I'll get you

di Kia85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** This boy ***
Capitolo 2: *** It won't be long ***
Capitolo 3: *** A day in the life ***
Capitolo 4: *** In spite of all the danger ***
Capitolo 5: *** What you're doing ***
Capitolo 6: *** A hard day's night ***
Capitolo 7: *** We can work it out ***
Capitolo 8: *** Birthday ***
Capitolo 9: *** From me to you ***
Capitolo 10: *** In my life ***
Capitolo 11: *** Help! ***
Capitolo 12: *** Good day sunshine ***
Capitolo 13: *** You're gonna lose that girl ***
Capitolo 14: *** I've got a feeling ***
Capitolo 15: *** Here comes the sun ***
Capitolo 16: *** Helter Skelter ***
Capitolo 17: *** You've got to hide your love away ***
Capitolo 18: *** I want to hold your hand ***
Capitolo 19: *** A taste of honey ***
Capitolo 20: *** I'm looking through you ***
Capitolo 21: *** You can't do that ***
Capitolo 22: *** Hold me tight ***
Capitolo 23: *** If I fell ***
Capitolo 24: *** Run for your life ***
Capitolo 25: *** Don't bother me ***
Capitolo 26: *** Do you want to know a secret ***
Capitolo 27: *** I'll cry instead ***
Capitolo 28: *** Till there was you ***
Capitolo 29: *** All you need is love ***
Capitolo 30: *** All together now ***



Capitolo 1
*** This boy ***


I’ll get you

 

Prologo: “This boy”

                                                                                                                                  

Giugno 1995

 

L’Amber Taverns era uno dei pub a Warrington che trasmettevano la partita di rugby della nazionale inglese.

Quella sera l’Inghilterra affrontava la Francia per il terzo posto alla Coppa del mondo, in Sudafrica.

Il ragazzo si congratulò con se stesso: non poteva scegliere serata migliore per il suo colpo.

Davvero, cosa poteva chiedere di meglio di un pub pieno zeppo di tifosi inglesi ubriachi fradici? Tifosi incazzati perché la propria squadra stava letteralmente facendo schifo, e quindi non molto attenti ai loro averi, dove per “averi” il ragazzo intendeva sostanzialmente i loro portafogli. Magari sarebbe riuscito a procurarsene uno traboccante di deliziose e profumate sterline.

Ok, ora però era il suo stomaco a parlare. Perché sì, stava morendo di fame e perché deliziose e profumate potevano essere di sicuro le patatine fritte, un po' meno le banconote. Patatine fritte dorate e croccanti, che gli facevano venire l'acquolina in bocca e che continuavano a essere servite ai clienti al bancone, lì dove c’era il televisore con la maledetta partita in onda.

Basta! Il ragazzo decise di darsi una mossa, altrimenti non avrebbe mangiato neanche quella sera. Solo due giorni prima era ancora nella casa della sua ultima famiglia affidataria, a Liverpool, e ora eccolo, lontano dalla sua città natale, scappato dopo essersi stancato di tutto e tutti, di essere spedito da una casa all'altra dall'età di cinque anni, come il semplice testimone di una staffetta, solo perché era un tantino vivace e indomabile.

Era un piccolo vagabondo di dodici anni ormai, in fuga, povero in canna e con lo stomaco vuoto. Aveva deciso che per far fronte a quel bisogno, doveva riprendere a fare ciò per cui sembrava aver sviluppato da qualche anno un vero talento: rubare.

Non c'era altro modo per mangiare, prima di tutto, e per raggiungere più velocemente la sua destinazione: la grandiosa città di Londra.

Lo stomaco in quel momento gli ricordò la sua fastidiosa presenza e il ragazzo si fece coraggio.

Avanzò ulteriormente nel locale intriso di odore di frittura, birra e sudore, e storse il naso. Meglio non essere vicino a un tifoso inglese quando la sua squadra stava perdendo: era una vera tortura non solo per l’udito, ma anche e soprattutto per l’olfatto.

Tuttavia il piccolo doveva sopportare e avvicinarsi per poter sgraffignare ciò che gli serviva.

Così prese un profondo respiro e si intrufolò nella calca davanti al bancone. Lui era piccolo e mingherlino e scivolava bene in mezzo alle persone ammucchiate, tutte intente a bere e urlare contro qualche giocatore che non stava facendo il proprio dovere.

Individuare gli obiettivi più semplici non fu complicato. Erano lì, incuranti che un piccolo ladro stesse per sfilare loro ciò che causava quel rigonfiamento nella tasca posteriore dei pantaloni.

Le sue dita erano ancora piccole e affusolate, nessuno avrebbe percepito il loro tocco lieve e sfuggevole.

Sfilò il primo portafoglio, uno di tela azzurra, da un ragazzo che stava urlando, “Fottuto Andrew, muovi il culo!”

Il secondo, di pelle nera, tutto logoro, apparteneva a un uomo che poteva essere benissimo suo padre, e che stava guardando pigramente la televisione, con fare assente, come se fosse in un mondo tutto suo, suo e del suo boccale di birra mezzo vuoto.

Il terzo, un elegante e nuovissimo portafoglio lucido e decisamente gonfio, proveniva direttamente dalla giacca di un distinto signore, distinto solo nell’aspetto perché in effetti era già sbronzo a metà partita. Ok, l'Inghilterra non era messa bene quella sera, ma cazzo, un po' di contegno! Si trattava pur sempre di una semplice partita di rugby.

Proprio mentre il piccolo controllava che la refurtiva fosse al sicuro, la Francia realizzò un'altra meta e tutti i tifosi reagirono pesantemente, rossi in viso, imprecando e alzando le mani verso il televisore, come se potessero davvero arrivare ai fottuti giocatori della loro nazionale.

Coglioni, pensò il ragazzo quando si sentì spingere a terra, sul parquet sporco e appiccicoso.

Subito si rialzò, pulendosi alla bell'e meglio i pantaloni e la giacca troppo grande che aveva sgraffignato prima di scappare da Liverpool.

Apparteneva a quello stronzo che era così vigliacco da picchiare sua moglie. Aveva provato ad alzare le mani anche su di lui, quando aveva capito che non era poi così facile domarlo, ma il giovane ragazzo non aveva alcuna intenzione di farsi anche solo sfiorare dalle sue mani luride. Così l'aveva colpito una, due, tre volte con quella mazza da baseball che avevano comprato proprio per lui, per aiutarlo a scaricare la sua rabbia. E lui l'aveva fatto. Solo che si era scaricato sul corpo di quel folle. Poi era fuggito, senza preoccuparsi delle condizioni in cui aveva ridotto l'uomo.

In ogni caso, se l'era meritato. Bastardo di merda!

Ora il ragazzo si precipitò fuori dal locale, con noncuranza, per non dare troppo nell'occhio. Con la stessa compostezza con cui era entrato, varcò la soglia del pub e fu libero. Al sicuro, nell'aria fresca della sera.

Ridendo divertito, mentre sentiva il peso nelle sue tasche, che voleva dire tutto per lui, si allontanò con passo affrettato fino a trovare un vicolo stretto e poco illuminato, dove poter esaminare il bottino con tranquillità.

Si sedette con la schiena contro il muro freddo, e cominciò a prendere il primo portafoglio, quello elegante e lucido che si rivelò essere anche ben fornito. C'erano almeno centocinquanta sterline più qualche spicciolo. Aveva fatto bene ad adocchiare il distinto signore con la giacca sofisticata e le guance rosse per il bere. Beh, con questo era a posto per un po'. Significavano cibo e qualche vestito più caldo per la notte e ancora cibo...

La gioia per aver trovato un tale tesoro era così immensa che non fu scalfita dalla delusione per aver trovato una misera banconota da dieci nel portafoglio di tela del ragazzo.

Ci riuscì, però, il rendersi conto che mancava un portafoglio all'appello. La realizzazione lo lasciò davvero sconvolto. Cos’era accaduto? Ricordava che fossero tre. Ricordava di aver preso il secondo e di averlo infilato nella tasca della giacca. Ricontrollò ancora una volta, ma niente da fare. Era sparito. Dove diavolo era finito? Forse l'aveva perso quando era caduto? O forse nel breve tragitto dall'uscita del pub?

Dove cazzo-?

"Stai forse cercando questo?" fu la domanda che giunse improvvisamente alle sue orecchie.

Con uno scatto il ragazzo balzò in piedi, osservando l'uomo all'inizio del vicolo. Nella fioca luce del lampione, poteva vedere questa sagoma alta e magra, e cosa assai più importante, aveva un portafoglio dall'aspetto familiare in mano. Il giovane ragazzo spalancò gli occhi quando riconobbe l'uomo a cui aveva sottratto il secondo portafoglio.

Voleva chiedergli come avesse fatto a riprenderselo, ma si ritrovò non solo incapace di parlare, ma soprattutto non molto desideroso di farlo, semplicemente perché non si fidava. In questi casi non bisognava fidarsi mai.

Dal canto suo, l’uomo osservò il piccolo ladro con un sorriso sul volto: poteva percepire perfettamente la sua paura, era bravo a nasconderla, ma era evidente che lo temesse, pensando magari che fosse un poliziotto.

E come biasimarlo, era ancora un ragazzino.

"Immagino che tu ti stia chiedendo come abbia fatto a riprenderlo." disse l'uomo, e il ragazzino annuì in modo impercettibile, provocandogli una piccola risata, "Segreti del mestiere, figliolo."

John aggrottò le sopracciglia, titubante. Mestiere un corno! E se quel tizio fosse stato uno sbirro? Se stesse solo cercando di avvicinarlo perché l’aveva visto rubare e poi l'avesse arrestato? E se avesse scoperto da dove veniva e ciò che aveva fatto? Questa volta non sarebbe stato spedito solo in un orfanotrofio, l'avrebbero rinchiuso in un cazzo di riformatorio e lui sapeva bene che luoghi fossero quelli. Li facevano passare come centri di custodia per giovani delinquenti, ma la sostanza non cambiava: rovinavano i ragazzi, invece di correggere il loro cattivo comportamento.

“Hai fatto un bel lavoretto dentro al pub. Ho visto come hai sfilato i portafogli, sai, ti ho notato subito quando sei entrato, anche se tu non te ne sei accorto." esclamò con una punta di ammirazione, "Dopotutto, te lo si leggeva in faccia, cosa avessi intenzione di fare. E se posso permettermi di darti un piccolo consiglio, dovresti stare più attento a queste cose. Sono molto importanti per la buona riuscita del colpo."

Il ragazzo non disse nulla, si limitò a continuare a guardarlo, ancora teso e pronto a scappare al primo movimento sospetto dell’uomo. Lui era più piccolo e veloce, l’avrebbe seminato in men che non si dica. Un vero gioco da ragazzi.

"Sei un tipo taciturno tu, eh? Come ti chiami?" continuò a dire l'uomo, mentre camminava verso di lui.

Più gli si avvicinava, più poteva vedere quanto fosse giovane questo ragazzo. Quasi un bambino, come quelli che lui era stato costretto ad abbandonare a casa sua. Questo ragazzino non poteva essere molto più grande del suo primogenito.

"Pete."

Lo sguardo che il ragazzo ricevette fu uno molto comprensivo e quasi...affettuoso?

"Se mi dici il tuo vero nome, ragazzino..." iniziò  l'altro, ridendo, "Potremo condividere il contenuto di questi altri due bottini, che ne dici?"

John guardò sbalordito, mentre l'uomo estraeva altri due portafogli dalla sua giacca e li mostrava proprio a lui.

"Dove li hai-?" iniziò a chiedere, prima di pensare e riuscire a fermarsi dal cominciare a dare confidenza a questo perfetto sconosciuto.

"Presi? Beh, c'è stata una piccola rissa al pub. Colpa di un fottuto francofilo. E dannazione, le ammucchiate di quel genere sono una manna dal cielo per gente come noi."

"Poveri?"

"Ladri.” rispose con una risata.

‘Pete’ stava abbassando lentamente le sue difese e l’uomo voleva solo dirgli che non aveva alcun bisogno di temerlo, perché non gli avrebbe fatto del male. Fin dal primo momento in cui l’aveva visto, aveva percepito la disperazione nei suoi occhi, lo stesso bisogno di scappare verso un posto e una vita migliori. E lui voleva solo aiutarlo, perché gli ricordava troppo se stesso e i suoi bambini, bambini che sicuramente ora dovevano odiarlo.

"Quindi…” disse il ragazzo, fissandolo ancora incerto, ma non totalmente chiuso in sé, “Non sei uno sbirro?"

"Hai mai visto uno sbirro rubare qualcosa?"

Il piccolo ladro scosse appena il capo, senza distogliere lo sguardo dall'uomo.

"Allora non lo sono." commentò questi, sorridendogli dolcemente, "Ora me lo dici, il tuo nome?"

Lui si guardò le mani incerto, non si fidava ancora del tutto, ma il sorriso dell'uomo era così rassicurante. Era come se volesse dirgli che d'ora in poi sarebbe andato tutto bene.

Come se volesse dirgli di fidarsi di lui perché in fondo, erano nella stessa situazione.

Così annuì.

"Mi chiamo John. John Lennon."

"Bene, John Lennon, sei di queste parti?"

"Liverpool."

Lo sconosciuto sembrò essere preso in contropiede e il suo sorriso vacillò: "Liverpool?"

"Sì, perché?"

"Anch’io sono di Liverpool. Sembra che abbiamo non solo un'abilità in comune, ma anche le stesse origini." rispose l'uomo, e la sua espressione si chiuse improvvisamente in qualcosa di malinconico e triste, "Come sei finito qui?"

"Sono scappato." rispose John, tornando a sedersi per terra.

"Da cosa stai scappando?"

John guardò l'uomo, mentre lo raggiungeva a terra: "Persone che vogliono mettermi in gabbia."

"In gabbia? Chi vuole mettere in gabbia un piccoletto come te?" domandò l’altro, incredulo.

"Quei mostri che vogliono affidarmi per forza a una famiglia. Io non ho bisogno di una famiglia. Ho anche preso a mazzate l'ultimo stronzo che doveva prendersi cura di me."

"A mazzate?"

"Sì. Voleva picchiarmi e mi sono difeso."

L’uomo annuì vagamente: "Capisco."

"E tu che ci fai qui?"

"Anche io sto scappando dalla gabbia."

"Cosa hai fatto?" gli chiese John, ora sinceramente interessato a questo strano sconosciuto che gli si era avvicinato.

Forse, dopotutto, poteva fidarsi.

"Ho messo in pericolo mia moglie e i miei due figli.” disse con un gran sospiro, “E ho preferito abbandonarli, piuttosto che vederli soffrire a causa mia."

"E ora che farai?"

"Andrò a Londra per rifarmi una vita."

"Anche io voglio andare a Londra." esclamò John e finalmente sorrise di un sorriso genuino.

L'uomo si voltò a guardarlo, sorpreso, e rise debolmente: "Vuoi venire con me?"

"Sì. Tu mi aiuti ad arrivare a Londra e io ti aiuto con qualche furto."

"In effetti…” disse l’uomo pensieroso, “Insieme potremmo farcela."

John annuì: “Certo che possiamo farcela, John Lennon riesce sempre in tutto.”

"Bene, sembra che abbiamo un affare, John." esclamò l'uomo, porgendogli la mano, "Che ne dici di chiamarmi Jim?"

 

Note dell’autrice: buon salve e buona Pasqua. J

Così, iniziamo con questa nuova storia, una AU… sì, adoro le AU. :3 Ne ho scritta praticamente una in ogni fandom in cui ho scritto ff, quindi, i Beatles non potevano farla franca.

Non c’è molto da dire per ora, il prologo dice poco, ma in effetti è il compito di un prologo.

Ringrazio kiki per la correzione, _SillyLoveSongs_ per alcuni consigli, e ringostarrismybeatle per sopportare le mie paturnie sempre.

Il prossimo capitolo, “It won’t be long”, beh… se riesco a tradurre il nuovo capitolo di Pesce d’aprile per martedì, arriverà mercoledì. :D

Ancora auguri.

Kia85

 

 

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Capitolo 2
*** It won't be long ***


I’ll get you

 

Capitolo 1: “It won’t be long”

 

Londra 2010

 

Quando l’uomo uscì dalla finestra, saltando a terra con un agile balzo, inspirò a fondo l’aria della sera, frizzante, ma piacevole. La primavera era finalmente arrivata.

L’allarme dell'Hard Rock Café aveva iniziato a suonare già da cinque buoni minuti e le sirene della polizia si erano unite solo da poco, quando avevano capito che il ladro era riuscito nel suo intento ed era poi fuggito.

Ora lui stava correndo per tutto Hyde Park, mentre le volanti della polizia sfrecciavano lungo le strade che contornavano uno dei più bei parchi di Londra.

Il ladro rise, continuando a correre e stringendo la presa sulla sacca con la refurtiva che portava sulle spalle. Un altro colpo era andato a buon fine. Doveva solo sbarazzarsi di quei fastidiosi poliziotti. Non che sarebbe stata un’impresa particolarmente difficile, anzi, lui ci stava anche prendendo gusto.

Era quasi divertente, vedere come si affannavano per cercare di stargli dietro, così goffi, patetici perché non avevano ancora capito che Hermes era imprendibile.

Per esempio, in questo caso la polizia avrebbe perso tempo ad aprire i cancelli per entrare con le proprie auto nel parco. La tentazione di prendersene gioco fu troppa e Hermes decise di farsi vedere, solo un po’, un piccolo movimento nell’ombra, così quello stupido dell’ispettore Sutcliffe si sarebbe precipitato fuori, iniziando a correre alla cieca dietro alla sua preda, senza aspettare che anche le auto potessero entrare.

E infatti le cose andarono proprio come previsto.

Avventato, Stu…molto avventato, pensò il ladro.

Ma come biasimarlo dopotutto? Aveva saputo che era la sua ultima occasione per catturare il famigerato Hermes. Se avesse fallito, probabilmente il povero ispettore sarebbe stato trasferito chissà dove, forse in campagna in un paesino sperduto con sole  mille anime, in cui la cosa più eccitante  che potesse capitare a un poliziotto era una strada intasata da un gregge di pecore.

E il ladro sapeva che quello era ormai l’inevitabile destino della sua nemesi, perché non aveva davvero nessuna intenzione di farsi catturare.

Quando l’ispettore entrò nella sua visuale, il ladro si diresse verso la Serpentine (1), sicuro di riuscire a seminarlo lì. In fondo, era ciò che prevedeva il piano.

Quando raggiunse il lago artificiale che separava Hyde Park dai Kensington Gardens, cercò immediatamente ciò che avrebbe depistato il suo inseguitore. Si trattava di una rimessa di piccole imbarcazioni e fra queste c'era anche quella che era stata sistemata lì proprio per lui. 

La vide subito perché era l'unica ad avere già un..."passeggero".

Il ladro si avvicinò e adocchiò il telecomando che era posto proprio accanto al manichino. Questo era stato vestito e legato al timone, in modo da stare ben in piedi e apparire nella penombra come la sua sagoma perfetta. Un lavoro decisamente impeccabile, e d’altro canto lui non poteva aspettarsi di meno da quel piccolo, splendido aiutante che gli procurava tutti questi trucchetti meravigliosi.

L’uomo afferrò il telecomando e corse a nascondersi sopra un albero, aspettando l'arrivo dell'ispettore, il quale non tardò ad arrivare, con la sua corsa maldestra e il respiro affannato. Hermes ridacchiò sommessamente e azionò con il telecomando il marchingegno sull'imbarcazione, che partì subito, facendo sussultare il povero ispettore.

"Ma cazzo!" imprecò lui, e si affrettò a recuperare un mezzo per inseguire la sua preda.

Il ladro dovette tapparsi la bocca con una mano per non scoppiare a ridere e farsi scoprire, mentre l'uomo cercava di far partire il motore della piccola barca.

"A tutte le unità." esclamò Stuart, parlando nella ricetrasmittente, "Il fuggitivo si dirige verso la riva ovest della Serpentine. Circondare e bloccare immediatamente ogni via di fuga."

L'ispettore riuscì a partire e il ladro sorrise soddisfatto. Il piano stava andando più che bene. Oh, quanto avrebbe voluto vedere le facce dei poliziotti, quando avrebbero scoperto che l'uomo sull'imbarcazione non era altri che un semplice e inanimato manichino.

Rimase sull'albero, mentre volanti della polizia arrivavano da qualunque parte del parco per cercare di bloccare e arrestare una volta per tutte Hermes.

Mentre queste si allontanavano dirette verso la riva ovest e i Kensington Gardens, il giovane uomo decise di aprire lo zaino per dare una rapida occhiata alla sua refurtiva: lì, tutto piegato alla rinfusa, c'era niente meno che il vestito a strisce bianche e nere che proprio Freddie Mercury aveva indossato nel Jazz tour dei Queen del 1978.

Lo sfiorò con una mano e sentì una vibrazione attraversare il suo corpo, la stessa che probabilmente riverberava nel corpo di quella leggenda d'uomo, la stessa causata dalla sua energia infinita, quella che mostrava in ogni concerto, fino agli ultimi giorni della sua troppo breve vita.

E ora quel vestito, quel cimelio, così come tanti altri, era nelle sue mani finalmente.

"John?"

John continuò ad ammirare quella meraviglia, l'aveva desiderata da troppo tempo, lui con la sua passione smisurata per la musica e in particolare per i Queen e-

"John!" lo chiamò ancora una voce dal suo auricolare.

"Sì, sì, ci sono, Georgie." rispose quasi spazientito per essere stato interrotto durante la sua opera di ammirazione.

"Quante volte ti devo dire di non chiamarmi Georgie?”

“Un’altra volta, mio caro.” esclamò John e si lasciò scappare una risatina, mentre controllava che non ci fosse più nessuno in giro.

“Chiudi quella bocca e muovi il tuo cazzo di culo." ribatté George, e John era quasi sicuro che si fosse offeso.

Il piccolo, suscettibile, scontroso George Harrison. Ah! Che prezioso aiuto era per John. E quanto si divertiva lui a prenderlo in giro...

"Arrivo, arrivo, rilassati un po', amico." esclamò John, saltando a terra e iniziando a correre dalla parte opposta rispetto alla polizia, "Sei a Marble Arch?"

"Sì, li hai seminati?"

"Tsk, George, non dirmi che avevi dei dubbi?" domandò, pensando ora di voler fare lui un po’ l’offeso.

“Dubbi sul famigerato Hermes? Mai e poi mai." commentò George con una piccola risata, e poi ancora, "Quindi Sutcliffe è fuori gioco ora?"

"Sutcliffe è fuori gioco. Hai visto che bella notizia ti porto?"

"John, sai meglio di me che anche se lo mandano via, chiameranno qualcun altro. Magari molto più sveglio del povero Stu."

John infine si ritrovò all'uscita su Marble Arch e individuò subito la moto nuova di zecca di George, l'ultimissimo modello della Honda, scintillante nelle luci della sera.

"Lo so." gli disse, raggiungendolo e guardandolo con un sorriso rassicurante, "Ma vedrai che non durerà a lungo. Faremo fuori anche lui."

George gli porse il casco, mentre John si abbassava il cappuccio della felpa, scuotendo il capo per ravvivare i suoi capelli ramati, "Come fai a esserne così sicuro?"

"Semplice." disse lui, salendo sulla moto dietro di lui e allacciandosi il casco, "John Lennon riesce sempre in tutto.”

“Forse intendevi Hermes?” domandò George, ridacchiando.

“John, Hermes, che importa? Sono la stessa persona.”

E avvolgendo le braccia intorno alla sua vita, i due sfrecciarono insieme per le vie di Londra.

Le sirene della polizia erano ormai un ricordo.

E Hermes aveva compiuto un altro colpo.      

 

****

“Allora, ispettore McCartney, benvenuto a bordo.” esclamò Richard Starkey, alzandosi in piedi.

“Grazie, signore, sarà un piacere lavorare con lei. Non la deluderò.” affermò Paul.

Egli si alzò e guardò il suo superiore, l’ispettore capo della stazione di polizia di Chelsea, un piccolo uomo con un notevole naso e grandi occhi azzurri, e gli sorrise fiducioso.

“Ne sono sicuro, a Liverpool parlano molto bene di lei.” disse Richard, accompagnandolo verso la porta del suo ufficio, “Affidiamo il caso alle sue mani.”

“Non si preoccupi, quel delinquente ha le ore contate.”

"Mi dica, ha già trovato un appartamento?"

"Sì, signore, ne ho trovato uno proprio qui vicino."

"Spero sia di suo gradimento."

"In effetti, non è niente male.” rispose Paul, annuendo entusiasta, “È una zona piuttosto tranquilla."

"Bene, allora si rilassi in questa giornata. Domani mattina prenderà servizio e da lì comincerà la sua caccia al ladro." esclamò Richard, stringendogli la mano.

Paul ricambiò la stretta, "Le assicuro che lo arresteremo, signore.”

L'ispettore capo gli rivolse un gran sorriso e dopo essersi congedato, Paul McCartney uscì dal suo ufficio, sfoggiando il più determinato dei sorrisi.

Richard Starkey, come Paul, era appena stato trasferito nella stazione di polizia di Chelsea, e dopo aver sollevato dal suo incarico il precedente ispettore Stuart Sutcliffe, che aveva fallito miseramente in tutto e per tutto, aveva assegnato quel posto al giovane e promettente ispettore McCartney.

Gli aveva assegnato l’incarico di acciuffare Hermes.

Quel ladruncolo da due soldi che infestava Londra, la magica, affascinante Londra. Paul aveva sempre desiderato andare a vivere nella capitale, e non avrebbe mai pensato in tutti i suoi quasi venticinque anni che questo desiderio si potesse avverare grazie a quella categoria di criminali che lui odiava di più: i ladri.

Li odiava perché il loro crimine è quello di sottrarti qualcosa che ti appartiene, qualcosa che tu hai pagato, e magari hai anche sudato sette camicie per guadagnare i soldi necessari per comprarlo, oppure qualcosa che ti è stato regalato e ha quindi acquisito un valore importante per te.

Paul aveva dedicato tutta la sua carriera da poliziotto a inseguire quei furfanti e recuperare le refurtive. Si era impegnato anima e corpo nel suo lavoro. Il motivo? Beh, quando tuo padre abbandona la tua famiglia dopo aver cominciato a rubare ed essersi messo nei guai, è il minimo che possa accadere. E Paul odiava suo padre tanto quanto odiava i ladri.

Ma ora ciò che contava era la sua promozione e il suo nuovo incarico. A Liverpool, Paul era riuscito a catturare una banda di truffatori farabutti che approfittavano di ingenui vecchietti per entrare nelle loro case e svaligiarle. Paul li aveva scovati abilmente e spediti dritti dritti in prigione, restituendo gran parte del maltolto ai proprietari.

E grazie a quell’impresa, era stato promosso ispettore e gli avevano proposto di prendere servizio nella stazione di polizia di Chelsea che si occupava del caso di Hermes.

Come dire no a una simile offerta?

Finalmente poteva accettare e lasciare tranquillamente Liverpool. Sua madre purtroppo era morta anni prima per un maledetto tumore al seno che l'aveva spenta troppo presto. E il fratellino Mike era sposato da appena un anno. Si era accasato con una brava ragazza, un bambino in arrivo e un lavoro sicuro come fotografo. Non aveva più bisogno delle cure amorevoli di Paul.

Inoltre a Londra Paul avrebbe potuto passare molto più tempo con la sua fidanzata Jane. Essendo attrice, lei trascorreva molto più tempo a Londra piuttosto che a Liverpool, quando era in Inghilterra. In questo modo avrebbero facilitato la loro relazione.

Sì, Paul non vedeva l'ora di cominciare quella nuova avventura. Quella che segnava l'inizio della parte più eccitante della sua carriera e la fine, una volta per tutte, del famigerato Hermes.

 

(1)- La Serpentine è il lago artificiale che separa Hyde Park dai Kensington gardens.

 

Note dell’autrice: e via con il capitolo 1. È arrivato anche Paul, anzi l’ispettore McCartney. :3

E ci sono anche George e Ringo, ovviamente, non potevano mancare.

Neanche a dirlo, in questo universo, si parlerà di molti artisti davvero esistiti, tranne i Beatles, che non ci sono mai stati. Non è credibile, ma è così. :D

Grazie a kiki per la correzione. Grazie anche a ringostarrismybeatle e _SillyLoveSongs_ per il loro dolce supporto e tutti quelli che seguono la storia.

Prossimo capitolo, “A day in the life”, il giorno dell’incontro. Wowowow!

Arriverà domenica, che sarà d’ora in poi il giorno di ogni aggiornamento, come in Ticket to Paris.

A presto

Kia85

 

 

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Capitolo 3
*** A day in the life ***


I’ll get you

 

Capitolo 2: “A day in the life”

 

Il quartiere di Chelsea era davvero meraviglioso.

Paul era così entusiasta per essere venuto a lavorare e vivere in quello che era sempre stato considerato il quartiere degli artisti. Tutto era incantevole, i colori vivaci, i suoni, gli odori… Dio, già lo amava.

Aveva fatto bene a vagare un po’ per le vie caratteristiche, di ritorno dalla stazione di polizia, ammirando affascinato il verde rigoglioso dei parchi, il Tamigi che scorreva tranquillo, il chiacchiericcio degli abitanti del quartiere, gli artisti di strada, i piccoli negozi di antiquariato…

Aveva anche individuato delle gallerie d’arte che gli sarebbe piaciuto visitare. Sicuramente agli occhi di qualcun altro sarebbe apparso come un turista che metteva piede per la prima volta a Londra. In realtà, vi era stato molte volte, sia per lavoro, sia per conto proprio. Ma non aveva mai avuto modo di visitare Chelsea. E ora ci sarebbe persino vissuto.

Quanto era fortunato? Aveva una importante carriera lavorativa, una fidanzata bella e famosa che lo adorava, un fratello affettuoso, una casa piccola e accogliente…

Certo, non poteva immaginare che quel giorno, proprio quello in cui aveva compreso appieno la sua fortuna, sarebbe stato anche il giorno in cui la sua intera vita sarebbe cambiata.

E tutto cominciò quando vide quel negozio.

Stava rientrando a casa, per sistemare gli ultimi scatoloni del trasloco; non aveva la stessa fretta di quella mattina, quando era uscito di corsa per andare alla stazione di polizia, né era troppo occupato a trasportare in casa le sue cose. Stava quindi esaminando e ammirando la piccola via in cui si trovava il suo appartamento. Non era molto stretta, ma le villette a schiera con soli due piani che la costeggiavano, la facevano sembrare più piccola di quanto non fosse. Ogni casa era dipinta di un colore diverso, colori tenui, giallo canarino, celeste, grigio, facendo risaltare il verde delle piante che decoravano la strada in tutta la sua lunghezza.

L’appartamento di Paul era di un celeste molto pallido e lui stava per rientrare in casa, quando si accorse che proprio lì di fronte vi era un negozio.

Un piccolo negozio di musica dall’aspetto piuttosto anticato. L’insegna di legno riportava il nome, Il tempio del rock.

Paul non seppe perché si sentì attirato da quel luogo. Al momento pensò che fosse colpa del nome. Il tempio rimandava all’Antica Grecia, come greco era anche il nome dell’uomo a cui lui stava dando la caccia, Hermes, meglio conosciuto come messaggero degli dei, ma Paul aveva fatto delle ricerche per conto proprio, quando era ancora a Liverpool, e aveva scoperto che la divinità greca era considerata anche il dio astuto, un viaggiatore nella notte, musico nonché, cosa assai più importante, ladro.  

E il profilo di questo delinquente sembrava rispecchiare pienamente quello del suo omonimo greco e divino. Era un ladro, ovviamente, agiva solo di notte, si credeva tanto furbo da avvisare in anticipo la polizia dei suoi colpi e rubava solo cimeli che avevano a che fare con grandi artisti musicali, in particolare del rock.

Forse fu tutto questo che lo fece avvicinarsi al negozio e poi aprire la porta ed entrare. Paul si guardò intorno, nel negozio vi erano solo due ragazzini tutti intenti a guardare dei cd e alla sua sinistra, vicino a una piccola cassa c’era un ragazzo pressappoco della sua stessa età, forse il proprietario: aveva capelli ramati un po’ più lunghi dei suoi e soprattutto, scompigliati, sul naso aquilino era appoggiato un paio di occhialini rotondi,  e aveva lo sguardo annoiato fisso sullo schermo di un computer portatile.

Il campanello l’aveva fatto destare solo un po’ dal suo torpore, giusto il tempo di sollevare lo sguardo verso il nuovo arrivato e salutarlo con un cenno del capo, “Buongiorno.”

“Buongiorno.” rispose Paul, prima di dare un’occhiata in giro.

Il locale era davvero minuscolo, per questo motivo non vi era neanche il più piccolo centimetro libero. Nella parte centrale vi erano banconi con scatoloni pieni di vecchi dischi in vinile, catalogati per genere. Alle pareti, invece, vi erano gli scaffali con i cd musicali, e più in su, mensole con libri sui più grandi artisti del rock, nonché diversi volumi di spartiti per chitarra, basso e-

Un movimento sospetto attirò l’attenzione di Paul, mentre osservava attentamente i titoli dei libri, un movimento che vide con la coda dell’occhio. I due ragazzini alla sua sinistra stavano ridacchiando sommessamente, mentre uno di loro stava infilando qualcosa sotto la giacca. Paul agì prima di rendersene conto. Si avvicinò, afferrando con forza il polso del ragazzo che stava rubando un cd.

“Lascialo andare subito!” gli intimò minaccioso, mentre il ragazzo allentava la presa sul cd, lasciando che Paul glielo sfilasse dalle mani, il tutto sotto gli occhi spaventati del suo amico.

“Tutto a posto?” chiese il proprietario, sollevando la testa.                          

“Questi ragazzini stavano cercando di rubare un cd.” rispose Paul, trascinando con sé il ladruncolo.

L’uomo non sembrò particolarmente turbato, quando furono di fronte al bancone e Paul appoggiò il maltolto di fronte a lui; anzi li guardò in modo quasi…divertito?

“Ehi, Danny, è la seconda volta che ti sorprendo questo mese.” lo rimproverò, ma l’espressione allegra del volto annullava completamente il richiamo.

Infatti il ragazzino gli rivolse un sorriso sfacciato, “Eh insomma, John, non ce li ho mica tutti questi soldi per questo cd. E poi oggi è il mio compleanno.”

“Davvero? Non era il tuo compleanno anche due mesi fa?”

“Ma questo è quello vero.”

L’uomo di nome John rise, prima di prendere il cd e consegnarlo al ragazzo, “Allora tieni e buon compleanno, ma non farti più vedere fino all’anno prossimo!”

I due ragazzi presero il cd e scapparono fuori dal negozio, lasciando Paul totalmente allibito per quanto accaduto.

“Ma come? Li lascia andare così?” domandò senza poter nascondere il suo sconvolgimento.

“Certo, sono solo due ragazzini di tredici anni.” rispose John, scrollando le spalle, “È abbastanza normale compiere qualche marachella alla loro età.”

Paul aggrottò la fronte, perplesso: un crimine era sempre un crimine.

“Lei trova? Io penso che a qualunque età un comportamento sbagliato debba essere corretto.”

“Sì, ma sicuramente non sarà questo che li farà diventare dei delinquenti in futuro.” esclamò John divertito, “Comunque la ringrazio per essere intervenuto.”

“Non deve ringraziarmi, è il mio lavoro.” disse Paul, mostrando il distintivo, “Ispettore Paul McCartney, del distretto di Chelsea.”

John alzò un sopracciglio, interessato, prima di porgergli la mano affinché la stringesse, “John Lennon. È nuovo di queste parti? Non credo di averla mai vista prima.”

“Sì, sono stato trasferito a Chelsea da Liverpool.”

“Ma guarda, anche io sono di Liverpool. Sono nato lì, ma dopo qualche anno la mia… famiglia si è trasferita a Londra. Si trova bene a lavorare nella capitale?”

“In realtà comincio domani, ma sono sicuro che mi troverò benissimo, mi hanno affidato un incarico molto importante.” rispose Paul, molto orgoglioso.

“Intende il caso di Hermes?”

Paul sbatté le palpebre sorpreso, “Come-”

John rise, “Andiamo, è il caso dell’anno, no? È sulla bocca di tutti, il ladro melomane che ruba tutti i memorabilia degli artisti musicali più famosi.”

“Non è qualcosa di cui ridere, è un delinquente.” lo riprese Paul, severo.

Odiava quando la gente prendeva così sottogamba le infrazioni della legge. Era come se ridessero del suo lavoro e quindi, di lui, perché Paul viveva per il suo lavoro. Era la cosa che più lo faceva sentire vivo e utile.

“Oh, suvvia, non stiamo parlando di un assassino. Non ha mai fatto del male ad anima viva.” commentò John.

“Comunque ha commesso dei crimini e deve essere arrestato.”

“Su questo siamo d’accordo.” esclamò infine John, ammiccando, “E quindi hanno fatto fuori quello che gli stava alle calcagna, com’è che si chiamava? SurSus…”

Sutcliffe. Ispettore Sutcliffe. E preferisco dire che sia stato sollevato dal suo incarico.” precisò Paul.

John intrecciò le braccia, pensieroso, appoggiandole sul bancone, “Sì, beh, immagino che per il povero ispettore la sostanza non cambi.”

“Avrebbe dovuto impegnarsi di più e questo non sarebbe successo.”

Paul sbuffò e quasi si pentì di aver osato dire tanto con uno sconosciuto. Non era giusto, né professionale, ma in fondo era ciò che pensava. Come potevi farti scappare un ladro che ti avvisava anche di quando e dove avrebbe agito? Sicuramente Stuart Sutcliffe non era stato addestrato bene quanto Paul.

“Dicono che sia imprendibile.”

“Ha detto bene, dicono.” ribatté Paul, infastidito, “Io invece dico, anzi, sono sicuro che lo prenderò e lo sbatterò in galera, dove resterà fino a quando non avrà scontato la sua pena.”

John sorrise, ammirato, “Lei sembra molto sicuro di sé. Non pensa che troppa sicurezza possa essere controproducente?”

“Io confido solo in ciò che so fare, dare la caccia ai criminali.”

Ed effettivamente, come poteva non essere così sicuro delle sue capacità? Fin da giovane aveva dimostrato di essere sveglio e di valere qualcosa. Doveva essere bravo, speciale nel suo lavoro per arrivare ad assumere questo incarico importante ancora così giovane.

John lo guardò solo per un istante, poi sospirò tranquillamente, “Bene, e io le auguro tutta la fortuna del mondo nel suo lavoro.”

“La ringrazio.”

“Mi dica, stava cercando qualcosa di particolare nel mio negozio?” domandò John interessato, cambiando decisamente argomento.

Preso in contropiede, Paul si morse il labbro, perché in effetti neanche lui sapeva il motivo per cui fosse entrato in quel negozio.

“Veramente no.”

“Allora ha sentito che stavo per subire un furto?” chiese John, lasciandosi scappare una risata.

“Ehm no, io non so davvero perché sono entrato qui.” rispose sinceramente Paul, “Stavo rientrando a casa e ho visto l’insegna. Non so a cosa stessi pensando, neanche mi piace la musica.”

Il divertimento dal viso di John sparì improvvisamente, lasciando spazio per un’espressione di totale sconcerto, “Come fa a non piacerle la musica?”

“E’ così. Io detesto la musica.”

John non disse nulla, si limitò a fissarlo come se Paul per lui fosse un alieno, con le corna e la pelle verde.

Senza musica la vita sarebbe un errore.” disse John e poi fece il giro del bancone per raggiungere Paul, “Sa chi l’ha detto?”

Paul scosse il capo.

“Nietzsche. E sa una cosa, ispettore? Credo che lui avesse ragione. Provi a immaginare la sua vita come un film, di quelli che vede al cinema o in televisione. Lei crede che avrebbero lo stesso effetto, se togliesse la colonna sonora? Certo che no, perderebbero metà della loro bellezza.” spiegò John, accalorato.

“Non lo metto in dubbio, e lei saprà meglio di me che la musica può suscitare in noi le emozioni più disparate. Il problema è che queste emozioni non sempre sono piacevoli.” esclamò Paul.

Ed era vero, per chiunque la musica poteva far riaffiorare la gioia, l’amore, la felicità, ma allo stesso modo, poteva far rivivere i momenti peggiori della propria vita, riportare la tristezza e le lacrime. Quindi perché ricordare tutto ciò, se bastava semplicemente cliccare il tasto STOP o staccare la spina dello stereo?

“E’ il bello dell’ascoltare la musica. Bisogna dimostrare molto coraggio anche nel sopportare le emozioni o i ricordi spiacevoli che può portarci.”

Paul scosse il capo con un sorriso triste sulle labbra, “Allora io non ho questo coraggio.”

“Io dico di sì, è un poliziotto dopotutto.” ribatté John, incoraggiandolo, “Basta cercarlo da qualche parte. E io so cosa può aiutarla a trovare questo coraggio.”

Paul sospirò e si maledisse: quando era entrato nel negozio non avrebbe mai pensato di finire in una disquisizione su qualcosa di così insopportabile come la musica. Quell’uomo non voleva capire che proprio non c’era niente da fare: lui detestava la musica e non solo qualche canzone in particolare, qualche artista o opera, lui odiava la musica in generale e tutto ciò ad essa correlata.

Ma evidentemente il suo interlocutore era più cocciuto di lui, perché si diresse verso lo stesso scaffale dove Paul aveva colto in flagrante i due ragazzi, e tornò con lo stesso cd tra le mani.

“La prego, accetti questo regalo.” gli disse poi, sorridendo e porgendogli l’oggetto.

“Perché?” domandò Paul, perplesso.

“Per sdebitarmi del favore che mi ha fatto.”

Paul agitò le mani, in un chiaro segno di rifiuto, “Non ce n’è bisogno. Ho fatto solo il mio-”

“Il suo lavoro, lo so. Ma devo insistere.” disse John, avvicinando di più il cd all’altro uomo.

Paul lo guardò riluttante, ma alla fine, si convinse e lo prese fra le sue mani: era Exile on Main Street, dei Rolling Stones.

“Comunque non penso che lo ascolterò.” ribadì convinto.

“Io credo di sì, magari tra qualche giorno, o tra qualche settimana, ma lo farà.” affermò John, fiducioso, “Perché in fondo, essendo un uomo di giustizia, sa bene anche lei che deve darle una seconda occasione, prima di proclamare la condanna definitiva.”

Paul lo osservò, sospirando lievemente. Pensò che non aveva mai considerato questo punto. Lui aveva un motivo, un buon motivo per odiare la musica, ma era anche vero che era stato sempre troppo arrabbiato per cercare di risolvere questa situazione particolare in cui si trovava. Ora però John Lennon gli stava facendo capire che il suo comportamento era sbagliato, mentre Paul era un uomo giusto. Gli errori non erano previsti.

“Perché questo?” chiese poi incuriosito.

John scrollò le spalle, “Nessun motivo in particolare. È una riedizione uscita da poco, l’originale è del 1972. L’ha mai ascoltato?”

“Non che io ricordi.”

“Deve assolutamente recuperarlo. Anche quei ragazzini sapevano che è uno dei migliori album degli Stones. Stavano cercando di rubarlo, è vero, ma almeno avevano buon gusto. E lei ora lo porta a casa sua e un giorno dovrà ascoltarlo, e poi vorrei che venisse a parlarne con me, per sapere cosa ne pensa. D’accordo?”

Paul si morse il labbro, ancora titubante, ma alla fine annuì, “Allora grazie.”

“Grazie a lei.”

Paul si diresse verso l’uscita e John lo accompagnò.

“Spero di rivederla presto, ispettore.” gli disse, stringendogli nuovamente la mano.

“Penso che accadrà più presto di quello che lei immagina.” affermò Paul, sorridendo, “Dal momento che abito proprio qui di fronte.”

“Ah, davvero?” domandò John, più che sorpreso, “Io abito nella casa accanto. Se dovesse avere bisogno di qualcosa, mi chiami pure.”

“Grazie.” disse Paul, “Allora buona giornata.”

“A lei.”

Paul si voltò, prima di raggiungere la porta di casa sua e scomparirvi dietro.

John, John Lennon, l’uomo che si nascondeva dietro Hermes, lo seguì con lo sguardo e un gran sorriso sul viso fino all’ultimo istante, restando sulla soglia del suo negozio.

Paul McCartney, lo sbirro che ora gli stava alle calcagna era quel ragazzino così giovane, così pieno di sé e con gli occhi troppo grandi? Quasi gli veniva da ridere all’idea di quanto sarebbe stato facile sbarazzarsi anche di lui.

Come rubare un lecca-lecca a un bambino. Se non addirittura più facile.

Oh, sì, la strada per Hermes era tutta in discesa.

 

 

Note dell’autrice: no ma… i Rolling Stones… senza i Beatles… ma che mi sono fumata?! XD

Ok, bando alle ciance, siamo infine giunti al fatidico incontro. È stato come ve l’aspettavate? E sono anche dirimpettai. Bene e male che vivono così vicini… uhhhh :3

Allora grazie a kiki per la correzione, a ringostarrismybeatle e _SillyLoveSongs_  per il loro supporto, e a chiunque segua la storia.

Nel prossimo capitolo, “In spite of all the danger”, scopriremo se Paul riuscirà ad ascoltare questo benedetto cd.

A domenica prossima.

Kia85

 

   

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** In spite of all the danger ***


I’ll get you

 

Capitolo 3: “In spite of all the danger”

 

“E com’è l’appartamento?”

Paul sorrise, mentre parlava al telefono con Jane. Usava l’auricolare perché nel frattempo stava terminando di sistemare gli ultimi libri nella libreria del suo salotto, al piano di sopra.

“Molto bello.” rispose, infilando I tre moschettieri tra Le avventure di Sherlock Holmes e Dieci piccoli indiani, “Ho finito di mettere a posto tutta la mia roba.”

“Bravo ragazzo.” esclamò lei con una risatina, “E il quartiere?”

“Incantevole. Quando tornerai a Londra, lo visiteremo insieme.” le disse Paul, fiducioso.

Jane sembrò entusiasta, “Mi sembra un’ottima idea.”

“Avete finito di girare?”

“Sì, ma il regista vuole sistemare l'ultima scena.” rispose lei, sbadigliando annoiata, “Perciò penso che resteremo qui qualche altro giorno.”

“Ma poi verrai a Londra, giusto?” domandò lui, impedendo a se stesse di far trapelare la sua ansiosa attesa.

“Certo. Sbaglio o tra poche settimane qualcuno compie venticinque anni?”

Paul rise, “No, in effetti penso che tu abbia ragione.”

“Ci vedremo sicuramente per il tuo compleanno, amore. Stai tranquillo.”

“D’accordo." esclamò lui, abbassando poi lo sguardo a terra, incerto, "Jane, io-”

“Ora ti saluto, Paul, devo scappare." lo interruppe lei bruscamente, "Hanno organizzato una cena per tutti in hotel questa sera.”

“Oh." disse lui, e questa volta si costrinse a nascondere la delusione, "Sì, certo. Divertiti.”

“Buona serata, Paul.”

“Ti amo, Jane.”

“Anche io.”

Poi il segnale di occupato risuonò nell’orecchio di Paul. Jane aveva messo giù e Paul era di nuovo solo.

Il giovane uomo sospirò, prima di abbandonare sul divano l’auricolare e il cellulare.

Doveva ammetterlo. La vita a Londra dove non conosceva nessuno non era così eccitante come era apparsa all’inizio. La solitudine non si era fatta attendere e presto era arrivata a casa di Paul. Era la sua fredda e silenziosa compagna di vita.

A Liverpool quando usciva di casa per andare a lavoro, salutava i vicini che uscivano a prendere il giornale o erano fuori a stendere i panni. Poi nel pomeriggio, poteva andare a trovare suo fratello e la sera usciva con qualche amico, Ivan o Pete, per andare a bere qualcosa in un pub.

A Londra, invece, riusciva a scambiare qualche parola solo con i suoi colleghi di lavoro. Ma per il resto non apriva più bocca, al di là di qualche telefonata a Jane o Mike.

Jane, la sua bellissima ragazza, era a New York a girare un film, una commedia americana, da quello che aveva capito Paul. Era stata piuttosto impegnata nelle ultime settimane, e le telefonate tra lei e Paul si potevano contare con le dita di una mano. Il fuso orario non aiutava di certo: quando Jane finiva di girare, verso le nove di sera, a Londra erano ormai le due del mattino e Paul era già nel mondo dei sogni. Lui le aveva sempre detto di chiamarlo, nonostante l’orario, ma lei non voleva svegliarlo per non disturbare il suo riposo.

Erano mesi che non la vedeva, che non poteva baciarla né stringerla tra le sue braccia, inspirando a fondo il profumo dei suoi capelli rosso fuoco.

Certe volte si chiedeva se valesse lo stesso per lei. Anche Jane sentiva la sua mancanza proprio come Paul?

Una vocina petulante e fastidiosa nella sua mente gli diceva che no, non era così. Il che portava a una serie di riflessioni che Paul probabilmente non era ancora pronto per affrontare. Una fra tutte era che non ricordava l’ultima volta che lei gli avesse detto di propria iniziativa, “Ti amo.”

Solitamente era sempre lui a dirglielo, prima di salutarla, e lei rispondeva con un rapido, “Anche io.”

Tuttavia Paul cercò di scacciare quel pensiero, non era certamente il momento di pensare a quello, e soprattutto sapeva che in questo caso, solo in questo caso, sia chiaro, lui si stesse sbagliando.

Dopotutto ora c'era solo una cosa di cui doveva occuparsi. Un piccolo, maledetto ladro che sembrava davvero evanescente.

Ormai erano quasi due settimane che aveva iniziato a lavorare alla stazione di polizia di Chelsea. Aveva letto e riletto e riletto tutti i documenti, gli articoli, i rapporti di ogni furto di Hermes e ancora non capiva come riuscisse a scappare ogni volta.

Sembrava che il delinquente avvertisse prima di ogni colpo, e nonostante la polizia ricorresse alle misure di sicurezza più sofisticate e ingenti, lui riusciva sempre a farla franca. Come, non si sapeva. Era proprio come se all’improvviso quest’uomo diventasse immateriale, invisibile, inudibile…

Semplicemente spariva, per qualche sorta di strano incantesimo. Come una specie di Harry Potter, con il Mantello dell’Invisibilità e la bacchetta magica.

Sì, certo, come se fosse un’opzione possibile, aveva pensato Paul, prima di ridere per l’assurdità del suo pensiero.

Di fronte a lui vi era un’impresa davvero ardua. Sapeva in partenza che non sarebbe stato facile, e anche ora, dopo aver compreso la reale difficoltà del lavoro che lo aspettava, ovvero catturare Hermes, non si lasciò abbattere. Lui sapeva, sentiva di avere le capacità adatte per fermarlo.

Sentiva che sarebbe stato lui ad arrestarlo.

Il pensiero lo fece sospirare e poi sorridere, mentre decideva di aprire la finestra per osservare la luce calda del tramonto che illuminava la via del suo appartamento. Le pareti colorate delle case di fronte e accanto alla sua risplendevano appena con la tenue luce del sole che andava lentamente a morire.

Paul si sporse ancora di più dalla finestra, il suo sguardo cadde sulla porta del negozio di musica che si stava aprendo e il suo proprietario… John? Sì, John stava uscendo per poi chiudere la porta a chiave e abbassare la saracinesca.

Paul non aveva ancora ascoltato il cd che gli aveva regalato, nonostante gli avesse assicurato che ci avrebbe provato. E ora che ci pensava non era stato proprio perché non volesse farlo, quanto piuttosto perché era stato così preso dal lavoro e dal trasloco che non aveva avuto tempo di fare altro. Quando arrivava l’ora di cena, non aveva neanche le forze per preparare da mangiare.

Era così sovrappensiero che non si accorse che John lo stava osservando, e quando intercettò il suo sguardo, lui lo salutò con un cenno della mano e Paul gli sorrise debolmente, ricambiando il saluto, prima che l’uomo sparisse dentro casa sua.

Paul vide la luce accendersi al di là delle finestre della casa di fronte alla sua, primo piano, poi quelle del secondo. Le fissò per qualche minuto, immaginando come dovesse essere la casa di quell’uomo: sicuramente disordinata, sporca, con vestiti sparsi dovunque, i piatti accumulati nel lavello, un’intera stanza piena di cd musicali e vinili, magari anche una dedicata solo a suonare. Probabilmente quel ragazzo suonava la chitarra, o la batteria o il pianoforte. Paul sospirò, qualunque strumento suonasse, l’importante era che non lo disturbasse mentre voleva riposarsi.

Al pensiero del riposo, non poté trattenere uno sbadiglio. Era molto stanco, in effetti. Avrebbe passato la serata sdraiato sul divano, magari davanti alla televisione, che trasmetteva il solito inutile varietà, poi si sarebbe addormentato e sarebbe rimasto lì tutta la notte, risvegliandosi il mattino dopo con un terribile mal di schiena.

No, non gli piaceva proprio quel programma, pensò mentre chiudeva la finestra. Guardò il salottino che aveva arredato al piano di sopra. Vi erano una grande libreria, con incastonato un piccolo televisore, di fronte un divanetto dai cuscini soffici, e sul mobiletto con una lampada antica, di ferro battuto, che aveva preso dalla casa di sua madre, vi era appoggiato, o forse era meglio dire abbandonato, il cd che gli aveva regalato il signor Lennon. Lo aveva messo lì, perché non sapeva dove metterlo, non aveva porta-cd, né uno stereo per ascoltarlo.

Anche se avesse voluto ascoltarlo, come avrebbe potuto farlo?

Ma certo, il lettore dvd. Ne aveva preso uno che leggeva anche i cd.

Dannazione, non aveva neanche la scusa di non avere i mezzi per poterlo ascoltare.

Così, alla fine si decise. Era quasi sicuro che, se avesse incrociato John nei prossimi giorni, lui sicuramente gli avrebbe chiesto notizie sul cd. Perciò meglio togliersi da questo impiccio il prima possibile.

Si apprestò a sistemare il cd nel lettore e poi lo fece partire, mentre andava a sedersi sul divano.

Da quanto tempo non ascoltava più un po’ di musica di sua spontanea iniziativa? Una vita, praticamente. Da prima che lui se ne andasse. Era lui che lo aveva fatto appassionare all’inizio, era lui che gli aveva fatto ascoltare gli album più famosi, condividendo con Paul i suoi gusti, e allo stesso modo, era lui che l’aveva deluso, lui il motivo per cui non ascoltava più musica, per cui era arrivato a odiarla.

Per questo evitava di fare qualunque cosa avesse a che fare con la musica, perché ogni volta, era come se lui apparisse davanti ai suoi occhi, e Paul lo odiava così tanto che avrebbe voluto avventarsi su di lui, afferrarlo per le spalle e scuoterlo, solo per scaricare un po’ di quella sofferenza che lui gli aveva inflitto con il suo abbandono.

E continuare così, all’infinito, finché lui non avesse implorato il suo perdono.

Paul sbatté le palpebre, rendendosi conto che il cd aveva già cominciato a essere riprodotto e lui neanche se n’era accorto, troppo preso da quei pensieri pieni di rancore verso qualcuno che non meritava il suo perdono.

Per qualche momento rimase semplicemente fermo ad ascoltarlo. Le prime canzoni si alternavano, senza che lui restasse particolarmente scosso. Stava, sì, stava filando tutto liscio. O almeno così sembrava.

Una canzone lo colpì particolarmente. Non era male. Aveva un bel ritmo, di quelle che ti inducono a tenere il tempo con una parte qualsiasi del corpo. E Paul quasi lo fece, prima di realizzare che non poteva permetterselo. Significava dargliela vinta, troppo presto.

Così decise di sdraiarsi sul divano, e limitarsi ad ascoltare la canzone. Non capiva bene le parole, sembrava che il cantante se le mangiasse. Ma da quello che poteva capire lui, che non era esperto né di questo gruppo, né di musica in generale, e non voleva certamente esserlo, era un po’ il suo stile: aveva una pronuncia, un modo di cantare molto strascinato.

Si adattava bene a canzoni dalle atmosfere più tristi.

Paul non fece in tempo a pensare questo che pochi minuti dopo, quella canzone, quella più malinconica, quella che lui aveva solo ipotizzato, arrivò.                   

E dalle prime note, dalle prime parole strinse il suo cuore. Lo catapultò violentemente in un pub, uno di quelli nascosti nei vicoli bui, uno squallido e maleodorante. Paul era lì, nel bel mezzo del pub, a guardarsi intorno. Ma non era spaesato, piuttosto era come se sapesse chi stava cercando. E alla fine lo vide.  

“And his coat is torn and frayed”

Un uomo di mezz’età, con i capelli radi sulla testa, il cappotto pesante, sporco e rovinato… aveva un’aria maledettamente familiare.

“It's seen much better days.”

E come il cappotto, anche quell’uomo aveva visto giorni migliori. Sembrava saperlo bene, anche nel suo stato ubriaco: le guance arrossate e gli occhi annebbiati erano la prova evidente che forse aveva esagerato con le pinte di birra.  

“Just as long as the guitar plays”

Perciò tutto quello che poteva fare era stare lì, seduto da solo a quel tavolo, a pensare probabilmente ai suoi guai, mentre quella canzone veniva suonata per accompagnare i suoi turbamenti.  

“Let it steal your heart away”

Paul sapeva chi era, sapeva cosa aveva fatto, a cosa stesse pensando, perché si stesse struggendo in quel modo. Se fosse stato un uomo qualunque, si sarebbe avvicinato per fargli compagnia, e bere una pinta con lui, mentre gli chiedeva, “Che succede, amico?”

Ma no, quell’uomo, proprio quello, con gli occhi chiari così familiari e il naso uguale al suo, meritava di essere in quella miseria, anche se una parte di Paul, una piccolissima parte di Paul, voleva raggiungerlo disperatamente, abbracciarlo e chiedergli, “Perché l’hai fatto?”, e poi implorarlo di non lasciarlo più, mai più.

E così Paul sentì questo tormento interiore prendere vita, liberarsi dalla gabbia in cui lui l’aveva rinchiuso anni prima, e salire, salire percorrendo tutto il suo corpo, fino agli occhi, che si inumidirono e lasciarono sfuggire piccole lacrime sulle sue guance arrossate e Paul-

Paul balzò in piedi, dirigendosi verso il lettore dvd e con un movimento brusco lo spense. Il silenzio e la pace tornarono nella stanza, ma non dentro Paul.

Sapeva che non avrebbe mai dovuto farlo. Che non era pronto e non lo sarebbe mai stato. Perché l’aveva fatto? Per quello stupido impegno che aveva preso con quello stupido fanatico del negozio di fronte?

Sì, per quello. Ma anche perché in fondo, una parte di lui, la stessa che desiderava ancora abbracciare quell’uomo, aveva sperato che potesse essere in grado ora, dopo tanti anni, di ascoltare di nuovo la musica. Dopotutto non era come se non l’avesse mai ascoltata, anzi. Fino alla morte di sua madre, la musica era sempre stata presente nella sua casa, più per compiacere lei, ovviamente. Ma c’era stata. E questo voleva pur dire qualcosa.

Prese in mano il cd e lo sistemò nella custodia. Ci aveva provato e no, non era andata bene, ma ci aveva provato. E John gli aveva detto che poi sarebbe dovuto passare da lui, per parlarne.

Ebbene, Paul aveva tutta l’intenzione di farlo, soprattutto per dirgli che sapeva che sarebbe finita in questo modo.

Per dirgli che era un caso senza speranza.

****

Il giorno dopo, Paul tornò dall’ennesima giornata di lavoro inutile, in cui non aveva ricavato assolutamente alcuna informazione preziosa sul conto di Hermes. Certo, l’esperienza della sera prima lo aveva turbato, ma lui riuscì a tenere a bada i suoi sentimenti, e allontanarli dal suo luogo di lavoro.

Quando rientrò, il negozio di musica era ancora aperto e Paul decise di farci un salto. Entrò nel negozio, il campanello suonò richiamando l'attenzione dell'uomo alla cassa. Il giovane ispettore batté le palpebre confuso, quando realizzò che non si trattava dell'uomo di nome John. Questo ragazzo era diverso. Era magrolino, i capelli castani  erano lunghi e gli incorniciavano un viso piccolo con zigomi marcati. Aveva gli auricolari alle orecchie e quando Paul si avvicinò, ne tolse uno.

"Desidera?"

"Sì, ehm... Mi chiamo Paul McCartney, stavo cercando il signor Lennon."

Il ragazzo lo fissò un istante attentamente, socchiudendo le palpebre.

"Il signor Lennon?" ripeté divertito, "Ho capito, lei deve essere lo sbirro."

"Ispettore, prego." lo corresse lui, non gradendo particolarmente il termine adottato.

"Quello che è. John la stava aspettando." rispose il ragazzo, tornando a posizionare l'auricolare nell'orecchio.

Paul inarcò un sopracciglio, "Sì, ma dov-?"

Non fece in tempo a concludere la domanda, che il ragazzo gli indicò distrattamente il fondo del bancone della cassa. Paul non ci aveva fatto caso l'altra volta, ma c'era una piccola tenda dello stesso colore delle pareti. Si avvicinò e scostò il tessuto leggero, mentre dei suoni giungevano alle sue orecchie. Suoni che scoprì presto essere prodotti dallo stesso John, seduto su una sedia in mezzo a una stanza grande quasi metà del negozio. Aveva una chitarra tra le braccia e la strimpellava allegramente. Il risultato non era particolarmente piacevole. E non era certo a causa di Paul e della sua avversità verso tutto ciò che producesse musica. Sentiva che non erano accordi giusti, quelli di John.

John lo scorse e si fermò, un sorriso nacque sulle sue labbra, “Salve.”

"Salve." esclamò Paul.

"Non mi aspettavo di vederla così presto, ispettore."

“A essere sinceri, neanche io.” rispose Paul, ridacchiando un po’.

John lo imitò brevemente, prima di invitarlo a sedersi di fronte a lui, “Allora, deduco che abbia ascoltato il cd che le ho regalato?”

“In effetti, sì, l’ho ascoltato.”

“Com'è andata?” chiese John, sinceramente interessato.

Lui non era pronto a vederlo proprio quel giorno. Era sicuro che Paul McCartney avrebbe ascoltato quel cd, in fondo John l'aveva punto nel suo orgoglio di poliziotto, ma non così presto, e la cosa lo sorprese piacevolmente.

"Oh, non come lei sperava, ma come io mi aspettavo."

John aggrottò la fronte, "Nel senso che non le è piaciuto?"

"Nel senso che questa non è una cosa facile da superare." spiegò Paul, “Non posso riavvicinarmi a qualcosa che ho odiato per metà della mia vita da un momento all’altro.”

John annuì vagamente, “Lei è molto enigmatico, gliel’hanno mai detto?”

Paul rise, “Ha ragione, mi perdoni. Quello che volevo dirle, è che sono riuscito ad ascoltare solo qualche canzone, non tutto l’album.”

“Ma qualche canzone l’ha ascoltata, giusto?” gli domandò John, incoraggiandolo.

“Sì, certo.”

“E cosa ne pensa?”

“Beh, erano… erano interessanti. Una, in particolare, mi è rimasta impressa.”

“Quale?”

“Non la conoscevo, ma mi pare che dicesse: Baby, I can't stay, you got to roll me, and call me the tumblin' dice.”

“Ah sì, Tumbling dice, quella che fa così.” esclamò John, prima di cominciare a cantare e strimpellare qualche accordo sulla sua chitarra.

Paul lo osservò attentamente, soffermandosi sulle dita e il modo in cui suonava. Come aveva immaginato, John sbagliava gli accordi. Erano posizioni strane, Paul le conosceva bene perché lui…

Lui glieli aveva insegnati, quando Paul era piccolo, e glieli aveva insegnati in quel modo, nello stesso modo in cui si suonava un banjo. Ma non erano adatti a suonare una chitarra. Paul l’aveva scoperto qualche tempo dopo, grazie alle lezioni che gli aveva fatto frequentare sua madre.

Il suo disappunto doveva essere evidente, perché John si fermò a guardarlo.

“Cosa?”

“Dove ha imparato a suonare in quel modo?”

“Da solo, perché?”

“Oh, niente, è solo che lei sta usando degli accordi errati.” gli spiegò Paul, cercando di non tirare fuori il So-Tutto-Io che si nascondeva in lui.

Sembrava essere abbastanza fastidioso e soprattutto, incompreso dalle persone che correggeva.

“Chiedo scusa?” esclamò John, sorpreso e divertito, “Non mi dica che lei sa suonare la chitarra?”

“In realtà, sì.”

John ridacchiò, “ Non pensavo che un poliziotto sapesse suonare la chitarra, uno come lei, poi.”

“E invece le dico di sì, ho preso lezioni da ragazzino.” ribatté Paul, accorato.

John gli rivolse uno sguardo scettico, “E nonostante questo, continua a odiare la musica?”

“Sì.”

John rifletté per un momento. Sapeva che Paul stava dicendo la verità, sapeva che questo ispettore, quello che gli stava alle calcagna fosse sincero riguardo quell’informazione. Un brivido lo percorse, mentre un pensiero si insinuava nella sua mente, un pensiero da folli: era assai rischioso, ma se avesse giocato bene le sue carte, avrebbe potuto sfruttare questa nuova conoscenza a suo favore.

“Le posso chiedere una cosa?”

“Certo.”

“Potrebbe insegnarmi a suonare con gli accordi corretti?”

Paul sbatté le palpebre, totalmente turbato dalla richiesta. Una richiesta assurda, illogica, impossibile!

“Cosa? Non se-”

“Aspetti, prima di dire un no definitivo.” lo interruppe John, alzando una mano, “Provi a pensare che potrebbe essere una cosa utile a entrambi.”

“E in che modo?” chiese Paul, il pessimismo era evidente sul suo viso.

“Io imparo gli accordi corretti, e lei si riavvicina alla musica un passo alla volta.”

Paul aggrottò la fronte, perplesso: era strano, messa in quel modo, la prospettiva offerta da John non era così terrificante. C’era qualcosa di intrigante, nella proposta e in quell’uomo, nel modo in cui si stava interessando al suo piccolo problema. Naturalmente John lo stava facendo più per se stesso, per imparare a suonare bene la chitarra, ma a Paul non importava, perché inoltre, questo accordo gli avrebbe permesso di avere qualcuno con cui parlare, fuori dall’ambito lavorativo. Forse avrebbero anche potuto diventare amici, chissà.

Certo, sarebbe stato un rapporto che avrebbe avuto a che fare principalmente con la musica, ma Paul poteva sopportare.

Come aveva detto John? Un passo alla volta?

Sì, poteva farcela.

“Posso pagarla se-” iniziò a dire John, non vedendo alcuna risposta da parte di Paul, ma questi lo interruppe subito alzando una mano.

“Non ce n’è bisogno.” rispose, “Accetto solo a una condizione.”

“Quale?”

“Che lei mi chiami Paul.” disse Paul, porgendogli la mano.

John la guardò solo un istante, prima di sorridere e stringerla.

“Bene, Paul, che ne dici di chiamarmi John?”

 

 

Note dell’autrice: oh c’è Jane al telefono con Paul. E poi Paul ha qualche problemino ad ascoltare il cd, ma almeno ci ha provato. E alla fine John gli fa quella strana proposta…

Bene, spero che tutto ciò sia piaciuto.

Grazie a kiki per la correzione, grazie anche a ringostarrismybeatle e _SillyLoveSongs_ per il sostegno e per rendere le mie giornate più dolci con le loro chiacchierate, e grazie a tutti quelli che seguono la storia.

Prossimo capitolo, “What you’re doing”, arriverà domenica.

Buona domenica.

Kia85

 

 

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Capitolo 5
*** What you're doing ***


I’ll get you

 

Capitolo 4: “What you’re doing”

 

Era strano.

Era strano ed eccitante.

Era la cosa più pericolosa che John avesse mai fatto e quando ne aveva parlato con George, anche lui gli aveva dato del folle, dello svitato, del completamente ammattito. Ma non uno dei suoi tentativi di convincimento riuscirono a fargli cambiare idea, né il “E’ un fottuto poliziotto”, né il “E’ il fottuto poliziotto che sta cercando te”, né il “Se compi un passo falso, sei fregato.”

Semplicemente a John piaceva il rischio. Il rischio era come prendere una piccola scossa, era come il ketchup sulle patatine, rendeva tutto migliore.

E doveva anche considerare che questa nuova “amicizia” gli sarebbe stata molto utile. Per suonare bene la chitarra? Sì, anche, ma soprattutto perché c’era la possibilità di ricavare qualche informazione utile sugli spostamenti della polizia.

Così ora si trovava in compagnia dello sbirro, no, anzi, di Paul, nel suo studio per la loro seconda lezione. John aveva ricavato questa piccola stanza per se stesso dietro il negozio. Qui custodiva un paio di chitarre acustiche, una elettrica, una tastiera, un amplificatore, poi c’era qualche scaffale con libri di musica, e sulla parete opposta rispetto a dove suonava John, erano appese diverse foto di lui con George e la sua fidanzata Pattie, ma soprattutto di lui e Julian, Julian che giocava nel parco, Julian che dormiva a casa, Julian che mangiava la pappa con il bavaglino… Era un modo per averlo sempre con sé, anche la mattina, quando lui era all’asilo.

“E’ tuo figlio?” gli chiese all’improvviso Paul.

Aveva visto quelle foto già durante la loro prima lezione, e aveva anche riconosciuto il ragazzo che qualche giorno prima l’aveva chiamato “sbirro”: si chiamava George e aiutava John in negozio. Tuttavia Paul si era dimenticato di chiedere informazioni riguardo le foto del bambino. E ora, mentre accordavano le chitarre prima di cominciare, Paul ne approfittò per sapere.

John sorrise, di un sorriso dolce, felice, sincero, “Sì, si chiama Julian.”

“Si vede, ti assomiglia molto.”

“Dici?”

“Sì, avete la stessa forma degli occhi.”

“Lo dicono tutti.” commentò John, compiaciuto, allentando la corda del Mi cantino.

“Quanti anni ha?”

“Quattro. È nell’età in cui posso ancora spupazzarlo quanto voglio.” esclamò, prima di non riuscire a trattenere una risatina.

Paul rise, “Sì, immagino. Quindi sei sposato?”

“No.”

“Fidanzato?”

“Mm…no.”

Paul aggrottò la fronte, perplesso, “E la madre?”

John sospirò, doveva pur aspettarsi quella domanda. Tuttavia non era pronto a condividere tanto con un perfetto sconosciuto.

“Diciamo solo che è una storia lunga.” tagliò corto John.

“Oh, capisco.”

Paul si morse il labbro, pensando che forse avesse osato un po’ troppo e che non gli fosse ancora permesso chiedere cose così private a un uomo che conosceva da appena due settimane. Tuttavia, sperava che John capisse che fare domande, essere curioso, era nella sua natura di poliziotto. Non lo faceva per essere scortese, era semplicemente più forte di lui.

“Andiamo avanti?” domandò infine John, sorridendo per mostrargli che non era arrabbiato, o meglio, era arrabbiato, ma non con Paul.

Era arrabbiato perché quella storia, quella della madre di Julian, faceva ancora male dopo tanto tempo e non era giusto.

Paul annuì più rilassato, “Hai studiato il giro di Do?”

“Certo, prof.”

“Allora, prego.” disse Paul, facendogli cenno di dimostrarglielo.

John guardò solo brevemente le corde sul manico della chitarra, per sistemare le dita nei tasti giusti, e poi cominciò a suonare gli accordi del giro di Do.

Era molto più difficile, rispetto a come era solito suonare lui. Il suo primo insegnante, quello che l’aveva introdotto nel mondo della musica, aveva omesso il piccolo particolare che il banjo avesse solo cinque corde, mentre la chitarra sei. Era ovvio che il modo di suonare fosse diverso.

Inoltre, non si doveva arpeggiare sempre con tutte le corde. Alcuni accordi ne coinvolgevano solo cinque o addirittura quattro. Questo spiegava perché quando suonava, alcuni suoni non erano proprio pulitissimi.

Paul aveva ridacchiato quando l’aveva visto suonare in quel modo, prima di correggere subito la sua tecnica.

Così da quella prima lezione John si era esercitato un po’ ogni giorno, mentre George lo sostituiva in negozio, o a casa, mentre Julian giocava con le sue costruzioni.

Con Paul avevano stabilito di vedersi due volte a settimana. Le lezioni erano piacevoli, era come se il tempo passasse velocemente, John si divertiva, mentre Paul non sembrava essere altrettanto a proprio agio, sia per la questione della musica, sia perché era ancora un po’ in imbarazzo con John, considerato il fatto che si conoscessero da poco tempo. Tuttavia John sentiva che col tempo si sarebbe lasciato andare. Se c’era una cosa in cui era bravo, era piacere alle persone. Quando si impegnava, era un maestro in quell’arte.

E Paul, l’ispettore McCartney, la sua nemesi, non avrebbe impiegato molto tempo a lasciarsi andare, a fidarsi di lui, a confidarsi con lui…Dopotutto, da quello che John aveva capito, a Londra Paul non conosceva molte persone, doveva sentirsi abbastanza solo, desideroso di parlare con qualcuno prima o poi, e quando fosse stato pronto, John sarebbe stato lì, pronto a raccogliere le sue confidenze, cercando di capire i suoi punti deboli e qualunque altra informazione che avrebbe potuto sfruttare per la buona riuscita dei suoi colpi.

Piuttosto crudele come piano, ma non importava. Non a John almeno. La vita, le persone si erano prese gioco di lui, l’avevano illuso, abbandonato. Quindi ora perché avrebbe dovuto portare rispetto, preoccuparsi di persone che non fossero quelle poche che era certo, non l’avrebbero mai lasciato? George, Julian, l’uomo che l’aveva salvato, solo loro contavano per John.

“Niente male, impari in fretta, vedo.” commentò Paul, alla fine della lezione.

John aveva suonato senza neanche un’incertezza il giro di Do e poi, insieme a Paul, aveva perfezionato quello di Sol e Re.

“Non imparo in fretta.” disse lui, scuotendo lievemente il capo, “E’ solo che voglio imparare.”

“Giusto. È una differenza importante.” esclamò Paul, riponendo la chitarra nella custodia.

“Tu, invece, dici di odiare la musica, ma ti ricordi bene come suonare.”

Paul si accigliò lievemente, “Sì, beh, ho suonato per tanto tempo. Sono cose che non si dimenticano. È come andare in bicicletta. Saprai farlo per sempre.”

Detto questo, gli porse la chitarra. Era una delle chitarre che aveva John. Paul naturalmente aveva lasciato la sua a casa di sua madre, per cui John gli aveva offerto una di quelle che teneva nel suo piccolo studio.

“Se vuoi, puoi tenerla.” gli disse John.

“No, grazie.”

"Sei sicuro? A me non dispiace, sai. Ne ho un bel po' a disposizione."

Paul sorrise, "Sono sicuro, non ti preoccupare."

“Come desideri.” sospirò l'altro ragazzo.

Così John prese la chitarra dalle mani di Paul e la sistemò insieme alla sua.

“Devo andare ora.” esclamò Paul, “Devo ancora recuperare qualcosa da mangiare e andare a letto presto. Domani mi aspetta una giornata di lavoro impegnativa.”

John drizzò le orecchie, tutti i suoi sensi erano improvvisamente all’erta.

“Certo. Come…” disse, voltandosi con un movimento lento verso Paul, “Come va con il lavoro? Qualche svolta interessante?”

“Ecco, veramente…” iniziò a dire Paul, ma si fermò appena in tempo, “Forse non dovrei parlare di queste cose, sai, sono riservate.”

“Oh sì, giusto.” commentò John, mordendosi il labbro, “Perdonami, non volevo intromettermi.”

Paul fece un vago gesto della mano, “Non c’è problema, anzi, ti ringrazio per l’interessamento.”

John annuì, sorridendo, e poi si salutarono, decidendo di incontrarsi all’inizio della settimana successiva, per la nuova lezione.

Quando l’ispettore se ne andò, John imprecò sottovoce. Non avrebbe mai dovuto fare quella domanda. Era troppo presto, dannazione, ed era ovvio che Paul avrebbe risposto in quel modo. Sicuramente non sarebbe stato difficile da fare fuori, questo piccolo sbirro, ma era altrettanto vero che non era uno stupido. John poteva farcela, doveva solo giocare bene le sue carte.

Ora più che mai doveva ricorrere al suo ingegno.

E poi Paul McCartney sarebbe stato un semplice ricordo.

****

Il giorno dopo, mentre Paul esaminava alcuni file sul computer riguardanti Hermes, l’ispettore capo Starkey gli comunicò che fra un paio di settimane sarebbe arrivato in città un ricco impresario, il quale possedeva una famosa collezione di cimeli dei più famosi cantanti rock. Di recente ne aveva aggiunto uno piuttosto particolare: si trattava di un disegno della metà degli anni Sessanta, il quale rappresentava un personaggio composto da alcuni tratti individuali dei cinque Rolling Stones, ovvero i capelli di Mick, la faccia di Brian, gli occhi di Keith, il naso di Charlie, e la bocca di Bill. Il ritratto era stato fatto da un’adolescente inglese che era riuscita a farlo autografare dagli stessi componenti della band.

L’uomo, ora proprietario del ritratto, aveva ricevuto una lettera da parte di Hermes, che lo avvisava di voler rubare quel cimelio e l’avrebbe fatto tra due domeniche. Per questo motivo aveva richiesto un sopralluogo della polizia e ovviamente, la loro protezione.

Quel pomeriggio, quindi, Paul e qualche agente scelto si recarono nella villa dell’uomo. Era un grande palazzo che si sviluppava su tre piani. Paul ne rimase affascinato, sembrava un castello, non aveva mai visto una casa così enorme. Che se ne facevano di tutte quelle stanze?

Rise un po’ del suo pensiero, fino a quando una giovane donna dai lunghi capelli biondi, una dei suoi agenti scelti, gli rivolse uno sguardo sconcertato e lui riprese un po’ di contegno e professionalità. Osservò bene la casa e i dintorni. Era immersa nel verde: ai lati vi erano alberi dalle fronde rigogliose e il giardino era ben curato, circondato da un elegante cancello smaltato di nero, con le punte dorate e ben affilate.

Il proprietario del palazzo, tale John Lowe (1) li accolse calorosamente e subito si apprestò a fargli fare un giro della tenuta. Beh, se Paul era rimasto affascinato dalla facciata anteriore, lo fu ancor di più quando scoprì che nella parte posteriore vi era una immensa piscina. Tuttavia la cosa davvero spettacolare era ancora quella distesa verde, con siepi e alberi meravigliosi, che rendevano tutto così naturale. Santo cielo, c’era anche un laghetto da cui partiva un piccolo ruscello che si snodava tra gli alberi e confluiva in un lago un po’ più grande.

L’uomo informò Paul su tutte le telecamere appostate nei diversi punti del cancello e del palazzo, aggiungendo che erano tutte collegate ai monitor della sala video che si trovava in un’ala del suo vastissimo palazzo. Paul decise di andare subito a esaminare la sala. Non era niente male, qualcosa di estremamente tecnologico, neanche la polizia era così avanzata da quel punto di vista.

E lì, in quella sala, il signor Lowe informò Paul del suo piano.

“Il vero ritratto è nel sotterraneo?” ripeté sbalordito l’ispettore.

“Sì.”

“Allora dovremmo disporre degli uomini anche laggiù.”

“Certo che no.”

Paul sbatté le palpebre, perplesso, “Chiedo scusa?”

“Non ce ne sarà bisogno. È rinchiuso in una cassaforte a prova di scasso.” affermò orgoglioso l’uomo, “Inoltre se il ladro vedesse degli uomini nel sotterraneo, si insospettirebbe. Al contrario, lasciandolo incustodito, lo attireremo nella sala dove è esposto e potrete arrestarlo.”

“Ma è troppo rischioso, signore, stiamo parlando di un ladro esperto, non di un volgare delinquente.”

“E io le dico che il piano funzionerà, non si preoccupi, ispettore McCartney. Hermes finirà in gabbia, glielo prometto.”

Così, alla fine, Paul fu costretto a sottostare al suggerimento del signor Lowe.

Era totalmente da folli, Paul lo sapeva. Ma cosa poteva fare? Anche l’ispettore capo Starkey, quando tornarono dal sopralluogo, gli aveva consigliato di seguire le indicazioni dell’uomo. Non potevano fare altro, era la sua decisione dopotutto.

Tuttavia la rabbia in Paul continuò a ribollire per tutto il giorno. Solo quando fu l’ora di andare a casa cominciò a stare meglio, a rilassarsi. In fondo, non sarebbe stata colpa sua, se Hermes fosse riuscito a rubare quel ritratto.

Tornando verso casa, sentì il bisogno di sfogarsi con qualcuno, di parlare di quanto era successo, ma con chi? A casa non lo aspettava nessuno e Jane era lontana, impegnata probabilmente a girare il suo film.

Un senso di solitudine gli oppresse il cuore, mentre imboccava la via del suo appartamento, e quando fu davanti alla sua porta, il suo sguardo cadde sul negozio di John, già chiuso, dal momento che era molto tardi.

Peccato, avrebbe potuto parlare con lui. Gli sarebbe piaciuto passare a salutarlo, solo per scambiare due parole con qualcuno che non fosse un suo collega di lavoro, solo per sfogare l’assoluta frustrazione di quella giornata.

Poi però si ricordò dell’ultima volta che si erano visti e si morse il labbro, mentre entrava in casa. Forse a John non avrebbe fatto così piacere vedere proprio lui, dopo quello che era successo.

Paul sapeva di aver fatto la cosa giusta, eppure una piccola parte di lui, gli stava sussurrando che non aveva risposto alla sua domanda perché non si fidava. Paul non si fidava mai di nessuno e questo lo portava ad avere pochi amici, anzi pochissimi amici.

Jane gli diceva che era sempre troppo chiuso in sé e nelle loro chiacchierate al telefono, lo incoraggiava a cercare di frequentare qualcuno per socializzare e non lasciare che Paul si sentisse troppo solo, dal momento che il suo lavoro l’avrebbe tenuta lontano da Londra per molti mesi durante l’anno. Se Paul ci pensava bene, ormai aveva solo Jane e un paio di amici d’infanzia a Liverpool.

Non riuscire a fidarsi delle persone era un vero problema. Paul sapeva che era dovuto all’essere stato abbandonato da quell’uomo nella sua infanzia. Non era qualcosa che avrebbe risolto da un momento all’altro. Lui allontanava le persone dalla sua vita, poca confidenza lo difendeva da altro dolore. L’unica che fosse riuscita ad avvicinarglisi era stata Jane. Paul sarebbe stato perso senza di lei. Letteralmente. Jane era l’unica cosa certa nella sua vita, l’unica cosa per cui valesse la pena rischiare.

Tuttavia era anche vero che non potesse continuare così e lo stava capendo solo ora, ora che non aveva nessuno con cui confidarsi, neanche i colleghi, dal momento che tutti erano ai suoi ordini e non poteva permettersi di mostrarsi incerto, dubbioso, arrabbiato.

Da quando aveva iniziato quelle lezioni con John, Paul pensava che forse non ci fosse pericolo a dargli un po’ di confidenza. Solo un po’. Dopotutto stava affrontando anche il suo problema con la musica un passo alla volta. Era stato difficile la prima volta che aveva ripreso la chitarra in mano. All’inizio si era meravigliato che ricordasse alla perfezione tutti gli accordi e questo forse l’aveva aiutato ad andare avanti, imbracciare nuovamente la chitarra e suonare per mostrare a John le posizioni corrette. Tuttavia, in seguito, Paul aveva capito che non aveva motivo di essere così sorpreso, perché era semplicemente naturale. Il suo primo approccio con la musica era stato entusiasmante, importante, l'aveva segnato a vita, proprio come ciò che era seguito, ciò che l'aveva portato ad allontanarsi definitivamente dalla musica. Allontanarsi, ma non dimenticarla, perché ora era diventata come una cicatrice: non provocava più dolore, ma era lì e Paul lo sapeva, sapeva tutto di quella cicatrice, chi l'avesse causata, perché e come... Una cicatrice che era debole, poteva riaprire la ferita e fare ancora male.

Ma non tutti nel mondo desideravano fargli del male. Chi era lui, in fondo? Solo un ragazzo, uno come tanti. Perché mai qualcuno, uno come John per di più, che desiderava solo imparare qualcosa da lui, avrebbe dovuto per forza fargli del male? Non c'era motivo. Allora perché non provare a fidarsi di lui, solo di lui per ora? Un po' per volta...

Affrontando tutto ciò con convinzione ed estrema naturalezza, Paul aveva deciso di presentarsi al negozio di John il giorno successivo. George era alla cassa e quando vide Paul, gli indicò con un cenno del capo la stanzetta dietro il bancone.

Mormorando un rapido "Grazie", Paul si diresse verso il luogo da cui provenivano degli accordi più corretti rispetto a quelli sentiti diversi giorni prima.

John proprio non si aspettava di vedere Paul lì. Quando si accorse del giovane uomo in piedi di fronte a lui, sbatté le palpebre sorpreso.

"Paul?"

"Ciao, John."

"Cosa ci fai qui?"

"Devo...ehm... io…” iniziò a balbettare Paul, incerto, ma poi si ricordò che la sua decisione era stata presa ed era determinato ad andare fino in fondo, “John, io devo chiederti scusa."

Il giovane uomo sbatté le palpebre, perplesso, "Scusa?"

"Sì. Per l'altro giorno."

"Oh. L'altro giorno.” esclamò John, ricordando, “Ma, Paul, non ce n'è bisogno. Avevi ragione tu."

"No, non era giusto.” ribatté accalorato Paul, “Tu ti stai affidando a me per questo nostro accordo, significa che hai riposto in me vera fiducia. E io te ne sono grato, sai, ma non sto facendo lo stesso con te."

"Non è una cosa istantanea, Paul, ci vuole tempo. Non si diventa amici da un giorno all’altro." esclamò John, con una risata.

Paul scosse il capo, sorridendo fra sé, “No, ma la verità è che fino a questo momento, non avevo mai voluto trovarmi degli amici. Anzi, non avevo mai capito quanto potesse essere importante, avere qualcuno con cui parlare di qualunque cosa.”

"Ora sì?"

Paul annuì, percependo un lieve fremito alle mani. Sì. Ora sapeva. Sapeva che stava compiendo un altro passo importante nella sua vita, uno che non pensava di poter fare fino a poche settimane prima.

"Cosa ti ha fatto cambiare idea?" domandò John, sinceramente interessato.

"Stress da lavoro." rispose Paul, con una risata, "È sufficiente come risposta?"

"Altroché." esclamò John, mentre si alzava per recuperare una sedia affinché Paul potesse sedersi di fronte a lui, e poi ripeté la stessa domanda di qualche giorno prima, "Allora, Paul, come va con il lavoro?"

Paul guardò John che batteva la mano sulla sedia di fronte a lui, invitandolo ad accomodarsi; si morse il labbro, mentre una stupida vocina dentro di lui gli sussurrava di andarsene subito. Stava solo facendo del male a se stesso.

Ma Paul stava cambiando. Aveva deciso di cambiare.

Così, mise a tacere la vocina nella sua mente e si sedette di fronte a John.

"Un vero disastro." sbottò Paul esasperato, "Non hai idea di quello che abbia dovuto sopportare oggi."

John gli sorrise incoraggiante.

"Racconta."

 

(1)- John Lowe, uno dei componenti dei Quarrymen.

 

Note dell’autrice: buona domenica.

Andiamo con il nuovo capitolo. Allora, giusto un paio di cose da dire su questo. La prima è che questo capitolo, l’idea di fondo, diciamo, del piano di nascondere il vero ritratto nel sotterraneo è presa dal primo episodio dell’anime “Occhi di gatto”, che probabilmente voi siete troppo piccoli per ricordare, ma ai miei tempi andava alla grande. :3

E la seconda è che il ritratto che John vuole rubare esiste davvero, e se vi interessa, nel prossimo capitolo allegherò la foto.

Grazie a kiki per la correzione, a ringostarrismybeatle e SillyLoveSongs per il supporto e a tutti quelli che seguono la storia.

Il prossimo capitolo, “A hard day’s night” arriverà domenica prossima, probabilmente in serata, però. :/

E facendo anche tanti auguri a tutte le vostre mamme, vi lascio la storia che avevo scritto l’anno scorso per questa occasione, Mary Julia.

A presto

Kia85

 

 

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Capitolo 6
*** A hard day's night ***


I’ll get you

 

Capitolo 5: “A hard day’s night”

 

“E’ tutto pronto, George?” 

Senza che lo volesse, la domanda era uscita dalla sua bocca con un tono stranamente agitato, che gli fece guadagnare un’occhiata altrettanto strana da parte di George.

“Sì.”

“Le telecamere? Le abbiamo tutte?” continuò, ignorandolo e camminando frettolosamente a sinistra e a destra di George.

L’amico era seduto nella sua postazione, circondato da diversi monitor e computer, e alla domanda di John, sospirò.

“Certo, John. Le ho crackate tutte e le terrò sotto controllo, mentre sei all’opera.”

Su ogni schermo erano visualizzate le inquadrature delle telecamere della villa del signor Lowe. John e George le avevano studiate a fondo nei giorni precedenti, per capire se ci potesse essere uno spiraglio in cui John poteva passare inosservato; ma ogni singolo centimetro di quell'edificio era ripreso e sotto stretto controllo da parte della polizia. Così avevano deciso di entrare nel sistema operativo della sala controllo della villa, e sostituire al momento opportuno le inquadrature reali con finte registrazioni effettuate nei giorni precedenti.

“Ti conviene, sai?” esclamò John, fissandolo con uno sguardo penetrante e utilizzando un tono quasi minaccioso che raramente rivolgeva a George.

Ma questi non si fece spaventare, al contrario, ridacchiò, “Ehi, che ti prende oggi? Non avrai paura?”

“Paura? Io?” ripeté John, incredulo e sconvolto, “Starai scherzando, spero.”

“Eppure sembrerebbe proprio così. Continui a camminare agitato, avanti e indietro, e a fumare nervosamente. Riconosco fin troppo bene la tua fumata nervosa."

"La mia fumata-?" iniziò a ripetere John, ma dovette fermarsi per ridere e sbuffare visibilmente, e una nuvoletta del suddetto fumo uscì dalle sue labbra, “E di cosa dovrei aver paura, se è lecito chiedere?”

“Che ne dici de...il nuovo ispettore?”

John sorrise, indignato, ma soprattutto divertito, “Che ne dici del: tu devi essere completamente fuori di testa, amico mio?! Io dovrei avere paura di quel ragazzino sprovveduto che mi ha spifferato tutte le cose più importanti riguardo questo colpo?”

“Sì.”

La risposta precisa e sicura di George lo prese un po' in contropiede, ma John non ci fece caso e continuò, “Perché?”

“Perché secondo me, non è poi così sprovveduto come sembra e tu non dovresti sottovalutarlo.”

“Non lo sto sottovalutando.” si affrettò a precisare John.

“A me sembra proprio di sì. E ricordati che anche Stuart all’inizio ti aveva sottovalutato, e guarda che fine ha fatto. Spedito in qualche villaggio sperduto in Scozia a badare alle pecore. Ma se prendono te, amico, non finisci in Scozia, lo sai.”

“Lo so.” ribatté John, sentendosi punto nell’orgoglio.

Ricordava bene come Stuart avesse preso sottogamba la minaccia di Hermes, almeno inizialmente, etichettandolo come un semplice ladruncolo che non aveva niente di meglio da fare e che non era poi neanche così furbo come credeva di essere. Ora quello stesso uomo aveva avuto la fine che meritava e John non voleva compiere il suo stesso errore. Troppa sicurezza poteva essere un punto debole, non solo per l’ispettore McCartney, ma anche per lo stesso John.

“Allora, non sottovalutare McCartney.”

No, non l’avrebbe fatto.

“D’accordo.” sospirò John, rassegnato.

“E ora vai. Non vorrai far aspettare gli sbirri?”

John rise, mentre si sistemava il cappuccio della felpa sulla testa, “Certo che no, non vogliamo farli preoccupare. Coraggio, sincronizziamo gli orologi.”

Entrambi si apprestarono a controllare l’ora, dopodiché John si avviò verso la porta.

"Mi raccomando, stai attento." gli disse George, con un sorriso incoraggiante.

"Non preoccuparti, Georgie. Sarò di ritorno prima che tu possa dire, 'McCartney, sei fregato'."

****

Paul camminava nervosamente avanti e indietro nella sala controllo della villa del signor Lowe.

Erano ormai le undici passate della notte: Hermes sarebbe arrivato a momenti.

“Stia calmo, ispettore. Andrà tutto bene.”

Paul guardò il signor Lowe, seduto sulla sua comoda poltrona, con un bicchiere di brandy che sorseggiava tranquillamente di tanto in tanto, e sbuffò.

Come poteva restare calmo, quando era sicuro che Hermes avrebbe capito subito che qualcosa non andava? C’erano troppi poliziotti nel piano dove era esposto il ritratto, e neanche uno vicino al sotterraneo, se non contava quelli di guardia, al di fuori della porta d’ingresso. Con chi credeva di avere a che fare il signor Lowe? Non ci voleva molto, anche un bambino l’avrebbe intuito. Tuttavia il ricco impresario non aveva voluto ascoltarlo, sebbene Paul avesse provato a farlo ragionare altre volte, prima di quella sera, senza ottenere alcun risultato.

E poi aveva gettato la spugna. Era già nervoso perché quella era la sua prima occasione di acciuffare Hermes, non aveva intenzione di lasciare che la testardaggine di quell’uomo lo irritasse ulteriormente.

“Io sono calmo.” mentì spudoratamente, cercando di sembrare sicuro almeno davanti all’uomo.

Non aveva proprio voglia di apparire così agitato di fronte a quella stessa persona che aveva contribuito a trasmettergli tanta insicurezza.

Il signor Lowe, però, scoppiò a ridere, “Andiamo, si vede lontano un miglio il suo nervosismo. Senza contare che sta fumando una sigaretta dietro l’altra. Questo peggiorerà il suo stato d’animo, lo sa?”

Paul alzò gli occhi al cielo, espirando profondamente il fumo intrappolato nei polmoni. Poi guardò la sigaretta e la spense nel portacenere accanto alla bottiglia di brandy. Odiava ammetterlo, ma forse fumare un intero pacchetto in poco più di due ore, non aveva contribuito a farlo star meglio.

“Non si preoccupi, pensi solo che tra poco tempo potrà mettere le mani su quel ladruncolo da strapazzo.” commentò il signor Lowe, trangugiando un altro bicchiere di liquore, “E poi, guardi i monitor, è tutto calmo finora. Se siamo fortunati, potremmo anche scoraggiarlo con queste ingenti misure di sicurezza.”

Paul sospirò, non molto sicuro di quanto avesse appena detto l’uomo. Hermes non era proprio un ladro che si lasciava scoraggiare, anzi. Se aveva capito qualcosa, dalle sue analisi, era l’esatto opposto. Se c’era una sfida, anche di quelle impossibili, lui si gettava a capofitto, totalmente incauto, ma fiducioso delle sue capacità e della sua furbizia.

Per cercare di distrarsi almeno un po’, il giovane ispettore si avvicinò ai monitor della sala. Si trattava di un sistema di monitor molto tecnologico e complicato: vi era almeno uno schermo per ogni telecamera della proprietà e tre addetti a controllare il tutto. La sua attenzione si soffermò sulle immagini delle telecamere che controllavano il giardino e tutto il perimetro delimitato dal cancello.

Non si vedeva neppure l’ombra del più piccolo dei movimenti.

Sembrava che il signor Lowe avesse davvero ragione.

Era tutto calmo.

Finora.

****

Il cuore batteva rapidamente, ora che John era arrivato alla tenuta del signor Lowe, lì dove era nascosta la sua preda.

Dannazione, George aveva ragione. John era nervoso, sì, e neanche sapeva perché. Non era la prima volta che compiva un furto. Di conseguenza ci poteva essere una sola risposta a questa assurda situazione: John aveva paura di Paul.

Non tanto del ragazzino, in realtà, quanto piuttosto della facilità apparente di questo colpo. Era stato davvero troppo facile, scoprire l’informazione più importante, ovvero che il ritratto originale fosse nascosto nel sotterraneo. Eppure c’era riuscito, con un gran bel colpo di fortuna, ammettiamolo. Tuttavia ora, arrivava la parte più difficile: rubarlo.

Perciò, facendo attenzione a ciò che gli diceva George, John lasciò la moto appena fuori dalla portata delle telecamere, ben nascosta dagli alberi con le loro fronde rigogliose.

“Quando sei pronto, John, vado con la prima telecamera.”

John osservò attentamente il cancello, mettendosi in posizione per poter scattare appena George gli avesse dato il via libera, “Sono pronto, George. Diamo inizio alle danze.”

“Bene, allora via libera tra 3…2…1…ora!”

Al segnale John con un rapido scatto raggiunse il cancello e abilmente si arrampicò e lo scavalcò. Una volta atterrato all'interno della tenuta, si guardò attentamente intorno e vide le luci accese all'ultimo piano dell'edificio. Dovevano trovarsi tutti lì: il ritratto falso, la sala controllo, i poliziotti, il proprietario e naturalmente, Paul.

"Ti neutralizzo un'altra telecamera. Così puoi fare subito quanto stabilito nel piano."

John sbuffò. Il piano prevedeva anche un’idea proposta da George, ovvero piazzare una sorta di cimice lì dove si trovava la sala controllo. In questo modo, una volta trovata, la polizia avrebbe pensato che Hermes avesse scoperto lo scambio dei ritratti, ascoltando di nascosto le loro conversazioni, e soprattutto avrebbero deviato l’attenzione da quell’insignificante particolare che aveva visto lo stesso ispettore comunicare questa notizia fondamentale nientemeno che a Hermes in persona.

Sicuramente una trovata di grande utilità, John non lo metteva in dubbio, ma era una scocciatura in più per lui, quella sera.

"Oh, devo proprio?" si lamentò.

"Cazzo, John, sì. Altrimenti come faranno a essere sicuri che Hermes ha saputo dello scambio proprio qui, questa sera?"

"Non basta perché sono sveglio e geniale?"

"Muovi quel culo, Lennon.” lo rimproverò George, e poi continuò più tranquillo, “Puoi proseguire, ora."

"Uff, va bene." sospirò John, avvicinandosi con circospezione all’edificio, “Piccolo rompiscatole.”

“Ti sento, idiota.”

John rise fra sé, mentre raggiungeva il lato della villa su cui si affacciava la sala controllo. Fortunatamente non sembravano esserci poliziotti di guardia, almeno da questa parte dell’edificio, dal momento che sarebbe dovuto entrare proprio dal piano terra, le cui luci erano tutte spente: era quella l’entrata più vicina per il sotterraneo.

John e George avevano studiato bene la piantina della casa, recuperata senza problemi dagli archivi del catasto di Londra. Poi, tramite le informazioni un po’ generiche che Paul gli aveva involontariamente fornito, avevano intuito dove si trovasse questa super-tecnologica sala controllo, e di conseguenza elaborato il loro piano d’azione.

Proprio ai lati dell’edificio, vi erano degli alberi dal tronco imponente e dai rami robusti. Erano ciò che faceva al caso di John. Ovviamente anche questi alberi erano controllati da una telecamera installata nelle vicinanze, e quando George gli comunicò di averla “oscurata”, John si arrampicò agilmente e non appena fu alla giusta altezza, avanzò su uno dei rami, facendo attenzione a non fare troppo rumore. Quando fu abbastanza vicino, notò che la sala controllo disponeva sia di un modesto balcone, sia di una grande finestra, la quale fortunatamente era socchiusa. Doveva puntare su questa.

Recuperò in fretta dalla sacca sulle spalle, una piccola fionda, di quelle moderne e incredibilmente precise, su cui era già stata posizionata la microspia e si sporse più che poté dal ramo, agganciandovi fermamente le gambe. Aveva una sola occasione. Se avesse colpito il vetro con la microspia, questa per quanto minuscola avrebbe comunque causato un lieve tintinnio, attirando l'attenzione dei presenti, tra cui Paul.

Paul che stava dicendo, "Io sono calmo", con un tono incerto che suggeriva l'esatto contrario. Forse John non era l'unico a essere nervoso, il che era abbastanza consolante.

Inspirando a fondo, John restò immobile, prese attentamente la mira e poi... Ecco! Ce l'aveva fatta. La microspia aveva percorso la sua traiettoria con un tiro secco e preciso ed era finita da qualche parte sul pavimento della sala.

Ora, finalmente, arrivava la parte divertente del piano.

Rubare il ritratto.

****

Paul cominciò a torturarsi l'unghia del pollice. Era quasi mezzanotte e ancora non c'era stato alcun segno dell'arrivo o della presenza di Hermes.

Non aiutava i suoi nervi il fatto che il signor Lowe continuasse a dirgli di stare calmo e che probabilmente il ladro ci avesse ripensato.

Così, a un certo punto decise di andare a fare un giro. Si diresse, prima di tutto, nella sala dove era custodito il ritratto falso: i poliziotti di guardia erano tutti alle loro postazioni, le stesse assegnate da Paul. Il giovane ispettore si aggirò con passo nervoso nella sala, avvicinandosi infine al ritratto per fissarlo. Era davvero tale e quale all’originale, che Paul era riuscito a vedere il giorno prima, quando avevano ispezionato il sotterraneo e la cassaforte. Ma ancora non capiva cosa ci fosse di così interessante in un disegno che un bambino probabilmente avrebbe fatto molto meglio.

Riconobbe alcune caratteristiche dei personaggi ritratti sul quel foglio ormai consunto, i Rolling Stones, giusto? Erano gli stessi del cd che gli aveva regalato John. Paul aveva sfogliato il libretto, esaminando le foto dei musicisti, riconoscendo quei volti che molte volte erano passati sui canali televisivi e che Paul aveva osservato solo distrattamente prima di quel momento.

Dannazione, non avrebbe dovuto aprire quella porta. Ripensare a quel cd gli fece ricordare tutte le emozioni contrastanti che aveva provato all’ascolto delle tracce dell’album: quelle più serene, che pensava di non poter provare mai più, ascoltando nuovamente la musica, e quelle più spiacevoli, più strazianti, che gli ricordavano momenti bui della sua vita, lo sconforto, la tristezza, il senso di abbandono e solitudine. Tutto ciò che ora, proprio ora, sul lavoro, non poteva permettersi di prendere ancora in considerazione. Aveva bisogno di essere concentrato, in una situazione così stressante, in cui si sentiva impotente, perché non sapeva se e quando il suo nemico sarebbe davvero arrivato oppure no.

Paul sospirò pesantemente, passandosi una mano nei capelli e decise di aver bisogno di un po’ d’aria fresca. Si allontanò dalla sala per poi scendere velocemente per le rampe di scale fino al piano terra, dove, borbottando fra sé, si fermò solo per controllare che la porta del sotterraneo fosse ancora chiusa; dopodiché, avendo accertato che fosse tutto a posto, proseguì e si diresse verso la porta, al di fuori del quale vi erano altri poliziotti di guardia.

Fu un vero peccato che non si fosse fermato a dare un’occhiata anche in altri locali del piano terra, come per esempio, il piccolo salotto che dava sul giardino, perché altrimenti avrebbe trovato dietro una delle tende pesanti di velluto, proprio la sua preda.

John aveva trattenuto il respiro non appena aveva sentito i passi che scendevano e si avvicinavano a dove si trovava lui. Una volta sistemata la microspia, John aveva fatto il percorso a ritroso per poter penetrare dal balcone del piano terra. Era stato un gioco da ragazzi, aprire una serratura così banale. Senza fare rumore era entrato, richiudendo la porta dietro di sé e nascondendosi dietro la tenda, per aspettare che l’uomo passasse. John non aveva resistito alla tentazione e si era sporto solo un po’ da dietro la tenda per vedere passare nel corridoio proprio il suo vicino di casa. Nell’oscurità che avvolgeva quel piano terra non aveva potuto vedere molto, ma aveva notato che la sua andatura fosse nervosa e agitata. Probabilmente aveva anche brontolato qualcosa che non era riuscito a captare.

Povero piccolo ispettore. Non pensava certo che sarebbe stato facile, acchiappare Hermes?

Tuttavia era presto per cantare vittoria. Dopotutto, John doveva ancora recuperare il ritratto e svignarsela il più in fretta possibile. Cautamente uscì dal suo nascondiglio, affilando l'udito. Sembrava non ci fosse nessun rumore in sottofondo. Muovendosi con passo felino, attraversò la stanza, prestando attenzione a non sbattere contro il tavolino al centro o le poltrone. Quando arrivò sulla soglia della porta, si nascose per un istante dietro il muro. Fece capolino nell'ingresso per controllare che la via fosse libera. Poi, finalmente, scorse la rampa di scale che scendeva fino al sotterraneo, accanto a quelle che portavano ai piani superiori.

"Ricordati che troverai una porta alla fine delle scale." gli ricordò George.

"Sì, lo so. Grazie." mormorò John, prima di intrufolarsi e scendere i gradini in totale silenzio, "Pensa piuttosto a neutralizzare le telecamere del sotterraneo."

"Già fatto." rispose l’amico e John imprecò mentalmente.

Dannato George che aveva sempre la risposta pronta.

La porta fu aperta con facilità e alla fine, John si ritrovò nella stessa stanza con la cassaforte. Bene, restava solo una barriera a dividerlo dal ritratto.

Si avvicinò velocemente per esaminare la cassaforte: era una cassaforte a muro, con la porta circolare su cui vi erano una rotella e più in basso una maniglia con tre manici.

John sorrise fra sé e la esaminò accuratamente. Niente di così inviolabile, ma avrebbe dovuto aprirla cercando di dedurre la combinazione. Appoggiò le dita della mano destra sulla rotella e l'orecchio sulla porta della cassaforte. Cominciò a girare la rotella, ascoltando i rumori dei meccanismi interni. Non un lavoro facile quando hai il cuore che pulsa nelle orecchie.

Datti una calmata, John, si disse fra sé, provando a ignorare il ritmo folle del suo cuore.

Non doveva pensare che in ogni momento potessero scoprirlo.

Non doveva pensare che in ogni momento potesse essere raggiunto da Paul ed essere arrestato.

Non doveva pensare che tutto quello avrebbe significato il suo allontanamento da Julian.

Allora perché lo stava facendo? Se rubare metteva in pericolo ciò che aveva di più caro al mondo, perché continuava a farlo? Non aveva neanche più bisogno di soldi.

Perché lo stava facendo?

Perché la verità era che quella fosse l'unica cosa che aveva deciso nella sua vita. L'unica che potesse controllare. Aveva solo questo, solo in questo era davvero bravo. Solo questo lo faceva sentire come se valesse effettivamente qualcosa.

Così allontanò tutte le distrazioni e si concentrò sul suo lavoro.

Spostò la rotella fino a quando non riuscì a sentire il tanto agognato click, segno che la cassaforte era ora aperta. John indietreggiò di un passo e fece ruotare la grande maniglia. La porta si aprì ed eccolo lì, sul ripiano centrale, il ritratto che aveva cercato da qualche anno ormai. Era riposto in una custodia plastificata, ben conservato e perfettamente in ordine.

Era splendido, davvero incantevole e pazzesco e cazzo! C'erano anche gli autografi originali, segno che quel pezzo di carta era stato maneggiato dai Rolling Stones in persona.

Meglio non pensarci troppo, altrimenti sarebbe svenuto lì e subito.

"Georgie, il ritratto è nelle nostre mani." lo informò con un gran sorriso sulle labbra.

"Ottimo lavoro come sempre, Johnny." esclamò George, la voce che tradiva tutto il suo entusiasmo per l'ennesimo piano ben riuscito, "Ora fila fuori di lì."

"Un attimo, devo lasciare un ricordino per Paul."

"Che cosa?"

"Dai, George, non fare storie." affermò John, ridendo in modo incontrollabile, "Piuttosto, pensa a ripristinare le telecamere."

"Ma, John, sei impazzito?"

"Dai, ho voglia di divertirmi un po'!"

****

Quella notte era stupenda. Il cielo era limpido e stellato. La brezza primaverile era fresca e frizzante e risvegliava tutti i sensi, allontanando le preoccupazioni.

Paul osservò i poliziotti di guardia fuori dalla porta, anche loro immobili nelle loro postazioni, e si avvicinò a un paio di loro.

"Tutto tranquillo qui fuori?"

"Sissignore, signore." rispose la donna dai capelli biondi che qualche giorno prima l'aveva osservato curiosamente, quando erano arrivati in quella villa per la prima volta.

Il suo nome, come indicato dalla targhetta sul petto, era Linda Eastman, un'agente scelto che si era trasferita a Londra direttamente dall'America. Paul si chiese come mai. Cosa c'era o non c'era nella favolosa America che l'aveva indotta a trasferirsi?

Stava quasi per chiederglielo, quando proprio in quel momento dalla sua ricetrasmittente arrivò una voce allarmata.

"Signore, il ladro è penetrato nell'edificio."

Paul fremette, così come tutti i poliziotti presenti che sussultarono visibilmente. Prese subito in mano la ricetrasmittente e rispose. C'erano tante domande da porre, ma diamine, quella più importante era sicuramente...

"Dov'è ora?" chiese, e in qualche modo sapeva già la risposta.

"Sta scappando dal sotterraneo."

In un attimo, Paul prese alcuni poliziotti con sé e si precipitò dentro casa. I suoi agenti scesero le scale verso il sotterraneo, ma Paul si accorse di una strana corrente d'aria che proveniva dal salotto alla sua destra, lì dove il balcone era spalancato e le tende ondeggianti.

"Da questa parte!" urlò, prima di buttarsi all'inseguimento.

Cominciò a correre e si fiondò fuori, all'aperto, scorgendo davanti a sé un figura incappucciata che si dirigeva verso il cancello.

"Fermo!"

Paul continuò a correre, estraendo la pistola di ordinanza dalla custodia. Non che avesse intenzione di sparare. Non gli era mai piaciuto sparare, ma se fosse stato necessario avrebbe dovuto farlo.

L'uomo si arrampicò agilmente sul cancello e lo scavalcò, scomparendo tra gli alberi. Paul non smise mai di correre, doveva arrivare al cancello e quando ci riuscì, sentì il rumore e vide le luci di una moto che veniva accesa. A quel punto si fermò, prese la mira con la sua pistola, puntando un faro rosso posteriore e quanto la moto partì, sparò. Il proiettile centrò il bersaglio, il faro si spense ma la moto non si fermò. Paul la osservò andar via, sospirando. L'eco dello sparo rimbombava nelle sue orecchie scontrandosi con il battito cardiaco nei suoi timpani. Il respiro era accelerato e Paul poteva sentire ogni singola molecola di adrenalina agire sul proprio corpo, sconvolgendolo più di quanto già non fosse.

Ma nonostante tutto l'impegno, nonostante tutti gli sforzi, il risultato non cambiava: Hermes era fuggito dopo l'ennesimo furto.

Paul non seppe quanto tempo avesse trascorso lì, all’aperto, seppe solo che a un certo punto, dalla ricetrasmittente, arrivò una voce.

"Signore?"

Con un movimento pigro e sconfitto della mano, il giovane ispettore rispose alla chiamata, "Sì?"

"Il ritratto è stato rubato."

Ovviamente, che scoperta.

“Sì, grazie. L’avevo capito.” sbottò infastidito, prima di iniziare a camminare senza fretta verso l’edificio.

Fortunatamente il poliziotto all’altro capo della comunicazione ignorò il suo tono scontroso, “La cassaforte è stata aperta e all’interno il ladro ha lasciato un messaggio per lei."

Paul sbatté le palpebre, perplesso.

"Leggilo!"

"Benvenuto nel suo peggiore incubo, ispettore McCartney."

 

 

Note dell’autrice: ecco, questo è solo il primo di diversi capitoli che arriveranno nella storia, con la descrizione di queste scene d’azione, che io sono assolutamente incapace a scrivere come si deve. XD Infatti mi ci vuole davvero diverso tempo per scrivere uno di questi capitoli. :(

Comunque, spero che sia piaciuto, e sì, ci sarà anche Linda, non ho resistito.

Qui potete trovare il ritratto protagonista del furto di John. :3

Grazie a kiki per la correzione, e questa volta vorrei rivolgere un grazie speciale e Chiara_LennonGirl e lety_beatle per l’affetto che mi dimostrano con le loro parole gentili.

Il prossimo capitolo, “We can work it out”, è un capitolo corridoio, diciamo, e arriveranno finalmente altri due personaggi, uno dei quali sarà molto importante nella storia. Chi saranno mai? :D

Ci sentiamo domenica prossima, allora, probabilmente in serata. ;)

Kia85

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Capitolo 7
*** We can work it out ***


I’ll get you

 

Capitolo 6: “We can work it out”

 

Quella  casa era troppo grande per lui. O comunque troppo silenziosa.

Sì, ecco, c'era troppo silenzio.

Una volta il silenzio gli piaceva molto: era rilassante e dolce e aveva sempre il potere di farlo stare meglio.

Tuttavia ora era... ora era assordante. Troppo silenzio permetteva ai suoi pensieri di rimbombare nella sua testa, rimbalzando da una parete all'altra della stanza e tornando a riverberare in lui.

Paul era sdraiato sul suo letto da... non ricordava bene da quanto, in effetti, ma comunque da molto tempo, questo era poco ma sicuro. Rimuginava in continuazione su quanto accaduto quando quel fottuto Hermes aveva rubato quello stupido ritratto!

Naturalmente, come conseguenza, il signor Lowe si era arrabbiato con lui. Il motivo? Una stupida microspia trovata nella sala controllo, con la quale Hermes aveva evidentemente appreso dello scambio di ritratti. Il ricco impresario sosteneva che non avessero ispezionato bene il locale, ma Paul gli aveva risposto con sicurezza che quella microscopia non c'era durante la loro ispezione e di conseguenza, doveva essere stata inserita quella sera stessa, mentre il signor Lowe stava dilungandosi su quanto fossero affidabili i suoi sistemi di sicurezza.

Questo aveva fatto arrabbiare ancora di più l'uomo, che aveva ripreso a scagliare ingiurie contro Paul, ma l'ispettore capo Starkey, sopraggiunto di corsa dopo essere stato avvisato, era riuscito a calmarlo e aveva poi consigliato a Paul di uscire e tornare a casa. Per fortuna, lui non incolpava Paul.

Lo sapevano tutti che non era colpa sua. Il sistema informatico del signor Lowe era stato facilmente crackato da qualche complice di Hermes e poi...

Poi quel maledetto sotterraneo. Lui, Paul, voleva mettere dei poliziotti di guardia anche lì, non era stato lui a vietarli categoricamente perché si credeva tanto più furbo del ladro.

Tuttavia ora, chi aveva dato una cattiva impressione di se stesso alla città non era stato certo il signor Lowe. No, ovviamente no. Paul era il novellino che si era lasciato sfuggire Hermes al primo incarico. Tutti i giornali ne avevano parlato, e lui ora poteva solo immaginare quanto stesse sghignazzando divertito Stuart Sutcliffe in quel della Scozia. Forse pensava che fosse giusto che era andata così, visto che Paul aveva preso il suo posto, che se lo meritava, perché aveva affrontato il tutto con troppa presunzione e questa, si sa, non è mai positiva.

Sospirò pesantemente, mentre si alzava dal letto. La testa gli stava scoppiando. I giorni che seguivano un furto erano sempre stressanti, e ora Paul si sentiva uno straccio. Aveva bisogno di un qualche tipo di analgesico per allontanare quel dolore che stringeva il cranio, quasi volesse spremere il cervello e farlo uscire dal suo corpo. Dio, che sensazione del cazzo!

Paul si trascinò al piano inferiore, diretto alla cucina, e mentre scendeva le scale sentì un rumore provenire dall'altra parte della strada: una saracinesca che veniva abbassata. Anche senza affacciarsi dalla finestra sapeva che si trattava del negozio di John.

Era da più di una settimana che Paul non si faceva vedere. Dal furto di Hermes, in effetti. Teoricamente avrebbero dovuto avere almeno un paio di lezioni di chitarra nei giorni precedenti, ma Paul non  ne aveva voglia e non aveva neanche avvisato il suo “allievo”.

John, da parte sua, non l'aveva cercato. Paul non aveva idea del motivo, ma forse John, avendo saputo del suo fallimento, aveva deciso di lasciarlo in pace. Oppure non gli importava poi molto delle sue lezioni. Oppure Paul faceva così schifo a insegnare che-

No, questo no. Non doveva piangersi addosso. Era un comportamento piuttosto infantile, e lui ormai era un uomo maturo. Per non parlare del fatto che piangersi addosso fosse  totalmente inutile. Di sicuro non avrebbe risolto i suoi problemi, non avrebbe catturato Hermes pensando a quanto fosse stato idiota, chiedendosi come sarebbe andata se si fosse impuntato sulle sue decisioni. No, non l’avrebbe catturato così.

Doveva reagire, era forte, in fondo, aveva superato cose ben peggiori.

Quando arrivò in cucina, alla ricerca di qualcosa da mangiare prima di assumere un analgesico, non pensò al fatto che le cose ben peggiori non era poi state così superate, anzi…

Pensò piuttosto che non aveva niente da mangiare in cucina, se escludeva quel barattolino di yogurt ormai scaduto da diverse settimane. Non sembrava proprio allettante, mangiare quegli esserini verdi che avevano colonizzato la crema di yogurt e lamponi. Urgeva un ingente rifornimento al supermercato.

Cinque minuti dopo stava uscendo da casa, diretto al primo supermercato che avesse incrociato per strada, che si rivelò essere un piccolo negozio appartenente alla catena Tesco. Paul si infilò rapidamente e afferrò un cestino, incominciando a girovagare tra i corridoi del supermercato.

Recuperò frutta, verdura, la birra ovviamente, un po’ di carne, i biscotti, poi il latte e-

“Ehi, Paul.”

Alla menzione del suo nome, Paul scosse il capo: si rese conto che negli ultimi istanti, era rimasto immobile di fronte al bancone del frigo, con la testa rivolta alla sua sinistra, proprio lì dove a pochi passi di distanza aveva intravisto, con sua grande sorpresa, la figura familiare di John. E quando l’uomo aveva incrociato il suo sguardo, mentre recuperava due budini al cioccolato, gli aveva sorriso e lo aveva chiamato.

“Ciao.” lo salutò Paul, osservando con circospezione John che si avvicinava a lui.

“Come stai?”

“Io? Bene, grazie.” si affrettò a rispondere con la prima cosa che passò nella sua mente.

“Mi fa piacere, sai, è da un po’ che non ti fai vedere al negozio e mi stavo chiedendo che fine avessi fatto.” spiegò John, con una risatina.

Paul sussultò impercettibilmente, sempre più sorpreso, “Davvero?”

“Sì, beh… Abbiamo saltato un paio di lezioni, ma ho letto sul giornale di quel ladro e ho pensato che magari non avessi voglia di farti vedere per un po’.”

Sentire quelle parole dalla bocca di John fece riflettere seriamente Paul sul fatto che, in realtà, avesse davvero evitato di proposito John. Non che fosse stato consapevole di ciò che stava accadendo, lui non voleva evitare John. Eppure in qualche modo lui, le loro lezioni di musica, quel negozio dove se non suonavano loro, c’era sempre almeno un disco in sottofondo… tutto gli ricordava quel ladro e di conseguenza il suo fallimento. E sarebbe stato doloroso, troppo doloroso frequentarlo.

La strana realizzazione lo lasciò più turbato di quanto già non fosse.

"Sì." rispose, con totale sconforto, "Sì, penso proprio che fosse quello il motivo."

"Oh." esclamò John, quasi non credendo che la sua supposizione fosse esatta, "Mi dispiace, ma vedrai che la prossima volta andrà meglio."

"La prossima volta?"

"Sì, da quello che si vede sui giornali, mi sembra di capire che si tratti di un rapinatore seriale."

"Ah, sì, un rapinatore seriale, sì."

John gli sorrise, comprensivo nel vederlo così totalmente a disagio con l’argomento, "Senti, magari stai rimuginando troppo su questo fatto. Perché non torni in negozio e proseguiamo le nostre lezioni? Forse un po' di musica potrebbe aiutarti a distrarti."

"Ma la musica ha a che fare anche con...tu-sai-chi." protestò Paul, debolmente.

Non voleva pensare che una parte di sé stesse morendo dalla voglia di tornare a suonare con John, una piccola parte che Paul non pensava potesse essere ancora presente in lui, quella parte che amava la musica tanto quanto la vita.

John sogghignò divertito, “La musica ha a che fare con Voldemort?”

La risata di John lo fece destare all'improvviso.

Ma che cosa gli stava accadendo? Sembrava essere con la testa tra le nuvole e non lì, al supermercato, a parlare con John. Non poteva permettere a Hermes, al suo lavoro di intromettersi così prepotentemente nella sua vita. Almeno quella, doveva lasciarla in pace.

"Sai che ti dico? Hai ragione." esclamò Paul, entusiasta.

"Questo significa che tornerai?" domandò John e il suo tono interessato fece sentire in colpa Paul per aver pensato che non gli importasse nulla di lui.

"Ma sì, perché no? Mi ci stavo abituando."

"Perfetto. Vedrai che non te ne pentirai.” affermò, dandogli una sonora pacca sulla spalla, “E magari insieme possiamo farcela a superare quel tuo problemino con la musica e non farti pensare troppo a quello stupido ladro,  perché vedi, Paul, se ci pensi bene, Hermes non ha a che fare con la musica. Lui tratta solo cianfrusaglie da nulla, mentre noi, noi sì che facciamo la musica. Siamo proprio noi a crearla, e questo vale più di tutte quelle cazzate che ha rubato."

Paul annuì lentamente, più a se stesso che a John, come se volesse convincersi ulteriormente che era la soluzione migliore.

“Hai ragione, John. Quando ricominciamo?” domandò Paul, euforico.

John rise nel notare il cambiamento repentino di Paul, “Quando vuoi. Sai dove trovarmi.”

“Facciamo domani pomeriggio?”

“Domani sia.”

Paul lo guardò solo un istante, pensando che stesse davvero facendo la cosa migliore per se stesso. Lo sentiva come un fuoco buono nella sua pancia. Era quel buon presentimento che aveva preceduto tutte le cose belle della sua vita.

“Grazie mille, John.”

“Grazie a te.”

“Allora, ci vediamo.” lo salutò Paul.

“Sì, a domani.”

 Dopo un ultimo sorriso, che John ricambiò subito, Paul si voltò e se ne andò, lasciando John da solo, davanti al bancone del frigo.

L’uomo sospirò. Che-cazzo-aveva-combinato?

Consolare Paul che era evidentemente abbattuto dalla sua prima missione andata male con Hermes? Cercare di farlo riprendere, addirittura parlando male di se stesso?

Come gli era saltato in mente? Non sarebbe stato meglio, a questo punto, lasciarlo nel suo brodo, così che il suo stato d’animo potesse andare a compromettere anche i futuri piani di Hermes?

No, no, era giusto, John aveva fatto bene a comportarsi in quel modo. Aveva fatto bene ad aiutare il suo nemico, perché se non si fosse fatto più vedere, John non avrebbe più potuto estrapolare le informazioni che Paul condivideva ingenuamente con lui. E invece a John servivano, servivano eccome, servivano tutte. Ogni più piccolo dettaglio che Paul era disposto a confidargli, dai suoi interessi, alla sua vita privata, ai suoi problemi sul lavoro…

John doveva conoscerlo a fondo per poter essere sicuro di colpirlo.

Vincerlo.

Annientarlo.

****

"Ti ha lasciato un biglietto?”

Paul annuì, strimpellando distrattamente la chitarra tra le sue braccia. Era nel negozio di John da pochi minuti, e mentre accordavano le chitarre, Paul aveva sentito il bisogno di parlare di quanto era accaduto la sera del furto. John era un grande ascoltatore. Era attento, interessato e si lasciava facilmente coinvolgere.

“Molto arrogante da parte sua." commentò John.

“Già.”

“E hanno anche avuto il coraggio di dare la colpa a te?”

“Solo quel coglione del proprietario del ritratto.” sbottò Paul, sbuffando, “Il mio capo non mi ha fatto storie, per fortuna.”

“Bene, almeno questo.” esclamò John, sollevato, “In fondo, se quell’uomo ha deliberatamente deciso di sottovalutare il ladro, perché dovresti andarci di mezzo tu?”

“E’ quello che mi sono detto anche io. Io non ho intenzione di sottovalutare Hermes. Non lo sottovaluterò mai.”

Era una promessa alle orecchie di Paul, e una minaccia per quelle di John, il quale si morse il labbro non per paura, quanto piuttosto per una strana sensazione di euforia che lui doveva stare attento a nascondere, almeno di fronte a Paul.

“Fai bene, sai. Sono sicuro che anche lui non abbia alcuna intenzione di sottovalutarti.”

Paul sollevò lo sguardo dalla chitarra per rivolgergli un sorriso pieno di gratitudine, prima di passare a cercare di suonare insieme una canzone: aveva scelto “Knockin’ on heaven’s door” di Bob Dylan. Era stata una scelta difficile per lui, si trattava di una delle canzoni che piacevano di più a sua madre. Aveva quasi paura che suonare quella canzone avrebbe potuto farlo crollare proprio lì, di fronte a John. Tuttavia, Paul si era fatto coraggio e aveva deciso di proseguire con questa sua decisione, anche perché era abbastanza semplice per essere la prima canzone con cui John potesse provare i nuovi accordi. Inoltre se non si fosse buttato, non avrebbe mai saputo se i suoi timori fossero fondati oppure no.

Fortunatamente, le cose iniziarono ad andar bene. Era doloroso per Paul: ogni accordo, ogni parola riportava nella sua mente il sorriso sincero di quella donna, la sua dolce risata, il tepore del suo abbraccio, ma si trattava in effetti di un dolore sopito, sordo, un dolore superficiale, insomma qualcosa che lui potesse sopportare e gestire.

Inoltre furono interrotti proprio nel bel mezzo dell'esecuzione. Ci fu l'improvviso scampanellio della porta del negozio, seguito da quella che sembrava la risata di un bambino. John smise subito di suonare, alzando il capo e posando lo sguardo sulla tenda di quella stanza. Come se fosse in attesa di veder spuntare qualcuno.

E infatti, pochi istanti dopo, qualcuno entrò davvero, o forse sarebbe più corretto dire che si precipitò attraverso la tenda.

"Ehi, Jules!" esclamò John con un gran sorriso.

