Dragonball NG 3 - Sunshine

di Beatrix82
(/viewuser.php?uid=44673)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Qualcosa in sospeso ***
Capitolo 3: *** Primavera sui Paoz ***
Capitolo 4: *** Shining star ***
Capitolo 5: *** Risveglio ***
Capitolo 6: *** When you're gone ***
Capitolo 7: *** Rewind ***
Capitolo 8: *** *annuncio* ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Prologo 

 

 

NOTA DELL’AUTRICE:

Al fine di poter apprezzare appieno questa fanfiction, consiglio vivamente a tutti i lettori di aver già letto i due precedenti volumi della saga "Dragonball NG": "Il signore della Terra", scritto da me, e "Moonlight", scritta da Likol. 

Come i loro nomi suggeriscono, sono soprattutto "Moonlight" e "Sunshine" ad essere strettamente collegate: in primo luogo, perchè sono nate inizialmente come spin-off della saga principale, poi inglobate ufficialmente in essa, non solo perchè seguivano il nascere delle due coppie principali, ma anche perchè trattavano episodi e situazioni indispensabili per la comprensione futura; inoltre, l’inizio della seconda si colloca temporalmente verso la fine della prima, i cui ultimi episodi si incastrano e si completano con quelli iniziali di “Sunshine”. Questa prosegue poi oltre la fine di "Moonlight".

Nella speranza che seguiate il mio consiglio, vi auguro Buona Lettura.

Beatrix

 

--------------

 

 

 

Mi chiamo Trunks Vegeta Brief e ho trentaquattro anni.

Sono il presidente della Capsule Corporation, una delle società più famose e all’avanguardia del pianeta.

Ah, e sono sajan per metà, dettaglio difficilmente dimenticabile.

Ma scommetto che voi già sapete tutto questo, e credo anche molto di più. Sono sicuro che conoscete alla perfezione la mia storia, e forse ancora meglio quella dei miei genitori. Sapete tutto di Goku, delle sfere del drago, dei guerrieri dorati, di svariati nemici che hanno minacciato la Terra e che i sajan si sono trovati inevitabilmente ad affrontare. Avete seguito le nostre vicende per anni, fino a saperne quasi più di noi stessi, e a volte interpretando persino meglio di noi le nostre emozioni.

Alcuni di voi sapranno anche che quasi un anno fa ha avuto luogo l’ultimo torneo di arti marziali, in cui l’ennesimo nemico giunto dallo spazio ha reclamato il dominio del pianeta. Goku non era più con noi ormai, sparito insieme al drago già cinque anni prima. Ce la siamo vista brutta, senza di lui. Eppure, quando finalmente arrivò mio padre, il solo che aveva anche solo minimamente sfiorato il livello del suo antico rivale, seppur mai eguagliandolo davvero, sentii che sarebbe stato lui, quella volta, a salvare l’umanità.

E così fu, infatti. Ma a prezzo della vita.

Da allora, tutto ha cominciato a cadere a precipizio, come un’auto che esce dal ciglio e comincia lentamente a rotolare giù per un dirupo, sempre più veloce, verso l’oceano.

Mia madre è impazzita, attribuendo a me la colpa della morte di mio padre durante i suoi dolorosi deliri. Mia sorella se ne è andata da casa, incapace di assistere al declino fisico e mentale di chi le aveva dato la vita, trasferendosi nel piccolo appartamento di colui che ho sempre considerato il mio miglior amico, lasciandomi solo e impotente in quella casa troppo grande.

Poco dopo mia madre è morta, raggiungendo in qualche modo il sajan che aveva amato per più di trent’anni, e mia sorella ha scoperto di aspettare un figlio da Goten. Io invece ero ancora solo, spossato, pieno di sensi di colpa. Tutto era diventato estremamente faticoso, anche aprire gli occhi la mattina e sapere di dover vivere un altro intero giorno. Quasi non mi accorgevo che la Capsule Corporation stava cadendo a picco insieme a me, e che io non facevo niente per tirarla su.

C’era solo l’alcol, allora. Il mio unico appiglio. Mi aggrappavo ad esso e lui inevitabilmente mi tirava ancora più giù, come qualcosa di pesante che credi possa salvarti e che invece ti fa andare più a fondo.

Ero ormai parecchi metri sott’acqua, devo dire, e continuavo a sprofondare. Eppure, sentivo di non avere nemmeno la forza di muovere le gambe per spingermi su, e desideravo solo che quella poca aria ancora a disposizione finalmente si esaurisse. Ma poi, quando ormai ero quasi arrivato nelle profondità della fossa, dove non c’è più un barlume di luce, quando credevo di aver toccato il fondo, con gli spettri dei cadaveri in decomposizione dei miei che si scolavano le mie scorte di alcolici e mi invitavano macabramente a seguirli, ho lasciato la presa di quel peso.

Non è stata semplice, la risalita. Non riuscivo ancora a darmi una vera spinta, continuavo a rimanere quasi immobile, eppure ero attirato da alcune voci fuori dall’acqua, molti, molti metri più su. Erano le voci di mia sorella, di Goten, e di tutto il resto della famiglia Son.

Non sarò mai abbastanza grato per tutto ciò che hanno fatto per me. Che tuttora stanno facendo per me. Le nostre famiglie non sono legate solo dallo stesso sangue, questo ha ripetuto Gohan, quando mi ha accolto nella sua casa, qualche settimana fa, dove avrei potuto ritrovare la salute e la pace interiore e ricominciare daccapo. Solo così, salvando prima di tutto me stesso, avrei potuto di conseguenza pensare a salvare l’azienda di mia madre.

Ed è così che mi ritrovo qui, sui Paoz, tra queste verdi colline dove pare che il tempo si sia fermato. Qui non ci sono telefoni che suonano in contemporanea, non ci sono avvoltoi che ti pedinano per sanare i loro debiti, non ci sono paparazzi pronti a coglierti in un momento di debolezza. Qui sono tranquillo, circondato da persone meravigliose, che mi fanno sentire in famiglia, mi fanno sentire come se ancora avessi una famiglia. Qui sono me stesso, come difficilmente riesco ad essere a casa.

Ogni pensiero se ne va, ogni preoccupazione svanisce. In un tale contesto, cominci a vedere tutto sotto un’altra luce, e la scala di valori assume un nuovo ordine. Verrebbe voglia di estraniarsi completamente dalla realtà, di dimenticarsi quello che eri, ma non me lo posso permettere, non fino in fondo.

Proprio adesso, sono seduto alla scrivania di quella che era stata la camera di Goten, davanti al mio portatile di ultima generazione, a controllare i resoconti di bilancio dell’ultimo mese, che la mia diligente segretaria mi ha inviato per email. Sono ancora in negativo, certo, ma di poco, e in lenta ma evidente ascesa, esattamente come me, che sto muovendo i piedi per risalire su, verso la superficie, verso la luce. Per la prima volta dopo molto tempo sento crescere dentro un rinnovato ottimismo. Mi sento fiducioso, so che l’azienda può ancora riprendersi.

