Violet

di Ryo13
(/viewuser.php?uid=165900)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La trappola del Falco ***
Capitolo 2: *** Convocazione ***
Capitolo 3: *** Il Consiglio militare ***
Capitolo 4: *** Boicottaggio ***
Capitolo 5: *** Surdesangr ***
Capitolo 6: *** Il vecchio Vasil ***
Capitolo 7: *** Chevalier ***
Capitolo 8: *** La Sfida ***
Capitolo 9: *** Campione assoluto ***
Capitolo 10: *** Contrastare un Giuramento ***
Capitolo 11: *** Visita notturna ***
Capitolo 12: *** Furtività ***
Capitolo 13: *** Invito al ballo ***
Capitolo 14: *** Al Cane Nero ***
Capitolo 15: *** Guardia del corpo ***
Capitolo 16: *** Punizione ***



Capitolo 1
*** La trappola del Falco ***


 
 

Capitolo 01 - La trappola del Falco


Avevo perso i miei compagni durante lo scontro e non sapevo dove potessero essere finiti ma non avevo il tempo di preoccuparmi. Si trattava di guardie addestrate, dopotutto: dovevano essere capaci di badare a loro stesse.

La missione di quella notte era saltata, ormai non c’era più rimedio per il danno causato. Dovevo solo pensare a fuggire prima di essere raggiunta.

Imboccai un canale di scolo, sperando mi portasse da qualche parte fuori da quel dannato posto. Dopo aver percorso un tratto, vidi della luce che mi fece sperare di essere relativamente al sicuro.

Trovando un’apertura, mi ci lanciai con uno slancio che richiese pochissimo sforzo grazie ai duri allenamenti cui mi ero sottoposta sin dalla morte dello zio.

Quella perdita ancora mi bruciava, ma sapevo che esisteva un modo per mettere a posto le cose. Sì, era possibile tornare indietro e io lo avrei fatto: lo speravo con tutte le mie forze. Dovevo crederci e fare di tutto perché portassi a compimento il compito affidatomi da Klaus.

Arrivai a una botola arrugginita, vi posi le mani ai lati e con uno strattone la spostai, lanciandola sul terreno erboso.

Non sapevo dove fossi di preciso, ma da lì avrei potuto trovare facilmente la strada per unirmi ai miei uomini e tornare alla base.

Prima di poter decidere che direzione prendere, un rumore di zoccoli e il respiro affannoso di qualcuno, mi avvertirono che non ero da sola.

Feci per voltarmi ma qualcosa mi picchiò in testa facendomi barcollare in avanti.

Delle mani tozze e sudicie mi presero per le braccia strattonandomi per farmi mantenere l’equilibrio; altre risatine mi diedero l’idea che l’assalitore non era solo.

Confusa per la botta presa, non seppi liberarmi subito.

«Eccola qua, l’abbiamo catturata. Il padrone sarà contento del nostro lavoro!», esclamò con la voce piena di orgoglioso trionfo.

«Abbiamo Violet, ci meritiamo una cospicua ricompensa. Legala per bene e assicurati che non scappi questa volta! Voglio il bottino a ogni costo», si lamentò un secondo uomo più smilzo di quello che mi teneva bloccata.

«Sì, sì, non la lascio andare», disse, e per confermare le sue parole strinse la presa sulle mie braccia, provocandomi delle fitte alla spalla.

Non gli diedi la soddisfazione di sentirmi lamentare.

«Forza, andiamocene da qui, che si è fatto già tardi. Samuel non vorrà attendere troppo a lungo, sai che si irrita altrimenti.»

L’energumeno fece un verso di intesa e iniziò a legarmi i polsi con una spessa corda. Dopodiché mi spintonò avanti e mi frappose fra sé e gli altri due uomini della banda.

«Non fare giochetti», mi avvertì, prima di avviarci verso l’entrata del palazzo, da cui avevo cercato di scappare.

Mi chiesi di nuovo che fine avessero fatto i miei uomini.

Dopo qualche minuto, i briganti ritrovarono il proprio gruppo, appostato davanti al cancello.

L’unica luce a illuminare l’ambiente erano delle torce: non c’era luna, delle spesse nuvole coprivano tutto il cielo e occultavano le stelle.

«L’avete trovata!» La guardia che ci accolse per primi sembrava stupita: non si aspettava che tre soli uomini riuscissero a sopraffarmi. «Bene, il padrone ne sarà lieto», fece un cenno a indicarci la strada, «salite, vi aspetta di sopra, nella sala grande.»

Mi spinsero a proseguire dentro l’immensa abitazione, su per enormi gradini di pietra. Giunti al primo piano, svoltarono nel corridoio di sinistra e si fermarono davanti ad altre guardie che stavano appostate davanti la porta della sala. Una di esse fischiò al nostro indirizzo non appena ci scorse.

«Sbrigatevi a entrare. Samuel sembra stare perdendo la pazienza.»

Tanto fu sufficiente a farli affrettare. Attraversammo la porta di legno massiccio: ero nello stesso luogo dove, prima della mia fuga, avevamo combattutto contro gli uomini del Falco.

«Signore, vi abbiamo portato Violet!», annunciò l’uomo smilzo al mio fianco.

Il Falco ci dava le spalle, impegnato a parlare con un suo sottoposto e impartendo ordini. Alle parole del bandito, si girò lentamente e il suo sguardo si illuminò nello stesso istante in cui i suoi occhi marroni incontrarono i miei e le labbra sottili e sensuali si tesero in un sorriso di compiacimento.

«Finalmente!», esclamò col suo tono tranquillo ma vigoroso, «quasi non ci speravo più. Bentornata tra noi, mia cara Violet, non siete stata molto cortese a lasciarci così di gran fretta poc’anzi.»

«Avevo altre cose da fare», risposi a tono, senza lasciarmi intimorire dalla situazione critica. Non era la prima volta che mi trovavo alla sua mercé: speravo di potermela cavare bene anche questa volta.

«Non ne dubito, ma hai dimenticato indietro qualcosa…», disse, allungando una mano e mostrandomi tre uomini ai piedi di un seggio, legati e imbavagliati: la mia squadra.

«Mi stavo giusto chiedendo dove fossero finiti», replicai simulando calma.

«Dunque ora che lo sai puoi rilassarti, no?»

«Non posso, se non mi dici cosa intendi farne di loro, Falco.»

Mi guardò accigliato e ignorando le mie parole, disse: «smettila di chiamarmi in quel modo, sai che preferisco che tu mi chiami per nome, Erin.»

In effetti lo sapevo, proprio per questo evitavo di farlo: volevo irritarlo a morte visto che non riuscivo a ucciderlo in un duello di spada.

Però questa volta mi trovavo decisamente in svantaggio, non era saggio istigarlo. Non per così poco almeno.

«Va bene, Samuel. Ora dimmi che ne farai di loro.»

Compiaciuto, si avvicinò. Fece indietreggiare le guardie, le quali ci lasciarono soli al centro della sala tondeggiante.

«Devo ancora pensarci, ma prevedo che mi torneranno utili in un modo o nell’altro.»

«Perché non li lasci andare e la fai finita? Volevi solo me e ora eccomi qui. Lascia fuori chi non c’entra nulla.»

«Purtroppo devo avvisarti che loro non sono così estranei a quello che sta succedendo qua. Se ricordo bene sono penetrati in questo palazzo assieme a te, quindi… sono responsabili quanto te di tutta questa situazione. E se devo punire qualcuno, loro sono i più indicati.»

«Che interesse avresti nel punirli? Sai che non possono farti più nulla ormai. Sono legati, completamente alla tua mercé!»

«Proprio come te, mia cara», mi ricordò con tono gioviale.

Allungò una mano e mi sfiorò il viso: aveva un tocco delicato, quasi riverente, che mi sorprendeva sempre per la sua grande intensità.

Non dissi nulla perché aveva ragione su tutto quanto, così mi limitai a fissarlo fino a quando non si decise a parlare.

«Sei così bella…», sussurrò a un palmo dal mio viso. Gli occhi parevano ardergli tanto era concentrato nello scrutarmi. «Dammi la tua risposta, Erin, ora. Dimmi quello che voglio sentire.»

Presi una boccata d’aria, pronta al peggio. «No. La mia risposta è ancora no, Samuel, e non cambierà.»

Il bagliore nei suoi occhi parve smorzarsi un po’, ma un pensiero successivo lo riaccese e si concentrò su altro.

«Lo farai. Presto o tardi so che sarà così.» Mi sorrise come se fosse triste, ma si trattò solo di un attimo e la sua solita espressione arrogante era già tornata a marcargli i tratti del bel viso.

«Allora, dato che la tua risposta al momento è ancora no, contrattiamo.» Si volse alle sue guardie e disse: «Slegatele le mani.» Le guardie eseguirono senza protestare i suoi ordini.

Si diresse al seggio posto in fondo alla sala: vi si sedette, ai suoi piedi c’erano i miei uomini frustrati e insofferenti. Mi guardarono pieni di sensi di colpa per la situazione in cui si erano cacciati. Feci loro segno che lasciassero fare a me: per fortuna erano più o meno illesi e non avevano riportato gravi danni.

Tornai a concentrarmi su Samuel, seduto sullo scranno come fosse il trono del mondo: emanava un’aura di arroganza che rendevano regali i tratti già perfetti e spigolosi del viso, ricoperto da una corta barba. I capelli scuri cadevano scapigliati sulle spalle: li sapevo morbidi al tocco. Mettendo da parte quei pensieri inopportuni, mi avvicinai a lui.

«Cosa esigi per la loro liberazione?»

«Lo sai cosa voglio», rispose indolente, sul viso un’espressione seria di chi sa che otterrà quello che vuole.

«Molto bene.»

Azzerai lo spazio tra di noi, avvicinando lentamente il mio volto al suo, senza mai perderlo di vista. All’ultimo momento chiusi gli occhi, poggiando le labbra sulle sue. Le sentivo calde e morbide; la barba mi solleticava il mento.

Quando titubai, mi afferrò per un braccio e mi fece cadere di traverso sulle sue gambe.

«Visto che devo accontentarmi di così poco, almeno fallo come si deve», ringhiò sulla mia bocca. «Stai pagando per tre uomini: mettici di impegno e rendilo all’altezza dello cambio!» 

Con rabbia appena trattenuta, lo baciai avidamente, riversando parte della mia irritazione in un morso che lo face sobbalzare. Sanguinò e gemette di piacere sotto di me, mentre le sue mani mi strinsero i fianchi con forza, ma senza farmi troppo male.

Percepivo il suo desiderio di toccarmi eppure, con risolutezza, resisteva a se stesso, non potendo tollerare di cedere alla propria debolezza. Perché debole non lo era mai: per quanto ci provassi, non trovavo mai un punto nella sua corazza da cui potessi penetrare per vincerlo.

Giudicando sufficiente la mia prestazione, mi staccai da lui cercando di non dare a vedere quanto fossi scossa.

Samuel mi fissava pieno di ardore, le labbra gonfie per il bacio e macchiate di sangue, gli occhi socchiusi.

Dopo qualche istante sorrise.

«Sei brava come sempre.»

Mi ritrassi come scottata, rimettendomi in piedi per ricompormi.

«Ora fai la tua parte», ingiunsi.

Non perse tempo, ottenendo con un gesto che i prigionieri venissero slegati e lasciati liberi.

«Alla prossima, Violet. L’incontro di stanotte è stato davvero piacevole.»

Lo fulminai con un’occhiata piena d’ira che mi valse la sua risata di scherno. Mi voltai, abbandonando la sala coi miei uomini, senza che nessuno ci trattenesse. Quando fumo al sicuro, tutti e quattro ci dirigemmo silenziosamente nella zona boscosa dove avevamo nascosto i nostri cavalli.

«Violet, ci dispiace! Abbiamo tentato di scappare e ci stavamo riuscendo, ma poi un gruppo di scagnozzi del Falco ci ha sbarrato il passo bloccandoci all’interno. Erano troppi per noi e ci hanno sopraffatto facilmente.» Eric tentò di giustificare il fallimento del suo gruppo.

«Non preoccuparti. Ormai è fatta e siamo tutti sani e salvi», lo rassicurai. «Questo è l’importante.»

«Però è stato tutto inutile: le voci secondo cui gli uomini del Falco avevano trovato l’uomo che cerchiamo si sono rivelate essere completamente false!»

«Già. Era una trappola.»

 Che stupida a cascarci in quel modo: un errore del genere non doveva più verificarsi.

«Basta rimuginare. Saliamo in groppa e torniamo alla base, ormai è quasi l’alba.»

Obbedirono senza fiatare. Ci lanciammo nel fitto del bosco lungo un sentiero che ci avrebbe riportati a casa.

Mentre all’orizzonte si levava il sole, facevo di tutto per togliermi dalla mente il ricordo di quell’ultimo ardente bacio con il mio nemico giurato.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Convocazione ***


Capitolo 02 - Convocazione
 

«Cosa diavolo ti è saltato in mente?»

La voce del comandante rimbombò per la stanza costruita interamente in pietra. Mi fissava accigliato, la classica occhiata che diceva che le cose si erano decisamente messe male ed ero immersa nella merda fino al collo. Aspettava una risposta nonostante il tono retorico della domanda.

«Abbiamo sentito delle voci secondo cui il nostro uomo era nelle mani del Falco. Dovevamo accertarcene. Era solo il modo più veloce.»

«No! È stato il modo più avventato e sconsiderato! Non ti ho insegnato nulla in tutti questi anni?»

«Sì, Raafael, ma io dovevo…»

«No, tu non dovevi, Erin... tu volevi, è diverso! E hai messo a repentaglio i tuoi uomini per un buco nell’acqua! Credo proprio di doverti togliere il comando della squadra, così non ci siamo affatto!»

«Ma…»

«Niente ma. Qui comando io e questo è un ordine!»

Mi fulminò con un’occhiata. L’espressione mi era del tutto familiare perché era la stessa che usava per mettermi in riga negli ultimi sei anni, esattamente dalla la morte dello zio Klaus quando avevo vent’anni. Prima di allora era stato lui il mio maestro: mi aveva addestrata nell’arte della spada, insegnandomi tutti i segreti dell’arte guerriera. 

A nessuna prima di me era mai stato permesso di allenarsi con gli uomini, meno che mai era stato accordato il privilegio di fare parte dell’armata a difesa di sua maestà. Ma io ero un’eccezione: la mia capacità di rallentare lo scorrere del tempo mi donava una velocità che nessun essere umano comune avrebbe potuto eguagliare, tantomeno battere. Ero pericolosa anche senza l’impiego della mia dote, ovviamente, tuttavia usandola diventavo semplicemente imbattibile.

Raafael era ancora intento a fissarmi col volto granitico. Subii quello sguardo in silenzio fin quando non decise di parlare ancora.

«Avrebbe potuto catturarti. Che avresti fatto se ci fosse riuscito?»

«Sai che mi lascia sempre andare.»

«Maledizione, Erin, questo non è un fottutissimo gioco! Può stringere il pugno con te quando vuole! Non possiamo rischiare che ti catturi. È già un azzardo che il re ti lasci scorrazzare libera per tutto il regno, senza contare la tua partecipazione alle missioni dell’esercito. Non puoi rischiare te stessa ogni volta che te ne viene lo schiribizzo!»

Le sue parole mi fecero contrarre il muscolo sotto l’occhio.

Replicai tra i denti: «Non potete tenermi chiusa in una torre. Non lo accetterei mai! Devi accettare il fatto che non sono la principessina che deve essere difesa dal drago cattivo, Raf!».

Ripresi fiato, cercai di trattenere la collera che mi ribolliva dentro.

«E poi io non sto scherzando affatto. Il fatto che tu pensi che per me sia un gioco, mi offende. Ho speso sei anni della mia vita in questa ricerca. Ogni indizio è fondamentale, ogni voce, se voglio venire a capo di qualcosa, dannazione! Io devo trovarlo. Ormai è al di là della mia volontà: significa tutto per me!»

«E non hai pensato all’incolumità dei tuoi uomini? Ti sono stati affidati.»

«Oh, certo! Lo sanno tutti che mi hai concesso un manipolo di inetti per farmi stare buona. Credi che sia un’idiota? Il più forte di loro potrei batterlo a occhi bendati.»

Il tono della discussione si era acceso tanto che avevo il viso in fiamme per l’irritazione.

«Quando mi assegnerai degli uomini valenti, che ci sappiano fare? Con tutto il rispetto per questi, ma sono ancora ragazzini. Diavolo, il più grande non ha ancora vent’anni!»

«Tu a vent’anni eri un valido elemento.»

«Io ho cominciato ad allenarmi all’età di sei anni. Mi ha addestrato Klaus, te ne ricordi?»

«Come dimenticarlo?»

Il silenzio piombò tra noi e per un momento non si udirono che i nostri respiri.

«Penso che dovresti smettere di cercarlo. Potrebbe anche non esistere la persona che cerchi...», commentò con voce smorzata. Era un argomento che avevamo già trattato.

«So che esiste. Deve esistere perché io esisto, no? Tutte le leggende parlano di una coppia di bambini: sempre un maschio e una femmina. Affini in qualche maniera. Non posso essere sola a questo mondo…»

Lo sguardo di Raafael mutò impercettibilmente.

«Ascoltami, Erin. So che ti senti sola… Klaus era l’ultimo membro della tua famiglia in vita e per te è stato un duro colpo perderlo. Ma non risolverai niente buttandoti sconsideratamente tra le braccia del tuo nemico. Il Falco finora ha giocato, ma nulla impedisce che prima o poi non cambi atteggiamento… ha un carattere mutevole. So che cerchi vendetta, ma…»

«Non è solo questo!», sbottai sulla difensiva. «Non è solo perché Samuel ha ucciso mio zio, Raf! Potrei essere in grado di cambiare le cose… io potrei…»

«Non sono sicuro che sia possibile, Erin. In fin dei conti, anche i tuoi poteri hanno dei limiti. Cosa può cambiare se esistesse un'altra persona come te?»

«Cambierebbe molto. Lo so, lo sento

Detto questo gli voltai le spalle e mi precipitai fuori dalla sala grande. Avevo bisogno di prendere un po’ di aria e di pensare lontano dalla pressione continua cui mi sottoponeva il mio comandante.

Mentre camminavo a passo svelto tra i corridoi del palazzo delle guardie, continuavo a ripensare agli eventi della notte precedente.

Mi ero prontamente organizzata alla soffiata sulla presunta presenza di un uomo che governasse il tempo come me: dovevo verificare la voce e strappare l’individuo dalle avide mani del Falco, se si fosse rivelata fondata.

Avevo portato con me i miei uomini: una squadra composta da una dozzina di persone, per penetrare nel covo nemico e combatterlo in caso di necessità.

Ripensando a ogni scelta compiuta, conclusi che non avrei potuto agire diversamente e che avevo fatto tutto per il meglio, con cognizione di causa.

Contrariamente alle accuse di Raafael, non avevo agito per l’impulso di una ragazzina ferita: ero stata all’altezza di qualsiasi altro luogotenente scelto.

Purtroppo, una volta penetrati nella fortezza nemica, avevo percepito che qualcosa non andava: c’era stata troppa quiete, nessuna efficace resistenza.  Pur ipotizzando una trappola, non mi ero fatta fermare: potevamo anche essere attesi dai nostri nemici, eppure il dubbio che l’esca usata per attirarmi esistesse andava comunque verificata. Non potevo permettere di lasciare nella mani di Samuel l’uomo che cercavo da anni.

Alla fine avevo scoperto che erano stati proprio il Falco e i suoi uomini a diffondere la diceria, sperando che abboccassi.

«Avevo voglia di vederti, mia cara», aveva dichiarato con un ghigno Samuel quando gli avevo chiesto perché mi avesse voluta attirare in quella stupida trappola. «E perché mi annoiavo troppo.»

Dando l’ordine ai suoi uomini di ingaggiare la battaglia, aveva ottenuto il suo divertimento. Trattava ogni scontro come fosse uno speciale teatrino allestito apposta per lui, non badando a chi poteva perdere la vita nella lotta. Era una delle cose che non sopportavo.

«Tutti prima o poi muoiono», aveva decretato anni prima, quando gli avevo rinfacciato la sua totale indifferenza nei confronti della vita altrui. E io, avvilita dagli sforzi della lotta e afflitta dal dolore della perdita dello zio, gli avevo urlato perché non si decidesse a uccidere anche me, visto che per lui eravamo tutte pedine dei suoi stupidi giochi.

Non mi aveva risposto – non lo aveva mai fatto a quella domanda – ma sapevo che non poteva uccidermi semplicemente perché mi desiderava troppo. Probabilmente era anche affascinato dalla sfida che costituivo: sarebbe mai riuscito a conquistarmi nonostante l’odio che nutrivo per lui?

Non avrei dovuto essere sorpresa dalla sua arroganza e sfrontatezza, eppure non riuscivo a capacitarmi che ci provasse davvero. Era assurdo pensare che potessi veramente perdonargli il tradimento della fiducia che io e mio zio avevamo riposto il lui, nonostante il suo carattere così ombroso.

I piedi battevano sempre più pesanti sul pavimento di pietra: ero quasi arrivata a uscire dal palazzo per prendere qualche boccata d’aria fresca e schiarirmi le idee.

Giunta alla torre sud, uscii nel balcone esterno: da lassù potevo ammirare un panorama mozzafiato anche se ero troppo inquieta per farlo.

La capitale del regno di Orvo, che ospitava la corte del re Gustav, si chiamava Norvo. 

Non avevo vissuto sempre qui, mi ci ero trasferita dopo la morte dello zio, seguendo il nuovo comandante, Raafael, e per entrare ufficialmente nelle fila della guardia scelta del re.

Non avevo mai guardato particolarmente alla struttura dell’agglomerato urbano, pur conoscendola ormai a fondo a causa dei turni per le ronde: ora, affacciata su quella vertiginosa altezza, mi riempivo gli occhi della vista stupefacente delle abitazioni popolari ai margini dell’orizzonte che si ammassavano le une sulle altre, senza un apparente ordine. Man mano che si procedeva verso l’interno, nella zona attorno alla reggia, le case si facevano più grandi, curate e sfarzose: le residenze nobiliari.

I pensieri tornarono prepotenti alle considerazioni sulla missione.

Dopo l’accerchiamento, avevo dato l’ordine di combattere per aprirci un varco e fuggire. Usando i miei poteri per limitare i danni sui miei uomini, ci eravamo spinti fino a uscire dalla sala; quando fui prossima all’esaurimento delle energie, avevo gridato a tutti di fuggire. Confusi e spaventati, mi avevano dato ascolto persino quando fummo costretti a dividerci a un bivio.

Forse non era stato molto onorevole da parte loro lasciarmi indietro, ma io mi ero impedita di sentirmi ferita da quell’abbandono: innanzi tutto, ero stata io a cacciarli in quella trappola; in secondo luogo, ero il capo, responsabile per loro. Ma c’era un altro motivo che mi impediva di soffrire per la mancanza di lealtà ed era che io per prima non avevo dato loro la necessaria fiducia.

Ero sempre stata diffidente, non avevo mai fatto affidamento sui miei uomini: da un lato erano davvero immaturi e poco esperti per affidare loro la mia vita incondizionatamente, ma c’era soprattutto il fatto che non concedevo fiducia a nessuno dalla notte del tradimento di Samuel, guardia scelta del re e stimato allievo dello zio Klaus.

Avevo conosciuto Samuel molti anni prima di quel tragico momento, quando ero ancora una ragazzina goffa e impacciata che voleva a tutti i costi rendere orgoglioso lo zio, imparando a combattere come un maschio.

Allora avevo solo provato fastidio nei confronti del ragazzo che non faceva altro che stuzzicarmi, facendomi infuriare e fallire negli allenamenti.

Samuel si divertiva a punzecchiami senza sosta e io reagivo a ogni sua parola, interpretandola come gesto di sfida.

Solo col tempo quell’antipatia si era riluttantemente trasformata in ammirazione per i suoi ottimi risultati, per la sua forza e per la sua tenacia.

A un certo punto avevo dovuto convivere col fatto che i miei ormoni mi mandassero in tilt ogni volta che lo scorgevo a petto nudo e ricoperto di sudore, dopo un allenamento. Un languore strano e mai provato mi accendeva ogni volta che i suoi muscoli guizzavano sotto lo sforzo intensivo, immaginando che quelle braccia potessero avvolgersi attorno al mio corpo e io potessi assaggiare il gusto salato della sua pelle alle base del collo, dove gli pulsava il sangue. Quel suo modo di sorridere beffardo, inoltre, costituiva una sfida che non avevo mai vinto mentre la mia femminilità bramava con ardore di piegare la sua forza al mio servizio, facendolo impazzire di desiderio.

E così era stato: lo avevo avuto per me, il perenne ghigno rimpiazzato da uno sguardo di fuoco che gli rendeva severi i tratti. Per un breve attimo non erano esistiti più orgoglio, rivalità o sfrontatezza: le sue mani avevano persino tremato quando mi aveva toccata, e quel tremore si era esteso a tutto il corpo, alla fine.

Poi aveva rovinato tutto, infrangendo ogni muta promessa per qualcosa di più oscuro: il potere.

Ero quasi impazzita al ricordo delle sue mani che mi carezzavano la schiena, quando le avevo viste ricoperte del sangue di Klaus. Tutto l’amore che potevo mai aver provato per lui si era tramutato all’istante in un odio senza pari, che mi aveva spinto a giurare vendetta.

Una vendetta su cui, da allora, avevo lavorato ma che non avevo ancora ottenuto.

Alla frustrazione delle ripetute sconfitte, si aggiungeva anno dopo anno, la desolazione della solitudine, il rimpianto del tradimento.

Allontanati tutti, non avevo più permesso a nessuno di avvicinarmisi: non ero più disposta a soffrire quel dolore, né volevo rischiare di perdere me stessa, e meno che mai fallire la mia missione.

Ora vivevo solo per esaudire l’ultimo desiderio di mio zio: trovare l’uomo che possedeva il potere complementare al mio, grazie al quale avrei potuto accedere a un livello di potere superiore.

Avremmo potuto essere in grado di avvolgere le spire del tempo fino ad annullare il presente, per tornare indietro e porre rimedio all’irreparabile.

Sospirai, dubbiosa di riuscire nell’impresa: da sei anni girovagavo in cerca di un indizio, ma le piste si erano esaurite da tempo. Non avevo nessun punto di riferimento dal quale partire per poterlo rintracciare.

Forse Raafael non aveva tutti i torti: in fondo, anche le leggende potevano essere sbagliate, come lui aveva continuato a ripetere.

Una folata di vento mi fece rabbrividire: mi resi conto di essere esposta al freddo da troppo tempo: nonostante fossimo alla fine dell’estate, di notte tirava un'aria piuttosto gelida.

Tornata ai miei alloggi, ebbi il tempo di mettere qualcosa nello stomaco prima di addormentarmi spossata.

 

Il giorno successivo, al termine di un bagno caldo, un paggio mi portò in camera un foglietto sigillato. Aprii la lettera e lessi per qualche minuto le poche righe che conteneva.

«Di cosa si tratta, mia signora? Avete l’aria preoccupata», domandò l’ancella che mi stava aiutando a rivestirmi dopo l’immersione.

«È una convocazione del consiglio», risposi laconica.

«È una brutta cosa?»

«Non saprei.»

Ma dopo il fallimento della mia spedizione, sarebbe stato sciocco non ritenere quella convocazione una notizia men che buona: Raafael aveva accennato al fatto di volermi togliere il comando della mia squadra, anche se ero fuggita via prima di approfondire la questione.

Avrei dovuto andare a vedere di che cosa si trattava.

«Cosa volete indossare, mia signora?»

«Credo sia opportuno indossare qualcosa di formale. Metterò la divisa rossa, Marien.»

«Come desiderate», disse, defilandosi in cerca dell’abito adatto.

Mi strinsi inquieta al telo di lino: era inutile crucciarsi, entro poche ore avrei scoperto il motivo di quella riunione, e soprattutto saputo cosa ne sarebbe stato della minaccia di Raafael di togliermi il comando dei miei uomini.

 
 

_________________________________________

NOTE:
Ciao a tutti! Siamo ancora all'inizio della storia ma ho cercato di dare abbastanza punti fermi per far capire più o meno come stanne le cose, i punti principali e soprattutto in che mondo agiscono i personaggi. Però chiaramente ancora non si è detto abbastanza, le idee sono tante e non sempre è facile organizzare tutto su "carta" xD Spero che presto qualcuno commenti per dirmi le impressioni che ha avuto da questi primi due capitoli per potermi orientare e correggere se ce ne fosse di bisogno ^^
Sappiate, in ogni caso, che ho già pianificato gran parte della trama quindi nulla è lasciato al caso xD Se ci saranno discrepanze di sorta saranno degli errori involontari che correggerò ogni volta che mi saranno portate all'attenzione da qualcuno o se me ne accorgo da sola *w*
Spero che la lettura possa coinvolgervi, anche se mi rendo conto che ancora non si è passati all'azione vera e propria, ma è comunque necessario lanciare della basi da cui far sviluppare la trama, se no si rischia di perdercisi *v*
Beh, che dire? Fin ora ho presentato solo Samuel e Raafael dei protagonisti maschili, ma è solo una questione di tempo prima che entri in scena anche qualcun altro! ;)
Un bacione a tutti, Rita <3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il Consiglio militare ***


Capitolo 03 - Il Consiglio militare
 

Dalkeith, Drumelzier, Dunsyre e Sanquhar erano i quattro Ducati di Orvo, amministrati dall’aristocrazia.

Solo Dalkeith era governato direttamente da re Gustav; gli altri territori erano affidati alla guida dei Duchi: questi si occupavano dell’amministrazione, nominando un Comandante, tra i figli cadetti della famiglia, per occuparsi della direzione dell’esercito; a loro volta, i Comandanti, quando non erano alle dipendenze di loro Duchi, eseguivano gli ordini di un Generale, il quale stava al vertice della scala piramidale, ed era alle dirette dipendenze del re, dal quale riceveva il suo incarico.

In tempo di pace, il Generale non era una figura cui si facesse spesso riferimento, se non per questioni burocratiche; solo quando arrivava la guerra riuniva tutte le forze, coordinando i diversi eserciti come uno solo.

Tutte le forze armate, comunque, giuravano fedeltà al re e dipendevano da lui.

I Comandanti delegavano il potere ai luogotenenti, maggiori o minori che fossero, a seconda del numero di uomini loro assegnati.

Nonostante ricoprissi la carica di luogotenente minore, la mia presenza nell’esercito aveva scatenato inizialmente obiezioni del tutto impreviste, oltre che assolutamente sciocche dal mio punto di vista: c’era chi aveva protestato riguardo l’opportunità che indossassi una divisa militare diversa da quella maschile e più adatta alla mia femminilità aveva spiegato, mascherando l’insulto dietro un’apparente premura.

I pantaloni maschili erano stati giudicati indecenti per il decoro di una nobildonna: meglio una gonna di qualsiasi tipo ma che mettesse ben in chiaro il mio stato di separazione.

Ovviamente mi ero mostrata assolutamente contraria: vedevo già sbirciare i più dissoluti sotto l’indumento, con la scusa degli allenamenti corpo a corpo, e non mi serviva questo tipo di vulnerabilità, giacché non avrei comunque avuto vita facile.

Mi ero imposta adottando dei pantaloni adatti alle mie misure ma assolutamente identici a quelli degli altri soldati. Non avrei dato loro modo di lanciare più frecciatine del necessario.

Inizialmente l’aderenza del vestiario non era passata inosservata, ma a lungo andare, l’aver tenuto la pelle coperta aveva dato i suoi frutti: persino i più ostinati si erano presto stancati di motteggiare le mie forme nascoste.

Il vestito rosso che avevo chiesto a Marien di preparare era appunto la divisa dell’esercito: mentre procedevo lungo un corridoio di pietra illuminato appena dalla luce che filtrava dalle feritoie, i pantaloni neri di pelle mi fasciavano le gambe accompagnando i movimenti; sopra portavo una tunica a mezza coscia di lino rosso, fermata in vita da una cintura.

Il seno sinistro era protetto da un giustacuore dello stesso cuoio degli stivali lunghi.

Ricordavo ancora la divisa che avevano studiato apposta per me: senza pantaloni e con un diverso tipo di protezione per il petto che copriva entrambi i seni. Inoltre era di un colore più sbiadito, non vivido come di consueto, colore che si addiceva a un uomo, il quale richiamava alla mente il sangue nemico versato in battaglia.

I miei primi allenamenti sotto la guida di zio Klaus erano stati piuttosto sereni: gli altri ragazzi mi punzecchiavano ma non erano realmente infastiditi dalla mia presenza: si prendevano gioco di me in un modo che mi faceva sentire partecipe dello scherzo, senza essere mai cattivi.

Gli anni più difficili vennero dopo, quando Klaus mi condusse alla capitale con l’intento di presentarmi a corte e farmi entrare nell’esercito: una cosa assolutamente inusuale per non dire di mai tentato. 

Si era prodigato a lungo per far valere le sue ragioni davanti al Consiglio del re, illustrando i motivi per i quali potevo essere d’aiuto al sovrano, nonché al resto dei soldati: se non bastavano le mie capacità fisiche a impressionare i Consiglieri, la mia facoltà di condizionare il tempo avrebbe senza dubbio giovato ogni causa per la quale fossi stata impiegata.

In questo modo era riuscito a scavalcare il Consiglio militare. 

Fu soprattutto la mia eccezionale dote psichica, dunque, a garantirmi l’accesso a una casta così rigida e tradizionale. Tuttavia, in pochi si erano dimostrati accomodanti riguardo la decisione del Consiglio regio, ritenendola un’ingerenza nelle questioni militari e frutto dell’influenza di mio zio.

La maggior parte del tempo cercavo di non badare ai commenti caustici, limitandomi a impartire piccole umiliazioni durante scontri amichevoli negli allenamenti. 

Naturalmente questo aveva finito per alienarmi del tutto la loro simpatia.

 

ꕥꕥꕥ

 

Giunta al luogo dell’incontro, un soldato semplice mi fermò alla porta, in attesa che venissi annunciata alla sala. Presto il brusio cessò e mi fu permesso di varcare la soglia che dava su un vasto spazio circolare, occupato da un largo tavolo centrale.

Con un rapido sguardo vidi Raafael presiedere il nutrito gruppo di persone, formato da tutti i luogotenenti dell’esercito di Dalkeith, il Ducato regio: seduti davanti quell'immenso tavolo rotondo si trovavano quindici persone, escluso il Comandante.

Con un cenno salutai tutti ma non aprii bocca.

Raafael mi fissò prima di prendere la parola ufficialmente.

«Benvenuta luogotenente Knight. Prego, accomodati», disse, indicando l’unico posto rimasto vacante al tavolo.

Mi ci adagiai con studiata calma, valutando gli uomini e le loro disposizioni d’animo.

«Sapete perché siete stata convocata davanti al consiglio?», domandò il vice-comandante Rufus, un uomo di mezz’età dai capelli grigi e il volto segnato da cicatrici e rughe: non aveva mai nutrito molta simpatia nei miei confronti ma mi aveva tollerata sotto insistenza del Comandante stesso.

«Suppongo che il motivo riguardi la missione della scorsa notte», risposi placidamente. Non mi sarei mostrata intimorita dal fronte compatto che avevano costituito.

«Non è esatto. Non si è trattata di una missione dato che non avete avuto il permesso del Comandante. La vostra è stata un’azione non autorizzata che ha messo in pericolo le vite di alcuni uomini del nostro esercito. Cosa avete da dire a vostra discolpa?»

«Solo che combattiamo il Falco da anni ed è consuetudine agire anche senza un  consenso esplicito contro questo nemico. Si sono verificati altri casi in cui è stato necessario passare all’azione prima che gli eventi peggiorassero. Non ho agito diversamente da come avrebbe ritenuto opportuno qualsiasi altro luogotenente.»

«Voi vi siete infiltrata nel suo covo, non vi trovavate in campo a combattere contro i suoi uomini!» la voce di Rufus si fece più aspra, l’espressione contratta nel disgusto.

«C’era il pericolo che avesse catturato l’uomo che cerchiamo.»

«E questo giustificherebbe il rischio cui avete esposto i vostri uomini?»

«Abbondantemente.»

«Stolta! Lo sapevo che una donna come voi non può capire gli affari militari: questa non ne è che una conferma!», sbraitò, abbandonando qualsiasi pretesto di formalità.

«Vice-comandante Rufus», lo apostrofai, «se non sbaglio foste proprio voi a lamentare la mia immaginaria inettitudine quando richiesi di entrare nell’esercito, adducendo come pretesto il fatto che una donna non avrebbe avuto il cuore di prendere decisioni difficili come quella di mettere in pericolo la vita di altri uomini al proprio comando. Com’è possibile che critichiate il fatto che abbia agito proprio come un uomo, assumendo le mie responsabilità?»

Diventò rosso di collera. «Le vostre responsabilità?! E come intendete assumervele? Avete pensato bene di rischiare solo per delle voci. Delle voci! Avete comandato ai vostri uomini di seguirvi in una missione suicida senza avere neanche una certezza di quello che avreste o non avreste trovato!»

«Con tutto il rispetto, signore, ma i miei uomini sono tornati incolumi. Non ci sono stati danni irreparabili e questo mi sembra già di per sé un ottimo risultato. Per di più, come ho già detto, era un rischio che andava corso. Se le voci si fossero rivelate fondate…»

«Quello che non capite, signorina», mi interruppe appellandomi come fossi una semplice civile, «è che si tratta sempre solo di voci e leggende. Insistete nel cercare qualcuno con un potere simile al vostro senza avere prove della sua esistenza!»

Esasperata, stavo per perdere del tutto la pazienza.

«Io stessa sono una prova sufficiente, perché non dovrebbe essere vera tutta la leggenda? Parlate tanto di rischi e di perdite, ma vi rendete conto che qualora una persona col mio potere cadesse nelle mani di Samuel per noi aumenterebbero esponenzialmente i pericoli? Di più, un solo uomo che usasse per fini malvagi capacità come le mie potrebbe arrivare a uccidere facilmente il nostro re alla presenza di centomila soldati. Non esisterebbero più protezioni, ci avete pensato?!»

Ero stufa di ripetere a oltranza le mie ragioni per vederle puntualmente sottovalutate: le possibilità che prospettavo erano tanto tragiche che nessuno voleva davvero rifletterci.

Così facendo, però, apparivano codardi e senza spina dorsale: troppo attaccati agli onori, ai gradi, alla carriera e al loro stupido orgoglio per accorgersi che tutto ciò che proteggevano si fondava sulla sabbia e non su solida roccia.

Rufus mandò fuori uno sbuffo spazientito. «Vi sopravvalutate, luogotenente Knight.» 

Ora sbeffeggiava la mia carica.

Prese la parola Raafael, il quale si era accorto che ero al limite e stavo per perdere il controllo: «Adesso basta, ricordatevi che siamo in Consiglio e dovete tenere un comportamento onorevole».

Ci zittimmo, continuando a guardarci scontenti ai capi opposti del grande tavolo. 

Gli altri luogotenenti avevano ascoltato senza intervenire: non erano certo argomenti  nuovi; solitamente, però, non ci trovavamo riuniti in una simile formalità.

«Erin, per favore, non vogliamo discutere ancora della leggenda dei bambini del tempo. Abbiamo già stabilito che ognuno è libero di pensarla come vuole e a te non abbiamo mai vietato di condurre le tue ricerche, anche impiegando i soldati della tua unità. Ma questa volta ti sei spinta troppo oltre.»

«Per quale motivo mi avete convocata?»

«Per evitare di mettere in pericolo altre persone, ho deciso di toglierti il comando della tua squadra. Gli uomini che ti erano stati assegnati torneranno sotto il comando di Vladimir.» 

Indicò con una mano l’interessato che sedeva a un paio di posti di distanza dal mio.

Era davvero il colmo: mi erano stati assegnati solamente cinquanta uomini quando un normale luogotenente minore disponeva almeno di due o tre centinaia di soldati. Mi ero detta che avrei dimostrato il mio valore con quello che avevo e che in futuro avrei avuto spazio di manovra. Ma adesso mi stavano togliendo tutto, nonostante avessi superato le prove necessarie, sconfiggendo avversari, dimostrandomi un abile stratega e guadagnandomi innegabilmente il diritto di assumere il comando su un manipolo di uomini. 

«Intendete revocare la mia carica?!»

«No, non voglio arrivare a tanto. Quella te la sei guadagnata.» 

Raafael aveva un’espressione seria ma doveva sicuramente stare prendendomi il giro.

«Di chi o che cosa dovrei essere ‘luogotenente’ se non ho uomini al mio comando?», chiesi esasperata.

«Rimarrai luogotenente in carica e avrai diritto a due soli soldati.»

«Due soldati?! Vi state prendendo gioco di me?»

«Modera i termini, luogotenente Knight», intervenne Athor, un maggiore seduto poco distante dal Comandante, calcando volutamente sul titolo.

Lo fissai per un lungo momento, consapevole che ormai la mia carica fosse stata svuotata di qualsiasi significato e per nulla contenta. Sospirai, cercando di calmare i nervi e di parlare civilmente.

«Molto bene. Chi saranno i due soldati assegnati a me?» Nemmeno tentai di celare l’ironia nella mia voce.

«Puoi sceglierli tu stessa», mi concesse Raafael. «Se non sbaglio ieri ti sei lamentata dell’inettitudine di quelli che ti avevamo dato. Questa volta puoi scegliere di persona chi farà parte della tua unità. L’unica condizione è che scelgano liberamente di obbedire ai tuoi comandi, e che siano disposti a rischiare la vita per le tue ricerche.»

«Nessuno accetterebbe mai a queste condizioni, seguendomi di sua spontanea volontà», fui costretta ad ammettere.

«In tal caso rimarrai sola e la tua carica rimarrà priva di effettivo potere, per quanto poco te ne sto concedendo.»

«E se ne trovassi più di due?» lo sfidai. «Se trovassi più di due persone disposte a seguirmi, sarebbe necessario limitare il numero a sole due persone?»

Rufus sbuffò ancora, mentre molti risero di quell’ipotesi, eppure nessuno ebbe nulla da obiettare, convinti com’erano che l’eventualità fosse impossibile.

«La mia scelta di toglierti gli uomini è stata dettata soprattutto dal fatto che molti di loro si sono lamentati. Quindi no: se troverai qualcuno disposto a seguirti non vedo perché non possano essere più di due.»

Raafael era rimasto serio e mi aveva praticamente dato la sua parola che avrei potuto comandare quanti uomini fossero disposti a sottomessi a una donna.

«E potrò condurre le ricerche come preferisco?»

Un muscolo guizzò sotto l’occhio di Raafael che non rispose.

Intanto nella sala si erano diffusi diversi mormorii di incredulità e scontentezza. Non abbassai lo sguardo, mentre rimanevo in attesa di una risposta.

«Non voglio che tu corra dei rischi» disse infine.

«Far parte della guardia mi espone a essi, costantemente. Non mi tirerò indietro se avrò l’opportunità di trovare l’uomo della leggenda, ma almeno non potrete accusarmi di mettere in pericolo alcuno, visto che chi deciderà di seguirmi lo farà di sua spontanea volontà.»

«Lasciala fare, Raafael», proruppe divertito Testano, un maggiore che andava d’accordo con Rufus. «Non troverà mai quello che cerca, dunque lasciala scorrazzare in giro come preferisce. Baderemo noi uomini a fare il nostro dovere nell’esercito. Se lei fosse impegnata in altro, almeno, ci eviterà il fastidio di averla attorno.»

Con quel discorso suscitò l’ilarità generale. Dal canto mio, lo guardai come si fa con un animale quando ci si interroga sulla sua presunta intelligenza.

Troppo abituata a quel tipo di discriminazione per farci veramente caso, lo lasciai parlare solo perché in realtà le sue idiozie sarebbero andate a mio vantaggio.

«Il Falco però la vuole», gli fece notare Raafael.

Testano scrollò le spalle, prima di replicare: «È una bella donna, nulla da dire, anche se ha un caratteraccio. Capisco perché la desideri nel suo letto».

«La questione è seria. Non possiamo permetterci che la catturi.»

«Ma finora non lo ha mai fatto.»

«Ciò non diminuisce il rischio cui è esposta.»

«È lei che vuole correrlo. Che faccia pure quello che crede, ma lontano da qui!»

Per un momento ci fu lo scompiglio tra gli uomini. Poi il Comandante richiamò tutti all’attenzione e alla serietà, prima di rivolgersi a me.

«Erin, non possiamo proteggerti se ti ostini a fare di testa tua. Tuttavia non possiamo nemmeno impedirti di andare avanti con le tue ricerche.» Di sottofondo udii qualcuno dire: «E chi vuole farlo?». 

«Ti sei guadagnata la carica di luogotenente e la manterrai, ma come ho già detto avrai solo volontari, altrimenti nessuno. Cerca di usare il tuo giudizio e di non cacciarti in situazioni pericolose.»

Così Raafael concluse il suo discorso ponendo le condizioni per farmi rimanere in carica ma togliendomi effettivo potere: tuttavia ne avevo ottenuto una che mi avrebbe permesso di riguadagnare la mia posizione, se l’avessi ben sfruttata.

Quando accettai le disposizioni del Comandante, Rufus riprese la parola: «Stai solo perdendo tempo, luogotenente Knight. Non c’è nessuno là fuori simile a te: sei solo uno scherzo della natura e nient’altro. Non sei destinata a nessuna missione gloriosa, che tu lo voglia credere o meno, si tratta solo di credenze popolari.»

«Potrebbe anche darsi, signore, ma se ci sbagliassimo le conseguenze sarebbero catastrofiche non solo per noi ma per tutti i regni.»

«Solo perché sei un po’ più veloce degli altri, non significa che tu sia imbattibile. E lo stesso varrebbe per qualsiasi uomo dotato delle stesse capacità!»

«Voi non comprendete affatto la natura della mia capacità.»

«Oh, vi ho visto sconfiggere alcuni dei nostri uomini migliori a duello, però dubito che un esercito intero non sia in grado di fermarvi. Anzi, sarebbero sufficienti solo le persone presenti in questa stanza per rendervi totalmente inoffensiva, per quanto veloce possiate mai essere.»

«Vi sbagliate di grosso, signore. Solo perché in passato sono stata clemente, non dovete supporre che le mie capacità siano così limitate.»

Rufus proruppe in una risata denigratoria, altri si accigliarono per la mia impudenza.

«State forse insinuando di essere in grado di sconfiggerci tutti assieme?», domandò come se non potesse credere a quello che sentiva. «Raafael, penso che la ragazza sia uscita di senno, hai sentito che ha detto?»

«Saresti davvero capace di farlo?», domandò serio il Comandante.

Quando accennai affermativamente, Rufus mi sfidò.

«Perché non ci mostrate questo grande potere allora?» 

Estrasse la spada che aveva appesa al fianco. 

Fedigar e Uten, due dei luogotenenti minori, si animarono alla provocazione del vecchio e, seguendone l’esempio, misero anche loro mano alle spade.

Io ero disarmata e valutavo la situazione: era il caso che mi facessi trascinare in quella ridicola dimostrazione di forza? 

Mi dissi che non ci sarebbe stato nulla di male: la mia squadra persa ma avrei avuto l’occasione di far abbassare la cresta al Vice-Comandante troppo arrogante e pieno di sé. 

«Come volete», accettai alla fine.

Attesi che tutti si mettessero in posizione di difesa, le armi sguainate. Inspirai a fondo, concentrandomi per attingere al mio potere.

Imbrigliando metapsichicamente l’energia del tempo la obbligai a rallentare e rallentare sempre più, fino a un’apparente immobilità: nessuno batteva ciglio, o meglio, se qualcuno l’avesse fatto quel movimento sarebbe risultato così rallentato che avrei potuto fare il giro completo dalla roccaforte due volte senza che la palpebra arrivasse a chiudersi e riaprirsi.

Tutti i luogotenenti erano immobili davanti a me: cominciai a disarmarli, impilando le armi in un angolo della sala, lontano dal tavolo.

Usai i cordoni e le cinture delle loro divise per bloccare braccia e polsi a coloro che avevano raccolto la sfida, sguainando la spada contro di me; a quelli che erano rimasti volutamente seduti, senza aderire alla sfida, tolsi solo le lame. 

L’unico che risparmiai per rispetto fu Raafael.

Infine, portandomi davanti a Rufus, dalla parte opposta della sala, gli puntai un pugnale alla gola prima di ripristinare lo scorrere del tempo.

Ogni volta che facevo uso del mio potere, dal mio corpo scaturiva un bagliore violetto: la mia vista si tingeva di quel colore, permettendomi di vedere perfettamente anche al buio. 

Per me si trattava di una condizione più o meno prolungata, ma per gli altri, che assistevano alla manifestazione di questa dote, quel colore era un lampo, una luce che scaturiva e si esauriva nel giro di millesimi di secondo, ma le pupille la percepivano, registrando nella memoria il folgore: per questo motivo mi era stato dato il soprannome di Violet.

D’improvviso tutti si accorsero con sgomento di non poter muovere le braccia e di essere disarmati.

Si guardarono attorno prima di capire cosa fosse successo: mi videro puntare alla gola di Rufus la sua stessa lama affilata che avevo trovato nel suo mantello.

Anche il diretto interessato alla fine comprese: diventò di pietra mentre il respiro gli si mozzava in petto, nell’istante in cui comprese il pericolo.

Raafael fu il primo a riprendersi dalla sorpresa, avendomi sin dall’inizio creduto capace di fare quanto asserivo possibile.

«Non avevi mai mostrato prima questo livello di abilità» disse.

«No, infatti.»

«Perché adesso?»

Sapevo cosa mi stava domandando: non avevo mai fatto nulla di simile prima d’ora, perché espormi, dando questa dimostrazione proprio ora?

«Continuate a sottovalutare il pericolo che deriva dal possedere una capacità simile alla mia. Finché è me che si sottovaluta non mi importa: io non devo dimostrare niente a nessuno. Ma se esiste davvero qualcun altro come me, allora è giusto che si valuti attentamente questa possibilità. La mia non è una missione di poco conto o il capriccio di una donna: è necessario assicurarci la lealtà di un individuo così potente oppure ucciderlo, prima che qualcun altro lo usi contro di noi.»

A quelle parole seguì un silenzio innaturale. Rufus continuava a non osare muoversi. 

Mi scostai abbandonando la presa sul pugnale e restituendolo.

Feci un cenno di congedo al mio Comandante e lasciai la sala dove più di metà  del Consiglio militare era ancora legato come un salame.

Mi concessi un sorriso soddisfatto mentre tornavo ai miei alloggi: forse finalmente avrebbero preso più seriamente i miei ammonimenti.

A ogni modo, mi sarei accontentata anche solo che smettessero di fare resistenza: con o senza uomini con me, non mi sarei lasciata fermare da niente e da nessuno.

 





NOTE:
Come avete visto in questo capitolo si manifesta per la prima volta il potere di Erin! *v*
Persino la milizia, di cui lei fa parte, non aveva compreso a pieno quale fosse la portata delle sue capacità e ora ne sono rimasti a ragione semi-sconvolti xD
Violet, infatti, si era sempre assicurata di rallentare il tempo quel tanto che bastava per mettere a segno dei colpi contro i suoi avversari (quando sapeva di non poterli sconfiggere con le sue sole capacità fisiche).  Di conseguenza, agli occhi delle persone normali risultava solo incredibilmente veloce, nulla a che vedere col tipo di "velocità" cui hanno assistito in questo capitolo i capi dell'esercito, grazie alla quale le azioni di lei non erano percepibili a occhio nudo ^^
Spero di avere allettato la lettura nonostante le molte nozioni che vengono esposte all'inizio della narrazione, ma come ho già detto, siamo ancora ai primi capitoli ed è necessario dare le informazioni di base xD
Un saluto caloroso,
Rita <3

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Boicottaggio ***


Capitolo 04 - Boicottaggio

 

Avevo trascorso la settimana successiva alla convocazione del Consiglio nella vana ricerca di volontari che mi aiutassero con la mia missione.

La notizia di ciò che era successo durante la riunione con la mia dimostrazione di potere si era in poco tempo diffusa tra le file dell’esercito, suscitando le reazioni più disparate; tuttavia, era indubbio che fosse opportuno tenersi alla larga da me. 

I più anziani parevano spaventati dalle mie capacità, ritenendole maligne e losche: “arti occulte” le chiamavano, pensando che avrebbero portato alla morte chiunque si fosse avvicinato troppo alla mia persona. I più giovani e baldanzosi, invece, mascheravano la titubanza dietro uno sfrontato orgoglio, affermando di non temere affatto il mio potere, e che non volevano prendere ordini da una donna.

Nonostante le mie lamentele in passato, dovevo riconoscere che i novellini, i quali erano rimasti affascinati da ciò che sapevo fare e dalla fama del mio soprannome, si erano dimostrati più malleabili degli altri: però persino loro erano restii a schierarsi dalla mia parte.

La situazione appariva disperata: se non avessi trovato qualcuno al più presto non mi sarebbe rimasta altra scelta che proseguire le indagini da sola, cosa che dovevo assolutamente scongiurare, non solo perché le indagini avrebbero subito un drastico rallentamento, ma soprattutto perché sarei rimasta esposta a dei rischi.

Checché ne dicesse Raafael e il resto del Consiglio, non ero una ragazzina ossessionata dalla vendetta. Non più, per lo meno. 

Vivevo con la coscienza di ciò che sarebbe potuto accadere se non fossi riuscita a trovare l’uomo della leggenda prima che lo facessero altri: per sei interi anni avevo riflettuto sulle sfaccettature della situazione e mi ero convinta da tempo della necessità che la mia sete di vendetta contro Samuel passasse in secondo piano. Ero perlopiù riuscita a conservare una facciata fredda e distaccata, nonostante le tentazioni di abbandonarmi a fare il contrario.

Sospirai, stirandomi i capelli. Fissai per un momento il mio volto allo specchio pensando a cosa potessi fare per occupare il mio tempo: avevo fatto il giro di quasi tutti i reparti dell’esercito, e non ne rimanevano che un pugno da sondare, prima di dichiararmi sconfitta.

Dovermi abbassare a fare quella richiesta era piuttosto avvilente: nel migliore dei casi si erano limitati a ignorarmi; altri mi avevano schernita ingiungendomi di andare a elemosinare altrove; troppo pochi avevano rifiutato con cortesia; qualcuno mi aveva addirittura fatto delle proposte indecenti, in cambio dell’aiuto richiesto. 

Con questi ultimi avevo dato sfogo allo sdegno, impartendo una lezione che non avrebbero più dimenticato.

La cosa snervante era pensare che, se mi fossi sistemata come dama alla corte, quelle stesse persone che mi disprezzavano avrebbero fatto a gara per ottenere i miei favori.

Studiai la mia immagine allo specchio.

I capelli che solitamente tenevo strettamente legati in una treccia, scendevano liberi lungo la schiena, in morbide onde, il colore scuro acceso da riflessi più chiari alla sommità del capo. Lo zio diceva sempre che erano dello stesso colore di quelli di mia madre; gli occhi del colore della foglia, invece, erano un’eredità paterna, assieme alle piccole e chiare lentiggini sul naso. 

Era da tanto tempo che non usavo gioielli e ornamenti femminili. Anche se non avrei potuto ammetterlo, ne soffrivo un poco la mancanza. 

Quando si vive in un ambiente che disprezza il tuo sesso, si fa di tutto pur di essere accettati, finendo inevitabilmente per rinunciare alle cose che, per quanto banali, sono capaci di recare sollievo di tanto in tanto.

Pur non considerandomi vanitosa, non potevo negare che mi mancassero le attenzioni dei cavalieri, i vestiti ampi e vaporosi, i profumi, i trucchi, i gioielli… mi mancava persino usare certi vezzi.

Avevo dovuto bandire tutto per dedicarmi alle armi e all’inizio non mi era sembrato un gran sacrificio: il mondo militare aveva sempre esercitato fascino su di me; non mi bastava vivere come una donna perché non ci era concessa abbastanza libertà: il nostro universo si sviluppava all’interno di quello maschile, ampio e indipendente, secondo modelli definiti degli uomini cui non ci si poteva opporre.

Non riuscivo a tollerare di vivere soffocata dall’etichetta che mi diceva cosa pensare, come parlare, come agire… che fosse a causa del mio carattere o della mia educazione, ero stata determinata a travalicare i limiti, aprendomi a forza una strada verso il mondo così come appariva agli occhi di un uomo: grande, pieno di possibilità e di azione. 

Nonostante tutto, però, ero anche pienamente donna.

Mi dissi di smettere di rimpiangere le cose a cui avevo rinunciato, apprezzando invece ciò che avevo: più libertà di quanto chiunque, al mio posto, avrebbe mai potuto sognare; un potere che mi dava sicurezza e protezione; un obiettivo da raggiungere.

“Giusto, il mio obiettivo!”

Era tempo di passare all’azione, secondo la misura delle mie risorse, e se ciò non fosse stato abbastanza, avrei dovuto trovare un’alternativa.

Il fallimento non era contemplato.

Cominciai ad annodare i capelli con rapide mosse, fissando l’intreccio alla punta con un laccio di pelle resistente.
Lasciai il viso pulito, come di consueto: i miei lineamenti regolari sarebbero stati ornamenti sufficienti ad appagare la mia vanità. Se fossi stata un po’ bruttina avrei avuto una vita più facile nell’esercito, ma non ero tanto ipocrita da rammaricarmi della mia avvenenza. 