Subito Paul si voltò all'indietro per vedere chi avesse causato quell'espressione sorridente e luminosa sul volto di John: un bambino attraversò di corsa la sua visuale, pronto per gettarsi tra le braccia dell'altro uomo.  

"Papà!"

"Amore mio."

Paul osservò come John ripose subito la chitarra per terra, prima di prendere in braccio il figlio e stringerlo teneramente a sé. Il suo cuore si strinse a quella visione: non aveva mai visto John sorridere così tanto, in quel modo tutto particolare che solo un figlio poteva causare. Non che Paul lo conoscesse da tanto, ma era davvero la prima volta che il sorriso di John gli parve genuino, senza quell’aria beffarda che era sempre presente sul suo viso.

John si ritirò solo un po’ dall’abbraccio per poter appoggiare la fronte su quella piccola del bambino e far strofinare i loro nasi.

“Papà, lo sai che oggi la maestra mi ha dato ‘Ottimo’ nel disegno?”

“Ottimo? Oh, ma allora diventerai un piccolo Van Gogh.” commentò John, sorridendo e stringendolo ancora a sé.

In quel modo, John si accorse di Paul che stava fissando tutta la scena molto interessato.

“Ah, Julian, guarda chi ti fa conoscere papà.”

“Chi?” domandò il bambino, mentre John lo metteva con i piedi per terra, voltandolo verso Paul, il quale sussultò.

Si ritrovò, all’improvviso, di fronte a quel bambino in carne e ossa, con gli occhi chiari, che ovviamente aveva preso dal padre, e i capelli sottili dello stesso colore di John. E poi quei lineamenti dolci che di John non avevano nulla, ma che su quel viso angelico stavano benissimo.

"Ti presento il mio amico Paul." disse John, indicando al bambino l'uomo di fronte a entrambi.

Paul, sentendosi chiamato in causa, si destò dalle sue riflessioni e sorrise al bambino, il quale gli rimandò uno sguardo titubante.

"Piacere di conoscerti, Julian." affermò Paul.

Ma il bambino si strinse all'indietro, contro suo padre, totalmente intimorito da Paul. Tanto che quando Paul gli porse la mano, Julian si voltò, nascondendosi nel petto di John, che ridacchiò, accarezzando i suoi morbidi capelli.

"Andiamo, Jules, perché fai il timido ora?" domandò John, cercando di farlo voltare ancora, ma il bambino si aggrappò con una forza incredibile a lui, "Non ti morde, sai. Paul è un poliziotto, di quelli veri con il distintivo, la pistola e la sirena nell'auto. Non è così, Paul?"

Paul si affrettò ad annuire, "Ma certo. E se vuole, posso anche farlo salire sulla macchina della polizia qualche volta."

A quelle magiche parole, Julian allentò la presa sulla maglietta del padre per voltarsi lentamente e guardare Paul con occhi più interessanti e meno impauriti.

"Davvero?"

"Se papà vuole, ovviamente..." aggiunse subito Paul.

"Posso, papà?" domandò impaziente Julian.

Questa volta fu il turno di John di sussultare e quasi rabbrividire. Salire su una macchina della polizia era un rischio che lui correva ad ogni furto, ma a meno che non avesse confessato lui stesso di essere Hermes, non c'era motivo per cui dovesse salire su quella macchina per scendere solo all'interno di un carcere. Inoltre Julian era in attesa e lo stava guardando con quei suoi occhi dolcissimi a cui John non sapeva resistere.

"D'accordo." sospirò alla fine.

"Allora un giorno di questi te la mostrerò." esclamò Paul, facendogli l’occhiolino.

Il volto di Julian si illuminò di una luce decisamente più entusiasta ora, quasi dimenticandosi del fatto che fino a pochi minuti prima fosse impaurito da quello sconosciuto.

"Julian?" esclamò una voce femminile, proveniente dalle spalle di Paul, "Hai salutato papà? Oh."

Paul, incuriosito, si voltò nuovamente per incrociare lo sguardo di una delle ragazze più belle che avesse mai visto. Lunghi capelli biondi, alta, con occhi chiari, guance paffute e labbra rosse e carnose… Una specie di dea.

"Sì, grazie, Pattie." esclamò John.

La ragazza di nome Pattie entrò nella stanza, avvicinandosi a padre e figlio, "Ci teneva anche lui a salutarti prima di portare Elvis dal veterinario, non è vero, Julian?"

Julian annuì, ancora fra le braccia del padre.

"Ah, Pattie, non ti ho ancora presentato Paul McCartney, il nuovo vicino di casa, nonché mio insegnante di chitarra."

“Insegnante è una parola grossa.” ribatté Paul, ridendo, mentre si alzava per stringere la mano di Pattie, “Piacere di conoscerti."

"Il piacere è mio." esclamò Pattie con un sorriso, “Non deve essere facile, avere come allievo John…”

“In realtà, è uno studente modello.”

“Chi? John?” domandò Pattie, sbattendo le palpebre allibita e guardando l’uomo che aveva attualmente appoggiato il mento sopra il capo di Julian, “Mi sorprendi, tesoro.”

“Le sorprese non finiscono mai, quando si tratta di me, mia cara.” commentò John, facendole l’occhiolino maliziosamente, e Pattie rise divertita.

Poi, la ragazza controllò l’orologio e tornò a guardare il bambino, “Sarà meglio andare, ora, che ne dici, Julian?”

Il bambino annuì obbediente, mentre il padre lo faceva voltare verso di sé, “Sì, dai, andate altrimenti fate tardi. Prima però, piccoletto, dammi un bacio posato.”

“Quello forte forte?” domandò Julian, avvolgendo le braccia sottili intorno al collo di John.

“Fortissimo!” rispose lui.

Il bambino rise e poi lo baciò sulla guancia, stringendosi il più possibile a lui. Paul osservò tutta la scena con un dolce tepore che sembrò scaldarlo in un istante. Pensò di non aver mai visto una scena tra un padre e un figlio più bella di quella che si era appena svolta davanti ai suoi occhi, più bella di quella che aveva appena sfiorato con le sue stessa dita, in modo tanto delicato, da essere nel contempo sia spettatore che attore.

Poi Julian prese la mano di Pattie e se ne andò, mentre John gli diceva che si sarebbero visti quella sera a casa. Quando tornò a guardare Paul, questi gli rivolse un lieve sorriso.

“Scusa l’interruzione.” gli disse John, “Ma ho chiesto a Pattie di portarmelo un attimo, prima di andare dal veterinario, altrimenti non lo vedevo fino a stasera.”

“Non devi scusarti, comprendo perfettamente e anzi, mi ha fatto piacere conoscere tuo figlio. È un bambino delizioso.” affermò Paul.

“Grazie.”

“E Pattie sarebbe la babysitter?”

John annuì, mentre riprendeva la chitarra fra le sue braccia, “In un certo senso. È stata la maestra di Julian al nido, e ora si occupa di lui da quando esce dall’asilo fino a quando io e George chiudiamo il negozio. E prima che tu lo chieda, sì, è impegnata.”

Paul rise, “Non avevo intenzione di chiederlo.”

“Dici? Come se non avessi notato come l’hai guardata. Ma devo avvisarti che è sposata con George.” spiegò in fretta John.

Paul sbatté le palpebre più che sorpreso, “George è sposato?”

“Sì, lo so.” rispose John, ridacchiando, “Non sembra proprio il tipo da matrimonio, eppure è così e giuro di non aver mai visto una coppia più felice di loro. Quindi, toglitela dalla testa.”

 “Ti assicuro che non avevo davvero pensato a lei in quel modo, sono felicemente fidanzato, sai?”

“Non lo sapevo, chi sarebbe la fortunata?”

“Si chiama Jane Asher.”

John spalancò gli occhi, incredibilmente sorpreso, “Quella Jane Asher?”

“Proprio lei.” rispose Paul, non riuscendo a nascondere tutto il suo orgoglio per avere una ragazza così bella, famosa, brava, insomma così perfetta.

“E come avete fatto a conoscervi?” domandò sinceramente interessato.

“Oh, sai, è venuta a girare alcune scene di un film a Liverpool e io ero solo un semplice agente scelto all’epoca, facevo parte del servizio di sicurezza del set. Abbiamo cominciato a parlare durante le pause dalle riprese e una cosa tira l’altra, alla fine siamo usciti insieme e abbiamo iniziato a frequentarci seriamente.”

“Significa che vi sposerete?”

Paul abbassò lo sguardo, leggermente a disagio per l’argomento, “Non so, per il momento non vuole sentir parlare di matrimonio. Non voglio metterle fretta, sai, ma non nego di averci pensato diverse volte.”

“Se posso darti un consiglio, penso che tu faccia bene a non metterle fretta, ma nello stesso tempo, dovresti comunque cercare di capire che intenzioni abbia anche lei. Non si può mai dire come le cose possano cambiare in un solo istante.”

Paul tornò a guardarlo, sorpreso, notando come la sua espressione si fosse improvvisamente oscurata: tutta la luce portata da Julian era come scomparsa. E Paul stava quasi per chiedergli cosa volesse dire, quando John si accorse di essersi esposto più di quanto avesse desiderato.

“Dovresti proprio farmela conoscere, la tua fidanzata.” disse poi, sorridendo.

“Oh, certo, dovrebbe venire a Londra settimana prossima. Così come anche mio fratello.”

“Tuo fratello?”

“Sì, vengono a vedere come mi sono sistemato. E indovina?” esclamò Paul, euforico, “Ho chiesto a Mike di portarmi i miei vecchi spartiti, con tutti gli appunti di quando andavo a lezione.”

“E’ un’ottima idea, ti ringrazio.”

Paul rispose con un vago gesto della mano, “Figurati.”

“Lo penso davvero, queste lezioni sono molto utili, sia per me che per Julian.” spiegò con una breve risata.

Paul aggrottò la fronte, perplesso, “In che senso?”

“Beh, quando mi esercito a casa la sera, Julian si siede accanto a me e mi ascolta fino a quando non si addormenta.” spiegò John, l’espressione serena e assorta in uno dei suoi ricordi più dolci.

“Hai un effetto soporifero allora.” scherzò Paul.

“Anche, ma più che altro, sentirmi suonare lo calma quando magari è un po’ agitato o sta piangendo, e io voglio migliorare soprattutto per lui.”

E chi era Paul per cercare di non aiutare John a realizzare il suo scopo? Voleva aiutarlo, voleva aiutarlo perché John aveva un nobile intento e lui voleva contribuire in qualunque modo possibile.

“Non ti preoccupare, John, vedrai che insieme ce la faremo.”

 

 

Note dell’autrice: caspita, quando si tratta di Julian esagero un po’ con il fluff, ma cioè, dai, lui è il fluff, con quel musetto adorabile. Non mi piace pensare che il John di questa au sia OOC per quanto riguarda suo figlio, perché secondo me John semplicemente non era pronto a fare il padre, quando è nato Julian, ma lo ha amato davvero. Solo che purtroppo, non ha mai saputo come rapportarsi con lui.

Comunque, niente da dire su questo capitolo, è un capitolo corridoio, e come tutti i capitoli corridoi è un po’ lento e per niente eccitante, però ci sono due nuovi personaggi, eh, dai, c’è anche Pattie. Yuhuuu!!

Comincio a chiedere in anticipo scusa per la lunghezza dei capitoli che mi stanno diventando sempre più lunghi, HELP! XD

Se vi interessa, questo è il negozio che ho immaginato per quello di John.

Grazie a kiki che ha corretto, a ringostarrismybeatle per la consulenza musicale di questo capitolo, e grazie a Josie Walking_Disaster Vengeance, Chiara_LennonGirl e lety_beatle, perché ci sono sempre. :)

Prossimo capitolo, “Birthday”, domenica prossima. Di chi sarà questo compleanno?

A presto

Kia85

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Birthday ***


I’ll get you

 

Capitolo 7: “Birthday”

 

“The answer, my friend, is blowin' in the wind,

The answer is blowin' in the wind.”

Non credeva di averlo fatto per davvero. Erano praticamente secoli che Paul non cantava, eppure ora eccolo lì, nella piccola stanzetta sul retro del negozio di John a cantare dolcemente.

Stavano usando gli spartiti che Mike gli aveva portato da Liverpool. C'erano tutte le annotazioni del suo insegnante di chitarra, oltre che tutti i testi delle canzoni più belle della storia della musica, canzoni che piacevano molto a Paul, canzoni che ancora adesso, nonostante tutte le sue vicissitudini, riuscivano ad accendere in lui una fiamma di passione.

Quel giorno avevano optato per "Blowin' in the wind", un brano molto semplice da suonare e da cantare contemporaneamente.

Era stato John a chiedergli di cantarla, ma Paul all’inizio aveva detto categoricamente di no: suonare era un conto e cantare tutt’altra cosa, prevedeva un’ulteriore esposizione che Paul non era ancora sicuro di poter affrontare. L'ultima volta che aveva cantato era stata il giorno prima che sua madre morisse. Sapendo quanto lei amasse sentirlo suonare e cantare, Paul, vedendola così sofferente nella sua agonia, aveva provato a darle sollievo con la sua musica, per farle sentire che era ancora vicino a lei, che sarebbe sempre rimasto al suo fianco, anche se la sua musica era triste e disperata come lui, anche se ogni accordo era bagnato dalle sue lacrime salate.

Tuttavia, John non era solo questa volta. Aveva un potente alleato nelle piccole sembianze di Julian. Quel pomeriggio era uscito prima dall'asilo ed era stato portato da Pattie in negozio. John gli aveva permesso di restare durante la lezione, a patto che fosse rimasto buono in un angolino a disegnare e giocare in silenzio. Julian, entusiasta, aveva obbedito.

Così quando John aveva cominciato a pregare Paul affinché cantasse per lui, aveva coinvolto anche il bambino.

"Guarda, Paul." aveva detto, "Anche Julian vuole che canti, vero, amore?"

Il bambino, sentendosi chiamato in causa, si era voltato verso il padre e l'aveva osservato mentre lui gli faceva l'occhiolino. Poi aveva sorriso e guardato Paul.

"Sì, dai, canta!"

E quando Julian l'aveva pregato, quello era stato il colpo di grazia per Paul che, sconfitto, aveva accettato.

Due contro uno non era affatto giusto. E Julian poteva anche valere per tre, con il suo essere un bambino adorabile e bellissimo, di quelli da coccolare dalla mattina alla sera. Paul non aveva mai avuto modo di interagire davvero con i bambini, ma pochi giorni a contatto con Julian, e già si era invaghito di quel piccolo, sentendosi così incredibilmente a proprio agio con lui. Era un ragazzino sveglio, ma anche molto sensibile.  

"Sei bravo a cantare." commentò John, al termine del brano.

Paul scosse il capo, facendo un vago gesto con la mano, "Ma no, era tantissimo che non cantavo. Ho preso certe stecche. Deve essere stato straziante per tuo figlio."

"Non ti preoccupare, Jules è abituato a sentire di peggio, non è così, piccolo?"

Julian alzò lo sguardo da dove si trovava a terra, sdraiato a pancia in giù in mezzo a decine di pastelli colorati, e annuì.

“Papà canta sempre.”

Paul scoppiò a ridere, sotto lo sguardo di un John molto piccato. L'innocenza nella voce e nelle parole di Julian era bellissima e nel contempo, divertente.

"Julian!" lo riprese, "Io parlavo di George."

"Mi piace quando canta zio George." affermò distrattamente il bambino, guardando il suo disegno.

"E quando canta papà?" domandò John, e Paul poté vedere una sorta di gelosia sul suo volto.

Julian gli sorrise, portandosi un dito in bocca, "Anche."

"Ecco, così va meglio." disse John, rincuorato, scompigliandoli affettuosamente i capelli.

"Allora sei bravo a cantare." affermò Paul, rivolto a John.

"Non come te."

"Non ci credo. Fammi sentire."

John scosse energicamente il capo, "No, grazie."

"Oh, andiamo. Non ti far pregare. Io ho cantato per te." gli fece notare Paul.

"Non se ne parla." ribatté John inflessibile.

"Ma non è giusto."

John incrociò le braccia sul petto, osservandolo con un sorriso, segno che si stava lasciando convincere, "Facciamo così. La prossima volta canterò per te."

"Bene." esclamò Paul, il cui viso si illuminò di interesse alla prospettiva, "Ci conto."

John prese il libro di Paul e cominciò a sfogliarlo distrattamente, prima di guardarlo e chiedergli, "Hai qualche richiesta particolare?"

"Una canzone qualunque di questi spartiti. Sono tutte canzoni che mi piacevano da ragazzino. Me le ha fatte conoscere mia madre, sai. Ci sono molto affezionato, anche se risentirle mi porta ricordi dolorosi: gliele cantavo spesso quando era in terapia e lei mi guardava con il suo sorriso debole, ma nonostante stesse male, continuava a sorridere, fino all’ultimo."

"Capisco." disse John, abbassando improvvisamente lo sguardo, di nuovo sugli spartiti.

Tutto nella sua voce e posizione stava trasmettendo a Paul una sorta di disagio e questi sbatté le palpebre, accorgendosi del repentino cambio di atmosfera. Era stata colpa sua, dannazione, ma non aveva intenzione di portare tristezza in quel momento che finora si era rivelato così gioioso e spensierato.

"Scusami, non volevo metterti in imbarazzo." affermò Paul, profondamento dispiaciuto.

"No, non ti preoccupare.” si affrettò a dire John, sorridendo, “Va tutto bene."

"Certe volte non mi accorgo che quello che dico possa mettere a disagio le persone."

"Paul." iniziò John, sporgendosi per appoggiare una mano sul ginocchio dell'altro uomo, "Non devi preoccuparti di questo. Quando si parla di certi dolori, le persone che non hanno provato le stesse cose, non sanno mai cosa dire. È solo normale e non è colpa di nessuno, anche se forse, a volte preferiremmo che qualcuno ce lo dicesse chiaramente, non posso capire quello che provi, piuttosto che fare tanti discorsi pomposi e inutili che vogliono dire tutto e nulla nello stesso momento. Io ho detto che ti capisco perché so cosa significa sentire una canzone o vedere un luogo particolare che ci ricorda una persona che ci ha abbandonati."

"Chi?" domandò Paul, senza riuscire a trattenersi.

Era stato come rapito dalle parole di John, perché in effetti, molte volte aveva sentito tutto quello che aveva descritto lui, ma non ne aveva mai parlato con nessuno. Né con i suoi amici, né con Jane, nessuno era mai riuscito a capire davvero come si sentisse, nessuno aveva mai intuito che Paul volesse solo urlare certe volte, per lasciar andare quel dolore che era troppo grande da tenere dentro di sé.

E ora John, John l’aveva capito e alla domanda di Paul, rispose voltandosi a guardare Julian tristemente.

“Una persona che ora non è più con me.”

Paul sbatté le palpebre, perplesso, ma affamato di risposte: chi non c’era più? E perché John aveva risposto guardando Julian? Si trattava forse della madre del bambino?

Ma prima che Paul potesse dire qualunque cosa, John si destò dai suoi pensieri e tornò a guardarlo, cercando di mostrare un sorriso almeno credibile.

"Senti, che ne dici se rifaccio Blowin’ in the wind? Così avremo due versioni della stessa canzone.”

Paul sospirò, e quasi si maledisse per aver osato, ancora una volta, troppo. Forse John non era ancora pronto a condividere qualcosa di tanto privato con lui e Paul non capiva proprio perché. E dire che pensava di essere lui, quello troppo chiuso in sé. Ma piano piano, stava cominciando a comprendere che anche John avesse una personalità più complessa di ciò che voleva mostrare. Diventava evidente quando c’era Julian, insieme a lui. Julian era in grado di far emergere il suo lato più dolce, così come anche le ombre che erano in John. E se il primo era comunque mostrato più che volentieri da John, per il secondo, John era ancora particolarmente restio. Paul decise di rispettare la sua riservatezza e non provò a indagare ulteriormente.

“Dico che è un’ottima idea.” disse invece.

"Ma se poi non ti piace, non ti lamentare."

"Non sarà questo il caso. A Julian piace come canti e io mi fido del suo giudizio." esclamò Paul, guardando il bambino.

John lo osservò, sorpreso perché la dolcezza dello sguardo di Paul, rivolto a suo figlio, l'aveva fatto fremere. Julian era abituato a ricevere questi sguardi da parte di chiunque lo incontrasse, era un bambino bellissimo e dolcissimo, donne e uomini si scioglievano di fronte a lui.

Tuttavia Paul aveva qualcosa di diverso. Paul aveva qualcosa che gli diceva inequivocabilmente che John poteva fidarsi di lui. E qualcos’altro in John gli stava sussurrando di farlo, fidarsi di Paul, confidarsi con lui. Ma John non voleva, non poteva. Non avrebbe commesso lo stesso errore di Paul: lui si stava fidando, consegnandogli tutta la sua vulnerabilità. John invece, non avrebbe mai potuto farlo.

Deglutì quella strana voglia, sperando che scomparisse per sempre dal suo corpo, e poi ripose la chitarra nella custodia. La lezione era finita e John e Julian dovevano andare a casa a dare la medicina al piccolo Elvis, il loro gattino con il raffreddore.

“Un gatto di nome Elvis?” ripeté Paul, sbalordito e divertito insieme.

“Un gatto bianco di nome Elvis.” aggiunse John.

“E’ originale.”

“Non te l’ho detto, che il mio più grande amore è Elvis?”

“Elvis?" domandò Paul sorpreso, "Anche a me piaceva molto.”

“Come?” esclamò ridendo John, “Proprio a te che non ascolti più musica?”

Paul aggrottò la fronte, “Stiamo lavorando, per questo, giusto? E comunque mi sembrava di aver spiegato che prima di…" si interruppe per un istante per mettere in ordine i suoi pensieri improvvisamente disordinati, "Prima amavo molto la musica, altrimenti non mi sarei mai avvicinato. Ed Elvis era uno degli artisti che andavano per la maggiore a casa mia. Dopotutto, è pur sempre il Re.”

“Hai ragione. Allora capirai quella strana sensazione che mi assale ogni tanto, quando mi capita di pensare di essere nato in un’epoca sbagliata.” esclamò John, ridendo fra sé, come se pensasse di essere ridicolo.

“Un’epoca decisamente sbagliata.” aggiunse Paul ed entrambi non poterono far altro che ridere.

Poi, mentre Paul cercava di sistemare la chitarra nella custodia, John gli chiese se potesse tenere gli spartiti.

"Certo. Me li sono fatto portare apposta da Mike."

"Quando è arrivato tuo fratello?"

"Ieri pomeriggio."

"Sta a casa tua?"

"Sì." rispose Paul, e il suo sguardo verso John divenne improvvisamente intimorito, "E a questo proposito, volevo chiederti una cosa." esclamò, incerto.

Si morse il labbro e torturò le dita, quando John lo incitò, "Dimmi."

"Ecco vedi, dopodomani ci sarà una festa a casa mia e mi farebbe davverovpiacere se venissi anche tu."

John sbatté le palpebre, confuso: tutto poteva aspettarsi tranne questo.

"Io?"

"Sì. Ad una festa ci devono essere anche degli amici. Da me ci saranno mio fratello, la mia ragazza e poi solo colleghi di lavoro. Ma nessun amico, mentre tu sei la cosa che più si avvicina ad un amico, qui a Londra."

Le orecchie di John si erano drizzate e lui si era già convinto ad andare quando aveva sentito "colleghi di lavoro". Non che non avesse udito tutto ciò che era seguito, l'aveva sentito eccome in effetti e aveva anche visto quanto Paul fosse arrossito, come se stesse facendo uno sforzo enorme a dire quelle parole, e John non poteva negare che non gli avesse fatto piacere; dopotutto anche lui non aveva altri amici al di fuori di George e Pattie. Ma il fatto che avrebbe potuto essere in mezzo ad altri poliziotti l'aveva convinto. Sarebbe stato eccitante, per non parlare delle novità che avrebbe potuto ascoltare su di lui, perché anche se ad una festa, John poteva scommettere che quei poliziotti avrebbero parlato di lavoro.

"Grazie. Verrò con piacere."

****

"Tu devi aver perso qualche rotella!"

John rise alla battuta di George e si guardò allo specchio in camera sua. Si abbottonò la camicia, prima di passare a fare il nodo alla cravatta. Si stava preparando per andare alla festa di Paul e aveva chiesto a George e Pattie di occuparsi di Julian, mentre era via. Tuttavia George non sembrava particolarmente entusiasta dei suoi piani.

"Perché?"

"Stai davvero per andare ad una festa piena zeppa di poliziotti?"

"Sì."

"Allora devi avere davvero qualcosa che non va. Sono fottuti sbirri, John. Sono quelli che ti danno la caccia."

"Cosa credi che possa accadere, George? Che mi leggano nel pensiero?"

"No, ma... sono sempre degli sbirri! E tu sei il ricercato numero uno." fece notare George, gesticolando nervosamente, come faceva sempre quando era a disagio, "È da pazzi, è come se... come se un agnellino entrasse in un branco di lupi. Tu l'hai mai visto accadere, John?"

John sorrise divertito, mentre sistemava il nodo della cravatta, "No."

"Appunto. È totalmente innaturale, John. Per non dire pericoloso."

"Ti ripeto, mio caro amico, che non indosso una maglietta con scritto 'Io sono Hermes'. A meno che non sia io a dirlo, e credimi, non lo farei mai, non penso proprio che capiranno che sono Hermes solo guardandomi e parlando con me."

George sospirò rassegnato, aiutando a malincuore John a indossare la giacca, "Fai come ti pare, allora."

"Grazie. Andrà tutto bene, vedrai."

"Sì, lo so." disse lui, guardandolo mentre un piccolo sorriso nasceva sulle sue labbra, "Mi fido di te."

"E fai bene."

George annuì, ridacchiando un po' ora che l'ansia stava cominciando a sparire, e lisciò le pieghe della giacca di John.

"Però sarebbe divertente." continuò John.

"Cosa?"

"Andare alla festa e urlare a tutti che sono Hermes."

George lo guardò un istante totalmente apatico. Poi si voltò per andare a raggiungere Pattie e Julian in cucina.

"Addio, John." gli disse senza speranza.

Pochi minuti e un bacio di Julian dopo, John uscì da casa sua e percorse quel breve tratto di strada che lo separava dalla casa di Paul. Aveva con sé una bottiglia di vino piemontese, dall'Italia, quindi una gran bella scelta. Oh, lui sì che aveva buongusto. Non era convinto di dover portare qualcosa, ma presentarsi a una festa a mani vuote lo metteva a disagio. Inoltre, voleva, o meglio, doveva fare una buona impressione su Paul e sui suoi colleghi di lavoro.

Quando John suonò il campanello della casa con le luci accese, sperò che qualche ingenuo sbirro si lasciasse sfuggire qualche indiscrezione interessante.

La porta si aprì, lasciando apparire nella sua visuale un Paul McCartney sorridente e meno agghindato di John. Aveva solo giacca e camicia sopra un jeans scuro. Niente cravatta.

"John, ciao, ben arrivato."

"Grazie." rispose lui, mentre Paul lo lasciava entrare a casa sua e lo osservava attentamente.

"Che eleganza!"

"Ah, beh, pensavo che una festa con chissà quanti poliziotti e un’attrice famosa in tutto il mondo lo richiedesse."

Paul rise, "Ti ringrazio. I poliziotti sono in sala e l'attrice famosa tarderà un po'."

"Oh, mi dispiace."

"Non importa." commentò lui, sorridendo tristemente, il pensiero perso chissà dove, "È appena tornata dagli Stati Uniti. È molto indaffarata. Lo capisco."

John si ritrovò, senza volerlo, a lanciare un piccolo insulto in direzione di quella ragazza. Tanti mesi separati e ora che era tornata, non correva da lui? Se era vero che lo amasse, cosa c'era di tanto importante da venire prima di Paul?

“Vedrai che arriverà, non ti preoccupare.”

“Grazie.” sospirò Paul, annuendo, non molto convinto, e John notandolo,  pensò che fosse il caso di cambiare argomento.

“Ti ho portato una cosa.” esclamò, porgendogli la busta verde smeraldo che conteneva la bottiglia di vino.

Paul lo guardò, sorpreso, ma compiaciuto, per un istante prima di prendere il regalo, “Non dovevi disturbarti.”

“Nessun disturbo, mi sembrava giusto.”

“Oh, vino italiano.” disse, quando estrasse la bottiglia allungata dalla busta regalo, “Wow, grazie mille, John.”

“Figurati. Spero solo che ti piaccia.”

“Altroché, adoro il vino.” commentò Paul, con una risata, “Dai, accomodati, ci sono un sacco di cose da mangiare.”

Paul lo afferrò per un braccio, conducendolo sulla soglia del salotto, in cui vi erano almeno una ventina di persone. Si trattava di una sala piuttosto spaziosa, la moquette era di color tortora con le pareti di un tenue bianco panna. C’era un divano scuro davanti a un piccolo caminetto spento, ai lati del quale vi era una libreria piena zeppa di libri e dall’altro un televisore tra due casse acustiche di legno. La sala era ben illuminata da una ampia finestra a ghigliottina con l’intelaiatura di legno bianco, che si poteva vedere anche dalla strada. Era un'affascinante finestra con seduta annessa, composta da un piccolo divanetto con due cuscini, su cui ci si poteva accomodare e guardare la via prendere vita al di là del vetro, magari bevendo una tazza di tè o leggendo un libro.

Proprio accanto alla finestra vi era un tavolino apparecchiato che offriva cibarie e bevande in gran quantità. John non si sorprese nel vedere già diverse persone che ronzavano attorno a quel tavolo.

“Sono tutti miei colleghi di lavoro, mentre l’uomo che sta ridendo in questo momento, è il mio capo.”

“Oh.” esclamò John, seguendo l’indicazione di Paul e notando un piccolo ometto dal naso più grande del suo, col viso bonario e gli occhi azzurri, “Così quello sarebbe il nuovo ispettore capo di Chelsea.”

“Esatto.”

"Non ha proprio l'aria da ispettore."

"Perché, io sì?" ribatté ridendo Paul.

"Non l'ho detto io." esclamò John, alzando le mani in segno di resa, “Comunque, noto con dispiacere che non c’è neanche un po’ di musica in sottofondo.”

Paul arrossì lievemente, “Ehm, no, infatti. Non ci avevo pensato.”

“Forse non volevi pensarci.”

“Già." concordò Paul, dubbioso, "Pensi che farebbe piacere agli invitati?”

“Una festa non è una festa senza amici, Paul, ma neanche senza musica.” rispose lui, facendogli l'occhiolino.

Paul sorrise, annuendo, “Allora, vado a prendere il cd che mi hai regalato. Ce l’ho di sopra.”

“D’accordo.”

“Tu intanto prendi pure qualcosa da mangiare e da bere.” esclamò Paul, dirigendosi verso le scale, “Fai come se fossi a casa tua.”

John lo guardò salire al piano di sopra, prima di entrare ancor di più nel salotto. Tuttavia,  invece di puntare al tavolo delle cibarie, si diresse verso la libreria, curioso di sapere che tipo di libri potesse leggere uno come Paul. Altri invitati lo osservarono velocemente, ma non gli rivolsero la parola. Beh, era ancora presto. Dopotutto, era appena arrivato.

John esaminò i titoli dei libri: c'erano gialli, ovviamente, che poliziotto sarebbe stato altrimenti? Ma anche thriller e romanzi storici, e classici della letteratura inglese, francese e italiana. Insomma un'ampia varietà di generi nella sua collezione.

Non pensava che Paul fosse tipo da, Dio, da Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Proprio mentre passava in rassegna i volumi sugli scaffali, John scorse anche una cornice. All'interno vi era una foto che ritraeva due bambini insieme a una donna, e tutti e tre erano seduti su un prato. Sicuramente, pensò John, si trattava della madre di Paul. Aveva gli stessi lineamenti delicati che erano ancora presenti sul volto del giovane uomo. I due bambini erano stretti tra le sue braccia e sorridevano. Si assomigliavano moltissimo fra loro, avevano la stessa aria furba. Ma qualcosa rendeva il più grande dei due un po' più sveglio e John decise che quel bambino fosse Paul.

Proprio quando prese in mano la cornice, udì qualcosa di interessante: nel gruppetto di persone che parlavano con l'ispettore Starkey, qualcuno aveva fatto il nome di Hermes.

Il cuore di John sussultò.

"...pensa che si tratti di qualcosa che possa interessare anche ad Hermes. Anzi, ne è sicuro."

"Di cosa si tratta?"

"Pare che sia una chitarra di Bob Dylan risalente al 1965."

"Una Fender Stratocaster." puntualizzò qualcuno e John sentì le gambe cedere.

Se fosse stata ciò che pensava lui, allora stava per diventare l'uomo più felice del mondo. Conosceva la storia di quella chitarra e forse era proprio questa a renderla speciale. John sapeva che era stata ritrovata da poco e che era stata messa all'asta, e il misterioso acquirente aveva speso la straordinaria cifra di quasi un milione di dollari per aggiudicarsela.

Così, si fece forza e continuò ad ascoltare.

"Il proprietario dice che arriverà la settimana prossima e  ha richiesto espressamente la nostra protezione."

Ottimo. John aveva una settimana di tempo per poter organizzarsi e recuperare tutte le informazioni possibili. Doveva assolutamente avvisare George e poi-

"Tu devi essere John."

La voce sopraggiunse dalla sua destra e per poco John non saltò per lo spavento.

L'uomo che era magicamente apparso al suo fianco gli sorrise, "Scusa, ti ho fatto spaventare?"

"No, no, affatto." mentì lui, affrettandosi a rispondere, "Sono John, comunque."

Gli porse la mano, accorgendosi che quell'uomo così somigliante a Paul non poteva che essere...

"Michael. Piacere di conoscerti."

"Il piacere è mio. Sei il fratello di Paul, giusto?"

"Esatto. E non dire che si vede, perché non ci assomigliamo per niente." commentò ridendo.

"Non è vero. Un po' sì." ribatté John, "C'è qualcosa nello sguardo. Avete gli stessi occhi."

"Una bella eredità della mamma, allora." commentò, con un sorriso dolce che si fece largo sulle labbra, "Ti stai divertendo?"

"Oh beh, sono appena arrivato, sai." fece notare lui, ripensando all'approccio del giovane uomo, "A proposito, come facevi a sapere il mio nome?"

"Mio fratello ultimamente non fa che parlare di questo fantomatico John Lennon che gli avrebbe chiesto lezioni di chitarra. Di John e di Hermes, se vogliamo essere precisi. E dal momento che non mi sembri far parte del gruppo dei colleghi di lavoro, ho pensato che dovessi essere per forza John Lennon."

"Oh, ma certo." rispose John, cercando di nascondere l'effetto che aveva avuto su di lui sentire il suo nome accanto a quello di Hermes nella stessa frase.

"Quindi, è davvero così? Paul ti dà lezioni di chitarra?" domandò ansioso.

"Sì."

"Wow." esclamò Mike, in qualche modo sollevato e sorpreso, "È talmente strano. Non credevo che un giorno Paul avrebbe ripreso in mano una chitarra per fare musica. Era bravo, sai?"

"Lo è ancora." confermò John, "Altrimenti non gliel'avrei chiesto."

"Allora, John, ti ringrazio."

"Per cosa?"

"Perché stai aiutando Paul con il suo problema. Mi dispiaceva molto che non coltivasse quella che da bambino era la sua grande passione. È solo grazie a te se adesso ha voglia di risolvere questa sua difficoltà."

John deglutì sonoramente. Qualcosa dentro di lui fece le fusa, contento e caldo e soddisfatto. Tuttavia, insieme a questo, c'era anche una spiacevole sensazione fredda che gli stringeva il cuore. Qualcosa che in altre circostanze avrebbe definito come senso di colpa. Ma John non poteva provare un simile sentimento, soprattutto nei confronti del suo nemico. No, non doveva lasciarsi intenerire.

Eppure le parole che uscirono dalla sua bocca furono sincere come quelle di Mike.

"In realtà, è lui che sta aiutando me. E grazie a lui sto imparando a suonare decentemente."

"Quindi è come se vi steste aiutando reciprocamente."

"È proprio così."

Poi Mike prese la cornice dalle sue mani, guardandola dolcemente, “Quando Paul mi ha detto che stava riprendendo in mano la chitarra, non ci ho creduto inizialmente. È da quando è morta la mamma, che non la toccava. Anche se, se vogliamo essere sinceri, se non fosse stato per lei, Paul avrebbe smesso di suonare quando lui se n’è andato.”

Eccolo.

“Lui chi?” domandò John.

Cercò di apparire come se non conoscesse la risposta a quella domanda, ma la verità era che John sapeva chi fosse lui.

“Nostro padre. Ci ha abbandonati quando Paul aveva dieci anni.”

Sì, John sapeva anche questo. Come avrebbe potuto dimenticare quella sera di tanti anni prima, quando la sua strada si era incrociata con quella dell’uomo che l’avrebbe aiutato a sopravvivere?

“Come mai? Se posso chiedere, ovviamente…”

“Non lo sappiamo con precisione. Penso che si fosse messo nei guai, e piuttosto che affrontare i suoi problemi con la sua famiglia, ha preferito scappare con la coda fra le gambe. Paul e io, naturalmente, non l’abbiamo mai perdonato da allora.” spiegò Mike con una smorfia addolorata sul volto, addolorata e arrabbiata.

Naturalmente non potevano perdonarlo, e John voleva solo dirgli che entrambi stavano sbagliando a non volerlo perdonare. Lui, dopotutto, aveva imparato tanto da quell’uomo. Da Jim McCartney.

“Io… non ne avevo idea. Mi dispiace.”  commentò, apparendo profondamente contrito.

Ma John non poteva essere davvero dispiaciuto: ovviamente, era dell’opinione che un bambino non dovesse mai essere abbandonato da uno dei genitori. Tuttavia lui senza Jim sarebbe stato perso, probabilmente sarebbe stato ancora in giro a rubare portafogli ai clienti dei pub di periferia, vivendo alla giornata. Forse senza di lui, ora non avrebbe avuto neanche Julian.

 “E’ una cosa che Paul preferisce non condividere, a meno che non sia costretto. Penso l’abbia detto solo a Jane.”

E Julian era l’unica cosa buona della sua vita. Per lui avrebbe fatto di tutto e proprio grazie al suo bambino, poteva capire il gesto compiuto da Jim.

“Ma non pensate che magari lui, se fosse vero che si è messo nei guai, allora sia scappato solo per proteggervi?”

Poteva capirlo, anche se probabilmente non avrebbe mai e poi mai potuto fare la stessa cosa. Se si fosse messo nei guai, avrebbe cercato di risolverli, restando al fianco di suo figlio. Non si sarebbe mai allontanato da Julian.

“E’ comunque un atto di codardia, scappare dai problemi. In questo modo invece che risolverli, ne ha solo causati altri.”

“E non avete idea di dove sia ora?” chiese John.

Se avessero avuto dei sospetti su dove si trovasse Jim, allora lui era in pericolo.

“No, per nulla. Paul non ha neanche provato a fare delle ricerche. In fondo siamo cresciuti senza padre, e nostra madre si è presa cura di noi in modo impeccabile. Perché dovremmo desiderare di vedere un uomo tanto vigliacco da abbandonare i propri figli?”

John si morse il labbro, osservando come l’espressione di Mike stesse indurendosi ad ogni parola. Pur comprendendo il suo stato d'animo, odiava quell’espressione sul suo volto. Decise perciò di passare a un altro aspetto di quell'argomento.

“Perché dici che il problema di Paul dipende da questo?”

“Perché nostro padre gli ha insegnato a suonare la chitarra. Da quando aveva cinque anni ha cominciato a insegnargli le basi della musica e gli faceva ascoltare tutti i suoi vinili. Poi quando lui se n’è andato, Paul ha iniziato a odiare la sua chitarra e la sua musica, ma nostra madre gli ha chiesto di continuare a suonare per lei e lui l’ha accontentata, a malincuore.”

“Perché l’ha fatto, se non era ciò che desiderava?”

“Perché non voleva darle dispiaceri. Ci aveva già pensato nostro padre. Così la mamma l’ha iscritto ad una scuola di musica, dove lo stile di Paul è migliorato e ogni settimana suonava per lei qualcosa. La mamma non voleva che Paul gettasse al vento un talento come il suo solo per colpa dell'abbandono di nostro padre. Non era giusto che lui pagasse quella scelta in questo modo. Inoltre a lei piaceva molto sentirlo suonare e cantare. Era unicamente per questo che lui andava avanti. Così quando lei è morta, Paul ha rinunciato per sempre alla musica."

"Adesso capisco tutto." affermò John, annuendo lievemente.

"Sono davvero felice che Paul qui non sia solo, sai? Quando si è trasferito temevo che avrebbe sofferto la solitudine, con Jane sempre in viaggio, e me e i suoi amici a Liverpool. Invece ha trovato te. Mi fai stare più tranquillo." spiegò Mike, mentre John arrossiva involontariamente, "Paul non è un tipo particolarmente socievole."

"Sì, l'ho notato." commentò John, sorridendo.

"È che non si fida di nessuno, deve passare molto tempo prima di ottenere la sua fiducia. Pensa che è talmente riservato, che non ha neanche voluto dire a nessuno che oggi è il suo compleanno."

John spalancò gli occhi, preso totalmente alla sprovvista: "Compleanno?"

"Sì. È sostanzialmente per questo motivo che sia io che Jane siamo venuti a Londra. Abbiamo approfittato di questa ricorrenza per venire a trovarlo, non l'avrei mai lasciato solo in questo giorno."

"Ehi!" esclamò Paul, sopraggiungendo fra di loro, "Vedo che vi siete già presentati."

Tra le mani aveva il cd che John gli aveva regalato quando si erano incontrati.

"In effetti, sì." rispose Mike.

"Non è che stavate sparlando di me?"

"No, tuo fratello mi stava solo dicendo che oggi è il tuo compleanno, ma pare che nessuno degli invitati lo sappia." spiegò  John, rivolgendogli uno sguardo di biasimo.

Paul rise divertito, ma sotto quello sguardo, arrossì vistosamente, confermando tutto ciò che aveva detto Mike.

"Perché non me l'hai detto?" domandò John, contrariato, "Avrei portato un regalo più bello di una stupida bottiglia di vino."

"Proprio per questo non l'ho detto a nessuno. Non volevo che vi disturbaste inutilmente."

"Ma è una festa di compleanno. Non si tratta di 'disturbarsi inutilmente'." ribatté accalorato John.

"Senti, John, ho apprezzato molto il tuo regalo." lo rassicurò Paul, appoggiando una mano sulla sua spalla, "Per cui non ci pensare più, d'accordo?"

John storse le labbra, non particolarmente convinto, ma alla fine sospirò, "D'accordo. Posso almeno farti gli auguri?"

"Ma certo!" esclamò Paul con un sorriso.

"Allora buon compleanno, vecchio mio."

"Grazie."

"Ma non pensare di passarla liscia." lo minacciò John, puntandogli un dito contro, "Adesso mi ricorderò questa data e l'anno prossimo ti organizzerò una festa coi fiocchi, con molta, moltissima musica in sottofondo."

"Sembra terribile." commentò Paul e poi scoppiò a ridere.

Anche Mike sembrò apprezzare la sua battuta o forse stava solo apprezzando il fatto che Paul stesse ridendo? Lo guardava come se lo vedesse per la prima volta dopo tanti anni. Fece domandare a John da quanto tempo non lo vedeva così spensierato?

Anche con tutti i suoi problemi, professionali e personali, Paul era capace di ridere gioiosamente.

E chissà se in parte fosse merito di John...

****

La mattina dopo, Paul sospirò, mentre si svegliava e stiracchiava nel suo letto.

Sembrava che fuori ci fosse il sole e che fosse sorto da diverso tempo. Anche quella sarebbe stata una splendida giornata di sole.

Si mosse un po' nel letto, ma si accorse che vi era una morbida massa di capelli rossi sparsa sulla sua spalla, un viso caldo sul suo petto e il respiro che solleticava la sua pelle.

Jane.

Paul ripensò alla sera precedente, mentre la sua mano accarezzava distrattamente la schiena della ragazza. Jane non era riuscita a raggiungerlo per la sua festa. Era arrivata quando ormai tutti gli invitati erano andati via. Paul aveva passato una serata bellissima per il suo compleanno. I suoi colleghi gli avevano fatto i complimenti per il bell'appartamento che aveva sistemato; l'ispettore Starkey non l'aveva risparmiato neanche nel primo dei suoi tre giorni di ferie, informandolo dell'eventualità che Hermes si facesse vivo a breve; e poi John, alla fine del cd dei Rolling Stones, era scappato un attimo a casa sua per fare scorta di cd e insieme avevano ascoltato Elvis.

Paul pensava che sarebbe stato difficile: in fondo Elvis gli ricordava moltissimo suo padre, era l'idolo di quel vigliacco traditore. Ma con Mike al suo fianco e John, naturalmente, e con la distrazione della festa, era stato più facile e perché no? Gradevole. John gli aveva parlato dei brani di quel cd, delle caratteristiche di tutte quelle tracce, di tutto ciò che si nascondeva dietro ogni testo e accordo. Per un momento a Paul era sembrato di sentire suo padre, talmente immensa era la passione che si celava dietro quelle parole. Era strano da pensare, ma Paul l'avrebbe ascoltato volentieri per tutta la sera.

Poi i colleghi avevano cominciato ad andarsene e alla fine, per ultimo, John, il quale gli aveva assicurato di essersi divertito e ricordato che prima o poi si sarebbe vendicato della sua piccola omissione.

Jane era arrivata poco dopo, presentandosi sulla porta di casa sua con l'espressione dispiaciuta e il viso stanco dal lavoro e dal jet lag.

Paul non poteva negare che ci fosse rimasto male, ma nello stesso tempo non voleva farne una tragedia. Non aveva più dieci anni e Jane era apparsa profondamente mortificata per il ritardo, sostenendo che l'avessero trattenuta per un'intervista dell'ultimo momento. E per quale motivo non avrebbe dovuto crederle? Era la sua ragazza, la sua dolce, adorabile Jane, che lo amava. Perché proprio lei avrebbe dovuto farlo soffrire intenzionalmente?

No, Jane non avrebbe mai potuto farlo.

Paul sospirò pesantemente, voltandosi verso il comodino. Accanto alla sveglia, che segnava le dieci passate del mattino, vi era il pacchetto con il regalo di Jane, un bellissimo orologio, col cinturino di pelle nera e il quadrante con intelaiatura d'oro. Sicuramente un regalo molto costoso e Paul l'aveva apprezzato, diamine, era un signor orologio!

Eppure, come il metallo di cui era composto, il pensiero di questo regalo trasmetteva solo freddo. Non era giusto lamentarsi dei regali che si ricevevano, ma si poteva capire molto di una persona dai regali che ideava. E questo orologio trasmetteva solo fretta. Come se Jane non avesse potuto spendere più tempo per lui, solo soldi.

Era impegnata, dovette ricordare a se stesso.

Sì, sospirò mentre la giovane si stiracchiava contro di lui, era solo impegnata.

Jane si stropicciò gli occhi e sorrise, prima di alzare lo sguardo verso Paul.

"Buongiorno."

Paul le restituì il sorriso, "Buongiorno. Dormito bene?"

"Benissimo. Tu?"

"Altroché. Si sta bene in due in questo letto."

"Ah sì?"

Paul annuì con una risatina, desiderando allontanare ora e una volte per tutte, le sue preoccupazioni, "Di solito è troppo grande per me. Mi fa sentire solo, sai?"

"Oh, povero piccolo Paul. Adesso ci sono io a farti compagnia." gli sussurrò seducente lei e lo baciò una volta, "Mi prenderò cura di te."

"Lo faresti davvero?" domandò, mentre lei scivolava sul suo grembo, sistemandosi a cavalcioni sopra di lui e ricoprendo di piccoli baci il suo volto.

"Ma certo. Devo farmi perdonare, giusto?"

"Oh sì. Giustissimo." riuscì a dire prima che Jane prendesse il suo viso fra le mani e lo baciasse appassionatamente sulle labbra.

Paul ricambiò subito il bacio, lasciando che la sua mano vagasse fra i suoi capelli e poi sempre più in giù, sulla schiena e oltre le sue natiche, per andare ad accarezzare le sue cosce pallide che lo circondavano.

E quando con fare ardito, fece scivolare le dita sotto la sua camicia da notte, il cellulare sul comodino squillò.

"Oh cazzo." sospirò frustrato.

"Lascialo perdere." gli suggerì Jane, tenendolo ancora tra le sue braccia.

"Ma potrebbe essere dall'ufficio..." insistette Paul e a malincuore si divincolò dal suo invitante abbraccio.

Jane sospirò sconfitta, ricadendo sul cuscino, mentre Paul raggiungeva il cellulare.

“Pronto?”

“Paul?”

“Ispettore Starkey, che succede?” domandò Paul, sollevandosi subito a sedere.

“Mi dispiace disturbarla nel suo giorno di ferie.”

“Non importa, mi dica.”

“Ricorda quello di cui abbiamo parlato ieri sera?”

“Sì, certo. L’uomo che ha richiesto la nostra protezione.”

“Esatto. Come ci aspettavamo, ha ricevuto un biglietto da parte di Hermes.”

Il cuore di Paul sussultò, ma in fondo l'ispettore Starkey aveva ragione: se lo aspettavano, così come Paul si aspettava le parole che seguirono.

“Ruberà la chitarra di Bob Dylan.”

 

 

Note dell’autrice: santo cielo, non riesco ancora a credere di aver scritto una scena het in questa storia. No, davvero. Per fortuna che è finita. Ringraziamo tutti insieme Ritchie, che ha salvato la situazione con la telefonata.

Allora, il compleanno era di Paul… e in effetti tra poco lo sarà per davvero. *^*

La storia della chitarra di Bob Dylan è bellissima, e dovevo assolutamente inserirla nella storia. :3

Grazie a kiki che corregge e mi aiuta a scegliere le cose da far rubare a John.

Grazie a ringostarrismybeatle, che era disposta a telefonare a Paul lei stessa, pur di interrompere la scena het. xD

E grazie a Chiara_LennonGirl, Josie Walking_Disaster Vengeance, chiara_mingrone e lety_beatle per le affettuose parole.

Il prossimo capitolo, “From me to you”, è sempre uno di quelli con un furto di John. Arriverà giovedì, però, perché… *ride*… non ci posso ancora credere, sì, ma torno a Londra per la terza volta. Sono super emozionata. Quindi, ecco, la domenica non posso aggiornare.

Allora ci sentiamo giovedì.

Alla prossima e buona domenica.

Kia85

 

 

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Capitolo 9
*** From me to you ***


I’ll get you

 

Capitolo 8: “From me to you”

 

"Jules, sei pronto?"

"Sì, papà."

"Ricorda di prendere Pepper."

Quando Julian corse verso la cucina, i suoi passi echeggiarono nel corridoio, mentre John continuava a guardare fuori dalla finestra in salotto. Aveva osservato, anzi fissato la casa di Paul almeno da quando aveva pranzato, prestando attenzione ai movimenti del giovane ispettore: doveva controllare se uscisse e soprattutto quando.

Ma fintanto che la macchina di Paul fosse rimasta parcheggiata di fronte alla porta, John poteva stare tranquillo. L'aveva visto passare diverse volte di fronte alla finestra del piano di sopra e inoltre, sapeva che tra poco sarebbe uscito di casa: dopotutto ci voleva un po' di tempo per arrivare a Heathrow.

Tuttavia la cosa davvero rilevante per John era che Paul sembrasse agitato.

Beh, faceva bene a esserlo.

John stava forse per compiere il suo colpo più difficile. E la buona riuscita del furto dipendeva da un semplice, piccolo regalo che ora era ben nascosto nella sua tasca, pronto per essere donato all'ignaro ispettore.

"Eccomi, papà."

Julian zampettò verso di lui con una bella scatola in mano: era rossa, quadrata, con un nastro dorato a chiuderla, ma il particolare più importante della confezione erano tutti i forellini sul coperchio, creati per far passare l'aria al suo piccolo ospite.

"Secondo te gli piacerà, anche se è nero?" domandò John, accovacciandosi di fronte a lui.

Julian annuì vigorosamente, "Sì. I gatti neri piacciono a tutti perché sono magici."

“Magici?” ripeté John, mostrando tutta la sua curiosità per l’argomento.

“Certo. Ti fanno avere tutto quello che vuoi.” spiegò il bambino, come se fosse la cosa più logica del mondo e così facendo, strappò un sorriso a John.

“Davvero? Allora dovremmo prenderne uno anche noi.”

“Ma abbiamo già Elvis." protestò dolcemente Julian, "Poi diventa geloso.”

"Hai ragione, piccolo mio."

E proprio mentre scompigliava affettuosamente i capelli del figlio, John sentì il rumore lontano di una porta che si apriva.

Era il momento di passare all'azione.

"Andiamo, Jules?"

Il bambino annuì e quando il padre gli porse la mano, la strinse con forza.

I due uscirono di casa e attraversarono la strada per ritrovarsi di fronte a un Paul molto indaffarato, che trafficava per aprire la portiera della macchina.

"Ciao, Paul."

L'uomo sollevò lo sguardo, sembrando particolarmente sorpreso di vedere John e Julian che si avvicinavano, e interruppe ciò che stava facendo.

"Ehi. Ciao. Che ci fate qui?"

"Siamo passati per darti una cosa, vero, Jules?"

Julian annuì e si strinse contro la gamba del padre, ancora un po’ intimidito da Paul.

"Che cosa?" domandò Paul, incuriosito.

"Un regalo di compleanno.” rispose John, sorridendo e ricevendo un’occhiataccia da parte di Paul, “Con una settimana di ritardo."

“Ma, John, ti avevo detto che non c’era bisogno di disturbarsi. Così mi metti solo in imbarazzo.”

Paul si accovacciò quando il piccolo Julian, dopo un'incitazione del padre, avanzò verso di lui e gli porse la scatola tremolante che aveva tra le mani.

“Beh, e tu hai messo in imbarazzo me alla tua festa di compleanno; direi che siamo pari, ora.”

Paul ridacchiò, “Ci sei rimasto proprio male, eh?”

“Ovviamente, il compleanno è sacro.” proclamò solenne, facendo ridere Paul.

“Allora grazie.”

“Aprilo, se no poi Pepper sta male.” si affrettò a dire Julian, preoccupato.

Paul, piuttosto perplesso dalle parole del bambino, guardò il suo regalo. Dai forellini sul coperchio si poteva intravedere qualcosa di nero che si agitava un po’. Il giovane ispettore sorrise ancor prima di sollevare il coperchio, perché ormai aveva capito che all’interno avrebbe trovato...

“Santo cielo.”

Un gattino nero.

Il cucciolo si fermò all’improvviso, schiacciandosi contro un angolo della scatola e guardando in direzione di Paul. Sembrava spaventato e Paul allungò una mano, incerto, per accarezzargli la testa.

“Ti piace?” domandò Julian, accovacciandosi anche lui, di fronte a Paul.

“Sì, è bellissimo.”

Ed era vero, aveva il pelo arruffato e gli occhi azzurri straordinariamente chiari. Ricordavano quelli vispi del bambino di fronte a lui, che ora allungava la sua manina per accarezzare la piccola palla di pelo.

“Si chiama Pepper.” affermò Julian, sorridendo.

“Julian?" lo richiamò dolcemente John, "Quello è il nome che gli hai dato tu, ma adesso è di Paul. Decide lui il nome, giusto?”

Julian guardò il padre, mostrando un piccolo broncio e Paul, osservandolo, rise.

“Pepper è un bel nome.” commentò Paul, riportando il sorriso sul volto di Julian, “Posso chiamarlo anche io così?"

"Sì."

Paul prese in braccio il gattino, che si agitò non poco tra le sue braccia, ma in qualche modo Paul riuscì a tenerlo a bada e poi si alzò in piedi.

"Ti piace, allora?" domandò John, mentre Julian gli si avvicinava nuovamente, alla ricerca della sua mano forte.

"Sì. Grazie mille. Non dovevi, davvero." rispose Paul, dando un'altra occhiata al gattino tra le sue braccia.

"Ho pensato... anzi, abbiamo pensato che visto che vivi da solo, ti avrebbe fatto piacere un po' di compagnia, quando torni a casa dal lavoro."

L'espressione di Paul divenne radiosa a quella prospettiva, “Avete pensato bene.”

“E già gli piaci.” commentò John, notando come il gattino si fosse calmato in braccio all'uomo.

Paul seguì il suo sguardo e rise, “E’ un gatto nero con buongusto, allora.”

"Lo sai che i gatti neri sono magici?" si intromise Julian, rubando un sorriso a Paul.

Anche John rise e prese in braccio il bambino, che automaticamente avvolse le braccia intorno al suo collo.

"Ma certo.” rispose Paul, avvicinandosi a entrambi, “Le streghe hanno tutte i gatti neri. Altrimenti non riuscirebbero a fare gli incantesimi."

Julian rise quando Paul concluse la sua affermazione con un occhiolino complice, e nascose il viso nel collo del papà.

“A proposito di streghe, ti servirà un amuleto per stasera.” iniziò a dire John, incerto, “E’ oggi, giusto?”

Lo sguardo di Paul divenne più serio all’improvviso, “Sì, stavo andando proprio adesso all’aeroporto.”

“Allora…” disse John, cercando qualcosa nella tasca con la mano libera, “Porta con te questo piccolo portafortuna.”

Paul sempre più turbato da questi regali, osservò la mano di John, chiusa a pugno, allungarsi verso di lui. Esitò un solo istante, prima di porgere anche la sua mano, in modo che l’altro uomo potesse farvi cadere sopra ciò che stringeva.

Con sua grande sorpresa, l’amuleto portafortuna si rivelò essere un portachiavi di colore blu elettrico. Paul lo rigirò nella sua mano: aveva la sagoma di una chitarra, vi erano anche riportarti tutti i dettagli come le corde, le chiavi sulla paletta e sul retro era inciso il nome del negozio di John.

“E’ molto carino da parte tua, John, ma tutte queste cose, non penso di meritarle.”

“Oh, andiamo, Paul, rilassati per una volta." esclamò John, dandogli una leggera gomitata sul fianco, "Sono solo piccoli pensieri, niente di più, dai.”

“Allora, grazie mille.” esclamò Paul, infilando il portachiavi in tasca, “Speriamo porti davvero fortuna.”

John aveva osservato e seguito con molta attenzione la mano di Paul che scivolava nella tasca della sua giacca.

Era fatta!

“Di nulla.” esclamò John, sorridendo soddisfatto, “Ma ora come farai con il gattino? Vuoi che lo tenga io fino a stasera?”

“Oh, no, non ti preoccupare.” rispose Paul, avvicinandosi alla porta di casa e suonando il campanello, “C’è Jane a casa.”

Ecco, ora finalmente John avrebbe conosciuto la famosa Jane Asher. Era abbastanza di buon umore per conoscere la fidanzata dell’uomo che gli dava la caccia. Anche Julian sembrava essere interessato e si voltò verso la porta dell'appartamento di Paul.

Pochi secondi dopo, infatti, una bella ragazza, con una folta chioma di capelli lunghi e rossi, aprì la porta di casa.

“Paul! Che succed-” iniziò a dire, evidentemente sorpresa che Paul fosse ancora lì, ma il suo sguardo fu subito attirato dalla creaturina in braccio a Paul, che si era ben adattata a lui, “E quello da dove spunta?”

"Un ultimo regalo di compleanno." rispose Paul, ridacchiando e grattando la testolina del gatto.

"Da chi?" domandò sconcertata Jane.

"I miei vicini di casa." rispose Paul, indicando con un cenno del capo John e Julian.

"Salve." salutò John.

"Oh, salve."

"Jane, ti presento il mio amico John Lennon e suo figlio Julian. Vivono qui di fronte. Mentre quest'adorabile ragazza..." proseguì, guardando la sua fidanzata, "È Jane Asher, la mia dolce metà."

"Piacere di conoscerti." disse John, con un cenno del capo.

Jane gli sorrise debolmente.

"Mi hanno regalato questo gattino per farmi compagnia." continuò Paul, entusiasta.

Per tutta risposta, Jane aggrottò la fronte, “Un gatto?”

“Esatto. Potresti occupartene tu, mentre vado a lavoro?”

“Ma io non ho mai avuto un gatto, non so cosa fare.” protestò Jane, indietreggiando di un passo, mentre Paul si avvicinava per porgerle il micio.

“Oh, dagli un po’ di latte, fai attenzione che non distrugga casa e poi ci penserò io.” spiegò brevemente Paul.

"Paul, ma ci hai pensato bene?”

Paul sbatté le palpebre, sconcertato, “A che cosa, tesoro?”

“A tenerlo. Come farai a badare a un gattino tanto piccolo se sei via per gran parte del giorno? Io tra qualche giorno devo ripartire. Resterebbe da solo per tutta la giornata."

La domanda di Jane lo lasciò senza parole e fece sparire in un attimo tutto il suo entusiasmo. Non aveva pensato a questo particolare. Jane sarebbe partita tra un paio di giorni e lui sarebbe rimasto solo. Come avrebbe potuto lasciare a casa, da solo, un gattino? Rischiava di tornare nel suo appartamento e trovare ogni sera un disastro.

Eppure l’idea che ci fosse qualcosa di vivente, qualcuno pronto ad aspettarlo quando tornava, era troppo bella per essere abbandonata per quella che era solo pigrizia o paura di dover pulire ogni sera, dei libri buttati a terra e strappati, o i bisogni del cucciolo lasciati dovunque in mezzo alla casa…

Quando John intervenne, a Paul sembrò quasi che avesse letto nel suo pensiero.

"Oh, una volta che si abitua alla casa, vedrete che sarà quasi come non averlo. È totalmente indipendente." commentò John.

"Il problema sarà farlo abituare." ribatté Jane, storcendo il naso mentre riportava lo sguardo sul gatto di Paul.

"Accadrà prima di quanto immaginiate." la rassicurò John, "Noi l'abbiamo visto con Elvis."

"Elvis?"

"È il nostro gattino." spiegò Julian.

“Hai visto?” disse Paul, sorridendo più fiducioso verso la ragazza che lo guardava sempre scettica, “Andrà bene, non ti preoccupare. Presto o tardi si abituerà.”

Tuttavia Jane sembrava proprio non volersi convincere, “Conoscendo la nostra fortuna, sarà più tardi che presto.”

“Conoscendo te, sarà sicuramente tardi.” commentò John.

Jane e Paul si voltarono rapidamente verso John: Paul lo guardò sconvolto e incredulo che avesse osato dire una cosa simile, mentre Jane sembrava arrabbiata e mortificata, così tanto che senza dire una parola, scomparve dentro casa.

“Grazie tante, John.” sbottò Paul, prima di seguire Jane.

John batté le palpebre, realizzando solo in quel momento cosa fosse accaduto pochi secondi prima. Non si era reso conto di quanto avesse detto, della sua frecciatina nei confronti di Jane. Eppure gli era scappata, senza che lui potesse fare alcunché per evitarlo. Gli capitava spesso, di fare queste uscite lievemente impertinenti, ma era più forte di lui. Non riusciva proprio a trattenersi, se una cosa gli dava fastidio, doveva dirla apertamente, a costo di ricevere sguardi malevoli e sfuriate arrabbiate di gente che non capiva niente di lui.

E lo stesso era accaduto proprio ora con Paul e Jane. I due sembravano abbastanza in sintonia, ma John non poteva credere che lo stesso Paul che la sera del suo compleanno era stato messo da parte dalla sua fidanzata, ora si comportasse con lei come se non fosse successo nulla. Forse John non avrebbe dovuto intromettersi, ma dannazione, se avessero fatto a lui una cosa del genere, beh, avrebbero dovuto penare molto prima di ottenere il suo perdono.

“Perché sono andati via, papà?” chiese Julian, ridestandolo dalle sue riflessioni.

“Oh, forse dovevano solo parlare un po’ di Pepper.”

“Posso venire a trovarlo, qualche volta?” continuò Julian, mentre John si avviava verso la propria casa.

“Beh, poi chiediamo a Paul, d’accordo?”

“Va bene.”

Una volta rientrati a casa, John lasciò che Julian andasse a giocare nella sua cameretta, e mentre lo osservava salire le scale, il cellulare nella tasca dei pantaloni vibrò.

John lo sfilò e lo guardò, riconoscendo subito il numero che lo stava chiamando.

 “Ciao, George.”

“E’ stato fottutamente cattivo quello che hai detto prima.”

John rise lievemente, “Significa che funziona tutto?”

“Funziona tutto. Puoi prepararti, Pattie sta arrivando per Julian.”

Il tutto riguardava quell’insignificante portachiavi che aveva appena donato a Paul. Dentro, lui e George avevano posizionato una minuscola microspia, così da poter sentire quello che Paul e chiunque vicino a lui dicevano da questo momento in poi.

John sapeva che la chitarra di Bob Dylan sarebbe arrivata a Heathrow e da lì sarebbe stata trasferita in una villa nella campagna a nord di Londra. Insieme a George, aveva deciso di rubarla durante il tragitto: da sempre rappresentava il tratto vulnerabile per eccellenza, nonostante le misure di sicurezza a cui far ricorso.

Paul gli aveva detto che stavano pensando di utilizzare tre furgoni portavalori per confondere il ladro, ognuno con un tragitto diverso, e che avrebbero deciso all'ultimo momento quale furgone avrebbe portato la preziosa chitarra.

Il piano aveva messo in crisi John e George. Ma John non si arrendeva mai e non avrebbe facilmente rinunciato alla Fender Stratocaster di Bob Dylan per la sua collezione.

Così avevano ideato questo piano e deciso di spiare Paul.

Era il motivo principale dietro tutta quella messinscena.

Tutto per riuscire a dare a Paul il portachiavi con la microspia, con il rischio che neanche lo portasse con sé al lavoro. Ma finora era andato tutto bene.

E il gatto?

Beh, quello era il suo cavallo di Troia. Doveva conquistare la piena fiducia di Paul, prima di riuscire a colpirlo dall'interno. Il gatto era una copertura per mostrargli che faceva bene a fidarsi di lui, di John, un amico che si preoccupava per Paul, che voleva che stesse bene.

Certo.

Niente di più lontano dalla realtà.

"Sono pronto."

****

L'aereo privato era atterrato in perfetto orario e subito sistemato nell'hangar. Paul, insieme all'ispettore capo Starkey e agli uomini della loro stazione di polizia, attendeva che il proprietario dell'oggetto minacciato da Hermes scendesse dall'aereo.

Era nervoso, come l'altra volta, se non di più addirittura. Tuttavia buona parte del suo nervosismo questa volta non dipendeva da Hermes. C'era stata quella battuta infelice di John verso la sua fidanzata e inoltre, aveva discusso con Jane.

La ragazza si era sentita molto offesa da quanto gli avesse detto John, ma se l'era presa con Paul perché durante tutta quella conversazione non aveva mai cercato di stare dalla sua parte e per di più, la battuta di John le aveva fatto capire che Paul avesse parlato con quell'uomo appena conosciuto di loro due, della loro storia, dei loro problemi. Jane, sentendosi così esposta, si era indignata.

E Paul? Lui proprio non aveva saputo cosa fare né dire. Aveva cercato in qualche modo di spiegare che John era l'unica persona lì, a Londra, che più si avvicinava ad un amico per lui, una persona di cui Paul stava imparando a fidarsi, come facevano tutti gli amici, ovviamente. E poi aveva aggiunto che lei avrebbe dovuto essere felice che lui avesse trovato un amico, non era proprio Jane a dirgli di imparare ad aprirsi con gli altri?

Tuttavia lei aveva ribattuto che non era questo che intendeva. C'erano comunque dei limiti. E poi perché aveva dovuto parlargli proprio di lei?

Quando Paul era stato sul punto di rispondere che era logico che due uomini parlassero anche di questi argomenti, Jane aveva sospirato, esausta per la discussione, anche se questa non era durata per più di cinque minuti. E quel sospiro era sempre ciò che faceva cedere Paul. Un sospiro molto melodrammatico, adatto all’attrice che era, e questo costringeva sempre Paul a chiederle scusa, anche quando non aveva motivo di scusarsi.

Così le cose si erano calmate. Almeno per il momento. Jane avrebbe badato al gattino fino al suo ritorno. Il gattino regalatogli da John e Julian...

Per tutto il percorso verso Heathrow, Paul aveva pensato a quel cucciolo dai grandi occhi azzurri che d'ora in poi l'avrebbe aspettato a casa. Per quanto fosse ora arrabbiato con John, Paul doveva riconoscere che fosse stato un pensiero adorabile da parte dei due Lennon. John aveva stranamente capito quanto Paul si sentisse solo in quella casa troppo grande per lui, e gli aveva procurato un piccolo coinquilino che potesse allontanare un po' di solitudine, quando nessun altro poteva essere lì per Paul.

L'uomo che comparve sulla scala dell'aereo, scendendo verso terra, gli fece abbandonare i suoi pensieri.

Era un uomo sulla cinquantina, alto, con un fisico asciutto, i capelli brizzolati e un paio di occhialini dalla montatura dorata. Si chiamava David Rogers ed era un dirigente della EMI, nonché l'uomo che si celava dietro il misterioso acquirente che aveva pagato ben 965.000 dollari per aggiudicarsi la chitarra di Bob Dylan. Questa era stata messa all'asta dalla figlia del pilota dell'aereo che nel 1965 aveva portato il cantante in concerto. Era stato in quell'occasione che il pilota era venuto in possesso di questa chitarra, dimenticata da Dylan alla fine del tour. E ora apparteneva all'uomo che si trovava di fronte a loro e che venne accolto calorosamente da Richard Starkey.

"Signor Rogers, ben arrivato. Sono l'ispettore capo Starkey." esclamò l’uomo, stringendo la sua mano.

"Salve."

"Ha fatto un buon volo?"

Il signor Rogers sorrise, e la sua espressione rivelò la stanchezza dovuta a ore di viaggio, "Abbastanza, grazie."

"Le presento l'ispettore McCartney." disse Richard, indicando Paul, al suo fianco.

"Piacere di conoscerla, ispettore."

"Il piacere è mio, signore." rispose Paul, stringendogli la mano.

"Se vuole seguirci, le mostriamo i portavalori che adopereremo per il trasferimento verso la sua residenza."

I tre uomini raggiunsero i furgoni posizionati all'interno dell'hangar, mentre alcuni dei poliziotti della squadra di Paul sorvegliavano il prezioso oggetto, che veniva accuratamente prelevato dall'aereo.

Richard informò il signor Rogers del piano. Ogni furgone, scortato da due poliziotti su una volante, avrebbe seguito un percorso diverso: il primo avrebbe preso la superstrada, il secondo avrebbe attraversato la città di Londra, e il terzo avrebbe viaggiato in mezzo alla campagna nei dintorni della capitale.

Decisero insieme che la chitarra avrebbe viaggiato verso casa attraversando la campagna inglese. Sarebbe stato un percorso meno frequentato e più facile da controllare. Tuttavia Paul non era ancora soddisfatto dell'organizzazione. Dovevano tenere conto anche del fatto che per qualche strano motivo, Hermes riuscisse a scoprire in quale furgone trovare la chitarra e in quel caso niente avrebbe protetto il prezioso strumento. Perciò...

"Ispettore Starkey, signor Rogers." li chiamò Paul, mentre i due uomini si dirigevano verso l'auto che avrebbe portato il ricco dirigente nella sua residenza.

"Sì, mi dica, McCartney."

"Volevo chiedere l'autorizzazione per salire sul furgone con la chitarra."

L’ispettore Starkey batté le palpebre, leggermente preso in contropiede, "Abbiamo già due agenti di scorta."

"Infatti, io vorrei stare nel vano insieme allo strumento. Così se dovesse arrivare il ladro, ci sarò ancora io a proteggerlo." ribatté Paul.

"È pericoloso, signore." esclamò all'improvviso un uomo alle sue spalle.

Paul si voltò e vide uno dei suoi agenti, un ragazzo ben piantato di nome Mal Evans, fare un passo in avanti e guardarlo sconcertato.

E subito dopo di lui, anche l'agente Eastman intervenne, "Sì, signore. Potrebbe essere rischioso. Il ladro potrebbe essere armato."

"Vi ringrazio per l'interesse, ma non gli permetterò di rubare ancora.” affermò Paul, sorridendo appena, “Inoltre, Hermes sarà anche un delinquente, ma non ha mai davvero fatto del male a nessuno. A lui interessano solo gli oggetti da rubare."

"Ma signore-" continuò Linda, che venne però subito interrotta da una mano alzata di Paul e dal suo sorriso fiducioso.

"Ma niente. Se l'ispettore Starkey e il signor Rogers sono d'accordo, procederemo con questo piano."

Paul guardò Richard, il quale si rivolse direttamente all'altro uomo, "Che ne pensa, signore?"

Il signor Rogers osservò Paul a lungo, prima di sorridere.

"Penso che sia un'ottima idea."

****

"Paul, cazzo. Ma quanto sei idiota?"

John imprecò, quando George, tramite l’auricolare, gli comunicò l'idea dell’ispettore McCartney.

"Cosa facciamo, John?"

Il giovane alzò gli occhi al cielo, mentre sfrecciava sulla sua moto, "Cosa facciamo? Facciamo che andiamo avanti."

"Ma se c'è Paul insieme con la chitarra-"

"Non me ne frega un cazzo, di quel coglione.” tagliò corto John, “È un pazzo masochista e non ho intenzione di rinunciare al colpo a causa sua."

"Allora cosa hai in mente? Se dovesse vederci in faccia..."

"Non ci vedrà. Esistono delle cose fantastiche che si chiamano fazzoletti, lo sai, George? Ci copriremo il viso con quello, alla maniera dei buoni vecchi banditi del far west."

"D'accordo." disse George, "John, il segnale della microspia si avvicina."

"Bene, allora diamoci una mossa. Sarò da te fra un minuto."

La microspia all'interno del portachiavi regalato a Paul non permetteva solo di sentire tutto ciò che dicevano l'uomo e le persone intorno a lui, era anche un perfetto localizzatore di posizione che inviava un segnale al cellulare di George.

Perciò una volta appreso il percorso, George l'aveva preceduto sul luogo in cui avrebbero attaccato il furgone, per preparare una piccola messinscena, mentre John seguì il furgone dall'aeroporto con la sua moto a debita distanza, per non far insospettire la polizia, ma tenerlo comunque sott'occhio nel caso in cui avessero cambiato percorso all'ultimo momento. In quel caso... Beh, meglio non pensarci ora, eh?

Come avevano previsto e appreso, il furgone aveva una scorta, un'auto della polizia che gli spianava la strada per ogni evenienza, dove, appunto, per ogni evenienza si intendeva Hermes. Per questo motivo, John e George avevano dovuto organizzare qualcosa per mettere fuorigioco la volante e i due poliziotti che vi erano dentro. Del conducente del furgone non c'era da preoccuparsi, in caso di assalto non doveva mai e poi mai scendere dalla sua postazione. Troppo pericoloso. Certo, come se John  volesse far del male a qualcuno fisicamente. No, grazie, non era nel suo stile. Solo un ladro qualunque e senza cervello avrebbe potuto comportarsi così, e lui era ben lungi dall’essere qualunque e senza cervello.

Quando John vide il piccolo villaggio attraverso cui sarebbe passato il portavalori, spuntare dopo un'altra curva, decise che fosse il momento per raggiungere George. Si allontanò dalla scia del furgone, svoltando nella prima stradina a destra una volta entrati nel villaggio. Aumentò la velocità della sua moto per cercare di attraversare il paese più velocemente rispetto agli sbirri, e tuffarsi poi nel verde che tornava a estendersi nella campagna, dopo quella breve interruzione di case e cemento.

Finalmente scorse il punto in avrebbero compiuto il furto. Era ancora deserto. George aveva deviato la corsia opposta qualche metro più in là con segnali di lavori in corso. Dopodiché aveva pensato di inscenare davvero dei finti lavori in corso sulla corsia che arrivava dal villaggio. Si era procurato tutto il necessario e ora spiccava un bellissimo, piccolo cantiere stradale che avrebbe certamente fatto rallentare la volante della polizia e il furgone con il suo prezioso contenuto.

"Ottimo lavoro!" si complimentò John, quando affiancò George in mezzo ai folti alberi che costeggiavano la strada e nascondevano le loro sagome scure così come le loro moto.

"Grazie."

"Dico davvero. È perfetto."

"Lo so." rispose compiaciuto George, "Dobbiamo solo sperare che funzioni."

"Funzionerà, te lo prometto. Funziona sempre." sogghignò John.

"Mi auguro che tu abbia ragione, perché stanno arrivando."

"C'è solo un modo per scoprirlo, amico mio." esclamò, afferrando il fazzoletto nella tasca e legandolo sul volto, "Entrare in scena."

I due uomini si accovacciarono dietro un cespuglio, aspettando il passaggio delle vetture. Queste cominciarono a rallentare alla vista del cantiere stradale e poi...

Poi fu come vedere una scena a rallentatore. La volante della polizia sbandò e andò a sbattere contro il guard-rail, non appena gli pneumatici furono bucati da chiodi a quattro punte, abbandonati in quel tratto da George.

Anche il furgone subì l'attacco di quei piccoli, ma efficaci pezzi di metallo appuntiti. Tuttavia il conducente, grazie al notevole peso del mezzo, riuscì a controllarlo e restare in carreggiata, sbandando solo un po'.

A quel punto George e John, con i volti ben coperti, saltarono fuori dal loro nascondiglio. George aveva il compito di occuparsi della volante della polizia, addormentare i due sbirri lanciando nell'abitacolo una bomboletta di gas soporifero e poi legarli, una volta resi innocui.

John invece avrebbe pensato alla chitarra e a Paul, ovviamente. Si avvicinò al furgone da dietro. Il conducente probabilmente aveva già dato l'allarme, ma non sarebbe sceso. Non era lui il problema.

Cautamente, John raggiunse le porte posteriori del furgone, l'ultimo ostacolo da superare per raggiungere il suo obiettivo.

Al di là di quelle porte, c’era Paul. E la chitarra, ovviamente. Certo. Ma anche Paul.

Paul con una… pistola? Gli avrebbe sparato subito, se John avesse aperto? In fondo aveva il fegato per farlo, era un ispettore, e John l’aveva visto con i suoi stessi occhi. Lui e la maledetta pistola avevano rovinato il fanalino posteriore della sua moto.

Tuttavia no, John sapeva, sentiva che Paul non avrebbe sparato subito. L’avrebbe prima guardato negli occhi e gli avrebbe detto di fermarsi. Sì, come se John avesse potuto obbedire.

Infine, si decise. Era convinto di trovare le porte bloccate con un altro sistema di sicurezza, invece quando la mano di John si mosse per spostare la maniglia, le portiere si aprirono. Certo, dopotutto il sistema di sicurezza in più era Paul.

“Fermo. Mani in alto.”

Con un prevedibile e alquanto fastidioso tuffo al cuore, John rimase completamente immobile, fronteggiando Paul seduto nel vano del furgone, accanto alla custodia della tanto agognata chitarra. E particolare assai più importante, almeno al momento, la pistola ben puntata contro John, impugnata saldamente nella sua mano sicura.

Paul si alzò in piedi lentamente, tenendo sotto tiro il ladro. Quando questi alzò le mani in segno di resa, l’ispettore avanzò, costringendo Hermes a indietreggiare.

Una volta che furono entrambi a terra, Paul quasi non riuscì a credere di essere proprio là, con la sua preda a pochi centimetri di distanza. Doveva solo allungare la mano e bloccarlo contro il furgone. Poi le manette e finalmente la prigione. Poteva già vedere i titoli dei giornali del giorno successivo, tutti pronti a esaltarlo, elogiare lui, Paul McCartney per aver catturato Hermes.

Un sorriso involontario stava per nascere sulle sue labbra, ma Paul riuscì a trattenersi e si concentrò sul ladro davanti a sé. Non l'aveva mai visto da così vicino. Era alto pressappoco quanto lui e probabilmente anche della stessa età. Non vedeva molto di lui. Aveva il volto coperto da una specie di bandana e il solito cappuccio sulla testa, perciò riusciva a vedere solo i suoi occhi. Due occhi chiari, azzurri come il ghiaccio che gli rimandarono un potente sguardo, di quelli molto sicuri di sé e per niente sorpresi, che non promettevano nulla di buono. Come se Hermes sapesse a cosa andava incontro. Come se sapesse di trovare Paul lì...

Come se…

Ma perché?

Dal canto suo John non poteva negare di avere paura. Paura forse era una parola troppo importante, ma comunque, trovarsi faccia a faccia con il suo nemico, sapendo che da lì a pochi minuti Paul avrebbe potuto scoprire la sua identità, scoprire che si era finto amico, per colpirlo dall’interno e poi sentirsi tradito, incuteva in lui una sorta di disagio.

Una strana sensazione cercò di stringere lievemente il suo cuore, cos’era? Rimorso?

John Lennon, anzi, Hermes non poteva provare rimorso per Paul McCartney. Eppure sembrava proprio trattarsi di questo.

E John sapeva anche perché. A malincuore, doveva ammettere che avrebbe sentito la mancanza di quei momenti trascorsi insieme a lui. Si trattava più che altro di lezioni di chitarra, avevano parlato principalmente di musica, ma comunque, era stato bello chiacchierare con lui. Erano piccoli attimi di distrazione che Paul gli offriva e che John accoglieva lieto. Senza contare che John stesse imparando molto da lui, e che anche Julian apprezzava il nuovo modo di suonare di John.

L’idea che tutto potesse finire, sì, lo fece sentire un po’ triste.

Per questo motivo il cuore martellava furiosamente nei suoi timpani, impedendogli di udire correttamente i suoni intorno a sé, come quel lieve sospiro proveniente dal lato della strada e i passi sull’asfalto che si affrettarono a raggiungerli.

Poi John capì.

Quando vide una figura esile apparire all’improvviso dietro Paul, capì.

Quando Paul cadde a terra, tramortito da un colpo ben piazzato da dietro, John capì.

George era giunto e l’aveva salvato.

“George!” sospirò John, mai così felice di vedere l’amico.

“Tutto a posto?”

“Oh, sì, avevo tutto sotto controllo.”

“Sì, ho notato, ma ho pensato comunque di aiutarti.”

“Grazie, molto gentile.”

“Filiamo via di qui, ora, prima che arrivino altri sbirri.”

John annuì, “Prendi la chitarra, io sostituisco il regalino per Paul.”

George si affrettò a salire dentro il vano del furgone per recuperare la custodia della chitarra, mentre John si chinò su Paul e frugò nella sua tasca, alla ricerca del suo portachiavi. Quando lo trovò, lo nascose nella sua tasca, e lo sostituì con uno decisamente normale. Almeno, se, cosa assai improbabile, avesse avuto dei sospetti a riguardo, non avrebbe trovato proprio nulla dentro quel piccolo pezzo di legno.

Poi, soddisfatto e più che felice per aver ottenuto ciò che tanto desiderava, John si allontanò dal furgone e scappò con George con le loro moto, sfrecciando per la campagna inglese.

****

Ritenta, ispettore.

Paul rigirò quel biglietto tra le mani.

Sarai più fortunato.

Glielo aveva lasciato sicuramente Hermes, prima di fuggire con la chitarra ovviamente.

Sei un idiota, Paul, pensò fra sé.

Sì. Lo era davvero perché la settimana prima, quella del furto, si era lasciato stupidamente scappare il ladro dalle sue mani. L'aveva avuto praticamente in pugno, aveva percepito quel brivido di paura ed eccitazione per la vicinanza che aveva fatto fremere anche lo stesso Hermes.

Dannazione.

E ora stava a casa sua, senza fare niente di particolare. Il gattino regalatogli da John e Julian era felicemente accoccolato accanto alla sua coscia e ronfava beato. Paul lo guardò e si lasciò scappare un sorriso, invidiando la sua serenità. Erano stati giorni difficili, ma piano piano Pepper si stava abituando a lui e alla casa. Ormai erano  gli unici due inquilini. Jane era andata via un paio di giorni dopo il furto: aveva cercato di consolarlo come aveva potuto, ma Paul era troppo pieno di vergogna affinché una qualunque delle sue parole di conforto potesse calmarlo.

Fu in quel momento che il campanello suonò, e Paul svogliatamente si trascinò verso la porta.

Lì, davanti a lui, con sua immensa sorpresa, c'era John. Due birre in mano e un sorriso debole sul volto.

Paul non voleva ammetterlo, ma era terribilmente felice di vedere un volto amico, qualcuno che non avesse a che fare con il suo lavoro, qualcuno a cui interessava solo Paul, non l’ispettore McCartney.

"Hai tempo per uno stupido amico e per le sue scuse?"

Paul rise, sapendo che tutto ciò che John aveva detto e che l'aveva fatto arrabbiare, fosse ormai svanito nel nulla.

Per questo motivo, si fece da parte, lasciando spazio a John per entrare.

"Accomodati."

 

 

Note dell’autrice: bene, e John ha rubato anche quest’altro oggetto. La storia della chitarra è vera, tutto vero, tranne ovviamente l’identità dell’uomo che ha speso tutti quei soldi per comprarla. Ho usato un personaggio inventato. ;)

Grazie a kiki che ha corretto.

Grazie a ringostarrismybeatle e _SillyLoveSongs_, perché stavo andando in crisi con questo capitolo, e loro mi hanno incoraggiata moltissimo.

Grazie a Chiara_LennonGirl e paulmccartneyismylove, per le dolci parole.

Il prossimo capitolo, “In my life”, arriverà venerdì prossimo. ;)

A presto

Kia85

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Capitolo 10
*** In my life ***


I’ll get you

 

Capitolo 9: “In my life”

 

 

Le note di Sweet child o' mine dei Guns 'N Roses risuonavano nella stanzetta sul retro del negozio di John.

Il mese prima, quello del più recente furto di Hermes, John aveva espresso il desiderio di imparare a suonare questa particolare canzone del gruppo statunitense, pregando Paul affinché facesse qualcosa a riguardo, dopotutto...

"Sei tu l'insegnante, Paul."

Perciò il giovane ispettore aveva dovuto cercare un modo per semplificare al massimo il complicatissimo riff di chitarra.

A quanto pareva, John non era l'unico ad aver avuto questo desiderio: molti altri avevano aperto discussioni in alcuni forum su internet, e su Youtube si potevano trovare anche un paio di video tutorial.

Paul ne aveva scelto uno e aveva imparato innanzitutto lui a suonare questo brano; poi aveva cominciato a insegnarlo anche a John, e proprio in quel momento l'uomo era di fronte a lui, tutto intento a suonare e cantare appassionatamente e felicemente, mentre il piccolo Julian era seduto sulle gambe di Paul. Fino a pochi minuti prima, il bambino era per terra a colorare i suoi disegni di razzi e astronauti nello spazio. Tuttavia quando il padre aveva iniziato a cantare, Julian si era alzato in piedi e avvicinato, e Paul, dopo averlo osservato per un momento, l'aveva sistemato sul suo grembo per farlo stare comodo, stringendo la sua vita stretta con le braccia. Julian sembrava particolarmente assorto dalla musica del padre e ben presto, si era rilassato abbastanza da appoggiarsi con la schiena al petto di Paul.

John era bravo, davvero bravo.

Ormai stavano studiando quel brano da un paio di settimane e Paul era lieto che John lo stesse eseguendo molto bene, sia come tecnica sia come canto. Era veramente in gamba e ormai migliorava di giorno in giorno, in modo sempre più evidente. Paul era piacevolmente sorpreso. Ad ogni miglioramento, John voleva ottenere ancora di più, e Paul, dal canto suo, si scopriva a desiderare di continuare quelle lezioni per aiutarlo nel suo intento.

Quando John terminò la sua esibizione, Julian batté le mani in un entusiasmante applauso, provocando un sorriso sul volto del padre, così ampio che raggiunse le orecchie.

“Ti è piaciuto, piccolo?”

Tantissimissimo!” esclamò Julian e saltò giù dalle gambe di Paul, per andare ad abbracciare John, “Sei bravissimo, papà.”

Il giovane uomo, con gli occhi che brillavano per l’affermazione del figlio, si chinò su di lui per baciargli il capo, e poi tornare a guardare Paul.

“E il prof cosa ne pensa?”

“Beh, Julian mi ha tolto le parole di bocca, a parte il papà, si capisce.” esclamò Paul, con una risata, “Sei stato davvero fantastico, John, non era per niente facile, ma hai suonato in modo incredibile. Non ho mai visto qualcuno migliorare in così poco tempo come hai fatto tu.”

John arrossì, ma cercò di rendere meno evidente questa reazione, appoggiando la chitarra da un lato per prendere in braccio il figlio.

“Non cominciare a dire così, altrimenti poi mi esalto troppo.”

“Dico sul serio, John.” ribatté Paul, accorato, “La tua non è solo una passione, è soprattutto un vero talento.”

John si morse il labbro, restando per un istante in silenzio, osservando con insicurezza lo sguardo al contrario molto determinato di Paul. Poi si rilassò in un sorriso e lo ringraziò.

“Avresti dovuto intraprendere una carriera da musicista.” continuò il giovane ispettore.

“Oh, no, non credo che faccia per me. Con tutto quel trambusto, i tour, e volare da una parte all’altra del mondo, senza potersi riposare per prendere fiato... No, grazie, preferisco la tranquillità di casa mia.” sospirò John, stringendo le braccia intorno a Julian.

“Beh..." ribatté Paul, scrollando le spalle, "Questo non toglie che ti avrei visto bene in questo tipo di vita.”

“Anche io.”

John, così come Paul, si voltò immediatamente verso l’entrata, dove era apparso magicamente George.

“George! Stavi per caso origliando?” domandò John, indignato ma anche divertito.

L'amico fece una smorfia contrariata, “Origliando? Oh, ma che parola brutta. Stavo semplicemente assistendo alla tua esibizione senza che voi tre ragazzi lo sapeste.”

“Ah, beh, così cambia tutto in effetti.” commentò John, sorridendo.

“A parte gli scherzi, Johnny, è stato molto interessante, non pensavo potessi davvero essere così bravo.”

John sospirò, alzando gli occhi al cielo, “Grazie, George, sei sempre così gentile.”

“Non c’è di che.” rispose George, con un sorriso, “Piuttosto, volevo chiederti se potessi uscire prima, per andare al luna park con Pattie.”

“Ma certo. Chiudo io, vai pure tranquillo.”

“E volevo sapere…” continuò George, avanzando di un passo, “Se potessimo portare anche Julian con noi?”

“Al luna park?” esclamò subito il bambino, sentendosi chiamato in causa, la vocina acuta e gli occhi improvvisamente più vispi del solito.

“Sì, ti piacerebbe venire con noi?” domandò George, sorridendo verso di lui.

“Moltissimo.” rispose Julian e poi si voltò verso John, “Posso, papà?”

L'uomo osservò il bambino per un istante, notando senza difficoltà tutto l'entusiasmo trasmesso dal suo volto, “Solo se prometti di fare il bravo e obbedire a quello che ti dicono George e Pattie.”

“Prometto.” si affrettò a dire il bambino.

“E se prima mi dai un bacio.” aggiunse John e gli fece il solletico sulla pancia.

Julian rise e si sporse verso John per posare un grosso bacio sulla sua guancia. Dopodiché John acconsentì a lasciarlo andare con l’amico. Si alzò per aiutare Julian a indossare una giacchettina, perché pur essendo a luglio, si alzava sempre un po’ di vento e la temperatura diventava frizzante nelle serate londinesi. Raccomandò a George di non fargli mangiare solo dolci e schifezze varie, e Julian, dopo aver salutato John e Paul, prese la mano di George e si allontanò con lui.

John li seguì con lo sguardo dalla piccola finestra della stanza che dava sulla strada, e quando i due sparirono dietro l’angolo, sospirò, prima di tornare rapidamente verso la chitarra per sistemarla nella custodia.

Paul lo seguì con attenzione, studiando ogni minimo gesto. Sembrava lievemente e stranamente agitato: le mani incespicarono solo un po’, mentre riponevano la chitarra nella custodia di tela, e le labbra sottili erano contratte.

“Che cos’hai, John?” chiese infine Paul, non riuscendo a trattenersi.

John sussultò appena. Evidentemente non si aspettava la domanda di Paul, o forse era solo troppo perso nei suoi pensieri, “Io? Niente, cosa dovrei avere?”

“Hai sospirato come se non volessi lasciarlo andare con George.”

“Oh, no, no, non è così. Non è affatto così, anzi, mi fa piacere che George e Pattie lo portino a divertirsi ogni tanto.” lo rassicurò John.

“Allora cosa c’è?” insistette Paul, sconcertato, perché John sembrava sincero, “Puoi dirmelo, sai, John?”

John si fermò un istante, mentre faceva scorrere la cerniera della custodia. Il suo sguardo seguì il movimento della sua mano e sembrò assente per tutto il tragitto; poi finalmente si voltò di nuovo verso Paul. Lui era visibilmente preoccupato per John e sinceramente interessato a qualunque cosa lo stesse tormentando. Era una cosa da nulla, davvero, e vedere quel ragazzo, che in realtà doveva essere il suo più acerrimo nemico, preoccuparsi per questo motivo con tutta la sincerità che poteva dimostrare a John, gli provocava una strana sensazione: John avrebbe dovuto essere indifferente, ma la realtà era che gli faceva piacere, sapere di poter interessare a qualcuno che non fosse George o Pattie o l’uomo che l’aveva cresciuto.

A un amico in più.

“Lo so che è da stupidi, perché non posso stare ventiquattrore su ventiquattro con mio figlio." esordì prendendo un gran respiro, "Ma mi manca quando non c’è. Vorrei stare sempre con lui per proteggerlo, per impedire che gli accada qualcosa di spiacevole o anche solo per impedire che mi abbandoni.”

Paul batté le palpebre, in totale confusione, “Come potrebbe abbandonarti? È così piccolo e ti adora.”

“Sua madre l’ha fatto.” rispose John.

Neanche si era accorto di averlo detto davvero. Si supponeva che dovesse essere solo un pensiero, uno dei tanti su di lei, ma a quanto pareva questa volta l'aveva detto ad alta voce.

“Come?”

John rimase immobile per un istante, tornando velocemente indietro nel tempo con la mente per assistere di nuovo a quello che era successo un istante prima. E sì, l'aveva proprio detto.

“No, niente, lascia perdere.” sbottò poi, allontanandosi da Paul, verso il muro.

“John, no, ti prego. Dalla prima volta che ne abbiamo parlato non ho mai osato chiederti nulla su di lei, ma ora basta.” disse e fece una piccola pausa, prima di proseguire più chiaramente,  “Vorrei sapere della madre di Julian.”

John ripose la custodia della chitarra contro il muro, soffermandosi solo per un momento a guardarla apaticamente. Aveva sentito bene la richiesta di Paul e cazzo, se non era la parte della sua vita più difficile di cui parlare.

Era pronto a condividere tanto con Paul? Proprio con quell'uomo che meno sapeva di lui e meglio era?

Sì, lo era. E la verità era che ogni volta che i suoi occhi si posavano su Julian, lui ripensava a quella donna, condannandosi, addossandosi tutte le colpe di ciò che era accaduto, ma non c’era nessuno lì, pronto a raccogliere i suoi turbamenti e allontanarli con un gesto o una semplice parola. Certo, George e Pattie sapevano tutto: George gli era stato molto vicino nel momento del bisogno, e Pattie aveva sempre mostrato grande interesse e comprensione nei suoi confronti, ma non era giusto che John dopo diversi anni continuasse ad assillarli con i suoi problemi, quando anche loro avevano la loro buona dose di rogne.

Ora invece, Paul era lì e voleva sapere, perché aveva sicuramente intuito fin da subito che ci fosse qualcosa di strano nell’assenza di quella madre, e nel fatto che John non avesse voluto parlare di lei al momento. Non ci voleva tanto a capire, ma Paul l’aveva fatto e si interessava a lui. Così alla fine, John decise.

“Te lo dirò solo se dopo risponderai a una mia domanda.” disse, voltandosi verso Paul con un lieve sorriso.

Paul si morse il labbro, pensieroso: John avrebbe potuto domandargli qualunque cosa. Tuttavia Paul gli aveva chiesto tanto e John avrebbe risposto, aprendo forse una parte difficile della sua vita, mostrandola a Paul. Perché lui non avrebbe dovuto ricambiare?

“Affare fatto.”

John annuì fra sé, tornando a sedersi sulla sedia di fronte a Paul. Si torturò lievemente le mani, mentre pensava a come ordinare i ricordi e quali parole usare.

“Cosa vuoi sapere?”

“Quello che puoi dirmi.”

“Devo cominciare dall’inizio, allora.”

“Ti ascolto.”

"E devo assolutamente fumare una sigaretta." esclamò John, affrettandosi a recuperare il pacchetto di sigarette dalla giacca.

Le sue mani tremavano davvero, mentre sfilavano un bastoncino bianco dal pacchetto e lo portavano alla bocca, dopo averne offerto uno anche a Paul, il quale rifiutò. E la cosa davvero strana era che John stesse facendo di tutto per cercare di nascondere a Paul il suo nervosismo. Ma Paul sapeva bene che nonostante tutti gli sforzi, il corpo potesse agire anche da solo, mostrando a tutti i veri sentimenti di quell'anima tormentata.

“Quando ho aperto questo negozio, la casa di fianco era di proprietà della famiglia Powell." iniziò a spiegare John, dopo aver acceso la sua sigaretta, "C'erano tre figli, la più giovane era una ragazza, di nome Cynthia.”

“Cynthia?” ripeté Paul, sorridendo, “E’ un bel nome.”

John annuì vagamente, espirando il fumo del primo tiro. Una sigaretta lo rilassava sempre, e in quel momento particolare allentò la tensione che pochi minuti prima aveva contratto la sua mascella.

“La prima volta che la vidi fu quando entrò nel mio negozio per cercare un cd. Naturalmente notai subito questa ragazza molto carina, mi sbarazzai in fretta e furia degli occhiali e mi offrii per aiutarla. Una volta trovato il cd, le proposi di regalarglielo a patto che uscisse con me.”

Paul rise appena, mentre John gli raccontava questo con un sorriso malinconico sulle labbra.

“Lei però rifiutò.”

“Cosa?”

“Sì. Tornò la settimana dopo per un altro cd e quella dopo ancora… Ogni volta la mia proposta era la stessa, ma lei rifiutava sempre. Fino a quando inevitabilmente, cedette.”

“Sei un vero testardo, allora.” commentò Paul, ammiccando.

John annuì, prendendo un altro tiro dalla sua sigaretta, e accavallò elegantemente le sue gambe, “Me lo disse anche lei, sai, ma da quel momento abbiamo cominciato a frequentarci. Avevo ventun anni quando la conobbi, e nessuno prima di allora mi aveva fatto sentire così importante, né così coinvolto. È stata davvero il mio primo amore. Lei era bella, dolce e sempre incredibilmente di buon umore, in quel periodo era il mio esatto contrario e io ne ero terribilmente attratto. Ci vedevamo tutti i giorni: lei veniva a trovarmi in negozio e la sera uscivamo insieme. Qualche volta durante la pausa pranzo, i suoi genitori mi invitavano a mangiare da loro, erano sempre molto gentili con me. Fu il periodo più bello di tutta la mia vita.”

Il giovane uomo fece una pausa come se questo racconto stesse chiedendo uno sforzo maggiore di quello che si aspettava lo stesso John. Tuttavia Paul voleva sapere e non poté trattenersi dall’incoraggiarlo a continuare.

“E poi?”

“Poi rimase incinta.” sospirò John, “La notizia mi sconvolse del tutto. Fino a quel momento non pensavo proprio di diventare padre, ma stava accadendo davvero. Lei sembrò accettare meglio la situazione, non era affatto spaventata come me. O perlomeno non lo sembrava. Era solo felice di diventare mamma. Eppure quando le chiesi di sposarmi, rifiutò, sostenendo che non sarebbe stato giusto, sposarsi solo per l’arrivo del bambino. Non siamo più negli anni Sessanta, John, mi disse, e io rispettai la sua scelta. Decidemmo però di andare a vivere insieme. I suoi genitori andarono in pensione in quel periodo: avevano risparmiato per tutto il periodo lavorativo e in quel momento decisero di utilizzare quei risparmi per trasferirsi in campagna, appena fuori Londra, lasciando a me e Cynthia la casa di fianco al negozio.”

“E’ stato un bel pensiero.”

“Sì, infatti gliene sarò grato a vita. Ma nonostante questo, la gravidanza di Cynthia non fu facile: ebbe delle minacce d’aborto, per cui fu costretta a passare molti mesi a letto. Fino ad allora era stata abbastanza tranquilla e rilassata con la prospettiva di diventare madre, ma in quel periodo cominciò a innervosirsi.”

E sembrò innervosirsi maggiormente anche John a quell’affermazione. La sua fronte si corrugò appena e le dita strinsero con più forza la sigaretta, e Paul semplicemente continuò a guardarlo, senza trovare qualcosa da dire, solo aspettando e ascoltando.

“Molte volte la sorpresi in piedi, tutta intenta a fare mestieri in casa e quando accadeva, la rimproveravo, facendola solo agitare di più. Così alla fine sua madre venne ad aiutarci. Stava con lei, mentre io ero in negozio, e si assicurava che non facesse alcuno sforzo fisico. Alla fine, Julian nacque in una notte burrascosa di inizio aprile. Io restai con lei per tutto il travaglio, spaventato allo stesso modo: la vedevo soffrire, e sapere di non poter fare nulla per aiutarla, mi stava uccidendo, tanto più che non avevamo pianificato, né desiderato questa gravidanza.”

A quell’affermazione, Paul spalancò gli occhi con totale sconcerto: mai e poi mai avrebbe pensato di sentir dire queste cose dalla bocca di John, lo stesso che stravedeva per suo figlio.

E ancora una volta, John sembrò leggergli nel pensiero, e il pensiero di Paul era così pesante da sostenere, che John si alzò in piedi per recuperare un posacenere da uno scaffale lì vicino, solo per sottrarsi al suo sguardo sorpreso.

“Lo so che un genitore non dovrebbe mai dire e neanche pensare certe cose, ma è la verità: Julian è arrivato per caso. Questo non posso negarlo.” sospirò John, facendo ricadere nell’oggetto tra le mani la cenere ormai inutile della sigaretta, prima di voltarsi verso Paul.

Si abbandonò con la schiena alla parete, apprezzando la distanza che aveva interposto fra lui e Paul. Non poteva essere così vicino a lui sia col corpo che con l’anima, perché era questo che stava accadendo, stava letteralmente aprendo il suo cuore per lui, per rivelargli quel peso che si portava ormai da diversi anni, e in quel momento tutta quella vicinanza improvvisa e inaspettata era troppo difficile da affrontare per John.

“Tuttavia, quando quella notte, l’ho stretto tra le mie braccia per la prima volta, e ho visto i suoi piccoli occhi chiari, mi sono innamorato di lui immediatamente. Non avevo mai visto niente di più bello in tutta la mia vita, e sapere che fosse mio mi riempì il cuore di una gioia immensa.”

Paul si rilassò in un sorriso, “È molto bello.”

“La felicità che portò nella mia vita fu così immensa che mi accecò." continuò John, appoggiando anche la nuca al muro per perdere il suo sguardo sul soffitto, proprio ora che arrivava la parte più difficile da mandar giù, "In quei suoi primi mesi di vita nient’altro contava, solo questa piccola creatura che aveva bisogno di me, che aveva incredibilmente bisogno di me. Ma in questo modo non mi accorgevo del problema che stava nascendo nella mia casa: tanto più io ero preso dal nostro bambino, quanto più distratta e completamente disinteressata a lui stava diventando Cynthia. I primi tempi, anche se intimorita come me dal dover accudire un bimbo tanto piccolo, ci provava, si impegnava a fondo, ma l’ansia di non essere in grado di farlo la stava sopraffacendo. Non sapeva quando farlo mangiare, se svegliarlo per la poppata, aveva paura di farlo cadere ogni volta che lo prendeva in braccio e piangeva, diventava irritabile, non dormiva né mangiava e io… io non mi sono accorto di nulla.”

“Ma come è possibile?” domandò Paul, anche se ora la situazione di John ai suoi occhi stava diventando più chiara.

“Sono tutte cose che ho appreso solo in seguito." rispose John, e prese l'ultimo tiro dalla sua sigaretta, "In quei giorni non ci facevo molto caso o comunque pensavo fosse normale. Avevo sentito di molte donne che affrontavano un periodo di crisi subito dopo il parto, ma lo superavano, era questione di poco tempo. Non avevo capito che il caso di Cynthia fosse molto più grave.”

A quel punto John si concesse una piccola pausa per spegnere la sigaretta nel posacenere con un gesto un po' irrequieto. Poi finalmente lo disse.

“Julian aveva pochi mesi quando lei se ne andò.”

“Se ne andò?” ripeté Paul, ben consapevole che fosse una cosa stupida da dire, ma fu anche l'unica che la sua mente riuscì a elaborare.

John non ci fece molto caso. Fece intrecciare le  mani e prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi forse per riordinare ancora una volta i suoi ricordi e soprattutto, le sue emozioni. Incredibile come potessero essere sempre così dolorose.

“Sì, un giorno tornai a casa e trovai Julian da solo, nella sua culla: piangeva disperato, ma di Cynthia nemmeno l’ombra. Solo pochi vestiti scomparsi dall’armadio, neanche un biglietto di spiegazione su dove andasse né sul perché. In quel momento l’unica cosa certa per me era che lei ci avesse abbandonati."

Ed era una certezza ancora più che evidente nei suoi occhi. Solo uno sciocco non l'avrebbe notata.

"Poi mentre cercavo di calmare Julian, mi chiamò suo padre per avvisarmi che Cynthia fosse da loro. Cercai di farmi dire più informazioni possibili sul perché l’avesse fatto, se avesse intenzione di tornare, ma il signor Powell non mi disse nulla, solo che lei stava bene ed era al sicuro, ma era sconvolta e per il momento doveva essere lasciata tranquilla. Lui interruppe la telefonata prima che potessi protestare alcunché e mi lasciò a quei dubbi che mi assalirono in un battibaleno: non sapevo cosa fare, da una parte volevo correre da lei per cercare di capire cosa le stesse accadendo, ma dall’altra pensavo a mio figlio e sapevo di non poterlo lasciare, non in quel momento. Passarono alcuni giorni, e in ognuno di questi provavo a chiamare a casa di Cynthia, ma nessuno rispondeva. Figuriamoci." sbottò John, abbassando il capo.

Quelle emozioni erano tanto forti quanto ancora identiche a quelle provate quattro anni prima. C'erano il dispiacere, la solitudine, la colpa, sì, ovvio, ma anche quella sensazione ridicola di estraneità, come se non stesse accadendo davvero a lui. Erano cose che aveva sentito, ma come potevano aver colpito lui e soprattutto Cynthia, la stessa ragazza che aveva gli occhi brillanti e il sorriso radioso quando gli aveva detto di aspettare il suo bambino? E questo, più di qualunque altra cosa lo faceva vergognare. Per cui abbassò gli occhi, sfuggendo ancora una volta a Paul.

"Poi finalmente, un giorno, sua madre mi telefonò dicendo che Cynthia voleva vedermi, ma non avrei dovuto portare Julian. Al momento risi perché niente di tutto questo aveva senso. Tuttavia alla fine decisi di andare. Dovevo andare. Quando la vidi, dopo diversi giorni passati lontano, notai subito che c'era qualcosa che non andava. Era deperita e sembrava che tutta la felicità di essere mamma fosse sparita. Non mi disse che le dispiaceva di essere andata via perché sapeva di aver fatto la cosa giusta per proteggere Julian da se stessa."

"Cosa intendeva dire?"

John si fece scappare una risatina, era amara e senza alcun segno di divertimento reale, ma era una risata e Paul non se lo sarebbe mai aspettato, non in quella parte del racconto. Perché John rideva? Quale strano meccanismo gli stava causando quella reazione sconveniente?

"Cosa intendeva dire? Che qualche psicologo da strapazzo le aveva detto di soffrire di depressione post-parto. Ecco cosa intendeva." borbottò non sapendo più, a quel punto, quale emozione mostrare.

Non era facile sotto lo sguardo pressante e indagatore di Paul, ma lui cercò di continuare a farlo parlare.

"Depressione?"

"Sì. Sembra..." disse John, sospirando, "Sembra che sia una patologia molto comune tra le neo mamme, e Cynthia riportava tutti i sintomi, tra cui quello più grave: il totale disinteresse nei confronti del figlio, ma io... io non capivo. Come poteva essere questo? Come poteva ignorare il figlio? Una mamma non lo farebbe mai, tanto meno la dolce Cynthia."

In quel momento aveva proprio tanta voglia di mettersi le mani nei capelli, ma si trattenne. Non voleva mostrarsi così vulnerabile, così esposto a Paul. Paul che però non sembrava interessato tanto a giudicarlo, quanto piuttosto a cercare di comprenderlo per poter trovare forse parole di conforto.

"Certe volte può colpire anche chi non ci si aspetta."

“Le chiesi se volesse tornare a casa, ma lei mi disse che doveva restare lì. C'era una clinica psichiatrica nelle vicinanze e lei voleva essere curata. Io cercai di insistere, sostenendo che non ci fosse aiuto migliore di quello mio e di Julian, ma lei aveva paura che se fosse tornata, avrebbe fatto del male a Julian e questa volta in modo serio. Fu questa prospettiva a convincermi definitivamente. Se fosse successo qualcosa a Julian, non me lo sarei mai perdonato. Allora insieme decidemmo che almeno fino a quando non si fosse sentita pronta, non avrebbe più rivisto Julian.”

“E quindi, sono quattro anni che lei non lo vede?” domandò Paul interessato.

“Oh, no, prima che Julian compisse un anno, mi chiese di vederlo e glielo portai. Le cure stavano proseguendo bene ed era più che evidente quanto stesse meglio. Ma ancora non si sentiva di tornare a casa. E abbiamo proseguito sempre così fino a quando gli incontri sono diventati più frequenti. Ora lo porto in campagna da lei almeno una volta al mese. Ma la questione è che sto crescendo io Julian, lei non ha alcuna intenzione di farlo. Ha paura di cadere di nuovo in una spirale depressiva che potrebbe essere più lieve rispetto a prima, ma anche molto più grave. Io l’ho accettato, per il bene di mio figlio, anche se è comunque un pensiero che mi rattrista, e la cosa che più mi spaventa è che possa accadergli qualcosa e Dio non voglia, ma se così fosse, cosa farò? Sono da solo, a chi potrò aggrapparmi? Se perdessi anche Julian, io sarei finito. Penso che potrei morire. Non mi rimarrebbe più nulla."

E solo in quel momento, con un vero e proprio terrore negli occhi, la voce spezzata, il corpo tremante, Paul capì davvero il comportamento di John durante il suo racconto.

Capì davvero John.

John era molto più complicato di quello che immaginava. Dietro quella facciata intrigante di carisma, amore per il figlio e passione per la musica, si celava in realtà un’insicurezza che stonava con tutto il resto. Mai e poi mai Paul avrebbe pensato di trovare tutta quella vulnerabilità, dietro un uomo così esuberante.

Mai e poi mai si sarebbe aspettato di ritrovare in John la stessa paura di restare solo che attanagliava anche lui, la sera, quando cercava di dormire, quando continuava a pensare che era da solo in quella grande città, quando si domandava come sarebbe stata la sua vita tra uno, cinque, dieci anni, se Jane sarebbe rimasta al suo fianco, se al contrario lei l’avrebbe lasciato… Tutti pensieri che stringevano il suo cuore, portandolo ad un’insonnia certa e quasi alle lacrime.

Beh, lacrime no, in fondo era pur sempre un uomo, gli uomini non piangono per queste cose, giusto? No, non era giusto, perché aveva visto John che si tratteneva con espedienti come la sigaretta e allontanarsi da lui, per non crollare di fronte a Paul, e allora forse non c’era niente di male se anche lui avesse pianto, ogni qualvolta il desiderio di farlo si faceva più vivo che mai.

Così, si alzò in piedi e raggiunse John, appoggiandosi con la schiena al muro, proprio accanto a lui.

“Ma tu non sei solo, John.” disse tranquillamente, e aspettò che l’altro uomo si voltasse verso di lui prima di continuare con un sorriso, “Hai George e Pattie e anche me, ora, se me lo permetti. Mi sono affezionato a Julian, non si può restare indifferenti di fronte a quel bambino, e io sono sicuro che non gli capiterà mai nulla di brutto perché tu vegli su di lui in modo impeccabile, non gli fai mai mancare nulla, sei per lui un padre e una madre insieme, e da grande diventerà un uomo buono e un padre altrettanto affettuoso.”

John non poté negare di essere rimasto particolarmente sorpreso, nel sentire quelle parole provenire proprio dal suo ispettore. Se Paul avesse saputo la realtà, forse non avrebbe parlato in quel modo di John.

Ma cosa importava ora? Le parole di Paul avevano avuto il potere straordinario di calmare quell’angoscia che si era accumulata in lui per tutto il racconto.

Perché questo ragazzo conosciuto da pochi mesi era riuscito ad ottenere con pochissimo sforzo questo risultato?

“Ti prego, non farmi pensare a Julian da grande.” esclamò John, ridendo, “Voglio solo godermi la sua infanzia per adesso.”

“Oh, ok, allora basta parlare di Julian da grande.” concordò Paul con un sorriso.

“Comunque…” sospirò John, più rilassato, “Grazie.”

“Di che cosa?”

“Di avermi ascoltato. Non avevo mai raccontato questa storia così.” ammise John, a Paul, ma anche un po’ a se stesso.

Paul sorrise, accompagnandolo con un vago gesto della mano, “Grazie a te per avermi permesso di ascoltare.”

“Questo mi fa pensare all’accordo stipulato poco fa.” esclamò John, facendogli l’occhiolino, e Paul sussultò lievemente, preso in contropiede.

“Ah, davvero?”

“Sì, tocca a me ora." proclamò John, voltandosi sul fianco per guardare meglio Paul.

"Così pare." rispose Paul e si morse il labbro, mentre le sue mani si torturavano a vicenda, mentre questa volta era il suo sguardo che sfuggiva a quello indagatore di John.

John semplicemente sorrise, non si accorse neanche di farlo e quando se ne rese conto, ormai era tardi. Paul era visibilmente a disagio e di fronte a quella visione era impossibile non sorridere dolcemente.

"Alla festa del tuo compleanno, tuo fratello mi ha raccontato tutto."

"Tutto di cosa?" domandò Paul.

Il giovane ispettore batté le palpebre in confusione, pur sapendo in fondo cosa fosse quel tutto.

"Di tuo padre. Del perché hai smesso di suonare e ascoltare musica." spiegò John, usando un tono attento, ma riuscì comunque a far innervosire Paul.

"L'ha... L'ha fatto?"

"Sì." confermò John dolcemente, "Volevo sapere perché non l'hai mai cercato? Sei un ispettore, avresti tutti i mezzi per trovarlo."

Era davvero una curiosità a cui John pensava spesso. Certo, Jim sapeva chi fosse il nuovo ispettore, e gli aveva chiesto di porre fine a questi furti, ma John aveva rifiutato. Non poteva, dannazione, ne era ormai dipendente. Senza contare che stava ancora aspettando l'occasione giusta per poter rubare un cimelio di Elvis, quel pezzo che sarebbe stato il più importante nella sua collezione.

Fortunatamente non avevano litigato, ma una piccola discussione era avvenuta. Anche perché John si meravigliava del fatto che Jim non si sentisse pronto a ricevere informazioni più personali su uno dei suoi figli. John era pronto a chiedere a Paul qualunque cosa, ma l'uomo sembrava irremovibile a riguardo. L'arrivo di Paul era stata una vera e propria sorpresa, giunta tra capo e collo, e Jim era stato colto alla sprovvista. Tanto più che si trovava dalla parte sbagliata, ancora una volta.

Tuttavia John non la pensava allo stesso modo. Lui voleva sapere, sapere come avesse vissuto Paul senza quella figura importante e perché non sfruttasse il suo lavoro per cercarlo.

"Il suo abbandono non è un motivo sufficiente?" domandò Paul, con totale apatia, come se non fosse un argomento che lo riguardasse.

A quanto pareva John non era l'unico a usare quel meccanismo di difesa.

"Non lo è affatto."

"Sì, invece." protestò Paul, sollevando la schiena dal muro, "Lui se n'è andato fregandosene di sua moglie e dei suoi due figli. Perché dovrebbe importarmi ritrovarlo, se lui per primo ha dimostrato di non avere alcun interesse per noi?"

"Forse ha solo paura..." provò a dire John, memore di quanto avesse visto in Jim ogni volta che tra loro spuntava fuori l'argomento 'Paul'.

"Paura?" ripeté Paul, lasciandosi scappare una risata sardonica come se quella fosse la scusa più ridicola del mondo, "Ti prego, John. Sai cos'è davvero la paura? È vedere tuo fratello piangere mentre ti chiede perché suo padre se n'è andato, e non sapere che cosa rispondere senza ottenere come reazione il suo totale sconcerto perché, come può un padre abbandonare dei figli così piccoli? La paura è sapere che tua madre si ammazza di lavoro giorno e notte per occuparsi di te per non farti mancare nulla e vedere, giorno dopo giorno, quanto il suo corpo si indebolisca, perché da sola ce la fa ad andare avanti, ma il prezzo da pagare è troppo alto. Ecco cos'è la paura, John."

"Ma insomma, Paul, prova a metterti nei suoi panni. Un padre non abbandonerebbe mai i propri figli e se lui l'ha fatto, ci deve essere un motivo val-"

"Tu abbandoneresti mai Julian?" lo interruppe Paul e la sua domanda spiazzò completamente John.

Il giovane uomo lo fissò un po’ incerto, e ammettiamolo, colpito, prima di non poter fare altro che dire, "Cosa?"

"Hai sentito!"

E a quel punto, John si sentì costretto a rispondere con tutta la sincerità che una domanda del genere richiedeva, "No, certo che no."

"Beh, hai la tua risposta ora." sospirò Paul, come se l’argomento fosse finalmente chiuso, e si avviò verso la tenda che separava la stanza dove si trovavano dal negozio.

Tuttavia non aveva fatto i conti con quell’uomo che lui stesso aveva definito testardo non più di dieci minuti prima.

"Ma il mio caso è diverso.” continuò John, incurante del fatto che Paul se ne stesse andando via, “Julian può contare solo su di-"

"Oh, ma vaffanculo, John!” sbottò infastidito Paul, fermandosi e voltandosi con un improvviso scatto irato per poter fulminare John con il suo sguardo, “Cosa cazzo ne sai tu di quello che ho passato?"

La reazione di Paul sorprese infinitamente John. Non l’aveva mai visto comportarsi in quel modo, Paul sempre pacato e gentile. Confermò la sua ipotesi sul fatto che anche Paul nascondesse un lato più oscuro di sé. Ma questo non lo spaventò, anzi, gli diede solo la forza di ribattere.

"Anche mio padre ci ha abbandonati."

Le parole di John, pur pronunciate a bassa voce, risuonarono fortissime nella stanza e lui riuscì quasi a sentire Paul trattenere il fiato, mentre John decideva di condividere con lui un altro triste atto di questa pièce teatrale che era la sua vita.

"Mio padre abbandonò mia madre ancora prima che nascessi.” spiegò John, e quando non vide alcun segno di voler intervenire da parte di Paul, proseguì abbassando il capo e perdendo lo sguardo sulla moquette del pavimento, “Lei tirò avanti come poté per qualche anno, fino a quando un giorno non fu investita da un poliziotto ubriaco e morì. Avevo solo quattro anni, non ricordo molto di quei giorni, solo che mi affidarono ai servizi sociali perché non avevamo parenti, mentre cercavano di contattare mio padre. Ma lui non volle prendermi con sé. A quanto pareva, non ero un problema suo. E così mi spedirono in un orfanotrofio e da lì ho cambiato famiglia affidataria praticamente ogni anno. Ero un bambino piuttosto vivace, sai?" esclamò, aggiungendo una risatina, "In questo modo ho sperimentato sulla mia stessa pelle quanto possano sbagliare certi padri e quanto sia sbagliato che certi uomini diventino padri. L'ultimo a cui ero stato affidato, cercò di picchiarmi e quella volta dissi basta. Scappai per sempre da Liverpool per venire qui, a Londra."

John terminò il suo racconto e sollevò finalmente lo sguardo per incrociare quello di Paul, il quale senza volerlo arrossì per quanto avesse insinuato prima con il suo scatto infuriato, ma anche perché così John sembrava più vicino a lui rispetto a chiunque altro. Proprio così sembrava che avessero fin troppe cose in comune.

"Mi-mi dispiace." mormorò Paul e si avvicinò, per tornare in piedi di fronte a John, "Io non ne avevo idea, pensavo che-"

"Lascia stare, non è colpa tua.” tagliò corto John, aggiungendo un sorriso rassicurante, “Sono stato io a dirti di essermi trasferito qui con la mia famiglia. Come potevi immaginare quale fosse la realtà?"

"Sì, ma mi dispiace lo stesso."

"Ti ringrazio."

"E cosa è successo quando sei arrivato a Londra?" domandò Paul, ora la curiosità lo stava attanagliando, ma lui si sentiva più libero di fare domande, indagare, rispetto all’inizio di tutta questa storia.

"Io...” iniziò John, mordendosi il labbro.

Dannazione, la voglia di far sapere a Paul quanto potesse capire il suo stato d’animo era stata così forte, che non si era accorto che quel racconto potesse riservare risvolti potenzialmente pericolosi.

“Beh, mi sono imbattuto in un uomo che si è preso cura di me.” spiegò, scegliendo con cura le parole, “Anche lui aveva avuto qualche... problema con la sua famiglia. In quel momento viveva da solo e ha avuto pietà di questo povero, affamato, sperduto ragazzino. È stato molto buono con me. Mi ha fatto studiare, mi ha fatto avvicinare alla musica e insegnato a suonare la chitarra..."

"Allora lui ti ha insegnato quegli accordi?"

"Sì."

"E quindi sei cresciuto con lui?”

John annuì, sorridendo ai ricordi della gentilezza che quell’uomo gli aveva riservato, “È stato lui a investire i soldi nel mio negozio. Ha sempre creduto in me e io gliene sarò per sempre grato."

"È come un padre?" chiese Paul, e la domanda fece riflettere profondamente John.

Sicuramente era stato la cosa più vicina a un padre che John avesse mai avuto, ma non poteva considerarlo davvero tale. Non era giusto.

"No, lui è già padre di qualcuno. Non posso considerarlo in questo modo e rubare questo ruolo ai suoi veri figli." disse, sperando che Paul non facesse domande che andassero più nello specifico.

"Allora è come un mentore?"

Mannaggia a lui e alla sua curiosità da poliziotto.

"Diciamo così." rispose John, scrollando le spalle.

"E dov'è ora?"

"Quante domande, signor ispettore." rispose John, ridendo e facendo ridere anche Paul, “Voglio il mio avvocato.”

"Scusa. È più forte di me."

"Va bene. Non ti preoccupare.”

Insomma, non è che andasse poi così bene, prima di tutto perché non era una grande idea svelare l’abitazione di Jim. E poi perché in quella stessa casa, c’erano anche…

Ma in effetti, perché mai questa risposta avrebbe innescato in Paul il collegamento tra John e suo padre? Non c’era alcun pericolo, John non aveva detto nulla di ambiguo e in fondo, quante situazioni di figli abbandonati dai padri c’erano nella sola Inghilterra? Paul avrebbe dovuto saperlo meglio di John.

“Abita nella periferia di Londra. All’inizio stavamo in un piccolo appartamento nella City, ma quando, grazie al negozio, abbiamo avuto un po' di denaro a disposizione, abbiamo comprato una casa in un distretto della Grande Londra."

"Beh, allora dovresti proprio farmelo conoscere qualche volta." commentò Paul, entusiasta, e John si costrinse a trattenere un colpo di tosse.

"Già... Dovrei."

Paul chinò il capo per un istante, ripensando al suo problema e guardandosi le mani, prima di alzarne una con decisione e appoggiarla sulla spalla di John.

"Mi dispiace molto per quello che hai passato, John, ma ti prego di comprendermi; penso ora che tu sappia meglio di chiunque altro perché io non abbia alcuna intenzione di cercare mio padre.”

Le parole di Paul, insieme con la sua mano sulla spalla, sembravano così convincenti per John. Ora che ci pensava bene, neanche lui aveva cercato suo padre e non l’avrebbe mai fatto.

“Inoltre…” proseguì Paul, “So per certo che mio padre fosse un ladro e per questo si era messo nei guai. È stata una sua scelta rubare e io detesto i ladri, tanto più che le conseguenze delle sue azioni si sono riversate su di noi. Mia madre l'ha sempre difeso, sai, ha sempre cercato di non farcelo odiare, ma sapere che anche mio padre fosse uno di loro è stato ciò che mi ha fatto decidere di diventare poliziotto e iscrivermi all'accademia."

John annuì, prima di porre una domanda che a questo punto era necessaria, “Non credi che un giorno potresti rimpiangerlo?”

“Certo.” ammise sinceramente Paul, “Tuttavia non posso proprio, John, non ora almeno."

"D'accordo, Paul.” sospirò infine John, “Non posso farti cambiare idea, questo l’ho capito, ma promettimi che penserai a quello che ti ho detto."

"Ehi, non sono Julian." scherzò Paul, dandogli un lieve spintone con la mano sulla spalla.

"Promettilo lo stesso." ribadì John.

Era serio, e il suo tono fu ripreso anche da Paul, "Lo prometto."

“Bene.”

Perché John lo stava facendo? Perché stava tentando di convincere Paul a cercare suo padre? Dopotutto se l’avesse fatto davvero, sarebbe stato assai rischioso per tutti, per Jim, per John, per Hermes.

Allora perché aveva insistito?

"Dunque, cos'è successo esattamente oggi?" domandò Paul, ridestando John dalle sue riflessioni.

"Cosa intendi?"

"Intendo tutta questa chiacchierata cuore a cuore, come se fossimo grandi amici." spiegò Paul, con fare improvvisamente cauto e sì, un po’ timido.

"Beh, significa quello che è. Siamo grandi amici." rispose John, come se fosse la cosa più naturale da dire in quel momento.

Ma era davvero così? Erano grandi amici? Forse da parte di Paul, anzi, sicuramente da parte di Paul sì, perché il ragazzo sorrise senza accorgersene, sembrò davvero più forte di lui.

Ma John?

John doveva pensare a questa amicizia come a qualcosa di utile per la sua seconda identità. Non doveva lasciare in alcun modo che la situazione gli sfuggisse di mano.

Diventare davvero amico di Paul era come andare incontro a un disastro assicurato.