Bevo un sorso di spremuta d’arancia, piacevolmente dolce, che Chichi mi ha portato qui insieme a biscotti e tartine. Anche il lavoro mentale fa consumare energie, non solo quello fisico! Mi dice sempre lei, maternamente, mentre mi accarezza la guancia e controlla il mio colorito. I suoi occhi emanano calore sincero, e l’affetto e le attenzioni che mi dimostra sono quelle di una madre, una madre forse meno cittadina e più vecchia maniera di quella che mi ha dato la vita, ma ugualmente capace di donare ai propri figli un amore immenso.

Chiudo il grafico del bilancio e rispondo all’email di Irina, allegandole le ultime istruzioni. Lei è l’unica, alla Capsule Corporation, a sapere tutto su di me, e l’unica a sapere dove mi trovo in questo momento, quando anche i media mi danno per disperso. Fortunatamente, la notizia della mia dipendenza dall’alcol non è trapelata, e la maggior parte della gente pensa che mi sia semplicemente ritirato dagli affari, dopo la morte di mia madre e la conseguente crisi dell’azienda.

Tante malevolenze sono state scritte su di me, tante cattiverie, come quelle che mi definivano un burattino nelle mani di mia madre, incapace di gestire da solo una tale impresa. Ma ho deciso di ignorarle, evitando di leggere i giornali, o guardando la tv con distacco.

Io non ho la minima intenzione di abbandonare la Capsule Corporation. Grazie ad Irina, anche da qui posso seguire in tempo reale ciò che succede in azienda, tenendomi costantemente aggiornato. Quella donna è un portento. Riesce a tenere testa ai fornitori, ai clienti e persino ai giornalisti, assicurando a tutti che il Presidente tornerà presto, che la sua assenza è solo temporanea e che la Capsule Corporation non è assolutamente in fallimento. Non so come avrei fatto senza di lei.

Mi stiro leggermente, i muscoli appena intorpiditi dalla posizione. Decido di alzarmi e fare due passi nella stanza, prima di rimettermi al lavoro e dare un’occhiata ai tagli del personale.

La vecchia camera di Goten è piccola, un po’ disordinata, forse, ma estremamente accogliente. E’ come se in essa avesse lasciato un po’ della sua aura, calda e amichevole, che mi dà in qualche modo ancora la sensazione della sua presenza. Su uno scaffale, insieme a varie cianfrusaglie, un’economica ma coloratissima cornice racchiude una nostra vecchia foto insieme. Deve risalire a poco dopo la sconfitta di Majin Bu. Ci sono due gran sorrisi stampati sulle nostre facce fanciullesche, e l’espressione di chi è convinto che sarà così per sempre. Quanto tempo da allora…e quante cose sono cambiate, a partire da noi stessi, cambiati da come eravamo in quella foto, cambiati l’uno rispetto all’altro…forse troppo…ma forse mai completamente.

Fa ancora uno strano effetto pensare che adesso mia sorella aspetta un figlio da lui, che mio nipote sarà figlio del mio migliore amico d’infanzia. Non riesco ancora a crederci.

E’ un peccato che Goten si sia trasferito in città, adesso che sto qui. Sarebbe stata l’occasione, dopo tanti anni, per condividere un po’ di tempo insieme. In ogni modo, nonostante da sempre sia legato a lui da un rapporto speciale, anche Gohan è un buon amico e un saggio fratello maggiore. Ed è proprio questo di cui ho bisogno in questo momento, di un fratello maggiore a cui poter chiedere consiglio e appoggio. Gohan è un lido sicuro e conosciuto, a cui sempre puoi attraccare con la consapevolezza di essere protetto e al riparo.

Gli impegni all’università lo portano spesso fuori casa per gran parte del giorno, ma Videl è sempre qui per qualsiasi cosa, a compensare la mancanza del marito così come la compagna di Great Saiyaman, un tempo, affiancava il suo bizzarro eroe. Certo, forse non può darmi consigli di marketing o qualche idea su nuovi brevetti da produrre, ma quanto a consigli di vita non la batte nessuno. Le chiacchierate con lei sono più rare ma di gran lunga più lunghe rispetto a quelle con Gohan, forse perché la figlia di Mr Satan è sempre stata più esplicita, diretta e molto meno inibita ad affrontare temi personali. E’ un piacere parlare con lei, poterle raccontare le sensazioni passate negli ultimi mesi, perché lei sa sempre trovare le parole giuste con cui risponderti.

Potrei bussare alla dependance dei coniugi Son in qualsiasi momento, anche a notte fonda, loro mi inviterebbero sempre ad entrare.

Mi fermo davanti alla finestra, le mani nelle tasche dei pantaloni. La giornata è luminosa, il sole alto nel cielo ad illuminare la verde collina. Apro il vetro e mi appoggio al davanzale, godendo del piacevole venticello caldo che aleggia nell’aria. Le temperature sono decisamente in aumento, come dimostra la figura di Pan distesa comodamente nell’erba poco lontano da qui, gli occhi chiusi, i capelli neri sparsi intorno alla testa, la pelle dolcemente ambrata accarezzata dal sole. Indossa una maglietta e degli shorts di un giallo acceso, che da lontano quasi la fanno sembrare un canarino e spiccano con forza contro il verde intenso del prato.

Come posso dimenticarmi di Pan, di quanto la sua presenza sia stata importante per la mia ripresa. Solo guardarla sonnecchiare piacevolmente sotto il sole mi mette di buonumore, mi toglie dalla testa ogni altro singolo pensiero.

Parte della sua giornata la passa nella palestra di arti marziali ereditata da suo nonno Satan, ma è a me che dedica gran parte del suo tempo libero. Non facciamo niente di speciale, in realtà. A volte lei mi racconta qualche episodio divertente successo in palestra, a volte giochiamo a carte o guardiamo la tv insieme, commentando i programmi o discutendo su quello che ci piacerebbe vedere, a volte scherziamo insieme su qualcosa o ci punzecchiamo come ai vecchi tempi. A volte, stiamo semplicemente seduti accanto in silenzio, alla flebile luce del crepuscolo, ad aspettare il tramonto e ad assaporare il piacevole profumo che esce dalla cucina di Chichi, mentre prepara la cena. A volte le chiedo se non abbia mai niente di meglio da fare, che perdere il suo tempo con un povero convalescente, ma lei replica che quello che le va di fare lo sa perfettamente da sola. Allora io scherzo sul fatto che magari sono io quello a non volerla sempre intorno, e lei minaccia di mandarmi dritto addosso una scarica di energia.

Era dai tempi del viaggio nello spazio che non provavo quanto può essere vitalizzante la convivenza con Pan, come riesce a caricarti, nel bene o nel male. Può portarti ad esplodere in una scenata esasperata, come succedeva spesso a quel tempo, così come in una risata liberatoria, ma in pochi altri modi riesci a sentirti così vivo. Ti senti dentro una forza che non avevi mai creduto, ti senti libero ed in grado di abbattere ogni sorta di barriere, quelle che tu stesso hai creato. Senti che non sono più gli eventi a trasportarti passivamente, ma di essere l’unico artefice del tuo destino.

E’ così che mi sento, adesso.

Starei a guardarla per ore, sonnecchiare piacevolmente sotto il sole. E’ cambiata molto rispetto a com’era allora. Anche se riconosco ancora la sua spontaneità, la sua grinta e la sua intraprendenza, è più matura, meno intrattabile. O forse sono semplicemente io che ho imparato come prenderla.