Mai sottovalutare il potere di un bel volto: molti nemici che avevo affrontato si erano trovati a esitare, permettendomi di sconfiggerli senza nemmeno rallentare il tempo.

Gettai un’occhiata alla camera spoglia e perfettamente in ordine, raccolsi dal mobile il fodero col pugnale dello zio Klaus, lo allacciai in vita e fui pronta a uscire.

La mia camera si trovava all’interno del palazzo delle guardie, in una zona che ospitava gli alloggi dei soldati ma ben separata da essi. Questo trattamento di favore era l’unico che avessi mai incoraggiato.

Percorsi il corridoio che portava alle grandi scale. A quell’ora avrei trovato i novellini impegnati negli allenamenti, mentre i più anziani andavano di ronda per le strade.

Imboccai l’alta uscita che si affacciava sul cortile esterno, il quale metteva in comunicazione gli alloggi col resto degli edifici: la sala armamenti, quella dove avevano luogo le riunioni e il Palazzo regio, residenza del re.

Varcai la soglia dell’armamentario, dove si stavano tenendo gli esercizi della truppa di Ruston: il luogotenente stava impartendo comandi con la severità che lo caratterizzava.

Poco distante, Vladimir era alle prese coi miei ex soldati.

Quando mi scorsero smisero di agitare le spade e, con un’aria preoccupata, passarono alternativamente lo sguardo tra me, il vecchio capo, e Vladimir, quello nuovo.

Fu quest’ultimo a rompere il silenzio che si era diffuso, rivolgendomi la parola.

«Siete venuta a chiedere se qualcuno vuole far parte del vostro plotone?» la voce calma e ferma aveva un timbro roco.

Vladimir era uno dei pochi soldati che mostrava nei miei confronti una tranquilla indifferenza: non aveva mai pronunciato una parola contro di me, come non si era mai pronunciato a favore.

Forse non era uno degli atteggiamenti più calorosi che si potesse ricevere, ma lo preferivo di gran lunga all’aperto disprezzo.

A onor del vero, gli unici luogotenenti che mostravano un aperto favore erano Gaven, tenente maggiore, e Ketan, minore.

«Plotone non è il termine esatto, Vladimir, ma hai ragione, sono qua per questo.»

«No, suppongo non lo sia, data la situazione.» 

Si rivolse ai soldati, dicendo: «Sapete già che al luogotenente Knight è stato concesso di riunire dei volontari. Qualcuno tra voi, dunque, intende aderire? Pensateci bene ma velocemente e sappiate che nessuno verrà criticato dal sottoscritto se decidesse di lasciare l’unità. È stata concessa a tutti la più assoluta libertà».

I soldati mi scrutarono in silenzio, nessuno pareva propenso ad abbandonare il proprio posto; i miei ex commilitoni evitarono con cura il mio sguardo.

Ripensai alle parole di Raafael: a quanto pare alcuni di loro si erano lamentati di stare sotto il mio comando già prima dell’ultima missione. Sul momento avevo evitato di rifletterci, ma successivamente ero rimasta male: avrei detto che avessero imparato ad apprezzare la mia preparazione, giacché avevo salvato più di una volta la vita a diversi di loro, eppure non avevano esitato ad abbandonarmi, neanche fossi stata un insopportabile caprone come Rufus.

Mettendo da parte quei pensieri, mi accorsi che Eric mi fissava, incerto se proferire parola. 

Attesi qualche istante, ma fu inutile. 

Ringraziai Vladimir per il tempo concessomi, e mi diressi all’uscita. 

Giunta nel cortile udii dei passi nella mia direzione e voltandomi riconobbi Eric; mi trattenni per sentire cosa aveva da dire.

«Sono spiacente», sbottò d’un fiato.

«Mi hai seguito solo per dirmi questo? Torna ai tuoi allenamenti. Vladimir ha concesso a tutti il tempo per pensarci, non dovresti farlo arrabbiare perdendone dell’altro qui fuori.»

«Lo so. E mi dispiace, però dovevo dirvi qualcosa. Io…»

Sembrava a corto di parole mentre tormentava la nuca con le unghia.

«Siete tutti liberi di scegliere, non mi devi nessuna spiegazione, Eric.»

«Invece sì! Voglio che sappiate che non mi sono trovato male con voi. Siete una donna nobile e coraggiosa, anche se siete severa. Ci avete sempre trattato tutti con giustizia. In troppi non riconoscono i vostri meriti.»

Mandai fuori un lungo sospiro, non del tutto sicura di apprezzare quelle tardive parole.

«Ti ringrazio, Eric, ma... anche se mi dici queste cose nemmeno tu vuoi stare dalla mia parte altrimenti ti saresti fatto avanti poco fa.»

Capii chiaramente che quanto dissi lo colpì e lo fece sentire in colpa.

Che lusinga potevano mai essere delle parole quando poi non corrispondevano i fatti?

«Torna dal tenente, ora. Dimostragli almeno che ti ho addestrato bene.»

Eric si morse un labbro e rimase piantato nel cortile: mi fissava con rammarico, quasi volesse aggiungere qualcosa.

Lo tolsi di impiccio voltandomi e andandomene, ma proprio allora si decise a parlare.

«Knight, la verità è che nessuno sarà disposto a passare dalla vostra parte!»

Mi voltai indietro.

«Lo so. So che per voi...»

«No», mi interruppe, «Non si tratta di quello che pensate. Non è solo perché siete una donna. Avete troppi nemici.»

«Sì, so anche questo...»

«Non capite! Il Vice-comandante Rufus assieme ai luogotenenti Sive, Terun, Fedigar e Uten vi stanno boicottando.»

«Cosa dici?! Che intendi?», sfiatai sgomenta, completamente presa in contropiede.

Eric era sempre più nervoso e parlò velocemente, lanciando nel frattempo occhiate tutt’attorno.

«Corre voce che non siano rimasti molto contenti della vostra dimostrazione di forza al Consiglio. Si dice che li abbiate disarmati tutti, legati con le cinghie e che abbiate anche puntato alla gola del Vice-Comandante la sua stessa spada, è la verità?»

«Sì, anche se non era la sua spada, solo un semplice pugnale. E non ho legato tutti, solo coloro che mi avevano sfidato.»

Assentì col capo, certo che avrei confermato quell’assurda storia.

«Ecco... dopo quello che è successo hanno complottato tra loro. Alcuni soldati dei loro battaglioni, miei amici, mi hanno riferito – e così hanno fatto con tutti – che chiunque si unirà al vostro seguito, subirà pesanti conseguenze. Sono state fatte aperte minacce: la voce si è sparsa e ora tutti temono una ritorsione. I tenenti Sive e Terun hanno molta influenza, nessuno li sottovaluta, così come Uten e Fedigar che hanno fama di essere teste calde; se poi hanno l’appoggio del Vice-Comandante non c’è storia. Nessuno vuole rischiare tanto: la vita da soldato espone già a dei rischi senza doverne affrontare dall’interno.»

Si interruppe un momento, riprendendo fiato. Boccheggiò un paio di volte, non sapendo con quali altre parole farmelo capire.

«Quello che intendo dire è... che non avreste alcuna possibilità nemmeno se foste stata un uomo: non con un fronte così compatto, senza solide alleanze su cui contare.»

In realtà, le alleanze non erano un problema. Sol che lo volessi, avrei potuto esercitare una inimmaginabile pressione su tutti loro, ma non avevo mai voluto approfittare di certi stratagemmi. 

Che adesso avrei dovuto abbassarmi a farlo? Era davvero l’ultima possibilità che mi rimaneva?

«Adesso capisci?»

Eric si aspettava una risposta, ma io ero rimasta in silenzio a riflettere. 

Dopo poco, risposi: «Sì, comprendo molte più cose in effetti. Ti ringrazio di avermi detto come stanno le cose. Se non fosse stato per te, non lo avrei scoperto molto presto. Forse mai».

«Mi sembrava il minimo che potessi fare. Come avete giustamente notato, nemmeno io ho il coraggio necessario per stare dalla vostra parte», disse con espressione triste.

Mi pentii di essere stata tanto dura.

«Oh, Eric, non devi preoccuparti. Prima ho parlato senza sapere, quindi non fartene una colpa, va bene?»

«Sì, ma… avrei voluto avere più influenza…»

«Non sarebbe stato abbastanza in ogni caso, temo», lo disillusi. «Restano più numerosi degli alleati che avrei mai potuto avere.»

Un movimento alle spalle del ragazzo attirò la mia attenzione: Ruston ci teneva d’occhio dall’armeria.

Pensai a quanto fosse pericoloso per Eric parlare con me in privato, anche se sotto gli occhi di tutti. Non potevo rischiare che quel ragazzo subisse delle offese se avessero capito che mi aveva rivelato il complotto.

Alla luce delle nuove informazioni anche le parole di Vladimir acquisivano un nuovo significato: “sappiate che nessuno verrà criticato dal sottoscritto se decidesse di lasciare l’unità”. 

Dunque sapeva. E aveva messo in chiaro di non far parte del gruppo che cercava di ostacolarmi.

«Eric, credo sia meglio che tu vada. Non voglio metterti in pericolo se ti vedono parlare con me.»

Sgranò gli occhi come se quel pensiero non gli fosse balenato in mente.

«Pensate che possa accadere?» Era chiaramente spaventato da quella possibilità.

Annuii. «Perciò stai al gioco.» 

Con mossa repentina gli strappai di mano la spada che usava per esercitarsi.

Sussultò sorpreso, quasi pronto a protestare, poi capì il mio piano e mi stette dietro.

«E non osare più insultarmi con le tue parole, ragazzino!», gridai a beneficio dei testimoni.

Eric finse di adirarsi, umiliato, mentre gli rivolgevo la sua arma contro.

Lo costrinsi a scusarsi prima di gettare a terra la spada con rabbia.

Mi congedai dal pubblico nascosto nell’ombra, rivolgendo in segreto a Eric un sorriso di gratitudine.

Lo vide e ricambiò.

Dopo l’ultima, sconcertante scoperta, non me la sentii di tornare agli alloggi della caserma, così imboccai una strada che portava al centro città, rimuginando su tutto quanto.

Non aveva importanza quale stratagemma avrei dovuto inventare: niente e nessuno mi avrebbe impedito di compiere il mio destino.

 
 



NOTE:
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto ^^
Vi anticipo che col prossimo prenderà piede la storia: cosa farà Erin?
È osteggiata da molti luogotenenti e non può fidarsi di nessuno. Non ha solide alleanze all'interno dell'esercito e deve affrontare il problema di essere completamente sola per adempiere alla sua missione!
Scrivete delle recenzioni per farmi sapere cosa ne pensate della storia! E soprattutto cosa vi aspettate che accada a questo punto XD
Colgo l'occasione per ringraziare in maniera speciale chemondosarebbesenzanutella che ha lasciato la prima recenzione! Sono stata molto contenta di sapere che la storia ti ha colpita molto e spero che, andando avanti, possa continuare a piacerti! Mi metterò d'impegno perché nulla sia scontato o lasciato al caso!
Ringrazio anche Athenril, happyness elly e lysam che seguono la mia storia! Spero di leggere presto anche qualche vostro commento *v*
Per ora è tutto xD Alla prossima!
Rita <3

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Surdesangr ***


Capitolo 05 - Surdesangr
 

Trascorsi la mattina a girovagare per le strade della città bassa. 

Quando dovevo meditare preferivo tenermi alla larga dalla zona delle residenze nobiliari dove le persone per strada avrebbero potuto riconoscermi per mescolarmi nel flusso della gente del popolo impegnata nelle quotidiane attività.

Potevo, per un momento, lasciarmi alle spalle la mia condizione di privilegiata, entrando in contatto con quella parte di umanità comune che per molti versi mi sarebbe sempre rimasta estranea. 

Mi resi conto con un certo ritardo di dove mi avessero condotta i miei passi.

C’era un posto in cui mi recavo, negli ultimi anni, quando mi sentivo afflitta o amareggiata: il Surdesangr, l’arena dove venivano combattuti gli incontri più cruenti tra gladiatori e schiavi.

Si trattava di un complesso in pietra di medie dimensioni, il più imponente nella zona popolare di Norvo. Era un famigerato luogo di raduno per malviventi e gente pericolosa, in cui si poteva scommettere sull’esito degli incontri.

Era invero un posto macabro, dove la morte mieteva quotidianamente vittime.

Poche persone avevano il coraggio di avventurarvisi – specie se erano gravate da beni materiali o di altra natura – a meno che non cercassero con impellenza la compagnia delle prostitute dei Signori del Surdesangr

Da anni, tuttavia, la gente del posto si era abituata alla mia eccezionale presenza e aveva smesso da un pezzo di molestarmi con tentativi di furto o domande inopportune. 

A dirla tutta, era proprio qui che mi ero guadagnata il soprannome di Violet.

Attraversando l’imponente arco di pietra, mi si presentò davanti l’arena circolare, larga parecchi metri.

Già nel pomeriggio era pieno zeppo di gente urlante, tutta presa a incitare i combattenti, i quali ansimavano grondando sudore. 

Il terreno per gli incontri era recintato da una enorme gabbia di ferro macchiata di sangue essiccato, del sudore della folla e di altro sudiciume che era preferibile non analizzare troppo da vicino.

Mi tenni a distanza dalle tribune dove si accalcavano gli uomini e mi sistemai sugli spalti rialzati, accomodandomi sulla nuda pietra e abbandonandomi alla ferocia dello spettacolo. 

Nonostante quanto si potesse credere vedendomi frequentare un luogo simile, disprezzavo il modo in cui venivano usati quei poveri schiavi: brutalizzati, costretti a lottare tra loro per salvare la propria vita, per quanto misera. 

Quel tipo di intrattenimento andava per la maggiore da secoli, incitando la parte più bestiale e sanguinaria dell’essere umano. Eppure, nonostante il ribrezzo forse a causa di questo ne ero attratta: assistevo ai massacri meditando sulla condizione umana, sui vizi che condannavano gli uomini alla sofferenza, alla mancanza di gentilezza... 

Vedendo sui volti dei vincitori eccitazione, frenesia, baldanza, rivalsa e paura, sconfitta, umiliazione in quello dei perdenti, in un istante afferravi il peso dell’assurdità della vita. Esattamente sprofondando al centro del suo squallore.

Quando arrivavo al limite delle pressioni, e le preoccupazioni mi soverchiavano, lo spettacolo della morte era come una ferita da cui fluisse fuori il sangue.

L’emorragia nascosta poteva allora guarire, perché io ero viva ed ero libera. Avevo dimostrato a me stessa di essere abbastanza forte da non distogliere lo sguardo davanti al dolore.

Una parte di me, inoltre, si chiedeva sempre se un giorno sarei morta in quel modo: trafitta, in preda al dolore, sola; sconfitta dalla mano di un nemico più forte e astuto di me. Era una disgustosa medicina per la paura: il chiasso frastornante, l’aria pregna della puzza di sangue, sudore e piscio... l’odore della disperazione.

 

ꕥꕥꕥ

 

I contendenti sul campo erano stanchi e feriti: il bestione grasso avrebbe probabilmente avuto la meglio sul tizio smilzo e traballante. Non doveva essere il primo combattimento del giorno, ma era sfiancato dalle lotte precedenti. Per il biondino magro, invece, doveva essere il suo primo, vero combattimento: gli si leggeva negli occhi il terrore dell’avversario. 

Non c’era storia, i fatti mi diedero ragione. Il ragazzo morì colpito alla gola: un fiotto di sangue inzuppò il terreno polveroso, schizzando sugli stracci del vincitore, il quale incitava la folla ad acclamarlo. Poi lottò contro altri tre avversari, prima di morire per caso sotto il colpo di un avversario meno degno di lui.

Proprio quando stavo per tornare a casa, una mano callosa mi afferrò trattenendomi.

«Violet! Che sorpresa, non mi aspettavo di vederti!»

Avevo immediatamente riconosciuto l’omone: molto più alto di me, sul metro e novanta, era grosso di corporatura e muscoloso; sulla cinquantina, gli occhi nocciola piccoli ma profondi mi fissavano gioviali. Teneva i capelli, radi sulla fronte ma abbastanza lunghi sulla nuca, raccolti in tante piccole treccine. Il viso, segnato da numerose cicatrici che gli conferivano un’aria ribelle e pericolosa, era tirato in un sorriso. 

Non era un soggetto raccomandabile, ma lo conoscevo da anni ormai.

«Calis, da quanto tempo», lo salutai afferrandogli un braccio.

«Cosa ti porta da queste parti? Non ti si vedeva da un po’.»

«Avevo bisogno di pensare» dissi scrollando le spalle.

«Ah-aah, certo. Tu riesci a pensare in un posto del genere?» rise, allargando le braccia come a contenere il putiferio attorno. 

«È proprio da te scegliere un luogo pericoloso per venire a rilassarti… Auf, guardati! Come sei pallida! Non ti danno da mangiare su alla fortezza delle guardie?»

«Il cibo non manca ma quel posto fa passare la fame.»

Rise di gusto, pensando fosse uno scherzo. Con una pacca sulla spalla mi riaccomodò sugli spalti.

«Perché non ti fermi alla nostra tavola? Vasil sarà contento di ospitarti… è parecchio che non ti vede. Sai com’è, si è fatto vecchio e la compagnia femminile lo tirerebbe su.»

«Ghiaccerà l’inferno prima che Vasil si faccia mancare compagnia femminile e si deprima in un angolo», lo corressi, «grazie dell’invito, comunque, ma non so se sia il caso di accettare. Ho delle cose a cui devo pensare per il momento.»

«Ti riferisci ai volontari che devi trovare?»

Sussultai, strabuzzando lo sguardo.  «Ma come diavolo…?! La voce è arrivata fino a qui?»

«Puoi dirlo forte, bambina», ghignò sornione.

«Non so se ci sia qualcuno in città che non sappia di questa storia. La servitù parla. Dove c’è almeno un paggio o un mozzo di stalla si può star certi che le notizie viaggino veloci. Ho saputo anche dello spettacolino al Consiglio: abbiamo contatti con le guardie, quaggiù.»

«Naturalmente», sbuffai.

«Se ne parla come dell’ultima impresa di Violet, che “disarma e lega come salami i membri più importanti del Consiglio”. Che forza che sei!» esclamò, mezzo soffocato dalle risa. 

Gli ultimi colpetti di tosse misero fine alla sua ilarità.

«Da queste parti abbiamo applaudito alla tua mossa. Non amiamo molto i soldati.»

«Certo che no.»

«Ah, ma tu sei un’eccezione!», si affrettò ad aggiungere con un’altra pacca rude ma affettuosa sulla schiena. «Ora che intendi fare?» mi chiese, proseguendo il discorso con tranquillità. «Immagino che tu abbia bisogno di qualcuno.»

«Sì», sospirai. «Devo assolutamente trovare qualcuno disposto a seguirmi. Non posso farcela da sola.»

«Tutti i soldati hanno… ripiegato

Annuii. 

«Ci sono diversi motivi, ma ultimamente mi stanno boicottando: non posso alleviare la paura di alcuni soldati sulle possibili ritorsioni perché non ho abbastanza influenza per proteggerli tutti.»

«È un gran brutto problema. Non sai ancora cosa fare?»

«Ci stavo pensando, per questo sono qui.»

«Pensi di comprare uno schiavo, o vuoi affrancarne uno?»

Riflettei su quella proposta, valutandola attentamente. Non era un’opzione che avevo considerato all’inizio, ma perché non farlo se era fattibile?

«Sarebbe un’idea, sì.»

Calis si grattò la crespa barba grigia. 

«Ti servono degli uomini molto forti», borbottò, «che sappiano combattere e che abbiano disciplina… purtroppo la maggior parte degli schiavi che si trovano qui non vanno bene, sono ragazzetti spauriti che non hanno mai visto una lama in vita loro.»

«Dunque, quello che cerchi è un campione» annunciò. «Purtroppo sono molto quotati. Ti permettono di vincere le scommesse, non troveresti nessuno disposto a venderti il proprio, a meno che non si tratti di una somma esorbitante.»

L’arena del Surdesangr era governata da un gruppo di uomini noti col nome di Signori del Sangue: arricchitisi grazie al commercio di schiavi, i loro guadagni erano incrementati dalle scommesse organizzate nelle arene. Ciascuno possedeva uno o più Campioni, ovvero schiavi che si erano distinti per la loro forza e che erano sopravvissuti più a lungo ai giochi.

In genere, i Campioni più forti e fortunati sopravvivevano qualche anno. Fino a quel momento, i Signori del Sangue provvedevano a nutrirli e armarli meglio degli altri. 

Gli incontri tra Campioni erano diversi da quelli a cui avevo assistito quel pomeriggio: non carneficine gratuite ma incontri tra guerrieri in voga, seguiti e amati dalle folle.

«Non mi preoccupano i soldi, ma vorrei prima vedere la merce. Mi consigli qualcuno in particolare?»

Calis sbuffò, grattandosi la barba, e scrollò le spalle. 

«I più quotati al momento sono Geoffrey, il Toro e il Cavaliere. Ma il Toro è un po’ stupido, tutta forza bruta e poco cervello, non ti servirebbe che a farti tagliare la gola nel sonno: non è un tipo leale.»

«Come lo tiene sotto controllo il suo Signore?»

«Col Giuramento di Sangue, in che altro modo sennò?»

«Dunque il suo Signore è Drogart.» 

«Esatto. È l’unico che possa vincolare uno schiavo col sangue, qui al Surdesangr

Il Giuramento di Sangue era uno dei patti magici più antichi e vincolanti, donato dagli Dei agli uomini: solo chi era dotato di sufficiente potere riusciva a legare un uomo a sé tramite di esso.

Ma le antiche arti era quasi del tutto scomparse in questa parte del mondo: rimanevano praticabili soltanto alcune forme di esse. Dunque un simile patto costituiva qualcosa di eccezionale. Non capitava spesso, infatti, che la magia latente fosse sufficiente per forgiare il legame, il quale richiedeva un rito complesso sotto diversi punti di vista.

Lo scopo era di legare il destino e la vita di una persona a quella di un’altra. Una volta stipulato il contratto magico, vi erano ben poche cose in grado di romperlo: una di queste era l’interferenza sul vincolo di una terza forza più potente.

Essendo già raro qualcuno potente abbastanza da stringere un Giuramento di Sangue, seguiva che fosse quasi impossibile incontrare qualcuno capace di soverchiare un simile legame.

Purtroppo per Drogart io ero quel “quasi impossibile” che avrebbe potuto spezzare il suo incantesimo, se solo avessi voluto.

Questo era uno dei miei segreti.

«Quando potrò vedere combattere i Campioni?»

Calis, che nel frattempo era tornato a interessarsi agli scontri nell’arena, rispose: «Presto. Sei fortunata. Sono qua perché oggi combatteranno tutti».

«Solo quattro campioni?» chiesi, accigliandomi.

«Vasil non ha nessuno che possa competere» grugnì, palesemente scontento.

«Gli affari sono a una battuta di arresto?»

«Possiamo dire così. Il problema è che ci mancano i Campioni. Pochi tengono testa al Toro e nessuno batte il Cavaliere. Per ora scommettiamo sulle gare minori, ma non è sufficiente.»

«Mi spiace sentirlo.»

Scrollò le enormi spalle, minimizzando.

Il combattimento, più in basso, volgeva al termine: gli schiavi erano ammaccati, ma nessuno aveva perso la vita; uno si era arreso in tempo.

Alla conclusione dell’ennesimo scontro, seguì un momento di pausa in cui si sentì vibrare l’eccitazione: i banchi delle scommesse erano presi d’assalto dalle persone accalcate per dare la puntata; tutt’attorno enormi calici pieni di birra venivano svuotati con sorprendente velocità mentre si parlottava riguardo i Campioni che presto sarebbero scesi in campo.

Presto mi feci l’idea che il Cavaliere fosse quello che suscitava più stupore sebbene, a detta dei più, non spargesse abbastanza sangue; Il Toro doveva essere l’animale che lasciava intendere il suo soprannome: aveva fama di assalire l’avversario col peso della sua mole; su Geoffrey udii delle critiche sulla puzza eccessiva che emanava: si diceva fosse quella a stendere gli opponenti prima che la spada; del Gallo seppi che aveva guadagnato il suo soprannome chiedendo, come ricompensa per le vittorie, diverse donne da montare: si diceva avesse dato spettacolo persino sul ring, accoppiandosi con foga sul cadavere dell’uomo appena ucciso.

 

ꕥꕥꕥ

 

Un boato di ovazioni accompagnò la comparsa dei Campioni.

La folla si aprì e quattro uomini corpulenti avanzarono sul pavimento sabbioso ammiccando. 

Solo uno di loro era taciturno, l’espressione torva come se non vedesse già l’ora di finire: era biondo e di bell’aspetto da quanto riuscivo a scorgere. Le prostitute che si trovavano nell’arena, gli lanciavano sguardi bramosi e pieni di desiderio.

«Il nome di quel tipo?» chiesi a Calis, indicandogli il biondino.

«Quello è il Cavaliere. Non parla molto ma quando combatte è una vera forza», assicurò.

«Quello con la testa rasata e il cerchio sul naso è il Toro», proseguì. 

Era comico all’inverosimile la somiglianza dello schiavo alla bestia di cui portava il nome.

«Il tizio con quel ridicolo ciuffo è il Gallo.»

Notai che non era alto ma in compenso era ben piazzato: sembrava un armadio, tanto era quadrato; i capelli rossi spiccavano davanti alla faccia dove un ciuffo pronunciato gli copriva quasi metà viso.

«L’occhio coperto è cieco, una ferita da battaglia», mi spiegò Calis. «È stato fortunato a non lasciarci la pelle.»

L’ultimo rimasto, un gigante dall’espressione un po’ intontita, doveva essere Geoffrey: i denti putrefatti si notavano persino da quella distanza.

«Stanno per sorteggiare le coppie.» Anche Calis era impaziente di assistere agli incontri. Era venuto per conto di Vasil a studiare gli schiavi per individuare falle nella loro difesa e nel loro modo di combattere. Anche se non possedeva al momento un lottatore all’altezza, contava di trovarne uno quanto prima.

Prima di ogni incontro, veniva offerta la possibilità agli altri schiavi di sfidare la posizione dei compagni: in caso di sconfitta, il nuovo vincitore avrebbe ottenuto il titolo di Campione in carica, guadagnando tutti i privilegi dell’altro.

Assistetti ai combattimenti preliminari che non durarono a lungo: nessuno schiavo si erano dimostrato abbastanza forte. Ma era doveroso tentare: uno dei privilegi che si otteneva era l’affrancamento dalla schiavitù dopo un periodo di cinque anni. A patto di rimanere vivi e di vincere, si poteva riguadagnare la libertà.

Ben pochi erano mai riusciti in tale impresa, eppure era un forte richiamo: un sogno che spingeva quei miserabili a combattere per qualcosa.

I primi a fronteggiarsi furono il Toro e Geoffrey; erano entrambi imponenti anche se il secondo superava di qualche centimetro la testa rasata del Toro. 

Lo scontro durò parecchio prima che uno dei due mostrasse segni di stanchezza. 

Capii immediatamente cosa avesse voluto dire Calis riguardo al Toro: aveva modi efferati, una foga animalesca e lo sguardo omicida; era chiaro che amasse la lotta fine a se stessa, pareva godere di ogni colpo inferto. Quando riuscì a spingere l’avversario fuori dal ring, gridò con una voce tremenda, i tendini del collo tesi allo spasmo e la bava alla bocca, mentre aizzava la folla.

L’incontro successivo fu tra il Cavaliere e il Gallo: quest’ultimo sfruttava la propria mole lanciandosi in violenti attacchi che avrebbero tramortito un bue; d’altro canto, il Cavaliere traeva vantaggio dalla cecità del rivale, spostandosi sempre verso la zona cieca. Si muoveva con grazia e agilità: parve soppesare testa-rossa, poi eseguì repentine azioni di attacco, tutte mirate a precisi scopi. Riusciva a schivare i colpi senza sforzo aumentando, di secondo in secondo, il proprio vantaggio.

«Cosa sai di questo Cavaliere, Calis?» gridai vicino il suo orecchio per sovrastare il vociare della folla.

L’uomo ghignò soddisfatto, si era aspettato il mio interesse. 

Rispose: «Nessuno ne sa molto, in realtà. È arrivato in città già schiavo un paio di anni fa. Si fa notare quando maneggia la spada, è chiaro che ha una tecnica incredibile, ma lui stesso non dice dove abbia imparato. È un fottuto enigma».

«Pensi che sia pericoloso?»

Calis scrollò le spalle, meditando. «Per esserlo, lo è», rispose lentamente. «Basta guardarlo combattere: non perde mai uno scontro. Ma c’è un motivo se il suo soprannome è ‘Cavaliere’.»

«E sarebbe?»

«È fin troppo gentile. Non uccide mai il proprio avversario a meno che non sia indispensabile. Nemmeno quando è la folla a esigerlo.»

«Non uccide nessuno?», ripetei sbalordita.

«Non esattamente... ha dato la morte a chi era spacciato e sarebbe spirato dopo una lenta e dolorosa agonia. Alcuni lo chiamano addirittura “Angelo della Morte” per la pietà che mostra ai compagni.»

Quelle parole mi fecero sperare che non fosse un tipo tanto male. Forse era possibile acquistare la sua lealtà e convincerlo a battersi per me?

Senza alcuna sorpresa, fu lui ad aggiudicarsi la vittoria. 

Presi nota del fatto che non aveva inflitto gravi ferite al compagno. Nonostante questo, il Gallo, sdegnato e deluso, rifiutò la mano tesa per aiutarlo a rialzarsi; sputò sul terreno in mezzo ai grumi di sangue rappreso e, voltando la schiena al pubblico, abbandonò il campo.

Il Cavaliere sconfisse anche il Toro, successivamente.

«Che hai deciso di fare?» 

Mi voltai a fissare Calis negli occhi, le labbra tese in un sorriso complice. «Suppongo di dovermi dare da fare, mio caro amico», risposi. «Voglio quel Cavaliere tutto per me.»

«Non sarà affatto facile, Violet», mi ammonì. «Il Signore del tuo Campione è Stenton. Forse non riuscirai a strapparglielo, di sicuro non vorrà venderlo: ci fa troppi soldi al momento.»

«Da quanto tempo hai detto che è al suo servizio?»

«Almeno due anni, che io sappia. Prima però credo lo facesse gareggiare in un’altra arena, a Baia dei Mercanti. Ha portato il ragazzo qui solo da qualche mese. Ancora un paio d’anni e sarà libero, sempre che continui ad avere fortuna e non muoia.»

Fissando la gente che sfollava dagli spalti scoppiò a ridere con voce tonante. «Ah ah ah… ragazza mia, sei davvero risoluta, non è così?» 

«Ma probabilmente sei l’unica che ce la può fare. Staremo a vedere», commentò. 

Scossi la testa mentre se la rideva di gusto: era un burlone e non sarebbe mai cambiato. «Andiamo a fare visita a Vasil, dai», dissi alla fine. «Spero sarà contento di vedermi.»

«Puoi scommetterci, bambina», disse, avviandosi verso l’uscita.

Si era fatta sera, nel frattempo. Seguii Calis ripensando al passo che mi accingevo a fare. Non esisteva garanzia che avrei trovato la soluzione ai miei problemi, ma era comunque meglio di non avere alternative.

 
 

 

NOTE:
Eccoci al 5° capitolo! 
Accetto qualsiasi parere, spero sempre di migliorare.
Se ci sono degli errori perdonatemi: se ne notate alcuni, segnalatemeli pure, provvederò alla correzione! <3
Grazie a tutti quelli che seguono la mia storia! *^* Soprattutto grazie ad Aelle Amazon che ha praticamente commentato tutti i capitoli fin ora pubblicati e mi ha aiutato nella correzione di alcune frasi =D
pero che anche questo capitolo ti piaccia e soprattutto ti metta curiosità! 
Alla prossima,
Ryo13

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il vecchio Vasil ***


Capitolo 06 - Il vecchio Vasil
 

Vasil mi guardava torvo e non sembrava particolarmente contento di vedermi.

Lo fissai di rimando in assoluto silenzio, senza lasciar trasparire i miei sentimenti.

Era un vecchio sulla settantina, pieno di rughe, ma aveva gli occhi vispi e intelligenti dello stesso colore nocciola di quelli di Calis; i suoi capelli erano canuti e raccolti ordinatamente in una treccia che scendeva a metà schiena; sul volto era ornato da tatuaggi ormai sbiaditi dal tempo, le cui forme difficilmente si distinguevano a causa dei profondi solchi della pelle: stavano attorno agli occhi, sugli zigomi e sulla fronte; non gli avevo mai chiesto del loro significato. Era anche massiccio nonostante fosse un po’ curvo: in gioventù doveva avere impressionato non poche persone con la sua mole.

Calis, con la solita calma allegra, mi fece accomodare al tavolo e mi offrì da bere. Accettai un boccale di birra, poi studiai il locale: non era cambiato molto. Gli occhi scivolarono sul tavolo, che era sempre lo stesso, il legno duro scalfito da intarsi, un po’ umidiccio per via della birra che vi scorreva a fiumi. La stanza era stretta e non molto luminosa, nella parete di fronte l’entrata c’era una sola porta che conduceva alle stanze con i letti: erano le più eleganti della casa, destinate al padrone; completamente differenti rispetto ai giacigli di fortuna destinati agli schiavi nelle prigioni.

A causa del grande commercio e del loro folto numero dovevano continuamente essere sorvegliati affinché nessuno potesse tentare la fuga: venivano tenuti in delle strutture adibite a gabbie, scarne e dotate di ben poche comodità, dove solo l'essenziale era contemplato. 

Diventare Campione era allettante per diversi motivi: anzitutto veniva permessa la fuga da questa condizione degradante. Al detentore del titolo era riservata una stanza se non proprio signorile, quantomeno decorosa; ma soprattutto gli veniva concessa un po’ di privacy. Non che fosse concessa maggiore libertà, tuttavia si poteva godere di una bella illusione.

«Che cosa sei venuta a fare?», proruppe acido Vasil.

Mi concentrai sulla cicatrice che gli sfregiava il volto, deturpandolo da parte a parte. Egli se ne accorse e si mosse nervoso sulla sedia.

«Non sei contento di vedermi, Signore del Sangue

Vasil sbuffò, come se avessi detto una sciocchezza, ma mi rispose con onestà: «Quando ci sei di mezzo tu le cose tendono a prendere strane pieghe. Non sono sicuro che mi piacciono certe conseguenze…»

«Eppure, la prima volta che ci siamo incontrati hai tratto beneficio dalla mia presenza, se non erro. Cosa hai da temere, ora?»

«Non ho abbastanza uomini», borbottò accigliato.

«Curioso… nemmeno io dispongo di molte risorse, al momento», commentai. Poi aggiunsi: «Dimmi cosa ti turba e vediamo di mettere a posto le cose in modo che vada a vantaggio di entrambi».

Dopo un attimo di riflessione, rispose: «Ho molti schiavi da tenere a bada e pochi uomini fidati in grado di contenerli… e non ho nemmeno un Campione che mi permetta di battere quelli dei miei rivali! I soldi scarseggiano e mi trovo in stallo permanente».

Riassunse la situazione con un tono freddo ma il fatto che non mi guardasse negli occhi e il movimento nervoso delle dita mi dissero quando fosse preoccupato, sebbene non era disposto a umiliarsi, ammettendo la propria debolezza.

«Se la tua presenza provocasse turbolenze non sono sicuro di poter tenere tutto sotto controllo», ammise alla fine.

Ed ecco, dunque, il nocciolo della questione.

«Io ho bisogno di un Campione», annunciai con studiata indifferenza.

«Tu?!», sbottò sorpreso il vecchio.

«Esatto.»

Gli spiegai brevemente come stavano le cose.

«Non puoi sperare di strappare quell’uomo a Stenton!», commentò dopo avermi ascoltato incredulo. «Fa affari d’oro con quel Cavaliere… non gli metterà un prezzo per venderlo. Nessuno ha tanto oro quanto ne fa lui in un anno di combattimenti!»

«Troverò il modo di convincerlo.»

Quando mi vide ferma nelle mie intenzioni, Vasil disse: «Tu hai già in mente qualcosa».

Gli sorrisi, inclinando la testa.

«Ha a che fare con me, non è così? Altrimenti perché saresti venuta?»

«Sei perspicace come sempre, Vasil. Sì, mi serve il tuo aiuto.»

«Spiegati, ragazza!»

Il soliti modi burberi ebbero il potere di rilassarmi. Traendo un respiro a pieni polmoni, spinsi indietro la sedia, mettendomi in piedi e, passeggiando attorno alla stretta stanza, gli esposi il mio piano quale lo avevo concepito.

«Siamo tutti d’accordo sull’improbabilità che Stenton rinunci al Cavaliere per la lusinga del denaro, sebbene non possiamo escludere del tutto a priori la possibilità che abbocchi: è avido come tutti, dopotutto. Per quanto ne sappiamo, potrebbe già avere in mente di venderlo per ricavare il massimo profitto prima della scadenza dei cinque anni necessari per l’affrancamento. A ogni modo, se questa via non funzionasse potrei sempre provare a vincerlo con uno scontro leale.»

Vasil era accigliato, ma aveva afferrato dove volevo andare a parare.

«Intendi sfruttare il diritto di Sfida», disse, concentrato.

«Proprio così», confermai soddisfatta. Doveva aver notato la luce divertita nei miei occhi e capito che ero seria al riguardo.

«Ma… è un diritto riservato ai Signori del Sangue, valido per i soli Campioni in carica.»

«Lo so bene.»

Nel silenzio che seguì, quasi vidi gli ingranaggi della sua mente all’opera.

«A cosa ti servo, io? Sai che non ho Campioni da far gareggiare per una Sfida, anche ammettendo che qualcuno sia capace di battere quello sfrontato del Toro o addirittura il Cavaliere stesso! Vuoi che ti raccomandi a un altro Signore? Magari Drogart, visto che il Toro è quello che ha più probabilità di battere il Cavaliere? Però senza un tornaconto nessuno si prenderebbe la briga di imbastire una Sfida. Troppo rischioso…»

«No, non avevo in mente nulla del genere, Vasil», lo interruppi.

«Che cosa? Ma allora, come…?»

«È molto più semplice… sarò io il tuo Campione.»

Il vecchio sgranò gli occhi; io mantenni un’espressione impassibile nell'attesa che afferrasse le implicazioni di quanto avevo appena annunciato.

«Tu, Violet?! Come potremmo…? No! È troppo rischioso. Se ti succedesse qualcosa mi verrebbero a cercare…!»

«Non mi succederà nulla, vecchio. E anche se fosse, chi ti potrebbe biasimare? Sono stati loro a spingermi a questo.»

«Ma il re…», cominciò a protestate concitato, prima di venire interrotto da un mio secco cenno.

«Non devi preoccuparti nemmeno di lui. Farò in modo che non ci siano ritorsioni.»

«È facile dirlo, tuttavia… quando un nobile si adira non c’è molto che possiamo fare noi altri poveri uomini. Qualsiasi promessa verrebbe dimenticata nel caso in cui tu morissi, ne sono certo.»

«Ma non morirò.»

«Ah… è inutile parlare con te!» si stizzì. Agitò le mani, alzandosi dalla sedia, come se volesse mandarmi via.

Calis, dal suo posto al tavolo, non aveva più detto nulla e si era limitato ad ascoltare meditabondo.

«Potrebbe anche funzionare…» sussurrò piano, ma venne udito da entrambi.

Vasil scattò con un'imprecazione nella sua direzione. «Non è il caso nemmeno di parlarne!»

«Ma zio, ragiona… potremmo tutti ottenere ciò di cui abbiamo di bisogno! Se Violet riuscisse nell'impresa, otterrebbe il suo Campione e noi ingenti incassi dalle vincite. Potrebbe essere l’occasione buona per risollevarci…»

«Argh!» gridò il vecchio, il volto contratto dalla rabbia. «Ma non può farcela. E se ci rimane secca, per noi è la fine! Il re esigerebbe le nostre teste.»

«Perché mai il re dovrebbe volere…?»

Calis, venne interrotto da un altro moto di stizza dell’anziano parente.

«È così come ti dico», sbuffò. «Nessun re vorrebbe farsi sfuggire dalle mani un potere come il suo. E poi… e poi…»

Lo fulminai, intimandogli di tacere.

Vasil recepì il messaggio e chiuse la bocca, senza aggiungere altro. Calis non capì perché il vecchio zio si fosse frenato, dato che non era solito trattenersi dallo sfogare come meglio credeva la rabbia. Avrebbe fatto ulteriori domande, se non avesse deciso che non era prudente istigarlo.

Rimanemmo tutti in silenzio per lunghissimi secondi.

Capivo molto bene i timori del vecchio Signore: dopotutto ciò che stavo proponendo era ad altissimo rischio, persino per una come me.

La 'Sfida’ era tradizionalmente prerogativa dei Signori del Sangue del Surdesangr: si trattava di una sorta di torneo in cui l'unico sfidante era il Campione di chi lanciava la provocazione, il quale avrebbe combattuto contro tutti gli schiavi volontari dell’arena, prima di affrontare il Campione in carica dello sfidato. In palio c’erano i Campioni stessi: il vincitore se li sarebbe tenuti, nel caso entrambi fossero sopravvissuti, condizione che si verificava di rado dal momento che gli incontri erano per lo più all’ultimo sangue.

Tale pratica era progressivamente caduta in disuso perché i Signori preferivano arricchirsi anziché dare spettacolo. Conveniva loro godersi i proventi delle scommesse piuttosto che rischiare un Campione, il quale poteva rimanere ferito al punto da risultare inservibile.

Convincere Stenton a stare al gioco sarebbe stata la parte più facile: una volta lanciata la sfida, qualora non venisse raccolta, si poteva accusare il Signore in questione di codardia e strappargli il titolo. Per orgoglio, chiunque avrebbe accettato di far battere il proprio Campione, seppur a malincuore.

Eppure, nella nostra situazione, dovevo diventare anzitutto il Campione di Vasil cosa possibile solo a condizione di sconfiggere tutti i suoi schiavi. Ciò che preoccupava era la necessità di lanciare la Sfida immediatamente dopo: non solo avrei dovuto combattere contro gli uomini di Vasil, ma anche contro tutti gli altri volontari prima di poter affrontare il Cavaliere. 

Era una mossa che avrebbe portato chiunque allo stremo delle forze: per questo, in genere, un evento simile veniva imbastito tra Campioni già in carica.

«Vasil…»

Il vecchio non mi guardava, dandomi le spalle. Sospirava pesantemente, perso nei propri pensieri. 

«Non posso negartelo, suppongo. Non è forse così, Violet?», disse con rassegnazione. «Sei venuta a riscuotere il debito… e io sono un uomo d’onore, non posso sottrarmi.»

Dire qualsiasi cosa sarebbe risultato superfluo, per cui tacqui.

Calis si era fatto serio e taciturno: di certo ripensava anche lui al nostro primo incontro. 

Vasil si era sempre occupato della tratta degli schiavi in diverse parti del regno e solo il caso lo aveva portato a stabilirsi definitivamente a Norvo. Qui aveva sposato sua moglie, Magnolia, che aveva dato alla luce una bambina. Solo successivamente aveva allargato il suo giro al Surdesangr, diventandone ben presto uno dei Signori e coinvolgendo nel giro anche il fratello, il padre di Calis.

Era stato il fato a porre tutti loro sulla mia strada. 

Una notte senza luna, nella strada che collegava la città di Finres fino a Norvo, un gruppo di schiavi era riuscito a ribellarsi a Vasil, il quale era stato ridotto all’impotenza assieme alla famiglia e alle guardie. Calis al tempo aveva già preso il posto del padre, il quale era venuto a mancare; con loro viaggiavano anche la zia Magnolia e la cugina Anena.

Mentre viaggiavo con due di quelli che al tempo erano stati miei compagni d’armi, sotto il comando del maggiore Gaven, mi venni a trovare in mezzo: due guardie erano già state uccise e si stava decidendo della sorte dei padroni. Gli animi erano divisi tra una veloce uccisione, che avrebbe permesso loro di scappare in fretta, e una più lunga vendetta, perpetrata tramite ripetute violenze sulle donne cui i padroni avrebbero dovuto assistere prima di morire.

Ero riuscita a intervenire in tempo per impedire lo stupro e salvare Vasil e Calis da morte certa, sebbene per codardia nessuno dei miei compagni aveva voluto seguirmi nell’impresa.

«Quattro vite, quattro debiti, soldato» aveva decretato solennemente il vecchio, manifestando la propria gratitudine. Non gli era minimamente importato che non fossi un uomo e mi aveva attribuito l’onore che mi ero guadagnata.

Anche se allora non avevo avuto alcuna intenzione di riscuotere quei debiti, avendo agito perché intollerante alle azioni meschine di cui volevano macchiarsi gli schiavi, avevo taciuto perché protestare non sarebbe servito a molto.

Ad Anena avevo trovato un’occupazione al palazzo reale come cameriera personale di una nobile signora: ora viveva al sicuro, lontana dalla vita piena di violenza che era stata quella del padre. 

Magnolia era morta qualche anno dopo di malattia. Vasil, dopo la sua perdita, si era fatto sempre più scorbutico, ma non aveva mai dimenticato il proprio debito.

«Andrà tutto bene, Vasil. Non perderò contro nessuno degli schiavi dell’arena», lo rassicurai.

Quando agitò le mani per aria nel suo caratteristico modo, sbuffando, capii che avrebbe ceduto. 

«Non mi rimane che fare affidamento sulla tua parola, ragazza.»

Ghignai ammiccando al suo indirizzo e anche Calis, al mio fianco, si rilassò e sorrise. 

«Fidati di me, vecchio.»

«Se qualcuno può riuscire in questa impresa, quella sei tu, Violet!» commento con giovialità Calis. «Sarà un bello spettacolo da vedere, questo è certo.»

«Esatto… farete meglio a organizzare le scommesse in modo che vi entri il più alto incasso possibile», suggerii loro.

Calis si accigliò con una smorfia. «Non sarà facile… appena sapranno che a combattere sarà la leggendaria Violet, molti punteranno naturalmente a tuo favore.»

«Dunque non dovremmo farlo sapere in giro, ti pare?»

«Come si può tenere segreta una notizia del genere? Molti non ti hanno mai vista di persona, ma troppe persone ti conoscono per fama e altre sanno come sei fatta.»

«Mi travestirò: coprirò il viso e mi batterò sotto falso nome.»

Parve a tutti la nostra migliore possibilità. Discutemmo così di ciò che avrei dovuto indossare, di come avremmo dovuto condurre il nostro gioco.

«Prima di pensare alla gara, voglio incontrare Stenton e offrirgli del denaro per il suo uomo. Se decide di rifiutare, allora procederemo col piano prestabilito», riassunsi alla fine.

«Se si rifiutasse di venderlo non si insospettirà quando Vasil lo sfiderà? Insomma… tu gli fai un’offerta in denaro e sùbito dopo un Signore tenta di sottrarglielo con una Sfida. Sarebbe sciocco a non collegare le due cose.»

«Anche se così fosse quando se ne renderà conto sarà troppo tardi: persino intuendo chi ci sia sotto il travestimento una volta lanciato il sasso, non potrà fare altro che raccoglierlo; i suoi schiavi dovranno battersi contro di me e così il suo Campione.»

 

ꕥꕥꕥ

 

«Si è fatto tardi, ragazza», interloquì Vasil a un certo punto. Io e Calis ci eravamo lanciati in una discussione non attinente ai piani. «Sarebbe meglio per te rimanere qui per la notte. Ho a disposizione una stanza con un comodo letto.»

Accettai perché tornare al Palazzo delle guardie, a quel punto, mi avrebbe solo depresso. In quello strano luogo, incredibilmente, mi sentivo tra amici.

«Domani ripasseremo ancora i dettagli e penseremo a organizzare un incontro con Stenton», mi assicurò il vecchio. Calis era eccitato all’idea.

«Perfetto. Però…»

«Cosa? Qualcosa a cui non abbiamo pensato?»

«No, no. È che… beh, vorrei anche incontrare di persona il Campione. Non vorrei lanciarmi in un'impresa di questa portata per poi pentirmene…»

«Uhm… buona idea. Vedremo che possiamo fare… Stenton non lo molla un attimo. Teme che possano trovare un modo per sottrarglielo.»

Cominciai a ridere divertita. «Beh, non ha tutti i torti: è proprio quello che abbiamo intenzione di fare, dopotutto.»

Alla mia risata si unì quella tonante di Calis, che si teneva la pancia, e quella più discreta e bonaria dello zio.

Mi addormentai pianificando l’incontro col famoso Cavaliere: mi chiesi chi si nascondesse dietro il viso squadrato dall'espressione perennemente seria e accigliata. Ma a quel punto non mi rimaneva che scoprirlo.

 
 

 

NOTE:

Cosa ne pensate del piano di Erin per la conquista del Cavaliere? Come pensate che procederanno le cose? E soprattutto... come sarà questo Campione? Riuscirà ad essere un valido aiuto per Violet? Finalmente nel prossimo capitolo avremo il primo incontro ravvicinato. Saranno scintille?! *w* Spero di avervi un pochino incuriositi ^^ Aspetto come sempre le vostre recensioni per sapere che ve n'è parso di questo nuovo capitolo. So che ci sono ancora tanti misteri da svelare, ma prometto che poco a poco verrà tutto a galla.

Grazie di cuore a tutti coloro che seguono la mia storia e che la commentano!
Un bacione, al prossimo capitolo!
Rita 
❤❤

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Chevalier ***


NOTE:
Ciao a tutti! Eccomi qui, in ritardo ma viva!
❀ 
Purtroppo ho avuto una settimana impegnatissima con un lavoretto e non ho avuto molto tempo per scrivere. In compenso, eccovi pronto un capitolo che, spero, troverete emozionante! ❀ Sapevate già che è arrivato il momento per Erin di conoscere il famigerato Cavaliere e quindi ecco a voi il loro primo incontro. Per farmi perdonare (ma anche perché la storia lo richiedeva *w* ) questo è un capitolo molto più lungo di quelli precedenti ❀ 
Non pensavo di prendere tanto spazio, ma è successo U.U e spero che per tutti sia motivo di gioia anziché di noia eheh  
Ringrazio tutte le persone che commentano, in particolare, in questo spazio, Bullet che si è aggiunta da poco a questo gruppo di persone e che ha commentato tutti i capitoli fin ora usciti. Spero che trovi anche questo bello e stimolante! ❀ 
Grazie inoltre a Aelle Amazon , chemondosarebbesenzanutella e Artemis Black e a tutti coloro che seguono la storia!
Baci, Rita 





Capitolo 07 - Chevalier

 

Un colpo alla porta mi fece sobbalzare e quasi cadere dal letto. «Svegliati, Violet!» 

Osservai l'ambiente, leggermente disorientata, prima di ricordare quello che era successo il giorno prima. 

La voce insistente di Calis mi ricordò di rispondere. «Allora, ragazzina, ti svegli? Guarda che butto giù la porta», minacciò.

«Provaci e sei un uomo morto, Cal!», gracchiai, schiarendomi la gola.

Mi misi seduta afferrando i vestiti ammucchiati sulla poltrona e mi preparai in tutta fretta. 

«Finalmente! Che dormigliona che sei... Vieni con me, ti laverai la faccia e poi potremmo fare colazione.»

«Che ore sono?»

«Le otto.»

Lo seguii lungo il breve corridoio e poi fuori, dove erano state sistemate delle bacinelle piene d’acqua.

«Ecco, puoi usare quella laggiù», disse indicando quella a sinistra. L’acqua fresca mi diede la forza di mettere in moto il cervello, schiarendomi le idee.

«Perché le bacinelle sono qua fuori?»

«Vasil non le vuole dentro. Dice che fanno bagnato per terra.»

Scoppiai a ridere figurandomi quell’uomo enorme alle prese con una piccola bacinella: non doveva essere capace di usarne una senza combinare un disastro attorno. 

Quando tornammo dentro, trovai il tavolo della cucina ricolmo di ogni prelibatezza.

«Non pensavo ve la passaste così bene al mattino. Avete vivande degne della colazione di un re», mi complimentai.

«Sappiamo come trattare i nostri ospiti d’onore, Violet.»

Ringraziai prendendo posto sulla prima sedia, indecisa da dove cominciare. La frutta era fresca e di aspetto invitante: presi una pesca, godendo del suo succo dolce.

Non ci furono chiacchiere, consumammo con appetito tutto quello che ci capitava a tiro. Solo quando ci raggiunse Vasil, vestito con un ricco abito di seta di colore blu scuro, decisi di aprire di nuovo bocca… per parlare.

«Come mai così elegante? Vai da qualche parte?»

L’espressione astiosa non mi sorprese particolarmente: al mattino era sempre intrattabile; o meglio, più intrattabile che nel resto della giornata.

«Abbiamo il colloquio con Stenton. Te ne sei già dimenticata?!», sbraitò spazientito.

«No che non l’ho dimenticato, ma lui ne è già stato informato?»

«Certo. Ho mandato un valletto questa mattina presto. Ha accettato di riceverci. Anzi, ci aspetta tra meno di un’ora, quindi sarà meglio che ti sbrighi.»

«Ci aspetta? Tu vieni con me?», chiesi sorpresa.

«Anche Calis, se è per questo. Perché? C’è qualcosa che non va?»

Agitai le mani confusamente, mettendo un ordine alle idee. «Pensavo dovessimo tenere nascosto il collegamento tra di noi, Vasil. Se mi accompagni al colloquio e poi successivamente dovessi sfidarlo per il suo Campione, non capirà tutto?»

«Credevo che questo non fosse un problema per te! Hai detto che tanto non avrebbe potuto tirarsi indietro in ogni caso.»

«L’ho detto, è vero, ma non sarebbe comunque prudente farci vedere insieme. Se non gli forniamo troppi indizi, si dibatterà nel dubbio che si tratti solo di un caso, prima di capire che lo abbiamo raggirato. Così temo che possa prendere misure preventive: una cosa è che un tizio qualunque tenti di comprare il suo Campione, un’altra pensare che sia il suo rivale a volerlo acquistare.»

«Hai ragione», ammise di malavoglia dopo qualche attimo di riflessione. «Ora come facciamo? Ho mandato un valletto a mio nome, ormai si aspetterà che sia io a presentarmi all’incontro.»

Forse non era impossibile trovare una soluzione.

«Diremo che sono una tua conoscenza e che ti ho chiesto aiuto per ottenere un colloquio privato. Lasceremo intendere che tu non conosca le mie intenzioni ma ti sei solo offerto di fare da tramite.»

Con un borbottio esasperato si disse d’accordo. Era evidente che avrebbe preferito partecipare più attivamente.

Quando ci alzammo da tavola, Vasil mi fermò arpionandomi per un braccio. «Non è il caso che tu vada conciata così», sbottò.

«Perché? Cos’ho che non va?»

Guardando i miei vestiti li trovai normali e anonimi: non indossavo nulla che potesse farmi riconoscere.

«Stenton è un avido, cerimonioso bastardo. Se non trasudi ricchezza sarà impossibile convincerlo a venderti il Cavaliere», spiegò. «Tratta tutti come se fossero degli imbroglioni e non si fida della parola, né tantomeno dell’onore di nessuno. Perciò se non fai mostra che sei in grado di pagare non ti prenderà sul serio.»

Archiviai nella mente quella preziosa informazione. Il vecchio mi scortò nelle camere da letto dove aveva fatto preparare una ricca veste di seta color oro, perfetta per il mio incarnato abbronzato.

«È bellissima. Dove l’hai trovata?», chiesi esaminando ammirata il taglio del vestito che era tutto sommato semplice.

«Apparteneva a Magnolia. Era uno dei suoi abiti da cerimonia, lo indossava per le occasioni speciali.»

«Mi fai onore permettendomi di indossarlo», gli dissi sopportando il peso del suo sguardo.

Vasil alzò le mani, cancellando le mie parole, e non si prese nemmeno la briga di rispondere, come se il suo gesto non avesse poi grande importanza. Ma non era così: doveva essere difficile usare le cose che erano appartenute alla moglie. Dopotutto, l’aveva amata infinitamente. Solo con lei i suoi modi burberi cadevano e, raramente, avevo potuto scorgere, in sua presenza, un uomo del tutto diverso dall’apparenza. Dopo la sua dipartita era diventato perennemente scontroso, meno disposto allo scherzo.

Ringraziai Vasil, il quale abbandonò presto la stanza, e procedetti a cambiarmi con l’aiuto di un’ancella, la quale si occupò anche di sistemarmi i capelli, intrecciandoli e raccogliendoli sul capo.

Quando tutto fu pronto, mi incamminai sulla strada, scortata dal messaggero di Vasil.

ꕥꕥꕥ

 

Anche se l’arena del Surdesangr sorgeva in una zona pericolosa e limitrofa, i Signori del Sangue alloggiavano nei pressi. Qui i controlli, sporadici, erano sufficienti a mantenere un certo grado di controllo.

