D'amore e d'ombra

di comeundone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parigi ***
Capitolo 2: *** Roma ***
Capitolo 3: *** Lisbona ***
Capitolo 4: *** Edinburgo ***



Capitolo 1
*** Parigi ***


PARIGI

Cette histoire est inspirée de faits réel

mais les noms ont été changés pour protéger les coupables

 

10/12/2013, Parigi

 

Ore 10.40 – Arrivals

Lei

Mentre prende il primo boccone di brioche, con il naso pieno di profumo di burro e vaniglia, sorride tra sé: questo é “cupio dissolvi”, si dice, dopo almeno una settimana di dieta buttata all’aria senza rimpianti. Altro che esseri multidimensionali: abbiamo bisogno di mangiare, di ballare, di sballarci. Abbiamo bisogno della musica e di amore, di occhi e di sguardi che ci arrivano come pugni nello stomaco, e ci fanno cadere sulle ginocchia.

Non pensa a occhi in generale, no. Pensa a due occhi in particolare. Il guaio è che ormai ci pensa talmente spesso, che quando parla con le persone non riesce sempre a nascondere che spesso si perde nel suo mondo popolato di creature bellissime, chitarre rosse e smalto nero.

Mentre pensa a tutto questo, in un bar dell’aeroporto, cerca sul display del cellulare un segnale di pace. Perché quando, alla fine, il suo ragazzo non ha potuto accompagnarla per un impegno di lavoro, e lei ha minacciato di andare comunque a quel concerto a Parigi, hanno litigato, come sempre, ma anche in maniera diversa. Come se lo avesse detto a parole, lui ha capito che lei con la testa era già da un’altra parte e che non c’era trattativa.

Perciò, quella mattina, è sola al tavolino di un bar all’interno dell’aeroporto, e aspetta di trovare il coraggio di uscire fuori in quella che ha sempre pensato essere la città più bella del mondo.

 

Poiché ha gli occhi bassi, fissi sullo schermo del telefono, non vede che lui è entrato, e avvicinandosi al bancone, con gli occhi bassi, fissi sullo schermo del suo telefono, ha sbadatamente urtato il vassoio della colazione, pericolosamente sporgente dopo che lei ha fatto spazio per leggere il tablet, versando in terra quello che resta della brioche e il bicchiere pieno di succo di arancia.

“Merde! Mi dispiace, sono mortificato…” L’espressione del viso, anche se protetto dagli occhiali scuri, dice un’altra cosa. E’ solo sincero fastidio per il casino che c’è in terra, ma nessun dispiacere per chi siede al tavolo. Pantaloni e giubbotto neri, un cappello morbido calcato sulla testa, lei lo guarda, ma il suo cervello si rifiuta di farglielo riconoscere. Forse è la voce, quella voce che per chiunque altro proprietario sarebbe strana, se non decisamente sgradevole, a costringerla a capire chi si trova davanti.

Quella voce, che stia minacciando la fine del mondo che conosciamo o promettendo un nuovo domani, cantando, parlando o ridendo, ha il potere di scuoterla fini dal primo giorno in cui l’ha sentita.

Ricorda perfettamente la sensazione di stupore e disagio che ha provato, ascoltando la radio, mentre una mattina assolata andava – correva, sempre in ritardo – al lavoro. Una voce che le ha insegnato in tre minuti che i confini tra bene e male, tra gli angeli e i demoni, tra un uomo ed una donna, sono davvero labili. 

E passarlo nel modo sbagliato, il confine che ha davanti ora, sarebbe facilissimo. Così respira profondamente alzando lo sguardo su di lui, cercando di farlo apparire il più possibile neutro, e risponde: “Nessun problema, avevo comunque finito.” Brian alza vistosamente un sopracciglio, e getta uno sguardo scettico a terra, indicando i testi della colazione. “We made a fine mess…” annota mentalmente lei, sorridendo tra sé a quella vista.

 

Lui

All’inizio, Brian non è davvero sicuro di volersene occupare. Potrebbe fare un cenno alla cameriera per dire di metter tutto quello che è andato sprecato, e tutto quello che lei potrebbe ancora desiderare, sul suo conto, senza neppure guardarla, o preoccuparsene davvero. Come al solito, in effetti. Sarebbe decisamente poco educato, e perciò ancora più in sintonia con quella voglia sottile di rovesciare il tavolo (metaforicamente, nelle sue intenzioni originarie), con cui si è alzato quella mattina.

Non è un giorno qualunque. L’ha detto, sì, l’ha fatto credere a tutti, dicendolo con quello sguardo un po’ annoiato, molto blasé, con cui, di solito, riesce a nascondere i suoi veri pensieri agli altri. E come tutti i mentitori di professione, come tutti gli attori veri, ha quasi convinto anche l’ultimo spettatore dei suoi show, che dall’ultima fila lo guarda pronto a rimproveragli il minimo errore nelle espressioni e nelle battute: sé stesso.

Ma quel compleanno è un po’ diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Quella sera suonerà in un città che ama, e che lo amava. E la paura di essere troppo vecchio per incantarla ancora, di mostrare le crepe, di non avere più la luce nello sguardo, per stordire chi ne è il fortunato beneficiario, si è infilata nella sua anima, o qualsiasi cosa di essa abbia resistito al tempo, alle droghe, alle medicine e al disagio di vivere di cui si è riempito i giorni. Quello sguardo che difficilmente ormai rivolge in alto, ad evocare ogni volta un dio o un fantasma diverso e sempre ugualmente terribile. Sa che un limite è stato superato. Il tempo è andato avanti fino ad arrivare ad un punto invisibile, che ha separato il Brian perfetto, bellissimo e immortale nelle suo indulgere nei vizi, dal Brian maturo, responsabile, pulito, e sempre più fragile nel suo ostinarsi a tenersi lontano da quelle miserie.

Perciò, che senso ha quel compleanno? Non può, semplicemente, ignorarlo convincendo a fare altrettanto tutto il fottuto resto del mondo? Con un solo sguardo?

Ora come ora, non riesce a reggere nemmeno quello della ragazza che ha di fronte… Ha davanti l’espressione gelida e gli occhi giudicanti che gli si sono conficcati addosso milioni di volte, fin da quando, sedicenne, girava in abitini corti e trucco ammiccante.

Ma il sorriso involontario di lei, che rompe quella maschera quando lo riconosce, scioglie in un istante il malessere, stretto come un nodo nel suo stomaco e pesante come una pietra sul petto, primo regalo al risveglio di quella mattina; e gli dice che forse potrebbe valere la pena di rischiare un altro giro di carte, prima di abbandonare il gioco.

Lo guarda scostante, ma sembra più una scena provata e riprovata anche quella. Sa bene che, se sei un tipo che non può contare sulla statura per mettere in soggezione gli altri (e lei, anche se seduta, sembra rientrare in quella categoria), un sorriso sottilmente arrogante e due occhi azzurri socchiusi possono farti sentire la prossima preda… al minimo sbaglio.  Ma, povera ragazza, quella era ancora una sfida che può vincere facilmente; è il suo terreno di gioco preferito.

 

”C’è qualcosa che posso fare per rimediare a questo?” domanda con una intonazione fredda e lievemente infastidita, mascherata da un adorabile finto sorriso educato.

Lei, inaspettatamente, contraccambia con lieve sarcasmo: “No, a questo, non credo.”

Brian spalanca leggermente gli occhi, anche se lei non può vederlo, dietro le lenti scure.

E poi aggiunge, con un sorriso altrettanto adorabile sulle labbra: “Ma potrebbe fare qualcosa per questa sera.” Gli occhi di lui sempre più spalancati, e lei sempre più audace: ”Potresti rendere quello di stasera lo spettacolo migliore che abbia mai avuto.”

Brian alza leggermente le spalle, con noncuranza: “Bene, ci proverò...” Inspira, tornando serio. “Hai dei buoni biglietti?” Lei solleva lo sguardo verso un punto imprecisato, come a riflettere sulla risposta.  “Bè, penso di sì. Sono sul parterre”. Lui cerca con gli occhi la ragazza alla cassa, facendogli segno di scrivere qualcosa sulla mano aperta, e ne riceve prontamente una penna ed un foglietto, su cui scribacchia un nome ed un numero.

“Ti piacerebbe sedere in un posto molto vicino al palco e guardare il concerto da lì?” No, pensa lei, se stessi molto vicino al palco non sentirei probabilmente nemmeno una nota, e rimarrei fissa su di te per due ore, completamente priva di intendere e volere. Ma ha la prontezza di guardarlo in modo tranquillo, e di rispondere continuando quel gioco di cortesie che ormai hanno iniziato: “I’ll be delighted, indeed.”

Brian stavolta si concede quasi una risata vera: “Mi piacciono le parole che dici, e come le pronunci…“

“Delighted. Indeed.”, ripete, senza traccia di derisione.

Potrei dire proprio la stessa cosa di lei, signor Molko, pensa lei. “Credo che sia a causa della mia passione per Jane Austen”. Brian alza gli occhiali sulla fronte; oramai si guardano apertamente, senza più imbarazzo o sufficienza.

“Bene, allora chiama questo numero quando arriverai a Bercy, io parlerò con Mark perché ti procuri un posto. Va bene?”

Non va bene per niente, invece. E’ chiaro che sono arrivati alla fine, e il volto di lei si scurisce improvvisamente. Equivocando il suo cambio di umore, Brian aggiunge: “Solo se ti fa piacere, naturalmente. Allora, verrai?” Quando lei alza di nuovo gli occhi nello sguardo enorme dell’altro, le sembra che il mondo si sia davvero fermato. Tutto intorno è sfumato, come se si trovassero all’interno di una grande palla con la neve artificiale. Con uno sforzo enorme, perché le sembra che il sangue non arrivi più alle braccia, né alle gambe, si alza poggiandosi sulle mani, che sono ancora abbandonate sul piano del tavolo, e fa un occhiolino scherzoso al suo interlocutore. “Se è così importante, cercherò di venire.” e lui annuisce, unendo la sua alla risata di lei.

