata. Quante poche cose sapeva. Gridai più forte quando il bastardo mise la povera bimba nell’auto e si allontanò. La guardia infine mi lasciò andare, ma mi afferrò subito il polso, trascinandomi verso un luogo isolato, una parte buia del campo. Vi era una cassa, lui abbaiò qualcosa in Tedesco che non riuscii a capire.
“Togliti i vestiti. Schnell” . Non volendo mettermi ulteriormente nei guai, mi tolsi tutti i vestiti, guardando esitante la cassa.
“Sdraiati sopra. Sullo stomaco” mi abbaiò, mentre mi sforzavo di obbedire ai suoi ordini. Mi sdraiai scossa sul legno scheggiato, tremando ancora per i singhiozzi pesanti. Il legno mi pizzicò la pancia, ed ero sicura che ci fossero già delle schegge spinte all’interno. Mi morsi il labbro dal dolore, chiedendomi cosa stesse per accadere.
“Questo ti insegnerà, sporca Ebrea, ad obbedire agli ordini e a non ribellarti. Ora conta” Singhiozzai tremante un “uno” , e prima che iniziassi a comprendere cosa diavolo stesse cercando di farmi, il furioso sferzare della frusta andò giù pesante sulla mia schiena sensibile. Gridai mentre lui mi urlava di tenere il conto. Scossi la testa per dire no, singhiozzando più forte, e lui mi frustò di nuovo, ancora più duramente. Fui costretta a contare il numero di frustate che mi diede, ma ogni volta che mi incasinavo, ricominciava. Ogni frustata era più dura e dolorosa della precedente, e non potei evitare di gridare. Lottai con tutte le mie forze per non svenire, e dargli l’opportunità per uccidermi.
Quando ebbe finito, la schiena era tutta intorpidita, ed ero sicura che stesse sanguinando, piena di piaghe. Era andato avanti finchè potei contare 25 frustate, il che era un bel po’. Ero abbastanza sicura di aver ricevuto cinquanta frustate invece di 25. Lui mi lasciò bruscamente, ed io feci fatica ad alzarmi: ero in condizioni terribili. La schiena era sanguinante e piena di piaghe, e la pancia piena di schegge. Eppure, in qualche modo, mi costrinsi ad alzarmi e a rimettermi i vestiti. E’ stata una vera tortura forzata. I vestiti aderivano alle ferite, e ad ogni passo che facevo mi sembrava di essere accoltellata numerose volte.
Le lacrime continuarono a scivolare sulle guance quando iniziai a sentire le dolci parole di Rivkah nella mia testa, ripetendosi ancora e ancora.
“Gioca con me, Courtney, gioca con me!”
Oh, come avrei voluto. Adesso, probabilmente sarà già morta. Avrei voluto che mi avesse dato ascolto, avrei voluto che avesse corso. E’ stata colpa mia, tutta colpa mia. Se l’avessi portata io stessa lì, sarebbe stata ancora viva. Se l’avessi convinta di più, avrei potuto giocare con lei proprio adesso. L’ultima bambina innocente che conoscevo…era morta. Era come una figlia per me, e adesso era morta. Cominciai di nuovo a singhiozzare quando mi costrinsi a continuare a camminare verso le baracche.
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“Qualcuno ha visto la mia bambina!? Qualcuno ha visto la mia piccola Rivkah?” gridò Leah, con conseguente panico nella voce mentre entrava nella baracca.
Io singhiozzai più forte sulla mia mensola, mia madre che mi cullava avanti e indietro. Tutti stavano piangendo, incapaci di credere che la più dolce bambina del mondo adesso fosse cenere. Nemmeno. Era shmatte ora…drek…non volevo sapere cosa le avevano fatto. Leah venne verso di me, stringendo la mia mano nella sua, guardandomi preoccupata.
“Courtney, siamo come sorelle. Rivkah era come tua figlia. Dimmi cosa le è successo” mi morsi il labbro così forte che il sangue iniziò a defluire, mentre cercavo di asciugarmi le lacrime per raccontare alla sventurata madre quanto era accaduto.
“Lei…lei…non voleva correre alla dd-discarica. Il c-comandante è venuto…l’ha portata vvv-via!” iniziai a piangere di nuovo, come una bambina, mentre mamma continuava ad accarezzarmi la testa, e la madre accanto a me veniva a conoscenza delle notizie.
“Lei…lei è morta? L’ha portata a morire?”
Non potei fare altro che piangere più forte ed annuire, mentre la madre accanto a me iniziava a piangere anche lei.
“Ci ho provato, Leah…ho tentato di aiutarla…lei non mi voleva ascoltare…ho c-cercato di tenerla con me…sono stata frustata per questo” . Per provarlo mamma mi alzò solo una parte del vestito che era sporco per la mia pelle insanguinata, piena di piaghe. Tutti quelli che non lo sapevano rimasero a bocca aperta ed offrirono maggiore conforto. Non volevo essere confortata, volevo riavere Rivkah…riavere la mia piccola ombra.
“Non posso crederci…la mia bambina è andata…”
Detto questo, Leah iniziò ad avere una crisi isterica, e tutte le donne dal confortare me passarono a confortare la povera madre.
Prima che qualcuno potesse dire qualcos’atro, una guardia entrò e disse il mio numero. Non riuscivo a credere di dover ancora andare da Duncan oggi…non era giusto…non era giusto. Non ero in condizione di fare nulla. Ma, a testa bassa, mi morsi il labbro per non singhiozzare ancora. Mi tirai su con forza e con molta veemenza, percorsi la breve via per raggiungere Duncan.
Non potevo sopportare di guardare il suo volto, presumibilmente pieno di disprezzo. Tenni la testa bassa, e solo più tardi, emettendo un piccolo sibilo dal dolore, mi sedetti sul suo letto.
“Togliti i vestiti, Prinzessin”
Non pensavo di essere in grado di togliermi i vestiti, per non parlare poi di lui che mi avrebbe toccata in modo vile, facendo sicuramente male alla mia schiena ferita, e peggiorando la situazione.
“Io…io non posso, signore…”
“Fallo Prinzessin. E sdraiati sul letto, a pancia in giù”. Questa richiesta mi suonava troppo familiare per darmi conforto, e non mi piaceva per niente; ma dovevo farlo. Lentamente mi tolsi il vestito appiccicoso, il maglione e la biancheria e mi sdraiai sul letto, a pancia in giù. Sentii Duncan lasciarsi sfuggire un fischio alla vista dei miei lividi.
“Bene, bene, bene. In cosa si è cacciata Prinzessin stavolta?”. Mi morsi il labbro quando le sue mani mi sfiorarono delicatamente la schiena per non gridare. Eppure, questa tattica fallì quando il suo dito toccò un livido, gridai in agonia ed iniziai a piangere leggermente.
“Shh…sta’ tranquilla. Sto cercando di aiutarti, per una volta”
Improvvisamente le sue dita divennero fredde e mi accarezzarono delicatamente la schiena. Mi ci volle un po’ per capire quello che stava facendo: mi stava applicando dei farmaci. Perché lo stava facendo? Pensavo mi odiasse. Eppure, misi questi pensieri da parte, poiché ero grata del fatto che lo stesse facendo per me. I minuti passarono in totale silenzio mentre mi medicava la schiena. Dopo averla bendata fino al punto in cui la schiena non ribolliva più dal dolore, cominciò a scorrere le dita sulla mia parte non ferita.
“Ecco, hai altre ferite?” annuii, girandomi ed indicando la mia pancia scheggiata. Mi porse il maglione così potei coprirmi il seno, mentre lui si tendeva verso la pancia. Faceva male, molto, e gridai più volte. Lui mi zittiva ogni volta, ma non era uno “shh” aspro, era più disperato.
“Perché lo fai? Tu mi odi, sono una sporca Ebrea. Ti piace farmi soffrire” Lui mi guardò a sua volta, pur continuando a togliere le schegge dalla mia pancia. Si prese un tempo dannatamente dolce prima di rispondere, e proprio quando ero preoccupata che non volesse darmi una risposta, sospirò e si passò una mano sulla sua capigliatura arronzata.
“Le piaghe potrebbero infettarsi. Potresti ammalarti. Te l’ho detto, se ti ammali, muori” rispose senza mezzi termini, ma i suoi occhi rivolti verso il basso dicevano tutt’altro. Come mi aveva confuso. Il resto del tempo passo in un completo silenzio fastidioso. Finalmente, dopo un tempo maledettamente lungo, mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, ed io la presi con gratitudine.
“Ora, che è successo? E’ morto un altro neonato?” chiese beffardo, ed io abbassai gli occhi verso il pavimento. Mi rimisi i vestiti lentamente, cercando di trattenere le lacrime.
“No. Non un neonato”.
“E allora chi?”
“Rivkah”
“Vuoi dire la ragazzina che ti seguiva ovunque? Come…” si bloccò, ricordando che oggi c’era stato il controllo. Le lacrime iniziarono a scorrere di nuovo sulle guance al ricordo terribile.
“Lei…lei non voleva andare nella discarica…voleva che giocassi…il comandante…lui l’ha presa…era dolce con lei…e le ha mentito” dissi l’ultima parte con tutto il veleno di cui ero capace.
Lui mi toccò delicatamente la guancia, poi indietreggiò ed allontanò la mano.
“A volte…è meglio che uno venga ucciso con l’inganno. Lei era felice. Sarebbe potuta morire infelice, povera, affamata. Era ancora giovane, ancora felice. Aveva tutta la sua famiglia accanto” .
Scossi la testa, non credendo che qualunque cosa avesse detto mi avrebbe fatta sentire meglio. Non doveva morire, ed era tutta colpa mia.
“E’ stata tutta colpa mia, avrei dovuto portarla alla discarica io stessa. Avrei dovuto nasconderla”. Mi mise il pollice sotto il mento, costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Non c’era assolutamente niente che avresti potuto fare. Saresti morta anche tu”. Scossi la testa, non volendo credere alle cazzate che mi stava rifilando.
“Penso che sia stata traumatizzata abbastanza per un giorno, vai a dormire, ne avrai bisogno”. Annuii, raccolsi il resto dei vestiti dal pavimento e li infilai. Duncan poggiò le sue labbra sulle mie – la sua nuova abitudine, che si svolge sempre quando entro, e prima che me ne vada-  e mi lasciò andare.
“Sogni d’oro, Prinzessin”.
 

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Capitolo 6
*** Anticipazione del capitolo 7 ***


  Piccola anticipazione del capitolo successivo, il quale verrà pubblicato prestissimo =)

Mi svegliai in un bagno di sudore, urlando a più non posso. Non di nuovo…Mi rimproverai e passai una mano sui capelli ricresciuti. Il solito incubo su Rivkah aveva di nuovo scelto di tormentarmi il sonno. Ricordavo che mi gridava di salvarla. Mi supplicava di nasconderla, ma io ero immobile, paralizzata dalla paura per la guardia dietro di lei che impugnava una pistola, Duncan. Prima che potessi emettere alcun suono lui la sparò, poi avanzò verso di me per uccidermi, il crudele  sogghigno che conoscevo bene comparve casualmente sulle sue labbra.
Erano passati due mesi dalla sua morte crudele, ma ancora ne venivo perseguitata a non finire. Ed ancora, quello che stavo passando era nulla in confronto a Leah ed Eliana, povere anime. Non sapevo cos’altro avrebbe potuto sopportare Eliana: prima suo figlio, poi sua sorella più piccola, chi sarebbe stato il prossimo?
Mi scostai i capelli dal volto ed inspirai profondamente. Ero sopravvissuta in questo posto quasi tre mesi; non era facile. La costante adrenalina e la preoccupazione di ogni controllo ( adesso odiavo il comandante con tutto il mio cuore per aver ucciso la povera Rivkah), la mancanza di cibo appropriato, il freddo, l’asprezza della Blokova.
Eppure, stranamente, Duncan non era sulla lista delle cose che potevo a malapena sopportare nel campo.
Duncan era iniziato a diventare tollerabile fin dal giorno in cui mi aveva curato per le frustate- era il minimo con cui potessi ringraziarlo-. Non mi aveva toccato in un modo troppo vile da quel giorno. I baci e i leggeri tocchi andavano ancora avanti, ma mi ci ero abituata, e lo avevo accettato come dato di fatto. Sapevo di più su di lui e lui sapeva di più su di me adesso; le conversazioni notturne erano una cosa comune. La scorsa notte, mi raccontò della sua famiglia per una volta.
o 0 O 0 o
“Di cosa parleremo stasera, signore?” chiesi speranzosa, in cerca del racconto che avrei condiviso con lui questa volta. Allontanava la mia mente dagli orrori del campo. Lui ridacchiò un poco e mi poggiò le labbra sulla fronte ,baciandola gentilmente come faceva un marito con la moglie. Mi fece sentire leggermente a disagio, ma non potevo farci nulla.
“Vieni, Prinzessin, siediti sulle mie ginocchia e ti racconterò la storia del mio passato stasera. Una ricompensa per essere stata una così brava paperella per così tanto tempo”.  Feci come aveva detto esitante, e lui avvolse le braccia intorno alla mia vita ora piccola e ossuta.
“Cosa avete intenzione di raccontarmi, signore?”
“Non chiamarmi signore” chiese bruscamente. “D’ora in poi rivolgiti a me solo usando il mio nome”.
“ Come desideri, Duncan”
“Voglio raccontarti un po’ di me stesso. Non penso sia giusto che io sappia così tante cose su di te, e tu quasi nulla di me, eh Prinzessin?”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


“Non hai avuto modo di finire di raccontarmi di Chaya, Courtney!” esclamò Rivkah, afferrandomi la mano e ridendo. La presi in braccio allegramente e le portai indietro i riccioli dal viso, facendola ridere ancora di più. Le stampai  un casto bacio sulla fronte ed armeggiai con il fiocco nei suoi capelli, assicurandomi che fosse perfettamente dritto. Un angelo come lei doveva essere perfetta, ne ero convinta.
“Lo so, e mi dispiace molto. Vuoi che continui?”
“Oh sì per favore!” dichiarò, battendo le mani dalla gioia. Sorrisi e proprio quando stavo per continuare, tutto divenne grigio e nebbioso, la temperatura scese di circa quaranta gradi; fredda quasi come nel campo. La presa intorno alla bambina era diventata più stretta e molto più protettiva.
“Sta’ ferma”avvertii. “E non fare neanche il minimo rumore”. Sentii sussurri e rumori tormentanti, che chiamavano Rivkah. Non gliela lascerò portare via da me, non di nuovo.
“Courtney” sussurrò lei, la sua presa intorno al mio collo stava scivolando. Tentai di prenderla, ma la sua pelle sembrava olio e gas messi assieme; scivolò dalla mia presa ogni singola volta.
“Riiivkaaahhh…” si lamentò la voce.
o 0 O 0 o 
Mi svegliai in un bagno di sudore, urlando a più non posso.
 Non di nuovo…Mi rimproverai e passai una mano sui capelli ricresciuti. Il solito incubo su Rivkah aveva di nuovo scelto di tormentarmi il sonno. Ricordavo che mi gridava di salvarla. Mi supplicava di nasconderla, ma io ero immobile; paralizzata dalla paura per la guardia che impugnava una pistola dietro di lei. La guardia era Duncan. Prima che potessi emettere alcun suono lui la sparò, poi avanzò verso di me per uccidermi, il crudele  sogghigno che conoscevo bene comparve casualmente sulle sue labbra.
Erano passati due mesi dalla sua morte crudele, ma ancora ne venivo perseguitata a non finire. Ed ancora, quello che stavo passando era nulla in confronto a Leah ed Eliana, povere anime. Non sapevo cos’altro avrebbe potuto sopportare Eliana: prima suo figlio, poi sua sorella più piccola, chi sarebbe stato il prossimo?
Mi scostai i capelli dal volto sudato ed inspirai profondamente. Ero sopravvissuta in questo posto quasi tre mesi; non era facile. La costante adrenalina e la preoccupazione di ogni controllo ( adesso odiavo il comandante con tutto il mio cuore per aver ucciso la povera Rivkah), la mancanza di cibo appropriato, il freddo, l’asprezza della Blokova.
Eppure, stranamente, Duncan non era sulla lista delle cose che potevo a malapena sopportare nel campo.
Duncan era iniziato a diventare tollerabile fin dal giorno in cui mi aveva curato per le frustate- era il minimo con cui potessi ringraziarlo-. Non mi aveva toccato in un modo troppo vile da quel giorno. I baci e i leggeri tocchi andavano ancora avanti, ma mi ci ero abituata, e lo avevo accettato come dato di fatto. Sapevo di più su di lui e lui sapeva di più su di me adesso; le conversazioni notturne erano una cosa comune. La scorsa notte, mi raccontò della sua famiglia per una volta.
o 0 O 0 o
“Di cosa parleremo stasera, signore?” chiesi speranzosa, in cerca del racconto che avrei condiviso con lui questa volta. Allontanava la mia mente dagli orrori del campo. Lui ridacchiò un poco e mi poggiò le labbra sulla fronte ,baciandola gentilmente come faceva un marito con la moglie. Mi fece sentire leggermente a disagio, ma non potevo farci nulla.
“Vieni, Prinzessin, siediti sulle mie ginocchia e ti racconterò la storia del mio passato stasera. Una ricompensa per essere stata una così brava paperella per così tanto tempo”.  Feci come aveva detto esitante, e lui avvolse le braccia intorno alla mia vita ora piccola e ossuta.
“Cosa avete intenzione di raccontarmi, signore?”
“Non chiamarmi signore” chiese bruscamente. “D’ora in poi rivolgiti a me solo usando il mio nome”.
“ Come desideri, Duncan” obbedii immediatamente, non osando sfidarlo. Significava qualcosa il fatto che adesso potevo chiamarlo solo con il suo nome? Mi vedeva come qualcos’altro oltre a spazzatura? Sarebbe stato dalla mia parte? Mi avrebbe aiutato?
Come se qualcuno mi avesse schiaffeggiato, tornai velocemente alla realtà e al buonsenso. Ovviamente no. Ricordai a me stessa che era il capo delle guardie, le possibilità che fosse dalla mia parte erano minime.
“Voglio raccontarti un po’ di me stesso. Non penso sia giusto che io sappia così tante cose su di te, e tu quasi nulla di me, eh Prinzessin?”ridacchiò semplicemente ed io potei solo annuire, insicura su cosa dire in questa situazione.
“I miei genitori erano innamorati fin dalla fanciullezza; le loro famiglie erano molto amiche” si addolcì un po’, come se fosse un ricordo felice. Restai in silenzio e gustai questa parte di lui sconosciuta, non sapendo quando e se l’avessi mai rivista.
“Crebbero insieme, e si amarono molto. Mio padre era pazzo di mia madre” Lì vacillò, esitando pochi istanti prima di continuare. “Potresti pensare che si fossero sposati per amore e tutto quanto. Ma non fu questo il motivo. Mia madre rimase incinta di me a diciott’anni; mio padre ne aveva diciannove. Lui non era pronto; era troppo giovane. Non sapeva se fosse stato in grado di essere un padre” mormorò qualcosa di incomprensibile in Tedesco e sputò a terra, la sua presa attorno a me divenne più stretta. Piagnucolai un po’, mi stringeva già abbastanza forte, non era necessario che lo facesse di più. Lui sentì il piccolo rumore, ed allentò un po’ la stretta, facendomi stupire leggermente. Cosa sarebbero venute poi, delle scuse?
“Mia madre mi voleva, non le importava l’età, e mio padre avrebbe lasciato congelare l’inferno piuttosto che ripudiare mia madre o renderla infelice. Così si sposarono poco tempo dopo. Eravamo una famiglia per lo più felice: mia madre mi adorava, e mio padre faceva qualsiasi cosa per farla contenta. Se questo significava volermi bene, così doveva essere. Mia madre mi insegnò ogni cosa. Come parlare, come camminare, tutto, da imparare a leggere a come gestire una casa. La amavo molto” sospirò, facendo un piccolo “mmm” di piacere ai ricordi presumibilmente felici che gli stavano apparentemente passando davanti agli occhi.
“Mio padre non c’era mai. Di solito era fuori a lavorare, ma più spesso a bere con gli amici. Non era coinvolto nelle questioni domestiche: accudirmi era una di queste. Ho sempre pensato che mi odiasse, forse era il motivo per cui non tornava a casa prima di mezzanotte, o non mi lodava, né mi offriva delle parole di consiglio o di orgoglio. L’ho ignorato per lo più, perché c’era mia madre in giro” il suo tono era sembrato freddo mentre menzionava il padre, e non potei fare a meno di chiedermi se l’atteggiamento del padre avesse forse influenzato il suo attuale comportamento.
“Mia madre era così contenta di me che desiderava avere un altro bambino; questa volta, voleva una femmina. Mio padre le diede quel che voleva, tre settimane dopo la sua richiesta rimase incinta. Soffrì durante la gravidanza, adesso lo so, sebbene provasse a non mostrarlo. Aveva voluto che la mia vita fosse rimasta una bolla senza traumi”. Fece una pausa, e prese pochi profondi respiri per controllarsi. I minuti passavano e sembrava avesse finito con il suo racconto. Non poteva farlo, proprio quando la storia stava diventando così interessante.
“Va’ avanti” lo incoraggiai, “Raccontami cos’è successo dopo”. Invece di scattare verso di me come mi aspettavo, espirò profondamente e continuò.
“E’ morta durante il parto. Tentò di resistere più che poteva, ma potè sopravvivere solo per un’ora dopo aver dato la bambina alla luce. Mio padre restò accanto a lei tutto il tempo, supplicandola di continuare a vivere, ma lei non volle ascoltarlo. Insisteva che mio padre si prendesse cura della figlia come ultimo desiderio. Io piangevo, la supplicavo di non dire sciocchezze e di riposarsi un po’ , così sarebbe stata meglio. Non volle ascoltare neanche me. Le sue ultime parole erano rivolte a me, e alla bambina. Mi disse che mi voleva bene, e disse anche che il nome della bambina doveva essere Angelica. Poi…morì” la sua voce si incrinò leggermente, ma si ricompose e continuò.
“ Mentre piangevo, e la supplicavo di svegliarsi, mio padre tirò fuori Angelica. Uscì che era morta anche lei. Da allora, mio padre si tramutò in pietra. Mi accusava della morte di mia madre. Diceva che se non fosse stato per me, lei non avrebbe mai voluto un secondo figlio, e sarebbe stata ancora viva. E per molto tempo, gli credetti. Provai a mettermi in buona luce con lui comportandomi come il figlio migliore che potevo essere: prendevo dei voti più che perfetti a scuola, ero sempre in orario quando tornavo a casa, e non facevo mai un passo falso. Ma niente di tutto questo era abbastanza. Sembrava come se non gli potessi mai essere piaciuto”. La mia pietà nei suoi confronti crebbe allora, non avevo mai saputo cosa significasse vivere senza un padre affettuoso e una madre. Mio padre mi aveva adorato, stravedeva per me, ed io gli volevo molto bene. Certo, era morto, ma avevo ancora mia madre, e meravigliosi ricordi di lui.
“Per piacergli ulteriormente, mi offrii volontario di arruolarmi nell’esercito. Aveva sempre mostrato una sorta di ammirazione verso questo tipo di uomini, e mi aveva sottilmente suggerito quanto voleva che mi arruolassi. Quando glielo riferii, disse che era orgoglioso di me. Volevo urlargli contro, volevo dirgli quanto cazzo lo odiavo; ma non lo feci. Lavorai solo di più, desiderando sentire di nuovo come fosse orgoglioso di me. Divenni comandante, e poi fui mandato qui; contribuendo ad uccidere gli Ebrei” . Mi ritrassi e lui ridacchiò aspramente.
“Sai qual era la cosa più ironica? Mia madre era per metà ebrea. Mio padre non volle averci niente a che fare, e si rifiutò di farmi ereditare qualunque aspetto di quella religione. E’ stato l’unico difetto di mia madre. Credo sia questo il motivo per cui era così orgoglioso di me” Volevo ucciderlo allora. Sua madre, alla quale lui voleva così bene e che le mancava così tanto, era per metà ebrea, ma lui godeva ad ammazzarli? Non poteva vedere sua madre che lo guardava dall’alto con disprezzo, maledicendolo per fare questo alla sua stessa razza? Sapevo che mio padre mi guardava costantemente dall’alto, e che mi rimproverava quando facevo qualcosa di sbagliato.
“Così ecco la mia piccola storia per Prinzessin che se n’è stata tranquilla tutta la sera. Mi manca il tuo piccolo chiacchiericcio, raccontami una storia adesso”. Mi lasciò andare ed io lo fissai freddamente.
“Cosa vuoi sapere?” chiesi aspramente. Sembrò confuso e portò una mano alla mia mascella, stringendola e portandola verso di lui con poca fatica.
“Che? Perché mi rispondi così freddamente?”
“Come puoi uccidere gli Ebrei così facilmente quando proprio tua madre lo era per metà? Non hai orgoglio? O vergogna? Non senti tua madre che ti guarda dall’alto e ti rimprovera per le cose malvagie che fai?” Lui ridacchiò soltanto e si appoggiò sul letto.
“Alcune domande è meglio lasciarle senza risposta, Prinzessin”.
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Da allora, queste domande senza risposta continuavano a ronzare nella mia mente piena abbastanza da farmi venire il mal di testa. Mi rigirai sul mio ripiano e chiusi gli occhi con forza: niente sonno mal si conciliava con il lavoro che avrei dovuto fare il giorno dopo.
Contai da uno a cento in ebraico per allontanare il pensiero dalla notte precedente, e lentamente mi addormentai.
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Avere una mente vuota mi aiutava a sopportare ogni giorno in cui sopravvivevo al campo. Era necessaria una mente vuota anche con i compiti più semplici. Altrimenti la mia mente sarebbe stata piena a causa di Duncan: non era una cosa molto buona adesso non è vero? E se avessi smesso di svolgere il mio compito? Sicuramente una guardia mi avrebbe vista e mi avrebbe portata ad essere uccisa: senza dubbio, ed io non volevo rischiare. Non quando mi stavo comportando così bene.
Con l’intenzione di non avere in mente nulla tranne il mio attuale compito, mi diressi verso la pompa d’acqua: le ragazze mi avevano mandato a prendere l’acqua per preparare la cena. Usando la mia forza -duramente guadagnata in oltre due mesi di lavaggio stoviglie, sollevando pesanti secchi d’acqua, e lavando i pavimenti-  pompai il manico e guardai come l’acqua lentamente riempiva il secchio. Ero così concentrata sul mio lavoro che non mi accorsi dell’altra presenza che strisciava accanto a me: non per dire, una presenza maschile. Ad eccezione di Duncan e delle altre guardie maschi, non avevo visto un singolo uomo nella nostra area del campo.
“Lavori duro lì, eh Babushka?” chiese la voce, stupendomi. Mi ritrovai a voltarmi per affrontare questo sconosciuto, le mani sui fianchi e un sopracciglio alzato dal fastidio. Come osava distrarmi dal mio compito, per tutto quello che sapevo poteva essere una trappola. Una guardia avrebbe potuto inviarlo per spiarmi, e se avessi fatto un errore in questo incontro sarei potuta finire cremata.
“Slicha?” domandai, in perfetto ebraico. Mamma mi aveva davvero contagiato con l’utilizzo della lingua. Lui semplicemente rise e toccò la mia bandana, io ero così stordita da quest’uomo che mi toccava in un modo così gentile- come un marito farebbe di solito con la moglie-  che mi paralizzai e non mi mossi per fermarlo.
“La bandana tra i capelli, ti fa sembrare una piccola Babushka” , spiegò allegramente. Il fatto che non sembrava una trappola e che lui provava interesse per me mi fece agitare qualcosa dentro, non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire una risatina.
“Ti interessa dirmi come ti chiami, Babushka?” Il nuovo soprannome era rinfrescante.
Prinzessin era tutto quello che avevo sentito ultimamente. Il modo in cui mi chiamava Duncan.
Prinzessin era sempre per prendermi in giro, o per chiedermi qualcosa di umiliante. Infatti, anche il soprannome stesso era umiliante. Ma il modo in cui quest’uomo mi chiamava Babushka, e lo usava un po’ per prendermi in giro, ma per lo più in modo premuroso e gentile, mi faceva provare più interesse nei suoi confronti.
“Mi chiamo J17492” risposi umilmente, sapendo che, in quanto anche lui era un ebreo, avrebbe capito. Ma non lo fece. Scosse la testa e si appoggiò pigramente alla pompa dell’acqua. Avrei potuto ucciderlo in quel momento. Voleva morire? Non sapeva che un passo falso, un piccolo errore poteva ucciderti qui? Mi guardai attorno con cautela nel caso avessi visto una guardia, o qualcuno che potrebbe averci notato e poi punito entrambi, ma non c’era nessuno. Tirai un sospiro di sollievo e mi ricomposi.
“Courtney. Courtney Esther Politzer” Sorrise e guardò il cielo, per godersi il sole raro. Rimasi senza parole per come il sole illuminava i suoi lineamenti e lo faceva brillare. Sembrava perfetto, come un angelo.
“E tu?” riuscii a chiedere dopo pochi secondi di ammirazione. Sorrise con un giallo sorriso storto e restò in piedi.
“Yaacov. Yaacov Heisen”. Sorrisi, afferrando il secchio pieno già da tempo e iniziando a tornare in cucina. Prima che potessi fare dieci passi lui mi tirò per un braccio e mi fece quasi cadere l’acqua.
“Aspetta. Potrò mai rivederti?” Potei solo sorridere e scrollare le spalle, iniziando di nuovo a camminare. Mi invitai a restare la calma Courtney, invece della agitata scema sudata sicuramente dentro di me.
“Incontriamoci alla discarica durante l’ora libera. Ti prego, ti prometto che ti farò vedere il lato buono di questo posto dimenticato da Dio” La sensazione della sua mano sul mio braccio mi prese alla sprovvista per pochi istanti. Mi fermai a considerare la sua proposta. Volevo davvero, ma se fossimo stati beccati? Cosa sarebbe accaduto? Ma, contro ogni previsione, decisi di andarci. Un uomo ebreo sarebbe stato sicuramente rinfrescante qui in giro; sicuramente rinfrescante per me, almeno. Annuii con entusiasmo, lui mi prese la mano e la baciò teneramente, facendomi arrossire e ridere di nuovo.
“Fino ad allora, Babushka” . Ridacchiai ancora una volta ed iniziai a camminare di nuovo; per la prima volta dopo un po’, la mia mente brulicante di eccitazione.
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Stavo in piedi, tremante, vicino alla discarica, allungando la testa ogni tanto per vedere se la testa di Yaacov fosse sbucata da dietro l’angolo. Avevo cercato di sembrare il più attraente possibile per il nostro incontro, lasciando mamma sistemarmi i capelli, usando un rossetto “preso in prestito” da alcune ragazze dei capannoni di smistamento, e anche raddrizzandomi leggermente il vestito. Dovevo ammetterlo, ero eccitata. Non mi ero mai sentita in questo modo per un uomo prima, bè, non credo ci sia mai stata una volta in cui mi sia sentita in questo modo per un uomo.
Espirai un respiro tremante e strofinai le braccia quasi congelate; questa era la conseguenza per non aver messo il maglione per sembrare più attraente. Ora rimpiangevo davvero di non averlo portato con me. Non solo perché stavo congelando, ma perché ero preoccupata se stessi correndo troppo. Avevo incontrato quel ragazzo solo poche ore fa, e adesso stavo sacrificando la salute, la sanità e le mie possibilità di sopravvivenza per sembrare più attraente davanti a lui.
Mormorai un suono di disapprovazione e scossi la testa, rimproverandomi mentalmente per essere stata così stupida. Se avesse davvero voluto stare con me, si sarebbe mostrato in orario. Scossi di nuovo la testa tristemente, e mi voltai, con l’intenzione di tornare indietro nelle baracche più calde.
Prima che potessi fare un singolo passo, un paio di braccia mi afferrarono la vita da dietro e la strinsero forte. Provai a gridare, ma una mano guantata mi coprì prima la bocca.
Lo sapevo che sarebbe successo, lo sapevo che mi avrebbero presa. Perché, oh perché non ho ascoltato la coscienza? Rabbrividii, e piagnucolai un po’, le lacrime già andavano formandosi nei miei occhi ardenti.
“Sei pronta ad incontrare il tuo destino, Courtney?” Rabbrividii di nuovo, con l’intenzione di spiegare i miei motivi, quando la mia mente scattò, completamente attenta. Aveva appena detto “Courtney”? Nessuna vera guardia mi avrebbe chiamata col mio nome, e la voce sembrava anche abbastanza familiare. Lentamente, riuscii a girarmi, e schiaffeggiai il mio assalitore dritto in faccia. La reazione fu una risatina bassa.
“ Yaacov Heisen mi hai quasi fatta morire dalla paura!” Lui ridacchiò soltanto e si appoggiò alla discarica sporca.
“Non dire che non è stato divertente, perché lo è stato” . Finsi di prendermela fuori, ma dentro rimasi profondamente colpita. Aveva avuto coraggio per farlo, e non molti ne avevano per fare uno scherzo del genere da queste parti. Sentii un senso di ammirazione nei suoi confronti.
" Non è stato divertente, mi hai davvero spaventata. Non dovresti fare degli scherzi qui" lo sgridai. Invece di scusarsi, scivolò a terra, accarezzando il posto accanto a lui come cenno di sedermi.
“ E perché no?”. La mia bocca si inclinò verso il basso; la risposta era così evidente. Non si rendeva conto che sarebbe potuto essere ucciso più velocemente di un lampo?
“Perché, potevi essere ucciso! Bisogna sempre saperlo e tenerlo a mente”.
“Qualche altra regola che dovrei sapere?”
“Felice che ti stia interessando all’argomento. Dovresti sempre concentrarti su cosa stai facendo. Non lasciare che la mente vaghi. Non replicare con qualunque forma di autorità più alta. Ecco, tutti quelli che non sono Ebrei. Non devi mai venire sorpreso a non lavorare. E…”. Fui interrotta da Yaacov che con una mano strinse le mie labbra insieme in modo che non potessi parlare. Si mosse in avanti ed io fui presa dal panico. Aveva intenzione di baciarmi? Non lo conoscevo tanto bene; l’avevo incontrato solo poche ore prima. Non volevo che succedesse così. Le mie aspettative furono però deluse, poiché ridacchiò e tolse via la mano.
“Hai troppe regole, Babushka” . Arrossii; felice che il buio del crepuscolo potesse nasconderlo.
“Come puoi essere tanto allegro in questo posto e scherzare?” gli chiesi, una domanda che mi aveva davvero divorato la mente fin dal nostro primo incontro. Come poteva sopportare di essere così allegro e gioviale, quando la morte era proprio dietro l’angolo? La gente veniva uccisa, torturata, ferita (sia emotivamente che fisicamente) ogni minuto, e lui riusciva ancora a ridere, e a sorridere?
Doveva avere qualche rotella fuori posto.
“Perché no?” chiese, scrollando le spalle. Mi morsi il labbro, sapendo che avevo passato esperienze orribili abbastanza per dieci vite. Inoltre, la preoccupazione costante, la paura e la pietà per tutti coloro che non sopravvivevano mi davano continuamente fastidio in testa.
“Ho passato molte cose negli ultimi mesi” . Le sue sopracciglia si alzarono verso l’alto per indicare confusione, e sapevo che mi avrebbe chiesto qualche spiegazione. “ La morte può cambiare profondamente una persona” risposi vaga, prima ancora che avesse avuto la possibilità di chiedermelo. La sua mano trovò di nuovo il mio volto ed io mi voltai verso di lui. Notai, anche se era leggermente buio, che i suoi occhi erano di un verde intenso; avevo sempre desiderato sposare qualcuno con gli occhi verdi. Occhi verdi e riccioli ramati. Guardando Yaacov, non riuscii a capire come fossero i suoi capelli poiché la sua testa era stata appena rasata.
“Non pensarci più. Non ci dare troppa attenzione” . Io ringhiai interiormente. Come non darci attenzione? Avevo visto un bambino venire sparato, e una delle mie migliori amiche mandata a morire solo a causa mia.
“Come posso non pensarci!” gridai, improvvisamente infuriata con lui. “ Ho visto morire un bambino innocente! Ho fondamentalmente inviato la bambina che per me era praticamente una sorella a morire! Non potrò mai vederla di nuovo! Non capisco come tu possa essere così felice e tranquillo quando delle persone innocenti stanno morendo proprio adesso! La gente viene torturata, ferita, uc…” questa volta fui zittita da un paio di labbra sulle mie. Erano lisce, ma anche morbide.
Eppure, mi piacque. Prima che potessi ricambiare il bacio, si staccò, respirando affannosamente.
“Babushka” ansimò, “ non puoi sempre concentrarti sugli aspetti negativi e su cosa succede alle altre persone. Hai bisogno di preoccuparti di te stessa e di goderti la vita”. Non ci avevo mai pensato prima. Ero sempre stata preoccupata per la morte, o per Duncan, oppure per Rivkah.
“Hai ragione” risposi, tirando di nuovo la sua bocca sulla mia. Questa volta si stupì e non riuscì a capire cosa stava succedendo. Mi staccai e vidi che i suoi occhi erano spalancati, ma stava sorridendo.
“Per che cos’era?”  chiese, il suo tono confuso, ma felice.
“Hai detto che avevo bisogno di divertirmi” . Era tutto quello di cui aveva bisogno per unire le nostre labbra insieme, ancora una volta. 

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Capitolo 8
*** Ogni azione ha le sue conseguenze ***