Adesso sbadiglia, ancora ad occhi chiusi, stirando poi i muscoli e allungando lentamente le gambe. Se non altro, è cambiata fisicamente. Accidenti se è cambiata.

Richiudo la finestra, tornando a sedermi alla scrivania ed aprendo l’ennesimo file intestato con il logo della Capsule Corporation. Ancora un’oretta di lavoro e me ne vado fuori anch’io.

Chissà, magari potrei prenderla in giro riguardo a quel suo completo da canarino.

 

Continua…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Qualcosa in sospeso ***


Capitolo 1

Capitolo 1 – Qualcosa in sospeso

 

 

NOTA DELL’AUTRICE:

Questo capitolo si colloca temporalmente a metà tra il primo ed il secondo paragrafo del Capitolo 8 di "Moonlight" di Xellass. Se l’avete letto, come spero che sia, potrete facilmente capire il senso del titolo di quello che vi apprestate a leggere. Buona Lettura.

 

----------------

 

 

Pan incrociò le braccia al petto, sbuffando leggermente.

La sua precaria pazienza aveva già cominciato a vacillare, ma cercò di trattenersi, se non altro per rispetto di suo nonno Satan e della palestra che le aveva lasciato in gestione. Non avrebbe disonorato il suo nome e la sua scuola di arti marziali solo per un povero idiota che ce l’aveva con il mondo intero perché la sua carriera non decollava.

La ragazza recuperò il caffè dal distributore automatico della palestra, lanciando un’altra occhiata spazientita all’eccentrico ometto calvo poco lontano da lei, che sollevava con superiorità il mento appuntito mentre la truccatrice vi depositava sopra quintali di cipria. Aveva appena finito di sfogarsi con il suo cameraman, un giovane magro dalla faccia stanca e una gomma da masticare in bocca, che aveva finto di annuire un paio di volte durante la sua arringa giusto per non avere rogne, ma senza veramente avere idea di che cosa stesse blaterando. Adesso, non contento, il basso giornalista aveva cominciato a ripetere il suo tormentato sfogo con l’anziano fonico, che però al momento sembrava più interessato a cercare di evitare i cavi sul pavimento, che due tecnici avevano fatto passare attraverso la palestra per sistemare i riflettori.

“Questa è l’ultima volta, capisci, l’ultima!” ribadì con enfasi, mentre la povera truccatrice tentava disperatamente di farlo stare fermo. “Sono stufo di essere sempre il ripiego del canale per i servizi che Candy Flash non vuole fare! Perché lei è la star, giusto? Lei è la regina dell’informazione! Lei non si abbassa a fare le interviste che non interessano a nessuno! Figuriamoci se veniva in una stupida palestra a fare due domande a una mocciosa, sarà anche la nipote dell’ex campione del mondo, ma ora ce n’è uno nuovo e tutto ciò che riguarda il vecchio non fa più notizia!”.

Pan si appoggiò al muro, sorseggiando il suo caffè con gli occhi ridotti a fessure. Quell’altezzoso ometto stava parlando a voce alta, senza badare al fatto che l’oggetto delle sue dicerie era poco lontano da lui, e che avrebbe potuto spedirlo a calci fuori dalla palestra, mandando a monte il suo bel servizio, di cui certo non avrebbe sentito la mancanza. Ma forse era proprio quello che quell’idiota voleva, in effetti, e allora pensò che non gli avrebbe mai dato quella soddisfazione.

Nel frattempo il giovane cameraman, nell’udire il nome della giornalista più in voga del momento, si era come improvvisamente risvegliato dal suo stato semi-catatonico, allungando il collo con interesse. “Davvero doveva venire la Flash? Che peccato…”.

“Tze!” commentò acido il giornalista, con una smorfia. “Tanto cosa credevi, Tommy, che portava al seguito te?? Ce l’ha già lei il suo bello, atletico e prestante cameraman! Miss Flash si seleziona accuratamente anche quelli, come del resto i servizi che presenta, lasciando gli scarti a me!”.

Tommy biascicò qualche secondo la gomma con espressione vacua e perplessa. “E che servizio presenterà, allora, nel rotocalco delle cinque?”.

“Haha! Come se non sapessimo qual è al momento l’interesse più morboso di quella strega! Trunks Brief, chi altri sennò!”.

I due tecnici, che in quel momento stavano sistemando le luci in modo tale da evitare l’effetto lucido sulla pelata del giornalista, sbuffarono all’unisono, come se quel nome fosse diventato un tormentone di cui cominci ad averne abbastanza. La truccatrice invece alzò esaltata le sopracciglia, mentre faceva passare distrattamente la spugnetta piena di cipria sulla bocca del giornalista, facendogliene ingoiare una buona dose. “Trunks Brief, che bello! Speriamo di staccare presto, non mi voglio perdere il servizio! Sa per caso se l’ha intervistato, signor Peaboy??”.

Il signor Peaboy tossì convulsamente, come se stesse per soffocare, mentre cercava di liberarsi la gola dalla cipria ingoiata. “Maledizione, stai più attenta, Trudy! E comunque, non credo sia riuscita ad intervistarlo, Mr Brief è latitante da settimane, ormai! Secondo l’opinione pubblica, è fuggito per evitare di vedere il suo impero crollare definitivamente davanti ai suoi occhi! In ogni modo, so da voci di corridoio che la Flash aveva intenzione di strappare un’intervista a Ted Norton, sapete, quello della concorrenza”.

“Ah sì!” rispose prontamente Trudy. “Un bell’uomo anche lui, ho visto delle sue foto proprio ieri, su una rivista dal parrucchiere!”.

“Già” sibilò Peaboy tra i denti. “E figuriamoci se Candy Flash non notava anche lui. Voleva intervistarlo per capire come mai non approfittasse del momento nero della Capsule Corporation per battere finalmente il suo rivale di sempre! Sarebbe l’occasione buona per lui, senza la concorrenza dei Brief, anche mettere sul mercato l’invenzione più futile sarebbe un successone! E invece niente, per ora non ha ancora fatto la sua mossa, e tutti si chiedono cosa stia aspettando. Logicamente la Flash ha fiutato lo scoop e lo sta pedinando da giorni, ma quando ha provato a chiedergli cosa ne pensa del fallimento di Trunks Brief e della Capsule Corporation, lui ha ribadito il silenzio stampa!”.

“Tutto a posto, Pan? Hai bisogno di qualcosa?”.

La ragazza si ridestò rapidamente, fino ad allora distratta dalle lagne del giornalista, mentre metteva lentamente a fuoco la slanciata figura di Phol “Bolide” Tail. Il biondo collega la fissava in aspettativa, un sorriso sornione disegnato sul volto perfettamente rasato.

“Ah, no, grazie, Phol” rispose distrattamente, mentre lanciava una rapida occhiata omicida in direzione del giornalista e della sua combriccola, e alzando di proposito il volume della voce: “Sto solo aspettando di poter cominciare questa…specie di intervista”.

In quel momento il giornalista si liberò non troppo garbatamente della truccatrice, per avvicinarsi con indifferenza verso la ragazza, mentre ostentava il suo più largo e falso sorriso d’avorio e le porgeva la piccola mano. “La signorina Son, giusto? Finalmente ho il piacere di conoscerla!”.