"Oh, allora visto che siamo grandi amici, sai cosa dovremmo fare?" domandò Paul, entusiasta.

"Cosa?"

"Dovrei farti compagnia stasera, perché sei da solo."

John rise, "E cosa proponi?"

"Che ne dici di una birra al pub qui vicino?"

"Oh no, questo è terribile.” si affrettò a ribattere John, con una smorfia disgustata sul volto, “Conosco un posto migliore, ma prima, aiutami a chiudere il negozio."

Paul non riusciva a smettere di sorridere, mentre aiutava John nel suo compito. Pensò di essere davvero felice per la prima volta da quando si trovava a Londra, e la sensazione era inebriante, di quelle di cui non si può mai fare a meno.

Certo, fino a quel momento aveva sempre considerato John un amico, ma dopo quel pomeriggio, dopo quell'intimo scambio di confidenze, era diverso. Ora sapeva, entrambi sapevano che potessero sempre contare l'uno sull'altro per ogni problema, che potessero parlare davvero di qualunque cosa, che finalmente fossero l'uno una componente importante della vita dell'altro.

E a questo punto, c'era solo ultima cosa da dire.

"Benvenuto nella mia vita, John."

 

 

Note dell’autrice: e andiamo con il capitolo 9. Un po’ lento, magari, e questi due parlano davvero tanto, ma a questo punto della storia, era necessario che si confidassero l’uno con l’altro.

La mamma di Julian è Cynthia e non è morta. Non è mai stata mia intenzione farla morire. Piuttosto mi interessava molto affrontare questa depressione post-parto, mi sono documentata un po’ e insomma, questo è il risultato.

Grazie a kiki che ha corretto, grazie soprattutto a _SillyLoveSongs_ che mi ha supportato per affrontare questo capitolo molto delicato e mi ha dato preziosi consigli. Grazie a ringostarrismybeatle, che rallegra le giornate con le nostre chiacchierate.

Grazie infine a Chiara_LennonGirl, paulmccartneyismylove e lety_beatle, sempre tanto gentili. :3

Prossimo capitolo, “Help!”, in arrivo, venerdì.

Magari ci si sente per il compleanno di Paul… J

Kia85

 

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Capitolo 11
*** Help! ***


I’ll get you

 

Capitolo 10: “Help!”

 

“Non è lui.”

“Cosa?”

“Non si tratta di Hermes.” spiegò con molta convinzione Paul ai presenti, ovvero l’ispettore Starkey e la sua squadra di agenti scelti.

Si trovavano nel vicino quartiere di South Kensington, nella seconda sede di Christie’s, una delle più famose case d’asta del mondo. Proprio qui erano in mostra cimeli di qualunque genere di Slash, il chitarrista dei Guns’n’Roses, che aveva deciso di metterli all’asta e devolvere il ricavato in beneficienza.

Proprio qui era avvenuto il furto di una maglietta che il musicista era solito indossare nei suoi concerti.

Il problema era che l’autore questa volta non era Hermes, almeno, questo era ciò di cui era convinto Paul.

“Ma ha avvisato come al solito dove e quando avrebbe colpito.” fece notare l’agente Eastman.

“C’è una differenza fondamentale dagli altri furti.” affermò Paul, avvicinandosi alla porta che dava sul corridoio e facendo scorrere il suo sguardo per tutta la sua lunghezza.

“Ovvero?”

“La guardia ferita.” rispose Richard, il quale fino ad allora aveva assistito in silenzio ai ragionamenti di Paul, pensando a lungo su quanto fosse appena accaduto.

Paul si voltò verso di lui per rivolgergli uno sguardo di profonda approvazione, “Esattamente. Hermes sarà anche un furfante, ma non ha mai fatto del male a nessuno. Anche quando ha rubato la chitarra di Dylan, ha fatto in modo che l’auto di scorta sbandasse dopo averla fatta rallentare. Qui la situazione è diversa.”

Era diversa perché il malcapitato agente si era ritrovato proprio sull’unica via di scampo che il ladro potesse usare. E quando questi era sopraggiunto, aveva estratto la pistola e sparato a sangue freddo, senza neanche prendere la mira. Il poliziotto ferito, Mal Evans, era stato molto fortunato, dal momento che era stato colpito alla gamba e si era subito accasciato a terra, lasciando via libera all’uomo.

Ora Mal si trovava nell’ospedale più vicino, trasportato con urgenza da un’ambulanza, ma fortunatamente non era in pericolo di vita.

“Quindi ci troviamo di fronte a un secondo Hermes?” domandò Linda.

“Sarebbe più giusto dire che siamo di fronte a un finto Hermes.” la corresse Paul, “Agisce con lo stesso stile, o quasi, sperando di farci credere che lui e Hermes siano la stessa persona, ma ormai abbiamo appurato che non è così.”

“Viene da chiedersi se questo delinquente e il vero Hermes siano in contatto fra loro.” aggiunse Richard, strofinandosi il meno con due dita, “Dopotutto abbiamo visto che il nostro uomo ha un complice.”

Paul sospirò, scuotendo vigorosamente la testa, “Lo ritengo altamente improbabile. Il complice di Hermes non agirebbe mai da solo e soprattutto in questo modo. Non ne avrebbe motivo.”

“Forse per depistare le indagini?” domandò l’ispettore capo.

“No, signore, da quello che ho potuto vedere in questi mesi, Hermes pensa solo ai suoi furti, li programma, colpisce e poi pensa subito al furto successivo. Non organizzerebbe mai qualcosa del genere con qualcuno che non ha certamente alcuna remora a usare una pistola.” spiegò Paul, incrociando le braccia sul petto.

“Bene, McCartney, se ne è davvero convinto, allora siamo tutti con lei.” commentò Richard, sorridendogli incoraggiante.

Paul gli rivolse un cortese cenno del capo, “Grazie, signore. Ora dovremmo pensare a un modo per catturare entrambi.”

“Sono d’accordo, e intanto faremo spostare la mostra nella sede di King Street.” aggiunse Richard, mentre si avviavano verso l’uscita dell’edificio, “Così potremo svolgere le indagini in tutta tranquillità, senza che il signor Pinault (1) venga a lamentarsi delle terribili ripercussioni che questo furto avrà sulla sua mostra.”

“Comunque…”  iniziò a dire l’agente Eastman, una volta raggiunte le volanti, “Non trovate strano che il vero Hermes non si sia ancora fatto vivo per rubare qualcosa da questa mostra?” 

“Ha ragione, agente Eastman, è molto strano. In fondo sono già diversi giorni che la mostra è aperta al pubblico e l’annuncio dell’asta è stato pubblicato ancora prima.” rispose Richard, aprendo la portiera dell’auto accanto al conducente, “Lei cosa ne pensa, McCartney?”

Paul non sapeva davvero cosa rispondere, non aveva assolutamente idea del perché il vero Hermes ancora non avesse annunciato un furto. In situazioni “normali” a quest’ora l’avrebbe già fatto.

Forse aveva capito che stava succedendo qualcosa di strano. O forse…

Paul ridacchiò divertito fra sé.

“Forse non gli piacciono i Guns’n’Roses.”

****

“Dio santo, quanto amo i Guns’n’Roses!”

Paul rise quando John esclamò questo. Erano nel retro del negozio, ma questa volta non suonavano loro.  John aveva sorpreso Paul e l'aveva convinto ad ascoltare un cd del gruppo statunitense, G N' R Lies, e quando era partita Patience, John si era lasciato scappare un verso di chiaro apprezzamento.

Paul era seduto nella sua solita postazione: gli piaceva ascoltare quel cd con John, ma la cosa più bella era osservare come quel giovane uomo fosse assorto nell’ascolto della canzone, come tenesse il tempo con la testa o il piede, come ogni tanto la cantasse o fischiettasse, insieme al cantante. Era uno spettacolo affascinante a cui assistere, gli sembrava quasi che John fosse molto più rilassato ora, più a suo agio con Paul. Non che prima, prima di quella chiacchierata, non lo fosse. Era solo che adesso la differenza era davvero palpabile. Forse era in John che sorrideva più spesso, oppure John che scherzava facilmente con Paul.

Ma che importava, in fondo? Erano tante piccole cose che rendevano il tempo passato con lui così piacevole.

John, dal canto suo, si sentiva anche lui così, così a proprio agio, come se conoscesse Paul da tutta una vita e non da pochi mesi. Questo nonostante stesse sforzandosi di mantenere comunque il controllo di se stesso. Aveva già messo in chiaro con la sua coscienza e soprattutto, con quel furfante del suo cuore, che doveva darsi un contegno e non lasciarsi andare in quella nuova, pericolosa amicizia. Un po’ sì, ma non troppo, sia chiaro.

E ci riusciva, ora, ricordando a se stesso che aveva un problema, un problema di nome “finto Hermes”, o fasullo, o impostore, o come diavolo si chiamava.

Chi caspita era questo nuovo arrivato? E perché stava sfruttando il suo nome in quel modo ignobile, impedendogli di compiere quel furto che John tanto agognava?

Dannazione, era stato così eccitato quando aveva capito di avere la possibilità di recuperare un cimelio di Slash, tanto che quando Paul gli aveva detto che avevano ricevuto un avviso di Hermes, dovette ricorrere a tutte le sue forze per non perdere il controllo e sbraitare e imprecare perché, cazzo, non era lui!

Così insieme a George avevano deciso di aspettare e vedere cosa fosse successo, e quello che era successo era una tragedia: il nome di Hermes infangato da un impostore che aveva addirittura ferito un agente con un colpo di pistola. John non poteva sopportarlo.

"È un bel cd." disse improvvisamente Paul.

John scosse il capo per destarsi dai suoi pensieri, "Cosa odono le mie orecchie? Il signor Paul Non-Ascolto-Più-Musica McCartney sta apprezzando il cd che ho scelto io?"

Paul rise, nascondendosi dietro la mano, "Sì, ma ora non cantare vittoria."

"No, ma così come io, da quanto mi hai detto, sono migliorato, anche tu stai facendo passi da gigante." esclamò John, avvicinandosi per sedersi di fronte a lui e guardarlo negli occhi, "Una volta ti saresti opposto alla mia proposta o ti saresti sentito male all'inizio del cd. Invece, guardati ora. Stai benissimo."

John lo indicò con un sorriso fiducioso e Paul arrossì lievemente, mentre il suo cuore sussultò alla realizzazione che John aveva appena messo di fronte a lui: non ci aveva mai fatto caso prima, ma Paul non stava male ora, anzi.

Non aveva palpitazioni di angoscia, ma di gioia; il respiro non era agitato, ma tranquillo.  Andava davvero tutto bene.

“Sì, è vero.” disse Paul, annuendo, “Ma è merito tuo, sai, da solo non ce l’avrei mai fatta.”

Poi sorrise verso John, il quale senza pensarci, allungò una mano per appoggiarla sopra quelle intrecciate di Paul. Erano così calde, così forti, e John le sentì sulla propria pelle, prima di poterle vedere. E...

Che diamine, che cosa ci faceva la sua mano lì?

Veloce come le aveva raggiunte, John allontanò subito la sua mano da quelle di Paul, alzandosi per tornare allo stereo e spegnerlo.

“Allora come…” iniziò a dire, schiarendosi la voce improvvisamente secca, “Come è andata a lavoro? Ho letto che c’è stato un risvolto inaspettato.”

“Oh, sì, è andata proprio così. Questo furto non è opera del nostro uomo.” commentò Paul, abbandonandosi allo schienale della sedia.

“Chi è allora?” domandò John e si voltò per guardare Paul con occhi indagatori.

“Non lo so.” rispose lui, scrollando le spalle, “Ma so quello che non è, e non è Hermes.”

“Come fai a esserne così sicuro?”

“Ne sono sicuro perché ormai ho capito Hermes, o almeno il suo stile. Lui non avrebbe mai sparato a uno dei miei uomini.”

John si ritrovò a sorridere nuovamente. Tuttavia, se una volta questo sorriso sarebbe stato di sfida, perché Paul non avrebbe mai e poi mai potuto capire appieno Hermes, ora invece era un sorriso di gratitudine, un sorriso compiaciuto, perché Paul sapeva che lui, o perlomeno Hermes, non si sarebbe comportato in quel modo.

“La tua sembrerebbe quasi un’affermazione di rispetto verso quel ladro.” commentò John, mantenendo quel sorrisino sulle sue labbra.

Paul spalancò gli occhi, sorpreso, anzi, profondamente turbato dalle parole di John, “Rispetto? Verso un ladro? Spero che tu stia scherzando, John.”

“Intendo dire, rispetto verso quella parte del suo stile, non verso il suo essere ladro.” ribatté John, “In fondo, non ha mai fatto del male a nessuno.”

Paul lo fissò, aggrottando la fronte con perplessità, “Resta comunque un delinquente, non porterò mai rispetto per una persona così.”

La sua promessa suonò stranamente malinconica per John, fu come una piccola dolorosa stretta al cuore, perché ora sapeva che una parte di lui voleva essere davvero amica di Paul. Invece quelle parole mostrarono un così chiaro e categorico rifiuto che John rimase in silenzio per un istante, a fissare Paul, cercando di capire cosa fare e dire ora, cercando di far acquietare quei due lati di se stesso che per la prima volta entrarono in conflitto.

"Beh, in fondo si tratta solo di ladro. Non devi certo diventare amico suo." scherzò John con una risata nervosa.

"No, infatti."

"Gli amici sono altri."

“Gli amici sono altri.” ripeté Paul, e si lasciò scappare un sorriso, che ebbe lo straordinario risultato di mettere pace al conflitto interiore di John.

C'era qualcosa di così forte e allo stesso tempo dolce in quel giovane. Era un mix pericoloso, con un potere immenso, e John fu molto sorpreso nel comprendere appieno che effetto avesse su di lui.

"Caspita!” esclamò all’improvviso Paul, quando il suo sguardo cadde sull’orologio, “È tardissimo."

"Tardi per cosa?" domandò John, incuriosito.

"Devo dare da mangiare a Pepper e telefonare a Jane prima che parta per Parigi."

John batté le palpebre, sorpreso, “Parigi?”

"Sì.” sospirò Paul, rendendo più che evidente il suo dispiacere per questa partenza, “Ora è in Scozia per girare uno sceneggiato per la BBC, ma devono trasferirsi in un set allestito in Francia. Sembra che si tratti di una co-produzione anglo-francese."

"È piena di lavoro questa ragazza." commentò John, incredulo, “Beata lei.”

Paul sorrise malinconicamente fra sé, mentre si alzava in piedi, "Sono contento per lei. La sua carriera sta andando alla grande. Se lo merita perché ha lavorato tantissimo per arrivare a questo punto."

"Da quanto tempo non la vedi?" domandò John, non credendo di averlo chiesto davvero.

Gli interessava così tanto quell’aspetto della vita di Paul? E soprattutto, perché gli interessava?

"Dal mio compleanno."

Ah, ecco perché. Come diavolo faceva a stare così a lungo lontano da lei? E come faceva Jane a non pensare di passare a trovarlo più spesso? Che razza di relazione era mai questa?

"È tanto tempo." gli fece notare John.

Paul annuì, perdendo il proprio sguardo sul pavimento, "Lo so, ma la capisco. E poi se io avessi avuto un lavoro normale, avrei potuto prendermi dei giorni di ferie per andare a trovarla, ma per ora non posso assentarmi da Londra."

John annuì, mordendosi il labbro. Ci mancava solo che fosse colpa sua ora, questo rapporto decisamente freddo tra Paul e Jane.

"E quando dovrebbe tornare?"

"Penso che dovrà stare lì almeno per un mese."

"Non pensi mai che lei potrebbe..." disse John e terminò facendo un vago gesto con la mano, che Paul evidentemente non capì, perché gli rivolse uno sguardo di pura perplessità.

"Lei potrebbe cosa?"

"Beh…” iniziò a dire John, scrollando le spalle, “Lontana da te, potrebbe conoscere qualcun altro."

"No.” protestò accorato Paul, “Non lo farebbe mai. Siamo lontani e non ci vediamo spesso, è vero, ma non mi tradirebbe mai."

"Scusami, Paul.” disse John, alzando le mani, “Non volevo intromettermi. È solo che, anche se è così impegnata, se ti amasse davvero, farebbe di tutto per poter passare più tempo con te."

Paul sussultò lievemente quando udì quel “se ti amasse davvero”, e cercò di non darlo a vedere, "Ti ringrazio per esserti preoccupato per me, ma fidati, John. Lei mi ama."

"Tu la conosci meglio.” sospirò John, rivolgendogli poi un sorriso rassicurante, “Quindi sarà sicuramente così."

"Sì.” mormorò Paul, annuendo più a se stesso che a John, “Sì, è così. E ora perdonami, ma devo proprio scappare."

"Certo. Non sei arrabbiato, vero?" si affrettò a chiedere John, balzando in piedi.

"Figuriamoci." rispose Paul, sorridendogli, "Perché dovrei esserlo?"

"Beh, perché ho insinuato certe cose su te e Jane e ora capisco che non ne avevo alcun diritto."

"Ma stai tranquillo, John.” lo rassicurò Paul, “Piuttosto, pensa a studiare il brano che ti ho assegnato oggi. La prossima volta ti interrogo."

Dopodiché gli fece l'occhiolino, prima di salutarlo e sparire attraverso la tenda. John rimase fermo al proprio posto, ascoltando Paul che salutava brevemente George e poi usciva dal negozio. L’istante successivo il suo amico e compagno di avventure lo raggiunse nella stanza.

"Dunque... Abbiamo a che fare con un finto Hermes?" chiese George.

"George, dovresti fare qualcosa per questo tuo continuo origliare, sai?" esclamò John, ridendo divertito, "Comincia a diventare inopportuno."

"E per quale motivo?” domandò George, accigliandosi, “Che segreti vi scambiate che io non posso sentire?"

"Niente, figurati, ma...” iniziò a rispondere John, ma poi si rese conto che la sua fosse stata un’affermazione decisamente sciocca, e sospirò, “Oh, lascia perdere. E pensiamo a questo finto Hermes."

"Cosa dobbiamo fare?"

"Non lo so. Per adesso possiamo solo aspettare la sua prossima mossa." commentò amaramente John, abbandonandosi sulla sedia.

"Come fai a sapere che agirà ancora?"

John intrecciò le mani sul grembo, voltandosi verso la finestra che dava sulla strada, "Lo so perché lui non è me."

 E da quella finestra, osservò Paul entrare in casa sua e poi chiudere la porta.

"Lo so perché sono io il vero Hermes."

****

Il Pinnacle, soprannominato Helter Skelter, era uno dei grattacieli più famosi di Londra. Aveva la forma caratteristica di uno scivolo a spirale, e con i suoi sessantatré piani spiccava indubbiamente nello skyline di Londra.

Le gallerie e gli uffici della casa d'asta Christie's erano in tutti gli ultimi dieci piani del grattacielo. Si trovavano letteralmente a un passo dal cielo. E se qualcuno, uno come Hermes o il suo doppione avesse provato a infiltrarsi per rubare qualche cimelio dalla mostra di Slash, beh, sarebbe caduto in una trappola. Praticamente non vi erano vie di fuga. A meno che uno dei due non fosse capace di volare.

Paul rise fra sé, ma che stava pensando? Nessuno poteva volare. No, questa volta non avrebbero rubato proprio nulla. Anzi, Paul sapeva che sarebbe riuscito a mettere le sue mani su Hermes. O perlomeno sulla sua brutta copia. Era arrivato un nuovo messaggio, la settimana prima, che avvisava la polizia di un altro furto che avrebbe colpito quella mostra così appetitosa. Non sapevano con certezza da chi potesse arrivare. Forse il vero Hermes aveva infine deciso di agire anche lui e recuperare un souvenir dalla mostra. Oppure era da parte di quello fasullo e Paul era assolutamente convinto di questa idea. Per quanto scaltro e insolente, il vero Hermes era anche prudente e non avrebbe rischiato di farsi arrestare per un soggetto che era già stato colpito una volta.

Ora Paul si trovava al penultimo piano del grattacielo e stava guardando dalla vetrata l'intera città di Londra stendersi sotto di lui, mentre il caldo sole estivo spariva lentamente all'orizzonte. Era una visione che metteva i brividi, e Paul ringraziò di non soffrire di vertigini, altrimenti quella sarebbe stata una vera impresa per lui, lavorare a 288 metri di altezza. Santo cielo!

C'era anche qualcosa che lo aiutava a… restare con i piedi per terra, per poter affrontare meglio il suo lavoro: era il portachiavi a forma di chitarra che rigirava in quel momento tra le sue mani, il portachiavi regalatogli da John. Sorrise al ricordo di quando John si era mostrato preoccupato per la sua difficile relazione a distanza con Jane. Era stato molto gentile da parte sua; preoccuparsi era qualcosa che facevano i veri amici e Paul non poteva che esserne felice. Sapere di avere il suo aiuto, il suo sostegno per affrontare la sua vita a Londra, con tutti i problemi che comportava, quelli di lavoro o la lontananza da Jane, rendeva tutto più sopportabile e anche più facile.

“Che carino.” esclamò una voce femminile accanto a lui.

Paul sussultò lievemente, per essere stato sorpreso nei suoi pensieri, e si voltò per vedere il bel viso di Linda fissare con interesse l’oggetto che aveva tra le mani.

“Oh, grazie.”

“E’ un portachiavi?”

“Sì, me l’ha regalato un mio amico. Come portafortuna.” aggiunse Paul, lasciandosi scappare una risata, mentre ricordava le parole di John.

“E funziona?”

“Per adesso non proprio, se devo essere sincero.” rispose Paul con un sospiro rassegnato, “Ma ce l’ho da poco, quindi, diamogli tempo.”

Terminò facendole l’occhiolino e lei ridacchiò, portandosi una mano davanti alla bocca.

“Beh, intanto ha fatto in modo che il nostro Mal sopravvivesse all’aggressione del ladro.” gli fece notare subito dopo.

“Hai ragione, è già un risultato.” ammise lui, sorprendendosi di non aver preso in considerazione quel particolare.

Se Mal fosse morto sarebbe stata innanzitutto una vera tragedia, e inoltre, Paul sapeva che la colpa sarebbe ricaduta su di lui, perché era il responsabile di quel caso.

Linda gli sorrise dolcemente, voltandosi meglio verso di lui ora, “Ho saputo che è andato a trovarlo in ospedale.”

Paul annuì, abbassando il capo e riportando lo sguardo sull’oggetto tra le sue mani, “Sì, l’altro giorno, con l’ispettore Starkey.”

“E’ stato molto gentile da parte sua.”

“Ho fatto solo quello che sentivo.” commentò Paul, scrollando le spalle, “Lui stava solo facendo il suo lavoro quando ha cercato di fermare il ladro, e noi rispettiamo lui e l’impegno che dimostra ogni giorno. La nostra visita voleva semplicemente dimostrare questo.”

“Sì, beh, ma…” iniziò a dire lei, avvicinandosi e appoggiando una mano sul suo avambraccio, “Altri non l’avrebbero fatto, perciò volevo solo dirle che io la rispetto molto, signore.”

“Grazie.” disse Paul, sottraendosi al suo tocco gentile per controllare l’orologio, “Sarà meglio ora che raggiungiamo tutti le nostre postazioni. È quasi l’ora X.”

Linda sospirò, prima di annuire, “Sì, signore.”

Paul la guardò andare via, ripensando alle sue parole: il portafortuna aveva funzionato?

Gli stava davvero dando un aiuto?

Paul non lo poteva ancora affermare con certezza, ma sentiva che in qualche modo l’avrebbe scoperto solo a fine serata, perché era ora sicuro che proprio quella sera avrebbe catturato almeno uno dei due possibili Hermes.

****

Il vento di quella sera di inizio luglio era piuttosto pungente.

Forse era dovuto al fatto che il sole fosse ormai tramontato da un paio di ore.

O forse, anzi, molto probabilmente era dovuto a quelle centinaia e centinaia di metri che separavano John dalla terra.

Stava letteralmente sorvolando Londra con un deltaplano e caspita, era davvero molto in alto. Aveva provato altre volte questa esperienza, ma ogni volta l’emozione di vedere quella città stendersi sotto il suo corpo perfettamente allineato con l’orizzonte faceva venire i brividi.

“John, pensaci bene, per favore.” disse all’improvviso la voce di George, dall’auricolare, “Sei ancora in tempo per cambiare idea.”

“Ho già pensato bene, grazie, George. E no, non voglio cambiare idea.” rispose John, sorridendo alla domanda dell’amico.

“Ma quell’avviso..” continuò George, “Potrebbe essere una trappola.”

“Un trappola?”

“Sì, non hai pensato che magari questa possa essere solo una messinscena della polizia per attirarti in quel cazzo di grattacielo e arrestarti?” gli fece notare George, particolarmente accorato.

“Oh, mio caro George, non hai sentito le parole di Paul?” sospirò lui, scuotendo il capo in rassegnazione, anche se George non poteva vederlo, “Perché avrebbe dovuto dirmi quelle cose, se fosse stata una messinscena?”

“Resta comunque un’azione pericolosa.” sbottò l’amico.

Sembrava stranamente agitato questa volta, ma John non aveva alcuna intenzione di ritirarsi e annullare tutta l’operazione.

“Dobbiamo venirne a capo, George. Non posso tollerare uno che agisca indegnamente usando il mio nome. È una questione di principio.”

Per non parlare del fatto che ormai fosse tardi per un ripensamento, dal momento che era quasi arrivato all’Helter Skelter. Aveva deciso di arrivare dall’alto perché sicuramente nessuno avrebbe immaginato che Hermes potesse calarsi dal cielo.

“Oh, John.”

“Fidati, andrà tutto bene.” lo rassicurò John, “Sono o non sono il famigerato Hermes?”

George sospirò, “Sì.”

“Bene, allora, rilassati ora, amico mio, stiamo per entrare in azione.”

“Cerca di stare attento.”

“Non ti preoccupare.” ribadì John con tutta la tranquillità che poteva recuperare dentro di lui, “Pensa piuttosto a essere qui al momento giusto.”

“Ci sarò.”

John sorrise fra sé, e poi finalmente si preparò all’atterraggio. Inclinandosi lievemente da un lato, fece un giro di ricognizione per avere un idea di come fosse il tetto. Di sicuro, non era un tetto fatto per un atterraggio di questo tipo. Ma d’altra parte, chi mai avrebbe potuto progettare una pista d’atterraggio su uno dei grattacieli più eccentrici di Londra?

Infine decise di calarsi definitivamente e appena giunto in prossimità del tetto, allungò le gambe per frenare. Peccato che appena toccato il suolo con i piedi, inciampò e franò a terra. Un sonoro crac gli comunicò che aveva appena rotto la punta destra del deltaplano.

Porca put-”

Tutto a posto, John?” domandò George.

“Sì, sì, tutto a posto. Solo un...” iniziò John, alzandosi in piedi e pulendosi i pantaloni, “Un sassolino che mi ha fatto inciampare.”

“Un sassolino? Come c’è finito un sassolino a 300 metri sopra Londra?” domandò George, ridendo.

“Non ho tempo ora per le tue domande esistenziali, George.” gli fece notare, slacciando tutta l’imbracatura che lo legava allo strumento di volo.

“Come vuoi, ma sei sicuro di stare bene?”

“Sto bene, George, mai stato meglio di così.” lo tranquillizzò John, “Adesso cerco l’apertura del condotto di aerazione e poi siamo dentro.”

“Indossa la bandana, non si sa mai cosa possa accadere.”

“Sissignore, signore."

John, finalmente libero da corde e caschi e tutto l'equipaggiamento necessario per il volo, si stiracchiò e poi si concentrò sul tetto di quel grattacielo. La base era di forma rettangolare e solo un lato, uno di quelli più corti, era completamente esposto all'aria. Da uno dei due lati più lunghi partiva una vetrata concava che circondava l’edificio e si innalzava sempre più verso il cielo fino a terminare sul lato parallelo in una sorta di punta metallica. Proprio da quella parte c'era una piccola porta che con grande gioia, John scoprì essere aperta. Questa dava su una rampa di scale che molto probabilmente percorreva l'edificio in tutta la sua lunghezza. Sarebbe stata quella la sua via di fuga, se le cose fossero andate male. Di fianco alla rampa di scale, c'era l'ascensore ma era fuori questione usarlo. Sicuramente sarebbe stato sorvegliato con una telecamera e questa volta George non ne aveva il controllo.

E poi John lo vide, il condotto di areazione. Si avvicinò per esaminarlo: non sembrava particolarmente stretto. John poteva passarci in tutta tranquillità. Ok, non era un fuscello e qualche chilo in meno sarebbe stato ben accetto, ma non era neanche così grosso.

Ridestandosi da quei pensieri che erano più adatti a una palestra piuttosto che al luogo di un furto, John si apprestò a rimuovere la grata che chiudeva il condotto di areazione e lo appoggiò per terra senza far rumore. Poi sistemò la piccola sacca che portava sulle spalle, spostandola sul petto e si arrampicò dentro.

Lo spazio era decisamente angusto e claustrofobico, ma era importante che lui restasse calmo e che respirasse tranquillamente per non farsi prendere dal panico. Insomma, anche il grande Hermes poteva lasciarsi andare a queste crisi e rovinare tutto. Poteva essere scaltro e sfrontato quanto voleva, ma era pur sempre un essere umano con i suoi punti deboli.

Quando si convinse che non c'era motivo per cui dovesse agitarsi (e ci riuscì ricordando a se stesso cosa lo aspettava un paio di piani più in basso), cominciò ad avanzare cercando di fare meno rumore possibile, strisciando con movimenti felpati e facendo attenzione a non urtare contro le pareti.

Arrivato in fondo al cunicolo, si fermò e si sedette. Il condotto proseguiva in verticale verso il basso e non se ne vedeva la fine. John aprì la sua sacca e ne estrasse un congegno tecnologico che aveva portato con sé proprio per questa fase del piano: era una sorta di bobina che lo avrebbe aiutato a calarsi nel condotto. Lo attaccò sulla parete superiore e poi tirò l'estremità con il moschettone per agganciarlo alla cintura in vita. Con un paio di strattoni violenti si assicurò che il congegno con la bobina sostenesse il suo peso e poi, sentendo un tuffo al cuore, si lasciò andare nel vuoto.

Imprecò mentalmente, mentre allontanava qualunque timore per quella situazione precaria, cercando di non pensare che se il congegno avesse ceduto, lui sarebbe stato un uomo morto e Julian un orfano di padre. Così si appoggiò con la schiena ad una parete e puntò i piedi ben saldi dalla parte opposta, prima di iniziare la sua lenta e attenta discesa. Oltrepassò il cunicolo che si stendeva sopra l'ultimo piano del grattacielo. Era già a metà strada e per ora stava andando tutto bene. Ottimo.

Proseguì verso il basso, mentre le mani sudavano copiosamente e il cuore batteva forte nel petto, echeggiando nel condotto stretto e silenzioso. Imbecille, così li avrebbe fatti scoprire.

Fortuna che ormai era arrivato. Si arrampicò dentro il secondo cunicolo incontrato nel tragitto e quando fu al sicuro, sganciò il moschettone dalla cintura, accompagnando il gesto con un sospiro di sollievo.

Strisciò nuovamente in silenzio, pensando che proprio sotto di lui vi era la più grande mostra di cimeli che avesse mai visto. In altre occasioni sarebbe stato difficile scegliere, ma trattandosi di Slash, John sapeva bene cosa rubare: una delle sue famose tube che indossava sopra quei ricci neri e indomabili.

C'era solo un problema.

Qualcuno era arrivato prima di lui.

La grata sul lato del condotto sopra cui stava scivolando John era già stata rimossa e appoggiata di lato.

E John sapeva che potesse trattarsi solo di quell'impostore.

Si morse il labbro, pensieroso. Era rischioso, dal momento che questo finto Hermes poteva essere aggressivo anche verso di lui, ma John non avrebbe permesso che quella sua farsa continuasse a infangare il suo nome.

Presa la sua decisione, si chinò e cercò di dare un'occhiata a cosa stesse accadendo all'interno della stanza. Questa era ben illuminata e per la miseria, quante cose meravigliose c'erano: vestiti, ciondoli, catene, chitarre, miniature di dinosauri e...i cappelli a tuba!

John notò anche una piccola porta secondaria dalla parte opposta a quella principale e lì, di fianco, tre guardie legate, imbavagliate e addormentate in angolo. Probabilmente il suo doppione li aveva fatti fuori con qualche gas soporifero.

Poi John lo vide. Era un uomo alto e snello, indossava una felpa col cappuccio, proprio come John e sul volto aveva una bandana. Stava aggirandosi fra le tube e ne aveva adocchiata una che John sperava di poter trovare: una tuba nera completamente rivestita da borchie.

Quando l'uomo allungò una mano per toccarla, John non esitò. Sollevò sul viso la propria bandana e si tuffò nella stanza.

"Fermo dove sei."

L'uomo si bloccò per un istante con la mano a mezz'aria, prima di sorridere e voltarsi verso di lui.

"Speravo venissi, caro il mio Hermes."

John batté le palpebre in confusione, mentre l'uomo lo fissava con uno sguardo eccitato e un sorriso soddisfatto che sicuramente si trovava al di là della bandana. Sembrava molto giovane, forse coetaneo di John, ma non c’era tempo da perdere in queste riflessioni. John doveva sapere.

"Chi sei?"

"Mi chiamo Brian Epstein.” rispose l’uomo, “E sono un tuo ammiratore."

"Un ammiratore?"

Brian annuì lentamente, chiudendo gli occhi per un istante, "Sì. Ti seguo dai tuoi primi furti. Sei una creatura straordinaria, Hermes. Il tuo stile mi fa impazzire: sei geniale, astuto e riesci a farla franca, nonostante la polizia sia sempre lì ad aspettarti."

"Stai scherzando?" domandò John, quasi ridendo per l’assurdità delle sue parole.

Come poteva un uomo qualunque provare ammirazione per un delinquente come lui?

Insomma, ovviamente John sapeva di essere un grande in quello che faceva, ma non avrebbe mai pensato di avere degli ammiratori. Uno che sembrava anche molto strano da quello che lui poteva vedere.

"Come potrei scherzare ora che finalmente sto parlando con te?! Sono così felice che tu ti sia accorto di me, non puoi immaginare quanto."

John spalancò gli occhi. Le parole di Brian lasciavano intendere che...

"Aspetta, mi stai dicendo che hai organizzato tutto questo solo per attirarmi qui e incontrarmi?"

"Sì.” confermò Brian, lanciandogli uno sguardo di pura estasi, “Sapevo che se avessi iniziato a copiare il tuo stile, prima o poi saresti intervenuto."

"Ma... Perché?"

"Perché sei il mio idolo e volevo conoscerti e chiederti di permettermi di aiutarti nei tuoi futuri progetti." spiegò Brian, come se fosse qualcosa di così naturale, che John avrebbe dovuto accettare senza pensarci due volte.

Ma John aveva ben altre risposte in mente.

"Non se ne parla." gli disse, mentre si avvicinava al cappello che aveva intenzione di portare a casa.

Brian, totalmente preso in contropiede, lo guardò spalancando gli occhi, "Cosa? Perché? Ho imparato il tuo stile. Insieme possiamo fare grandi cose."

"Tu non hai imparato proprio un cazzo.” sbottò John, senza nascondere tutta la sua irritazione, “Hai mandato in ospedale un poliziotto sparandogli alla gamba. Io non sono così. Non metto a rischio la vita di altre persone. Quindi te lo puoi scordare."

"Ma io-"

"Ma niente.” esclamò John, stringendo il cappello fra le mani e osservandolo con più interesse di quanto stesse dimostrando all’uomo dietro di lui, “Tu sei pazzo, sei completamente fuori di testa, lasciatelo dire e-"

Un rumore metallico, un rumore simile a una pistola che veniva caricata lo fece sussultare all'improvviso. John, con il cappello in mano, si voltò ritrovandosi con l'arma puntata in faccia.

Il suo cuore perse un battito e il silenzio assordante di quell'istante gli fece credere di essere già morto. Ma no, non era morto e poter sentire la risata sardonica di Brian era una prova sufficiente.

"Tu credi ora di poter rifiutare la mia proposta, e poi sgattaiolare via così, come se niente fosse successo?"

"Brian..."

"Non puoi farla franca. Sai, prima di venire qui ho pensato, 'Gli conviene proprio accettare la mia offerta, altrimenti sarò costretto a ucciderlo'."

Lo sguardo che Brian gli rivolse fu di pura follia e John si sentì sbiancare in volto, ma cercò comunque di restare calmo e prendere tempo.

"Non lo faresti davvero."

"Tu dici? In fondo ho già sparato a un poliziotto e ora tu sai la mia identità. Se non collabori con me, dovrò proprio premere il grilletto. E poi, a quel punto, io diventerò l'unico vero Hermes."

Dannazione. Le cose si mettevano male e John non poteva neanche sperare nell'aiuto di George; l’amico, con molta probabilità, stava ascoltando tutta la conversazione, incredulo, sentendosi incredibilmente impotente. Cosa poteva fare lui ora per John?

Tuttavia, l'aiuto arrivò dalla persona da cui John poteva aspettarsi tutto, tranne quello.

La porta della sala si spalancò e dentro irruppero tre persone, una delle quali era...

Paul!

"Fermi. Mani in alto!" esclamò il giovane ispettore, puntando una pistola che per John era mille volte più sicura.

Paul non avrebbe mai sparato ad altezza uomo. Ne era certo. Lui non era folle come Brian.

Ma ora John non poteva perdersi in tali sentimentalismi, doveva pensare piuttosto a come scappare e raggiungere il tetto. Si ricordò della porta secondaria che aveva visto dall'altra parte della stanza. Era un'incognita pericolosa, John non sapeva dove portasse, ma tutto era meglio dell'altra uscita.

Così più veloce di un fulmine, approfittando della distrazione momentanea di Brian, John scappò, correndo a perdifiato verso quella porta.

E mentre sentiva Brian imprecare e Paul ordinare ai suoi uomini di placcare l’impostore, John si accorse che la porta aveva una maniglia antipanico, e l'insegna verde e luminosa in cima indicava che quella fosse un'uscita di sicurezza.

Una sicurezza, certo, la sicurezza della salvezza di John.

La spalancò, stringendo bene il cappello nella mano, e spuntò sulla rampa di scale che aveva visto al suo arrivo. Era la sua giornata fortunata.

Si precipitò su per le scale, sentendo passi concitati dietro di lui che salivano gli scalini.

"George, ho davvero bisogno del tuo aiuto ora."

"Sto arrivando e comunque, ti ho già aiutato."

"E in che modo?” domandò John, il respiro già affannato, “Perché non me ne sono accorto."

"Ho mandato un sms a Paul da un numero riservato, avvisandolo che c'erano i due Hermes nella sala della mostra."

"Ah grazie, George. Un gran bell'aiuto." commentò John, senza poter nascondere il suo sarcasmo.

"Beh, sei ancora vivo o sbaglio?!"

Ma prima che John potesse rispondere, si udì due spari provenire dal qualche parte da dove era venuto lui, e John saltò per lo spavento. Cazzo!

Imprecò decisamente spaventato ora; non sapeva cosa fosse successo, né chi avesse sparato, ma lui continuò solo a correre incurante della fatica e del cuore che batteva come un forsennato.

"Ancora per poco, a quanto pare." esclamò John per informare George, ancora all’ascolto.

Finalmente arrivò in cima e si affrettò a raggiungere il tetto. Il deltaplano era fuori uso e di George neanche l’ombra.

"George, dai, cazzo. Muoviti." sbottò, sentendo tutti i muscoli del corpo fremere per l’agitazione.

"Ci sono, ci sono."

Ma ogni secondo sembrava per John un’ora di attesa. E quando qualcuno sopraggiunse dietro di lui, John si voltò, sentendo l'adrenalina scorrere nelle sue vene come un fiume in piena.  

"Fermati.” disse la voce di Paul.

Era una voce decisa e autorevole, ma aveva anche, stranamente, una punta di dolcezza e questo bloccò John al proprio posto.

“Arrenditi ora, sei in trappola.”

John osservò Paul che puntava la sua pistola contro di lui. La mano era ancora ferma, ma si vedeva su tutto il volto di Paul che lui non avesse alcuna intenzione di sparare.

“So che non sei stato tu, la scorsa volta, tu non avresti mai sparato a uno dei miei poliziotti, vero?” domandò, avvicinandosi pericolosamente a John, “Se ti arrendi ora, mi assicurerò che non ricada tra i tuoi capi d’accusa.”

John non era proprio in grado di muoversi, Paul si avvicinava sempre più, ancora qualche passo e avrebbe potuto scoprire che l’uomo davanti a lui, Hermes, era proprio il suo amico John.

L’unica cosa che John potesse fare, era sperare nel tempestivo arrivo di George. Oppure in un altro tipo di aiuto, come l’arrivo di Brian, che sopraggiunse dietro Paul, strinse un braccio intorno al suo collo e lo colpì in testa con il calcio della pistola.

La testa di Paul ricadde in avanti come a peso morto.

Aveva perso i sensi.

****

C'era un dolore acuto che continuava a inviare impulsi fastidiosi ai suoi nervi e c'erano anche un ronzio in lontananza e un fischio insopportabile che risuonavano nella sua testa.

Strani rumori che si intrecciavano con una voce di uomo.

"Dammi quel cappello e unisciti a me. È la tua ultima possibilità."

"Altrimenti?" disse una voce soffocata.

"Altrimenti ucciderò l'ispettore."

Paul avrebbe voluto decisamente protestare a quella affermazione. Non aveva molta intenzione di morire, ma d'altra parte decise di non cercare di liberarsi, per evitare di far innervosire l'uomo e fargli perdere la testa. Era ancora una possibilità.

"E perché dovrebbe importarmi?"

"Perché come hai detto tu, non è nel tuo stile. Vuoi sconfiggerlo con la tua abilità, non uccidendolo. Ma se non accetti la mia offerta, gli sparo in testa e poi darò la colpa a te."

Paul sentì il cuore aumentare il proprio ritmo. No, doveva trovare un modo per liberarsi e salvarsi. Doveva trovare un aiuto, ma chi?

I suoi due uomini che avevano fermato l’impostore che fine avevano fatto? Avevano lasciato fuggire quell’uomo, allora forse era successo loro qualcosa? Forse quel finto Hermes aveva sparato anche a loro, e se fosse stato così, stavano bene ora?

E quanto impiegavano gli uomini dagli altri piani a venire in suo aiuto?

Non c’era nessuno che potesse aiutarlo in quel momento, a parte…

Ecco, forse qualcuno c'era: il vero Hermes.

Paul aprì gli occhi e subito incrociò quelli chiari della sua preda. Lo fissò intensamente e a lungo, cercando di trovare in lui un'umanità che Paul era sicuro lui avesse. Lo fissò come se volesse chiedergli di ricambiare quella fiducia che lui aveva riposto nel ladro, quando aveva subito rifiutato l'ipotesi che fosse stato lui a sparare a Mal Evans.

E l'altro uomo, suo nemico, capì.

"Va bene. Tieni." esclamò e lanciò verso di lui il cappello di Slash.

Questo cadde ai loro piedi con un rumore metallico dovuto alle borchie, e Paul sentì il falso Hermes ridere un po', mentre il ronzio nella sua testa divenne sempre più vicino. Quanto forte l’aveva colpito quel furfante?

"Ora di' che collaboreremo insieme e questo sbirro sarà salvo."

Paul osservò il ladro di fronte a sé, mentre si mordeva il labbro e chinava il capo.

Poi quel fastidioso ronzio divenne davvero assordante, sembrava un rumore di eliche, anzi, più precisamente, di elicottero. E pochi secondi dopo, dietro il vero Hermes, apparvero due fari accecanti che abbagliarono Paul. Lui chiuse gli occhi istintivamente e forse anche l'impostore fece la stessa cosa, perché Paul si sentì libero finalmente e cadde a terra.

Quello che accadde dopo fu qualcosa di estremamente concitato. Hermes si avventò sul suo doppione, atterrandolo e disarmandolo, lanciando la pistola il più lontano possibile dall’uomo.

Paul, ancora a terra, cercò di riacquistare parte della vista e riuscì a scorgere Hermes mentre colpiva in testa l'altro uomo, il quale perse i sensi.

Poi il ladro recuperò in fretta il cappello di Slash e lo indossò. E quando fece per andarsene, si voltò verso Paul e gli occhi si illuminarono, come se dietro quella bandana stesse sorridendo, beffardo. La sua mano si mosse verso il cappello, sollevandolo un po' mentre gli rivolgeva un profondo inchino. Restò in quella posizione per qualche istante, come se stesse aspettando qualcosa. Paul sbatté le palpebre confuso, incapace di muoversi: qualcosa lo tratteneva dall'alzarsi in piedi e arrestare l'uomo a cui dava la caccia da mesi, che ora era proprio lì, pronto per le manette e per lui. Ma quando il ladro si accorse che Paul non aveva intenzione di fare alcunché, alzò il busto e Paul, infine, lo guardò scappare. L'uomo si arrampicò su una scaletta che pendeva dall'elicottero, e subito dopo sparì inghiottito dall'oscurità della notte.

Paul scosse il capo, recuperando l’uso delle gambe e della vista, e si alzò in piedi ancora un po' intontito. Mentre sentiva rumori provenire dalle scale, si mosse verso il finto Hermes e lo bloccò con le manette ai polsi. Ce l’aveva fatta. Aveva arrestato almeno uno dei due delinquenti a cui dava la caccia, quello che senza dubbio era il più pericoloso.

Poi, finalmente, fu raggiunto dai rinforzi.

“Sta bene, signore? Cos'è successo? Quale dei due è questo?”

Erano tutte domande giuste in quel momento.

Eppure in quel momento, c'era una questione più importante per cui Paul non poteva che tormentarsi.

Questo non era stato un furto come altri fra quelli di Hermes.

Questa volta era stato diverso.

Hermes non era scappato.

Paul gli aveva permesso di scappare.

E volente o nolente, era una differenza importante.

 

(1)- Il signor François-Henri Pinault è il figlio del magnate francese François Pinault, proprietario della casa d’asta Christie’s.

 

Note dell’autrice: hola! Eccoci qua, oggi è venerdì, e quindi giorno di aggiornamento.

Allora, questo capitolo è un po’ sovrannaturale. Ho cercato di rendere tutto molto realistico, ma non credo di esserci riuscita. L Comunque la casa d’asta Christie’s esiste davvero, così come il grattacielo che è davvero soprannominato Helter Skelter. Ovviamente tra i molti grattacieli di Londra, non potevo non scegliere questo. ;)

Inoltre, Slash ha davvero messo all’asta tutti quegli oggetti per beneficienza. E sì, c’erano anche i dinosauri. xD

Tutto il resto è inventato.

Ho inserito anche Brian, mi sembrava adatto a essere il fanatico di Hermes. Cucciolo lui. :3

Bene, grazie a kiki per la correzione. Grazie a ringostarrismybeatle, per il supporto ma anche perché è merito suo se ho scelto i Guns’n’roses per questi due capitoli, e mi ha anche corretto il modo di scrivere del gruppo. Grazie a _SillyLoveSongs_ che mi incoraggia sempre moltissimo. :3

E grazie a paulmccartneyismylove, lety_beatle e ChiaraLennonGirl per le dolci parole.

Prossimo aggiornamento, “Good day sunshine”, venerdì prossimo.

Kia85

 

 

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Capitolo 12
*** Good day sunshine ***


I’ll get you

 

Capitolo 11: “Good day sunshine”

 

“Oggi devi fare il bravo bambino, Julian, ok?”

“Ma io sono sempre bravo, papà.”

John sorrise, mentre allacciava il giubbottino di jeans di Julian, pensando che suo figlio fosse davvero sveglio e che indubbiamente avesse ragione: era sempre un bravo bambino.

Quando la cerniera della giacchetta fu totalmente chiusa, John lo guardò soddisfatto e divertito. Stava benissimo con i vestiti nuovi che gli aveva regalato la mamma nell’ultima visita che le avevano fatto a fine giugno: indossava un bel paio di jeans blu scuro, abbinati al giubbino senza maniche, sotto cui vi era una maglietta bianca con una bella stampa di una chitarra elettrica e un fumetto con la scritta “Il mio papà spacca”.

“Hai ragione, amore, ma oggi ancora di più, va bene? Niente capricci. Se Paul dice che non puoi toccare la macchina o che è arrivato il momento di andare, noi obbediamo e ce ne andiamo, giusto?”

“Va bene.” rispose Julian distrattamente, dal momento che li aveva appena raggiunti il loro micio dal pelo tutto bianco e aveva iniziato a strusciarsi contro le gambe di Julian, strappando i suoi sorrisi.

John gli scompigliò affettuosamente i capelli e poi indossò la sua giacca, controllando di avere tutto il necessario nelle tasche: fazzoletti, portafogli, fotocamera, cellulare… sì, c’era tutto. Guardò anche l’ora: mancavano dieci minuti all’appuntamento con Paul alla stazione di polizia di Chelsea. Era decisamente il momento di avviarsi.

“Andiamo, Jules, di’ ciao ciao a Elvis.”            

“Ciao ciao, Elvis!” ripeté il bambino, accovacciandosi per regalargli un’ultima carezza sulla testolina, "Torniamo presto, quindi stai tranquillo."

Poi John prese la sua mano e insieme uscirono di casa.

Era il pomeriggio di una bellissima domenica di luglio, il negozio di John era chiuso e lui stava andando con Julian verso il luogo in cui lavorava Paul, perché l'ispettore aveva promesso che avrebbe fatto salire il bambino su una macchina della polizia. E quale momento migliore della domenica, quando molto agenti erano in servizio per strada e in stazione rimaneva solo un numero di poliziotti sufficiente a garantire qualunque emergenza?

Quando Paul aveva avanzato quella proposta qualche giorno prima, John aveva inizialmente rifiutato. L’idea di dover andare di sua spontanea volontà in una stazione di polizia non era poi così allettante. Una volta non vi avrebbe dato molto peso, ma ora, dopo quanto successo all’Helter Skelter, dopo essere stato quasi scoperto da Paul, le cose erano cambiate.

Non era sicuro di poter sopportare ancora la pressione di essere circondato da agenti di polizia, o la visione di Paul, il suo amico Paul, nelle vesti di quell’ispettore che compariva sempre per dare la caccia al suo alter ego.

Eppure aveva accettato per fare felice Julian e perché era sicuro che sarebbe stato lui, come sempre, a dargli un appiglio, a rendere tutto più facile. Era il suo angelo, dopotutto.

Così quando arrivarono di fronte alla stazione di polizia, in Walton Street, John si fermò un istante e fissò l’edificio in stile Vittoriano. Era così imponente e austero, incuteva timore solo con quella sua facciata rigorosa.

“Siamo arrivati?” chiese Julian, notando che il padre non avesse intenzione di muoversi.

John si ridestò, sentendo la voce del figlio, e abbassò il capo per guardarlo, “Sì, siamo arrivati. Hai visto quante macchine della polizia?”

Indicò con una mano le auto che erano parcheggiate proprio lì di fronte e Julian sorrise felice, quando le vide, una dietro l’altra, tutte belle scintillanti, con le loro sirene sui tettucci e le strisce catarifrangenti sulle fiancate.

“Possiamo vederle subito?”

“Eh no, prima andiamo a vedere cosa fa Paul, così poi sarà lui a farti salire su una di queste, ok?”

“Ok.” concordò lui tranquillamente.

John strinse più forte la mano di Julian e dopo aver attraversato la strada, finalmente i due si ritrovarono all’ingresso dell’edificio. Salirono velocemente i gradini della breve scalinata che conduceva all’interno e poi furono inghiottiti dal trambusto della stazione di polizia: telefoni che squillavano in continuazione, agenti che si affrettavano da una parte all’altra, pieni di documenti, e-

“Paul!”

Il giovane ispettore era appena passato davanti ai loro occhi. Sembrava particolarmente indaffarato, ma John lo chiamò senza neanche rendersene conto, quasi fosse stato più forte di lui. E Paul si voltò, riconoscendo e avvicinandosi subito ai due Lennon.

“Ehi, ciao, siete arrivati.” esclamò, sorridendo a John e poi, chinandosi per una carezza ai capelli di Julian.

“Sì, abbiamo scelto un brutto momento?” domandò John, incerto.

“Oh, no, no, cioè, più o meno." si affrettò a spiegare Paul, "Pensavo che non ci sarebbe stato molto da fare, visto che è domenica, ma naturalmente non è andata come speravo.”

“Cos’è successo?”

“Uno scontro frontale vicino al Chelsea Physic Garden, un paio di ore fa." sospirò Paul, "Sono stati coinvolti anche diversi veicoli, per cui ho dovuto mandare un paio di squadre ad aiutare con il traffico, mentre i paramedici prestavano soccorso ai feriti.”

“Quanto è stato grave?” chiese John interessato.

“Non molto, per fortuna non ci sono state vittime. Adesso stiamo aspettando che rimuovano le vetture incidentate per sgomberare la strada.”

John annuì, comprendendo pienamente la situazione, “Se sei impegnato, possiamo tornare un altro giorno.”

“No, il mio turno sta per finire e poi arriva il capo, per cui sono libero.” esclamò Paul, fiducioso, “Perché non mi aspettate nel mio ufficio? Arrivo tra cinque minuti.”

“D’accordo. Dove-?” iniziò a dire John, ma Paul subito lo interruppe.

Si avvicinò di un passo verso di lui, per indicargli l’ultima porta a destra in fondo al corridoio che si stendeva di fronte a loro. Poi disse loro di accomodarsi pure, mentre lo aspettavano, e sparì dietro una porta, in un ufficio dove il telefono squillava prepotentemente.

John prese un profondo respiro: quel corridoio era stretto, o forse erano i poliziotti che continuavano a passare in quel tratto a renderlo stretto. Una situazione potenzialmente claustrofobica.

Decise di poter attraversare quel corridoio solo in un modo: prendendo in braccio suo figlio. Era la sua ancora, il bastone a cui aggrapparsi quando non aveva energie, era lo scudo che lo proteggeva da qualunque male, era forza, era coraggio, era amore.

E con Julian stretto tra le sue braccia, John si inoltrò in quel corridoio che sembrava oh, così lungo, quasi interminabile, ma alla fine arrivò in fondo e quando vide la porta aperta dell’ufficio di Paul, entrò velocemente e si lasciò andare in un grande sospiro di sollievo.

L’ufficio di Paul non era molto grande. C’era una scrivania a forma di L accostata al muro dal lato più corto. Sopra vi erano appoggiati un computer con una stampante e un telefono. L’altro lato della stanza era interamente coperto da librerie i cui scaffali erano pieni zeppi di raccoglitori di ogni dimensione, anch’essi traboccanti di documenti.

John si sedette di fronte alla scrivania, insieme a Julian.

“Bene, allora, Jules, adesso non dobbiamo toccare nulla, ok?” lo mise in guardia John.

“Sì, papà.”

John lasciò andare il bambino che si arrampicò sulla sedia accanto a lui. Poi il suo sguardo cadde sulla scrivania di Paul: oltre a svariate cartellette contenenti documenti di lavoro, vi era una piccola targhetta proprio di fronte a lui, in ottone, che riportava in caratteri più scuri, J.P. McCartney.

J stava per James. Ovviamente Paul non glielo aveva detto, portare lo stesso nome di suo padre non doveva essere cosa gradita per lui, ma John l’aveva saputo: Jim gli aveva spiegato che tramandare il nome del padre al primogenito fosse un’usanza molto frequente nella sua famiglia.

Il suo sguardo cadde poi su una cornice che era in un angolo della scrivania. John era certo riguardo chi avrebbe trovato all’interno, ma allungò comunque la mano per afferrarla. La foto ritraeva una ragazza incredibilmente bella, con lunghi capelli rossi, in una posa un po’ sfacciata, con le mani sui fianchi, il viso sollevato all’insù e il naso arricciato: Jane Asher, la fidanzata di Paul.

Beh, John l'aveva già vista in altre occasioni, in televisione o nei giornali esposti quando andava in edicola.

Era senza dubbio perfetta per stare accanto a Paul, entrambi giovani, entrambi belli... Eppure qualcosa gli faceva storcere il naso. Ancora non comprendeva come quella relazione potesse andare avanti. Ovviamente Paul era innamorato, ma rischiava di essere una relazione con un attaccamento a senso unico. Non che Jane non lo amasse, ma-

"Papà, hai detto che non dovevamo toccare niente!" lo rimproverò Julian.

John sussultò e poi, rendendosi conto che il bambino avesse ragione, sistemò la cornice al proprio posto, lasciandosi scappare una risata.

Si concentrò allora su quelle cartellette proprio di fronte la sedia di Paul. Tra tutti i documenti c'era anche un quotidiano che spuntava sotto tutto il resto. Sembrava aperto su una pagina di cronaca che riportava un articolo sull'arresto del finto Hermes.

Quante cazzate avevano scritto in quell'articolo! John l'aveva letto, come poteva lasciarselo scappare? C'erano complimenti a profusione verso Paul e la sua squadra per aver arrestato quell'impostore. Come se John non avesse nulla a che fare con quell'arresto. Poi però doveva riconoscere a Paul che fosse stato corretto, perché in una sua dichiarazione aveva ammesso di aver avuto un importante aiuto proprio da parte del vero Hermes.

Forse, ora, Paul lo odiava di meno.

Ma era davvero così importante, quello che Paul pensava del suo alter ego?

Sì, era importante, perché Hermes era parte di John ormai, così radicato dentro di sé, che forse lui non avrebbe più potuto farne a meno. Eppure, un giorno, chissà quanto lontano, sarebbe successo, non poteva continuare a rubare per tutta la vita.

Allora fino a quando? Fino a quando Paul non fosse stato sollevato dal suo incarico? O prima? Ma prima quando?

“Eccomi qui.”

La voce di Paul lo fece quasi balzare sulla sedia. John era così immerso nelle sue innumerevoli, infinite domande, che neanche si era accorto dei suoi passi che si avvicinavano, ma fu felice che il suo arrivo l’avesse distolto da quei pensieri che non portavano da nessuna parte.

“Ti ho spaventato, John?” domandò Paul, divertito.

“Oh, no.”  mentì lui, voltandosi verso Paul, e dandosi una sistemata, “No, ero solo sovrappensiero.”

Paul rise dolcemente, prima di rivolgersi a Julian e porgergli una mano, “Allora, piccolo, vogliamo andare?”

"Sì!"

John guardò il bambino balzare a terra entusiasta e raggiungere Paul, il quale lo prese per mano e si voltò poi verso l’altro uomo, "Vieni anche tu, John?"

"Ma certo." rispose e si affrettò a raggiungerli.

Paul chiuse a chiave il suo ufficio, quando uscirono, e condusse i suoi due ospiti dall'altra parte del corridoio. In quel momento, anche se John era di nuovo circondato da poliziotti, si sentì al sicuro, e questa volta non era solo grazie alla presenza di Julian.

Era anche grazie a Paul.

Paul lo faceva sentire in quel modo, come se niente di male potesse capitargli, come se fossero in quella sala del grattacielo e John avesse ancora una pistola puntata contro.

Ma no, si sbagliava, doveva sbagliarsi. Non poteva essere Paul, lo stesso che da qualche mese per lui significava tutto tranne che sicurezza. Ovviamente John era rimasto sconvolto da quanto accaduto con quel pazzo di Brian Epstein. Doveva essere questo a causargli tutti questi turbamenti, queste riflessioni, queste domande del cazzo!

Prima di uscire da una porta che dava sul cortile sul retro, Paul si fermò per un istante in una stanza. Entrò portando con sé anche Julian e John sbirciò all'interno, allungando il collo: c'era una ragazza in divisa alla scrivania, aveva capelli lunghi e biondi e un bel viso lentigginoso, ed era tutta intenta a compilare a mano una serie di documenti. Quando si accorse di Paul, si alzò in piedi, e Paul le disse gentilmente di accomodarsi.

Poi si avvicinò a una parete a cui erano appesi numerosi mazzi di chiavi e ne afferrò uno. La ragazza lo guardò sconcertata, soprattutto quando Paul prese anche il suo cappello appoggiato sulla scrivania, e portandosi un dito sulle labbra come a volerle dire ‘Acqua in bocca’, uscì.

John lo seguì in fretta ed emise un gran sospiro di sollievo quando furono finalmente all'aperto, con l’aria fresca, senza tutti quegli uomini e quelle donne che indossavano uniformi che proprio non volevano lasciarlo tranquillo.

"Wow!" esclamò Julian e John non impiegò molto tempo a capire il motivo della sua meraviglia.

Il cortile sul retro era pieno di macchine della polizia parcheggiate, in attesa di essere utilizzate. La maggior parte di esse erano le classiche auto che si potevano facilmente incontrare per strada.

"Ti piacciono?" domandò Paul, mentre li conduceva verso la macchina più vicina.

"Sì, tantissimo."

Julian, come faceva sempre quando era elettrizzato, si mise a correre e Paul cercò di stare al passo e contenere, senza successo, il suo entusiasmo. Quando raggiunsero l’auto, il bambino lasciò la mano di Paul e toccò il cofano, cercando poi John con lo sguardo.

"Guarda, papà, è come quella piccolina che mi ha dato la mamma."

John gli sorrise e annuì. Era davvero molto simile: un'elegante macchina bianca con le strisce catarifrangenti gialle e arancioni sulle fiancante e le sirene blu sul tettuccio.

"Ma in quella non puoi salirci, giusto?" esclamò Paul, facendogli l'occhiolino mentre apriva la portiera del conducente. 

Gli occhi di Julian brillarono e lui corse subito verso Paul, che nel frattempo si era seduto. John si avvicinò, appoggiandosi con la schiena alla macchina vicina, mentre osservava Paul che prendeva in braccio Julian e lo sistemava sul suo grembo.

"Possiamo andare in giro?" chiese Julian ansioso.

"Purtroppo no, ma possiamo stare qui per un po', come veri poliziotti."

Julian guardò il padre mettendo il broncio, e John gli rivolse un'occhiata emblematica, che gli ricordò l'avvertimento messo in chiaro prima di uscire. Niente capricci.

Il bambino sembrò capire e Paul cercò di tirarlo su di morale, "Sai cosa deve avere un vero poliziotto, Julian?"

"La pistola?"

Paul sbatté le palpebre, totalmente preso in contropiede, e guardò John che intanto rideva per la risposta sveglia del figlio.

"Sì, anche, ma soprattutto deve avere un bel… cappello!" esclamò Paul e sistemò rapidamente sulla testolina di Julian il cappello che aveva rubato alla bella ragazza di prima.

La risata cristallina di Julian riempì l'abitacolo della vettura, mentre lui cercava di guardare in alto il cappello. Tuttavia questo era troppo grande per lui e ricadde sul suo volto. Paul, divertito, lo aggiustò e guardò John.

"Ora che sei un vero poliziotto, fatti vedere da papà."

E mentre Paul lo faceva voltare verso John, Julian portò le mani sul cappello: come ogni bambino, anche lui doveva toccare per soddisfare la propria curiosità.

"Papà, come sto?"

John si morse il labbro nervosamente. Vedere quel capo particolare su suo figlio gli fece un certo effetto. Da una parte lo agitava tremendamente: sembrava proprio un piccolo poliziotto, pronto magari a dare la caccia a lui. Tuttavia, dall’altra parte, non poteva non trovarlo adorabile. Julian stava bene con tutto, anche con quel cappello.

"Stai benissimo, amore." disse infine.

Julian sorrise compiaciuto, prima di dedicare tutte le sue attenzioni a Paul che iniziò a spiegargli cosa fossero tutti quei pulsanti e quelle spie sul cruscotto oltre a cosa servissero la ricetrasmittente e la radio della polizia. John notò con piacere che il bambino fosse incredibilmente interessato e ascoltava in silenzio il giovane ispettore, il quale sembrava anch'egli coinvolto da quel compito così particolare.

Paul era felice. Lo si capiva da come sorrideva, dagli occhi che brillavano per la gioia, da tante piccole cose nel suo corpo che trasmettevano così tanti sentimenti positivi. John non sapeva a cosa fosse dovuto, non l'aveva mai visto così entusiasta di vivere. E quella visione era talmente unica che John non poté trattenersi dal prendere la sua macchina fotografica e scattare istantanee di quei momenti felici, fra Paul e Julian, mentre chiacchieravano e facevano finta di guidare per inseguire un malvivente, con le manine del bambino sul volante coperte da quelle dell'uomo.

“E questa…” continuò a dire Paul, portando una mano verso l’alto per indicare la plafoniera delle luci sopra al tettuccio, “E’ la sirena.”

“Quella che fa-” iniziò a chiedere Julian, facendo poi il verso della sirena della polizia.

“Proprio quella.” esclamò Paul con una risata deliziata.

“Posso sentirla?”

Paul aggrottò la fronte, incerto e dispiaciuto, “Beh, teoricamente non si potrebbe.”

“Poco poco, ti prego.”

“Julian, non insistere.” intervenne John con tono decisamente autoritario.

Il bambino chinò il capo assumendo un’espressione mogia, mentre Paul lo guardò titubante per pochi istanti prima di aggiungere, “Forse però possiamo accenderla solo per qualche secondo…”

L’espressione di Julian cambiò drasticamente, ma John si affrettò a protestare, “Paul, non c’è bisogno, se non si può, non fa niente, davvero.”

“Non ti preoccupare, per qualche istante non accadrà nulla, giusto, Julian?”

Il bambino si voltò verso di lui, annuendo e guardandolo ansioso, mentre Paul alzava una mano verso la plafoniera delle luci.

“Vi conviene però tapparvi le orecchie, se volete salvare i timpani.” esclamò Paul e una volta che John e Julian seguirono il suo consiglio, premette il pulsante della sirena.

Il suono che seguì fu in assoluto uno dei più acuti, penetranti e fastidiosi che John avesse mai sentito. Perciò schiacciò maggiormente le mani sulle orecchie, assicurandosi che anche Julian facesse la stessa cosa. La sirena risuonò nel cortile per qualche secondo, prima che Paul la spegnesse, ma il silenzio durò ben poco.

“E’ stato bellissimo!” esclamò Julian divertito.

“Cosa devi dire ora a Paul che è stato così gentile?” gli domandò dolcemente John.

“Grazie, Paul.”

“Non c’è di che, piccolo.” rispose Paul, accarezzandogli i capelli.

Poi, all’improvviso, una voce attirò la loro attenzione, “Signore, tutto bene?”

John guardò verso la porta da cui erano usciti pochi minuti prima: proprio lì c’era la ragazza in divisa che avevano visto prima, e guardava preoccupata verso di loro.

“Sì, Linda, tutto a posto.” esclamò Paul e con attenzione fece scendere Julian dalla macchina.

Chiuse a chiave la portiera dell’auto, recuperò il cappello dalla testa del bambino e si affrettò a raggiungere la giovane donna. John tenne Julian vicino a sé, mentre osservava Paul parlare con la donna e restituirle cappello e chiavi. Infine il giovane ispettore la salutò con un gran sorriso e tornò da loro.

“Allora, Julian, ti è piaciuta la nostra macchina?” domandò Paul, accovacciandosi per essere allo stesso livello del bambino.

Julian sorrise e annuì freneticamente, “Moltissimo.”

“Da grande saresti un perfetto poliziotto, lo sai?”               

John fece molta fatica a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo a quell’affermazione, ma in qualche modo ci riuscì. Julian come poliziotto? No, non l’avrebbe mai permesso, e non perché i poliziotti fossero suoi nemici, ma perché John aveva visto e vissuto sulla propria pelle quanto potesse essere pericoloso come lavoro. Non desiderava davvero che suo figlio corresse dei rischi per colpa di qualche folle come era capitato a Paul con Brian.

“Io però voglio fare il lavoro di papà.” rispose Julian e John ne fu così sollevato, che prese il bambino in braccio per stringerlo e baciarlo sulla guancia.

“Ecco, ben detto, Jules.”

“Beh, allora speriamo che sia più intransigente se qualcuno viene a rubare nel negozio.” commentò Paul, ricordando quanto accaduto nel primo incontro con John e ammiccando nella sua direzione.

“Sarà indubbiamente così.” ribatté l’uomo, ridendo dopo aver colto l’occhiolino di Paul, “Comunque, Paul, grazie mille per questa opportunità che ci hai dato oggi. Julian ci teneva molto.”

“Figurati, è stato un piacere.”

Paul sorrise dolcemente e John lo guardò solo per un istante, prima di parlare nuovamente e dire qualcosa che lo turbò non poco, “Senti, se non hai niente da fare, perché non vieni con noi a prendere un gelato?”

“Oh, sì, dai, ti prego.” intervenne Julian accorato.

Paul, sorpreso, osservò entrambi prima di rispondere con una risata.

“Se insistete…”

****

Il sole del pomeriggio era caldo, piacevole, dolce sul viso.

John e Paul erano seduti su una panchina, all’ombra di una grande quercia, mentre entrambi osservavano Julian che si arrampicava con altri bambini sui giochi del parco. Avevano appena terminato di mangiare il loro gelato, anche se a voler essere precisi, John aveva dovuto terminare quello di Julian, che appena accortosi di altalene, scivoli, dondoli e quant’altro nel parco, aveva subito perso tutto il suo interesse per il gelato ed era corso a giocare.

Ora John seguiva attentamente tutti i movimenti di Julian, controllando che non facesse passi falsi e quindi cadesse.

“Non gli togli gli occhi di dosso, vero?” domandò improvvisamente Paul.

John si voltò un istante per guardarlo, mentre scuoteva il capo, prima di tornare a controllare Julian, “Lo sai, non posso permettere che gli accada qualcosa, così come non posso permettere che accada qualcosa a me. Siamo solo in due, ormai, a prenderci cura l’uno dell’altro. Non posso abbandonare il mio bambino come ha fatto sua madre, e soprattutto non può lasciarmi anche lui. Non lo sopporterei.”

Paul si spostò sulla panchina, per voltarsi meglio verso John.

“Vedrai che non capiterà mai niente di simile, John, Julian è un bravo bambino e tu sei un ottimo padre.”

John sbuffò, come se trovasse l’ultima affermazione di Paul assolutamente ridicola.

“Sì, come no…”

“Dico sul serio, John, secondo me dovrebbero esserci più padri come te. La tua vita da genitore single non è facile, ma tu lo ami tantissimo e stai facendo di tutto per non far mancare nulla a tuo figlio. Il tuo impegno è così evidente, si nota chiaramente.”

John si sentì arrossire: non era abituato a ricevere complimenti, e riceverli da Paul sull’aspetto più importante della sua vita, era indubbiamente gratificante. Perciò si voltò ancora verso di lui e gli sorrise, questa volta soffermandosi un po’ di più a guardarlo negli occhi che trasmettevano così tanto coraggio e fiducia.

“Ciao, John.”  disse una voce, interrompendo quel contatto visivo.

John si voltò subito e Paul lo seguì con lo sguardo. Poco più in là, vicino alla scivolo sopra cui giocava Julian, c’era una donna che teneva per mano una bambina: la donna era minuta, con lunghi capelli neri, e la cosa che colpì maggiormente Paul, furono i lineamenti orientali del viso, lineamenti che si potevano intravedere anche sul volto della bambina, molto probabilmente sua figlia. La posa della donna trasmetteva molta insicurezza e timidezza, e John la salutò calorosamente con la mano e soprattutto con un gran sorriso. Lei parve compiaciuta per la sua risposta e gli rivolse un ultimo cenno del capo, prima di andare via con la bambina.

“Chi è?” domandò Paul sinceramente interessato.

"La mamma di una compagna d'asilo di Julian. Si chiama Yoko, mentre la bambina che era con lei è sua figlia Kyoko."

"Yoko?” ripeté Paul, “È giapponese?"

"Esatto.” rispose John, “Vive qui da un paio di anni. So che prima era negli Stati Uniti. Lì ha conosciuto il padre di sua figlia, si è sposata, ma dopo la nascita di Kyoko si sono separati perché le cose non funzionavano, e lei si è trasferita qui con la bambina."

"Capisco.” disse Paul, annuendo distrattamente, “Quindi è un genitore single anche lei."

John scrollò le spalle, "Che io sappia, sì."

"E tu vorresti..." iniziò Paul lasciando la frase in sospeso, nell’aria.

"Io vorrei cosa?" domandò John, aggrottando la fronte con evidente perplessità.

"Sì, dai, hai capito." tagliò corto Paul, sentendosi arrossire lievemente.

Non capiva bene il motivo di quel rossore, forse era solo perché quella era la prima volta che Paul parlava con lui di quell’aspetto della sua vita, e John non sembrava voler rendere la cosa più facile.

"No, non credo."

"Oh, insomma.” sospirò Paul, rassegnato, “Vorresti chiederle di uscire con te?"

John sbatté le palpebre assolutamente confuso. Non aveva mai pensato a questa opportunità. Forse perché non pensava di poter trovare qualcuno che potesse sostituire Cynthia sia per se stesso sia per Julian. E comunque non pensava di trovarlo frequentando altri genitori single. No, genitori single significavano altri problemi, problemi che potevano essere simili ai suoi, o anche più gravi, ma erano sempre problemi e John non aveva davvero voglia di affrontarne altri o addirittura farsene carico. Ne aveva già troppi per conto suo.

E a pensarci bene, non aveva neanche tempo da dedicare a una possibile relazione. Tra il negozio, il tempo trascorso con suo figlio, le lezioni con Paul e il suo secondo "lavoro"... Beh, sarebbe stato dannatamente difficile incastrare anche quest’altro tipo di impegno.

"No."

“Perché?”

“Non posso.” spiegò John.

“Ma non c’è stato più nessuno dopo Cynthia.” insistette Paul, “Non puoi continuare a stare da solo.”

“Un giorno, forse, ci penserò.” ribatté John, sperando di terminare al più presto quel discorso, “Ma ora anche se volessi, non avrei tempo.”

Paul sospirò, “Il tempo per queste cose si trova sempre, John.”

John sgranò gli occhi, voltandosi verso Paul giusto in tempo per ricevere uno dei suoi più sfacciati occhiolini.

“Ti hanno mai detto che sei proprio un rompiscatole?” gli domandò, trattenendo a fatica un sorriso.

Paul scoppiò a ridere e fece cenno di no con la testa.

John non sapeva perché in quel momento, proprio in quel momento pensò che quella che stava vivendo fosse davvero una splendida giornata.

“E tu?” domandò poi John.

“Io cosa?” ribatté Paul, diventando subito perplesso.

“Come mai sei così felice ultimamente?”

Paul inarcò un sopracciglio, molto compiaciuto, “L’hai notato, eh?”

“Direi che fosse impossibile non notarlo. Sprizzi gioia da tutti i pori. In effetti, sei tutto l’opposto di quando ti ho incontrato.” commentò John.

“Non è vero.” protestò Paul, mettendo il broncio.

“Sì, invece.” ribatté John,  divertito, “Eri molto serio e scostante, tutto abbottonato e riservato. E ora invece, sei così diverso.”

“Ed è un bene?”

“Certo, non trovi?”

“Sì.” rispose Paul, annuendo.

“Perciò volevo sapere per quale motivo tu fossi così felice.”

“Beh, in realtà è molto semplice." rispose Paul, chinando il capo e sorridendo perché John aveva notato il suo cambiamento, "Pochi giorni fa Jane mi ha detto che dopodomani sarà a Londra. Sta per uscire il film che hanno girato in America, quindi avrà delle conferenze e interviste e poi c’è la premiere qui. Sarà molto impegnata, è vero, ma almeno sarà con me.”

John annuì, “Capisco. Mi fa davvero piacere, Paul.”

“Ti ringrazio.”  affermò il giovane, “E poi ovviamente anche il lavoro ha influenzato.”

“In che modo?” domandò John, più interessato, e Paul lo guardò maliziosamente.

“Ho arrestato il finto Hermes, no?”

John rimase totalmente apatico per un istante, sorpreso di essere giunto così all'improvviso a un argomento tanto pericoloso per lui da trattare con Paul. Una volta sarebbe stato più sfrontato e felice di parlare con l'ispettore del suo lavoro. Tuttavia ora quel senso di colpa, perché ammettiamolo, di questo si trattava, rendeva tutta questa situazione più complicata, e John cominciò a pensare che gli stesse sfuggendo di mano.

"Oh sì, certo." si affrettò a rispondere, "L’ho letto sul giornale. Complimenti. È stata una gran bella svolta.”

“Grazie." esclamò Paul, sorridendo soddisfatto del complimento, "Non si tratta del vero Hermes, sai, ma sono comunque soddisfatto. Era molto più pericoloso.”

“In che senso?”

“Penso che abbia dei seri problemi di tipo mentale. E devo ammettere che se non fosse intervenuto il vero Hermes, a quest’ora potevo anche essere morto per colpa di quell’impostore.”

“Oh cazzo." commentò John, cercando di sembrare più sorpreso che poteva, "Quindi è vero che quel ladro ti ha salvato la vita?”

“Ecco…" iniziò a spiegare Paul, mordendosi il labbro, "Sì, in un certo senso, sì. Avrebbe potuto non farlo, ma l’ha fatto, credo proprio che l’abbia voluto fare. E poi io l’ho lasciato scappare.”

“L’hai lasciato scappare?”

Paul annuì, pensieroso, “Avrei potuto arrestare anche lui quella sera. C’è stato un momento in cui era proprio lì, di fronte a me e forse anche lui stava aspettando che io lo arrestassi. Ma poi io non mi sono mosso, sono rimasto fermo e così come lui ha voluto salvarmi, io ho voluto lasciarlo andare.”

“Beh, questo è strano. È davvero molto strano da parte tua.” constatò John impressionato.

“Lo so, e sono stato anche ripreso dall’ispettore Starkey per questo motivo, ma è stato più forte di me. Non potevo arrestarlo, non quella sera.” affermò Paul, scuotendo impotente il capo.

E quella sensazione di Paul di avere a che fare con qualcosa che non conosceva, qualcosa più grande di lui, fu ciò che spinse John a continuare quel discorso, pericoloso sì, ma mai così interessante.

“Perché?”

“Perché gli ero grato.” rispose Paul con certezza e sincerità.

“E quindi, ora che ti ha salvato la vita, lo odi un po’ di meno?”

Paul si morse il labbro, prima di guardare John, “Non lo so.”

John si accorse del suo turbamento e si maledisse per aver posto quella stupida domanda. Paul era così spensierato fino a pochi minuti prima che l’ultima cosa che John volesse fare era rovinare quello stato d’animo che lo rendeva così incredibilmente… bello!

Non che John lo trovasse affascinante come avrebbe potuto fare Jane, per carità, ma bello era la parola giusta da usare in quel caso. Era bello per come rideva, per come aveva scherzato con Julian e poco prima con John, era bello per ogni sua espressione.

Ecco. In quella bella giornata di sole, Paul per John era assolutamente bello.

Così John cercò di salvarlo ancora una volta, provando ad allontanare questa sensazione di incertezza che si era creata in Paul. Niente doveva rovinare quella giornata.

“Scusa, è una domanda stupida.” si affrettò a dire, “Non farci caso.”

“Ma-”

“Ma niente. Ora devi solo pensare ad arrestarlo, giusto? E visto che ci sei andato così vicino, penso che non manchi molto. La prossima volta andrà meglio.”

Coglione!

Ecco cos'era John.

Si diede tranquillamente del coglione e con un buon motivo. Cosa cazzo stava succedendo? Perché aveva detto quelle cose? Perché continuava a incoraggiare Paul contro il suo stesso bene?

Perché?

Non ne aveva motivo. Lui era il nemico di Hermes e John doveva pensare prima di tutto al bene del suo alter ego, non a quello di Paul.

Eppure c'era una risposta a quella domanda, una molto valida.

Il sorriso fiducioso che Paul gli rivolse subito dopo fu esattamente il motivo per cui John avesse detto tutte quelle cose. Ne era valsa la pena, oh sì.

John lo sentiva con ogni fibra del suo corpo, con il suo cuore che fece un piccolo balzo, sentiva che era stata la cosa giusta da fare, solo per vedere ancora quella bellezza in Paul.

“Grazie, John.”

E la realizzazione lo turbò non poco, anzi abbastanza da farlo sentire totalmente in imbarazzo.

"Prego." borbottò infastidito, non contro Paul, ma contro se stesso, "E non farlo mai più.”

“Cosa?”

“Lasciarmi rovinare una bella giornata come questa.”

Paul rise e John, prima che potesse arrossire ancora sotto il suo sguardo così pieno di gratitudine, amicizia, calore, tornò a controllare Julian.

“Lo sai, penso che potremmo migliorare ancora di più questa bella giornata.” commentò Paul, ritrovando tutto il suo entusiasmo.

“Come?”

“Perché non noleggiamo un film, prendiamo da mangiare del cibo spazzatura e andiamo a casa mia?” propose Paul.

“A casa tua?” domandò John, incerto.

“Sì, così vedrete che Pepper è ancora vivo.”

John si lasciò scappare una risata, “In effetti, Julian era preoccupato. E a me manca un po’ di buon cibo spazzatura.”

“Allora, ci stai?”

La felicità, la bellezza di Paul erano così contagiose che John non ebbe altra scelta.

“Se insisti…”

****

Le note di Beyond the sea risuonavano nel salotto, mentre i titoli di coda di Alla ricerca di Nemo scorrevano nel televisore.

Avevano scelto proprio quel film perché era il preferito di Julian, e John, sorridendo a mo' di scusa verso Paul, lo aveva accontentato, anche se a quanto pareva ormai sapeva anche lui tutte le battute del film. Dopodiché erano passati da McDonald's per comprare cheeseburger e patatine a volontà e infine avevano raggiunto la casa di Paul. Qui Paul, aiutato da Julian, aveva dato da mangiare a Pepper e mentre il bambino giocava con lui, i due uomini avevano sistemato la loro cena in salotto, davanti al televisore.

Avevano mangiato e poi riso e sofferto insieme ai personaggi del film, e ora che era finito, Paul sospirò soddisfatto. Non aveva mai visto quel film e doveva ammettere che gli fosse piaciuto. Quasi capiva perché a Julian piacesse tanto. In fondo lui era un po' come Nemo, che viveva con un papà affettuoso, premuroso e sì, decisamente ansioso. Forse John non lo dava a vedere come il papà di Nemo, ma Paul sapeva che John avrebbe fatto di tutto per Julian e che era allo stesso modo spaventato che potesse capitare qualcosa al bambino.

A quel pensiero, Paul si voltò alla sua sinistra e un sorriso nacque spontaneamente sul suo volto: Julian dormiva rannicchiato tra lui e John e anche quest'ultimo sembrava profondamente addormentato, la testa era ricaduta verso destra e la sua mano era appoggiata sulle gambe del bambino.

Paul si mosse appena per sistemarsi su un fianco e guardarli meglio. Era inutile dire che Julian sembrasse un angelo mentre dormiva. Dopotutto lui lo era sempre con quei capelli chiari e fini e quei lineamenti dolci. Mentre John... John dormiva così pacificamente che davvero non sembrava che potesse talvolta essere tanto arguto e beffardo da sveglio. Paul avrebbe voluto che John potesse essere sempre così tranquillo, come se non avesse problemi, nessuna preoccupazione sul futuro o su che tipo di padre fosse per Julian, su tutto insomma.

Avrebbe voluto che John potesse passare delle belle giornate come quella appena trascorsa per sempre. Lui lo meritava e Paul promise a se stesso che avrebbe cercato di contribuire, nei limiti delle sue possibilità.

Poi sospirando, Paul allungò una mano e cercò di scuotere dolcemente la spalla di John, sussurrando il suo nome.

Come risposta, John chiuse ancor di più gli occhi, mormorando in segno di protesta verso chiunque stesse cercando di svegliarlo. Ma Paul rise e insistette nel suo compito, fino a quando John non aprì i suoi occhi chiari che incrociarono subito quelli più scuri di Paul.

"Buongiorno."

John fece una smorfia assonnata e si tolse gli occhiali per stropicciarsi gli occhi.

"Che ore sono?" domandò con la voce impastata dal sonno.

"Quasi le dieci e mezza."

John sospirò e subito dopo non riuscì a trattenere uno sbadiglio, "Mi sono addormentato?"

"Sì, e non sei l'unico."

John guardò il bambino accanto a sé, notando che fosse sprofondato nel mondo dei sogni. Sorrise pensando che ora avrebbe dovuto portarlo a casa in braccio.

"Mi dispiace. Non siamo stati molto di compagnia."

Paul ridacchiò, mentre si alzava per andare a estrarre il dvd dal lettore.

"Non ti preoccupare." lo tranquillizzò, premendo il pulsante per spegnerlo, "Il film è finito esattamente nello stesso modo, e poi, dai, oggi è stata una giornata impegnativa."

"Sì." confermò John, prima di sollevare delicatamente il bambino tra le braccia e fargli appoggiare la testolina sulla sua spalla, "È stata anche una bella giornata."

"Dovremmo farlo più spesso." propose Paul, tornando a sedersi accanto a John.

Non riuscì a impedire a se stesso di guardarlo negli occhi, pensando però che forse aveva sbagliato a dire qualcosa del genere, perché… Beh, in realtà non sapeva davvero perché, c’era questa sciocca vocina dentro di lui che gli diceva che più stava con quell’uomo, più era sbagliato. Ma Paul aveva imparato a ignorarla, soprattutto perché John aveva quello sguardo magnetico che faceva sembrare tutto il resto completamente inutile e perché trovava sempre il modo di fargli capire che questo fosse giusto.

"Dovremmo." disse, mentre Julian si spostava appena per nascondere il viso nel collo del padre.

Paul sorrise e percepì lo sguardo di John su di sé, anche mentre cercava il telecomando per abbassare il volume del televisore che era ora sintonizzato sul canale ITV1. Non voleva certamente far svegliare Julian. Sembrava così beato e comodo tra le braccia di John, come se fosse nel posto più giusto per lui, come se-

“Ehi, ma quella non è Jane?” domandò John, tutto ad un tratto, e si aggiustò gli occhiali sul naso.

Paul fece scattare la testa verso l’alto e vide il volto della sua ragazza in tv.

"Che ci fa lì?" continuò l'amico.

Era quello che voleva sapere anche Paul. Ovviamente era normale che in tv parlassero di Jane ogni tanto, ma quella foto che era apparsa sullo schermo, faceva pensare a qualcosa di diverso.

Il presentatore del programma era seduto su un divanetto color cremisi, e sui monitor dietro di lui era proiettata la foto di Jane, con grandi occhiali da sole e un cappellino bianco con un fiorellino di stoffa sui lunghi capelli rossi. Paul conosceva quel programma: era un programma di seconda serata in cui si parlava di gossip sulle celebrità, e Paul aveva sempre pensato che lo mandassero in onda a quell'ora per conciliare il sonno dei telespettatori. Ma ora la questione era un'altra: perché stavano parlando di Jane?

“… proprio così, signore e signori, Jane Asher, la fidanzatina d'Inghilterra. Non fa parlare molto di sé, ma quando accade, diamine, se non lo fa in grande stile."

Paul continuava a non capire cosa stesse succedendo. Capiva solo che tra le risate del pubblico e John che continuava a lanciargli strani sguardi, si stava innervosendo.

"Sembra proprio che la bella attrice sia stata paparazzata a Le Havre, in Francia, mentre era in dolce compagnia.”

Ecco, ora cosa significava esattamente “dolce compagnia”?

Paul non lo seppe, almeno fino a quando la regia del programma non fece scorrere sullo schermo altre fotografie di Jane mano nella mano con un uomo che evidentemente non era Paul, perché Paul non era mai stato a Le Havre e certamente non era andato lì con Jane né con nessun'altra. Eppure c'era un uomo con lei, un uomo abbracciato a lei, un uomo tutto intento a baciarla.

Ma quell'uomo, a rigor di logica, non era Paul.

"Paul, forse sarebbe meglio che-" iniziò dire John, ma Paul non sembrò ascoltare.

In quel momento doveva solo sapere chi fosse l'uomo che non era Paul.

“L’uomo con cui la Asher è stata sorpresa è David Donovan, famoso produttore cinematografico di Hollywood, conosciuto a New York sul set del suo ultimo film. Inutile dire che la relazione sia iniziata proprio in quell’occasione.”

Ma no, come poteva essere? Mentre era a New York, Jane lo chiamava e gli diceva che sentiva la sua mancanza. No, forse neanche la ragazza delle foto era Jane.

Eppure in quelle foto sembrava proprio lei. Paul ricordava bene quando aveva comprato quel cappellino bianco col fiorellino di lato. C'era anche lui.

“Sappiamo che Jane frequenta da diverso tempo un ispettore della polizia. Ci chiediamo a questo punto come l’abbia presa. Speriamo che il nostro ispettore non decida di arrestare Donovan.” esclamò l’uomo, prima di ridacchiare, provocando le fastidiose risate del pubblico.

Dio, quanto odiava quei programmi inutili.

“Paul?” provò a chiamarlo dolcemente John, con estrema cautela.

Ma Paul non rispose. Sapeva quale domanda sarebbe seguita e lui non avrebbe davvero saputo come rispondere.

Cosa puoi dire quando tutte le tue certezze vengono frantumate così, all’improvviso, con il semplice scatto di una fotografia?

“Paul, come stai?”

Come stava?

Beh, ma non era ovvio?

Come se quella fosse la giornata più brutta della sua vita.

 

 

Note dell’autrice: salve a tutti. Siamo giunti infine a un nuovo capitolo, che è corridoio ma fino a un certo punto.

John e Paul si stanno avvicinando lentamente, lo so, ma bisogna considerare che siamo partiti da conoscenza zero, quindi non posso farli avvicinare in modo brusco. :/

Ho l’impressione che la storia stia uscendo forse un po’ pesante, o forse noiosa, ma non capisco se il problema sia la lunghezza dei capitoli oppure altro. Help!

Comunque grazie come sempre a kiki e ringostarrismybeatle, oltre che Flaw, ChiaraLennonGirl e paulmccartneyismylove.

Prossimo capitolo, “You’re gonna lose that girl”, venerdì prossimo. ;)

Buon weekend.

Kia85

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** You're gonna lose that girl ***


I’ll get you

 

Capitolo 12: “You’re gonna lose that girl”

 

Lo squillo del telefono risuonò nella stanza, facendo sussultare Paul nel letto. Lui si limitò a brontolare infastidito e rigirarsi dall'altra parte.

Che squilli pure quanto vuole, pensò chiudendo gli occhi. Cosa gli importava ormai di rispondere?

Il telefono di casa non faceva altro che squillare da un paio di giorni a questa parte, ma lui non aveva mai risposto. Sapeva chi avrebbe trovato dall'altra parte della linea: Jane, colei che Paul credeva essere la sua fidanzata.

Un pensiero che evidentemente non apparteneva più solo a lui, dal momento che la giovane e bella attrice era stata sorpresa con un altro uomo, uno molto diverso da Paul: alto, biondo, una folta chioma dentro cui Jane poteva tuffare le sue dita sottili, e poi gli occhi verdi e un fisico davvero niente male.  

Insomma, l'esatto opposto di Paul.

Tuttavia la cosa davvero rilevante era che Jane l'avesse tradito, e chissà da quanto tempo andava avanti ormai quella storia. Stranamente era un particolare che interessava a Paul, molto più del motivo per cui Jane l'avesse fatto.

Forse Paul avrebbe potuto scoprirlo se avesse risposto a una delle centinaia di telefonate che Jane provava a fargli sia sul telefono di casa sia sul cellulare. Eppure Paul proprio non aveva voglia di rispondere, appena riconosceva il numero del suo cellulare sul display, rifiutava la chiamata: non si sentiva pronto a sorbire i suoi 'lasciami spiegare, mi dispiace, perdonami...'

Erano parole inutili perché ovviamente non poteva essere dispiaciuta per qualcosa che le aveva dato piacere, e sicuramente non c'era alcuna spiegazione che potesse giustificare un tale comportamento. Anche perché dalle foto che Paul aveva potuto osservare praticamente dappertutto, si vedeva che Jane era molto diversa rispetto a quando stava con lui.

Il giorno prima Paul era uscito come al solito per andare a lavoro, e passando davanti l’edicola aveva intravisto una serie di giornali scandalistici che solitamente lui ignorava, ma proprio quel giorno era stato costretto a fermarsi e comprarne uno. Le foto di Jane e… com’è che si chiamava? Daniel? Darren?

David, certo, si chiamava David.

Beh, le foto di Jane e David erano dovunque ormai, e Paul voleva esaminarle bene, nella tranquillità della sua casa.

La sua giornata lavorativa era stata uno strazio, tutti a chiedergli ‘Come stai? Hai bisogno di qualcosa?’, e lui, pur apprezzando l’interesse e la preoccupazione, aveva risposto di non aver assolutamente bisogno di nulla e di stare bene. Naturalmente era una bugia bella e buona, ma cos’altro poteva dire? Non era proprio come se lui potesse mostrarsi vulnerabile e sofferente di fronte a loro. Il luogo di lavoro, soprattutto quel tipo di lavoro, prevedeva che lui fosse sempre in forma, sempre sveglio, attivo, forte.

E ora che la sua forza era crollata, Paul aveva dovuto indossare quella maschera solo per poter andare avanti almeno nel suo lavoro. Era una maschera pesante e fastidiosa, ma non poteva permettere che quella storia rovinasse il suo lavoro. Lui sapeva di essere ancora bravo in quello che faceva. Non aveva ancora arrestato Hermes, ma era ancora sicuro che ce l’avrebbe fatta. Certo, era stato richiamato per averlo praticamente lasciato scappare e probabilmente qualcuno alla stazione di polizia cominciava a dubitare della sua bravura, ma Paul non si sarebbe lasciato abbattere, non in questa parte importante della sua vita. C’era ancora chi credeva in lui: prima di tutto se stesso e poi alcuni colleghi che sembravano aver capito il suo gesto nei confronti del ladro. E anche John, naturalmente. John gli aveva sempre riservato parole di incoraggiamento, e Paul doveva ammettere che si aggrappava spesso alla fiducia che lui gli mostrava, era un buon appiglio su cui fare leva per risollevarsi nei momenti di totale sconforto.

Anche ora, ora che era sdraiato a letto, totalmente senza forze.

Non aveva chiuso occhio quella notte, dopo aver letto il giornale che aveva comprato, ma Paul cercò comunque di mettersi a sedere, appoggiandosi con la schiena sui cuscini. Afferrò di nuovo il giornale, che la sera prima aveva abbandonato incurante al suo fianco, e lo sfogliò, tornando sull’articolo principale.

Il titolo era riportato in caratteri molto grandi, diceva, ‘Jane Asher, scene da La vie en rose’. Sotto vi era una sequenza di foto che ormai Paul sapeva a memoria, ma stranamente sembrava trovare qualcosa di diverso in Jane ogni volta che le guardava: una nuova fossetta sulla guancia, le mani intrecciate dei due amanti, la braccia di lei avvolte con passione intorno al collo di lui…

Quella non era Jane, o almeno non era la ragazza che aveva conosciuto lui, riservata, timida, dolce. Questa ragazza ora era cambiata, cresciuta, era una giovane donna sicura di sé, che sapeva di avere un futuro brillante davanti a sé, e soprattutto che sapeva di non amare più l’uomo lasciato a Londra. Perché sì, era evidente che Jane non lo amasse più. Era quella teoria che molte volte era passata nella sua testa, ma che Paul aveva sempre rifiutato di considerare a fondo, troppo attaccato a ciò che erano stati, troppo attaccato al passato. Ora, come mostravano quelle foto, ora Jane stava lasciando andare la ragazza insicura che era stata, stava lasciando andare il suo passato, e chissà che Paul non dovesse fare altrettanto.

Forse anche Paul era pronto a compiere quel passo. Non sapeva cosa gli avrebbe riservato il futuro, ma di sicuro Jane non vi avrebbe fatto parte.

Era doloroso? Sì, molto.

Era difficile? Sì, ovviamente.

Ma più di tutto era giusto.

****

Cinque, sei, sette e… caspita, ma quanti erano?

Una decina di paparazzi solo per Paul?

Quando John quella mattina si era svegliato, di certo non si aspettava di trovare sotto casa del suo vicino, una serie di giornalisti e fotografi pronti a cogliere di sorpresa Paul nel momento in cui fosse uscito di casa.

Li aveva notati mentre preparava Julian per l’asilo estivo, e anche Pattie fu particolarmente sorpresa quando arrivò per prendere il bambino.

"È proprio come una principessa rinchiusa in un castello, prigioniera di un drago cattivo." aveva detto la ragazza, facendo ridere Julian.

Ora John fissava pensieroso dalla sua finestra, domandandosi se Paul, la principessa, avesse già visto quei fotografi e soprattutto se stesse bene. Il giorno prima l’aveva intravisto mentre usciva di casa, ma non aveva fatto in tempo a parlargli. Il problema era che non sembrasse particolarmente sconvolto, come John si aspettava. Sembrava invece che per Paul quello fosse un giorno qualunque, e non quello in cui doveva affrontare il tradimento della sua fidanzata.

E forse era questo che preoccupava maggiormente John, perché sì, era preoccupato, era molto preoccupato, così tanto, in effetti, che non pensò molto quando prese il cellulare e cercò nella rubrica il numero di Paul, inoltrando subito dopo la chiamata.

Il segnale di libero risuonò nel suo orecchio per diversi istanti e John aspettò pazientemente che Paul rispondesse, ma l’uomo sembrava non avere intenzione di farlo, o forse stava semplicemente dormendo ancora.

John sospirò e stava quasi per interrompere la chiamata, quando, finalmente, Paul rispose.

“Pronto?”

La sua voce era profonda e stanca, ma fece sussultare John con gioia.

“Non uscire di casa.” gli disse subito John.

“Ma cosa? John, che stai dicendo?” domandò Paul, perplesso.

“Hai visto i paparazzi fuori casa tua?”

Paul esitò un istante prima di rispondere, “Paparazzi?”

“Sì, sono qui pronti a sorprenderti appena metti piede fuori casa.”

“Oh cazzo, no.” imprecò Paul, con un verso di totale frustrazione, “Ma io volevo uscire stamattina.”

Lo sconforto di Paul arrivò a lui, e anche John in quel momento riuscì a vederlo come una principessa imprigionata nella torre più alta di un castello. E lo sanno tutti di cosa abbia bisogno una principessa, in questi casi…

“Beh, forse potrei aiutarti io.” propose John titubante.

Si sentiva molto come un principe, quel giorno. Non aveva certamente l’armatura scintillante né il mantello azzurro, né tanto meno un cavallo bianco, ma aveva il coraggio e la voglia di salvare la principessa in pericolo.

“E come?” domandò Paul, evidentemente poco convinto che John potesse risolvere la situazione.

Tuttavia John non si fece scoraggiare e si lasciò scappare una risata, “Sono sicuro che riuscirò a inventarmi qualcosa.”

"Tipo?”

“Oh, non saprei, devi per caso andare a lavoro?”

“No, oggi ho preso un giorno di ferie: volevo solo uscire di casa per…” spiegò Paul, il tono della sua voce divenne all’improvviso più triste e flebile, “Sai, per non sentire il telefono.”

“Certo.” rispose John, comprendendo appieno la situazione, “Quindi pensi che lì, alla stazione di polizia, saranno molto arrabbiati se li mando da loro?”

Ci fu silenzio per un istante dall’altra parte della linea, e poi John sentì qualcosa che in qualche modo lo tranquillizzò e che lo incoraggiò ulteriormente: la risata di Paul.

“No, andrà bene.”

“Perfetto, allora lascia fare a me e se vuoi…” disse, e questa volta, per qualche strano motivo, fu lui ad abbassare la voce, “Dopo potremmo…”

“Cosa?”

“Beh, se hai bisogno di qualcuno per parlare o solo per distrarti…” iniziò a spiegare John, cercando di trovare comunque la voce per parlare, “Ecco, io volevo farti sapere che puoi contare su di me.”

Ancora silenzio, e John non seppe bene come interpretarlo, ma qualcosa in lui sperava, e forse ne era davvero convinto, che Paul stesse sorridendo, solo un po’, grazie a lui.

“Ti ringrazio, John, ma per ora vorrei solo stare da solo.” fu la risposta di Paul, e John fece di tutto per nascondere la sua delusione.

“Ma certo, sì, capisco, non ti preoccupare. Era solo per fartelo sapere.” si affrettò ad aggiungere.

“Lo terrò a mente.”

“Bene, allora vado in missione.”

“Buona fortuna, John.”

“Buona giornata, Paul.”

Poi il segnale di occupato gli comunicò che Paul avesse interrotto la chiamata.

John osservò il cellulare un istante, mordendosi il labbro. Sperava davvero che Paul volesse vederlo, ma evidentemente non aveva bisogno di lui quanto John avesse bisogno di controllare di persona che stesse bene. E il pensiero per qualche motivo lo rattristò, oltre che turbò. Non era normale e non solo perché Paul era tuttora la sua nemesi. C'era qualche altro motivo che John non poteva ben identificare: era qualcosa che gli stringeva il cuore all'idea di Paul che soffriva, lo stesso qualcosa che scioccamente gli fece alzare la testa verso la finestra di Paul quando John uscì di casa. Fu un gesto totalmente inutile e stupido perché John sperava di vederlo, anche solo per un istante, ma sapeva che fosse impossibile perché ora che era stato avvisato dei paparazzi, Paul non avrebbe mai e poi mai rischiato di farsi vedere.

Allora perché stava cercando inutilmente il suo viso dietro quelle tende bianche?

Perché voleva che assistesse alla sua performance da bugiardo professionista, ecco perché. Doveva essere per questo motivo e in fondo, era ciò che rappresentava al meglio John: un bugiardo che stava costruendo questo nuovo rapporto solo sulla menzogna, e lui non avrebbe mai pensato che una menzogna potesse trasformarsi in qualcosa di così vero. Eppure era successo e-

E finiscila, John, quante cazzate stai sparando.

John sospirò e solo in quel momento si accorse del ritmo lievemente accelerato del suo cuore. Oh, sapeva che stava entrando inevitabilmente in qualcosa più grande di lui, che non sapeva gestire e neanche cosa fosse; tuttavia non era davvero il momento di pensarci. Ora come ora contava solo salvare la principessa prigioniera nel castello.

Così si avvicinò al gruppo di giornalisti e fotografi e si schiarì la voce.

"Se cercate l'ispettore McCartney, non lo troverete di certo a casa."

Il gruppo di uomini e donne si voltò immediatamente verso di lui, qualcuno riuscì anche a fotografarlo, cogliendolo di sorpresa con il flash. John socchiuse gli occhi, infastidito, alzando una mano per ripararsi da altri eventuali scatti.

"Lei chi è?" domandò una donna, che subito recuperò un piccolo registratore dalla tasca e lo rivolse verso di lui.

John la guardò con una smorfia infastidita, "Il suo vicino di casa.”

"Quindi dice che il signor McCartney non c’è in questo momento?"

“Esatto. Penso che lo troverete al lavoro."

"Sa indicarci dove?" insistette un uomo.

"Certo.” esclamò John, sorridendo perché stavano davvero credendo a quello che diceva lui, “Alla stazione di polizia in Walton street."

"Grazie." disse qualcuno e subito tutto il gruppetto trotterellò verso la strada principale, scomparendo dietro l'angolo.

"Grazie a voi." mormorò John, ridacchiando divertito.

Ce l’aveva fatta. Non che non pensasse di riuscirci, ma insomma, era stato più facile del previsto.

Soddisfatto di se stesso, John si voltò pronto per andare ad aprire il suo negozio, ma si fermò quando sentì dei colpi lievi alla finestra. Guardò verso l'alto e quando scorse il viso di Paul dietro una tenda, il suo cuore fece una piccola capriola all'indietro.

Paul lo salutò con la mano, sorridendogli e ringraziandolo con un cenno del capo, e John ricambiò il saluto esattamente allo stesso modo.

Quando aprì il suo negozio pochi minuti più tardi, sentì di essere sollevato e felice.

Salvare una principessa era un buon modo per iniziare la giornata.

****

Il tempo in quei giorni era stranamente benevolo. Regalava giornate splendide, con il sole alto nel cielo che splendeva e riscaldava, il cielo terso, senza neanche una nuvola all’orizzonte e una temperatura ideale per camminare.

Paul quella mattina, dopo essere stato liberato da John dalla sua prigionia, era uscito dal suo appartamento e aveva preso il primo treno della metropolitana verso il centro. Non sapeva esattamente dove volesse andare, l’unica cosa certa era che volesse allontanarsi più che poteva da Chelsea e da quei giornalisti da strapazzo. Così era sceso dalla metropolitana a Westminster, e uscito dalla fermata, ecco che si ritrovò proprio sotto l’imponente Big Ben.

Faceva davvero un grande effetto, vederlo da quella posizione: si stagliava maestoso sullo sfondo del cielo limpido, e dietro di lui si allungava l’edificio del Parlamento inglese.

Quante volte Paul era stato lì, ma senza apprezzarlo davvero? L’ultima volta era andato  con Jane, e si erano divertiti molto, ma comunque aveva dovuto accontentare i suoi desideri. Ora invece poteva fare il turista solitario scegliendo cosa vedere, quando andare via, cosa mangiare e tutto ciò che nelle sue precedenti visite a Londra non aveva mai potuto stabilire, perché con lui c’era altra gente.

Come per esempio, la ruota panoramica che era proprio opposta al Big Ben. Ecco, Paul non era mai salito sul London eye. Jane non aveva voluto sentire ragioni a riguardo, perché soffriva di vertigini. Eppure per Paul sembrava così dannatamente eccitante, con quella posizione così sporgente sul fiume e quell’altezza… Dio, era molto alta, era vero, ma Paul non aveva paura. Era un poliziotto, dopotutto.

Così attraversò il ponte sul Tamigi e raggiunse la ruota panoramica. Comprò il biglietto, e prima di salire sulle cabine che, a quanto pareva, erano sempre in movimento, si sistemò gli occhiali da sole sul naso. Non voleva certamente essere accecato dal sole che picchiava forte quel giorno.

Le cabine della ruota panoramica si muovevano lentamente, salivano sempre di più e Paul restò per tutto il tempo vicino alle pareti di vetro, così da poter vedere la terraferma sotto di lui che si allontanava e diventava più piccola. Le persone sul ponte sembravano così piccine, come tante formichine che camminavano una dietro l’altra. Paul ridacchiò e si voltò verso destra. Fu un gesto inconscio, quasi non se ne accorse di farlo, ma sapeva che stava cercando qualcuno accanto a sé, per condividere il suo pensiero.

Stava cercando Jane.

Ma Jane non c’era, Paul l’aveva persa ormai.

Sospirò rassegnato, pensando al futuro che lo aspettava: sarebbe stato sempre così, Paul non avrebbe più potuto condividere alcunché con Jane. Arrossì sia per rabbia, sia perché un gruppo di ragazzine stavano guardando nella sua direzione e ridacchiavano scioccamente, perciò decise di tornare a guardare fuori dalla cabina.

Forse una romantica ruota panoramica non era esattamente il posto migliore per dimenticare una storia d’amore ormai arrivata al capolinea.

Forse avrebbe dovuto provare altro.

Decise di andare verso Piccadilly. Era una zona unica e piena di vita di giorno e soprattutto di notte, con tutti i teatri e i locali che offrivano divertimenti. Certo, essendo estate, era anche piena di turisti, di quelli veri, che venivano da paesi lontani per visitare quelle zone, e non dal quartiere accanto come Paul. Tuttavia il vantaggio c’era: infondevano molta allegria, facevano sentire Paul meno solo, in quel momento e gli impedivano di pensare troppo ai suoi problemi.

Aveva scelto il posto giusto.

Il giovane uomo osservò le vetrine dei negozi, lasciandosi contagiare dall’entusiasmo dei turisti che si affollavano per spendere tutti i loro risparmi, e poi le insegne luminose dei teatri, gli annunci dei prossimi spettacoli e… cazzo!

No, non poteva essere.

Che ci faceva lei qui?

Lei, Jane Asher, sempre e solo lei.

Paul chiuse gli occhi per un istante, cercando di calmarsi, e poi li riaprì lentamente. Per fortuna Jane non era davvero lì, davanti a lui, in carne e ossa. No, altrimenti Paul sarebbe impazzito.

Jane era in una locandina cinematografica.

Passeggiando distrattamente, Paul non si era accorto di essere arrivato di fronte al cinema Odeon, famoso per ospitare le anteprime dei film, e anche ora sembrava che avessero scelto proprio quel cinema per la prima del nuovo lavoro di Jane. Era tappezzato di locandine dove la sua-

No, dove Jane si trovava in mezzo ai suoi co-protagonisti. Era vestita di nero, i lunghi capelli rossi risaltavano rendendola così bella e il suo sorriso era dolce e insieme sfacciato. Era quel sorriso che faceva sempre impazzire Paul. La ragazza nella locandina stava recitando, il che gli fece dubitare anche dei sorrisi che rivolgeva a lui. Era mai stata sincera con lui, o aveva recitato anche con Paul?

Ma che cosa stava pensando? Era un pensiero ingiusto, dettato solo dalla rabbia e dalla solitudine di quel momento.

Uscire per fare il turista si era rivelata una pessima idea. Non era divertente, visitare tutti quei bei luoghi, se non poteva condividerli con qualcuno. Così, a malincuore, decise di tornare a casa. Almeno a casa c’era Pepper a fargli compagnia. Era una bella distrazione, quel gattino. Era così vivace e curioso, ma anche affettuoso e pieno di calore. La vita con lui in quella casa silenziosa era molto più interessante.

Prima di tornare, Paul si fermo a comprare un po’  di latte per il cucciolo. Pensare a lui gli aveva fatto ricordare che quella mattina era finita l’ultima bottiglia; poi finalmente si avviò verso casa. Fortunatamente non c’erano paparazzi.

La trovata di John aveva funzionato, pensò sorridendo, mentre entrava in casa. Si avviò verso la cucina, richiamando Pepper e-

"Ciao, Paul."

Paul sobbalzò ancora nell'ingresso e si voltò verso il salotto, notando Jane, proprio Jane Asher seduta sul divano.

Probabilmente le rivolse uno sguardo sconcertato che le disse, 'Che diavolo ci fai qui?', perché lei sorrise intimorita e sollevò la mano che stringeva un mazzo di chiavi. Paul alzò gli occhi al cielo, imprecando fra sé: era stato lui a darle le chiavi del suo appartamento, quando era venuta a trovarlo.

"Mi dispiace di essere entrata così." disse lei, alzandosi in piedi, "Ma ho intravisto dei paparazzi nei paraggi e sarebbe stato rischioso restare fuori ad aspettarti."

"Rischioso?” sbottò Paul, ridendo senza alcun divertimento, “Mi sembra che ormai tu abbia già corso il rischio più grande."

Jane arrossì vistosamente e Paul esultò in silenzio, malignamente. Non si era mai sentito così, come se volesse dirle le cose peggiori che potesse pensare di lei, come se volesse farla soffrire nello stesso modo in cui lei stava facendo con lui.

Paul conosceva il motivo per cui Jane fosse a casa sua ora: aveva temuto quel momento da quando aveva appreso della sua relazione segreta con un altro uomo. Lo temeva perché sapeva cosa sarebbe successo, cosa avrebbe detto lei e quanto più grande e insopportabile potesse diventare il suo dolore.

"Paul, ti prego.” sospirò Jane, frustrata ancor prima di iniziare a spiegare, “Sono qui per discutere in modo civile."

Il sorriso sardonico sul volto di Paul sparì di fronte a tali assurde affermazioni e lui si lasciò andare all’unica cosa che voleva mostrarle ora: la rabbia.

"Oh vaffanculo, Jane, non c'è assolutamente niente di civile in questa storia. Mi hai tradito! Mi hai fottutamente tradito.” ripeté infine Paul, così, forse perché Jane non aveva ancora ben compreso la gravità del suo gesto.

“Lo so, ma-” iniziò a dire lei, ma Paul non sembrava avere alcuna intenzione di lasciarla parlare.

“E la cosa più assurda di questa cazzo di storia è che l’hanno sbattuto in prima pagina.” esclamò Paul, alzando la voce, mostrando tutto il suo risentimento perché il mondo intero ora sapeva che era lui quello tradito dalla bellissima Jane Asher, “Lo sai che l’ho scoperto per caso in televisione? Lo sai cosa si prova a scoprirlo così? Come se contassi meno di chiunque altro?”

“Mi dispiace, stavo per parlartene.” spiegò lei, cercando di avvicinarsi a lui.

Sembrava dispiaciuta e sincera, ma come poteva Paul credere a tutto questo, quando ormai aveva perso la fiducia che aveva riposto in lei nel momento in cui si era accorto di amarla?

“Ah, e sentiamo, quando l’avresti fatto?”

Jane, presa in contropiede, abbassò lo sguardo, “Io…. Io non lo so, ma ti giuro che avevo deciso di dirtelo.”

“Beh, non me ne faccio nulla delle tue decisioni.” sbottò lui, incrociando le braccia sul petto.

“Smettila di fare così, Paul.” lo pregò Jane, implorandolo con gli occhi, “Posso almeno spiegarti?”

“C’è davvero da spiegare qualcosa? A me sembra abbastanza chiaro. Quelle foto hanno detto tutto il necessario.”

“Non è vero, c’è molto da spiegare. Per favore, Paul, siediti un attimo.”

Paul, pur percependo il proprio volto in fiamme e soprattutto, sapendo di non avere alcuna intenzione di conoscere i dettagli di quella storia, decise che sarebbe stato saggio fare ciò che gli stava chiedendo Jane. Forse per l’ultima volta.

Così si accomodò sul divano e Jane si sedette accanto a lui, voltandosi completamente per guardarlo; e mentre lei sceglieva con attenzione le parole giuste per spiegare quanto accaduto, Paul le rivolse un’espressione di attesa, con un sopracciglio alzato, quasi a volerle dire, ‘E allora?’

“Ho conosciuto David sul set del film, a New York.” iniziò a spiegare con un profondo sospiro.

“Sì, questo lo so, so tutto di lui ormai.” sbottò Paul, “Da quanto va avanti?”

“Un paio di mesi.”

“Un paio di mesi?” ripeté Paul, sorpreso e sconcertato, “Cazzo, Jane, ma…Perché?”

“Perché sono innamorata di lui.”

Una parola importante, innamorata.

E normalmente Jane l’avrebbe associata al nome di Paul. Ma ora… ora Jane era lì, di fronte a Paul, a parlare del suo amore per un altro uomo, mentre il cuore di Paul sembrava essersi ridotto di tre taglie ed essere ora una piccola pietra, dura, che non riusciva più a battere e tenerlo in vita.

Il peggiore incubo di Paul si era infine avverato, aveva perso Jane perché non aveva saputo custodire il suo amore. E ripetere quanto lei avesse appena detto non avrebbe risolto nulla, ma Paul non poté fare altro.

“In…Innamorata?”

“Sì, io… Paul, mi dispiace, ma è stato più forte di me.” confessò impotente, continuando a guardarlo negli occhi, “Non scegliamo noi di chi o quando innamorarci, ed è proprio quello che è accaduto. Lui era così divertente e mi faceva stare bene.”

“E io no?” domandò lui, profondamente risentito dalle ultime parole di Jane.

“Non ho detto questo.” si affrettò a chiarire Jane, “Ma tu eri lontano, non riuscivamo più a vederci spesso. All’inizio sentivo la tua mancanza disperatamente, ma poi ho cominciato ad abituarmi e nonostante sapessi che era un brutto segno, sono andata avanti così, fino a quando lui non ha cominciato a interessarsi a me.”

“E tu hai accettato le sue attenzioni.” terminò Paul, in modo abbastanza scontato.

Jane sospirò e annuì lentamente, “Sì, e prima che me ne rendessi conto, ero perdutamente innamorata di lui.”

Paul chiuse gli occhi un istante, la stanza aveva cominciato a vorticare e lui non lo sopportava, così come non sopportava gli occhi di Jane, che continuavano a guardarlo, con decisione, con fermezza, uno sguardo che non vacillò mai mentre parlava di quel nuovo sentimento nato in lei. Forse era questo che, più di tutto, fece soffrire Paul. Jane era innamorata persa di un altro ed era sicura che quella fosse la cosa migliore per lei ormai. Questo significava solo che non c’era più speranza per Paul.

Il suo cuore era come stretto in una morsa dolorosa, che non aveva alcuna intenzione di allentare la presa. Faceva davvero male, così tanto che Paul, per la prima volta dopo la morte di sua madre, sentì il desiderio di piangere.

“Paul, mi dispiace così tanto, ma dovevo dirti la verità.” mormorò Jane, sporgendosi verso di lui, cercando di appoggiare una mano sulla sua spalla, “Non si tratta di una semplice scappatella. È una relazione seria, e avevo bisogno di fartelo capire, prima di lasc-”

Paul sollevò una mano per zittirla e allontanare il braccio da se stesso, “Ti prego, vattene ora.”

“Ma, Paul-” protestò lei, tentando ancora una volta di toccarlo.

“Cazzo, Jane.” esclamò l’uomo, e la scostò come se si fosse appena scottato, “Vattene.”

Jane si morse il labbro, profondamente contrita, poi si alzò in piedi, “Spero che un giorno potrai perdonarmi.”

Paul non si prese il disturbo di rispondere, non poteva; rimase in silenzio mentre la sentiva uscire dalla casa e chiudere la porta dietro di sé.

E solo in quel momento, il giovane uomo sentì davvero la solitudine, che era tornata prepotentemente nella sua casa. Era sempre fredda e troppo silenziosa. Rendeva l’aver perso l’amore di Jane ancora più straziante.

Paul non poteva sopportarlo. Non da solo. Era sul ciglio di un burrone in cui stava scivolando lentamente, e solo quella sera aveva scoperto che era in quella situazione da molto tempo.

Aveva bisogno di una mano che lo portasse al sicuro.

Aveva bisogno di essere salvato.

****

John sospirò, leggendo il giornale che aveva comprato quella mattina.

Ogni giorno ormai ne capitava una, ma in effetti il vero motivo per cui John l'avesse comprato era perché sperava di trovare qualcosa di interessante riguardo la fidanzata di Paul. Sicuramente sarebbe stato più semplice comprare un giornale scandalistico, ma lui si vergognava troppo. Non che all'edicolante sarebbe potuto importare molto di cosa leggesse uno dei suoi clienti, ma John non voleva correre rischi. E poi lo sapevano tutti che la stampa inglese, di qualunque genere fosse, era assetata di gossip.

Difatti, nella pagina degli spettacoli c'era un piccolo trafiletto dove era riportata la foto di Jane con il belloccio in questione. Nell'articolo non c'era scritto molto di più di quello che John già sapesse, eppure qualcosa riuscì a catturare la sua attenzione.

"... Inoltre il signor Donovan sarà a Londra, la settimana prossima, per l'inaugurazione di un museo del cinema, vicino alla National Gallery. Il museo è stato curato personalmente dal produttore cinematografico e raccoglie alcuni dei cimeli della storia di Hollywood e non solo. Per maggiori informazioni consultare il sito ecc..."

John aggrottò la fronte pensieroso. Un museo del cinema?

Non aveva molto a che fare con il suo ambito, però poteva sempre provare a fare delle ricerche. Se era fortunato, avrebbe potuto trovare qualcosa di interessante.

E poi? L'avrebbe rubato?

Sì, ovvio.

Ma perché? Perché si stava preoccupando tanto di cercare qualcosa di interessante da rubare a quell'uomo?

Perché rubare era il suo mestiere. No?

O forse aveva a che fare con il collegamento fra Paul e quell'uomo?

Ma no, no, assolutamente no. Non era affatto così. Non era possibile. Non era-

Il trillo del cellulare lo fece sobbalzare sul divano. E quando vide chi lo stava chiamando, anche il suo cuore sobbalzò.

Paul.

Pensava che non l'avrebbe più sentito almeno per quella giornata, invece... Eccolo lì! John era così curioso del perché lo stesse chiamando che si affrettò a rispondere.

"Pronto?"

Un breve attimo di silenzio che John interpretò come esitazione, e poi finalmente la voce di Paul, "È ancora valido quell'invito?"

John non se ne rese conto, ma era rimasto letteralmente a bocca aperta.

"Certo."

"Allora, pensi che possiamo vederci stasera?"

"Sì.” rispose John, forse troppo rapidamente, “Lascia che mi organizzi per affidare Julian a George e Pattie, e poi possiamo andare dove vuoi."

"Grazie, John." disse lui, il tono dolce e insieme sofferente.

"Figurati. Ci vediamo dopo."

"Sì. A dopo."

John terminò la chiamata e sospirò. Santo cielo, non aveva davvero trattenuto il respiro per tutta la durata della telefonata, vero? Eppure ora aveva il respiro corto e il cuore che batteva un po’ più velocemente.

Doveva assolutamente darsi una calmata e ragionare con lucidità su quanto fosse appena accaduto: Paul l’aveva chiamato per chiedergli di uscire e la sua voce era sembrata così contrita, che ora John voleva solo assicurarsi che lui stesse bene. Doveva essere successo qualcosa di importante, dal momento che quella mattina Paul aveva parlato con lui in modo molto diverso, aveva anche riso.

Quindi, sembrava proprio che la principessa avesse nuovamente bisogno del suo aiuto. E John, inutile negarlo, era più che felice di darglielo.

Guardò Julian che giocava tranquillamente sul tappetto con le macchinine e sorrise, “Ehi, piccolo, ti piacerebbe se stasera venissero George e Pattie a stare con te, mentre papà esce?”

“Dove vai?” domandò distrattamente il bambino, senza distogliere gli occhi dai suoi giochi.

“Esco con Paul.” rispose lui, alzandosi dal divano e andando a sedersi accanto al figlio, “Sai, è un po’ triste in questi giorni.”

A quel punto, Julian si voltò verso di lui per rivolgergli uno sguardo incuriosito, “Perché?”

“Perché la sua fidanzata gli ha detto una bugia.”

“E tu lo fai stare meglio?”

“Ci provo.” rispose John, “Quindi per te va bene, se stasera non ci sono?”

“Va bene, ma prima devi giocare con me.” esclamò il bambino, cogliendo di sorpresa John e buttandosi tra le sue braccia.

John rise un po’ e si sottomise volentieri al desiderio di suo figlio, giocando con lui. Fecero una gara con le macchinine e ovviamente vinse quella di Julian, ma John si vendicò, prendendolo tra le braccia e facendogli il solletico, e la risata spensierata di Julian riempì la stanza.

Poi, mentre il bambino si lavava le mani per la cena, John chiamò George per chiedergli se lui e Pattie potessero badare a Julian quella sera, e se George potesse anche indagare su quel museo del cinema di cui aveva letto nel giornale. George accettò, anche se rimase perplesso dall'ultima richiesta di John, il quale lo tranquillizzò dicendo che gli avrebbe spiegato tutto a tempo debito.

Quando John e Julian cenarono in tutta tranquillità in cucina, l’uomo cominciò a sentirsi stranamente agitato. Il motivo doveva sicuramente avere a che fare con Paul, ma John non capiva perché. Dopotutto non era la prima volta che usciva con Paul per bere qualcosa, ma stavolta era diverso.

Era pericolosamente diverso.      

****

Paul non aveva per niente una bella cera.

John l'aveva notato solo quando era uscito dal suo appartamento. Aveva le occhiaie ben evidenti e la barba di almeno due giorni, che creava un effetto particolare sul suo viso: sembrava essere in contrasto con quei lineamenti delicati e quegli occhi dolci, ma anche perfettamente abbinata alla bellezza del suo volto.

Era comunque inutile dire che non stesse passando un bel momento. Quella gioia che John aveva visto solo la domenica prima, si era come spenta e ora vi erano solo ombre. John aveva preferito non dire nulla a riguardo, fino a quando Paul non l'avesse fatto lui in prima persona.

Così avevano raggiunto a piedi un pub non molto lontano dalle loro abitazioni, e seduti a un tavolino, avevano iniziato a bere birra e parlare. Paul gli raccontò dei bei giri turistici che aveva compiuto quella mattina e John ascoltò interessato, sapendo perfettamente che non era quello il motivo per cui Paul avesse espresso il desiderio di vederlo.

Quando le birre consumate cominciarono ad aumentare, la situazione cambiò e Paul decise di passare a tutt'altro tipo di bevanda. Qualcosa di più forte, un po’ di whiskey, quello potente, così tanto da fargli dimenticare il suo stesso nome. John tentò di fermarlo, ma Paul non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi, neanche quando uno strano colorito rossastro cominciò a diffondersi sulle sue guance paffute e gli occhi si annebbiarono.

Come se quella potesse esser la soluzione a tutti i suoi problemi.

Tuttavia John sapeva di non potergli dire banalità del genere, avrebbe solo peggiorato la situazione perché quando qualcuno inizia a ubriacarsi, diventa totalmente insofferente verso qualunque cosa. E quando qualcuno che tenta di affogare i propri dispiaceri nell’alcol, si ubriaca, beh, allora tutto diventa imprevedibile. Così John aspettò e guardò mentre anche i bicchierini di whiskey ordinati aumentavano sul tavolo e Paul cominciava a parlare a vanvera.

“Io lo sapevo, sai?” sbottò a un certo punto Paul, e la risatina che seguì fu la prova che fosse ormai ubriaco.

“Cosa?” chiese dolcemente John.

“Che prima o poi sarebbe finita con Jane, che altro?"

John sospirò, intrecciando le mani sul tavolo. Beh, lui sapeva che sarebbero arrivati a questo argomento, prima o poi, durante la serata.

"Perché?"

"Eravamo ormai come fratelli, fratelli che scopavano.” esclamò Paul e scoppiò a ridere con un brusco movimento del suo corpo che fece rovesciare un bicchierino di whiskey sul tavolo.

“Paul, cazzo.” imprecò John, affrettandosi a recuperare dei tovaglioli per asciugare il pasticcio che aveva combinato Paul.

“Cosa? È vero, sai? Anche se non c'era più la stessa passione e comprensione dell'inizio.” mormorò calmandosi all’improvviso, e fece incrociare le braccia sul tavolo, “E sapere che lei si sia addirittura innamorata di un altro, è troppo difficile da accettare."

John batté le palpebre, guardandolo ora con evidente sorpresa, "Innamorata?"

"Sì.” sospirò Paul e abbandonò la testa sulle sue braccia, “Me l'ha detto lei."

"Quando?"

"Non te l'ho detto? No, ovviamente no, che stupido che sono.” esclamò dandosi uno schiaffo sulla fronte, prima che John potesse fermarlo, “Si è fatta trovare a casa al mio ritorno."

“Oh, una gran bella sorpresa.” commentò John, e Paul rise debolmente.

“Puoi dirlo forte.”

“Quindi ti ha spiegato tutto?”