“Bene. Fantastico.” risponde Brian, atteggiando la bocca in quella smorfia “100% Brian Molko”, che sembra voler dire “Non c’è nulla di vero, in quello che hai creduto di vedere e capire, e non ti sei preso nulla di me.”, il che, quasi sempre, drammaticamente, è la realtà delle cose.

 

Ore 11.30 - Le jardin

Des milliers et des milliers d'années

Ne sauraient suffire 

Pour dire 

La petite seconde d'éternité 

Où tu m'as embrassé 

Où je t'ai embrassèe 

Un matin dans la lumière de l'hiver 

Au parc Montsouris à Paris 

 Paris 

Sur la terre 

La terre qui est un astre.

 

Jacques Prévert

 

 

Sta sorridendo. Lui sorride sempre. E lei, è naturale che sorrida. Sarebbe il momento perfetto per accomiatarsi, un saluto frettoloso e sarebbe tutto finito, uno in più di un milione di piccoli incontri inutili che ha già fatto, piccoli contatti casuali tra esseri umani che non vale la pena raccontare.

Per un attimo, lo coglie una fottuta paura di uscire da quell’aeroporto e trovarsi troppo tempo davanti libero prima delle prove, troppo tempo per ricominciare a pensare, troppo per immaginarsi come sarà fantastica quella serata e poi ripetersi come un dottore premuroso: non pensarci, sai che non è più come prima. Non contarci, o dopo farà troppo male.

E poi, come lo scaldo il pubblico ora che sul palco non riesco quasi più nemmeno a guardare Stefan e quando mi giro verso la mia band incrocio solo occhi che sfuggono? 

“Io vado a fare un giro in città prima del soundcheck, vorresti accompagnarmi?”

La fottuta paura si trasferisce istantaneamente da lui a lei, che si vede annuire, senza sapere cos’altro aggiungere.

Per fortuna, per qualche minuto, è necessario soltanto seguirlo mentre si fa strada verso l’uscita e poi ferma un taxi. Brian scambia qualche parola con il guidatore e lei si chiede com’è che riesce a capirlo, non solo quando parla inglese, ma spesso anche in francese, conoscendo male la prima e nulla della seconda lingua…

Sorride tra sé, guardando fuori il cielo tutto sommato abbastanza luminoso per essere dicembre. Pensa che le piacerebbe tanto fermarsi a passeggiare sugli Champs-Élysées addobbati per il Natale.

Trasale quando lui le dice: ”Ora mi dovresti dire come ti chiami, miss Bennet”. “…Elizabeth?”. Sorridono entrambi e lui scuote la testa. “Conosci il parco Montsouris?”

 

Non è così freddo; ed è piacevole passeggiare, mentre lei cerca di raccontargli delle sue precedenti visite alla città e che no, non è certa di esserci stata, in quel parco. In realtà in quel momento non è certa di nulla, che cosa sta accadendo, che cosa è accaduto prima o se quella sensazione di conoscere alla perfezione quale espressione di volta in volta lui farà alle sue parole è un deja vù, o cosa.

Poi finisce le parole. Le muoiono in bocca, perché a parlare non è brava come la storia del capire, e lui non sembra avere nessuna voglia di condividere con lei i ricordi che ha di quella città.

Così, ad un certo punto, si trovano seduti su una panchina, l’una accanto all’altro, con lo sguardo nel sole tiepido, che getta una luce innaturale sulle foglie degli alberi, e nell’aria.

Lui si accende una sigaretta, e sbuffando il primo tiro di fumo le chiede: ”Per essere una fan dei Placebo, ti comporti in maniera piuttosto… inusuale, a giudicare dai segni.” abbassando lo sguardo sul polso di lei, che senza volerlo si è scoperto. Si è fatta fare quel tatuaggio identico, nello stesso posto dove l’ha anche Brian, solo un mese prima.

“Che poi scusa, che cazzo c’entra una come te con il simbolo della sobrietà?” le dice con un tono di voce più duro di quanto intendesse.

“Oh, ma il mio non significa sobrietà. Significa dipendenza. Da cui, sinceramente, mi dispiacerebbe uscire proprio oggi ”.

Sarebbe facile rispondere che non sa di cosa sta parlando. Ma, in effetti, che senso ha ora rimproverare lei, dopo essersi dannato l’anima tutta la vita per eseguire alla perfezione la parte “Sono il più sexy del mondo”?

Alza gli occhi dal polso e non dice niente. Lei, abbassa velocemente la manica fino a coprire le dita della mano.

“Mi aspettavo comunque qualcosa di più classico, che farmi sentire un cretino per la storia della colazione…. Che so, urla, mani nei capelli, foto a raffica…” “Dici che ti sarebbe piaciuto? Non credo. Se insisti comunque ho un pezzo… ma devi toglierti gli occhiali.”

Brian scuote la testa ridendo: “Non posso…”. La ragazza alza il sopracciglio e si gira a guardarlo con la testa inclinata come si fa con un bambino capriccioso, che non vuole fare quello che gli viene detto.

Allora lui si gira verso di lei, con il fianco ed un braccio appoggiati allo schienale della panchina, e la testa sulla mano. Con l’altra, getta la sigaretta, solleva gli occhiali sulla fronte e poi la tende di lato al viso per schermarlo dal sole e da chissà quali sguardi curiosi... A parte un paio di bambini a passeggio con la loro tata, sono soli!

Lei esegue le stesse mosse, e si trovano l’uno di fronte all’altro, il viso troppo vicino, nascosti al mondo da quell’improvvisato nascondiglio creato dalle loro mani, che quasi si toccano.  Sente il fumo della sigaretta appena gettata sulla bocca di Brian, sulla mano, tra loro, a costringere il suo cervello a pensieri razionali, causa-effetto, qui, ora, e pensa che sì, il fumo uccide, ma in quel momento la sta tenendo in vita, perché impedisce alla sua mente di svuotarsi del tutto.

Può vedere finalmente i suoi occhi da vicino, senza che nessuna telecamera ne cambi i colori. Ma non riusce a essere così sfacciata, che per un paio di secondi.

Abbassa lo sguardo, sul naso di Brian.

Poi sulla bocca, imperfetta…. Perfetta. Appena increspata in un sorriso. Innocente. Sensuale. Indecente. Sei solo tu che la guardavi a doverlo scegliere. “Brian… Vuoi passare il resto della tua vita con me?”. Ora la bocca di Brian non sorride più, mentre si morde il labbro, come se non sapesse decidere la risposta giusta. 

“Uhm, tutta la vita non so. Ma posso fare qualcosa per le prossime due ore.” e volta la testa oltre il cancello. “Lì c’è il mio albergo. Sali con me?”.

Lei si volta, appoggiando rigidamente tutta la schiena sulla panchina, e guarda verso l’edificio che lui le indica.

“Così, Brian… Questo è il tuo programma normale per un giorno qualsiasi durante i tour? Raccattare qualcuno nel primo bar e portartelo in camera?”.

Lui attende qualche secondo, con lo sguardo fisso verso il palazzo stile liberty, di quelli che ti fanno sembrare ogni via di Parigi, più elegante del corso di qualsiasi altra città.

“Così… Elizabeth, hai detto. Così, Elizabeth, quando sei a Roma sei solita presentarti con un nome falso e offrire il tuo amore eterno a tipi che conosci da… vediamo…”, guarda ostentatamente lo schermo del cellulare “… un’ora?”

Ora è il suo turno di scuotere la testa. “Touché.” Si alza, e comincia lentamente a camminare per uscire dal parco.

 

 

 

Ore  12.10 – Protège moi

Sommes-nous les jouets du destin

Souviens-toi des moments divins

Planant, éclatés au matin,

Et maintenant nous sommes tout seuls.

 

Quando entrano in camera e Brian si chiude la porta alle spalle, dopo averle ceduto il passo, l’atmosfera è cambiata e decisamente meno naturale, di poco prima. Lei è visibilmente imbarazzata; sente che il gioco le ha preso un po’ la mano e davvero, davvero non se ne sente all’altezza.

Lui sembra distante; forse, un po’ annoiato. La parte razionale di entrambi comincia ad avvertire qualcosa di simile al rimorso; e per metterla a tacere Brian si avvicina al tavolino accanto ad un bel divano, sotto una grande vetrata schermata da tende scure, e versa due dita di liquido ambrato per sé e per lei.

La ragazza dà un silenzioso assenso al tacito invito implicito nell’offerta, e prende il bicchiere dalle sue mani con un breve contatto, che le trasmette un brivido nelle braccia e le fiacca le gambe. Cerca dove sedersi; mentre Brian, intanto, si è quasi steso di fianco sul divano, facendole cenno di appoggiarsi sul letto di fronte a lui.

“Sarebbe carino ora, da parte tua, aiutarmi ad eliminare lo svantaggio, e dirmi qualcosa in più di te.”

Lei alza gli occhi al soffitto come a cercare ispirazione. “Vediamo… Sono nata nel 1972. Bella presenza; punti deboli, l’altezza; punti forti: gli occhi. Ho una figlia di 8 anni, ma non sono sposata.  Mi sono laureata e ho cominciato il mio lavoro, senza più cambiarlo. Penso che i Placebo siano la migliore rock band di sempre e Brian Molko la creatura più fantastica mai apparsa sulla Terra.”

Brian ha ascoltato tutto tenendo gli occhi bassi, con un mezzo sorriso sul volto ed esclama: ”Avevo chiesto di raccontarmi la tua vita, non la mia!” scoppiando in una risata convinta. Pensa che forse il gioco può valere la candela; e si accende una sigaretta, tirando la prima, lenta boccata.

Lei gli chiede se può averne una; lui si sfila la sua dalla bocca e gliela porge, ripetendo il gesto di poco prima, immerso sempre più nella sua migliore interpretazione di “ho venduto la mia anima al diavolo per avere questo sex-appeal, ma faccio finta di non esserne consapevole”. Che poi, il diavolo doveva avere fatto un pessimo affare: l’anima di un santo non valeva la visione che ha davanti in quel momento, figurarsi quella del giovane Brian.

