The Bug

di Melanto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - la viscosità del sangue, il sibilare del cobra ***
Capitolo 2: *** II - primo contatto ***
Capitolo 3: *** III - i ricordi degli altri ***
Capitolo 4: *** IV - nello sparire del mondo (parte I) ***
Capitolo 5: *** IV - nello sparire del mondo (parte II) ***
Capitolo 6: *** V - (de)frammentazione ***
Capitolo 7: *** VI - l'errore nel sistema (parte I) ***
Capitolo 8: *** VI - l'errore nel sistema (parte II) ***
Capitolo 9: *** VII - fixing the bug (parte I) ***
Capitolo 10: *** VII - fixing the bug (parte II) ***
Capitolo 11: *** VII - fixing the bug (parte III) ***
Capitolo 12: *** VII - fixing the bug (parte IV) ***



Capitolo 1
*** I - la viscosità del sangue, il sibilare del cobra ***


The Bug - cap. I

Nota Iniziale: E rieccomi qui, non proprio con la storia che avrei voluto, ma quando l’ispirazione ti coglie, che puoi fare? XD
Si dice sempre ‘sì’, in queste occasioni!!!
Quella che vi apprestate a leggere è una fic un po’ particolare, poiché parte da un “What if?”, ma poi si intreccia in una sorta di trama definibile come ‘fantascientifica’.
Non ho messo ‘AU’ perché lo spazio in cui la vicenda si svolge è quello che conosciamo, modificato in alcune cose a causa del “What if?”.

Per il resto… la storia è CONCLUSA! :DDD
Questo significa che gli aggiornamenti saranno regolari e settimanali! ;)

Ci ritroviamo nelle note di chiusura!
Buona lettura! :D

 

The Bug
- I: la viscosità del sangue, il sibilare del cobra -

 

“In un altro tempo, noi saremmo stati come uno solo.
In un altro posto, le nostre vite sarebbero appena cominciate.
Camminiamo sotto il sole, ci sdraiamo sotto le stelle.
Cresciamo sulla Terra ed è questo ciò che siamo.
Non sarebbe dovuta andare in questo modo ma è questo ciò che siamo.”

 

La pazzia di Marzo era negli occhi di chi non sapeva apprezzarla e guardava al suo cielo che non era né sì e né no, ma aveva strisce di grigio nell’azzurro nascosto oltre le nubi.
Marzo era il ‘bug’ stagionale di troppi colori e troppi profumi che spezzava l’ordine meteorologico costituito.
L’Estate era calda, l’Inverno era freddo, l’Autunno era tiepido come la Primavera, ma Marzo non rispettava le regole, giocava sporco e negli occhi di chi non sapeva apprezzarlo era solo una seccatura. Occhi che non erano quelli degli studenti, di sicuro, perché per loro Marzo era sinonimo di vacanza. E le vacanze erano sempre bellissime e splendenti, anche quando il cielo minacciava tempesta.
«Due settimane! Letto mio, preparati ad avere il fosso che farà il mio corpo sopra di te!»
Kenta allargò le braccia, quasi avesse voluto stringere tutti quelli che aveva davanti, amici e sconosciuti. In quel preciso istante, voleva bene all’universomondo!
Yuzo aveva il borsone caricato sulla spalla e un paio di libri sottobraccio. Rideva, mentre Theodore mollava una gomitata al compagno.
«Tu il fosso lo lascerai solo sui libri! Lo sai che devi recuperare Giapponese e Inglese, vero? Good morning, sunshine!» Poiché aveva la madre britannica, Theo Miyamoto vantava la pronuncia migliore di tutto il gruppo, persino di Morisaki, che era ‘il secchione’ della squadra.
«Grazie per avermi fatto tornare con i piedi per terra, Capitano. Almeno un minimo di illusione potevi concedermela.» Kenta mise il broncio e incrociò le braccia, ma subito quello di Theo gli cinse il collo, con un po’ di difficoltà data la differenza di altezza.
«Tanto lo sai che ti aiuterò io! Almeno con Inglese, mentre in Giapponese puoi contare su Yuzo! Vero, fratello?»
«Presente, presente.» Una mano alzata e la disponibilità concessa su di un piatto d’argento.
Kenta batté il cinque a entrambi e un po’ si sentì sollevato nel sapere che non avrebbe dovuto sbattere la testa al muro. Sui suoi amici avrebbe sempre potuto contare. Si conoscevano dalle elementari, e poi alle medie erano stati addirittura compagni di classe. Fino alle superiori, comunque, avevano vestito i colori della stessa squadra di calcio, la Mizukoshi, e ne andavano fierissimi quasi fossero i campioni universali e non una squadretta provinciale senza la minima possibilità di accedere al Campionato Nazionale. Loro erano felici di quello che avevano, del mettere piede in campo e del divertimento nello stare insieme, con gli altri compagni, che tutto il resto sembrava quasi non contare più. La felicità era già nel sentire la solidità del pallone tra le mani e sotto i piedi. Ti faceva volare.
Anche quel giorno, l’ultimo che apriva la strada alle due settimane di vacanza tra la fine dell’anno scolastico e l’inizio del nuovo, si erano allenati tutti insieme. Gli altri erano stati salutati alcuni metri più in là, ognuno che aveva preso la strada di casa, ma la loro era la stessa. Stessa direzione.
E ora, sul far della sera, eccoli sempre lì, a camminare fianco a fianco: Kenta, con le sue gambe lunghe e la schiena un po’ curva – per apparire più basso –, era la ‘giraffa’ del centrocampo; Yuzo, la sua solidità e quell’aria da ‘ragazzo perbene’, difendeva la porta con umiltà, mentre Theo, il sangue misto che appariva evidente nei tratti poco giapponesi e i capelli chiari, con il suo carisma e la statura minuta rispetto ai compagni con cui si accompagnava, era il ‘signore della difesa’, nonché Capitano della Mizukoshi. E forse non potevano vantare trofei da sfoggiare nella bacheca scolastica o medaglie da tenere appese al muro della propria camera ma di sicuro avevano il primato di essere la squadra più benvoluta della zona. Andavano d’accordo con tutti, avevano amici in ogni quartiere e quindi sul campo, non avevano rivalità storiche con nessuno.
Anche se…
Ecco, forse c’era qualcosa – o qualcuno – che faceva di tutto per evitare che potessero accaparrarsi di diritto quell’unico traguardo che nessun altro avrebbe potuto vantare.
Loro e i ragazzi della Shutetsu non si erano mai potuti soffrire. Un’insofferenza – non si poteva chiamare neppure rivalità – che si trascinavano dietro fin dall’inizio, dalle elementari. E ora che la Shutetsu e la Nankatsu si erano fuse le cose non erano cambiate.
Certo, erano sempre andati d’accordo con i membri della Nankatsu, chi non conosceva Ryo Ishizaki?, ma con quelli della Shutetsu non c’era stato proprio nulla da fare, neppure con l’andare del tempo e degli anni.
E fu proprio a causa loro che Kenta si fermò e fermò anche i compagni, allungando un braccio.
«Ohi. Tre Moschettieri a ore dodici.»
«Tutti per uno…» proclamò ironicamente Theodore, nello scorgere distintamente Izawa, Kisugi e Taki che avanzavano, direzione opposta alla loro, dal fondo della strada.
«…e spine in culo per tutti.» conclusero, altrettanto ironicamente, Ken e Yuzo.
Quest’ultimo sospirò.
«Si potrebbe attraversare la strada? Non ho la minima voglia di incrociare la mia con la loro, tanto poi lo sappiamo come va a finire.»
«Perché dovremmo essere noi a cambiare marciapiede?» Kenta non era d’accordo, però si incurvò appena un pelo in più. «Così è come dargliela vinta.»
«Lo so, ma non mi va di fare questioni. Cosa inevitabile con Izawa tra i piedi.» Scosse il capo, caricando meglio il borsone sulla spalla. «Quello non mi può vedere.»
«Sentimento reciproco a giudicare dalle parole d’amore che vi scambiate.» Kenta sbatté le ciglia e in cambio si beccò una gomitata.
Da buon capitano, Theo si intromise. «Nessuno cambia strada. È ora che finisca questa sorta di ‘guerriglia’, ormai siamo grandi, dimostriamo di essere persone adulte: cammineremo per la nostra direzione e ce li lasceremo alle spalle, senza battutine o frecciate. Intesi? Ve lo ordino come capitano.»
Yuzo sospirò ancora. Guardò Kenta e quest’ultimo si strinse nelle spalle.
«E sia.»
Tanto più che ormai anche I Tre Moschettieri li avevano visti e, a giudicare dal mezzo sorriso che si era aperto sulle labbra di Izawa, Yuzo seppe che non sarebbe stata diversa dalle altre volte, con tanti saluti ai ‘buoni propositi’ di maturità.
Spronati dal capitano, ripresero a camminare tutti e tre, fianco a fianco, in silenzio. Avevano delle facce così serie che sembrava fossero morti loro il cane, il gatto e il criceto contemporaneamente. Passo rigido, tensione nei muscoli.
Per contro, Taki aveva la solita aria spavalda, sulla divisa lasciata aperta, e le mani in tasca; Kisugi aveva il mento sollevato con una certa altezzosità, mentre Izawa sorrideva. E sorrideva in quel modo che a Morisaki faceva venire l’irrefrenabile desiderio di prenderlo a calci sulle gengive fino al prossimo millennio.
Di lontano, su quel pensiero, si sentì il sottile gorgogliare di un tuono.
Tra la gente che passeggiava per il centro, le rispettive figure apparivano e scomparivano e divenivano vicine, di un passo ogni volta.
«Ma guarda un po’.»
Izawa era sempre il primo a prendere la parola. In maniera inspiegabile sapeva anticipare tutti. Doveva avere la sua entrata trionfale, sembrava destino.
Yuzo non  ne era stupito: non aveva mai creduto che si sarebbero passati accanto, magari sfiorati spalla a spalla nella moltitudine di persone e poi ignorati, ognuno per la propria strada; con Izawa non era possibile, soprattutto quando c’era anche lui nel mezzo.
«Le cheerleader della Mizukoshi. Dove avete lasciato i pon-pon?»
«Nell’armadietto, ma se vuoi ho il bastone, perché non te lo pianti lì-dove-sai?»
Ecco, appunto. Yuzo sollevò per un attimo gli occhi: addio diplomazia, maturità, felice ignorarsi. Kenta aveva parlato duro senza attendere il parere di Theo, però si era fatto più piccolo, ancora più curvo; e dire che superava Izawa di abbondanti dieci centimetri.
«Quelle con i bastoni sono le majorette, ma grazie per averci provato, Kirinriki.(1)
Taki sghignazzò apertamente, mentre Kisugi si limitava a scuotere il capo con una certa condiscendenza.
Izawa aveva quella smorfia trionfante che si allargava di puro piacere nel vedere Kenta arrossire e infossare il collo tra le spalle: aveva grandi complessi a causa della sua altezza e quando gliela facevano notare perdeva tutta la propria ironia, apparendo incredibilmente piccolo e indifeso. Izawa lo sapeva benissimo, per questo lo sfotteva.
- Quanto sei stronzo. - Il pensiero rimase tale, nella mente di Yuzo, e non si concretizzò in suono solo perché Theo lo precedette. Come amico e come capitano, si sentiva sempre in dovere di difendere gli altri: lo faceva in campo, perché fuori le cose avrebbero dovuto essere diverse?
«Senti, Izawa, non vogliamo fare storie. Perché, semplicemente, non passate? Noi faremo altrettanto.»
«Uh? Chi ha parlato? Mi è sembrato di sentire una voce.» Il centrocampista della Nankatsu finse di guardarsi intorno e poi abbassò lo sguardo in direzione di Theo, che era ben più basso di lui. Per fortuna, Miyamoto non era uno che si offendeva se lo si prendeva in giro per essere minuto, ma Izawa sapeva come ovviare, poiché anche Theo aveva il suo ‘tallone d’Achille’.
«Oh! Eccoti qui, Capitan Gaijin
Theo ringhiò, mostrando proprio i denti e sporgendosi in avanti, tanto che Yuzo fu costretto ad afferrarlo per un polso. «Io non sono un gaijin
«Uh, vero. Tu sei un ‘mezzo’. Mezzo sangue, mezzo capitano… mezza sega.»
Stavolta trattenerlo e basta non fu sufficiente e Yuzo dovette intervenire più duramente, tirando via l’amico nei cui occhi nocciola chiaro brillava tutta l’intenzione di cavare quelli di Izawa.
Tra i due contendenti ci si frappose in prima persona.
«Adesso piantala, ok? Hai fatto il tuo show, vuoi l’applauso?»
A brillare, ora, erano gli occhi di Izawa. Yuzo lo poté vedere distintamente, sembrava non avesse aspettato altro che aprisse bocca per sentirsi autorizzato a dargli contro. Cazzo gli avesse mai fatto per essere preso di mira in quel modo, Morisaki continuava a ignorarlo e, detta fuori dai denti, non gliene fregava un accidenti: se a Izawa stava sulle balle, beh, la cosa era reciproca e tanti saluti.
«Salvi il Capitano? Che bravo bambino
«Non so che problema tu abbia, ma stai esagerando.»
«Io non ho nessun problema, siete voi che vi infervorate subito. Coda di paglia?»
Izawa aveva degli occhi neri che attraversavano cose e persone. Yuzo aveva imparato a conoscerli sul campo e quando se li trovava così vicini capiva il timore di cui era vittima Kenta, ma col cazzo che si sarebbe piegato. Non lui, non in questa vita, e neppure nell’altra.
Li fronteggiò con tutto il coraggio che aveva, mentre l’altro continuava.
«E’ solo un goliardico sfottò. Forse è perché non vi insegnano l’agonismo, alla Mizukoshi, che siete le ultime ruote del carro.»
«Puoi tenertelo il tuo ‘goliardico sfottò’, non te l’abbiamo chiesto.»
«E se non volessi tenermelo? Che faresti?»
Izawa avanzò di un passo, tolse il borsone dalla spalla e drizzò la schiena. Qualche centimetro in più di lui ce l’aveva e lo mise in mostra come un pavone la coda per imporre una sorta di superiorità fisica. Peccato che Yuzo avesse una corporatura più spessa, tanto che la loro ‘sfida’ finiva in parità, almeno da quel punto di vista. Sul piano delle parole, chissà. Se la giocavano sempre sul filo del rasoio. Di solito l’ultima l’aveva sempre Izawa, sillabata con gusto e quel mezzo sorriso sulle labbra di chi si divertiva a provocarlo.
«Vorresti venire alle mani? Non credevo fossi un duro.»
«Se pensi che fare la voce grossa attacchi con me, mi spiace deluderti, non mi fai paura neppure un po’, in compenso…»
Izawa lo ascoltava con attenzione, curioso di sentire cosa si sarebbe inventato e Yuzo, più del solito, calcò la mano.
«…devo ancora decidere se quelli come te mi fanno più pena o più schifo.»
Il tuono spezzò ogni cosa. Irruppe con un rombo tra loro, che non smisero di fissarsi neppure quando il fragore sembrò volesse anticipare la caduta del cielo e chiunque, lì, tra passanti e contendenti, sobbalzò, colto di sorpresa.
Taki guardò il cielo, si era improvvisamente chiuso nonostante fino a poco prima sembrava volesse risparmiarsi la pioggia per un’altra occasione.
«Ehi, Mamoru, forse è il caso di avviarsi o ci becchiamo l’acqua.»
Ma Mamoru era troppo preso a fissare Morisaki perché gli importasse della pioggia imminente, di bagnarsi o chissà che altro. Il sorriso era stato ingoiato da un’espressione rigida come marmo.
Quel portiere da due soldi…
Quel fottuto portiere da due soldi…
Desiderò con tutto sé stesso di tirargli un pugno in mezzo agli occhi e costringerlo a chiuderli. Non sopportava l’onestà che vi leggeva né l’aura da ‘buono e bravo’ che si portava dietro; gli davano ai nervi. Era stato così fin dalla prima volta che l’aveva visto. Una di quelle sensazioni a pelle che non si potevano ignorare e finivano con lo stazionare lì, da qualche parte nel sangue.
Quasi a rallentatore, Mamoru si sporse appena un po’ perché l’altro potesse sentirlo bene.
«Alla prossima partita, ti farò talmente tanti goal che ti basteranno per tutta la vita. Lo giuro sugli Dei.» Lo masticò adagio, parola per parola, con una cattiveria che montava da dentro lo stomaco e veniva vomitata fuori.
Non si aspettò una risposta diretta alla provocazione e non l’ebbe, perché Morisaki si arroccava dietro una stoica resistenza e, almeno su questo, doveva rendergli merito: lui non sarebbe stato tanto bravo.
Yuzo lo ascoltò e sentì una vampata di calore salirgli, dai piedi, fino alla testa. Una fiammata improvvisa, come avesse preso fuoco dall’interno. Avvertì il volto farsi rosso per la mortificazione, per l’avere anche lui un punto debole su cui Izawa poteva calcare la mano, ma piuttosto che rispondergli, preferì mordersi il labbro a sangue e ingoiare quel sapore di ferro e collera.
«Fai pure. Tanto voi perderete ancora contro il Toho. Proprio come l’anno scorso.»
Si girò appena, le loro iridi si trovarono e provò un leggero sollievo nell’avergli almeno fatto sparire il sorriso stronzo. Gli occhi di Izawa divennero come quelli di un cane idrofobo. Ci mancava solo che iniziasse a ringhiare e sbavare, eppure lui non faticò a immaginarlo proprio in quel modo: un cane rabbioso che voleva balzargli alla gola.
Non accadde altro. Forse quella volta era finita pari; lui non era bravo a capirlo.
Vide Izawa fare un passo indietro, tornare nella propria porzione di spazio e restare lì, aspettando che se ne andassero, perché era chiaro: lui non si sarebbe mosso, non avrebbe deviato il proprio percorso per scartarli e se si voleva chiudere la questione, dovevano essere loro a piegarsi e cambiare strada per pochi centimetri.
Gli altri compagni forse neppure colsero quella sottile presa di posizione.
«Andiamocene, ragazzi.» Kenta fu il primo a superare il gruppo della Nankatsu, seguito da Theo che continuò a fissare in cagnesco il profilo di Izawa, il quale era tutto per Yuzo, ultimo a spostarsi, leggermente in ritardo.
Il portiere distolse lo sguardo, si fece da parte e li superò. Poi la via venne di nuovo ripresa da tutti e tre, anche se per un solo passo.
«Morisaki!»
Davanti a lui, Yuzo vide Taro Misaki che sorrideva e aveva una mano alzata in segno di saluto. Tutto lo scazzo di qualche momento prima sembrò sciogliersi nel portiere che ricambiò il sorriso.
Misaki era della Nankatsu, ma non aveva niente a che fare con i membri della Shutetsu, per fortuna. Era simpatico e gentile, una vera rarità.
«Ah, Misaki!»
Anche Taro aveva il borsone sportivo; osservò quello del portiere e dei suoi compagni.
«Ultimo allenamento prima delle vacanze?»
«Magari fosse l’ultimo!» Kenta piagnucolò. «Questo schiavista ha detto che non ci lascerà in pace!»
«Vuoi smetterla di lamentarti sempre?!» Theo gli mollò uno scappellotto un po’ storto e Taro rise, poi si accorse che non erano da soli.
«Ragazzi! Ci siete anche voi!»
«Ce ne stavamo andando.» Mamoru fu lapidario.
Misaki guardò brevemente sia I Tre Moschettieri, com’erano chiamati a scuola e sul campo, che i tre membri della Mizukoshi. Non faticò a capire che dovevano essere volate parole grosse, come al solito. Quei sei sembravano incapaci anche solo di ignorarsi.
«Vieni con noi?»
«Mi spiace, non posso.» Taro sorrise. «Devo passare in un negozio a prendere alcuni libri. Ho da studiare durante le vacanze o finisce che Morisaki mi batte di nuovo alle Olimpiadi dell’Istruzione
Yuzo si schermì, leggermente in imbarazzo, e a Mamoru non seppe cosa lo infastidisse di più se vederlo arrossire per un semplice complimento, quando non aveva battuto ciglio alle sue provocazioni, o il modo realmente contento in cui sorrideva.
Falso modesto del cazzo. Falso.
«L’anno scorso sono stato solo fortunato perché l’argomento era tra i miei preferiti. Quest’anno sarà dura, ci sono anche gli esami in vista.»
«E’ vero! Già gli esami» sospirò Taro.
«Come vuoi. Ci vediamo domani.» Mamoru spezzò di nuovo la conversazione e si volse, riprendendo a camminare. Hajime e Teppei salutarono Misaki e seguirono il compagno.
Mentre si allontanavano e le loro schiene non erano che macchie che scomparivano tra quelle degli altri passanti, Kenta assunse una postura più dritta.
«Dio, quant’è stronzo Izawa!» Non era proprio riuscito a trattenersi oltre. «Scusa, eh, Misaki. Lo so che è amico tuo, ma è proprio uno stronzo dentro!»
«Dai, Ken, lascia stare, ok? Sono andati via, non pensarci più.» Theo provava a fare da paciere, ma Fukui si era trattenuto così tanto che adesso aveva bisogno di sfogarsi. Detestava non essere in grado di rispondere a tono quando poteva, e così dopo finiva sempre col buttare fuori tutto, quasi a raffica.
«Ogni volta ti chiama ‘gaijin’! E poi non capisco perché ce l’ha tanto con Yuzo! Cazzo, non lo sopporto! Lo prenderei a sberle, quel maledetto figlio di papà!»
Theo sospirò, dando leggere pacche sulla schiena del compagno. Guardò Taro e sorrise.
«Da che parte è il negozio dove devi andare?»

«Io… non credo di avere parole.»
Taro camminava lentamente. La busta con i libri gli toccava la gamba a ogni passo che percorreva sulla via del ritorno. I ragazzi della Mizukoshi l’avevano accompagnato e lui aveva saputo tutta la storia, se tale potesse esser chiamata, dopotutto.
«Non è mai esistito un motivo valido, ma è da che ho memoria che la Shutetsu e la Mizukoshi sono in conflitto. Ormai è divenuta una routine.» Theo non era più arrabbiato per la questione del ‘gaijin’, era un tipo che dimenticava in fretta.
«Ma poi…» Taro scosse il capo, guardò il portiere con evidente perplessità. «Perché con te, Morisaki? Mamoru non è tipo che prendere di mira le persone.»
«Non so che dirti.» Yuzo si strinse nelle spalle. «Giuro che non gli ho mai fatto nulla. Credo che la prima volta che ci siamo incontrati sia stato alle elementari e non gli ho mai rivolto la parola, almeno fino alle medie. Frequentiamo scuole diverse, abitiamo in quartieri diversi, io… non lo so. Ma posso dirti che è stato davvero un bene che non abbia tentato il provino per entrare alla Nankatsu, alla fine delle elementari. Ti immagini che incubo se ce l’avessi fatta? Non saremmo mai riusciti a stare insieme nella stessa squadra!»
Yuzo ne era sicurissimo, ci avrebbe messo una mano sul fuoco. E anche se, al tempo, un po’ si era pentito di non aver neppure voluto tentare, col senno di poi aveva capito di aver fatto la scelta migliore. Passare le medie e le superiori fianco a fianco di una persona che ti detesta e che detesti a tua volta non sarebbe stata una passeggiata.
Taro era davvero basito e continuava a scuotere il capo. «Io non so… Se vi dicessi che invece Mamoru è una persona leale e disponibilissima con i compagni e gli amici, addirittura protettiva, e corretta verso gli avversari non mi credereste, vero? Eppure è così, posso garantirvelo.»
«Non ci crederei neppure se lo vedessi.» Tra i tre, Kenta era il più scettico. «Non è che sotto sotto gli rode per aver perso la maglia numero dieci? Alle elementari era la sua…»
«No, no! Anzi! È stato lui a proporre, dopo la partenza di Tsubasa, che nessun altro la vestisse più perché non sarebbe mai stato al livello del nostro ex-capitano. Lo ha sempre rispettato e seguito le sue direttive.»
«E allora è posseduto dagli alieni!» Kenta agitò un pugno in aria, facendo ridere gli altri, mentre raggiungevano la prima casa, ed era quella di Misaki.
Taro si fermò accanto alle scale che portavano ai piani superiori e all’appartamento in cui viveva col padre.
«Mamoru è così diverso con noi…»
«Non preoccuparti, Misaki.» Theo scosse il capo, ma sorrideva. «Ormai siamo abituati a questo continuo botta-e-risposta.»
Taro assentì più per circostanza che reale condivisione di quella strana ‘routine’. Guardò Yuzo e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Non prendertela troppo.»
«Oh, ma io non me la prendo mica. Ho solo la sensazione che un giorno di questi arriveremo alle mani.» Yuzo fece nuovamente spallucce. «Non che l’idea di tirargli un pugno mi dispiaccia, eh.»
Kenta era scettico anche su quello. «Tu non faresti male a una mosca. E non ne faresti neppure a Izawa. Ci scommetto quello che vuoi.»
Yuzo guardò altrove, fingendosi offeso, però sbuffò un mezzo sorriso che non poteva smentire le parole del compagno. Anche se desiderava avere una sorta di rivalsa fisica su Izawa, era consapevole che non avrebbe mai risposto con le mani alle sue provocazioni.
«Misaki, devi sapere che il nostro Yuzo ha il cuore del leone, però miagola.»
«Miao! Miao!» fece il verso Kenta alle parole di Theodore.
Yuzo arrossì leggermente. «Non ne viene per niente un’immagine virile, Capitano!»
«Domani ti porterò un bel nastrino rosso!»
«Piantala, Kenta!»
La Giraffa cinse con foga il collo del portiere in un abbraccio un po’ rude e divertito, entrambi ridevano, allontanandosi di qualche passo per riprendere la strada verso casa. Solo Theo si attardò un ultimo istante.
«E’ stato un piacere scambiare due parole con te. E, sotto sotto, son contento che Izawa non sia lo stronzo integrale che appare. Ci vediamo, Misaki.»
«Ciao!» salutarono in coro anche gli altri due, ora impegnati in una sorta di lotta senza vincitori.
«A presto, ragazzi! E grazie della compagnia!» Così dicendo, Taro li osservò andare via prima che il sorriso sulle sue labbra si incrinasse appena nel pensare allo strano comportamento di Mamoru.

«Sono a casa!»
Yuzo lasciò le scarpe all’ingresso e si mosse in fretta per raggiungere la sua stanza.
Dalla cucina, udì la voce della madre arrivare come un’eco lontana che gli dava il bentornato e poi restava immersa nel lavoro domestico quotidiano. Profumo di paprika e cumino.
Suo padre non era ancora rientrato, non ne aveva visto le scarpe e, dopotutto, era ancora presto.
Lasciò il borsone accanto alla porta, ripromettendosi di svuotarlo prima di cena, e se andò alla finestra per sfogliare il libro che aveva comprato quando avevano accompagnato Misaki. Adesso che aveva la trilogia completa de ‘Il Ciclo del Demone’ poteva dare una seconda opportunità a Terry Brooks; la prima l’aveva piuttosto fallita, ma non si bocciava un autore dopo un solo morso.
Mentre sfogliava distrattamente le pagine de ‘Il fuoco degli angeli’, Yuzo ripensò alle parole che il talentuoso giocatore della Nankatsu aveva detto.

«Se vi dicessi che, invece, Mamoru è una persona leale e disponibilissima con i compagni e gli amici, addirittura protettiva, e corretta verso gli avversari non mi credereste, vero? Eppure è così, posso garantirvelo.»

Izawa una persona leale e disponibile. Corretta. Protettiva.
Diosanto, in quale universo?
A Yuzo nacque un mezzo sorriso pieno di ironia e sollevò lo sguardo oltre i vetri. Il cielo era plumbeo. Strano che non avesse ancora piovuto, lui un po’ se l’era aspettato.
Mamoru.
Izawa Mamoru.
Quel nome scivolò nella mente in maniera vischiosa, come sangue denso su una superficie che si espandeva seguendo i rigagnoli delle mattonelle.
Leale, corretto e disponibile.
Colui che protegge.
Chissà chi, chissà da cosa.
Il mezzo sorriso si approfondì di più.
Se l’avesse visto comportarsi in maniera leale probabilmente non ci avrebbe creduto nemmeno lui, come Kenta. Non riusciva proprio a immaginarlo fuori da quei panni pieni di boria, privo dell’espressione supponente e di quel sorrisetto trionfante che metteva in mostra ogni volta che si incrociavano per le strade della città o sul campo da calcio, all’inizio e fine di una partita.
Lui ci aveva pensato davvero a lungo per trovare un punto in cui quell’astio era cominciato. Era tornato indietro così tanto da risalire alla prima volta che si erano parlati, il primo anno delle medie.
Avevano disputato una partita e avevano perso. Al termine, Mamoru era andato verso di lui con passo sicuro; la sua falcata sembrava potesse tagliare lo spazio.
Yuzo aveva ricordato con incredibile precisione quel momento, con suo stesso stupore, e davanti agli occhi la divisa bianca e rossa della Nankatsu era apparsa nitida quasi l’avesse vista quello stesso giorno e invece erano trascorsi anni. Mamoru aveva avuto i capelli più corti di come li portava adesso, ma che già si appoggiavano sulle spalle, sempre nerissimi. Gli aveva teso la mano quando era stato a un passo e lui, con l’ingenuità di cui conservava ancora degli strascichi, l’aveva stretta con un sorriso.
«La prossima volta segnerò il doppio dei goal che ti ho fatto oggi.»
Erano state le prime parole che Mamoru gli aveva rivolto, accompagnandole con il sorriso che ora era divenuto una costante.
Sul momento, Yuzo ci era rimasto spiazzato perché non c’era sportività, quanto il chiaro l’intento di ferire.
«Lo vedremo.» Aveva replicato stringendo con troppa forza le dita dell’avversario e tramutando il sorriso in una smorfia.
La loro rivalità era cominciata lì, anche se Yuzo non aveva mai saputo spiegarsi il perché. Izawa gli era andato vicino proprio per provocarlo e non riusciva a spiegarsi neppure quello. Eppure, anche se il tempo era passato e l’astio aumentato, lui non era stato capace di dimenticare nulla di quel momento, quasi ce l’avesse tatuato nella testa.
‘Mamoru’ era un bel nome, ma lui l’aveva sempre chiamato solo ‘Izawa’. Il suo nome non l’aveva mai pronunciato neppure per caso; non conosceva altri che si chiamassero così.
Oltre il vetro, tra il grigio delle nubi vide un corvo appollaiarsi sulla sommità del palo della luce che c’era al di là della strada. In quel nero rivide gli occhi di Izawa che lo cercavano di proposito.
Yuzo picchiettò distrattamente le dita sulla copertina rigida del libro. La bocca si aprì di pochissimo, quasi lo infastidisse il desiderio di provare a pronunciarlo, per vedere come suonasse detto da lui e non udito dagli altri.
«Ma… mo… ru.»
Nelle prime gocce di pioggia che si appoggiarono sui vetri chiusi, pensò che avesse davvero la viscosità del sangue.

«Sei proprio sicuro di non voler venire in centro con noi? Siamo in vacanza.» Hajime inarcò un sopracciglio di fronte al secondo rifiuto di Mamoru di fare quattro passi per Nankatsu, magari a rintanarsi in qualche bar, visto che il tempo non si era messo proprio al meglio.
Anche Teppei, accanto lui, appariva perplesso.
«Lo so, ma sono stanco. Mister Furuoya ci ha spremuti per bene, voglio solo buttarmi sul letto e rilassarmi.»
La Silver Combi si scambiò un’occhiata fugace, poi Taki sollevò e spalle.
«Come vuoi. Allora ci vediamo domani.»
«Non è che ti sei innervosito per la discussione con quelli della Mizukoshi?» Teppei incrociò le braccia andando subito al punto. «Inizio a pensare che Miyamoto abbia ragione: ignoriamoci e basta. Un paio di battute vanno bene, ma quando vedi Morisaki… non capisci più niente! A volte non sembri neppure tu!»
Mamoru si girò come una furia e i capelli neri serpeggiarono nel movimento, come selvaggi.
«Cos’è che non sembro, io?!»
«E’ inutile che ti incazzi. Ce ne siamo accorti sia io che Hajime.» Teppei rimase solido sulla sua posizione. «Morisaki ti sta sul cazzo, l’abbiamo capito, ma dovresti lasciarlo perdere. Ogni volta sembrate sempre sul punto di darvele e secondo me, prima o poi, alle mani arriverete davvero.»
Mamoru sbuffò un sorriso di scherno. «Io alle mani con quello? Lo stenderei con uno sputo!» Scosse il capo. «Non mi abbasso a simili livelli, dovresti saperlo, e ora piantala di seccarmi con queste cretinate. Ci vediamo domani.»
Mamoru chiuse la discussione in maniera brusca e volse le spalle a entrambi, prendendo la via di casa.
«E tu fai come ti dico. Lascia perdere Morisaki!»
«Sì, sì.» Agitò una mano, non si volse nemmeno ma ruotò gli occhi con fastidio.
Era incazzato perché Teppei aveva ragione su entrambe le cose: la discussione con quelli della Mizukoshi l’aveva irritato e il desiderio di dare contro a Morisaki era talmente forte che neppure lui si riconosceva. Lo feriva con un impegno che gli era estraneo e che non aveva avuto verso nessuno. Anche perché a lui non piaceva ferire le persone in maniera gratuita. Avrebbe saputo ignorare senza troppi problemi gli altri, come gli aveva suggerito Teppei, e infatti avrebbe voluto farlo quando aveva visto Miyamoto e Fukui, solo che poi aveva scorto anche Morisaki e lui, no, non riusciva proprio a ignorarlo, nemmeno se ci si fosse impegnato. Ma non avrebbe mai saputo spiegare e spiegarsi il perché. Ci aveva provato, quando dopo che si erano lanciati occhiatacce e parole pesanti si era reso conto di aver calcato la mano in maniera inutile che non era nel suo stile, e questo avveniva tutte le volte, ma la risposta sembrava impossibile da trovare. Sembrava quasi che fossero destinati a scannarsi per tutto il tempo in cui le loro strade si fossero incrociate e lui non pareva in grado di spezzare questa specie di maledizione.
A complicare le cose, c’era che Morisaki aveva sempre quell’aria così ‘buona’, un sorriso aperto e disponibile; era simile a Misaki. Eppure, per quanto lui si trovasse benissimo in compagnia di Misaki, non riusciva a sopportare tutta quella bontà e carineria nel portiere della Mizukoshi. Gli faceva arrivare il sangue alla testa in un attimo.
Era tutta una questione di sensazioni: arrivavano, colpivano come spilli e scatenavano le reazioni. Poi si ritiravano e a lui non restava che ragionare sul ‘latte versato’.
La pioggia iniziò a cadere che era quasi nei pressi di casa; aveva tenuto più di quanto previsto. Dopo quel tuono – che lui non aveva neppure sentito, se non gliel’avesse detto Hajime – non era scesa neppure una goccia.
Mamoru sistemò meglio il borsone e accelerò il passo, pensando, piuttosto di punto in bianco, che Morisaki non avesse un nome molto comune. Di ‘Yuzo’ conosceva solo lui.
Yuzo.
Sibilava sopra la lingua come il verso di un serpente, un crotalo velenoso. O una vipera, un cobra. Sì, un cobra. Si ergeva sulla coda in maniera lenta e accorta, apparendo quasi innocuo, ‘buono e modesto’, poi allargava il collo, mostrava la lingua ed era un attimo che ci impiegava a mordere e uccidere.

«Tanto voi perderete ancora contro il Toho. Proprio come l’anno scorso.»

Una serpe, di cui non aveva mai pronunciato il nome anche se ‘Morisaki’ era diventata una delle parole che usava più spesso, con cui aveva confidenza. Ma col suo nome…
Non si pronunciava mai il nome proprio di qualcuno se non lo si conosceva, perché dopo, volente o nolente, sarebbe stato come aver instaurato comunque un legame. Mamoru pensò che non facesse differenza, perché tanto un legame d’odio ce l’avevano già, non se ne sarebbe potuto instaurare un altro.
«Yuzo…»
La chiave girò nella toppa di casa e la pioggia, alle sue spalle, si fece più intensa.

 

“Non siamo mai andati in nessun posto dove non siamo mai stati prima.
Non è così che deve andare.
Questo non è ciò che siamo.”

Les FrictionString Theory

 


[1]KIRINRIKI: è il nome di un pokèmon XD, il cui nome occidentale è ‘Girafarig’; Kirinriki è quello giapponese! (per la giraffina: *clicca qui*)


Curiosità:

In teoria, il personaggio di Theodore Miyamoto era nato per un'altra storia che non è stata più scritta ed era sempre il capitano della Mizukoshi. Sono contenta di averlo finalmente potuto usare :3 Un po' mi ci ero affezionata.
XD Evviva il riciclaggio di idee-e-pg!!!


Nota Finale:
La storia è nata tutta da questa canzone dei Les Friction. È stata un’ispirazione folgorante e non ho saputo trattenermi, mettendomi subito al lavoro e accantonando l’altra storia che avevo iniziato e il sequel di “Elementia” (che è quasi terminato, giuro!, devo solo fare delle aggiunte che non erano in programma! O/).
E, boh, ho avuto questa illuminazione e mi ci sono dedicata tirando fuori sette capitoli per un totale di dodici aggiornamenti. In meno di un mese. Mi fa quasi credere d’aver trovato un equilibrio che pensavo perduto dopo essermi trasferita e aver cambiato le mie abitudini. Ma alla fine si tratta solo di ‘adattarsi’ e non pretendere di riavere gli stessi equilibri, quanto di crearne di nuovi.
Staremo a vedere! :D

Nel frattempo, penso che il ‘What if?’ sia piuttosto palese: Yuzo non ha tentato la selezione per la Nankatsu e questo ha avuto delle conseguenze che scopriremo e capiremo meglio nei prossimi capitoli! :D

Spero di avervi un po’ incuriosito e che questo primo capitolo sia stato di vostro gradimento! ;D
A presto!

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Capitolo 2
*** II - primo contatto ***


Documento senza titolo

The Bug
- II: primo contatto -

 

«Detesto allenarmi con il terreno bagnato. E detesto giocare quando piove.»
«C’è qualcosa che non detesti, Kenta?» Theo si asciugò le labbra col dorso della mano, dopo aver bevuto alla fontanella del parco Hikarigaoka, quella che si trovava in un angolino del belvedere.
«Lui detesta anche il colore bianco dei calzettoni della nostra squadra.»
«O che gli armadietti dello spogliatoio si aprano verso destra e non verso sinistra.»
«O dover fare le pulizie al mattino e non al pomeriggio.»
«O anche-»
«Ho capito! Ho capito!» Kenta alzò le braccia. «Mi danno fastidio un sacco di cose, va bene? Lo so! Non rigirate il coltello nella piaga!»
Portiere e Capitano sghignazzarono, mentre il compagno metteva il broncio e si incurvava appena.
«Però giocare col terreno bagnato è fastidioso, non potete darmi torto! Sarò scivolato almeno quattro volte, oggi.»
E si erano anche inzaccherati tutti. Yuzo già pensava all’espressione esasperata delle povere manager della squadra: Yumeko-chan non era nota per la pazienza, dopotutto.
Farsi la doccia dopo l’allenamento era stato il momento migliore. Togliersi la polvere e il fango da dosso, i panni lerci; era stato come fare la muta, privarsi di uno strato di pelle ormai vecchia e morta per sfoggiarne uno nuovo di zecca che seguiva i muscoli e i nervi in maniera perfetta, assecondava i movimenti delle ossa. Ora aveva un bel profumo di muschio e cardamomo; i capelli ancora leggermente umidi sulla nuca, ma coperti dagli spifferi marzolini che si erano fatti più insidiosi negli ultimi giorni. Il borsone sempre sulla spalla e, almeno per due settimane, niente libri da portare in giro.
«Dai che domani non ci si allena, non sei contento?» Theo mollò una pacca sulla spalla della Giraffa che strinse gli occhi fino a ridurli in fessurine.
«Contento? Lo sarei se non dovessimo studiare!»
L’altro sghignazzò. «Mica si può avere tutto dalla vita, my friend! Are you ready for an heavy english lesson
«Oddei, ti prego! Non iniziare! Sento già un principio di mal di testa!»
«Oh, c’mon! It’s just an innocent question!»
Kenta gli puntò contro le dita con fare minaccioso. «Ehi, Captain! Speak potable, ok?!»
Yuzo e Theodore scoppiarono a ridere, questa volta sonoramente. Non si preoccuparono di essere rumorosi, tanto non c’era nessuno lì sul belvedere, un po’ per l’ora – quella di cena era ormai prossima – e un po’ per il tempo, che aveva tenuto alla larga madri e figli, coppiette o semplici cultori della passeggiata preserale. Il cielo plumbeo aveva un unico squarcio da cui filtrava una tenue luce riflessa: si schiantava a terra, solitaria e silenziosa, rendendo meno scuro il cielo.
«Effinitela!» Kenta sbuffò, portandosi le mani dietro la testa, mentre Theodore gli si appoggiava praticamente addosso.
Yuzo, addirittura, restò qualche passo indietro, piegato sulle ginocchia e con le lacrime agli occhi.
«Ti prego, non morirci qua o ci toccherà trascinarti a spalla, portiere!» Kenta additò il compagno più distante. Aveva ancora il broncio, in parte, però stava sorridendo a metà; teneva un braccio attorno al collo di Theo.
«Mi ripiglio, mi ripiglio! Aspetta!» E giù un’altra risata. Partivano a scaglioni, come le batterie dei fuochi artificiali: quando sembrava che uno stesse finendo, ecco che attaccava il nuovo spettacolo.
A fatica riuscì ad alzarsi in piedi. Si passò le mani sugli occhi per asciugarli, mentre qualche ultima risata ancora gli sfuggiva.
La pallonata lo prese tra tempia e guancia quando fu completamente dritto, costringendolo a girare il volto per il colpo ricevuto. Le risate si spensero all’istante nel dolore che avvertì e negli schizzi di fango che per poco non l’accecarono. Perse la presa sul borsone mentre si teneva il lato colpito, che adesso pulsava un po’ ed era caldo. Aveva sentito come la fitta di una cinghiata.
«Yuzo!»
«Ohi! Yuzo!»
Anche i sorrisi di Kenta e Theodore si congelarono nel repentino mutare degli eventi, pazzi come Marzo.
«Tutto bene? Ti sei fatto male?» Il capitano fu il primo a sincerarsi delle sue condizioni e lo raggiunse in un pochi passi.
Yuzo aprì e chiuse l’occhio; ci vedeva leggermente appannato, ma stava passando.
«Sì… sì, è ok…». Si guardò la mano e le tracce del fango si erano trasmesse alle dita. Con stizza si ripulì alla meglio, ma ormai l’effetto di rinascita della doccia era stato vanificato del tutto.
«Ma tu pensa.»
Yuzo spalancò gli occhi nel riconoscere quella voce, quel tono divertito e sbruffone. Fermo sul posto girò solo il viso.
«In un parco in cui non c’è nessuno, il mio pallone finisce giusto giusto addosso a te. Che pessimo tempismo, Morisaki.»
«Ti sei bevuto il cervello, Izawa?!» Gli occhi di Theo erano enormi. «A parte che è vietato giocare a calcio nell’Hikarigaoka, soprattutto qui sul belvedere perché c’è il Tempio, ma come ti salta in mente di tirare così forte?! Avresti potuto fargli male!»
«Non essere melodrammatico, Miyamoto.» Mamoru si strinse nelle spalle. «Un vero portiere dovrebbe essere abituato a questo e altro.»
Calcò volutamente su quel ‘vero’, Yuzo lo capì ma continuò a non dire niente, con uno stoicismo che gli sarebbe dovuto valere dieci minuti di applausi ininterrotti. Si limitò a guardarlo in un modo che avrebbe voluto farlo diventare cenere mentre dentro sentiva lo spirito di sopportazione accartocciarsi su sé stesso.
Izawa non si sottrasse ai suoi occhi, anzi. Eccolo lì, che ci provava gusto nel provocarlo.
Magari stavolta sarebbe riuscito a farlo venire allo scoperto, si diceva il centrocampista, magari avrebbe smesso i panni del ‘bravo ragazzo’ per mostrare cosa si nascondesse sotto la facciata.
«E comunque stavamo facendo giusto un paio di tiri innocenti.» Mamoru indicò alle proprie spalle, dove Yuzo e gli altri poterono vedere il resto del trio i due fratellini di Taki. Tutto il gruppetto cercava di non ridere, ma non ci riusciva un granché.
«Davamo qualche consiglio.»
Yuzo folgorò anche il secondo e il terzo moschettiere con un’occhiata di fuoco.
«Scusaci» biascicò Taki, soffocando una risata.
«Scusaci, Morisaki. Non l’abbiamo fatto apposta.» Kisugi avrebbe voluto risultare davvero dispiaciuto, ma il mezzo risolino vanificò tutta la buona volontà.
«Ah, no?!» sbottò Yuzo, verso di loro. Poi guardò Izawa e lo ripeté in maniera più tagliente e sottile. «Ah, no? Non l’hai fatto di proposito, no? E io dovrei anche crederti? Riformula, Izawa.»
«Senti, non farla tanto lunga. Ti ho detto che è stato un caso; non ti ho neanche visto!»
Ed era vero: che avesse centrato proprio Morisaki era stata una tremenda coincidenza, su cui poi non aveva perso occasione per divertirsi un po’.
Ecco che le parole di Teppei del giorno prima trovavano l’ennesima conferma: se si trattava di Morisaki, calcava la mano. Sembrava non potesse farci nulla.
Mamoru si portò le mani ai fianchi.
«Ripassami la palla. Prometto che faremo più attenzione» cinguettò in un ironico sbatter di ciglia.
Yuzo guardò lui, abbassò gli occhi sul pallone, rotolato poco distante dai suoi piedi, e tornò a guardare Izawa.
«Tu… rivorresti la palla?»
«Se non ti è di troppo disturbo» Izawa enfatizzò il discorso in maniera teatrale. «O tu non sia rimasto ancora scosso per la botta!»
Yuzo lo guardò e capì che Izawa non sarebbe mai stato consapevole di quanto fosse un miserabile senza speranza; così come lui non avrebbe mai accettato le parole di Misaki, perché non poteva credere ci fosse qualcosa di buono in uno come quello lì, che era marcio dentro.
Ma ciò non toglieva che non l’avrebbe fatto andare via così a buon mercato.
Con un gesto deciso si alzò il pallone con la punta del piede e lo prese tra le mani. Con la terra bagnata era impossibile che non si sporcasse e che non avesse sporcato lui nel finirgli addosso. Una nuova doccia l’avrebbe atteso a casa, per togliersi anche quella sensazione spiacevole di essere il suo zimbello. Sul viso si sarebbe dovuto tenere il livido per un po’.
Yuzo avanzò con passo deciso e senza cercare il parere dei compagni. Izawa era lì che lo aspettava, ancora con le mani ai fianchi e il mento leggermente sollevato.
Si fermò che solo il diametro della sfera li divideva.
«Mi devi delle scuse.» Lo pretese senza mezzi termini, tanto che una smorfia deformò i bei tratti del centrocampista.
«Cosa ti dovrei, io?»
«Delle scuse. Per la pallonata.»
«Te le ho già fatte.»
«Quelli erano Taki e Kisugi, ma dalla tua bocca non è uscito niente che somigliasse a un ‘mi dispiace’.» Yuzo restava arroccato sulla sua posizione. «Scusati e riavrai il pallone.»
Mamoru sbottò a metà tra il seccato e il sorpreso. «Prego?! E questo cosa sarebbe? Un ricatto? Non siamo mica all’asilo, Morisaki! Devi essere rimasto un po’ indietro.»
Yuzo scosse il capo e forse fu l’espressione di pietà che gli mostrò a mandarlo in bestia, Mamoru non avrebbe saputo dirlo con certezza. Seppe solo che quello sguardo accondiscendente – lo sguardo di chi parlava con un idiota – lo fece arrossire per la collera.
«Non sei proprio capace di riconoscere quando sei nel torto, vero? Sarai pure bravo a giocare, ma per il resto sei solo un presuntuoso.» Yuzo rigirò la sfera tra le mani, prima di spingergliela addosso, all’altezza dello stomaco, così che si sporcasse un po’ anche lui. «Stronzo sei e stronzo rimarrai.»
Il lampo illuminò il parco per un istante rapido e accecante, mentre il tuono impiegava un attimo prima di farsi sentire e crepitare in maniera nitida.
Anche l’ultimo squarcio di cielo, da cui fino a un momento prima stava filtrando una debole luce, era stato inglobato dalle nubi che avevano chiuso prepotentemente ogni spazio.
«Dannazione…» borbottò Kenta, facendo vagare lo sguardo con disagio. «…qua finisce che si rimette a diluviare.»
Di nuovo, come il giorno prima, quel tuono non seppe avere presa su i due contendenti rimasti lì a guardarsi in cagnesco.
«Non mi faccio giudicare da un perdente come te, Morisaki.» E, nel dirlo, le mani di Mamoru si aggrapparono al pallone dove quelle di Yuzo erano ancora ferme e salde.
Le loro mani, contemporaneamente, sulla stessa sfera.
Un lampo brillò di nuovo e questa volta il tuono lo sentirono entrambi: crepitò dal cielo alla terra, dentro le loro ossa, e fu come se venissero investiti da una scossa elettrica. La sentirono passare dalla testa fino alle piante dei piedi.
Davanti ai loro occhi le immagini esplosero in mille flash, uno dietro l’altro. Come un video mandato in un crescente fast forward, e in quelle immagini c’erano i sorrisi che non si erano mai scambiati, le parole che non si erano mai detti e contatti. Tra le loro mani, i loro corpi, i loro cuori.
In quelle immagini c’era una felicità che non gli apparteneva, che non conoscevano. Una felicità comune che però era loro in una maniera così profonda che ebbero come la sensazione che i loro stessi spiriti si staccassero dai corpi per tenersi stretti.
Il flash fu talmente pieno e veloce da lasciarli storditi e con gli occhi spalancati in quelli dell’altro; la bocca leggermente aperta. Passò loro attraverso come una lama affilata.
Lasciarono il pallone nello stesso istante e non seppero dire se il flash si interruppe perché avevano mollato la presa o avevano mollato la presa perché il flash si era interrotto. Fatto stava che entrambi rimasero lì dov’erano, immobili come statue.
Il pallone rimbalzò un paio di volte e poi rotolò un po’ più in là.
Mamoru fu il primo a indietreggiare. La gola secca, le dita rigide e ancora sollevate a mimare una presa ormai cessata. Indietreggiò quasi avesse un mostro a tre teste, davanti. Un passo, poi un altro, mentre Yuzo non si muoveva; troppo sconvolto per fare qualsiasi cosa.
«Yuzo?» La voce di Theo sembrò svegliarlo dal torpore dello sconcerto in cui ancora restava a boccheggiare.
Finalmente, Yuzo ebbe la forza di distogliere lo sguardo da quello di Mamoru. Si volse, fissò Theo e aveva un’aria così smarrita che anche il capitano fece fatica a comprendere che diamine fosse avvenuto in quei pochi secondi in cui lui e Izawa erano rimasti a fissarsi in silenzio.
«I-io…» Guardò Mamoru. Lo cercò. Quasi che in lui avesse potuto trovare l’aiuto di cui aveva bisogno in quel momento, aiuto che non avrebbe potuto dargli nessun altro. Ma Mamoru era indietreggiato ancora, aveva distolto lo sguardo e si passava nervosamente la mano tra i capelli, fregandosene che fosse sporca della terra rimasta attaccata al pallone.
Nessuno dei due sapeva cosa avesse visto davvero, sapevano solo che dentro qualcosa era cambiato, ma faceva così male che non erano pronti per affrontarla.
Mamoru ingoiò a vuoto un paio di volte, senza risultati; la bocca era un impasto di saliva inutile e gli bruciava lo stomaco. Crampi improvvisi che gli fecero portare una mano al ventre, quasi che potesse bastare per farli cessare.
Non alzò più lo sguardo su Yuzo, non ci pensava neanche, né rispose ai richiami dei suoi compagni. Volse le spalle a tutto e tutti e se ne andò, barcollando leggermente. In qualche modo, avrebbe trovato l’uscita da quel dannato parco.

«Sei crudele, l’ho sempre detto. E anche un po’ sadica.»
«Nel nostro mestiere, chi non lo è?»
Se qualcuno avesse potuto vederle, si sarebbe chiesto – prima d’ogni cosa – che diavolo ci facesse nel parco Hikarigaoka quel tavolino da giardino, interamente in ferro verniciato di bianco, con la lavorazione ben in vista e gli elementi che si piegavano in riccioli e volute. Le due sedie facevano pendant per colore e stile, ma avevano gli schienali che simulavano un intreccio di cuori.
In seguito, si sarebbero chiesti come potessero restare sedute a prendere un tè con tanta disinvoltura le due occupanti delle sedie.
Cappello a tesa eccessivamente larga abbinato a improbabili scarponi da trekking per una, lunghi capelli al vento per l’altra. Non sembravano essere vittime della follia marzolina, a giudicare dall’abbigliamento decisamente estivo che indossavano.
La più anziana, quella con il cappello, sorseggiava con calma una tazza di tè, mentre l’altra sembrava trovare scomoda qualsiasi posizione, vista la frequenza con cui si muoveva sulla seggiola.
«Dovresti aiutarli, non vedi che sono confusi?»
«Oh, ma io lo vedo.»
«E dunque?»
«E dunque niente.» Appoggiò la tazza sul tavolino. C’erano dei biscottini all’interno di un piccolo cestino in vimini. «Devono imparare a cavarsela da soli. Non posso essere sempre io quella che sistema le cose, quando queste non vanno. Le ho sistemate talmente tante volte…»
«Mi sembra il minimo! Dopotutto siamo noi a creare tutto questo.»
Ma la giovane scosse il capo, spiegando il suo dissenso. Con gli occhi cercò prima Morisaki e poi quel testone di Izawa. Certo che aveva sviluppato davvero una gran pazienza; se non avesse voluto loro così tanto bene, magari li avrebbe mandati a quel paese molti anni prima.
«No» rispose, addentando un biscotto e porgendone uno alla compagna. «Noi scegliamo delle trame, ma come viverle spetta solo a loro.»
«Sarà… forse sono solo io quella che si dispiace troppo e cerca di mettere una pezza.»
La più anziana rise, sollevando appena il viso per guardare meglio i suoi pupilli, ma Mamoru era già fuori dal raggio visivo, mentre Yuzo sembrava non essere a proprio agio nei suoi stessi panni.
«Ognuno è fanwriter a proprio modo. Il bello sta anche in questo.»
«Credi che ci riusciranno?» La ragazza dai capelli lunghi palesò il proprio timore. «Credi che troveranno la strada per vivere questa trama?»
«Non lo so, ma mi fido di loro. Li conosco da così tanti anni, ormai. Troveranno un modo… un modo tutto ‘loro’.» Sorrise. «Sanno sempre come rendermi orgogliosa.»
Lentamente afferrò l’ombrellino arancione fermo accanto alla gamba del tavolino. Ne premette un pulsante sul manico e si aprì da solo, in un paio di scatti.
«Ad ogni modo, ti consiglio di ripararti, Sakura-chan(1).» Sorrise ancora, verso il portiere che non poteva vederla e adesso stava andando via, assieme a Kenta e Theodore. «Sta per piovere.»