Paul annuì distrattamente, mentre con un dito tracciava degli invisibili cerchi sul tavolo, “La lontananza e il nostro rapporto che si era raffreddato, l’hanno spinta tra le braccia di un altro.”

“Mi dispiace, Paul.” gli disse John, portando una mano sull’avambraccio di Paul

“Io pensavo che sarebbe durata per sempre.” e John non sapeva se attribuire il singhiozzo che seguì al troppo alcol o alla troppa sofferenza di Paul.

In qualunque caso, era terribilmente sconfortante, vederlo ridotto in quello stato, sapendo quanto fosse felice fino a pochi giorni prima. E altrettanto sconfortante era il fatto che John non potesse provare parole adatte per rincuorarlo, era totalmente impotente di fronte a lui, perciò disse la cosa più banale che gli passò per la testa.

“Non possiamo mai prevedere quello che ci riserva la vita.”

Paul singhiozzò e guardò la mano appoggiata sul suo avambraccio, sembrava trasmettergli una sorta di dolcezza che voleva solo consolarlo, vederlo stare meglio.

Tuttavia, era una sensazione troppo lieve per poter lenire tutto quel dolore che lo stava divorando dall’interno come se fosse senza fine, come se Paul dovesse soffrire per sempre, e non ci fosse alcuno spiraglio di salvezza.

“Dannazione, sta andando tutto a rotoli, tutto.” esclamò, nascondendo il volto tra le mani con un gesto frustrato.

“No, no, non dire così, non è vero.” protestò John, ma non era pronto a subire la reazione di Paul.

“Cosa ne sai tu?” sbottò il giovane uomo, scrollandosi di dosso la mano di John, “Jane è stata la mia prima storia importante. Sai cosa vuol dire, quando pensi che durerà per sempre, e invece tutto crolla come un castello di carte e tu non puoi fare assolutamente nulla?”

John si morse il labbro, nervosamente, e abbassò lo sguardo. E come poteva non saperlo lui? Lo sapeva eccome, lo sapeva bene tanto quanto Paul.

“Sì.” mormorò tranquillamente.

Solo in quel momento, con la sua risposta, con la sua calma che contagiò anche Paul, lui capì che John sapeva meglio di chiunque altro ciò che provava. E sempre in quel momento, Paul provò vergogna.

“Scusa, John, io… non volevo, mi disp-”

“Non importa, sei ubriaco e la tua ragazza ti ha fatto le corna, penso che tu sia giustificato. Solo per adesso, si capisce.” commentò John, sorridendo e facendogli l’occhiolino.

Paul rise, ma l’azione gli fece girare la testa, “Oh-o.”

“Cosa?” domandò John, improvvisamente allarmato.

“Mi viene da vomitare.”

“Oh no, non ci provare, non qui.”

Non appena John disse questo, lo afferrò per il braccio e lo trascinò fuori. Paul lo seguì barcollando pericolosamente, e quando fu all'esterno John lo condusse nel primo vicolo che trovò sul suo cammino, giusto in tempo affinché Paul potesse rimettere anche l'anima. Ecco, ora con tutto quel veleno, in forma di dolore e di alcol, fuori dal suo corpo, Paul sarebbe stato decisamente meglio.

John rimase accanto a lui per tutto il tempo, mentre i conati di vomito scuotevano il suo corpo violentemente, e quando il peggio passò, Paul si accasciò a terra con la schiena contro il muro. Abbandonò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.

"Mi gira la testa."

"Lo spero bene. Con quello che hai rimesso." gli disse amaramente John, notando quanto fosse pallido ora in viso e le lacrime che avevano bagnato le guance, durante lo sforzo di pochi istanti prima.

Paul mormorò, mentre si portava una mano sulla fronte, “Oh, mi sento uno schifo.”

“Domani starai meglio. Te lo prometto.” lo rassicurò John, accovacciandosi di fronte a lui.

“Io vorrei stare meglio ora.”

E in quel momento sembrò così innocente, con le labbra dischiuse in un’espressione di totale sconforto e gli occhi che brillavano con le lacrime intrappolate nelle lunghe ciglia,  che John sentì il proprio cuore stringersi dolorosamente.

Era una sensazione troppo insolita per John, e ne ebbe la conferma quando la sua mano si allungò per asciugare una delle sue guance paffute e umide.

“Ora non puoi, Paul.” spiegò John, sospirando tristemente, “Devi solo sopportare.”

“Ma fa male.”

“Lo so, ma è necessario.”

“Perché?” domandò frustrato Paul, mentre John si sedeva accanto a lui.

“Perché il dolore è la condizione necessaria per guarire.”

Paul batté le palpebre, confuso, e nello stesso momento il suo corpo fu scosso da un ultimo singhiozzo, “Cosa significa?”

“Significa che… ecco, non so spiegartelo bene, però è come quando hai la febbre.” disse John, ricevendo uno sguardo di puro scetticismo da Paul, “La febbre ti fa stare male, è vero, ma permette al tuo corpo di combattere l’infezione. È la stessa cosa in questo caso.”

“E tu come fai a sapere queste cose?” chiese Paul, aggrottando la fronte.

“Ho un bambino di quattro anni, ricordi?” rispose John, dandogli una lieve gomitata nel fianco, “Vado dal pediatra almeno una volta al mese.”

Paul rise leggermente, “Ah, capisco, ora è tutto chiaro.”  

La sua risata, per quanto lieve, fu ciò che mostrò a John che Paul stesse un po’ meglio e che forse era proprio ora di tornare a casa, “Coraggio, andiamo.”

“Dove?”

“Che domanda è? A casa, idiota.” rispose lui, balzando in piedi, “Ce la fai ad alzarti?”

“No.” rispose sinceramente Paul, guardandolo imbronciato.

“Oh, dai, vieni, ti aiuto io.” sospirò John e gli porse una mano.

Paul la guardò un istante prima di afferrarla ed essere portato in piedi dall’amico.

“Ecco qua.”

John mantenne la mano di Paul ben salda nella sua, ma quando vide che Paul barcollò leggermente all’indietro, verso il muro, fece scattare l’altro braccio in avanti per sorreggerlo dal fianco.

Paul rise divertito, “Ops, c’è qualcosa che non va.”

“Direi proprio di sì.”

“Non posso tornare a casa così.”

“Non possiamo neanche restare qui, se per questo.” gli fece notare John, prima di far scivolare un braccio attorno alla sua vita e attirarlo a sé, “Coraggio, tieniti a me e andiamo.”

Paul obbedì docilmente e fece passare un braccio sulle sue spalle per sorreggersi meglio. Poi John cominciò a portare entrambi verso casa, facendo sempre attenzione che Paul non inciampasse e quindi facesse cadere entrambi a terra.

Il giovane ispettore lasciò che John lo guidasse e sostenesse, perché in quel momento Paul non aveva bisogno di altro. Non si era mai sentito così sperduto, così debole e apatico. Sapeva a cosa fosse dovuto e se avesse voluto, avrebbe potuto contrastarlo, ne aveva tutte le capacità. Eppure questa volta si trattava di qualcosa più forte di lui, una sensazione di totale smarrimento, e Paul non voleva combatterla, aveva bisogno di lasciarsi andare a quest’emozione, perché John aveva ragione, soffrire ora gli avrebbe permesso di stare meglio dopo, magari anche il giorno successivo.

Quando arrivarono nella loro via, John invece di portarlo verso l’appartamento di Paul, lo condusse verso casa sua.

“John, io devo andare di là.” disse, cercando di guidarlo dalla parte opposta, ma John lo fermò.

“Non credo proprio.”

“Ma io-”

“Ma niente, credo sia meglio che stanotte resti da me, ok? Non vogliamo che ti capiti qualcosa, da solo a casa, in questo stato.” spiegò John, sorridendo dolcemente.

Paul protestò vivacemente, scuotendo il capo, “No, no, no, è troppo disturbo.”

Tuttavia il gesto peggiorò la situazione e i giramenti di testi aumentarono quel tanto da indurlo ad aggrapparsi con più forza a John.

“Come no. Chiudi quella bocca, ora, e vieni con me.” ordinò John divertito.

Paul sorrise, gli occhi annebbiati e lievemente socchiusi, e seguì John quando aprì la porta con la chiave e lo trascinò nel suo ingresso.

“Eccoci qua.” esclamò l’uomo, mentre Paul si abbandonava un po’ più su di lui e mormorava distrattamente.

Stava cominciando a essere pesante, e John doveva portarlo su qualcosa di morbido prima che si addormentasse addosso a lui. Non si sentiva proprio di sollevare quel ragazzo di quanto? Un metro e ottanta?

Così si avviò verso il salotto dove George balzò in piedi dal divano, “John, che succede?”

“Un bicchierino di troppo.” commentò John, “Aiutami a metterlo sul divano.”

George obbedì e raggiunse Paul dalla parte opposta rispetto a John, sorreggendolo con un braccio intorno alla vita. I due trascinarono Paul sul divano, dove lo fecero sdraiare e una volta comodo, Paul strizzò gli occhi, stiracchiandosi con una smorfia sul viso.

“Mm… John?”

“Sono qui, Paul.”

“Mi fa male la testa.” sbiascicò, portandosi una mano sulla fronte, “Non lo sopporto.”

“Ti porto un’aspirina.”

Poi, mentre Paul borbottava qualcosa simile a un grazie, John afferrò il braccio di George e lo trascinò con sé, salendo su per le scale.

“Si può sapere che cazzo gli è successo?” sbottò George, incuriosito.

“La ragazza di Paul l’ha tradito e lui s’è ubriacato, tutto qua.” spiegò rapidamente John, “Julian?”

“Pattie lo sta facendo addormentare.”

“Bene.” esclamò John, guardandosi indietro alle spalle, come un riflesso incondizionato di protezione, “Allora, hai scoperto qualcosa?”

George annuì, diventando improvvisamente più serio, “Sì, in effetti c’è qualcosa che ci può interessare.”

“Ovvero?”

“Si tratta di un’originale maschera del film The Wall.” esclamò George, mentre John si infilava nel bagno per recuperare un’aspirina.

“Quello sull’album dei Pink Floyd?” domandò John, con tanto entusiasmo da chiudere troppo velocemente l’armadietto dei medicinali e provocare un rumore molto forte.

“Proprio quello. Ma, John, ci saranno molti poliziotti e sistemi di sicurezza molto difficili da crackare. È pericoloso.”

“L’avevo immaginato.”

“Perciò, pensaci bene prima di decidere. Prova a parlarne anche con Jim.” gli disse George, abbassando la voce.

“No, Jim non vuole più essere coinvolto da quando c’è… sì, insomma, lo sai.” tagliò corto John, scrollando le spalle.

“Ho capito, ma-”

“E io rispetto la sua decisione, chiaro?”

“D’accordo, John.” sospirò George, rassegnato, “Ma cerca di non essere avventato.”

“Ci proverò, grazie per le informazioni.”

Dopodiché si portò un dito sulle labbra per dirgli di fare silenzio, prima di entrare nella cameretta di Julian: la luce soffusa dell’abat-jour illuminava debolmente la stanza, mentre in sottofondo si sentiva una dolce nenia che proveniva da un carillon. Pattie era accanto al letto del bambino, guardandolo dormire. Il suo sguardo era dolce e malinconico, John lo notò subito perché non era la prima volta che lei lo rivolgesse proprio a Julian.

Quando la ragazza si voltò verso di lui, John le sorrise e lei ricambiò subito, mentre l'uomo si avvicinava al bambino per osservare la sua espressione tranquilla, con gli occhi chiusi, le labbra dischiuse e il respiro profondo. Gli baciò dolcemente la fronte, cercando di non farlo svegliare, e gli sistemò la coperta leggera, mentre si chiedeva come facesse Julian a non soffrire il caldo dormendo abbracciato a quel peluche a forma di sottomarino giallo. Era un mistero. Quel peluche era una sorta di angelo custode e Julian ormai non poteva dormire senza. Ma erano in piena estate ormai.

Poi, mentre Pattie usciva dalla cameretta, John si avvicinò all'armadio, lo aprì e ne estrasse una coperta. Con delicatezza chiuse la porta della camera di Julian dietro di sé e si rivolse ai due giovani di fronte a lui.

"Non so come ringraziarvi per stasera."

"Figurati. Tu eri impegnato a far ubriacare lo sbirro." commentò George.

"Ha fatto tutto da solo. Io mi sono limitato ad ascoltare le sue lagne e portarlo a casa sano e salvo." spiegò John.

Non sapeva perché stesse cercando di sembrare annoiato, ma qualcuno comunque non credette alla sua piccola messinscena.

"Ti ci stai affezionando, vero?" domandò improvvisamente Pattie.

"Cosa?” esclamò John, sorpreso e indignato, “Sei fuori strada, mia cara."

Tuttavia Pattie non aveva proprio intenzione di credergli e continuò a guardarlo con un sorriso malizioso, "Dici? In fondo fai cose che solo un amico farebbe."

"È così, John?" chiese George preoccupato, e lo sguardo che gli rivolse fu uno dei più eloquenti, quasi volesse dirgli, 'Non t'azzardare'.

"Ma no. Non è così!” protestò John, “Siamo solo due conoscenti, due vicini di casa che ogni tanto si vedono per suonare e fare due chiacchiere. Lui sta passando un brutto momento e io sono l'unica sua conoscenza qui, è ovvio che si rivolga a me."

"Se lo dici tu..." commentò George, scrollando le spalle e avviandosi giù per le scale.

Pattie lo seguì non prima di aver rivolto a John l’ennesimo sorriso che sembrava sapere che John avesse mentito, che sembrava avere una profonda conoscenza dei veri sentimenti di John.

John, dal canto suo, non sapeva bene cosa gli stesse accadendo. Aveva mentito, questo sì, a George per di più, il suo migliore amico. Perché gli aveva mentito? Perché non aveva potuto dirgli che stava imparando a considerare Paul come un amico, anzi, che lo considerasse ormai più come un amico, che come un nemico?

Quando salutò e ringraziò ancora George e Pattie per l’aiuto, John decise che non voleva sapere il perché di tutte queste cose. Non ancora.

Eppure l’immagine che John vide pochi minuti più tardi, di Paul che sonnecchiava sul suo divano, gli disse che non doveva preoccuparsi, che era giusto che andasse tutto così. Sospirando impotente, John si sedette sul tavolino di fronte al divano e scosse lievemente Paul.

“Paul?”

Il giovane ispettore protestò con un borbottio infastidito, prima di voltarsi dall’altra parte. John rise, ma provò di nuovo a svegliarlo.

“Dai, Paul, svegliati solo un attimo.”

Paul sospirò e tornò a guardare John, gli occhi socchiusi proprio non ce la facevano ad aprirsi completamente.

“Tieni! Un'aspirina e un po' d'acqua, così domani sarai come nuovo."

Paul guardò il bicchiere che gli stava porgendo John, e la promessa dell’amico lo convinse a sollevarsi un po’ per afferrarlo: era riempito a metà e nell'acqua c'erano bollicine spumeggianti che indicavano la presenza del farmaco oramai disciolto. Bevve tutto in un sorso, lasciandosi sfuggire una smorfia per il cattivo sapore.

John gli tolse il bicchiere dalle mani, prima di farlo sdraiare sul divano e coprirlo con la coperta leggera appena recuperata. Anche in questo caso Paul lo lasciò fare e quando la sua testa si appoggiò sul cuscino, il sonno minacciò di sopraffarlo nuovamente. Eppure c’era ancora una cosa che doveva chiedere a John, perché lui, come persona ormai vicina a Paul, doveva conoscere la risposta a quella domanda.

"John, perché le persone mi tradiscono e abbandonano?"

John sussultò a quella domanda, e insieme a lui anche il suo cuore fece un piccolo salto, "Cosa?"

"Perché lo fanno?” insistette Paul, senza agitarsi, solo con tutta la tranquillità che il breve sonnellino di poco prima gli aveva infuso, “Prima mio padre e ora Jane. Forse sono io che li ho allontanati da me."

"No, Paul, non è colpa tua. Non devi pensarlo mai.” esclamò John, scuotendo vigorosamente il capo, “Tu… tu sei una persona bellissima. Nessuno vorrebbe davvero allontanarsi da te."

La risposta di John fu ancora una volta delle più banali, e la successiva  domanda di Paul fu più che legittima.

"Allora perché loro l'hanno fatto?"

"Io non lo so.” sospirò John sconfitto, “Ma so per certo che non è colpa tua."

Paul chiuse gli occhi, l'espressione era ancora sofferente, ma più rilassata. Come se stesse ormai accettando quella sofferenza.

"Grazie, John, sei davvero il migliore amico che abbia mai avuto."

John lo guardò, mordendosi il labbro e sentendo ancora quel senso di colpa che tornava di tanto in tanto, anzi spesso ormai, a palpitare in lui.

"Non c'è di che." rispose, la voce rotta, sopraffatta da tutte le emozioni di quella giornata.

La vista di Paul completamente perso e vulnerabile, come non lo aveva mai visto, era stato troppo per lui. John non pensava che Paul potesse davvero ridursi in questo stato. Paul così composto, così sorridente, Paul così speciale.

E allo stesso modo, John non pensava di poterne essere tanto colpito. Dio, John sapeva di voler fare qualcosa, qualunque cosa per quella principessa che continuava a essere nei guai, e si maledisse perché non poteva fare molto.

O forse…

Forse qualcosa c'era.

"Buonanotte, John."

Poteva rubare la maschera.

"Buonanotte, Paul."

Poteva vendicare Paul.

 

 

Note dell’autrice: bene, eccoci qua, aggiornamento anticipato, un po’ per cercare di avvicinarci velocemente alla svolta della storia e un po’ perché il 6 volevo pubblicare una cosa, se riesco, per l’anniversario di John e Paul. :3

Allora, John riuscirà a vendicare Paul?

Lo scopriremo nel prossimo capitolo, “I’ve got a feeling”, mercoledì prossimo.

Intanto grazie a kiki per la correzione, ringostarrismybeatle perché sopporta le mie paturnie, e ChiaraLennonGirl, Flaw, lety_beatle e GaaraIstillloveyoubaby.

A presto

Kia85

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Capitolo 14
*** I've got a feeling ***


I’ll get you

 

Capitolo 13: “I’ve got a feeling”

 

La risata di un bambino fu la causa del risveglio di Paul, la mattina dopo. Era dolce, cristallina e lontana. Rimbombava nelle sue orecchie, ma era ovattata, come se Paul avesse immerso la testa in una bolla d’aria e tutto arrivasse a lui debolmente.

Non capiva da dove provenisse quella risata, a casa sua non c’erano bambini, quindi… dove si trovava?

A malincuore, aprì gli occhi: era l’unico modo, in fondo, per scoprire dove fosse. Batté le palpebre un paio di volte, mentre lentamente metteva a fuoco l’ambiente circostante e tutti i suoi sensi si svegliavano con lui.

Era sdraiato su un morbido divano, la testa appoggiata su un cuscino soffice, e sopra di lui era sistemata una coperta leggera, affinché non prendesse freddo durante la notte. Di fronte a lui vi era un tavolino con un piattino contenente caramelle colorate, e sulla parete davanti c’era un mobile di legno d’acero, con un televisore incastonato nel mezzo, un impianto stereo accanto e su tutti gli scaffali c’erano libri, dvd, ma soprattutto cd musicali e vinili. Inutile dire che quella poteva essere solo la casa di John Lennon.

Paul si sollevò con una smorfia sofferente sul volto. La testa pulsava e doleva, mentre Paul cercava di capire cosa fosse accaduto la sera prima. E quando ricordò tutto, dalla discussione con Jane alla serata passata con John a bere birra e qualcosa di molto più forte, tanto da ubriacarsi, la testa fece ancor più male e insieme a lei, il cuore gli dimostrò il suo tormento stringendosi dolorosamente. Eppure l'odore di quella casa, di quel divano, di quella coperta, proprio quell'odore sembrò rendere tutto più sopportabile. Era l'odore dolce di Julian, quando Paul aveva giocato con lui alla stazione di polizia. Era anche l'odore più forte di John, quando la sera prima l'aveva sorretto per portarlo a casa e gli aveva promesso che il giorno seguente sarebbe andato tutto meglio.

Era così. La promessa era stata mantenuta.

Fu più facile, infatti, alzarsi e poggiare i piedi a terra. Le sue gambe sembravano pronte e desiderose di portarlo dovunque volesse andare.

Ma prima di questo, la sua attenzione fu catturata da un movimento, qualcosa che cominciò a strusciarsi contro le sue caviglie. Abbassò lo sguardo per scorgere un gatto. Non doveva essere molto più grande di Pepper, ma aveva il pelo tutto bianco.

"Oh, ciao, tu devi essere Elvis." esclamò, chinandosi per accarezzargli la testolina e lui fece subito le fusa, inarcando la schiena, come se volesse dirgli, 'Sì, sono proprio io.'

Paul rise e gli dedicò un po' di attenzioni, fino a quando il suo stomaco non brontolò, percependo un profumino delizioso provenire dalla cucina.

Si alzò in piedi e si mosse in direzione della cucina, mentre sentiva delle voci, ovviamente appartenenti a John e Julian.

"Passami altre due fette, Jules." stava dicendo John, quando Paul si fermò sulla soglia per assistere alla scena.

John stava tostando il pane, che sfrigolava dolcemente in una padella, mentre Julian seduto sul ripiano accanto alla cucina teneva in grembo un pacchetto di pane in cassetta.

Ogni tanto John alzava lo sguardo verso il bambino che ricambiava con un gran sorriso.

Era quasi un peccato doversi intromettere in quel quadretto familiare, ma la vista di tre piatti sul tavolo contenenti una perfetta colazione inglese spinse Paul a parlare.

"Buongiorno."

John si voltò immediatamente e sorrise vedendolo in piedi.

"Hai visto, Julian? La principessa si è svegliata."

Julian rise mentre Paul aggrottava la fronte perplesso, "Principessa?"

"Lascia stare, lunga storia." tagliò corto John, "Piuttosto, sei proprio in tempo per la colazione."

Paul rimuginò ancora sulla storia della principessa, mentre John prendeva in braccio Julian per portarlo a terra.

"Julian, ti va di mostrare al nostro ospite il suo posto a tavola, mentre papà finisce di tostare il pane?"

"Sì." rispose il bambino entusiasta, e corse ad afferrare la mano di Paul, "Vieni di qua."

Paul si lasciò condurre fino all’altro capo del tavolo e si sedette, ammirando il lavoro svolto da John e Julian. Vi erano tre tovagliette con una fantasia a quadri arancioni e bianchi, e sopra ognuna di queste vi era un piatto con uova al tegamino, salsicce e fagioli in salsa di pomodoro. Julian si sedette accanto a lui, proprio quando John li raggiunse sistemando due fette di pane tostato per ogni piatto.

“Ecco qua.” disse, dopo averli raggiunti al tavolo, “C’è del caffè e del succo di frutta, se vuoi, Paul.”

“Grazie, John, ma non avrai fatto tutto questo per me, spero…”

“Sta' tranquillo. Noi lo facciamo ogni giorno, vero, piccolo?” chiese John, incitando Julian.

Il bambino era tutto intento a mangiare la sua salsiccia già tagliata in piccoli pezzi, ma annuì per rispondere alla domanda del padre.

“Visto? Quindi, ispettore, coraggio, mangia in santa pace.”

Paul rise e obbedì, iniziando a gustare quella abbondante colazione, ricca non solo di sostanza, ma anche di pace e serenità.

"Stai meglio oggi?" domandò John con accortezza, guardandolo di sottecchi.

Paul annuì con convinzione, "Sì. Grazie a te."

"Io non ho fatto niente." si affrettò a specificare John.

"No, non è vero. Hai fatto tutto."

John lo osservò a lungo, mentre Paul gli sorrideva dolcemente, e in quel momento il giovane uomo arrossì lievemente, ma la percezione fu quella di due fuochi sulle guance. Due veri e propri incendi devastanti.

Santo cielo, da quando Paul gli faceva questo effetto?

"Beh..." iniziò a dire, incespicando un po', "Allora prego."

"Vorrei trovare un modo per sdebitarmi." affermò Paul, con tutta la serietà del mondo, mentre si versava del caffè.

Per la miseria, aveva stra-maledettamente bisogno di caffè!

"Non ce n'è bisogno." rispose John sorpreso e facendo un vago gesto con la mano.

"Invece sì. Puoi chiedermi qualunque cosa."

"Ma Paul-"

"Andiamo, John." lo interruppe Paul, con una piccola risata, "Ci sarà pure qualcosa di cui hai bisogno."

"Sì, ma non devi farlo."

"Ti prego. Ci tengo."

Paul praticamente lo implorò con lo sguardo, e in quel momento John si rese conto del potere immenso che si celava dietro quegli occhi troppo grandi e troppo dolci. Difficile dire di no di fronte a due occhi così.

Si morse il labbro pensieroso, "Ci sarebbe qualcosa in effetti..."

"Di che si tratta?" chiese Paul, addentando una fetta biscottata.

"Beh, vedi, è da diverso tempo che avevo intenzione di ridipingere la cameretta di Julian." rispose John, "Magari potresti aiutarmi tu, così George può stare in negozio."

"Togli il magari. Lo faccio sicuramente." esclamò Paul, entusiasta, "Quando cominciamo?"

"Dobbiamo ancora scegliere il colore, giusto, amore?" domandò John, scompigliando affettuosamente i capelli di Julian.

Il bambino annuì, abbassando il bicchiere di succo d'arancia e rivelando le labbra bagnate, "Voglio il verde."

"Verde? È un colore bellissimo." fece notare Paul, "Hai fatto un'ottima scelta."

Julian sorrise compiaciuto, continuando a bere il suo succo.

"Hai visto, John? Problema risolto. Devi solo decidere quando iniziare e farmelo sapere."

John annuì, sorridendo fra sé, "Grazie."

Ripresero a mangiare ognuno la propria colazione, con Paul che voleva sapere quanti disastri avesse combinato la sera prima nel suo stato ubriaco e John che cercava di tranquillizzarlo, assicurandogli che non fosse accaduto nulla di così catastrofico.

E fu proprio nel bel mezzo della conversazione che il cellulare di Paul squillò, facendolo sussultare visibilmente sulla sedia.

John lo guardò attentamente, mentre Paul recuperava il cellulare dalla tasca dei pantaloni e poi scorgeva il numero sullo schermo. Per un momento, John ne era sicuro, il giovane ispettore aveva pensato che potesse trattarsi di Jane, perché una punta di timore aveva oscurato il suo volto.

“E’ dall’ufficio.” disse Paul, guardando John, “Ti dispiace se vado un attimo di là per rispondere?”

“Oh, ma certo che no.” lo tranquillizzò John.

Paul lo ringraziò, prima di tornare nel salotto in cui aveva dormito, e rispose al cellulare.

“Sì, pronto?”

“McCartney, sono l’ispettore Starkey.”

“Buongiorno, signore.”

“Buongiorno a lei. Spero che il suo giorno di ferie sia stato utile.”

“Grazie, sì, lo è stato.”

“Mi fa piacere." rispose l'uomo, prendendosi un attimo di pausa prima di continuare, "Senta, la sto chiamando perché abbiamo ricevuto un nuovo messaggio da parte di Hermes.”

“Oh, cosa dice?”

“Si farà vivo settimana prossima, all’inaugurazione del museo del cinema.”

Paul batté le palpebre, come se non avesse capito. Anzi, come se non volesse capire, perché in effetti aveva capito eccome. Come avrebbe potuto non capire l’esatto significato di quelle parole?

“Il museo del cinema?” ripeté e la sua voce balbettò stupidamente.

“Sì, è stato il signor Donovan ad avvisarci.” spiegò l’ispettore Starkey, con estrema cautela.

Che cos’era?

Uno scherzo del destino?

Hermes doveva scegliere di derubare proprio l’uomo che in quel momento Paul odiava di più?

“Ho capito.” rispose Paul, con una piccola voce e lui si odiò per questo.

“Comprendo bene che possa essere difficile per lei, ma il signor Donovan verrà nel mio ufficio nel pomeriggio per discutere su come agiremo, e ho bisogno che lei sia qui. Dopotutto è lei il responsabile dell’incarico.”

Paul emise un flebile sospiro. Come si diceva in questi casi? Oltre il danno, la beffa? Era esattamente ciò che sentiva ora Paul.

“Sì, ci sarò, non si preoccupi, signore.”

“Molto bene, allora la aspetto nel mio ufficio, alle due in punto.”

“D’accordo. A dopo.”

Paul terminò la chiamata e guardò per un istante il cellulare, prima di abbandonarsi sul divano con la testa fra le mani.

Ancora non credeva a quanto era accaduto, eppure era tutto maledettamente vero. Stava per incontrare l’uomo che gli aveva rubato Jane e non per questioni private, non per un regolamento di conti in stile duello all'ultimo sangue.

Era il lavoro di Paul che li stava avvicinando inevitabilmente.

Santo cielo, sembrava impossibile anche a volerlo fare apposta.

Come avrebbe dovuto comportarsi? Come avrebbe dovuto guardarlo? Che tono di voce avrebbe dovuto usare? Avrebbe dovuto chiedergli di Jane o no? Avrebbe-

"Paul?" lo chiamò John, comparendo all'improvviso dal nulla, "Tutto a posto?"

Paul sussultò e si voltò verso di lui, lieto di vederlo perché il suo arrivo aveva allontanato tutte quelle domande sciocche che si erano riversate in un istante nella sua mente.

"Sì." sospirò Paul, alzandosi in piedi e raggiungendo John, "Solo una situazione particolare a lavoro."

"Del tipo?"

Paul scrollò le spalle, impotente, prima di raggiungere John, "Del tipo che Hermes ha avuto la brillante idea di derubare il nuovo fidanzato di Jane."

"Oh."

"Già... Oh!"

John ridacchiò divertito con una mano davanti alla bocca, "Beh, è proprio il caso di dire che è uno strano scherzo del destino."

"Decisamente." concordò Paul, alzando gli occhi al cielo.

"È la volta buona che tifi per lui, eh?"

Il giovane ispettore sbatté le palpebre perplesso, "Per chi?"

"Per Hermes, no?"

"Stai scherzando, John? Non potrei mai. Mi impegnerò al massimo per proteggere qualunque cosa voglia rubare. Anche se detesto il suo proprietario, io cercherò di essere il più professionale possibile con lui. Come ho sempre fatto." affermò con decisione.

John fu colto alla sprovvista. Era stato così in sintonia con Paul, in quegli ultimi minuti, che si aspettava una battuta anche da parte sua. Tuttavia Paul era sempre Paul, la parte più inflessibile di lui era ancora presente e pronta per apparire quando si toccavano quei temi cari a Paul. E la sua professionalità era certamente il più importante.

 “Sì, giusto. Perdonami.”

“Macché, anzi, ti ringrazio ancora per quello che hai fatto per me ieri e questa mattina.”

“Non devi ringraziarmi. È stato un piacere.” lo tranquillizzò John con un sorriso.

“Ora però devo proprio scappare.”

“Sei sicuro?” domandò John preoccupato, “Puoi stare ancora quanto vuoi.”

“Sì, devo rimettermi un po’ in sesto per dopo. Non credo sia il caso di presentarmi con queste occhiaie e i vestiti che puzzano di birra." esclamò, ridendo e indicando i vestiti che aveva indosso e che erano ancora quelli della sera prima.

“No, infatti." concordò John con una risata, "Non è affatto il caso.”

“Ci sentiamo più tardi, se vuoi. Dobbiamo finire di studiare quel brano.”

“Ma certo che voglio.” si affrettò a ribattere John, “Io adoro quel brano.”   

“Ci avrei giurato." esclamò Paul, sorridendo, "Allora, buona giornata, John.”

“Buona giornata a te, e in bocca al lupo per oggi.”

“Crepi.”

Detto questo, Paul uscì dalla casa di John e questi lo guardò mentre attraversava la strada e si rintanava nel suo appartamento.

Infine John sospirò, richiudendo la porta.

C’era stato un momento poco prima, quando aveva visto Paul con le mani nei capelli, in cui John aveva provato una stretta al cuore. Non tanto perché gli dispiaceva di vederlo in quello stato, ormai quello era ovvio. Aveva accettato il fatto che trovasse difficile vederlo soffrire, anche se non gli era ancora chiaro per quale motivo.

Piuttosto, ciò che contava in quel momento, era che John si sentisse leggermente preoccupato. C’era questo strano sentimento in lui, ingombrante, cresceva ogni volta che pensava a Paul. Aveva paura di come avrebbe reagito, quando si fosse ritrovato di fronte a quell’uomo; dopo il crollo totale della sera prima, chissà cosa avrebbe potuto fare a quell'uomo che proprio in quei giorni aveva superato addirittura Hermes nella classifica delle "persone da odiare".

Eppure John era sicuro che Paul se la sarebbe cavata alla grande. Non si sentiva neanche un po’ in colpa per quello che  stava facendo, ovvero avvicinare quei due uomini, perché Paul avrebbe dovuto affrontarlo ora, e ne sarebbe uscito vincitore.

Almeno per quell'aspetto della vicenda.

Era ovvio, come gli ricordava la ragione, che il vero vincitore sarebbe stato Hermes.

Era anche ovvio, come gli ricordava il cuore, che fosse tutto sbagliato.

Maledettamente sbagliato.

****

I suoi occhi lo trafiggevano. O perlomeno era ciò che sperava Paul.

Desiderava che per una sola volta quello non fosse solo un modo di dire, desiderava che il suo sguardo lo trapassasse da una parte all'altra, colpendo il cuore dell'uomo che era seduto nell'ufficio dell'ispettore Starkey, proprio come lui e Jane avevano fatto con lo stesso Paul.

Il giovane ispettore scosse il capo, allontanando quei pensieri vendicativi che non erano molti appropriati in quel momento, neanche per un uomo adulto, ormai cresciuto, come Paul.

Eccolo lì, David Donovan, seduto con disinvoltura sulla sedia. Aveva una gamba sollevata in modo da far riposare la caviglia sull'altro ginocchio. Indossava un abito blu scuro, con pantaloni eleganti e una giacca abbinata sotto cui vi era una camicia bianca slacciata nei primi due bottoni.

Ogni tanto, quando percepiva lo sguardo penetrante di Paul si voltava verso di lui, solo per un istante, chiaramente a disagio. Forse voleva solo controllare che non stesse cercando di pugnalarlo o comunque attentare alla sua vita, e questo pensiero fece ridacchiare Paul dentro di sé.

“Allora, signor Donovan…” stava dicendo l’ispettore Starkey, “Il ladro ha scritto cosa ha intenzione di rubare dal suo museo?”

“Sì, un’originale maschera dal film The Wall.”

“Visto che il museo è suo, sa dirci in che modo può interessare a Hermes?” domandò intromettendosi Paul, “Come lei saprà, Hermes si occupa solo di cimeli musicali, non cinematografici.”

“Certo, penso che sia interessato a quella maschera perché il film è sul gruppo dei Pink Floyd. Chi non vorrebbe avere qualcosa dei Pink, eh?” esclamò, terminando con una debole risata.

Tuttavia né Richard né Paul si ritrovarono a condividere il suo divertimento.

“McCartney, come vuole organizzare la missione?” domandò Richard, rivolgendo il suo sguardo all’ispettore accanto a lui.

“Dovremmo fare un sopralluogo prima.” rispose Paul, incrociando le braccia, “Ma comunque, credo che dovremmo cercare di avere più uomini possibili all’interno del museo, e ovviamente ne sistemeremo qualcuno all’esterno, in corrispondenza delle uscite e delle finestre. E aggiungerei anche la perquisizione dei presenti all’entrata del museo.”

Il signor Donovan si agitò sulla sedia, profondamente inquieto, “E’ proprio necessario? Molti invitati sono amici miei, è assolutamente impossibile che possano contribuire in qualche modo al furto, o comunque rappresentare qualche pericolo.”

Paul sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Ricordava molto il suo primo caso, quando il signor Lowe aveva deciso da solo di non mettere alcun poliziotto dove era nascosto il vero ritratto. Beh, Paul non avrebbe ripetuto lo stesso errore.

“E’ necessario.” ribatté Paul infine, aggrottando la fronte.

“Ma-”

“Senta, signor Donovan, se non ci lascia fare il nostro lavoro come si deve, allora stia sicuro che non riusciremo mai a fermare Hermes.”

L’uomo sostenne lo sguardo gelido di Paul per pochi istanti, prima di cedere inevitabilmente alle sue condizioni, “D’accordo, ho capito, vada per le perquisizioni.”

“Bene, allora comincio a chiedere l’autorizzazione del commissario per quanto riguarda le perquisizioni e il sopralluogo.” esclamò Richard, alzandosi in piedi, "Continua lei, McCartney, mentre vado a chiamare al commissariato?"

"Sissignore."

"Torno subito, signor Donovan." disse l'ispettore capo, avviandosi verso la porta.

"Prego, faccia pure con comodo."

Fu così che infine rimasero soli, Paul e la nuova fiamma di Jane.

L'uomo che gliel'aveva portata via.

L'uomo che era stato responsabile della sua sofferenza.

Non era stato facile per Paul prepararsi a questo incontro. C'era voluta tutta la sua professionalità insieme al suo buon senso per non rispondergli male, o peggio, atterrarlo per un improvvisato incontro di boxe.

Non era neanche facile parlare di lavoro con lui. Paul aveva questa strana sensazione, come se il signor Donovan non si fidasse di lui. Come se pensasse che Paul, per i loro recenti trascorsi, avrebbe fatto di tutto per creargli problemi e magari aiutare Hermes nella sua impresa.

Maledetto bastardo!

Ma per chi l'aveva preso?

Paul non era così. Non si sarebbe mai vendicato. O perlomeno non l'avrebbe fatto mettendo a rischio il suo lavoro.

“Allora, è una coincidenza ben strana questa.” iniziò a dire il signor Donovan.

“In che senso?”

L’uomo sorrise nervosamente, “Oh, suvvia, ha capito a cosa mi riferisco.”

“Certo, ma non capisco davvero cosa voglia supporre.”

“Assolutamente niente, era… era solo per dire qualcosa.”

“Beh, se non ha nient’altro da dire riguardo il caso, allora la lascio qui ad aspettare l’ispettore Starkey. Ho delle commissioni da sbrigare.” sbottò Paul, prima di iniziare a dirigersi verso la porta.

“Aspetti un attimo.” si affrettò a dire l’uomo, afferrando il braccio di Paul e costringendolo a fermarsi, “Io sono solo preoccupato. Il museo mi è molto caro, ci lavoro da diverso tempo e sono affezionato a ogni singolo elemento della mostra. Non voglio davvero che per colpa della mia… vita privata, ci possa andare di mezzo tutto il mio lavoro.”

Eccolo! Proprio ciò che Paul pensava.

In altre circostanze si sarebbe arrabbiato, e anche molto. Ma ora che aveva conosciuto quest’uomo e aveva visto con i propri occhi ciò che si era aspettato dal momento in cui aveva appreso di quell’inevitabile incontro, si ritrovò a sorridere fra sé.

“Signor Donovan, se lei pensa che lascerò che anche la mia vita privata si intrometta nel mio lavoro, allora, beh, è questo l’errore più grande di tutta la sua vita, perché le assicuro che non permetterò mai che accada.”

"Mi dispiace, non volevo insinuare niente del genere. È solo che, vedi, Paul… Posso chiamarti Paul?"

"No.” rispose Paul, sbuffando vistosamente, “Può continuare a chiamarmi ispettore McCartney, signor Donovan. Non ci conosciamo e certamente non siamo amici."

D-d’accordo. Come desidera. È solo che visto quanto è accaduto con Ja-… con la signorina Asher, mi sembrava solo logico che lei potesse… ecco, potesse-”

“Impegnarmi di meno?” terminò per lui Paul, quasi divertito da quanto l’altro uomo fosse a disagio, “Come ho già detto, signor Donovan, lei non mi conosce, e io le assicuro che la tratterò con la stessa professionalità con cui tratterei qualunque altra persona che chiede il mio aiuto, niente di più, niente di meno.”

“Mi dispiace di aver dubitato, ma capisce, è stato più forte di me.” spiegò David, cercando di rimediare al suo errore.

“Non importa.”

“E mi dispiace anche per quanto è accaduto.”

Paul alzò gli occhi al cielo. Proprio come Jane, neanche lui poteva essere davvero dispiaciuto per quanto avessero fatto insieme. Era solo una frase di circostanza.

“Non credo, ma comunque, spero che possa essere felice insieme a Jane.” affermò Paul, “E ora se vuole scusarmi…”

“Sì, scusi lei.”

“L’ispettore Starkey le farà sapere quando avverrà il sopralluogo. Nel frattempo, buona giornata.” gli disse Paul, uscendo finalmente dall’ufficio.

“Altrettanto a lei.”

Ma Paul non lo udì, perché era già lontano.

Per fortuna, era già lontano.

****

Non poteva credere che fosse lì, proprio lì, dentro al museo.

Eppure eccolo, John, in mezzo a tutta quella gente vestita elegantemente, con l’aria così sofisticata, i capelli in ordine, orologi e gioielli dorati… Insomma, gente molto diversa da John.

Ma in fondo, cosa gli importava di quei ricconi snob, quando era a pochi passi da uno degli oggetti che più desiderava? Un cimelio originale dei Pink Floyd. Non vedeva l’ora di metterci le mani, lui adorava quel gruppo così unico nel suo genere.

Amava ogni singola canzone di ogni singolo album, amava Money, Shine on you crazy diamond, Comfortably Numb, amava-

Amava Wish you were here e la amava ancor di più da quando Paul l’aveva cantata con lui, qualche giorno prima.

John non sapeva bene perché avesse chiesto a Paul di cantarla insieme. Era solo che gli piaceva quando lo facevano, sembrava che fosse giusto, come se in un’altra vita non avessero fatto altro che cantare e suonare insieme e guardarsi di tanto in tanto, mentre le loro labbra formavano le parole della canzone.

Paul aveva opposto resistenza, inizialmente, ma John non aveva dovuto insistere molto questa volta. Era riuscito a convincerlo in poche mosse, anche senza l’aiuto di Julian.

E così, si era unito a lui nell’intima esibizione di quella canzone.

Era stato semplicemente unico, John doveva ammettere che anche la prima volta era stato emozionante, ma ora era diverso. C’era stata un’emozione lì, in quella stanza, mentre cantavano. Era la stessa che era apparsa lentamente in John, e in quel momento era fuoriuscita da lui, avvolgendo anche Paul insieme a John, come se volesse avvicinarlo a lui, mentre John non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, continuando a cantare e suonare. Paul qualche volta aveva intercettato il suo sguardo, e quando capitava, sorrideva lievemente, non solo con le labbra: sorrideva con gli occhi, con il naso che si arricciava, sorrideva tutto il suo volto che si illuminava e poi arrossiva appena, proprio appena, probabilmente Paul neanche se ne accorgeva, ma John era riuscito a notarlo.

L’aveva notato e oh, se non era la cosa più strana e insieme più bella che avesse mai visto. Forse perché quando aveva conosciuto Paul non avrebbe mai pensato che potesse ritrovarsi in quella situazione, non avrebbe mai pensato di riuscire ad aiutare Paul con il suo problema, e non avrebbe mai e poi mai immaginato che potesse scoprire di voler vedere, di desiderare un altro sorriso di Paul. Uno in più, solo uno, solo per John. Quel giorno era stato così e la fortuna gli aveva concesso ben più di un sorriso di Paul.

Questo era stato il motivo per cui, quando la canzone fu terminata, John si era sentito disorientato, ritrovandosi sotto lo sguardo divertito di Paul che aveva riso per poi chiedergli, "Troppo preso dalla canzone, John?"

Sì, troppo preso dalla canzone e dallo stesso Paul, tanto che John aveva dovuto sforzarsi per tornare in sé e ci era riuscito quando Paul lo aveva invitato all’inaugurazione del museo.

Gli aveva detto che avrebbe potuto fargli avere un pass se gli interessava, e John gli aveva chiesto come mai, mentre cercava di ignorare quelle due parti di se stesso che stavano avendo reazioni contrastanti: la prima esultava per il colpo di fortuna, incoraggiandolo ad accettare la proposta così avrebbe potuto rubare più facilmente la maschera del film; la seconda gli sussurrava, infida, che non avrebbe dovuto accettare, non avrebbe neanche dovuto rubare quella maschera, perché era un traditore, nient’altro, un traditore bello e buono, che stava mandando a quel paese la fiducia di Paul, e quel pensiero gli inviava sempre brividi di freddo, quasi glaciali, tanto da fargli venire la pelle d'oca.

Paul aveva risposto che essendo un'inaugurazione molto importante e il proprietario del museo era il signor Donovan, lui aveva paura che ci potesse essere anche Jane.

Ovviamente Paul non voleva che lei venisse, soprattutto perché, anche se l'annuncio di Hermes non era stato reso pubblico, a causa dell'importanza della serata e di tutte le sue implicazioni economiche e sociali, restava una serata rischiosa, e Paul non avrebbe mai potuto lavorare bene, se avesse dovuto preoccuparsi per Jane.

Perciò aveva chiesto il supporto di John.

E John aveva accettato, non sapendo bene quale delle due ragioni che avevano spinto a farlo, avesse vinto, se il dover rubare la maschera o l’aiutare Paul con la sua sola presenza.

L’importante era che ora fosse dentro, come John e come Hermes, e ce l’aveva portato proprio Paul.

Il piano non era stato affatto semplice da programmare. Avrebbe richiesto rapidità, agilità, coordinazione, insomma, tutte quelle cose che John e George avevano sempre dimostrato prima d’ora, ma su cui John in questo momento cominciava a sentirsi insicuro. Non era un buon segno. Non sentiva più neanche l’entusiasmo di prima. Stava per rubare qualcosa solo per vendicare Paul. L’avrebbe messo comunque nei guai, ma il motivo principale era che John volesse colpire, a suo modo, l’uomo che aveva contribuito a distruggere Paul.

La visione di Paul completamente ubriaco e perso l’aveva colpito più di quanto potesse immaginare. Tornava a tormentarlo di tanto in tanto, violentemente, facendogli desiderare solo di avere il potere di farlo stare meglio con uno schiocco delle dita.

Come in quel momento.

Dannazione, non poteva distrarsi. Un attimo di distrazione sarebbe stato fatale. Non poteva correre questo rischio. La sua missione aveva già abbastanza complicazioni, ci mancava solo che John perdesse tempo nei suoi pensieri alquanto strani e preoccupanti.

Ci penserai dopo, John, si disse, cercando di tornare in sé.

Per aiutare se stesso a ritrovare la concentrazione, mentre aspettava notizie di George, John decise di avviarsi verso il tavolo dove eleganti camerieri servivano vino per gli ospiti. Optò per un calice di vino bianco, prima di ammirare le opere che erano esposte nelle diverse sale del museo. Non era un museo molto vasto, almeno paragonato ai più vicini National Gallery e Portrait Gallery. Tuttavia non era male, John doveva ammetterlo. C’erano locandine originali di film che risalivano probabilmente addirittura a prima che nascessero i suoi nonni, e poi costumi originali, oggetti di scena, e ovviamente, la famosa maschera che John stava per rubare.

Era appoggiata su un semplice piedistallo, circondata da cordoni rossi di velluto per impedire a chiunque, soprattutto a Hermes, di avvicinarsi. John si sarebbe aspettato di vederla all’interno di una teca di vetro, ma per fortuna, niente in quel museo era protetto in quel modo. Sarebbe bastato allungare la mano e afferrarla, prima di correre via a perdifiato.

John la esaminò rapidamente da vicino, sorseggiando il suo vino bianco, dal gusto leggermente dolciastro e frizzante; poi si allontanò in fretta, per non destare troppi sospetti. Le sale erano sorvegliate da poliziotti in ogni angolo. All’ingresso avevano addirittura perquisito gli invitati. Ovviamente John era stato informato in precedenza da Paul, ed era preparato, ma alcune signore con i loro abiti lunghi e scintillanti ne erano rimaste totalmente sconcertate. Come potevano quei poliziotti da quattro soldi anche solo pensare che loro nascondessero qualche pericolosa arma nelle loro piccole borse o peggio, nella scollatura dei loro vestiti? Buon cielo, che oltraggio!

John aveva riso vedendo le signore, decisamente piccate nel loro nobile orgoglio, che venivano condotte in una sala privata per una perquisizione altrettanto privata con delle poliziotte più degne di poter gestire una situazione del genere.

Lui per fortuna non aveva avuto problemi. E come avrebbe potuto averne? Indossava solo un paio di occhiali da vista, con la montatura più spessa del solito, e nella giacca c’erano un portafogli e una scatoletta di mentine, che tornavano sempre utili.

Oh e ovviamente c'era anche un piccolo, praticamente invisibile auricolare per parlare con...

"George?" sussurrò impercettibilmente, coprendo la bocca con il calice di vino.

"Sì. Ci sono quasi."

George era in un punto non ben precisato, nei pressi del museo, nascosto in un piccolo furgoncino. Stava cercando di crackare il sistema di sicurezza del museo, oltre che l'impianto elettrico, per poter innescare con un semplice invio un blackout generale del museo che avrebbe permesso a John di agire.

"Vorrei liberarmi il più in fretta possibile di questo impiccio." mormorò John, facendo finta di tossire subito dopo, "Sto cominciando a sentirmi a disagio."

"Ti ricordo che si tratta di una tua idea, John. Per cui ora arrangiati."

Che razza di amico, pensò John ridacchiando e avvicinandosi alle locandine appese alla parete.

"Comunque, ho scoperto come accedere al sistema di sicurezza. Ma hanno installato un generatore di corrente extra che si attiva dopo pochi minuti, quindi dovrai essere molto veloce."

John annuì, facendo finta di ammirare le opere esposte.

"Io penso di poter arrivare lì in un minuto. Sarò proprio sotto la finestra a destra della sala dove ti trovi tu, hai capito?"

"Sì."

"Mi occupo io dei poliziotti di guardia all'esterno, ma tu dovrai fare il resto."

Di nuovo John annuì, analizzando una rarissima locandina di Dracula del 1931, di cui, stando a quanto diceva la descrizione, esistevano solo tre pezzi in tutto il mondo, e stava per rispondere affermativamente, quando qualcuno gli si avvicinò alle spalle, senza che John potesse avvertire il benché minimo rumore.

“Ciao, John.”

L'uomo sussultò visibilmente. Maledizione, da quando era diventato così facilmente sensibile?

Poi si voltò e quando riconobbe l'uomo di fronte a lui, ebbe la sua risposta.

Da quando aveva incontrato Paul.

"Ciao, Paul."

"Sei venuto davvero allora?" domandò, sorridendo incredulo.

"Avevo detto che ci sarei stato ed eccomi qui." rispose John, indicando tutto se stesso.

"Sì, sei qui.”

Sembrava davvero sorpreso che John l'avesse raggiunto, e il fatto che ora si stesse mordendo il labbro allontanò fin troppo facilmente i pensieri di John dalla conversazione con George per portarli in un luogo nascosto, segreto, dove John potesse facilmente credere che quel gesto col labbro significasse solo che Paul era molto felice, tanto da dover costringere se stesso a non lasciarsi scappare parole più calorose, parole compromettenti, parole-

No, che stava pensando? Era totalmente fuoristrada. John era amico di Paul. Lui era felice solo per questo.

Così, vedendo Paul ancora troppo preso dalla realizzazione, John si decise a proseguire.

"Allora, gran bella serata, vero?"

"Se non dovessi lavorare lo sarebbe di più." commentò Paul, sbuffando appena.

"Giusto."

Inoltre se Paul non fosse stato in servizio, in quel momento, allora quella sarebbe stata una semplice uscita tra loro due. Solamente loro due. Come un... appuntamento?

Vaffanculo, John, che testa di cazzo sei?

Stava impazzendo. Ecco, tutto qua. Non c'era altro motivo.

"Jane non è venuta." lo informò Paul, e John lo ringraziò fra sé per il semplice fatto di aver parlato e aver offerto uno spunto di conversazione.

"Beh, è stato molto sensato da parte sua." commentò John.

"Sì. Non penso che avrei potuto sopportare di essere nella stessa sala con lei e con...quello!" esclamò, indicando con la testa il signor Donovan.

John si lasciò scappare una risata prima di seguirlo con lo sguardo, notando che il produttore cinematografico stesse parlando amichevolmente con un uomo e una donna molto più anziani di lui, mentre si allontanava da quella sala per raggiungerne un’altra.

"Quello? Avanti, Paul, puoi trovare qualcosa di meglio per lui." esclamò John, divertito, dandogli una leggera spinta sulla spalla.

"Ehm… idiota?"

"Stai scherzando? Coraggio, impegnati, amico." lo esortò John.

"Coglione."

"Oh, così iniziamo a ragionare." affermò soddisfatto John.

E la sua euforia fu percepita anche da Paul, che si lasciò prendere la mano in quel piccolo gioco improvvisato.

"Stronzo." esclamò con fervore.

"Perfetto."

"Fottuto bastar-"

"Signore?"

Una voce femminile si intromise nello sfogo di Paul, guardandolo perplessa.

"Oh, Linda." esclamò Paul, arrossendo per essere stato sorpreso in un tale sconveniente comportamento, ma trovandolo ancora più divertente, "Dimmi pure."

"Mi chiedevo se non fosse il caso di fare un sopralluogo per le altre sale del museo, per controllare che sia tutto tranquillo." propose la donna.

"Ma certo, hai ragione. Arrivo subito, grazie."

Paul la guardò allontanarsi, prima di riportare il suo sguardo su John e soffermarsi su di lui per un tempo che a entrambi parve indeterminato.

"Ti ringrazio, John, per essere venuto, ti ringrazio infinitamente."

"John, ci siamo."

Ma John non udì correttamente le parole di George, sovrastate da quelle più forti, più vere di Paul. E i suoi occhi, gli occhi grandi di Paul erano di nuovo posati su di lui e questa volta lo osservavano con divertimento, felicità e qualcosa di molto caldo, molto dolce.

"Si entra in scena fra tre..."

Cos'era? Affetto?

Erano occhi che mostravano qualcosa che poche, rare volte John si era sentito rivolgere e la sensazione gli fece girare la testa.

"Due..."

Il suo cuore palpitava e John non sapeva più per quale motivo. Era a causa della sua imminente entrata in azione, o era a causa di Paul?

"Uno..."

Avrebbe tanto voluto rispondergli che no, Paul non poteva ringraziarlo, non in quel modo, perché John gli stava complicando la vita e Paul davvero non aveva assolutamente nulla per cui ringraziarlo.

Avrebbe voluto dirgli che il senso di colpa lo stava distruggendo, ma non poté perché alla fine George parlò.

"Via!"

E tutto divenne buio.

****

La prima cosa che Paul udì fu il tonfo sordo del suo cuore, che si preparava a qualunque cosa stesse per accadere, come tutto il resto del suo corpo.

Sapeva cosa stava per accadere: Hermes.

Poi ci furono le voci concitate e spaventate degli invitati per essere rimasti all’improvviso al buio. Così il giovane ispettore decise di prendere in mano la situazione, non prima di aver suggerito a John di seguire le sue istruzioni.

"Mantenete la calma, si tratta solo di un blackout. Seguite la mia voce e riunitevi tutti in questo angolo."

Paul faceva fatica a vedere, nonostante dalle finestre entrasse una debole luce. Quasi non bastava neanche per distinguere le sagome.

“Agente Eastman, dai l’allarme alla squadra esterna e cerca l’ispettore Starkey, ma fai attenzione.”

“Sissignore.”

Paul la sentì allontanarsi con passo sicuro ma attento, mentre i restanti due agenti presenti in sala gli chiedevano istruzioni.

“Mantenete le postazioni, io mi occuperò di proteggere la maschera.” disse e fece per raggiungere il piedistallo con l’oggetto in questione.

Era a un passo dalla sua meta quando il rumore di un vetro che si infrangeva lo fece sussultare e immobilizzare, mentre ci furono altre urla dei presenti. Tuttavia Paul non fece in tempo a voltarsi per cercare la finestra che era stata rotta, dal momento che il minuto dopo la sala venne invasa dai fumogeni e tutti iniziarono a tossire.

Dannazione.

Paul  si affrettò a coprirsi naso e bocca con un fazzoletto, e nonostante gli occhi iniziassero a bruciare per il fumo, il giovane ispettore riuscì a raggiungere la maschera per impedirne, come poteva, il furto da parte di Hermes.

Attese, cercando di affinare l’udito, l’unico dei sensi a cui potesse fare affidamento in quella situazione. In fondo, con il buio e il fumo era come se fosse cieco. Un gran bello svantaggio per uno che doveva proteggere un oggetto di valore e cercare di arrestarne il predatore. Il cuore che pulsava nelle orecchie non aiutava, mischiando i suoi battiti al tossire violento di chiunque avesse respirato quel fumo apparentemente soffocante.

Poi un rumore lieve, un passo felpato lo allertarono, così come un’ombra che si mosse agile davanti a lui, proprio dalla parte opposta del piedistallo.

“Non vincerai, non stavolta. Sei in trappola.” cercò di dire, trattenendo la tosse che voleva prendere il sopravvento su di lui.

Non seppe bene per quale motivo lo disse, forse voleva solo rendere nota la sua posizione in modo da scoraggiare o comunque allarmare Hermes, ma comunque sapeva che non sarebbe servito a nulla.

Perciò tentò il tutto per tutto. Non avrebbe mai potuto proteggere la maschera se fosse rimasta così esposta e decise di allungare una mano per afferrarla, ma nello stesso momento sentì e percepì fisicamente uno dei sostegni dei cordoni di protezione che veniva spinto a terra, producendo un rumore metallico acuto e penetrante.

La mano di Paul esitò, restando a mezz’aria, mentre lui cercava di capire se Hermes si fosse avvicinato a lui; in quel caso avrebbe potuto decidere di afferrare lui piuttosto che la maschera e risolvere tutti i suoi dannati problemi.

Ma proprio quell’attimo di esitazione gli fu fatale, perché un’altra mano si avvicinò alla maschera e la sottrasse abilmente, e poi ci furono dei passi veloci che si allontanavano dal piedistallo, ma restarono comunque nella sala. Sicuramente Hermes sarebbe fuggito dalla stessa finestra da dove era entrato. Paul fece per voltarsi e corrergli dietro, ma i cordoni erano caduti proprio accanto a lui e lo fecero inciampare.

“Inseguite il ladro.” ordinò a gran voce agli altri due agenti, mentre lui si rialzava un po’ goffamente.

Era terribile non avere alcuna idea dello spazio circostante, né misure, né posizioni, né altro. Paul non avrebbe mai e poi mai voluto trovarsi in una simile situazione un’altra volta.

Iniziò a correre cercando di farsi strada nella sala in mezzo a quel fumo che proprio non ne voleva sapere di svanire, ma quando arrivò  sotto quella forzata via d’uscita, vide una figura incappucciata sparire al di là della finestra. Paul non ci pensò due volte. Si arrampicò in fretta e si sporse all’esterno, notando che gli agenti che avevano il compito di sorvegliare quella breccia vulnerabile erano stati messi k.o.

Non pensò molto prima di buttarsi al di fuori dell’edificio e correre all’inseguimento di Hermes.

Non pensò affatto.

****

John sospirò, abbandonandosi alla parete.

Era seduto per terra, nello stesso punto in cui si trovava quando la luce era andata via.

Lì dove Paul l’aveva lasciato.

Ce l’aveva fatta. Incredibilmente era riuscito a rubare quella maschera.

Inspirò profondamente per recuperare più aria possibile, dal momento che aveva inspirato lui stesso un po’ di quel fumogeno, dopo aver lasciato la maschera a George. Doveva sembrare che lui non si fosse mosso dalla sua posizione, doveva sembrare che lui fosse uno qualunque dei presenti.

Chiuse gli occhi, ricordando quei momenti di ansia e adrenalina per essere a pochi passi dal suo ispettore.

Quando il buio li aveva avvolti, i suoi occhiali, un po’ diversi dal solito, gli avevano permesso una nitida visione, anche se immerso nell’oscurità. Erano occhiali a raggi infrarossi, mascherati da comuni, banali occhiali da vista. Una tecnologia molto sopraffina, decisamente.

E poi George da fuori aveva rotto la finestra e l’aveva aperta, mentre John aveva sfilato la sua scatoletta di latta di mentine, o forse era meglio dire, presunte mentine; aveva premuto il piccolo pulsante che sembrava dovesse aprire la confezione, e l’aveva fatta scivolare accanto a sé, dove aveva subito causato quella nube di fumo che aveva avvolto tutti i presenti, compreso lo stesso John.

Tuttavia, come sembrava avesse fatto anche Paul, John si era coperto naso e bocca con un fazzoletto ed era entrato in azione. Si era avvicinato al piedistallo, pur sapendo che Paul fosse proprio lì, e aveva visto quando aveva cercato, disperatamente, di afferrare la maschera. Così, per distrarlo, aveva deciso di far cadere i sostegni dei cordoni vellutati e poi gli aveva sottratto la maschera, proprio da sotto il suo bel naso.

Dopodiché si era precipitato verso la finestra, da dove George era spuntato per prendere la maschera e scomparire in mezzo al traffico del centro di Londra, mentre John era tornato verso la sua postazione per sedersi a terra e recuperare la scatoletta di fumogeni ormai esaurita, nascondendola in tasca, prima che tornasse la luce.

I poliziotti in sala si erano ripresi rapidamente, cercando l'ispettore McCartney con lo sguardo, ma non trovandolo da nessuna parte. Poi mentre prestavano soccorso agli invitati all'inaugurazione, erano sopraggiunti l'ispettore Starkey e un ben alterato signor Donovan, anche loro alla ricerca del povero Paul.

Quando videro che la maschera era sparita, beh, quello fu il momento in cui il produttore cinematografico perse completamente le staffe. L'ispettore capo cercò di farlo calmare, soprattutto per la presenza dei suoi stessi invitati, ma lui non lo ascoltò e cominciò a urlare che doveva aspettarselo, che era tutta colpa di McCartney, perché era un incompetente e un vendicativo.

Questo fino a quando l'uomo in questione tornò nel museo, visibilmente sconvolto, affannato e sudato. Insomma era in pessimo stato.

E quando si trovò di fronte al signor Donovan e dovette spiegare a entrambi che si era lasciato sfuggire Hermes perché era stato inghiottito dalla folla di turisti a Trafalgar Square, l'uomo ricominciò il suo flusso di ingiurie nei suoi confronti, definendolo un pazzo che aveva lasciato che la propria vita privata influenzasse il suo lavoro, e chi c'era andato di mezzo era stato proprio David Donovan. E quando osò insinuare che non si sarebbe sorpreso, se avesse scoperto che fosse stato addirittura lo stesso Paul a organizzare il furto, allora fu il turno dell'ispettore arrabbiarsi, anche piuttosto seriamente, in un modo che John non aveva mai visto. Gli disse che non aveva alcun diritto di alterarsi in quel modo perché Paul aveva fatto di tutto per acciuffare Hermes e riprendere la maschera, l'aveva inseguito a perdifiato in mezzo alla folla prima che lui sparisse inghiottito dall'oscurità della notte.

E prima che David potesse ribattere, l'ispettore Starkey lo fece allontanare dalla sala, mentre l'uomo sbraitava che si sarebbe fatto risarcire per l'immensa perdita subita a causa di Paul.

Quando furono andati via, Paul sospirò. Era stanco e altrettanto stanco si sentiva John, non solo a compiere furti che ormai non sembravano entusiasmarlo più, ma anche a vedere, notare la stanchezza di Paul. Era tutta colpa di John, se Paul era ora in quello stato, e John non lo poteva accettare.

Ancor più difficile da sopportare fu il modo in cui Paul si voltò e lo cercò con gli occhi, e poi gli sorrise, una volta scorto lì a terra, dove l'aveva lasciato.

Non poteva continuare così. John poteva essere sia la sua forza che la sua debolezza. Non era giusto.

"John, stai bene?" gli chiese, quando si avvicinò.

"Sì. Tu?"

Paul annuì, sedendosi di fronte a lui a gambe incrociate.

"Mi dispiace per quello che è successo." ammise John, nonostante un brivido l'avesse appena attraversato.

Ipocrita, ecco cos'era, e bugiardo. Un traditore ancor peggiore di Jane e del signor Donovan.

"E a me dispiace di averti trascinato qui." ribatté Paul, con un sorriso amaro.

La mano di John si mosse automaticamente verso quella di Paul, per tranquillizzarlo, "Non preoccuparti. Stiamo tutti bene, è questo che conta."

"Sì." concordò e il suo sorriso divenne più sincero ora.

"Come…” iniziò a dire John, ritirando la mano, “Come ha fatto a entrare?"

"Ha messo fuorigioco gli agenti all'esterno che sorvegliavano queste finestre, poi è entrato facendo scattare un fumogeno per poter agire con più facilità. E alla fine è scappato."

"E il blackout?"

"Penso che sia stato opera del complice." rispose Paul, incrociando le mani e appoggiando i gomiti sulle ginocchia.

"Hermes ha un complice?" chiese John, cercando di sembrare il più sorpreso possibile.

"Sì. Lo sappiamo da un po', ormai. Dovrebbe essere una specie di hacker informatico. Riesce a infiltrarsi nei sistemi di controllo e sicurezza del luogo dove Hermes dovrà rubare."

“Oh, beh, così è troppo facile rubare.” esclamò John, scuotendo il capo, “Arsenio Lupin non aveva di certo un complice hacker per i suoi colpi. Faceva tutto da solo.”

Paul si lasciò scappare una risata e la cosa fece sentire John entusiasta in un modo molto familiare, un modo che John difficilmente poteva dimenticare. Era la stessa sensazione che John aveva provato quando aveva rubato per la prima volta come Hermes.

Il che gli fece pensare che stesse rubando anche un’altra cosa: la fiducia di Paul.

“Meno male che sei venuto stasera, John.”

John scosse lievemente la testa per allontanare una buona volta quei pensieri insieme eccitanti e deprimenti, “Ah, e che fine ha fatto il ‘mi dispiace di averti trascinato qui’?

“Era vero, ma sono comunque felice che tu sia qui. È tutto più facile quando ci sei tu.” disse Paul e lo fece con una semplicità unica, una naturalità assolutamente deliziosa.

Il tonfo del cuore di John fu tanto forte che lui si meravigliò che Paul non l’avesse sentito, ma a quanto pare fu proprio così, e il giovane ispettore gli rivolse ancora quello stesso sorriso che gli faceva maledettamente tremare le gambe. Ovviamente John non poteva dirlo con certezza, era seduto, in fondo. Tuttavia era quasi sicuro che se si fosse alzato in piedi, le sue gambe non lo avrebbero sorretto, almeno non se Paul continuava a sorridergli in quel modo.

Dannato Paul, maledettissimo Paul. Era tutta colpa sua, stava giocando e mandando a quel paese la mente di John. E John… John lo odiava. Dio, se non era così. E ora doveva solo allontanarsi il più in fretta possibile da quello stupido museo.

“E’ stato un piacere, Paul, ma ora, se ho il permesso, vorrei davvero tornare a casa.” esclamò alzandosi in piedi.

“Certo, vai pure.”

“Non fare tardi, eh?” si raccomandò John, “Hai bisogno di riposarti anche tu.”

“Ci proverò.” sospirò Paul, scrollando le spalle.

“E soprattutto lascia perdere quell’idiota. Non sa quello che dice.”

“Va bene.” affermò Paul, rincuorato, “Grazie ancora per tutto, John.”

“Grazie a te.” disse, accennando un sorriso, “Allora, ci sentiamo presto.”

“Sì. A presto.”

John annuì, guardandolo per un altro istante. E poi si costrinse con la forza a voltarsi e allontanarsi da quell’uomo che costituiva ormai un pericolo non solo per Hermes, ma anche per John. Un pericolo di cui però John non poteva più fare a meno.

“Non è stata colpa mia.” disse all’improvviso la voce di George, ricordando in questo modo a John che aveva dimenticato di togliere l’auricolare.

“Cosa?” sbottò John, uscendo dal museo, a testa china e  infilando le mani in tasca.

“Quella pugnalata fredda alla schiena che hai sentito prima.”

“Ma che stai dicendo?”

“Sì, dai, quando Paul ha detto quelle cose, non ti sei sentito neanche un po’ in colpa?”

“Oh, per favore, George, sta’ zitto.”

“Ma io-”

Con un gesto nervoso, John si tolse l’auricolare, nascondendolo in tasca. Finalmente silenzio.

Non che fosse servito a molto.

Dopotutto ora non sentiva più George, né Paul, ma John era sempre presente in lui. E John sapeva diventare il più assillante, fastidioso rompiscatole quando si impegnava.

Come ora, ora che gli faceva notare che era vero, non era colpa di George, quella pugnalata fredda alla schiena. E non era neanche colpa di Paul, lui in fondo non stava mentendo.

No.

Era solo colpa di John.

John, lo stupido.

John, il traditore.

John, il ladro.

****

Paul non poteva crederci.

Non poteva credere che Jane fosse andata da lui, un paio di giorni dopo il furto. Era stata una vera sorpresa, trovarsela davanti una volta aperta la porta.

Eppure era proprio Jane, in carne e ossa.

Gli aveva chiesto cortesemente di poter entrare e Paul l’aveva fatta accomodare. Non capiva per quale motivo fosse lì, l’unica cosa di cui lui era certo era che improvvisamente stare nella stessa stanza con lei, ora, era più facile. Tutta la rabbia che provava prima per lei si era affievolita, insieme al suo amore. Su questo non vi era alcun dubbio.

“Mi dispiace per quello che è successo.” esordì Jane.

“A cosa ti riferisci?”

“A tutto. Non solo a quello che ti ho fatto, ma anche per l’altra sera. Ho letto l'articolo sul giornale. David non avrebbe dovuto dire quelle cose davanti a tutte quelle persone.”

“Non avrebbe dovuto.” ripeté Paul, pienamente d’accordo, ricordando l’articolo di giornale che riportava per filo e per segno tutte le ingiurie che gli avesse rivolto David.

“Pensavo che non venire all’inaugurazione avrebbe reso le cose più facili, ma mi sbagliavo.” affermò Jane, e i suoi occhi divennero più lucidi, anche se c’era un sorriso triste sul suo volto.

“Non è vero, avevi ragione. Penso che non avrei potuto sopportare lo stare nella stessa stanza con voi due e nel frattempo concentrarmi sul lavoro.”

"Allora una cosa buona l'ho fatta." commentò lei amaramente.

Paul scosse il capo e si affrettò a rispondere, "Jane. Non dire così."

"Perché non dovrei?" sbottò Jane, senza riuscire a trattenere le lacrime, "Ho rovinato tutto quello che stavamo costruendo insieme."

"Ehi. Si è sempre in due in una relazione e se è successo quello che è successo, allora è anche colpa mia. Non ho saputo custodire il tuo amore."

"Oh Paul!" si lasciò scappare prima di piangere, scossa da singhiozzi violenti, "Non dovresti dire così. Dopo quello che ti ho fatto passare..."

"Beh, penso che se è accaduto, allora doveva essere inevitabile. Ma ora devi farti coraggio, Jane, e non piangere." le disse lui, alzandosi per sedersi accanto a lei.

Le diede pacche leggere sulle spalle e le porse un fazzoletto che lei accettò per asciugare le lacrime. La ragazza pianse per qualche minuto, mentre Paul cercava di consolarla con dolci parole di conforto.

Quando alla fine Jane si calmò, si scusò per il piccolo crollo avuto di fronte a lui. Poi disse di dover andare via: aveva un aereo per la Francia in serata e stava già rischiando di fare tardi.

Paul annuì e la accompagnò fuori casa, verso la macchina.

"Allora fa' buon viaggio." le disse.

"Grazie, Paul. Per tutto."

Jane gli sorrise, i grandi occhi azzurri erano ancora lucidi, e Paul pensò che non potesse essere arrabbiato con lei. Non più almeno. Non ora che non aveva senso, perché si stavano dicendo addio.

"Non devi ringraziarmi."

"Ci tenevo. Così come tengo molto al restare amici, se per te va bene."

Paul si morse il labbro. Non avrebbe mai potuto pensare a Jane come un'amica. Anche se lui non l'amava più, era ancora troppo presto per considerarla un'amica. Eppure lui sapeva e Jane sapeva che una volta che lei fosse andata via, non si sarebbero rivisti mai più.

Così che senso aveva farla andare via con una risposta negativa?

"Certo, Jane. Mi farebbe molto piacere."

Jane sorrise dolcemente e Paul si accorse che da tempo non sorrideva così con lui. Poi lei si avvicinò e lo abbracciò teneramente, prima di salutarlo una volta per tutte e sparire dentro la sua macchina.

Paul rimase a guardarla fino a quando l'auto sparì dietro l'angolo. C'era un vuoto nel cuore ora. Ma non era propriamente spiacevole. Sembrava quasi buono, come un buon segno, come se qualcosa di bello e incredibile stesse per accadere per riempire quel vuoto.

Il pensiero era dei più positivi e Paul si ritrovò a sorridere, e sorrise ancor di più quando voltandosi per tornare in casa, incrociò lo sguardo di John che lo osservava dal suo negozio.

Lo salutò con la mano. Un saluto e un sorriso, gesti molto automatici ormai da rivolgere a quel ragazzo così particolare e così fondamentale per lui.

E John ricambiò subito.

John che l'aveva visto con Jane con una stretta dolorosa al cuore. Non perché fosse geloso, in fondo si vedeva che quello fosse un addio definitivo tra Paul e Jane.

La stretta dolorosa era per il semplice fatto di aver incrociato lo sguardo di Paul.

Era per tutte quelle emozioni che Paul suscitava in John.

Per quel sentimento che si agitava disperato e contento dentro di lui.

Sì, c'era davvero un sentimento in John per Paul.

No, non era affatto amicizia.

Sì, era qualcosa di molto più dolce.

No, non era una bella cosa.

Sì, erano grossi guai.

Perché John, con quel sentimento, era fottuto.

Perché John, il ladro, aveva perso la testa per Paul.

Paul, l'ispettore.

 

 

Note dell’autrice: yeah, sorpresa! Santo cielo, una storia al giorno in questi tre giorni, e che cavolo!

Qualcuno mi ha chiesto di aggiornare prima sulla pagina facebook, e considerato che era un capitolo importante, ho pensato di accontentare. J

Beh, allora John e la sua realizzazione occupano gran parte del capitolo. :3 E direi che era ora che si svegliasse questo ragazzo. Yooo!

Grazie a kiki per la correzione, grazie a ringostarrismybeatle che mi sopporta supporta e che mi ha ispirato la scena di John e Paul prima del colpo di Hermes, e grazie a lety_beatle, paulmccartneyismylove, Chiara_LennonGirl, GaaraIstillloveyoubaby, paperback_writer, Mademylifeasong.

Grazie anche a tutti quelli che hanno inserito la storia tra le preferite. Wow! *_*

Prossimo capitolo, “Here comes the sun”, martedì prossimo. Parola chiave: piscina! ;)

A presto

Kia85

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Here comes the sun ***


I’ll get you

 

Capitolo 14: “Here comes the sun”

 

Maledizione.

Dannazione.

In che guaio si era cacciato?

John stava correndo a perdifiato in una delle stradine che costeggiavano il lussuosissimo hotel Dorcester, di fronte ad Hyde Park.

Aveva appena derubato Elton John in persona. Il famoso ed eccentrico cantautore in quei giorni aveva una serie di concerti al Royal Albert Hall, e soggiornava nel vicino Dorcester insieme al suo compagno. La cosa davvero particolare di quel soggiorno, che era perfino stata riportata su tutti i tabloid inglesi, era che Sir Elton avesse addirittura prenotato una camera solo per gli accessori, come scarpe, gioielli e ovviamente gli occhiali.

John sapeva da tempo che, semmai gli fosse capitata l'occasione, avrebbe rubato un paio di occhiali di Elton John. Erano così particolari, così unici nel loro genere, bisognava avere un fegato niente male per potersi esibire davanti a migliaia di persone con quegli accessori strambi. Tuttavia Sir Elton aveva dimostrato più volte di possedere quel fegato, ed era una delle cose che John apprezzava di lui, oltre al grandissimo talento per scrivere canzoni sempre originali e sicuramente d'effetto.

Il problema, però, era che John in quei giorni non fosse stato più lo stesso. Aveva letto l'articolo sul cantante e non aveva minimamente pensato di derubarlo.

Non aveva neanche avuto voglia di farlo. Se non fosse stato per George, infatti, John non avrebbe mai e poi mai deciso di indossare nuovamente i panni di Hermes: George aveva insistito, dicendo che era un'occasione da non perdere e avrebbero dovuto assolutamente rubare qualcosa al mitico baronetto.

Controvoglia, John aveva accettato.

E ora era lì, a correre in quella stradina, inseguito da Paul.

Non era stato particolarmente facile realizzare quel colpo, sebbene una voce dentro John gli continuasse a ripetere che, rispetto ad altri colpi, questo era una passeggiata.

Era John il problema. Ormai aveva capito da tempo di non avere più l'entusiasmo, né l'ispirazione, né tantomeno la concentrazione giusta.

Il messaggio di Hermes aveva annunciato il furto di una camicia dell'artista, ma in realtà il suo obbiettivo era un paio di occhiali. Così Paul aveva concentrato le guardie nella camera principale del Sir, sebbene un paio di guardie fossero state incaricate di sorvegliare l'interno della camera degli accessori. John, sapendo tutto questo dallo stesso Paul, si era arrampicato dall'esterno fino al quinto piano dell'edificio. Era l'unica soluzione, dal momento che l'interno dell'hotel pullulava di poliziotti. Una volta raggiunto il balcone, in silenzio aveva creato una piccola breccia nel vetro, per potervi far scivolare all'interno un dispositivo che avrebbe addormentato i due poliziotti di guardia con un potente sonnifero.

Difatti i due uomini erano caduti a terra, privi di senso, e John aveva potuto agire indisturbato. Era entrato e aveva potuto ammirare tutti quegli occhiali scintillanti ed eccentrici custoditi nella stanza. Non ne cercava un paio in particolare, ma quando aveva scorto degli occhiali a forma di pianoforte a coda, sulle cui lenti erano riportate le iniziali E. a destra e J. a sinistra, scritte con dei brillantini, John aveva saputo subito che fossero proprio quelli gli occhiali che facevano al suo caso.

Perciò li aveva afferrati velocemente, facendo scivolare un altro paio sul pavimento, e si era precipitato fuori per poter tornare a terra.

Tuttavia non aveva fatto i conti con l'udito sopraffino di Paul.

Il giovane ispettore aveva udito il rumore causato dal ladro, aveva capito che qualcosa non andasse ed era corso nella camera. John era a metà percorso quando Paul dal balcone gli aveva intimato di fermarsi, cosa che John era ben lungi dal fare.

Così mentre Paul era tornato dentro, evidentemente per aspettarlo a terra, John si era affrettato a scendere. Non appena era stato ad un'altezza non pericolosa, aveva abbandonato i suoi appigli e si era lanciato a terra, iniziando a correre in una qualunque direzione, proprio mentre Paul e alcuni agenti erano usciti dall'hotel tuffandosi nel suo inseguimento.

Ora John correva ed era assolutamente certo di aver sbagliato strada. Non era quella che aveva concordato con George. Il che rendeva tutto più complicato perché ora John non avrebbe più potuto incontrarsi con George e seminare definitivamente Paul.

"John, dove cazzo sei?" sbottò infastidito George dall'auricolare.

"Ho sbagliato strada."

"Cazzo, John. Che ti è preso?"

Beh, quella era una domanda molto giusta, a cui era altrettanto difficile trovare una risposta sensata e accettabile.

"Pensiamo dopo a questo. Ora dimmi cosa fare. Paul e i suoi mi stanno alle calcagna."

George sospirò e John pensò che avesse anche alzato gli occhi al cielo.

"Cerca di seminarli e poi vengo a recuperarti."

"D'accordo."

Come se fosse facile.

Qualcosa non andava quella sera e John ne era dolorosamente consapevole: o Paul aveva acquisito maggiore resistenza nella corsa, oppure era John che la stava perdendo.

Fatto sta che Paul era davvero molto vicino e John era... Sì, era stanco di correre. Stanco di scappare, non poteva negarlo.

L'unica cosa che voleva fare era fermarsi e lasciarsi catturare, anche se Paul avrebbe scoperto la sua identità, anche se Paul l'avrebbe odiato.

Tuttavia non poteva, in alcun modo non poteva farsi catturare. Doveva pensare a Julian. Il suo bambino aveva bisogno di lui, solo di lui. E se John fosse stato arrestato, chi si sarebbe preso cura di Julian? Non aveva alcuna intenzione di lasciare che il suo bambino affrontasse le sue stesse brutte esperienze. Sì, c'era Cynthia, ma se non se la fosse sentita di occuparsi di Julian ogni giorno della sua vita?

C'erano anche George e Pattie, ma se non avessero avuto l'approvazione del tribunale dei minori?

No, c'era solo John per Julian.

Paul gli intimò nuovamente di fermarsi, riportandolo bruscamente a quel momento e John si voltò un istante verso di lui.

Non l'avesse mai fatto. Il senso di colpa scalpitò ferocemente alla visione di Paul, il suo ispettore, il suo amico, l'uomo che aveva mandato in frantumi la presunta normalità di John, la sua quotidianità, le sue certezze...

Il tonfo che interruppe quei pensieri non fu certamente quello del suo cuore. No, l'asfalto duro che si sfregò improvvisamente contro la sua guancia e contro i palmi delle sue mani, gli comunicò in modo abbastanza chiaro che John fosse inciampato e franato a terra.

E Paul e i suoi agenti si stavano avvicinando pericolosamente.

Porca puttana, John imprecò fra sé.

Si rialzò subito con un balzo agile e riprese a correre. Decise di infilarsi nella prima strada a destra e fortunatamente si ritrovò davanti ad un edificio in ristrutturazione. Le impalcature erano rivestite da una fitta rete che in quel momento avrebbe potuto salvarlo così come rappresentare la sua condanna. Decise di rischiare, confidando nel fatto che la via fosse piena di turisti. Dovevano essere molto vicini a Piccadilly circus, il che significava che, Dio, avesse corso davvero per un bel pezzo di strada.

Trovò riparo nelle impalcature, e rimase immobile, trattenendo anche il respiro fino a quando Paul non arrivò.

Il suo ispettore, in evidente difficoltà ora, si guardò intorno per pochi istanti prima di tuffarsi in mezzo alla folla e John si lasciò cadere a terra con un gran sospiro.

Era salvo. Per ora.

"George." mormorò senza fiato, "Ho seminato gli sbirri."

"Ottimo. Dove sei?"

John cercò di guardare il numero civico e il nome della via, sempre nascosto dalle impalcature.

"Al numero 3 di Savile Row."

"Arrivo, non muoverti."

John annuì, anche se George non avrebbe mai potuto vederlo, e cercò di rilassarsi.

Per la miseria, quanto era stato stupido? Aveva corso il rischio più grande di tutta la sua carriera da ladro. Lo sapevano bene la sua mente, che continuava a ripetergli che era salvo, e il suo corpo, che tremava in modo incontrollabile.

John si guardò le mani: erano ferite, un po' di sangue era apparso lì dove il duro asfalto aveva sfregato la pelle sottile del palmo, e il loro tremore era evidente, così John le chiuse a pugno per fermarle.

Non avrebbe dovuto tentare questo colpo, soprattutto perché i recenti eventi avevano fottuto la mente di John.

C'era la questione di Paul, ovviamente. Come poteva non influire? Bastava vedere come avesse fatto distrarre John quella sera stessa.

Paul e i nuovi sentimenti di John. Come era potuto accadere? Come aveva fatto quel rapporto, che almeno da parte di John era partito con le intenzioni più ipocrite e disdicevoli, ad essere passato a qualcosa di così puro, così intenso, così meravigliosamente devastante? Come aveva potuto John lasciare che accadesse? 

Era stato più forte di lui, era stato inevitabile, come se fosse dettato dal destino, lo stesso che aveva condotto Paul nel suo negozio, all’inizio di tutta questa storia.

Giorno benedetto e maledetto, quello.

Eppure, John non poteva davvero sentirsi dispiaciuto; nonostante tutto, nonostante le conseguenze terribili che potevano seguire la sua realizzazione, John era felice, davvero felice di questo sentimento. Non si era mai sentito così euforico, così attratto da qualcuno. Era anche spaventato, certo, ma quella meravigliosa voglia di stare sempre con Paul, di non fare altro che ascoltarlo mentre parlava o cantava, di guardarlo ogni minuto che era con lui, era troppo bella per poter essere rinnegata, o scacciata, o nascosta.

John si era sentito così solo un’altra volta.

Con Cynthia.

E questo portava il suo irrequieto flusso di pensieri all’altro problema, sorto un paio di giorni prima.

Cynthia l’aveva chiamato, proprio lei, in persona. Non era stato tanto questo ad averlo turbato, quanto piuttosto la sua richiesta.

Come definire tale richiesta? Beh, la prima parola che John aveva pensato era assurda.

"John, se a te sta bene, vorrei tenere Julian per un fine settimana."

“Stai scherzando, spero.”

Praticamente le aveva urlato contro, senza neanche accorgersene, stringendo con forza inaudita la cornetta del telefono. Non avrebbe mai voluto risponderle così, infatti subito dopo si era scusato. Ma era stato istintivo, più forte di lui, perché la paura di perdere Julian si era impossessata di lui in un attimo, con la stessa forza.

Non si sarebbe mai aspettato una richiesta del genere, anche se Cynthia aveva dimostrato di stare molto meglio negli ultimi mesi. Ricordava molto la ragazza di cui lui si era innamorato, e questo per quanto potesse fargli piacere, lo terrorizzava anche.

E se Cynthia avesse preteso, prima o poi, l’affidamento di Julian? Era una possibilità reale, ora; per quanto una madre potesse avere dei problemi, i tribunali cercavano sempre di favorire il ricongiungimento tra madre e figlio, anche se questa aveva abbandonato il proprio bambino, mettendolo in pericolo.

D’altra parte, John non voleva negare a suo figlio la possibilità di vedere e stare con sua madre per più di una semplice giornata. Così, a malincuore, aveva detto a Cynthia che avrebbe preso in seria considerazione la sua proposta.

E ora, ora doveva solo decidere cosa fare. Era così incredibilmente combattuto, che davanti a sé vedeva solo buio, come se si stesse inoltrando in una nube temporalesca, scura, di un nero profondo, una nube che non prometteva nulla di buono, una nube che allontanava il sole per sempre dalla sua vita.

Il sole di John era sempre stato Julian.

Ma c’era un nuovo sole nella sua vita. Paul.

Ed entrambi si stavano allontanando inevitabilmente da lui.

****

George stava catalogando alcuni nuovi arrivi al negozio, quando vide lo sbirro entrare e dirigersi verso il bancone dove stava lavorando.

“Ciao, George.” lo salutò l’uomo con un sorriso.

George sussultò. Stava parlando proprio con lui?

Beh, certo, aveva detto George!

Il giovane uomo si maledisse perché cominciò a sentire le mani sudare. Anzi, maledisse John, perché era lui il responsabile del fatto che lo sbirro ora frequentasse il loro negozio un giorno sì e quello dopo pure.

Ovviamente l’incontro con quell’uomo aveva facilitato molto i loro lavoretti: John era stato decisamente astuto, George doveva ammetterlo. Tuttavia ora, ora che John non era in negozio e non si sarebbe fatto vedere in alcun modo, George come doveva comportarsi con lui?

Che espressioni doveva usare? Poteva sorridere? O doveva restare sempre imbronciato?

Cosa doveva fare?

L’assenza di John si faceva sentire prepotentemente, come se fosse una reale presenza lì, con lui e Paul. diamine, come faceva John a essere così tranquillo quando si trovava da solo con Paul? Quale forza misteriosa lo aiutava, gli dava la forza necessaria per essere sempre se stesso anche con il suo nemico?

George non ne aveva alcuna idea, ma decise che fissare semplicemente Paul con la faccia sorpresa da pesce lesso, non fosse la soluzione al problema.

“Ciao.”

“Stavo cercando John.” spiegò Paul, facendo vagare speranzoso gli occhi sulla tenda che divideva quel piccolo negozio dal luogo in cui lui e John passavano il loro tempo insieme.

“Mi dispiace, ma John non c’è.” lo informò con un sospiro, appoggiando sul bancone i cd che aveva in mano.

Tuttavia George non era davvero pronto a vedere l’improvvisa e profonda delusione che si appropriò del volto di Paul, come se il sole fosse sparito da quella bellissima giornata d’estate. La realizzazione lo colpì come un potente schiaffo, lasciandolo stordito per un istante.

“Posso chiederti come mai?” chiese Paul, il volto trasmetteva solo una strana sensazione spiacevole, “È da diversi giorni che non lo sento, non risponde neanche al cellulare e sto cominciando a preoccuparmi.”

“Non è niente di grave, è solo che non sta molto bene.” spiegò George, tranquillamente, “Ma si riprenderà presto, vedrai.”

Paul spalancò gli occhi, preoccupandosi ancor di più, anche se George aveva cercato di rassicurarlo. Un lavoro inutile, a quanto pareva.

“Oh no, che cos’ha?”

Beh, questa sì che era una bella domanda. L’ispettore sapeva fare le domande giuste, eh?

Che cosa aveva John?

Ovviamente niente, figuriamoci, ma quella stupida ferita che si era procurato nel loro ultimo colpo, avrebbe potuto destare dei sospetti in Paul; quindi, finché non fosse guarita, John avrebbe dovuto evitare lo sbirro.

Tuttavia Paul aveva ragione a dire che John era sembrato strano. Anche George l'aveva notato e non aveva molto a che fare con il piccolo incidente di quella sera. Era qualcosa che sembrava turbare John infinitamente, e George si dannava perché non gliene aveva parlato e perché lui stesso non riusciva a capirlo. Sapeva che John si sarebbe confidato con lui se avesse voluto, allora perché non l'aveva fatto?

"Solo un po' d'influenza."

"Capisco.” rispose Paul, “Che scocciatura, eh, l'influenza d'estate?"

L’ispettore non aveva potuto nascondere il suo così palese sospiro di sollievo, e George lo trovò quasi divertente. Sembrava che l’affetto di Paul per John fosse sincero.

"Eh già."                  

Ma allora John? Anche lui provava qualcosa di sincero per Paul?

"E come fa a occuparsi di Julian se sta male?" domandò nuovamente Paul.

"Lo aiutiamo noi, anzi, lo aiuta Pattie. Io mi occupo del negozio."

"Sembrate molto amici con John, vero?"

George sorrise fra sé, "Sì."

Paul si morse il labbro, pensieroso, prima continuare a fare domande a George.

"Posso chiederti una cosa?"

"Certo."

"Come hai conosciuto John?"

George batté le palpebre, perplesso: non si aspettava proprio una domanda simile, e questo andava solo ad alimentare ciò che aveva pensato poco prima. Paul era davvero amico di John, si interessava a lui, alla sua salute, alla sua famiglia, alla sua storia, come qualunque altro amico avrebbe fatto. George non avrebbe mai voluto essere nei panni di John, perché il senso di colpa doveva essere insopportabile e infinitamente lacerante.

Ma ora Paul aspettava la sua risposta e George aveva tutte le intenzioni di fornirgliela.

"Oh, questa sì che è una bella storia. È accaduto poco prima che conoscesse Cynthia. Io avevo appena compiuto diciotto anni e i miei amici mi avevano sfidato a rubare qualcosa nel suo negozio."

Paul rise leggermente, "Ma allora questo negozio è maledetto."

George si lasciò scappare una risata, sorprendendosi infinitamente, "È colpa di tutti questi bei cd."

"E ci sei riuscito?" chiese Paul interessato.

"Figuriamoci.” sbuffò George, trovando però ancora divertente quel ricordo di John, “John mi ha beccato praticamente subito. Ha la vista lunga lui, sai? Secondo me ha capito le mie intenzioni nel momento stesso in cui ho messo piede nel suo negozio."

"E cosa ha fatto?"

"Beh, ovviamente mi ha detto, imitando qualche vecchio folle saggio: 'Figliolo, lo sai che non si ruba, vero?'"

"E tu?"

"Non ho potuto fare altro che concordare, prima di scusarmi.” rispose George, alzando le spalle, “C'era qualcosa nel suo viso che mi trasmetteva severità, ma anche una sorta di serenità. Come se il mio gesto fosse sì, grave, ma niente di così irreparabile."

"Tipico di John, eh?" esclamò Paul, sorridendo dolcemente, e appoggiò le braccia incrociate sul bancone di George.

George lo guardò attentamente e chi lo conosceva bene sapeva che sì, era tipico di John.

Perciò il ragazzo annuì, senza più sorprendersi per quanto quel discorso gli stesse facendo scoprire tanti piccoli, interessanti dettagli del rapporto tra John e Paul.

"Poi mi ha chiesto perché lo stavo facendo. Ha capito che dovessi annoiarmi molto per sottostare a stupide sfide dei miei amici. Per questo motivo mi ha proposto di lavorare con lui."

"Oh.” esclamò Paul colpito, “Gentile da parte sua."

"Sì. Ovviamente ho accettato subito. Non avevo alcuna intenzione di iscrivermi a qualche facoltà stupida, per perdere tempo e far spendere soldi inutili ai miei genitori per la mia mancanza totale di voglia di studiare. Così ho colto al volo l'occasione."

"Un ragionamento sensato." commentò Paul, "È da quel giorno che siete amici, allora?"

"Esatto."

"Ed è stato grazie a lui che hai conosciuto Pattie?" continuò l’ispettore.

Cielo, le sue domande erano senza fine, pensò George, non tanto infastidito. Anzi, ci stava quasi prendendo gusto. Forse era anche la sua natura di poliziotto che lo spingeva a fare queste domande, eppure George era convinto che questo non avesse nulla a che fare con quello che stava accadendo. No, Paul era solo curioso, di quella curiosità innocente e tipica dei bambini.

"Sì. Quando Cynthia se n'è andata, John ha dovuto iscrivere Julian all'asilo nido. Aveva appena un anno, e qualche volta andavo io a prenderlo all'asilo. Ovviamente dopo aver notato quanto fosse carina la sua maestra, mi offrivo spesso per andare a prendere Julian, e John, che aveva capito, acconsentiva volentieri. Ma lei all'inizio era molto riservata e rifiutava i miei inviti a uscire."

Paul puntò un gomito sul bancone per appoggiare il mento sul palmo della mano, "Era già fidanzata?"

"No, in realtà lo faceva per un motivo più serio.” spiegò George, e non poté fare a meno di rabbuiarsi per un secondo.

“Ovvero?”

George lo guardò, incerto. Non sapeva se fosse giusto nei confronti di sua moglie parlare di quell’argomento, ma Pattie era una donna in gamba e più volte aveva mostrato più forza di George rispetto al suo problema. Il che non faceva altro che aumentare l’ammirazione e l’amore che George provava per lei.

Decise che non ci fosse alcun ostacolo per raccontare quella storia a Paul.

“Aveva avuto dei problemi di salute che l'hanno resa sterile."

Paul sussultò lievemente, "Nel senso che non può avere dei figli?"

"Già. Era soprattutto per questo che allontanava qualunque uomo fosse interessato a lei.” spiegò George, mentre le mani si strinsero ricordando quanto triste fosse sembrata Pattie quando continuava a rifiutarlo, “Ma io le dissi che non mi importava nulla, mi importava solo di lei. Fu così che alla fine cedette. E beh, all'inizio dell'anno scorso ci siamo sposati."

Concluse con un sorriso che più luminoso di così non poteva essere. Era lo stesso di quando Pattie aveva accettato la sua proposta, lo stesso del giorno del loro matrimonio.

"Deve essere dura per lei lavorare con i bambini, sapendo che non potrà averne uno." fece notare Paul, con un lieve cipiglio.

"Sì, ma sono sicuro che sia proprio per questo che le piace.” rispose George, “Inoltre c'è sempre Julian. Non penso che Pattie possa sostituire sua madre, nessuno può, ma almeno può occuparsi di lui come farebbe con un figlio suo."

"E comunque c'è sempre l'adozione. Ci avete mai pensato?"

George annuì: era la loro unica soluzione, era ovvio che vi avessero già pensato.

“Stiamo appunto iniziando a informarci. Speriamo di poter fare domanda entro la fine di quest'anno."

"È sicuramente una bellissima idea e sono sicuro che andrà tutto bene."

"Grazie. Ne sono sicuro anche io. Pattie è la persona più forte che abbia mai conosciuto e merita solo il meglio."

"Assolutamente."

Paul gli sorrise in modo incoraggiante e George ebbe la piena consapevolezza, ora, di aver appena confidato a Paul alcuni dei momenti più importanti della sua vita privata. Ma la cosa davvero strana era che tutto fosse sembrato così naturale, come se in quel momento i loro ruoli contrapposti, di ispettore e complice di un ladro, si fossero annullati e avessero perso importanza.

Era Paul che aveva causato tutto questo?

“Sai, George, stavo pensando a una cosa su cui vorrei il tuo parere.” gli chiese un momento dopo Paul.

Sul suo viso danzava un sorriso malizioso ed euforico, come se stesse per accadere qualcosa di bellissimo, ma George non sapeva se fosse qualcosa di bello anche per lui.

“Oh, ehm… certo, dimmi.” esclamò con la voce lievemente tremolante.

“Vorrei organizzare qualcosa di carino per John e Julian.”

Beh, George non si aspettava proprio niente del genere. Sicuramente era una giornata piena di sorprese, quella, vero?

“Come mai?”

“Beh, John mi è stato vicino quando soffrivo per Jane e vorrei ringraziarlo.” rispose Paul, abbassando lo sguardo con un sorriso dolce sulle sue labbra.

“Avevi già qualcosa in mente?”

Paul si morse il labbro, e George lo notò, trovandolo incredibilmente buffo.

“Sì, ma ho bisogno del tuo aiuto.”

****

Schiamazzi di bambini e spruzzi d’acqua provenivano da ogni angolo.

Ovviamente, cosa si aspettava John? Era pur sempre una piscina.

Il Tooting Bec Lido era una delle piscine aperte più importanti a Londra. Non c’era da sorprendersi che in quella giornata di agosto fosse così affollata da persone di ogni genere e ogni età, e lui era lì, con Julian, Paul, George e Pattie.

Non era stata propriamente una sua idea. Da quello che aveva capito, era stata un’idea di Paul, e George e Pattie lo avevano aiutato preparando cestini per fare un bel picnic e restare lì per tutta la giornata, e soprattutto portando John e Julian nel luogo della sorpresa.

Paul si era fatto trovare direttamente in piscina. Paul, colui che aveva ideato tutta quella giornata.

Nessuno aveva mai organizzato una festa per lui, nessuno. Solo Paul, e la cosa lo faceva infuriare così come rallegrare. Forse rallegrare era troppo limitativo. No, la sorpresa l’aveva mandato totalmente in brodo di giuggiole. Quando aveva capito tutto, le gambe avevano tremato, rischiando di farlo cadere, anche se John voleva che resistessero, solo per un attimo, solo per avvicinarsi a Paul, e abbracciarlo, e baciarlo… ma no!  Non poteva.

E non era neanche per il fatto che stesse provando certi sentimenti d’affetto per Paul, dopotutto uomo o donna, che importava? Paul era stupendo perché era Paul. Fine della questione. Tutto il resto non contava.

Non poteva perché proprio quel Paul l’avrebbe odiato. Paul non avrebbe mai potuto ricambiare ciò che provava John e anche se l'avesse fatto, beh, sarebbe stata una catastrofe, perché sicuramente John avrebbe combinato qualche disastro e Paul avrebbe scoperto chi si celava dietro la maschera di Hermes e a quel punto l'avrebbe odiato ancor di più. Avrebbe desiderato di non aver mai incontrato John e questo era più doloroso del semplice stare a guardare Paul, solo stare con lui come amico e nulla più, soffocando un sentimento così evidentemente troppo ingombrante per John.

Perciò John si infuriava. Ogni qualvolta Paul facesse qualcosa di carino per lui, John ricadeva in quel turbinio di sensazioni e desideri insieme spiacevoli e deliziosi. Un circolo vizioso, ecco cos'era, e stava giocando pericolosamente con la mente di John.

"John?"

La voce di Paul lo destò dai suoi pensieri, ma non riuscì a farglieli abbandonare definitivamente. Dopotutto riguardavano lui. Così il risultato fu solo che quegli stessi pensieri divennero più intensi e i suoi sentimenti più caldi. Il che non era proprio una cosa positiva, dal momento che il sole picchiava con decisione quel giorno.

John percepì la mano di Paul sfiorare la sua spalla, e lottando per non chiudere gli occhi e concentrarsi su quelle dita lunghe che, oh dio, toccavano proprio lui, si voltò verso l'ispettore.

"Ciao." lo salutò, cercando di sorridere e fu quasi certo che il risultato fosse stato piuttosto inquietante.

Paul era così bello. Ora anche John poteva vedere quanta bellezza adornasse il suo corpo. Occhi che al primo incontro erano sembrati troppo grandi, ora erano meravigliosamente grandi. Quei lineamenti ancora così giovani, erano anche più dolci di qualunque altro viso che John potesse ricordare.

Era bello in modo indescrivibile e ora era accanto a lui, con il suo petto pallido e le lunghe gambe bianche in mostra, la mano ancora sulla spalla di John e un sorriso sul suo viso.

"Posso sedermi?"

"Ma certo."

Paul si sistemò accanto a John. Ora erano entrambi seduti sul bordo della piscina, con le gambe immerse nell'acqua fresca, e Paul si era unito a John nell'osservare con interesse George e Pattie che giocavano in acqua con Julian. Il bambino galleggiava grazie a braccioli gonfiabili e sembrava divertirsi un mondo, mentre George faceva finta di attaccarlo come un pericoloso squalo e Pattie lo metteva in salvo tra le sue braccia sicure.

John era felice che il suo bambino si stesse divertendo.

"Una bella giornata, vero?" gli chiese Paul, portando lo sguardo su di lui.

"Splendida.” commentò John, ricambiando lo sguardo, “Grazie a te."

Paul rise, compiaciuto, "Oh, figurati. Per così poco."  

"Perché hai fatto tutto questo?"

"Mi andava." rispose Paul, scrollando le spalle.

"Andiamo, Paul.” insistette John, “Ci deve essere un motivo..."

"Non poteva semplicemente andarmi di farlo?"

"No! E se non me lo dici, non esiterò un istante a buttarti in acqua." esclamò John, allungando le mani verso il suo busto per spingerlo.

Tuttavia Paul, ridendo, si ritrasse arrendendosi alla sua richiesta, e l'unico tuffo che seguì fu quello del cuore di John quando non riuscì a toccarlo. Dannazione, neanche sapeva di volerlo toccare.

"Cazzo, sei davvero un testone, John."

"Sono il campione dei testoni." gli fece notare John, cercando di mascherare la delusione.

E ci riuscì, pensando che fosse ancora un desiderio lieve, qualcosa più simile alla semplice curiosità di trovarsi in quella nuova, eccitante situazione.

"È solo il mio modo per dirti grazie." gli spiegò Paul, arrossendo lievemente.

"Per cosa?"

"Lo sai. Per quello che hai fatto per me quando Jane mi ha lasciato."

"Mi avevi già ringraziato." ribatté John.

Non capiva davvero perché Paul avesse fatto tutto questo per lui. O meglio, lo capiva, ma era difficile da accettare, soprattutto perché i ricordi delle sue bravate a discapito di Paul tornavano a scalpitare nella sua mente, rendendo solo tutto più confuso, più sbagliato, così dannatamente ingiusto nei confronti di Paul. Era qualcosa che stava letteralmente uccidendo John, e lui non aveva idea di quanto avrebbe resistito ancora.

"Sì, ma questo è meglio di una semplice parola, giusto? Inoltre abbiamo l'occasione per stare tutti insieme. Non siamo mai stati da qualche parte con George e Pattie."

"Non dirmi che sei diventato anche amico loro." esclamò John, costringendosi a ridere e a prestare attenzione alle parole di Paul, che alla fine era ciò che desiderava di più al mondo.

Più di qualunque cimelio raro e prezioso, John voleva solo Paul.

"Beh, ho dovuto avere a che fare con loro per la sorpresa, quindi ho parlato un po' con loro, soprattutto con George."

"Spero che non ti abbia parlato male di me." commentò John, sogghignando fra sé.

"In effetti, ho cercato di strappargli qualche aneddoto succulento su di te, ma non ha aperto bocca."

"Gli darò un aumento di stipendio allora." esclamò John, soddisfatto, mentre Paul gli rivolgeva un’occhiata divertita.

"Mi ha raccontato di Pattie e che vogliono adottare un bambino." continuò poi l’ispettore, con un tono più serio.

Anche John sembrò ritrovare un po’ di serietà e annuì lentamente, “Mi hanno già chiesto se potessi scrivere per loro una lettera di referenze, sai, per tutte le volte in cui si sono occupati di Julian."

"E lo farai?"

"Certo. Se c'è anche una minima cosa che posso fare per aiutarli, allora lo farò. Sono sempre loro a soccorrermi, mi sembra giusto ricambiare il favore. Julian ed io saremmo persi senza di loro."

E quella era una sacrosanta verità: per ogni aspetto della sua duplice vita, George e Pattie erano stati fondamentali per lui e soprattutto per Julian. La loro compagnia rendeva meno pesante la mancanza di una madre.

"È un bel gesto da parte tua." commentò Paul, sorridendo.

"Grazie."

"Julian sembra molto attaccato a Pattie." fece notare Paul, mentre Julian era ancora in braccio alla ragazza ed emetteva continui risolini ogni volta che lei gli faceva le pernacchie sul collo.

"È così. È l'unica figura femminile stabile nella sua vita."

"Pensi che la consideri come una mamma?" domandò Paul, con molta accortezza.

"Non lo so. Lui sa benissimo che ha una mamma, però certe volte ho come l'impressione che il suo corpo trasmetta tutt'altro. È come se i suoi gesti dimostrino chiaramente che considera Pattie la sua mamma. E questo non è giusto né per Julian, né per Cynthia e neanche per la povera Pattie." sospirò infine John.

"Forse dovresti parlarne con lui."

"Ci ho provato, ma è ancora troppo piccolo."

"Allora cosa vuoi fare?"

"Io..." iniziò a dire, ma si fermò mordendosi il labbro con nervosismo.

John sapeva cosa doveva fare, ma ancora non aveva detto a nessuno di quella proposta di Cynthia. Forse era arrivato il momento di confidarsi con qualcuno e condividere quel peso con Paul. Dopotutto, era così facile parlare con lui. Se ne avesse parlato con George o Jim, forse loro avrebbero protestato inizialmente e John non voleva sentire proteste.

Voleva solo qualcuno che lo ascoltasse, che gli desse un consiglio spassionato, che semplicemente fosse lì a raccogliere la sua confidenza e farne tesoro, perché la sua decisione, anche se traballante, era stata già presa.

“Paul…” disse attentamente, “L’altro giorno mi ha chiamato Cynthia.”

“Come mai?” domandò dolcemente Paul.

“Aveva una richiesta da farmi che riguardava Julian.”

“Di cosa si tratta?”

John distolse lo sguardo da Julian per portarlo su Paul: sentiva di aver bisogno di guardarlo direttamente negli occhi per poter continuare, c’era una forza che giaceva lì, e John ne aveva disperatamente bisogno.

“Vuole che le lasci Julian per un intero fine settimana.”

Paul batté gli occhi, perplesso, “Beh, questa è proprio una sorpresa.”

“Già.”

“Cosa vuoi fare?”

“Io vorrei accettare. In fondo, è giusto che Julian stia con sua madre…” e senza che John se ne accorgesse, la frase terminò con un senso di sospensione.

“Ma?”

“Ma cosa?”

“Mi sembra di capire che ci sia un ma, no?” lo incalzò Paul.

Dopo un attimo di sorpresa, John annuì, “Ho paura.”

“Perché?”

“Io non lo so davvero.” sbottò John, odiandosi perché le sue maledette paure tornavano a far sentire la loro presenza nei momenti meno opportuni.

Non erano mai sparite del tutto, anche Paul l’aveva capito ormai, ma John non poteva più tenerle a bada da solo. Non ne era più fisicamente in grado.

“Non ho mai lasciato Julian con Cynthia per più di una giornata.” continuò con un sospiro.

"Pensi che possa fargli del male a causa del suo problema?"

"Oh no. Assolutamente no.” si affrettò a replicare John, scuotendo il capo, “Lei sta bene da molto tempo ormai e inoltre, ci saranno anche i suoi genitori con lei. Julian è al sicuro."

"Allora di cosa hai paura?"

"E se in quei giorni a Julian piacesse stare con la madre e decidesse di vivere con lei?"

"Oh, John.” sospirò Paul, “Non accadrà, ne sono sicuro."

"Come fai a esserne sicuro? In fondo, è assai probabile. Lui vede sua madre per poco tempo, insieme ridono e giocano. Lei non lo deve rimproverare quando fa i capricci, lei gli fa solo regali e lo coccola, mentre io-"

"Mentre tu cosa?” lo interruppe Paul, quasi alterandosi per lo sfogo frustrato di John, “Non lo coccoli, non gli fai i regali?"

"Sì, ma, Paul, tu non ci sei quando devo sgridarlo.” ribatté John, e chinò il capo, perdendo il suo sguardo nell’acqua cristallina della piscina, “Lui mi guarda in un modo che... Dio, sembra quasi che mi odi in quel momento. E allora penso che forse ho esagerato e sono stato troppo severo e lui non meritava tutto ques-"

"John, ora basta.” esclamò Paul, afferrandolo per le spalle e costringendolo a voltarsi di nuovo verso di lui, per poi continuare dolcemente, “Se c'è una cosa di cui sono certo è che è soprattutto questo l'amore per un figlio. Se non lo correggi tu quando sbaglia, chi lo farà? Qualcuno veramente cattivo quando sarà più grande, e sicuramente qualcuno a cui non importa nulla di lui. Mentre tu, tu lo correggi per amore. E lui da grande lo capirà e ti ringrazierà. Nel frattempo continua come hai sempre fatto con lui.”

Le parole di Paul toccarono qualcosa molto in profondità dentro di lui, e John si sentì sull’orlo delle lacrime.

“Ma…”

 “E non ti preoccupare per lui.” proseguì Paul, accarezzandogli le spalle distrattamente, “Perché Julian non ti abbandonerà mai. Lo so."

John annuì, consapevole che tutto in Paul, dalla sua dolce voce, alle sue carezze premurose, alle sue parole gentili, avesse contribuito a rendere quella decisione più sicura e meno spaventosa.

"Allora, non mi resta che avvisare Cynthia." sospirò infine.

"Sai cos'altro farei?” domandò Paul, “Lo chiederei anche a Julian."

"Dici?"

"È abbastanza grande da capire la situazione e così potrai vedere subito la sua reazione."

John annuì. Non aveva mai pensato di chiederlo anche a Julian, ma Paul aveva ragione, Julian doveva essere coinvolto.

"Allora ti andrebbe di aiutarmi?"

Paul batté le palpebre, totalmente preso in contropiede, "Eh?"

"Ti andrebbe di aiutarmi a chiederlo a Julian?" ripeté gentilmente John.

"Ma è una cosa troppo personale.” protestò vivacemente Paul, “Io non c'entro nulla."

"Paul, una volta hai detto che con me fosse tutto più facile per te. Beh.” esclamò, tenendo a bada quel fuoco che cercava di impossessarsi delle sue guance, “Vale lo stesso per me."

Paul si morse il labbro, incerto. Poi, dopo quel breve attimo di esitazione, gli sorrise dolcemente e John mandò al diavolo tutto e lasciò che il suo viso si colorasse di un bel rosso acceso.

"Se la metti così, allora ok."

****

Qualche minuto più tardi fu il turno di John e Paul giocare con Julian, mentre George e Pattie erano sulle sdraio a rilassarsi e prendere il sole.

John aveva fatto togliere al bambino i braccioli e ora insegnava a Julian a muovere le gambine e stare a galla, mentre lo sosteneva con una mano sulla pancia. Paul invece era davanti a lui e stringeva le sue mani, aiutandolo a tenere le braccia ben distese davanti a sé.

Julian sembrava divertirsi molto a nuotare col papà e se la stava cavando alla grande, quando all’improvviso fece un movimento sbagliato della testa che finì in parte sott’acqua e ne bevve un po’ inavvertitamente.

John lo tirò subito fuori e il bambino cominciò a tossire e insieme piangere, aggrappandosi disperatamente al padre.

“Oh, andiamo, non è successo nulla, amore.”

Ma Julian non sembrava essere dello stesso parere e piangeva come se stesse patendo le pene dell'inferno. Era uno spettacolo che stringeva il cuore e Paul si ritrovò sorridere dolcemente, perché Julian aveva tutte le ragioni del mondo per piangere in quel modo. Anche lui, da piccolo, se un po' d'acqua gli capitava in bocca o nel naso, piangeva subito, ricercando le attenzioni e le coccole di sua madre, che non tardavano mai ad arrivare e sembravano allontanare tutte le sue sofferenze per magia. Quando era ancora più piccolo, anche suo padre era pronto a fare lo stesso, Paul non poteva negarlo, ma quello era prima che suo padre mandasse tutto in rovina.

I singhiozzi più tranquilli di Julian riportarono Paul alla realtà e lui si accorse delle smorfie che John stava facendo ora al bambino per farlo tornare a sorridere, cosa che puntualmente accadde.

"Ma guarda che bravo bambino sei, Julian. Hai smesso subito di piangere." esclamò Paul, ammirato, avvicinandosi ai due e facendo il solletico sul fianco del bambino.

Julian, con gli occhi ancora arrossati e il petto scosso dagli ultimi singhiozzi, sorrise timidamente e fece appoggiare la testa alla spalla del padre.

"Beh, gli ho promesso che se avesse smesso di piangere, gli avrei dato una buona notizia." spiegò John, continuando a cullarlo dolcemente.

"Ah sì? Allora devi proprio dirgliela ora, vero, piccolo?"

Julian annuì e tornò a guardare John, con i suoi grandi occhi dolci che aspettavano solo lui. John si voltò un istante verso Paul, che sorrise incoraggiante e annuì, e prese un profondo respiro.

"Allora, Julian, ti ricordi quando ha chiamato la mamma l'altra sera?"

"Sì. Ha detto che mi ha comprato una macchinina nuova." rispose il bambino tra un singhiozzo e l’altro.

"È vero. A me ha detto anche un'altra cosa."

"Cosa?" domandò Julian, sembrando ora più interessato.

"Mi ha detto che vuole tanto andare in vacanza con te per tre giorni e vorrebbe sapere cosa ne pensi anche tu." spiegò John nel modo più chiaro e semplice possibile, e facendo bene attenzione alla reazione del figlio.

Lui non esultò, ma neanche protestò. Era come se stesse ancora cercando di capire cosa dovesse davvero accadere e cosa comportasse quella situazione.

"Devo andare con la mamma?"

"Sì.” annuì John, accarezzandogli la fronte per scostare i ciuffi di capelli bagnati che erano finiti davanti agli occhi, “Ti piacerebbe stare con lei e con i nonni?"

"A casa sua?"

"No, andate in un posto bellissimo, sai? C'è la piscina, e poi ci sono anche i cavalli e i maialini-"

"E le pecorelle ci sono?" chiese Julian, e il suo sorriso disse a John che stava cominciando a entusiasmarsi all’idea.

"Non lo so, ma penso di sì."

"Allora va bene." esclamò soddisfatto Julian.

John annuì, un gesto che Paul interpretò come un modo come un altro per accettare la risposta affermativa del figlio.

"Quando torniamo a casa, chiamiamo la mamma, allora, ok?"

"Ok. Ma vieni anche tu, papà?"

John scosse il capo, notando la preoccupazione del bambino e la speranza in quella domanda. In fondo, era comprensibile, non era mai stato da solo con Cynthia. E questo, più di tutto, lo convinse ancor di più che era la scelta più giusta.

"Oh no, amore, io ti porto dalla mamma e poi resterai solo con lei e i nonni."

"E tu cosa fai?" chiese interessato.

"Io starò a casa." spiegò John, dolcemente.

"Da solo?"

"Gli farò compagnia io." si intromise Paul, cogliendo di sorpresa John con le sue parole.

L'uomo arrossì in un attimo, mentre Paul  faceva l'occhiolino al bambino, il quale sorrise debolmente e strinse di più le braccia intorno al collo del padre.

"Ma se poi non mi piace, posso tornare da te?"

"Oh certo, tesoro.” si affrettò a rispondere John, abbracciandolo con più forza, “Basta che lo dici alla mamma, così lei mi chiama e io corro a prenderti."

Julian annuì e tornò ad accoccolarsi contro la spalla di John.

"Ma non devi preoccuparti per questo.” lo tranquillizzò John, accarezzandogli la nuca, “Tu e la mamma vi divertirete tantissimo. La mamma è molto simpatica, lo sai. E poi comunque, alla fine dei tre giorni lei ti riporterà da me."

"Va bene." sospirò il bambino.

"Bravo il mio ragazzo." commentò John, baciandogli i capelli.

"E il bacio della buonanotte, chi me lo dà se tu non ci sei?"

"Te lo darà la mamma."

"E a te, chi lo dà?'

"A me lo darà Paul." esclamò John, trattenendo a stento un sorriso divertito.

E questa volta fu Paul ad arrossire vistosamente, preso alla sprovvista, mentre un brivido caldo e freddo lo scosse per un abbondante secondo.

Che cosa gli era successo? Perché era arrossito?

Quella di John era solo una battuta, come dimostrava chiaramente il fatto che stesse cercando di non ridere.

Allora cos'era stato quel brivido?

****

John chiuse la porta dietro di sé.

Sospirò, lasciando che i suoi occhi si chiudessero.

Aveva appena portato Julian a casa di Cynthia, e questo spiegava l'assordante silenzio che riempiva la casa.

Non c'erano le risate né i pianti del bambino.

Senza di lui la casa era vuota, spenta, oscura perché era Julian renderla viva e allegra. Lui era luminoso come il sole, allegro come i cinguettii degli uccellini, vitale come una bella giornata d'estate.

E anche se la lontananza sarebbe durata poco, per John era pesante da sopportare.

Neanche Elvis, il gattino, che si era avvicinato a lui per dargli il bentornato e fare le fusa intorno alle sue caviglie, era riuscito a fargli sentire più calore.

Neanche Elvis, quello vero, con la sua voce era riuscito a riempire la casa di musica e gioia, più tardi quella sera.

Solo il trillo del campanello portò un debole raggio di luce, perché alla porta c'era Paul, con una busta piena di bottiglie di birra, patatine e schifezze varie.

"Ciao, John." lo salutò con un sorriso raggiante.

E di nuovo la casa fu inondata di musica.

"Sei venuto qui per il bacio della buonanotte?" gli domandò John, lasciandolo entrare in casa.

Di calore.

"Stupido."

Di sole.

 

Note dell’autrice: eccoci qua. Allora, che dire di questo capitolo? Sono successe un po’ di cose, per cui spero non sia risultato confusionario. Ci tenevo anche a inserire la storia di Georgie e mi sembrava proprio il momento adatto.

Vogliamo parlare della scena di John, Paul e Julian in piscina? Aww…non ho potuto fare a meno di inserirla, sono la dolcezza quei tre insieme, scriverei di loro per tutta la vita. :3

Ah, prima che mi dimentichi, gli occhiali bellissimi di Elton John potete vederli qui: http://www.youtube.com/watch?v=NilyiL2Y5ms

Comunque, grazie a kiki per la correzione, e a ringostarrismybeatle, la cavia. xD

Grazie a chi ha recensito: GaaraIstillloveyoubaby, paulmccartneyismylove, Flaw, Astoria McCartney, ChiaraLennonGirl e lety_beatle.

Grazie anche a Goldenslumber14 che ha iniziato a leggere la storia.

Prossimo capitolo, “Helter Skelter”, martedì prossimo. Parola chiave: verniciare! :D

Comincio già a dire che sarà l’ultimo prima di prendermi una piccola pausa dalla pubblicazione, che coincide con le vacanze e che sfrutterò per portarmi avanti con la scrittura. :)

A presto

Kia85

 

 

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Capitolo 16
*** Helter Skelter ***


I’ll get you

 

Capitolo 15: “Helter Skelter

 

“McCartney?”

Paul alzò la testa dalla sua scrivania per notare l’ispettore capo Starkey sulla soglia della porta e subito scattò in piedi, “Signore?”

“Posso entrare?”

“Ma certo.”

L’uomo entrò nell’ufficio di Paul e si sedette di fronte alla sua scrivania, mentre anche Paul tornava a sedersi. Il giovane ispettore vide chiaramente un profondo cipiglio che si delineò sulla fronte del suo capo, e qualcosa gli disse che non fosse niente di buono.

“C’è qualche problema, signore?” chiese, ignorando quella leggera ansia che stava cominciando ad attanagliargli il cuore.

Richard lo fissò per qualche secondo, senza rispondere alla sua domanda, mentre le labbra si curvavano in un’espressione dubbiosa.

“Non è niente di grave, davvero, McCartney.” lo rassicurò Richard, “Ma comunque mi sento in dovere di informarla.”

“Riguardo cosa, signore?”

Richard si torturò le mani, chinando il capo per riordinare le parole, e poi con un sospiro tornò a guardare Paul, “A Scotland Yard non sono particolarmente entusiasti del nostro lavoro.”

Le parole dell’ispettore Starkey non giunsero inaspettate, per questo motivo Paul non fu particolarmente sorpreso. Voci di corridoio riportavano da tempo che ai piani alti non fossero molto soddisfatti del lavoro di Paul riguardo il caso di Hermes. E come dar loro torto? Paul era completamente d’accordo. Aveva cercato sempre di dare il meglio di se stesso, di impegnarsi al massimo nonostante tutto e tutti, eppure ogni maledettissima volta Hermes sembrava sapere sempre qualcosa in più di lui, sembrava prevedere le sue mosse. Come ci riuscisse, Paul non ne aveva idea, ma era così, dannazione, e Paul non poteva farci nulla.

Perciò era ovvio che i suoi fallimenti (perché di questo si trattava), non fossero graditi. A chi piacevano i fallimenti? A chi giovavano? A nessuno.

Erano guai, guai seri, soprattutto per Paul.

Sentiva di avere più di un fiato sul suo collo e più di una spada di Damocle sulla sua testa, ma se si fosse fermato a pensarci non avrebbe concluso nulla.

"Immagino."

"Non voglio metterle ansia, perché la ritengo in gamba e perché credo che siamo stati anche molto sfortunati riguardo il caso, ma temo che lei abbia i giorni contati, se qualcos'altro dovesse andare male."

Paul si aspettava anche questo, era logico. Eppure la sua voce tradì il suo stato d'animo così improvvisamente perso.

"Certo, capisco perfettamente."

"Ovviamente, è solo una mia supposizione in seguito a ciò che ho sentito, e lei non deve pensarci troppo." cercò di rassicurarlo Richard e Paul annuì.

"Ci proverò."

"La prossima volta andrà meglio. Non si lasci demoralizzare e si faccia coraggio. Contiamo tutti su di lei."

Anche questo era vero e dopotutto, in un paio di occasioni Paul era stato davvero a un soffio dal catturare Hermes. Grazie a questo Paul riuscì ad aggrapparsi alle parole dell'ispettore e farle sue.

"Sissignore. Le prometto che non falliremo, signore."

Era una promessa, una promessa rischiosa, perché Paul conosceva bene il suo avversario, ma non conosceva cosa gli riservasse il futuro.

Solo di una cosa era certo: Paul McCartney avrebbe mantenuto la sua promessa.

"Hermes non ruberà più."

****

"Hermes non ruberà più."

"Cosa?"

La dichiarazione solenne di John era arrivata quel venerdì pomeriggio, come un fulmine a ciel sereno per George.

Avevano appena aperto il negozio dopo la pausa pranzo e George aveva intuito che qualcosa non andasse dal modo in cui John continuava a rivolgergli occhiate fugaci e incerte.

Così, mentre George sistemava i nuovi arrivi sugli scaffali, aveva pensato cosa potesse turbare l'animo dell'amico. Sicuramente non riguardava Julian. John aveva accettato il fatto che fosse con la mamma ora, e George sapeva che il primo giorno senza Julian sarebbe stato quello più difficile. Meno di quarantotto ore e John avrebbe avuto nuovamente il bambino che gironzolava per casa.

Quindi se non si trattava di Julian, qual era il problema?

George non riusciva davvero a pensare cosa stesse passando per la testa di John, ma questo sicuramente non se lo sarebbe mai aspettato.

"Hai capito."

"No, non credo proprio." affermò accorato George.

"Sì, invece."

"Allora, saresti così gentile da spiegarmi almeno perché? La risposta 'è peccato' non conta, ti avviso subito."

John a quella domanda arrossì e chinò il capo, in quel momento, George capì e spalancò gli occhi.

"No." esclamò, scuotendo il capo, "Dimmi che non è per lo sbirro."

"Anche se fosse?" ribatté John, aggrottando la fronte.

"Cosa vuol dire 'anche se fosse', John? Tu... Tu non vuoi rubare più a causa sua?"

John la sentiva bene, l'accusa nella sua voce, il modo in cui stesse cercando di dirgli quanto sbagliato fosse quel suo comportamento.

"Non ci riesco più, ok?" sbottò John, spazientito, "Sono divorato dal senso di colpa e questo si riflette sulle mie abilità. Hai visto cos'è accaduto l'ultima volta?"

"Beh, allora dovevi pensarci prima di iniziare questa messinscena."

"Come potevo sapere cosa sarebbe accaduto?"

"Cos'è accaduto, John?" gli domandò George in modo abbastanza diretto.

John sussultò e arrossì. Era un disastro. Cosa aveva combinato? Aveva stravolto le vite di tutti, la sua, quella di George e soprattutto quella di Paul. George aveva ragione. Come mai non aveva pensato alle conseguenze delle sue azioni? Era stato così accecato da quella sfida, giocare così pericolosamente col fuoco, che non si era accorto di essersi infine bruciato. In tutti i sensi. Aveva bruciato le sue abilità di ladro e ora aveva anche imparato a bruciare con quel sentimento nuovo per Paul.

Era stato sconsiderato e le sue intenzioni ipocrite si erano infine riversate sullo stesso John, causandogli più problemi di quanti già non ne avesse.

E ora George lo guardava aspettando una risposta che non l'avrebbe fatto arrabbiare ancora di più, una risposta che non avrebbe reso chiaro il grosso guaio in cui si era cacciato John.

"Paul è amico mio, George. Non posso più fargli questo." spiegò John con una piccola voce contrita.