Non cerca neppure di far finta di non esserne attratta; siede di nuovo sul letto senza staccare gli occhi da quella sigaretta, tra le mani e la bocca di Brian, spettacolo che probabilmente farebbe riconsiderare non solo a molte donne l’idea di fedeltà di coppia, ma anche a molti uomini il proprio convincimento sull’eterosessualità.

La sua, di sigaretta, continua a consumarsi, senza che abbia potuto farne più di un tiro. Tenerla tra le labbra è già un’idea abbastanza sconvolgente, essendo stata tra quelle di lui. E tenendola semplicemente tra le labbra, continua a guardarlo, mentre Brian si gode il suo primo regalo di quel compleanno, quello sguardo adorante che in mille copie lo ha accarezzato da quando ne ha memoria, ricambiandolo con un’espressione indecifrabile (un’espressione regalatagli dal diavolo nell’affare di cui sopra, di cui si serve talmente spesso da non ingannare più nessuno sulla sua autenticità o spontaneità, a parte lei in quel momento).

Non vede un portacenere vicino: quindi si alza, cercando di tenersi sufficientemente ferma sulle gambe, e si avvicina al tavolino dove ne ha visto uno. Spegne la sigaretta, si inginocchia di fronte all’uomo sul divano e avvicina il viso al suo, la sua bocca a quella di lui, senza toccarla, pensando: ”Toccami, e salvami, o uccidimi, ma fallo in fretta”.

Brian è attraversato dallo stesso pensiero, ma si chiede al contrario se deve baciarla e farle male, o lasciarla andare e così proteggerla da quel veleno che sente dentro, come sempre. Quando si trova così vicino a lei che la scelta non è più rimandabile, è debole come lo è sempre stato in momenti simili, è egoista, ed è bugiardo nel dirsi che in fondo lei sa benissimo cosa sta per succedere…

Se lo sapesse, o potesse immaginarlo, in quel momento non sarebbe in quella camera con lui.

Non rischierebbe di finire in quell’infinita schiera di sfortunati che hanno creduto di potere avere qualcosa indietro per l’amore, il tempo, la fiducia e l’anima che gli hanno dato; e si terrebbe lontana, lontanissima da quella bocca a cui invece si è consegnata.

Il primo contatto è breve, e lei sente solo l’alcol e il tabacco. Poi Brian si avvicina di nuovo, e di nuovo poggia le labbra sorridendo sulle sue, inclina la testa e chiude gli occhi cercando la sua lingua, per dirle che la vuole. Che ne ha bisogno, meglio. Che è quasi, anche se non esattamente, la stessa cosa, ma lei non è lucida abbastanza per accorgersene.

Dapprima è la sola morbidezza di quel bacio a occuparle tutta la mente e i sensi. Ma dopo qualche secondo, in cui il cervello si spegne e il corpo si accende, finalmente comincia a sentire il sapore di Brian e l’ultimo pensiero razionale è: no, non potevo immaginare una cosa così.

Semplicemente, smette di chiedersi tutte le domande del mondo e di tormentarsi con la più giusta (perché? perché io?) ed è solo un seguire l’istinto, che le dice che avvicinarsi in quel modo al cielo non può essere peccato, in nessuno dei percorsi e con nessuno dei compagni possibili.

Sdraiata tra le gambe di lui, l’androgino Brian, Brian la “diva”, l’angelo senza sesso, Brian il “diverso”, si sente morire ad ogni gemito, ad ogni sospiro, al tocco delle sue mani sulla testa che la guidano nel ritmo e nei movimenti, gli stessi gesti e la stessa urgenza di ogni altro uomo sulla Terra.

La vera differenza con gli altri era che lui può entrare dentro di te molto più profondamente, dandoti molto più piacere e dolore di quanto potesse mai fare su quel letto, usando solo la voce, gli occhi o un sorriso.

E quando, non potendo più sostenere quelle carezze, le ferma le mani e si stende accanto a lei, attirandola in un bacio lungo e quasi straziante per il bisogno che esprime, le sembra che non c’e mai stato, e sa che non ci sarà mai più, un motivo per vivere più vero e più valido di quello che sentiva dentro in quel momento.  “TELL ME WE BOTH MATTER, DON’T  WE?” Che importanza aveva sapere se è amore o sesso o cosa, qualunque parola non può comunque raccontarlo.

E lei, se glielo chiedessero, non avrebbe mai tempo e parole a sufficienza per spiegare quello che è successo e il motivo per cui, da quel giorno in cui l’ha sentito cantare per la prima volta, la sua vita non è stata più la stessa, lei non è stata più la stessa, come se avesse una luce nello sguardo e nel sorriso, che li rende più brillanti di quanto possano mai essere, con qualunque mascara e rossetto.

Si stacca da quel bacio con la stessa sensazione dentro del naufrago, che, esausto, si stacca dal relitto che lo tiene a galla e capisce lucidamente, alzando gli occhi al cielo, che lo sta guardando per l’ultima volta, e che quella distesa infinita di acqua limpida, gelida e di un colore incredibile, sospeso tra il verde e l’azzurro, lo ucciderà tra poco.

Non è certa se sia stato un sogno o quel mare l’abbia visto davvero, negli occhi di Brian steso su quel divano, una mezz’ora prima, e sorride fra sé al pensiero ridicolo di poter misurare il tempo, quel tempo, in qualche modo.

Si stacca da quel bacio e si gira, nascondendogli il volto e premendo la schiena contro il petto di Brian, lasciando che lui la abbracci e immagini di stringere lei o chiunque altro voglia che sia al suo posto. Che differenza fa, comunque?

Brian non può vedere le sue lacrime, mentre entra dentro di lei, che piange per tutta la vita che le scorre nelle vene e le da alla testa in quel momento e che l’abbandonerà tra poco – secondi, minuti, non sa quanto possano resistere – piange per tutto quello che è accaduto e sta per accadere, e per le macerie che sa che lascerà, anche se è tardi per correre via e nascondersi da qualche parte.

E il suo cervello, usualmente così perfetto nel proteggerla e coprirla di una corazza di freddezza in situazioni emotivamente difficili, è incapace di fornirle qualsiasi schermo e anzi le sembra di sentire il tocco delle mani di Brian come se fosse bollente e lei non avesse nemmeno la pelle ma solo carne viva.

Quando lui le viene dentro, con lei, un po’ prima, un po’ dopo (è complicato essere precisi mentre il mondo si rovescia), in quell’attimo sfuggito al tempo capisce che di nuovo – come quel giorno di un paio di mesi prima, sentendo quella canzone alla radio – è morta e rinata, diversa, grazie a lui.

 

 

Ore 14.40 – The bitter end    

See you at the bitter end. 

 

Se fosse riuscita a mantenersi lucida. Forse, senza quel whisky e quella sigaretta.

Se non avesse avuto quell’idea stupida di dirgli del concerto. Se avesse accettato le sue scuse per la colazione, e basta.

Ma anche, se lui fosse stato un altro. Non Brian, cioè. Se non avesse avuto quel modo assurdo – gelida arroganza in un involucro di perfetta cortesia – di chiedere scusa. Se non l’avesse fatto con quella voce e quello sguardo di distaccata sufficienza, e quel vezzo di scandire tutte le parole.

O se lei fosse stata proprio quello che Brian voleva, e si fosse innamorato in due ore come era successo a lei. Se questa luce nell’aria di Parigi non avesse questa maledetta capacità di spandere oro su tutto – tutto.

Gira intorno al palazzetto di Bercy, una gigantesca piramide azteca coperta di verde e stagliata nel sole del primo pomeriggio, terrificante come se dovesse essere il teatro di qualche sacrificio umano.

Metro. Champs-Élysées. Bancarelle per il Natale che arriva. Palazzi - non negozi, semplici vetrine, boutique - palazzi della moda altissimi e inquietanti nello sfarzo esibito e sbattuto in faccia ai turisti. L’Arco di Trionfo. Un monumento alla vittoria accanto all’emblema della disfatta, nella foto che ha chiesto ad un passante di farle per immortalare il momento – come se ci fosse modo o bisogno di fotografare quel cuore a pezzi, per inviarlo su Twitter. Guardate cosa ci ho guadagnato. Guardate quello che ne è rimasto. Accontentatevi delle canzoni, delle smorfie e degli ammiccamenti, dello sbattere di ciglia e degli occhi al cielo. Tingetevi e tagliatevi i capelli come lui, e imparate a scostare le ciocche dal viso con il mignolo. Se non vi arriva ancora abbastanza veleno, leggete le fanfiction. Scrivetele. Sognate di incontrarlo e di avere una storia con lui. Ma, per l’amore del cielo, non lo fate. Davvero. Io ora non chiamerò nessun Mark o come diavolo si chiama. Non rischierò di trovarmi ancora davanti a lui. Voglio almeno uno schermo di qualche migliaio di persone davanti. Stasera voglio stare tra i fan dei Placebo e strillare e cantare “joyeux anniversaire, Brian”, come se non me ne fregasse nulla.

Il concerto è già finito da un quarto d’ora ma esita ad uscire. Ovviamente ci vorranno ancora molte ore prima che quel miele (fiele?) che ha dentro sparisca del tutto. Ovviamente non l’incontrerà più, e quel ricordo sfumerà fino a non poter essere certa che non sia stato un sogno. Ovviamente un giorno riderà di quello sguardo da gatto che ha il topo tra le zampe e gli dice: “Sei morto; ma prima giochiamo un po’”, o di quello falsamente ingenuo, stillante miele, da bambola di porcellana.