“Il piacere è tutto mio…” disse Pan a denti stretti, con un sorriso forzato, mentre combatteva con la voglia di stringergli la mano un po’ più forte in modo da disintegrargliela. “Signor…oh, mi scusi, mi sfugge il nome!”.

“Peaboy…signor Peaboy” rispose piano l’ometto, allentandosi con una punta di imbarazzo il colletto della camicia. “Di ZTV. Se è pronta, signorina Son, vorrebbe di grazia sedersi qui vicino a me, così cominciamo l’intervista?”.

Appena Pan si fu seduta controvoglia, Trudy si lanciò come una tigre in sua direzione, la spugnetta già alta nella mano destra, pronta a posarsi sul suo viso e ad imbrattarla di trucco.

“No!” la bloccò con decisione Pan, il tono perentorio e l’indice sinistro puntato sulla donna, come la canna di una pistola.

Trudy rimase qualche secondo paralizzata, la spugnetta ancora alta, a pochi centimetri dalle guance della ragazza. Sbattè quindi un paio di volte le ciglia, per poi voltare ubbidiente le spalle ed allontanarsi senza una parola. Ma lo strazio non era ancora finito, dal momento che Phol era rapidamente sgattaiolato verso di lei, inginocchiandosi accanto alla sua sedia e allungandosi per sussurrarle qualcosa.

“Sei sicura, cara, che non ti serve qualche dritta, consiglio o suggerimento da qualcuno che, senza modestia, è abituato alle interviste??” chiese, riavviandosi indietro il vaporoso ciuffo biondo e gonfiando il petto con orgoglio.

Pan alzò dubbiosa un sopracciglio: “No, Phol, non mi serve niente” ripetè pazientemente. “Anzi, sì… buttami via questo, grazie”.

Gli porse distrattamente il bicchiere vuoto del suo caffè, mentre sul viso dell’istruttore si spegneva lentamente il sorriso compiaciuto e si disegnava invece una vaga espressione di delusione. Tuttavia il giovane si alzò, operando un po’ spiazzato la missione affidatagli dal suo capo, per poi abbordare la truccatrice ed iniziare a tediarla con l’ennesima esaltazione di se stesso e dei micidiali concorrenti che aveva sconfitto coraggiosamente agli ultimi tornei.

“Amici di ZTV, mi trovo oggi a Satan City, nella palestra di arti marziali appartenuta all’ex-campione del mondo Mr Satan…” iniziò Beaboy, con un sorriso da schiaffi disegnato sul volto spigoloso mentre Tommy gli dedicava uno stretto primo piano. Il giornalista si addentrò quindi in una lunga introduzione sulla storia del torneo Tentaiki. Probabilmente le arti marziali erano l’ultima cosa che interessava a quell’uomo, ma l’accanita concorrenza con la collega super richiesta l’aveva sicuramente obbligato a mostrarsi preparato sull’argomento e a studiare controvoglia la lezione del giorno.

Pan sospirò piano, sorreggendosi poi la testa con la mano con espressione annoiata. Attese con pazienza ed in silenzio, ripetendosi mentalmente che lo stava facendo per il buon nome della palestra, la palestra di suo nonno, cercando di non pensare a

(il buon profumo del suo dopobarba)

quanto avrebbe desiderato prendere a schiaffi quell’uomo e piantarlo semplicemente lì, ad intervistarsi da solo, come sembrava saper fare alla perfezione. Inspirò quindi profondamente, si raddrizzò sulla sedia e liberò la mente da

(il tocco caldo delle sue labbra)

gli istinti omicida che le erano appena ronzati in testa. Il suo povero nonno Satan, che tanto aveva tenuto all’immagine, non avrebbe di certo approvato un tale scempio nella sua palestra, e per giunta in diretta.

“…ma è qui con noi la nipote del defunto campione del mondo” la introdusse infine Peaboy, come ricordandosi solo allora chi fosse l’oggetto dell’intervista. “La signorina Pan Son, a cui Mr Satan ha affidato…” e qui le lanciò uno sguardo di totale mancanza di fiducia “…la gestione della palestra di arti marziali…signorina Son, come intende portare avanti l’insegnamento di una disciplina così complessa ed antica, che solo i più esperti, maturi e rispettabili campioni sono in grado di tramandare?”. 

“Esattamente come ha sempre fatto mio nonno, con impegno e dedizione. Credo di aver ricevuto dei buoni insegnamenti, non solo sulla disciplina in se, ma anche su come applicarla”. La ragazza fissò l’obiettivo, parlando con rinnovata sicurezza. “Ed è questo che intendo insegnare ai nostri allievi, la perfetta padronanza di una dote al solo fine di potersi difendere, e mai per attaccare”.

Il giornalista tossicchiò piano, come se volesse contestare implicitamente il discorso della ragazza: “Ma mi dica, signorina Son, si sente davvero pronta per un compito del genere? Voglio dire, lei è…sì, insomma, una donna, e per di più molto giovane, crede veramente di riuscire a tener testa ai suoi colleghi uomini o ai suoi allievi più esperti??”.

Peaboy sogghignò, convinto di aver fatto il suo dovere di bravo giornalista e di aver furbescamente trovato il tasto dolente della mocciosa che era stato costretto ad intervistare, mettendo un’altra pietra sopra alla sua reputazione di sfigato del canale. Ma Pan gli rivolse un sorriso sornione, incrociò le braccia al petto con disinvoltura e…”.

 

“E…???” chiesero all’unisono Gohan, Videl, Trunks e Chichi, gli sguardi carichi di aspettativa diretti verso la ragazza, mentre questa finiva di masticare il suo boccone di carne.

“Niente! Gli ho detto semplicemente che io, se voglio, me li mangio tutti quanti a colazione!”.

Una risata divertita si levò dal tavolo, mentre Pan scrollava le spalle, servendosi con disinvoltura e compiacimento un’altra porzione.

“Pan!” la rimproverò bonariamente Gohan. “Nessun pelo sulla lingua, eh?”.

“Ha fatto bene, invece!” commentò orgogliosa Videl, visualizzando mentalmente la faccia del giornalista dopo un simile smacco. “Gli ci voleva proprio a quella nullità di Peaboy”.

“Discreta ma pungente…una buona risposta” convenne Trunks, divertito.

“Avrei voluto aggiungere che lui invece sarebbe stato permetto come stuzzicadenti, ma mi sono trattenuta” aggiunse Pan, mentre la madre si alzava da tavola per togliere i piatti vuoti a Gohan e a Trunks e servire il dolce. “Non volevo certo mettere a rischio la reputazione della palestra”.

“Io credo invece, tesoro, che la tua intervista sarà una buona pubblicità” le assicurò Chichi con un sorriso, aggiustandosi lo scialle sulle spalle. “Vedrai che le iscrizioni raddoppieranno, appena la manderanno in onda”.

“Chissà” sospirò Pan, servendosi il dolce. “A meno che Peaboy non la monti in modo tale da farmi apparire una specie di cannibale o roba del genere!”.

“Immagino che dopo la tua secca risposta abbia continuato l’intervista in modo più tranquillo!” dedusse Trunks, versandosi un bicchiere d’acqua.

“Sì, direi che il tipo ha abbassato la cresta. Deve aver capito che a fare il provocatore sarebbe passato da idiota solo lui. E’ passato quindi a domande più neutrali riguardo alle discipline praticate, ai ritmi di allenamento e ad altre cose strettamente professionali!”.