“Yaacov smettila!” ridacchiai giocosamente, spingendo il suddetto uomo via da me. Lui non mi ascoltò e mi strinse di nuovo alla vita, baciandomi la clavicola nonostante il mio ammonimento. Sospirai felice; le cose non sarebbero potute andare meglio. I miei occhi si spalancarono per una sconosciuta sensazione al collo che mi fece girare la testa, in senso positivo. Confusamente, mi ricordai dove ci trovavamo e lo spinsi via, contraddicendo completamente il mio precedente pensiero sulle cose che non sarebbero potute andare meglio.
Stavamo amoreggiando accanto alla familiare discarica,  essendo sgattaiolati furtivamente solo per poterci vedere. L’aria era pungente e faceva freddo attorno a noi; dovevamo stare vicini solo per riuscire a stare caldi nei nostri leggeri vestiti. Questo però non preoccupò affatto Yaacov, certamente non quanto preoccupasse me.  Oh Yaacov, il mio eterno ottimista. Niente lo preoccupava o lo faceva sentire di malumore da quando era arrivato nel campo:  né quando le guardie gli gridavano contro,  né quando suo cugino fu picchiato a sangue,  neanche quando fu picchiato lui stesso – il cui fatto sconvolse più me che lui- . Più e più volte gli avevo chiesto il perché; come poteva guardare avanti con un sorriso sul volto?
La sua risposta era stata semplice: finchè mi avesse avuta, sarebbe stato felice.
Eravamo stati insieme per tre settimane: tre gloriose settimane piene di gioia. Bè, tanto gloriose quanto potevano essere nel campo. Sgattaiolavamo di nascosto in giro spudoratamente, limonando dietro la discarica, toccandoci segretamente durante i viaggi alla pompa dell’acqua e così via. Mi sentii spudorata a fare tutte queste cose. Pensavo che Yaacov fosse l’unico per me; avevamo deciso di sposarci non appena avessimo lasciato il campo. Aveva senso rallentare la relazione e procedere passo per passo quando già sapevamo che non desideravamo nessun altro?
Ero cambiata nelle poche settimane in cui Yaacov era qui. Più spensierata, meno severa quando si trattava di seguire le regole. Rispettosa nei confronti delle guardie? Non ero in piena allerta quando venivano, la mia mente era confusa per i dolci baci di Yaacov e per i ricordi di dove mi toccava. Non ero pienamente consapevole quando si trattava di quello che stavamo facendo,  e le conseguenze di cosa poteva accadere si allontanavano pian piano dalla mia mente.
Non avevo mai smesso di considerare cosa sarebbe successo se una guardia ci avesse scoperti. Non avevo mai smesso di considerare cosa sarebbe successo se Duncan ci avesse scoperti.
Avrei dovuto stare attenta.
Avrei dovuto ricordare.
Duncan. Il nome mi fece rabbrividire (come ogni volta che lo vedevo o pensavo a lui) al pensiero di cosa gli stessi facendo alle spalle. Gli lasciavo fare quello che voleva adesso, con un ulteriore motivo in mente mentre mi stava facendo queste cose.  Ogni volta che mi baciava, fingevo fosse Yaacov. Riuscivo a ricambiare i suoi dolci baci e sentivo che stavo migliorando con queste cose.
Le cose erano cambiate tra me e Duncan. Non ero più costretta a fare nulla adesso; lo facevo col mio consenso personale, così da poter migliorare per quando lo facevo con Yaacov. Naturalmente, così come mi piaceva, le cose tra me e Duncan non erano andate oltre i baci e i tocchi, nulla di volgare.
Mi erano stati permessi una spazzola e un rossetto adesso. Mi ero lamentata con Duncan sul fatto che i miei capelli ricresciuti fossero così disordinati, e volendo accontentarmi – e perché me l’ero guadagnata nei miei limiti-  aveva acquistato una spazzola che mi era permesso usare ogni notte, quando andavo da lui. Il rossetto veniva dal mio primo incontro con Yaacov. Quando Duncan lo vide la prima volta, mi chiese perché ne avessi bisogno e dove lo avessi trovato. Io mentii e dissi che era per piacergli. La risposta gli piacque. Mi permise di metterlo, ma con la regola che solo lui poteva vedermi in quello stato. Quello che non sapeva non poteva ferirlo.
Avevo visto ammirazione e lussuria negli occhi di Duncan. Sapevo che mi desiderava. Sapevo che era attratto da me in qualche modo, e lo avevo usato a mio vantaggio. Potevo vedere il desiderio nei suoi occhi, e da qualche parte, nel profondo, sapevo che sarebbe stata solo una questione di tempo prima che fossi stata punita. Avevo provato a combatterla più a lungo che potevo,  e finora aveva funzionato.
Yaacov non sapeva di Duncan; non era necessario.
Non aveva senso rovinare la nostra relazione perfetta; soprattutto non per qualcuno ridicolo come Duncan. Yaacov non mi avrebbe chiesto nulla, poiché non aveva la più pallida idea di chi fosse Duncan, ed io sarei stata attenta a non dire nulla.
Sapevo che Yaacov era pronto a fare il passo successivo. Io no. Volevo aspettare fino a quando non fossimo stati sposati, seguendo le regole di papà, anche se non avevo pensato a lui per un po’: mi vergognavo troppo di cosa avrebbe pensato su quello che stavo facendo con Duncan. Yaacov pensava che ci sarebbero voluti mesi, forse anni per poterci sposare, e mi desiderava subito. Aveva tentato di tutto per sedurmi, e funzionava abbastanza bene. Pensare a tali pensieri mi riportò alla mia attuale situazione; mi resi conto soprattutto della sensazione delle sue labbra sul mio collo. Con molta riluttanza, lo spinsi via, mormorando un tranquillo “No, Yaacov. Ho detto non ancora”.
“Perché no, Babushka?”, chiese, piagnucolando un po’. Dovetti distogliere lo sguardo dai suoi convincenti, ardenti occhi verdi: ero sicura che un giorno sarebbero stati capaci di convincermi di fare qualunque cosa.  Non volevo che quel giorno fosse stato oggi.
“Perché, Yaacov, non sono pronta! Ho solo diciassette anni!” Lui si strinse nelle spalle, mi cinse i fianchi con le braccia e mi accarezzò dolcemente la zona lombare.
“Allora? Mia madre aveva quindici anni quando mi ha avuto, e mia sorella si è sposata quando ha compiuto sedici anni” Io ridacchiai, non potendo farne a meno.
“ Non sono tua madre, o tua sorella. Inoltre, ti ho detto che ti avrei sposato una volta fuori dal campo, non è vero?”
“Sì” rispose lui esasperato, imitando un’estrema esasperazione. “Ma potrebbero volerci mesi, anni. Ti voglio adesso. Voglio farti mia in questo istante” . Io storsi il naso al fatto che per lui andava bene fare l’amore in una discarica. Speravo in qualcosa di più romantico. Come dopo il nostro meraviglioso matrimonio, mi avrebbe presa tra le braccia, condotta nella nostra camera da letto, accarezzata dolcemente e poi…scossi la testa a tali pensieri. Sognare il futuro, non importa quanto lo desiderassi, sarei potuta restare delusa quando sarebbe arrivato.
“ Allora..allora…aspetta fino ai miei diciott’anni. Quando avrò diciott’anni potrai avermi. E accadrà solo tra un paio di mesi” supplicai, sperando disperatamente che il mio amato togliesse il broncio e riconquistasse quel suo sorriso allegro. Quando lo sguardo sul suo volto non scomparve, decisi di sostenere ulteriormente la mia causa. “ Yaacov, Papà non avrebbe mai approvato. Mi aveva sempre detto di restare pura e innocente fino al matrimonio”.
“Ah, sì? E dov’è questo cosiddetto Papà?” . Presi un respiro profondo, allontanandomi da lui e dalle sue braccia.
“ E’ morto. Morì quando avevo nove anni” dissi tranquillamente, cercando di non ricordare il terribile momento. Sentii Yaacov trattenere il respiro dietro di me, e poggiò la mano sulla mia spalla poco dopo. Non mi preoccupai di scrollarmela di dosso, non aveva senso arrabbiarmi con la persona che amavo, e in alcun modo avrebbe potuto saperlo.
“Channa…mi dispiace” sussurrò e mi abbracciò da dietro. Sì, non gli avevo permesso di chiamarmi Courtney, solo Channa. Il nome scivolava meglio sulla sua lingua, e mi dava la stessa meravigliosa sensazione di quando Papà lo pronunciava una volta.
“Va tutto bene, tutto bene” ripetevo, più per me che per lui; lo dicevo come se stessi tentando di rassicurare me stessa, non lui.
“Quindi, ai tuoi diciott’anni?”
“Diciott’anni” promisi, voltandomi verso di lui ed iniziando ad accarezzargli la guancia.
“Metzooyan” disse allegramente in ebraico,  facendomi ridacchiare mentre ci sporgevamo in avanti per unire le nostre labbra in un dolce bacio, portando a qualcosa di molto di più.
Non sapevo cosa ci fosse in serbo per me. Non sapevo che un paio di occhi ci avessero guardato tutto il tempo.
o 0 O 0 o
Irrompendo nella mia stanza, presi a calci il muro, indignato, gli occhi ardenti di gelosia. Come si era permessa. Quella fottuta sudicia puttanella. Avevo abbassato la guardia, credendo che fosse un puro angioletto innocente,  e poi lei era strisciata dietro di me e mi aveva pugnalato alle spalle. Questa era la punizione che mi meritavo per essermi fidato e aver interagito con una sporca Ebrea.
Aveva trovato un nuovo amante, e un Ebreo per di più. Era innamorata di lui adesso, lo baciava, e probabilmente ci scopava anche. No, l’ultima parte non era vera, ricordai, rivedendo mentalmente la scena. Voleva far felice suo padre. Voleva aspettare fino al loro matrimonio. La sola parola mi fece venire voglia di vomitare tutte le loro scuse a buon mercato per una relazione. Sapevo perché lo stava facendo. Lei non lo amava, non poteva amarlo, lo davo per scontato. Voleva solo allontanarsi da me. Ma questo non spiegherebbe perché era così entusiasta nel baciarmi e nel toccarmi. Ero così confuso, così incazzato che volevo prenderla e seppellirla viva.
"Blvde fotze, du arschgefickter hrensohn!" gridai, più che incazzato sia con lei che con me stesso. Prinzessin era mia! Non lo sapeva! Avevo intenzione di uccidere prima quel figlio di puttana, e poi lei. Che possa essere stato maledetto se non l’avessi mandata ad essere gassata in questo preciso istante. Prendendo un profondo respiro, e calmandomi un po’, realizzai che ucciderla sul posto non sarebbe stato il modo giusto di sistemare le cose, neanche un po’. Proprio come lei era stata strappata via da me, adesso dovevo strapparle via ciò a cui lei teneva di più.
Pensava di essere così intelligente, mi prendeva in giro quando la vedevo, facendosi carina, solo per me. Solo che non era per me, era per quel sudicio figlio di puttana. Si metteva il rossetto e si spazzolava i capelli ricresciuti, dicendo che ero l’unico che poteva vederla in quello stato. Mi lasciava giocare con lei, mi permetteva di baciarla senza un lamento; ma adesso capivo. Probabilmente fingeva che io fossi il suo amante ebreo. Il pensiero mi fece sentire di merda: usato, sporco, e tradito.
Prinzessin la pagherà, la pagherà cara.
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Fu condotta nella stanza da un’altra guardia, la quale si comportò in modo obbediente, miserabile e scontroso solo per farsi notare. Una volta andato via lei camminò per la stanza, mettendosi a proprio agio, ignara di cosa avessi visto, e di cosa fosse in serbo per lei. La accolsi tra le mie braccia con grazia, non tradendo nulla se non pura devozione e ammirazione. Entrambi ci baciammo velocemente; lei era probabilmente così ansiosa di tornare dal suo amante ebreo, ed io ero ansioso di punirla. La piccola hure non aveva idea di cosa ci fosse in serbo per lei questa sera.
Come di routine, andò verso il mio specchio e si applicò il rossetto, rendendo le labbra piene e sporgenti,  ed io ricordai la notte in cui le avevo permesso di applicare il provocante oggetto, con la regola che non lo avrebbe mai messo al di fuori dei nostri incontri. Poi si spazzolò i capelli scompigliati, con la spazzola per cui mi aveva supplicato tanto a lungo. Ricordavo anche quella notte: non riusciva a sopportare i capelli arruffati, e mi supplicava. Ed io, desiderando rendere felice la mia Prinzessin, gliela avevo procurata. Ora, osservarla mentre si spazzolava i capelli – scompigliati molto probabilmente dallo stupido stronzo- , mi fece male allo stomaco. Non mi piaceva guardarla, mi faceva sentire come se la stessi portando nelle camere a gas in questo stesso istante.
Avevo commesso l’errore di cedere al suo fascino, alla sua innocenza, alla sua bellezza; ma quando l’avevo vista con lui avevo sentito tutta l’ammirazione, la lussuria, e il desiderio svanire in un istante. Aveva dimenticato tutte le lezioni che le avevo insegnato con fatica. Aveva sfruttato la mia debolezza nei confronti del suo tenore di vita a suo vantaggio ed era uscita ad amoreggiare con un pezzo di merda. Si credeva così carina, con i capelli ricresciuti, e il trucco. Dovevo cambiare tutto questo; lei non sembrerà mai più almeno un tantino attraente, non se avevo qualcosa da dire sull’argomento.
Senza un rumore arrivai alle sue spalle e la spinsi con forza contro il muro, lontano dallo specchio,  non potevo averla fatta svenire, non ancora. Lei fu colta di sorpresa ed io la costrinsi a guardarmi in faccia, schiaffeggiandola in viso quando distolse lo sguardo. Se non fosse stato per le mie braccia che la bloccavano, sarebbe indietreggiata per il duro colpo. Mi guardò con enormi occhi terrorizzati, non sapendo cosa aveva fatto di sbagliato. Se solo lo sapesse. La spinsi sul pavimento, ignorando le sue grida di dolore.
“Pensi che sia così stupido da non sapere cosa stava succedendo? Pensi che non l’avrei scoperto comunque!” gridai, vedendola rannicchiarsi dalla paura. Con un rapido movimento, le diedi un forte calcio su un fianco. Lei gridò dal dolore, stringendosi il fianco dolorante. Ignorai le sue grida, la rabbia prese il sopravvento. Non m’importava di nulla se non punirla e farle sentire il dolore, ancora e ancora finchè non avesse esentato quello che mi aveva fatto passare.
“Parla sudicia Hundin!” gridai, volendo sentire cosa avesse da dire per sé.
“Cosa…cosa ho fatto? Duncan…cos’ho fatto di male?” un po’ ansimò, un po’ soffocò in quanto l’avevo colpita con un altro calcio mentre stava parlando. Si prese il suo tempo per rispondere, poiché non era abituata ai danni che le stavo infliggendo; avrebbe dovuto parlare velocemente. Con un rapido colpo allo stomaco, cacciò fuori l’aria.
“Duncan!” ansimò dal dolore, crollando a terra, e ritraendosi dal dolore. Come osava quella cagna bugiarda usare il mio nome. Suonava vile sulla sua lingua; mi ricordava tutte le volte in cui l’aveva gemuto, brontolato, piagnucolato. E non era neanche per me. Era tutta una recita per poter ritornare dal suo nuovo amante. Non volevo sentirglielo più pronunciare; non ero suo amico, per niente. Soprattutto non dopo quel che aveva fatto,  e se avesse voluto di nuovo ogni sorta di “gentilezza” – sputai mentalmente alla parola- , ci sarebbero volute mille punizioni, favori e segni di pentimento.
“Perché mi chiami in quel modo, Hundin? Che diritto ne hai? Non sono tuo amico, non mi piaci neppure, sporca hure. D’ora in poi ti rivolgerai a me solo con “Signore”, sempre se ti chiedo di rivolgerti a me per qualunque cosa, pezzo di merda. E’ chiaro?”  ringhiai, godendo per quanto tremasse dalla paura, e per lo sguardo più che terrorizzato nei suoi occhi.  Stasera, avrei ignorato la mia coscienza denigratoria, ed avrei dato a Prinzessin la punizione che avrebbe dovuto avere fin dal momento in cui avevo posato gli occhi su di lei.
“S-s-sì, Signore” balbettò, sul punto di piangere. Le lacrime mi facevano sentire meglio; volevo che ne avesse pianto un oceano quando avrò finito con lei. La sollevai animatamente per un braccio, per poi lanciarla di lato poco dopo.
“Sai perché sono così arrabbiato” sussurrai brutalmente, rifiutandomi di guardarla.
“N-n-no, Signore” mentì. Questo mi fece incazzare ancora di più. Mi sedetti di fronte e riuscii a mettermi velocemente a cavalcioni su di lei, anche con la resistenza che offrì.
“Stai mentendo. Ora dimmi perché sono così arrabbiato con te” dissi pungente, le mie parole taglienti e forzate. I suoi occhi si spalancarono ed iniziò a singhiozzare di nuovo. Io non feci nulla: non mi mossi, non la picchiai, certamente non la confortai. Aspettai semplicemente.
“Dimmelo ora!” ruggii dopo dieci minuti buoni del suo inutile pianto. Non poteva neanche portare le mani al volto per asciugarsi gli occhi, era indifesa.
“Io…io sono sgattaiolata alle tue spalle…” singhiozzò infine, vergognandosi. “Ho trovato il mio amante, la mia anima gemella”. Non potei più sopportare le stronzate che mi stava rifilando. Le sputai in faccia; ciò le avrebbe insegnato a rifilarmi la sua fottuta storia d’amore. Era mia, di nessun altro. Decidevo io la sua vita. Decidevo io quando dormiva, quando mangiava, quando parlava, persino la vita della sua famiglia e dei suoi amici. Decidevo io la sua vita.
“Perché? Perché hai scelto lui?” chiesi, la mia voce fredda come la morte. Col tempo che avevo passato con lei avrebbe potuto desiderare di essere morta.
“Lui…lui mi ama” soffocò. Il solo commento mi bastò. Le diedi un forte pugno in faccia.
“Nessuno ti ama, fottuto, bugiardo pezzo di spazzatura!” Lei restò in silenzio, così potei continuare.
“Fottuta hure! Non appartieni a nessun altro! Tu sei mia! Mia, mia, mia!” sbraitai, afferrandola per i capelli e alzandola, non preoccupandomi di lasciarla andare.
“Pensi di essere così carina? Pensi che lui ami i tuoi bei capelli? Vedremo” dissi febbrilmente, guardando in giro per la stanza come un folle. Sul comò riuscii a trovare un grosso paio di forbici industriali, e gliele brandii minaccioso.
“ Oh no, Duncan, ti prego non farlo! Sono appena ricresciuti!” . Ringhiai: la prima regola infranta in meno di dieci minuti. Era cambiata, non mi ascoltava più. Le avrei insegnato una lezione, una lezione che non avrebbe mai, mai dimenticato. Aprendo velocemente le forbici, le tirai i capelli con il pugno teso, e, chiudendo velocemente le lame, osservai le corte, inermi ciocche marroni cadere sul pavimento. La guardai – singhiozzante sul pavimento, poiché era scivolata a terra quando avevo lasciato la presa - e sorrisi; ero riuscito a tagliare le ciocche molto vicine al cuoio capelluto, ma non era abbastanza. Le cesoie avrebbero rasato quello che le forbici non erano riuscite a tagliare. Ignorando le sue grida di protesta, le tagliai i capelli in modo maniacale finchè non vi fu più nulla da tagliare. Ora avrebbe ricordato, ogni volta che entrava e si guardava allo specchio,  avrebbe visto riflessa una testa calva, e avrebbe ricordato.
“Alzati, Hundin, ho intenzione di rasarti come un uomo” . Guardai con piacere come i suoi occhi si spalancarono, supplicandomi di non farlo. Non era stata soggetta a questo neanche il primo giorno. Ora avrebbe ricordato.
“Oh no, per favore no” supplicò ancora, le lacrime continuavano a scendere. “Per favore non farlo. Ti prometto che non succederà di nuovo”. Non mi presi nemmeno la briga di rispondere alla sua patetica supplica, la afferrai per un braccio e la trascinai allo specchio.
“Proprio per questo, devi guardare”. I suoi occhi furono sul punto di saltare fuori dalle orbite quando si rese conto del suo aspetto, ed io non persi tempo a metterle il rasoio manuale al centro della testa. Lei sussultò quando vide riflessa allo specchio una testa appena rasata. Sogghignai vittorioso, non più quel figlio di puttana l’avrebbe guardata con affetto e lussuria negli occhi.
“Ti piace quello che vedi, Prinzessin? Attraente non è vero?” . Lei si lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo in risposta; ma non avevo ancora finito con lei, per niente.
o 0 O 0 o
Il sangue mi si raggelò. Violentata. Era quello il mio destino; lo sapevamo entrambi, fin dal momento in cui abbiamo incrociato per la prima volta i nostri sguardi. Non importa cosa avevo fatto in mio potere per impedirlo, era la conclusione di tutte le mie azioni.
“Smettila! Non farmi questo! Sei un mostro! Un sudicio, malato schmeisser tedesco! Lasciami andare!” . Lui mi diede una ginocchiata sulla pancia nuda ed io crollai dal dolore.
“Questo ti insegnerà che tu sei mia! Di nessun altro! Soprattutto non di quel figlio di puttana” mi afferrò per le spalle e le tenne strette, le sue sporche unghie scavavano nella mia pelle e vi lasciavano dei segni. “Questa pelle è mia” ringhiò stringendomi ovunque. Niente era stato lasciato intatto: né i seni, nè le cosce, o le gambe, neppure la pancia. Ero sicura che la mattina dopo sarei stata tutta nera e blu. Le sue mani di carta vetrata mi bruciavano tutta, la fredda aria della notte non riusciva nemmeno a darmi sollievo che lui premeva il suo corpo più duramente contro di me. Con una risata trionfante, premette la sua sudicia bocca contro la mia, la lingua vi entrò solo pochi secondi più tardi. Il suo alito era peggio del solito: potevo sentire più alcool, più veleno. Mi morse il labbro così forte che il sangue iniziò a defluire, e lui lo leccò vittorioso come un cane. “Questa sporca boccuccia è mia” . Le sue parole suonavano così familiari, ed io ricordai vagamente il dolore dell’ultima volta.
Yaacov, urlai mentalmente, dove sei? Perché non vieni a salvarmi? Dovevi essere tu il primo, non questo schmendrik. Papà, perché hai abbandonato me e la mamma? Perché non ti sei ripreso? Perché mi hai lasciato senza spiegarmi perché gli uomini fanno simili cose alle donne?
Non riuscii a concentrarmi molto su cosa Duncan mi stesse facendo, quando mi resi conto di cosa stava per accadere. Dovevo andare lontano.
Lontano.
Lontano…
o 0 O 0 o
“Papà! Papà!” le gambe intorpidite mi trasportarono fino a casa, con una velocità di cui non sapevo fossi capace. Scuotendo la testa per cancellare le inquietanti, inappropriate visioni che mi scorrevano davanti agli occhi, corsi più veloce per poter andare da Papà.
Raggiungendo casa mia, spalancai la porta e filai dritta tra le braccia di mia mamma, piangendo nel suo grembiule e sperando che le cose che avevo visto si sarebbero sottratte alla mia mente in modo permanente. Le sue mani raggiunsero i miei capelli intorpiditi dal vento e li accarezzarono gentilmente, e lei cercò di chiedermi cosa c’era che non andava. Non funzionò, volevo solo Papà; Papà avrebbe capito. Mi avrebbe detto come migliorare le cose. Mamma sembrò capire – molto probabilmente perché avevo continuato a gridare il suo nome mentre piangevo- e andò a chiamarlo, depositandomi sul tavolo da pranzo, mentre io ancora singhiozzavo. Papà arrivò velocemente, circondandomi con le sue braccia e conducendomi nel suo studio, dove potevamo parlare in privato.
“Channa, ma kara?” mi chiese in ebraico, sapendo che la lingua calda e familiare mi avrebbe confortato più del solito inglese. Cercai di asciugarmi gli occhi da tutte le lacrime, ma non funzionò: ne scesero ancora di più. Quando non riuscii a rispondere, fece sedere la mia tremante figura sulle sue ginocchia, tenendomi e dondolandomi leggermente. Finalmente, riuscii a calmarmi e sentirmi di nuovo al sicuro.
“Papà, Papà, ho visto…un uomo e una donna…e stavano facendo…ma lui le stava facendo male! Mi hai raccontato che tu lo facevi solo con qualcuno che amavi!” I suoi occhi rugosi si socchiusero confusi, e mi sollevò il viso per incontrare i miei.
“Cosa hai visto?”
“Un uomo, e una donna. E stavano facendo l’amore…ma Papà, lei non voleva farlo! E lui la costringeva! Le aveva strappato di dosso i vestiti…e…e…” ecco che iniziai a piagnucolare di nuovo sulla camicia di Papà, inalando l’odore familiare di tabacco e cannella. Allora lui mi circondò con le braccia, confortandomi più che poteva.
“Perché, Papà? Perché mi hai mentito? Mi hai raccontato che lo fanno solo i mariti e le mogli quando si amano. O quando vogliono fare un bambino” Il suo volto allora si rabbuiò, suscitando in me un tipo di paura che non pensavo fosse possibile.
“Channa, quello che stavano facendo non era un atto d’amore. Era molto peggio; e solo la più bassa, egoista e malvagia razza di gente lo farebbe”
“Ma, Papà, perché? Perché dovrebbero farlo?”
“Perché vogliono delle cose. Cose che sei troppo giovane per sapere. Mi dispiace davvero che tu abbia dovuto vederlo, Channa. Non è giusto”. Annuii, sentendomi al sicuro contro il suo petto.
“Papà, non permetterai mai che mi facciano una cosa del genere, giusto?” . Lui mi strinse più forte, piantandomi un bacio sulla fronte arrossata.
“Mai”.
o 0 O 0 o
Un acuto dolore mi costrinse ad aprire gli occhi. Non potevo più fingere o fuggire da quella situazione; Duncan era dentro di me. Mi stava violentando.
Faceva male, mio dio se faceva male. Tentai di spingerlo via, mi strinsi più forte attorno a lui, ma nulla di questo funzionò; avrebbe solo spinto all’interno più duramente. Le mie grida furono smorzate dalla mia stessa mano, ma lui me l’afferrò e spinse ancora di più.
“Voglio sentirti soffrire” . Non gli avrei dato questo piacere, non potevo. Ma, quando sentii qualcosa rompersi dentro di me, non potei più trattenermi. Iniziai a gridare e singhiozzare; andata. L’ultimo frammento di innocenza che avevo; andato. Mi aveva preso tutto; era stata tutta colpa mia, tutta colpa mia per aver flirtato con Yaacov. Lo guardai in volto, stava ghignando ampiamente soddisfatto.
“Ora non potrai mai essere sua. Sarai per sempre mia. Spero che tuo padre sia certamente orgoglioso di te adesso, piccola hure” . Papà…Papà. Perché mi hai mentito? Mi avevi detto che questo non mi sarebbe mai accaduto. Mi avevi promesso che mi avresti sempre protetto; mi avevi promesso che ci saresti sempre stato per me.
Chi era rimasto a proteggermi adesso?
Nessuno.
Nessuno mi avrebbe voluta adesso. Tutti avrebbero scoperto abbastanza presto questo atto malizioso; neanche il mio Yaacov mi avrebbe voluta.
Non avrei mai più infranto le regole. Non avrei mai più fatto un passo falso.
Avrei ricordato. Ricordato la punizione.
Dopo un’ eternità di dolore, uscì fuori da me. Non avevo smesso di piangere, non ne avevo intenzione. Mi faceva male tutto; non ero sicura di potermi alzare in piedi. Lui si alzò e si vestì, voltandosi a guardarmi solo dopo aver fatto. Sogghignò per la mia figura tremante e in lacrime.
“Vestiti. Spero tu abbia imparato la lezione, stasera. Ma la tua punizione non è ancora finita. Aspetta cosa farò al tuo prezioso amante” . Senza un rumore uscì dalla stanza, lasciandomi al buio sul pavimento.

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Capitolo 9
*** Colpe e più conseguenze ***


Silenziosa come la neve che scendeva dal cielo, strisciai nella baracca, sperando di trovarci mia madre. Lacrime silenziose mi scorrevano lungo il volto e continui pensieri mi zigzagavano in testa; ragazzina impura. Una lasciva, maliziosa, ingrata giustificazione per un essere umano. Me l’ero cercata; mi ero macchiata per essere una sporca hure. Come avevo potuto commettere una cosa del genere? Non conoscevo le conseguenze?
Avevo bisogno di mia madre. Volevo essere cullata tra le sue ossute braccia: solo dei fantasmi in confronto a come erano un tempo. Volevo che una parte della mia famiglia mi avesse confortata per quanto era accaduto. Volevo il mio Yaacov. Volevo che mi avesse stretta e mi avesse accarezzato la schiena e sussurrato all’orecchio; assicurandomi che sarei stata a posto, che ogni cosa sarebbe stata a posto.
Ma io avevo bisogno e volevo, sinceramente e gravemente, il mio Papà. Volevo essere confortata dalle sue forti braccia. Volevo sentire i suoi scherzi che non erano tutto quel divertimento. Volevo inspirare il suo rassicurante profumo che soprafava le sue camicie. Avevo bisogno che mi dicesse che tutto sarebbe stato a posto. Avevo bisogno che mi dicesse che non ero impura, o profana, o una peccatrice. Avevo bisogno che mi dicesse che non era tutta colpa mia. Avevo bisogno che mi dicesse che questa sarebbe stata l’ultima volta che mi sarebbe capitata una cosa del genere.
Ma Papà se n’era andato.
Papà non sarebbe mai più tornato.
E la vita non girava mai, mai tutta intorno a me. Quello che volevo non sarebbe importato a nessuno oltre che a me stessa. Papà era morto e non l’avrei mai più rivisto se non quando sarò morta anch’io. Il pensiero di uccidermi solo per la libertà e per stare di nuovo con Papà mi apparve un’ idea brillante, ma non potevo fare una cosa del genere a mia madre. E se avessi fallito, chi avrebbe mai potuto dire quanto schietta e continua sarebbe stata la punizione di Duncan?
Ero una peccatrice della peggior specie; una peccatrice per la mia religione. Avevo permesso a un Tedesco di violentarmi.
E se avessi avuto un bambino? Cosa sarebbe successo? Come sarei potuta sopravvivere, incinta, nel campo? Non potevo allevare un bambino, avevo appena diciott’anni, non ero per niente pronta. Mi morsi un labbro e trattenni un singhiozzo per non svegliare gli altri. Ero così ignorante, così giovane, così inesperta. Come potevo conoscere le conseguenze dell’amore? Come potevo conoscere il dolore e la sofferenza che procurava? Scuotendo la testa, continuai a inciampare tra le file, imbattendomi finalmente nel ripiano di mia madre.
“Mamma” soffocai, scuotendola leggermente. Lei non si mosse. Muoviti, Mamma, muoviti. Per favore, svegliati, supplicai silenziosamente, sperando che si sarebbe presto svegliata.
“Mamma, aiutami” gracchiai, leggermente più forte, più lacrime solcavano le mie guance. Lei aprì i suoi occhi neri in un istante, rendendosi conto della mia presenza nel buio. Sapevo come apparivo: calva, piena di lividi e tagli sanguinanti che molto probabilmente sarebbero diventate delle cicatrici. Non osavo guardare in qualunque oggetto avesse riflesso la mia immagine. Portò una mano al mio volto – e grazie a Dio non alla mia testa rasata- ed accarezzò un taglietto con attenzione, asciugando il sangue colante.
“Devo domandare cosa sia successo?” chiese comprensiva, e in un modo così materno. Scossi la testa per dire “no” e piagnucolai tra le sue braccia, non osando fermarmi. In qualche modo – non ricordo come- finii sul suo ripiano, ma le sue braccia ossute mi circondarono tutto il tempo, strofinandomi la schiena mentre io piangevo nel suo petto. Ed era tutto quello di cui avevo bisogno.
“E’ andato, Mamma, è tutto andato” singhiozzai, ma lei dovette chiedere che cosa era andato. Cosa non lo era? Nulla: il mio amore, la mia gioia, la mia speranza, la mia innocenza, il mio aspetto, la mia libertà, la mia salute, parte della mia famiglia, e il medaglione. Ogni cosa era andata, e non le avrei mai riavute indietro.
“Me l’ha strappata via, Mamma, me l’ha strappata via” . Pensavo avesse capito, poiché non chiese più nulla. Il modo in cui mi stavo lagnando probabilmente la allarmò . Restai lì tutta la notte, singhiozzando tra le sue braccia; non m’importava se qualcuno ci avesse visto. Non m’importava se mi avessero mandato a essere gassata; volevo andare.
Che ragioni mi erano rimaste per continuare a vivere?
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La mia andatura verso la pompa dell’acqua era come pesanti gocce di pioggia, veloce e senza mai voltarmi indietro; non potevo correre da lui. Se fossi corsa da lui, allora l’altro lui l’avrebbe saputo molto probabilmente e all’istante, e io mi sarei cacciata in guai sempre peggiori. Avevo supplicato di non andare alla pompa dell’acqua oggi, avevo chiesto alle ragazze di lasciar andare qualcun altro. Non capirono; non potevano comprendere con tutto lo scompiglio che stavo causando.
E, ovviamente, la mia richiesta fu stroncata appena una guardia venne a controllarci.
Mordendomi un labbro, osservai la zona per lui. Non c’era; ma non ci sarei cascata, soprattutto non questa volta. Non riuscivo neanche a tenere il conto di tutte le volte in cui era sgattaiolato dietro di me mentre non stavo guardando, avvolgendo le sue braccia attorno alla mia vita e sussurrandomi diaboliche proposte all’orecchio.
Aspetta cosa farò al tuo prezioso amante” Queste parole mi risuonarono in testa mentre affrettavo il passo – cosa che non pensavo fosse neanche remotamente possibile- . Delle preghiere silenziose mi scorrevano in mente – insieme a tutti gli altri miei pensieri incasinati- affinché non accadesse nulla a Yaacov. Non potevo lasciare che perdesse la vita a causa mia.
Lanciando un’occhiata all’area apparentemente deserta, mi sbrigai a riempire il secchio d’acqua; colmandolo solo leggermente per quanto ferita e dolorante mi sentivo. Non aveva importanza, il dolore non aveva importanza. Tutto quello che importava era che lui restasse al sicuro, vivo, e lontano da me.
La vergogna, il senso di colpa e l’assoluta nostalgia mi guizzarono in tutto il corpo, a dispetto dell’esigenza di non toccare mai, mai un uomo di nuovo. Come avevo potuto cacciare il mio unico amore in un simile pericolo? Sapevo che avrei dovuto stargli lontana. Sapevo che non avrei dovuto flirtare con lui. Ma non aveva importanza adesso, tutto quello che mi importava era la sua sicurezza.
Il secchio adesso era pieno, così lo sollevai in fretta, ignorando il dolore. Camminai velocemente e a testa bassa finchè non mi scontrai con qualcuno. Sapevo che sarebbe stato meglio se avessi mormorato delle scuse se fosse stato un Tedesco. Ma non era un Tedesco. Un rozzo dito mi sollevò il mento per avvicinare il mio viso al suo, i miei occhi si spalancarono scioccati.
“No, no, no, no, no, no. Non mi parlare, va’ via” lo supplicai quasi, tentando di scansarlo.
“Babushka, ma kara? Hakol beseder?” scossi la testa e mormorai ancora una volta la stessa frase. Fortunatamente indossavo la mia bandana, così non poteva vedere il danno fatto ai miei capelli e chiedermi pure spiegazioni. Sfortunatamente non mi lasciò andare e continuò a farmi domande che ignorai riluttante. Notando lo scompiglio che si stava creando intorno a noi, fui presa dal panico, e guardai il mio amore con grossi occhi isterici.
“Va’, ti prego va’. Non rischiare la vita perdendo tempo con me. Ti prego va’, amore mio, ti prego vattene”supplicai, sul punto di iniziare a singhiozzare per qualche minuto. Dato che era l’uomo che era, non mi ascoltò. Piantò fermamente i piedi a terra e iniziò a asciugarmi le lacrime che mi fuoriuscivano dagli occhi.
“Yaacov, per favo..”
“Cosa sta succedendo qui?” chiese una voce accentata e mista a veleno. Non dovetti alzare lo sguardo per sapere chi fosse; ma lo feci comunque. Duncan era lì, in piedi, alto e fiero, i suoi occhi sorridenti in segno di vittoria. No, non potevo permettere che Yaacov morisse. Avrei preso io il suo posto. Non me ne fregava di vivere ancora. La vita non aveva importanza, in essa niente poteva essere ottenuto.
“Stavo fraternizzando con un uomo” dissi accigliata, a sguardo basso e facendo del mio meglio per sembrare abbastanza vergognata e colpevole da essere “presa”. I suoi occhi divennero due fessure, ma continuarono a brillare.
“No! Io stavo parlando con lei! Ha tentato di dirmi di andarmene via, ma ho rifiutato di ascoltarla” gridò improvvisamente la voce di Yaacov. La mia testa scattò su scioccata ed osservai ad occhi spalancati il suo volto determinato. Mi amava davvero. Sarebbe morto per risparmiare la mia vita. Sarebbe morto, morto, morto, morto. E sarebbe stata tutta colpa mia, tutta colpa mia; non potevo permettere che accadesse. Eppure, lo sguardo sul volto di Duncan mi assicurò che non ci sarebbe stato niente che avessi potuto fare per evitarlo. Era sicuramente questo il suo piano, fin dall’inizio; opprimere la persona alla quale tenevo di più.
“Be’, un prezzo deve essere pagato. Seguimi”.
“NO!” urlai, usando quanta più forza possibile nella mia voce. “Prendi me al posto suo! Ti prego! Risparmialo, Duncan! Risparmia lui e uccidi me!” urlai abbastanza forte da farmi sentire in tutta la zona, e a questo punto stavo singhiozzando. Non potevo perdere il mio Yaacov! Non potevo! Doveva essere il mio unico amore, la mia anima gemella. Dovevamo avere dei figli insieme: due maschi e una femminuccia che lui avrebbe amato con tutto il cuore. Non potevo togliergli la vita, non potevo. Guardai Duncan in volto, eretta e con occhi pieni di lacrime, non osando distogliere lo sguardo. C’era così tanto silenzio che potevi sentire la terra muoversi sotto i piedi.
Senza accorgermene, e con un lento movimento, Duncan mi afferrò e mi costrinse a stare di fronte a lui, facendo di me uno spettacolo per tutti gli altri, soprattutto per Yaacov. Mi rimosse la bandana e a quel punto non riuscii a guardare Yaacov negli occhi.
“Dunque, Yaacov, non è vero? Courtney mi ha detto molto su di te. Ti ha detto molto di se stessa?” Non avrebbe mai osato raccontargli della scorsa notte e di tutto il resto. Eppure, la presa sulle mie braccia e il sogghigno ardente alle mie spalle mi provava il contrario. Ero finita, fottuta. Quando il mio amore non diede risposta, Duncan continuò con una risatina. “ No? Lo sapevi che, questa Prinzessin, è la mia piccola hure?” chiusi gli occhi, fuori dalla paura, o dall’umiliazione, non ne ero sicura. Sapevo che non potevo sopportare di guardare il mio amore negli occhi. Improvvisamente fui gettata pesantemente a terra, raggomitolata e supplicante la fine della mia esistenza.
“N-no. Non è vero. La mia Channa non avrebbe mai…”
“ Oh, ma lei già lo ha fatto. Ogni singola notte lei mi ammira, in ogni modo possibile”. Supplicai Dio di avere un infarto proprio in quel istante, o di permettere alla terra di risucchiarmi tutta e portarmi via da questo mondo crudele e maligno. Ma la terra non risucchia le persone quando lo vogliono loro, non le risucchia per dato di fatto. Come ero stata stupida. Come ero stata incredibilmente imprudente da innamorarmi e da sognare un lieto fine. Non lo avrei mai fatto di nuovo. Non avrei mai tradito di nuovo neanche un segno di impure emozioni.
“Lo sai che è impura? Ti ha mentito, ragazzo. Non ha mai avuto intenzione di donarsi a te. Questo privilegio, è già stato concesso a me”. La mia testa scattò a questo commento; non sapevo perché, ma dovevo vedere il volto del mio angelo. Contratto in un’espressione confusa, mi guardò semplicemente. Quando io abbassai il capo per la vergogna, assunse uno sguardo addolorato e rabbioso, e ne aveva tutto il diritto. Ero rovinata, e adesso lui stava per pagarne le conseguenze.
“Sì. Non è tanto un angelo adesso, non è vero? Un vero peccato che sarai tu a pagarne le conseguenze, no?” . Volevo sussurrare il nome di Yaacov, solo per catturare la sua attenzione. Desideravo fargli credere che quella non era la verità. Desideravo essere cullata tra le sue braccia e sentirmi al sicuro; ma non ero tanto fortunata. Fui scostata da parte da un calcio, mentre lo vedevo camminare dietro Duncan verso il crematorio.
“Yaacov, per favore” gracchiai, abbastanza forte da farmi sentire da lui. Si voltò, e mi diede una sola occhiata nauseante che mi sarebbe rimasta impressa per tutta la vita. Amara e contorta, la sua bocca formava una dura linea che non lasciava intravedere nemmeno una traccia di dove una volta vi era stato un sorriso. I suoi occhi erano scuri e bui, facevano bruciare nella mia anima tutta l’impurità e il dolore che avevo causato a qualcun altro e urlavano le parole “ti odio”. Il suo volto adesso era scarno e superficiale, la gioia e la luce che vi erano una volta permanentemente scomparse. La sola cosa che riuscii a fare fu emettere un singhiozzo quando si voltò e camminò verso la sua morte. Duncan si voltò a guardarmi, un duro sogghigno permanentemente scolpito sulle labbra. Ma i suoi occhi erano completamente diversi. Stavano urlando “ aspetta solo fino a stasera”.
Stasera. Oh, Signore. Che avevo fatto? Non solo a Yaacov, ma anche a me stessa? Duncan aveva intenzione di uccidermi lui stesso stasera, dopo avermi violentata e aver picchiato ogni parte del mio corpo. Sarebbe stata certamente una sera esemplare, nella maniera più maligna.
Il lavoro tornò alla normalità, voglio dire, per l’altra gente del campo. Io , d’altronde, stavo ricevendo occhiate multiple e atti di amaro risentimento per aver mandato il mio amore a morte. Non era abbastanza il senso di colpa per il mio cuore spezzato? Chiaramente la risposta era un no, vedendo come gli atti continuarono durante il giorno, finchè finalmente non riposai sul mio ripiano e singhiozzai l’anima. Adesso era morto, la luce dei miei occhi era morta. Chi era da incolpare per questo? Non Duncan, lui no. Me, solo me. Rimasi sul mio ripiano per una buonora prima di essere spinta giù rozzamente.
“ Alzati ingrata stronza! Come hai osato farti una storia d’amore alle mie spalle? Non ti ho insegnato nulla? Ora guarda cosa hai fatto, hai fatto morire un povero giovane innocente”. Queste parole non provenivano da un’altra donna. Non provenivano da Eliana, o da Leah. Queste parole provenivano da mia madre. Mia madre. Io mi limitai ad alzare lo sguardo verso di lei e lei implacabilmente mi diede un calcio su un fianco.
“Sei contenta adesso, puttana? La tua vita ha un valore ora, stronza? Spero tu sappia quanto sono orgogliosa di te in questo momento. Tuo padre si sarebbe vergognato così tanto di te. Non voglio mai più rivolgerti di nuovo la parola”. I miei occhi si riempirono di lacrime a queste affermazioni ma non dissi nulla sperando di calmare la situazione. Speravo, allo stesso tempo, che mi avrebbe perdonata.
“Il tuo amante tedesco ti sta aspettando” sputò “Vai”. Quando io non mi mossi, lei mi diede un calcio più forte.
“ Ho detto ‘VAI’, bugiardo, ingrato pezzo di merda!” . Più veloce che potevo nella mia condizione, mi alzai e mi affrettai verso la porta, dirigendomi verso la camera di Duncan in assoluto silenzio. Mia madre mi aveva letteralmente diseredata. Non mi voleva più bene. E se mia madre non mi voleva più bene, quali ragioni avevo per continuare a vivere? Nessuna, ecco quali.
Raggiungendo la camera di Duncan, allontanai gli occhi ed aspettai alla porta per delle direzioni. Non venne nessuno. Invece, lui si alzò e iniziò a camminare intorno a me in un lento cerchio regolare. Il ritmo e la ripetitività dell’azione era quasi calmante, se non fosse stata una situazione che m’avesse coinvolto.
“Il tuo amante era molto arrabbiato con te. Non ha fatto nemmeno un suono di protesta quando l’ho spedito ad essere gassato. Gliel’hai insegnato tu? Lo hai istruito bene” disse, tra sé e sé, e senza aspettare una mia risposta. Cosa mi era rimasto da dire? Conoscevo già tutto questo; stavo soltanto aspettando che mi picchiasse e mi violentasse, così potevo finalmente andare a dormire.
“Spero tu abbia imparato una lezione da tutto questo. Io sono il tuo unico “amore” qui nel campo. Sono l’unico che ti sia permesso baciare e toccare. Se ti colgo anche solo a guardare di nuovo qualcun altro di sesso opposto, ti spedisco ad essere gassata. Capito?” annuii depressa, non sapendo se avevo la facoltà di parlare.
“Non ti sento, Channa
“Sissignore”
“Hai imparato una lezione da ciò che è accaduto?” Sì, certo. L’amore era stupido e portava solo dolore e sofferenza. L’amore in un campo di concentramento era pericoloso e senza senso. Se Duncan scopre il tuo amore, ti violenterà ed ucciderà il tuo amante. Se ti innamori, il tuo amante verrà ucciso. Ecco le lezioni che avevo imparato, ma ce n’erano molte, molte, molte di più.
“ Sì, l’ho sicuramente imparata, Signore”.
“Brava ragazza. Ora, credi sia necessario che tu venga punita stasera?” . Mi ci volle del tempo per rispondere. Sebbene la mia risposta iniziale fosse un definito “no”, qualcosa mi trattenne dal pronunciare la particolare risposta. Credevo fosse necessario che venissi punita. Non che stessi cercando di venire punita, ma sentivo che era esattamente quello di cui avevo bisogno. Ero una ragazza disubbidiente e che si era comportata male, e avevo bisogno di imparare appieno la mia lezione.
“Sissignore, è necessario che venga punita. Ho disobbedito a te e alle regole, e ho bisogno di punirmi per questo. Punitemi come volete, Signore”. I suoi occhi si spalancarono dallo stupore, ma accettò senza protestare.
“Capisco. Mi dai il permesso di fare di te come mi pare senza opporre resistenza e con completa tolleranza?” Il mio sguardo era duro e la mia bocca era curvata in amaro risentimento. Mi meritavo qualunque cosa mi sarebbe stata servita a tavola. Non potevo tornare indietro adesso, ecco tutto.
“Sissignore”.
E così, la notte più lunga e dolorosa della mia vita ebbe inizio.  

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Capitolo 10
*** La nuova ragazza del campo ***