Arrivammo alle porte di un’imponente residenza costruita in pietra e marmo, molto sfarzosa in contrasto con lo squallore circostante: del resto i Signori del Sangue erano tra i pochi che fossero abbastanza ricchi da mantenere un tenore di vita così alto. Vasil era l’unico a possedere una residenza modesta: anche nei tempi d’oro aveva sempre avuto gusti semplici e spartani.

Fummo ricevuti da un servitore il quale annunciò la nostra visita facendoci accomodare in una sala che sembrava fatta apposta per incontri ufficiali. Nel fondo vi era una sorta di scranno in pietra lavorata sorretta da statue di grottesche figure di animali; al centro stava un tavolo rettangolare con lunghe sedie di legno pregiato e sul lato spiccava un grande camino, perfetto per le stagioni più rigide.

L’ingresso del nostro ospite venne annunciato una decina di minuti più tardi dallo stesso servitore che ci aveva scortati.

«Il Signore del Sangue dell’arena del Surdesangr, Stenton Faredon, è lieto di accogliervi, signora.» 

Con un movimento studiato della mano, si spostò lateralmente lasciandomi scorgere la figura alta e scarna di Stenton che avanzava come un re. Aveva occhi piccoli e calcolatori, freddi, di un color tortora spento; il naso aquilino penzolava affilato sulla bocca tirata in una linea dura e sdegnosa. Gli zigomi, prominenti, spiccavano sul volto scheletrico, al punto da dubitare che egli avesse di che nutrirsi a dispetto del fasto esibito: o non mangiava per evitare inutili sperperi, oppure semplicemente il cibo non era di suo gradimento. A ogni modo, quale che fosse la ragione per il suo aspetto malsano e nervoso, risposi prontamente ai suoi saluti.

«Salve a voi, Faredon. Sono venuta per proporvi un accordo, come vi avranno certamente detto. Vasil e io ci conosciamo da molto tempo e mi ha usato la cortesia di predisporre questo incontro a suo nome: affinché accondiscendeste a prestare ascolto alle mie parole.»

«Dunque sarebbe per questo motivo che stamane l’incontro è stato chiesto dal suo valletto?»

«Esatto, signore.»

«Ma egli non vi ha accompagnata», puntualizzò seccato.

«Non occorrerà la sua presenza per la trattativa che intendo proporvi.»

«Trattativa?», ripeté soppesando il termine, come sospettando un intrigo. «E di che si tratta precisamente?»

Sorrisi con sicurezza. «Non volete invitarmi a sedere prima?»

La sua espressione, già arcigna, si incupì ancora di più.

Seguì un lungo attimo di silenzio durante il quale mi studiò con insistenza, forse aspettando che confessassi che avevo intenzione di derubarlo – se di tempo o di denaro, non doveva fare per lui una grande differenza.

«Certo, perché non accomodarci?» disse infine, muovendosi verso il tavolo. 

Si avvicinò alla prima sedia scostandola: mi ci adagiai elegantemente attendendo che prendesse posto di fronte a me. 

Con un cenno della mano, congedò il proprio servitore e quello di Vasil.

«Allora, signora…»

«Knight», lo soccorsi.

«…Knight. Parlavate di una proposta. Sono disposto ad ascoltarvi dal momento che siete ricorsa all’aiuto del vecchio Vasil per introdurvi alla mia presenza», continuò con aria poco indulgente. «Ma ho altri impegni che mi attengono, non perdiamo altro tempo in chiacchiere, se non vi dispiace.»

«Non vi ruberò più del tempo necessario, signore, credetemi. Sono qui perché voglio acquistare il vostro Campione, il famoso Cavaliere.»

Le mie parole, dirette e concise, lo fecero sussultare e sgranare gli occhi. 

L’accenno alla sua più consistente attuale fonte di guadagno lo aveva messo immediatamente sulla difensiva eppure, al contempo, pareva averlo divertito.

«Voi vorreste comprare il Cavaliere?» ripeté divertito. «E cosa se ne farebbe di lui una signora, di grazia?» Poi, come a ripensarci, agitò la mano nervosamente, cancellando l’ultima domanda. «Lasciate perdere, non importa. Evitiamo di indugiare oltre: è evidente che non comprendete il valore che riveste per me il suddetto Campione. E dubito, in ogni caso, che disponiate di abbastanza denaro da indurmi in tentazione. Ora, se non vi dispiace, ho altro da fare.»

Fece per alzarsi ma non glielo permisi.

«E io dubito, signor Faredon, che voi possiate anche solo immaginare di quanto denaro disponga. Non volete nemmeno sentire quello che ho da dire?»

Forse fu l’accenno alla presunta ricchezza, forse la mia aria arrogante, ma mi restituì uno sguardo perplesso.

«Di quanto si parla, esattamente?»

«State forse ammettendo che con la somma adeguata sareste disposto a cederlo?» approfittai della breccia.

«Diciamo solo che... il denaro canta e gli uomini muoiono, se questo risponde alla vostra domanda.»

Gli rivolsi un sorriso compiaciuto.

«Ma anche quell’uomo è denaro, al momento, e non voglio perderlo per una somma che potrei guadagnare facilmente tramite le scommesse.»

Tentai di valutare se la resistenza che opponeva fosse solo formale, per prepararmi a una richiesta di denaro esorbitante.

«Eppure, tra soli altri tre anni il vostro Campione otterrà l’affrancamento. Non vi converrebbe darlo via, guadagnando il più possibile prima che scada quel tempo? Anche se ammetto che ha ottime capacità, c’è sempre l’alto tasso di mortalità delle arene da considerare: sarebbe prudente correre ai ripari finché possibile, no?»

«Non avete tutti i torti», replicò poco convinto.

«Esatto. Nell’uno o nell’altro caso, che muoia o che si affranchi allo scadere dei cinque anni, vi servirà a ben poco tenerlo al vostro servizio.»

«E voi? Quanto siete disposta a pagare per averlo?»

«Cinquanta monete d’oro» risposi. Tacqui lasciando che il desiderio di denaro facesse presa in lui.

«Sono molte per un solo uomo.»

«È il prezzo che sono disposta a pagare.»

«E dove si trova questo denaro?»

Sorrisi sarcasticamente. «Sarei sciocca a rivelarvelo. Ovviamente non li ho portati con me, al momento.»

«Come faccio a sapere che non si tratta di una bufala?» mormorò nervoso.

«Avrete il vostro denaro, e io il mio Campione», lo rassicurai.

«E cosa ne farete?»

«Poco fa avete affermato che non vi importava saperlo.» 

Scrollò le spalle sbuffando stizzito. «Ho cambiato idea! Devo vederci meglio in tutta questa faccenda!»

Non si trattava di un quesito pericoloso, ma ponderai comunque le parole.

«Voglio che combatta per me come guardia del corpo» dissi.

Stenton sgranò gli occhi accigliandosi, non sembrava contento della mia risposta.

«Una guardia del corpo? Per voi, signora? E la paghereste tanto?» domandò a raffica. «Voi volete prendermi in giro! Non si è mai sentito che si paghino cinquanta corone per una guardia del corpo. Mi state nascondendo qualcosa, ne sono certo! Perché proprio lui? Perché il mio Cavaliere? Ne potreste avere a bizzeffe di guardie del corpo con tutto quel denaro!»

Aspettai che si placasse riflettendo sulla spiegazione più opportuna da fornire.

«Mi serve un uomo praticamente imbattibile e…» iniziai, ma venni bruscamente interrotta dal mio ospite.

«È assurdo! Nessun uomo è imbattibile. Non cercate di rifilarmi storielle!» sbraitò.

«Non sarà imbattibile, ma sapete bene che è molto forte. Non avrebbe resistito tanto a lungo al Surdesangr altrimenti. Sapete benissimo che la media di resistenza di un Campione solitamente è di un anno. Molti muoiono per i colpi di spada durante il combattimento, il resto per le ferite riportate: spesso, persino se lievi, si rivelano letali in un ambiente così sporco, senza avere a disposizione un guaritore.»

«Sì, certo... e come pensate di tenerlo sotto controllo un uomo del genere?»

«Credo di poterci riuscire.»

«Oh, non siatene tanto sicura. È furbo, intelligente! Eluderebbe con facilità tutti i vostri sistemi di controllo. Non si farebbe mai rinchiudere e mettere sottochiave come un cane bastonato. È combattivo e sa essere crudele: non lasciatevi illudere dalla fama del suo soprannome. Risparmia delle vite, certo, ma solo quando sottrarle non gli è di alcuna utilità. Non commettete l’errore di credere che sia tanto cavaliere da non tagliarvi la gola nel sonno pur di fuggire della sua schiavitù!»

Lo fissai soppesando con attenzione il suo avvertimento: non mi ero certa fatta l’idea che fosse un tipo facile con cui trattare, tuttavia, forse questo Cavaliere non era così buono di cuore come si supponeva. E se la sua misericordia, durante le lotte nell’arena, nascesse dalla semplice pigrizia? Che non si volesse prendere il disturbo di tagliere gole oltre il necessario? Era possibile. Ma per me cosa significava questa nuova prospettiva? Era saggio continuare a insistere per comperare un uomo che non avrei saputo tenere sotto controllo? Ma c'era sempre la possibilità che quello di Stento fosse solo un espediente per farmi desistere dal mio proposito. Nel dubbio,decisi di domandargli: «Se lo ritenete così pericoloso come dite, come fate a mantenerlo mansueto?».

Distolse in fretta lo sguardo dal mio e questo, più delle parole successive, mi fece comprendere che nascondeva qualcosa.

«Io ho il mio sistema. Un sistema che voi non potete usare.»

«Ah, sì? Come mai?» insistetti con apparente placidità.

Egli mi fulminò con lo sguardo e sbottò: «Non vi riguarda! Non sono tenuto a rivelarvi i metodi che uso con i miei schiavi o i miei Campioni. Ora fareste meglio ad andarvene».

Si alzò con uno scatto dalla sedia, indicando con un cenno imperioso l'uscita.

Pur alzandomi, mi rifiutai di farmi condurre alla porta in questo modo.

«Dunque non volete più contrattare con me? Eppure sembravate meglio disposto qualche istante fa. Cosa vi ha fatto cambiare idea? Forse la mia ultima domanda?»

Sussultò colpito dalle mie supposizioni, ma si affrettò a negare ogni cosa.

«Non siate sciocca, vi sto facendo un favore! Non potete avere quell’uomo, è fuori dalla vostra portata. Non vi resta che cercare qualcun altro per farvi proteggere!»

«Che sia alla mia portata o meno, purché voi abbiate il vostro compenso, la cosa non dovrebbe riguardarvi, signore» gli feci notare infervorata. Dovevo capire quale fosse questo metodo che usava sullo schiavo.

«E inoltre, voi avete trovato un modo per farvi ubbidire. Magari potrei trovare anche io un sistema efficace» aggiunsi, sollevando allusiva un sopracciglio. Speravo in tal modo di indurlo a parlare.

Colse il messaggio e replicò: «Portarselo a letto non sarebbe una buona idea. Vi mettereste in una posizione di svantaggio e poi lui non ne sarebbe minimamente tentato, agguanterebbe solamente l’occasione per svignarsela».

«Non mi reputate tanto bella da tentarlo?» chiesi impettita.

«Voi tentereste qualunque uomo, ma lui è fatto di ben altra pasta. Credetemi, ho già provato con quel sistema e ho capito che non è di alcuna efficacia.»

Gli aveva offerto delle donne? Possibile che...?

«Nemmeno gli uomini gli interessano, se è per questo», chiarii alla mia occhiata sorpresa.

«Se non si è lasciato corrompere dalle donne, allora come avete fatto a impedirgli di evadere?»

«Vi ho detto che non sono affari vostri. Sappiate solo che io posso controllarlo e voi no!»

Quasi mi spinse verso la porta, perdendo il poco controllo che gli era rimasto. Evidentemente l’argomento scottava parecchio e, forse, iniziavo a capire di cosa potesse trattarsi.

«Non c’è stata contrattazione…» sussurrai, seguendo un pensiero che mi aveva colpito e che mi era stato suggerito da quanto aveva detto.

«Come dite, prego?» domandò Stenton, sempre più spazientito.

«Avete detto che lo controllate, ma non ha accettato qualunque cosa gli abbiate offerto in cambio della sua ubbidienza, comprese le donne e il denaro. Dunque dovete essere passato a maniere più forti… a un ricatto forse.»

Trasalì e digrignò i denti. «Non vi permetto di fare certe supposizioni! Avete detto abbastanza, ora andatevene e non tornate più!»

Chiamò i suoi servitori e mi intimò, ancora una volta, di andarmene di mia spontanea volontà, prima che ordinasse ai suoi uomini di trascinarmi fuori con la forza.

Non mi rimaneva che attuare il piano B. Mi sarebbe costato più fatica, ma almeno avrei risparmiato un sacco di denaro.

Mi allontanai con grazia dall’abitazione del Signore del Sangue, dopo un cortese saluto all’interessato, la mente già piena di piani per l’immediato avvenire.

Dopo le accuse di Stenton, il bisogno di conoscere di persona il Cavaliere si era fatto più pressante.

Tornai alla casa di Vasil, dove informai lui e il nipote dell'esito della contrattazione. Anche loro, come me, si insospettirono e giudicarono saggio capire qualcosa di più sullo schiavo prima di intervenire in qualsiasi modo.

Mi cambiai in fretta, restituendo con gratitudine il bel vestito al vecchio Vasil e indossando nuovamente una veste anonima, che ben si prestava a quanto stavo per fare.

ꕥꕥꕥ

 

Solitamente le celle degli schiavi dei Signori del Sangue non erano mai molto distanti dalle loro abitazioni, per una questione di contenimento e controllo. Trovare, dunque, la struttura che apparteneva a Stenton non fu affatto difficile. Impiegai più tempo per capire, invece, dove fosse stato alloggiato il suo Campione.

Certo, in quanto Campione dell’arena gli toccava di diritto una sistemazione diversa, più comoda e privata, rispetto agli altri schiavi, ma in genere si trattava solo di una stanza un po’ meglio arredata, ma posta comunque all’interno della struttura di prigionia. Fu una sorpresa, pertanto, scoprire che si trovava proprio in casa di Stenton, all’interno dell’imponente palazzo.

Ero intenta a scrutare le entrate e a contare il numero delle guardie per pianificare un modo meno rischioso possibile per introdurmi all’interno e avere finalmente il mio incontro con l’uomo.

Solo quando mi convinsi che non avrei potuto essere più preparata di com’ero – non senza perdere ulteriormente tempo – entrai in azione.

Sfruttai una finestra incustodita di un'ala poco trafficata per entrare. Guardandomi attorno capii subito di trovarmi nella zona dedicata alla servitù.

Questa parte della casa era a dir poco fatiscente: erano scomparsi gli splendori, i marmi e i begli arazzi alle pareti; al contrario, tutto era cupo poiché la luce filtrava a fatica dalle strette finestre persino in pieno giorno.

Esplorai silenziosamente gli ambienti, tentando di indovinare quale direzione imboccare per raggiungere la cella.

A un certo punto, un rumore di passi affrettati mi costrinse a stringermi alla parete, in cerca di riparo ma non c’era nemmeno una statua o una pianta che mi nascondesse alla vista e la porta più vicina rimaneva comunque troppo lontana.

Non ebbi altra scelta che rallentare il tempo per potermela svignare: superai un servo che trasportava delle lenzuola senza che i suoi sensi potessero registrare la mia presenza, né tantomeno il mio movimento. 

Superato il pericolo, trattenni il tempo in modo da potermi muovere indisturbata. Correndo ammantata da una scia di colore violetto, arrivai davanti a un paio di guardie ferme davanti a una porta di legno massiccio: non potevano che essere lì dentro per tenere sotto controllo uno schiavo-gladiatore pericoloso e particolarmente furbo, a detta del suo padrone.

Silenziose come statue di cera, gli uomini non mi fermarono quando provai ad aprire la porta, che tuttavia trovai chiusa.

«Maledizione», biascicai. Ma nemmeno quello si rivelò un contrattempo degno di questo nome: la chiave era appesa alle brache di una delle guardie. L’unico problema sarebbe stato piuttosto trovare un modo di non farsi scoprire: a un certo punto, per parlare con lo schiavo, avrei dovuto ripristinare lo scorrere del tempo, ma sarebbe bastato un attimo per accorgersi che la porta era aperta o la chiave scomparsa.

Tentennai per qualche secondo ma dovevo agire in fretta, soprattutto dovevo conservare le energie per i momenti veramente critici. 

Aprii la serratura e lasciai la chiave al suo posto. All’interno vi era uno stretto corridoio senza porte eccetto quella in fondo all’imboccatura.

Anche qui non c’era nulla ad abbellire l’ambiente. Nonostante la stanza sfarzosa dove ero stata accolta da Stenton qualche ora prima, che suggeriva l’idea che il padrone fosse un uomo ricco disposto a spendere somme considerevoli per l’arredamento, la verità era che tutta l’abitazione ostentava miseria, allo stesso modo dell’aspetto emaciato del proprietario: i bei marmi del prospetto e della sala ricevimenti erano solo una facciata volta a ingannare chi non vi abitasse.

Stenton era un avaro per nulla disposto a spendere più dello stretto necessario. Si era sforzato di rendere le apparenze degne del suo nome, ma non si era preoccupato di far vivere dignitosamente la servitù che si occupava della dimora. Corrucciata, proseguii verso il fondo, ripristinando lo scorrere del tempo.

Sentii delle voci sommesse: la porta era socchiusa e trattenni il respiro cercando di ascoltare.

«…stare qua.»

«Certo che puoi» esclamò con voce soffocata un uomo. Era intransigente. «Vedrai che non ti scoprirà nessuno, Rob. Penserò a tutto io.»

«No, Chev. Riportami indietro, adesso!»

«Shh! Farai venire le guardie» lo ammonì la stessa voce, sempre più impaziente.

Non ebbi il tempo di pensare a cosa era meglio fare che la mia mano sfiorò accidentalmente la porta, provocandone lo scricchiolio.

Un ansito soffocato, rumore di passi e lo spostamento di una sedia.

«Chi va là?» domandarono dall’interno della stanza.

Rimasi immobile, maledicendo la mia sbadataggine. Ma tanto valeva entrare a questo punto.

Quando aprii la porta intravidi la figura di un ragazzo adagiato sul letto, il Cavaliere, in piedi, stava rigido nell’atto di far da scudo al compagno.

Dopo essermi assicurata con una lunga occhiata che l’omone non avesse intenzione di aggredirmi immediatamente, cercai di vedere meglio l’altro schiavo: aveva capelli rossicci, sporchi e scarmigliati, lunghi fino alle spalle; un fisico piuttosto esile e chiaramente danneggiato: sulla pelle chiara del torace spiccavano delle bende intrise di sangue. Le macchie erano così fresche che parevano allargarsi sul lino a vista d’occhio.

Il Cavaliere scivolò di lato, ostacolando ulteriormente il mio esame.

«Chi diavolo saresti?» ringhiò, il volto contratto in un’espressione feroce: non esattamente quella di un ‘cavaliere’.

«Allora?»

Quando fissai i suoi occhi rimasi interdetta: erano carichi di rabbia, simili al cielo in tempesta o dell’azzurro intenso e vivido durante le piogge estive. I capelli, lunghi oltre le scapole e legati a una treccia di fortuna, erano più chiari di quanto ricordassi. I suoi lineamenti erano di incredibile bellezza, nonostante fosse sporco e incrostato di polvere, sudore e sangue.

Osservai tutti i dettagli che mi erano sfuggiti durante gli incontri all’arena: l’altezza, l’imponenza, la severità dell’espressione, persino le occhiaie di stanchezza. Aveva una cicatrice che gli sfregiava parte del volto: iniziava in una linea quasi impercettibile dalla mandibola destra e proseguiva trasversalmente lungo il collo, fino alla spalla, dove era più larga e irregolare.

Avendo il petto scoperto, erano visibili anche altri segni di lotte.

Avvertii un formicolio di calore tra i seni e deglutii. Distogliendo per un momento lo sguardo, cercai di ritrovare la concentrazione e soprattutto la voce. Ma non ne ebbi il tempo perché una mano mi afferrò per la gola, attirandomi oltre la soglia e inchiodandomi alla parete.

«Sei una delle puttane di Stenton? Pessimo momento. Non avresti dovuto essere qui», sussurrò vicino al mio orecchio, la mano serrata senza pietà. Neanche volendo avrei potuto emettere suono.

Cominciavo a soffrire per la mancanza d’aria quindi abbandonai il corpo a peso morto, sollevando le gambe per colpirlo agli stinchi. 

Gli strappai un gemito di dolore. 

L’attacco risultò così inaspettato che per un momento allentò la presa: con una torsione del braccio e una pressione sul gomito, quindi, riuscii a liberarmi. Sfruttai gli ultimi istanti della sua sorpresa per impugnare infine una sottile lama che gli puntai alla gola.

Credendomi una donna di facili costumi mi aveva catalogata in fretta, commettendo uno sbaglio.

Mi compiacqui del suo stupore: gli rivolsi un sorrisino che ebbe l’effetto di aggravargli l’espressione già cupa.

«Vuoi dirmi chi diavolo sei?», ripeté ostinato e minaccioso.

«Se non mi avessi attaccata te lo avrei detto senza tanti strapazzi, Cavaliere.»

«Credevo ti avesse mandato Stenton.»

«Per sedurti? Tranquillo, mi ha già scoraggiata dal farlo.»

Si accigliò, ma mantenne le braccia apparentemente rilassate lungo i fianchi.

«Te lo ripeto: chi sei e che cosa vuoi? Se non ti ha mandata Stenton, quali sono le tue intenzioni?»

Schioccando la lingua abbassai un po’ la lama, senza metterla via. Non ancora.

«Credi sia possibile parlare civilmente, senza aggressioni?»

«Dipende da quello che intendi fare» rispose con cautela, muovendosi impercettibilmente in direzione del compagno ferito.

«Non ho intenzione di denunciarlo, se è quello che ti preoccupa», lo tranquillizzai. «In effetti, mi sono intrufolata qui di nascosto. Se c’è qualcuno a rischio di denuncia, quella sono io.»

Apparentemente convinto, alzò le braccia in segno di resa e fece un passo indietro, lasciandomi spazio.

«Accomodati pure e parla», disse indicando una sedia vicino al letto.

«Sto bene così, grazie.» 

I due uomini mi fissarono senza proferire parola. Il Cavaliere doveva essersi stancato di pormi sempre la stessa domanda: decisi di presentarmi senza ulteriore indugio.

«Mi chiamo Erin Knight»

«Knight, davvero?» proruppe inaspettatamente il ragazzo.

«Sì, mi conosci?»

Scosse la testa. «Pensavo solo che fosse divertente.»

«Che cosa?» chiesi confusa.

Sorrise con una smorfia. «’Knight’ come lui», spiegò indicando l’amico, «il ‘Cavaliere’.»

Risi, partecipe del suo divertimento. «Sì, beh, una bella coincidenza», commentai.

«Bando alla ciance», sbottò l’altro, per nulla divertito dal gioco di parole. Quindi tornai seria.

«Cosa sei venuta a fare?»

Sospirando mi preparai a una lunga spiegazione. «Sono un soldato, vivo al Palazzo delle Guardie.»

«E cosa vuole da me una guardia reale?»

«Desidero che entri al mio servizio.»

«Come dici, prego?»

«Ti parlerò chiaramente, Cavaliere: ho un’offerta per te. Entra al mio servizio, combatti per me e io ti ridarò la tua libertà. Ho una missione da portare a termine ma mi serve l’aiuto di persone valide.»

«E perché ti rivolgi a me, uno schiavo? Se fai davvero parte delle guardie, perché non ti fai aiutare da loro? Puoi chiedere aiuto al tuo luogotenente, no? Perché recarti in un posto così malfamato e pericoloso solo per cercare aiuto?»

«Si sono rifiutati tutti. In effetti, io sono un luogotenente, ma non ho più uomini sotto il mio comando.»

«Mi prendi in giro? Un luogotenente senza sottoposti? Siete una così cattiva guida da averli condotti tutti alla morte, per caso?» mi schernì.

«È una lunga storia. I miei uomini sono tutti vivi ma mi sono stati tolti come punizione per una decisione apparentemente azzardata che ho preso», spiegai senza lasciami toccare dal suo sarcasmo. «Come dicevo, c’è una missione che devo assolutamente portare a termine e mi serve aiuto. Il mio Comandante mi ha concesso di riunire sotto il mio comando tutti gli uomini che si fossero prestati spontaneamente. Purtroppo nessuno si è fatto avanti, per cui eccomi qui.»

«E tu hai pensato a me?»

Alzò un sopracciglio in maniera molto significativa.

«L’ho fatto, dopo averti visto combattere ieri all’arena.»

«Perché io? Perché non il Toro? È molto forte…» 

«Sì, lo è ed è anche feroce, crudele e incontrollabile. No, nessuno di quelli che ho visto ieri andrebbe bene se non, forse, tu.»

«Di nuovo, perché?» insistette.

«Per la tua fama: il fatto che, quando puoi, risparmi delle vite anziché massacrare chiunque indistintamente. Non voglio una bestia al mio servizio. E perché sei forte, ma non è solo questo: la tua tecnica di combattimento con la spada è raffinata, – non sei certo nato schiavo, poco ma sicuro – sei agile e furbo, paziente… aspetti il momento più opportuno per colpire il nemico senza avere fretta; e sei preciso: ogni colpo inferto indebolisce efficacemente l’avversario eppure hai fatto in modo che nessuna ferita risultasse mortale o deturpante… devo continuare?»

«Non è necessario. Mi sorprende il fatto che tu abbia notato tutto questo in un solo pomeriggio… oppure sei venuta altre volte a vedermi?»

«No, solo ieri, ma sono rimasta a lungo.»

Il ragazzo, nel frattempo, giaceva dimenticato sul letto, ascoltando con stupore il discorso. Si fece coraggio, durante una pausa e domandò: «Ma come hai fatto a entrare?».

Entrambi ci voltammo a fissarlo. Poi il Cavaliere tornò a trafiggermi col suo sguardo di ghiaccio. «È vero! Come hai fatto?»

Eccolo di nuovo diffidente. 

«Come hai eluso la sorveglianza delle guardie?»

«Ho i miei sistemi», risposi evasiva.

«Che sarebbero?»

Scossi il capo. «Non è il momento di parlare di questo ora. Non c’è tempo.»

«E di cosa vorresti parlare? Come avrai notato sono uno schiavo, non posso semplicemente seguirti.»

Sbuffai, divertita dalla recita e accennando al ragazzo. «Ah, no? E lui come è arrivato qui?»

Si ammutolì, fissando il giovane come se lo vedesse per la prima volta.

«Non sono una stupida. È palese che nessuno è al corrente della sua presenza in questa cella. Mi sono domandata come, dunque, fosse entrato. E ho dedotto che debba esserci un modo che nessuno, a parte voi, conosce. Non ho forse ragione?»

Il silenzio fu una risposta più che sufficiente.

«Anche se posso entrare e uscire da qui senza essere visto, non potrei comunque seguirti, io…» si interruppe, stringendo i denti.

«Capisco. Stenton ti tiene in pugno in qualche modo. In effetti, è quello che ho sospettato già questa mattina, durante il colloquio con lui.»

«Avete avuto un colloquio col mio padrone?» ripeté sorpreso.

«Sì. Gli ho offerto del denaro per cederti a me, ma non ha voluto saperne.»

Decisi di raccontargli a grandi linee i punti salienti dell’incontro.

Dopo un momento disse: «Non capisco perché avete deciso di venire. Non potete comprarmi e io non posso fuggire. Stenton me la farebbe pagare».

«Ho in mente di vincerti, Cavaliere» annunciai.

«Tu... COSA?»

«Ti vincerò con una Sfida», spiegai sbrigativa. «Prima diventerò il Campione di un Signore del Sangue e dopo sfiderò il tuo padrone.»

«Ma per farlo devi prima battere me», constatò. «Sempre ammesso che arrivi viva alla fine di una simile impresa. Sei una donna: per quanto abile col pugnale, non puoi esserlo al punto da battere tutti quegli uomini e tutti in una volta.»

Sbuffò, le labbra tese in un sorriso amaro, e mi guardò come se fossi completamente pazza. 

«Questa chiacchierata è stata divertente, ora però farai meglio ad andare via: come vedi devo occuparmi delle sue ferite» indicò col pollice il ragazzo, Rob, e mi voltò le spalle ignorandomi.

«La minaccia di Stenton ti darebbe ancora problemi se ti vincessi durante una Sfida?» domandai, ignorando a mia volta le sue parole, come se non le avesse mai dette.

«Tu sei matta», borbottò. 

Si inginocchiò vicino al letto cominciando a sciogliere le bende di fortuna del ferito. Studiò la ferita e sospirò. Poi prese una camicia che giaceva sulla sedia e cominciò a strapparla in strisce per ottenere nuove fasciature.

«Rispondimi», ordinai con un tono fermo.

Mi lanciò una breve occhiata da sopra la spalla. Forse era la stanchezza e la preoccupazione, ma decise di rispondermi, probabilmente sperando che me ne andassi non appena si fosse esaurito il mio interesse. 

«Sì, ne avrei comunque, suppongo. Il padrone non è un tipo che molla.»

«Allora devi dirmi con che cosa ti ricatta.»

Nessuno parlò per quelli che parvero minuti. Il Cavaliere sostituì con attenzione e cura le bende al ragazzo: i brevi e soffocati lamenti di Rob erano l’unica cosa a spezzare il silenzio.

«Chev…» sussurrò Rob infine, posando una mano sul braccio dell’uomo. «Forse è meglio che tu glielo dica…», suggerì, «…non mi sembra una cattiva persona.»

Il Cavaliere tornò a guardarmi, soppesandomi. Poi scrollò le spalle e si decise a vuotare il sacco: «Stenton tiene prigioniero un ragazzino. Minaccia di ucciderlo se dovessi disubbidire ai suoi ordini o scappare».

«È qualcuno di importante per te.»

Lui non sentì il bisogno di rispondere: era ovvio che fosse così.

«Dove lo tiene?»

«Non lo so. Ogni tanto me lo mostra per provarmi che è vivo e che sta bene per evitare che io diventi… irrequieto.»

Annuii. «Capisco.»

«Ora mostrami come si esce da qui senza passare dalla porta sorvegliata, per cortesia.»

«Perché? Non puoi andartene da dove sei venuta?»

«Diciamo solo che è più rischioso. Inoltre ho deciso di portare il ragazzo con me.»

«Che cosa?!» esclamarono all’unisono i due uomini. «Perché mai?!»

«Qui non può stare, lo scoprirebbero con facilità e chissà che fine farebbe. In ogni caso non può ricevere le adeguate cure se rimane in questo posto.»

Mi guardai attorno schifata, commentando: «Mi sa che non hai fatto un buon affare a diventare Campione di Stenton».

Lui sbuffò ma non mi contraddisse. 

«Non puoi portarlo con te.»

«Sì che posso. Che motivo ha di stare qua, col rischio di morire di infezione?»

«Che motivo ha di venire con te, visto che non ti conosciamo?»

«Oh, andiamo... Direi che almeno su questo puoi fidarti!»

«Io non mi fido di nessuno.»

«Beh, mi sa che sarai costretto a farlo, in questo caso! Ho visto la sua ferita: è molto grave e morirà se non verrà curato subito.»

L’aria si saturò della sua energia nervosa. Fu di nuovo Rob a intervenire.

«Chev, va tutto bene. Ha ragione, forse è meglio che vada. Sarebbe meglio fidarci, non ha nulla da guadagnare nel sequestrare uno schiavo come me.»

Dalla voce che tremava leggermente si percepiva tutta la sua stanchezza. Fino a quel momento aveva lottato duramente per rimanere lucido, per non dare a vedere quanto soffrisse, mettendosi a scherzare per giunta. 

Ci aveva lasciato spazio per parlare, ma ora che le sue energie si erano esaurite sudava copiosamente ed era mortalmente pallido.

Anche l’uomo notò il suo mutamento e decise di non ribattere.

«D’accordo» borbottò arrendendosi.

Si diresse verso l’unica finestra. «Ecco l’uscita.»

Allungò una mano e con uno strattone staccò prima una e poi due barre: erano state scardinate e tenute per apparenza e nessuno si era premurato di fare controlli periodici.

Sorrisi della stupidità di Stenton e della sue guardie, nonché nel malfunzionamento del suo sistema di ‘sicurezza’. Su una cosa aveva avuto ragione quell’uomo: il Cavaliere, in effetti, avrebbe potuto andarsene quando avesse voluto.

«Grandioso», mi complimentai.

«È stato solo un colpo di fortuna trovare il ferro arrugginito.»

Aiutammo il ragazzo a mettersi in piedi e a scavalcare la finestra.

Il Cavaliere fece una smorfia. «Non dovrebbe muoversi tanto. Lo avevo appena trascinato qua ed è sempre più debole. Quanto dista il luogo dove intendi portarlo?»

«Non molto» risposi. Poi aggiunsi: «Chi è lui per te?».

«Un amico», disse dopo un momento. «Anche lui fa parte degli schiavi di Stenton, ieri è stato ferito. Le celle comuni sono il posto peggiore dove sperare di guarire, così l’ho portato con me per evitare che morisse. Pensavo di poterlo tenere nascosto fino a che non si fosse rimesso.»

«Non devi più preoccupartene. Con me è in buone mani.»

«Sarà meglio. Altrimenti sappi che verrò a cercarti e ti taglierò la gola.»

«Puoi provarci, ma non garantisco che ne usciresti tutto intero... Chev.»

Sussultò di sorpresa sentendo il suo nomignolo sulle mie labbra. «Non mi chiamare così», disse seccato.

«Perché? È permesso solo ai tuoi amici? Allora dovrò farlo anche io visto che presto saremo inseparabili», ironizzai.

Borbottò qualcosa simile a un’imprecazione e al fatto che fossi del tutto fuori di testa.

Mi aiutò a trasportare il malato per gran parte della strada e ci lasciò solo quando insistetti che ero perfettamente in grado di condurlo da sola. Non era sicuro che si aggirasse a lungo fuori dalle mura della sua prigione: c’era sempre la possibilità che qualcuno andasse a controllarlo e non lo trovasse.

Al momento di separarci ribadii che non si preoccupasse per la salute del ragazzo.

«Quando verrà il momento, non combattermi sul serio. In fondo puntiamo entrambi a ottenere la tua libertà.»

«Ancora con quel tuo assurdo piano. È impossibile quello che proponi. Stenton ucciderebbe Finn e non posso permetterlo!»

«Finn è il nome del ragazzo che ti sta tanto a cuore?»

Davanti al suo persistente silenzio, misi da parte quella particolare questione.

«Te lo ripeto: lascia che faccia tutto io. Presto non avrà più nulla con cui minacciarti e sarai mio.»

«E se non volessi esserlo? Se volessi solo avere la mia libertà? Dopotutto mi stai solo proponendo di passare da un padrone all’altro.»

«Non la metterei proprio così, Chev. Io non ti rinchiuderei mai in una stanza maleodorante e non ti farei combattere come una bestia. Ho solo bisogno di aiuto per cercare una persona.»

«Sembrerebbe una cosa semplice ma qualcosa mi dice che non è affatto così.»

«Non lo è infatti, ma ti spiegherò tutto a tempo debito. Ora vai, prima che qualcuno ti scopra. A Rob ci penso io.»

Titubò, indeciso sul da farsi. Poi disse: «Erin, non so cosa tu abbia in mente e decisamente non mi fido di te, ma qualunque cosa tu scelga di fare non coinvolgere il ragazzo e non fare uccidere Finn. Stenton è paranoico: se dovesse intuire qualcosa o pensare che siamo in combutta lo toglierebbe di mezzo senza pensarci due volte, e a quel punto dovrei pareggiare i conti».

«Sì, sì… la tua minaccia di morte, come dimenticarla?»

«Parlo sul serio.»

«Anche io.»

Dopo una lunga occhiata di intesa, ci separammo.

Per fortuna non eravamo lontani dall’abitazione di Vasil perché Rob, dopo qualche centinaio di metri, svenne e non avevo modo di trasportarlo. Corsi a chiedere aiuto a due servi del vecchio Signore, i quali mi aiutarono a portarlo dentro casa. 

Vasil era assente, così raccontai dell’incontro con lo schiavo a Calis che si disse sorpreso di tutto ciò che avevo appreso. 

Ero stanca, sudata e affamata, ma ero anche felice dell’impressione positiva che avevo avuto dell’uomo che volevo prendere al mio servizio. 

Il ricatto di Stenton avrebbe ritardato di qualche giorno i miei piani: sarebbe stato necessario scoprire dove fosse tenuto Finn e poi liberarlo per vanificare la minaccia del padrone. 

Una certa eccitazione mi pervase al pensiero che sarei presto entrata in azione.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La Sfida ***



Capitolo 08 - La Sfida

Un fendente mancò di qualche centimetro la mia testa. Schivarlo era stato facile, lo schiavo davanti a me brandiva la spada come uno scolaretto che non ne avesse mai vista una prima d’ora. 

Il sudore che mi impregnava i vestiti non era dovuto alla fatica delle battaglie, ma al loro prolungamento: faceva molto caldo e respirare attraverso il velo sottile che mi copriva parte del volto si stava rivelando più difficoltoso del previsto. Tuttavia era necessario per nascondere quanto più a lungo possibile la mia identità.

La mattinata stava procedendo piuttosto bene.

Erano passati sei giorni dal mio primo incontro con Stenton e col suo Cavaliere: avevo avuto tutto il tempo di organizzarmi mettendo a punto i miei piani e adesso stavo lottando per conquistare il titolo di Campione.

Osservai un ragazzo agitare la spada, nel finto tentativo di mettere a segno un colpo.

Mi piegai di lato su una gamba lanciandomi poi verso il lato scoperto. Con una torsione lo colpii alle coste con forza sufficiente da buttarlo a terra, ma senza fargli troppo male. 

Gli puntai la spada alla gola dichiarandolo sconfitto. 

Il ragazzo ansimava, un po’ sporco di polvere, e mi sorrise complice. Per un momento ricambiai il suo sorriso. Poi, con un cenno, lo rimandai al padiglione con gli altri schiavi, in attesa del prossimo sfidante.

Le ovazioni dell’arena si erano smorzate solo di poco rispetto all’inizio degli scontri.

Tutti erano divertiti dal fatto che Vasil — un Signore del Sangue quasi in declino — stesse facendo gareggiare una donna.

Come di regola, aveva annunciato con tre giorni di anticipo che si sarebbe tenuta una gara tra i suoi schiavi per quel privilegio. Ma quando avevano visto me, al posto dell’omaccione grosso e muscoloso che si aspettavano, erano iniziati i motteggi di scherno: motteggi che, però, si erano presto trasformati in grida di acclamazione per la donna che aveva sconfitto nel giro di due ore un gran numero di uomini. 

Quello che nessuno sospettava era che il risultato fosse truccato.

Ripensai alla sera di quattro giorni prima, quando Vasil aveva annunciato a tutti la sua decisione.

 

Quattro giorni prima

 

La rigida schiena di Vasil mi stava davanti. 

«Vecchio, dove stiamo andando?»

Grugnì un ‘seguimi’ senza nemmeno voltarsi.

Mi condusse agli alloggi degli schiavi e, estraendo una pesante chiave ferrata, aprì la porta sbarrata.

«Cosa dobbiamo fare esattamente?» 

«C’è una cosa che voglio mettere in chiaro prima che si arrivi allo scontro. Faciliterà il tuo lavoro e risparmierà le energie di tutti.»

L’insinuazione mi colpì con la forza di un fulmine: che stupida a non averci pensato prima. Avevo creduto che l’unico da convincere fosse il Cavaliere, ma potevo ottenere la complicità di una buona metà degli schiavi che avrei affrontato nell’arena.

Su un lungo corridoio si affacciavano diverse celle. Notai che Vasil trattava con molta più dignità i propri schiavi rispetto a Stenton.

Gli spazi erano suddivisi in maniera proporzionata: ogni uomo aveva un pagliericcio dove sdraiarsi che non era affatto sudicio. Non c’era puzza di urina e sangue rappreso; l’aria era solo leggermente stantia per via del sudore maschile. C’era anche abbastanza cibo per tutti.

Il brusio degli schiavi che riempivano la sala cessò di colpo alla vista del padrone. Doveva essere una sorpresa vedere Vasil a così tarda sera, per di più accompagnato da una sconosciuta. Tutti gli sguardi erano puntati su di noi.

«Ho un annuncio da fare», proclamò con voce calma e ferma. «Tra quattro giorni a partire da oggi si terrà una gara per assegnare il titolo di Campione della mia casa.»

Un mormorio eccitato serpeggiò tra la folla, ma il vecchio parlò ancora prima che la sua voce venisse sommersa da quella degli altri. 

«Non agitatevi! Nessuno di voi vincerà la gara. Il mio obiettivo è di avere questa ragazza», spiegò puntando il dito verso di me, «come mia Campionessa.»

«Perciò dovrete solo fingere di combattere quando verrà il momento.»

L’annuncio sconcertò tutti e alcuni iniziarono subito a protestare.

«Non è giusto! Se dobbiamo lottare abbiamo il diritto di vincere quell’onore con le nostre forze! Chi è lei? E come può sperare di sconfiggerci tutti?!»

Le grida di protesta aumentarono, alimentate dalla voce dell’uomo che aveva apertamente sfidato la volontà del padrone.

Vasil picchiò le sbarre di ferro più vicine con un bastone, richiamando nuovamente all’attenzione.

«Fate tutti silenzio e ascoltatemi!», tuonò. «Come avrete di certo notato, la ragazza non è in catene. Infatti non è una schiava, al contrario, è una mia gradita ospite.»

Vasil ignorò gli sguardi smarriti e procedette con la spiegazione.

«Per rispondere alla tua domanda, Tasso, questa ragazza è Violet.»

Esplose un boato di sorpresa. Tutti gli sguardi si appuntarono su di me. Anche le domande si moltiplicarono: c’era chi non credeva a quanto aveva detto il vecchio, chi voleva sapere cosa ci facessi assieme a un Signore del Sangue, chi si domandava perché volessi diventare un Campione.

Io li fissavo tutti in silenzio senza rispondere a nessun quesito. Fu Vasil a prendere di nuovo in mano la situazione.

«Come dicevo, desidero che sia lei a diventare il Campione, per questo fareste meglio a fingere di combattere, senza fare sul serio… risparmieremmo tutti tempo e fatica.»

L’uomo che Vasil aveva chiamato Tasso, disse: «Perché dovremmo farla vincere? Forse che non è forte come si dice? La sua fama sarebbe solo una montatura?».

Alcuni schiavi si raccolsero attorno alla sua protesta, il dubbio insinuato in loro.

Vasil non si spazientì affatto e ciò mi sorprese. 

«Sono certo che lei possa battervi tutti piuttosto facilmente. Ma ritengo un’inutile perdita di tempo metterla alla prova, il mio obiettivo è un altro e, se avrete pazienza, lo capirete anche voi. Inoltre, preferisco evitare che qualcuno di voi si faccia male, dal momento che il titolo che assumerà sarà solo una copertura.»

Quando il vecchio pronunciò la parola ‘copertura’ gli schiavi mormorarono perplessi.

«Violet è una donna libera e fa parte della milizia reale. Pensate sul serio che ambisca a essere una Campionessa di quest’arena?»

Ammirai come fosse riuscito a placare gli animi con un discorso ben fatto e ragionato. Altri padroni avrebbero imposto semplicemente la propria volontà, reclamando cieca obbedienza.

Persino Tasso, notai, non sembrava voler aggiungere altro.

«Quando avrò ottenuto ciò che mi serve, lei tornerà alla sua vita e a me continuerà a mancare un Campione. Dunque organizzeremo una vera gara in seguito: avrete la possibilità che adesso vi nego», aggiunse, fissando intensamente Tasso il quale non pareva particolarmente contento.

«Ci siamo capiti?» 

In qualche modo, ricevemmo un’approvazione quasi unanime.

Vasil mi guardò significativamente. Gli rivolsi un cenno di intesa e feci un passo avanti, mentre il vecchio lasciava la stanza.

«Vi ringrazio per avere acconsentito alla nostra richiesta. Sono sicura che tra di voi ci sono uomini molto forti e valenti, apprezzo il fatto che metterete da parte il vostro orgoglio in mio favore.»

«Non avevamo molta scelta, ragazzina», proruppe Tasso. «Se non l'avessi notato lui è il nostro padrone, come opporci al suo comando?»

«A me è sembrato che poco fa tu facessi proprio questo.»

Sbuffò. «Tu non capisci…»

«No, sei tu che non comprendi.»

«Ragazzina! Cosa ne vuoi sapere…?»

«Io lo so», lo interruppi. «So cosa significhi essere uno schiavo. Sei tu a non avere ben presente la prospettiva della situazione.»

«Che cosa vorresti dire con questo?!»

«Intendo dire che sebbene la schiavitù non sia una condizione auspicabile, voi avete la benedizione di un buon padrone. Ho avuto modo di vedere in che condizioni vivono gli altri schiavi di questa arena: vi posso assicurare che siete quelli trattati meglio. Un altro, al posto di Vasil, avrebbe preteso assoluta obbedienza da parte vostra, senza discussioni. Oppure vi avrebbe lasciato battere esponendovi a un inutile rischio di ferirvi e rimanere uccisi, e solo per uno stratagemma. Il vostro padrone ha scelto di evitare spargimenti di sangue dando prova di tenere in conto le vostre vite e il vostro benessere. Credete che siano tutte così spaziose le celle? Tutte fornite di un giaciglio o di cibo e acqua?»

Le mie parole incoraggiarono altre persone.

«È vero, Vasil è un buon padrone», confermò un uomo più anziano degli altri. «Io ne ho avuti molti nella mia vita, nessuno che mostrasse premure come ha fatto lui.»

Indicò una sedia dentro la sua cella. «Me l’ha fatta avere quando non riuscivo a stare sdraiato a causa di una brutta ferita.»

Un altro disse: «Quando qualcuno sta male fa chiamare il guaritore. E quelli troppo vecchi per combattere li congeda dando loro una piccola somma di denaro per finire in pace i loro giorni».

Mormorii di lodi si diffusero dappertutto. Qui e là scappò qualche risata in risposta a certi aneddoti sul loro vecchio padrone.

Sebbene l’atmosfera fosse cambiata, non potei fare a meno di notare che Tasso era rimasto in silenzio nel suo angolo. 

Prima di abbandonare la stanza mi rivolsi a lui un’ultima volta.

«Se alla gara vorrai batterti sul serio con me, fallo pure. Sarò lì ad aspettarti.»

Mi fissò cupamente e capii che mi sarei presto trovata faccia a faccia con lui sul campo: avrebbe impiegato tutta la sua forza nel tentativo di sconfiggermi, ma non ci sarebbe riuscito.

Non permettevo a nessuno di avere la meglio su di me.

 

Presente

 

Erano passate delle ore dall’inizio degli incontri e la gente ancora era animata dalla curiosità di scoprire chi si celasse dietro al velo che mi fasciava il viso e lasciava scoperti solo gli occhi. 

Respirai, inalando quanta più aria potessi e la gettai fuori in un ansito, impaziente di terminare quella procedura per cominciare a fare sul serio.

Dalla folla degli schiavi si fece avanti un uomo massiccio, dalla barba nera: era Tasso. 

Brandiva una lama vecchia ma affilata e sul volto gli lessi la decisione. 

Quando fu abbastanza vicino gli chiesi: «Intendi fare sul serio perché speri che, sconfiggendomi, Vasil ti lasci tenere il titolo?».

Sputò per terra mostrandomi un ghigno strafottente. 

«Proprio così. Anche se la vostra è tutta una messa in scena, gli incontri qui al Surdesangr restano ufficiali. Vasil non mi negherà il titolo di Campione solo perché non avrà potuto avere te.»

«Sei molto sicuro di te stesso», gli feci notare. «Non dubiti del fatto che tu possa battermi, non è vero?»

Sbuffò. «Penso che tu non la racconti giusta. Non mi piace far vincere le donnette ai giochi degli uomini.»

«Va bene, Tasso. Come preferisci. Faremo sul serio.»

Tese d’improvviso la lama sopra la testa, caricando un affondo che schivai fluidamente, tendendo al contempo una gamba per intralciarlo. 

Inciampò, cadendo pesantemente al suolo.

«Mi perdonerai se non mi curo molto del tuo orgoglio», dissi.

Si rialzò svelto, il volto livido di rabbia a malapena trattenuta. «Non ti prenderai gioco di me, sgualdrina!»

Fino a quel momento avevo fatto in modo di protrarre a sufficienza ogni combattimento — per dare l’impressione che ci fosse una reale contesa — ma l’atteggiamento di quell’uomo mi privò di ogni scrupolo.

Mi mossi veloce — più di quanto mi avesse mai visto fare — contrattaccando con colpi in rapida successione che lo spinsero indietro per più di metà campo. 

Mi limitai a ferirlo superficialmente: adesso esibiva tagli alle braccia, alle gambe e su parte del torace.

Aveva gli occhi sgranati per l’incredulità. 

Mi bastarono poche altre mosse per disarmarlo.

«Ho vinto», dissi in un soffio.

Un coro di acclamazioni più potente degli altri scoppiò tra la folla dell’arena. L’ultimo incontro li aveva sbalorditi per la rapidità con cui si era concluso. 

Tasso fissava ancora la lama che giaceva a pochi passi la lui: lo lasciai lì a perdere sangue e a fare i conti con la propria umiliazione. 

Nel frattempo Vasil si era alzato dal suo seggio, al limitare del campo, mi era venuto incontro e mi aveva sollevato un braccio in segno di vittoria, presentandomi al pubblico come sua Campionessa.

Tornai sugli spalti al suo fianco. Calis mi sorrideva soddisfatto.

«Allora, com'è andata?», gli chiesi senza preoccuparmi di sussurrare. Le acclamazioni coprivano ogni altro suono.

«Abbiamo fatto un bel po’ di soldi con i primi incontri. Nessuno scommetteva su di te, credevano avresti perso subito. Le cose sono cambiate non appena hanno capito che avresti continuato a vincere. Ma è andata bene tutto sommato. Oh… per l’ultimo incontro molti hanno puntato su Tasso, lo vedevano agguerrito. Hai fatto bene a umiliarlo un po’, se lo meritava.»

Gli elargii un sorrisetto complice.

Vasil sollevò un pugno e ben presto l’arena si zittì: questo era il momento in cui avremmo potuto lanciare la nostra Sfida.

«Io, Vasil Sergeevič Tret'jakov, Signore del Sangue del Surdesangr, in virtù della vittoria e della proclamazione del mio nuovo Campione, invoco il diritto di Sfida!»

Stenton sussultò visibilmente dalla sua postazione a ovest dell’arena. Si alzò accigliato, prendendo la parola.

«Sono molti anni che non viene lanciata una Sfida», commentò.

«Esatto, è decisamente ora di movimentare le cose», rispose il vecchio con aria di sufficienza.

La folla acclamò le sue parole con un boato di incredibile potenza.

Quando il rumore si smorzò, Drogart intervenne divertito: «Devi proprio essere scontento del tuo nuovo Campione, Vasil, per mandarlo a morire così presto. Dovresti sapere che una volta lanciata una Sfida, ogni schiavo di ogni Signore può chiedere di lottare contro il tuo uomo».

Si interruppe, grattandosi il mento con un dito. «O per meglio dire... la tua donna.» 

«A ogni modo, è una cosa che può andare avanti per ore. Senza contare che poi dovrebbe anche battere gli altri Campioni, altrimenti non hai diritto di riscuotere il tuo premio. A proposito, a quale di noi Signori sarebbe diretta la tua richiesta?»

«So bene a cosa sto andando incontro, Drogart», rispose brevemente Vasil. «E il Signore che voglio sfidare è Stenton», annunciò puntando lo sguardo sul diretto interessato. 

Questi strinse gli occhi, valutando la situazione. Come intuendo qualcosa, mi studiò con intensità: il desiderio di scoprire il mio viso era palese nel suo sguardo.

«Chi è il tuo Campione, Vasil? Credi sul serio di poter vincere il mio Cavaliere con questa Sfida?»

«Posso tentare, ed è proprio quello che farò.»

«Chi è il tuo Campione?» ripeté, sempre più nervoso.

«Rilassati, Stenton!» lo canzonò Drogart. «Davvero temi che quella femmina possa battere il tuo Campione? Non arriverà a sconfiggere nemmeno tre dei miei schiavi! Io li mantengo perché siano forti, non pappe molli come quelli di Vasil. Ci credo che una donna sia stata capace di batterli tutti!»

«Saprai il nome del mio Campione solo se i tuoi schiavi lo sconfiggeranno, Stenton. Dunque, cosa rispondi alla mia Sfida

Stenton non era per nulla contento, ma non aveva altra via di fuga.

«Accetto. E avrò il tuo Campione. Io non faccio combattere le donne... non mi servirà a granché se non a riscaldare il giaciglio dei miei schiavi, dopo che avrò finito con lei.»

Immaginai di trovarmi nella situazione che aveva descritto: poveretto... l’evirazione sarebbe stata una conseguenza inevitabile e nemmeno lo sapeva. 

«Bene», intervenne alla fine Mesame, che era rimasto sempre in silenzio. «Si comincia tra mezz’ora.»

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Campione assoluto ***


Vi ringrazio di avere atteso così a lungo! Finalmente ho avuto il tempo per scrivere e postare il seguito! ^O^
In questo capitolo c'è un po' più di azione e di combattimenti che spero gradirete U.U Non mi sono soffermata troppo su ogni singola battaglia perché personalmente mi stanco a leggere le descrizioni troppo dettagliate dei duelli. Quindi spero che anche per voi, come per me, le cose che ho tralasciato di descrivere non siano una gran perdita ^^
Oh! Inoltre in questo capitolo, si comprende un po' meglio come funziona il potere di Erin! Spero che sia interessante per tutti! <3
Tutti i punti che sono stati lasciati in sospeso qua, verranno colmati nel capitolo seguente, che racconterà del "dopo battaglia" XD
Ringrazio con tutto il cuore le persone che hanno commentato nel capitolo scorso, ovvero:

Damhia, Aelle Amazon, Amy_, Artemis Black e Bullet
Sono grata anche a tutti gli altri che seguono la mia storia! Spero di poter leggere numerosi commenti!
Vi lascio alla lettura!
Alla prossima!


Rita <3


http://i47.tinypic.com/1znn7lj.png


Capitolo 09 - Campione assoluto


Dietro gli spalti che davano sul campo di battaglia dell’arena, ogni Signore aveva una tenda privata, dove di solito si rilassavano tra uno scontro e l’altro, lontano dagli sguardi indiscreti degli spettatori. Dopo che Mesame aveva concesso a tutti una mezz’ora per organizzare l’inizio della Sfida in cui avevamo trascinato con successo il riluttante Stenton, mi ci ero diretta ed ora sedevo su una panca reidratandomi con lunghe sorsate di fresca acqua. Avevo terso il leggero sudore con una tovaglietta di lino candida e tolto il fastidioso velo che nascondeva alla vista i miei capelli e gran parte del mio volto. Poco prima avevo temuto, per un momento, che Stenton, scaltro e nevrotico com’era, avesse riconosciuto nella figura della combattente quella di Erin Knight, la graziosa gentildonna che aveva cercato di comprare, quasi una settimana prima, il suo Campione. Alla fine mi ero rilassata, dicendomi che non poteva già essersene accorto: dopotutto, la mossa maestra non era ancora stata messa a punto.
Questo mi fece pensare che non rimaneva molto tempo per mettere in moto il nuovo giro di ruota in cui stavo imbarcando tutti quanti noi. Mi guardai attorno e domandai a Calis, che era al mio fianco e contava del denaro: «Rob dov’è?»
Per tutta risposta questi mormorò senza alzare gli occhi dal suo bottino: «Credo che stia arrivando.»
«Non c’è più molto tempo. Doveva già essere qua.»
«Vedrai che non tarderà molto» mi rassicurò.
«Lo spero per lui!»
«Calma, calma. Rilassati, ragazza… stai per affrontare un'orda di uomini inferociti, non sarebbe meglio mantenere la lucidità?»
«E chi la perde? Non è quella che mi manca, credimi.»
«Allora la pazienza? Un po’ di controllo? Anche se non dovesse farcela prima che tu cominci a combattere, posso sempre spedirlo io a compiere la sua missione, no?»
Mi resi conto di essere davvero nervosa e risposi con un sospiro: «Hai ragione, ma preferirei accertarmi di persona che vada tutto per il meglio.»
«Beh… non puoi certo occuparti di persona della faccenda di cui hai incaricato me ed il ragazzo, ti pare?»
«Sì, lo so.»
Ebbi appena il tempo di finire la frase che le tende di smossero ed entrò furtiva una figura ammantata. Io e Calis ci irrigidimmo per un istante, ma ci rilassammo non appena scorgemmo la capigliatura di fuoco. Era arrivato Rob.
«Ehi, era ora! Che fine avevi fatto?» quasi lo aggredii.
«Mi dispiace, Erin, ho dovuto evitare un gruppo di schiavi di Stenton che mi conosce. Sono sgattaiolato qui non appena è stato possibile.»
Assentii frettolosa. Era meglio non perdere altro tempo in chiacchiere.
«Allora?», lo incalzai.
«È tutto tranquillo. Ci sono poche guardie nell’avamposto: sono quasi tutte qua per tenere a bada gli schiavi in vista degli imminenti combattimenti.»
«Perfetto! Ti ricordi cosa devi fare, non è vero?»
Fece cenno di sì con espressione solenne.
«Molto bene. Calis ti accompagnerà in caso tu abbia bisogno di aiuto con le guardie. Dovrete muovervi in fretta, però; sarebbe raccomandabile che Calis non manchi troppo a lungo: qualcuno potrebbe notare la sua assenza.»
I due uomini convennero e si prepararono ad andare. Prima che uscissero dalla tenda, però, bloccai Rob per un braccio.
«Come va la ferita?»
«Sto bene.»
«Fammi vedere» gli ordinai.
Rob, abituato a ricevere ordini e ad eseguirli, scostò il mantello e sollevò senza protestare la tunica.
La ferita era ormai una sottile linea rosata, del tutto rimarginata. Non c’era più pericolo che tornasse ad aprirsi o gli facesse troppo male per combattere.
Sospirai. «Ok, ora è meglio se andate.» Gli lasciai il braccio.
Il ragazzo si trattenne e mi fissò negli occhi con uno sguardo intenso. «Non so cosa tu mi abbia fatto, ma mi hai salvato la vita. Ti ringrazio.»
Accettai quelle parole e lo incoraggiai di nuovo ad andare.
«Calis, affido tutto nelle tue mani.»
L’omone mi rispose con un sorriso e disse: «Stai tranquilla e pensa solo alla gara. Al resto ci penso io. Considera il lavoro già fatto.»
E così, rapidamente, abbandonarono la tenda e mi lasciarono sola con i miei pensieri.