Questa volta lui l’aveva guardata negli occhi, mentre lei gli rispondeva, e per qualche brevissimo istante continuarono a guardarsi in silenzio, prima che Gohan si volgesse verso la figlia con soddisfatto stupore: “In ogni modo, questa giornata ti ha messo appetito, Pan, hai mangiato più di quanto faccia di solito io!”.

“Ma anche il nostro Trunks ha fatto onore alla cena” aggiunse maternamente Chichi, osservando le pile di piatti che Videl si apprestava a sparecchiare. “Direi che sta a poco a poco ritrovando l’appetito di un tempo!”.

“Tutto merito della tua cucina, Chichi” banalizzò Trunks, assaggiando il dolce con gusto. “E’ quello che ho detto anche oggi a Marron e Ub”.

“Sono passati Marron e Ub?” chiese Pan. “Che peccato, avrei voluto salutarli!”.

“Già, anche Goten li ha mancati per un pelo. Era andato via da appena venti minuti, quando sono arrivati…”.

 

Trunks guardò la familiare figura di Goten issarsi in aria e sparire velocemente ad ovest, verso Satan City. Mentre seguiva con lo sguardo la scia dell’amico attraverso il cielo, si rese conto che stringeva ancora nella mano sinistra la catenina di sua madre, nella destra il foglio di carta ripiegato. Quella lettera era stata dolorosa come le spine di una rosa: per quanto tu possa essere preparato quando la prendi in mano, non hai idea fino a che punto può far male, finchè non ti pungi.

Eppure, quel dolore era stato salutare, quasi catartico.

Qualcosa di pesante si era finalmente liberato da lui e adesso, guardando quella foto di famiglia che era lo screensaver del suo portatile, sorrise debolmente.

Cos'hai sullo schermo?

La voce morbida interrogativa, gli occhi neri illuminati di innocente curiosità, la borsa a tracolla momentaneamente abbandonata sul prato, mentre si era inginocchiata accanto a lui, più di un’ora prima.

La foto perfetta. Difficile a credersi…difficile, dopo essere stato negli abissi più profondi, senza aria e senza luce, dopo aver fatto tabula rasa intorno a se, quando pensavi che non solo niente sarebbe potuto più essere perfetto, ma neanche minimamente normale.

Sarebbe stato più facile per tutti se...

Non è vero io...non...

Chiuse gli occhi, portando la testa leggermente all’indietro e lasciando che l’aria calda gli accarezzasse le guance per alcuni secondi.

Il mondo non è fatto solo di persone forti.

Aprì lentamente il palmo della mano. La catenina aveva un taglio decisamente femminile, ma anche se non l’avesse portata direttamente al collo, l’avrebbe conservata per sempre come il tesoro più prezioso. La fece scivolare nella busta insieme alla lettera, che poi ripose con attenzione nella valigetta del suo computer.

Riportò quindi lo sguardo sullo schermo del suo portatile, dove ripristinò il grafico a cui stava lavorando. Mentre cercava di concentrarsi sul file, non notò immediatamente le due auree che si stavano avvicinando, finchè una voce femminile lo richiamò all’attenzione.

“Ma guarda un po’…stacanovista fino in fondo!”.

“Ti aspettavi davvero che il nostro Presidente non si portasse il lavoro anche in vacanza?”.

Il Brief alzò la testa, incontrando le familiari figure di Marron e Ub che attraversavano il prato sorridenti, candida vaniglia lei, illuminata di grano e del sole di primavera, soffice cioccolato al latte lui, sfoggiante ancora la sua etnica cresta corvina.

“Ehi!” sorrise in risposta Trunks, alzandosi in piedi e andando incontro ai due amici, ormai coppia fissa e conviventi da diversi mesi. “Ciao ragazzi, che piacere vedervi!”.

Marron si avvicinò a lui con occhi luminosi, per poi appoggiargli le mani sulle spalle e guardarlo dall’alto in basso con orgoglio, come una madre che, rivedendo il figlio dopo un po’ di tempo, si compiace di quanto lo trovi cresciuto.

“Ti trovo davvero in forma, Trunks” sorrise dolcemente la bionda infermiera, l’espressione sinceramente felice, mentre lo baciava sulle guance. “L’aria di montagna ti ha fatto bene!”.

“Già” confermò Trunks, salutando anche Ub con una stretta di mano. “Non sarò mai abbastanza grato a Gohan e a Videl per avermi ospitato qui!”.

“Siamo passati da Chichi, prima, ci ha detto che ti avremmo trovato fuori. Mi rincuora pensare che anche se lavori, lo fai all’aria aperta e senza lo stress della città! In ogni modo, Trunks, volevo farti una breve visita medica, anche se il tuo rinnovato colorito la dice già lunga”.

Lui annuì, mentre l’infermiera si apprestava a tirar fuori dalla sua borsa l’apparecchio per la pressione. In fondo, si aspettava che l’apprensione dell’amica non le permettesse di limitarsi solo ad una semplice visita di cortesia, non quando ormai era diventata, suo malgrado, anche la consulente clinica della sua sfortunata famiglia.

“Senti ma…l’aria di montagna invece dov’è?” chiese Ub per allentare la tensione, mentre la compagna aggiustava la fascia elastica al braccio del suo paziente, sollevando appena lo sguardo con un mezzo sorriso. “Ops…volevo dire…Pan!”.

Trunks abbassò gli occhi, sorridendo divertito. Aveva come l’impressione che il lapsus del ragazzo non fosse stato per niente casuale. Ultimamente aveva acquistato un po’ più di confidenza con lui, sembrava molto più spontaneo e naturale, forse per la maggiore autostima ricevuta con il titolo di Campione del mondo, forse per il fatto di avere accanto una compagna che le si addiceva alla perfezione…in ogni modo, non era la prima volta che faceva qualche strano riferimento a Pan in sua presenza e solo ora, forse, Trunks si trovava inevitabilmente a rifletterci.

“E’ scappata in palestra poco fa, aveva un’intervista di lavoro” lo informò. “E’ venuto a prenderla un suo collega, un certo…Tail…”.

“Ah, sì, il grande Bolide” commentò divertito Ub. “L’ho rivisto a qualche torneo di arti marziali…un lottatore mediocre, anche se crede di essere un fuoriclasse. Non so come, ma dal tono con cui hai pronunciato il suo nome ho l’impressione che non ti vada molto a genio!” sorrise il ragazzo, scrutandolo di nuovo con sguardo vagamente indagatore.

“Non è vero, è…è che è arrivato qui con un mezzo della Norton, copiato spudoratamente da un nostro vecchio modello, e ha falciato via buona parte della vegetazione…dovevate vedere Goten com’era furioso!”.

Marron tolse la fascia dal braccio di Trunks, soddisfatta: “70-110, direi nella norma. Hai detto che è passato Goten? Come se la passa con…tua sorella?” chiese, con un accenno di timore nella voce.

“Conosci Bra…quindi puoi immaginare” rispose il Brief, mentre Marron annuiva arrendevole. “Lo sta facendo letteralmente impazzire, con i preparativi del matrimonio…credo che se non fosse per il piccolo Golden in arrivo, tenterebbe la fuga senza pensarci due volte!”.