“Che sta succedendo?” chiesi, cercando di farmi spazio tra la folla. Si era creato un grosso scompiglio all’entrata del campo,  e non avevo assolutamente idea di cosa diavolo stesse accadendo.
Ovviamente, non rispose nessuno, anzi, alcuni tentarono di sbarrarmi la strada. Era incredibile quanto le persone potessero ancora essere diffidenti nei miei confronti, settimane dopo l’incidente.
Mi ero temporaneamente dimenticata di lui, poiché non c’era bisogno di ricordarsene al momento. Ero tornata ai miei vecchi atteggiamenti, quelli dove le regole e il loro seguirle erano la mia priorità assoluta. Non parlavo a nessuno dei miei vecchi amici, figuriamoci a guardarli. E comunque Eliana si era uccisa, non più capace di sopravvivere nel campo. Era accaduto solo circa una settimana fa, proprio dopo cena. L’avevo trovata nella baracca sul suo letto, girata su un lato. Avevo immaginato che stesse solo piangendo la perdita dei fratelli, ma con un’ulteriore ispezione avevo scoperto che una sottile fune era legata attorno al suo collo. Tutto quello che ero riuscita a fare era stato sussultare dall’orrore ed abbassare la testa, per poi andare ad avvertire gli altri. Qualcosa di questo genere non era fuori dell’ordinario. Le morti erano comuni. Non la biasimavo per aver voluto il suicidio, aveva già perso suo figlio, la sua sorella più piccola, e recentemente i suoi fratelli – che erano stati uccisi per essersi ammalati- e dopo il mio allontanamento, non le era rimasto nessuno oltre ad una madre insofferente che badasse a lei. Capivo come le fosse venuta in mente quell’idea; nonostante la tentazione di suicidarmi fosse stata minimizzata, era ancora presente.
Facendomi largo tra la folla, riuscii a vedere un camion, e un improvviso senso di nostalgia prese il sopravvento. Quelli erano gli stessi camion che avevano trasportato mia madre e tutti gli altri fino al campo, così tanto tempo fa. Combattendo contro il deja-vu, mi si presentò una scena familiare, i soldati tedeschi che ordinavano in giro i nuovi prigionieri, dividendoli in due sezioni. Sapevo quale sarebbe stato il loro destino, anch’io ci ero passata e ero vissuta nel terrore; il ricordo era ancora duro come la pietra nella mia mente.
“Hey! Quezto non è giuzto! Mia mazdre!” urlò una ragazza della nuova spedizione in un accento a me estraneo, trascinata da un soldato dove doveva stare. Ad occhi spalancati osservai la ragazza, affascinata dalla sua bellezza che sarebbe presto scomparsa. Era sottile e delicata, il suo corpo era come quello di un uccellino. I suoi capelli erano color ebano e le raggiungevano le labbra in splendidi ricci, più carini di quanto avessi mai potuto sperare per i miei capelli. Ero invidiosa delle sue qualità, della sua bellezza, della sua grazia; tutto quello che era stato rubato via da me. Non c’era da preoccuparsi, ricordai a me stessa, tutto questo le sarà portato via in una questione di minuti.
“E’ già morta. Ora esegui gli ordini” ordinò la guardia, spingendola, mentre piangeva in silenzio, tra le altre donne. Provando un senso di rimorso nei confronti di questa ragazza, volli avvertirla su quello che stava per accadere, così sarebbe stata meno terrorizzata. Volli spiegarle le regole, darle cose per la quale avrei ucciso il mio primo giorno. Ma eravamo separate da una staccionata, e se l’avessi mai rivista, sarebbe stato troppo tardi. Sottraendomi a quella vista, iniziai a tornare alla cucina, con l’intenzione di riprendere le mie mansioni prima che le guardie avessero visto tutto questo scompiglio e avessero iniziato ad infliggerci punizioni. Solo Dio sa che era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Il lavoro procedette come al solito, ma la mia mente si concentrò sul compito, il quale fu presto terminato. Le due ragazze che avevano precedentemente lavorato qui adesso erano morte, poiché una non aveva eseguito gli ordini, e l’altra per malattia. Così adesso ero sola in cucina. Tutto il lavoro era stato affidato a me. Non che me ne fossi lamentata, per chi c’era da lamentarsi? Mia madre mi ignorava, in quanto mi aveva diseredata e non mi considerava più sua figlia, tutti i miei amici erano morti, e il resto delle donne mi evitava. Inoltre, se fossi stata sorpresa a lamentarmi, ci sarebbero state delle serie conseguenze. Così lavoravo semplicemente senza proferir parola e svolgevo ogni mansione senza un lamento.
Ore dopo, dopo cena, camminai verso le baracche silenziosamente, strofinandomi le macchie viola sul mio polso ossuto. Ero scivolata e caduta lavando i pavimenti, ed ero atterrata di polso nel tentativo di attutire la caduta. Aprendo la porta scricchiolante della baracca con la mano buona, mi si presentò davanti agli occhi una scena familiare e nostalgica. Le ragazze e le donne nuove sui loro ripiani, singhiozzanti tra i cuscini mentre noi, le esperte, le confortavamo per la prima notte. Volendo andare a offrire conforto io stessa, fui fermata quando le donne si voltarono a guardarmi, facendomi ritrarre. Passando tra i ripiani, mi accorsi che vi era un sacco di nuova gente. Cercai la bella ragazza che avevo visto in precedenza, ma senza risultato. Mi arrampicai sul mio ripiano e rimasi là, ascoltando i familiari singhiozzi e lamenti; ma uno era diverso dagli altri.
“Mon maman, mon maman” singhiozzò una giovane voce, parlando in una lingua straniera. La voce era vicina, e non mi ci volle molto per capire che si trovava proprio sopra il mio ripiano. Nessuno la confortava, molto probabilmente perché la sua voce era troppo bassa per poter essere sentita, e gli altri ricevevano più attenzioni. Provando pietà per questa ragazza trascurata, mi arrampicai sul suo ripiano e portai gentilmente una mano sulla sua schiena, rassicurandola per la sua miseria. Lei sollevò la testa rasata e mi guardò con lacrimanti occhi marroni. Era la ragazza di prima, quella che una volta era stata tanto bella. Ora era vestita con stracci, davvero simili ai miei, notai abbassando lo sguardo verso il mio abbigliamento, e il suo aspetto era stato rovinato in meno di un paio d’ore.
Senza esitazione la presi tra le braccia e la lasciai piangere fuori tutto, ne aveva bisogno. Mia madre c’era quando fui costretta a passare la mia prima notte qui, e questa ragazza aveva bisogno di qualcuno. La tenni per un po’ prima che qualcun altro se ne accorgesse. Mia madre ci notò per prima, arrampicandosi sulla cuccetta della ragazza e togliendomela dalle braccia, lanciandomi un’occhiata gelida che chiaramente affermava “vattene. Non c’è più bisogno di te”. Notandola, molte donne vennero sul ripiano della ragazza, il quale improvvisamente si affollò. Sentendomi indesiderata, ritornai al mio posto, cercando di ascoltare la conversazione.
“Cara, qual è il problema?” le chiese tranquillamente mia madre, come se la ragazza fosse sua figlia, al posto di quella che aveva appena cacciato.
“Mon maman” singhiozzò lei, la parola sconosciuta mi tintinnò in testa.
“Sì Tesoro. Sai parlare inglese?” . Passò un istante prima che si schiarisse la gola e tirasse su col naso.
“Mia, mia mazdre” disse in un leggero accento, facendo comprendere un po’ difficilmente quello che stava dicendo. Tesi le orecchie per sentire di più e per comprendere cosa fosse successo esattamente alla madre della ragazza. “Lei…Lei zi è addormentata zul treno, e la guardia non mi ha permezzo di z-zvegliarla quando ziamo arrivate. E’ ztato cozì o-orribile” concluse, ricadendo di nuovo nei singhiozzi. Scoprii che la madre era morta sul treno che le stava trasportando al campo, soffocata dalla mancanza di aria. Mia madre me l’aveva descritta una notte, e ne ero rimasta terrorizzata e grata del fatto che avessi compiuto il viaggio con Duncan.
“Da che Paese vieni?” chiese una donna, con mia grande soddisfazione.
“Francia. Ci ziamo arrezi ai Tedezchi, e loro hanno catturato tutti gli zingari, gli ebrei, e tutti coloro che hanno ozato ribellarzi. Mia mazdre zì è rifiutata di reztare, e mi ha obbligata a zeguirla. L’ultima coza che zo è che ziamo ztate caricate in un camion e ziamo zoffocate quazi per ztre giorni” ricordò, sembrava una storia chissà perché familiare.
“Lo sappiamo Tesoro, lo sappiamo” la tranquillizzò mia madre, e tutte le altre donne furono d’accordo con lei, cercando di confortarla. Trattenni le lacrime, e chiusi gli occhi, non volendo sentire più nulla di tutto ciò. Come poteva mia madre trattare un’estranea con più amore e compassione rispetto a sua figlia? Riuscii a sonnecchiare per poco prima che una rozza mano mi svegliasse.
“Svegliati, ora. Scambierai il tuo ripiano con quello di Jacqueline” disse una fredda voce familiare, scuotendomi ancora con le sue mani rozze e magre. Mi resi velocemente conto che colei che aveva parlato era mia madre e mi tirai su lentamente, strofinandomi gli occhi dal sonno.
“C-chi?” balbettai, abbastanza confusa. Chi era questa Jacqueline? E perché avevo bisogno di scambiare il mio ripiano col suo? Il mio mi andava già bene. Mia madre sospirò impaziente e diede un’occhiata rassicurante alla familiare ragazza francese che stava in piedi dietro di lei, e che sembrava timida e spaventata come un topolino. Guardò prima mia madre e poi me come se non riconoscesse il legame tra noi.
“Jacqueline” disse mia madre, il nome suonava melodico ed esotico sulla sua lingua. Indicò la ragazza accanto a lei e io spalancai gli occhi.
“C-Che? Perché?” Perché dovevo scambiare il mio ripiano col suo? Il suo non le andava abbastanza bene? Erano tutti uguali, nessuno era più confortevole dell’altro.
“Jacqueline ha bisogno che una madre le stia accanto, ed io mi sono offerta di prendere il suo posto. Deve stare accanto a me. Ora alzati” . Restai sgomenta per questa affermazione, un freddo torpore si sparse in tutto il mio corpo e mi impedì ogni movimento. Doveva essere tutto un sogno, uno dei miei soliti incubi. Dovevo soltanto cancellarlo dalla mia mente. Afferrai una qualunque parte grassoccia mi fosse rimasta sul braccio e iniziai a pizzicarla tra il pollice e l’indice così forte che l’azione produsse un dolore atroce.
“M-ma, tu sei mia madre! Ed io soffro di vertigini! Questo è il mio letto, sono stata qui per mesi!” soffocai, emettendo una qualunque cosa mi avrebbe permesso di sostenere la mia causa. In verità, ero troppo sgomenta e stanca per tirar fuori un argomento convincente. La cosiddetta “Jacqueline” sembrava a disagio e abbastanza scioccata mentre guardava prima mia madre e poi me. Mia madre era irremovibile e mi guardò con cipiglio, non mostrando alcun segno di perdono.
“Poco male. Ora fate a scambio”. Con riluttanza afferrai il mio maglione e mi arrampicai su quello che sarebbe dovuto essere il ripiano di Jacqueline. Freddo e inospitale, il ripiano era un’esatta replica del comportamento di mia madre nei miei confronti. Come aveva potuto rimpiazzarmi con qualcuno che aveva appena conosciuto? Silenziose lacrime mi scesero sul viso, mentre cercavo di mettermi maggiormente a mio agio sullo sconosciuto ripiano.
Come aveva potuto? Mia madre. A dispetto del precedente senso di pietà verso Jacqueline, non potei fare a meno di sentirmi molto invidiosa del fatto che mi aveva rubato mia madre solo in poche ore. Cosa aveva di tanto speciale questa ragazza? Cosa aveva lei che io non avevo?
Mia madre.
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“Mi dizpiace cozì tanto, Courtney” si scusò Jacqueline per la milionesima volta, strofinando i pavimenti affianco a me in cucina. Lei ed altre quattro ragazze erano state assegnate al servizio in cucina, con mio gran divertimento ma allo stesso tempo seccatura. Ovviamente non avrebbe potuto sapere che mi avesse rubato mia madre; ma la ragazza stava ammaliando tutti con il suo fascino e la sua eloquenza, ed era solo il suo quarto giorno qui! Lo ammetto, ero sempre più gelosa della sua bellezza; nonostante i suoi capelli fossero andati, rimaneva una bellezza abbastanza affascinante, i suoi occhi marroni sprizzavano calore e conforto a chiunque incrociasse il suo cammino.Io, d’altronde, non avevo bellezza; i miei capelli,il mio miglior pregio, erano andati, i miei occhi erano scarni e senza profondità, e il mio corpo pelle e ossa. Quanto era giusto che agli altri lei piacesse di più? Quanto era giusto che lei fosse ogni cosa che io desideravo essere?
Ignorando le sue continue scuse, continuai a strofinare i pavimenti finchè le mie nocche non furono rosse. Almeno c’era una cosa che sarebbe sempre rimasta uguale; il mio lavoro, e le mie visite da Duncan. Sarebbe tornato in qualunque giorno, e a dispetto del mio comune odio nei suoi confronti, desideravo dirgli cosa mi preoccupava. Certo, avrei probabilmente ricevuto una lunga ramanzina, e poi una punizione, ma era ancora una cosa che volevo fare.
Poiché stavo già pensando alle mie prossime visite da Duncan, lasciai che la mia mente si allontanasse dalla melodica voce di Jacqueline e cominciasse a pensare solo a lui. Le cose si erano fortunatamente raffreddate tra me e Duncan, non come erano prima, ma allo stesso tempo migliori. Lui aveva realizzato che avessi imparato bene la lezione, ed aveva iniziato di nuovo a parlare semplicemente con me. Vediamo se l’infame Jacqueline riuscirà a portarmelo via. Io ero sua, e lui era mio, e assolutamente nulla, o nessuno, per essere più precisi, riuscirà a portarmi via questo titolo.
Con questo pensiero felice in testa, continuai a lavorare, cercando di ignorare Jacqueline con immenso piacere. Sebbene fosse stato difficile; Jacqueline era un’esperta nel preparare la zuppa e nel pulire la cucina, e pure da sola. Era stato difficile trattenermi dal roteare gli occhi o dal ringhiare ogni singola volta che faceva qualcosa di perfettamente giusto o ogni singola volta che coglieva un commento di qualcun'altra. Quando la guardia mi scortò da Duncan, ebbi una mezza idea di scattare verso i suoi alloggi. Ma dovevo essere paziente e seguire le regole, volevo essere ricompensata. Quando fui tra le braccia di Duncan, stavo praticamente saltellando. Lui sapeva che dovevo dirgli qualcosa, ma continuò a torturarmi, trattenendomi nell’abbraccio più a lungo del necessario.
“Va bene Prinzessin, sei stata brava. Puoi parlare” disse finalmente, lasciandomi andare, sedendosi sul letto e dandosi un buffetto sulle ginocchia, il mio segnale per venirmi a sedere. Solo dopo essermi seduta sulle sue ginocchia ed avergli baciato le guance più volte seppi che potevo davvero parlare con lui. Sapevo quello che gli piaceva, e ciò mi fu provato ancor di più quando si lasciò sfuggire un gemito ed avvolse le braccia attorno alla mia vita.
“Mi sei mancata, Prinzessin” sorrisi, sentendomi meglio di quanto non lo fossi stata in tutta la settimana. Mi sentivo bene a sapere che gli ero mancata, un altro passo verso il completo perdono. La frase mi fece venire le farfalle nello stomaco e io sorrisi sinceramente, cullandogli la guancia nella mia mano.
“Mi sei mancato anche tu” ammisi, sapendo che era la verità. Mi era mancato. Mi era mancato il modo in cui io ero sua, e lui mio, e quella stupida Jacqueline non potrà mai entrare nel nostro mondo. Dunque, il modo in cui mi era mancato era un po’ egoista, e solo per competizione con Jacqueline, ma, nel profondo, c’era di più. Mi era onestamente mancata la sua compagnia. Non mi erano mancate le sue punizioni, ma mi era mancato il modo in cui i suoi occhi si illuminavano un pochettino ogni volta in cui entravo nella sua stanza. Mi erano mancate le sue accuse brusche ma vere. Mi era mancato il modo in cui mi abbracciava, così forte che pensavo che le mie ossa si sarebbero rotte. Io ero veramente sua, e, nei miei limiti, lui era mio.
“Ora, che è successo?” chiese, facendomi risvegliare dal pacifico torpore. Sbattendo le palpebre e arrossendo leggermente, lo guardai, lo sguardo d’intesa nei suoi occhi mi diceva che sapeva esattamente a cosa o meglio, a chi, stessi pensando. Voltando la testa lontano dai suoi occhi ammaliatori, sospirai, ed mi attorcigliai un ampio brandello del vestito prima di iniziare a divagare.
“Bé, ho dovuto occuparmi da sola della cucina per un po’ dopo la morte di Eliana, e mia madre mi tratta come spazzatura, e sono scivolata e mi sono slogata il polso un paio di giorni fa, e ho accidentalmente fatto un passo falso due giorni fa, così una guardia mi ha dato dieci frustate e…”
“Prinzessin” mi interruppe, afferrandomi il mento e costringendo così la mia divulgazione di notizie senza senso a fermarsi. “Una cosa alla volta. Dunque, vediamo se ho capito. Una tua amica si è uccisa, tua madre ti manca di rispetto, ti sei slogata il polso e sei stata frustata?” annuii lentamente, vedendo che aveva ascoltato ogni cosa che avevo appena detto con visibile accuratezza. Sapevo che gli ci erano voluti un paio di mesi per acquisire questa abilità, con tutte le divagazioni che avevo fatto in passato. Con un sospiro mi fece scendere dalle ginocchia e si alzò, andando verso il suo comodino e frugando nei cassetti prima di tirare fuori un kit di pronto soccorso. Come di routine, mi alzai anch’io e mi voltai, iniziando a togliermi i vestiti senza una parola, e poi tenendo il vestito sui seni mi stesi a pancia in giù sul letto. Lui iniziò ad applicarmi i farmaci sulle ferite cicatrizzanti, e non spiccicò parola se non verso metà del lavoro.
“Adesso, dimmi cosa davvero c’è che non va. Potrei dire che mi nascondi qualcosa” Diamine. Il maledetto Tedesco riusciva a leggermi come un libro dopo un paio di mesi di attenta osservazione dei miei movimenti e delle mie azioni. Sospirando frustrata, mi lasciai sfuggire un gemito ma decisi che avrei fatto meglio a parlare.
“Un paio di giorni fa è arrivato un nuovo carico”.
“E? Qualcosa su questo argomento ti irrita davvero”. Annuii, sentendo riaffiorare di nuovo il mio odio verso la schifosa, folle ragazza prepotente.
“C’è questa nuova ragazza, che è perfetta. E’ bella, gentile, svolge tutto il duro lavoro senza un lamento, ed è assolutamente vomitevole. Piace a tutti! Anche a mia madre piace di più! Tratta Jacqueline come se fosse sua figlia, al posto mio! E’ il mio rimpiazzo, ne sono sicura” esplosi, respirando pesantemente. Poco dopo sentii la sua mano sul mio fondoschiena, lo accarezzava gentilmente, ma con una fermezza che era del tutto rilassante.
“Dunque, si chiama Jacqueline? Deve provenire dalla Francia. Ecco dove sono stato in questi giorni; abbiamo ripulito la Francia di tutti gli Ebrei, gli Zingari, e chiunque altro” . Annuii, non avendo nient’altro da dire. Trascinò le dita giù per le mie gambe, un’azione che mi fece tremare involontariamente.
“Non preoccuparti, Prinzessin. Chissenefrega di tutti gli altri? Probabilmente moriranno tutti in un paio di mesi. E se tua madre continua a trattarti di merda, mi assicurerò personalmente che si trovi in prima linea per le camere a gas”. Spalancando gli occhi, iniziai a respirare leggermente, chiedendomi se davvero avrebbe fatto una cosa del genere. Mi ci volle un minuto buono per capire che era il suo modo di consolarmi e di farmi sentire meglio. Sorridendo leggermente, scossi la testa, sapendo che non poteva vedermi.
“Non farlo. E’ mia madre, e nonostante mi odi, io le voglio bene, e la voglio accanto a me, in qualche modo”. Era la verità; sebbene fossi stata profondamente ferita dalle azioni di mia madre, le volevo ancora bene, e volevo vederla, così avrei saputo che stava bene. Se una persona non voleva bene a sua madre, non le rimaneva nulla per cui vivere.
“Bene. Ma se mi dai il permesso…” si interruppe, prima di schiarirsi la voce e continuare.               “Nessuna di queste persone, o i comportamenti che hanno nei tuoi confronti, hanno importanza. Tutto ciò che conta sei tu, la tua salute, il lavoro che fai, ed io. Capito?” non potei fare a meno di sorridere ed annuire, sentendomi rassicurata. “ Non ti sento, Prinzessin. Mi capisci?”
“Sissignore”. Era tutto quello di cui aveva bisogno per strapparmi via il vestito dal petto e per premere frebbricitante la sua bocca contro la mia. “Vi prego, Signore. No…per favore, non fatelo” piagnucolai, sentendomi a disagio, ma sapendo cosa sarebbe successo questa notte.
“No. Ho bisogno di fortificare il patto. Ho bisogno di assicurarmi che non disobbedisci”. Sentendo le lacrime formarsi nei miei occhi, non potei far nulla se non sottomettermi a lui, la sola cosa che sentivo di cui potevo godere erano i suoi rozzi baci sulla mia bocca.
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“Courtney, mi aiuterezti con quezta zuppa? Oneztamente non mi zembra che ztia pelando le patate nel modo giuzto” . Storcendo il naso per il modo in cui la voce di Jacqueline suonava così dolce e melodica, e la mia, leggermente nasale, così sgradevole, mi alzai in piedi riluttante e andai verso il banco, afferrando una patata e un pelatore ed iniziando a pelarla in silenzio. Un’intera settimana al campo, e ancora non sapeva come pelare le patate, che patetica. Perché la stavo pure aiutando? Avrei dovuto ignorarla e lasciarla imparare per conto suo, oppure lasciarla morire perché non riusciva a svolgere un semplice compito. Ma ciò non sarebbe mai successo alla preziosa Jacqueline; le altre ragazze glielo avrebbero insegnato prima che lei potesse persino chiederlo, per poi squadrarmi con feroci occhiate per aver tradito la loro amabile Jacqueline.
“Oh grazie mille! Non ho idea di coza avrei fatto senza di te” mi ringraziò profusamente, sforzandosi di pelare le patate accanto a me. Pensava di essere così perfetta che mi faceva sentire male in larga misura. E gli altri pensavano che fosse così carina, il modo in cui era come una verginella, e che sapeva fare questo e quello senza l’aiuto di nessuno. Non sarebbe durata, cercai di ricordare a me stessa. Oppure, almeno questo è quello che speravo succedesse. Magari Duncan avrebbe potuto ucciderla per me. Rimproverandomi per averlo pensato, ricordai a me stessa che probabilmente mi avrebbe sgridata di nuovo.
“Non ringraziare, solo guarda, e impara” . Lei fu immemore per il mio tono di voce e il mio atteggiamento, e lo fece come se le avessi ordinato qualcosa. Non sapevo perché mi vedeva come un’amica, non ero stata nulla se non fredda nei suoi confronti fin dalla prima notte. O era davvero disperata per gli amici, oppure mancava davvero di un cervello proprio.
Le cose andarono abbastanza bene dopo, finchè non arrivarono degli strani rumori dall’esterno. Non preoccupandomi di voltarmi, dato che sapevo che non erano affari miei, continuai a pelare le patate. Bè, continuai a pelare finchè Jacqueline non mi diede una gomitata su un fianco. Sul punto di voltarmi e sgridarla per aver fatto una cosa del genere, notai lo sguardo preoccupato ma ripugnato sul suo volto. Indicò la finestra, e seguendo la direzione del suo dito notai un gruppo di guardie fuori alla finestra, che ridacchiavano e ci osservavano. Adesso ripugnata io stessa, mi voltai e ritornai alle mie patate, sapendo che non potevo farci nulla se non volevo avere una punizione, o la morte.
“Non hai intenzione di fare qualcoza, Courtney?” . Scossi la testa, non guardandola neppure. Ovviamente no! Non lo aveva imparato fin da subito? Era stata qui per una settimana, nessuno le aveva insegnato le regole?
“E perché?” chiese dopo la mia palese risposta. Era una domanda talmente innocente, ma non potei fare a meno di rimbrottarla per questo. Che ragazza ingenua e sciocca. Se avessi osato dire qualcosa, mi sarebbe costata la vita. Però, dire a lei di fare qualcosa era un’idea che mi tentava.
“Perché sì. Ora, continua a preparare la cena a meno che tu non voglia finire nei guai”. Lei sbuffò e continuò a maciullare le povere patate. Ma le guardie non se ne andarono. Infatti, entrarono ed iniziarono a fare commenti volgari su di noi. Io li ignorai semplicemente, e le patetiche e seccanti occhiate di Jacqueline mi colpirono.
“Che sta succedendo qui?” chiese una voce che conoscevo troppo bene. Sia io che Jacqueline ci voltammo, sperando che questa figura autorevole avrebbe fermato le occhiate ammiccanti delle altre guardie. Ma Duncan non stava guardando me, stava interamente guardando Jacqueline. La stava guardando con lo stesso sguardo che aveva quando guardava me quando eravamo soli, solo molto più gentilmente, come se fosse molto più attratto da lei. Non poteva essere. Soprattutto non dopo la scorsa notte. Le lacrime andavano formandosi nei miei occhi, guardando loro due, ma rifiutai di lasciarmene sfuggire anche una sola. Come poteva essermi accaduto? Prima che potessi fermarmi mi ero lasciata sfuggire un piccolo gemito e avevo fatto cadere la ciotola di porcellana piena di patate, il materiale si sparse ovunque e tutte le patate, adesso rovinate poiché i pavimenti non erano stati ancora lavati, rotolarono dappertutto.
Prima che mi rendessi conto di cosa stesse accadendo circa tre paia di rozze braccia mi afferrarono e mi trascinarono fuori. Sentii Jacqueline gridare, ma non sarebbe stato di aiuto. Nessuno poteva fermare le guardie. Chiusi gli occhi e pregai silenziosamente, sperando con tutto il mio cuore che non sarei stata mandata nelle camere a gas. Sentii qualcuno che parlava in un tedesco rozzo, e fui spinta a terra per un secondo prima che solo un paio di braccia mi afferrassero forte le spalle.
“Cos’è stato?” ringhiò Duncan, sbattendomi in giro furioso e osservandomi con un’occhiata gelida.
“M-mi dispiace…m-ma tu, e Jacqueline…”
“Dunque era quella Jacqueline? E’ davvero carina…e non è un’Ebrea…” si interruppe, osservando inespressivo un punto indefinito davanti a lui, non guardando più davvero verso di me. Non ci potevo credere, anche lui ne è rimasto ammaliato! Come poteva? Perché mi sentivo in questo modo in primo luogo? Duncan era un soldato cattivo, non avrebbe dovuto significare nulla per me. Infatti, dovrei essere contenta del fatto che si stava interessando ad un’altra ragazza. Mi avrebbe lasciata in pace, e sarei stata libera. Ma non mi sentivo in quel modo, e non sapevo perché. Come se si fosse accorto di nuovo della mia presenza, aggrottò la fronte e scosse la testa, molto probabilmente per chiarirsi le idee.
“Ora, torna al lavoro. Pulisci il casino che hai fatto, e cerca di comportarti bene, okay?” . Potei semplicemente annuire in silenzio, lui mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò. Tornai in cucina, sentendomi dannatamente intorpidita. Che cosa era appena accaduto? Jacqueline mi abbracciò con gioia, ma non le prestai attenzione. Il lavoro fu confuso, posso ricordarlo a mala pena, tranne per il duro momento in cui Duncan aveva guardato Jacqueline negli occhi. Non poteva essere attratto da lei, non poteva. Non era giusto, lui era mio. Mio e non suo. Riuscii a calmarmi e mi costrinsi a guardare in faccia la realtà. Era probabilmente sbalordito per la sua bellezza, tutti lo erano. Anch’io all’inizio. Rilassandomi un po’, mi diressi verso le baracche, non vedendo l’ora di andare da Duncan.
Avrei permesso che mi abbracciasse finchè le mie ossa non si sarebbero rotte, e poi lo avrei baciato dappertutto, dimostrandogli quanto desiderassi la sua compagnia. Dopo qualche inutile chiacchierata mi avrebbe spinta a forza sul letto e mi avrebbe violentata, a dispetto delle mie deboli proteste. Magari oggi non avrei protestato; avevo bisogno, no, bramavo la sua attenzione. Mi sedetti sul mio ripiano, preparata ad aspettare i pochi minuti che ci sarebbero voluti per la guardia per entrare e scortarmi. Quando la porta si spalancò ero pronta a saltar giù dal mio ripiano, ma aspettai paziente.
“Il Comandante Duncan desidera vedere il numero 2947260 immediatamente nei suoi alloggi”. Il mio volto sbiancò ed il mio corpo si raggelò. Non era il mio numero; non ci andava neanche vicino al mio numero. Guardai ad occhi spalancati come Jacqueline camminò esitante verso la porta, e il soldato la spinse rozzamente fuori. Aspettai ore, sperando che un’altra guardia fosse entrata e mi avesse portata da Duncan. Ma non ne venne nessuna. E Jacqueline non tornò in un paio di minuti, e neppure in un’ora. Ma continuai ad aspettare finchè ore dopo le luci si spensero e tutti si addormentarono. Nessuna guardia sarebbe venuta per me. Duncan non mi avrebbe vista questa sera.
Sentendomi come se il mio cuore pesasse più di una tonnellata, mi misi in posizione per dormire sul ripiano, sfogandomi piangendo un paio di lacrime amare. Cosa avrebbe potuto significare? Voleva vedere Jacqueline al posto mio; lei gli piaceva di più. Era riuscita a portarmelo via, l’unica cosa che ero certa non sarebbe mai riuscita a togliermi. Mi sentii come se un gigantesco schiaffo mi avesse colpita in faccia; non dovrei essere felice? Ero libera da Duncan! Non voleva vedermi più! Non dovevo più essere picchiata o violentata! Dovrei essere felice, no, estatica.
Ma per qualche motivo, non lo ero. Per qualche motivo, mi faceva male più di ogni altra cosa al mondo. Faceva più male della prima volta in cui Duncan mi aveva picchiata. Faceva più male della prima volta in cui ero stata frustata. Faceva più male del tradimento di mia madre e persino della prima volta in cui Duncan mi aveva violentata. Per provare le mie affermazioni, le lacrime corsero più veloci e più numerose sul mio viso, e dovetti fare un grosso sforzo per non far rumore.
Cosa significava questo dolore? Non potevo essere attratta da lui, non potevo. Sarebbe stato un tradimento verso tutto quello in cui credevo. Sarebbe stato un tradimento verso la mia famiglia, i miei morali, la mia etica, la mia religione, e tutte le cose che avevo detto di lui la prima volta che l’avevo visto. Inoltre, io ero un’Ebrea, e lui un Tedesco; non mi avrebbe mai vista come qualcosa di più se non come spazzatura. Quindi non potevo essere attratta da Duncan.
Ma la penetrante sensazione nel ventre mi diceva l’esatto opposto.      

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Capitolo 11
*** Mi manchi ***


Erano oltre due settimane che non vedevo Duncan. Erano due settimane che Jacqueline lo vedeva ogni singola notte, tornando alle baracche con dei piccoli sorrisi sul volto. Non vedere Duncan mi faceva stare male; letteralmente. Non c’era un singolo giorno in cui non mi fossi svegliata nel bel mezzo della notte, avessi vomitato fuori le budella e pianto, supplicando in silenzio di poter riavere Duncan. Volevo strappar via la gola a Jacqueline ogni volta che posavo gli occhi su di lei. Non era giusto. Non era giusto che fosse riuscita a rubarmelo così facilmente. Non mi importava più di tutto quello che mi aveva già rubato; i miei amici, mia madre, il mio aspetto. Ma Duncan. Stava oltrepassando il limite già troppo ristretto. Lui era mio e avrei fatto qualunque cosa per riaverlo.
Non potevo più negare i miei sentimenti per Duncan; ero profondamente affezionata e attratta da lui. Mi aveva fatta innamorare, aveva preso in ostaggio il mio cuore fin dall’inizio. Bè, era chiaro che all’inizio potevo dire che il suo aspetto era molto seducente, ma quasi sicuramente non ero innamorata di lui. Ma, in qualche modo, anche allora, aveva preso in ostaggio il mio cuore. Qualcosa di lui era stato profondamente interessante, e non riuscivo a credere che mi ci fosse voluto così tanto tempo per capirlo.
Appena realizzato questo sorprendente fatto, circa un giorno fa, seppi che dovevo fare qualcosa per Jacqueline. Sapevo che Duncan una volta aveva provato qualcosa per me, non importa quanto era piccolo quel qualcosa, non sarebbe sparito facilmente. Avevo bisogno di riavere Duncan, a qualunque costo. Il solo problema era come avessi intenzione di dirglielo, dato che non mi aveva mandata a chiamare per oltre due settimane.
Sospirando leggermente, passai una mano sulla testa ispida e mi rigirai sul ripiano. Duncan, Duncan, Duncan. Mi stava sempre in testa, dato che onestamente sentivo sempre la sua mancanza. E se fossi morta domani e non avessi mai avuto occasione per dirgli quello che provavo?
Mettendo da parte la razionale paura e il disgusto che mi dava, davvero non riuscii a credere cosa provavo per lui. Sembrava quasi…amore. Il pensiero era ridicolosamente assurdo, e ironico, dato che il fatto di essere innamorata di un Tedesco che non aveva fatto altro che rendermi la vita impossibile e assicurarsi che andasse ancora peggio era semplicemente orripilante. Eppure, non lo odiavo più. Avevo visto parti di lui che ero sicura nessuno avesse mai visto prima. Conoscevo cose su di lui che nessuno avrebbe mai immaginato gli appartenessero. Il pensiero mi sbalordì ma mi terrificò allo stesso tempo.
E se Duncan si fosse davvero stancato di me? Allora cosa avrei fatto? Lacrime indesiderate e l’instabile sensazione nella pancia ritornarono mentre frettolosamente afferravo la ciotola dal fianco e sobbalzai mentre ci vomitavo dentro. Dopo aver finito, mi ristesi e cercai di ignorare la puzza insieme al disturbante pensiero che senza dubbio mi aveva causato la nausea. Non potevo pensare a simili cose. Dovevo essere positiva e pensare che il meglio doveva ancora venire.
Un'altra fitta nella pancia mi fece gemere e dubitare immediatamente di me stessa. Ma chi prendevo in giro? Non avrò mai visto Duncan di nuovo, ecco tutto. Aveva intenzione di stare con Jacqueline per sempre, si sarebbero sposati, e avrebbero avuto una splendida bambina con gli occhi blu di lui e i capelli ricci color ebano di lei. E lui l’avrebbe amata come desideravo che mi avesse amata, e io sarei finita come un cumulo di cenere per essere stata cremata di mia volontà. Sarà questa la storia della mia vita, dato che il fato aveva chiaramente voluto che fosse finita in questo modo. A meno che non avessi fatto qualcosa. A meno che non avessi fatto qualcosa, qualunque cosa per evitare l’inevitabile.
Costringendomi a chiudere gli occhi e cercando di ignorare il senso di nausea nella pancia, provai a dormire. Il sonno mi avrebbe aiutata, il sonno mi avrebbe aiutata, o almeno era quello di cui cercavo di convincermi. Sapevo che il mio sonno sarebbe anche stato perseguitato da incubi, o da sogni su Duncan, e al momento non volevo nulla di tutto questo. Avrei potuto restare sveglia, ma sapevo che non avrebbe avuto importanza. I sogni sarebbero arrivati comunque, solo come un altro crudele dato di fatto.
Sapevo che se non avessi fatto presto qualcosa sulla mia situazione, mi sarei uccisa quasi sicuramente. Avrei commesso personalmente un’infrazione per venire uccisa. O ancora meglio, sarei andata io stessa verso le camere a gas, allegramente, e mi sarei uccisa là. Ma quella opzione era per lo più improbabile, dato che sono sicura che non mi sarebbe stato concesso il piacere di farlo. Suppongo di poter trovare del filo spinato da qualche parte e di riuscire a strangolarmi.
Sospirando frustrata, chiusi gli occhi ancora di più; ero patetica. Eccomi qui, a parlare di come avessi intenzione di uccidermi. Mi odiavo in quell’istante, mi odiavo semplicemente mentre cercavo di sgombrare la mente per la notte e di addormentarmi per quattro ore.
 
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Un altro giorno, un’altra occasione per sentire Jacqueline che si lamentava incessantemente con le altre ragazze. Trattenendo ogni singola traccia di emozione nei suoi confronti, strinsi le mani a pugno mentre lavavo le stoviglie. Perché la ragazzina non riusciva a chiudere il becco per cinque dannati secondi? La risposta mi era chiaramente sconosciuta dato che si ignorava la mia presenza mentre Jacqueline parlava a vanvera ancora, e ancora, e ancora.
Parlava di cose inutili, per di più di sua madre e della sua vecchia vita. Apparentemente non aveva una vita lussuosa come avevo originalmente supposto. Sua madre aveva quattro lavori in Francia, solo per poter mettere un tetto su di loro. Aveva un padre, ma era rimasto in Francia perché era riuscito a scappare. Secondo lei le mancava terribilmente, ed io riuscii solo a ridere amaramente tra me e me; non sapeva neppure cosa significasse davvero sentire la mancanza di qualcuno.
Quello che davvero accese il mio interesse fu sapere che era stata violentata, ed era rimasta incinta all’età di quindici anni. Ovviamente aveva tenuto il figlio, ma aveva dovuto lasciarlo da un amico quando era venuta qui. Si chiamava Jacques, e, secondo lei, era il più adorabile bambino di tre anni e mezzo che avesse mai visto. La seguiva in giro tutto il tempo come un cucciolo smarrito. Mi stupiva ancora il fatto che era più grande di me di quasi due anni, a dispetto della sua minuscola figura e dell’innocenza tutta intorno a lei.
Qualche volta mi piaceva sentire del suo bimbo. Era certamente un piacere sentirne parlare, poiché mi dava speranze per il mio futuro figlio. Certo, volevo sia un maschio che una femmina, entrambi con gli occhi del padre (chi vorrebbe degli occhi neri come i miei? Nessuno, ecco chi), e, speravo, con personalità vivaci, come era una volta la mia. Sebbene non avessi intenzione di avere figli per molti anni, qualcosa di abbastanza improbabile dalle mie parti. A diciott’anni ci si aspettava da una giovane donna che fosse sposata e con un bambino in arrivo un paio di mesi dopo il matrimonio. Scuotendo la testa al pensiero ridicolo, mi concentrai sul lavaggio delle stoviglie mentre ascoltavo quello che Jacqueline aveva da dire. Questa volta stava raccontando una storiella di quando suo figlio la supplicava di avere dei fratellini.
Mi persi la maggior parte della storia, in parte persa nel mio lavoro, ma maggiormente nel mondo della fantasia per come sarebbero stati i miei figli. Non mi potrei mai stancare della stessa immagine della mia bambina con occhi vivaci e ricci marroni, che mi prega di spazzolarle i capelli o di insegnarle l’alfabeto. Sarebbe stato un giorno felice quando avrei detto a mio marito di essere incinta, sicuro. Dopo un po’ decisi di concentrarmi di nuovo sulla storia di Jacqueline, solo per sentire che era già finita. Decidendo che non avrebbe avuto senso stare a sentire al momento, cercai di concentrarmi sulle stoviglie mezze pulite, solo per sentire una frase che mi fece fermare il cuore.
“Jacques è cozì zimile a Duncan, così zfacciato, eppure così gentile e inconzapevole”.
Il mio cuore si strinse. Stava parlando di lui. Stava parlando di Duncan, in pubblico. Come osava. Desideravo andare dritta da lei e darle un pugno proprio sul naso; ma non potevo. Se una guardia fosse stata sul punto di entrare e l’avesse visto, sarei sicuramente stata mandata a essere gassata, e questa volta Duncan non sarebbe venuto a salvarmi. Anche se fosse apparso magicamente, scommetto che sarebbe corso dritto da Jacqueline e avrebbe ignorato la vecchia me. Sospirando, tesi le orecchie in piena allerta, ascoltando cos’altro avesse da dire la vacca su Duncan.
“Ooh, Jacqueline! Qualcuno è innamorato!” . Quasi crollai; non avrebbe causato una scena gioiosa? Era innamorata di lui! Non poteva essere! Duncan era mio! Non era giusto! Non era giusto! Mi voltai ad occhi spalancati verso la suddetta ragazza, osservando come arrossì e diventò nervosa. Le ragazze continuavano ad indurla a parlare, mentre io volevo solo che lo sporco pavimento mi avesse risucchiata e consumata tutta.
“Bè” squittì la sua giovane voce “ E’ piuttosto bravo a letto”.
Sarebbe una pura e completa bugia se vi dicessi che non sapevo cosa mi fosse preso in quei soli cinque secondi in cui mi ero trattenuta dal farle alcun danno. Rabbia; pura rabbia che mi consumò completamente. Appena trascorsi i cinque secondi, mi lanciai su di lei ed iniziai a picchiare qualunque parte del suo corpo. Non sapevo perché nessuno fermò la mia furia per almeno trenta secondi; probabilmente per lo shock. Sapevo che la sua faccia non sarebbe mai stata bella come lo era una volta. Dopo trenta secondi buoni di pugni sulla faccia di Jacqueline, qualcuno riuscì a tirarmi via da lei e mi mollò un rapido calcio nello stomaco e un pugno in faccia. Potevo sentire il sangue defluire dalle labbra, ma lo ignorai mentre mi lanciavo di nuovo su Jacqueline.
Non sapeva cosa avesse scatenato, ma dopo dieci minuti buoni di lotta, entrambe ci ritirammo, respirando pesantemente e riportando molte lesioni. Guardai il suo volto contuso; l’area attorno al suo occhio sinistro era rossa, segnale che sarebbe presto diventata un occhio nero. Il labbro era gonfio e sanguinante, e aveva numerosi graffi sulle guance e sulla fronte. Speravo che il suo ego fosse stato tagliato come il suo volto; mi presi la libertà di gridarle tutte le maledizioni di cui ero a conoscenza, e desiderai solo che le avesse comprese tutte.
“Non ho finito con te. Ci vediamo alla dizcarica durante la pauza zerale” mi ringhiò in faccia, mentre io stringevo gli occhi a due fessure e annuivo. Non la temevo, per niente. Se voleva combattere, con qualunque mezzo, l’avrei uccisa. Si precipitò fuori della cucina, le sue “amiche” si trascinarono dietro di lei come se fosse la leader di una banda o qualcosa del genere. Fu allora che mi resi conto di aver riportato anch’io delle lesioni. Guardandomi attraverso un coccio di vetro che avevo recuperato, emisi un gemito quando vidi quanto gonfio fosse il mio labbro e che anch’io avrei presto avuto il mio occhio nero.
Passai cinque minuti del mio tempo a gemere e a piagnucolare per le mie ferite, poi tornai dritta al lavoro. Nulla aveva importanza adesso, nulla, eccetto il lavoro. Ero a posto, e sarei stata a posto. Sarebbe successo di tutto a Jacqueline. Come si era permessa di dire che il mio Duncan con lei era bravo a letto? Era mio maledizione! E lui l’avrebbe presto capito a modo mio, sempre che ne avessi avuto il modo.
Passarono ore, minuti, e presto venne la sera. Andando verso la discarica, fui molto orgogliosa del fatto che per una volta lo stomaco non mi si strinse. Non ero nervosa; per nulla. O lei, o me.
Raggiunta la discarica, lei stava lì in piedi, in mia attesa. Alzai i pugni, pronta a combattere, ma lei mi fermò con le sue parole.
“Ma che diavolo vuoi da me, Courtney! Non capizco coza tu abbia contro di me!”. Oh, se solo lo sapesse. Prima che riuscissi a fermarmi, le parole fuoriuscirono dalla bocca come vomito, disgustandomi oltre ogni immaginazione.
“Cosa voglio da te? Fai meglio a prendere appunti, perché è una lista lunga. Voglio che tu costruisca una macchina del tempo, e te ne vada dalla mia vita. Mi hai portato via la madre, gli amici, e Duncan! Lui era mio! Mio all’inizio! Non puoi rubarmelo! Non mi importa di quello che dici! Mi hai tolto tutto! Ti odio, Jacqueline! Sei bella, e intelligente, ed tutto quello che ero io una volta!” urlai, e alla fine la mia gola era secca e respiravo pesantemente. Lei si limitò a guardarmi, nessuna espressione padroneggiava il suo volto; niente simpatia, niente rabbia, nulla. Poi girò i tacchi e si diresse verso le baracche, come se non avessi detto nulla.
Eppure, di notte, andò ancora da lui.
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Mi mancava terribilmente, non riuscivo più a negarlo. Mi mancavano i suoi baci, le sue dolci carezze, il modo in cui il mio nome le scivolava sulla lingua, così facilmente, come se desiderasse pronunciarlo. Mi mancava il modo in cui il suo corpo sembrava allacciato al mio, i suoi soffici capelli, il suo caldo sorriso e gli occhi stuzzicanti. Non era Jacqueline, sicuro.
Perché continuavo a tenere Jacqueline al posto di Prinzessin era un mistero irrisolto. Era vero che Jacqueline rispettava le mie richieste senza un lamento, ma mi divertivo di più quando Prinzessin cercava di difendersi quando mi mettevo con la forza sopra di lei. Con Jacqueline mi sentivo come se stessi interpretando un ruolo per il quale ero nato, con Prinzessin invece ero me stesso, non avevo bisogno di nasconderle assolutamente nulla. Potrebbe essere che l’avevo lasciata andare per liberarla di un peso. Probabilmente era felice di essersi liberata di me dopo tutto questo tempo; il solo pensiero mi faceva restare sveglio di notte, mentre rimpiangevo la mia decisione ancora, e ancora.
No, è la decisione giusta. Mi rimproverai per quella che sarebbe dovuta essere la milionesima volta questa settimana. Doveva essere la decisione giusta. Non potevo sopportare di mettere Prinzessin in pericolo più di quanto non lo fosse già. Inoltre, non è che gradisse la mia compagnia. Era probabilmente estatica del fatto che non doveva vedermi più. Estatica del fatto che non avrebbe dovuto più essere violentata o subire abusi. Estatica del fatto che non avrebbe più visto il mio volto nei suoi incubi.
Sospirando insoddisfatto, flessi i muscoli della schiena già più che tesi. Jacqueline era solo uno scarso rimpiazzo di Prinzessin; non equivarrebbe mai e poi mai a quello che era Prinzessin, o a quanto significava per me. Il volto di Jacqueline era ossuto, e pallido rispetto alla rigogliosa carnagione e alla frizzante personalità di Prinzessin. Gli occhi di Jacqueline erano troppo avidi per piacere, troppo disperati, troppo malati d’amore. Mentre gli occhi di Prinzessin erano due pozze di mezzanotte, sempre beffardi, sempre stuzzicanti.
Una realizzazione improvvisa mi colpì come un gigantesco schiaffo in faccia; lo stesso tipo di quando mio padre era solito mollarmeli quando era ubriaco. Eccomi qui, a fantasticare sugli occhi di una ragazza? Chi ero io? E che cosa mi era successo?
Sei innamorato.
Non poteva essere. Io? Innamorato? Niente da fare, era più che impossibile. Ero l’unica persona al mondo con probabilità minime di innamorarsi. L’amore non faceva per me. Brevi sventole, e notti a letto con qualcuno erano più che necessarie.
Non è vero.
Sì invece. Doveva esserlo. Non avevo mai provato nulla di più per Prinzessin se non una breve attrazione, e tonnellate di lussuria laddove opportuno. Inoltre, era un’Ebrea. Non avrei mai potuto amarla. Era impossibile. Non ero innamorato di lei. Stavo completamente ed inevitabilmente dicendo la verità quando dicevo che non ero innamorato di lei.
Non negarlo. La ami.
Non potei fare a meno di sospirare al commento. Forse ero innamorato di lei, non che avessi mai intenzione di dirglielo. Inoltre, l’inferno sarebbe congelato prima che lei avesse provato la stessa cosa nei miei confronti. Il miserabile pensiero fu presto interrotto da un bussare femminile alla porta. Sospirando per quella che sarebbe stata un’altra grande recita, indossai la mia espressione più amorevole e aprii la porta a Jacqueline.
Lei corse tra le mie braccia, ed io le baciai la testa come di routine. Era troppo avida, troppo disperata. Ma invece di lanciarla contro il muro come volevo, immaginai che fosse la mia Prinzessin. La guardai nel modo in cui desideravo di poter guardare la mia Prinzessin, con uno sguardo pieno di amore e calore. Ma lo sguardo sul suo volto divenne accigliato mentre le accarezzavo teneramente una guancia.
“Tesoro…mia cara, qual è il problema?” . Un senso di colpa immediato mi guizzò in tutto il corpo mentre la chiamavo con questi nomi, e il suo volto divenne immediatamente il suo, al posto di quello di Prinzessin. I miei occhi si spalancarono quando mi resi conto del suo aspetto contuso e tagliato, e la introdussi velocemente sul letto, portandole leggermente il pollice sulla guancia contusa.
“Ma che diavolo ti è successo!?” chiesi, più per curiosità che per preoccupazione. Prese un respiro tremante e scosse la testa, allontanandosi un po’ da me.
“Duncan…voglio che mi racconti di Courtney. Chi è per te, e coza c’è ztato tra voi prima che arrivazzi io” . I miei occhi si spalancarono nel sentire il nome di Prinzessin. Perché diavolo Jacqueline avrebbe dovuto chiedermi una cosa del genere? Dovrei rischiare raccontandole la verità, o passare con una bugia? Potrei davvero iniziare a raccontarle di Prinzessin e di cosa significasse per me?
“Lei…lei non significa nulla, Jacqueline. Non è cosa che ti riguardi, non ti è dato sapere”.
“Ma Duncan, io lo voglio. Voglio che me lo racconti, adezzo. Ho bizogno di sapere” . Sospirai, frustrato del fatto che stava cercando di dirmi cosa fare. Chi era lei? Era una prigioniera, io ero il soldato. Io avevo il comando. Non aveva alcun diritto di dirmi cosa dovevo fare. Mi alzai dal mio posto, e le lanciai un’occhiata prima di voltarmi caparbiamente.
“Non hai diritto di dirmi cosa devo fare. Non hai bisogno di sapere della mia Prinzessin” dissi, poi mi coprii velocemente la bocca, incredulo di come avessi appena chiamato Courtney al di fuori della mia mente. Mi rivoltai, Jacqueline non mi guardava, si guardava le mani.
“ Tu non mi ami davvero, giuzto?” chiese tranquillamente, rifiutandosi di alzare lo sguardo verso di me. No, no non l’amavo. L’unica persona che avrei potuto mai amare era Courtney. Sospirando, mi sedetti accanto a Jacqueline, guardandomi le ginocchia. Quale modo migliore per risponderle di dirle chi fosse la mia Prinzessin.
“Courtney…lei…lei era quello che sei tu per me al momento. Mi vedeva ogni giorno, e…non so che dirti Jacqueline. Che vuoi? Non c’è niente da sapere! Quello che ho fatto era per il meglio, sarà più felice in questo modo” conclusi, respirando pesantemente e non credendo nelle mie parole neanche un pochino. Courtney…la mia Prinzessin. Jacqueline non sarebbe mai stata quello che era stata la mia Prinzessin. Piena di risate, piena di gioia. Piena di calore di cui sentivo la mancanza così tanto che avrei dato qualunque cosa per sentirlo di nuovo.
Ma non ero nella posizione di volere certe cose. Aveva bisogno di essere felice, e al sicuro. E se abbandonarla era il modo per farlo, così doveva essere. La mia decisione doveva essere quella giusta, doveva. Come avrebbe mai potuto Prinzessin essere felice con uno come me? Tutto quello che le avevo fatto era stato abusare di lei e torturarla fino allo sfinimento. Non potrebbe mai stare con me, tanto meno essere felice.
“Ma Duncan, non lo è” disse, facendo una pausa per ridere leggermente “ Tu le manchi. Infatti, era incazzata con me oggi, e mi ha picchiata a cauza tua. Ti vuole di nuovo. Penza che io ti abbia portato via da lei” continuò tranquillamente, mentre strabuzzavo gli occhi. A Prinzessin…mancavo? La mia decisione non era stata per il meglio? Dei pensieri confusi ronzarono nella mia testa incasinata, ma uno si distinse dagli altri.
Anche lei ti ama.
Forse stavo saltando alle conclusioni, ma dentro urlavo dalla gioia e non potevo trattenere un sorriso sul volto. C’era una minima possibilità che anche lei mi amasse, e per me era buono abbastanza. Lasciandomi sfuggire una piccola risatina, mi accorsi del mio avvampare sul viso al pensiero di me e Prinzessin innamorati. Sfortunatamente, Jacqueline se ne accorse ed emise un piccolo sospiro.
“Tu la ami, non è vero?” chiese tranquillamente, e guardandole il viso potei dire che c’erano delle lacrime che le traboccavano dagli occhi. Non potevo occuparmene, non volevo. Tutto quello che volevo era andare da Prinzessin e tirarla tra le mie braccia, e lasciarla stare lì per tutto il tempo che voleva. Mi rifiutai di rispondere a Jacqueline, poiché non sapevo neppure come rispondere a me stesso.
“Non sono affari tuoi, Jacqueline” sputai, gonfiandomi col morale ed iniziando a percorrere a grandi passi la stanza. Cosa fare…cosa fare… Prinzessin era probabilmente arrabbiata come una matta con me, così dovevo farmi perdonare.
“Duncan? M…mi…Mi dizpiace…per tutto…ma…penzo che lei abbia bizogno di te…e tu di lei” mormorò Jacqueline, sapevo che stava dicendo la verità. Avevo bisogno di lei e, almeno speravo, lei aveva bisogno di me in cambio. Ma non avevo idea di come occuparmene. Odiavo veder piangere Prinzessin; di tutte le cose che odiavo, era la meno tollerabile. Sprofondai sul mio letto, ignorando completamente la presenza di Jacqueline.
“Non so cosa fare” mormorai, per di più tra me e me, e mi passai una mano sul viso.
“Voglio che tu mi uccida. O che mi ricollochi da qualche altra parte. Non voglio più interferire tra te e Courtney…” Non sarebbe stato giusto ucciderla. Dopotutto, mi aveva procurato una buona distrazione, ed era quella che mi aveva informato su Prinzessin.
“Sarai ricollocata in un nuovo campo in mattinata” . Lei annuì accanto a me, e non potei fare a meno di sentirmi leggermente in colpa del fatto che l’avessi usata per distrarmi da Prinzessin. Come per scusarmi, voltai la testa verso di lei e presi le sue mani nelle mie, prima di baciarle la guancia in segno di scuse.
“Jacqueline…io…m-“
“Non c’è bizogno, Duncan. Capizco…io…non zono la ragazza giuzta per te. Courtney zì. Ha davvero bizogno di te Duncan”. Annuii distrattamente, in realtà fregandomene di cosa avesse da dire. Avevo chiuso con Jacqueline, per bene. Prinzessin era l’unica per me. Dopo un po’ di silenzio, mi alzai, tendendo una mano verso Jacqueline. Lei la accettò e la condussi fuori della stanza, mettendola in un nuovo gruppo che stava per partire verso un nuovo ricollocamento.
Non me ne poteva fregare di meno di lei in questo momento. Volevo vedere la mia Prinzessin. Ma fu dopo essere tornato nella mia stanza ed essermi posizionato sul letto che realizzai qualcosa di estremamente cruciale.
Come diavolo avevo intenzione di farmi una vita con Prinzessin?  