 

Cinque giorni prima


«Non migliora.»
La voce di Vasil era cupa mentre scrutava intento la ferita sul petto del ragazzo, riverso nel mio letto. Avevo trascinato Rob nella casa del vecchio Signore ormai da un paio d’ore, durante le quali gli era salita alta la febbre e non era cosciente. Respirava affannosamente, il corpo tutto sudato. Il vecchio, dopo avergli lavato e fasciato strettamente la ferita, aveva decretato che non avremmo potuto fare molto altro, se non aspettare che la febbre calasse da sola e sperare che non gli fosse fatale, senza chiamare un medico. Tuttavia quella possibilità era rischiosa dal momento che ciò avrebbe portato a domande pericolose, soprattutto a causa del fatto che Rob non era uno degli schiavi di Vasil.
Trassi un sospiro e gli rinfrescai, con una pezza bagnata, la zona del collo e del volto. «Pensi che morirà?» gli chiesi sottilmente.
«Se non gli scende presto questa febbre, è possibile di sì. Ha perso molto sangue ed è pallido… dovremmo anche fargli mangiare qualcosa. Così è troppo debole.»
Annuii. Vasil aveva ragione. «Se la ferita si richiudesse…»
«Andremmo molto meglio ma il punto è che rischia di morire prima che il taglio si rimargini. Forse sarebbe meglio cucirlo per evitare che la ferita si riapra…»
Mi sentii combattuta: avevo dato la mia parola a Chev e non volevo iniziare un rapporto di lavoro, come quello che mi proponevo di stabilire tra di noi, infrangendo così la mia parola. Se Rob fosse morto dopo essere stato affidato alle mie cure, che speranze c’erano che si fidasse per la faccenda delicata del ragazzino, Finn?
«Vasil, ho bisogno di acqua in un catino, di alcune pezze, di cibo e zuppe liquide e altra acqua potabile in una brocca. Quando pensi che possa avere pronte le zuppe?»
«Non ci vorrà molto, suppongo, mando subito qualcuno a prepararne. Ma… Violet, sei sicura di riuscire a farlo mangiare? È a malapena cosciente e forse troppo debole.»
«Devo tentare, ma ho bisogno di rimanere sola e di concentrarmi. Nessuno deve disturbarmi finché non vi chiamo, siamo intesi?»
La fronte rugosa di Vasil si contrasse impercettibilmente. Borbottò qualcosa a proposito delle donne che danno degli ordini e uscì dalla stanza in cerca di ciò che avevo chiesto. Quando tutto fu pronto, si fece da parte e disse agli altri servi che non dovevo essere disturbata per nessun motivo.
Una volta rimasta sola tirai un sospiro di sollievo. Quello che mi apprestavo a fare non aveva garanzie di riuscita e non avere altra gente che mi girava attorno, curiosa di ciò che avrei fatto, avrebbe aiutato a migliorare un po’ la difficile situazione.
Guardai il ragazzo, ancora steso sul letto nella medesima posizione di pochi istanti prima: muoveva leggermente le labbra come se stesse mormorando qualcosa ma non emetteva alcun suono.
Con movimenti svelti, e quanto più delicati possibili, scostai i lembi della camicia sgualcita e sciolsi la fasciatura che proteggeva la parte lesa del petto. La ferita era gonfia e pregna di sangue. Qualche goccia sfuggì dalla carne per scivolare sulla pelle pallida e macchiare le coperte sottostanti. Dopo una lunga occhiata, raccolsi il coraggio e posi le mani a pochi centimetri dal taglio, sopra il cuore.
Mi concentrai, escludendo ogni suono, fino a quando non ebbi le orecchie piene del ronzio del silenzio. Attinsi al mio potere, limitando facilmente la zona di azione a racchiudere solo la figura del malato. Non avevo mai tentato una cosa del genere con una ferita così estesa e profonda, ma era doveroso fare un tentativo.
Ogni volta che usavo il mio potere, aprendomi alla dimensione del tempo, c’era una condizione che dovevo soddisfare prima di poter imbrigliare e guidare il medesimo nella direzione che mi serviva, ovvero verso un’accelerazione od un rallentamento: dovevo determinare lo spazio entro il quale il tempo avrebbe subìto il mutamento.
Le mie capacità, infatti, non erano tali da poter controllare tutto il tempo ma solo quello compreso in spazi determinati: gli spazi d’azione. La mia forza e la mia capacità di resistenza erano inversamente proporzionali alla quantità di spazio che coinvolgevo nel cambiamento: più grande era la zona in cui fermavo il tempo, per esempio, meno avrei resistito allo sforzo e più velocemente avrei esaurito le energie. Con Rob privo di sensi steso sul giaciglio pregno del suo sudore, era molto facile controllare il mio potere, limitandolo solo allo spazio che occupava il suo corpo inerme: il mio obiettivo ero quello di accelerare il tempo quel tanto che bastava affinché la ferita si rimarginasse prima che perdesse una quantità fatale di sangue o che potesse infettarsi. Stavo, in sostanza, accelerando le funzioni del suo corpo come se stessero passando giorni, anziché minuti. Per questo mi serviva una grande quantità di minestra, da somministragli ad intervalli regolari durante tutto il mio lavoro: il fisico, così accelerato, consumava velocemente le energie spese nella guarigione ed era fondamentale continuare a rifornirlo con costanza.
Dopo i primi minuti di lavoro, con la ferita che aveva smesso di sanguinare, riuscii a destare il ragazzo per il tempo sufficiente a nutrirlo prima di continuare col mio compito. Man mano che passava il tempo e la piaga migliorava, Rob era sempre più presente a sé stesso e gli veniva facile ingerire il pasto. Ad intervalli frequenti, dovevo arrestare il processo per permettergli di espellere i fluidi ed il cibo ingerito.
Tuttavia, anche quando la febbre scomparve, non fece domande per cercare di capire cosa gli stesse succedendo, o meglio, cosa gli stavo facendo. Mi guardava con le mani imposte sopra di lui soffuse si una leggera luce violetta, ma questo era tutto ciò che poteva percepire, a parte alcune contrazioni dei muscoli che si ricostruivano e il veloce consumo di energia del suo organismo. Spesso si appisolava, recuperando anche il sonno di cui avrebbe goduto nella durata di più giorni.
L’unico commento che fece, a parte le prime domande farfugliate e confuse di quando aveva ripreso sufficiente coscienza da rendersi conto di ciò che accadeva, fu il seguente: «Non avevo mai pisciato tanto in così poco tempo». Mi fece ridere.
Riuscii a mantenere il controllo per circa sette ore, alle fine delle quali, dell’orrenda ferita che lo aveva deturpato era rimasta solo una lunga linea rosa un po’ frastagliata e sensibile. Ero affaticata e sudata ma contenta del risultato.
Rimisi a posto le bende, usandone di pulite, e lasciai Rob con l’ordine di riposarsi e lo affidai alle cure delle domestiche di Vasil, le quali rimasero stupite del grande miglioramento del ragazzo nonostante non avessero capito che la lesione era ormai guarita. Avevo preferito fasciargli il petto per evitare di dare adito alle chiacchiere, anche se probabilmente avevo solo ottenuto di rinviare l’inevitabile: prima o poi, qualcuna avrebbe preteso di sostituire le bende, credendo fosse necessario far prendere aria alla ferita, e si sarebbe accorta della guarigione avvenuta. Ma a quel punto ero troppo stanca per pensare alle conseguenze: avevo ottenuto di salvare la vita al ragazzo ed ora, forse, avrei avuto la fiducia di Chev. E tanto mi bastava.


Sussultai quando il movimento della tenda mi annunciò la presenza di un nuovo vivitatore. Presi velocemente in mano il velo, pronta a coprirmi la faccia, ma la voce di Vasil mi indusse a lasciar perdere.
«Sei pronta, ragazza?»
«Lo sono, per quanto lo possa essere.»
Un grugnito commentò le mie parole. «Non sarà facile. Lì fuori sono tutti esagitati, impazienti di vederti combattere contro gli uomini più forti. C’è già una bella fila di sfidanti.» Aveva l’espressione contratta e sembrava pensieroso.
Gli versai un po’ di vino su un calice e glielo resi. «Rilassati, vecchio. Prendi un po’ di questo vino, è buono.»
«Puà!» esclamò, agitando come sua abitudine una mano. «Il vino offerto qui al Surdesangr raramente è decente, figurarsi buono!»
«Perché allora non avete proposto al consiglio dei Signori di comprarne di migliore?»
Sbuffò. «Nessuno degli altri vuole uscire il denaro sufficiente! Tiresio era quello più propenso, ma sai quanto è taccagno Stenton... non se n’è fatto nulla.»
Rimescolai il vino dentro al calice che Vasil non aveva accettato, gli diedi un’occhiata e, con un’alzata di spalle poco signorile, lo ingollai fino in fondo.
«Beh, anche se avesse un saporaccio non avrebbe importanza al momento» commentai. «Tra quanto si comincia?»
«È ora. Ero appunto venuto a chiamarti.»
Con un cenno del capo gli feci capire di precedermi. Lasciò la tenda e presi una boccata d’aria a pieni polmoni prima di tornare a soffocarmi col velo.
Uscii dalla tenda sapendo cosa avrei trovato: l’arena era un vespaio di uomini mal vestiti ed unti, molti dei quali avevano alzato troppo il gomito. Qua e là faceva capolino qualche forma femminile, a mala pena celata da un vestiario che ne denunciava il mestiere. C’era un gran vociare che quasi assordava chiunque si avvicinasse agli spalti. L’odore di vino e birra, misto a quello di sudore e urina mi spinsero a benedire silenziosamente la stoffa che proteggeva il mio anonimato ed il mio olfatto.
I Signori erano di nuovo tutti nelle proprie postazioni. Il nervosismo di Stenton si percepiva fin dove mi trovavo io. Nervosismo e rabbia. Continuava a sbuffare come se non credesse ai suoi occhi. Maltrattava i servi che si era portato appresso per occuparsi di versargli da bere ed esaudire ogni sua richiesta. Il suo stato fu un balsamo per il mio umore che migliorò notevolmente. Ero ormai decisa e sapevo che non potevo permettermi di sbagliare: un errore avrebbe potuto essermi fatale.
Drogart si occupò di annunciare l’inizio dei duelli. I primi schiavi a farsi avanti furono i suoi, capeggiati da un tipo tozzo con un orrendo volto sfigurato. Ghignava estatico, pregustando il momento in cui mi avrebbe infilzata come uno spiedino e costretta a togliermi la maschera. Non mi diede fastidio quel suo atteggiamento, non c’era più tempo per frivolezze del genere; velocità e risolutezza erano le mie sole alleate in uno scontro che si preannunciava lungo ed estenuante. Fino a quel momento, infatti, non mi ero dovuta preoccupare di fare sul serio perché quasi tutti gli schiavi di Vasil avevano acconsentito a lasciarmi facilmente vincere. Ora, non solo avrei dovuto reggere all’assalto di molti altri più agguerriti, ma avrei dovuto anche dosare per bene le energie per averne a sufficienza nel momento in cui avrei affrontato gli altri Campioni. Loro, dopotutto, erano più temibili rispetto a tutti gli altri. Perciò smisi di parlare: non risposi più agli insulti ed ai motteggi. Ero completamente concentrata sul mio compito.
Muovevo la spada con la rapidità dovuta ai miei esercizi e non all’impiego del mio potere. Ogni colpo era diretto ed andava sempre a segno e non fu così difficile sbarazzarsi di molti di loro.
A sorpresa, notai che man mano che sconfiggevo sempre più uomini grossi e muscolosi, altri, che inizialmente si erano proposti per affrontarmi, si ritiravano temendo che infliggessi loro la stessa umiliazione conquistata dai compagni.
Dopo una ventina di combattimenti, mi ritrovai grondante di sudore e con soli pochi graffi su gambe e braccia laddove qualcuno degli sconfitti era riuscito a passare la mia guardia; tuttavia non avevo nessuna ferita degna di menzione.
Il primo Campione che affrontai sul campo fu il Gallo. Vasil mi aveva preparata, descrivendomi nel dettaglio le caratteristiche di combattimento di ognuno di loro, pertanto sapevo che metterlo fuori gioco non sarebbe stata una grande sfida: era decisamente il più debole fra quelli che avevano vinto il titolo. Come previsto, lo sconfissi in poche mosse: la sua armatura, più pomposa che pratica, fece quasi tutto il lavoro. Tiresio, il suo Signore, non pareva sorpreso del risultato dell’incontro. Aveva dovuto capire che ero più in gamba del suo uomo, se il numero degli schiavi che avevo sterminato prima di lui non fosse stato indicativo in tal senso.
Geoffrey fu tutt’altro paio di maniche. Mai, come in quel duello, ringraziai di avere addosso il velo che scendeva a coprirmi naso e bocca! Il tanfo tremendo del mio avversario era quasi bastevole a farmi arrendere. Emanava un puzzo così accentuato che se ne veniva investiti e ti spingeva ad arretrare barcollando. Nonostante la stoffa fosse una debole riparo contro quell’arma di distruzione di massa, riuscì a filtrare sufficiente aria da impedirmi di svenire. Il consiglio del vecchio Vasil di intingere di profumo il velo si rivelò efficace. Al di là di ciò, comunque, Geoffrey era un combattente valente. O quantomeno, non sconsiderato.
Mesame pareva compiaciuto della difficoltà che mi stava dando. La sua tecnica era meno diretta e più volta all’attesa che l’avversario facesse un passo falso, cosa che non ero disposta a fare, nemmeno per smuovere lo stato di cose. La sua tattica attendista, tuttavia, provocò il malcontento della folla che esigeva sangue e azione. Sulle prime rimanemmo a studiarci guardinghi, per poi provare qualche colpo che nessuno dei due mise a segno. Quando mi stufai dell’attesa, provai a confonderlo con una finta: fu inutile, aveva la guardia bene alzata e non gli sfuggiva nessun movimento.
Capii che avrei dovuto fare io la prima mossa, perché lui non si sarebbe mosso per venirmi incontro. Caricai un colpo e mi spinsi in avanti; il guerriero arretrò di qualche passo e parò il fendente. Fece pressione sulla lama per respingermi e approfittò del vantaggio per dirigere la spada verso il mio fianco scoperto. Fui abbastanza lesta da parare il colpo in modo che non facesse troppi danni, ma purtroppo lasciò una striscia rossa da cui sgorgò in pochi secondi del sangue caldo che mi inzuppò i vestiti.
Sbuffai impaziente, e decisi di usare un po’ di potere in un altro attacco diretto, che non si sarebbe aspettato. Con un po’ di fortuna la velocità lo avrebbe spiazzato lasciando qualche spiraglio per un colpo ben assestato. Quando mi mossi, decisa sul da farsi, gli spettatori trattennero il fiato, ugualmente sorpresi. Esplose un boato nel momento in cui ferii l’avversario alla spalla destra, dove teneva la sua arma.
Geoffrey aprì la bocca e la contrasse in un arco di sorpresa. Il suo sguardo sfrecciò dalla ferita a me che me ne stavo rannicchiata in posizione difensiva. Tentava di capire cosa fosse successo, e soprattutto come, ma per quanto cercasse di ricostruire l’azione nella sua mente, qualcosa continuava a sfuggirgli.
Ottenni di innervosirlo e ciò lo portò successivamente a commettere più errori e quindi alla sconfitta.
Mesame, sugli spalti, per nulla contento, continuava a fissare il suo Campione battuto. Sicuramente avrebbe trovato un modo per fargli pagare quell’umiliazione.
Geoffrey si allontanò dal campo piuttosto malconcio. Gli avevo procurato una brutta ferita alla gamba ed una al torace, oltre che alla spalla, e dovettero mandare qualcuno a soccorrerlo e ad aiutarlo a trascinarsi via.
Lanciai un’occhiata al seggio di Stenton ma, con mia grande sorpresa, il Signore non si trovava al suo posto. Aguzzai lo sguardo ma non ci fu nulla da fare, non era proprio nel suo padiglione. Un urlo tremendo mi costrinse a concentrare l’attenzione verso la parte del campo dove si trovava il mio prossimo avversario. Il Toro, oltre che l’aspetto, aveva anche il modo di esprimersi di un animale. Lo vidi sbuffare – quasi potesse uscirgli vapore dalle narici – e lanciarmi contro uno sguardo carico di odio. Sulla testa calva si notavano le vene gonfie che pulsavano costantemente, ad un ritmo accelerato. Il cerchio di metallo al naso era semplicemente grottesco.
Nella frazione di tempo che impiegò per avvicinarsi a me, notai che anche Drogart, il suo Signore, non si trovava al proprio posto. Dentro di me scattò un campanello d’allarme ma non avrei saputo dire cosa fosse a non andare. Era possibile che entrambi i Signori si assentassero nello stesso momento durante un evento pubblico così importante e soprattutto, ad un passo dalla fine dei combattimenti? Mi venne da pensare che non avevo visto Chev da tutta la mattina. O meglio, dopo averlo adocchiato brevemente all’inizio degli incontri per la mia gara al titolo di Campione, non lo avevo notato più. Era sempre stato lì ad osservare, chiedendosi che cosa avessi in mente? Ma se era così, ora dove si trovava? Una rapida occhiata non mi servì ad individuarlo tra la folla. Possibile che Stenton fosse fuggito con lui? Mi pareva una cosa impossibile… E dove sarebbe potuto andare, poi? La Sfida era stata lanciata ed accettata, non c’era modo di evitare l’inevitabile. Non poteva certo abbandonare il suo posto prestigioso di Signore del Sangue solo per uno schiavo!
Mi diedi della stupida. Non era certo quello il momento di mettersi a fare congetture così assurde! Non certo quando un colosso alto quasi due metri ti fissava sprezzante e meditava di ucciderti, proprio lì davanti a te. No… era lui a meritare la priorità al momento. Ricambiai il suo sguardo con il più calmo che fossi in grado di mettere insieme. Mi sentii quasi distaccata da ciò che avveniva. Era persino buffo nella sua mole da gigante ad agitarsi e menar le mani per una cosetta piccola come me. La spada gli pendeva da un fianco e quando la estrasse, al segnale di inizio duello, parve, tra le sue mani, sottile come un giunco e molto meno minacciosa dei suoi muscoli gonfi. Pensai con ironia che avrebbe potuto farmi più male con un pugno che con una stoccata di lama.
Come avevo potuto notare già la settimana prima, il Toro era un ottimo lottatore in quanto a forza bruta, ma lasciava parecchio a desiderare in quanto a tecnica di combattimento.
Contro qualsiasi altro uomo – meno che il Cavaliere, probabilmente – avrebbe costituito una minaccia considerevole dati i suoi attacchi caricati che travolgevano l’avversario obbligandolo ad arretrare e a perdere l’equilibrio. Tuttavia, per una donna come me, che aveva dovuto imparare a far fronte ad avversari sempre più grandi e grossi di sé, sfruttando le leve e giocando d’equilibrio, fu nel complesso abbastanza semplice tenergli testa. Un uomo avrebbe scelto di affrontare la carica dell’avversario mastodontico per tentare, come poteva, di respingerla; io scelsi di evitarla e mi trovai, in questo modo, a danzagli intorno scansando un attacco dopo l’altro. Quando si sbilanciò in maniera quasi impossibile, pur di afferrarmi, non resistetti alla tentazione di buttarlo a terra con una pedata. Il corpo atterrò con un tonfo ed uno sbuffo di sabbia. Quando si rialzò, il Toro, assomigliava più che mai alla bestia di cui portava il nome. I suoi occhi erano iniettati di sangue e, ironia della sorte, il turbante che portavo era proprio di colore cremisi.
«Me la pagherai, maledetta!» sbraitò. Non gli diedi conto.
«Chi diavolo sei, puttana?! Solo la progenie del demonio può essere capace di sconfiggere tutti noi con quella calma impassibile!»
‘Calma impassibile’ un corno!, pensai. Ero tutta sudata ed appiccicata, quasi al limite delle mie forze. Durante tutto il tempo avevo cercato di non usare il mio potere, con la conseguenza che avevo impiegato di più a sconfiggere tutti. E ancora avevo questo stupido davanti da togliere di mezzo! Una delle molte cose che ci distingueva, peraltro, era che non mi esagitavo come una forsennata sprecando le mie energie. Lui pareva saper fare bene soltanto questo!
Alzai il mento in un gesto di sfida e lui abboccò come un allocco. Purtroppo, proprio in quell’attimo, un’ondata di magia come raramente mi capitava di sentire, mi destabilizzò e mi distrasse. Mi voltai automaticamente verso il punto da cui avevo sentito che proveniva, ma non capii di cosa si trattasse. Il momento successivo mi ritrovai inchiodata a terra, tramortita dal possente pugno che mi aveva scagliato contro il mio avversario. Sentii un dolore pulsante in tutta la parte sinistra della faccia e dietro la testa, dove avevo picchiato il pavimento quando mi aveva buttata giù.
«Ti ho preso, troietta! E ora che cosa farai? Non hai la forza di sfuggirmi e sei in mio potere!» Cacciò fuori un urlo che era quasi un guaito di soddisfazione. Prima che potessi rimettere in ordine i miei pensieri confusi e riprendermi dalla doppia botta, l’omone afferrò la stoffa sulla mia faccia e la strappò via, insieme a qualche capello.
Dalla folla sugli spalti provenne un nuovo boato di sorpresa ed eccitazione.
«Ma tu guarda, che bel bocconcino!» commentò fissandomi e stringendo tra le dita le mie guance in maniera poco delicata. «E tu saresti la donna che ha battuto tutti i concorrenti? Tutti tranne me, ovviamente! Credo proprio che ti darò una bella lezione, mocciosa!»
Gli uomini tutti intorno lo incitavano a colpire: desideravano vedere quanto potessi essere resistente, messa così alle strette. Io non dubitavo che un altro pugno come quello di prima mi avrebbe messa fuori gioco, se non mi avesse direttamente uccisa.
Feci, dunque, l’unica cosa che mi era rimasta da fare: fermai il tempo nel momento in cui sollevò il suo grosso pugno puntato nella mia direzione. Mi strappai alla sua presa e sgusciai da sotto di lui, non senza difficoltà a causa del peso che mi inchiodava le gambe. Raccolta la stoffa spiegazzata, la usai a mo’ di corda e l’avvolsi come un cappio intorno al suo collo taurino, prima di ripristinare il tempo.
Un silenzio innaturale calò allora tra tutti gli astanti prima che esplodesse il fragore: solo in quel momento venni riconosciuta per chi ero e per tutto il Surdesangr si innalzarono ovazioni. Tutti si agitavano gridando “Violet! Violet!” fino a perdere il fiato.
Il Toro, ai miei piedi, grugniva e si agitava, artigliando la stoffa che lo soffocava. Sapevo che non avrei retto a lungo, era troppo forte. E di fatti, in pochi secondi, agitandosi, riuscì a scrollarsi di dosso il mio peso e a liberarsi dalla stretta della stoffa.
«E così saresti tu la Violet di cui tutti parlano?» mugugnò al mio indirizzo. «Credevo fossero tutte fesserie, ma devo ricredermi. Però non farti illusioni, bambolina… non potrai sconfiggermi, sei solo un insetto!»
Lo fissai, continuando a non proferir parola.
«Allora, non dici niente? Per caso hai perso la lingua?» mi sfotté. Mandò fuori una risata rauca e spaventosa ed agitò le braccia per afferrarmi. Pareva del tutto dimentico della spada che aveva abbandonato sul terreno polveroso, nonché di quella che io reggevo tra le mie mani. Gli rinfrescai la memoria aprendogli un taglio piuttosto profondo nell’avambraccio.
«Stai a cuccia, scimmione.» lo blandii.
La guancia pulsava in maniera dolorosa. E ancora non capivo cosa fosse stato a distrarmi. Avevo l’impulso di voltarmi per cercare tra la folla il motivo di quello sprigionamento magico, perché avevo proprio un brutto presentimento, tuttavia non avrei commesso una seconda volta l’errore di distrarmi.
«Forza, fatti sotto, bello», lo istigai, «Ho piuttosto fretta di finire.»
«Puttana!» masticò tra i denti, ma si convinse ad agire. Raccolse la spada e mi fronteggiò. Respinsi la prima carica ed evitai la seconda. Avevo il fiatone, ma riuscivo ancora a destreggiarmi piuttosto bene. Sapevo che non potevo indurlo ad arrendersi, il suo orgoglio non gli avrebbe permesso di smettere prima di farsi troppo male. Così lo colpii con decisione e gli aprii uno squarcio tra le costole. Prese a sanguinare copiosamente, però non si fermò e continuò a contrattaccare fino a quando non perse troppo sangue e ricadde sul suo stesso peso semisvenuto.
Blaterava qualcosa come “maledetta cavalletta” e non mi restò altro che attendere che perdesse del tutto i sensi e fosse dichiarato sconfitto. Eppure, contro ogni previsione, gli rimase abbastanza forza per tentare, a sorpresa, un ultimo attacco. La spada mi penetrò la carne, facendomi scorrere un largo fiotto si sangue sulla gamba, impregnando un calzare. Caddi in ginocchio e mi protessi ricambiando il colpo per allontanare l’arma nemica. Riuscii a disarmarlo. Lo spadone ricadde con un suono metallico tra la polvere ed il braccio teso del Toro si piegò su se stesso, ricoperto di una nuova ferita superficiale.
Finalmente svenne, rimanendo del tutto immobile. Abbassai lo sguardo sulla mia gamba ferita, valutando il danno: il taglio, lungo dieci o dodici centimetri, si estendeva obliquamente.
Strappai un lembo della mia veste – nella parte meno danneggiata e meno sporca – e lo legai strettamente a fermare l’emorragia.
Qualcuno venne a raccogliere il guerriero; forse non si sarebbe salvato.
Un servo mi si avvicinò, si inginocchiò al mio fianco e mi disse: «State bene, mia signora? Mi manda Vasil, è preoccupato per la vostra incolumità.»
«Riferite al vecchio che non è nulla di grave. Posso ancora combattere.»
«In tal caso, mia signora, il padrone mi manda a dirvi che Stenton e Drogart si sono assentati durante gli ultimi duelli.»
«Sì, me n’ero accorta.»
«Sapete cosa sta succedendo?»
«Purtroppo no. Speravo potesse dirmelo Vasil.»
«Il mio padrone è perplesso quanto voi, signora.»
Feci un cenno col capo. «Allora non ci rimane altro che scoprirlo. C’è ancora un ultimo scontro, no?»
«Esatto, mia signora. Vi auguro buona fortuna. Il Cavaliere è un uomo temibile, molto più del Toro.» commentò prima di tornare ai tendaggi al margine del campo.
Purtroppo attesi qualche minuto ma di Chev o del suo Signore, non c’era nessuna traccia. La massa scalpitava in attesa dello scontro decisivo ed invocava ancora il mio nome. Sentii qualcuno ipotizzare che il Cavaliere se la fosse fatta addosso e fosse scappato per la paura; altri pensavano che Stenton avesse preferito rinunciare alla Sfida. Per quanto quest’ultima ipotesi fosse stata anche una delle mie, all’inizio, ora ero sempre più convinta che ci fosse un altro motivo per quel ritardo.
Qualcosa, della magia liberata poco prima lì da qualche parte, mi aveva messa in guardia ed ora stavo bene attenta ad ogni cosa mi circondasse. Tentai di estromettere lo schiamazzo generale per focalizzarmi sui dettagli.
All’improvviso, la tenda del padiglione di Drogart si scostò e ne emerse il Signore seguito da Stenton e da Chev. Sui volti dei più anziani aleggiava un ghigno di soddisfazione, sebbene quello di Stenton fosse misto a qualcosa di più oscuro. Chev, d’altra parte, aveva l’espressione granitica di chi tentasse in ogni modo di tenere nascosti i propri sentimenti: la sua era una maschera inespressiva calcata, però, da una profonda tensione di fondo.
Incrociai il suo sguardo, ma egli si affrettò ad abbassarlo e non riuscii a capire cosa fosse andato male.
Lì accanto, Stenton, mandò fuori un’imprecazione. Si era infine soffermato a guardami e mi aveva potuta vedere bene in viso, ora che non portavo più il mio travestimento. Compresi dalla sua smorfia che si era ricordato di me ed al momento era impegnato a maledirmi.
Drogart non fu per niente contento di scoprire che il suo Campione era quasi in fin di vita. Nonostante ciò, racimolò la calma necessaria per il suo discorso.
«Dunque hai sconfitto tutti i concorrenti, giovane sfidante. Persino il mio Toro. Possiamo vedere che ti abbiamo sottovalutata, Violet, la tua fama era autentica, a quanto pare. Dopo tanti anni ci stavamo chiedendo se avessimo solo sognato di te. C’è da chiedersi, tuttavia, come sia riuscito Vasil a fare di te la sua Campionessa.» lanciò un’occhiata al suo collega ma non azzardò ipotesi. «Credo che sia arrivato il momento dell’ultima sfida: se sconfiggi il Cavaliere, egli apparterrà a Vasil, e tu avrai vinto!»
Con uno schiocco delle mani dispose un arsenale di armi davanti all’ultimo Campione e lo incitò a scegliere quella con cui battersi. Ignorò tutte le lance lunghe e corte, gli spadoni e le mazze chiodate e scelse, con mia sorpresa, una daga sottile e corta, adatta al combattimento ravvicinato. Di regola, lo sfidante doveva competere con la stessa arma scelta dal Campione sfidato, per cui mi diressi ai margini del campo, nel recinto delle armi e depositai la spada su un ripiano, dove avrebbero provveduto a ripulirla, e la sostituii con una daga più o meno della stessa lunghezza di quella di Chev. Perché aveva scelto quell’arma? Era quella che sapeva manovrare peggio? Sperava, in questo modo, di darmi un vantaggio? Scrollai le spalle, arrendendomi al pensiero che avrei potuto scoprirlo solo affrontandolo, ma non per questo più serena. Continuavo a sentire quel campanello d’allarme.
Quando tornai indietro, anche Chev stava scendendo dalla tribuna, ma prima che potesse raggiungermi, venne trattenuto per pochi secondi da Drogart che lo afferrò per un braccio e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio. Stenton non vi badò e non fece nulla per separare quello che doveva essere il suo Campione dal proprio avversario.
Chev fece un cenno e ritrasse il braccio. Tutta la sua figura pareva irradiare tensione, e per un momento scorsi una punta di disperazione tra i suoi lineamenti. Il momento successivo, però, tornò all’apatia di sempre, tanto che mi domandai se lo avessi solo immaginato.
Quando fu abbastanza vicino lo salutai. «Chev, ci si rivede.» Ero guardinga e lui non rispose.
«So che c’è qualcosa che non va. Prima ho sentito…»
Le mie parole parvero fare breccia in lui poiché sollevò di scatto il capo, guardandomi con aria interrogativa.
«Non ho capito però cosa sia successo.» continuai a spiegare. «Cosa ti hanno fatto?»
Scosse la testa, avrei detto con frustrazione.
«Dobbiamo lottare, ora, Erin. Non c’è altro modo.»
«Puoi scegliere, Chev. Ti ho detto che ti avrei reso la tua libertà se ti fossi messo al mio servizio. Io mantengo sempre la mia parola. Il ragazzo, Rob, sta bene, è guarito, proprio come ti avevo detto.»
Nei suoi occhi passò un guizzo, forse di sollievo per la buona notizia. Poi, tornò a rabbuiarsi.
«Finn…»
«Anche lui starà bene, te lo prometto.» mi affrettai a dire. Suonò il gong che segnava l’inizio del combattimento finale. Chev prese posizione, piegando le ginocchia e difendendo un fianco.
«Non deve andare per forza così, maledizione!» sibilai. «Ti basterà fingere un poco e poi arrenderti, e andrà tutto a posto!»
«Tu non capisci, Erin… non ho scelta.»
«Dimmi perché allora!»
«Non lo posso fare.»
Con quelle parole si avvicinò rapidamente sferrando un pugno con la mano libera, per proteggermi dal quale subii il colpo a sorpresa della mano armata. La stoffa si stracciò sulla spalla, lasciando un taglio poco profondo che tuttavia bruciava.
«Dannazione!» imprecai, mentre arretravo e mettevo un po’ di distanza tra noi. Era evidente che qualcosa lo costringeva ad agire contro la sua volontà, ma cosa? Che Stenton si fosse inventato un nuovo ricatto? Non poteva già essersi accorto di avere perso Finn. E comunque, in tutto il quadro, Drogart dove si posizionava? Perché era scomparso assieme a Stenton durante le gare? Dove erano andati e a fare cosa?
Mentre i pensieri si agitavano frenetici nella mia mente, cercai come potevo di resistere agli attacchi serrati del Cavaliere che non mi dava tregua. Era un combattente straordinario e mi stava mettendo parecchio in difficoltà, tanto più che cercavo di trattenermi dal ferirlo gravemente e, contemporaneamente, mi sforzavo di trovare un modo per indurlo ad arrendersi per vincere la competizione.
Ragiona, Erin!, mi dissi, Cosa può legare assieme Stenton e Chev a Drogart? E perché quel flusso potente di magia, poco prima…?
Magia…
Un pensiero spaventoso mi colpì inaspettatamente. Ma certo! Così era tutto molto più chiaro. Ed anche sensato.
Osservai con occhi nuovi il mio rivale, cercando la prova schiacciante della mia teoria… e la trovai!
Il polso destro recava su di sé una netta incisione quasi del tutto rimarginata. Sopra di essa aleggiava, come una sorta di tatuaggio, un segno a forma di stella. Lo stesso che ornava il polso del Toro.
Proprio mentre allungava un braccio ed io lo schivavo, gli afferrai il volto e lo obbligai a guardami fisso negli occhi.
«Ti hanno costretto al Giuramento di Sangue!» sussurrai ma abbastanza chiaramente da farmi udire da lui.
Sgranò gli occhi e capii di aver fatto centro. Si divincolò dalla mia presa, rispondendo: «Se hai capito, allora…»
Abbandonò la daga e con le braccia possenti mi strinse in una morsa. Ero schiacciata al suo petto, l’arma dietro la mia schiena dove erano bloccate le mani.
«…sai che non ho alternativa» concluse, in uno sbuffo. Si sforzava con tutto se stesso di ritardare di mettere in pratica il comando che gli era stato impartito, non da Stenton ma da Drogart. Il vecchio bastardo avido non avrebbe tollerato di perdere il proprio Campione e, nel momento in cui aveva compreso che avrei quasi certamente vinto tutte le gare, si era deciso a cederlo a Drogart, sicuramente in cambio di chissà quali favori, piuttosto che cederlo a Vasil, che mal sopportava.
Una volta legato in un simile vincolo, l’individuo assoggettato non aveva più scelta e, ad ogni comando diretto del suo padrone, non avrebbe potuto opporsi.
«Ti ha comandato di uccidermi.»
«È così.» confermò.
Ora capivo la tensione ed il violento tremito dei muscoli che mi imprigionavano: stava cercando di lottare contro il comando impostogli, ma presto avrebbe ceduto. Non era così forte.
Strinse ulteriormente la presa, la daga mi sfuggì di mano ed andò a raggiungere la sua al suolo. Soffocai un rantolo di dolore.
«E-Erin…» balbetto, «Io… non ho scelta, s-sento che…»
«Shh» gli intimai con voce fievole. «Non parlare… c’è un modo…»
Prima che potesse interrogarmi ulteriormente, sprecando del tempo prezioso, avvicinai il mio viso al suo e posai le mia labbra sulle sue. Lo sentii sussultare per la sorpresa e soffocare la domanda che gli sorgeva spontanea «Cosa…?!»
Le parole si trasformarono in un rantolo di dolore misto a sorpresa quando gli morsi un labbro con forza. Serrai i denti fino a sentire sgorgare un liquido caldo dalla piccola ferita che gli avevo procurato. Quando mi bagnò le labbra, succhiai avidamente quel sangue e, assieme ad esso, trassi parte del potere del nuovo legame che lo vincolava.
Non riuscii a liberarlo. Non del tutto, no. Ma feci abbastanza perché il vincolo ne fosse indebolito al punto da lasciargli spazio per altre decisioni che non fossero quelle impartite dal suo oppressore.
«Ora lasciami andare.» dissi.
Piano piano, quasi non ci credesse, allentò la presa sul mio corpo ed io scivolai in basso e mi rimisi di nuovo in equilibrio.
«Ci sono riuscito! Io… tu… cosa hai fatto?!»
«Lascia perdere, ti spiego dopo. Senti ancora l’impulso di uccidermi?»
Ci pensò un momento, poi assentì.
«Sì, lo sento. Solo che ora è molto più debole. Non devo fare molta fatica per oppormi. Tu mi hai liberato! Tu…»
«No, non del tutto. Però ti ho ridato un po’ di libero arbitrio, questo sì.»
Rifletté un momento e poi domandò: «Ora che si fa?»
«Beh, fingi di batterti con me, poi arrenditi o lasciati sconfiggere.»
«Ma Finn…» protestò testardamente.
«Uffa! A lui ho detto che ci avrei pensato io, no?» dissi spazientita. «Ora fammi il piacere e fingiti spacciato così la finiamo con questa pagliacciata! Non ne posso più! Quanto tempo ho perso…!» Blaterai un altro po’, giusto per sfogarmi.
Poi mi accorsi che gli spettatori erano perplessi: avevano assistito ad un combattimento feroce, poi a quello che – almeno dal loro punto di vista – doveva essere stato un bacio appassionato, mentre ora ci vedevano nuovamente imbracciare le armi e fronteggiarci. Da qualche parte partirono dei fischi e udii delle battute dirette alla virilità di Chev. Mi sentii arrossire ma non c’era nulla che potevo fare, non per questo.
Chev lo notò e rise di gusto. Aveva una risata bassa e roca, molto… sensuale. Mi sorpresi a pensare che dava l’impressione che non ridesse molto spesso, il che era un vero peccato…
Poi mi diedi uno schiaffo mentale e tentati di riportarmi al qui e ora, visto che non era il caso di lasciarsi andare a pensieri inopportuni proprio nel mezzo di un combattimento.
Successivamente quasi mi divertii. Quello che era diventato un finto combattimento tra me e Chev, non sembrava affatto tale: sapevo che non stava cercando di essere letale, e nemmeno io stavo cercando di esserlo con lui, tuttavia sembrava davvero una lotta all’ultimo sangue. Eravamo coordinati ed in perfetto tempismo: lanciavamo offensive e controffensive e saggiavamo le nostre capacità. Continuammo a dare spettacolo fino a quanto non ci demmo un segno di intesa, lui finse di inciampare su qualcosa ed io ne approfittai per puntargli la daga alla gola, intimandogli di arrendersi.
Scoppiarono applausi e ovazioni per tutta l’arena. Persino Vasil pareva più eccitato del solito. Sulle facce di Drogart e Stenton era calata una fosca espressione di incredulità e rabbia.
Finalmente mi permisi di tirare un sospiro di sollievo. Fu Tiresio a prendere la parola per annunciare ufficialmente il risultato della Sfida e mi proclamò Campionessa assoluta. Il Cavaliere venne ceduto a Vasil, come da richiesta, e al vecchio Stenton non rimase che rodersi, da solo, nella sua piattaforma.
Dopo un tempo infinito in cui vennero firmati i documenti che sancivano il passaggio di possesso di Chev da uno all’altro Signore del Sangue, finalmente fu possibile ritiraci negli appartamenti privati di Vasil.
Guardai l’uomo al mio fianco, appena un poco sporco di polvere e qua e là da macchioline di sangue. «Bene… ora seguimi, Chev. Ci meritiamo un’intera botte di birra per tutto questo!»
«Credo che sia stata tu a meritarlo. Io non ho fatto molto.»
Agitai una mano per sminuire le sue parole. «Sciocchezze! Scommetto che non deve essere stato molto piacevole farsi asservire con un giuramento magico ad uno come Drogart. Meno che mai berne il sangue.» Rabbrividii al solo pensiero.
«In effetti… non è stata la cosa più piacevole che abbia subìto negli ultimi tempi.»
Gli diedi una pacca sulla spalla e ci dirigemmo verso luoghi più tranquilli per godere di un meritato riposo.

[Continua...]

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Contrastare un Giuramento ***


Eccovi, come promesso, il capitolo del "dopo battaglia" XD Anche se lo chiamo così non per questo è un capitolo meno importante... diciamo che si chiariscono un bel po' di cose, soprattutto si chiarisce quali conseguenze avrà il legame di Chev con Drogart tramite il Giuramento di Sangue. Ebbene, Erin ha fatto in modo da non farsi ammazzare durante il loro incontro XD però non ha fatto abbastanza per rompere quel pericoloso legame... quindi cosa le rimane da fare ora? Lo scoprirere con questa lettura e mi auguro che molti di voi apprezzino l'andazzo della situazione *io gongolo*
Ringrazio tutti coloro che si sono innamorati di questa storia e che la seguono con interesse ^w^
Aspetto come sempre i vostri commenti perché mi incoraggiano un sacco ;)

Rita <3
 

Capitolo 10 - Contrastare un Giuramento

 