Brian sembra semplice da capire da lontano. Finché non ti avvicini, e scopri che lui è molto più complesso.  E’ tante cose diverse tutte insieme, è qualcosa ed il suo contrario, senza apparente confine e in eterna lotta. La perfezione assoluta ed il vaso di Pandora. Sua Maestà la Grazia ed Eleganza, autore di versi immortali intrisi di sesso e droga. L’angelo senza sesso e l’Idea Platonica di Attrazione. Un uomo che sembra una donna che sembra un uomo, in un infinito gioco di specchi in cui la mente si perde. Quello che stava cercando da tutta la vita. Quello che non avrebbe mai più ritrovato in nessun altro.

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Capitolo 2
*** Roma ***


24/07/2014, Roma

 

Ore 18.40 – The start of it

That’s the end, and that’s the start of it

 

Lei

Sono passati un sacco di mesi, riflette, mentre aspetta che si aprano i cancelli, e sta fumando l’ennesima sigaretta del pomeriggio, e fissa distrattamente un punto a terra, oltre la transenna. Si sta già divertendo, parla e ride con delle ragazze con cui aveva solo scambiato qualche messaggio, e che invece le sembra siano vecchie amiche. Avevano un braccialetto rosso, come segno distintivo; ma pensa che si sarebbero comunque riconosciute.

Brian è sempre più dentro di lei, e sa che questo si vede. Ma non in superficie – certo, il caschetto nero e gli smoky eyes e il tatuaggio potrebbero farlo credere, ma quella è solo una maschera. Per trovarlo davvero, deve avventurarsi nel profondo, talmente che fino a pochi mesi prima non ci si era mai avvicinata, a quei confini. Confini che Brian ha violato, dapprima solo con la voce, e poi con il resto, una bellezza dolce, senza essere stucchevole, e amara, come una cosa che desideri più di ogni altra, ma che non potrai mai permetterti.  Gli occhi, il sorriso, sono armi scontate, anche se notevoli; c’è qualcosa di molto meno evidente in lui, che fa infliggere loro delle ferite pesanti, che non vuole che guariscano, e che guarda orgogliosa come trofei di guerra. Dio, grazie che mi hai mandato l’amore e la morte attraverso Brian. Grazie per la musica, per le parole, e grazie perché con loro mi sento più forte, perché cerco di cantare, parlare, e guardare il mondo come farebbe lui, e so di aver sempre voluto essere così, anche se non sapevo perché.

Qualcuno si affaccia al cancello e fa le raccomandazioni di rito, spiega che dovranno camminare in fila per due per avvicinarsi al palco, si, come no, vuoi che nel frattempo cantiamo una canzoncina?

Ora corri, Forrest, corri. Ha le sue comode sneakers ai piedi, e ce la può fare. Il concerto di due giorni prima, a Milano, ha decretato la morte delle decisioni sagge, che l’hanno sempre portata a comprare il biglietto in tribuna. Con un po’ di fortuna può raggiungere la transenna, prima o seconda fila, perché sono passati un sacco di mesi, e può reggere Brian a una decina di metri da lei.

Peccato, un coscienzioso operaio ha posato sul terreno una canalina, a proteggere cavi elettrici, probabilmente. E la giudiziosa, protettiva canalina crea un piccolissimo rialzo, solo pochi centimetri, esattamente quelli che servono a piegarle la caviglia. Addio prima fila, pensa prima ancora che il dolore arrivi al cervello. Addio concerto, pensa subito dopo. Alza una mano, dubita che qualcuno si avvicinerà prima di 5 minuti, che sono quelli necessari a occupare le posizioni chiave davanti al palco, microfono destro, microfono sinistro, e il resto a seguire, per tutti quelli che “soprattutto per la musica”.

Lei ama la loro musica. Lei adora la loro musica. Ma avrebbe voluto rivederlo da vicino, ora che sono passati tutti quei mesi.

 

Lui

Sono passati un sacco di mesi, riflette, mentre aspetta che arrivi l’ora di salire sul palco, e sta fumando l’ennesima sigaretta del pomeriggio, e fissa distrattamente un punto a terra, nella sua dressing room.

Brian da qualche tempo ha ritrovato Stefan, ed è felice. Almeno, non così infelice da doversi ammazzare di alcool tutte le notti. Le medicine, di quelle ha ancora bisogno, ogni tanto. Ora, ad esempio, si sente mortalmente stanco, così stanco da non avere la forza di alzarsi da quel piccolo divano, in quella piccola stanza, in cui dovrà diventare ancora una volta il bellissimo frontman dei Placebo, una maschera così perfetta da far dimenticare la sua statura, e i pochi capelli, e i chili che ha messo su.

Non ha la forza di alzarsi sulle gambe, figurarsi quella di uscire da lì, cantare e muoversi per quasi due ore. E ne ha voglia, davvero, ma non ne ha la forza. Decide che la cosa migliore è provarci comunque, ed andare in infermeria. Meglio che a dargli qualcosa che lo tiri su sia un dottore, piuttosto che chiederlo ai ragazzi. Oh, glielo darebbero, nessuno di quelli che ha intorno, per amore, paura o interesse, ha mai la forza di negare qualcosa a Brian. E Brian, invece, avrebbe tanto bisogno di avere intorno qualcuno, che sapesse cosa è meglio per lui, più di quanto non lo sappia lui stesso.

 

 

Ore 19.05 – Come undone

You don’t know what you’re coming across

You don’t know who you’re coming across

You don’t know how you’re coming across

So you come undone

                                                                                                             

Lei

Quando a gennaio era uscita la data di Roma, gli era sembrata una coincidenza incredibilmente affascinante. Lei era stata a Parigi, il 10 dicembre; e quel concerto a Roma, il giorno del suo compleanno, sembrava un sogno. Ora, l’hanno portata in infermeria, ed è sdraiata su uno dei lettini, il piede gonfio e oramai inservibile.

Bel regalo del cazzo. Il concerto avrebbe continuato ad essere un sogno, a giudicare dal dolore. Che male, il piede. Non lo vedrà ancora, quell’uomo di cui si è innamorata, quando ha sentito che l’aveva cambiata, l’aveva resa quella che era veramente, spogliandola di modi di fare e di essere assurdamente convenzionali e conformisti. E a cui sente di assomigliare in tantissime cose, per quello che si dice di lui. Il sarcasmo, cattivo, con il sorriso sulle labbra. Il linguaggio forbito, mescolato spesso e volentieri ai vaffanculo, alle persone e ai comportamenti che non le piacciono. Non prendere sul serio niente, ridere delle regole, a parte quelle che mette lei. I cambi improvvisi di umore, e il vestirsi di nero per sentirsi veramente a posto. L’età che passa e dentro, sentirsi sempre degli adolescenti. Il fisico minuto e androgino, e il trucco perfetto, provocante senza essere volgare. Un sorriso, leggero, insieme ad uno sguardo che sa di sesso. Ecco perché lo guarda continuamente; come in uno specchio magico, in cui vede se stessa, come avrebbe sempre voluto essere.

Lui

Brian ha trovato l’infermeria, ma dentro non c’è nessun dottore. C’è una ragazza sdraiata sul lettino, una mano sul viso atteggiato ad una smorfia di dolore. Brian le si avvicina, mentre la mano le scivola via dal viso e cerca di alzarsi, e si trova davanti un clone, una ingenua, anche se piacevole, imitazione di se stesso; e lui stesso si sente improvvisamente una imitazione di sé, 20 anni prima.

Lei

Apre gli occhi, spalancandoli appena. “Noi ci siamo già visti.”, le dice Brian. Visti, si. E sentiti. A Parigi, una mattina di dicembre. “Era il giorno del mio compleanno.” Che memoria, mr. Brian Molko dei Placebo.

Brian le sorride, senza aggiungere altro, e lei abbassa la testa. Sarebbe il momento di flirtare, attività in cui è bravissima, ma in quel momento non è pronta a farlo, non è pronta nemmeno dopo tutto quel tempo.

Brian abbassa gli occhi un momento, senza smettere il sorriso complice, ma non la guarda più, e lei ricomincia a respirare normalmente. Poi torna a parlarle, indicando il piede: “Fa male? Posso fare qualcosa?” Si, grazie. Portami a casa, e facciamo l’amore. “No, ma grazie per averlo chiesto.”

“Vuoi bere? Acqua?” Indica il distributore di bibite, sul corridoio. Lei annuisce, brevemente, e volge la testa dalla parte opposta, verso una parete. Vuota, grigia, molto più rassicurante degli occhi di Brian. “Magari una Coca. Oggi sono io a compiere gli anni.” E fa segno con le mani, 4,2. Brian alza le sopracciglia, e sorride divertito. “Accidenti. A 24 anni, puoi avere il mondo in mano.” E lei ride, con lui, e questo lasciarsi andare rompe gli argini che credeva d’aver costruito, mentre capisce che è di nuovo perduta.

 

 

Ore 19.25 – Protect me from what I want

Wedding bells ain't gonna chime
With both of us guilty of crime
And both of us sentenced to time
And now we're all alone

 

 

 

Lui

Brian ride insieme a lei, e d’un tratto ricorda tutto, ricorda perché l’ha invitata nella sua camera. Per divertirsi, certo. Per stare bene, anche se solo per qualche istante, certo. Perché chi lo faceva stare bene tutti i giorni, tutte le notti, non c’è più ora, e, panta rei, non ci sarebbe comunque. Ma quel modo di fingere che lui non sia Brian Molko, e fingere di non essere vittima del suo personaggio, e farlo sentire solo Brian, e farlo sentire colpevole solo di quello di cui effettivamente ha colpa, come chiunque altro, è qualcosa che gli ricorda, vagamente, quello che ormai è un altro fantasma nel suo passato.

Vorrebbe farle un regalo, per ricambiare in qualche modo quella sensazione effimera di normalità e di benessere che gli ha regalato. Ma non ha nulla, non la conosce, non conosce i suoi gusti e ora che ci pensa, non sa neppure il suo nome.