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Capitolo 12
*** Confessioni ***


 
Jacqueline non tornò mai quella notte.
Ci riflettei sul mio ripiano, la sera seguente. Forse la guardia aveva visto le sue ferite e l’aveva mandata ad essere gassata. Forse era scappata. Forse si era uccisa per farmi un favore. O forse Duncan si era stancato di lei, l’aveva cacciata via dalla sua vita a calci nel suo sedere magro e dispiaciuto e deciso che ero l’unica per lui. Riconsiderando l’ultima opzione, però, capii che stavo facendo parlare solo la mia immaginazione, e che il pensiero era lontanissimo dalla realtà.
Che motivo avrebbe avuto Duncan per stancarsi di Jacqueline? Non riuscii a pensare a nulla; era bella, gentile, amorevole, la dava quasi sempre e godeva ogni volta che faceva sesso con lui. Cosa non avrei dato o fatto per poter riavere Duncan. Avrei volentieri fatto sesso con lui ogni singola notte, oppure lo avrei ammirato in ogni modo possibile; ecco quanto significava per me.
Sospirando, ignorai il chiacchiericcio delle altre donne e mi rigirai sul mio ripiano. C’era da meravigliarsi del fatto che nessuno mi avesse ancora accusato dell’assenza di Jacqueline. Forse per il pettegolezzo vagante secondo cui era stata ricollocata. Speravo non fosse solo un pettegolezzo, ma la verità, poiché se Jacqueline se n’era andata, Duncan mi avrebbe chiaramente mandata a chiamare di nuovo…giusto?
Ma chi prendevo in giro? Si era ovviamente stancato di me e era probabilmente andato a cercare qualcun’altra, maggiormente disposta ad amoreggiare. Oh, non c’erano parole per anche solo cercare di esprimere la mia gelosia. Il volto mi diventava verde ogni sera, al pensiero di tutte le ragazze con cui Duncan avrebbe potuto spendere del tempo, tanto ero gelosa di loro.
Mai una volta fino ad allora mi era occorso in mente che non dovrei desiderare Duncan, ma essere arrabbiata con lui. Voglio dire, mi aveva detto che ero la più importante per lui. E ancora e ancora mi aveva detto quanto speciale fossi per lui. Con un povero gemito realizzai quanto incredibilmente fossi stata stupida da credergli. Ero un giocattolo! Uno stupido giocattolo! Ovviamente non mi avrebbe tenuto per sempre; ci sarà sempre stata qualcuna più carina, più tettona, oppure più amorevole ed ammirevole di me.
Ma la rabbia durò solo un paio di minuti prima del ritorno del senso di pietà verso me stessa. Non potevo essere arrabbiata con Duncan. Era stata una sua scelta quella di non volermi più vedere, ed io avrei solo dovuto accettarla, non mi importava quanto sarebbe stata dura.
Improvvisamente barcollai e vomitai ancora – afferrando la mia ciotola al momento giusto- con mio grande dispiacere. Il rumore e la puzza fecero voltare le persone ad osservarmi, che storsero il naso disgustate; ma non avrei saputo dire se fosse stato per il vomito, o per la persona che stava rigurgitando. Asciugandomi la bocca dal sapore orribile, desiderai una mentina, sebbene fosse passato oltre un anno dall’ultima volta in cui mi fosse stato concesso tale privilegio. Quei giorni sembravano così lontani, così diversi. Era difficile credere che una volta ero stata quella stessa ragazza felice e spensierata, senza alcuna preoccupazione o responsabilità se non quella di sposarsi quando fosse venuto il tempo.
Sbuffando al pensiero, sapevo che probabilmente non ci sarebbe stato alcun matrimonio nel mio futuro. E comunque, chi mi avrebbe mai sposata? La sola persona che desideravo sposare era-aspetta un minuto. Non riuscivo a credere di averlo quasi pensato. Io? Sposare Duncan? Derisi l’idea. Come se volesse mai sposarsi con una come me; tanto meno avere un figlio. Probabilmente avrebbe scagliato il povero bambino contro il muro se non avesse smesso di piangere, ed una volta diventata, o diventato grande…rabbrividii al solo pensiero.
Eppure…la coscienza mi disse di pensare altrimenti. Sapevo quanto Duncan potesse essere dolce, per non parlare di leggermente tenero, a volte. Forse a Duncan sarebbe piaciuto il nostro bambino. Forse avrebbe trattato lui o lei con amore, ed adorazione, e rispetto e- ancora una volta, dovetti fermarmi. Eccomi qui, a pensare di avere un bambino con Duncan. A lui non piacevo neppure, figuriamoci se mi amava, o gli piacevo abbastanza da fare l’amore con me.
Qualcosa che mi colpì sulla spalla mi fece svegliare dalle mie fantasie, e mi voltai minacciosamente per fronteggiare il mio aggressore. La ragazza si limitò a roteare gli occhi e ad indicare rabbiosamente la guardia alla porta, facendomi socchiudere gli occhi seccata. Era venuta probabilmente per Jacqueline, chiedendo dove fosse in modo che potesse offrire i suoi servizi a Duncan, notai istupidita, alzando gli occhi al cielo. Perché dunque dovevo esserne avvertita? Non volevo avere niente a che fare con quella disgraziata.
“ Il numero J17492 è qui o no?” roteai gli occhi un’altra volta. Ovvio che Jacqueline non fosse- aspetta un attimo. Quello era il mio numero. Non quello di Jacqueline. Non permettendo alla mia mente di chiedere le numerose domande che desiderava porre, mi diressi tremante verso la guardia e stetti dritta e in piedi. “Sei il numero J17492?” . Annuii docilmente, e la cosa seguente di cui mi resi conto fu che ero stata spinta fuori. Sapevo che sarebbe stato meglio non chiedere niente o dar voce a qualche protesta con questa guardia.
C’erano due possibili opzioni per le circostanze in cui mi trovavo. La prima, la meno probabile, ma quella che volevo di più, era che stavo finalmente andando a vedere Duncan. Il pensiero mi fece venire le farfalle nello stomaco, ma cercai nervosamente di calmarmi. Era lontano dalla realtà, era solo il mio immenso desiderio che non era affatto di aiuto in questa situazione.
L’altra opzione, che era molto, molto più vicina alla realtà, era che mi stavano mandando ad essere gassata, per qualcosa che avevo fatto. Forse era per il mio continuo rigurgitare che disturbava la “pace” nelle baracche. Forse era per le mie ferite; qualche guardia se n’era accorta, e dato che non ero esattamente il ritratto della salute, mi stavano mandando ad essere gassata. Ad occhi spalancati, realizzai che qualcuno avrebbe potuto avvisare le guardie sulla lotta tra me e Jacqueline, con il risultato dell’uccisione di entrambe. Non c’era da meravigliarsi del fatto che non fosse tornata; era morta. Era morta, era tutta colpa mia, e adesso stavo per pagarne le conseguenze, con la mia vita.
Trattenni le lacrime negli occhi al pensiero che il mio desiderio stesse per avverarsi; stavo per morire. Non mi meritavo di piangere o di sentirmi infelice per questo impiccio. Le mie preghiere al Signore erano finalmente state ascoltate; stavo per morire. Dopo tutto questo tempo…stavo per morire; senza neppure aver visto Duncan un’ultima volta. Perché Dio aveva scelto di concedermi questo desiderio, invece di quello in cui supplicavo di rivedere Duncan, e che lui mi riprendesse con sé? Perché ero un essere umano egoista, peccatore e immeritevole, ecco perché.
Continuai a camminare con passi lenti e nervosi, cercando di rallentare la mia morte il più possibile. Non prestai neanche attenzione a dove stessimo andando, continuai a guardarmi i piedi tutto il tempo. Trattenni il respiro e chiusi forte gli occhi quando la guardia spalancò una porta e mi spinse all’interno. Così erano queste. Erano queste le maledette camere a gas di cui avevo sentito, sognato, fantasticato così frequentemente. Rimasi ad occhi chiusi mentre il mio respiro diventava difficile e forzato.
Addio mondo crudele.
“Prinzessin?” mi accolse una voce che conoscevo troppo bene, e il cuore mi si fermò completamente. Ero morta…dovevo esserlo. E, in qualche modo, ero arrivata in paradiso. E stavo vedendo Duncan. Diavolo, ero morta.
“Oddio…oddio…sono morta…” andai in iperventilazione, pensando di essere davvero deceduta. Non potevo essere viva, non in questa situazione. Non c’era assolutamente alcuna possibilità che i miei sogni si fossero avverati e che stessi davvero vedendo Duncan. Eppure…potevo sentire il familiare odore di Duncan tutto intorno a me. Ma mi rifiutai di aprire gli occhi, non volevo crederci. Non poteva essere…non poteva essere.
Ma, alla fine, la curiosità sovrastò la riluttanza ed aprii lentamente gli occhi, solo per trovarmi faccia a faccia con l’unico uomo che mi era stato in testa ogni cinque secondi in queste poche settimane. Guardandolo in quegli occhi blu un po’ preoccupati, mi sentii improvvisamente molto stupida.
“Prinzessin…” disse un’altra volta, ed io sprofondai dentro. Perché ero qui? Perché non ero morta? Lui accorciò velocemente la distanza tra noi, e mi esaminò il volto, facendo correre gentilmente il pollice sull’occhio nero. Non osai trasalire, o sibilare, o mostrare un qualunque segno di dolore come volevo; non gli avrei dato il piacere. Eccolo qui, a comportarsi come se tutto fosse tornato alla normalità, quando, chiaramente, non lo era. Affatto. Finalmente, parlò di nuovo. “Jacqueline non mi ha detto che ti sei fatta male anche tu”.
Dentro raggelai. Jacqueline…aveva detto a Duncan…della nostra lotta? Che le ero saltata addosso per lui? Potei sentirmi il volto arrossire per l’imbarazzo mentre mi allontanavo dalla sua confortevole carezza.
“C-Che ti ha detto?” balbettai, pregando Dio che avesse detto che eravamo solo state picchiate da qualche guardia. Se Duncan l’avesse saputo…sarei stata rovinata. La mia copertura sarebbe saltata. Avrebbe saputo che ero gelosa, e avrebbe domandato di non vedermi più, tutto perché ero una ragazza disperata, già innamorata di lui. Non potevo sopportare di guardarlo; avrebbe saputo, avrebbe saputo ogni cosa, solo guardandomi negli occhi. Con la coda dell’occhio riuscii a vedere che mi stava guardando con una stranissima espressione sul volto; non riuscivo a dire precisamente cosa fosse, ma non l’avevo mai, mai vista prima.
“Mi ha detto che voi due avete avuto una lotta durante il lavoro. Sono riuscito a capire dalle sue ferite che hai vinto tu…ma non sapevo che anche tu ti sei fatta male”. Espirai in silenzio, ringraziando Dio del fatto che non aveva scoperto la verità. Ma non riuscivo ancora a guardarlo; non potevo fargli capire tutto. Per tutto quello che sapevo, questa poteva essere l’ultima volta che lo vedevo. E se fosse stato così, non volevo andarmene, con il cuore spezzato poiché non avrebbe ricambiato i miei ridicoli sentimenti puerili.
Rimanemmo in un silenzio imbarazzato per un po’, nessuno di noi due sapeva davvero cosa dire. Questo mi seccò leggermente; non ci eravamo visti per due settimane…e non avevamo nulla da dirci. Sentii che dovevo rompere il silenzio. C’erano così tante cose che volevo dire, ma nessuna sembrava appropriata al momento. Tossendo leggermente e voltandomi, mi preparai a dire quello che mi premeva di più.
“Perché…perché sono qui, Signore?” dissi tranquillamente, non osando guardarlo. A dispetto di tutto quello che avevo provato in queste due settimane, ero quasi sicuramente infelice al momento. Mi sentivo imbarazzata, strana. Come se non fossi davvero desiderata qui. Se a Duncan fossi davvero mancata, ero certa che ci sarebbe stato un sorriso luminoso sul suo volto quando mi avrebbe vista all’inizio, al posto di quella strana, espressione preoccupata.
“Che vuoi dire? Non sei felice di essere qui?” . Veramente no. Immaginavo che appena sarei stata avvolta dalle sue braccia sarei stata felice, speranzosamente. Sembrava come se fosse nervoso come lo ero io al momento; entrambi cercavamo di non far scattare delle emozioni negative nell’altro.
“Non hai risposto alla mia domanda” . Lo sentii sospirare tremante dietro di me, a conferma del mio precedente pensiero che era nervoso.
“Ora non posso vederti quando voglio?” . Lo sapevo. Ecco tutto quello che ero per lui, uno stupido, giocattolo rimpiazzabile. Non provava dei sentimenti puri e permanenti nei miei confronti. Per lui era solo una sventola. Per lui non significavo altro che una semplice sventola di una notte; solo sesso. E appena fosse arrivato qualcosa di meglio, mi avrebbe rimpiazzata.
“Pensavo ti fossi scocciato di me”, sputai tranquillamente. “ Pensavo ti fossi stancato del tuo vecchio giocattolo, e l’avessi rimpiazzato con uno più nuovo e più bello”. Non osai voltarmi per guardarlo; l’unica cosa che mi permisi di fare fu lanciargli una veloce occhiata con la coda dell’occhio. Riuscii a dire che sembrava confuso, e la stessa emozione mi invase dentro- non che ne avessi davvero bisogno con tutto il casino che avevo in testa-.
“Tu…sembri scossa. Come se non fossi felice di vedermi” . In verità, forse ero un po’ felice di vederlo; ma potevo del tutto dire che ero puramente sollevata. E, se questa sarebbe dovuta essere l’ultima volta in cui lo vedevo, il minimo che volevo fare era essere in grado di dirgli cosa mi passava esattamente per la testa; con un po’ di rivincita da parte mia, per avermi fatto preoccupare così tanto in queste ultime paia di settimane.
“ E’ ovvio che sia scossa. Pensi che sia…sia normale mollarmi così! Mi hai fatto pensare che non mi volevi più! Come se fossi solo per il tuo divertimento, dopo tutto quello che abbiamo passato! E mi chiedi se sono felice di vederti! Perché diavolo dovrei essere felice di vederti? Cosa ti ha fatto anche solo  pensare una cosa del genere?” Con ogni bugia che dicevo sentivo le lacrime che mi punzecchiavano ai lati degli occhi; grazie a Dio non poteva vedermi in volto, altrimenti avrebbe di certo capito che stavo mentendo. Oh, come mi bruciavano dentro le mie mezze bugie. Chi sapeva come avrebbe reagito Duncan. Non mi sarei sorpresa se mi avesse lanciata sul pavimento, picchiata per un po’, poi strappato i vestiti di dosso e violentata nei prossimi cinque secondi.
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“ Prinzessin…io…io non lo sapevo…non pensavo che saresti stata così arrabbiata…perché da quello che ho sentito…” si bloccò, lasciandomi nascere in testa un sacco di nuove domande. Che aveva sentito? E da chi? Jacqueline…non poteva avergli detto tutto, non poteva. E molto probabilmente non l’avrebbe fatto. Perché mai avrebbe sprecato del tempo prezioso “a letto” con Duncan, parlando di me? Non aveva senso.
“C-che hai sentito?” chiesi esitante, insicura di quale sarebbe stata la risposta. Quasi non volevo sentirla, nel caso fossi più che imbarazzata. Al solo pensiero di tutte le cose che Jacqueline avrebbe potuto dirgli diventai rossa dall’imbarazzo. La sua esitazione e i suoi passi lenti mi fecero accelerare i battiti cardiaci per l’ansia.
“Non molto…solo…” fece una pausa, mandandomi nel panico. Ecco. Sapeva tutto. Non avrei avuto alcuna speranza che ricambiasse i miei sentimenti adesso. “ Ho sentito che una certa Prinzessin era infelice…e che le mancavo”.
Sentendo questo, gli occhi mi si spalancarono, insieme alle amare lacrime che aumentavano nei miei occhi. Il solo pensiero di quanto fossi stata infelice senza di lui mi fece sentire terribilmente. Cercando di scacciare le lacrime, mi accorsi di cosa mi aveva appena detto. Jacqueline…gli aveva detto che mi mancava? C’era qualcosa che non gli aveva detto? Non potevo permettere che venisse a conoscenza della verità; questa volta, avrei avuto io il controllo della situazione.
“ Chi sano di mente direbbe una cosa tanto assurda?” dissi, poi tirai su col naso, cercando di liberarmi delle lacrime formatesi, di nuovo. Improvvisamente fui voltata, delle forti braccia mi circondarono la vita in un modo mai così leggero. Sollevando lo sguardo, notai di essere faccia a faccia con l’unico uomo che aveva preso le stringhe del mio cuore fin dal primo momento in cui avevo posato gli occhi su di lui. Mi afferrò gentilmente il mento, costringendomi a continuare a guardarlo, per tutto il tempo che voleva.
“Ho sentito anche che…” continuò, ignorando qualunque cosa gli avessi detto pochi secondi fa. “Che una certa piccola Prinzessin ha dato inizio ad una lotta, perché era gelosa, e arrabbiata con un’altra ragazza…e la lotta era per un certo uomo…”. I miei occhi si spalancarono mentre fuggivano in giro, in un tentativo di guardare ovunque tranne che lo sguardo penetrante di Duncan. Jacqueline gliel’ha detto! Oh, quanto mi sentivo stupida al momento. Assolutamente ridicola. Se sapeva quello, sapeva tutto! Ora era sicuro che non avrebbe ricambiato una singola goccia dei miei sentimenti, dato che ero una disperata, stupida e malata d’amore.
“N-non è vero”, balbettai, cercando di giustificarmi. “E’ una bugia. Una bugia bella e buona. Dovresti sapere che è meglio non ascoltare i pettegolezzi del campo, potrebbe trasformarti in un maniaco”. L’ultima parte era vera, ma non ero così sicura che si fosse bevuto il resto della mia affermazione. I suoi occhi mi valutarono per un paio di secondi, con un’espressione leggermente ferita.
“Davvero. Be’, è un peccato…” disse finalmente, lasciandomi andare il mento e allontanandosi da me. Cosa avevo fatto? Avevo appena abbattuto ogni possibilità che avevo di stare con lui, ecco cosa.
“E’ un peccato…perché mi era davvero mancata quella certa Prinzessin” . Smisi di respirare. A lui…a lui ero mancata? A Duncan ero mancata? Duncan aveva sentito la mia mancanza? Ripetei ancora e ancora la domanda in testa, cercando di convincermi del fatto che quelle parole fossero appena uscite dalla sua bocca. Cosa poteva possibilmente significare? Se gli ero mancata, perché era stato con Jacqueline così tanto tempo? Perché non mi aveva mandata a chiamare prima?
“Sei un bugiardo” lo accusai, allontanandomi anche io dalla sua schiena.
“Quando mai ti ho mentito? Per quello che so, sono sempre stato onesto con te”. Ci pensai per un po’. Duncan mi aveva mai davvero mentito? A pensarci bene…no. Né all’inizio, né quando passavamo del tempo assieme…Forse non mentiva. Onestamente non lo sapevo. C’era solo un modo per scoprirlo.
“S-sì. Non mi hai mai mentito, Signore” mormorai amaramente, cercando di trovare anche la più minuscola scappatoia. Improvvisamente ricordai; ricordai la prima volta in cui mi aveva violentata. Mi aveva promesso che ero sua, e di nessun altro. Mi aveva detto che sarei stata sua per sempre. E se si era preso Jacqueline…voleva dire che mi aveva mentito quando aveva detto che ero sua.
“Bene. E apprezzerei se non facessi delle storie assurde su-“
“Me lo rimangio. Tu mi hai mentito” mi voltai rabbiosamente, afferrandolo per le spalle e costringendolo a guardarmi. “Mi hai detto che ero tua! Non hai  mai accennato a Jacqueline! Dovevo esserci solo io! E non lei!” gli gridai contro, il volto contorto in un’espressione furiosa. Mi esaminò ancora una volta per qualche istante, prima che quella illeggibile espressione tornasse a dominare sui suoi lineamenti.
“Chi ti dice che ti abbia mentito?” Un suono irritato mi uscì dalla bocca mentre sbuffavo e mi allontanavo da lui. Non capiva; non avrebbe capito mai e poi mai.
“Lo stai negando! Non posso crederci! Dunque adesso? E’ Jacqueline il tuo nuovo interesse? Anche lei è tua adesso? Bè, congratulazioni!” sputai rabbiosamente, voltandomi di nuovo per fronteggiarlo. “Non posso credere che tu abbia avuto l’audacia di mentirmi in faccia sul fatto di non avermi mai mentito! Non posso crederci! Non posso credere di essermi mai fidata di te! E pensare che credevo avresti piantato Jacqueline in un paio di giorni, se non in una settimana! Mi sbagliavo. E pensare che non eri un egoista, avido, mostro Tedesco. Ma ancora una volta, mi hai provato il contrario. Immagino di essere stata troppo accecata dalla mia immaginazione, e dalle tue azioni precedenti, per anche solo cogliere di sfuggita la realtà.
“Ma adesso la vedo. Sei un mostro! Un mostro al quale piace giocare coi miei sentimenti!” Guardai come esitò in volto, indossando un’espressione leggermente arrabbiata. Sapevo che stavo oltrepassando il limite, ma volevo vedere quanto sarei riuscita ad andare avanti prima che finisse col farmi del male. Feci un altro passo in avanti, in modo che fossimo faccia a faccia e potesse vedere le lacrime che si protraevano dai miei occhi. Volevo che provasse il dolore che avevo provato io. Volevo che soffrisse come avevo sofferto io. Volevo che sapesse quanto fossi stata infelice.
“Hai una minima idea di quanto…di quanto mi abbia ferita?” soffocai, rifiutandomi di distogliere lo sguardo dal suo come volevo. Potei sentire le lacrime aumentare mentre dicevo questa frase infelice. E poi, lui ebbe l’audacia di darmi un’occhiata, che diceva che non credeva neanche ad una parola di quello che avevo detto. “Non guardarmi così. Mi fai male. Mi fai male!” urlai, più che esasperata. Le parole fuoriuscirono ancora, come vomito, e non si sarebbero fermate finchè non avessi cacciato tutto fuori.
“Hai idea di quanto mi sia preoccupata? Di quanto mi sia stressata! Di quanto mi abbia fatto star male fisicamente per la preoccupazione!” Non osai dire quanto mi fosse mancato, poiché non ce n’era apparentemente alcun senso. “ E-e tutto questo è accaduto…tutto questo disgustoso casino…per quella disgraziata hure!”
“Lo sapevi che non la sopportavo! Lo sapevi! Ma l’hai comunque preferita a me!” . Gli gridai in faccia, colpendogli il petto con un dito in tono accusatorio. “Perché diavolo avresti scelto lei?” A questa frase lui cercò di interrompermi, ma io rincominciai prima che potesse farlo. “Oh, aspetta, so la risposta! Perché lei è meglio di me! In tutto! Sa cucinare meglio di me, pulire meglio di me, persino parlare, e ridere, e cantare meglio di me, per amor di Dio! E’ molto più bella di me, voglio dire guardami!” Feci una pausa per indicarmi rabbiosamente. “ Chi diavolo considererebbe mai l’idea di volere me, quando c’è una Jacqueline proprio dietro l’angolo!” urlai, sputando il suo nome come veleno.
“Mi ha portato via tutto! Il mio aspetto, la mia intelligenza, il mio fascino, la mia eleganza, persino mia madre! Ma…cosa più importante…ha portato te via da me. Ed è questo che mi ferisce di più. Andava in giro, a parlare di come fosse innamorata di te, e di quanto tu fossi speciale per lei, e persino di quanto fossi bravo a letto! Quella dovrei essere io, Duncan! Quella dovrei essere io, perché tu sei mio! Come hai fatto a non capirlo? Fin dall’inizio: io sono tua, e in cambio, tu sei mio! Ma no, non hai compreso il concetto; io ero solo un semplice giocattolo. E tu ti sei stancato del tuo vecchio giocattolo; era troppo consumato dagli abusi mentali e fisici. Quindi, hai sentito il bisogno di rimpiazzarlo! Con una hure da quattro soldi, appiccicosa e inaffidabile! Come hai potuto! Non c’era nulla di sbagliato nel tuo vecchio giocattolo! Stava bene, gli piaceva passare del tempo con te! Gli piaceva venire usato per giocare! Solo aggiustandolo un po’, e offrendogli una cura appropriata, sarebbe sembrato come nuovo!
“Ma, ovviamente, non te ne frega un cazzo di cosa pensi o mi importi. No, certo che no. A nessuno importa più. Lo so, questa non è casa mia, è un brutale campo di concentramento…ma pensavo ci fosse qualcosa tra noi! Qualcosa, almeno, di cui valeva remotamente la pena. Ma, ancora una volta, mi sono sbagliata” Mormorai tristemente, guardandolo dritto nei suoi occhi confusi.
“Quindi grazie, per avermi finalmente dato ragione per uccidermi. Ne ho abbastanza; vuoi fare gli onori di casa e spararmi, o preferiresti accompagnarmi alle camere a gas? Oh, lo so, che ne dici se mi scorti verso del filo spinato, e stai a guardare mentre mi strangolo a morte! Oppure, puoi pugnalarmi dritto nel cuore, penso ci sia un minuscolo angolino nella schiena ancora indenne. Quindi, dimmi addio adesso, perché in mattinata, me ne sarò andata. E non dovrai mai più vedermi ancora” . Restai là, senza fiato, il petto si sollevava ed abbassava drammaticamente. Dicevo sul serio? Avevo davvero intenzione di uccidermi? Conoscevo la vera risposta; sì, sì ne avevo intenzione. Mi allontanai da lui al momento giusto, voltandomi, mentre le lacrime mi fuggivano dagli occhi e mi scorrevano sul volto senza un domani, e mi sfuggivano ripetutamente dei singhiozzi dalla bocca. Singhiozzai tra le mani, sapendo che questa per me sarebbe stata l’ultima notte in questo mondo crudele, crudele. Prima che me ne potessi rendere conto stavo lanciando maledizioni in tutte le lingue alla quale riuscivo a pensare.
“Prinzessin…” disse una tenera voce dietro di me che, cosa che mi allarmava, si stava avvicinando. Mi allontanai febbricitante dalla voce, rifiutandomi di permettere che mi controllasse ancora.
“Non chiamarmi così!”
“ Cara…Courtney mia…per favore…” replicò, cercando di sembrare confortante. Io inciampai solo all’indietro, gridandogli di allontanarsi da me mentre continuavo con i miei patetici singhiozzi. Perché era l’unico che riusciva a farmi sentire peggio? E perché sentivo lo stomaco sprofondare quando mi chiamava con simili soprannomi affettuosi?
“Tesoro…io…io non ho mai saputo che ti sentivi così…ti prego, permettimi di rimediare”. Come se potesse mai farlo. Lo spinsi via di nuovo, combattendo contro la tentazione di avvolgere le braccia attorno a lui e di piangere nel suo petto.
“Channa-“ Non sapevo se fosse per il nome, o per il pensiero che lo stava pronunciando Duncan, ma persi il controllo. Urlai come mai avevo fatto prima, come se qualcosa stesse prendendo il sopravvento dentro di me. La mia vita era fuori controllo. Non avevo modo di riuscire a controllarla. Prima che mi rendessi conto di cosa stesse accadendo, il mio corpo si scontrò con un altro, la mia testa fu guidata verso un petto che respirava rapidamente. Lo colpii con dei pugni e gridai, cercando di farmi lasciare andare da Duncan. Dopo due minuti dei miei sforzi senza risultato, mi arresi semplicemente e piansi nel suo petto. Lui mi confortò mormorando “ non piangere, non c’è nulla di cui essere scossi. Sei al sicuro, sono qui per te”, ripetutamente nelle mie orecchie, accarezzandomi teneramente la nuca con la mano.
“E’…è davvero così Prinzessin? Che vuoi suicidarti perché senti che io ti abbia tradito? Che non hai nessun altro?” Annuii, continuando a singhiozzargli nel petto. Che senso aveva mentire ancora? Aveva scoperto tutto. L’unica cosa che non gli avevo detto era che l’amavo. Ma sarei finita all’inferno piuttosto che dirglielo.
“ P-Per quanto tempo, esattamente, ti sei sentita così?”
“ Da q-quando quella r-ragazza ha posato gli occhi su di te…e quella notte…” ricaddi di nuovo nei singhiozzi, al solo pensiero della prima notte in cui era andata da lui. Le sue mani mi confortarono di nuovo, intorpidendomi con le loro gentili carezze.
“Non hai più bisogno di preoccuparti di lei. Io…l’ho mandata via”. La mia testa scattò, guardandolo dritto negli occhi con i miei umidi. “Hai f-fatto cosa?”
“Ho mandato Jacqueline via da qui. Non preoccuperà più né te, né me, né noi” Ora ero davvero confusa. Perché aveva mandato Jacqueline via da qui? Pensavo ricambiasse il suo amore…o…speranzosamente, forse l’aveva mandata via per me. Forse mi amava.
“ P-perché l’hai mandata via? E’ così perfetta…è bella, fedele, amorevole, e segue sempre le regole, e-“
“ Ed è anche viziata, avida, malata d’amore, disperata, e appiccicosa. Nulla in confronto a te.” Il cuore mi sprofondò guardando nei suoi occhi sinceri. Potevo dire che faceva sul serio, non dovevo chiedergli se fosse la verità o no. Seppellii ulteriormente la testa nel suo petto ed respirai il suo odore, che mi era tanto mancato; un mix di alcol, dopobarba, e, semplicemente Duncan.
“Perché l’hai tenuta? Per così tanto tempo?” chiesi tranquilla, avvolgendo le braccia attorno alla sua magra vita.
“Perché pensavo che sarebbe stato meglio per te” rispose, facendo correre una mano tra i capelli che mi stavano lentamente ricrescendo. Alzai lo sguardo verso di lui, un’espressione confusa sul volto. Come aveva potuto anche solo pensare che sarei stata felice senza di lui? Gli avevo appena detto quanto mi era mancato per l’amor di Dio!
“Come sarebbe potuto essere meglio per me?” chiesi curiosa, portandogli le braccia al collo e avvolgendole attorno ad esso lentamente, mentre le mie dita giocavano con quel poco di capelli che aveva.
“Pensavo che saresti stata più felice…se non avessi dovuto vedermi. Non lo sapevo…allora…” sospirai, rimuovendo le mani. “Spero tu sappia che non è vero. Ti ho solo fatto sapere, nei dettagli, quanto sia stata infelice senza di te…” lui ridacchiò e rimosse le mani attorno a me, per incrociarle sul petto.
“Sì, ho prestato attenzione ad alcune parti” . Sollevai un sopracciglio verso di lui; doveva scherzare.
“Tipo?”
“Tipo che vuoi suicidarti. E che sei insanamente gelosa di Jacqueline” . Storsi il naso, sperando avesse intenzione di continuare. “Qualcos’altro, Duncan?”
“ Hmm…Nah. Solo questo.” Gli lanciai una stilettata, abbassando gli occhi quando vidi che era serio. “Tu, sei impossibile” ringhiai, resistendo all’impulso di schiaffeggiare il suo viso sghignazzante. “Non ricordi nient’altro?” Lui allora ridacchiò, la sua espressione si indurì e divenne leggermente arrabbiata.
“Sì. Ricordo abbastanza bene un altro dettaglio. Io sono un mostro. Un mostro della peggior specie” disse, il suo tono suonava mezzo scherzoso, ma abbastanza arrabbiato.
“Bè, è vero” ringhiai in risposta, facendolo arrabbiare ancora di più. Dalla padella alla brace.
“Sì Prinzessin. Sono un simile mostro, perché stavo cercando di renderti felice. Sono una simile bestia selvaggia, perché stavo solo pensando al meglio per te. Sono un cretino inumano, perché mi importa di te!” mi gridò contro, spaventandomi leggermente. Ma, a lui importava di me?
“ A te…importa di me?” chiesi leggermente, cercando di farlo calmare dalla furia.
“Sì” fece una pausa per ridacchiare amaramente “ Ma sono così tanto un mostro che probabilmente non ha importanza”.
“A te…a te non può importare! Mi hai portato via l’innocenza!”
“ Oh, così rieccoci di nuovo. Okay, possiamo giocare in due a questo gioco! Tu eri una hure!” . Il solo pensiero di Yaacov mi fece dilatare il cuore dal dolore. Sapeva che era un argomento sensibile per me, ma lo tirò fuori comunque.
“Hai reso la mia vita peggio di un inferno!”
“Tu hai infranto le regole!”
“Tu mi hai infranto!”
“Tu mi hai ferito!”
“Bè tu mi hai ferito di più!”
“Tu mi hai reso infelice!”
“Oh davvero! Allora perché vuoi me, e non Jacqueline! Lei ovviamente ti rendeva felice!”. Gli urlai, più lacrime mi fuoriuscivano dagli occhi mentre affaticavo ancora di più la gola già dolorante. Tutti e due respiravamo pesantemente dopo la nostra discussione. Forse non eravamo compatibili. Forse non avrebbe mai funzionato tra noi. Ma quello era un rischio che ero disposta a correre.
“Volevo dire…ero infelice quando non c’eri” ansimò, boccheggiando. Con il fiatone, gli lanciai uno sguardo confuso. “Tu…Davvero?” Lui annuì in risposta, rifiutandosi di guardarmi. Dopo pochi istanti si diresse verso il letto e si sedette, massaggiandosi furiosamente le tempie. “Duncan…” provai, facendo un passo verso di lui. Lui si limitò a pizzicarsi la punta del naso e sospirò.
“ Non adesso, Courtney. Sono molto, molto frustrato ora, e sto cercando di non sfogarmi su di te e farti del male. Ne ho avuto abbastanza per stasera, puoi andartene adesso”. Annuii miseramente, sebbene desiderassi dirgli quanto fossi felice solo stando vicina a lui. Sospirando, mi voltai e mi diressi verso la porta. Ma mentre la stavo aprendo, fui improvvisamente afferrata per il polso e strattonata all’indietro, facendo sbattere la porta. Mi scontrai contro il petto di Duncan che, in qualche modo, riuscì a manovrarci verso il letto, con lui sotto di me, ed io che stavo comodamente sopra di lui. Arrossii leggermente per la nostra posizione, ma restai in silenzio, lasciando parlare gli occhi per me. Duncan ed io ci fissammo l’un l’altra per ore, giorni, decenni; ma, finalmente, le nostre labbra riuscirono ad incontrarsi, e a fondersi insieme in un unico, bacio perfetto. Né troppo rozzo, o aspro, solo, perfetto.
Mi allontanai per prima, leggermente confusa. Solo pochi minuti fa mi stava dicendo di andarmene, e adesso mi stava baciando come se fossi davvero sua. La sua mano arrivò ad accarezzarmi la guancia, ed io inclinai la testa verso la carezza compassionevole.
“Jacqueline può essere tante cose, ma se posa il suo putrido dito su di te, e ti fa del male” fece una pausa per baciarmi teneramente l’occhio nero, ed io non potei fare a meno di piagnucolare “Allora, quella ragazza deve essere orrenda come hai detto che era” . Sorrisi e premetti le mie labbra contro le sue ancora una volta, abituandomi alla sincronia delle nostre labbra che si muovevano insieme. Sembrava tutto perfetto, proprio in quel momento; noi, insieme.
Fu lui ad allontanarsi stavolta, e mi prese gentilmente il viso tra le mani. “Sei qualcosa di speciale, Prinzessin, lo sai?” Scossi la testa, e lui ridacchiò e mi baciò la guancia in risposta. “Non posso vivere senza di te, spero tu l’abbia capito adesso, Courtney” . Questa volta annuii, e lo baciai tutto intorno al volto, sapendo che era quello che gli piaceva di più.
“ Io sono tua, e tu sei mio” dissi dolcemente, sorridendogli.
“ E questo è tutto ciò che conta” Le nostre labbra si incontrarono di nuovo, e ci baciammo per un po’, finchè lui non si staccò ed iniziò a darmi dei baci lungo la mascella. Iniziai a respirare a fatica, sia per la sensazione che mi davano i suoi baci, che per la mancanza d’aria.
“ Non c’è bisogno di essere nervosi, Prinzessin. Te lo prometto, ti divertirai stavolta. Ti divertirai tutte le volte, lo giuro. Ma questa volta, ti chiedo il permesso. Dimmi solo di sì, e non te ne pentirai”. Sapevo a cosa alludeva, e il solo pensiero mi fece venire delle lacrime di gioia agli occhi. Voleva fare l’amore con me, e mi stava chiedendo il permesso – per una volta-. Annuii felicemente, ma scelsi di dare comunque una risposta.
“S-sì, Duncan. Sì”. Lui iniziò a baciarmi di nuovo sul corpo, togliendomi lentamente il maglione, e poi il vestito durante l’azione. Mi sentivo puramente beata, ed eccitata per quello che stava per succedere. Non mi avrebbe fatto male questa volta…questa volta, sarei stata puramente gioiosa, e beata.
Ti amo, Duncan.
E so che, in fondo, mi ami anche tu. 

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Capitolo 13
*** Può davvero funzionare? ***


“Prinzessin…” canticchiò lui, accarezzandomi amorevolmente la guancia. Io sospirai felice, concentrata su nulla se non sulla beata condizione di euforia in cui mi trovavo in quel momento.
“Sì, Duncan?” trillai leggermente, amavo il modo in cui i suoi occhi si illuminavano quando parlavo.
“ Sei pronta per la notte della tua vita?” chiese a bassa voce, guardando nel profondo dei miei occhi. Mi sentivo come se potessi restare qui, tra le braccia di Duncan, per sempre. Non avevo bisogno di nient’altro; solo lui, ed io, insieme, e la vita sarebbe stata completa. Infatti, gli obiettivi futuri venivano messi da parte, e non m’importava di morire proprio qui, in questo istante. Sarei stata in una pura e completa pace.
“Credimi…e’ già stata una bella avventura. C’è di più?” chiesi, piuttosto stupidamente, avendo chiesto nulla di più che stare tra le sue braccia. Ne ero già profondamente grata, e non osavo rovinare il momento chiedendogli dei piaceri egoisti. Duncan ridacchiò leggermente alla mia domanda, accarezzandomi i capelli in una maniera rilassante.
“Perché, sì, Cara; non ho ancora fatto l’amore con te”. Io ridacchiai, avendo completamente dimenticato quella parte. Prima mi aveva intrattenuta con i suoi dolci baci e seducenti carezze che mi avevano fatta tremare e trillare di piacere dappertutto. Mi era piaciuto molto quando mi aveva baciata ripetutamente, su tutto il corpo, dicendo “mi dispiace” proprio prima di ogni suo bacio. Io mi ero distratta semplicemente accarezzandogli i capelli e spingendolo a continuare. Ma per me era stato già abbastanza. Non avevo davvero pensato che avrebbe fatto l’amore con me stasera.
“Bè, ti suggerisco di prenderne atto, prima che le guardie si accorgano che non sto più urlando dal dolore” cercai di scherzare, la mia voce suonava leggera e strana. Onestamente non ero ancora sicura del fatto che avrebbe fatto l’amore con me. Non riuscivo a credere del tutto che potesse essere così generoso senza chiedere qualcosa in cambio; era solo il suo modo di essere. Le sue mani mi raggiunsero il volto, cullandolo leggermente prima che mi baciasse ripetutamente le guance. Nulla al mondo poteva essere paragonato alla pura felicità che provavo allora.
“La porta è chiusa a chiave. I muri sono insonorizzati. E loro credono alle ridicole storie che gli racconto a colazione”. Ridacchiai ancora, rannicchiandomi sul mio amante dimenticato, che si limitò ad abbracciarmi più forte.
“ Bè, allora, immagino dovremmo fare il contrario di quelle storie stanotte”.
o 0 O 0 o
Uno schizzo d’acqua in faccia mi risvegliò dal mio euforico flashback. Alzando la testa, notai l’occhiata seccata di una ragazza che continuava a mettere le stoviglie nel lavabo pieno. Non mi ero neanche accorta di osservare il vuoto, mentre ricordavo la vera prima volta tra me e Duncan – dato che mi rifiutavo di considerare come una “prima volta” qualunque nostro precedente incontro sessuale- . Scuotendo la testa –mentalmente, ovvio- per riordinare i pensieri, continuai il mio precedente compito di lavare le stoviglie, incapace di fermare la mia mente vagante.
Le ultime due settimane con Duncan erano state… a dir poco magiche. Non potevo più negare il fatto che l’amavo. Dovevo solo trovare il momento giusto per dirglielo; presto, presto gliel’avrei detto, decisi. Speranzosamente sarebbe stata un’occasione gioiosa, piena di felicità e, in seguito, di salutare sesso.
Oh, com’era perfetta per me la vita, al momento. Non m’importava neppure del fatto che ero mezz’affamata, e mezz’ammalata. Mi stava certamente venendo un qualcosa. Il costante vomito stava diminuendo, ma era ancora presente. Incolpavo il tempo, e il cibo. Sapevo che le patate erano vecchie, e il brodo per niente fresco, ma continuavo a mangiare. Il solo pensiero delle povere condizioni del cibo, mi fece coprire la bocca mentre mi precipitavo all’esterno per riprendermi. Rigurgitai nell’erba, il vomito durò appena più di tre secondi. E comunque non avevo molto da rigettare. Tornando alla cucina, ritornai al mio compito, lasciando che la mente divagasse di nuovo.
 
“Shh, Prinzessin. Manda tutto fuori” mi sussurrò Duncan all’orecchio, mentre io continuavo a rigurgitare nel suo cestino per i rifiuti. Mi accarezzò gentilmente la schiena con un braccio, con l’altro mi offrì supporto. Sollevai lentamente la testa, sentendomi debole e repellente come mai prima di allora. Potevo a malapena stare in piedi; nonostante il suo braccio mi stesse pure supportando, ero così fuori che caddi sul pavimento, ormai neanche più capace di mettere a fuoco la stanza.
“Prinzessin?” chiese a bassa voce, rannicchiandosi accanto a me. Non riuscivo neanche a guardarlo bene; ci vedevo doppio, la vista oscillava da sinistra a destra, da su a giù. Chiusi gli occhi, sentendomi con la testa vuota. Improvvisamente non fui più a terra. Tentai di costringere le parole ad uscirmi dalla bocca, ma tutto quello che ne venne fuori fu un insolito rumore.
“Shh, va tutto bene. E’ solo una leggera intossicazione alimentare; mi prenderò cura di te, mia Channa, non preoccuparti”. Sorrisi mentalmente dopo aver sentito ciò e mi rannicchiai ulteriormente tra le sue braccia. Adesso era così semplice fingere che Duncan fosse mio marito, ed io la sua devota moglie. Il modo in cui ci comportavamo l’un l’altra era così naturale, così affabile. C’era da meravigliarsi del fatto che nessuno di noi due fosse ancora riuscito a dire all’altro che l’amava.
Mi portò sul suo letto e mi fece stendere con delicatezza, rimboccandomi le calde coperte. In verità, questa era la prima volta in cui ero stata pienamente nel suo letto. Di solito c’eravamo entrambi. E non mi ero mai addormentata nel suo letto. Ma adesso era diverso; adesso, mi stava rimboccando gentilmente le coperte e baciando la fronte con amore, lasciandomi ai miei sogni.
“Ti senti un po’ meglio, Cara?” chiese, con vera ansia nella voce. Cercai di dire qualcosa, ma la voce mi si raccolse appena nella gola e la sua preoccupazione nei miei confronti mi fece venire la pelle d’oca. Lui se ne accorse e strisciò sul letto accanto a me, avvolgendo le sue forti braccia attorno alla mia piccola figura tremante. Mi mosse la testa in modo che stesse sul suo petto, e mi accarezzò lentamente le braccia. “ Stai congelando. Non ti preoccupare, ti farò sentire meglio, ho solo bisogno di distrarti…che ne dici di una storia?” . Io annuii, godendo per la sensazione delle sue mani sulla mia pelle. Sinceramente mi sentivo molto meglio, ma guai a me se glielo dicevo. Mi piaceva troppo la posizione in cui ci trovavamo.
“Bè…Ti ho mai detto che mio padre si risposò?”. Scossi la testa, ad occhi leggermente spalancati. Avevo sempre immaginato che suo padre amasse troppo sua madre per risposarsi, e che il suo amore rimanesse forte fino alla morte.
“ Bè lo fece. Non mi presi mai la briga di ricordare il nome della donna; era solo il rimpiazzo di mia madre, nulla di più. Non era male come donna, ma il modo in cui mio padre aveva rimpiazzato mia madre…mi faceva star male. Sembrava…sembrava la tipica donna tedesca. Capelli biondi, occhi azzurri, corpo snello. Cercava di essere materna, ma per me non sarà mai e poi mai più di un’estranea”. Emisi un “mmm” in risposta. Non sarei riuscita mai e poi mai ad immaginare Mamma che rimpiazzava Papà. Nessuno sarebbe riuscito a prendere il suo posto, il quale mi mancava molto. Se ciò non avesse fatto saltare la mia copertura, gli avrei dato i baci dolci sulle guance che amava tanto.
“Si portò dietro la figlia. Prinzessin, giuro, era la più bella e cara bambolina del mondo. Aveva ereditato l’aspetto di sua madre; lunghi capelli biondi, frizzanti occhi azzurri – più scuri di quelli che mi ha passato mia madre- una perfetta carnagione color crema e la grazia e i modi di una signora oltre la trentina. La disprezzavo. E lei, in cambio, mi disprezzava. Ero il peggior fratello che una sorella potesse chiedere. Cosa non le feci, alla piccola Sophia…” . Qui fece una pausa per ricordare tutte le cose che aveva potuto farle.
“Non venivo mai a prenderla a scuola, o andavo a vedere i suoi saggi di danza. Me la prendevo sempre con lei e le tiravo i codini, spesso facendola piangere. Era una ragazzina vanitosa, sempre ossessionata dal suo aspetto, soprattutto dai suoi capelli. Li odiavo”. Quindi mi lanciò un sogghigno. “Cosa non feci ai suoi capelli, ci misi la gomma da masticare, le mischiai i pidocchi, nascosi le spazzole, sgattaiolai nella sua stanza per tagliarle i codini nel bel mezzo della notte. Cavolo se mi odiava dopo. Ma non aveva prove per dire che ero stato io.” Ridacchiò, accarezzandomi dolcemente i capelli.
“P-perché non ti piaceva?” riuscii a dire, essendomi ripresa dalla mia precedente intossicazione alimentare. Sospirò, stringendomi di più.
“Era una bambola. Di plastica. Un falso. Ai miei occhi sembrava un rimpiazzo per quello che sarebbe dovuta essere mia sorella. Mia sorella sarebbe dovuta essere una bambola vivente. Aveva i capelli marroni di mia madre, ma gli occhi scuri di mio padre. Era piccolina, e aveva problemi nella respirazione, e questo la portò alla morte un paio di minuti dopo mia madre. Cosa non avrei fatto per la piccola Angelica, se fosse sopravvissuta. Sarei stato il miglior fratellone che una principessina come lei avesse potuto chiedere”. Sospirò felicemente, cacciando la sua faccia tra i miei capelli. Immaginare Duncan come un fratellone per una bambina, mi fece pensare a lui come a un padre con quella stessa bambina. Solo che quella bambina era nostra figlia. Oh, che bella visione che era.
“Hai mai pensato di avere dei figli?” sbottai improvvisamente, coprendomi la bocca subito dopo. Non avevo mai avuto intenzione di dirlo ad alta voce. Santo cielo, cosa avrebbe pensato di me adesso? Mi guardò con una stranissima espressione sugli occhi, non riuscivo a decifrare cosa fosse.
“Veramente no. Non mi vedo sposato, con figli. Perché?” . Emisi un “mmm”, scuotendo la testa e cercando di nascondere la mia delusione.
“ Solo per curiosità”.
“ Dovresti smetterla di essere così curiosa, potresti farti del male” replicò scherzoso, stringendomi forte. “Ti senti meglio, Tesoro?”. Annuii, mormorando un “grazie” contro il suo petto. Lui mi baciò le tempie in risposta.
“Ogni volta, Prinzessin”.
 
“Che stai facendo, Hundin?” chiese una rozza voce, ed io tornai dal flashback alla realtà. Dovevo davvero smetterla di distrarmi in quel modo, se non fosse stata la prima volta in cui facevo così, e questo mi lasciava stranamente disorientata. Alzai il capo per incontrare gli occhi del mio interlocutore e trattenni un sussulto quando realizzai che l’uomo davanti a me era una guardia. Oh, cavolo. Adesso ero davvero spacciata. Cercando di rimediare al mio fatale errore, abbassai lo sguardo, cercando di tornare alle mie stoviglie e di strofinarle con vigore.
Dio santo, se mi fai uscire da qui senza un graffio non farò più nulla di male.
“S-scusi, S-signore” balbettai ad occhi bassi. Sapevo che se lo avessi guardato direttamente negli occhi, sarei stata sicuramente gassata. Improvvisamente il braccio mi fu forzato dietro la schiena, contorto in una maniera talmente dolorosa che dovetti mordermi l’interno della guancia per non urlare forte.
“Se vuoi sopravvivere ti suggerisco di tenere la bocca chiusa e seguirmi” sussurrò velenosa la voce della guardia al mio orecchio. Servile, potei appena annuire e combattere le lacrime formatesi negli occhi mentre mi trascinava fuori dalla cucina, lontano, vicino alla foresta. Anche nel mio umore isterico e terrorizzato, non potei fare a meno di notare quanto fosse vasta quest’area, e come non ci fossero guardie tutt’attorno. Sarebbe stato il posto perfetto in cui sgattaiolare se volevo fuggire. Ma non avrei mai lasciato Duncan in quel modo; mai e poi mai. Il solo pensiero di Duncan mi fece trasalire dal terrore. Cosa aveva intenzione di farmi questa guardia? Stavo per essere uccisa? Oh, e se fosse stato davvero così? Cosa ne sarebbe stato della relazione tra me e Duncan? Trattenendo un gemito, mi morsi un labbro dal dolore quando la guardia mi spinse contro un albero rinsecchito.
“Rispondimi in fretta” abbaiò lui, ed io annuii, disposta a nulla se non a restare viva. “Sei l’animaletto del Generale Duncan?” chiese, ringhiando leggermente. Mi morsi la lingua per combattere contro qualunque risposta oltre a quella che avrei dovuto dare. “Sì, Signore”. Lui ridacchiò alla mia risposta nervosa e mi voltò in modo che potessi stare di fronte a lui. Tremando, trattenni un piagnucolio, ero terrorizzata dalla situazione in cui mi trovavo. Chi sapeva cosa aveva intenzione di farmi questa guardia? Che avevo fatto di male stavolta? Trattenendo uno sbuffo, ricordai che era Tedesco e non importava che avessi fatto qualcosa di male o no. Eppure, dallo sguardo sul suo volto, non sembrava avesse intenzione di uccidermi; almeno, non ancora.
“Non è giusto,” continuò, discutendo apparentemente con me, “ che sia l’unico ad ottenere privilegi in questo campo”. Fece una pausa per sputare a terra, ed io mi ritrassi alla vista. “Sono bravo quanto lui. Dovrei avere anch’io il mio animaletto, perlomeno. Ma, tu sei troppo seducente per essere lasciata andare. Dovrebbe imparare a condividere i suoi animaletti. Dopotutto, sei solo il suo giocattolo. Dico bene?”
“S-sì, S-signore” balbettai, trattenendo un sogghigno. Ero più del suo animaletto. Ero la sua amante – a dispetto del fatto che nessuno di noi lo avesse ancora ammesso ad alta voce- . Eppure non avrei neanche osato pensare a ciò con questa vile guardia vicino. Di sicuro sarei stata mandata al forno crematorio se avessi anche solo tradito una goccia di chiarezza del fatto che ero più del suo giocattolo. Scorrendo mentalmente le parole della guardia, realizzai improvvisamente cosa stesse davvero a significare la sua frase. Oh signore santo, quest’uomo aveva intenzione di violentarmi, e usarmi per i suoi bisogni personali. Quanto era giusto che dovessi essere violentata due volte in vita mia? Una non era già abbastanza?
Cosa avrebbe pensato Duncan? Gliel’avrei mai detto? Come avrebbe reagito se lo avessi fatto? Oh, conoscendo Duncan, sebbene tutta la gentilezza e l’affetto che mi aveva mostrato, avrebbe sicuramente trovato il modo per girare la frittata e far sembrare che fosse tutta colpa mia.
“Brava ragazza” mormorò la guardia, forzandomi bruscamente a terra, suscitando un piagnucolio dalla mia gola. Neanche quando Duncan mi aveva violentata era stato così brusco. Era sempre riuscito a metterci una confortevole carezza, o un proverbio scherzoso e accattivante.
Duncan…Duncan ti prego. Aiuto.
 