"Avevi detto che non era vero." protestò George, "Me lo ricordo bene, sai? Ma dovevo immaginare che stessi mentendo. Dopotutto hai mentito a Paul, perché mai io avrei dovuto essere risparmiato?"

John sospirò e si avvicinò a George, "Ti prego, perdonami, ero così confuso in quel momento. Non avrei mai voluto mentirti."

George lo guardò scettico, mentre John lo fissava sinceramente dispiaciuto. I suoi occhi confermarono che John stesse dicendo la verità, così alla fine George scrollò le spalle.

"Non importa. Tanto lo sapevo, sai? Ti conosco. Stavi facendo cose che non avresti mai fatto se lui non fosse stato un amico. E la cosa che mi lascia perplesso è che anche lui ti considera allo stesso modo."

Il fatto che anche George l'avesse notato aveva reso John estremamente felice. Significava che era un affetto sincero, allora, sia da parte di Paul che da parte di John. Forse l'unica cosa sincera della sua vita negli ultimi mesi. Anche se, come gli ricordava il suo cuore, John provava qualcosa di più profondo e più caldo per Paul, ma non era necessario che George lo sapesse.

"Allora riesci a capire perché ho preso questa decisione?" continuò John, più rilassato.

"Me ne farò una ragione." rispose George, annuendo, "L'hai detto a Jim?"

"Sì. Per lui va bene."

"Ovviamente." sospirò George, alzando gli occhi al cielo, "Pensi che non ruberai più ora?"

John si morse il labbro. Era una bella domanda e ora come ora John non sapeva proprio dire se la sua decisione fosse definitiva oppure no.

"Non lo so." rispose abbassando lo sguardo, "Per adesso vediamo cosa accade, poi ci penseremo."

"Quindi continuerai a frequentare Paul?" gli chiese George e a quella domanda John fece scattare i suoi occhi di nuovo sull'amico.

"Sì." si affrettò a rispondere, "Ho bisogno di lui."

"Perché?"

"Perché anche lui ha bisogno di me. Mi fa sentire... importante." rispose John, cercando di ignorare il suo cuore che aveva iniziato a battere più veloce e più caldo.

"E tutti gli altri no?" ribatté George, alzando un sopracciglio con totale perplessità.

"Non ho detto questo. Ma tu e Pattie avete l'un l'altra. Se dovesse succedere qualcosa, potete sempre contare su voi stessi. Io sono da solo e invece Paul si sta dedicando completamente a me." spiegò John.

Forse era sembrato leggermente accalorato mentre diceva quelle cose a George, perché la sua espressione passò dalla semplice perplessità al più evidente sconcerto.

"John! Sei sicuro che tu non stia riversando su di lui un altro tipo di bisogno?" gli domandò chiaramente.

Ma John non capì, o forse stava solo fingendo di non capire, "Cosa?"

"Io non so bene come spiegarlo, ma hai sentito le tue parole?" gli chiese George, "Parli di lui come se fosse più di un amico."

"Non è vero." protestò John.

"Sì, invece. E John, lo capisco, sai, sei stato da solo per tanto tempo. Forse ricevere le sue attenzioni ti ha solo illuso che questo rapporto potesse diventare altro, perché è normale che tu abbia bisogno di qualcuno di importante al tuo fianco, ma questo qualcuno non può essere Paul."

E John voleva solo chiedergli perché, quando tutto in lui urlava che non ci fosse persona più giusta per John. Invece John si limitò ad arrossire violentemente e chinare lo sguardo.

"Sei fuori strada, George." sbottò John.

"Allora dimostramelo."

"Come?"

"Esci con qualcuno."

"Con chi?"

"Non lo so." rispose George, alzando le spalle, "Qualcuno che conosci, che ne dici di Yoko? È anche la mamma di una compagna di Julian. Potreste portarli insieme al parco."

John non voleva fare nulla di tutto questo. O meglio, poteva anche desiderare di portare Julian al parco con qualcuno, ma quel qualcuno doveva essere Paul. Ricordò la domenica trascorsa insieme a lui con Julian. Era stata una giornata perfetta ed era stato Paul a renderla tale.

Eppure George non capiva, non sembrava neanche voler capire e John non aveva alcuna intenzione di continuare a discutere di Paul con lui. Non voleva più parlare di questo, sapeva che continuare a parlarne avrebbe solo rovinato tutto e John non avrebbe permesso che qualcosa rovinasse il suo sentimento per Paul.

Niente e nessuno poteva.

L’unica soluzione, quindi, era assecondare le richieste di George.

“D’accordo.”

O almeno fingere.

****

Paul non aveva dormito affatto bene.

Le parole dell’ispettore Starkey avevano continuato a tormentarlo per tutta la notte. Risultato: non aveva chiuso occhio e quella mattina si era svegliato con una pessima cera.

Era facile per il suo capo dire, ‘Non si lasci demoralizzare’. Non era certamente lui a rischiare il posto di lavoro.

Ma Paul, Paul ci aveva pensato eccome ed era impossibile non lasciarsi demoralizzare. Sebbene fosse stato molto sicuro a promettere all'ispettore capo che avrebbe impedito altri furti di Hermes, Paul sarebbe stato uno sciocco a non ammettere che fosse ormai a un passo dal fare la stessa fine del suo predecessore, l'ispettore Stuart Sutcliffe.

Paul ricordava perfettamente cosa gli fosse successo, e ricordava anche quanto presuntuoso fosse lui stesso quando aveva ottenuto quella promozione. Ma ora stava cambiando. Sentiva di essere molto diverso da quel Paul e questo era dovuto ovviamente al suo lavoro, che aveva ridimensionato il suo ego, a Jane, che infliggendogli quella sofferenza l'aveva reso più forte, e anche a John, che lo incoraggiava sempre e gli dimostrava speranza, fiducia e qualcosa che Paul ancora non capiva. Qualcosa di così confuso.

Arrossì lievemente quando si rese conto che, più cercava di capire di cosa si trattasse, più tutto diventava complicato. Era come se Paul si fosse appena inoltrato in una nube temporalesca alla ricerca di qualcosa di importante, ma come poteva trovarla se tutto intorno a lui era bianco, bianco come i lampi che continuavano ad accecarlo? Paul voleva davvero trovare quel qualcosa, ma sentiva anche di non aver fretta: in effetti era tutto molto tranquillo, era stranamente piacevole, perché lui era convinto che prima o poi l’avrebbe trovato, non sapeva come né quando, ma sarebbe andata così e Paul ne sarebbe stato molto felice. Come un classico caso di serendipità. Non aveva senso affannarsi per cercare l’oggetto della sua ricerca, perché prima o poi questo gli sarebbe capitato tra le mani.

Non aveva senso anche perché quel pomeriggio doveva aiutare John a ridipingere la cameretta di Julian e Paul non poteva permettergli di accorgersi di tutto ciò che lo turbava, come sicuramente John avrebbe finito per fare se Paul non fosse stato attento. Era una qualità di John che continuava a sorprenderlo, e se da una parte lo spaventava, perché di fronte a lui, di fronte al suo sguardo si sentiva totalmente esposto, nudo, come se stesso donando a John il suo cuore e la sua anima, affinché se ne occupasse lui, dall’altra parte lo rasserenava, perché Paul non aveva mai provato una simile emozione con nessuno; era stato sempre troppo chiuso, troppo riservato, e ora invece, poteva finalmente lasciarsi andare, condividendo tutti i suoi problemi con qualcuno, un uomo che lo comprendeva fino in fondo.

Così dopo pranzo si preparò, indossando una paio di vecchi pantaloni da ginnastica e una maglietta ancor più vecchia, e nonostante fosse ancora troppo presto, si avviò verso l’appartamento dell’amico. Magari avrebbero potuto fare qualcosa prima o iniziare subito a lavorare. Che importava? Dopo la nottata appena trascorsa, Paul aveva solo bisogno di passare del tempo con John, in qualunque modo, per spegnere la sua mente da tutto quel rimuginare sui propri problemi.

Attraversando in fretta la strada, si accorse che la porta del negozio di John era aperta e dall’interno provenivano delle risate. Una era quella di John, Paul la riconobbe subito, perché ormai gli era molto familiare e molto cara. Ma l’altra era diversa, non apparteneva neanche a George.

E a quella realizzazione Paul accelerò lievemente il passo ed entrò, scorgendo subito John in fondo al negozio, tutto intento a mostrare un disco di vinile a una donna che Paul riconobbe come la donna del parco che aveva salutato timidamente John.

Il suo cuore perse un battito, e Paul non seppe bene per quale motivo, se fosse a causa del modo in cui John rideva o per la mano di lei abbandonata con finta noncuranza sull'avambraccio di lui.

Qualunque fosse il motivo, Paul si sentiva così e avrebbe anche potuto pensare di essere preda di un improvviso, inutile attacco di gelosia, ma questo portava solo altra confusione in lui. E Paul temeva tutto questo perché sapeva che prima o poi sarebbe scoppiato.

"Ciao, Paul." lo salutò George.

Paul sussultò e guardò alla sua sinistra il ragazzo al bancone: non si era accorto che ci fosse anche lui, e come avrebbe potuto? Era stato troppo preso da John che rideva con… com’è che si chiamava?

Oh, che importanza aveva? Proprio ora John si era accorto di lui e un improvviso sorriso illuminò il suo volto.

“Paul, sei già arrivato?” gli domandò John, abbandonando il vinile tra le mani della donna e avvicinandosi a lui.

“Sì, pensavo che non ci sarebbero stati problemi, ma se sei impegnato, posso tornare più tardi.” spiegò Paul, e fece per voltarsi, maledicendosi perché stava comportandosi in modo infantile e Paul si odiava, ma era più forte di lui.

Gli sembrava di aver interrotto qualcosa e anche se non sapeva di cosa si trattasse, beh, odiava qualunque cosa avesse interrotto. Era sicuro che non fosse nulla di buono. Almeno, non per Paul. Ma poi perché doveva avere a che fare con Paul? Solo perché si trattava di John? Ma non tutto ciò che riguardasse John, interessava anche Paul.

O no?

La mano di John che scattò per afferrargli il braccio e impedirgli di andarsene fu ciò che lo informò che sì, questo aveva a che fare con Paul. Aveva molto a che fare con Paul.

“No, aspetta. Arrivo subito.” lo tranquillizzò John con un sorriso.

Paul sentì il proprio cuore fare una dolce capriola all’indietro, quando John gli sorrise e strinse leggermente le dita sul suo avambraccio, e da quel momento in poi non capì molto di quanto stesse accadendo. Vide John tornare dalla donna asiatica e parlare con lei.

Yoko, ecco come si chiamava.

Forse John la salutò perché pochi secondi dopo, lei se ne andò, passando di fronte a Paul per uscire dal negozio.

Dopodiché l'amico si avvicinò a George e disse qualcosa anche a lui, prima di raggiungere Paul e afferrarlo di nuovo per il braccio.

E solo in quel momento tutto andò nuovamente al posto giusto.

“Andiamo?”

****

Paul sospirò quando finirono il lavoro.

Si stiracchiò, allungando le mani sopra la testa, e si portò al centro della camera. Osservò John che era ancora sulla scala per rifinire quel disegno che aveva dipinto su una parete della cameretta di Julian. Aveva deciso di fargli una sorpresa: Julian sapeva che il padre avrebbe ridipinto la sua stanza di verde, ma non sapeva che al suo ritorno, avrebbe trovato sulla parete di fronte al suo letto un bel sole di colore giallo che spuntava in un angolo in alto, e soffici e vaporose nuvole bianche che si offrivano come sfondo a un piccolo stormo di merli.

Era bellissimo ed era tutta opera di John. Paul apprese solo quel giorno che un'altra delle passioni di John fosse l'arte e il disegno. A quanto gli aveva raccontato, mentre tracciava le sagome delle nuvole, John amava disegnare almeno quanto suonare. La scoperta rese felice Paul, in quanto aveva appena ottenuto un altro tassello di quel puzzle di nome John Lennon. Tuttavia lo sconfortava anche e il motivo era stupido, doveva essere stupido. Quante cose ancora non sapeva di John? Quante cose Paul doveva scoprire? E le avrebbe mai scoperte o sarebbero rimaste un mistero? Paul non voleva che John fosse un mistero. Era già così confuso ultimamente su di lui che davvero aveva bisogno di conoscerlo più a fondo.

"Che ne dici?" gli chiese John, scendendo dalla scala.

"È bellissimo."

"Sicuro? Non è un po'...?"

"Cosa?"

"Non lo so. Non mi convince davvero." disse John, appoggiando le mani sui fianchi.

"Stai scherzando? È perfetto, John." esclamò Paul, abbandonando una mano sulla sua spalla, "A Julian piacerà moltissimo."

"Speriamo." sospirò John, "Ehi, che ne dici di una birra per festeggiare?"

"Dico, va bene." rispose il giovane ispettore, sorridendo entusiasta.

"Arrivo subito, allora."

John uscì dalla cameretta, lasciando Paul da solo, il quale nell'attesa si sdraiò sugli strofinacci usati per coprire il pavimento.

Si rilassò, distendendo le gambe e fece indietreggiare la schiena, puntando la mani dietro di sé. Poi inspirò profondamente e chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dalla musica. John sosteneva che lavorare con la musica fosse più stimolante e più divertente, e Paul non impiegò molto tempo ad accorgersi che avesse ragione. Avere quel sottofondo era rilassante e gli permetteva di concentrarsi sul proprio compito.

Dal momento che la pittura aveva portato via tutto il pomeriggio e quei primi attimi della sera, John aveva optato per un centinaio di canzoni varie come colonna sonora. Le aveva caricate sul suo lettore mp3 e l'aveva collegato con due piccole casse, in modo che le onde sonore si disperdessero nella camera.

Ora, per esempio, c'era una canzone di Stevie Wonder. La sua voce era inconfondibile, ma Paul non conosceva il titolo; gli piaceva molto, era dolce e nello stesso tempo spensierata, e strappò una risata a Paul perché ormai non si sorprendeva più nel ritrovarsi ad apprezzare la musica che John gli proponeva.

Tanto John era migliorato nella sua tecnica, tanto Paul aveva fatto passi da gigante nel cercare di superare il suo problema, quello che in un certo senso aveva dato inizio alla conoscenza di John, ciò che aveva dato inizio a tutto.

Forse il problema di Paul non era del tutto sparito, ma Paul sentiva quanto fosse cambiata la situazione per lui. Ora anche a lui piaceva la musica, anche lui si ritrovava a fischiettare e canticchiare quando era da solo, a casa, mentre cucinava o si preparava per andare a lavoro. Ed era tutto merito di John.

John aveva portato la musica nella sua vita, perché per Paul la musica era lo stesso John.

Era una melodia perfetta che suonava solo per lui. Ecco spiegato il motivo di quella reazione di gelosia che aveva avuto quando lo aveva visto con Yoko.

Proprio in quel momento John entrò nella stanza con due bottiglie di birra in mano. Paul lo seguì con lo sguardo, mentre si sedeva a gambe incrociate di fronte a lui.

Perché c'era Yoko con lui? Se John gli aveva detto di non aver alcun interesse per lei, perché stavano ridendo in quel modo? Insieme?

"Ecco a te." esclamò John, porgendogli una bottiglia già stappata.

"Grazie."

"A cosa stavi pensando?" chiese interessato l’uomo.

Paul sussultò. Dannazione.

"Io?"

"E chi altri?" domandò John, ridendo dolcemente, "Avevi una faccia tutta pensierosa."

"Oh, niente di speciale.” si affrettò a dire Paul, con un vago gesto della mano, “Mi chiedevo come si chiamasse questa canzone."

"Questa? Si intitola You are the sunshine of my life."

"Sunshine?" ripeté Paul sorridendo, "Beh, sembra perfetta per il tuo dipinto."

John annuì e lo seguì con lo sguardo quando il giovane uomo si voltò verso il sole sulla parete di fronte, senza distogliere gli occhi dal suo profilo. C'era qualcosa di strano nel suo sorriso, era così forzato. Non che Paul non pensasse le cose che aveva detto. Sembrava più che stesse nascondendo altro, un'altra domanda.

"Paul?"

E ora John voleva sapere quale fosse la vera domanda di Paul.

"Mh?"

"A cosa stavi pensando davvero?"

Paul si voltò verso di lui, guardandolo più che sorpreso. Avrebbe dovuto aspettarselo, eppure non poté fare a meno di apparire ancora una volta colpito dalla capacità di John di leggere dentro di lui.

"Chi ti dice che non stessi pensando davvero a questo?" domandò, cercando di capire come potesse John avere quell’abilità.

"Io."

"Perché?"

"Perché ti conosco." rispose John, convinto, "Allora?"

Paul si morse il labbro nervosamente. Non era sicuro che dire a John la verità fosse una cosa giusta da fare, o perlomeno, dire quella verità. E se John avesse frainteso?

Tuttavia Paul si convinse che John meritasse quella sincerità, aveva capito che qualcosa non andasse in lui e non si sarebbe arreso. Perciò non avrebbe avuto senso mentirgli e inventarsi qualche altra scusa.

E poi… che male poteva esserci a confidargli i suoi veri sentimenti?

"Mi chiedevo solo come mai ci fosse Yoko prima, nel tuo negozio." spiegò con estrema cautela.

"Oh.”

John sussultò alla domanda di Paul, il suo cuore perse anche un battito. Poteva aspettarsi di tutto da lui, ma mai e poi mai questa domanda.

Che idiota sei, John!

Sicuramente stava vedendo troppo in quella richiesta di Paul, non c’era nulla di strano nel chiedere il motivo della presenza di quella donna. Sì, era stato il cuore di John ad aver viaggiato troppo con la fantasia.

“Siamo usciti a pranzo insieme." proseguì.

"Pensavo che non volessi frequentare nessuno."

"È così." si affrettò a spiegare, "Lo sto facendo solo per accontentare George."

Paul aggrottò la fronte perplesso. Che cosa c’entrava George adesso?

"Per quale motivo?"

"Lui...” iniziò John, giocando distrattamente con la bottiglia di birra, “Lui vuole che cerchi qualcuno per, sai, hai capito."

Beh.

Questo cambiava tutto. O quasi. C’era sempre la possibilità che John potesse innamorarsi di quella donna, a furia di frequentarla.

Tuttavia Paul non ci credeva davvero, no, era certo di essere al sicuro, ormai; la risposta di John faceva quadrare tutto, anche se il giovane uomo osò un po’ di più, pretendendo ulteriore chiarezza.

"Quindi non hai davvero intenzione di stare con lei?"

"No, no. L'ho solo portata a pranzo fuori così George la smetteva di assillarmi."

"Meno male." esclamò Paul e non riuscì a impedire a se stesso di tirare un gran sospiro di sollievo.

John rise deliziato, ma arrossì vistosamente al commento così sincero e sollevato di Paul, "Perché dici così?"

E ora toccò a Paul arrossire, in maniera meno evidente rispetto a John, ma lui se ne accorse e anche John se ne accorse e… dio, se non era tutto così complicato!

"È solo che non penso vada bene per te." rispose Paul, cercando di essere sincero.

"Ti ricordo che anche tu mi stavi spingendo a frequentarla."

"Beh, ho cambiato idea.” ribatté Paul, alzando le spalle, “Non penso che faccia al caso tuo. Come avevi detto tu, ogni genitore single porta con sé dei problemi e tu non puoi farti carico dei problemi altrui."

"Allora chi è adatto a me?" chiese John, curioso.

Paul scacciò una risposta assurda che stava per fuoriuscire della sue labbra e che lo riguardava fin troppo da vicino, e cercò di trovare una risposta più accettabile.

"Tu hai bisogno di qualcuno che condivida le tue passioni, qualcuno che sia disposto a condividere anche i tuoi problemi e la tua stessa vita. Qualcuno che possa occuparsi sia di te che di Julian."

"Sarà difficile trovarlo." sospirò John, rassegnato.

"Mai perdere la speranza.” lo incoraggiò Paul, “Prendi me. Mi consideravo un caso disperato, ma tu mi hai dimostrato che non era così."

John lo guardò per un istante senza fiatare, solo sorridendo con dolcezza, e poi disse, “Perché sapevo che non eri così.”

“Come?”

“Si vedeva dai tuoi occhi.” spiegò tranquillamente John, “Mi stavano implorando di aiutarti. E io sono accorso in tuo aiuto.”

“I miei occhi?”

“Certo, i tuoi occhi dicono un sacco di cose, sai?”

Paul non aveva alcuna intenzione di arrossire ancora di più, niente affatto. Ma santo cielo, se John non stava facendo di tutto per portarlo lì, in quel luogo insieme fantastico e pericoloso, dove John potesse dirgli qualunque cosa e Paul si sentisse libero di arrossire quanto voleva, perché le parole di John lo toccavano così in profondità e nei posti giusti e… diamine, quanto lo facevano impazzire!

“E cosa dicono ora?”

“Ora?” ripeté John, alzando un sopracciglio, prima di avvicinarsi per guardarlo meglio negli occhi, “Beh, ora dicono che sei preoccupato per qualcosa.”

“Per cosa?”

John si lasciò scappare una risata, “E non lo so, questo devi dirmelo tu, non sono un indovino, amico.”

Paul annuì, sorridendo, prima di abbassare lo sguardo per guardarsi le mani.

“E’ il lavoro.”

“Cosa succede?” chiese John, interessato.

“L’ispettore Starkey mi ha fatto capire che a Scotland Yard non sono affatto contenti del mio lavoro con Hermes.” sospirò Paul.

John spalancò gli occhi. Non poteva essere così, era troppo presto.

“Cosa significa?”

O forse era solo la speranza di John a dirgli che fosse troppo presto per riservare quel trattamento a Paul. La speranza che non gli capitasse qualcosa di spiacevole, come andare via da Londra, in un posto dove non potesse più vedere John tutti i giorni.

“Significa che se non lo catturo al più presto, mi faranno fare la fine di Sutcliffe.”

Ecco, appunto.

“No, non possono.” protestò John, scuotendo il capo.

“Certo che possono.” ribatté Paul, sconsolato per la sua situazione, “Sto fallendo miseramente. Quante volte me lo sono lasciato scappare? Cinque? In pochi mesi l’ho fatto scappare ben cinque volte. Non è normale, John.”

No, non lo era. Ma si trattava di Paul e John non voleva che andasse via. Il suo intento iniziale era proprio quello ed era a un passo dall’ottenerlo, ma ora le cose erano cambiate e no, Paul non aveva alcun diritto di andar via.

“E quindi, ora cosa puoi fare?”

“Devo solo arrestarlo, la prossima volta che si farà vivo, lo catturerò.” sospirò Paul.

Oppure potevano semplicemente restare entrambi in quella situazione di stallo: John non avrebbe più indossato i panni di Hermes e Paul non avrebbe perso il lavoro. Era l’unica soluzione al momento e John dovette ammirare se stesso per il tempismo della sua decisione.

“Sono sicuro che ce la farai.” disse infine, provando a incoraggiarlo.

“Grazie, John.”

Paul cercò di sorridere, ma John poteva facilmente vedere dietro quel sorriso, il vero stato d’animo di Paul. Lui non credeva più in se stesso, nelle sue capacità, era evidente e anche normale, dopo tutte le volte che John era riuscito a fuggire evitando l’arresto. Il problema era che John non ce l’avrebbe mai fatta, forse, se Paul non gli avesse rivelato le sue mosse, se Paul non fosse entrato nella sua vita per scombussolarla.

Dio, avevano scombussolato l’uno la vita dell’altro.

Anche per Paul era cambiato tutto. John ricordava la sua sicurezza il giorno in cui era entrato nel suo negozio per la prima volta, e ora sembrava così perso, con poca fiducia in se stesso. Ed era stato John il responsabile di quel cambiamento.

“Lo penso davvero, Paul, tu sei incredibilmente in gamba.”

Paul annuì distrattamente, chinando il capo e John lo osservò. Il suo cuore batteva forte, in modo regolare, e gli occhi non si staccavano dal bel viso di Paul che ora mostrava una delle espressioni più tristi che John avesse mai visto.

Era colpa sua se Paul stava così e John voleva solo fare qualcosa per rimediare. Da una parte sapeva di dovergli confessare tutto, la sua identità in primo luogo e i suoi sentimenti, ma non poteva. L'avrebbe perso e lui non poteva rinunciare a Paul.

Poteva rinunciare a Hermes, sì, ma mai e poi mai a Paul. Non poteva avere entrambi, questo era ovvio, e quel ragazzo era diventato lentamente più importante dell'altro John.

A quella realizzazione, John sorrise, prese il pennello ancora impregnato di vernice gialla e sporcò la punta del naso di Paul, il quale, dopo un attimo di esitazione in cui probabilmente si stava chiedendo che cazzo avesse combinato John, alzò lo sguardo e lo fissò sconcertato solo per un istante, prima di prendere il suo pennello, con la vernice bianca, e imitare su John il suo stesso gesto. 

John si lasciò scappare una risata e passò il pennello sul mento di Paul. Il giovane ispettore lo lasciò fare, dandogli anche il tempo di ammirare il suo lavoro e gongolare, per poi avventarsi su di lui e atterrarlo con una delle sue mosse migliori, una di quelle che usava per placcare i criminali e arrestarli.

John non se l'aspettava proprio, e lo guardò sorpreso ma divertito, mentre Paul lo bloccava sistemandosi a cavalcioni su di lui e fermando con una mano quelle di John, il quale perse la presa sul pennello.

"Chi è che ride ora?" esclamò Paul in tono di sfida.

"Cosa hai intenzione di fare, ispettore? Arrestarmi?"

"No, mi limiterò a vendicarmi." commentò maliziosamente.

La sua mano libera prese il pennello con la vernice verde, abbandonato per terra sul rivestimento di strofinacci e fogli di quotidiani, e  con questo evidenziò tutta la linea della mascella di John. Non ci aveva mai fatto caso, ma John aveva una bellissima mascella, non era né troppo pronunciata, né troppo delicata come quella di Paul. Era davvero perfetta, tanto che Paul avrebbe voluto tracciarla con le sue stesse dita, ma sapeva che fosse totalmente disdicevole. John l'avrebbe mandato al diavolo e con una buona ragione. Anche Paul si maledisse da solo, perché... Che cazzo di desiderio era mai quello?

Poi John rise e mosse un po' il capo per il solletico che le morbide setole stavano trasmettendo alla pelle sensibile del viso.

"Forse è meglio usare qualcos'altro." affermò Paul.

"Perché? Non hai ancora finito il tuo capolavoro, Michelangelo?"

"Certo che no, che domanda stupida." esclamò sbuffando.

Paul abbandonò il pennello e decise di ricorrere a due delle sue dita. Le sporcò di vernice gialla e si chinò lievemente su di lui, appoggiando le dita sulla sua fronte. Disegnò un grande sole in mezzo alla fronte liscia, scostando con le dita pulite i capelli della frangia. Si assicurò che fosse un sole perfetto, rotondo e luminoso, come quello che avevano disegnato sulla parete della cameretta di Julian.

"Cosa stai facendo?"

"Dopo lo vedrai. Fa' silenzio ora."

"D'accordo, capo."

Paul rise e spostò le dita su una delle sue guance. Contornò l'occhio, facendo attenzione a non avvicinarsi troppo alla palpebra, ammirando da vicino quel colore così particolare dei suoi occhi: l'iride era verde chiaro, con pagliuzze ambrate che rendevano il suo sguardo così pieno di calore.

Un calore che Paul si ritrovò a desiderare. Non capiva bene per quale motivo e non sapeva come fare per provare ancora e ancora quel calore. Ma ne aveva avuto un assaggio: John era stato così gentile con lui, premuroso e sempre presente quando Paul ne avesse avuto bisogno, che Paul ora si ritrovava a esserne dipendente e a desiderarne sempre di più.

Perciò la mano si spostò per ripetere la stessa azione sull'altra guancia. Rise leggermente quando la sua opera fu conclusa e John, interessato, gli chiese se ora finalmente avesse finito.

"Sì, direi di sì." rispose soddisfatto.

"Oh, allora non ti dispiace se faccio questo."

"Cos-"

Ma Paul non fece in tempo a chiedere alcunché. Capì solo di aver abbassato la guardia prima, con quella sua risata, e di aver allentato la presa sulle mani di John. Lo capì quando, dopo uno scatto dei fianchi di John, si ritrovò steso a terra e l'istante successivo John si arrampicò a cavalcioni sopra di lui, bloccando insieme le braccia e le gambe di Paul.

"Ehi. Non vale." protestò, ridendo, l'ispettore.

"Che cosa, mio caro? Non lo sai che chi la fa, l'aspetti?"

"Ma-"

"Sta' zitto. Mi devo concentrare per ricambiare adeguatamente il favore."

Paul cercò di ridere ma lo trovò molto difficile. John studiava il suo viso con un'attenzione incredibilmente accesa, quasi ardente. Era strano, ma Paul non era mai stato guardato in quel modo, e ancor più strano era il fatto che Paul desiderasse quello sguardo su di sé per sempre. Lo faceva sentire importante, speciale, amato.

Perché nessuno l'aveva mai guardato in quel modo?

Perché John era l'unico ad averlo fatto?

Le risposte a quelle domande erano troppo complicate e Paul non voleva davvero saperle. Soprattutto non ora che John aveva sporcato le proprie dita di vernice bianca e stava disegnando dei baffi sul volto di Paul, facendo dei bei riccioli sulle sue guance rotonde.

Il contatto tra le dita di John e le guance di Paul bruciava, per quanto lieve, bruciava come l'incendio più devastante.

Era folle, ma Paul voleva solo che John non finisse mai di toccarlo, che John lo accarezzasse, e tutto il resto non importava. Almeno, non quel giorno, proprio quando si era reso conto che stava rischiando di perdere le uniche due cose importanti che gli fossero rimaste: il suo lavoro e John.

Ora come ora non poteva far molto per il lavoro. Doveva solo aspettare la prossima mossa di Hermes, perché indizi su di lui ne avevano davvero pochissimi. Londra era abitata da milioni di persone e lui ne cercava solo una.

Mentre per quanto riguardava John, Paul non poteva permettere che si allontanasse da lui. E quando l'aveva visto ridere con Yoko, Paul aveva avuto paura. Qualcosa si era acceso, diventando più confuso, più importante. Non aveva idea di cosa gli stesse accadendo, ma Paul sapeva che non era disposto a condividere John con un'altra persona.

E allora George? Perché con George non aveva questa reazione?

George era amico di John, come anche Paul era amico di John.

No, Paul sapeva in fondo che non fosse uguale. Era diverso in qualche modo.

Tutti i suoi pensieri, dubbi, riflessioni scoppiarono come una bolla di sapone quando John rise dolcemente per il lavoro compiuto.

Paul si ritrovò a sorridere inconsapevolmente. Forse sorrideva già da qualche minuto, da quando John, euforico, aveva cominciato a dipingere il volto di Paul. Era un'espressione incredibile, quasi ipnotica e soprattutto bellissima sul viso di John.

Paul ne era ammaliato, affascinato… conquistato.

"Ecco fatto. La mia vendetta si è conclusa."

John aspettò che Paul dicesse qualcosa, ma il ragazzo continuava solo a guardarlo. John non sapeva perché, e il suo cuore batteva così forte che non riusciva a capire nient'altro al di là di quello splendido uomo che lo guardava e sorrideva con un calore che arrivava anche a John, e sembrava che stesse facendo sciogliere la parte più razionale di sé.

Non sapendo cos'altro aggiungere per cercare di ottenere una qualunque risposta da Paul, John disse un semplice e banalissimo, "Paul?!"

E finalmente ebbe la sua risposta. Breve e concisa. Non molto chiara, e di certo così sorprendente.

John ebbe la sua risposta quando Paul si sollevò leggermente col busto.

Quando Paul lo baciò.

Fu così rapido che John neanche se ne rese conto.

Paul, proprio Paul McCartney, il suo ispettore, il suo amico, il suo Paul l'aveva baciato. E dio, se questa non era la cosa più incredibile che John avesse mai provato.

Improvvisamente tutto intorno a lui era più luminoso, come se quel sole sulla parete fosse vero, e John si sentiva così leggero: sembrava che con quel bacio (era un bacio, vero?) Paul avesse fatto sparire tutti i suoi problemi, tutti quei dubbi complicati che facevano intrecciare la mente di John.

Paul l'aveva baciato. Oh, sì, era proprio così. E John l'aveva visto, mentre avvicinava le sue labbra piene e le posava su quelle di John. Mai aveva assaggiato labbra più soffici e più dolci di quelle di Paul. L'odore acre della vernice sui loro volti era ancora così intenso e la bocca di Paul sapeva di birra, ma c'era un sapore dolce come miele che giaceva lì, su quelle labbra e John voleva assaggiarlo ancora.

Tuttavia non fece in tempo ad afferrare il suo volto tra le sue mani per poterlo baciare di nuovo, che Paul aveva già ricominciato a parlare.

"Io… dovrei andare, ora."

John voleva solo dirgli, ‘no, non andare, resta e baciami ancora’. Ma non voleva affrettare le cose. Quel bacio aveva aperto una porta che John voleva disperatamente aprire e ora che Paul l’aveva fatto al posto suo, ora quella porta li aveva portati in un’altra dimensione, una in cui c'era molto su cui riflettere e forse sarebbe stato meglio che l'avessero fatto da soli, ognuno per conto suo.

Sicuramente era questo che stava cercando di dirgli Paul con la sua affermazione. Forse non sapeva cosa dire né fare a causa del suo gesto, e quindi era ricorso a quella semplice e ovvia soluzione.

"C-certo."

John liberò Paul ed entrambi si alzarono in piedi, avviandosi poi verso le scale.

“Grazie mille per… oggi.” gli disse John, scendendo i gradini.

“Figurati.” rispose Paul, sorridendo nervosamente.

“Se non mi avessi aiutato, sarei ancora a metà lavoro.”

“E’ a questo che servono gli amici, no?”

 “Già.”

John annuì e Paul continuò solo a guardarlo, trovando incredibilmente difficile andare via, distogliere i suoi occhi dal viso di John che ora appariva così diverso.

Tuttavia, doveva andare via. Alla fine Paul era scoppiato, proprio come aveva previsto, e in un modo che non si aspettava.

“Allora, ci vediamo, John.”

“Sì, ciao, Paul.”

Paul gli rivolse un rapido cenno della mano prima di voltarsi e allontanarsi velocemente da quella casa. Il tragitto verso casa sua fu molto breve, ma Paul percepiva lo sguardo di John sulla sua schiena: bruciava e rendeva il ritorno a casa infinito.

Finalmente Paul raggiunse il suo appartamento e sparì dietro la porta.

Ora, solo ora diede il permesso al proprio corpo di assimilare e capire ciò che aveva fatto. E ciò che aveva fatto era la cosa più strana, la cosa più travolgente, la cosa più sbagliata che avesse mai fatto.

Aveva baciato John.

Un bacio vero, ed era stata una sua iniziativa. Era stato lui a sollevarsi per avvicinarsi a John e sfiorare le sue labbra con le proprie.

Le labbra di John, così morbide, perfette, facevano venir voglia di baciarlo ancora, ma no, no, che cosa stava pensando?

Che cazzo ti prende, Paul?, si chiese angosciato.

Aveva bisogno di John, solo questo. In quel momento, dove aveva compreso appieno tutto ciò che l’uomo avesse fatto per lui, tutto ciò che rappresentasse e quanto meraviglioso apparisse ai suoi occhi, quel bacio per Paul era stata la cosa più giusta da fare.

Ma era sbagliato, troppo sbagliato, era una situazione troppo ingarbugliata, era una matassa attorcigliata di un filo che non poteva essere sciolta.

Non vi era alcuna soluzione.

E soprattutto non vi era soluzione ora, con la mente di Paul ancora annebbiata e il suo cuore ancora così euforico, impazzito.

Aveva bisogno di dormirci sopra, e sicuramente il giorno dopo sarebbe stato tutto più chiaro.

Una notte di riposo, con la speranza che questa piccola barca sopra cui si trovava Paul, uscisse dalla tempesta.

Una tempesta che Paul amava e odiava.

Una tempesta di nome John.

 

 

Note dell’autrice: buondì.

Sinceramente, non so cosa dire di questo capitolo, a parte il fatto che… ehi, Paul ha baciato John! È una cosa che aspettavamo, ma proprio ora? :/

Ad ogni modo, è un buon modo per augurarvi buone vacanze. Domani si parte, ma mi porterò dietro tutto il necessario per continuare a scrivere. Purtroppo anche se volessi, non credo che avrò la connessione a internet per pubblicare, perciò ci sentiremo al ritorno.

Grazie a kiki che ha corretto il capitolo.

Grazie a Chiara_LennonGirl e GaaraIstillloveyoubaby che hanno recensito lo scorso capitolo e a tutti quelli che hanno seguito con affetto la storia fino a questo momento.

Prossimo aggiornamento: 19 agosto.

Non lascio alcuno spoiler (sarebbe crudele), a parte il titolo, “You’ve got to hide your love away”.

Buona estate a tutti.

Kia85

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** You've got to hide your love away ***


I’ll get you

 

Capitolo 16: “You’ve got to hide your love away”

 

Il mattino sopraggiunse dolcemente, inondando la camera da letto di Paul con i suoi raggi dorati.

E con lui giunse anche quell'importante realizzazione che Paul aspettava dalla sera precedente.

No, non aveva sognato.

Anche se Paul aveva dormito tranquillamente, quel ricordo non era stato cancellato, perché non era qualcosa accaduto solo nel mondo dei sogni.

Era accaduto davvero.

Non era effimero come un sogno, era concreto e Paul, quella mattina, ricordava tutto, fino al più insignificante particolare: l'odore della vernice sulla pelle di entrambi, la musica in sottofondo, il calore di John che lo avvolgeva come la più morbida coperta.

Tutto era così vivo in lui che Paul sapeva sarebbe stato difficile dimenticarlo.

Ma la domanda era: lui voleva davvero dimenticare?

Non ne era poi così convinto. C'era una parte di se stesso, quella più folle, che urlava a gran voce che Paul non dovesse affatto dimenticare un evento come quello.

Tuttavia, era anche vero che quella sembrasse l'unica soluzione possibile.

No, l'unica soluzione accettabile.

Perché in effetti se Paul rifletteva bene, c'erano altre due scelte, ma entrambe lo spaventavano infinitamente.

La prima era quella di parlare con John riguardo ciò che era successo, ciò che Paul aveva fatto, e a quel pensiero, al ricordo di Paul che prendeva l'iniziativa, l'uomo arrossì vistosamente. Dio, doveva aver perso la testa per fare una cosa simile. Non poteva neanche dare la colpa alla birra. Ne aveva bevuto a malapena mezza bottiglia. Magari poteva incolpare la stanza e quell'odore intenso di vernice. Forse era stato davvero questo a farlo impazzire, qualche sostanza chimica presente in quell’intruglio verdastro.

Perché Paul doveva essere impazzito per forza per baciare John. Per voler baciare John.

Ed era proprio questo il problema. Se Paul avesse parlato con John e scoperto che quella era stata la cosa giusta da fare? Paul non poteva crederci, ma era una possibilità concreta. Dopotutto John non l'aveva respinto e neanche si era incazzato come Paul avrebbe potuto facilmente immaginare. Sembrava sorpreso quanto Paul, ma sicuramente non arrabbiato.

E forse... Forse Paul osava troppo in questi suoi pensieri, ma poteva anche dire che John avesse... apprezzato?

Ecco. Era questo il nodo cruciale. Se avesse parlato con John e insieme fossero giunti alla conclusione che potevano farcela, che non era così sbagliata l'idea di loro due che-

Aspetta un attimo, Paul, si disse.

Che cosa stava pensando? Paul che frequentava un altro uomo? Non era possibile, non era credibile, non era-

Ma John non era un altro uomo. John era John e John era incredibile, così meraviglioso per Paul, così... così...

No, cristo santo, Paul, che cazzo ti prende?

Paul si sollevò a sedere, passandosi la mano sul viso sudato, e respirò profondamente e con lentezza. Neanche si era accorto dell'iperventilazione.

E mentre riprendeva a respirare normalmente, la sua mente gli suggerì la seconda soluzione, quella che il suo cuore già in partenza non poteva neanche prendere in considerazione.

Non vedere più John. Cancellarlo per sempre dalla sua vita. Non avere più niente a che fare con lui perché stava mandando a puttane la sua salute psicofisica. Era davvero una tempesta, delle più devastanti, e Paul, il folle, dopo averne visti gli effetti, era ancora combattuto tra il fuggire il più lontano possibile da lui e il restarne in balia.

Sarebbe stato più semplice, certo, ma quale sarebbe stato il prezzo? Uno sicuramente troppo alto da pagare per Paul. Non poteva permetterlo, neanche questo era accettabile. Scappare via, lontano da John, era da vigliacchi.

E allora?

Se non poteva allontanarsi da John, né pensare a lui come a più di un amico, cosa poteva fare?

Cosa doveva fare?

****

John sospirò quando Julian finalmente si addormentò.

Il bambino era tornato nel tardo pomeriggio e John aveva subito notato quanto fosse felice. Vederlo così allegro con sua madre gli riempì il cuore di gioia, ma comunque non poté fare a meno di correre verso di lui quando vide la macchina di Cynthia parcheggiata di fronte al suo appartamento.

Gli era mancato così tanto che John voleva solo abbracciarlo e non lasciarlo andare mai più. Un desiderio ovviamente impossibile da esaudire e sicuramente dettato dai pensieri a caldo di John, ma in quel momento tutto era concesso, e John lo strinse a sé e poi lo baciò sulle guance e sulla fronte, mentre Julian rideva per il solletico.

Cynthia l'aveva ringraziato per l'opportunità e aveva salutato Julian promettendogli che si sarebbero rivisti presto. La sera era trascorsa tranquillamente con Julian che raccontava a John dei suoi giri sul pony, e le volte in cui aveva dato da mangiare alle oche e poi i tuffi con la mamma in piscina. Sì, si era divertito più di quanto lui stesso potesse immaginare. Tuttavia quando più tardi quella sera Julian gli aveva chiesto il permesso di dormire nel suo lettone, John era stato più che felice di accontentarlo. Come se anche Julian avesse sentito fortemente la mancanza del padre e avesse bisogno di sentirlo vicino per essere sicuro di essere di nuovo con lui.

Così eccoli lì ora, nel grande letto di John: Julian era accoccolato tra le braccia di John, il viso nascosto nel petto di suo padre, e John lo avvolgeva dolcemente.

Gli aveva canticchiato una ninna nanna per farlo addormentare e Julian, a causa anche della stanchezza dovuta a un fine settimana movimentato, era crollato in pochi minuti.

John rimase sveglio, assaporando la sensazione potente di essere di nuovo con il suo bambino. Era caldo tra le sue braccia, e i suoi capelli profumavano dolcemente di buono.

Era tutto ciò che gli serviva per placare il suo animo in tormento da almeno un giorno.

Da quando Paul l'aveva baciato.

Era davvero difficile credere a una cosa simile, ma ogni volta che John pensava che dovesse trattarsi solo di un sogno, allora il suo cuore cominciava a battere come se fosse ancora lì con Paul, e sulle sue labbra poteva ancora percepire il dolce sapore del giovane uomo. Tutto questo per ricordargli che non aveva affatto sognato.

Il problema era che Paul non si fosse fatto sentire quel giorno. Forse aveva voluto lasciarlo in pace sapendo del ritorno di Julian. O forse, come John, non sapeva proprio come comportarsi. Doveva essere John a chiamarlo? Oppure toccava a Paul?

E tutto diventava ancor più complicato se John si soffermava a pensare alla reazione di Paul. Lui, John, ovviamente non aveva avuto problemi. Insomma era o non era ciò che aspettava disperatamente? Cazzo, se lo era.

Tuttavia Paul era stato impassibile. L'aveva baciato lui, sì, ma poi? Poi si era comportato come se non fosse successo nulla. E in quel momento a John era parsa la soluzione migliore, ma ora stava cominciando a ricredersi. Non vi era stato un solo segnale da Paul né in un senso né nell'altro. O forse vi era stato e John non l'aveva recepito?

Santo cielo, rischiava di impazzire a passare i suoi giorni e le sue notti a pensarci senza arrivare ad alcuna conclusione. Doveva fare qualcosa, doveva vedere con i propri occhi Paul e solo allora avrebbe capito cosa fare.

E dal momento che Paul non sembrava voler fare la prima mossa, John decise che toccasse a lui. Si voltò leggermente, tenendo vicino a sé Julian, e afferrò il cellulare dal comodino. Erano le 22.45. Paul doveva essere ancora sveglio. O almeno John lo sperava.

Decise di scrivergli un messaggio. E caspita, mai messaggio fu più complicato da scrivere. Cosa doveva dire? Come doveva iniziare? Ciao o era meglio Buonasera? E poi? Come stai? Tutto bene?

Oh, era un idiota. Ecco. Farsi stupidi problemi per uno stupido messaggio. Neanche fosse una ragazzina di quattordici anni alla sua prima cotta.

Scrivi solo la prima cosa che ti passa per la testa!, si disse.

E così fece.

'Ciao. Avrei un nuovo brano da studiare insieme a te. Che ne dici? Ci stai?'

Inviato il messaggio, John rimase in attesa e nel frattempo accarezzò i capelli di Julian, un gesto che aveva il potere di calmarlo, e in quell’occasione era assolutamente fondamentale mantenere la calma. Se Paul non gli avesse risposto subito, John sarebbe impazzito. Certo, poteva essere che il giovane ispettore stesse già dormendo. Ma allo stesso modo, poteva anche essere che Paul non volesse più sentirlo, che volesse cancellarlo dalla sua vita, troppo pentito da quanto fosse accaduto.

In quel caso, le peggiori catastrofi si sarebbero affollate nella sua mente, e John sentì il proprio respiro mozzarsi alla sola idea di non vedere Paul mai più.

Per fortuna, però, il cellulare vibrò pochi minuti dopo, e lui aprì subito il messaggio per leggere due parole semplici che lo resero nello stesso momento incredibilmente felice e terribilmente ansioso.

'Ci sto.'

****

Paul era pronto.

Appena uscito dalla porta di casa sua, prese un profondo e respiro e si sentì proprio così. Pronto.

Pronto a rivedere John.

Ormai la decisione era stata presa e Paul aveva accettato che quella fosse davvero l'unica soluzione. Ecco perché aveva acconsentito di vedere di nuovo John per una delle loro lezioni; e Paul sapeva per certo che anche John si sarebbe comportato esattamente come lui. Il messaggio che gli aveva mandato era chiaro.

L’uomo attraversò la strada e giunse di fronte al negozio di John.

Il suo cuore, stupido, batteva così forte: era un maledetto bastardo, ecco cos'era. Paul aveva chiarito più volte con se stesso, dopo molte discussioni interne, che davvero non potesse fare altro in quella situazione. Ma il suo piccolo folle cuore non gli dava mai retta e faceva di testa sua, impazzendo al solo pensiero che stesse per rivedere John. Dio, lo stesso John che Paul aveva baciato.

Paul scosse il capo per allontanare ancora quell'immagine, e provò a ignorare a tutti i costi il suo cuore, mentre varcava la soglia del negozio.

Si guardò subito intorno e quell'incosciente del suo cuore perse un battito, sprofondando nella delusione perché di John non c'era neanche l'ombra. Oh, se fosse stato ancora ammalato? Poteva aver preso una ricaduta. Era una possibilità concreta.

Ma che stupido! Perché continuava a preoccuparsi in quel modo per John? Doveva rispettare la sua decisione. Doveva-

"Ciao, Paul."

Una voce giunse alle sue orecchie, destandolo dai suoi pensieri e permettendogli di accorgersi che ci fosse solo George in negozio.

"Ciao." lo salutò Paul, raggiungendolo al bancone.

Il ragazzo stava giocando a solitario al pc, mentre ascoltava un po’ di musica con gli auricolari, "Qual buon vento?"

"Oh. John ed io dobbiamo studiare un nuovo brano."

"Capisco."

"Non lo vedo in negozio. Non è ancora ammalato, vero?" domandò Paul, guardandosi intorno e ancora non riuscendo a scorgere John.

"No, no.” si affrettò a rispondere George, con un vago gesto della mano, “Ha portato Julian al parco con Yoko e sua figlia."

Paul batté le palpebre, turbato.

Yoko?

Ancora?

Ma John gli aveva detto che non fosse niente di serio, giusto? Quindi Paul non doveva preoccuparsi.

No, ecco, aveva detto bene. Paul non aveva alcun diritto né alcun motivo per preoccuparsi. Quella stupida gelosia che lo stava nuovamente attanagliando era davvero incredibilmente stupida e inutile.

Non poteva essere ancora geloso, e non perché John gli avesse detto che non c'era nulla di serio con Yoko. Non poteva perché non dovevano andare così le cose fra lui e John. Loro erano amici, solo amici. Tutto qui, e prima Paul l'avesse capito, prima sarebbe stato meglio. Non solo per lui stesso, ma anche per John.

"Ma sta per tornare, non ti ha dato buca." spiegò George, “Altrimenti mi avrebbe avvisato.”

"Oh, sì, va bene, grazie." balbettò Paul, ancora un po’ inquieto da quel contrasto tra ciò che diceva la sua mente e ciò che desiderava il suo cuore.

"John è diventato molto bravo, vero?"

Paul annuì, grato per il fatto che George gli avesse offerto un argomento di discussione con cui distrarsi, "Assolutamente sì."

"L'ho sentito l'altro giorno mentre si esercitava. Sono molto colpito." commentò George, entusiasta.

"Aveva molta voglia di imparare.” spiegò Paul, “È per questo che ce l'ha fatta."

"Pensi che andrete avanti ancora per molto?” domandò George, interessato, “In fondo quello che doveva imparare, l'ha imparato..."

Paul batté le palpebre e sentì un tonfo nel suo petto, all'idea che gli stava suggerendo George.

Forse perché sapeva che George avesse ragione e che quelle stupide lezioni non servissero a nulla. Almeno, John non aveva più nulla da imparare di quello che Paul aveva da offrirgli. Ormai non erano più lezioni, erano solo attimi rubati alla loro vita per stare insieme. Erano momenti a cui Paul si aggrappava per avere John tutto per sé.

Certo, come se non l'avesse mai avuto in altre occasioni.

Tuttavia era così che era cominciato, e così doveva continuare perché Paul stava così bene in quei momenti con John. C'erano solo loro due e la musica. Un mix perfetto di cui Paul, ormai l'aveva appurato, non poteva più fare a meno.

“Sì, io credo che il lavoro con John non sia ancora finito.”

“Perché?”

Già, questa era la domanda più importante.

Perché?

****

John controllò l’ora e quasi imprecò ad alta voce: era in ritardo per l’appuntamento con Paul.

Cosi cercò di affrettare il passo. Aveva appena lasciato Julian al parco con Yoko. In realtà avrebbe dovuto portarlo a casa con sé: non aveva alcuna intenzione di affidarlo a qualcuno che probabilmente non l’avrebbe sorvegliato come lo stesso John.

Tuttavia quando aveva detto a Julian di tornare a casa, lui aveva protestato e insieme a lui anche Kyoko. E a quel punto, Yoko si era offerta di riportare il bambino a casa; perciò John aveva ceduto.

Una volta non l'avrebbe fatto. Solitamente lasciava Julian con George e Pattie perché si fidava, ma con altri mai e poi mai. Eppure da quando aveva affidato Julian alla madre per pochi giorni, era come se avesse imparato ad allentare la presa su di lui. Lo capì quando si rese conto che, dalla sua nascita, non si era mai separato da Julian per più di un giorno, troppo preso dalle sue responsabilità di padre single. Ma ora era diverso. Non desiderava certamente che suo figlio crescesse pieno di paure e ansie nell'affrontare il mondo da solo. La proposta di Cynthia era arrivata nel momento giusto, ed era anche il modo migliore per John per affrontare e cercare di attenuare le sue ansie di genitore.

Così John aveva accettato e affidato Julian a Yoko, consapevole del fatto che la distrazione che gli stava offrendo Paul fosse un notevole aiuto alla sua situazione.

Difatti quando svoltò nella via di casa e vide la porta del negozio aperta, il suo cuore iniziò a battere più velocemente e lui sorrise a nessuno in particolare. Una cosa molto stupida da fare, ma santo cielo! Stava per rivedere Paul. Quello stesso Paul che l'aveva baciato. Gli era permesso comportarsi da sciocco, no?

Chissà se era già arrivato. Conoscendolo, forse sì, era già lì ad aspettarlo e… maledizione! Il pensiero rese quel breve tratto di strada interminabile. Per quanto John potesse accelerare il passo, la porta del negozio appariva sempre lontana.

Eppure, non ce la faceva proprio a trovare tutto questo così stupido, anzi, era quasi divertente, pensò ridendo fra sé. Non si sentiva così leggero e sereno da secoli: era incredibile, era pazzesco, e lui voleva solo che questa sensazione non scomparisse mai più.

Quando si avvicinò finalmente al negozio, poté sentire George parlare con qualcuno.

"Pensi che andrete avanti ancora per molto? In fondo quello che doveva imparare l'ha imparato..."

John arrestò improvvisamente il passo, e con un sussulto al cuore, riconobbe la voce che gli rispose.

“Sì, io credo che il lavoro con John non sia ancora finito.”

Paul.

Paul era già arrivato, proprio come previsto da John, e stava parlando con George.

“Perché?”

Santo cielo, stava proprio parlando di lui con George e a quella realizzazione, John si sentì arrossire per qualche strano motivo.

“Ehm, dobbiamo ancora perfezionare alcune… sì, alcune cose, sai, riguardanti la tecnica.”

John batté le palpebre, accorgendosi, non senza un po’ di perplessità, che il tono di Paul fosse quasi… ma non era possibile, quasi a disagio.

“A me sembra che vada bene ormai.”

Stupido George, perché caspita doveva insistere?!

“Oh, sì, ma vedi, lui… anche lui sta aiutando me e… e io ho ancora bisogno di lui.”

John si morse il labbro, sentendosi diventare ancora più rosso e più caldo in viso, mentre il suo cuore batteva euforico nel suo petto come se fosse così felice che non sapesse più come calmarsi. E diamine, aveva tutte le ragioni del mondo per essere felice. Molte volte John si era ritrovato a pensare le stesse cose di George, il fatto che lui non avesse più bisogno delle lezioni di Paul, ma altrettante volte aveva risposto a se stesso proprio come Paul, con le stesse parole, la stessa titubanza, le stesse traballanti scuse.

Il che poteva voler dire solo una cosa: che Paul, forse, provasse esattamente gli stessi sentimenti di John.

“Ma, Paul, secondo me dovreste-“ iniziò a ribattere George e a quel punto, John, spaventato, decise di intervenire ed entrare in fretta nel negozio.

“Buongiorno!”

Sia George che Paul sussultarono quando si accorsero di John.

"Oh, ciao, John."

"Ciao, Georgie." lo salutò John, sorridendo, prima di voltarsi verso Paul e addolcire il suo sguardo così come il suo tono, "Ciao, Paul."

L’uomo ricambiò il sorriso debolmente, "Ciao, John."

"Sono felice che tu abbia accettato di aiutarmi con il nuovo brano."

"È un piacere, lo sai."

"Che brano vuoi preparare, John?" si intromise George.

"Vediamo, pensavo a Songbird, dei Fleetwood Mac."

"Oh, è molto bello." commentò George, colpito.

"E molto impegnativo, perciò prima cominciamo, meglio è, vero, Paul?" domandò, appoggiando le mani sulle spalle di Paul, e senza neanche aspettare la sua risposta, iniziò a sospingerlo verso la sua stanza, "A dopo, George."

John continuò a guidare Paul, mentre George augurava a entrambi una buona lezione.

Quando finalmente raggiunsero la loro meta,  John chiuse accuratamente la tenda dietro di sé e si voltò a osservare con attenzione e con un'improvvisa timidezza Paul che cercava con lo sguardo la chitarra.

“Allora, di cosa stavate parlando esattamente tu e George?” chiese John, la sua voce dolce e attenta.

“Oh, niente, mi ha chiesto se non fosse il caso di terminare questi incontri, dato che sei migliorato molto.” rispose Paul, avvicinandosi alla custodia della chitarra che usava lui.

“E tu gli hai risposto di no?”

“Certo." rispose Paul, tornando a guardarlo, "Alla fine non servono solo a te, anche io ne sto traendo vantaggio.”

“Così pare.” commentò facendo uno, due passi verso Paul.

Il giovane sussultò visibilmente, ma cercò comunque le parole per rispondere, “E’ la verità.”

John annuì, sorridendo, “Lo so."

E il sorriso di John, dolce e malizioso, ebbe uno strano potere su di lui: lo inchiodò al proprio posto, rendendolo incapace di muovere un solo muscolo, mentre John si avvicinava sempre più.

Tutto in Paul gli stava urlando di scappare, e tutto in John gli chiedeva di restare lì, proprio così, fermo.

Fermo solo per un istante, ad aspettare la mossa di John, divenuta oramai così chiara, cristallina: la sua bocca stava cercando quella di Paul.

Ma Paul ricordò a se stesso di essere più che convinto della sua decisione e con un attimo di lucidità, prima che quell’ultimo centimetro di distanza venisse eliminato, poggiò le mani sul petto di John e lo spinse lontano da sé.

“Cosa credi di fare?”

John batté le palpebre, totalmente preso in contropiede, "Eh?"

"Ho chiesto, cosa cazzo credi di fare, John?" ripeté, il tono divenne lievemente alterato, suo malgrado.

"Io... Volevo solo... bac-"

Paul rise amaramente, impedendogli di terminare ciò che voleva dire, "Devi essere impazzito."

"Ma Paul, credevo che anche tu lo volessi."

"Sei fuori strada." si affrettò a chiarire Paul.

"No, non è vero." protestò John, aggrottando la fronte e non gradendo questo cambio di atteggiamento in Paul, "Sei stato tu a iniziare tutta questa storia."

Paul sussultò, non riuscendo a impedire a se stesso di arrossire, "Quello è stato un errore."

"Un errore?" ripeté John, spalancando gli occhi.

Dannazione. Era proprio come Paul aveva pensato. John... John aveva chiaramente accolto con favore, con piacere, il gesto di Paul.

Era un disastro. Ed era tutta colpa di Paul. Non poteva prendersela con John, perché lui aveva ragione: era stato Paul a iniziare tutto.

"Sì." sospirò Paul, provando a calmare la sua voce, "Dovremmo entrambi dimenticarcene e andare avanti come se nulla fosse successo. Possiamo farcela, John."

Il tono più dolce e incoraggiante di Paul, quello che di solito faceva impazzire John, ora era... Era odioso, insopportabile.

John guardò l'uomo con totale sconcerto e scosse il capo, "No, Paul, non possiamo."

"Perché?" protestò accorato Paul, "In fondo è stato solo uno sbaglio dettato dal momento."

"Cosa intendi?"

"Io ero..." iniziò a dire, distogliendo lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli, "Ero sconvolto per il lavoro ed ero appena uscito da una storia importante, finita in modo turbolento. Non capivo davvero cosa stessi facendo."

"Stai mentendo.” ribatté John, puntandogli un dito contro, “Lo sapevi bene."

"Questo non toglie il fatto che sia stato un errore." sbottò Paul.

"Cazzo, Paul, io non voglio considerarlo un errore, ok? Non voglio fingere che non sia mai accaduto."

Era snervante, era una situazione senza speranza, John stava cercando di far ragionare Paul inutilmente, perché Paul… lui non sembrava avere alcuna intenzione di smuoversi dalla sua posizione, John lo sentiva.

La paura che Paul cercasse di dimenticare quello che era successo si era infine avverata.

"Perché?" domandò Paul, spazientito.

"Perché?” ripeté John, prima di avvicinarsi nuovamente a Paul per afferrarlo per le braccia, “Hai sentito anche tu quello che sta succedendo. Tra noi due."

"Tu sei fuori di testa, John." esclamò, liberandosi dalla sua presa.

John scosse il capo lentamente, "No. Non puoi non averlo avvertito. È così forte."

"Che cosa, John?"

John gli afferrò la mano, stringendola dolcemente, "Questo, Paul. Questa strana voglia che ho di te, di toccarti e baciarti ogni volta che mi sorridi, ogni volta che-"

"Basta, smettila." gli intimò Paul, prima di allontanarsi ancora da lui, liberando la propria mano dalla stretta di John.

"Paul?!"

"Paul un cazzo, John.” esclamò l’ispettore, facendo attenzione a non alzare troppo la voce per evitare che George, oltre la tenda, sentisse ogni singola parola di quella folle discussione, “Tu sei pazzo. Hai perso la testa. Non puoi provare queste cose. Non per me."

E sebbene John fosse preparato a questa reazione di Paul, non mancò di colpirlo, come un pugnale dalla lama metallica e fredda che infilzò il suo cuore, e ora John sanguinava e soffriva, soffriva maledettamente.

"Perché?" continuò con un filo di voce.

"Perché io non voglio."

John chiuse gli occhi per un istante, alla ricerca del coraggio e della forza per rispondere ancora una volta a Paul e alla sua fottuta cocciutaggine.

"Sono i miei sentimenti, Paul.” mormorò senza alcuna emozione a connotare quelle parole, “Non puoi impedirmelo."

"Allora se le cose stanno così, forse non abbiamo più niente da dirci." disse l’uomo, prima di voltarsi e dirigersi verso l'uscita.

Ma John, spaventato, si affrettò a seguirlo e fermarlo con una mano sul suo braccio, "Aspetta, Paul. Che stai facendo?"

"Me ne vado."

"No, ti prego, Paul. Io ho bisogno di te." sussurrò John dolcemente, ritrovandosi quasi a implorare Paul.

"Allora dimentica quello che è successo." sospirò Paul, chiedendogli con gli occhi di accontentarlo, perché anche lui aveva bisogno di John, tanto quanto lo stesso John, solo che a differenza dell’altro uomo, Paul era troppo spaventato per ammettere quanto fosse immenso il suo bisogno di John.

"Non posso, perché se non l'avessi fatto tu, l'avrei fatto io.” ammise John, portando una mano tremante sul viso di Paul, ma ancora non toccandolo per paura della sua reazione, “E continuerei a farlo, te lo giuro."

"Mi dispiace, John.” rispose Paul, sospirando e indietreggiando di un passo verso la tenda, “Io non ho bisogno di te in questo modo."

John, a quelle parole, si sentì sprofondare completamente sotto terra, come se sotto di lui si fosse aperta una voragine e questa l’avesse inghiottito senza pietà. E Paul… Paul era lì a osservare tutto e non muovere un dito per aiutarlo.

Paul che proseguì, dicendo, "E se tu non riesci ad accettarlo, sono costretto a dirti addio."

"No, io... no, Paul, non posso dimenticare." ribadì John, scuotendo il capo, come se la sua fosse la richiesta più assurda di tutta la sua vita.

"Bene. Allora addio, John."

Detto questo, Paul si voltò uscendo dalla piccola stanza, lasciando John nel più totale sconforto, mentre cercava di capire cosa fosse successo.

Non che ci fosse molto da capire e in effetti era tutto piuttosto chiaro. Paul stava solo nascondendo ciò che provava davvero. O forse John si era solo illuso che lui provasse anche solo un pizzico di tutto ciò che scuoteva il suo animo.

Forse John aveva letto troppo nelle cose che Paul faceva per lui, in quello che diceva o come si poneva verso John. John aveva visto tutto questo con occhi inizialmente opportunisti. Poi piano piano la sincerità di Paul l'aveva spiazzato, facendo in modo che lui si arrendesse a un’amicizia così strana prima e ora a questo sentimento che era cresciuto fino a occupare ogni parte di lui.

E accecato da tutto questo, John aveva frainteso, pensando che Paul potesse ricambiare.

Forse Paul aveva ragione. Quel bacio era stato solo un errore, un incidente, che non poteva continuare, svilupparsi in qualcosa di più dolce e importante.

Tuttavia John non voleva nascondersi come Paul. Gli aveva già nascosto una parte importante di se stesso, non poteva frequentarlo ancora e nascondergli anche questo sentimento. John sarebbe impazzito.

"Che cosa è successo?" chiese all'improvviso George, spuntando dalla tenda.

John sospirò, avvicinandosi alla finestra per seguire Paul che rincasava con le mani ben infilate in tasca e il capo chino.

"Solo un acceso scambio di opinioni diverse."

Paul aveva ragione.

L'unica soluzione era non vedersi più. Almeno per un po', fino a quando a John non fosse passato questo scombussolamento emotivo e fisico.

Poi forse sarebbero potuti tornare amici.

Forse.

****

Maledetto John!

Dio, se non era un piccolo fottuto bastardo, pensò Paul imprecando fra sé.

Stava fumando nervosamente nel cortile della stazione della polizia. Era la sua piccola pausa di metà mattina e lui aveva pensato bene di andare a fumare una sigaretta nel cortile con tutte le loro auto.

Tuttavia ben presto si accorse di aver scelto il luogo sbagliato, perché proprio lì poteva rivedere facilmente le scene di una bellissima giornata di qualche settimana prima, quando aveva portato John e Julian a vedere da vicino una vera auto della polizia.

Una giornata incantevole quella. C'era il sole e Paul si era sentito così felice nel vedere la gioia sul piccolo bel visino di Julian, nonché la serenità di John. Tutto questo prima che il suo mondo andasse in frantumi proprio come le sue certezze.

Perché ora, proprio ora tutto ciò a cui potesse pensare era John. Non aveva fatto altro da quella discussione. Pensare a lui e desiderare corrergli dietro per dirgli che...

Non era proprio sicuro di cosa dirgli. Lui pensava ancora quello che aveva detto a John, ma ora che si erano congedati così bruscamente, stava avendo dei ripensamenti.

E certo, il fatto che John si divertisse a tornare nella sua mente ogni due per tre non facilitava il suo quieto vivere. In realtà lo peggiorava e come risultato Paul si sentiva ancora più combattuto.

Il suo mondo era stato letteralmente messo a soqquadro da quando si era trasferito a Londra.

Mai e poi mai avrebbe pensato di fallire nel suo lavoro, eppure eccolo lì a un passo dal baratro.

Mai e poi mai avrebbe pensato di desiderare un altro uomo, eppure era proprio così. John era entrato nella sua vita mettendo tutto in disordine, la sua vita così perfetta e Paul era stato lì a osservare tutto, impotente, senza poter impedire che tutto questo avvenisse. Come una stanza appena pulita e messa in ordine, in balia di un ragazzino troppo vivace, troppo curioso.

John era quel ragazzino e quella stanza la vita di Paul.

Paul odiava il disordine perché nascondeva tutto, le cose più importanti andavano perdute e lui sapeva che nonostante la sua vita fosse ormai in quello stato disastrato, il suo vero io era ancora lì. Doveva solo trovare qualcuno che lo aiutasse nella ricerca.

"Salve, signore."

Una voce lo salutò da dietro e Paul si voltò per scorgere il viso sorridente di Linda.

"Oh Linda, ciao." esclamò, mentre lei si avvicinava a lui.

"È in pausa?"

"Sì."

"Le dispiace se mi unisco a lei?"

"No, certo che no."

La giovane donna annuì e prese un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni per estrarne subito dopo una, prima che Paul le porgesse l'accendino.

"Grazie." gli disse lei, sorridendo e guardandolo calorosamente.

E per questo motivo, Paul sussultò e sbatté le palpebre perplesso.

Un momento...

Forse lei avrebbe potuto aiutarlo.

"Ho sentito dire che l'ispettore Starkey le ha fatto un certo discorsetto..." iniziò a dire Linda, espirando un piccola nuvoletta di fumo.

"Oh quello?!" esclamò Paul, annuendo, "Sì, in effetti è andata proprio così."

Linda sbuffò sonoramente, "Secondo me non è giusto. Non dovrebbero trattarla in questo modo."

"Ti ringrazio, ma credo che abbiano ragione." affermò Paul dolcemente, "Mi hanno chiamato per un motivo, eppure io non sto facendo il mio lavoro."

"Ma non è stata colpa sua." protestò Linda, accorata, "Siamo stati solo sfortunati."

"La sfortuna può influire una o due volte, Linda. Qui invece c'è qualcosa che non va." sospirò Paul, rassegnato.

"Beh, comunque, resta il fatto che non possono cacciarla così. Lei è un uomo in gamba, signore, lo penso davvero."

Paul la osservò attentamente in viso e notando la sincerità del suo tono di voce, nonché della sua espressione dispiaciuta, gettò il mozzicone della sua sigaretta a terra, prima di spegnerlo con la punta del piede, e le sorrise.

"Sei gentile, grazie, ma per il momento non possiamo fare molto. Se non aspettare la prossima mossa di Hermes."

Anche Linda ricambiò il sorriso, ma fece anche qualcos'altro. Appoggiò la mano sul suo avambraccio, dandogli una breve e delicata carezza.

"E sono sicura che la prossima volta lo prenderemo, signore."

Paul si sentì arrossire appena, una piccola ondata di calore stava espandendosi sulle sue guance. Il motivo ovviamente era quella ragazza e il modo in cui lo guardava.

Ovviamente non era come se in passato non si fosse mai accorto delle occhiate maliziose che gli rivolgevano altre ragazze. Diamine, erano cose che riconosceva subito, lui.

Ma questa volta era diverso. Forse a causa del fatto che il suo stato di scapolo gli permettesse ora di cedere a quella malizia e magari approfittarne pure. Oppure per qualche altro motivo che gli suggeriva che lo stesse facendo solo per ripicca, e di certo non nei confronti di Jane, che ormai non si interessava più di lui. C'era il nome di un'altra persona nella sua testa, ma era ancora spaventoso. Paul non doveva pensarci.

Non doveva pensarci mai più.

"Sì. Ben detto, lo acciufferemo." esclamò, portando una mano sopra quella della giovane donna.

E così facendo, poté facilmente notare che Linda fosse arrossita, ma nel contempo il suo viso era anche raggiante di gioia.

"Ora... Signore, se vuole scusarmi, io... devo proprio tornare al lavoro." esclamò lei, un po' incerta, la voce traballante come le sue gambe che indietreggiavano.

Paul dovette trattenere una piccola risata. Non pensava potesse avere ancora questo effetto su una giovane donzella; e fu proprio questo motivo a convincerlo per prendere la palla al balzo.

"Ah, Linda?"

"Sì, signore?" domandò lei, fermando il suo indietreggiare.

Paul si avvicinò lentamente, e alla fine le prese una mano, "Mi chiedevo..."

"Cosa?"

"Mi chiedevo se per caso ti andrebbe di proseguire questo discorso."

Linda, col viso ora ancora più rosso, chinò lo sguardo per osservare la sua mano stretta in quella di Paul, "Ora?"

"No, veramente pensavo magari davanti una birra."

Linda si lasciò scappare una risata, portandosi l'altra mano sulla bocca, "Mi sta per caso chiedendo di uscire, signore?"

"Mm sì, qualcosa del genere." esclamò Paul, sorridendo e facendole l'occhiolino, "Che ne dici?"

Linda si morse il labbro, pensierosa, ma era un'esitazione che Paul aveva facilmente riconosciuto come civettuola. Infatti...

"Ci sto."

"Davvero?" esclamò Paul, battendo le palpebre.

"Ad una condizione."

"E sarebbe?"

"Che possa chiamarti Paul."

****

Pazzesco. Ci era davvero riuscito.

Aveva ottenuto un appuntamento con una ragazza.

Paul ridacchiò nervosamente, mentre tornava a casa in macchina.

Dopo la storia con Jane, pensava di aver perso colpi nel cercare di rimediare un appuntamento con una ragazza, ma a quanto pareva non era proprio come pensava lui. Anzi, era stato più facile del previsto. Dovevano ancora sistemare alcuni dettagli, ma ormai la parte più difficile era stata superata, e complice di questa ritrovata facilità era stata la stessa Linda.

Paul non se n'era accorto prima d'ora, per ovvi motivi, ma ripensando all'atteggiamento della donna nei suoi confronti, lei non stava aspettando altro.

Aveva fatto proprio un'ottima scelta. Forse Linda non era bella come Jane, ma il suo viso lentigginoso con gli occhi azzurri e i capelli biondi a incorniciarlo, aveva una delicata bellezza, di quelle che incantavano in modo dolce, indimenticabili tanto quanto le bellezze più travolgenti.

Sarebbe stato un appuntamento perfetto, Paul ne era convinto.

Eppure, quando parcheggiò davanti casa e scese dalla macchina, non poté fare a meno di pensare che una parte di lui avrebbe cercato di farsi piacere questa ragazza a tutti i costi perché era l'unica sua salvezza, l'unico appiglio su cui Paul potesse far leva per rialzarsi da quella situazione in cui era caduto.

E se ne rese dolorosamente conto quando scorse dall'altra parte della strada John.

Aveva il piccolo e addormentato Julian in braccio ed era tutto intento a parlare con Yoko, la quale portava la figlia allo stesso modo. Dovevano aver trascorso un piacevole pomeriggio insieme.

Paul provò a ignorare il sussulto infastidito del suo cuore, e troppo preso da questo duello interiore, non si accorse che John si era voltato verso di lui.

Il giovane ispettore arrossì violentemente sentendo gli occhi di John su di lui, ma se fino a pochi giorni prima l'uomo gli avrebbe sorriso con l'espressione felice e radiosa, ora egli si limitò semplicemente a ignorarlo. Il suo volto rimase impassibile e tornò subito a guardare Yoko.

Il cuore di Paul si schiantò a terra e il rumore che fece fu assordante, come un vaso di cristallo che cade e si frantuma in milioni di piccole schegge nell'impatto con il pavimento. Ecco, quello stesso rumore sovrastò qualunque cosa circondasse l'uomo e lo colse alla sprovvista.

Ma perché?

Non era in fondo ciò che desiderava Paul? John stava nascondendo i suoi sentimenti come stava facendo Paul, come gli aveva chiesto Paul.

Ma così... Così era troppo. John lo stava addirittura ignorando e Paul non poteva sopportarlo, perché in questo modo gli aveva legato le mani, rendendo impossibile da parte di Paul una qualunque reazione.

Se Paul avesse protestato, avrebbe solo contraddetto ciò che aveva illustrato in modo abbastanza chiaro nella loro ultima discussione. Che impressione gli avrebbe dato? Che forse, forse si era pentito ora della sua richiesta?

No, per quanto dolorosa, quella era l'unica soluzione. Se entrambi non riuscivano a frequentarsi come amici, nascondendo i loro sentimenti ingarbugliati, così intrecciati fra loro che erano riusciti ad avvicinarli, allora ignorarsi e nascondersi l'uno all'altro, nascondere addirittura la loro conoscenza, era davvero l'unica soluzione possibile.

E con la speranza che prima o poi Paul avrebbe superato anche questo, corse dentro casa per nascondersi anche alla vista di John.

John che vide tutto questo con la coda dell'occhio, mentre ascoltava distrattamente le parole di Yoko su quanto lei e la figlia fossero state bene insieme a loro e che avrebbero dovuto farlo più spesso, magari anche solo loro due, John e Yoko, senza figli al seguito.

John annuì a tutto, vagamente. Stava in realtà cercando di trovare una risposta sensata a quelle domande che si affollarono nella sua mente nel momento in cui aveva ignorato Paul.

Hai davvero ignorato Paul? Noi non ignoriamo Paul, idiota! Si può sapere perché diavolo l'hai fatto?

Beh, John non lo sapeva. O forse lo sapeva ma la reazione di Paul, il modo in cui si era affrettato per entrare a casa sua, aveva fatto scoppiare le sue convinzioni, le aveva fatte crollare una dopo l'altra come le pedine del domino. Una caduta inevitabile.

Inevitabile come la comparsa di quelle domande sul perché John l'avesse ignorato, quando la verità era che la semplice visione di Paul per lui, ultimamente, era diventata così cara, preziosa, una fonte incredibile di gioia.

Inevitabile come anche i suoi dubbi, innescati dalla reazione di Paul. Perché comportarsi così, se era stato lui stesso a proporre quella soluzione?

Era stato Paul a desiderare tutto questo e John aveva riconosciuto che avesse ragione, perciò ora gli stava solo dimostrando che stesse comportandosi proprio come Paul aveva chiesto.

Non aveva senso ora, restare male per quel comportamento. Non aveva senso come ogni altra cosa accaduta in quel rapporto, a quanto pareva.

E dal momento che non erano due computer, non avevano il tasto reset per cancellare tutto e cominciare da capo, allora non potevano fare altro che evitare l'un l'altro.

Nascondersi, giocare a nascondino sapendo, tuttavia, che nessuno dei due aveva voglia di giocare.

Che nessuno aveva voglia di vincere.

Di trovarsi.

 

 

Note dell’autrice: ed eccoci qua, riprendiamo gli aggiornamenti della au.

Beh, ovviamente non potevano esserci rose e fiori per John e Paul, giusto? :/

Ma non preoccupatevi, uno dei personaggi della storia mi ha assicurato che sistemerà tutto! ;)

Grazie a kiki che ha corretto e a GaaraIstillloveyoubaby, lety_beatle, paulmccartneyismylove, paperback writer e Chiara_LennonGirl che hanno recensito lo scorso capitolo.

Grazie anche a GoldenSlumber14 che sta recuperando la storia.

Prossimo capitolo, “I want to hold your hand”, lunedì. E intanto ci sentiamo venerdì con il nuovo capitolo della mini long rossa.

Auguri di buon onomastico a a tutte le Chiara! :3

kia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** I want to hold your hand ***


I’ll get you

 

Capitolo 17: “I want to hold your hand”

 

John sospirò.

Forse era la quarta o quinta volta in pochi minuti. Non che a lui importasse, figuriamoci. Neanche si accorgeva di sospirare.

Ma George sì e lo trovava particolarmente fastidioso, soprattutto con questa frequenza. Avevano aperto il negozio da una buona oretta quella mattina, eppure John non aveva ancora mosso un dito. Se ne stava seduto al bancone, giocando al pc senza prestare davvero attenzione, il viso abbandonato sul palmo della mano, e gli occhi assenti, sicuramente rivolti verso un altro luogo.

Era uno spettacolo alquanto deprimente, almeno per George, soprattutto perché durava da almeno un paio di settimane, dal giorno in cui John e Paul avevano litigato, per l'esattezza. John non aveva voluto dirgli molto a riguardo e George non aveva insistito inizialmente, pensando che fosse più opportuno lasciarlo un po' in pace.

Tuttavia ora stava cominciando a innervosirsi. Non vedeva John in quello stato da qualche anno, da quando Cynthia l'aveva abbandonato, a voler essere precisi.

Anche se in effetti era stato comunque diverso in quel caso. All'epoca John aveva molto a cui pensare, primo fra tutti Julian, che lo teneva impegnato e lo aiutava a distrarsi. Ma ora? Non c'era davvero molto che chiunque potesse fare. A parte Paul, naturalmente, e George sarebbe andato volentieri a parlare con lui, ma non sapendo quale fosse il vero problema, come faceva a spendere parole gentili nei confronti del suo migliore amico?

Così decise di parlare con l'altro diretto interessato, e facendosi coraggio, si avvicinò all'amico, appoggiando di fronte a lui la pila di cd che stava sistemando.

"Johnny?"

L'uomo sobbalzò, riportato bruscamente alla realtà dal rumore dei cd e dalla voce di George.

"Johnny?" ripeté lui, perplesso.

"Sì. È il tuo nome, sai."

"Il mio nome è John e tu mi chiami Johnny solo quando vuoi ottenere qualcosa da me." sbuffò John.

George rise lievemente, "Ops, smascherato."

"Che cosa vuoi allora?" sospirò l'amico, incrociando le braccia.

"Voglio sapere cosa ti succede, Johnny caro."

John aggrottò la fronte. Maledizione, George era uno che non si arrendeva mai quando voleva ottenere qualcosa, e questa era sempre stata per John una nobile virtù, ma ora che riguardava così strettamente lui, stava cominciando a dargli sui nervi.

Tuttavia provò comunque a rispondere, "Niente di importante."

"Niente di importante, certo." sbottò George, alquanto irritato, "Ecco perché non fai che sospirare da diversi giorni e sei distratto in negozio."

John arrossì vistosamente, "Non è vero."

"Ah no? Vai a dirlo a David Bowie che si è ritrovato un cd degli Who nella sua sezione." ribatté George, chiaramente indignato, "Secondo te di chi è stata la colpa?"

"E sentiamo, quando sarebbe successo?" chiese supponente.

Ma George rispose con prontezza, "Un paio di giorni fa."

"Allora, va bene." sospirò nuovamente John, sconfitto, "Cosa vuoi sapere?"

"Quello che ti è accaduto. Perché hai litigato con Paul?" chiese George, diretto.

Ecco. Proprio quello che John temeva di più. Come poteva spiegargli il vero motivo di quella discussione e dell'allontanamento che ne era seguito?

"Ti ho già detto che si è trattato di un semplice scambio di opinioni diverse." rispose, cercando di percorrere ancora una volta la strada del vago.

"Certo, come no? È per questo che hai bisogno di ridurti così per un litigio con lui?"

John assunse un'espressione crucciata quando George lo indicò con una mano, in modo totalmente sdegnato, "Non mi sto riducendo in nessun modo, George."

"Oh andiamo, John. Non raccontare stronzate."

"Comunque non posso dirtelo."

"Perché?"

Santo cielo, era davvero stressante George. Come poteva John sottrarsi a un tale impiccio?

"È una cosa che riguarda Paul. È privato." spiegò, pensando che in effetti non fosse una completa bugia.

Dopotutto riguardava davvero Paul.

"E da quando rispetti la sua privacy?" domandò George, scettico, "O forse ti sei dimenticato come è iniziata tutta questa storia?"

"Non l'ho dimenticato, e se non sbaglio ho deciso di abbandonare Hermes per lui." gli fece notare John.

George sospirò pesantemente, "Allora perché non puoi dirmelo? Forse parlarne con qualcuno ti farebbe bene, o se vuoi posso andare a spendere qualche parola buona per te. Della serie, 'Qualunque cazzata ha fatto o detto John, non badarci. È solo nella sua natura'."

John rise, intenerito a questo punto dalla dimostrazione di interesse e di affetto di George.

"Perché dovrebbe essere stata colpa mia?"

"Non lo so, chiamalo sesto senso." rispose lui, scrollando le spalle.

"Il tuo sesto senso sbaglia, sai, perché stavolta ha cominciato lui."

"Oh." fece George, preso totalmente in contropiede, "Allora come posso aiutarti?"

"In nessun modo, almeno per adesso." sospirò malinconicamente John, abbassando lo sguardo, "Ma ti ringrazio, George. Forse non te lo dico spesso, ma apprezzo davvero quello che fai per me."

"È solo che mi preoccupo per te. Non voglio che tu stia male. Siamo stati bene fino al suo arrivo."

John scelse di non ribattere, anche se avrebbe voluto.

Nonostante tutto, John non rimpiangeva neanche per un solo istante l'aver incontrato Paul. Non era sicuro che stesse poi così bene prima del suo arrivo. Forse aveva solo creduto di avere tutto, l'amore di suo figlio, l'affetto di pochi ma buoni amici e naturalmente una situazione economica piuttosto benestante. Paul  invece con il suo arrivo aveva scombussolato tutto. Aveva reso evidente quella mancanza dentro John. E no, non si trattava del saper suonare correttamente la chitarra.

Era quel vuoto nel suo cuore, quello in cui avrebbe dovuto esserci qualcuno di importante, indispensabile, qualcuno da amare e da cui farsi amare, qualcuno che fosse stato sempre accanto a lui tanto nei momenti di gioia quanto in quelli di dolore.

Paul era arrivato nella sua vita, senza pretendere quel posto, eppure l'aveva occupato e John era così felice che fosse stato proprio lui il prescelto.

In fondo, anche se ora non si parlavano e, anzi, si ignoravano completamente, John era ancora felice di provare quel sentimento per Paul.

Era come se sapesse che non poteva provarlo tanto intensamente per qualcun'altro.

Forse John aveva sbagliato approccio con lui. Forse invece di provare a baciarlo, quel giorno, avrebbe dovuto prima spiegargli bene cosa provasse: prenderlo per mano e dirgli quanto importante fosse diventato per John, quanto John lo sognasse la notte, quanto desiderasse ancora stare con lui, stringerlo, baciarlo e-

"Grazie, George." esclamò John, decidendosi ad allontanare  quei pensieri potenzialmente dannosi per la sua salute mentale, "Ma non ti preoccupare per me. Starò bene."

Se George avesse creduto alle sue parole, John non poteva dirlo con certezza.

In quel momento tutto ciò su cui potesse concentrarsi, era quella fastidiosa vocina che gli sussurrava che mai e poi mai avrebbe potuto fare qualcosa di simile.

Mai avrebbe potuto parlare con Paul di tali folli e ardenti sentimenti.

Mai la sua mano avrebbe potuto intrecciarsi ancora con quella di Paul.

****

Paul sospirò.

Non proprio perché si stesse annoiando. Dopotutto Linda era una ragazza deliziosa.

Erano usciti a bere qualcosa insieme quella sera. Paul aveva impiegato almeno due settimane per trovare la forza per realizzare la proposta di uscire insieme.

E ora eccolo lì, a bere una birra insieme a quella ragazza così bella. Doveva sentirsi molto fortunato per il fatto che lei avesse accettato. Era anche molto sveglia e simpatica, e in quel preciso momento gli stava raccontando la sua storia, di come si era innamorata di un suo compagno di scuola, di come lui l'aveva messa incinta e poi non avesse voluto sapere nulla di lei né della bambina, di come i suoi genitori si fossero presi cura di loro per i primi anni, fino a quando lei non avesse deciso di trasferirsi a Londra, troppo stanca di quell'ambiente che le ricordava quanto avesse passato e soprattutto, ora che la bambina era più grande, non voleva più essere di peso ai suoi genitori; e Londra sembrava proprio un buon nuovo inizio.

Paul aveva ascoltato tutto con estremo interesse, facendole domande per chiarire alcuni punti. Eppure non poteva fare a meno di sospirare. Per quale motivo, Paul non lo sapeva bene. Se non era il trovare noioso quell'appuntamento con Linda, allora di cosa si trattava?

"Mi dispiace per quello che è successo." le disse sinceramente Paul, "Non deve essere stato facile."

"No, ma la mia bambina mi ha dato la forza necessaria per affrontare ogni nuova sfida." ribatté lei, sorridendo amorevolmente al pensiero di sua figlia.

Paul batté le palpebre, sconcertato per un istante. Quel discorso di Linda gli era familiare. Gli ricordava qualcuno, qualcuno ben conosciuto, ma Paul non poteva proprio pensare a lui ora.

"Quanti anni ha?" domandò, cercando di distrarsi.

"Cinque. Si chiama Heather ed è l'unica cosa buona della mia vita."

"Oh andiamo." esclamò Paul, "Non dire così. Hai un lavoro che ti appassiona e che svolgi molto bene. Devi essere fiera anche di questo."

Linda arrossì lievemente, prima di allungare una mano per stringere il braccio di Paul, abbandonato con noncuranza sul tavolo, “Grazie mille, Paul, sei un tesoro.”

Le dita sottili di lei si avvolsero dolcemente attorno al suo braccio forte, e quel tocco bruciò come un devastante incendio, ma non per il motivo che Paul potesse più facilmente immaginare: il piacere. Bruciò perché era il ricordo di un gesto simile a bruciare, il ricordo di quell’uomo che in un pub lo consolava, o almeno ci provava, dalla sua sofferenza

Tuttavia no, Paul non poteva permettersi di ritornare a quella sera. Era sconveniente per molti motivi: primo fra tutti pensare a un’altra persona durante un appuntamento era assai scortese nei confronti di Linda; inoltre quei suoi pensieri stavano andando contro ciò che lui avesse deciso, ovvero lasciar perdere John.

Paul si convinse a chiudere la sua mente a qualunque ricordo di John bussasse alla porta del suo cuore, ma a quanto pare, non fece un buon lavoro.

La serata, infatti, trascorse piacevolmente: Paul riuscì a continuare a parlare con Linda in modo piuttosto tranquillo, senza alcuna interferenza di un terzo incomodo; eppure, quando più tardi i due dovettero separarsi, quando Linda salutò Paul con un bacio sulla guancia, la ragazza fece anche scivolare la sua mano in quella del suo ispettore, facendo intrecciare le loro dita.

E in quel momento, Paul si ritrovò a pensare che la mano di Linda fosse così poco adatta a stare nella sua. Non era compatibile, era così scomoda e Paul non poteva sopportarlo. Per quanto lui lo desiderasse, Linda non era ciò che Paul voleva. La sua mano lo sapeva meglio di lui, quando gli ricordò la presa di John, quella stessa sera, fuori dal pub.

Una stretta perfetta.

A malincuore Paul dovette ammetterlo, mentre tornava a casa, mentre apriva la porta del suo appartamento, e si accorgeva della luce accesa al primo piano della casa di John.

John gli mancava.

Gli mancava terribilmente.

****

Quel pensiero lo tormentò per i due giorni successivi e Paul stava semplicemente impazzendo, tanto più che non riusciva neanche a vedere John. Non gli importava di parlargli, e avrebbe persino cercato di non pensare al fatto che John l’avrebbe comunque ignorato.

Paul voleva solo vederlo, voleva incrociare il suo sguardo solo per un istante, in modo da capire esattamente cosa provasse. Sentiva la sua mancanza solo come amico e compagno di lezioni di musica, oppure, come suggeriva ogni fibra del suo essere, si trattava di qualcosa di più?

La risposta era nel suo cuore, ma lui si aggrappava con forza a quest’ultima possibilità per rendersi conto che forse avesse sbagliato tutto, che forse avesse solo interpretato male i propri sentimenti così come quelli di John.

A tutto questo pensava mentre stava camminando tranquillamente verso casa, quando la sua attenzione fu catturata da un movimento di fronte al suo appartamento.

Riconobbe con facilità la sagoma gracile di George che chiudeva la saracinesca del negozio. Paul controllò l’ora sul suo orologio da polso. Erano appena passate le quattro del pomeriggio. Un po’ presto per chiudere, no?

Incuriosito da quanto stesse accadendo al di là della strada, decise di raggiungere il giovane uomo, e mentre si avvicinava, notò che i movimenti di George erano leggermente ansiosi.

“Ciao, George.”

George abbassò definitivamente la saracinesca con il piede, e si voltò verso Paul quel tanto che bastava per riconoscerlo, prima di tornare al proprio compito.

“Oh, Paul, ciao.”

“Stai chiudendo prima oggi…” disse Paul, lasciando in sospeso la frase nell’aria.

“Sì, devo scappare in un posto.”

“E John?” domandò, cercando di assumere un tono vago.

George sospirò, dopo aver chiuso a chiave la saracinesca, e si voltò completamente verso Paul, "John è all'ospedale."

La rivelazione lasciò Paul non solo sorpreso, ma anche decisamente preoccupato. John all’ospedale? Per quale motivo?

"Cosa? È successo qualcosa di grave?" si affrettò a chiedere, senza preoccuparsi di mostrare le sue vere emozioni che all’improvviso, divennero così confuse.

"Niente di grave.” lo tranquillizzò George, “Ma mi ha telefonato Pattie per dirmi che Julian è caduto all'asilo, e ora sono tutti in ospedale."

"Oh, cazzo. Come sta?"

"Non lo so ancora. Stavo proprio andando là."

"Vieni, ho la macchina qua fuori. Ti accompagno io." affermò Paul, facendogli segno di seguirlo.

"Sei sicuro?" chiese George, titubante.

"Certo.” rispose Paul, afferrandolo per la manica della camicia, “Andiamo, dai."

I due si precipitarono nell'auto di Paul e in un istante partirono.

Durante il tragitto Paul cercò di chiedere particolari in più, ma davvero George non sapeva altro, dal momento che Pattie gli aveva solo riferito poche cose a causa dell'agitazione e del poco tempo a disposizione per stare al telefono.

Così Paul decise di non insistere e trascorsero in silenzio il resto della strada. Dentro di sé però, Paul stava avendo un'accesa discussione con se stesso. Era ovviamente preoccupato per Julian, ma lo era altrettanto per John. Non osava neanche immaginare in che stato fosse. Doveva essere così spaventato e Paul, a quel pensiero, premette ancor di più sull'acceleratore desiderando solo essere accanto a lui il più presto possibile.

Non sapeva bene cosa dirgli né cosa fare. Sperava solo che le parole e i gesti giusti nascessero in lui nel momento stesso in cui avesse incrociato lo sguardo di John. Eppure qualcosa lo stava rendendo insicuro e ancor più agitato.

Se John non l'avesse voluto lì con lui?

Paul non voleva neanche prendere in considerazione tale ipotesi, anche perché era sicuro che fosse del tutto assurda.

Nonostante quanto fosse accaduto tra lui e John, nonostante tutto, quello era un momento in cui John non voleva sentirsi solo né doveva essere lasciato a se stesso. Aveva bisogno dei suoi amici e aveva bisogno di Paul. In qualche modo lui era ancora importante per John e Paul ne era certo.

Infine giunsero a destinazione: arrivati all'ospedale, George lo condusse all'interno dell'edificio e cercarono l'ascensore per salire al piano in cui si trovava il reparto di pediatria. Seguendo le indicazioni che gli aveva fornito Pattie, George si diresse verso il corridoio a destra dell'ascensore e Paul rimase dietro di lui.

Poi finalmente, intravidero John appoggiato con la schiena alla parete fuori dal corridoio.

"John." lo chiamò George, accelerando il passo per raggiungerlo.

L'uomo si voltò e insieme a lui, anche la donna che gli stava accanto.

Yoko.

"George!" esclamò, prima che il ragazzo lo abbracciasse, "Grazie per essere venuto."

"Scherzi? Mi sono precipitato appena ho ricevuto la chiamata di Pattie." spiegò, "Allora, come sta?"

John sospirò e si passò una mano sul viso, e Paul non mancò di notare quel lieve tremore che la percorse.

"Gli hanno dato cinque punti per chiudere la ferita.” spiegò, la voce flebile, appena appena udibile, “E poi hanno fatto una TAC per escludere un trauma cranico più grave. Ora sta dormendo, ma appena avranno i risultati, mi permetteranno di portarlo a casa."

"Ma come è successo?” continuò George, “Pattie mi ha detto che è caduto."

"Sì. Noi... Noi stavamo parlando con Yoko, mentre i bambini giocavano e Julian si stava arrampicando su quello stupido gioco e poi...” balbettò John, e ora, lo stesso fremito che aveva attraversato la sua mano, colpì anche la sua voce, “N-non lo so, credo abbia appoggiato male il piede e poi sia scivolato. Io... Io non stavo guardando e l'ho sentito piangere, ma lui era già a terra, e io sono corso da lui e-"

"Adesso calmati, dai.” lo interruppe George, tornando ad abbracciarlo per rassicurarlo, “Presto starà meglio. È un bambino dalla testa dura, lo sai."

John annuì, mentre lasciava che George lo tranquillizzasse con lievi pacche sulla schiena.

"John, se per te va bene, porto a casa Kyoko." intervenne Yoko timidamente, sfiorandogli il braccio con la sua piccola mano.

"Oh sì.” disse John, sciogliendo l’abbraccio con George, “Grazie mille per essere rimasta, Yoko."

"Non ti preoccupare. Ti chiamo domani per sapere come sta." affermò la donna, stringendolo brevemente tra le sue braccia.

"D'accordo."

"Arrivederci."

I tre uomini la salutarono, e Paul la osservò mentre la donna raggiungeva la bambina addormentata sui sedili della sala d'attesa e la prendeva in braccio, per poi allontanarsi.

Infine tornò a guardare John, e ora che era stato rassicurato sulle condizioni del bambino, Paul riuscì a notare pienamente in che stato disastrato si trovasse l'uomo. Non solo fisicamente, con il volto pallido, gli occhi ancora spaventati, e la camicia sporca di sangue sul petto, ma anche dentro di lui doveva essere distrutto. Paul lo sapeva, lo poteva ben vedere. Così stanco, terrorizzato, così tremante nel corpo e nell'anima.

"Posso vederlo?" chiese George.

"Sì, vai pure. C'è Pattie con lui ora." lo informò, indicando la porta a fianco.

George seguì l'indicazione, e John lo vide scomparire dietro la porta prima di voltarsi verso Paul. In quel momento il giovane ispettore sussultò visibilmente. Finalmente aveva incrociato i suoi occhi e dannazione, l’unica cosa che Paul potesse capire ora, era proprio il fatto che non stesse capendo più nulla.

"Perché sei qui?"

Paul si sentì arrossire lievemente sotto lo sguardo potente dell'altro uomo, ma ignorò il suo turbamento e tutto ciò in lui che gli stava suggerendo di mentire, di dirgli che era venuto solo per informarsi sulle condizioni di Julian.

"Per vedere come stavi." rispose sinceramente.

John aggrottò la fronte, perplesso, "Io? Io sto bene, non lo vedi?"

Paul sospirò, aspettandosi una risposta simile da John. Perciò allungò una mano per stringere la sua camicia sul petto.

"John, hai il sangue di tuo figlio sulla camicia." ribatté lui, sperando che John capisse cosa volesse dire davvero Paul.

E da come gli occhi di John si ingrandirono, Paul capì che aveva centrato il bersaglio.

John chinò il capo per vedere la mano di Paul sulla propria camicia e la sua espressione divenne all'improvviso sofferente. Si spostò con passo affrettato nella piccola sala d'aspetto, e Paul lo seguì appena in tempo per vederlo scoppiare a piangere.

Molte volte Paul aveva visto la vulnerabilità di John ormai, ma mai come in quel momento la scena lo colpì in modo così devastante: John appoggiò la schiena al muro e si lasciò cadere, portandosi le mani sul volto per coprire un pianto frustrato sì, ma silenzioso.

Paul si morse il labbro, combattuto su cosa fare. Una parte di lui avrebbe voluto semplicemente stargli accanto, dandogli leggere pacche sulle spalle.

Tuttavia l'altra sapeva che a John in quel momento non bastassero le pacche sulle spalle. Non se ne faceva niente e neanche a Paul bastavano. Lui voleva stare accanto a John, consolarlo e rassicurarlo con ogni parte di se stesso, e per quanto tale desiderio andasse contro tutto ciò che Paul aveva deciso nelle ultime settimane, sapeva anche che fosse troppo forte per essere ignorato o contrastato.

Così si abbandonò a questo bisogno tanto di John quanto suo, e in meno di un secondo fu in ginocchio di fronte a lui, tra le sue gambe, e la sua mano si mosse per accarezzargli dolcemente i capelli.

John riconobbe il suo tocco gentile, ma non alzò il capo per incontrare il suo sguardo, perché sarebbe stato troppo per lui farsi vedere in quello stato. Nessuno poteva vederlo così: così perso, così disorientato, come quando da piccoli si va al supermercato con i propri genitori e all'improvviso ci si gira e... puff! Spariscono dietro qualche corridoio e non si sa bene dove cercarli.

Ma fu grato a Paul per quella carezza, tanto che senza neanche rendersene conto, si ritrovò ad avvolgere le braccia intorno alla vita dell'altro uomo e attirarlo a sé, in modo da poter nascondere il viso nel suo petto e continuare a piangere senza farsi vedere.

Paul sentì il proprio cuore perdere un battito, non capendo se fosse perché doveva allontanarlo, o perché era così piacevole e gratificante il modo in cui le mani di John stringevano la sua camicia, aggrappandosi a lui come se stesse per cadere e Paul fosse il suo unico appiglio. Come se Paul fosse indispensabile per John.

Dio, era mai stato indispensabile per qualcuno? Sì, certo. Sua madre. Ma sua madre era morta e quindi questo faceva di John l'unica persona a provare una tale sensazione per lui.

E capire questo fece tremare Paul, perché lui aveva bisogno allo stesso modo di John; John era altrettanto indispensabile per Paul, la sua presenza era così dolce, così unica nella vita di Paul che questo gli fece mandare al diavolo tutti i suoi concetti astrusi sull'amore.

Cos'era l'amore per Paul?

Fino a quel momento era stato una giovane donna dai capelli rossi che gli aveva fatto perdere la testa, tanto da accecarlo e rendergli impossibile accorgersi del fatto che lui non fosse altrettanto importante per questa donna.

E ora?

Ora poteva assumere le sembianze di un uomo? Un uomo che era entrato per caso nella sua vita e l'aveva scombussolata?

Non aveva cercato quel sentimento in John, non l'aveva voluto, ma era accaduto e da un giorno all'altro Paul si era reso conto che lentamente John era entrato in lui, occupando tutto lo spazio disponibile nel suo cuore.

John e il suo fascino irresistibile.

John e la sua dolcezza.

John che gli aveva fatto perdere la testa, sì, ma nello stesso tempo non l'aveva accecato, rendendolo ancora in grado di pensare con lucidità a questo nuovo sentimento che era più forte di Paul.

E Paul non voleva più combatterlo. Ci aveva provato e non era riuscito ad annientarlo, né ad allontanare John dalla sua vita.

Perciò avvolse le braccia intorno al collo di John, stringendolo a sé.

Se John fosse rimasto turbato dall'abbraccio di Paul, non ci è dato saperlo. Ciò che contava, in fondo, era che continuasse a piangere, al sicuro in quell'abbraccio protettivo.

Erano secoli che non piangeva, eppure ora era stato così facile iniziare perché Paul aveva con altrettanta facilità trovato le parole giuste, quella chiave che si incastrava con perfezione per aprire le porte del cuore di John, toccarlo così intimamente e permettergli uno sfogo, in modo da allontanare tutte quelle paure e quelle angosce che si erano accumulate negli anni nel suo animo.

John pianse e pianse e pianse, e Paul non poté fare altro che continuare a stringerlo, accarezzandogli i capelli e sussurrandogli di tanto in tanto, "Va tutto bene, John."

Sembrava senza fine, ma poi nella sala comparve George, e il ragazzo guardò con lieve sorpresa la scena che si presentò di fronte a lui. Si disse che non fosse decisamente il momento di pensare a questo, perché...

"John?"

A quel richiamo l'uomo si calmò improvvisamente e alzò lo sguardo per incontrare quello di George.

"Julian si è svegliato."

Ancora scosso dagli ultimi singhiozzi, John si alzò in piedi asciugandosi alla bell'e meglio gli occhi con le mani, e fece per seguire George. Tuttavia Paul, anch'egli alzatosi in piedi, lo trattenne prima di rivolgersi a George.

Lo trattenne prendendolo per mano, stringendola con delicatezza tra le sue dita. John, sorpreso, abbassò lo sguardo per vedere con i propri occhi il gesto di Paul. Per capire se fosse vero.

E diamine, era vero!

"Arriviamo subito, George, grazie."

"D'accordo." mormorò scettico il ragazzo, e tornò indietro.

John non disse nulla, ma si limitò a guardare Paul e chiedergli con gli occhi perché l'avesse fermato.

Paul in risposta gli sorrise e prese, con la mano libera dalla stretta di John, un fazzoletto pulito dalla tasca dei pantaloni.

"Non vogliamo far vedere a Julian che hai pianto, giusto?" gli chiese, asciugando con attenzione il viso di John.

L'altro uomo scosse il capo lievemente, mentre i singhiozzi ormai scemavano e dopo pochi minuti, Paul fu soddisfatto del proprio lavoro e lo lasciò libero.

"Ecco qua. Come nuovo."

"Grazie." gli disse John, gli occhi ancora un po' lucidi e le guance arrossate.

Paul sentì il proprio cuore stringersi. Con quell'aspetto John sembrava ancora così perso, e gli provocò un moto di tenerezza, una voglia di tornare ad abbracciarlo, che ormai per Paul non era più strana.

"Di niente." rispose con un filo di voce e un sorriso, "Meglio andare da Julian ora, che ne dici?"

"Sì." mormorò John e solo in quel momento Paul lasciò la presa della sua mano.

John indugiò solo un altro istante, osservando Paul con profonda attenzione, come se si stesse chiedendo cosa ci fosse dietro quel cambio di atteggiamento in Paul. Tuttavia quello non era il momento per pensarci; ora c'era solo Julian.

Julian di cui John doveva prendersi cura.

Perciò si avviò verso la stanza di suo figlio, sentendo Paul camminare dietro di lui.

Quando finalmente giunse a destinazione, entrò per vedere il bambino ancora steso a letto, la magliettina ancora leggermente sporca del suo stesso sangue, notò John con un ultimo brivido, e una garza per proteggere i punti appena più in su del sopracciglio.

Pattie era accanto a lui e gli sorrideva amorevolmente, mentre gli accarezzava i capelli, e George era ai piedi del letto.

John prese un respiro profondo e avanzò, raggiungendo Julian che ora si stava stropicciando gli occhi con le mani, ancora assonnato.

"Ciao, amore." lo salutò lui, appoggiando una mano sulle sue gambe.

Il bambino si voltò e sorrise debolmente, prima di protendere le piccole braccia verso di lui, "Papà!"

John sorrise a sua volta chinandosi per essere avvolto dalle sue braccia e baciarlo dolcemente sulla guancia.

"Come ti senti?" gli domandò, facendo strofinare i loro nasi insieme.

"Ho sonno, papà.” rispose il bambino, sbadigliando, “Quando andiamo a casa?"

"Presto, tesoro, prima devo parlare con il dottore e poi andiamo a casa."

"Promesso?"

"Promesso!" rispose John, sorridendo più fiducioso, e accarezzando i capelli morbidi di Julian, "Sei stato proprio un bravo bambino oggi, sai? Il dottore ha detto che non ha mai visto un bambino così coraggioso."

Julian rise debolmente, "Hai visto che non ho mai pianto?"

"Infatti. Sei stato bravissimo, amore." gli confermò John, ricordando il momento in cui il dottore aveva medicato le ferita del bambino.

Julian non aveva versato una sola lacrima. Soffriva, ovviamente, e aveva gli occhi lucidi mentre il dottore applicava i punti, ma non lasciò che neanche una lacrima scivolasse sulle sue guance paffute e arrossate. Il motivo? Neanche John lo sapeva con certezza, soprattutto perché Julian si era rivelato più forte di quanto credesse il suo stesso padre. Tuttavia l'uomo era quasi sicuro, e orgoglioso, naturalmente, che fosse in parte merito suo. John era stato accanto a lui tutto il tempo, tenendogli la mano e distraendolo come gli aveva consigliato il dottore. Gli aveva raccontato una favola, aggiungendo di tanto in tanto quanto stesse dimostrandosi bravo e che ormai mancasse davvero poco alla fine di quella piccola tortura, e così facendo il bambino non aveva avuto modo di concentrarsi sul dolore e sulla brutta avventura di quel pomeriggio.

John, invece, fino a qualche minuto prima non aveva davvero voluto assimilare quanto fosse successo, troppo impegnato ad assicurarsi che suo figlio stesse bene.

Eppure quando Paul l'aveva richiamato con tenerezza, la realtà l'aveva colpito duramente.

Quel pomeriggio si era reso conto che non solo le sue paure di perdere Julian si erano quasi e pericolosamente avverate, ma lui si era mostrato più vulnerabile di quanto già non sapesse di essere. Il che rese ancora più evidente al suo cuore quanto fosse importante per lui che Julian stesse bene e fosse con lui. Senza quel bambino avrebbe perso la testa.

Era stato in grado di fare quanto avesse fatto, portarlo in ospedale o stargli accanto durante la medicazione, solo in funzione di farlo star bene. Altrimenti non avrebbe saputo dove sbattere la testa per iniziare.

Poi era arrivato Paul, e lui con una semplice frase aveva permesso a John di realizzare gli eventi di quella giornata e accettarli.

Aveva permesso a quella tempesta incontrollabile di calmarsi per un istante in modo che John potesse prendere fiato e piangere. Piangere per allontanare quelle paure e quella realtà che lo stavano sopraffacendo.

E lui, Paul, l'aveva abbracciato e consolato, restando accanto a John in silenzio, ascoltando solo i suoi lamenti, riscaldando le sue membra stanche, rese fredde dallo spavento improvviso.

Gesti semplici ma così efficaci.

Facevano dolere il cuore di John, ripensando a tutto quanto fosse accaduto nei giorni precedenti: le cose che si erano detti, il modo in cui si erano ignorati, John che aveva sentito terribilmente la sua mancanza...

Eppure ora sembrava tutto svanito.

Ora, mentre John cullava il suo bambino, rivolgendo il suo sguardo a Paul, il quale gli rimandò un sorriso, sembrava che fosse tutto... Tutto come prima?

No, non era come prima. John lo sentiva: il sorriso caldo di Paul, i suoi occhi dolci rivolti a John, rendevano tutto diverso.

Tuttavia John non voleva né poteva pensare a questo. Il suo cuore l'aveva illuso già una volta e, dio, se poi John non aveva sofferto!

Doveva sbagliarsi, e tutto questo era dovuto solo a quanto accaduto quel pomeriggio.

Forse aveva addirittura sognato.

Sì, era stato proprio così.

Eppure, c'era qualcosa che continuava a indicargli quanto si stesse maledettamente sbagliando.

La sua mano.

La mano ancora pregna del calore di Paul.

****

Il silenzio regnava sovrano nell'abitacolo dell'auto di Paul.

Stava accompagnando a casa John e Julian. George invece era tornato con Pattie.

Paul non sapeva cosa dire. Continuava a rivolgere occhiate fugaci a John seduto accanto a lui. L'uomo stringeva il bambino nuovamente addormentato tra le sue braccia, senza alcuna intenzione di voler allentare la presa né proferire parola.

Il dottore aveva riferito che i risultati degli esami non avessero evidenziato problemi, per cui avevano subito dimesso il bambino, con grande gioia di quest'ultimo e di suo padre.

Ecco perché ora si trovavano sulla via verso casa, John con la sua paura, Paul con i suoi ritrovati sentimenti.

Era felice e nello stesso momento spaventato da quanto aveva compreso quel pomeriggio. Non era arrivato certamente come un fulmine a ciel sereno, ma sapere di poter ricambiare in qualche modo ciò che provava John per lui, l'aveva in un certo senso mandato fuori fase. Solitamente era così facile parlare con John e capire cosa pensasse o provasse. Invece ora Paul non aveva alcuna idea di cosa gli passasse per la testa o ciò che facesse battere il suo cuore. Sì, era sicuramente ancora spaventato, ma il dottore gli aveva assicurato che il bambino si sarebbe ripreso in pochi giorni.

Allora cosa rendeva la sua espressione così apatica e lui così taciturno?

Paul non ne aveva idea, l'unica cosa di cui fosse certo era quel forte desiderio di stargli accanto e stringergli ancora la mano per mostrargli che Paul c'era per lui, in tutti i sensi.

Quando arrivarono a casa, Paul parcheggiò di fronte la porta dell'appartamento di John.

"Aspetta che ti aiuto." gli disse, scendendo subito dall'auto e affrettandosi ad andare ad aprire la portiera di John.

Senza che John potesse avere il tempo di protestare, Paul prese il bambino tra le sue braccia, cercando di essere delicato nei suoi movimenti per non farlo svegliare, e permettendo così a John di essere libero di scendere.

Poi l'uomo fece per riprendere Julian, ma Paul gli disse di pensare ad aprire la porta di casa, altrimenti sarebbe stato piuttosto scomodo con il bambino in braccio.

John acconsentì, riconoscendo come sensato il pensiero di Paul, e aprì la porta. Solo a questo punto Paul gli porse Julian, che continuò a dormire nel passaggio dalle braccia premurose di Paul a quelle amorevoli di John.

"Ti ringrazio molto per tutto ciò che hai fatto oggi, Paul."

"Figurati, per così poco." rispose lui con un sorriso, e il suo cuore sussultò piacevolmente quando Paul trovò il coraggio per proseguire, "Se vuoi posso farti compagnia e prepararti qualcosa da mangiare. Non hai mangiato niente."

"No, grazie."

"Sei sicuro? Non ci vuole niente, sai? Un panino o un po' di pasta, se preferisci."

"Sei gentile, Paul, ma no. Ho solo bisogno di stare un po' da solo con il mio bambino."

La delusione si appropriò improvvisamente del volto di Paul in modo evidente, ma lui neanche se ne rese conto. Era troppo impegnato a realizzare il fatto che John non lo volesse con lui quella sera.

"D'accordo."

"Ciao, Paul." mormorò John, prima di indietreggiare e chiudere la porta in faccia a Paul.

Il giovane uomo non si mosse di un solo millimetro. Non poteva e non voleva. La sua mano, al contrario, si appoggiò sul legno della porta, forse per rendersi davvero conto, anche con il corpo, che quella era la realtà, che John lo aveva deliberatamente allontanato da se stesso quella sera.

Non era stato come se avesse fatto scivolare la propria mano dalla sua stretta. Era invece come se gli avesse detto un più che eloquente vattene, come se avesse usato quella stessa mano per appoggiarla sul petto di Paul e spingerlo il più lontano possibile da lui.

E questo faceva male, perché Paul voleva solo stargli vicino, mentre John l'aveva respinto.

Come poteva biasimarlo, dopotutto? Era più che normale.

Eppure c'era una parte di lui che l'aveva sperato, fortemente.

La stessa che sapeva che le loro mani si sarebbero nuovamente incontrate e intrecciate.

Per uno o pochi istanti, o forse...

Chissà, forse per sempre.

 

Note dell’autrice: bene, ecco, Paul ha avuto l’illuminazione, alleluja. Benedetto ragazzo. :/

Comunque, al solito tocca a Julian sistemare tutto, no? Piccolo cucciolo. :3

Bene, come andranno le cose ora che Paul ha capito?

Intanto, grazie a kiki che ha corretto, e grazie a paulmccartneyismylove, paperback writer e potterbute a vita, per aver recensito lo scorso capitolo.

Il prossimo capitolo, “A taste of honey”, arriverà martedì.

Qui intanto c’è il terzo capitolo della mini long rossa di ieri. ;)

A presto

Kia85

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** A taste of honey ***


I’ll get you

 

Capitolo 18: “A taste of honey”

 

Quando Paul varcò la soglia della sua casa, inspirò profondamente l'odore di quell'appartamento.

All'inizio era stato difficile adattarsi al cambio di residenza, ma ora poteva considerare quella come la sua vera casa e il suo profumo era dolce come il miele per Paul.

Negli ultimi giorni ne aveva anche sentito la mancanza.

Era tornato a Liverpool in quella settimana di inizio ottobre, perché suo fratello Mike era diventato padre di una bellissima bambina di nome Mary, come la madre di Paul.

Per questo motivo il giovane ispettore, appena possibile, era corso a Liverpool per vedere la sua nipotina. L'aveva stretta tra le sue braccia, così piccola e calda, il viso un po' schiacciato ma molto simile a quello di suo fratello. Era stato bellissimo tenere in braccio una nuova Mary McCartney. Ma non era una sorpresa, perché in fondo i bambini riescono ad alleviare qualunque sofferenza, come quella immensa della perdita della propria madre.

Questo era stato dunque l'evento più importante di quell'ultima settimana, e il lunedì pomeriggio Paul era finalmente tornato a casa.

Gli aveva fatto bene allontanarsi da Londra. E naturalmente gli aveva fatto bene allontanarsi da John.

Dopo quanto accaduto al piccolo Julian, Paul non aveva avuto più sue notizie. Avrebbe voluto andare da John o telefonargli, ma aveva paura. Non sapeva bene come comportarsi. Doveva essere lui a fare il primo passo, oppure doveva aspettare John?

La testa pulsava e doleva quando cominciava a porsi tali domande. Se avesse potuto, sarebbe corso da John subito. Per fare cosa, non ne era poi così sicuro, ma l'avrebbe fatto.

Tuttavia ogni volta che era sul punto di aprire la porta di casa per precipitarsi fuori, l'immagine di John che gli chiedeva di lasciarlo da solo lo colpiva violentemente, come uno schiaffo inatteso. E a quel punto ogni desiderio appassionato di Paul si spegneva in un istante.

Avrebbe almeno potuto usare la scusa di vedere come stesse Julian, ma non sarebbe stato credibile, dal momento che Paul aveva infine visto con i suoi stessi occhi che il bambino si stesse riprendendo alla grande. Lo vedeva dalla finestra del proprio salotto, quando tornava dall'asilo con John o con Pattie. Era vispo come sempre, il che naturalmente fece molto piacere a Paul.

Un po' meno piacevole era quando Paul si accorgeva della presenza di Yoko insieme a John. Certo, c'erano sempre i bambini con loro, ma Paul non poteva fare a meno di arrossire di rabbia e gelosia a quella visione. Come mai lei era sempre con John? Non potevano stare insieme, vero?

No, non potevano, decise Paul. Soprattutto perché John sembrava comportarsi come al solito con lei.

Come facesse Paul a sapere tutte queste novità sui due Lennon, beh, naturalmente era a causa del fatto che bastasse solo che Paul riconoscesse la voce di Julian o di John, e subito si precipitava alla finestra per vedere cosa stesse accadendo dall'altra parte della strada.

Non c'era da sorprendersi, quindi, se più di una volta John avesse intercettato il suo sguardo, accorgendosi che il suo vicino di casa lo stesse spiando.

Ora, spiare era una parola grossa per Paul. Dopotutto lui stava solo controllando che Julian stesse bene. Paul non voleva pensare che non fosse necessario correre ogni volta alla finestra: ormai aveva capito che Julian stava guarendo.

Eppure era più forte di lui, e allora correva solo per poter vedere un istante John, anche se, quando inevitabilmente John si voltava verso di lui, Paul arrossiva e scompariva dietro la tenda.

Per questo non poteva recarsi da John con la scusa di informarsi su Julian. Ormai John sapeva che Paul avesse capito che Julian stava meglio.

Così ora Paul era bloccato in quel limbo straziante, in cui non poteva fare nulla. Aveva le mani bloccate, come uno di quei criminali che arrestava. Paul non lo sapeva con certezza, non aveva mai provato il freddo metallo delle manette sulla sua stessa pelle. Ma sapeva che dovesse essere all'incirca la stessa sensazione frustrante di impotenza.

Tutto ciò che potesse fare era semplicemente aspettare che qualcosa cambiasse.

Qualcuno sosteneva che l'attesa fosse più bella del piacere stesso.

Eppure come poteva un tale pensiero consolare Paul, se neanche lui sapeva cosa stesse aspettando?

****

Paul era tornato.

John non ne era stato sicuro fino a quel pomeriggio. Non sapeva bene dove fosse andato: aveva provato a pensarci, e ogni ipotesi comprendeva Paul che si allontanava da Londra per colpa di John e del modo in cui lui lo avesse respinto la sera dell’incidente di Julian. John si era sentito in colpa, in seguito, per quell’episodio. Paul era stato così gentile, ma avrebbe dovuto capire che John fosse infinitamente sconvolto quella sera e non capiva davvero cosa stesse facendo. Per cui era stato quasi logico pensare che forse Paul fosse partito per riflettere o semplicemente per non vedere più John.

Così era stato facile per John notare che per diversi giorni la sua casa fosse stata sempre al buio e non vi fosse stato alcun movimento che indicasse la presenza di qualcuno.

Poi quel pomeriggio, quando John era tornato con Julian, Yoko e sua figlia, aveva intravisto la sua sagoma alla finestra al piano di sopra. Li stava spiando, e questo pensiero aveva divertito John, il quale però non aveva lasciato trasparire alcuna emozione. Aveva semplicemente guardato Paul per una frazione di secondo, quel tanto che bastava per indurlo a sparire dietro la tenda.

Era successo spesso ultimamente e John non poteva fare a meno di chiedersi come mai.

All'inizio aveva pensato che Paul stesse solo controllando che Julian si fosse ripreso; ma dopo aver intercettato i suoi occhi quattro, cinque, dieci volte, aveva capito che Julian non avesse più a che fare con questo comportamento di Paul.

Paul era cambiato, John ne era sicuro.

Da quanto John ricordava di quella terribile sera in cui Julian era finito all'ospedale, Paul era sembrato così diverso. Era affabile, era disponibile e... Cazzo, quanto era stato dolce.

Con la mente lucida e senza le preoccupazioni per la salute di Julian, John ora poteva riconoscere in lui una delicatezza dei gesti e delle parole, una premura, un interesse che gli facevano tremare le gambe e sudare le mani.

Eppure, nonostante questo, ancora non poteva permettere al proprio cuore di illudersi. Ricordava bene le parole sicure, lo sguardo deciso di Paul quando avevano discusso.

Il cambiamento di Paul che John aveva percepito addirittura con la sua stessa pelle doveva essere dovuto solo alla situazione critica di quella particolare sera. Era ovvio che in  certe occasioni alcune questioni più futili venissero messe da parte. Così aveva fatto Paul.

E ora stavano entrambi aspettando che tutto tornasse come prima. 

A Paul sarebbe passato presto questo insolito bisogno di guardare John dalla finestra, e John avrebbe più facilmente impedito a se stesso di viaggiare con la fantasia.

Sarebbe tornato ad aspettare invano qualcosa che non poteva arrivare.

Sarebbe tornato ad aspettare che questo sentimento sparisse.

****

Paul era dovuto scappare al supermercato non appena resosi conto che non c'era davvero nulla di commestibile nel suo frigorifero.

Aveva bisogno di fare rifornimento, soprattutto perché aveva recuperato Pepper dall'appartamento di Linda. Era stato ingiusto da parte sua chiedere un aiuto di questa portata alla ragazza con cui era uscito e che non aveva neanche richiamato, ma era l'unica che potesse aiutarlo con il micio. Ovviamente lei aveva approfittato del suo ritorno e gli aveva chiesto di uscire di nuovo, illustrandogli quanto fosse stata bene con lui quella sera, che uomo piacevole fosse Paul, quale grande ascoltatore e confidente si celasse in lui...

Tuttavia Paul non voleva uscire con lei, non più almeno, e non essendo ancora pronto a spiegarle il vero motivo, cercò di arrangiarsi, sostenendo che fosse davvero molto impegnato e che per il momento non avesse proprio tempo per il divertimento. Lei sembrò accettarlo, per fortuna.

Così Paul aveva portato a casa Pepper e si era accorto del bisogno impellente di fare la spesa per entrambi, ma prima di uscire aveva aspettato che John sparisse dalla strada. L'uomo aveva avuto un tempismo perfetto nel decidere quando tornare a casa con Julian, e Paul non aveva resistito ed era corso alla finestra.

Ripensando ora al momento in cui i loro sguardi si erano incrociati quel pomeriggio, Paul arrossì violentemente. La sua ennesima figuraccia.

Gli venne quasi spontaneo chiedersi cosa pensasse John di Paul che continuava a guardarlo. Forse credeva che fosse impazzito, il che non era molto lontano dalla verità. Oppure aveva capito il vero motivo del suo comportamento, e il fatto che non facesse nulla per avvicinarsi a Paul era ancor più straziante.

Era un disastro. Una situazione intricata da cui Paul non sapeva più come uscire.

Sospirò, mentre recuperava un paio di cartoni di latte per se stesso e per Pepper, decidendo che il supermercato non fosse proprio il luogo adatto per cercare di mettere a posto questioni così private, dal momento che era circondato dal cigolio delle ruote dei carrelli, dalle voci dei commessi all'altoparlante, da genitori che richiamavano i propri figli che scorrazzavano liberi per i corridoi...

Una risata acuta, da bambino, lo destò dalle sue riflessioni, e subito dopo qualcosa, o meglio, qualcuno andò a sbattere contro le sue gambe.

"Oh!"

Paul si voltò, incuriosito, per notare che chi fosse andato a sbattere contro di lui era proprio...

"Julian?" esclamò, sorpreso, nello stesso momento in cui un'altra voce richiamò il bambino per nome.

E l'istante successivo Paul credette di sprofondare sotto terra, perché John aveva appena svoltato l'angolo per infilarsi nel corridoio dove si trovava lui.

"Quante volte ti ho detto di guardare dove v-"

La sua voce si incrinò quando riconobbe l'uomo contro cui suo figlio era andato a sbattere, ma Paul non sapeva dire se per John fosse qualcosa per cui essere felice oppure deluso.

"Oh. Ciao, Paul." lo salutò con voce tremante.

"Ciao, John."

"Mi... Mi dispiace per Julian. Gli dico sempre di guardare davanti, ma non vuole ascoltarmi." esclamò John, afferrando subito il bambino per le braccia e sistemandolo nel seggiolino nel carrello.

"Non ti preoccupare." lo tranquillizzò Paul, accennando un sorriso, "Anzi, mi fa piacere vedere che si sia ripreso così velocemente."

"Ah sì. Per quello non c'è più alcun problema. Sta benissimo ora, vero, Jules?"

Julian annuì, sorridendo, quando il padre gli scompigliò affettuosamente i capelli, e in questo modo Paul poté notare ancora un piccolo cerotto lì dove c'erano i punti della ferita.

"È una bellissima notizia."

John osservò per un istante il suo sorriso sinceramente compiaciuto, prima di balbettare un incerto, "G-grazie."

Detto ciò il silenzio cadde tra tutti e tre e Paul si morse il labbro. C'erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli: che bello rivederti, non hai idea di quanto tu mi sia mancato, lo sai che mi fai impazzire?

Eppure non era esattamente il luogo più appropriato per certe dichiarazioni, soprattutto perché John era così strano. Paul non riusciva a capire il motivo del suo imbarazzo: era per la troppa felicità o perché non volesse trovarsi lì con Paul?

Il giovane ispettore si diede dell'idiota, intimando a se stesso di non pensare a queste cose, e decise di concentrarsi sul carrello di John. Vi erano molte cose interessanti: bottiglie di Coca Cola, birra, patatine di ogni tipo, salatini, panini pronti per essere farciti con salumi, e palloncini, piatti e bicchieri di plastica colorati.

Sembrava proprio tutto l'occorrente per una festa.

"Ehi, c'è qualche occasione particolare da festeggiare?" domandò entusiasta.

"Domani è il compleanno di papà." rispose prontamente Julian.

Paul batté le palpebre molto più che sorpreso, quasi stordito. Il compleanno di John era il giorno seguente e lui non ne sapeva niente. La realizzazione fu davvero spiacevole, ma cercò di non darlo a vedere.

"Ma davvero?" esclamò sbalordito.

"Sì." disse Julian, annuendo vigorosamente, "Facciamo la festa a casa e papà ha preso anche le mie patatine preferite."

"E quali sono?" chiese Paul, interessato.

"Quelle rotonde." spiegò Julian, indicando il sacchetto di patatine nel carrello.

"Lo sai, Julian..." iniziò a dire Paul, allungando una mano per toccargli la punta del naso con un dito, "Sono anche le mie preferite."

Julian rise, "Allora devi venire anche tu."