I tre risero con leggerezza, prima che l’espressione di Marron tornasse di nuovo seria e professionale, mentre si avvicinava di nuovo a Trunks per esaminargli gli occhi: “Hai ancora gli incubi?”.

“Qualche volta”.

“Sempre…gli stessi?”.

“Sì” rispose piano lui, rabbrividendo impercettibilmente. L’immagine di due figure in decomposizione e dagli occhi rossi come l’inferno era balenata nella sua mente come un razzo, due figure dall’aspetto dannatamente familiare e tuttavia così spaventoso, ma l’aveva scacciata subito con forza. “Ma non mi fanno più così paura…credo che stia imparando ad ignorarli”.

“Bene” approvò l’infermiera, abbassandogli le palpebre inferiori nel suo esame scrupoloso. “E’ così che devi fare. Lo sai che sono solo frutto della tua immaginazione…andranno via presto”.

Trunks annuì, sospirando. Quanto voleva che avesse ragione…

“Ok” concluse la bionda, rilassando finalmente il volto in un sorriso. “Mi sembra che non ci sia bisogno di prescriverti nessun farmaco, solo aria pulita, sana alimentazione, relax e pensieri positivi…e qui dovresti avere tutto questo in abbondanza!”.

“Quindi…sono guarito?”.

“Direi…con cautela…che ci siamo” rispose lei senza sbilanciarsi, ma con uno sguardo di sincero ottimismo, mentre Ub, accanto a lei, annuiva sorridendo, le mani incrociate sul petto.

“Credi che sia pronto per tornare?”.

“Beh…fisicamente senza dubbio” osservò, recuperando la sua borsa, mentre con l’altra mano accarezzava piano la spalla dell’amico, guardandolo negli occhi con affetto. “Emotivamente…puoi saperlo solo tu, Trunks”.

 Ma lui sospirò comunque di sollievo, chiudendo per qualche attimo gli occhi in un muto ringraziamento.

 

“Sono contenta che Marron ti abbia trovato bene” disse sinceramente Pan.

“Già, questa sì che è proprio è una bella notizia” convenne Chichi, sospirando al pensiero che ne avevano avute di molto poche ultimamente.

Trunks annuì, sorridendo, prima in direzione della più anziana, poi passando lentamente lo sguardo in direzione di Pan, che lo fissava con ammirazione. Abbassò quindi gli occhi sulla tavola, stropicciando distrattamente il tovagliolo con la punta delle dita. La ragazza si morse il labbro inferiore, mentre sentiva che non sarebbe riuscita molto oltre a rimanere seduta su quella sedia.

“Caffè, famiglia?” chiese Gohan, mentre sua moglie e sua figlia annuivano e Chichi reclinava l’offerta.

“No, grazie, Gohan, io sono a posto” disse Trunks, massaggiandosi lo stomaco. “Credo che invece andrò a fare due passi fuori, se non vi dispiace. Immagino si stia a meraviglia stasera”.

“Ok, a tra poco allora” lo salutò Gohan, mentre il Brief si alzava educatamente da tavola e si avviava alla porta, concedendosi all’aria fresca della sera.

Pan lo seguì con lo sguardo, cercando di ostentare la massima indifferenza, ma si accorse solo allora che aveva trattenuto a fatica il respiro e che aveva maledettamente bisogno di riprendere fiato. Fece caso appena a suo padre che le porgeva una tazza di caffè fumante, l’attenzione rivolta altrove.

“Ehm…credo di aver cambiato idea, papà” mormorò, incontrando il cipiglio di suo padre. “Non…non mi va più il caffè…credo che andrò fuori anch’io”.

Si alzò da tavola senza tante cerimonie, di fronte allo sguardo allibito di suo padre, per poi sgattaiolare verso la porta e richiudersela dietro.

Trunks era lì poco lontano, voltato di spalle, le mani in tasca e l’atteggiamento rilassato. Pan rimase immobile qualche secondo, incerta sul da farsi, chiedendosi improvvisamente se desiderasse semplicemente starsene un po’ da solo. Poi decise di avvicinarsi con discrezione.

“Bella serata, eh?” esordì lui. Si era voltato appena nella sua direzione, sentendola arrivare, tornando poi a guardare l’orizzonte.

“Già” concordò Pan, fermandosi al suo fianco, rendendosi spiacevolmente conto che non aveva niente di meglio da dire, da aggiungere.

Effettivamente, la serata era piacevole, deliziosamente calda per un metà Aprile. Una falce di luna spiccava nel cielo stellato, appena sopra il boschetto di larici in cima alla collina, dando all’aria una luminescenza argentea. I grilli cantavano nei cespugli tutt’intorno, unica musica in quell’angolo tranquillo dei Paoz.

Rimase per un buon minuto in silenzio, a godere di quella suggestiva atmosfera, ma fortemente consapevole della presenza di lui al suo fianco, silenzioso, immobile, lo sguardo sicuramente rapito verso il cielo, come non avesse bisogno di altro.

Sembrava così in pace, accidenti. Chissà, forse per lui era maledettamente facile tenere a bada le emozioni…ma non per lei, per lei no, e non ci pensò neanche troppo prima di fare un paio di passi, appoggiargli le mani al petto ed alzare lo sguardo verso di lui.

Fece appena in tempo a vedere i suoi occhi chiari abbassarsi finalmente su di lei, che le loro labbra si stavano già unendo, quasi così fosse scontato, fosse perfettamente naturale. Sentì le mani di lui che le cingevano delicatamente la vita, partecipare a quel bacio che si faceva a poco a poco più profondo, più avvolgente, e allora si alzò in punta di piedi, facendogli passare le braccia intorno al collo, così da perdervisi dentro.

Calda, così piacevolmente calda quella sera, carezzata solo dal canto dei grilli…

Le loro labbra si staccarono, ma le loro fronti quasi continuavano a toccarsi, le mani di lui che adesso le tenevano il volto, appena sotto le orecchie, dietro alle quali ravviava delicatamente alcune ciocche della ragazza, per poi accarezzarle le guance con i pollici, occhi negli occhi.

Le sorrise con dolcezza, e lei fece altrettanto, ora più sicura e rilassata.

“Scusami, ma stavo impazzendo” ammise Pan con sincerità, la voce bassa, quasi sussurrata. “Sai, non mi piacciono le cose in sospeso”.

Lui sorrise, compiaciuto.

“Concordo. Oggi Goten poteva scegliere un momento migliore per fare la sua entrata, non è così?” chiese, ammiccandole.

“Appunto” convenne Pan con un piccolo sbuffo d’insofferenza. “Mio zio non conosce la discrezione, è una caratteristica degli uomini Son, non lo fanno apposta, è che proprio non ci arrivano…la prossima volta, però, giuro che si ritroverà in faccia molto di più della tua cartella dei documenti!”.

Lui rise, divertito, per poi accettare di nuovo le sue labbra, morbide e calde, come quella sera di Aprile.

 

Gohan sorseggiò di nuovo dalla tazza, nonostante avesse finito il suo caffè da un minuto buono. Sua madre era già andata a coricarsi, stanca, mentre Videl era rimasta a rigovernare le ultime stoviglie dell’abbondante cena. Lui, invece, era appoggiato allo spigolo di muro subito accanto alla finestra, appena dietro le tendine semitrasparenti che certamente pensava lo mimetizzassero, ma il suo sguardo, nonostante la maschera di indifferenza, si sollevava di tanto in tanto furtivamente, per controllare quanto avveniva fuori.