Lei

Una storia con Brian deve finire male. Una fine amara è il tributo inevitabile alla legge per cui nell’Universo, tutto deve bilanciarsi. Brian è il serpente che ti incanta con la voce, senza che tu sia cosciente di quanto ti costerà. Brian ti inonda di filastrocche fino ad un attimo prima di scomparire. E tu lo seguiresti ovunque, su qualunque strada, anche se è chiaro che non vi porterà da nessuna parte, anche se assomiglia ad un labirinto e non hai nessun filo in mano e non fate altro che andare e venire, come un’onda lenta e irrequieta, mentre credi di vedere l’uscita, e invece ci sei sempre più dentro.

Perciò ora, davanti a lui, sa esattamente che si trova davanti ad un bivio, e che un cartello indica a grandi lettere: inferno. Sa che se lui dirà ancora qualcosa, o si avvicinerà solo di un altro centimetro, crederà di nuovo al paradiso, un attimo prima di bruciare.

Mentre pensa queste cose, Brian le si avvicina, lento, e posa le labbra sulla sua guancia, abbastanza lontano dalla sua bocca, da essere considerato un bacio perfetto, per augurare buon compleanno ad un amico, e abbastanza vicino, da farle avere un fremito.

Poi si stacca, e la guarda negli occhi. Aspetta. Non andrà oltre, se lei non farà niente. Ma, di fatto, non ha scelta, quell’unico, innocente tocco la sta facendo già tremare. Ha chiuso gli occhi, scostandosi un po’ indietro, verso il muro, in cerca una difesa da quella scossa che l’ha attraversata, sapendo di essere la regina degli ipocriti. Lei vuole morire, di quella scossa. E si avvicina di nuovo, gli occhi nei suoi, e cerca le sue labbra e lo bacia piano, dicendogli in silenzio che va bene, va tutto bene, non deve preoccuparsi di nulla perché il mondo ora è perfetto e per tutto il resto ci sarà tempo.

 

 

Ore 23.50 – A million little pieces

It’s way too broke to fix

 

 

 

Lei

Ricorda d’aver preso un antidolorifico, forte, che le hanno dato in infermeria. Deve essere stato quello che le ha creato quella nebbia in testa, rotta solo da qualche lampo. Brian che la sostiene, mentre attraversano il corridoio, verso il suo camerino. Brian che chiude la porta. Lei che si stende su quel divano, piccolo, comunque nessuno dei due è un gigante e li ci si è sentita bene; sta cercando di ricordare, se si è mai sentita più a casa di quando è stata tra quelle braccia, su quel piccolo divano.

Sta cercando di ricordare. Ma l’antidolorifico è forte, il piede non fa più quasi male, il cuore, invece, è a pezzi, in un modo che non sa se si potrà rimetterlo insieme.

Non perché Brian abbia fatto qualcosa di sbagliato, si è steso piano accanto a lei e ha cercato in tutti i modi di essere delicato, di non farle male. Senza riuscirci, ma senza volerlo. E’ sempre stato quello, il problema.

Alla fine, era talmente ridicolo pensare di fargli credere che era tutto a posto, che ha dovuto accettare la sua offerta, e il concerto lo ha visto, seduta, a pochi metri da lui. Ora la voce, e i movimenti, e quelle mani sulla chitarra rossa, non potrà toglierseli più dalla mente, nemmeno pregando di poterlo fare.

 

                                                                                                                                                                                                            Lui

Il concerto è stato perfetto. Ecco, questo è il suo problema. Ha portato tutte le sue esibizioni allo stesso, altissimo, livello. Ogni imprevisto, ogni sbavatura, è stato eliminato o nascosto sotto uno spesso strato di make-up. Troppo, Brian non c’è più, su quel palco. It’s killing time, e a tagliarsi la gola è rimasto solo un attore. E questo, anche chi è in prima fila, lo ha capito benissimo.

Stupido, arrogante Brian.

Sarebbe stato facile rendere immortale il tuo mito. Hai voluto tornare sulla Terra, vivere una vita normale, ma questa ti ha ucciso.

Piccolo, ingenuo Brian.

Nessuno ti vuole veramente ora, avrebbero preferito mille volte che rimanessi per sempre Nancy Boy.

Lo sai perfettamente, mentre ti togli il trucco, la mano che si muove lenta, l’odore forte di sigaretta dentro quella cazzo di minuscola stanza.

Si sdraia sul divano. Domani, riposo. E poi un altro concerto, ecco a voi, signore e signori, mr. Brian Molko dei Placebo di Londra, che viene in pace.

Si sta comodi, su quel divano. Sul cuscino un profumo, che non è il suo. Non sa neppure il nome, e non ci saranno conseguenze, non ci saranno complicazioni, c’è stato solo sesso, perciò è stato perfetto.

Come il suo prossimo concerto.

 

 

Ore 00.25 – Every you, every me            

Because there’s nothing else to do

Every me, and every you

 

 

                                                                                                                                                                                                            Lei

E’ stato egoista, a tratti rude, Brian, ma è stato del buon sesso. E questo dovrebbe farla felice, è comunque qualcosa che ha condiviso con lui. E’ qualcosa di minuscolo, d’accordo. Di insignificante.

Qualcosa che non dovrebbe sentire dentro, ora, come l’innesco di una bomba.

TIC, TAC. TIC, TAC.

 

Lui

TIC, TAC. TIC, TAC.

Da una mezz’ora, guarda fisso il display del suo cellulare, che segna il tempo come un vecchio orologio analogico, facendo lo stesso rumore cadenzato, rassicurante.

Ora però smetti di pensarci, si impone, alzati e fatti una doccia.

 

Lei

Lei è sotto la doccia, e si guarda il tatuaggio. “E’ la cosa più stupida che potessi fare”, le ha detto, lo sguardo duro, la bocca tirata in una linea sottile, sprezzante. A parte rivolgerti ancora la parola, e seguirti nel Paese delle Meraviglie per la seconda volta, no? A parte quello, si, il tatuaggio è stata una cosa molto stupida. Le chiederanno per tutta la vita che cosa significa. Equilibrio, significa equilibrio, dirà.

Invece, è solo il ricordo di quando una volta si è trovata davanti ad un bivio, e l’istinto le ha detto di seguire una strada, ed ha camminato senza sapere dove stava andando, finché non è andata in pezzi.

L’antidolorifico doveva essere molto forte, perché non ricorda quasi altro di quello che si sono detti in quella stanza. Ma ricorda bene quello che si sono detti dopo, perché non c’è nulla da ricordare. E’ stato più facile della prima volta, perché in fondo non si aspettava nulla, ed aveva già esaurito tutto l’odio che si può provare verso chi si ama senza essere amati, e non c’è stata gelosia, non c’è stata rabbia, e non c’è stato quel senso di ubriacatura degli amori che scoppiano violenti.

C’è stato solo sesso. Perché non c’era nient’altro da fare.

Lui

Non c’era nient’altro da fare, Brian lo sa. Lo sa, di non essere in grado di dare nient’altro, ora; chissà se è stato mai diverso, si dice con amarezza, e in tutti i casi, è stato tanto tempo fa.

Si domanda se anche lei, ora, è sotto un getto d’acqua calda, per pensare ancora a quello che è successo, o per togliersi di dosso la sensazione di essersi buttata via, per la seconda volta.

Poi esce dalla doccia, e mentre si asciuga lentamente, guarda lo specchio appannato che ha davanti. E pensa che no, non c’era nient’altro da fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Lisbona ***


03/11/2014, Lisbona

 

Ore 18.00 – Oceano

Il mare – vide il barone sui disegni dei geografi – era lontano.

Ma soprattutto – vide nei suoi sogni – era terribile,

esageratamente bello,

terribilmente forte – disumano e nemico – meraviglioso.

E poi era colori diversi, odori mai sentiti, suoni sconosciuti – era l'altro mondo.

Alessandro Baricco – Oceano Mare

Non voglio incontrarti, mai più.

Voglio stare con te, per sempre.

Tempo che passa, tutto si rimescola, e ogni volta è una vittoria fatua, fino al prossimo combattimento, una guerra che la sfinisce e la tiene viva. L’inscindibile binomio tra amore e dolore, dolcezza e veleno, meraviglia e squallore.

Ecco cosa sono state tutte queste settimane, prima di partire per Lisbona. Ci ha pensato continuamente, un retropensiero costante, anche se non sempre cosciente. Si direbbe che è innamorata. Invece, si sente avvelenata.

Lisbona potrebbe essere una bella città da visitare, senza quel peso dentro, che pure, la tiene con i piedi per terra e non permette alla sua mente di volare continuamente fuori dalla realtà.

Lisbona potrebbe essere bella, senza cielo grigio, e la pioggia a sprazzi che rapidamente la inzuppa, e trasforma l’acciottolato della strada che porta al mare in una roulette russa. Il profumo delle castagne arrosto, le sardine che sono ovunque, le piastrelle intarsiate sulle strade, e le salite di cui è pieno il centro.

Entra nella cattedrale, per un attimo. Che posti strani, le chiese.
Posti bui, con luci sapientemente puntate su una pedana, dove gruppi di persone mosse da fede, e qualche volta da fanatismo, sentono il bisogno di andare periodicamente, e ripetere le stesse parole migliaia di volte, e cantare, per entrare in comunione mistica tra loro, e con un uomo dai capelli lunghi, che credono dio.

Pensa tutto questo ridendo tra sé, e cammina verso il mare, mentre le offrono continuamente fumo e marijuana, e comincia a sentire sempre più forte quell’odore nauseante che viene dall’insenatura che racchiude l’Oceano.

L’Oceano. Visto dall’alto di una torre le ha per un attimo riempito il cuore di emozione e di sgomento, e dal basso è prigioniero di un porto maleodorante. Cazzo, buttate giù le banchine, i magazzini fatiscenti, eliminate tutti gli approdi, smontate navi e mercantili, e liberate l’Oceano!

 

 

Ore 22.00 – Where is my mind?

Your head will collapse
But there's nothing in it
And you'll ask yourself
Where is my mind?

 

Ormai è sera, e il vento è sempre più forte, su quella piazza antistante il porto.