Paul arrossì vistosamente, non aspettandosi una risposta del genere da parte del bambino e non sapendo cosa dire. Ecco, quella sì che era una situazione spiacevole. Se John non l'aveva invitato, doveva pur avere le sue buone ragioni, e secondo Paul ne aveva fin troppe. E ora invece, suo figlio senza accorgersene l'aveva appena messo in imbarazzo.

"Ma la festa è di papà." cercò di fargli notare Paul dolcemente.

Julian aggrottò la fronte, perplesso, e si voltò verso il padre, il quale sussultò, "Papà, è vero che può venire anche Paul?"

John si morse il labbro, imprecando fra sé. Dannazione, ora Paul avrebbe pensato che lui non avesse voluto invitarlo prima. Eppure non era così. John l'avrebbe voluto con lui alla festa, l'avrebbe voluto eccome. Ma chi gli assicurava che Paul avrebbe accettato? Che non gli avrebbe risposto un altro no?

"Ma certo." si affrettò a rispondere John, accorato, "Se ti fa piacere, Paul, sarei felice che venissi anche tu."

Paul sorrise appena. Non era particolarmente entusiasta di come avesse rimediato quell'invito decisamente poco spontaneo, ma ora non poteva rifiutare. In fondo John sembrava sincero nella sua richiesta. Forse c'era qualche altro motivo per cui non glielo avesse chiesto prima.

"Mi farebbe molto piacere, John." fu la sua risposta all'invito.

Julian esultò, mentre anche John si rilassava in un sorriso, uno più radioso; illuminò il suo viso improvvisamente, lo illuminò di una dolce sorpresa e una insperata felicità.

E nel rendersi conto del potere della sua risposta, il cuore di Paul mancò un battito, creando solo per un secondo un vuoto straordinario nel suo petto, quello stesso vuoto che era da tempo pronto per essere colmato.

"Bene, allora vieni verso le sette. Non ci saranno molte persone, ma saranno quelle più importanti per noi."

"Ci sarò sicuramente." lo tranquillizzò Paul.

"Ora dobbiamo andare, sai, dobbiamo completare le ultime compere." spiegò John, indicando vagamente il carrello, ma mostrandosi del tutto incapace di distogliere ora gli occhi da Paul.

"Certo. Ci vediamo domani sera."

"A domani."

"Ciao ciao." lo salutò Julian, mentre John riprese a spingere il carrello lungo il corridoio.

Paul li guardò allontanarsi, salutando il bambino con la mano fino a quando John non si voltò di nuovo verso di lui, continuando a camminare. In quell'istante Paul percepì il proprio respiro mozzarsi in gola e lui si sentì all'improvviso leggero come una piuma: si ritrovò a sorridere con una dolcezza, un calore che poteva percepire sulle sue stesse guance.

John ricambiò il sorriso, sorpreso, senza accorgersene, come se non se lo aspettasse.

Sapeva che non doveva illudersi, eppure c'era troppo in Paul che gli stesse facendo perdere la testa e la razionalità in quel momento. I suoi sorrisi, i suoi sguardi per John, il suo accettare l'invito...

Che ci fosse davvero una piccola speranza per John?

Tuttavia la combinazione tra continuare a guardare e sorridere a Paul e continuare a spingere il carrello fu fatale: il suo carrello andò a sbattere contro quello di una coppia di anziani, che non si risparmiarono di rimproverare immediatamente John.

"Insomma, giovanotto, faccia attenzione, per l'amor del cielo."

John si profuse in mille scuse, mentre Paul rideva divertito per la scena, ma anche perché la dolcezza che John riservava solo a lui era tornata e aveva riscaldato il suo cuore così infreddolito da diverso tempo.

Quando infine i due anziani signori si allontanarono, anche Julian si permise di richiamare il padre, "Papà, devi guardare dove vai!"

“Hai ragione, amore.” gli disse John, prima di voltarsi verso Paul.

Era ancora lì, tutto intento a guardarli e sorridere compiaciuto. Sembrava soddisfatto di essere appena stato la causa del piccolo incidente di John.

Il motivo era ancora sconosciuto per John, ma questo non gli impedì di affrontare il resto della giornata con un sorriso sulle labbra e una piacevole sensazione di leggerezza nel cuore.

****

La sera seguente Paul si preparò per la festa, prese il regalo, e puntualissimo, si presentò alla porta dell’appartamento di John.

Sentiva il proprio battito cardiaco rimbombare direttamente nelle orecchie, ed era a un ritmo assurdo.

Che razza di idiota! Perché avrebbe dovuto essere nervoso? Era solo una festa, ci sarebbero state altre persone oltre a lui e John. Ovviamente, che festa sarebbe stata senza altre persone? Se fossero stati solo loro due, sarebbe stato un appuntamento.

Paul non aveva motivo di sentirsi così, non sarebbe stato da solo con John, non avrebbe avuto l’occasione di parlargli di certe cose, non sarebbe successo proprio nulla.

Oh, ma che importava cosa sarebbe accaduto? Paul lo sapeva, sapeva che anche se avesse trascorso un solo istante con John, si sarebbe sciolto in sorrisi da far venire la carie e sguardi così intensi da rendere fin troppo chiari i suoi sentimenti.

John avrebbe capito tutto, perché capiva sempre tutto di Paul.

E a quel punto John avrebbe cercato di avvicinarsi a lui, di riprendere quel discorso che Paul aveva stupidamente interrotto, allora Paul sarebbe stato oh, così felice.

Oppure John l'avrebbe ignorato, avrebbe fatto finta di non riconoscere i sentimenti di Paul, mettendo davvero la parola fine a qualunque cosa fosse accaduta tra loro; allora Paul sarebbe stato oh, così triste.

Il giovane uomo scosse il capo, o almeno si costrinse a farlo per allontanare tutti quei pensieri stupidi e quei dubbi inutili, e suonò il citofono.

Ma chi venne ad aprire non fu proprio il festeggiato.

Si trattò invece di quel nome che nell'ultimo periodo stava semplicemente facendo impazzire Paul e no, non in modo positivo.

Yoko.

"Oh salve." esclamò, "Lei deve essere l'ispettore."

La donna gli sorrise debolmente, e Paul si ritrovò incapace di ricambiare. Era la casa di John, eppure era lei a fare gli onori di casa? Che cazzo significava?

"Non credo ci abbiano mai presentato, mi chiamo Paul McCartney.” le disse invece porgendole la mano, cercando di essere comunque molto cortese e poco sconvolto.

“Yoko Ono.” rispose lei, “Si accomodi, mancava solo lei ormai.”

“Ehm… grazie.”

Yoko lo condusse verso il soggiorno, dove c’erano già almeno una ventina di persone. Si erano formati tanti piccoli gruppetti di conversazione, mentre in sottofondo la voce calda di Elvis teneva loro compagnia con le sue canzoni.

Naturalmente Elvis non poteva mancare.

“Da questa parte può trovare le bibite e qualcosa da mangiare.” gli disse la donna, indicando un tavolo sopra cui vi erano bottiglie colorate e panini, salatini e patatine di ogni genere.

Paul annuì, seguendo Yoko al tavolo e intanto cercando John nella stanza con lo sguardo. Vide George e Pattie sul divano, entrambi presi da una conversazione con un’altra coppia, che Paul non aveva mai visto. Ben presto, l’ispettore si accorse che non conosceva davvero nessun altro di tutti i presenti. Non aveva idea di chi fossero, ma se erano lì, allora dovevano essere amici di John.

“Cosa preferisce da bere?” gli chiese Yoko, destandolo dai suoi pensieri.

“Oh, un po’ di aranciata, grazie.”

Yoko si affrettò a preparargli un bicchiere della bibita richiesta e Paul la osservò con attenzione. Sembrava sempre più importante, in quella festa, come se sapesse come muoversi, come se conoscesse a fondo come era stato disposto tutto il necessario per la festa.

“Ha aiutato lei John con i preparativi?”

“Sì.” rispose lei, sorridendo e porgendogli il bicchiere, “Mi ha chiesto di aiutarlo, così sono venuta nel pomeriggio e mentre i bambini giocavano con i palloncini, noi abbiamo sistemato tutto.”

“Avete fatto un ottimo lavoro.” commentò Paul, costringendosi a rivolgerle un sorriso, dopo aver ammirato tutto ciò che offriva il tavolo delle cibarie e i festoni e palloncini appesi per tutta la stanza.

“Grazie.”

Paul si maledisse, quando lei gli sorrise compiaciuta perché qualcuno aveva finalmente capito quanto fosse importante il suo ruolo in quella festa.

Se lui non fosse stato così ottuso, così cocciuto da respingere John, in quel momento ci sarebbe stato lui al posto di Yoko. John avrebbe chiamato lui, insieme avrebbero preparato i panini e sistemato tutto l’occorrente.

Invece Paul aveva mandato tutto al diavolo e ora… Ora era giusto che si rodesse il fegato per la sua sciocca gelosia. Era la sua più che meritata punizione.

Questo non gli impedì di voler approfondire la conoscenza del rapporto che intercorreva tra John e Yoko.

“John mi aveva detto che ci sarebbero state poche persone, invece mi sembra che sia già un bel numero di invitati.”

“Oh sì, sono soprattutto clienti affezionati del suo negozio.” spiegò lei, versando per se stessa un po’ di Coca Cola.

Paul batté le palpebre, sorpreso: non si aspettava certo che lei conoscesse anche questo.

“E…” continuò, schiarendosi la voce, “E per caso, sa se sia presente anche l’uomo che ha cresciuto John?”

“Ah, no, lui non poteva venire.”

“Capisco.” mormorò Paul, prendendo un sorso della bevanda.

Cristo santo, perché aveva preso l’aranciata? Era così maledettamente amara. Non era salutare per lui bere cose amare, non facevano che accentuare i suoi sentimenti già amari.

E John e Yoko così intimi erano per lui amari tanto quanto quell’aranciata.

“Lei e John sembrate molto in confidenza.” disse infine Paul con cautela e un leggero senso di sconfitta.

“E’ solo per i bambini.” spiegò Yoko, chinando il capo e rigirando distrattamente il suo bicchiere.

Il sorriso della donna si era leggermente affievolito, era diventato quasi malinconico.

“Solo per i bambini?” ripeté, perplesso.

“Sì.”

Yoko sospirò amaramente e Paul lo notò, certo che lo notò. Inizialmente ne fu sorpreso, la conversazione fino a quel momento era stata un vero calvario per lui. Ma ora, con quel sospiro della donna, cambiava tutto.

“Mi… mi sembra di capire che lei sperasse in qualcosa di più?” esclamò timorosamente.

Era necessario mostrare prudenza, arrivati a questo punto. Una piccola scintilla di speranza si era accesa di nuovo in Paul, ma doveva essere protetta con attenzione.

“Esatto.” rispose Yoko, “Ma lui mi ha fatto capire chiaramente che non era interessato.”

“Oh.” fu tutto ciò che riuscì a dire Paul.

John non era interessato.

Poche parole che risuonarono in continuazione nella mente di Paul, come un disco che si era incantato.

Ma non bastava.

“Le ha spiegato come mai?” continuò Paul.

“Pare che ci sia qualcun altro per la sua testa.” rispose lei, quasi sbuffando infastidita.

Ma nonostante i suoi fossero degli sbuffi, questi non avevano alcun potere sulla scintilla che proprio quella stessa donna aveva riacceso in Paul, anzi, andavano solo ad alimentarla, a renderla più forte.

“Chi?” chiese Paul, e la domanda gli uscì senza che neanche se ne accorgesse.

Yoko sollevò un sopracciglio con scetticismo, “Ha importanza?”

Certo che sì, che razza di domanda stupida era mai quella? Come poteva pensare che non ne avesse?

Forse perché non ha alcuna idea che possa essere tu, stupido che non sei altro, si disse Paul.

“Ha ragione, mi perdoni.” le disse con voce appena tremante.

Che sforzo immane cercare di controllarsi davanti a lei.

“Comunque no, non mi ha detto di chi si tratta.”

Maledizione!

Ma chi poteva essere se non Paul, giusto? Chi altri aveva potuto conquistare John in così poco tempo? No, non era possibile. Era sicuramente lui. Doveva essere Paul.

“E quando sarebbe successo?”

“Ieri pomeriggio. Mi ha detto anche che capiva perfettamente se avessi deciso di non aiutarlo più per stasera, ma ho pensato di farlo comunque. In fondo, la mia bambina si trova bene a giocare con Julian e vorrei che continuasse a frequentarlo in modo da avere almeno degli amici.”

“E’ stato molto gentile da parte sua, aiutarlo nonostante tutto.” le fece notare gentilmente Paul.

“Grazie.” gli disse lei, “Ora se vuole scusarmi, vado a prendere altri panini.”

“Sì, prego, non si preoccupi.”

Paul la seguì con lo sguardo, mentre si recava in cucina. Una parte di lui cercava in tutti i modi di mantenere un certo contegno, mentre l’altra aveva solo voglia di urlare, gridare al mondo la sua felicità.

Santo cielo, si sentiva così leggero, come se da un momento all’altro potesse librarsi in volo. Era davvero possibile? Dio, forse sì, e Paul doveva solo trovare un appiglio prima che una folata di vento potesse portarlo via.

Trovò un valido appiglio nello sguardo di John.

Era con altri due uomini in un angolo della stanza. Stavano parlando animatamente di qualcosa, quando John intercettò lo sguardo di Paul.

L’uomo gli sorrise lievemente, alzando la mano per salutarlo e Paul si sentì arrossire, ricambiando il saluto, prima di tornare a bere la sua bevanda.

Qualcuno per caso aveva messo del miele in quella aranciata? Perché all’improvviso era diventata incredibilmente dolce.

E così anche la gassosa che seguì.

E la Coca-Cola.

E la birra.

E…

****

Finalmente Julian si era addormentato.

Erano state necessarie una fiaba e due ninna nanna per metterlo k.o., ma alla fine John c'era riuscito.

Nonostante non avesse fatto altro che correre e giocare con Kyoko per tutta la sera, sembrava che Julian non avesse sonno. Quel bambino aveva una soglia della stanchezza molto alta. Ma da chi aveva preso?

Sorridendo fra sé, John tornò al pianterreno per trovare George e Pattie che stavano indossando i loro cappotti per andare via.

"Si è addormentato?" chiese Pattie, interessata.

"Sì.” sospirò John, “Finalmente, direi."

"Si è dato alla pazza gioia stasera." commentò la ragazza, sorridendo.

"Neanche fosse il suo compleanno." ribatté George, lasciandosi scappare una risatina, “Insieme a quella bambina poi, ha dato il meglio di se stesso.”

John annuì, divertito, "A proposito, sono andati tutti via?”

George rivolse un rapido sguardo a Pattie, prima di tornare verso John.

“A dire il vero c’è un superstite.” gli disse, facendo un cenno verso il soggiorno.

John seguì l’indicazione e riuscì a scorgere una massa di capelli scuri che spuntava dal divano.

“Oh.”

Paul.

Deglutì sonoramente, riconoscendo il suo ispettore ancora lì, nella sua casa.

Che stesse aspettando lui? E perché?

Certo che stava aspettando lui, non era stato forse John a evitarlo per tutta la sera?

L’aveva evitato, sì, e non sapeva bene neanche il motivo delle sue azioni. L’aveva a malapena salutato, l’aveva osservato di sfuggita per tutta la sera, distogliendo lo sguardo non appena quello di Paul incrociasse il suo, e quando per caso si erano imbattuti l’uno nell’altro in cucina, e Paul gli aveva offerto il suo aiuto, John l’aveva liquidato in fretta e furia, scappando dalla stanza con la prima scusa che gli fosse passata per la testa.

E ora Paul lo stava aspettando, per fare cosa John non lo sapeva con esattezza, ma era più che sicuro che lui avesse notato che John l’aveva evitato e ora voleva solo chiarire perché.

John era in trappola. Una dolce, dolcissima, straziante trappola.

Aveva fegato per affrontare tutto ciò?

Sì, l’aveva, ne aveva abbastanza per parlare con Paul.

“Vuoi una mano?” gli chiese George.

John scosse il capo, sorridendo, “Non ti preoccupare, ce la posso fare.”

“D’accordo, allora noi andiamo.” affermò l’amico, appoggiando una mano sulla sua spalla e dandogli un’affettuosa pacca.

“Certo. Grazie mille per stasera, ragazzi."

"Grazie a te." gli disse Pattie, baciandolo sulla guancia, "E ancora tanti auguri."

John sorrise in risposta e li accompagnò fino all’uscita. Non appena si salutarono, l’uomo chiuse la porta e sospirò, prima di tornare verso il soggiorno.

Vide di nuovo quella indimenticabile testa di capelli neri e arruffati, e nonostante i suoi dubbi e timori, il suo cuore batteva intensamente a quella visione, faceva tremare il suo petto in modo dolce; era una sensazione stupenda. Lo faceva sentire così vivo.

Recuperando un po' di quel coraggio che contraddistingueva le sue notti da ladro, avanzò nella sala e quando fu in piedi accanto al divano, Paul si voltò.

“Ciao.”

"Ciao.” disse John, sedendosi accanto a lui e sorridendo imbarazzato, “Bella festa, eh?"

Paul sorrise, di fronte alla situazione di disagio di John, "Sì, molto."

"Pensavo fossi andato via."

Il giovane uomo chinò lo sguardo, scuotendo appena il capo, “Non potevo ancora andarmene.”

“Perché?” domandò, seguendo Paul che si voltò dalla parte opposta rispetto a John per recuperare qualcosa al suo fianco.

“Beh, prima di tutto non ti avevo ancora dato il mio regalo.” rispose lui e gli porse quello che era evidentemente un pacco regalo.

“Non dovevi disturbarti.”

“Una volta qualcuno mi ha detto che il compleanno è sacro, quindi non si preoccupi, signor Lennon, nessun disturbo.”

Paul gli porse nuovamente il suo regalo e John rise, riconoscendo le sue stesse parole in quelle del giovane ispettore. Si decise perciò ad accettare il dono: era sottile, di forma quadrata, rivestito da una carta argentata a righe colorate e nel centro vi era una coccarda da regalo di un bel rosso acceso.

“Dai, aprilo.” lo incalzò Paul.

John gli rivolse un rapido sguardo divertito, prima di iniziare a scartare il misterioso oggetto. Le sue mani tremavano e forse Paul se ne rese conto, ma a questo punto per John non aveva più importanza. Paul lo aveva visto in condizioni peggiori: schiacciato dal peso opprimente della paura, quando Julian era finito in ospedale, e ancora prima, implorante di fronte a Paul che lo stava allontanando da se stesso.

Per cui davvero, non aveva importanza.

Quando la carta strappata rivelò il regalo, John rimase letteralmente a bocca aperta.

Non era possibile.

Le sue mani, tremanti d’amore e di sorpresa, stringevano un LP di Elvis. Era Blue Hawaii, uno dei suoi preferiti, ma non era un disco qualunque: si trattava infatti di un'edizione originale del 1961, una delle prime copie pubblicate. La custodia era leggermente rovinata ai bordi e ingiallita. Il povero Elvis non aveva affatto una bella cera.

"Ti piace?" domandò Paul, incuriosito, dal momento che John non sembrava voler aprire bocca.

"Se mi piace? Io... Questo è... è..."

La sua voce vacillava in modo incontrollabile, vuoi per la sorpresa, vuoi per la gioia o per quell'immenso sentimento che Paul aveva acceso in lui.

"È uno dei due LP originali che ti mancano di Elvis." terminò Paul al posto suo, "Lo so."

John lo guardò, alzando un sopracciglio, "Te l'ha detto George?"

Paul annuì, "Volevo farti un regalo speciale, ma tutto ciò a cui potessi pensare era banale. Allora gli ho chiesto aiuto e lui mi ha informato che mancano due esemplari alla tua collezione di prime edizioni di LP di Elvis."

"Esatto, come hai fatto a trovarlo?"

"Trovare cose e persone è il mio lavoro, giusto?" esclamò divertito Paul, facendogli l'occhiolino, "Ho i miei mezzi."

"Ma ti sarà costato una fortuna." ribatté John, accorato, sbalordito, e ancor più preso da questo giovane uomo perché non poteva accettare che Paul, lo stesso Paul che stava rischiando il proprio lavoro per colpa di John, spendesse così tanti soldi per lui.

"Beh, su questo non posso esprimermi." commentò l'uomo, prima di scrollare le spalle, "Ti basti sapere che l'ho fatto con piacere."

John scosse il capo, "Comunque, non me lo merito."

Paul si lasciò scappare una risata, abbandonandosi allo schienale del divano, "Su questo ti do pienamente ragione."

"Ah sì?" ribatté John, battendo le palpebre, preso in contropiede.

"Certo. Il che ci porta a un altro motivo che mi ha indotto a restare qui stasera."

"Quale?"

"Era necessario, sai? Mi hai evitato da quando sono arrivato." spiegò Paul.

Con sorpresa John si accorse che Paul non era arrabbiato mentre gli faceva notare che sì, aveva capito che John l’aveva evitato. Paul stava invece sorridendo, e sorrideva con una tenerezza che fece stringere il suo cuore.

"Hai ragione." mormorò, voltandosi leggermente verso l’altro uomo.

"Perché l'hai fatto, John?" chiese il giovane ispettore, abbassando lo sguardo per trovare la mano di John a un soffio dalla sua.

"Avevo paura."

Paul annuì lentamente e la sua espressione diceva in modo evidente che si aspettasse una risposta simile, "Di che cosa?"

"Del motivo per cui sei venuto."

"Sono venuto perché Julian ci teneva e ti ha praticamente costretto a invitarmi." rispose Paul, divertito.

John rise, imitando Paul e appoggiandosi al divano allo stesso modo, "Non mi ha costretto. Ci tenevo anche io a invitarti, ma non sapevo se avresti accettato."

"Certo che avrei accettato e Julian lo sapeva. È un bambino sveglio, te l'ho già detto?" esclamò, rivolgendogli uno sguardo che era dolce e insieme malizioso.

"Per questo sei venuto? Solo per lui?"

"Per lui e per le mie patatine preferite, ovviamente.” commentò Paul, ma prima che John potesse ridere per la sua battuta, allungò una mano per accarezzare il suo braccio, “E perché anche tu lo volevi."

John sussultò visibilmente, rendendosi conto che il suo cuore fosse più che impazzito: non sapeva più con che ritmo battere, non sapeva più a quale delle tante meravigliose emozioni, suscitate dalle parole e dai gesti di Paul, dare la precedenza.

"Ah d-davvero?” balbettò, cercando di mantenere la sua voce ferma, ma fallì miseramente e il fallimento non fu poi molto importante, “E come fai a esserne così… così sicuro?"

"Perché…” iniziò a dire Paul, osservando la propria mano che scivolò sul braccio di John verso l’alto, fino al mento dell’uomo, “Quello che vuoi tu è ciò che voglio anche io."

Adagiandosi nel tocco di Paul e ispirando profondamente, John si avvicinò a lui, non riuscendo a trattenere un sorriso, "Parli sul serio?"

"Mai stato così serio." sospirò Paul, lasciandosi contagiare dallo stesso incredibile mix di sentimenti di John.

"Perché devi sapere…” disse John e non riuscì a impedire a se stesso di avvicinarsi ancora a Paul, “C'è una cosa che vorrei fare proprio ora. E dovresti saperlo anche tu."

Paul si morse il labbro, continuando a sorridere, "Infatti lo so. Lo so bene."

John sussultò appena, ma abbandonò qualunque residuo di esitazione fosse rimasto in lui perché Paul aspettava solo la sua mossa, e con decisione allungò una mano per appoggiarla sulla guancia calda di Paul.

"Ma è difficile."

"Ti sbagli, John. È semplice." disse lui, chiudendo gli occhi, mentre il pollice di John cominciava ad accarezzarlo, "È la cosa più semplice del mondo."

L’istante successivo John pensò che Paul avesse ragione.

Fu semplice chinarsi su di lui, quasi naturale.

Fu semplice sfiorare le labbra di Paul con le sue, toccarle una, due volte.

Non poteva fermarsi.

E il fatto che Paul non lo stesse fermando né respingendo, lo incoraggiava solo a non porre mai fine al suo bacio. Anzi, desiderò e provò ad approfondirlo, solo un po', solo per controllare che fosse proprio come lo ricordava lui.

Paul sorrise quando dischiuse le sue labbra per John, permettendogli di baciarlo come desiderasse, e poi lasciò che la sua mano si intrecciasse con i sottili capelli ramati dell'uomo, mentre l'altra si appoggiò sul suo petto, all'altezza del cuore, lì dove il bacio di Paul aveva causato quel ritmo folle.

Folle proprio come si sentiva John. Si appropriò della bocca di Paul, riconoscendo quel dolce sapore di miele che lo aveva così colpito. La mano sulla sua guancia continuò ad accarezzarlo, mentre l'altra scivolò sul fianco di Paul, stringendolo e avvicinandolo a sé.

Infine, John si allontanò dalla sua bocca quel tanto che bastava per tornare a respirare e sospirare dolcemente quel nome così caro a lui.

"Paul."

Paul sorrise, mentre faceva strofinare il naso contro la guancia di John e accarezzava il suo petto.

"Cosa, John?"

Incapace di allontanarsi da lui, John fece appoggiare la sua fronte a quella di Paul, deliziandosi per la vicinanza, per il contatto, per lo stesso Paul.

"Di' la verità. Stasera sei rimasto solo per questo."

Paul scoppiò a ridere, stringendosi contro di lui, “No, ma ci sei andato vicino."

"Sul serio?" chiese John, guardandolo perplesso.

"Sì. C’è un terzo motivo per cui non sono andato via.”

“E quale sarebbe?”

“Sarebbe che…” iniziò a dire, attirando nuovamente John a se stesso, “Non ti ho ancora fatto gli auguri.”

“Oh, dannazione. È vero.” concordò John, cercando con più sicurezza ora la dolce bocca di Paul.

Paul sorrise ancora, prima di chiudere ancora gli occhi e baciare John ancora.

“Buon compleanno, John.”

E poi tutto fu dolce come miele.

Ancora.

 

Note dell’autrice: oh, oh, OH!

Ce l’hanno fatto, alleluja, stappiamo lo spumante. ;)

Non ho niente da dire su questo capitolo, spero solo che sia stato come ve lo aspettavate.

Grazie a kiki per la correzione. Grazie a paperback writer, JapanAsh_BeautifulGazette e lety beatle per aver recensito lo scorso capitolo.

Una curiosità che mi sta uccidendo: non so se qualcuno stia seguendo la mini long rossa che sto scrivendo su John e Paul, “Il quinto elemento”, ma se qualcuno lo stesse facendo, mi farebbe piacere sapere come mai stia praticamente passando inosservata. Se c’è qualche problema, sarei felice di sapere di cosa si tratta, così da poter rimediare. La potete trovare qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2765308&i=1

A martedì prossimo con il nuovo capitolo, “I’m looking through you”.

Buona giornata

Kia85

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** I'm looking through you ***


I’ll get you

 

Capitolo 19: “I’m looking through you”

 

Pioveva a dirotto, il giorno seguente.

Il cielo era di un grigio terribilmente scuro: la pioggia aveva cominciato a bagnare la città molto presto di mattina e continuò a cadere in quel pomeriggio cupo, con tanto di tuoni e fulmini. Era una situazione decisamente spiacevole, che creò molti disagi in città.

Probabilmente c'era una sola persona in tutta Londra per cui quel tempo da cani non facesse alcuna differenza.

L'ispettore Paul McCartney, infatti, tornò dal lavoro canticchiando allegramente sotto il suo ombrello. La pioggia era così fitta che il giovane uomo si era inzuppato l'orlo dei pantaloni, le maniche della giacca e anche i capelli.

Ma non importava in che stato disastrato si trovasse, né quanto fossero cupe le nubi sempre minacciose: quella per lui era la giornata più bella degli ultimi mesi. Non riusciva a smettere di sorridere. Ci aveva provato, ma ogni tentativo era risultato vano.

E il sorriso non scomparve neanche quando arrivando a casa, Paul vide il negozio di John aperto e ancora meglio, scorse lo stesso John dalla finestra, tutto intento a suonare la sua chitarra.

Il cuore di Paul perse un battito, lasciandolo stordito, senza fiato solo per un lungo, delizioso secondo.

Paul sapeva che fosse il suo modo per dirgli di andare avanti, entrare nel negozio e... e poi...

Poi John!

Mordendosi il labbro per contenere l'entusiasmo, Paul si decise a fare proprio ciò che gli stava suggerendo il suo cuore. Le sue gambe si mossero conducendolo con straziante lentezza verso il negozio dall'altra parte della strada. Quando Paul giunse alla porta, entrò e fu subito avvolto da una melodia che gli diede il più dolce benvenuto.

Sapeva che fosse John a suonare, sapeva che proprio là, oltre quella tenda, ci fosse John, lo stesso che Paul aveva baciato la sera prima.

Se ci pensava, e praticamente Paul non aveva fatto altro da quel momento, le gambe tremavano in modo incontrollabile  e il respiro gli si mozzava in gola. Eppure, nonostante questo, era una sensazione delle più piacevoli e incantevoli e-

“Ciao, Paul.”

Improvvisamente il sogno in cui Paul correva da John in quel preciso istante, il sogno alimentato dalla dolce voce di John che cantava dalla sua stanzetta sul retro del negozio, fu interrotto a causa della voce di George, che lo riportò bruscamente alla realtà.

“Ciao.” sospirò Paul, avvicinandosi al ragazzo.

“Qual buon vento?” domandò lui con un sorriso.

“Oh, io veramente-”

Paul s’interruppe dal momento che, avvicinarsi a George gli aveva permesso di sentire non solo ciò che John stava suonando, ma anche ciò che stava cantando.

“For you there'll be no more crying

For you the sun will be shining”

E proseguire la conversazione si rivelò improvvisamente il più difficile dei compiti per Paul.

La voce di John che cantava in totale solitudine era un richiamo dei più soavi, a cui era terribilmente difficile resistere.

“And I feel that when I'm with you

It's alright, I know it's right”

Tuttavia prima Paul doveva liberarsi di George.

“Sono passato per salutare John.” rispose, azzardando un sorriso e ricevendone uno decisamente più furbo da George.

“Avete fatto pace, eh?”

Paul arrossì violentemente, mentre nella sua testa si riversavano immagini di come lui e John avessero fatto pace, immagini alimentate dalla voce sempre calda e vellutata dell’uomo nella stanza accanto.

“To you, I'll give the world

To you, I'll never be cold”

“Sì.” rispose Paul, annuendo.

George si lasciò andare a un evidente sospiro di sollievo, “Meno male. John era diventato insopportabile, sempre a sospirare in modo inconsolabile. Decisamente fastidioso, sai.”

Ma se da una parte pensare a John in quello stato faceva stringere con dolore il cuore di Paul perché sapeva che era stata colpa sua, dall’altra gli faceva anche un piacere immenso, sapere che lui, proprio Paul, potesse avere così tanto potere sull’umore di John.

E non era in fondo lo stesso per Paul? Anche lui non era stato affatto bene in quei giorni lontano da John, era in una situazione di costante disagio, come se nessun altro al mondo potesse farlo stare bene di nuovo.

“'Cause I feel that when I'm with you

It's alright, I know it's right”

Come se nessun altro fosse giusto per lui. Proprio così.

"Mi dispiace, ma l'importante è che abbiamo risolto, no?" gli chiese Paul.

George lo guardò per un istante, gli occhi appena socchiusi, quasi volesse leggere qualcosa più in profondità in Paul. Qualcosa che era custodito gelosamente nel suo cuore, e Paul deglutì, cercando di chiudere e proteggere ancor di più questo suo sentimento per John, non ancora sicuro di poterlo condividere con George.

“And the songbirds are singing

Like they know the score

"Certo. Ora tornerà tutto come prima?"

Paul si morse il labbro: non pensava davvero che sarebbe tornato tutto esattamente come prima, ma decise che per il momento era questo che George potesse pensare di lui e John.

Così annuì, sorridendo, "Tutto come prima."

"Allora sai dove trovare il nostro John." gli disse George, indicando la stanza da cui proveniva il canto.

Paul seguì l'indicazione e sussultò, prima di ringraziare George e avvicinarsi con delizioso timore alla sua meta.

“And I love you, I love you, I love you

Like never before

Quando Paul scostò leggermente la tenda, un brivido percorse tutta la sua schiena, un brivido caldo, come se le parole cantate da John fossero riverberate contro il corpo di Paul.

Quando poi vide John, seduto di spalle, lo sguardo chino sulla propria chitarra, fu come se il cuore di Paul fosse impazzito tutto d'un tratto, battendo violentemente contro il suo petto, la sua gola, le orecchie...

“And I wish you all the love in the world

But most of all, I wish it from myself”

Chissà, forse John aveva sentito i battiti folli del suo cuore, perché all'improvviso si fermò e si voltò.

E solo allora Paul poté liberare quel sorriso che voleva mostrarsi in tutta la sua gioia e luminosità da quando aveva messo piede nel negozio.

Lo stesso sorriso che apparve sul viso di John.

"Paul?!" mormorò leggermente stordito per l'improvvisa apparizione, "Che sorpresa."

Paul si decise a entrare definitivamente nella stanza, assicurandosi di chiudere bene la tenda dietro di sé. John lo osservò senza poter in alcun modo eliminare o anche solo attenuare quel sorriso che stirava le proprie labbra.

Ma come avrebbe potuto farlo, e perché soprattutto? La visione di Paul a due passi da lui, con i vestiti e i capelli bagnati dalla pioggia incessante di quel giorno era un incanto. Nonché una vera e propria magia.

John stava cantando quella canzone pensando a lui, e magicamente Paul era apparso. Sembrava quasi che avesse sentito i pensieri di John e seguito il suo richiamo.

"Mi dispiace di averti disturbato."

"Nessun disturbo." lo rassicurò John, "Da quanto sei lì?"

"Da un po'." rispose Paul, vagamente, scrollando le spalle, "Ma prima ero di là a parlare con George e ho potuto ascoltare la canzone."

"È quella che volevo suonare con te." spiegò John.

C'era una nuova timidezza che stava guidando i suoi gesti, la sua voce, ma a lui non importava. Andava bene così.

"Ah beh, allora sono lieto di non averla suonata anche io." affermò Paul con una piccola risata, che tuttavia lasciò John interdetto, con la fronte crucciata.

"Perché?"

"Perché cantata e suonata da te era… magica."

John rise, sollevato e compiaciuto, prima di iniziare a riporre la chitarra nella sua custodia, dal momento che qualcosa di più interessante stava aspettando proprio lui, "Esagerato."

"Non è vero. Mi piace molto sentirti cantare. In effetti... lo adoro." spiegò Paul, arrossendo lievemente perché ora John si stava avvicinando a lui.

"Grazie." mormorò lui con calore.

Gli occhi di Paul si spostarono velocemente dalla custodia con la chitarra, a John che era ormai a pochi passi da lui. Non sapeva per cosa fosse più dispiaciuto, se per la chitarra abbandonata o per John ancora così maledettamente lontano.

Decise di optare per mantenere un minimo di decoro, e la prescelta fu la chitarra.

"Ma perché ora hai messo via la chitarra?” chiese, protestando vivacemente.

“Perché ci sei tu, che domande!” spiegò John, divertito, e non poté fare a meno di notare quell'euforia, causata dalla sua risposta, che ora tentava disperatamente di tirare gli angoli della bocca di Paul.

Paul stava ovviamente trattenendosi, non ancora sicuro di come dovessero proseguire ora le cose tra loro due.

Tuttavia doveva ritenersi un ragazzo fortunato, molto fortunato, perché John aveva una certa idea e aveva tutte le intenzioni di metterla in pratica.

“Ma non voglio farti smettere di suonare." protestò nuovamente Paul, "Non volevo davvero disturbarti, anzi sarà meglio che me ne vad- Ehi!”

Il suo braccio fu afferrato e tirato da John, e l’istante successivo Paul andò a sbattere contro il corpo dell'altro uomo.

“Paul, sta' zitto, ok? Sei in assoluto il più bel motivo per smettere di suonare.”

Paul si lasciò scappare una risatina, una decisamente più rilassata ora, e fece scivolare le braccia intorno alla vita di John, mentre questi stringeva le sue al collo del giovane ispettore.

“Bene, allora.”

John chiuse gli occhi per un istante, appoggiando la fronte a quella di Paul, sorridendo perché il respiro dell’uomo gli solleticava la pelle del viso. Era straordinariamente, e cosa assai più importante, ancora vicino a lui.

Aveva passato l’intera notte a ricordare quanto fosse accaduto dopo la sua festa di compleanno e ogni volta che chiudeva gli occhi, Paul lo baciava ancora. Solo che a differenza di quel primo, impacciato bacio che Paul gli aveva donato in un attimo di confusione, questa volta John aveva la certezza che fosse voluto da entrambi. Non gli bastava più sognare che Paul lo volesse tanto quanto lo stesso John, ora poteva semplicemente aprire gli occhi e Paul sarebbe stato ancora lì, pronto a baciarlo di nuovo. E John non vedeva l'ora perché sapeva che sarebbe stato ancora meraviglioso, se non di più: sarebbe stato più appassionato, più pensato. Aveva senso? John non ne era convinto, ma c'era solo un modo per scoprirlo.

Così aprì gli occhi, e quando vide Paul sorridergli teneramente, fremette tra le sue braccia.

“Ciao.”

“Ciao.”

“Sai, credo proprio che sia appena accaduta una vera magia.” gli disse John, ridacchiando.

Paul si lasciò contagiare (era così facile ormai) e rise anche lui, “Che tipo di magia?”

“Beh, ho pensato a te tutta la notte, e poi tutta la mattina-”

“Ma non mi dire!”

“…e tutto il pomeriggio.” continuò John, “E ora eccoti qua. Se non è una magia questa...”

“Oh, capisco.” affermò Paul, rapito, “Ed è una bella magia?”

"Ci puoi giurare. Sono molto contento che tu sia qui." gli disse John.

"E io sono molto contento di essere qui." ribatté Paul, quando le braccia di John si strinsero un po’ di più intorno a lui, causando un piccolo ma coinvolgente sussulto del suo cuore.

John per tutta risposta mormorò dolcemente, socchiudendo gli occhi, "Mm, sembra perfetto."

"Lo è, John." concordò Paul, “Lo è.”

John tornò a guardarlo, allontanando di poco la testa da quella del perfetto giovane uomo intrappolato tra le sue braccia, e portò una mano sulla sua guancia che divenne all’improvviso di un tenue color rosso pomodoro.

"Sai cos'altro sarebbe perfetto?"

La domanda di John fu posta con gli occhi di uno profondamente immersi in quelli dell’altro, e Paul permise a un brivido di attraversarlo dalla testa ai piedi.

"Cosa?" domandò senza fiato.

"Un appuntamento."

"Un cosa?"

"Hai sentito."

"Un appuntamento?” ripeté Paul, battendo le palpebre perplesso, “Un vero appuntamento?"

"Sì, certo. Un appuntamento! Hai presente, tu, io, un posto romantico... Che ne dici?"

Paul arrossì lievemente. Non si aspettava di certo di rimediare un appuntamento con John, quando era entrato nel negozio. Non che gli dispiacesse, sia chiaro, solo che suonava ancora strano per lui, vivere questa situazione con John.

Molte volte era uscito con John, prima che tutto si trasformasse in qualcosa di più profondo, ma ora sarebbe stato diverso: sarebbero stati solo lui, John e quel nuovo, pazzesco sentimento che li univa.

Paul aveva paura, di che cosa non sapeva, ma sarebbe stato con John, ed era solo questo che contava. Insieme ce l’avrebbero fatta. John sembrava davvero sicuro e convinto che sarebbe andato tutto bene, come il giorno in cui gli aveva chiesto di aiutarlo a suonare la chitarra, il giorno in cui era iniziata tutta questa storia.

Un passo alla volta, gli aveva detto John.

Beh, avrebbero fatto un passo alla volta anche in questa occasione.

Così Paul si ritrovò a sorridere a John, sorridergli con sincerità, con affetto, con dolcezza.

"Dico che sarebbe fantastico."

"Fantastico è proprio l'aggettivo che stavo cercando." commentò John, rivolgendogli un occhiolino sfacciato.

"Per cosa?"

"Oh, per un sacco di cose: per il nostro appuntamento, per questo momento, per il bacio di ieri sera..." esclamò John, e man mano che si avvicinava nuovamente a Paul, la sua voce divenne sempre più bassa, più calda, più vibrante, "Ti ricordi il bacio di ieri sera, Paul?"

"Forse vuoi dire i baci." lo corresse Paul.

"Proprio quelli. Non erano fantastici?" domandò John, lasciando che la sua mano si spostasse ora nei capelli di Paul.

Ma lui arricciò il naso, fintamente pensieroso, cercando di ricordare con precisione ricordi che in realtà erano ancora più che vivi in lui.

"Non saprei."

"Ah no, eh?" esclamò John, con il tono di chi la sapeva molto lunga.

"Dovrei rivivere di nuovo quell'esperienza, sai, per potermi esprimere con obiettività." gli fece notare Paul, l'espressione più maliziosa stava danzando sul suo bel viso.

John si sentì tutto d’un tratto ammaliato, rapito dal suo sguardo, totalmente in balia di Paul, proprio come sotto l'effetto di un incantesimo.

E quell'incantesimo gli chiedeva solo di baciare Paul. Ora.

"Vieni qui, allora, ci penso io a rinfrescarti la memoria." mormorò John e fece per attirarlo a sé.

Ma proprio quando le sue labbra erano ormai a un centimetro da quelle di Paul, George lo chiamò a gran voce facendo sussultare entrambi.

"John! Muovi il culo, ti vogliono al telefono."

È finita la magia, pensò John sbuffando per il richiamo decisamente poco delicato di George.

Paul lo guardò comprensivo, e lasciò che si allontanasse da lui per affacciarsi dalla tenda.

"Chi è, George?"

"Cynthia. Dice che ti ha chiamato sul cellulare, ma non rispondevi."

John sospirò, abbassando il capo, sconfitto, "Dille che la richiamo tra un istante."

George acconsentì, e subito dopo John tornò da Paul e gli prese le mani, stringendole teneramente.

"Scusa per l'interruzione."

"Non ti preoccupare. Tanto devo andare a casa a togliermi questi vestiti bagnati, se non voglio prendermi il raffreddore." spiegò Paul, mentre tutto il calore che gli aveva offerto John nei minuti precedenti stava affievolendosi, rammentando l'umidità più che evidente dei suoi abiti.

John rise, quando Paul fu percorso da un brivido, e cercò di strofinare le mani sulle sue braccia per riscaldarlo.

"Dicono che domani farà bel tempo." esclamò John.

"Oh, e scommetto che pensavi a domani per il nostro appuntamento."

"Sì, per te va bene?"

Paul annuì, sospirando un accorato, "Sì."

"Allora fatti trovare fuori casa per le tre."

"Così presto?" ribatté Paul, lievemente sconcertato, "Dove andiamo?"

"È una sorpresa." spiegò John, toccandogli affettuosamente la punta del naso con un dito, "Quindi niente domande, grazie."

"D'accordo."

"Allora ci vediamo domani?"

"A domani, John." gli confermò e poi si avvicinò per posare un piccolo bacio sulla sua guancia.

Il viso di John si colorò di un rosso molto tenue, ma Paul non mancò di notarlo e prima di andare via e sparire oltre la tenda, gli rivolse un sorriso che era sì, dolce, ma anche tinto di una punta di malizia, un mix pericoloso che fece tremare le gambe di John.

E quando Paul se ne andò, John si lasciò cadere di nuovo sulla sedia, sorridendo a nessuno in particolare.

Da quanto tempo non provava più questa sensazione perfetta e deliziosa di impotenza e insieme invincibilità? Troppo. Ma ora eccolo lì, si era tuffato di nuovo in una situazione simile con Paul, Paul che rendeva tutto cento volte più eccitante perché era incredibile e perché...

Perché era tuttora l'uomo che gli stava dando la caccia.

Dio, John doveva essere il più folle dei masochisti. E se George avesse saputo tutta la verità sulla nuova natura dei rapporti che intercorrevano tra John e Paul, avrebbe detto la stessa cosa.

Ma George non poteva saperlo, non ancora almeno.

Ora John voleva solo assaporare fino in fondo questo sentimento e voleva farlo con Paul, solo con lui, perché chiunque altro avrebbe rovinato ciò che entrambi provavano.

E questo non poteva avvenire, soprattutto alla vigilia del loro fatidico primo appuntamento.

Doveva andare tutto bene, doveva essere perfetto, una giornata perfetta in un luogo perfetto.

Qualcuno potrebbe obiettare che la perfezione non esiste.

Beh, forse quel qualcuno non ha fatto i conti con John Lennon, con i suoi progetti, con la sua convinzione, e soprattutto con il suo cuore.

****

L'indomani pomeriggio c'era davvero bel tempo, come aveva previsto John. Il cielo era limpido, azzurro come non lo era mai stato da molto tempo. O forse era semplicemente Paul che guardava tutto con occhi diversi, occhi per cui tutto era bello, senza alcuna imperfezione.

Paul si lasciò scappare una risata, mentre si preparava per uscire. Quel giorno si sentiva strano, combattuto: da una parte era follemente eccitato per questo appuntamento, ma dall’altra parte era inutilmente, stupidamente terrorizzato. L’idea di passare tutta la giornata con John, conoscerlo meglio, stare da solo con lui, accendeva in Paul un miscuglio di emozioni così diverse fra loro che si annullavano a vicenda per lasciarlo in un piacevole e leggerissimo stato di intorpidimento.

Era un caso disperato, ecco cos'era.

Se si fosse guardato allo specchio, non avrebbe più visto quel ragazzo impettito, serio, che era giunto da Liverpool alla ricerca di un'opportunità.

Avrebbe invece visto un uomo con i suoi stessi occhi e le sue stesse labbra, che, tuttavia, erano anche molto diversi. C'era una nuova ragione di entusiasmo dietro quel suo perenne sorriso, e una nuova ragione di vita che faceva brillare i suoi occhi.

Era diverso, lo sapeva, era diverso in profondità dentro di lui. Dio, aveva perfino ascoltato della musica di sua spontanea volontà, mentre si preparava. Ed era tutto merito di John.

Quando giunse l'ora prestabilita, Paul si infilò la giacca, diede un'ultima aggiustatina ai capelli di fronte allo specchio, uscì e…

E rimase a bocca aperta.

John era lì, proprio davanti la porta di casa sua, in sella a una moto scintillante.

"Ciao, Paul." lo salutò John, sorridendo sornione.

Paul si avvicinò, ridendo divertito, "E questa?"

"È mia." rispose John, dando un'affettuosa pacca alla moto.

Paul spalancò gli occhi, sorpreso, "Tua?"

"Proprio così." affermò John, orgoglioso e soddisfatto perché la sua sorpresa stava decisamente riuscendo.

"Non mi hai mai detto di avere una moto."

"Oh, piccolo." sospirò John, "Ci sono così tante cose che devi ancora scoprire di me."

"Non vedo l'ora." esclamò Paul, sorridendogli maliziosamente.

John sussultò, ma scosse il capo prima di potersi crogiolare nel desiderio di Paul.

"Vogliamo andare?" chiese poi, porgendogli il casco.

Paul si morse il labbro, esitando nell'accettare quell’offerta. Non gli erano mai piaciute le moto, almeno, non gli piaceva viaggiare con un mezzo simile. Lo riteneva piuttosto pericoloso.

"Cosa c'è? Non ti fidi a salire con me sulla moto?” domandò John, con una risata, “Guarda che sono bravissimo."

Il sorriso e le parole di John tuttavia avevano lo straordinario potere di infondergli una fiducia infinita in lui, e allontanare qualunque paura.

Perciò Paul sospirò, scrollando le spalle, "Se lo dici tu..."

"Andiamo, Paul." lo incoraggiò John, punzecchiandolo dolcemente sul fianco.

Paul si contorse per un istante, e così facendo gettò al vento qualunque esitazione potesse ancora fermarlo e prese il casco. Lo indossò, assicurandosi di allacciarlo bene sotto il mento, mentre John faceva la stessa cosa.

Dopodiché sollevò una gamba e si sistemò dietro John.

"Tieniti forte." gli disse John, prima di abbassare la visiera del casco.

Paul obbedì e fece scivolare le braccia intorno alla vita dell'uomo, stringendole poi con forza. L'istante successivo John mise in moto e partì. La spinta iniziale fece barcollare leggermente Paul all'indietro; così si affrettò subito ad aggrapparsi di più con le braccia a John.

Non aveva idea di dove John lo stesse portando e per il momento, nonostante Paul fosse piuttosto ansioso sia per l’appuntamento che per quella maledetta moto, decise di godere di quel viaggio. La moto sfrecciava sicura e sinuosa per le strade di Londra, e Paul poté ammirarne la bellezza abbracciato a John, sentendo il suo calore tra le sue braccia e il suo cuore battere fortemente nel suo petto. Era all'unisono con quello di John.

Che incredibile emozione, poter vivere tutto questo insieme a John. Non che Paul non fosse mai andato in moto né che avesse mai visitato Londra. Ma insieme a John, sperimentare questo per la prima volta con John, vedere le stesse cose con lo stesso sentimento folle che riscaldava il petto, rendeva tutto perfetto.

Era come se stessero guardando l'uno con gli occhi dell'altro.

Quando infine giunsero a destinazione, John parcheggiò la moto, mentre Paul scese con entusiasmo e si tolse il casco, sistemandosi alla bell'e meglio i capelli schiacciati. Il giovane si guardò brevemente intorno: erano a Richmond Park, come diceva il cartello all'entrata, uno dei parchi più belli, più grandi, più importanti di Londra.

Paul non era mai stato lì e all'improvviso si sentì elettrizzato per avere la possibilità di visitarlo. Sempre che quella fosse l'intenzione di John.

Sorridendo fra sé, Paul si voltò verso l'uomo e si avvicinò a lui, ancora in sella alla sua moto, tutto intento a togliersi il casco.

"Allora era questa la destinazione misteriosa? Richmond park?"

"Sì." rispose John, sistemandosi i capelli con una mano, "In autunno è stupendo, lo sai?"

"Ne sono sicuro.” affermò Paul, avvicinandosi, “E cosa prevede il programma? Una passeggiata solo io e te?”

John arricciò le labbra, “Sarebbe carino.”

“Magari mano nella mano?" gli chiese con un filo di voce, sfiorando le sue dita.

John chinò il capo per guardare la sua mano stringere quella di Paul, prima di tornare ai suoi occhi, "Perché no?"

"Allora sembra proprio che ci aspetti un pomeriggio indimenticabile." concluse Paul, compiaciuto.

"Lo sarà, fidati." disse John, facendo scivolare un braccio intorno alla vita di Paul per attirarlo a sé e portando l'altra mano sul ciuffo dell'uomo per aggiustarlo, "Sarà perfetto."

L’ispettore rise dolcemente e avvolse le braccia intorno al collo di John, "Non ti facevo così romantico."

"Te l'ho detto.” continuò John, sporgendosi verso di lui alla ricerca di un bacio, “Devi ancora scoprire molte cose su di me."

Le parole di John furono sospirate sulle labbra di Paul, che fremette visibilmente, pronto ad abbandonarsi sulla bocca dell’altro uomo.

Ma il cellulare nella tasca di John cominciò a suonare prepotentemente e il suo trillo giunse come il più inaspettato e indesiderato degli eventi.

John sbuffò rassegnato, quando lasciò andare Paul per recuperare il cellulare.

“Mi dispiace." si affrettò a scusarsi, senza poter nascondere la sua delusione, "Lo tengo sempre acceso ultimamente, sai, da quando Jules è…”

John s'interruppe, abbassando lo sguardo, mentre il ricordo di quella spiacevole giornata tornava a farsi dolorosamente vivo in lui.

“Non ti preoccupare, John." lo rassicurò Paul, accarezzando il suo avambraccio, "È più che comprensibile.”

“Grazie.”

John controllò il messaggio appena arrivato e sospirò.

"Qualche problema?" s’intromise con cautela Paul, non gradendo l'ombra buia che calò sul volto di John.

"È Cynthia." rispose John, alzandosi dalla moto.

"Oh." si lasciò scappare Paul, "C'è qualche problema?"

"No, no, è solo che vuole che le lasci ancora Julian." spiegò John, prendendo entrambi i caschi e sistemandoli sotto il sellino della moto.

Aveva bisogno di qualcosa con cui distrarsi, mentre parlava con Paul di quell'argomento che era sempre stato il suo punto debole.

"E tu? Non sei d'accordo?" gli domandò Paul, interessato.

"Oh sì, ma certo. È che... Vedi, stavo facendo un buon lavoro con le mie paure di genitore. Poi però..."

"Poi quell'incidente ha annullato il tuo lavoro." concluse Paul per lui.

John lo guardò sorpreso per un istante, prima di annuire mestamente e chinare lo sguardo distratto sulla sua moto.

"Oh, John." sospirò Paul, avvicinandosi a lui e abbracciandolo da dietro, "Capisco quanto tu sia insicuro ora, ma è normale. È la naturale conseguenza di uno spavento come quello che hai preso con la caduta di tuo figlio. Ma devi sempre, sempre ricordare che tu sei suo padre, e l'amore che continui a mostrargli non è facilmente dimenticabile. Soprattutto per un bambino affettuoso come Julian."

John sorrise fra sé, quando Paul concluse la sua rassicurazione con una dolce stretta delle sue braccia.

"Grazie, Paul." mormorò, ricoprendo le braccia dell'uomo con le proprie.

"Va meglio?" chiese preoccupato Paul.

"Sì, tranquillo." rispose John, voltandosi verso di lui con un sorriso che confermava l'effetto positivo delle sue parole, "Ma ora non dobbiamo pensare a me. Occupiamoci del nostro appuntamento."

Paul sorrise e annuì vigorosamente, prima di sciogliersi dall'abbraccio di John.

"Allora..." iniziò Paul, tendendo una mano verso di lui, "Vogliamo andare?"

John guardò la sua invitante mano per un attimo, prima di sorridere e afferrarla con decisione, stringendola come per non farla scivolare via dalla sua presa.

"Andiamo."

****

“Allora è per questo che sei andato via la scorsa settimana?”

“Esatto.”

Paul annuì, sorridendo: aveva appena raccontato a John della nascita della sua nipotina, mentre erano tranquillamente sdraiati nel parco, in mezzo a una radura con pochi alberi di faggio.

I raggi del sole che tramontava riverberavano tra le foglie delle fronde colorate con sfumature che andavano dal giallo brillante al rosso acceso, e nella radura c’era una foschia che rendeva tutto il paesaggio incantevole, quasi magico.

Era un connubio strano, quasi assurdo, tutti quei colori caldi, morbidi, immersi in quel freddo pungente di inizio autunno.

Tuttavia Paul non poteva davvero dirsi infreddolito: non dopo aver passeggiato mano nella mano con John per gran parte del pomeriggio, né dopo bevuto una tazza di tè caldo e mangiato pasticcini a volontà in riva a uno dei pittoreschi laghi del parco, e certamente non stando in quella posizione, sdraiato accanto al corpo di John.

Come poteva sentire freddo, con John che si era sistemato su un fianco e lo guardava ora con occhi carichi di quel sentimento già di per sé pieno di calore?

Beh, non poteva, anzi, doveva ammettere che stava proprio bene in quel momento.

“E come è stato?” continuò John.

“Cosa?”

“Tenere in braccio la tua nipotina.”

“Oh, quello.” rispose Paul, facendo vagare lo sguardo sugli alberi che li sovrastavano, “È stato strano. Non avevo mai tenuto in braccio un neonato. All’inizio avevo paura di farla cadere, sembrava infinitamente piccola e fragile, ma quando mi sono rilassato, ho scoperto che è la cosa più semplice e più bella del mondo.”

John annuì lentamente, concordando con lui, prima di confessargli ciò che aveva occupato i suoi pensieri in quei giorni di assenza di Paul, “Pensavo fossi andato via per colpa mia.”

Paul voltò la testa verso di lui e lo guardò sorpreso, “Colpa tua?”

“Perché ti ho respinto quando ti sei offerto di stare con me quella sera.” spiegò John, arrossendo lievemente.

“Oh no, John, non dovevi proprio pensare una cosa simile.” ribatté Paul, accorato.

Tuttavia John protestò, sinceramente dispiaciuto, “Ma tu ci sei rimasto male, l’ho capito.” 

“Sì, è vero, ma capisco anche che quella sera non stavi bene, e forse era giusto che restassi da solo con tuo figlio.” lo rassicurò Paul, portando una mano sulla sua guancia, accarezzandola poi delicatamente.

“Quindi non sei arrabbiato per quel motivo?”

La domanda di John fu posta con timore e incertezza e Paul non poté proprio trattenere un sorriso, “Mai stato arrabbiato.”

“Ah dio.” sospirò infine John, felice, “Non sai che sollievo sentirtelo dire. Mi sentivo tremendamente in colpa.”

“Andiamo, John, non ci pensare più.” affermò Paul, spostando la mano sulle labbra sottili di John, “Pensa invece a qualcos'altro.”

“Per esempio?” domandò malizioso John, contro i polpastrelli morbidi di Paul.

Paul ridacchiò, divertito per la sensazione di formicolio sulle dita causata dalle parole di John, e si alzò in piedi, incoraggiandolo a fare la stessa cosa.

“Ho voglia di sgranchirmi le gambe.”

John sorrise, prima di afferrare entrambe le mani di Paul e tornare al suo stello livello.

"Posso tenerti ancora per mano?"

"Secondo te perché ho voglia di camminare?!" esclamò Paul, facendogli l'occhiolino.

John trovò assolutamente adorabile il modo in cui Paul flirtasse con lui: era impertinente e insieme dolce. Un mix potente, non c'era alcun dubbio, gli conferiva un carisma che affascinava John ogni giorno di più. E realizzando questo, John provò nuovamente il desiderio di baciarlo, ma a malincuore resistette: non era il momento perfetto per baciare ancora Paul.

Così John si lasciò prendere per mano e condurre verso nuovi sentieri del parco. Attraversarono piccole radure in cui si potevano facilmente scorgere cervi e daini pascolare in tutta tranquillità, ormai abituati alla presenza dei passanti, poi la piantagione di Isabella, così caratteristica e colorata, con piccoli e incantevoli ruscelli che scorrevano attraverso, e infine, quando il sole scomparve, lasciando nel cielo solo la sua scia rossastra, raggiunsero la collinetta.

Da qui si poteva ammirare un panorama suggestivo. Il versante della collina di un bel verde acceso, alternato a boschetti con i caratteristici colori autunnali, scendeva dolcemente per aprirsi su uno squarcio caratteristico della città di Londra, in cui spiccava l'imponente cupola della cattedrale di St. Paul.

Le luci della città cominciavano a spiccare nel cielo che volgeva all'oscurità della notte, rendendo tutto semplicemente mozzafiato.

Era perfetto, pensò John.

Quello era il momento perfetto, con il viso di Paul che si illuminò di sorpresa per essersi imbattuto un po' per caso in questo panorama.

Il giovane ispettore lasciò la mano di John per avvicinarsi a un punto da cui potesse vedere meglio ciò che veniva offerto ai suoi occhi affascinati.

"Guarda, John."

Paul raggiunse un lampione in stile Vittoriano, che lentamente stava accendendosi, e si voltò verso John, facendogli cenno di raggiungerlo.

Cosa che fu puntualmente realizzata.

John poteva vedere con facilità che Paul fosse quasi ammaliato da quanto stesse vedendo: le luci di Londra si estendevano sotto di loro, luci che si riflettevano e brillavano negli stessi occhi di Paul, e fu proprio lì che John poté ammirare lo stesso paesaggio.

Gli occhi di Paul erano come un vero specchio, solo che la cornice del suo volto rendeva tutto mille volte più incantevole.

John ne era semplicemente rapito.

"Non è bellissimo?" chiese Paul, sorridendo fra sé.

"Oh sì."

Paul sussultò visibilmente al sospiro appassionato di John e si voltò, non del tutto pronto a ricevere il suo sguardo ardente.

Mai era stato guardato in quel modo, e diamine, se non era la cosa più meravigliosa che gli fosse mai capitata. Avrebbe voluto essere guardato così da John per sempre.

E nel momento in cui realizzò che in effetti John l'aveva sempre guardato così affascinato, Paul non poté più trattenersi e allungò le mani per afferrare il colletto della camicia di John e attirarlo a sé, prima che qualunque altra cosa potesse interromperli ancora.

Lo baciò con dolcezza e fervore, abbandonandosi con la schiena al lampione dietro di sé, e cercò di comunicargli con quel gesto tutte le emozioni che John aveva acceso in lui durante quella giornata.

John sembrò capire perfettamente, mentre lo sospingeva di più contro il lampione. Sorrise nel bacio, pensando che fosse ancora meglio di quanto si aspettasse. Non era solo più appassionato, era soprattutto più consapevole di quanto stesse accadendo, di quanto fosse potente il sentimento che aveva dato vita a quel gesto. In balia di un tale ardente pensiero, John non poté trattenere le sue mani che si mossero desiderose, scivolando sul petto di Paul fino a cingere i suoi fianchi, tremando nel momento in cui Paul strinse le braccia intorno al suo collo e si lasciò scappare un piccolo sospiro tra le sue labbra.

Il cuore di John sussultò con gioia, anche se pochi istanti dopo, lui si allontanò dall'uomo quel tanto che bastava per riprendere fiato.

"Cominciavo a pensare che non sarei riuscito a baciarti neanche oggi." sospirò John, causando una piccola risata da parte di Paul.

"Penso che a un certo punto uno dei due l'avrebbe fatto. In qualunque modo."

"Lo credo anche io." mormorò John, prima di nascondere il viso nell’incavo del collo di Paul, che profumava del suo dopobarba e di quella giornata trascorsa insieme.

Il giovane sorrise quando John accarezzò la sua pelle con le proprie labbra, e il suo sguardo, i suoi occhi si chiusero con abbandono per assaporare fino in fondo le incredibili sensazioni trasmesse da John, quel delicato formicolio, quel piacevole incendio causato dalle sue carezze e dai suoi baci.

“Credo che stiano per chiudere il parco.” sbuffò a malincuore Paul pochi istanti dopo.

"Perché?"

"Perché fuori c'era scritto che chiudeva al tramonto." spiegò Paul, provando ad allontanare John, "E noi siamo al tramonto."

Tuttavia John si limitò a ridere dolcemente contro di lui.

“Oh no, piccolo, noi non siamo al tramonto." disse prima di tornare alla sua precedente attività, "Siamo solo all'inizio.”

****

“Quando posso rivederti?”

La domanda di Paul arrivò alla fine della giornata, una volta tornati a casa quella sera tardi. Erano entrambi vicino alla porta dell’appartamento di John, e lui aveva fatto segno all’ispettore di parlare a bassa voce per non attirare l’attenzione di George e Pattie che facevano da babysitter a Julian.

“Quando vuoi, Paul. Il più presto possibile, diciamo.” commentò John.

“Sono d’accordo.” esclamò Paul, ridendo, mentre John lo attirava a sé con una mano sulla schiena e gli rubava un ultimo, rapido, ma palpitante bacio.

“E’ stato incredibile oggi, John." affermò Paul, il tono trasognato, "Grazie mille.”

“Grazie a te.”

“Mi sono divertito.”

“Anche io, molto.”

Paul arrossì appena, quando le braccia di John lo strinsero un po’ di più.

“Ma io ho potuto imparare anche nuove cose su di te.”

John si lasciò scappare una risata, mentre Paul accarezzava le sue braccia ancora avvolte alla propria vita, “Cose belle spero.”

“Bellissime.” gli sussurrò all’orecchio Paul.

Così facendo, John fu attraversato da un violento brivido che fece fremere ogni fibra del suo essere, lasciandolo stordito per un istante. Poi Paul appoggiò una mano sulla sua guancia, accarezzandolo brevemente, rivolgendogli un dolce sguardo.

“Allora ci vediamo presto.”

“Sì, buonanotte, Paul.” sbiascicò John, lasciandolo andare a malincuore.

“Buonanotte.” rispose lui, avviandosi verso casa, soffermandosi solo un altro istante per voltarsi a guardarlo, così spensierato, così incredibilmente felice.

John aspettò che l’uomo entrasse a casa e sospirò.

Si sentiva proprio come Paul, come se fossero appena saliti insieme sulle montagne russe, con picchi di euforia che si alternavano a momenti più delicati. Un continuo andirivieni che lo stava facendo impazzire, ed erano solo all’inizio.

In una giornata sola, John si era già aperto con Paul, mostrandogli quel lato più dolce di se stesso, quello romantico, come l’aveva definito Paul.

Eppure non gli dispiaceva.

Non gli dispiaceva affatto.

C’era un problema, però.

Quel senso di colpa che fino a quel momento John era riuscito a tenere a bada, troppo preso dal voler ottenere la felicità che potesse offrirgli Paul, ora stava tornando a scalciare violentemente, ricordando a John la sua presenza.

Perché John aveva detto bene a Paul: c’erano ancora molte cose che Paul doveva scoprire di lui.

C'era soprattutto un lato di John di cui Paul non conosceva l'esistenza.

Ed era una menzogna, una menzogna che l’avrebbe fatto soffrire disperatamente.

John era Hermes.

E per la prima volta nella sua vita desiderò non esserlo mai stato.

 

 

Note dell’autrice: buongiorno. Eccoci con il nuovo capitolo.

Innanzitutto volevo scusarmi per non aver pubblicato ieri la fine della mini long rossa, arriverà, penso, giovedì.

Poi, questo capitolo è ancora più melenso dell’altro, lol. Non mi piacciono molto i capitoli troppo melensi, ma mi sono lasciata andare stavolta, solo perché se lo meritavano questi due. :3 E dal prossimo torneremo a un livello normale (?) di fluffosità.

Grazie a kiki che ha corretto.

Grazie ad Astoria McCartney, JapanAsh_BeautifulGazette, Beatlesmusicismylife, lety_beatle e paperback writer per aver recensito lo scorso capitolo.

Il prossimo, “You can’t do that”, non è ancora terminato, sigh, ma spero di pubblicarlo come al solito martedì prossimo.

Buona giornata.

Kia85

 

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Capitolo 21
*** You can't do that ***


I’ll get you

 

Capitolo 20: “You can’t do that”

 

“John, smettila.”

"Di fare cosa?"

"Di guardarmi così."

"Così come?"

"Lo sai come."

Paul sbuffò, nonostante il divertimento cercasse di farlo sorridere a tutti i costi.

Erano nel negozio di John a suonare insieme da almeno un'ora, ma non avevano combinato granché, dal momento che John continuava a guardarlo e poi baciarlo e ancora guardarlo, gettando tutti e due in un circolo vizioso che non aveva mai fine.

Non che a Paul dispiacesse, diamine, John era impetuoso in un modo assolutamente adorabile, e Paul non poteva fare altro che sottomettersi alle sue azioni.

Tuttavia queste continue distrazioni si ripercuotevano sul loro lavoro. Avevano deciso finalmente che fosse giunto il momento di suonare insieme una canzone di Elvis, e per l'occasione a Paul era sembrata appropriata The wonder of you. La scelta era stata azzardata: aveva richiesto un notevole carico di coraggio da parte di Paul per proporla a John, ma questo non gli risparmiò un'occhiata impertinente da parte dell'altro uomo.

Solo che a Paul non importava, perché John era dolce anche quando cercava di mostrarsi malizioso e sfacciato. Come in quel momento, per esempio.

"No, no, ti prego, Paul. Voglio sentirtelo dire." esclamò John, trovando impossibile smettere di ridere.

John era certo che Paul non volesse davvero farlo smettere; sapeva invece che desiderasse ancora quello sguardo su se stesso.

“Oh maledizione, John." borbottò Paul, mettendo un finto broncio, "Sei così testardo certe volte.”

“Andiamo, Paul.” esclamò John, alzandosi in piedi e avvicinandosi all'uomo, “Dimmi come e perché dovrei smettere di guardarti.”

Paul arrossì leggermente, quando John gli prese la chitarra dalle mani e la appoggiò delicatamente per terra.

“Perché mi distrai.” rispose con un piccolo tuffo al cuore.

John annuì, comprensivo, “E questo è un problema, giusto?”

“A dire il vero , se vogliamo imparare a suonare questo brano.” commentò Paul con una risata.

“Hai ragione, piccolo.” concordò John, chinandosi per accarezzare la sua guancia, “Ma, sai, non resisto se canti per me, 'Quando sorridi il mondo è più luminoso'.”

Paul lo riprese dolcemente, “John!”

“Oppure, 'Tocca la mia mano e sono un re'.” proseguì John, stringendo la mano di Paul con la sua libera.

Paul sollevò il capo per strofinare il naso contro quello di John, trattenendo il respiro, “E poi?”

“E poi, se continui con, 'Il tuo bacio per me vale una fortuna'...” sospirò sulle sue labbra, “Non riesco proprio a trattenermi.”

Paul si sentì rapito dalle sue parole, soprattutto quando la mano di John si spostò sul suo mento per sollevarlo verso di lui.

“Dal fare cosa?”

Tuttavia la domanda di Paul non ricevette alcuna risposta. John si limitò invece a sorridergli, a un soffio dal suo naso, e quella fu l’ultima cosa che Paul vide, perché l’istante successivo chiuse gli occhi e quello ancora dopo ci fu solo John.

John e il suo bacio.

Paul fece scivolare una mano sul suo petto, strinse fra le dita la sua maglietta e lo attirò ancor di più a sé, desiderando solo lui in quel momento.

Incredibile davvero come John potesse con un gesto semplice allontanare ogni pensiero di Paul, appropriarsi di ogni spazio libero nella sua mente, nel suo cuore. Un po' prepotente, no? Ma Paul si sottometteva volentieri sempre. Era in assoluto la prima volta che provasse un tale desiderio, un desiderio che diventava di giorno in giorno più ardente.

Infine, a malincuore, John si allontanò, e passò la lingua sulle proprie labbra per imprimere il sapore di Paul nella sua memoria. Nonostante fossero passate ormai diverse settimane da quando avevano entrambi accettato i reciproci sentimenti, per John era ancora una situazione nuova. Paul, i suoi baci, il suo sapore erano ancora nuovi per lui. E tutto ciò che era nuovo lo intrigava, perché gli faceva venir voglia di esplorare fino in fondo Paul, la sua persona, la loro relazione, fino a conoscere ogni singolo angolo.

“Allora…” mormorò John, soddisfatto dell’espressione beata sul volto di Paul, “Ho risposto alle tue domande?”

Paul mormorò, distrattamente, “Sì, ma non giustificano il fatto che non siamo riusciti a suonare bene il brano.”

“Ah no?”

“No, infatti, dovremmo riprovarci qualche altra volta.” affermò Paul, alzandosi in piedi e iniziando a sistemare la chitarra nella sua custodia.

“Anche se corriamo il rischio di distrarci nuovamente?”

Paul sorrise fra sé, prima di voltarsi per rivolgergli un occhiolino impertinente, “Soprattutto per quello.”

John scoppiò a ridere, “Sei proprio un ingordo, Paul.”

“Mm, sì…” sussurrò lui, mentre John lo attirava a sé, “Lo divento un po’ quando c’è qualcosa che mi piace davvero.”

“Avresti dovuto dirmelo prima allora, mi sarei preparato psicologicamente.”

“Ansia da prestazione?”

“Un po’.”

Paul scrollò le spalle, fintamente noncurante, “Ma, sai, John, io so anche accontentarmi.”

“Vedrai che non dovrai accontentarti.” ribatté John, piccato nell’orgoglio, “Dò il meglio di me stesso quando sono sotto pressione.”

Paul rise dolcemente, lasciandosi andare a un altro piccolo bacio tra le braccia di John, ma quando l’occhio cadde sull’orologio alla parete e vide che ora stessero segnando le lancette, si destò improvvisamente, interrompendo l’idilliaco momento con John.

“Oh, mannaggia, sono in ritardo.” sbottò, allontanandosi in fretta da lui.

“Per cosa?” domandò John, totalmente sconcertato da quanto stesse accadendo, mentre Paul iniziava a recuperare le proprie cose.

“Devo vedermi con… una persona.”

John aggrottò la fronte, perplesso, “Chi?”

Paul non era convinto che fosse la cosa giusta dire a John con chi avesse un appuntamento. In realtà, era la cosa giusta da fare, Paul lo sapeva bene: per lui era fondamentale costruire un rapporto sulla sincerità, soprattutto quello con John.

Tuttavia l’idea di dover spiegare a John chi fosse la donna che stava per vedere, non lo allettava. Quell’uscita era stata un errore. Certo, gli aveva fatto capire quanto stesse sentendo la mancanza di John, ma non era stato un comportamento corretto verso di lei. Motivo per cui Paul aveva organizzato quell’incontro.

"Linda." rispose vagamente, sistemando la chitarra nella sua custodia.

"Di nuovo, chi?"

"Linda.” sospirò Paul, decidendo infine di voltarsi.

Meglio affrontare un simile discorso guardandosi negli occhi.

“È uno dei miei agenti scelti. Siamo usciti insieme, sai, prima che noi due-"

"Siete usciti insieme?" lo interruppe John, gli occhi spalancati.

Paul annuì, titubante per il fatto che John stesse ripetendo le sue parole. Anche la sua espressione era tutt'altro che tranquilla.

"Sì. Era il periodo in cui siamo stati lontani, ma non è successo niente." si affrettò a spiegare.

John guardò Paul negli occhi per un lungo momento, decidendo infine che stesse dicendo la verità. Certo, perché avrebbe dovuto mentire? Paul era sempre stato sincero con lui, a differenza di John. Forse aveva mentito solo quando gli aveva detto di non volere nulla di più profondo di una semplice amicizia.

Così annuì, ma nonostante fosse convinto della sua sincerità, il gesto apparve come incerto. Che fosse a causa di quel sentimento che gli strinse il cuore con dolore quando immaginò Paul con quella donna?

"Per caso sei geloso, John?" domandò Paul e la sua domanda combaciò perfettamente con quella che risuonò nella sua testa.

"Cosa?" esclamò, sorpreso, John.

"Ti ho chiesto se sei geloso." ripeté lui, mentre si stava sforzando per non ridere.

"Geloso?” sbottò John, profondamente indignato, “Io?"

"Oh sì, tu." esclamò Paul, sorridendo infine divertito, "Sei proprio geloso."

"E tu sei fuoristrada." sbuffò John, voltandosi per sistemare la sua chitarra.

Tuttavia, subito dopo sentì il petto caldo di Paul adagiarsi contro la sua schiena, le braccia avvolgersi intorno alla sua vita e il naso sfiorare il suo orecchio.

"Non devi essere geloso, John.” lo rassicurò dolcemente, “Non conta  per me."

John rabbrividì tra le sue braccia, i suoi dubbi ormai scoperti con facilità da Paul.

"Sei sicuro?" domandò, voltandosi nel suo abbraccio, senza scioglierlo.

"Sicurissimo. Sono uscito con lei solo per ripicca.” spiegò Paul, “Non riuscivo ad accettare quanto fossi diventato importante per me."

"Ora sì?"

"Sì.” sospirò, chiudendo gli occhi e sorridendo, “Per questo voglio parlarle e dirle tutta la verità. Non mi sono comportato bene con lei."

John si morse il labbro per un istante, prima di annuire, rassegnato, "Capisco."

"Invece tu dovresti dirlo a George." affermò poi Paul, puntando il dito sul suo petto, lì dove le sue stesse parole avevano creato un improvviso vuoto d'aria.

"Cosa?"

"È il tuo migliore amico, John.” gli fece notare il giovane, “Devi dirgli di noi due. Non mi va di continuare a fingere di fronte a lui e parlare a bassa voce qui, nella tua stanza, per non farci scoprire."

"Ma-"

"Ma niente.” esclamò Paul, interrompendo qualunque protesta di John, “Sono sicuro che capirà perché è tuo amico."

John avrebbe voluto ribattere che mai e poi mai George avrebbe capito, ma questo comportava una spiegazione che Paul non avrebbe mai accettato. George lo avrebbe rimproverato, e avrebbe anche potuto abbandonarlo per sempre. Tuttavia Paul aveva ragione, John doveva dirglielo, a tutti i costi.

"Ci proverò." sospirò infine.

"Perfetto." esclamò Paul, entusiasta prima di stringersi a lui per un bacio, indugiando sulle sue labbra tanto quanto desiderasse, "Allora ci vediamo stasera."

"Sì, ci sarà anche Julian."

"E la festa di Halloween a casa di Yoko?"

"La bambina ha la febbre per cui lei ha deciso di annullarla."

"Mi sembra giusto." concordò Paul, portando entrambe le mani sul petto di John, diventando un istante pensieroso, "Credi che dovremmo dirglielo? A Julian?"

John lo guardò per un istante, incerto. Sarebbe stato un passo importante, nonché dei più delicati di questa storia, ma era un passo da compiere in un modo o nell'altro.

"Beh, prima o poi sarà inevitabile.” rispose John, “Ma per ora voglio aspettare. Ti dispiace?"

Paul scosse il capo, energicamente, "No, certo che no. Sono d'accordo."

"Grazie."

"Allora scegliete un bel film da vedere insieme, mi raccomando. Possibilmente di paura, così non vi addormentate tutti e due." concluse, rivolgendogli un occhiolino.

John ridacchiò, ripensando a quando lui e suo figlio si erano addormentati a casa di Paul, mentre guardavano Alla ricerca di Nemo.

"Va bene."

Dopodiché Paul raccolse la sua giacca e John lo accompagnò all'uscita del negozio, dove l’ispettore salutò anche George prima di andare via.

John sospirò profondamente, lo sguardo fisso su quella porta oltre cui era sparito Paul. E quando si ridestò dai suoi pensieri, si accorse di George e del suo sguardo scettico e indagatore nei suoi confronti.

"Che cosa c'è?" chiese leggermente infastidito, non gradendo come lo stesse guardando l'amico.

George si limitò a scrollare le spalle, con fare indifferente, "Niente."

John lo seguì con gli occhi, mentre l’amico tornava alla sua occupazione precedente.

Non poteva dirgli di lui e Paul: George non avrebbe mai capito, George avrebbe protestato, si sarebbe opposto, avrebbe-

No.

Non poteva dirglielo.

Ma, in un modo o nell'altro, doveva farlo.

****

“Mi dispiace.”

Linda gli sorrise, appoggiando una mano sopra quella di Paul, abbandonata sul tavolino.

Si erano dati appuntamento in un piccolo café non molto distante dall’abitazione di Paul, il quale aveva ritardato di dieci buoni minuti, dal momento che quell’idiota di John gli aveva fatto perdere altro tempo, mandandogli sciocchi, adorabili messaggi sul cellulare dove alla fine gli raccomandava di fargli sapere come avrebbe reagito la donna.

Quando infine si era ritrovato con la giovane, Paul aveva raccolto il suo coraggio, insieme a ciò che provava per John, e le aveva spiegato tutto.

Linda sembrò non prenderla male.

“Non ti preoccupare, Paul.” lo rassicurò gentilmente.

"Ma ti ho praticamente mentito." protestò lui.

"Oh, andiamo, ho subito di peggio." esclamò la donna, con una risatina che non nascondeva una punta amara, "Anzi, tu almeno hai avuto la decenza di essere sincero. Fino in fondo."

"Era il minimo." sospirò Paul.

Linda annuì, lasciando andare la mano di Paul, "Confesso che comunque non me l'aspettavo."

"Nemmeno io." concordò Paul, sorridendo fra sé o forse al pensiero sempre costante di John.

"Lui ti ama?" gli chiese lei, interessata.

Paul si morse il labbro: quella era davvero una bella domanda, a cui però Paul non sapeva rispondere.

"Non lo so."

"E tu? Lo ami?"

Di nuovo, una domanda stupenda, anche se Paul non poteva ancora rispondere con certezza.

"Non lo so ancora." sospirò Paul, "Ma so che per il momento voglio John nella mia vita."

"Quindi sei felice?” domandò Linda, accennando un sorriso.

Paul la guardò negli occhi, percependo un sussulto al cuore che lo fece tremare, ma che nello stesso momento era infinitamente piacevole. E la risposta suggerita da quello stesso sussulto era ben chiara.

"Sì."

Linda sorrise più sinceramente ora, "Allora va tutto bene, no?"

"Sì.” ripeté Paul, “Va tutto bene."

La risposta sembrò soddisfare la donna, perciò l'istante dopo si alzò in piedi.

"Visto che è tutto sistemato ora, sarà meglio che vada." esclamò, "Grazie per esserti preoccupato per me, Paul.”

"Grazie a te per aver capito." le disse lui, causando una risata dolce da parte della giovane donna.

"L'amore non si capisce, Paul, si deve solo vivere." affermò Linda, e gli diede un piccolo buffetto sulla guancia, "Perciò non preoccuparti di nulla."

"Lo farò." le confermò l'uomo.

"Ci vediamo domani al lavoro."

“A domani.” la salutò Paul e la osservò andare via.

Era stato più facile del previsto parlare con lei e spiegarle tutto. Forse perché Paul aveva solo paura che non potesse capirlo, che potesse anche giudicarlo, ma se doveva essere sincero, non conosceva così bene quella donna: avrebbe potuto reagire sia in un modo, sia nell’esatto contrario, e per sua fortuna era andata così, ed era anche convinto ora di poter contare sulla sua discrezione a lavoro.

Poi, ricordando la raccomandazione di John, si affrettò a recuperare il suo cellulare e cominciò a scrivergli un messaggio.

'Missione compiuta con successo. Ora tocca a te.'

Quando questo arrivò a destinazione, il telefono di John squillò e lui lesse subito il testo.

Paul ce l’aveva fatta.

John sorrise fra sé. Ovviamente Paul ce l’aveva fatta: gli era sembrato molto determinato quando gli aveva spiegato cosa stesse per fare, e quando Paul si metteva in testa qualcosa, difficilmente falliva.

Ora tocca a te, diceva il messaggio.

John guardò e guardò quelle parole per secondi infiniti, ripetendole nella sua testa più volte, immaginandole pronunciate dalla voce dolce di Paul.

Beh, se Paul credeva in lui, allora John poteva farcela.  Così abbandonò la sua chitarra, si alzò dalla sedia e raggiunse George nel negozio.

L’amico era tutto preso a leggere qualcosa al computer, qualcosa di interessante a giudicare dalla sua espressione concentrata ed entusiasta. Ma John doveva assolutamente parlargli. Così avanzò con un paio di passi incerti e si schiarì la voce.

"George?"

Il giovane alzò gli occhi dallo schermo e sorrise, "Oh, John, capiti proprio al momento giusto. Guarda qui."

George gli fece un cenno di avvicinarsi e John, sospirando, obbedì. Quando fu accanto a lui dietro il bancone, il ragazzo gli indicò ciò che mostrava lo schermo. John socchiuse gli occhi e cercò di leggere l'articolo.

Il cuore fece un piccolo sussulto eccitato e spaventato quando capì di cosa si trattasse.

"Una mostra di Elvis?" esclamò, cercando di mascherare entrambe le emozioni che si erano accese in lui.

"Sì, tra un mese."

"Vuoi… vuoi andare a vederla?" domandò John stupidamente, sapendo che George non voleva andare a vederla.

Non solo, almeno.

"John, non voglio andare a vederla.” rispose lui, scuotendo la testa con un sorriso, “Voglio andare a prendere un souvenir."

Ecco, proprio come sospettava John.

"Ma George..." cercò di ribattere lui.

George, però, lo interruppe subito, alzando una mano per farlo tacere, "No, John, ascoltami bene ora. Nella mostra ci sarà l'ultimo LP che manca alla nostra collezione. È una rara copia firmata da Elvis in persona. Dobbiamo assolutamente rubarlo."

John si morse il labbro, abbassando lo sguardo incerto, mentre George continuava a fissarlo intensamente.

"Andiamo, John." lo incoraggiò.

"Non posso." fu la risposta accorata dell’amico.

George aggrottò la fronte, "Perché?"

"Paul...” sospirò John, “Lui perderà il lavoro se... se io..."

"Cazzo, John.” sbottò George, decisamente infastidito, “Aspettiamo questo giorno dall'inizio di questa storia di Hermes. Non possiamo fermarci per Paul. Coraggio, non farà una fine molto diversa da Sutcliffe. Verrà solo trasferito fuori città."

"Non posso permetterlo."

"Perché?"

"Ho bisogno di lui."

George alzò gli occhi al cielo, quasi frustrato nel notare come non riuscisse a convincere l’amico, "John, si può sapere che diavolo ti prende? Non ti riconosco più.”

John abbassò lo sguardo, arrossendo lievemente. Era preda di una tempesta interna che non riusciva a fargli trovare le parole né la lucidità necessaria per affrontare questo argomento. Ma doveva riuscirci. Per Paul e per se stesso.

"Sto frequentando Paul."

"Sì, questo l’ho capito" sospirò rassegnato George.

Ma la sua calma rese chiaro a John che non avesse compreso fino in fondo il significato delle sue parole.

"No, George, Paul e io ci stiamo frequentando." ripeté, scandendo bene le parole e guardandolo direttamente negli occhi con la speranza che questa volta comprendesse.

E George capì, o perlomeno cominciò a capire. Spalancò gli occhi, restando in silenzio per un istante, forse per assimilare ogni singola lettera e sfumatura di quell’affermazione, prima di decidersi a parlare.

"Cosa significa che vi state frequentando?"

“Significa quello che pensi.” spiegò John con un sospiro profondo.

Il tono della voce di George non sembrava promettere bene.

“No.” iniziò a dire lui, scuotendo vigorosamente il capo, “No, non è possibile, non con lo sbirro.” 

“George...”

“Da quanto va avanti?” domandò bruscamente.

“Da qualche settimana.”

“E me lo dici solo ora?” continuò lui con una profonda rabbia che stava incupendo la sua espressione, “Non pensavi che fosse qualcosa di importante da farmi sapere?”

John sussultò, notando l’evidente fastidio sul volto di George. Non capiva se fosse più sconvolto per la notizia o per il fatto che John non l’avesse informato prima.

“Io…” iniziò a spiegare John, la voce tremava in modo incontrollabile, “Io avevo paura che ti saresti opposto, che-”

“E avevi ragione. Tu sei pazzo, John.” esclamò George, puntandosi un dito sulla tempia.

John aggrottò la fronte, non gradendo a questo punto il tono e le parole del suo migliore amico.

“Non sono pazzo.” ribatté, serrando la mascella, “Stiamo bene insieme. Tengo a lui come lui tiene a me.”

“Lui cosa?”

“Smettila, George.” sbottò John, incrociando le braccia.

“No che non la smetto. Siete entrambi pazzi. Ma tu di più e sai anche perché.”

John lo guardò. Non si sentiva davvero arrabbiato con lui. Tuttavia non poté impedire al suo viso di arrossarsi per il fastidio. O almeno, questo era ciò che voleva fargli credere la sua mente. Il suo cuore, il più sincero, gli stava suggerendo che fosse arrabbiato per il fatto che George avesse ragione, che quella fosse una situazione assurda, da pazzi e che sicuramente non potesse finire bene.

George ricambiò lo sguardo, altrettanto infastidito, ma si calmò ben presto, quando si accorse che c’era qualcosa di diverso in John. Era meno chiuso in se stesso e cercava in ogni modo di superare le sue paure e insicurezze su se stesso e sulle persone intorno a lui. E dopo aver appreso la folle rivelazione su John e Paul, per George non fu così strano accorgersi che il cambiamento di John fosse cominciato almeno dal momento in cui Paul era entrato nella sua vita.

Un buon cambiamento.

"Tu..." iniziò a dire George poco dopo, "Tu lo ami?"

A quella domanda John sussultò e il suo cuore con lui, "Io credo di sì."

"Credo di sì non vuol dire sì."

John sospirò frustrato, di fronte a questo muro che George sembrava voler frapporre tra loro.

"Non ne sono sicuro, George, ok?” sbottò, “So solo che ho bisogno di lui ora e non posso fargli del male."

"Non devi fargli del male.” ribatté George, più tranquillamente, “Dobbiamo solo rubare quello che ci serve."

Tuttavia John non era d’accordo e non avrebbe mai più potuto essere d’accordo con George su questo aspetto della loro vita. Così scosse il capo fra sé, più per convincere quella parte della sua persona che voleva solo seguire con entusiasmo la proposta dell’amico, quella parte di nome Hermes.

"Non importa. È come se gliene facessi."

George si incupì, constatando il fatto che davvero non riuscisse a far ragionare John. Era come trovarsi in un vicolo cieco, e non vi era alcuna via d’uscita.

O forse sì, anche se era rischiosa.

"Bene, allora.” sospirò George, incrociando le braccia sul petto, “Se non lo farai tu, ci penserò io."

John spalancò gli occhi a quell'affermazione, e il respiro gli si mozzò in gola.

"Cosa?"

"Ho imparato qualcosa in questi mesi."

"Non puoi farcela da solo." si affrettò a protestare John.

"Beh, suppongo che dovrai aiutarmi tu.” esclamò George, “Per evitare che mi cacci in qualche guaio.”

John sentì un tonfo nel suo petto. Il suo cuore stava precipitando in un oscuro baratro e quando giunse alla fine, si schiantò per terra, spaccandosi in due perfette metà; e John sapeva che, a questo punto, avrebbe potuto recuperarne solo una.

"George, ti prego.” mormorò, la voce flebile, il tono supplicante, “Non farmi scegliere."

"Mi dispiace, John." esclamò George, recuperando la sua giacca, "Non mi hai dato altra scelta."

"Ma io..." cercò di ribattere John, ma scoprì di non avere alcuna forza per protestare.

"Se cambi idea, sai dove trovarmi."

"Perché mi stai facendo questo?"

"Non lo immagini? Avevo intuito da tempo che provassi qualcosa per lui, ma mi hai mentito quando ti ho dato l'occasione di parlarne. Mi hai mentito molte volte da quando c'è Paul."

"Ti ho detto che avevo paura." affermò John.

La sua voce era ora più stanca che mai, e un'incredibile voglia di piangere stava provando in tutti i modi a vincere le sue reticenze, ma John non poteva piangere, non ora di fronte a George.

"E io ti avrei aiutato. Ma ora è tardi, John."

John non disse nulla, non sapeva più cosa dire, perciò si limitò a guardarlo mentre si preparava per andarsene. Poi George si avvicinò alla porta, indugiando un istante nell'afferrare la maniglia.

"A proposito, Jim lo sa? Di te e Paul?"

John scosse il capo.

"Come sospettavo."

"Glielo dirò quanto prima."

"Non è quello il punto, John.” esclamò George, “Il punto è che sei finito in una situazione di merda, amico mio. Ti avevo messo in guardia dall'inizio, ma non mi hai dato retta. E ora non solo ci hai trascinati tutti con te, ma nessuno di noi può aiutarti. Sei completamente solo."

"Lo supererò.” ribatté John, recuperando quel briciolo di convinzione che gli era rimasta, “Come sempre."

George scelse di non ribattere, forse perché per la prima volta in assoluto nella sua vita non si fidava di John.

Così se ne andò senza fiatare, lasciando John proprio come gli aveva detto.

Solo.

****

La risata di Julian riempì la stanza.

Era sempre in grado di far tornare il buonumore a John. Quella e il sorriso di Paul, che nonostante non potesse esprimersi al meglio, era accompagnato da una punta di immensa dolcezza ogni volta che era rivolto a John.

Avevano passato decisamente una bella serata, mangiando i dolcetti di Halloween portati da Paul e guardando Monsters & co.

"Ma non è un film di paura." aveva protestato Paul, indignato quando aveva appreso il film scelto.

John aveva ribattuto che ai due Lennon non piacevano i film horror e quello era il massimo che potessero sopportare.

Era dunque passata con spensieratezza la sera di Halloween.

Tuttavia John non aveva potuto fare a meno di continuare a pensare a ciò che gli aveva detto George: il colpo che aveva in programma, quello che stavano aspettando entrambi da sempre, e anche la questione di Jim.

Insomma il padre di Paul era stato felice che John avesse sospeso i furti per il rapporto instauratosi tra lui e il figlio, ma John non pensava sarebbe stato ugualmente felice se fosse venuto a sapere in che direzione avesse deviato questa amicizia.

Certo, avrebbe anche potuto accettarlo senza storie. Era una piccola probabilità, ma almeno c'era.

"Papà!" esclamò Julian, saltando all'improvviso sulle sue gambe.

"Cosa, amore?"

"Stasera può raccontarmi la favola della buonanotte Paul?" gli domandò con occhi imploranti, “Ti prego.”

“Se lui vuole…” disse John, alzando lo sguardo verso Paul che parve illuminarsi di gioia a una richiesta simile.

“Oh sì.” affermò Paul, raggiungendo il bambino e sollevandolo con le sue braccia, “Conosco giusto una storiella perfetta per la buonanotte.”

“Ma davvero?” esclamò John, mentre Julian iniziava a ridere.

“Certo!” rispose Paul, iniziando a salire le scale verso il piano superiore, “Parla di un sottomarino giallo-”

“Come il mio pupazzo!” esclamò il bambino.

“Proprio così. E il comandante del sottomarino si chiama Julian-”

“Come me!”

John ridacchiò, osservandoli mentre si allontanavano lungo le scale e le loro voci si affievolivano.

Quei due avevano instaurato un bel rapporto: Paul ci sapeva fare con i bambini, e Julian, da parte sua, sembrava essersi affezionato molto a lui. John pensò che forse il bambino fosse pronto per sapere di lui e Paul. Era convinto che suo figlio avrebbe capito.

Perché Julian era un bravo ragazzo, in gamba, intelligente, tutto l’opposto di John, che non aveva visto in tempo il grosso guaio in cui si stava cacciando.

E ora quel guaio si era ingigantito, diventando di dimensioni troppo grandi affinché John potesse gestirlo da solo, e stava anche coinvolgendo troppe persone. John non aveva idea di come sistemare le cose, soprattutto dopo l’ultimatum di George.

Era in trappola e lui odiava sentirsi così: gli rendeva impossibile respirare e quindi ragionare con lucidità. Eppure… forse una soluzione c'era.

Forse se avesse indossato i panni di Hermes per l'ultima volta per evitare che George finisse nei guai, avrebbe almeno in parte risolto i suoi problemi.

Certo, Paul avrebbe perso il lavoro, ma avrebbe potuto trovare qualche altro posto, avrebbe potuto reinventare se stesso, cambiare ambito lavorativo. Avrebbe potuto insegnare musica come aveva fatto con John, avrebbe-

Oh, ma che cazzo stava pensando? Paul non avrebbe mai fatto l'insegnante di musica. Paul sarebbe andato dovunque l'avessero spedito. La musica non era la sua vita.

John doveva scegliere. Era una triste realtà, nonché l'unica soluzione possibile. E dal momento che il problema più grave era rappresentato da George, colui che stava mettendo alla prova John e la sua fedeltà, John avrebbe scelto il suo migliore amico.

Così si affrettò a recuperare il cellulare per scrivere un semplice messaggio.

'Ci sto.'

John guardò quelle due parole semplici ma decisive, e prendendo un profondo respiro, le inviò a George.

Poi prima che potesse pentirsi di quanto avesse appena fatto, sentì i passi di Paul scendere le scale e un minuto dopo, due braccia si strinsero teneramente intorno al suo collo, mentre le labbra più dolci e il respiro più delicato sfiorarono il suo orecchio.

Il suo cuore sussultò con gioia e dolore.

"Ha funzionato la storiella?" chiese, cercando di allontanare i suoi cupi pensieri.

"Certo.” rispose Paul, con la sua voce vellutata, “Avevi dei dubbi?"

"Ovviamente no." ribatté John e si lasciò scappare una risata, che risultò essere molto debole e poco convinta.

John sapeva ancor prima che Paul parlasse che lui l'avesse notato.

"Tutto bene, John? Sei così strano stasera." mormorò Paul, preoccupato, seppellendo il naso tra i capelli sottili dell’altro uomo, "È successo qualcosa con George?"

E John avrebbe voluto voltarsi e guardarlo in faccia per dirgli che stesse andando tutto male, e sarebbe andata peggio per colpa sua, solo colpa di John.

"No, non ti preoccupare, Paul."

Tuttavia così, con la possibilità di non dover incrociare il suo sguardo, John chiuse i suoi occhi.

Si abbandonò nell'abbraccio di Paul.

Accarezzò le sue braccia ancora strette al suo collo.

E infine sospirò.

"Va tutto bene."

 

 

Note dell’autrice: buongiorno a tutti.

Allora, ce l’ho fatta a finirlo, questo benedetto capitolo. Non è che mi piaccia molto, trovo piuttosto difficile scrivere scene in cui John e Paul parlano con altre persone. -_- Mannaggia a me.

Intanto, John ha fatto la sua scelta e tornerà nei panni di Hermes per l’ultima volta. :’(

Grazie a kiki che ha corretto.

Grazie anche a paperback writer e Beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso capitolo. J

Il prossimo, “Hold me tight”, se lo finisco (è quasi finito) arriverà martedì prossimo.

Buona giornata e a presto.

Kia85

 

 

 

 

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Capitolo 22
*** Hold me tight ***


I’ll get you

 

Capitolo 21: “Hold me tight”

 

Le pareti di quella camera non udivano suoni del genere da diversi anni.

Si trattava di qualcosa molto lieve, quasi timoroso nel manifestarsi, ma comunque vibrante nell’aria.

Erano le carezze di dita curiose su una camicia morbida.

Erano i fruscii di gambe desiderose di intrecciarsi.

Erano sospiri tremanti e nascosti nell’incavo di un collo caldo e profumato.

Paul sorrise ad occhi chiusi quando le labbra di John si spostarono dietro il suo orecchio. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando quelle coccole più audaci del solito fossero cominciate. Avevano solo finito di vedere un film, messo a letto il bambino e poi…

Un bacio, una carezza, un altro bacio, fino ad arrivare a quello.

“Sai, John…” mormorò Paul, portando una mano tra i capelli di John.

“Cosa?”

“Stavo pensando…”

“Mm, mi piace quando pensi.” esclamò John, interrompendo le sue attenzioni all’invitante collo di Paul, solo per rubargli un bacio a fior di labbra.

Paul rise dolcemente, “Perché?”

“Beh, perché…” rispose John, spingendolo all’indietro con una mano sul petto, per farlo ricadere sui cuscini del divano, “…mentre tu pensi, io posso fare questo.”

Così dicendo, si sdraiò su di lui, puntò i gomiti ai lati del viso di Paul e gli sorrise, facendo sfiorare i loro nasi, prima di baciarlo. Paul strinse automaticamente le braccia intorno al petto di John, inarcandosi solo un po’ verso di lui, come un chiaro segno di apprezzamento.

“Quindi?” disse poi John, spostando la propria bocca sulla guancia dell’uomo.

“Cosa?”

“Quello che stavi pensando…”

“Oh… sì, io…” sospirò Paul, portando lievemente la testa all’indietro per offrirsi a John che scese di nuovo sul suo collo, “Pensavo che siamo fortunati a vivere in quest’epoca.”

“E perché mai?”

“Beh, ricordi quando abbiamo detto che saremmo dovuti nascere negli anni Sessanta?”

“Sì.” fu la risposta di John, soffocata contro la pelle di Paul.

“Se fosse stato davvero così, sarebbe stato più difficile, no, vivere quello che c’è tra noi.”

John si sollevò appena per guardarlo negli occhi, perplesso, “Mm, no, direi di no.”

“Perché? In fondo all’epoca era considerato un crimine.”

“Sai che me ne importa?" sbottò John, scrollando le spalle, "Se si fosse trattato sempre di te, l’avrei fatto comunque.”

“Davvero?”

John annuì, regalandogli una carezza delle più delicate sui capelli, "Certo. Se qualcuno cercasse di impedirmi di stare con te, farei qualunque cosa per vincerli."

"John..."

"Io ti vorrei sempre e comunque, Paul, in qualunque epoca e luogo del mondo."

Paul arrossì lievemente, non tanto per l'imbarazzo, quanto piuttosto per il suo cuore che sussultò con gioia nel suo petto, lasciando che quel sentimento nato proprio lì si diffondesse in tutto il corpo.

Così tornò a baciarlo, facendo scivolare una mano sulla sua schiena, stringendo la camicia tra le dita, mentre l'altra mano si intrecciò con i capelli sulla nuca di John, attirandolo a sé per approfondire il suo bacio appassionato.

John emise un profondo verso gutturale, come le fusa del piccolo Elvis accoccolato di fronte al camino.

Ben presto fu lui a prendere il sopravvento, baciando con ardore il giovane uomo sotto di lui. Lasciò che le sue mani scivolassero sui fianchi di Paul, mentre le loro gambe si intrecciavano come per non lasciarsi più andare. Era molto diverso da altre volte in cui si erano trovati in quella situazione. Almeno, John si sentiva diverso. Forse perché stava scoprendo che quello fosse l'unico modo per mettere a tacere le mille voci nella sua testa che protestavano e insieme lo incoraggiavano per quanto avesse deciso di fare con George.

Tornare nei panni di Hermes.

Ingannare di nuovo Paul.

John stava seriamente rischiando di impazzire, ma Paul, i suoi baci appassionati, i suoi caldi abbracci, riuscivano a farlo stare bene per un solo istante. Un istante che John non voleva finisse mai, un istante che John voleva approfondire.

Voleva di più. Molto di più.

Voleva Paul.

Lasciandosi scappare un gemito accorato a quel pensiero, fece scorrere una mano più in giù, fino alla coscia di Paul, dove le sue dita la accarezzarono prima di stringersi per sollevarla intorno ai propri fianchi.

Paul ansimò con piacere, ma anche con sorpresa quando si ritrovarono a toccarsi in quel modo. Erano l'uno a contatto con l'altro in ogni singolo punto dei loro corpi.

Improvvisamente la sua mente fu annebbiata con qualcosa che gli suggeriva solo di lasciarsi andare e abbandonarsi tra le braccia di John.

Tuttavia fu un semplice attimo di incantevole follia, perché ben presto tornò a ragionare con lucidità, soprattutto quando le dita di John percorsero la linea della sua cintura fino alla fibbia, con cui cominciarono a giocherellare, rendendo evidenti le intenzioni di John.

Paul si sentì mancare il respiro alla violenta realizzazione che una parte di lui non volesse fermare John, mentre l'altra aveva paura di affrontare qualcosa del genere con lui. Non che ci fosse nulla di male. In fondo John era così sensuale, tanto da far impazzire Paul, che diverse volte si era ritrovato a desiderarlo, a voler sperimentare di più con lui.

Ma tra desiderare e lasciarsi effettivamente andare c'era un abisso. Paul non credeva di essere ancora pronto. O forse lo era, a giudicare da quanto il suo corpo si stesse scaldando sotto il tocco di John e inarcandosi verso di lui. Solo che doveva ancora accettarlo nella sua mente. Per John avrebbe fatto di tutto, ne era certo, ma la sua parte razionale, quella importante, che aveva guidato ogni sua azione nella sua vita, doveva prima assimilare questo desiderio e accettarlo.

Per il momento, quindi, doveva fermare John.

Così appoggiò le mani sul suo petto e mentre l'uomo esplorava avidamente un punto dietro l'orecchio di Paul, questi lo sospinse gentilmente all'indietro.

"Credo..." iniziò a dire Paul, sotto lo sguardo sconcertato di John, "...credo sia meglio che vada, ora."

John, il viso arrossato, gli occhi annebbiati, il respiro affannato, impiegò qualche secondo per recepire il vero messaggio dietro quelle parole: Paul voleva fermarlo.

Non poté negare di essere deluso, diamine, erano secoli che non stava con un'altra persona così. Perlomeno con qualcuno che John desiderasse davvero. Tuttavia avrebbe dovuto aspettarselo: nessuno dei due era stato con un altro uomo in quel modo, e per quanto grande potesse essere il desiderio che provavano l'uno per l'altro, era logico che volessero andarci piano. John, in fondo, lo stava facendo per frustrazione, per non essere da solo e non avere il tempo per pensare. Perciò accettò la decisione di Paul e si scostò da lui, mettendosi a sedere sul divano.

"Sì, hai ragione." sospirò.

"Domani devo alzarmi presto per andare a lavoro." iniziò a spiegare Paul, mentre imitava John, "Sembra che Hermes si sia fatto nuovamente vivo dopo tutti questi mesi."

John soppresse una smorfia di dolore quando il suo cuore protestò animatamente alle parole di Paul.

"Capisco."

"Perciò devo essere impeccabile in questi giorni. Devo fare bella figura con il capo." gli disse, facendogli l'occhiolino.

John sorrise, ma la mortificazione in lui era troppa e per nasconderla lui dovette abbracciare d'impulso Paul, solo per non fargli vedere l'espressione del suo viso.

Paul rise debolmente, preso in contropiede, "Ehi."

"Paul, sei stupendo, vedrai che andrà tutto bene."

John lo strinse a sé con forza come se volesse aggrapparsi a lui prima che potesse sfuggire dalle sue braccia. Ma alla fine, inevitabilmente, dovette lasciarlo andare e cercò di recuperare un aspetto normale.

"Grazie." gli disse Paul, sorridendo con calore.

John annuì, costringendosi a ricambiare il sorriso, mentre tutto in lui lanciava epiteti ingiuriosi contro se stesso: bugiardo, opportunista, traditore erano solo fra i più gentili. Continuavano a risuonare nella sua testa ed era per John una vera tortura. Non riusciva né voleva farlo smettere, perché sapeva che si meritasse di soffrire così.

Tuttavia accolse con sollievo la scusa di accompagnare Paul alla porta, anche perché aveva una piccola sorpresa in serbo per lui.

“Di che si tratta?” gli chiese Paul, quando John fece il suo annuncio.

John rise appena, prendendolo per mano e conducendolo nell’ingresso. Qui si fermò presso il tavolino sopra cui vi era il telefono e aprì il cassetto, prendendo subito dopo un oggetto dal suo interno.

Quando lo porse a Paul, questi lo afferrò e batté le palpebre, sorpreso.

“Un cd?”

“Non è un normale cd.” gli spiegò John, indicandogli la copertina.

Paul socchiuse gli occhi per guardarla meglio: era tutta colorata di verde chiaro e in mezzo c’era una scritta piccola piccola, in bianco. Così piccina era che Paul dovette avvicinare il cd ai propri occhi per capire cosa ci fosse scritto.

Per Paul, da John.

Paul si lasciò scappare una risatina, procurandosi un’occhiata perplessa da John.

“Cosa?”

“Niente, è che è scritto davvero piccolo.” commentò Paul, divertito.

“Ehi, non sono proprio a mio agio con questi programmi sul computer. È George l’esperto.” ribatté lui, appena piccato nel suo orgoglio.

“Capisco. E di che cd si tratta?” chiese interessato Paul.

“Sono..." iniziò a spiegare lui, abbassando lo sguardo un po' a disagio, "Sono solo alcune canzoni che ho suonato e cantato da me. Hai detto che adori sentirmi cantare.”

Paul lo guardò dolcemente, arrossendo in viso, “E’ così.”

“Quindi ti piace?" domandò ansioso John, "La sorpresa, intendo…”

“Oh, beh.” esclamò l'altro uomo, arricciando il naso e avvolgendo le braccia intorno alla sua vita, “Prima devo controllare come è venuta l’incisione. Poi ti farò sapere.”

"Basta che fai più in fretta di quando ti regalai il cd dei Rolling Stones."

"Stavolta andrà meglio, te lo prometto." affermò Paul, "Intanto grazie, Johnny."

Poi si chinò su di lui per un bacio pigro, mentre John lo stringeva a sé proprio allo stesso modo. Quando infine Paul si allontanò, fece incontrare le loro fronti, guardandolo negli occhi.

"Non sei arrabbiato, vero?"

John batté le palpebre, sconcertato, "Per cosa?"

"Per prima. Non vorrei che pensassi che-"

"È tutto a posto, Paul." si affrettò a rincuorarlo, "Ti capisco perfettamente."

"Davvero?" esclamò Paul, sorridendo quasi incredulo, "Perché devi sapere che lo voglio, io voglio te, ma non credo che sia il momento giusto."

Il cuore di John sussultò teneramente, accorgendosi che Paul fosse arrossito un po', come se l'argomento lo mettesse a disagio, ma nonostante quello, lui volesse comunque affrontarlo con John. Era una notevole dimostrazione di forza da parte sua.

"Paul, non preoccuparti." mormorò, accarezzandogli una guancia per rassicurarlo, "È normale avere un po' di paura. Anche io ce l'ho."

"Sul serio?" domandò Paul, sorpreso.

"È logico." affermò John, annuendo, "Ma se siamo insieme, sono sicuro che ce la faremo."

Paul sorrise, chiudendo gli occhi quando John cominciò ad accarezzargli la schiena. I suoi gesti, le sue parole, la sua stessa voce erano il calmante più efficace. Nonostante Paul avesse la testa piena di pensieri, tra il lavoro e l'aver realizzato di desiderare con ardore John, in quel momento non uno dei suoi problemi stava avendo la meglio sulle sensazioni incredibili e benefiche che John gli stava trasmettendo.

Fu così che quella sera tornò a casa, in pace con se stesso e con il mondo.

Fu così che, allo stesso modo, lasciò John da solo.

Da solo e in guerra con se stesso.

****

Il giorno seguente Paul si recò a lavoro di buon'umore.

Era felice, nonostante il suo posto fosse a rischio: si trattava di qualcosa che non importava poi molto perché, in fondo, se stava bene lui, allora questo si sarebbe ripercosso inevitabilmente anche sul suo operato. Inoltre Paul non aveva alcun dubbio su come sarebbe andata a finire quella storia: avrebbe catturato Hermes e questa volta per davvero. Non l'avrebbe fatto scappare, nossignore. Non se ne parlava proprio.

Per tutta la giornata, quindi, aveva raccolto informazioni sul luogo dove si sarebbe tenuta la mostra di Elvis, analizzando i punti deboli dell'edificio, le potenziali vie d'entrata e uscita. Era anche andato ad analizzare i precedenti colpi di Hermes per controllare dove avessero sbagliato. L'ispettore capo Starkey parve soddisfatto del suo entusiasmo e questo rese Paul ancora più felice.

Nelle piccole pause che si concedeva durante quell’impegnativa giornata di lavoro, Paul si permetteva di pensare a John.

Le sue parole lo avevano rassicurato: sapere che anche lui fosse spaventato allo stesso modo era giusto ciò che serviva a Paul per non lasciarsi prendere dal panico riguardo quel particolare aspetto della loro relazione.

Così potente era stato l'effetto che ora Paul era solo curioso. Curioso di sapere come sarebbe stato vivere una simile esperienza con un altro uomo, con John.

Il suo cuore mancò un battito e lui si sentì arrossire, mentre un audace volo di fantasia prendeva ben presto il sopravvento su di lui. Poteva ben vedere se stesso e John di fronte al camino di casa sua, poteva sentire le sue mani scivolare sulla camicia di John per sbottonarla, percepire quelle di John sui propri fianchi, mentre lo accarezzavano e stringevano a sé, poteva perfino rabbrividire immaginando il respiro e le labbra di John aleggiare sulla sua pelle, poteva-

"Paul?"

Paul sobbalzò letteralmente sulla propria sedia, mentre si accorgeva che Linda era appena entrata nel suo ufficio.

"Ops, mi dispiace di averti spaventato." esclamò lei, sorridendo divertita.

Paul cercò immediatamente di ricomporsi, schiarendosi la voce, "Oh no, non mi hai spaventato. Stavo solo-"

"Sognando a occhi aperti?" concluse per lui Linda.

Paul annuì, sorridendo, "Qualcosa del genere."

"Ed era un bel sogno?" continuò la giovane donna con interesse.

"Sì." affermò, convinto, "Direi di sì."

“Allora mi dispiace di aver interrotto il bel sogno.” commentò Linda, ridendo, “Ma volevo sapere se potessi ritirare le pratiche che hai preso questa mattina, dal momento che il mio turno sta per finire.”

“Ma certo.” esclamò Paul, recuperando velocemente le cartellette e alzandosi per porgerle alla donna, “Ecco a te.”

“Grazie. Sono state utili?”

“Non particolarmente, ma mi ha fatto comunque bene dare un'occhiata." rispose Paul, passandosi una mano tra i capelli e sospirando.

Il gesto fu facilmente notato dalla donna, che si accigliò, preoccupata, “Sei stanco?”

“Un po’.” sbuffò Paul, “Avrei dovuto finire il turno due ore fa, ma volevo prima esaminare tutte queste pratiche.”

“Dovresti andare a casa a riposarti, sai. Se sei stanco è inutile andare avanti, non concluderesti comunque nulla.” gli suggerì lei.

Paul la osservò, notando un’evidente apprensione farsi largo sul suo bel viso. Non ci aveva fatto caso, ma Linda non aveva tutti i torti. Se Paul si fosse stancato troppo, ne avrebbe risentito solo il suo lavoro e questa era l’ultima cosa che Paul voleva.

“Hai ragione, sai?” esclamò con convinzione, “Dovrei andare a casa.”

“Ecco, bravo.” commentò Linda, mentre lui rientrava nell’ufficio per recuperare portafogli e cellulare, “Vai a casa, rilassati, mangia qualcosa-”

“Veramente…” iniziò a dire Paul, fermandosi un istante e sorridendo fra sé, “Stasera dovrei andare a casa di John.”

“Oh, cenetta romantica?”

La domanda di Linda lo lasciò interdetto per pochi istanti. Una cenetta romantica con John era una di quelle tante cose che ancora non avevano provato insieme; ma sarebbe stata decisamente interessante. Paul poteva farci un pensierino, avrebbe potuto cucinare lui: vivendo da solo, aveva imparato alcune ricette da leccarsi i baffi.

Tuttavia non poteva davvero dedicarsi a un'ipotesi tanto allettante ora, con Linda che aspettava ansiosa la sua risposta.

“No, no, niente del genere.” disse infine, raggiungendola, “Solo una serata a casa sua, sai, a guardare un film, giocare con suo figlio e...”

"Non mi avevi detto che avesse un figlio." esclamò la donna, sorpresa.

"Sì, un vivace bambino di quattro anni."

"Allora sì che ci sarà da non annoiarsi."

"Puoi dirlo forte." concordò Paul, con una risatina.

Ma quando il suo divertimento scemò, Paul si accorse con facilità che l’espressione di Linda fosse decisamente cambiata, scivolando in qualcosa di più teso che lo rese particolarmente irrequieto in un istante.

“C’è qualcos’altro, Linda?” le domandò con tono attento.

Linda si morse il labbro, titubante, mentre le dita sottili si stringevano di più intorno alle cartellette che avevano in mano.

"Senti, Paul..." iniziò, la voce vacillò appena, ma Paul lo avvertì comunque.

"Dimmi."

"Io… so che non dovrei, ma non sarebbe giusto nei tuoi confronti."

Paul aggrottò la fronte, seriamente preoccupato ora, "Di che cosa stai parlando?"

"Ho stampato una mail oggi per l'ispettore Starkey. Non avrei dovuto farlo, ma l'ho letta." spiegò lei con aria profondamente colpevole.

"Cosa diceva?" chiese Paul.

Stava trattenendo il fiato, se ne stava rendendo dolorosamente conto. E ancora non sapeva di cosa stesse parlando Linda, ma a giudicare dall’espressione sofferente del suo viso, Paul era convinto che non fossero buone notizie. Non per lui, almeno.

"Era da parte del capo di Scotland Yard.” rispose Linda, lentamente, cercando di scandire bene le parole, “Sembra proprio che abbiano già scelto un eventuale sostituto per il tuo posto."

Paul spalancò gli occhi, mentre sentì il suo cuore precipitare e precipitare e precipitare. Era senza fine. E la mancanza di un impatto era più dolorosa dello schianto stesso. Paul ne era sicuro.

"Non è possibile." sospirò senza fiato.

"Mi dispiace, Paul.”

“Di…” iniziò a dire lui, ignorando le sue ultime parole, “Di chi si tratta?”

“Si chiama William Campbell. È un ispettore di Canterbury. Ha risolto il caso della banda di ladri che in estate svaligiava le ville di quanti andavano in vacanza."

"Ma... No, non può essere. L'ispettore Starkey mi aveva detto che non c'era bisogno di preoccuparsi."

"Invece secondo me dovresti preoccuparti. Molto." gli consigliò Linda, sinceramente, "La mail era molto chiara. Se non riusciamo a prendere Hermes, sarai tu a pagarne le conseguenze."

Paul cercò di ascoltare bene quelle parole, esaminarle attentamente come se volesse trovare un ultimo, insperato appiglio di speranza.

Ma la verità era che non c'è più speranza. Era così. Lui era ormai condannato a una condanna lenta e piena di straziante agonia.

Paul stava per crollare. E non c'era niente e nessuno che potesse aiutarlo. Poteva contare solo sulle proprie forze. Solo che così, con questa notizia a caldo, che bruciava nel suo corpo, era difficile.

"Sì... Grazie, Linda." le disse con fare sbrigativo.

Aveva bisogno di andar via, in qualche posto dove potesse spegnere quell'incendio doloroso e devastante.

"Stai bene?" domandò lei, ansiosa.

"Sto bene. Non preoccuparti." la rassicurò lui, invitandola a uscire, "Vai pure a casa, ora."

"Come vuoi, Paul." sospirò lei, intuendo il vero stato d'animo dell'uomo e decidendo di lasciarlo solo, "A domani."

Paul non rispose. E come avrebbe potuto?

La sua mente era ancora troppo impegnata a ripetere le parole di Linda per cercare di trovare una via di fuga da quella prospettiva catastrofica che si parava di fronte a lui.

Ma il messaggio era ben chiaro.

Paul avrebbe perso il suo lavoro, qualcosa che aveva costruito con fatica.

Ciò che aveva stretto con forza tra le sue mani, ora stava scivolando via.

E il rimedio era solo uno.

Il rimedio era catturare una volta per tutte Hermes.

****

Ma dove diavolo era finito?

John stava cominciando a innervosirsi. Solo quella mattina Paul gli aveva confermato che sarebbe venuto a casa sua, verso le otto di sera, ma ora erano già le undici passate e di Paul neanche l'ombra. John aveva provato di tutto: chiamarlo sul cellulare, mandargli messaggi, telefonare a casa, aveva addirittura bussato alla sua porta per controllare se fosse tutto a posto, ma Paul non era lì.

Dopo quasi tre ore di ritardo, John era preoccupato da morire. Poteva essergli successo qualcosa e lui non lo sapeva. Dio, non sapeva neanche dove iniziare a cercarlo e questo lo stava solo facendo impazzire.

Era una sensazione frustrante d'impotenza.

Era una terribile angoscia.

Era-

John sobbalzò nel bel mezzo dei suoi tormenti, quando sentì dei colpi alla porta: qualcuno stava bussando.

Si precipitò senza neanche pensare e aprì.

Con profondo sollievo si accorse che di fronte a lui c'era Paul, appoggiato allo stipite della porta. Tuttavia il suo sguardo era assente, distratto, stanco, e l’uomo sollevò con fatica gli occhi rossi verso John.

"Paul?!” esclamò John, desiderando fargli sapere quanto fosse preoccupato solo con il tono della sua voce, “Si può sapere dove sei stato?"

Paul ridacchiò e scrollò le spalle, "Oh, in giro, John, dove altro potevo essere?"

Solo in quel momento, grazie anche a un intenso odore di alcool che proveniva dall'uomo davanti a lui, John capì, non senza un po’ di timore.

"Sei ubriaco?" domandò.

"Nah, solo un po'." sbuffò Paul, e fece per muoversi in avanti, "Posso entrar- ops!"

Il giovane uomo, però, sbandò a causa di un improvviso giramento di testa, e sarebbe franato a terra se John non avesse avuto i riflessi pronti e l'avesse afferrato al volo con le sue braccia.

Paul sogghignò, mentre si aggrappava a lui, "Appena in tempo, eh?"

"Vieni dentro, stupido." sbottò John, non condividendo lo stesso divertimento di Paul.

Era impegnato, piuttosto, a chiedersi e cercare una risposta al motivo per cui Paul si fosse ubriacato. Sembrava che fosse successo qualcosa di importante e anche grave per far sì che si riducesse in quello stato pietoso. Di nuovo.

Nel frattempo Paul aveva messo il broncio, sostenendo di non essere affatto stupido, mentre John lo conduceva nel suo salotto. Quando questi lo sistemò al sicuro sul divano, si sedette accanto a lui.

"Si può sapere cosa è successo? Mi hai fatto spaventare a morte, Paul."

Paul lo fissò, mentre un sorriso sciocco si disegnava sulle sue labbra, "Eri preoccupato per me, Johnny?"

"Certo. Non ti vedevo arrivare...” rispose John, come se fosse la cosa più normale del mondo, “Pensavo ti fosse successo qualcosa."

Paul si avvicinò a lui, con un movimento sinuoso, facendo toccare le loro fronti e portando una mano sulla sua guancia.

"Scusa." mormorò, dolce, e poi lo baciò.

John lo lasciò fare per pochi istanti, prima di ricordarsi che fosse ubriaco fradicio e per niente in sé, quindi inconsapevole di ogni sua più piccola azione. Si scostò, cercando di richiamare Paul, ma lui vinse la forza delle sue braccia che lo bloccavano, e tornò su John. Lo trattenne contro il suo corpo, avvicinandolo, e portò le labbra sul suo collo, lasciandosi scappare un sorriso trionfante quando la pelle dell’altro uomo fu percorsa da brividi lievi, ma perfettamente percepibili. Questo, nonostante John provasse ancora a sottrarsi, lo incoraggiò e Paul si decise a far agire  anche le sue mani.

"Paul?!" esclamò John con più convinzione, quando sentì le dita del giovane iniziare a sbottonare la sua camicia.

"Mm?"

"Cosa stai facendo?"

"Vuoi che ti faccia un disegnino?" domandò, con una risatina soffocata nell’incavo del suo collo.

Ma John non lo trovò affatto divertente, difatti afferrò con fermezza le curiose mani di Paul, allontanandole dal proprio corpo.

“Paul, no, fermati.”

“Perché?” domandò Paul, infastidito e perplesso.

“Perché?” ripeté John, incredulo, “Sei fottutamente ubriaco.”

“Ma… io ti voglio ora.” continuò Paul, provando a tornare su di lui, “Ne ho bisogno.”

John scosse il capo, irremovibile, e cercò di adottare un tono di voce più dolce e rassicurante, viste le condizioni instabili di Paul.

“No, Paul, non sarebbe giusto. Perché invece non mi dici cosa è successo?”

Paul cambiò totalmente espressione in un istante, e da implorante e bisognoso passò a irritato e chiuso.

"Non è successo niente." sbottò, alzandosi in piedi, e fece per allontanarsi.

John, però, lo seguì immediatamente, afferrandolo per un braccio per farlo voltare verso di lui, "Aspetta un attimo."

"No, vaffanculo.” esclamò Paul, liberandosi con uno strattone della sua presa, “Lasciami stare."

“Paul!”

John lo richiamò, cercando di riprenderlo, fino a quando, infine, Paul decise di fermarsi e affrontarlo una volta per tutte.

“Cazzo, John.” sospirò, la voce graffiata e chiaramente esausta, “Volevo solo una cosa stasera, ma se non mi puoi aiutare, allora sarà meglio che vada via.”

“No, non andare. Dimmi cosa volevi. Ti prego.” gli chiese John, accorato.

Paul lo osservò, l’espressione ancora cupa, ma anche vacillante mentre decideva sul da farsi. Non stava andando proprio come aveva pianificato. Mentre beveva e beveva continue pinte di birra, aveva cominciato a sentirsi così caldo, così bisognoso di non stare da solo, e il pensiero di John era divenuto costante e ardente in lui. Il suo pensiero e il suo desiderio. Per questo aveva deciso di recarsi da John, sapendo che quel desiderio condiviso da entrambi, finalmente, quella sera poteva avverarsi.

“Volevo solo che mi stringessi e mi aiutassi a non pensare.” mormorò, abbassando lo sguardo.

“A cosa?” domandò John, dolcemente.

"A cosa?” ripeté Paul, tornando con uno scatto improvviso a guardare John, “Ti basta lo schifo di vita che mi ritrovo?"

John si accigliò appena. Davvero non stava capendo nulla di tutto ciò che stesse accadendo a Paul. Solo la sera prima stava così bene, e ora sembrava totalmente distrutto, quasi un'altra persona; quel lato irrazionale che era sempre stato celato in lui, ora stava uscendo allo scoperto. E se finora era stato controllato in qualche modo da Paul, accettando i suoi sentimenti per John e lasciandosi andare in molti aspetti della sua vita, adesso sembrava invece incontrollabile. Era totale follia, anarchia, e il tutto era guidato da una profonda rabbia di cui John non conosceva la provenienza.

"Paul, calmati ora.” lo rassicurò John, allungando le mani per cercare di sfiorare le sue braccia, “Qualunque cosa sia successa, possiamo risolverla insieme."

"No che non possiamo.” ribatté Paul, frustrato, decidendo di indietreggiare verso l’ingresso, “Non puoi fare niente tu né nessun altro. Sono solo. Di nuovo, sono fottuto, sono-"

"Attento!" esclamò John, quando Paul perse nuovamente l’equilibrio nel bel mezzo del suo sfogo.

Ma questa volta John non fu abbastanza rapido e Paul cadde a terra, battendo con un tonfo contro il pavimento.

"Ahi!" si lamentò subito dopo, con una smorfia.

John lo osservò, trattenendo a stento un sorriso perché nonostante tutto, nonostante gli occhi rossi e assenti, le labbra screpolate dal freddo, e l'alito e i vestiti intrisi di alcol, Paul aveva ancora quell'aria innocente che John trovava semplicemente adorabile in lui.

Perciò si inginocchiò a terra, allungando una mano verso il suo viso.

"Paul, tu non sei solo. Non lo sarai mai più, perché devi sapere che non ho intenzione di lasciarti tanto presto. E qualunque cosa sia successa a te, ora riguarda anche me, per questo so per certo che insieme possiamo superarla. Fidati di me, Paul, per favore."

Paul, con gli occhi lucidi per le lacrime imminenti, causate un po’ dalla sua rabbia, un po’ dall’alcol e un po’ dalle rassicuranti parole di John, si avvicinò per nascondere il viso nel suo petto, aggrappandosi con forza alla camicia, mentre iniziava a piangere. John sospirò con sollievo, e lo strinse tra le sue braccia, non potendo fare altro che cullarlo dolcemente e aspettare che il pianto si calmasse.

Non disse niente, mentre Paul piangeva, era solo felice che si fosse finalmente fidato di lui. Aspettò, quindi, pazientemente che lo sfogo di Paul si completasse, e quando questo accadde, Paul singhiozzò fortemente.

"John?" domandò, e si scostò dall'uomo, mostrando i suoi occhi gonfi e le sue guance umide.

