Il risveglio della fenice.

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


 Il risveglio della fenice.
 



Prologo
 
 


Devi ragionare in modo piuttosto freddo per essere forte. Altrimenti rischi di non riuscire a diventarlo e se non sei forte in questo mondo di merda non vai avanti.
 
— joesbad

 
 
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Le luci dell’arena brillavano nel buio, come stelle di fuoco. Le grandi impalcature poste a cerchio attorno al ring erano gremite di gente urlante, sudata ed emozionata. L’ultima prova del torneo sarebbe iniziata da li a poco; tutto sarebbe finito quando la luna sarebbe stata alta nel cielo.
Nelle celle sotto l’arena, dove la luce viva delle stelle non arrivava e tutto era celato dalle ombre, gli ultimi due superstiti del torneo attendevano che tutto finisse. I loro occhi analizzavano ogni cosa, ormai abituati al buio fitto. Nei corridoi dei sotterranei la puzza di terra bagnata era insopportabile e le piccole pozze ristagnanti era piene d’insetti. I ronzii erano come fucilate nel silenzio, che rimbombavano nelle orecchie dell’uomo e della donna sdraiati nelle celle. Piccole e veloci gocce d’acqua cadevano loro fra i capelli e sui vestiti costringendoli a rimanere svegli; le catene con cui erano legati i loro polsi e caviglie li tenevano fermi al suolo. La giovane donna lanciò un grido frustrato che echeggiò fra le sbarre e i cunicoli terrosi per molto tempo, prima di dissolversi nelle tenebre. Odiava essere incatenata. Detestava non poter almeno sgranchirsi le gambe prima dell’ultimo conflitto, come aveva fatto in quelli precedenti. A dire la verità non sopportava tutta quella faccenda, il fatto di aver perso due dei suoi compagni nelle prove precedenti e di non sapere se sarebbe sopravvissuta a quest’ultima. Ma lei era forte, non voleva lasciare a qualcuno il piacere di ucciderla perché quella notte lei sarebbe uscita vincitrice da quell’arena e avrebbe riabbracciato la sua famiglia, nel suo mondo. Non sarebbe stata più una preda. Lei sarebbe stata la fenice. Sarebbe stata la prima sopravvissuta, dopo molte generazione perdute in quei giochi, che ne sarebbe uscita vincitrice. Avrebbe poi riavuto il suo trono, levandolo con la forza ai governatori di Kitia se c’è ne fosse stato bisogno. Avrebbe portato con se anche la sua famiglia, se tutto fosse andato come previsto. Il fuoco sarebbe tornato ad ardere nelle terre attorno alla capitale e assieme a lei sarebbero risorti gli altri tre elementi. Fuoco, Aria, Acqua e Terra sarebbero tornati a regnare sulle terre che portavano i loro nomi.
Da troppo tempo ormai gli elementi venivano schiacciati dal potere del governo che, usando come scusa l’antica guerra combattuta dagli antenati, si divertiva a torturare e cacciare davanti a tutto il paese quattro membri delle famiglie fondatrici, gridando al vento la pericolosità dei loro doni.
Se solo ripensava a come tutto era iniziato le veniva da piangere. Lei era a casa, con sua figlia tra le braccia, aveva appena ventitré anni. Non conosceva neppure il mondo degli elementi. A un tratto, nel bel mezzo della notte, si era svegliata con la sensazione di vuoto nella pancia e quando aveva aperto gli occhi si era ritrovata in un grande salone. Le era parso così tutto surreale: l’esistenza di quel nuovo mondo, l’addestramento con le armi, la storia delle quattro terre e della ribellione dei quattro re, guardiani degli elementi, contro il governo corrotto del popolo. Le  promesse che le avevano fatto dicendole che avrebbe presto rivisto sua figlia. Tutte bugie. Si era ritrovata nell’arena con tre compagni e ora gliene restava solo uno. Chissà se sarebbero sopravvissuti?
Mossa dalla rabbia la donna gridò ancora, ma questa volta talmente forte che le deboli zolle di terra che componevano il soffitto le crollarono addosso. Dal palmo della mano le scaturì una fiamma tanto alta e rovente che le catene si squagliarono e lei fu libera di muoversi. Con forza spinse la schiena contro le sbarre e abbandonò il capo all’indietro. Quel giochetto le era costato non poca forza e dolore, ma ne era valsa la pena: ora poteva muoversi.
« Sei sempre troppo avventata, Kira. » La voce del suo compagno di sventure animò il rinnovato silenzio.
Kira chiuse gli occhi e respirò piano, a fondo, concentrandosi sui ricordi che le erano rimasti per non dover pensare al dolore. Rivide la sua bambina, la sua piccola. Ricordò gli occhi grigi e il sorriso contento di suo marito. Una altra fiamma, non controllata questa volta, le volteggiò fra le dita e poi volò verso le zolle di terra dove morì. Aidan aveva ragione, lei era avventata e questo le procurava spesso guai ma stavano per morire e almeno per quel poco tempo rimastole voleva stare bene. Voltò il capo verso la cella adiacente e i suoi occhi catturarono la sagoma distesa a terra. La pelle scura del suo compagno di sventure si confondeva con l’ombra, ma gli occhi neri parevano brillare di luce propria. Kira si chiese a cosa Aidan pensasse mentre allungava le mani e fondeva anche le sue catene. L’uomo s’issò a sedere e soffiò una nuvoletta di condensa dalle labbra; probabilmente doveva fare molto freddo li ma, essendo la discendente dei guardiani del fuoco, Kira non poteva saperlo. La sua temperatura era sempre molto alta e si abbassava solo quando stava male, molto.