«Io taglio per di qui, ragazzi.»
Theo e Kenta si volsero a guardare Yuzo. Mentre camminavano per tornare a casa non aveva mantenuto il loro passo e loro non l’avevano forzato, lasciandolo tranquillo in quella sorta di isolamento spirituale in cui si era rinchiuso da che avevano abbandonato il parco.
«Non ho voglia di fare il giro lungo. Me ne vado a casa, ho mal di testa.»
«Sicuro di stare bene?» Theo lo aveva raggiunto e toccato il braccio.
Yuzo aveva guardato a quel gesto quasi con terrore, dopo quanto accaduto con Izawa. Invece non ci fu nulla in quel contatto, nessun flash, nessuna scossa; quasi venisse toccato da qualcosa di finto e non vivo.
«Non hai detto mezza parola da quando ce ne siamo andati.»
«Forse la pallonata ti ha fatto più male di quanto pensassimo… Che so… una commozione cerebrale!» Kenta aveva le sopracciglia aggrottate sull’espressione preoccupata.
Yuzo riuscì a sforzare un sorriso. «No, no. State tranquilli. Mi si farà solo un livido, nient’altro. Forse neppure quello.»
Theo però non demorse; a differenza di Kenta, non era la botta a preoccuparlo. «Si può sapere che è successo con Izawa? Per un attimo è stato come… se vi foste congelati.»
Quasi a confermare la similitudine del capitano, Yuzo sentì proprio un brivido gelido attraversargli la schiena. Si strinse nelle spalle e scosse il capo, spostando altrove lo sguardo.
«Niente, non è successo niente.» S’affrettò a negare, arretrando. Caricò meglio il borsone e sforzò di più il sorriso. «Allora ci vediamo domani da te, Kenta. Vedi che facciamo anche giapponese, non fare il furbo!»
Praticamente scappò, il concetto era lo stesso e la fretta anche. Attraversò la strada in maniera quasi distratta, riuscendo a evitare la coda di una macchina solo grazie alla sua agilità sportiva. Passò al marciapiede opposto e si imbucò per la strada che tagliava il percorso e lo portava proprio vicino casa.
Attese di girare l’angolo, giusto per la sicurezza che né Kenta né Theo potessero vederlo, e si fermò. Fece cadere il borsone e si appoggiò di schiena al muro, nella ricerca di un sostegno. Il viso al cielo, la bocca aperta per prendere fiato; quasi come se avesse corso per chilometri interi e invece non aveva che percorso pochi metri. Il solo pensare a quello che era avvenuto gli schiacciava il petto e lo stomaco con una sensazione che non aveva mai sentito prima d’allora.
Ma cos’era davvero avvenuto? Cos’è che aveva davvero visto?
Se solo provava a pensarci, tutto si ammassava nella mente come quando il flash di immagini lo aveva travolto e gli sembrava di distinguere tutto, ma non riuscire a vedere nulla.
Yuzo si costrinse a respirare con maggiore calma, a scandire un ritmo nell’aria che entrava e in quella che usciva fino a che la fretta di dover incamerare quanto più fiato possibile non si fermò e lui abbassò di nuovo la testa.
Le auto passavano veloci, così come la gente, nella strada principale che si diramava dall’angolo cui era venuto. Lì, invece, era tutto tranquillo. Pochi negozi e poche persone; traffico regolare e a senso unico.
Toccandosi la tempia dove il pallone l’aveva colpito, e che un po’ gli faceva male sul serio, Yuzo riprese a camminare, trascinando il borsone con sé.
Negli occhi rivide l’espressione sgomenta di Izawa essere così simile alla propria. Qualunque cosa fosse stata, doveva averla vista anche lui.
Un rombo cavalcò le nubi e un nuovo brivido gli si accalcò sotto la pelle. A quel rumore associava il momento del flash, la scossa che aveva avvertito. Avrebbe piovuto di nuovo, con buona pace di Kenta, e forse avrebbe fatto meglio a camminare più svelto o di docce, quel giorno, avrebbe finito col farne ben tre.
Mentre camminava, un pallone sbucò da una strada laterale che incrociava la sua e lì moriva. Lo vide rotolare solitario, lungo il marciapiede, tagliare la strada e giù, ancora, per raggiungere il marciapiede opposto. Tutto il mondo sembrò rallentare a quel movimento: le auto che passavano di lontano, il suo sguardo per seguire la sfera, e quel bambino che arrivò anche lui dal nulla. Gli passò davanti, con le sue gambette corte e i calzoni sporchi alle caviglie. Correva, ma era così lento che anche una lumaca avrebbe potuto superarlo.
Gli occhi di Yuzo erano come incollati sul bambino, sulla sfera, sull’insieme che creavano.

«Vorrei che noi… potessimo restare sempre amici.»
«Ma certo che resteremo amici, che domande.» (2)

Gli sembrò come se qualcuno gli sussurrasse quelle frasi all’orecchio. Le sentì vicinissime, nemmeno nascessero dalla sua mente, dalla sua gola, ma le voci erano due ed erano diverse. E lui le conosceva entrambe.
Yuzo si volse di scatto e il mondo tornò a correre nella velocità normale. Con gli occhi spalancati cercò qualcuno, chiunque, a cui aggrapparsi credendo di essersi confuso. Ma in quella strada era da solo e il bambino con il pallone era ormai troppo lontano.
La pioggia era iniziata a cadere inesorabile e lui non si era mosso, accettandone il peso.

Mamoru passò una mano sullo specchio e la condensa del vapore caldo della doccia venne via, scoprendo il suo riflesso, ma lasciandolo acquoso.
Il giovane lo fissò intensamente e non vide altri che sé stesso, anche se faticava a riconoscersi, come se fosse e non fosse lui al contempo.
Gli occhi erano quelli, i capelli anche, i tratti del volto, il colore della pelle. Tutto uguale, tutto diverso.
Arrivato a casa si era liberato degli abiti con un gesto fluido e continuo, anche se aveva sentito la testa girare più volte, ma non era mai caduto. Si era costretto a rimanere in piedi in maniera testarda, dicendosi che le vertigini sarebbero passate, era solo questione di attimi. Eppure le sentiva ancora azzannargli parte della testa, prendergli il ventre con una leggera nausea.
Non aveva risposto al cellulare, nonostante avesse squillato infinite volte. Doveva avere una decina di chiamate perse da Hajime e Teppei e forse altrettanti messaggi. Se ne sarebbe occupato dopo la doccia, appena si fosse ripreso, anche se non sapeva neppure lui da cosa.
L’acqua l’aveva abbracciato con calore e lui era rimasto fermo, a farsi consolare, quasi fosse stato un bambino ferito o un amante tradito. Immobile per minuti lunghissimi, tanto che il suo unico gesto fu quello di chiudere il getto e lasciare la cabina. La pelle si era increspata in mille brividi nel passare dal caldo del vapore al freddo dell’ambiente.
Poi la mano sullo specchio e ora lo sguardo fermo in quello del riflesso cercando di capire cosa fosse accaduto nel parco, nemmeno un’ora prima. Voleva che qualcuno glielo dicesse, perché lui non credeva di saperlo spiegare. Non aveva senso.
Cosa gli aveva fatto Morisaki?
Doveva essere di sicuro colpa sua! Doveva! Stavano toccando il pallone, lui gli era vicino. E poi il fulmine, il tuono.
Che cosa aveva visto?
Si sforzò di mettere a fuoco quell’immagine che, per degli istanti lunghissimi, si era aperta davanti ai suoi occhi. Era stato come non essere più all’Hikarigaoka, a Nankatsu… nel suo stesso corpo. E più ci pensava, più si rendeva conto che l’immagine non era una sola, ma un’infinità. Si erano rincorse per afferrarsi e mutare l’una nell’altra. La cosa peggiore, forse, era che gli sembrava di conoscerle tutte, anche se non sapeva scinderle. Da qualche parte, nella sua mente, c’era una traccia lasciata da ciascuna di esse, un granello sottile, che si era nascosto e lì aspettava. Silenzioso come il gatto che puntava il topo.
Mamoru abbandonò il bagno e raggiunse la propria camera dopo essersi infilato un paio di pantaloni e una t-shirt. I capelli venivano frizionati con l’asciugamano in maniera piuttosto blanda e disinteressata; sembrava volesse più massaggiarsi la testa e sciogliere i pensieri.
Si disse che non poteva rimandare di rispondere agli amici, avrebbe finito col farli preoccupare, visto l’atteggiamento strano che aveva avuto. Scosse il capo, non avrebbe dovuto piantarli là da soli, senza nemmeno una parola.
Anche quello era colpa di Morisaki!
Colpa di… di Yuzo!
Quel nome esplose con una diversa familiarità nella sua testa, riempiendola d’acqua. Si sentiva in apnea, sotto la superficie del mare.
Ripensò al portiere e gli toccò ammettere che anche lui l’aveva guardato con lo stesso sgomento che aveva sentito dentro. Qualsiasi cosa gli fosse passata davanti agli occhi, l’avevano vista insieme e nessuno di loro sapeva cosa fosse.
«Mamoru! E’ pronta la cena!»
Da fuori al corridoio, la voce di sua madre arrivò ovattata, ma perfettamente udibile.
«Scendo subito.» Ma non si mosse per abbandonare la stanza, piuttosto si avvicinò alla finestra per guardare fuori.
Pioveva di nuovo, sembrava non averne mai abbastanza.
Prendendo un profondo respiro, Mamoru chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro il vetro. Si concentrò sul ticchettare delle gocce e si rilassò a tal punto da permettersi di tornare indietro con la mente, ancora un’ultima volta.
Rivide il parco, il viso di Morisaki sporco di fango lì dove il pallone l’aveva colpito, la sfera che veniva afferrata dalle mani di entrambi e poi quello scorrere istantaneo di immagini, sequenze, attimi di vita, forse, ma di quale? E di chi?
Strinse appena gli occhi, affinò l’udito.
Tic.
Tic.
Tic.
Tic.
La pioggia aveva sempre lo stesso suono rilassante e anche se lui non era in grado di afferrare la vastità del tutto, poteva forse strapparne un brandello, uno piccolo, per vederci chiaro. E quando con la propria volontà riuscì a rallentare il flash, qualcosa divenne davvero nitido. Una sola immagine, una, nient’altro e per pochi secondi, ma furono sufficienti per vedere proprio il portiere seduto a un tavolo, non avrebbe saputo dire dove né quando, ma guardava fuori dalla finestra e non era da solo.

«Non dimenticarti che sai ruggire anche tu, CentoTiri. Credi in te e sarai Leone.»(3)

Chi aveva parlato?
E perché aveva la voce uguale alla sua?
Era la stessa persona che aveva affondato una mano nei capelli di Morisaki, carezzandogli la testa?
Chiunque fosse, perché era sotto le sue dita che gli era sembrato di avvertirne la consistenza e il calore?
Mamoru aprì gli occhi di scatto e quell’immagine solitaria che era riuscito a strappare tornò a fondersi nel tutto dandogli la sensazione di poterla vedere per intero nell’attimo in cui sbiadiva. E in quell’attimo si riconobbe, di fronte a Yuzo, mentre gli toccava i capelli.

 

“In profondità, sotto la luce
adesso una scintilla prenderà fuoco.
E tu mi vedrai, ora.
Questo è il nostro nuovo mondo.”

Les Friction Firewall

 

 


[1]SAKURA-CHAN: X3333 La mia Sakuretta! :* Autrice conosciuta e stimata del Fandom! XD che di sicuro questa non se la sarebbe aspettata! XDDDD *sghignazza* Tivibì! :*

[2]: tratto dalla mia fic “Il lungo sonno della Lucciola”

[3]: tratto dalla mia fic “Anaglyph”


Nota Finale:
E insomma, forse si è capito in che consiste l’elemento ‘fantascientifico’? X33333 *ridacchia*
Noi fanwriter siamo sempre le Signore che restano dietro lo schermo, lavoriamo nell’ombra. Volevo fare un piccolo omaggio a tutti gli anni in cui ho portato avanti questa passione, a tutte le storie che ho scritto e a quelle che ancora mi aspettano. E’ un omaggio estendibile a tutta la nostra categoria, a tutte/i noi, che abbiamo il nostro bel daffare per star dietro ai personaggi e alle loro avventure. :*

Vi rimando al prossimo capitolo. :*

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Capitolo 3
*** III - i ricordi degli altri ***


The Bug - cap. III

The Bug
-III: i ricordi degli altri -

 

Quella era stata una delle peggiori nottate degli ultimi anni. Aveva dormito poco e male, continuandosi a rigirare nel letto e alternando momenti di veglia a incubi strani e attimi di perfetta lucidità.
Mamoru si era alzato prestissimo per la disperazione, convinto che mettersi sui libri l’avrebbe distratto da tutti gli altri pensieri, ma si era dovuto ricredere dopo la terza volta che rifaceva lo stesso esercizio senza riuscire a risolverlo.
Allora aveva chiuso tutto, dicendosi che in fondo era solo il secondo giorno di vacanza e di tempo per fare i compiti ce n’era a volontà, meglio riposarsi un po’: i mesi precedenti erano stati un’intensa full immersion tra studio e calcio.
Aveva quindi fatto qualche partita alla playstation, aveva letto un libro e recuperato un paio di volumetti di Naruto abbandonati sulla scrivania e aveva ascoltato la musica, ma se avesse dovuto raccontare almeno solo la metà di quello che aveva capito – della trama del videogioco, del libro o dei manga – forse non avrebbe saputo neppure da dove iniziare.
Con la testa non c’era, non c’era affatto, ma rimaneva l’immagine di quella mano tra i capelli, di quelle parole d’affetto e incoraggiamento e l’espressione tesa e preoccupata di Morisaki che però si scioglieva a quel contatto, a quella carezza.
Mamoru si era ritrovato a fissarsi la mano, quasi avesse potuto rivivere le sensazioni provate in quel gesto che sapeva di non aver mai compiuto, ma di cui aveva un ricordo fin troppo nitido. Un ricordo che era suo ma al tempo stesso non apparteneva alla sua memoria. Guardarsi la mano, però, non aveva portato a galla altri strani frammenti, non aveva ricordato il rumore dei capelli sotto le dita o la sensazione che avevano sulla pelle.
D’un tratto si era stizzito per averci anche solo pensato con così tanta attenzione e forse piccolo desiderio di rivedere ancora quell’immagine. Era rimasto troppo scosso, il giorno prima, non voleva provarlo ancora.
Aveva quindi pranzato con la radio accesa, per riempire il silenzio della casa ora che i suoi genitori erano chi fuori e chi al lavoro ed era uscito un’oretta dopo. Sarebbe arrivato al campo in anticipo, ma non era importante, ne avrebbe approfittato per allenarsi un po’ da solo e in tranquillità.
Ecco, se c’era una cosa che di sicuro l’avrebbe aiutato a non pensare, quella era il calcio. Si sarebbe immerso nel suo sport preferito e avrebbe lasciato fuori tutto il resto come sempre aveva fatto. Quando era sul campo, il mondo con i suoi problemi non esisteva più, ma si entrava in un mondo diverso, molto più bello.
Mentre costeggiava il fiume, Mamoru vide il rettangolo verde delinearsi in maniera netta sul fondo della discesa, con la sua erba curata, le linee ben tracciate e le porte bianche. Lì continuavano ad allenarsi i bambini e sorrise al ricordo di quando era stato un soldo di cacio come loro e aveva corso su quell’erba morbida, sfidato la Nankatsu e perso la sfida per il possesso del campo. Ripensò anche alle selezioni per la nuova squadra e ripensò alla gente che era accorsa. Non si era aspettato che arrivassero bambini da tutto il distretto e invece rammentava ancora la masnada che si era creata, e tutti perché volevano entrare nella nuova squadra. Tutti tranne uno.
Ricordò ancora quando vide l’intera sua squadra scendere in campo, tentare e lui rimanere invece seduto sugli spalti a guardare. E quello era un ricordo davvero suo e non di qualcun altro.
Morisaki non ci aveva neppure provato, quel giorno. Non aveva tentato di entrare nella Nankatsu, ma li aveva snobbati guardandoli dall’alto delle gradinate senza mettersi in gioco. Forse l’origine del problema era proprio tutta lì: lui detestava Yuzo perché non aveva affrontato le selezioni.
Mamoru si stizzì e la bocca si deformò in una smorfia, mentre riprendeva a camminare – non si era neppure accorto di essersi fermato – e si ammonì per avere ancora pensato al portiere chiamandolo per nome, quasi fosse un’abitudine portata avanti per anni e anni, quasi l’avesse fatto un miliardo di volte. Quasi fossero amici.
Scacciò quell’eventualità assurda con uno sbuffo e un mezzo ghigno.
Amici?
Impossibile.
A passo spedito, Mamoru arrivò a scuola. Il cancello aperto, ma nessuno nell’edificio se non i membri dei club sportivi sparsi per il cortile posteriore, dove c’era anche il loro campo. La squadra di baseball provava dei lanci, mentre quella di pallamano correva attorno alla palestra per fare riscaldamento in attesa che quella di pallavolo terminasse l’allenamento indoor.
Lui raggiunse il campo in terra battuta ma trovò chiusa la porta degli spogliatoi, segno che le manager non erano ancora arrivate. Il custode fu tanto orgoglioso della sua dedizione allo sport che gli diede la chiave accompagnandola con parole accorate ed entusiaste, che lo fecero sorridere con un certo imbarazzo.
Anche se di solito arrivava sempre accompagnato da Hajime e Teppei non gli dispiacque, per una volta, essere completamente da solo, per potersi concentrare meglio. Per lui, immergersi nel mondo nuovo creato dal campo e dal pallone iniziava già nel momento in cui usciva dallo spogliatoio con la divisa addosso. Era come entrare in piscina attraverso una scala, un passo alla volta. Sentire l’acqua che arrivava alle caviglie, poi alle ginocchia e all’inguine, al petto, al collo. Immergersi completamente, testa compresa. Il suo calarsi nell’allenamento era uguale.
Entrava nello spogliatoio che l’acqua gli lambiva i piedi e ne usciva che gli arrivava già alle cosce.
Fece riscaldamento con calma, tanto aveva tempo, e tutto sembrò funzionare alla perfezione. Non pensò a Morisaki, non pensò alla mano tra i capelli. C’era solo lui, lì. Lui, la porta e il pallone.
Mamoru lo guidò con la punta dello scarpino, se lo posizionò sul dischetto e lo guardò. Quella sfera a scacchi bianchi e neri gli dava un incredibile senso di sicurezza e realtà. Il calcio era sempre stato con lui fin da piccolissimo, quando all’asilo il pallone sembrava essere troppo grande per i suoi piccoli piedi. Era cresciuto con esso, aveva trovato, grazie ad esso, i suoi migliori amici e un obiettivo da raggiungere. Quel pallone era la fermezza del passato, la concretezza del presente e la luminosità del futuro. L’aveva aiutato a forgiare il proprio carattere, gli aveva fatto capire di essere davvero bravo in qualcosa. Si fidava di quel pallone e sapeva che non avrebbe mai potuto tradirlo.
Eppure, quando levò nuovamente lo sguardo e vide che c’era un bambino, fermo tra i pali, il senso di realtà andò in frantumi con un suono crepitante e limpido. Migliaia di cocci di cristallo brillarono come gocce di pioggia trafitte dal sole, ma quel bambino rimaneva lì, in posizione. Maglietta rossa, calzoncini blu.
Diosanto.
Quel bambino era…

«Ascoltate, ognuno di voi deve tirare in porta dieci tiri a testa.»(1)

Mamoru si girò di scatto, gli occhi spalancati.
«Capitano?»
Ma Genzo era in Germania, ora, e non era possibile che invece fosse lì a dire cose senza senso come quella.
Dieci… cento tiri in porta.
E perché tra quei pali non c’era Atsushi?

«Non preoccuparti! Vedrai che abbandonerà subito il campo dopo che avrò fatto i miei dieci tiri!»
«Io non ne sarei sicuro.»(2)

Teppei! Quello era Teppei, c’avrebbe messo la mano sul fuoco! E poi ancora Genzo!
Ma non c’era nessuno! Nessuno!
Mamoru si guardò intorno con la frenesia dei paranoici, chiedendosi se non stesse divenendo pazzo. Poi sentì netto il rumore di una palla che veniva calciata e lui guardò in avanti.
Un Hajime in miniatura, spuntato fuori dai suoi ricordi delle elementari, aveva appena effettuato il tiro, ma il portiere non si era fatto trovare impreparato e aveva parato. E parato. E parato ancora.
Dieci. Venti.
Ma quanti erano?
Trenta. Quaranta…

«Preparati! Vedi che non ci andrò leggero!»(3)

E quello era lui. Aveva riconosciuto la propria voce e quel piglio supponente.
Abbassò lo sguardo e una testa scura lo attraversò, prendendo la rincorsa; sembrava stesse nascendo dal suo stesso corpo, tanto che trattenne il fiato, paralizzato dalla testa ai piedi da una paura che non avrebbe saputo descrivere con nessun aggettivo, ma che gli fece tremare le ossa.
Si vide correre, caricare il tiro e calciare. La sfera volò ben angolata, in basso a sinistra. Il portiere si tuffò con un tempismo perfettamente calibrato, allungò la mano e Mamoru si ritrovò ad attendere quel momento quasi non avesse aspettato altro per tutta la vita.
«Ehi! Sei già qui? Quando sei arrivato?»
La voce di Hajime, alle sue spalle, lo fece sobbalzare. Mamoru si girò e aveva negli occhi uno sguardo così atterrito che l’attaccante inarcò un sopracciglio.
«E’ tutto a posto?» chiese con cautela, quasi dovesse soppesare le parole. Teppei era al suo fianco e aveva la stessa espressione indagatrice e un po’ preoccupata.
«Non è che ci pianti in asso come ieri senza dire mezza parola?»
Mamoru si riscosse a quella domanda, tentando di acquisire di nuovo un certo controllo e lucidità. Portò le mani ai fianchi, mosse lo sguardo oltre i due amici di sempre e vide gli altri compagni arrivare. Tra loro, il suo sguardo si posò sul portiere e aveva i tratti solidi di Atsushi Shirakawa, come era giusto che fosse.
Chi altri avrebbe dovuto vedere al suo posto?
Mamoru scosse il capo assumendo un piglio leggermente infastidito. Le mani cercarono, trovandolo, appoggio sui fianchi, in una postura di ‘temporeggiamento’ o ‘dissimulazione’.
«Vi ho già detto che mi dispiace per ieri, non c’è bisogno di tirare ancora fuori il discorso.»
«Sì, sì…» Teppei però non sembrava troppo convinto. Gli passò accanto squadrandolo con particolare attenzione prima di mollargli una leggera pacca sulla spalla.
Hajime, invece, sembrava dare meno peso a quello che era accaduto.
«Ti stavi già allenando?» chiese, con maggiore disinvoltura.
«Sì, ho fatto riscaldamento.»
«Qualche tiro in porta?»
Mamoru non rispose subito. Guardò alle proprie spalle, ma i pali erano vuoti. Nessun bambino, nessuna voce.
Il piccolo Yuzo che indossava la stessa divisa appartenuta ad Atsushi era scomparso.
Ingoiò a vuoto e capì di aver vissuto un’altra di quelle immagini del giorno prima.
Ricordi.
Ma di chi?
«No, non ancora.»

Yuzo aveva il viso poggiato in una mano, il quaderno aperto alla stessa pagina almeno da un’ora e la matita che veniva fatta ruotare con movimenti distratti, ma sempre uguali. I suoi occhi fissavano i fogli e i kanji scritti in grafia difficilmente comprensibile ma in realtà era come se li stessero attraversando per vedere il legno del tavolino e poi il tatami su cui erano seduti.
La casa di Kenta era una piccola bolla di tradizione in mezzo a villette fin troppo moderne. Il tatami era quasi ovunque e i futon venivano ripiegati ogni mattina e riposti negli armadi dalle ante scorrevoli in attesa della sera, quando sarebbero stati stesi di nuovo. La madre di Kenta andava sempre in giro in kimono, anche quando fuori faceva quel freddo che solo un giaccone ben imbottito sarebbe riuscito a contrastare.
I suoi genitori avevano un ristorante tradizionale e questo attaccamento alla terra e alla propria cultura l’avevano preservato nello stile di vita che conducevano.
Kenta un po’ cozzava con l’ambiente in cui viveva. Grazie alla sua testa dura era riuscito a ritagliarsi un angolino tecnologico nella propria stanza, dove videogiochi e cd di certo non mancavano; così come il computer. Ma quando c’erano gli amici a trovarlo, per studiare sceglievano sempre una delle stanze che affacciavano sulla piccola engawa. D’estate era il loro luogo preferito, perché in quel punto filtrava una corrente fresca che sapeva alleggerire l’afa. Si sdraiavano sul legno, guardavano uno scorcio di cielo e parlavano, bevendo litri e litri di limonata che la madre di Kenta preparava di suo pugno.
Ma l’estate era ancora lontana e le vetrate scorrevoli che affacciavano all’esterno erano ben chiuse, mentre il giardino che in Giugno e Luglio esplodeva di colori brillanti, cicaleccio e cantare di grilli, aveva colori smorti su cui sembrava fosse calata una patina grigia, e il silenzio era rotto solo dai rumori della città, dal vento e dall’eco – forse illusoria – di tuoni lontani. Il legno dell’engawa era ancora bagnato dalla pioggia del giorno prima.
Anche lì regnava il silenzio, ma perso com’era dietro altri pensieri, Yuzo neppure si accorse che non era dettato dalla dedizione allo studio.
Kenta e Theo lo guardavano scambiandosi, di tanto in tanto, occhiate perplesse. Alla fine il capitano scosse il capo.
«E’ proprio grave il disastro che ho combinato con quelle risposte, Yuzo?» Kenta era sempre stato un gran chiacchierone che quel silenzio per lui era insopportabile.
Il tentativo sortì l’effetto sperato, perché il portiere sembrò come svegliarsi da chissà quale sogno a occhi aperti. La matita fermò il suo moto perpetuo e, nel farlo, tracciò una linea fugace sul foglio scritto.
«Ah! No! Ecco!» Yuzo guardò entrambi, leggermente in difficoltà, e poi cancellò quel segno evidente della sua continua distrazione. «Adesso li correggo subito, scusa.»
«E’ da ieri che sei così strano e taciturno. Sicuro che vada tutto bene?» Theo provò a indagare, ma tanto già sapeva quale sarebbe stata la risposta.
«Sì, certo! È che fatico a concentrarmi, devo aver preso l’influenza.» Yuzo accennò un sorriso. «Con questi continui cambi di tempo…»
«Parli come mia madre.» Kenta piegò le labbra in una smorfia e tutto quello che il portiere poté fare fu di ridere della battuta e correggere rapidamente gli esercizi prima di ripassargli il quaderno.
«Dai un’occhiata.»
Anche Theo allungò il collo mentre Kenta prendeva visione degli errori commessi, eppure sembrava titubante.
«Aspetta. Questa è sbagliata e anche questa… Kenta aveva risposto bene.» Theo intervenne per primo. Indicò un paio di kanji e stavolta rivolse al portiere uno sguardo veramente preoccupato. «Ma che diavolo ti prende? Non è da te fare di questi errori…»
«Cosa?! Ho… ho sbagliato io?!» Yuzo si fece ripassare il quaderno, mentre Theo gli spiegava gli errori… e aveva ragione. «Oh.»
«E’ proprio vero che non stai bene. Forse hai preso l’influenza sul serio.» Il capitano si allungò, toccandogli la fronte, ma non la sentì calda. «Magari è ancora all’inizio…»
A Yuzo non importava granché, continuava a fissare con espressione di palese confusione quegli errori così sciocchi che, in condizioni normali, non avrebbe mai commesso. Si sentiva frastornato e stanco, ma non di una spossatezza fisica. Per tutta la notte e poi anche durante il giorno aveva continuato a ripensare a quello che era successo il giorno prima, mentre tornava a casa. A quelle voci, a quell’incredibile istante in cui tutto si era rallentato quasi a fermarsi. Si era sentito strano, aveva avuto i brividi e una leggera sensazione di affaticamento che era passata in pochi attimi. E più ci pensava, più si convinceva che le voci che aveva udito erano la sua e quella di Mamoru. Certo, non poteva esserne sicuro al cento per cento, ma c’era quella convinzione che si era impuntata e non andava via.
E lui aveva passato ore a domandarsi quando si erano detti parole simili perché non lo ricordava e gli sembrava anche solo impossibile che potesse associare tra di loro il termine ‘amici’.
Sospirò con una certa rassegnazione e chiuse il quaderno, poggiandolo sul tavolo.
«Mi dispiace tanto, Kenta… non so proprio che dire. Forse è meglio se me ne torno a casa…»
«Traditore! E tu vorresti lasciarmi da solo con Theodore?! Sai che significa, vero?! Mi costringerà a fare in inglese anche la lezione di giapponese!»
Il capitano sghignazzò. «Ma è la conversation il segreto per imparare l’inglese! Più lo parli, più lo sai parlare!»
«E questa massima a chi l’hai fregata, sentiamo?» Kenta non ne era convinto per niente.
Anche Yuzo sorrise, ma era sicuro della propria decisione: era meglio rincasare, magari avrebbe cenato più presto e poi se ne sarebbe andato di corsa a dormire. Voleva essere in forma, domani, perché non aveva intenzione di saltare l’allenamento.
Richiuse le proprie cose nello zaino e si alzò, sentendosi un po’ in colpa verso di loro.
«Allora te ne vai?» Kenta gli mise il broncio, però era preoccupato anche lui; ben più che di fare lezione con Theo. «Ti accompagno-»
«No, ci penso io.» Theodore fu più svelto ad alzarsi. «Tu hai quegli esercizi da correggere, non provarci neppure a distrarti!»
«Ma sono il padrone di casa!»
«Come se fossimo ospiti, noi due!» Quando Theo si impuntava non ce n’era per nessuno e a Kenta non restò che capitolare.
«Prometto che se li porti al campo, domani ci darò un’occhiata più attenta e non sbaglierò.» Yuzo giunse le mani in segno di scuse.
«Se, se. E vedi di esserci, ok? Altrimenti ti veniamo a portare il brodino a casa!»
«Se è quello di tua madre, potrei rischiare di saltare l’allenamento di proposito!»
Avendo un ristorante, la madre di Kenta era un mago ai fornelli e le volte che loro erano rimasti a cena avevano finito per leccarsi anche il piatto.
Yuzo salutò un’ultima volta l’amico di sempre e si fece quasi guidare dall’altro compagno insostituibile fino alla porta di ingresso, dove si fermarono.
«C’entra quello che è successo al parco, di’ la verità.» Theo lo chiese in maniera diretta e lui non seppe se negare o assentire; non lo sapeva spiegare neppure a sé stesso, così non rispose. «Si può sapere che ti ha detto Izawa?»
«Niente, davvero. Mamoru non ha detto niente.»
«’Mamoru’?» Theo inarcò un sopracciglio e lui corresse il tiro, nel realizzare la confidenza con cui gli si era rivolto, così naturale.
«Izawa.»
L’altro annuì, ma non era convinto. Lo guardò con attenzione e occhi stretti, valutando le sue espressioni e il nervosismo che sembrava tenerlo teso come una corda di violino.
«Sicuro non ti abbia insultato?»
«Più del solito? No. Sul serio. Non abbiamo parlato, abbiamo solo…»
«Solo?»
Yuzo non sapeva come spiegarlo e forse, anche provandoci, sarebbe risultato inattendibile, quasi folle. Di sicuro visionario.
«…scambiato il pallone.»
«Mh‘kay…» Theo aprì la porta, ma lo fermò per il braccio prima che lui uscisse. «Lo sai che puoi dirmelo, se c’è qualcosa che ti preoccupa…»
Yuzo ci pensò per un attimo brevissimo, davvero tentato di confessare ogni cosa. Ma alla fine rinunciò, felice anche solo di sapere che poteva contare su di lui. Magari, nel caso le cose fossero peggiorate, avrebbe vuotato il sacco, ma al momento non se la sentiva.
Sorrise, ringraziando mentalmente ogni divinità conosciuta per avere l’amicizia di una persona come Theodore. Eppure continuava a sentire come se gli mancasse qualcosa, anche se non avrebbe saputo spiegare cosa fosse; era una sensazione che aveva da svariati anni e con cui aveva imparato a convivere non ponendosi più domande, ma rassegnandosi alla presenza di questo vuoto da qualche parte, dentro di lui, tra stomaco e gola.
«Ci vediamo domani, Capitano. Non ho intenzione di saltare l’allenamento per una stupida influenza.»
Yuzo se ne andò e attese di sentire che la porta venisse chiusa, prima di perdere la postura ritta in favore di una più incurvata. Il peso che sentiva addosso era invisibile, ma di meno lo erano i suoi effetti.
Il portiere camminò verso casa senza troppa fretta. Doveva tornare indietro e passare anche davanti alla casa di Theo, prima di raggiungere la propria. Erano in tre strade differenti, ma che conducevano l’una all’altra, con Miyamoto che si trovava giusto nel mezzo.
Mentre avanzava, Yuzo si disse che avrebbe dovuto concentrarsi di più, perché avrebbe finito col non essere in grado nemmeno di fare i propri, di compiti, se già sbagliava quelli di Kenta. E poi come avrebbe sperato di passare le qualificazioni per le Olimpiadi dell’Istruzione? No, no! Doveva concentrarsi e impegnarsi.
Eppure, mentre pensava a tutti questi buoni propositi, non riusciva a togliersi dalla testa la facilità con cui aveva chiamato Izawa per nome. Semplice come se l’avesse fatto migliaia di volte e invece ieri, nella sua camera, era stata la prima; e lui aveva immaginato anche ultima.
Non si era sentito a disagio fino a che Theo non gliel’aveva fatto notare. Quell’idiota della Nankatsu lo stava condizionando troppo, prima con l’essere il suo bersaglio preferito per anni e poi con quello che era accaduto il giorno precedente; doveva smetterla di dargli tutta quell’importanza e al diavolo anche le frasi che aveva creduto di sentire. Doveva essersi sbagliato, tutto qui.
Yuzo aveva lo sguardo rivolto ai propri piedi e per pochi istanti vide che la strada riverberava in maniera strana. Era come il riflesso che attraversava la madreperla e mostrava, nel bianco, i colori dell’iride. In un attimo l’asfalto divenne una strada a mattoni larghi e terra.
Si fermò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel riverbero che andava e veniva con la luce e col vento. Poi una musica sembrò nascere da dietro le cose, scivolava come la nebbia, e il rumore di percussioni e chiacchiericcio parevano lontanissimi da quel luogo, da Nankatsu, dal Giappone stesso.
Yuzo alzò il volto, molto lentamente, e il riflesso era sulle mura delle case mostrando architetture antiche e squadrate, fatte di terra e fango ma solide e illuminate dalle candele. La strada non era più solitaria e tranquilla, ma un mercato vivo e in festa, colorato e pieno di vita. Vita che non esisteva perché era abbigliata in un modo che non aveva mai visto; turbanti e scialli, lunghe tuniche che arrivavano alle ginocchia e in alcuni casi alle caviglie. E gente. Tanta, tantissima gente.
Appariva e scompariva e si muoveva come se lui non esistesse, come se non vedessero anche loro dei riflessi che mostravano Nankatsu.
E Nankatsu…
C’erano passanti che camminavano, giapponesi in questo caso, e a loro volta sembravano ciechi. Badavano ai propri affari e parlavano a bassa voce.
Lui vedeva, per tutti, questo e quello. La vita attuale e… la vita di un altro?
La sensazione di spossatezza e di tempo diluito erano gli stessi che aveva provato la volta precedente. Tutti si muovevano a rallentatore e il suo corpo con essi.
Poi, tra i riflessi della folla, si vide camminare con quegli strani abiti, così eleganti e stranieri. Il sorriso sulle labbra mostrava meraviglia e sembrava riempirsi di quella confusione, di quei colori e suoni. Girava il viso da una parte all’altra, quasi non avesse abbastanza occhi per poter vedere tutto e tutt’insieme.
Ma non era da solo, quel riflesso sconosciuto di sé, in mezzo a quella moltitudine.
Una mano si avvolse attorno al braccio, per attirarne l’attenzione del proprietario, e dietro un carretto che aveva fino ad allora coperto la sua visuale, ecco comparire Izawa.
Stessi abiti, una sciarpa legata in vita e un pugnale che emergeva da essa e su cui lui teneva sempre la mano appoggiata, quasi fosse pronto a sguainarlo in ogni momento. Anch’egli sorrideva, indicava una bancarella, parlava e l’altro sembrava pendere dalle sue labbra, si faceva guidare con facilità.
Facevano battute, ridevano.
Così vicini tra loro e a lui, a ogni passo che compivano.
E Yuzo poteva vederli e vedersi in loro, vedere la mano di Izawa scivolare fino a incontrare quella dell’altro sé stesso, stringerla e tirarlo via con sé.
Fu quell’incrocio di mani ad attraversarlo, quasi fosse invisibile. E forse lo era: lui non esisteva, come non esistevano loro. Non nella stessa realtà, almeno. Doveva averlo letto su qualche rivista o in internet, visto in qualche serie tv americana: la molteplicità degli universi era infinita ed esistevano tutti contemporaneamente. Ne stava forse vedendo uno?
Yuzo non ebbe la lucidità di chiederselo, sentì solo un vento caldo e odore di zenzero e curry nell’attimo in cui le loro immagini si intrecciarono e si sciolsero. Un istante minuscolo e intenso. Poi più nulla. Il riverbero scomparve, la città immaginaria con esso, e quando si volse per cercare quell’illusione che aveva appena vissuto, si ritrovò di nuovo da solo e di nuovo a Nankatsu.(4)

Mamoru sapeva che allenarsi sarebbe stato un toccasana e anche se c’era stata una piccola incertezza iniziale, quando era arrivato, per tutto il resto del tempo era riuscito a isolarsi dai problemi proprio come aveva sperato. C’era stato solo il calcio e ciò che aveva visto e sentito era stato lasciato da qualche parte, fuori dalla porta della sua mente. Nemmeno ci pensava più.
«Ok, proviamo un paio di azioni di attacco e difesa.» Il Mister Furuoya dava disposizioni da bordo campo. «Izawa, vai in attacco con Taki, Kisugi e Misaki.»
Mamoru annuì e diede un’amichevole pacca sulla spalla di Shirakawa.
«Sta’ in guardia, Atsushi, ok?»
«Sì, Mamoru.»

«Sì, Mamoru.»

Izawa si volse di scatto, all’eco familiare di quella voce, ma trovò solo il loro portiere che lo guardava con perplessità.
«Tutto a posto?»
Lui dissimulò con abilità. «Sì… hai… hai detto qualcosa?»
«Ho detto di sì, che sarei stato in guardia.»
«E nient’altro?» Era inutile che lo chiedesse a lui, perché non era la sua voce che aveva sentito sussurrare la stessa frase.
Atsushi si strinse nelle spalle e scosse il capo. «No…»
Mamoru finse un sorriso e accennò con la mano, prima di raggiungere Hajime, Teppei e Taro che lo stavano aspettando per dare il via all’esercizio. Prese un paio di respiri profondi e cercò di nuovo di chiudere fuori tutto il resto; era andato così bene fino a quel momento, dannazione!
Teppei e Taro stavano decidendo la strategia che avrebbero usato; era il secondo a parlare.
«L’azione la cominceremo io e Teppei, partiamo da centrocampo. Hajime e Mamoru ci seguiranno passo passo. Almeno fino a metà campo avversaria me li attirerò addosso, in modo da lasciarvi più liberi; poi crosserò per Teppei.»
«Avevo pensato di far concludere Mamoru, non se lo aspetteranno; penseranno che ce ne occuperemo o io o Hajime.»
Quest’ultimo annuì alle parole del compagno e aggiunse. «Si potrebbe far credere che sarò io a tirare e invece faccio sfilare il pallone per Mamoru che intercetta il passaggio e va in porta.»
Sia Taro che Teppei annuirono.
«Ovviamente, occhio alle spallate di Shingo: quello ci stende in un attimo.»
E subito volarono un paio di risatine all’osservazione, poi Taro guardò anche lui.
«Allora siamo d’accordo, Mamoru?»
«Sì, sì…»
Taro inarcò un sopracciglio. «C’è qualcosa che non ti convince?»
«No, no. Per me va bene» tagliò corto in modo che Misaki capisse di non porre domande e visto che il compagno era molto discreto, colse subito la sua tacita richiesta e non aggiunse altro; ma di certo non poté impedirgli di rivolgergli un’occhiata indagatrice.
Come organizzato, furono Taro e Teppei a partire. Kisugi appoggiò per Misaki e questi si involò destreggiandosi abilmente tra Ryo e Hanji. Si allargò sulla fascia, permettendo agli altri di avere più spazio in cui muoversi, poi crossò per Teppei e questi riuscì ad agganciare, avanzando ancora.
Mamoru cercò di concentrare ogni neurone su quello che doveva fare, sull’azione da seguire, e quando Kisugi finse di passare a Taki, riuscendo così a evitare anche Kishida, lui accelerò affiancando Hajime. Quest’ultimo lasciò scorrere, proprio come avevano deciso, e per lui fu un gioco da ragazzi intercettare e puntare alla porta, ad Atsushi, a…
«Yuzo…» Lo mormorò pianissimo, tanto che non poté essere sentito da nessun altro.
Yuzo Morisaki era di nuovo lì, tra i pali, dove l’aveva visto quando era arrivato al campo. Non vestiva più i panni del bambino delle elementari, ma era un liceale, proprio come lui, con la divisa della Nankatsu che non riuscì in nessun modo a trovare strana, sul suo corpo, anzi. Era un’immagine così familiare che fu forse l’ultima cosa a sconvolgerlo in tutto quello.
Aveva un mezzo sorriso di sfida sulle labbra e le ginocchia piegate per ricevere il tiro e tuffarsi ovunque avesse calciato.

«Se te lo paro, mi offrirai la cena al mio chiosco di ramen preferito, ci stai?»(5)

Avrebbe voluto chiedergli di che diavolo stesse parlando, ma le parole dissero tutt’altro e la cosa più assurda fu che non uscirono dalla sua bocca, anche se avevano la sua voce.

«E se sarò io a segnare, lo offrirai a me! Ci sto!»

Mamoru rallentò; tutto il mondo rallentò con lui, quasi fino a fermarsi. Il tiro partì dai suoi piedi, nonostante non fosse stato lui a calciare e Yuzo ebbe la giusta intuizione, si tuffò. La deviò. La palla non varcò mai la linea di porta ma rotolò sull’erba in un calcio d’angolo che nessuno avrebbe battuto.

«E, modestamente, ho vinto!»

Yuzo alzava le braccia al cielo, si profondeva in un paio di inchini teatrali a un pubblico inesistente e rideva.
Lui gli andò incontro per passargli rudemente il braccio attorno al collo e ridere assieme, spettinandogli i capelli.
Il bello era che Mamoru non si fosse mosso di un millimetro; eppure si riconobbe, nella maniera più assoluta.

«D’accordo, d’accordo! Ti è andata bene, stavolta! Non farla tanto lunga e andiamo! Ho una fame da lupo!»

Avrebbe replicato. Mamoru l’avrebbe fatto e stava per dire qualcosa, quando l’entrata in scivolata di Shingo lo falciò di netto, mandandolo a terra in un attimo.
Il tempo ritrovò il giusto ritmo e tutto si mosse forse addirittura troppo velocemente.
Il dolore fu sottile e pungente, ma tutto quello che disse fu un sonoro ‘ahi!’, cui si sommò anche il dolore della botta nel momento in cui cadde.
«Mamoru! Dannazione, Mamoru, scusami!» Shingo si accertò subito di non avergli fatto male. «Ti sei fermato all’improvviso e non sono riuscito a rallentare per tempo!»
Il centrocampista si mise seduto, osservandosi la caviglia: i tacchetti avevano graffiato a sangue la pelle, ma non era nulla che un po’ di disinfettante non avrebbe potuto rimediare.
«Ci sei andato pesante!»
«Buongiorno, Mamoru. Sai com’è, sono un difensore.» Takasugi prese piuttosto ironicamente la sua osservazione, mentre tutti gli altri accorrevano.
«Ma che ti è preso?» Hajime restava appoggiato alla spalla di Teppei. «Sembrava che ti fossi addormentato in mezzo al campo!»
Con tutti quegli occhi addosso e il brusio che correva di bocca in bocca, Mamoru si sentì a disagio tra loro per la prima volta in tutta la sua vita. Avrebbe voluto gridare di pensare ai propri affari, ma non lo fece. Guardò solo per un attimo in direzione della porta che trovò vuota: Atsushi era con i compagni, mentre di Yuzo e di sé stesso più nessuna traccia. Svaniti. Come quella mattina, come la sera precedente. Tutto scompariva nel consumarsi dell’attimo e alla fine restava solo lui, senza risposte ma con milioni di domande.
«Io…» si guardò attorno, non sapeva nemmeno che inventarsi e così disse la verità; almeno ‘una’ di esse. «Mi sono distratto…»
«Ti capita un po’ troppo spesso, in questi giorni.» Teppei aveva un sopracciglio inarcato e l’espressione di chi sapeva che stava cercando di nascondere qualcosa, ma prima che il discorso potesse degenerare arrivò il Mister.
«Tutto a posto, figliolo?» Accompagnato da Sanae gli si inginocchiò accanto, per controllare l’entità del danno.
«Sì, signore. Mi dispiace, è stato solo un attimo e ho perso il filo dell’azione…»
«L’ho visto. Non dimenticare che in campo bisogna essere sempre concentrati o potrebbe non andarti così bene» affermò, in tono severo ma quasi paterno. «Vai a farti medicare da Kumi e per oggi chiudiamo qui, vi ho spremuti abbastanza.»
Il Mister gli diede un colpetto sul ginocchio e si alzò. Mamoru lo imitò e mentre lasciava il campo, già dimentico della ferita, pensava solo a quello che avrebbe dovuto inventarsi con Hajime e Teppei perché se il primo sembrava più propenso a non calcare la mano, il secondo non gliel’avrebbe fatta passare sotto silenzio ancora una volta.

«E la spiegazione sarebbe? No perché me ne aspetto una, e anche piuttosto plausibile, soprattutto dopo che ti sei piantato in mezzo all’area come il bell’addormentato in piedi.»
«Eddai, Teppei…»
«Eddai un paio di palle! È da ieri che sembra su di un altro pianeta!»
Mamoru non avrebbe saputo come dirgli che ‘essere su di un altro pianeta’ era forse l’espressione che meglio riusciva ad avvicinarsi alla realtà dei fatti.
Come aveva previsto, Teppei aveva deciso di marcarlo stretto – calcisticamente parlando – e aveva aspettato che lasciassero la scuola per tornare a casa prima di introdurre – o, meglio, imporre – il discorso, per quanto Hajime cercasse di arginare e smorzare il suo tono accusatorio.
«Scusa, mi dispiace.» Era tutto quello che Mamoru potesse dire, al momento, ma il primo a rendersi conto essere troppo poco.
«Le scuse risparmiale per dopo, io voglio capire ‘perché’ e tu non mi hai ancora dato una motivazione degna di tale nome.»
Mamoru non sapeva se mandarlo al diavolo o vuotare il sacco. Scelse una terza opzione che era un semplice sbuffo rassegnato, mentre l’altro continuava.
«Cioè, ieri ci hai piantati in asso e non hai più risposto al cellulare e oggi hai l’aria di uno che sta più sulle nuvole che con i piedi per terra. Cazzo ti ha detto Morisaki, lì al parco, per ridurti così?!»
«Ehi! Io non sono ‘ridotto’ proprio in nessun modo! E Yuzo non mi ha detto un accidenti! Figurati se quello che dice può farmi effetto; non essere stupido!» Mamoru si era bloccato di scatto, puntando il dito al petto di Teppei che aveva stretto gli occhi e sollevato leggermente il mento. Un sopracciglio era scattato verso l’alto.
«E da quando è diventato ‘Yuzo’ per te?»
E tre. La terza volta che pronunciava il suo nome con una semplicità disarmante, ma non gli era mai scappato davanti agli altri.
Camuffò un certo imbarazzo girando svelto il viso e i capelli oscillarono, nascondendo le sue difficoltà.
«Da quando si chiama così, forse? Che posso farci se è il suo nome?»
«Dai, Teppei, adesso la stai facendo un po’ troppo lunga.»
Mamoru guardò Hajime quasi avesse voluto abbracciarlo lì su due piedi.
«Tutti hanno delle giornate ‘no’. Queste sono quelle di Mamoru, dagli tregua.»
«E tu chi sei? L’avvocato difensore?» Teppei incrociò le braccia, dando una leggera gomitata al compagno che sghignazzò, passandosi furbescamente il dito sotto al naso. «Se c’è un problema e Mamoru non ce lo dice, poi noi come possiamo aiutarlo?»
Alla fine anche il centrocampista stemperò l’espressione arroccata sulla difensiva in favore di una più rilassata. Diede un leggero pugno sulla spalla di Teppei e gli sorrise. Sapeva che se insistevano tanto era solo perché erano preoccupati per lui.
«Tranquillo, è come dice Hajime: sono semplici giornate ‘no’; non c’è nessun problema.»
«Mah, sarà. Però davvero sembrava che Morisaki ti avesse detto qualcosa, ieri, quando ti ha ridato il pallone, e così…»
«Parli del diavolo…» Hajime attirò l’attenzione di entrambi, puntando lo sguardo al marciapiede opposto della strada, dove c’era l’incrocio.
Yuzo stava arrivando dalla direzione opposta alla loro.
Senza volerlo, gli occhi di Mamoru gli si aggrapparono addosso e drizzò inconsciamente la schiena, quasi stesse per muoversi e raggiungerlo. Una parte di sé avrebbe voluto, anche se non aveva idea di cosa gli avrebbe detto, l’altra parte lo teneva ancora lì, assieme ai suoi amici. Già per istinto, e non solo perché lo videro anche Hajime e Teppei, seppe che quello era il ‘vero’ Morisaki, quello della sua ‘realtà’, per così dire. E a giudicare dall’espressione che aveva, anche lui sembrava ‘perso’ in tutt’altri pensieri. Distratto, proprio come lui.
Il portiere si accorse di loro nel momento in cui sollevò lo sguardo per attraversare e tirare dritto. Nell’attimo in cui i loro occhi si incontrarono, la sensazione di ‘similarità’ divenne molto più forte, tanto che Mamoru desiderò raggiungerlo. Lo desiderò così tanto che non seppe come, invece, rimase fermo. Desiderò avvicinarlo e… e parlargli. Eppure si bloccò lì dov’era e non disse nulla; negli occhi, però, non c’era la solita espressione arrogante che gli riservava a ogni occasione. A dire il vero, non seppe nemmeno lui quale stesse mostrando; vide solo Yuzo distogliere lo sguardo e attraversare in fretta e, sempre in fretta, continuare per la propria strada senza mai voltarsi indietro.




[1] e [2]: tratti direttamente dall’anime, serie classica – episodio 16.

[3]: ispirato all’universo della mia fic “Anaglyph”

[4]: riferimento alla mia fic “Maharajakumar”

[5]: ambientata nell’universo della mia fic “Il lungo sonno della Lucciola”


Nota Finale:

Adesso i ricordi iniziano a farsi molto più insistenti e vividi per i poveri Yuzo e Mamoru, tanto da fondersi alla realtà che li circonda. Iniziano a porsi domande, ma ancora non hanno modo di dare delle risposte. Però adesso scopriamo perché Mamoru ce l'abbia tanto con Yuzo.
Pronti a scoprire come le cose precipiteranno? ;)
Allora vi rimando al prossimo capitolo! :3

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Capitolo 4
*** IV - nello sparire del mondo (parte I) ***


Documento senza titolo

The Bug
-IV: nello sparire del mondo -
(parte I)

 

“La paura è una strategia
così calma e precisa.”

La cosa più difficile era stato convincere sua madre che stava bene, solo non aveva molto appetito.
Diversamente da quanto programmato, Yuzo aveva preferito saltare la cena e andarsene subito a dormire, non appena si era fatta l’ora. Incontrare Izawa per strada, leggergli quello sguardo che sembrava chiedergli ‘sta succedendo anche a te?’ gli aveva fatto passare del tutto la fame.
Per il resto del pomeriggio e a sera inoltrata, aveva svolto prima delle ricerche a computer e poi era rimasto steso sul letto a fare uno zapping disinteressato. Non ricordava nulla di ciò che aveva visto e il movimento del dito che premeva il pulsante dei canali era diventato più che altro automatico. Per lo più aveva fissato il vuoto delle immagini che scorrevano, e tra quei colori e luci e suoni gli era sembrato di vederne e sentirne altri che non gli appartenevano.
In esse, aveva rammentato le parole delle ricerche svolte.
Quante cose era stato? Quante persone diverse?
E adesso… adesso cos’era? Chi era?
E perché sembrava avere meno paura di quanta avrebbe dovuto provarne?
Quello che vedeva gli scuoteva le ossa come il vento di tempesta agitava le canne di bambù, gli faceva provare brividi sconosciuti e la sensazione di essere solo un tassello perduto in un mosaico molto più grande di lui che era stato messo nella posizione sbagliata. Percepiva come ogni vita, che fosse o meno la sua, avesse un’importanza stabilita nell’economia dell’universo, ma non riusciva a capire perché gli fosse stata donata una tale consapevolezza così grande per le sue spalle.
Non ne aveva paura, non ancora, ma sentiva come questa moltitudine di esistenze stesse divenendo sempre più ingombrante nello scorrere della sua. Non avrebbe potuto nasconderle in eterno a Kenta e a Theo.
Quando sentì bussare alla porta della camera, intorno alle dieci di sera, seppe subito che era sua madre, difatti sorrise, abbassando il volume già minimo del televisore.
«Avanti.»
Haruko(1) fece capolino prima di entrare, accompagnata da un vassoio su cui vi erano dei manju(2) caldi e una tazza di tè altrettanto fumante. Che suo figlio non mangiasse non rientrava nel manuale dell’essere mamma, per lei, e Yuzo ne sorrise con affetto.
«Un dolce spuntino?» domandò la donna, poggiando il vassoio sul comodino accanto al letto.
«Mamma… avevo detto di non avere fame…»
«Ma quella era la cena, questi sono dolcetti. Si fanno sempre eccezioni per i dolci.» Haruko sorrise, arricciando il naso con furbizia. Diede una lisciata al grembiule e occupò un angolino del letto.
Aveva un filo di cotone rosso che le si intrecciava ai capelli, di sicuro la donna non l’aveva notato, e lui decise di lasciarlo lì dov’era. La rendeva così lei, con i cotoni da sarta, le stoffe e i ditali.
«Non ti va di mangiarne uno con me?»
«Fai leva sul mio senso di colpa, questo è giocare in maniera sleale.»
«Io la chiamerei: strategia vincente.» E, sempre sorridendo, prese il piattino dei manju e glielo porse.
Yuzo capitolò e si tirò a sedere, prima di prenderne uno. Era così caldo che fu costretto ad aiutarsi con un tovagliolo per non scottarsi le dita.
«Papà è rientrato?»
«Non ancora. Ha chiamato e detto che avrebbe fatto un po’ più tardi.»
«Come ieri.»
Haruko sospirò ma non perse il sorriso. «Stanno battendo i boschi palmo a palmo per via dei bracconieri. Ha detto che li hanno disseminati di trappole. È un lavoro lungo, lo sai.»
Yuzo si strinse nelle spalle ma non seppe darle torto e in fondo ne era consapevole da solo.
Haruko mise leggermente il broncio. «Avresti preferito che fosse lui a portarti i manju, di’ la verità.»
«Mamma!»
«Quando eri piccolo cercavi molto più me che tuo padre.»
«Mamma, ti prego, ho diciassette anni!» Yuzo scosse il capo, ma stava ridendo. «Non ho più bisogno di cercarvi!»
Lei incrociò le braccia. «Potresti non dirlo in maniera così sfacciata? Mi sento ferita nei miei sentimenti di madre.»
Risero entrambi, con Haruko che gli sistemava distrattamente i capelli, anche se non avevano bisogno di ordine. Andavano bene così, ma era un modo, forse fin troppo semplice, per provare d’essergli ancora utile.
«Lo so che sei grande, ormai. Ma ricordati che ci sarò sempre, quando vorrai parlare. D’accordo?»
«Guarda che sto bene.» Come se non avesse capito dove volesse andare a parare, difatti la donna assottigliò leggermente lo sguardo.
«Sicuro? Non hai mangiato nulla… Anche ieri eri stranamente silenzioso a cena.»
Yuzo non si sottrasse alla carezza distratta di sua madre che morì lì sulla spalla, dove si fermò la mano.
«Forse ho preso l’influenza.»
«Fa’ sentire?» Haruko non perse tempo e gli poggiò le labbra contro la tempia, in quel modo tutto materno di valutare la temperatura. Yuzo non aveva mai capito come facessero, perché lui non ne era capace, mentre lei era una madre: poteva fare ogni cosa.
«Non si direbbe» fu la sentenza che già conosceva, ma stavolta Haruko non insistette; l’importante era stato fargli sapere che avrebbe potuto confidarsi in ogni momento e se, come aveva capito, non era ancora pronto per farlo, non lo avrebbe forzato. Come aveva detto: ormai era grande.
Lentamente si alzò, però lasciò lì il vassoio con i dolci e il tè.
«Ma forse è meglio se resti al caldo e ti fai una bella dormita, tesoro.»
Stavolta, Yuzo acconsentì alla proposta senza troppe proteste e Haruko decise che era il momento di ritirarsi.
Mentre la vedeva raggiungere la soglia, Yuzo si domandò se, nell’infinità di universi che lo circondava, lei fosse sempre la stessa o diversa. Se portasse quel nome o un altro, se avesse deciso di avere più di un figlio o di non averne nessuno. Se avesse comunque voluto sposare un uomo di nome Baiko(3).
Nell’aprire la porta si rese conto che in fondo non gli importava sapere chi fosse, altrove, ma che continuasse a essere sua madre, nel presente.
«Mamma…»
Haruko si volse e lo vide sollevare il manju a cui aveva appena dato un morso.
«…sono buonissimi.»