E’ lunedì e sembra che non ci sia molto in giro della movida che si aspettava, perciò si dirige verso l’albergo e pensa – dio, riesce ancora a fare ragionamenti che obbediscono alla poesia della logica – pensa che forse riposare non è una cattiva idea. Domani deve essere sveglia presto, e andare a guadagnarsi la transenna, non che faccia differenza, ma deve provarci.

L’ingresso, l’arredamento della hall, e lo sguardo perplesso che le rivolge l’addetto alla reception le dicono che deve aver fatto le prenotazioni in uno stato di evidente esaltazione e sprezzo del senso della misura; d’accordo, era un albergo con ottimi giudizi e piuttosto vicino alla venue del concerto, ma avrebbe potuto evitare tutte quelle stelle. Improvvisamente pensa che sarebbe perfetto per la sosta di una notte di una rock-band che debba suonare al Coliseu, e con un sorriso più largo della sua faccia guarda fissa per 30 secondi buoni l’uomo dietro al banco, che elegantemente continua impassibile a spiegarle dettagli che non ascolta sugli orari della colazione.

Prende la chiave e si dirige verso la sua camera, un po’ divertita e molto imbarazzata; non è mai stata accompagnata da un inserviente così premuroso, che le porta la valigia e le sorride, come se uno di loro due fosse idiota. Il letto king-size le sembra fantastico, è grande più o meno come tutta la sua camera quando andava all’Università, e la finestra si affaccia sulla piazza dei Restauradores, con una balaustra ornata di eleganti arabeschi in ferro battuto.

Non spera davvero di addormentarsi, si sdraia e comincia a pensare al giorno dopo, il senso di solitudine, che si mescola alla crescente voglia di rivederlo.

Accende il tablet, e cerca qualcosa per ingannare il tempo e cercare di calmare il suo cuore, che sente scoppiare. Nella testa un pensiero strisciante, a cui non sa dare una forma, mentre le sembra di star per perdere definitivamente la forza di fermare la marea. Lo guarda nei video di un tempo in cui non lo conosceva. Canta in evidente stato di confusione, è giovane, e magrissimo, e non si regge in piedi e sbaglia le parole, gli accordi, e nonostante questo è irresistibile, salta una corda della sua chitarra e mentre lui se la avvolge intorno al collo, lei si sente soffocare.

Eccola, la domanda che non ha il coraggio di rivolgersi. Where is my mind.

 

 

04/11/2014, Lisbona

 

Ore 09.30 – The moth and the flame

L’éphémère ébloui vole vers toi, chandelle,

Crépite, flambe et dit: Bénissons ce flambeau!

Charles Baudelaire, Hymne à la beauté

 

Qualche ragazza è già seduta davanti alle porte della venue, quando arriva. Poi prende coraggio, comincia a presentarsi e scopre che alcune vengono dall’Inghilterra, altre dal concerto di Porto del giorno prima.

Si mette seduta in terra anche lei, ci sono tantissime ore davanti, e ci sono persone da conoscere e sigarette da fumare e discorsi vuoti, ma divertenti da ascoltare. Storie di colpi di fulmine e storie di teste più sballate della sua, ma come fargliene una colpa. Se c’è qualcuno che spinge al limite, è Brian. Qualche volta lo salti, e riesci comunque a non perdere l’ironia e ridere di te stesso, qualche volta no.

Man mano che passa il tempo, si sente sempre più estranea a tutte quelle persone, e forse non hanno che la musica dei Placebo, in comune. Lei non riesce ad avere niente della loro brillantezza, non è bella, né divertente, non parla in un modo che le staresti a sentire per ore. Non sa parlare l’inglese come loro, tanto in ogni caso dubita che qualcuno avrebbe voglia di ascoltare la sua vita, né quella di prima, né tantomeno quella dopo di lui.

E comunque, alla fine, i cancelli si aprono e lei si trova ancora davanti a quel microfono, una seconda fila che le permette se vuole di far finta di non essere lì.

Quando Brian entra, però, non ci sono più alibi. Si è tagliato i capelli, li tiene con il gel dietro alle orecchie e non riesce nemmeno a tenergli gli occhi addosso, quello che vorrebbe fare davvero è buttarsi sulle ginocchia, che non la tengono più. Le sembra bello come un Dio. Ma è sicura che quell’impressione è solo il riflesso nella sua testa delle migliaia di foto che ha visto, scattate quando lui era bello davvero. Lo sente cantare, e vorrebbe piangere, ma sa che quella voce è solo l’eco nelle sue orecchie, di quando nelle canzoni ci metteva l’anima e cantava per guarire sé stesso. Ed è sicura, che se ne sarebbe innamorata anche se fosse stata un uomo, perché non è possibile catalogare il fascino di quel viso e la luce di quegli occhi secondo nessuna regola prestabilita. Un fascino che è quasi tutto nel dolore di quel ragazzo, ormai uomo, che non riesce a nascondersi nei suoi occhi troppo chiari e si affaccia prepotente, un dolore che ti entra dentro e ti fa bene e male come la più bastarda delle droghe e ti attira e ti brucia, come una falena, che diventa cenere per una fiamma qualunque, credendo di fare l’amore con il sole.

 

Ore 00.20 – The crawl

Don't go and lose your face

at some stranger's place

and don't forget to breathe

and pay before you leave

 

Si gira qualche volta a guardare le ragazze che conosce, e capisce di non essere la sola vittima, quella sera.  Così, quando finisce lo spettacolo – è stato uno show grandioso, testi dimenticati e chitarre sbagliate e la solita setlist e le solite frasi di un cantante stanco, e nonostante questo, grandioso – si trattiene con loro, e aspettarli per farsi firmare qualsiasi cosa e portare a casa almeno quello, tutto il resto rimane per i sogni.

Decidono di provarci, al massimo avranno bevuto una birra di più e fumato altre mille sigarette insieme. Dopo nemmeno un’oretta, in cui ancora i loro occhi brillano per il concerto e parlano e ridono a ruota libera, una figura piccola, infagottata in una felpa grigia, con il cappuccio alzato, fa per uscire e infilarsi in una macchina. Qualcuno lo chiama, e in quei pochi secondi sta già per perderlo, perché appena capisce chi è, lui è già di spalle, pronto ad entrare nella vettura, la mano sullo sportello.

Lei non lo ha visto. Brian non l’ha vista. Brian non ha nessuna voglia di fermarsi, non ne ha motivo. Poi pensa che quella sera il concerto è stato grandioso - pieno di errori e chitarre sbagliate e la solite canzoni e le solite frasi che tutti conoscono a memoria, ma comunque, grandioso – e ha avuto da quel pubblico molto più di quanto loro abbiano avuto da lui, e si gira.

Si prepara a dare quello che a lui costa tantissimo, ma è un prezzo che non si può permettere sempre di far pagare a qualcun altro. Le ragazze si avvicinano incredule, mettono booklet e braccia da firmare e urla troppo acute e occhi scintillanti su volti pallidi sull’altare sacrificale, che lui ha preparato loro nello stesso momento in cui si è girato e ha sorriso.

Lei rimane appoggiata ad una macchina, parcheggiata sul marciapiede opposto, guarda quella bocca piegata in un sorriso che è solo di Brian, che fa venire voglia di abbracciarlo e proteggerlo, senza un motivo, mentre in effetti ti sta prendendo tutto, tutto, ma te ne accorgerai solo dopo. Cerca disperatamente di trattenere i ricordi che ha di lui in quella stanza, ma sente che sta per arrivare un uragano che la lascerà senza più niente.

“Non andare, qualunque cosa, non andare”.

Si vede camminare verso Brian come se fosse ancora lì, sul marciapiede, al sicuro, dove lui non può trovarla, non può nemmeno vederla. Si vede tirare fuori un CD e porgergli la copertina, in mezzo ad altre già tese verso le sue mani. “What’s your name?”, le dice Brian. Lei scuote la testa, e non riesce a parlare. Si mette una mano sulla bocca, mentre cominciano a scendere le lacrime più salate che ricordi, mentre deve stringere gli occhi per non perdere la faccia e farsi rubare tutta la dignità che le resta. Niente. Non le rimane niente, mentre chiude la copertina e la rimette a posto. Un’ombra passa sul volto altrimenti immobile di Brian, ma né lei né nessun’altra la notano, perché lui si è allenato tutta la vita a mettere in mostra solo quello che gli altri si aspettano, e ora tutti si aspettano che quel rituale pagano si compia senza sbavature.

Lei alza la mano e apre il palmo, dicendo che è tutto ok. Si costringe a sorridere, si gira e comincia a camminare, e poi a correre sempre più veloce, finché non gira l’angolo e non vede più quell’assurda patetica ragazza, che piange appoggiata ad un macchina.

 

 

Ore 00.50 – Hold your breath

Hold your breath and count to ten
And fall apart and start again.

 

Finalmente si ricorda di respirare. Lo fa lentamente, mentre cammina nel corridoio verso la sua camera. Ora il letto king-size non le sembra così accogliente, e sente la testa vuota mentre fa il percorso inverso e si ferma davanti all’ascensore, e lo aspetta per scendere giù a prender qualcosa da bere. Lo aspetta così tanto, che fa in tempo a darsi della stupida mille volte. Un milione di volte. Alla fine arriva, entra e continua la sua discesa nel nulla di quella serata maledetta.

Quando risale, non saprebbe dire se è ubriaca di alcool o di dolore. Ma lo è, tanto che non le sembra strano che, quando si ferma ad un piano dove è stato chiamato da qualcun altro, ci sia Brian fuori dalle porte, lo vede, ma le sembra solo un altro ospite che ha bisogno di qualcosa di forte per dormire, quella notte.

Brian che chiude gli occhi un attimo, nel vederla, ed espira profondamente. Entra, la prende per una mano, e l’aiuta ad uscire. La tiene per le spalle, mentre si scusa di qualcosa che lei non capisce. Le parla, e lei per la prima volta non riesce a capirlo. Parla veloce, a voce bassissima, e riesce a registrare solo qualche parola.