« Ci farai uccidere lassù se non ti controlli. »
« Brucerò l’intera foresta se servirà a uccidere tutti quelli che ci danno la caccia. Così il governo capirà con chi ha a che fare. » Sibilò la giovane, passandosi una mano fra i lunghi capelli color pece.
Socchiuse le palpebre, mentre tendeva le orecchie in direzione dei cunicoli esterni. Un rumore strano aveva iniziato a invadere l’aria  e l’aveva messa sull’attenti. Era un rumore calcato e veloce, tintinnante. I carcerieri del governo stavano arrivando. Passandosi le mani sudate sui pantaloni Kira si alzò e lo stesso fece Aidan. Le guardie non si sarebbero accorte di nulla perché pochi minuti prima delle prove le manette scattavano da sole e venivano risucchiate in un tubo buio, scomparendo nel nulla. La giovane donna lanciò un’occhiata veloce all’amico, che come lei aveva irrigidito le spalle e si era messo allerta; Kira sperava solo che quella non sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe visto. Si era affezionata ad Aidan, voleva che regnasse accanto a lui dopo la sua vittoria; almeno, lei sperava di vincere.
« Qualunque cosa accada in quella dannata foresta, Kira, faremo quello che dobbiamo per portare onore alla nostra casata, giusto? » Le rivolse uno sguardo brillante.
Kira non sapeva se quelle parole fossero uscite dalla bocca dell’amico perché tentava di farsi coraggio o perché ci credeva realmente. A lei non importava. Gli sorrise annuendo e allungò una mano verso la cella dell’amico, stringendo le sue dita fra le proprie. Poi sospirò e si voltò nella direzione che avevano imboccato le guardie; si stavano avvicinando velocemente. Quando giunsero davanti a loro poggiarono a terra delle borracce e due spade. Questa volta non c’era nessun’arma proveniente dal loro mondo, com’era successo nelle prove precedenti; questo significava minori probabilità di successo.
« Godetevi il gioco », ghignò una guardia.
Kira lo studiò con gli occhi e si gettò contro le sbarre; l’uomo indietreggiò spaventato. La giovane fenice digrignò i denti e poi si dipinse un ghigno sulla faccia.
« Tu sarai il primo che ucciderò stasera » sussurrò con voce fredda e sibilante; quella che le veniva fuori quando voleva spaventare qualcuno.
L’uomo sbiancò, impaurito dalla freddezza di quelle parole e dall’espressione gelida dipinta sul volto della giovane. L’osservò accucciarsi per raccogliere la propria spada e la borraccia poi, per essere più sicuro di non correre pericoli, adagiò la propria mano sull’elsa della spada.
« Oh forse sarò io a uccidere per te, fenice. » La voce della guardia tremolò un poco mentre pronunciava quella parola.
La guardiana rivolse il palmo della mano destra verso l’alto e dalla pelle comparve una fiammata. La luce le illuminò il volto creando strane ombreggiature in grado di rendere i suoi tratti solo più rigidi. Gli occhi di ghiaccio che lei possedeva brillarono nel buio come le lame di due coltelli affilati, le labbra sottili s’incurvarono verso l’alto e le sopracciglia s’inarcarono.
« Ricordati, una fenice risorge sempre dalle proprie ceneri. » E si legò la cintola della spada sulla vita, poco prima che dall’alto arrivasse il suono di un corno.
Kira prese fiato e osservò le guardie scomparire nel buio, mentre gli occhi di Aidan le si puntavano addosso. Oppure era stata a guardata da lui per tutto il tempo? Bah, non poteva saperlo. Lei inarcò nuovamente le sopracciglia, togliendosi il sorriso dalle labbra.
« Che c’è? » La sua voce era squillante e gioiosa, quasi l’aver spaventato quella guardia l’avesse resa felice. In effetti era così. « Che ho fatto? » Rise divertita, armeggiando con la borraccia.
« “Una fenice risorge sempre dalle proprie ceneri” ? » Aidan scoppiò a ridere, ma non era una risata del tutto tranquilla. Era testa, c’era qualcosa che lo turbava.
Kira si passò una mano fra i capelli e si avvicinò alle sbarre, stringendole fra le dita. Un brivido le percorse la schiena quando una goccia d’acqua le solcò la schiena. Scosse il capo e si morse il labbro inferiore, tentando di non perdere il pensiero che le vorticava in mente; non doveva lasciare che una semplice gocciolina la distraesse.
« Qualcosa ti turba, Aidan. Cos’è? » Domandò con dolcezza.
« No. Non mi turba nulla, Kira. » Replicò repentinamente l’uomo, avvicinandosi alle sbarre. Gli occhi scuri brillano ancora una volta di luce propria, mentre le braccia massicce s’incrociavano e gonfiavano. Non era strano vederlo in quella posizione, pensò Kira, ci si metteva sempre quando qualcosa non andava oppure stava pensando. « Ho solo paura. »