Se la notte precedente si era detto che fosse stata la peggiore degli ultimi anni, beh… Mamoru si era sbagliato, perché quella che seguì fu molto, molto peggio.
Non chiuse occhio, letteralmente, tanto anche se ci provava la situazione non si presentava differente. Sogni, continui. Con gli occhi chiusi, con gli occhi aperti. In otto ore visse più vite di quante avrebbe potuto viverne in otto anni. Si vide poliziotto sulle tracce di un killer, si vide host nel mezzo di una faida yakuza, si vide demone e vampiro, si vide guardia personale di un principe indiano e attore di musical in un futuro fantascientifico e distopico. Più volte era stato mago; e combatteva col fuoco e combatteva con l’ombra.(4) Infinite era stato migliore amico e compagno, infinite era stato amante. Aveva avuto fratelli e sorelle, aveva avuto figli. Aveva ucciso e visto morire. Aveva vendicato e difeso. E in tutto questo ‘essere’ e ‘avere’, una sola persona era stata costantemente al suo fianco: infinite volte come migliore amico e compagno, infinite volte come amante.
Sembrava che l’esistenza sua e quella di Morisaki corressero sullo stesso binario e non potessero essere separate per nessuna ragione al mondo, quasi fossero rami di uno stesso albero.
Mamoru aveva provato addosso e dentro anche la più piccola sensazione delle immagini che aveva visto, senza dire mezza parola ma fissando il soffitto come fosse lo schermo di un cinema.
All’alba si era messo a sedere, molto lentamente, con la stanchezza di migliaia di miglia percorse a piedi e migliaia di giornate vissute in maniera piena. Non si era mosso per ore, fissando un punto dello spazio e domandandosi se fosse vero o l’ennesimo ricordo. E domandandosi, anche: perché Yuzo? Perché lui?
Anche Hajime e Teppei ricorrevano per buona parte delle visioni, ma il loro rapporto era per lo più uguale a quello che avevano ora, mentre Morisaki? C’era una complessità, tra loro, che gli faceva girare la testa e radici così profonde da non vederne mai il cuore, ma solo l’intreccio complicato che le teneva avvinte assieme alla terra, agli eventi, a tutte le altre persone, ai loro sentimenti.

«Perché è il rumore dei tuoi passi che voglio sentire mentre cammino, il tuo rimprovero quando sbaglio e la tua risata quando faccio la cosa giusta. È il tuo viso che voglio vedere al mattino quando mi sveglio e la sera quando vado a dormire.»(5)

Quelle parole, Yuzo gliele aveva dette sotto una pioggia di petali di ciliegio e non riusciva a togliersele dalla testa. Così come non riusciva a liberarsi dei brividi che sentiva lungo la schiena ogni volta che ci ripensava.
Aveva ricevuto un sacco di dichiarazioni dalle ragazze della sua scuola e non solo, bigliettini sdolcinati e pieni di cuoricini, ma in nessuna si era sentito amato in maniera così totale e con una sicurezza di cui non avrebbe potuto dubitare nemmeno per un istante. Si sentiva amato nel bene e nel male, nei pregi e nei difetti e gli sembrò che non avrebbe mai più potuto credere a nessun’altra dichiarazione, sia che l’avesse ricevuta ancora nella fase dell’adolescenza, che nel pieno della maturità. Nessuno avrebbe potuto amarlo più di così e con la stessa intensità. Mamoru lo capì chiaramente anche se, a conti fatti, era ancora un ragazzino e del mondo sapeva solo quello che i suoi sedici anni volevano fargli vedere. Ma tutti quei momenti che aveva vissuto, quei sentimenti che aveva provato l’avevano reso di colpo più vecchio e più maturo di quanto fosse stato fino a un paio di giorni prima.
E forse più pazzo.
Mamoru decise di alzarsi che il sole aveva ormai raggiunto lo zenith e si rese conto solo nel momento in cui scese in cucina e vide sua madre intenta a preparare il pranzo, che il tempo era corso via.
«Alla buon’ora!» Mae sollevò ironicamente le sopracciglia nel vederlo arrivare con quell’aria stravolta e ancora assonnata. «Che ore abbiamo fatto ieri sera, giovanotto?» Aveva le mani ai fianchi e un sorriso a metà tra il rimprovero e il divertito.
Mamoru si guardò attorno leggermente spaesato. «E’… è già così tardi?» Non credeva potesse perdere l’intera mattinata rimuginando, seduto ai bordi del letto.
«Fortuna che tuo padre esce presto al mattino. Se ti avesse beccato ancora a letto a quest’ora, lo sai, no, che sarebbe successo?»
Mamoru si appoggiò allo stipite della porta, incrociando le braccia. Nonostante la stanchezza e l’aria stropicciata, l’espressione ironica era sempre con lui.
«Seh. Sarebbe piombato in stanza strimpellando quel povero shamisen(6)  e cantando ‘Takeda no Komoriuta’(7) a squarciagola.»
Mae sghignazzò. «Ho sempre amato il lato burlone di tuo padre!»
«Io un po’ meno. Ma non potevate comprarvi un altro souvenir da Kyoto? Prima o poi gli farà saltare le corde, te lo dico io.»
«Piantala di fare il cinico e siediti, pigrone. Voglio sapere che hai combinato per essere andato a dormire così tardi.»
Mamoru trascinò un po’ i piedi e si appollaiò su di uno sgabello, accanto al braccio all’americana: il tavolo era pieno di roba da mangiare e così le sedie, non aveva voglia di disturbare sua madre mentre era tanto concentrata sul suo lavoro – e poi sapeva in che modo le si rizzassero i capelli quando qualcuno le rompeva il cazzo. Erano madre e figlio, dopotutto. Si versò un bicchier d’acqua.
«Non ho fatto niente.» Che poi era vero.
«Oh, adesso si chiama ‘niente’?» Mae assottigliò lo sguardo e affilò il sorriso. Quando assumeva quell’espressione si assomigliavano molto di più di quanto avrebbe voluto ammettere. «In Transformers lo chiamavano ‘happy hour’
Mamoru sputò dappertutto, mentre lei sbottava a ridere in maniera molto poco femminile.
«Ma sei scema?!»
«Ho indovinato, di’ la verità!» Gli puntò contro l’indice dall’unghia laccata di rosso e una fettina di carota tagliata a julienne avvolta attorno alla falange. «Ok che sei in vacanza, ma non puoi passare la nottata su YouPorn
«Dannazione, mamma, la vuoi piantare?!»
Sua madre era Il Motivo per cui raramente portava amici a casa: aveva una capacità terribile di fargli fare le peggiori figure di merda della storia. Senza contare suo padre, poi! Insieme erano LETALI.
«Che c’è di male? Hai diciassette anni, è la fase in cui gli ormoni sparano come mitra!»
«Per tua informazione ne ho ancora sedici e, no, non passo la mia vita su siti come YouPorn!» Ormai Mamoru non arrossiva nemmeno più o, se lo faceva, sapeva superare l’imbarazzo con maggiore facilità.
«Come siamo permalosi.» Lei sghignazzò e tornò a preparare l’insalata che avrebbe fatto da contorno agli involtini di carne che stavano già cuocendo al vapore. Assunse un’espressione meno sfacciata e più materna, ma sempre ironica. Gli parlò fingendo un atteggiamento distratto.
«E allora? Chi è che non ti fa dormire?»
Lui ruotò gli occhi e guardò altrove.
«Perché non devo aver dormito per colpa di qualcuno?»
«Perché non mi sembra che tu stia male fisicamente.» Mae sorrise. «Mi sbaglio, forse?»
Mamoru arricciò le labbra e non rispose. Punto per sua madre.
«Non vuoi dirmi chi è?»
«Non è nessuno.»
«Mh. Sì, certo.»
Detestava il suo cazzo di ‘istinto materno’: ci prendeva sempre. Eccheccavolo!
«E’ carina?» domandò poi, dopo un attimo di silenzio e Mamoru si fregò, facendo l’osservazione che non avrebbe mai dovuto lasciarsi scappare.
«Chi ti dice che sia una femmina?»
Si pentì l’attimo dopo aver terminato la frase, proprio mentre sentì quel ‘iiiiiiiiiiiih!’ acutissimo partire da Mae che gli fece chiudere gli occhi e stringere i denti in un’espressione di pura disperazione.
«Uuuuuuun uoooooooomo!» ululò, nella perfetta imitazione di ‘Chi ha incastrato Roger Rabbit?’(8); aveva anche gli occhi a cuoricino. «Mi porterai a casa un ragazzo?!»
«Non farti strane idee, piantala!» Mamoru mise subito le mani avanti, ma questa volta non riuscì a non arrossire. «E leggi meno manga yaoi, cavolo!»
Sua madre era troppo giovanile, troppo! Ma perché lui non poteva avere una di quelle madri tradizionali, tipo la signora Ishizaki?!
«Di sicuro non è uno dei tuoi amici di calcio!»
«Ancora?!»
«Zitto e fammi riflettere!» Ormai Mae era partita nei suoi assurdi trip mentali. «Fosse stato uno di loro l’avrei già capito da un sacco di tempo.»
«Ma non potrei essere come tutti gli altri e stare con una cavolo di ragazza?!»
Mae strinse le labbra e squadrò attentamente suo figlio. Ci pensò per un attimo, poi scosse il capo. «Naaaah!»
«Povero me…»
Ovviamente, era fuori discussione accennare all’esistenza di Yuzo o sarebbe stata la fine.
Un canovaccio gli arrivò addosso, appallottolato, e sua madre che ridacchiava.
«Dai, basta scherzare e aiutami a preparare la tavola. Scommetto che sei affamato, visto che hai saltato la colazione.»
Mamoru sospirò e abbandonò lo sgabello, passandole accanto. Mae scrutò come lui l’avesse ormai superata in altezza e sorrise, ma non c’era più furbizia sul volto.
«Quanto ancora hai intenzione di crescere, ragazzino?»
«Il più possibile.» Anche Mamoru sorrise, mentre pescava le tovagliette da uno dei cassetti della cucina.
«Beh, non avere tutta ‘sta fretta. Nessuno ti corre dietro.»
Ma mentre tornava al tavolo che veniva rapidamente sgomberato, lui non ne era più così convinto.

Decise che non sarebbe rimasto in casa un minuto di più dopo aver aiutato sua madre ad apparecchiare e prima di mettersi a tavola.
Anche se la donna lo teneva impegnato in mille e più conversazioni, la sua mente si rifiutava di liberarsi del tutto, di svuotarsi o anche solo distrarsi e smettere di pensare a quello che aveva visto durante la notte. In parte, forse, era naturale, perché aveva sognato cose che difficilmente avrebbe potuto dimenticare.
Così, prima di prendere posto a tavola – che tanto per pranzo sarebbero stati solo loro due  – Mamoru mise mano al cellulare e fece una chiamata a Teppei.
«Sei già a tavola?» chiese, non appena l’amico rispose. Era andato un momento nello studio per evitare i rumori delle stoviglie.
«Mi ci stavo per mettere. Tutto ok?»
Mamoru giocherellava nervosamente con un vecchissimo sasso di forma quasi perfettamente tonda che suo padre aveva trovato sulla spiaggia di Okinawa e aveva deciso di portare con sé; ne aveva fatto il suo fermacarte preferito.
«A posto» disse, mantenendosi sul vago; non che con persone come Teppei e Hajime potesse funzionare chissà quanto, ma tentò lo stesso. «Senti, oggi non abbiamo allenamento: usciamo? Andiamoci a fare un giro in centro, al parco, in qualche cavolo di museo o dove vi pare, basta che stiamo fuori. Non ho voglia di restare a casa.»
La confusione della gente e delle macchine che passavano magari l’avrebbero aiutato a pensare di meno e a distrarsi più facilmente.
«E come mai tutta questa voglia di uscire?»
Mamoru non aveva mai pensato di potersela cavare tanto a buon mercato con Teppei; avesse voluto avere vita semplice, avrebbe telefonato ad Hajime, e forse aveva sbagliato a non farlo, ma ormai era troppo tardi. Inoltre, si era reso conto che non avrebbe potuto mentire in eterno e nascondere proprio a loro come stavano le cose.
«Diciamo che a casa non riesco a stare tranquillo come vorrei…»
«Problemi con i tuoi?»
«No, no! Figurati! Chi mai avrebbe problemi con quei due squinternati?!»
Teppei rise apertamente mentre lui prendeva un respiro più profondo.
«Più che altro vorrei parlarvi di una cosa.»
«Oh. Finalmente ti decidi a dire che diavolo ti sta succedendo? Quale miracolo.»
«Senti, non incominciare, va bene?! Anzi, vedete di non prendermi in giro, tu e Hajime, dopo che vi avrò raccontato la faccenda perché, giuro, non sono proprio in vena.»
«Scusa, hai detto io e…»
«Tu e Hajime, mi sembra ovvio. Faccio prima a dirvelo quando ci siete entrambi e poi figurati se si vuole perdere il momento. A proposito, lo avvisi tu?»
«Ma, Mamoru-»
«Ci vediamo in centro, al solito posto. E non fate tardi come sempre!»
Non diede neppure tempo al compagno di replicare che chiuse la comunicazione e tornò in cucina, dove sua madre stava appena mettendo in tavola i ravioli.

Yuzo si sentiva come uno degli zombie di ‘The Walking Dead’. Forse anche peggio.
Se non fosse stato per un certo amor proprio e contegno, avrebbe girato per strada con le braccia protese mollemente in avanti e quel vomitato ‘aaaahrrrrr’ tra le labbra. Più o meno, le sue risposte avevano lo stesso suono.
Per quanto sua madre, quella mattina, si fosse accorta perfettamente dei suoi occhi rossi e dell’aria sfatta, non aveva detto nulla. Si era già fatta avanti la sera precedente, adesso stava solo a suo figlio decidere cosa fare e, ovviamente, Yuzo aveva scelto di tacere.
Non aveva chiuso occhio, non c’era riuscito, tartassato da una marea di ricordi che lo aveva sommerso fin quasi a soffocarlo. Nell’unico momento in cui era riuscito a sopirsi, quello che aveva visto e vissuto era stato così intenso da svegliarlo di soprassalto e fargli prendere un respiro profondissimo, quasi si fosse trovato sott’acqua per troppo tempo.
La paura gli aveva artigliato le viscere forse per la prima volta da che le immagini erano cominciate, ma vivere il ricordo di venire braccati da un assassino, di sentirsi violato fin dentro l’animo e non solo nel corpo(9) era stato troppo per lui. E prima c’era stato quel ragazzino che aveva tentato di bruciargli le mani(10). Dei. Aveva creduto davvero di essere finito in uno degli incubi di Freddy Krueger, eppure, da qualche parte, quelle esperienze le aveva vissute sul serio sulla pelle, dentro il proprio spirito e non aveva la minima idea di come avesse fatto a uscirne vivo. Doveva essere fatto d’acciaio, poco ma sicuro.
Poi c’erano stati viaggi infiniti in terre che sembravano appartenere a posti lontanissimi della Terra, ma che rispondevano a nomi sconosciuti, a pianeti diversi(11).
La sensazione che aveva avuto, ovvero che i ricordi fossero divenuti più ingombranti e insistenti non era stata sbagliata. E ora come avrebbe fatto a nasconderli? A nascondere gli effetti che avevano su di lui? Non erano buoni, a giudicare dalle occhiaie che aveva visto allo specchio e alla colazione prima e poi al pranzo silenzioso che aveva consumato sotto lo sguardo preoccupato di sua madre.
Uscire di casa per andare all’allenamento gli era sembrata l’ancora di salvezza da quella giornata, ma non aveva idea di cosa avrebbe concluso, visto che faticava anche a reggersi in piedi.
E poi c’era Mamoru.
Yuzo non era stupido e quello che aveva visto e provato parlava chiaro, chiarissimo.
Tutto era collegato, tutto sembrava dipendere da loro anche se ancora gli sfuggiva il modo e il perché, sapeva solo che forse prima ancora di parlarne con Theo e Kenta, avrebbe dovuto parlarne proprio con lui.
Mamoru sapeva, Yuzo lo sentiva. Sapeva e vedeva le stesse cose che vedeva anche lui. Quelle visioni, quelle infinite vite vissute in ‘altrove’ noti e sconosciuti.
Avrebbero dovuto parlare.
Ma Yuzo non se la sentiva, non in quel momento. Era troppo stanco e forse, sotto sotto, temeva il confronto che ne sarebbe nato.
Lentamente, il portiere si fermò al semaforo, rosso per i pedoni, e sospirò, volgendo lo sguardo alla sua sinistra. Un fioraio stava sistemando dei vasi all’esterno del negozio. In uno di questi, dal gambo lungo, spuntavano decine di rose rosse.
La sola vista di quel fiore si fuse a uno dei ricordi peggiori dell’intera nottata, provocandogli un istantaneo senso di nausea e dolore alla bocca dello stomaco(12). Distolse lo sguardo, lo puntò in avanti. Allo scattare del verde riprese a camminare con una certa svogliatezza dettata dalla mancanza di sonno. Delle voci concitate e rumori di clacson interferirono con il suo quasi ‘dormire in piedi’, fecero brezza nella mente dai riflessi ovattati e lo costrinsero a voltarsi.
Aveva detto che quella non era la giornata giusta per affrontare un confronto diretto con Izawa, eppure fu proprio lui che vide precipitarsi come un pazzo attraverso la strada, con quei capelli neri che sembravano la criniera di un leone e l’espressione stravolta. Nella bocca e nell’aria che lo circondava, sovrastando i rumori delle inchiodate delle ruote mentre cercavano di non metterlo sotto, era il suo nome che stava chiamando.
«Morisaki!»

Mamoru mangiò con una certa fretta e non nelle solite quantità. In verità, di appetito ne aveva molto di meno di quanto ipotizzato da sua madre, ma non gli piaceva l’idea di rendere vano il lavoro che la donna aveva compiuto in cucina, così cercò di fare ugualmente onore alla tavola.
Tentò di passare il tempo che lo separava dall’appuntamento con i suoi amici provando a recuperare almeno una misera parte del sonno perduto durante la notte, ma non sembrava esserci verso. Si mise così a camminare per la stanza, tenendosi occupato tra le cose più futili che gli venissero in mente e alla fine decise di uscire con qualche minuto di anticipo.
«Non farai mica tardi, stasera, giovanotto?»
Gli urlò Mae nell’udire il rumore della porta di ingresso. Lui sospirò e in cuor suo non seppe che sperare: se stare fuori di casa il più tempo possibile o l’esatto contrario, tutto dipendeva da quanto sarebbe riuscito a rilassarsi nelle ore successive.
«Tranquilla, sarò a casa per cena!»
«Lo spero! E se mi porti anche il famoso ‘ragazzo’ di cui mi hai accennato, avvisami, che preparo qualcosa di speciale!»
Mamoru nascose il viso nella mano, mentre la sentiva sghignazzare senza alcun ritegno.
«Scordatelo!» rimbeccò piuttosto inacidito, prima di chiudersi la porta alle spalle e prendere la propria strada.
Il posto che avevano eletto a ‘punto di incontro’ nel corso degli anni era un angolo che affacciava su i due corsi principali di Nankatsu. Questi si incontravano in un crocevia rumorosissimo e sempre pieno di gente e clacson, a tutte le ore.
Vetrine di negozi, bar e ristoranti erano visibili in qualsiasi direzione si guardasse. In particolare, il loro angolo di incrocio, il primo in senso orario, aveva una visuale strategica sul piccolo centro commerciale dell’ultimo angolo e sull’iperstore di abbigliamento sportivo dell’angolo diametralmente opposto al loro. Il cinema, che si trovava al secondo angolo dello stesso lato, non era visibilissimo al primo colpo d’occhio, bisognava allungare un po’ il collo e mettersi sulle punte per riuscire a superare tutte le altre teste in marcia.
Sullo stesso marciapiede dove aspettavano, avevano il bar in cui finivano per rintanarsi e prendere sempre qualcosa: crepes dolci per Hajime, mochi e tè verde per Teppei, mentre lui andava a frappé. Era anche il bar dove era facile trovare quasi tutti gli studenti della Nankatsu e, secondo Hajime, il miglior osservatorio di pollastre dopo la scuola e il centro commerciale.
Mamoru arrivò con discreto anticipo e rimase appoggiato alle basse guide di metallo che proteggevano il marciapiede dalla strada, continuando a osservare la gente e prendendosi il vento freddo di Marzo.
Stranamente non pioveva, ma le nuvole nere minacciavano a ogni piè sospinto di far venire giù il finimondo. Lui si strinse nel giaccone e nella sciarpa, facendosi piacevolmente distrarre dalla gente che camminava e dai loro comportamenti. Il bambino tirava la mamma per guardare le vetrine, la coppietta passeggiava mano nella mano, l’uomo d’affari correva con la ventiquattrore e il cellulare all’orecchio, parlando con chissà chi.
Lui tirò un profondo respiro. Se avesse saputo prima che sarebbe bastato questo per riuscire ad azzittire per un po’ il continuo flusso di pensieri e immagini che gli passavano per la testa, sarebbe uscito prima e da solo, invece che costringere anche la Silver Combi a stargli dietro; soprattutto, avrebbe potuto tenere i segreti per sé ancora per un po’. Adesso, invece, gli sarebbe toccato dire la verità e non aveva la minima idea di come avrebbe fatto o anche solo da dove avrebbe cominciato; un solo frappé per spiegare tutto non sarebbe stato sufficiente.
Stava tentando per l’ennesima volta di capire cosa e come avrebbe dovuto dire quando vide arrivare Teppei, ed era da solo.
Gli venne da sorridere pensando che Hajime doveva essere stato incastrato ancora dalla madre badare ai fratelli più piccoli mentre lei era fuori a fare spese.
Teppei lo raggiunse aumentando il passo per gli ultimi metri, sollevò la mano.
«Ehi, ma sei in anticipo? Non vale! Per una volta che io arrivo puntuale!»
Mamoru si strinse nelle spalle e guardò altrove. «Non ce la facevo proprio più a stare chiuso in casa.»
«Mh…» Teppei cambiò piede d’appoggio e impensierì lo sguardo. «Deve essere proprio qualcosa di grave, non è così? L’avevo già immaginato.»
«Non so nemmeno io cosa sia in realtà. E non so nemmeno da che parte cominciare, a dire il vero.»
Teppei gli strinse la spalla con la mano inguantata e gli sorrise in maniera comprensiva. Certo, lui spesso e volentieri era quello che più infieriva quando si comportava in maniera strana, ma lo faceva per convincerlo a confidarsi e farsi aiutare: erano o no amici?
«Io direi che, per cominciare, potremmo rintanarci nel bar; ho visto che il nostro solito posto è libero!»
Teppei indicò il tavolino accanto alla vetrina che avevano eletto a ‘quartier generale’ in un giorno lontanissimo della prima media.
«Ottima idea o qua finisce che ci congeliamo anche le chiappe!»
Mamoru convenne e si sentiva molto più rilassato di prima, così si mosse, abbandonando il punto di osservazione prediletto per raggiungere il bar.
«E Hajime era di nuovo impegnato con i due pestiferi? Poi bisognerà fargli il riassunto e sappi che l’onore sarà tuo!»
In quel momento, la mano di Teppei si strinse attorno al suo braccio, fermando l’incedere dell’intero corpo.
Lentamente, Mamoru si volse e lo sguardo del compagno mostrava un’evidente difficoltà; sembrava quasi che fosse improvvisamente a disagio.
«Mamoru… ho cercato di chiedertelo anche prima, ma tu non me ne hai dato il tempo…» spostò il peso da un piede all’altro e lo sguardo in terra per alcuni istanti, poi lo rialzò e il disagio non era cambiato nel chiedere: «Chi è ‘Hajime’
Il silenzio tra di loro, quella sospensione di incredulità che era palese negli occhi di Mamoru, durò per alcuni lunghissimi secondi, prima che il centrocampista mollasse una sonora pacca sulla spalla del compagno e sbottasse a ridere.
«Buona questa! Ma come ti viene?! Non farti sentire da lui o ti fa il culo a strisce!»
«No, Mamoru, dico sul serio! Non ho idea di chi tu stia parlando!»
«Piantala, non c’è più bisogno di alleggerire la tensione: s’è già allentata abbastanza, non vedi?»
«Io non sto cercando di alleggerire niente.»
Mamoru avanzò di qualche altro passo, mentre Teppei rimaneva indietro e si portava le mani ai fianchi. Scosse il capo nell’abbassare lo sguardo e nel sospirare.
«Te lo giuro su tutti gli Dei: non so di chi parli. Non conosco nessun Hajime, Mamoru.»
Il centrocampista si fermò che all’ingresso del bar mancava una manciata di metri. Si erano piantati al centro del marciapiede e la gente scivolava loro attorno e in mezzo con mormorii infastiditi.
Un brivido lunghissimo gli graffiò la schiena per tutta la sua lunghezza: dalla base del collo, fino all’imbocco dei lombi.
Si volse, con movimenti calibrati al millimetro, e guardò con gelo il volto del compagno che tradiva palese preoccupazione.
«Mi stai prendendo per il culo?»
Teppei non rispose e la cosa iniziò a fargli montare dentro come un’onda di rabbia purissima. Un distillato che avrebbe reso ubriachi con una sola goccia, lui ce l’aveva per tutto il corpo.
In un passo gli fu davanti, faccia a faccia, occhi negli occhi e quelli di Mamoru erano enormi.
«Sì, mi stai prendendo per il culo! E io non sono in vena di scherzi stupidi, hai capito?!»
«Mamoru, te l’ho giurato! Io non ho idea di chi sia! Devi credermi!»
«Come cazzo speri ch’io ti creda se voi due siete migliori amici?! Siete la Silver Combi di Nankatsu! Per la miseria! Ci conosciamo da che andavamo all’asilo!»
Teppei strabuzzò gli occhi. «Silver… Non esiste nessuna Silver Combi! E il mio migliore amico ero sempre stato convinto che fossi tu!» Fece un passo indietro e non sapeva se essere più offeso o spaventato.
A Mamoru girava la testa e la sentiva leggera, piena d’aria, quasi fosse un palloncino. Gli sembrava quasi di parlare con un muro o con uno sconosciuto. Si portò le mani alla fronte e tirò indietro i capelli in un gesto di nervosismo.
«Ok! Basta così! Adesso la facciamo finita!» Con un gesto secco cavò il cellulare dalla tasca. «Non ho voglia né tempo da sprecare dietro scherzi del cazzo! E se quell’altro idiota ha il cellulare spento, giuro che lo vado a ripescare fin sotto casa!»
Rapidamente richiamò il numero dalla rubrica e si portò il telefono all’orecchio. Con sguardo torvo teneva sotto controllo le reazioni di Teppei, sempre immobile e dall’espressione così confusa da passare per reale. Ma non poteva essere vero, era solo uno scherzo. Uno di quelli che, ci avrebbe messo la mano sul fuoco, erano opera di quel fesso integrale di Ishiz-…
L’espressione irata e tesa si frantumò rivelandone una disorientata quando la voce elettronica gli rispose dicendo che quel numero era inesistente. Non spento o occupato. Inesistente.
Mamoru abbassò lentamente il cellulare mentre la chiamata cadeva da sola e il brivido lungo la schiena si diramava come mostro tentacolare, diffondendosi ovunque.
Teppei adesso aveva di nuovo parte della sua sicurezza nella dimostrazione che non stava mentendo.
«Non esiste, vero?» chiese caustico. «E adesso? Che mi dici?»
«Le foto!» Mamoru non si perse d’animo e dopo un attimo di smarrimento tentò di trovare una soluzione incontrovertibile. Dall’archivio del cellulare richiamò la galleria delle immagini; ricordava benissimo che ne aveva alcune dove erano tutti e tre. Le sfogliò rapidamente, quasi le sue dita fossero possedute. «Qui! Qui deve esserci! Cazzo, ve lo ho scattate io!»
A botta sicura ne aprì una e mostrò lo schermo al compagno.
«E allora?! Che cosa vedi?!»
Teppei fissò l’immagine, l’espressione non cambiò di un millimetro.
«Me.»
«Te e poi?»
«E basta. Non c’è nessun altro in quella foto, Mamoru.»
«No, non è possibile! Non-» Ma nel momento in cui il centrocampista la vide, scoprì – con orrore – che era vero. C’era solo Teppei, intento a sollevare una ciotola di ramen e sorridere. Il posto di fronte al suo, quello in cui avrebbe dovuto esserci – c’era! C’era, maledizione! – Hajime era vacante. Le parole, le invettive morirono tutte tra gola e bocca. Evaporarono come alcool puro lasciato all’aria.
«Non è… no, non è vero… C’era… Hajime… Hajime c’era, io… Eravamo tutti e tre… Siamo sempre stati tutti e tre…»
Teppei inspirò a fondo e si fece avanti. Con delicatezza gli poggiò le mani sulle spalle, mentre il compagno aveva ancora gli occhi incollati a quello schermo, quasi non esistesse nient’altro.
«Mamoru, ascoltami… è meglio se ti riaccompagno a casa. Ti rilassi, bevi qualcosa di caldo e vedrai che tutto si risolverà. Ne parliamo con tua madre e-»
«Toglimi le mani di dosso.»
Nella voce che Mamoru usò non c’era la collera avuta fino a pochi istanti prima, quella dirompente, pronta a distruggere cose e persone. C’era invece qualcosa di così freddo da gelare il mondo. E parlava con calma, scandendo bene le parole che non andarono perdute.
«C-cos-»
«Ti ho detto di togliermi le mani di dosso. Non toccarmi. Non farlo mai più.»
Quasi che una forza invisibile le staccasse a forza e di netto, Teppei gli lasciò andare le spalle nemmeno si fosse bruciato le dita e indietreggiò di un passo, inconsapevolmente.
«Ma, Mamoru…»
«E quando me ne sarò andato, non azzardarti né a seguirmi né a chiamarmi, perché io non ti risponderò. Né oggi né mai. Mi hai capito?»
Il mondo scompariva, si involveva raggomitolandosi su sé stesso come il guscio di una lumaca, e lui stava perdendo pezzi dietro di sé senza potersi fermare a raccoglierli. Non sapeva cosa stesse accadendo, dove quel susseguirsi di migliaia di vite non vissute mentre la propria veniva cancellata un tassello alla volta l’avrebbe condotto. Seppe solo che non sarebbe rimasto a vedere gli amici o le persone cui più teneva che sparivano poco alla volta; era meglio per tutti loro se gli stavano quanto più lontani possibile. Teppei era solo il primo.
Non disse altro né ci ripensò guardando l’espressione incredula e ferita del compagno di squadra. Lo superò con passo che simulava perfetto controllo e calma per i primi metri, ma quando si sentì chiamare cominciò a correre, correre più veloce che poteva. Urtò la gente e non si volse né si scusò, lasciò che gli altri passanti lo inghiottissero come fossero fauci e si nascose in esse in modo da non poter più essere visto; non si fermò se non quando si sentì ragionevolmente ‘al sicuro’.
Girò l’angolo oltre il cinema, andò ancora più lontano e sbucò, con un percorso piuttosto traverso, lungo una delle strade che portava alla zona Nord di Nankatsu e, quindi, alla Mizukoshi.
Mamoru non ci badò, si fermò contro il primo muro e prese fiato, sollevando lo sguardo al cielo. Il grigio era sopra di lui, con una coltre compatta e spessa; sembrava che niente avrebbe potuto attraversarla e che niente ci fosse oltre essa.
Hajime non esisteva.
Era scomparso dalle foto che aveva scattato in prima persona, il numero risultava addirittura inesistente e Teppei ignorava – o fingeva? – chi fosse. Ma Mamoru non poteva arrendersi così facilmente, doveva provare ancora una volta e dopo sarebbe arrivato fin sotto casa di Hajime per vedere con i suoi occhi cosa avrebbe trovato.
Sollevò il cellulare che aveva continuato a stringere per tutto il tempo e chiamò Takasugi.
«Ehilà!»
La voce di Bear era tranquilla, segno che forse Teppei non aveva ancora fatto il giro di chiamate per dire a tutti che Mamoru Izawa era completamente impazzito.
«Ehi, Shingo…»
«Tutto ok? Hai il fiato grosso.» Lo sentì ridacchiare. «Non ti sarai messo ad allenare anche oggi che era di riposo, vero?»
Lui tentennò. «Eh, sì… più o meno. Senti, hai sentito Hajime?»
«Hajime? Haijme chi?»
Mamoru avrebbe voluto mettersi a piangere. Sentì le lacrime addensarsi nella gola e restare lì, mentre lui le teneva a distanza dagli occhi. Ingoiò il groppo.
«Hajime Taki.»
«E chi è? Un nostro compagno di classe? Non ricordo nessuno con quel-»
«Tranquillo, non importa. Ci vediamo.» E non gli diede tempo di rispondere che staccò la chiamata per riprovare di nuovo al numero del diretto interessato.
«Siamo spiacenti. Questo numero è inesistente.»
«Cazzo…» Lo sibilò facendosi sfuggire una nota disperata, mentre guardava il display e l’immagine che lui aveva associato ad Hajime nella rubrica non compariva più. Non esisteva.
Settò il telefono su silenzioso, non voleva sentire nessuno e non aveva idea di cosa sarebbe accaduto quando la voce si sarebbe sparsa, fino ad arrivare alle orecchie dei suoi genitori.
L’avrebbero rinchiuso da qualche parte?
Mandato in mano a uno strizzacervelli come sua madre?
Come avrebbe potuto dimostrare l’esistenza di qualcuno che non aveva lasciato alcuna traccia su quella Terra se non attraverso i propri ricordi?
Nessuno gli avrebbe creduto. Nessuno.
E forse stava diventando pazzo sul serio. Forse era lui il problema.
Mamoru spostò lo sguardo intorno a sé per capire dove si trovasse e che strada avrebbe dovuto prendere per raggiungere casa, perché tutto quello che voleva era rinchiudersi in stanza e non uscirne più per nessun motivo.
In quel gesto distratto da tutt’altri pensieri, la figura di Morisaki venne catturata e riconosciuta in maniera subitanea. Gli occhi neri lo seguirono, borsone sulla spalla, e poi si spalancarono mentre si rendeva conto che lui, lui sarebbe stata la prova vivente che non se l’era sognato, che Hajime esisteva davvero.
Senza nemmeno guardare, Mamoru si lanciò a rotta di collo in mezzo alla strada, col rischio di venire travolto dalle auto in corsa.
«Morisaki!» gridò, con tutto il fiato che gli era rimasto. «Morisaki, aspetta! Aspetta!»
Un’auto inchiodò a un pelo dalle sue gambe, tanto che Mamoru arrivò a poggiarvi le mani sul cofano. Eppure questo non bastò a fermarlo, andò avanti, gridò ancora e, finalmente, venne udito.
«Morisaki!»
Gli fu praticamente addosso nel momento esatto in cui il portiere arrivò dall’altra parte della strada che stava attraversando – seguendo le giuste norme di educazione stradale, a differenza sua.
E la forza con cui Mamoru lo afferrò per le spalle colse il giovane talmente tanto di sorpresa da lasciarlo interdetto e incapace di reagire almeno per i primi secondi.
«Morisaki, dimmi che almeno tu… che almeno tu sai di che parlo! Tu devi conoscerlo! Devi!»
Yuzo venne travolto da quell’insieme sconnesso di parole e frasi di cui non riusciva a trovare il senso, tant’è che strinse gli occhi e tutto quello che fu in grado di dire si risolse in un’unica domanda, quasi mormorata: «Chi?»
«Hajime! Tu lo conosci, vero? Tu sai chi è, giusto?»
«Hajime?»
«Hajime Taki, tu… tu non puoi non saperlo! Per gli altri è come se non fosse mai esistito! Il suo numero non funziona più ed è scomparso da tutte le foto!»
Mamoru parlava a raffica, sembrava un fiume in piena e lo scosse, lo scosse forte un paio di volte tanto che, alla terza, Yuzo sembrò prendere finalmente coscienza di quello che stava accadendo, del fatto che il centrocampista lo stesse addirittura toccando.
«Vuoi… vuoi smetterla?! Lasciami andare!» Si liberò con uno strattone, mettendo almeno un paio di passi tra loro.
Yuzo teneva stretto il manico del borsone e guardò l’altro con attenzione: Mamoru sembrava stravolto, aveva degli occhi che parevano quelli di un indemoniato e non faceva che parlare con foga di cose che non capiva.
«Ma che diavolo ti prende? Sei impazzito?!»
«Non farmi domande idiote e rispondi alla mia, cazzo!»
«Se conosco Hajime? Che razza di domanda è?! Mi prendi in giro?!»
«No, dannazione! Rispondimi!» Mamoru era esasperato, aveva i nervi tesissimi e lui indietreggiò ancora.
«Ma perché lo vieni a domandare proprio a me, quando voi due state sempre insieme?!»
Il centrocampista sentì un enorme senso di sollievo allargarsi dentro lo stomaco fino a raggiungere ogni parte del suo corpo. Sollevò lo sguardo al cielo, ringraziando fugacemente gli Dei, e poi tornò a guardare il portiere che appariva a metà tra l’incredulo e lo spaventato. Mamoru non aveva neppure notato l’aria stanca che Yuzo sembrava portare con sé.
«Sapevo che tu mi avresti creduto! Lo sapevo! Tutti continuano a dire che non esiste, che me lo sono inventato, ma io non sono pazzo, dannazione!» Mise mano al cellulare componendo di nuovo il numero della metà scomparsa della Silver Combi. «Ascolta! Ascolta anche tu! Dice che il numero è inesistente! Devi aiutarmi! Con te posso dimostrare che non è una mia invenzione-»
«No, ascolta tu!» Yuzo alzò le mani, frapponendole tra loro come per mettere un’ulteriore e definitiva distanza. «Io non ho idea di che diavolo tu stia dicendo, ma sono stanco di essere preso di mira dai tuoi atteggiamenti da bullo, ok? Quindi lasciami in pace e stammi alla larga!»
«No! Non vai da nessuna parte, devi aiutarmi! Non posso dimostrarlo da solo!» Mamoru lo afferrò per un braccio, ma Yuzo si liberò con uno strattone, allontanandolo malamente.
«Stammi alla larga!» ripeté, scuotendo il capo, mentre tutt’attorno la gente continuava a fissarli con curiosità. «Tu sei completamente fuori di testa…»
Si scambiarono uno sguardo silenzioso senza dire niente. Yuzo si mosse piano verso la direzione che portava alla Mizukoshi, ma senza smettere di guardarlo; Mamoru, invece, mutò la propria espressione incredula in una di rabbia sottile. Strinse gli occhi e gli puntò contro l’indice.
«Tu! Tu c’entri qualcosa, non è così?» domandò piano e Yuzo si spaventò, gli volse le spalle e iniziò a camminare sempre più veloce, fino a che non si mise a correre e le parole di Mamoru restarono dietro, nella sua scia.
«Che cosa mi hai fatto, razza di bastardo?! Ti giuro che te la farò pagare, Morisaki! Mi hai sentito?! Te la faccio pagare!»
Poi un tuono fortissimo coprì il resto delle invettive e l’acqua cominciò a cadere di colpo, come un rubinetto che veniva aperto.

 

“Loro vengono nei tuoi sogni con allusioni,
loro vengono per portare una forma alla tua mente.
Tu sai come fermare questa intrusione.”

Les FrictionFirewall

 



[1] e [3]: per questo “What if?” ho deciso di mantenere i nomi e aspetto dei genitori che trovate ne “Il lungo sonno della Lucciola”; abbiamo quindi di nuovo Haruko e Baiko, per la famiglia Morisaki; Mae e Taikan per la famiglia Izawa. :33333

[2]MANJU: sono dei dolcetti buonissimi! *_* Morbido pane cinese, ripieno di crema di fagioli rossi! Si possono trovare anche in Italia, nei supermercati o negozietti alimentari cinesi: chiedete dei ‘pao’, ve ne saranno di due tipi o a formai di coniglietto e sono ripieni di vaniglia e cocco, o a forma di pallina e sono quelli con la crema di fagioli rossi (io preferisco questi secondi ai primi! :D). (Manju: *clicca qui*)

[4]: una serie infinita di riferimenti alle storie che ho scritto e alcune che, per ora, restano idee abbozzate un po’ qua e un po’ là. :D

[5]: frase tratta dalla mia fic “Elementia: The War”

[6]SHAMISEN: è uno strumento musicale a corda. :D (shamisen: *clicca qui*)

[7]TAKEDA NO KOMORIUTA: è una sorta di ninna nanna (XD ma non di certo come la canta il padre di Mamoru!!!). (per ascoltarla: *clicca qui*)

[8]: XDDDD la pazza che imitava Jessica Rabbit!!! (per vederla: *clicca qui*)

[9]: riferimento alla mia fic “Fragile: Innocent Lost” che trovate solo su Endless Field.

[10]: riferimento alla mia fic “Barabba! Barabba!”

[11]: riferimenti misti alle mie storie “Elementia” e “Maharajakumar”

[12] riferimento alla mia fic “Fragile: Innocent Lost”


NotaFinale:

Scusate! XD Ci sono un’infinità di note per questo capitolo, ma è l’unico ad averne così tante, promesso!!! :3
E fu così che le cose iniziarono a complicarsi. Non che prima andassero lisce, eh XD
Hajime è ‘scomparso’ dalla realtà corrente, come non fosse mai esistito? E’ forse l’unico? Tutto questo lo scoprirete nel prossimo capitolo e poi... e poi saranno cazzi amari XD

Grazie a tutte/i coloro che hanno deciso di leggere questa storia! :*

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Capitolo 5
*** IV - nello sparire del mondo (parte II) ***


Documento senza titolo

Nota Iniziale: aggiornamento anticipato perché domani non ci sarò per tutta la mattina e rientrerò solo a pomeriggio inoltrato :3, quindi mi porto avanti! ;)

The Bug
-IV: nello sparire del mondo -
(parte II)

 

Con l’eco della voce di Izawa che sembrava continuare a seguirlo nel mormorare della pioggia battente, Yuzo corse fino a scuola, guardandosi comunque alle spalle, di tanto in tanto. Non sapeva per cosa, di preciso, ma aveva il cuore che gli batteva a mille e non era una sensazione piacevole.
Mamoru gli era sembrato una furia. Il modo in cui si era precipitato verso di lui incurante delle macchine, il modo in cui l’aveva afferrato e il modo in cui aveva iniziato a parlare, a dire quelle assurdità, e poi il modo in cui gli aveva urlato dietro gli avevano dato proprio un’immagine folle del centrocampista che lo aveva spaventato a morte.
Per questo aveva corso senza fermarsi fino a che non aveva varcato il cancello.
Una volta al sicuro e abbastanza lontano – dopo essersi accertato di non venir seguito – Yuzo cercò sostegno nell’inferriata che costeggiava il perimetro scolastico, riprendendo fiato. Per quanto piovesse a dirotto e lui fosse fradicio si prese tutto il tempo necessario per iniziare di nuovo a respirare con calma. Con una mano si coprì gli occhi ma alzò il viso; anche il cielo sembrava essere impazzito e il cambiamento era stato così subitaneo da lasciare storditi.
Più lentamente si avviò al campo, continuando a scuotere il capo mentre ci ripensava e più riviveva quello che era accaduto, più si convinceva che Izawa e soci gli avessero voluto tirare solo un pessimo scherzo.
Bastardi idioti.
«Ehi! Eccoti! Hai visto che tempaccio improvviso?! Qua si stanno già lamentando tutti perché non vogliono allenarsi!»
Theo fu il primo ad accoglierlo una volta che fu sul campo; anche lui era fradicio, ma restava stoicamente allo scoperto, incurante delle intemperie. Gli altri temporeggiavano sotto alla pensilina.
Yuzo sospirò, lo raggiunse più adagio e fece scivolare a terra il borsone.
Theo inarcò un sopracciglio, guardandolo con sospetto.
«Ma che hai fatto? Sembra che tu abbia corso fin qui. Il che sarebbe piuttosto inutile: con questa pioggia ti saresti bagnato comunque.»
«Togli il ‘sembra’
«Eh?! Cos’è? Eri preda del Sacro Fuoco dello Sportivo Zelante? O solo dello Sciocco cui non bastava farsi il bagno fuori programma?» scherzò il capitano dandogli una leggera gomitata.
«Giuro che non indovinerai mai che mi è capitato. Ha dell’assurdo!»
Theo assunse una postura più interessata. «Racconta!»
«Ho incontrato Izawa.»
«Tsk! Cazzo voleva quel presuntuoso?! Ti ha mica infastidito?!» Theo aveva subito aizzato le spine di risentimento che aveva nei riguardi del centrocampista.
«Secondo te? Quel tizio è completamente fuori di testa! Non so se mi stesse prendendo in giro con i suoi amici o che, fatto sta che mi è piombato davanti – e per poco non lo mettevano sotto – urlando come un pazzo e chiedendomi se conoscessi Hajime Taki! Ma ti sembra normale?! A parte che ci guardavano tutti, ma ti giuro che sembrava proprio fuggito da un manicomio!»
Theo sbottò a ridere così forte che anche gli altri della squadra piano piano si fecero vicino, interessati al racconto a tal punto da decidere di affrontare la pioggia che aveva perso parte della propria intensità.
«Oddio! E tu che hai fatto?!»
«A parte dirgli di non prendermi per il culo e di farsi vedere da uno bravo? Me ne sono andato di corsa! E lui che continuava a urlarmi dietro!»
Stavolta la risata fu generale e qualcuno non mancò di commentare.
«Visto che fine fanno quelli troppo presuntuosi?»
«E’ il karma, ragazzi!»
E giù altre risate. Theo diede una pacca sulla spalla di Yuzo.
«Lascialo perdere, ti stava sicuramente prendendo in giro. E poi… chi diavolo è questo Taki?!»
Yuzo scambiò una rapida occhiata col capitano, poi sbottarono a ridere entrambi mentre camminavano verso gli spogliatoi.
«Forza, cambiati, mancavi solo tu! Voialtri iniziate il riscaldamento!» ordinò Theo, ma Yuzo rallentò fino a fermarsi. Con perplessità si guardò intorno, facendo un rapido calcolo.
«Ma no… siamo in dieci.»
«Appunto.»
«Che fai mi prendi in giro anche tu? Manca ancora una persona.»
Le sopracciglia di Theo disegnarono due archi perfetti.
«Ma che dici?»
«Non vorrei ricordarti che a calcio si gioca in undici.»
Il coro di risate, stavolta, non si alzò con lui ma contro di lui, tanto che Yuzo finì per guardarsi attorno leggermente spaesato.
«In undici?»
«Buona questa, Morisaki!»
«Cos’è, Izawa ti ha contagiato?»
«Sai che figata avere un uomo in più in campo? Sarebbe facilissimo, così!»
«E perché non due, già che ci siamo?»
Yuzo li guardava senza capire, poi scosse la testa.
«Vi siete messi d’accordo con quelli della Nankatsu? Certo che si gioca in undici!»
Theo lo prese per le spalle, guardandolo con comprensione.
«Yuzo, non avrebbe senso essere in undici. Si gioca in dieci, cifra tonda.»
«Ma che…» D’un tratto un sospetto ben peggiore lo fece voltare per guardarsi attorno e vedere chi fosse il giocatore mancante. Tra tutti non vide svettare il lungo collo della Giraffa.
La preoccupazione ridisegnò i suoi tratti.
«E dov’è Kenta?»

Quando Taikan Izawa varcò la soglia di casa, nessuno rispose al suo saluto né venne avvolto dal buon profumo di cibo, quanto piuttosto da un pessimo odore di bruciato.
«Ma che diavolo…»
Lasciò le scarpe un po’ in disordine all’ingresso e mise la ventiquattrore in un angolo, raggiungendo rapidamente la cucina, dove il brodo continuava a fuoriuscire dalla pentola e si riversava sulla fiamma pura del fornello.
«Ossantinumi!»
Senza perdere tempo spense il fuoco e tolse via la pentola, mettendola di lato. La cena, o quello che era stata, era completamente da buttare. Senza contare il porcile che erano divenuti il piano di cottura e il pavimento.
«Che disastro…» borbottò, allentando il nodo alla cravatta e appoggiando una mano al mobile. La tavola non era stata nemmeno ancora apparecchiata.
In maniera svelta si tolse la giacca, abbandonandola sulla spalliera di una sedia e tornò nel corridoio, verso l’ingresso.
«Mae? Non ti sarai mica addormentata sul divano, un’altra volta?» ma nel salotto, quando lo raggiunse, non trovò nessuno.
Poi sentì del frastuono provenire dal piano di sopra.
Taikan guardò le scale, inarcando un sopracciglio, prima di salirle. La voce ovattata di sua moglie si faceva sempre più nitida. La trovò in piedi fuori alla porta della stanza del loro unico figlio.
«Mamoru! Mamoru, apri, per favore! Non vuoi parlare nemmeno con me, tesoro?»
«Ehi. Che succede qui?»
Nel sentire la sua voce, Mae si volse palesando un chiaro senso di sollievo.
«Finalmente sei tornato!»
«La cena è da buttare, honey. Praticamente è di più quella a terra che quella rimasta nella pentola.» L’uomo sorrise, togliendo l’elastico ai capelli fermi in una bassa coda di cavallo.
«La cena è l’ultimo dei miei problemi, guarda.» Mae si portò una mano alla fronte, massaggiandola, e subito la stretta di Taikan fu attorno alle sue braccia, assieme a un tono di voce più morbido e rassicurante.
«Ehi… si può sapere che sta succedendo?»
«Non lo so, è questo il guaio! Mamoru è tornato prima di cena che sembrava una furia e si è chiuso in stanza. Non vuole uscire! Sono ore che tento di farmi aprire, ma è tutto inutile! Ti prego, provaci tu…»
Mae si fece da parte e gli lasciò campo libero. I colpi sul legno furono più decisi e meno urgenti dei suoi.
«Che ne dici di aprire questa porta, figliolo?» chiese, con calma e tono fermo, ma non di rimprovero. «Se c’è un problema possiamo parlarne attorno a un tavolo, non credi?»
«Andate via! Non voglio parlare con nessuno!»
Taikan incassò il mento con una certa sorpresa di fronte a quell’abbaiare improvviso e rabbioso. Tant’è che non replicò subito, poi bussò con maggiore decisione.
«Ehi! Vediamo di abbassare i toni, ok, giovanotto?!»
«Lasciatemi in pace, per favore!»
Taikan sospirò e si fece leggermente indietro, abbassando la voce.
«Penso sia il caso di accontentarlo, almeno per stasera. Magari domani, a mente lucida e dopo una bella dormita, sarà più calmo.» Poi scosse il capo. «Ma che diavolo gli è preso?! Fase della crescita, ti prego, passa in fretta.»
Mae scosse il capo, si era appoggiata al muro con tutta al schiena e per quanto lei poco si preoccupasse di questi sbalzi d’umore adolescenziali che il suo mestiere di psicologa scolastica le aveva fatto imparare a menadito, questa volta sembrava davvero turbata. Non era qualcosa di normale.
«Fa così da quando è tornato. Praticamente non mi ha nemmeno degnato di uno sguardo, è corso in stanza e si è barricato dentro.»
«Deve essere successo qualcosa con i suoi amici… magari hanno litigato…»
«E’ qui che arriva il bello.»
Taikan le si fece vicino, appoggiandosi contro il muro accanto a lei. Si fece più attento.
«Prima mi ha chiamato Teppei, era preoccupatissimo, mi ha detto che Mamoru ha iniziato a dire cose senza senso e a parlare di un certo Hajime Taki come se fosse una persona con cui entrambi erano cresciuti, ma quando Teppei ha detto di non avere idea di chi fosse… Mamoru ha iniziato a dare di matto. Poi è scappato via…»
«Sul serio?…» Taikan si passò le mani sul volto, quasi avesse voluto togliere tutta la stanchezza accumulata durante la lunga giornata di lavoro.
«Diceva di avere il numero di telefono di questo ragazzo, delle foto in cui erano tutti e tre insieme… ma il numero era inesistente e nelle foto non c’era traccia di nessuno tranne loro. Mamoru ha detto a Teppei di non chiamarlo mai più…»
«Che ne pensi, honey? Il castigamatti di famiglia sei tu.»
Mae scosse il capo per l’ennesima volta. «Non so che pensare, ma Mamoru era strano da questa mattina. Si è alzato tardissimo, aveva un viso così stanco… come di chi non ha chiuso occhio, ma insomma… ha sedici anni… sono cose normali alla sua età… però questo… non lo so.»
Il silenzio scese tra loro per alcuni istanti nei quali sembravano cercare le risposte che non avevano avuto.
«Aspettiamo domani» decise Taikan per entrambi. La sua mano si avvolse con sicurezza attorno alla spalla della moglie. «E vediamo che succede, ok?»
«Ok…»
Entrambi annuirono, poi tornarono a fissare il legno scuro della porta chiusa.
Fu Taikan a dare voce al quesito che ronzava nella mente di tutti e due e che forse, più di ogni altra cosa, li preoccupava.
«Chi diavolo sarà mai questo Hajime?»

Fuori pioveva. Aveva continuato a farlo per tutto il pomeriggio, seppur con minore intensità.
Al ritorno, Maeda gli aveva prestato l’ombrello e Yuzo si era risparmiato il terzo bagno, ma non era a questo che pensava nel momento in cui entrò in casa e chiuse la porta.
L’ombrello rimase chiuso, a gocciolare sul pavimento dell’ingresso mentre il borsone toccava terra con un tonfo sordo. Lui era fermo e in piedi, contro l’uscio, sembrava una statua.
Quella era stata la peggiore giornata della sua vita, una giornata da dimenticare e dovevano essersi tutti coalizzati per fargli uno scherzo epocale.
Prima Izawa, poi Theo e i suoi compagni di squadra e infine Kenta… che aveva staccato il proprio numero, ora inesistente.
Almeno, questo era che lui si era auto-convinto che fosse: uno scherzo. La burla più complessa della storia, qualcosa che avrebbe segnato la Grande Tregua tra le due scuole e non sapeva spiegarsi perché fosse stato sorteggiato proprio lui come vittima.
Scherzo era l’unica spiegazione che gli era venuta in mente per giustificare l’assurdità dei comportamenti delle persone che aveva avuto intorno: la sua squadra che giocava in dieci, Theo che diceva di non conoscere nessun Kenta, Kenta stesso che risultava irraggiungibile.

«Per gli altri è come se non fosse mai esistito! Il suo numero non funziona più ed è scomparso da tutte le foto in cui era presente!»

Quella frase di Izawa, che aveva ritenuto incomprensibile, aveva iniziato ad avere a poco a poco un suo terribile senso. E lui non aveva cercato tra le foto che aveva sul cellulare per paura di cosa avrebbe, anzi, non avrebbe visto.
Abbandonò le scarpe adagio e accese la luce, rendendosi conto solo in quel momento che era spenta.
«Sono a casa» annunciò e con movimenti lentissimi e stanchi si liberò del giaccone prima di dirigersi in salotto: era la stanza più vicina.
Il divano era giusto lì che sembrava quasi offrirgli la propria presenza a braccia aperte.
Yuzo vi si lasciò cadere a peso morto, sentendo la morbidezza dell’imbottitura accoglierlo in silenzio.
«Finirà, questa giornata… finirà…» Se lo ripeteva come un mantra affinché il solo pensiero di lasciarsi sprofondare nel sonno lo rilassasse il più possibile, ma non si rivelò un’idea utile perché l’ansia era sempre lì, ferma tra le costole e lo stomaco.
Con un guizzo improvviso, Yuzo decise che avrebbe provato a chiamare direttamente a casa di Kenta e quasi si sentì uno sciocco per non averci pensato prima. Avrebbe mandato il loro scherzo a gambe all’aria, ci potevano giurare!
Eppure, se ripensava alle facce di Theo e dei suoi compagni… tutto gli sembrava, tranne che lo stessero prendendo in giro.