o 0 O 0 o
 
Che giornata lunga che era stata, riflettei, a malapena capace di tenere il cibo mentre mi sedevo a tavola accanto ai miei compagni commilitoni. Oggi ero stato incaricato di fare l’inventario, cosa molto degradante. Tutto per Marie che stava male, dovevo prendere il suo posto, perché gli incarichi quotidiani di tutti quanti erano stati già assegnati. Scossi la testa disgustato mentre mangiavo controvoglia, a malapena affamato, e desideroso solo di andare a dormire.
Eppure sapevo che, con l’arrivo di Prinzessin stanotte, non mi sarei mai addormentato. Quella ragazza significava qualcosa, ne ero sicuro. L’amavo, con tutto il mio cuore; dovevo solo dirglielo, e speranzosamente lei avrebbe ricambiato il sentimento. Potevo vedere nei suoi occhi quanto significassi per lei, e cercavo con tutto il cuore di dimostrarle lo stesso con le mie azioni.
Non riuscivo a smettere di pensare a lei. Non riuscivo a smettere di pensare a come renderla felice, o a come farle mostrare quel suo sorriso sul volto che, quando stava intorno a me, non sembrava mai spegnersi. Quel bellissimo sorriso, avrei ucciso per riuscire a vederlo in eterno. Sapevo che stavo diventando uno di quegli uomini. Come era una volta mio padre, quando mia madre era ancora viva. Eppure, non sarei mai diventato il mostro che era lui, mai e poi mai. Soprattutto se io e Prinzessin avessimo avuto un bambino. Combattendo contro uno sbuffo, il mio sguardo divenne vitreo al ridicolo pensiero.
Era quasi impossibile sopportarne uno nel campo, tanto meno averne uno del tutto sano. Se fosse rimasta incinta qui, sarebbe stata nella sofferenza più assoluta. Sarebbe stata affamata tutto il tempo, e la pancia le avrebbe fatto male per i calci del dannato neonato. Per di più, se lo avessimo concepito noi, il bimbo sarebbe stato un mostro, perché lo avevo fatto io.
Scuotendo la testa al pensiero, iniziai a prestare attenzione ai risolini che continuavo a sentire alla mia sinistra. Indossando la mia miglior aria di sfida, mi voltai verso i miei commilitoni, inespressivo. “Che c’è?” . Alla mia sinistra, Felix indossò un sogghigno beffardo, scoprendo i denti in un sorriso sarcastico.
“ Stai pensando di andare a letto stasera, Duncan?” Sbuffai, tornando a concentrarmi sul cibo. Ovviamente no. Pensavo a Prinzessin come a una persona, piuttosto che come a un oggetto sessuale.Ma non mi sarei mai sognato di dirlo di fronte ai miei commilitoni. “Come sempre. Il corpo ha bisogno, quello di cui ha bisogno. Ecco perché questi sporchi Ebrei sono qui in primo luogo, per fare quello che ci pare a noi”. Un coro di risate e applausi si sentirono tutt’intorno a me per lodare il mio commento. Io dovetti combattere contro la sensazione di vergogna che mi cresceva dentro al pensiero.
“Spero non ti dispiaccia, Duncan, ma ho preso in prestito uno dei tuoi giocattoli oggi. E’ una potente urlatrice, non so come tu riesca a gestirla”. Ridacchiò alla fine della frase, mentre il sangue mi si raggelava. “C-cosa hai fatto?”
“Non molto, solo del semplice buon sesso con quel giocattolo con cui giochi sempre. La mora grintosa con gli occhi scuri”. Il sangue mi si raggelò ancora di più mentre mi limitavo a stare lì, cercando di combattere contro il desiderio di prenderlo a pugni. Aveva violentato Prinzessin. La notizia mi affluì dentro come un fiume in piena, che si schianta e distrugge qualunque cosa sul suo sentiero. Oddio, Prinzessin era probabilmente scossa, e ferita, e…non riuscivo neanche a comprendere il dolore che provava; ma non permisi a nessuna emozione di scivolare lungo i miei lineamenti.
“I giocattoli sono fatti per essere condivisi” risposi indifferente con una scrollata di spalle, prima di alzarmi e colpirlo dritto sulla mascella. Non abbastanza forte da romperla, ma abbastanza da fargli venire un livido e imparare la lezione. “Ma i miei giocattoli sono miei. Ed io non devo condividerli, capito, soldato?” . Lui annuì tremante, stringendosi la mascella con la paura negli occhi. Io sogghignai leggermente soddisfatto, ma dentro volevo strappar via la gola a quel figlio di puttana e darla ai ratti, poi prendere i ratti e bruciarli perché avevano qualcosa di disgustoso all’interno. Dopo pochi istanti si riprese, risiedendosi a mangiare. “Hey, non resterà a lungo il tuo giocattolo, Generale”. Sollevai un sopracciglio curioso, dentro raggelai di nuovo, peggio di prima.
“Che vuoi dire con ciò?” chiesi, facendo del mio meglio per evitare che affiorasse qualche emozione nascosta. Lui prese un sorso di birra e deglutì prima di prendersi la briga di rispondere alla mia domanda.
“La maggior parte del campo sarà sgombrato da tre a quattro mesi. Quasi la metà degli Ebrei saranno ricollocati, e mi è capitato di sapere che la tua ragazza è tra questi”.
“Hey, lei non è nulla, è solo il mio giocattolo sessuale. Fai di nuovo un simile errore, e ti pesterò così forte che penserai tu stesso di essere un Ebreo”. Mi presi la soddisfazione di vederlo farsi piccolo dalla paura mentre si concentrava sul cibo.
“Bè, immagino dovrai trovarti un nuovo giocattolo, te ne suggerisco una con degli occhi più belli e una voce più quieta. Quella dannata stronza mi ha spaccato i timpani” brontolò, ed io gli lanciai un’occhiata così letale che balzò dal suo posto e quasi corse fuori dalla stanza. Sbuffando, scossi la testa e tornai al mio cibo. E fu allora che compresi davvero la situazione. Prinzessin partirà. E avevo solo tre-quattro mesi con lei, e poi lei mi lascerà, e non ci saremmo mai più visti. E lei non lo sapeva neppure.
L’appetito scomparso del tutto, mi alzai dal tavolo e mi diressi velocemente in camera mia, sbattendo la porta. Maledizione. Maledizione a questo fottuto mondo. Partirà. Quello che c’era tra noi sarebbe presto finito, e poi lei si sarebbe dimenticata di me. La cosa successiva di cui mi resi conto fu che il mio pugno si era schiantato contro il muro e vi aveva lasciato un grosso buco. E non mi preoccupai neanche di ammettere il dolore.
Non potevo crederci. Non potevo. Perché mi erano stati concessi solo pochi mesi con lei? Perché non mi era stato concesso più tempo, per dirle che l’amavo, e per poi aiutarla per la nostra fuga? Sospirando frustrato, me la presi con i miei capelli, riflettendo sul da farsi.
Chiaramente questo è un segno.
Che tipo di segno? Dovevo aiutarla a fuggire prima di allora? Oppure, non eravamo destinati a stare insieme. Scossi la testa, rifiutandomi di credere all’insano pensiero. Ovviamente Prinzessin ed io eravamo destinati a stare insieme. Dopo tutto quello che abbiamo passato, ed essere rimasti uniti per due settimane? Era un ovvio segno che dovevamo stare insieme. La sua partenza era solo un segno che dovevo aiutarla a fuggire.
Non glielo avrei detto, decisi rapidamente. Sarebbe solo entrata nel panico, e nell’ansia, ed io odiavo vederla ansiosa. Avremmo trascorso il nostro tempo insieme nel migliore dei modi mentre io trovavo una soluzione ai nostri problemi.
Un improvviso bussare alla porta mi sorprese, e la aprii velocemente, solo per tirare dentro Prinzessin, sbattere la porta, e poi stringerla a me. Non l’avrei mai lasciata andare, non dopo quello che aveva passato oggi. Non dovetti neanche allontanarmi per accorgermi che stava piangendo; potevo sentirmi la camicia bagnata. “Shh….Shh…,” cercai di tranquillizzarla, accarezzandole i capelli con una mano e stringendola forte a me con l’altra. “Va tutto bene ora, sono qui. E se osa toccarti con un dito di nuovo, lo sparerò e ci nutrirò i ratti”. Lei sollevò tremante la testa dal mio petto e mi guardò, ed io le cullai il capo con gentilezza.
“T-tu l-l’hai scoperto?” soffocò, lacrime silenziose che le scorrevano giù per il volto. Mi affrettai ad asciugargliele, cercando di farla smettere di piangere.
“Solo poco tempo fa. Quel dannato bastardo non riusciva a tenere la boccaccia chiusa. Non preoccuparti, me ne occuperò io. Non penserà neanche più di toccarti di nuovo”. Tirò su col naso quando il pianto iniziò ad alleviarsi. “T-tu n-non sei arrabbiato con me…n-non è vero?” squittì esitante, ed io l’abbracciai di nuovo stretta, carezzandole la nuca. Perché dovrei essere stato arrabbiato con lei? Dovrebbe essere stata furibonda con me, perlomeno; non c’ero stato lì per lei, non ero riuscito a proteggerla. Eppure sospirai e scossi la testa, preparandomi a rispondere.
“Non c’è nulla per cui essere arrabbiato con te. Sei solo una vittima. Mi dispiace Channa… non sono riuscito a proteggerti” mi scusai, piantandole un bacio sulla guancia solcata dalle lacrime. Lei si tirò indietro e mi guardò con occhi lacrimanti, prima di sollevarsi sulla punta dei piedi e baciarmi dolcemente. Ricambiai il bacio, sollevato del fatto che sarebbe stata bene, ma ancora maledettamente incazzata per cosa le era stato fatto.
“S-sto bene…e starò bene…mi sento solo…male per cosa mi ha fatto…e non potevo farci niente…” le poggiai un dito sulle labbra per zittirla, incapace di sentire di più senza andare a pestare la testa di Felix. “Va tutto bene, non ti accadrà mai più di nuovo. Ci sarò io per te”. Lei mi sorrise prima di ricambiare l’abbraccio, finite le lacrime per quella notte.
“Grazie” sussurrò, abbracciandomi stretto con le sue fragili braccia.
“Qualunque cosa per la mia Prinzessin” risposi, baciandole il capo.
Per adesso non avrebbe saputo della sua partenza dal campo. Non gliel’avrei detto. Speravo di poter cambiare la situazione di nascosto, in modo da farla rimanere. Oppure l’avrei aiutata a fuggire, per poi seguirla in un prossimo futuro. Ma per adesso tutto quello che avevo intenzione di fare era renderla felice. Sarei stato con lei, e lei sarebbe stata con me, e le cose sarebbero andate per il verso giusto. No, sarebbero andate in un modo più che giusto. Sarebbero state meravigliose. Avrei fatto l’amore con lei ancora e ancora e quando fosse arrivato il momento, le avrei detto che l’amavo. Poi saremmo scappati insieme, in un altro paese. Avrei cambiato i nostri nomi, e comprato una grossa casa, e lei avrebbe avuto ogni cosa avesse mai desiderato. Diavolo, forse avremmo anche messo su famiglia, insieme. Avrebbe ottenuto ogni cosa fosse nei suoi desideri ottenere.
Le cose sarebbero state perfette.                    

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Capitolo 14
*** Non mi ami? ***


Passarono i mesi, e furono colmi di gioia. Io e Duncan stavamo meravigliosamente, limitandoci a vivere meglio che potevamo. Era davvero semplice, parlavamo, ci baciavamo, facevamo l’amore. Era semplicemente perfetto. Non potevo chiedere nulla di meglio.
Be’, a pensarci bene, potevo. Volevo che lasciassimo questo campo, per poi arrivare in qualche posto grande e accogliente da qualche parte nel paese; un posto dove nessuno ci avrebbe mai disturbato. Niente Nazisti, niente guardie, niente regole, solo la vita spensierata tra marito e moglie. Ridacchiando al pensiero, mi domandai come esattamente ci saremmo sposati io e Duncan. Avremmo dovuto cambiare i nostri nomi, ovvio, ma sarebbe stato solo per il mondo esterno. Forse avrei dovuto cambiare il mio aspetto; per Duncan, non sarebbe stato un problema. Inoltre, non era che non avessi fatto dei sacrifici per lui prima. Credo di poter assumere il ruolo di un’umile donna di campagna, o di una casalinga, se necessario; con ciò sarebbe stato sottinteso che Duncan volesse dei figli, cosa che per ora non voleva. Io ero più che disposta ad aspettare anni, e anni per sposarci e avere dei figli. Per adesso, quello che c’era fra noi era più che abbastanza.
Mi chiedevo come esattamente io e Duncan saremmo fuggiti da qui. Saremmo dovuti passare per la foresta. Non sarebbe stato un problema, arrivato il momento. Appena avessimo avuto un futuro sereno dinanzi a noi, le cose sarebbero andate per il verso giusto.
Eppure sapevo che dovevo andarmene presto. La vita nel campo stava diventando quasi impossibile. Mentre il vomito si riduceva, la pancia aveva iniziato a far male costantemente, e sembrava stesse prendendo il suo costante posto. Forse era per il cibo che continuavo a mangiare. La miscela tra il cibo del campo e quello che ricevevo da Duncan non era tanto salutare. Non avrei dovuto lamentarmi così tanto. Stavo finalmente guadagnando un po’ di peso e per di più abbastanza velocemente. Il cibo in più che mi dava Duncan era la soluzione perfetta per il mio corpo ossuto, mal di pancia a parte.
Ero stata egoista, molto, molto egoista quando, il mese scorso, lo avevo letteralmente supplicato per un po’ di cibo. Ero stata così affamata in quei pochi giorni; semplicemente non sapevo cosa mi fosse preso. Nonostante la vergogna, la mente iniziò a ricordare quella sera semplicemente umiliante.
 
“Perché sembri così distaccata, mio Engel? Ho fatto qualcosa di male?” . Alzai amaramente lo sguardo dal mio posto sul suo letto, arrabbiata oltre ogni immaginazione.
Certo che ero arrabbiata con lui. Come poteva stare lì seduto, e osservarmi mentre morivo di fame!? Non vedeva le dure ossa che mi si protendevano fuori dalla pancia, e dai gomiti, e dalla schiena? Non era anche remotamente preoccupato per me?
“Sto bene” sputai amaramente, abbassando lo sguardo verso lo squallido pavimento mentre mi asciugavo il naso colante. Perché non puliva quel dannato pavimento? Non sapeva quanti germi lo popolavano? Soprattutto dopo aver fatto l’amore? Non c’era da meravigliarsi che mi stessi ammalando così. Eppure il vibrante brontolio del mio stomaco mi fece pensare altrimenti. La sua mano mi afferrò immediatamente il mento, costringendomi a guardare nei suoi occhi ipnotizzanti.
“Non stai bene, quindi smettila di dire stronzate e sputa il rospo”, mi abbaiò in faccia, già irritato dal modo in cui mi stavo comportando. Ciò era strano; di solito non si sarebbe mai arrabbiato così per il mio atteggiamento, sarebbe rimasto soltanto frustrato. Ringhiando leggermente, ricordai che non aveva alcun motivo per essere arrabbiato. Ero io quella che aveva tutte le ragioni del mondo per essere irritata con lui. Amore; a lui non importava neppure del mio stato.
“Chi sei tu per dirmi quel che devo fare?!” chiesi, schiaffeggiandogli la mano per allontanarla dal mio volto. La sua espressione divenne ferita quando lo feci, ma la mascherò velocemente e riguadagnò la sua compostezza arrabbiata.
“Sono il tuo compagno, e come tale, ne ho il fottuto diritto!” No invece! Se fosse stato il mio compagno, allora gli sarebbe importato il fatto che stavo morendo di fame!
“Oh, è questo quello che siamo adesso!?”
“Pensavo lo fossimo, prima che diventassi un hundin più grande di quanto non lo fossi già!” Sussultai prima di schiaffeggiarlo rapidamente sulla guancia. Non riuscivo a credere a ciò che avevo appena fatto. Guardandolo in volto, l’impronta delle cinque dita fuoriuscì come sangue sulla sua carnagione pallida. Emettendo un sussurro scioccato, la mano mi volò alla gola, preparandomi ad essere picchiata, sparata, o violentata da lui. O tutto insieme, non potrei dirlo con certezza.
Ma lui non fece nulla di tutto ciò. Si limitò ad alzare lo sguardo verso di me con un’espressione confusa e più che ferita sullo splendido volto. “Prinzessin” gemette, la sua voce prese lo stesso tono di quello che proiettava la sua faccia. Prima che me ne rendessi conto, ero scoppiata in lacrime, e crollata a terra. Non sapevo perché l’avessi fatto; tutto per un improvviso dolore venuto dentro, che mi aveva resa debole.
“M-mi dispiace! N-non intendevo!” singhiozzai tra le mani, temendo volesse lasciarmi di nuovo e farmi vivere una vita da sola.
“Shh, shh, non c’è nulla per cui piangere” mi tranquillizzò. “Va tutto bene, ti perdono; sei stata solo presa dalla furia del momento, e quello che ho detto era fuori contesto. Mi dispiace. Ma non c’è bisogno di piangere, quindi, per favore, smettila” mi esortò, accovacciandosi accanto a me e stringendomi forte. Io piansi solo di più.
“ S-sono solo così, sempre mostruosamente affamata! Vomito sempre perché il cibo non è salutare, e non ne prendo mai abbastanza! Voglio dire, come fai a non accorgertene? Sono pelle e ossa cazzo! Ho bisogno di cibo, Duncan! E tu non fai niente!” gridai, picchiandolo con i miei deboli pugni. Lui tentò di proferir parola, per cercare di rifilarmi qualche cazzata con deboli scuse e bugie, ma non glielo avrei permesso.
“Per favore, Duncan!” pregai, a mani giunte e in ginocchio. “Ti prego! Farò qualsiasi cosa! S-solo…sfamami…fammi stare di nuovo bene” conclusi, la mia voce diventata ormai un sussurro debole e disperato. Non riuscivo a sopportare di guardarlo in volto, per vedere cosa pensava di me. Probabilmente voleva cacciarmi via in questo istante. Ma non lo fece.
“Perché…perché non me lo hai detto?” chiese, a bassa voce.
“Io…io non…pensavo lo sapessi…mi vedi ogni giorno…così…” tirai su col naso, cercando di scacciare le patetiche, inaspettate lacrime. Mi aiutò gentilmente ad alzarmi, piantando un bacio sulla mia pallida fronte.
“Tutto quello che dovevi fare era chiedere, e ti avrei accontentato. Se potessi, ti darei il mondo, mia Channa” disse tranquillamente, il suo sguardo era serio e sincero e credeva in ogni parola che gli era uscita dalla bocca.
“Grazie” sussurrai, abbracciandolo forte.
 
Gemendo, decisi di lasciarmi il pessimo ricordo alle spalle; non era di aiuto adesso. E avevo ottenuto ciò che volevo, quindi andava tutto bene. No, andava più che bene. Era tutto perfetto.
Presto, presto gli avrei detto che lo amavo. Si era comportato in un modo piuttosto distaccato ultimamente, quindi fortunatamente quelle parole lo avrebbero tirato su di morale. Desideravo sapere perché mi guardava in un modo così strano negli ultimi giorni; e perché mi stringeva più a lungo, e mi baciava anche con più passione. Pensai che mi amasse come lo amavo io, e che non volesse perdermi.
Ero meno che soddisfatta dal modo in cui mi trattava ultimamente, ma non potevo farci molto. Ero confusa per il fatto che mi guardava per lunghi periodi di tempo, spesso non dicendo nulla. Ero confusa per il fatto che si limitava a sedersi e ad abbracciarmi, accarezzando i capelli, e piantando appena un bacio sulla testa, ma in silenzio, e con visite molto lunghe. Più di una volta non aveva detto parola durante una visita, stando semplicemente seduto lì e abbracciandomi.
Avevo provato a dire qualcosa, in più di un’occasione, ma non sembrava mi stesse ascoltando. Sembrava stesse guardando proprio attraverso di me, non prestando più molta attenzione a quello che mi andava di fare.
Fortunatamente, le cose sarebbero cambiate in un paio di giorni. Sennò, non sapevo cosa fare.
 
o 0 O 0 o 


Dirigendomi verso la stanza di Duncan, un paio di giorni più tardi, sapevo di essere pronta. Stasera, avevo intenzione di dirgli che lo amavo. Era esattamente il momento giusto. Sapevo che la nostra relazione sarebbe potuta solo migliorare se glielo avessi detto, ed ero pronta per le sfide che avremmo affrontato una volta ammesse queste due speciali parole.
Fortunatamente mi avrebbe parlato oggi. Fortunatamente avrebbe guardato me, e non attraverso di me. Fortunatamente avrebbe ricambiato queste decisive parole, con lo stesso entusiasmo con cui, speravo, avrei detto le mie. Volevo che non dicesse nulla all’inizio, per poi raccogliermi tra le sue braccia, piantare un bacio ricco di significati sulle mie labbra, ripetere quelle tenere parole, infine poggiarmi sul suo letto e iniziare a fare l’amore in eterno con me.
Nascondendo l’enorme sorriso che stava per spuntarmi sulle labbra, bussai impetuosa alla porta, aspettando che mi tirasse dentro come aveva fatto tanto spesso. Eppure…questa volta non lo fece. Non preoccuparti, pensai tra me e me. Era già successo prima; e anche recentemente. Spalancai la porta ed entrai, chiudendo lentamente la porta alle mie spalle. “Duncan?”
Sedeva sul letto, a testa bassa, rifiutandosi di guardarmi. Leggermente ferita dal fatto che non voleva neppure alzare lo sguardo, anche quando avevo parlato, camminai verso di lui e gli carezzai gentilmente la schiena tesa. “Duncan, cosa c’è che non va?” chiesi preoccupata, disegnandogli dei cerchi immaginari sulla clavicola col pollice. La sua schiena non si rilassò come di solito faceva quando lo accarezzavo. In realtà, si tese ulteriormente. Adesso più preoccupata, il cuore mi iniziò a battere tumultuosamente, insicura di cosa gli stesse accadendo.
“D-Duncan? Puoi guardarmi per favore? Mi stai facendo star male” . Gradualmente, sollevò la testa per guardarmi; e sembrarono passare ore. Eppure mi guardò come faceva ultimamente: proprio attraverso di me. Gli afferrai le mani, rabbrividendo un po’ poiché erano congelate, e le accarezzai gentilmente per farlo sentire meglio.
“Duncan…ho qualcosa da dirti…” dissi lentamente, entrando più in confidenza con ogni mia parola. Ma lui distolse lo sguardo, quegli abbaglianti occhi blu concentrati su nulla. Afferrandogli il mento, e costringendolo letteralmente a guardarmi, finalmente lo fece, incrociando fortemente i suoi occhi annoiati coi miei.
“Duncan…io…io…”
“Tu cosa?” chiese, la sua voce era stranamente fredda, esasperata. Ecco. Stavo per dirgli che lo amavo. Dopo tutto il tempo che avevamo passato insieme, dopo assolutamente tutto quello che avevamo passato, ecco. Questo sarebbe stato l’inizio di tutta una vita insieme; l’inizio delle nostre vere vite. Sarebbe stato l’inizio del nostro futuro, in cui ci saremmo sposati, avremmo avuto degli amici, e forse anche un paio di bimbi.
Le nostre vite sarebbero state perfette da questo momento in poi. Saremmo scappati insieme, attraverso la foresta, fermandoci solo per dormire e fare l’amore appassionatamente. Poi saremmo fuggiti lontano, lontano, fino ai confini della Germania, o in Polonia, o persino in Francia per l’amor del Cielo! Se solo avessimo abitato in campagna, non c’avrei dato importanza. La campagna sarebbe stata perfetta; privata, intima e confortevole oltre ogni immaginazione.
Saremmo andati in città solo una volta; per cambiare i nostri nomi, e per sposarci. Courtney Esther Ehrilichmann. Sig.ra Enrilichmann. Sig.ra Courtney Esther Politzer-Ehrilichmann. Suonava così bene, così ricco di speranze. Oh, saremmo stati meravigliosamente insieme, lo sapevo.
Poggiandogli delicatamente una mano sul volto, gli accarezzai la barba ispida, assicurandomi di assaporare il momento e di scolpirlo nella nostra memoria. Questo preciso istante avrebbe dato inizio ad ogni cosa, assolutamente ad ogni cosa. Prendendo un profondo respiro, calmai i battiti accelerati del mio cuore e lo guardai con tutto l’amore e l’ammirazione che riuscii a mettere insieme.
“Duncan…io ti amo” dissi a bassa voce, ma assicurandomi che fosse abbastanza forte da essere udito. Il corpo gli si congelò, e sembrò che stesse guardando di nuovo proprio attraverso di me prima di distogliere completamente lo sguardo. Sorrisi, immaginando che probabilmente fosse scioccato dalle parole che avevo appena pronunciato. Chi non sarebbe rimasto scioccato? Se lui mi avesse detto che mi amava, lo sarei stata anch’io. Voglio dire, guardateci; un soldato Nazista, e una prigioniera Ebrea, innamorati. Combattei contro un risolino al pensiero ridicolo, ed aspettai semplicemente che ricambiasse.
Solo che non lo fece.
Feci correre gentilmente le dita sulla sua spalla, cercando di calmarlo. “Duncan? Caro?”
Lui non rispose, e sembrò continuare ad essere di pietra.
“Duncan” dissi esitante, lentamente “ P-potresti per favore rispondermi? Per favore?”. Lentamente, con quanta più rigidità poteva, voltò la testa per guardarmi, inespressivo.
“Cosa vuoi che dica?” chiese con amarezza, una nuvola di odio sul volto. Fui presa alla sprovvista e rimossi immediatamente la mano dalla sua spalla, abbastanza spaventata e preoccupata dal modo in cui si stava comportando. Perché faceva così? Perché non mi diceva che ricambiava il mio amore? Sapevo che mi amava, lo sapevo. Doveva amarmi.
“Io…C-che ricambi il mio amore?” squittii, ora totalmente insicura della mia risposta, vedendo la pura derisione e il detesto nel suo sguardo. Cos’era successo al mio Duncan?
“Perché diavolo dovrei amarti? Onestamente, Courtney, come puoi pensare una cosa tanto stupida? Dovresti sapere che per me tu non sei nulla di più di un giocattolo sessuale. Assolutamente nulla”. Cercai di fermare le lacrime formatesi nei miei occhi dopo aver udito ciò. Stava mentendo! Mi stava giocando qualche crudele, malato, inumano scherzo! Sapevo di significare di più di un giocattolo sessuale per lui! Perché si stava comportando come se negli ultimi cinque o sei mesi non fosse accaduto niente!?
“S-stai mentendo” dissi debolmente, cercando di coprire il tremolio nella voce. Il mio corpo stava tremando da pura paura, non sapendo cosa stesse esattamente accadendo. Questione di minuti ora, tentai di rassicurarmi. Questione di minuti e mi avrebbe velocemente abbracciata e tirata a sé e rassicurata del fatto che mi amava profusamente.
“Non mento. Tu sei un’Ebrea, io un Tedesco. Il fatto che tu possa anche solo pensare che l’amore fra noi sia dannatamente giusto è la cosa più stupida che tu abbia mai fatto; più stupida di parlare e innamorarti di quel drecksau, Yaacov” . Onestamente tentai di trattenere le lacrime dal fuoriuscire dagli occhi, ma non riuscii a fermare il mio labbro tremante, incapace di nascondere il dolore nello sguardo.
Quindi non era uno scherzo. Lui davvero non mi amava. Questi mesi passati erano uno scherzo, ed io ero assolutamente nulla di più di una stupida. Nulla di più di un’assoluta, pazza stupida come lo ero sempre stata, e sempre lo sarei stata. Pensavo di aver imparato come ci si sentisse ad essere innamorati, ma mi sbagliavo. Non avevo mai saputo come ci si sentisse ad essere innamorati, perché ero stupida.
“Sì Signore…” risposi, incapace di trattenere il dolore e la sofferenza nella voce.
“E comunque non importa. Non ha senso essere tristi; domani te ne sarai andata, e non mi vedrai mai più” . La mia testa scattò su a guardarlo, confusa dalle sue parole. Che voleva dire che non l’avrei mai più visto? Certo che l’avrei visto di nuovo: all’inferno. Significava che avrebbe smesso di vedermi? Si sarebbe trovato un’altra Jacqueline?
“Che vuoi dire?” chiesi esitante, la preoccupazione piantata nei miei occhi. Lui ridacchiò e mi guardò tetro; nascondendo qualunque emozione stesse provando con pura freddezza.
“Verrai trasportata in un nuovo campo. Non mi vedrai mai più. E’ stato bello, mia cara. Ma bè. Addio, auf wiedersehen” . Il labbro mi tremò ancora, e riuscii a malapena a fermare le lacrime che lasciavano gli occhi.
“Da quanto lo sai?” Lui scrollò le spalle, alzandosi dal letto ed afferrando la giacca.
“Un paio di mesi. Ma ho sempre saputo che non saremmo mai durati. Che peccato” disse, non sembrando dispiaciuto neanche un po’. Lo sapeva da tutto questo tempo? Che io stavo semplicemente per lasciarlo? Che non saremmo mai durati? Che stavamo semplicemente prolungando l’inevitabile?
Il dolore puro mi affluì nelle vene mentre chinavo il capo, vergognata. Che futuro avrei avuto? Nessuno. Appena arrivata in quel campo, avrei sicuramente sbagliato o fatto un errore, per poi essere mandata ad essere uccisa. E sapete cosa? Non me ne sarebbe importato nulla. Senza Duncan, la mia vita sarebbe stata sicuramente un assoluto inferno, con niente per cui vivere.
Il suddetto uomo venne verso di me e mi guardò per un paio di secondi, probabilmente scolpendone l’immagine in testa così avrebbe almeno ricordato il buon sesso che aveva fatto. Non riuscivo ad alzare lo sguardo e guardarlo in faccia; non ne valeva la pena. L’avrei sempre amato, sempre ricordato. Non avrei dimenticato i ricordi che mi aveva dato, non avrei dimenticato i sogni che mi aveva dato. Non avrei dimenticato la prima volta in cui avevamo fatto l’amore; non avrei dimenticato il nostro primo, vero bacio. Non avrei dimenticato il modo in cui si era preso cura di me quando non mi sentivo bene, o il modo in cui mi raccontava delle storie e mi canticchiava il mio nome nelle orecchie. Non avrei dimenticato le lezioni che mi aveva insegnato, e le regole per la quale obbedienza avevo passato così tante sofferenze.
E, cosa più importante, non avrei dimenticato il modo in cui mi aveva fatta sentire di nuovo libera, come lo ero normalmente nella vita. Perché lo avrei sempre amato, sempre. E non avrei mai dimenticato.
Mi resi conto di una presenza molto vicina a me, e con la coda dell’occhio, lo vidi chinarsi, e sentii il suo bacio casto, ma pieno di significati sui capelli. “ Non ti dimenticherò mai, Channa” sussurrò, prima di uscire e lasciarmi nell’assoluto nulla.
Stavolta, non osai fermare le lacrime dal fuoriuscirmi dagli occhi, e i singhiozzi che tanto volevano fuggirmi dalla gola.    

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Capitolo 15
*** Realizzazioni ***


Tremando leggermente, mi voltai ancora una volta a guardare il campo quasi deserto alle mie spalle. Quasi tutti erano stati ricollocati, la meta, nessuno la conosceva. Tutto quello che sapevo era che mi stavano mandando a un campo di sterminio. Tutto quello che sapevo era che potevo soffocare e morire nell’autocarro in cui ero stata rozzamente spinta. Sarebbe stato un problema? Mugolai in risposta alla mia domanda inespressa; onestamente non ne ero più tanto sicura. Era un bel mistero quello che era successo la notte scorsa, non aveva alcun senso.
Ero così sicura che mi amasse; ero così incredibilmente sicura. E poi lui mi aveva bombardata. Non mi amava; per niente, ed ero ridicola a pensarla in quel modo. Sospirando, distolsi lo sguardo dal campo che mi aveva regalato così tanti ricordi: estremamente spiacevoli, ma anche significativamente gradevoli. Mi sarebbe mancato? Diavolo no.
Ma mi sarebbe mancato Duncan?
Assolutamente.
Per rispondere non dovetti neanche pensarci su. Era un dato di fatto. A dispetto di quello che era accaduto la notte scorsa, ero assolutamente sicura del fatto che lo amavo ancora, e che avrei sentito fortemente la sua mancanza. Ma non l’avrei mai più rivisto. Ecco.
Prima che la tristezza mi avesse presa di nuovo, ero stata spinta nello squallido autocarro poco aerato – assieme ad altre venti persone, tutte in una volta- tentando di continuare a respirare normalmente. Era già un’impresa difficile, e le lacrime mi si formarono di nuovo negli occhi.
Come aveva potuto nascondermi il fatto che lo avrei abbandonato? Aveva detto che ne era a conoscenza da un po’. Quanto tempo era “un po’” ? Giorni, settimane, o forse persino mesi? Sospirando frustrata – e rimpiangendolo quasi immediatamente quando iniziai a tossire pesantemente – mi appoggiai contro i muri di legno dell’autocarro. Come aveva potuto fare una cosa del genere? Non aveva alcun senso, per niente.
Solo un paio di settimane fa ero più che convinta del fatto che mi amava; potevo vederlo nei suoi occhi. Eppure, aveva iniziato a cambiare. Era diventato quello strano fantasma che mi stringeva soltanto invece di parlarmi. L’apparente figura di pietra che mi baciava soltanto la testa e mi accarezzava i capelli ripetutamente, invece di fare l’amore con me. Il volto vitreo che non osava chiamarmi con i soprannomi che amavo tanto, e tanto meno parlarmi. Cos’era successo? Perché era cambiato?
Chiudendo gli occhi, cercai di ignorare il chiacchiericcio attorno a me, sudando mai così leggermente per il caldo soffocante e per il locale chiuso. Cosa ne sarebbe stato di me adesso? Sarei soffocata in questo posto? Cercando di respirare con la bocca – anche se non mi sembrò meglio che col naso, e in più adesso potevo assaporare la rarefattezza dell’aria stessa -  cercai di riprendere lucidità.
Come mai le cose erano finite in questo modo? Cosa avevo fatto di male? Non poteva essere stato per il mio costante vomito? O per il modo in cui mi ero comportata ultimamente? Si era stancato di me, per davvero stavolta? Il solo pensiero mi riportò le lacrime agli occhi, e la schiena iniziò a farmi male per le schegge del legno contro il quale ero appoggiata.
Perché non poteva ricambiare il mio amore? C’era qualcosa di così sbagliato in me che aveva cambiato le cose in queste ultime paia di settimane?
Forse ero solo io. Forse era solo un terrificante, orribile incubo. Sì, doveva esserlo! Di sicuro! Era solo un deludente, orribile, atroce, illogico incubo! Stordita al pensiero, chiusi forte gli occhi, decidendo di aspettare una buona decina di minuti prima di tornare alla realtà. A momenti il mio cervello si sarebbe risvegliato e mi avrebbe tirata fuori da questo orrendo incubo.
Mi sarei svegliata sul mio ripiano, e non avrei nemmeno pensato di lamentarmi della sua rigidità, e di come mi uccideva la schiena. Non avrei sussultato quando avrei visto mia madre superarmi ogni mattina per andare a fare colazione , perché sarei stata entusiasta del fatto di essere di nuovo in quel campo. E poi di notte…oh, di notte…
Di notte, mi sarei precipitata tra le braccia disperate del mio amante, e poi gli avrei detto davvero che lo amavo. E, stavolta, lui ne sarebbe stato entusiasta. Mi avrebbe presa fra le sue braccia e baciata dappertutto sulle guance, felicissimo di quello che provavo per lui. E dopo un paio di minuti nel nostro meraviglioso mondo, avremmo fatto l’amore in modo significativo, per poi parlare del nostro futuro insieme.
Stavolta, avremmo escogitato un piano per la nostra fuga dal campo. Stavolta, tutto sarebbe finito bene. Stavolta, ogni cosa sarebbe stata perfetta.
Realizzando che quei pensieri mi avevano tenuta occupata per più di dieci minuti, mi preparai per quello che sarebbe stato il giorno più bello della mia vita. Lentamente, spalancai gli occhi, solo per rivedere la stessa scena che vi era dieci minuti fa.
Incredula del fatto che quella fosse la mia realtà, aprii e chiusi gli occhi ripetutamente, cercando di far mutare la scena. Quando questo non funzionò, mi pizzicai, a lungo e forte, e di nuovo – non per la prima volta in vita mia - , fallii.
Le lacrime mi si formarono negli occhi alla realizzazione del fatto che questo non era un qualche brutto sogno. Davvero Duncan non mi ricambiava. E questo non sarebbe mai cambiato. Stavo per essere ricollocata in qualche nuovo, strano campo, con nessuno lì che avrebbe badato a me. Ero sola, io con me stessa.
Per qualche ragione, quel solo pensiero mi fece scorrere le lacrime fuori dagli occhi ed incoraggiò i singhiozzi a fuggirmi dalla gola.
Una manina si poggiò sulla mia spalla ed io alzai lo sguardo per vedere una ragazzina, non più che una dodicenne, che cercava di consolarmi. Tirai su col naso e cercai di farle un sorriso forzato, ma mi ritrovai a piangere persino più forte, avendomi presa di nuovo la tristezza per la notte precedente.
“Va tutto bene, non c’è bisogno di piangere. Sono sicura che tutto andrà bene” cercò di tranquillizzarmi lei, ed io gemetti solo di più, sembrando molto una di quelle donne dal cuore spezzato che avevano perso il marito in guerra, oppure mia madre, dopo che eravamo venute a conoscenza della morte di Papà.
Ed era esattamente come mi sentivo. Angoscia e dolore mi scorrevano dappertutto, consumandomi a tal punto che non potevo più provare altra emozione. Continuai con i miei singhiozzi, fregandomene di chi mi avesse vista o sentita.
Me ne sarei andata abbastanza in fretta.
 
o 0 O 0 o

Come avevo potuto fare una cosa tanto stupida come lasciarla andare? Perché non ero riuscito a fare qualcosa per farla restare, per nasconderla alle guardie? Poi saremmo potuti fuggire da questo campo e andare fuori a vivere da qualche parte, per iniziare la nostra vita insieme. Perché non ero riuscito ad essere intelligente – per una volta in vita mia – e a fare una cosa del genere?
 
Perché le hai spezzato il cuore rifiutandoti di dirle che ricambiavi il suo amore.
 
Ricordando il ributtante pensiero, gemetti, poiché gli orribili eventi della scorsa notte erano tornati a perseguitarmi. Il suo volto angelico, deformato dal dolore peggiore che potevo immaginare. Più dolore di quando l’avevo violentata per la prima volta, persino più dolore, dalla prima notte che ha trascorso con me.
Ovviamente la ricambiavo; non vi era alcun dubbio.
Eppure non ero riuscito a formulare le parole, dato che ero troppo impegnato a provare dolore per il fatto che sarebbe partita la mattina seguente. E adesso se n’era andata, e il buco nel mio cuore si è ingrandito cinque volte la sua misura. L’ultima volta in cui avevo sentito un dolore del genere…. Fu quando venni a conoscenza della morte di mia madre. Prinzessin per me era importante quanto mia madre? Sospirando, decisi di pensarci su un momento.
Come mi faceva sentire mia madre?
Era speciale, no, era straordinaria. Era lì per me ogni volta in cui avevo bisogno di lei, e lei mi faceva sentire sempre al sicuro. Ogni volta in cui ero ferito, o arrabbiato, oppure non mi sentivo al meglio, lei era sempre lì, a cullarmi per farmi dormire con parole confortanti e dolci ninnananne. Finchè avevo lei non desideravo nulla più, e lei era l’unica persona con la quale avrei preferito trascorrere il resto della mia vita. L’amavo tanto.
Mi aveva insegnato come cucinare, come pulire, come cucire, e la buona manutenzione di una casa. Sapevo che queste cose erano per lo più da femmine, e abbastanza degradanti per la mia educazione, ma erano utili, e molto. Mia madre mi aveva insegnato ogni cosa che sapevo: come camminare, come parlare, come trattare una signora. Mi aveva insegnato anche a leggere, a scrivere, e mi lodava sempre con dei dolci baci sulle guance.
Mi mancava, tantissimo; pensavo che sarei scoppiato dopo la sua morte. Non potevo vivere senza di lei, eppure ci ero riuscito. Per più di otto anni. Furono otto anni difficili, senza fine e che trascorsi in agonia, ma furono tutti uguali. Eppure, sembrava che ultimamente fossi riuscito a trovare un rimpiazzo decente.
Come mi faceva sentire Prinzessin?
Quando la vidi, sapevo che potevo trovare qualcun’altra. Ci sarebbe sempre stata una ragazza mora, orgogliosa, rompiballe, vanitosa, presuntuosa, fastidiosa e viziata esattamente come lei. Sapevo che non ci sarebbe stato bisogno neanche di andare in un’altra città per trovare qualcuna come lei. Potevo andare a casa dei miei vicini e dire che la loro figlia di otto anni era uguale a lei. Diavolo, potevo persino dire che la mia sorellastra era uguale a lei.
Eppure, lei non era assolutamente come loro.
All’ inizio, sembrava che tutti quei difetti le appartenessero, ma, in un paio di mesi, avevo demolito ogni singola barriera che quelle salde caratteristiche avevano così eternamente eretto. E quando quei tratti si erano sbriciolati ed erano svaniti, brillò la sua vera personalità. Prinzessin era estremamente di animo gentile, con un atteggiamento così delicato che non avrei mai osato spezzare – dimenticando temporaneamente la notte scorsa - . Era gentile, e adorabile, ed indulgente, e più matura di quanto ci si aspetterebbe alla sua età. Diavolo, era persino più matura di me – anche se ciò non significava poi molto - .
Si assicurava sempre di baciarmi sulle guance quando la vedevo, qualcosa di così amorevole e affettuoso che il cuore quasi mi si scioglieva ogni singola volta che lo faceva. Quella volta che non mi sentivo bene, mi aveva fatto un sacco di coccole, assicurandosi che restassi nel letto e mi riposassi un po’ e canticchiandomi delle dolci melodie nelle orecchie. Oh, aveva una voce così adorabile; non me ne sarei mai potuto stancare. Che vergogna quando dovetti supplicarla di cantare; era così timida, ricordai con un risolino.
Mi aveva detto che per me sarebbe stata una moglie eccellente – una volta avevamo parlato del futuro, ma in un modo piuttosto scherzoso - , mi aveva detto che avrebbe cucinato e pulito per me, ed io non avrei mai desiderato niente finchè sarebbe vissuta.
Mi doleva il cuore al pensiero di questi momenti gioiosi, dato che adesso lei se n’era andata, e non sarebbe tornata indietro.
Sospirando, mi rigirai sul letto, prima che mi venisse alla mente una realizzazione.
Prinzessin era quella con cui desideravo , no, era quella con cui avevo bisogno di passare il resto della mia vita. Non potevo vivere senza di lei; non potevo perdere un ‘altra come lei. Non potevo perdere la donna più importante della mia vita.  Gli occhi spalancati al pensiero, ero incredulo del fatto che non ero neanche lontanamente vergognato all’affermazione. Non era sempre stata mia madre la donna più importante della mia vita? Scuotendo la testa, levai lo sguardo al soffitto, implorando perdono.
“Scusa, ma’. Sai che ti vorrò sempre bene, ma…lei è speciale. Ed io la amo, ed è lei la più importante, per adesso, e per sempre. Ti prego, perdonami…” E detto questo saltai giù dal letto, afferrando una borsa e mettendoci dentro tutto quello che potevo. Dovevo trasferirmi, in fretta. Sapevo dove stava andando; ora tutto quello che dovevo fare era seguirla.
Ma lei non mi avrebbe perdonato mai e poi mai per ciò che le avevo fatto, realizzai con un sospiro. Avevo bisogno di darle qualcosa, qualcosa per ricordarle che l’avrei sempre amata, e che avrei voluto stare con lei. Socchiudendo leggermente gli occhi, mi diressi verso i miei cassetti, frugandoci dentro prima di trovare un piccolo oggetto, avvolto in un fazzoletto di stoffa. Sarebbe stato perfetto, ma non era abbastanza.
Avevo bisogno di qualcosa di speciale, qualcosa che l’avrebbe aiutata a capire di più.
Sobbalzai quando un forte bussare raggiunse la porta. Dirigendomi verso l’ingresso ed aprendola, mi accigliai leggermente quando vidi chi era. “ Va’ via, Heather”.
Lei ignorò l’ordine e gironzolò nella mia camera con arroganza ed orgoglio. Sghignazzai alle sue spalle, domandandomi cosa diavolo ci facesse lì. Cosa voleva da me quella puttana? Improvvisamente si voltò a guardarmi, e sulle labbra le spuntò così diabolicamente un subdolo sorriso.
“Ho sentito che è stato rilasciato un carico, nel quale vi era il tuo giocattolino sessuale. Così ti offro i miei servigi, ragazzone, nel caso avessi bisogno di qualche sollievo prima di tornare a casa Lunedì”. Sogghignai al pensiero, desiderando nulla di più che cacciarla dalla stanza alla sporca strada a calci nel suo magro culo. Poi notai l’oggetto attorno al suo collo.
 
“ E’ un medaglione davvero carino, davvero. D’argento, con un piccolo fermaglio sul retro, e all’interno vi è un’ incisione fatta dal mio papà. Gli ci sono volute settimane per farmelo, e me l’ ha dato per il mio quarto compleanno. Farei qualunque cosa per riaverlo…davvero…”
 
Socchiudendo gli occhi al ricordo delle sue parole dolci ma piene di sofferenza, indossai la mia maschera più seducente. Era ora che Prinzessin riavesse il suo medaglione.
“ Ti dico una cosa, Heather. Farò di domani notte la notte più bella della tua vita…se mi dai quel medaglione. Sono a corto di denaro per una corsa in treno, e sono abbastanza sicuro di poterlo rifilare a qualcuno a un buon prezzo”. Senza alcuna esitazione, e perfettamente secondo il piano, lei si strappò la collana dal collo ossuto e me la gettò tra le mani.
“ Per me è inutile; l’ho comunque presa da una qualche stupida ragazza Ebrea, non significa niente. E farai meglio a mantenere la tua promessa domani notte, altrimenti tornerò di nuovo”. Detto ciò, mi sorrise con aria di scherno e lasciò la stanza. Roteai gli occhi a quel pensiero ridicolo. Se ne avessi avuto il modo, sarei stato fuori di qui e da Prinzessin entro domani sera.
Osservando la collana nel mio palmo, feci una smorfia quando notai che Heather, strappandosela dalla gola, ne aveva rotto il gancio.
Immagino di dover fare un paio di fermate prima di andare da Prinzessin.
 
o 0 O 0 o
 
Tre giorni, una doccia ghiacciata e uno stomaco affamato dopo, fui collocata nella nostra nuova baracca. Fortunata io, chi mai meritava di essere messo insieme a me più di mia madre? Fortunatamente, avevo sentito dei pezzetti di conversazione delle altre ragazze, che dicevano che il campo era facile, e non era tanto brutale quanto l’altro. Più lavoro, meno svago, ma meno severo. Che gioia.
Poggiando la testa sul più che accogliente ripiano di legno, sperai di non dover mai più sopportare un altro viaggio come quello. Era stato semplicemente orribile: così orribile che non riuscivo a trovare le parole per descriverlo. Chiudendo gli occhi, decisi di dormire, per recuperare le forze e per spazzare via tutte le immagini che mi fluttuavano in testa.
Eppure dormii a malapena per quelli che sembrarono due minuti, poiché fui spinta giù dal mio ripiano, finendo sul pavimento, e mentre mi alzavo lentamente in piedi mi sputarono contro delle dure parole in tedesco. L’estranea guardia mi gettò fuori dalla porta, e mi spinse per farmi camminare più velocemente. Quale possibile motivo c’era per farmi uccidere? Non mi era permesso di dormire? Di sentire l’intorpidimento del mio cuore e del mio cervello mentre riposavano? Silenziose lacrime mi corsero di nuovo lungo le guance quando fui spinta dentro una porta, facendo sì che la pura oscurità mi raggiungesse gli occhi. Aprii e chiusi gli occhi due volte, limitandomi a fare il conto alla rovescia dei secondi che mi separavano dall’essere gassata.
“Mio…Qualcuno sembra un po’ stanco” ridacchiò una voce dolce ma stranamente familiare, e i miei occhi non poterono fare a meno di dilatarsi il più possibile.
“Duncan? Sei tu? Oppure sto sognando di nuovo…giuro..se è un altro sogno…” la voce si limitò a ridacchiare ancora una volta, mentre due forti braccia mi avvolsero la vita e mi strinsero a un corpo rigido e muscoloso. Improvvisamente si accese una luce fioca, ed io fui capace di vedere quasi tutto, a dispetto di questa. Quasi tre giorni in un autocarro buio e oscuro possono davvero aumentare l’abilità di una persona nel vedere in condizioni di scarsa illuminazione.
“Ti sono mancato, Prinzessin?” espirò dolcemente la voce, e le braccia mi voltarono improvvisamente per permettermi di guardare in faccia quell’uomo che in una sola volta mi aveva spezzato il cuore non più di 74 ore prima. L’insicuro, esitante sorriso piantato sul suo volto mi confuse le idee su cosa dovevo pensare della nostra situazione al momento. Cosa ci faceva qui, del tutto fuori da.. – solo allora realizzai che non avevo la minima idea di dove fossimo esattamente - . Ma la domanda principale mi risuonò ancora forte e chiara nella mente. Cosa diavolo ci faceva qui, con me, dopo avermi detto che non mi amava e che ero solo il suo giocattolo? Sicuramente ci sarebbero stati degli altri giocattoli attorno alla sua città natale, e di certo migliori di me. Quindi perché mi aveva…mi aveva seguita fin qui?
Oh, quanto mi aumentò il battito cardiaco in quel momento. Forse mi amava davvero! Forse era stato solo lo shock iniziale che lo aveva fatto rispondere in quel modo. Ora potevo perdonarlo, e avremmo ancora potuto vivere nel nostro piccolo e sicuro mondo.
Ma proprio in quel momento tornò il buon senso e mi schiaffeggiò in faccia. Perché diavolo pensavo a qualcosa di così speranzoso e romantico? Non era qui per me, era qui solo per fare di suo padre un uomo orgoglioso e servire l’esercito per molti anni. Lui non mi amava, sentiva solo la mancanza del suo giocattolo sessuale, e lo sforzo per trovarsene un altro sarebbe stato troppo da gestire per il suo piccolo cervello. PER QUESTO mi aveva seguita. Per il sesso.
Tirando su col naso e sentendo le lacrime riformarsi negli occhi per quella che sembrava essere la milionesima volta negli ultimi tre giorni, distolsi lo sguardo, incapace di comprendere ed accettare la verità. La sua forte mano mi arrivò alla schiena, accarezzandola con sicurezza. “Ti devo una grossa spiegazione, Prinzessin…” . Non era quella la verità? Ma gli permisi di fare come voleva, per il momento. Lui mi trascinò sul letto esitante, stringendomi solo la mano. Però notai come la stava tenendo stretta, passando il pollice sulle mie ossa sottili, come se stesse cercando di assicurarmi qualcosa. Non sapevo cosa pensare, e rimasi semplicemente confusa, non permettendo alla mente di soffermarsi molto su quella situazione. L’avrei lasciato parlare, e gli avrei permesso di spiegare le sue azioni.
Lui si sedette in silenzio sul letto, la fronte aggrottata mentre pensava. Sembrando ricordarsi che io ero ancora lì, mi guardò con uno sguardo sorpreso. “ Siediti, siediti, Prinzessin” , mi intimò, ed io, incerta se sedermi sulle sue ginocchia oppure no, mi limitai a sedermi accanto a lui, permettendogli di prendermi le mani e di strofinarle in modo affettuoso.
“ Immagino che…tu sia confusa in questo istante…chiedendoti che cosa ci faccia io qui…e perché…da quando…io…..uhm…il modo in cui mi sono comportato…l’altra notte” disse esitante, sembrando nervoso, ed insicuro di sé. Questo era un modo in cui non si era mai comportato prima. Era sempre così calmo, così sicuro di se stesso, così sfacciato ed arrogante. Eppure, il modo in cui si comportava adesso era così stranamente rinfrescante, e mi faceva sentire un po’ di calore dentro, dato che sapevo che quello che aveva da dire probabilmente era importante.
“Io…uhm…Prinzessin…tu…” gemette per il suo nervosismo e la sua difficoltà a parlare in modo chiaro. Io non potei fare a meno di sorridere dolcemente, e poggiargli una mano sulla guancia, facendo in modo che si voltasse a guardarmi scioccato. Cercai di assumere la mia migliore espressione per dirgli chiaramente “va’ avanti. Va tutto bene, ti credo”. Sembrai aver ottenuto quello che volevo, dato che lui sospirò e toccò la mia mano sul suo volto, prima di rimuoverla completamente. Scioccata dall’azione, i miei occhi non poterono fare a meno di inumidirsi leggermente; non gli era piaciuto che gli avessi toccato la faccia?
All’improvviso mi venne in mente la realizzazione che questa non sarebbe potuta proprio essere una riunione felice. E se lui aveva solo intenzione di scusarsi, e di spiegarmi il suo bisogno sessuale? Il suo bisogno che io gli facessi provare piacere. Abbassando lo sguardo, il labbro mi tremò leggermente; mi resi conto di essere stata una totale deficiente per aver mai pensato – di nuovo - che lui ricambiasse il mio amore. Improvvisamente, la sua mano mi afferrò il mento, forzandolo leggermente verso l’alto per far sì che lo guardassi. Stavolta, erano i suoi occhi quelli che mi rassicuravano che tutto sarebbe andato bene. Tirando su col naso, restai a fissarlo, aspettando semplicemente che continuasse.
“So che…probabilmente non vuoi più parlare con me. So che probabilmente non vuoi più persino vedermi, per quello che ti ho fatto l’altra notte; e mi dispiace. Sono così, così incredibilmente dispiaciuto. Il modo in cui mi sono comportato con te nelle ultime settimane…non ha scusanti. Lo so, ti ho lasciato desiderosa, e confusa per il modo in cui ti parlavo a malapena…e non è stato giusto. Mi dispiace molto.
“ Vedi…il giorno in cui Felix ti ha violentata…mi ha detto che avrebbero ripulito il campo in pochi mesi. Dire che ero ferito, e sconvolto da quella dichiarazione…sarebbe un puro eufemismo. Lo so, probabilmente ti sarai chiesta perché non te l’ho detto. Probabilmente sarai stata furiosa con me per non averti dato una specie di avvertimento; e mi dispiace anche per questo. Non volevo ferirti, o irritarti in qualche modo; volevo solo che ci godessimo il tempo che avevamo da passare insieme senza doverci preoccupare troppo del futuro.
“ E poi, ci era rimasto solo un mese prima della tua partenza, e dopo non ti avrei mai più vista. Ti sarai chiesta perché ti ho parlato a malapena durante quel mese, perché mi limitavo soltanto a stringerti forte. Non ti è chiaro adesso, Prinzessin?” Non capendo neanche un po’, scossi la testa, la mia mente ancora a ronzare sulla precedente informazione che mi aveva dato. Lui rise e mi abbracciò, baciandomi sulla guancia in modo affettuoso.
“ Sciocchina. E’ perché volevo assaporare ogni momento che passavo con te. Volevo ricordare come mi sentivo stringendoti, baciandoti la testa, strofinandoti i capelli. Non volevo dimenticarlo mai. Ma tutto sommato…non mi ha aiutato nemmeno un po’. I ricordi non erano assolutamente nulla, rispetto alla realtà”. Io tirai su col naso, ascoltando tutto quello che mi diceva. Duncan…stava solo tentando di proteggermi? Di evitarmi un successivo dolore?
“E quella notte..quella notte..sono stato un mostro. Un vero mostro incredibilmente egoista che tentava di proteggerti, ma che ti ha ferita più di quanto possa solo immaginare”. Aprii la bocca per interromperlo, per dirgli che non ero poi così ferita – il che sarebbe stata una bugia bella e buona – ma lui mi zittì. “Non cercare nemmeno di negarlo. Scommetto che ti sei chiesta perché mi sono comportato in quel modo. Vedi, ero stupidamente convinto che se mi fossi comportato con te in quella maniera, e ti avessi detto che tu eri semplicemente il mio giocattolo sessuale, tu mi avresti odiato, e mi avresti dimenticato, e non avresti sentito la mia mancanza alla tua partenza. Ma le mie stupide scuse probabilmente non significano nulla per te, per quanto sei ancora ferita da quel puro calvario; posso leggertelo negli occhi, Prinzessin.
“ E quindi ci ho pensato. Ci ho pensato molto da quando te n’eri andata. Ed ho realizzato che dovevo seguirti. Non potevo vivere senza di te, perché tu, mia Prinzessin, sei l’unica ragazza con cui voglio passare il resto della mia vita”. Restai a bocca aperta, al solo pensiero il cuore mi si agitò dentro. Aveva appena detto che…forse i miei sogni si erano davvero avverati. Ma lo lasciai parlare, nel caso mi fossi sbagliata.
“ Prinzessin…” mi guardò lui, poggiandomi una mano sulla guancia ed accarezzandola dolcemente. “Mi dispiace così tanto… per averti sempre ferita…e spero che tu sappia che ti darei il mondo farmi perdonare…perché…” qui prese un respiro profondo, guardandomi dritto negli occhi “ ..io ti amo, Prinzessin. Ti ho sempre amata, e sempre ti amerò”. Io sbattei gli occhi per trattenere le lacrime, anche se sapevo che sarebbe stato inutile in una questione di secondi. Mi amava? Mi amava! Oh mio Dio, Duncan mi amava!
“So che…probabilmente non mi perdonerai per quello che ti ho fatto…e…spero che tu mi ami ancora…ma…anche se non mi ami più…ho qualcosa per te”. Lo guardai mettere una mano in tasca, e tirare fuori una scatolina bianca e piatta. Me la mise tra le mani in modo gentile, chiudendole attorno ad essa. “Avanti…aprila. Spero ti piaccia…”. Lentamente, con mani tramanti, aprii la scatola, solo per rimanere ancora una volta a bocca aperta ed iniziare a singhiozzare alla vista.
Il mio medaglione! Il mio medaglione! Il medaglione che mi aveva dato Papà! Lo stesso esemplare, e non un falso! Lo tenni stretto tra le mani, armeggiando con il gancetto sul cuore giusto per assicurarmi che dentro avesse ancora l’incisione. Era lì! Era lì! Era davvero lo stesso medaglione! Eppure, c’era qualcosa di diverso…come se…ci fosse un’altra incisione. La lessi lentamente, e, una volta letta, più lacrime mi scorsero dagli occhi.
 