..sorry,

shame…

…lie.

 

 

Ore 02.10 – Falling free

…until the Universe is done

and the course of Time has run.

Flash.

Lenzuola arrotolate.

Uno schiaffo.

Un bacio, lungo come tutto il tempo.

Un sorriso, il solito sorriso perfetto.

Uno sguardo che la manda in pezzi.

Ferite che riprendono a sanguinare.

…so you come undone.

 

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Capitolo 4
*** Edinburgo ***


 

28/02/2015, Edinburgo                               

 

Ore 20.45

                                                                                                                                                             I dream by day

and choke myself at night.

The Mirror Trap

 

 

E’ incredibile, che si sia trovata mille volte a sognare davanti allo specchio, a provare make up e aggiustarsi i capelli, e quando si ritrova davvero davanti al palco, abbia appena preso così tanta acqua e freddo, da ispirare soprattutto una gran tenerezza, se andrà molto bene.

Aspettare di nuovo che cominci il concerto, in una città che non è la sua, sola, ma sempre meno stupita di trovarsi in situazioni e con persone, così differenti da quelle a cui era abituata… quell’atmosfera le è mancata così tanto, ma se ne accorge solo quando, dopo una breve corsa in quella sala un po’ deprimente, si posiziona di nuovo davanti alle ragazze in transenna, pigiata abbastanza da sentire il calore delle persone a fianco, ma senza che questo le dia davvero fastidio, dopo tutto il vento gelido che ha preso nel pomeriggio.

 

Non c’è niente di nuovo, in nulla di quello che sta per accadere, a parte che è riuscita perfino a godersi l’opening act dei Mirror Trap; è tranquilla, o forse no, è euforica, ma si sta abituando, e quello stato alterato di coscienza, in cui le sembra di sentire e vedere tutto quello che accade con più intensità, con il tempo che scorre in maniera diversa dal solito, sta diventando la sua comfort zone.

 

E ora, fa finta di non sapere quello che sta per accadere e pensa ad una ipotetica nuova scaletta. Le piacerebbe tanto sentire una canzone proibita come Nancy Boy. Una ipnotica come Pure Morning. Una iconica come Protège-moi, e una epica come Sleeping with Ghosts. Una filastrocca facile come English Summer Rain, ed una confessione difficile, come Bosco.

Vorrebbe il mullet, ma si accontenterebbe anche dei capelli spettinati di Angkor Wat. Vorrebbe vederlo truccato e vestito nel tubino di Brixton ’98.

Le piacerebbe vederlo sfatto e bellissimo, rotolarsi in terra suonando l’armonica, come 10 anni prima, senza che per questo lui debba mai morire.

Magari, sarebbe bello averne solo una, musica e parole mai sentite. Sarebbe bello se lui, almeno per una volta, l’assolo di chitarra di The Bitter End lo facesse inginocchiato di fronte a loro, e non di spalle.

 

Invece, il concerto dei Placebo inizia come è sempre iniziato, in tutti i concerti a cui ha assistito, con quella canzone, che parla di rinascita e che non aveva mai particolarmente sentito sua. Ma ora, è quasi automatico che l’attacco di B3 coincida con una scarica di adrenalina, che si trasforma quasi subito in energia, e nasconde lo squallore di quella specie di grande palestra e la farà uscire, come sempre, con la paura di non poter assistere di nuovo a quel concerto.

 

Quando sente I Know, è completamente ipnotizzata dalla musica, e da quelle parole, che disegnano il Brian di 20 anni prima in maniera così perfetta e vera, che si stupisce che lui si senta a suo agio nel cantare quella, ma non Nancy Boy.

Ma nella seconda strofa, Brian gioca a fare il moralista, mentre lei pronuncia le parole originali e lo guarda sorridendo e agitando il dito indice, mimando “wrong lyrics” con la bocca.

Brian, che mentre canta sembra non vedere nulla, incrocia i suoi occhi solo un istante e poi li rivolge di nuovo sulla folla, ma gli scappa un sorriso, che vale tutto quel viaggio.

 

 

 

Ore 23.10

Drug (It’s Just a State of Mind)

Duran Duran

 

 

Matt ce la mette tutta, ed è stato salutato con più applausi di quanto fosse lecito attendersi.

Brian pensa stancamente che sta andando bene, visto che, in fondo, ancora si limita a eseguire meccanicamente le tab, e una drum machine coperta da una sua foto avrebbe più o meno lo stesso effetto.

Ma lui, è ancora piuttosto seccato. Soprattutto, di non essere riuscito a evitare il colpo. Lo sapeva benissimo, che sarebbe successo, e ciò nonostante sente che l’ha colpito più di quanto si aspettasse. E sente che quel senso di vuoto, quella specie di voragine che si apre ancora quando abbassa la guardia, non dovrebbe essere lì.

Steve era sempre stato un accessorio di lusso, nel gruppo.

Un tassello che fin dall’inizio aveva fatto fatica a trovare il suo posto nel puzzle. Un puzzle che era già completo, solo con Stef e Brian, che invece si erano perfettamente incastrati da subito, contro ogni aspettativa, lui con mille spigoli, l’altro pronto ad adattarsi, e a completarlo.

Un miracolo si imperfezione che non aveva bisogno di altro, di altri, mai.

Quindi, perché aveva fatto di tutto per far sentire il ragazzo protetto, e importante, e perché lo aveva trattato con tanta attenzione, e condiscendenza?

Il nostro Sunshine. Il mio Raggio di Luce.

Aveva illuminato per un attimo l’oscurità che si era creata dentro di lui, dopo l’addio dell’altro Steve. Un attimo solo, abbagliante, perché non se l’aspettava, non era protetto, e gli aveva fatto bene, finché non si era accorto che stava abituandosi a quella luce, e questo non era, non doveva, essere possibile.

Brian non deve dipendere da nessuno. Non vuole diventare di nuovo quello che subisce le regole che qualcun altro ha stabilito, in amore, in amicizia, nel lavoro. Ha giurato che non deve accadere mai più, deve essere lui a decidere i tempi e i modi e i confini, di qualunque rapporto che lo coinvolga.

Ecco perché Steve se n’è andato. Di chi sia stata realmente la decisione, in quel momento non ha importanza, l’importante è che sia di nuovo padrone di ogni dettaglio nella vita del gruppo, e nella sua vita.

Padrone se vuole di spegnere per sempre qualunque luce dentro di sé, padrone di eliminare qualunque possibilità che qualcuno cerchi di nuovo di guarirlo.

Lui non vuole guarire. Lui vuole solo avere un po’ di tregua, ogni tanto, dalla paura di quel buio, ma non vuole che il buio vada via. E non vuole nessuno, che guardi in quel buio, per dirgli che lo aiuterà ad uscirne.

Fanculo. Alla fine, è stato lì tutta la sua vita, e non può che essere fatto della stessa cosa di cui è fatto Brian.

Di niente. Niente assoluto. Almeno per un po’. Solo un altro po’. E poi uscirà da quella stanza, e se sarà fortunato non incontrerà nessuno fino al tourbus.

Sente bussare alla porta, oppure è nella sua testa? “Brian?”. Stef. Lo dice senza riuscire ad emettere un suono.

“Brian. Ti aspettiamo, per andare via”.

“Vi raggiungo.”

Qualche secondo di silenzio, forse Stef se ne è andato.

Strano, pensa Brian. Un pensiero veloce e doloroso, che nella sua mente è cresciuto come un’onda, che si abbatte con violenza, e poi si ritira, lasciando la terra nuda, e ancora incredula, che l’acqua che l’ha sempre accarezzata possa averla distrutta, in un attimo solo.

“Ti aspettiamo.”

 

 

 

 

 

 

Ore 23.50

 

Because a heart that hurts

Is a heart that works.

 

 

E’ più di un’ora che sta cercando di andarsene di lì.

Tutti i taxi sono occupati o prenotati o scomparsi da qualche parte, non saprebbe dirlo.

E ora, è anche senza cellulare, perché la sua batteria ha deciso di rendere omaggio alla legge di Murphy.

Non può fare altro che entrare di nuovo nel Corn Exchange e sperare di incontrare qualcuno che possa aiutarla.

Attraversa un lungo corridoio, alla ricerca degli uffici o del bar o di qualsiasi altro posto possa ospitare un essere umano, possibilmente di madrelingua e possibilmente bendisposto verso una sconosciuta in difficoltà.

 

Finalmente vede qualcuno, ed è l’ultima persona che si aspettava di trovare in quel corridoio, illuminato da una luce bassa e un po’ angosciante.

Brian non ha bevuto altro che la sua solita tisana durante il concerto, ed era assolutamente tranquillo. O molto bravo a simulare. Ora sembra un po’ stordito , è appoggiato al muro con tutto il corpo e tiene gli occhi semichiusi, i capelli spettinati e ancora umidi.

Potrebbe essere solo stanchezza. Ma quando lei lo chiama, e lui la guarda, sembra che ci sia qualcos’altro. Lei apre e chiude la mano come una bambina per salutarlo, e lui alza la sua, che ricade subito pesantemente lungo il fianco.

“Sto andando… devo tornare con gli altri.”

 

Lei tace, un po’ imbarazzata.

“Perché sei ancora qui?”

“E’ impossibile trovare un taxi, è più di un’ora che ci provo, sto morendo di freddo e non ho più batteria. Ecco perché sono ancora qui.”

Occhi ancora chiusi.

“…facciamo così. C’è una macchina che può accompagnarti. Ma mi fai stare un po’ fuori di qui.”

 

 

 

                               Sei nell’anima

E lì ti lascio per sempre

Sei in ogni parte di me

Ti sento scendere

Fra respiro e battito

Gianna Nannini

 

 

Si dice che forse Brian, semplicemente, non ha voglia di vedere gli “altri”, chiunque siano. Annuisce brevemente, e lo segue fino alla fine del corridoio, che sbuca in un cortile, dove un uomo, alla guida di un van grigio chiaro, aspetta, mentre digita qualcosa su un cellulare.