“Quando mai avrai finito quel caffè, Gohan, ti dispiacerebbe sparecchiarmi la tavola?” chiese Videl, alzando con pazienza gli occhi sul marito, che sembrava quasi paralizzato nella sua posizione.

“Oh. Sì. Subito” rispose lui, abbandonando la tazza nel lavello e dirigendosi verso la tavola.

Non mancò però di gettare un’ultima occhiata al di là dei vetri, con espressione allibita.

“Ti rendi conto…si stanno baciando” disse, quasi così volesse rendere legittimo il suo prolungato trattenersi davanti alla finestra.

“Sì. Lo so” si limitò a dire Videl, continuando a lavare un piatto senza alzare lo sguardo, ma con espressione più che tranquilla, anzi, quasi compiaciuta. “E comunque, Gohan, non mi sembra carino stare a spiarli dietro la finestra come una zitella curiosa che non ha visto mai niente!”.

“Io non li stavo spiando” si difese l’uomo, non troppo convinto. “Solo che…insomma…Trunks non…”.

In quel momento la porta si aprì, mentre il diretto interessato faceva il suo ingresso, e Gohan ricacciò in gola le parole, tossendo poi con indifferenza. Aveva abbassato lo sguardo, aggiustandosi con un dito gli occhiali sul naso e mettendosi meccanicamente a spazzare via alcune briciole inesistenti dalla tavola, mentre Videl, le mani e buona parte degli avambracci ancora immersi nel lavello schiumoso, alzò gli occhi luminosi, sorridendo al Brief.

“Sto andando a dormire” annunciò con tranquillità Trunks, mentre Gohan pensava come mai in quella stanza dovesse essere l’unico ad essere in imbarazzo. “Anche Pan era stanca, mi ha detto di dirvi che stava tornando nella dependance. Vi serve una mano, prima che salga in camera?”.

“Oh, no, figurati, abbiamo quasi finito!” gli assicurò Videl. “Vai pure a riposare”.

“Ok, allora” sorrise lui, avviandosi per le scale e rivolgendo un ultimo saluto ai due coniugi. “Buonanotte Videl. Buonanotte Gohan”.

“Buonanotte” rispose Gohan, facendo eco alla moglie, sforzandosi di sorridere.

Già, vai pure a nanna, Trunks, anche se non mi sembravate tanto stanchi appena un minuto fa, là fuori, pensò Gohan in un recondito angolo della mente, pentendosene quasi subito. Non riusciva a capacitarsi come in quel momento venisse fuori da lui tutto quel cinismo ingiustificato.

Videl attese di sentire la porta della vecchia camera di Goten che si chiudeva, poi si rivolse verso il marito, scrutandolo con leggero rimprovero: “Non dirmi che cadi completamente dalle nuvole, Gohan. Sapevi che sarebbe successo, era solo questione di tempo. E credo che tu lo sapessi anche quando hai proposto a Trunks di venire a stare da noi, facilitando inevitabilmente le cose”.

Gohan sospirò, fissando nuovamente fuori dalla finestra, dove rimaneva ormai solo il paesaggio notturno e la luce proveniente dalla camera di sua figlia, nell’attigua dependance.

“Sì, lo sapevo” ammise debolmente. “Ma è dura quando ci si arriva davvero”.

 

La camera da letto era buia, rischiarata solo dall’argentea luce lunare che filtrava dalle tendine della finestra, ma Pan accostò la porta senza accendere la luce, gettandosi direttamente sul letto, senza nemmeno disfare le lenzuola o indossare il pigiama. Rimase invece a fissare il soffitto con sguardo vacuo, sognante, portando su le mani ad afferrare le estremità del cuscino sotto la sua testa, come un appiglio alla realtà.

Era successo. Era successo davvero, e ancora non ci credeva. Non che nelle ultime settimane non l’avesse ritenuto probabile, non che dopo quella mattina non ne fosse stata ormai completamente sicura…eppure, era ancora strano pensare a come fosse stato tutto così semplice, alla fine.

E’ vero, era stata lei a prendere l’iniziativa, in entrambe le occasioni, ma lui aveva risposto immediatamente, lui non l’aveva rifiutata. Ed era proprio questo che aveva spaventato Pan ogni volta che se ne presentava l’opportunità: il suo possibile rifiuto. Sarebbe stato un dolore troppo grande, e questo le succhiava via gran parte del suo ben noto coraggio, inducendola a non rischiare.

Quella mattina, invece, era successo tutto così in fretta che non aveva avuto modo di pensare alle possibili, disastrose conseguenze. L’aveva fatto e basta, solo perché si sentiva di farlo. E, con suo grande sollievo, sembrava che lui avesse desiderato esattamente la stessa cosa. Forse, stava semplicemente aspettando lei.

Chiuse gli occhi, inumidendosi le labbra e riassaporando la sensazione di lui, il cuore che le batteva ancora.

Ringraziò piano la luna, che pallida ed eterea illuminava quella notte. Ringraziò tutte le stelle del firmamento, tremolanti e lontane, e ogni singolo insetto del giardino che aveva cantato per loro. Ringraziò le colline e la loro erba, i monti del paesaggio, gli alberi e le loro scure fronde accarezzate dalla brezza.

Ringraziò l’intero creato per quel singolo momento. Adesso poteva pure esplodere il mondo. Lei era felice, e non desiderava altro.

 

***

 

Goten fece scattare con un leggero sbuffo di esasperazione la difettosa serratura, aprendo poi il portone con un sonoro cigolio. Era già un bel po’ che aveva intenzione di cambiarla, così come di oliare i cardini di quella porta che tanto irritava gli altri condomini quando tornava a tarda notte dal pub, ma era inevitabile che il ciclone che aveva travolto la sua vita negli ultimi tempi facesse passare molte cose nel dimenticatoio.

L’appartamento era avvolto da un silenzio ovattato, mentre dalla porta accostata della camera da letto proveniva tiepida la luce dell’abat-jour.

Lasciò le chiavi sul mobiletto di seconda mano dell’ingresso, per poi passare vicino all’angolo cucina. Notò abbandonata sul tavolo una scatola vuota di cibi pronti surgelati, e allora si ricordò di non aver lasciato niente di già cotto in forno o nel frigo. Nel lavello, invece, erano stati abbandonati ancora sporchi due piatti, un bicchiere e un paio di posate, e pensò quindi per l’ennesima volta che non tutti possono riuscire a fare a meno di una lavastoviglie.

Non certo la sua coinquilina.

Si affacciò in camera, aprendo piano la porta. Lei era seduta sul letto, appoggiata alla spalliera. Indossava un’estiva camicia da notte azzurra, appena più chiara dei suoi capelli adesso così corti e che non avevano ancora trovato un giusto verso dopo il taglio repentino, tirati ora indietro da una fascia che aveva legato dietro la nuca. Tra le sopracciglia le si era disegnato un piccolo solco, come ogni volta che era concentrata, mentre con mano esperta e decisa disegnava rapidi tratti sul blocco di carta appoggiato sulle sue ginocchia.

Sollevò brevemente gli occhi, mentre lui entrava completamente nella stanza e si sedeva sul letto, davanti a lei.