«Ragazza, ce l’hai fatta!»
La grossa mano callosa di Calis si abbatté con forza sulla mia spalla, facendomi traballare sulle gambe malferme.
«Ouch! Cal, perdio, stai un po’ attento! Sono ferita su questa spalla!» con una smorfia di sofferenza la circondai con la mano, spostando la stoffa incrostata di sangue ormai essiccato che la nascondeva.
«Oh, è vero! Scusami tanto Violet.» arretrò di qualche passo. «Ora faccio venire qualcuno a controllarti.»
Si precipitò fuori dalla tenda e lo sentii, in lontananza, abbaiare degli ordini.
Mi abbandonai pesantemente su una panca, mandando fuori un lungo sospiro, un misto di sollievo e soddisfazione. Intanto avevo stracciato la stoffa del mio vestito – ormai malandato – per controllare più da vicino le mie condizioni.
Un leggero spostamento dell’aria mi fece improvvisamente ricordare di non essere sola.
Chev, l’ormai ex Campione di Stenton, se ne stava ritto, in perfetto silenzio, davanti all’entrata del tendone riservato a Vasil. All’esterno ancora si udivano gli schiamazzi della folla che stentava a disperdersi dopo gli emozionanti incontri della giornata. Sentivo ancora qualcuno invocare il mio nome e commentare che non c’era sorpresa nel risultato della Sfida dato che era stata proprio la famosa Violet a scendere in campo.
Ignorai le voci e mi concentrai sul nuovo, gradito ospite. Non aveva nemmeno un graffio se si escludeva l’incisione al polso destro che gli avevano praticato per scopi magici; mi ero impegnata parecchio per non manometterlo e non provocargli danni, dal momento che mi avrebbe dovuto servire. La battaglia, prima di finire per recitarla, era stata difficile anche senza quella limitazione. Avendo saggiato in prima persona la lama affilata del Cavaliere, potevo apprezzare la sua forza ed il suo controllo: non avevo dubbi che sarebbe stato un valido aiuto per la mia causa. Tuttavia, tra di noi aleggiavano troppe cose non dette e sentivo sulla pelle la sua diffidenza. Anche io, nonostante la mia buona volontà, non sapevo fino a che punto fidarmi. Il fatto che un ragazzino fosse il suo punto debole mi faceva ben sperare: non perché avessi alcuna intenzione di ricattarlo, come aveva fatto il perfido Stenton, ma perché ciò indicava una gentilezza d’animo – del tutto inaspettata per un guerriero del suo calibro e della sua fama – che avrebbe dovuto appartenere ad una persona per bene. Dunque, forse anche solo per riconoscenza, non mi avrebbe tagliato la gola nel sonno. Almeno questo era ciò che speravo.
«Siediti e bevi un po’ di vino, ti farà sentire meglio.»
Gli indicai una sedia e gli porsi la brocca.
In un primo momento tentennò e passò lo sguardo tra me e la brocca, come a valutare che non avessi intenzione di avvelenarlo. Decise che non c’era pericolo e molto lentamente si avvicinò al tavolo.
Dopo una prima sorsata, ingollò il resto del bicchiere con avidità. Quando lo riabbassò sul tavolo, vuoto, glielo riempii nuovamente fino all’orlo.
«Buono, vero?» commentai, «Vasil sa che il vino messo a disposizione dall’arena fa schifo e si è premurato di farmene trovare uno proveniente dalla sua scorta personale per il dopo gara.»
Anche io scolai la mia parte e mi sentii subito meglio. Il vino speziato si fece strada nel mio corpo, fino allo stomaco, e parve rinvigorirmi le membra.
«Grazie», mi disse con la sua voce bassa e profonda.
«Non c’è di che, Chev.»
Ci guardammo per un lungo momento. Nessuno dei due sapeva da dove cominciare.
Poi fu il mio ospite a prendere parola.
Si schiarì la voce, con un cipiglio incerto. «Come… voglio sapere come hai fatto a disfare il Giuramento di Sangue che mi ha imposto Drogart. Pensavo che romperlo fosse una cosa impossibile, altrimenti il Toro avrebbe trovato un modo per svignarsela.»
«Come ti ho già detto, Chev, non l’ho proprio spezzato. Nel bere il sangue di Drogart ti sei legato irrimediabilmente a lui. Io, a mia volta, ho preso il tuo», indicai il taglio che gli avevo fatto sul labbro con un morso, «e ho fatto in modo di trasmetterti quel tanto di potere che bastava a diminuire la presa che lui aveva su di te. Hai sentito più debole il comando impartitoti e questo ti ha permesso di agire di tua propria volontà, allontanando l’istinto di uccidermi. Ma non ti illudere, si tratta di un effetto temporaneo. Per stanotte, comunque, credo che possiamo stare tranquilli.»
Rifletté sulle mie parole. «Ciò vuol dire... che non sarò mai libero? Tu mi hai vinto, i documenti sono stati firmati e ufficialmente appartengo a Vasil, ora. Ma di che utilità potrò mai essergli se risponderò ai comandi del suo rivale? Non potrei combattere nell’arena, o comunque non contro il Toro, senza perdere ogni incontro e rischiare di farmi ammazzare…»
«Mi pare di averti già spiegato che non rimarrai in questo posto, Chev. Vasil è solo una copertura. Presto sarai libero e, spero, alle mie dipendenze.»
«Il problema non cambia, è sempre lo stesso. Non posso servire nemmeno te se rispondo a Drogart. Hai detto che l’effetto del tuo potere è temporaneo, no? Ne deduco che presto sentirò di nuovo la pressione dei suoi comandi. E non credo di poter resistere a lungo nel contrastarli.»
«In effetti è così, non posso darti torto, però ci sarebbe un modo…»
«Quale?» chiese con una nota di supplica che non seppi se avevo immaginato.
«Ecco, io…» cominciai titubante. «Senti, Chev, voglio parlare chiaramente. Non voglio che ci siano questioni irrisolte tra noi.»
Fece un cenno affermativo ed io continuai.
«L’unico modo che conosco per rompere definitivamente un Giuramento di Sangue è quello di imporne un altro più forte. Ti posso assicurare che è raro trovare qualcuno che abbia in sé un potere sufficiente a forgiare un simile legame, quindi sappi che lo è ancora di più trovare qualcuno che ne abbia a sufficienza per romperlo.»
«Mi stai dicendo che tu non sei in grado di contrastarlo del tutto?» mi chiese.
«No, sto cercando di farti capire quanto tu sia dannatamente fortunato ad avere me, perché probabilmente solo l’unica in tutta Orvo in grado di spezzare il vincolo che ti lega.»
Sgranò gli occhi, un po’ sorpreso.
«Dunque sei così forte?»
«Lo sono.»
«Però, ciò significa…»
«Esatto.» confermai, intuendo il percorso dei suoi pensieri.
«Potresti rompere il vincolo con Drogart, ma mi ritroverei legato a te… forse in un legame ancora più coercitivo del suo?» disse l’ultima frase come se fosse una domanda.
Dunque presi un respiro e gli diedi la mia risposta.
«Sì», sussurrai. «Questo deve essere ben chiaro: c’è il rischio che tu non possa neanche tentare di opporti ad una mia parola.»
«Prima ho cercato di oppormi al comando di ucciderti con tutte le mie forze, ma non sono riuscito a non puntarti la spada contro.» considerò pensierosamente. «Se ciò che mi imponi tu è più forte, non avrei nessuna opportunità di essere… di rimanere… me stesso.»
Concluse il ragionamento con un tono di voce cupo, segretamente disperato.
«Io non vorrei importi nessun comando che vada contro i tuoi principi… Cercherei di non farlo, almeno. Ma… ecco, queste sono solo supposizioni, non so dirti con precisione, ed in maniera assoluta, cosa possa accadere. Io non ho mai stretto un Giuramento di Sangue.»
«Allora come sai di essere in grado di sostituire il legame?»
Mi fissò perplesso, forse un po’ seccato perché iniziava a credere che non fossi così potente come gli davo a credere.
«Se non lo fossi, non avrei potuto nemmeno indebolire ciò che vi legava. La sua magia avrebbe prevalso sul mio tentativo, respingendomi. Invece sei qui, e per te è relativamente facile, al momento, trattenerti dall’eseguire il comando impostoti… o sbaglio?»
Scosse il capo, negativamente.
«Tuttavia, anche senza questa dimostrazione, sarei stata certa delle mie capacità.»
«Per quale motivo?»
Agitai il capo, abbassando lo sguardo sulla mia coppa semi vuota e bevendo un altro sorso di vino.
«Perché ho sentito l’estensione del suo potere. Nel momento in cui hai versato il tuo sangue e hai bevuto il suo, c’è stato un riverbero delle forze in atto, l’ho sentito sulla pelle e mi ha stordito. Però so anche fino a dove si estende il mio. Credimi, sono il pesce più grosso. Tanto più che non so ancora quanto lo possa accrescere.»
«Suona come una cosa spaventosa.» sussurrò dopo un lungo momento di silenzio.
«Potrebbe esserlo.» dissi, enigmatica. Ma non ero disposta a fornirgli ulteriori delucidazioni su quel particolare argomento.
«D’accordo», dichiarò dopo un altro attimo di stallo, «diciamo pure che ne sei in grado, però non sono sicuro di volermi gettare ad occhi chiusi in questo burrone.»
«Quale altra scelta ti è rimasta?» chiesi più a me che a lui.
«Forse…» cominciò, «…potremmo lasciare le cose come stanno.»
Mi accigliai. «Vuoi dire che sei disposto a cederti a Drogart ormai che ti ha in pugno? Rinunci alla possibilità di essere libero?»
Rise amaramente. «Libertà? Che libertà pensi che sia farsi legare in un vincolo ancora più forte di quello cui sono soggetto?»
«Ma io non…» replicai con veemenza, salvo poi essere interrotta da lui.
«“Tu non mi costringeresti a fare nulla che non voglia”» parafrasò, «Balle! Se davvero entrassimo in conflitto pensi davvero che non prevarrebbe la tua volontà sulla mia? Senza contare il fatto che non ti conosco e quindi sarei uno stupido a crederti sulla parola, specie su una questione così importante. Una volta fatto il danno, non si può tornare indietro, correggimi se sbaglio!»
Stetti zitta perché non potevo dargli nessuna vera garanzia del contrario.
«Comunque non era questo il punto…», continuò. «A dispetto delle mie parole, ammetto di fidarmi un poco di te. Sei riuscita a vincermi, proprio come avevi promesso e, anche se ancora lo devo vedere con i miei occhi, non penso nemmeno che tu abbia mentito a proposito di Rob. Sarebbe difficile nascondere il fatto che sia morto, dopotutto.»
«Allora, cosa…?»
Alzò la mano per trattenermi. Gli diedi la possibilità di spiegarsi.
«Ciò che volevo dire, in definitiva, è che sono disposto a concederti la mia fiducia. Voglio che le cose rimangano come sono per ora. Non romperemo il legame con Drogart, ci limiteremo a contrastarlo, come hai fatto poco fa, in campo.»
«Vuoi dire che dovrò… cosa? Domare ad intervalli regolari la sua presa su di te soffiandoti dentro un po’ del mio potere alla volta?»
«Esatto. Pensi che si possa fare?»
Pensai freneticamente. «Io… non lo so, forse sì…»
«Allora tentiamo in questo modo.»
«Però… non sono sicura che continuare in questo modo non avrà ripercussioni su di te. Ti rendi conto che… il tuo corpo, o meglio, la tua anima diventerebbe un campo di battaglia tra il potere di Drogart ed il mio che lo contrasta? Sarebbe come essere dilaniato… senza contare il fatto che non saresti mai veramente in pace con te stesso! Dovresti lottare costantemente col potere di lui, senza un attimo di tregua. Certo, io potrei darti il mio aiuto regolarmente… ma chi ci garantisce che questo non ti consumi dall’interno?»
«Non abbiamo nessuna garanzia, hai ragione. Ma non mi sembra che, nell’altro modo, io ne abbia poi molta di più. Corro un rischio in ogni caso, questo mi sembra il minore.»
Scrollò le spalle.
Mi alzai e feci qualche passo per la stanza, cercando di valutare attentamente la sua proposta.
Proprio mentre stavo percorrendo lo stretto spazio per la ventesima volta, la tenda all’entrata si scostò e Calis ritornò seguito da un’ancella che recava in mano una bacinella d’acqua calda e delle bende.
«Eccoci qui!» disse contento l’omone. «Ora, ragazza, lasciati curare come si deve, senza fare storie. È stata una giornata faticosa, senza dubbio.»
Presi posto sulla panca, lasciando che la donna di mezza età facesse il suo lavoro. Lavò delicatamente ogni ferita – per fortuna non erano molte – ed in un attimo le fasciò strettamente. Si voltò brevemente verso Chev che se ne stava nell’angolo in silenzio.
«Signore, posso curare anche la vostra ferita?» domandò con voce fievole.
«Quale ferita? Io sono a posto…»
«Il vostro labbro, signore, perde un po’ sangue.» gli fece notare.
Chev sollevò una mano a toccarsi la bocca. Si era completamente dimenticato del morso che gli avevo dato. Allontanò le dita macchiate di sangue.
«Non è nulla.» minimizzò.
«Prego, signore, mettetevi questo.» Gli tese un panno terso di acqua. Il Cavaliere lo accettò senza fare storie e si tamponò il labbro, distrattamente, lavandolo del sangue.
Assolto il suo compito, l’ancella lasciò la tenda.
Nel frattempo anche Calis si era messo comodo e si era versato un po’ di vino.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo – che avevo fissato insistente – dalla bocca di Chev. Ripensai improvvisamente al bacio che gli avevo dato sul campo. Pur nella foga del momento, non avevo potuto non notare quanto fossero morbide e calde le sue labbra. Mi ero presa addirittura un momento per assaporarlo, prima di ricordare il motivo per cui mi trovavo aggrappata a lui. Un brivido mi riscosse, rievocando quel ricordo. Tentai di nasconderlo ma non seppi evitare di arrossire. Era passato molto tempo da che mi ero avvicinata così ad un uomo… un uomo che non fosse il mio nemico giurato, Samuel. Il brivido di eccitazione che avevo sentito si trasformò, repentinamente, in uno di pura repulsione.
Mi distrassi rivolgendomi a Calis.
«Cal, come è andata la missione di Rob?»
«Molto bene, Violet. Non ha avuto nemmeno bisogno del mio aiuto.»
«Missione?» intervenne Chev, dall’altro lato del tavolo. «Avete mandato il ragazzo ferito a svolgere qualche compito pericoloso?»
Sembrava arrabbiato ed incredulo.
«Ma no!» minimizzò l’omone con un gran sorriso di complicità. Complicità con chi, poi?, mi chiesi. «Rob sta benissimo, non è così Violet?»
Aprii la bocca, ma non feci in tempo a proferir parola che Calis aveva già ripreso a parlare. «E poi il ragazzo voleva rendersi utile! E non c’era poi tutto questo pericolo…»
«Insomma, dove lo avete mandato? E come fa ad essere già guarito da quella ferita? Avrebbe dovuto rimanere steso almeno per qualche settimana…»
«Oh, non chiederlo a me! È stata Violet a fare tutto, non so dirti come. Siamo rimasti tutti sorpresi, ma qualsiasi cosa abbia fatto ha funzionato. Il ragazzo è come nuovo.»
Chev mi fissò dubbioso ma si trattenne dall’esprimere il suo scetticismo.
Calis, intanto, andava a ruota libera. «È stato molto facile, in realtà. Grazie alla tua idea, ragazza, avevamo studiato prima tutti i turni di guardia. Sapevamo quanti sarebbero stati, e conoscevamo il posto. Attendere il cambio di guardia e neutralizzarne due è stato un gioco da ragazzi.» Era tutto contento ed evidentemente compiaciuto.
«Come avevi intuito, non c’era solo la chiave di Stenton. Quel tizio che si occupava dei pasti… ne portava una al collo, identica. Abbiamo usato quella per entrare nella cella.»
«Bene, allora immagino che siano già arrivati a destinazione…»
«Proprio così. Li ho lasciati davanti al palazzo delle Guardie.»
Gli occhi di Chev erano stretti in due fessure e ci scrutavano, cercando di capirci qualcosa ma non osando chiedere delucidazioni.
Sospirai e mi rivolsi a lui. «Stiamo parlando del piano per salvare Finn.»
Alla menzione di quel nome si drizzò e si mise sull’attenti. Quasi sporgeva dal seggio dove si era adagiato poco prima. Nella mano, abbandonata, giaceva la stoffa decorata con qualche macchiolina del suo sangue.
«Finn… sta bene?»
Mi voltai verso Calis che era l’unico che poteva rispondere a quella domanda.
L’uomo sorrise, tranquillizzandoci, prima di rispondere. «Il ragazzino sta bene. È con Rob in questo momento. Era un po’ spaventato dalla nostra intrusione ma si è ripreso in fretta. È bastato fare il tuo nome perché ci seguisse senza fiatare… beh, forse è un po’ troppo fiducioso, ma dal suo punto di vista tutto sarebbe stato meglio che rimanere rinchiuso in quella cella.»
«Si trovava in una cella?» chiese preoccupato.
«No, no… per gli standard di quel tirchio di Stenton, anzi era sistemato benino. Si trovava in un’abitazione controllata da alcune guardie. Il ragazzino era chiuso a chiave in una stanza spoglia.»
«Come avete fatto a trovarlo?» si informò Chev.
In breve gli raccontammo del piano che avevamo messo a punto la settimana che aveva preceduto la grande Sfida. L’unica cosa che sapevamo per certo, secondo quello che mi aveva raccontato Rob, e l’accenno che vi aveva fatto lo stesso Chev, era che Stenton permetteva a quest’ultimo di incontrare il ragazzino una volta a settimana, giorno più o giorno meno. Questo al fine di dimostrare al suo Campione che stava bene, per poterlo così tenere sotto controllo. Il piano immediato fu, pertanto, di tenere d’occhio l’abitazione del vecchio Signore, in attesa che si presentasse alla porta la nostra preda. Non avevamo dovuto aspettare molto: già il giorno successivo all’avvenuta guarigione di Rob, le spie di Vasil avevano individuato una piccola scorta di guardie, assieme ad un uomo più anziano e ad un ragazzino. Avevamo intuito che si trattasse di Finn, durante la sua visita settimanale al prigioniero, per cui seguimmo la scorta fuori dal palazzo di Stenton, una volta che stesse tornando in qualunque luogo lo tenessero prigioniero. Scoperto così il nascondiglio, era bastato rimanere ad osservare, nei giorni successivi, i movimenti delle guardie che lo presiedevano. La missione che avevo affidato a Rob e a Calis era appunto quella di liberare il giovane prigioniero, proprio durante lo svolgimento della Sfida, nel momento in cui Stenton fosse stato impegnato altrove e anche la sorveglianza sarebbe stata più lenta, dovendosi concentrare sul controllo degli schiavi che venivano portati all’arena.
Calis colmò i miei vuoti raccontandomi che avevano ottenuto la chiave della cella, sottraendola al custode del ragazzo – l’unico che avesse una copia della chiave –, il vecchio che aveva il compito di scortarlo durante le visite a Chev e che si occupava dei bisogni di Finn.
«È svenuto con un colpo netto alla nuca e lo abbiamo abbandonato legato in una delle stanze lì vicino. A quest’ora lo avranno già trovato, assieme alle guardie che abbiamo messo KO, ma è troppo tardi perché qualcuno possa intervenire.» concluse soddisfatto.
«Ora dove si trova Finn?» domandò irrequieto il Cavaliere.
«Ho dato disposizione che fosse accolto nei miei alloggi al Palazzo delle Guardie», gli spiegai. «Dopo aver capito dove si trovava ed avere messo a punto il piano per liberarlo, mi sono preoccupata di portarlo in un luogo dove potesse essere al sicuro dai complotti di Stenton. Non potevo farlo portare qui da noi, sarebbe stato troppo pericoloso. Esposto e vicino al maggiore pericolo. Così ho pensato che il luogo più sicuro fosse quello presieduto dalle guardie del re. Stenton non potrebbe arrivare sin lì, persino se sapesse per certo che vi si trova il ragazzo.»
«Quindi le tue guardie lo tengono al sicuro?»
«Io non ho più guardie, ricordi?»
«Sì, ma a chi lo hai affidato? Per farlo entrare all’interno devi avere giustificato in qualche modo la sua presenza, no?»
«Ecco, veramente… nessuna delle guardie sa della sua presenza, né di quella di Rob, se è per questo. Ho pensato che non fosse saggio far sapere in giro che avevo un ospite… specie se non fossi stata là a proteggerlo.»
«Proteggerlo? E da chi? Non lo hai portato lì perché fosse al sicuro?»
Distolsi lo sguardo un po’ in imbarazzo.
«L’ho portato lì perché era il luogo più adatto per tenerlo al sicuro da Stenton… però non sono sicura che lo sarebbe altrettanto se gli altri luogotenenti sapessero di questa storia.»
«Spiegati meglio» mi ingiunse in un tono così cupo e teso che somigliò molto ad un ringhio.
«Parte delle complicazioni che ho evitato di riferirti durante il nostro primo incontro nella tua cella, è che non posso davvero fidarmi di nessuno tra i soldati. Come ti ho spiegato mi serve aiuto, ma ti ho anche detto che nessuno si è offerto volontario per seguirmi, e questo non è solo perché sono una donna e non potrebbero rispettarmi come loro superiore; ci sono non pochi luogotenenti che mi osteggiano e non dubito che alcuni di loro potrebbero arrivare al punto di fare del male a chi mi circonda pur di indebolire la mia posizione.»
«Ti trovi proprio in una posizione scomoda.» mi fece notare.
Annuii rassegnata. «Non ti sembrava strano che un luogotenente delle guardie reali, si abbassasse a cercare aiuto tra gli schiavi-gladiatori?»
«Era uno dei motivi per cui diffidavo di te, all’inizio.»
«E ora?»
«Ora credo a ciò che dici ed intuisco anche che le cose sono ben più complicate di quanto tu non abbia detto.»
«Mi aiuterai?»
«Mi costringerai?» mi ritorse.
Sbuffai e mi strappò una risata. «No, Chev. Ti avevo detto che non l’avrei fatto, è quella è ancora la mia intenzione. Se preferisci provare a contrastare il Giuramento con un po’ del mio potere, ma senza legarci tra noi, allora sono disposta a provare, nonostante i rischi.»
Espirò, sollevato che avessi acconsentito alla sua proposta.
«Allora che si fa?»
«Che intendi dire?»
«Voglio sapere come mi fornirai il tuo potere. Hai detto che avrai bisogno di farlo regolarmente per tenermi sotto controllo, no?»
Ora che lo domandava e mi costringeva a pensarci… una vampata di calore mi imporporò le guance e battei le palpebre ripetutamente, un po’ confusa dalla risposta che avrei dovuto dargli. Valutai in fretta e furia se c’era un altro modo, ma non ne trovai. Così mi costrinsi ad affrontare direttamente l’argomento.
«B-bhe… ecco, tu… io…»
«Cosa?»
«Io ho già preso il tuo sangue… per cui…»
«Che vuoi dire? Che per far funzionare questa cosa dovrai berlo regolarmente?»
«N-no, non proprio…» accidenti, che situazione!
«Che significa?»
Le sue domande, lungi dal farmi calmare, mi gettavano ulteriormente nell’agitazione. Mi accorsi di essere imbarazzata e questo perché, in fondo, ero attratta da quell’uomo. Lo guardai si sottecchi, studiandolo. Mi aveva colpita sin dall’inizio per la sua forza, ma anche per la sua avvenenza. Che si trattasse solo del fatto che ero a digiuno di contatti con l’altro sesso, in ogni caso ora non riuscivo a non apprezzare i lunghi capelli dorati che gli incorniciavano il viso squadrato e virile. Aveva degli occhi incredibili, penetranti, e la sua bocca… quelle labbra… se pensavo che avrei dovuto toccarlo, più volte, sentivo il battito cardiaco accelerare e un calore farsi spazio dentro di me, fino in fondo al ventre e lì concentrarsi. Venivo investita da un desiderio soffocante, che diventava sempre più difficile da gestire, di momento in momento. E certo che poi la situazione in cui ci trovavamo non mi aiutava affatto! Tentai di nuovo di scacciare quei pensieri molesti e mi costrinsi di pensare a mente fredda e controllata.
«Erin?»
Chev mi richiamò all’attenzione, un sopracciglio sollevato in eloquente incertezza. Aspettava ancora che gli spiegassi.
«Devi prendere o no del sangue da me, Erin?»
Sospirai, chiusi gli occhi e mi feci coraggio. «Chev… in questo tipo di contratto magico, giocano un ruolo fondamentale sia la lama rituale, con cui viene inferta la ferita, sia la parte del corpo in cui viene aperta.»
Indicai il suo polso.
«Drogart ha usato un pugnale di qualche tipo, non è vero? Hai notato che anche il Toro ha un taglio come quello, sul suo polso?»
«Sì, è stato un pugnale. Non sapevo che anche il suo Campione avesse questa ferita, però.»
«Beh, del resto, tutti voi schiavi siete pieni di cicatrici da battaglia un po’ ovunque… è normale non averlo notato.»
«Quindi questo cosa significa per me?»
«Se tu fossi diventato, come nelle loro intenzioni, il burattino di Drogart, gli sarebbe bastato toccarti di tanto in tanto con quel pugnale per rinforzare il suo vincolo con te. Questo perché il contatto tra l’oggetto magico e la vecchia ferita, riapre un canale di comunicazione… è come se si rivivesse il ricordo del Giuramento. Ovviamente se questo contatto non avviene, non per questo il legame formato si indebolisce. Non è una questione di tempo o di spazio: potreste trovarvi a miglia di distanza l’uno dall’altro e non farebbe differenza. Però, a volte, ci si serve di questo metodo per punire il servo, qualora lo si sentisse lottare contro il vincolo. È l’ennesimo modo per ridurlo all’impotenza, privandolo della voglia anche solo di contrastare gli ordini.»
«Nel nostro caso, allora, a che servirebbe?»
Andava sempre dritto al punto.
«Noi abbiamo già formato un altro vincolo simile ma di minore forza. Io ho preso il tuo sangue, anche se non ti ho dato il mio. Significa che, nel rituale, i miei denti equivalgono alla lama e la tua ferita…»
«La mia ferita è sulle labbra.» concluse per me. Sgranò leggermente gli occhi, sorpreso. Ora capiva le implicazioni del mio discorso.
Nel silenzio imbarazzato che era calato, esplose la tonante risata di Calis che aveva ascoltato in silenzio fino a quel momento. A quanto pare, aveva sentito abbastanza da tirare le sue somme.
«Ah ah ah! Bene, ragazzo! Sei proprio fortunato, in più di un senso! Hai la scusa perfetta per baciare la nostra ragazza ogni volta che ti aggrada! Ci saranno non poche persone che ti invidieranno da morire!»
Si era sollevato dalla sedia e ora torreggiava su Chev, che lo fissava a bocca semi aperta. Gli diede qualche pacca di incoraggiamento sulla spalla. Pacche forti abbastanza da scuoterlo e rischiare quasi di buttarlo per terra.
«Non credo proprio che sia necessario farlo ogni volta che gli viene lo sghiribizzo» replicai un po’ irritata. E molto imbarazzata.
«Ah, no?» Calis si finse dispiaciuto.
Chev continuava a rimanere muto, ma ora mi guardava serio, più padrone delle espressioni del viso. Aveva nascosto lo sbigottimento iniziale.
«No. Staremo a vedere in quanto tempo il comando di Drogart tornerà a farsi sentire più forte. Poi valuteremo ogni quanto sarà necessario rinsaldare il nostro vincolo.»
Mi rivolsi direttamente al Cavaliere, ignorando le battutine di Calis. «Avvertimi quando ti sentirai sopraffatto.»
Con un cenno secco, acconsentì alla mia richiesta.
«Vedrai quando lo racconterò a Vasil!» sghignazzò alla fine Cal.
Sbuffai e gli lanciai un’occhiata storta.
«Va bene, va bene, non dirò nulla di compromettente, lo prometto!» sollevò le mani come a difendersi da un attacco immaginario. «Intanto che ne dite di andarcene a casa? Si è fatto molto tardi e avete bisogno di una buona dose di riposo.»
«Finalmente dici qualcosa di sensato!» sbottai. «Forza, andiamo! Quasi non sto più in piedi.»
Così abbandonammo la tenda. La casa di Vasil non era molto grande e non aveva un’altra stanza per ospitare anche Chev, così si decise che avrebbe dormito con me. Vasil sembrò contrariato, specie dopo che venne informato della necessità di un contatto fisico tra noi per porre rimedio al vincolo che gli era stato imposto. Calis, nemmeno a dirlo, continuò imperterrito con le sue battute; battute che sia io che Chev ignorammo di buon grado.
Per me non aveva senso cercare di sistemare da qualche altra parte il nuovo ospite, dal momento che, se avesse accettato di servirmi, avrei comunque dovuto dividere con lui i miei alloggi al Palazzo delle Guardie. Il suo servizio presso di me era quantomeno irregolare perché lui non faceva parte della milizia, e non potevo pretendere che gli venisse fornito vitto e alloggio. Ero stata abbastanza furba da aggirare l’ostacolo postomi innanzi dagli altri luogotenenti, ma non avrei potuto forzare ulteriormente la mano: ogni spesa di mantenimento sarebbe stata una mia responsabilità, così come la sua sistemazione. Anche Finn e Rob sarebbero stati un problema, ma per quel giorno ero troppo stanca per pensarci.
I servi prepararono in fretta un giaciglio di paglia accanto al mio letto. Trovammo persino dei vestiti puliti per Chev con cui avrebbe potuto sostituire la toga consunta che indossava.
Mi parve un lungo attimo, ma infine mi distesi nel letto accogliente e mi abbandonai felice ad un sonno ristoratore.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Visita notturna ***


Nel cuore della notte, proprio come da titolo, vi lascio il nuovo capitolo xD
Mi scuso enormemente per il ritardo al rilascio... ma ho davvero avuto milioni di cose da fare **
Spero che con questo capitolo un po' di appetito per la storia sarà saziato XDD
Non vi trattengo troppo a lungo, vi chiedo solo di lasciare una recensione per farmi sapere cosa ne pensate ^^
Baci,

Rita <3



Capitolo 11 - Visita notturna

 

Il sogno era agitato, quasi claustrofobico. Mi vedevo correre incessantemente in un bosco oscuro, senza seguire apparentemente alcun sentiero e nessuna traccia: era come se stessi fuggendo: da cosa, non avrei saputo dirlo. In realtà, la mia mente non funzionava lucidamente; nessun pensiero mi guidava in quella fuga notturna e nessuna luce rischiarava la selva che appariva, così, tenebrosa e terrificante. Gli alberi, alti, formavano un muro quasi impenetrabile, e io a stento riuscivo a passare in mezzo ai tronchi senza schiantarmici. I rami si protendevano in avanti, contorti, come dita incancrenite che minacciavano di afferrarmi e trattenermi. Ogni tanto i vestiti si impigliavano tra i rovi freddi ma io, con uno strattone, proseguivo incurante della stoffa che si lacerava lasciando dietro evidenti tracce.

A tratti, innanzi a me, potevo scorgere la figura di un uomo incappucciato che mi accompagnava in quel cammino senza mai voltarsi e senza parlare. La scena aveva una certa familiarità, come se l’avessi sognata altre volte prima di allora.

La tensione dei muscoli raggiunse il culmine quando persi, d’un tratto, il contatto col suolo e mi sentii precipitare in una pozza d’acqua dolorosamente fredda. Mi agitai, scalciando con le gambe e tendando come potevo di risalire in superficie, ma per quanti sforzi facessi, una pressione mi spingeva in basso e mi serrava il petto, contraendomi gola e polmoni. La sensazione del respiro mozzato era terribile e mi gettava di attimo in attimo in una disperazione sempre più profonda: il terrore della morte mi attanagliò le viscere e diede un colpo secco al mio cuore, che batteva frenetico, fin quasi a scoppiare.

L’acqua attorno a me era scura, come prima la notte, ma ora il freddo pareva essere concentrato tutto sul collo nudo, da dove cercavo, invano, di far passare l’aria vitale.

Con uno strattone violento, aprii gli occhi e sbattei le palpebre più volte, riprendendo coscienza della realtà. Tuttavia, in un primo momento, la scena che mi si parò innanzi mi sembrò priva di senso, proprio come prima mi era sembrato il sogno.

Un uomo incombeva su di me, un'espressione feroce sul volto. Non lo riconobbi sùbito, stordita com’ero dal sonno e, mi resi conto, ancora impossibilitata a respirare.

Ma cosa diavolo…?, mi domandai e poi capii. Il tremore delle braccia, la stretta combattuta, il sudore che gli imperlava la fronte… quell’espressione angosciata sul volto altrimenti superbo…

Chev… perché così presto…? Ma non era certo il momento di esitare. Tentai di strapparmi alla sua stretta; diedi prima uno, poi due e tre strattoni violenti, senza riuscire a smuoverlo. E intanto ero sempre più tragicamente a corto di fiato…

«T-ti… pre… go…» sussurrai col poco fiato che avevo. Le mie parole, parvero sortire qualche effetto poiché la presa si allentò leggermente. Approfittai di quell’attimo di titubanza per far scivolare i pollici sotto le sue mani, a protezione del collo esposto, e tentai nuovamente di distrarlo.

«È il giuramento, Chev? È tornato c-così presto?» balbettai freneticamente.

Sbatté le ciglia, riacquistando un po’ più di lucidità.

«Sì», ringhiò tra i denti, come se pronunciare quell’unica sillaba gli fosse costato uno sforzo eccessivo. Per un attimo la sua presa tornò salda, tanto che temetti di non poterlo più contrastare.

Poi lo sentii grugnire «labbra» e la speranza mi inondò stordendomi. Si era ricordato cosa bisognava fare!

Calarsi su di me, però, non fu così facile come avevo sperato, né così veloce. Fare qualunque altra cosa al di fuori di strangolarmi pareva richiedere tutte le sue energie. Così presi una decisione istintiva e azzardata. Abbandonai la flebile difesa delle mani al collo e le tesi verso di lui. Gli accarezzai una guancia e feci scorrere il palmo fino a cingergli la nuca per invitarlo a completare il faticoso movimento.

Quando finalmente le nostre labbra si toccarono, traemmo entrambi un respiro violento; io di sollievo, lui di vittoria. E per un attimo, dimentichi di tutto il resto, indugiammo in quel contatto salvifico. Chev mi baciò sulla bocca con gratitudine e sollievo, come se volesse attingere ancora alla forza del legame che gli aveva restituito lucidità e libero arbitrio, mentre tremava per lo sforzo che aveva fatto e respirava affannoso; anche io ansimavo violentemente e, sebbene in quel contatto intimo avevo ritrovato un po’ del calore che mi era stato tolto prima dall’incubo e poi dal tentativo di uccisione, ben presto esercitai una pressione sulla spalla del Cavaliere e lo allontanai da me. Mi sollevai dal letto con impazienza come se l’aria attorno a me, fredda e pungente della notte, non bastasse da sola a soddisfarmi.

Per qualche minuto rimanemmo ai capi opposti del letto, riprendendo fiato e ricomponendoci.

«Cosa è successo? Perché mi hai attaccato?» gli domandai infine.

Scrollò la testa, desolato. «Non lo so di preciso… stavo dormendo e andava tutto bene… poi mi sono svegliato che mi trovavo già sopra di te, nel tentativo di strangolarti e, nella confusione, ho pensato solo a impedirmi di farlo. Non riuscivo a parlare e… tu non ti svegliavi… ho temuto che morissi nel sonno!»

«Stavo facendo un incubo…»

«Che cosa?»

«Stavo sognando… pensavo di soffocare e mi sono resa conto troppo tardi che si trattava della realtà.»

Mi fissò in silenzio e gli rimandai lo sguardo. La domanda, non posta, aleggiava come un fantasma tra noi.

Fu lui a rompere quella tregua, ponendola. «Perché ho perso il controllo così in fretta? Non sarebbe dovuto passare più tempo? Forse che il tuo potere non ce la fa a contrastare quello di Drogart?»

Aprì la bocca per rispondere a quanto potevo; in realtà non avevo una spiegazione valida ma, prima che proferissi parola, la risposta venne da sé, sotto forma di un colpo secco alla porta – che ci fece sobbalzare ­­–, e della voce di Calis, tonante nonostante il basso volume.

«Violet, Chev! Svegliatevi, abbiamo visite!» Un altro colpo al legno.

Saltammo giù dal letto in contemporanea, ma fu Chev ad afferrare il pomello della porta e a spalancare l’uscio.

Calis aveva una faccia scura e un’espressione irritata.

«Abbiamo ospiti sgraditi che sono venuti a recriminare.» ci spiegò. Poi aggiunse, borbottando infastidito: «Nel cuore della notte! Non c’è più ritegno…!»

Afferrai una vestaglia e la indossai perché la sottile veste di lino, che portavo per la notte, non era adatta a proteggere, da sola, il mio pudore. Nel frattempo rimuginavo senza posa.

«Sono loro, non è vero? Sono Stenton e Drogart… o almeno Drogart, con qualche altro dei suoi… con che pretesto si sono presentati a quest’ora della notte?»

L’omone sbuffò, esasperato. «Che pretesto vuoi che abbiano? Non si sono preoccupati nemmeno di fornirne uno! Per quei vermi è normale disturbare il sonno della povera gente! Ho sempre detto che Vasil è troppo tenero! Non dovrebbe permettere che gli si manchi di rispetto in questo modo…!»

«Ah ah ah!» ridacchiai di gusto, «Vasil, tenero? Attento a non farti udire da lui…» gli consigliai.

Sputacchiò fuori un “farò attenzione”, seccato. Calis era un uomo simpatico e caloroso però guai a chi gli toglieva il sonno! Se veniva destato prima del dovuto, era scontroso e scostante e pareva avercela col mondo intero. Ma la situazione insolita e potenzialmente pericolosa ebbe l’effetto di farlo riprendere più velocemente per concentrarsi sulle cose più pressanti.

«Pretendono che l’incontro sia stato irregolare e rivogliono indietro il Cavaliere. Probabilmente tireranno fuori la storia del Giuramento di Sangue che lo lega a Drogart.»

«Non ho mai sentito che un Giuramento fosse d’ostacolo alla vincita di un Campione. Certo, non servirebbe a nulla averlo se non lo si potesse utilizzare al meglio delle sue capacità, ma è più una questione logistica che di validità dell’intero procedimento.»

«Vallo a raccontare a quegli idioti presuntuosi!» esclamò Calis.

Chev, che aveva ascoltato tutto con attenzione, chiese: «C’è qualche possibilità che mi riprendano con loro?»

Lo guardai dritto negli occhi e per un momento vi scorsi rassegnazione.

«Non credo proprio! Dopo tutto quello che ho fatto per averti, devono passare sul mio cadavere!» dichiarai ardente.

Fu un altro istante e la sua espressione si addolcì con i contorni di un sorriso: tanto repentino a mostrarsi – e poi a sparire – che ci si chiedeva sempre se lo si fosse visto davvero. D’altro canto, iniziavo a capire che questa era una caratteristica di Chev: mostrava la maggior parte del tempo un’espressione neutra, un po’ cupa a essere sinceri, come se niente e nessuno potesse toccarlo… ma ogni tanto balenava sul volto, e negli occhi, il lampo di un sorriso o l’ombra di una preoccupazione che mostrava qualcosa del suo animo, celato al mondo. E si intuiva che c’era del buono in lui, sebbene tutto il resto rimanesse avvolto dal consueto alone di mistero.

Anche Chev si rivestì in fretta e tutti e tre ci dirigemmo verso il salone, dove eravamo attesi dai nostri fastidiosi ospiti.

«Eccovi qui!» esclamò a tutta prima Stenton con il suo accento acuto. «Iniziavamo a pensare che ve la sareste data a gambe come conigli, nella notte!»

«È per questo che non avete potuto attendere fino al mattino per venirci a far visita, come vuole la buona creanza?» lo pungolai duramente. «Bene, in ogni caso, ora siamo qua. Di cosa volete parlare?»

Stenton fece una smorfia di disprezzo ma per fortuna lasciò perdere il discorso e si concentrò su ciò che era venuto a fare.

«Tu mi hai imbrogliato!» quasi gridò, puntandomi addosso il dito ossuto. «Sei venuta strisciando come una serpe in seno alla mia casa e mi hai ingannato, dicendomi di voler comprare il mio Campione! E ora non permetterò che mi venga rubato sotto al naso! Pretendo che mi venga immediatamente restituito!»

«Sapete benissimo che l’incontro è stato del tutto regolare… abbiamo testimoni più che bastevoli che hanno assistito agli incontri.» Vasil intervenne dallo scarno nel quale si era seduto, l’espressione ombrosa e accigliata. Una volta ottenuta l’attenzione desiderata, continuò: «Diteci cosa siete venuto a fare veramente. Sapete benissimo di non poter riavere indietro Chev con un pretesto così insulso!»

Stenton strinse in pugni minacciosamente e sbuffò trasudando stizza. «Certo che posso riaverlo! Voi dovete obbedire alle leggi dell’onore!»

«Il nostro onore non ci impone nulla di simile», chiarì Calis, «Violet si è prestata a noi come Campionessa poiché era a conoscenza della situazione disagevole in cui ci trovavamo e ci ha proposto un’alleanza temporanea.»

«Ecco! Lo dicevo io che c’era imbroglio! Lei è una finta Campionessa!» Stenton tornò alla carica facendosi forza di parole in cui leggeva un sostegno alla sua tesi inesistente.

«Gli incontri sono stati regolari», ripeté Vasil. «Sai che al Surdesangr non è vietato avere Campioni temporanei o addirittura volontari: l’arena esige solo il prezzo della lotta e del sangue… e quello noi lo abbiamo abbondantemente pagato. La mia ragazza ha vinto regolarmente tutti gli incontri e si è proclamata Campione, pari agli altri. E con la sfida noi abbiamo vinto il nostro premio. Non riavrai il Cavaliere, Stenton, né questa sera, né mai!»

«Villani! Farabutti!» inveì a quel punto, perdendo del tutto la calma. Ma prima che potesse arrivare a offese più ingiuriose, offrendoci su un piatto d’argento il pretesto per buttarlo fuori casa, Drogart, che fino a quel momento aveva assistito allo scambio silenziosamente, lo redarguì con calma glaciale mediante il semplice tocco della sua mano sul braccio. Questo parve risvegliare qualcosa nel vecchio, forse la speranza di un asso nella manica che volgesse le sorti della partita a suo favore. Fatto sta che smise di lamentarsi quasi istantaneamente e, respirando affannosamente, si ritirò d’un passo dietro all’alleato, liberando il campo per lui.

Vasil, cui non era certo sfuggito il significato di quel particolare gesto, gli rivolse allora la parola: «Drogart. Ci chiedevamo appunto perché Stenton fosse venuto accompagnato da voi. Non ci risulta che abbiate a che fare con questa questione.»

Capii perché avesse preferito tenere ancora ben nascoste le proprie carte, mentendo a proposito del fatto che sapevamo molto bene per quale interesse egli si trovasse nella sua casa: sperava di spingerlo a smascherare il proprio gioco e contemporaneamente mettersi in una posizione tale da poter valutare le sua onestà. Drogart avrebbe fatto accenno al Giuramento cui aveva costretto il Cavaliere? O avrebbe tentato di avanzare pretese in qualche altro modo?

«Io credo che il ragazzo», spiegò facendo un cenno della mano in direzione di Chevalier, «non desideri rimanere con voi. Non è forse così, Cavaliere?» aggiunse poi rivolgendo tutto su di lui il peso del suo sguardo penetrante.

Chev si irrigidì e impallidì visibilmente. Teneva i pugni stretti lungo i fianchi ma tremanti. Intuii che doveva stare subendo l’influsso del potere di Drogart. In qualche modo egli lo aveva diretto con maggiore forza attraverso qualcos’altro che non fosse la lama rituale: quella, infatti, non la vedevo da nessuna parte.

«Ritengo che il ragazzo volesse sfogarsi un po’», continuò il Signore del Sangue, come se nulla fosse. «Non si può negare che questa donna non tenti l’appetito di un uomo!» Rise brevemente delle sue parole, come se stessimo discutendo scherzosamente del più e del meno.

«Cosa vuoi dire con ciò?» gli domandai.

Drogart mi guardò come se fossi solo un intralcio insulso sul suo cammino già ben prestabilito. «Abbiamo visto tutti come lo avete tentato sul campo. Un bacio? È così che siete abituata a vincere le vostre battaglie? Non mi meraviglia che abbiate fatto tanta strada, avvenente come siete!»

Per un attimo, il suo commento aspro mi fece arrabbiare, proprio come capitava in passato, quando l’offesa era nuova e ugualmente immeritata. Ma quasi subito mi ripresi e mi dissi che gli insulti al mio onore non erano che armi vecchie, già ampiamente impiegate al fine di piegarmi all’ottusità dei miei avversari, fortunatamente sempre invano: non avrei perso le staffe proprio ora, quando stavo chiaramente vincendo. No, mi sarei mostrata fredda e anzi lo avrei schernito di rimando. Dalla sua invettiva gratuita, però, avevo avuto modo di constatare come egli non avesse affatto compreso il mio gesto all’arena. Come credeva che avesse potuto resistere Chev, da solo, alla forza del vincolo che li legava? Attribuiva forse più merito di quanto gliene spettasse a quel Campione, ipotizzando che questi fosse riuscito con le proprie forze a resistere al suo comando? Del resto – mi resi conto –dal suo punto di vista doveva apparire molto più improbabile che fosse una femmina ad avere un potere tale da obnubilare, anche se temporaneamente, il proprio.

«Perché credete, signore, che Chev si sia già stancato di me? Se giudicate la mia bellezza tale da tentare un uomo a farsi vincere in battaglia per un mio bacio, non ritenete, allora, che i miei baci siano bastevoli per trattenerlo al mio fianco più a lungo?»

Detto ciò con quel pizzico di irriverenza birichina che veniva ritenuta da sempre un’arte femminile, mi avvicinai languidamente al Campione discusso e, allungando lentamente una mano, gli percorsi il petto verso l’altro, fino a incontrare l’incavo della clavicola e poi su per il robusto collo. Tracciai lievemente con le dita le labbra tirate in una linea dura di tensione, e mi sollevai in punta di piedi per carezzare le sue labbra con le mie soffiando, delicatamente, il mio potere dentro di lui.

Chev rabbrividì di calore e sentii i suoi muscoli sciogliersi sotto le mie mani. Il suo corpo iniziava, infatti, a riconoscere il tocco del mio e ciò mi dava motivo di credere che ben presto, il nostro legame si sarebbe fatto più saldo.

«Puttana!» esclamò stizzito Stenton, ma di nuovo Drogart con un cenno lo zittì. Non sembrava particolarmente colpito da quella scenetta. La sua espressione era di piatta pazienza.

«Intendete offenderci, con questo spettacolo, milady?»

«Non era affatto nelle mie intenzioni, signore. Mi godevo, invece, il frutto di tante fatiche. Capirete di certo che sedurre un guerriero non è cosa semplice!»

«Sì, davvero molte fatiche…» ripeté con un sorrisino di scherno.

«Lo avete ottenuto con l’inganno!» proruppe nuovamente Stenton, incapace di trattenersi oltre. «Avete finto di volerlo acquistare col denaro e poi me lo avete portato via con la forza!»

«Al contrario, signor Faredon. Io sono venuta da voi con la chiara richiesta di avere il vostro Campione ed ero ben disposta a pagarlo a peso d’oro. Ma voi non vi siete lasciato convincere, o sbaglio? Mi mandaste via da casa vostra e non prendeste seriamente la mia offerta. Ho soltanto pensato a un altro modo per ottenere ciò che volevo. E vi assicuro che il modo che ho scelto era dei più regolari possibili visto che vi ho lanciato una Sfida formale! Avreste potuto rifiutare se il vostro orgoglio non vi avesse impedito tanta codardia… ma questi sono affari vostri, che non hanno nulla a che fare con me.»

«Stenton aveva tutta l’intenzione di cederlo a me, il suo Campione.» intervenne prontamente Drogart.

«A voi, dite? E che? Forse che il mio denaro vale meno del vostro, Drogart? In ogni caso, non c’è più nulla su cui discutere dato come si sono svolti gli eventi. Il Cavaliere ora mi appartiene e lo sapete tanto bene quanto noi, altrimenti avreste protestato al momento di firmare le carte del passaggio di proprietà!»

«Mi avete costretto voi a rivolgermi a Drogart e a cederlo a lui, stupida donnetta! Avete voluto forzarmi la mano e non potevo accettare che tutto finisse così, senza che mi opponessi in alcun modo!» Stenton si era fatto tutto rosso in volto, fin quasi a soffocare nella propria bile.

«Quindi una volta compresa la mia vera identità, dietro al volto mascherato del Campione del vostro rivale, avete pensato bene di correre ai ripari e guadagnare quanto più possibile da un affare pericolosamente in perdita? Vi siete rivolto a Drogart, sperando di vendergli il vostro Campione, poiché credevate che a lui non potesse essergli strappato, per via del Giuramento di Sangue che impone agli uomini più forti? Il vostro obiettivo è che non fossi io ad averlo, non è così? Perché prendeste la mia sfida come un affronto personale alla vostra autorità! Ebbene, ora dovrete convivere con le vostre scelte.»

«Non vi affrettate così, ragazza!» disse Drogart. «Avete dedotto tutto al meglio, è vero e non lo si può più negare, ma io farei più attenzione a tagliare in maniera frettolosa la questione.»

Mi guardò ora col volto più severo, come se la mia sfrontatezza lo avesse indignato e leggevo in lui la volontà di mettermi a tacere una volta per tutte.

«Hai detto bene: Stenton mi ha ceduto, con un accordo, lo schiavo. E ora egli mi appartiene.»

«In virtù di cosa è vostro, vi domando?» insistetti impassibile.

«Proprio del Giuramento di Sangue che avete per caso menzionato, ragazza!» annunciò trionfante. «Credevate che non avessimo avuto il tempo di mettere in atto la cerimonia? Mi dispiace per i vostri piani, ma ho preso il suo sangue e lui il mio! Il legame è stato creato ed è indissolubile!» sentenziò.

Con la bocca contorta di vile soddisfazione si rivolse con lo sguardo a Chev che si trovava ora un po’ dietro di me. Strinse gli occhi, concentrato e ordinò: «Vieni a me, mio schiavo! Il tuo sangue mi appartiene e non puoi fare a meno di ubbidirmi!»

Tese la mano nella sua direzione, come a intensificare ulteriormente il tono imperante.

Sebbene sentissi quasi come un peso fisico sulla pelle l’influenza del vecchio Signore sull’uomo alle mie spalle, altrettanto tenacemente percepivo il mio potere contrastare quel comando.

Chevalier prese ad ansimare sempre più forte e rapidamente, avvertendo sulla propria anima gli effetti di tale conflitto, ma dovette non avvertire troppo duramente la necessità di piegarsi alla volontà crudele di Drogart, poiché con uno sbuffo e una risata roca, sostenne: «Potete aver preso il mio sangue, vecchio Drogart, ma io non vi appartengo come vi appartiene il Toro. Io non voglio venire da voi e non voglio sottomettermi al vostro potere. Scelgo di rimanere con chi ha avuto la forza di vincermi con armi oneste.»

«Come osate…?!» sbraitò questi, perdendo finalmente parte della sua compostezza. Stenton, dal suo canto, appariva sempre più arrabbiato e incredulo.

Il Signore del Sangue non si arrese al suo rifiuto e si apprestò a lottare più strenuamente. Fece un passo avanti, estraendo dal lungo mantello che indossava una lama che, sapevo, doveva essere quella rituale. Mi frapposi tra loro prima che lui potesse avvicinarla ulteriormente.

«Mettete via quel pugnale, Drogart Abelhtram!» tuonò Vasil. «Non vi permetto di mancarmi di rispetto, introducendo un’arma in casa mia! Riponete quella lama prima che chiami le mie guardie e vi faccia buttare fuori!»

Egli allora si rivolse a me direttamente. «Voi sapete cos’è questo pugnale, non è così? Dovete sapere che se toccassi lo schiavo con la sua lama, egli non potrebbe più oppormisi!»

«Non vi lascerò farvi forte di un potere così ignobile! Riponete l’arma!»

Drogart la nascose nuovamente sotto al mantello, ma continuò dicendo: «il Giuramento di Sangue lo lega a me indissolubilmente, anche se non lo toccassi ora con questo ferro, la mia influenza rimarrebbe e sapete quanto me che non potrà opporsi ancora a lungo! Riconosco che si sia dimostrato più forte e tenace di quanto avrei creduto, ma tutti prima o poi cedono e si consumano nella vana lotta contro la magia. Davvero vi terreste al fianco un uomo del quale non potrete mai veramente fidarvi? Riconoscete di buon grado il vostro errore e consegnatemi lo schiavo.»

«Siete tanto convinto che non possa resistere alla prova della lama. Se vi lasciassi provare e falliste, accettereste voi il vostro errore e lo lascereste a me, senza più recriminare nulla?» risposi.

A quelle parole Vasil e Calis si mossero nervosi ai margini della mia vista periferica. Percepii più che vedere Chevalier irrigidirsi per la tensione. Aveva dubbi sulla sua forza di resistenza? Mi voltai indietro a incontrare il suo sguardo cupo. Dovette comprendere la mia muta domanda perché ricambiò con un cenno impercettibile del capo. Dopodiché raddrizzò maggiormente la schiena, come a prepararsi per la prova che lo attendeva.

Drogart ghignò e fece cenno a sua volta.

«Sono pronto a farmi da parte qualora il tocco della lama non serva a persuaderlo.» giurò ad alta voce.

Allora egli estrasse per la seconda volta il pugnale e si avvicinò a Chevalier. Io mi feci da parte, senza allontanarmi troppo.

Chev sollevo il polso ingiuriato e non proferì parola. Quando la lama toccò la carne un brivido lo scosse profondamente.

Allora, trionfante, Drogart disse: «Ora ubbidirai ai miei ordini!»

Per un lungo momento Chev se ne stette ritto, immobile, a occhi chiusi. Sudava terribilmente, tanto che la tunica leggera era ormai zuppa.

Dentro di lui forze immani si scontravano, cercando di prevalere una sull’altra. E Chev era il loro campo di battaglia. Fu probabilmente la forza di volontà di quest’ultimo, sostenuta dall’orgoglio, che decise la fine della contesa poiché diede sostegno alla forza dentro di lui che voleva aiutarlo anziché assoggettarlo.

Un po’ pallido in volto, rispose nuovamente: «No! Non eseguirò mai i tuoi comandi!»

Scioccato, e chiaramente preso alla sprovvista, Drogart si staccò di colpo dal Cavaliere. La lama giaceva sulla mano abbandonata a mezz’aria, come se non sapesse bene cosa ci facesse là.

«C-come… è… possibile…?» bisbigliò il vecchio. Successivamente un’intuizione parve colpirlo ed egli si volte a guardami.

«Siete stata voi…? Avete fatto qualcosa… voi… avete…» non riusciva a concludere le frasi tanto era il timore suscitato da quel pensiero che lo aveva colto quasi per caso.

Non trovai più motivo di continuare a celare la verità. Dunque risposi sinceramente ai suoi dubbi.

«È così. Anche io ho preso il suo sangue, ma non gli ho dato il mio.»

«Quel bacio…» bisbigliò e capì. «Non avete completato il Giuramento…»

«Non c’è stato alcun giuramento, solo il rito del Sangue affinché qualcosa di lui mi appartenesse. È quella parte che ha lottato col vostro potere e l’ha sconfitto.»

«Ma questo non è… non può essere! Non avete nemmeno completato il Giuramento, eppure la vostra forza, che dovrebbe essere più debole, quasi di influenza irrilevante, gli dà invece la forza di lottare e resistere! Ha respinto il pugnale!» sottolineò tendendolo verso l’alto, a mostrare palesemente l’assurdità di quella teoria.

«Drogart, cosa…?» Stenton tentò di attirare l’attenzione del suo alleato, di modo che gli spiegasse per bene cosa di preciso non andasse. Ma questi l’ignorava, perso nei ragionamenti e nelle ipotesi.

Dopo qualche momento, durante il quale nella sala aveva regnato il silenzio, rotto di tanto in tanto dalle esclamazioni di frustrazione di Stenton, Drogart si riprese e parlò.

«Dovete essere più di quel che date a vedere.»

Non risposi. Mi limitai a scrollare le spalle.

«Non avreste dovuto essere in grado di mettervi in mezzo a un legame così potente e quasi assoluto» ribadì. «Voi non lo cederete, ho ragione?»

«Esatto.»

«Allora sarà meglio per noi andare. Non me ne faccio nulla di uno schiavo che non obbedisce ai miei ordini.»

«Vedo che ci siamo intesi.»

Mi lanciò un’ultima occhiata ostile e non rispose. Salutò con un cenno Vasil, ignorando del tutto Chev e Calis, poi ci voltò le spalle e lasciò l’abitazione. Stenton, all’inizio, rimase immobilizzato dallo stupore, forse non aveva ancora del tutto compreso le implicazioni di quanto era accaduto davanti ai suoi occhi. Scialacquò un “non finisce qui” e seguì l’altro Signore del Sangue sbraitando ingiurie.

Quando nel ritrovato silenzio sì udì forte il rumore del portone che si chiudeva, sospirai di sollievo e di esasperazione e mi abbandonai sulla panca più vicina.

«Che seccatura!» mi lamentai. «Possiamo tornare a dormire?»

Calis esplose in una risata tonante. Era evidente che aveva ormai messo da parte l’irritazione ritrovando il suo consueto buon umore che lo portava sempre a cogliere il lato comico delle situazioni.

«Credo che per questa notte non torneranno, ragazza!» sghignazzò. «E io me ne torno a letto.»

Detto, fatto. Come se nulla d’importante fosse avvenuto, lasciò la stanza, ridacchiando al suo solito modo e tornò nel suo lettone.

«Non abbiamo null’altro da aggiungere mi pare», disse a un certo punto il vecchio Vasil. «Sarà meglio che mi ritiri anch’io.»

Rimasti da soli, io e Chev ci guardammo ai capi opposti della sala vuota.

«Quello che è successo…» cominciò.

«Deve essere stato piuttosto doloroso, non è così?»

«Già…»

«Vuoi del vino?»

Gli allungai un calice che era stato preparato di fretta e furia per gli ospiti inattesi e che era rimasto inutilizzato sul tavolo.

Lo accettò e bevve. La scena stava diventando fastidiosamente familiare.

«Hai altre domande?» gli dissi.

Dopo un momento di riflessione scolò il bicchiere e proruppe: «Perché mi sono svegliato, questa notte, per ucciderti? La presa del tuo potere su di me si era già esaurita, oppure è dipeso dalla vicinanza di Drogart?»

Sospirai. «Beh, suppongo si tratti della seconda opzione. Se si fosse trattato della prima, a quest’ora saresti diretto con lui alla sua dimora. Se non potevi resistere nel sonno, sicuro non avresti potuto alla prova del pugnale.»

«Ho sentito la pressione del comando crescere attraverso il suo solo sguardo!»

Le sue parole confermavano quanto già avevo avuto modo di notare da me.

«Quando ha preso il tuo sangue, hai notato che se ne spalmasse un po’ sugli occhi?» gli chiesi sapendo già cosa avrei ottenuto in risposta.

Chev corrugò la fronte, riflettendo. «Sì, mi pare di sì… ha sollevato il pugnale e con il piatto della lama ha sfiorato le palpebre… questo che significa, Erin?»

«Come temevo… ha usato un rituale un po’ diverso, o meglio, ampliato, rispetto al solito.»

«Che vuoi dire? Spiegati.»

«Poggiando la lama rituale sugli occhi, ha inteso trasferirne l’effetto alla vista. Sarebbe stato quasi come toccarti col pugnale, ogni volta che ti avesse guardato.»

Alzandomi, mi avvicinai a lui e presi il suo polso tra le mani. Tracciai col dito la cicatrice procuratagli dal Signore del Sangue e proseguii.

«Quando ti ha fissato, questa notte, e ti ho visto irrigidirti in maniera innaturale, ho capito che… ho ipotizzato che fosse ricorso a questo particolare stratagemma. Si tratta di un rito molto antico – quasi dimenticato – ma non per questo meno potente. Sulla base di questa ipotesi, vedendo che sei stato in grado di resistergli, ho accettato che ti sottoponesse alla prova della lama. E tu l’hai superata. È stato doloroso, lo so… ma ciò che è importante è che ti sei fidato abbastanza di me da servirti del mio potere, che ti avevo fornito, per erigere una barriera a difesa della tua coscienza contro il potere di Drogart.»

«Credo che ora possiamo stare tranquilli. Tramite questa prova abbiamo collaudato la forza della nostra alleanza» dissi. «Suppongo che non ti sveglierai mai più nel tentativo di soffocarmi a morte.»

«È stato un azzardo da parte tua», fece presente.

«Chevalier... non ho fatto altro che passare il mio tempo ad azzardare, da quanto mi sono messa in testa di prenderti al mio servizio!»

Sbuffò, sottraendo il polso dalle mie mani. «Forse allora non dovevi batterti per me. Si chiama cattivo affare.»

«L’unico cattivo affare qui è la tua bocca linguacciuta», borbottai, dandogli le spalle e tornando in camera da letto.

Mi parve di sentirlo sussurrare: “in tutti i sensi”, ma avevo troppo sonno per pensare di ribattere ulteriormente.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Furtività ***


Allour... finalmente ho ultimato il capitolo 12 di Violet, per scrivere il quale ho impiegato moltissimo tempo >.<
Spero di non aver seccato nessuno col ritardo (@Giù, soprattutto tu, scusamiiiii >////< )
La storia non fa grandi passi in avanti, in quanto a trama, ma almeno posso dichiarare del tutto conclusa la parentesi "Surdesangr" XD
Spero di entrare più nel vivo dell'azione già dal prossimo capitolo! Inoltre, spero soprattutto che questo 12° soddisfi, per quanto possibile, le vostre aspettative *v*
Ps. Oggi è il mio compleanno, per questo rilascerò ben tre storie! <3 Oltre questa, vi lascio un capitolo di Milena e l'ultimo di The Creature! *v*

GRAZIE DI SEGUIRE QUESTA STORIA! SPERO DI LEGGERE I VOSTRI COMMENTI SUL CAPITOLO!

 

Capitolo 12 - Furtività
 

Un leggero bussare mi spinse a voltarmi in direzione della porta. Chev, che era già sveglio e pronto come me da un pezzo, si raddrizzò nel suo angolo e mi gettò un’occhiata per ricevere il mio assenso prima di esclamare: «Avanti».

Un serva aprì timidamente la porta, strabuzzò gli occhi quando vide l’uomo che le sbarrava il passo prima di abbassare il capo, arrossendo.

«S-signori, siete attesi in sala. Padron Vasil desidera s-sapere se siete pronti», balbettò.

«Arriviamo subito, ragazza. Puoi riferire il messaggio», la congedai.

Lanciò un’occhiata di sottecchi a Chevalier prima di inchinarsi frettolosamente, chiudendosi la porta alla spalle.

Smisi di guardami attorno: non avevo molto di mio da portarmi dietro. Vasil mi aveva messo a disposizione praticamente tutto ciò che mi serviva. Inoltre, nei giorni precedenti, ero stata talmente presa dai miei piani che l’idea di tornare al Palazzo delle Guardie non mi aveva nemmeno sfiorato la mente. Ciononostante mi rivolsi al mio nuovo alleato: «Chev, tu hai nulla da portare con te? Ieri abbiamo firmato le carte all’arena ma non siamo passati dalla tua cella. Hai qualcosa che desideri prendere? Possiamo affrontare il tuo vecchio padrone se è qualcosa di importante: la visita non sarebbe piacevole, ma non dubito di riuscire a persuaderlo a ricerverci.»

Sbuffò. «Lo affermi nonostante quello che è successo stanotte? Ma non dovrei sorprendermi a questo punto: solo pochi giorni fa hai annunciato che mi avresti vinto combattendo. Non ti avevo creduta, eppure eccomi qua. Esattamente, però, come pensi di farti ammettere al cospetto di un uomo presuntuoso come Stenton, dopo l’offesa che gli hai arrecato?»

Ridacchiai. «Basterebbe minacciarlo di soffiargli il prossimo Campione! Che ne dici, pensi funzionerebbe?»

Chev sorprendentemente tese le labbra nella cosa più simile a un sorriso divertito – piuttosto che uno di amara ironia – che gli avessi mai visto fare.

Scosse la testa e borbottò: «Oh, una simile minaccia non potrebbe non avere effetto su di lui, certo.»

Il sorriso pian piano si spense ma continuò a fissarmi con una strana luce nello sguardo. «Sei una donna da non sottovalutare», decretò con una punta di accusa nella voce.

Lo guardai con serietà, prima di ammorbidire le parole con un sorrisetto impertinente. «Credevo di averti già avvertito a riguardo.»

Accennò col capo. «Hai ragione, ma temo di stare iniziando a rendermi conto solo ora delle implicazioni delle tue parole.»

«Stai tranquillo, Chevalier. Ti ho dato la mia parola che non avrei usato giochetti con te, o sbaglio?»

«Mi hai promesso la salvezza di Finn.»

«Anche.»

«Devo vederlo.»

«E lo farai. Oggi stesso.»

Annuì, forse convinto. Secondo me non si sarebbe dato pace fino a quando non avesse toccato con mano il ragazzino e controllato personalmente che fosse vivo e in buona forma. Beh, poco male, avremmo salutato Vasil e Calis e ci saremmo congedati da loro. Non occorreva molto per tornare al Palazzo.

«Non hai risposto alla mia domanda, Cavaliere: hai qualcosa da recuperare o possiamo metterci in marcia?»

«Non ho mai posseduto nulla di importante. Solo il ragazzino.»

«Bene, allora. Sarà meglio affrettarci.»
 

ꕥꕥꕥ 

 

Ci trovammo nella sala principale, la tavola imbandita con ogni sorta di vivanda immaginabile per la colazione. Vasil era al suo posto, su un seggio placcato in ottone piuttosto consunto, mentre Calis gli sedeva di fianco. Alla nostra entrata, quest’ultimo ci accolse col consueto calore.

«Eccovi, finalmente. Pensavamo che ve ne sareste andati senza nemmeno lasciare un saluto!» si burlò.

Gli scoccai un’occhiata divertita. «Come se non mi conoscessi, Cal! Sai che sono l’incarnazione della buona educazione.»

«E anche della modestia, a quanto pare», rispose ridacchiando. Con un cenno ci invitò a sedere. «Prego, servitevi pure.»

In silenzio, Chev prese posto dopo che mi fui accomodata, ponendomisi accanto, più distante dal padrone di casa.

Vasil non aveva ancora aperto bocca. Per quanto preferisse per lo più tacere, non era da lui questo comportamento. Quando Cal si tuffò con foga sul proprio piatto, mi rivolsi al vecchio.

«Ti vedo piuttosto abbattuto, Vasil. Ti spiace rinunciare alla nostra animata presenza?»

Produsse un suono a metà tra uno sbuffo e un grugnito e si accigliò maggiormente. Non tentò nemmeno di rispondermi, chiese solo: «Tornerai al Palazzo delle guardie?»

«Sì, dove altro dovrei andare sennò?»

«Lui viene con te?»

Pur non facendo alcun segno, era scontato che si riferisse al voluminoso premio che avevo vinto con la Sfida.

Lo guardai confusa, alzando un sopracciglio. Volevo capire dove volesse andare a parare.

«Certo, vecchio. Avrei fatto tutti questi sforzi per niente?»

«Avevi detto che sarebbe dipeso da lui decidere se rendersi utile o meno ai tuoi scopi.»

Anche se gli davo le spalle, percepii un movimento da parte del Cavaliere e sospettai che mi stesse fissando in maniera piuttosto penetrante: mi sembrava di sentire il peso del suo sguardo.

«Infatti. Ha accettato di aiutarmi», replicai concisamente.

Vasil puntò i suoi occhi scrutatori sull’oggetto della discussione e lo studiò per alcuni secondi. Io distolsi lo sguardo e mi riempii il piatto di uova, pane caldo e formaggio.

«Ritieni che sia sicuro?» domandò nuovamente.

Sospirai, mentre mi portavo alla bocca il primo boccone. «Stiamo giusto lavorando sulla fiducia.»

Vasil capì dal mio tono che la conversazione iniziava a stancarmi. Tornò quindi a concentrarsi sulla sua colazione, ma, come c’era da aspettarsi, non mollò l'osso.

«Non vorrei insistere sull’ovvio, Erin, ma non lo conosci affatto.»

«Avremo tutto il tempo di farlo da ora in poi.»

«Sai cosa intendo dire!» si spazientì. «Non puoi farlo stare con te!»

Ah, ecco il problema.

«Vecchio, sono abbastanza grande da potere decidere da sola ciò che posso o non posso fare», sbottai. Poi continuai con voce più morbida, in fondo si preoccupava per me anche se era restio a dirlo apertamente. «Sono certa che Chev non ha cattive intenzioni. Avrebbe potuto uccidermi questa notte, nel sonno, ma non l’ha fatto.»

Lo dissi con un tono leggero di chi fa una constatazione per assurdo, eppure mi ritrovai a ringraziare il cielo, dentro di me, per non avere raccontato loro del piccolo incidente di quella notte: Chev non mi aveva uccisa, ma ci era andato maledettamente vicino.

Dall’immobilità del corpo accanto al mio, capii che anche Chevalier stava pensando la stessa cosa.

Vasil borbottò qualche parola incomprensibile e lasciò perdere.

Fu Calis a scoppiare in una grassa risata, rompendo l’atmosfera tesa della stanza. «Ah Ah Ah! Il vecchio è turbato dalla vicinanza che dovrete condividere. Non gli piace il fatto che ti dovrà mettere le mani addosso di tanto in tanto per quelle tue diavolerie magiche.»

Imprecando, Vasil protestò: «Turbato! Tsk!».

«Dai zio, non fare il moralista! Violet sa badare benissimo a se stessa, non è vero, ragazza?»

Accennai di sì.

«Vedi? Nulla di cui preoccuparsi perché anche il nostro ragazzo si comporterà bene. Vero, Chev?»

Sentire chiamare “ragazzo” un uomo come Chevalier, fatto e finito, mi fece tendere le labbra in un sorriso che non riuscii a trattenere.

L’interpellato, tuttavia, tardò a rispondere mentre fissava in silenzio Calis.

«Allora?», insistette con un tono di minaccia poco velata.

«Non sarò io a creare problemi», disse infine, con voce bassa ma decisa.

«Benissimo!», approvò l’omone soddisfatto. «E ora continuiamo il pasto!»

Col sorriso che aleggiava ancora sulle labbra, mi voltai a guardare Chevalier. Era immobile al suo posto e ricambiò la mia occhiata. Per qualche secondo ci scrutammo in silenzio mentre qualcosa, una sorta di energia, passava tra di noi mettendoci all’erta e allo stesso tempo rilassando alcuni timori condivisi. Mi accorsi che non aveva preso nulla da mangiare.

«Perché non mangi? Non ti piace il cibo della tavola?»

Passò in rassegna le vivande scrollando le spalle.

«Non…», cominciò, prima di bloccarsi di colpo.

Attesi che continuasse ma quando capii che non l’avrebbe fatto, chiesi: «C’è qualcosa che non va?».

«È solo che… non credevo potessi…»

Sgranai gli occhi. «Oh!»

Allora compresi che il Campione non aveva ancora realizzato di essere finalmente libero. Lo avevo vinto con la Sfida e, sebbene gli avessi reso l’indipendenza, sicuramente ai suoi occhi dovevo apparire come una sorta di nuova padrona. Per quanto apparisse forte, risoluto e orgoglioso, qualche traccia della schiavitù subìta era difficile da cancellare. Questa cosa riuscì a intenerirmi in un modo del tutto inatteso. Doveva aver capito anche lui di avere esposto una debolezza, per questo ora appariva incerto e più chiuso.