« Tu? Paura? » La giovane guardiana del fuoco non poteva credere alle sue orecchie. Aidan, il più forte e coraggioso della sua squadra, aveva paura?  Allora è vero che anche i grandi tremano, ogni tanto.  « Sai, a casa ho una famiglia che molto probabilmente mi starà cercando, come la tua. » Kira affilò lo sguardo e sorrise lievemente. Sul viso di Aidan si era aperto un largo sorriso, e gli occhi erano divenuti lucidi. L’uomo si passò una mano sulla pelata e la fece sostare per qualche secondo sugli occhi, in modo da dimenticarsi del mondo e perdersi nei ricordi. Kira sapeva che era così, anche lei lo faceva spesso.
« Raccontami di loro » chiese mormorando.
Aidan le ricolse uno sguardo carico di gratitudine e dolcezza, poi cominciò:  « Mia moglie si chiama Elizabeth, ha i capelli corti, molto corti, e, tu non ci crederai, sono azzurri. I suoi occhi sono grandi e profondi di un intenso nero opaco. E il suo sorriso, mamma mia il suo sorriso, è la fine del mondo. » Ridacchiò lievemente. « Poi c’è mia figlia, Roxenne. Oddio, lei è il terremoto di casa. », questa volta la sua risata echeggiò fra le pareti di terra con forza. « Ha solo due anni ma è già riuscita a rompere di tutto. E’ adorabile, probabilmente ti piacerebbe se la conoscessi, sai? » Rivolse un occhiata a Kira, che ascoltava tutto silenziosamente. « Ha i capelli ricci e gli stessi occhi della madre… è la mia bambina. Non posso pensare che forse non le rivedrò mai più. » E nuovamente la mano andò a coprirgli gli occhi.
Kira chiuse le palpebre e ispirò a fondo, profondamente. Capiva benissimo cosa provava Aidan e questa cosa la stava distruggendo. Gli occhi d’ambra di sua figlia le apparirono come un flash distorto; erano mesi che stava in quella dannata terra e ormai i ricordi cominciavano a scemare. Non sopportava l’idea di perderli, di dimenticarsi di tutto. Lei voleva ricordare il profumo che usava Lucas, suo marito. Non voleva dimenticare la risata divertita della propria figlia.
« E tu? Com’è la tua famiglia? » Risvegliata da quella domanda inaspettata Kira aprì gli occhi e puntò lo sguardo davanti a se. Il vuoto avvolgeva ogni cosa, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine.
« Ecco… Lucas, mio marito, è un’atleta. Gli piace il basket. » Sorrise a Aidan, che a sua volta ricambiò. « Ed è un vero testardo, sul serio. A casa è lui il tutto fare e la maggior parte delle volte, quando diventa orgoglioso e decide di non chiamare gli idraulici o gli elettricisti combina dei disastri. » La giovane si passò una mano fra i capelli. Ultimamente le capitava spesso di farlo, era un modo per smaltire la rabbia e controllare le lacrime. Quelle sporche traditrici, lei non le aveva mai sopportate. Le aveva sempre trovate segno di debolezza e questa cosa non sarebbe mai cambiata. « Lui… » le scappò una piccola risata stozzata « mi manca così tanto. Lui e la sua altezza sproporzionata! » Purtroppo si stava dimostrando debole, perché piccole gocce salate le solcavano le guance. Le asciugò in fretta e poi continuò: « Mentre Lexi è così piccola, indifesa… era appena nata quando mi sono ritrovata catapultata qui. Di lei ricordo solo la risata e gli occhi. Ha due occhi stupendi, sai? Non sono castani ma nemmeno color miele… sono ambrati. Io li adoro, perché sono uguali a quelli di Lucas. »
Sopra le celle un corno suonò tre volte, segno che la gara stava per ricominciare. Asciugandosi definitivamente le lacrime e staccandosi dalle sbarre Kira riacquistò la propria dignità e rizzò la schiena. I suoi occhi andarono a cercare la sagoma massiccia di Aidan che, con stretta sicura, stava estraendo la propria spada dal fodero. Kira non se la sentiva ancora di estrarre l’arma, preferiva usare i propri poteri; c’erano più possibilità di vittoria.
« Lunga vita, squalo.  » Recitò, sperando realmente in quello che diceva.
« Lunga vita, fenice. » Le sorrise Aidan, mentre sopra di loro una grossa botola si spalancava.
Kira guardò in alto, dove nel cielo stellato sorgeva la luna. Era pallida e brillante, come un gioiello o un occhio felino. Lei li avrebbe protetti, tentò di convincersi la donna, l’aveva sempre fatto. Col favore delle tenebre, e le forti grida della gente sugli spalti, gli ultimi due guardiani s’issarono fuori dalle celle a forza di braccia e calci. Un vento leggero gli accarezzò la pelle facendo infreddolire il guardiano dell’acqua e tremare quella del fuoco. I due si guardarono qualche istante. Tante speranze erano riposte nello sguardo chiaro di Kira, pensò Aidan, così tante da essere impossibili da realizzare tutte. Lui sapeva che nessuno dei due sarebbe sopravvissuto a questa notte, perché erano stanchi e affamati entrambi; e le guardie del governo troppo ben armate in confronto a loro. La loro vita era appesa a un filo, ormai rotto.
« Per le nostre famiglie, le nostre figlie. » La incoraggiò lo squalo, facendo esplodere un’onda d’acqua dalle mani, che si riversò alle loro spalle. La fenice sorrise, facendo ardere una fiamma fin sopra le chiome dei grossi alberi, in modo che tutta l’arena avesse potuto vederla. La gente sugli spalti esultò, quasi quella fosse la prima volta che vedevano una cosa del genere avvenire in una foresta da loro curata.
Se dovevano morire, si disse Kira, almeno se ne sarebbero andati con stile.