«Forse ti confondi con qualche altro ragazzo, Yuzo. Io non conosco nessun Kenta…»

Si alzò di slancio, quasi avesse ritrovato un briciolo delle forze perdute, ma mentre prendeva il cordless dalla pedana, si rese conto che la casa era troppo stranamente silenziosa. E, ora che ci pensava, nessuno gli aveva risposto quando era rientrato.
«Mamma?» chiamò. «Mamma, sono a casa.»
Il silenzio perdurò e quando Yuzo si affacciò nella cucina e la trovò in perfetto ordine si convinse che non c’era nessuno.
«Deve essere uscita…» Ma gli parve strano che non l’avesse avvertito per dirgli che non sarebbe rientrata per cena. Forse aveva trovato traffico sulla via del ritorno, considerando quanto stesse piovendo.
Stava per fare la famosa chiamata quando sentì la chiave girare nella toppa.
Yuzo posò il cordless sul tavolo e andò all’ingresso.
«Eccoti! Aspetta che ti do una mano a-»
Dalla porta, però, non comparve sua madre, quanto suo padre. Yuzo si fermò a metà strada e non nascose la sorpresa nel vederlo a casa così presto.
«Maccheddiavolo! L’acqua sta venendo giù a catinelle!»
Baiko Morisaki scrollò le braccia e una miriade di gocce cadde dal tessuto impermeabile del giaccone d’ordinanza che stava indossando. Ai suoi piedi, si raccolsero in piccole pozze.
«Acc-! Dopo ci asciugo.»
Con gesti decisi tolse giaccone e cappello. La divisa della Guardia Forestale(1) comparve in perfetto ordine, seppur l’orlo dei pantaloni fosse bagnato e schizzato di fango; suo padre doveva essere nei boschi quando era iniziata la pioggia.
«Papà?» Yuzo lo osservò sfilare via la scacciacani da lavoro assieme alla fondina.
«Ehi, campione!» Baiko gli sorrise, avanzando di qualche passo. «Che faccia hai, sarò mica in ritardo?»
Il portiere strabuzzò gli occhi. «Ri-ritardo?! Casomai sei in anticipo di ore! Che fai a casa così presto?»
«Presto? Ma se è il mio solito orario!» Baiko gli mollò una pacca sulla spalla e lo superò, dirigendosi in cucina.
«Seh. In un’altra vita magari, non in questa!»
«Ah, ah. Molto spiritoso.»
Yuzo lo seguì e non poteva nascondere una certa, sottile felicità nel saperlo già di ritorno, quando di solito aveva orari che differivano in tutto e per tutto dai suoi, tanto che riuscire a trovarsi tutti insieme a tavola era un qualcosa di cui poteva godere forse solo durante le feste. D’estate, per esempio, era improponibile anche solo pensarlo.
Yuzo lo osservò con attenzione e quando lo vide armeggiare con gli stipetti della cucina, per poco non gli venne un colpo.
«Ma che hai intenzione di fare?!» esclamò, non riuscendosi a trattenere.
«Quello che faccio sempre ogni giovedì sera: cucino per te.»
«Woh! Woh! Woh! Fermo lì! Cos’è che vorresti fare?! Tu cucinare? Ma anche no, grazie! Devo ricordarti che l’ultima volta hai rischiato di dare fuoco alla casa? La mamma ha passato due ore a pulire, dicendoti che questa stanza ti era preclusa per qualsiasi attività che non fosse sederti a mangiare quello che gli altri avrebbero cucinato o per prenderti una birra!» Yuzo lo raggiunse in rapidi passi, per impedirgli di fare danni come era suo solito, quando anche solo pensava di volersi  mettere ai fornelli. Con espressione pensierosa guardò il piano cottura. Non era stato preparato nulla, significava che Haruko era uscita di casa proprio presto. «A proposito, la mamma non è ancora rientrata, aveva mica degli abiti da consegnare? Forse è il caso che provi a chiamarla al cellulare.»
«Yuzo… ma che stai dicendo?»
Il portiere si volse a incrociare lo sguardo perplesso e leggermente dubbioso di suo padre. Aveva un sopracciglio inarcato e l’aria di chi non capiva, più o meno come lui.
«In che senso?»
«Non è che ti sei ammalato? Sembri pallido…»
Yuzo si liberò dal tentativo di Baiko di toccargli la fronte e si allontanò di un passo, alzando le mani e sorridendo. «Sto benissimo, papà! Ti prego, non ti ci mettere anche tu. Oggi è stata una giornata d’inferno. Provo a sentire la mamma per vedere dov’è.»
«Ancora? Cos’è, una tattica?»
«Tattica? Che tattica?»
Adesso, Baiko non era più neppure perplesso. Sui suoi tratti era calata un’espressione piuttosto dura che ricordava di avergli visto solo quando arrivavano le telefonate delle emergenze e lui doveva lasciare tutto ciò che stava facendo per correre alla centrale.
«Avevamo fatto un discorso, tempo fa, credevo che avessimo preso una decisione.» Con un gesto secco gli vide richiudere uno stipo e portarsi la mano al fianco. «Non sono intenzionato a sposarmi, Yuzo, e mi sembrava che andasse bene anche a te. Ce la siamo sempre cavata alla grande, noi due.»
«Beh, lo credo bene che tu non sia intenzionato a sposarti, visto che lo sei già da almeno diciannove anni-»
«Adesso smettila, ok?!»
Si sarebbe quasi messo a ridere, se Baiko non gli avesse rivolto quel tono di aspro rimprovero che lo lasciò mortificato e interdetto. Seppure avesse detto qualcosa di male, lui non riusciva a capire cosa fosse.
«Ma, pap-…» Poi, un guizzo, quasi una folgorazione che gli gelò il sangue e gli fece spalancare gli occhi.

«Tutti continuano a dire che non esiste, che me lo sono inventato, ma io non sono pazzo, dannazione!»

«Dov’è?» chiese senza mezzi termini.
«Dov’è chi?»
«La mamma. Dov’è la mamma?»
«Yuzo, porca di quella miser-»
Ma lui non lo stava già più ascoltando, scappato via dopo aver afferrato il telefono che aveva abbandonato sul tavolo.
«No… no, no, no! Non lei! Non lei!» Il cuore gli batteva a mille, di nuovo, proprio come quel pomeriggio quando era stato travolto da Izawa. A mente compose il numero, mentre raggiungeva il salotto, ma le dita gli tremavano e dovette cancellarlo almeno due volte prima di riuscire a scriverlo in maniera corretta. La risposta, comunque, non cambiò da quella che si era aspettato di sentire.
«Il numero da lei chiamato è inesistente.» L’aveva saputo fin da prima di prendere il cordless, l’aveva capito subito; la stessa frase di quando aveva composto il numero di Kenta e, di sicuro, la stessa frase che aveva ricevuto anche Izawa quando aveva provato a chiamare Hajime.
«…no…»
Adesso, a tremare era anche la voce.
Baiko arrivò in fretta dall’altra stanza.
«Yuzo! Yuzo, si può sapere che diavolo ti prende?!»
Trovò suo figlio che brandiva una delle foto che avevano poste sopra la cappa del camino del salotto. La guardava come se non l’avesse mai vista e per Yuzo era davvero così, perché lei non c’era, sua madre non era presente quando invece ricordava che gli cingeva il collo con entrambe le braccia nel tenerlo più stretto a sé. Non c’era più. Come non fosse mai esistita.
«Dov’è?!» Sentì la disperazione delle lacrime stringergli la gola. «Perché è scomparsa dalle fotografie?! Perché?!»
«Non c’è mai stata nessuna madre, Yuzo! Siamo sempre stati solo io e te!»
«Stai mentendo!» Il giovane glielo gridò contro come se l’avesse tradito nella maniera più terribile e insospettabile, tanto che Baiko non seppe che replicare in un primo momento. Fece per raggiungerlo, ma la cornice gli venne lanciata addosso e lui fu costretto a proteggersi sollevando un braccio. Il vetro andò in frantumi una volta che si schiantò al suolo.
«Yu-»
«Non avvicinarti!»
E Yuzo non sapeva neppure dove andare, cosa fare, se non indietreggiare di uno, due passi. Non sapeva neppure a chi credere, visto che tutti gli mentivano: suo padre, Theo, i suoi compagni di squadra. Tutti.
Tranne uno.
«Non avvicinatevi a me! Come con Kenta, adesso anche lei… Non era uno scherzo, Mamoru aveva ragione… lui… mi stava mettendo in guardia, e io non gli ho creduto… io non gli ho… non ho avuto fiducia…»
D’un tratto l’aria sembrò mancargli dai polmoni e non importava quanti respiri facesse, questi non parevano sufficienti. Sentì la testa leggera e le gambe divenire molli sotto al suo peso, tanto che finì per trovarsi a terra, con suo padre che gli fu subito accanto, che Yuzo lo volesse o meno. Le braccia lo circondarono per sostenerlo, mentre lui rantolava e sentiva come se tutto quello che aveva dentro tra organi, ossa e sangue si comprimesse e raggruppasse all’altezza dello stomaco.
«Ehi! Ehi, figliolo! Stai calmo, stai calmo!» Baiko gli parlava con calma, cercava di fargli vedere cosa avrebbe dovuto fare. «Respira, è solo un attacco di panico, adesso passa, ma tu devi respirare. Respira a fondo, come me.» Sentì il corpo del figlio farsi pesante tra le sue braccia  e gli occhi chiudersi lentamente mentre perdeva conoscenza.

Aspettare non era mai stata una delle sue virtù più note, nemmeno da giovane, eppure non seppe come ma attese senza protestare fuori dalla stanza di Yuzo. Non si mise neppure a camminare per il corridoio, ma rimase lì, fermo. Immobile come un palo.
Si animò solo quando la porta si aprì e un uomo decisamente più basso di lui, ma pressappoco della stessa età, uscì con una valigetta.
«Toshio, allora?»
Toshio Miyamoto era medico, oltre che il padre di Theodore, e conosceva lui e Yuzo da moltissimi anni.
L’uomo aveva occhiali rotondi che provvide a sistemare meglio sul naso.
«Adesso dorme, ma ho dovuto somministrargli una dose massiccia di valium; si agitava, delirava.»
«Oddio…» Baiko nascose il viso nella mano per qualche momento. «Ma… che cos’ha? È grave?»
«Non saprei dirlo con certezza, non sembra avere nulla a livello fisico, neppure la febbre, ma mi sentirei più tranquillo dopo una visita neurologica. Qualora non dovesse spuntare nulla, allora ti posso passare il numero di un buon psicanalista: è probabile che sia una forma acuta di esaurimento nervoso.»
«Ossignore…»
Baiko non riusciva a farsene capace, mentre Toshio sollevava le spalle con una certa rassegnazione dovuta alle tante cose che aveva visto a causa della sua professione.
«Lo stress è il grande male del ventunesimo secolo.»
«E’… è forse colpa mia? È perché non ho voluto sposarmi? Forse sarebbe stata la soluzione migliore, forse Yuzo aveva davvero bisogno di una figura materna accanto… Io, poi, lavoro tutto il giorno, e-»
«Baiko, crescere un figlio non è facile e non si può mai sapere cosa può accadere durante il percorso. Da quello che ho sempre visto, sei stato un ottimo padre. Sta’ tranquillo, non è colpa tua.»
Eppure, neanche quelle parole rassicuranti riuscirono ad avere effetto su di lui che non poteva togliersi dalla testa lo sguardo di suo figlio quando gli diceva che non c’era nessuna madre, che non c’era mai stata.
«Ti accompagno…»
«No, non preoccuparti, conosco la strada. Piuttosto… tu conosci un certo Kenta? Un amico di Yuzo.»
Baiko ci pensò qualche secondo, ma dovette scuotere il capo. «No. Chi è?»
«Come per la ‘presunta’ madre, Kenta deve essere un’altra invenzione di cui è convinto dell’esistenza. Theodore mi ha detto che oggi Yuzo non faceva che parlarne. Gli era sembrato molto confuso…»
Di male in peggio e Baiko non sapeva neppure più cosa dire, sapeva solo di essere sulla strada per diventare matto anche lui.
«D’accordo… d’accordo e grazie per essere venuto.»
«Si risolverà. Tu cerca di farlo stare tranquillo, stagli vicino.»
«Sì…» Annuire era tutto ciò che fece, in quel momento. Baiko aspettò di sentire il rumore della porta di casa che veniva chiusa, prima di entrare nella camera di suo figlio.
Yuzo dormiva un profondissimo sonno artificiale indotto dai farmaci e anche se avrebbe preferito che potesse fare dei bellissimi sogni, che l’avrebbero aiutato a rilassarsi, si sentì più sicuro che non sognasse affatto, ma dormisse senza pensare a nulla; tanto i pensieri non sarebbero scappati e col nuovo giorno sarebbero stati in prima fila per essere affrontati.
Piano gli carezzò la fronte e poi gli prese la mano, osservandolo dormire.
«Andrà tutto bene, Yuzo, te lo prometto. Andrà tutto bene…»

La sua coscienza iniziò a riemergere dall’oblio in maniera lenta, come una polla sorgiva risaliva oltre la linea di superficie e iniziava a sgorgare.
Yuzo cominciò a percepire l’esistenza del mondo attorno a lui un po’ alla volta: prima i rumori di fondo, poi le sensazioni sulla pelle e infine i diversi cambi di luce oltre le palpebre chiuse.
Inspirò un paio di volte ancor prima di aprire gli occhi e addosso aveva la sensazione di aver dormito, ma di non aver sognato nulla. Nessuna immagine proveniente da ricordi non suoi né altro.
Il sorriso gli si delineò sulle labbra in maniera involontaria e il pensiero che tutto potesse tornare indietro, a quando era normale, era meraviglioso. Eppure, il solo fatto che ricordasse cosa era avvenuto rendeva amara e fasulla la realtà cui stava per tornare.
Poi, un frammento improvviso della sera precedente si fece breccia in lui con prepotenza e gli rammentò che le persone stavano scomparendo.
Gli occhi vennero spalancati di scatto e faticarono a restare aperti per più di qualche secondo. Bruciavano.
Yuzo li aprì e chiuse almeno due-tre volte, poi si sentì abbastanza sveglio e lucido per mettersi a sedere. In stanza era da solo e tutto sembrava essere a posto. Si alzò, guardò le finestre e vide le imposte ancora chiuse; solo qualche filo sottile di luce entrava tra le fenditure, nient’altro. Doveva essere già giorno fatto.
Yuzo uscì nel corridoio del piano superiore, si guardò attorno, ma non scorse nessuno né sentì alcun rumore. Pensò che suo padre doveva essere andato a lavoro e se si era fidato a lasciarlo a casa da solo, voleva dire che forse non era così grave come temeva egli stesso.
Trascinando i piedi scese al piano inferiore e si diresse direttamente in salotto.
La cornice era a terra, con il vetro rivolto al pavimento e frammenti ovunque.
Nel vederla lì, capì una volta di più che, purtroppo, quello che era accaduto non era frutto di alcun incubo, ma la realtà.
Si chinò, prese quello che rimaneva della cornice e titubò qualche istante prima di girarla. Vedere che c’erano solo lui e suo padre, in quello scatto, quando avrebbe dovuto esserci anche sua madre lo aveva fatto impazzire per un momento e mandato in panico totale, che forse non voleva ripetere l’esperienza eppure prese il coraggio che non aveva avuto a cercare le foto in cui c’era Kenta e la volse.
Il panico, per un attimo, sembrò destinato a colpire ancora, a farlo suo e a fargli rivivere l’ansia terribile della sera precedente. Eppure, questa volta, non fece nulla se non portarsi una mano alla bocca; probabilmente lo shock era stato anche maggiore.
In quella fotografia Yuzo era da solo.
Nessun padre, nessuna madre.
Solo lui che sorrideva a un obiettivo solitario e silenzioso.
Silenzioso.
Come quella casa, come l’esterno.
Troppo silenzioso.
«Mio Dio…»
Yuzo lasciò cadere la cornice e si precipitò fuori senza neppure mettersi le scarpe e il silenzio era ovunque. Non il rumore di un’auto, non il clacson di un autobus, non il verso di un uccello o abbaiare di cane. Nessun rumore. Silenzio.
«Non è possibile, questo… questo non è possibile… non è reale, sto ancora sognando.»
Senza pensarci corse di nuovo dentro casa, salì le scale a due a due e si precipitò in quella che era stata la stanza dei suoi.
Il letto c’era, i mobili anche, ma erano vuoti. Yuzo buttò all’aria i cassetti, spalancò gli armadi ma non c’era nulla al loro interno, erano solo gusci lasciati lì che nessuno aveva mai vissuto.
«Non è possibile! Non ci credo! Papà!» Ma suo padre non rispose.
Per la seconda volta corse fuori dimentico delle scarpe e di tutta quella che era stata la sua routine fino a neppure il giorno prima. Si riversò in strada, si guardò attorno come una trottola. Le villette lì accanto erano silenziose e ordinate; non vissute, vuote.
«C’è nessuno?! Qualcuno riesce a sentirmi?! Sono solo, qui?!»
E il silenzio rispose con il suo muto ‘sì’.

 

“Ognuno ascolti la chiamata alla difesa.
Ognuno deve cadere per la difesa.”

Les FrictionFirewall

 


[1]: altro momento di ‘riciclaggio-idee’. XD Per una storia non scritta, avevo ipotizzato che la famiglia Morisaki vantasse da generazioni membri all’interno del Corpo Forestale, dato anche il cognome che portano XD (Mori = Foresta).


  

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Capitolo 6
*** V - (de)frammentazione ***


The Bug - cap V

The Bug
- V: (de)frammentazione -

 

Il segreto era tutto nel non farsi prendere dal panico e, da quel punto di vista, Mamoru se la stava cavando alla grande.
Quando si era accorto che non solo in casa propria non c’era nessuno, ma anche in quelle dei vicini e per le strade, per l’intera città, aveva cercato di mantenere il sangue freddo e di ragionare con lucidità.
Anche se correndo, era tornato a casa, aveva provato a telefonare ma le linee erano risultate mute, i televisori erano muti, perfino la radio era muta; addirittura i suoi cd. Solo dopo si era accorto che nemmeno gli animali si facevano sentire: niente corvi, niente cani né gatti.
Nankatsu sembrava essere diventata la scenografia di un film; quelle città che si animavano solo quando si doveva girare la scena e poi restavano vuote, sagome di cartone di sola facciata e pilastri nel retro che le tenevano in piedi.
Era cominciato tutto quella mattina, dopo che il sonno lo aveva preso per sfinimento la sera precedente.
Ricordava sua madre che continuava a bussare alla porta, a chiedergli di lasciarla entrare e di parlare, ricordava suo padre che riusciva a fargli avere una tregua almeno per quella notte. E poi ricordava solo la musica delle cuffie che aveva cercato di attutire tutte le voci delle migliaia di ricordi che avevano continuato a ronzargli nella mente, ma qualcosa era comunque passata tra la stanchezza e la rabbia. E visto che non era stato in grado di potersi preparare, la notte lo aveva travolto con immagini terribili di ricordi strazianti, tanto che al mattino si era svegliato con le lacrime ancora negli occhi e scie umide lungo le tempie.
Si era alzato, sentendosi come svuotato, e aveva deciso che era arrivato il momento di affrontare anche i suoi genitori, ma una volta fuori dalla camera aveva scoperto che la casa era vuota. Lì, su due piedi, non ci aveva fatto troppo caso, ma quando l’occhio gli era caduto sulle fotografie che sua madre aveva messo nel corridoio aveva capito la verità. E la verità aveva avuto un effetto ancora più devastante dentro di lui.
Aveva chiamato, ma nessuno gli aveva risposto. Proprio nessuno. Aveva bussato alle porte dei vicini, ma nessuno era venuto ad aprirgli, nessuno aveva occhieggiato da dietro le tende con timore e lui si era ritrovato da solo.
Armato di bici era uscito in strada.
«Qualcuno deve essere rimasto.» Si era detto ed era l’unico pensiero che ancora riusciva a farlo rimanere lucido.
Mamoru pedalava per le strade deserte di Nankatsu che la pioggia aveva smesso di cadere, con suo sollievo. Il giorno prima c’era stato un tempo da lupi e le pozzanghere ancora restavano ai lati delle strade.
Ne prese in pieno una e l’acqua alzò schizzi che arrivarono a lambire il marciapiede. Mamoru si aspettò di sentire i gridolini delle signore ferme ad attendere l’autobus che gli dicevano di essere un maleducato, ma tutto rimase silente. L’unico rumore era quello delle pedalate e della catena della bicicletta.
Aveva oramai girato quasi tutta la città, senza alcun risultato.
I primi posti in cui si era recato erano stati casa di Hajime e casa di Teppei, e se al posto della prima aveva trovato tutt’altro edificio, la seconda era quella che ricordava, ma priva di qualsiasi occupante.
Mamoru era entrato, scavalcando il cancello, e aveva cercato di sbirciare all’interno attraverso i vetri: non aveva visto nessuno; vuota.
Aveva poi pedalato fino a scuola. Dopo la propria casa e quella dei suoi migliori amici, era il posto che più frequentava e che considerava come una casa a sé; vederla così silenziosa e deserta gli aveva fatto uno stranissimo effetto. Per tutto l’anno pullulava di studenti che andavano e venivano, che la vivevano fino al pomeriggio inoltrato con le attività dei club.
Il primo posto in cui si era recato era stato il campo del cortile. Aveva mollato la bicicletta a terra senza troppe cerimonie e aveva iniziato a camminare. La terra sottile non si era sollevata come sempre accadeva  nel suo avanzare, ma era rimasta ben attaccata al suolo, resa compatta dalle lunghe piogge.
Mamoru era entrato negli spogliatoi, la porta stranamente aperta così come aperta avrebbe trovato anche quella dell’edificio principale e tra le classi avrebbe vagato, in uno scenario da film dell’orrore.
Per alcuni, lunghissimi momenti, era rimasto seduto al proprio banco dopo aver girato l’intero perimetro e visto che non c’era nessuno. Si era seduto, aveva incrociato le mani sopra la superficie di legno e aveva fissato le proprie dita senza fare nulla. Aveva pensato, meditato sulla prossima mossa e convinto sé stesso, ancora una volta, che qualcuno, anche un’altra sola creatura, doveva esistere in quella città, che non era solo e che doveva continuare a cercare. E a non disperare.
Per questo era riuscito a non gridare fino a perdere la voce, a non picchiare la testa contro il banco e a non mandare all’aria tutto quello che si era trovato davanti.
Prima di andarsene, aveva fissato la lavagna pulita da ogni segno e l’aveva raggiunta. Con il gesso aveva scritto: ‘Mamoru Izawa è ancora qui’, qualcun altro avrebbe potuto vederlo, leggerlo e voleva che sapesse quale fosse il suo nome per non sentirsi solo, come invece si stava sentendo lui.
Le ruote della bicicletta stridettero quando Mamoru frenò. Girando, girando era arrivato nella zona Nord, dove sorgeva la Mizukoshi.
Il centrocampista rimase a guardare dall’esterno l’edificio più piccolo di quello della Nankatsu e più basso, decidendo sul da farsi.
«Tentiamo» decise infine, varcando il cancello.
La struttura principale fu la prima cosa che vide e scelse di entrare direttamente; avrebbe dato un’occhiata al cortile posteriore dall’alto di una delle finestre.
Come per la sua scuola, anche l’ingresso di questa era aperto e a Mamoru bastò semplicemente spingere sulla maniglia antipanico.
Entrare lo fece sentire un po’ a disagio. Quello, per lui, era sempre stato ‘territorio nemico’ in cui aveva giurato che non avrebbe mai messo piede; certo, vi conosceva il campo da calcio perché era stato terreno di gioco tra le loro due squadre, ma per il resto non si era mai avventurato per i corridoi.
Anche lì, comunque, le cose non sembrarono cambiare: non c’era nessuno, l’edificio era vuoto. Mentre saliva le scale per raggiungere il piano superiore, Mamoru si domandò quale fosse la classe di Morisaki.
Così, all’improvviso.
Un pensiero talmente fugace da coglierlo addirittura impreparato.
Che diavolo gli importava di quale fosse la sua classe?! Era solo colpa di Morisaki se stava succedendo tutto quello, Mamoru ne era convintissimo; tutto il mondo aveva iniziato a cambiare da quel maledetto giorno in cui avevano avuto quella specie di visione comune.
Eppure non seppe perché ma rallentò il passo mentre camminava per il piano, quello delle seconde. Come quella che frequentava Yuzo. Come quella che frequentava lui.
Mamoru avanzava adagio, guardando all’interno attraverso le piccole finestrelle delle porte. Una alla volta, il suo sguardo non vedeva che file vuote di banchi perfettamente ordinati; non c’erano sedie fuori posto né cartacce lasciate a terra. Sembrava che nessuno avesse mai usato quella struttura.
Mamoru continuò a camminare, convinto che solitario se ne sarebbe tornato così com’era venuto, poi, gli occhi catturarono una sagoma, nel momento in cui aveva ormai perso tutte le speranze. Era seduta in uno dei banchi, proprio come si era seduto lui nel proprio al Liceo Nankatsu. La figura aveva le mani intrecciate sulla superficie, lo sguardo perso verso il basso e l’aria esausta.
E seppure avrebbe dovuto stupirsi per il semplice fatto di esser finalmente riuscito a trovare qualcuno, fu capace di rimanere a bocca aperta perché quella persona non era una qualunque: era Yuzo.
Mamoru raggiunse la porta chiusa, appoggiandovi sopra le mani e continuandolo a fissare così, in silenzio e a distanza, senza riuscire a crederci, non sul momento, invece era proprio il portiere.
Le sue preghiere di non essere solo erano state ascoltate in maniera dannatamente ironica.
Quando spalancò la porta con decisione, vide Yuzo sobbalzare e levare lo sguardo su di lui. Il portiere aveva occhi rossi e tracce di pianto sulle guance.
Si riconobbe subito nell’espressione incredula e smarrita al tempo stesso.
«Lo sapevo…» sussurrò Mamoru, ma era più simile a un sibilo di rabbia. «Avrei dovuto capirlo che se avessi trovato qualcun altro non avrebbe potuto essere che te. Ci sarei dovuto arrivare!»
Yuzo lo fissava con incredulità e forse, tra i due, lui era davvero sorpreso.
«Tu… non sei sparito…»
«La cosa ti stupisce, non è così?» Mamoru avanzò con passo spavaldo, raggiungendo il banco dove l’altro rimaneva seduto; vi si piantò davanti e, da una posizione di vantaggio, torreggiò su di lui, guardandolo con odio. La rabbia prese il sopravvento sulla parte più razionale e quindi ignorò – o forse si costrinse a ignorare – le espressioni del ragazzo. «Qualcosa deve essere andata storta, Morisaki.»
«Co-come? Che vuoi dire…»
«Avanti, prova a negarlo.» Con un gesto secco sbatté le mani sul banco e avvicinò minacciosamente il viso a quello del portiere. «Che cos’è che stai architettando? Che cos’è che sei? Un mostro? Un mago? Un alieno?! Tanto lo so che questa è opera tua! E’ tutta opera tua! Che cosa mi hai fatto in quel maledetto parco?!»
«Opera… mia?»
Sentirsi accusare per Yuzo fu come la classica goccia. La sensazione di smarrimento venne messa in secondo piano, mentre dava sfogo a tutta la disperazione che aveva accumulato. Digrignò i degni, indurendo i tratti. Come una molla afferrò Mamoru per il bavero del giaccone con entrambe le mani e lo strattonò di forza, alzandosi in piedi. La sedia rovinò alle sue spalle con uno schianto che riecheggiò nel silenzio dell’intera scuola.
«E credi che se fosse stata opera mia avrei fatto sparire la mia famiglia e i miei amici?! Credi ch’io possa essere tanto stupido?! Che diavolo vuoi da me e cosa pensi di sapere, Izawa?! Non sai un cazzo, maledizione! Non sai un fottutissimo cazzo!»
«Oh! Eccola che viene fuori la tua vera faccia!» Mamoru non si sottrasse ai gesti bruschi del portiere, anzi, non riuscì a non esibire un ghigno soddisfatto nel leggere rabbia e risentimento. La sua aura da ‘bravo ragazzo’ era sempre stata solo una finzione, come aveva pensato fin dall’inizio. «Allora avevo ragione, avevo visto giusto con te! Sei ‘buono e modesto’ solo all’apparenza! Ma che bravo attore! Peccato che nessuno possa assistere allo spettacolo, sai le facce che farebbero?»
Per un attimo, Yuzo non ci vide più. Odiava quella supponenza, quella leggerezza nel giudicarlo e quella completa indifferenza a ciò che stava succedendo attorno a loro che per una frazione brevissima di secondo se ne dimenticò anche lui, desideroso solo di colpirlo e fargli sparire quel sorriso presuntuoso dalla faccia.
Caricò il pugno, gli ci sarebbe voluto un attimo per farlo smettere di ghignare, eppure, in quello stesso attimo, vide entrambi nelle posizioni invertite: lui con le spalle a un muro di mattoni, l’altro che torreggiava arrabbiato e ferito. Quello stesso pugno, che adesso era Mamoru a caricare, però non lo colpì, infrangendosi contro la pietra(1). Allo stesso modo, egli sentiva di non poter colpire Izawa.
Yuzo si fermò, nell’avvertire l’amaro delle lacrime nel palato e lungo la gola, mentre quelle che non era riuscito a ingoiare scivolavano dagli occhi.
Che stava facendo?
Cosa diavolo stava facendo?
Abbassò il pugno e lo lasciò andare.
«Non sono stato io… che tu ci creda o no. Voglio… io voglio solo… che tutto torni come prima…» Con movimenti lentissimi poggiò le mani sulla superficie del tavolo e chinò il capo. Le lacrime risentirono della gravità, scivolarono verso il naso e poi caddero, lasciando la loro traccia nella forma di una goccia. Le ginocchia si piegarono, lo portarono a terra e la fronte contro il bordo solido del banco. «Rivoglio la mia famiglia e i miei amici… Non so neppure… se stanno bene…»
Mamoru rimase immobile.
Si era aspettato che quel pugno lo colpisse in pieno e lui non l’avrebbe evitato perché… perché se lo meritava, dannazione! Aveva detto delle cose per le quali si era sentito un bastardo subito dopo averle pronunciate, e quando aveva visto la mano abbassarsi e Yuzo piangere si era sentito anche peggio.
In quella sequenza di istanti in cui l’aveva osservato ripiegarsi su se stesso, involversi, Mamoru aveva avvertito un desiderio di proteggerlo e scusarsi che non aveva mai provato prima ma che aveva sentito di riflesso nelle infinite vite che aveva vissuto e rivisto in immagini sconnesse e ricordi perduti. Avrebbe voluto abbracciarlo e dirgli quelle parole rassicuranti di cui, in fondo, sentiva anche lui il bisogno.
Ricordava di averlo fatto tantissime altre volte.
Ma quella non era una vita passata, era una presente e, nel presente, lui non era così, non avrebbe mai potuto desiderare una cosa simile. Vero?
Indietreggiò, sbattendo contro la cattedra.
«Non posso accettarlo… Tutto… tutto questo non posso accettarlo.» Scosse il capo, bramando di allontanarsi da lì, da lui e da quello che non riusciva a capire. «Non posso… non voglio… non mi appartiene.»
Eppure, dentro di sé, mentre lasciava di corsa prima la classe e poi l’intera scuola Mamoru sapeva di aver mentito su due delle ultime cose che aveva detto: una per un moto d’orgoglio e l’altra per pura paura.

Rimase in quella posizione, fermo, con la testa contro il banco, per minuti lunghissimi che non seppe quantificare.
Aveva abbandonato le mani al suolo, con i palmi rivolti verso l’alto, e tenuto gli occhi chiusi. Adesso gli bruciavano più di prima.
A uno sguardo distratto sarebbe sembrato morto per l’immobilità del suo corpo, tanto che non pareva neppure che stesse respirando e invece era ancora vivo. Vivo e vegeto. E solo.
Anche Mamoru se n’era andato e tutto ciò che gli era rimasto erano domande, troppe, e ancora nessuna risposta.
L’immobilità venne spezzata da un brivido di freddo che lo fece sussultare e stringersi nelle braccia.
Yuzo staccò la fronte dal tavolo e rimase seduto sui talloni a fissare quello che aveva perduto, mentre il cielo sembrava aver perso parte della sua luminosità nell’avanzare del giorno. Presto avrebbe fatto buio, anche se si faticava a percepire il cambiamento, con tutte quelle nubi; soffocavano il cielo e nascondevano il sole proprio come a lui continuavano a venire nascosti i motivi di tutto e cosa fosse ciò che stava vivendo.
Si era ripromesso di parlarne con Izawa, ma visto come lui se n’era andato via, Yuzo capì che non avrebbe mai potuto farlo. Non ci sarebbe stato confronto, tra loro, né chiarezza su altri interrogativi che, invece, lo seguivano da anni e anni.
Yuzo guardò fuori dalla finestra quella porzione di cielo che la occupava e si domandò cosa avrebbe potuto fare, adesso. Si sarebbe trattato solo di aspettare? O c’era dell’altro di cui non era ancora a conoscenza ma che lo stava aspettando, acquattato dietro l’angolo?
Una cosa però la sapeva, ed era che qualsiasi cosa gli sarebbe comparsa davanti avrebbe dovuto affrontarla completamente da solo. Una grande novità per lui, che aveva sempre potuto contare sui suoi migliori amici e i genitori. Adesso non avrebbe avuto nessuno per chiedere almeno un consiglio. La scelta sarebbe spettata solo ed esclusivamente a lui e Yuzo faticava un po’ con le scelte categoriche.
Sospirò, guardandosi attorno un’ultima volta, e poi si alzò, appoggiandosi proprio a quel banco che era stato il sostegno della testa appesantita da troppi pensieri.
Lasciò la scuola senza la fretta con cui l’aveva raggiunta e si incamminò verso casa.
Dove sarebbe mai potuto andare se non lì? Era l’unico rifugio a essergli rimasto, per quanto l’intera città fosse vuota e accessibile in ogni sua parte.
Si chiese dove fosse Izawa, in quel momento, e poi si ammonì da solo per essersene preoccupato: dopotutto il centrocampista era scappato via non facendo altro che accusarlo, senza neppure dargli la possibilità di spiegarsi e spiegare che si trovava nella sua stessa condizione, che non aveva fatto niente se non toccare quel maledetto pallone, quel giorno, e vedere quelle cose tanto assurde quanto reali. Proprio come lui.
Condividevano passati comuni e vivevano un disagio presente.
Chissà se anche le volte precedenti, Izawa aveva visto le stesse cose che aveva visto lui. Chissà cosa aveva pensato di alcune di esse… Immaginò che fosse andato su tutte le furie e che per questo l’aveva aggredito in quel modo, additandolo come colpevole per partito preso.
Chissà se aveva paura come lui o se fosse troppo orgoglioso per ammetterlo con qualcun che non fosse sé stesso.
Incredibilmente, un sorriso fece capolino sulle labbra di Yuzo quando si rese conto di sapere benissimo la risposta a quel dubbio e ignorò lo strano brivido che sentì nel capire di aver imparato a conoscere Izawa più di quanto conoscesse sé stesso. Lo faceva sentire parte viva e fondamentale di un qualcosa cui temeva di dare un nome perché dopo avrebbe dovuto rivedere e cancellare ben più di metà delle convinzioni con cui aveva vissuto per anni e anni; credeva sarebbero durate per sempre, travi portanti di una struttura che avrebbe costruito un po’ alla volta, giorno per giorno. Ora erano arrivate le visioni e tutto era stato smontato nel tempo di attimi e sogni e incubi e ogni cosa era tornata a unirsi alla terra: spettava a lui scegliere quali sarebbero state le nuove travi su cui avrebbe edificato la sua nuova direzione.
Una volta, in un passato o futuro o realtà contemporanea, il centrocampista gli aveva detto una frase che gli aveva messo dei brividi incredibili sotto la pelle. E lui, che era rimasto lì ad ascoltarla dalla sua voce, si era sentito così emozionato da essere arrossito e aver pensato che nessuno avrebbe mai potuto dirgli qualcosa di più bello. Aveva pensato che lo Yuzo di quel ricordo e di quella realtà fosse molto fortunato ad avere una persona così accanto a sé. Ed era incredibile – almeno per lui – pensare che fosse proprio Mamoru. Poi aveva sorriso e il ricordo era svanito, ma quelle parole aveva capito che non avrebbe mai potuto dimenticarle.
Yuzo si strinse nelle spalle, mentre teneva le mani nascoste nelle tasche dei jeans e si guardava intorno senza riuscire a non rimanere spaesato da tutto quel silenzio. Nemmeno il vento sembrava fare rumore.
Infine, qualcosa lo sentì, e non fu solo a livello uditivo, con quel rombo sottile che sembrava provenire da lontano, ma fu anche nei piedi che avvertirono vibrazioni sempre più forti tanto che i vetri delle abitazioni presero a tremare.
Yuzo faceva vagare lo sguardo ovunque, pensando che il terremoto avesse deciso di fare una capatina alla loro città nel momento peggiore possibile. Poi, la polvere e la terra si alzarono, oltre i tetti di case lontane, come pennacchi sbuffati dallo sfiatatoio di una balena. Yuzo rimase a fissarli con incredulità fino a che non si accorse che seguivano una linea retta ben precisa che li rendeva sempre più nitidi e grandi ai suoi occhi.
Nel momento in cui l’edificio subito dietro a quello che aveva davanti prese a crollare con un enorme boato, Yuzo si volse e iniziò a correre.

Aveva pedalato velocissimamente, col rischio di andarsi a schiantare a ogni curva, per un certo tratto, poi aveva sentito le gambe così pesanti che aveva rallentato al punto di fermarsi del tutto e proseguire a piedi, portando a mano la bicicletta.
Tornare a casa era stato quasi automatico, tanto non avrebbe saputo dove altro andare. Casa, per quanto fossero ormai solo mura senza personalità né storia, era quanto di più vicino alla normalità potesse avere e, almeno per il momento, si sarebbe rintanato lì. Sarebbe stato al sicuro, o almeno lo credeva. Poi avrebbe deciso, anche se non sapeva neppure su cosa avrebbe dovuto prendere una decisione, di preciso.
Mamoru rientrò dopo aver lasciato la bici appoggiata accanto al muro di casa. Chiuse la porta alle proprie spalle e si trascinò fino al salotto, gettandosi in poltrona. Con la testa rivolta verso l’alto inspirò a fondo sperando di sentire il profumo di suo padre, di cui quella poltrona era sempre stata impregnata, visto che era la sua preferita.
Non sentì niente, non c’erano odori nell’aria quasi questa fosse asetticamente pulita come quella di una camera sterile.
Mamoru affondò il viso in una mano e si domandò se avesse fatto bene a lasciare Yuzo da solo.
In parole povere, lui era fuggito e l’aveva lasciato indietro, quando sarebbe stato più saggio restare uniti ora che erano rimasti solo loro due. Condividevano una condizione comune priva di senso, ma non aveva saputo fare altro che scappare non appena aveva capito che avrebbe dovuto avvicinarsi e stabilire un contatto, toccarlo. La prima volta che l’aveva fatto non ci aveva dato peso, preso com’era stato dalla sparizione di Hajime, però lo ricordava, l’aveva razionalizzato solo in seguito. E adesso che era stato Yuzo a toccarlo, strattonandolo in quel modo, non aveva potuto non sentire quella familiarità nei gesti e nelle mani del ragazzo.
Quante volte aveva vissuto quella sensazione nei ricordi che l’avevano tartassato giorno e notte?
C’era un motivo se lui si era ostinato a dire che non voleva accettare quella condizione, anzi, i motivi erano più di uno e avrebbe fatto prima a chiarirli a sé stesso con una certa lucidità o non sarebbe andato avanti molto facilmente.
Mamoru sollevò di nuovo il viso per guardare il soffitto di un tenue color paglia. Aprì la bocca e inspirò a fondo, stringendo la pelle dei braccioli.
Non c’era mai un legame qualsiasi, tra loro, ma sempre così stretto da sembrare un cappio e così profondo da ricordare l’oceano. Che fossero amici, che fossero amanti, quello che si creava non era possibile da spiegare; non c’erano abbastanza parole, non esistevano termini di paragone che potessero anche solo avvicinarsi. Era come avere il cuore composto, equamente, da una sua metà e da una di Yuzo; si scambiavano il sangue, concorrevano a formare un solo battito. E quando aveva visto e provato il modo in cui facevano sesso anche tutto il resto del corpo veniva equamente diviso tra loro due, come se insieme potessero formare un solo individuo.
Perché loro facevano sesso, e l’avevano fatto così tante volte che anche solo la metà gli sarebbe bastata per una vita intera. E lo facevano in una maniera così totale che non avrebbe potuto dimenticarlo nemmeno se avesse voluto, perché era bellissimo. Talmente bello da essere l’Ottava Meraviglia del mondo, per lui. La comprensione era istantanea e l’eventuale inesperienza non era mai un ostacolo ma uno stimolo.
Nella sua vita attuale, lui non aveva ancora fatto sesso con nessuno e con una madre come la sua, che gli diceva sempre di non sforzarsi a crescere troppo in fretta ma di rispettare i ritmi del proprio corpo, Mamoru aveva sempre preso seriamente la faccenda. I suoi ormoni si facevano sentire anche troppo bene, aveva un sacco di ragazze che gli ronzavano attorno e che gli si sarebbero concesse con gioia, ma lui si era imposto di non buttare tutto all’aria solo perché c’erano pulsioni ed esigenze che gli urlavano di essere soddisfatte. Anche se sua madre ci scherzava su e lui aveva sempre minimizzato la cosa, YouPorn era stata la soluzione migliore per tenerle a bada. Aveva sempre immaginato che la sua prima volta dovesse essere un momento importante da vivere e far vivere bene; qualcosa che, seppure non sarebbe stata il massimo, avrebbe dovuto lasciare un sorriso, dopo, e pensare che la volta successiva sarebbe andata sicuramente meglio; sarebbe cresciuto assieme alla sua partner.
Ecco, un’altra cosa che aveva sempre pensato, era che l’avrebbe fatto con una donna. Forse per orgoglio nei confronti di sua madre, fujoshi convinta.
Invece, da quando aveva visto e vissuto il sesso con Yuzo, sulla pelle di un altro sé stesso, aveva capito, con un certo dolore, che nessun altro avrebbe potuto eguagliarlo, che non ci sarebbe stata donna o uomo con cui avrebbe potuto essere simile anche solo alla lontana.
La cosa più incredibile era che avesse sentito questa stessa presa di coscienza anche in tutte le altre sue esistenze; e quelle in cui alla fine aveva scelto di stare con una donna provavano lo stesso appagamento nel sentimento di amicizia che li legava al portiere, nella comprensione spirituale e nelle esperienze vissute assieme.
Ma nella realtà che stava vivendo, il secondo caso non era il suo.
Lo aveva capito subito, quando l’eccitazione l’aveva lasciato boccheggiante nel letto e con gli occhi spalancati nella notte, incapace di prendere sonno. Aveva passato la nottata in bianco per questo motivo, per rimanere a fissare, affascinato e sedotto, i meravigliosi universi che erano in grado di creare anche solo nel semplice tocco della mano dell’uno che scivolava sul corpo dell’altro.
L’altro motivo per cui non voleva avvicinarsi troppo a Yuzo era per il dolore e solo una volta, nei ricordi delle mille vite, l’aveva provato in maniera così profonda da rendere polvere il suo cuore. Quella notte aveva pianto e al mattino – lo stesso mattino in cui aveva trovato il niente ad attenderlo – aveva avuto ancora le lacrime a rendere lucidi i suoi occhi.
Aveva capito che ‘amore’ e ‘dolore’ erano come fratelli siamesi che non si potevano scindere: accettavi l’uno ed era come aver accettato anche l’altro automaticamente. E lui aveva una paura fottuta di entrambi.
Infine, c’era quella specie di ‘forza cosmica’ che aveva messo sia lui che Yuzo in quella situazione, perché lo sapeva già da solo che la colpa non era del portiere, e non sapeva perché, non sapeva quale fosse il suo scopo, non sapeva che fine avesse fatto fare a tutti gli altri. Non sapeva chi avesse mosso la mano e se ci fosse davvero la mano di qualcuno dietro. Anche questo gli faceva paura, dopotutto.
Mamoru sospirò facendo uscire tutta l’aria accumulata nel respiro attraverso la bocca, in maniera lenta. Allentò la presa sui braccioli della poltrona e si rilassò, lasciando che la pelle del rivestimento lo avvolgesse in maniera protettiva.
Essere sincero con sé stesso, almeno in parte, l’aveva reso più lucido, questo Mamoru dovette ammetterlo e gli venne da sorridere nel pensare che sua madre sarebbe stata fiera di lui.
Chissà dov’era, adesso… Sperò che stesse psicanalizzando la testa di cazzo che aveva messo in piedi quell’enorme spettacolo e gli stesse rompendo le palle così tanto, da farlo pentire costantemente di aver piantato un simile casino proprio a lui sulla faccia della Terra.
Poi, con la mente, il suo pensiero tornò a Yuzo. Riusciva ad allontanarsene solo per poco, ed era una cosa che faticava a digerire.
Non sapeva che fare con lui. Non sapeva se tornare alla scuola e provare a parlarci con calma, senza che si aggredissero a vicenda, oppure lasciare perdere e mettersi in viaggio per cercare l’eventuale presenza di qualcun altro, anche se una parte di lui sembrava sapere che non avrebbe trovato nessuno e che l’unica persona che avrebbe dovuto raggiungere l’aveva abbandonata solo un’ora prima.
Sì, aveva fatto un errore.
Mamoru lo ammise con una certa stizza e fece per alzarsi, quando il tremare della terra lo costrinse a sedersi di nuovo.
«Il terremoto?» si disse, guardandosi attorno. Eppure non sembrava un sisma qualunque, e lui nella vita ne aveva sentiti tantissimi, fin da bambino. Questo non gli dava le stesse sensazioni e sembrava arrivare da lontano.
I ninnoli più piccoli e leggeri iniziarono a cadere dai mobili e dalle mensole, quelli di vetro si infransero, le cornici oscillarono perdendo l’equilibrio che le voleva ben centrate mentre erano appese al muro. Alcune caddero.
Mamoru non si mosse, ma i suoi occhi seguitarono a sezionare svelti tutto il campo visivo che avevano fino a che la crepa nel muro non si aprì con un sonoro ‘crack’ e in un attimo divenne squarcio, mentre il soffitto iniziava a cadere.
Il giovane schizzò via dalla poltrona e si lanciò verso l’uscita di casa.
La bicicletta era stata fagocitata da una voragine che avrebbe inghiottito un furgone intero e lui si ritrovò a dover correre, scavalcare il cancello e gettarsi in strada mentre la casa, alle sue spalle, scompariva, crollando in un cumulo di macerie.
Quando si sentì abbastanza al sicuro, Mamoru si volse. Il volto tradiva tutta la confusione per quello che stava accadendo e tutto il suo dolore nello scorgere, tra il diradarsi della polvere, che nulla era rimasto in piedi e che tutti i suoi ricordi, adesso, erano sotto un enorme ammasso di lamiere e pietra e cemento.
Distrutta. La sua casa. In un attimo.
La bocca di Mamoru si aprì, tremante, nel tentativo di poter dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non uscì alcun suono. Era accaduto così in fretta che non aveva potuto portare nulla via con sé. E, in fondo, cosa avrebbe dovuto portare? Nelle foto i suoi genitori non comparivano nemmeno più e il cellulare gli era completamente inutile.
Eppure, continuava a sentire, forte, un terribile senso di impotenza contro cui non avrebbe mai potuto vincere.
Ad ogni modo, non ebbe neppure il tempo di versare qualche lacrima, perché il tremore ricominciò e, come animata di vita propria, una frattura si diramò da sotto le macerie puntando dritta verso di lui. Mamoru la fissò con occhi enormi per alcuni istanti, prima di girarsi e tornare a correre più veloce che poteva. Si sentì in dovere di ringraziare il suo fisico da atleta, in quel momento.
Mamoru scelse la via che conduceva al centro, nemmeno seppe perché, ma si ritrovò a dover cambiare il percorso quando si trovò il passo sbarrato da altre macerie e altri crolli. Voragini come quella che lo inseguiva dovevano essere già passate e quello era il segno che avevano lasciato. L’edificio della rete televisiva locale era crollato, riversandosi di lato sugli edifici dall’altra parte della strada e la polvere formava coltri che gli pizzicavano occhi e narici. Tossì, nell’imbucarsi in una stradina laterale.
Il rombo dietro i propri passi gli fece capire che la crepa era ancora nella sua scia.
Provò a girarsi per esserne sicuro e riuscì a coglierla, nera e fulminea, con la coda dell’occhio prima che urtasse contro un bidone e perdesse l’equilibrio. Rotolò a terra in un coro di metallo e rombare di terra. Nel mondo che si capovolgeva più e più volte gli sembrò di sentire come una risata provenire da quella frattura, e quando fu di nuovo in grado di vedere tutto dalla giusta prospettiva la scorse con agghiacciante nitidezza arrivare dritta su di lui.
Mamoru ebbe solo la prontezza di riflessi di rotolare su un fianco per non esserne inghiottito, mentre questa tagliava oltre per poi divenire così sottile da sparire, lasciando dietro di sé solo una scia infinita di distruzione e fuoco. La città bruciava, Mamoru, ancora a terra, ne vedeva le lingue arancioni e rosse alzarsi alte verso il cielo e sfumare nel fumo nero e denso che puzzava di plastica e benzina.
Rimase senza fiato e non solo per l’affanno della corsa o per la paura, ma perché non avrebbe mai pensato di assistere a uno spettacolo simile, nemmeno nei suoi incubi peggiori.
Eppure, fu nel sentire sotto tutto il corpo, ancora a terra, che quest’ultima stava ancora tremando, che si rese conto che non era finita.
Più velocemente che poté, Mamoru si tirò su e lasciò la strada appiattendosi contro il muro dell’edificio alle sue spalle e seguendo il poco di marciapiede che ancora restava in piedi e costeggiava la frattura.
Sbucò che era nei pressi del fiume, ne riconobbe lo scorrere sempre uguale nonostante quello che stava invece succedendo a Nankatsu. Scese per la strada che portava al declivio lungo le sue sponde e prese ad avanzare, guardandosi attorno. Il tremore era ancora distante, ma lo sentiva farsi sempre più forte, doveva stare attento.
Poi sentì un’esplosione e vide la fiammata creare un piccolo fungo mentre si alzava oltre gli edifici. L’acqua zampillò dalle tubature rotte e poi la polvere. Creavano come una scia, un percorso.
Mamoru capì che si stava muovendo in quella direzione e che presto sarebbe sbucato sul fiume, non troppo lontano da dove si trovava lui. Si fermò lì dov’era e attese. Per un attimo, l’immaginò cambiare direzione e puntarlo di nuovo, invece, questa volta non era lui il bersaglio.
Scorse la figura di Morisaki correre tra due edifici e questi crollare poco dopo alle sue spalle. La crepa era lì, che tagliava il mondo e creava voragini dentro cui avrebbero entrambi finito per cadere.
«Yuzo…» mormorò e lo vide voltarsi indietro, proprio come aveva fatto lui e poi continuare a correre. «Yuzo!»
Ma il portiere non riuscì a sentirlo e le gambe di Mamoru si mossero da sole. Si mise a correre, nonostante la stanchezza, nonostante la paura; correvano per raggiungerlo e… e aiutarlo, anche se non sapeva come avrebbe potuto.
Gli vide puntare il fiume, la frattura sempre nei suoi passi, e poi… e poi lo vide fermarsi di colpo quando la strada si interruppe sul declivio e rimanere lì. Lo vide voltarsi e stare immobile, come se stesse aspettando di venire raggiunto, come se avesse scelto di non fuggire più.
- Ma che diavolo stai facendo?! Scappa! - Avrebbe voluto gridarglielo così forte da perforargli i timpani e invece tutto quello che riuscì a urlare fu di nuovo il suo nome. Non il cognome, proprio il nome. Lo urlò forte mentre veloce fu lo scatto che prese quando ormai l’aveva quasi raggiunto. Si gettò su di lui con tutta la forza impressa dalla corsa e spostò entrambi dalla traiettoria, rotolando giù per il declivio, sull’erba e fino alle sponde sassose del fiume.
Non seppe perché, non seppe percome, seppe solo che non avrebbe lasciato che qualcuno o qualcosa potesse fargli del male. Forse era l’istinto di protezione che aveva sviluppato attraverso tutti i ricordi che aveva vissuto o forse l’aveva sempre avuto dentro di lui, nascosto da qualche parte, sotto l’astio e le continue prese in giro.
Mamoru non fu in grado di rispondersi, perché il mondo divenne nero quasi subito, dopo che un dolore lancinante alla tempia lo privò della conoscenza impedendogli di vedere quello che sarebbe accaduto.

L’erba che costeggiava le sponde del fiume era morbida ma impregnata dell’acqua piovana degli ultimi giorni. Yuzo la sentì scivolosa mentre vi rotolava sopra, dopo che qualcosa l’aveva tirato via.
Il mondo si alternò in un miscuglio di verde e colori indefiniti prima di trovare una certa stabilità e questa era verde.
Aveva il volto nell’erba e il fiatone gli faceva respirare l’odore di bagnato e di terra.
Yuzo non si mosse subito, cercando di capire se fosse ancora vivo o meno, ma visto che stava respirando poteva dire di sì alla prima. Mosse una mano, questa rispose e poco alla volta iniziò a sentire tutto il suo corpo, seppur fosse mezzo indolenzito e dolorante. Fece forza sulle braccia, si sollevò e alzò il viso.
Izawa era disteso poco lontano da lui, la testa rivolta verso il fiume e le gambe al declivio. Non si muoveva.
«Ma… Mamoru…» biascicò, la bocca impastata dall’affanno della corsa e gli occhi spalancati sull’espressione spaventata. «Mamoru!»
Lo raggiunse, muovendosi sull’erba a quattro zampe come fosse un animale. Gli toccò il viso e quando lo girò vide il sangue scendere copioso da un taglio alla tempia.
«Oddio…» sussurrò, non sembrava avere fiato nemmeno per respirare. «Mamoru, rispondimi!»
La mano sporca di terra e erba scivolò lungo la guancia, ma non fu sufficiente: il ragazzo aveva perso conoscenza e non poteva sentirlo, né percepirlo.
«Dannazione… dannazione!»
Yuzo gli sollevò piano il capo, facendovi passare sotto il braccio affinché si appoggiasse su qualcosa di morbido rispetto alla pietra. D’improvviso, gli sembrò di averlo fatto decine di volte, infinite. Ma non ebbe il tempo di pensare a questo, perché il rombo tornò e lui sollevò di scatto la testa.
La crepa viva che l’aveva seguito fin da quando aveva abbandonato la Mizukoshi era di nuovo lì, che puntava su di lui, ma Yuzo sapeva che stavolta non avrebbe davvero potuto muoversi neppure se l’avesse voluto, perché c’era Mamoru, adesso, e lui capì, mentre lo stringeva contro di sé per proteggerlo e ripensava alla frase rubata a una delle tante visioni, che non avrebbe mai potuto abbandonarlo.
Non in questa vita, non in qualsiasi altra.

«Ti giuro che fino a che avrò vita e respirerò, resterò al tuo fianco. Ti aiuterò a ritrovarti ogni volta che ti perderai, e ogni volta che cadrai ti tenderò la mano per alzarti di nuovo.»(2)

 

“Salveremo la tua preziosa pelle.
Lascia che arrivi la luce curativa.
Ti proteggerò quando il cielo inizierà a crollare.

Il mondo in fiamme con un sole fumoso
ferma tutto e tutti.
Tieniti pronto per ciò che pagheremo.
Gli aiuti stanno arrivando.”

Les FrictionWorld on fire

 

 


[1] e [2]: riferimenti alla mia fic “Elementia: The War”


Nota Finale: XD perché se non arrivo a complicare ancora di più la situazione non sono contenta! Ma questa è una fic giocata proprio tutta sul filo del rasoio. :333
Altra carne viene messa al fuoco tra nuovi pericoli e prese di coscienza. Siamo arrivati già a metà storia, l'avreste mai detto? :DDDD

Volevo ringraziare tutti coloro che seguono "The Bug" e che l'hanno recensita! :3333 Grazie mille!!!

