Dragonball NG 3 - Sunshine di Beatrix82 (/viewuser.php?uid=44673)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Qualcosa in sospeso ***
Capitolo 3: *** Primavera sui Paoz ***
Capitolo 4: *** Shining star ***
Capitolo 5: *** Risveglio ***
Capitolo 6: *** When you're gone ***
Capitolo 7: *** Rewind ***
Capitolo 8: *** *annuncio* ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Prologo
NOTA
DELL’AUTRICE:
Al fine di poter
apprezzare appieno questa fanfiction, consiglio vivamente a tutti i lettori di
aver già letto i due precedenti volumi della saga "Dragonball NG":
"Il signore della Terra", scritto da me, e "Moonlight",
scritta da Likol.
Come i loro nomi
suggeriscono, sono soprattutto "Moonlight" e "Sunshine" ad
essere strettamente collegate: in primo luogo, perchè sono nate inizialmente
come spin-off della saga principale, poi inglobate ufficialmente in essa, non
solo perchè seguivano il nascere delle due coppie principali, ma anche perchè
trattavano episodi e situazioni indispensabili per la comprensione futura;
inoltre,
l’inizio della seconda si colloca temporalmente verso la fine della prima, i
cui ultimi episodi si incastrano e si completano con quelli iniziali di “Sunshine”.
Questa prosegue poi oltre la fine di "Moonlight".
Nella speranza che
seguiate il mio consiglio, vi auguro Buona Lettura.
Beatrix
--------------
Mi chiamo Trunks
Vegeta Brief e ho trentaquattro anni.
Sono il presidente
della Capsule Corporation, una delle società più famose e all’avanguardia
del pianeta.
Ah, e sono sajan
per metà, dettaglio difficilmente dimenticabile.
Ma scommetto che
voi già sapete tutto questo, e credo anche molto di più. Sono sicuro che
conoscete alla perfezione la mia storia, e forse ancora meglio quella dei miei
genitori. Sapete tutto di Goku, delle sfere del drago, dei guerrieri dorati, di
svariati nemici che hanno minacciato la Terra e che i sajan si sono trovati
inevitabilmente ad affrontare. Avete seguito le nostre vicende per anni, fino a
saperne quasi più di noi stessi, e a volte interpretando persino meglio di noi
le nostre emozioni.
Alcuni di voi
sapranno anche che quasi un anno fa ha avuto luogo l’ultimo torneo di arti
marziali, in cui l’ennesimo nemico giunto dallo spazio ha reclamato il dominio
del pianeta. Goku non era più con noi ormai, sparito insieme al drago già
cinque anni prima. Ce la siamo vista brutta, senza di lui. Eppure, quando
finalmente arrivò mio padre, il solo che aveva anche solo minimamente sfiorato
il livello del suo antico rivale, seppur mai eguagliandolo davvero, sentii che
sarebbe stato lui, quella volta, a salvare l’umanità.
E così fu,
infatti. Ma a prezzo della vita.
Da allora, tutto ha
cominciato a cadere a precipizio, come un’auto che esce dal ciglio e comincia
lentamente a rotolare giù per un dirupo, sempre più veloce, verso l’oceano.
Mia madre è
impazzita, attribuendo a me la colpa della morte di mio padre durante i suoi
dolorosi deliri. Mia sorella se ne è andata da casa, incapace di assistere al
declino fisico e mentale di chi le aveva dato la vita, trasferendosi nel piccolo
appartamento di colui che ho sempre considerato il mio miglior amico,
lasciandomi solo e impotente in quella casa troppo grande.
Poco dopo mia madre
è morta, raggiungendo in qualche modo il sajan che aveva amato per più di
trent’anni, e mia sorella ha scoperto di aspettare un figlio da Goten. Io
invece ero ancora solo, spossato, pieno di sensi di colpa. Tutto era diventato
estremamente faticoso, anche aprire gli occhi la mattina e sapere di dover
vivere un altro intero giorno. Quasi non mi accorgevo che la Capsule Corporation
stava cadendo a picco insieme a me, e che io non facevo niente per tirarla su.
C’era solo
l’alcol, allora. Il mio unico appiglio. Mi aggrappavo ad esso e lui
inevitabilmente mi tirava ancora più giù, come qualcosa di pesante che credi
possa salvarti e che invece ti fa andare più a fondo.
Ero ormai parecchi
metri sott’acqua, devo dire, e continuavo a sprofondare. Eppure, sentivo di
non avere nemmeno la forza di muovere le gambe per spingermi su, e desideravo
solo che quella poca aria ancora a disposizione finalmente si esaurisse. Ma poi,
quando ormai ero quasi arrivato nelle profondità della fossa, dove non c’è
più un barlume di luce, quando credevo di aver toccato il fondo, con gli
spettri dei cadaveri in decomposizione dei miei che si scolavano le mie scorte
di alcolici e mi invitavano macabramente a seguirli, ho lasciato la presa di
quel peso.
Non è stata
semplice, la risalita. Non riuscivo ancora a darmi una vera spinta, continuavo a
rimanere quasi immobile, eppure ero attirato da alcune voci fuori dall’acqua,
molti, molti metri più su. Erano le voci di mia sorella, di Goten, e di tutto
il resto della famiglia Son.
Non sarò mai
abbastanza grato per tutto ciò che hanno fatto per me. Che tuttora
stanno facendo per me. Le nostre famiglie non sono legate solo dallo stesso
sangue, questo ha ripetuto Gohan, quando mi ha accolto nella sua casa,
qualche settimana fa, dove avrei potuto ritrovare la salute e la pace interiore
e ricominciare daccapo. Solo così, salvando prima di tutto me stesso, avrei
potuto di conseguenza pensare a salvare l’azienda di mia madre.
Ed è così che mi
ritrovo qui, sui Paoz, tra queste verdi colline dove pare che il tempo si sia
fermato. Qui non ci sono telefoni che suonano in contemporanea, non ci sono
avvoltoi che ti pedinano per sanare i loro debiti, non ci sono paparazzi pronti
a coglierti in un momento di debolezza. Qui sono tranquillo, circondato da
persone meravigliose, che mi fanno sentire in famiglia, mi fanno sentire come se
ancora avessi una famiglia. Qui sono me stesso, come difficilmente riesco
ad essere a casa.
Ogni pensiero se ne
va, ogni preoccupazione svanisce. In un tale contesto, cominci a vedere tutto
sotto un’altra luce, e la scala di valori assume un nuovo ordine. Verrebbe
voglia di estraniarsi completamente dalla realtà, di dimenticarsi quello che
eri, ma non me lo posso permettere, non fino in fondo.
Proprio adesso,
sono seduto alla scrivania di quella che era stata la camera di Goten, davanti
al mio portatile di ultima generazione, a controllare i resoconti di bilancio
dell’ultimo mese, che la mia diligente segretaria mi ha inviato per email.
Sono ancora in negativo, certo, ma di poco, e in lenta ma evidente ascesa,
esattamente come me, che sto muovendo i piedi per risalire su, verso la
superficie, verso la luce. Per la prima volta dopo molto tempo sento crescere
dentro un rinnovato ottimismo. Mi sento fiducioso, so che l’azienda può
ancora riprendersi.
Bevo un sorso di
spremuta d’arancia, piacevolmente dolce, che Chichi mi ha portato qui insieme
a biscotti e tartine. Anche il lavoro mentale fa consumare energie, non solo
quello fisico! Mi dice sempre lei, maternamente, mentre mi accarezza la
guancia e controlla il mio colorito. I suoi occhi emanano calore sincero, e
l’affetto e le attenzioni che mi dimostra sono quelle di una madre, una madre
forse meno cittadina e più vecchia maniera di quella che mi ha dato la vita, ma
ugualmente capace di donare ai propri figli un amore immenso.
Chiudo il grafico
del bilancio e rispondo all’email di Irina, allegandole le ultime istruzioni.
Lei è l’unica, alla Capsule Corporation, a sapere tutto su di me, e l’unica
a sapere dove mi trovo in questo momento, quando anche i media mi danno per
disperso. Fortunatamente, la notizia della mia dipendenza dall’alcol non è
trapelata, e la maggior parte della gente pensa che mi sia semplicemente
ritirato dagli affari, dopo la morte di mia madre e la conseguente crisi
dell’azienda.
Tante malevolenze
sono state scritte su di me, tante cattiverie, come quelle che mi definivano un
burattino nelle mani di mia madre, incapace di gestire da solo una tale impresa.
Ma ho deciso di ignorarle, evitando di leggere i giornali, o guardando la tv con
distacco.
Io non ho la minima
intenzione di abbandonare la Capsule Corporation. Grazie ad Irina, anche da qui
posso seguire in tempo reale ciò che succede in azienda, tenendomi
costantemente aggiornato. Quella donna è un portento. Riesce a tenere testa ai
fornitori, ai clienti e persino ai giornalisti, assicurando a tutti che il
Presidente tornerà presto, che la sua assenza è solo temporanea e che la
Capsule Corporation non è assolutamente in fallimento. Non so come avrei
fatto senza di lei.
Mi stiro
leggermente, i muscoli appena intorpiditi dalla posizione. Decido di alzarmi e
fare due passi nella stanza, prima di rimettermi al lavoro e dare un’occhiata
ai tagli del personale.
La vecchia camera
di Goten è piccola, un po’ disordinata, forse, ma estremamente accogliente.
E’ come se in essa avesse lasciato un po’ della sua aura, calda e
amichevole, che mi dà in qualche modo ancora la sensazione della sua presenza.
Su uno scaffale, insieme a varie cianfrusaglie, un’economica ma coloratissima
cornice racchiude una nostra vecchia foto insieme. Deve risalire a poco dopo la
sconfitta di Majin Bu. Ci sono due gran sorrisi stampati sulle nostre facce
fanciullesche, e l’espressione di chi è convinto che sarà così per sempre.
Quanto tempo da allora…e quante cose sono cambiate, a partire da noi stessi,
cambiati da come eravamo in quella foto, cambiati l’uno rispetto
all’altro…forse troppo…ma forse mai completamente.
Fa ancora uno
strano effetto pensare che adesso mia sorella aspetta un figlio da lui, che mio
nipote sarà figlio del mio migliore amico d’infanzia. Non riesco ancora a
crederci.
E’ un peccato che
Goten si sia trasferito in città, adesso che sto qui. Sarebbe stata
l’occasione, dopo tanti anni, per condividere un po’ di tempo insieme. In
ogni modo, nonostante da sempre sia legato a lui da un rapporto speciale, anche
Gohan è un buon amico e un saggio fratello maggiore. Ed è proprio questo di
cui ho bisogno in questo momento, di un fratello maggiore a cui poter chiedere
consiglio e appoggio. Gohan è un lido sicuro e conosciuto, a cui sempre puoi
attraccare con la consapevolezza di essere protetto e al riparo.
Gli impegni
all’università lo portano spesso fuori casa per gran parte del giorno, ma
Videl è sempre qui per qualsiasi cosa, a compensare la mancanza del marito così
come la compagna di Great Saiyaman, un tempo, affiancava il suo bizzarro eroe.
Certo, forse non può darmi consigli di marketing o qualche idea su nuovi
brevetti da produrre, ma quanto a consigli di vita non la batte nessuno. Le
chiacchierate con lei sono più rare ma di gran lunga più lunghe rispetto a
quelle con Gohan, forse perché la figlia di Mr Satan è sempre stata più
esplicita, diretta e molto meno inibita ad affrontare temi personali. E’ un
piacere parlare con lei, poterle raccontare le sensazioni passate negli ultimi
mesi, perché lei sa sempre trovare le parole giuste con cui risponderti.
Potrei bussare alla
dependance dei coniugi Son in qualsiasi momento, anche a notte fonda, loro mi
inviterebbero sempre ad entrare.
Mi fermo davanti
alla finestra, le mani nelle tasche dei pantaloni. La giornata è luminosa, il
sole alto nel cielo ad illuminare la verde collina. Apro il vetro e mi appoggio
al davanzale, godendo del piacevole venticello caldo che aleggia nell’aria. Le
temperature sono decisamente in aumento, come dimostra la figura di Pan distesa
comodamente nell’erba poco lontano da qui, gli occhi chiusi, i capelli neri
sparsi intorno alla testa, la pelle dolcemente ambrata accarezzata dal sole.
Indossa una maglietta e degli shorts di un giallo acceso, che da lontano quasi
la fanno sembrare un canarino e spiccano con forza contro il verde intenso del
prato.
Come posso
dimenticarmi di Pan, di quanto la sua presenza sia stata importante per la mia
ripresa. Solo guardarla sonnecchiare piacevolmente sotto il sole mi mette di
buonumore, mi toglie dalla testa ogni altro singolo pensiero.
Parte della sua
giornata la passa nella palestra di arti marziali ereditata da suo nonno Satan,
ma è a me che dedica gran parte del suo tempo libero. Non facciamo niente di
speciale, in realtà. A volte lei mi racconta qualche episodio divertente
successo in palestra, a volte giochiamo a carte o guardiamo la tv insieme,
commentando i programmi o discutendo su quello che ci piacerebbe vedere, a volte
scherziamo insieme su qualcosa o ci punzecchiamo come ai vecchi tempi. A volte,
stiamo semplicemente seduti accanto in silenzio, alla flebile luce del
crepuscolo, ad aspettare il tramonto e ad assaporare il piacevole profumo che
esce dalla cucina di Chichi, mentre prepara la cena. A volte le chiedo se non
abbia mai niente di meglio da fare, che perdere il suo tempo con un povero
convalescente, ma lei replica che quello che le va di fare lo sa perfettamente
da sola. Allora io scherzo sul fatto che magari sono io quello a non volerla
sempre intorno, e lei minaccia di mandarmi dritto addosso una scarica di
energia.
Era dai tempi del
viaggio nello spazio che non provavo quanto può essere vitalizzante la
convivenza con Pan, come riesce a caricarti, nel bene o nel male. Può portarti
ad esplodere in una scenata esasperata, come succedeva spesso a quel tempo, così
come in una risata liberatoria, ma in pochi altri modi riesci a sentirti così vivo.
Ti senti dentro una forza che non avevi mai creduto, ti senti libero ed in grado
di abbattere ogni sorta di barriere, quelle che tu stesso hai creato. Senti che
non sono più gli eventi a trasportarti passivamente, ma di essere l’unico
artefice del tuo destino.
E’ così che mi
sento, adesso.
Starei a guardarla
per ore, sonnecchiare piacevolmente sotto il sole. E’ cambiata molto rispetto
a com’era allora. Anche se riconosco ancora la sua spontaneità, la sua grinta
e la sua intraprendenza, è più matura, meno intrattabile. O forse sono
semplicemente io che ho imparato come prenderla.
Adesso sbadiglia,
ancora ad occhi chiusi, stirando poi i muscoli e allungando lentamente le gambe.
Se non altro, è cambiata fisicamente. Accidenti se è cambiata.
Richiudo la
finestra, tornando a sedermi alla scrivania ed aprendo l’ennesimo file
intestato con il logo della Capsule Corporation. Ancora un’oretta di lavoro e
me ne vado fuori anch’io.
Chissà, magari
potrei prenderla in giro riguardo a quel suo completo da canarino.
Continua…
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Capitolo 2 *** Qualcosa in sospeso ***
Capitolo 1
Capitolo
1 – Qualcosa in sospeso
NOTA
DELL’AUTRICE:
Questo capitolo si
colloca temporalmente a metà tra il primo ed il secondo paragrafo del Capitolo
8 di "Moonlight" di Xellass. Se l’avete letto, come spero che sia,
potrete facilmente capire il senso del titolo di quello che vi apprestate a
leggere. Buona Lettura.
----------------
Pan incrociò le
braccia al petto, sbuffando leggermente.
La sua precaria
pazienza aveva già cominciato a vacillare, ma cercò di trattenersi, se non
altro per rispetto di suo nonno Satan e della palestra che le aveva lasciato in
gestione. Non avrebbe disonorato il suo nome e la sua scuola di arti marziali
solo per un povero idiota che ce l’aveva con il mondo intero perché la sua
carriera non decollava.
La ragazza recuperò
il caffè dal distributore automatico della palestra, lanciando un’altra
occhiata spazientita all’eccentrico ometto calvo poco lontano da lei, che
sollevava con superiorità il mento appuntito mentre la truccatrice vi
depositava sopra quintali di cipria. Aveva appena finito di sfogarsi con il suo
cameraman, un giovane magro dalla faccia stanca e una gomma da masticare in
bocca, che aveva finto di annuire un paio di volte durante la sua arringa giusto
per non avere rogne, ma senza veramente avere idea di che cosa stesse
blaterando. Adesso, non contento, il basso giornalista aveva cominciato a
ripetere il suo tormentato sfogo con l’anziano fonico, che però al momento
sembrava più interessato a cercare di evitare i cavi sul pavimento, che due
tecnici avevano fatto passare attraverso la palestra per sistemare i riflettori.
“Questa è
l’ultima volta, capisci, l’ultima!” ribadì con enfasi, mentre la povera
truccatrice tentava disperatamente di farlo stare fermo. “Sono stufo di essere
sempre il ripiego del canale per i servizi che Candy Flash non vuole fare! Perché
lei è la star, giusto? Lei è la regina dell’informazione! Lei non si abbassa
a fare le interviste che non interessano a nessuno! Figuriamoci se veniva in una
stupida palestra a fare due domande a una mocciosa, sarà anche la nipote
dell’ex campione del mondo, ma ora ce n’è uno nuovo e tutto ciò che
riguarda il vecchio non fa più notizia!”.
Pan si appoggiò al
muro, sorseggiando il suo caffè con gli occhi ridotti a fessure.
Quell’altezzoso ometto stava parlando a voce alta, senza badare al fatto che
l’oggetto delle sue dicerie era poco lontano da lui, e che avrebbe potuto
spedirlo a calci fuori dalla palestra, mandando a monte il suo bel servizio, di
cui certo non avrebbe sentito la mancanza. Ma forse era proprio quello che
quell’idiota voleva, in effetti, e allora pensò che non gli avrebbe mai dato
quella soddisfazione.
Nel frattempo il
giovane cameraman, nell’udire il nome della giornalista più in voga del
momento, si era come improvvisamente risvegliato dal suo stato semi-catatonico,
allungando il collo con interesse. “Davvero doveva venire la Flash? Che
peccato…”.
“Tze!” commentò
acido il giornalista, con una smorfia. “Tanto cosa credevi, Tommy, che portava
al seguito te?? Ce l’ha già lei il suo bello, atletico e prestante cameraman!
Miss Flash si seleziona accuratamente anche quelli, come del resto i servizi che
presenta, lasciando gli scarti a me!”.
Tommy biascicò
qualche secondo la gomma con espressione vacua e perplessa. “E che servizio
presenterà, allora, nel rotocalco delle cinque?”.
“Haha! Come se
non sapessimo qual è al momento l’interesse più morboso di quella strega!
Trunks Brief, chi altri sennò!”.
I due tecnici, che
in quel momento stavano sistemando le luci in modo tale da evitare l’effetto
lucido sulla pelata del giornalista, sbuffarono all’unisono, come se quel nome
fosse diventato un tormentone di cui cominci ad averne abbastanza. La
truccatrice invece alzò esaltata le sopracciglia, mentre faceva passare
distrattamente la spugnetta piena di cipria sulla bocca del giornalista,
facendogliene ingoiare una buona dose. “Trunks
Brief, che bello! Speriamo di staccare presto, non mi voglio perdere il
servizio! Sa per caso se l’ha intervistato, signor Peaboy??”.
Il signor Peaboy
tossì convulsamente, come se stesse per soffocare, mentre cercava di liberarsi
la gola dalla cipria ingoiata. “Maledizione, stai più attenta, Trudy! E
comunque, non credo sia riuscita ad intervistarlo, Mr Brief è latitante da
settimane, ormai! Secondo l’opinione pubblica, è fuggito per evitare di
vedere il suo impero crollare definitivamente davanti ai suoi occhi! In ogni
modo, so da voci di corridoio che la Flash aveva intenzione di strappare
un’intervista a Ted Norton, sapete, quello della concorrenza”.
“Ah sì!”
rispose prontamente Trudy. “Un bell’uomo anche lui, ho visto delle sue foto
proprio ieri, su una rivista dal parrucchiere!”.
“Già” sibilò
Peaboy tra i denti. “E figuriamoci se Candy Flash non notava anche lui. Voleva
intervistarlo per capire come mai non approfittasse del momento nero della
Capsule Corporation per battere finalmente il suo rivale di sempre! Sarebbe
l’occasione buona per lui, senza la concorrenza dei Brief, anche mettere sul
mercato l’invenzione più futile sarebbe un successone! E invece niente, per
ora non ha ancora fatto la sua mossa, e tutti si chiedono cosa stia aspettando.
Logicamente la Flash ha fiutato lo scoop e lo sta pedinando da giorni, ma quando
ha provato a chiedergli cosa ne pensa del fallimento di Trunks Brief e della
Capsule Corporation, lui ha ribadito il silenzio stampa!”.
“Tutto a posto,
Pan? Hai bisogno di qualcosa?”.
La ragazza si
ridestò rapidamente, fino ad allora distratta dalle lagne del giornalista,
mentre metteva lentamente a fuoco la slanciata figura di Phol “Bolide” Tail.
Il biondo collega la fissava in aspettativa, un sorriso sornione disegnato sul
volto perfettamente rasato.
“Ah, no, grazie,
Phol” rispose distrattamente, mentre lanciava una rapida occhiata omicida in
direzione del giornalista e della sua combriccola, e alzando di proposito il
volume della voce: “Sto solo aspettando di poter cominciare questa…specie di
intervista”.
In quel momento il
giornalista si liberò non troppo garbatamente della truccatrice, per
avvicinarsi con indifferenza verso la ragazza, mentre ostentava il suo più
largo e falso sorriso d’avorio e le porgeva la piccola mano. “La signorina
Son, giusto? Finalmente ho il piacere di conoscerla!”.
“Il piacere è
tutto mio…” disse Pan a denti stretti, con un sorriso forzato, mentre
combatteva con la voglia di stringergli la mano un po’ più forte in modo da
disintegrargliela. “Signor…oh, mi scusi, mi sfugge il nome!”.
“Peaboy…signor
Peaboy” rispose piano l’ometto, allentandosi con una punta di imbarazzo il
colletto della camicia. “Di ZTV. Se è pronta, signorina Son, vorrebbe di
grazia sedersi qui vicino a me, così cominciamo l’intervista?”.
Appena Pan si fu
seduta controvoglia, Trudy si lanciò come una tigre in sua direzione, la
spugnetta già alta nella mano destra, pronta a posarsi sul suo viso e ad
imbrattarla di trucco.
“No!” la bloccò
con decisione Pan, il tono perentorio e l’indice sinistro puntato sulla donna,
come la canna di una pistola.
Trudy rimase
qualche secondo paralizzata, la spugnetta ancora alta, a pochi centimetri dalle
guance della ragazza. Sbattè quindi un paio di volte le ciglia, per poi voltare
ubbidiente le spalle ed allontanarsi senza una parola. Ma lo strazio non era
ancora finito, dal momento che Phol era rapidamente sgattaiolato verso di lei,
inginocchiandosi accanto alla sua sedia e allungandosi per sussurrarle qualcosa.
“Sei sicura,
cara, che non ti serve qualche dritta, consiglio o suggerimento da qualcuno che,
senza modestia, è abituato alle interviste??” chiese, riavviandosi indietro
il vaporoso ciuffo biondo e gonfiando il petto con orgoglio.
Pan alzò dubbiosa
un sopracciglio: “No, Phol, non mi serve niente” ripetè pazientemente.
“Anzi, sì… buttami via questo, grazie”.
Gli porse
distrattamente il bicchiere vuoto del suo caffè, mentre sul viso
dell’istruttore si spegneva lentamente il sorriso compiaciuto e si disegnava
invece una vaga espressione di delusione. Tuttavia il giovane si alzò, operando
un po’ spiazzato la missione affidatagli dal suo capo, per poi abbordare la
truccatrice ed iniziare a tediarla con l’ennesima esaltazione di se stesso e
dei micidiali concorrenti che aveva sconfitto coraggiosamente agli ultimi
tornei.
“Amici di ZTV, mi
trovo oggi a Satan City, nella palestra di arti marziali appartenuta
all’ex-campione del mondo Mr Satan…” iniziò Beaboy, con un sorriso da
schiaffi disegnato sul volto spigoloso mentre Tommy gli dedicava uno stretto
primo piano. Il giornalista si addentrò quindi in una lunga introduzione sulla
storia del torneo Tentaiki. Probabilmente le arti marziali erano l’ultima cosa
che interessava a quell’uomo, ma l’accanita concorrenza con la collega super
richiesta l’aveva sicuramente obbligato a mostrarsi preparato sull’argomento
e a studiare controvoglia la lezione del giorno.
Pan sospirò piano,
sorreggendosi poi la testa con la mano con espressione annoiata. Attese con
pazienza ed in silenzio, ripetendosi mentalmente che lo stava facendo per il
buon nome della palestra, la palestra di suo nonno, cercando di non pensare a
(il buon profumo
del suo dopobarba)
quanto avrebbe
desiderato prendere a schiaffi quell’uomo e piantarlo semplicemente lì, ad
intervistarsi da solo, come sembrava saper fare alla perfezione. Inspirò quindi
profondamente, si raddrizzò sulla sedia e liberò la mente da
(il tocco caldo
delle sue labbra)
gli istinti omicida
che le erano appena ronzati in testa. Il suo povero nonno Satan, che tanto aveva
tenuto all’immagine, non avrebbe di certo approvato un tale scempio nella sua
palestra, e per giunta in diretta.
“…ma è qui con
noi la nipote del defunto campione del mondo” la introdusse infine Peaboy,
come ricordandosi solo allora chi fosse l’oggetto dell’intervista. “La
signorina Pan Son, a cui Mr Satan ha affidato…” e qui le lanciò uno sguardo
di totale mancanza di fiducia “…la gestione della palestra di arti
marziali…signorina Son, come intende portare avanti l’insegnamento di una
disciplina così complessa ed antica, che solo i più esperti, maturi
e rispettabili campioni sono in grado di tramandare?”.
“Esattamente come
ha sempre fatto mio nonno, con impegno e dedizione. Credo di aver ricevuto dei
buoni insegnamenti, non solo sulla disciplina in se, ma anche su come
applicarla”. La ragazza fissò l’obiettivo, parlando con rinnovata
sicurezza. “Ed è questo che intendo insegnare ai nostri allievi, la perfetta
padronanza di una dote al solo fine di potersi difendere, e mai per
attaccare”.
Il giornalista
tossicchiò piano, come se volesse contestare implicitamente il discorso della
ragazza: “Ma mi dica, signorina Son, si sente davvero pronta per un compito
del genere? Voglio dire, lei è…sì, insomma, una donna, e per di più molto
giovane, crede veramente di riuscire a tener testa ai suoi colleghi uomini
o ai suoi allievi più esperti??”.
Peaboy sogghignò,
convinto di aver fatto il suo dovere di bravo giornalista e di aver
furbescamente trovato il tasto dolente della mocciosa che era stato costretto ad
intervistare, mettendo un’altra pietra sopra alla sua reputazione di sfigato
del canale. Ma Pan gli rivolse un sorriso sornione, incrociò le braccia al
petto con disinvoltura e…”.
“E…???”
chiesero all’unisono Gohan, Videl, Trunks e Chichi, gli sguardi carichi di
aspettativa diretti verso la ragazza, mentre questa finiva di masticare il suo
boccone di carne.
“Niente! Gli ho
detto semplicemente che io, se voglio, me li mangio tutti quanti a
colazione!”.
Una risata
divertita si levò dal tavolo, mentre Pan scrollava le spalle, servendosi con
disinvoltura e compiacimento un’altra porzione.
“Pan!” la
rimproverò bonariamente Gohan. “Nessun pelo sulla lingua, eh?”.
“Ha fatto bene,
invece!” commentò orgogliosa Videl, visualizzando mentalmente la faccia del
giornalista dopo un simile smacco. “Gli ci voleva proprio a quella nullità di
Peaboy”.
“Discreta ma
pungente…una buona risposta” convenne Trunks, divertito.
“Avrei voluto
aggiungere che lui invece sarebbe stato permetto come stuzzicadenti, ma mi sono
trattenuta” aggiunse Pan, mentre la madre si alzava da tavola per togliere i
piatti vuoti a Gohan e a Trunks e servire il dolce. “Non volevo certo mettere
a rischio la reputazione della palestra”.
“Io credo invece,
tesoro, che la tua intervista sarà una buona pubblicità” le assicurò Chichi
con un sorriso, aggiustandosi lo scialle sulle spalle. “Vedrai che le
iscrizioni raddoppieranno, appena la manderanno in onda”.
“Chissà”
sospirò Pan, servendosi il dolce. “A meno che Peaboy non la monti in modo
tale da farmi apparire una specie di cannibale o roba del genere!”.
“Immagino che
dopo la tua secca risposta abbia continuato l’intervista in modo più
tranquillo!” dedusse Trunks, versandosi un bicchiere d’acqua.
“Sì, direi che
il tipo ha abbassato la cresta. Deve aver capito che a fare il provocatore
sarebbe passato da idiota solo lui. E’ passato quindi a domande più neutrali
riguardo alle discipline praticate, ai ritmi di allenamento e ad altre cose
strettamente professionali!”.
Questa volta lui
l’aveva guardata negli occhi, mentre lei gli rispondeva, e per qualche
brevissimo istante continuarono a guardarsi in silenzio, prima che Gohan si
volgesse verso la figlia con soddisfatto stupore: “In ogni modo, questa
giornata ti ha messo appetito, Pan, hai mangiato più di quanto faccia di solito
io!”.
“Ma anche il
nostro Trunks ha fatto onore alla cena” aggiunse maternamente Chichi,
osservando le pile di piatti che Videl si apprestava a sparecchiare. “Direi
che sta a poco a poco ritrovando l’appetito di un tempo!”.
“Tutto merito
della tua cucina, Chichi” banalizzò Trunks, assaggiando il dolce con gusto.
“E’ quello che ho detto anche oggi a Marron e Ub”.
“Sono passati
Marron e Ub?” chiese Pan. “Che peccato, avrei voluto salutarli!”.
“Già, anche
Goten li ha mancati per un pelo. Era andato via da appena venti minuti, quando
sono arrivati…”.
Trunks guardò la
familiare figura di Goten issarsi in aria e sparire velocemente ad ovest, verso
Satan City. Mentre seguiva con lo sguardo la scia dell’amico attraverso il
cielo, si rese conto che stringeva ancora nella mano sinistra la catenina di sua
madre, nella destra il foglio di carta ripiegato. Quella lettera era stata
dolorosa come le spine di una rosa: per quanto tu possa essere preparato quando
la prendi in mano, non hai idea fino a che punto può far male, finchè non ti
pungi.
Eppure, quel dolore
era stato salutare, quasi catartico.
Qualcosa di pesante
si era finalmente liberato da lui e adesso, guardando quella foto di famiglia
che era lo screensaver del suo portatile, sorrise debolmente.
Cos'hai sullo
schermo?
La voce morbida
interrogativa, gli occhi neri illuminati di innocente curiosità, la borsa a
tracolla momentaneamente abbandonata sul prato, mentre si era inginocchiata
accanto a lui, più di un’ora prima.
La foto perfetta.
Difficile a credersi…difficile, dopo essere stato negli abissi più profondi,
senza aria e senza luce, dopo aver fatto tabula rasa intorno a se, quando
pensavi che non solo niente sarebbe potuto più essere perfetto, ma neanche
minimamente normale.
Sarebbe stato più
facile per tutti se...
Non è vero
io...non...
Chiuse gli occhi,
portando la testa leggermente all’indietro e lasciando che l’aria calda gli
accarezzasse le guance per alcuni secondi.
Il mondo non è
fatto solo di persone forti.
Aprì lentamente il
palmo della mano. La catenina aveva un taglio decisamente femminile, ma anche se
non l’avesse portata direttamente al collo, l’avrebbe conservata per sempre
come il tesoro più prezioso. La fece scivolare nella busta insieme alla
lettera, che poi ripose con attenzione nella valigetta del suo computer.
Riportò quindi lo
sguardo sullo schermo del suo portatile, dove ripristinò il grafico a cui stava
lavorando. Mentre cercava di concentrarsi sul file, non notò immediatamente le
due auree che si stavano avvicinando, finchè una voce femminile lo richiamò
all’attenzione.
“Ma guarda un
po’…stacanovista fino in fondo!”.
“Ti aspettavi
davvero che il nostro Presidente non si portasse il lavoro anche in vacanza?”.
Il Brief alzò la
testa, incontrando le familiari figure di Marron e Ub che attraversavano il
prato sorridenti, candida vaniglia lei, illuminata di grano e del sole di
primavera, soffice cioccolato al latte lui, sfoggiante ancora la sua etnica
cresta corvina.
“Ehi!” sorrise
in risposta Trunks, alzandosi in piedi e andando incontro ai due amici, ormai
coppia fissa e conviventi da diversi mesi. “Ciao ragazzi, che piacere
vedervi!”.
Marron si avvicinò
a lui con occhi luminosi, per poi appoggiargli le mani sulle spalle e guardarlo
dall’alto in basso con orgoglio, come una madre che, rivedendo il figlio dopo
un po’ di tempo, si compiace di quanto lo trovi cresciuto.
“Ti trovo davvero
in forma, Trunks” sorrise dolcemente la bionda infermiera, l’espressione
sinceramente felice, mentre lo baciava sulle guance. “L’aria di montagna ti
ha fatto bene!”.
“Già” confermò
Trunks, salutando anche Ub con una stretta di mano. “Non sarò mai abbastanza
grato a Gohan e a Videl per avermi ospitato qui!”.
“Siamo passati da
Chichi, prima, ci ha detto che ti avremmo trovato fuori. Mi rincuora pensare che
anche se lavori, lo fai all’aria aperta e senza lo stress della città! In
ogni modo, Trunks, volevo farti una breve visita medica, anche se il tuo
rinnovato colorito la dice già lunga”.
Lui annuì, mentre
l’infermiera si apprestava a tirar fuori dalla sua borsa l’apparecchio per
la pressione. In fondo, si aspettava che l’apprensione dell’amica non le
permettesse di limitarsi solo ad una semplice visita di cortesia, non quando
ormai era diventata, suo malgrado, anche la consulente clinica della sua
sfortunata famiglia.