Hello everyone!

Sbuco da un angolino, dietro il muro. Non vi dirò che questa è la mia prima stroia originale e che ho paura di fare un buco nell'acqua ecc...ecc..., non voglio usarla come scusa; perciò sarò diretta: l'idea vi piace? Che ne pensate di questo breve prologo? 
Per cominciare a farvi capire qualcosa delle casate dei guardiani vi farò un breve schema.
Ogni casata deve avere un proprio stemma, in questo caso si tratta di animali che riportano le caratteristiche di ogni "clan":


La Fenice per il fuoco.

Lo Squalo per l'acqua.

Il Gufo per l'aria.

Il Leone per la terra.

Ognuno di essi ha un potere diverso, e diverse abilità (ma questo lo capiremo/copriremo più avanti). Non mi dilungo troppo, ancora, perché è tardi ed è ora che io vada. 
Spero che vi sia piaciuto questo prologo e che seguirete la storia ^-^

Baci,

Isil.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Capitolo 1.
 
 


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La luce entrava dalle grandi finestre della mensa riversandosi sul pavimento bianco. Ogni tanto, quando a gente passava attraverso le lame di luce e i vassoi ne venivano colpiti, il riflesso era così fastidioso che mi costringeva a serrare le palpebre. Nell’aria aleggiava un odore forte e non ben identificato, e le risate della gente. Era tutto così statico in quella scuola che, di tanto in tanto, quando mi annoiavo dovevo ricorrere agli antichi mezzi di divertimento: dare fastidio agli sfigati, infrangere regole… godermi la vita.
Mi passai una mano fra i capelli chiari e analizzai la mensa con occhio vigile. Quel giorno nessuno stuzzicava la mia attenzione come nei precedenti. Non ancora almeno. Svariati gruppi stavano iniziando a riunirsi ai tavoli, le persone si sorridevano. Io non ci riuscivo più a sorridere; non da quando Ryan mi aveva tradita.
« Sai cosa penso? », sibilò Laila al mio orecchio, « Che Jenny sia una grandissima stronza! » Le guance le si colorarono di un rosso acceso, mentre le molteplici lentiggini che le ricoprivano il naso scomparivano sotto quel colore sgargiante.
Laila non era mai stata una tipa molto socievole, e questo lo sapevo bene, ma non potevo di certo negare che a volte esagerasse. Non capivo questo suo astio nei confronti di Jennifer Miller. Insomma, quella povera ragazza non le aveva fatto nulla di male a parte, forse, soffiargli sotto il naso l’incarico di organizzare il ballo studentesco. Ma chi ero io per giudicare? Se mai avessi dovuto farlo sarei stata l’ultima della fila.  Scuotendo la testa, mi voltai verso la mia amica e abbassai gli occhi. Laila era più bassa di me di dieci centimetri buoni; i capelli biondo cenere le arrivavano a metà schiena e gli occhi chiari risaltavano sulla pelle pallida. Si muoveva con velocità nei corridoi gremiti di gente,  come un ruscello che scorreva  fra le rocce astutamente, mentre ora, che stava seduta, si agitava sulla sedia come un’anguilla. Mi passai una mano fra i capelli biondi e le sorrisi. Risponderle sarebbe stata una causa persa. Lei era fatta così, nulla poteva farle cambiare idea.
« E sai cos’altro penso? Che sia ora che tu chiarisca con Ryan. » Lanciò un’occhiata furtiva a un gruppo di ragazzi sulla nostra sinistra.
Fra loro spiccava la testa fulva del mio ex ragazzo, Ryan Burton. I suoi occhi neri si alzarono nel momento esatto in cui posai i miei su di lui. Restammo a guardaci per qualche minuto, poi tornai a punzecchiare il mio polpettone – o almeno speravo fosse tale – nel piatto. Mi sentivo ancora addosso i suoi occhi, una presenza costante sulla nuca, che m’infastidiva molto. Sarei volentieri scivolata via dalla sedia e tornata sui miei passi, facendomi largo tra i suoi amici, per lasciargli uno schiaffo in piena faccia ma, per come la vedevo io, quel gesto gli avrebbe dato fin troppa importanza. Ormai la mia storia con lui era chiusa e non sarei tornata indietro. Certo faceva ancora male la ferita che mi aveva lasciato, ma rimaneva comunque una piccola cicatrice e nulla di più  Le briciole del mio passato potevano benissimo essere raccolte da qualche altra piccola vipera. La nostra scuola, di certo, non ne era a corto.
Grattandomi una guancia, raccolsi fra le mani un pezzo di pane –che le cuoche ancora si ostinavano a definire commestibile- e mi guardai attorno: in quel momento una ragazza del primo anno, con lunghi capelli rossi tinti, mi stava passando davanti. Presi la mira e lanciai. La pagnotta disegnò un arco sopra il mio tavolo e si schiantò contro la ragazza, che finì a terra colta di sorpresa. Una risata lasciò le mie labbra, seguita da quella acuta di Laila e del resto della mensa. La rossa si alzò, raccogliendo i libri e mi osservò; gli occhi castani ridotti a due fessure. Sostenni lo sguardo finché non riprese a camminare e una mano si posò sulla mia spalla. Roteando le iridi verso l’alto, gettai indietro la testa per osservare il viso di colui che mi aveva disturbato:  il professor Heyes, insegnate di ginnastica,  mi osservava con occhio critico.
« Perché non usi quel tuo braccio quando giochiamo a palla avvelenata, invece che per tirare cibo alle novelline? » Mi domandò sconsolato.
La presa sulla mia spalla era salda; i calli sulle mani strusciavano contro la pelle scoperta della cavicola; gli occhi chiari mi osservavano freddi. Staccai le sue dita da me e alzai le spalle, noncurante. Sapevo a cosa sarei andata incontro facendo quel lancio ma non m’importava; per un momento mi ero divertita, dimenticandomi della noia mortale che aleggiava fra quelle mura bianche.
« Perché non me lo dice lei, prof? »
« Scommetto che la preside sarà più contenta di spiegartelo al mio posto, Wolf. »
« Ah, mi mancavano le visite all’ufficio di Wanda! » Esclamai, allontanandomi dal tavolino con una spinta violenta che fece stridere le gambe della sedia.
Per qualche secondo nelle mura della mensa si udì un suono lungo e prolungato, agonizzante quasi, poi tutto cessò e gli occhi della gente si staccarono da me, tornando sui propri piatti. Heyes si avviò verso l’uscita della mensa con me alle calcagna. Mi voltai solo per fare l’occhiolino a Laila che ricambiò, con ancora lo spettro dell’ultima risata sulle labbra.
 