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Capitolo 7
*** VI - l'errore nel sistema (parte I) ***


The Bug - cap VI (parte I)

The Bug
- VI: l’errore nel sistema -
(parte I)

 

Passarono dei flash di luce e si alternarono a macchie di buio senza una cadenza regolare. Il repentino cambio gli faceva bruciare gli occhi che Mamoru sapeva di tenere ancora chiusi.
In questi flash vedeva sprazzi di visioni indistinti in cui a stento riconosceva chi gli si affacciava davanti, ma di cui sapeva l’identità a priori, dentro di sé. Nel buio, invece, sentiva. Sentiva mani che gli toccavano il viso, la testa.
Non fu in grado di distinguere quanto trascorresse dall’uno all’altro e quanto, realmente, rimanesse incosciente. Seppe solo che il dolore iniziò a perforargli la tempia, ed era affilato e battente, come un chiodo che veniva infisso in un muro. Bum, bum, bum. Si aspettava quasi di aprire gli occhi e vedere un martello, invece, quando provò a forzare l’apertura delle palpebre il dolore sembrò farsi più penetrante per un attimo intensissimo e poi allargarsi, ma senza dissolversi.
Le immagini non furono nitide da subito e la macchia a metà tra il chiaro e lo scuro non gli diede alcun indizio di dove si trovasse e cosa fosse successo.
Il supporto su cui era sdraiato – forse un letto o un divano, non avrebbe saputo dirlo – si abbassò leggermente nel sostenere un nuovo peso; qualcuno gli si era seduto accanto, lo capì anche dalla sagoma che entrò nel suo raggio visivo.
«Ti sei svegliato.»
«Morisaki…»
Il nome lo pensò solo, lasciando che restasse a fluttuare nella mente. Lo chiamò per cognome, ma uscì quasi come un impasto di sillabe mangiate. Sbatté le palpebre più volte e tutto divenne chiaro.
Sul soffitto si rifletteva la luce tenue di un abatjour e anche su parte del viso del portiere, su cui faceva capolino un sorriso per niente sfacciato. Tentò di mettersi a sedere, ma il martellare del chiodo aumentò per una frazione micro di secondi.
La mano di Yuzo gli si fermò sulla spalla, premendo leggermente affinché rimanesse sdraiato.
Di nuovo un tocco, da parte sua, che conosceva come le sue tasche quando avrebbe dovuto essere estraneo e indesiderato. Invece non si sottrasse e non solo perché si sentiva ancora intontito.
«E’ meglio se resti fermo.»
«Che è successo? Dov’è la Crepa Vivente
Stavolta il portiere si concesse di snudare appena i denti alla battuta, nascondendoli subito dopo quasi fosse fuori luogo in una simile circostanza.
«Si è fermata all’improvviso, un attimo prima di travolgerci.»
E Yuzo ancora stentava a credere al modo in cui si fosse arrestata, proprio a un soffio dalla punta della sua scarpa. Quando aveva stretto Mamoru contro di sé, convinto che non avessero scampo, aveva serrato gli occhi, ma non era accaduto nulla di quello che si era aspettato; niente terreno che franava da sotto i loro corpi né mortale precipitare nel vuoto. Aveva aperto le palpebre con una certa titubanza, e aveva visto la frattura lì, immobile, ridotta a un graffio nella pietra. Niente di più.
«Tu avevi perso conoscenza, dopo aver battuto la testa contro una roccia. Ho cercato di medicarti il taglio sulla tempia.»
Mamoru sollevò istintivamente la mano a toccarsi la benda e, contemporaneamente, Yuzo fece lo stesso, finendo per far incontrare le dita. Sentì una scarica sottilissima sotto la pelle, perché anche se si erano già toccati altre volte, quella era la prima in cui gli sfiorava la carne.
Il portiere fu il più svelto a ritrarre la mano, quasi si fosse scottato, e a Mamoru non passò inosservato il modo in cui scivolò leggermente più indietro, ma senza alzarsi.
Dovevano aver vissuto ricordi molto simili; il centrocampista lo pensò istintivamente e sentì subito le guance divenire rosse. Si stropicciò il viso per camuffare l’imbarazzo poi si guardò attorno e non riconobbe affatto il luogo. Era una camera da letto singola e un po’ troppo rosa per essere di un ragazzo. La lampada a forma di farfallina, poi, era così virile.
«Quanto ho dormito?»
«Anche troppo!» Ma anche se avrebbe potuto sembrarlo, non era una critica. «A dire il vero, mi ero un po’ preoccupato… L’ora di cena è passata da un po’ e fuori è buio. Ci conviene restare qui, per la notte.»
«Qui? Qui dove? E… un momento!» Mamoru sembrò realizzare solo in quell’istante una cosa importantissima. «Come ci sono arrivato qui?!»
Lo guardò con occhi enormi e non si perse nessuno dei suoi movimenti, soprattutto quando Yuzo si alzò svelto, battendo qualche colpo di tosse: a essere in imbarazzo era di nuovo il portiere.
«Beh, ecco… ti ci ho portato io.»
«E come?!»
«Nell’unico modo che avevo a disposizione… E infatti non siamo troppo lontani dal fiume.»
Mamoru distolse lo sguardo e strinse leggermente le labbra a formare una ‘o’ carica di tutti i significati possibili.
Adesso sì che era completamente sveglio e desideroso di alzarsi e fare due passi, almeno per non essere così facile preda dello sguardo di Yuzo seppur, in verità, non è che fremesse dalla voglia di poggiarsi su di lui.
A spalla. Ce lo aveva portato a spalla.
«Bene» disse risoluto. «E a casa di chi siamo?»
«Non ne ho idea. C’era scritto Yamato sul campanello.»
Stavolta si girò a guardarlo, però, e con tanto d’occhi. «Vuoi dirmi che siamo nella casa di un perfetto sconosciuto?!»
Yuzo si strinse nelle spalle. «Così pare.»
«Oh, perfetto! Violazione di domicilio! E poi?! Che altro?!»
«Certo, perché qualcuno ci denuncerà di sicuro. Come mai non ci ho pensato prima?!»
Mamoru assottigliò lo sguardo; l’imbarazzo di qualche istante fa era già stato dimenticato e sostituito da sguardi piuttosto acrimoniosi.
«Facciamo gli spiritosi, Morisaki?»
«Senti da che pulpito! E comunque ‘non c’è di che’
«Per cosa?!» Mamoru tentò lentamente di mettersi a sedere, ne aveva abbastanza di stare sdraiato e visto che Yuzo non lo fermò, questa volta, si sentì autorizzato a perseverare. Certo, il dolore martellava lo stesso, ma se si muoveva piano piano era più sopportabile.
«Per averti portato al riparo e medicato la fronte, magari?»
«Ah! Non te l’ho chiesto! E se vogliamo essere precisi, sei tu che dovresti ringraziare me! Ti ho salvato il culo, dannazione! Ma che cazzo credevi di fare piantato lì come un idiota?! Volevi morire?!»
Yuzo incassò leggermente il mento per quel rimprovero così aspro che di certo non si sarebbe aspettato proprio da Mamoru, visto che lo considerava la causa di tutto; a dire il vero, non si era aspettato neppure che lui lo salvasse.
«E a te che diavolo importa?! Nemmeno io ti ho chiesto di venire in mio soccorso!»
«Non rubarmi le parole!»
«E tu piantala di parlare come se ne sapessi qualcosa di me!»
Infastidito, il portiere si mosse per lasciare la stanza, ma Mamoru alle sue spalle non aveva finito. Ruotò gli occhi con noia e incrociò le braccia.
«Ma sì, certo, scappa pure quando qualcuno ti dice cose che non vuoi sentire, tanto ti riesce alla perfezione, no? Mollare la presa, la tua migliore qualità!»
Yuzo si girò imbufalito. «Te lo ripeto: smetti di parlare come se mi conoscessi! Non lo sopporto!»
«E invece qualcosa la so eccome!» Mamoru sostenne i suoi occhi pieni di risentimento e anche feriti; incredibilmente riusciva a leggere attraverso essi con una facilità che non credeva di avere. «Non ho certo bisogno di quelle cavolo di visioni, ricordi o che cazzo sono, visto che vi ho assistito in prima persona. So che sotto sotto sei solo un presuntuoso che si nasconde dietro la bella facciata del bravo ragazzo! Altrimenti perché non tentare di entrare alla Nankatsu quando ne hai avuta la possibilità? Perché restare a osservare gli altri che si mettevano in gioco se non perché ti sentivi troppo superiore, piuttosto che scendere in campo con noi?! Sei solo un vigliacco!»
Mamoru prese un ampio respiro al termine della sua arringa e si era infervorato così tanto da essere costretto a portarsi una mano alla fronte dove il dolore martellò più forte. Digrignò i denti.
«Ma… stai parlando della selezione all’ultimo anno delle elementari? La fusione tra Shutetsu e Nankatsu?» Yuzo non seppe dire se fosse più perplesso o letteralmente allibito, ma gli sembrò di capire che il motivo per cui Mamoru ce l’avesse sempre avuta con lui era quello e nessun altro: lì era la genesi, in quel suo essersi tenuto da parte.
Un lampo illuminò a giorno la stanza e il tuono fu quasi contemporaneo ma, diversamente dalle altre volte, lo sentirono entrambi e sobbalzarono, colti alla sprovvista.
«Accidenti…»
Sarebbe venuto giù l’ennesimo acquazzone. Yuzo si guardò attorno a disagio e infilò una mano in tasca. Cambiò argomento, come se affrontare quello tirato fuori da Mamoru lo mettesse ancora più in difficoltà, forse perché non si sarebbe mai aspettato che tutto fosse partito da lì, da quella scelta su cui aveva ponderato piuttosto a lungo, all’epoca, e che aveva ritenuto essere la migliore.
«Rimani… rimani a letto, vado a cucinarti qualcosa. Avevo trovato delle pillole per il mal di testa, ma devi prima mangiare. Riposati ancora un po’.»
Senza attendere risposta, Yuzo lasciò la stanza che Mamoru si teneva ancora la fronte.
«Tempo del cazzo…» mormorò, ma più che altro ce l’aveva quasi con sé stesso e non riusciva a capire come avesse fatto a vuotare il sacco con tanta facilità. Era forse perché aveva raggiunto una confidenza inconscia con il portiere tale da farlo parlare in maniera schietta? Non lo sapeva ancora, ma si era accorto di esserci andato giù pesante e di aver toccato un tasto piuttosto sensibile per Yuzo.
Mamoru guardò la porta ora chiusa e sospirò, tornando lentamente a sdraiarsi. Il dolore era insopportabile e forse il portiere aveva ragione, era meglio se si fosse riposato ancora per qualche istante. Non avrebbe dormito, ma solo chiuso gli occhi, magari cercando di calmare i nervi che sentiva stranamente a fior di pelle. Eppure, contrariamente ai suoi propositi, finì comunque con l’addormentarsi e quando si svegliò di soprassalto non seppe spiegarsi come fosse accaduto e da quanto tempo.
La pioggia batteva sui vetri in maniera ritmica e non troppo rumorosa. Però dava l’idea che stesse cadendo da un po’ e che lo scroscio iniziale, preannunciato da quel tuono spaccacielo, si fosse già riversato su Nankatsu.
Mamoru si guardò attorno muovendosi piano; la testa gli faceva male ma meno di prima. Si alzò quando fu sicuro che il martellare non lo avrebbe piegato in due, ma si mosse comunque con attenzione. Accanto al letto trovò un paio di pantofole e gli sfuggì un sorriso nel vedere come il portiere avesse pensato a tutto, anche se lui avrebbe dovuto saperlo che era un tipo premuroso, i vari ricordi glielo avevano già detto.
Raggiunse la finestra, trascinando i piedi, e scansò una delle tende: Nankatsu era buia, da quel lato della città, a meno delle luci dei lampioni che si accendevano seguendo un timer preimpostato, per il resto ogni casa era spenta e silenziosa. Forse, l’unica finestra da cui filtrava un bagliore tenue e più simile alla penombra era proprio la sua. In quelle condizioni, comunque, era impossibile vedere le ferite che le Crepe Viventi – ormai le aveva ribattezzate così – avevano inflitto; sembrava la solita e tranquilla Nankatsu, ma sapeva che se avesse scelto una finestra con una visuale totalmente opposta, avrebbe trovato fuoco e fiamme divampare sulla città.
Mamoru sospirò e si allontanò dal vetro.
Aveva esagerato con Yuzo, soprattutto dopo quello che aveva fatto per lui, ma nonostante ci avesse dormito anche su, non riusciva a capire il perché avesse sputato fuori tutto con tanta rabbia. Come se il portiere si fosse macchiato di una colpa gravissima quando, invece, al massimo si sarebbe dovuto attirare solo la sua antipatia, come era sempre stato. Eppure Mamoru si rendeva conto per primo di averla presa troppo sul personale e quando Teppei lo rimproverava era a questo che si riferiva: il suo risentimento era eccessivamente acceso per essere solo un semplice fastidio. Forse aveva iniziato a capirlo già qualche giorno prima, ma ora lo sentiva chiaramente e dopo quell’infinita sequenza di eventi cui aveva assistito attraverso le vite degli altri magari la risposta non era così oscura come si ostinava a credere.
Senza troppa fretta, che tanto avevano già deciso che non si sarebbero mossi per quella notte, Mamoru lasciò la camera-confetto e si inoltrò per i corridoi dell’appartamento; cercava la cucina.
«Morisaki?» chiamò, sperando che un’eventuale risposta potesse indirizzare i suoi movimenti, ma la voce del portiere non lo raggiunse e lui, bene o male, riuscì ad arrivare nel punto desiderato. Il bello di certi appartamenti di periferia era che non fossero troppo grandi e quindi orientarsi non era chissà quale impresa.
«Morisaki?»
Mamoru inarcò un sopracciglio nel non trovarlo neppure lì. La pentola, però, era stata lasciata sul fornello a fuoco basso. Alzò la voce.
«Morisaki?!»
Al terzo silenzio una pessima sensazione lo attraversò e il dubbio si fece spazio tra le sue scapole provocandogli un brivido gelido che arrivò fino alla punta dei piedi.
Mamoru spalancò tutte le porte, cercò in tutte le stanze: di Yuzo non c’era traccia e a lui prese a girare la testa in una vertigine che per poco non lo mise in ginocchio.
Il terrore che anche il portiere fosse scomparso nel nulla come gli altri gli punse la tempia dove aveva il taglio e il chiodo ricevette un colpo di martello così forte che si tenne il capo tra le mani per un istante.
Barcollando, raggiunse la porta. All’ingresso, c’erano un paio di pantofole e le sue scarpe, ma non quelle del portiere.
Tenendosi al muro e rimanendo in ciabatte, Mamoru uscì dall’appartamento e la luce del corridoio era accesa. C’erano altre quattro porte e poi l’ascensore che portava ai piani superiori, loro erano al primo.
«Yuzo! Yuzo, rispondimi!»
Finalmente poteva reggersi di nuovo con un certo equilibrio, mentre si trovava a girare su sé stesso non sapendo dove andare, non sapendo cosa fare e sentendosi solo come non si era sentito nemmeno quando aveva capito che tutti erano scomparsi. Ora che anche Yuzo era sparito, gli sembrò di aver perso davvero tutto ma era così disperato e spaventato che non lo realizzò nell’attimo stesso in cui quella sensazione gli svuotò il petto. Seppe solo che si trovava spalle alla porta accanto a quella del ‘loro’ appartamento quando questa si aprì con eccessiva veemenza e il portiere ne venne fuori quasi correndo.
«Che succede?! Stai bene?! Ti ho sentito gridare!»
Mamoru si volse di scatto e Yuzo era proprio lì, reggeva due flaconcini di vetro e una bottiglia. Aveva lo sguardo preoccupato e scrutava ogni angolo del pianerottolo, convinto che dovesse accadere qualcosa di terribile da un momento all’altro.
Sempre per la questione che era troppo preda dei propri sentimenti per rendersi conto con lucidità di ciò che provava, Mamoru rimase a fissarlo per alcuni istanti con la sensazione di aver recuperato i dieci anni di vita che aveva creduto di aver perso. Li sentì di nuovo tutti lì, nel cuore che batteva più veloce e nella sensazione di sollievo che dilagava come una macchia d’olio dentro al suo corpo. Poi il fastidio per essersi preoccupato così tanto gli fece inasprire i tratti a sfavore dell’espressione disperata.
«Ma dove diavolo eri andato?! Credevo fossi sparito, dannazione, vuoi farmi venire un infarto?! Cazzo, avvisami!»
Yuzo lo guardò con perplessità. «Ma ero solo andato a cercare della salsa di soia all’appartamento vicino. Sono uscito due minuti fa!»
«Della salsa di soia?! Era così necessaria?! E non potevi avvertirmi?!»
«Stavi dormendo, non volevo disturbarti!» Yuzo si portò le mani ai fianchi, appuntandovi da un lato i flaconcini di spezie e dall’altro la soia. «C’è bisogno di farla tanto lunga?!»
Il portiere lo superò con fastidio, scuotendo il capo. Era da non credersi il modo arrogante che aveva di parlare con lui. E di imporsi, anche! Ma chi si credeva di essere?!
«Certo che la faccio lunga! È scomparsa l’intera città, dimmi tu se non dovrei alterarmi se sparisci così, di colpo, senza dirmi nulla!»
«Oh, per favore! Chi è che ha lasciato il liceo Mizukoshi senza nemmeno voltarsi? Allora non mi pare ti importasse un granché se fossi sparito!» Yuzo non ebbe neppure bisogno di spingere la porta per entrare, visto che Mamoru l’aveva lasciata spalancata eppure si fermò sulla soglia quando il centrocampista replicò.
«Hai ragione, ho sbagliato.» Mamoru aveva perso il tono aggressivo e la sua voce era tornata calma. «Mi dispiace.»
Yuzo rimase di sasso per alcuni istanti, giusto quelli necessari affinché assimilasse bene le parole che aveva sentito.
Si mosse con qualche attimo di ritardo e piano nel girarsi. Guardò Mamoru come lo vedesse per la prima volta in tutta la sua vita.
«Ti sei appena… scusato con me?» Non ci poteva credere. «Non lo hai… mai fatto…»
Imbarazzato, Mamoru si portò una mano dietro la nuca, massaggiando collo e capelli.
«Lo so. Scusami anche per questo.»
Yuzo era frastornato e anche se forse avrebbe dovuto impallidire, sentì di essere arrossito dal modo in cui il ragazzo non lo guardava ma teneva gli occhi spostati altrove e dal modo in cui si massaggiava il collo, le spalle strette e un piede che martellava solo la punta della ciabatta al suolo in quell’immagine di lui che sembrava volesse occupare il minore spazio possibile.
«Tu non sei il vero Izawa. Ti hanno sostituito con-»
«Il mio nome lo conosci, usalo.» Stavolta, il giocatore della Nankatsu aveva lo sguardo fermo nel suo. Gli aveva dato fastidio il distacco di sentirsi chiamare per cognome quando i frammenti di ricordi lo avevano abituato a una profonda familiarità tra loro e anche se sapeva che suono avesse il suo nome pronunciato dalle sue labbra, bramava di sentirlo in quella precisa realtà; la loro.
Vide chiaramente le guance del portiere prendere una vivace nota di colore prima che tornasse a dargli le spalle.
«E tu conosci il mio.»
Implicito invito a fare altrettanto – anche se arrivava un po’ in ritardo, visto che lo aveva già fatto e anche più volte –.
Si mosse per seguire il portiere quando questi si fermò dopo nemmeno un passo incerto e si volse di nuovo.
«Non ho rinunciato perché mi credevo superiore» disse d’un fiato. «L’ho fatto perché mi sentivo in soggezione, guardandovi giocare. Voi… eravate così bravi e io… non mi sentivo all’altezza. Per questo non ho tentato il test per entrare nella nuova squadra.»
«In soggezione?! Ma perché?! Erano solo le elementari!»
«Lo so da me, ma… sostituire Wakabayashi?! Andiamo, non ce l’avrei mai fatta!»
«Sì, invece! L’ho visto infinite volte!»
«Facile così, ma non è quella la mia realtà, quella in cui vivo e in cui debbo prendere le decisioni senza sapere nulla di dove mi porteranno.» Yuzo fece spallucce. «E io non me la sono sentita. Hai ragione, sono un vigliacco, perché avevo timore di voi così come temevo di scoprire che il divario che c’era tra i nostri livelli fosse impossibile da colmare.» Abbassò lo sguardo sulle cose che aveva tra le mani. «Per quanto riguarda il fiume… che cosa avevo da perdere?»
«Ma sei impazzito?!» Mamoru lo raggiunse in un paio di passi e d’istinto lo prese per le spalle, stringendole quasi come se avesse voluto scuoterlo. «Come ti è venuto in mente?»
«E cosa avrei dovuto fare?! Erano scomparsi tutti, amici e genitori, mentre tu… tu mi davi la colpa e io mi sono sentito davvero responsabile. Dopotutto, è cominciato per qualcosa che abbiamo fatto, di sicuro. Mi sono detto che poteva essere l’unico modo per far tornare tutto come prima.»
Mamoru lasciò piano la presa e Yuzo si ritrasse di un passo. Era stato stupido a non esserci arrivato da solo, eppure lo sapeva quanto il portiere soffrisse di sensi di colpa. In quasi la totalità delle vite che aveva sbirciato, il giovane si era rivelato molto sensibile su quell’argomento e lui, come uno sciocco, non aveva imparato a tenere a freno la lingua.
«Sentivo di essere completamente da solo e-»
«…la solitudine ti spaventa, lo so.»
Yuzo inarcò le sopracciglia per la sorpresa. «Come fai a…»
«Me lo hai detto in un’altra vita.» Mamoru distolse lo sguardo, primo a stupirsi di come avesse memorizzato con così tanta semplicità nozioni su di lui e il suo carattere. Aveva sempre dominato quella sorta di attrazione/repulsione che, ora si rese conto, gli aveva insegnato silenziosamente a notare e comprendere ogni sua più piccola variazione nei gesti ed espressioni. I frammenti di ricordo avevano fatto il resto e aggiunto parole, confessioni personali, reso tutto su di un piano molto più profondo.
Il rumore della pioggia sui vetri del pianerottolo occupò i loro silenzi, mentre rimanevano fermi nelle loro posizioni e concentrati ognuno nella propria mente per capire quanto le cose fossero cambiate in così poco tempo.
«Dovremmo procurarci dei walkie-talkie.» Mamoru fu il primo a spezzare quell’atmosfera di strana intimità che si era creata. Superò il portiere e rientrò nell’appartamento, ma senza guardarlo e stando il più stretto possibile contro il muro. «Così riusciremo a tenerci in contatto anche se ci allontaneremo. Per sicurezza.» Poi però si fermò e girò il viso il tanto che bastava a mostrare solo la trequarti. «Nel frattempo, però, non andartene in giro senza prima avermi avvisato.»
Yuzo rimase sulla porta senza dire nulla, ma osservandolo rientrare nell’appartamento e sparire nel salotto-cucina. Anche se l’aveva visto infinite volte nelle visioni che lo avevano accompagnato durante quei giorni, provare l’atteggiamento protettivo di Mamoru direttamente sulla propria pelle aveva un sapore diverso e più forte. Più dolce.
E se Misaki diceva che lo era sempre verso gli amici, allora poteva iniziare a considerarsi anche lui suo ‘amico’?

 I rumori nella stanza erano di cucina, stoviglie che giravano nella pentola e coperchi che venivano sollevati e abbassati, qualcosa borbottava sul fuoco. Poiché all’esterno non c’erano macchine per strada che attraversavano l’acqua caduta con le loro ruote, a stento si percepiva il cadere della pioggia, ma se si guardava verso i lampioni, la luce fendeva le gocce e la realtà prendeva una nuova consistenza.
Mamoru era seduto presso il tavolo e sbirciava Yuzo attraverso l’apertura del muro che il braccio all’americana offriva. Si destreggiava bene tra i fornelli e il modo in cui assaggiava le pietanze gli conferiva quasi un’aura professionale.
L’aveva notato già prima – e già da un po’ – che fossero più o meno simili di altezza, anche se lui gli rubava qualche centimetro. In compenso, Yuzo aveva una struttura fisica più solida e spalle ampie; le poteva vedere bene ora che non indossava la felpa, ma solo una t-shirt scura dalle maniche lunghe tirate sui gomiti. I capelli corti lasciavano scoperta la nuca in una maniera che, in un’altra vita, avrebbe osato definire ‘invitante’. Si vide proiettato alle sue spalle, mentre vi lasciava un bacio veloce per poi andare via quasi fosse una cosa normalissima.
Mamoru scosse il capo, cancellando quell’immagine che non sapeva se fosse proprio tutto frutto dei famosi frammenti di ricordi oppure no. Però sapeva che non avrebbero potuto continuare a non dirsi una parola come avevano fatto da che erano rientrati nell’appartamento. C’era ancora molto da chiarire e forse il momento di confrontarsi, di provare a mettere insieme i pezzi era proprio quello. Yuzo era molto più riflessivo di lui e magari la comprovata bravura alle competizioni scolastiche avrebbe saputo tornare utile alla loro situazione.
Si passò le mani sui jeans e, prendendo coraggio, si alzò. Tra i due, sapeva di essere lui l’addetto alla ‘prima mossa’.
«Quindi te la cavi bene ai fornelli anche in questa vita?»
Si era avvicinato senza troppa fretta, ma nascondendo l’imbarazzo dietro un passo disinvolto. Era entrato nello spazio delimitato da un lato dai fornelli e dall’altro dal braccio all’americana, che nascondeva lavelli e tagliere, e si era appoggiato contro quest’ultimo per non essergli d’intralcio.
Yuzo lo guardò per un attimo e poi tornò a girare carne e patate che cuocevano nella stessa pentola, assieme alla soia e alla verza.
Che sorridesse, Mamoru lo percepì dal tono di voce.
«E tu sei sempre negato?»
Stranamente non si offese, anzi, venne da ridere anche a lui.
«Non è vero che sono sempre negato! Ho avuto il mio momento di gloria.»
«Parli di quel mondo che sembra uscito da un romanzo fantasy?»
«Proprio!»
Yuzo smise di girare e appoggiò il cucchiaio di legno nel piatto che aveva vicino. Si volse e incrociò le braccia imitando, specularmente, la posizione assunta dallo stesso centrocampista.
«E ora, invece?»
Mamoru sostenne per un attimo la sua ironia con una leggera supponenza, poi fu costretto a capitolare.
«Dannazione, ok! Quella era l’eccezione che conferma la regola.»
Risero entrambi e quasi non potevano crederci che venisse così facile quando non avevano fatto altro che ringhiarsi contro per anni interi. Dopotutto, non c’era voluto molto per rompere il ghiaccio anche se Mamoru iniziava a credere che non ci fosse mai stato alcun ghiaccio da rompere.
«Le hai viste anche tu, dunque.»
Yuzo annuì. «Sono cominciate al parco, ricordi? Quando abbiamo toccato il pallone.»
«Sì.» Il pallone sembrava quasi che avesse un ruolo fondamentale in tutto quello e nelle loro vite, che fossero passate o future; nel calcio sembravano aver sempre posto le basi delle loro relazioni, di qualsiasi genere fossero, era come un simbolo. «Tu cosa pensi che siano?»
«Esistono moltissime teorie sulle dimensioni parallele, non solo a livello filosofico, ma anche in campo fisico, con la teoria delle stringhe
«Sono graditi termini semplici, grazie.»
Yuzo sorrise e Mamoru un po’ si vergognò di questo gap culturale che – a quanto pareva – era sempre esistito tra loro. Il portiere, però, sapeva non farglielo pesare.
«Le realtà, come gli universi, sono infinite ed esistono tutte contemporaneamente, anche se sono separate. Ognuna di loro si snoda in un proprio continuum spazio-tempo. Noi abbiamo la nostra, in cui abbiamo fatto delle scelte che ci hanno portato a essere ciò che siamo ora, mentre in un’altra…»
«…potremmo essere killer e poliziotto, maghi elementali, principe e guardia.(1)»
«Esatto.» Yuzo arrossì un po’ per quei particolari esempi.
«Ma se hai detto che tali realtà sono perfettamente distinte… cosa diavolo è ciò che vediamo?»
«Pezzi di multiverso.» Yuzo si strinse nelle spalle. «Non so bene se sia perché è la nostra realtà attuale che si sta sfaldando e mischiando alle altre o sono le altre che, in qualche modo, stanno interagendo con noi.»
Mamoru si passò nervosamente una mano tra i capelli facendo attenzione a non toccare il bendaggio.
«E come può essere possibile una cosa simile? È colpa di qualcuno? È colpa nostra? Cosa?»
«Questo non lo so.» Yuzo tornò a occuparsi della cena. Mescolò un’ultima volta e poi riversò gli spaghetti di riso nella pentola, mischiandoli al condimento. «E non so neppure come potremmo venirne fuori.»
«Dannazione…»
Yuzo gli lanciò un’occhiata di sottecchi. «Non dirmi che avevi fatto affidamento su di me?»
«Beh, di solito sei tu quello secchione.»
Il portiere rise e spense il fuoco. Con ironia gli passò le ciotole che aveva già messo da parte, assieme alle bacchette.
«Prepara la tavola.»
«Ma come? E io che pensavo avessi apprezzato l’insospettabile e alta considerazione che ho di te.»
C’era un altro mondo in quel modo di relazionarsi, di parlarsi e mostrarsi capaci di sorridere l’uno all’altro e ridere insieme, di confrontare le scelte prese fino a quel punto e di illustrare le strade che avrebbero voluto calcare con i loro passi. Ed era un mondo che non sorprendeva ma lasciava il sapore di qualcosa di conosciuto; chissà quante volte l’avevano fatto, si erano parlati e confidati, che adesso nessuno dei due sembrava provarne imbarazzo: così a proprio agio tra di loro che avrebbero potuto continuare anche tutta la notte.
Yuzo ascoltò di come Mamoru sentisse di avere parte del peso della squadra sulle proprie spalle e delle responsabilità delle sconfitte al campionato nazionale.
Mamoru rimase ammirato nel sapere che Yuzo avrebbe tentato l’esame all’Università di Tokyo alla fine del liceo e che, per questo, stesse studiando moltissimo.
Yuzo lo incoraggiò a impegnarsi al massimo per essere tra i selezionati che avrebbero partecipato al World Youth e Mamoru, invece, gli disse che Taro era agguerritissimo in vista delle Olimpiadi scolastiche e che avrebbe dovuto darsi da fare.
Mangiarono sfruttando lampade che creavano penombra, quasi avessero voluto passare inosservati alle crepe improvvise che aprivano voragini in tutta la città, tanto che la loro cena apparve quasi come a ‘lume di candela’, eppure riuscirono a vedersi benissimo, a gustare il cibo e a parlare di loro.
«Mi spiace non averti creduto, quando mi hai detto della scomparsa di Taki.» Yuzo impilò i piatti vuoti, ma non li tolse subito, lasciandoli un po’ da parte, mentre bevevano del succo d’arancia trovato in frigo.
«Non posso biasimarti se non l’hai fatto, cioè, nemmeno io ci avrei creduto fossi stato al posto tuo.» Mamoru si strinse nelle spalle.
«Ho capito solo dopo come devi esserti sentito. Quella sera ho visto sparire prima Kenta e poi mia madre.»
«Kenta?»
Yuzo accennò un sorriso. «Kirinriki
«Ah! La Giraffa!» ridacchiò Mamoru.
«Sappi che ci soffre molto per questa cosa dell’altezza.»
Il centrocampista posò il bicchiere e perse il piglio ironico in favore di un sorriso sincero. «Lo so. Vedrò di starci più attento, la prossima volta.»
«Anche con Miyamoto?»
«Anche con lui» acconsentì Mamoru. «Non lo chiamerò più ‘gaijin’
«Ti ringrazio.»
«Cosa è successo?»
Yuzo si strinse nelle spalle e si rilassò contro lo schienale della sedia. Il suo viso si nascose di più nella penombra appena si allontanò dalla fonte di luce, ma Mamoru riusciva a distinguerne lo stesso i tratti e gli andava bene.
«Mi hanno guardato come fossi stato da rinchiudere. Un po’ come io ho guardato te. Pensavo che tutti voi mi steste tirando il peggiore scherzo della storia e invece quando sono tornato a casa… ho scoperto che non era stato l’unico a sparire dalla mia vita.»
Yuzo toccò il bordo del bicchiere e lo mosse lentamente, in maniera distratta; la mano più nitida ora che era vicina alla lampada.
Mamoru seguì il movimento delle sue dita catturando alcuni dei graffi che ancora le segnavano e segnavano anche il dorso della mano. Graffi da allenamento, forse, o da fuga, difficile dirlo.
«Mio padre pensava che fossi impazzito, mi guardava in una maniera così strana. Poi ho avuto un attacco di panico e sono svenuto. Molto poco virile, lo ammetto.»
«Io invece li ho trovati entrambi a casa, ma ero così sconvolto per Hajime che non ho voluto parlare con loro. Non li ho lasciati entrare in stanza… Il giorno dopo non c’erano più.»
Yuzo levò lo sguardo su di lui, che ora fissava l’esterno riuscendo a scorgere la pioggia che cadeva. Sembrava potesse vedere anche attraverso essa tanto era concentrato.
«Non devi fartene una colpa, non potevi certo sapere che sarebbe successa una cosa simile.»
«Ci deve essere un errore. Qualcosa di sbagliato in questa realtà per cui tutto sta andando in malora, sta scomparendo.» Mamoru ne era convinto e i suoi occhi cercarono quelli del portiere che non si sottrasse ma ne sentì sulla pelle il magnetismo che emanavano. Neri come le calamite. «Un pezzo alla volta viene cancellata. Prima le altre persone, poi le cose attraverso quelle Crepe Viventi che ci inseguono addirittura.»
«Credi possa esserci una soluzione?»
«Non lo so. Non ci resta che cercare, che ne dici? Non che ci rimane molto altro da fare.»
Yuzo annuì e decise di alzarsi per lavare le poche stoviglie che avevano sporcato. Quando si allungò per prendere i piatti, Mamoru si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi, per una fitta di dolore.
«Ti fa molto male?»
«Solo ogni tanto…» il martellare era divenuto più leggero, quasi sopportabile, ma a volte dava colpi secchi giusto per ricordargli che era sempre lì e che era meglio per lui se non ci si abituasse troppo.
«Ti prendo una compressa e ti cambio la fasciatura.»
«No, non ce n’è bisogno.»
«Insisto. La nostra manager è molto meticolosa su queste cose e ci ha sempre detto che i bendaggi vanno cambiati spesso per non far infettare le ferite.»
Mamoru non replicò e lasciò che mettesse via i piatti e abbandonasse la stanza per alcuni momenti, salvo poi tornare con un kit del pronto soccorso. Seguì tutti i suoi movimenti e il modo in cui si sistemò seduto proprio davanti a lui e così vicino da avere una gamba del portiere tra le sue e viceversa, così vicino da potergli toccare le ginocchia con le proprie e studiare meglio le forme del suo corpo sotto la t-shirt o delle braccia lasciate scoperte dalle maniche. Così vicino da vedere la netta definizione delle ombre che la lampada ricreava sul suo viso e i contorni di quest’ultimo. La linea del naso, degli occhi, delle labbra.
Anche altre volte l’aveva avuto a una distanza tanto breve, come il loro ultimo diverbio ad esempio, eppure adesso l’effetto era diverso e il cuore batteva a un ritmo che non conosceva molto bene se non quando era particolarmente emozionato. Una sottile eccitazione, forse, e l’immagine di loro due avvinti balenò per un attimo abbastanza lungo da farlo arrossire come una scolaretta e scuotere il capo con vigore per scacciarne il ricordo non vissuto.
Yuzo si fermò dal versargli l’acqua e lo guardò con attenzione. «Un’altra fitta?»
«No! No, no! Non era… non era niente.»
Però aveva la gola secchissima, tanto che quando il giovane gli porse il bicchiere con dentro la pillola che scoppiettava per l’effervescenza lo buttò giù di un sol fiato fregandosene del sapore pessimo o del fatto che la medicina non si fosse sciolta tutta per bene.
«Ehi, piano!» Yuzo sorrise e anche quello gli fece un dannato effetto visto da così vicino.
«Avevo sete.» Si giustificò e distolse lo sguardo.
«Me ne sono accorto.» Il portiere dispose le bende di ricambio e l’ovatta, preparò anche il disinfettante e poi sollevò le mani per avvicinarle al suo viso.
Mamoru si ritrasse appena per il timore del contatto, ma quando l’altro gli intimò di non muoversi lui obbedì senza replicare.
Yuzo aveva un tocco molto leggero e attento che non gli fu difficile restare immobile, quando di solito scalpitava sempre durante le medicazioni che riceveva da Kumi o un’altra delle manager. Forse un po’ era perché troppo concentrato a tenere gli occhi sul suo viso.
Yuzo tolse prima le bende, appoggiandole sul tavolo. Piano sollevò l’ovatta che aveva messo sul taglio e si accertò che non stesse più sanguinando.
«Ti sto facendo male?» chiese, quando staccò il cerotto.
«Poco…»
«Non sono bravo come la nostra manager; lei ha il ‘tocco magico’, non ti fa sentire niente.» Sorrise quando riuscì a togliere la medicazione e vide che la ferita stava già sanando. Per fortuna non era stato un taglio troppo profondo.
Mamoru inarcò un sopracciglio. «Lei… è la tua ragazza?»
«Chi?!» A Yuzo per poco non scappò la boccetta del disinfettante dalle mani.
«La vostra manager.»
«No!» Il portiere rise e scosse vigorosamente il capo, mentre tornava a dedicarsi alla ferita. Vi picchiettò sopra un batuffolo imbevuto e Mamoru strinse leggermente gli occhi per il bruciore. «Non farei mai una cosa simile a Kenta, è da una vita che le fa il filo!»
«E bravo Kirinriki
«Ehi!» Yuzo gli rivolse un’occhiata di ammonimento e Mamoru ridacchiò per come prontamente difendesse i suoi amici.
«Sì, sì, scusa!»
«Mmmh.»
Però non poteva negare di sentirsi come sollevato, in un certo modo. Tanto che rilassò le spalle e quasi non sentiva più il dolore alla tempia.
«E… tu?» Yuzo camuffò l’imbarazzo della domanda con un colpo di tosse fintamente distratto, mentre si girava a prendere dell’ovatta pulita e del nuovo cerotto. «Hai la ragazza?»
Mamoru non nascose un sorriso compiaciuto a quella domanda.
«No.»
«Mh… Strano.»
«Perché sarebbe ‘strano’
Yuzo balbettò, leggermente in difficoltà. «Beh, pe-perché… insomma, so che un sacco di ragazze ti fanno il filo. Anche alla Mizukoshi.»
«E allora? Non sono uno che prende queste cose tanto alla leggera.» Mamoru arricciò un po’ labbra e Yuzo sentì di averlo giudicato in maniera troppo superficiale.
«Non l’avrei mai detto. Scusa.»
Adesso, chissà perché, Mamoru si sentiva improvvisamente più sicuro a guardarlo dritto negli occhi mentre applicava nuovamente le bende e lo vedeva avvicinarsi nel passargliele dietro la testa. Un giro, due giri. Al terzo, nel momento di massima vicinanza, riuscì a incontrare le iridi di Yuzo che si erano tenute debitamente a distanza dalle sue e non fu lui quello che le distolse per primo.
Gli sembrò quasi di percepire il corpo del portiere farsi più caldo dal semplice tocco che avvertiva sulla fronte, mentre la penombra gli nascondeva il modo in cui arrossì.
«Ho… ho quasi finito.»
«Ok.»
Tutta quella tensione, che avvertiva fin troppo chiaramente tra loro, sarebbe stata il terreno perfetto per sua madre, l’avrebbe vista galvanizzarsi come una scolaretta e di sicuro avrebbe finito col dirgli qualcosa sui tripli carpiati che facevano gli ormoni nei loro corpi così giovani e sovraffollati. Gli scappò un mezzo sorriso al pensiero mentre Yuzo bloccava la garza con un fermo.
«Fatto.»
La magia della loro vicinanza si allentò quando il portiere si fece più indietro, eppure Mamoru sentì bene che non scomparve. Era una magia resistente e che forse si portavano dietro fin dall’inizio, solo che l’avevano scambiata per qualcos’altro: antipatia, repulsione.
Mamoru si tastò appena la benda. «Non è vero che non sei bravo.»
Yuzo non rispose ma sorrise, e lui continuò.
«Cosa faremo domani? Hai qualche idea?»
«Che ne dici di andare da me?» Yuzo si passò una mano dietro la nuca. «Mi sento un ladro a sfruttare la casa di uno sconosciuto. Già mi sento in colpa per aver frugato nel loro frigo e nel kit medico. Non abito troppo lontano da qui e troveremo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Doccia e abiti di ricambio compresi.»
«Ehi, che praticità.» Mamoru lo prese un po’ in giro. «E poi?»
«E poi non lo so…» Yuzo preferì essere sincero. «Che ne dici di fare un passo alla volta e vedere se ci arriviamo a domani?»
«Perché non dovremmo arrivarci?»
«Le hai viste anche tu quelle… come le hai chiamate? Crepe Viventi? Non so fino a quando ci daranno tregua.»
Mamoru si sporse e gli poggiò istintivamente una mano sul ginocchio, quasi senza pensarci.
«Ehi. Non dobbiamo essere pessimisti o è finita prima ancora di iniziare.»
«Ma cos’è che deve davvero finire e cosa deve iniziare?» C’era sincerità nella perplessità di quella domanda cui nemmeno lui sapeva cosa rispondere, così non mentì e disse quello che pensava.
«Forse lo sapremo solo quando ce l’avremo davanti.»
«E come credi che finirà?»
«Che io stasera non dormirò nella stanza della bambina, questo è sicuro.»
Un sorriso ampio e divertito si aprì sulle labbra di Yuzo e uno più contenuto gli tirò le sue verso destra.
Magari in parte le loro azioni erano condizionate dalle strane visioni o vite parallele di cui carpivano attimi strappati al quotidiano, eppure tutto quello che stavano vivendo e il legame che c’era, di qualsiasi natura esso fosse, apparteneva a loro e a loro soltanto, e a Mamoru sembrò di aver trovato qualcosa che non sapeva d’aver perduto.

 

 


[1]: riferimenti alle mie fic: “Tenshi”, “Elementia” e “Maharajakumar”


Nota Finale: finalmente un capitolo più di calma, in cui i nostri riescono a interagire ben di più di una serie di improperi, offese e occhiate di fuoco. :)
Il momento in cui iniziassero ad avvicinarsi in qualche modo anche in quella realtà doveva pur arrivare, ed eccolo qui! :))))
Momento di calma che non è detto possa durare chissà quanto a lungo. Oooops. *sghignazza*

Ad ogni modo, ci tenevo a informare chi mi segue che ho un problema con il caricatore del pc: in pratica uno dei due cavi - per fortuna non quello che si attacca al computer - non funziona più e al momento ne sto usando un altro che non è mio e non so per quanto tempo potrò usufruirne. Spero di riuscire a reperire presto il pezzo di ricambio, ma ciò non toglie che la prossima settimana potrebbe anche saltare l'aggiornamento. :((((
Cercherò di fare il possibile, ma considerando che ho lo stage praticamente per tutto il giorno, non posso garantire niente :(((( scusatemi, non sapete quanto penare mi sta facendo questo cazzo di caricabatterie. Son proprio sfigata. :((((

Grazie comunque a chi ha deciso di seguire questa storia :))))

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Capitolo 8
*** VI - l'errore nel sistema (parte II) ***


The Bug - cap VI (parte II)

The Bug
- VI: l’errore nel sistema -
(parte II)

 

«Io insisto che avremmo potuto prendere degli abiti in quel negozio.»
«E io insisto nel dire ‘no’. Già mi sento in colpa per non aver potuto pagare queste poche cose che ci siamo portati via, figurati dei vestiti!»
«Yuzo! Gli hai lasciato un biglietto con il tuo nome e indirizzo!» Mamoru alzò le braccia al cielo. «Non ti sembra di esagerare con l’essere troppo corretto?!»
«Non farmi la predica proprio tu, che quando ti sei risvegliato ieri parlavi di effrazione e arresti!»
Il centrocampista della Nankatsu non replicò ma ruotò gli occhi e continuò a camminare.
Per quanto avrebbero voluto svegliarsi all’alba, come ogni buon protagonista di film d’azione, la stanchezza accumulata aveva vinto su di loro dandogli una sveglia a mattino inoltrato. Si erano sentiti un po’ irresponsabili per essere crollati in quel modo, quando le Crepe Viventi avrebbero potuto sorprenderli senza alcuna difesa, eppure gli era andata bene. Erano stati così esausti da essersi addormentati sui due divani del salotto senza quasi notare la scomodità se non al mattino, quando si erano alzati e avevano i muscoli che facevano rumori inquietanti a ogni movimento.
«Gli abiti te li presto io.» Yuzo valutò fugacemente la fisicità del compagno. «Abbiamo più o meno la stessa corporatura. Forse i miei pantaloni ti staranno un po’ larghi.»
«Ehi! Non ho mica un vitino di vespa!»
Yuzo rise e agitò una mano. «Non prendertela! Non era un’offesa! Al più ti presto una cinta.»
«Ancora! Non sono così magro!» Mamoru si impuntò; quella battaglia la combatteva da sempre anche con sua madre. «Sono slanciato, slanciato! Questa parola non vi dice niente? Tu non sarai chissà quanto più pesante di me, ma hai una struttura fisica più massiccia, tutto qui.»
Ma Yuzo, accanto a lui, non sembrava dare troppa importanza alle sue lamentele visto com’era preso dal ridere, seppure cercasse di essere meno sfacciato. Mamoru incrociò le braccia e girò il viso di lato, con piglio leggermente offeso.
«Accidenti, come siamo permalosi.»
«Non sono permaloso, è che ho già mia madre convinta che io non mangi abbastanza.»
«Persona premurosa?»
«Peggio: è la psicologa della mia scuola.»
«Auguri!» Yuzo gli diede un’amichevole e comprensiva pacca sulla spalla, mentre continuavano a camminare per la città deserta.
Per quanto avesse piovuto tutta la notte, al mattino avevano trovato un cielo incerto, dove le nuvole si spostavano in banchi pesanti che non parevano minacciare altra acqua, almeno per il momento.
Avevano dovuto allungare più volte il percorso e deviarlo, in seguito ai crolli che si erano verificati e le strade bloccate dalle macerie. L’acqua aveva spento i focolai di incendio e solo il fumo era rimasto come traccia, levandosi in lingue nere.
Le ferite mortali di Nankatsu avevano spezzato anche un po’ i loro cuori; ma ogni nuovo taglio sembrava non destinato più a sanguinare, come su un corpo cadavere da troppo tempo.
Nel tragitto verso la casa di Yuzo, si erano fermati a prendere dei walkie-talkie e un ricambio di biancheria per Mamoru; ma ora l’abitazione dei Morisaki non era più così lontana.
«Altro che ‘auguri’.» Mamoru scosse il capo con dolenza. «Tu non puoi capire, è una fujoshi, convinta che un giorno tornerò a casa a braccetto con un ragazzo. Un bel ragazzo, bada bene! Non hai idea delle figure di merda che mi fa fare, povero me.» Si portò una mano al viso, mentre Yuzo era letteralmente piegato in due dalle risate. I suoi occhi scuri emersero da dietro le dita, ma non riuscì a trattenere a sua volta un mezzo sorriso; Yuzo aveva un bel modo di ridere che aveva imparato a conoscere prima attraverso gli occhi degli altri, e ora che poteva ascoltarlo e vederlo dal vivo gli era toccato convenire.
«Non ridere in maniera tanto sfacciata. Fidati che non è divertente.»
«Scusa! E’ che provavo a immaginarti e…» E giù un’altra risata.
«Dillo pure che questo è il tuo modo di vendicarti per tutto quello che ti ho fatto patire in passato, coraggio!» Gli pungolò il fianco con l’indice e Yuzo, che avrebbe davvero voluto smettere di ridere, continuò più forte di prima.
Mamoru ne osservò il profilo, affascinato dal modo in cui le guance si erano fatte rosse e le lacrime erano spuntate agli angoli degli occhi serrati. Scosse il capo, lasciando che anche a lui sfuggisse una mezza risatina.
«Certo che sei contagioso» disse più piano ma il portiere non lo sentì.
«Ok! Ok, la smetto! Adesso mi calmo!» Si passò le mani sul viso e sbatté un paio di volte le palpebre, mentre gli ultimi sprazzi di riso si esaurivano a poco a poco. Prese un profondo respiro e tornò più serio. «Quando prendo il via, ci metto un po’ a fermarmi. Scusa.»
«Non devi mica scusarti. Ridere non può che farci bene, in questo momento.» Mamoru aveva un mano in tasca e con l’altra reggeva la busta con le cose che avevano preso lungo la strada. Dondolava ai suoi movimenti, penzolando mollemente dalle dita. «Se ci riusciamo ancora, significa che non va poi tutto così male, no?»
«Forse… o forse è perché non ci siamo ancora arresi a quello che sta succedendo.»
«Allora è un fottuto buon segno.»
Si scambiarono un sorriso che voleva essere fiducioso, ma risultava ancora troppo spaventato e ragazzo, piuttosto che lucido e maturo, come avrebbero desiderato di essere già, in quel particolare frangente. Avessero avuto la maturità degli adulti, forse sarebbero riusciti a risolvere la situazione in un batter d’occhio e invece non gli restava che brancolare nel buio, procedere a tentoni e stare attenti a non ferirsi con chiodi e lamiere divelte.
«Mi manca non sentirla ciarlare di manga yaoi o di chi sarebbe il mio tipo di ragazzo ideale.» Fu un’ammissione più a sé stesso che una confessione. «E mi manca non sorprenderla in cucina con mio padre che improvvisano un ballo su qualche vecchia canzone un po’ retro.»
«Sembrano una coppia molto affiatata.» Yuzo sorrise. «Senti, magari dopo possiamo fare un salto da te. Stare tra mura conosciute credo possa essere d’aiuto, adesso.»
Mamoru sbuffò via una smorfia ironica. «Non c’è più nessuna casa cui tornare.»
«Che vuoi dire?»
«Ero lì quando è comparsa la Crepa che mi è corsa dietro. Ho avuto solo il tempo di uscire e quando mi sono voltato, di casa mia non era rimasta che un’enorme nuvola di polvere e detriti.»
«Mi dispiace...»
Mamoru si strinse nelle spalle. «Capirai, tanto tutti i ricordi che avevo dei miei sono scomparsi. Le foto, gli oggetti. Tutti già perduti. Quelle non erano che mura bianche, avevano già perso la nostra storia. Tutto ciò di cui ho bisogno ce l’ho ancora in mente e nessuno me lo potrà togliere se non con la forza.»
Yuzo tornò a guardare la via che si apriva davanti ai suoi passi e non disse altro. A Mamoru parve che fosse più ferito di lui e ricordò quanto il concetto di ‘casa’ fosse importante e radicato nel giovane, parte inscindibile del suo DNA che passava di vita in vita, di realtà in realtà e non poteva essere lasciato indietro. Yuzo era molto sentimentale, a differenza sua. Era il tipo che non faticava a credere nell’anima delle cose e i sognatori erano come le falene: i primi a saper trovare una luce anche nel buio e i primi a bruciarsi le ali. Forse era per questo che in ogni fottuta realtà che aveva visto c’era bisogno di uno come lui al suo fianco, che lo proteggesse e lo guidasse. Qualcuno che gli aprisse la strada e la liberasse dai pericoli.
«Manca ancora molto?» Mamoru cercò di ravvivare la conversazione e spezzare la tristezza.
«No, ci siamo.» Yuzo indicò una piccola villetta a due piani nella schiera che si estendeva per tutta la strada. Aveva la cancellata bianca e dei rampicanti avvinghiati alle sbarre che avrebbero avuto bisogno di una potatina. Avevano già cacciato le foglie nuove ma per i fiori ci sarebbe voluto ancora un po’.
La differenza economica tra i loro quartieri era piuttosto evidente già solo nell’architettura. Lì le case erano piuttosto piccole, con un garage di un solo posto auto e abitazioni da cinque o sei stanze, massimo. Erano di nuova costruzione e non tradizionali come il quartiere in cui vivevano Sanae e Ryo.
Mamoru però si guardò attorno apprezzando quanto il clima apparisse più raccolto e sembrasse esserci meno formalità e distacco tra i vicini.
«Mi piace, qui. Non ci ero mai passato, credo.»
«E’ piuttosto ‘popolare’
Mamoru inarcò un sopracciglio a quell’osservazione. «E allora?»
«Beh… è diverso dalla zona in cui abiti tu. Sei del quartiere dove c’è la Shutetsu, no? Lì le ville sono due volte queste.»
«Ehi, chiariamo una cosa.» Mamoru si fermò e gli puntò contro il dito con piglio severo e un po’ offeso. «Non sono uno stupido figlio di papà con la puzza sotto al naso, ok?»
Le gote di Yuzo presero colore per quel piccolo rimprovero, simile a quello della sera precedente, poi però si ritrovò a sorridere con tale sincerità da mettere in imbarazzo Mamoru.
«Adesso lo so. Mi ero fatto proprio un’idea sbagliata di te.» Riprese a camminare con passo più spedito, mentre Mamoru lo seguiva con un attimo di ritardo.
Sapeva che prima o poi si sarebbe scontrato anche con questo suo aspetto di dire certe cose in un certo modo, si era allenato attraverso le visioni, ma essere il destinatario diretto era un po’ diverso che viverlo per riflesso.
Yuzo varcò il cancelletto e aprì la porta di casa. In una sorta di riflesso condizionato l’aveva chiusa quando era uscito il giorno precedente. Non aveva pensato che sarebbe stato inutile: dalla città erano scomparsi tutti, compresi i ladri.
Mamoru fece capolino alle sue spalle e si guardò attorno con curiosità. L’ambiente era piccolo come gli era apparso dall’esterno, eppure era accogliente e lui non vi si sentì troppo ‘estraneo’.
«Ehi! Non togli le scarpe?»
Yuzo stava già per salire al piano superiore, quando Mamoru lo fermò indicandogli le pantofole.
«Meglio essere prudenti e pronti a fuggire al primo segnale di pericolo.» Il portiere si appoggiò al corrimano. «Ieri siamo stati un po’ troppo avventati. Dovremmo prestare maggiore attenzione a tutto. Non preoccuparti delle scarpe ed entra pure» concluse con un sorriso, tornando a salire e Mamoru lo seguì, guardando la parete che si inoltrava verso l’alto.
C’erano dei quadri appesi, ma delle foto scattate non erano rimasti che semplici paesaggi o il portiere da solo che sorrideva all’obiettivo di un autoscatto. Anche lì, i segni delle altre persone erano scomparsi assieme a loro e quella casa era tornata a essere proprio come la sua: un insieme di mura bianche su cui riscrivere da capo una nuova storia.
Al piano superiore c’erano solo due stanze, Mamoru pensò che quella sul fondo fosse la camera dei genitori di Yuzo, mentre la più vicina alle scale…
«Scusa il disordine.»
Mamoru si fermò sulla soglia, quasi titubante a entrare con le scarpe e quindi sporcare il parquet. Appoggiò una mano allo stipite e sbirciò la camera del portiere. Tetto spiovente, che la rendeva quasi una piccola mansarda; scrivania, finestra che affacciava su un piccolo terrazzino rialzato. L’armadio sulla sinistra e il letto sulla destra, addossato al muro. Un letto ampio, almeno una piazza e mezza e Mamoru non faticò a immaginare cosa ci avessero fatto in quello stesso letto appartenente a un’altra vita, tanto che fu costretto a guardare altrove per cancellare l’ennesima immagine, intrusione di ricordi non vissuti.
Si umettò le labbra e toccò la benda attorno alla fronte, cercando la realtà della figura di Yuzo perfettamente in piedi – e perfettamente vestita! – che stava frugando nell’armadio.
«Disordine? Quale? Avessi visto camera mia ti sarebbe venuto un colpo.»
Yuzo rise. «Non esagerare.»
«Non scherzo. In confronto alla tua, sembra vi sia passato un MiG.» Sollevò lo sguardo e dei poster attaccati alle pareti non erano rimasti altro che sfondi. Un tempo, avrebbero dovuto esserci delle persone raffigurate. Cantanti, forse, o forse sportivi. E quello non era affatto un buon segno, quanto una terribile conferma che sapeva azzerare tutte le loro speranze.
«Non è rimasta neppure un’immagine.»
A quella frase, Yuzo fece capolino lasciando da parte la ricerca degli abiti. Seguì lo sguardo di Mamoru.
«Né una parola nei libri.» Si avvicinò alla scrivania e ne prese un volume. Lo sfogliò e ogni pagina era bianca. Non si leggeva più nemmeno il titolo o l’autore.
Mamoru abbandonò la soglia su cui era rimasto fermo e si fece dappresso. Al suo fianco guardò quei fogli privi di ogni stampa con piglio pensieroso.
«Anche i CD hanno perso la loro musica.»
«Me ne sono accorto anch’io.» Il viso venne girato appena per trovare quello di Mamoru, ma questi restava concentrato sul libro bianco. Yuzo seguì le linee perfette del profilo in maniera attenta, quasi potesse carezzarle con gli occhi. Era strana quella vicinanza, perché strano lo faceva sentire. Dopo aver passato anni a stargli lontano ed evitarlo, adesso che lo aveva accanto quasi desiderava che non andasse più via.
E poi sentiva caldo e freddo, e brividi piccoli piccoli che sembravano zampe di centinaia di formiche.
Lo aveva visto chiaramente che genere di legame, a volte, si era instaurato tra loro nelle altre realtà e aveva visto fin dove si erano spinti che adesso non riusciva a rimanere indifferente alla sua presenza.
«Mi manca non poter ascoltare qualche bella canzone.»
Mamoru accennò un sorriso con un solo lato della bocca e Yuzo si vide costretto a distogliere lo sguardo eppure non si mosse, perché il giovane aveva allungato una mano e aveva preso a sfogliare distrattamente delle pagine.
«Hot summer nights, mid July…» il centrocampista si mise a canticchiare, piano. «When you and I were forever wild.»
Yuzo si volse e si trovò di nuovo a sorridere, improvvisamente dimentico della vicinanza, ma piacevolmente sorpreso da qualcos’altro. «The crazy days, city lights. The way you'd play with me like a child.(1)»
Mamoru staccò gli occhi dal libro per incontrare i suoi e rispose al sorriso dimentico, anche lui, di quanto fossero vicini.
«La conosci?»
«L’avevo sentita alla tv, in una pubblicità. Mi era piaciuta e l’avevo cercata.» Yuzo si strinse nelle spalle e ripose il libro. Si allontanò di un passo e tornò presso l’armadio; aveva sentito distintamente il fiato di Mamoru appoggiarsi sul suo collo.
«Anch’io!»
«Davvero?» E non stentava a crederlo, ormai aveva capito esserci troppe cose che non facevano altro che avvicinarli; una in più non era che l’ennesima conferma di un legame che avrebbe dovuto tenerli uniti già da moltissimi anni, ma che entrambi avevano mal interpretato.
«Già…» neppure Mamoru sembrava così sorpreso come avrebbe dovuto, quasi si stesse abituando a tutto quello e iniziasse a capirlo meglio. Dopotutto, non era affatto stupido.
Yuzo gli porse una maglietta a maniche lunghe e una felpa. «Il mio guardaroba non è molto vario, spero non ti dispiaccia.»
«Sta’ tranquillo, me ne farò una ragione.»
Yuzo gli allungò anche un paio di jeans. «Questi mi vanno un po’ stretti, quindi a te dovrebbero stare bene anche senza cintura.»
Il centrocampista li prese e borbottò. «Non sono magro.»
«Non l’ho detto.»
«Mh…»
«Vieni, ti mostro il bagno.»
Tornarono al piano di sotto e Yuzo prese in consegna i walkie-talkie.
«Fai pure con calma, ok?» Si raccomandò, prima di lasciarlo da solo e chiudere la porta alle sue spalle.
Piano, vi si poggiò contro per alcuni momenti prendendo due profondi respiri e alzando lo sguardo al soffitto.
Da dietro, arrivò lo scatto della serratura che veniva chiusa e inspirò ancora.
L’aveva capito già dalla sera prima che Mamoru non gli era indifferente e forse non gli era mai stato per davvero. Aveva sempre notato la sua bellezza – e come poteva passare inosservata? – ma era stato così impegnato a detestarlo da non saperla apprezzare fin dall’inizio. Adesso sembrava impossibile ignorarla. Adesso che sapeva che quel viso perennemente infastidito sapeva sorridere in tantissimi modi diversi, adesso che sapeva in che modo i suoi occhi erano capaci di guardarlo, adesso che sapeva il modo in cui gli si arrochiva la voce e appesantiva il respiro era come se non fosse capace di farlo tornare sul piano più distaccato cui l’aveva relegato per anni. Le isole su cui avevano vissuto erano irrimediabilmente collise e nell’incastro della pietra impossibili da separare.
Forse era per questo che non aveva mai provato un’attrazione che andasse oltre la semplice curiosità nei riguardi delle ragazze: una parte di lui sapeva di stare aspettando qualcuno in particolare e adesso sapeva anche chi.
Mamoru lo mandava in totale confusione e a volte non era in grado di guardarlo senza rivedere certi momenti delle vite passate che gli mandavano il cuore a mille e il corpo a fuoco.
Come poteva un odio così forte come il loro, che era andato avanti per anni e anni e che sembrava destinato a protrarsi all’infinito, sparire così in fretta senza quasi lasciare traccia se non la perplessità del ricordo?
Sua madre a volte diceva che le cose che riuscivano più semplici erano quelle cui si era destinati, predisposti dalla natura. E se gli riusciva facilissimo andare d’accordo con Mamoru, emozionarsi quando gli si avvicinava un po’ di più e sentirsi a proprio agio quando sapeva di averlo accanto a cosa era davvero destinato, allora?
Quando udì il rumore dell’acqua provenire dalla porta chiusa, Yuzo pensò che una doccia gelata avrebbe fatto bene anche a lui.