“Senti ma…l’aria
di montagna invece dov’è?” chiese Ub per allentare la tensione, mentre
la compagna aggiustava la fascia elastica al braccio del suo paziente,
sollevando appena lo sguardo con un mezzo sorriso. “Ops…volevo
dire…Pan!”.
Trunks abbassò gli
occhi, sorridendo divertito. Aveva come l’impressione che il lapsus del
ragazzo non fosse stato per niente casuale. Ultimamente aveva acquistato un
po’ più di confidenza con lui, sembrava molto più spontaneo e naturale,
forse per la maggiore autostima ricevuta con il titolo di Campione del mondo,
forse per il fatto di avere accanto una compagna che le si addiceva alla
perfezione…in ogni modo, non era la prima volta che faceva qualche strano
riferimento a Pan in sua presenza e solo ora, forse, Trunks si trovava
inevitabilmente a rifletterci.
“E’ scappata in
palestra poco fa, aveva un’intervista di lavoro” lo informò. “E’ venuto
a prenderla un suo collega, un certo…Tail…”.
“Ah, sì, il
grande Bolide” commentò divertito Ub. “L’ho rivisto a qualche torneo di
arti marziali…un lottatore mediocre, anche se crede di essere un fuoriclasse.
Non so come, ma dal tono con cui hai pronunciato il suo nome ho l’impressione
che non ti vada molto a genio!” sorrise il ragazzo, scrutandolo di nuovo con
sguardo vagamente indagatore.
“Non è vero, è…è
che è arrivato qui con un mezzo della Norton, copiato spudoratamente da un
nostro vecchio modello, e ha falciato via buona parte della
vegetazione…dovevate vedere Goten com’era furioso!”.
Marron tolse la
fascia dal braccio di Trunks, soddisfatta: “70-110, direi nella norma. Hai
detto che è passato Goten? Come se la passa con…tua sorella?” chiese, con
un accenno di timore nella voce.
“Conosci Bra…quindi
puoi immaginare” rispose il Brief, mentre Marron annuiva arrendevole. “Lo
sta facendo letteralmente impazzire, con i preparativi del matrimonio…credo
che se non fosse per il piccolo Golden in arrivo, tenterebbe la fuga senza
pensarci due volte!”.
I tre risero con
leggerezza, prima che l’espressione di Marron tornasse di nuovo seria e
professionale, mentre si avvicinava di nuovo a Trunks per esaminargli gli occhi:
“Hai ancora gli incubi?”.
“Qualche
volta”.
“Sempre…gli
stessi?”.
“Sì” rispose
piano lui, rabbrividendo impercettibilmente. L’immagine di due figure in
decomposizione e dagli occhi rossi come l’inferno era balenata nella sua mente
come un razzo, due figure dall’aspetto dannatamente familiare e tuttavia così
spaventoso, ma l’aveva scacciata subito con forza. “Ma non mi fanno più così
paura…credo che stia imparando ad ignorarli”.
“Bene” approvò
l’infermiera, abbassandogli le palpebre inferiori nel suo esame scrupoloso.
“E’ così che devi fare. Lo sai che sono solo frutto della tua
immaginazione…andranno via presto”.
Trunks annuì,
sospirando. Quanto voleva che avesse ragione…
“Ok” concluse
la bionda, rilassando finalmente il volto in un sorriso. “Mi sembra che non ci
sia bisogno di prescriverti nessun farmaco, solo aria pulita, sana
alimentazione, relax e pensieri positivi…e qui dovresti avere tutto questo in
abbondanza!”.
“Quindi…sono
guarito?”.
“Direi…con
cautela…che ci siamo” rispose lei senza sbilanciarsi, ma con uno sguardo di
sincero ottimismo, mentre Ub, accanto a lei, annuiva sorridendo, le mani
incrociate sul petto.
“Credi che sia
pronto per tornare?”.
“Beh…fisicamente
senza dubbio” osservò, recuperando la sua borsa, mentre con l’altra mano
accarezzava piano la spalla dell’amico, guardandolo negli occhi con affetto.
“Emotivamente…puoi saperlo solo tu, Trunks”.
Ma
lui sospirò comunque di sollievo, chiudendo per qualche attimo gli occhi in un
muto ringraziamento.
“Sono contenta
che Marron ti abbia trovato bene” disse sinceramente Pan.
“Già, questa sì
che è proprio è una bella notizia” convenne Chichi, sospirando al pensiero
che ne avevano avute di molto poche ultimamente.
Trunks annuì,
sorridendo, prima in direzione della più anziana, poi passando lentamente lo
sguardo in direzione di Pan, che lo fissava con ammirazione. Abbassò quindi gli
occhi sulla tavola, stropicciando distrattamente il tovagliolo con la punta
delle dita. La ragazza si morse il labbro inferiore, mentre sentiva che non
sarebbe riuscita molto oltre a rimanere seduta su quella sedia.
“Caffè,
famiglia?” chiese Gohan, mentre sua moglie e sua figlia annuivano e Chichi
reclinava l’offerta.
“No, grazie,
Gohan, io sono a posto” disse Trunks, massaggiandosi lo stomaco. “Credo che
invece andrò a fare due passi fuori, se non vi dispiace. Immagino si stia a
meraviglia stasera”.
“Ok, a tra poco
allora” lo salutò Gohan, mentre il Brief si alzava educatamente da tavola e
si avviava alla porta, concedendosi all’aria fresca della sera.
Pan lo seguì con
lo sguardo, cercando di ostentare la massima indifferenza, ma si accorse solo
allora che aveva trattenuto a fatica il respiro e che aveva maledettamente
bisogno di riprendere fiato. Fece caso appena a suo padre che le porgeva una
tazza di caffè fumante, l’attenzione rivolta altrove.
“Ehm…credo di
aver cambiato idea, papà” mormorò, incontrando il cipiglio di suo padre.
“Non…non mi va più il caffè…credo che andrò fuori anch’io”.
Si alzò da tavola
senza tante cerimonie, di fronte allo sguardo allibito di suo padre, per poi
sgattaiolare verso la porta e richiudersela dietro.
Trunks era lì poco
lontano, voltato di spalle, le mani in tasca e l’atteggiamento rilassato. Pan
rimase immobile qualche secondo, incerta sul da farsi, chiedendosi
improvvisamente se desiderasse semplicemente starsene un po’ da solo. Poi
decise di avvicinarsi con discrezione.
“Bella serata,
eh?” esordì lui. Si era voltato appena nella sua direzione, sentendola
arrivare, tornando poi a guardare l’orizzonte.
“Già” concordò
Pan, fermandosi al suo fianco, rendendosi spiacevolmente conto che non aveva
niente di meglio da dire, da aggiungere.
Effettivamente, la
serata era piacevole, deliziosamente calda per un metà Aprile. Una falce di
luna spiccava nel cielo stellato, appena sopra il boschetto di larici in cima
alla collina, dando all’aria una luminescenza argentea. I grilli cantavano nei
cespugli tutt’intorno, unica musica in quell’angolo tranquillo dei Paoz.
Rimase per un buon
minuto in silenzio, a godere di quella suggestiva atmosfera, ma fortemente
consapevole della presenza di lui al suo fianco, silenzioso, immobile, lo
sguardo sicuramente rapito verso il cielo, come non avesse bisogno di altro.
Sembrava così in
pace, accidenti. Chissà, forse per lui era maledettamente facile tenere
a bada le emozioni…ma non per lei, per lei no, e non ci pensò neanche troppo
prima di fare un paio di passi, appoggiargli le mani al petto ed alzare lo
sguardo verso di lui.
Fece appena in
tempo a vedere i suoi occhi chiari abbassarsi finalmente su di lei, che le loro
labbra si stavano già unendo, quasi così fosse scontato, fosse perfettamente
naturale. Sentì le mani di lui che le cingevano delicatamente la vita,
partecipare a quel bacio che si faceva a poco a poco più profondo, più
avvolgente, e allora si alzò in punta di piedi, facendogli passare le braccia
intorno al collo, così da perdervisi dentro.
Calda, così
piacevolmente calda quella sera, carezzata solo dal canto dei grilli…
Le loro labbra si
staccarono, ma le loro fronti quasi continuavano a toccarsi, le mani di lui che
adesso le tenevano il volto, appena sotto le orecchie, dietro alle quali
ravviava delicatamente alcune ciocche della ragazza, per poi accarezzarle le
guance con i pollici, occhi negli occhi.
Le sorrise con
dolcezza, e lei fece altrettanto, ora più sicura e rilassata.
“Scusami, ma
stavo impazzendo” ammise Pan con sincerità, la voce bassa, quasi sussurrata.
“Sai, non mi piacciono le cose in sospeso”.
Lui sorrise,
compiaciuto.
“Concordo. Oggi
Goten poteva scegliere un momento migliore per fare la sua entrata, non è così?”
chiese, ammiccandole.
“Appunto”
convenne Pan con un piccolo sbuffo d’insofferenza. “Mio zio non conosce la
discrezione, è una caratteristica degli uomini Son, non lo fanno apposta, è
che proprio non ci arrivano…la prossima volta, però, giuro che si ritroverà
in faccia molto di più della tua cartella dei documenti!”.
Lui rise,
divertito, per poi accettare di nuovo le sue labbra, morbide e calde, come
quella sera di Aprile.
Gohan sorseggiò di
nuovo dalla tazza, nonostante avesse finito il suo caffè da un minuto buono.
Sua madre era già andata a coricarsi, stanca, mentre Videl era rimasta a
rigovernare le ultime stoviglie dell’abbondante cena. Lui, invece, era
appoggiato allo spigolo di muro subito accanto alla finestra, appena dietro le
tendine semitrasparenti che certamente pensava lo mimetizzassero, ma il suo
sguardo, nonostante la maschera di indifferenza, si sollevava di tanto in tanto
furtivamente, per controllare quanto avveniva fuori.
“Quando mai avrai
finito quel caffè, Gohan, ti dispiacerebbe sparecchiarmi la tavola?” chiese
Videl, alzando con pazienza gli occhi sul marito, che sembrava quasi paralizzato
nella sua posizione.
“Oh. Sì.
Subito” rispose lui, abbandonando la tazza nel lavello e dirigendosi verso la
tavola.
Non mancò però di
gettare un’ultima occhiata al di là dei vetri, con espressione allibita.
“Ti rendi
conto…si stanno baciando” disse, quasi così volesse rendere legittimo il
suo prolungato trattenersi davanti alla finestra.
“Sì. Lo so” si
limitò a dire Videl, continuando a lavare un piatto senza alzare lo sguardo, ma
con espressione più che tranquilla, anzi, quasi compiaciuta. “E comunque,
Gohan, non mi sembra carino stare a spiarli dietro la finestra come una zitella
curiosa che non ha visto mai niente!”.
“Io non li stavo spiando”
si difese l’uomo, non troppo convinto. “Solo che…insomma…Trunks
non…”.
In quel momento la
porta si aprì, mentre il diretto interessato faceva il suo ingresso, e Gohan
ricacciò in gola le parole, tossendo poi con indifferenza. Aveva abbassato lo
sguardo, aggiustandosi con un dito gli occhiali sul naso e mettendosi
meccanicamente a spazzare via alcune briciole inesistenti dalla tavola, mentre
Videl, le mani e buona parte degli avambracci ancora immersi nel lavello
schiumoso, alzò gli occhi luminosi, sorridendo al Brief.
“Sto andando a
dormire” annunciò con tranquillità Trunks, mentre Gohan pensava come mai in
quella stanza dovesse essere l’unico ad essere in imbarazzo. “Anche Pan era
stanca, mi ha detto di dirvi che stava tornando nella dependance. Vi serve una
mano, prima che salga in camera?”.
“Oh, no,
figurati, abbiamo quasi finito!” gli assicurò Videl. “Vai pure a
riposare”.
“Ok, allora”
sorrise lui, avviandosi per le scale e rivolgendo un ultimo saluto ai due
coniugi. “Buonanotte Videl. Buonanotte Gohan”.
“Buonanotte”
rispose Gohan, facendo eco alla moglie, sforzandosi di sorridere.
Già, vai pure a
nanna, Trunks, anche se non mi sembravate tanto stanchi appena un minuto fa, là
fuori, pensò Gohan in un recondito angolo della mente, pentendosene quasi
subito. Non riusciva a capacitarsi come in quel momento venisse fuori da lui
tutto quel cinismo ingiustificato.
Videl attese di
sentire la porta della vecchia camera di Goten che si chiudeva, poi si rivolse
verso il marito, scrutandolo con leggero rimprovero: “Non dirmi che cadi
completamente dalle nuvole, Gohan. Sapevi che sarebbe successo, era solo
questione di tempo. E credo che tu lo sapessi anche quando hai proposto a Trunks
di venire a stare da noi, facilitando inevitabilmente le cose”.
Gohan sospirò,
fissando nuovamente fuori dalla finestra, dove rimaneva ormai solo il paesaggio
notturno e la luce proveniente dalla camera di sua figlia, nell’attigua
dependance.
“Sì, lo
sapevo” ammise debolmente. “Ma è dura quando ci si arriva davvero”.
La camera da letto
era buia, rischiarata solo dall’argentea luce lunare che filtrava dalle
tendine della finestra, ma Pan accostò la porta senza accendere la luce,
gettandosi direttamente sul letto, senza nemmeno disfare le lenzuola o indossare
il pigiama. Rimase invece a fissare il soffitto con sguardo vacuo, sognante,
portando su le mani ad afferrare le estremità del cuscino sotto la sua testa,
come un appiglio alla realtà.
Era successo. Era
successo davvero, e ancora non ci credeva. Non che nelle ultime settimane non
l’avesse ritenuto probabile, non che dopo quella mattina non ne fosse stata
ormai completamente sicura…eppure, era ancora strano pensare a come fosse
stato tutto così semplice, alla fine.
E’ vero, era
stata lei a prendere l’iniziativa, in entrambe le occasioni, ma lui aveva
risposto immediatamente, lui non l’aveva rifiutata. Ed era proprio questo che
aveva spaventato Pan ogni volta che se ne presentava l’opportunità: il suo
possibile rifiuto. Sarebbe stato un dolore troppo grande, e questo le succhiava
via gran parte del suo ben noto coraggio, inducendola a non rischiare.
Quella mattina,
invece, era successo tutto così in fretta che non aveva avuto modo di pensare
alle possibili, disastrose conseguenze. L’aveva fatto e basta, solo perché si
sentiva di farlo. E, con suo grande sollievo, sembrava che lui avesse desiderato
esattamente la stessa cosa. Forse, stava semplicemente aspettando lei.
Chiuse gli occhi,
inumidendosi le labbra e riassaporando la sensazione di lui, il cuore che le
batteva ancora.
Ringraziò piano la
luna, che pallida ed eterea illuminava quella notte. Ringraziò tutte le stelle
del firmamento, tremolanti e lontane, e ogni singolo insetto del giardino che
aveva cantato per loro. Ringraziò le colline e la loro erba, i monti del
paesaggio, gli alberi e le loro scure fronde accarezzate dalla brezza.
Ringraziò
l’intero creato per quel singolo momento. Adesso poteva pure esplodere il
mondo. Lei era felice, e non desiderava altro.
***
Goten fece scattare
con un leggero sbuffo di esasperazione la difettosa serratura, aprendo poi il
portone con un sonoro cigolio. Era già un bel po’ che aveva intenzione di
cambiarla, così come di oliare i cardini di quella porta che tanto irritava gli
altri condomini quando tornava a tarda notte dal pub, ma era inevitabile che il
ciclone che aveva travolto la sua vita negli ultimi tempi facesse passare molte
cose nel dimenticatoio.
L’appartamento
era avvolto da un silenzio ovattato, mentre dalla porta accostata della camera
da letto proveniva tiepida la luce dell’abat-jour.
Lasciò le chiavi
sul mobiletto di seconda mano dell’ingresso, per poi passare vicino
all’angolo cucina. Notò abbandonata sul tavolo una scatola vuota di cibi
pronti surgelati, e allora si ricordò di non aver lasciato niente di già cotto
in forno o nel frigo. Nel lavello, invece, erano stati abbandonati ancora
sporchi due piatti, un bicchiere e un paio di posate, e pensò quindi per
l’ennesima volta che non tutti possono riuscire a fare a meno di una
lavastoviglie.
Non certo la sua
coinquilina.
Si affacciò in
camera, aprendo piano la porta. Lei era seduta sul letto, appoggiata alla
spalliera. Indossava un’estiva camicia da notte azzurra, appena più chiara
dei suoi capelli adesso così corti e che non avevano ancora trovato un giusto
verso dopo il taglio repentino, tirati ora indietro da una fascia che aveva
legato dietro la nuca. Tra le sopracciglia le si era disegnato un piccolo solco,
come ogni volta che era concentrata, mentre con mano esperta e decisa disegnava
rapidi tratti sul blocco di carta appoggiato sulle sue ginocchia.
Sollevò brevemente
gli occhi, mentre lui entrava completamente nella stanza e si sedeva sul letto,
davanti a lei.
“Credevo fossi al
pub” commentò, senza smettere di disegnare. “Come mai sei tornato così
presto?”.
“Ho deciso di
staccare prima, stasera” rispose il Son, facendo poi vagare lo sguardo nella
stanza con finta indifferenza. “Ma se la cosa non ti aggrada, principessa,
posso pur sempre tornarci”.
Il fruscio della
matita sul foglio di carta si interruppe bruscamente, mentre Bra alzava gli
occhi su di lui, trafiggendolo con schegge di diamante: “Non ci provare”.
Il tono era stato
basso ma deciso, facendo sorridere Goten, prima di sporgersi con curiosità a
sbirciare sopra il blocco della ragazza. Nella carta spiccava il bel rosso
acceso di un abito da sera, che avvolgeva con grazia le stilizzate figure di un
corpo femminile, come la bozza di uno stilista.
“Credevo
studiassi chimica, non moda!” osservò il ragazzo, sorpreso ma allo stesso
tempo affascinato dalla bellezza di quel modello, gli
spallaccini morbidi che si allacciavano dietro il collo, lasciando la schiena
scoperta, il bordo della gonna asimmetrico poco sotto il ginocchio, a donargli
eleganza ma allo stesso tempo freschezza.
“Infatti” si
limitò a rispondere lei, dando al disegno gli ultimi ritocchi, e Goten decise
di non approfondire. Se non altro, quella bizzarra occupazione la faceva
momentaneamente distrarre dall’infinita stesura della lista degli invitati, da
decisioni amletiche riguardo al menù del buffet o alle decorazioni floreali, e
dall’ardua scelta del vestito, come suggerivano le pile di riviste di abiti da
sposa accatastati sul comodino. Insieme ad esse era riposto anche qualche
annuncio immobiliare ritagliato da giornali, dato che la sua ultima fissazione
era la ricerca di una casa decente, come la definiva lei, adatta a far
crescere un figlio, e senza dubbio con la lavastoviglie. Anche se più
che una casa, come appariva dai prezzi esorbitanti, sembrava fosse alla ricerca
di un castello.
Goten sospirò
arrendevole, ripensando all’ultima bolletta del telefono, che nell’ultimo
mese sembrava essersi magicamente quadruplicata.
“Hai fame? Vuoi
che ti prepari qualcosa?” le chiese.
“Grazie, ma ho già
cenato”.
“Ho visto, ma
intendevo qualcosa di più salutare!”.
“Mmh...per adesso
non ho più fame”.
“E non hai voglia
nemmeno di…queste?”.
La ragazza alzò
meccanicamente lo sguardo, cogliendo il Son che tirava fuori da dietro la
schiena una busta di plastica trasparente, ripiena di morbide, dolci e
coloratissime caramelle gommose alla frutta. Gli occhi di lei, fino a poco prima
così concentrati, brillarono ora di bramosia, mentre abbandonando rapidamente
il blocco da disegno sul comodino si allungava verso di lui a strappargli quella
deliziosa refurtiva.
“Dove le hai
trovate?” chiese eccitata, mentre apriva la busta senza troppo garbo, quasi
come un leone affamato che sbrana la sua preda.
“Supermercato di
Satan City, ultima confezione. Direi che è il tuo giorno fortunato, spettro”.
Ma Bra già non lo
ascoltava più, aveva già messo in bocca un paio di caramelle, gustandole
lentamente e ad occhi chiusi, mentre si faceva sfuggire un basso gemito di
piacere. Nelle ultime settimane aveva avuto modo di imparare quanto fosse
complicato accontentare una donna incinta, soprattutto una sajan, ma vederla poi
così appagata come in quel momento lo ripagava appieno di ogni sforzo.
“Sono passato da
Trunks, stamattina” la informò, mentre lei sollevava cautamente lo sguardo su
di lui. A volte, parlare di suo fratello la metteva ancora a disagio, forse per
qualche infondato strascico di sensi di colpa, ma nei suoi occhi, al di là
dell’ostentata compostezza, intravedeva anche un chiaro barlume di
apprensione.
“Come…come
sta?”.
“Oh, benone,
dovresti vederlo!” la rassicurò con un sorriso. Poi, più serio: “Gli ho
dato la lettera di tua madre. Ha voluto che gliela leggessi io”.
Bra finì
lentamente di masticare una caramella, un’impercettibile smorfia sul volto
come se avesse perso gran parte del suo sapore. “L’ha presa male?”.
“Beh, ammetto che
è stata dura leggergli quelle brutte parole, ma alla fine credo che abbia
capito il senso del messaggio e che possa servirgli per star meglio”.
“Lo spero
davvero” sospirò lei pensierosa, stringendosi ora nelle spalle. “Mi
dispiace solo che debba affrontare tutto questo da solo, lassù in quella landa
sperduta!”.
“Primo, i Paoz
non sono una landa sperduta, sono un parco protetto!” protestò lui, facendola
sorridere. “Secondo, Trunks non è affatto solo, ci sono mio fratello e Videl,
c’è mia madre che lo vizia fino all’esasperazione, e poi Pan, che gli è
vicina…molto vicina” scandì, sornione. “Dovevi vederli com’erano
carini stamattina mentre si baciavano in giardino!”.
Bra spalancò gli
occhi, che sembrarono emettere ora bagliori infuocati, mentre quasi si strozzava
con una caramella. “Ma come…come ha osato quella disgraziata approfittarsi
di mio fratello! Io…io…!”.
“Rilassati, Bra,
non mi sembrava che a Trunks fosse dispiaciuto così tanto, e comunque era già
un bel po’ che stavano flirtando apertamente, devi fartene una ragione!”.
Goten rise, mentre
la ragazza borbottava qualcosa di incomprensibile in stile molto Vegetesco,
sicuramente qualche commento non molto carino nei confronti di sua nipote. La
guardò quindi riaffondare la mano nel sacchetto di caramelle, mentre questa
volta pescava, invece della solita gommosa, un piccolo oggetto circolare.
“E questo che
diavolo è!” esclamò, ancora adirata, mentre portava l’oggetto davanti agli
occhi.
Goten si sporse
verso di lei, simulando sorpresa.
“Ma guarda un
po’!” osservò, fissando l’anello di plastica azzurro, dal taglio
decisamente grossolano ma simpatico, con un grande cuore fucsia che lo
sormontava. “Mi sembra che con tutti i preparativi per le nostre attesissime
nozze, era proprio quello che ancora mancava per una futura sposa…un degno
anello di fidanzamento!”.
Lei lo guardò per
qualche secondo interdetta, per poi farsi sfuggire una risata: “Stai
scherzando, vero? Non penserai davvero che indossi un anellino di plastica
trovato nelle caramelle!”.
“Non sono mai
stato più serio!” la contraddisse lui, prendendole l’anello di plastica
dalla mano e mostrandoglielo tra pollice e indice. “Lo so, principessa, che
non è il massimo, ma è tutto ciò che posso permettermi, al momento” confessò,
donandole poi un caldo, dolcissimo sorriso. “E poi, tra noi è successo tutto
così in fretta che non c’è stato nemmeno il tempo di una vera proposta di
matrimonio…quindi, anche se poi vorrai buttare questo anellino…Bra Brief,
vuoi sposarmi?”.
Bra sorrise,
accarezzando piano la guancia di Goten, che la guardava con occhi colmi
d’amore, quegli occhi così profondi, così veri, così pieni di vita.
“Beh..."
rispose, simulando indecisione, ma con il sorriso sulle labbra. "Chissà.
Può darsi che mi sia dato di volta il cervello e che voglia davvero sposarti,
Goten Son”.
Lui sembrò
soddisfatto e le infilò l’anellino all’anulare sinistro, dove le calzava
alla perfezione. Risero entrambi del buffo effetto che aveva quel pacchianissimo
oggetto da bambina sulle sue mani curate, poi lui si abbassò piano,
sollevandole delicatamente la camicia da notte e appoggiando dolcemente le
labbra sul suo ventre, dove ora cominciava a vedersi un leggero rigonfiamento.
Vi depositò una scia di piccoli baci affettuosi, per poi abbandonare la testa
sulle gambe di lei ed assopirsi tranquillo.
In quell’istante,
mentre lei gli accarezzava con dolcezza i capelli, Goten seppe con certezza che
qualsiasi cerimonia, per quanto bella e sfarzosa, non
sarebbe mai potuta essere più intensa, intima ed emozionante di momenti
come quelli.
Continua...
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Capitolo 3 *** Primavera sui Paoz ***
Capitolo 2
Capitolo 2 –
Primavera sui Paoz
I giorni seguenti furono per Gohan
tra i più tesi, ansiosi e stressanti di tutta la sua vita. Ne aveva passati
molti di momenti intensi, situazioni estreme in cui qualsiasi uomo sarebbe di
sicuro impazzito, eppure li aveva sempre affrontati con lucidità e raziocinio.
Adesso, invece, si perdeva in un
bicchier d’acqua di fronte alla più semplice legge di natura.
A dimostrazione di ciò, il fatto che
la sua ansia cresceva con la progressiva guarigione emotiva di Trunks, e con il
rinnovato buon umore di sua figlia.
Non aveva più assistito a episodi
eclatanti ed espliciti come il bacio di qualche sera prima, ma lui sapeva
che c’era qualcosa in più tra loro, lui l’aveva visto. Anche se avevano
continuato a comportarsi normalmente, si intuiva dal modo con cui a volte si
guardavano, dalla continua ricerca di contatto o vicinanza, dalle frasi
scambiate sottovoce.
Era come se reputassero tutti gli
altri degli ingenui a cui potevano nascondere l’evidenza senza nemmeno
impegnarsi troppo, e sovente Gohan si era sentito escluso, quasi un estraneo
nella propria casa.
Ne aveva parlato con sua moglie, ma
lei sembrava non dare abbastanza peso alla cosa, rimproverandolo anzi di
fraintendere l’intera situazione.
Non si stanno affatto nascondendo,
diceva, ma lui continuava ad insistere.
Se non si stanno nascondendo,
allora perché non ce ne parlano? Perché fanno finta di niente?
Forse vogliono solo un po’ di
privacy, Gohan.
Ma, purtroppo, questo non lo
rincuorava affatto.
Privacy? E perché? Cosa mai devono
fare per aver bisogno di privacy?
Era così che aveva iniziato, con
discrezione, a tenerli d’occhio.
Aveva cominciato dalle cose più
semplici, come far casualmente cadere una forchetta durante la cena, una banale
scusa per abbassarsi e sbirciare sotto la tavola, per capire se si tenevano per
mano nel caso fossero seduti vicini, o se i loro piedi si sfiorassero nel caso
fossero seduti di fronte. Ma presto aveva realizzato che non erano abbastanza
inibiti da ricorrere a “tenerezze sotto banco”, era più facile scorgere lei
che raggiungeva con naturalezza la sua mano o lui passarle affettuosamente un
braccio intorno alle spalle, il tutto alla luce del sole e senza il minimo
imbarazzo.
Ma erano ben altre le cose di cui
doveva preoccuparsi, come quando, per esempio, rimanevano da soli in qualche
stanza. Una volta, con la scusa di dover prendere un libro, era entrato nel
piccolo studio della dependance dove stavano da quasi mezz’ora. Trunks era
alla scrivania, dove aveva collegato il portatile, mostrandole qualcosa sullo
schermo, forse delle vecchie foto simpatiche, come dimostravano le loro facce
divertite illuminate dal computer. Lei era seduta su una gamba di lui, non
nell’altra sedia, che pure era disponibile lì accanto e sicuramente più
comoda, ma sulla gamba di lui. Aveva quindi distolto lo sguardo, preso al
buio un libro a caso dal primo scaffale a portata di mano -che poi aveva in
seguito identificato come “Favole della buonanotte”, il libro che
leggevano a Pan da piccola, e si era subito chiesto come avrebbe spiegato una
simile scelta a Videl, nel caso fosse passata di lì- e aveva fatto per uscire
lesto lesto dalla stanza. Sorprendentemente era stata Pan a bloccarlo, e quasi
era sobbalzato su se stesso, sentendosi all’improvviso chiamato in causa.
Puoi chiudere la porta, papà?
gli aveva chiesto con semplicità, e lui l’aveva chiusa ubbidiente,
addirittura salutandoli con un sorriso. Era rimasto quindi fuori dalla porta
chiusa per due minuti buoni, a fissare la maniglia con “Favole della
buonanotte” in mano, sentendosi un perfetto idiota. Aveva poi ceduto ad
allontanarsi, nascondendo poi furtivamente tra i cuscini del divano l’equivoco
libro.
Altro momento critico era la sera,
quando stavano per coricarsi. Gohan non sarebbe mai andato a letto tranquillo,
nemmeno se fosse morto di stanchezza dopo un’intera giornata all’Università,
se prima non li avesse visti ritirarsi ognuno nelle rispettive stanze, lui in
quella di Goten dell’abitazione principale e lei nella propria della
dependance, che per fortuna non erano così attigue da far temere furtivi
incontri notturni.
Ma era quando i due uscivano per
qualche passeggiata sui Paoz, che perdeva completamente il controllo della
situazione. Sentiva crescere l’ansia ogni minuto che passavano fuori, da soli
e lontano dalla sua visuale, trovandosi a guardare di continuo l’orologio,
sperando di vederli risalire la collinetta prima possibile, sperando che
avessero saputo tenere a freno gli ormoni.
Smettila di considerarli come
ragazzini, lo rimproverava Videl, ogni volta che lo sorprendeva a
passeggiare nervosamente davanti alla finestra. Sono entrambi adulti, sanno
badare a loro stessi!
Lo sapeva, ma anche gli adulti, a
volte, perdono il lume della ragione, senza rendersi conto di andare oltre ciò
che è giusto.
Sarebbe stato di sicuro il più
felice di fronte al radioso sorriso di sua figlia, che ultimamente le illuminava
il volto, se non avesse temuto più di ogni altra cosa di vederlo spegnersi
bruscamente.
Perché così sarebbe successo. Così,
purtroppo, sarebbe andata probabilmente a finire.
Ed era per questo che adesso
attendeva di nuovo con impazienza davanti alla finestra, mentre loro erano là
fuori già da un’ora, chissà dove, chissà come, ad affondare
inconsapevolmente una lama l’uno nel cuore dell’altra.
Nell’area 436, monti Paoz, settore
7, esisteva un piccolo sentiero che discendeva piano la collina in mezzo al
prato di un verde accecante. A tratti si trasformava in rudimentali ponticelli
che attraversavano il corso d’acqua di uno stretto e gorgogliante ruscello,
che discendeva insieme al sentiero fino ad un tranquillo laghetto, dove si
tuffava con una cascatella. Nell’acqua si specchiavano pigramente le
rigogliose chiome degli alberi, dalle cui fronde cinguettavano sonoramente gli
uccelli con i loro pulcini. Al di là di essi, la piccola valle si estendeva in
un candido prato di margherite, sorvolato da insetti e farfalle e allettato dal
pigro canto delle cicale tra i cespugli.
Al centro del prato, a proiettare con
orgoglio la fresca ombra della propria chioma, svettava placido un melo. Il
tronco presentava, circa a metà altezza, una strana mutilazione laterale a
forma di semicirconferenza, come se vi fosse passata di striscio la palla di un
cannone. Nonostante ciò, l’albero sembrava avesse continuato per anni a
crescere fertile e rigoglioso, la corteccia vecchia ma ancora forte.
Vi si leggevano ancora due lettere,
incise sopra di essa, una “G” e una “V” con un “+” in mezzo.
Trunks si stirò pigramente, mentre
l’erba fresca su cui era disteso lo solleticava con piacere. Issò quindi un
gomito per sorreggersi la testa, mentre guardava Pan che, in piedi e ad un paio
di metri da lui, coglieva da un ramo uno degli ultimi frutti di stagione.
Indossava un prendisole bianco di
cotone leggero, che metteva in risalto la sua abbronzatura dorata, i piedi
rigorosamente scalzi e un’espressione di piacere disegnata in volto, mentre
addentava la mela rossa e la assaporava con soddisfazione.
“Mmmh…” mormorò, masticando ad
occhi chiusi. “E’ matura al punto giusto, fragrante e succosissima! Vuoi
assaggiare?”.
Si avvicinò a lui, sdraiandosi
quindi al suo fianco e porgendogli la mela, sebbene non sembrasse troppo
interessato al frutto, continuando invece a fissare lei, un vago sorriso sul
volto rilassato.
“Avanti, solo un morso!”.
“Ok!” rispose infine, ma invece
di addentare la mela trascinò la ragazza più vicina a lui, accennando un
piccolo e innocente morso sulla sua guancia, che la fece ridere un po’ per la
sorpresa, un po’ per il solletico dei denti di lui.
Le margherite ondeggiavano piano. Le
farfalle danzavano variopinte sopra di esse, come fate leggere e colorate, gli
uccelli intonavano canti che alle orecchie di Trunks sembravano le più belle
odi di primavera mai incise nei suoi dischi di musica classica. I raggi del sole
di mezzodì penetravano caldi tra le fronde del melo, disegnando su di loro un
reticolo di luci e ombre, mentre la baciava lentamente, accarezzandola.
La sua pelle era così morbida, così
buona, così giovane…
Si sentiva ringiovanito di quindici
anni. Era come se dentro gli sgorgasse un flusso di vitalità e di energia che
non sentiva più da tanto, troppo tempo, come se lo stesse avvolgendo una
capsula di entusiasmo e trasporto e vigore, quasi come un incantesimo in cui la
cognizione del tempo e dello spazio scompare senza più traccia.
Si distese di nuovo al fianco di lei,
gli occhi chiusi, le mani incrociate dietro la testa.
“Un paradiso” disse piano.
“Questo posto è un paradiso…una sorgente di benessere”.
Pan sorrise, appoggiando la testa ad
una mano per vederlo meglio, mentre con l’altra giocava con qualche stelo
d’erba.
“A volte non è il posto…siamo
noi, e come ci apportiamo ad esso”.