Ti amerò sempre, mia Prinzessin.
 
Mi amava davvero! Lo guardai, ancora singhiozzante, incapace di formulare le domande che volevo tanto porgli. Lui fece un sorriso tremante e mi accarezzò la coscia, ridendo nervosamente.
“ Me lo sono ripreso da Heather. E quando se l’è tolto dal collo…ha rotto il gancio sul retro, così ho dovuto fermarmi da un gioielliere a farlo riparare…e l’ho fatto anche incidere per te..perchè io ti amo davvero Prinzessin…e sono davvero, davvero dispiaciuto per ciò che ho fatto”. Tirai su col naso, il medaglione ancora stretto tra le mie mani. Gentilmente, mi raggiunse e me lo prese, andando dietro di me ed allacciandomelo con sicurezza attorno al collo. Mi baciò baciò la testa dopo essere tornato accanto a me per vedere come mi stava. “ Semplicemente bellissimo…proprio come te”. Lo guardai, e lui mi sorrise prima di tornare a frugare nella sua tasca.
“Io…umh…ho qualcos’altro per te. Perché io ti amo davvero, e spero che questo ti piaccia davvero… e…dimmi di sì…” Tirò fuori un piccolo oggetto, avvolto in un fazzoletto di stoffa. Le mie sopracciglia si aggrottarono confuse, dato che non ero in grado di capire cosa poteva essere quell’oggetto. Confusa, lo guardai inginocchiarsi su un ginocchio solo, quindi gli occhi mi si spalancarono e il cuore mi sprofondò. Di certo non aveva intenzione di…non Duncan! Duncan non potrebbe mai…
“Prinzessin…mi vuoi sposare?” non prima che le parole mi giungessero alle orecchie, srotolò la carta attorno all’oggetto, che si rivelò essere un anello. E non un anello qualunque, era il più bell’anello che avessi mai visto in vita mia. E fu allora che me ne resi davvero conto. Duncan voleva che lo sposassi! Mi amava davvero! Singhiozzai più forte, fuori di me dalla felicità.
“Prinzessin…Courtney…ti prego…non pensavo che saresti stata tanto scossa” disse, abbastanza perplesso, ed io mi gettai su di lui. Lo baciai ovunque sul volto, ancora singhiozzando leggermente.
“Sì, sì! Un milione di volte, sì!” . Fu tutto quello di cui aveva bisogno per infilarmi l’anello al dito, per prendermi e sollevarmi felice, facendomi girare allegramente. “Grazie, grazie, mia Channa” mi baciò con sicurezza, lasciando che gli rivolgessi il sorriso più brillante che riuscivo a fare. “ Mi perdoni?” risi e lo abbracciai più forte, incapace di credere che questa notte fosse realmente arrivata.
“Sì, sì. Un milione di volte, sì.” Lo baciai di nuovo, e ci volle pochissimo tempo perché le nostre labbra si sincronizzassero assieme in un mix perfetto. Mi sarei sposata! Con Duncan! Dopo tutto questo tempo… e dopo tutta l’energia e la cura che avevamo messo nel nostro rapporto…adesso, le nostre vite sarebbero state perfette, dovevano esserlo.
“Ci sposeremo!” esclamai, rompendo il bacio e strillando un po’. Fu allora che capii che non importava l’età in cui ci si sposava. Dopo tutto questo tempo, ripensando a tutti quei quindicenni e sedicenni che si sposavano e avevano presto dei bambini…solo ora capivo perché lo facevano. Erano innamorati.
“ Esatto, mia Prinzessin” disse lui prima di baciarmi ripetutamente sulle guance. Mi sentivo ancora una ragazzina per il modo in cui mi riservava attenzioni, così generosamente. Beh, mi sentii come una ragazzina finchè non mi fece stendere sul letto ed iniziò a baciarmi in altri posti…
E il resto di tutto quel che accadde quella notte, è storia.   

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Capitolo 16
*** Speranze per il futuro ***


“Come sarà il nostro matrimonio, Duncan?” chiesi piano, riposando tra le sue braccia dopo aver vomitato, un paio di settimane più tardi. In realtà la domanda mi tormentava la mente estatica fin dal giorno in cui avevo accettato di sposarlo. Dove avremmo abitato? Come avremmo potuto sposarci? Inoltre, come avremmo potuto fuggire? Il mio promesso sposo ridacchiò alla domanda, sospirando felice e, prima di stringermi ancora di più tra le sue braccia, baciandomi la testa.
“Beh… Vedi, mia Prinzessin…ciò comporterebbe la nostra fuga. Vuoi ascoltare il mio piano?” io annuii, restando seduta e guardandolo dritto negli occhi così da capire se mi stava mentendo. Non sapevo avesse un piano; il solo fatto che stesse pensando alla nostra fuga mi fece venire il batticuore. Questa era la pura, ricorrente certezza del fatto che mi amava. Un sorriso mi spuntò dalle labbra mentre osservavo i suoi occhi blu, chiedendomi come diavolo facessero ad essere così blu naturali. Lui spezzò il mio stupore prendendo le mie mani tra le sue e baciandole, sorridendomi.
“Beh, è molto semplice, davvero. Dobbiamo andarcene nel cuore della notte, semplicemente questo, infatti in quel momento quasi tutti saranno addormentati. Informerò il capo del comando delle mie dimissioni dall’esercito; non dovrebbe rappresentare un gran problema poiché sono qui già da un mucchio di tempo. Tu sarai registrata tra i vari documenti come morta, verso la sera tardi. Mi inventerò qualcosa, tipo di aver progettato di ucciderti proprio quella notte dopo aver dormito con te, e dirò agli altri di voler prendere il turno di notte, prima di andarmene”. Gli lanciai lentamente un’occhiata, abbastanza turbata dal modo in cui aveva progettato tutto. Era così facile per lui pensarmi morta? E dirlo in un modo così disinvolto?
Scossi la testa, cercando di rimuovere quello sciocco pensiero. Duncan mi amava. Non c’era da fare altrimenti. Sospirai, rilassandomi di nuovo tra le sue braccia, e sorrisi quando lui, felice, avvicinò ancora di più il mio corpo al suo.
“Posso continuare, Prinzessin? Perché possiamo sempre finirla qui… e…” si chinò a baciarmi sulle labbra ed io emisi un risolino, ricambiando il bacio felice. Fu solo un istante, perché mi tirai indietro e lo guardai con ansia. “Voglio sentire il resto”. Lui ridacchiò e si appoggiò al letto, iniziando ad accarezzarmi i capelli.
“Va bene, va bene, Miss Impazienza. Una volta liberata la via, amore mio, noi dovremmo scappare nella foresta, con il buio che coprirà la nostra fuga. Acquisterò un’auto: ne richiederò una per arrivare alla stazione ferroviaria. Poi da lì è davvero facile. Ci fermeremo in una locanda, ed io ti comprerò dei vestiti in modo che tu possa sembrare in qualche modo una civile, e poi prenderemo il treno per andare lontano, fuori dalla Germania. Stavo pensando… potremmo andare in Svizzera. Il viaggio potrebbe durare un paio di giorni… ma lì non saremmo più in alcun pericolo. Potremmo sposarci, pure sotto falso nome, se necessario. E potremmo vivere in una casetta di campagna… proprio come volevi tu”, concluse.
La mia mente bazzicava intorno a mille pensieri, cercando di trarre un senso da ciò che stava dicendo. Il suo piano era pensato; molto preciso, e molto ben pensato. Non riuscivo a trovarci un singolo difetto.
“Duncan?”
“Sì, mia Prinzessin?”
“Da quanto tempo, esattamente, hai progettato ciò?” chiesi, in quella che sembrava essere una voce sostenuta. Lui ridacchiò e prese il mio volto tra le mani, baciandomi piano.
“Forse circa… due mesi fa. Però non avevo pensato a tutti i dettagli finchè non ho preso il treno per venire qui. Perché me lo chiedi, amore mio?” . Il mio labbro inferiore tremò e lo abbracciai stretto, singhiozzando un po’ sul suo petto. “Prinzessin… perché piangi? E’ una buona notizia, dovremmo essere felici e festeggiare, non essere tristi.”
“Duncan… sono felice… sono davvero felice. G-Grazie… per aver reso tutto questo p-possibile.” Lui ridacchiò di nuovo, scompigliandomi i capelli prima di baciarli teneramente. “Qualunque cosa per la mia Prinzessin”. Mi prese la mano e carezzò piano l’anello su di essa prima di dargli un bacio. “Ora, ancora non ti ho detto niente riguardo al nostro matrimonio o della casa che ho intenzione di comprarti” . Restai a bocca aperta, illuminandomi in volto come una ragazzina che sta per ricevere una grossa sorpresa.
“Mhm..” mi diede conferma lui, accarezzandomi un braccio. “ Non avremo qualcosa di simile a un grosso matrimonio tradizionale, mia Courtney, e mi dispiace per questo. Ma dovremo restare in incognito per un po’, e non è che abbiamo degli amici con cui festeggiare… ma potrai acquistare un bel vestito, andremo al municipio e ci sposeremo, ed io ti porterò in braccio sulla soglia di casa e potremo avere la nostra prima notte di nozze” concluse, agitando su e giù le sopracciglia. Io mi accigliai e gli diedi un leggero schiaffo sul braccio.
A dire il vero, ero un po’ delusa dal fatto che non avremmo avuto un grosso matrimonio tradizionale. Persino da ragazzina, sognavo di avere Papà al mio fianco, che mi conduceva lungo la navata, e di indossare il più bel vestito bianco, e di avere un sacco di amici e di parenti attorno a me e mio marito. Volevo un matrimonio in un giardino, quello di Mamma era la cosa più bella del mondo, e non riuscivo a immaginare un qualsiasi altro posto per il mio matrimonio.
Quindi quando lui mi disse che non avremmo avuto qualcosa di simile a un grosso, consueto, matrimonio in giardino, ero rimasta piuttosto disillusa. Lui notò la mia espressione e si mise a sedere, lanciandomi un’occhiata confusa. “Courtney, ti prego dimmi che non stai cambiando idea sul fatto che ci sposeremo…” disse, la sua voce sembrava timida e ferita. Scossi la testa, mentre le lacrime mi salivano agli occhi.
“Ma certo che no! Non vedo l’ora del nostro matrimonio! E’ solo… io volevo un grande, bellissimo matrimonio in giardino…” . La sua espressione s’incupì, diventando un po’ amara.
“Mi spiace, mia cara. In un’altra circostanza ti avrei dato qualunque cosa tu desiderassi, ma non questa volta. E’ quasi impossibile. Possiamo pure festeggiare in giardino… ma… sicuramente capisci perchè non ci è possibile avere un grande matrimonio, non è vero?”. Stavo per scuotere la testa quando una realizzazione mi fece capire.
Era ovvio che non avremmo potuto avere un grosso, stravagante matrimonio! Papà non era più vivo,  il giardino di Mamma ad ogni modo era… non ricordo nemmeno più dove, e non avevo amici. Di sicuro avrei potuto sposarmi con quello che potevo permettermi, giusto? Dopotutto, non è il matrimonio in sé che contava, ma la persona con la quale mi sposavo. Sorridendo al mio promesso sposo, annuii, cercando di fare del mio meglio.
“Possiamo avere un giardino a casa nostra?” chiesi timidamente, temendo pensasse che fosse una cosa troppo femminile ed una perdita di tempo. Sorrise, vedendo che avevo finalmente capito la nostra situazione.
“Certo, Prinzessin, tutto quello che vuoi” . Gli sorrisi, poiché sapevo che le cose non erano tanto brutte quanto le avevo fatte sembrare. Sarebbero state belle, invece; avremmo avuto una bella casa, ci saremmo sposati, io avrei potuto avere un giardino e noi non ci saremmo mai, mai più dovuti preoccupare dei Nazisti, o di essere catturati, o di provare vergogna del nostro amore.
“Che tipo di casa prenderemo, Duncan?”
“Non lo so, Prinzessin. So solo che ne prenderemo una in campagna… che tipo di casa ti piacerebbe avere?” . Sospirai, riflettendoci su. Era l’occasione buona per dirgli quello che volevo. Era l’occasione buona per dare tutta me stessa ed esprimere i miei reali desideri. Era l’occasione buona per essere libera.
“Voglio una casa bella e ben arredata. Non troppo grande, ma grande abbastanza da esprimere la libertà che mi manca ormai da molti anni. Voglio una grossa cucina, così da poter preparare per te, che torni dal lavoro, i più bei manicaretti di cui sono capace senza combinare un bel casino in una cucina piccola. Voglio un grande, accogliente soggiorno con un grammofono, una radio. Voglio che i pavimenti siano di legno, ed una sedia particolare per l’uomo di casa” , feci una pausa per dargli un bacio affettuoso sulla guancia.
“Voglio solo due camere da letto” , continuai. “ Una per noi e una vuota, solo nel caso in cui avremo dei bambini in un prossimo futuro. Ma là ci voglio una sedia a dondolo; una grande, comoda sedia a dondolo. Nella nostra camera, voglio un grande letto, e una cassettiera, e una toeletta, dove posso spazzolarmi i capelli e truccarmi per apparire incantevole al tuo ritorno, e non spettinata a causa dei miei compiti da casalinga”.
“Sembra fantastico, mia cara. Hai altre richieste, Prinzessin?”
“Non voglio vivere nel bel mezzo del nulla, deve essere un posto vicino a una città, così che io possa andare a far compere al mercato, e non coltivarmi il cibo. Non sono un contadino, né sono disposta a diventarlo, quindi dobbiamo vivere in un posto abbastanza vicino a un mercato. Con tutto il resto, non ho problemi; posso cucinare, cucire i vestiti, piantare i fiori e lavare i pavimenti, e fare i letti, e..” lui mi interruppe con un casto bacio ed io emisi un suono di compiacimento, mentre mi avvicinavo a lui.
“Sembra tutto meraviglioso, cara. Ho preso a cuore ciascuna delle tue richieste, e andrò in cerca di una casa durante il mese. Sicuramente non ti dispiace restare qui un altro mese, giusto?” . Scossi la testa. Se avremmo potuto avere la casa dei miei sogni, ed io l’uomo dei miei sogni, non sarebbe stato affatto un problema.
“Brava ragazza” mormorò lui, accarezzandomi la fronte. Emisi un verso di contentezza, rannicchiandomi vicino al suo corpo muscoloso. “Non avere fretta, mia Prinzessin, presto avrai la casa dei tuoi sogni” cinguettò, portando la mia mano alle sue labbra e baciandola con dolcezza, poi sorrise.
“L’anello di mia madre ti sta bene, cara” . Sorrisi, osservando il bellissimo anello che adornava il mio dito. Come avesse fatto suo padre a scegliere un così bell’anello, non l’avrei mai saputo dire. Era semplice, ma complesso, comune, ma fuori dell’ordinario, liscio, ma assolutamente stupendo.
A volte, potevo giurare che sembrasse la tiara di una Principessa; oh, ironia della sorte. “Sì…” . La mia gioia fu subito interrotta, poiché dovetti alzarmi di scatto e correre verso il cestino dei rifiuti, vomitando la cena nell’oggetto. E proprio quando pensavo di aver eliminato tutto nel mio stomaco. Duncan sopraggiunse in un lampo, togliendomi i capelli dal volto e sussurrandomi parole dolci nell’orecchio. Una volta finito, lo guardai cupa, e arrossii in volto per ciò che era appena successo. Lui sospirò, conducendomi sul suo letto – in quanto ero sul punto di crollare- e controllando le mie condizioni di salute, la fronte increspata in un’espressione preoccupata, accennata ancor di più dagli occhi. Mi prese il volto fra le mani delicatamente , continuando ad osservarmi a fondo con una faccia sempre più preoccupata.
“Forse dovremmo fermarci da un dottore prima di prendere il treno…” riflettè, alludendo alla mia carnagione pallida e al mio improvviso malessere. Io annuii, poiché non volevo nient’altro che fermare il mio orripilante rigurgitare, le fitte allo stomaco, il senso di vertigine, l’insopportabile fatica e la fame. Dovevo liberarmi di questa influenza al più presto, prima che la nostra nuova vita insieme avesse avuto inizio. All’improvviso il mio stomaco brontolò, e un odore familiare si fece largo nei miei ricordi, e quasi mi fece impazzire.
“E-e perché non fermarsi anche in una panetteria? Mi è venuta la strana voglia di… può sembrare strano… ma ho una stranissima voglia di biscotti appena sfornati” chiesi in un modo piuttosto infantile, incapace di trattenere le guance dal farsi rosse e in fiamme sul volto, in modo spudorato. Lui rise, dandomi un colpetto sulla guancia.
“Possiamo prendere qualunque cosa tu voglia dal panettiere, qualunque cosa, amore mio”.

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Adesso eravamo pronti a partire. Un piano in testa, un obiettivo da raggiungere; tutto quello che ci era rimasto da fare era acquistare una casa, e fissare una data. Duncan mi disse che sarebbe stato in viaggio la settimana prossima, allo scopo di trovare una casa decente da qualche parte in Svizzera. Ero davvero emozionata. Niente avrebbe potuto impedirci di perseguire il nostro obiettivo.
La nostra vita insieme sarebbe stata perfetta, ogni cosa era a nostro favore. Fra meno di un mese saremmo fuggiti, avremmo raggiunto col treno la nostra nuova casa e l’avremmo arredata con così tanto amore che essa avrebbe rispecchiato la nostra relazione.
Gemendo, mi accarezzai la pancia, cercando di far diminuire il dolore. “Perché diavolo mi fa così male?” ringhiai, incapace di sopportare quel ridicolo dolore che mi stava procurando non solo la pancia, ma anche la schiena. Alzandomi, mi diressi verso il lavandino, iniziando a lavare le stoviglie di quel giorno.
Non riuscivo a spiegarmi il perché di quel dolore; nessun altro si era ammalato a causa del cibo, ed io mangiavo più di loro! E sicuramente stavo aumentando di peso, nonostante non fossi in grado di evitare di rigurgitare qualunque cosa mangiassi, durante la maggior parte delle giornate. Non aveva senso! Cacciando un altro gemito quando una fitta mi colpì lo stomaco, mi poggiai con delicatezza una mano sulla pancia, e cominciai ad accarezzarla con dei movimenti circolari e rilassanti.
Improvvisamente sussultai, togliendo la mano dalla pancia quasi immediatamente. Cos’era successo? Qualcosa mi aveva appena…?
Con molta apprensione riportai la mano là dov’era prima e ricominciai ad accarezzarmi, solo per ritrovarmi con gli occhi spalancati dalla paura.
Qualcosa dentro di me mi aveva appena… colpita?
Tenendomi la mano ferma ma incerta sull’addome, tremando, continuai a sentire dei piccoli colpetti e dei leggeri movimenti. Senza preavviso, ricevetti un colpo dall’interno, facendomi piegare in avanti e stringere lo stomaco dalla paura.
Ma che diavolo stava succedendo!?
Che mi stava succedendo? Cosa stava succedendo dentro la mia pancia!? Il cibo che avevo mangiato non era vivo, e non lo sarebbe mai potuto essere, e non era gas… il gas non dava colpi di questo tipo! Ansimando, frugai nel mio cervello alla ricerca di un qualcosa, di una spiegazione che fosse stata plausibile.
 
“Aah!”si lamentò Eliana, stringendosi il pancione. Non potevo fare nulla se non tenerle la mano e tranquillizzarla, bagnando uno strofinaccio e appoggiandoglielo sulla fronte. Lei tentò di sorridermi in segno di gratitudine, ed io ricambiai il suo sorriso, entusiasta mio malgrado per esserle stata d’aiuto. Di solito se la prendeva con me perché non riuscivo a fare una cosa buona, ed io, al tempo solo una quattordicenne, le credevo. Mamma mi diceva che mi sgridava soltanto perché era incinta, e le emozioni prendevano il sopravvento su di lei.
“Tra quanti mesi dovrebbe arrivare il bambino?” chiesi curiosa, sedendomi in ginocchio ed aggrottando le sopracciglia, poiché avevo notato che le macchie d’erba sul mio vestito erano diventate più grosse, Mamma mi avrebbe ammazzata una volta tornata a casa...
“U-uno” ansimò Eliana, colpendosi piano la pancia. “Smettila di scalciare, dannazione. Non mi importa se tuo padre è un Nazista. Non mi importa se è campione olimpico di kickboxing; ma CAZZO SMETTILA DI DARMI QUESTI FOTTUTISSIMI CALCI!” gridò, spaventandomi. Non sapevo che facesse tanto male. Provava molto dolore? E come poteva, un bambino, dare dei calci così forti dall’interno? Tutto questo mi era sconosciuto in quanto non avevo alcuna esperienza coi bambini; quando Papà era ancora vivo, Mamma rifiutò di avere un altro figlio – riflettendoci, poteva essere questo il motivo di quella decisione.
“Come può, un bambino, dare dei calci così potenti? E’ solo un neonato, non può fare nulla”dissi io con realismo, le mani sui fianchi e un’espressione da “so tutto” sul volto. Ero abbastanza matura per la mia età, grazie alle mia formazione. Lei ringhiò e mi afferrò il colletto del vestito, tirando il mio volto vicino al suo. “Finchè non ne avrai uno, non osare dire che un bambino non è in grado di fare niente. Capito!?” sibilò con forza ed io annuii febbrilmente, poiché cercavo di evitare che si scagliasse contro di me. Lei lasciò la presa sul mio colletto ed io inciampai all’indietro, lasciandomi cadere sull’erba dopo un po’. Non capivo perché doveva essere così scortese… non sapevo nulla sull’argomento, avevo solo quattordici anni, dopotutto.
Dopo un po’, espirò e si rilassò un poco. Mi rivolse un’occhiata, giocherellando pigramente con un ciuffo d’erba, e sospirò di nuovo, una smorfia di scuse sul volto. “Mi dispiace, Courtney. Non intendevo… ma il bambino potrebbe nascere in qualunque momento, e sono irritabile, la notte scorsa non ho dormito perché questa dannata cosa continuava a scalciare” io annuii, cercando di comprendere la situazione.
“Va tutto bene… credo di aver capito… scusa per essere stata così stupida…”. Lei sospirò di nuovo, mettendosi a sedere e prendendo la mia mano con la sua. “Tu non sei stupida, sei solo inesperta; e non è colpa tua”. Annuii di nuovo, ancora triste. Lei mi sorrise, accarezzandomi la mano con gentilezza. “Vuoi sentirlo scalciare?” mi chiese, io mi illuminai in volto ed annuii emozionata. Lei rise e guidò la mia mano sul suo pancione, ed io stetti zitta, in attesa.
E poi, accadde. Me l’aspettavo come il battito d’ali di una farfalla, ma in realtà era molto, molto più potente. Sembrava un martelletto contro il suo stomaco, ed io riuscii solo a immaginare quanto fastidioso dovesse essere per lei. Eppure, mi aveva intrigato. Spostai la mano lungo la superficie del suo addome, sorridendo quando il bambino scalciò nel punto in cui essa  si trovava. Era fantastico… era magico.
“Wow..” riuscii a dire, ridacchiando quando il bambino scalciò di nuovo sulla mia mano. Eliana continuava a sorridermi. “Già; brutta cosa che sia un calciatore. E sono davvero dispiaciuta per essermela presa con te prima… sei la mia migliore amica, Courtney”. Restai a bocca aperta, rivolgendole un enorme sorriso e applaudendo dalla gioia. Per tutto questo tempo avevo pensato che mi odiasse! “Davvero? Ma sono più piccola di te di quasi tre anni!” . Lei rise, accarezzandosi il pancione.
“L’età non conta, è solo un numero. E sì, sei la mia migliore, a volte unica, amica”. Le sorrisi, felice di aver finalmente ottenuto il suo rispetto.
“Mi prenderò cura del tuo bambino qualche volta… ti aiuterò a crescerlo”.
“Se questa dannata cosa smetterà mai di scalciare” scherzò lei, dandosi un altro colpetto sulla pancia, come per punirlo. Aggrottai le sopracciglia, chiedendomi come potesse parlare così del suo bambino.
“Perché continui a chiamarlo in quel modo? Non gli vuoi bene?” . Lei rise e appoggiò la testa sul pancione, baciandolo con dolcezza. “Ma certo che gli voglio bene, sono sua mamma, giusto?”. Iniziò a cinguettare rivolta al suo addome, ed io sorrisi, poiché non vedevo l’ora di veder nascere il bambino.
 
Scuotendo la testa per liberarmi del ricordo, ebbi un sussulto. Portandomi la mano alla pancia ancora una volta, restai in attesa, pregando per un miracolo. “Non scalciare… non scalciare, non scalciare” mormorai, chiudendo forte gli occhi e pregando Dio che prima… mi ero solo immaginata tutto; ma il colpetto che venne pochi secondi dopo nel luogo in cui si trovava la mia mano mi provò il contrario. Non era frutto della mia immaginazione; c’era un bambino che stava crescendo dentro di me.
No…
No, no, no, no, no! Non poteva essere! Non ero incinta! Non potevo esserlo!
Eppure… Ricordai che Eliana vomitava sempre, e si lamentava sempre per la fame, e aveva strane voglie di cibo, e il suo addome si gonfiava come un pallone. Sospirando di sollievo al pensiero, realizzai di non poter essere incinta, in quanto non mi ero gonfiata come aveva fatto lei.
..Giusto?
Guardandomi in giro, ed accorgendomi di essere temporaneamente rimasta sola in cucina, corsi verso il forno; la cromatura dell’argento mi sarebbe stata utile come specchio. Spogliandomi in fretta di tutti i vestiti, mi osservai, le lacrime che iniziavano a salirmi agli occhi mentre stupivo in silenzio.
Ero diventata più grossa.
Da quanto… da quanto tempo potevo essere incinta? Contando alla rovescia i mesi da quando il vomito aveva avuto inizio, rimasi a bocca aperta, con le lacrime che ormai tracannavano dagli occhi. Sette mesi… presto ne sarebbero stati otto, fra una settimana circa.
Perché non mi ero gonfiata come aveva fatto Eliana!? Perché ero così minuta!? Realizzando la risposta abbastanza in fretta, mi portai una mano alla pancia in modo protettivo. Ero affamata, tutto il peso che avevo guadagnato non era grasso. Era un bambino che mi stava crescendo dentro, proprio sotto il naso.
“No, no, no, no” , singhiozzai, lasciandomi cadere sul pavimento e stringendomi forte. Perché? Perché proprio adesso? Perché ero rimasta incinta? Confusamente ripensai a tutte le volte in cui io e Duncan avevamo dormito assieme; nemmeno una volta aveva utilizzato dei contraccettivi. Ed il bambino era stato concepito circa otto mesi fa…
Le lacrime mi sgorgarono rapidamente dagli occhi quando giunsi alla conclusione del mio ragionamento. Il bambino non era frutto dell’amore fra me e Duncan. No… il bambino era frutto di uno stupro. Quella prima volta… quella punizione. Avevo avuto ragione; da quel gesto era stato concepito un bambino. Singhiozzando ripetutamente, non seppi cosa fare di me stessa. Non volevo un bambino! Non potevo farlo nascere qui nel campo! Sarebbe stato ammazzato! Che razza di madre sarei stata? Di sicuro una madre orribile.
Non volevo un bambino, e non avevo idea di come avrei fatto a badare a lui. Nemmeno Duncan voleva un bambino.
Una realizzazione mi balzò in mente all’improvviso, ed iniziai a singhiozzare più forte. Come diavolo sarei riuscita a dirlo a Duncan!? Lui non voleva un bambino! Oh… e se gliel’avessi detto e lui mi avesse cacciata a calci!? E se, dopo averglielo detto, lui avesse smesso di amarmi? Tirando su col naso, capii di non poter correre un simile rischio. E se avesse poi scoperto che avevo ucciso il bambino con le mie mani, si fosse arrabbiato e non avesse più voluto vedermi?
Non sapevo che fare; non sapevo che fare! Portandomi una mano alla pancia, l’accarezzai delicatamente. Il bambino scalciò in risposta come per assicurarmi che si trovava ancora lì, e che non si trattava di un incubo. “Mi dispiace tanto, piccolo… ma… ma non posso… non posso essere tua madre…” singhiozzai, stringendomi forte l’addome. Oh… perché proprio adesso? Perché adesso e non tra un paio d’anni, quando avrei voluto davvero avere dei figli, e sarei stata pronta? Il bambino scalciò di nuovo, come per dirmi che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Volevo questo bambino?
Stupita dal pensiero, la prima risposta che mi diedi fu no. Ovviamente non volevo un bambino! Avevo solo diciott’anni! Non ne avrei voluto uno per anni e anni, finchè Duncan ed io non ne avessimo avuto abbastanza della nostra vita coniugale. Poi, quando lui avrebbe voluto un membro in più della famiglia, ci saremmo seduti e avremmo progettato di fare un bambino. Era così che doveva essere!
Ma un altro colpo dentro di me mi disse che non era così che sarebbero andate le cose. Ero incinta, e molto, molto incinta. Niente avrebbe potuto cambiare questa situazione.
Perché non riuscivo a volere questo bambino? Era di Duncan, era mio, e di certo… sarebbe stata una creaturina meravigliosa. E prima non pensavo di sposarmi per molto tempo, ma adesso… adesso stavamo per sposarci! Un altro calcio nella pancia mi fece piagnucolare, piano, mentre osservavo il mio bambino non ancora nato, incredula.
Improvvisamente, capii cosa c’era da fare.
“Mi dispiace piccolo… mi dispiace così tanto…” dissi nel pianto, mentre mi tiravo su il vestito ed iniziavo a camminare.
Un bambino non sarebbe mai potuto sopravvivere nel campo. Non avrei mai potuto dar luce e crescere un bambino in carne ed ossa, da sola, nel campo. Duncan non lo avrebbe mai voluto. Nemmeno tra un milione di anni. Non avrei potuto farcela da sola.
Continuando a camminare, piansi piano, stringendomi la pancia ed accarezzandola in segno di scuse. “Mi dispiace così tanto di non poter essere la tua mamma, piccolo… Ti voglio bene… ma non posso… presto saremo insieme per sempre” singhiozzai, prima di mettermi in fila assieme alla povera gente. Mi trovai faccia a faccia con la porta, le lacrime mi scorrevano sul volto.
Non avrei mai pensato di fare una cosa del genere. Non avrei mai pensato che fosse stato il mio destino.
Con tutto il coraggio di cui ero capace, e continuando a piangere piano, feci il mio ingresso nelle camere a gas.

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Capitolo 17
*** Dirglielo ***


Non riuscivo a crederci. Non riuscivo proprio a crederci. Come era stato possibile che fossi sopravvissuta? Perché oggi, tra tutti gli altri giorni, proprio oggi le camere a gas erano fuori servizio? Tutto era andato come volevo, tutto era andato secondo i piani. Noi tutti eravamo stati costretti a spogliarci dei nostri vestiti, e poi spinti in una piccola, angusta stanza, priva di finestre se non per una piccola vetrina sulla porta. Ero stata nervosa e in attesa della mia morte, ma il bambino dentro di me mi aveva tranquillizzata. Le mani mi erano rimaste sulla pancia tutto il tempo, e i suoi frequenti calci e tremori mi avevano fatto pensare che ogni cosa si sarebbe poi aggiustata.
Avevo capito di essere pronta a morire.
E poi, improvvisamente, eravamo stati tutti spinti fuori dalla stanza, con le guardie che ci gridavano di rivestirci. Dietro di me alcune persone avevano pregato Dio per ringraziarlo di averli salvati. Qualcuno aveva ipotizzato che vi fosse stata una perdita di gas. La mia mente non riusciva a capacitarsi dello sfortunato colpo di fortuna che mi era capitato, tutto quello su cui riuscivo a concentrarmi era il mio minuscolo bambino che sembrava gioire dentro di me; quasi sorrisi. Eppure ero così sopraffatta dalla miseria; ma quel giorno non sarei morta, e Dio sapeva che non avrei avuto più la forza o il coraggio di riprovare questa bravata. Ero a dir poco abbattuta.
Questo significava che sarei stata incinta per tutto il prossimo mese, e poi avrei dato alla luce il mio bambino. Questo stava anche a significare che avrei dovuto dire a Duncan della mia gravidanza; stasera. Non avevo la minima idea di come si sarebbe evoluta la cosa, eppure ero sicura al settantacinque per cento che la notizia non gli avrebbe fatto piacere. Come avrebbe potuto esserne contento, quando nessuno di noi due era pronto ad avere dei figli? Soprattutto un figlio come questo: nato da uno stupro.
Sospirai, sprofondando sempre più nell’autocommiserazione, e mi scostai i capelli dal viso, sdraiandomi sul mio ripiano e posando una mano sull’addome. Davvero ero capace di odiare mio figlio al punto di uccidere sia lui che me? In quel momento, quella decisione avventata mi fece capire di non aver considerato bene ogni cosa. Non sarebbe stato giusto uccidere il mio bambino, nonostante non fossi pronta per lui. Sì, ero sicura che il mio bambino sarebbe stato un lui, uguale a suo padre.
Ma, in primo luogo, come avrei informato suo padre di tutto ciò? Cosa gli avrei detto? E se lui fosse venuto a sapere quello che avevo fatto circa mezz’ora fa? Di certo m’avrebbe scuoiata viva. Improvvisamente, allontanai la mano dalla pancia disgustata. Come potevo amare qualcosa che avrebbe finito col rovinarmi la vita? Come potevo amare una creazione mostruosa, ridicola, impropria e non desiderata?
Non potevo.
La risposta era davvero semplice. Non potevo amare qualcosa che avrebbe ridotto la mia vita in piccoli, minuscoli brandelli. Eppure la sua nascita era inevitabile, in quanto dubitavo che avrei avuto di nuovo la forza di cercare il suicidio. Sospirando, ignorai la schiena dolorante e riflettei su come avrei potuto dare la notizia a Duncan. Avrei dovuto andare dritta da lui e dirglielo? Oppure avrei dovuto farglielo capire da solo?
Il tempo passava.
L’orologio ticchettava.
Ma, dopo un’ora, ancora non avevo trovato un modo per dirglielo, per paura della sua reazione. In quel lasso di tempo mi ero abbattuta, in realtà non preoccupandomi molto di cosa mi sarebbe successo. Duncan non mi avrebbe cacciata a calci, sicuro. Lui mi amava, e avremmo superato insieme questa situazione; avremmo dovuto fuggire solo un po’ prima del previsto, al fine di evitare che andassi in travaglio nel treno.
Tuttavia, pur pensando questo, continuavo a sentirmi abbattuta, come se un’ondata di pessimismo mi avesse presa in pieno; un bimbo, un dannato bimbo. Duncan ed io stavamo per avere un bimbo. Non riuscivo a farmene una ragione, nonostante il bambino scalciasse di continuo dentro di me. Continuavo a non volere un figlio, ma non potevo farci nulla. Sarei stata costretta a diventare mamma, costretta ad amare questa creatura impura e indesiderata. Se io la odiavo così tanto, Duncan di certo l’avrebbe odiata ancora di più.
Quando alzai lo sguardo, la guardia stava sulla soglia, così scesi lentamente dal ripiano, la mano ferma sulla pancia tutto il tempo. Non capivo perché sentivo di dover stare attenta, di dover stare attenta al bambino. Mi tremò il labbro al pensiero.
Mi sentivo una persona orribile a non voler essere sua madre, a non potergli volere bene. Ovviamente non era colpa sua, era colpa mia e di Duncan, e allora perché il bambino avrebbe dovuto pagarne le conseguenze? Non era giusto che un bambino dovesse nascere tra persone che non lo amavano e che non lo volevano, pure se non aveva fatto niente di sbagliato, e a causa di una famiglia che non lo meritava.
Poiché mi sentivo in colpa, continuavo a tenere la mano sull’addome, accarezzandolo con movimenti circolari come per assicurare al bambino che stava bene. Che sarebbe stato bene; ero io quella che non avrebbe avuto un lieto fine. Lui sarebbe stato amato, per quanto sarebbe potuto essere forzato il nostro amore. Sarebbe stato al sicuro; appena arrivati in Svizzera, niente e nessuno sarebbe stato capace di farci del male. Avrebbe avuto il padre più severo, e la madre più apprensiva del mondo. Non avrei fatto del male a mio figlio di proposito, a dispetto del mio odio nei suoi confronti. Dovrei avere abbastanza faccia tosta da riuscire a prendermene cura e da cercare di essere una buona madre.
Vedendo dove giaceva la mia mano, la guardia che mi stava scortando ridacchiò, ed io mi incupii, seguendola a malapena agli alloggi di Duncan. Mi sentivo congelare ad ogni passo che facevo; ero un passo più vicina al mio amante che scopriva di essere padre. Incapace di trattenere un gemito, tremai, e non per il freddo. Il mio pollice stava ancora rassicurando il bambino non ancora nato dentro di me del fatto che sarebbe stato bene, che sarebbe andato tutto bene. Sarebbe andato tutto bene; sarebbe dovuto andare tutto bene. Non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Eppure, ad ogni passo che facevo verso la mia condanna, non potevo fare a meno di sentirmi ancora più disperata e sconsolata.
Duncan mi aprì la porta, un’espressione d’odio sul volto a causa della guardia che poteva vederci. Io tremai, e non per la sua recita. Mi afferrò rozzamente per il collo, tirandomi dentro mentre mi gridava insulti e maledizioni, in tedesco, nell’orecchio. Io non potei fare a meno di liberarmi di quel paio di lacrime che volevano fuggirmi dagli occhi. Una volta chiusa la porta, mi lasciò andare immediatamente e rise della sua malvagia recita, mentre io mi strinsi forte, poiché ero sul punto di esplodere a causa dell’annodata sensazione che mi sentivo dentro.
Lui mi diede un’occhiata, i suoi occhi si socchiusero ma continuarono ad avere quell’espressione giocosa. Mi strinse dolcemente tra le braccia, assicurandosi che il mio viso fosse inclinato verso l’alto in modo che potessi guardarlo direttamente negli occhi. “Ti ho spaventato, mia Prinzessin?” mi chiese piano, facendo correre il pollice sulla mia guancia solcata dalle lacrime. Sentendomi come se stessi per vomitare da un momento all’altro, a malapena alzai lo sguardo, incapace di rispondere. Alla mia mancata risposta, poiché continuavo semplicemente a fissarlo ad occhi spalancati, spenti, il suo sguardo fu preso dalla preoccupazione. “Ti ho mica fatto molto male, cara?” . Aveva le mani sulla mia nuca e la massaggiava con delicatezza, pensando che stessi così male per il dolore fisico.
“S-sto bene” riuscii a dire dopo un po’, abbassando il capo. Solo che lui non mi credette e mi costrinse di nuovo a inclinare la testa verso l’alto, lanciandomi un’occhiata sospettosa. Mi ritrassi, il suo sguardo mi faceva credere che lui sapesse cosa fosse successo un paio d’ore prima. Solo che lui non poteva saperlo. Poteva? Lentamente, osservai come la sua espressione si fosse contorta quasi per disperazione, assumendo una faccia così preoccupata che per poco non fece preoccupare anche me.
“Tu… tu sai quanto ti amo… giusto, Channa?” mi chiese con tranquillità, accarezzandomi amabilmente il volto con le mani. Annuii lentamente, incerta su cosa dire. Certo che sapevo che mi amava; non era palese? “E non sei abbastanza felice di stare con me? Vuoi qualcos’altro?” . Scossi la testa meccanicamente, non ero affatto sicura del fatto che sarei riuscita a dire qualcosa, ma non avevo dubbi che sapesse sul peccato che avevo quasi commesso.
“Quindi… perché mai avresti dovuto farlo? Perché mai saresti dovuta andare lì… ad ucciderti?” disse tutto d’un fiato, con un tono pieno di dolore e preoccupazione. Mi morsi il labbro, cercando di trattenere le lacrime che volevo tanto versare. Lo sapeva; sapeva che avevo cercato di ammazzarmi. Adesso dovevo dirgli la verità. Tuttavia non riuscivo a costringere le parole fuori dalla mia bocca, che continuava a restare chiusa; poiché restavo in silenzio, lui dovette continuare con parole che mi pugnalarono ripetutamente il cuore, facendomi quasi rimpiangere quello che avevo fatto.
“Non hai pensato proprio a me quando lo hai fatto? Non hai pensato a quanto avrei sofferto? Perché!? Perché avresti dovuto fare una cosa tanto egoista e stupida?” iniziò a gridarmi contro, afferrandomi per le spalle e agitandole finchè gli occhi quasi non cominciarono a rotearmi all’indietro. A dire il vero non avevo pensato a lui. Tutto quello che era stato oggetto dei miei pensieri in quel momento eravamo stati il bambino ed io, nessun altro. In quel momento lui non aveva avuto molta importanza, e solo adesso riuscivo a scorgere la ferita che gli avevo inflitto.
I suoi soliti occhi blu intenso adesso erano spalancati e sfocati, traboccanti dolore, dolore, e ancora dolore; come se un paio d’ore li avessero invecchiati profondamente. Il suo portamento fiero era ora così tremante che non sapevo cosa pensare. Mi vergognavo, mi vergognavo profondamente di cosa avevo quasi fatto, e, bambino o non bambino, ciò avrebbe finito col rovinare il nostro rapporto.
Lo guardai intontita, chiedendogli con uno sguardo spento di avere pietà di me, di smetterla di trattarmi così selvaggiamente. Mi vergognavo già abbastanza di mio, non mi serviva un ulteriore dolore.
“Sei stata fortunata! Sei stata fortunata che non ci fosse abbastanza cianuro da ammazzare tutti!” , potevo chiaramente vedergli delle lacrime ardere negli occhi; lui mi scosse più potentemente e poi mi lasciò andare, facendomi cadere a terra. “Tu… tu… non so nemmeno più cosa dirti. Non posso neanche guardarti che mi viene la voglia di… di…” sospirò frustrato, poi diede un pugno sul muro di fronte a lui. Spalancando gli occhi per la sua dimostrazione di potenza, mi stupii del fatto che la mia bravata avesse fatto crollare il muro di compostezza che aveva costruito così bene e che aveva mantenuto così a lungo. Lui mi guardò febbricitante, poi si accovacciò accanto a me e mi prese il viso tra le mani con dolcezza, baciandomi ripetutamente. “Non mi ami, Prinzessin? Non sei felice di passare la tua vita con me? Dillo… dillo e ti lascerò andare. Niente più catene, sarai libera di vivere la tua vita. Ma, ti prego, dimmi che è stato solo un incidente, dimmi che mi ami ancora, ti prego, dimmi che tutto è come prima. Dimmi che stavi solo cercando di salvare qualcuno; ti perdonerò, ti perdonerò subito, ma, ti prego, dimmi che mi ami ancora e che va tutto bene”.
Le sue parole conficcarono ancor di più il coltello nella piaga, mentre io continuavo a stare lì, inespressiva, lasciandomi baciare e supplicare. Era così frenetico nel voler stare con me, e così ansioso di sentire che lo amavo ancora e che andava tutto bene. Ma niente andava bene. Ogni cosa sarebbe cambiata drasticamente. Prima che me ne rendessi conto, iniziai a piangere ancora una volta, singhiozzando come se non ci fosse stato un domani. I muri mi si strinsero attorno, le parole di Duncan ormai erano solo dei frenetici mormorii che non riuscivo più a comprendere. Non riuscivo a vedere nulla, potevo a malapena udire qualcosa. Respiravo con dei brevi sussulti, così irregolari che temevo di avere un collasso.
Un colpo.
Al momento del mio piccolo attacco di panico, la mano mi era finita sulla pancia, e il colpetto che avevo sentito dentro di me era stato più potente dei precedenti. Si era trattato del mio bambino che aveva cercato di tranquillizzarmi, e la cosa mi aveva fatto smettere. Nonostante le lacrime continuassero a scendermi sul viso, i singhiozzi si spensero, così fui di nuovo in grado di sentire le parole di Duncan. I muri erano al loro posto consueto, e lo spesso strato di agitazione non mi stava più soffocando.
Riuscivo a parlare.
“Duncan, basta” , sussurrai, quasi supplicandolo di smetterla con le sue frenetiche richieste. Lui fece come gli avevo detto e si allontanò, provando a lasciarmi un po’ di spazio affinché potessi ricompormi, ed io gliene fui grata. Prendendo un paio di respiri profondi, mi voltai verso di lui, e lo fissai dritto negli occhi. “Non è stato un incidente, e non stavo cercando di salvare qualcuno. Non l’ho fatto perché non ti amo più, sarebbe un’ipotesi assurda. Non dirò che tutto è come prima, poiché è cambiato qualcosa di molto importante. Ma cercare di uccidermi non è stato un incidente, l’ho fatto di mia spontanea volontà”.
“E allora perché lo hai fatto?” sussurrò lui, lanciandomi uno sguardo affranto. Prendendo un respiro profondo, decisi che gliel’avrei detto ora o mai più.
“Perché sono incinta”.
Non riuscivo a guardarlo; non potevo sopportare di guardarlo, per timore e per quello che avrebbe detto. Stava in silenzio. Stette zitto così a lungo che alla fine dovetti guardarlo. Lui mi fissò, un’espressione aspra padroneggiava ogni lineamento del volto. “Stai mentendo”, sputò, i suoi occhi fissi per l’incredulità. Facendomi piccolina, con le lacrime che mi scorrevano giù per le guance, mi tolsi i vestiti di dosso, alzandomi la canottiera in modo da mostrargli il mio pancione. Lui si limitò ad osservarlo ad occhi spalancati, un’espressione incredula gli comparve sul volto. Lentamente, vi poggiò sopra una mano, accarezzandolo con la massima delicatezza. Sentimmo il colpetto emesso dal nostro bambino, e la sua mano si ritrasse immediatamente. Senza degnarmi di uno sguardo si alzò e mi passò accanto, superò la porta e la chiuse di scatto.
Non era una di quelle reazioni che mi aspettavo; era l’unica reazione che non avrei mai voluto si fosse tramutata in realtà. Restai in attesa, sperando che fosse soltanto in preda allo shock, sperando che tornasse indietro e che si scusasse, e che progettasse cosa fare, da brava persona matura.
Ma non lo fece. 