*   *
 


Dopo essere usciti dalla mensa, ed essere passati davanti a svariate aule, deviammo verso destra nel corridoio che portava nell’ala sud dell’istituto. La luce proveniente dalle grandi finestre mi accecò per qualche istante. Sbattei le palpebre frastornata, piegando leggermente la testa verso il basso. Mi concentrai sulle mie vans nere e i jeans stretti, e dopo qualche secondo il momento di cecità scomparve. Ultimamente mi capitava spesso, ma attribuivo a questo disturbo il fatto che mangiassi meno del solito. Era come se il mio stomaco, il mio corpo bruciassero tutto con una velocità talmente alta che avevo deciso di smettere di provare a ingerire qualcosa. Era inutile. Più mangiavo, prima assimilavo. Molte ragazze avrebbero pagato per un avvenimento simile, io no. Non che ci sputassi sopra, ma non riuscivo mai a sentirmi sazia; il cibo non era più una fonte di piacere, ma solo una necessità
« Sai, non è stato un caso che io fossi in mensa, Wolf. » Stava dicendo Heyes, mentre faceva scrocchiare le nocche delle sue mani. « La preside ti aveva già convocata. Scommetto che è per la discussione che hai avuto con la Kane, quell’arpia proprio non va giù neppure a me. Ogni volta che le chiedo di fare uscire i ragazzi per portarli con me in palestra, mi urla contro che storia antica è più importante… oh, siamo arrivati. »
Poggiò il palmo su una maniglia e la tirò verso il basso. La porta verde dell’ufficio della preside si aprì, e l’odore di gelsomino al suo interno si riversò su di me come un fiume in piena. Sventagliai una mano davanti al volto ed entrai, congedandomi dal prof di ginnastica con un veloce –arrivederci-. Lui si limitò a muovere la mano e scomparire nel corridoio.
Quando i miei piedi toccarono la moquette azzurra dell’ufficio di Wilma Wood, il mio buon senso era già andato a farsi benedire. Le tende bianche erano tirate, così che la luce non battesse proprio in faccia a Wanda mentre lavorava; l’incenso al gelsomino era in un angolo recondito della stanza, che non riuscivo a individuare, e lei se ne stava dietro la sua scrivania tutta indaffarata. Ogni tanto mi veniva da chiedermi se la sua fosse più una punizione che un lavoro. Insomma, chi mai vorrebbe lavorare in un inferno come la nostra scuola? O meglio, chi mai ne avrebbe il coraggio?
Inspirai a fondo e mi diressi verso l’unica sedia libera davanti alla scrivania, gettandomici sopra con noncuranza. Allungai le gambe sul legno lucidato e poggiai le mani sul ventre, sfoderando uno dei miei sorrisi più smaglianti, sfacciati. La preside non mi guardò nemmeno, continuando a scrivere qualcosa su un foglio. L’unico movimento che aveva fatto era stato scuotere la testa e inarcare per un breve tempo le sopracciglia. Persino lei aveva rinunciato a credere che sarei potuta cambiare, in meglio. Ormai era quella l’immagine sociale che la gente aveva di me: una ragazza senza madre di diciannove anni che tendeva a fare tutte le cose sbagliate. Sempre.  Ma poco m’importava di quello che pensavano gli altri di me. Avevo imparato a non dare conto alle chiacchiere all’età di 14 anni, quando ormai avevo imparato ad andare avanti da sola nei corridoi scolastici senza l’aiuto degli insegnanti o di mio padre.
« Ciao Wanda », la salutai arzilla, attirando finalmente la sua attenzione.
Da dietro gli occhiali rettangolari, la preside Wood mi lanciò uno sguardo di dissenso passando dai miei piedi alla sua scrivania e viceversa. Poi sospirò, si tolse le lenti e si accarezzò il volto con le mani, stancamente. Sembrava più vecchia di quanto mi ricordassi; con quei suoi capelli rossicci legati in uno stretto chignon e gli occhi verdi cerchiati da occhiaie scure, coperte malamente con del fondotinta scadente. Le davo almeno sette anni di più di quanti non ne avesse.
« Alex Wolf, possibile che tu non riesca a stare lontano da quest’ufficio? » Mormorò, più a se stessa che a me.
« Te l’ho già detto migliaia di volte, chiamami Lex. Alex è così formale. Odio le cose formali. » Presi a osservarmi le unghie.  « E poi, cosa vuoi che ti dica? Mi mancavate tu e la tua caffettiera. » Mi alzai, andando verso il mobile dove la preside teneva il frigobar e la caffettiera, sempre pieni.