Se fossi stata troppo gentile, avrebbe scambiato i miei gesti per pietà. Una persona orgogliosa come lui – come ero anche io – non sopportava di sentirsi compatito. Per cui optai per un atteggiamento più brusco, nel classico stile omertoso degli uomini.

«Riempiti il piatto e mangia, Chev. Non posso permettermi che mi crolli lungo la strada perché non hai sufficienti energie. Vasil potrà pure avere la sua da ridire, ma non lascia a digiuno i propri ospiti, non è così, vecchio?»

«Certo», brontolò. «Sarebbe un’offesa se rifiutassi il cibo della mia tavola», si stizzì.

Calis sorrise.

Dopo un attimo di indecisione, Chev allungò una mano e cominciò a divorare ogni cosa gli capitasse sotto tiro. Sicuramente era da troppo tempo che non gustava qualcosa di tanto raffinato.

Alla fine della colazione, si svolsero i convenevoli per gli ultimi saluti e i ringraziamenti, nonché i rinnovamenti del legame di solidarietà e amicizia.

Era ancora mattino presto quando io e Chevalier lasciammo la casa del Signore del Sangue e prendemmo la strada maestra che portava alla parte superiore della città, più ricca, che ospitava il complesso militare e il Palazzo reale.
 

ꕥꕥꕥ 

 

Alle porte del Palazzo mi fermai un momento, riflettendo sul da farsi. Anche se nessuno avrebbe potuto dirmi nulla per la presenza di Chevalier al mio fianco, sentivo che sarebbe stato meglio non introdurlo all’interno della zona militare dalla porta d’ingresso: troppe domande, e noi non eravamo ancora pronti a fronteggiare parecchie di quelle che ci avrebbero posto. No, meglio rimandare qualsiasi confronto a un momento successivo, mi dissi.

Chev, che intanto si era fermato accanto a me, mi fissava con l’espressione appena interrogativa ma non faceva domande.

«Vieni con me», gli dissi, facendogli cenno.

Ci incamminammo lungo l’alto muro di cinta, costeggiandolo e allontanandoci dal cancello principale. A un certo punto, abbandonammo la strada battuta per dirigerci nel boschetto che si estendeva ai margini della città, tutto attorno al Palazzo reale. Puntavo dritta a un luogo che conoscevamo solo io e poche altre persone. Davanti a un grosso albero storto, apparentemente uguale a molti altri della selva, scalciai col piede fino a trovare ciò che cercavo: un’inferriata piuttosto vecchia e pesante che apriva un buco nel terreno.

«Ma cosa diavolo…?» esclamò Chevalier quando capì di cosa si trattava.

«È un passaggio segreto che porta all’interno della residenza delle Guardie.»

«Perché siamo qui? Perché preferisci usare questa strada?», domandò cupo.

Lo fissai, spiegandogli brevemente le mie motivazioni. «Penso sia meglio che non ti vedano ancora, gli altri soldati. Finn è nelle mie stanze ma nessuno sa della sua presenza e sapere di te potrebbe portare a rivelare di lui; meno persone sanno del ragazzo meglio è, mi pare di capire. Non possiamo permettere che diventi un facile bersaglio per nessuno nelle schermaglie interne del reggimento. Intanto entriamo, dai un’occhiata al ragazzino e poi pensiamo a un modo per sistemare tutta la situazione, va bene?»

Chev annuì, serio in viso.

Mi seguì senza più fiatare giù per lo stretto spazio nel terreno. Una scala stretta e sdrucciolevole portava a un corridoio sotterraneo buio e umido. Non avevamo una torcia con noi, quindi procedemmo con cautela tastando le pareti rocciose ai lati.

Non trascorse troppo tempo, però, quando sbucammo in una delle cripte sotterranee della fortezza. Spinsi la graticola di ferro ostacolata dal terriccio pregno d’umidità. I cardini scricchiolarono in maniera inquietante e il loro rumore si riprodusse in un eco che ne ingigantì il suono. Non mi preoccupai di allertare eventuali guardie, giacché da quelle parti nessuno vi metteva quasi mai piede a meno che non ci fosse un motivo particolare. Nei tempi passati, accanto alle cripte, dove venivano sepolti i grandi eroi di guerra e i generali che si erano distinti per le loro imprese, sorgeva la zona delle prigioni dove, oltre cento anni prima, venivano rinchiusi i criminali più pericolosi. Quest’uso era stato abbandonato in seguito a un evento particolarmente rovinoso per la milizia: un noto brigante, infatti, conosciuto col nome di Uuruk di Vass, vi era penetrato con la complicità di un soldato corrotto, fingendo di farsi arrestare, e in seguito era evaso rubando importanti documenti segreti, custoditi nelle stanze del Comandante di quei tempi. I documenti costarono a Orvo il possesso di due grandi città limitrofe, Verna e Russna, di cui contendeva il controllo col regno allora nemico della Valdora.

Valutando poco saggio il tenere simili serpi così in seno al sistema, il re Broyothim – antenato dell’attuale reggente, re Gustav IV – dispose che le celle del Palazzo delle Guardie fossero svuotate e che i criminali venissero trasferiti nelle nuove prigioni, costruite appositamente in una zona non troppo distante.

Portai la mano all’altezza della spalla, trovando nella parete umida e polverosa una maschera di leone in rilievo; ne schiacciai un occhio attivando così un meccanismo segreto: si aprì un passaggio nella finta parete che ci permise di accedere alla vera e propria cappella dedicata al Generale Fyhe VII, vissuto tre secoli prima.

«Siamo nelle cripte sotterranee», spiegai a Chevalier nonostante non avesse fatto domande. «Dobbiamo fare attenzione quando usciamo da qui a non incrociare nessuno fino alle mie stanze.»

«In che zona alloggiate?», chiese con tono calmo e pratico.

«La parte periferica a Est dell’entrata. In questo momento ci troviamo al di sotto di qualche piano.»

Uscimmo dalla cappella e ci trovammo in un corridoio molto luogo e poco illuminato. Il motivo per cui non eravamo immersi nel buio più totale era che avevo dato disposizione a Marien, tramite Rob, di farmi trovare una torcia di fuoco accesa. La mia serva sapeva dei miei spostamenti segreti in quelle zone del Palazzo, ma mi ero assicurata che non conoscesse tutte le ubicazioni dei passaggi o i meccanismi di attivazione. Io stessa avevo impiegato anni a scoprirne molti.

Iniziai a guidare Chev attraverso le stanze e gli stretti corridoi, fino a quando salimmo le scale verso la zona abitata della struttura.

Spensi la torcia e la nascosi in un angolo stretto tra due colonne decorative.

Scrutammo il corridoio al pian terreno ma non c’era alcuna traccia di guardie. Procedemmo a passo svelto, salendo i gradini larghi della tromba di scale orientali. 

A un certo punto un vociare in avvicinamento ci costrinse ad arrestarci.

Ci scambiammo uno sguardo cupo e ci precipitammo di nuovo alla rampa inferiore, sperando che il gruppo di guardie proseguisse diritto nel corridoio, senza scendere dabbasso. La fortuna fu dalla nostra parte e quando non udimmo più alcun rumore, tornammo a salire. Mi precipitai alla porta come fosse un’ancora di salvezza. In realtà, non sarebbe andata troppo male se anche ci avessero scoperti: certo, sarebbe stato difficile spiegare come eravamo entrati, ma avrei comunque saputo inventarmi qualcosa. Eppure, la clandestinità dei nostri spostamenti furtivi mandava adrenalina nel sangue.

Trovai, com’era naturale che fosse, gli appartamenti sbarrati e mi affrettai a bussare quattro colpi secchi e brevi. In un primo momento non percepii alcun rumore, poi una voce chiese: «Chi bussa?».

«Sono Erin», risposi.

Un tramestio indistinto mi avvertì che vi era più di una persona all’interno. Finalmente la porta si spalancò e comparve Marien con un’espressione sollevata.

«Mia signora!», esclamò soffocandosi. Si guardò attorno, per verificare che non ci fossero spettatori indesiderati. «Presto, entrate», si spostò per lasciarci passare.

Una volta entrati trovammo la stanza apparentemente vuota. Marien si affrettò a richiudere.

«Potete farvi vedere», dissi, «Siamo noi.»

Al suono della mia voce si fece avanti, da dietro una tenda, Rob con un ghigno compiaciuto.

Chev invece chiamò: «Finn, dove sei?».

Fu solo allora che sentimmo sbatacchiare l’armadio. Un’anta si spalancò e si precipitò fuori un ragazzino tutto ossa con i lunghi capelli mogano arruffati a coprirgli metà del volto.

Volò letteralmente all’altro capo della stanza, lanciandosi tra le braccia dell’uomo, già pronto ad accoglierlo.

«Padre!», esclamò con una vocina acuta e molto scossa. «Mi avevano detto che presto vi avrei visto ma non ne ero del tutto sicuro! Siete davvero voi! Siete venuto per me!»

Rimasi scioccata dalle parole del fanciullo; le funzioni cerebrali ebbero come un collasso in un primo momento. Quando mi ripresi, il ragazzino stava ancora stringendosi forte al petto di Chev, mentre Rob, notai, aveva dipinta in volto un’espressione di meraviglia, simile alla mia. Che strano che nemmeno Rob sapesse che il ragazzino era in realtà il figlio del Cavaliere. Più di tutto, a sconcertarmi fu la mia stessa sorpresa, pochi momenti dopo. Perché ero rimasta così turbata? Pensandoci bene era piuttosto probabile che fosse così: quale altro motivo poteva avere un uomo come Chevalier di tenere tanto a un ragazzino se non fosse stato un suo parente?

Rob boccheggiò, gli occhi sgranati e si rivolse al diretto interessato.

«Non sapevo che fosse tuo figlio, Chev! Perché non me lo hai detto?»

Chevalier sollevò il viso ma non allontanò il ragazzo. «Non c’era motivo di farlo», disse conciso.

«Ah… beh, è vero, ma… credevo… cioè, io pensavo… non avevo capito!», balbettò rosso di imbarazzo. «Scusami se avevo supposto che… ma non ho visto somiglianze tra di voi…»

«Non preoccuparti, Rob. Finn non è mio figlio di sangue ma non per questo lo ritengo meno caro che se lo fosse.»

«Come?», dissi, prima di realizzare di avere aperto bocca.

Chev mi lanciò uno sguardo obliquo, quasi sprezzante. «Non importa che Finn non sia carne della mia carne. Lo considero mio figlio comunque.»

«Sì, non volevo offenderti pensando altrimenti. Mi chiedevo solo come mai… ecco, che rapporto ci sia tra di voi.»

Chev mi guardò per un momento. Poi si voltò verso Finn e allontanandolo da sé controllò che stesse bene. Gli accarezzò i capelli e gli chiese: «Tutto ok?».

Il fanciullo annuì entusiasta. «Sì. Mi hanno trattato bene. La signorina», disse, indicando Marien rimasta in silenzio accanto alla porta, «ha insistito per farmi fare un bagno ma non ho voluto perché non la conoscevo bene. Rob dice di essere uno schiavo come te, papà, e anche lui è stato buono con me.»

Chev annuì, soddisfatto. «Bene. Ora però devi lavarti, non puoi rimanere in questo stato.»

«Papà…», cominciò Finn con tono incerto. «Perché ci nascondiamo? Stenton ci sta cercando? Ora dovremmo fuggire?»

«Stenton non può più farci nulla, Finn. Ora sono un uomo libero.»

«Davvero, papà?!»

Il grido meravigliato riecheggiò  per tutta la stanza.

«Sì. È stata quella signorina a liberarmi, ragazzo», mi indicò e Finn fissò su di me uno sguardo pieno di ammirazione e incredulità.

«Una donna?» domandò, infatti, spiazzato.

«È una donna molto forte», spiegò.

Finn non sembrava molto convinto, se il sopracciglio esageratamente arcuato era un indizio dei suoi pensieri. Tuttavia rispose: «Se lo dite voi, padre».

Poi, rivolto a me, chiese: «Come vi chiamate, signorina?».

«Erin Knight. Sono una guardia reale», dissi.

«Una guardia donna?»

Sorrisi gentilmente e annuii.

«Allora dovete essere davvero molto forte!», decretò. «Vi ringrazio di avere aiutato mio padre e me», concluse formale ed educato.

«È stato un piacere, Finn. Ma non l’ho fatto gratuitamente: tuo padre ha accettato di darmi una mano a trovare una persona.»

Ciò non lo sorprese apparentemente. «Se ha accettato di aiutarvi, lo farà.»

Mi rivolsi e Marien che era alle mie spalle. «Porta il ragazzo a lavarsi nelle tue stanze. Poi prepara un bagno anche per Chevalier e me», comandai.

«Non occorre preparare una vasca in più. Posso usare quella di Finn quando avrà finito.»

«Come desideri», accettai. «Marien, fai come ha detto ma assicurati che alla fine del primo bagno, l’acqua sia ancora abbastanza calda per il secondo.»

«Sì, mia signora», disse la serva. Si fece seguire dal ragazzino e sparì dietro la porta che collegava la mia camera a una più piccola che era la sua.

Seguì un momento di silenzio.

A spezzarlo fu Rob che esclamò: «Meno male che siete arrivati! Ancora un po’ e avrebbero mandato giù la porta!».

«Che vuoi dire? Cosa è successo mentre eravamo via?», domandai inquieta.

«Erano giorni che, a quanto pare, non avevano tue notizie. Qualcuno si è innervosito e non smetteva di fare domande… il Comandante, mi pare che fosse. O almeno così ho capito da quello che mi ha spiegato Marien. Sembrava convinto che la serva sapesse dove trovarvi, per questo ha insistito affinché parlasse. Lei però ha tenuto la bocca chiusa e dopo un po’ ha lasciato perdere. È tornato alla carica quando ha visto dei movimenti sospetti, sicuramente deve avere capito che qualcosa non andava perché ha sorpreso Marien con un carico di cibo – che era per me e per Finn – e non ha creduto alla storia che fosse per lei. Pensava di trovarti nelle tue stanze e che ti stessi nascondendo per chissà quale motivo; pretendeva di entrare a dare un’occhiata. Non so come abbia fatto, ma la ragazza è riuscita a evitare che buttasse giù la porta con la forza, solo che poi è tornato un paio di volte a bussare, chiedendo di entrare. Abbiamo finto di non esserci ma temevamo che mettesse in pratica le sue minacce e ci sorprendesse qui dentro. Non avremmo saputo come dare spiegazioni.»

«Ahh… Raafeal!», borbottai. Perché si preoccupava tanto? Ero già sparita altre volte prima e per molto più tempo. Perché si era agitato in questo modo? Ma soprattutto, cosa voleva da me adesso?

Non finii quelle considerazioni tra me e me che una voce familiare mi fece sussultare sul posto per la veemenza con la quale si annunciò.

«Erin!», gridò con furia Raafael dall’altra parte della porta. «Aprimi immediatamente, lo so che sei là dentro! Ho appostato un soldato qua fuori perché spiasse i tuoi movimenti! Mi ha appena riferito di averti vista entrare con un uomo sconosciuto. Apri subito se non vuoi che butti giù la porta! E questa volta lo faccio, non ti conviene scherzare oltre con la mia pazienza!»

Chevalier, Rob e io ci fissammo paralizzati, almeno fino a quando altre imprecazioni del mio Comandante, farcite di nuove e più colorite minacce, non ci destarono precipitandoci nel panico.

Corsi ad afferrare un braccio di Rob e, scuotendolo, con voce bassa e frenetica gli ingiunsi: «Vai di là e nasconditi con Finn! Non fiatate, non fate rumore e dì a Marien di restare nelle sue stanze come se glielo avessi comandato io! Presto, vai!».

Gli diedi una spinta nella direzione da prendere. Dopo essere quasi inciampato, lanciò un’occhiata terrorizzata a Chevalier e sparì nell’altra stanza.

«Lascia parlare me», lo istruii, mentre fissava la porta, già pronto ad affrontare la minaccia imminente. «Cerca di non apparire troppo minaccioso, per cortesia.»

Finalmente mi avvicinai alla porta e mi incollai al viso l’espressione più scocciata che mi riuscisse di fare.

Aprii l’uscio, tremante sotto i colpi di Raafael, e studiai in pochi secondi la figura imponente del Comandante e il suo viso tirato dalla rabbia.

«Perché tutto questo baccano, Raaf? Si può sapere che problemi hai?!», lo aggredii col tono di sdegno proprio di chi fosse stato indebitamente disturbato.

Mi spinse di lato per entrare nella stanza. Individuò immediatamente l’ospite indesiderato.

«Quello chi è?!», chiese con voce più bassa ma non meno minacciosa. Il dito puntato come un coltello affilato nella direzione di Chevalier non lasciava presagire nulla di buono per quell’incontro.

«La mia nuova guardia del corpo», risposi semplicemente.

«Che cosa?!», esclamò Raafael, misurando il soggetto in questione. «Dove lo avresti trovate e a che ti servirebbe?»

«L’ho vinto al Surdesangr se proprio vuoi saperlo. Era il Campione di uno dei Signori del Sangue.»

Inutile nascondere qualcosa che avrebbe sicuramente scoperto in breve tempo.

«È lì che sei stata tutti questi giorni?»

«Non che la cosa ti riguardi… però sì, sono stata lì. Qualche problema?»

Finalmente si degnò di guardarmi in faccia. «Perché non hai fatto sapere dove eri finita? Sono stato in pensiero per te!»

Sgranai gli occhi e mi misi sulla difensiva. «Non ti ho mai dovuto dire dove passassi il mio tempo quando non ero in missione per la milizia, perché avrei dovuto iniziare proprio ora?»

Raafael strinse i pugni e digrignò i denti. «Non puoi permetterti di andartene in giro in questo modo! Soprattutto ora che non hai più un contingente di uomini su cui contare in caso di pericolo! Non ti rendi conto? Sei troppo preziosa e…»

«No, Raafael, non darmi colpe che non ho», lo interruppi. «Io me ne vado in giro dove e quando mi pare e se questo ti crea problemi… beh, non posso farci niente. Ti preoccupa sapermi sguarnita di uomini? Ti ricordo che è stata una tua decisione assieme al Consiglio: io non intendo piangerne le conseguenze. Ti avevo avvisato che non avrei rinunciato alla mia missione.»

«Maledizione!», scattò il Comandante esasperato dai miei modi impertinenti e probabilmente fin troppo diretti, al limite dell’insubordinazione. «Speravo che toglierti un po’ di potere ti avrebbe indotta a essere più cauta!», borbottò fra sé.

A braccia conserte, mi limitai a fissarlo con espressione scettica.

Sapendo di non poterla spuntare, tornò ad accanirsi contro l’elemento più vistoso dell'ambiente.

«Quello lì!», lo puntò ancora una volta. «Non puoi tenerlo, Erin!»

«E perché mai?», chiesi con finta innocenza.

«Non è consono che… Oh, insomma! Dove pensi di metterlo? Non abbiamo posto qui al Palazzo! Senza contare che non è nemmeno una Guardia Reale, quindi non possiamo tenerlo!»

«So di non potere gravare il corpo armato della sua presenza…», cominciai.

Raafael mi lanciò uno sguardo diffidente mentre diceva: «Perché questa premessa non mi tranquillizza affatto?».

«…quindi dormirà qui con me, nella mia stanza», conclusi d’un fiato.

Ci fu un attimo di incredulo silenzio.

Poi l’esplosione.

«Ma sei del tutto ammattita?! Non puoi metterti dentro questo… questo…» lo fissò col viso tutto rosso di rabbia, mentre cercava un termine per definire l’uomo grande e grosso che, a parer suo, volevo tenere come animale da compagnia. Rinunciò, gesticolando vagamente. «Non puoi tenerlo e basta, Erin! È un uomo, santiddio, non ti rendi conto. E tu sei una donna, per quanto in gamba… non puoi farlo dormire con te, in questa stanza. Se ne approfitterebbe e…»

«Per l’amor del cielo, Raafael, non sono certo una bambina! Credo di sapere valutare i rischi che corro da quel punto di vista», allusi. «Chevalier è un gentiluomo, non mi prenderebbe mai con la forza. Sbaglio forse?», domandai a quest’ultimo.

Chevalier, che era rimasto in silenzio, in posizione di guardia, per tutto il tempo, grugnì affermativamente.

«Vedi?»

«Vedo un corno! Credi che basti una parola per stare al sicuro? Nemmeno lo conosci e dici di averlo pescato al Surdesangr, nientedimeno! Che ricordi, in quel luogo, non si aggirano certo giovani innocenti e uomini d’onore! Puah!»

«Innocenti forse no, ma uomini d’onore sì, sebbene di un onore tutto loro», provai a scherzare.

Raafael mi guardò bieco.

«Senti, Raaf, mettiti l’anima in pace. Siete stati voi a privarmi dei mezzi, non puoi biasimarmi se ho cercato un aiuto laddove ho potuto. Chev rimane, fine della discussione. Ovviamente provvederò io stessa al suo sostentamento, non graverà sulle finanze militari», aggiunsi con sarcasmo. Dopotutto era assurdo pensare che un grande corpo militare come quello di un regno avesse davvero problemi a sfamare un singolo uomo.

«‘Chev’… è così che si chiama?», chiese Rafael arrendendosi.

«Diciamo di sì. Chevalier è il suo soprannome.»

Fece un passo nella sua direzione, gli si avvicinò con aria cupa. «Chevalier… un soprannome particolare...», mormorò. «Non ce l’hai un nome?»

Chev non rispose, si limitò a sostenerne lo sguardo.

Raafael gli si pose dinanzi e si arrestò, i loro volti alla stessa altezza. «Sappi che mi informerò su di te. Se solo ti azzardi a giocare brutti scherzi te la dovrai vedere con me.»

Poi, rivolto a me, disse: «Noi due ne riparliamo. Non sparire di nuovo senza avvertire».

Ciò detto, si diresse all’uscita.

Prima che si dileguasse, lo chiamai: «Ehi, Raaf!»

Voltò il capo, pur rimanendo di spalle.

«Non appostare più nessuno alle mie porte e non ti sognare di farmi piantonare, non è una cosa che apprezzo. Se pesco una tua spia te la rimando indietro ridotta in poltiglia.»

«Mi stai minacciando?», domandò astioso e per nulla contento.

Non mi lasciai intimidire dal suo tono di voce o dall’espressione furente, dovevo mettere le cose in chiaro prima che fosse troppo tardi. Soprattutto, doveva capire che non ero certo una sprovveduta e che non mi sarei piegata al suo volere come un qualsiasi altro sottoposto. La disciplina era una cosa, il rispetto personale un’altra.

«Chiamalo avvertimento», sorrisi cortesemente, «sono pur sempre una donna e potrei diventare isterica su alcune questioni.»

«Ricorda che stai parlando al tuo Comandante», nella voce si avvertiva l’eco di un ringhio.

«Signorsì, Signore. Avete tutto il mio rispetto in quanto tale».

Il sorriso scemò lasciando il posto a un’espressione più seria adatta allo scambio che stavamo avendo. «Tuttavia, è mio dovere ricordarvi, Signore, che se la carriera militare diventerà un ostacolo non esiterò ad abbandonarla. Comunque, non è che mi sia di molto aiuto in questo momento… non vorrei che si aggiungesse al resto il fastidio di essere spiata pure da chi si suppone essere mio “alleato”.»

«Non stai combattendo una guerra, Erin, quand’è che lo capirai? La persona che cerchi non esiste, renditene conto prima che sia troppo tardi. Non dovresti guardarti le spalle da me», aggiunse, «ma da lui!» accennò a Chev con un colpo secco del capo. «E sappi anche tu che la mia pazienza non è infinita: non tollererò ancora questa tua insubordinazione senza punirla. Ritieniti fortunata che oggi qui non ci fossero altri testimoni del tuo comportamento inqualificabile.»

«Sì, signore.»

Il tono apparentemente sottomesso non lo quietò affatto. Mi lanciò un’ultima occhiata rovente prima di sparire lungo il corridoio e poi giù dalle scale. Richiusi la porta lasciandomi andare a un sospiro di sollievo e guardai Chevalier.

«Beh, non è andata tanto male. Per fortuna non ha voluto controllare le stanze. Se avesse trovato anche Rob e Finn avrebbe dato di matto e magari mi avrebbe cacciata fuori.»

Mi avvicinai a una poltrona e mi ci lasciai cadere. «Ho proprio bisogno di un bel bagno caldo», mormorai languidamente.

Chevalier si avvicinò, sovrastandomi. «Parlavi sul serio quando hai detto che lasceresti l’esercito se ciò diventasse un ostacolo?»

«Sì, perché?»

«L’incarico di luogotenente è ben retribuito.»

Scrollai le spalle. «Posso fare a meno di quel denaro.»

«Ma non è solo per questo, vero?»

Sollevai gli occhi per scrutarlo profondamente. Risposi lentamente: «No, non si tratta di soldi, per me».

«Lo immaginavo.»

Si accomodò sulla poltrona di fronte alla mia. «Dovrai spiegarmi tutto per bene.»

«Lo farò, ma prima concediamoci un bel bagno, vuoi?»

Diede un’occhiata alle sue condizioni: anche se aveva smesso gli abiti logori concessigli da Stenton in quanto suo Campione, aveva decisamente bisogno di una bella ripassata di acqua e sapone per riacquistare un aspetto dignitoso e meno selvaggio.

«Direi che può andare bene», concesse con un ghigno.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Invito al ballo ***


Finalmente sono riuscita ad ultimare il capitolo 13 di questa storia http://i40.tinypic.com/207ua36.jpg
Credetemi, ho cominciato a scriverlo qualche giorno dopo la fine dell'ultimo esame e ci ho messo alcuni giorni per comporlo, dato che si succedono un bel po' di eventi :D  Senza anticipare nulla, posso dirvi che si concluderanno alcune questioni ancora "in sospeso" e finalmente se ne profileranno altre che ci condurrano in avanti con la storia. Tra l'altro scopriremo qualcosa di nuovo riguardo a chi sia Erin Knight (oooh!) e verranno presentati nuovi personaggi che spero tanto vi piacciano 
Devo chiede scusa a tutti coloro che seguono questa storia per l'improponibile quantità di tempo che avete dovuto aspettare per l'aggiornamento. Soprattutto chiedo perdono ad Artemis Black che nell'ultimo commento mi aveva chiesto di postare il prima possibile e io  — nonostante la scaramanzia — ho finito con l'impiegarci ancora più del solito http://i30.tinypic.com/2l9sjs1_th.gif 
Almeno la promessa di dare una smossa agli eventi l'ho mantenuta!
Depa95 (Giù-), sei testimone dello sforzo che ho fatto! Alla fine ho raggiunto le 26 pagine (mi sanguinavano i polpastrelli) ma sono riuscita a portare la storia lì dove volevo! Senza cedere alla tentazione di spezzare il capitolo postando una parte subito e l'altra in seguito! 
*** Ecco, vi avviso anche che in fondo alla pagina ho lasciato delle immagini per farvi vedere cosa indossano i protagonisti in questo capitolo ;D Per l'abito di Erin mi sono ispirata ad una foto di moda, mentre siccome quello di Chevalier non esiste da nessuna parte se non nella mia testa, ho fatto lo sforzo (spero gradito) di disegnarlo su carta, scannerizzarlo, colorarlo con GIMP e postarlo qua per farvelo vedere.
Quindi spero apprezzerete anche il disegno, sebbene non sia un'artista eheh 

GRAZIE DI SEGUIRE QUESTA STORIA! http://digilander.libero.it/irvaaa/copertine/1218200437.gif


Capitolo 13 - Invito al ballo

 

L’acqua calda era un toccasana per le contusioni che avevo riportato durante gli scontri al Surdesangr. Osservavo le nuvolette di vapore che mi appannavano la vista mentre stavo mollemente adagiata nella vasca. Un raro attimo di silenzio, quello che mi stavo godendo.

All’improvviso rivissi gli ultimi giorni trascorsi tra la frenesia della battaglia, le incertezze dei miei piani, le preoccupazioni di Vasil e di Chevalier. Tutto doveva essere condotto con astuzia, celerità e silenzio, in un equilibrio di parti tanto azzardato quanto precario. Dovevo riconoscere che aveva agito a mio vantaggio una buona dose di fortuna: se Stenton non fosse stato così prevedibile da condurci egli stesso a Finn, se gli scontri si fossero protratti più a lungo, logorando le mie energie, se il Giuramento di Sangue apposto da Drogart fosse stato più forte…

Ripensare a tutti i ‘se’ e tutti i ‘ma’ mi scosse nel profondo, irradiandomi lungo la schiena un brivido freddo, fantasma della possibilità del fallimento.

Ripensai alla discussione con Raafael di poche ore prima: il Comandante aveva il potere di buttarmi fuori dalla milizia, senza che potessi fare nulla per oppormi. Molti sarebbero stati contenti di una simile evenienza: probabilmente tramavano già nell’ombra e facevano pressione affinché si sbarazzasse della mia inopportuna presenza.

Eppure Raafael non aveva ancora ceduto. Nonostante le mie numerose insubordinazioni, le discussioni sulle strategie da adottare e quelle su dove incanalare ricerche e risorse, mi aveva tenuto con sé.

Persino oggi era stato clemente e alla fine aveva ceduto alle mie richieste, sebbene fumasse di rabbia e di sdegno.

All’inizio avevo creduto lo facesse per timore della reazione del sovrano alla mia eventuale estromissione dall’incarico; in seguito avevo cominciato a pensare che mi stimasse almeno un poco come persona, o che ammirasse il mio potere e lo ritenesse di grande utilità per i suoi scopi.

Ancora non capivo quale di queste ragioni lo spingeva a passare sopra al mio comportamento: forse tutte e tre.

Raafael era una persona imperscrutabile: quindi, a meno che non me le esponesse direttamente, non avrei mai potuto capire i suoi motivi.

Bussarono piano alla porta.

«Vieni avanti, Marien», sospirai, sollevandomi un poco.

La serva scivolò dentro, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé.

«Signora, il ragazzo è pulito e anche l’uomo ha ultimato il suo bagno.»

«E Rob?»

«Si sta intrattenendo col vostro ospite.»

«Capisco. Allora sarà meglio che esca. Prima, però, avvicinami lo scrittoio e portami carta e calamaio.»

«Signora, non sarebbe meglio se vi asciugaste? Correte il rischio di bagnare la carta.»

«Si perderebbe troppo tempo. Voglio che il messaggio arrivi prima che abbia finito di vestirmi. Lo porterai tu stessa a Joshlyn.»

«Sì, padrona, come desiderate», risposte Marien, affrettandosi a porgermi quanto avevo chiesto.

Scrissi velocemente due righe sul biglietto, in bilico tra la vasca e il ripiano dello scrittoio, e glielo porsi con queste parole: «Riferiscile che è urgente, che mi faccia avere risposta tramite te se lo riterrà più prudente».

La congedai con un cenno e la serva partì.

Abbandonai il conforto della vasca e dell’acqua e mi asciugai tamponandomi il corpo con l’asciugamano di lino ricamato. Mi rivestii con una tunica azzurra e legai i capelli umidi in una treccia. Non avevo il tempo di asciugarli davanti al fuoco; fortunatamente, gli ambienti erano stati tenuti al caldo.

Quando entrai nel salotto che faceva da anticamera alla zona di riposo, trovai Finn impegnato in un fitto racconto delle sue avventure e della sua fuga: i punti di maggior tensione erano enfatizzati da un ampio gesticolare e dalla voce che, per l’eccitazione, diventava sempre più acuta. Rob, appoggiato con una spalla alla parete prossima al divano, lo guardava con un sorrisetto divertito mentre, al contrario, Chev manteneva il suo cipiglio impassibile, pur prestando tutta la sua attenzione al ragazzino.

Attesi fin quando il racconto non si concluse, riferendo dell’insistenza di Marien per farlo lavare: il ragazzo aveva strenuamente resistito alle pressioni.

«Basta così, Finn. Ora so tutto ciò che mi serviva sapere», disse Chevalier, tacitando il ragazzino. «Ora stai un po’ con Rob e cerca qualcosa da fare mentre discuto di alcune cose con la signorina Knight.»

Detto ciò, si girò e mi fece un cenno. Mi resi conto che doveva aver percepito la mia presenza alle sue spalle da quando ero entrata in camera.

Mi avvicinai a passi misurati.

«Finn, in quella stanza c’è un ripiano con alcuni modellini di navi. Puoi andare con Rob a guardarli se ti fa piacere.»

Gli indicai la porta che dava su una piccola biblioteca.

«Davvero posso?», esclamò entusiasta.

«Ma certo che puoi», l’assicurai, prima di dire a Rob: «Potete andare e prendere tutti quelli che volete. C’è un tavolo che potete usare. Solo, state attenti a non avvicinarvi alla finestra. Anche se ci troviamo in un’ala piuttosto isolata non possiamo correre il rischio che qualcuno vi veda dall’esterno.»

Rimasti soli, Chevalier e io prendemmo posto l’uno di fronte all’altra.

A un primo, veloce esame non mi era certo sfuggito quanto il bagno gli avesse giovato: una volta eliminato lo strato di sporcizia misto a sudore, il suo aspetto era notevolmente cambiato: era più fresco e riposato. La pelle aveva assunto una nuova intensità ambrata, i capelli dorati risaltavano nella luce, in ciocche ondulate ancora umide, e incorniciavano il volto, accarezzandogli le spalle robuste. Persino l’azzurro degli occhi pareva più intenso e vivido che mai, come se il calore dell’acqua avesse sciolto stress e stanchezza.

Nonostante la barba gli desse un’aria selvaggia, era decisamente attraente: molto più della prima volta che l'avevo visto, a dire il vero… ora odorava di buono.

Anche se apparentemente rilassata, la figura dell’uomo tradiva una certa tensione. Attendeva che fossi io a prendere la parola.

«Ti ho già accennato che ho avuto il permesso dal mio Comandante di raccogliere sotto il mio comando dei volontari.»

Un grugnito di Chev attirò la mia attenzione, interrompendomi. 

«Quello lo chiami “avere il permesso”?», rise seccamente. «Aveva tutta l’aria di una controversia bella e buona.»

«Beh, sì… diciamo che ho forzato un po’ i termini della limitazione impostami», mi strinsi nelle spalle con un sorrisetto.

«Il Consiglio si riferiva di sicuro a uomini che fossero già assoldati nella milizia. Io ho spaziato un po’ oltre, gettando l’amo dove il pesce era più abbondante.»

Chevalier non sembrava divertito di essere paragonato a un pesce. «Non hai fatto buona pesca, allora. Hai ottenuto solo me, mentre mi pare di capire che puntassi a un numero più alto di candidati.»

Mi rilassai poggiando la schiena sulla poltrona. «Prima di tutti gli altri numeri c’è sempre uno. Con te sono solo all’inizio, ne sono consapevole, tuttavia mi ritengo fortunata perché vali più di cento smidollati. Mi pare inutile ritornare sulle qualità che mi hanno spinto a desiderarti al mio servizio.»

Chev convenne. «Dimmi cosa ti aspetti esattamente da me, e quali sono i pericoli cui vado incontro.»

«Mi sembra giusto», annuii. «Come già ti avevo accennato, la mia missione principale è quella di trovare una persona. Purtroppo finora non è stato molto semplice seguirne le tracce, anzi, si può dire che al momento mi trovo a un punto morto. Tuttavia, sono anche una Guardia Scelta dell’esercito reale quindi i miei compiti prevedono anche la protezione del re e la difesa di Norvo.»

«Avevi accennato al fatto che eri osteggiata, però.»

«Ricevo continue pressioni dall’interno perché molti degli altri ufficiali non sono contenti del fatto che una donna abbia un grado o una forza pari alla loro. Alcuni uomini molto influenti, come il vice-comandante Rufus, sarebbero veramente soddisfatti di vedermi fare una brutta fine; sono questi che presumibilmente hanno formato un fronte comune per estromettermi dal potere: di fatto hanno sfruttato il fallimento di una mia azione militare per togliermi il comando dei miei uomini, lasciandomi la possibilità di reclutare solo volontari.»

«Volontari che non ci sono, a quanto sembra», constatò assorto.

«Esatto. In verità, ho motivo di credere che qualcuno sarebbe stato disposto a seguirmi, ma anche questi subiscono pressioni dall’alto. Sono stata segretamente informata che pende una minaccia contro chiunque stia dalla mia parte.»

«Un bel problema.»

«Sì, uno che mi ha costretto a rivolgermi all’esterno», sbuffai. «Comunque devo presumere che il mio scherzetto non sarà gradito agli altri luogotenenti, così come non lo è stato a Raafael. Non so come potranno reagire, ma se finisce nel peggiore dei modi, con te perlomeno avranno del filo da torcere: sei abituato a lottare contro attacchi a sorpresa di ogni tipo. Dovrai prestare la massima allerta.»

«Non saprei come rilassarmi nemmeno volendo», commentò granitico.

Risi. «Bene, meglio così!»

La discussione continuò ancora per qualche minuto: gli descrissi brevemente i principali luogotenenti con cui avremmo avuto a che fare e le loro caratteristiche.

«Ora che ti ho esposto la situazione generale dell’interno», continuai, «è bene che tu conosca anche i pericoli esterni.»

«Esterni?»

«Precisamente. Ho un nemico molto forte anche fuori da queste mura, Chev.»

«Che sarebbe?»

«Il Falco. Devi averne sentito parlare…»

Mi fissò con la sorpresa negli occhi. «Molto. Mi domando cosa abbia a che fare con te.»

«Mi ostacola.»

«Perché?»

Scrollai le spalle e lentamente risposi: «Faccio parte della milizia. I nostri uomini si scontrano spesso».

«Pensavo parlaste di un nemico personale…»

«Infatti, è così», ammisi.

«Allora qual è il tuo obiettivo?»

«Lo voglio morto», asserii con voce monocorde.

Chevalier mi scrutò qualche secondo in silenzio. «...vendetta», suppose alla fine, in un sussurro.

Un rumore alla porta ci costrinse a distrarci dalla nostra discussione: Marien era tornata. Un po’ trafelata mi comunicò: «Signora… il messaggio è stato recapitato».

Quasi prima che completasse la frase, le ingiunsi di darmi la risposta che attendevo.

«Questa sera, alla residenza di Vomondr», s’affrettò a specificare.

«Maledizione...», imprecai, serrando gli occhi.

«Padrona, qualcosa non va?», si affrettò a domandare preoccupata la serva.

«No, no… va tutto bene, Marien. È solo che mi dispiace che sia Vomondr, tra tutti.»

«Oh!», disse, «vi capisco… non piace nemmeno a me quell’uomo ma voi saprete tenerlo a bada, signora.»

«Certamente», sospirai, recuperando il contegno. «Ora, Marien, bisogna pensare a recuperare dei vestiti per i nostri ospiti. Puoi pensarci tu?»

«Sì, signora. Quent avrà di sicuro tutto ciò che occorre.»

«Bene, allora andate pure. Per quanto riguarda i vestiti di Chev per questa sera, ci penserò io stessa.»

Dopo avere valutato il da farsi, la serva scivolò nuovamente fuori dagli appartamenti.

Chevalier, nel frattempo, aveva silenziosamente assistito allo scambio.

«Di cosa parlava la tua serva? Che cosa deve accadere questa sera?» 

«Presenzieremo a un ballo nobiliare nella residenza di Joshfen Vomondr.»

Accigliato, chiese: «Perché?».

«Devo incontrare una persona e discutere su un argomento che vi tocca personalmente.»

«Che sarebbe?», corrugò la fronte con sospetto.

«Si tratta di Finn. Se accetti di lavorare per me, non può rimanere con noi. È troppo pericoloso.»

«Sono d’accordo», convenne dopo un breve momento di silenzio.

«Quindi accetti l’accordo?»

Ero stanca di tergiversare sulla questione. Avevo investito fin troppe energie e tempo in questo progetto.

«Credevo che questo l’avessimo già stabilito. Perché me lo domandi di nuovo?»

«Prima di questo momento hai acconsentito ad aiutarmi, è vero, ma io avevo Finn e tu non potevi sapere se gli avrei fatto del male pur di raggiungere i miei scopi», cominciai. «Ora, però, ti ho definitivamente dato prova di aver mantenuto la parola. Finn è qui e sta bene, ma soprattutto, è tuo: non lo userò per ricattarti come ha fatto Stenton. Puoi scegliere liberamente di rimanere oppure andartene. Ciò che voglio è che la scelta sia assolutamente libera: come hai capito, la mia missione può rendersi insidiosa, ho molti nemici. Voglio potermi fidare ciecamente di chi mi rimane accanto.»

Detto ciò, mantenni lo sguardo fisso sui suoi occhi di ghiaccio, che scrutavano i miei, leggendovi chissà quali segreti. Potevo quasi sentire il lavorio degli ingranaggi del suo cervello che elaborava le mie parole e si apprestava a formulare una risposta ponderata.

Dopo un lungo minuto trasse un profondo respiro e disse: «Ti sono debitore per aver salvato Finn e Rob e per aver liberato me. Non posso ignorarlo. Inoltre, mi sembra chiaro che dipendo da te riguardo alla questione del Giuramento di Sangue con Drogart. A che mi gioverebbe rifiutare la tua offerta? Come se non bastasse, sei stata di parola e questo l’apprezzo molto.»

Feci un cenno per dirgli che capivo il suo punto di vista. «Finn vivrà al sicuro e potrai vederlo ogni volta che vuoi. In cambio dei tuoi servigi avrai vitto e alloggio e una piccola paga. Agli altri sarai presentato come la mia guardia del corpo.»

Così, trovammo un’intesa.

ꕥꕥꕥ 

 

Marien era tornata poco dopo con un fagotto di vestiti avvolti dentro un sacco di tela. Si era mossa attraverso i familiari corridoi, uscendo indisturbata dal Palazzo delle guardie e facendo apparentemente il suo solito giro al mercato. Lì, si era rivolta a Quent, sarto ben rinomato, che aveva nella sua bottega abiti per tutti i generi e, insolitamente, per tutte le classi sociali. Aveva acquistato alcuni capi scelti per Rob e Finn perché quelli forniti da Stenton lasciavano molto a desiderare.

Ora il ragazzino si osservava allo specchio, ammirando i calzoni e la camicia nuovi e voltandosi a guardare da diverse prospettive la propria figura. Marien aveva buon occhio, così anche i vestiti di Rob erano perfetti. I pantaloni marroni gli fasciavano le gambe senza ostacolarne i movimenti; la camicia immacolata fu lasciata slacciata alla sommità.

«Grazie, Erin! Non indossavo abiti del genere da… oh, non ricordo nemmeno più da quanto!» esclamò Rob soddisfatto.

Finn a quelle parole si voltò verso il padre, puntando lo sguardo sui suoi vestiti logori. Poi mi chiese: «Perché a mio padre non avete dato dei vestiti, signorina Knight? Credevo che lui dovesse aiutarvi».

Gli sorrisi spiegando: «Abbiamo preso qualcosa anche per lui, non temere», indicai un fagotto dentro la borsa di tela, «solo che ora deve indossare qualcosa di leggermente diverso, più formale».

«E dove sono questi vestiti “formali”?», insistette curioso.

«Li recupereremo al più presto.»

 

ꕥꕥꕥ 

 

La mattina scivolò via velocemente. Avevo spiegato a Chevalier la necessità di unirci agli altri soldati per il pranzo, nella sala comune: in questo modo sarei stata capace di introdurlo pubblicamente, diminuendo la possibilità di spiacevoli incidenti.

Desideravo che si uniformasse il più possibile, per questo avevo ritenuto opportuno vestirlo coi colori dell’esercito, in modo che si confondesse tra gli altri: tuttavia, la sua stazza e la sua presenza fisica suggerivano piuttosto l’idea che tale effetto fosse improbabile.

Non fu difficile procurarmi una divisa maschile della sua taglia nel deposito di rifornimento; mi occorse molta più discrezione per nascondere i pensieri imbarazzanti che mi affollarono la mente quando Chev si presentò in tutta la sua imponenza, messa in risalto dai vestiti dal taglio raffinato e dal colore vivido.

I pantaloni di pelle erano come una seconda pelle e mettevano in risalto ogni fascia muscolare, la tunica rossa gli disegnava i bicipiti; il busto sarebbe ben presto stato definito da un giustacuore di cuoio resistente.

«Ti va benissimo», riuscii a commentare dopo aver deglutito un paio di volte.

Chev, senza dire una parola, chiudeva e apriva le braccia in ampi movimenti, valutando la comodità degli indumenti.

«Ti manca ancora qualcosa, però», dissi inclinando di lato il capo.

Quale arma del mio arsenale gli si sarebbe adattata meglio?

«Vieni con me.»

Mi avvicinai a un vecchio baule capiente, in fondo alla stanza. Nel sollevarne il pesante coperchio rivelai una modesta quantità di armamenti.

Chev, nell’osservare quell’assortimento parve colpito. Dopo un’occhiata per chiedere il permesso, allungò una mano ed esaminò qualche lama.

«Hai una preferenza?», domandai dopo che ebbe osservato il quarto pugnale. «Te la cavi meglio con qualche arma in particolare?»

Senza voltarsi, né rispondermi, prese una spada e la menò per aria, soppesandone poi il calibro.

«Penso sia meglio che tu tenga una spada appesa al fianco e che porti almeno due pugnali, uno dei quali, magari, nascosto negli stivali. Tornano sempre utili delle lame in più.»

«Vuoi davvero che prenda queste armi?», chiese finalmente con tono sommesso.

«Certo. Una guardia del corpo non può girare disarmata, ti pare?», commentai un po’ sorpresa dalla sua perplessità.

«Sono di ottima fattura, devono essere di valore», considerò lentamente.

«Quale che sia il loro valore, assolvono al loro scopo: tagliano bene. E, come vedi, ne sono ben fornita, non sentirò la mancanza di uno o due pugnali.»

Senza lasciargli il tempo di replicare, presi un fodero di colore nero che si adattasse ai pantaloni. Girandogli attorno, gli annodai in vita una cintura, alla quale appesi la spada che aveva maggiormente apprezzato e un astuccio dove poteva riporre denaro e altri oggetti di uso quotidiano.

La lunga arma aveva un’elsa estremamente semplice e disadorna, ma era dotata di una lama di gran lunga più affilata delle altre.

«Non ti resta che scegliere i pugnali», lo incoraggiai.

Non più tentennante, impiegò ancora qualche secondo prima di optare per dei pugnali scelti anch’essi sulla base dell’efficienza e della qualità piuttosto che della bellezza degli ornamenti.

Una volta sistemate tutte le armi al loro posto, non rimaneva che un’unica cosa cui pensare.

Con passo deciso, attraversai la sala ed entrai in camera da letto.

Dal portagioie estrassi una spilla d’oro a forma di Nibbio reale, l’animale che a Orvo rappresentava il dare o ricevere protezione. Tornai in fretta da Chevalier e glielo mostrai.

«Metterai questa, così tutti sapranno con chi avranno a che fare.»

Scrutò per alcuni secondi la spilla, tracciandone col dito i bordi, prima di portare lo sguardo su di me.

Senza commentare o protestare, me la porse e attese pazientemente che gliel’appuntassi all’altezza del cuore.

«Direi che ci siamo», decretai con un’ultima occhiata di valutazione. Lasciammo gli appartamenti che rimasero vuoti: avevo stabilito che Rob e Finn sarebbero stati più al sicuro in un altro luogo. Li avevo affidati a Marien, certa che la serva li avrebbe condotti a destinazione sani e salvi.

Questa volta io e Chevalier ci avviammo lungo i corridoi e giù per le scale a viso aperto, senza più tentare di rimanere nascosti.

Incrociammo alcuni soldati che ci lanciarono occhiate incuriosite, squadrando in particolare l’uomo alto e possente che mi camminava a fianco.

Nonostante la perplessità generale, nessuno si arrischiò a fare domande, ma molti sgranarono gli occhi quando notarono la spilla dorata dello sconosciuto: la forma del nibbio, infatti, si stagliava distinta sul giustacuore di cuoio scuro, messa in risalto da rapidi bagliori, ogni volta che i raggi di luce la colpivano.

Giunti nella sala mensa, non passarono che pochi secondi prima che gli schiamazzi scemassero e gli occhi di tutti si puntassero su di noi.

Da alcuni borbottii sommessi, percepii la loro sorpresa di vedermi in quel luogo. Avevano ipotizzato che mi fossi arresa e ritirata. Scoprire che non era così, che mi aggiravo col solito cipiglio fiero, come nulla fosse, li sbalordì al punto da essere indecisi su come reagire.

Ignorai tutte le occhiate e le mezze frasi, proseguendo verso un tavolo libero, all’angolo della grande sala. Mi accomodai, invitando Chev a fare altrettanto.

Quasi subito, Gaudith, la cameriera che si occupava di servire il pasto ai soldati, si fece avanti, sorridendo timidamente all’indirizzo di Chev: chiese cosa volessimo mangiare.

Nel frattempo il cicaleccio delle conversazioni si era rianimato.

Quando la giovane tornò con le nostre zuppe fumanti, la maggior parte degli uomini era tornata a rivolgere l’attenzione ai propri affari.

Purtroppo non fu così per tutti: un passo pesante annunciò l’arrivo di un molestatore.

L’uomo si avvicinò apertamente ostile e con un’insopportabile ghigno.

«Knight!», mi apostrofò sprezzante. «Credevamo vi foste irrimediabilmente perduta in uno di quei postacci che siete solita frequentate o che ci aveste lasciato la pelle, una buona volta!»

Quel naso prominente, l’incisivo giallo e la zazzera di capelli intrecciati da un lato e rasati sull’altro non potevano che appartenere a una sola persona.

«Certi luoghi turbano la vostra sensibilità, Fedigar?», lo derisi sottilmente. «Non ho mai avuto paura di recarmi da qualsiasi parte. Però, visto che reputate alcuni quartieri così pericolosi, è una fortuna che ci sia io a poter fare la ronda al posto vostro.»

«Io non ho certo paura di frequentare certi quartieri», masticò tra i denti, «ma non sono luoghi adatti a una donna!»

«Forse. Ma lo sono per un luogotenente quale io sono», dissi, calcando volutamente le parole e abbandonando qualsiasi pretesa di cortesia.

«Ho sempre avuto dei dubbi sulla vostra idoneità a ricoprire quel ruolo, Knight. E difatti vi hanno tolto il comando di quei pochi uomini che avevate. Questo dimostra qualcosa!»

«Solo che mancano gli uomini con le palle», gli sorrisi gioviale.

Spiazzato dall’insolenza delle mie parole in totale contrasto col tono mieloso corrugò la fronte e non seppe cosa replicare.

Mentre tentava di riprendersi, spostò lo sguardo sulla figura alla mia sinistra.

Chev aveva smesso di mangiare la sua zuppa sin da quando lo aveva visto avvicinarsi e non lo aveva perso di vista un attimo, pronto a reagire a qualsiasi attacco.

«E questo qui chi sarebbe? Hai trovato uno stupido disposto a seguirti?», domandò beffardo. «Da quale squadrone l’hai reclutato?», continuò, probabilmente pensando già a come fargliela pagare per avere sfidato il tacito boicottaggio nei miei confronti.

«Questo è Chev», lo presentai brevemente, ignorando le altre domande.

«Era un sottoposto di Gaven, non è così? Quell’uomo ha un debole per te, ci avrei scommesso che avrebbe costretto qualcuno dei suoi a stare dalla tua parte! Puah!»

Laconicamente, precisai che Gaven non c’entrava niente.

«Allora apparteneva a Yumeno? Solo loro due si sono sobbarcati l’incarico di addestrare le reclute. E questo non l’ho mai visto», disse, puntandogli il dito addosso.

«Fedigar, Fedigar…», ridacchiai, mandando giù con calma un sorso della zuppa. «Non l’ho reclutato dall’esercito.»

Lo stuzzicai con un’occhiata divertita che l’avrebbe mandato su tutte le furie.

Come previsto, divenne rosso di rabbia e strinse i pugni, tremando leggermente. «Cosa vuoi dire?! Che significa?»

«Mi servivano uomini con le palle», spiegai, allargando le braccia impotente.

«Ti ho già detto come il nostro esercito ne è penosamente sprovvisto? Ho preferito cercare in uno di quei graziosi posticini che frequento.»

L’uomo boccheggiò incredulo, prima di fissare il suo sguardo velenoso su Chevalier, passandolo a un più attento esame. Sembrò considerare con un nuovo occhio la minacciosa cicatrice che faceva capolino dal colletto della tunica.

«Ma questo è proibito!»

«E dove sta scritto?», domandai tagliente.

«Lui non è un soldato! Il Consiglio ti ha permesso di riunire…»

«Di riunire», l’interruppi, «… chiunque fosse stato disposto a seguirmi di sua spontanea volontà. Nessun limite riguardo dove reperire i suddetti volontari.»

«Questa è una forzatura bella e buona, e tu lo sai!», sbraitò, avanzando minacciosamente verso il nostro tavolo.

«Lo è stata anche togliermi il comando!»

La discussione divenne sempre più accesa e attirò l’attenzione generale. Fedigar ringhiò un’imprecazione prima di avventarsi su di me… trovando un muro di muscoli a bloccargli la strada.

Chevalier si era alzato dalla sedia e, con incredibile agilità, si era posto tra me e la minaccia, frenando il suo precipitoso attacco.

Lo afferrò per il bavero del panciotto portandoselo sotto al naso. «Nessuno minaccia la signora», intimò con voce bassa e rude. «Chiaro?»

«Come osi, sporco cane rognoso? Non hai idea con chi stai parlando!»

Fedigar tentò di liberarsi dalla presa, senza successo. Il pugno di Chevalier era ben saldo.

«Io sono un luogotenente dell’esercito di sua Maestà!», urlò, credendo intimidirlo con quell’informazione.

«Anche la signora lo è, ma non le stavate mostrando molto rispetto», constatò. «Ve lo ripeterò un’altra volta: la lascerete in pace, chiaro?»

Prima che l’uomo potesse rispondere in qualunque modo, una voce autoritaria, dall’altra parte della sala, pretese di sapere cosa stesse succedendo.

«Lascialo andare», sussurrai a Chevalier, il quale, prontamente, spinse di lato Fedigar.

Tra la piccola folla che si era creata attorno a noi, si fece largo la tozza figura di Rufus, seguito subito d’appresso da Gaven.

«Allora? Cosa state facendo qui?!», sbraitò, puntando il duro sguardo su di me. Le cicatrici che gli segnavano il viso apparivano esasperate dalla tensione e dal malcelato odio.

«Luogotenente Knight! Vi rifate viva dopo giorni di essenza e vi trovo invischiata in un alterco? Con un altro luogotenente, per giunta. Perché ovunque siate non si può mai mantenere un po’ di pace, eh?!»

«Non sono stata io a cercare la lite, vice-comandante», spiegai pacatamente. «L’ufficiale Gutor discuteva la mia scelta di una guardia del corpo.»

Le mie parole colsero di sorpresa Rufus che si limitò a ripetere interrogativamente: «Guardia del corpo?».

«Guardia del corpo! Puah!», esclamò Fedigar livido. «Vi siete solo presa gioco del Consiglio, mettendovi alle calcagna un losco individuo!»

Gli occhi di Rufus e Gaven, a quel punto, si posarono su Chevalier.

«Chi è quest’uomo? Non è un nostro soldato? Cosa significa questa storia della guardia del corpo?»

Facendo mente locale, il vice-comandante tornò all’attacco con una sfilza di domande.

Fui costretta a spiegare la situazione.

Man mano che chiarivo i fatti, esponendoli in maniera concisa, il volto di Rufus tradiva una rabbia crescente. Gaven, al suo fianco, tentava di non lasciar trapelare il suo divertimento.

«Ma questo è inaudito!», proruppe Rufus quando giudicò di avere sentito abbastanza. «Non si è mai visto un soldato che assume una guardia del corpo. Knight, ti sei spinta troppo in là.... questa volta non tollererò che tu la passi liscia!»

«Perdoni la mia insolenza, vice-comandate... ma non ho violato nessun regolamento.»

«Nessun regolamento, dici! Quando il comandante saprà di questa pagliacciata…»

«È già stato messo al corrente, signore», mi affrettai a informarlo. «Potete parlare con lui per constatare che dico il vero.»

Dopodichè ignorai le sue parole, aspettando che ne avesse abbastanza di farmi la ramanzina. Quando si accorse di non provocare alcun effetto su di me, decise di presentare le sue rimostranze all’ufficiale di grado superiore.

Con parole velenose si congedò da noi per andare a cercare Raafael. Fedigar, nel frattempo, era rimasto a osservare, sperando in una rivalsa.  Quando vide Rufus – l’uomo che aveva sperato mi umiliasse pubblicamente – allontanarsi impotente, diede nuovamente sfogo alla sua rabbia.

Dimenticandosi della presenza del maggiore Gaven, tornò a farsi avanti fino a porsi minacciosamente davanti a Chevalier.

«Non ho bisogno del permesso di Bale per darti una lezione, cane!»

Lo sguardo si Chev si incupì, diventando ostile, mentre si fissava sul luogotenente. I suoi muscoli ebbero un guizzo ma rimase fermo al suo posto.

Fedigar non era chiaramente cosciente del pericolo che quell’uomo rappresentava: dal momento che non aveva ricevuto alcun addestramento militare, non lo considerava una minaccia. Grosso errore.