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Capitolo 18
*** Time Away ***


Un mese.
Era passato un arduo e dolorante mese da quando lui se ne era andato. Non era al campo, l’ho saputo dopo due settimane dal mio arrivo. Se ne era andato neanche un mero giorno dopo che gli ho comunicato la notizia. Quando lo scoprii, mi venne un colpo al cuore. Mi rannicchiai sul mio scaffale che fungeva da letto e rimasi sdraiata lì per ore e di quando in quando una lacrima solitaria scorreva lungo le mie gote. Nessuno si interessò di me. Ormai era ovvio che ero incinta, si vedeva il rigonfiamento della mia pancia che le mie mani carezzavano sempre, almeno una volta al minuto.
La sola idea che si potesse spargere la voce sul mio stato mi terrorizzava e quando pensavo che cosa poteva esserne di me mi venivano i brividi. Ero stupefatta nell’accorgermi che i giorni passavano così in fretta e mancava sempre meno alla scadenza dei nove mesi. Ora, ero alla fine dell’ottavo mese e questo mi metteva paura. Non sapevo che cosa poteva succedere o come partorire o dove sarei dovuta andare o niente! Qualcuno sarebbe stato lì apposta per me? Qualcuno mi avrebbe aiutato? Oh, quei pensieri doloranti risuonarono terribili nel mio cervello durante il corso di tutta la notte.
Avevo la nausea, presi la mia scodella e la posai accanto a me, nel caso mi servisse nelle prossime ore. Provai a sdraiarmi, ma un nuovo colpo di tosse mi fece vomitare e la mia gola venne invasa dal dolore. Sapevo che il vomito fosse sintomo di gravidanza, ma non poteva succedermi così frequentemente, soprattutto ora, come non potevo tossire così tanto o avere dei sintomi di influenza.
“Potresti fare un po’ meno chiasso? Stiamo cercando di dormire” mi chiese arrogante una voce a me familiare. Ridussi i miei occhi a una fessura, determinata a non farmi prostrarmi davanti alle sue supplice “Oh, così ora il diavolo parla?”
“Sono io il diavolo? Per prima cosa io non porto un bastardo in grembo, un uovo del demonio” La mia mano corse sul mio stomaco protettiva, come per assicurare che lui non era un uovo del demonio “Beh, questo bastardo, questo uovo del demonio, è tuo nipote, congratulazioni”
“Quella roba non è mio nipote; ti ho rinnegata, ricordi?”
“Tu non potrai mai ripudiare la tua famiglia, ricordalo, cara madre. Questo bambino è la mia famiglia, ma anche la tua; tu puoi o chiudere la tua ripugnante bocca e vivere con lui o io verrò a battere tutto ciò che c’è di vivo in te, che non dovrebbe essere molto, cagna dal cuore di ghiaccio” Tutto il resto del tempo fu silenzio. Lei non parlò o commentò più il mio costante vomitare durante tutta la notte, e ne ero grata, finalmente avevo avuto il coraggio di fare le cose di testa mai, senza il bisogno del suo aiuto. Era solo questione di tempo.
Quando fui sicura che tutti stavano dormendo, mi sedetti e guardai dove il mio bambino giaceva nidificato dentro di me “Grazie piccolo mio” sussurrai, accarezzando il mio ventre con affetto “Grazie per avermi dato il coraggio di affrontarla” Ricevetti un calcetto come risposta e il mio sorriso crebbe al solo pensiero della creaturina che viveva nel mio ventre.
Forse avere un bambino non sarebbe stato così male, forse era facile da amare. Forse non sarebbe stato così terribile crescere il mio bambino in un campo; dovevo solo fare tanti sacrifici per lui. Dovevo essere in grado di insegnarli ogni cosa, anche quello che non sapevo. Dovevo imparare ad amarlo perché io stavo per avere un bambino, perché io ero sua madre. Mi morsi il labbro quando realizzai che ero una madre single, l’unico genitore che il bambino avrebbe avuto perché suo padre l’aveva abbandonato.
“Non ti preoccupare” sussurrai al mio bambino che mi diede una gomitata “Tua madre ti amerà e curerà come se fossero cento coppie di genitori a farlo” Questo sembrò calmare il mio piccolo e il mio sorriso crebbe ancora di più pensando che mio figlio mi amava proprio come io amavo lui.
Lui avrebbe avuto gli occhi penetranti di Duncan, sarebbe stato bello come lui e calmo e composto come lui. Avrebbe avuto la mia intelligenza ed equilibrio e fascino. Non sarebbe stato facile amare questo bambino, non per tutti almeno.

o 0 O 0 o

Spingendo la sega sempre più in profondità della quercia, riuscii a tagliare un decente e sottile pezzetto di legno. Raccolsi il lungo pezzo, presi la cartavetrata e mi sedetti sullo sgabello cominciando ad appianare il tocco. La mia mente continuava a rimuginare, non riuscivo smettere per quanto ci provassi.
Sapevo che la mia decisione era sbagliata, no, era più che disumana, ma io volevo tornare indietro da lei. Ho avuto tempo per pensare, tempo per elaborare ciò che mi aveva confessato. Nel frattempo avevo arredato e abbellito la piccola casa che avevo comprato per noi.
Ma ora, non sarebbe stata solo per noi due. C’era anche un bambino in arrivo che non avrebbe impiegato poi molto a venire al mondo, ormai il tempo stava per scadere.
Era solo colpa mia, solo ed esclusivamente colpa mia. Non avevo mai pensato di indossare protezioni mentre facevo l’amore con lei, o meglio, mentre la violentavo, quel pensiero non aveva mai lasciato la mia mente. A quel tempo, sembrava che niente del genere potesse accadere. Ridacchiando amaramente, levigai il legno in un punto più difficile prendendo tutta la mia rabbia contro me stesso e scaricandola sotto forma di forza su di esso. Ero così stupido, naturalmente concepire un bambino era possibile. Era solo colpa mia se lei aveva sofferto, mese dopo mese, a causa di un bambino che nemmeno sapeva di avere. Era solo colpa mia se ora l’avevo lasciata sola con l’ansia e la paura di dare alla luce un bambino.
E se il bambino stava per nascere?
E se fossero stati entrambi uccisi prima del mio arrivo?
Accigliato, afferrai il mio coltello e iniziai a tagliare legna del bosco, prima di iniziare a inciderne i modelli. Non ero l’uomo giusto per lei. Avrei per lo meno dovuto stare là, al campo, e dirle che sarei partito. Non partito senza di lei, ma partito per lei. Partito per arredare la casa che le avevo segretamente comprato, lei non avrebbe dovuto saperlo. Volevo sorprenderla quando le avrei detto che la portavo nella sua nuova casa, già arredata e perfetta, come lei l’aveva sempre desiderata.
Mi alzai, gettai il legno perfettamente sagomato nella pila e camminai per il bosco. Segai avanti e indietro, sentendo il mio petto sempre più viscido di sudore e di freddo.
Speriamo che lei mi perdoni. Speriamo che lei mi perdoni, ancora una volta, per tutto il male e la sofferenza che le ho causato.
Eppure questa volta, non aveva ragione di perdonarmi. Le avevo imprigionato nel ventre un figlio mutante, che nessuno dei due voleva. Certamente io non lo volevo e lei era sicura di non volerne uno fino a un prossimo miglior futuro. Non potevo immaginare me stesso, sveglio, notte dopo notte, in attesa di uno schifoso infante piangente e sporco. Non potevo immaginare me stesso mentre asciugava il naso bagnato a un bambino arrogante. Non potevo mai e poi mai immaginare me stesso mentre mettevo un bambino a letto, e lui o lei mi baciava dicendomi quanto mi amava.
Eppure sono stato costretto a immaginare tutto ciò ed i risultati non stavano ammorbidendo il mio giudizio. La mia decisione era ancora quella: non volevo figli e dubito che ne avrei mai avuti. Questa idea mi era del tutto estranea, ma, ancora una volta, non avevo altro scelta se non accettare, come Courtney. Non era colpa sua se io l’avevo violentata, era solo opera mia e questo aumentava il numero delle mie colpe.
Onestamente, mi sentivo male per lei, per quello che le avevo fatto. Lei non voleva il bambino quanto io non lo volevo e lei era stata colta di sorpresa. Così, a causa della sua miseria, aveva tentato di uccidersi. Non la biasimo, io avrei fatto lo stesso se fossi stato al suo posto. Ora, lei era sola, senza nessuno che la curasse o aiutasse. Con un colpo finale di sega, un grande pezzo di legno cadde, e io lo trascinai verso lo sgabello e iniziai a intagliarlo.
Credo che una volta finito di lavorare qui, debba tornare da lei e nasconderla per evitare che venga uccisa. In questo modo, non dovrebbero esserci problemi, se lei non fosse stata in grado di dire che era incita e nemmeno io fossi stato in grado di dirlo, allora le guardie non avrebbero sospettato nulla. Non riuscivo a capire perché lei non si fosse irrobustita tanto quanto una donna incinta dovrebbe, ma credo non sia importante. Non mi importa se quel maledetto bambino stia bene o meno.
Sospirando di sollievo, buttai il blocco di legno intagliato insieme agli altri e inginocchiandomi iniziai ad assemblarli. La casa era quasi finita. Grazie al mio duro lavoro, la cucina, il soggiorno e la camera matrimoniale erano pronte, imbiancate e ammobiliate, esattamente come lei aveva richiesto. L’unica camera non ancora finita era quella del bambino. Sinceramente, non mi interessava come sarebbe stata o se fosse stata appropriata per il bambino, non sapevo che cosa fare. Alla fine dipinsi il tutto di un lavanda pallido facendo attenzione che il colore fosse ben distribuito e colorato alla perfezione. Il pavimento era in legno e il tappeto che avevo comprato si intonava con il colore delle pareti.
Con un grugnito, alzai la costruzione finita e camminai fuori dal capannone per poi entrare in casa, andare di sopra e dirigermi verso la camera per il bambino. Posai a terra l’oggetto e ammirai la stanza con piccolo cipiglio, incapace di credere di tutti i miei inutili sforzi per costruire una stanza senza alcun valore.
Il bambino non avrebbe mai significato nulla per me, non avrebbe mai avuto alcun valore. Non era altro che il frutto di uno stupro.
Chiusi la porta dietro di me, senza guardarmi indietro, senza ammirare la bella culla con le incisioni o la sedia a dondolo che distavano a pochi metri da me.

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“Cosa ne pensi di Adam, mio dolce bambino?” chiesi a mio figlio mentre lavavo i piatti. Stavo decidendo il nome adatto per lui cercandone di interessanti e con diversi significati. Non ricevetti calcetti in risposta perciò conclusi che non gli piaceva il nome “Hai ragione, tesoro. Nemmeno io lo trovo molto carino” Sorrisi, ma la mia pace fu presto rovinata da forti colpi di tosse. Dopo essermi calmata, cercai di schiarirmi la gola, ma mi accorsi che fu difficile.
“E’ strano…” pensai ad alta voce ricevendo un calcetto in risposta. Sorrisi all’idea che mio figlio si stava preoccupando per sua madre. Scossi la testa, incapace di aspettare il momento in cui avrei baciato la sua testolina con pochi capelli “Non è niente, piccolo, non ti preoccupare. Comunque, che ne pensi di Eleazar, Eli per abbreviarlo?” ricevetti un leggero calcetto, il che significava che era un nome abbastanza carino, ma non ancora esauriente “Scusa tua madre se ora non riesce a pensare a nomi che ti aggradano. Ne troverò uno che ti piacerà, lo prometto”
Qualche volta mi passò per la mente di proporgli il nome di suo padre- che era una tradizione molto usata- ma dubito che sarei stata in grado di guardare il mio bambino senza ricordarmi che lui aveva rovinato il mio quasi-matrimonio con il suo stesso padre. Sospirai e riflettei se Duncan fosse mai tornato da me. Sicuramente gli mancavo.
Scossi la testa e iniziai a canticchiare una canzone che mia madre mi cantava quando ero piccola, cercando di togliermi questi stupidi pensieri dalla testa. Chissà se il mio bambino riusciva a percepire il mio malessere… “Yonatan, ha Katan…” cantai ad alta voce e quel motivetto si bloccò nella mia mente per un paio di minuti “Aspetta un attimo… Ce l’ho! Yonatan!” esclamai e il mio sorriso si allargò sempre di più quando il mio bambino mi diede un calcetto, finalmente avevo trovato un nome che gli aggradava.
“Yonatan, mio dolce Yonatan… ti amo piccolo mio” amoreggiai giocando con l’idea del nome perfetto. Ricevetti un altro calcetto, ridacchiai, ma la mia risatina si trasformò in numerosi colpi di feroce tosse, non riuscivo a smettere. Dopo circa dieci minuti di tosse incontrollabile, guardai le mie mani che erano state davanti la mia bocca. Le pupille si dilatarono, impallidii e osservai il liquido rosso che le ricopriva.
Sangue.
“Tu!” mi voltai di scatto ritrovandomi faccia a faccia con una livida guardia “Eri tu che tossivi in quel modo?” Avevo paura di parlare, annuii e le mie mani corsero lungo il mio pancione per proteggere il mio bambino dalla furia del tedesco. Quella guardia era nuova e priva di esperienza, si vedeva. Era giovane e sembrava che non sapesse bene cosa stesse facendo. I suoi occhi mi scrutarono timidi facendosi strada lungo il mio corpo e fermandosi sul mio grosso ventre “Sei incinta?”
“S-sì, signore”
“Da quanti mesi?”
“Quasi nove, signore” risposi spaventata per la vita di mio figlio. Sembrava che stava pensando cosa fare con me, se uccidermi o meno. I miei occhi erano spalancati e pieni di terrore, pregai di avere pietà di me e di non mandarmi ad essere gassata. Pregai interiormente Dio, supplicandolo di non uccidere un’anima ancora non nata, che non aveva ancora emesso il suo primo respiro.
Per una volta, Dio mi ascoltò ed ebbe pietà di me.
“Verrò con te all’ospedale. Non voglio aver bambini da far nascere e il tuo marmocchio disturberebbe il campo” Senza un’altra parola, mi prese in braccio e mi portò in una struttura, meglio conosciuta come ospedale. Mi calmai all’idea di un dottore che sapeva come comportarsi. Avrebbe fatto nascere mio figlio.
L’ospedale non era proprio come me lo immaginavo. Tanto per iniziare era sporco. Sporcizia e rifiuti ricoprivano ogni centimetro di pavimento, i topi correvano senza meta e gli insetti volavano e scorrazzavano in giro. Il tedesco mi trascinò in giro parlando con una donna in un tedesco così rapido che non riuscii a capire una parola. Continuò a trascinarmi per i corridoi fino ad arrivare ad una stanza piccola, squallida e solitaria. Aveva un lettino sporco, ma più pulito degli altri, e una piccola finestra polverosa.
“Aspetta qui il dottore” abbaiò la guardia, spingendomi in direzione della branda. La raggiunsi e mi sedetti con cautela, tenendomi il ventre e cercando di calmare il mio piccolo Yonatan “Shh, va tutto bene” sentii un leggero fremito “Sta andando tutto bene, tu starai bene. Sei al sicuro ora, non ti preoccupare” Credevo veramente alle parole che avevo appena pronunciato. Stava andando tutto bene, ero al sicuro e nessuno poteva farmi del male.
Un forte bussare alla porta mi allarmò subito, ma diedi il permesso di entrare al dottore. Con un viso inespressivo, mi disse di togliere i vestiti e mi esaminò. I suoi occhi era turbati. Analizzò tutti i test dicendo che erano regolari, come ero già a conoscenza, disse che il bambino stava bene, ma c’era qualcosa di strano, di anormale nella mia gravidanza.
“Da quanti mesi hai detto di essere incinta?”
“Quasi nove” risposi tracciando piccoli cerchi con il pollice sul mio ventre. Lo sguardo negli occhi del dottore fermò i miei movimenti e mi alzai inquieta, senza sapere che cosa pensare “C’è qualcosa che non va?”
“Tu sei gravemente malata. Hai la febbre molto alta e una costante tosse a causa dell’accumulo di muco. Sei sotto peso per essere una donna incinta e, come se non bastassi, il bambino ti sta prendendo tutta l’energia rimasta” I miei occhi si spalancarono e il mio volto perse ogni colore.
“Che significa?” chiesi, impreparata per la risposta che stavo per sentire.
“Se tu darai alla luce questo bambino, non avrai alcuna possibilità di sopravvivere”

Salve a tutti,
io sono Xenja, la nuova traduttrice di questa storia. Inanzitutto voglio ringraziare di cuore Kissina che mi ha permesso di concluedere il suo lavoro iniziato e ben curato. Spero che le mie traduzioni siano soddisfacenti quanto le sue. Sto già traducendo un’altra storia, sempre Duncney, perciò con l’inserimento di questa sarò più lenta negli aggiornamenti. Cercherò di finire la storia e dovrei riuscirci, salvo imprevisti… leggete la prima frase del mio account (Xenja) e capirete.
In quanto al rating rosso, mi è stato chiesto di abbassarlo per consentire a tutti di leggere, ma l’amministrazione l’ha vietato, quindi rimarrà rosso.
E’ tutto, spero di avervi soddisfatto con la mia traduzione,
La traduttrice,
Xenja ♥

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Capitolo 19
*** Das Ende, Meine Prinzessin ***


Strinsi disperatamente il mio medaglione quando un altro giro di pesanti colpi di tosse mi vinse. Questi ultimi furono peggio dei precedenti e mi lasciarono una sensazione di debolezza irreparabile. Dopo tutto questo tempo, il mio ciclo vitale era finalmente giunto al termine. Era di questo quello che dovevo morire. Non per colpa del mio cuore spezzato, né della mia gravidanza, ma di qualche malattia assurda di cui Duncan mi aveva messo in guardia fin dal primo giorno in cui avevo messo piede nel campo.
Sto per riunirmi a te, papà… non vedo l’ora di rivederti… tieni duro…
Il pensiero mi risuonò nella testa più volte e feci di tutto per ricacciare indietro le lacrime. Naturalmente, ero eccitata all’idea di rivedere mio padre, ma a parte questo, non ero affatto entusiasta di dover lasciare questa terra. Eppure ero senza speranze. Duncan mi aveva lasciata, ero malata e non ero in grado di allevare il mio piccolo Yonatan.
Yonatan era la mia unica speranza. Volevo solo dare alla luce la sua dolce anima angelica e cullarlo prima di lasciare questo mondo crudele e senza cuore. Questo era tutto quello che volevo. Era così tanto da chiedere? Essere in grado di lasciare un piccolo bacio sulla sua guancia rosea prima di morire? Non era quello che ogni madre avrebbe dovuto fare?
Sospirando, carezzai il mio ventre cercando di pensare a qualcosa di positivo. Sicuramente avrei potuto resistere ancora un paio di giorni, giusto? Yonatan avrebbe dovuto venire al mondo da un giorno all'altro e speravo di essere abbastanza in forze per darlo alla luce. Avrei dovuto avere forza, dovevo avere forza.
Mai più di ogni altra cosa, volevo vedere Duncan ancora una volta, prima di morire. Non ho ancora capito perché ha agito in quel modo quando gli ho detto di essere incinta. Certo... avevo esagerato cercando di suicidarmi per poi farmi scoprire, ma quel tempo era passato e avevo imparato ad amare il mio bambino. Lui era mio e di Duncan. Insieme saremmo stati in grado di concepire una meravigliosa e perfetta prole.
Ancora una volta, mi resi conto che l'età non importava. L'età non aveva mai fatto una madre e nemmeno la logica. Era l'amore. Ancora una volta, la risposta era l'amore. Avrei voluto avere la forza sufficiente per alzarmi e baciare il sederino del mio piccolo, ma ahimè, non potevo, così continuai a fare la muffa sulla mia branda.
La quiete non durò a lungo. Una sensazione di nausea mi invase e prendendo la mia ciotola cominciai a vomitare in essa. Una volta che ebbi finito, spinsi via la ciotola e cercai di calmare il mio corpo tremante, ma una nuova serie di colpi di tosse squassarono il mio corpo.
Mi vennero brividi gelati nonostante ero sotto le coperte, chiusi gli occhi e massaggiai delicatamente il mio pancione. Nessuno starebbe sveglio davanti alla crudele realtà, era molto meglio sfuggire da questa terra mentre si era nel mondo dei sogni o degli incubi, dove sapevo poter recuperare un po' di forze per il mio imminente parto.
Anche se quella era la verità, non avrei mai e poi mai ammesso che mio figlio sarebbe stato il responsabile della mia morte.
Essere malati, ma non incinta, non alza le probabilità di sopravvivenza. Eppure, stranamente, in questi giorni avrei voluto morire. Non mi importava più niente. A che cosa serviva vivere ancora? A parte il mio bambino, non riuscivo a trovare una risposta decente e solo Dio conosceva la vera risposta.
Il mio piccolo angelo mi dava tanti piccoli calci e svolazzava dentro di me. Un piccolo sorriso abbellì le mie labbra “Lo so” sussurrai dolcemente al mio bambino non ancora nato “Anch’io vorrei che tu uscissi” e lasciai che le lacrime scorressero libere sul mio viso sporco. Stavo andando a vedere mio padre e non avrei più rivisto il mio bambino? Perché dovrebbe perdonarmi? Perché doveva stare lontano da me? Non mi amava più? Le lacrime inondarono le mie gote e io mi morsi il labbro per soffocare un singhiozzo.
Solitamente, vorrei avere qualche risposta razionale o altamente irrazionale a ciascuna di queste domande, ma non questa volta. Questa volta, volevo rimanere sbalordita. Non avevo idea di quello che stava per diventare di me, e ad essere onesti, questo mi spaventava. Il pensiero che avrei potuto morire da un momento all’altro mi tenne sveglia tutta la notte, carezzando il mio ventre al fine di farmi andare via, al fine di prolungare la mia morte.
Le carezze fecero calmare Yonatan e io mi potei mettere più comoda sulla mia branda chiudendo gli occhi. Avrei disperatamente voluto essere in grado di addormentarmi per sfuggire alla realtà. Volevo scappare nella terra dei sogni dove sarebbe apparso Duncan che mi avrebbe portato via per un po’ dai miei guai.
L’avevo perso, non c’era dubbio. Lo rivolevo indietro, volevo fargli accettare il fatto che avremmo avuto un bambino insieme. Volevo sapere perché mi aveva lasciata e perché per così tanto tempo. Avrei voluto gridargli tutto il mio dolore e l’angoscia che mi aveva causato e fargli promettere di non lasciarmi mai più.
Io potevo perdonarlo per avermi lasciato. Non c’era motivo di essere in collera con lui se lo volevo e desideravo così  tanto. Lo amavo infinitamente e io lo volevo indietro, questo stesso istante, se potessi. Eppure lui non stava per tornare.
Mi voltai e decisi che il sonno era l’unica risposta a tutti i miei problemi. Chiusi gli occhi sperando di risiedere in sogni, non in incubi. La mia mano strisciava inconsciamente lungo il mio ventre e dopo un paio di minuti riuscii a cullarmi verso uno stato più tranquillo, più assopito.
Almeno fino a quando la porta non si spalancò.
Decisi che era meglio tornare a dormire, sperando che l’infermiere o il dottore mi avrebbe lasciato presto sola. Chiusi gli occhi cercando di tornare nel mio mondo dei sogni senza troppi pensieri, ma il mio visitatore pareva non avere alcuna intenzione ad andarsene. Sentii il suo respiro muoversi per la camera e prendere una sedia posizionandola accanto al mio letto. La curiosità, infine, mangiò tutto il desiderio che mi induceva a dormire. Le palpebre pesanti si aprirono, sorrisi e posai la mano in quella del mio ospite.
“Ciao” mormorai debolmente, cercando di mettermi in posizione un po’ più verticale mantenendo la mia mano sul pancione. Lui mi guardò appena, prima di iniziare a tirar fuori dalla borsa ciò che aveva portato con sé e avvolgere la sua grande giacca sulle mie spalle tremanti di freddo. Ero felice del suo ritorno, finalmente, e non mi importava nulla di ciò che mi aveva portato. Una volta recuperato un po’ di calore, sbirciai tra le cose che stava tirando fuori con molta cura dalla borsa. Mi ci volle un po’, la mia vista era sfocata, ma piano piano potei vedere ciò che mi aveva portato. Aggrottai la fronte.
“Duncan… quelle non mi aiuteranno” gracchiai prima di iniziare a tossire. Una volta recuperata la mia compostezza e calmati gli spasmi di tosse lo vidi versare le pillole dalla bottiglia. I miei occhi si spalancarono e subito dopo si strinsero, scossi la testa in senso di diniego mentre lui cercava di mettermi i medicinali in mano. Sospirò porgendomi fermamente un paio di pillole e una tazzina di acqua. Le osservai domandandomi se era sicuro o meno prenderle.
“Prendile Courtney, ora” ordinò severamente, un comando misto di pura preoccupazione. Scossi la testa ancora una volta cercando di capire se quelle pillole avrebbero danneggiato il bambino che viveva dentro di me.
“Non so se queste pillole danneggeranno il bambino” ammisi guardando Duncan e massaggiando il mio ventre per tutta la sua misura. Questa frase fece arrabbiare l’uomo che prese la mia mano strappandola dal mio stomaco e prendendola nella sua. La carezzò nervosamente.
“Dimenticati di quel maledetto bambino” ringhiò, i suoi occhi pieni di dolore “Prendi queste cazzo di pillole, che ti aiuteranno a stare meglio” Strinsi gli occhi su di lui comprendendo che era ancora arrabbiato per il bambino, ma eseguii i suoi ordini in modo da non farlo infuriare più di quanto già non lo fosse. Presi con cautela le pillole nel mio palmo e inghiottii, sussultando quando scesero.
“Brava ragazza” mormorò lui dolcemente aiutandomi a stendermi di nuovo e tracciando una lunga carezza sulla mia fronte. Lasciai che i miei occhi sorridessero per me, dato che la mia bocca era troppo debole per farlo. Rimanemmo lì per un po’ in silenzio, lasciando che i nostri occhi parlassero tra loro. Era chiaro che era pentito per le sue azioni.
Mi dispiace era palesemente scritto in un angolo del suo volto. Potei vedere che rimpiangeva per non essere stato qui per me, per non avermi aiutato durante la malattia. Non aveva bisogno di esprimere le sue scuse, lo avevo già perdonato.
Eppure, nonostante tutto, lui odiava ancora il nostro bambino. Non so perché… perché non riusciva ad amare quella nostra preziosa creazione? Avevo imparato ad amarla come lei aveva fatto con me, nonostante fosse impura. Forse una volta che Yonatan fosse nato, avrebbe cambiato idea. Doveva, perché non mi avrebbe lasciato di nuovo… vero?
“Quella dannata cosa ti sta uccidendo” disse improvvisamente, tracciando piccoli cerchi sulla mia mano con il pollice. I miei occhi si indebolirono a quelle parole, li chiusi cercando di parlare.
“Duncan, lui è un bambino, non una cosa, ed è tuo” parlai con fermezza prima che un colpo di tosse bruciò la mia gola.
“Se quella cosa ti uccide non è mio” ringhiò costringendomi a tremare d’ansia. Come poteva odiare il nostro Yonatan così tanto? Le lacrime iniziarono a gocciolare lungo le guance sporche. Lui si sedette vicino a me iniziando ad accarezzare il mio viso e a infrangere la sua mano tra i miei capelli
“Non piangere Prinzessin, stai sprecando tutta la tua energia, smettila ti prego” pregò mentre io tirai su col naso e tossii di nuovo.
Non aveva capito? Tra pochi giorni avrei dato alla luce un bambino e poi sarei morta. Avevo paura, paura di ciò che sarebbe accaduto dopo. Se Duncan fosse stato qui durante questi mesi, avrebbe capito che lui era la mia unica speranza, l’unico modo per crescere il nostro bambino, al mio posto. Se non l’avesse fatto, non volevo neanche pensare che cosa sarebbe potuto accadere al nostro piccolo.
“Duncan… io sto per morire. Bambino o no, io sto per morire” ammisi tranquillamente con voce un po’ strozzata. Abbassai la testa, non osai guardare il suo volto, in particolare per quello che stavo per dire “Duncan, stai peggiorando solo le cose dicendomi che non vuoi il bambino. Tu devi prendere in cura il nostro angioletto, devi” I suoi occhi si spalancarono e le sue mani affettuose si ritrassero prendendomi dolorosamente per i polsi. Io cercai di ritrarmi, ma lui sembrò non accorgersene.
“No! Non parlare così, Courtney, non stai morendo. Non potrei sopportarlo. Ti prego… devi rimanere qui. Potrai avere tutte le medicine che vuoi e io potrò ottenere la liberatoria dal comandante per una settimana o due. Lui mi conosce e mi ascolterà. Basta che non muori, per favore…” invocò Duncan, ma io potei solo scuotere la testa negativa, intrecciare la mia mano con la sua e posarla sul mio ventre. Per un primo momento cercò di ritirarla, ma io lo tenni lì con risolutezza spostando le sue dita sul mio ventre.
“Sta andando tutto bene, Duncan, sta andando tutto bene” dissi io piano, più per nostro figlio che per Duncan stesso. Duncan rimase in silenzio, iniziando a muovere da solo la sua mano sul mio stomaco. Ne fui felice e ne approfittai per continuare a ragionare con lui.
“La mia vita è finita, Duncan. Non posso vivere in questo campo per il resto dei miei giorni guardando i miei amici e la mia famiglia morire, vivere in un posto lurido, aspettando che la morte mi colpisca questa settimana oppure la prossima. Non posso rischiare di scappare con te e il bambino perché potremmo tutti finire nei guai e quindi morire. Voglio che restiate entrambi vivi, anche se questo significa rimanere nel campo. E poi non posso rischiare che il bambino perda sua madre dopo averla conosciuta e aver passato con lei troppi anni della sua vita. Non può perdere anche te…” Mi interruppi sperando di aver usato delle parole giuste, che potessero convincerlo.
“Devi vivere Courtney, devi solo fare questo. Che cosa farei io senza di te?” sorrisi debolmente alla sua supplica, voltandomi e ricordando la prima volta che mi aveva portato al campo.

“Non sopravvivrai mai qui. Impara un po’ di rispetto. So che può sembrarti difficile da fare e tutto, Prinzessin, ma sei vuoi sopravvivere, sarà meglio per te. Capito? “ ruggì, mentre tentavo di alzarmi, stringendomi il ventre dal dolore mentre le lacrime scorrevano sul mio volto.
“S-sì signore” . Sogghignò malignamente per un istante ma non disse nulla. Mi sollevò, io sibilai dal dolore ma lui ricambiò schiaffeggiandomi in faccia. Aprì la porta e mi condusse fuori tirandomi per la lunga treccia.
Mi trascinò attraverso lo sporco sentiero, mentre io restavo in silenzio, tentando di soffocare le lacrime e di far passare il dolore.
Vidi molti camion , mucchi di persone e famiglie spinti fuori di essi come me. Mi guardai intorno, questo posto mi spaventava a morte. Grandi recinti di filo spinato circondavano ogni cosa, facendomi sentire in trappola, come un prigioniero. Guardie e soldati sorvegliavano ovunque, dando a colui che mi aveva catturato un brusco cenno del capo riferendosi a me. Era comune per le guardie prendere giovani ragazze come prigioniere? Mi sentii fuori posto, e terrorizzata al pensiero di non rivedere mai più mia madre. Un’insegna poco lontano diceva “il lavoro rende liberi” . C’erano delle tinozze d’acqua, dove stavano bevendo dei cavalli. Passammo accanto a loro, e sussultai d’orrore quando vidi un bambino morto galleggiare sull’acqua. Il Tedesco mi strinse la mano e, come ci avvicinammo, vidi più morti, e fui improvvisamente felice di essere venuta insieme a questo Tedesco che con gli altri.
“Zur hoelle mit dir”, mormorò crudelmente sotto il suo respiro. Tremai, sperando che non stesse parlando di me. Lui mi rialzò e mi spinse verso la folla di persone, cominciando a parlare.
“Qui sarai preparata per lavorare. Non sarai trattata come una Prinzessin, e quasi certamente non ci somiglierai nemmeno. Nessuna guardia ti tratterà tanto bene quanto l’ho fatto io”. Stavo per dire qualcosa di antipatico, ma mi trattenni, nel caso in cui m’avesse dato altre istruzioni utili.
“Non puoi ammalarti qui, in nessuna circostanza. Ti ammali, non puoi lavorare, e ti mandano lì” . Indicò una specie di capannone, solo più grande, il cui camino stava vomitando fumo nero che puzzava in un modo disgustoso. Mi colpì allora, la ciminiera. Gli Ebrei venivano bruciati quando non potevano lavorare. Annuii gravemente in segno di comprensione.
“Sarai il mio giocattolino qui, ho deciso di tenerti, Prinzessin. Ogni notte, sarai scortata da altre guardie ai miei alloggi. Non dovrai parlare con loro, e non sarai irrispettosa come lo sei con me, perché loro non ti perdoneranno tanto facilmente e verrai punita. Farò di te come mi pare, e tu non rifiuterai, capito? “ . Le lacrime fuoriuscirono dai miei occhi ed annuii, sperando cose che non potevo ottenere.
“Non ti rivolgerai a me in altro modo, o attaccherai discorso con me se mi vedi nel campo. Ti sparerò, paperella, e sarai rimpiazzata facilmente. Non capisci quanto sei fortunata”.

Continuando a fissare il muro scorticato, sorrisi di nuovo, pensando a quanto ero stata fortunata. Ero così giovane allora, così inesperta e ignorante. Mi meravigliai constatando quando ero cambiata in un solo anno. Mi ero innamorata di un uomo che non avrei mai pensato di poter amare e ora stavo per avere il suo bambino
Ero cresciuta, imparando con la violenza che non era mai abbastanza. Mi era piaciuto stare con Duncan e ora la morte mi stava portando via da lui e dal nostro bambino. Tutto questo era ingiusto. Eppure continuavo a pensare positivo, Duncan poteva andare avanti anche senza di me. Lui era un uomo forte e senza alcuna paura.
“Sono solo una piccola paperella e posso essere facilmente sostituibile…” mormorai lasciando che un’innocente lacrima scorresse lungo la mia guancia. Duncan non sorrise a quel commento, ma prese mia mano che carezzava continuamente il mio stomaco e me la mise in faccia. Per un attimo ebbi paura, ma lui carezzò il mio volto asciugandomi la lacrima con il mio stesso palmo.
“Prinzessin, tu sei insostituibile” parlò con tono serio inondandomi gli occhi di lacrime. Li chiusi per non farle cadere. Dopo aver ripetuto due volte nella mia mente quella frase, la mia tattica non funzionò e le lacrime caddero rapide.
Non volevo più morire, anche se era certo che sarebbe successo. Volevo prendere in braccio il mio piccolino e stare con Duncan. Non ero forte come volevo apparire, ero debole sia emotivamente che fisicamente, e non solo perché avevo un bambino dentro di me.
“Prinzessin” canticchiò Duncan avvolgendo le sue braccia introno al mio corpo fragile e dondolandomi un po’. Quella mossa diede sfogo ad ancora più gocce cristalline che piangevano sulle sue spalle.
“Io… io non voglio morire…” soffocai cominciando a singhiozzare, senza trovare il modo di odiarmi per quello sfogo senza ritegno.
“Tu non morirai, nessuno vuole che tu muoia. Devi fare la brava ragazza, prendere le tue pillole e riposarti, okay? Sono stato qui troppo a lungo e gli altri potrebbero sospettare qualcosa. Devo lasciarti” Cercai di nascondere il mio infinito dispiacere a quella dichiarazione. Mi aiutò a distendermi, si chinò e mi baciò dolcemente sulle labbra pallide, strappandomi un piccolo sorriso.
“Ti amo” mi sussurrò delicatamente vicino al mio orecchio. Prima di andarsene, lasciò cadere due pillole in una mano e me le porse. Io tirai su col naso, le presi e le nascosi frettolosamente sotto il cuscino. Chiusi gli occhi e mi girai continuando a mantenere una mano sul mio ventre.
“Sarai un bambino fortunato” sussurrai al mio piccolo non ancora nato.

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Duncan non venne a trovarmi di nuovo. Senza di lui, ero in piena agonia. Mi mancava terribilmente e per i successivi due giorni nessuno venne a farmi visita, se non il medico. Ero in miseria. Sola, la mia schiena livida di crampi e il bambino che continuava a calciare senza mai smettere. Avevo frequenti sbalzi d’umore e non dormivo se non per qualche ora. Mi sentivo come se fossi all’inferno, ma erano questi i sintomi della malattia. Vomitai più del solito e quel poco che mangiavo non riusciva ad andare giù. Era questa la fine? Era così che ci si sentiva quando si moriva?
“Calma Courtney” riuscii a mettermi in una posizione più comoda. Yonatan calciò di nuovo, stava facendo i capricci, proprio come suo padre. Ma per ora non sarei morta, per ora.
“Non sati morendo. Basta che ti riposi un po’, va bene, Prinzessin?” la voce di Duncan risuonò fastidiosa nella mia testa, ma anche consolatrice. Aveva ragione, dovevo riposare, ma non ci riuscivo a causa dei calci che Yonatan mi lanciava. Era due notti che andava avanti così e io dovevo combattere quel dolore per riuscire a recuperare un po’ di forze. Chiusi gli occhi ignorando i crampi e cercando di addormentarmi, di nuovo. Non appena le palpebre si abbassarono, neanche dieci minuti dopo, un forte dolore all’utero mi fece sobbalzare e la paura crebbe sempre di più.
“Ah, merda!” imprecai sentendo la stola della branda sotto di me diventare sempre più bagnata.
Le due ore successive furono un inferno, come se mi stessero bruciando viva. Mi sdraiai sommersa dall’agonia, tremando come una foglia e ansimando pesantemente. Trasalii e gridai ad ogni contrazione che straziava il mio corpo. Non riuscivo a sopportare il dolore, mi sentivo cadere a pezzi e più passavano i minuti, più le contrazione erano frequenti e dolorose. Non mi ci volle molto a capire che non avevo alcuna possibilità di vita, dopo il parto. L’inferno che stavo attraversando ora, non sarebbe stato nulla rispetto a quello che sarebbe successo dopo.
Emisi un altro respiro e strinsi i denti mentre il mio corpo si irrigidiva e poi si rilassava… quando il dolore svanì improvvisamente. La levatrice arrivò trafelata – probabilmente a causa delle mie grida di dolore – mentre con uno sguardo triste sul volto esaminava le mie condizioni.
“Sei sicura di voler dare alla luce questo bambino? Tu… beh, sai che non ce la farai” chiese preoccupata e delicatamente mentre bagnava uno straccio sporco e lo metteva sulla mia fronte. Annuii febbrilmente, le mie mani si stringevano e rilasciavano dal dolore. Non avevo altra scelta. Non potevo semplicemente schioccare le dita, dire che non volevo più il mio piccolo Yonatan e puf! Il dolore sarebbe magicamente sparito insieme al bambino.
“Va bene cara, ma non sei ancora pronta. Dovrai aspettare ancora un po’” annuii ciecamente alle sue inutili parole mentre il mio respiro diventava instabile e faticoso.
Volevo Duncan, lo volevo disperatamente, ogni singola parte del suo corpo. Non mi importava se lui diceva che il mio non era vero dolore come la prima notte che avevamo passato insieme. Non mi importava se mi diceva che mi comportavo in modo stupido, che dovevo smetterla di piangere e che dovevo essere forte perché lui mi amava. Non mi importava che parte di lui avrei ricevuto, ma lo volevo qui. Lo volevo tutto per me, per tutta la durata della nascita di nostro figlio. Lo volevo con me, in modo che mi aiutasse nel miglior modo possibile.
Non potevo credere che appena un anno fa, lo avevo odiato con tutto il cuore. Avevo pensato che era pazzo, un Schmeisser nazista buono a nulla. Era crudele, aveva approfittato di me, mi aveva umiliata, ingannata, tagliato i capelli, violentata, messa incinta e tante altre cose che ormai non contavano più, ma che non potevo dimenticare.
Sapevo che avrei ceduto a lui dal momento in cui sarebbe tornato dal suo viaggio. Credevo fosse solo un amore falso, non potevo essere veramente innamorata di lui, ma invece solo ora avevo capito che era tutto vero. Avevo riflettuto su questo per molte lunghe notti chiedendomi come fosse possibile e come fossi finita a provare così tanto affetto per lui.
Eppure così a andata, non mi importava più. Non mi importavano tutti quei perché o come. Ero solo grata. Grata agli Dei per avermi dato un uomo duro come diamante, con un cuore buono come l’oro, anche se oro offuscato che talvolta aveva bisogno di essere lucidato. Non mi dispiaceva sapere che ero io l’unica in grado di lucidare quell’oro e lavorare su di esso. Solo che ora non sarebbe più stato così, io stavo morendo e non potevo più né lucidare, né lavorare quell’oro. Mi sentivo male a pensare che qualcuno che non fossi io avrebbe potuto prendere il mio posto e occuparsi del mio Duncan. Sapevo che detestava le persone che si prendevano cura di lui, ad eccezione di me.
“Achoo!” i miei occhi si solcarono di preoccupazione quando vidi Duncan strofinarsi nervoso una spalla. Non l’avevo mai visto così fuori di sé.
“Dovresti essere a letto”
“Già, dovrei” ribattei. Lui si avvicinò prendendo un fazzoletto dalla tasca della giacca e asciugandomi il naso sempre bagnato. Io aggrottai le sopracciglia in disaccordo, mi sentivo come un bambino. Spinsi via la sua mano “Non farlo, posso prendermi cura di me stessa, lo sai”
“Oh, tesoro, non ho dubbi su questo, ma mi piace vedere il tuo viso contorto quando sei irritata” Aggrottai ulteriormente le sopracciglia colpendo con leggeri schiaffi il suo petto coperto dell’uniforme “Mi hai sentito? A letto, ora” Alzai gli occhi su di lui e lo spinsi sul letto togliendogli la camicia, le scarpe e le calze e posandogli una mano sulla fronte “Tsk, tsk, tsk” schioccai la lingua “Hai la febbre. Dovrai rimanere a letto per tutta la notte” Iniziò a lamentarsi e protestare, ma io lo spinsi sotto le coperte.
Mi guardai intorno e trovai un asciugamano zuppo d’acqua. Lo strizzai bagnandomi con le gocce e lo posai sulla sua fronte “Spero che non mi lascerai solo con il bambino” ansimò, ma il suo tono era più di gratitudine che di fastidio. Risi e gli carezzai la guancia pallida.
“Questa è la tua ricompensa per avermi avuta come amante”
“Non potevo chiedere di meglio. Grazie, Prinzessin”
Una contrazione scoppiò improvvisa e io urlai a quel dolore straziante. Perché far nascere un bambino era così doloroso? Ora capivo perché mia madre aveva avuto un’unica figlia. Non riuscivo a capire come Leah aveva potuto soffrire così, per molteplici volte. Riflettevo e giacevo sulla mia branda, urlando ad ogni contrazione, l’una sempre più vicina all’altra. I ricordi e i pensieri di poco prima, con Duncan, erano lontani dalla mia mente. Finalmente, dopo giorni, ecco la mia tortura straziante, tutta pianificata. La levatrice entrò, mi esaminò e sorrise cupa.
“Sei pronta a far nascere questo bambino?”