John sorrise incoraggiante, sperando che finalmente potesse sapere cosa fosse accaduto.

"Sì, Paul?"

Ma la risposta che ricevette fu ben diversa e decisamente meno soddisfacente.

"Mi viene da vomitare."

****

Pochi minuti e qualche incontro ravvicinato con il gabinetto dopo, Paul, ripulito, stanco e leggermente più lucido, si ritrovò sotto le coperte del letto di John insieme a lui.

Questi avvicinò una mano per accarezzargli una guancia, “Allora, si può sapere cosa è successo?”

Paul singhiozzò, rannicchiandosi di più sotto le coperte, e infine si convinse a raccontare ciò che era accaduto quel tardo pomeriggio. Alla fine del racconto, John sembrava arrabbiato e sorpreso, almeno tanto quanto lo stesso Paul, il che per lui fu già un dolce conforto. Era come se con quell’espressione gli avesse fatto capire che non era nel torto, anzi, il torto era stato fatto a lui.

“E’ stato fottutamente cattivo, Paul.” sbottò indignato.

Paul annuì, sospirando rassegnato, “Non pensavo che avessero addirittura già contattato qualcun altro.”

“Non avrebbero dovuto farlo, infatti.” protestò John, accaldato.

"Invece..."

Paul si voltò per sdraiarsi sulla schiena e far perdere lo sguardo sul soffitto. John lo osservò, sentendo il proprio cuore scalciare furioso nel proprio petto. Furioso per quanto stesse accadendo a Paul, ma ancor di più per quanto stesse per fargli proprio John, John di cui Paul si fidava, Paul che magari lo amava-

"Non ci pensare ora, Paul.” si affrettò a dire John, ma sembrava più diretto a se stesso che all’altro uomo, “Devi reagire."

"Cosa posso fare?" domandò Paul, e rivolse i suoi grandi occhi dolci verso John.

E John sapeva maledettamente cosa dovesse fare Paul.

"Catturare Hermes.” sospirò, lasciando vagare le sue dita tra i capelli scuri di Paul, “Solo questo."

Paul scosse il capo, totalmente abbattuto, "Come? Non ci sono riuscito fino ad ora."

"Ora sarà diverso.” lo rassicurò John, convinto, “Vedrai che ce la farai."

Paul sembrò accorgersi di quella convinzione e provò a farla sua, soprattutto perché veniva da una persona così importante come John.

“Grazie.” disse infine, accennando un sorriso, lasciando che John lo attirasse sul proprio petto, "E scusa per prima."

"Non ci pensare, piccolo.” ribatté lui, con una dolce risata, “Dormi tranquillo ora."

Paul annuì, prima di chiudere gli occhi e cercare un po' di sonno ristoratore. John lo aiutò, tranquillizzandolo con le carezze sulla sua schiena e sui capelli, fino a quando Paul si addormentò tra le sue braccia.

Poteva essere una situazione rilassante, stare lì con Paul, riscaldato dal calore del suo corpo, cullato dal suo respiro profondo.

Eppure il cuore di John era in tumulto per un motivo ben diverso.

Ora John sapeva cosa fare.

La vista di Paul in quello stato era stata illuminante. John avrebbe dovuto fare qualcosa per rimediare. Qualcosa che non aveva mai pensato di fare.

Certo, gli sarebbe costata un'intera vita. Avrebbe perso Julian e i suoi amici. Avrebbe perso anche Paul.

Ma doveva.

Era l'unico modo per evitare che Paul perdesse il lavoro e che John impazzisse con il senso di colpa.

Hermes doveva farsi arrestare.

 

 

Note dell’autrice: eh sì, le cose si stanno complicando per John e Paul. :’(

E si stanno complicando anche per me. ç_ç Help, la storia diventa difficile e io sono pure sotto esame e non riesco a scrivere come vorrei. Ma ce la farò, promesso.

Grazie a kiki per la correzione e l’incoraggiamento perenne, e grazie a Beatlesmusicismylife e paperback writer per aver recensito lo scorso capitolo. :)

Sto notando un calo nella partecipazione, e mi chiedevo se fosse dovuto a un peggioramento dei capitoli, oppure a qualche altro motivo. :/

Comunque, il prossimo capitolo, si intitola “If I fell”. Spero tanto di pubblicarlo martedì prossimo. J

Buona giornata

Kia85

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** If I fell ***


I’ll get you

 

Capitolo 22: “If I fell”

 

Mancava meno di un mese a Natale e Londra era stata addobbata con le caratteristiche luci che coloravano e facevano brillare le strade della città.

Le luci di Natale erano una delle poche cose che fossero sempre riuscite a contagiare Paul, rendendolo entusiasta per le imminenti festività. Avevano questo straordinario potere di rendere tutto incantevole, quasi magico; non si trattava solo delle vetrine dei negozi e delle strade. Era tutta l'atmosfera a cambiare, erano le persone a percepire questo cambiamento e renderlo reale, le persone che diventavano più buone con il prossimo.

Ogni anno Paul restava affascinato dall'incantesimo esercitato da questa semplice festività. Lui ovviamente non era da meno, e nonostante non stesse passando un bel periodo per quanto riguardava la sua carriera, fu con molta gioia che recuperò i primi addobbi natalizi per la sua casa. Comprò una bella ghirlanda con il pungitopo, poi un piccolo albero di Natale con le luci, le palline e i nastri.

Quella sera stessa decise di preparare l'albero, mentre ascoltava il cd che gli aveva regalato John qualche giorno prima. Non gli aveva ancora detto che l'aveva già ascoltato non una, ma diverse volte. Gli piaceva moltissimo. C'erano davvero tutte le canzoni che avevano suonato insieme, e ogni volta che lo ascoltava, a Paul sembrava di rivedere tutti i momenti trascorsi insieme, dal quel primo, strano, diffidente incontro fino agli ultimi giorni, agli sguardi pieni di calore, agli abbracci, ai baci...

Paul sorrise fra sé mentre pensava che tutto questo sembrasse quasi un film. Un film che desiderava non avesse mai fine.

Al contrario del cd di John. La lista delle tracce terminava con una canzone che Paul conosceva, ma non aveva mai cantato né suonato con John. Era Can't help falling in love di Elvis. Paul, pur avendo avuto i suoi problemi con la musica, aveva sempre apprezzato quella canzone. Ma ora, ora che John l'aveva cantata apposta per lui... Beh, ora la amava.

E fu con un dolce sussulto al cuore che capì.

Forse John aveva inserito quella canzone per qualche motivo. Forse voleva comunicargli qualcosa in particolare, qualcosa che ancora non gli aveva detto e non riusciva a dirgli di persona.

Forse John lo amava?

La domanda lo lasciò tutto d'un tratto stordito, tanto che la sua mano fece cadere sul pavimento la pallina rosso rubino destinata a uno dei rami dell'albero.

John lo amava davvero?

E Paul? Poteva amare un altro uomo?

Paul arrossì fra sé, mentre si chinava a raccogliere ciò che aveva fatto cadere maldestramente.

Sì, certo che poteva. Poteva e voleva amare John. Sarebbe stato uno stupido a non ammetterlo. Non era una storia che aveva intrapreso per divertimento o per dimenticare Jane.

Era importante, era la cosa più straordinaria di tutta la sua vita e per nessun motivo al mondo avrebbe rinunciato tanto facilmente a John.

La riproduzione del cd in quel momento terminò e Paul, ancora preso dai suoi pensieri, si apprestò a riporlo nella sua custodia.

Aveva bisogno di dirlo a John. Doveva farlo perché era giusto che John sapesse. Ma come? Come trovare il momento giusto, la giusta atmosfera, le giuste parole?

Il giovane uomo mormorò, pensieroso, rigirando distrattamente il cd tra le mani, mentre andava ad accomodarsi sul suo divano. Quando lo sguardo gli cadde sulla copertina, vide ancora una volta quella semplice, piccola, piccolissima dedica, Per Paul, da John.

Una risata gli sfuggì dalle labbra, mentre l'idea perfetta nasceva nella sua mente.

Era giunto il momento di fare qualcosa.

Per John, da Paul.

****

John si infilò la giacca e guardò il proprio riflesso.

Dire che provasse ribrezzo per se stesso era limitativo. In effetti, era più corretto dire che si facesse letteralmente schifo.

Quell’uomo che lo fissava dallo specchio era la persona più falsa del mondo. Era la meschinità personificata, si era ricoperto di un'onta che l'avrebbe accompagnato per il resto della sua vita, qualcosa che avrebbe sempre rimpianto, che l'avrebbe tormentato fino alla fine dei suoi giorni.

Che razza di uomo con un po' di senno avrebbe potuto fare qualcosa del genere a una persona che amava? Cosa gli era passato per la testa quando aveva cominciato quella storia?

Qualunque cosa fosse, era comunque sbagliata e ora John meritava di soffrire.

Soffriva ogni volta che parlava con Paul, ad ogni suo sorriso, ad ogni suo bacio. Soffriva anche solo a guardarlo. Non c'era alcun modo in cui lui potesse proseguire quella storia. Almeno, continuando a nascondergli la verità. Una verità che corrispondeva a una sicura perdita di Paul per John. Ma era giusto così. Doveva resistere solo un altro giorno. Un ultimo giorno di sofferenza, di amore, di Paul.

Perciò ora stava preparandosi per recarsi a casa sua. Paul l'aveva invitato a cena: gli aveva detto che avrebbe preparato lui. John si lasciò scappare una risatina, ricordando quanto fosse entusiasta ed elettrizzato il giovane uomo mentre gli illustrava il programma della serata. Lui era stato inizialmente un po’ restio ad accettare, si trattava pur sempre della sera prima dell’ultimo colpo di Hermes, quello decisivo. Ma Paul aveva insistito, pregandolo, sostenendo che avesse bisogno di stare con lui, solo con lui, quella sera, per non pensare a cosa lo aspettasse il giorno dopo.

E così John si era arreso e aveva accettato. D’altra parte, resistere sarebbe stato complicato, per non dire impossibile. C’era una luce sul viso di Paul, faceva brillare i suoi occhi più del solito e rendeva il suo sorriso pieno di calore. John temeva di conoscere il motivo dietro quell’atteggiamento. Un simile invito non si riceveva per caso, ci doveva essere qualcosa sotto, Paul doveva avere una qualche idea in serbo per quella serata da trascorrere insieme.

Quando John l’aveva capito, si ritrovò molto confuso: se da una parte l’idea lo incuriosiva e intrigava, dall’altro lo faceva sentire come se volesse rifiutare quell’occasione. Ma come avrebbe potuto dirgli di no? Stava già per spezzare il suo cuore, almeno questo glielo doveva.

Perciò aveva portato Julian a casa di George e Pattie, promettendo al bambino che si sarebbero sicuramente rivisti la mattina dopo, prima che lui fosse andato all’asilo. Poi era tornato a casa per prepararsi e ora si era fatto coraggio una volta per tutte ed era uscito.

Si diresse con passo incerto verso la casa di Paul. Il suo cuore, come un folle, batteva forte nel suo petto e le sue dita cercavano di combattere il loro tremore per sostenere il piccolo regalo che aveva comprato per quella sera. Quando giunse di fronte alla porta su cui era stata appesa una ghirlanda natalizia, John si sistemò il colletto della camicia mentre un'ondata di calore si appropriava del suo corpo.

Era emozionato e spaventato insieme, così combattuto tra voler scappare il più lontano possibile da quella porta e da Paul e voler irrompere nella sua casa, prenderlo tra le sue braccia e non lasciarlo più. In entrambi i casi sarebbe risultato troppo avventato. Doveva trovare una via di mezzo.

Prese un profondo respiro e suonò il campanello.

Pochi istanti dopo, con passi poco aggraziati, Paul raggiunse la porta e la aprì. E quando John lo vide, la stretta al cuore che percepì gli fece capire immediatamente di aver fatto la cosa giusta.

"Ciao, John, ben arrivato." lo salutò lui, il suo volto si illuminò alla vista di John.

John sorrise con calore, osservandolo con attenzione. Indossava una bella camicia bianca sopra dei pantaloni grigio scuro, ma l'effetto elegante era annullato e addolcito da un grembiule da cucina di un bel verde scuro con tanto di pettorina. Decisamente molto virile. Con facilità John riuscì a notare anche degli sbuffi di quella che sembrava molto farina, sia sul grembiule sia sul viso.

Forse non era cortese, ma era davvero impossibile non ridere di fronte a una simile visione.

"Cos'è successo, Paul?" domandò, abbandonandosi a una debole risata, "Hai combattuto contro il mostro della farina?"

"Una cosa del genere." rispose Paul, sorridendo, "Vieni, entra."

John si accomodò dentro casa, e subito un profumino invitante solleticò le sue narici, stuzzicando il suo appetito. Poi, quando Paul chiuse la porta dietro di lui, gli porse il suo regalo.

"Tieni, qualcosa per dopo."

"Cos'è?" chiese Paul incuriosito, prendendo il regalo tra le sue mani.

"Una bottiglia di spumante."

"Oh, perfetto.” esultò Paul, “Lo apriremo dopo il dolce."

John batté le palpebre, piacevolmente colpito, "Hai fatto anche il dolce?"

"Certo. Una cena completa." spiegò Paul, rivolgendogli un adorabile occhiolino sfacciato, "Anzi, meglio andare a controllare. Deve essere quasi pronto."

Poi fece per sorpassarlo, ma John d'istinto afferrò il nodo dei laccetti del grembiule sulla schiena.

"Ehi." esclamò Paul, sentendosi tirare all'indietro.

"Aspetta un attimo." disse John e lo attirò a sé.

Non sapeva bene perché lo stava facendo, o forse sì, ma questo non toglieva il fatto che ci fosse qualcosa in Paul quella sera che stava stuzzicando un altro tipo di appetito. Così John gli prese il viso tra le mani e lo baciò, facendo ridere debolmente Paul.

“Oh, ciao, Johnny!” sospirò, compiaciuto, sulle sue labbra.

John lo guardò, accarezzando le sue guance per pulire gli sbuffi di farina, e tornò a baciarlo, ma questa volta non riuscì a resistere e lo spinse contro il muro. E mentre Paul indietreggiava, abbandonò la bottiglia di spumante sul piccolo mobile all’ingresso, proprio accanto al telefono, per permettere alle mani di stringersi sulla schiena di John.

John non sembrava in grado di fermarsi e lo inchiodò al muro, approfondendo il bacio, rendendo entrambi i respiri lievemente più affannati. Paul sospirò, avvolgendo le braccia intorno al suo collo, e inarcò la schiena, lasciando che il suo petto sfiorasse quello dell’altro uomo. Questi fece scivolare le sue dita rapidamente lungo i fianchi di Paul, stringendoli e avvicinandolo a se stesso.

Quello fu il momento in cui John si rese conto che no, non doveva andare così, ma comunque si ritrovò incapace di fermarsi, e se qualcun altro non l’avesse fatto al posto suo, probabilmente sarebbe andato avanti, permettendo al suo ardente desiderio di guidare le sue azioni. Ma per sua fortuna, un trillo riecheggiò per tutta la casa, facendo sobbalzare i due amanti.

Sembrava tanto il suono del timer.

John si allontanò leggermente dal viso di Paul, cercando insieme a lui un ritmo più regolare per il proprio respiro, ma il suo sguardo non poté in alcun modo spostarsi da Paul, dai suoi occhi che rivelavano lo stesso desiderio di John, dalle sue guance arrossate, dalle sue labbra dischiuse e umide, che si mossero appena per dire solo...

“Credo sia pronto.”

****

Quando Paul aveva detto di aver preparato una cena completa, era la verità.

Il menù era decisamente invitante: c'era un primo piatto con spaghetti alle vongole e un filetto di branzino con contorno di patate. John era rimasto davvero molto colpito da tutto quanto avesse preparato Paul. Lui gli confessò di aver cercato le ricette su internet, ma anche di aver avuto qualche piccolo imprevisto in cucina: un duello con il branzino che proprio non ne voleva sapere di farsi sfilettare. E John intuì che il piccolo imprevisto non fosse poi così piccolo quando Paul gli vietò categoricamente di entrare in cucina. Doveva aver combinato qualche disastro e John trovò tutto irresistibilmente adorabile.

La cena, tuttavia, trascorse senza problemi. Paul aveva apparecchiato in salotto, su un piccolo tavolo non molto lontano dal camino. I piatti che aveva scelto erano molto buoni e John doveva ammettere che avesse cucinato benissimo.

Il giovane ispettore, improvvisatosi chef per una sera, era stato ansioso per tutto il tempo, ansioso, per la precisione, di sapere se il suo lavoro fosse stato apprezzato da John. Così fu con molto piacere che alla fine, dopo aver mangiato un delizioso tortino al cioccolato e lamponi, John si complimentò con lui, e Paul arrossì lievemente, ringraziandolo con un gran sorriso.

“Comunque non c’era bisogno di fare tutto questo per me. Dico davvero, Paul.”

“Oh, suvvia, non è niente di che.” esclamò Paul, alzandosi piedi e iniziando a sparecchiare la tavola, “E poi ti ho detto che ci tenevo a farlo.”

John lo imitò per aiutarlo, “Sì, ma tutto questo lavoro e poi-”

Paul sospirò, prima di voltarsi verso di lui per zittirlo con un rapido bacio.

“Silenzio, ora, mi accontento di un grazie.” mormorò, arricciando il naso dolcemente, “E dei complimenti, ovviamente.”

Così John fu costretto ad arrendersi, “D’accordo, come vuoi. Ma almeno lascia che ti aiuti a lavare i piatti.”

“Non se ne parla.”

“Guarda che sono un campione nel lavare i piatti, sai, sono specializzato in pentole incrostate.” esclamò molto orgoglioso di se stesso.

Paul rise, prima di recuperare i piatti dalle mani di John e appoggiarli sulla pila che aveva già raccolto lui stesso, “Non lo metto in dubbio, ma i piatti posso aspettare anche domani mattina per essere lavati, giusto?”

“Sei sicuro?” gli chiese, mentre Paul spariva in cucina, “Perché se ti aiuto, possiamo fare in fretta.”

Paul non rispose. Si udirono solo alcuni rumori che indicavano che stesse sistemando i piatti da qualche parte, e qualche istante dopo, il giovane uomo tornò in salotto, con due calici in mano e la bottiglia portata da John.

“Sono sicuro.” esclamò Paul, appoggiando tutto sul tavolo e apprestandosi a stappare lo spumante, “Ora, piuttosto dobbiamo brindare."

John sussultò visibilmente quando Paul fece volare il tappo da qualche parte della stanza, "A che cosa?"

"Che domande! A noi." rispose Paul, sorridendogli e guardandolo maliziosamente, prima di riempire entrambi i bicchiere.

"Noi?" ripeté John, incerto, quando Paul gli porse uno dei due calici.

"Sì.” mormorò Paul con un filo di voce, facendo incontrare il suo bicchiere con quello di John, "A noi."

E dopo il leggero tintinnio dei bicchieri di cristallo, entrambi si apprestarono a bere un sorso di quel vino dolce e frizzantino, che inebriò delicatamente tutti i sensi. Questo però non impedì a John di accorgersi che la canzone in sottofondo fosse cambiata. Con suo grande piacere, la colonna sonora di quella cena era stata proprio la compilation che John aveva preparato per Paul. E ora stava cominciando l’ultima traccia, quella a sorpresa. Quella che John aveva inserito per un motivo ben preciso, quella che voleva solo dirgli che John era uno stupido, il più folle degli stupidi, ma che nonostante questo, non aveva potuto fare a meno di innamorarsi follemente di Paul.

"Allora, non mi hai ancora detto se ti è piaciuto il mio cd."

"Certo che mi è piaciuto. L’ho già ascoltato un sacco di volte.”

John si fece quasi andare di traverso lo spumante, quando sentì la risposta di Paul, “Un sacco di volte? Addirittura?” 

Paul rise divertito per la reazione di John, poi prese entrambi i calici e li portò sul tavolo.

“Hai capito.”

“Beh, questo sì che è un cambiamento.”

“E’ merito tuo.” rispose Paul, il tono della voce vellutato, lo sguardo dolce e pieno di calore.

Sembrava quasi che lo stesse accarezzando, una carezza invisibile che John poté percepire perfettamente. Una carezza che nello stesso tempo lo spaventò, e quando Paul fece per avvicinarsi a lui, John si voltò e cercò di raggiungere il lettore cd per recuperare la custodia con la lista delle canzoni.

"E ti piacciono le canzoni che ho scelto?"

Paul sorrise fra sé, notando quanto John cercasse di atteggiarsi con disinvoltura, come se non sapesse che Paul volesse solo lui quella notte.

"Oh sì, moltissimo.” rispose, avvicinandosi, “Anche se non le abbiamo suonate tutte insieme."

John rise dolcemente, e fremette quando Paul lo raggiunse e lo abbracciò da dietro.

"Te ne sei accorto, eh?"

"Credimi, se avessimo cantato insieme Can't help falling in love, me lo sarei ricordato."

"Beh…” iniziò John, portando le mani su quelle di Paul, intrecciate sul proprio addome, “Considerala una bonus track della compilation. Una specie di colpo di scena finale."

"Mi piacciono i colpi di scena." mormorò Paul, contro la pelle del collo di John, che rabbrividì piacevolmente, "Soprattutto quelli che riguardano te."

Quando Paul sottolineò la sua affermazione posando piccoli baci nell'incavo del suo collo, John chiuse gli occhi, ricordando che il prossimo colpo di scena riguardante se stesso non sarebbe piaciuto a Paul. Il pensiero fu doloroso e John aggrottò la fronte nel tentativo di cacciarlo, mentre inclinava il capo all'indietro verso Paul, provando ad abbandonarsi a lui.

Senza molta sorpresa si accorse che le mani di Paul erano risalite dalla sua vita sul suo petto, iniziando a sbottonare la camicia con straziante lentezza. Il cuore di John mancò un battito, e sebbene il suo corpo reagì al tocco di Paul riscaldandosi subito, ci fu anche qualcosa di freddo, dannatamente pesante che lo mantenne con i piedi per terra.

"Paul..." sospirò, provando a fermare le mani del giovane.

"Cosa?"

"No, per favore."

Paul si ritirò, leggermente accigliato, mentre John si voltava verso di lui.

"Perché?"

"Non lo vuoi davvero.”

“Sì, invece.”

“No, tu sei solo agitato per domani." ribatté John, decisamente poco convinto e Paul se ne accorse, prendendo subito la palla al balzo.

"E allora? Ti ho detto subito di aver bisogno di te stasera e tu sapevi che tipo di occasione sarebbe stata questa.”

“Ma…”

“Ma cosa? Lo sapevi, John, l’avevi capito, e nonostante questo, sei venuto comunque, perché lo vuoi anche tu. Perciò, perché non puoi lasciarti andare a me?”

John si morse il labbro nervosamente, cercando una risposta valida mentre osservava Paul in attesa per lui: gli occhi erano sinceri e appassionati, le labbra dischiuse invitavano solo lui, e sulla sua pelle candida come la neve danzava la luce tremolante delle fiamme del focolare.

Fu un errore guardarlo così attentamente, perché qualunque motivo John potesse trovare, fu spazzato via in un istante, lasciando spazio a ben altre domande.

Cosa lo stava esattamente trattenendo dall'appropriarsi di un simile spettacolo? Il fatto che fosse sbagliato? Che oltre a rubare il suo cuore, ora avrebbe rubato anche l’ultima cosa che fosse rimasta a Paul, il suo corpo? Perché era così, John avrebbe rubato tutto di lui.

Ma non era rubare, protestò dentro di sé.

Sì, lo era, perché Paul non sapeva tutta la verità su John, e se l’avesse saputa, di sicuro farsi toccare da lui sarebbe stato il suo ultimo desiderio.

Eppure ora Paul si stava offrendo a lui con una tenerezza che… cielo, John doveva essere uno stupido per rifiutarlo ancora.

Era sbagliato, era fottutamente sbagliato, ma John era un debole e gli sbagli sono delle persone deboli. Non avrebbe resistito ancora a Paul, non poteva né voleva resistergli, soprattutto se ricordava a se stesso che Paul fosse totalmente lucido, che fosse sincero nelle sue parole e nei suoi gesti. E allora forse John poteva trovare una cosa buona in tutta quella situazione. Per una volta avrebbe potuto mostrare la sua sincerità a Paul, perché quello che provava per lui, per quanto doloroso, era anche maledettamente vero.

Così afferrò Paul per i fianchi e lo attirò a sé, scontrandosi subito dopo con la sua bocca.

Paul sorrise soddisfatto nel bacio di John e portò subito le braccia intorno alla sua vita per evitare che l'uomo potesse allontanarsi da lui ancora. Non l'avrebbe permesso perché, pur avendo visto le reticenze di John a lasciarsi andare, Paul sapeva che dentro di sé, John desiderasse stare con lui tanto quanto Paul. John poteva anche rifiutarlo a parole, ma le sue azioni erano chiare, il modo in cui le sue mani lo stringevano, la sua bocca lo baciava, il suo corpo lo cercava in continuazione. Era tutto così vero che Paul moriva dalla voglia di provarne di più.

Permise quindi alle proprie dita di riprendere l'attività che John aveva interrotto poco prima, mentre l'altro uomo si concentrava sul suo collo, avvicinandolo con una mano sulla sua nuca e l'altra sulla sua schiena.

Quando tutti i bottoni della camicia di John furono scivolati fuori dalle rispettive asole, Paul afferrò i due lembi e li aprì, mostrando il petto di John, la sua pelle calda che Paul si concesse di saggiare con le proprie dita prima e con la bocca dopo, facendo inarcare John contro di lui e gemere. D’istinto John strinse le sue dita tra i capelli di Paul, tenendolo vicino e lasciò che Paul facesse tutto quanto desiderasse per tutto il tempo che voleva.

Poi, inevitabilmente, John si rese conto che anche lui volesse toccare Paul. Così portò le mani sulla sua vita, dove aiutato dallo stesso Paul, cercò di sfilare la sua camicia dai pantaloni, e quando ci riuscì cominciò a sbottonarla, più velocemente rispetto a quanto avesse fatto il suo compagno. Questi rabbrividì violentemente, lasciandosi scappare una piccola risata, per la sensazione piacevole e solleticante che le dita di John gli provocavano, accarezzando il suo petto, l'addome per poi risalire lungo la schiena e stringerlo a sé. Quando John tornò ad appropriarsi della sua bocca, facendo incontrare i loro petti, Paul si aggrappò con le mani alle spalle dell’altro uomo, e sospirò mentre faceva scivolare la camicia lungo le sue braccia per lasciarla ricadere sul pavimento.

John ricambiò subito il favore, prima di inginocchiarsi davanti a lui, sfiorando con le labbra il suo addome. Paul abbandonò il capo all'indietro, sorridendo beatamente, mentre le sue dita si tuffavano tra i capelli ramati di John, stringendoli quando le sensazioni trasmesse dall'uomo lo sopraffecero.

Le mani di John risalirono, curiose, lungo le gambe di Paul per terminare sulla cintura. Si affrettarono a slacciarla per togliere di mezzo i suoi pantaloni e la biancheria.

Paul trattenne il respiro quando sentì di essere ormai completamente nudo di fronte a John; non si era mai sentito così scoperto non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Mai si era mostrato in questo modo ad un'altra persona. Con Jane era sempre stato diverso, non provava con lei questa sensazione di totale vulnerabilità che spaventava e insieme incantava. Forse perché anche con lei in qualche modo era sempre stato sulla difensiva. C'era una parte di lui che doveva necessariamente restare sempre vigile e attenta, nonostante qualunque cosa stesse facendo. Ma ora John l'aveva cambiato e Paul per la prima volta sentì di potersi esporre in quel modo. Per John e nessun altro.

Quando abbassò lo sguardo per notare le mani di John alle prese con le sue gambe, e le sue labbra non riuscire a staccarsi dalle sue cosce, un brivido lo percorse, lasciandolo stordito, bruciante di passione e prima che le sue gambe potessero cedere lì e subito, Paul si inginocchiò per essere al suo stesso livello. Avvolse le braccia intorno al collo di John, facendo toccare le loro fronti, e chiuse gli occhi, restando così per qualche secondo, un po' per riprendere fiato, un po' per assaporare quel momento, cercando di imprimerlo con inchiostro indelebile nel suo cuore, come una cicatrice profonda non provocata dal dolore.

Quando riaprì gli occhi, sorrise a John. C'erano molte cose che avrebbe voluto dirgli, cose che aveva accettato e capito negli ultimi giorni, ma sapeva di non aver bisogno di parlare. Perché in fondo poteva vedere i suoi stessi sentimenti su tutto il volto di John, nei suoi occhi, nel suo sorriso; così, allo stesso modo John poteva leggere tutto quanto stesse provando Paul solo guardandolo in viso.

E quando Paul pensò di desiderare un bacio proprio in quel momento e l'istante successivo John catturò la sua bocca dolcemente, capì di aver avuto ragione.

Paul si sottomise felicemente alle sue azioni: lasciò che John lo accarezzasse e toccasse dappertutto, lasciò che lo stringesse a sé in modo da far aderire i loro corpi, lasciò che lo sdraiasse sul pavimento e poi sovrastasse, continuando a baciarlo e toccarlo teneramente.

Paul gemette per il piacere che John stava accendendo in lui, e sebbene cominciasse a essere un po' spaventato, allungò le mani per slacciare la cintura di John ed eliminare di conseguenza quegli ultimi indumenti rimasti sul corpo dell'altro uomo. Se qualcuno, mesi fa, gli avesse detto che lui sarebbe stato in grado, con le sue mani, con il suo corpo di far infiammare un altro uomo, e che anche Paul potesse reagire allo stesso tocco, beh, forse avrebbe riso prima di chiamarlo folle.

Eppure ora era così, ora lui era lì, sdraiato davanti al camino di casa sua, totalmente nudo, le sue gambe accoglievano il corpo di John, le sua mani mai soddisfatte percorrevano la sua pelle, la sua bocca, famelica, lo cercava in continuazione. Era questa la sua realtà, il suo presente, e no, non gli dispiaceva affatto.

Non voleva neanche fermarsi lì: voleva solo John, e voleva che John lo avesse, in un modo in cui nessun altro poteva averlo.

Silenziosamente, chiese al corpo di John di unirsi al suo, e John esitò un istante, guardandolo negli occhi socchiusi per il piacere, un ultimo istante di timore che fu rapidamente allontanato dai sospiri di Paul, dal modo in cui John lo faceva gemere, arrossire, scaldare, contorcere sotto di lui.

Paul stava mettendo da parte, solo per quella sera, tutte le sue preoccupazioni, e chiedeva a John di fare lo stesso, glielo chiedeva disperatamente con ogni parte di sé. E accontentare Paul, era l’unica cosa di cui importasse davvero a John ora.

Così nel momento in cui Paul gli sorrise dolcemente, notando la sua esitazione, il cuore di John mancò un battito. Gli sembrò quasi di morire. Morire per risorgere l’istante successivo, quando diventarono una sola cosa, quando John delicatamente lo prese, rendendolo suo, solo suo.

Il bel viso di Paul si contrasse in una smorfia di dolore, ma nonostante questo avvolse gambe e braccia intorno a lui, avvicinandolo a sé. Stretto così teneramente e sapendo che Paul stesse soffrendo, John si affrettò ad accarezzare la sua guancia prima di baciarlo dovunque le sue labbra potessero arrivare.

Quando il corpo di Paul si rilassò in modo palpabile, John prese ad amarlo.

Era così. In quel momento, avvolto dal calore di Paul, con la sua bocca che sospirava il suo nome, con le sue mani che si aggrappavano e stringevano la sua schiena, con il cuore che palpitava all'unisono con John, impostando un ritmo da seguire, John non poté sentire altro che amore.

Lo stesso che aveva acceso il corpo di Paul. Egli seguiva con incantevole perfezione i suoi movimenti, mentre un fuoco devastante, ma nel contempo così piacevole, si propagava dovunque dentro di lui.

Paul era fuoco, un fuoco che bruciava per John, un fuoco che cadeva e cadeva verso un luogo di promesse di felicità e amore e Paul voleva portarlo con sé. Così gemette apertamente e si aggrappò con più forza alla schiena di John, incoraggiando i suoi movimenti. E quando John lo strinse più vicino a sé, bruciò con lui, in un contatto di passione, di amore, di John e Paul.

Poi ricaddero sul pavimento, le braccia di Paul non avevano alcuna intenzione di lasciarlo andare e John gliene fu grato, amando la sensazione di essere avvolto dal suo corpo.

Sollevò il capo per guardarlo, mentre riprendeva fiato. Il suo respiro affannato si unì a quello di Paul, che sorrise dolcemente mentre la sua mano si muoveva per spostare i capelli umidi sulla fronte di John.

"John?"

La sua voce era leggermente graffiata, ma ancora la più dolce per John.

"Sì?"

"Devo dirti una cosa."

Con un sussulto doloroso al cuore, John lo osservò, percependo il proprio respiro mozzarsi in gola. Sapeva cosa stava per dirgli e la cosa lo spaventava a morte.

"Io ti a-"

Così, veloce come un fulmine, John lo zittì con un bacio. Cosa non avrebbe dato per sentire quelle parole pronunciate dalla bocca di Paul… Ma no, questo no, non poteva permetterlo.

"Shhh. Non dirlo ora."

"Perché?" domandò, perplesso, Paul.

John si spostò al suo fianco, per poggiare poi il viso e le mani sul suo petto.

"Voglio solo stare così per ora. Ti prego."

Paul lo guardò ancora insicuro per un istante, ma poi sorrise, stringendo le braccia attorno a John, tenendolo vicino, in silenzio, come desiderava lui.

Era ovvio che John avesse capito cosa stava per dirgli, anche se per Paul non era altrettanto chiaro perché l'avesse fermato. Tuttavia aveva offerto tutto se stesso a John quella sera e pensò che forse, non fosse davvero necessario dover specificare anche a parole che fosse innamorato di lui.

Perdutamente innamorato di lui.

 

 

Note dell’autrice: ebbene, siamo ormai alla vigilia dell’incontro finale. Aiuto, ho iniziato a scriverlo e già sto male perché ci avviciniamo lentamente alla fine della storia. Salvo modifiche dell’ultimo momento, siamo ufficialmente a -6 capitoli.

Comunque, la scena "rossa" del capitolo... E' ovviamente una scena d'amore, ma ho cercato di descriverla rispettando i parametri del rating arancione, se per caso dovesse essere troppo, potete anche farmelo notare così provvedo a cambiare. :) Inoltre... è con molta gioia che pubblico questo capitolo dopo aver visto The normal heart. Quel film è una pugnalata al cuore, ti strazia l’anima ma è davvero stupendo. ç_ç

Grazie a kiki per la correzione. Grazie a Beatlesmusicismylife e Astoria McCartney per aver recensito lo scorso capitolo. Ce la faremo ad arrivare a 100 recensioni? :)

Prossimo capitolo, “Run for your life”, martedì prossimo, spero. ;)

Buona giornata

Kia85

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 24
*** Run for your life ***


I’ll get you

 

Capitolo 23: “Run for your life”

 

Non c’è bisogno di specificare cosa avesse svegliato John la mattina dopo. Semplicemente perché non si era mai addormentato durante quella notte.

Non aveva potuto chiudere occhio.

Troppe emozioni lottavano fra loro dentro di lui, tenendolo, di conseguenza, sveglio.

Per questo motivo aveva passato tutta la notte stringendo Paul a sé, guardandolo dormire, ammirando la sua massa scura di capelli che ricadeva sul suo petto, rabbrividendo quando il suo respiro diventava più profondo e solleticava la sua pelle.

Di tanto in tanto si concedeva di accarezzargli il braccio con delicatezza o sfiorare la sua testa con le labbra, facendo attenzione a non svegliarlo, anche quando il sole iniziò a sorgere. Dopotutto, sarebbe stato un vero peccato rovinare quella sua espressione sognante e serena.

No, John non voleva affatto disturbarlo.

Gli avrebbe arrecato già abbastanza dolore quella sera, non c’era alcun bisogno di svegliarlo. Anche perché non sarebbe stato pronto per affrontarlo, non quando la loro prima notte insieme corrispondeva anche all'ultima. Che cosa gli avrebbe dovuto dire? Non trovava parole che potessero esprimere quello che provava. O forse avrebbe anche potuto trovarle, ma il problema era che ci fossero troppe cose che avrebbe voluto dirgli. Come stai? Mi dispiace. Perdonami. Ti amo.

John non avrebbe mai potuto trovare un ordine in quella lunga lista. Per non parlare del fatto che Paul, una volta svegliatosi, avrebbe potuto desiderare riprendere il discorso che John aveva interrotto bruscamente la sera prima, e John non aveva cambiato idea a riguardo.

Paul non poteva dirgli quelle cose. Non in quella situazione. Forse neanche c'era bisogno che gli rivolgesse parole simili, eppure sembrava qualcosa a cui Paul tenesse. John l'aveva notato non solo quando lo aveva interrotto baciandolo, ma anche un attimo prima, prima di diventare una sola cosa, Paul l'aveva guardato come se stesse per dirglielo, ma poi aveva desistito, consapevole del fatto che in quel momento non ci fosse davvero alcun bisogno di parole.

Tuttavia quella mattina Paul non si sarebbe arreso e John voleva impedire a tutti i costi ciò che avesse in mente. Così, mentre godeva degli ultimi istanti di calore concessi dal corpo di Paul, John rifletté e l'unica soluzione per evitare un possibile confronto era quella di correre via.

Non sarebbe stato giusto, ma Paul avrebbe capito, come sempre. Inoltre John aveva promesso a Julian di vederlo prima dell'asilo e lui manteneva sempre la parola data a suo figlio, anche se d'ora in poi sarebbe stato decisamente più complicato.

Sì, l'unica soluzione era scappare. La sua ultima fuga da Paul.

Si alzò dal letto su cui si erano sdraiati la sera precedente per dormire, e recuperò in silenzio i propri vestiti. Poi, prima di andare via, si assicurò che Paul fosse coperto bene e sfiorò la sua fronte con le labbra.

L'espressione di Paul era ancora serena e contenta. John lo prese come un segno. Forse non si sarebbe arrabbiato per non aver trovato John al suo fianco quella mattina in particolare.

Ma in fondo che importava?

Era davvero così importante, sapendo che comunque Paul avrebbe avuto presto motivi ben più appropriati per odiarlo?

Sì. Certo che importava. Ormai John era condannato, questo era poco ma sicuro.

Ma fintanto che avesse potuto essere ancora la causa di un semplice sorriso da parte di Paul, beh, allora lui avrebbe combattuto per quel sorriso.

****

Paul si stiracchiò lentamente, strizzando gli occhi mentre tornava alla realtà.

Tornare alla realtà fu la cosa più dolce quella mattina, perché svegliarsi implicava che la mente di Paul fosse  riportata alla sera prima e inondata da immagini che fecero comparire un sorriso sulle sue labbra.

Quello prima di aprire gli occhi e rendersi conto che, nonostante avesse trascorso la sera con John, nonostante si fossero addormentati insieme nel suo letto, l’uno tra le braccia dell’altro, ora Paul era solo.

Accanto a lui, il freddo, il silenzio, il vuoto.

John era scomparso per qualche motivo, insieme a lui tutti i suoi vestiti, e la coperta ben tirata affinché Paul non prendesse freddo non lasciava alcun dubbio sul fatto che John fosse decisamente andato via di casa.

La realizzazione colpì fortemente Paul. Avrebbe desiderato potersi svegliare accanto a lui, poterlo guardare con occhi ancora assonnati e condividere con lui un bacio pigro, prima di fare colazione insieme. Sarebbe stato il perfetto inizio per una giornata che si prospettava essere molto difficile per Paul. 

Purtroppo non era andata così, e la questione accompagnò Paul mentre provvedeva da solo a tutto quanto avesse immaginato. Aveva anche controllato se ci fossero messaggi sul cellulare, o se per caso John avesse lasciato un biglietto prima di andare, ma niente da fare. E più Paul ci pensava, più non capiva per quale motivo John fosse andato via.

Era successo qualcosa?

O forse aveva a che fare con Paul e quello che era accaduto tra loro la sera prima?

Paul si morse il labbro, quando giunse a quell’opzione. No, non poteva essere questo.

Tuttavia era anche vero che John era stato molto reticente all’inizio, per cui forse… si era pentito?

Perché avrebbe dovuto essere pentito? Paul non aveva alcun rimorso, Paul sarebbe tornato indietro e avrebbe rifatto tutto da capo, Paul aveva amato ogni singolo momento di quella sera con John, e il dubbio che per lui non potesse essere stato lo stesso lo stava facendo impazzire.

Decise che avrebbe dovuto chiarire questa situazione con John prima di qualunque altra cosa quel giorno.

Per questo motivo, dopo essersi preparato, uscì di casa, recuperò un po’ di muffin appena sfornati dal bar più vicino, e si recò nel negozio di John con il cuore scatenato nel suo petto per la sola idea di parlargli, toccarlo, vederlo.

Quando entrò, il campanello suonò richiamando l’attenzione di George al bancone. Il cuore di Paul si calmò un istante, rendendosi conto che John non c’era. Ma durò davvero la frazione di un secondo, perché non vederlo lì lo fece preoccupare.

Che fosse davvero arrabbiato? Ma per cosa? Non era successo nulla di male, allora perché sembrava che lo stesse evitando?

Una parte di lui cercò di farlo ragionare. Solo perché non l’hai trovato in negozio, non significa che ti stia evitando, sciocco ragazzo.

Paul convenne che avesse ragione e si affrettò a salutare George, che ricambiò il saluto.

“Quale buon vento?” gli chiese George.

“Ho portato dei muffin per la colazione.” rispose Paul, sorridendo e porgendo il pacchetto al ragazzo.

George sembrò sorpreso e accettò con piacere il pensiero, “Grazie mille, Paul.”

“John non c’è?” domandò, cercando, e fallendo, di mostrare noncuranza.

“Veramente…” iniziò a dire, guardando incerto la tenda alla fine del bancone.

Paul lo osservò perplesso, aggrottando la fronte, ma prima che potesse seguire il suo sguardo, sentì la voce di John.

“Ci sono, ci sono.”

Quando infine apparve dalla tenda, Paul si lasciò scappare un sorriso caloroso.

John percepì la solita fitta dolorosa al cuore che gli causò, come risposta, un sorriso assai debole per Paul. Aveva sospettato che Paul l'avrebbe cercato e John pensava di essere preparato a riceverlo. Eppure vederlo effettivamente lì, aveva mandato facilmente in frantumi tutta la sua presunta preparazione.

"Ciao, Paul."

"Ciao, John."

L’uomo si morse il labbro, provando l’immensa voglia di stringerlo tra le sue braccia, ma davanti a George era difficile. Così fece un cenno con la testa a Paul per dirgli di seguirlo e Paul obbedì, raggiungendo John nel suo piccolo nascondiglio. Nel momento in cui la tenda fu ben chiusa, John si voltò verso di lui e lo attirò a sé, prima di baciarlo appassionatamente.

Paul sospirò sorpreso, ma compiaciuto, mentre rispondeva al bacio e avvolgeva le braccia intorno al suo collo, e quando John si allontanò da lui quel tanto che bastava per far incontrare le loro fronti, il giovane ispettore rise dolcemente.

"Cosa c'è?" domandò John, incuriosito.

Paul scosse il capo, "Niente. Stavo per chiederti se qualcosa non andasse, visto che stamattina te ne sei andato senza svegliarmi, ma a quanto pare non ce n'è bisogno.”

"È solo che avevo promesso a Julian di vederlo prima che andasse all'asilo." rispose, portando una mano tra i suoi capelli.

"Non devi giustificarti." affermò Paul, sorridendo prima di rubargli un altro rapido bacio, “Mi basta sapere che tu non sia arrabbiato.”

“Beh, non lo sono.” rispose John, accarezzandogli poi una guancia delicatamente con il dorso delle dita, “Tu invece? Stai bene?”

“Ma certo che sto bene. Mai stato meglio.”

John annuì lentamente e gli sorrise, spostando un ciuffo di capelli ribelli dalla frangia del giovane uomo stretto tra le sue braccia.

Cercò di godere di quei momenti più a lungo che poteva, sapendo per certo che fosse l’ultima volta che potesse stringerlo. L’ultima occasione che aveva per toccarlo, assaporare le sue labbra, sentire il suo profumo…

L’ultima occasione, anche, per poter sentire le stesse cose su se stesso. Il pensiero quasi lo fece soffocare, ma non poteva davvero lasciarsi andare proprio lì tra le sue braccia. Non voleva anticipare il momento in cui l’avrebbe perso per sempre.

“Sei nervoso per oggi?”

L’espressione entusiasta di Paul cambiò rapidamente in qualcosa di più malinconico e lui si morse il labbro, chinando lo sguardo.

“Un po’.” ammise.

“Andrà tutto bene, Paul."

Paul sorrise dolcemente, "E tu come fai a saperlo?"

"Chiamalo sesto senso." rispose John, scrollando le spalle.

"Allora mi conviene fidarmi di te e del tuo sesto senso.” esclamò maliziosamente, “Sembra alquanto affidabile."

"Oh, lo è di certo."

"E lo scenario che suggerisce è allettante."

"Decisamente."

"Allora se dovesse avere ragione, e io dovessi catturare Hermes, potremmo poi andare a visitare questa mostra di Elvis insieme, che ne dici?"

John lo guardò, mentre Paul gli rivolgeva un sorriso pieno di attesa, e la visione fu così contrastante: Paul era sincero, John invece un bugiardo. Era sempre stato questo il problema con Paul. Lui aveva questa capacità incredibile di mostrarsi a John per come era davvero, e ricordare come fosse chiuso e riservato all'inizio non fece che peggiorare lo stato d'animo di John perché, come aveva sempre detto Paul, era solo merito suo quel cambiamento.

Questo permise a John di vedersi come era davvero: un uomo meschino che non meritava neanche un briciolo della felicità che potesse offrirgli quel giovane, splendido ragazzo.

Era giusto che John facesse quella fine. Ora finalmente avrebbe pagato per le sue colpe, colpe che aveva commesso inseguendo un sogno certamente appassionato, ma di certo John non aveva scelto la via più corretta per inseguirlo. Anzi, non solo questa via non fosse corretta, ma stava anche per fargli perdere quella promessa di felicità che il destino, beffardo e vendicatore, gli aveva mandato nelle vesti del suo nemico numero uno.

Ma John non poteva combattere contro il destino perché era tanto più forte di lui. Così non poteva fare altro che aspettare la sua condanna in un'attesa straziante.

"Dico che sarebbe molto bello."

"Bene.” mormorò, allargando una mano all’altezza del suo cuore, “Considerati prenotato per un appuntamento con me allora."

John fece per sorridere divertito, e proprio nel bel mezzo del sorriso Paul lo baciò, stringendosi a lui così forte che il cuore di John sussultò. Poi quando si allontanò, Paul strofinò il naso contro quello di John.

"Devo andare ora. Non voglio fare tardi."

"Certo." disse John, anche se le sue braccia non sembravano avere alcuna intenzione di lasciarlo andare, così che Pau rise debolmente.

"John?"

"Oh, sì. Scusa."

"Ti chiamerò al più presto."

John annuì. Cosa poteva dirgli, quale poteva essere l’augurio perfetto, sapendo a cosa stavano entrambi andando incontro?

Ovviamente, nessuno.

Qualunque cosa sarebbe apparsa come uno stupido scherzo.

Ma non poteva lasciarlo andare così, Paul si aspettava un ultimo incoraggiamento. E alla fine John decise.

“In bocca al lupo, Paul."

“Crepi.”

Paul gli sorrise un'ultima volta, prima di voltarsi e andarsene. John dalla sua finestra lo guardò correre via.

Lo guardò correre verso una nuova vita, correre lontano dalla vita di John.

Correre per andarsene per sempre.

****

Un po' nervoso.

Aveva detto a John di essere solo un po’ nervoso.

Balle!

La verità era che Paul fosse quasi sull’orlo di un attacco di panico. Alla fine di quella giornata il suo destino si sarebbe compiuto, e lui avrebbe saputo cosa ne sarebbe stato della sua carriera. Una carriera che aveva costruito faticosamente, e che ora un piccolo ladruncolo da strapazzo stava per mandare in frantumi, semplicemente, così tanto che sembrava quasi un fragile castello di carte sotto l’azione della più debole brezza.

Come era potuto accadere?

Paul non sapeva davvero come spiegarselo. Dopotutto, quando era giunto a Londra era così diverso. Un tempo avrebbe affrontato tutto con maggiore freddezza e determinazione.

Ma ora sentiva solo calore, passione, voglia di vivere appieno la vita che gli era stata donata, desideri che occupavano ogni parte del suo corpo, della sua anima. Erano sempre stati presenti dentro di lui, ma le vicissitudini passate li avevano coperti con il loro manto ghiacciato. Ora però qualcuno li aveva portati di nuovo allo scoperto, lasciando che la loro natura si mostrasse completamente.

John era l’autore di tutto questo.

Per cui sì, forse andare a Londra l’aveva cambiato, ma Paul non poteva rimpiangere neanche per un solo istante quella nuova avventura, perché l’aveva portato ad avere John.

E quella sera avrebbe combattuto anche per lui. Catturare Hermes significava poter continuare a lavorare a Londra e non venire trasferito in qualche posto sperduto del Regno Unito; e lavorare a Londra significava poter restare con John e vederlo tutti i giorni, ogni qualvolta Paul lo desiderasse.

Catturare Hermes ora era più importante che mai.

“Paul?”

L’ispettore si destò dai suoi pensieri in tumulto e si accorse di Linda al suo fianco.

“Sì, dimmi pure, Linda.”

“Volevo solo informarti che tutti gli agenti sono ai propri posti.”

“Grazie.”

Si trovavano in una maestosa villa nel quartiere di South Kensington, proprietà di un ricco imprenditore, che l’aveva messa a disposizione per la mostra su Elvis. Nel primo pomeriggio avevano compiuto l’ennesima ispezione per controllare che telecamere e sistemi di sicurezza fossero a posto; poi, quando la sera cominciò a calare dolcemente, Paul aveva dato ai suoi agenti l’ordine di raggiungere le rispettive postazioni.

E ora si trattava solo di aspettare l'arrivo della sua preda.

"Ce la faremo questa volta." disse Linda, incoraggiante, "Lo prenderemo."

Paul si limitò a sorriderle con gratitudine.

Non era altrettanto fiducioso come la ragazza, ma non sarebbe andato molto lontano con un simile atteggiamento. E Paul aveva già chiarito con se stesso quanto fosse importante raggiungere il suo obiettivo quella sera.

Forse c'era una soluzione.

Solo per una sera avrebbe dovuto tornare a essere il buon vecchio Paul. Aveva molti difetti quel Paul, ora anche lui poteva ben vederli. Eppure aveva altrettanti pregi, quelli che lo avevano portato a essere uno dei più giovani e più in gamba ispettori della nazione. Un aspetto della sua carriera davvero niente male.

"Sì, Linda." esclamò, sentendo dentro di sé una nuova forza, una nuova voglia di vincere.

Quel cambiamento era necessario, fondamentale.

Solo per una sera, si disse, poi sarebbe tornato a quella che ora era la sua normalità: la musica, l'abbandono, l'amore... John!

"Lo prenderemo."  

****

John era pronto.

Forse era più corretto dire che fosse quasi pronto. Il quasi faceva una gran differenza. Si trattava di qualcosa che ora gli mancava, ma che era molto presente in tutti i suoi colpi con le sembianze di Hermes.

Era la voglia.

Non aveva alcuna voglia di entrare in azione perché sapeva bene cosa dovesse fare, e ciò che doveva fare gli avrebbe fatto perdere una delle persone che a sorpresa era diventata tra le più importanti della sua vita.

Tuttavia il senso di colpa, l'amore per quell'uomo erano così immensi che da soli bastavano a compensare l'assenza di volontà. Gli sussurravano dolcemente che fosse la cosa giusta da fare per Paul; dunque sarebbero stati loro a condurre le sue gambe.

John rigirò un coltellino tra le sue dita nervose. Era sul limitare della villa dove si stava svolgendo la mostra. Aspettava che George gli desse il via libera. Lui avrebbe distratto i poliziotti, cercando di attirarne quanti più possibile all'esterno, e messo fuori uso le telecamere, un passaggio quest'ultimo decisamente inutile visto che John aveva intenzione di farsi arrestare; ma no, questa era una cosa che George non doveva sapere.

Se l’avesse saputo, George l’avrebbe fermato, e John non voleva essere fermato. Ora era proprio come il corpo sferico nella teoria del piano inclinato: una volta partito, niente avrebbe potuto fermarlo perché qualcosa di molto più grande di lui, molto più forte lo attirava inesorabilmente verso la sua meta.

Così quando George gli comunicò di essere pronto per entrare in scena, John si preparò per tornare, solo per una sera, l’ultima sera, nei panni di Hermes.

Non voleva pensare a niente e nessuno, soprattutto a suo figlio. Lui, forse, era l’unica cosa abbastanza forte da fargli cambiare idea, ma John non era sicuro di poter continuare a vederlo crescere con il rimorso per ciò che aveva fatto. Sarebbe stato decisamente meglio se Julian fosse cresciuto con la consapevolezza che suo padre avesse infine preso coscienza dei propri sbagli e pagato per tutto. Forse l’avrebbe odiato per non esserci stato al suo decimo compleanno, all’inizio della scuola superiore, alla sua prima cotta, ma John sarebbe stato in pace con se stesso. Pensava che tutti avrebbero giovato dalla sua decisione.

Ecco perché doveva farlo, pensò tirando il cappuccio della sua felpa ben sopra la testa.

Ecco perché andava incontro alla sua ultima missione, quella da cui non sarebbe più scappato.

Quella senza fuga.

****

Gli ci volle un secondo per capire che infine stava accadendo.

Per quanto Paul potesse sentirsi preparato, beh, fu comunque una sorpresa quando il suono acuto dell’allarme squarciò il silenzio che avvolgeva il grande edificio.

Tuttavia il giovane ispettore si riprese in fretta.

L’allarme indicava che qualcuno fosse penetrato all’interno del terreno circostante. Le telecamere avevano ripreso una figura non ben identificata che aveva scavalcato il cancello, e Paul era stato subito avvisato.

L'istinto gli diceva di non far uscire tutti i suoi uomini dalla villa. Così, ordinò solo a una parte di essi di andare a inseguirlo fuori, mentre lui e un'altra squadra sarebbero rimasti all'interno.

Aveva una strana sensazione, quando restò a guardare i suoi agenti uscire dall'edificio. Gli sembrava solo una trovata per deviare la sua attenzione. Quell'uomo che si era lasciato riprendere dalle telecamere era stato avventato e Hermes non si era mai comportato così. La logica conseguenza di quel ragionamento era che certamente Hermes non fosse l'uomo che ora veniva inseguito dai suoi uomini. Era molto più probabile che Hermes dovesse ancora entrare in scena, per cui quell'uomo non poteva che essere il suo complice.

Forse fu per questo motivo che il suo udito divenne improvvisamente affinato, lasciando che il suono dell'allarme divenisse solo un ovattato rumore di fondo e il battito intenso del suo cuore fosse l'unica cosa a rimbombare nelle sue orecchie.

Capì che fosse giunto il suo momento ancor prima di sentire il suono di vetri infranti da una delle sale interne.

Si affrettò a raggiungere il luogo, con adrenalina e ansia palpitante che scorrevano nelle sue vene. Lo sentiva come un fuoco buono nella sua pancia: avrebbe catturato Hermes. Ne era certo.

Arrestò la corsa quando vide del fumo fuoriuscire dalla sala da cui era giunto il rumore, e subito dopo una figura con andatura traballante apparve nella sua visuale. Paul recuperò in fretta la pistola dalla fondina, ed era pronto a puntarla verso quella figura prima di rendersi conto che si trattava di Linda e che dietro di lei vi erano altri suoi agenti.

"Linda?"

"Paul... Mi dispiace..." cercò di dire tra continui colpi di tosse, "È entrato e... Ha usato dei fumogeni... Non si riesce a respirare..."

Il cuore di Paul sobbalzò.

Ci siamo.

Quello era il momento in cui poteva e doveva dimostrare quanto valesse.

Quello era l'ultimo attimo di libertà di Hermes.

"Vai a chiamare rinforzi, intanto ci penso io."

"Ma è pericoloso." protestò debolmente Linda.

"Non preoccuparti.” la incoraggiò Paul, “Vai."

Il giovane uomo si lasciò la sua squadra alle spalle e si avvicinò alla sala ancora immersa in quella nube.

Linda aveva detto che era pericoloso. In realtà Paul sapeva che quel ladro, per quanto criminale, non avesse alcuna intenzione di far del male a nessuno, soprattutto a Paul. Se avesse avuto intenzione di ferirlo, l'avrebbe già fatto. Aveva avuto occasioni per farlo. E invece Paul era ancora lì.

Paul era , a un passo dal suo obiettivo. Solo una coltre di fumo che andava diradandosi lo divideva da Hermes.

Prese un fazzoletto per coprire naso e bocca e avanzò nella sala. La pistola era ben salda nella sua mano, calda e pronta a sparare se Paul avesse voluto.

Il suo cuore batteva come un folle, preparandosi a quell'incontro che in un modo o nell'altro avrebbe cambiato la sua vita.

Le sue gambe continuavano a farlo avanzare, i suoi occhi riconoscevano le sagome delle teche con i cimeli in esposizione e poi...

Poi eccolo.

Davanti a lui, in piedi, fermo.

Quella sagoma che Paul molte volte aveva visto di spalle, ora invece lo fronteggiava.

Sicuramente si era accorto dell'arrivo di Paul.

Allora perché non stava scappando?

A quella realizzazione, Paul sentì un improvviso vuoto nel petto, come sulle montagne russe e dopo la lenta salita, quando meno lo si aspetta... bum! Di colpo la discesa.

Quell'uomo, Hermes, non stava aspettando lui.

Giusto?

****

L'aveva visto avanzare con cautela in mezzo a tutto quel fumo.

Quella figura che aveva imparato ad amare ora era lì, in quel momento, nella resa dei conti.

John stava per crollare sotto tutta la pressione di quei sentimenti contrastanti che combattevano fra loro dentro di lui. Ma stava per finire tutto. Ancora un momento, solo uno e John avrebbe ritrovato la pace.

Aveva usato tutto quel fumo solo perché sapeva che avrebbe fatto fuggire tutti, tranne Paul, l'unico che quella sera si sarebbe buttato anche in un dirupo per catturare Hermes. Se non altro, sarebbe stato solo con lui quando avrebbe spezzato il suo cuore.

Poi si era fermato, aspettandolo, aspettando Paul. Cosa avrebbe fatto o detto non lo sapeva. Sperava di trovare qualcosa da dire o fare al momento.

E così fu.

Quando Paul lo vide, si fermò davanti a lui mentre il fumo ormai andava a sparire. La pistola era nella sua mano, ma l'uomo non sembrava avere intenzione di puntarla contro di lui.

Piuttosto continuava a fissarlo come se si stesse chiedendo che cazzo avesse in mente. E John non poté fare altro che restare fermo, in attesa che Paul pronunciasse quelle parole fatidiche.

"Ti..” iniziò incerto, “Ti dichiaro in arresto nel nome di Sua Maestà."

Paul non poteva ancora credere di esserci riuscito. Stava davvero arrestando Hermes? L'uomo che gli aveva fatto dannare l'anima e messo a rischio la sua carriera?

Non sembrava vero, ma il ladro non disse né fece nulla. Si limitò a guardarlo con il capo lievemente abbassato, i suoi occhi sotto il cappuccio della felpa sembravano così chiari.

Ancora sconcertato da quanto stesse accadendo, ma soprattutto dalla facilità con cui fosse arrivato a questa agognata cattura, Paul si avvicinò, e quando prese dalla tasca quelle manette su cui dall'inizio di questa storia era riportato il nome di Hermes, il ladro sollevò le braccia, porgendo i polsi all'ispettore.

Con le mani tremanti, Paul fece per allacciare le manette, ma si fermò. C'era qualcosa che doveva fare prima.

Vedere il volto dell'uomo a cui aveva dato la caccia per mesi.

La sua mano si mosse verso l'alto fino a raggiungere la testa dell'uomo, dove afferrò il cappuccio e lo tirò con forza all'indietro, scoprendo infine un viso che per Paul era fin troppo familiare.

John riuscì quasi a sentire il rumore che fece il cuore di Paul quando si spezzò; avvenne quasi all'unisono con quello di John.

Due cuori spezzati e un unico responsabile.

"John?"

La voce di Paul uscì debole, incredula, innamorata, sconfitta. Quella di John invece sembrò essere scomparsa nel nulla.

"Non può essere."

Era bastato un attimo per far bruciare tutto ciò che di buono ci fosse in Paul quel giorno: la voglia di fare bene, la sicurezza, l'amore.

Era bastato quell'attimo per ridurlo in un mucchietto esanime di carne e ossa che non poteva credere a quanto stesse accadendo, no, vedendo.

John, John Lennon, il suo John… era Hermes? Era sempre stato Hermes? Era stato Hermes la notte quando rubava, così come il giorno quando suonava ed era impegnato a baciare Paul?

"Mi dispiace."

Sì. Era lui. Quella era la sua voce, dolce e intrigante, che aveva cantato per Paul, quelli erano i suoi occhi chiari che avevano guardato Paul, le labbra che avevano baciato Paul, la braccia che avevano stretto Paul, la mani che avevano toccato Paul.

John era Hermes.

Il volto di Paul divenne all'improvviso rosso e caldo come fuoco. Esattamente come il giorno prima, Paul era fuoco, ma questa volta era il fuoco della rabbia, della vergogna, della disperazione.

Paul si ritrovò improvvisamente debole e il suo desiderio più grande era lasciarsi cadere a terra, così come il suo corpo lo stesse implorando di fare. Ma con quel poco di dignità rimasta, decise di continuare a fronteggiare John, in piedi, permettendo a se stesso solo di far cadere le manette a terra.

"Tu..." iniziò, sapendo che tutto quanto avesse detto, sarebbe risultato banale, "Sei... Sei sempre stato tu?"

"Paul, mi dispiace, non vole-"

"Sta' zitto." sbottò Paul alzando una mano, rendendosi conto che non volesse udire alcunché dall'uomo che odiava e amava insieme.

John si morse il labbro con forza, vedendo quanto ferito e sconvolto fosse Paul, e sentì il sapore metallico del sangue sulla sua lingua.

Beh, cosa si aspettava? Qualcosa di diverso?

No, certo. Ma sentire con il suo cuore, prima che con i suoi occhi, l'effettivo dolore arrecato a Paul era terribile ora.

"Per tutto questo tempo... Tu eri... Dio, quanto sono stato coglione."

John avrebbe voluto dire qualcosa, ma qualunque cosa potesse dire era inutile e avrebbe solo sconvolto Paul ancor di più.

Il giovane ispettore, dal canto suo, non sapeva cosa fare né cosa dire.

Come aveva fatto a non accorgersene?

Era stato davvero così ingenuo?

E poi…

Doveva arrestare John?

Domande che furono spazzate via facilmente quando Paul udì il rumore di passi affrettati dirigersi verso quella sala. Doveva fare in fretta, chinarsi, recuperare le manette e arrestare John.

Ma John...

Paul conosceva quell'uomo, a differenza di tutti gli altri poliziotti. Sapeva fin troppe cose su di lui, cose che gli fecero prendere senza alcuna esitazione la decisione finale.

"Vattene."

John batté le palpebre, sconvolto. Cosa aveva detto Paul?

"Come?"

"Ho detto…” disse Paul, la voce totalmente apatica ora, “Vattene."

"Ma così... Tu perderai il posto." protestò John, cercando i suoi occhi per capire cosa diavolo stesse combinando Paul.

Tuttavia Paul non voleva guardarlo, non poteva, perciò distolse lo sguardo dall’altro uomo, "Non importa."

John scosse il capo. No, non poteva andarsene, non era ciò per cui si era preparato, non era ciò che si aspettava da Paul, dall’ispettore Paul McCartney.

"No, non posso permetterlo. Devi arrestarmi." ribadì, porgendo nuovamente i polsi.

"Ti prego, John, vai via prima che sia troppo tardi." lo implorò Paul.

"Perché?"

"Perché?” ripeté Paul, indignato, “John, c'è un bambino a casa che sta aspettando suo padre. Julian è dolce e sensibile, non merita di pagare per le tue colpe. Ha già sofferto abbastanza e non sarò io a infliggergli altra sofferenza."

John rimase senza parole. Ora capiva, non stava parlando con l’ispettore McCartney, stava parlando con Paul, il suo vicino di casa, il suo amico, il suo tutto. Lo guardò percependo il proprio cuore stringersi per amore verso Paul, verso Julian, ma anche con dolore.

"Sei stato avventato, John, e irresponsabile.” riprese Paul, “Non meriti l'amore di tuo figlio. Stavi per comportarti proprio come mio padre, quando invece avevi promesso a te stesso di stare sempre con Julian. Sei solo un vigliacco. Tuttavia, sei pur sempre suo padre. Perciò ora, sparisci dalla mia vista."

Ogni parola di Paul lo colpì nel petto, lo trafisse come la lama più fredda. Ma Paul aveva ragione in tutto quanto avesse detto. Doveva tornare da Julian e Paul gli stava offrendo questa possibilità.

Anche se significava sparire per sempre dalla vita di Paul.

Così si avvicinò a Paul che continuò a guardarlo con un'ombra scura sul suo volto, e John si sporse leggermente verso di lui, posando le sue labbra su quelle del giovane ispettore che non si mosse di un millimetro e non ebbe la benché minima reazione al gesto di John.

“Grazie, Paul.” sospirò sulla sua bocca.

Quel bacio fu l'unica cosa che John rubò quella sera.

Poi si voltò e senza guardare Paul, fece come gli aveva ordinato.

Sparì dalla sua vista.

E molto probabilmente anche dalla sua vita.

 

 

Note dell’autrice: chiedo venia per il ritardo, purtroppo ho avuto poco tempo e poca testa per dedicarmi a questo capitolo decisamente complicato, a causa sia della poca ispirazione, sia di un esame che per fortuna è andato bene. J

Allora, alla fine siamo arrivati a questo momento che almeno per quanto mi riguarda, aspettavo di scrivere dall’inizio. Avviene forse un po’ velocemente, ma mi sembrava più realistico così, vista la situazione in cui si trovavano.

Ok, per la correzione di questo capitolo ringrazio kiki, e ringrazio anche paperback_writer, mclennon, paulmccartneyismylove e beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso capitolo.

Il prossimo, “Don’t bother me”, spero di scriverlo e pubblicarlo al più presto. Ormai siamo a -5. J

Buona giornata

Kia85

 

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Capitolo 25
*** Don't bother me ***


I’ll get you

 

Capitolo 24: “Don’t bother me”

 

L’ennesima telefonata da parte di John.

Paul sospirò, sdraiato sul divano, mentre il cellulare squillava e vibrava tra le sue mani. Quando sul display era comparso il nome di John, Paul era rimasto per qualche istante a osservarlo, prima di rifiutare la chiamata.

Ormai John provava a chiamarlo tre, quattro volte al giorno e puntualmente Paul rifiutava la chiamata.

Quelli erano stati e continuavano a essere giorni difficili per Paul, e tutto era cominciato ovviamente quando aveva lasciato andare Hermes, o forse doveva dire John.

Oh, al diavolo? Che importava? Erano la stessa persona, erano sempre stati una cosa sola, John e Hermes.

Sempre.

Fin dal primo momento in cui aveva incontrato John, lui era quel ladro, lui che doveva essere la preda di Paul, era diventato infine il suo predatore. Lo scambio di ruoli si era concluso con Paul convocato dall'ispettore Starkey.

Era passato solo un giorno dall'ennesimo fallimento di Paul, e quando si era ritrovato faccia a faccia con l'ispettore, questi era sembrato decisamente contrito mentre gli comunicava che sarebbe stato trasferito a Shrewsbury, una cittadina più a nord di Londra, vicina al confine con il Galles e soprattutto vicina a Liverpool. Avrebbe preso servizio con l'anno nuovo.

Sembrava proprio come tornare a casa. L'idea era migliore di quanto si fosse aspettato. Almeno non era finito in un piccolo paese di provincia come il suo predecessore, e questo, secondo Paul, era dovuto al fatto che lui avesse, se non altro, ottenuto un misero successo quando aveva arrestato il fasullo Hermes.

Ma d'altro canto, aveva fatto scappare il ladro per due volte dopo essere stato a un passo dal catturarlo, gli aveva spiegato l'ispettore Starkey, e quindi il trasferimento era obbligatorio.

Paul aveva deciso di non avvisare ancora suo fratello sul suo nuovo posto di lavoro, altrimenti avrebbe insistito per sapere quando si sarebbe sistemato a Shrewsbury. Per il momento gli bastava sapere che fosse stato sollevato dal suo incarico. Paul aveva bisogno di un po' di tempo per assimilare l'accaduto.

Se ci pensava ancora, rischiava di impazzire. John l'aveva preso in giro, dall'inizio di quella storia. Ogni attimo trascorso con John, ogni parola che gli avesse rivolto, ogni sguardo, ogni sorriso... Era tutto finto. Era accaduto tutto per un secondo fine, non certo per affetto verso Paul. A John era sempre interessato l'ispettore McCartney, non l'uomo che si celava dietro quel distintivo.

Forse persino Pepper, che ora giaceva addormentato vicino al caminetto, era stata tutta una montatura per ingannarlo. Un modo subdolo per ottenere la fiducia di Paul.

Dio, c'era qualcosa di vero nell'uomo che stupidamente credeva di amare?

Paul avrebbe voluto dire di no. No, non c'era. Con la rabbia che aveva in corpo, era semplice da affermare.

Eppure sapeva bene dentro di sé che non fosse così.

I sentimenti di John per suo figlio erano veri. Su questo non vi era alcun dubbio. Dopotutto era il motivo per cui Paul aveva deciso di lasciarlo andare.

Solo questo.

Il resto non contava più. Qualunque parola o gesto d'amore che John avesse fatto per Paul, non aveva più alcuna importanza.

E questo era qualcosa che lo faceva soffrire immensamente e insieme infuriare. Gli faceva desiderare di urlare e sbarazzarsi di ogni cosa che John gli avesse regalato, prima di piangere e disperarsi.

Ma non poteva.

Perché faceva troppo male.

Perché John non lo meritava.

 ****

Quando la sua chiamata fu rifiutata, ancora, John abbandonò il cellulare sul divano e si lasciò cadere sui cuscini soffici, attirandosi uno sguardo incuriosito da parte di Julian che giocava sul pavimento con Elvis.

Niente da fare, Paul non aveva alcuna intenzione di parlare con lui. John aveva provato di tutto: se telefonava sul cellulare, Paul vedeva il numero e rifiutava la chiamata; se John telefonava, invece, a casa, non appena Paul riconosceva la sua voce dall’altro capo della linea, metteva subito giù. E non parliamo di quando John cercava di avvicinarlo: non faceva in tempo a uscire di casa, che Paul era già sparito dietro la propria porta o nella sua macchina. Era diventato davvero bravo a sfuggirgli.

Certo, faceva male, e John capiva che Paul avesse tutte le ragioni del mondo per scappare il più lontano possibile da lui. Ma perché, perché non gli dava neanche una misera, minuscola occasione per spiegare tutto?

Forse perché non hai una spiegazione decente, sporco bastardo.

Beh, sì, era ovvio. John non aveva alcuna spiegazione per quanto gli avesse fatto, almeno, non una spiegazione accettabile da qualcuno con un po’ di senno.

Era solo che John voleva parlare con Paul. Non tanto per spiegarsi, quanto piuttosto per assicurargli di aver iniziato ben presto a sentire un po’ di rimorso per quanto stesse facendo a Paul, fino a quando questo non fosse diventato insopportabile, tanto da non fargli capire più nulla, tanto da fottere il suo cervel-

No!

No, no, no, quella era una scusa, una scusa bella e buona per giustificare il suo ignobile gesto.

No, non c’erano scuse, una persona responsabile non avrebbe trovato scuse, avrebbe solo accettato le conseguenze delle proprie azioni.

Eppure la conseguenza di ciò che aveva fatto John era troppo dolorosa. Aveva perso la cosa più bella che gli fosse capitata negli ultimi anni, e non c’era modo di riaverla. Niente di tutto ciò che John avesse potuto dire o fare, avrebbe convinto Paul a tornare da lui, tornare come prima. Non c’era modo che John e Paul potessero tornare a essere solo John e Paul, senza che le loro doppie identità di ladro e ispettore e ciò che era accaduto tra loro interferisse.

Nessun modo.

Dire che stesse per impazzire era limitativo. Stava male, non stava così male da quando Cynthia l’aveva abbandonato con Julian. Ma stavolta non c’era niente che appartenesse solo a lui e Paul che potesse salvarlo.

Se avesse potuto, si sarebbe dato un ceffone, o anche un pugno, così da trasformare un po' di quella sofferenza in dolore fisico. Se non altro, l'avrebbe aiutato a stare meglio, più in pace con se stesso. Non che avrebbe risolto i suoi problemi, naturalmente, ma era sicuro che sarebbe stato d’aiuto, almeno con il senso di colpa.

“Papà?”

John si destò dai suoi tormenti alla dolce voce del figlio che lo chiamava. Julian si era alzato in piedi e stava ora accanto a lui, con le piccole mani strette intorno al suo braccio. John si ritrovò a sorridere.

Per fortuna aveva Julian. Era la sua più grande distrazione, lo aiutava senza rendersene conto. Era stupendo.

“Cosa c’è, amore?” gli chiese, sollevandolo e facendolo sistemare sul suo grembo.

“Dopo possiamo vedere Gli Incredibili?”

John aggrottò la fronte, perplesso, “Ma l’abbiamo visto settimana scorsa.”

“Ti prego!!” implorò il bambino, unendo le mani e intrecciando le dita, "È il mio preferito."

John rise quando Julian lo guardò con i suoi occhioni da cucciolo, e alla fine si ritrovò ad annuire, impotente.

"D'accordo."

Il bambino esultò e si chinò per avvolgere le braccia intorno al suo collo, prima di baciarlo sulla guancia. John lasciò che l'amore di suo figlio provasse almeno a lenire le sue ferite. In quel caso non rappresentava, purtroppo, una cura definitiva, ma aveva una sorta di potere palliativo. Insomma, era sempre meglio che niente. C'era qualcosa nell'amore per un figlio che dava sempre la forza necessaria per andare avanti, nonostante tutto.

"Papà?"

"Dimmi."

"Possiamo far venire anche Paul a vedere il film?"

Paul.

John sentì il proprio cuore spezzarsi ancora, se possibile, udendo il nome dell'uomo che amava pronunciato dal suo bambino. Le sue braccia si strinsero attorno a Julian come per aggrapparsi, prima di cadere in un baratro oscuro di cui John non poteva vedere la fine.

Era strano, sentirlo pronunciare dopo tutto quello che era successo. Strano perché quel nome così semplice e caldo e dolce suscitava in lui le stesse emozioni dei giorni, mesi precedenti. C'era la sofferenza, ovvio, e il rimorso, ma sopra tutto c'era l'amore. Un amore tanto immenso che John non riusciva ancora a crederci di provarlo per un uomo, o anche solo che fosse così presente e importante dentro di lui. Lui che a stento si fidava delle persone, lui che di amore ne aveva ricevuto ben poco, e il primo a mostrarglielo era stato proprio il padre di Paul. Era come uno strano scherzo del fato, che tanto amore da parte di John fosse rivolto proprio al figlio di quell'uomo, come se fossero destinati l'uno all'altro.

Ma John aveva rovinato tutto, come al solito.

"No." rispose con un filo di voce, "Meglio di no."

"Perché?" domandò Julian, leggermente sconcertato dalla risposta del padre.

John si morse il labbro. Non era certamente facile spiegare qualcosa che suscitava tante discordanti emozioni alla persona più importante per lui.

"Ecco... Vedi, piccolo, io e Paul abbiamo litigato."

"Perché?"

"Beh, sai, papà ha detto una bugia a Paul." spiegò,  quasi vergognandosene.

"Ma papà!” esclamò sorpreso Julian, “Tu mi dici sempre che non si devono dire le bugie."

"Infatti è così." ribatté John, arrossendo lievemente alla più che giusta osservazione del figlio, "Ma vedi, amore, l'ho fatto per non farlo soffrire di più."

"Perché?"

"Perché gli voglio bene."

"Come me?" domandò ingenuamente.

John si alzò a sedere per guardare meglio il suo bambino negli occhi; lo osservò per diversi minuti, accarezzandogli i capelli e scegliendo con cura le parole da dire.

"Beh, gli voglio molto bene, ma in modo un po' diverso da come ne voglio a te."

"E come?"

"Come...”

Come? Ottima domanda.

Come avrebbe potuto spiegare quello che provava per Paul a suo figlio? Era certamente una situazione nuova per John e avrebbe tanto voluto l’aiuto di Paul. Era convinto che lui avrebbe trovato le parole giuste. Ma John era solo ora, avrebbe dovuto cavarsela da solo.

“Come ne volevo alla mamma, quando stavamo insieme.” spiegò attentamente John, “Capisci cosa significa?"

Julian sembrò pensieroso per un attimo, ma durò davvero la frazione di un secondo, perché poi guardò John e disse semplicemente, "Significa che viene a vivere con noi.”

John non riuscì a trattenere un sorriso, mentre accarezzava la guancia morbida e paffuta del bambino. Forse da lui non poteva pretendere di più. Era ancora piccolo e il concetto dell’amore tra due persone era ancora troppo vago per lui, soprattutto perché non aveva mai visto suo padre con un’altra persona, né tantomeno con sua madre.

“Beh, sì, qualcosa del genere.” esclamò dolcemente, “Ti piacerebbe?”

“Può giocare con me?”

“Certo.”

“Allora va bene.” esclamò Julian, sorridendo.

"Prima però devo farmi perdonare da Paul."

"Devi chiedere scusa. Bisogna dire scusa quando si dice una bugia, vero, papà?"

John sussultò lievemente alla domanda del bambino. Ma certo. La risposta ai suoi tormenti era così semplice. Come aveva fatto a non pensarci prima?

"Sì, piccolo." affermò John, stringendolo calorosamente al proprio petto, "È vero."

Julian aveva ragione, John doveva scusarsi.

Era stato così impegnato a trovare scuse che potessero spiegare o giustificare quanto avesse fatto a Paul, che non aveva capito che la prima cosa da fare era chiedere un sincero ‘Scusa’ a Paul.

Anche se lui non l'avrebbe accettato.

Anche se non avrebbe cambiato nulla.

John doveva chiedere scusa.

****

Recuperare tutti i suoi effetti personali dal suo ufficio, per lasciarlo libero al suo successore, era stato più difficile del previsto.

Gli erano sembrati davvero numerosissimi tutti gli oggetti che gli appartenevano e che aveva sistemato con cura quando era arrivato.

All'inizio erano sembrati pochi, davvero una miseria. Forse perché era emozionato per la nuova avventura e l'entusiasmo lo aveva spinto a lavorare felicemente, senza badare al tempo che impiegava per fare qualunque cosa.

Ora però l'entusiasmo era svanito, come se fosse stato bruciato da una fiamma molto pericolosa. Così raggruppare i suoi oggetti e sistemarli in una scatola fu un lavoro lungo e per nulla interessante.

Aveva recuperato anche la targhetta con il suo nome. In fondo, ci era affezionato.

I suoi agenti erano venuti a poco a poco nell'ufficio per salutarlo e mostrare il loro dispiacere. Paul fu grato a tutti. Avevano costruito insieme una bella squadra di lavoro e lasciarla ora era straziante. Nonostante tutti i problemi, gli piaceva stare lì. I suoi superiori non si erano comportati bene, ma i suoi agenti l’avevano accolto con calore.

Ora anche questo era finito, pensò mentre parcheggiava l’auto davanti casa sua.

No, non solo questo, si corresse, È tutto finito.

Anche Linda era andato a salutarlo, lo aveva abbracciato e gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto ora. Paul le aveva risposto che si sarebbe concesso una piccola vacanza, prima di prendere servizio a Shrewsbury.

Sospirò, mentre usciva dall’auto e chiudeva la portiera.

Una vacanza per modo di dire: sarebbe rimasto comunque a Londra, provando a distrarsi sul suo fallimento e su tutto quanto fosse accaduto con-

“John?”

Paul spalancò gli occhi, quando voltandosi si ritrovò di fronte casa sua John Lennon in persona. Che cazzo ci faceva ora lì?

"Ciao, Paul."

John non provò neanche ad accennare un sorriso, perché lo sguardo di Paul era chiaro: non era felice di vedere John.

Peccato, perché John al contrario impazziva per la felicità di essere riuscito finalmente a braccare Paul. Lo aveva aspettato pazientemente tutto il giorno, e quando la sua auto era apparsa in strada, John si era precipitato fuori.

Paul era senza parole. La sorpresa, la spiacevole sorpresa era giunta tra capo e collo. Ovviamente si aspettava qualche altro tentativo di approccio da parte di John, ma ora l'aveva preso alla sprovvista.

Perché?

Come mai Paul non se n'era accorto? Forse era troppo preso dai pensieri sulla sua mattinata per notare John raggiungerlo da casa sua? Sì, era molto probabile.

Una volta, secoli prima, Paul non avrebbe abbassato la guardia così facilmente. E ritrovarsi ora davanti all'uomo responsabile di tutto, dai suoi fallimenti al suo cambiamento, era terribile.

"Lasciami in pace." affermò, cercando di oltrepassarlo per raggiungere la sua porta.

Tuttavia John non era disposto ad assecondarlo e provò a fermarlo dolcemente con una mano sul suo avambraccio, "No, ti prego, dammi cinque minuti."

"Non se ne parla." sbottò lui, scostandosi.

Ma John non aveva intenzione di lasciarlo andare, "Paul, aspetta."

"Che cosa? Che forse tu mi faccia riavere il posto? Forse vuoi andare a rubarlo per restituirmelo? Non credo sia possibile, sai.”

"Paul, ti scongiuro, non fare così." lo pregò John, provando a fermarlo anche con l’altra mano.

Tuttavia Paul non aveva intenzione di farsi toccare ulteriormente da lui, e cercò di liberarsi dalla sua presa con un movimento brusco che fece cadere la scatola dei suoi effetti personali a terra.

"Così come?” esclamò Paul, incurante di quanto fosse appena accaduto ai suoi piedi, “Come dovrei comportarmi con l'uomo che mi ha rovinato la vita? Mi hanno trasferito in un’altra città per colpa tua, lo sai? Il mese prossimo dovrò lasciare Londra, così finalmente avrai ottenuto quello che volevi, liberarti di colui che ti avrebbe dovuto dare la caccia."

"Il… il mese prossimo, ma...” balbettò John, incerto su cosa dire.

Si era preparato un certo discorso, non era andato lì con l’intenzione di improvvisare. Ma Paul non stava seguendo il copione scritto da John e ora John non trovava parole da rivolgere all’altro uomo, soprattutto dopo aver appreso che tra poche settimane non avrebbe più potuto vedere Paul.

Naturalmente, avrebbe dovuto immaginarlo.

“Paul, davvero io non volevo, io-"

"Oh finiscila, John. Non renderti ridicolo.” affermò, sorprendendosi di quante parole potesse rivolgere all’uomo che gli aveva rovinato la vita.

Pensava di non poter dire nulla in sua presenza, né di volerlo; in realtà c’erano così tante cose da dire che ora Paul non poteva fermarsi. Era come un fiume in piena. Si sentiva il respiro affannato, ma nello stesso momento i suoi polmoni erano pieni di aria, pronta per uscire.

“Sapevi benissimo cosa stavi facendo.” continuò, “Mi hai usato e ingannato dall'inizio. Eri amico mio solo perché ti faceva comodo, mentre io pensavo che tu fossi sinceramente interessato a me, che fossi-"

"È così, Paul.” lo interruppe John, “Io sono quella persona. All’inizio, hai ragione, ti ho usato, ma ben presto ho iniziato a provare rimorso per quello che stavo facendo. Solo che, a quel punto, dirti la verità era impossibile, avevo paura di perderti e non potevo permetterlo perché non potevo più fare a meno di te, Paul. Tu mi piacevi così tanto, mi piacevano i momenti passati con te, e quando ho capito quanto fossi diventato importante per me, ho smesso di rubare.”

Paul cercò di ignorare quella parte di sé che voleva solo crogiolarsi in quanto stesse spiegando l’uomo, e decise di concentrarsi, invece, su un più che evidente contrasto alle affermazioni di John.

“Allora perché hai deciso di riprendere proprio ora?”

“Non potevo proseguire in questa storia lasciandoti all’oscuro e mettendo a rischio il tuo lavoro, il senso di colpa mi stava facendo impazzire. Perciò ho deciso di farmi arrestare da te. Non riuscivo ad andare avanti, continuando a stringerti e sapendo quale grande menzogna ti stessi celando.”

“Volevi farti arrestare per salvare il mio lavoro?”

John annuì mestamente, ma continuò a guardarlo negli occhi, rivolgendogli una preghiera silenziosa.

“Paul, io ti amo, farei qualunque cosa per te."

Paul non disse nulla. Si limitò a guardarlo un istante, senza tralasciare alcuna emozione né dagli occhi, né dalle labbra, niente di niente, solo la più totale apatia. E John non sapeva davvero come interpretarlo.

“Sai una cosa, John?” esclamò dopo qualche secondo, un ghigno sardonico si andò a dipingere sulle sue labbra, “Tu sei davvero meschino, credo che tu sapessi benissimo che non avrei mai avuto il coraggio di arrestarti.”

John spalancò gli occhi, incredulo per quanto avesse appena udito. No, questo no.

“Cosa? No, non è vero.”

"Sì, invece, e se il tuo presunto amore per me fosse stato vero, non mi avresti fatto tutto questo. Avevo una vita perfetta prima di conoscerti, e poi tu arrivi e in un istante mandi a puttane tutto quello che avevo costruito."

John sussultò, prima che la sua espressione si crucciasse per ciò che aveva detto Paul.

"Adesso sei tu che stai mentendo.” protestò John, puntandogli un dito contro, minaccioso, “Non avevi una vita perfetta, eri rinchiuso in questa maschera rigida con cui allontanavi tutti per evitare di soffrire. Eri prigioniero di una relazione che si era arenata da tempo e lo sapevi bene. Quindi, non dare tutta la colpa a me ora. Sei tu che mi hai permesso di cambiare tutto, sei tu che mi hai permesso di innamorarmi di te, sei-"

Ma non poté continuare in alcun modo, perché all’improvviso Paul gli sferrò un micidiale gancio sinistro proprio sullo zigomo, e John si ritrovò a indietreggiare di qualche passo, mentre un dolore lancinante si propagava su tutta la parte destra del suo viso.

La scena si era svolta troppo velocemente per Paul, e se non fosse stato per il dolore che sentiva ora alla mano sinistra, probabilmente avrebbe pensato di aver assistito alla scena da fuori, come se stesse guardando un film. In realtà, era stato lui a colpire John. Le parole che gli stava rivolgendo lo stavano facendo impazzire: erano tristemente vere. Ad ogni parola, Paul si rendeva conto che John aveva ragione: Paul non era davvero contento della sua vita. Le emozioni, i nuovi sentimenti che John aveva suscitato in lui erano stati il brivido più bello, più caldo, più sconvolgente di tutta la sua vita.

Eppure sentirlo dire ora, proprio ora, dalla bocca di John, era… Era semplicemente qualcosa che Paul non poteva accettare. C’era ancora troppa vergogna in lui, e questa si era trasformata in rabbia mentre John parlava, permettendogli di capire che avesse dato davvero così tanto potere a una persona meschina e bugiarda come quell’uomo che era di fronte a lui.

John lo guardò sorpreso, mentre si teneva la guancia colpita con una mano. Era ovvio che non se lo aspettasse e la realizzazione rese Paul stranamente soddisfatto.

"Hai avuto i tuoi cinque minuti." sbottò, ora davvero senza fiato, recuperando i suoi effetti da terra, “Adesso lasciami in pace.”

John annuì, sconfitto. Non c’era assolutamente nulla che potesse fare per Paul. Un dolore, questo, che faceva male molto più del pugno appena ricevuto.

“Come vuoi, Paul. Volevo solo dirti che mi dispiace per tutto quello che ho fatto, ecco. So che non vale molto, ormai, ma ci tenevo a porgerti le mie scuse. Solo questo.”

Paul scelse di non ribattere. Non poteva, in realtà, non aveva parole per rispondere, né in un senso né nell’altro. Non poteva ringraziarlo del pensiero, un pensiero inutile, diciamoci la verità, dal momento che Paul non se ne faceva proprio nulla delle sue scuse. Non lo avrebbero convinto a perdonare John, non c’era alcun modo in cui potesse perdonarlo.

E d’altra parte, non aveva neanche parole per ribattere alle sue scuse, non c’era davvero nient’altro da dire. Doveva finire così, quella storia iniziata un po’ per caso e rivelatasi alla fine così incredibilmente fatale.

Tuttavia, quando John infine lo lasciò da solo, davanti a casa sua, voltandogli le spalle forse per l’ultima volta, Paul non poté più ignorare quella parte di sé, ridotta ora a un piccolo brandello della sua anima lacerata, che soffrì nel vedere John allontanarsi.

Non era giusto, né accettabile, ma c’era e Paul non poteva farla sparire in alcun modo.

Non voleva farla sparire.

****

“Ahi!”

“Se stessi un po’ fermo, John, non farebbe così male.”

John sbuffò al rimprovero di George.

Si trovava seduto sul divano del salotto di casa sua, con l’amico al suo fianco che si occupava della sua guancia dolorante con una borsa del ghiaccio.

Il problema era che faceva male, molto male, e il dolore aumentava se John ricordava a se stesso come avesse fatto a procurarselo. Non avrebbe mai pensato che Paul potesse colpirlo in quel modo, ma questo non faceva che confermare quanto fosse stato idiota John, quanto avesse sbagliato in quella storia, dall’inizio alla fine. Perché era così, ne era certo, era davvero arrivato alla fine di qualunque cosa avesse condiviso con Paul.

Questo, insieme al dolore fisico, era ciò che gli impediva di stare fermo, mentre George si occupava di lui.

“Certo che ha davvero un bel gancio il nostro ispettore.” commentò George, cercando di alleggerire l’atmosfera.

Era bella pesante, e la non risposta di John contribuì solo a peggiorare il tutto. Distolse lo sguardo da George, cercando di concentrarsi su qualche oggetto del suo salotto.

George lo fissò, preoccupato. Alla fine del loro ultimo colpo, quando aveva visto John tornare tremante da lui, gli aveva chiesto cosa fosse accaduto, notando soprattutto l'assenza della refurtiva. Il racconto di John lo lasciò sbalordito e profondamente arrabbiato con John perché aveva fatto tutto senza consultarsi con lui. Ma quando si era reso conto dello stato distrutto di John, aveva abbandonato ogni traccia di rabbia e cominciato a provare un leggero senso di colpa.

“Mi dispiace per quello che è successo, è colpa mia.” ammise mestamente l’amico.

“Non dire stronzate, George, non hai nulla di cui dispiacerti.” lo corresse accorato John, “Tu mi hai detto fin da subito che le cose avrebbero potuto andare male, ma io non volevo ascoltarti.”

“Se potessi tornare indietro, lo faresti?”

“Ascoltarti?”

“Sì.”

John fece tornare gli occhi sul ragazzo, guardandolo profondamente, “E lasciar perdere Paul?”

George annuì.

“No, mai.” rispose con convinzione, scuotendo il capo.

E mentre John faceva una smorfia di dolore a causa del movimento intenso della testa, George si accigliò, perplesso, lasciando perdere la borsa del ghiaccio e si sedette per guardare meglio l’amico.

“Perché?”

“Per lo stesso motivo per cui tu non rimpiangi di aver conosciuto tua moglie, ogni volta che litigate.” sospirò John.

“Ma questo non è un semplice litigio, John.” gli fece notare George, con attenzione.

“Lo so, ma il concetto è lo stesso. Anche se ho rovinato tutto e Paul non vuole perdonarmi, non posso rimpiangere ogni momento che ho trascorso con lui. Mi ha dato così tanto in così poco tempo che non ho potuto davvero fare a meno di innamorarmi di lui, anche se in realtà eravamo avversari.”

La parola innamorarmi fece sussultare in modo impercettibile George. Erano secoli che John non ammetteva di essere innamorato di qualcuno. No, anzi, erano secoli che neanche si innamorava.

“Tu… tu lo ami?”

John chiuse gli occhi, pensando alla domanda, e alla risposta, che poteva essere solo una.

“Con tutto il cuore.” sospirò, mentre un’espressione sofferente si appropriò del suo volto.

George batté le palpebre un paio di volte, accorgendosi che quanto stesse dicendo John fosse vero. Intendiamoci, sapeva da tempo che John provasse qualcosa di importante per Paul, ma vederlo infine ammettere i suoi sentimenti anche davanti a lui e accorgersi di quanto questa fottuta situazione lo stesse facendo soffrire, era incredibile. Come se fosse la prima volta che George venisse a conoscenza di queste cose.

“E cosa hai intenzione di fare?”

“Niente.”

“Cosa significa niente?” domandò sconcertato.

“Significa niente, George. Ci ho già provato, ma lui non ha alcuna intenzione di perdonarmi, quindi non mi resta che arrendermi.” spiegò, alzando le spalle.

“Beh, mi sembrava che Hermes non si arrendesse di fronte a nessuna sfida.”

John scosse il capo, portandosi una mano sulla testa. Stava letteralmente scoppiando.

“Non sono più Hermes.”

“Hermes e John Lennon sono la stessa persona, invece.” ribatté George con calore, incrociando le braccia.

“Beh, si vede che sono cambiato grazie a Paul.” sbottò, nervoso.

Si stava agitando, e quando era agitato erano sempre guai per tutti. Ma George era così testardo a volte. Non vedeva che l’argomento lo stesse facendo sentir male? Perché non lo lasciava stare? Perché insisteva a parlarne?

“Chiedi aiuto allora.”

“A chi?”

“A me.” esclamò George, e subito dopo, la risposta perfetta comparve nella sua mente, “O a Jim.”

John sbuffò, quasi sopprimendo una risata maligna.

“Sì, certo, così cancellerei anche la più piccola possibilità che ho che Paul  si svegli un giorno e di punto in bianco, cambi idea e mi rivoglia con sé. No, grazie.”

“Ma è suo padre. Potresti aiutarli a riunirsi.” gli fece notare George, speranzoso.

Povero, piccolo, ingenuo George. Non aveva la minima idea di quanto stesse affermando. Non c’era alcun modo per cui Paul volesse rivedere Jim, e sicuramente neanche Jim avrebbe avuto il coraggio di farlo.

“Paul non vorrebbe avere niente a che fare con lui, fidati, amico.”

“Lo sai con certezza?” esclamò George, accigliato, “Perché sai, John, non mi fido più del tuo giudizio. Forse è vero che questa storia con Paul ti abbia cambiato, ma non pensi, allora, che possa aver cambiato anche lui?”

John rifletté un istante, pensando che il ragionamento di George filasse liscio. Lo stesso Paul aveva ammesso più volte di essere cambiato. Ma comunque John non vedeva come Jim potesse aiutarlo.

No, non c’era nessuno che potesse aiutare John. Era questa la triste realtà, e prima John l’avesse accettato, meglio sarebbe stato per tutti.

“Lascia perdere, George. Non funzionerà.”

“Ma-”

“Ma niente.” tagliò corto John, “Paul verrà trasferito all’inizio del nuovo anno.”

“E tu vuoi lasciarlo andare così?”

“Sì.”

George non poteva credere davvero a quanto stesse vedendo con i suoi occhi. John Lennon che si arrendeva così facilmente. Aveva sempre saputo che John in realtà fosse molto insicuro, ma vederlo ora così abbattuto era strano. Era dolorosamente strano.

“Non credi che sarà doloroso continuare a osservarlo dalla tua finestra senza voler far nulla per fermarlo, e aspettare che lui se ne vada per sempre?”

“E per questo che andrò via per le vacanze di Natale.”

“Come?” esclamò, preso in contropiede.

“Vado con Julian da Cynthia.” spiegò John, sospirando, “Così passeranno il primo Natale insieme.”

“Non me l’avevi detto.”

“Me lo ha proposto qualche settimana fa Cynthia. Ho aspettato a risponderle per capire cosa fare con Paul, ma ora è la soluzione migliore. Almeno quando sarò tornato lui non ci sarà più.”

“John…”

“George, è tutto finito.” sbottò una volta per tutte John, prima di alzarsi e andarsene, “Lascia perdere.”

George scosse il capo.

Forse John era cambiato, e forse era cambiato anche Paul, ma di una cosa era certo. George non era cambiato.

O almeno, la sua testardaggine era sempre la stessa.

E quando George si metteva in testa qualcosa, difficilmente avrebbe cambiato idea.

Nessuno poteva dirgli cosa fare.

Nessuno poteva dirgli di lasciar perdere.

 

 

Note dell’autrice: fiuuu, ce l’abbiamo fatta.

Chiedo ancora perdono per il ritardo, ma praticamente ho un esame al mese ora e dato che sono gli ultimi devo impegnarmi al massimo. :3

Comunque, siamo quasi alla fine di questa storia e questi due continuano a fare i piccioncini sciocchini. xD

Grazie a kiki per la correzione e grazie a ADayInTheLife_, Beatlesmusicismylife, McLennon e Astoria McCartney per aver recensito lo scorso capitolo.

Prossimo capitolo, “Do you want to know a secret”, arriverà quanto prima, ho già iniziato a scriverlo e cercherò di approfittarne in questi giorni in cui posso riprendere un po’ di fiato. J

Spero che il capitolo sia piaciuto.

A presto e buon weekend

Kia85

 

 

 

 

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Capitolo 26
*** Do you want to know a secret ***


I’ll get you

 

Capitolo 25: “Do you want to know a secret”

 

George prese un profondo respiro, prima di suonare il campanello.

Dio, lo stava facendo davvero?

Doveva essere impazzito anche lui come John.

Ma diamine, doveva farlo, per John. Sebbene il suo amico lo avesse rassicurato sul fatto che George non avesse nulla a che fare con quella profonda spaccatura sorta tra John e Paul, George non poteva davvero fare a meno di sentirsi in colpa.

Era stato lui a costringere John a tornare nei panni di Hermes. John non l’avrebbe mai fatto. Era anche vero che, considerando il suo gesto avventato di provare a farsi arrestare da Paul, forse la pressione di tenere ancora quel segreto alla fine l’avrebbe fatto scoppiare lo stesso. Pertanto quella spaccatura era inevitabile.

George, però, sentiva di volerlo fare.

Paul non gli era piaciuto all’inizio, e forse il motivo era solo per quello che stava combinando John; ma in seguito si era accorto che Paul aveva cominciato ad affezionarsi a John, a considerarlo un amico e poi qualcosa di più. Perciò non poteva permettere che allontanasse John in quel modo, sapendo che corrispondesse i suoi sentimenti.

Doveva fare almeno un tentativo, e convincere Paul che John non aveva alcuna intenzione di fargli del male, non più.

Così alzò un dito e premette il campanello.

Sperava solo che Paul lo facesse parlare.

L’approccio non fu, in effetti, dei più incoraggianti. Quando Paul aprì la porta, pochi secondi dopo, e lo riconobbe, sospirò alzando gli occhi al cielo.

“Cosa vuoi?”

Anche il tono non era certamente dei più ben disposti.

"Parlare con te."

"Beh, questo era ovvio." sbottò, "Ma devo avvisarti che se vuoi parlare di una certa conoscenza che condividiamo, non sono dell'umore adatto."

"Non devo parlarti di John."

A quelle parole, Paul lo guardò scettico e George pensò di dover specificare meglio.

"Almeno, non direttamente."

Paul sbuffò, aspettandosi qualcosa del genere. Di cosa avrebbe potuto parlargli George se non di John?

"Non c'è niente che tu possa dire che possa cancellare quanto è accaduto."

"No, ma..." iniziò George, la voce vacillava suo malgrado, "Paul, non è stata colpa sua. Sono stato io a costringerlo a fare quel furto alla mostra di Elvis."

"Oh, cazzo!" sospirò Paul, colpendosi la fronte con una mano, "Ma certo, sei tu il suo complice, che ingenuo sono stato."

Come aveva fatto a non pensarci prima? George era il complice di John. Paul non si era neanche posto la domanda quando aveva smascherato John, a causa forse del troppo sconvolgimento.

Ecco. Questa era una cosa che il vero Paul non avrebbe trascurato. John aveva scherzato e fottuto la sua mente. Paul doveva solo allontanarsi da lui il più presto possibile e poi avrebbe ripreso il controllo di sé e una vita normale.

"Sì. Sono io. Gli ho dato un ultimatum che sapevo non avrebbe potuto rifiutare perché altrimenti mi sarei messo io nei guai. John voleva solo salvarmi."

"E tu perché lo hai costretto?"

"Ero un po' geloso. Devo ammetterlo."

“Geloso?”

“Sì, insomma, tu hai cambiato John. Lui era molto più cinico all’inizio, credo di aver sempre saputo in fondo che non fosse davvero felice. Ma tutta questa storia l’ha in qualche modo ammorbidito. In senso buono, naturalmente, e credo che sia merito tuo. Ero geloso perché non sapevo come farlo star meglio, mentre tu ci sei riuscito."

“Non mi interessa." affermò Paul, incrociando le braccia, "Lui mi ha preso in giro e io ho perso il mio posto di lavoro a Londra. Quello che ha fatto è imperdonabile.”

“Lo so." si affrettò a concordare George, "E ti assicuro che lo sa anche lui. È così dispiaciuto per quello che ha f... abbiamo fatto. Lo siamo entrambi. Ma è stato lui il primo a rendersi conto di quanto sbagliato fosse."

"Non cambierà nulla."

"Ti prego, John non è cattivo. Certo, non sarà neanche la persona più buona del mondo, ma andiamo, tutti nella vita abbiamo fatto qualcosa di cui non andiamo fieri. Dagli una seconda opportunità, Paul. La meritano tutti. "

Paul si morse il labbro, imprecando fra sé. Che razza di seccatura, avere a che fare con George!

Perché lo stava facendo? Perché si stava mostrando così testardo sull'argomento?

È molto amico di John, rispose la sua vocina interiore.

Ma come poteva essere amico di John? John, lo stesso uomo che aveva ingannato Paul!

Paul chiuse gli occhi per un istante, l'espressione sofferente rispecchiava molto bene il dolore che provava il suo cuore a ogni palpito causato dal ricordo di John.

Lo sapeva, sapeva perché George tenesse così tanto al suo amico. Paul l'aveva visto con i suoi stessi occhi, l'aveva provato con la sua stessa pelle. Anche lui per molto tempo aveva subito lo stesso fascino di John, lo stesso incantesimo che aveva annebbiato la sua mente e accecato i suoi occhi.

Eppure, avere ora George lì, davanti a lui, così lucido, non accecato, ma determinato a mettere una buona parola per John, gli suggeriva che forse John avesse mostrato qualcosa di vero anche a Paul.

E il dubbio ora seminato dentro di lui creò una crepa in quello scudo di glaciale indifferenza e insieme fiammeggiante rabbia, attraverso cui passarono ricordi e sentimenti, momenti trascorsi con il vero John. Lo stesso John che più di una volta aveva conquistato la sua fiducia, prima del suo cuore.

Ma Paul non poteva lasciarsi andare, non poteva perdonarlo. Non ce la faceva. Non avrebbe passato giorno senza pensare a ciò che John gli avesse fatto. Come potevano chiedergli lui, George, il suo folle, folle cuore, di perdonarlo?

Non se ne parlava.

"George, vai via, per favore." mormorò alla fine con un filo di voce, "Ho passato e continuo a passare giorni infernali. Sono stanco, non immagini neanche quanto, e voglio solo recuperare le forze prima di partire."

"Ma, Paul..." cercò di protestare George.

"Ti prego." lo interruppe Paul con una mano alzata, "Basta così."

Così dicendo, Paul gli chiuse la porta in faccia, lasciando il giovane in piedi, esterrefatto.

Non era andata esattamente come George sperava. Paul era testardo, molto più di John. George non credeva fosse possibile l'esistenza di qualcuno più testardo del suo amico.

Sospirando rassegnato, decise di tornare verso il negozio.

Che disastro avevano creato!

E ora non vi era alcun modo di uscirne. Almeno, non con un lieto fine. Il “e vissero per sempre felici e contenti” sembrava la più irraggiungibile delle utopie.

C'erano due cuori spezzati in gioco e nessuno in grado di rimettere insieme i pezzi.

O forse qualcuno c'era.

Qualcuno che era a monte di tutta questa situazione, qualcuno che forse avrebbe trovato le parole giuste per Paul e John.

George sapeva chi doveva chiamare.

Sapeva che doveva chiedere aiuto a Jim.

****

“Sì. Certo. No, capisco perfettamente. Hai ragione. Sì, grazie. Ci vediamo stasera.”

George si torturò l’unghia del pollice, mentre fissava John parlare al telefono. La telefonata era giunta quella mattina. George sapeva chi avrebbe trovato dall’altra parte della linea, perciò aveva lasciato che fosse John a rispondere.

Quando l'amico cominciò a capire cosa fosse successo, rivolse il suo sguardo più glaciale a George e continuò a osservarlo, truce, mentre parlava con Jim e anche alla fine, dopo aver riposto la cornetta del telefono al proprio posto.

“Si può sapere che cazzo hai combinato?”  domandò, non con rabbia, ma in qualche modo era infastidito che George avesse coinvolto Jim in qualcosa senza speranza.

“Ho fatto solo quello che tu non avevi il coraggio di fare.” rispose George, alzando le spalle, “Raccontare tutto a Jim.”

“Ed esattamente cosa gli hai detto?”

“Quello che è successo. Ma ho pensato che avresti dovuto informarlo tu sul vero rapporto tra te e Paul.”

John sospirò sollevato. Almeno questo era stato lasciato al suo controllo.

Forse questo era proprio il motivo per cui non voleva chiedere aiuto a Jim. Chiedergli aiuto significava ammettere di fronte a lui, una volta per tutte, che fosse innamorato di suo figlio. E Dio solo sapeva come avrebbe potuto reagire John.

John era certo che non gli avrebbe certamente staccato la testa. Ma chissà, era impossibile che Jim fosse addirittura contento. Era pur sempre un uomo di un'altra generazione.

Tuttavia quello era un problema che avrebbe dovuto affrontare quella sera.

Ora, mentre tornava a guardare George, ricordò un'altra importante questione.

“Perché l'hai fatto?”

George prese un profondo respiro, prima di rispondere, “Perché sono andato a parlare con Paul ieri-”

“Tu cosa?” esclamò incredulo.

Ma George lo ignorò, continuando a parlare, “… e mi sono accorto di avere a che fare con due testoni. Perciò dal momento che riesco a fatica a gestirne uno, ho pensato di chiedere l’aiuto di qualcuno che è molto vicino a entrambi.”

“Ma George-"

“John." lo interruppe ancora l'amico, avvicinandosi per afferrargli le spalle, "Io voglio che tu sia felice, farei di tutto per questo. E in questo momento è Paul che può renderti felice."

“No." rispose John, scuotendo la testa con vigore, "Non funzionerà. Non servirà a nulla.”

“Senti, ho visto ieri Paul, e non aveva affatto una bella cera."

"Cosa?" esclamò John, preoccupato.

"Ora, tu potresti dire che stia soffrendo per quello che è accaduto. Ma a me piace credere che stia soffrendo anche perché sente la tua mancanza.”

John chiuse gli occhi, portando le mani nei capelli. No, non era possibile. Paul non stava soffrendo per quel motivo, non stava sentendo la sua mancanza, e John non poteva accarezzare una simile opzione, perché altrimenti sarebbe corso da lui all’istante, anche se Paul non glielo aveva chiesto esplicitamente.

Ma Paul è arrabbiato con te, protestò il suo cuore, E’ ovvio che non te lo direbbe mai.

No, non poteva essere così. John non aveva alcuna possibilità, era sciocco illudersi in quel modo. Avrebbe solo sofferto ulteriormente, mentre John non voleva più soffrire.

Ma ora era stato coinvolto anche Jim e chissà come sarebbero andate le cose. Avrebbe potuto migliorare la sua situazione o peggiorarla, il che era assai probabile.

Non sapeva cosa aspettarsi da quell'immediato futuro. Ma qualunque cosa fosse stata, John avrebbe dovuto accettarla senza a quel punto poter fare più niente.

Ancora una volta il suo destino era tutto nelle mani di un McCartney.

O più precisamente, di due McCartney.

****

Paul sussultò visibilmente quando Pepper gli saltò sul grembo. 

Il giovane era seduto sulla sua poltrona, cercando di leggere le avventure del suo più fortunato collega, Sherlock Holmes, quando il gatto all'improvviso era balzato su di lui, ricercando le sue carezze.

Paul sorrise debolmente. Negli ultimi giorni lo aveva trascurato perché, come altre cose nella sua casa, anche Pepper gli ricordava John. E occuparsi di lui era troppo doloroso.

Ma ora il gattino, ormai cresciuto, si strusciava soddisfatto contro la sua mano, facendo le fusa. Paul si sentì un po' in colpa per ciò che gli aveva fatto. In fondo, non era certo colpa sua, e Paul si era affezionato a lui. Non avrebbe mai potuto lasciarlo ora.

L’altra cosa che aveva trascurato era la musica. Erano giorni che non ascoltava più un cd né altro. Tutto il lavoro fatto con John era andato a farsi benedire. Ovviamente.

Era stato John, dopotutto, a farlo riavvicinare a quella parte della sua vita a cui aveva rinunciato per colpa di un uomo. E proprio ora Paul era stato costretto a rinunciare nuovamente alla musica, per colpa di un altro uomo.

Un uomo che non era poi molto diverso da quello che l’aveva abbandonato da piccolo. Erano entrambi ladri e il pensiero fece quasi ridere Paul. Era un fottutissimo scherzo del destino. La sua vita segnata e rovinata da due ladri.

Era talmente preso dalle sue riflessioni e dal dedicare tutte le sue attenzioni a Pepper, che sussultò visibilmente quando sentì il campanello suonare.

Santo cielo, quel dannato campanello non era mai stato disturbato così tanto come in quei giorni.

Dando un’ultima piccola carezza alla testolina del gatto, Paul si alzò in piedi e abbandonò il libro sulla poltrona. Decise che questa volta avrebbe controllato dallo spioncino chi avesse suonato.

La persona che si trovava al di là della porta era la stessa che negli ultimi giorni faceva esplodere in lui mille emozioni diverse fra loro. Come, come era possibile che Paul, nonostante tutto, fosse ancora felice e insieme arrabbiato di vedere John?

Nessuno prima d’ora aveva mai avuto un tale effetto su di lui, Paul non si era sentito così neanche quando Jane l’aveva tradito. Era come se volesse prenderlo di nuovo a schiaffi e subito dopo attirarlo nell’abbraccio più appassionato. Per il momento, quando Paul, con un sospiro rassegnato, decise di aprire la porta, prevaleva la voglia di prenderlo a schiaffi. Ma il desiderio opposto era ancora vivo, ruggiva dentro di lui, caldo e sofferente, gli chiedeva solo di perdonarlo, di riprenderlo con sé perché gli mancava tantissimo, e tutto questo lo spaventava all’infinito.

“Cosa vuoi?” domandò Paul, e strinse la presa sul pomello della porta per evitare di fare qualcosa di molto stupido, come afferrare John per un braccio e attirarlo prima di baciargli dolcemente quel livido nero sullo zigomo, lo stesso che aveva causato Paul.

John fu lieto che Paul avesse aperto la porta; era convinto che non appena avesse controllato dallo spioncino (perché John era certo che Paul l’avesse fatto, dopo essere stato colto di sorpresa per ben due volte da John prima e da George dopo), gli avrebbe solo intimato di andarsene, senza neanche guardarlo in faccia.

Per fortuna, però, le cose erano andate diversamente e ora John poteva osservarlo meglio, a differenza di quanto avesse fatto qualche giorno prima. In quell’occasione era stato troppo preso da ciò che stava per dire a Paul e dalla notizia del suo trasferimento per poter accorgersi che sì, Paul non stava bene, stava soffrendo, tanto quanto lui ed era facilmente riconoscibile per John, gli sembrava quasi di vedere se stesso allo specchio. Certo, Paul aveva anche molta rabbia e vergogna e tradimento che delineavano i tratti del suo viso, ma il dolore, la mancanza che sentiva per John, l’amore ancora vivo che provava per lui erano lì, nei suoi occhi, sulle sue labbra, su tutto il suo viso.

“Paul, ciao, io-”

“Se è ancora per quello che è successo, John, risparmia il fiato, non ho alcuna intenzione di-”

“No.” lo interruppe John, “No, io vorrei che mi aiutassi a fare una cosa.”

Paul aggrottò le sopracciglia. Che razza di richiesta era mai quella? Come si permetteva di chiedergli aiuto come se niente fosse successo?

“Aiutarti? A fare cosa di preciso?” domandò sconcertato.

“Se vieni con me in un posto, te lo mostro.”

, certo, Paul sbuffò tra sé.

Come se potesse seguirlo così.

“Se credi che io possa venire con te chissà dove, ti sbagli di grosso.”

John si morse il labbro, trattenendo una smorfia di delusione e dolore perché la risposta di Paul era così chiara. Paul non si fidava più di lui.

Che stupido era stato. Sì, d’accordo, aveva visto tutte quelle emozioni in Paul, ma che importanza avevano se mancava quella fondamentale? La fiducia. Paul l’aveva persa e ora, ora…

No, Dio, non poteva aver paura che John gli facesse del male fisicamente!

“Ti prego, fidati.” lo implorò.

“Non posso.”

“Solo per questa volta, poi giuro che ti lascerò in pace, sparirò per sempre dalla tua vita." lo rassicurò John, "Ma fidati di me, Paul, un’ultima volta. Non potrei mai farti del male.”

“Me ne hai già fatto.”

L’ennesima pugnalata alla schiena. Ma questa volta era stata dolorosa, molto più del solito. Paul era troppo pieno di rancore, avrebbe ritorto contro John ogni cosa lui avesse detto, e John aveva comunque un limite oltre cui farsi del male in quel modo era inaccettabile. Anche se Jim era disposto a fare quel grande passo, Paul non era altrettanto disposto a fare uno sforzo per venirgli incontro.

Che senso aveva, allora, andare avanti?

Improvvisamente John desiderò piangere, e d’istinto, si voltò, dando le spalle a Paul, deciso ad andarsene e abbandonare per sempre anche la più debole e traballante possibilità che avesse di farsi perdonare da Paul.

Paul, dal canto suo, si maledisse. Non era stato davvero lui a parlare, quelle parole erano sfuggite senza che lui potesse frenarle. Erano state dettate da tutto quel miscuglio disordinato di sentimenti, una miscela potenzialmente esplosiva. E aver risposto in quel modo a John era stato un esempio di quanto fosse pericoloso Paul, ora, in quello stato d’animo.

Non voleva rispondere così a John. Era ancora arrabbiato sì, su quello non c’era alcun dubbio, e John gli aveva chiesto aiuto, per cosa Paul non lo sapeva ancora, ma era sembrato così fragile, così spaventato di affrontarlo e insieme così forte, che Paul aveva sentito il suo cuore stringersi alla visione.

“Aspetta.” si affrettò a dire.

Era una parola molto pericolosa da dire; Paul non sapeva a cosa l’avrebbe portato e l’ignoto faceva ancora paura. Ma John no, John non poteva fargli paura. John non gli avrebbe più fatto del male. Era una verità difficile da accettare, era scomoda e straordinaria.

Così quando subito dopo, John si voltò verso di lui, guardandolo con incredulità e ritrovata speranza, Paul sostenne il suo sguardo, lasciando la presa sul pomello.

“Dove si va?”

****

Quando Paul scese dall’auto, fu molto colpito dall’edificio che si trovò di fronte. Era una casa davvero deliziosa, non era particolarmente grande né appariscente. Si sviluppava su due soli piani e le mura erano costituite da mattoni di un bel rosso vivo, gli stessi che permettevano al comignolo di spiccare sul tetto marrone scuro.

Una piccola scalinata portava all’ingresso, lasciando intravedere un qualche tipo di seminterrato alla base della casa.

“Cos’è questo posto?” chiese Paul, guardando John al suo fianco.

Avevano trascorso il viaggio in totale silenzio, il che era risultato abbastanza imbarazzante per entrambi e soprattutto pesante. Paul avrebbe voluto fare un sacco di domande: dove stiamo andando, cosa devi farmi vedere, e perché?

Mentre John avrebbe voluto ringraziarlo per averlo seguito e ribadire ancora una volta i suoi appassionati sentimenti per lui, ma non era sicuro che Paul l’avrebbe presa molto bene. E comunque, John era sicuro che tutte le cose che nessuno dei due aveva il coraggio di dire fossero presenti nell’abitacolo dell’auto, come se fossero stati altri passeggeri. Ecco perché il silenzio aveva fatto da colonna sonora a quel viaggio.

“Tu ora conosci il mio segreto più importante, Paul. Ma voglio essere sincero fino in fondo con te, a questo punto, e svelarti altre cose che non ti ho mai fatto vedere.”

“E l’aiuto di cui parlavi?”

“Ora te lo mostro, vieni con me.” rispose John, facendogli cenno con il capo di seguirlo.

Paul strinse le dita in pugni. C’era qualcosa che lo tratteneva ancora: la sorpresa nell’aver scoperto che ci fossero altre cose che non sapeva di John, e la paura, il timore che questi segreti potessero fargli del male ancora una volta. Ma Paul moriva di curiosità. Era ormai qualcosa che aveva accettato, che tutto ciò che riguardasse quell’uomo intrigante fosse per lui motivo di una curiosità estrema.

Perciò decise di seguire John, attraversando prima il giardino antistante e poi percorrendo il contorno della casa, fino al retro, dove John lo condusse lungo una scalinata che scendeva verso il seminterrato.

Quando John aprì la porta chiusa a chiave e Paul entrò, questi rimase a bocca aperta. Ciò che si ritrovò davanti era nello stesso tempo il suo peggiore incubo e il sogno più ambito.

La refurtiva di Hermes.

Scaffali e vetrine apposite esponevano tutto ciò che John avesse rubato con i panni del ladro melomane. Paul riconobbe facilmente alcuni oggetti. Erano quelli che John aveva rubato da quando Paul aveva ottenuto l’incarico di acciuffarlo: il ritratto dei Rolling Stones, la chitarra di Bob Dylan, gli occhiali di Elton John…

Paul aveva cercato di difenderli, ma non c’era riuscito e ora erano lì, a portata di mano.

Senza parole, continuò a osservare con interesse la stanza, notando molti altri cimeli che evidentemente John aveva rubato prima del suo arrivo. Notò una vetrina dedicata solo a manoscritti originali di Jimi Hendrix o Jim Morrison, poi una chitarra spaccata in due dei Nirvana, un paio di stivali decisamente bizzarri dei Kiss fino ad arrivare a un paio di semplici ma caratteristici occhiali da vista di Buddy Holly.

Quel seminterrato conteneva cimeli tanto diversi fra loro e Paul non voleva neanche pensare quanto fosse il valore complessivo di un tale tesoro. Piuttosto, la vera domanda era un’altra.

“Cosa significa tutto questo?”

“Devi aiutarmi a restituire queste cose.” rispose John, il tono pacato, ma in qualche modo vacillava di fronte allo sguardo penetrante di Paul.

In un primo momento, l’ispettore pensò di non aver sentito bene. John voleva restituire che cosa?

Tuttavia la sua espressione era molto decisa; John non stava dicendo una cazzata, e Paul ora sapeva riconoscere quando dicesse la verità.

Poi, di nuovo, si ricordò di altre menzogne di John a cui Paul aveva abboccato come uno sciocco, e decise che fosse il caso di controllare, per sicurezza.

“Mi stai prendendo in giro?”

“No, sono serio. Non li voglio più.”

“Ma…” iniziò Paul, battendo le palpebre, perplesso, “Non capisco, perché vuoi restituirli ora?”

“Perché mi hanno fatto perdere te.”

Senza poterlo impedire in alcun modo, Paul arrossì lievemente, e si voltò subito verso una delle vetrine per nasconderlo a John.

Maledetto!

Come osava comportarsi ancora in quel modo con lui? Come osava ricordargli tutte quelle piccole cose di John che l’avevano fatto innamorare?

Non sapeva che fosse doloroso?

“Sì, beh, questo non cambierà le cose.” ribatté Paul, la voce leggermente incrinata, debole per i ricordi suscitati da John, “Non ti permetterà di avermi ancora.”

John sorrise fra sé, rassegnato, “No, lo so bene, non lo faccio per questo. Ma ogni volta che li guardo, mi ricordano inesorabilmente quanto sia stato stupido e ingiusto con te. Inoltre, speravo che potessero aiutarti con il lavoro.”

Paul non seppe bene cosa rispondere, era decisamente combattuto a riguardo. Era un pensiero inutile, quello di John, restituire la refurtiva non significava che Paul avrebbe ottenuto ancora il suo vecchio incarico. Ma d’altro canto, John si stava preoccupando per lui, e anche se Paul era ancora arrabbiato con lui, non poteva fare a meno di sentirsi colpito da quella preoccupazione. Era come una mano, dita delicate cercavano in continuazione di avvicinarsi per accarezzarlo, ma Paul continuava a sottrarsi al tocco: a volte si costringeva lui stesso ad allontanarsi, altre era solo il suo orgoglio a spingerlo via.

“Non c’è alcun modo per farmi ottenere di nuovo il mio lavoro, John.” rispose, tornando a guardarlo, “Ma li restituiremo perché è la cosa giusta da fare.”

“D’accordo. Grazie, Paul.”

Paul annuì, evitando il suo sguardo, “Di nulla.”

John sospirò. Bene, una era fatta. Ora arrivava la parte difficile.

“Andiamo di sopra, ora, che ne dici?” domandò, attraversando la stanza, verso un’altra porta, dietro cui si celava una breve serie di gradini che portavano al piano terra.

Paul lo guardò, incuriosito, ma i suoi passi si mossero istintivamente verso John, seguendolo lungo le scale.

“Perché?”

“C’è un’altra cosa che vorrei mostrarti.” spiegò John, quando raggiunsero l’ingresso, uscendo dal sottoscala, “O meglio restituirti.”

Paul inarcò un sopracciglio, mentre John lo guidava attraverso l’ingresso fino a fermarsi di fronte a una porta di legno di mogano finemente intagliata, su cui risaltava un pomello d’ottone brillante.

“Di cosa si tratta?” chiese, titubante.

John appoggiò la mano sul pomello e lo fece ruotare per aprire la porta.

“Qualcosa che ti è stato rubato, ma stavolta non per causa mia.”

L’enigmatica risposta di John ebbe come effetto quello di far accelerare i battiti del cuore di Paul. Egli poteva sentirlo rimbombare nelle sue orecchie e non aveva assolutamente idea del perché.

“Che cosa significa?”

“Entra e lo scoprirai.” gli suggerì John, con un sorriso, aprendo la porta e invitandolo a entrare, ma questa volta solo Paul.

Paul lo guardò per un istante, convincendosi a seguire le parole di John più velocemente rispetto ad altre volte. Perciò entrò, ritrovandosi in un elegante soggiorno, e sussultò quando la porta dietro di lui fu chiusa.

“John?” esclamò, avvicinandosi alla porta.

Poi un lieve rumore lo fece sussultare, e una voce giunse alle sue orecchie.

“Ciao, Paul.”

Il giovane ispettore si voltò lentamente, e quando quell’uomo spuntò da un angolo della stanza, così come dal passato di Paul, una sola parola comparve nella sua mente.

Impossibile!

 

Note dell’autrice: oh mio dio, ci siamo. :)

Ebbene sì, siamo ormai al punto cruciale di questa storia. Aw, sono emozionata.

Cosa vi aspettate dal prossimo capitolo?

Grazie a kiki che ha corretto. Grazie a Astoria McCartney, Mclennon e Beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso capitolo.

Il prossimo, “Till there was you”, eh… *sospira* E’ davvero complicato da scrivere e so che mi dannerò l’anima, per di più mercoledì inizio lo stage con i topolini in laboratorio, per cui probabilmente ritarderà un po’. Comunque, ormai siamo a -3 dalla fine. J

Spero che il capitolo sia piaciuto.

A presto e buon weekend

Kia85

 

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Capitolo 27
*** I'll cry instead ***


I’ll get you

 

Capitolo 26: “I'll cry instead”

 

Impossibile!

Impossibile era la parola giusta.

Certo, sarebbe andata bene anche una qualunque imprecazione, ma no, l'imprecazione era troppo banale in quel caso.

Impossibile invece era decisamente più adatto.

Impossibile che Paul si trovasse di fronte a un uomo dai lineamenti così familiari.

Impossibile, anche, che a Paul sembrasse di guardare, come se fosse allo specchio, una versione più invecchiata di se stesso, con lo stesso naso e la stessa bocca, e le rughe e i capelli bianchi e diradati a indicare la età avanzata.

Impossibile, infine, che proprio John l'avesse condotto da suo padre.

E fu proprio quest'ultima riflessione a fargli trovare le parole giuste da dire.

"Non è possibile." mormorò con voce tremante, "Tu... Non puoi essere tu."

"Sono io, figliolo."

L'uomo rispose con un sorriso debole, e la combinazione di quelle parole e quel sorriso fece tremare Paul violentemente. Una scossa che lo fece ridestare all'improvviso da quella specie di intorpidimento che provava da quando si era voltato verso l'uomo.

"No." protestò Paul, accorato, "Non mi chiamare così. Non farlo. Hai perso il diritto di chiamarmi in quel modo."

Jim McCartney sussultò appena, non aspettandosi un simile atteggiamento da parte di Paul, o perlomeno, non così presto.

"Hai ragione, perdonami."

"Perdonami?" ripeté Paul, indignato e sbalordito, "Quindici anni che non dai tue notizie e tutto quello che sai dire è perdonami?"

"Paul, per favore. Cos'altro dovrei dire?" sospirò Jim, sconsolato, "Qualunque cosa dicessi, tu me la ritorceresti contro."

Paul si lasciò scappare una risata sardonica, "E puoi biasimarmi?"

"No, ma..."

"Allora smettila di farmi queste inutili paternali." lo interruppe, ogni traccia di divertimento fasullo scomparve in un istante, "Sono cresciuto, e non ho più bisogno di te."