Mamoru rimase a fissare la porta chiusa per alcuni momenti, prima di far girare la chiave nella toppa, più per abitudine che per effettivo bisogno di privacy; c’erano solo loro in casa, era sicuro che nessun altro sarebbe potuto entrare.
Con lentezza appoggiò abiti e asciugamani sul piccolo sgabello accanto alla doccia. Guardò la felpa nera sopra tutto prima di prenderla di nuovo tra le mani e portarla al viso, affondare nel tessuto e inspirarne l’odore a pieni polmoni. Profumo di bucato e una nota sottile di lavanda poi, quasi immaginario o forse solo radicato nelle fibre della stoffa, il suo odore. Quello che ognuno porta con sé, quello della pelle. Nell’angolino della mente, la consapevolezza di non aver insistito troppo nel prendere fuori degli abiti per poter indossare i suoi e il suo profumo si fece tanto evidente che espirò con forza, affondandoci anche la fronte nella felpa, quasi volesse nascondersi.
Sua madre sarebbe stata strafiera di lui, mentre lui si vergognava a morte di quanto le altre realtà stessero influendo nella sua, quasi lo condizionassero, e Mamoru detestava piegarsi a voleri che esulavano dalle proprie convinzioni. Eppure, c’era quell’altra parte di sé che lo pungolava in maniera sottile e gli ricordava che se davvero non era convinto di qualcosa allora non si sarebbe certo fatto condizionare dagli altri.
C’era sempre, per quanto si negasse, una base nascosta su cui certi pensieri finivano per attecchire assieme a certe sensazioni e dubbi. In quella base c’era forse la consapevolezza di non aver mai odiato sul serio Yuzo perché convinto che li avesse snobbati, quanto la delusione di non aver mai potuto giocare insieme quando invece aveva sempre sentito a pelle che dovessero trovarsi dalla stessa parte del campo?
Era arrabbiato perché non ci aveva provato, perché vestire divise diverse era sbagliato?
Mamoru emerse da quel mare nero che erano il tessuto della felpa e i suoi pensieri e si spogliò, infilandosi nel box doccia. Con il getto caldo che gli cadeva addosso e gli massaggiava i muscoli in centinaia di dita al secondo, gli scivolava tra i capelli e scioglieva la fasciatura facendola cadere sul piatto della doccia, Mamoru si pentì di non aver mai chiesto a sua madre perché essere ragazzi e adolescenti dovesse essere così complicato e dopo quanti passi si diventava troppo vicini da non poter più tornare indietro.
Si pentì di un sacco di cose e si ripromise che avrebbe dovuto parlare di più con lei, invece che fuggire imbarazzato dai suoi atteggiamenti così spigliati e giovanili. Anzi, avrebbe dovuto ringraziarla per essere così e per sapere che sarebbe stato sempre capito e mai giudicato. Era stato fortunato.
Fece in fretta, memore di come le crepe si aprissero all’improvviso e non voleva certo farsi trovare ancora sotto la doccia casomai fossero spuntate di nuovo. Asciugò i capelli e si rivestì, indugiando qualche attimo ancora davanti allo specchio appannato per il vapore caldo. Vi passò lentamente una mano sopra e nell’immagine che questo restituì, sentì una profonda familiarità: aveva già indossato i suoi vestiti, almeno un migliaio di volte, ma sorrise perché adesso stava toccando alla sua realtà e anche se il contorno delle loro vite poteva cambiare, c’erano cose che non cambiavano mai in qualsiasi universo fossero accadute.
Trovò Yuzo nel salotto, seduto sul divano. Tra le mani reggeva una cornice e la guardava così intensamente da non essersi accorto della sua presenza. Lentamente, vi passava le dita sulla superficie e Mamoru pensò avesse dovuto ritrarre i suoi genitori ma che ora era solo uno sfondo vuoto.
Sul tavolino c’erano dei sandwich belli sostanziosi e succhi di frutta; i due walkie-talkie erano stati tolti dalla scatola e restavano dritti, con le antenne che puntavano il soffitto, infine un mazzo di chiavi e un piccolo kit medico.
«Il bagno è libero se vuoi fare una doccia anche tu.»
Yuzo alzò lo sguardo verso di lui e posò la foto. Mamoru vide che ritraeva solo lui, ma di sicuro non era stato uno scatto solitario in origine. Notò che aveva il vetro rotto e quando prese posto accanto al portiere, in modo da avere una visuale completa dell’ambiente, scorse i frammenti sparsi per terra, non troppo distanti dall’entrata.
«Potevi fare con calma.»
«No, l’hai detto anche tu che è meglio essere più prudenti.»
Yuzo sorrise e gli allungò il piatto. «Ho preparato qualcosa. Hai fame?»
«Ti hanno mai detto che hai lo spirito del casalingo?» Mamoru sghignazzò, però il sandwich lo prese e lo addentò anche con gusto.
«Non ho lo spirito del casalingo, sono solo bravo in economia domestica. A differenza tua.»
«Mmmh, hai capito che permaloso.»
Risero, a loro agio nel prendersi in giro, nel condividere lo stesso spazio e il cibo. Avrebbe dovuto essere tutto nuovo per entrambi e invece era come se fosse sempre stato così e che l’errore risiedeva nel prima.
Con la stessa disinvoltura, Yuzo allungò una mano per scansargli i capelli dalla tempia. «Si sta sanando, credo che della fasciatura non ci sia più bisogno, però è meglio disinfettarlo e metterci un cerotto.»
Armeggiò svelto con il kit e prese l’acqua ossigenata. Mamoru lo lasciò fare senza neppure una protesta, per la seconda volta. Anzi, girò il viso affinché gli risultasse più semplice fargli la medicazione.
«I walkie-talkie sono pronti all’uso, li ho settati sul Canale-1. Sai già come si usano? ì»
Mamoru si allungò e ne prese uno, rigirandolo tra le mani con curiosità. «A dire il vero, no.»
«E’ facile: per accenderlo c’è il tasto con il circuito aperto.» Quello classico che si trovava su qualsiasi oggetto tecnologico: dalla televisione, al telecomando, al cellulare. «Quando è pronto, non devi fare altro che tenere premuto il tasto al lato dell’apparecchio e parlare.»
Mamoru intercettò il suo sguardo con la coda dell’occhio, una smorfia gli piegò le labbra quando il disinfettante gli fece pizzicare la ferita.
«Ti interessi di queste cose? Mi sembra che tu ne sappia parecchio.»
Yuzo sorrise. «Me l’ha insegnato mio padre.»
«Cos’è, un poliziotto?»
«Più o meno. Fa parte della Forestale.»
«Figo!»
Yuzo sospirò, terminando la medicazione. «Non lo è poi così tanto quando ti rendi conto che riesci a vederlo solo per un’ora al giorno. Due, se sei fortunato.»
«Orari inconciliabili?»
«Quando lui è in pausa io sono fuori tra scuola e club di calcio, e nel momento in cui torno a casa, lui deve uscire per iniziare il turno.» Yuzo accennò un sorriso poco convinto nel metter via il kit medico. «Ormai ci siamo abituati.»
«Non è vero.»
Yuzo si fermò e Mamoru non seppe perché l’avesse detto con tanta convinzione, come se fosse certo che stesse mentendo, e invece di chiedergli scusa per essere stato invadente continuò.
«Lo dici solo per non farglielo pesare. Però lo sai bene che ti manca.»
Stranamente, invece di sentirsi punto su un nervo scoperto e reagire con fastidio, Yuzo si ritrovò a sorridere di come la frase che diceva sempre non avesse minimamente attecchito su Mamoru. Era quella la sensazione di leggerezza che si provava quando si sapeva di essere capiti a un livello superiore. Nemmeno Theo e Kenta arrivavano a tanto; Mamoru ci era riuscito in un giorno scarso che si frequentavano.
Lasciò stare il kit e non ebbe timore di affrontare il suo sguardo nel parlargli con sincerità.
«Mette dedizione e impegno in quello che fa, so che lavora tantissimo anche per noi; per me, in particolare, per pagarmi gli studi. Mi sembrerebbe infantile ed egoista piagnucolare per la sua assenza. Non voglio che si preoccupi più di quanto già fa.»
«E così gli dimostri che te la sai cavare da solo.»
«Ci provo.»
«Buono e modesto.» Mamoru si rilassò contro l’imbottitura del divano, fissando il sandwich cui aveva dato un paio di morsi e ripensando con una certa ironia a quanto l’avesse irritato quel suo modo di fare, convinto che fosse solo una facciata. «Anche io mi ero fatto un’idea sbagliata di te.»
«Beh, stiamo rimediando, no?» Yuzo lo imitò nell’appoggiarsi allo schienale, ma aveva una posizione meno composta.
Mamoru tese il labbro verso destra con la sua solita ironia, che però non era più volta a denigrare il portiere. «Riesci a immaginare la facce che faranno Hajime e Teppei quando gli dirò che abbiamo smesso di litigare?» diede un altro morso al sandwich.
«A Kenta verrà un colpo!»
«Sicuro che non gli piaccia il nomignolo ‘kirinriki’? Secondo me gli sta bene.»
«Avevamo un accordo noi due!» Yuzo gli puntò minacciosamente l’indice contro, ma sotto sotto sorrideva.
«Sì, sì! Lo so! Scherzavo.»
Alzò le mani in segno di resa e poi sospirò. Spostò lo sguardo sull’ambiente che lo circondava: il camino, le tende, la televisione. Mobili di un certo gusto che ricordavano la presenza di una mano femminile dietro la loro scelta, ma quella stessa mano, ora, non era che ricordo scomparso da ogni immagine. Guardò la pianta accanto alla vetrata da cui la luce entrava senza troppa prepotenza e poi guardò, sul tavolino, i segni che indicavano che c’era ancora vita in quel mondo svuotato, ma chissà per quanto ancora e chissà se ciò che ora era ricordo sarebbe tornato a essere reale di nuovo.
«A volte penso che non ci sia più speranza e che nessuno tornerà. A nessuno racconteremo come sono andate le cose.»
«Sono io quello che si scoraggia e tu quello sprona, non rubarmi il ruolo.» La mano di Yuzo cercò il contatto, fermandosi sul suo ginocchio e Mamoru la fissò immaginando di sentirne il tocco sulla pelle attraverso i jeans; ne avvertiva già il calore. Per un attimo, pensò che l’impulso a stringere le sue dita avrebbe vinto su tutto il resto e invece fu in grado di frenarlo. La mano si ritrasse, tornando nello spazio che apparteneva al suo proprietario, e piuttosto che sentirsene sollevato, ne avvertì la mancanza.
Anche lo sguardo di Yuzo sembrava essersi perso nell’ambiente che li circondava nel tentativo di afferrare i ricordi come se questi fossero solo divenuti invisibili e non scomparsi, per ritrasportarli nel presente.
«Vedrai che capiremo come risolvere tutto questo e dopo rideremo con i nostri amici e racconteremo loro di come abbiamo passato praticamente buona parte della nostra vita a odiarci per una cretinata.» Agli occhi di Mamoru, il portiere sembrava crederci sul serio e forse vederlo, perché stava sorridendo. «Avremmo dovuto avere qualche sospetto, visto che in tutte le altre realtà noi-»
Yuzo interruppe la frase all’improvviso, perdendo anche la presa sul sorriso in favore di un’espressione più seria, quasi sorpresa.
Mamoru inarcò un sopracciglio, appoggiando il sandwich a metà assieme agli altri. Studiò come la mimica del volto mutasse in maniera svelta e non riuscì a capire se fosse o meno un buon segno.
«C’è qualcosa che-»
«Ho capito!» Yuzo gli prese istintivamente il braccio, stringendolo con forza e guardandolo dritto negli occhi senza averne né timore né imbarazzo. «Ho capito il problema! Qual è l’errore!»
«L’errore…?»
«Sì! Il perché questa realtà stia crollando! E’ come… è come un computer che va in crash per colpa di un bug!»
«Un bug?» fece eco, cercando di riuscire ad afferrare lo stesso ragionamento che aveva portato il portiere alla verità.
«Esatto! E il bug è-»
La vibrazione che fece tremare divano e tavolini interruppe di nuovo le parole di Yuzo che si fermò e rimase in tensione con ogni nervo e muscolo del proprio corpo.
«Cos’è? Lo senti? Sembra un terremoto…»
«E’ peggio di un terremoto…» Mamoru si alzò lentamente e si guardò attorno, cercando di capirne la provenienza. I suoi occhi si fermarono sulla parete che si opponeva alla porta di ingresso al salotto. Toccò la spalla di Yuzo e la strinse. «Sono le Crepe
La parete crollò l’attimo dopo, aprendo un foro che si diramò fino al soffitto e oltre. Il pavimento si aprì in due come divorato da termiti, solo che non era fatto di legno e non c’erano insetti.
«Fuori di qui!» gridò Mamoru e Yuzo agguantò al volo le chiavi e la ricetrasmittente ancora rimasta sul tavolo.
«Al garage!»
Mamoru si sentì strattonare per il polso in tutt’altra direzione.
«Al garage?! Ci mettiamo in un vicolo cieco!»
«Fidati!» Yuzo lo trafisse con lo sguardo deciso di chi aveva già pianificato tutto e Mamoru non disse altro, si fidò e lo seguì attraverso la porta che si trovava accanto al bagno.
Si girò solo un attimo, dove il rumore proveniva più vicino e più intenso e la polvere del cemento iniziava a cadere anche su di loro. I blocchi non sarebbero stati in grado di reggere a lungo la tensione e presto tutto sarebbe crollato proprio come era successo a casa sua.
Si volse e la luce della serranda già aperta gli mostrò la grossa sagoma coperta da un telone proprio nel momento in cui Yuzo lo tirò via.
«U… un quad?! Tu hai un quad in garage?!»
«E’ una storia che spero di raccontarti più tardi! Al volo!» Yuzo gli lanciò un casco integrale e ne indossò uno a sua volta.
«Giuro che questa voglio proprio sentirla, cazzo!» Mentre lo borbottava, Mamoru non avrebbe saputo dire cosa lo spaventasse di più, adesso, se lui che saliva su un quad, Yuzo che lo guidava o le crepe che stavano per fargli crollare l’intera casa in testa.
Mise il casco senza protestare e montò alle spalle del portiere già in sella.
«Dimmi che sai come si guida!»
«Ti farebbe sentire più tranquillo se ti dicessi di ‘sì’
«Fammi contento.»
«Allora sì.» Yuzo mise in moto e il motore rombò nel momento in cui diede un paio di colpi di gas per farlo scaldare più in fretta. «Reggiti!»
Mamoru non se lo fece ripetere, gli strinse la vita quasi avessero dovuto diventare un tutt’uno. «Posso cominciare a dire le mie preghiereeeeeeh?!»
La ‘e’ venne allungata a dismisura quando il quad partì a razzo abbandonando la villetta e immettendosi in strada nella maniera meno ortodossa possibile. In condizioni normali, gli sarebbe valso il ritiro immediato della patente, ma tanto Yuzo non ce l’aveva neppure, vista la minore età, e a Mamoru non restò che tenersi stretto a lui mentre sfrecciavano per le strade di Nankatsu.
La casa dei Morisaki crollò alle loro spalle come l’ennesimo ricordo perduto tra migliaia di altri senza che nessuno di loro due potesse evitarlo. Tutto ciò che potevano, ora, era solo scappare, per andare dove non era ancora chiaro, ci avrebbero pensato se fossero sopravvissuti a quell’ennesima crepa.

 

 


[1]: la canzone è “Young and Beautiful” di Lana del Rey :3


 

 

Nota Finale: Lo so, sono in anticipo, ma mi è toccato aggiornare prima perché probabilmente domani non ci sarei riuscita. :( Ancora non ho trovato il cavo e domani starò via praticamente l'intera giornata. Così, ho deciso di darvi ora il nuovo capitolo :).
I nostri due scemotti si sono avvicinati ancora un po', e forse non è affatto difficile come avevano sempre creduto, però... XD beh, io l'avevo detto che ci sarebbe stato un nuovo scossone... nel vero senso della parola XDDDD Ma cosa succederà? Yuzo e Mamoru riusciranno a sfuggire alla Crepa Vivente che cerca in tutti i modi di farli scomparire nella sua voragine?
;) Staremo a vedere.

Grazie a tutti coloro che seguono questa storia! :DDDD

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Capitolo 9
*** VII - fixing the bug (parte I) ***


Documento senza titolo

Nota Iniziale: ancora un aggiornamento anticipato perché domani starò via tutta la giornata!
Buona lettura e ci risentiamo nelle note finali :*

 

The Bug
- VII: fixing the bug -
(parte I)

 

Yuzo aveva visto, attraverso uno degli specchietti laterali, come la casa si era accartocciata su sé stessa venendo avvolta da una gigantesca nuvola di polvere.
Il groppo della nostalgia era rimasto bloccato in gola incapace di uscire perché fermato dall’adrenalina che pompava sangue a non finire, e lui ebbe la forza di riuscire a ingoiarlo e a tornare a guardare la strada che si apriva in bivi conosciuti e meno noti e scelte da prendere al volo per riuscire a fare le curve senza ribaltarsi.
«Ci sta dietro e non ci molla!»
Mamoru gli dava notizie sulla crepa. Sentiva le sue mani stringergli la felpa sullo stomaco e il petto aderire alla schiena. Nella fretta, non avevano neppure preso una giacca e l’aria fessa dal quad a settanta chilometri orari sapeva essere fredda e insinuarsi tra gli spifferi del collo e delle maniche.
«Non ho idea di dove cazzo stiamo andando!» disse in tutta sincerità, ma la via era deserta e questo giocava a suo favore.
«Dobbiamo cercare di seminarla!»
«E come?! Quella sfonda i palazzi!»
Mamoru dovette ammettere che Yuzo non aveva tutti i torti. Si girò di nuovo e lo sbuffo della polvere che si sollevava nell’approfondirsi della voragine non sembrava trovare alcuna soluzione.
«Gira a destra! Usiamo percorsi più imprevedibili e meno lineari!»
Yuzo lo prese in parola e curvò al primo bivio che incontrò. La coda del quad sbandò appena, ma riuscì a tenerla in carreggiata.
La crepa era ancora dietro di loro.
Yuzo sterzò a sinistra e quella non li mollò. Di nuovo a sinistra, tagliando per i giardini e saltando muretti come fossero trampolini fino ad arrivare nel centro città, ma quella era sempre lì, quasi volesse loro a tutti i costi. Yuzo ringhiò osservando il pennacchio nero e grigio levarsi attraverso il riflesso dello specchietto.
E ruggiva.
La crepa ruggiva nel mangiare la terra e l’asfalto, nello sfondare il cemento e abbattere il legno in centinaia di schegge. Poi si avvampò di fuoco quando fece saltare la pompa di benzina.
Istintivamente sia lui che Mamoru abbassarono il capo nel fischiare dell’esplosione e il suo sbuffo divenne rosso e arancio. Yuzo avrebbe giurato di averci visto anche due occhi gialli come il demonio e denti nerissimi.
«Cazzo, frena!»
Yuzo tornò a guardare la strada. Si era distratto un momento di più e quando scorse le macerie dei crolli precedenti pensò per un attimo che ci sarebbero finiti dentro e che non avrebbe saputo rallentare in tempo.
La sterzata, invece, si completò sul filo del baratro già creato e lui dovette fare uno sforzo terribile per riuscire a tenere il quad dalla parte giusta. Decelerò mentre raggiungeva la metà della derapata e poi diede di gas.
Stavolta, la crepa non riuscì a stargli dietro e andò dritta, schiantandosi nella voragine e mandando all’aria le vecchie macerie.
«Sìììì!» Mamoru esultò, sollevando un pugno al cielo. Gli diede un colpetto sul casco. «Ma chi cavolo sei?! La reincarnazione di Daijiro Kato(1)?!»
Yuzo non replicò: aveva ancora il cuore a mille per aver visto la morte passargli accanto e fargli anche ‘ciao’ con la mano, la gola secca e poca voglia di esultare. Si concesse solo di rallentare i giri, ma continuò a guidare tenendo sotto controllo la lunga ferita che tagliava Nankatsu a metà.
«Ehi? Tutto ok?» Mamoru lo chiamò con un leggero colpetto all’addome.
«Sì…»
«Ce ne siamo liberati, per adesso. Puoi anche fermarti un attimo.»
«No.» Yuzo non si sentiva tranquillo. «Non mi fido di quelle dannate Crepe Viventi
E Mamoru non se la sentì di insistere, capendo solo qualche secondo più tardi di aver avuto la giusta intuizione.
Il cigolio aveva dapprima i connotati di un vero lamento, come quello delle balene sott’acqua o di un mostro ferito come tantissime volte ne aveva affrontati nei videogames. Poi divenne più forte e definito, simile a una lamiera che si piegava non riuscendo a reggere lo sforzo.
«Lo senti?» Yuzo girò la testa. «Che ti avevo detto?!»
Dalle macerie emerse il primo sbuffo di polveri, e li seguiva, andava di pari passo.
«Merda…» Mamoru lo esalò appannando leggermente il vetro del casco.
Il pennacchio si fece più alto e frequente e stavolta il mostro emerse davvero: aveva un corpo di metallo contorto e denti di lamiera lucente, pelle di mattoni e cemento e corna di legno. Li guardò con occhi di vetro e sembrò spalancare le fauci in un verso stridente che sembrava volesse scorticar loro i timpani. La sua sagoma oscurò la luce già filtrata dalle nubi, stagliandosi imponente contro il grigio.
Entrambi si trovarono a sollevare il capo con paura.
«Per tutti gli Dei…» Mamoru non sapeva più che dire, il vocabolario ridotto a un’imprecazione o a una preghiera, a seconda dei momenti, mentre Yuzo… Yuzo seguiva la sagoma della ‘cosa’ che si scrollò ogni pezzo da dosso e tornò a essere invisibile ma distruttiva e capì che a Nankatsu era troppo pericoloso rimanere, perché le vie di fuga erano tutte bloccate.
Sterzò di colpo, tanto che sentì Mamoru stringersi di più contro di lui, colto impreparato dalla manovra, e puntò dritto alla statale che collegava la città a Fujinomiya. Sarebbe stata tutta strada dritta e la crepa non avrebbe faticato a rincorrerli, ma non c’era altra scelta se non quella di andare avanti fino a che avrebbero potuto. Un modo per fermarla, uno qualunque, doveva pur esserci visto che la prima volta erano stati graziati.
«E’ di nuovo dietro di noi!»
Mamoru la vide staccarsi dalla vecchia voragine per mettersi nella loro scia, come se non li avesse mai persi di vista. Polvere e terra di nuovo in mille sbuffi, e case che franavano e venivano inghiottite, e nuove ferite nella loro città martoriata più che sotto a un bombardamento: era come venire sventrati.
«Andando dritti non riusciremo mai a seminarla!»
«Non ci riusciremmo comunque, l’hai visto anche tu!» Yuzo non perdeva d’occhio la loro inseguitrice tramite gli specchietti, controllandone soprattutto la distanza.
«E allora che pensi di fare?»
«Guidare fin quanto possibile o finché non si stanca.»
Mamoru non era convinto di quella scelta ma sapeva non essercene altre; se avessero rallentato o si fossero fermati, quella bastarda li avrebbe presi in un attimo.
Passarono sotto un cartellone stradale che indicava uscite e svincoli, ma loro tirarono dritto.
«Andiamo a Fujinomiya?»
«Una città vale l’altra! Magari riusciamo a trovare qualche sopravvissuto come noi.»
Se di sopravvivenza si poteva parlare. Nessuno era davvero morto, quanto scomparso, ma entrambi sapevano che l’ipotesi di Yuzo non era che una speranza vana, detta solo per illudersi di non essere davvero soli, unici rimasti sul pianeta. Era un modo per farsi coraggio e tenere lo sconforto nella propria scia assieme alla crepa.
Ma non era quello il momento di mentire a sé stessi, quanto di restare ben ancorati alla concretezza della realtà che ora girava loro intorno. Bisognava essere lucidi perché la lotta per la sopravvivenza – per quanto riguardava loro due era davvero tale – non conosceva pause né illusioni.
Yuzo strinse gli occhi mentre guardava davanti a sé. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato e che le nubi troppo basse in lontananza volessero cercare di nasconderglielo, ma a ben guardare e come era sempre stato nei suoi ricordi, nessuna nuvola era mai riuscita a coprirlo così bene, quasi sembrasse non essere mai esistito.
Yuzo sentì un brivido gelido corrergli lungo le braccia e la schiena e non era solo per gli spifferi d’aria.
«C’è qualcosa che non va…»
«Cosa hai detto?»
«Non riesco a vederlo! Eppure gli stiamo andando incontro; dovrebbe essere lì, proprio davanti a noi!»
«Che cosa?!»
«Il Fuji! Non vedo il cono del Fuji!»
Mamoru allungò meglio il collo oltre la sua spalla. Strabuzzò gli occhi, protetti dal casco, quando si accorse che aveva ragione: il Fuji non c’era più e non era solo perché le nubi l’avevano coperto. Non c’erano più le sue pendici, non c’erano più le campagne che si aprivano ai suoi piedi, non c’era più Fujinomiya.
«Che diavolo è quella roba?! Guarda!» Mamoru allungò un braccio indicando un punto in cui le nuvole si erano parzialmente sollevate. «Lo vedi anche tu?!»
E Yuzo lo vedeva, sì, lo vedeva bene.
Al posto del paesaggio che aveva sempre conosciuto c’era un enorme muro bianco, così lungo e così alto da non riuscirne a vedere la fine. Tagliava ogni cosa, strade e montagne, tagliava case e città intere ed era sempre più vicino. Troppo vicino.
«Ci finiremo contro!» Yuzo rallentò ma non troppo perché la crepa era ancora lì e guadagnava terreno.
«Abbiamo una via di fuga?»
Yuzo si guardò attorno, il fiato pesante appannò fastidiosamente la visiera ma ci vedeva abbastanza per notare che sia da una parte che dall’altra non c’era altro che il declivio che scendeva dalla strada verso i boschi circostanti e nient’altro. La libertà di manovra con il quad era nulla perché se avesse sterzato in quel momento senza avere il tempo di decelerare il giusto si sarebbero ribaltati, ma se avesse decelerato troppo sarebbero finiti dritti tra le fauci della crepa.
«Non ce ne sono.»
L’imprecazione di Mamoru rimbalzò all’interno del casco e lì rimase, senza che riuscisse ad arrivare a Yuzo.
«E quindi siamo morti?» arrivò invece, ma c’era una nota di rassegnazione.
Sembrava di essere giunti alla fine di una partita serrata e di aver capito che la scritta che avrebbe lampeggiato sullo schermo sarebbe stata un classico ‘Game Over’. Ma a Yuzo era rimasta ancora un’idea perché non avrebbe mai lasciato che Mamoru morisse; era una certezza che sentiva venire da dentro, dalla parte più profonda del suo spirito. Chissà se ci era nata, lì, o ce l’aveva messa qualcuno, se gli fosse stata inculcata dalle altre vite che aveva visto o se aveva scelto che venisse alla luce per libero arbitrio, pura emozione. Sapeva solo che c’era e che l’avrebbe assecondata, come si faceva con i sogni più grandi e indistruttibili.
«Ci resta una sola possibilità e una strettissima scelta di tempi. Te la senti?»
«Dipende da cosa proponi.»
«Salta.»
«Cosa?!» Mamoru lo chiese con una nota più acuta; non approvava era chiaro. «No, pessima idea!»
«E’ l’unica che abbiamo, non essere testardo!»
«E tu che farai?!»
«Salterò anch’io!»
Ci fu il silenzio, Mamoru stava valutando l’idea, ma non c’era più tempo per pensare, solo agire.
«Non è una proposta! Fallo e basta!» Yuzo decelerò appena un po’ e la crepa si fece ancora più vicina, ormai la polvere sbuffata arrivava a colpire il telaio del quad in pietrisco sottile e così i loro caschi.
«Saltiamo insieme!»
«No! Si sbilancerebbe troppo!»
«Scordatelo! Non ti lascio indietro!»
Testardo, proprio come lui, e Yuzo si chiese se anche Mamoru non sentisse quello stesso desiderio di proteggerlo.
«Salterò subito dopo di te!»
«Devo essere certo che-»
«Dannazione, Mamoru! Ti sei fidato quando mi sono messo alla guida di questo affare, fidati anche adesso, cazzo!» Yuzo si volse per riuscire a carpire il suo sguardo da dietro la visiera. «Il tempo è finito e questa è l’unica speranza che ci rimane di vivere ancora un po’ per capire come rimediare a questo casino, quindi fai quello che ti dico!»
Il centrocampista fissò i suoi occhi in silenzio e poi il casco quando il portiere tornò a guardare avanti.
Dove aveva imparato quel modo di imporsi? Nei frammenti di ricordi l’aveva visto poche volte, ma era forte e aveva ragione. Ancora una possibilità, per trovare una soluzione e tornare indietro. Ancora una possibilità per scongiurare la fine di quella realtà. Ma se avesse accettato, voleva che fosse chiaro che avrebbe agito a una sola e unica condizione.
Strinse più forte la felpa di Yuzo e si sporse verso di lui. «Non azzardarti a morire!»
Quella era la condizione, prendere o lasciare.
Guardandolo con la coda dell’occhio, il portiere annuì. «Neanche tu.»
E fu chiara a entrambi la presenza di un’appartenenza reciproca, di un laccio che li aveva sempre tenuti uniti anche se loro non se n’erano mai accorti. Capi estremi della stessa corda, si appartenevano come i poli a una calamita e ora che lo sapevano non avrebbero mai più dovuto dimenticarlo.
«Preparati. Ti do io il segnale.»
Mamoru non protestò e stando attento a non perdere l’equilibrio si sollevò dal sellino. Appoggiandosi a Yuzo vi salì sopra, puntando i piedi verso sinistra e piegando le ginocchia.
Il muro bianco era l’orrore dell’oblio, la mostruosità della dimenticanza contro cui non sapevano cosa sarebbe accaduto: se uno schianto o la scomparsa. Dietro, invece, la morte certa si opponeva all’incerto con la solidità della sua polvere e la visibilità della distruzione che lasciava; sembrava che il mondo o ciò che ne restava dovesse spaccarsi in due.
«Adesso! Salta!»
La voce di Yuzo era concitata, esplodeva la tensione dentro al casco e arrivava ovattata ma non perdeva la forza dell’urgenza.
Mamoru strinse la sua spalla un’ultima volta, come monito e ricordo, come un nodo che veniva fatto al fazzoletto per non dimenticare un appunto importante o una promessa, poi si lanciò.
L’impatto col suolo arrivò più tardi di un semplice salto da un muretto e più veloce di quanto avesse immaginato. Non riuscì a controllare nulla di quello che aveva pensato; troppo convinto che sarebbe stato come i film che vedeva in tv e invece gambe e corpo sembrarono godere di una vita propria che esulava dalla sua volontà. Non si rese neppure conto se urtò qualcosa, seppe solo che il dolore non arrivò nel ruzzolare giù per il declivio, lì sentì solamente la durezza del suolo scivolare sotto di lui che vi rotolava con rimbalzi decrescenti assieme alla velocità.
Quando il corpo decise di fermarsi la terra continuò a girare, almeno così gli parve sia che avesse gli occhi chiusi che aperti. E con il fiatone che rendeva l’aria all’interno del casco irrespirabile si chiese se fosse ancora vivo o fosse stato inghiottito dalla crepa maledetta. Sul momento, seppe solo che non riusciva a muoversi e che il dolore stava arrivando piano piano in ogni parte del corpo. Testa compresa, nonostante la protezione.
Mamoru trascinò una mano sull’erba e riuscì, non seppe come, a girarsi su un fianco. Le dita cercarono di slacciare il casco con il desiderio disperato di poter respirare. Sganciò i fermi e quasi se lo strappò da testa, crollando di nuovo con la schiena al suolo per il movimento brusco.
Inspirò a pieni polmoni e bocca spalancata con gli occhi che si aprivano e chiudevano lentamente più volte, mentre anche il cielo smetteva di girare e le fronde degli alberi, che si alzavano altissimi sopra di lui, si fermavano.
Aveva male ovunque, ora lo sentiva. Sarebbe stato tappezzato di lividi, se gli fosse andata bene, e visto che, di primo acchito, non sentiva di aver nulla di rotto allora era stato fortunatissimo.
D’intorno non udì neppure il verso lamentoso della crepa che si ingrandiva alle loro spalle. Non sentiva niente.
Spalancò gli occhi e diede fondo a tutta la sua volontà per rotolarsi di nuovo su un fianco e cercare di tirarsi su, anche solo carponi, da principio, e poi in piedi, barcollando come un ubriaco.
«Yuzo… Yuzo…» masticò il suo nome nella bocca pastosa e si trascinò per il declivio iniziando a risalirlo. La terra gli franò più volte da sotto ai piedi, ma lui vi immerse le mani completamente, si aggrappò all’erba e agli arbusti e non si fermò. «…Yuzo…»
C’era solo il suo nome nella testa e nella forza che guidava ogni gesto. La volontà di arrivare in cima e vedere se stava bene.
«Yuzo!» Nel silenzio non ottenne alcuna risposta e pensò che fosse solo troppo distante, che non avesse alzato abbastanza la voce. Del fatto che la crepa avesse potuto attivarsi di nuovo e cambiare traiettoria non gli importava nulla, ed era convinto che fosse scomparsa all’interno del muro bianco. Se ci pensava bene, forse l’aveva sentita gridare nell’attimo dell’impatto, ma non avrebbe saputo dirlo con certezza, era stato troppo impegnato a ruzzolare via.
Guadagnò la cima con la stessa soddisfazione di un alpinista sull’Everest ma lo spettacolo che gli si presentò davanti strozzò ogni verso in un lamento di dolore: la strada non esisteva più, al suo posto c’era una voragine di cui non si vedeva il fondo e Mamoru neppure si sporse per valutarlo. Il Muro Bianco era proprio lì accanto, più vicino di quanto il centrocampista avesse creduto; lo guardò con lo stesso orrore con cui aveva fissato la voragine. Le vertigini lo colsero di nuovo e lui si portò una mano alla fronte pulsante mentre cercava di mantenere l’equilibrio. Quando ritirò le dita, vide il sangue e capì che la ferita si era aperta in seguito alla caduta.
«Yuzo?» chiamò, prese fiato e gridò più forte. «Yuzo! Yuzo, rispondimi!».
Con passo malfermo, Mamoru si mosse camminando lungo il bordo della voragine e poi si guardò indietro, sperando che comparisse dallo stesso declivio per cui lui era ruzzolato.
«Riesci a sentirmi?!» Ma il silenzio vinceva, vinceva su tutto e si ritrovò con le mani nei capelli e il cuore pieno di una disperazione che non sapeva neppure da dove fosse sgorgata fuori. «Lui ce l’ha fatta… in qualche modo, ce l’ha fatta… deve avercela fatta…»
Lo cantilenava piano per convincere sé stesso, poi cercò un appiglio cui sostenersi e la mano affondò involontariamente nel Muro.
Mamoru la ritrasse con orrore e un gridolino quando la vide scomparire al suo interno quasi che quella parete fosse fatta di perfetto ‘nulla’. Niente da toccare, niente da vedere né sentire.
«Merda! Merda… merda…» Arretrò, si guardò attorno e si ricordò che aveva ancora un’arma da usare. «Il walkie-talkie!»
Nella fuga l’aveva messo in tasca e lì lo trovò. Lo accese, il canale era già settato e a lui non rimase che trasmettere il messaggio.
«Yuzo! Yuzo, mi ricevi?! Ti scongiuro dimmi che riesci a sentirmi! Yuzo!»
Lasciò andare il pulsante e attese.

«Oddio…»
A Yuzo girava la testa e aveva certe parti del corpo che gli pulsavano in maniera sorda. Le gambe, la schiena, le braccia. Tutti quei punti che, di sicuro, si erano presi l’impatto al suolo, adesso gli iniziavano a fare male.
In posizione supina prese un paio di respiri profondi. Il casco abbandonato nell’erba, poco lontano dalla mancina.
«Mi spiace per il quad, papà…» borbottò, guardando le fronde degli alberi smossi da un vento leggero e avvertendo di colpo il freddo in maniera più intensa di prima.
Quando era saltato, a davvero un respiro dal Muro Bianco, si era immaginato di sentire il rumore di uno schianto e invece non aveva udito nulla se non un latrato, ma quello era stato di sicuro la Crepa. Crepa che, per come poteva capire, non era riuscita a ‘sopravvivere’ questa volta, e si era dissolta. Qualunque cosa fosse il Muro, per adesso aveva giocato a loro favore.
«Yuzo! Yuzo, rispondimi!»
Quella voce gli arrivò distante, attutita dalle fronde e dall’altezza del declivio, ma la riconobbe e riuscì finalmente a sorridere.
«Mamoru…» Stava bene, poteva rilassarsi. «…sono qui…»
Ma parlava con una voce talmente bassa che di sicuro non avrebbe mai potuto sentirlo. Eppure, per quanto avrebbe voluto, in quel momento non ce la faceva a urlare, aveva la gola secchissima per la tensione e l’adrenalina. Aveva bisogno di qualche minuto per riprendersi.
«Riesci a sentirmi?!»
«Sì… ti sento… sta’ tranquillo…»
Avrebbe voluto dirgli che andava tutto bene e se l’erano cavata ancora una volta, chissà per quale miracolo. La loro ora non era giunta, non ancora. Poi udì qualcosa gracchiare e la voce di Mamoru improvvisamente più vicina.
- Yuzo! Yuzo, mi ricevi?! Ti scongiuro dimmi che riesci a sentirmi! Yuzo! -
Gli venne da sorridere nel vedere che si era ricordato del walkie-talkie e mosse il capo alla ricerca del proprio, sperando di non averlo perduto tra il salto e la caduta. Lo scorse non troppo lontano, in mezzo all’erba, e allora sfruttò le energie che era riuscito a recuperare per tentare di mettersi almeno seduto. Incredibilmente si ritrovò carponi e non pensava ne sarebbe stato capace. Un po’ alla volta raggiunse il ricevitore; le dita si allungarono sulla plastica nera e arancione, avvolgendosi a essa con sicurezza.
- Diosanto… ti prego… -
Sorrise di nuovo. «Sei religioso? Non ti facevo il tipo…»
- Yuzo! Dannazione, stai bene?! -
«Sì… Mi sento come se un tir mi fosse passato sopra e, non contento, avesse messo anche la retromarcia.»
Lo sentì sospirare e poi borbottare quel basso ‘gli Dei siano lodati’; si era dimenticato di togliere le dita dal tasto di trasmissione. Yuzo sorrise e improvvisamente il dolore parve meno intenso.
- Questo è l’effetto delle mie minacce! Hai visto che funzionano? -
«E allora perché non le usi anche con quelle dannate Crepe?» rise piano perché gli faceva male l’addome, un nuovo livido anche lì. «Tu come stai? Dove sei?»
- Io sto bene, intontito ma intero. Sono sul bordo della strada… e non hai idea di quello che sto vedendo. -
«La tua testa? La ferita che avevi?»
La risposta, stavolta, arrivò con qualche attimo di esitazione e seppe subito che l’altro stava mentendo.
- Tutto ok, sta bene. Tu dove sei? -
«Ancora giù.»
- Allora ti tocca scalare, portiere, perché questo devi vederlo. -
Yuzo si passò una mano sul viso e già sapeva che il panorama non gli sarebbe piaciuto. «Arrivo.»
Arrancando e con ancora la mente annebbiata iniziò a risalire il declivio che conduceva alla strada. Era più ripido di quanto avesse pensato, ma i rami degli alberi e le radici gli offrirono un’ottima base d’appoggio.
La voce di Mamoru lo raggiunse quando era più o meno a metà.
- Ma da che lato sei saltato? -
Yuzo cercò l’equilibrio tenendosi a un ramo più basso e ritorto di un nocciolo. Si assicurò prima che reggesse e poi vi si poggiò contro. Prese il walkie-talkie.
«A destra, perché?»
Silenzio. Un sospiro pesante.
- Merda… -
«Non dirmi che ti sei buttato a sinistra…»
- Raggiungi la cima. -
Yuzo masticò un’imprecazione e riprese a risalire e lo spettacolo, se da un lato lo sorprese nel trovare quell’enorme vuoto che gli strappò una seconda imprecazione più mormorata, quasi timorosa, dall’altro gli diede la conferma di quanto temuto: Mamoru si ergeva dall’altra parte della voragine, braccio alzato e walkie-talkie abbandonato lungo il fianco.
Yuzo sospirò, appoggiandosi al tronco di un albero ancora miracolosamente in piedi. Rispose al saluto con un gesto similare. Nella concitazione del momento, non aveva proprio fatto caso al lato da cui il centrocampista si era buttato, troppo preso a tenere sotto controllo il Muro da una parte e la Crepa dall’altra.
«L’importante è che tu stia bene» disse senza mezzi termini. «Ma non contarmi balle, vedo il sangue da qui.»
- Sì è aperta solo un po’, è meno grave di quello che sembra. - Mamoru minimizzò il danno e Yuzo avrebbe tanto voluto credergli ma, di più, avrebbe voluto essere lì per verificarlo con i propri occhi. - Tu, piuttosto, stai alla larga da quel dannato Muro. -
Solo allora, perché l’altro glielo aveva fatto notare, Yuzo lo vide ed ebbe un sussulto spaventato.
Il Muro era enorme, bianchissimo tanto da accecare.
«Diomio, fa impressione…»
- Non toccarlo! Fa sparire qualsiasi cosa ci finisca dentro. - Quindi ora il portiere sapeva la sorte che era toccata al povero quad. - E il peggio è che avanza, seppur lentamente. -
«Avanza?!»
- Già… -
«Vuol dire che il perimetro del nostro mondo… si sta… riducendo?»
Yuzo si portò una mano al viso nel realizzare che anche se avevano strappato altri minuti al loro destino, il tempo si stava comunque esaurendo. Prima o poi, tutto avrebbe finito con l’essere cancellato per sempre, non solo le loro vite. Non potevano permettersi di restare lì, fermi; soprattutto, non poteva permettere che rimanessero ancora separati. Se davvero il mondo era come una clessidra che stava esaurendo i granelli, voleva essere al suo fianco quando anche l’ultimo sarebbe caduto.
- Dobbiamo trovare un modo per superare questa voragine. - Mamoru lo precedette e Yuzo sentì un brivido graffiargli la nuca e poi sparire.
Si affacciò piano per vedere fino a dove s’allungasse e, purtroppo, la Crepa aveva fatto un disastro terribile che si perdeva a vista d’occhio.
«Ci toccherà camminare parecchio, siamo lontani da Nankatsu.»
- Lo vedo. -
«Non riusciremo a raggiungerla in serata…»
- Nottata all’addiaccio? -
«A quanto sembra…»
- Yuzo… -
Il portiere si volse, quasi che Mamoru fosse davvero al suo fianco e lui avesse potuto vedere gli occhi neri emanare quella sicurezza che aveva sempre un po’ temuto e un po’ invidiato. E poi aveva un modo di pronunciare il suo nome che non l’aveva mai sentito da nessun’altra voce. La familiarità con cui gli scivolava sulla lingua e tra le labbra gli faceva sentire come se l’avesse chiamato per una vita intera. O forse per migliaia di vite.
Anche Mamoru lo stava guardando.
Vicini con lo spirito, ma con i corpi distanti decine di metri.
- Troveremo un modo per superare questo baratro. - E lo disse con così tanta sicurezza che a Yuzo parve come se l’altro sapesse dove cercare il ponte che collegava le due estremità.
Sorrise.
«Da qualche parte dovrà pur cominciare questa bastarda.»
- E noi la troveremo. -
Yuzo si passò le dita sulla fronte, guardando in entrambe le direzioni. Si rese conto che davvero il Muro Bianco si muoveva, adesso gli sembrava addirittura più vicino. Fece per guardarlo meglio, ma un po’ del terreno franò poco distante, quasi per avvertimento.
Il portiere allungò il collo, scrutò il salto infinito e sospirò, inarcando un sopracciglio.
«E’ più sicuro proseguire camminando alla base della scarpata; qui c’è il rischio che la terra ci frani da sotto i piedi o che una crepa si apra all’improvviso senza darci il tempo di metterci al riparo.»
Non che la conseguenza di non riuscire più a vedersi gli piacesse ma era la scelta migliore.
Lo sapeva anche Mamoru, dall’altra parte della voragine, ma ci mise qualche attimo prima di rispondere; Yuzo lo vide riflettere e guardare nella direzione che avrebbero dovuto percorrere, quella in cui la spaccatura si perdeva e puntava Nankatsu.
- D’accordo - disse infine, pur senza totale convinzione. - Allora mettiamoci in marcia, la strada mi sembra lunga. -
«Ricevuto.»
Da quella distanza gli parve che Mamoru sorridesse per la battuta e lui sorrise di rimando. Si sarebbe trattato solo di alcune ore, si convinse il portiere, il giorno dopo sarebbero riusciti a rientrare in città e da lì avrebbero sicuramente trovato un punto in cui la strada tornava a essere vicina abbastanza per poter attraversare il baratro.
- Ci terremo in contatto tramite i walkie-talkie. -
«Ok» rispose di nuovo, ma nessuno dei due si mosse subito. Immobili nelle loro posizioni con lo sguardo fermo sul compagno distante.
Poi, seppur a malincuore, si volsero le spalle scendendo per il declivio.

 

 


[1]DAIJIRO KATO: era un pilota di Moto GP, morto nel 2003 in seguito a un incidente in pista (proprio a Suzuka, per il GP del Giappone). :(


Nota Finale: ...e ci siamo. :3 Inizia così, con una nuova separazione, l'ultimo capitolo di "The Bug" che si comporrà di quattro parti.
Tanto lo sapevate già che non sarebbe andata liscia e che qualcosa sarebbe dovuto accadere. XD Spero non mi odierete troppo per averli nuovamente divisi. E chissà... chissà cosa porterà questa separazione forzata, chissà quanto durerà, chissà... ;)
E poi c'è questo nuovo 'mostro' del Muro Bianco che tutto divora e tutto fa scomaparire, compreso il mondo intero.
Ormai è davvero divenuta una corsa contro il tempo!

:D volevo ringraziare tutti coloro che continuano a seguire questa storia! Ci risentiamo al prossimo aggiornamento! :3

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Capitolo 10
*** VII - fixing the bug (parte II) ***


Documento senza titolo

The Bug
- VII: fixing the bug -
(parte II)

 

- Quanta strada avremo percorso? -
Mamoru lo domandò che il buio aveva già iniziato ad avanzare da almeno un’ora. Dovevano essere le nove di sera, e iniziavano a sentirsi stanchi.
Dopo tutta l’adrenalina bruciata nella fuga dalla crepa e poi nel salto dal quad, adesso non rimaneva che la tensione ormai sciolta e muscoli e nervi esausti. Per non parlare dei lividi che si erano procurati durante la caduta.
Avevano camminato seguendo la strada o, per meglio dire, la voragine che ora l’occupava. Puntava dritta a Nankatsu, tanto che non avrebbero mai potuto perdersi. Il brutto era che più si avvicinava alla città, più si allargava e prendeva connotati enormi, tanto che quando furono di nuovo in grado di camminare presso il bordo del baratro senza correre rischi, riuscivano a vedersi sulle ‘sponde’ opposte, ma non erano in grado di carpire i particolari. E ora che stava calando la sera su di loro, la luce li avrebbe sfavoriti e resi ciechi, l’uno all’altro, perché i lampioni erano stati ingoiati assieme all’asfalto.
Per tutto il tempo che avevano camminato, si erano tenuti compagnia grazie alle trasmittenti. Avevano continuato a parlarsi e non era passata mai neppure un’ora che rimanessero in silenzio. Ognuno di loro doveva accertarsi che l’altro ci fosse, che lo sentisse. Dovevano stabilire un contatto seppur solo attraverso delle radioline.
«Da Nankatsu fino al Muro o viceversa?»
- Tutt’e due. -
Yuzo si passò con dolenza una mano dietro al collo. I nervi tiravano, dovevano essere incriccatissimi. Roba che solo un massaggio fatto come si deve sarebbe riuscito a scioglierli. E gli faceva male la gamba destra; doveva aver sbattuto contro il tronco di qualche albero, durante la caduta, e camminarci sopra così a lungo e attraverso un terreno tanto accidentato non gli faceva bene per niente.
C’erano solo campagne lungo la strada che collegava Nankatsu a Fujinomiya, e boschi. Le aree di pianura e verdeggianti, dai campi coltivati, si alternavano a macchie fitte di tronchi e muschio, tanto che finiva col perdere Mamoru e la voragine di vista. Suo padre li pattugliava spesso assieme ai colleghi della Forestale alla ricerca delle trappole dei bracconieri e degli allevatori, che cercavano di tenere gli animali selvatici lontani dal bestiame, e lui si ritrovò a pregare di non finire dentro qualche tagliola, perché ci sarebbe mancato solo quello.
«All’andata, credo una trentina di chilometri. Forse di più.»
Sentì Mamoru sbuffare; anche lui era a pezzi era ovvio.
- Così tanti? -
«Ho tirato il quad al massimo.»
- A proposito… - Stavolta avvertì una nota più divertita provenire dalla voce del giovane. - …ancora non mi hai spiegato che diavolo ci faceva un quad nel tuo garage. -
Yuzo si ritrovò a ridere, mentre avanzava aiutandosi con i tronchi degli alberi. Vi trovava appoggio e sostegno.
«L’ho vinto lo scorso anno. C’era questo concorso di sudoku su una rivista di enigmistica, e ci ho provato.»
- Che razza di secchione sei?! Ora capisco perché sei riuscito a battere addirittura Taro! -
«Esagerato! Non sono un secchione!» Anche se glielo dicevano pure i suoi compagni di squadra, però questo non lo disse a Mamoru che si stava già sbellicando così.
- Dove hai imparato a guidarlo? - Anche Mamoru camminava in mezzo a una macchia boschiva. La strada l’aveva tagliata in due, una parte era rimasta a destra e l’altra a sinistra; lui e Yuzo la stavano attraversando in maniera speculare. Quando c’era ancora luce aveva visto dei faggi e qualche nocciolo. L’erba non cresceva alta, ma rimaneva piuttosto rada; anche per questo l’impatto non era stato dei più ortodossi.
Comunque, l’oscurità e la camminata – che ormai durava da ore – non gli stavano pesando più di tanto, perché aveva la voce di Morisaki a fargli compagnia e dovette ammettere con una parte di sé che gli piaceva stare ad ascoltarlo, lo faceva sentire stranamente rilassato, del tutto dimentico dalla gravità della loro situazione.
«Papà. Lui lo usa spesso per lavoro.» Yuzo cercava di fare quanta più attenzione possibile a dove metteva i piedi, ma l’assenza della luce lunare e il cielo coperto, uniti alle fronde degli alberi che nascondevano ogni cosa non gli rendeva facili i movimenti. C’era sempre il rischio che inciampasse in una radice o in qualche ramo spezzato e poi caduto. «In quei rari giorni in cui i nostri orari riuscivano a coincidere, mi portava al mare e facevamo pratica lungo la spiaggia. Questa è stata la prima volta che l’ho portato su strada. Non è andata poi così male.»
- Tuo padre sarebbe molto fiero, visto che ci hai salvato la vita. -
«Ma se per poco non-» Un dolore acuto gli partì in un punto impreciso ma moderatamente grande tra l’addome e il fianco. Lo aveva da prima, ma era rimasto in sottofondo, tra quello alla gamba e alla spalla. Ora che aveva fatto un movimento, forse troppo ardito, era balzato in testa alle classifiche, tanto da togliergli il fiato e strappargli un lamento che Mamoru non sentì perché aveva prontamente sottratto il dito dal pulsante di comunicazione.
Inspirando un paio di volte, non troppo a fondo perché gli faceva male, Yuzo si poggiò contro il primo tronco che trovò.
I solleciti di Mamoru non si fecero attendere.
- Ehi? Tutto a posto? -
«Sì… sì.» Respirava con la bocca e anche il centrocampista si accorse che faceva una certa fatica. «E’ il fianco. Una fitta improvvisa. Devo aver preso una botta anche lì.»
- Forse è il caso di riposarsi. -
Ma Yuzo scosse il capo, anche se l’altro non poteva vederlo, e riprese la marcia pur muovendosi con attenzione.
«No, no! Ce la faccio ancora!»
C’era un po’ tutta la sua grande forza di volontà in quell’atteggiamento. Non era un tipo cui piaceva mollare l’osso quando era nel mezzo di un qualcosa. Ritrovò addirittura una maggiore libertà di movimento; il dolore scemava così come era comparso. Doveva solo stare attento a quello che faceva.
«Tu piuttosto. L’ho visto il sangue, prima. Come va?»
Mamoru non mentì. - Avrei bisogno di un po’ di disinfettante, lo ammetto. -
Però in quel momento gli importava di più del portiere; lui stava bene, anche se sentiva il sangue scendere al lato del viso in maniera lenta, una goccia alla volta. Non avrebbe voluto sporcare la felpa di Yuzo, ma era stato inevitabile.
«E di una fasciatura, immagino.»
- Credo bastino della garza e un cerotto. Mi sembrava di aver visto delle case sperdute nelle campagne della statale. Potremmo fermarci lì per la notte… Riprenderemmo il cammino sul presto. -
Yuzo sospirò. «Sei sicuro? Non voglio rallent-»
- Sono sicuro e non sognarti di finire la frase proprio ora che non posso prenderti a sberle. - Sentirlo ridere non lo indispettì. - Sei a pezzi e mentirei se ti dicessi di non esserlo anche io. Pensiamo a trovare un riparo, adesso. Preferisco sapere che hai un tetto sopra la testa, che essere prossimi alla meta. -
Yuzo avanzò di qualche altro passo in maniera più lenta e accorta. Sulle labbra aleggiava un sorriso a metà tra il timido e il lieto. Non replicò subito, ma fissò per un attimo il walkie-talkie dal piccolo display digitale illuminato. La luce azzurrina era l’unico bagliore nel raggio di metri, chilometri; sembrava la coda di una lucciola.
«Misaki l’aveva detto.» Si decise a rispondere.
Dall’altra parte, immaginò che Mamoru spalancasse gli occhi, lo capì dal tono più alto e concitato.
- Che cosa?! -
«Che sei una persona protettiva verso gli altri. Un po’ l’avevo capito anche dalle visioni.»
- Aspetta! Quando hai parlato di me con Taro?! -
Adesso lo immaginò in imbarazzo e la sua risata esplose sonora attraversando il bosco. Non si preoccupò di attrarre l’attenzione di qualche creatura, perché sapeva esserci solo loro lì e adesso.
«Paura, Izawa?»
- Paura?! Io non ho affatto paura! -
«Mah, visti gli ultimi risvolti…»
- Ehi! Cos’è?! Vuoi litigare?! -
«E perché no?» Ora ridacchiava, ci provava piacere a pungolarlo, lo capì anche Mamoru. «Devo ammettere che un po’ mi manca.»
- Piantala e dimmi quando avete parlato tu e Taro! -
Yuzo sollevò lo sguardo alle fronde, voleva prenderla più sul vago, giusto per tenerlo un po’ sulle spine, ma alla fine optò per la sincerità.
«Il giorno prima che succedesse l’incidente al parco. Noi stavamo discutendo quando lui è arrivato.»
- Ah, sì. E’ vero. Non venne con noi perché disse che doveva comprare dei libri… -
«Sì, lo accompagnammo noi.»
- Ah, ma davvero? -
A Yuzo non gli sfuggì l’irritazione di quella domanda ma sorrise.
«Non essere geloso, non stavamo tentando di portarlo alla Mizukoshi. Gli abbiamo raccontato un po’ degli attriti tra noi, di come tu ci avessi preso di mira. Lui ha avuto ottime parole per te, ti ha descritto in maniera completamente opposta a come ti vedevamo. Diceva che eri molto protettivo, onesto e leale.» Fece una pausa, indeciso se dire tutto quello che pensava oppure no. Forse fu il fatto che la conversazione avvenisse tramite trasmittente a farlo proseguire, se l’avesse avuto di fronte, probabilmente non sarebbe stato così onesto. «Penso sia stata la prima volta in cui mi hai stupito. Ero convinto che fossi solo uno stronzo.»
- Non facevo molto per confermare il contrario, lo ammetto. -
«Poi… poi le cose sono cambiate.»
Mamoru si umettò leggermente le labbra; allungò la gamba per superare una radice in emergenza che si contorceva innaturalmente verso l’alto, rischiando di far inciampare chiunque vi passasse accanto in maniera incauta.
- In bene o in male? -
«Beh, direi in-… ah!» Questa volta, Yuzo non riuscì a togliere le dita dalla trasmissione abbastanza in fretta, e il lamento di dolore venne udito anche da Mamoru.
- Yuzo? Ohi, Yuzo? -
Il portiere si piegò in avanti d’istinto, portandosi la mano nel punto che gli doleva, ma anche solo toccarlo lo faceva stare addirittura peggio.
Si appoggiò al tronco stando bocconi per un po’, giusto il tempo di riprendere fiato, poi strinse i denti, cercò di tenersi su, di stare dritto. E faceva male.
«Ci-ci sono…»
- Senti, fermiamoci, ok? Riprendi fiato qualche minuto. -
«No, ti ho detto-»
- E io ho detto di fermarsi, tanto in città non ci arriveremo comunque stasera. –
Certo che Yuzo era proprio testardo, quando ci si metteva. Mamoru l’aveva capito in maniera traversa tramite i ricordi delle altre vite, ma ora lo stava provando anche in prima persona e, a quanto pareva, era uno di quei tratti che non cambiavano da realtà a realtà ma rimanevano tatuati nel DNA universale. Però lui non era uno che si piegava facilmente, quindi non gliel’avrebbe data vinta. Mamoru era abituato a dare ordini, a essere leader in campo, figurarsi fuori.
- Fermati un momento e riposati, non mangi da ieri e il volo che hai fatto non è stato piacevole. -
«Nemmeno il tuo, se è per quello…»
- Io ho qualche livido e la fronte che sanguina un po’, ma per il resto sto bene, non pensare a me. Tu devi essere caduto male. -
«Già…» Yuzo l’aveva pensato già da solo. Ricordava che l’atterraggio era stato poco ortodosso, ma nella concitazione del momento non era riuscito a capire cosa e come avesse urtato.
Provò a prendere un altro respiro un po’ più profondo, ma il dolore era subito lì, in mille spilli, e lui mugolò dopo aver preventivamente staccato la conversazione con Mamoru.
Si poggiò con la testa al tronco e si guardò attorno per cercare un luogo in cui ripararsi. Non c’erano sporgenze né rientranze, tantomeno piccole grotte in cui accucciarsi e l’idea di dormire all’aperto, riparato solo dalle fronde, non era proprio l’ideale, anche perché il freddo era già pungente nonostante avesse camminato per ore.
Vide il Muro Bianco ergersi come una fonte luminosa. Sembrava emanare luce propria, come la neve quando ricopriva il paesaggio, ma non era abbastanza e, per fortuna, era ancora lontano. Se l’erano lasciato alle spalle durante la sfacchinata; avanzava molto lentamente e avrebbe dovuto dare loro il tempo di riuscire a raggiungere Nankatsu, prima che gli fosse addosso. Dopo… dopo non sapeva cosa diavolo avrebbero fatto, ma in quel momento preferì non pensarci e concentrarsi su una sola cosa alla volta. Quella più immediata consisteva nel trovare un riparo, così si girò dalla parte opposta, filtrando attraverso i tronchi degli alberi. Solo allora si accorse di essere arrivato ormai alla fine del boschetto; oltre si apriva una radura amplissima e, nel mezzo, distante meno di un chilometro, gli sembrò di scorgere una struttura. Una casa.
«Ehi! Penso di aver trovato un’abitazione, oltre il bosco. Dovremmo essere nella zona degli allevamenti fuori Nankatsu. Diamo un’occhiata?»
Anche Mamoru allungò il collo oltre gli alberi. Se erano nella zona degli allevamenti, le fattorie dovevano essere da entrambe le parti della strada; erano quelle le case che aveva visto mentre erano in fuga.
- Tu ce la fai? -
«Sì…»
- Ok, allora. Andiamo. Prima troviamo un riparo, prima ci possiamo riposare. -