Per evitare che la situazione degenerasse, il maggiore afferrò la spalla di Fedigar e lo tirò via. «State attento a ciò che fate, Gutor. Non sono ammesse rappresaglie all’interno della milizia.»

«Lui non fa parte dell’esercito!», sbraitò in risposta, senza riguardo per il grado del suo interlocutore. «È solo uno sporco criminale assoldato da quella puttana!»

«Luogotenente Gutor!», lo riprese imperioso Gaven. «Parlate con rispetto di un ufficiale vostro pari, altrimenti sarò costretto a richiamarvi davanti al Consiglio!»

Fedigar trattenne a stento lo sdegno ed evitò di aggravare la sua situazione aggiungendo ulteriori insulti. Solo dopo un risoluto suggerimento del maggiore, si rassegnò ad abbandonare la sala.

«Bene, bene... Lo spettacolo è finito. Tornate ai vostri posti», comandò agli altri soldati.

A poco a poco tutti si dispersero, non senza discutere di ciò che era appena accaduto. In breve la notizia sarebbe stata sulla bocca di tutti, non c’era dubbio.

Quando attorno a noi le chiacchiere si spensero, Gaven mi si rivolse direttamente con un ghigno compiaciuto. «Molto bene, ragazza. Sapevo che con la vostra astuzia l’avreste fatta sotto al naso del Consiglio.»

Squadrò Chevalier da cima e fondo e si disse soddisfatto. «Il ragazzo sembra forte e in salute. Spero che si riveli utile per i vostri scopi, Erin.» E senza attendere risposta, proseguì: «Bene! Credo che a questo punto mangerò con voi. C’è un posto al vostro tavolo?»

Lo invitammo a sedere, riprendendo a trangugiare le nostre zuppe, ormai fredde, mentre Gaudith serviva un piatto al maggiore.

La conversazione fu piacevole e non non si presentarono altri problemi durante il pranzo.

Gaven si informò gentilmente su come avessi conosciuto Chevalier e noi raccontammo lo stretto necessario, senza divulgare troppe informazioni ma rimanendo sul vago.

Il maggiore era un uomo benevolo, uno dei pochi che riconoscesse il mio valore e che non facesse imparzialità. Riconosceva l’importanza della missione che mi ero prefissa e aveva sempre fatto il possibile per favorirmi, o quantomeno, per compensare al trattamento svantaggiato che subivo dagli altri ufficiali. Tuttavia, sotto l’apparente giovialità, era un uomo severo che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno: del resto, si era pur guadagnato il rango di luogotenente maggiore tra le file della milizia reale.

In verità, aver guadagnato il rispetto di un simile uomo mi riempiva d’orgoglio.

Alla fine del pasto e della chiacchierata, Gaven si congedò.

Lasciando sul tavolo due monete per Gaudith, come ricompensa per il servizio, dissi a Chevalier che era tempo anche per noi di andare. Silenzioso come sempre, l’uomo abbandonò il suo posto e mi seguì nei miei appartamenti.

 

 

 

Verso il tardo pomeriggio fu ora di abbandonare il Palazzo delle guardie per raggiungere Finn e Rob e andare tutti insieme al ballo di Vomondr.

Rufus aveva protestato con Raafael, e io ero stata chiamata in udienza per spiegare le mie ragioni. Tentarono con ogni mezzo di farmi desistere dai miei propositi, ma non cedetti.

Avevo detto la verità: non avevo trasgredito ad alcuna regola scritta, tuttavia, a causa delle numerose pressioni, mi ero vista costretta ad appellarmi allo statuto quarantuno dell’editto regio, che regolamentava la sicurezza nobiliare: a un nobile, infatti, era permesso tenere guardie del corpo personali.

In questo modo, ogni protesta fu presto messa a tacere.

Il luogo dove dovevamo andare era vicino per cui preferii andare a piedi. Quando oltrepassammo il cancello principale, la voce di Chevalier attirò la mia attenzione.

«Dove siamo diretti?»

Lanciandogli un’occhiata, proseguii e risposi: «Alla mia residenza».

Sollevò un sopracciglio. «Credevo alloggiassi al Palazzo delle guardie.»

«È così per gran parte del tempo, ma quello è solo un alloggio che mi permette di vivere più a contatto con i soldati. Ora avrai modo di vedere i miei appartamenti all’interno del Palazzo regio.»

«Il Palazzo regio?», ripeté sorpreso l’uomo. «Credevo potessero risiedervi solo coloro che hanno sangue blu nelle vene…», si interruppe perplesso, collegando le informazioni. «Vuoi dire che tu…»

«Sì, esatto», confermai. «Sono figlia della prima moglie del re.»

«Questo vuol dire che sei figlia di re Gustav?! Cosa ci fa una principessa tra i soldati?»

«Non devi essere di queste terre per ignorare che mia madre non ha mai dato un erede al sovrano.»

Chevalier non rispose e io proseguii. «Io sono figlia di Reginald Knight, il cugino del re. Mio padre è morto durante uno scontro armato contro Reino, il leader ribelle del gruppo che oggi è capeggiato dal Falco. In seguito a questo fatto spiacevole, il re ha voluto sposare mia madre, vedova e incinta di me.»

Continuai a illustrargli la mia situazione familiare passeggiando.

«Sono imparentata col re, è vero, ma non sono sua figlia se non in virtù del contratto matrimoniale che lo ha legato a mia madre. Per rispondere alla tua domanda: mio zio Klaus, fratello di mia madre, era un alto ufficiale e addestrava le guardie scelte del re. Nel periodo dopo la morte di mia madre, ho vissuto per anni in una tenuta di campagna sotto la sua tutela. Anche se spesso era costretto a recarsi nella capitale, quando poteva mi addestrava all’uso delle armi. È per questo motivo che, crescendo, ho scelto di entrare nella milizia. Mi era molto più familiare quell’ambiente che non le belle corti d’oro.»

«E come mai non sei stata cresciuta a Palazzo, col tuo padre adottivo? Perché la scelta della campagna?»

Inspirai profondamente, ponderando quanto fosse saggio rivelare. «Fu per via della seconda moglie del re, Amantha. Suppongo non volesse che suo marito si affezionasse a me perché avrebbe potuto concedermi dei privilegi a scapito dei suoi figli, nonostante non ci fossero legami di sangue a unirci. Gustav scelse di prendere in moglie mia madre, sebbene ne fosse stato sconsigliato dai suoi dignitari: era vedova e in attesa di un figlio, non la migliore scelta per un re. Tuttavia egli era sempre stato affascinato dalla bellezza di quella donna, per cui passò oltre le obiezioni.»

«Come morì tua madre?» si interessò, probabilmente per ricomporre il quadro. Non avevo motivo per non rivelargli quelle informazioni, erano di dominio pubblico ma sarebbero servite a conoscerci meglio.

«Dopo il parto, la sua carrozza venne assalita da alcuni briganti, durante il viaggio di ritorno a Norvo.»

«Perché non si trovava a Palazzo?»

«Scelse di darmi alla luce in una tenuta appartata. Non sopportava di avere gli occhi di tutta la corte puntali su di lei in quei momenti delicati. A quanto pare, molte erano gelose della sua bellezza e della posizione che si era guadagnata, quindi erano pronte a malignare a ogni occasione.»

«Mi dispiace», commentò pensieroso.

«Non devi. Sono cose accadute molto tempo fa e io non ho mai conosciuto mia madre, quindi non ne ho sofferto. Inoltre, Klaus è stato come un padre per me. Non mi è mai mancato nulla.»

Detto ciò, percorremmo in silenzio il restante tratto di strada.

Davanti a noi si ergeva, imponente, la reggia che per secoli era stata la residenza di molte generazioni di sovrani. Gli alti cancelli dorati circondavano uno spazio sconfinato che dava sul giardino e su una larga strada che conduceva all’entrata principale.

Le mura, in pietra bianca, sembravano quasi risplendere tanto erano tenute bene e le vetrate, maestose, donavano un tocco armonico agli spazi, calibrando pieni e vuoti in un perfetto equilibrio. Attorno si ergevano alte le torri di avvistamento.

I soldati ci lasciarono passare senza complicazioni, dato che tutti mi conoscevano bene. Il passaggio di Chevalier fu garantito dal nibbio sul petto: nessuno fece domande.

Sicura, m’introdussi a Palazzo e risalii le scale marmoree.

Attraversando i noti corridoi, finalmente giungemmo ai miei appartamenti che sorgevano in un’ala piuttosto isolata. In realtà ero solita prediligere quei luoghi dove la privacy avrebbe avuto meno probabilità di essere violata.

Nel caso del Palazzo reale, nessuno si era opposto alla mia scelta isolazionista, anzi, avevo addirittura trovato largo appoggio.

Più un appartamento si trovava vicino alle stanze della discendenza reale diretta, tanto più la famiglia o le persone che lo abitavano erano investite di importanza, acquistando credito presso la corte.

Quelli relegati agli appartamenti più distanti, al contrario, divenivano trascurabili.

Nessuna sorpresa, dunque, se tutti erano stati entusiasti di liberarsi di me.

La larga porta di entrata era istoriata con immagini tratte dai racconti delle antiche divinità. In tutta onestà, avevo scelto quelle stanze anche per un altro motivo, oltre al fatto che erano ben lontane dal centro del Palazzo: per la particolare storia narrata in quella porta.

Nei vari riquadri intarsiati, si poteva vedere come, all’inizio dei tempi, il mondo avesse sofferto per numerose guerre e carestie: le decisioni sbagliate degli uomini avevano il potere di condurre a grandi disastri.

Al tempo di Baal, dunque, le persone di fede si riunirono in preghiera invocando la clemenza del dio O’Tuur-Ajil-seel, che nell’antico idioma significava “Tempo-che-scorre-inesorabile”.

Il dio, mosso dalle numerose richieste, aveva deciso di intervenire donando all’umanità una chiave di potere di cui potersi servire in casi di emergenza, per riavvolgere il tempo ed evitare grandi sciagure.

Tuttavia, affidata a un solo uomo, la chiave avrebbe potuto provocare maggiori danni, così venne divisa in due metà, incarnate in altrettanti bambini, i quali sarebbero stati l’uno il completamento del potere dell’altro.

Era di questo che parlava la porta: della leggenda dei bambini del tempo. Questa coppia di infanti non sarebbe sorta a ogni nuova generazione ma una volta ogni mille anni.

Nel riquadro più in basso, vi erano raffigurati un uomo e una donna nell’atto di congiungere le mani e usare il loro grande, sfolgorante potere: ogni volta che varcavo quell’uscio, non potevo fare a meno di pensare alla mia esistenza e a quella dell’uomo che da tutta una vita cercavo. Esisteva veramente? Lo avrei mai trovato? E se ci fossi riuscita, come mi sarei comportata?

Al consiglio avevo sottolineato la necessità di appurare se quell’uomo, dotato del mio stesso potere, costituisse o meno una minaccia. Avevo addirittura dichiarato che, se si fosse rivelato tale, avremmo dovuto ucciderlo. Ma ne sarei stata veramente capace? Dopo tutto questo tempo, le energie spese e le speranze riversate... sarei stata capace di rivolgere l’arma contro colui che rappresenta la metà del mio potere e, forse, persino la metà del mio stesso essere?

Per tutta la vita avevo avvertito un vuoto profondo nel mio animo: una volontà di trovare un rifugio in qualcosa o in qualcuno che tuttavia rimaneva indefinito.

La mia anima viveva perennemente tesa verso qualcosa che non riuscivo mai ad afferrare. Era come se un laccio lunghissimo si dipanasse dal centro del mio cuore e, con forza, mi tirasse in avanti, ma senza avere mai una fine, senza trovare il capo opposto del filo.

Sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò: non il collegamento, quello no; anzi, era sempre stato naturalissimo per me, come respirare. Era piuttosto l’impossibilità di sbrogliare la matassa che mi faceva sentire svilita e sfiduciata.

Non era sempre stato così: un tempo avevo sentito quel filo arrivare a toccare il cuore di un’altra persona. Anche se non lo vedevo, sapevo che era lì, che c’era. Ma ero giovane, non avevo la possibilità di seguire il mio istinto. 

Quando divenni abbastanza grande da poter prendere una decisione in merito, quel filo si era spezzato, sperdendosi in una nebbia che intorpidiva i sensi e mi rendeva impossibile orientarmi.

La mia ricerca, da allora, era andava avanti alla cieca, senza l’ausilio di una bussola.

Con una carezza impercettibile al bronzo, abbassai la maniglia introducendomi all’interno e lasciando che Chev facese altrettanto.

Su un tavolino del salotto d’ingresso c’era una campanella: la presi e l’agitai, producendo un acuto tintinnio che sarebbe risuonato in tutto l’appartamento. Dopo alcuni istanti arrivò Marien, seguita da presso da Finn, che aveva in mano un dolcetto.

«Siete arrivata, mia signora», mi accolse con un inchino la serva. «Ho sfamato i vostri ospiti e li ho sistemati nella camera azzurra.»

«Hai fatto un ottimo lavoro, Marien, ti ringrazio. Per oggi sei congedata, puoi farti sostituire da Otona. Mandala da me affinché mi aiuti a prepararmi per il ballo.»

La donna mormorò un saluto e un altro inchino, prima di lasciare le stanze.

A Chevalier dissi: «Anche tu devi essere presentabile. Mi accompagnerai come cavaliere oltre che come guardia del corpo».

Recuperai in uno dei bauli un abito dal tessuto pregiato che era appartenuto a mio zio e glielo feci indossare. Anche se non era perfetto, il taglio si adattava abbastanza bene alle forme di Chevalier.  Bastò legare più strettamente la fascia verde in vita per evitare che i calzoni si abbassassero troppo: lo zio aveva avuto un ventre prominente.

La

 tunica era di semplice seta, ornata con un motivo a incrocio sul petto. Tolsi la spilla dal giustacuore per apporla sul nuovo abito.. AAnche le armi furono trasferite, sebbene entrambi i pugnali vennero nascosti tra le pieghe del vestito, anziché lasciati in bella mostra.

«Manca un tocco finale..»

Usai delle piccole perline di cristallo per decorare le trecce sparse tra i capelli di Chevalier. I toni del cristallo risaltavano i suoi colori naturali, facendolo apparire come lala visione di un dio circondato di luce.

Durante tutto il trattamento non aveva aperto bocca. Concentrata com’ero in ciò che stavo facendo, mi accorsi in un secondo momento che non mi aveva persa di vista un attimo.

Chevalier mi fissava intento, in un modo che non lasciava trapelare nulla dei suoi pensieri. Quando incrociai i suoi occhi troppo vicini ai miei le mie mani si fermarono a mezz’aria, aggrappate a una ciocca intrecciata.

Ci guardammo per un lungo attimo, senza dire niente. Percepivo il leggero spostamento dell’aria provocato dal suo respiro, sul mio viso.

Quando i suoi occhi scesero a fissarle, le mie labbra si schiusero. Chevalier sollevò lentamente una mano, sfiorandomi.

Fui percorsa da un brivido che mi mozzò il fiato, i sensi colpiti dal suo odore di uomo, tanto intenso e perfetto da appannarmi momentaneamente la vista.

«Ti serve…», balbettai incerta, «il legame, hai bisogno…?»

Non riuscii a finire la frase doveva avermi capito, ma doveva avermi capito.

Chevalier si immobilizzò, perplesso. Dopo alcuni secondi allontanò la mano e distolse lo sguardo.

«No», disse,rispose con voce roca. «Non è ancora così forte.»

Consapevole della sconvenienza di quella vicinanza, mi allontanai con un pretesto, tentando di ritrovare la calma per poter finire il lavoro sulla sua chioma.

Fortunatamente, arrivò Otona. Mi affrettai a concludere, prima di ritirarmi in camera da letto per scegliere cosa indossare.

Erano mesi che non avevo occasione di portare qualcosa di raffinato. 

Scelsi uno dei miei vestiti preferiti di un blu elettrico e dalla stoffa impalpabile che mi accarezzava la pelle.

L’abito scendeva lungo e si allargava fino ai piedi. Era fermato in vita da una cintura a intreccio d’oro e nero. Una profonda spaccatura mi attraversava diagonalmente il petto, insinuandosi tra i seni, in un gioco sensuale. Un lato era sorretto da una spallina, l’altro da un manica che velava il braccio sino al polso.

Quando tornai nell’altra stanza, i capelli legati di lato scendevano in morbide onde, Rob si profuse in complimenti stupiti e persino Finn mi disse di non aver mai visto una dama più bella. Tuttavia fu il silenzioso sguardo di Chevalier che mi fece rabbrividire e arrossire insieme, memore del fugace contatto che avevamo condiviso.

Distolsi gli occhi e mormorai che era il momento di andare.

 

ꕥꕥꕥ 

 

Joshfen Vomondr era il figlio di re Gustav, nato dalla sua seconda moglie, Amantha, e diretto successore al trono.

Joshfen era un amante delle belle feste ma, soprattutto, adorava stare al centro dell’attenzione: per questi due motivi aveva scelto una residenza isolata dal Palazzo reale, adatta al tipo di feste che aveva in mente di dare.

La villa, trovandosi fuori dalle mura che circondavano Norvo, immersa in piena campagna, era raggiungibile solo tramite una carrozza. Perciò ci trovavamo a bordo di una di quelle vetture, in procinto di lasciare la capitale: saremmo arrivati a destinazione in circa trenta minuti.

Avevo ponderato per bene la necessità di far venire con noi anche Finn e Rob. Alla fine, avevo deciso che fosse meglio concludere tutto il prima possibile: l’obiettivo era evitare che qualcuno collegasse Finn a Chevalier. Quest’ultimo avrebbe dovuto lavorare per me, affrontando molti pericoli. Era dunque di fondamentale importanza mettere al sicuro il ragazzino, in modo che nessuno potesse più servirsene come arma di ricatto.

Mi premeva collocarlo in un luogo sicuro ma abbastanza vicino da permettere a Chev vederlo: per questo avrei dovuto parlare con Joshlyn. 

Lanciai un’occhiata a Rob intento a scrutare le ombre nel paesaggio circostante. Che ne avrei fatto di lui? Finora ci aveva seguito docilmente e, sebbene avesse riguadagnato la libertà, non l’aveva ancora usata andandosene per la sua strada. Mi domandai cosa lo spingesse a rimanere anziché afferrare la prima occasione per lasciare la capitale, scongiurando una volta per tutte di essere riacciuffato dal Signore del Sangue.

«Rob.»

«Sì, signora? Che c’è?»

Era inquietudine quella che gli leggevo nel viso?

«Rob, cosa intendi fare?»

Sollevò un sopracciglio. Perplesso, chiese: «Cosa intendete dire?»

«Ho concluso un accordo con Chev, ma non ti ho chiesto quali siano le tue intenzioni per il futuro. Lo sai, vero, che sei libero? Se hai un posto in cui tornare... una casa... io non ti fermerò. Puoi andare dove vuoi.»

Imbarazzato rispose: «Non ho denaro con me, non possiedo nulla. Anche volendo non potrei tornare dalla mia famiglia».

«Questo non sarebbe un problema, te lo darei io.»

«Siete... molto gentile, Erin, ma…»

«Cosa ti preoccupa realmente?», l’interruppi; era evidente che qualcosa lo tormentava.

«Stenton mi comprò un paio di anni fa da un usuraio di Mérida, presso il quale avevo contratto un debito. La mia famiglia è originaria di quel luogo. Temo che Stenton, accorgendosi della mia evasione, mandi uno dei suoi uomini a cercarmi lì. È l’unico posto dove potrei andare.»

«Capisco.»

Il ragazzo tornò a scrutare la luce morente all’esterno della carrozza mentre io mi persi tra i miei pensieri. Mentre iniziava a defilarsi la prospettiva di una soluzione, giungemmo a destinazione.

I minuti successivi trascorsero nel trambusto dell’arrivo e della presentazione alla corte, dentro il palazzo. Finn e Rob vennero temporaneamente raccomandati alle cure del cocchiere.

L’immensa sala principale ospitava l’evento del ballo: era sfarzosamente decorata, piena di fiori profumati. Le vetrate che davano sul giardino, nel lato ovest, erano aperte e lasciavano passare l’aria fresca che stemperava il caldo dell’ambiente affollato. 

Dappertutto, al centro del salone, coppie di ballerini danzavano formado armoniose figure, mentre ai bordi esterni gruppi di persone parlavano, scambiandosi convenevoli.

Quando iniziai la discesa delle scale, col mio cavaliere al fianco, molte teste si voltarono a osservarmi, incuriosite dal nome che era stato annunciato al mio arrivo. Com’era prevedibile, il nostro avanzare fu accompagnato da un leggero brusio e da numerose altre occhiate indagatrici. Ignorandole tutte, mi lasciai scortare da Chev verso i tavoli su cui era allestito un buffet.

Dopo qualche istante, i primi rampolli nobili si fecero avanti per invitarmi a ballare. Accettai più per cortesia che per interesse: avrei preferito rimanere in disparte.

Chevalier rimase in fondo alla sala a guardarmi svolazzare tra le braccia di diversi cavalieri.

Alla fine della quinta danza, si avvicinò un uomo che interruppe a metà una piroetta.

«Lord Brinnah, permettetemi di rubarvi la dama per il prossimo ballo. È passato molto tempo dall’ultima volta che ho potuto scambiare due chiacchiere con la mia sorellastra», disse questi, rivolto al mio partner.

Alle mie spalle, con un sorriso sardonico stampato sul volto, c’era Joshfen Vomondr, elegantissimo nel suo abito argento impreziosito da rifiniture vinaccia. I capelli scuri rilucevano di olii profumati, mentre gli occhi dorati valutarono apertamente la mia mise discinta, incupendosi di desiderio nel giro di pochi istanti.

Con altrettanta rapidità le sue mani si posarono sulla mia vita in una stretta salda, conducendomi al tempo delle prime note della melodia successiva.

«Non ci incontriamo da lungo tempo, Erin cara», sussurrò vicino al mio orecchio. «Non vi si riesce mai a reperire ad alcun evento interessante. Mi sono dovuto chiedere se non stesse scappando dal sottoscritto. Eppure stasera siete venuta qui, in casa mia. Posso sperare per un incontro ravvicinato

«Non essere sciocco, Joshfen, sai bene che non prendo mai in considerazione le tue avances.»

«Siete una donna crudele. Non vi siete mai ammorbidita in tutti questi anni… non sono più lo sciocco ragazzino di un tempo, sapete?»

“Forse ragazzino no, ma sciocco…” pensai, sollevando con ironia un sopracciglio.

Interpretò fin troppo bene la mia espressione, tanto che aggiunse: «Oh, Erin, non lo sono, credetemi».

Con più calma, riprese: «Ormai ho venticinque anni, sono un uomo. Cosa è mai una differenza di quattro anni quando voi siete così bella? Se in passato potevano essere insormontabili, ormai non hanno più alcun peso. Dovete smetterla di vedermi come il ragazzino che ero. Guardate l’uomo che avete davanti!».

«Ti vedo, Joshfen. È indubbio che tu sia un bell’uomo, ma non posso indurmi a innamorarmi di te. Povera la fanciulla che ti darà il suo cuore poiché tu sei un bellissimo uccello che tuttavia non ha nido. Le tue voglie ti dominano e perdi presto interesse.»

«L’interesse che provo per voi non potrebbe mai venir meno! Sarei pronto a lasciare le mie amanti per avere un posto nel vostro letto.»

«Riscaldati pure presso i talami che preferisci, Joshfen, e dimenticati del mio.»

«Siete una strega insensibile. Insensibile, e tuttavia bellissima… non potete impedirmi di continuare a provare.»

La musica si era affievolita fino a spegnersi, a malincuore dovette staccarsi da me.

«Questa danza è terminata, ma permettetemi di accompagnarvi a prendere un rinfresco.»

Quando raggiungemmo i margini della sala, vidi l’oggetto del mio interesse, nonché la causa della mia presenza alla festa.

Scortata da un alto cavaliere del regno, Joshlyn si avvicinò in tutta la sua elegante alterigia, vestita di un abito dorato che faceva risaltare il colore delle iridi, identici a quelli del fratello.

La principessa ci salutò con un veloce inchino ed esclamò: «Come mai, caro fratello, ti trovo sempre incollato alla nostra sorellastra ogniqualvolta ci degna della sua presenza a un evento mondano? È quasi imbarazzante!».

«Sono solo contento di vederla dato che è un evento così raro, sorella. Gli altri ospiti li vedo spesso, dunque non mi preoccupo di lasciarli pochi minuti per renderle omaggio.»

«Sarà…», lasciò cadere il discorso come se le sue parole la annoiassero.

«Dunque, Rin, anche io devo renderti omaggio? Mi chiedo sempre come mai non ti unisci a noi più spesso. Forse ti piace lo scalpore che la tua presenza suscita quando decidi di farti vedere?», cinguettò con una risatina. «Forse approfitti di questi eventi per godere di tanto in tanto della compagnia di un bell’uomo? Dopotutto, fuori da questa sala, ci sono numerose alcove dove una coppietta può passare almeno mezz’oretta in privato. Alcuni arrivano a perdersi addirittura nella biblioteca, anche se non capisco come possano essere ispirati dalla vista di tutti quei tomi polverosi. Io, in genere, preferisco luoghi più romantici!»

Il cavaliere della principessa era decisamente in imbarazzo, mentre Joshfen sembrava solo irritato dal commento indelicato della sorella.

«Non essere volgare, Lyn!», la riprese severamente.

Frenai il suo impeto con una lieve pressione sul braccio.

Con un sorriso risposi: «A me i libri sono sempre piaciuti, non mi dispiacerebbe perdermi per dieci minuti nelle vostre biblioteche sempre ben fornite».

Sbuffando, Joshfen pose fine alla conversazione. «Non è certamente il momento di mettersi a leggere, questo. Siamo a un ballo e bisogna interagire con gli ospiti. Se ora volete scusarci, sorella, Lord Jinroe, noi andremo a prendere qualcosa da bere: il caldo inaridisce la gola, soprattutto dopo avere ballato tanto.»

Senza fornire ulteriori pretesti alla sorella per altre insinuazioni, il principe mi trascinò lontano.

Nella calca, le persone ci fermavano spesso per rivolgere un saluto all’erede al trono. Con abilità comprovata, Joshfen distribuì sorrisi e saluti a ciascuno, badando tuttavia a non sostare troppo a lungo con nessuno.

Finalmente, dopo alcuni minuti, riuscimmo a procurarci una bevanda rinfrescante.

Come un’ombra, Chevalier comparve nel mio campo visivo, avvertendomi silenziosamente della sua posizione in modo che, se avessi avuto bisogno di lui, avrei saputo dove trovarlo.

«Volete fare due passi in terrazza?», propose il principe, indicando le grandi vetrate che davano sul giardino esterno, illuminato dalle lanterne.

Non trovando in tempo un pretesto per un rifiuto, Joshfen mi condusse verso un luogo più tranquillo… ma anche meno illuminato, notai.

Pur iniziando a nutrire qualche sospetto, fui comunque colta di sorpresa quando mi spinse contro il muro, cominciando a baciarmi intensamente.

Le sue mani mi tennero stretta mentre mi si premeva addosso: riuscì ad accarezzarmi allungando le dita verso i seni, poco protetti dalla leggera stoffa.

Non potevo negare che ci sapesse fare, eppure le sue attenzioni lasciavano freddo il mio cuore: non avrei mai potuto vederlo come altro dal ragazzino che cercava di attirare la mia attenzione pavoneggiandosi, le cui imprese di gioventù avevano fatto uscire dai gangheri suo padre e tutti gli insegnanti addetti alla sua educazione.

«Erin… vi voglio. Siate mia, abbandonatevi a me...», sussurrò, smettendo per un momento di baciarmi.

Libera dall’ingerenza delle sue labbra, riuscì replicare: «Joshfen, smettila subito. Non sono venuta qui per subire un simile comportamento».

«No, certo. Non venite mai per cercare le mie carezze… non cercate mai le carezze di nessuno. Io lo so, Erin: lo so che non avete un amante. Perché dunque non cedete? Potrei farvi godere ancora e ancora, fino a rendervi impossibile persino dire ‘basta’.»

«Lasciami stare. Non lo ripeterò un’altra volta», dissi, premendo con forza fino a staccarlo da me.

Rimisi a posto il vestito sgualcito e i capelli mentre Joshfen, affannato, cercava di ricomporsi. 

«Non siete stanca della solitudine?»

«Trovo nella mia compagnia sufficiente diletto… proprio come te, Josh!» non mi trattenni dal lanciare una frecciatina alla sua vanità.

«Non posso pensare che siate seria: ogni donna ha bisogno di essere vezzeggiata da un uomo.»

«Non questa donna», affermai sicura. «O hai dimenticato che sono anche un soldato?»

Il principe si abbandonò a una risata divertita. «E come potrei dimenticarlo quando quella vostra divisa accende la mia libidine? Quei calzoni vi fasciano così sensualmente le cosce… mette in risalto il vostro delizioso sesso…» un riverbero di eccitazione accese di nuovo il suo sguardo.

«Se intendi continuare su questo tono, sarò costretta ad abbandonarti e a rientrare da sola. Alla luna farà più piacere sorbirsi i tuoi discorsi depravati!»

«La smetto, mia cara, la smetto…», sorrise sornione, «a patto che riprendiamo a farle le cose depravate.»

Mi afferrò per un braccio: voleva ricominciare da dove si era interrotto. 

Esasperata, sollevai gli occhi al cielo, pensando che non mi rimaneva altra scelta se non dargli una lezione. 

Ma prima che accennassi una sola mossa, Josh fu trascinato via da qualcuno alle sue spalle.

La figura Chevalier mi fece provare sollievo, prima di notare la sua espressione adirata: temetti che le cose si mettessero male.

«Ma chi diavolo…?!»

Il principe si rialzò dal pavimento sbuffando.

«Che diavolo sei venuto a fare? E chi saresti per trattare un principe in questo modo?!»

Chev strinse i pugni.

«Basta così!», intervenni prontamente per separarli.

«Come si è permesso di mettermi le mani addosso?»

«Lo ha fatto perché è la mia guardia del corpo, Joshfen.»

«Guardia del corpo?», ripeté stupito. «Questo tizio?»

Il suo sguardo si posò sulla spilla appuntata al petto di Chevalier e comprese che dicevo il vero.

«Esatto», confermai.

«Mi temi tanto da arrivare a prenderne una per proteggerti dai miei corteggiamenti?»

Pensai che i suoi approcci si spingevano ben al di là di un semplice corteggiamento, al punto che valeva forse la pena di assumere qualcuno pur di venirne protetti. Ma evitai di dirlo, limitandomi a precisare: «Non ha nulla a che vedere con te, anche se in questo caso mi è stato utile».

«Potevate dire semplicemente di no», commentò quasi offeso.

«L’ho fatto e mi hai ignorata», gli feci notare.

«Tutte le donne fingono di essere un po’ restie, almeno all’inizio.»

Mi dissi che se avessi ribattuto a ogni suo assurdo commento, la discussione non avrebbe mai avuto termine, invece era ora di recarmi al mio appuntamento.

«Comunque sia, è ora che io vada.»

«Non lascerete la festa così presto... Siete appena arrivata!»

«No. Rimarrò ancora un po’ ma è meglio che io rientri.»

Senza aggiungere altro, feci cenno a Chevalier di seguirmi e rientrai in sala.

«Ora comprendo le parole la vostra domestica di questa mattina», mugugnò Chevalier.

Sorrisi sotto ai baffi nel notare la sua aria irritata.

Lasciammo con discrezione la sala da ballo. Camminando lungo il corridoio, notai tutte le piccole alcove di cui aveva fatto menzione Joshlyn. Presto arrivai alla biblioteca dove trovai le porte aperte: scivolammo dentro richiudendole alle nostre spalle.

«Eccoti finalmente», ci accolse una voce. «Mi stavo stancando di aspettare… era ora che arrivassi, Erin!»

Da un angolo in ombra si fece avanti l’esile figura della principessa Joshlyn.

«Mi pareva di aver detto mezz’ora non una intera!», si lamentò.

«Devi perdonarmi, Lyn, ma tuo fratello mi ha trattenuta più a lungo del previsto.»

«Quella piovra! Mai una volta che non ci provi», borbottò esasperata. «Anche se mi sono annoiata terribilmente ad aspettare, per questa volta ti perdono.»

Il suo carattere energico e impaziente mi divertì come al solito.

«Chi sarebbe questo tipo che ti sei trascinata dietro? Non ha l’aria di uno dei nobili bellimbusti che invita sempre Josh.»

«Questo è Chevalier, la mia guardia del corpo», lo presentai.

Joshlyn si avvicinò all’uomo per studiarlo da vicino.

Chevalier non batté ciglio sotto al suo esame.

«È vero, ha una spilla col nibbio reale… non l’avevo notata prima.»

Perdendo prontamente interesse – una caratteristica in comune col fratello –, si rivolse di nuovo a me, ignorandolo.

«Allora, Rin, questo affare? Ho ricevuto il tuo messaggio senza una parola di spiegazione!»

«Non potevo dartene una, dobbiamo mantenere la cosa segreta.»

«Oh, sì! Mi piace. Sai che quest’aria da cospirazione mi eccita da morire! Dimmi, dimmi pure.»

«Ho due persone da affidarti, Lyn», cominciai senza perdere altro tempo.

«Oh, di nuovo?», sbuffò con un broncio di delusione. «Mi hai già portato Anena, la figlia di quel Signore del Sangue, tuo amico. Questo gioco comincia a stufarmi, voglio fare qualcosa di più pericoloso», s’impuntò.

«Lyn, non dire assurdità. E poi sai quanto il tuo aiuto mi sia prezioso: il fatto che nessuno sospetti che tra di noi intercorrono buoni rapporti, mi permette di muovermi con maggiore libertà. Le persone che ti affido possono stare al sicuro, nessuno le collegherà mai a me.»

«Questo lo so, ma io invidio le avventure eccitanti che tu puoi vivere! Mi piacerebbe fare qualcosa di più entusiasmante per aiutarti, oltre che accogliere e proteggere delle persone.»

«Beh, forse questa volta potrai avere la tua avventura, ma solo se prometti di prendere tutte le precauzioni necessarie e di non fare sciocchezze.»

«Davvero?», batté le mani entusiasta. «Allora parla. Sono tutta orecchi!»

Le spiegai che era necessario che prendesse sotto la sua ala protettiva il figlio di Chevalier, Finn: avrebbe finto di averlo trovato per strada e deciso di accoglierlo nella sua cerchia di protetti.

I cortigiani, che erano abituati alle sue stravaganze, non si sarebbero insospettiti nel vederla accogliere un trovatello nè che gli fornisse un’istruzione.

Allo stesso modo, gli esposi il mio piano per Rob.

«Ecco la tua piccola avventura, Lyn. Presta attenzione: ho dovuto far evadere uno schiavo che appartiene a uno dei Signori del Sangue. Era ferito, ridotto in condizioni pessime… non potevo tollerare che rimanesse più a lungo in quel posto, così l’ho tirato fuori.»

«L’hai rubato!», squittì Joshlyn, sempre più entusiasta del racconto.

«Sì, si può dire così», riconobbi senza la minima traccia di rammarico.

«Sei una forza, Rin! È per questo che sei la mia preferita, checché ne dica la mamma! Per fortuna, le nostre scenette pubbliche la placano… se sapesse che in realtà andiamo d’accordo e che ti aiuto, non la smetterebbe più di lamentarsi.»

«Devi stare molto attenta: non voglio che tu abbia problemi con lei a causa mia.»

«Stai tranquilla. Lo sai che è solo suscettibile contro chiunque minacci la mia posizione e quella di mio fratello. Ma io ti conosco meglio, Rin: so che a te non interessa un fico secco dei giochi politici della corte. Anche io sono come te, queste cose mi annoiano a morte, ma lei non lo capirà mai.»

Si rabbuiò, stizzita dall’aver ricordato i dissapori con la madre, e rattristata di non poter vivere le sue “avventure”.

Era uno spirito libero: tollerava con difficoltà l’etichetta di corte, i suoi ricchi agi e gli spazi illusoriamente ampi. Avrebbe voluto viaggiare,  scoprire nuove terre e culture… ma era la principessa: come tale aveva pochi diritti e fin troppi doveri.

Ecco perché rappresentavo un idolo: ero quello che avrebbe voluto essere lei; mi ero fatta strada, seppur a fatica, solo con la mia forza di donna.

Cercai di distrarla, tornando al punto in questione.

«Rob non potrà mai essere completamente libero se Stenton continuerà a cercarlo e ad avere i documenti che comprovano il suo possesso. Se potessi, lo comprerei io stessa, ma non c’è possibilità di concludere un accordo col vecchio: mio odia e non accetterebbe mai di vendermi qualcosa o qualcuno. Anche se di Rob gliene importa meno di niente, me lo negherebbe solo per sgarbo.»

«Quindi che puoi fare?»

«Io nulla, ma tu puoi fare qualcosa.»

«Io?»

«Sì. Non ti conosce: non può pensare che agisci su mia richiesta.»

«Cosa dovrei fare?»

«Devi andare da Stenton e offrirti di comprare lo schiavo.»

La principessa spalancò la bocca sorpresa.

«Dovrei andare nei quartieri poveri – al Surdesangr! – e trattare con uno dei Signori del Sangue?!»

«Sì, esatto.»

«Oh, Erin! Io ti adoro!», mi gettò le braccia al collo stringendomi convulsamente.

Tentai di evitare che il suo entusiasmo mi soffocasse. «Calma, calma, Lyn... ricorda cosa mi hai promesso.»

«Sì, sì, sì… starò attentissima!»

«Porterai con te quattro guardie armate.»

«Sì, tutte quelle che vuoi!»

«E non userai la carrozza, sarebbe un faro per attirare qualsiasi malvivente.»

«Ancora meglio, potrò stare sul campo!», cinguettò soddisfatta.

Poco convinta e un po’ preoccupata per l’esito della mia stessa idea, riflettei in silenzio per qualche minuto.

«Dovrai inventarti una storia, ovviamente. Dire di aver sorpreso Rob a rubare a Palazzo, magari…»

«Ma come farei poi a giustificarne l’acquisto? Perché dovrei volere un ladro alle mie dipendenze?», domandò perplessa.

«Fingerai di essere oltraggiata e di volerlo punire. Gli spiegherai che intendi fargli scontare la sua pena come schiavo. Se cerca di convincerti a rinunciare, gli dirai che consideri la morte poca cosa per uno che si sia macchiato della sua colpa, per questo l’arena non è un luogo adatto per la punizione.»

Ci accordammo sugli ultimi dettagli che avrebbe fornito a Stenton per convincerlo a liberarsi di Rob.

«Domani mattina, per prima cosa, chiedi di Ketan al Palazzo delle guardie. È un luogotenente molto capace che saprà tenerti al sicuro.»

«Va bene, lo farò. Non vedo l’ora!»

Presi gli accordi, tornammo nella sala da ballo, prima che qualcuno notasse la nostra assenza.

Joshlyn rientrò per prima; noi la seguimmo con uno scarto di alcuni minuti.

Sul corridoio che collegava la biblioteca con la grande sala da ballo, Chevalier mi disse: «Hai provveduto anche a Rob».

«Sì, e allora?»

Mi fissò con uno sguardo enigmatico. «Sei una brava persona», commentò piano, lasciandomi spiazzata.

«Beh, grazie», risposi, incerta su cosa dire.

Non trascorse molto altro tempo, dopo il nostro ritorno alla festa, prima che mi dichiarassi stanca e pronta a ritirarmi.

Quando arrivò la nostra carrozza davanti l’entrata, Finn e Rob ci accolsero sereni e ci chiesero della serata. Quando spiegammo a quest’ultimo l’accordo preso con la principessa, rimase sbalordito e commosso: mi espresse la sua gioia balbettando, dichiarandosi eternamente in debito.

Non ero d’accordo e gli feci notare che anche lui mi era stato d’aiuto per la liberazione di Finn e Chevalier.

Poi arrivò il momento del saluto: loro sarebbero rimasti con la principessa Joshlyn.

«Padre, non voglio lasciarvi di nuovo!», esclamò Finn, aggrappandosi alla tunica di Chevalier.

L’uomo lo strinse forte, prima di allontanarlo per potergli parlare, guardandolo negli occhi.

Inginocchiato davanti al ragazzino, gli disse: «È necessario che tu vada, Finn. Non puoi rimanere con me».

«Ma non avere paura, potrò venire a trovarti qualche volta. La principessa si prenderà cura di te e ti darà un’istruzione. Rendimi orgoglioso e comportati bene.»

Trattenendo a stento le lacrime, il bambino promise di renderlo fiero.

Chev si sollevò da terra e salutò Rob offrendogli una virile stretta di mano. «Sei stato un buon compagno, Rob. Prenditi cura di Finn fintantoché resterai a Palazzo anche tu.»

«Contaci, Chev. E grazie di tutto. Se non fosse stato per te, non sarei ancora qua, vivo.»

Una delle ancelle della principessa venne a prenderli per condurli agli appartamenti della padrona.

Li guardammo sparire all’angolo delle scale prima di salire in carrozza e andare via.

 

ꕥꕥꕥ 

 

Durante il viaggio di ritorno ci fu uno strano silenzio. 

Era ormai notte inoltrata e la carrozza era illuminata da una piccola lanterna interna; fuori ce n’era un’altra per il cocchiere.

Chevalier mi sedeva di fronte e pareva perso nei propri pensieri mentre ondeggiava, assecondando i movimenti del veicolo.

Mentre lo guardavo senza farmi scorgere, ripensai ai baci del principe Joshfen: involontariamente li paragonai a quelli che avevo brevemente scambiato con Chevalier. Le sensazioni che mi avevano dato erano agli antipodi, pur essendo entrambi splendidi uomini.

La differenza stava solo nel fatto che conoscevo uno sin da quando era un ragazzo, mentre l’altro costituiva un mistero per me?

Eppure, avevo già incontrato affascinanti sconosciuti, i quali avevano tentato di corteggiarmi senza però accendere in me nemmeno una scintilla dell’eccitazione che Chevalier mi provocava.

Poteva mai essere semplicemente il fatto di non sapere da dove venisse e quale fosse la sua storia a catturarmi tanto?

Sentivo c’era qualcosa di più, ma non sapevo come definirla.

Solo alcune ore prima avevo desiderato un contatto ravvicinato: avevo creduto fosse sul punto di baciarmi e che fosse stato per rinforzare il nostro vincolo o meno glielo avrei lasciato fare.

Doveva essersi accorto che lo fissavo perché mi rivolse la sua attenzione ma non disse niente. Percepii sulla pelle un formicolio, il desiderio di distogliere gli occhi per non subire la sua intensità. 

All’improvviso la carrozza sbandò, facendoci sbattere contro le sue pareti. Un grido dall’esterno ci mise in allarme, e il rumore degli zoccoli di numerosi cavalli ci indusse a estrarre le armi: Chevalier aveva la sua nuova spada, io ne recuperai una che tenevo nascosta, insieme ad altri pugnali, sul fondo della vettura.

Quando il veicolo si fermò, cigolando, aprimmo il portello con cautela.

«Che cosa succede?», gridai al cocchiere.

L’uomo, affannato e chiaramente spaventato, rispose: «Banditi, signora! Si muovono attorno alla campagna. Ci hanno attaccato con una freccia». Indicò il dardo che si era conficcato a pochi centimetri dalla sua testa.

«Li avete visti? Sapreste dire quanti sono?»

«No, signora. Sono piuttosto sicuro di avere visto almeno due cavalli galoppare nell’ombra, ma non saprei se ce ne sono altri.»

«Non avete notato nient’altro?»

«No, no… sono spiacente», balbettò.

«Va bene, entra in carrozza e restaci finché non controlliamo la zona.»

L’uomo si affrettò a ubbidire.

Intanto Chevalier si era arrampicato sulla cassetta per studiare la freccia. «Brutte notizie», disse, strappando l’asta dal legno con uno strattone.

«Cosa? Non me lo dire…»

«Sulla freccia c’è una piuma di falco», spiegò. Mi porse il dardo per farmi vedere.

«Samuel…», digrignai i denti. «Maledizione!»

«Chev, stai all’erta, devono essere molto vicini. Ci hanno avvertito della loro presenza. Se avessero voluto ucciderci, dubito che avrebbero agito allo stesso modo, per cui presumo che vogliano giocare, ma non per questo sono meno pericolosi.»

Chevalier si mise in guardia, pronto a cogliere ogni rumore che tradisse la presenza del nemico.

 



Il vestito di Erin:

Chevalier (disegno mio)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Al Cane Nero ***


Capitolo 14 - Al Cane Nero

La campagna era silenziosa, il cielo limpido lasciava spazio alla luna per risplendere della sua pallida luce, insufficiente a dirimere le ombre gettate dagli alberi; nemmeno le lanterne della carrozza erano di qualche utilità, così rimanemmo a lungo in silenzio, tendendo l’orecchio.

Il vento scosse le fronde degli alberi, nell’aria si avvertiva un’impercettibile tensione ghermire lo stomaco.

Non mi piaceva quell’attesa: preferivo di gran lunga l’azione; più che un fato compiuto, preferivo essere io stessa artefice degli eventi. 

Eppure, una delle prime lezioni che mi aveva impartito Klaus era di avere pazienza, perché senza sarei stata altrettanto esposta al fato che se mi fossi abbandonata a esso per mancanza di iniziativa.

La tensione non accennava a diminuire. Potevo anche essere capace di sfidare un intero esercito di schiavi in una famigerata arena, con l’arrogante sicurezza di riuscire sopraffare tutti, ma bastava inserire Samuel nell’equazione perché il disagio si impossessasse di me, senza poterlo vincere.

Cercai di dominare i miei stessi pensieri, per non cedere al panico.

Dopo alcuni minuti, un rumore alle nostre spalle ci fece sobbalzare, e ci voltammo.

Stavo per lanciarmi di là dal cespuglio quando la sagoma di una volpe sbucò con un agile movimento, attraversando il sentiero.

Quasi ci rilassammo, abbassando le spade, ma una figura di uomo a cavallo comparve sulla strada, davanti a noi. Restammo in guardia, attendendo la sua mossa.

Ma l’uomo non fiatò né si mosse.

«Chi siete?», domandai seccamente.

I cavalli mandarono fuori aria dalla narici, innervositi, mentre si fecero avanti, dalle spalle del primo, altri tre uomini.

«Se il vostro intento è di attaccarci, diamoci una mossa, non voglio perdere tutta la notte.»

«Non siamo qui per combattere», annunciò l’uomo vestito di nero. «Abbiamo un messaggio per voi, milady.»

Alzai un sopracciglio. «Se siete venuti a recare l’ennesimo messaggio fuorviante da parte del vostro signore, fareste meglio a tornarvene da dove siete venuti».

«È una cosa della massima importanza.»

«So io a cosa dà importanza il vostro padrone. Non ho intenzione di partecipare ai suoi giochi», ribattei stizzita.

L’ultima volta che i nostri cammini si erano incrociati, Samuel mi aveva fatto credere di avere trovato l’uomo che cercavo: ovviamente si era rivelato tutto un inganno. Che l’avesse fatto per burla, noia o il semplice piacere di tormentarmi, era riuscito a strapparmi un bacio e non volevo ripetere l’esperienza.

«Questo potrebbe convincervi, milady.»

L’uomo frugò nel mantello e ne estrasse un fagotto che lanciò per aria nella mia direzione.

Lo afferrai, notando un pezzo di lino grezzo che avvolgeva al suo interno un oggetto metallico delle dimensioni del mio palmo. Quando lo svolsi, il metallo, lavorato meticolosamente, raffigurava due bambini che si tenevano per mano all’interno di un cerchio formato da fasce intrecciate. Alla base, nell’antico idioma, vi era inciso “Turem o’hem” che significava: “Colui che avvolge la spirale”.

Un brivido mi percorse la schiena: non avevo mai visto quel medaglione, ma nel profondo sapevo che era importante. 

Rimasi zitta per parecchi secondi.

«Erin», mi richiamò Chevalier. La sua voce era bassa e monocorde, apparentemente calma. Pronunciando il mio nome mi aveva chiesto di prendere una decisione: dovevamo togliere di mezzo quelle persone o lasciarle andare?

«Dove l’ha trovato?», chiesi, riportando l’attenzione sul messaggero.

L’uomo scrollò le spalle. «È una domanda che dovete fare al mio padrone.»

«Potrebbe essere una trappola», commentò Chevalier.

«Potrebbe», rispose l’uomo. «Sta a voi decidere se vale la pena sentire cosa ha da dire. Vi consiglio di riflettere molto attentamente.»

«Lo faccio sempre», puntualizzai.

Anche se non potevo esserne sicura, ebbi l’impressione che l’uomo sorridesse, divertito dalle mie parole.

«Allora non occorre che aggiunga altro.» 

Fece per voltarsi, ma lo fermai chiedendo: «Se decidessi di venire, dove lo trovo?»

«Voi sapete dove.»

Detto questo, spronò il cavallo e sparì nella boscaglia assieme agli altri cavalieri.

Chev e io rimanemmo immobili fino a quando non si perse in lontananza lo scalpiccio degli zoccoli.

Riponemmo le spade contemporaneamente.

Chev si avvicinò e chiese: «Cosa vi ha dato?».

Gli mostrai il medaglione. 

Lui s’irrigidì per un momento, poi batté le palpebre come confuso.

«Tutto bene?», domandai. «Conosci questo oggetto?»

«Io…» Allungò una mano per sfiorarlo, ritraendola appena un attimo prima di farlo. «No, non credo di averlo mai visto prima.»

«Perché questa reazione, allora?»

Chevalier mi guardò intensamente prima di rispondere. «Non serbo nessun ricordo legato a questo oggetto, eppure mi trasmette una strana sensazione.»

«Tutto qui?»

Annuì, distogliendo lo sguardo.

In un certo senso lo comprendevo: era inquietante che un oggetto mai visto prima potesse provocare tanta perplessità.

«Che cosa hai intenzione di farne?», mi domandò.

«Non ne sono sicura. Potrebbe significare qualcosa come anche niente.» Avvolsi il metallo nella stoffa mentre riflettevo. «Il Falco non mi ha mai fatto recapitare prima d’ora un oggetto che facesse un così chiaro riferimento alla leggenda dei Bambini del tempo. Mi domando dove l'abbia trovato o se l’ha preso a qualcuno.»

«Ritieni saggio accettare il suo invito pur di ottenere risposte?»

«Per niente. Ma è da tempo che cerco di trovare degli indizi sulla leggenda: questo è il primo da lungo tempo, non posso ignorarlo nonostante la fonte da cui proviene».

«Dunque non rimane che vedere cosa abbia da dire. Suppongo che i tuoi poteri ti terranno abbastanza al sicuro da lui.»

Sbuffai. «Purtroppo non è così semplice.»

«Che vuoi dire?»

Dalla carrozza provenne un rumore: mi ero completamente dimenticata del cocchiere che avevamo rinchiuso al suo interno, mentre affrontavamo il pericolo. 

Fronteggiai Chevalier, ancora in attesa di una spiegazione. 

«I miei poteri non funzionano su di lui.»

Stava per ribattere ma mi ero già voltata per permettere al servo di scendere dalla carrozza. Dopo averlo rassicurato sullo scampato pericolo, ripresi il mio posto all’interno della vettura, aspettando che Chevalier facesse lo stesso.

 

ꕥꕥꕥ

 

Risalimmo verso i miei appartamenti al palazzo reale. L’ora era tarda, ma a corte si trovava sempre qualcuno pronto a dare un ballo per aumentare il proprio prestigio presso gli altri dignitari.

Anche quella sera risuonavano tra gli ampi ambienti raffinate note musicali: dovevano essere tutti riuniti nella sala grande delle udienze, l’ala del palazzo che stavamo percorrendo era deserta.

Durante tutto il percorso di ritorno io e Chevalier non avevamo più parlato. Chevalier, probabilmente, cercava di decifrare il significato della mia ultima frase.

Gli lanciai un’occhiata furtiva: fissava il pavimento. I nostri passi rimbombavano nel corridoio.

Era da tutto il giorno che lo tenevo d’occhio: all’inizio mi era sembrato piuttosto normale; nel pomeriggio, però, avevo notato un lieve irrigidimento della postura, che si era intensificato col proseguire della serata.

Per poco non aveva perso il controllo al ballo, a causa di Joshfen: avevo temuto che non fosse in grado di controllarsi. Ma mi aveva sbalordito col suo ferreo autocontrollo. 

Tuttavia era arrivato al limite: notavo un leggero tremore agli arti, l’espressione cupa, il capo chino… come se non volesse rischiare di incrociare il mio sguardo.

Mi bloccai di colpo e quasi mi venne addosso. Ci trovammo molto vicini, viso a viso, e contrasse la mascella.

Attesi di sentirgli chiedere ciò di cui aveva così tanto bisogno. Sembrava intenzionato a negarselo, lì piantato sul pavimento di marmo.

Poco importava che il sangue pulsasse con forza sul collo, che il suo corpo andasse in fiamme come per febbre, non avrebbe parlato.

I suoi occhi mi incantarono tanto erano intensi, eroicamente ostinati davanti a una battaglia persa in partenza: non si poteva combattere la forza di un vincolo di sangue. Non a lungo, almeno.

Chevalier stava dando fondo alla sua resistenza, aveva bisogno di me per fare rifornimento, ma non chiedeva aiuto.

Se ne stava immobile, ben piantato sulle gambe nonostante il tremore che le percorreva.

Stavo per rinunciare al nostro confronto, quando mi resi conto che gli era impossibile sciogliersi dal legame formato: non aveva la forza di chiamarsi fuori dall’impasse, quindi toccava a me fare qualcosa.

Lo sospinsi al muro più prossimo, mettendo pericolosamente in contatto i nostri corpi.

Con espressione accigliata, gli dissi: «Basterebbe parlare».

Da che l’avevo toccato, il tremore si era accentuato. Ansimava, turbato dalla vicinanza.

«Devo imparare… a controllarlo», spiegò con voce profonda.

«Il vincolo non si può vincere. Devi imparare che la tua sola volontà non potrà sempre farcela. Che senso ha logorarsi in questo modo?»

«Devo tentare.»

«Otterresti solo di sfiancarti, mettendoti in pericolo», sospirai. 

«Ti ho già spiegato che adesso, dentro di te, il mio potere e quello di Drogart si combattono costantemente. Se si esaurisce la mia magia, sarà la sua a prendere il sopravvento.»

«Non se riesco a imporre la mia volontà», replicò con uno sbuffo. «Questo corpo ancora mi appartiene.»

«Ma non capisci?!», sbottai con una punta di esasperazione nella voce. «Pretendi di combattere entrambe le nostre forze, come se ti fossero nemiche allo stesso modo. Ma il nemico è solo uno, ed è Drogart. Io sono tua alleata.»

Tentai di trasmettere sincerità alle mie parole. «Usa la tua volontà per sostenere il mio potere, non per respingerlo.»

Chiuse gli occhi, vibrando.

«E se… se un giorno fosse il tuo potere a prevalere sull’altro… tutto quello che avrò ottenuto sarà di averti aiutato ad avere il completo controllo su di me.»

«Ma io non voglio controllarti», sussurrai.

Fece un sorriso tirato, infelice. «Questo lo dici ora.»

«Pensavo ti fidassi di me… credevo di averti dimostrato che potessi farlo.»

Le sue mani si sollevarono afferrando le mie braccia. 

Mi fissò duramente mentre diceva: «Sei una persona nobile, Erin, non lo nego. E hai anche un buon cuore. Ma questo non basta per il livello di fiducia che mi chiedi. Il potere corrompe, soprattutto quello che esercita il controllo sulle altre persone.»

«Allora cos’hai intenzione di fare?», domandai, reprimendo la rabbia.

Le sue parole, per quanto vere e ragionevoli, mi avevano ferita.

«Resistere», disse, avventandosi sulle mia labbra. 

Non mi resi conto di cosa stesse accadendo.

Le sue braccia mi immobilizzarono col petto premuto contro il suo. Mi aggrappai istintivamente alle sue spalle, mentre la sua bocca si muoveva sulla mia con movimenti incalzanti.

Le ciocche dei suo capelli mi sfioravano il viso e riempivano le mie narici del loro profumo. Sentii i suoi denti saggiarmi con un gemito: sembrava un affamato che non toccava cibo da giorni. 

Arsi col sangue alla testa e il formicolio del potere suscitato a pizzicarmi la nuca. Ansimavo, col capo gettato indietro, incapace di sollevare le palpebre.

Dopo i primi momenti, il bacio si fece più dolce, meno vorace; anche la stretta sulla schiena si ammorbidì. Percepii l’alito caldo di Chevalier sulle labbra umide e, rabbrividendo, mi contorsi sul suo inguine duro.

Mi strinse i fianchi di riflesso e credetti volesse allontanarmi, invece non accennò alcun movimento.

Mi fissò le labbra, poi abbassò lo sguardo sul mio seno, per metà scoperto dalla linea obliqua che lo squarciava a metà.

Lo udii respirare pesantemente e tentai di non pensare al calore che si annidava tra le nostre gambe. 

Erano passati anni dal mio ultimo contatto ravvicinato con un uomo: avevo creduto che la rabbia e il dolore avessero annientato quella parte di me che desiderava essere vezzeggiata e accarezzata.