Si siedono l’una di fronte all’altro, e lei fa il nome del suo albergo, sono solo pochi minuti di viaggio nel buio della città,spazzata da un vento gelido e abbastanza deserta.

Per fortuna la macchina è riscaldata e può dimenticare il freddo che c’è la fuori.

Ma è l’espressione di Brian che pian piano diventa più lucida a metterla a disagio. Lui guarda fuori e non parla, perso in qualche pensiero, che disegna piccole rughe sulla sua fronte.

Ogni tanto Brian si gira verso di lei e le fa un sorriso breve, ineccepibilmente educato, ma per il resto sembra assorbito da qualcosa, in cui lei non c’entra.

“Brian. Qualche problema?”

Brian inclina la testa e le lancia uno dei suoi sguardi sprezzanti. “Nessun problema. E grazie, ti ho solo offerto un passaggio, non è necessario ricambiare il favore con una seduta di psicanalisi.”

Lei china la testa e sorride, sarcastica. “Ti farà piacere sapere che non girano voci infondate sul tuo carattere. Le maldicenze sono sempre spiacevoli”. Un veloce sguardo di sufficienza, e Brian torna a guardare fuori.

 

Probabilmente non c’è mai stato un momento, in cui ha avuto più chiaro il fatto che lui non è suo, in nessuna piccola parte. Non lo è di più, solo perché è una presenza costante da molti mesi nella sua testa, o perché si sbatte in continuazione con le loro canzoni e perché è andata a così tanti concerti, o perché invece lei lo sente in ogni parte di sè.

 

O perché non ha mai avuto davanti qualcuno, da cui sia stata più attratta in tutta la sua vita, per cui la testa prima ancora che il corpo sia andata così fuori giri e che sia riuscito a rovesciare d’un colpo tutte le regole, che gli altri usano per governare il gioco.

A lui non servono.

Lei, invece, si sente già nuda.

 

 

And it all breaks down

At the role reversal

Got the muse in my head

She’s universal

Spinning me round

She’s coming over me

 

 

Sono arrivati, e quando salgono in camera, succede tutto molto più velocemente di quanto vorrebbe.

Si spogliano l’un l’altra, e si ritrova sul letto, supina, con la testa leggermente sollevata da un cuscino, e ciononostante si sente la testa vuota come per mancanza di ossigeno, come se stesse sotto 10 metri d’acqua e non riuscisse a tornare su, e vedesse il mondo allontanarsi.

Brian è a cavalcioni sul suo bacino, l’espressione sembra distante, ma non può dirlo con certezza, ha il viso e gli occhi leggermente coperti dai capelli, che gli ricadono sulle guance.

“Se non vuoi continuare, è il momento di dirlo.”

Lei scuote impercettibilmente la testa, non dice niente, e gli poggia le mani sui fianchi. Come se in quel modo potesse trattenerlo lì per sempre. Ma Brian deve giudicarlo un contatto troppo intimo, comunque più di quello che possa sopportare, perché le prende le mani, e tenendole tra le sue, le porta sopra le loro teste, e si sdraia sopra di lei. Sente la sua erezione, ma non può fare nulla, non è molto pesante, ma è il modo in cui la guarda, ad essere insostenibile.

 

Cercherebbe di convincersi che è reale, se non fosse che la mente è fottuta già da un po’, e non riesce a staccare gli occhi da quei capelli, sul viso di lui, che sfiorano il proprio.

Conosce l’odore di quello shampoo, e si ritrova improvvisamente in un’altra stanza, in un altro letto, con la luce di Parigi che filtra dalle tende.

Ora Brian tiene le sue mani imprigionate in una delle sue, e con l’altra finalmente si scopre il viso, portandosi le ciocche dietro le orecchie, e si abbassa di nuovo sul viso di lei, ma non la bacia.

La accarezza, ma non la bacia.

Entra in lei, ma non la bacia.

Porta la mano sulle sue labbra, e lei sente il calore delle sue dita in bocca, e lo sente dentro, con più dolore di quanto si aspettasse, ma sa che lui non è davvero lì.

 

Poi Brian le lascia le mani, alza la testa e chiude gli occhi. Per un attimo sembra perdere il controllo e non reagisce quando lei si avvicina e cerca la sua bocca. E’ bello sentire le labbra di nuovo tra le sue, accarezzare i suoi denti con la lingua, per cercare un varco.

Ripensa a quando un paio di ore prima l’ha visto sul palco, durante i momenti finali del concerto, mentre applaudiva al pubblico per salutarlo. Si è scostato i capelli dal viso, e ha sorriso. Proprio come una donna, e questo l’ha paralizzata per un attimo.

Una donna. Non sono i capelli, e non è l’eyeliner. E’ che mentre ti sta scopando, tu hai una dannata voglia di invertire i ruoli, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Nonostante il fatto che lo senti ancora muoversi in te e stai per venire, ed è già finita, e non è stato nulla, ti rimarrà solo questo.

 

Lo guarda spostarsi e sdraiarsi accanto a lei, perso di nuovo. Si accende una sigaretta e respira piano tra una boccata e l’altra. “Se volevi essere una groupie… beh, direi che ci sei riuscita.”

“Sbagliato. Ho avuto il tuo corpo, ma volevo la tua anima, che non ho visto.” Sorriso amaro, un altro tiro.

“Sbagliato. Probabilmente ora sai come mi sono sentito per tanto tempo, dopo le esibizioni, dopo i tour infiniti, dopo i photoshoot, dopo le interviste e dopo tutto quello che dovevo farmi per non morire. Usato da sconosciuti per il proprio personale piacere, senza aver avuto indietro niente, per cui ne valesse davvero la pena.”

Altro sbuffo di fumo. Le porge il pacchetto stancamente. “Se ora ti senti male, se domani starai ancora peggio... hai avuto un pezzo della mia anima”.

 

Lei fa quello che lui si aspetta, e si accende una sigaretta. Tace per un paio di lunghissimi minuti, in cui assapora il tabacco, e assapora il dolore, che sente scendere piano piano nel sangue come un liquore forte, aspettando che le dia alla testa.

“Brian.” Si alza da letto, e comincia a vestirsi. Non per la vergogna di essere nuda, ma per prendere ancora tempo. “Forse siamo sconosciuti come dici, o forse no. Comunque, visto che ci stiamo dicendo addio, è stato un piacere conoscerti, Brian.”

Discussioni infinite su quegli occhi, che ora illuminano il buio della stanza, o perlomeno quello che li divide, più di quanto potesse credere possibile.

 

“Il piacere è stato mio. Ora, vuoi dirmi come ti chiami?”

“Ma lo sai. Mi hai autografato e dedicato il tuo libro. “

Sorriso compiaciuto di lui, mentre guarda la sigaretta tra le proprie dita.

“E comunque, hai torto. La cosa più stupida che abbia mai fatto per te non è il tatuaggio.”

La guarda interrogativo, come a dire, nemmeno io posso essere stato così bastardo.

“La cosa più stupida è stata comprare quel libro, pieno di errori.”

Brian ride. “E quindi, immagino che ora vorresti essere risarcita.”

“E quindi, ora me ne vado. Esco da questa stanza e tu farai la cosa più ragionevole. Mi dimenticherai in un attimo.”

Lui distoglie gli occhi dai suoi per una frazione di secondo, e poi torna a fissarla.

“Ci posso stare, ma ti chiedo un favore. Quel giorno in cui ti innamorerai di qualcuno in maniera folle, irragionevole. Ti sentirai talmente fregato, da desiderare di essere quella persona, ancora più che averla. E lo troverai così simile a te, o a quello che avresti voluto essere, da avere l’impressione di sentire i suoi pensieri e i suoi dolori, come se fossero i tuoi. Pensa a me un solo momento, perché avrai un pezzo della mia anima.”

 

Brian scuote la testa. Vorrebbe fermarla mentre esce da quella porta, vorrebbe dirle che non succederà mai, e ringraziarla, perché sa che ci ha provato davvero.

Ma questo non sarebbe da lui.

Perciò, mentre la porta si chiude, fa quello che è normale per uno come Brian, gira la testa, e la scaccia dalla propria mente. E’ l’unico modo per far tornare le cose come devono essere, far tornare quel maledetto buio dentro, un buio caldo in cui sta bene, che non lascia passare quasi nulla del mondo esterno. Nessun Sunshine, nessun maledetto Raggio di Luce. Nessun contatto con nessuno. Solo buio. Quello che, senza che lui sappia più come o perché, lo tiene ancora in vita.

Per quello che vale.

 

 

 

01/03/2015, Roma                                        

 She'll take a tumble on you

Roll you like you were dice

Until you come out blue

She's got Bette Davis eyes

Jackie DeShannon

 

Certo che il giorno dopo è peggio.

E probabilmente, lo sarà anche quello dopo.

Prende l’aereo e torna a casa e riprende la sua vita normale, o comunque, è facile far credere di essere ancora scombussolata dal concerto.

Torna al lavoro, sorride a tutti, è allegra, anche se c’è molto ancora da sistemare, perché sia tutto passato.

 

Sorride, perché c'è una cosa che Brian le ha insegnato.
Quando ti senti in cima al mondo, e quando ti senti nella polvere, senza amici e senza amore.

Quando con lo spettacolo che devi inscenare tutti i giorni trovi la gloria,  e quando piove e fa freddo e siete più sul palco, che giù in sala.

Ti sentirai solo, anche quando sarai con lui, che ti rimane sempre accanto, a proteggerti da te stesso, e ti sentirai in colpa, perché ti sembrerà che i sorrisi che gli regali ogni tanto in cambio non siano abbastanza per meritartelo.

Ma non ci puoi fare niente.

Perciò, continua a suonare.

E alla fine, inchinati, sorridi, e alza le mani in segno di vittoria.

Peace, and love.

 

 

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