“Allora sarà che io non mi apporto
tanto bene allo smog e al caos di West City, o che magari mi ci sono talmente
assuefatto da non beneficiarne più!”.
Risero entrambi.
“Se ti senti bene dentro, puoi
stare bene dovunque e con chiunque…con il tuo stato d’animo attuale, credo
che apprezzeresti persino la tua monotona e sedentaria vita d’ufficio!”.
Aveva certamente sperato di farlo
sorridere alla battuta, ma il volto di Trunks si era invece leggermente
rabbuiato in un’espressione assorta.
“Chissà…forse se non avessi
sulla scrivania decine di pratiche di fallimento da firmare o se le banche non
mi chiamassero ogni giorno per saldare i debiti…”.
Pan aveva abbassato lo sguardo,
pentendosi immediatamente della divagazione, ma l’espressione di Trunks aveva
di nuovo ripreso luce, l’apprensione svanita, come una nuvola passeggera.
“E tu?” le chiese, spostando solo
per un attimo gli occhi azzurri in direzione di lei, tornando poi a fissare la
luce dorata che brillava tra il fogliame, sopra di loro. “Lasceresti mai
questo posto?”.
Per qualche attimo non la sentì
rispondere, poi la ragazza colse distrattamente un soffione dall’erba, girando
lo stelo tra le dita.
“Solo per un buon motivo” disse
infine quasi distrattamente, soffiando piano la corolla in direzione di lui, che
si disciolse leggera a solleticargli la pelle del viso, facendo sorridere
entrambi.
Poco più in là, il laghetto
ombreggiato gorgogliò invitante.
Il giovane cameriere, camicia
immacolata con pantaloni neri e papillon al collo, si fece educatamente strada
tra i tavoli elegantemente imbanditi, dove i clienti mangiavano compostamente i
più raffinati piatti della casa. Oltrepassò quindi con rapidità, ma senza
apparente fretta, la graziosa parete decorata di ceramiche pregiate, passando
sotto lo sfarzoso lampadario barocco, che gettava la sua luce ovattata al centro
del salone.
Giunse finalmente al tavolo da
quattro dove era stato chiamato per raccogliere l’ordinazione, sfoggiando un
leggero inchino ai commensali.
“Gradisci del vino, Bra?”.
“Oh, volentieri”.
“Che ne dici di un bianco, da
abbinare con il pesce?”.
“Mi sembra perfetto”.
“Ci porti un bianco, cameriere, che
si sposi ad hoc con il nostro munù, e possibilmente prima che finiamo di
pranzare, grazie”.
Goten osservò l’uomo seduto di
fronte a lui liquidare il cameriere con un rapido gesto della mano, riprendendo
poi distrattamente ad accarezzarsi il pizzetto grigio, stesso colore dei folti
capelli lunghi fino alle spalle e degli occhi scaltri, mentre accennava un
sorriso soddisfatto che amplificava le rughe del volto artificialmente
abbronzato.
L’architetto Jeremy Fox era noto
negli ambienti dell’alta società come artista raffinato e fascinoso; quel che
vedeva Goten, che invece aveva il piacere di conoscerlo per la prima volta, era
semplicemente un sessantenne snob e con la puzza sotto il naso. Certo era solo
una sensazione a pelle, dovuta forse al fatto che da quando Bra li aveva
presentati non gli aveva più rivolto parola, ma purtroppo difficilmente si
sbagliava nelle sue prime impressioni. Anche la moglie, i capelli ben cotonati,
il tailleur stretto nonostante la corporatura in carne ed il trucco pesante, si
era limitata a squadrarlo per intero durante le presentazioni, lanciando sguardi
contrariati ai suoi jeans scoloriti e alla sua vivace t-shirt arancione,
ritenendolo poi indegno della sua attenzione.
Il suo sguardo adorante era invece
tutto per Bra, che quel giorno indossava una gonna nera e una camicetta sobria,
i capelli miracolosamente sistemati in una messa in piega elegante, e che ora
rivolse all’architetto un sorriso formale.
“E così hai bruciato le tappe nei
tuoi studi, Bra” riprese l’uomo. “Mi dicevi che hai già messo in pratica
le tue conoscenze di chimica”.
“Oh, beh, sì…il Techno-tess”
rispose Bra con naturalezza, ma con un’espressione d’orgoglio che Goten ben
conosceva. “Ci sto lavorando da qualche mese ormai, ho cambiato più volte le
proporzioni dei due polimeri, ma adesso credo di aver finalmente ottenuto quel
che avevo in mente”.
“Fantastico! Ma ci pensi, Lauren?”
chiese entusiasta alla moglie. “Un nuovo tessuto sintetico che non fa pieghe e
che grazie alla matrice elastica e malleabile si adatta perfettamente al corpo
come una seconda pelle! Avrà un successo immediato in tutto il mondo!”.
“Non vedo l’ora di provarlo!”
cinguettò la signora Fox, e Goten dovette trattenere a stento un risata
infilandosi in bocca un enorme boccone di polpo in guazzetto e guadagnandosi
un’occhiata radente di Bra.
“In realtà ci vorrà un po’ di
tempo prima di poterlo mettere in vendita” precisò la Brief, riportando lo
sguardo fiero sui due coniugi. “Prima di brevettarlo volevo fare le ultime
modifiche, purtroppo sono una perfezionista! E poi serve l’approvazione del
consiglio d’amministrazione, ed i fondi necessari per la produzione di
massa…” fece una piccola pausa, scrutando le loro espressioni, per poi
continuare: “In ogni modo, ho già affidato ad una sartoria di qualità la
realizzazione del primo abito di Techno-tess disegnato da me, per avere
un’idea del prodotto finito”.
“Ma è meraviglioso!” commentò
Lauren, portando una mano al petto, l’espressione ammirata.
“Puoi dirlo forte, cara, e pensare
che questa grandiosa scoperta è venuta fuori da una giovane scienziata in
carriera che non è ancora nemmeno laureata! Penso che la nostra Bra sia
destinata a fare grandi cose con il suo straordinario ingegno!”.
“Ha preso tutto da sua madre!”
aggiunse la moglie, e Goten pensò che probabilmente aveva conosciuto troppo
poco suo padre, per rendersi conto di quanto in realtà si sbagliasse.
Sentendosi escluso dalla
conversazione, si concentrò di nuovo sui suoi scampi, che aprì con
soddisfazione tra le mani prima di portare i gusci alle labbra e succhiare con
gusto la polpa bianca e morbida. Bra riportò di nuovo lo sguardo su di lui,
questa volta con più insistenza e con un’espressione fortemente perentoria,
mentre anche la signora Fox gli rivolgeva un’occhiata scandalizzata.
“Ma basta parlare di me” iniziò
di nuovo la Brief, cercando senza troppa fatica di riacquistare l’attenzione
della donna. “Mi dica, Lauren, come stanno i vostri figli, Elly ed Eddy?”.
Gli occhi della donna sembrarono
brillare di luce propria, mentre rivolgeva alla ragazza un largo e orgoglioso
sorriso: “Oh, benissimo, benissimo! Elly si è fidanzata da un paio di mesi
con il figlio di un ricco petroliere, siamo tutti al settimo cielo! Ma anche
Eddy ci ha dato una bella soddisfazione, intraprendendo la carriera di
banchiere!”.
Gli occhi di Bra si ingrandirono
leggermente, adesso sembravano zaffiri vivi, mentre sorrideva interessata.
“Banchiere…direi che è
meraviglioso”.
“Oh, sì, ne siamo molto fieri!
Purtroppo, lui ancora di matrimoni non vuol sentir parlare! E poi, credo che
abbia da sempre una cotta per te, fin da quando da piccoli facevate il bagnetto
insieme in piscina, mentre tua madre e Jeremy discutevano sull’arredamento per
la nuova sede della Capsule!”.
Bra rise.
Goten la guardò per qualche attimo,
dicendo a se stesso che quello non era un sorriso sincero, perché la sua bocca
sorrideva ma non i suoi occhi, quelli no, e lui solo conosceva il suo vero modo
di ridere, che non era così formale e distaccato, seppure così raro e
contenuto.
Lui solo la conosceva davvero, lui
solo aveva imparato in quei pochi mesi molte più cose di lei di qualsiasi
altro, lui solo poteva sapere se qualcosa la divertiva davvero oppure no, e sperò
con tutto se stesso che la battuta della signora Fox, come gli suggeriva il suo
intuito, in realtà non l’avesse divertita affatto.
“A proposito di arredamento”
esordì il signor Fox, accomodandosi il foulard bianco che aveva al collo.
“Sbaglio, Bra, o mi avevi cercato per alcuni consigli sull’arredamento della
tua futura nuova casa qui a West City?”.
“Naturalmente era solo un pretesto
per potervi rivedere dopo tutto questo tempo, ma sì, mi sarebbero davvero molto
utili i suoi preziosissimi consigli, Jeremy”.
L’architetto alzò la testa
compiaciuto, accarezzandosi di nuovo il pizzetto, mentre il cameriere faceva il
suo ritorno al tavolo con una bottiglia di vino, che ora si apprestò ad aprire
davanti ai quattro commensali, versandone poi nei rispettivi bicchieri.
“Evidentemente non ci siamo capiti,
giovanotto” lo trattenne Fox, dopo appena un sorso. “Le avevo detto di
portarci un vino che si sposasse con il pesce”.
“Beh, ho portato un vino
bianco…”.
“Non provi a fare il furbo con me,
questo è un vino bianco corposo, e non serve un attestato da sommelier, che
comunque io ho, per sapere che con il pesce si abbina un vino bianco secco!”.
“Ma io…”.
“Poche scuse, giovanotto!” tagliò
corto l’uomo, restituendo al giovane cameriere la bottiglia. “Se non è
preparato su queste cose, forse farebbe bene a cambiare mestiere!”.
Goten osservò il volto del giovane.
C’era imbarazzo in quel volto, e c’era anche delusione e impotenza e terrore
per un eventuale licenziamento, vide tutto questo in quegli occhi, e lo vide in
un solo attimo, prima che se ne andasse a testa bassa, e fu abbastanza perché
Goten abbandonasse istintivamente tutte le sue buone intenzioni di non
intervento.
“E’ solo un ragazzo!” osservò,
mentre Jeremy Fox, voltandosi in sua direzione, sembrò accorgersi di lui per la
prima volta durante tutto il pranzo.
“Giusto, signor…Son, dico
bene?” chiese sbattendo piano le palpebre, come se solo rivolgendogli la
parola gli stesse facendo un incredibile favore. “D’altronde lei dovrebbe
intendersene bene di servizio ai tavoli”.
“Più o meno” rispose senza
scomporsi lui, mentre con la coda dell’occhio scorgeva Bra abbassare lo
sguardo. “Sicuramente abbastanza da sapere che un ragazzo può anche imparare
dai propri sbagli, nessuno nasce perfetto, non trova?”.
“Evidentemente, signor Son, servire
ai tavoli di un ristorante di lusso non è la stessa cosa che farlo in qualche
comune bar” affermò l’architetto, fissandolo con aria strafottente prima di
cambiare argomento, e fu solo per amore della ragazza seduta al suo fianco, che
adesso si fissava le mani in grembo con estremo imbarazzo, che Goten decise di
non reagire, di far finta di niente, di ignorare la sua dignità ferita.
In ogni modo, ancora una volta, le
sue prime impressioni si riconfermavano giuste.
Gohan guardò di nuovo l’orologio a
muro, fremente. Nel farlo aveva però disgraziatamente incrociato gli occhi di
sua moglie, intenta ad apparecchiare la tavola, che le lanciò in rimando uno
sguardo eloquente. Cercò quindi di concentrarsi sulle verdure che stava
affettando per il minestrone di sua madre, che bolliva già da un po’ sul
fornello acceso, in attesa di essere alimentato.
“Pan e Trunks avevano intenzione di
tornare per pranzo, vero?” chiese distrattamente Chichi, girando con un lungo
mestolo il contenuto della pentola.
“Certo che tornano per pranzo”
puntualizzò Gohan, aggiustandosi gli occhiali sul naso con l’indice. “Perché
mai non dovrebbero? E’ tutta la mattina che sono fuori”.
“E questo che significa?” si
introdusse Videl, interrompendo il suo lavoro e portando una mano al fianco,
fissando seriamente il marito. “Se hanno voglia di restare fuori tutta la
giornata, possono benissimo farlo! Lasceremo qualcosa di caldo per quando
tornano e…”.
“Certo che no!” la contraddisse
lui, il tono ora leggermente concitato. “Non hanno lasciato detto niente, e
questo dà per scontato che per pranzo saranno qui. Non vedo quanto dovrebbero
trattenersi oltre!”.
“Da quando in qua nostra figlia ha
bisogno del nostro permesso per fare quel che vuole? E Trunks, poi? Non sei
certo suo padre, e nemmeno suo fratello!”.
“Ma lui adesso sta qui e qui
esistono delle regole ben precise, come quella di essere a tavola per
mezzogiorno!”.
“Ah sì, e da quando??” lo schernì
Videl, riducendo il marito ad un imbronciato silenzio.
Per qualche secondo i due coniugi si
fissarono con sfida, mentre Chichi, abbandonando momentaneamente la sua pentola,
si voltava verso di loro, scuotendo la testa esasperata: “Ragazzi, vi prego!
Sembrate due bambini capricciosi!”.
Ma il suo poco adatto ruolo di
mediatore fu fortunatamente interrotto dal sopraggiungere di risate divertite,
una femminile più sonora e prolungata, una maschile più bassa e discreta.
Mentre tra i tre calava un silenzio d’aspettativa, la porta si aprì
sonoramente, rivelando le due figure in questione azzardare qualche passo nella
stanza, ancora tra le risa. Con sbalordimento e confusione Gohan inarcò le
sopracciglia, mentre metteva a fuoco Trunks e sua figlia completamente bagnati
dalla testa ai piedi, i capelli ancora gocciolanti, i vestiti inzuppati.
“Oh cielo!” esclamò Chichi,
facendo cadere il mestolo a terra per la sorpresa, mentre anche Videl guardava i
due con un misto di divertimento e stupore. “Ma che vi è successo??”.
“E’ tutta colpa di Trunks!” si
difese la ragazza mentre ancora rideva, colpendolo leggermente al braccio per
provocazione.
“Non è vero…!”.
“Sì, invece! Mi ha buttato in
acqua di proposito solo perché lui c’era caduto da solo poco prima!”.
“Non datele retta, è Pan che mi ha
spinto volontariamente, anche se poi è caduta in acqua pure lei!”. Pan cercò
tra le risa di mettere una mano davanti alla bocca di lui, in modo da non farlo
parlare, ma Trunks le afferrò i polsi con rapidità, bloccandole poi il busto e
le braccia da dietro, immobilizzandola all’istante contro di lui.
“Sei una bugiarda, lo sai?” la
rimproverò bonariamente all’orecchio, con il sorriso sulle labbra, mentre lei
abbandonava la resistenza e si rilassava sorridente tra le sue braccia. “Una
piccola, furba bugiarda!”.
Gohan era paralizzato, il coltello a
mezz’aria, lo sguardo fermo con orrore sui loro corpi a contatto, sui loro
abiti bagnati appiccicati alla pelle, sulle loro espressioni serene e
compiaciute…
Abbassò poi repentinamente gli
occhi, tornando quasi meccanicamente ad affettare le sue verdure, con così
tanta lena e velocità che, se non fosse stato per la sua tempra sajan, si
sarebbe certamente ritrovato un paio di falangi insieme al tritato di carote e
zucchine.
La traversata continentale di ritorno
da West City sembrava quel pomeriggio più lunga di sempre. Forse perché la
loro air-car targata Capsule Corporation viaggiava con il vento contrario, forse
perché per tutto il tempo erano rimasti in silenzio, lo sguardo ben dritto sul
cielo davanti a loro, mentre solo la bassa musica proveniente dalla radio ed il
motore del velivolo facevano da colonna sonora.
“Cosa c’è, Bra, hai perso la
lingua?” le chiese d’un tratto Goten, senza preavviso, facendola quasi
sobbalzare dal suo stato di torpore. “Dovrei essere io quello offeso, non
tu”.
Bra scorse con la coda dell’occhio
che il ragazzo alla guida si era voltato momentaneamente verso di lei,
probabilmente cercando un contatto visivo, ma gli occhi di lei rimasero saldi e
impassibili sul vetro anteriore.
“Non vedo di cosa dovresti
esserlo” rispose, sbattendo le palpebre con indifferenza.
Sì che lo sapeva. Lo sapeva
benissimo.
Sapeva come doveva esser stato
umiliante sentir fare battute poco carine sulla sua professione, o esser stato
evitato come una nullità o come un sempliciotto per tutto il pranzo. Immaginava
anche quanto avrebbe voluto ribattere di nuovo, quando Fox l’aveva esortata a
continuare gli studi e a concentrarsi sulla sua carriera, nonostante quella che,
guardando con aria desolata il suo ventre arrotondato, aveva definito “una
noiosa complicanza”. Ma tutto questo non era niente in confronto a quando,
prima di congedarsi, l’architetto le aveva apertamente consigliato di
intestare la nuova casa esclusivamente a suo nome, immaginando che la fonte
economica sarebbe stata una sola.
“Sai bene che non è così” volle
difendersi Goten, come leggendole nel pensiero. “Non ammonterà a molto la mia
parte, ma qualcosa dovrò pur racimolare dalla vendita dell’appartamento a
Satan City e…”.
“Sai che mi importa niente di
quanto sarà il tuo contributo, ne abbiamo già parlato!” ribattè Bra,
voltandosi finalmente verso di lui. In fondo, era stata sempre e solo lei a
desiderare una casa grande e moderna ed un matrimonio pomposo. “Tutto ciò che
compreremo sarà comunque a nome di entrambi!”.
“E allora perché non hai
contraddetto Fox?” le chiese lui, alzando leggermente il tono. “Perché non
hai mai ribattuto di fronte alle cattiverie subdole che uscivano dalla sua
bocca??”.
Bra rifuggì di nuovo il suo sguardo,
che ora le bruciava come fossero braci ardenti.
“Tu devi capire, Goten, che nella
vita non possiamo sempre dire o fare quel che vogliamo” disse con voce ferma,
come una madre che deve insegnare qualcosa ad un bimbo ingenuo. “Certe volte
è necessario e utile rimanere al di sopra delle parti…fare il gioco di chi
abbiamo di fronte, recitare un ruolo…”.
“Solo per un paio di stupidi
consigli sull’arredamento di una casa??”.
“No, non solo per quello, possibile
che non lo capisci!”.
“Sai, credo di capire benissimo
invece. Per un po’ ho creduto che tu fossi l’unica persona sulla quale
dovevo ricredermi riguardo le mie prime impressioni…invece, posso dire che sei
esattamente come avevo sempre creduto, una ragazzina viziata, falsa ed esaltata,
a cui l’unica cosa che importa davvero è il proprio utile!”.
“Ah, davvero?” ribattè lei,
adesso adirata. “E tu sei invece sei esattamente quello che ho sempre avuto
sotto gli occhi, un povero sfigato che nonostante questo non fa niente per
mostrarsi migliore, come mangiare educatamente a tavola o indossare qualcosa di
adeguato ad un pranzo formale, non mi sorprenderei affatto se non indossassi uno
smoking nemmeno al nostro matrimonio…se ancora ci sarà un matrimonio!”.
Una brusca frenata dell’air-car la
fece sobbalzare violentemente, e solo ora si accorse che il velivolo aveva già
abbassato quota e che finalmente erano già arrivati davanti allo spoglio
palazzo dove condividevano un appartamento, anche se Goten aveva calcato più
del dovuto il piede sul pedale del freno.
Si voltò verso di lui, e
l’espressione che vide sul suo volto fu quella di sfida di un sajan, quella
del guerriero che pur sempre era, così intensa e penetrante e intimidente, e in
quel momento si sentì così scoperta, impotente e vulnerabile da odiarlo, sì,
da sentire di poterlo odiare con tutta se stessa.
“Hai ragione” disse infine lui,
mentre lo sguardo di sfida se ne andava e tornava solo un’espressione delusa e
sdegnata. “Forse non ha più senso un matrimonio. Forse tra noi non era
destino, il tuo futuro era fin dall’inizio con qualche aristocratico, con
qualche uomo d’affari del tuo stampo o con qualche giovane rampante dalla
promettente carriera, come quell’Eddie Fox! Di certo con uno come me non
avrebbe mai funzionato!”.
Già, puoi dirlo forte, pensò
Bra, per una volta dando ragione al ragazzo al suo fianco, che tamburellava le
dita sul volante dell’air-car, lo sguardo perso davanti a lui.
Forse avrebbe davvero dovuto
fidanzarsi con uno come Eddie Fox. Non gli era mai stato simpatico, anche se lui
da bambino considerava i suoi tentativi di affogarlo in piscina come gesti
d’affetto, ma probabilmente da adulto era diventato sicuramente meno
insopportabile e appiccicoso, e la sua carriera in ascesa avrebbe di certo
permesso a lei una vita agiata e tranquilla, la vita di una principessa, che era
quello che in fin dei conti era e che avrebbe sempre dovuto essere.
Adesso non si capacitava, invece, di
come avesse potuto finire con Goten Son, con cui non aveva niente in comune, se
non il sangue. Ma forse era proprio la loro comune natura sajan, che li aveva
spinti l’uno verso l’altra, garantendo così attraverso il sesso la
conservazione della razza.
Era l’unica spiegazione, che di
sicuro valeva anche per suo fratello e Pan, i quali non avrebbero altrimenti
nemmeno incrociato le loro strade. Probabilmente anche loro avrebbero fatto
sesso, se non ne avevano già fatto, forse addirittura concepito un erede, prima
di capire che non erano assolutamente fatti l’uno per l’altra.
Sangue. Natura. Sesso.
Progenie…dovevano essere le uniche spiegazioni, non c’era dubbio.
Ma i dubbi le si riaffollarono di
nuovo nella testa come un fiume in piena, non appena i suoi occhi si posarono
casualmente sull’anellino di plastica che portava ancora all’anulare
sinistro.
Perché mai ce l’aveva ancora al
dito? Perché mai continuava ad indossare quell’orribile ed antiestetico
giocattolo senza valore, quando invece alle sue dita avrebbero dovuto esserci
diamanti di prima qualità?
Perché mai adesso nella sua mente si
rincorrevano ricordi ed immagini che le facevano battere il cuore, perché
rivedeva due occhi scuri che la guardavano con amore, perché riviveva carezze e
parole che la facevano sentire così bene, così felice e completa come mai era
stata?
Mentre tutti i suoi dubbi finalmente
si chiarivano, ma in un altro senso, sfiorò con affetto l’anellino, chiudendo
per un attimo gli occhi.
“Se vuoi cominciare a raccogliere
le tue cose e a fare le valigie, puoi farlo con calma” riprese Goten, notando
la sua esitazione. “Ti aspetto, così ti riaccompagno alla Capsule”.
“Ok, annullerò il contratto della
casa oggi stesso e fermerò tutti i preparati del matrimonio”.
“Bene. E per il bambino non
preoccuparti. Sarò comunque un padre presente, spero che mi darai la possibilità
di vederlo almeno un paio di volte alla settimana”.
“Vedremo cosa deciderà il
giudice”.
“Cercherò di contribuire comunque
con gli alimenti, perché conoscendoti credo che farete la fame o andrete avanti
a fast-food!”.
Si guardarono di striscio, ma bastò
perché entrambi scoppiassero a ridere piano.
Passò qualche altro secondo, e poi
Bra era tra le braccia di lui, stringendolo come mai aveva fatto, mentre il
ragazzo le accarezzava piano la nuca e le ricopriva la fronte di piccoli baci,
sperando che lo straordinario intuito del suo futuro sposo lo aiutasse a capire
tutto quello che negli anni avrebbe voluto dirgli in momenti come quello, ma in
cui purtroppo le parole, spesso, non riuscivano a venir fuori.
Continua…
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Capitolo 4 *** Shining star ***
Capitolo 3
Capitolo
3 – Shining star
The
way you look at me
The
way you touch me
The
fire in your eyes
-makes
me sweat-
makes
me shiver inside
there’s
nothing I can’t do about it…
I vivaci giorni
primaverili che avevano rallegrato i Paoz in quel finire di Aprile erano stati
interrotti da quarantott’ore di pioggia continua, che aveva costretto tutti
gli animaletti da poco usciti dal letargo a rintanarsi di nuovo nelle loro tane,
al sicuro e al calduccio.
Non si trattava però
di uno di quei pesanti acquazzoni autunnali, in grado di spazzar via ogni cosa,
ma di quelle leggere pioggerelle di primavera che abbracciano la campagna come
una morbida chioccia, a cui i campi ed i prati in fiore si aprono assetati per
prepararsi all’estate.
Intorno alla doppia
casetta dei Son si respirava un piacevole profumo di bosco, trasportato dalla
fresca umidità dell’aria, mentre la pioggerella fine cadeva ovattata creando
una rilassante sinfonia, appena udibile al di sotto della musica ben più alta e
definita proveniente dalla legnaia.
Era un pezzo
classico, un lento. Due figure, più o meno della stessa altezza, ballavano
piano sotto le travi di legno di quel caldo riparo, alla luce opaca e biancastra
che vi entrava libera, la cortina di pioggia che faceva da sfondo alla loro
lenta danza.
“Ahi! Mi hai
pestato di nuovo!”.
“Non è vero!”.
“Certo, me lo
sono immaginato! O forse è il mio alluce che ne ha già avuto abbastanza!”.
“Guarda che sei
tu che mi hai detto che avresti fatto due passi avanti e uno indietro, e che io
avrei dovuto imitarti”.
“Ma se io faccio
due passi avanti e uno indietro, è scontato che tu debba fare due passi
indietro e uno avanti, non la stessa cosa!”.
“E con quale
piede per primo, scusa??”.
“Basta, io ci
rinuncio!”.
Pan
cercò di soffocare una risata affondando il mento nel colletto della sua felpa,
mentre incrociava le gambe sulla vecchia poltrona su cui era seduta e allungava
una mano verso lo stereo portatile appoggiato ad una pila di legna al suo
fianco, premendo per l’ennesima volta il pulsante di STOP.
Davanti a lei, la
coppia più inusuale di ballerini era immobile l’uno di fronte all’altro,
Trunks con le mani ai fianchi, stanco e spazientito, Goten con una mano al mento
e lo sguardo perplesso ancora fisso sui propri piedi, quasi stesse ripetendo
mentalmente i passi che aveva imparato.
“Non è che tu
sia proprio negato” disse Trunks con ostentata calma. “Sei abbastanza
sciolto nei pezzi più ritmati, ma non ti sforzi di imparare la tecnica…senza
contare il fatto che continui a farti guidare da me, mentre devi metterti in
testa che è l’uomo a dover guidare la donna!” aggiunse, rimembrando anni e
anni di esperienza ai balli di società. “Perché non lasciamo perdere? Vedrai
che a Bra non importerà se…”.
“No Trunks, ti
prego!” lo supplicò il Son, le mani giunte davanti al viso, l’espressione
implorante. “Avevi promesso che mi avresti insegnato a ballare prima del
matrimonio, l’avevi promesso!!”.
“Avanti,
Trunks!” rinforzò Pan, sorniona, dondolandosi con la sedia. “Non ti fa
neanche un po’ di pena il povero zio Goten, nel pensare a come lo ridurrà tua
sorella scoprendo che al galà del matrimonio farà una pessima figura??”.
“Non è affatto
divertente!” si difese lui, lanciando un’occhiataccia omicida alla ragazza,
ma rivelando anche un po’ di divertimento, prima di rivolgersi di nuovo a
Trunks. “So benissimo che a Bra non importa se sono un pessimo ballerino…o
almeno non me lo farebbe pesare troppo…in ogni caso, voglio farle una
sorpresa, voglio stupirla!”.
“Rimarrà certo
stupita, nel contare quante volte riuscirai a pestarla in pochi passi!”.
“Continui ad
affondare il dito nella piaga, nipote degenere?” protestò. “Perché non
vieni tu a provare, invece di prendere in giro??”.
“Non ci penso
proprio!”.
“Per favore,
Trunks!” ricominciò. “Ti prego-ti prego-ti prego!!”.
“Ok, ok, proviamo
l’ultima volta…”.
“Mi raccomando,
non sprecarti troppo eh!” si lamentò. “Cos’è tutta questa fretta! Tanto
oggi, con questa pioggia, non potete nemmeno andare a rotolarvi nei campi come
vostro solito…”.
“Goten!!”.
Trunks l’aveva
richiamato tra lo stizzito e l’imbarazzato, aspettandosi da un momento
all’altro una sfuriata di Pan nei confronti dello zio. La ragazza era invece
rimasta tranquilla, scegliendo questa volta di replicare con malizia:
“Guarda che
quello che credi facciamo io e Trunks è in realtà solo per fare ingelosire
te” lo provocò. “Così forse capirai che sposare Bra sarebbe il più grande
errore della tua vita, mentre il tuo unico amore sarà sempre e solo Trunks!”.
Goten simulò
un’espressione sorpresa, mentre si rivolgeva all’amico con una mano sul
cuore: “Non potevi dirmelo subito che eri innamorato di me??”.
“Beh, sai com’è…”
sospirò Trunks, stando pazientemente al gioco, solo perché non aveva voglia di
battere un legno in testa a lui e di rincorrere lei. “La paura di un possibile
rifiuto…e poi non potevo fare questo a Bra…”.
“Giusto, ci
ucciderebbe entrambi! Il nostro rimarrà un amore impossibile! Concedimi almeno
un ultimo ballo!” esclamò, prendendo con una mano quella del Brief e
posandogli l’altra sulla vita.
“Ok, ma questa
volta sarai tu a fare la parte dell’uomo, mentre io sarò la tua dama!” lo
avvertì Trunks, correggendo la postura dell’allievo e sistemandosi in
posizione.
“Ma che
carini!” commentò Pan, fingendosi affascinata. “Siete una coppia perfetta!
Talmente perfetta che mi sento quasi di troppo, penso che toglierò il
disturbo!”.
Balzò giù dalla
sedia, lanciò un’ultima occhiata divertita ai due sajan, che ancora immobili
in attesa della musica le lanciarono uno sguardo di disappunto, si coprì la
testa con il cappuccio della felpa e uscì fuori dalla legnaia, nella pioggia.
Mentre il cellulare di Goten iniziava rumorosamente a suonare, obbligandolo a
rimandare quel nuovo accenno di valzer e a rispondere all’ennesima chiamata
della sua futura moglie, Trunks approfittò per sgattaiolare fuori dalla legnaia
con indifferenza, afferrare da dietro un braccio di Pan prima che si
allontanasse verso la dependance e trascinarla rapidamente sotto la piccola
tettoia che percorreva la parete esterna della legnaia, al riparo.
“Non dirmi che ti
manco già!” esclamò Pan da
sotto il cappuccio, non troppo dispiaciuta
per esser stata trattenuta. “Pensavo volessi stare un po’ da solo con
il tuo cavaliere!”.
“Infatti, è che
ci serve qualcuno che metta la musica!”.
La ragazza strabuzzò
gli occhi un po’ divertita e un po’ offesa, affondando un pugno
nell’addome di lui senza troppo danno, mentre Trunks rideva di gusto e le
tirava il cappuccio sulla faccia per dispetto, facendole quasi perdere
l’equilibrio.
Liberatasi, Pan si
fece più vicina a lui, afferrandogli i lembi della giacca di jeans e
sollevandosi sulle punte, in modo che ora le loro fronti quasi si sfiorassero.
Intorno a loro la
pioggia cadeva placida e fine, mentre dalla legnaia proveniva allegra la voce di
Goten, che parlava ancora al telefono.
“Stasera vieni da
me nella dependance, dopo cena” gli disse la ragazza sottovoce, lo sguardo
fisso sulle sue labbra. “Papà e mamma saranno a West City per una premiazione
dell’Università…e io… sono sola”.
I suoi occhi scuri
si sollevarono su quelli di lui, rivolgendogli un sorriso vagamente malizioso,
mordendosi poi leggermente il labbro inferiore in attesa di una risposta a
quello che, di fatto, sembrava un invito senza possibilità di rifiuto.
“Ok” sorrise
lui, mentre la ragazza, con un ultimo sguardo d’intesa, si aggiustava di nuovo
il cappuccio sulla testa e correva via nella pioggia, verso la dependance.
‘Cause
nothing seems so true
When
I’m beside you
Am
I dreaming?
Just
hold my hands
Naked,
perfect, so beautiful…
“Te l’ho detto,
Bra, sono ancora dal fornitore…sì, non l’ho dimenticato, appena ho fatto
qui passo a confermare la prenotazione per il catering…ok, ok, a dopo
tesoro”.
Trunks, rientrato
nella legnaia, osservò l’amico che terminava la chiamata con uno sguardo
perplesso, sollevando un sopracciglio.
“Beh, che c’è?”
si difese Goten, riponendo il cellulare in tasca e scrollando le spalle. “Non
posso certo dirle che sono qui a prendere lezioni di ballo da te, te l’ho
detto che deve essere una sorpresa!”.
“Come…come sta
Bra?” chiese debolmente Trunks, a fatica udibile al di sopra della pioggia.
“Purtroppo ancora non c’è stata occasione per…dopo che…”.
“Sta benone” lo
interruppe il Son, come a volerlo rassicurare. “E’ felice, forse perché ha
mille cose da fare e come ben sai più è impegnata e più è contenta. Si sta
occupando dei preparativi del matrimonio, che rischia di diventare l’evento più
dispendioso e sfarzoso del secolo…ha firmato il contratto della nostra nuova
casa a West City, che sembra un hotel…ha fatto produrre il suo primo modello
con il tessuto sintetico che lei stessa ha creato, firmato naturalmente Capsule
Corporation…e nel frattempo, nostro figlio sembra continuare a crescere sano e
forte dentro di lei, almeno dall’ecografia che le ha fatto Marron l’altro
giorno!”.
Aveva parlato della
felicità della sua futura moglie, ma dalla sua espressione radiosa Trunks
percepì nell’amico lo stesso forte sentimento, provando lui stesso un
improvviso e spontaneo moto di contentezza per entrambi.
“E’ stupendo”
disse con un sorriso malinconico. “Ve lo meritate. Però mi dispiace…di non
aver potuto darvi una mano in tutto questo… o non di aver aiutato Bra con la
sua nuova linea…”.
Abbassò
lo sguardo, a disagio. C’era stato un tempo in cui aveva accusato sua sorella
di fuggire dalle responsabilità, mentre adesso era lui ad essersi isolato dal
mondo, a fuggire dal lavoro, dai doveri, da tutto, per rifugiarsi in quella che
sembrava essere una realtà parallela.