Quando mi versai da bere in un bicchiere, il profumo del caffè mi salì fino al naso inebriandomi per qualche secondo. Quella bevanda aveva un non so che di rilassante sui miei nervi. Riusciva a sciogliermi. Ne bevvi un sorso con tranquillità, mentre Wilma mi osservava da dietro la scrivania. Mi sentivo il suo sguardo indagatore addosso, pressante sulle spalle; perciò decisi di voltarmi e poggiarmi al comodino che reggeva tutte le cibarie. Portai ancora la tazza alle labbra e il caffè scese lungo la mia gola caldo e gustoso.
« Allora? Per cosa mi hanno incastrata, questa volta? »
« Alex, potresti sederti davanti a me, per favore? » La voce della donna era rigida ora, e non ammetteva repliche.
Feci come mi aveva chiesto, senza però abbandonare il mio caffè. Negli occhi di Wilma passò una scintilla di disperazione dovuta al mio comportamento.
« La signora Kane, la tua insegnante di storia antica, mi ha chiesto di convocarti. » La preside congiunse le mani sopra la cattedra e, dopo aver preso un lungo respiro, continuò: « Ora, ho dato un’occhiata ai tuoi voti in quella materia, Alex, e trovo che tu sia peggiorata molto rispetto agli anni precedenti. » Nel mentre parlava, si era piegata leggermente per frugare nei cassetti della scrivania, per poi riemergerne con in mano un fascicolo. Il mio, dedussi. « Cos’’è successo, mh? Io mi ricordo una ragazza che in prima faceva i salti mortali per quella materia. Ricordo che anche tua madre… »
« Ma io non sono mia madre, Wilma. » La bloccai scocciata.
Wilma era stata una delle amiche di mia madre, perciò potevo permettermi di parlarle così. Mi conosceva da quando ero nata e aveva passato molto tempo con mio padre aiutandolo a crescermi; questo finché lui non si era fidanzato con la sua attuale compagna: Lisa.  
« Non sono lei, e non potrò nemmeno tentare di esserla. » Parlare di mia madre, quella donna che mi aveva messo al mondo e poi era morta qualche mese dopo, non mi aveva mai fatto ne caldo ne freddo. Però era come se innescasse una specie di senso di vuoto in me. Forse era perché tutti quelli che ne parlavano lo facevano con la gioia e la bontà negli occhi, portando alla luce sempre il suo lato migliore; dicendomi ogni volta quanto lei trovasse divertenti delle cose, o come si comportasse durante determinate situazioni. Io mi limitavo a sorridere ma, dentro di me, pensavo che quelle rivelazioni fossero ingiuste. Gente che le voleva bene, certo, vi aveva passato accanto più tempo di me, imparando a conoscerla come io non avrei potuto fare mai più.
Istintivamente, strinsi la tazza di caffè sotto il tavolo e sorressi con cocciutaggine lo sguardo angosciato della mia preside. Ogni volta che tirava fuori l’argomento di mia madre, io deviavo discorso ricorrendo ai miei soliti toni bruschi. Sapevo di aver eretto un muro attorno a me; un muro fatto di ricordi inesistenti. Un muro costruito sulla speranze che, magari, io riuscissi a ricordarmi di lei nei reconditi della mia mente aggrappandomi a quel ricordo come a un tesoro. Non era mai successo. Non ero mai riuscita a ricordarmi di lei o della sua voce, o del suo tocco; e il muro era cresciuti, diventando impenetrabile.
« Ok, hai ragione, scusami. Ma tu sai che se continuerai di questo passo, la Kane ti boccerà. » Parlava con voce più calma ora, sebbene sentissi una strana nota amara nella sua voce. « Ti chiedo solo », prese un bel respiro, « di rimetterti in carreggiata, Alex. Abbandona questo comportamento da bambina e ritorna seria. Se non vuoi farlo per te, almeno fallo per tuo… »
« Padre. Si, lo so. Me lo ripetete sempre tutti. » Sbuffai, abbassando gli occhi sulla tazza.
Il caffè nero mi ricordava stranamente la mia vita in quel momento. Mi sembrava di rivedere me stessa chiusa fra delle mura, pressata in modo che non potessi uscire. In gabbia.
« Scommetto che c’è la farai. » Mi sorrise Wilma, incastrandosi gli occhiali da lettura sul capo. « Sei una brava studentessa, se studi. »
« Ma sono una pessima figlia, perché la preside mi convoca ogni settimana. » Ribattei stizzita, ricordandomi di tutte le cose che mio padre mi gridava dietro quando litigavamo, e questa era una delle prime.