Mamoru camminava nella piana, dove l’ambiente sembrava essersi rischiarato, forse perché non c’erano più alberi che impedivano al Muro di riflettere ogni luce possibile, anche quelle inesistenti. L’erba dava l’idea d’esser stata brucata in maniera omogenea.
«Sì, è la zona degli allevamenti. O almeno lo era, non è rimasta neppure più una bestia.»
Mamoru si guardò attorno con attenzione e c’era solo silenzio. Nessun muggito o belato. Doveva ammettere che gli faceva una certa impressione non sentire neanche un animale. Era sicuro che se avesse guardato bene, sarebbero sparite anche le formiche; proprio come se il mondo fosse divenuto artificiale, una realtà virtuale costruita solo per loro.
- Ci sono case dalla tua parte? -
«Ne ho una davanti, non preoccuparti.» Mamoru salì i gradini di pietra e la veranda in legno era lì che correva attorno all’abitazione. Si guardò attorno, tirando via un sorriso sul lato destro; il legno scricchiolava in maniera familiare e rassicurante sotto le suole. «Roba tradizionale, perfetto stile giapponese. A te cosa è capitato?»
Yuzo stava varcando la soglia in legno pesante, a un solo battente.
- Qualcosa di occidentale. Mattoni e cemento. –
Sembrava una masseria di stampo europeo, precisamente italiano. Era un ambiente ampio, ma che all’interno conservava il sapore rustico della campagna.
«La porta è aperta» constatò Mamoru, quando fece scorrere il pennello di legno.
- Sono tutte aperte, non c’è bisogno che vengano chiuse a chiave se adesso esistiamo solo noi due. Era così anche con l’appartamento in città. -
Mamoru non replicò, prendendo la cosa come un dato di fatto. Superò l’ingresso senza togliere le scarpe, almeno sul momento, poi però non riuscì a non farlo quando il tatami si presentò anche negli altri ambienti. Era una forma di rispetto che era più forte di lui, ma quando le tolse, le tenne ugualmente abbastanza vicine, in un angolo, per poterle rimettere in fretta al momento opportuno.
Allungò una mano lungo la parete, ma nel momento in cui mosse la leva dell’interruttore non cambiò nulla.
«La corrente è saltata.»
- Anche qui. -
«Il Muro Bianco deve aver preso la centrale elettrica…» Mamoru si guardò attorno e nonostante l’assenza di luci praticamente ovunque, riusciva a filtrare dalle finestre un certo chiarore che si rifletteva sul tatami. O forse era la sua vista che si era abituata al buio.
Dall’altra parte, Yuzo vagava per le stanze in una conoscenza sommaria dell’ambiente.
- No, credo sia stata la crepa. Hai visto che casino ha fatto. -
«Ha segato in due la città.»
- E comunque, niente corrente sai che significa? -
Mamoru sospirò. «Niente acqua calda.»
- E niente luce. -
Il centrocampista si sedette, esausto, sul tatami proprio sotto il riflesso che entrava dalla finestra. Sentiva i muscoli indolenziti e stanchi, più di quanto avesse pensato.
«Acqua fredda e lume di candela? In che modo dovrebbe risultare romantico?»
- Chi ha detto che dovrebbe essere romantico? - Yuzo ridacchiò. Si appoggiò contro i vetri freddi del balcone della cucina, ma era gelato anche lui quindi non lo sentì. Scostò appena una tendina e fissò quel buio da cui era uscito ma a cui sembrava ancora legato. - Facciamo un giro delle abitazioni e vediamo di sistemarci in qualche modo. Tieni sempre vicino il walkie-talkie. -
«Chiamami se dovessero esserci novità.»
- Ok, lo stesso vale per te. -
«E… Yuzo?»
- Mh? - La tendina oscillò dopo che lui l’ebbe lasciata andare, volgendo le spalle all’esterno.
«Occhi aperti.»
- Anche tu. -
Perché Mamoru aveva ragione e non bisognava distrarsi, non adesso che avevano trovato un riparo e sarebbe stato facile abbassare la guardia.

Yuzo mise via la trasmittente e si guardò attorno, mani ai fianchi. Aveva trovato la cucina e avrebbe potuto mettere qualcosa sotto i denti, ma prima avrebbe dovuto trovare delle candele con cui fare luce.
Stando attento a non urtare niente, che già aveva abbastanza lividi di suo, ripercorse la strada verso l’ingresso e controllò le altre stanze. C’era quello che sembrava uno studio e un bagno veramente grande, ma fu quando entrò nel salotto che tirò un sospiro sollevato.
«Un camino!» esalò con estasi e sperò che a Mamoru fosse andata altrettanto bene.
Lo raggiunse in pochi passi e si inginocchiò per valutare se dovesse uscire all’esterno per prendere la legna, ma anche questa era lì accanto, posta in un apposito spazio assieme a della carta e delle tavolette accendifuoco. Anche lui aveva il camino a casa, quindi era piuttosto pratico e non ci mise molto ad avere finalmente la prima lingua di luce.
La vide allungarsi da una delle tavolette fino alla carta, che aveva messo alla base della legna. La vampa salì attorno ai ceppi, quasi lambendoli, carezzandoli. Sembrava incapace di attecchire, per quanto fosse delicata e leggera, morbida come velluto. Invece la legna assorbì il fuoco, lo tenne legato a sé e la vampa si fece più forte e viva, improvvisamente aggressiva; veniva risucchiata verso l’alto dalle valvole di aerazione.
Yuzo sorrise nel percepire finalmente un po’ di calore, dopo ore passate all’aperto. Sospirò e si mise in piedi, deformando il viso in smorfie di dolore. Doveva assolutamente andare a controllare l’entità dei danni subiti, anche se era sicuro che non gli sarebbero piaciuti. Zoppicando e con finalmente l’ambiente che iniziava a rischiararsi, si mise a cercare delle candele da poter usare per muoversi nelle altre stanze e, incredibilmente, la fortuna fu dalla sua perché trovò addirittura una torcia.
Yuzo la prese e l’accese un paio di volte.
«Batterie! Siano lodate!»
Adagio, un passo alla volta, salì al piano superiore. Vi trovò solo le camere da letto, una matrimoniale e due singole, e null’altro. I proprietari della fattoria dovevano aver avuto due figli maschi, a giudicare dall’arredamento e dal guardaroba. Anche qui, per sua fortuna. Pescò un ricambio tra t-shirt e felpa pesante. La gente di campagna non era avvezza ai comfort cittadini e questo tornò a suo vantaggio, considerando quanto l’ambiente fosse freddo.
Sempre muovendosi con attenzione, tornò al piano terra, ma il dolore era maggiore nello scendere piuttosto che nel salire e, una volta alla fine della scalinata, Yuzo si vide costretto a fermarsi e cercare appoggio contro il muro. Pochi minuti e poi fu in bagno.
Un ampio vano doccia e mobiletto con gli asciugamani. Vi trovò anche la valigetta di primo soccorso; se la sarebbe cavata alla grande per quella sera.
Appoggiò la torcia sul lavandino, in modo che gli puntasse la luce addosso, e si spogliò con gesti lenti e calibrati. Tolse la felpa sporca di terra ed erba cercando di trattenere ogni possibile lamento, ma non le smorfie di dolore che gli attraversarono il viso. Però quando fu il turno della t-shirt non poté proprio nascondere i gemiti che certe movenze gli strapparono dalle labbra.
«Oh, cazzo…» esalò appena fu in grado di vedere l’enorme livido che gli prendeva metà addome, metà schiena e tutto il fianco destro. «Ora capisco perché mi faceva così male… Se potessi vederlo, mamma, ti verrebbe un colpo.»
Ma per fortuna sua madre non poteva assistere a quel tatuaggio temporaneo dalle tinte rosse e viola acceso che, con i giorni, sarebbero divenute più verdi e gialle, fino a sparire. La gamba non era messa meglio; diciamo pure che il suo corpo sembrava essere diviso a metà e gli sembrò un miracolo che non si fosse rotto nulla, in tutto ciò.
La doccia che si concesse fu rapidissima e gelida tant’è che quando uscì dall’acqua, gli sembrò che attorno fosse improvvisamente più caldo e con cura disinfettò alcuni dei graffi che sempre la caduta gli aveva procurato.
Il cibo sarebbe stata l’ultima tappa di quella giornata, prima di potersi mettere davanti al camino per riposare. Non si era ancora nemmeno seduto perché sapeva che se l’avesse fatto, dopo non avrebbe più avuto la forza necessaria per alzarsi; tutta la stanchezza sarebbe piombata dentro le gambe, rendendole di pietra, e lui voleva approfittare della forza che ancora possedeva prima che si esaurisse.
La cucina era forse la stanza più ampia dell’intera casa, ancor più del salotto, e non se ne stupì. Per chi viveva la campagna, rimaneva l’ambiente di maggior ritrovo durante la giornata e c’era moltissimo spazio per muoversi.
La prima cosa che Yuzo fece, fu di aprire il frigo ma la mancanza di corrente e l’odore non proprio piacevole che ne veniva gli fecero capire che non vi avrebbe trovato nulla di interessante. Non che avesse chissà quanta voglia di cucinare e anche se il suo stomaco un po’ lo stava pregando di dargli qualcosa di commestibile, il giovane preferì puntare su un pasto rapido e leggero; avrebbe potuto mangiare qualcosa di più consistente assieme a Mamoru, una volta rientrati in città. Non che la corrente ci fosse anche lì, ma adesso era davvero troppo stanco per tutto.
Frugò negli stipetti e la presenza di ragazzi in quella casa lo favorì con snack salati e biscotti che portò nel salotto, assieme a una bottiglia d’acqua.
Il divano, dalla pelle logora, sembrava lo stesse aspettando per accogliere le sue membra stanche e Yuzo non lo fece aspettare. Appoggiò tutto sul tavolino lì accanto e sistemò i cuscini dietro la schiena, affinché i lividi non gli facessero troppo male. Con un lungo sospiro distese le gambe e si lasciò abbracciare dalla morbidezza dell’imbottitura, sentendosi immediatamente a metà tra ‘bene’ e ‘distrutto’. Il rivestimento divenne subito la sua coperta, che Yuzo provvide a tirarsi addosso, mentre prendeva il calore proveniente dal camino.
Chiuse gli occhi per qualche istante, portandosi il braccio alla fronte, poi tirò fuori la radiolina dalla tasca e si mise in contatto con Mamoru, prima che finisse per crollare. Sapeva già che non si sarebbe addormentato senza prima aver saputo che anche lui era a posto. Senza prima aver sentito la sua voce.

La tecnologia moderna unita alla tradizione giapponese sembrò giocare a suo sfavore, sul momento, soprattutto quando Mamoru si rese conto che non c’era un camino in quella casa. Pensò che avrebbe dovuto avvolgersi nei futon a mo’ di pupazzo, ma quando i suoi occhi si puntarono sul kotatsu(1) posizionato in una delle stanze, proprio accanto a una finestra, una leggera speranza si accese in lui.
Svelto lo raggiunse, infilando la mano sotto al futon già disposto e quando non sentì la presenza della resistenza il sorriso si aprì sulle labbra; sollevò la coperta.
«Ah! Va a carbone! Sia benedetta la tradizione!»
Tastando un po’ alla cieca, si accorse che era già pronto per essere usato, a lui non toccava altro che accenderlo, ma prima decise di ispezionare l’abitazione in cerca di tutto ciò di cui aveva bisogno.
Sperò di riuscire a trovare delle candele, ma rimase sorpreso quando da un ripostiglio spuntò una lanterna a olio; un vero cimelio, che a quanto pareva doveva essere ancora molto funzionale in certe zone. Per quanto non fosse comodissima da portare in giro, Mamoru dovette ammettere che faceva tutta la luce di cui aveva bisogno.
La sua prima tappa fu la cucina. Non era un mago dei fornelli, tutt’altro, ma quando provò a mettere su l’acqua per il tè si accorse che non c’era gas. La Crepa o il Muro dovevano aver tagliato loro le forniture, la cosa non si metteva per niente bene. In cuor suo, Mamoru sperò che fosse opera della Crepa, perché se si fosse trattato del Muro significava che li stava circoscrivendo e isolando da tutto il resto del mondo; se ancora ne fosse esistito uno da qualche parte.
Ad ogni modo, la salvezza giunse da un piccolo ritrovato della modernità: il ramen istantaneo. Mamoru ne trovò una confezione e la rigirò tra le mani con un sorriso.
«Non sarà molto tradizionale ma fa proprio al caso mio.»
Dopodiché andò in bagno, ma l’idea di una doccia gelata non lo allettava per niente, così preferì darsi solo una rinfrescata. Non cercò nemmeno un ricambio, tenendo la felpa nera sporca di terra e sangue, ma non si interrogò sul motivo di quella scelta o, se lo fece, avvenne tutto tanto rapidamente nella sua testa da restare un piccolo segreto solo per sé.
Con il ramen, la lanterna e qualcosa per medicarsi la fronte se ne tornò nella stanza del kotatsu. Su un mobile addossato alla parete, prese uno specchio con supporto e lo poggiò sulla superficie del tavolo. Ci mise un po’ ad accendere lo scaldino a carbone, ma dopo il calore si diffuse subito, riscaldandogli le gambe e salendo su, verso il resto del corpo. Quel tepore lo fece sentire subito meglio, iniziando a sciogliergli i muscoli tesi, tanto che mosse il collo a destra e a sinistra con una certa piacevolezza, anche se lo sentì scricchiolare. Prese la confezione di ramen e premette il bottoncino sul fondo affinché si autoriscaldasse e la mise da parte, per qualche minuto. Avvicinò la lanterna allo specchio e diede un’occhiata al taglio. Lo aveva già ripulito quando si trovava in bagno e per fortuna poté constatare che non si era aperto del tutto, ma c’era un rivolo che continuava a scendere sul viso.
Mamoru lo tamponò di nuovo con del disinfettante. Bruciava appena, ma non tantissimo; ci avrebbe messo un po’ a guarire e non si curò del segno che sarebbe rimasto.
- Spero tu non abbia aperto il frigo. -
La voce di Yuzo arrivò gracchiata attraverso il microfono della trasmittente; l’aveva poggiata proprio accanto allo specchio, per poterla prendere subito.
Un sorriso gli tese le labbra, mentre continuava a medicarsi e l’altro parlava.
- Perché credo che puzzi allo stesso modo di quello che c’è qui. -
«Troppo tardi, portiere.»
Lo ascoltò ridere e il suo sorriso si accentuò con un certo calore.
Era stato tentato più volte di mettersi in contatto con Yuzo, mentre girava per la casa, ma in ogni occasione si era sforzato di non cedere all’impulso: magari si stava medicando o era sotto la doccia o chissà che altro e non voleva dare l’impressione di essere troppo soffocante, quasi oppressivo. Però avrebbe voluto condividere con lui ogni passo che aveva compiuto in quella casa, averlo vicino.
- Stai bene? Sei al caldo? -
Sorrise anche per quella premura.
«Sì a entrambe. All’inizio temevo di dovermi avvolgere nelle coperte, e poi è spuntato questo kotatsu a carbone!»
- A carbone?! Oddio, ma ne fanno ancora? -
«A quanto pare sì, e per fortuna dico io! Per non parlare della fighissima quanto vecchissima lampada a olio perfettamente funzionante. Niente romanticismo da candela, ahimé.» Applicò la garza e il cerotto e diede un’ultima occhiata al lavoro che aveva compiuto, apparendone soddisfatto. Finalmente, distese le gambe e si rilassò meglio contro lo schienale della sedia, portando il ricevitore alla bocca. «Tu, invece? Ti sei sistemato?»
- Sì, qui hanno un camino; un toccasana dopo una doccia gelata. -
Stavolta fu il turno di Mamoru di ridere più apertamente. «Tempra lo spirito, portiere, dovresti esserne contento.»
- Guarda, il mio spirito avrebbe bisogno di ben altro che questo, te lo posso garantire. -
«Le ferite?»
Yuzo si strinse nelle spalle, anche se l’altro non poteva vederlo. - Non evidenti, a meno di qualche graffio. Ho dei lividi che fanno Prefettura. -
«Ahia.»
- Puoi dirlo forte, adesso sono bloccato sul divano, credo che domattina sarò un relitto. -
Mamoru guardò fuori e la luce fioca della lampada non impediva di scorgere il panorama che si estendeva oltre i vetri. C’era la spianata, la voragine e la casa dove Yuzo aveva trovato riparo, la riconobbe dal fumo che usciva dal comignolo.
«Manca poco, qualche ora e saremo a Nankatsu. Da lì non dovrebbe essere difficile riuscire a trovare un modo per attraversare il fosso.»
- Chiamalo fosso, sembra l’autostrada per l’Inferno. -
Mamoru sbuffò via un sorriso e scosse il capo.
- Ti sei medicato la fronte? Sanguina ancora? -
«Proprio adesso e, sì, però poco. Giusto un filo.»
- Spero non resti la cicatrice. -
«Perché?»
Dall’altra parte, Yuzo imprecò tra sé e si maledì per non essersi morso la lingua. Aveva imparato troppo in fretta a parlare in maniera libera con il centrocampista che non sapeva ancora bene come dosare le cose che diceva; a volte qualcuna gli scappava, qualcuna che non avrebbe saputo giustificare senza una risposta imbarazzante o ambigua.
- Come ‘perché’? Perché sì! -
«Che risposta è? Forza, sii onesto.»
- Beh, perché… è chiaro! Hai… hai un bel viso, sarebbe un peccato… ecco. - Yuzo ebbe il desiderio di sprofondare, questa volta sì, divorato da una bella crepetta che gli si fosse aperta giusto sotto le chiappe. Eppure, Mamoru rispose con una semplicità che riuscì a toglierlo dall’imbarazzo; forse neppure aveva fatto caso a quello che aveva detto. Lui sperò fosse così, ma in realtà il centrocampista aveva capito eccome e ne aveva sorriso.
«Non lo sai che lo stile scarface acchiappa?»
- Ah, davvero? -
«Davvero.»
- E allora com’è che Urabe non ha ancora la ragazza? -
E stavolta entrambi scoppiarono a ridere. Mamoru era sicuro che se l’avesse detto ad Hanji si sarebbe arrabbiato tantissimo, mentre Ryo l’avrebbe preso in giro e ne sarebbe nato l’ennesimo battibecco. D’un tratto provò una fortissima nostalgia per tutto quello che aveva perso, dal giorno alla notte, che la risata morì svelta così com’era iniziata.
Cambiò discorso.
«Hai mangiato?»
- Davanti a me ho dell’acqua e qualche snack. Non avevo voglia di cucinare. -
«Non avresti comunque potuto, non c’è gas. Credo che il Muro si sia mangiato le condotte.»
Yuzo sospirò profondamente all’altro capo, portandosi una mano alla fronte che prese a massaggiare adagio. - Accidenti… -
«Ce la caveremo.» Risoluto, pratico. Mamoru non era disposto a farsi abbattere anche da quello e per Yuzo fu come uno sprone, tanto che non replicò ma si limitò ad annuire.
- Mh. -
Tra loro cadde velocemente quel silenzio leggermente imbarazzato, un po’ teso. Mamoru aveva ancora nella testa il pensiero di tutti i suoi amici, della sua vita; non aveva realizzato subito cosa avesse perduto, di preciso, forse perché convinto che tutto sarebbe andato a posto. Ma ora era passata un’intera giornata e nessuno era più ricomparso. Ciò che era perso, tale continuava a rimanere, chissà dove, chissà per quanto.
Continuò a guardare fuori, a osservare il fumo del camino e la luce che filtrava da una finestra che dava proprio dal suo lato. Yuzo doveva essere lì, vicinissimo ma impossibile da raggiungere, proprio ora che sentiva dentro il bisogno di parlare con qualcuno dei suoi timori.
Si ricordò di un discorso non terminato e decise di riprenderlo, di mettere da parte il silenzio troppo pesante per tutti e due.
«E comunque non hai finito il discorso di prima. Come sono cambiate le cose?»
Yuzo si rilassò meglio contro i cuscini, inspirò a fondo e fu come se quella conversazione non l’avessero mai interrotta.
- Direi che sono cambiate in meglio, no? Non ci diamo contro, parliamo da persone civili. - Sorrise. - Non fai lo stronzo. -
«Perché devo essere sempre io lo stronzo? Nemmeno tu sei un santo!»
- Allora dimmi una volta che la discussione è partita da me. Avanti! -
Mamoru non ci stava a passare sempre per il cattivo, però per quanto ci pensasse non riuscì a rispondere e fu costretto a capitolare con un significativo silenzio.
Dall’altra parte, Yuzo aveva una leggera nota trionfante nella voce. - Visto? -
«Ti odio.»
Il trionfo divenne sorriso, sbuffato via con divertimento. - Non è vero. -
«E come puoi dirlo con sicurezza?»
- So che è così… Lo so anche senza un motivo preciso. - Era una di quelle sensazioni di cui aveva la convinzione che stazionava sotto la pelle. Yuzo non sapeva spiegarlo, lo sentiva e basta. Ma anche senza un vero perché, Mamoru seppe capirlo.
«Hai ragione» ammise infatti.
- Non ti odio neanche io. -
«Ne avresti tutti i motivi.»
- D’improvviso so che non sarebbero sufficienti. - Risultarono futili, anche se sul momento l’avevano fatto imbestialire e pensare di tutto contro il centrocampista; ora svanivano come un sogno che è importante solo nell’attimo in cui viene vissuto e dopo scivola via. Le cose che davvero contavano per lui, adesso, erano ben altre.
- Mamoru? -
Mamoru non rispose subito a quel richiamo, perduto nel contemplare il modo in cui Yuzo pronunciasse il suo nome. Era bello e morbido, sembrava fatto apposta per la sua bocca, le sue labbra, la sua voce. Suonava in maniera differente da tutte le altre, aveva un che di personale, intimo, come se in certi nomi esistesse un segno di appartenenza che ne avrebbe legato il proprietario a chi l’avrebbe pronunciato. Il suo nome, dalla bocca di Yuzo, suonava perfetto.
- Mamoru? Sei ancora lì? -
«Sì, ci sono.»
- Sei stanco anche tu, forse è il caso di dormire. -
«No, no. Mi ero distratto. Riflettevo.»
Quasi dall’altra parte del mondo, Yuzo sorrise. - Riguardo cosa? -
«Mah, un po’ di tutto.» Si strinse nelle spalle. La ferita pizzicò per un attimo. «Perché ci siamo odiati, noi due?»
- Bella domanda. -
«Negli altri universi noi siamo sempre andati d’accordo. E se c’era qualche incomprensione la risolvevamo subito…»
- Già. Andavamo così d’accordo che una volta ci siamo anche-… - Yuzo si fermò, improvvisamente in imbarazzo. Stavolta sapeva di aver parlato davvero troppo e di aver messo in tavola un discorso un po’ particolare; non aveva idea di come avrebbe potuto reagire Mamoru e non sapeva bene neppure cosa avesse visto nelle sue visioni, se fossero state le stesse che aveva scrutato anche lui o meno. Ma dall’altra parte arrivò un sorriso che percepì attraverso le parole.
«Dillo pure, non credere che mi offenda o spaventi.» Ne aveva viste talmente tante, Mamoru, che non si sarebbe sconvolto per niente, anzi, probabilmente sapeva pure di cosa stesse parlando.
- Beh… andavamo tanto d’accordo da sposarci(2). -
La risata arrivò sottile e divertita attraverso il microfono della ricetrasmittente e anche Yuzo sorrise, rilassando ogni muscolo che si era di nuovo teso per alcuni attimi.
«L'ho visto.»
- Il bianco ti sta bene. -
«Modestamente.» Mamoru scherzò, ma non smise di guardare fuori, verso di lui, quasi potesse vederlo come se ce l’avesse davanti e gli toccò ammettere la verità di quei frammenti di vita, di quei ricordi, che in principio l’avevano colto impreparato, turbato e anche fatto arrossire, ma che ora… ora sembravano miraggi bellissimi sotto il sole del deserto. «Eravamo felici.»
- Siamo sempre stati felici. -
«E allora perché adesso le cose sono precipitate in questo modo? Perché non siamo riusciti a trovare il punto di incontro per permetterci di aggiustare la piega sbagliata che le nostre vite hanno preso? È questo l’errore di cui mi stavi parlando, prima che arrivasse la crepa a distruggere tutto?»
Yuzo fece una pausa in seguito a quelle domande che sembravano essere sgorgate fuori da Mamoru quasi che fosse una fonte che aveva bisogno di liberarsi di tutto ciò che gli passava per la mente, e capì che non era una cosa che si potesse affrontare attraverso una trasmittente.
- Penso sarebbe meglio parlarne di persona, una volta che ti avrò raggiunto. -
«D’accordo.» Una piccola pausa, veloce, urgente. «Yuzo?»
- Sì. -
«Però le cose si stanno sistemando, no?»
Il portiere sorrise e, con un sforzo, riuscì a mettersi dapprima seduto e poi in piedi. Zoppicava vistosamente, ma era sicuro che con un po’ di riposo il dolore sarebbe scemato. Arrivò piano alla finestra che dava sul cortile e sulla piana, dove un tempo le bestie pascolavano tranquille. Mamoru era lì, a pochi metri, poteva vedere la casa e il bagliore che illuminava una delle finestre; continuò a sorridere, appoggiando una mano sul vetro, come se il giovane avesse potuto vederlo distintamente.
Se le cose si stavano sistemando?
- Tu che ne dici? -
«Dico che vedo il fumo del camino uscire dal comignolo.»
- E io vedo la luce della lanterna. -

“Mi amerai ancora
quando non sarò più giovane e bellissimo?
Mi amerai ancora
quando non avrò nulla tranne la mia anima in pena?
So che lo farai, so che lo farai, so che lo farai.”

Lana del ReyYoung and Beautiful

 

 


[1]KOTATSU: è una sorta di scaldino molto particolare, attorno al quale ruota gran parte della vita giapponese, soprattutto in quelle case non dotate di riscaldamento. Può essere sia elettrico che a carbone. E’ composto da un futon che si mette come base a terra, vi è sopra un tavolino sotto la cui superficie vi è la resistenza che fa calore, e poi vi è un’altra coperta sopra, sotto la quale infilare le gambe. *_* (kotatsu: *clicca qui*)

[2]: riferimento alla serie di storie “Love&Life”, in particolare alla fic “Forever mine, forever yours” e al primo matrimonio gay del fandom XD


 

Nota Finale: ;) e allora? Questa lontanza forse non ha fatto altro che bene ai nostri due protagonisti.
La preoccupazione che provano l'uno per l'altro li ha tenuti vicini, anche se distanti. Son solo pochi metri, dopotutto, eppure hanno ben chiaro che non possono e non vogliono restare separati.
C'era bisogno di forzare un po' la mano per riuscire a capirlo con più chiarezza, però. ;))))
Dai che son stata buona... per ora!!! X333333

Grazie a tutti coloro che continuano a seguire questa storia :DDDD

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Capitolo 11
*** VII - fixing the bug (parte III) ***


The Bug - cap 7, parte III

Nota Iniziale: anche stavolta ho pubblicato con un giorno di anticipo perché domani credo starò via tutta la giornata! :*

 

The Bug
- VII: fixing the bug -
(parte III)

 

La mattina seguente si alzarono davvero come i protagonisti di un film o di un libro. Il sole era sorto da poco, dovevano essere le otto, e Yuzo sapeva che Mamoru aveva imbrogliato con i turni di guardia – avevano deciso di alternarsi per non farsi sorprendere durante la notte – perché aveva la sensazione che l’altro l’avesse lasciato dormire di più di proposito. Apprezzava la protezione che aveva verso le persone che considerava amiche, ma questo lo faceva sentire a disagio.
Come previsto la sera prima, si sentiva a pezzi, nel vero senso della parola. Si era aspettato che, guardandosi, avesse potuto trovare un braccio qui e uno lì, una gamba sul tavolo, una a terra perché gli faceva male ovunque, tutte le giunture e le articolazioni. Eppure, con incredibile forza di volontà e anche fisica, era riuscito ad alzarsi e forzare il dolore per portarlo a un punto in cui non facesse più così male, ma rimanesse sordo e omogeneo, tanto da abituarcisi. Aveva spento il camino, messo ordine sul tavolinetto e preparato uno zaino, reperito nella stanza di uno dei figli dei proprietari. Ci aveva infilato qualcosa da mangiare e dell’acqua, disinfettante, garze e cerotti, che con le crepe che li rincorrevano non si poteva mai sapere, ed era uscito.
La prima cosa che fece una volta fuori fu di girarsi in direzione del Muro e lo trovò lì, vicinissimo di nuovo e così bianco nella luce del giorno che si faticava a tenergli gli occhi addosso. Nella notte li aveva ripresi e dove un tempo c’era stata la boscaglia che aveva attraversato, ormai non c’era più nulla; quel pezzo di mondo non esisteva più.
- E’ più veloce o è solo la mia impressione? -
Mamoru gracchiò le sue perplessità attraverso la trasmittente e Yuzo si girò a guardare dall’altra parte del baratro; scorse la sua figura che si muoveva, piccolissima, all’esterno della casa in stile tradizionale. Si era incamminato per raggiungere il bordo della voragine, proprio come lui, ed essere di nuovo più vicini, tanto da potersi vedere con maggiore chiarezza, lo fece sentire più sicuro e tranquillo, nonostante tutto.
«Sembrerebbe anche a me.»
- Non è un buon segno. -
«Per niente.»
- Muoviamoci, dovremmo riuscire ad arrivare in città prima di lui. Sfruttiamo il nostro vantaggio. -
Altre due o tre ore di marcia e sarebbero finalmente arrivati a Nankatsu. Quel pensiero sembrò ricaricare, meglio della notte di riposo, le energie del portiere, che affrettò il passo.
«Perché hai lasciato che dormissi di più?» chiese, in modo un po’ duro, quando ormai erano entrambi di nuovo sulle sponde opposte di quel vuoto universale.
- Non so di che parli. -
«Non fare il finto tonto, Mamoru. C’era un orologio da parete in quella casa, e l’ho tenuto d’occhio. So contare molto bene.»
Anche se non poteva vederlo, lo immaginò stringersi nelle spalle. - Avevi bisogno di riposarti più di me. Non ci vedo nulla di strano. -
«Dannazione, Mamoru! Se c’è una cosa che non sopporto è che la gente mi favorisca in qualche modo! Davvero, non lo reggo!»
Il centrocampista gli lanciava di tanto in tanto delle occhiate e si accorse esserci qualcosa di nervoso nei suoi movimenti. Stavolta era irritato sul serio.
- Non capisco perché la fai così lunga se le persone vogliono aiutarti. -
«Perché mi fa sentire debole! E io non lo sono!» Yuzo sbuffò e si passò una mano nei capelli corti. «Non lo sono affatto. Non sono un bambino, accidenti!»
- Io non credo che tu lo sia… -
«Beh, il tuo atteggiamento diceva il contrario, ok?!»
Mamoru abbassò la trasmittente e stavolta si girò con palese sorpresa. Dall’altra parte, Yuzo lo guardò di rimando e allargò le braccia mimando un seccato ‘che c’è?!’.
Il centrocampista lo trovò interessante, perché quello era un aspetto che non gli sembrava di aver visto nei ricordi vissuti di sfuggita e quindi era una cosa tutta nuova, che stava scoprendo adesso.
- Deve essere un atteggiamento che gli altri hanno spesso verso di te, mi sbaglio? -
Lo vide sospirare e pensò d’averci preso.
«Non lo so, è che… non so che diavolo vedano gli altri in me, ma è come se tentassero di tenermi tutti in una specie di sfera di vetro. Anche Kenta e Theo. Cercano sempre di favorirmi, ma non ne ho bisogno!»
- Non prenderla sul personale. - Mamoru sorrise. - Lo fanno perché sono tuoi amici; anche io tendo a favorire i miei, a proteggerli. È normale. -
«A volte è troppo! Sembra quasi che non si fidino delle mie capacità… come se non ne fossi in grado… Credo che l’unico a non trattarmi in questo modo sia mio padre. Per fortuna.» E Yuzo, sotto sotto, gliene era davvero grado. «Lui tende a spingermi nella fossa con i leoni.»
- E allora tu segui il suo esempio, ma non aspettare che siano lui o gli altri a spingerti: buttatici da solo. Sii più intraprendente, prendi l’iniziativa, sporcati le mani. È come con la selezione per la Nankatsu. -
«Ancora con quella storia? Guarda che è pesato anche a me rinunciare!»
- Non avresti dovuto. - Mamoru lo disse senza mezzi termini. - Anche se eri convinto di non avere speranze, saresti dovuto scendere in campo e dimostrare che eri pronto a provarci, a buttarti. Se lo avessi fatto, magari i tuoi compagni avrebbero potuto pensare un ‘ehi! Ha fegato!’. Restando sulle gradinate, per una scelta dettata dalla riflessione, hai dato un’immagine più debole di te. -
Yuzo non rispose, perché a questo non aveva pensato. Non l’aveva mai figurata in questo modo. Lui tendeva sempre a riflettere molto sulle cose, a prendere la decisione secondo una scelta razionale ed equilibrata. E forse in certi casi era un atteggiamento sbagliato.
- Per questo loro credono di doverti ‘difendere’ più che con gli altri. Il coraggio è una qualità che va dimostrata, non si può dire di averla solo a voce perché se ne è convinti; per esistere davvero ha bisogno di prove. Dimostra di non aver paura, di potercela fare. Provaci. E vedrai che gli altri capiranno che non sei la principessa nella torre ma il cavaliere. -
«Anche tu?» Yuzo lo domandò con una leggera titubanza che a Mamoru non passò inosservata.
- Anch’io - confermò. - E comunque non ho mai pensato tu fossi una principessa. Le principesse non hanno i capelli corti. -
Anche se lontani e non distintamente, vide che stava ridendo.

Camminarono per un’altra ora prima che la città fosse visibile, oltre l’ultima macchia boschiva.
Vedendola stagliarsi in lontananza, troppo perché si potesse percepirne la vita, a loro sembrò miracolosamente come prima. La loro Nankatsu. Si convinsero che se fossero tornati a casa, avrebbero trovato i genitori ad attenderli, la vita che scorreva di nuovo come sempre era stata. Ci si poteva illudere così bene da crederci. Poi però bastava guardare meglio, un po’ più a destra – o a sinistra, a seconda del punto di vista scelto – e la realtà tornava a prendere corpo e a far sbiadire il sogno.
La voragine correva, lunghissima, dal loro fianco fino alla città, si immergeva in essa e chissà dove aveva la sua origine, il punto ‘X’ in cui la terra sarebbe tornata a essere unita e attraversabile.
Avevano ancora molta strada prima di raggiungerlo e molti altri ostacoli da affrontare, perché in città le case erano crollate, i palazzi sradicati e spaccati a metà, riversi sui fianchi, gli uni sugli altri, e le strade interrotte. Avrebbero dovuto deviare per percorsi alternativi che avrebbero finito per allungare la via da percorrere e dilatare il tempo; avrebbero finito col perdersi di vista tra lamiere e cemento e avrebbero dovuto fare affidamento solo sulle loro radio, nient’altro. Ciechi l’uno verso l’altro.
- Il Muro la raggiungerà entro oggi, vero? -
Mamoru non rallentò il passo a quella domanda, anzi, si mosse più veloce. Diede una rapida occhiata alle sue spalle e gli parve che la parete bianca non si fosse distanziata di quanto avrebbe immaginato. Era chiaro che si stesse muovendo più velocemente.
- La circonderà - continuò Yuzo. - Il cerchio si farà sempre più piccolo-… -
«L’ha già circondata» disse bruscamente. «Guarda bene la curvatura della parete e dove si abbassano le nuvole.»
Yuzo non ebbe bisogno di farlo.
- Me n’ero accorto questa mattina - ammise, mesto. - Ma volevo credere ancora un po’ che la circonferenza fosse più larga di quanto apparisse. -
«Appena le nuvole si solleveranno, riusciremo a vederlo meglio anche davanti e intorno a noi. Vedremo i confini dello spazio che ci rimane.»
Yuzo avvertì una fermezza severa nella voce di Mamoru. Voleva mantenere una rigidità di comportamento per affrontare a testa alta quello che stava accadendo. Lui era più malinconico, quasi rassegnato a un’eventualità che ormai stava prendendo i connotati della certezza.
- Ecco spiegata l’assenza di elettricità e gas. -
«Non esistono più centrali, attorno a noi… e forse anche sotto di noi, non esistono fonti, non esiste più niente. Ci siamo solo io e te.»
Mamoru odiava tutto quello. Odiava trovarsi in situazioni dove le forze erano sbilanciate fin dall’inizio, dove non avrebbe potuto fare altro che perdere. Lo odiava perché non c’era possibilità di scelta e tutto quello che avrebbe fatto, il modo in cui avrebbe lottato fino alla fine, sarebbero state solo fatica sprecata per il sollazzo di non sapeva chi. Era una situazione insostenibile, per questo cercava di non far trapelare nessuna emozione che non fosse di durezza, perché lui non avrebbe dato soddisfazioni a chicchessia e non avrebbe chinato la testa davanti e per nessuno.
- E quindi siamo in trappola. - Yuzo non sembrava aver paura di dire certe verità, Mamoru si girò appena a guardarlo e vide il suo profilo che puntava sempre dritto. Incredibilmente gli uscì un sorriso nel pensare che, dopotutto, era davvero già un cavaliere, a modo suo.
«Non smetteremo di farci valere solo perché credono di non averci lasciato più vie libere, ok, Yuzo?» Lui continuò a essere fermo e ad alimentare il coraggio del compagno come fosse una brace che non voleva si spegnesse. «Continueremo a lottare.»
- E a scappare… -
Mamoru inarcò un sopracciglio e notò che Yuzo continuava a guardarsi indietro. Lo imitò di riflesso ma gli parve che il Muro fosse più o meno dove lo aveva lasciato l’ultima volta che l’aveva adocchiato.
«Qualcosa non va?»
- Non lo so… - Il portiere si voltava in continuazione, guardava la terra e poi la voragine lì accanto. - Non lo senti? -
«Sentire cosa?»
- Questo rumore… -
Yuzo l’aveva avvertito già da qualche metro, ma non vi aveva dato moltissimo peso, convinto che fossero i bordi della voragine che ogni tanto franavano sotto il peso della roccia smossa. Eppure d’un tratto gli era sembrato essere troppo continuo.
- Sembra… qualcosa che si sbriciola. È vicino… -
Il portiere aumentò inconsciamente l’andatura e Mamoru lo imitò per riflesso, anche lui in allarme. Qualcosa sarebbe accaduto, bisognava solo capire quando e da dove sarebbe venuta.
D’un tratto, Yuzo si fermò. Mamoru lo guardò, alcuni passi più avanti, con gli occhi spalancati.
«Non è sicuro fermarsi! Continua a camminare!» incitò con urgenza.
- Devo capire… non posso muovermi alla-… - ma quel ‘cieca’ Yuzo non lo pronunciò mai. Si immobilizzò di colpo quando gli parve che il crepitio fosse ormai troppo vicino e stabile. Piano, si girò su sé stesso, gli occhi a terra perché aveva capito che era lì che avrebbe dovuto cercare.
E le vide.
Tante. Piccole.
Si aprivano in decine e si diramavano nella sua direzione, quasi lo seguissero come cuccioli fedeli o piccoli anatroccoli che avevano subito l’imprinting.
Yuzo fece un passo indietro, stringendo il walkie-talkie nella mano e quasi trattenendo il respiro.
«Yuzo?! Cosa hai visto?!»
Da quella distanza e con il bordo rialzato della voragine, Mamoru non riusciva a capire bene ma il rumore, adesso, divenne chiaro anche a lui.
- Credo che quelle siano le figlie. - Yuzo lo gracchiò piano, scandendo una parola alla volta.
«Le figlie?! Le figlie di chi?!»
- Della Crepa. -
Mamoru fermò la mano e non rispose, abbassò lo sguardo e di colpo, dalla strada che aveva percorso, le vide arrivare di corsa, crepe più piccole, ma a decine, che sbrindellavano la terra in tunnel da talpa e creavano piccole voragini.
Tutto quello che avrebbe potuto dire risultò ovvio, ma non avrebbe sprecato tempo in altre parole.
«Corri!» gridò! Ed entrambi si volsero, direzione Nankatsu, fuggendo via come se fossero alle gare di atletica della scuola.
Per quanto piccole, le crepe erano ben veloci, come quella grande, e presero assieme a loro la rincorsa, mettendosi nella scia.
Gli sbuffi si iniziarono a innalzare a decine, in un rumore molto più familiare di quanto non fosse stato fino a qualche momento prima, e la polvere si disperdeva nell’aria, assieme a rocce più piccole e frammenti strappati dal sottosuolo che schizzavano come schegge taglienti e pericolose.
Yuzo e Mamoru corsero veloci, favoriti dalla pendenza che vedeva la strada in discesa rispetto all’andata.
«Muoviti a zig-zag!» Mamoru urlava nel ricevitore. «Non gli renderemo facile il lavoro a queste figlie di puttana!»
- Ricevuto! -
E alle loro spalle sembrava che una sventagliata di mitra andasse a casaccio, mancandoli ogni volta per un soffio. Data la loro piccola dimensione, le crepe erano molto più svelte di quella madre e distanziarle diventava difficile, figurarsi depistarle. Ma quando la città comparve davanti a loro con le prime case, l’idea di avere più nascondigli o ostacoli da poter frapporre tra loro si rivelò quasi provvidenziale. E poco importava se era tutto un mondo fantasma, quello in cui cercavano un qualsiasi riparo; solo case e oggetti, e l’unica vita era la loro e forse per questo era la cosa più preziosa che potesse esistere.
Yuzo si trovò davanti al primo ostacolo.
- Casa abbattuta dalle crepe precedenti! Dovrò deviare il percorso, Mamoru! Non ci riusciremo a vedere per un po’! -
Il ‘punto cieco’ sarebbe iniziato da lì e nessuno dei due aveva idea di quanto sarebbe durato, soprattutto ora che avevano quella roba che li tallonava senza tregua.
«Niente colpi di testa! Pensa solo a correre, ok?!» L’idea di separarsi in maniera totale non piaceva affatto al centrocampista ma al momento la loro priorità era di liberarsi delle crepe che li rincorrevano, e comunque si sarebbero tenuti in contatto tramite le trasmittenti.
- Ti sembro tipo da ‘colpi di testa’?! - ironizzò l’altro, con affanno, e Mamoru ancora non seppe spiegarsi come riuscì addirittura a farsi scappare un mezzo sorriso. - Ci sentiamo via radio! -
Il portiere lo disse l’attimo prima di entrare nel ‘punto cieco’. Mamoru fece solo in tempo a scorgere la sua figura, che il momento successivo era sparita, nascosta dalle macerie che adesso creavano blocchi enormi, accatastati dai lati della voragine e a volte appoggiati innaturalmente tra le due sponde, in bilico sul vuoto: un solo movimento sbagliato, uno squilibrio nei pesi, un banale colpo di vento e sarebbero precipitati.
Mamoru li fissò come mostri finché poté, poi cambiò strada all’ultimo momento.

 

“Mostra a tutti di avere fegato.
È troppo presto per fallire, sei ancora così giovane.
Un colpo, una possibilità.
Non ne avrai una seconda, quindi non sprecarla e ora preparati.
Diavolo, sì! Mettiti in gioco, esci dal tuo guscio, fallo e basta.”

 

Mentre correva, Nankatsu non gli era mai sembrata così conosciuta e straniera come in quegli istanti.
Mamoru cercava di trovare una strategia di depistaggio, un modo per capire come lasciarsi le bastarde alle spalle, ma quelle sembravano conoscere quel posto tanto quanto lui da stargli sempre dietro a ogni deviazione, a ogni scelta più azzardata che compiva.
Non riconosceva Nankatsu negli edifici diroccati, semicrollati o sbriciolati del tutto, ma sapeva individuare, nella parte che continuava a rimanere in piedi, i punti giusti per riuscire a orientarsi e capire da che parte muoversi, per non smettere di correre.
Il problema della lunga marcia del giorno prima, però, gli si presentò evidente, perché le gambe gli facevano male e non avevano la potenza cui erano avvezze. Faticava quasi il doppio per riuscire a correre e il fiatone era un esempio evidente del fatto che non avrebbe potuto continuare all’infinito. Aveva bisogno di riposarsi almeno una decina di minuti. Quindici era meglio.
Dalla parte Nord-Est di Nankatsu si infilò nella strada che portava al Tempio di cui conosceva una sorta di uscita secondaria che l’avrebbe ricondotto di nuovo nei pressi della voragine principale. Ci si stava allontanando troppo e non andava bene, voleva trovarsi nei paraggi per riuscire a scorgere il prima possibile un passaggio per la parte opposta e raggiungere Yuzo.
Salì in fretta le scale, mentre le crepe dietro di lui le mandavano in pezzi; nessuno sarebbe più potuto passare da lì, ormai, e Mamoru lo tenne bene in mente per gli spostamenti successivi.
Con un rombo cupo, vide i torii spezzarsi alla base e crollare; pietra su pietra, e pensò che niente si sarebbe mai salvato, neppure la sacralità del Tempio. Non c’erano divinità che avrebbero potuto vincere contro tutto quello. Forse, semplicemente, non esisteva nessun Dio o forse erano proprio loro a farlo.
Mamoru attraversò il cortile, si lanciò per la discesa in terra battuta quasi a rotta di collo, con il rischio di inciampare e cadere, e uscì dal cancello secondario.
Le crepe gli erano dietro senza la minima intenzione di mollarlo, così come lui non aveva intenzione di fermarsi.
Uscì sulla strada che un tempo aveva ospitato i migliori chioschi della città; quasi poté sentire il profumo invitante del ramen e le risate di Hajime e Teppei che si litigavano sempre la prima porzione. Li rivide, addirittura, e per una volta quello era un frammento di ricordo solo suo, che aveva vissuto sulla propria pelle. Era nato dalla sua mente e non dalla collisione di universi paralleli.
Si rivide con loro e provò un desiderio totale di poterli afferrare e trascinare via con sé, eppure gli passò accanto senza fermarsi né rallentare, perché tanto loro erano già spariti e non era ai ricordi che doveva pensare, quanto a chi ancora era vivo in quella realtà e quel qualcuno erano lui e Yuzo. E lui doveva farcela a uscirne vivo, per ricongiungersi al portiere. Dopo sarebbe potuta arrivare anche questa fottuta fine del mondo, l’importante era che fossero insieme.
«Merda!» sbottò, quando si trovò davanti un vicolo cieco che non ricordava affatto.
Si volse svelto e vide gli sbuffi di polvere segnare l’arrivo delle sue inseguitrici.
Subito riprese a correre e sfruttò delle casse ammassate contro la rete come base d’appoggio, poi si lanciò contro le maglie di ferro che tintinnarono sotto il suo peso e lo sforzo per arrampicarsi in cima.
Le crepe lo raggiunsero quando lasciò la presa sulla rete e cadde dall’altra parte. Il walkie-talkie volò via dalla tasca della felpa nel momento stesso in cui saltò. Scivolò sull’asfalto, ruotando su sé stesso sulla parte piatta.
Mamoru imprecò ancora e in corsa lo raccolse, mettendolo questa volta nella tasca dei jeans. Poi, l’inevitabile gli si presentò davanti e lui seppe che avrebbe dovuto fare una scelta senza smettere di correre perché se l’avesse fatto, sarebbe morto.
Un’altra voragine, probabilmente generata dalle crepe del giorno precedente, gli tagliava la strada. A sinistra aveva gli edifici crollati che si ammassavano a ridosso del baratro principale e a destra altri edifici uno accanto all’altro, senza possibilità di spazio per deviare.
La scelta era lì ed era ora e la morte avrebbe potuto accompagnare entrambe.
Mamoru cercò un qualsiasi appiglio cui aggrapparsi per provare a superare il fosso, ma quando alzò la testa e vide il gancio penzolante di una gru crollata su un fianco, gli venne un’idea: dopotutto, le crepe nascevano dal basso e sempre a terra si muovevano.
Il labbro gli si tese sulla destra, in un atteggiamento di sfida e rivalsa. Forse non le avrebbe fermate, ma sarebbe riuscito almeno a guadagnare tempo.
«Siete pronte a volare?» domandò, ironicamente, prendendo lo scatto finale.
D’improvviso fu come se le gambe avessero ritrovato tutta la loro forza e velocità per compiere quell’ultimo sprint in cui si sarebbe giocato il tutto per tutto. All’ultimo momento saltò e le braccia trovarono il gancio con un tempismo che credeva potesse esistere solo nei film d’azione. Vi si aggrappò con tutta la volontà che ancora aveva di non morire, non adesso, e si tirò su, sollevando le gambe.
Le crepe gli passarono sotto e tirarono dritto, spegnendosi nel vuoto del baratro con quello che parve un coro di lamenti. La polvere degli sbuffi lo investì e lui nascose il viso all’interno della felpa, avvertendo le pietre arrivare a colpirlo alle gambe e al sedere in maniera fastidiosa e leggermente dolorosa, ma non abbastanza da ferirlo.
Quando sollevò di nuovo il volto, le crepe non c’erano più lasciando solo lunghi solchi al loro posto e la sensazione di esserci andato così fottutamente vicino da sapere che, nel momento in cui avrebbe di nuovo messo piede a terra, gli sarebbero tremate le gambe.
- Mamoru? Mamoru, riesci a sentirmi? -
La voce di Yuzo arrivò ovattata e bassa attraverso la trasmittente e per Mamoru quello fu il secondo sospiro sollevato che tirò nel giro pochi secondi.
- Mamoru? -
Con agilità e dopo aver aspettato qualche altro secondo stretto al gancio, si lasciò cadere a terra con un piccolo salto. La voce di Yuzo l’aveva chiamato un altro paio di volte e lui si sbrigò a tirare fuori il walkie-talkie.
«Sì, ti sen-… pronto?» Mamoru premette un paio di volte sul tasto di comunicazione, ma il display non si illuminò di azzurro come avrebbe dovuto né lo sentì leggermente frusciare. «Yuzo?!»
Ecco arrivata la pessima notizia.
«Pronto?! Dannazione, pronto?! Yuzo, io ti sento! Riesci a sentire me?!»
- Mamoru… rispondimi… ti prego… -
Il centrocampista provò e riprovò, accese tutti i tasti possibili, ma la situazione non cambiò e anche se lui era in grado di sentire Yuzo, non era possibile il viceversa.
«Merda!» imprecò, portandosi una mano ai capelli e tirandoli indietro. «Merda! Merda! Merda!»
Il suo walkie-talkie era andato.

 

“Un colpo! Vuoi arrenderti?
Vuoi finire nelle trappole che ti circondano?
Un ultimo colpo!
Non scappare, voltati e affronta le tue sfide.”