Goten scosse la
testa con decisione, come se avesse intuito i suoi pensieri.
“Non devi
preoccuparti di questo. Bra sa cavarsela benissimo da sola, lo sai, nemmeno io
spesso posso fare niente. E poi, lei il suo momento di fuga se lo è già
preso…adesso sei tu, ad aver bisogno di una vacanza”.
Trunks annuì,
sorridendo debolmente.
“Già” confermò,
inspirando il dolce profumo di bosco che impregnava l’aria. “Ma le vacanze
non durano in eterno”.
You
turn me up and down
And
spin me round and round
You
never get enough
Baby
don’t know you’re a shining star
Gohan si strinse il
nodo alla cravatta, esaminandosi davanti allo specchio. Indossava un completo
nuovo di un’elegante tonalità di blu, acquistato appositamente per
quell’occasione in una boutique per uomo di Satan City, sotto la supervisione
di Videl, che aveva palesemente insistito per quel modello. Diceva che gli dava
un tocco di eleganza al di sopra dell’aria professionale.
Non era ad un
concorso di bellezza che si stavano recando, però. Era all’evento di
primavera più atteso da tutta la comunità accademica, il galà di premiazione
del personaggio universitario dell’anno.
Voci di corridoio e
spifferate dei suoi assistenti sembravano darlo per vincitore assoluto, ma aveva
avuto modo di capire che, da quell’anno, il senato accademico aveva intenzione
di abbassare l’età del premio. Fino ad allora era sempre stato conferito ai
più saggi vegliardi dell’università, come un riconoscimento alla carriera,
ma quella svolta avrebbe invece premiato i più giovani come incentivo per il
futuro. E lui, che a quarantadue anni era già professore ordinario e affermato
ricercatore, era sempre stato troppo giovane per ambire al premio alla carriera,
ma ora relativamente troppo vecchio per competere con le future, promettenti
generazioni.
Esaltati
trentenni, si sentono così potenti da credere di poter far tutto…anche
sfidare chi ha più esperienza di loro…anche sottrargli ciò che gli
appartiene sotto i propri occhi…
Scosse con
decisione la testa, come per scacciare quegli assurdi e incoerenti pensieri,
mentre da fuori giungeva forte e prolungato il suono del clacson dell’air-car.
“Ehi, Gohan, vuoi
muoverti?? Siamo già in ritardo!”.
Che buffo…di
solito era estremamente puntuale. Senza contare il fatto che per un’occasione
tanto attesa come quella sarebbe partito addirittura con un paio d’ore di
anticipo. Eppure era ancora lì, immobile davanti allo specchio di camera, forse
trattenuto dal pensiero di veder sfumare la sua ultima occasione di vincere quel
premio, forse da qualcos’altro.
Inspirò
profondamente, si appiattì la giacca con qualche colpetto e uscì finalmente
dalla stanza. Nel corridoio incrociò sua figlia, che usciva dal bagno in
accappatoio, i capelli bagnati. Gli rivolse un sorriso radioso, mentre si
avvicinava lentamente, e lui non potè far altro che ricambiare. Erano occhi
colmi di gioia quelli che vedeva, gli occhi…di una ragazza innamorata.
“Buona fortuna,
papà” gli augurò sinceramente. “Comunque vada, io so che sei tu il
migliore”.
Gli gettò le
braccia al collo, sollevandosi sulle punte e baciandolo su una guancia, e lui
l’abbracciò dolcemente. Accarezzando il morbido accappatoio bianco di spugna
della figlia, che la rivestiva morbidamente, si rese conto di quanto
intensamente amasse il suo piccolo pulcino e che avrebbe fatto qualsiasi cosa
per lei, per il suo bene. Qualsiasi.
“Grazie,
tesoro”.
Si separò da lei,
la guardò per qualche attimo, osservando con un senso di agrodolce
rassegnazione quanto fosse bella e radiosa e splendente, quanto potesse essere
desiderabile agli occhi di un uomo, non solo fisicamente, ma per tutta la
luminosa e brillante aura che emanava, come una stella allo zenith.
Le rivolse un
ultimo sorriso, per poi avviarsi giù per le scale, senza voltarsi indietro.
Uscì fuori a
corsa, riparandosi dalla pioggia con una cartella dei documenti, per poi aprire
goffamente lo sportello dell’air-car.
“Era ora!”
brontolò Videl, mentre lui si accomodava sul sedile del passeggero. Indossava
un grazioso abitino verde primaverile, ma a causa della giornata di pioggia
aveva dovuto aggiungere un coprispalle azzurro, che però si intonava
splendidamente al colore dei suoi occhi, i capelli morbidamente sciolti e
ondulati fino alle spalle. “E poi dicono che sono le donne a indugiare davanti
allo specchio!”.
Mentre sua moglie
faceva manovra nella verde spianata in modo da avere spazio per il decollo,
Gohan abbassò il finestrino appannato per salutare sua madre, al riparo appena
sotto la soglia di casa. Evidentemente Goten doveva essersene andato da poco.
“Torna a casa
senza quel premio, Gohan, e non varcherai questa porta!”.
“Oh, fantastico!
Adesso andrò sicuramente più tranquillo!” replicò un po’ divertito e un
po’ allarmato, e solo allora vide Trunks proprio lì accanto a sua madre, che
sorrideva alla battuta della donna.
Il suo
sorriso, invece, si rabbuiò rapidamente, rivolgendo al ragazzo un’occhiata
eloquente, quasi di sfida, e continuò a guardarlo così per tutto il tempo che
l’air-car ci mise a innalzarsi in volo e a sparire tra le nuvole, sperando che
capisse, che cogliesse…e che un po’ si spaventasse.
* *
*
Goku, Trunks e Pan,
a bordo della navicella che li ha scorrazzati per l’intera galassia, durante
una delle infinite giornate di viaggio tra una sfera e l’altra. Deve essere
una delle ultime sfere, quella verso cui si stanno dirigendo, a giudicare
dall’atmosfera festosa che pervade l’ambiente. Si sente la voce di Goku che
strilla allegramente qualcosa, Gill che svolazza libero nell’aria, Pan che
canticchia ad alta voce mentre ascolta musica con il suo nuovo lettore musicale,
acquistato in uno degli ultimi pianeti visitati. Solo Trunks è al posto di
guida, lo sguardo concentrato sul monitor e sul calcolo delle coordinate. Ad un
certo punto si sente un grido acuto, che lo fa sobbalzare sul suo sedile
facendogli cadere fogli e penna, e mentre la visuale si sposta rapidamente, si
nota che Pan sta inseguendo il povero Gill per tutta la navicella.
“Torna subito
qui, brutto barattolo inutile! Vedrai che se ti prendo ti smonto con le mie
mani!!” urla con rabbia, mentre la voce di Goku si fa sentire di nuovo:
“Che succede,
Pan? Cosa ti ha fatto il povero Gill??”.
La ragazza si ferma
e guarda davanti a se, mentre alla rabbia fanno seguito le lacrime, che
minacciano di sgorgarle dagli occhi e di bagnarle le guance arrossate.
“Non hai visto,
nonno?? Gill si è mangiato il mio lettore musicale! L’avevo appena acquistato
e pagato anche parecchio, era l’ultimo modello!”.
“Diciamo
piuttosto che io l’ho pagato parecchio!” fece eco Trunks, dalla sua
postazione. “I soldi erano miei, non dimenticartelo, e una volta sulla Terra
mi aspetto di riaverli indietro!”.
“Avevi detto che
era un regalo!”.
“Avrai capito
male!”.
“Già, solo perché
adesso è finito in pasto a Gill!” sbuffa Pan, mentre rivolge a Goku uno
sguardo insofferente: “E tu spegni quella dannata videocamera, nonno!”.
“Avanti Pan, non
disperare! Se è come quando ha ingoiato il radar cerca sfere, vedrai che…”.
E infatti il
robottino dimostra di aver già digerito il nuovo congegno elettronico,
iniziando a trasmettere dall’altoparlante la canzone che Pan stava ascoltando
poco prima.
“Wow…”
commenta la ragazzina, ritrovando il sorriso. “Però sia ben chiaro, Gill, che
dovrai farmi ascoltare le canzoni a comando, non solo quando hai voglia tu!”.
“Hai visto, te
l’avevo detto!” sghignazza Goku con soddisfazione. “Perché non facciamo
una foto ricordo, per festeggiare??”.
“Sì, sì, ci
sto!!” approva Pan, invasa di nuovo dal buonumore. “Dai Trunks, vieni anche
tu!”.
“No, adesso non
posso muovermi!”.
“Ok, allora
veniamo noi!” ripara Goku, continuando a filmare, mentre si avvicina alla
postazione del ragazzo, che non troppo a malincuore abbandona momentaneamente i
suoi calcoli per rivolgersi all’obiettivo.
“Ma facciamo
veloce, però, che devo lavorare!”.
“Come no, dì
piuttosto che fai finta!” lo provoca Pan, balzando sul bracciolo del sedile di
lui e accomodandovisi seduta, mentre Gill si aggrappa alla spalliera.
“Porta un po’
più di rispetto, signorina, che ti lascio sul primo pianeta a portata di
mano!” risponde lui a tono, ma con il sorriso sulle labbra. Anche da quelle
piccole cose si capisce che la caccia alle sfere è quasi giunta al suo termine,
che il ritorno a casa è vicino.
“Ok, adesso
fatemi posto, che imposto l’autoscatto!” annuncia Goku, mentre abbandona la
videocamera e compare finalmente davanti all’obiettivo, e la sua presenza è
così solare e raggiante da bucare quasi lo schermo, da mettere in ombra tutti
gli altri.
Salta agilmente sul
bracciolo, proprio davanti a Pan, che cerca faticosamente di allungare la testa
al di sopra degli sparati capelli del nonno, e nel frattempo il sedile
scricchiola impercettibilmente.
“Non da questo
lato, Goku, ci stiamo sbilanciando…” lo avverte Trunks, perplesso.
“L’altro è
troppo in ombra, non mi piace!”.
Un altro
scricchiolio, più pronunciato, e adesso si vede chiaramente che la poltroncina
si sta inclinando da un lato.
“Ehi nonno, ma
perché la tua fotocamera ci mette così tanto a scattare?” dice Pan a denti
stretti, continuando a sorridere forzatamente.
“Forse perché…”
mormora Trunks, realizzando improvvisamente e scuotendo arreso la testa.
“…perché quella non è una fotocamera, ma una telecamera, e
ci sta solo filmando!”.
“Giusto! Come ho
fatto a non pensarci!” grida Goku, dando un pugno al bracciolo, e allora il
sedile cede definitivamente, ribaltando da un lato il trio e il robottino, che
stramazzano a terra in un’esclamazione generale di disappunto.
Solo un richiamo
minaccioso fuori campo, prima che il sajan in questione decida di spegnere
definitivamente la videocamera: “Goku!!!!!”.
Pan e Trunks risero
di gusto, mentre le immagini di quei goliardici ricordi si oscuravano sullo
schermo e la videocassetta terminava, lasciando di nuovo spazio ai programmi
della rete. Trunks quasi non si era reso conto che, in due, avevano spolverato
un’intera scatola di popcorn, in cui aveva affondato ripetutamente la mano per
tutta la durata del nastro, alternandosi a quella di lei. Le rivolse una breve
occhiata, notando che stava ancora fissando lo schermo con il sorriso sulle
labbra, affondata nel divano, indosso una maglietta bianca e dei comodi shorts,
i capelli sciolti e sparsi contro la spalliera.
“Sembra ieri,
eppure…sono cambiate così tante cose da allora” commentò pensieroso.
“Rivedendo quei momenti, la mancanza di Goku si fa sentire ancora di più…”.
“Già…il nonno
ha lasciato un bel vuoto” concordò la ragazza, sospirando con una malinconia
che, in quegli anni, da amara aveva cominciato a diventare dolce. “Ma anche
tra noi sono cambiate tante cose, non credi? Tu mi odiavi, all’inizio del
viaggio!”.
“Non è vero che
ti odiavo” rispose lui, lo sguardo rivolto distrattamente allo schermo, unica
luce nella stanza, mentre con le dita giocherellava con le scanalature del
cuscino. “Ero solo sotto stress, mi ero ritrovato addosso un sacco di
responsabilità tutte insieme…ed ogni minima cosa mi mandava nel
panico…anche se tu e Goku ci mettevate comunque del vostro!”.
Pan fece un smorfia
di disappunto, ma sembrò soddisfatta della risposta. “Però dai…alla fine
è andato tutto per il meglio, abbiamo recuperato tutte e sette le sfere entro
l’anno e siamo tornati sulla Terra tutti interi!”.
“Peccato che il
rientro non è stato dei migliori…”.
“Purtroppo no…e
pensare che se non ci fosse stato Baby ad aspettarci, il nostro arrivo sarebbe
stato trionfale, da eroi!” esclamò la ragazza con eccitazione. “A volte
penso a tutte le cose che avrei potuto fare appena tornata a casa, dopo
quell’anno surreale, così piena di adrenalina!”.
“E cosa avresti
fatto?” le chiese lui, rivelando una punta di curiosità.
“Allora, per
prima cosa…” iniziò Pan, incrociando le gambe sul divano e accomodandosi
meglio, mentre un largo sorriso le illuminava il viso nella semioscurità della
stanza. “Avrei superato la barriera del suono volando a velocità di razzo
tutto intorno alla Terra, il nostro bellissimo pianeta azzurro che mi era tanto
mancato! Poi avrei fatto organizzare da nonno Satan un torneo straordinario,
niente premi speciali, s’intende, solo un’occasione per potermi sfogare! E
poi…credo che avrei dato una bella lezione a tutte quelle mezze femminucce che
mi avevano scaricata negli ultimi mesi perché avevano paura di me!”.
“Credo che allora
non avessero visto ancora niente!”.
“Esatto…comunque
sia, negli anni successivi ho imparato a comportarmi in modo diverso con i
ragazzi, a trattenermi di più…e la situazione è migliorata, anche se non era
facile fingere…” abbassò il tono delle ultime parole, come se stesse
parlando solo con se stessa, poi tornò a rivolgersi luminosa al ragazzo: “E
tu? Cosa avresti fatto appena tornato, se non ci fosse stato Baby?”.
“Io?” chiese
Trunks, colto alla sprovvista, leggermente a disagio. “Beh…non
so…purtroppo non ho mai avuto modo di scoprirlo!”.
“Andiamo! Usa
l’immaginazione per una volta!” cercò di convincerlo lei, sbuffando per la
completa mancanza di fantasia del ragazzo. “Prova a tornare indietro a quel
giorno…non c’è niente di male a sognare, ogni tanto!”.
Trunks sospirò,
arrendendosi, mentre chiudeva gli occhi per concentrarsi meglio, per provare a
pensare di nuovo con l’immaginazione e la creatività del ragazzino che era
stato. Ricordò il suo rientro alla Capsule Corporation in compagnia di Gill,
cancellò con estremo sollievo tutto ciò che seguì nella realtà e vi sostituì
quello che avrebbe voluto aspettarsi, visualizzando mentalmente il volto
commosso e felice di sua madre che si precipitava ad abbracciarlo, le mille
domande di sua sorella, l’appena accennato sorriso di suo padre, che si
limitava a dargli una leggera pacca sulle spalle, ma trapelando un paterno
orgoglio. “Allora…ehm…credo che per prima cosa avrei voluto poter fare un
nomale pranzo in famiglia con i miei e Bra, dopo tanto tempo…”.
Pan arricciò il
naso: “Puoi fare di meglio”.
“Ok…ecco…forse
un allenamento nella gravity room con mio padre” aggiunse quindi, mentre
immaginava il buonumore e l’eccitazione che avrebbe dovuto provare in
quell’allettante realtà alternativa, quel fiume in piena di energia che solo
in quei giorni lì sui Paoz aveva rivissuto davvero. “Un allenamento di quelli
intensivi…di quelli che ti fanno esplodere i muscoli e arrivano a farti urlare
di fatica e dolore…”.
“Così mi piaci.
E poi?”.
“Beh…non
saprei…”.
“Che ne dici di
una ragazza?” lo aiutò Pan, strizzandogli un occhio con leggera malizia.
“Non credi che dopo un anno ti ci sarebbe voluta un po’ della compagnia di
una donna??”.
Trunks sorrise a
disagio, abbassando gli occhi e ringraziando la poca luminosità della sala per
non far trasparire il suo vago rossore. “Beh…forse…probabilmente”
dovette riconoscere, pensando all’ultima volta che, prima di partire per lo
spazio, aveva avuto una relazione più o meno stabile, e realizzando con stupore
che dal suo ritorno in poi non ce n’erano state molte altre degne di quel
nome.
“Non
probabilmente…decisamente!” lo corresse Pan. “A giudicare da
com’eri scorbutico e intrattabile in certi momenti…”.
“In ogni modo,
per me la più grande vittoria era già esser tornati dallo spazio sani e
salvi!”.
Pan lo guardò
qualche attimo, inclinando leggermente il capo come per valutare
l’affermazione, scuotendo poi la testa con disappunto.
“Vedi qual’è
la differenza tra me e te?” disse. “Tu hai sempre considerato il viaggio
nello spazio come qualcosa a cui siamo sopravvissuti…io invece lo vedo
come qualcosa che abbiamo vissuto! Ma ti rendi conto? Io, tu ed il nonno
abbiamo avuto avventure così bizzarre e visto posti così esotici e
straordinari che nemmeno il nonno stesso e tua madre avevano mai avuto modo di
vedere da giovani! Forse allora non te ne rendevi conto, ma abbiamo vissuto
un’esperienza straordinaria!”.
Il suo tono era
acceso ed eccitato, e osservando il suo sorriso radioso e la fervente
convinzione con cui argomentava le sue teorie, Trunks avvertì di ammirarla con
forza e passione, sentendo risvegliarsi dentro di lui la stessa fanciullesca
esaltazione che l’aveva un tempo animato e che poi con gli anni e le
responsabilità era andata estinguendosi.
“Quindi adesso
devi solo ringraziarmi, se ogni tanto cercavo di farti prendere le cose con più
leggerezza e farti un minimo divertire!” aggiunse la ragazza, ridendo.
Trunks si voltò
piano verso di lei, rivolgendole uno sguardo tipico del malandrino che era
stato: “Tu non mi facevi divertire, Pan, mi facevi dannare. Eri una
piccola rompiscatole appiccicosa”.
Pan sbattè qualche
volta le palpebre sugli occhi strabuzzanti, la bocca spalancata in
un’espressione a metà tra il divertito e l’offeso, mentre Trunks sembrava
osservare con compiacimento la reazione di lei.
“Ma come osi!! Io
sarei stata una rompiscatole appiccicosa, eh?? E tu sai cos’eri, eh? Lo sai??
Eri incredibilmente noioso e…antipatico!”.
“Mai come te”.
“Vuoi la
guerra?” lo sfidò Pan, afferrando un cuscino.
“Non ti
conviene”.
“Ah
no, Mr Brief??” chiese minacciosamente lei, decidendo di abbandonare il
cuscino e avvicinandosi di più a lui. “Io lavoro in una palestra di arti
marziali, tu dietro una scrivania. Chi credi possa essere più in forma per
spuntarla?” lo provocò, dandogli un piccolo pugno sul braccio, per verificare
i suoi riflessi.
Trunks la scrutò
un attimo impassibile, poi disse sornione: “Guarda che dico a Gohan che mi
molesti, così ti mette in riga”.
Pan si sporse sopra
il ragazzo, sedendosi poi a cavallo delle gambe di lui con un movimento lento ma
fluido, un sorrisetto poco affidabile stampato sul volto abbronzato: “E io gli
dico che tu molesti me, così ti mette al tappeto”.
Lui le rivolse uno
sguardo di sfida, guardandola nei vivi occhi di brace proprio davanti a lui,
percependo il contatto del corpo di lei sopra il suo, della posizione fortemente
sensuale in cui si trovavano al momento.
“Gohan è troppo
intelligente per credere alla tua versione dei fatti” si difese, i loro nasi
che si sfioravano, i loro respiri che si fondevano.
“Non ci
scommetterei…” lo contraddisse lei, quando già le loro labbra si
accarezzavano nella debole fluorescenza emessa dalla tv, mentre si aprivano
morbide, si fondevano, si chiudevano di nuovo e poi si fondevano ancora
lentamente.
… … … … …
“Comunque…resti
sempre una rompiscatole appiccicosa”.
Solo un roco
sussurro a fior di labbra, senza nemmeno interrompere del tutto il bacio, le
palpebre abbassate.
“Non dirmi che
non ti piace…”.
“Non mi
piace…”.
…
… … … …
“Stai
mentendo”.
“E cosa te lo fa
credere?”.
“Perché mi stai
baciando…”.
… … … … …
“Sei tu che stai
baciando me…”.
“Non credo
proprio…”.
“Sì
invece…”.
“Stai
zitto…”.
… … … … …
Tutto fluiva, tutto
ardeva, tutto bruciava.
Trunks fu affatica
consapevole della sua mano che risaliva lenta la coscia di lei, l’altra che
invece, appoggiata fino ad allora sulla sua vita, minacciava di farsi strada
sotto la t-shirt, mentre la ragazza, senza interrompere il bacio, gli sbottonava
lentamente la camicia.
Solo quando Pan si
staccò delicatamente dalle sue labbra e iniziò a lasciargli pericolosamente
sul collo e sul torace una scia di piccoli ma bollenti baci, che rischiavano di
fargli perdere completamente la testa e la ragione, Trunks cercò di richiamare
a se tutta la forza di volontà di cui ancora disponeva.
“Pan…”.
“Hmm?” biascicò
la ragazza, senza smettere.
“Pan…” la
richiamò di nuovo lui, il tono leggero ma un pochino a disagio. “Ti stai
comportando da ragazza cattiva…”.
“E’ quello che
sono” rispose lei, alzando appena gli occhi con un sorrisetto.
“No, non lo
sei”.
Le posò le mani
sulle spalle, spingendola delicatamente un po’ più lontano da lui, in modo da
poterla guardare in viso. Lei sembrò inizialmente contrariata, poi i suoi
tratti si rilassarono in un’espressione di tranquilla accettazione.
Non era sicuro che
la ragazza avesse compreso appieno il motivo del suo improvviso rifiuto,
nonostante stesse succedendo tutto nel modo più spontaneo e naturale, ma sembrò
non voler protestare ulteriormente o chiedere spiegazioni a riguardo, e di
questo gliene fu silenziosamente grato.
La osservò mentre
si sollevava da lui e si distendeva placidamente sul divano, appoggiando la
testa sulle sue gambe, quasi fossero un più comodo cuscino. Lui le accarezzò
dolcemente i capelli, facendo passare le dita tra le ciocche corvine in
rilassanti carezze, mentre lei alzava lo sguardo assonnato in un debole,
compiaciuto sorriso. Sollevò quindi la mano per raggiungere quella di lui, e le
loro dita si incrociarono morbidamente.
“Ti amo” disse
la ragazza, la voce già impastata dal sonno e gli occhi chiusi, e prima ancora
di realizzare appieno cosa avesse detto, prima ancora di poter assistere ad una
qualunque reazione, era già caduta in un piacevole oblio.
You’re
my soul mate
My
summer and my fate
You
fill me up with love
Your
kisses are better than wine
There’s
nothing I want more than you girl
*
* *
Era da quando erano
partiti da West City che non staccava le mani dall’oggetto che teneva in
grembo, così liscio, così lucido da risplendere alla debole luminescenza del
cruscotto dell’air-car, così sfaccettato e perfetto. Ma non era tanto il
fatto che quel microscopio in miniatura sulla piccola base di legno quadrata
fosse d’oro e del valore di svariati zeni, quanto il fatto che esso
rappresentava l’ambizione e il coronamento di anni e anni di dedizione allo
studio, alla scienza e alla didattica. Sua madre ne sarebbe stata fiera, e come
soleva spesso dire, nonostante le sue proteste, adesso poteva anche morire
felice, con la consapevolezza che qualcosa di buono, in vita, l’aveva fatto
pure lei. In effetti era lei, sempre lei, che doveva e aveva sempre dovuto
ringraziare. Era lei che l’aveva spinto in quella strada, credendoci più di
lui stesso, e dimostrando alla fine che aveva ragione, come sempre.
Già, e non era
l’unica cosa su cui si era sbilanciata.
Dette un’occhiata
veloce al navigatore di bordo, nello stesso momento in cui Videl, alla guida, si
voltava brevemente nella sua direzione.
“Credi che non
abbia capito perché sei voluto tornare a casa così presto?” lo punzecchiò
la donna.
Gohan scrollò le
spalle, fingendo indifferenza.
“Te l’ho detto,
ero piuttosto stanco, è stata una serata impegnativa”.
“Naaa, tu non sei
mai stanco quando si parla dell’università. E figuriamoci quando sei il
protagonista della serata!”.
“Lo sai che sono
una persona piuttosto riservata, non mi piace stare troppo al centro
dell’attenzione”.
Videl gli rivolse
di nuovo un’occhiata penetrante, gli occhi che per un momento brillarono di
rosso, mentre superavano le luci di Satan city, nella spianata sotto di loro.
“Ti conosco
troppo bene, Son Gohan, per sapere che tenevi a quel premio più di ogni altra
cosa e che avresti fatto le ore piccole per festeggiare insieme al tuo
dipartimento, per brindare e gioire fino all’alba!”.
Gohan non potè far
altro che tacere, messo con le spalle al muro.
“Quello che non
capisco, è cosa pensi di ottenere con il tuo comportamento!” continuò la
donna, mentre faceva perdere quota all’air-car e si preparava ad atterrare sui
Paoz.
Gohan scese dal
velivolo prima ancora che fosse completamente fermo, avviandosi a passo svelto
lungo il vialetto, verso la dependance.
Videl recuperò la
borsetta, chiuse la portiera e seguì il marito faticosamente, cercando di non
perdere l’equilibrio con i tacchi alti che affondavano nel terreno fangoso.
“Gohan!” lo
chiamò, ma il marito era già alla porta. Fu allora, però, che l’uomo ebbe
come un momento di esitazione, subito prima di entrare, che permise a lei di
raggiungerlo con calma, e di entrare in casa insieme a lui.
La sala era quasi
completamente avvolta nel buio, se non per la debole e intermittente
luminescenza della tv accesa. Era dallo stesso apparecchio che provenivano le
voci che, in un primo momento, avevano fatto esitare Gohan.
Sul divano, immersi
in un sonno tranquillo, giacevano Trunks e Pan, lui con la testa appoggiata al
bracciolo, una gamba stesa e una posata a terra, lei con il volto affondato per
metà nell’incavo della spalla di lui, un braccio intorno al suo petto e
l’espressione rilassata.
“Sono…sono
vestiti, vero?” chiese Gohan, dopo averli osservati per un minuto buono, i
loro respiri sincroni, lenti.
“Ma certo che
sono vestiti!” lo rassicurò divertita Videl, mentre togliendosi le scarpe per
non far rumore, si dirigeva verso la credenza, tirava fuori una trapunta pulita
e li copriva delicatamente, spegnendo poi la tv.
“E danno
l’impressione di esserci sempre rimasti, non trovi?”.
Videl portò gli
occhi al cielo, sbuffando con insofferenza, mentre afferrava senza tanta
gentilezza la cravatta del marito, sradicandolo dalla sua paralisi e
trascinandolo su per le scale.
“Forse dovremmo
svegliarli, far tornare Trunks di là dalla mamma…”.
“Scherzi,
dormivano così bene!”.
“Ma staranno
scomodi, laggiù sul divano…”.
“Staranno
benissimo, fidati!”.
Avrebbe dovuto
sentirsi sollevato nel realizzare che non era successo niente, o che almeno così
sembrava, ma anche vederli così vicini, così dolcemente abbracciati e
appagati, gli aveva rivelato che era definitivamente stato superato il punto di
non ritorno.
“Ho deciso,
domani gli parlo” annunciò, entrando in camera e riponendo distrattamente il
premio su una mensola, mentre la moglie si sfilava il coprispalle e gli
rivolgeva uno sguardo perplesso. “Devo capire certe cose, metterne in chiaro
altre e…”.
“Rilassati, Gohan,
è la tua serata!”.
Ma lui non demorse,
sedendosi sul letto con espressione pensierosa: “Io voglio molto bene a
Trunks, gliene ho sempre voluto come fosse mio fratello, ma devo risolvere
questa situazione prima che sfugga di mano”.
“Uff!” sbuffò
di nuovo Videl. “Trunks, Trunks e ancora Trunks!”. Gli si sedette
delicatamente sulle gambe, passandogli un braccio intorno al collo e
massaggiandogli piano la nuca. “Capisco che sia un bel ragazzo, ma tutte
queste attenzioni nei suoi confronti cominciano a farmi sentire un po’
trascurata…”.
I tratti di lui
sembrarono rilassarsi in una bozza di sorriso, mentre lanciava un’occhiata
furtiva al decolleté della moglie e al delizioso abitino che indossava quella
sera, che metteva in risalto il suo fisico ancora impeccabile, compiacendosi al
tempo stesso delle sue morbide carezze. Fu allora che lei gli tolse gli
occhiali, spense la luce e, cercando al buio le labbra del suo uomo, lo invitò
a dimostrarle che non aveva intenzione di trascurarla oltre.
Continua…
Nota:
Voglio ringraziare tutti coloro che hanno lasciato e lasceranno commenti su
questa storia nonostante l'estate, le vacanze, e la voglia di passare più tempo
fuori che davanti ad un computer! Accetto volentieri qualsiasi tipo di
osservazione, sia in positivo che in negativo, non chiedo altro che la vostra
partecipazione: quale personaggio trovate meglio rappresentato, quale scena vi
ha coinvolto di più, cosa vorreste aspettarvi dal proseguimento...solo la
curiosità di un'autrice amatoriale, ed il desiderio di potersi migliorare
sempre di più.
Un
bacio e buone vacanze!
|
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Capitolo 5 *** Risveglio ***
Capitolo 4
Capitolo
4 – Risveglio
Correva.
Correva veloce,
attraverso il boschetto di salici in cima alla collina. Sullo sfondo passavano
rapide le sagome degli alberi, che protendevano i loro rami verso di lui,
minacciosi, a formare un intricato reticolo contro un cielo del colore del rame.
Sentiva distintamente il fruscio dell’erba alta sotto le suole delle sue
scarpe, mentre in lontananza giungeva sommesso il brontolio di un temporale in
avvicinamento. L’aria odorava di elettricità, e sulle labbra sentiva a tratti
un vago sapore metallico.
Quando giunse alla
piccola radura, si fermò di colpo.
Una figura a torso
nudo era a pochi metri da lui, i jeans strappati in più punti, il volto
abbassato, mentre i fini capelli lavanda, più lunghi del solito, si agitavano
nel vento con violenza.
Improvvisamente, si
chiese cosa stesse facendo lì, cosa l’avesse spinto ad addentrarsi nel bosco
con i suoi vestiti migliori, quelli che aveva indossato alla premiazione
dell’Università, e che adesso ritrovava sporchi e laceri sul suo corpo.
“Ti stavo
aspettando, Gohan”.
Il giovane aveva
sollevato il volto, ma per quanto si sforzasse, non riuscì a mettere a fuoco i
suoi lineamenti. Portandosi una mano al viso, notò che aveva perso gli
occhiali. Eppure non aveva senso, dal momento che avrebbe dovuto vederci bene lo
stesso. Inoltre, riusciva a vedere ogni suo singolo muscolo, ogni singola vena
pulsante di quel corpo tonico e scolpito, eppure, non riusciva a distinguere i
suoi occhi, a capire la sua espressione, come se l’immagine del suo viso fosse
bizzarramente sfumata.
“Cosa…ci
facciamo qui?” chiese spaesato.
Lo sentì quindi
ridere sommessamente.
“Lo sai benissimo
cosa ci facciamo qui. Forse non te ne rendi conto, ma anche tu sei venuto di tua
spontanea volontà. Sapevamo entrambi che questo momento sarebbe arrivato, prima
o poi”.
Quale momento?
Il momento di battersi? indovinò con un groppo alla gola, dai pugni di lui
serrati con violenza e dall’aura in crescente aumento.
“Siamo su fronti
opposti, Gohan, e andremo tutti e due fino in fondo pur di ottenere la
vittoria” continuò deciso. “Io voglio qualcosa che tu ti ostini a negarmi.
Ma sappi che non ho nessuna intenzione di rinunciarci, e te lo mostrerò
appieno!”.
Alcune foglie ai
suoi piedi presero a volteggiare intorno a lui, sospinte dall’innalzamento del
suo potere. Aveva davvero intenzione di sfidarlo, quindi, di andare fino in
fondo. Non sai in che guaio ti stai mettendo, fratello. Non ne hai la minima
idea.
“Trunks, ti
prego…” lo dissuase. “Non costringermi a farti del male...”.
Un risata più
sonora giunse ora dall’altro.
“Farmi del male?
Povero sciocco!”.
Gohan serrò
istintivamente i denti, mentre anche il suo corpo cominciava a caricarsi
vertiginosamente, energia pura alimentata dalla totale mancanza di rispetto del
più giovane.
“Hai sempre dato
per scontato che, dopo la morte dei nostri genitori, sia diventato tu il sajan
più potente, solo perché sei più vecchio di me e Goten, non è così? Beh, ti
sbagli!” esclamò quasi ringhiando, mentre il suo potere aveva adesso
raggiunto livelli a cui Gohan non aveva mai assistito, mentre tutt’intorno a
lui soffiava un turbine d’oro di incredibile violenza. “Ti sbagli
completamente! E sai perché? Lo sai, Gohan?? Perché adesso sono io, il principe
dei sajan!”.
Un grido di rabbia
squarciò l’aria, mentre i capelli del ragazzo diventavano biondi e per un
brevissimo momento fu in grado di scorgere con chiarezza i suoi occhi, che
adesso però avevano il colore dell’acqua marina ed il riflesso di qualcosa di
molto, molto più caldo, la fiamma ardente e divoratrice dei sajan. E nella
mente del più anziano, solo un pensiero martellante dettato da quello stesso
istinto animalesco, mentre anche lui si rivestiva d’oro in un bagliore che
faceva esplodere l’intera valle:
Uccidilo!
Uccidilo!! Uccidilo!!!
Gohan sobbalzò sul
materasso, col cuore in gola. Ci mise qualche secondo prima di prendere
consapevolezza delle familiari pareti della sua camera, del suo comodo letto
matrimoniale, delle tapparelle abbassate della finestra oltre cui non
imperversava nessun temporale, ma da cui filtravano caldi raggi solari.