« Si può sempre migliorare », mi sorrise.
« Questo non toglie il fatto che mio padre stia origliando la nostra conversazione. » Le feci notare, indiando con un cenno della testa la porta d’ingresso dove, seminascosto da una striscia di vetro opaco, si distingueva una sagoma.
Poggiai la tazza di caffè sulla scrivania e mi alzai, dirigendomi a passo svelto verso l’uscio. Aprii la porta con impeto, scontrando il mio sguardo d’ambra con quello da lupo di mio padre. I suoi occhi erano come uno specchio che rifletteva ogni cosa, senza mai far uscire i propri sentimenti allo scoperto. Ma io sapevo cosa provava in momenti come quelli, nei quali era obbligato a venire a scuola perché convocato… ancora una volta. Tristezza, rammarico, vergogna, delusione. E tutto per colpa mia.
Lucas entrò nell’ufficio con il suo solito passo veloce e marcato; le spalle larghe che ondeggiavano sotto la camicia blu e i capelli castani brillanti fra gli spicchi di sole. Era un bell’uomo, mio padre; tutta via, a mio parere, la morte della mamma gli aveva tolto qualcosa che l’aveva reso ancora più bello in gioventù. Ogni tanto riguardavo le loro foto assieme e c’era sempre qualcosa nel suo sorriso, nei suoi occhi che lo rendeva diverso. Una diversità che neppure Lisa era riuscita a fargli tornare.
Richiusi la porta e tornai al mio caffè, ancora fumante sulla scrivania. Papà mi osservò inarcando le sopracciglia prima di rivolgersi a Wanda con la cordiale domanda di rito: « Perché sono qui, questa volta? »
La preside fece per aprire bocca, ma io la precedetti. Le mie labbra si mossero da sole mentre spiegavo l’accaduto di quella mattina con la Kane; il modo in cui le avevo risposto e il perché avessimo iniziato a discutere. Poi, aggiunsi anche la faccenda della mensa, di cui persino Wanda era all’oscuro. Finita la novella, Lucas si passò una mano sul viso liscio e si accasciò sulla sedia dove prima stavo io, borbottando parolacce. Non mi piaceva dare dispiaceri a mio padre, specialmente ora che Lisa era incinta del loro secondo figlio e Mattew - il primo- era entrato nella fase dell’adolescenza, ma non potevo farci nulla.  Anche se avessi voluto, non sarei riuscita a cambiare secondo i loro schemi.
« Ci sarà mai una volta, una, che tu riesca a non cacciarti nei guai, Lex? » Sibilò Lucas, alzando gli occhi ambrati verso di me. Guardandoli, mi riconobbi in essi. Erano identici ai miei, solo che i suoi erano leggermente tendenti al castano mentre i miei deviavano verso l’oro. E nascondevano mille segreti, pensieri, emozioni di cui nessuno doveva venire a conoscenza.
Mi grattai la guancia con la mano libera e alzai le spalle, inarcando le sopracciglia per qualche secondo. Wilma, ancora immersa dietro i suoi tanti fogli, si passò una mano fra i capelli rossi riportando a posto le ciocche che le erano sfuggite dallo chignon.
« Non è così grave, Lucas. » Intervenne la donna. « Alex è una brava studentessa, vivace forse ma molto ingamba. Riuscirà a recuperare anche questa materia, vedrai. » E gli rivolse un enorme sorriso d’incoraggiamento.
« E io mi chiamo Cristoforo Colombo », sussurrò mio padre mentre si alzava e si congedava.
Lo seguii in corridoio con passo svelto; doveva esserlo se volevo camminargli accanto. Visto da dietro mio padre sembrava ancora più grande di quanto non fosse, e tutto era dovuto al portamento. Il suo passato come butta-fuori, poi, doveva avergli conferito la sicurezza di se stesso.
« Hai molta stima di me, non è vero papà? » Chiesi quando fummo nel parcheggio.
Il sole splendeva in cielo riflettendosi sui telai delle auto, e io ero costretta a camminare con una mano sopra gli occhi per non accecarmi. Una folata di vento caldo mi accarezzò la pelle facendomi rabbrividire, e facendo vibrare i miei capelli nell’aria.
« Non sono in vena di battute, Lex. Sali in auto. » E così si era conclusa la nostra conversazione.
Lo guardai scomparire dentro la jeep, prima di alzare gli occhi al cielo e reprimere un grido carico di frustrazione. Mordendomi il labbro fino a farmi male, salii in auto e lui partì.
 