o 0 O 0 o

Non mi ero nemmeno preso la briga di disfare le valige che sostavano nella mia camera da quando ero tornato, non ce n’era motivo. Sinceramente, non sapevo che cosa stava succedendo nella testa di Courtney. Non voleva più fuggire con me, pensava solo a quel cazzo di bambino.
E la sua malattia andava sempre peggiorando.
Se non fosse stata incinta, lei avrebbe potuto tranquillamente sopravvivere a quella maledetta patologia. Non potevo credere che ora stava per morire. Non le avevo detto un milione di volte di stare attenta a non ammalarsi? Io l’avevo controllata ogni singola volta che veniva a trovarmi, ogni santa volta per un anno intero mi ero assicurato che non avesse segni o sintomi di malessere. Eppure nonostante tutti i miei estenuanti sforzi, era riuscita a contrarre una malattia. Ed era solo colpa mia. Se non l’avessi esposta al freddo facendo sesso con lei, non avrebbe preso la febbre. Se non avessi abusato di lei ogni volta, non sarebbe rimasta incinta e quindi la sua vita non sarebbe stata risucchiata via da quel maledetto bambino!
“Il bambino significa così poco per te?” mi rimproverai battendomi una palmo sulla fronte. Io disprezzavo mio figlio quanto si potesse disprezzare l’inferno. Non mi interessava nulla di lui, se lui l’avrebbe uccisa, io lo avrei sarei ucciso per vendetta. Non avrei avuto alcuna pietà per quello sgorbio impuro.
Non l’avevo vista per due giorni e probabilmente ora si sentiva sola senza nessuno a tenerle compagnia, anche se, mi era difficile riuscire ad ammetterlo, quel bambino dentro di lei le teneva compagnia. Aveva il disperato bisogno di vederla, senza però correre il rischio di danneggiare entrambi. Dio solo sa quanto mi odierei se accadesse.
Pensare al suo stato mi faceva sbiancare dalla preoccupazione che mi metteva in subbuglio lo stomaco. Era una sensazione a me sconosciuta, ma che accadeva ogni volta che pensavo al mio amore per lei. Io amavo Prinzessin, io amavo un’ebrea. Non avrei mai pensato che un giorno l’avrei detto. Il modo in cui mi sentivo quando ero con lei era inspiegabilmente fantastico. Lei mi faceva ragionare su tutto ciò che avevo fatto, tutto il male che avevo commesso. Lei faceva perdere battiti al mio cuore. Lei mi faceva sorridere e portava a galla tutto il meglio e il peggio di me. Era così bella tanto che certe volte dovevo distogliere lo sguardo perché non ero degno della sua purezza.
Eppure era così insicura di se stessa. Mi ricordai quando evitò di guardarsi allo specchio e nel momento in cui io la costrinsi a farlo, mi spaventai per come lei si guardò, con tutta quella tristezza e pietà nello sguardo. Ricordai quanto pianse per come appariva la sua figura priva dei suoi morbidi e lucenti capelli. Eppure, per me, quelle ciocche castane non significavano nulla, lei era bellissima anche senza di loro sul capo.
Non potevo vivere senza di lei e il motivo della sua felicità per la sua imminente morte mi era del tutto sconosciuto. Scorrere il mio tempo con lei, insieme alla sua frizzante personalità, aveva reso la mia vita completa. Adoravo sentirla parlare per ore ed ore della sua vecchia vita. Mi aveva confessato le sue memorie. Solo io ero a conoscenza dei suoi segreti e io avrei dovuto tenerli vividi nella mia mente, per lo meno fino a quando il suo cuore fosse stato in grado di battere.
Dovevo attendere almeno un’ora prima di poter vederla di nuovo. Era un’agonia stare seduto solo e pensare a lei, ma di sicuro lei stava patendo più di me. Forse ora tutti erano addormentati all’ospedale, era notte. Quindi io avrei potuto andare a trovarla di nascosto… non vedevo l’ora di riaverla sotto i mei occhi, sebbene il suo stato fosse critico.
L’orologio era l’unica cosa che mi teneva compagnia nella mia cupa solitudine. Il costante tic tac mi ricordava che più secondi passavano, più passavano i minuti, più Prinzessin era vicina a me... e alla morte.
Infine, quando quella straziante ora fu passata, ascoltai il silenzio che mi circondava. Lentamente, strisciai fuori dalla mia stanza e corsi all’ospedale. Attraversai i corridoi bui tentando di mantenere la calma. Infine, raggiunsi la camera di Prinzessin. Aprii la porta chiusa il più silenziosamente possibile, ma la vista che mi si parò davanti mi lasciò sconvolto e paralizzato al mio posto.
Prinzessin era seduta sul suo letto mentre cullava debolmente il fascio urlante che giaceva tra le sue braccia. Sapevo di non aver fatto il minimo rumore che potesse annunciare il mio ingresso, ma lei si voltò sorridendo calorosamente e mi fece cenno di avvicinarmi. Mi mossi come se a guidarmi ci fosse un pilota automatico e mi sedetti accanto a lei. Alzò il fagotto che si dimenava e in silenzio mi chiese di riceverlo tra le mie braccia. Deglutii e scossi la testa in senso di diniego, ero traumatizzato. Invece, accolsi Courtney tra le mie braccia, massaggiandole la spalla nuda con un pollice calloso, ma rifiutai di guardare in faccia il bambino. Non osavo rimanere risucchiato dalle sue grida che mi avrebbero distolto dalla realtà orribile della situazione.
“Come ti senti?” chiesi speranzoso, meditando sul tempo che ci sarebbe voluto prima della sua risposta. Avrebbe dovuto risposare per recuperare le energie. Si voltò a guardarmi e i suoi occhi incavati nel suo viso consumato mi fecero capire che già conoscevo la vera risposta.
“Sono solo stanca… veramente stanca” soffiò mentre poggiava la testa sulla mia spalla inerte. Abbassai il capo e baciai delicatamente i suoi capelli, ignorando il fatto che fossero impregnati di sudore e arruffati.
“Shh, non parlare così. La mia Prinzessin non mi può lasciare” Lei non rispose, ma come mise il dito sulle labbra del neonato urlante, lui smise immediatamente di piangere, cominciando a succhiare delicatamente il dito. Purtroppo, intravidi il bambino e non potei trattenere il mio compiacimento.
“Quindi… è una femminuccia, eh?” chiesi, incapace di trattenere il mio tono beffardo. Courtney sorrise e ridacchiò sommessamente, ma quell’accenno di risa di trasformò in un infernale strazio di colpi di tosse. La sostenni delicatamente per la schiena mentre lei tossiva. Spinse via le mie mani schizzando goccioline di sangue. Le mie pupille si dilatarono e la mia preoccupazione aumentò smisuratamente.
“Sì” rispose debolmente alla mia precedente domanda “Anche se avrei voluto avere un maschietto… con tutti quei calci che mi tirava. Ma di che cosa mi posso lamentare? Ha la forza di suo padre” soffiò dolcemente sollevando la bambina e stampandole un gentile bacio sul suo piccolo capo tondo come una mela “E’ un angelo e ha i tuoi stessi occhi” continuò tracciando con il pollice tutta la superficie della tonda testa della neonata. Non volevo guardare quella bambina. Non sapevo che cosa sarebbe successo se lo avrei fatto e questo mi spaventava.
“Tutto bene?” mi chiese esitante Prinzessin senza ottenere alcuna mia risposta. Distolse lo sguardo, ma io le sollevai il mento in modo da far combaciare i miei occhi con i suoi. Ammirai quelle due sfere color onice, ma mi accorsi che stavano iniziando a rompersi, a sciogliersi. Erano stanche, usurate, scarne e offuscate. In quel preciso istante, seppi che stava veramente per lasciarmi. Non volevo. Era troppo presto! Dopo tutti i miei tentativi per aiutarla a stare meglio, lei stava lasciando questo crudele mondo.
“Sto bene” riuscii a soffocare per evitare che lei si preoccupasse “Hai l’aria stanca, dovresti provare a riposare se vuoi recuperare le forze” E sentendomi pronunciare quelle parole, lei strinse le braccia attorno alla neonata, per proteggerla.
“Il mio momento è arrivato! Ti sto lasciando!” sostenne istericamente, mentre io la osservavo cercando di capire se fosse sul punto di piangere. Dovevo comprendere quella sua reazione, dopotutto aveva appena partorito e i suoi ormoni erano scombussolati. Le posai un dito sulla sua bocca mettendola a tacere e iniziai a carezzarle i capelli fissando i suoi occhi che secondo dopo secondo luccicavano sempre meno.
“Prometto che rimarrò qui fino alla fine. Devi solo riposare, solo una o due ore di sonno per ottenere un po’ di energia e dopo stari meglio” ragionai e lei sembrò intendere le mie parole. Come iniziò a rilassarsi, io le diedi un soffice bacio sulle labbra che le rese un immediato sorriso. Continuai ad accarezzare i suoi capelli e lei chiuse gli occhi, sempre più usurati. Si addormentò dopo pochi istanti e io tenni controllata la sua respirazione. Sul suo volto si dipinse una smorfia di dolore, stava soffrendo mentre cercava di combattere contro la morte pur di rimanere qui qualche secondo di più.
Dopo pochi minuti, il fagotto iniziò a dimenarsi di nuovo ricominciando a piangere. Probabilmente gli mancava l’attenzione della madre. Che creatura viziata ed egoista! Non si rendeva conto che sua madre stava per morire per colpa sua? E lui che cosa faceva? Chiedeva attenzione? La bambina continuò ad urlare bisognosa. Quando i lamenti aumentarono di volume, osservai freneticamente Prinzessin sperando che non la svegliasse, ma lei sembrava un morto. Assicurandomi che stesse ancora respirando mi chinai, e afferrando il fascio piangente, camminai verso l’altro lato della stanza in modo da ridurre il rumore ed evitare che Courtney si svegliasse. Feci rimbalzare un po’ la bambina nel tentativo di calmarla. Mi rifiutai di guardarla, era solo un’egoista viziata che stava causando la morte di sua madre. Eppure, dopo un po’, la cosa tra le mie braccia si calmò e la mia curiosità vinse sull’odio. Decisi che guardare per una sola volta la faccia di mia figlia non mi avrebbe fatto male.
Non sapevo che quello che stavo per vedere, avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Aveva gli occhi chiusi, ma ciò non toglieva che somigliava molto a Prinzessin. Anzi, erano praticamente identiche. Le lentiggini pizzicavano la carnagione chiara, il cui colore corrispondeva esattamente al mio. La sua discreta quantità di capelli era di un castano scuro, molto più scuro di quello di Courtney, ma più accentuato del mio, e terminava con un ricciolo, il che aveva preso sicuramente dalla famiglia di Courtney. Toccai quei pochi capelli, vinto dalla curiosità, e mi accorsi che erano di una meravigliosa morbidezza. Osservando il resto dei suoi lineamenti, mi accigliai, notando quanto era piccola e magra rispetto al resto dei neonati che avevo avuto l’occasione di vedere.
“Sei così piccola” sussurrai dolcemente continuando a far scorrere il mio pollice sui suoi morbidi riccioli “Vuoi aprire i tuoi occhi per paparino, angioletto?” chiesi solleticandole un poco lo stomaco. Quello che mi colpì più di ogni altra cosa, fu la sua risposta alla mia domanda. I suoi grandi occhi azzurri si spalancarono in un solo istante. Sbatté le palpebre e potei affermare dal suo sguardo liquido che lei sapeva chi ero. La spostai nelle mie braccia esattamente come aveva fatto Prinzessin qualche momento prima. La feci saltare un poco e sorrisi. Era così preziosa e adorabile. Mi faceva sentire esattamente come se fosse Prinzessin. Era felice, spensierata, come se nulla potesse mai andare storto. Eppure… come potevo prendermi cura di lei?
Ignorai quella domanda inquietante e la posizionai meglio tra le mie braccia, ma improvvisamente mi sentii… strano, dentro di me. Avevo ucciso molti bambini fin dal momento in cui ero entrato in quell’infernale ghetto eppure non avevo mai provato nulla. Iniziai ad ipotizzare ragioni e scuse davanti alla mia noncuranza, ma più pensavo, più mi sentivo in colpa. Alla fine giunsi alla conclusione che anche se io non li avessi uccisi, la vita nel campo avrebbe tolto loro l’anima. Guardai in faccia la mia bella figlioletta e un misto di emozioni mi travolse: gioia, senso di colpa, rimpianto… Non potrei mai uccidere questa creatura.
Era questo che provava un padre per la propria figlia o figlio? Quel puro e straziante senso di colpa si mescolò con altre sensazioni che non sapevo come classificare. Strinsi mia figlia al petto, come per proteggerla da un nazista che l’avrebbe potuta rubare da un momento all’altro, portandola via da me.
“Non preoccuparti, non lascerò che ti prendano” sussurrai amorevole alla mia creaturina mentre le scompigliavo i riccioli castani. La tenni in braccio per chissà quanto tempo, guardandola negli occhi e dondolandola dolcemente. Tutto sembrava non avere più tempo e in quel mentre in cui la cullavo, mi dimenticai che Courtney stava morendo. Almeno fino a quando non si risvegliò, tossendo come se stesse per sputare il suo instabile cuore. Debole, tremante, con mani di un bianco cadaverico.
Subito accorsi e le diedi pacche sulla schiena, cercando di convincerla a buttar tutto fuori, fu inutile. Il suo tempo era ormai giunto al termine, le sue mani erano ricoperte di sangue e tremava inverosimilmente. La aiutai a distendersi. Non riuscivo ad accettare il fatto che lei mi stesse abbandonando. Ma, nonostante avesse avuto ancora pochi istanti di vita, mi sorrise più bella che mai quando si accorse che stavo tenendo tra le braccia nostra figlia.
“E’ bellissima, non è vero?” chiese soave, raggiungendo a stento con un dito la guancia della bambina, che la osservava curiosa. Io annuii impercettibilmente e, alla vista di lei così pallida e debole, lacrime disperate iniziarono a formarsi nei miei occhi. Mi morsi un labbro e mi voltai, come per cercare di nascondere quei cristalli liquidi che cadevano copiosamente lungo le mie gote.
“Per favore, non morire” era tutto quello che potei dire in quel momento. Anche se sapevo che le mie suppliche erano inutili perché lei stava morendo, mi stava lasciando.
“Mi dispiace Duncan, mi dispiace davvero tanto” sussurrò mentre io cercavo di vincere il mio pianto carezzando il suo viso, tentando di calmarla. Mi fece cenno di porgerle la bambina e io obbedii riluttante, ma consapevole che il nostro angelo doveva trascorrere gli ultimi istanti che aveva con la madre. Prinzessin la strinse al petto e la neonata iniziò a piangere, ma, questa volta, non la rimproverai. Mi sdraiai accanto alla mia amata nel suo piccolo lettino e la avvolsi nelle mie braccia, senza dire niente, mentre lei piangeva e io cercavo di essere forte, per lei.
“Duncan… non voglio morire… non voglio… ma posso rivedere papà, e lui sarà felice perché lui mi vuole più di chiunque altro. Pensa che nostra figlia è bellissima ed è molto orgoglioso di me, come ho sempre voluto che fosse” disse soffocando i singhiozzi. Anch’io soffocai un singhiozzo. Spostai la testa di lato in modo da poter accogliere quella di Courtney nell’incavo del mio collo, ma volevo chiederle qualcosa di più.
“E io? Cosa pensa di me?” la mia voce era rotta di pianto, ma per la prima volta non me ne interessai per questa mia debolezza. Usò quello che rimaneva della sua forza per alzare la testa, sorridere e baciarmi una guancia.
“E’ orgoglioso anche di te. Ti ama, Duncan, perché tu ami me. Ti considera come un figlio e ti ringrazia per avermi aiutata e per aver dato a nostra figlia la possibilità di sopravvivere anche in mia assenza” I miei occhi si riempirono di lacrime fin dalla prima frase che lei esalò. Ci misi tutta la mia forza di volontà e tutti i miei anni di duro addestramento per non scoppiare in lacrime come un infante. Come poteva amarmi suo padre? Avevo ucciso persone, violentato la sua unica e preziosa figlia facendo della sua vita un inferno. L’avevo messa incinta e costretta a ore di lavoro forzato fino ad ucciderla.
“Duncan, per favore, prenditi cura di lei. Questo è il mio ultimo desiderio, prima di morire” non potei far altro che annuire, non riuscivo nemmeno a parlare. La mia voce era strozzata dai singhiozzi. Mi stava lasciando. Quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei sentito la sua voce o visto la sua bellezza o accarezzato i suoi capelli o baciata o… nulla. Mi asciugai gli occhi frustrato, anche se le lacrime continuavano a cadere. Prinzessin, la mia Prinzessin, rivolse uno sguardo colmo di pianto a sua figlia, il suo ultimo sguardo. Le diede un debole bacio sulla fronte, la strinse a sé e me la porse.
“Come la chiameremo?” chiesi in silenzio, rendendomi conto che non avevamo ancora scelto un nome per nostra figlia. Lei sorrise calorosamente prima di accucciarsi tra le mie braccia e baciarle.
“Le troverò un nome adatto” mi chinai posando le mie labbra sulle sue. Volevo un altro bacio, solo uno. Usò tutta la sua energia per baciarmi con passione e io mi concentrai solo su quel bacio che ci avrebbe unito e ricordato l’uno l’altro. Si tirò indietro per prima sorridente di soddisfazione per poi cadere esausta sulle mie braccia. Gettai a terra i cuscini in modo da farla distendere completamente e aiutarla a lasciare questo mondo.
“Ti amo Prinzessin. Tu sei la  mia unica, insostituibile e speciale Channa” i suoi occhi ebbero un sussulto e le lacrime sgorgarono ancora una volta copiose.
“Ti amo tanto, troppo Duncan. Grazie di tutto, mio schmendrik tedesco” disse con un piccolo sorriso, chiudendo gli occhi. La bacia sulla fronte mentre il sorriso continuava ad abbellire le sue labbra soddisfatte. Contai i secondi, le lacrime che inondavano i miei occhi senza più alcun ritegno, fino a quando il suo respiro cessò e il suo corpo fu immobile.
60.
60 secondi.
Un intero minuto per morire.
Courtney Esther Politzer è morta. Channa Esther Politzer è morta. La mia Prinzessin è appena morta sotto i miei occhi. Questo continuava a ripetere la mia testa che non riusciva a staccare lo sguardo da quel viso scarno. Volevo credere che questo fosse uno scherzo crudele. Che lei si fosse risvegliata e me lo avesse urlato in faccia. Ma non lo fece. Sfiorai il suo corpo inerte continuando a respingere la realtà.
“No… no, no, no, no, no! Dannazione!” urlai, improvvisamente cieco di furia. Perché? Perché l’unica cosa fantastica che avessi mai avuto mi era appena stata tolta? Dannazione, dannazione a quello stupido karma. Lo sapevo, sapevo che non sarebbe durato. Avevo fatto cose terribili nella vita e ovviamente non avrei potuto tenere con me una cosa così preziosa come Courtney. Guardai sulla sedia, dove giaceva il bambino, in fasce, mentre iniziava a dimenarsi e lamentarsi, di nuovo. Probabilmente gli mancava la madre che aveva appena ucciso.
La madre che quella bambina aveva appena ucciso.
La madre che quella cosa aveva appena ucciso.
L’aveva uccisa!
Quella maledetta bambina l’aveva uccisa, proprio come era stato previsto. I miei occhi divennero una sottile fessura, dimenticai tutto quello che era accaduto prima, fatta eccezione della morte di Courtney. La mia unica ragione di vita, la mia vita… quella maledetta bambina l’aveva appena uccisa. Mostro. Schifoso mostro. Io ti annego, io ti uccido con le mie stesse mani! Ma non potevo farlo. Era mia figlia, seppur la odiassi più di ogni altra cosa, non potevo ucciderla io. Mi avvicinai alla sedia, sollevai la bambina cullandola dolcemente. Raccogliendo tutto il mio coraggio, la guardai negli occhi e lei si calmò all’istante.
“Una bella bambina come te dovrebbe stare con la sua mamma” canticchiai con la voce più morbida di cui ero capace, nascondendo il mio ghignare. La cullai fino a quando, stanca, non si addormentò. Ignorai tutta la bellezza di quel momento e la posi nelle braccia fredde e rigide di Courtney. Le guardai ancora una volta, insieme, senza dir loro un addio o un semplice “scusa”. Le lasciai, senza preoccuparmi di guardarmi indietro. Camminai il più in fretta possibile, raggiungendo le aree di sosta del Kommando, bussai alla loro porta con impazienza. Uno di loro rispose e io mi presentai con una faccia del tutto inespressiva. Spiegai la situazione e attesi che lui eseguisse quanto da me richiesto.
Continuai a camminare, cercando di cancellare dalla mia mente tutti i pensieri inquietanti su ciò che avevo appena fatto. Mi precipitai nella mia stanza, il respiro pesante, imprecazioni, calci, pugni che abbattevano e disintegravano ogni singola cosa. E quando la mia stanza fu ridotta ad un ammasso di cocci e schegge, i miei occhi si spalancarono, realizzando quell’atto orribile e imperdonabile che avevo appena compiuto.
Caddi senza più forze sul pavimento, il mio stomaco dolorante mi costrinse a piegarmi su me stesso… chi avevo appena ucciso? Lacrime colme di vergogna e disperazione per il mio gesto caddero lungo le mie guance e i singhiozzi iniziarono a fuggire su per la mia gola.
Se nulla a questo mondo poteva farmi piangere, l’invio di mia figlia tra le mani della morte sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe scatenato la mia follia.
“Channa…” singhiozzai “Io… io avrei dovuto chiamarla Channa…”

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Capitolo 20
*** Epilogue ***


Tre anni.
Tre anni da quanto lei se n’era andata e io seguii le sue stesse orme, tre anni dopo. Non ebbi rimpianti. Avevo lottato ed avevo perso. Ero una bestia, tutti noi lo eravamo.
Dopo la morte di Courtney, tornai a casa. Non volevo più uccidere nessuno. Ero un mostro, un mostro della peggior specie e non volevo più commettere tali crimini. Mio padre fu felice di riavermi a casa e mi chiese di raccontargli la mia esperienza, ma io non volevo parlare con lui. Andai al piano di sopra, nella mia stanza, e raggiunsi con la mente Courtney e Channa.
Durante questi anni, avevo spesso chiesto di potermi unire a loro, lassù, in cielo. Alla fine ce la feci, raggiunsi il cielo, ma non il paradiso. Per ora, ero ancora in attesa, nel purgatorio. Avevano preso come mia unica colpa, la mia stessa vita, l’essere vissuto, poi mi dissero che avrebbero impiegato parecchi giorni per rispondere alla mia richiesta. Così rimasi bloccato nel purgatorio un’intera settimana aspettando solo di essere mandato giù, nell’oscurità dell’inferno. Era inevitabile, lo sapevo, ma non mi importava. Sapevo che non sarei mai stato assolto da tutti quei peccati e, quindi, non mi sarebbe mai stato permesso di stare con Courtney e mia figlia. Mi era stato concesso fin troppe volte questo privilegio, quando ero ancora in vita.
“Duncan James Ehrlichmann” alzai la testa dalle mie mani e guardai la figura tenebrosa che aveva pronunciato il mio nome. I miei occhi erano spenti e insipidi e semplicemente in attesa di quelle fatidiche parole. Ero senza speranze, sarei rimasto solo per tutto il resto della mia vita, no, dell’eternità “Sarai sottoposto a un periodo di prova. Abbiamo fatto un’attenta considerazione del tuo essere e siamo giunti alla conclusione di metterti alla prova. Andrai sopra e dimostrerai di essere degno di stare lassù, ma nel frattempo sarai ancora sotto processo. Se non ti dimostrerai all’altezza, verrai spedito in basso per non tornare mai più verso l’alto, è chiaro?”
“Sì, signora” dissi, il mio corpo rigido, in attesa di sentire le parole che mi avrebbero guidato oltre il limite del paradiso, quelle parole che erano fin troppo belle per essere vere. La donna-ombra mi diede una rapida occhiata inquisitoria, prima di indicarmi una porta apparsa dal nulla. Nessun altro oltre a me poteva vedere quella porta. Feci un passo verso di essa con estrema facilità. Dovevo essere grato a quella donna per la possibilità che mi aveva offerto, mi voltai per ringraziarla, ma dietro di me si trovava il nulla. Ero in un luogo sconosciuto, immeritevole per me stesso. Mi guardai attorno solo per sgranare gli occhi ammirando l’ambiente che mi circondava.
Non volevo memorizzare tutti i suoi dettagli, né preservare un ricordo di quel bellissimo luogo perché sapevo che non sarei rimasto qui a lungo. Camminai incerto per qualche metro, prima di imbattermi in una zona arida con al centro un solo grande tronco. Decisi di non proseguire più, di fermarmi lì. Mi faceva molto più onore che andare alla ricerca di Courtney e Channa perché… ero un idiota (come Courtney mi aveva chiamato scherzosamente più volte, ma mi resi conto che era la verità). Mi sedetti e nascosi la testa fra le mani.
Perché mi hanno fatto venire fin qui? Non hanno capito che sono un Nazista? Non vedono tutti i miei peccati? Tutti gli uomini, donne e bambini che ho ucciso? Non riescono a capire che io sono il responsabile della morte della mia figlioletta? Presi un grosso respiro aspettando che il bruciore al mio cuore diminuisse. Tutte le volte che pensavo a Channa, a come era morta, sentivo il cuore bruciare per i tagli che si erano creati in esso. Quella era la peggior cosa che avessi mai fatto in vita: uccidere mia figlia. Non meritavo di vederla, anche se prima volevo scusarmi con lei per l’imperdonabile crimine che avevo commesso. Volevo stringerla ancora una volta, sussurrarle che l’amavo e che ero infinitamente dispiaciuto per quello che avevo fatto alla sua povera innocente anima. Gemendo di dolore nascosi il volto tra le mani, continuando a sentire il mio petto bruciare, sempre di più, ma quel male era tutto meritato.
“Perché stai piangendo?” e quando alzai la testa dolente come se colpita da migliaia di spilli, vidi il volto splendete della donna che amavo con tutto il mio cuore. Era diversa, completamente diversa. L’ultima volta che la vidi, era scarna e morente, il suo corpo privo di muscoli o grasso, il suo viso pallido, la carnagione sbiadita e, soprattutto, mi guardava con tutto l’amore che un uomo potesse desiderare.
Ora, invece, lei era così diversa. Piansi davanti alla sua pura bellezza. Il suo corpo era pieno, con curve snelle nei punti giusti e così perfetta da parer illogico. I suoi occhi brillavano di scintille di vita e, se non fosse stata per quell’ostilità fredda che covava dentro di sé, avrei potuto dire che era incandescente. E i suoi capelli… accidenti, non avevo mai visto dei capelli così belli. Erano ricresciuti, ma non avevo ricordi di lei con i capelli lunghi. Era bella, bellissima. Era perfetta.
Fatta a eccezione per un piccolo aspetto.
Questa volta, mi guardava con astio, con odio, tutto l’odio che l’universo potesse contenere.
“Prinzessin…” i suoi occhi saettarono e prima che me ne accorgessi venne avanti e mi diede uno schiaffo ben assestato su una guancia. Faceva male, oh, cazzo, se faceva male. Questo era solo uno schiaffo, ma doleva come se me ne avesse dati altri dieci, uno più forte dell’altro. Sapevo perché mi provocava dolore: me lo meritavo. Nascosi la mia faccia per la vergogna senza preoccuparmi di ridurre il bruciore alla guancia.
“Non voglio più sentirmi chiamare in questo modo! Sei egoista, crudele, sei una bestia!” Ad ogni parola che usciva dalla sua bocca, era come se mi stessero sparando innumerevoli colpi al cuore. Non sapevo che cosa fare. Non sapevo se dirle qualcosa, almeno per fermare quelle parole taglienti. Onestamente, non la biasimavo.
“Courtney… io… io”
“Tu cosa? Hai spezzato il tuo giuramento, il giuramento che mi avevi fatto! Non valgo proprio niente per te? Hai preso la mia ultima richiesta e messa tra le mie braccia e poi uccisa! La figlia che ti amava così tanto, nonostante tutto quello che avevi fatto, ma per voi Nazisti non è mai abbastanza, vero? No, chiaramente, non lo è visto come ci mancate di rispetto! Che cosa hai da dire in tua difesa? Sentiamo!” Ogni singola parola che pronunciò mi riempì d’ira verso me stesso. Sapevo che tra non molte ore sarei uscito di qui per non tornarci mai più e questo mi faceva venire i brividi, ma pensare alle ferite profonde che avevo inciso nell’animo di Courtney e Channa era peggio.
“E sai un’altra cosa? Gliel’ho detto! Fin da quando era in fasce le ho raccontato che suo padre l’aveva uccisa e mandata fin qui perché lei era una piccina troppo intelligente per stare con quella bestia di suo padre” I miei occhi si chiusero, combattendo per non piangere a quelle indesiderate parole. Avrei mai potuto rivedere mia figlia? Come faceva a non odiarmi se sapeva che l’avevo uccisa? Quanti anni aveva ora?
“So che sei arrabbiata con me… Quello che ho fatto è… indicibile. So di non avere scuse… ma ero arrabbiato, era colpa sua e pensavo che se lo meritasse”
Lei lo meritava!” urlò piena di collera, prima di colpirmi con pugni e calci al punto di provare un dolore insensato, così insopportabile da non sentirlo. Io non reagii. Me li meritavo. Me li meritavo tutti. “Sei un maledetto stronzo! Un Schmeisser tedesco malato! Quella era la nostra bambina! Io sono morta per darla alla luce! Io mi fidavo di te! Come hai potuto ucciderla? Come hai potuto vivere con questa colpa sull’anima? Speravo che tu ti fossi ucciso subito dopo per vivere tutti e tre qui, insieme! Ma no! Hai continuato a vivere! Per tre fottutissimi anni tu hai continuato a respirare l’aria di quel maledetto mondo!”  Si bloccò per darmi un pugno in faccia e una ginocchiata all’inguine “Hai pianto e pianto, per ore e ore! Avresti dovuto ucciderti! Ti avrei perdonato se tu l’avessi fatto! E invece no, sei morto in battaglia, come un perfetto soldato tedesco fedele alla sua fottuta patria! Giusto, tesoro? Beh, vaffanculo!” Mi colpì di nuovo, il colpo finale, per il momento. Il suo petto si alzava e abbassava pesantemente e le lacrime non versate brillavano nei suoi occhi.
Stranamente non sanguinavo, né avevo ferite, ma il dolore riuscivo a sentirlo, nonostante il mio corpo non riscontrò danni visibili. Suppongo che qui funzioni così. La mia mente turbinava intorno alle parole che avevo appena udito. Sapevo che mi avrebbe odiato, era ovvio. Sospirando, strinsi il mio stomaco, dove lei aveva inflitto più colpi, e cercai di alleviare il dolore. “Lei… è qui? Con te?”
Courtney sbuffò posando un piede sul mio stomaco facendo pressione. “Certo che è qui, ma non potrai vederla. Né ora, né mai” Il mio cuore si frantumò nell’udire quelle parole e la testa iniziò a dolermi ancora di più. Sapevo che era tutto meritato. Avevo ucciso mia figlia e ora non meritavo di vederla. “Comunque, come hai fatto ad arrivare qui? Pensavo fossi il primo della lista tra quelli da spedire all’inferno”
“Io… non lo so… sono stato in purgatorio per un po’… lei mi ha detto che mi mandava in paradiso per fare un prova, ma che ero ancora sotto processo…”
“Tu non meriti di stare sotto processo. Meriti solo di marcire all’inferno tra quelli viscidi, come te, bastardo malato” Annuii, alzandomi in piedi e chiudendo gli occhi “Lo so. Non devi dirmi che ciò che ho fatto è sbagliato, lo so già”
“Oh, ma davvero? Non penso che tu lo sappia. Tu… hai mandato nostra figlia a morire… hai rotto la nostra promessa… pensavo che tu mi amassi…”
“Io ti ho amata! E ti amo tutt’ora, davvero! Mi dispiace! Sapevo che stavo sbagliando! Ero arrabbiato, va bene? Ti aveva ucciso! Ti aveva ucciso, Courtney! Io non volevo mettere fine alla sua vita! E’ stata una decisione disperata… terribile… mi dispiace… tanto…” uno sguardo al suo viso e mi resi conto che le mie parole erano state inutili, tutte le mie scuse erano inutili. Avevo ucciso nostra figlia… non c’era niente che potessi fare. Avrei dovuto uccidermi tre anni fa. Era la cosa giusta da fare. Sapevo che le mie parole non avevano alcun effetto su di lei. Sapevo che non sarei mai stato in grado di guardare negli occhi mia figlia. Quindi, perché non mi spedivano giù, all’inferno, seduta stante?
“E’ impossibile che tu possa davvero amarla. L’hai uccisa. Hai ucciso mia figlia strappandole la vita. Io avevo sofferto per nove mesi. Nove schifosi mesi. Ecco quanto tempo avevo sofferto e lei non ha nemmeno avuto il tempo di conoscere la vita. Che cosa ha avuto? Un biglietto di sola andata per la morte. Non mi importa quanto tu sia pentito, l’hai uccisa e questo è imperdonabile. Lei avrebbe dovuto essere tutto per te. Lei avrebbe dovuto renderti felice. Ma lei non era abbastanza per te, vero? Proprio come me. Non valevamo niente..." Lo sguardo affranto dipinto sul suo volto era troppo semplice da gestire, per me. Mantenendo un viso rattristo, feci un passo verso di lei, abbracciandola stretta a me e posandole un bacio sulle labbra, prima che lei potesse accorgersi di ciò che stava succedendo. Si allontanò quasi subito, quasi, e mi fissò ferita, prima di alzare una mano e darmi un schiaffo in faccia. Faceva male, sì, molto male. Ma non male quanto quelli prima. Sembrava più addolorato e svogliato, meno ostile.
“Solo… vai via… stupido… idiota…” la sua voce era soffocata da lacrime non ancora cadute e avevo una disperata voglia di consolarla. Eppure non lo feci, prima volevo vedere Channa. “Non me ne andrò fino a quando non vedrò Channa” Lei mi guardò, quasi per incoraggiarmi a ripetere quella frase.
“Tu non ti avvicinerai nemmeno di un passo alla mia bambina”
Scattai verso di lei “E’ anche la mia”
“L’hai uccisa. Non hai alcun diritto…”
“Lo so che l’ho uccisa! Non è il caso che me lo rinfacci ogni volta!”
“Io devo rinfacciartelo! Mi hai tradito! Ci hai tradito! Hai ucciso tutto ciò che io e te abbiamo mai avuto!” I miei occhi si spalancarono.
“Lo so. Ma io ti amo ancora” Le sue pupille si dilatarono per un secondo, prima di fissare il suo sguardo nel mio “Io invece ti odio e mai, mai, mai ti perdonerò!” I miei occhi furono scossi da lampi di tristezza. Lei non mi perdonerà mai…
“Non c’è niente che possa fare per farti cambiare idea?”
“No. Ho scelto la tua sorte nel momento in cui hai mandato quegli stupidi uomini per ucciderla. E’ finita. Per sempre. Tu non la vedrai mai. Neanche una volta. Ci hai fatto soffrire abbastanza. Divertiti nella tua solitaria vita, perché è così che sarà, la tua vita. Addio, Duncan” E detto ciò iniziò ad allontanarsi. Non potevo stare senza Courtney e Channa per l’eternità. Alla cieca afferrai il suo braccio, pura disperazione era stampata sul mio volto.
“Non puoi farmi questo! Non mi puoi lasciare! Non puoi! Non sono niente senza di te!” Lei fece una smorfia, cercando di ritrarre il braccio “Se davvero queste parole significassero qualcosa per te, avresti fatto qualsiasi cosa in tuo potere per venire il prima possibile qui da noi”
“Smettila di fare la stronza! Cazzo, ti amo! Ti ho detto che mi dispiace e tutto quello che voglio è rivedere mia figlia! Voglio chiederle scusa! Voglio rivedere il suo bel visino da angelo, solo per una volta!”
“Tu non sei più il mio capo! Sono io che comando qui! Non ho intenzione di farti vedere tua figlia, punto e basta. Sei fortunato che io stia qui a parl…” Improvvisamente si guardò intorno con occhi allarmati. Potei impercettibilmente udire piccoli, soffici passi correre verso di noi.
“Mammina! Mammina!” I miei occhi si spalancarono e si accesero di speranza. Potrebbe essere…? Quella piccola, minuscola cosa stava correndo verso di noi, agitandosi impaziente, con un gran sorriso sul volto e un mazzo di fiori tenuto saldamente nelle sue piccole mani. Più correva, più era vicina e riuscii in un solo istante a capire chi era. I suoi grandi occhi azzurri brillavano sul suo pallido viso infantile e sorridevano come gli angoli della sua bocca. I capelli le cadevano morbidi sulla schiena avvolti su se stessi in perfetti boccoli castani tenuti insieme da un nastro rosa brillante. Era semplicemente… perfetta. Un perfetto angelo. I miei occhi non meritavano di posarsi su di lei.
Guardai con il cuore in lacrime come nostra figlia corse nelle braccia della madre, abbracciandola stretta e regalarle due baci su ciascuna guancia. Quelli dovrebbero essere i miei baci. Avrei dovuto essere io quello da cui lei stava correndo per abbracciarlo. Lei mi aveva amato, proprio come Courtney, ma io l’avevo uccisa, le avevo strappato l’anima che aveva avuto l’onore di respirare e di vedere la luce del giorno per non più di un paio d’ore.
Non sapevo che cosa mi era accaduto in quel dunque. Sapevo solo che tutto ad un tratto, mi ero inginocchiato sul terreno, stringendo la mia testa mentre gocce d’acqua salata colavano rapidamente sul mio viso e singhiozzi strozzati stavano invadendo la mia gola.
Lei non mi aveva conosciuto perciò lei non mi riconobbe. Era ovvio che non poteva… sapevo che non poteva, ma io volevo che mi riconoscesse, che mi amasse, che mi volesse con lei e con Courtney. Avevo fatto un disastro. Ero solo un gran cretino. Questo era quello che ero. Meritavo di essere amato da nessuno. Ero una bestia, un malato, un egoista, un brutale mostro. Non riuscivo a vedere più nulla. Tutto quello che riuscivo a vedere erano le mie lacrime che annebbiavano i miei occhi, ricadendo sulle mie guance.
“Mammina, chi è lui?” pigolò una voce senza nemmeno accorgersi che stavo piangendo “Non è nessuno, Channa” La ragazza che un tempo mi amava, ora parlava con parole gelide e amare “Andiamo. Papà vorrà vedere i fiori che hai colto per lui” Lenti passi si allontanarono dalla mia postazione e io rimasi solo. Ero solo e ora stavo solo aspettando di essere inviato giù, all’inferno. Avevo fallito anche questa volta. Non meritavo di rimanere qui, tra i vivi.
Rimasi lì per un po’, senza dire nulla, lasciando che il mondo si sgretolasse sotto i miei piedi. Dopo qualche attimo, un profumo di fiori si diffuse intorno a me. Feci una smorfia, non meritavo quel profumo così piacevole “Io so chi sei” Strillò una voce, ma non mi voltai a guardare il mio interlocutore. Non poteva essere. Lei non poteva essere tornata da me. Non poteva sapere chi ero. La prima volta che mi aveva visto era un neonato, non poteva ricordarsi di me.
“Non è vero. Tu non dovresti sapere chi sono” parlai con voce sorprendentemente ferma.
“Tu sei mio padre, non è vero?”
“… Sì” Lentamente alzai la testa per guardarla, incontrando il suo sguardo curioso.
“Perché piangi?” trillò lei dolcemente, mettendo una mano sulla mia guancia e asciugando una lacrima. Mi aveva toccato, non ci potevo credere. Mi fissò negli occhi azzurri “Perché non parli, papà? Perché stai qui seduto a piangere? Non vuoi parlare con me?” La mia bocca si aprì cercando disperatamente di formulare parole adatte e costringerle ad uscire. Meritava parole di dolce conforto che avrebbero sciolto il dolore nella sua voce.
“Channa… per favore… non è che tutti…”
“Vuoi parlare, papà?” Guardai la bambina di fronte a me con stupore perché nonostante lei sapesse tutto quello che le avevo fatto, mi trattava con estrema gentilezza e calma. “Io… non credo di meritarmelo. Mi dispiace” Eppure, lei afferrò la mia mano e tentò con tutte le sue forze di farmi alzare dal prato. Se la situazione non fosse stata così grave, mi sarei messo a ridere.
“Papà, voglio parlare. Ti prego! Fallo per me! Ti darò una possibilità, lo giuro…” sospirai e lascia che lei mi alzasse, per poi trascinarmi verso un grosso albero e farmi cenno di sedermi. Sopirai nuovamente appoggiando il mento sul palmo della mia mano, guardando Channa e stupirmi di quanto fosse amichevole e comprensivo il suo comportamento.
“Quanto ne sai?” chiesi in silenzio, voltando lo sguardo dal suo viso roseo.
“So tutto, papà…” Io sbuffai amaramente, continuando a tenere il mio sguardo rivolto verso il basso, non osando guardare la sua faccia rigata di tristezza. Perché non dovrebbe essere arrabbiata con me? L’ho uccisa. “Perché non mi guardi? Non vuoi parlare con me? Io non sono… degna del tuo sguardo?” Di quelle parole, ogni singola lettera affondò come una lama nella carne del mio cuore, sempre più in profondità, e io mi ritrassi ancora, e ancora, e ancora.
“Channa…”
“Perché mi hai ucciso, papà?” esclamò, facendo scattare la mia testa verso di lei e fissarla con dolore “Non ero abbastanza buona, per te? Non ero abbastanza carina, come la mamma? Tu… non mi volevi? Io ero… un empio? Un diavolo?” Lessi nei suoi occhi tutto il dolore che covava nel suo corpo da bambina. Guardai con orrore la lacrima che corse lungo il suo viso pallido fino a scivolare fuori dalla linea delle sue gote. Come potevo spiegarle quanto la volevo, quanto la amavo?
“Channa… per favore, non piangere, tesoro mio… ti spiegherò tutto” Che cosa c’era da piangere? Piangeva perché aveva ragione? Perché credeva che io non la volevo? Perché credeva che io veramente pensassi tutte quelle cose orribili su di lei? Forse, non c’era davvero nulla da spiegare. Lei tirò su col naso per poi asciugarselo sul dorso della mano.
“Va bene, va bene. Voglio sapere perché mi hai ucciso, perché mi hai abbandonata e perché significavo così poco per te mentre mamma significava così tanto… posso leggerlo nei tuoi occhi” Quanti anni aveva per parlare in questo modo così addolorato e diretto? Quanto avrei dato per vederla ancora piccola e spensierata come quando era ancora in fasce. Quanto avrei dato per tornare indietro.
“Io… mi dispiace. Lo so che non significa molto… ma tu vuoi tutta la verità?” Lei annuì lentamente e io presi un profondo respiro, prima di iniziare a raccontare “Non avevo mai smesso di pensarti o di amarti, fin dal giorno in cui… ti uccisi. Tua madre… l’amavo, come ora, con tutto il mio cuore. Lei era tutto il mio mondo e significava tanto, davvero tanto, per me… e io non volevo crederle quando mi disse… sì, quando mi disse che aspettava un bambino. Reagii in modo eccessivo e pensai di aver rovinato la sua vita. Così me ne andai e quando tornai seppi che era malata. Molto, molto malata. E seppi anche che se avrebbe dato alla luce quel bambino, sarebbe morta, ma io rifiutai a credere a quelle parole. Eppure era la verità e per questo ti ho odiato… prima che tu nascessi. Però, quando ti tenni… tra le mie braccia… per la prima volta…” Mi fermai, inghiottendo un piccolo groppo in gola “Eri qualcosa per me Channa. Iniziai ad amarti fin da quando vidi i tuoi graziosi occhietti azzurri. Tutto il mio odio nei tuoi confronti si sciolse fin dal momento in cui di cullai… non potevo credere che ero tuo padre. Volevo esserlo, solo per te…”
“Allora… non capisco… perché mi hai ucciso, se mi amavi?” soffocò dolcemente, guardando il pavimento erboso.
“Perché tua madre era morta poco prima. Io reagii d’istinto, quello che solo un diavolo può avere. Allora… pensai che ti dovevo uccidere… ma mi sbagliai.. fu un madornale errore. E’ l’unica cosa che vorrei cambiare, se avessi la possibilità. Mi sarei preso cura di te e dato l’amore che ti meritavi. Volevo vederti crescere, piccola Channa. Non avrò mai più la possibilità di vedere il tuo primo sorriso, né i tuoi  primi passi o sentire le tue prime parole… e ora sei qui, davanti a me, a parlarmi come una vera signorina. Mi dispiace, Channa… Mi dispiace tanto.
“Mi dispiace per non essere stato lì, per voi, durante questi anni… Mi dispiace di aver tradito sia te che tua madre, non ve lo meritavate. Mi dispiace che ora tua madre mi odi con tutto il suo cuore. Ma me lo merito, io non merito di guardare un angelo come te, né meritavo di darti il tuo bel nome. Sono un padre indegno che tu non meriti. Mi dispiace”
“Papino?” I miei occhi si voltarono verso di lei, notando che ora era accanto a me, invece che a un paio di metri di distanza. Mi carezzò la guancia con la sua piccola mano, quasi con curiosità.
“Sì, Channa?”
“Grazie”
“Per cosa?”
“Per avermi mandato qui, a vivere con la mamma e il suo papà. So che mi ami un sacco… ma la mamma ha bisogno di me. E io di lei. Sapevo che alla fine saresti venuto qui e mi piacerebbe che ora fossimo una famiglia felice. Grazie, papino. E… anch’io ti amo, non importa quello che dice la mamma, è solo arrabbiata. Ti perdono” Erano quelle le parole che avevo bisogno di sentire. Con un piccolo strattone, l’afferrai per un braccio e la strinsi forte a me. Le mie braccia si avvolsero dietro al suo collo, per non lasciarla mai andare. Si sedette sulle mie ginocchia e io piansi nei suoi morbidi capelli, abbracciandola sempre più forte.
Lei mi amava e mi aveva perdonato.
Dio benedica la sua anima e possa perdonare la persona che l’ha uccisa.
“Papino… Papino, per favore, non piangere. Sto bene, stai bene, adesso. Stai bene. Papino, ti prego… smetti di piangere… per me?” le mie lacrime smisero di scivolare sulla mia pelle. La guardai, il suo viso piegato in una smorfia preoccupata, incerto su cosa fare o sul perché stavo piangendo. Mi asciugò le lacrime facendo scorrere il suo pollice sulla mia guancia per poi baciarla teneramente “Non capisco, papino… Non c’è ragione di piangere. Io ora sono felice… finalmente ho conosciuto il mio papà e so che mi ama” Presi il suo piccolo mento nella mia mano e la baciai sulle guance, raggiante per il sorriso compiaciuto di mia figlia.
“Piccola mia… ti amo così tanto. Per me significa molto il tuo perdono e, giuro, d’ora in poi sarò qui per te. Non mi importa che cosa succederà… e se tua madre mi vieterà di vederti, io verrò da te di nascosto” Questa volta fu lei ad abbracciarmi e cominciare a piangere “Davvero, papino? Dici sul serio?” Bacia i suoi capelli e la strinsi ancora di più a me.
“Certo che dico sul serio, Channa. Io non ti lascerò di nuovo, lo giuro” Rimanemmo seduti per un po’. Lei sul mio grembo avvolta in un forte abbraccio.
Non sarei mai più stato così sciocco da lasciarla andare.

o 0 O 0 o

La richiamai a gran voce, preoccupata, ma lei non rispose. La cercai, prima dietro quell’albero, ora sotto questo cespuglio, ma non la trovai. Non l’avevo vista uscire di casa e lei non mi aveva detto dove era andata. E se fosse scappata? Se ora fosse nei guai?
Mio padre ora era in città perciò lei non poteva essere con lui. Feci un altro veloce giro della casa, chiamandola sempre più forte, ma di lei nemmeno l’ombra. Avevo giurato, fin dal giorno in cui eravamo arrivati qui, che non l’avrei mai persa di vista, ma ora lei non c’era più.
Niente da fare, lei non c’era.
E se Duncan l’avesse rapita? Il pensiero risuonò come una minaccia nella mia mente. Lui non lo avrebbe mai fatto… vero? Non mi fidavo più di lui. Aveva ucciso nostra figlia e voleva pure riaverla indietro. Non gliela affiderei mai!
Lui non la meritava, non dopo tutto quello che aveva fatto. L’aver posato gli occhi su di lei era più che sufficiente. Feci un ennesimo giro del cortile, cercando di capire dove si era nascosta quella piccola peste.
“Channa” Mi voltai e mi ritrovai faccia a faccia con mio padre, il mio volto solcato da smorfie preoccupate. Lui mi fece cenno di avvicinarmi, mi abbracciò e mi baciò sulla testa.
“Papà, non riesco a trovarla… le avevo giurato che non l’avrei mai persa di vista… e… e” Tirai sul col naso, incapace di andare avanti.
“Shh, non ti preoccupare, tesoro. Starà giocando in qualche luogo qui vicino… Vedrai che tornerà per cena”
“E se invece è andata da suo padre? Che cosa faccio? Non voglio che stia con lui! Dopo tutto quello che ha fatto…” Piegai la mia testa sulla spalla di mio padre.
“E se lei invece è con lui? Voi due lo osservate da quassù fin dal primo giorno in cui siete arrivate. So che lo ami ancora. Tu sai che ha pagato il prezzo dei suoi errori e sai anche che merita di conoscere sua figlia”
“No, certo che no” Lui l’ha uccisa, papà! L’ha uccisa! Le ha spezzato il cuore…”
“Ha spezzato il suo o il tuo cuore? Channa lo perdonò già tempo fa”
“Beh… non questa Channa… non posso perdonarlo. Solo che… non posso. E’ finita tra noi…” Mio padre ridacchiò e mi carezzò una guancia. Ritrasse le braccia e si allontanò di un paio di metri, squadrandomi.
“Lo sai che non è vero. Tu lo ami. Lo perdonerai e anche presto. So che lo farai. E poi, avrete un altro figlio” Mi voltai rossa in viso e inizia a farfugliare. Stupita delle sue parole, non aveva mai detto una cosa così… impudente. Si limitò a ridacchiare di nuovo indicandomi un punto in lontananza “Lei è lì, lo so. Ora vai, farò io la cena stasera.”
“Non puoi… tu non sai cucinare”
“E’ vero, Channa. Ma per te ci proverò”

Salve!
Duuunque, questo dovrebbe essere l’ultimo capitolo, ma l’autrice originale ha scritto un capitolo bonus, che non ho ancora tradotto, ma cercherò di tradurlo il prima possibile. Accenno che il capitolo Bonus non c'entra niente con il finale della storia ♥
Prima di passare ad altro, volevo farvi una domanda: io sono disposta a tradurre anche il sequel, ovvero il finale alternativo, solo che l’autrice originale non aggiorna da due anni e la storia è ferma al 6° capitolo. Lo traduco oppure potete farne a meno accontentandovi di questa fine?
Potete rispondermi in recensione o tramite messaggio privato ^^
Mi prendo la libertà di dire che nel finale alternativo Courtney, Duncan e Channa non muoiono, ma vivranno altre vicende.
Ora, sinceramente, non me la sento di fare una lista di ringraziamenti dato che non sono né l’autrice originale, né ho tradotto la storia fin dall’inizio. Mi sembra sbagliato ringraziare determinate persone che ho avuto l'occasione di incontrare solo al penultimo capitolo. Vorrei solo dire una enorme GRAZIE a Kissina per avermi affidato la sua traduzione proprio sul gran finale e so che io non sono brava come lei. Vorrei ringraziare anche PiccolaEco, per avermi guidato in questi due/ tre capitoli facendomi notare alcune incongruenze o errori che erano davvero stupidi e vergognosi.
Bene, direi di aver finito. Grazie a tutti ♥
La traduttrice,
Xenja ♥
P.S. Ho deciso di tradurre anche il finale alternativo, perciò lo troverete nell'account sotto il nome di "The Untold Story:Prinzessin"

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