Nonostante fosse nudo sotto la leggera coperta primaverile, il suo corpo era
madido di sudore.
Ispirò piano e
profondamente, finchè il suo respiro tornò di nuovo regolare. Fece per
voltarsi alla sua destra, temendo che quel vivido sogno avesse svegliato sua
moglie, ma quella parte del letto era vuota, ed il suo calore si era già
estinto da un bel po’. Probabilmente, pensò dando una pigra occhiata alla
sveglia, aveva deciso di lasciarlo dormire più del solito in quel suo raro
giorno di vacanza concessosi dopo la meritata premiazione.
Quando entrò nella
doccia, il getto di acqua calda, che scorreva sulle sue membra come una lenta
carezza, riuscì a rilassare in parte i suoi muscoli ancora tesi per
l’adrenalina, ma c’era qualcos’altro che ancora frullava nella sua testa.
Quella voce fredda
e profonda, che lo invitava a non avere pietà.
Gli avrebbe
veramente fatto del male, se davvero Trunks lo avesse attaccato con tanta
arroganza e determinazione? Avrebbe davvero voltato le spalle a tanti anni di
affetto ed amicizia, a quel raro sentimenti di fratellanza, se fosse stato
necessario?
Intorpidito da
questi pensieri, si vestì distrattamente, scendendo le scale e avviandosi
nell’abitazione principale, dove il buon profumo della prima colazione
giungeva piacevole dalla cucina, risvegliando finalmente i suoi sensi.
Quando però
incrociò gli occhi azzurri di Trunks, che sedeva tranquillamente al tavolo
intento a spalmare marmellata su del pane tostato, il cuore gli balzò di nuovo
in gola.
“Buongiorno,
tesoro” lo accolse dolcemente Videl, entrando improvvisamente nel suo campo
visivo, posandogli con delicatezza un bacio sulle labbra e sfiorando
vezzosamente il suo naso a quello di lui, con complicità. “Scusa se abbiamo
cominciato senza di te, ma stavi dormendo come un angioletto e non avevo il
cuore di svegliarti!”.
Già, come un
angioletto. Al contrario di quanto doveva dimostrare lui, sua moglie aveva
un’espressione radiosa e rilassata, oltre ad un colorito invidiabile. Si limitò
a sorriderle debolmente, mentre altre due braccia gli si gettavano al collo,
stringendolo con trasporto e calore.
“Congratulazioni,
papà!” esclamò Pan gioiosamente, senza badare al fatto di avere la bocca
piena, mentre il sajan scostava leggermente sua figlia da se, nel tentativo di
non soffocare. Indossava già la divisa da combattimento rossa della palestra, i
capelli sistemati in una coda di cavallo ed un sorriso solare disegnato sul
volto.
“Te l’avevo
detto, Gohan!” si introdusse Chichi, interrompendo momentaneamente il suo
armeggiare ai fornelli per voltarsi verso il figlio con orgoglio. “Ho sempre
saputo che quel premio sarebbe stato tuo, lo sapevo fin dal primo libro di
scienze che ti ho regalato da piccolo!”.
“Mi avevi detto
anche che non avrei dovuto ripresentarmi a casa senza, se non sbaglio…”
mormorò, sforzandosi di simulare un certo umorismo.
“L’ho detto?”
chiese sorpresa Chichi, mentre la famiglia si lasciava andare ad una sincera
risata.
“Complimenti
davvero, Gohan. Te lo meriti”.
Quell’unica altra
voce maschile nella stanza lo riportò di nuovo alla realtà, e per un attimo,
mentre finalmente posava di nuovo gli occhi sul ragazzo che lo guardava
ammirato, temette di ripiombare in quel soffocante senso di inquietudine con cui
si era svegliato.
“Ho fatto solo il
mio dovere, niente di più”.
“Oh papà, muoio
dalla voglia di conoscere ogni dettaglio della serata, ma come al solito sono in
estremo ritardo per la palestra!” annunciò Pan, afferrando la borsa dalla
spalliera della sua sedia e infilandosela a tracolla. “Ma stasera dovrai
raccontarmi tutto!”.
“Ok tesoro,
promesso”.
“Pan, finisci
almeno la tua colazione!”.
“Mi spiace nonna,
ma non ho proprio tempo, devo scappare!”.
“Non vorrai
presentarti senza energie davanti ai tuoi allievi del corso degli adulti!”
sorrise Trunks, versandosi del succo d’arancia, prima che la ragazza si
allontanasse.
“A me le
energie non mancano mai, piuttosto mi preoccuperei per loro!” affermò
con sicurezza, riavvicinandosi istintivamente a lui, mentre entrambi scoppiavano
a ridere con complicità. “A stasera!”.
La tazzina da caffè
scivolò quasi dalle mani di Gohan, mentre sua figlia stampava candidamente un
bacio sulle labbra del ragazzo, per poi salutare di nuovo tutti e avviarsi verso
la porta. Li aveva già visti baciarsi, e in modo molto più profondo, ma quella
era la prima volta che sapevano di essere osservati, alla luce del sole, e quel
gesto tanto spontaneo quanto inaspettato aveva lasciato sorpreso anche lo stesso
Trunks, che per un momento aveva abbassato lo sguardo con una punta
d’imbarazzo.
Adesso. Adesso o
mai più.
“Trunks…che ne
dici di una passeggiata sulla collina? Avrei bisogno di parlarti” riuscì a
formulare, con il tono più tranquillo e rilassato che riusciva a simulare,
mentre Pan, uscendo, gli lanciava un’occhiata a metà tra il divertito e il
curioso.
Trunks alzò
lentamente gli occhi dalla sua colazione, ma rimase qualche secondo in silenzio,
a fissarlo, come valutasse attentamente quella proposta.
“Ok” disse
infine, abbandonando le posate sul piatto vuoto. “Dammi solo il tempo di
controllare la posta elettronica”.
“Perfetto. Ti
aspetto fuori”.
* *
*
Il sole aveva ormai
avviato la sua lenta discesa verso l’orizzonte, che le più lunghe giornate di
primavera potevano solo rimandare ad un’ora più tarda, tingendo il cielo di
un caldo arancio dalle sfumature rosse. Le ombre ormai lunghe e sottili si
stagliavano sui verdi prati dei Paoz, che ora sembravano riflettere il viola del
crepuscolo, mentre i ruscelli brillavano d’oro.
La figura leggera
di Pan volava alta sopra le sue terre, il tepore del sole morente sulla faccia.
In una mano stringeva saldamente un sacchettino colorato, con la firma di una
delle pasticcerie più sfiziose di Satan City.
La giornata in
palestra era stata piuttosto dura e impegnativa, eppure si sentiva ancora dentro
un’energia divampante e un buonumore contagioso. Forse, pensò, il pensiero di
qualcosa che ti aspetta a casa, o di qualcuno, ha il potere di annullare
ogni stanchezza come la migliore delle medicine. E, in quell’ultimo periodo,
lei poteva dire di aver affrontato con grinta il lavoro di tutti i giorni, perché
ogni volta, al finire di giornata, sapeva che avrebbe rivisto quel qualcuno, che
lui sarebbe stato lì per lei, ad aspettarla.
Il suo cuore
accelerò, e Pan sapeva che non era per la velocità del suo volo.
Abbassò quota in
prossimità di casa, per poi atterrare con grazia proprio davanti al vialetto di
sua nonna, che imboccò a passo svelto, senza fermarsi. Dalla finestra, giungeva
già il profumo invitante della cena. La porta era aperta, come sempre, e sgusciò
dentro radiosa.
“Trunks!”.
Si era aspettata di
vederlo seduto in poltrona con in grembo il portatile, come spesso faceva
aspettando la cena, o ad apparecchiare mentre Chichi armeggiava ai fornelli, ma
la stanza era vuota, stranamente silenziosa.
“Trunks!” chiamò
di nuovo, avviandosi verso la rampa di scale e guardando in alto. “Ti ho
comprato i cioccolatini che ti piacciono tanto!”.
Nessuna risposta.
Che si fosse rinchiuso nella vecchia camera di Goten a lavorare? O che si fosse
addormentato davanti allo schermo?
Senza pensarci
troppo imboccò le scale di corsa, fino ad arrivare alla sua stanza. Fece per
afferrare la maniglia ed aprire la porta, ma fortunatamente ricordò le buone
maniere e la discrezione, bussando due volte.
“Trunks”.
Un vago e
indistinto senso di angoscia cominciò a crescere dentro di lei, mentre da
dentro giungeva solo un silenzio ovattato, senza nemmeno il tipico ronzio del
computer.
Aprì la porta,
senza pensarci ulteriormente, ed il fiato le si mozzò in gola.
Il letto era
ordinatamente rifatto, ma non era questo che l’aveva lasciata interdetta,
d’altronde Trunks era sempre stato un tipo ordinato. Sulla scrivania non
c’era più traccia del portatile, o della cartelletta dei documenti che, da
quel giorno in cui gliela aveva recuperata, era sempre stata lì.
Il panico si era già
impossessato di lei, mentre apriva con veemenza gli sportelli dell’armadio,
trovandolo vuoto.
Tutte le sue cose
erano sparite, svanite improvvisamente come fosse stato tutto un sogno.
“Trunks!” chiamò
di nuovo, pur sapendo di non doversi ormai più aspettare risposta, mentre si
precipitava giù per le scale.
Chichi apparve da
un angolo della cucina, avanzando lentamente, lo sguardo più stanco e abbattuto
del solito.
“Nonna…dov’è
Trunks?” chiese debolmente, temendo una risposta troppo ovvia, ma la donna si
limitò a fissare la nipote tristemente, come a voler farsi partecipe della sua
perdita.
Gohan sfogliò
lentamente la pagina del suo libro, riprendendo la lettura. In poltrona,
rilassato contro la spalliera e cullato dal familiare tepore di casa sua, doveva
ammettere che non era per niente spiacevole trascorrere una giornata in casa,
lontano dall’università. Come Videl aveva tenacemente insistito, aveva
decisamente bisogno di qualche giorno di meritato riposo, non solo dalle fatiche
del lavoro, ma anche da tutto lo stress e dall’ansia che avevano fermentato
dentro di lui negli ultimi giorni. Finalmente ora, per la prima volta dopo molto
tempo, poteva dire di sentirsi finalmente libero, tranquillo e con la coscienza
a posto.
L’uscio di casa
si spalancò violentemente, facendolo sobbalzare. Sulla soglia apparve la sagoma
di sua figlia, stagliata contro il cielo viola del tardo pomeriggio. Il suo
volto era scuro, ombroso, tirato in un’espressione di rabbia, i capelli
corvini disordinatamente sciolti sulle spalle, i pugni chiusi contro i fianchi.
“Pan…”.
Si alzò dalla
poltrona, facendo il gesto di andarle incontro, ma lei lo precedette di netto,
lanciandosi verso di lui con incredibile forza e rapidità.
“Come hai
potuto!” gli gridò in faccia, spingendo forte i palmi delle mani contro il
petto del padre, che colto di sorpresa venne leggermente sbilanciato
all’indietro. “Come hai potuto farmi questo!!”.
Gli occhi della
ragazza erano braci ardenti, larghi e concitati come se fossero alimentati da un
fuoco.
“Pan,
calmati…”.
“Sapevi quanto ci
tenevo a lui!” gli rinfacciò. “Sapevi quanto significasse per me che lui
fosse qui! Lo sapevi e nonostante tutto l’hai mandato via!”.
“Io non l’ho
mandato via”.
“Sei un
bugiardo!” gridò ansante, la ragione che ormai la stava abbandonando. Gohan
sentì la sua aura che aumentava vertiginosamente. “Ti ho sentito stamattina,
dovevo immaginarlo, dovevo immaginarlo!”.
“Pan, adesso tu
ti calmi e mi ascolti!” le ordinò con severità, afferrandole le spalle nel
tentativo di immobilizzarla, ma lei si liberò con uno strattone, una smorfia
sul volto arrossato.
“Non
toccarmi!”. La sua voce era incrinata, gli occhi laghi in tempesta che
minacciavano di straripare. Sbattè più volte le palpebre prima di guardare suo
padre negli occhi, in un modo che a Gohan raggelò il sangue all’istante.
“Non ti perdonerò mai per quello che hai fatto…mai! Io ti odio!”.
E mentre l’uomo
rimaneva paralizzato nella sua posizione, incapace di reagire di fronte a quelle
dure parole, la ragazza corse su per le scale senza voltarsi indietro, diretta
verso la sua camera, ma una mano decisa le serrò il braccio prima che vi
sparisse dentro.
“Chiedi
immediatamente scusa a tuo padre!”.
Si voltò di
malavoglia. Il volto di sua madre la guardava con severità, gli occhi chiari
fissi su di lei.
Pan si liberò
senza fatica della presa, esaminando la donna.
“Credevo che tu
fossi dalla mia parte”.
“Non se questo
significa aggredire tuo padre in quel modo” la contraddisse con fermezza.
“Non merita di essere trattato così. Lui vuole solo il tuo bene”.
“Il mio
bene?!” gli rinfacciò lei. “Vorrai dire il suo interesse!”.
“Non parlare a
vanvera, senza conoscere le sue motivazioni”.
“E allora
dimmele, mamma, perché io proprio non capisco!”. Il suo volto ora era una
maschera di smarrimento, che adesso traspariva al di sotto della rabbia
divampante. “E’ per la differenza d’ètà? E’ così? O per i nostri
stili di vita diversi?”. Scosse la testa, come a voler banalizzare quei
concetti. “Non capite che tutto questo non conta, quando ti uniscono tante
altre cose…e poi, siamo entrambi sajan…”.
Videl sospirò,
fissandola con indulgenza.
“Non pensi che
l’essere entrambi sajan possa complicare le cose, invece che renderle più
semplici? Non credi che farebbe sembrare tutto troppo ovvio e scontato,
portandovi a confondere qualcosa con qualcos’altro?”.
Gli occhi di Pan si
infiammarono all’istante, mentre una smorfia di disprezzo e di insofferenza si
diffondeva sul suo viso a macchia d’olio, portandola a scoprire i denti.
“Dì la verità,
sei solo gelosa perché tu non sei una sajan, e a letto non puoi dare a papà
quanto avrebbe bisogno!”.
Lo schiaffo arrivò
prima ancora che i suoi occhi allenati vedessero alzarsi la mano di sua madre,
preciso e sonoro sulla sua guancia. Il segno rosso delle dita e del palmo svanì
quasi subito dalla sua pelle, ma istintivamente si portò la mano alla guancia
colpita, non per il dolore, che per lei era stato minimo, ma per l’incredulità
e la vergogna. Sentì gli occhi che gli si inumidivano rapidamente, minacciando
di cedere alle lacrime. Si voltò quindi di scatto, correndo in camera e
sbattendo la porta dietro di se, mentre con mani tremanti girava due volte la
chiave nella serratura.
Si gettò sul letto
con forza, facendo cigolare le molle sotto il materasso. Aggrappandosi al
cuscino come fosse l’unico appiglio che le rimaneva prima di sprofondare, si
abbandonò finalmente alle lacrime, che sgorgarono dolorose dai suoi occhi
arrossati, impregnando le lenzuola.
Perché, Trunks?
Perché hai lasciato che venissimo separati?
Lui non avrebbe mai
permesso che suo padre lo allontanasse da lei, che lo mandasse via dopo averlo
così fraternamente accolto a casa sua…non lo avrebbe permesso, se avesse
tenuto a lei…avrebbe lottato, avrebbe combattuto…avrebbe vinto per lei.
Ma forse…a lei
non ci teneva tanto. Non abbastanza da mettersi contro ad uno dei suoi migliori
amici.
Forse, a lui non
era per niente dispiaciuto tornare a casa, riprendere in mano la sua vita, senza
guardarsi indietro. Forse non si ricordava nemmeno più di lei, adesso.
Stupida, stupida!
Come hai potuto pensare che Trunks Brief volesse davvero stare insieme a te,
solo per qualche stupida esperienza vissuta insieme e un’eredità in comune
che lui stesso tenta da sempre di sfuggire?
Come hai potuto
pensare di piacergli davvero, quando può avere donne molto più belle,
intelligenti, eleganti e raffinate di te?
Sei solo una
ragazzina lagnante! si disse mentalmente, ma questo non bastò a fermare le
lacrime, che adesso sgorgavano senza più ritegno, mentre i singhiozzi la
soffocavano, mentre la solitudine e il buio della sua stanza la avvolgevano come
una morsa impietosa.
Nel frattempo,
centinaia di chilometri ad ovest, nel grande salone della Capsule Corporation,
aveva luogo l’evento più inatteso quanto acclamato di quella primavera.
Decine di uomini in
smoking e di gentildonne in abiti da sera occupavano la sala, in mano calici di
champagne o deliziose tartine del copioso banchetto, mentre il costante brusio
delle chiacchiere dell’alta società veniva inframmezzato alle volte dalla
risata vezzosa di qualche signora o dal sonoro brindisi di qualche uomo
d’affari. Di tutti quegli ospiti, che solo all’ultimo minuto avevano
cancellato ogni altro impegno dalla loro agenda per partecipare a quel party,
probabilmente nessuno si sarebbe sognato che avrebbe potuto più accadere,
ormai. Nemmeno lei, la divina, che aveva più di ogni altro contribuito a
sancire nei media la disfatta di quell’uomo, avrebbe immaginato di trovarsi lì,
alla festa che annunciava il ritorno di Trunks Brief in società e nel mondo
degli affari.
Ma tutti sapevano
che Candy Flash, la regina del gossip, si trovava sempre in prima linea. Mai e
poi mai avrebbe potuto perdersi un tale scoop, o farsi precedere da qualsiasi
altro pseudo-giornalista nemmeno degno di tale attributo, soprattutto se il
suddetto scoop riguardava il personaggio più chiacchierato della stagione,
quello che decine di riviste l’avevano prima immortalato bello e potente e poi
ridotto ad uno straccio dopo la morte della presidentessa e la conseguente crisi
della società, e infine l’avevano dato per disperso in qualche angolo del
mondo a nascondersi dai media e dalla sua vergogna.
Tirò fuori un
piccolo specchio dalla borsetta, mentre avvicinava il volto per esaminare
minuziosamente la tenuta del suo trucco. Quel nuovo ombretto le faceva
magnificamente risaltare i suoi occhi verdi felini, mentre il suo neo finto
all’angolo della bocca le conferiva quel qualcosa di intrigante che non faceva
altro che accentuare il suo innato fascino. Si sistemò con disinvoltura i
vaporosi capelli biondi, strizzando le labbra allo specchio. Era un peccato che
lo staff della festa avesse proibito le telecamere, ammonendo la stampa di
limitarsi semplicemente alla penna e alle foto. Avrebbe avuto comunque
l’esclusiva della festa, visto che si era portata con se il suo fotografo
personale e che era la direttrice di una delle più lette riviste di gossip, ma
il non poter apparire personalmente a presentare un servizio le lasciava
comunque un certo disappunto.
Sapeva di essere
terribilmente telegenica, ed era per il suo straordinario aplomb e magnetismo,
in grado di incollare davanti allo schermo anche i telespettatori più
distratti, che Z-TV le affidava sempre i migliori servizi.
Vi piacerebbe
sfoggiare la mia mercanzia, eh? chiese mentalmente a tutte le donne della
sala, striscianti nei loro abiti da sera griffati, cosparsi di strass e adornati
da preziosi gioielli. Nemmeno il brilloccio più costoso può attirare gli
sguardi maschili come so fare io. Mettetevi l’animo in pace! Sorrise
maliziosa, di fronte ad una raggrinzita signora sulla settantina, tutte piume e
anelli, che lanciò uno sguardo scandalizzato nella sua direzione, mentre le
passava davanti.
La giacca fucsia
del suo tailleur era avvitata e rigorosamente sbottonata, in modo da mettere in
evidenza il seno al di sopra dello stretto corpetto. Non che ne avesse avuto
bisogno, ma proprio l’inverno scorso si era fatta fare un’aggiustatina, e le
sembrava giusto rendere gli opportuni omaggi al buon lavoro svolto.
Ma il suo vero
punto di forza erano le gambe. Lunghe e slanciate, avevano il potere di mandare
fuori di testa anche il più insensibile degli uomini. Pochi riuscivano a
rimanere impassibili di fronte alla visione delle sue gambe che si
accavallavano, mentre sporgendosi sensualmente in avanti avvicinava il microfono
all’intervistato di turno. E allora non c’erano più segreti per lei.
Questo era il
trucco del suo successo.
“Ti sembro
apposto, Max?” chiese al suo fidato fotografo, riponendo lo specchietto nella
borsa.
Max, un bestione di
due metri con il fisico da lottatore di wrestling e la mascella importante, si
voltò lentamente in sua direzione, senza mutare la sua espressione marmorea ma
soffermandosi insistentemente sul suo decolleté, come se fossero quelli gli
occhi della giornalista.
“Sì,
Miss Flash. E’ uno schianto, come sempre” rispose, con la voce grave
e profonda di un bodybuilder, senza spostare gli occhi da quel dettaglio
invitante.
“Bene, tesoro,
impegnati a fare le foto migliori mentre faccio le interviste, e vedremo se varrà
la pena concludere la serata in modo piacevole” gli propose con una
strizzatina d’occhi, mentre dai lineamenti scolpiti del fotografo faceva
capolino un sorrisetto speranzoso.
Nel frattempo,
Candy Flash si era già avvicinata ad uno dei tavoli da buffet, dove un
gentleman in carne sulla sessantina si stava facendo versare un cocktail dalla
cameriera.
“Il signor Morgan,
giusto?” chiese, mettendosi davanti alla visuale dell’uomo. “Il magnate
dell’elettronica!”.
L’uomo si voltò,
le guance palesemente arrossate per essersi fatto qualche bicchierino di troppo,
mentre un sorriso un po’ ebete si disegnò sul suo volto alla visione della
donna.
“Beh, se così mi
si vuole chiamare..!” risacchiò compiaciuto, dimenticandosi di essere
semplicemente il direttore di una comunissima azienda di elettricità.
“Senta, le
dispiacerebbe rilasciare qualche dichiarazione?” le chiese la Flash,
avvicinando il suo dittafono rosa alla bocca dell’uomo, le unghie laccate ben
in evidenza, e contemporaneamente passandosi una mano tra i capelli con
disinvoltura. L’altro la guardò per qualche attimo con la bocca aperta e gli
occhi socchiusi, poi annuì animosamente: “Ma certo, signorina, tutto quello
che vuole!”.
“Lei sapeva del
ritorno in scena di Trunks Brief?” gli chiese, senza perdere tempo, il
dittafono ben saldo nella sua mano e la voce ferma, decisa.
“Ecco..no, non
prima di stamattina, quando sono stato invitato a questo delizioso party, dove
la mia presenza sembrava fortemente gradita!”.
“Se non sbaglio,
la sua ditta era uno dei principali fornitori di impianti elettrici per la
Capsule Corporation, ma che poi ha deciso di tirarsi indietro per i sempre più
sostanziosi debiti che la famiglia Brief aveva con lei…”.
“E’ esatto. Però…”.
“Però…?”.
“Beh, sono
informazioni riservate, tra uomini d’affari, non credo che le
interesserebbero…” provò a divagare l’uomo, ma abbassando lo sguardo sul
prorompente seno della giornalista, che aveva casualmente scostato la giacca del
tailleur, sembrò cambiare idea. “Comunque…ho avuto modo di parlare con lui,
questa sera, e sembrerebbe che stia iniziando una nuova era, per la Capsule
Corporation…mi sembra un ragazzo a posto e molto motivato, si è impegnato a
saldare tutti i precedenti debiti e ha accennato che i laboratori dell’azienda
si amplieranno e che avrà ancora più bisogno nei miei servizi! Ho voluto
dargli un’altra possibilità!”.
“Interessante…”.
L’uomo gongolò,
soddisfatto, ma non era a lui che l’attenzione di Candy Flash era ora rivolta.
In mezzo alla folla, come un faro nella notte, aveva finalmente adocchiato il
suo soggetto preferito dopo settimane di assoluta invisibilità.
Trunks Brief.
“Max!” chiamò
con un misto di gioia ed agitazione. “Max, muovi quelle chiappe e scatta una
maledetta foto!”.
Un flash brillò
nel salone, ma l’interessato sembrò non curarsene, impegnato in una piacevole
discussione d’affari con due ingegneri. La Flash lo squadrò con
compiacimento, le sue iridi che sembravano godere di ogni singolo dettaglio del
personaggio che per lei era diventato una fissazione.
“Guarda,
Max…guardalo bene…hai visto che nuovo taglio ha sfoggiato?”. Si portò il
dittafono alle labbra, registrando le sue impressioni. “Si è fatto allungare
un po’ i capelli, come se avesse vissuto in modo trasandato per tutto questo
tempo…eppure, sembra in splendida forma, molto più riposato e tranquillo
dell’ultimo party ha cui ha partecipato, ed è persino abbronzato…chissà
cosa ha fatto in questo periodo…in ogni modo, devo dire che questo suo look
selvaggio, che contrasta e allo stesso tempo completa la sua innata eleganza, lo
rende decisamente ancora più sexy!”.
Spense
l’apparecchio, riponendolo in borsetta. A testa alta, la giornalista si
addentrò superbamente tra la folla, facendosi strada con l’aiuto di Max che,
quasi fosse un bodyguard, spingeva gli ospiti da un lato o dall’altro, con
tanto di sonore proteste o esclamazioni di disappunto.
Ma non c’era
niente che poteva fermare Candy Flash, una volta che decideva di raggiungere il
suo obiettivo. E il suo obiettivo adesso era Trunks Brief, bello e affascinante
come ai tempi migliori, proprio davanti a lei.
Si voltò
lentamente verso la giornalista, interrompendo educatamente la conversazione con
i suoi interlocutori, il calice in mano e un’espressione non troppo sorpresa
sul volto.
Alzò leggermente
il bicchiere verso di lei, come in un tacito brindisi, sorridendole.
“Salve, Miss
Flash, che piacere rivederla di nuovo. E’ tanto che non si fa sentire, temevo
si fosse dimenticata di me”.
La Flash gongolò,
compiaciuta.
“Si figuri, Mr
Brief, io non mi dimentico mai di lei. Lei, piuttosto, mi sta snobbando da un
bel po’, ormai…non è che se l’è presa per i miei ultimi servizi su di
lei?”.
“Quali, quelli
dove lei mi dipinge come un uomo finito, fallito, con il patrimonio sperperato e
la vita a pezzi, che si trascina lontano dai media solo perché si vergogna di
se stesso e di quello che ha causato all’azienda di famiglia? Ma no, come
potrei essermela presa!”.
“Meglio così,
iniziavo a preoccuparmi!” risacchiò maliziosa, mentre finalmente brandiva il
suo dittafono. “Ma mi dica…questo party…è forse una sua intelligente
mossa pubblicitaria per ritrovare la fiducia dei suoi fornitori e dei suoi
clienti?”.
La mascella di
Trunks si serrò appena, ma non si scompose ulteriormente.
“Io non ho
bisogno di riacquistare fiducia, solo di smentire una volta per tutte certe voci
che qualcuno ha messo in giro”.
“Capisco”
commentò lei, senza dare segno di aver colto la provocazione. “Però non può
negare che sparendo dalla circolazione per un bel po’ ha sollevato la curiosità
di molti…”.
“Come tutti
sanno, Miss Flash, ho passato un periodo piuttosto brutto, avevo semplicemente
bisogno di un vacanza”.
“Ah sì? E posso
permettermi allora di sapere in quale località di grido ha trascorso le sue
vacanze??”.
“Mi dispiace, ma
non posso proprio accontentarla”.
“Dalla sua
splendida forma direi che è stato…in un centro benessere!”.
“Qualcosa del
genere”.
La giornalista
sorrise soddisfatta. Stava arrivando alla mazzata finale.
“E cosa ci fa in
un centro un ricco e impegnatissimo uomo d’affari, che di solito è molto più
attento al bilancio che alla cura del corpo e dell’anima, se non per
doversi…disintossicare. Lei da cosa ha dovuto disintossicarsi, Mr Brief?”.
Il volto di Trunks
si rabbuiò all’istante, mentre fissava la giornalista in silenzio, incapace
di celare un certo smarrimento.
“Dalle
chiacchiere di giornalisti da quattro soldi come lei, ecco da cosa ha dovuto
disintossicarsi il presidente!”.
Candy Flash si voltò
indignata verso la voce che si era intromessa senza invito nella sua intervista,
guardando la segretaria personale di Trunks Brief come fosse il più spregevole
dei vermi.
“Quindi,
figuriamoci se adesso deve pure dirle dove trascorre le sue vacanze, per averla
tra i piedi anche lì!” continuò la donna con severità. “Per cui spenga
quel maledetto affare e si allontani da qui, se non vuole che chiami la
sicurezza per buttarla fuori a calci”.
La giornalista
spense controvoglia il dittafono, riponendolo di nuovo nella borsetta.
“Andiamo, Max.
Non voglio mischiarmi con cafoni del genere!” disse con eccessiva enfasi
mentre si allontanava offesa, ma non abbastanza da abbandonare la sua caccia
allo scoop.
Trunks sospirò
sollevato, ravviandosi poi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
voltandosi verso la sua segretaria con un sorriso.
“Mi hai salvato
di nuovo, Irina. Non potrò mai ringraziarti abbastanza”.
La donna scrollò
le spalle, come a voler banalizzare.
“Figurati. Certe
volte non basta la diplomazia per togliersi dai piedi simili sanguisughe,
bisogna usare le maniere forti!”.
Quella sera Irina
era veramente elegante. Indossava un tubino nero davvero grazioso, che la
ringiovaniva di una decina d’anni, impreziosito da un collier di perle
semplice ma d’effetto, che Trunks sapeva essere il regalo di fidanzamento di
Sid.
“Credevo che
fossi stata tu ad aver invitato al party Candy Flash”.
“Non l’ho
invitata, ho solamente fatto in modo che le arrivasse la voce, in modo che
credesse di esser venuta di sua iniziativa”. Sorrise sorniona, vedendo che
Trunks si sforzava di capire il suo piano. “Se non riesci a sconfiggere i tipi
come lei, l’unica alternativa è raggirarli. La Flash su di te ha detto e
scritto malignità più di qualunque altro giornalista, ma se avesse appreso per
prima la notizia del tuo ritorno in società e alla testa dell’azienda,
sarebbe stata disposta a ribaltare anche le sue teorie pur di avere
l’esclusiva di uno scoop!”.
“Non mi sembra
che avesse intenzione di tessere i miei elogi, poco fa…”.
“Aspetta,
aspetta. Si renderà presto conto che l’opinione pubblica ha cambiato idea sul
tuo conto, e che non è saggio continuare a spingere dove non ha più sbocchi.
Continuerà a fare servizi su di te, ma questa volta deciderà di sfruttare a
suo vantaggio la tua rinnovata popolarità, e non il tuo declino!”.
“Sei un genio,
Irina. Adesso dovrò raddoppiarti lo stipendio”.
“Pensa piuttosto
a concedermi un mese intero di ferie per la mia luna di miele, credo di
meritarmelo dopo tutto!”.
“Direi proprio di
sì!”.
Risero entrambi,
prima che la sua segretaria tossicchiasse con indifferenza, in modo da attirare
l’attenzione del presidente alle sue spalle.
“Buonasera,
Erika” sorrise Trunks, girandosi del tutto e trovandosi davanti la giovane
direttrice dei magazzini HighTech, la più vasta catena di distributori in
franchising di tecnologie emergenti.
“Buonasera,
Trunks. Davvero una bella festa, molto piacevole”.
Irina fece un breve
inchino, sorridendo alla nuova arrivata. “Con permesso…” disse
allontanandosi, non prima di aver lanciato al suo capo uno sguardo eloquente.
Trunks si rivolse
di nuovo verso la sua interlocutrice.
“Mi fa molto
piacere che tu sia riuscita a venire”.
“Già…avevo un
impegno, in realtà, ma appena ho ricevuto l’invito mi sono detta che non
potevo mancare”.
Le sorrise,
compiaciuto. Erika Lowell indossava un lungo abito da sera turchese, che si
intonava straordinariamente ai suoi occhi color cobalto, mentre i lunghi capelli
ramati ricadevano in parte sulle spalle in raffinati boccoli, mentre in parte
erano raccolti elegantemente da un prezioso fermaglio d’argento. Gli sorrise
di rimando, mentre ai lati delle sue guance le si formavano due fossette
decisamente graziose, che non facevano altro che aggiungere quel tocco
intrigante alla sua già palese bellezza.
“Mi dispiace per
non averti rinnovato il contratto, due mesi fa” disse debolmente, abbassando
per un momento lo sguardo, come si sentisse in colpa. “Ma certo capirai che
non potevo più acquistare prodotti che non comprava più nessuno, quando la
concorrenza vendeva di più e a prezzi più stracciati”.
“Lo capisco
perfettamente, Erika. E’ la legge del mercato, ognuno deve guardare al suo
interesse. Io avrei fatto la stessa cosa, e non ti serbo rancore per questo”.
La donna rialzò lo
sguardo, rassicurata da quelle parole.
“In ogni modo,
adesso ho in progetto grandi novità per la Capsule Corporation” continuò il
Brief, catturando la curiosità della sua interlocutrice. “Attualmente, sono
già in produzione tutta una serie di gioiellini digitali che difficilmente la
concorrenza riuscirà ad imitare, oltre ad una nuova linea di capsule con un
sacco di funzioni aggiuntive e una capienza decisamente maggiore”.
Ci fu una pausa,
mentre la Lowell valutava con un certo imbarazzo le parole da usare.
“Credo che ti
sembrerò terribilmente opportunista, se adesso ti propongo un nuovo
contratto…Dio, Trunks, è davvero imbarazzante!”.
Trunks scosse la
testa, ridendo di fronte al disagio della donna, mentre le posava amichevolmente
una mano sulla spalla, come a volerla rassicurare.
“Non è
opportunismo, Erika, tu hai fatto solo ciò che in quel momento era meglio per i
tuoi magazzini. E non c’è nemmeno niente di male nel cambiare idea, non sai
quanti stasera sono tornati da me strisciando senza nemmeno chiedermi scusa per
avermi voltato le spalle, come invece stai facendo te!”.
Erika sorrise,
alzando quindi il suo calice di champagne.
“Al nostro nuovo
contratto, allora” propose.
“E ad una nuova e
ancora più salda collaborazione” aggiunse Trunks, sollevando il suo bicchiere
e brindando calorosamente con la collega.