 
*    *


 
La città correva veloce oltre i finestrini neri dell’auto. Riuscivo a scorgere le sagome delle persone, delle case e degli alberi di sfuggita mentre mio padre premeva rabbiosamente il piede sull’acceleratore. Avevo alzato al massimo il volume della musica nelle cuffie ma questo non significava che non sentissi gli urli che mi stava rivolgendo mio padre. Era fuori di se, e in un certo senso lo capivo –gestirmi non era mai stato facile-, ma stava esagerando. In un impeto di rabbia, mi tolsi le cuffiette e lo guardai.
« … sei sempre così cocciuta! Con te non si può ragionare! Che ho fatto per meritarmi questo?! » Stava gridando, più a se stesso che a me.
« Non lo so, va bene? » Urlai a mia volta. L’abitacolo si riempì di urla e gli occhi di mio padre si puntarono su di me. « Non so perché sono così, ma sono stufa di sentirtelo ripetere. Scommetto che anche tu non eri un gran bravo ragazzo alla mia età! »
« Ero di gran lunga migliore di te e dei tuoi amici! » Ribatté offeso. « E dovresti imparare a portare rispetto, Alex, non solo a me ma a tutti gli altri! » Batté la mano sul volante, facendo suonare il clacson. « Ti comporti come se nulla avesse importanza, tranne il tuo divertimento! Sei proprio… Sei così diversa da tua madre, dannazione! » Quell’ultimo commento mi arrivò dritto al cuore, perforandolo.
Fu come se una mano si fosse stretta attorno al mio petto, proprio sopra il cuore, e avesse iniziato a stringere. Stringere senza curarsi del dolore che sentivo, della repulsione che provavo contro mio padre. Me ne aveva sempre dette di tutti i colori ma mai aveva osato tirare in ballo la mamma.
« Avrei preferito che ci fosse lei al tuo posto! Avrei voluto che ci fossi finito tu in coma e che lei fosse viva! » Strillai con tutto il fiato che avevo a disposizione, prima di sganciare la cintura e aprire la portiera mentre la macchina era ancora in moto.
L’asfalto correva veloce sotto di noi. Il sole lo illuminava facendolo assomigliare a un mare di cemento e strisce anonime. La gente si era fermata a guardarci dai marciapiedi. In lontananza vedevo il mare brillare, simile alle squame di un serpente. Si muoveva flessuoso davanti ai miei occhi, chiamandomi. Andavo sempre sulla spiaggia –avevo trovato un luogo appartato dove non andava quasi mai nessuno- per nascondermi dalla routine quotidiana. Ma, prima che potessi saltare giù dall’auto, la mano di mio padre si strinse attorno al mio braccio e mi ricacciò dentro la vettura; la portiera si chiuse con un tonfo sordo.
« Sei impazzita?! » Mi sbraitò contro, osservandomi sorpreso con quegli occhi da lupo che aveva.
Aprii le labbra per rispondergli, ma il mio occhio cadde su una figura che si avvicinava a noi velocemente. Una sagoma che, man mano che andavamo avanti, prese la forma di un grosso tir. E ci stava venendo contro. Urlai spaventata, indicando a mio padre l’automezzo e lui, colto all’improvviso dal panico, sterzò. Vidi il tir inchiodare sull’asfalto, il carico che si riversava a terra, e udii il fracasso della nostra auto che si schiantava contro qualcosa. Non avendo la cintura, venni sbalzata in avanti. Mi sembrò di volare a peso morto, anche se non volevo. I miei occhi catturarono l’immagine del fumo che proveniva dal cofano, dal motore, prima che la mia tessa si schiantasse contro il vetro e questo si rompesse. Sentii il sangue defluire da una ferita, che bruciava e mi faceva male. Stancamente, con la vista che si appannava mano a mano che i minuti passavano, cercai con lo sguardo mio padre. Era premuto contro lo schienale del suo seggiolino, la testa abbandonata su una spalla. Non riuscivo a capire se fosse vivo o meno, se fosse ferito.
Fa che non muoia. Ti prego, non farlo morire, implorai. Chiusi gli occhi e tutto sembrò eclissarsi. I rumori delle sirene in lontananza si dissolsero; il cielo azzurro e l’oceano brillante morirono nei miei ricordi; la mia rabbia scemò. Respirare mi faceva male, come se avessi avuto un peso sul petto. Poi, come il battito d’ali di una farfalla, mi sentii leggera e mi abbandonai al vuoto totale che le ombre mi avevano imposto.

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