Avrei dovuto sentirmi intimidita dalla prestanza fisica di lui, avrei dovuto avere timore dell’effetto che aveva su di me: eppure tutto ciò che percepivo era euforia, e desiderio di indulgere ancora un poco, di andare oltre, di esplorare tutto.

Nonostante una parte di me continuava a porsi delle domande, l’altra era completamente rapita dall’intensità del momento che stavo vivendo e metteva a tacere tutti gli interrogativi.

Forse Chevalier provava le stesse cose.

Fummo interrotti dall’arrivo di alcuni inservienti: le loro voci riecheggiarono tra le pareti di pietra.

Chev finalmente si scostò dal muro, allontanandomi.

Nel momento in cui i servi si accorsero di noi, smisero di parlare e passarono oltre con una riverenza.

Attesi che sparissero dietro l’angolo, recuperando il controllo.

«Domani sera incontreremo il Falco», dissi, lisciando un’immaginaria piega sull’abito.

Capii di aver sorpreso Chevalier dal suo lieve sussulto. Non si era aspettato questo commento da parte mia. Tuttavia lo accettò senza fiatare.

Camminai verso la mia stanza, senza accertarmi che mi seguisse. Era ora di mettere un po’ di distanza tra noi.

 

ꕥꕥꕥ

 

La notte del giorno successivo ci trovavamo nella città bassa a percorrere alcuni dei vicoli più malfamati.

Con Chevalier che mi seguiva silenzioso, ero diretta al Cane nero, una taverna dove si riunivano marinai, tagliagole e gente della peggior specie per mangiare, giocare d’azzardo, oppure per affittare qualche camera dove trascorrere una squallida ora con una delle prostitute del locale.

Giunti in prossimità della locanda, fummo in grado di udire il chiacchiericcio proveniente dall’interno.

Attraversai l’uscio della porta, guardinga, controllando che nessuno potesse avvicinarsi con cattive intenzioni.

Alcuni uomini mi squadrarono dalla testa ai piedi chiedendosi cosa ci facesse una signora in un luogo come quello e a notte così inoltrata, magari fantasticando di isolarmi all’angolo per prendersi il loro tempo con me: i loro occhi avevano una luce maliziosa che era difficile da ignorare.

Li fissai tanto a lungo da far loro capire che conoscevo benissimo le loro fantasie e che avrebbero dovuto rimanere tali se non volevano problemi quella sera.

Uno di loro parve afferrare al volo il concetto e abbassò gli occhi sul proprio boccale di birra, lasciando perdere; altri due persistettero con le loro occhiate lascive, almeno fino a quando non si avvidero della presenza alle mie spalle.

Dal modo in cui sgranarono gli occhi, sbiancando, dovevano averlo riconosciuto come l’ex campione del Surdesangr.

Era perfetto: la reputazione di Chevalier si sarebbe rivelata molto utile per levarci di torno i piccoli delinquenti, che non avrebbero sfidato la sorte per timore di fare una brutta fine.

Un ragazzo per poco non mi finì addosso, inciampando sui suoi stessi piedi. Chev, con i suoi ottimi riflessi, prevenne il disastro, afferrandolo per un braccio e tenendolo dritto. Quando recuperò l’equilibrio, si scusò arrossendo. Sembrava piuttosto giovane e sprovveduto: cosa ci faceva in un posto simile?

Prima che potesse scansarsi, lo trattenni. Sussultò come se l'avessi spaventato: probabilmente temeva di essere picchiato, cosa che non doveva essere infrequente in quella bettola.

«Stai calmo, voglio solo chiederti qualcosa», lo rassicurai brevemente.

«M-mi… mi dica.»

«Sto cercando il Falco, lo hai visto da qualche parte?»

Il ragazzo sgranò gli occhi. «S-sì. Si trova l-laggiù in fondo», balbettò, indicando un punto del locale nascosto alla vista e immerso parzialmente nell’ombra.

Mollai il braccio del ragazzo, il quale fece un passo indietro.

«Ti ringrazio.»

Non fu difficile trovarlo. Nella penombra intravidi un gruppo di uomini seduti attorno a un tavolo, intenti a giocare a carte.

Al centro, Samuel spiccava per l’atteggiamento sicuro che pareva attrarre l’attenzione di tutti i giocatori. A gambe divaricate, teneva le carte come se non avesse affatto bisogno di guardarle e fosse sicuro di avere la mano vincente: a giudicare dal gruzzoletto che aveva raccolto sul suo lato del tavolo, quella sera la fortuna era dalla sua parte.

Tracannò un lungo sorso di birra prima di voltare l’ultima carta e recuperare la vincita. Ridendo, distribuì pacche amichevoli agli omaccioni sconfitti.

Quando mi vide, i suoi occhi si illuminarono in quella particolare espressione che assumevano solo con me: la vivacità naturale dei suoi modi si velava di una sorta di serietà, senza tuttavia eliminarne l’esuberanza di fondo.

A volte passava tra noi qualcosa come un eco del passato. Persino il ricordo dell’amore che credevo avessimo condiviso tornava a rifrangersi nella mia mente, subito seppellito da emozioni più cupe e violente: l’angoscia del dolore, la rabbia del tradimento, l’esasperazione di centinaia di episodi nel corso degli anni, che mi avevano lasciato con molte più domande che risposte, e molta più frustrazione che rassegnazione.

Non potevo reprimere un brivido di disgusto per la forza dei sentimenti che ancora mi muoveva: quanto avrei voluto possedere quella freddezza di chi ha chiuso completamente il proprio cuore, eliminando ogni traccia dell’esistenza della persona che lo ha tradito.

Invece, combattevo ancora contro la sua influenza, contro il ricordo di sentimenti più teneri per impedirmi di ricadere nella stessa trappola.

Forse per un momento riuscivamo persino a essere sinceri, prima di tornare a trincerarci dietro più sicuri atteggiamenti: malcelata sopportazione e sfrontata insolenza.

«Sei venuta», disse soddisfatto.

Gli uomini di Samuel si erano zittiti, registrando il cambiamento del loro signore. Notando la mia presenza, si allontanarono silenziosamente; restarono solo due uomini.

«Credevo saresti arrivata prima», commentò.

«Prego, accomodati», disse, indicando la sedia di fronte a sé.

Raccolse le monete vinte, riponendole nella bisaccia.

Presi posto, confidando nella protezione di Chevalier e replicai: «Sono stata impegnata».

«Con lui?», indicò la mia guardia del corpo sollevando un sopracciglio scettico. «Credevo passassi il tuo tempo in un altro modo. Avevo capito che avessi una missione da portare a termine… o forse ti sei arresa e non ti riguarda più?»

«Come decido di trascorrere il mio tempo, o con chi farlo, non sono affari che ti riguardano», dissi trattenendo un moto di collera. «Sono venuta qui perché me lo hai chiesto per un argomento che ho ritenuto abbastanza valido.»

Tirai fuori dal giustacuore il medaglione e lo lanciai sul tavolo con un tintinnio, facendolo finire al centro.

«Vuoi spiegarmi cosa significa? Dove lo hai trovato?»

«E lui? Dove lo hai trovato?», replicò, tenendo lo sguardo puntato su Chevalier.

Strano. Di solito era molto più controllato: in genere gli piaceva giocare al finto tonto, prendendosi gioco di me come fa un gatto annoiato col topo.

Guardai con la coda dell’occhio Chevalier, prima di fissare Samuel perplessa e sospettosa.

«Perché ti interessi tanto a lui? È semplicemente uno dei miei soldati.»

Finalmente Samuel mi rivolse la sua piena attenzione, distogliendo lo sguardo da Chevalier, piegando il capo di lato con una smorfia truce.

Non gliel’avevo data a bere.

«Non mentirmi, Erin. Dovresti sapere che ho occhi e orecchie ovunque.»

«Con questo che vorresti dire?»

«So perfettamente che ti hanno estromesso dalla carica di luogotenente. Si dice in giro che nessun soldato ha voluto mettersi spontaneamente sotto al tuo comando.»

«È vero. E allora?»

«Quest’uomo porta un nibbio reale sulla divisa dell’esercito, ma non fa parte dell’esercito», sentenziò.

«Dove vuoi arrivare con queste domande? Credevo fossimo qui per parlar d’altro!»

«Dove lo hai trovato?», insistette.

«Cosa ti hanno riferito i tuoi occhi e le tue orecchie?»

Incrociai le mani al petto, rifiutandomi di rispondere: quell’interrogatorio era mirato, dunque sapeva più di quanto volesse ammettere.

Sorrise divertito. «Sei sparita per giorni, nessuno sapeva dov’eri finita prima dell’agitazione giù all’arena di Sangue.»

«Mi fai seguire per caso?», la mia voce si incrinò leggermente per lo sdegno.

«Non sarebbe saggio perderti di vista», rispose diplomatico.

Ci fissammo per alcuni secondi, studiandoci sopra il sudicio tavolo.

Fu lui a parlare per primo, risolvendo l’impasse, cosa davvero fuori dalla norma dato che generalmente ero io quella più impaziente tra i due.

«Come sei arrivata a lui?», chiese.

Corrugai la fronte, disorientata.

«Che bizzarro modo di formulare la domanda… pensi che avrei dovuto seguire una pista

Si finse divertito dalle mie parole, ma non me la diede a bere. Stava commettendo troppi errori in quella conversazione per non rendersene conto anche da solo. Vedevo che era turbato, solo non sapevo per quale motivo.

C’entrava forse Chevalier?

Seppur piena di dubbi, mi piaceva vederlo in difficoltà una volta tanto.

«Chev, conosci per caso quest’uomo?», domandai direttamente all’interessato.

Samuel lo fissò in attesa della risposta, come se lui stesso non fosse in grado di prevederla.

Chevalier lo squadrò. Dopo una considerevole pausa di riflessione, rispose: «Non che io ricordi».

Mi agitai sulla sedia, turbata dalle sue parole: Samuel non era un tipo che passava certo inosservato. Aveva una certa fama, e Chevalier aveva già ammesso di conoscerlo per quella. Come avrebbe potuto dimenticarsi di lui, se l’avesse conosciuto per una qualsiasi ragione?

Perché dunque quell’ambiguità? E perché l’interesse di Samuel nei suoi confronti? 

Possibile si conoscessero da prima? Ma se così fosse, cosa impediva a Chevalier di ammetterlo apertamente?

Tutto ciò avrebbe dovuto rendermi estremamente diffidente, ma mi resi conto di avere una certa fiducia nei confronti di quel guerriero.

A dispetto del poco tempo trascorso, del fatto che non ci conoscessimo abbastanza, qualcosa mi attirava verso di lui, rendendomi confidente nel nostro rapporto. 

Non avrei saputo dire se fosse una conseguenza del vincolo magico che ci legava, ma sentivo un’apparentemente infondata sicurezza, come non mi succedeva dal tradimento di Samuel.

Io e Chevalier ci fissammo negli occhi, quasi avessimo attirato l’attenzione l’uno dell’altro con una parola. Invece, senza dire niente, riconfermammo la reciproca fiducia.

I suoi occhi non mentivano, e io ero disposta ad attendere di essere in privato per farmi spiegare cosa celassero le sue parole.

Quando posai nuovamente gli occhi su Samuel, riconobbi un’espressione che non vedevo da lungo tempo: gelosia.

Con consumata abilità, però, tornò subito alla perfetta neutralità.

«Curioso che tu lo abbia scovato per caso», disse con lentezza, come riflettendo. «Se davvero non hai seguito alcuna pista, la cosa si fa interessante…»

Ero stufa dei suoi commenti sibillini. «Cosa sarebbe interessante?»

«La medaglia», disse, toccandola con le dita, «è stato proprio quest’uomo a darmela.» 

«Non…»

«Meatha», mi interruppe, deciso. «È accaduto a Meatha, cinque anni fa. Se non mi credi, sono affari tuoi.»

Dettò ciò abbandonò il suo posto, seguito dai suoi uomini.

Non provai nemmeno a fermarlo: quando decideva di porre fine a una conversazione non c’era verso di fargli cambiare idea.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Guardia del corpo ***


Capitolo 15 - Guardia del corpo
 

 

Nella notte risuonavano a ritmo serrato il rumore degli zoccoli sul selciato.

Più ripensavo al bizzarro incontro con Samuel, e più mi saltavano alla mente le discrepanze nel suo discorso. Perché mi aveva fatto avere il medaglione per strapparmi un incontro, salvo poi parlare di tutt’altro?

Non aveva fatto altro che fare riferimento a Chevalier, fino addirittura a indicarlo come l’uomo da cui aveva ricevuto il monile, ma per quale motivo aveva voluto vedermi in origine?

Sempre che ce ne fosse uno, ovviamente. Era possibile che, insinuando il tarlo del dubbio, tentasse di dividermi dall’unica persona che si era schierata dalla mia parte. Ma ancora, perché farlo?

Non avevo alcun indizio per dirimere la faccenda, a eccezione di quello fornitomi da Samuel stesso: Meatha, cinque anni prima.

Lanciai un’occhiata alle mie spalle per controllare Chevalier.

Nessuno dei due aveva più aperto bocca da quando avevamo lasciato il locale, ma sapevamo che un chiarimento era necessario. 

Invece di procedere dalla consueta strada, cambiai direzione, dirigendomi verso un piccolo abbeveratoio che sorgeva al centro di uno spiazzo piuttosto largo: sarebbe stato deserto, a quell’ora della notte.

Chevalier mi seguì impassibile. In prossimità del pozzo, si accostò al mio cavallo, vagliando con efficienza tutta la zona, alla ricerca di eventuali minacce. Dato che non ce n’era alcuna, scendemmo dai cavalli e li lasciammo dissetare.

Sgranchii le gambe prima di sedermi su un lato del muretto.

Chevalier accarezzò la sua giumenta, dandole pacche affettuose.

Non sapevo se stesse cercando di evitarmi o meno. Quando fui sul punto di dirgli qualcosa, lui si voltò, puntando lo sguardo su di me.

«Non mi hai ancora chiesto niente», disse.

Dopotutto, dovevano essergli pesati quei minuti di silenzio tra di noi, tanto quanto a me.

Era ancora rivolto verso il cavallo, le braccia allungate sulla sella, ma il viso inclinato verso di me.

Il suo profilo si stagliava sul manto scuro dell’animale.

Seguii l’onda di una ciocca che gli sfiorava lo zigomo; scivolai con gli occhi sulle spalle larghe e la curva della schiena, prima di soffermarmi su quella dei glutei. 

Deglutii in preda all’imbarazzo, la voglia di avvicinarmi per toccarlo era sorta nuovamente senza il minimo preavviso, mandandomi in tilt. 

Sapevo che mi aveva posto una domanda e che non avevo ancora risposto. Anche lui doveva stare aspettando una parola da parte mia, ma non riuscivo a pensare lucidamente.

Lasciai protrarsi il silenzio impotente, nonostante temessi di essere fraintesa. Quando ebbi la forza di fissarlo di nuovo in faccia, scoprii che dopotutto non era in attesa di una risposta da parte mia. Non esattamente, almeno.

Aveva uno sguardo che non potevo che definire famelico, tanto inequivocabile che bastò un’occhiata per confermare la presenza di un gonfiore all’altezza dell’inguine.

Mi mancò l’aria nei polmoni.

Inspirai un paio di volte e dissi con voce sommessa: «Mi era stato riferito che Stenton ti avesse tentato con le donne. Credevo non ti interessassero simili offerte».

«Solo perché mi sono rifiutato di sottomettermi a lui, non significa che non mi piacciano le donne», rispose, impassibile.

Mi mossi a disagio e lui lo notò.

«Hai paura di me?», sussurrò con voce roca.

Scossi il capo. «Non esattamente. Però temo questa cosa che c’è tra noi perché non la capisco.»

«Sono attratto da te.»

«Non può essere solo questo! Non è… solo… attrazione.»

«Pensi dipenda dal legame?»

«Non lo so, potrebbe essere. Non ho esperienza in questo campo perché, fino a ora, non avevo mai formato un vincolo. Non sapevo che il legame spingesse a qualche tipo di attrazione particolare... e non avrebbe senso, se ci pensi: quando si stipula tra due persone dello stesso sesso si prova la medesima cosa? Oppure è così proprio perché siamo di sesso opposto?»

«Ti assicuro che non mi sono sentito, né mi sento minimamente attratto da Drogart», soffiò fuori con uno sbuffo convinto. 

Abbassò le braccia dai fianchi e si scostò dal cavallo.

Riuscì a farmi ridere, sebbene mi sentissi nervosa.

«Già… buono a sapersi! Comunque non abbiamo modo di scoprire se dipenda dal legame o meno.»

«Perché escludi l’ipotesi della pura e semplice attrazione?»

Gli scoccai un’occhiataccia. «Beh, perché… perché è troppo! Sei un bell’uomo Chevalier, ma non sono solita reagire in questo modo con nessuno!»

«Nemmeno io, ma tu sei bella e io non sto con una donna da molto, molto tempo», disse serio, gravandomi del peso del suo sguardo di diamante.

«Questo, forse, giustifica te ma non me!», risposi spazientendomi e puntellandogli un dito sul petto.

Colto di sorpresa, esitò un momento prima di chiedere: «Cosa supponi che sia, dunque?».

«Non lo so. Perché non me lo dici tu?»

Corrugò la fronte. «Pensi ti stia nascondendo qualcosa?»

«In effetti, non so neanche questo… forse.»

«Non avevi questo dubbio in quella locanda», mi fece notare.

«Forse anche questo fa parte della tua malia, Chevalier. Io non mi fido così ciecamente delle persone, eppure con te mi risulta difficile fare il contrario, e questo non è per niente naturale.»

«È vero, riconosco che reagiamo l’uno all’altra in maniera strana. Mi piacciono le donne, ma finora non avevo dovuto lottare così strenuamente per impedirmi di mettere le mani addosso a una di loro. Questa cosa è cominciata col Giuramento di sangue, aumentando progressivamente. All’inizio pensavo fosse solo l’astinenza, poi ho ipotizzato si trattasse di un effetto collaterale del legame. Adesso mi dici di sentire la stessa cosa ma non ne sai più di quanto ne sappia io.»

Mentre rifletteva ad alta voce, si era messo le mani ai fianchi, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. 

«Io non so nulla di queste cose: da che ricordo, non ho mai avuto a che fare con la magia, ho bisogno che tu mi creda su questo.»

«Perché?»

Scrollò le spalle. «Non lo capisco, ma è così e basta.»

«Mi serve qualcosa di più per fidarmi di te. Per fidarmi veramente di te.»

«Vuoi sapere di cosa parlava il Falco alla taverna», dedusse.

«Possiamo cominciare da quello, sì.»

«Non posso esserti d'aiuto, mi dispiace.»

«E con questo cosa vorresti dire? Forse che Samuel non si è inventato tutto e c’è veramente qualcosa che non puoi o non vuoi dirmi?»

«Le cose non stanno esattamente così, Erin. Può essere che abbia detto il vero, ma io non sono in grado di stabilirlo.»

«Come è possibile, santo cielo!? Devi pur sapere se possedevi un medaglione come quello che mi ha dato, e soprattutto se a un certo punto l’hai ceduto a qualcuno!»

«No se non ricordo nulla prima di questi cinque anni!» proruppe, e fu come ricevere un secchio d’acqua fredda addosso.

Avevo capito bene? Chevalier non serbava alcun ricordo che risalisse a prima degli ultimi cinque anni? Solo cinque anni…

Cominciando a riflettere, le cose acquistarono un nuovo significato: la reticenza, il fatto che nessuno sapeva da dove venisse o chi veramente fosse, che non sapesse rispondere alle insinuazioni di Samuel…

Tacqui ascoltando il rumore dei nostri respiri, fin quando l’atmosfera si distese. 

Chevalier disse: «Non ho modo di stabilire se dice il vero o il falso, perché i miei ricordi cominciano circa cinque anni fa. Non so niente di cosa abbia fatto prima».

«C-com’è possibile?», balbettai. «Voglio dire, non hai proprio nessun indizio sulla tua identità?»

Chevalier scosse la testa con uno scatto nervoso. «Niente di distintivo, davvero.»

«Nessuno che potesse riconoscerti?»

«No.»

«Come è successo? Hai avuto un incidente?»

«Non che ricordi. Al mio risveglio, non avevo subìto nessun trauma apparentemente. Niente se non un livido sul braccio, a dire il vero, ma nulla che potesse spiegare la perdita di memoria.»

«Non sei riuscito a scoprire altro?», chiesi sbalordita. Al posto suo, una tale ignoranza mi avrebbe probabilmente fatto ammattire. Dei… pensare che tutti i miei ricordi potessero sparire per sempre!

«Il risveglio è stato traumatico», sussurrò, ricordando. «Ero in un bosco, solo, confuso e disorientato. Poi ho scoperto che il villaggio più vicino era a miglia di distanza. Non ricordavo nulla e nessuno sembrava conoscermi… ero un fantasma.»

«Ipotizzando che non fossi del posto, cosa potevi mai fare in quel luogo?»

Scrollò le spalle, non lo sapeva.

«C’erano diverse impronte di cavallo, ma era impossibile seguire una pista. In ogni caso, non ero nelle condizioni di fare una ricerca estesa.»

All’improvviso, un pensiero fece capolino. «E Finn e sua madre? Nemmeno loro hanno saputo dirti chi fossi?»

«Ho conosciuto la madre di Finn qualche mese dopo quel risveglio», spiegò con voce monocorde.

Chevalier stava fornendo molte più informazioni di quanto avesse mai fatto prima.

Avevo tentato di raccogliere informazioni su di lui, ma non avevo scoperto nulla. Tutto ciò che si sapeva sulla sua storia risaliva agli anni di schiavitù all'arena del Sangue: davvero molto poco rispetto alla vita che doveva avere alle spalle.

«Credevo vi conosceste da più tempo», commentai piattamente.

Scosse la testa. «Quattro anni fa i nostri cammini si sono incrociati. Lei tentava di sopravvivere per sfamare sé e Finn e... cominciammo una relazione.»

Tacque un momento, probabilmente rivivendo alcuni dei loro momenti, e non aggiunse altro.

«Cosa accadde dopo? Finn non ha mai accennato a sua madre in mia presenza.»

«Cademmo vittime di un'imboscata: lei morì, mentre io e Finn fummo catturati. Divenni uno schiavo da combattimento, ma questo lo sai.»

Pur non facendo trasparire alcuna emozione, compresi quanto quegli avvenimenti lo avessero toccato e ferito.

«Come si chiamava?»

Un muscolo della guancia si contrasse, serrò le mascelle.

«Fosca», rispose.

Incisivo, lapidario.

Non  feci ulteriori domande: non era pronto per questo, non ancora.

Qualcosa mi si strinse all'altezza del petto, mi sentii a disagio. Con un colpo di tosse cambiai argomento: «Dunque non conosci nemmeno la tua vera età?».

Chev stirò le labbra in un sorriso privo di ilarità. «No, effettivamente non la conosco.»

«Andiamo», lo esortai alla fine. «I cavalli hanno bevuto abbastanza.»

«Non hai altro da chiedere?»

«Non in questo momento.»

Afferrai le redini, dando una scossa all’animale che si agitò in protesta. Montai con agilità consumata, attendendo che Chevalier facesse altrettanto. 

Esitò. Mi raggiunse, ignorando la sua giumenta.

«Significa che ti fidi?»

Mi sforzai di abbassare gli occhi alla sua altezza. Istintivamente, sollevai una mano per sfiorargli la guancia, percorrendola fino al mento.

Ebbe un fremito e chiuse le palpebre brevemente; quando le riaprì, il suo sguardo era di nuovo concentrato.

«Ci sono molte cose che non capisco, Chevalier, troppi punti irrisolti. Questa... attrazione è qualcosa di cui non posso fidarmi. Di certo non voglio alimentarla. È pericoloso.»

«Cosa vuoi fare allora? Intendi sciogliere l'accordo che abbiamo?»

«No», risposi decisa. «No, noi... abbiamo bisogno l'uno dell'altro.»

Mi fissò a lungo, l'atmosfera divenne surreale: come se ci trovassimo in un sogno o una dimensione distorta.

Il vento, tra le fronde, creava un suono sommesso e sinistro. Avvertii una tensione improvvisa, simile a quella che percepivo nelle situazioni di pericolo, ma anziché scrutare la zona continuai a guardare Chevalier.

«Io ho bisogno di te, è vero. Ma perché tu ne avresti di me?», mi chiese.

«La mia missione...»

«La tua missione...», ripeté bloccando le mie parole. «Trovo difficile credere che una donna come te possa avere davvero bisogno dell'aiuto di qualcuno. Se volessi, potresti essere addirittura invisibile: chi mai sarebbe in grado di fermare un potere come il tuo, Erin? Sebbene tutti siano decisi a sottovalutarti, ti prego di non credere io sia disposto a fare lo stesso.»

«Perché no? Cosa ti rende diverso?», lo sfidai.

«Ho capito le caratteristiche del tuo potere: l’ho realizzato dopo la tua vittoria al Surdesangr… una donna contro una folla inferocita di uomini sanguinari. Posso non sapere nulla di magia, ma so riconoscere il potere quando lo vedo.»

Con una folata improvvisa, i capelli gli si agitarono attorno al collo. I miei erano strettamente legati in una treccia. L’aria colpì la mia nuca, dandomi un brivido di freddo.

«Vuoi sapere perché non agisco da sola?»

«Sì.»

Sospirai. «Non è conveniente per me usare troppo i miei poteri: se ne abusassi, sia il mio corpo che la mente subirebbero danni irreparabili. Non devo compiere sforzi eccessivi se poi non posso reintegrare le energie. Per questo motivo ho addestrato il mio corpo alla resistenza e ho affinato tecnica e capacità: dovevo essere in grado di tenere testa a un uomo, anche senza l’ausilio del mio dono. Pure, rimango comunque una donna e, data la natura della mia missione, ho bisogno che qualcuno mi guardi le spalle.»

«Anche se dici il vero, ho l’impressione che non sia tutto», commentò.

«Infatti non lo è», sorrisi.

Piegò le labbra, divertito. «Hai ammesso di avere una debolezza, e non è poco, ciononostante la tua evasività mi induce a pensare che tu stia tacendo qualcosa di più importante.»

Avevo l’intenzione di rispondergli a tono, quando un rumore indistinto alla periferia del campo ci mise in allerta.

Chevalier si avvicinò alla giumenta, mantenendosi al suo fianco. Con efficiente rapidità, portò la mano all'elsa della spada e l’estrasse.

«Questo posto non è sicuro. Dobbiamo muoverci, Chev», borbottai innervosita.

Eravamo troppo esposti, senza ripari: costituivamo un facile bersaglio.

Chevalier montò prontamente in sella e mi aprì la strada, facendomi scudo col suo corpo.

Lanciammo i cavalli al galoppo. Fu allora che udimmo delle voci concitate e un gruppo d’uomini partire all’inseguimento.

«Da che parte?», chiese Chevalier, lanciando un’occhiata alle nostre spalle. «Sono in cinque e sono armati», mi informò poi senza la minima traccia di agitazione.

«La strada a sinistra: taglia la città e porta in una zona piena si viottoli dove è facile far perdere le proprie tracce.»

«Preferisci tagliare la corda?»

«No, meglio tendere un’imboscata: voglio capire chi sono e cosa vogliono.»

«Non saranno semplici criminali di strada?», ipotizzò, alzando la voce per sovrastare il frastuono degli zoccoli.

«Mi pare di aver sentito un rumore metallico, di armatura. Dei comuni banditi non ne indosserebbero una per le loro scorribande. Inoltre credo che ci stessero osservando da un po’ di tempo.»

«L’hai notato anche tu», commentò, ma non era sorpreso.

Nel frattempo, eravamo giunti nella parte più interna della Città bassa, scivolando attraverso un intreccio di strade via via sempre più strette.

Le uniche persone che si vedevano erano quelle riunite nelle bische e nei locali, dove scorrevano fiumi di birra scadente e gli uomini si lasciavano volentieri distrarre da qualche donnina allegra. Scorsi un paio di coppie qua e là, agli angoli poco riparati: al nostro passaggio sussultavano, guardandosi attorno per capire da dove arrivasse tanto trambusto.

Nemmeno lo spettacolo di un inseguimento, tuttavia, li distrasse per più di qualche secondo dai loro intrattenimenti: probabilmente erano troppo ubriachi per curarsi del pericolo di venire travolti da uno di quei cavalli, che a malapena entrava in uno spazio così ridotto.

Percorso un quarto di miglio, arrivammo in una zona deserta con un discreto vantaggio sui nostri inseguitori.

«Da questa parte», dissi a Chevalier, quando rallentò. Portammo i cavalli in un vicolo buio e li legammo a una staccionata.

«Che dobbiamo fare?»

«Torniamo nella strada principale, nascondiamoci e aspettiamo.»

Non si udì alcun rumore per un pezzo.

«Da qui non si procede oltre, come vedi, saranno costretti a fermarsi.»

Indicai a Chevalier dove appostarsi e saltai su un albero vicino, appollaiandomi tra i rami.

Finalmente risuonò il tramestio di numerosi zoccoli: come previsto, il gruppo fu costretto ad arrestare la corsa.

«Non è possibile!», esclamò una voce rozza. «Devono essere andati da questa parte!»

«Da qui non si procede, ci sono solo case», rispose spazientito un altro.

«Forse hanno cambiato direzione: dico di tornare indietro.»

«No, fermi!», ingiunse un uomo dalla voce autoritaria e ferma. «Sono sicuramente venuti da questa parte, non ci siamo ingannati. Scommetto che sono qua attorno. Cercateli!»

Si sparpagliarono, senza fiatare. Quello che aveva parlato doveva essere il loro capo: rimase solo mentre a poca distanza si udivano ancora i rumori dei suoi uomini.

A un certo punto qualcuno richiamò la sua attenzione: avevano trovato i cavalli.

Il capobanda raggiunse chi aveva gridato la notizia.

Chevalier, approfittando del fatto che non ci fosse nessuno in vista, si sporse verso la luce lunare, per attirare la mia attenzione.

Scesi dall’albero mentre mi raggiungeva e ci addossammo il più possibile al tronco.

«Stanno per tornare gli altri», mi sussurrò all’orecchio.

«Tratteniamoli», ordinai.

Quando giunsero, sbucammo dal nostro nascondiglio cogliendoli di sorpresa. I cavalli si imbizzarrirono, seminando confusione. Sfruttando il vantaggio, con poche, agili mosse, fummo in grado di disarcionarli senza grande sforzo.

Nel parapiglia, non avevano potuto estrarre le armi, per cui fu facile bloccarli con la minaccia di una lama alla gola.

Prima ancora che parlassero, a quel punto, notai la divisa militare.

«Sono uno squadrone punitivo», imprecai esasperata.

«Cosa significa? Li conosci?»

«Sono soldati. Ero scettica sul fatto che comuni criminali possedessero armature e cavalli… ma non volevo credere fossero della milizia!»

«E cosa volete dalla mia signora?», domandò sprezzante Chevalier a quello che teneva sotto tiro.

L’uomo deglutì ma non rispose.

«Bella domanda. Forza, rispondete, idioti!», ingiunsi loro, stringendo più saldamente l’elsa e facendogli saggiare la fredda lama del pugnale sulla pelle scoperta.

Quello che tenevo bloccato tremò a disagio. «Non… non vai a genio ad alcune persone.»

«Sai che novità!» risposi sbuffando. «Ma chi è l’artefice di questo attacco?»

«Io… io non lo so. Mi è stato comandato di lasciare il Palazzo e di seguire questa unità per una missione di punizione. Non sapevo che era diretto contro di voi, fino a quando… fino a che non vi ho vista nella piazza.»

«E chi è al comando di questo gruppo?»

«Ah…»

«Sta zitto!», intervenne aspramente il compagno al fianco.

«Meglio che lo lasci parlare e che parli anche tu, se non vuoi che vi finisca male», lo minacciò Chevalier con voce ferma.

«I-io…»

«Non ti diremo nulla! Chi diavolo credi di essere?!»

Chevalier rispose torcendogli il braccio, e gli strappò un grido di dolore. Quello gemette fino a cedere: «Basta! Basta!».

«Hai deciso di collaborare?»

Sputò per terra.

«Come preferisci.»

Strattonandolo con più forza, lo piegò in ginocchio e, coprendogli la bocca con una mano, ne attutì le grida.

«Forse è meglio che parli al posto del tuo amico», dissi al ragazzo. «A meno che tu non voglia provare lo stesso dolore.»

Non fu necessario ripeterlo una seconda volta, perché quello, tutto tremante, disse: «Berioth! È Berioth che ci guida, un soldato del luogotenente Gutor.»

Il compagno, ridotto all’impotenza da Chevalier, imprecò più forte e lo minacciò per avere rivelato quell’informazione.

«Fedigar, eh?»

Cominciavo a comprendere. Anche Chevalier ricordò quel nome: «Non è quell’uomo che ti ha importunato ieri alla mensa?»

«Proprio lui», confermai. «Evidentemente, questo è il suo modo di vendicarsi.»

Dal momento che il prigioniero non smetteva di agitarsi, Chevalier si premurò di colpirlo alla nuca con forza sufficiente a fargli perdere i sensi.

Lasciammo andare il ragazzo che aveva collaborato, seppur privato del resto della scorta.

Chev si assicurò che non tornasse indietro e domandò quale fosse la prossima mossa.

«Sono rimasti in tre adesso», calcolai, «se conosco abbastanza Berioth non si sarà scomodato a cercare a lungo. Ci aspettano dove abbiamo lasciato i cavalli, sa che non li abbandoneremmo.»

«Ed è così?»

Scrollai le spalle. «Sono cavalli della milizia.»

Ciò decretò che saremmo andati loro incontro.

Non avendo più motivo di nasconderci, percorremmo la strada in vista ma con cautela, fin quando ci trovammo a fronteggiare i restanti membri della squadra.

«Berioth, ma che sorpresa! Avete scelto una ben bizzarra ora per fare una passeggiata in città. E vedo che siete scortato da quattro compagni. Ditemi, cosa vi porta da queste parti?»

«Deduco che vi siete già occupata di due di loro», disse, lanciandomi una fredda occhiata.

«Oh, intendete quelli che erano rimasti indietro? Erano stanchi in effetti: a uno è venuto un capogiro e ho consigliato all’altro di tornarsene a dormire.»

Berioth sibilò parole inintelligibili.

«Avete gestito molto male questa spedizione, lasciatevelo dire: speravate di coglierci di sorpresa ma così non è stato. Dovrei ritenermi offesa che siate venuto ad affrontarmi con soli quattro uomini?»

«Potrei battervi anche da solo!», sbottò, più per rabbia che per vero convincimento.

«E allora venite! Cosa aspettate?», lo provocai con una risata.

Diede ordine agli altri due di attaccare. Questi obbedirono dopo un’esitazione, sfruttando lo slancio dei cavalli per aumentare la potenza dei loro colpi contro di noi che eravamo a piedi.

Dovevano essere intimoriti dalla mia fama perché nemmeno quei colpi furono vibrati con decisione.

Afferrando le briglie dei cavalli, con uno strattone sfruttammo il loro stesso slancio per farli sbandare. Chevalier atterrò il suo avversario e vi si lanciò addosso. Io, che non ero altrettanto forte, sfruttai la velocità per recidere col pugnale le redini e impedire all’altro di tenere il controllo dell’animale. 

Costretto a scendere di sella, mi fronteggiò a spada sguainata e non mi occorse molto tempo per disarmarlo.

Anche Chevalier, senza scomporsi, aveva dato prova della sua incredibile abilità, sconfiggendo il nemico senza nemmeno fare uso di un’arma.

Berioth dovette rimanere sorpreso della sua forza.

«Ora che avete esaurito le pedine al vostro comando, soldato, vi farete avanti voi?»

Quello digrignò i denti, agitato sulla sella. Osservando i compagni sconfitti, decise che il gioco non valeva la candela e, superandoci, sparì nella notte, abbandonando i suoi uomini.

Disprezzando quell’atteggiamento codardo, mi rivolsi agli sconfitti.

«Ecco cosa farete: tornerete immediatamente al Palazzo delle Guardie, dove resterete in attesa della punizione che spetta a coloro che attaccano un luogotenente. D’ora in poi, ogni volta che incrocerete il mio cammino, vi inchinerete rispettosamente e non vi azzarderete ad alzare la testa fino a quando non sarò sparita dalla vista! Siamo intesi?!»

Balbettando un assenso, risalirono traballanti sui cavalli per fare esattamente quello che avevo comandato loro.

Ferma immobile, riflettevo sul livello di ostruzionismo che avevamo raggiunto: ora dovevo anche temere attacchi a sorpresa alla mia persona.

«Quale punizione li aspetta?», domandò Chevalier alle mie spalle.

«Quando si tratta di una disobbedienza, fino a cinquanta frustate.»

«E se è di qualcosa di più?»

«Per un attacco diretto possono essere assegnate fino a cento frustate», calcolai. «Ma intendo imporne centoventi, dato il modo poco onorevole con cui mi hanno affrontata.»

«Una decisione piuttosto dura», commentò.

«La trovi ingiusta?»

Piegai indietro il volto, guardandolo con la coda dell’occhio e sforzandomi di non far trasparire nulla dalla mia espressione.

«Non ingiusta, no. Rivela una salda presa di posizione.»

Voltandomi completamente, gli chiesi se la cosa lo sorprendesse, dato che avvertivo qualcosa di non detto tra le righe.

Lui scrollò la testa, con un sorriso. «Forse, dopotutto, anche io sono caduto in un errore valutativo. Avrei detto che saresti stata più clemente.»

«Perché?»

«Perché sei una donna. E perché, da quanto ho avuto modo di vedere, sei di indole generosa.»

«Essere generosi non aiuta nell’ambiente militare. Più spesso è necessario mostrare fermezza e risolutezza. Gli uomini capiscono solo il linguaggio della forza.»

«Gli uomini onorevoli comprendono anche la generosità», puntualizzò.

Assentì con un cenno.

«Eppure questo inquieta il tuo animo», continuò.

«Che stai cercando di dire?»

«Sospetto che preferiresti non doverli punire, eppure lo farai con durezza anche perché te lo impone il tuo grado e per difendere la tua posizione nella gerarchia.»

Le sue parole mi turbarono: non fu il modo in cui lo disse, ma il fatto che l’avesse capito, che mi avesse letto così a fondo. Con chiunque altro, la sensazione di vulnerabilità mi avrebbe spinto a chiudermi in me stessa, indossando la consueta maschera; ma con lui non ci riuscii: mi abbandonai a quella strana fiducia nata tra noi.

«Chi sei, tu, Chevalier, che con tanta facilità mi leggi nell’animo?»

Ridusse la distanza che ci separava, tenendo lo sguardo fisso nel mio.

Dopo lunghi attimi di silenzio, rispose: «Sono la tua guardia del corpo».

Stranamente, ciò ebbe l’effetto di confortarmi.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Punizione ***


Grazie a tutti per avere atteso la nuova uscita =)
Spero che questo capitolo vi piaccia e che mi scriviate nelle recensioni le vostre impressioni **
Lo pubblico adesso perché potrei non avere tempo nei prossimi giorni, per cui perdonatemi per eventuali errori, cercherò di correggerli appena segnalati oppure alla revisione del capitolo :D
Detto questo, BUONA PASQUA A TUTTI!
 

Capitolo 16 - Punizione
 

Procedevo spedita tra i corridoi del Forte, seguita da Chevalier.

Avevo indossato l’uniforme militare in maniera impeccabile: l’intento era di suscitare il senso di solennità che la situazione esigeva.

Chevalier non aveva più aperto bocca dalla notte in cui mi aveva rivelato una parte considerevole del suo passato o, per meglio dire, la totale assenza di questo.

Era stato presente al colloquio con Raafael, quando avevamo discusso a proposito dell’attacco che avevo subìto e adesso mi scortava all’esecuzione della condanna.

Centoventi frustate, non una di meno.

Il giorno precedente, i soldati erano stati informati della sospensione di ogni attività ed era stata fornita una generale informazione sull’accaduto. 

Tutti erano schierati in attesa del mio arrivo nel padiglione esterno.

Ormai da ore regnava il più assoluto silenzio: le punizioni, pur non troppo rare, erano comunque eventi di una certa importanza. Il fatto che fossi stata proprio io il bersaglio di un attacco diretto, inoltre, aveva solo esasperato una tensione che aveva già le sue radici in anni di contrasti interni.

Trovai gli uomini allineati con le spalle al Palazzo. Era stata sistemata una pedana in legno al centro della formazione con sopra disposti i cinque esecutori della spedizione illegale.

Gli ufficiali maggiori e minori stavano ritti nelle prime file, alle spalle le unità loro assegnate.

Quando uscii all’aperto mi concentrai sul rumore dei passi miei e di Chevalier sulla ghiaia. Con una rapida occhiata, presi nota di tutti i volti tirati che avevo intorno.

I raggi di sole erano accecanti, troppo allegri rispetto l’umore generale. Ma gli uomini si trovavano in un punto d’ombra, quindi non fu difficile vedere le loro facce tramortite.

Sarei stata io a impartire le frustate, come volevano le regole militari, le quali assegnava questo compito alla parte lesa, qualora questa fosse stata nelle condizioni di portarlo a termine.

“Nessuna emozione, nessuna espressione”, era quello che continuavo a ripetermi, ignorando la stretta allo stomaco.

Non mi piaceva punire la gente in modo barbaro. Disdegnavo il rumore dello schiocco della frusta sulla pelle, soprattutto quello della pelle che si lacerava, accompagnato dai gemiti di dolore.

Non era certo il sangue a infastidirmi, piuttosto il pensiero di infliggere un dolore sadico. In uno scontro a viso aperto, mettevi in gioco la tua stessa vita e se ferivi l’avversario era per difesa: c’era equilibrio, dunque.

Infierire su uomini legati, era tutta un’altra storia. 

Avevano sbagliato e dovevano pagare, sì, ma avrei preferito di gran lunga uno scontro diretto, senza esclusione di colpi, anziché quello che offriva il sistema.

“Nessuna emozione, nessuna espressione”, ripresi a ripetere, mentre salivo le scale e mi avvicinavo al tavolo con la frusta cerimoniale: era lavorata in modo che il cuoio non infliggesse tutto il dolore di un vero strumento di tortura, ma risultasse pur sempre sufficiente allo scopo.

Raafael si portò al mio fianco. Dopo una solenne pausa, prese la parola.

«Ci troviamo riuniti per assistere all’esecuzione della pena dei soldati Uron Yhan, Tehoor Asafet, Yuto Gut, Valen Tih e Berioth Oshaterasta. Il luogotenente in diritto è Erin Knight che è stata attaccata da una squadra esecutiva due notti fa. La pena assegnata è di centoventi colpi di frusta.»

Un mormorio percorse le file, l’indignazione era evidente tra i soldati.

Tra i condannati, Berioth spiccava per il livore, non si preoccupava di nascondere l’odio che provava nei miei confronti.

Gli altri erano pallidi, per lo più taciturni. Il più giovane di tutti, Valen, gemette, in ansia per ciò che lo aspettava.

Raafael riprese con un tono di voce più deciso: «Le frustate sono meritate. Da quando sono al comando non si era mai verificato un fatto così increscioso come che un luogotenente venisse attaccato. La durezza della pena è da imputare alla viltà con la quale è stata organizzata e condotta questa ridicola spedizione! Perciò lo dirò una volta sola: che nessuno osi alzare un alito di protesta, a meno che non voglia assaggiare anch’egli la frusta per mano mia».

L’ultima minaccia, efficacissima, spense i restanti malcontenti.

«A voi la parola, luogotenente Knight», disse, facendosi da parte.

Ora la scena era tutta per me, ma io non ero in vena di dar spettacolo: dilungarsi in commenti sulla fiducia tradita era fuori luogo, sapevo che non avrei mai potuto ottenere il loro rispetto.

Avrei portato a termine il mio compito e basta.

Volsi le spalle all’assemblea e fissai in viso gli uomini uno a uno, prima di raccogliere lo strumento.

Cominciò una serie infinita di movimenti: il mio braccio che si alzava, sospeso per appena un momento prima di abbassarsi con uno scatto, aprendo una ferita dopo l’altra.

Dopo il primo centinaio di colpi, tutto ciò che mi permisi di udire fu il sibilo dell’aria tagliata dalla frusta.

Più si protraeva il tempo, più i miei muscoli cominciarono a cedere all’aggressione dei crampi. Tentai di ignorarli per un po’.

Anche se pensavo che non avrei provato nulla per quella punizione, in realtà, quando arrivò il turno di Berioth, l’aspro risentimento che mi istigava mi infuse qualcosa di simile alla soddisfazione. Tra tutti, era l’unico che meritava veramente quella violenza.

L’uomo si consumò i polmoni a forza di maledirmi, tanto che al centoventesimo colpo ebbe solo la forza di gorgogliare, quasi non riuscendo a riprendere fiato.

A causa dell’agitazione, aveva perso più sangue degli altri. Dopo un paio di rantoli, sembrò riacquistare l’uso della parola.

«Maledetta cagna», sputò tra i denti in modo udibile anche a distanza.

Sollevai automaticamente la frusta e gli inflissi un ulteriore percossa, inaspettata e, per questo, più dolorosa.

«Ti consiglio di moderare il linguaggio, Berioth: sono ancora da questo lato della frusta e sono pronta a usarla.»

Raafael fece un passo nella mia direzione, pronto a impedirmi di sconfinare. Anche Chevalier si mosse, frapponendosi tra me e il Comandante. 

Toccai il braccio di Chevalier, il quale si fece immediatamente da parte, ma non servì a placare la tensione creatasi. Raafael trasudava indignazione e pareva sul punto di prenderlo a pugni per avere osato pensare di ostacolarlo. Chevalier mantenne un’espressione neutra, attentissimo e pronto a ogni evenienza.

«Cosa faresti se un tuo subordinato si rivolgesse a te usando questo linguaggio scurrile?», domandai al Comandante.

Questi si accigliò, distogliendo l’attenzione dalla mia guardia. Dopo un momento, riconobbe: «Gli farei rimangiare le parole a suon di frustate».

«Dunque sono autorizzata a punirlo se continua così.»

Raafael sospirò. «Se continua hai il permesso di punirlo.»

«Che ne dici, Berioth? Credi ti convenga fare ancora il duro?»

Con la curva della frusta, imbrattata di sangue, lo obbligai a piegare il viso sudato. Mi lanciò uno sguardo di fuoco, raccogliendo le forze per tentare di sputarmi addosso: tutto quello che gli riuscì, però, fu di imbrattarsi il mento di saliva. Una cosa disgustosa.

Gli assesstai un fendente sulla bocca che gli spaccò entrambe le labbre, aprendo una ferita fino alla base dell’occhio.

Stanca della sua insolenza, con un calcio alle gambe lo mandai in ginocchio e gli arrotolai il cuoio attorno al collo, soffocandolo. Si agitò con energia sorprendente, ma dopo diversi secondi finalmente svenne.

Lo scavalcai senza cerimonie, arrivando all’ultimo soldato.

Valen, che aveva assistito a tutto lo spettacolo, tremava di paura e si ritrasse istintivamente quando mi accostai a lui. 

Punirlo fu straziante: non aveva assolutamente la stoffa del soldato. Ogni volta che lo colpivo mi appariva sempre più giovane di quanto in realtà fosse e alla cinquantesima percossa non ne potei davvero più. 

Gettando malamente l’arma sulla pedana, mi allontanai tergendomi il sudore dalla fronte.

«Non hai terminato, Knight», disse Raafael, sorpreso.

«È stato l’unico a collaborare, per cui gli condono il resto della pena.»

Anche quello era un mio diritto.

Il Comandante lasciò perdere e fece cenno ai servitori di ripulire e di occuparsi dei feriti.

«Cosa farai adesso?», domandò.

«Partire, come avevamo concordato.»

  

[Il giorno prima ]

 

Raafael mi fissava in silenzio, per niente contento delle notizie che portavo. A suo avviso, ultimamente mi trovavo sul piede di guerra con troppe persone e rischiavo di rovinare gli equilibri interni della milizia.

Oggi mi sentivo stanca e spossata, per nulla incline a portare avanti una discussione più del necessario. 

Dovevamo prendere importanti e inevitabili provvedimenti, ma non avevo voglia di sollecitare una risposta da parte sua: ero stufa di parlare.

Rimasi immobile come una pietra, attendendo placidamente, come se il tempo non importasse. 

Anche Chevalier pareva assente, non lo si sentiva nemmeno respirare: stava tranquillo, e apparentemente inoffensivo, in un angolo dello studio.

Il mio sguardo scivolò di lato, posandosi sull’antica mobilia, sulle pareti decorate con tele di famose battaglie e sulle suppellettili un po’ antiquate il cui maggior compito era quello di raccogliere polvere.

Poi, fuori dalla finestra, mi persi a fissare il cielo. Attutiti, dallo spiazzo sottostante, arrivavano i rumori del metallo che cozzava ritmicamente, ma non coprivano il cinguettio degli uccelli più in alto.

Chiusi gli occhi e inspirai a fondo, rilassandomi completamente: i rumori familiari mi ricordavano le giornate primaverili trascorse ad allenarmi duramente assieme allo zio e agli altri ragazzi.

C’era stato un tempo in cui una sana competizione rendeva stuzzicante la sfida con l’altro sesso: i motteggi pieni di brio non erano mai intesi veramente a offendere, e mi piaceva prendermi piccole rivincite coi ragazzi un po’ troppo pieni di sé.

Un ricordo in particolare si fece presente alla mente: ero stesa all’ombra di un albero dopo una sessione particolarmente intensa di esercizi. Bevevo lunghe sorsate d’acqua, rovesciandomene addosso più della metà.

Uno dei ragazzi più grandi si avvicinò per strapparmi di mano la fiasca.

«Sam, che cavolo! Vatti a procurare l’acqua nelle cucine, questa è mia!», strillai contro il ragazzo. 

«Stai calma, pulce. Ti ho chiesto solo un sorso, no?», disse, sollevando il braccio sopra la mia testa e ridendo dei miei tentativi di recuperare la borraccia.

«Non l’hai proprio chiesto, Sam!»

«Perché non ne ho bisogno.»

Sbuffai, tirandogli una gomitata che deviò senza sforzo.

«È vero. Tutte le ragazze sono felici di darmi quello che voglio.»

«Che sbruffone che sei! Mi chiedo come ti sopportino.»

«So rendermi amabile, quando voglio», commentò scrollando le spalle e prendendo una lunga sorsata. 

Asciugandosi la bocca, mi restituì l’oggetto rubato.

«Fatico a crederci, davvero», protestai, tirandogli addosso la fiasca ormai vuota.

Lui scoppiò a ridere. «Ti metti a lanciare le cose adesso? E speri di farmi male in questo modo?»

Rise impunemente fin quando non gli assestai un gancio destro allo stomaco: gli si spezzò il fiato al mezzo e cominciò a tossicchiare.

«Ouch, ragazza! Che male. Ma sei forte, lo sai? Ah ah ah… eh però!»

Feci l’errore di abbassare la guardia, ero troppo soddisfatta di avergli fatto male: con uno scatto mi afferrò i polsi, strattonandoli verso l’alto e costingendomi a stare in punta di piedi.

«Dunque non credi che io possa rendermi amabile, pulce?»

«Tu non sai neanche cosa significhi questa parola, idiota!», gridai, senza riuscire a liberarmi.

Col solito sorrisetto beffardo mi fissò, con studiata lentezza guardò tutto il mio corpo teso.

«Magari un giorno potrò concederti un assaggio… adesso sei un po’ troppo acerba per i miei gusti, spiacente.»

Ciò detto, mi liberò le mani, voltandomi le spalle.

«Morirai di fame prima di potermi assaggiare, Samuel!»

Con un balzo, mi lanciai su di lui credendo di coglierlo impreparato ma aveva anticipato la mia mossa. Mi afferrò alla vita, mettendomi in spalla, e cominciò a girare su se stesso per disorientarmi.

Mi scappò un piccolo gemito di sorpresa. 

Quando lo giudicò opportuno mi buttò per terra, badando a non farmi male; mentre cercavo ancora di riprendermi dalle vertigini, mi baciò schiacciandomi sull’erba.

Non ebbi neanche il tempo di arrabbiarmi, tanto fu inaspettato.

La prima cosa che avvertii fu l’estraneità di quel contatto: labbra calde e morbide premevano e si muovevano sulle mie. Il sapore pungente di uomo mi turbò.

Quando riuscii di nuovo a ragionare, mi indignai. Come osava prendersi quelle libertà?

Samuel dovette percepire il cambiamento delle mie emozioni perché si affrettò a sollevarsi da me, mettendosi fuori portata con un salto.

Mi trattava come fossi una tigre infuriata, ma continuava a ridersela sotto i baffi.

«Ottimo assaggio», si prese gioco di me mentre fumavo d’ira.

Non l’avrei mai ammesso apertamente, ma ero incapace di reggermi sulle gambe. Ovviamente, il fatto che non tentai nemmeno di sollevarmi da terra non gli sfuggì. Rise più forte, ma la voce gli si era abbassata di tono e sembrava più virile.

«Io dico che mi pregherai», ribadì riprendendo la strada verso il campo.

«Te lo puoi scordare!» gli gridai dietro al secondo tentativo.

Avevo le guance in fiamme per la vergogna e la rabbia: l’avrei volentieri fatto a pezzi.

Non mi resi subito conto che il Comandante aveva cercato di attirare la mia attenzione.

«…rin… Erin!»

«Che c’è?», sussultai.

«Che c’è, mi chiedi? Sei venuta a rifermi che questa notte una squadra punitiva ha cercato inutilmente di darti una lezione, contro ogni buon senso, e mi chiedi “che c’è”?»

Sollevai un sopracciglio. «Sì, io ti ho riferito dell’accaduto. Attendevo che fossi tu a dire qualcosa.»

Dopo un momento, decise di soprassedere al mio strano atteggiamento e disse: «Chiaramente non possiamo lasciare impunito un comportamento simile».

Avevo previsto che sarebbe stata la sua conclusione, per cui rimasi impassibile mentre continuava a parlare: «Dobbiamo stabilire la data della punizione. Deve essere eseguita pubblicamente, preferibilmente nel cortile del campo d’allenamento: in quella zona è possibile ospitare tutti e sarà più facile montare l’impalcatura. Chiaramente sarai tu a eseguire il castigo, luogotenente Knight».

«Certamente. Lo faremo il prima possibile.»

«Dopodomani sarebbe…»

«Domani», l’interruppi decisa.

Raafael fu sul punto di replicare ma si trattenne. Poi acconsentì spazientito.

«Darò ordine di sgombrare e preparare immediatamente il cortile esterno. E farò girare un comunicato tra i superiori.»

«Vi ringrazio.»

«Ho intenzione di parlare chiaramente con te, Knight», proruppe d’improvviso col volto serio.

«Prego, ditemi, Comandante.»

«Intendo allontanarti per qualche tempo. L’attacco della scorsa notte non è altro che il concretizzarsi di tutti i miei sospetti. Non gira una buona aria e tu non migliori assolutamente la situazione: sei come un materiale altamente infiammabile a contatto col fuoco.»

«Signore, io non ho fatto nulla per…»

«No, tu non hai fatto nulla. Basta la tua sola esistenza per creare scompiglio, di questo ti sarai accorta.»

«Con tutto il rispetto, signore, qui il problema non sono io, ma i vostri uomini, compresi i luogotenenti che ne sono a capo», protestai irritata.

Addio serenità”, pensai rassegnata.

«Può anche darsi, ma sta di fatto che loro rappresentano la maggioranza e a me spetta ancora il compito di sedare queste… queste rivolte interne. Che diamine, una spedizione punitiva! Da che sono al comando non era mai accaduta una cosa simile.»

Raafael abbandonò il suo posto in preda all’agitazione. Era evidente quanto non sopportasse le insubordinazioni: facevano venir fuori il lato più spaventoso della sua personalità.

«Molto bene. Sono già senza uomini, non mancherò a nessuno. Dove vorreste spedirmi?»

«Ti manderò come scorta del principe, per un incontro diplomatico, nello Yefren.»

«Conosco i suoi “incontri diplomatici” e vi assicuro che non ha bisogno di alcuna scorta

«Tu lo seguirai. Questo è un ordine.»

Mi fissò con astio, pronto ad affrontarmi se mi fossi opposta.

Sapevo di averlo già stuzzicato abbastanza negli ultimi tempi, dunque giudicai prudente non fornirgli ulteriore motivo di scontento. Inoltre aveva ragione: la situazione stava drasticamente precipitando e mi avrebbe fatto bene un periodo lontano dai problemi dei soldati.

L’unica cosa che mi aveva spinto a protestare era l’indesiderabile presenza di Joshfen: il pensiero di averlo vicino così allungò ebbe il potere di abbattermi, peggiorando il mio malumore. Ma inghiottii il rospo e lasciai correre.

«Signorsì, Comandante» dissi poco convinta.

“Almeno”, tentai di consolarmi, “avrò l’occasione di condurre qualche indagine sul medaglione.”

«L’esecuzione sarà domani a mezzogiorno. Rimane da fissare il numero delle frustate… settanta? Ottanta?»

«Centoventi.»

«Sono di più del consueto», commentò con un tono cupo.

«Ne sono perfettamente consapevole.»

Con un cenno del capo accondiscese. «E centoventi siano.»

 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1088717