Mentre i due si
salutavano con due baci sulla guancia, una serie di flash li immortalò dal
centro della folla, dove sicuramente si trovava la bionda giornalista e il suo
fedele fotografo, che si guadagnavano così una preziosa chicca per il loro
scoop.
Continua…
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Capitolo 6 *** When you're gone ***
Capitolo 5
Capitolo
5 - When you're gone
I
always needed time on my own
I
never thought I’d need you there when I cry
And
the days feel like years when I’m alone
And
the bed where you lie is made up on your side
Il tempo e lo
spazio sono inversamente proporzionali.
Il primo si dilata,
si allunga, si espande all’infinito se il secondo si riduce bruscamente, e più
l’uno diminuisce, più l’altro aumenta.
Non che ne capisse
di fisica, o di tutte quelle idiozie che divulgavano gli scienziati. L’unica
sua consapevolezza era la stanza in cui si era rinchiusa da qualche giorno, e la
sensazione che vivesse là dentro da ormai un’eternità.
Ma non era solo uno
stretto spazio fisico quello in cui si era rifugiata.
Adesso sembravano
distanti da lei mille miglia, vecchi e insignificanti come foglie secche, ma i
suoi doveri verso il lavoro, verso la palestra di suo nonno, le bussavano ancora
debolmente al suo cuore infranto, sperando di trovare ancora un barlume di vita,
un accenno di volontà. Passiva, silenziosa come non mai, debole come le fosse
caduto un macigno sulle spalle, adempiva alle sue responsabilità con la
meccanicità di chi è stanco di sorridere, di chi ha ormai aperto gli occhi e
ha visto crollare, con la rapidità di una stella cadente, tutti i sogni e le
illusioni di una vita.
E quando tornava a
casa a sera, volando piano contro il tramonto, senza nessuna fretta di arrivare,
non si voltava nemmeno per un attimo verso la dependance, temendo di vedere il
volto colpevole di suo padre, o di incrociare gli occhi accusatori di sua madre.
Da quella sera, li
aveva sempre evitati come fossero creature estranee, incomprensibili,
inaffidabili. Suo padre, il suo adorato papà, così buono, così affettuoso e
gentile, che sempre si era preoccupato per il suo bene e per la sua sicurezza,
adesso aveva sacrificato la felicità di sua figlia per la propria tranquillità
personale. Sua madre, che in tutti quegli anni era spesso stata più un’amica
che un genitore, forse l’unica vera amica che aveva mai creduto di avere,
quella a cui potevi dire tutto, quella che ti capiva con uno sguardo, quella che
ti consigliava sempre la cosa giusta, adesso le aveva voltato le spalle nel modo
più inaspettato e meschino.
Solo sua nonna non
si era pronunciata, forse perché ormai troppo stanca e anziana per prendere
posizione e far valere la propria idea, come aveva sempre fatto da giovane.
Anche lei doveva esser stanca di combattere. Aveva solo visto i suoi occhi
posarsi tristi su di lei, ma non voleva la sua compassione. Aveva comunque
apprezzato la sua discrezione, quando aveva lasciato la sua camera alla
dependance e si era trasferita da lei, che l’aveva accolta in una delle stanze
senza fare domande.
E così,
l’angusto spazio mentale, che per tutto il giorno l’aveva come isolata da
tutto il resto, imprigionandola nella fredda solitudine del suo cuore, adesso
diventava concreto e reale come la stanza dove a sera si chiudeva nell’oscurità,
dove consumava una cena solitaria acquistata ad un fast food, dove trascorreva
una notte senza sonno, con l’unica amara compagnia delle sue lacrime.
Ed era ancora più
difficile, se quella stanza era la vecchia camera di Goten, quella dove
l’oggetto del suo dolore aveva trascorso le ultime settimane, un tempo che
adesso sembrava lontano come un’altra epoca.
Eppure, le lenzuola
conservavano ancora il suo odore. Lei lo sentiva, lo assaporava, vi si
aggrappava come fossero l’ultima cosa che ancora lo legava a lui. Dormire in
quel letto era allo stesso tempo gioia e dolore, come una droga di cui non puoi
privarti, ma che sai inevitabilmente ucciderti.
La notte avanzava,
e mille momenti le passavano con crudeltà davanti agli occhi, immagini di un
sorriso caldo, di uno sguardo dolce, di parole sussurrate con complicità. I più
bei baci della sua vita, tanto ardentemente rubati quanto profondamente
sbagliati, gioia e dolore, ancora, inesorabili, come due forze opposte che si
dibattevano dentro di lei, finchè non era il secondo a prevalere sempre,
lasciandola spossata, distrutta, impotente, di fronte ad una battaglia persa in
partenza.
La mattina, i
dorati raggi primaverili che filtravano dalle persiane accostate, invitandola ad
alzarsi dopo l’ennesima notte insonne, erano freddi come spade di ghiaccio,
inespressivi come sguardi vitrei.
When
you walk away I count the steps that you take
Do
you see how much I need you right now
Gohan scattò dalla
poltrona con la rapidità di un felino. Stampò i palmi delle mani sulla
finestra, il volto a mezzo centimetro dal vetro, dove il suo fiato aveva
iniziato a disegnare un’aureola opaca.
Videl decise di
lasciarlo fare, limitandosi a fissarlo mentre osservava con speranza la figura
di sua figlia uscire dall’abitazione principale, la guardava caricare energia
intorno a se, e inevitabilmente, come ogni giorno, con delusione la seguiva
librarsi in cielo e sparire all’orizzonte, verso Satan City.
“Non è passata
nemmeno stamattina” mormorò l’uomo, sospirando affranto. “Credo che
dovremmo parlarle, stasera, prima che si rinchiuda di nuovo in camera…chiarire
la situazione…”.
“No” lo
interruppe Videl, scotendo la testa con decisione. Guardò oltre il vetro, verso
il punto del cielo in cui la ragazza era sparita, mentre nella mente rivedeva lo
sguardo carico di rabbia con cui la figlia l’aveva guardata qualche sera
prima, le parole taglienti che le aveva sputato addosso, e dietro, oltre tutta
quella rabbia, oltre tutta quell’ostentata prepotenza, la disperazione, lo
smarrimento, la delusione. Sospirò, guardando infine il marito, che più di
ogni altro soffriva quell’insensata situazione. “Deve essere lei a tornare
da noi…quando sarà pronta” disse. “Solo allora potrà avere le risposte
che cerca”.
* *
*
E’ buffo, il
destino.
Quando credi di
aver toccato il fondo, di non poter star più male di quanto stai già, ecco che
la sorte si prende di nuovo gioco di te, dandoti ancora un’ultima sferzata.
Nemmeno Pan, quel mattino a Satan City, entrando di malavoglia in un bar ed
ordinando debolmente un caffè, aveva idea che quella giornata, iniziata fiacca
e vuota, sarebbe stata più intensa e distruttiva del solito.
Negli ultimi giorni
si era rigorosamente vietata di accendere la tv o di passare solo vicino ad
un’edicola, ma ora, curva contro il bancone davanti al quale aspettava
annoiata il suo caffè, posando casualmente lo sguardo su un tavolino dal quale
si erano appena alzate delle clienti, non potè fare a meno di scorgere la
rivista che era stata abbandonata lì sopra.
Sapeva che si
sarebbe fatta del male. Sapeva che il dolore, fin ora chiuso a forza dentro il
suo cuore, forse sarebbe esploso come una bomba a orologeria, o forse le avrebbe
soltanto sferzato l’ultima coltellata silenziosa ma letale. Sapeva, e tuttavia
si avvicinò, gli occhi scuri e pesanti, l’espressione stanca.
Non era stato
necessario il titolo a caratteri cubitali, per riconoscere anche da lontano il
soggetto della copertina. Non avrebbe mai confuso quella sagoma familiare, o
quegli occhi la cui luce riusciva a bucare persino la carta.
Tuttavia, quello
non era il ragazzo mite, tenero e gentile che aveva condiviso con lei le ultime
indimenticabili settimane, che indossava jeans e camicie a quadri di flanella,
che si intestardiva a spaccare legna o a rastrellare foglie dal vialetto per
pagarsi in qualche modo il soggiorno sui Paoz. Non era il ragazzo che sembrava
capire ogni suo sguardo, che rideva con lei delle sciocchezze di ogni giorno,
che la stringeva a se nelle fresche serate di primavera. Quello stesso ragazzo
che anni prima aveva viaggiato con lei nello spazio, ritrovando la spontaneità
e lo spirito d’avventura.
Quello era l’uomo
di potere, impeccabile nel suo elegantissimo completo griffato, il portamento
dritto e lo sguardo sicuro di chi non teme niente, di chi è consapevole delle
proprie potenzialità e del proprio carisma, di chi sa di avere flotte di uomini
e donne pronti ad inginocchiarsi davanti a lui se solo lo avesse chiesto. Il
principe degli affari, il volto da copertina. Quasi un’altra persona, distante
mille miglia da lei.
Solo il taglio di
capelli un po’ più lungo e scalato gli conferiva un inusuale tocco ribelle,
quasi fosse l’unica traccia di un oscuro periodo che ancora non voleva
dimenticare.
“IL RITORNO DI
TRUNKS BRIEF” annunciava il testo a lato della foto, e poi: “Più
sexy e affascinante che mai”.
Cinque giorni che
non lo vedeva o sentiva, e adesso, quella patinata copertina, che lo ritraeva
bello e prestante come un divo del cinema, pronto ad essere invidiato da
centinaia di uomini e desiderato da migliaia di donne, le sembrò così fredda
da sentire quasi il gelo tra le mani.
Ma il vaso di
Pandora non era stato ancora scoperchiato del tutto. Poteva ancora prevenire
quel disastro, se la tentazione non l’avesse portata a cercare l’articolo
all’interno.
Altre sue foto
catturarono i suoi occhi. Sembrava ad una festa, sullo sfondo la grande sala
della Capsule Corporation, intorno a lui decine di invitati in abiti eleganti.
“Dopo
settimane di totale black out, Brief torna inaspettatamente sulle scene”
continuava il sevizio. “ Il trentaquattrenne presidente della Capsule
Corporation, che dopo la scomparsa della madre Bulma, proprietaria e da sempre
colonna portante della società, sembrava essersi dimostrato incapace di gestire
da solo il patrimonio ereditato, finendo per far temere il fallimento di uno
storico marchio già da tempo intaccato dalla concorrenza, annuncia il suo
ritorno a capo dell’azienda organizzando un party diplomatico e proclamando
l’inizio di una nuova era per la Capsule Corporation…”.
Pan scorse senza
troppa attenzione l’articolo, soffermandosi invece sui commenti alle immagini,
più in evidenza ed immediati.
“L’ultima
volta l’avevamo lasciato sciupato e malaticcio, come ritraeva qualche scatto
ravvicinato in un nostro precedente numero” ricordava la giornalista Candy
Flash, di commento ad una foto risalente a due mesi prima. Nonostante
l’istantanea fosse un po’ sgranata per lo zoom, si vedeva chiaramente il
volto di Trunks oltre il finestrino della limousine che lo portava in ufficio,
due profondi solchi scuri sotto gli occhi, il volto pallido e non rasato, i
capelli già lunghi tirati all’indietro e legati con un laccio. Non era
affatto strano che, all’epoca, l’opinione pubblica avesse pensato che, per
far fronte alle mille responsabilità che la morte della presidentessa storica
gli aveva lasciato e che lui era solo stato capace di trasformare in debiti,
avesse iniziato a far uso di droghe. Il suo aspetto trascurato, la sua crescente
debolezza e lo sguardo vuoto sembravano esattamente confermare quell’ipotesi
e, anche se non era stata la mancanza di una guida professionale a farlo cadere
nella depressione o le sue incompetenze a far indebitare l’azienda, quella
deduzione non si discostava poi così tanto dalla realtà.
“Ma guardatelo
ora” invitava Candy Flash, richiamando una seconda foto a lato della
precedente, uno scatto risalente alla stessa sera in cui Trunks aveva lasciato i
Paoz. “Dovunque Mr Brief sia stato in queste ultime settimane, che fosse
una clinica privata o una banale beaty farm di ultima generazione, lo hanno
rimesso decisamente a nuovo. Non solo ha riacquistato il fascino dei tempi
migliori, ma sarà quel suo nuovo taglio, sarà quell’abbronzatura
apparentemente naturale, che pare ancora più sexy e prestante del solito…”.
Passò oltre,
risparmiandosi i coloriti e tutt’altro che neutri commenti di quell’insulsa
giornalista, mentre veniva catturata da un’altra foto, che questa volta lo
ritraeva intento in un’amichevole conversazione con una bella donna dai
capelli ramati.
Il cuore di Pan
cominciò lentamente ad accelerare, mentre cercava il testo che commentava
l’immagine.
“Tutti gli
ospiti sono rimasti affascinanti dal rinnovato carisma di Trunks Brief, gli
uomini d’affari concedendo di nuovo un’immediata fiducia a questo
personaggio che fino a poco tempo fa sembrava avviatosi sul viale del tramonto,
le fanciulle di buona famiglia o le promettenti signorine in carriera ritrovando
il più ambito scapolo d’oro da contendersi senza esclusione di colpi. Ma tra
tutti spicca in particolare la bella Erika Lowell, trent’anni e già
direttrice dell’omonima e vastissima catena commerciale. La suddetta aveva da
poco rotto il contratto con la Capsule Corporation, temendone il suo definitivo
crollo, ma la lunga e intima conversazione tenuta con il presidente sembra aver
cambiato di nuovo le carte in tavola… ”.
Pan voltò pagina,
e questa volta il cuore le si fermò.
C’erano due foto.
Nella prima, i due erano immortalati mentre brindavano allegramente, i calici di
dorato champagne che si accarezzavano, occhi negli occhi.
“Il loro
brindisi sembra siglare un nuovo promettente accordo, ma dai loro sorrisi
compiaciuti, dai loro sguardi complici, si percepisce chiaramente come stia
nascendo qualcosa di più, che va oltre l’ambito lavorativo. E’ una forte
attrazione reciproca, quella che ci suggeriscono queste eloquenti immagini, che
poi si rivela palesemente nella loro continua ricerca di contatto fisico e da
baci tutt’altro che formali…”.
Nella seconda foto,
Trunks teneva una mano sul braccio nudo della donna, mentre lei aveva le proprie
appoggiate ai fianchi di lui. Gli occhi di entrambi erano socchiusi, i loro
volti vicini, così vicini che sembrava stessero per baciarsi, o che
l’avessero appena fatto.
“Brief e
Lowell: una nuova intesa nel lavoro…e nella vita” proclamava il titolo
alle immagini, e a Pan bastò per decidersi definitivamente a chiudere la
rivista, ad allontanarsi da quel tavolo e ad uscire a passo svelto dal bar.
Non importava
quanto credito avesse deciso di dare ai commenti di quella giornalista, quando
volesse davvero credere alle sue divagazioni. Quello che contava, quello che
emergeva, quello che saltava finalmente alla luce, quasi fin’ora avesse voluto
negarlo, era quanto distanti lei e Trunks in realtà fossero, quanto le loro
vite avessero ripreso inevitabilmente direzioni opposte, e quanto fosse naturale
che lui frequentasse ragazze molto più adatte a lui.
Non ce l’aveva
con Trunks. Ce l’aveva soltanto con se stessa.
“Signorina, il
suo caffè!” le urlò dietro il ragazzo al bancone, ma lei era già sparita
nella soleggiata giornata di Satan City.
E, comunque, non ne
aveva più bisogno.
When
you’re gone
The
pieces of my heart are missing you
When
you’re gone
The
face I came to know is missing too
When
you’re gone
The
words I need to hear to always get me through the day and make it ok
I
miss you
Nella grande
palestra della prestigiosa scuola di arti marziali di Satan City, una dozzina di
allievi tra gli undici e i quattordici anni erano disposti in maniera
perfettamente geometrica in tre file da quattro. I loro giovani ma già tonici
fisici, avvolti nella bianca stoffa della divisa, erano ben dritti e composti,
le gambe leggermente divaricate. Le loro braccia si sollevavano all’unisono,
mentre traevano un ampio respiro e poi espiravano lentamente, fino a rilassarsi
del tutto.
“Bene così, miei
piccoli campioni” approvò Phol “Bolide” Tail, testa alta e petto in fuori
davanti al gruppo di ragazzini, le braccia incrociate con soddisfazione. “La
tecnica non è solo un fatto fisico, ma anche mentale”. Si portò indietro una
ciocca bionda sfuggita alla coda di cavallo, sottolineando il gesto con
teatralità. “Guardate me, per esempio” li invitò, aprendo le braccia e
tirando il petto ancora più in fuori, mentre un sorriso bianchissimo si
allargava fieramente: “Nel mio attuale stato, completamente rilassato e libero
da ogni interferenza esterna, concentrato solo sulla mia persona, sono in grado
di sferrare colpi più precisi di qualunque altro, o di reagire più prontamente
agli attacchi altrui”.
I giovani allievi
annuirono all’unisono, ora attenti e affascinati dalle parole del loro
eccentrico istruttore.
“Ed è per questo
che, nella nostra scuola di arti marziali, insegniamo fin dall’inizio gli
ideali della calma, della pace interiore e del controllo delle emozioni…”.
In quel preciso
momento la porta della palestra si spalancò, rivelando una Pan dal volto scuro
e dall’espressione aggrottata. La ragazza attraversò la palestra con passi
lunghi e rapidi, aprì senza troppo garbo la porta del piccolo ufficio, vi entrò
e sbattè la porta alle sue spalle con tale forza e violenza da far tremare
l’intero edificio.
Phol, ancora
paralizzato dal brusco ingresso del suo capo, sbattè due volte le palpebre,
allibito, prima che uno dei ragazzini giungesse in suo aiuto: “Stava parlando
di calma, pace interiore e controllo delle emozioni, sempai Phol”.
“Appunto…”
commentò l’istruttore, con una risatina nervosa. “Ehm, ragazzi, perché non
continuate ancora ad inspirare ed espirare per una decina…anzi no, facciamo un
centinaio di volte, mentre io vado un attimo di là a vedere se tutto è
a posto??”.
Mentre i giovani
allievi cominciavano ad eseguire l’ordine senza fiatare, nonostante il lieve
disappunto delle facce, Phol sgusciò rapido verso l’ufficio di Pan, per poi
schiacciarsi contro la porta, l’orecchio teso.
Silenzio, nessun
suono proveniva da dentro.
Aprì la porta
lentamente, tentando di ridurre al minimo il fastidioso cigolio dei cardini poco
oliati.
Lei era seduta di
spalle rispetto a lui, appoggiata pesantemente contro la scrivania, il volto
chino e nascosto tra le braccia, i capelli corvini sparsi tutt’intorno
disordinatamente.
Phol sorrise,
riportando di nuovo indietro una ciocca bionda.
La sua giovane
datrice di lavoro era decisamente depressa, e le ragazze depresse necessitavano
sempre di qualcuno che si occupasse di loro. In quel caso, lui sarebbe stato
pronto a consolarla come e quanto avrebbe avuto bisogno.
Si avvicinò piano,
con discrezione. Cercando di non far troppo rumore, avvicinò l’altra sedia
presente nella stanza, la sistemò accanto a quella di lei, davanti alla
scrivania, e vi si sedette al contrario, in modo da poter appoggiare le braccia
alla spalliera.
Si prese tutto il
tempo per inumidirsi le labbra e scegliere le parole più d’effetto, poi,
sporgendosi leggermente verso di lei e gonfiando il petto, decise di
approcciarsi con un tono basso e profondo: “Pan…”.
“VATTENE!!!”
gli urlò contro lei, mentre alzava di scatto la testa e lo fulminava con lo
sguardo, e quell’ordine fu talmente diretto ed efficace che Phol, questa volta
in un millesimo di secondo, era già balzato in piedi, aveva sistemato di nuovo
la sedia al suo posto e si era avviato a passo svelto e senza fiatare verso la
porta.
“Phol…aspetta”.
Bolide si fermò
prontamente, attese qualche secondo e si voltò con cautela. Pan si era alzata,
ed ora era ferma in piedi davanti a lui, lo sguardo basso, le mani giunte, le
dita che giocherellavano nervosamente.
“Scusami per
essere stata scortese…” continuò. “Ma in questi giorni …non sto molto
bene…”.
Phol le sorrise
serafico, guardandola con aria comprensiva e avvicinandosi a lei, fino a posarle
le mani sulle spalle curve.
“Pan, Pan,
Pan…per le pene d’amore, non c’è cura migliore che la distrazione”
proclamò, con il tono di chi la sa lunga su questioni amorose. “Chiunque sia
così stolto da farti soffrire, non merita tanta importanza. In questi casi,
quello che si deve fare è concentrarsi su qualcosa o qualcun
altro…”.
“Beh, in questo
caso, credo che mi concentrerò sul lavoro” decise Pan con un sospiro, mentre
faceva per tornare alla scrivania, ma Phol la trattenne.
“Non sto parlando
del dovere, mia cara, ma del piacere” precisò, con un sorriso sornione
stampato in volto. Pan alzò debolmente gli occhi, fissandolo perplessa mentre
lo ascoltava continuare: “So io di cosa hai bisogno, piccola Pan…di una
serata trasgressiva in mia compagnia!”.
Quell’idea così
bizzarra, pronunciata tuttavia con tanta convinzione, strappò alla ragazza una
risatina divertita, mentre realizzava che stava ridendo per la prima volta dopo
cinque giorni.
“E dove dovremmo
andare, io e te, a trasgredire?” chiese, sciogliendosi un po’, sentendo che
ne aveva fermamente bisogno.
“Hanno aperto una
nuova discoteca, qui a Satan City” la informò lui compiaciuto. “Blue Moon,
si chiama. E’ una delle più trendy della città ed è frequentata da gente di
un certo livello, non so se mi spiego…” disse, alzando baldanzosamente la
testa e gongolando palesemente, come se il fatto che fosse lui a
frequentare un certo locale bastasse semplicemente ad aumentarne la popolarità,
ma Pan scosse la testa con decisione.
“In discoteca??
No, non se ne parla proprio. Non ho neppure niente di adatto da mettermi…”.
“Per quello,
nessun problema” la interruppe lui con naturalezza. “Proprio dietro
l’angolo, c’è un negozio pieno di cosette deliziose…”.
Quella sera, quando
Pan uscì poco convinta da lavoro per seguire il suo consiglio, Phol l’aspettò
pazientemente nella palestra ormai vuota, approfittando per ritoccare nei minimi
dettagli il suo già perfetto look.
Camicia di raso
argentato parzialmente sbottonata. Cravattino allentato a scacchi bianchi e
neri. Pantaloni e mocassini in pelle lucida nera con rifiniture argento. Capelli
sciolti sulle spalle e cappello zebrato sulle ventitrè.
Sorrise soddisfatto
alla sua immagine riflessa nello specchio della palestra, compiaciuto del fatto
di essere un figo da paura.
La porta si aprì
alle sue spalle, facendo entrare nel locale una ventata dell’attraente e calda
notte di Satan City, mentre una promettente sagoma femminile faceva il suo
ingresso.
“Che dici, così
può andare??” si sentì chiedere, il tono tra l’imbarazzato ed il
divertito.
Phol si voltò, un
sorriso malizioso che gli si allargava in volto. Spostò lo sguardo in basso,
per poi risalire lentamente, in modo da godersi al pieno ogni dettaglio di
quell’allettante visione.
Anfibi alti.
Pantaloni di pelle nera a vita bassa, con cintura borchiata. Un delizioso
push-up che metteva in risalto il fisico tonico, scolpito ed abbronzato. Un
kajal nero intorno agli occhi, che ne metteva in risalto la profondità.
“Allora??”
insisté la ragazza, le mani ai fianchi, in attesa di un parere.
“Se proprio lo
vuoi sapere, tesoro” rispose lui, fissandola compiaciuto. “Credo che io e
te, stasera, faremo scintille”.
I’ve
never felt this way before
Everything
that I do reminds me of you
And
the clothes you left, they lie on the floor
And
they smell just like you, I love the thing that you do
Il Blue Moon era un
caleidoscopio di luci ed ombre, che si alternavano su giovani corpi in movimento
che si agitavano al ritmo martellante ed avvolgente della musica. Le loro facce
erano distese, rilassate, le loro menti libere da ogni pensiero, completamente
estranee alla realtà, concentrate solo su quella bolgia di forme, colori e
suoni che elettrizzava i loro corpi come un’estasi continua.
Pan non era
abituata a posti del genere. Li aveva sempre ritenuti troppo noiosi e caotici,
oltre che frequentati in gran parte da automi che neppure erano più in grado di
provare emozioni reali.
In quel momento,
avrebbe tanto voluto essere uno di quelli.
Mandò giù
l’ultimo sorso del suo bicchiere di vodka, stringendo poi gli occhi con forza
mentre l’alcol le bruciava la gola.
Accanto a lei
davanti al bancone del bar, Phol ballonzolava sul posto, lanciando di tanto in
tanto occhiate ammiccanti alle formose cubiste che si scatenavano sulle loro
postazioni rialzate.
“Che ne dici di
gettarci in pista?” propose con un cenno del capo e un eccitato sorriso, ma
Pan non sembrò altrettanto entusiasta dell’idea.
“Perché intanto
non vai tu?” gli consigliò annoiata, gli occhi pesanti, i muscoli deboli.
“Magari ti raggiungo dopo…”.
Bolide scrollò le
spalle convinto, mentre si avviava con movimenti plateali verso il centro della
folla, facendo tutto il possibile per farsi notare.
“Un’altra
vodka, grazie…” chiese Pan al barista.
When
you walk away I count the steps that you take
Do
you see how much I need you right now
Era già da un
po’ che la testa aveva cominciato a girarle, ma quando ormai cominciò ad aver
seri problemi di equilibrio, realizzò anche di aver perso definitivamente il
conto di quanti bicchieri aveva bevuto.
Tre, quattro? O
forse cinque? pensò massaggiandosi la testa, appoggiata pesantemente contro
il bancone, mentre il giovane barista le lanciava sguardi perplessi.
La musica le
martellava dentro con violenza, l’alternarsi delle luci le dava le vertigini.
Eppure, in qualche modo si sentiva attratta da tutto quel pulsare di vita, da
quel frenetico movimento che attraversava tutti quei corpi come un’estasi
continua.
Si staccò dal
bancone con un certo sforzo, avviandosi un po’ barcollante verso la pista. Si
rese conto di aver urtato qualcuno, venendo poi rimbalzata contro qualcun altro,
finendo alla fine goffamente contro la console.
Il giovane DJ alzò
gli occhi dal suo lavoro, abbassandosi leggermente le cuffie e scandendo le
parole in modo che lei potesse capire almeno il labiale: “Tutto bene?”.
Pan annuì con un
sorriso svagato, e il DJ le sorrise apertamente a sua volta, e quel sorriso, così
leggero, così allegro e solare, riuscì finalmente a scuotere Pan.
Pensò che aveva
vent’anni, e tutto il diritto di vivere la sua età con spensieratezza, senza
sprecare dietro ad inutili illusioni un tempo che non sarebbe mai tornato.
Doveva solo vivere, ridere, divertirsi e…ballare.
Senza neanche
rendersene conto, cominciò a muovesi, per quanto scoordinatamente. Voleva farsi
avvolgere dalla musica, farsi rapire da essa, rispondere passivamente ai suoi
richiami. Il soffitto girava, girava, correva così veloce da non riuscire più
a vederlo.
Mentre tutto
diventava nero, buio ed irreale, mentre sentiva il suo corpo afflosciarsi
definitivamente, qualcosa di solido e concreto le si parò davanti, e lei vi si
aggrappò saldamente.
“Ciao” la salutò
il suo appiglio, tirandosi su gli occhialoni scuri, e rivolgendole un’occhiata
compiaciuta.
“Ciao…”.
“Sbaglio, o hai
tutta l’aria di aver bisogno di qualcuno che ti sostenga?”.
“Sì” ammise
svagatamente, mentre gettava le braccia al collo del ragazzo e appoggiava la
testa sulla sua t-shirt a righe bianche e nere.
We
were made for each other
Out
here forever
I
know we were, yeah
“…e così, quel
bestione che tutti davano per vincitore fin dall’inizio, capì che era
arrivato qualcuno molto più forte di lui…” raccontò Bolide con orgoglio,
rivolto alle due ragazze che aveva appena conosciuto in pista, e a cui adesso
offriva galantemente un drink. “Mi è bastato un solo colpo per gettarlo fuori
dal ring, una mossa precisissima ma di straordinaria potenza, che solo i più
grandi esperti di arti marziali hanno il privilegio di conoscere”.
Si portò
enfaticamente il ciuffo all’indietro, mentre le due emettevano gridolini di
meraviglia e ammirazione.
“E’ stato un
piacere brindare con voi, signorine” le congedò alzando il bicchiere, mentre
le ragazze si allontanavano salutandolo con la mano e risolini divertiti.
Si voltò quindi
verso il bancone per abbandonare il calice vuoto, sorridendo tra se soddisfatto
per la sua ennesima performance da rubacuori.
“Scusa, tu sei
insieme alla moretta con il top e i pantaloni di pelle?” gli chiese il barman,
riconoscendolo.
Phol sorrise ancora
più ampiamente, appoggiando un braccio al bancone con noncuranza e sporgendosi
verso il ragazzo con aria cospiratoria: “Sì…modestamente, è la mia
ragazza!”.
“In questo caso,
non ti dispiacerà se chiedo il conto a te di tutte le sue bevute” decise
l’altro, mentre Phol sbatteva le palpebre allibito, il volto adesso
improvvisamente inespressivo. “E comunque, se fossi in te, amico, la terrei un
po’ più d’occhio, in questo momento”.
Affondata in una
delle poltroncine del locale, gli occhi socchiusi, costantemente in bilico tra
sogno e realtà, aveva la sensazione che anche quest’ultima fosse diventata
stranamente densa, quasi come gelatina.
“E così non vuoi
nemmeno dirmi il tuo nome?” le disse il ragazzo seduto a fianco a lei,
giocherellando nel frattempo con i suoi capelli.
Anche la sua voce
sembrava lontanissima, come passasse attraverso un muro d’acqua.
Poi un’altra, che
si era appena avvicinata: “E questa chi è??”.
“L’ho trovata
in pista, è ubriaca fradicia…pensa che non si reggeva nemmeno in piedi!”.
Il nuovo arrivato
le si parò davanti, accucciandosi davanti a lei con un sorriso compiaciuto, a
cui lei rispose scioccamente.
“Sembra carina”
approvò. “Una pollastrella docile e su di giri, davvero interessante”.
“Non ci provare,
Gum, lei è mia” chiarì subito l’altro, sporgendosi di più verso Pan e
accarezzandole voluttuosamente l’addome.
“Ok, ok, vi
lascio in pace!” si difese Gum, alzando le mani in segno d’innocenza, prima
di voltargli le spalle e sparire tra la folla.
Pan sentì gli
occhi pesanti, fortemente pesanti, finendo quindi per chiudere le
palpebre e tagliare definitivamente i ponti con la realtà. Anche quando,
qualche secondo dopo, sentì il calore delle labbra di qualcuno che si posava
sul suo collo, baciandole piano la pelle, pensò di stare sognando.
“Trunks…”
mormorò istintivamente.
“Mi chiamo Matt,
dolcezza, ma se ti piace chiamarmi con qualsiasi stupido nome, fa’ pure!”.
Sentì che quei
baci diventavano più insistenti, quasi sgradevoli, mentre la sua pelle veniva
percorsa da carezze non volute. Cercò di allontanarlo debolmente, accorgendosi
subito di non aver messo nel gesto abbastanza forza e decisione, e lui approfittò
per stringerla più saldamente.
“Che c’è?
Preferisci che ce ne andiamo in un posto più tranquillo? Eh? Ho la mia auto,
qui fuori, e…”.
“Lasciami…”.
“Andiamo, non
fare storie, prima ti butti tra le mie braccia e poi mi respingi così!”.
“Ho detto
lasciami!”.
Quasi non si rese
conto della forza con cui l’aveva colpito, finchè non vide il ragazzo
rimbalzare contro una colonna del locale e ricadere a terra con il naso
sanguinante, gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite mentre la fissava
terrorizzato: “Tu…tu sei un mostro, ecco quello che sei!”.
Incassò quelle
parole con freddezza, ormai non la stupivano più. In fondo, era quello che si
era sentita dire da una vita.
Riuscì in qualche
modo ad alzarsi dalla poltrona, per poi allontanarsi barcollante, in cerca
dell’uscita di quell’inferno.
Sentì solo di
sfuggita la voce di Phol, che si avvicinava impettito verso Matt, nel frattempo
rimesso in piedi dall’amico: “Ehi tu, quella è la mia ragazza!”.
“Beh,
riprenditela pure, idiota!” gli rispose il ragazzo sprezzante, mentre il
biondo istruttore gli rivolgeva uno sguardo fiero e carismatico:
“Evidentemente,
moccioso, non hai idea di chi hai davanti. Ma imparerai subito cosa significa
mancare di rispetto al grande Bolide”.
All
I ever wanted was for you to know
Everything
I’ll do, I’d give my heart and soul
I
can heardly breathe I need to feel you here with me, yeah
Fuori, nella notte,
sotto le luci sfocate di Satan City, lungo le strade ora deserte. Non aveva idea
di dove andare, sapeva solo di dover fuggire lontano, scappare da un dolore che
ancora non voleva abbandonarla.
Si alzò in volo,
facendosi ingoiare dall’oscurità. Scappare, fuggire.
Avrebbe fatto più
volte il giro del pianeta a tutta velocità, come un razzo impazzito, se solo
fosse bastato a farla sentire meglio. Ma sapeva, che non sarebbe bastato.
Con la coda
dell’occhio vide due ombre che l’affiancavano in volo, più scure
dell’oscurità, più furtive della notte. Eppure, sospesi in quel buio, era
sicura di aver intravisto due paia di occhi rossi, cattivi ed affilati, che la
fissavano famelici. Si disse che era solo la sua immaginazione, quando una
sommessa ma inquietante risata la spinse a voltarsi alla sua destra.
Intorno a due occhi
rossi prese lentamente a concretizzarsi una figura, un volto che non avrebbe mai
immaginato di rivedere lì, in quel luogo ed in quel tempo, che ora le sorrise
con denti aguzzi ed affilati.
No…non
può essere…non…
Presa dal panico e
dall’incredulità, fece per prendere le distanze da quel fantasma,
dirottandosi verso sinistra, ma sbattè con violenza verso un petto marmoreo.