"Non fare così, Paul, ti prego."

"E come dovrei fare? Sono di fronte all'uomo che ha abbandonato la mia famiglia."

"Sono stato costretto." sbottò Jim.

Era evidentemente in difficoltà, forse aveva sperato che le cose potessero andare almeno un po’ meglio, ma nonostante questo, si sforzava a restare tranquillo. Ci stava pensando Paul a essere abbastanza nervoso per entrambi. 

"Perché sei stato un irresponsabile e ti sei messo nei guai." gli rinfacciò.

"Non avevo scelta." si giustificò Jim, scuotendo appena il capo.

"Sì, invece. L'avevi.” protestò Paul, “Ed era restare con noi. Avremmo affrontato tutto insieme."

"Non potevo permetterlo."

"Perché? Noi ti avremmo aiutato."

Paul sembrò affievolire la sua dose di rancore, di anni e anni di rancore che non aveva mai potuto lasciar sfogare.

Tuttavia Jim continuava a scuotere la testa, "Paul, tu non capisci."

"Allora fammi capire." rispose Paul, quasi istintivamente.

Sì, Paul si rese conto che fu una risposta istintiva e inaspettata, perché Jim lo osservò sorpreso, piacevolmente sorpreso.

"Tu... Tu lo faresti?"

E la sua voce tremante confermò a Paul il suo timore. Quella risposta gli era scappata prima che lui potesse ragionarci sopra e fermarla. Ma in realtà, ora che poté riflettere per qualche secondo, si accorse di non aver davvero voglia di fermarla o ritrattarla.

"Io, sì, credo di sì.”

“Davvero?” chiese Jim, sorridendo con incredula speranza.

“Sì.” rispose Paul, annuendo con più convinzione, “A questo punto, voglio sapere."

Jim annuì lentamente, "Perché non ti siedi, allora? Solo per un attimo."

Paul si morse il labbro, titubando di fronte alla richiesta.

Stava davvero per permettere all'uomo che gli aveva rovinato la vita di spiegare le sue azioni?

Perché mai? Si era ripromesso più e più volte nella sua vita che mai e poi mai avrebbe voluto sapere alcunché da suo padre. Si era ripromesso che non gli importasse più nulla di lui.

Ma la verità era che Paul era un uomo diverso ora. 

Quella parte di se stesso che aveva sempre desiderato riabbracciare suo padre, la stessa che stupidamente voleva perdonare John, era una piccola ma importante parte di lui; era una parte senza cui Paul non poteva vivere. Era semplicemente il suo cuore.

E il suo cuore poteva anche essere un folle bastardo, che gli faceva desiderare cose che andavano contro i dettami della sua ragione, ma Paul ora sapeva come ascoltarlo. Sapeva di volerlo ascoltare come non aveva mai fatto prima del suo arrivo a Londra, prima di incontrare John, che aveva acceso in lui quel desiderio.

Così, lasciando che il cuore tornasse a guidarlo come negli ultimi mesi, si diresse verso la poltrona nel bel mezzo del salotto e si accomodò.

Jim lo osservò, incredulo che Paul volesse davvero sapere, ma soprattutto con amore e orgoglio: l'amore che non aveva potuto mostrargli negli ultimi, lunghissimi anni passati lontano dalla sua famiglia, e l'orgoglio per lo splendido giovane uomo che era diventato. Sapeva che Paul avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo, se ora si fosse alzato e fosse andato via, non disposto ad ascoltare le sue parole, sapeva che avrebbe avuto ragione anche a non voler perdonare John, e sapeva anche che lo stare lì ora, in attesa per lui, che l'aver seguito John, ignaro di ciò che stesse per accadere, comportasse un grande sforzo da parte sua. Jim lo apprezzava e stimava ancor di più per questo. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non credeva fosse qualcosa che Paul avrebbe accettato.

"Ebbene?" domandò Paul, guardandolo con aspettativa.

Jim si lasciò scappare un sorriso: i suoi grandi occhi, gli stessi che aveva ereditato dalla sua bellissima madre, erano ancora gli stessi che ricordava. Avevano la stessa dolce attesa e adorabile innocenza di quando Paul da piccolo aspettava che suo padre gli raccontasse una fiaba per la buonanotte.

La fiaba che doveva raccontare, ora, era ben diversa e il lieto fine non era affatto certo.

Così Jim raccolse tutto il suo coraggio e tutti i suoi ricordi dolorosi, e quindi, ben vividi, e si sedette di fronte a lui, sfregandosi le mani sui pantaloni.

"L'anno prima della mia fuga, la ditta in cui lavoravo andò in bancarotta e fu costretta a chiudere, lasciando a casa decine e decine di operai. Alcuni furono fortunati, trovarono subito altri impieghi. Ma io, così come altri miei ex-colleghi, non fummo altrettanto fortunati. Per mesi andammo avanti con i risparmi che tua madre ed io avevamo messo da parte dal nostro matrimonio. Tua madre riusciva a trovare piccoli impieghi, andando a fare le pulizie anche nelle case di amici nostri. Io non ero d'accordo, non volevo che si umiliasse in questo modo per persone che frequentavamo, ma a lei non importava. Per lei contava solo far mangiare la sua famiglia, una famiglia a cui io non ero più in grado di badare. Questo mi rese abbastanza disperato, tanto da accettare un'offerta di lavoro a Birkenhead che si rivelò essere qualcosa di criminoso. Sapevo cosa stavo facendo, sapevo che stavo per lavorare per un'associazione a delinquere. Ma cosa dovevo fare? Non potevo sopportare il non riuscire a provvedere ai miei figli. Non sono mai stato forte come tua madre. Così cominciarono ad assegnarmi piccoli furti a danno di nemici del boss. Non mi piaceva come lavoro: mi sentivo sempre in colpa, ma ero bravo e riuscii a guadagnarmi la fiducia degli altri. Cercavo di non pensare a quanto sbagliato fosse, e questo fu possibile perché immensa era la gioia che provai quando tornai a sfamare i miei bambini e mia moglie."

Paul sembrava alquanto sbalordito. Aveva sempre saputo che suo padre si fosse messo nei guai, ma non credeva addirittura con un’organizzazione di stampo mafioso.

"Cos'è successo dopo allora?" domandò interessato.

"Dopo…” riprese Jim, mentre il suo corpo veniva attraversato da un brivido, “È successo che a un certo punto mi assegnarono un incarico ben diverso. Non avrei dovuto rubare qualcosa, questa volta avrei dovuto addirittura uccidere un uomo.”

“Uccidere?” ripeté Paul, la voce morì in gola prima della fine.

“Sì, ma non avrei mai potuto farlo, neanche per amore dei miei figli. Togliere la vita a un uomo era inaccettabile per me. Così dissi che avrei accettato, ma la sera prima dell'incarico, me ne andai. Decisi che sarebbe stato più sicuro andarmene da solo. Fin quando fossi stato con voi, voi sareste stati in pericolo."

Paul scosse il capo. Ora poteva capire le azioni di suo padre, ma c’era ancora qualcosa che non tornava.

"Lo saremmo stati comunque. Potevano rintracciare la nostra casa e farci del male."

"No, sarebbe stato molto difficile. Io sapevo in cosa stavo per essere coinvolto, quando mi sono messo al loro servizio. Ero disperato, è vero, ma non tanto sprovveduto. Per questo motivo diedi loro un nome fasullo. Almeno se fosse successo qualcosa, non avrebbero mai potuto risalire a voi. Così sareste stati al sicuro, anche senza di me."

"Ma se avevi usato un nome fasullo, perché non potevi restare con noi?” chiese Paul, ancora perplesso, “Avremmo potuto andarcene tutti insieme."

"Avevo paura che potessero in qualche modo rintracciarci e vendicarsi su di voi. Penso che tu sappia bene quale grande potere abbiano queste organizzazioni."

Suo malgrado, Paul si ritrovò a sospirare. Sì, lo sapeva. Era un tipo di criminalità che faceva ancor più ribrezzo di un semplice ladro.

"Allora non troverai difficile comprendere quello che ho fatto. Dopotutto, forse non sai ancora cosa significa avere dei figli, ma anche tu hai degli affetti e credo che desideri che stiano sempre bene, o sbaglio?"

"No.” rispose Paul, con una sorta di senso di sconfitta, “Hai ragione."

"Non volevo raccontarti questo solo per impietosirti e avere qualche speranza di farmi perdonare da te, ma ora che siamo qui, di nuovo insieme, io dovevo dirti la verità."

Paul annuì distrattamente, troppo preso da tutte quelle improvvise rivelazioni e dal provare ad assimilarle. Non era un compito facile, vuoi per il fatto che Paul aveva a che fare anche con il rimorso, la colpa che cercavano di sopraffarlo. Aveva sempre odiato suo padre per quello che aveva fatto e ora invece, doveva fare i conti con le sue spiegazioni, spiegazioni anche abbastanza convincenti, dannazione.

Ma non voleva né poteva crogiolarsi in tutto questo, lasciarsi andare, perdonare così facilmente quell’uomo. Se Jim era stato sempre lì, a Londra, se conosceva John, allora c’era un altro motivo a cui Paul potesse aggrapparsi per resistere.

"E John?” domandò, “Come l'hai conosciuto?"

Jim non sembrò turbato dalla domanda, era ovvio che la stava solo aspettando.

"Quando sono scappato, decisi di andare a Londra. Sarebbe stato più difficile rintracciarmi in questa grande metropoli. Così durante una piccola sosta in un pub di Warrington, entrò questo ragazzino dall'aria sveglia e sfilò alcuni portafogli dai clienti, tra cui il mio. Notai ciò che stava facendo, così lo seguii fuori dal pub e da lì iniziò questa amicizia. Lui era così piccolo, poteva benissimo essere mio figlio e mi accorsi subito che avesse bisogno di affetto e protezione. E dal momento che non avrei potuto occuparmi dei miei ragazzi, decisi di prendermi cura di lui. Andammo a Londra, dove riuscii a trovare un piccolo appartamento grazie a un mio vecchio amico. Vivendo con John, scoprii pian piano tante piccole cose su di lui: suo padre aveva abbandonato sua madre, lei era morta e lui era stato affidato ad un orfanotrofio. Subito dopo aveva cominciato a cambiare famiglie adottive, perché nessuna di queste era in grado di dargli ciò che serviva: un po' d'amore disinteressato. Fino a quando non capitò con una coppia in cui il marito picchiava la moglie. Quando provò a picchiare anche lui, John si ribellò. Lo colpì con forza prima di scappare, e poi, beh, poi ha incontrato me."

Paul sussultò: sapeva qualcosa del passato di John, ma quel particolare, quello di un piccolo John che si difendeva così violentemente, gli era stato omesso. E scoprirlo ora, dal racconto di suo padre, fu inaspettato e sconvolgente.

"E la storia di Hermes?" domandò subito dopo.

"La storia di Hermes…” sospirò Jim, chinando il capo e arrossendo, forse per vergogna, “A Londra all'inizio vivevamo con piccoli furti, ma poi trovai un lavoro come si deve. Decisi di mettere quanti più soldi da parte per me e per John. Quando dopo diversi anni ci ritrovammo con una bella cifra tra le mani, rilevammo il negozio di musica e cominciammo a lavorarci entrambi. Ma dopo che George iniziò a lavorare con noi, pensai di potermi ritirare e lasciai il lavoro ai due ragazzi. Avevamo smesso con i furti e stavamo entrambi bene. Poi John conobbe Cynthia e accadde ciò che già sai. John, alla fine, era completamente distrutto. Non voleva darlo a vedere, ma sapevo che fosse così. Perciò quando pensò di diventare Hermes, non lo fermai. Per la prima volta dopo Cynthia, lui era ancora entusiasta per qualcosa. Sapevo che gli dava sicurezza e una sorta di controllo che fino ad allora non aveva avuto, soprattutto nella storia con Cynthia, dove le cose erano accadute senza che potesse fare molto per lei."

"E quando sono arrivato io?" lo incalzò Paul, fremendo di ansia per quello che rappresentava il punto cruciale di tutta la storia.

"Quando sei arrivato tu e lui mi ha raccontato di aver fatto la tua conoscenza, gli ho chiesto di smettere e ritirarsi. Ma lui ha voluto proseguire nonostante tutto. È testardo tanto quanto me. Ma poi, per fortuna, ha sospeso i furti, e io mi sono sentito sollevato. Non volevo né che tu perdessi il tuo lavoro per causa sua, né che lui finisse nei guai per qualcosa che gli stava sfuggendo di mano."

“Ma poi è successo.” puntualizzò Paul, il tono lievemente maligno, “Ho perso il mio incarico per colpa sua.”

“Lo so, e mi dispiace.” esclamò Jim, sinceramente addolorato, “Non sapevo nulla, non mi hanno avvisato dell’ultimo colpo e sono molto arrabbiato con John per quello che è successo. Tuttavia, quando mi ha confessato il motivo per cui l’aveva fatto e soprattutto, i sentimenti che provava per te, ho deciso di dargli una mano per convincerti a perdonarlo.”

Paul, senza volerlo, si ritrovò ad arrossire alla sola idea che John e suo padre avessero parlato di.... certe cose.

“Lui… che cosa ti ha detto?”

“Che era pentito e che ti amava e avrebbe voluto sistemare le cose.”

Nonostante il suo cuore ebbe un piccolo sussulto, Paul costrinse se stesso a sbuffare, “E tu gli credi?”

“Certo, lo conosco bene." affermò, convinto, l'uomo, "So quando sta dicendo la verità.”

“Non credo però che abbia scelto la persona adatta per farsi aiutare.” ribatté Paul.

La sua parte razionale stava ancora avendo la meglio su di lui, sapeva essere incredibilmente sadica quando si impegnava. E Paul poté vederlo facilmente dalla reazione di Jim: il volto si incupì e gli occhi divennero lucidi. Come se avesse voglia di piangere. Ma nonostante questo, l'uomo resistette e proseguì nell'affrontare Paul con coraggio.

“Beh, forse non sono la persona adatta per convincerti." concordò Jim, "Ma di sicuro sono l’unico a sapere per certo che tua madre vorrebbe che lo perdonassi. E che perdonassi anche me.”

Gli occhi di Paul si spalancarono di nuovo con sdegno, di fronte alla figura intoccabile che suo padre stava tirando in ballo.

"Tu non sai un bel niente, non puoi parlare di lei. ”

“Sei in errore, Paul, io so tutto di lei.”

“No, non è vero." protestò Paul, alzandosi in piedi, e questa volta era lui che aveva voglia di piangere per tutto ciò che era accaduto e stesse ancora accadendo, "L’hai lasciata da sola a crescere due bambini senza più dare tue notizie, perciò non osare insinuare cosa lei avrebbe voluto che facessi.”

“Paul, lo so che sei ancora arrabbiato con me, ma devi credermi." affermò Jim, guardandolo dal basso e convincendolo a tornare a sedersi, "Ricordo tutto di tua madre: era la persona più dolce e gentile del mondo. Ed era comprensiva; dopotutto, lei sapeva in che guaio mi fossi cacciato e ha accettato la mia decisione di andare via.”

Se Paul non avesse sentito il proprio cuore precipitare con un tonfo improvviso, avrebbe pensato che si fosse fermato. Non poteva credere alle sue orecchie. Sua madre sapeva?

“Cosa?” chiese comunque, lasciando trapelare il suo sconvolgimento.

“Sì." rispose Jim, "Vedi, lei mi ha aiutato a organizzare la fuga. Naturalmente all’inizio ha provato a farmi cambiare idea, sostenendo che non ci avrebbero mai trovato, anche se avessi dato un nome falso, ma io sapevo che non era vero. E lei capì che non potevo continuare a vivere con il terrore che ogni giorno potessero far del male a voi o a lei, insieme a Liverpool o da qualunque altra parte del mondo. Così cedette e lasciò che me ne andassi. Cercavo sempre di tenermi in contatto con lei: appena potevo le mandavo un po’ di soldi per te e Mike e lei mi informava dei vostri progressi a scuola e dei-”

“Ma se lei sapeva..." lo interruppe Paul, sconcertato da tutti quei dettagli che gli erano stati taciuti, "... perché non ce lo ha mai detto?”

“Hai ragione. Il fatto è che in un primo momento, abbiamo pensato di non dirvi nulla. Eravate troppo piccoli e temevamo che poteste lasciar scappare qualche informazione con qualcuno. Le orecchie indiscrete stanno dappertutto, sai. In seguito, quando siete cresciuti, lei avrebbe voluto spiegare tutta la verità, ma a quel punto voi mostravate troppo rancore nei miei confronti. Pensava che non avreste mai potuto crederle, o comunque che avreste odiato anche lei."

“Chi mi dice che non stai inventando tutto? Lei è morta, non può confermare quello che hai detto.”

Jim aggrottò la fronte. Era arrabbiato, sì, ma soprattutto deluso perché Paul si stava dimostrando il testone che gli aveva descritto John. Vederlo ancora pieno di dubbi faceva male. Certo, non pretendeva che Paul saltasse di gioia, ma neanche che pensasse che Jim potesse sfruttare la morte di sua madre per la loro riconciliazione.

“Non mentirei mai su tua madre, Paul." disse poi, con tono glaciale, "Lei era la mia vita.”

Alle sue parole e al suo sguardo penetrante, Paul si sentì rabbrividire. Forse aveva esagerato questa volta. Così arrossì e distolse lo sguardo, provando a pensare ad altre domande per chiarire i suoi dubbi.

“Allora perché lei non ci ha detto nulla? Se avesse provato, forse ci sarebbe stata una possibilità.”

“Hai detto bene, Paul, forse. Forse l’avreste capito, o forse no, e così avremmo solo peggiorato la situazione. Non lo sapremo mai, Paul, non possiamo tornare indietro e cambiare le cose. Possiamo solo accettare ciò che è successo e andare avanti.”

Paul annuì lentamente. Sì, suo padre aveva ragione: se ripensava a se stesso da ragazzino, così pieno di rabbia per un padre che li aveva abbandonati, sicuramente Paul non avrebbe capito il gesto dei suoi genitori e il silenzio di sua madre. Forse se sua madre avesse parlato, si sarebbe rovinato anche il rapporto con lei.

“Cosa hai fatto dopo, allora?”

“Le dissi di lasciar perdere e lei cercò solo di non alimentare ulteriormente il vostro odio nei miei confronti.”

Il giovane ispettore si morse il labbro. Il sacrificio di suo padre era stato ammirevole, Paul doveva riconoscerglielo. Anche se suo padre era stato assente, se non altro, Paul aveva avuto una madre affettuosa e presente. Il ricordo che lei gli aveva lasciato era dei più dolci.

“Io… non avevo idea che voi foste d’accordo.”

“Non è stata una decisione facile e sicuramente sarà stata quella sbagliata, ma questo è per dirti che tutti possono sbagliare. E quando sbagliano le persone che amiamo, soffriamo di più, ma è anche questo parte della vita. È ciò che ci permette di crescere. Ho sbagliato ad abbandonarvi in quel modo, con il senno di poi so che avrei potuto chiedere aiuto, alla polizia forse, così da poter continuare a vivere insieme. Nonostante questo, ho cercato di rimediare ai miei errori, occupandomi di un ragazzino che come me era rimasto solo. E ora è lui ad aver sbagliato. Ma devi perdonarlo, Paul, ti prego. John è un bravo ragazzo. Lo conosco molto bene io."

Il rossore sulle guance di Paul divenne più intenso nel sentire la preghiera del padre. Perché ci teneva così tanto? Forse tanto quanto al suo stesso perdono?

"E dovrei perdonare anche te?" gli chiese, incrociando le braccia sul petto.

"Sì.” sospirò Jim, “È la cosa a cui tengo di più. Il perdono tuo e di Mike."

"Se ci tenevi così tanto, perché hai voluto vedermi solo ora?"

"Avevo paura. Ma soprattutto, non credo che fossi pronto prima di adesso."

"Come fai a dirlo?” domandò Paul, perplesso, “Tu non mi conosci."

Con grande sorpresa di Paul, Jim sorrise con una punta di furbizia. E questo lo rese improvvisamente nervoso.

"Oh, io ti conosco bene, invece.” ribatté Jim, “E non solo perché sono tuo padre. Nei racconti che John mi riferiva su di te, potevo vederti chiaramente e riconoscere il bambino che avevo lasciato a crescere da solo. Poi, man mano che John iniziava ad affezionarsi a te, i suoi racconti sono diventati così attenti e dettagliati che mi sembrava di essere ogni volta insieme a te. Come se mai fossimo stati separati. John ti ha sempre osservato bene, fin dal primo momento."

"Perché gli conveniva." affermò Paul, con uno sbuffo.

E quella fu la prima volta in cui Paul si accorse che un po’ di quella rabbia, anzi, molta rabbia era scemata, lasciando il posto a una sorta di indispettito fastidio.

"All'inizio, certo, non lo metto in dubbio.” concordò Jim, “Ma poi è stato perché ti amava."

Paul chiuse gli occhi per un istante, sentendo il suo cuore agitarsi nel suo petto. Oh santo cielo, non poteva crollare ora. Quello che gli aveva fatto John era ancora terribile e lui era arrabbiato e…

E e e

E Paul era stanco di sentirsi così, ma non poté resistere alla tentazione di lanciare un’ultima frecciatina a suo padre, una che coinvolgeva anche John.

"E tu? Vorresti farmi credere che per te va bene, tutta questa situazione? Tuo figlio si innamora dell'uomo che lo ha ingannato e gli ha spezzato il cuore, e per te è tutto normale?"

Jim sussultò, non aspettandosi una domanda del genere, così schietta e intima. Ci rifletté per qualche secondo, e poi rispose, cercando di essere il più sincero possibile.

"È ovvio che non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. Quando John mi ha confessato i suoi sentimenti per te, ammetto di essere rimasto spiazzato per un momento. Ma non è stato difficile notare la sua sincerità, e ho capito quanto tenesse a te e quanto volesse solo renderti felice d'ora in poi. Questo riavvicinamento tra noi due è un esempio. Pensava che fosse una buona idea."

"È stata una sua idea?" chiese Paul, battendo le palpebre, perplesso.

"Tecnicamente è stata di George.” rispose Jim, con una piccola risata, “Ma poi John, che è stato a più diretto contatto con te, ha capito che tu fossi cambiato e che ci fosse una minima possibilità che forse ti avrebbe fatto piacere."

Paul si morse il labbro, mentre Jim lo osservò intensamente, come fossero i due poli di una calamita, come se ora che finalmente era tutto chiarito, lui non potesse più distogliere lo sguardo dal suo bambino, il suo bambino ormai cresciuto.

"Aveva ragione, Paul?" continuò Jim, timoroso.

Paul strinse le dita sulle braccia, mentre una sola parola occupava la sua mente.

Una sola parola e una sola risposta.

"."

Era stato difficile dirlo, era stato difficile cedere, ma il sorriso solare di Jim gli disse che ne era valsa la pena.

“Bene, sono… sono davvero felice, non hai idea di quanto-"

"Ma!” lo interruppe Paul, desiderando chiarire alcune cose, prima che suo padre facesse troppi voli di fantasia, “Questo non vuol dire che tornerà tutto come prima o che comincerò a chiamarti papà."

"No, lo so bene." concordò Jim, mestamente.

"Ci vorrà tempo, molto tempo, per questo e per accettare il fatto che voglia perdonarti." specificò Paul, con convinzione.

Jim annuì, sorridendo dolcemente, come se ora fosse difficile smettere di sorridere, "Io sarò qui ad aspettarti per tutto il tempo che vorrai."

"D'accordo." sospirò Paul.

"E con John?" chiese Jim.

Già, quella era una bella domanda.

E con John?

****

Il viaggio di ritorno fu ancor più silenzioso dell’andata, se possibile.

John non aveva idea di cosa fosse successo nell’incontro tra Paul e Jim. Aveva solo intravisto Jim, che gli aveva sorriso debolmente. Non sapeva se prenderlo come un segno positivo, della serie, “Andrà tutto bene”, oppure come qualcosa di negativo, per esempio, “Missione fallita”.

Lui, John, non aveva neanche il coraggio di chiederlo. Paul aveva uno sguardo molto concentrato, come se gli stesse intimando di non osare fargli neanche una sola domanda su quanto fosse accaduto. E John, suo malgrado, dovette obbedire, anche se la curiosità lo stava divorando.

Dopodiché avevano recuperato la refurtiva di Hermes e l’avevano caricata in macchina.

E ora eccoli là, tutti intenti a scaricare i pesanti scatoloni e portarli nella casa di Paul.

Quando finirono, John mise le mani sui fianchi, osservando la sua refurtiva. Era difficile, lasciar andare tutti quegli oggetti che aveva recuperato, anzi, rubato, affrontando missioni complicate, che l’avevano eccitato, ma anche spaventato. John le ricordava una per una, con malinconico affetto e rimorso. Tuttavia ora non aveva più bisogno di queste cose. Non gli davano più alcuna gioia, né il calore o la felicità che ogni essere umano cerca. Aveva bisogno di Paul, però, e restituire la refurtiva forse non gli avrebbe fatto ottenere ancora il suo incarico, ma avrebbe potuto colpirlo al cuore, solo un po’. John non chiedeva tanto, una piccola breccia nel suo cuore era sufficiente per far uscire tutto l’amore che era sicuro Paul provasse ancora per lui. E poi chissà, magari quell’amore l’avrebbe convinto a restare.

Il problema era che Paul non stesse mostrando nulla di tutto questo. Era come immerso in una profonda riflessione, come se fosse su un altro mondo. John sapeva che fosse dovuto solo all’aver rincontrato suo padre. Paul doveva essere rimasto sorpreso, sconvolto. Oh, quanto avrebbe voluto solo abbracciarlo per rassicurarlo, come aveva fatto prima di quel disastro, dirgli che sarebbe andato tutto bene d’ora in poi. Ma non poteva farlo, non poteva né abbracciarlo, perché Paul l’avrebbe respinto, né incoraggiarlo con quei messaggi di speranza, perché John non sapeva cosa sarebbe accaduto in futuro. O forse lo sapeva, e proprio per questo non poteva dirgli che sarebbe andato tutto bene. Non dipendeva da lui, lui aveva fatto tutto ciò che aveva potuto, ora toccava a Paul.

“Allora, come spiegherai questo ritrovamento?” domandò John, provando a distrarsi.

Paul sospirò, evitando di guardarlo, “Non lo so, mi inventerò qualcosa.”

“Non avrai dei guai, vero?”

“No, non direi.” rispose il giovane, scrollando le spalle.

“D’accordo." sospirò John, prima di mordersi il labbro.

Non voleva che quella conversazione terminasse, perché avrebbe significato solo una cosa. L'addio definitivo a Paul. E addio era una parola così brutta. Diventava poi insopportabile se associata a Paul.

Così John fu costretto dal proprio cuore a continuare la conversazione in qualunque modo.

"Con Jim tutto a posto?"

Paul si morse il labbro, "Non ne sono sicuro."

"Perché?"

"Vuole che lo perdoni."

"E lo farai?" chiese John, il tono attento e addolcito, lo sguardo ancora posato su Paul.

"Io credo di sì.” rispose Paul, “Mia madre vorrebbe che lo perdonassi."

"Per quello che vale la mia opinione, penso che dovresti farlo.” affermò John, “Pensavi di aver perso un padre e ora lo hai ritrovato. Nonostante tutto quanto possa aver fatto, è una fortuna che capita a pochi."

"Sarà complicato, ma ci proverò."

"E’ un’ottima decisione."

Paul accennò un debole, debolissimo sorriso che fece saltare il cuore di John.

Egli sperò che Paul ora dicesse qualcosa riguardo il perdono nei suoi confronti. Sicuramente anche Paul ci stava pensando, era in evidente duello con se stesso, ma non una sola parola fu proferita a questo proposito.

Così il piccolo volo di speranza di John andò a schiantarsi sulle vette della irremovibilità di Paul. Era ovvio. Paul non l'avrebbe mai perdonato. E prima John l'avesse accettato, meglio sarebbe stato per tutti.

Ma soprattutto, più facile sarebbe stata la separazione definitiva dal giovane uomo che aveva stravolto e migliorato la sua vita.

"Allora…” continuò John, “Non ci resta che dirci addio.”

Paul sussultò lievemente, prima di portare finalmente gli occhi su di lui, “Cosa?”

“Sì, addio, domani parto.”

Addio, una parola che continuò a rimbombare nella mente di Paul, stordendolo appena, ma lasciandolo abbastanza lucido da chiedere, “Dove vai?”

“Io e Julian andiamo a passare le vacanze di Natale da Cynthia. Quando torneremo, tu sarai già andato via.”

“Oh.”

Oh era la cosa più giusta da dire, dal momento che Paul non sapeva bene cosa dire né fare. Pensava che non gli sarebbe importato nulla di John, che il fatto di non vedersi più sarebbe stato solo il suo desiderio che veniva esaudito.

Ma ora scopriva di non volere niente di tutto ciò, anzi, gli angoli dei suoi occhi pizzicarono fastidiosamente, mentre un futuro che non comprendeva John né il piccolo Julian scorreva nella sua mente.

Un futuro certamente doloroso.

“Volevo…” continuò a dire John, sorridendo e arrossendo appena, mentre abbassava lo sguardo, “Volevo chiederti di restare qui, con me e Julian, perché sentiremo entrambi la tua mancanza.”

“Julian non sentirà la mia mancanza, è troppo piccolo.”

“No, non è vero, certe cose le avverte anche lui.” rispose John, “E comunque, mi sono reso conto che ho perso il diritto di chiedertelo.”

Paul spalancò gli occhi, sentendo il viso avvampare e no, non per piacere. C’era solo tanta rabbia ora, rabbia insieme a qualcosa che Paul conosceva bene. Entrambe le emozioni facevano battere forte il suo cuore, come se questo piccolo, fondamentale, folle organo volesse liberarsi dalla gabbia toracica e prendere lui il comando del corpo di Paul.

E il giovane ispettore, notando che John avesse ormai rinunciato a combattere, decise di concedergli un po' di quel comando.

"Hai ragione, sai?" esclamò, spingendolo fuori da casa sua, "Non hai nessun diritto di chiedermelo."

John batté le palpebre, decisamente preso in contropiede, "Ma... Paul, io-"

"Quindi..." proseguì Paul, incurante di ciò che stesse dicendo l’altro uomo, "Addio, John."

E l’istante successivo, Paul fece sbattere la porta in faccia a John, e poi, pentito e frustrato per il gesto, si accasciò a terra e pianse.

Fu un pianto silenzioso che valeva più di mille parole. Le stesse che Paul non aveva il coraggio di accettare, quelle che avrebbero perdonato John, che gli avrebbero sussurrato di amarlo e poi chiesto di baciarlo.

Quelle parole che avrebbero lenito la sua sofferenza, la sua e quella di John.

Non aveva potuto dire tutte queste cose a John, non ancora, perché prima avrebbe dovuto dirle a se stesso e soprattutto, accettarle.

Ed era ciò che stava facendo.

Proprio ora, nella sua solitudine, nella sua sofferenza, nel suo pianto disperato.

 

Note dell’autrice: buon Halloween. J

Prima di tutto, chiedo perdono perché il titolo del capitolo è sbagliato rispetto a quello che avevo anticipato l’altra volta. Questo perché in effetti quello successivo e questo avrebbero dovuto essere un solo capitolo, ma ho visto che mi stavo dilungando troppo e li ho divisi.

Quello successivo sarà davvero “Till there was you”.

Grazie a kiki per la correzione. Grazie a paulmccartneyismylove e Beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso capitolo.

Mi dispiace un po’ che ci sia scarsa partecipazione, proprio ora che le cose si stanno chiarendo e stiamo arrivando alla fine. Se è un problema di non gradimento della storia potete dirlo, anche perché vedo molte visualizzazioni e pochissime recensioni. Non capisco ancora quale sia il motivo.

Comunque, buon Halloween e buon weekend.

Spero di scrivere presto il prossimo capitolo, altrimenti ci sentiremo il 6 novembre con una fluff che più fluff non si può. Fra John e Paul, ovvio. ;)

A presto

Kia85

 

 

 

 

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Capitolo 28
*** Till there was you ***


I’ll get you

 

Capitolo 27: “Till there was you”

 

Addio.

Paul gli aveva detto addio.

Lo aveva spinto fuori casa sua, aveva pronunciato quella parola insopportabile e poi gli aveva chiuso la porta in faccia.

John era rimasto per qualche secondo a guardare quello stupido ostacolo che lo divideva dall'uomo che amava. Sperava che Paul potesse cambiare idea e tornare da lui.

Ma per dirgli cosa?

Beh, John non poteva saperlo davvero. Paul avrebbe anche potuto non parlare; avrebbe potuto limitarsi ad abbracciarlo, magari, o baciarlo. Oh, quello sarebbe stato un vero sogno.

Ecco, quanto stupido era stato John a pensare qualcosa di simile? Era proprio un sogno. Un simile scenario avrebbe potuto svolgersi solo nei suoi sogni ormai, perché Paul non voleva più avere niente a che fare con John. Perciò ora lui doveva avere la forza di accettarlo e smettere di combattere quell'inutile battaglia. Si sentiva quasi come Don Chisciotte nelle sue battaglie contro i mulini a vento.

E il suo amore era diventato la più futile di queste battaglie. Combattere per lui ora, con Paul che proprio non aveva intenzione di perdonarlo, era troppo doloroso. John non poteva continuare a farsi del male, non era così follemente masochista.

Amava Paul, ancora, con tutto il suo cuore, ma se avesse continuato a insistere con lui, se avesse continuato a sbattere la testa contro quell'incrollabile muro, si sarebbe ferito e questa volta molto dolorosamente. Era qualcosa che non poteva permettere.

Lui doveva stare bene per suo figlio, per quello splendido bambino che ora dormiva serenamente tra le sue braccia.

L’uomo sospirò, chinandosi a baciargli il capo delicatamente.

La sera prima John non aveva fatto altro che pensare a quello che era accaduto con Paul, e ogni momento rivissuto nella sua mente gli aveva causato brividi di freddo e fastidiose morse al cuore. Se avesse continuato in quel modo, non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte, e dal momento che il giorno dopo sarebbero partiti, John doveva essere sveglio, con i riflessi pronti.

Così, quando Julian si era addormentato, lo aveva preso delicatamente tra le sue braccia e portato nel suo letto, accoccolandosi contro di lui e guardandolo dormire beatamente, prima che il sonno vincesse anche lui.

Ancora una volta, la presenza del bambino accanto a lui, il dolce suono del suo respiro lieve, il battito tranquillo del suo cuore, il tepore del suo piccolo corpo, tutte queste cose lo aiutarono a recuperare la serenità necessaria per dormire.

E ora, appena svegliato dopo quel sonno ristoratore, John si concesse di stare ancora un po’ sotto il caldo piumone, mentre provava a svegliare con delicatezza il bambino. Julian fece una smorfia quando iniziò ad avvertire le dita del padre che gli solleticavano la guancia e il collo. Le palpebre si strinsero in ricognizione del tocco e le labbra si dischiusero in un’espressione beata, ma lui non sembrava aver voglia di svegliarsi. Così John lo avvicinò di più a sé e cominciò a baciargli la fronte, le guance, il naso, e infine, Julian sospirò e si stiracchiò, prima di stropicciarsi gli occhi con la mano.

“Buongiorno, amore.” lo salutò John.

Julian sbadigliò, facendo sorridere il padre, che lo sollevò con le braccia, facendolo dondolare un po’.

“Andiamo, piccolo, sveglia! Oggi dobbiamo partire.” gli disse, facendo le sue moine per provare a svegliarlo definitivamente, “Sei contento di rivedere la mamma?”

Il bambino annuì e John ridacchiò dolcemente, prima di sollevare il busto e far sedere Julian sulle sue gambe.

“Allora dobbiamo alzarci, lavarci e preparare le valigie, giusto?”

"Sì." rispose Julian, la voce ancora impastata dal sonno, "Ma io ho fame."

"Allora prima scendiamo in cucina a preparare la colazione." commentò John, facendo il solletico sulla sua pancia quando brontolò richiedendo cibo, "Vuoi aiutarmi?"

Julian sorrise e annuì, così John gli disse di andare subito a lavarsi le mani e il bambino saltò giù dal letto, filando subito nel bagno.

Una volta rimasto solo, John sospirò, restando seduto sul materasso.

Tra qualche ora sarebbe partito e poi non avrebbe rivisto mai più Paul. Il pensiero quasi lo fece soffocare. Avrebbe voluto mandare a quel paese la sua dignità, correre da Paul, e implorarlo di restare con lui, perché... Come poteva pensare  che John potesse continuare a vivere lì, senza Paul di fronte casa sua?

Senza Paul nella sua vita?

Ma poi John si ricompose, ricordando a se stesso che Paul non aveva più motivi per restare a Londra. Forse neanche Jim era un motivo sufficientemente valido per restare. Jim non era poi legato a Londra come John. Lui avrebbe potuto raggiungere Paul, andare a trovarlo ogni volta lo desiderasse.

John no, perché Paul non lo voleva più nella sua vita.

E allora tanto valeva lasciar perdere Paul e partire.

Il pensiero doloroso fu interrotto bruscamente quando il cellulare di John vibrò sul comodino.

Il suo cuore sussultò e poi sembrò battere debolmente, come se volesse permettere ai sensi dell'uomo di diventare più affinati.

E in effetti John sentì la gola seccarsi, le mani sudare, e i battiti del cuore rimbombare nelle sue orecchie.

La sua mano tremante si mosse verso il comodino, mentre una sola domanda echeggiava nella sua mente.

E se fosse Paul?

****

Ma, McCartney, com’è possibile?”

Paul sospirò, scrollando le spalle. Era nel cortile della stazione di polizia insieme all’ispettore Starkey, a Linda e qualche altro agente scelto per recuperare gli scatoloni con la refurtiva di Hermes dalla sua macchina.

Quella mattina Paul si era svegliato presto, pensando a cosa inventarsi come scusa per il suo ex-capo. Ci aveva riflettuto a fondo: doveva trattarsi di qualcosa su cui non si potesse indagare molto, per impedire che i suoi colleghi volessero intraprendere ricerche più approfondite. Alla fine era giunto a una sorta di conclusione accettabile.

“Signore, gliel’ho detto.” esclamò Paul, “Ieri sera ho trovato gli scatoloni abbandonati davanti casa mia.”

“Doveva chiamarci subito.” lo rimproverò Richard, incrociando le braccia, “Avremmo potuto cominciare a svolgere delle indagini.”

“Mi perdoni, signore, ma dubito fortemente che avreste ricavato qualche informazione utile. È un via piccola quella in cui abito io, non molto trafficata.”

Richard sembrò riflettere a fondo, strofinandosi il mento con due dita, prima di tornare a guardare Paul, “Mi sembra che ci fosse un negozio di fronte casa sua, o sbaglio? Potremmo interrogare il proprietario per scoprire se ha notato qualche movimento strano.

La semplice immagine suscitata dalle parole dell’ispettore capo fece sussultare impercettibilmente Paul. Sarebbe stata una vera tragedia.

Lui… quell’uomo di certo, testardo com’era, folle com’era, avrebbe anche potuto decidere all’improvviso di confessare tutto direttamente all’ispettore Starkey, pur di farsi perdonare da Paul. E Paul era ancora convinto che non fosse la cosa giusta da fare.

“Lo ritengo altamente improbabile.” si affrettò a rispondere, con calma, “Dal momento che ieri ero uscito proprio con lui. Vede, noi siamo... siamo molto amici.”

Richard lo osservò con un sopracciglio alzato. Non sembrava che non volesse credere a Paul, il quale lottava con tutte le sue forze per non arrossire; sembrava invece infastidito per quello che era accaduto, come se avesse appena sorpreso un bambino a rubare una misera caramella. Paul era sicuro che non avrebbe subito una vera ramanzina. Dopotutto aveva già ricevuto la sua punizione.

“Non capisco, comunque, cosa significherebbe tutto questo?” sospirò infine Richard.

Paul fece scrollare le spalle, con fare noncurante, “Non lo so, forse Hermes si è stancato di rubare e di collezionare questi oggetti e ha deciso di restituirli.”

“O forse è rimasto scottato dal suo primo fallimento e ha avuto una crisi d’identità.” aggiunse Linda, “Potremmo anche non rivederlo più.”

“Può darsi che sia come dice uno di voi.” affermò Richard, prima di tornare a guardare Paul con un cipiglio molto serio, “Tuttavia, McCartney, lo sa che questo non le farà riavere il suo incarico?”

“Lo so, signore.” rispose Paul, “Ho pensato solo di portarvi la refurtiva così potevate restituirla ai legittimi proprietari.”

“Sì.” disse Richard, annuendo fra sé, “Sì, ha fatto bene, la ringrazio.”

Era fatta, l’ispettore aveva creduto alle sue parole. Certo, Paul non poteva dire che la cosa non l’avesse messo a disagio. Stava pur sempre mentendo a un suo superiore, anzi all’intera categoria dei poliziotti, la stessa di cui aveva fatto parte per molti anni, la stessa per cui aveva dato tutto il suo impegno e tutte le sue forze. Solo che un valore più importante stava guidando ora le sue azioni, e Paul non avrebbe mai potuto rimpiangerlo. Era più che convinto di tutto quanto stesse facendo.

Così si morse il labbro e tornò a guardare i suoi ex agenti, che finivano di controllare la refurtiva per vedere se ci fosse tutto.

“Quando partirà per Shrewsbury?” domandò poi Richard.

“Io… non lo so.” rispose Paul, incerto, “Devo ancora organizzarmi.”

In realtà non era più sicuro di cosa fare, e si odiava per questo, perché sapeva fosse collegato alla stessa persona che aveva stravolto la sua vita. Dall’ultima volta che lo aveva visto, tutta la voglia di Paul di partire e abbandonare Londra era come svanita nel nulla. Al suo posto c’era invece un vuoto, un vuoto che chiedeva di essere colmato, una mancanza che stringeva il suo cuore in un modo che faceva male.

Il problema era… Paul voleva colmare questo vuoto?

“Vedrà che si troverà bene.” commentò l’ispettore, destandolo dai suoi pensieri.

“Sì.” rispose Paul, “Grazie.”

“Ora se non le dispiace, devo andare a riferire a Scotland Yard che abbiamo recuperato la refurtiva.”

“Certo, signore.”

“In bocca al lupo per il nuovo incarico.” gli augurò, stringendogli la mano e rivolgendogli un gran sorriso, che Paul ricambiò.

Dopotutto, nonostante quello che era successo, Paul non poteva dire di essersi trovato male con l’ispettore Starkey. L’uomo era sempre stato molto corretto nei suoi confronti, disponibile e cortese, cercando di rendere il lavoro di Paul più facile, soprattutto nei primi giorni. E Paul l’aveva molto apprezzato.

“Grazie mille.”

Dopodiché l’ispettore capo lo salutò, rientrando nell’edificio, e Paul si ritrovò con Linda che gli rivolse un sorriso lieve.

“Allora…” iniziò lei.

“Allora…”

“Partirai davvero per Shrewsbury?”

Ancora questa domanda…

E Paul provò ancora lo stesso turbamento di pochi istanti prima, lo stesso vuoto che si fece così pesante e ingombrante e… Dannazione, quanto lo detestava!

“Non lo so, in realtà.” rispose per provare almeno a ignorare quel sentimento.

“E’ per John, vero?”

Paul sussultò lievemente: non aveva voluto dare un nome a quella persona da quando gli aveva fatto capire che non si sarebbero visti mai più. E ora sentirlo pronunciare da un’altra persona lo fece tremare violentemente. Così tanto, in effetti, che tutto ciò che si era rotto quando Paul aveva scoperto la vera identità di Hermes, sembrò andare a posto, aggiustarsi.

“Credo… credo di sì.” disse senza fiato, meravigliato da quella realizzazione che lo travolse come un'onda del mare in tempesta.

“Credo?”

No, niente credo.

Era così.

Paul non voleva partire.

Non voleva partire per John.

Non voleva che lui sparisse dalla sua vita.

E ora sapeva che dal giorno prima, la rabbia che Paul provava ancora per lui fosse dovuta solo al fatto che John avrebbe almeno potuto provare a chiedergli di restare, ma Paul capiva perché John avesse rinunciato a farlo. Dopo tutti i tentativi di rappacificamento di John e la testardaggine di Paul, chiunque avrebbe gettato la spugna. Frustrato e sconfitto, non disposto a soffrire ulteriormente.

Perciò ora toccava a Paul rimediare e alleviare la sofferenza sua e di John. E doveva farlo al più presto, prima che John partisse, prima che lasciasse Londra con la convinzione che Paul non lo volesse più nella sua vita.

"Sì. Io..." iniziò a dire, non riuscendo a non sorridere, "Linda, scusa, ma devo scappare."

"Paul, ma-"

Ma la donna non fece in tempo a dire alcunché, dal momento che Paul si precipitò subito verso la sua auto. Si affrettò a chiuderne lo sportello del bagagliaio, e poi salì per metterla in moto e sfrecciare fuori dalla stazione di polizia.

In realtà non sapeva bene da dove John dovesse partire, e di certo non poteva chiamarlo per chiederglielo. No, doveva dirgli di persona tutto ciò che ora aveva compreso e accettato.

Ovvero che gli mancava qualcosa da quando la situazione era precipitata. Non tanto il lavoro, perché, dopotutto, se fosse partito, ne avrebbe comunque avuto uno.

Gli sarebbe mancata però un'altra cosa.

Una persona che lo avrebbe aspettato a casa, come faceva John.

Una persona che avrebbe sorriso, quando l'avesse visto, come faceva John.

Una persona il cui semplice pensiero avrebbe fatto sorridere Paul.

Come faceva John.

Fino a quando c'era stato John nella sua vita, Paul in fondo si era sentito completo.

E ora con l'aiuto di un piccolo amico avrebbe potuto sistemare tutto.

Con l'aiuto di George, avrebbe portato John nella sua vita.

Ancora una volta.

****

Stupido.

Stupido, John.

Stupido stupido stupido John!

Ma che diavolo gli era preso quando aveva pensato che Paul potesse contattarlo?

Sei solo stupidamente innamorato, stupido John!

Ah ecco. Doveva essere quello il motivo.

Come uno stupido infatti, quella mattina si era affrettato a recuperare il cellulare dal comodino per leggere il messaggio.

E con un pesante tonfo al cuore, aveva visto che fosse da parte di George: gli comunicava di essere disponibile, se lui avesse avuto bisogno di un passaggio in macchina alla stazione di King's cross.

Così John aveva sospirato, abbandonando la fronte contro il palmo della sua mano.

No, non aveva bisogno di un passaggio.

Voleva essere solo nei suoi ultimi momenti trascorsi nella stessa città di Paul, la città che li aveva fatti incontrare e poi li aveva uniti così follemente.

Voleva dire un ultimo, silenzioso addio a Paul. Sapeva che quel pensiero non sarebbe mai giunto a destinazione, ma era qualcosa che doveva fare per se stesso, più che per Paul. Almeno in questo modo avrebbe voltato pagina definitivamente e avrebbe potuto tornare a una vita ora decisamente normale. Senza Hermes, senza Paul.

Ora era solo John, il padre di Julian. Il resto, i panni del ladro e quelli dell’amante di Paul, erano svaniti nel nulla.

Così si ritrovò quel pomeriggio nella stazione di King's cross. La sua mano destra stringeva con forza quella di Julian per evitare che si perdesse, mentre con l'altra trasportava il trolley con i loro vestiti ed effetti per stare lontano da casa per almeno tre settimane.

Con la sua vista ciecata, però, era impossibile per John  vedere il tabellone degli orari. Si decise quindi ad inforcare i suoi occhiali, e finalmente lesse il binario da cui sarebbe partito il loro treno.

E dannazione, padre e figlio erano anche in ritardo. Il treno sarebbe partito tra dieci minuti esatti e la stazione era immensa e immersa nel caos, piena di gente che arrivava e partiva, per non parlare dei pazzi invasati che andavano a fare la foto presso il binario 9 e 3/4. Che razza d'intralcio quando uno era già in ritardo!

"Andiamo, Jules. Corriamo un po’, sei d’accordo?"

"Sì, papà."

John si mise a correre, facendo attenzione a non perdere Julian, e raggiunse la zona dei binari. Fece scorrere accanto a lui tutti i binari fino a quando non giunse a destinazione. Come lui, c'erano altri passeggeri che si affrettavano a salire.

John cercò il vagone giusto e una volta trovato, caricò prima il bambino e dopo se stesso con il trolley. Quando trovò i loro posti che davano sulla piattaforma, fece sedere Julian e sistemò il bagaglio nello scompartimento sopra di loro. Poi si sedette accanto al finestrino e non fece in tempo a sospirare per l'affanno della corsa, che subito Julian si arrampicò sul suo grembo per accoccolarsi contro il suo petto, mentre fissava lo sguardo sulle persone ancora a terra.

John avvolse le braccia intorno al figlio, tenendolo vicino, e poi imitò il suo gesto, guardando fuori dal finestrino.

C'erano molte persone che salutavano con la mano i passeggeri del treno accanto, dicevano loro arrivederci, buon viaggio, o inviavano loro baci immaginari.

Sorrise fra sé, mentre la sua immaginazione ricreava una perfetta scena da film strappalacrime degli anni ‘60, dove Paul correva lungo la piattaforma, cercando tramite i finestrini qualcuno in particolare. Cercando John.

Il suo cuore sussultò con gioia e dolore, mentre Paul nella sua mente lo trovava e gli dichiarava il suo appassionato amore, segno che dunque, l'aveva perdonato.

Ma no, non era possibile.

John chiuse gli occhi, portandosi una mano alla testa. Paul non l'avrebbe mai fatto, non sarebbe mai arrivato a tanto per John.

Paul aveva rinunciato a John e ora John stava rinunciando a lui. Non aveva neanche provato a chiedere a Paul di restare a Londra.

E mentre il controllore dava un'ultima occhiata sulla piattaforma per controllare eventuali ritardatari dell'ultima ora, John capì che quel viaggio avrebbe aiutato a rendere la separazione definitiva più facile.

"Guarda, papà."

"Cosa, amore?"

"Lì." rispose il bambino, puntando il dito indice sul vetro.

John si avvicinò per controllare meglio.

C'era qualcuno che stava correndo lungo il binario.

E se John non fosse stato certo del contrario, avrebbe potuto dire che si trattasse di Paul. Avrebbe riconosciuto quella massa di capelli ovunque.

Ma non poteva essere lui, gli ricordò una parte di stesso.

O forse sì?

Era Paul?

****

Paul parcheggiò nel primo posto libero che trovò. Non era sicuro che fosse possibile parcheggiare lì ma beh, cosa importava ora? Al massimo avrebbe trovato una multa. Aveva solo bisogno di cinque minuti per recuperare qualcosa.

In effetti, doveva recuperare la cosa più importante della sua vita.

O meglio, ribatté fra sé mentre entrava nel grande edificio con i mattoni di un bel rosso vivo, doveva assicurarsi che fosse in buone mani.

Quando entrò nella stazione, si ritrovò subito in uno degli ambienti più confusionari che potessero esistere in una metropoli come Londra. C’era gente che andava avanti e indietro, con i loro pesanti bagagli pronti per le vacanze e le buste piene di regali per il Natale.

Era inutile cercare John fra tutte quelle persone. Secondo le istruzioni che gli aveva dato pochi minuti prima George al telefono, il treno sarebbe partito fra pochi minuti. Paul doveva trovare prima di tutto il binario giusto.

Così rivolse il suo sguardo trepidante verso il tabellone degli orari. Lo scorse ansioso, con il cuore che palpitava nelle sue orecchie, rendendo quel fastidioso rumore di passi affrettati, voci concitate, annunci all'altoparlante e stridii di binari, ancor più assordante.

Poi finalmente trovò l'informazione che cercava e cominciò a correre a perdifiato verso la sua meta.

Aveva ancora pochi minuti prima che il treno partisse. Se fosse arrivato in ritardo, sarebbe stato terribile. Non avrebbe mai potuto perdonare se stesso per aver rimandato fino all'ultimo momento possibile il cercare di sistemare le cose con John.

Ma non era il caso di fasciarsi la testa prima del dovuto, dopotutto...

Dopotutto il treno era ancora fermo al binario, e con lui lo stesso John.

Si fermò solo per un istante, cercando di scorgere prima di tutto la figura familiare dell'uomo tra quelle ancora sulla piattaforma. Ma nessuna apparteneva a John.

Doveva essere già sul treno.

Così Paul, prendendo un gran respiro, iniziò a correre cercando di guardare nel frattempo attraverso i finestrini, per trovare John dall'altra parte del vetro.

Se non l'avesse trovato, piuttosto sarebbe salito sul treno e al diavolo il biglietto e quella stupida macchina parcheggiata fuori posto. Gliel'avrebbero rimossa, ma almeno lui avrebbe ritrovato John.

L'avrebbe trascinato nuovamente nella sua vita.

Stava per arrivare quasi alla fine del treno, come gli ricordò il suo cuore disperato, quando alla fine, con il vuoto nella pancia che sussultò all'improvviso, lo vide.

John era al di là del finestrino: il suo sguardo era sorpreso, totalmente incredulo ma si sforzava di mantenere una sorta di controllo, forse per non apparire più così debole di fronte a lui.

Prima o poi Paul avrebbe dovuto dirgli che quella sua parte vulnerabile era la sua preferita, perché lui era uno dei pochi a cui fosse stato concesso l'onore di vederla e toccarla.

Ma anche perché, nel contempo, faceva emergere il lato più fragile di Paul.

Come accadde in quel momento.

Paul sentì un brivido percorrere il proprio corpo e indebolirlo, mentre John si alzava e abbassava il finestrino per far sporgere la propria testa.

"Paul?"

"Ciao, John." lo salutò con voce tremante e con la bocca improvvisamente secca.

"Che... che cosa ci fai qui?"

Paul si morse il labbro, nervoso. Se avesse parlato ora, non sarebbe più potuto tornare sui suoi passi. Sarebbe stato così. Lui e John, insieme, per chissà quanto tempo. Per tutta la vita forse, e il per tutta la vita era un tempo molto lungo. Chissà cosa sarebbe potuto accadere. Di sicuro, faceva paura.

Ma il pensiero di quel futuro lunghissimo senza John era ancora più terrificante. E proprio questo lo convinse finalmente a parlare.

“C’è una cosa che hai rubato e non mi hai restituito.” disse Paul, il respiro appena affannato per la corsa.

Tutte le speranze di John che, da quando lui aveva riconosciuto Paul al di là del finestrino, si erano librate in volo, leggere, nel suo animo, all'improvviso sprofondarono; si tuffarono, o meglio, furono spinte dal grattacielo più alto di Londra, e si schiantarono con gran fracasso per terra. Ma certo, come aveva potuto John pensare che Paul potesse volergli dire altro?

Tuttavia, riflettendoci bene, John non sapeva a cosa si stesse riferendo Paul. Aveva restituito tutto, ne era certo.

“Cosa?” domandò, la delusione si era appropriata in modo fin troppo evidente del suo volto.

Solo che sparì ben presto.

Sparì quando Paul sorrise, e questa volta il suo sorriso era uno che John conosceva molto bene, era quello che faceva tremare le sue gambe.

Sparì definitivamente, poi, quando Paul portò una mano sul proprio petto.

Anzi, no, sul suo cuore.

“Questo.” rispose senza distogliere gli occhi da John, guardandolo ora senza più timore, né indecisione, né rabbia, né nessun’altro dei sentimenti orribili che avevano tormentato entrambi negli ultimi giorni.

Così libero dalla sua sofferenza, John sentì di poter scoppiare di felicità ora. Provò anche a chiudere gli occhi, come a voler trattenere quella sensazione stupenda dentro di sé, ma era così potente che gli fece provare solo le vertigini e fu costretto a tornare a guardare Paul, senza alcun dispiacere, si capisce, e si aggrappò al finestrino per non cadere, ora che le gambe si erano indebolite di fronte a Paul.

“Mi dispiace, Paul.” disse con un piccolo sorriso, “Non posso restituirtelo. È la cosa a cui tengo di più fra quelle che ho rubato.”

“Lo so e non voglio che tu lo restituisca.” lo rassicurò Paul, “Voglio che sia tuo. Ad una condizione.”

“Quale?” domandò John, prestando molta attenzione, nonostante Julian avesse cominciato a richiamare la sua tirando i suoi pantaloni.

“Devi prendertene cura tu." spiegò Paul, cercando di reprimere, fallendo, un sorriso tinto di dolce malizia, "Perché io devo occuparmi di quello che ho rubato io.”

John si lasciò scappare una risatina, “E’ la prima volta che rubi qualcosa?”

“Sì. E non ne sono affatto pentito.”

“Neanche io.” esclamò John, stringendo le dita sul finestrino.

Dio, era incredibile avere Paul di fronte a lui, con il respiro affatto per essergli corso dietro, con quel sorriso che proprio non riusciva ad abbandonare il suo viso, con un dolce rossore che colorava le sue guance e il suo naso e, diamine, perfino le sue orecchie. Faceva venir voglia a John di saltare oltre quel finestrino maledetto che lo separava da Paul, e poi prenderlo tra le sue braccia e stringerlo e baciarlo e-

Ma il fischio del capotreno fece scoppiare il suo volo di fantasia. Per uno spaventoso momento John pensò di aver sognato tutto. Invece Paul era ancora lì.

“Allora, affare fatto?” domandò l'uomo.

“Affare fatto.” affermò John, “Ma dovremo stipulare un qualche accordo per mettere in chiaro ogni singolo particolare di questo scambio. Sono un uomo d’affari, io, sai?”

“Non ti preoccupare." lo rassicurò Paul, "Quando tornerai, sistemeremo tutto.”

John batté le palpebre, sorpreso e deliziato da ciò che volevano dire davvero le parole di Paul.

“Significa che resti qui?” domandò, desiderando ardentemente un come risposta.

E il arrivò.

“Sì." rispose Paul, annuendo, "Ti aspetterò proprio qui.”

"Ci conto, eh?"

"Contaci."

Poi finalmente John dedicò le sue attenzioni al figlio che tirava ora con più forza il tessuto dei suoi pantaloni, e lo prese in braccio, permettendogli di guardare fuori dal finestrino.

Il bambino sorrise e salutò Paul con la mano, mentre lui ricambiava e augurava loro buon viaggio, promettendo a entrambi che si sarebbero rivisti molto presto.

Il treno prese velocità e John continuò a guardare Paul, mentre diventava solo un puntino all'orizzonte.

Quando non lo vide più, John si decise a rientrare e sedersi comodamente.

Sorrise come uno sciocco, o forse come un innamorato, mentre le parole di Paul, la sua voce calda, i suoi grandi occhi, si appropriarono con adorabile prepotenza della sua mente.

Quasi John non riusciva a crederci che fosse accaduto davvero e non si trattasse di un altro dei suoi sogni. Era proprio a un passo dal darsi un pizzicotto per accorgersi che fosse sveglio e cosciente.

Tuttavia sapeva che non aveva bisogno di farlo. I battiti folli del suo cuore si stavano preoccupando per fargli capire tutto questo.

No, non aveva sognato.

No, non avrebbe più pensato a Paul come qualcosa che aveva perso, come una persona che era appartenuta solo al suo passato.

Ora poteva vedere anche lui nel suo futuro perché era tutto sistemato.

Perché Paul, il suo Paul, sarebbe stato lì al suo ritorno.

Lì ad aspettarlo.

Lì per John.

 

Note dell’autrice: aww, ce l’hanno fatta. Yeah! Che testoni erano eh? :D

Bene, spero che il capitolo sia piaciuto e che sia stato come ve l’aspettavate, perché andiamo, era ovvio che avrebbero fatto pace. ;)

Grazie a kiki che ha corretto e a Beatlesmusicismylife, Astoria McCartney, Beoir, Mclennon, Oh darling beatles, Adayinthelife e paulmccartneyismylove per aver recensito lo scorso capitolo.

Siamo a -1 dalla fine + epilogo, of course. J

Il prossimo capitolo non so ancora che titolo avrà, devo pensarci bene.

Intanto buona giornata e a presto.

Kia85

 

 

 

 

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Capitolo 29
*** All you need is love ***


I’ll get you

 

Capitolo 28: “All you need is love”

 

Quando era piccolo, le vacanze di Natale passavano fin troppo velocemente, e altrettanto velocemente ricominciava la scuola.

Paul odiava con quanta fretta scorresse il tempo. Gli piaceva non doversi alzare la mattina presto per andare a scuola, godere ancora del tepore delle coperte del suo letto, stare a casa e guardare dalla finestra mentre fuori nevicava... Uh, sembrava facesse così freddo.

Sì. Quando era piccolo, sembrava davvero che un giorno iniziassero le vacanze e quello dopo iniziasse già la scuola. Forse perché Paul aspettava con ansia le vacanze di Natale dalla ripresa delle lezioni a settembre.

Ora, però, era diverso.

Ora il tempo scorreva lentamente. Troppo lentamente.

E il motivo era che Paul non stava aspettando le vacanze di Natale.

Aspettava qualcos'altro, qualcosa che sarebbe accaduto dopo Natale, dopo Capodanno...

Aspettava John.

Controllò l'orologio: mancavano esattamente due giorni al ritorno di John, e sarebbe andato proprio lui a prenderlo in stazione, come promesso.

Solo che... Dio, sembrava ancora così lontano quel giorno. Era possibile che il tempo stesse scorrendo più lentamente. No, vero?

No, figuriamoci, era solo un’impressione, una sensazione dovuta a sciocche supposizioni del suo altrettanto sciocco cuore innamorato.

Certo, la lontananza da John non stava aiutando a farlo ragionare con lucidità, ma ormai si trattava di resistere solo per altri due giorni. Cos’erano due giorni in confronto alle tre settimane che li avevano separati?

Inoltre, non poteva dire di essersi totalmente annoiato. Aveva approfittato di quei giorni per cercare di riallacciare il rapporto con Jim. Non era facile, c’era una sorta di imbarazzo e timidezza che guidava le loro azioni, ma Paul era convinto di ciò che stava facendo. Era giusto nei confronti di un uomo che era stato costretto a sbagliare, pur sapendo che avrebbe arrecato sofferenza ai suoi cari; era giusto nei confronti di sua madre, era giusto nei confronti di se stesso e di Mike. Non avrebbero dovuto continuare a portare tutto quel rancore per il padre. Sarebbe stato deleterio e controproducente, soprattutto per Paul che ora aveva deciso di restare a Londra.

Suo padre, in fondo, era un persona interessante, lo era sempre stato. Paul ricordava bene quando aveva cominciato a istruirlo con la sua cultura musicale: lo prendeva per mano, lo portava in salotto e gli faceva ascoltare uno dei suoi vecchi dischi in vinile. Altrettanto chiari come ricordi erano le lezioni di chitarra, quando Jim gli aveva insegnato accordi che in seguito Paul aveva scoperto essere errati per una chitarra. Erano, in effetti, più adatti a un banjo. Questo spiegava perché anche John, quando aveva conosciuto Paul, usasse quel tipo di accordi per suonare la chitarra. Solo che in quel momento per Paul pensare ad un collegamento tra John e suo padre era pressoché impossibile.

Paul ricordò i suoi primi giorni a Londra. Era un uomo completamente diverso allora. Pur avendo molti difetti, come l'eccessiva sicurezza, un po' di arroganza e soprattutto la mancanza di fiducia verso gli altri, Paul doveva ammettere che quella versione di se stesso gli piaceva ancora. Insomma, se non fosse stato così, come sarebbe cambiato il suo futuro? Avrebbe frequentato John? Si sarebbe innamorato comunque di lui?

Di certo non l'avrebbe mai saputo, ma era contento di come fossero andate le cose.

Sospirò, mentre era sdraiato sul pavimento di casa sua, di fronte al caminetto. Stava ascoltando il cd che gli aveva regalato John, provando a ingannare l'attesa lasciandosi prendere e sopraffare dalla sua voce che cantava per lui, e nel frattempo leggeva un libro, con Pepper accoccolato sulla sua pancia e Elvis accanto a lui.

John aveva lasciato a George il compito di occuparsi del suo gatto, ma Paul decise di prendersene cura personalmente, mentre il padrone era via. Aveva di sicuro più tempo libero da dedicare al piccolo esserino. Inoltre, pensava fosse una buona idea portarlo a casa sua: avrebbe potuto familiarizzare e giocare con Pepper. Così era stato. Era divertente vederli giocare insieme, rincorrersi sul pavimento e poi aggrovigliarsi davanti al camino, mordicchiandosi le orecchie a vicenda e facendosi le coccole.

Uno bianco e uno nero, tanto diversi erano, ma avevano legato subito.

In qualche modo ricordavano a Paul se stesso e John. Diversi, sì, eppure così compatibili, perfetti, come se fossero in qualche modo destinati l’uno all’altro, come se fossero due anime gemelle.

Il pensiero fece sorridere Paul fra sé, mentre accarezzava distrattamente la testolina del suo gatto, e il giovane uomo si chiese poi cosa ne sarebbe stato della sua vita d'ora in avanti.

Della sua carriera, soprattutto.

Tornare in polizia era fuori discussione. Era un lavoro che amava. In fondo, era stato un sogno che si era avverato. Tuttavia, ora, qualcosa si era incrinato. Sentiva che non avrebbe più provato lo stesso entusiasmo. Lavorare in una qualunque stazione di polizia di Londra come ispettore non era fattibile. Paul aveva provato a parlarne con l'ispettore capo, quando gli aveva comunicato la sua decisione di non prendere servizio a Shrewsbury.

Un modo c'era, gli aveva detto Richard, ed era l'abbassamento di grado.

Paul non poteva accettarlo. Dopotutto, aveva speso forze ed energie per arrivare al grado di ispettore. Non poteva tornare indietro. Così alla fine, aveva preferito uscire di scena con il suo vero grado, piuttosto che accettare quella soluzione.

E fu con molta sorpresa che ricevette un'offerta di lavoro, qualche giorno dopo il colloquio con l'ispettore Starkey, proprio grazie a suo padre.

Un paio di persone tra i suoi amici e vicini di casa cercavano da tempo qualcuno disposto a dare lezioni di chitarra ai propri figli e Jim aveva dato il suo nome, conscio del buon lavoro che Paul aveva fatto con John.

Paul all’inizio fu riluttante ad accettare, non tanto per il tipo di lavoro, uno che aveva a che fare con la musica, ancora; quanto piuttosto per le prospettive che offriva. Sì, era pur sempre un lavoro, e avrebbe guadagnato qualcosina, ma non tanto da viverci. E comunque, fino a quando avrebbe tenuto quelle lezioni? Una volta che i ragazzi avessero imparato tutto quello che c’era da imparare, beh, non avrebbero più avuto bisogno di Paul. A quel punto cosa ne sarebbe stato di lui?

Avrebbe tanto voluto parlarne con John, chiedere il suo consiglio, ma era un argomento che avrebbero potuto affrontare al suo ritorno. Così, per il momento, Paul aveva deciso di accettare l'offerta.

Le sue giornate senza John quindi trascorrevano tra una visita a George al negozio di musica, qualche lezione nel primo pomeriggio e un tè alle cinque a casa di suo padre.

Nei giorni di festa come Natale e Capodanno, Paul era stato invitato a casa di George e Pattie insieme a Jim.

Suo fratello Mike aveva preferito non raggiungerlo a Londra con moglie e figlia, e Paul accolse favorevolmente la sua decisione. Aveva comunicato al fratello di aver ritrovato il padre. Si era inventato un qualche tipo di indagine personale che Paul aveva intrapreso per conto suo per cercarlo. Mike non era sembrato particolarmente entusiasta, e anche se Paul aveva spiegato tutto il racconto di Jim, lui aveva bisogno di tempo per accettare la realtà dei fatti e magari prendere la stessa decisione di Paul. Ecco perché Mike non aveva trascorso con loro quelle festività. Era piuttosto sconvolto.

Per questo motivo Paul aveva deciso di non parlargli di John e del rapporto che intercorreva fra loro.

Una notizia bomba alla volta, Paul, si era detto.

Era però curioso di sapere come avrebbe reagito Mike. Il suo sesto senso gli diceva che sarebbe andato tutto bene. John gli era già piaciuto una volta, gli sarebbe piaciuto ancor di più ora che era diventata l'unica persona in grado di rendere felice Paul.

Il giovane uomo sorrise, voltandosi sul fianco, con grande disappunto di Pepper che si svegliò dal suo pisolino e raggiunse Elvis sul pavimento.

Guardò il focolare nel camino, rendendosi conto che ci dovesse essere all’incirca la stessa temperatura nel suo cuore, al pensiero del futuro che stava aspettando lui e John

Al pensiero di John.

Controllò l'orologio ancora una volta. Mancavano cinque minuti in meno rispetto a poco tempo prima. Beh, era pur sempre un aspetto positivo.

Un giorno, ventitré ore e cinquantacinque minuti e poi avrebbe potuto ritrovare tutto ciò che stesse aspettando.

Tutto ciò di cui avesse bisogno.

John, l'amore.

****

C’era quasi.

Dopo un’ora di viaggio, circa, il treno era entrato a Londra e finalmente cominciò a rallentare. John poteva vedere dal finestrino le case della periferia trasformarsi pian piano negli edifici del centro di Londra.

E mentre il treno rallentava, il suo cuore accelerava i battiti nel suo petto. Batteva rapidamente, sì, ma anche con intensità. Ogni battito scuoteva il suo petto e faceva fremere la sua pelle.

C'era anche una piacevole leggerezza che John percepiva nella sua pancia e un lieve formicolio alle mani. Tutto questo per la persona che lo stava aspettando sul binario, lì dove si erano visti l'ultima volta.

Tutto questo per Paul.

Dio. Paul sarebbe stato lì per lui.

John faceva ancora fatica a crederci. Le tre settimane di lontananza sembravano aver reso la corsa di Paul in stazione solo il più effimero dei ricordi.

Eppure John sentiva che sarebbe andata così. Avrebbe ritrovato Paul e questa volta per sempre.

Stava morendo dalla voglia di vederlo, toccarlo, sentire la sua voce...

Era strano da capire, perché in fondo si erano rappacificati, ma John e Paul non si erano mai telefonati durante quei giorni. Gli ultimi ricordi di John della voce di Paul erano bellissime parole di speranza.

Poi il nulla. Non che non si fossero più parlati, sia chiaro. I messaggi, quelli sì che erano stati abbondanti. Solo che nessuno dei due aveva mai pensato di fare una telefonata all'altro. In realtà John non pensava che fosse dovuto a una mancanza di volontà sua o di Paul. Era piuttosto una sorta di imbarazzo che l'aveva trattenuto dal telefonare a Paul almeno una volta.

Il semplice messaggio offriva la protezione di uno schermo. La telefonata no. John sarebbe stato esposto. Se la sua voce avesse traballato, Paul l'avrebbe sentito. Se non avesse saputo cosa dire, Paul l'avrebbe sentito. Se, ancora peggio, avesse detto qualcosa di inappropriato, Paul l'avrebbe sentito.

E John non voleva. Aveva paura di rovinare tutto. Quel rapporto con Paul era delicato, come i cocci di un vaso appena incollati insieme. John sentiva di essere ancora in grado di rompere quel vaso. Non che volesse fare del male a Paul di proposito, ma John era un tale disastro. Sarebbe bastato un niente per rompere definitivamente con Paul, e John era molto bravo anche a trovare e realizzare quel fottuto niente.

Ecco perché non l'aveva chiamato, e pensò che anche Paul temesse la stessa cosa. Forse sapeva come si stesse sentendo John e stava solo aiutandolo a non combinare guai nel loro ritrovato rapporto.

Il solo pensiero fece gonfiare il cuore di John con amore. Con un po' d'attenzione e con l'aiuto di Paul, sarebbe andato tutto bene.

Un movimento lieve richiamò la sua attenzione, così John abbassò lo sguardo verso la testolina di Julian appoggiata sulle sue gambe. Il bambino dormiva profondamente e John sorrise alla visione, mentre gli accarezzava i capelli d'angelo.

Il piccolo si era divertito molto nelle vacanze trascorse con la mamma e dal canto suo, John era felice che il rapporto tra Cynthia e suo figlio si stesse ricostruendo lentamente. Lei era molto più tranquilla ora, più sicura di se stessa, così diversa da come la ricordava lui e questo fece star meglio anche lui. Dopotutto non aveva mai desiderato che lei sparisse dalle loro vite e continuasse a soffrire. Non era giusto, era pur sempre la madre di Julian e una persona importante della vita di John. Voleva che lei fosse felice, tutto qua.

Aveva anche trovato un nuovo compagno, un dottore della clinica dove era stata ricoverata. Quando era stato presentato a John, questi aveva avuto sicuramente una buona impressione su di lui. Sembrava proprio perfetto per Cynthia, a differenza di John.

Tuttavia non era qualcosa per cui John  potesse crucciarsi, perché sapeva ora di essere perfetto per un’altra persona.

Il fischio del treno lo fece sussultare nello stesso momento in cui la sua mente formò il nome di quella persona.

Paul.

Paul che era lì, da qualche parte, ad aspettarlo.

John cercò di sbirciare dal finestrino alla ricerca di Paul sulla piattaforma, mentre il treno si fermava, ma non lo vide. C'era molta gente ad aspettare le persone appena arrivate ed era anche vero che John fosse terribilmente ansioso, e lo sanno tutti che l'ansia gioca brutti scherzi. Eppure non l'aveva visto, e il suo cuore, che stava impazzendo disperato nel petto, ne era la conferma.

Non lo vide neanche qualche minuto dopo, quando John scese dal treno con Julian ancora un po' assonnato, e si fece strada in mezzo alla folla che salutava i nuovi arrivati.

"Papà, voglio andare a casa." mormorò Julian, stropicciandosi gli occhi.

"Lo so, amore, ma dobbiamo aspettare Paul. Viene a prenderci lui."

E mentre Julian si appoggiava alla sua gamba, lasciandosi scappare un piccolo sbadiglio, John prese il cellulare e controllò di aver riferito l'orario giusto a Paul. Poi, una volta appurato che non vi fossero errori nelle informazioni che gli aveva riferito, prese Julian in braccio, facendogli appoggiare la testolina sulla spalla.

Nel frattempo diede un'occhiata in giro per provare a scorgere una testa familiare, cercando di ignorare le mille domande che si affollarono prepotenti nella sua mente.

E se Paul non fosse venuto?

E se fosse stato tutto un trucco?

O peggio, se avesse cambiato idea?

Tuttavia John non ebbe il tempo di disperarsi per tali orribili scenari, perché pochi secondi dopo sentì due dita puntate sulla schiena e una dolce voce sfiorare le sue orecchie.

"Mani in alto. Ti dichiaro in arresto in nome di Sua Maestà."

John sorrise fra sé, riconoscendo quella voce che poteva appartenere a un solo uomo.

"Con quale accusa, signore?"

"Latitanza."

"Oh, sembra terribile."

"Lo è." rispose Paul, mentre John decideva infine di voltarsi.

Quando finalmente si ritrovò di fronte a Paul, il suo Paul, tutto intorno a lui divenne ovattato. La stazione, i treni, i fischi delle locomotive, le voci delle persone… tutto sembrò sparire nell’esatto momento in cui i suoi occhi incrociarono quelli di Paul, nell’esatto momento in cui John tornò a essere completo. E quando uno è completo, quando non sente la mancanza di nulla che cosa può dire?

Non aveva desideri o particolari richieste da esprimere a parole, perché tutto ciò di cui avesse bisogno era di fronte a lui.

Perciò, ritenendo sconveniente continuare a guardare Paul senza proferire parola, John si decise a far scivolare lo sguardo sulla mano di Paul che voleva solo simulare una pistola.

"Un po' innocua come arma."

Paul si limitò ad alzare le spalle, "Sono stato costretto a improvvisare. Ero in ritardo. Londra è sempre così trafficata a quest’ora.”

“L'importante è che tu sia qui ora.” commentò John, divertito.

"No." disse Paul, prendendo la valigia di John e chinandosi solo un po' verso di lui, "L'importante è che tu sia qui."

E poi sorrise. Quel sorriso caloroso e dolce che John aveva sognato ogni notte da quando era partito.

Quel sorriso che voleva solo dirgli...

"Bentornato a casa, John."

****

Una volta arrivati a casa, Paul li lasciò a sistemarsi, mentre andava a recuperare qualcosa da mangiare per tutti e tre.

Fu grato di aver avuto quel piccolo momento per prendere fiato. Pensò di averlo trattenuto da quando aveva intravisto il dolce viso di Julian in stazione, in braccio a un uomo che doveva essere sicuramente John.

Ecco, quel momento era stato magico. Paul era arrivato a King’s cross con il fiatone e il cuore impazzito per la corsa che aveva fatto, visto che era in ritardo, ma quando aveva notato John, tutto era diventato cento volte più intenso e sconvolgente, come se non potesse più tornare a respirare normalmente.

Era stata solo un’impressione, ovviamente, ma Paul l’aveva percepita molto bene con tutto il corpo e in qualche modo era riuscito ad andare avanti, raggiungere John, parlare con lui, guardarlo, sfiorarlo… fare tutte quelle cose che aveva solo sognato nelle ultime settimane. Era una sensazione deliziosa, sapere di poter fare ora tutto quello che voleva.

Solo che non era così facile. Non lo era affatto.

C’era troppo in Paul, troppa agitazione, troppo amore, non avrebbe potuto fare molto in quelle condizioni.

Ecco perché accolse con gioia questo momento di solitudine. Aveva aspettato così tanto il potersi trovare faccia a faccia con John, e ora che era sicuro di trovarlo a casa, poteva concentrarsi solo su cosa dire o fare.

Perciò cercò con calma i panini da mangiare quella sera, e subito dopo recuperò Elvis dal suo appartamento. Poi facendosi coraggio, tornò a casa Lennon.

Il piccolo padroncino di Elvis fu felicissimo di rivedere il suo gatto e iniziò subito a giocare con lui, mentre John e Paul preparavano la cena.

Di tanto in tanto John gli lanciava uno sguardo furtivo, quando apparecchiarono la tavola, o mentre mangiavano, oppure lo fissava senza accorgersi di farlo, mentre Paul gli spiegava del lavoretto che gli aveva procurato suo padre...

E Paul doveva trattenersi ogni volta dal ridere. Ora sentiva di essere più sicuro, di avere più controllo di se stesso. Tuttavia sembrava che John ancora non credesse di essere lì con lui. Era come se stesse morendo dalla voglia di allungare una mano solo per sfiorarlo e assicurarsi che fosse vero, che Paul fosse proprio lì con lui, che nonostante tutto, che dopotutto fossero ancora insieme.

In qualche stranissimo modo.

Eppure era così, constatò John quando per l'ennesima volta Paul intercettò il suo sguardo, facendolo di conseguenza arrossire. Non capiva perché facesse fatica a crederci. I battiti folli del suo cuore erano più reali che mai, e come sempre erano causati da Paul.

Forse era solo un po' di paura. Dopo aver aspettato per tanto tempo quel momento, ora che finalmente era giunto, John temeva il confronto che sarebbe seguito per la sua dannata insicurezza, e non perché sarebbe stato qualcosa che avrebbe rovinato il loro rapporto, anzi. Si supponeva dovessero chiarire una volta per tutte e ricominciare da capo.

Si supponeva, anche, che John avesse così tante cose da dirgli che non sapeva da dove cominciare; ma fintanto che Julian fosse stato con loro, attirando tutte le attenzioni di Paul mentre John sparecchiava la tavola, era impossibile parlarne con calma.

Perciò, fu con sollievo e un leggero senso di paura che John capì quando arrivò il momento di portare a letto il bambino. Il piccolo aveva cominciato a sbadigliare sonoramente e stropicciarsi gli occhi, mentre giocava con Paul, e John decise, infine, di portarlo nella sua camera. Prese tra le braccia il bambino che Paul gli porse con attenzione.

"Torno subito." gli disse.

Paul annuì, sorridendo rassicurante, quasi volesse dirgli senza fiatare che l’avrebbe aspettato a qualunque costo.

Pochi istanti dopo John aiutava il figlio a infilare il pigiama. Julian non era molto collaborativo, la testa praticamente ciondolava dal sonno. John pensò che non avrebbe impiegato molto tempo a metterlo a letto. Difatti quando il bambino si ritrovò sotto le coperte e John iniziò a cantargli una ninna nanna, Julian si addormentò all'istante.

Ma John era ancora spaventato di ritrovarsi da solo con Paul.

Era strano come un desiderio così agognato potesse infine essere anche tanto temuto.

Perse un po' di tempo per finire la ninna nanna e accarezzare i capelli di Julian, sperando che il suo cuore potesse almeno calmare i suoi battiti. John era quasi convinto che Paul al piano di sotto avrebbe potuto percepirli.

Poi, quando pensò di essere pronto per affrontare Paul, John spense l'abat-jour e uscì dalla camera.

Quando si voltò, trovò Paul di fronte a sé, appoggiato allo stipite della camera di John. E tutto il suo lavoro di pochi minuti prima andò in frantumi.

"Si è addormentato?" domandò Paul, interessato.

John annuì, il suo cuore era di nuovo impazzito. Sentiva di avere la gola secca; se avesse provato a parlare, forse non sarebbe uscito alcun suono. Ma doveva provarci a qualunque costo.

"Sì.” rispose, avvicinandosi con passo incerto all’altro uomo, “È crollato ancor prima che finisse la ninna nanna."

Paul rise dolcemente all'immagine creatasi nella sua mente: John che cantava una nenia al piccolo Julian.

"La prossima volta posso sbirciare?"

John non era sicuro cosa fosse stato ora a farlo rilassare in un istante. Se fosse stata la risata di Paul, oppure il suo atteggiamento molto tranquillo, o ancora il suo sguardo dolce che non riusciva ad allontanarsi da John. Pensò che fosse la stessa sensazione che aveva provato la sera del suo compleanno. Anche in quel caso Paul l’aveva aspettato, anche in quel caso avevano avuto molte cose di cui parlare.

E ora John conosceva le parole giuste da rivolgergli.

"Non lo so."

Paul aggrottò la fronte, lievemente preso in contropiede dalla risposta di John, "Perché?"

"Dipende."

"Da cosa?"

"Devi accettare le mie scuse per quello che è successo." disse John, causando un piccolo sorriso sulle labbra di Paul.

Ecco, quella era una questione che Paul si aspettava.

"Non ce n'è bisogno, John."

"Sì, invece.” ribatté John, avvicinandosi ulteriormente all’uomo, “Hai perso il tuo lavoro per colpa mia."

"Ho deciso io di restare qui."

"Ma se non avessi creato tutta questa gran confusione, non saresti stato costretto a prendere questa decisione. Avresti ancora il tuo lavoro."

"E se tu non avessi deciso di diventare Hermes, io non sarei venuto qui e forse non ci saremmo mai incontrati, John." gli fece notare Paul, "Allora, cosa credi sia peggio?"

John sussultò all’ipotesi suggerita da Paul. Una vita senza Paul era proprio ciò che l’aveva tormentato, quando doveva decidere se consegnarsi a lui oppure no. Certo, se doveva vederla in quell’ottica, allora era ovvio quale fosse la risposta.

Paul sembrò leggergli nel pensiero perché, senza aspettare che John rispondesse, si sporse verso di lui, facendolo tremare visibilmente, per stringere tra le dita la sua camicia e attirarlo a sé.

"Paul..."

"Io preferisco che tu sia diventato Hermes, così ho potuto conoscerti e finalmente, prenderti."

John rise più rilassato, e si fece coraggio per far scivolare le braccia ancora intimorite intorno alla vita di Paul.

"Pensavo fossi stato io a prenderti." ribatté, arricciando le labbra.

"No, ti sbagli. Sono stato io.” insistette Paul, scuotendo il capo, prima di puntare un dito sul suo petto, “E ora devi promettere che non mi scapperai più."

"Non voglio più scappare, non da te." mormorò John, "Ma devi accettare comunque le mie scuse."

"Se ti fa stare meglio..." sospirò Paul, lasciando che la sua bocca si strofinasse contro la guancia dell'altro uomo, "Scuse accettate."

John rabbrividì visibilmente, percependo dopo tanto tempo le labbra di Paul ancora una volta sulla sua pelle. Gli era mancato tutto di lui. Dal semplice sguardo, alle mani calde, alla soffice bocca, alla-

"E ora finalmente posso dirtelo."

Alla sua voce dolce che sapeva trovare sempre le parole migliori per far impazzire John.

"Ti amo, John."

John chiuse gli occhi, stringendo le mani sui fianchi di Paul quando quel lieve sussurro sfiorò il suo orecchio. La testa improvvisamente vorticò come se fosse una giostra che John adorava, ma a cui non riusciva a stare dietro. Aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa per non perdere l'equilibrio e franare a terra. Tuttavia, desiderò che questa giostra non finisse mai di vorticare perché... Beh, il motivo era la cosa più semplice e insieme più complicata del mondo, era la cosa più banale, scontata, la cosa più popolare ma anche unica per ogni persona sulla faccia della Terra, la cosa più importante...

Era...

"Ti amo anch'io, Paul.”

John non lo vide, perché Paul era ancora rivolto verso un lato del suo viso, ma fu sicuro che l’avesse fatto sorridere dal modo in cui trattenne appena il respiro.

Incoraggiato, decise di continuare. Aveva molto altro da dire.

“E non hai idea di quanto sia felice che tu sia qui con me."

"Penso di poterlo immaginare, sai, vagamente." scherzò Paul, ridendo sommessamente.

“Ma cosa farai, ora che non hai più il lavoro?” domandò John, cercando di guardarlo negli occhi.

Era, in fondo, un argomento molto serio di cui parlare, qualcosa che forse avrebbe tormentato John per sempre con il rimorso e la colpa.

Tuttavia l’espressione di Paul non era seria. Era tutt’altro, in effetti.

“Dobbiamo parlarne adesso?” domandò, mordendosi il labbro.

"Pensavo volessi parlare con me..."

"Ed è così.” si affrettò a rispondere Paul, prima di appoggiare tutto il palmo della sua mano sul petto caldo di John, “Ma sai, pensavo di fare altro proprio in questo momento..."

La frase lasciata in sospeso e la mano forte di Paul sul proprio cuore, fecero provare a John un brivido insieme caldo e freddo.

"Del tipo?" domandò, la voce quasi strozzata da una sensazione leggera nella sua pancia.

Paul sorrise malizioso, prima di attirarlo a sé e poi dentro la camera, con la mano che si strinse sulla camicia.

Quando John si scontrò con la sua bocca, capì quale fosse il piano di Paul per quella sera e pensando che non gli dispiacesse affatto sottostare al volere di Paul, fece chiudere la porta della sua camera dietro di sé, con un piccolo colpo di tacco.

E ancora, mentre Paul lo stringeva e lo baciava, e John lo conduceva verso il suo letto, capì che quella porta aveva chiuso una volta per tutte il loro turbolento passato fuori dalle loro vite.

Perché ora non contava più.

Perché ora contavano solo l'uno per l'altro.

Perché ora, proprio ora, c'era solo amore.

 

Note dell’autrice: buuuuu, lo so, non è granché. Non mi convince proprio e non ho neanche idea del perché. ç_ç

Se voi l’avete, per favore, fatemelo notare, così sistemo e mi metto l’anima in pace.

Comunque siamo arrivati alla fine. Manca solo l’epilogo che avrà come titolo “All together now”. J

I ringraziamenti li teniamo tutti per la fine. Per adesso grazie a kiki per la correzione.

Nel frattempo linko questa os che ho scritto a quattro mani con SillyLoveSongs. Ci farebbe piacere sapere il vostro parere. ^_^

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2910197&i=1

Buona serata e a presto.

Kia85

 

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Capitolo 30
*** All together now ***


Ad Anya, per l’affetto che mi mostra ogni giorno e perché senza di lei questo capitolo non sarebbe mai stato finito. J

 

I’ll get you

 

Epilogo: “All together now

 

Il quartiere di Chelsea era davvero meraviglioso.

Paul era così entusiasta per essere andato a lavorare e vivere in quello che era sempre stato considerato il quartiere degli artisti. Tutto era incantevole, i colori vivaci, i suoni, gli odori… Dio, già lo amava.

Aveva fatto bene a vagare un po’ per le vie caratteristiche, di ritorno dalla stazione di polizia, ammirando affascinato il verde rigoglioso dei parchi, il Tamigi che scorreva tranquillo, il chiacchiericcio degli abitanti del quartiere, gli artisti di strada, i piccoli negozi di antiquariato…

Aveva anche individuato delle gallerie d’arte che gli sarebbe piaciuto visitare. Sicuramente agli occhi di qualcun altro sarebbe apparso come un turista che metteva piede per la prima volta a Londra. In realtà, vi era stato molte volte, sia per lavoro, sia per conto proprio. Ma non aveva mai avuto modo di visitare Chelsea. E ora ci sarebbe persino vissuto.

Quanto era fortunato? Aveva una importante carriera lavorativa, una fidanzata bella e famosa che lo adorava, un fratello affettuoso, una casa piccola e accogliente…

Certo, non doveva essere questo ad accendere in lui il desiderio di entrare in "quel" negozio.

Paul stava rientrando a casa, quando si accorse che proprio lì, di fronte il suo appartamento, vi era un negozio.

Un piccolo negozio di musica dall’aspetto piuttosto anticato. L’insegna in legno riportava il nome, "Il tempio del rock".

Paul non seppe perché si sentì attratto da quel luogo. C'era qualcosa di intrigante nel nome così come nell'aspetto. Ricordavano entrambi qualcosa di molto antico, qualcosa che Paul stava cercando disperatamente. Ma non era possibile. Lui odiava la musica!

Allora perché si sentiva attirato verso quel luogo come se fossero i due poli di una calamita? Non lo sapeva, ma decise che l'unico modo per scoprirlo fosse entrare e vedere con i suoi stessi occhi cosa ci fosse di tanto interessante.

Stava per attraversare la strada, quando il suo cellulare squillò nella sua tasca.

Si fermò davanti casa sua e prese il telefono: era Jane. Caspita, erano secoli che non prendeva lei l'iniziativa di telefonare. Un momento così era troppo prezioso. Paul doveva approfittarne.

No.

Rivolse un'altra occhiata al negozio davanti casa. Forse, pensò Paul mentre vedeva due ragazzini uscire dal negozio ridacchiando con complicità, avrebbe potuto recarsi lì un altro giorno.

Che cosa stai facendo, idiota?

In fondo il negozio non scappava e neanche il suo proprietario. Era forse l’uomo che si poteva intravedere dalla finestra?

No, stupido. Devi entrare ORA!

Così Paul scrollò le spalle e si voltò per rispondere a Jane ed entrare, nel frattempo, in casa.

Solo che al posto della voce delicata della giovane donna, udì un grido, qualcosa di disperato, un urlo tanto forte che dovette chiudere gli occhi.

Li riaprì l'istante successivo e la prima cosa che notò fu il battito accelerato del suo cuore e il sudore che imperlava la sua fronte. Sicuramente erano entrambi dovuti all'incubo appena avuto.

Era stato un incubo, vero?

Doveva essere un incubo, perché… caspita, perché nel sogno lui non conosceva John. Non era mai entrato nel suo negozio e di conseguenza John non era mai entrato nella sua vita.

Mentre quella doveva essere la realtà: Paul sdraiato nel letto di John, nella camera di John, con le braccia di John attorno alla sua vita, il bellissimo viso di John a pochi centimetri dal suo e il figlio di John addormentato tra lui e il padre.

Sospirò dopo aver inspirato profondamente. Sperava con tutto il suo cuore che fosse quella la realtà.

Non aveva mai fatto un incubo così potente e sconvolgente, da quando le cose tra lui e John si erano sistemate. Si chiese come mai. Forse era stato così felice nei mesi precedenti, che il suo inconscio si stava preoccupando di dargli qualche altro pensiero.

Grazie tante, stupido inconscio, proprio oggi tra l'altro?

Un lieve mormorio gli comunicò che John si stesse per svegliare e Paul decise di allontanare quel brutto incubo (perché di un incubo si trattava) per non farlo preoccupare.

"Buongiorno." gli disse l’uomo, stiracchiandosi leggermente, facendo attenzione a non disturbare il sonno del bambino.

Questo non gli impedì comunque di stringere appena il suo braccio intorno alla vita di Paul.

"Buongiorno." rispose Paul, ridendo per il solletico che gli aveva inavvertitamente causato.

"E buon compleanno." proseguì John, sporgendosi verso di lui per baciargli la guancia.

"Oh." disse Paul, muovendosi appena sul cuscino, "Grazie. Ma così farai arrabbiare Julian.”

John aggrottò la fronte, inclinando il capo con perplessità, “E perché mai?”

“Beh, ha detto di voler dormire qui così poteva essere il primo a farmi gli auguri.” spiegò divertito Paul.

“A me ha detto di voler dormire qui perché aveva paura del temporale.”

Paul rise dolcemente, mentre la sua mano si adagiò con delicatezza sui capelli del bambino per accarezzarli brevemente. Dormiva sereno, con la testa nascosta nel petto di John, la schiena rivolta a Paul e un braccio abbandonato sulla vita del padre.

“Oh, è molto furbo.”

“Altroché.” concordò John, “È figlio mio dopotutto.”

“Sì.” rispose Paul, annuendo senza poter distogliere gli occhi da Julian.

Erano veri, sicuramente era così: John, suo figlio, e Paul insieme a loro. Doveva essere tutto vero, perché la morbidezza dei capelli di Julian sotto le sue dita era concreta, e così anche il calore della mano di John sul fianco di Paul.

L’incubo che aveva svegliato Paul doveva essere finito. Non poteva essere nient’altro che uno stupido sogno, qualcosa che era stato prodotto dal suo altrettanto stupido inconscio. Non avrebbe più dovuto pensarci, rischiava solo di rovinare il giorno del suo compleanno, per non parlare del fatto che avrebbe fatto preoccupare John, e quella era l’ultima cosa che voleva.

No, non doveva pensarci. E per fortuna, un aiuto arrivò proprio dal bambino tra loro, il quale cominciò a svegliarsi e tornare alla realtà, aprendo i suoi grandi occhi chiari.

Li stropicciò appena, mentre John e Paul gli davano il buongiorno. Così facendo, permisero a Julian di diventare sempre più consapevole di dove si trovasse.

"Svegliati, piccolo, è mattina."

A quelle parole, il bambino guardò il padre sorridente, con occhi ancora piuttosto assonati, ma nonostante questo, trovò comunque qualcosa da dire.

"Papà?"

"Sì, amore?"

"È vero che non hai fatto gli auguri a Paul prima di me?”

"Gli auguri di che cosa?" domandò John, mostrando una finta curiosità.

"Di buon compleanno."

"Oh, è vero!” esclamò John, colpendosi la fronte con la mano, “Hai proprio ragione. Devo rimediare subito. Buon compleanno, Paul."

"Ma papà..."

Julian mise il broncio e il dispetto del padre lo fece diventare subito sveglio e più vispo che mai. John rise divertito, mentre Paul scuoteva il capo, sconsolato.

"Lascia perdere tuo padre, Julian." disse Paul, prendendo tra le braccia il bambino per consolarlo, "Se tu non glielo avessi ricordato, forse neanche mi avrebbe fatto gli auguri."

E così dicendo rivolse la linguaccia a John, che sembrava ancora deliziato dallo scherzo appena fatto al figlio. Julian rise, notando il gesto di Paul, e si affrettò a imitarlo.

"Anzi, sai che ti dico?” continuò Paul, “Penso che papà si meriti una bella punizione, che ne dici, piccolo?"

Il bambino esultò con gioia, essendo totalmente d'accordo con Paul.

"E sentiamo, di quale colpa mi sarei macchiato?" domandò incuriosito John.

"Alto tradimento." proclamò solennemente Paul.

"Misericordia.” esclamò indignato John, “Cosa prevede, dunque, questa punizione?"

Paul ci pensò un istante, prima di sorridere, segno che avesse appena avuto un’illuminazione.

"Che tu prepari la colazione per tutti e ce la porti a letto."

"Ma tu guarda.” borbottò John, incrociando le braccia, stizzito, “E se non avessi alcuna intenzione di farvi la colazione?"

"Allora, noi non ti parleremo più, dico bene, Julian?" disse Paul, tornando a guardare il bambino appollaiato sul suo grembo.

"Sì, non ti parleremo più."

"Due contro uno, eh?” sospirò John, decidendo infine di alzarsi dal letto, “A quanto pare, mi tocca proprio accettare la punizione."

"Esatto. E ora, fila in cucina.” ordinò Paul, trattenendo a fatica una risata e indicandogli la porta della camera da letto, “Meno chiacchere e più lavoro."

"E scommetto che voi mi aspetterete qui..."

"Ovvio, mio caro."

John scosse il capo rassegnato, prima di uscire dalla stanza, e Paul, sorridendo divertito, strinse a sé Julian che avvolse le braccia intorno a lui, mentre entrambi si accoccolavano di più sotto le coperte, per scherzare e giocare e aspettare insieme una succulenta colazione a letto.

E all’improvviso Paul capì.

Se quella fosse stata la sua realtà, allora era tutto a posto, perché stava bene così.

Ma se quello fosse stato solo un sogno, allora non voleva svegliarsi mai più. Era convinto che qualunque realtà lo aspettasse, una volta aperti gli occhi, non sarebbe mai stata bella come quel sogno, non l’avrebbe mai reso altrettanto felice.

Così strinse di più il bambino tra le sue braccia, percependo il suo calore, il battito del suo cuoricino nel suo petto, e per impedire che il suo corpo si risvegliasse da quel sogno, decise di aggrapparsi a lui.

A Julian e a John.

****

Per Paul il giorno del suo compleanno non fu molto più diverso dagli altri.

Aveva trascorso una piacevole mattinata con Julian al parco, mentre John era in negozio con George.

Nel pomeriggio, invece, aveva avuto diverse lezioni con i suoi allievi. Erano ormai aumentati a quattro, cinque ragazzini che volevano studiare la chitarra. Paul doveva ammettere che, nonostante l'iniziale disappunto per quel lavoretto, ora si trovasse abbastanza bene.

Non era di certo facile insegnare a dei ragazzini. Non tutti erano realmente interessati a imparare a suonare la chitarra. Forse alcuni di loro erano solo stati costretti dai genitori. Altri invece provavano una sincera voglia di suonare e migliorare la loro tecnica.

Tuttavia con tutti loro Paul aveva imparato a mostrarsi severo al punto giusto per farsi rispettare. I ragazzini moderni erano davvero indisciplinati. Quando si impegnavano, riuscivano a tirare fuori il peggio di Paul. Per fortuna che col tempo aveva imparato a essere paziente, e il merito era anche di John. Frequentare John  e suo figlio gli aveva mostrato quanta pazienza potesse esserci in un individuo. Così lui aveva imparato a cercare la sua, proprio come faceva John con Julian.

Questo era uno dei motivi per cui Paul arrivava sempre esausto nel corpo, ma soprattutto nella mente, alla sera. E la sera del giorno del suo compleanno non fu da meno.

Proprio ora stava tornando a casa, o forse era meglio dire che si stesse trascinando a casa. Era stanco sì, ma era anche un po' giù di morale.

Non si era fatto sentire nessuno dei suoi familiari per fargli gli auguri. Né Mike, né suo padre. Ovviamente Paul non aveva più otto anni, non avrebbe dovuto prendersela perché qualcuno si fosse dimenticato di fargli gli auguri di buon compleanno. Ma Mike e Jim non erano qualcuno, rappresentavano ciò che restava della sua famiglia.

Per di più, la sensazione di vivere solo in un sogno non lo stava aiutando affatto a stare meglio. Insomma, era la realtà, oppure si trattava di un maledetto sogno? Paul non sapeva più che cosa stesse vivendo. Non voleva che fosse un sogno. Non voleva aprire gli occhi, svegliarsi e rendersi conto che John non fosse mai entrato nella sua vita. O peggio ancora, che John fosse presente nella sua vita, ma non nel modo in cui stava sperimentando ora.

Come avrebbe potuto resistere?

Paul sospirò, costringendo se stesso ad allontanare una volta per tutte quello stupido pensiero.

Suvvia, Paul, un sogno non dura così tanto, si disse.

La notte non era formata da molte ore e sicuramente non da un'intera giornata. Paul non poteva sognare così a lungo. Era impossibile!

E se in realtà questo sogno non fosse stato concentrato interamente in una notte? E se ogni volta che si addormentava, Paul ripiombava in quel sogno nel punto esatto in cui l'aveva interrotto la sera precedente?

No, no e poi no. Era semplicemente ridicolo. Era la cosa più assurda a cui Paul potesse pensare ora. Sapeva perché stesse provando tutte queste cose.

Aveva solo paura di essere felice. Di essere davvero felice.

La felicità era sempre stata un’illusione per lui, non credeva davvero di essere felice prima di tutta questa storia. Si stava forse accontentando, aveva accettato tutto ciò che la vita gli aveva donato, senza mai rischiare per cercare altro. Eppure con John aveva rischiato, aveva avuto coraggio e aveva sofferto, ma ora, ora provava solo felicità. Certo, non pensava che la loro vita sarebbe stata priva di difficoltà d'ora in poi, ma se fossero stati insieme, avrebbero potuto superare tutto. Ne era certo.

Se solo fosse vero…

Oh dannazione!

Doveva sbarazzarsi una volta per tutte di quel maledetto dubbio che lo tormentava. Era già riuscito a non far preoccupare John quella mattina; non era sicuro di potercela fare di nuovo, dopo un'intera giornata di pensieri e domande e dubbi.

Così prendendo respiri profondi, cercò di pensare solo a cose belle, come per esempio, il suo compleanno. Sicuramente John gli avrebbe preparato qualcosa di speciale: una cena solo per loro tre e poi avrebbero guardato un film, accoccolati sul divano e si sarebbero addormentati tutti insieme questa volta...

Paul stava sorridendo fra sé per l'allettante quadretto ricreato nella sua mente, quando cercò nella tasca le chiavi dell'appartamento di John. Lui gli aveva procurato una copia poco tempo prima, dal momento che Paul aveva cominciato a dormire praticamente ogni sera a casa sua.

Il negozio era chiuso, notò Paul passando davanti al locale completamente immerso nel buio. Era piuttosto presto per chiudere, e la cosa lo fece preoccupare un po', ma se fosse successo qualcosa di grave, John l’avrebbe sicuramente chiamato sul cellulare.

Così si rilassò e aprì la porta. Anche in casa era tutto buio. Forse John era solo uscito un attimo con Julian, forse erano andati a prendere un regalo per Paul, perché John si era dimenticato di cercare qualcosa prima, o forse erano andati a comprare qualcosa da mangiare, o forse-

“Sorpresa!”

Paul quasi saltò per lo spavento, quando accese la luce in sala.

C’erano festoni e palloncini colorati e una grande tavola imbandita sopra cui erano sistemati stuzzichini di ogni genere; ma più di tutto, c’erano le persone a lui più care, gli amici, George e Pattie, i suoi familiari, Jim, Mike con la figlia e la moglie, e ovviamente John e Julian che corse verso di lui per abbracciarlo affettuosamente.

Tutti si affrettarono a fargli gli auguri di buon compleanno, e questo spiegò il motivo per cui nessuno si fosse fatto sentire durante la giornata. Ovviamente, stavano aspettando la festa a sorpresa.

Una sorpresa che, effettivamente, era riuscita in pieno, e Paul pensava di sapere chi ci fosse dietro tutta quella storia.

Rivolse a John, rimasto un po’ più indietro rispetto agli altri, un affettuoso sguardo di biasimo, ma lui si limitò a scrollare le spalle e sorridere incurante.

Quel sorriso, proprio quello fece sussultare dolcemente il suo cuore.

Forse, dopotutto, non stava sognando.

In un sogno il cuore non batteva così forte. O perlomeno non batteva in modo così reale, tanto che Paul lo sentiva persino nelle orecchie.

E dal momento che era sempre stato John a causare quell'incantevole sensazione, allora anche lui doveva essere reale.

Giusto?

****

La festa fu la più incredibile che Paul avesse mai ricevuto.

Le decorazioni erano così allegre, e la musica in sottofondo era decisamente perfetta, per non parlare dei regali avuti dagli invitati. Erano uno più bello dell’altro.

George e Pattie avevano preparato addirittura una torta speciale per lui, con panna, cioccolato e fragole, le quali erano state sistemate molto abilmente da Julian.

Paul fu molto grato a entrambi. Erano due ragazzi in gamba e meritavano tutta la felicità del mondo. Da pochi mesi erano stati dichiarati idonei per adottare un bambino e Paul sperava davvero che al più presto sarebbe arrivata una piccola creatura nella famiglia Harrison. Se lo meritavano, dopotutto. E George, finalmente,  aveva superato quella sorta di gelosia che aveva provato all'arrivo di Paul. Sarebbe stato per sempre il migliore amico di John, qualcosa molto vicino a un fratello.

A proposito di fratelli, Paul era stato incredibilmente felice di aver trovato anche Mike alla festa, ma soprattutto che avesse parlato molto con Jim. Solo pochi mesi prima Paul aveva informato il fratello di aver “ritrovato” il padre. La reazione iniziale di Mike era stata comprensibile: non aveva alcuna intenzione di sapere cosa gli fosse successo, né per quale dannato motivo Paul avesse cambiato idea, quando per tutta la vita aveva affermato di non volerlo perdonare. Ma di fronte alle insistenze di Paul, Mike aveva ceduto, aveva ascoltato la storia di Jim e alla fine, aveva accettato di perdonarlo. Era seguito un primo incontro, dove Mike era stato impacciato tanto quanto Paul, ma comunque l’avevano superato, anche perché l’evidente felicità di Jim era riuscita a contagiare anche i suoi figli. E quando si è felici, è tutto più facile, soprattutto riprendere un rapporto stroncato troppo presto.

Perciò ora, fu un’immensa gioia per Paul vedere Mike e Jim che parlavano, con la piccola Mary che dormiva beatamente fra le braccia del nonno. 

Non c'era stato bisogno di informare Mike riguardo la vera natura del rapporto che intercorreva tra Paul e John. Aveva capito da solo, e la cosa sorprese infinitamente Paul, quando a un certo punto della serata, si erano ritrovati a parlare solo loro due, come un tempo, come da piccoli a Liverpool, e Mike glielo aveva detto chiaramente e sembrava averlo accettato senza problemi.

Ma come aveva fatto a capirlo? Paul ovviamente era certo che Mike non avrebbe fatto scenate disdicevoli per la loro situazione. Tuttavia non avrebbe mai e poi mai immaginato che arrivasse a scoprirlo da solo. Nelle poche volte in cui si erano ritrovati tutti insieme, John e Paul avevano sempre cercato di essere discreti, almeno fino a quando anche il resto della famiglia di Paul fosse stato a conoscenza della loro relazione. Solo che a quanto pareva, l'unico in grado di essere discreto era stato John. Paul non aveva esattamente ottenuto gli stessi risultati. Tutt'altro! C'era troppo nel suo volto, nel sorriso speciale che rivolgeva a John, nei suoi sguardi carichi di un sentimento ben familiare a Mike, nella voce che si addolciva quando pronunciava il suo nome... E fu tutto questo a dire a Mike quali fossero i veri sentimenti di Paul. Lui, d'altronde, lo conosceva più che bene.

Ma la sorpresa di questa scoperta non durò a lungo e ben presto fu sostituita dalla felicità perché ora tutte le persone a lui care sapevano e condividevano la sua gioia, non lo giudicavano, non lo allontanavano.

Niente di tutto questo.

Ora andava tutto bene.

Così alla fine della serata, gli invitati tornarono a casa; Paul li ringraziò uno per uno,  prima di accompagnare il fratello nella sua casa. Sarebbero rimasti lì per un paio di giorni.

Poi tornò a casa di John e sospirando, chiuse la porta nel momento stesso in cui John scese dal piano di sopra. Aveva appena portato a letto un esausto e addormentato Julian.

“Allora?” chiese John, abbandonando la schiena al corrimano.

“Allora?”

“Ti è piaciuta la festa?”

Paul rise dolcemente e annuì, “Sì, moltissimo.”

“Anche la musica?”

“Soprattutto quella.” rispose, rivolgendogli uno sfacciato occhiolino.

“E’ un cd che ho fatto proprio per l’occasione, sai. Sbaglio o l’anno scorso ti avevo promesso una festa con moltissima musica?”

“Oh, era una promessa? Sembrava più una minaccia.” esclamò Paul, lasciandosi scappare una risata, “Ma ti ringrazio, davvero, è stato tutto perfetto.”

“E’ la verità?” chiese l’altro uomo, lo sguardo era diventato serio tutto d’un tratto.

Paul sussultò e batté le palpebre, “Certo, perché dovrei mentire?”

John lo fissò intensamente per qualche secondo, prima di avanzare verso di lui, "Perché è da stamattina che sembri strano. È forse successo qualcosa?"

"No, John, non è successo niente, non ti preoccupare. Sarà solo l'anno in più." rispose Paul, cercando di ridere per tranquillizzare John in primis, ma anche se stesso.

Solo che a quanto pare fallì, e John se ne accorse subito.

"Balle.” sbottò, ora a un soffio da Paul, “Sarò anche rintronato, vista l’ora tarda, ma sono sempre attento quando si tratta di te."

"Lo so." rispose Paul, abbassando lo sguardo.

"E sono convinto che tu stai mentendo ora, amore mio.” gli spiegò John, preoccupato, appoggiando una mano sulla sua guancia, incoraggiandolo a guardarlo negli occhi, “Perciò, posso sapere che cosa succede?"

Paul sospirò, sollevando infine il viso verso John. Non avrebbe mai voluto farlo preoccupare in quel modo: conoscendolo, anche John si era tormentato per tutta la giornata, dopo aver intuito il turbamento di Paul, domandandosi cosa fosse accaduto, se fosse stata colpa sua, se fosse stato qualcosa detto o fatto da John a causare tutto ciò.

Non meritava di essere tenuto all’oscuro, si convinse Paul, dal momento che proprio John aveva portato la felicità nella sua vita.

"Promettimi che non mi prenderai in giro."

"Perché dovrei prend-"

"Promettilo, John." lo interruppe Paul, portando un dito sulle sue labbra.

"D'accordo.” sospirò John, alzando gli occhi al cielo, “Prometto di non prenderti in giro."

"Bene, allora.” disse Paul, annuendo distrattamente dopo che John si fece una croce sul cuore.

All’improvviso, sotto lo sguardo affettuoso e curioso di John, tutti quei dubbi che avevano tormentato Paul divennero così… ridicoli. Pensava davvero che quello che aveva costruito con John, quello che stavano vivendo insieme fosse davvero solo un’effimera illusione?

“Stanotte ho avuto un incubo." mormorò con un filo di voce, come se fosse appena diventato timido.

"Che tipo di incubo?" chiese John, interessato.

“Mi ero appena trasferito a Londra per il nuovo lavoro, ed ero sul punto di entrare nel tuo negozio…”

“Oh, una specie di déjà-vu.”

Paul annuì tristemente, “Ma nel sogno non sono mai entrato e quindi non ti ho mai conosciuto.”

John aggrottò la fronte, turbato, "Ed era questo l'incubo?"

“Sì. Quando mi sono svegliato, pensavo che fossi troppo felice per poter vivere nella realtà. Pensavo che questo fosse un sogno e quell’incubo la vita vera.”

Paul si morse il labbro, leggermente ansioso mentre aspettava la reazione di John: una risata divertita, forse, oppure, a dispetto della promessa fatta, una bella presa in giro in stile Lennon.

Tuttavia John non fece nulla di tutto questo, anzi, lo attirò a sé, avvolgendo le braccia intorno alla sua vita e sorridendogli dolcemente.

"Ma, Paul, dovresti saperlo bene ormai."

"Cosa?"

"Che eravamo destinati a incontrarci.” rispose John, ridendo debolmente, “Se non fossi entrato quel giorno, l'avresti fatto quello dopo o quello dopo ancora. Che importa? Ciò che conta è che so per certo che ci saremmo incontrati, in qualunque modo."

"Ne sei sicuro?" ribatté Paul, non ancora del tutto convinto, "E se ci fossimo incontrati in modo diverso e non fossimo diventati amici né-"

"Basta, ora." lo mise a tacere John, poggiando un dito sulle sue labbra, "Te l'ho detto. In qualunque epoca, in qualunque universo ci fossimo trovati, io ti avrei scelto comunque e tu mi avresti preso con te, senza alcun dubbio."

Paul si sentì sorridere in modo più rilassato, permettendo a se stesso di godere del tocco caldo di John, delle sue parole dolci, del suo tono che come la più lieve delle carezze sfiorava la sua pelle.

"D'accordo, allora. Dimentichiamo questo incubo."

"È un'ottima idea." mormorò John prima di chinarsi per baciarlo dolcemente.

E fu quel tenero gesto, insieme a quanto John gli avesse appena detto, che convinse infine Paul che fosse proprio quella la realtà. Non era un sogno, non lo era affatto. Anzi, era un sogno, sì, ma divenuto realtà. E quello era davvero tutto ciò che Paul potesse chiedere alla vita.

“Mi dispiace di averti fatto preoccupare, John.”

“Non ci pensare.”

“È solo che sono così felice, con te e Julian, felice come non lo sono mai stato prima d’ora; e nel momento in cui l’ho realizzato, ho pensato che fosse impossibile che proprio a me fosse stato concesso questo dono, che questa immensa felicità fosse vera.”

“È vera, Paul, perché noi siamo veri.”

Paul annuì, nascondendo il volto nel collo di John, lasciando che lui lo tranquillizzasse con le carezze sulla sua schiena e le labbra che sfioravano la sua fronte. Incredibile come con poche, semplici, giuste parole John potesse allontanare le sue paure. Certo che loro erano veri, John era vero e caldo e tra le sue braccia, profumava di buono e di un futuro con Paul.

“Va meglio?” chiese poi John.

“Sì, grazie, John.” rispose Paul, regalandogli un bacio sfiorato sulle labbra.

John sorrise e senza timore, fece scivolare la mano in quella di Paul e intrecciare le loro dita.

“Dai, vieni con me, c’è qualcosa che ti farà dimenticare questo brutto incubo una volta per tutte.”

“Di cosa si tratta?” domandò Paul, curioso, lasciando che John lo conducesse di nuovo in salotto.

John non rispose. Si limitò ad avvicinarsi alla libreria e sfilare dallo scaffale più alto un oggetto che poi porse a Paul. Era una confezione quadrata, leggermente più piccola di uno dei tanti LP che aveva John, ma decisamente più spessa, per non dire pesante. Era avvolta in una carta argentata lucida sopra cui spiccava un bel fiocco blu oltremare.

“E’ un regalo?” domandò Paul.

“Cos’altro potrebbe essere?” rispose John, con una lieve risata.

“Beh…” iniziò a dire Paul, scrollando le spalle, “In realtà, pensavo che il regalo fosse la festa a sorpresa.”

“La festa era solo una festa, piccolo, ma è questo il mio regalo di compleanno per te. O più precisamente, un anticipo del vero regalo.”

Paul aggrottò le sopracciglia perplesso, non riuscendo proprio a capire cosa potesse nascondersi dietro le parole di John: di solito era bravo a realizzare cosa frullasse nella sua mente, ma era anche vero che John sapeva essere così dannatamente misterioso certe volte. Faceva desiderare a Paul di poter leggere nella sua mente. Eppure come qualunque altra relazione che si rispetti, Paul capiva anche che fosse giusto un po’ di mistero. Era ciò che rendeva il rapporto più irresistibile, inebriante, incredibile.

“E’ inutile che ci provi.” disse John, destandolo dalle sue riflessioni.

“A fare cosa?”

“A leggermi nel pensiero, idiota.” rispose John, dandogli una leggera pacca sulla spalla, “Fai prima a scartare il regalo.”

Paul rise e alla fine si decise a seguire il consiglio di John. Si sedette sul divano, impaziente a questo punto di sapere cosa si nascondesse oltre la carta regalo, e cominciò a togliere prima il fiocco blu e poi la carta.

Tra le mani si ritrovò quella che sembrava una scatola di velluto verde smeraldo.

“Aprila.” lo incoraggiò John, accovacciandosi di fronte a lui.

Paul obbedì. Fece scattare l’apertura e sollevò il coperchio. Non sapeva davvero cosa aspettarsi, dentro quella scatola, ma di certo non una scintillante targa di ottone.

“Cosa significa?” chiese titubante.

“Leggi bene cosa c’è scritto.” gli suggerì John con un cenno del capo.

Paul tornò a guardare la targa e il suo cuore fece un piccolo salto all'indietro.

C’era un bellissimo pentagramma inciso: era leggermente ondulato, con una chiave di violino all’inizio, ma al posto delle note musicali c’era scritto…

“Scuola di Musica Lennon/McCartney?”

“Sì, forse preferisci McCartney/Lennon?” chiese John, mordendosi il labbro ansioso.

“Cosa... John, non capisco…”

Cosa significava, voleva chiedere, ma all'improvviso Paul si ritrovò senza parole.

No, in realtà le aveva, le parole, aveva tante domande da fare a John su ciò che era stato inciso sulla targa, che Paul non sapeva da dove cominciare.

John  sospirò e si alzò in piedi, solo per andare a sedersi accanto a Paul.

“Lo sai, Paul..." iniziò a spiegare, appoggiando una mano su quella di Paul, "È da diverso tempo che ci penso. Con il lavoro che hai fatto con me e quello che fai ora, con tutti quei ragazzini, penso che dovremmo proprio aprire una scuola di musica."

"Una scuola di musica?"

John annuì, sorridendo, "All’inizio tu potresti occuparti delle lezioni di chitarra, e quando avremo ingranato un po’, potremmo assumere insegnanti di altri strumenti musicali.”

Paul non poteva credere che John facesse sul serio, ma conosceva quel particolare sorriso che ora gli stava rivolgendo. Era quello che prometteva esperienze elettrizzanti, nonché qualcosa che Paul avrebbe amato moltissimo.

“John, perché stai facendo tutto questo?"

"Perché so quanto ti piaccia lavorare, ma capisco che questa situazione sia troppo traballante. Voglio aiutarti a renderla più sicura. Forse un lavoro che ha a che fare con la musica non sarà ciò che avevi sognato, ma è pur sempre qualcosa."

"No, John, non è quello il problema." si affrettò a dire Paul, scuotendo il capo per rincuorarlo, "Voglio dire, come faremo con tutto il resto? Che ne sarà del tuo negozio?”

“Lo lascerò a George.” rispose prontamente John, "Ne avrà bisogno."

“E i soldi per questa scuola, dove li prenderemo?”

“Li abbiamo, non ti preoccupare." lo rassicurò John, "Sono secoli che metto da parte dei risparmi."

"Non posso lasciare che li usi per me." protestò vivacemente Paul.

"Sì, invece. E comunque non li sto usando per te. Non solo perlomeno. Li userò per noi. Tu sarai l'insegnante e io mi occuperò di tutta la robaccia burocratica." rispose John, cercando di convincerlo, "E poi se non li uso per le persone a cui tengo di più, per chi dovrei usarli?"

John concluse con una dolce risata e un lieve rossore sulle guance, e Paul si ritrovò imitarlo. A quanto pareva John aveva pensato proprio a tutto. Aveva la risposta pronta per ogni domanda di Paul.

“John, sei stupendo, sai." sospirò Paul, "E anche questo sogno è stupendo, ma-"

"Davvero?" esclamò John, senza curarsi molto del fatto che Paul non avesse ancora finito la sentenza, "Significa che accetti?"

"Mi piacerebbe molto, ma abbiamo bisogno di un posto per la scuola, no? Dovremmo cercare un edificio apposta e comprarlo e-”

“Ce l’ho già.”

La risposta di John, l'ennesima risposta pronta, fece battere le palpebre di Paul, preso in contropiede.

"E qual è?"

John trattenne a stento un sorriso che aveva una punta di malizia, e si affrettò a prendere la mano di Paul; lo fece alzare in piedi e lo condusse verso la finestra che dava sulla strada.

"Vedi? È proprio lì, di fronte a noi." spiegò, indicando l'appartamento dall'altra parte della strada.

Paul spalancò gli occhi e si voltò verso l'altro uomo, non sapendo cosa dire. L'unica cosa che sapeva per certo era che gli occhi di John brillassero come Paul non vedeva da un po', ed era qualcosa che riusciva sempre a farlo impazzire.

"John, quella è casa mia."

John annuì e tornò a guardarlo, permettendo a Paul di notare ancor di più quell'entusiasmo che stava muovendo i pensieri e le azioni di John.

"Lo so."

Paul non aveva mai visto John così, come se fosse un bambino alle prese con un nuovo, incredibile giocattolo, e il suo stato d'animo, questa gioia ansiosa, riuscì a contagiare anche Paul, soprattutto perché la proposta di John prevedeva anche una soluzione che giaceva ora lì, fra di loro, come una presenza silenziosa fra John e Paul.

"E quindi..." continuò Paul, sorridendo, "Vorresti sfrattarmi per fare la nostra scuola di musica?"

"Oh no." rispose John, scuotendo il capo, "Pensavo di offrirti una sistemazione più allettante."

"Del tipo?" domandò Paul, e il sussulto del suo cuore gli fece capire che in qualche modo lui conoscesse già la risposta.

Ora era giusto che anche Paul ne venisse a conoscenza. Perciò attese, mentre John prendeva la targa dalle sue mani e la appoggiava di lato, così da far intrecciare le loro dita.

Poi, finalmente, John parlò.

"Vieni a vivere con me e Julian."

A quelle parole un brivido attraversò Paul. Nacque dalle mani strette con amore da quelle di John, per cui Paul pensò che forse lo stesso brivido attraversò anche il suo compagno. Il che lo rese deliziosamente affascinato.

Non poteva certo dire che Paul non ci avesse mai pensato. Era ovvio che quell’ipotesi avesse più volte attraversato la sua mente nelle ultime settimane. Solo che Paul non aveva mai avuto il coraggio di parlarne con John; era qualcosa che in qualche modo lo spaventava, ma Paul sapeva che in fondo si trattasse di una paura buona, di quelle che si provano quando arriva un cambiamento importante nella propria vita, un cambiamento certamente positivo.

"John, io-" iniziò a dire con voce tremante, ma John quel giorno aveva sviluppato la sorprendente abilità di riuscire sempre a interromperlo prima che finisse di parlare.

"Lo so che forse è un po' affrettato.” spiegò John, gli occhi non avevano mai smesso di brillare con entusiasmo e amore, “Ma perché rimandare ancora? Ormai dormi praticamente ogni sera da me. E poi ho già fatto fare una targhetta simile a questa per la nostra cassetta delle lettere."

"Ah sì?” esclamò Paul, ridendo, “E cosa c'è scritto?"

John infilò una mano nella tasca dei pantaloni per estrarre subito dopo una piccola, lucida, targhetta rettangolare in ottone, sopra cui vi era inciso…

"Casa Lennon/McCartney."

Paul sorrise fra sé, prendendo tra le mani il nuovo oggetto. Sentì che lo stesso calore di John si stava ora impossessando del suo corpo, perché John sapeva essere impetuoso in modo assolutamente adorabile. Ogni cosa tra le sue mani diventava la più speciale ed emozionante, come quella targhetta, come i loro nomi uno accanto all’altro e Paul desiderava solo che fossero stati così per sempre.

"Sembra un’incantevole prospettiva."

"Lo è." concordò John.

"Allora se abbiamo già la targhetta…” continuò Paul, avvolgendo teneramente le braccia intorno al collo di John, “Sono costretto ad accettare, ti pare?"

"Sì, ma solo se lo vuoi davvero.” ribatté John, stringendolo allo stesso modo.

“John, io ti amo.” sospirò Paul, felicemente, “Come potrei non volerlo davvero?”

“Beh, ho scombussolato la tua vita..." disse John, allargando le mani sulla schiena di Paul e avvicinandolo a sé, forse per una sciocca e inconscia paura che potesse perderlo, ancora.

Paul sapeva che quella paura avrebbe accompagnato per sempre John, e la preoccupazione che aveva causato in lui quel giorno ne era la prova. Ma John non doveva avere paura, né del futuro, né di ciò che era accaduto nel loro passato.

“Tu hai scombussolato la mia vita?”

Forse avrebbero dovuto fare i conti ogni giorno della loro esistenza con quelle preoccupazioni, John con la sua paura di perdere Paul, e Paul con la paura di non meritare quella felicità.

“Certo. Io ti sono molto grato, Paul, perché hai portato ordine nella mia vita.”  affermò John, accorato, “Ma guarda cosa ho fatto alla tua. Il completo opposto. Ho portato il disordine. Prima avevi una sicurezza economica, una vita normale e ora-”

“Oh, John, smettila, per favore. Tu non hai portato il disordine.”

Paul sorrise, lasciandosi stringere dalle braccia di John, in modo che i loro petti si sfiorassero, in modo che il cuore dell’uno battesse all’unisono e accanto all’altro, come avrebbero fatto per sempre d’ora in poi.

“Hai portato una cosa molto più importante.”

“Cosa?”

Perché dopotutto, solo questo contava.

Che importanza avevano ora tutte le sofferenze che avevano affrontato, quei dolori, quelle delusioni, quella solitudine che avevano attraversato e gettato ora alle proprie spalle?

Che importanza avevano se ora uno aveva allontanato quelle dell’altro con un soffio?

Niente di tutto questo contava, se ora per Paul non c’era altro che John.

E il suo amore.

E la sua gioia.

E…

 “John, mi hai portato la musica.”

 

Fine

 

Note dell’autrice: infine ci siamo. Questa long che mi sembrava infinita all’inizio è giunta alla fine.

Ho avuto molte difficoltà per l’epilogo. Sapevo cosa dovesse accadere, ma non trovavo le parole. Anya mi ha fatto notare che forse non volevo farla finire a livello inconscio e mi sa che aveva ragione. Ma da quel momento grazie ai suoi incoraggiamenti sono riuscita a sbloccarmi e ora ci siamo. L'inizio del capitolo è preso da quello in cui Paul incontra John per la prima volta, A day in the life. :)

Non sono proprio soddisfatta, non so perché, per cui aspetto le vostre opinioni decisamente più obiettive delle mie. Magari speriamo anche in chi ha seguito e non ha mai recensito, che ne dite? J

Grazie a kiki come sempre per la correzione e il supporto che mi ha dato dall’inizio alla fine.

Grazie ad Anya, ovviamente, che mi ha dato il più grande incoraggiamento.

Grazie a chiunque abbia seguito la storia, solo all’inizio, solo a metà, o solo alla fine.

Grazie grazie grazie.

Speriamo di sentirci presto con una oneshot di Natale, eh? :3

Intanto a presto e buon weekend.

Kia85

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