 

«Ci sentiamo via radio!» disse e poi mise via la trasmittente, continuando a correre. E ogni passo era un dolore che dalla gamba saliva al fianco e arrivava quasi al petto.
Yuzo sapeva di essere in difficoltà e di perdere terreno rispetto alle crepe dietro di lui, così come sapeva che correre alla cieca non gli sarebbe servito a nulla. Doveva ragionare e trovare un modo per liberarsene; ci erano riusciti una volta, potevano farlo ancora, ma giocandosela d’astuzia.
Una fitta gli partì dal costato e Yuzo digrignò i denti, portandosi una mano al fianco. L’andatura si fece zoppa e perse ancora terreno nel fiato che faticava a entrare, ma usciva subito, quasi volesse scappare anch’esso.
«Dannazione!»
Si guardò indietro, uno sbuffo di polvere per poco non lo accecò e lui si portò una mano al viso per evitare che schegge e frammenti gli finissero negli occhi. Un sassolino, poco più grande di un’arachide e dai bordi affilati, gli tagliò la guancia nello sfiorarlo e poi conficcarsi nel terreno. Yuzo nemmeno se n’accorse, così come non sentì lo scivolare del sangue in una goccia sottile lì dove la carne era stata intaccata quasi con precisione chirurgica.
Corse dritto, almeno dopo il primo ostacolo che aveva trovato diroccato e abbandonato sulla strada. Lastroni d’asfalto erano stati rialzati e ripiegati come tappeti sotto cui bisognava spazzare e mostravano a lui la concavità della piega. Più in alto, gli si addossavano edifici o parti di essi, lamiere divelte, vetrate crepate ma ancora integre che aspettavano la vibrazione più forte per andare in mille pezzi e poi occhi vuoti di edifici che lo guardavano fuggire da una posizione non più verticale ma innaturalmente obliqua.
Davanti a lui la strada subiva una seconda, brusca variazione: il palazzo dell’N-News, il giornale locale, si era coricato prono sul negozio di biancheria di Sonoko-san, schiacciandolo quasi del tutto, sradicato dal terreno con tutte le fondamenta. Solo un piccolo spazio a triangolo scaleno si apriva verso il basso, lasciando quasi una strettoia in cui passare. Ci sarebbe dovuto stare curvato, ma non era male come tentativo: dopotutto, quelle crepe erano piccole rispetto all’altra che l’aveva inseguito all’inizio.
Per una volta non ci stette a pensare troppo e provò: si infilò nel passaggio, saltando scrivanie che avevano sfondato le finestre e strisciando contro pareti di cemento, tra vestaglie di seta ormai da buttare e vetri infranti.
Alle sue spalle, sentì l’impatto delle crepe contro il cemento e per un attimo fu tentato di fermarsi e guardare, ma non lo fece e si costrinse a correre, correre e ancora correre, per quanto lo spazio lo permettesse. Una volta dall’altra parte prese lo scatto per alcuni metri, ma il dolore al fianco lo costrinse a rallentare, fino a fermarsi e, stavolta, guardò cosa si era lasciato alle spalle.
Dall’ammasso crollato udì con chiarezza il rumore della roccia che subiva il passaggio delle crepe. Vibrava e vibrava anche il terreno sotto i suoi piedi; poi, il silenzio. Irreale e tattile. E poiché durò più di cinque secondi, Yuzo si illuse di averle fermate sul serio, di averle costrette a sbattere contro qualcosa di troppo grande per loro. Ma le sue congetture andarono in pezzi, quando dall’edificio del giornale si diramarono dieci tagli perfetti che lo divisero in blocchi netti, quasi il cemento fosse stato burro e le crepe delle lame di coltello roventi.
Yuzo si rese conto di averle sottovalutate, perché erano più forti del previsto.
Mentre tutto crollava, le piccole assassine tornarono alla carica e lui fu costretto a correre di nuovo, anche se stavolta non aveva idea di dove e neppure di come avrebbe dovuto affrontarle, perché sembrava non ci fosse niente in grado di arrestarne l’avanzata.
Il fianco parve dargli un minimo di tregua, mentre si infilava nel negozio di videogames in cui andava sempre con Theo e Kenta. Lo conosceva come le sue tasche; loro tre avevano passato le ore nel retrobottega con Takeshi-kun a parlare delle nuove uscite e a provare giochi in anteprima. E dal retro si poteva uscire da una porta secondaria che lui inforcò più veloce che poté, ma le crepe erano dietro di lui; erano sempre dietro di lui. Come segugi dal fiuto infallibile; sembravano incapaci di perderlo di vista e, ovunque Yuzo fosse andato, loro l’avrebbero seguito; rapaci dalla vista acuta.
Fu quel pensiero a dargli la giusta intuizione per formulare una strategia. Il fatto che le crepe gli stessero sempre in cosa non era dovuto a una visione materiale che avevano della sua figura, quanto percettiva; se nascevano dalla terra allora lo individuavano dalle vibrazioni che produceva correndo, quando i piedi entravano in contatto col suolo, vi battevano sopra. Ma se fosse saltato su qualcosa che non era a diretto contatto col terreno, sarebbero riuscire a percepirlo ugualmente?
Magari avrebbe potuto guadagnare tempo prezioso per riprendere fiato e far calmare un po’ il dolore che continuava a stilettarlo senza pietà. Si disse che valeva la pena tentare anche perché non era più in grado di tenere il ritmo.
Con gli occhi e mentre correva, Yuzo cercò qualcosa su cui saltare, qualcosa che fosse collegato direttamente a un edificio dentro il quale nascondersi, almeno per il momento, e quando scorse la trave a vista della stazione dei vigili del fuoco creare come un ponte che si poggiava all’edificio di fronte senza arrecargli gran danno, ma solo lo sfondamento di un balcone di cui aveva preso il posto, pensò che facesse proprio al caso suo.
Sfruttando la scala involontaria che una Yaris, un fuoristrada della Mitsubishi e un furgone avevano creato, venendo parcheggiati l’uno dietro l’altro, Yuzo si arrampicò sui loro cofani e tettucci, saltando dall’uno all’altro, fino a raggiungere la trave che non parve subire il suo peso; insomma, era spesso cemento e poggiava su altro cemento altrettanto spesso.
Lassù, il portiere si immobilizzò, ginocchio piegato e mani sull’asse; fermo come fosse parte di essa o una statua. Il respiro affannato era l’unico rumore che cercava comunque di tenere sotto controllo, trattenendo il fiato e inspirando con il naso, piuttosto che con la bocca.
Le crepe passarono in corsa sotto di lui e, come aveva immaginato, tirarono dritto. Al bivio successivo le vide diramarsi in tutte le direzioni, senza fermarsi. L’avevano perso. Avevano perso il contatto che avevano con lui e il portiere si ritrovò a inspirare più a fondo, mentre rilassava le spalle e i muscoli. Il suo piano aveva funzionato e lui non se ne faceva ancora capace, ma ringraziò – nemmeno lui seppe chi, forse fu più un riflesso abituale – borbottando poche parole nel fiato che entrava e usciva svelto.
Alzandosi in piedi e facendo il minor rumore possibile, Yuzo camminò sulla trave solida, fino a raggiungere l’edificio che un tempo era stato dei Vigili del Fuoco. Aveva scelto quello e non l’altro, di sicuro più stabile, perché si godeva di un’ottima visuale che dava verso la voragine principale e ciò che si estendeva al lato opposto, quello su cui si trovava Mamoru.
Zoppicando vistosamente, il portiere metteva un piede dietro l’altro in maniera lenta e accorta, si prendeva il tempo di poggiare completamente le suole anche se di tempo ne aveva pochissimo, ma non poteva sprecare quanto fatto con movimenti troppo bruschi.
Raggiunse la vetrata sul fondo del piano leggermente in pendenza. I vetri erano esplosi a causa delle vibrazioni e dell’edificio più vicino alla voragine che gli si era addossato, facendo crollare parte della struttura. L’altra sembrava reggere ancora e, almeno per ciò che serviva a lui, sarebbe andata benissimo.
Prima ancora di guardare l’esterno e vedere quale fosse la situazione, Yuzo si lasciò scivolare a terra, sotto la vetrata, sedendosi su uno schedario ribaltato, e cavò il walkie-talkie dalla tasca.
«Mamoru? Mamoru, riesci a sentirmi?» mormorò, temendo che anche la sua voce producesse vibrazioni troppo forti che potessero farlo localizzare.
Dall’altra parte, il silenzio rispose per troppo tempo e un brivido attraversò la schiena di Yuzo, provocandogli dolore nel fianco ferito. Si sforzò di non farsi prendere dal panico e pensò che magari il centrocampista non avesse ancora trovato un riparo da quelle crepe maledette. Forse avrebbe dovuto aspettare qualche secondo in più, ma non lo fece.
«Mamoru?» chiamò ancora, iniziando a tamburellare leggermente la punta del piede al suolo, dimentico di dover fare il minor rumore possibile.
Quel: «Dai, rispondi!», lo disse solo a sé stesso, non al microfono della trasmittente, mentre nello stomaco si allargava una sensazione orribile che sembrava accartocciargli le viscere e la gola. Aveva artigli, si arrampicava dentro di lui per arrivare agli occhi e farli pungere con insistenza nel pensare, e orrendamente temere, che Mamoru non ce l’avesse fatta.
Non l’aveva mai lasciato così tanto nel silenzio, qualcosa doveva essere andato storto e se ora si metteva ad ascoltare, non riusciva neppure a sentire nessun rumore di edifici che venivano squarciati, di sbuffi d’aria e roccia. Tutto era tornato immobile, in quella città fantasma, e lui affondò il viso in una mano. Le dita scivolarono sulla pelle e arrivarono alla fronte, attraversarono i capelli. La sensazione delle lacrime, il loro sapore salato, era nella gola.
«Mamoru… rispondimi… ti prego…»
Ma nessuno ascoltò le sue preghiere e il silenzio fu ancora con lui, compagno premuroso che avvolgeva tutto in maniera invisibile e pesante.
Yuzo capì che non era come quando erano spariti i suoi genitori, che il dolore era stato improvviso e deflagrante come una mina, qui lo sentiva scendere nel profondo, come uno spillo. Entrare nella carne e dirgli a chiare lettere che Mamoru non era semplicemente sparito ma morto. Morto senza libertà d’appello e lui si sarebbe trovato a combattere e ad affrontare la fine da solo.
Mai gli era pesata la solitudine come in quel momento e gli sembrò così ironico perché si erano sempre odiati fino a due giorni prima. Si erano odiati in maniera profonda allo stesso modo di quel dolore che sentiva dentro. E se la sofferenza era così radicata nell’animo, allora voleva dire che anche il sentimento che lo legava a Mamoru era profondo, più di quanto avesse pensato.
«…non ci credo…» mormorò nel microfono, gli tremava la mano. «… sei lì… da qualche parte… non è così?... non ti hanno preso… dimmi che… che…» Non finì la frase, staccò la comunicazione e nascose il volto tra le ginocchia. «…Maledizione!»
Se solo avesse potuto sentire Mamoru che, quanto lui, imprecava dall’altra parte della voragine, se solo avesse potuto sentire con quanta forza continuava a ripetere a una trasmittente rotta che era vivo, che stava bene, che non doveva… non doveva piangere… allora Yuzo avrebbe di sicuro smesso, si sarebbe asciugato gli occhi e gli avrebbe detto che forse, sotto sotto, non era per niente adatto a fare il cavaliere.
Invece, il portiere smise lo stesso, dando fondo alla sua forza di volontà. Ingoiò le lacrime che avrebbero voluto riversarsi fuori e si passò una mano sul viso alla buona.
«Senti… senti cosa facciamo…» la voce era ancora incerta, ma Yuzo prese un paio di respiri profondi e tenne gli occhi bene aperti per ritrovare fiducia. Si alzò in piedi e guardò fuori. La voragine sembrava non avere una fine e lui non aveva più tempo per cercare il punto da cui era nata, dove la terra tornava a diventare una: doveva esserci un altro modo, più rapido, per saltare il fosso.
Non vide sbuffi alzarsi da nessuno dei due lati e non seppe come interpretarlo, perché gli impediva di localizzare la presenza del ‘nemico’. C’era però il Muro, e quello, santoddio!, era ovunque. Aveva picchettato il perimetro, e tutto ciò che era al suo interno era il mondo che a loro era rimasto. Così poco.
Poi il suo sguardo venne catturato da tre edifici che restavano adagiati tra loro e rimanevano in equilibrio sul vagone della metropolitana che non era stato tranciato dal passaggio della Crepa più grande, ma sostava in bilico, con le estremità poggiate da una parte e dall’altra.
Yuzo vide che poteva entrare nell’edificio dal suo lato di voragine e uscire attraverso una delle finestre per continuare all’esterno, passare alle altre strutture e trovarsi sulla sponda opposta.
Era rischioso, molto. Era giocato tutto sul filo del rasoio, sull’evitare il movimento sbagliato e non far tremare le bacchette dello Shangai o tutto sarebbe potuto crollare e lui con loro. Era da folli e lui non era un debole.
«Attraverserò il baratro, tu aspettami.» La voce aveva di nuovo una nota più ferma. «Se riesci a sentire questo messaggio, ho trovato un modo per saltare il fosso. Entrerò nell’edificio di fronte al ristorante italiano, passerò all’altro che gli resta appoggiato e mi ritroverò nei pressi della salita che porta all’Hikarigaoka. Dovrò stare attento che le crepe non mi sentano o sarà un casino.» Prese una pausa e poi continuò. «Non sarà facile ma tu una volta mi hai detto che il coraggio va dimostrato, che avrei dovuto provarci e visto che non ho più niente da perdere… ci vediamo dall’altra parte, perché sto venendo a prenderti.»

 

“Su questo cammino infinito non si può indietreggiare.
Oooh, oooh, oooh, non temere.
Non posso rimanere intrappolato in un attimo di indecisione.
Oooh, oooh, oooh, c’è solo una possibilità.

Un solo colpo! Un solo colpo!
Stringi forte i denti e affrontali! Un solo colpo!
Un solo colpo! Un solo colpo!
Mostrati al mondo! Un colpo!”

B.A.P.One shot(1)
(la canzone comincia al secondo 00:30)


[1]: il coreano non è tra le (poche) lingue che conosco, quindi non sono stata io a tradurla – no, neppure dall’inglese XD –, ma ho ripreso la traduzione che trovate nel video linkato, ad opera di Ayumi-Zombie. :)


 

Nota Finale: ...*Mel tossicchia*.
L'avevo detto che le cose non sarebbero andate lisce XD Non scherzavo.
Questa è proprio l'ultima corsa contro il tempo per riuscire a ricongiungersi prima che tutto il mondo sparisca e loro due con lui. Ce la farà Yuzo a trovare un modo per passare dall'altra parte e raggiungere Mamoru?
Nel prossimo e ultimo capitolo avrete la risposta!... E non solo quella! ;)))

Poiché il prossimo è il capitolo finale, aggiornerò prima :D Non mi va di lasciarvi troppo a lungo in sospeso, soprattutto a un passo dalla fine ;) L'ultimo aggiornamento è previsto tra Martedì e Mercoledì :D

Grazie mille a tutti coloro che seguono e leggono questa storia! :D Ormai ci siamo! ;)

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Capitolo 12
*** VII - fixing the bug (parte IV) ***


The Bug - VII (parte IV)

Nota Iniziale: Come promesso, ecco che arriva in anticipo l'ultimo capitolo! Ci rileggiamo nelle note finali! :*

 

The Bug
- VII: fixing the bug -
(parte IV)

 

«No!» Mamoru lo gridò, ma la trasmittente lo tenne per sé e non condivise nemmeno una parola con la compagna che aveva il portiere. «No, no, no! A volte parlo troppo! Dico cose che possono andar bene solo in teoria, non devi starmi a sentire!»
Ma Yuzo doveva essersi già mosso e la sua era solo una preghiera troppo lontana.
«Non fare pazzie, stupido portiere…»
Una voce fuori campo, una supplica che Mamoru sapeva non sarebbe stata ascoltata.
Dall’altra parte, mentre lui parlava al vento, Yuzo si muoveva, adagio come prima. Un passo alla volta scese ai piani inferiori, ma al primo l’ingresso principale era sbarrato così fu costretto a deviare, passando per una delle finestre distrutte. I vetri erano già infranti, sparpagliati ovunque come una pioggia di diamanti senza valore.
Yuzo si issò dal bordo per guardare fuori e capire quanto fosse alto. Una scheggia rimasta ostinatamente attaccata al proprio posto gli lacerò la pelle nel centro del palmo e il portiere ritrasse la mano con un’imprecazione.
Il sangue scivolava dal foro, Yuzo lo fissò e poi guardò il frammento di vetro. Si ergeva sempre lì, orgoglioso e sporco di rosso. Sembrava il soldato morente che era troppo attaccato alla vita per esalare in pace l’ultimo respiro e preferiva restare a soffrire piuttosto che lasciarsi andare.
Dabbasso, il salto non si presentò troppo alto e, per sua fortuna, c’era una camionetta parcheggiata. Sarebbe potuto atterrare sul tettuccio e poi scivolare a terra, sempre facendo piano e poco rumore altrimenti le crepe l’avrebbero sentito e trovato. Da lì in poi, lo separavano dal punto di passaggio solo due-trecento metri, e le opzioni erano due: o camminare pianissimo, per produrre meno vibrazioni possibili, o correre e far scattare l’allarme. La terza opzione, quella che lui sperava, fu che non sarebbero arrivate in nessun caso, che magari erano state richiamate o ci avessero rinunciate; che fossero morte, se di ‘morte’ si poteva parlare nel loro caso.
Yuzo tolse svelto lo zaino dalle spalle, prese l’acqua e ne bevve un lungo sorso per dare sollievo alla gola secca e al petto. Poi, lasciò tutto lì, aveva bisogno di essere il più leggero possibile per muoversi piano e in silenzio o velocemente, a seconda della situazione.
Quando si sentì pronto, scavalcò il parapetto e iniziò a calarsi, aiutandosi con i blocchi dell’edificio che sporgevano innaturalmente a causa del crollo. Gli fornirono quasi una scala arrangiata su cui scese, un passo alla volta, fino al salto finale sul tettuccio della camionetta; lo affrontò dopo aver preso un ultimo respiro e la mira giusta. Quest’ultima si rivelò esatta e precisa, ma il rumore cupo del metallo gli sembrò così assordante da lasciarlo immobile nella posizione d’atterraggio e con i denti stretti. Nel petto, il cuore batteva velocissimo, anche troppo, e sperò che il suo rumore non venisse udito perché forse era ancora più forte di quello prodotto dal salto.
Rimase così, con le ginocchia piegate e le mani sollevate a mezz’aria, che bilanciavano l’equilibrio di tutto il corpo, in silenzio religioso e solo gli occhi che ruotavano, ma la testa ferma: le ossa avrebbero potuto fare rumore e anche i muscoli.
Non successe nulla nei successivi venti secondi che a Yuzo parvero una perfetta combinazione tra venti minuti e venti ore. La terra e tutt’intorno rimasero silenziosi, nessuno sbuffo di polvere né suono crepitante. Gli oggetti sostarono immobili così come erano stati abbandonati e il portiere pensò di potersi tirare su, piano piano. Anche perché le gambe iniziavano a fargli male per la tensione.
Si mise in piedi e guardò ciò che aveva attorno; d’improvviso, il silenzio parve essere una condizione rassicurante per lui, quando prima gli aveva creato disagio e angoscia. Ora, se c’era silenzio, significava anche che non c’erano pericoli e che poteva muoversi.
Scivolò dal tettuccio al cofano, sfruttando il parabrezza della camionetta, fino ad arrivare a terra, mettendo giù un piede alla volta.
Piano, pianissimo.
Nessun rumore, per quanto possibile, nessuna vibrazione.
E d’intorno ancora silenzio.
Yuzo si convinse di poter camminare e i suoi passi erano lenti come quelli di un bradipo e silenziosi come quelli di un gatto; l’edificio che gli avrebbe fatto da ponte appariva lontanissimo e irraggiungibile se non in ore, ore che lui non aveva e non avrebbe mai avuto, perché il Muro era arrivato, il Muro sarebbe stato presto più stretto come un cappio attorno al collo fino a stritolare il loro spazio, il loro fazzoletto di realtà.
Fu mentre si trovava a metà strada che un pezzo della struttura, che fino a quel momento gli aveva fatto da riparo, decise di tradirlo. Da solo, senza che nessun altro lo toccasse, un blocco di intonaco e cemento su cui si era appoggiato durante la discesa, venne giù. Con uno schianto precipitò sulla camionetta e l’antifurto della stessa, che non era scattato fino a quel momento, azionò la sirena.
Un fracasso così assordante, Yuzo non lo aveva mai sentito. Si girò di scatto, l’espressione inorridita che gli deformava i tratti e gli diceva chiaro e tondo che adesso era nella merda. Guardò le luci delle quattro frecce accendersi e spegnersi scandendo il ritmo del suono e poi gli sbuffi, come pennacchi di vapore, si innalzarono da almeno sette direzioni diverse, attorno e dietro di lui.
Era stato individuato, la copertura saltata e il piano aveva bisogno di una improvvisa accelerata.
Yuzo iniziò a correre e seppe, pur senza voltarsi, che anche le crepe si erano mosse e lo stavano inseguendo. Lo capì quando, infilatosi nell’edificio, sentì la sirena della camionetta avere un’impennata improvvisa e poi spegnersi, come se si fossero scaricate le batterie. Semplicemente, le crepe l’avevano inghiottita e lui lo sapeva, ma non aveva tempo di fermarsi e guardarsi indietro, o anche solo provarci. Lui doveva correre e non ci sarebbero state gambe zoppicanti o fianchi doloranti, in quel momento, perché era l’unico che aveva, l’unica possibilità: se avesse fallito, sarebbe morto.
Anche se la decisione di attraversare tre edifici sospesi sul vuoto era stata presa su due piedi, aveva avuto abbastanza tempo per potersela studiare in qualche modo. Per questo, quando Yuzo entrò nell’edificio, la prima cosa che fece fu di salire al piano superiore. Le scale erano inclinate e gli facilitarono il lavoro in maniera involontaria. La prima finestra che dava sul retro fu sua. Il vetro era ancora intatto ma si distrusse quando l’aprì e le ante gli sfuggirono di mano, attirate verso l’esterno dalla gravità. Sbatterono nei cardini e le vibrazioni mandarono tutto in pezzi in un suono crepitante di cristalli.
L’altro edificio era sotto di lui, molto più inclinato di quello in cui stava adesso, doveva solo saltare giù e correre sulla facciata fino alla terza costruzione, quella che si incastrava con la seconda in un equilibrio forzato. Sembrava che qualcuno avesse voluto mettere per forza il tassello del puzzle nella posizione sbagliata.
Poi, le crepe arrivarono.
L’impatto fu così violento che la struttura tremò tutta e la vibrazione si trasmise anche alle altre.
Yuzo si tenne al parapetto, si abbassò, cercando di non cadere, ma quando si accorse che l’inclinazione dell’edificio stava aumentando, capì che si sarebbe giocato tutto sull’attimo. L’attimo per uscire, l’attimo per correre e l’attimo per saltare.
Pochi, pochissimi e tutti sequenziali.
Yuzo saltò giù dalla finestra e la solidità del secondo edificio fu sotto di lui, cinque metri più in basso. Il dolore alla gamba, nel momento in cui arrivò a terra e si rotolò sul fianco, si trasmise al livido e gli ricordò che non doveva appoggiarsi da quella parte, strappandogli un lamento più lungo e sofferente.
Guardò in alto e l’edificio, che già gli faceva ombra, diventava più vicino. Le crepe gli stavano fottendo le fondamenta e questo si ripercuoteva con una perdita di equilibrio. E la perdita di equilibrio dell’uno variava quello dell’altro, su cui si trovava adesso, che iniziava a inclinarsi pericolosamente; la strada per la vetta diveniva sempre più in salita. Quando il primo edificio sarebbe crollato del tutto, il secondo avrebbe perso l’incastro con il terzo e tutti e tre sarebbero precipitati, e lui con loro.
Quello era l’attimo che aveva per correre.
Yuzo scattò veloce, mentre la macchina di distruzione continuava il suo lento percorso alla fine del quale non ci sarebbero più stati punti di incontro tra le due sponde della voragine.
Forse, in quel preciso istante, in cui stava quasi per sputare i polmoni, a Yuzo avrebbe fatto bene sentire la voce di Mamoru che continuava a chiamarlo e a correre, anche lui, verso il loro punto di incontro.
Il centrocampista era scattato non appena aveva sentito il rumore dell’antifurto e visto gli sbuffi di polvere alzarsi tra le case, troppo lontane da lui. Gli avevano indicato dove fosse Yuzo e quanto ancora gli mancasse per poter raggiungere la salita che portava al parco.
E aveva corso, e aveva gridato il suo nome. Ma il rumore degli edifici che rombavano come tuoni nel lento morire aveva coperto tutto.
Se Yuzo avesse potuto sentirlo, di sicuro avrebbe corso ancora più veloce e si sarebbe sentito più forte nel sapere che ormai era solo questione di metri e passi, pochi gli uni e pochi gli altri.
Ma Yuzo non sentiva nient’altro che la morte ruggente alle sue spalle e il fiatone che gli stava facendo esplodere il petto. In condizioni normali, forse, sarebbe caduto a terra stremato, ma l’adrenalina venne in suo soccorso a dargli quella forza di cui aveva bisogno.
Raggiunse il punto di contatto con il terzo edificio quando entrambi arrivarono al momento di massima tensione e un istante prima che perdessero l’incastro che li teneva uniti. Ancora, un attimo. E questo era l’attimo per saltare su cui non rifletté.
La facciata del terzo edificio era in pendenza negativa. Sembrava un enorme scivolo su cui atterrò di schiena, e per il resto non gli rimase che affidarsi alla gravità. Quattro piani come se stesse su uno slittino invisibile, mentre alle sue spalle il mondo rombava come se ci fosse una valanga a inseguirlo e, quando arrivò alla base, Yuzo piantò i piedi al suolo e si trovò di nuovo a rotolare di lato, dentro la terra e l’asfalto, tra schegge e frammenti di vetro e tutto quello che era rimasto. Poi, il mondo smise di girare, ma non di fremere, e lui si ritrovò boccheggiante, faccia a terra, a respirare sulla polvere con la bocca e con il naso. Tossì, un paio di volte, per l’aria che non riusciva a entrare a sufficienza e per la polvere che veniva inalata involontariamente. Strusciò le dita sul ruvido dell’asfalto quando cercò di fare forza per alzarsi e si sentiva, di nuovo, a pezzi, proprio come la sera prima nella casa di campagna. Eppure tutte le parti del suo corpo rispondevano, seppur in differita, ai comandi impartiti dal cervello. Si trascinò, si sollevò sulle braccia e le ginocchia si piegarono verso il bacino per dargli un appoggio più solido su cui tentare di sedersi. Quando alzò il viso, la polvere era una nuvola che si sollevava dalla voragine e gli scivolava attorno in lingue sottilissime quanto leggere. I tre edifici erano crollati portandosi dietro tutti i loro rumori, la metropolitana rimasta in equilibrio e le crepe, che nel vuoto si erano estinte, ma non fu mai in grado di udire lo schianto finale, quando arrivavano al fondo. Forse perché un fondo non esisteva affatto e, come aveva detto Mamoru, non c’era più nulla sotto di loro. Galleggiavano come polistirolo sull’acqua, alla deriva in un mare che non era nemmeno visibile.
Yuzo si sedette sui talloni e appoggiò le mani sulle gambe, continuando a respirare. L’adrenalina se ne andava, il cuore trovava un ritmo regolare e l’aria era di nuovo tutta lì, nelle giuste quantità.
E lui ce l’aveva fatta.
Ce l’aveva fatta sul serio e ancora non riusciva a crederci.
Il coraggio era una qualità che si doveva dimostrare. Proprio come la follia.
«Yuzo!»
Ora che non c’erano più edifici che crollavano né il proprio fiato a tappargli le orecchie sentì distintamente quel richiamo e si volse di scatto a sinistra.
Mamoru arrivò di corsa, con la sua stessa fretta e urgenza. Anche lui sembrava dovesse sputare il polmoni da un momento all’altro, ma l’adrenalina copriva tutto, anche il dolore.
Quando lo vide, Yuzo ripensò alle ipotesi terribili che la sua testa aveva formulato nella frazione di secondo successiva alle ripetute mancate risposte, dopo che aveva provato a contattarlo. Ripensò alla peggiore di tutte e sentì le lacrime che aveva ricacciato in gola tornare di colpo, più forti di prima per rendere acquosa l’immagine del centrocampista che ora si era fermata a una decina di metri con la sua stessa incredulità negli occhi.
«Mamoru…» Gli uscì quasi senza fiato, mentre cercava di mettersi in piedi e le gambe non lo rendevano particolarmente stabile; la tensione era ancora lì, che cercava di dissiparsi, ma aveva bisogno di tempo.
Lui si alzò comunque, traballò quasi fosse ubriaco, ma si tenne, in qualche modo, in equilibrio.
«Mamoru…» ce l’ho fatta, visto? Mi sono buttato nella mischia, come dicevi tu! E ci sono riuscito! Ho dimostrato di essere più un cavaliere che una principessa?
Ma tutto quello non lo esternò a voce, rimase solo nella testa, sotto la lingua e nel fiato che usciva fuori ancora affannoso. Parlò il corpo al suo posto, e il fatto che fosse in piedi, davanti a lui, dalla sua stessa parte di mondo di nuovo.
Mamoru fu come se lo capisse ugualmente, in un modo tutto particolare e misterioso, fatto solo di intuizioni e gesti così piccoli ma ricchi di significato. Lo capì e si sentì pervaso da un senso di orgoglio che non sapeva da dove diavolo fosse nato, di preciso, ma che era lì e gli stava allagando il petto, e poi sollievo. Di quello ce n’era fino a scoppiare, fino a piangere, ma lui non era tipo da mostrare commozione tanto facilmente, così ingoiò tutto e prese a camminare nel momento in cui Yuzo fece altrettanto. I suoi passi erano più sicuri, quelli del portiere non seguivano una linea retta, ma acquistarono sempre più sicurezza e velocità a mano a mano che la distanza tra loro diminuiva e ora sì, lo poteva vedere chiaramente che stava piangendo, quando attraverso la trasmittente aveva solo potuto immaginarlo.
Lo accolse tra le braccia quasi fosse un miracolo o un pezzo della sua stessa vita che aveva ritrovato dopo tantissimo tempo. Lo strinse, gli afferrò la felpa e continuò a ripetergli quel ‘Va tutto bene’ come fosse un mantra.
Yuzo gli teneva il viso nascosto nella spalla e tra i capelli; un braccio attorno alla vita e l’altro attorno al collo. Anch’egli lo stringeva quasi non si vedessero da tempi immemori, e continuava a chiamarlo, dire solo il suo nome, nonostante avesse voluto riversare su di lui migliaia di parole.
«Mamoru…»
Stai bene?! Maledizione, credevo che le crepe ti avessero preso! Che diavolo è successo?!
«…Mamoru…»
Me la sono vista proprio nera! Cioè! Credevi che ci sarei riuscito?! Buon per te, io nemmeno tra un paio di secoli!
«…Mamoru.»
Piccole e bastarde, peggio della Crepa-madre!
Yuzo sembrava quasi non conoscesse altre parole e sapeva che udire il suono del suo nome unito alla certezza che adesso ce lo aveva addosso, lo stringeva, potesse calmarlo più in fretta. Erano magie, quelle, che nessuno dei due aveva mai avuto modo di conoscere con i tempi giusti e un po’ alla volta. Adesso se le erano trovate tutte insieme tra le mani e ciò che potevano fare era solo lasciarsene travolgere, perché erano troppo giovani per dare loro un aspetto più razionale con cui relazionarsi. Le vivevano così, con tutta la loro magia.
Mamoru si allontanò appena dal portiere in modo da poterlo guardare in viso.
«Come ti è saltato in mente, eh? Ma dico io, quanto sei pazzo?» Scorse il taglio sulla guancia e cercò di pulirlo con la manica della felpa, ma come lo toglieva il rivoletto di sangue tornava a sporcargli la pelle. Per il resto, gli sembrò che fosse tutto intero e non avesse ferite evidenti. Tolse via le lacrime con il palmo della mano.
Yuzo lo lasciò fare. Le parole tornavano alla lingua, ma le sue mani restarono aggrappate alla maglia di Mamoru che si appoggiava sui fianchi. «Non rispondevi, e ho creduto che…»
«La trasmittente si è rotta. Ha fatto un volo mentre scappavo. Io riuscivo a sentirti, ma non potevo comunicare con te.»
Yuzo era sollevato, mentre abbassava la testa e pensava che tutto lì, era solo tutto lì, la radio si era semplicemente rotta. Sentì le sue mani poggiarsi lungo le linee delle mascelle affinché alzasse il viso, lo guardasse di nuovo.
«Perché hai corso un rischio simile?»
«Perché non abbiamo più tempo, Mamoru!» Lo fissò con fermezza, gli occhi rossi ma di nuovo asciutti. «Non ti sei guardato intorno? Le nuvole si sono alzate…»
Mamoru dovette ammettere a sé stesso che non aveva avuto tempo di farlo, di concentrarsi sulla completezza della loro realtà, troppo preso a scappare prima e a preoccuparsi di lui dopo, ma ora che il portiere glielo aveva fatto notare, non poté tergiversare. Si volse, lo sguardo correva lungo la linea più lontana cui potesse arrivare e la presenza del Muro era così ingombrante da essere impossibile che non l’avesse notata fino a quel momento. Era entrato in città, da ogni lato, e si stringeva attorno a loro. Niente più vie d’uscita da quel labirinto.
«Dovevo trovarti il prima possibile… questo era l’unico modo…» Yuzo scosse il capo. «Ma adesso che quell’affare è qui… noi cosa facciamo? Cosa possiamo fare, Mamoru?»
Arrendersi?
Mai e poi mai! Mamoru avrebbe venduto cara la pelle prima che quell’assurda eventualità si realizzasse, ma non c’erano vie di fuga e allora cosa?
Resistenza.
Fino alla fine.
Gli sbuffi di polvere si alzarono di colpo per annunciar loro che non erano più da soli e che gli ultimi momenti prima della fine non sarebbero stati tranquilli ma se li sarebbero dovuti sudare.
«Ce la fai a correre?» domandò, con una certa urgenza, dopo aver deciso da che parte si sarebbero mossi.
Yuzo non negò né affermò. «Insomma.» Il fianco lo stilettava di continuo, anche solo stando in piedi, e sulla gamba non ci si poteva appoggiare in maniera stabile.
Mamoru si passò un suo braccio attorno al collo e gli tenne piano la mano sul fianco ferito.
«Ti aiuto io, ma devi stringere i denti. Ci resta solo un po’ di salita da percorrere.»
Fuga estrema, l’ultima, per raggiungere il punto oltre il quale non sarebbero più potuti andare.
Il sentiero che si addentrava nell’Hikarigaoka era tutto ciò a essergli rimasto, l’unica strada da percorrere ancora fianco a fianco prima che il mondo fosse finito.
Camminavano svelti per quanto potevano, ormai tutti e due prossimi al limite oltre il quale sarebbero crollati, senza più potersi alzare. Ma mentre si guardava indietro, per vedere dove fossero le crepe, Mamoru si accorse che non correvano veloci come sapeva fossero in grado di fare.
«Ci vogliono sfiancati, lo fanno apposta. Bastarde!» ringhiò, tenendo saldamente il compagno, gli dava il ritmo col proprio passo e Yuzo faceva il possibile, stringeva i denti proprio come gli aveva chiesto, per non rallentarlo e stargli dietro.
«Ci siamo quasi.» Lo rassicurò, mentre raggiungevano il promontorio e quindi la fine del sentiero.
Il belvedere davanti al tempietto dal quale era possibile dominare l’intera Nankatsu. Il belvedere su cui tutto era cominciato, quel pomeriggio di alcuni giorni prima. Sembravano trascorsi anni e invece non era così. A distruggere un intero universo ci voleva davvero poco, dopotutto.
Si fermarono che dietro di loro c’era solo la ringhiera che affacciava sulla città e il Muro Bianco era lì, enorme, altissimo. Mangiava le case e la terra, mangiava il cielo un pezzo alla volta e sarebbe arrivato a mangiare anche loro, da ogni direzione.
Arrivarono anche le crepe, che si ridussero, facendosi piccolissime, ma senza superare un certo limite. Non gli andarono addosso come avevano sempre fatto, ma si comportavano come gli squali che circondavano la preda e le giravano intorno, in attesa.
Mamoru si frappose subito fra loro e il portiere.
«Dovranno pur farsi vedere i bastardi che stanno facendo tutto questo! Devono! Voglio vedere che faccia hanno! Se sono Dei, Demoni o fottuti alieni! Voglio vedere chi devo maledire dall’Aldilà!»
Yuzo si tenne il fianco e scosse il capo, respirando con dolore e fatica.
«Non c’è nessuno, Mamoru.»
«Non essere ridicolo! Deve esserci un colpevole!»
«E c’è» confermò il portiere, mentre Mamoru si girava a guardarlo con espressione furente. «Ci sono.»
«Chi?!»
«Noi.» Lo esalò, cadendo in ginocchio. Esausto.
«Come sarebbe?! Che significa?»
«Quando eravamo fuori città, tu mi hai chiesto perché le cose erano precipitate, tra noi, perché non siamo mai riusciti ad andare d’accordo come nelle altre realtà. Mi chiedesti se fosse questo l’errore. Ricordi?»
Mamoru tornò indietro, alla sera prima, e l’urgenza che l’aveva tenuto impegnato sembrò dissiparsi, permettendogli di afferrare di nuovo la conclusione che aveva raggiunto.
«Lo ricordo…»
«Bene. Sappi che la risposta è sì. Sì, è quello l’errore, il fatto che in questa realtà non siamo riusciti a trovare un punto d’incontro ha mandato il sistema all’aria. Ti dissi anche questo, che c’era come un bug… e quel bug siamo noi. Siamo noi l’errore che sta distruggendo il mondo.»
«No…» Mamoru scosse il capo, inginocchiato davanti a lui. Non riusciva a crederci. «Tutto il mondo, l’universo stesso, non può dipendere solo da noi due! Da una nostra misera scelta! Non ha… non ha senso!»
«Ne ha, se quella scelta crea un’anomalia. Può essere piccolissima, ma si ripercuote a catena sulle vita di tutti coloro che ci circondano e di quelle che circondano coloro che circondano noi. E così via.» Yuzo mimò con due dita la grandezza di un chicco di riso, così irrisoria rispetto alla vastità di un’intera esistenza. «Un piccolo errore, che ha spezzato l’equilibrio universale.»
«E… quello che sta succedendo… cosa…»
Yuzo si strinse nelle spalle. «Credo… credo che il sistema stia cercando di cancellare l’errore, cancellare noi e ricominciare da capo. È come quando si formatta un computer.»
Distolse lo sguardo, tornando indietro con la mente, fino alle origini dei cambiamenti più evidenti e poi ancora più indietro. Di anni interi.
«Avremmo dovuto capirlo prima, ci erano stati dati tanti segnali… quasi delle avvisaglie, prima che le cose precipitassero. Ricordi… ricordi i tuoni? Spezzavano il cielo ogni volta che ci davamo contro; l’ho notato solo dopo. E anche la pioggia.» Sollevò lo sguardo al cielo che non esisteva più, sostituito dal Muro che aveva formato una cupola sopra le loro teste. «Sono giorni che non piove. Da quando abbiamo smesso di litigare e abbiamo iniziato a conoscerci e capirci.» Si rivide per un attimo più bambino e sospirò, parlando in particolar modo di sé. «Avrei dovuto comprenderlo da quella strana sensazione di incompletezza. Tu l’hai mai provata, in questi anni? Io non avevo capito cosa fosse, sapevo solo che c’era qualcosa che mi mancava, anche se non sapevo cosa. Eppure avevo degli amici fantastici, andavo bene a scuola e genitori che mi volevano bene. Nonostante tutto, c’era questo piccolo senso di vuoto, proprio qui, che non aveva nome.» Si puntellò il petto, all’altezza del cuore. Il suo vuoto personale ne aveva scelto un angolino in cui farci la casa. «E sai da quando è scomparso? Da quando mi hai salvato dalla crepa la prima volta. È stato lì che abbiamo iniziato a parlare senza aggredirci. È stato lì che ho sentito che ti eri preoccupato per me: perché mi cercavi quando credevi fossi scomparso.»
Mamoru arrossì per un attimo, ricordando quel particolare e la sensazione di smarrimento totale che aveva provato, quando non aveva più trovato Yuzo nell’appartamento al suo risveglio.
«Quel piccolo spazio si era finalmente riempito e anche se tutti gli altri erano scomparsi, io mi sentivo completo. Perché ciò che mi mancava… eri proprio tu.»
«Come il perché… ti dovessi sempre dare addosso, perché ti odiassi per non aver tentato di entrare alla Nankatsu… perché desiderassi tanto che tu giocassi con me…» Nella mente del centrocampista si aprì come un mondo in cui fu finalmente in grado di comprendere sé stesso, anche quegli atteggiamenti che non era mai riuscito a spiegarsi. Levò lo sguardo su Yuzo e riempì i suoi occhi con l’oscurità delle proprie iridi. «Ma io non voglio… non voglio ricominciare da capo. Voglio essere libero di poter scegliere, di rimediare agli sbagli, di… di sistemare quello che non eravamo riusciti a risolvere prima. Adesso le cose sono cambiate, perché sta sparendo tutto?!»
«Perché non è sufficiente, forse, o perché è troppo tardi. Cancellare ogni traccia è la soluzione più rapida…»
«E allora risolviamolo noi il problema. Se è nato da noi, ci spetta il compito di sistemarlo.»
«E come? Come possiamo combattere l’ordine dell’universo?»
Mamoru lo osservò passarsi una mano sul viso e guardare lontano, verso il biancore della fine che era sempre più vicino. Lo rivide in tutte le diverse realtà che aveva scorto di nascosto, si sovrapposero cambiandogli gli abiti e il taglio di capelli, l’età dei tratti, ma lo rivide sempre uguale, sempre lui negli occhi e nelle espressioni. Lo riconobbe nelle ferite visibili e invisibili, nel coraggio delle sue scelte e azioni sconsiderate, lo riconobbe nell’affidabilità e nella bontà dello spirito e capì perché così tante volte aveva finito con l’innamorarsi di lui, come in quell’ennesima realtà in cui avrebbe potuto arrendersi e mollare molto prima, ma aveva continuato a lottare al suo fianco nonostante fosse consapevole che non ci sarebbe stata salvezza ad attenderli. Aveva lottato per fare in modo che rimanessero accanto.
Nonostante il finale amaro, Mamoru si rese conto che anche quella vita era valsa la pena d’esser vissuta.
«Fissiamolo.» Calmo, ma convinto. «Fissiamo il bug.»
«In che modo?»
Un altro silenzio e gli occhi di Yuzo di nuovo nei suoi, che si fidavano di lui, che credevano avesse potuto trovare una soluzione anche all’ultimo istante.
C’erano baci che si sentivano nell’aria come un profumo noto ma il cui nome rimaneva fermo sulla punta della lingua, senza venire fuori. Si sapeva che sarebbe arrivato, prima o poi, che quel nome sarebbe giunto tanto che si aveva l’impressione di averlo già detto e averlo dimenticato di nuovo. Ma quando poi arrivava davvero, quando le labbra trovavano la controparte perfetta su cui adagiarsi, si ritornava improvvisamente indietro, alla sorpresa originaria e si ricordava all’improvviso il nome di quella fragranza tanto cercata, e ci si sentiva felici e in pace con sé stessi. E si capiva che non era il nome la cosa più importante, quanto l’effetto che quel profumo aveva su di noi, il modo in cui poteva avvolgere, i ricordi che portava con sé. E il loro bacio, come un profumo che aveva attraversato i secoli, ne aveva così tanti di ricordi che non sarebbero bastate mille vite per accumularli tutti.
In quel bacio, in quell’essenza, c’erano loro, le identità dimenticate e mai conosciute, quella che stavano vivendo e quelle che non avrebbero mai visto. C’erano le domande e le risposte, i perché che non si erano ancora posti. C’era tutto ciò che non erano mai riusciti ad afferrare, nonostante gli indizi.
Mamoru gli teneva le mani tra mascella e collo, mentre Yuzo era aggrappato alla felpa. E quando si separarono, fu il portiere a baciarlo di nuovo, perché capisse che il suo era un ‘sì’, qualunque cosa gli avesse chiesto.
Ma quante speranze aveva un bacio di vincere contro la fine del mondo?
Mamoru lo guardò di nuovo negli occhi senza nessun imbarazzo, non c’era tempo per quello.
«Lo fisseremo rimanendo uniti fino alla fine e affrontandolo a testa alta. Deve vedere che adesso, a sbagliare, è solo lui, perché noi ci siamo trovati, proprio come era stabilito che fosse.» Sorrise. «Noi ci siamo trovati e non avremo paura.» Gli porse la mano. «Avrei voluto avere più tempo o esserci solo arrivato prima. So per certo che saremmo stati una grande squadra.»
La migliore in assoluto, di questo anche Yuzo era convinto e non poté non sorridere a sua volta, memore anche dei ricordi delle altre realtà.
«Sei sempre stato tu il campione delle dichiarazioni fatte all’ultimo secondo(1)
Gli strinse le dita e lasciò che l’altro l’aiutasse ad alzarsi; nonostante il dolore, proprio come Mamoru, non avrebbe chinato il capo e avrebbe sopportato qualunque fine a testa alta.
Nonostante tutto, erano davvero rientrati nei ‘ranghi’ universali e quel poco tempo che aveva potuto passare con Izawa nessuno avrebbe potuto portarglielo via.
Yuzo si volse a osservare il profilo del compagno ritto in avanti, dove del mondo non restava che quel belvedere, ma il panorama era scomparso e così le piccole crepe; ora c’era solo il bianco, attorno e sopra, il bianco che li avrebbe fatti sparire. Ma andava bene così, perché erano insieme.
«Mamoru?» Strinse le dita che erano rimaste unite anche dopo che si era alzato, e sorrise nel potersi riflettere di nuovo in quelle iridi così scure. «Sono felice di avere te accanto in ogni mia realtà.»
Un sorriso di rimando che non credeva avrebbe mai visto sulle labbra del centrocampista; gli aveva sempre mostrato solo il lato più antipatico e beffardo di lui, ma ora conosceva anche l’altra faccia della medaglia e capì di amarle entrambe.
Mamoru abbassò leggermente il capo, cercando la sua fronte, e Yuzo gliela concesse in quell’ultimo contatto, mentre chiudeva gli occhi.

“Dio, quando verrò in Paradiso
ti prego, lasciami portare il mio uomo.
Quando verrà, dimmi che lo farai entrare.
Padre, dimmi che puoi.”

Lana del Rey Young and Beautiful

 

Li riaprirono insieme e fu come riemergere da un’apnea prolungata. Forse non li avevano nemmeno mai chiusi, questi occhi, perché bruciavano come fossero stati spalancati troppo a lungo senza sbattere le palpebre.
Non l’avrebbero mai saputo dire con certezza e forse nemmeno gli importava, seppero solo che i loro sguardi erano fermi l’uno nell’altro, immobili, che fissavano espressioni incredule e lacrime. Dagli occhi di Yuzo, da quelli di Mamoru.
Proprio quest’ultimo, che odiava mostrarsi commosso davanti a tutti, non aveva fatto niente per fermare quella lacrima che ora scivolava indisturbata sulla guancia. Una identica la vedeva anche sulla pelle di Yuzo, che gli stava di fronte, immobile come lui. Le mani di entrambi reggevano qualcosa che non stavano guardando direttamente ma che sapevano benissimo cosa fosse. Sapevano anche dove fossero e quando, di preciso. Non sapevano il perché ma non era così importante, adesso.
Il vento di Marzo scivolò tra loro con un refolo freddo, smuovendo l’aria e dando finalmente una sensazione di movimento, di vita che passava loro intorno, così come i rumori – i rumori! – in lontananza o il verso di un corvo appollaiato su un ramo.
Erano stati convinti che avrebbero dovuto dimenticarli per sempre, che avrebbero dovuto dimenticare ogni cosa, compresi loro stessi, e invece il tempo aveva riavvolto il nastro al momento esatto in cui il mondo aveva iniziato a precipitare verso l’apocalisse.
E quel pallone, tra loro, rimaneva saldo sotto al tocco delle mani.
«Y-Yuzo?»
La voce titubante di Theodore spezzò l’immobilità dei corpi, la fissità degli sguardi.
Yuzo sbatté le palpebre e tornò a respirare con boccate ampie, mentre si guardava attorno e vide che erano tutti lì, nel parco Hikarigaoka, sul famoso belvedere. Tutti insieme. Guardò il pallone e poi di nuovo Mamoru.
Quest’ultimo ebbe come un gesto istintivo e lasciò andare la sfera, allontanandosi di un passo. Si volse, trovò Teppei, Hajime, i due fratelli di quest’ultimo e inspirò a fondo. Poi guardò Yuzo, ancora davanti a lui, ancora troppo vicino. Indietreggiò di nuovo.
«E’ tutto a posto?»
A quella nuova domanda di Miyamoto, Mamoru girò le spalle e iniziò ad allontanarsi da lì, quasi ne fosse spaventato, e a nulla servirono i richiami di Taki e Kisugi.
Yuzo fu tentato di seguirlo, fermarlo, ma Kenta e Theo lo raggiunsero per primi.
«Ma che diavolo gli è preso? Lo avete visto?» La Giraffa della Mizukoshi si grattò la tempia. «Sbaglio o Izawa stava piangendo? Devi avergli detto qualcosa di pesante in quei dieci secondi che siete rimasti a fissarvi! Eppure io non ho sent- ehi!» Kenta si accorse che stava piangendo anche il portiere.
«Che è successo?»
La mano di Theo si poggiò sul suo braccio, Yuzo la fissò, si concentrò sulla presenza del tocco che gli diceva che era tutto vero, che erano tornati indietro e che avevano una seconda possibilità.
Una seconda possibilità che non potevano sprecare.
«Mamoru!»
Yuzo si volse di scatto, guardando il sentiero che portava fuori dal parco. Il centrocampista si stava allontanando ma si fermò, quando sentì che a chiamarlo era la sua voce, mentre era stato come sordo a quella dei compagni di sempre.
Attorno a loro due si creò come una sorta di sospensione dell’incredulità. Hajime e Teppei da un lato, Kenta e Theo dall’altro si sentirono spettatori di un qualcosa cui non avrebbero potuto prendere parte, perché non gli apparteneva. Si scambiarono occhiate fugaci e silenziose; erano tagliati fuori.
«E così… te ne vai? Senza dire una parola dopo tutto quello che è successo? Senza nemmeno guardarmi?» L’altro non rispose né si volse, ma Yuzo vide chiaramente il modo in cui stringeva il pugno. «Non è stato un sogno, lo sai anche tu. Abbiamo fissato il bug e ci è stata data una seconda possibilità, Mamoru. A quanti viene data una chance così grande? Ma se ora te ne vai, se lasci che ogni cosa ritorni com’era prima, allora ricomincerà tutto da capo e quello che abbiamo cercato faticosamente di salvare sparirà di nuovo, si sfalderà. È questo che vuoi? Avrei giurato di no, dopo le tue parole.»
«E allora cosa ti aspetti che faccia?!» Mamoru si volse di scatto, ma non era arrabbiato quanto spaventato e per Hajime e Teppei, che lo conoscevano bene, apparve chiaro. Cambiava piede d’appoggio, aveva un’espressione contrita, era in evidente disagio. «Avanti, dimmelo!»
Yuzo scosse il capo. «Non spetta a me dirlo, lo sai benissimo anche da solo. Le cose tra noi non sono cambiate e non cambieranno. Non cambierà ciò che provo io e nemmeno quello che provi tu, dovresti saperlo.»
«Lì c’eravamo solo noi, mentre adesso… adesso siamo… migliaia!» Mamoru allargò le braccia con frustrazione.
«E allora? Hai paura di cosa possano pensare gli altri? Hai paura dei tuoi amici, dei miei, di me? O hai paura di te stesso?»
Di ciò che non aveva mai mostrato e che ora non poteva più nascondere, paura di dare spiegazioni, di non essere capito, dei suoi sentimenti che erano esplosi troppo velocemente e ancora non li conosceva bene. Prima era stato tutto chiaro, ma prima c’era stata la fine e quando si è a un passo dalla fine non esistono più segreti o cose sconosciute, si sa chi si è e dove e anche perché. Però per loro, che la fine l’avevano addirittura superata, cosa ci doveva essere?
«Perché io non temo nessuno di loro, men che meno te.» Sulle labbra di Yuzo si aprì un sorriso. «Me lo hai detto tu: a testa alta, e senza paura.»
«Già… già, te l’ho detto io…» Il centrocampista si passò nervosamente una mano tra i capelli. «Ti ho detto proprio un sacco di cose.»
«Questa volta tocca a me. Sarò io a dirti ciò che più conta per me.»
Yuzo mollò il pallone che rotolò solitario, ma nessuno se ne curò perché i loro sguardi erano solo per loro.
Per Yuzo che si allontanava a passo deciso e svelto, che raggiungeva Mamoru quasi col piglio di uno che volesse venire alle mani e che lo baciava, invece, davanti a tutti gli altri rimasti indietro, non solo fisicamente, ma anche nella successione e comprensione degli eventi.
Kenta afferrò il braccio di Theo liberando quel sincero e naturale: «Occazzo!»
Hajime coprì gli occhi dei fratelli che invece ridacchiarono e protestarono per essere stati interrotti proprio sul più bello. Teppei tirò via l’aria nell’aspirazione infinita di una ‘h’ preceduta da una ‘i’. E infine Theo che aprì solo la bocca, ma non disse niente.
Tutto quel frammento di mondo piccolissimo era concentrato su quel bacio, sul modo in cui Mamoru tenesse stretto il portiere e su come Yuzo gli cingesse il collo.
Decisamente, non sarebbero venuti alla mani né allora né mai.
«Ehi, hai fegato…» Mamoru lo sussurrò sulle sue labbra con un sorriso.
«Ho attraversato tre edifici in bilico sul vuoto mentre stavano crollando; non c’è più nulla ch’io non possa fare.»
«Non lo dimenticherò.» Prese un profondo sospiro. «Quindi mi toccherà davvero portare a casa un ragazzo, come voleva mia madre.»
Yuzo ridacchiò, facendo scivolare le braccia lungo le sue, coperte dalla giacca sportiva. «Sono davvero curioso di conoscerla.»
«Ah! Lo dici adesso! Riparliamone tra un paio di mesi, ok?»
Tutto naturale, come se il mondo non esistesse, come se fossero ancora solo e soltanto loro, tanto che anche Theo si sentì di troppo nell’interromperli e interrompere il modo in cui si sorridevano e parlavano che lo fece arrossire per un momento, perché gli sembrava perfetto in una maniera del tutto irrazionale.
«Sc-scusate…» tossicchiò, con Kenta che faceva capolino alle sue spalle e Hajime e Teppei che avanzavano al seguito. «Yuzo… mi vorresti spiegare che diavolo sta succedendo?!»
Il portiere guardò il capitano della Mizukoshi e poi il centrocampista che si grattava un sopracciglio, cercando di non ridere.
«Niente» disse con semplicità, ridendo a sua volta. «Anzi, è finalmente tutto a posto.» Negli occhi di Mamoru trovò la comprensione immediata che aveva sempre percepito nelle altre realtà; adesso apparteneva anche a loro ed era meravigliosa. «Tutto come deve essere.»

Sedute a un tavolino di ferro bianco, con abiti troppo estivi, tè e biscottini, le due giovani continuarono a non essere viste e a rimanere silenziose testimoni di quel quadretto.
«Oh, che carini.» La ragazza dai capelli lunghi si portò le mani al viso, sorridendo.
«Che ti avevo detto? Bisognava avere solo un po’ di fiducia.»
L’altra rivolse un’occhiata divertita alla compagna più anziana, con il cappello a tesa larga che arrivava quasi a coprirle gli occhi e gli immancabili scarponi da trekking.
«Tu lo sapevi, di’ la verità.»
«No, è solo che li conosco bene. Dopo tanti anni, qualcosa finisci con l’impararla e sai quando possono cavarsela da soli e quando metterci lo zampino.»
«Ah! Parli come una vecchia!»
«Matura, mia cara, matura
«Sì, sì, come dici tu» ridacchiò, afferrando un pasticcino. «E ci scriverai sopra, immagino.»
L’altra si strinse nelle spalle, guardò i suoi protetti da sotto alla tesa e tornò a sorseggiare il tè.
«Chi può dirlo? Dopotutto, cos’è che siamo se non scrivani al servizio dell’Universo? Quand’Egli detterà, io lo scriverò.»
Nel riflesso del tè, che oscillava nella tazza, vide l’alternarsi di centinaia di realtà e mondi, di scelte compiute e conseguenze, di scelte da compiere e bivi, di uomini, donne, amori, avventure e così tante emozioni che non sarebbero bastate le parole.
Sorrise, consapevole che il divertimento era ben lungi dal terminare, anzi, forse non era che appena iniziato.

 

“Il sole tramonta,
le stelle vengon fuori
e tutto ciò che conta è qui e ora.
Il mio universo non sarebbe mai stato lo stesso.
Sono felice che tu sia arrivato,
sono felice che tu sia arrivato.”

Tiffany AlvordGlad you came
(cover)

 


[1]: XD è vero. In svariate storie, Mamoru ha avuto l’onere – e l’onore – di essere il primo a confessare i propri sentimenti e sempre all’ultimo momento XDDD


 

The Bug
FINE

 

Nota Finale: E così, anche questa storia giunge al termine! :D
E’ stata frutto di un’ispirazione fulminea e di una congiunzione astrale favorevole in termini di ‘tempo per scrivere’. Non so quando tornerò con un nuovo lavoro, anche se progetti a cui sto lavorando ce ne sono; è quel famoso ‘tempo per scrivere’ che manca. :/
Cercherò di fare il possibile, confidando anche su un po’ di buona sorte! X3
Nel frattempo, vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno fatto compagnia durante la pubblicazione, lasciandomi i loro pareri attraverso le recensioni: Sakura-chan, Karon, Releuse, Kourin, Aelfgifu e Berlinene. :D
Ringrazio anche coloro che hanno messo la storia in una delle liste e coloro che son stati lettori ninja! :D
Spero di ritrovarvi al prossimo lavoro. :333

Il Re è morto.
Viva il Re.

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