Eppure, quel petto aveva qualcosa di sbagliato. Profondamente sbagliato.
Sbagliato come due profondi fori all’altezza dei polmoni, che gli trafiggevano
il torace da parte a parte, circondati da macchie di sangue rosso vermiglio. Non
riuscì a trattenere un grido di orrore, mentre alzando lo sguardo incontrava
altri due occhi di fuoco.
“Dove credi di
andare?” le ruggì contro quella creatura, e lei non potè far altro che
scappare, veloce, verso il basso, dove forse quelle ombre non l’avrebbero mai
raggiunta, dove forse non si sarebbero azzardate a mostrarsi.
Planò di nuovo a
tutta velocità verso Satan City, atterrando in un vicolo buio. Mentre con
terrore si accorgeva che era a fondo cieco, i due spettri si materializzavano
contemporaneamente davanti a lei, con quei loro occhi rossi infernali e i loro
sorrisi taglienti.
Questa volta, fu la
voce femminile a parlare: “E’ inutile, volare via non ti aiuterà a fuggire
dalla dura realtà, piccola mezzosangue”.
La voce era quella
di Bulma, ma il suo aspetto era così sfatto ed orribile da non ricordare
minimamente quello di colei che era stata una delle più belle ed eleganti donne
del pianeta. I capelli scoloriti ed arruffati, la pelle cadente in
decomposizione, i vestiti logori.
“Cosa volete da
me?” balbettò Pan, arretrando leggermente.
“Vogliamo solo
aiutarti, cara” le rispose lei, con un falso tono di solidarietà.
Accanto a lei, lo
spettro con le fattezze di Vegeta iniziò a ridere sommessamente, mostrando i
canini affilati. Anche i suoi tratti erano molto più sciupati di quelli che
ricordava, la pelle innaturalmente pallida.
Sapeva cosa fossero
quelle ombre. Lo sapeva, e per questo le temeva ancora di più.
“Aiutarmi?”
chiese debolmente, scotendo la testa in segno di negazione. “Come avete
aiutato Trunks, non è così?”.
Bulma sorrise quasi
maternamente, anche se in quel volto decomposto quell’espressione assomigliò
più ad una smorfia: “Siamo qui per darti un consiglio…stai lontano da
Trunks!”.
“Lui non è più
con me adesso!”.
“E infatti il suo
posto non è lì…il suo posto è con noi, i suoi genitori!”.
Nel volto di Pan si
disegnò una smorfia di disgusto, che riuscì addirittura a sovrastare il
terrore.
“Voi non siete i
suoi genitori! Io conoscevo i veri Bulma e Vegeta! Voi siete solo creature della
sua mente!”.
“Ah sì?” la
provocò lo spettro di Bulma, con una risatina. “E allora perché adesso siamo
qui davanti a te??”.
“Forse perché
anche la mocciosa terza classe sta prendendo la stessa strada!” indovinò
Vegeta, ed entrambi scoppiarono a ridere crudelmente, una risata tagliente e
stonata.
Pan sentì una
scintilla di rabbia accendersi nel suo stomaco, ma le parole che pronunciò in
seguito furono ancora troppo poco convinte, troppo poco decise. C’era qualcosa
in quelle ombre che la bloccava, che la spaventava terribilmente.
“Trunks vi ha
sconfitto! Lui vi ha dimenticato, è guarito!”.
“Lo credi
davvero?” la rimbeccò Bulma. “Credi veramente di conoscerlo così bene?”.
Fece per
avvicinarsi di più a lei, non un passo dopo l’altro, come si sarebbe
aspettata, ma quasi levitando a circa un centimetro dal suolo.
“Chi credi di
essere per lui? Eh?” continuò. “Credi di essere così importante, non è
vero?”.
Adesso era a meno
di un metro da lei. Pan fece per arretrare ancora, ma era arrivata in fondo al
vicolo cieco. Potè solo schiacciarsi contro di esso, tra due bidoni
dell’immondizia, nell’oscurità e nello squallore di quel quartiere, con
l’unica terribile luce di quegli occhi demoniaci, adesso proprio di fronte a
lei.
“Tu non sei
niente per lui, ragazzina. Lui non prova niente nei tuoi confronti”.
“Non è
vero…” mormorò, nonostante quelle parole le rimbombassero nella testa come
volessero impressionarsi a fuoco nella sua mente, fino a indurla a credervi.
“Lo sai che è
così, cara. Lui ti ha abbandonato senza nemmeno salutarti. Evidentemente,
voleva evitare che tu ti attaccassi a lui come una medusa, implorandolo di
rimanere o di portarti con lui. Credi davvero che avrebbe potuto seriamente
esserci qualcosa tra voi due? Ma le hai viste le ragazze che frequenta? Hai
visto come sono belle, colte e intelligenti? Hai visto quanta classe e quante
altre cose hanno che tu non hai e non potrai mai avere?”.
Gli occhi le
bruciavano, le lacrime minacciavano di sgorgare, e fu uno sforzo tremendo
riuscire a trattenerle, continuando comunque a fissare quegli occhi, in modo da
non dar segno di debolezza, come sempre le era stato insegnato.
“Tu sei stata
solo il suo simpatico trastullo durante la sua noiosa vacanza obbligata”.
“E per
cos’altro poteva usarla, altrimenti?” aggiunse il principe, che nel
frattempo aveva raggiunto la compagna, offrendo alla loro comune vittima il più
agghiacciante dei sogghigni.
Pan fece scivolare
la schiena sulla parete del vicolo, acquattandosi a terra. Avrebbe voluto
sparire, se solo avesse potuto.
Eppure,
all’umiliazione e allo sconforto che provava in quel momento, che la rendevano
tanto debole e vulnerabile, si aggiungeva un altro sentimento, fino a quel
momento appena accennato, ma che cresceva dentro di lei in maniera esponenziale,
mentre il suo battito cardiaco aumentava, mentre il suo respiro si faceva più
affannoso…
“Stai lontano da
Trunks!” ribadì Bulma sopra di lei, ora più minacciosa che mai.
“Toglitelo dalla
testa!” le fece eco Vegeta, quasi azzannandola.
Gorgogliava,
bolliva, brontolava dentro di lei come la lava di un vulcano in procinto di
esplodere…come il motore propulsore di un razzo in decollo…
“Lascialo in
pace!”.
“Dimenticalo!”.
…come una bomba
d’energia sul punto di esplodere…
“BASTA!!!” urlò
Pan con tutto il fiato che aveva, allargando le braccia in segno di liberazione,
e da lei esplose una luce così intensa ed abbagliante, dalle sfumature del
violetto, da investire l’intera città come una bomba atomica.
Tuttavia, quello
non era il potere distruttore dell’onda energetica, del Final Flash o della
Genkidama. Nessun potere di quel tipo avrebbe scalfito creature come quelle,
mere proiezioni di una mente distrutta. Quell’inatteso potere, invece,
appiccato dalla rabbia e fatto solo di forza interiore, non danneggiò
minimamente l’inconsapevole e dormiente città, ma i due spettri gridarono
all’unisono di sorpresa e di dolore, mentre venivano polverizzati come fragili
sculture di sabbia, i cui granelli si dispersero silenziosi nella notte.
Qualche secondo
dopo, tutto era di nuovo buio e calmo, e Pan, con un grugnito di fatica e
liberazione, ricadde a terra, offrendo la faccia all’asfalto freddo e duro.
When
you’re gone
The
pieces of my heart are missing you
When
you’re gone
The
face I came to know is missing too
When
you’re gone
The
words I need to hear to always get me through the day and make it ok
I
miss you
Non seppe quanti
minuti passarono, prima che un paio di fari scandagliassero la notte fino a
posarsi su di lei, abbagliandola fortemente mentre sollevava appena la testa.
Un’air-car della
Norton atterrò goffamente all’imboccatura del vicolo, mentre dalla portiera
saltava fuori una sagoma familiare che corse rapidamente verso di lei.
“Pan! Ti ho
cercato dappertutto!” la rimproverò apprensivo Bolide, abbassandosi su di
lei. “Ho visto un strana luce provenire da questa parte della città, ho
temuto fosse un nuovo marchingegno di qualche gruppo terroristico, che tu
potessi essere in pericolo e che ci fosse bisogno del mio prezioso
intervento!”.
Pan si lasciò
sollevare da terra, troppo debole per poterlo fare da sola, mentre la luce dei
fari illuminava il volto di Phol, che appariva sinceramente preoccupato.
“Il tuo occhio…è
tutto nero…” commentò Pan, mentre lui la aiutava a rimettersi in piedi.
“E il tuo naso…sanguina…”.
Phol le rivolse un
sorriso nervoso, mentre distoglieva prontamente lo sguardo.
“Quello,
ehm…incidente di percorso” si limitò a rispondere, imbarazzato.
Pan cercò di
reggersi in piedi da sola, ma fu uno sforzo che non riuscì ancora a sopportare.
Sentì il peso del suo corpo che precipitava in avanti, e appoggiò prontamente
le braccia tese alle spalle di Phol, inspirando ed espirando profondamente, gli
occhi socchiusi e lo sguardo svagato.
“Tutto bene?”
chiese esitante Phol, ben lieto di quella insperata prossimità tra di loro, ma
leggermente confuso dalla smorfia che progressivamente si disegnava sul volto di
lei, prima che questa abbassasse la testa e si liberasse di tutto l’alcol che
aveva buttato giù quella sera.
“Oh, sì!”
esclamò Pan, finalmente più leggera, mentre tossiva ancora violentemente.
“Oh, no!”
gemette invece Phol, non altrettanto appagato. “I miei mocassini nuovi!”.
Continua…
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Capitolo 7 *** Rewind ***
Capitolo 6
Capitolo
6 - Rewind
Si stirò
lentamente, allungando braccia e gambe per risvegliarle dal torpore. In quel
breve dormiveglia aveva già provato una vaga sensazione di non-familiarità, di
leggero disagio. Adesso, mentre sbadigliava rumorosamente, socchiuse debolmente
un occhio, e lo sbadiglio le si bloccò a metà per la realizzazione.
Quella non era la sua
camera. E quello non era il suo letto.
Si paralizzò
all’istante, gli occhi sbarrati fissi sul soffitto. Ci mise qualche secondo
per farsi coraggio, poi finalmente scostò la coperta che l’avvolgeva, tirando
quindi un sospiro di sollievo.
Pantaloni e top
erano al loro posto, le mancavano solo gli stivali, che le avevano lasciato i
piedi ancora indolenziti. Quella notte doveva esser stata talmente fuori di
testa da potersi facilmente spogliare e finire tra le lenzuola di qualcuno…ma
di certo non in grado di rivestirsi.
Tuttavia, il
sollievo svanì dalla sua faccia, mentre notava la gigantografia alla parete di
fronte e realizzava chi fosse il proprietario della camera.
Sguardo fiero,
sorriso largo e abbagliante. Capelli biondi scompigliati dal vento. In mano, la
coppa di un torneo minore di arti marziali, esposta con orgoglio.
Dalla stanza
attigua, lo scrosciare dell’acqua della doccia si mescolava con un’allegra
canzonetta stonata.
Pan si fece
scappare un gemito di disperazione. In quel caso, tutte le supposizioni appena
fatte potevano non valere più.
Balzò giù dal
letto, precipitandosi verso il bagno. Aprì la porta senza bussare o chiedere
permesso, guidata solo dal panico. Phol era appena uscito dalla doccia, un
accappatoio tigrato addosso. Sobbalzò leggermente vedendo entrare a passo
deciso la ragazza, che piombò come una furia su di lui e l’afferrò per il
colletto dell’accappatoio, bloccandolo contro il muro.
“Cos’è
successo stanotte??!” gli gridò in faccia Pan, il volto trasformato in una
maschera di terrore.
“In…in che
senso..?” riuscì a balbettare Bolide, paralizzato.
“Nel senso…se
noi due…insomma, abbiamo…”.
Il volto di Phol si
rilassò. Troppo, per i gusti di Pan. Al posto dell’espressione di
terrorizzata sorpresa si fece strada un sorriso sornione.
Passò qualche
secondo che a Pan sembrò durare un’eternità, il cuore che le martellava nel
petto.
“Mi dispiace
deluderti, ma…no, Pan” rispose infine, e lei potè respirare di nuovo.
“Nonostante le tue insistenti avances, io non mi concederei mai ad una ragazza
ubriaca…e ho preferito dormire sul divano!”.
Pan lo lasciò
andare, scostandosi da lui. Sospirò di sollievo, chiudendo gli occhi in segno
di ringraziamento. Nonostante avesse seri dubbi riguardo alle sue “insistenti
avances”, non potè che credere al collega.
“Grazie, Phol”
mormorò, più tranquilla.
“Non
preoccuparti, tesoro. Rimanderemo ad una serata più tranquilla, in cui sarai
lucida e potrai apprezzare al massimo le mie prestazioni…”.
Ma Pan non lo stava
ascoltando. Si massaggiava la testa, lo sguardo basso e vuoto, come avesse
dentro una gran confusione che tentava di riordinare.
“Perché
non…chiami i tuoi? Ti avranno data per dispersa…così potrai informarli che
sei in buone mani e con me non hanno che da stare tranquilli. Non tutti,
stanotte, avrebbero avuto la mia stessa premura…”.
“E’ finita
l’epoca in cui devo rendere conto ai miei di dove passo la notte!” sbottò
acida Pan, ma subito se ne pentì. Su una cosa Phol aveva ragione: nelle
condizioni in cui si era trovata la sera precedente, avrebbe potuto cacciarsi
seriamente nei guai. Non solo avrebbe rischiato di mettere in pericolo la sua
incolumità, che non era più in grado di difendere in preda all’alcool e alla
follia, ma anche quella degli altri. Dio solo sapeva cosa avrebbe potuto
scatenare.
Era stata una
fortuna, che ci fosse stato Phol a farle da balia, trascinandola via dalla
strada e facendole passare la notte in un posto sicuro, dove avrebbe potuto
tornare in se.
Quanto alle
preoccupazioni dei suoi…
Si voltò verso lo
specchio, fissando in silenzio la sua immagine riflessa.
Non si riconosceva
nemmeno. Vestita di abiti succinti e provocanti che non avrebbe mai indossato. I
capelli arruffati e impregnati di fumo, le occhiaie profonde, il trucco sbavato
intorno agli occhi e sulle guance. Un pallore cadaverico, al di sotto della sua
naturale abbronzatura.
Era questa
la Pan
che era diventata? Questa la persona che voleva essere?
Dov’era stata,
durante tutta quell’interminabile settimana?
“Non voglio
telefonare a casa…” rispose Pan, continuando a fissare lo specchio.
“Voglio tornarci. Voglio tornare a casa”.
Era rivolto più a
se stessa che al suo interlocutore, che la guardò senza troppa convinzione:
“Non vuoi farti prima una bella doccia calda? Sistemarti un po’? Intanto
potrei prepararti la colazione…”.
“No, Phol…voglio
andare subito”.
Lui sospirò,
convinto.
“Ok. Ma alla sola
condizione che sia io ad accompagnarti”.
Pan annuì
debolmente, forzando un sorriso. Quello, almeno, non poteva che concederglielo.
Se non altro il
viaggio in aircar, più lungo e tranquillo di quello che avrebbe fatto in volo,
dava a Pan il tempo di riflettere un po’.
Seduta sul sedile
del passeggero, il volto verso il finestrino e gli occhi chiusi, fingendo di
dormire, cercò di pensare alla notte precedente. La maggior parte dei ricordi
che le riaffioravano alla mente erano immagini labili, quasi surreali. Le luci
accecanti della discoteca…la musica penetrante…il sapore forte dell’alcol
che le scendeva in gola…tutto sembrava far parte di un lungo e sconclusionato
sogno.
Eppure, tra tutto
ciò, il ricordo di gran lunga più insensato e irrazionale le appariva
incredibilmente vero, terribilmente nitido.
Due paia di occhi
rossi come il fuoco, incastonati nelle cavità profonde di volti in
decomposizione, che la fissavano famelici.
Aveva capito chi
fossero fin dal primo momento. Era la prima volta che li vedeva, ma se li era
immaginati proprio così dai racconti di Trunks – Trunks,
le faceva male anche solo pensare quel nome – racconti di persecuzione
psicologica da parte di due creature terrificanti, falsi simulacri dei suoi
genitori defunti, che gli avevano fatto il lavaggio del cervello e lo avevano
quasi portato a compiere un gesto estremo. Ma alla fine lui ce l’aveva fatta,
si era liberato di loro.
E adesso…potevano
due proiezioni mentali essere così vivide, così forti, quasi dotate di vita
propria, da spostare il loro fronte d’attacco, decidere di tormentare qualcun
altro a lui vicino, per concludere la loro macabra missione?
Ma cosa potevano
volere da lei? Trunks se n’era andato deliberatamente, l’aveva lasciata
senza rimpianti. Se lo scopo dei due spettri era separarli, tenerla lontano da
lui, beh, avevano già vinto senza combattere. Niente più la legava a lui, né
mai più l’avrebbe legata.
Eppure sapeva che
non era veramente quello il loro obiettivo. Il loro obiettivo era strapparle dal
cuore i ricordi di quelle meravigliose settimane con lui, stillarne ogni
consistenza, ogni valore, ogni veridicità.
Ok, Trunks aveva
fatto la sua scelta, aveva ripreso la sua vita, in cui lei non avrebbe mai
potuto essere compresa e di cui non sarebbe stata nemmeno all’altezza, ma mai,
mai, avrebbe permesso a quelle creature di convincerla che quelle parole, quegli
sguardi, quei baci non fossero stati sinceri. Di questo ne era fortemente
sicura: per quelle settimane, almeno per quelle, Trunks l’aveva amata. Forse
non quanto lei aveva amato lui…quanto tuttora lo amava…ma di certo i suoi
occhi non mentivano.
Lo sapeva, lo
sentiva forte nel cuore, e avrebbe difeso quella verità con le unghie e con i
denti, finchè ne avesse avuta la forza.
Forse era stata
proprio questa immensa forza d’animo, ritrovata quella notte, che le aveva
permesso di sconfiggere gli spettri, e che adesso sembrava farla gradualmente
risvegliare da un letargo durato fin troppo.
Si accorse che
erano arrivati dal brusco scossone con cui Phol atterrò nella radura,
sradicando buona parte dell’erba e dei fiori che vi nascevano rigogliosi,
mentre i rumorosi motori della Norton spaventavano gli uccellini e gli
scoiattoli inducendoli a fuggire il più lontano possibile.
Infine frenò con
un forte rinculo, che li fece sobbalzare così forte da farli quasi sbattere la
testa contro il vetro, giusto mezzo metro prima di demolire il vialetto di casa
Son.
“Oh, bensvegliata,
signorina” la salutò Bolide, con un sorriso compiaciuto, notando gli occhi di
lei sbarrati ed il corpo irrigidito. Anche fosse stata addormentata davvero,
magari anche sotto l’effetto di sonniferi o tranquillanti, sfidava chiunque a
non essersi fatto svegliare da una simile manovra. “Siamo appena arrivati”.
“Già…”
rispose Pan, ancora un po’ frastornata. Guardò casa sua come non la vedesse
da anni. Non era cambiato niente, era lei che probabilmente vedeva tutto da una
diversa prospettiva.
Quella della
certezza di una vita senza di lui. Di minuti, ore e giorni in cui avrebbe dovuto
trovare un’altra motivazione per respirare. E la sua motivazione era la sua
casa, chi vi abitava e chi vi aveva abitato. Era la palestra di suo nonno, erano
tutti gli insegnamenti dell’altro, a cui doveva quello che era adesso, quello
che aveva raggiunto e di cui doveva essere orgogliosa.
“Beh,
allora…buona giornata”.
Pan si voltò verso
di lui, lo sguardo catturato dall’alone violaceo che gli circondava l’occhio
sinistro, lasciandogli la palpebra metà socchiusa per il gonfiore. Alzò la
mano, sfiorandogli delicatamente lo zigomo. Lui la lasciò fare, anche se al
solo contatto delle sue dita strinse gli occhi come scottato.
“Ti fa male?”
gli chiese apprensiva, allontanando la mano, ma lui la trattenne delicatamente
appoggiandovi sopra la sua.
“No,
tranquilla…cosa vuoi che sia un minuscolo livido!” rise debolmente, poco
convinto.
“Mi dispiace,
io…mi sento in colpa…non sarebbe successo se…”.
“Shhh” la
rabbonì lui. “Per te…ne è valsa la pena”.
Solo allora Pan si
rese conto dell’improvvisa vicinanza che si era creata tra di loro, la sua
mano ancora sul volto di lui, che adesso era solo a qualche centimetro dal suo,
tanto che sentiva il suo respiro sulle labbra…
Forse era quello il
primo passo verso la sua nuova vita, la sua nuova vita senza di lui.
Phol non avrebbe mai compensato ciò che provava per colui che ai suoi occhi
sarebbe sempre rimasto l’unica ed ineguagliabile perfezione, ma forse, era
proprio di uno così che aveva bisogno, un tipo alla sua portata, uno con cui
non avrebbe dovuto reggere il confronto che una meteora informe ha con una
stella brillante.
Uno che avrebbe
potuto colmare il vuoto, farla sentire preziosa, forse anche renderla felice…
Ma che non era
Trunks.
Si scostò
delicatamente, abbassando lo sguardo con un po’ di imbarazzo. Non se la
sentiva. Non ancora. Era una follia cercare di ingannare se stessa.
“Phol…scusa
ma…devo andare” disse in un sussurro.
“Ok. Ci vediamo
in palestra…allora” si ricompose in fretta lui, ostentando naturalezza. “E
rimettiti presto in forma, capo!”.
Pan gli rivolse un
sincero sorriso, guardandolo di nuovo negli occhi.
“Grazie. Grazie
davvero” disse, appoggiandogli una mano sulla spalla, prima di aprire lo
sportello e scendere dall’air-car.
Mentre percorreva
il vialetto di casa, si voltò a guardare il velicolo che decollava con
altrettanto fracasso, mentre Bolide si sbracciava dal vetro per salutarla.
Quando si voltò di nuovo, sulla porta di casa era apparsa sua madre, che la
fissava in silenzio.
Pan si bloccò,
colta improvvisamente dal dubbio e dalla vergogna. Rimasero così per qualche
secondo, l’una davanti all’altra, il vento sollevato dal decollo dell’air-car
che sventolava i loro capelli. Poi, lo sguardo della donna si ammorbidì
gradualmente, lasciando spazio ad un’espressione di sollievo.
E allora Pan non
resistette oltre. Sentiva già le lacrime che iniziavano ad inumidirle gli
occhi.
“Mamma…”
mormorò, per poi correre tra le sue braccia aperte.
Una volta, da
bambina, aveva tenuto il broncio a mamma e a papà per ben due giorni. Doveva
aver avuto circa sei anni. Un pomeriggio erano andati alla Capsule Corporation
per una visita ai Brief. Lei mangiava un gelato squisito che le era stato
offerto dagli inservienti robotici di Bulma, tutti chiacchieravano e
scherzavano, e lei era perfettamente a suo agio. Ad un certo punto, finito il
suo gelato, si era accorta che i maschi non c’erano più. Suo padre, suo zio
Goten, Trunks e Vegeta…non capiva dove si fossero cacciati. Si era alzata,
chiedendo alle donne in sala, ma sua madre, sua nonna e Bulma cercarono di
distrarla con qualche zuccheroso complimento.
Ma lei non voleva i
complimenti. Lei voleva sapere dove fossero andati gli altri.
Era stata la
piccola Bra, con il suo vestitino azzurro con le gale e i fiocchi blu, ad
avvicinarsi con l’aria di chi la sa lunga: “Ma come, non lo sai? Sono andati
ad allenarsi nella Gravity Room di mio padre. Solo i più forti possono
resistere lì dentro, di certo non potevano portare una marmocchia come te”.
C’era rimasta
malissimo. Talmente male, che aveva deciso di punire i suoi genitori con un
broncio prolungato e irremovibile. Si sarebbe rinchiusa in camera sua, senza
mangiare. Avrebbero dovuto dirglielo!
Alla fine, la fame
ed il buon senso avevano avuto la meglio sull’orgoglio. I suoi genitori non le
avevano detto niente della Gravity Room al solo scopo di proteggerla, per
evitare di esporla a rischi, e alla fine aveva dovuto ammettere che, in effetti,
avevano ragione.
Proprio come quella
volta di tanti anni prima, la mamma sedeva sul divano, mentre lei era distesa
con la testa appoggiata sul suo grembo. Si faceva accarezzare dolcemente i
capelli, e quel gesto riusciva straordinariamente a rassicurarla, a rilassarla.
Ancora una volta, la mamma l’aveva perdonata per il suo assurdo e immotivato
comportamento.
“Mi dispiace,
mamma” ripetè per l’ennesima volta. “Mi dispiace davvero. Sono stata una
stupida…voi…voi non c’entravate niente…avevo solo bisogno di un pretesto
per prendermela con qualcuno…”.
“Basta così,
tesoro” la rassicurò Videl, massaggiandole la tempia. “Sei solo troppo
impulsiva, ecco cosa sei. Se soltanto avessi dato a tuo padre il tempo di
spiegarti…”.
Suo padre. Quanto
era stata ingiusta con lui. Lo aveva accusato di aver costretto Trunks ad
andarsene, ma ora sapeva, sentiva, che non era stata colpa sua.
Quando sentì la
porta di casa che si apriva cigolando leggermente, rivelando la sagoma di suo
padre che si stagliava sull’accecante luminosità della tarda mattinata, sentì
di essere invasa dal panico.
Con lui non sarebbe
stato facile e spontaneo come con sua madre. Con lui, si sentiva così piccola e
insignificante da non riuscire a trovare le parole giuste, per riparare al fatto
di aver mancato di rispetto alla persona più buona e altruista del mondo, che
meno di tutti se lo meritava.
Ma il sorriso caldo
con cui l’accolse bastò per farla respirare di nuovo. Si alzò lentamente dal
divano, andandogli incontro a passi cauti e misurati.
“Ciao, tesoro”
la salutò lui con ostentata naturalezza, come non fosse mai successo niente,
come se avesse già cancellato quella terribile settimana di lontananza emotiva.
Ma Pan sapeva che il suo cuore ribolliva di sollievo e commozione, che dietro a
quell’enorme sforzo di dimostrarsi completamente tranquillo e a suo agio,
c’era la sua stessa voglia di abbracciarla.
Suo padre era un
pessimo attore.
“Giust’appunto…”
incalzò, cercando di evitare imbarazzanti silenzi, mentre sollevava la scatola
rettangolare incartata d’argento che teneva in mano. “E’ arrivato questo
pacco per te. Sono stato a ritirarlo adesso all’ufficio postale di Satan City,
perché come ben sai il servizio non arriva fin quassù!”.
Glielo porse, e
lei, piuttosto confusa, lo prese esitante. La carta era pregiata, lucida come
uno specchio, ed il nastro blu era sicuramente di seta.
“Co…cos’è?”
chiese con un sussurro, tenendo in mano il pacco come fosse qualcosa di
extra-terrestre.
“Non lo so,
Pan” rispose Gohan, alzando le mani. “Ma all’ufficio mi hanno detto chi è
il mittente. Credo che te lo mandi Trunks”.
Al suono di quel
nome, il suo cuore cominciò a batterle nel petto come un martello. Con le mani
che già le tremavano, alzò lentamente gli occhi su quelli del padre, che
adesso le rivolse un sorriso sincero, genuino, che senza bisogno di parole le
diceva tutto quello che avrebbe dovuto sapere…fin da quel giorno…
“Trunks…che
ne dici di una passeggiata sulla collina? Avrei bisogno di parlarti” riuscì a
formulare, con il tono più tranquillo e rilassato che riusciva a simulare,
mentre Pan, uscendo, gli lanciava un’occhiata a metà tra il divertito e il
curioso.
Trunks
alzò lentamente gli occhi dalla sua colazione, ma rimase qualche secondo in
silenzio, a fissarlo, come valutasse attentamente quella proposta.
“Ok”
disse infine, abbandonando le posate sul piatto vuoto. “Dammi solo il tempo di
controllare la posta elettronica”.
“Perfetto.
Ti aspetto fuori”.
Gohan
attese fuori dalla porta di casa, passeggiando nervosamente avanti e indietro.
Non sapeva ancora cosa dire, doveva ancora trovare le parole giuste per farlo.
Eppure, sapeva che doveva approfittare di quell’occasione, quando Pan non era
in casa, o non sarebbe stato più capace di parlarci in privato.
“Eccomi,
ci sono” si annunciò Trunks, uscendo con un mezzo sorriso. “Possiamo
andare”.
“Certo”
rispose prontamente lui, mentre insieme si avviavano verso i suggestivi sentieri
dei Paoz.
Parlarono
del più e del meno, dell’incombente matrimonio tra i loro fratelli, degli
eccessi di Bra in fatto di preparativi e dell’ostinazione di Goten a imparare
a ballare il valzer, della loro comune gioia dell’attesa di un nipotino, un
nuovo piccolo sajan. Parlarono di come gli alberi erano germogliati
straordinariamente in fretta quell’anno, di come a breve avrebbero assistito
ad un’estate precoce, dopo i soliti capricci di Aprile.
Il
Son gli mostrò con soddisfazione un piccolo nido creato nella cavità di un
tronco, da cui cinguettavano acutamente quattro deliziosi piccoli di pettirosso.
“Carini,
vero?” osservò Trunks, accucciandosi per sbirciare meglio nella nicchia.
“Io e Pan li avevamo già visti qualche giorno fa, quando si erano appena
schiuse le uova. Io sono sempre vissuto in città, non li avevo neanche notati,
è stata lei a trovarli, naturalmente!”.
“Già,
naturalmente…” si limitò a ripetere Gohan, ma qualcosa gli disse che doveva
assolutamente sfruttare quell’ imput, che riprendere il discorso dopo sarebbe
stato sicuramente più difficile.
“Tu
e Pan…venite spesso a passeggiare quassù?” chiese, ostentando indifferenza,
fingendo di pulirsi gli occhiali con il bordo della maglia.
“Sì,
piuttosto spesso, direi. Sono state passeggiate molto…piacevoli”.
Oh, non faccio
fatica a crederlo, pensò malamente Gohan. Si sentiva un emerito idiota, a procedere così
per accenni o mezze frasi. Si stavano prendendo in giro a vicenda, e lui non
aveva nessuna intenzione di continuare all’infinito quella commedia. Eppure,
adesso si era bloccato di nuovo. Il suo ennesimo tentativo era fallito.
Sospirò
affranto, facendo inconsapevolmente uscire dalle labbra un gemito stanco,
arrendevole.
Trunks
si voltò verso di lui, l’aria interrogativa ma cauta: “Che c’è, Gohan?Devi
dirmi qualcosa?”.
Gohan
sentì il suo volto andare in fiamme, e con la coda dell’occhio vide che anche
Trunks era leggermente a disagio.
“Io…credo
che…dovremo sederci” consigliò, invitando l’altro a fermarsi e a sedersi
su due tronchi di alberi caduti, l’uno di fronte all’altro.
Trascorse
qualche istante di imbarazzante silenzio.
“Avanti,
Gohan” lo incitò infine Trunks, facendo coraggio ad entrambi. “Tanto
sappiamo tutti e due dove vogliamo arrivare, non credi?”.
Gohan
si sentì mozzare il fiato, mentre con terrore rivedeva nella mente le immagini
del suo sogno. Stava per succedere veramente? Avrebbero finito per ammazzarsi
l’un l’altro come bestie inferocite, dimenticando chi fossero e cosa li
legasse?
Fortunatamente,
i suoi terrori furono subito placati quando alzò timidamente gli occhi, vedendo
che Trunks gli stava rivolgendo un imbarazzato ma rassicurante sorriso.
“Ok…”
iniziò il più maturo, la testa incassata tra le spalle,chino in avanti e con i
gomiti appoggiati sulle gambe. “Diciamo che…quello che è successo tra te e
Pan non è passato del tutto inosservato” iniziò, lo sguardo ancora basso.
“Non che io mi sia fatto gli affari vostri, intendiamoci…ma nemmeno voi
avete fatto molto per nasconderlo”.
Si
fece coraggio e alzò gli occhi sul Brief, che ricambiò il suo sguardo con
un’espressione di attesa.
“Continua”
lo incalzò, serio ed imperscrutabile.
“Ecco…volevo
solo sapere…insomma…visto che avete passato molto tempo insieme…da
soli…”.
Trunks,
fino ad allora inespressivo e glaciale, scoppiò a ridere sommessamente,
incapace di trattenersi, anche se il suo volto era leggermente arrossito.
“Gohan,
tu vuoi sapere…se siamo già stati
insieme, non è così?”.
Gohan
boccheggiò per qualche secondo, per poi abbandonarsi ad un sorriso che
ammetteva, con una buona dose di autoironia, tutta la goffaggine con cui cercava
di affrontare argomenti di quel tipo.
Se
non altro, venendo subito al dunque, il ghiaccio si era definitivamente sciolto.
“Tranquillo,
Gohan. La risposta è no”.
Il
Son annuì lentamente, cercando di celare almeno in parte il sollievo che
provava.
“Non
fraintendermi…non ho intenzione di fare il padre iper-protettivo” precisò.
“Non so molto della vita privata di mia figlia, ma so che ha già avuto
esperienze con dei ragazzi…non è più una bambina. Credo che con un paio
abbia iniziato anche una frequentazione regolare, ma non abbastanza da
definirla…seria. Pare scontato pensare che fossero questi ragazzi a non voler
niente di più di un’avventura, o che magari si stancavano a breve di lei
perché la reputavano troppo, come dire, strana. Ma non è così. Io credo piuttosto, anche se non li ho conosciuti
personalmente, che fossero bravi ragazzi, in grado di poterla accettare così
com’era, magari persino pronti a impegnarsi, più o meno ufficialmente…era
lei, in realtà, a non volersi legare. Voleva tenersi…libera, ecco. E, non so se era una coincidenza o meno, ma questi
rapporti terminavano all’incirca in corrispondenza di qualche ritrovo…con
voi Brief”.
Trunks
alzò allibito gli occhi sul suo interlocutore, scuotendo poi la testa, del
tutto impotente.
“Mi
dispiace” mormorò. “Io…non credo di aver mai agevolato…”.
“Non
è colpa tua, Trunks” ci tenne a specificare il più maturo. “Era lei che ci
sperava, ogni volta. Ci ha sempre sperato e…quello che è buffo, è che era
pronta ad aspettarti all’infinito, ma mai a rinunciare a te
definitivamente”.
Fece
una pausa, per dare il tempo ad entrambi di riflettere. Non che credesse
veramente che ciò che stava dicendo ora a Trunks gli fosse completamente nuovo.
Il Brief sapeva, anche se fino a poco tempo prima aveva sempre tentato di
sorvolare, che Pan provava per lui qualcosa di particolare, probabilmente fin
dai tempi del viaggio nello spazio, quando il loro rapporto si era fatto
innegabilmente più stretto. Quella era la prima volta, però, che ne parlavano
apertamente, come un dato di fatto.
“All’inizio
io stesso vi davo poca importanza, credevo fosse un’innocente fissa da
ragazzina…lo sai, no, che le adolescenti prendono le prime sbandate per chi
non fa per loro. Beh, mi sbagliavo. Sapevo che alla base c’era un grande
affetto di fondo, una fiducia e una complicità che solo poche persone
condividono, ma mi sembrava perfettamente normale, dopo i mesi passati insieme,
e il cameratismo che si era creato…ma non c’era solo questo. E non era
neanche soltanto una sbandata, perché gli anni passavano, lei faceva le sue
esperienze, ma continuava a pensare a te…in quel
senso. Non l’ha detto mai esplicitamente, ma anche un padre riesce a capire
certe cose…quando vuole”. Sorrise debolmente, tornando poi pensieroso.
“Era un sentimento maturo e consapevole quello che si è portata dietro…e lo
è adesso più che mai”.
“Lo
so, Gohan” convenne Trunks, i gomiti posati sulle ginocchia, le mani
incrociate all’altezza della bocca, in un atteggiamento riflessivo. “Non
sono così cieco”.
“Bene”
annuì lui, sospirando. Adesso veniva il tasto dolente. “Io so per certo che
tu tieni molto a Pan. Che le vuoi un gran bene. Ma se non c’è altro…e sai
cosa intendo…forse è meglio che ti fermi prima di andare troppo oltre…perché
vedi, tu non sei uno qualunque, tu sei quello su cui lei ha investito
e…insomma, per lei avrebbe un certo significato”.
“E
tu credi che per me non ne avrebbe?” chiese Trunks, spostando gli occhi su di
lui. “Credi che…non provi altro che affetto, per lei?”.
“Io
non dico questo” si difese Gohan, abbassando per qualche secondo lo sguardo.
Era dannatamente difficile, soprattutto parlarne con lui, che considerava come
un fratello. “Io dico soltanto che hai attraversato un momento difficile…eri
ancora confuso, quando sei venuto qui, emotivamente fragile, come è normale che
fosse…e quindi, in un contesto simile è estremamente facile confondere i
sentimenti…Pan è una persona che dà tutta se stessa, spontanea e
trasparente, che ti fa sentire bene, a tuo agio…e certo, è anche una bella
ragazza, giovane, che magari potrebbe attrarti anche fisicamente, per cui…”.
Si passò una mano tra i capelli, nervosamente. “Quello che voglio dire,
Trunks, è che adesso può sembrare tutto bello, tutto giusto, ma poi, quando
tornerai a casa? Tu riprenderai la tua vita, che è fatta di tutt’altre cose,
di tutt’altre persone, ed è possibile che ti renda conto che non c’è posto
per lei, che è stata solo una bella…vacanza. Ma a lei cosa resterebbe, poi? Sarebbe un colpo
durissimo”.
Trunks
sbattè le palpebre, tornando poi a guardare il suo interlocutore, senza timore,
senza imbarazzo.
“Mi
dispiace che tu pensi questo, Gohan” si rammaricò. “Eppure, sono convinto
che tu mi conosca abbastanza da sapere che, se non facessi sul serio, non avrei
mai neanche permesso ciò che invece è successo, a maggior ragione con Pan, a
cui ho sempre voluto bene e che rispetto incondizionatamente. E di certo, non mi
permetterei mai di spingermi oltre con il rischio di rovinare tutto, finché non
siamo veramente sicuri di voler far definitivamente evolvere quello che c’è
tra noi…perché in questo caso non si torna indietro, non ci si dice
semplicemente addio e poi ognuno va per la sua strada…ci sarà sempre un
legame, tra noi”.
“Quindi
aspetti di esserlo” dedusse Gohan. “Aspetti di essere veramente sicuro”.
“No…aspetto
che lo sia lei” lo corresse
Trunks, sotto lo sguardo confuso dell’altro. “Lo so, adesso tu dirai che non
esiste persona al mondo più sicura di tua figlia, ma a volte, anche se fa male,
non si può ascoltare solo il cuore. Quello che voglio dire, Gohan, è che non
è facile starmi accanto, seguire i miei ritmi…io non sono perfetto come a
volte lei crede di vedermi, io ho un sacco di difetti, come uomo, come
presidente, come…come tutto. Forse è il caso che lei ci pensi, più
razionalmente, a mente lucida e, magari, lontano da me”.
Fece
una pausa, nonostante l’espressione dell’altro lo incitasse a continuare,
poi riprese, lentamente: “Stamattina, prima di venire qui con te, quando ho
controllato la posta sul mio portatile, ho ricevuto un messaggio da Irina, la
mia segretaria. Non so ancora come ci sia riuscita, visto che è già abbastanza
indaffarata con i preparativi del suo matrimonio e per di più, adesso che non
ci sono, deve lavorare anche il doppio, ma ha organizzato per stasera un party
diplomatico con i principali clienti, che pare abbiano gradito l’invito e che
si terranno certamente liberi. Parlo di personaggi come Billy Ford, Jack Hilton
e Erika Lowell, che hanno in mano una grande fetta del mercato mondiale. E sai
che vuol dire, questo, Gohan? Che quasi sicuramente vogliono dare un’altra
possibilità alla Capsule Corporation, che credono ancora in noi, dopo
che…insomma, dopo che per colpa mia l’azienda ha avuto un grave crollo in
popolarità, fino a toccare picchi per i quali mio nonno si rivolterebbe nella
tomba. E’ una grande occasione, quella di stasera, credo tu possa capirne
l’importanza. Ho intenzione di partire subito, giusto il tempo di radunare le
mie cose, per cui non credo di farcela a salutare Pan prima che torni da
lavoro”.
“Quindi
te ne vai definitivamente” concluse Gohan. Era consapevole che quel momento si
stava avvicinando, e poteva dire di averlo ultimamente atteso con sollievo,
nonostante fosse stato felicissimo di ospitare Trunks a casa. Adesso che era
arrivato, però, quasi se ne dispiaceva, trovandosi a desiderare che fosse
rimasto ancora un po’, come non fosse pronto ad un distacco così repentino.
“Sì,
è arrivato il momento” confermò il più giovane. “Ma se sono finalmente
pronto a tornare, se ho di nuovo la forza di riprendere in mano l’azienda di
famiglia e di riparare ai miei errori, lo devo soltanto a voi. Comunque vadano
le cose, Gohan, non dimenticherò mai quello che avete fatto per me
nell’ultimo mese”.
Gohan
abbassò lo sguardo, forse temeva di commuoversi, ma l’altro continuò:
“Prima di tutto lo devo a te e a Videl, che mi avete fatto sentire in
famiglia, quando credevo di non avere più nessuno…a Chichi, che mi ha
trattato come un figlio…e anche a Goten, che mi ha prestato la sua vecchia
camera, anche se forse lui non è stato neanche interpellato a riguardo!”.
Sorrisero entrambi. “E a Pan, naturalmente. La mia luce in fondo al tunnel”.
Fece una pausa, mentre l’altro annuiva silenziosamente, lo sguardo basso.
“La chiamerò, appena posso. Io torno a West City, ma…non mi dimentico di
lei. Spero sia lo stesso per Pan”.
“Oh,
potrei scommetterci…” disse Gohan a voce bassa, quasi a se stesso. Poi si
alzò dal tronco, abbracciando Trunks fraternamente.
Nella
sua mente ripassarono mille immagini passate, mille ricordi e sensazioni…lui
stesso ancora bambino, quando aveva preso per la prima volta in braccio quel
fagotto capriccioso dagli occhioni azzurri…tutte le visite alla Capsule
Corporation, da adolescente, a strappare a Bulma qualche idea o consiglio, con
un piccolo Brief che lo guardava con un misto di divertimento e ammirazione…i
giochi insieme a lui e a Goten, le avventure in volo, le risate, le arrabbiature
quando i due sajan più piccoli si divertivano a spiare lui e Videl ai primi,
imbarazzanti appuntamenti…
Tutto
questo gli passò nella mente, e sentì ora come non mai di voler bene a quel
ragazzo, quel ragazzo che ora era un uomo, leader di una società prestigiosa, e
che sembrava voler far sul serio con sua figlia ventenne.
“Buona
fortuna, Trunks” gli disse, con qualche affettuosa pacca sulla schiena. “Sei
un bravo ragazzo”.
“Avanti,
aprilo” la incoraggiò Gohan, notando l’esitazione della figlia, gli occhi
ancora fissi e confusi sulla scatola argentata che teneva in mano.
“Ah…sì” si
riprese lei, nonostante sentisse paralizzati tutti i muscoli del suo corpo, a
partire dalla lingua. “C’è…c’è un biglietto”.
“Bene…”.
“Ah, Gohan, perché
non mi aiuti a recuperare quel vasetto di marmellata là in cucina, sullo
scaffale più alto?” suggerì Videl, facendo segno al marito di seguirla.
Pan sfilò la busta
da sotto il nastro. Sul retro c’era il suo nome, scritto con la calligrafia
elegante e precisa di Trunks.
Non riusciva più a
respirare. Le sue gambe erano diventate improvvisamente molli. Dovette sedersi
in poltrona, con il pacco in grembo.
Si fece coraggio,
ed estrasse il biglietto.
Rilesse ogni frase
più volte, come a volersi convincere di non averla immaginata.
Ciao
Pan
Perdonami
se non mi sono fatto più sentire, ma come Gohan certamente avrà avuto modo di
dirti, non ho avuto un solo momento libero fin dal giorno del mio ritorno.
Sabato
sera la mia segretaria Irina si sposa. Dovevo andarci con Bra, ma naturalmente
mi ha dato buca: la settimana dopo si sposa lei, e sarà immersa nei preparativi
fino al collo.
Mi
piacerebbe che fossi tu ad accompagnarmi. Sarà una serata piacevole e
tranquilla, niente di formale e impegnativo, e non vorrei andarci con nessun
altra.
Se
non te la senti, non hai che da farmelo sapere. Ma almeno non avrai la scusa che
non hai niente da mettere.
Con
affetto,
Trunks
Con il cuore che le
stava per esplodere, saturo di tutte quelle inaspettate emozioni, tirò
delicatamente il nastro per sciogliere il nodo, poi scartò il pacco ben attenta
a non rovinare la carta. Di solito, quando scartava i regali, strappava tutto in
un colpo solo, ma no, non questa volta.
Quando finalmente
aprì il coperchio, un’ondata di rosso le abbagliò gli occhi, a contrasto con
il tessuto candido e immacolato del tessuto che rivestiva la scatola. Lo tirò
fuori delicatamente, ammirandolo poi in tutta la sua incredibile bellezza.
“Non ci
credo…” mormorò tra se.
Il solo pensiero di
indossarlo, il solo pensiero che fosse stato lui a mandarglielo, che lui avrebbe
potuto vederla con quello, le fece girare ancor più la testa.
Dalla cucina, il
chiacchiericcio dei suoi genitori risuonò allegro come le era sempre sembrato.
“Ma…Videl...io
non vedo nessun vasetto di marmellata!”.
“Non è
possibile…guarda meglio, Gohan!”.
“Secondo me
l’hai portato di là da mia madre…”.
“Avanti, continua
a cercare un altro po’!”.
Pan si alzò,
appoggiando il regalo sulla poltrona e correndo in cucina con ritrovata
leggerezza.
“Davvero, Videl…sullo
scaffale più alto c’è solo zenzero, peperoncino e…”.
Ma non finì la
frase, perché sua figlia gli si era già precipitata tra le braccia,
stringendolo con forza e trasporto.
Rispose
all’abbraccio, con la tenerezza e l’affetto di quella sera della
premiazione, da cui sembrava passato un secolo.
“Mi sei mancata,
piccola” le disse dolcemente.
* *
*
Eddy Fox,
venticinque anni e già vicedirettore della Satan Bank, di cui era considerato
il Prodigio, per l’ineguagliabile
fiuto negli affari che gli aveva regalato una precocissima carriera, abbassò
leggermente le veneziane a coprire la spaziosa vetrata del suo ufficio. Tirò
una boccata dal suo sigaro, ammirando con soddisfazione la bassa luminosità
della stanza, rischiarata a intervalli regolari da sottili rettangoli di luce.
L’interfono emise
un debole fruscio, per poi lasciare il posto alla voce della sua segretaria:
“Mr Fox, la sua ospite è appena arrivata”.
“La faccia
entrare” rispose lui con un sorriso compiaciuto, mentre spegneva il suo sigaro
nel posacenere di marmo e si allentava il noto della cravatta, per dare a
quell’incontro un tono meno formale. “E mi raccomando…non voglio essere
disturbato per nessun motivo”.
“Come desidera,
signore”.
Tutto era perfetto:
i chiaroscuri dell’ambiente, l’ufficio lindo e ordinato, la bottiglia di
champagne immersa nel ghiaccio. Si appoggiò alla scrivania, la mano destra ad
accarezzarsi il pizzetto castano, mentre fissava la porta in aspettativa.
Sorrise, quando
questa si aprì.
Non era cambiata
per niente. Lo stesso fascino innato, la stessa grazie divina, la stessa,
disarmante bellezza. Aveva solo i capelli un po’ più corti di quelli che le
aveva visto l’ultima volta, qualche anno prima, e un leggero, quasi
impercettibile rigonfiamento all’altezza del ventre, che però sapeva
mascherare intelligentemente con una morbida camicetta.
Ma i suoi occhi…i
suoi occhi emanavano la stessa luce, e il suo sguardo era più ammaliatore di
quello di un’incantatrice, la sua voce più suadente di quella di una sirena.
“Ciao, Eddy.
Quanto tempo, eh?”.
Lui le andò
incontro lentamente, fino a fermarsi appena davanti a lei, gli occhi colmi di
una veneranda ammirazione.
“Sì…decisamente
troppo” riconobbe distrattamente, posandole le mani sulle braccia e
accarezzandogliene il profilo. “Mio padre mi aveva detto che eri diventata
ancora più bella, io non lo ritenevo possibile, e invece, ogni volta, devo
contraddirmi…”.
Bra non rispose, si
limitò a sorridere con compiacimento, abbassando lo sguardo e riavviandosi una
corta ciocca azzurra dietro l’orecchio. Rialzò gli occhi maliziosamente,
incontrando quelli del giovane Fox.
Era letteralmente
incantato.
“Sono contento,
Bra, che alla fine abbia scelto me”.
Bra sorrise con
approvazione.
“E a quale altra
banca pensavi mi rivolgessi, visto che ho un carissimo
amico che lavora nella migliore di tutte?”.
“Non rimarrai
delusa, te lo prometto”.
“Non ne dubito.
Mi fido ciecamente di te, Eddy”.
“E io ho fiducia
nelle tue capacità, Bra. Ti tratterò da cliente privilegiata”.
“Credo che allora
potrebbe diventare una piacevolissima collaborazione” commentò la ragazza,
con uno sguardo talmente accattivante da costringere Fox ad allentarsi
ulteriormente la cravatta.
“Direi di
brindare a noi due, allora” propose, accompagnandola con un gesto galante
verso lo champagne.
“Già, a noi
due…” sorrise lei, fingendo di non badare alla mano di lui che indugiava
sulla sua schiena un po’ più del dovuto.
“Mille e
cinque” annunciò l’energumeno biondo platino, facendo ricadere il suo peso
sulla spalliera della poltroncina, che cigolò sonoramente.
La canottiera
bianca metteva in mostra le braccia abbronzate e tatuate, rivestite di una
pellicola di sudore, mentre un ciuffo di peli dorati faceva capolino dal petto
in carne.
Peaboy storse il
naso, disgustato da tanta rozzezza. Anche il solo fatto di non essersi tolto gli
occhiali da sole, quasi fossero ormai una parte non scindibile di lui, era segno
di altrettanta maleducazione.
Tuttavia, Jordi era
il paparazzo più scaltro e ricercato del mercato, e per questo si faceva pagare
anche piuttosto caro.
Troppo, decisamente
troppo.
“Mille” tentò
di ribassare, sospirando. “Non ti sto chiedendo di fotografare il Supremo,
Jordi, solo quell’idiota di Trunks Brief e
quella sciacquetta della Lowell!”.
Non gliene poteva
importare di meno della presunta relazione tra quei due perditempo, solo di
anticipare quella strega di Candy Flash nello scoop più ambito della primavera.
Per una volta, sarebbe stata la sua
rivista di gossip ad avere l’anteprima, e niente poteva fermarlo.
“E ti sembra
facile, amico? Brief non si è fatto trovare per settimane, l’abbiamo cercato
ovunque, ma niente! E anche adesso che è tornato, non si fa vedere molto in
giro, il tipo è bravo a non farsi pedinare…figuriamoci se si fa beccare con
una pollastrella!”.
“Ok, allora,
pedinate
la Lowell
!” propose Peaboy, esasperato. “Lei è meno sotto pressione, non baderà a
seminare i paparazzi, e vi condurrà dritto da lui”.
“Ne sei così
sicuro?”.
“Certo! Prima o
poi dovranno incontrarsi, magari si daranno appuntamento da qualche parte, una
cenetta romantica in qualche posticino fuori mano o altre stupidaggini del
genere…e allora, click!”.
“Mille e
cinque” ripetè Jordi, incrociando le mani dietro la nuca, mentre la
poltroncina emetteva un altro cigolio sofferente.
“Mille e due e
facciamola finita” sostenè Peaboy, che cominciava ad averne abbastanza.
Jordi risacchiò
sommessamente, con l’aria di chi la sa lunga.
“Ok” cedette,
mentre con la lingua si portava dall’altro lato della bocca lo stuzzicadenti
con cui si trastullava, accentuando lo sdegno del suo interlocutore. “Seguirò
la Lowell
giorno e notte, e se la becco in dolce compagnia mi dai i miei mille e duecento
verdoni. Nel caso riesca a immortalare qualche atteggiamento compromettente, il
prezzo si rialza, bello mio, sono mille e trecento. E se, dico e se, dovessi
coglierli in flagrante, mi sa proprio che dovrai cacciarmi i mille e cinque”.
Peaboy sospirò,
esausto.
“E va bene,
d’accordo!” sbottò, tamponandosi il sudore sulla fronte con il fazzoletto
ricamato. Cosa doveva fare per competere con Miss “Arpia” Flash! Se non
altro, tutti quei soldi sarebbero stati spesi bene. “Adesso però alza quel
tuo grosso didietro dalla mia poltrona, e mettiti al lavoro!”.
* *
*
Il caffè, tiepido
al punto giusto e dolce quanto bastava, come piaceva a lui, gli scorse piano
lungo la gola, diffondendo il suo aroma attraverso i suoi sensi.
Chiuse gli occhi,
assaporando quella piacevole sensazione.
La bontà di quella
miscela non stava tanto nel sapore, che tuttavia era ottimo, ma dal contesto di
familiarità e di sicurezza che gli trasmetteva mentre lo assaporava, a quel
momento di piacevole deja-vou da cui si faceva cullare.
Giornate di un
passato non così remoto, nonostante tutto, giornate passate chino su quella
scrivania, dietro a pile di documenti che quasi mai leggeva, vicino ad una
finestra che troppe volte era stata usata come scappatoia da un mondo che
credeva non appartenergli, e che mai gli sarebbe appartenuto.
Ora, sorseggiando
quel caffè che, come aveva sempre fatto, la fedele Irina gli portava in ufficio
insieme al quotidiano di notizie finanziarie, realizzava come quel mondo non
solo gli fosse sempre appartenuto, ma come non avrebbe mai potuto fare a meno di
esso.
Non riusciva a
credere di essere stato solo ad un passo dal perdere tutto, dal gettare tutto al
vento, solo perché aveva perso ogni fiducia in se stesso, solo perché non si
sentiva all’altezza, solo perché non sapeva più chi fosse.
Forse era stata la
lontananza forzata da tutto quello, più lunga di qualsiasi vacanza che si era
mai concesso, o l’inevitabilità del suo ritorno e del più serio impegno con
cui aveva ricominciato, ma adesso, pienamente consapevole, Trunks poteva dire
che quella era la sua casa, quello era
il suo posto.
Sorrise tra se,
pensando che il suo lavoro gli era veramente mancato. Solo qualche anno prima,
non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare di provare qualcosa di simile.
Ma da allora erano
cambiate tante cose…lui era cambiato, e molto
di quello che lo circondava.
Era iniziata una
nuova era, un’era in cui il Presidente della Capsule Corporation non era più
solo un fantoccio svogliato dietro una pila di documenti e vicino ad una
finestra tentatrice, ma un leader serio, maturo ed impegnato che avrebbe sempre
combattuto per il benessere della società e dei suoi dipendenti.
Ma
ricordati che una società sta bene se prima di tutti sta bene il suo leader,
amava ricordargli Irina. Non dimenticare
la tua vita, Trunks, un buon presidente è prima di tutto un uomo!
E
nel mio caso anche un sajan, Irina, non dimenticarlo. Ogni tanto sono impegnato
anche a salvare il mondo, e mi sembra un diversivo più che sufficiente, aveva
scherzato lui in risposta.
Spiritoso,
parlo della tua vita privata! lo aveva ripreso la segretaria, scandendo
l’ultima parola. Dato il tour de force a
cui ti stai sottoponendo, ultimamente questa è così inesistente che i giornali
sono costretti a fare dei bizzarri voli pindarici pur di scrivere qualcosa!
Conoscendola,
avrebbe voluto sbattergli davanti le foto degli ultimi giornali scandalistici,
per commentarle con criticità e, per vie traverse, scoprire se quanto scritto
corrispondeva al vero.
Ma lui non avrebbe
né smentito né confermato, anche perché al momento non leggeva nessun altro
tipo di notizie se non quelle prettamente economiche, non ammetteva quel genere
di riviste nel suo ufficio, nemmeno se lo citavano in prima persona, e non aveva
nessuna voglia o interesse di sapere quale fosse il loro ultimo, presunto scoop.
Una cosa che invece
amava leggere, invece, era la posta elettronica. Protetta da un’anti-spam
professionale e grazie al prezioso filtro di Irina, che gli girava nella sua
casella personale solo quello per cui ne valeva la pena e che non poteva gestire
lei, quel mezzo gli offriva un rapido e perfetto sistema di comunicazione con
soci, finanziatori, clienti e collaboratori. Via mail era tutto più semplice,
gli accordi erano più facili, forse perché i suoi interlocutori avevano tempo
di riflettere sulle sue proposte, valutarle, apprezzarne il modo preciso e
dettagliato con cui poteva presentargliele, e finalmente dare risposte positive.
Queste erano progressivamente aumentate, fino a dover prendersi una buona parte
della mattinata solo per la loro lettura e gestione, ma ciò era per Trunks un
onere più che piacevole, visto che, negli ultimi tempi, il solo fatto di avere
una risposta di qualunque tipo fosse considerato un miracolo.
Quelle che non
filtrava Irina, invece, ma che arrivavano direttamente nella sua casella, erano
le email personali. E queste, negli ultimi giorni, avevano avuto solo un
mittente, che spiccava in neretto tra la posta in arrivo.
Bra
Brief.
Una miriade di bip
e circuiti era stato il loro unico mezzo di comunicazione da quel famoso giorno.
Niente visite,
niente telefonate, solo notizie reciproche per mezzo di Goten, che era diventato
suo malgrado loro intermediario. Non per mancanza di volontà, o del bisogno
reciproco di sentirsi di persona, solo…forse era ancora troppo presto, forse
troppe lacrime, rabbia e dolore li avevano ultimamente separati.
E poi erano
cominciate le email.
Era stata lei la
prima, e Trunks conservava ancora quel messaggio, così standardizzato e
impersonale e tuttavia così trasudante di celato imbarazzo:
Ciao
Trunks,
Come
stai? So che sei tornato a casa e che hai subito ripreso il lavoro. Spero che
vada tutto ok lì da te, per qualsiasi cosa chiamami.
A
presto,
Bra
Era stato così
strano sentirla dopo tutto quel tempo, anche se solo tramite parole su uno
schermo, che però erano le sue, che si rivolgeva direttamente a lui, per quanto
con difficoltà.
Le aveva subito
risposto, con un senso di sollievo che gli si scioglieva nei muscoli mentre
digitava la risposta, prima con disagio, poi con crescente naturalezza:
Ciao
Bra,
Mi
fa molto piacere sentirti. Avrei voluto chiamarti, ma sono tornato solo ieri dai
Paoz e già sono immerso nel lavoro fino al collo. C’è così tanto da fare!
Ti ringrazio per la disponibilità, ma certe cose le posso rimettere a posto
solo io, visto che io ho combinato il casino:)
Comunque,
adesso sto decisamente meglio di quando sono partito, che come avrai visto non
ero decisamente un fiore…ora direi che mi sono ricaricato quanto basta per
affrontare al meglio questo duro ma piacevole impiccio di rimettere in piedi
la Capsule
!
Tu
come stai? Il bambino..?
Un
abbraccio e a presto,
Trunks
Da allora, tutto
era stato più semplice:
Caro
Trunks,
qui
tutto a posto, Golden sta bene, comincio a sentire la sua aura…è una
sensazione incredibile.
Non
faccio fatica a credere che sui Paoz ti sia ricaricato, soprattutto a detta di
Goten ;) Anche se al pensiero di una certa bizzarra ed improbabile coppietta, mi
vengono i brividi!
Passando
a cose serie…ti ricordi il mio progetto di chimica sul Technotess?
Bene…funziona! Non immagini quante potenzialità abbia quel materiale e come
rivoluzionerà il mondo della moda…per questo voglio brevettarlo per
la Capsule
…che ne pensi? Io credo che sarà un successo, al pari di quello che a suo
tempo ebbero le capsule salvaspazio.
Spero
di vederti presto.
Un
bacio,
Bra
Cara
Bra,
Quanto
a “bizzarre ed improbabili coppiette”, tu ed il tuo futuro maritino, che
dovrebbe farsi di più gli affari suoi, siete gli ultimi a poter parlare!
Devo
farti i miei più sinceri complimenti per il Technotess, sapevo che ci saresti
riuscita, e sono sicuro che sarà un successo…ma purtroppo
la Capsule
attualmente non può finanziare nuovi progetti, solo riproporre i vecchi per
sanare il bilancio nei prossimi anni…grazie comunque per la proposta…
…Non
preoccuparti, per il finanziamento so già chi ci può aiutare! Ho già
calcolato tutto. Se una buona pubblicità sui vecchi prodotti potrà far
cancellare il debito alla società in qualche anno, il Technotess lo farà in
qualche mese, e in un anno l’avrà riportata alle stelle. Dopo il matrimonio
disegnerò la prima collezione della “Capsule Mason”, che uscirà il
prossimo autunno. E’ già pronto il modello di lancio, pensavo di presentarlo
in un’occasione importante, dove possa vederlo molta gente così da avere le
prime impressioni…
…di
fronte a tanta determinazione e sicurezza, non posso che fidarmi di te! Auguri
per il finanziamento, ma la vedo difficile…
Grazie
per l’allegato con il bozzetto del modello, è davvero stupendo. Perché non
lo indossi al matrimonio di Irina? Potrebbe essere l’occasione che
aspettavi…
…non
male come idea, ma non potrò venire al matrimonio di Irina, per quanto mi
dispiaccia: ho ancora tanto da fare! E poi, ora come ora non sono la persona più
in linea per indossare quell’abito…però conosco un’ottima agenzia di
modelle da cui potresti sceglierti la tua accompagnatrice, bella, disponibile,
professionale…
…eh
no, sorellina…se devo andarci accompagnato, scelgo io con chi ci vado…
…ho
una vaga idea della persona con cui vuoi andarci, e la risposta è NO. Non ho
nessuna intenzione di mandare al suicidio il capo di punta della mia
collezione…
…mi
dispiace, ma non accetto rifiuti. Io ci andrò con chi sai tu, abito di punta o
no. A proposito, mi è arrivato il pacco, dal vero l’abito è ancora più
bello e di una finezza incredibile per un materiale sintetico. Comunque, posso
sempre rimandartelo indietro…
…Ok,
mi sembra di non avere scelta. Spero solo che ne sia all’altezza. Vorrei
veramente fare breccia nell’interesse della gente, in modo tale che quando la
collezione sarà messa sul mercato, farà subito un picco nelle vendite. A
proposito, oggi ho l’incontro con il nostro probabile finanziatore…che credo
non avrò problemi a convincere!
Trunks sorrise,
scuotendo la testa con divertita rassegnazione, prima di digitare la risposta.
Certo
che ne sarà all’altezza, non preoccuparti. Non so come tu possa essere così
sicura riguardo all’esito del tuo colloquio, ma non posso che darti un in
bocca al lupo…
Spero
di vederti presto sorellina, mi manchi tanto.
Bra lesse
l’ultima frase con un malinconico sorriso, il portatile di ultima generazione
in grembo, mentre dai finestrini correvano veloci gli edifici e le strade di
Satan City.
Sto
tornando proprio adesso dalla Satan Bank, e posso annunciarti in anteprima che
la prima collezione della Capsule Mason otterrà il pieno appoggio finanziario!
Te
l’avevo detto di fidarti.
Anch’io
spero di vederti presto, così potremo festeggiare questo nuovo inizio.
Manchi
tanto anche a me…ti voglio bene.
Un
bacio, Bra
Inviò l’e-mail,
chiudendo poi il portatile e riponendolo nell’elegante borsa da lavoro.
“Può fermarsi
qui, grazie” disse all’autista dell’air-car, mentre davanti a loro si
stagliava l’anonimo ed economico palazzo in cui abitava da circa tre mesi, in
uno dei quartieri meno abbienti della città.
L’autista sembrò
abbastanza stupito che una signorina di tale classe –solo il portamento e il
modo di parlare bastavano a metterlo in evidenza- , vestita con così tanta cura
e lieta di lasciargli una più che onorevole mancia, potesse vivere in un posto
così lontano dalla sua accecante grazia.
La ragazza salì i
tre piani di scale, ormai senza più lamentarsi dell’assenza di un ascensore
nell’edificio. Aprì la porta con il secondo mazzo di chiavi che era diventato
suo, e ancor prima di entrare udì il monotono commento di un cronista dalla
televisione accesa.
Sullo schermo, un
gruppo di giocatori si avvicendava in una corsia disegnata in mezzo al campo e
delimitata da tre paletti.
“Da quando in qua
ti interessa il cricket?”.
Goten, affondato
scompostamente sul divano, con la testa pesantemente sorretta da una mano, si
voltò piano verso di lei. Nei suoi occhi scorse un briciolo di sollievo, ma
anche una snervante tensione.
“Da quando la mia
fidanzata va ad un appuntamento con il suo più accanito pretendente di vecchia
data, e dato che in tv non c’è niente di meglio, devo comunque occupare in
qualche modo il tempo per non impazzire”.
Sulle labbra di Bra
si affacciò l’ombra di un sorriso, nei suoi occhi una punta di malizia,
mentre si avvicinava.
“Geloso?”.
“Ma daiii…”.
“Perché dovresti
esserlo?”.
“Non so, forse
perché il caro Eddy Fox è molto più ricco, più colto, e più raffinato di
me?”.
“Ma non è
te” disse la ragazza, sedendosi sul bracciolo della poltrona, e
accarezzandogli dolcemente la nuca. “E questo è quanto basta”.
Ma l’espressione
di Goten rimase imperscrutabile, lo sguardo tornato distrattamente verso la
partita di cricket.
“Dimmi un
po’…hai ricevuto il finanziamento?”
“Certamente. Sai
che ottengo sempre quello che voglio”.
La mano del ragazzo
salì al volto in un gesto rassegnato, scuotendo poi la testa debolmente.
“Sai una cosa?
Non ho il coraggio di chiederti come”.
“Semplice”
rispose Bra con noncuranza. “Agli uomini, basta sempre far credere quello che
vogliono loro”.
“Già…parole
dell’incantatrice numero uno”.
Ci fu una pausa,
durante la quale Bra si scostò debolmente da lui, come scottata.
“Ok. Sarò
un’abbindolatrice, o un’incantatrice, come dici tu. Ma pensavo che qualcuno
qui presente riuscisse a vedere più in là del proprio naso, e se davvero pensi
che per avere quei soldi ci sia andata a letto, perché è questo che pensi, ci
rimarrò male, ma non te ne farò una colpa”.
Goten si voltò di
nuovo verso di lei, scrutandola attentamente. Come ogni volta che lui la
guardava, si sentì spogliata di ogni difesa, nuda, trasparente.
E ne fu felice.
Finalmente lui le
sorrise, e quando si alzò dal divano e la prese in braccio, lo fece con una
dolcezza e una delicatezza struggenti, come fosse una fragile bambola di
porcellana.
In camera, l’uno
stretto all’altra sullo scomodo letto ad una piazza e mezzo, la coccolò a
lungo, con tenerezza, baci piccoli ma pieni d’amore sulla sua pelle chiara, le
dita di lui tra i capelli.
“Sei così
bella…” le sussurrò all’orecchio.
Lei chiuse gli
occhi, assaporando tutta la dolcezza di quelle carezze, e in cuor suo seppe, con
sicurezza, che era l’incantatrice, questa volta, ad essere rimasta incantata.
Continua…
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Capitolo 8 *** *annuncio* ***
Ciao
Ciao!
Volevo anticipare a tutte le lettrici di Sunshine, ormai in stand-by da
alcuni anni, che finalmente concluderò questa storia a cui molti di voi
(compresa me) sono molto affezionati.
E' dura trovare il tempo, adesso ho anche una bimba piccola a cui correre
dietro tutto il giorno, ma sentivo che questa storia non poteva rimanere
incompiuta, che Pan e Trunks meritavano un bel finale, che si doveva chiudere un
cerchio.
Ho sempre sentito da qualche parte nella mia testa le loro voci che me lo ricordavano,
pazientemente.
Ma io non li ho dimenticati.
Mi è mancato il tempo, ma non l'ispirazione.
Ho promesso a loro (e a voi) che li avrei accontentati.
Ed eccomi di nuovo qua.
Spero che apprezzerete questo mio ritorno e che seguiate gli ultimi capitoli
con la stessa passione (anzi, spero di più!) di quelli che li hanno preceduti.
A presto
Beatrix
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