“Credevo fossi al pub” commentò, senza smettere di disegnare. “Come mai sei tornato così presto?”.

“Ho deciso di staccare prima, stasera” rispose il Son, facendo poi vagare lo sguardo nella stanza con finta indifferenza. “Ma se la cosa non ti aggrada, principessa, posso pur sempre tornarci”.

Il fruscio della matita sul foglio di carta si interruppe bruscamente, mentre Bra alzava gli occhi su di lui, trafiggendolo con schegge di diamante: “Non ci provare”.

Il tono era stato basso ma deciso, facendo sorridere Goten, prima di sporgersi con curiosità a sbirciare sopra il blocco della ragazza. Nella carta spiccava il bel rosso acceso di un abito da sera, che avvolgeva con grazia le stilizzate figure di un corpo femminile, come la bozza di uno stilista.

“Credevo studiassi chimica, non moda!” osservò il ragazzo, sorpreso ma allo stesso tempo affascinato dalla bellezza di quel modello, gli spallaccini morbidi che si allacciavano dietro il collo, lasciando la schiena scoperta, il bordo della gonna asimmetrico poco sotto il ginocchio, a donargli eleganza ma allo stesso tempo freschezza.

“Infatti” si limitò a rispondere lei, dando al disegno gli ultimi ritocchi, e Goten decise di non approfondire. Se non altro, quella bizzarra occupazione la faceva momentaneamente distrarre dall’infinita stesura della lista degli invitati, da decisioni amletiche riguardo al menù del buffet o alle decorazioni floreali, e dall’ardua scelta del vestito, come suggerivano le pile di riviste di abiti da sposa accatastati sul comodino. Insieme ad esse era riposto anche qualche annuncio immobiliare ritagliato da giornali, dato che la sua ultima fissazione era la ricerca di una casa decente, come la definiva lei, adatta a far crescere un figlio, e senza dubbio con la lavastoviglie. Anche se più che una casa, come appariva dai prezzi esorbitanti, sembrava fosse alla ricerca di un castello.

Goten sospirò arrendevole, ripensando all’ultima bolletta del telefono, che nell’ultimo mese sembrava essersi magicamente quadruplicata.

“Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa?” le chiese.

“Grazie, ma ho già cenato”.

“Ho visto, ma intendevo qualcosa di più salutare!”.

“Mmh...per adesso non ho più fame”.

“E non hai voglia nemmeno di…queste?”.

La ragazza alzò meccanicamente lo sguardo, cogliendo il Son che tirava fuori da dietro la schiena una busta di plastica trasparente, ripiena di morbide, dolci e coloratissime caramelle gommose alla frutta. Gli occhi di lei, fino a poco prima così concentrati, brillarono ora di bramosia, mentre abbandonando rapidamente il blocco da disegno sul comodino si allungava verso di lui a strappargli quella deliziosa refurtiva.

“Dove le hai trovate?” chiese eccitata, mentre apriva la busta senza troppo garbo, quasi come un leone affamato che sbrana la sua preda.

“Supermercato di Satan City, ultima confezione. Direi che è il tuo giorno fortunato, spettro”.

Ma Bra già non lo ascoltava più, aveva già messo in bocca un paio di caramelle, gustandole lentamente e ad occhi chiusi, mentre si faceva sfuggire un basso gemito di piacere. Nelle ultime settimane aveva avuto modo di imparare quanto fosse complicato accontentare una donna incinta, soprattutto una sajan, ma vederla poi così appagata come in quel momento lo ripagava appieno di ogni sforzo.

“Sono passato da Trunks, stamattina” la informò, mentre lei sollevava cautamente lo sguardo su di lui. A volte, parlare di suo fratello la metteva ancora a disagio, forse per qualche infondato strascico di sensi di colpa, ma nei suoi occhi, al di là dell’ostentata compostezza, intravedeva anche un chiaro barlume di apprensione.

“Come…come sta?”.

“Oh, benone, dovresti vederlo!” la rassicurò con un sorriso. Poi, più serio: “Gli ho dato la lettera di tua madre. Ha voluto che gliela leggessi io”.

Bra finì lentamente di masticare una caramella, un’impercettibile smorfia sul volto come se avesse perso gran parte del suo sapore. “L’ha presa male?”.

“Beh, ammetto che è stata dura leggergli quelle brutte parole, ma alla fine credo che abbia capito il senso del messaggio e che possa servirgli per star meglio”.

“Lo spero davvero” sospirò lei pensierosa, stringendosi ora nelle spalle. “Mi dispiace solo che debba affrontare tutto questo da solo, lassù in quella landa sperduta!”.

“Primo, i Paoz non sono una landa sperduta, sono un parco protetto!” protestò lui, facendola sorridere. “Secondo, Trunks non è affatto solo, ci sono mio fratello e Videl, c’è mia madre che lo vizia fino all’esasperazione, e poi Pan, che gli è vicina…molto vicina” scandì, sornione. “Dovevi vederli com’erano carini stamattina mentre si baciavano in giardino!”.

Bra spalancò gli occhi, che sembrarono emettere ora bagliori infuocati, mentre quasi si strozzava con una caramella. “Ma come…come ha osato quella disgraziata approfittarsi di mio fratello! Io…io…!”.

“Rilassati, Bra, non mi sembrava che a Trunks fosse dispiaciuto così tanto, e comunque era già un bel po’ che stavano flirtando apertamente, devi fartene una ragione!”.

Goten rise, mentre la ragazza borbottava qualcosa di incomprensibile in stile molto Vegetesco, sicuramente qualche commento non molto carino nei confronti di sua nipote. La guardò quindi riaffondare la mano nel sacchetto di caramelle, mentre questa volta pescava, invece della solita gommosa, un piccolo oggetto circolare.

“E questo che diavolo è!” esclamò, ancora adirata, mentre portava l’oggetto davanti agli occhi.

Goten si sporse verso di lei, simulando sorpresa.

“Ma guarda un po’!” osservò, fissando l’anello di plastica azzurro, dal taglio decisamente grossolano ma simpatico, con un grande cuore fucsia che lo sormontava. “Mi sembra che con tutti i preparativi per le nostre attesissime nozze, era proprio quello che ancora mancava per una futura sposa…un degno anello di fidanzamento!”.

Lei lo guardò per qualche secondo interdetta, per poi farsi sfuggire una risata: “Stai scherzando, vero? Non penserai davvero che indossi un anellino di plastica trovato nelle caramelle!”.

“Non sono mai stato più serio!” la contraddisse lui, prendendole l’anello di plastica dalla mano e mostrandoglielo tra pollice e indice. “Lo so, principessa, che non è il massimo, ma è tutto ciò che posso permettermi, al momento” confessò, donandole poi un caldo, dolcissimo sorriso. “E poi, tra noi è successo tutto così in fretta che non c’è stato nemmeno il tempo di una vera proposta di matrimonio…quindi, anche se poi vorrai buttare questo anellino…Bra Brief, vuoi sposarmi?”.

Bra sorrise, accarezzando piano la guancia di Goten, che la guardava con occhi colmi d’amore, quegli occhi così profondi, così veri, così pieni di vita.

“Beh..." rispose, simulando indecisione, ma con il sorriso sulle labbra. "Chissà. Può darsi che mi sia dato di volta il cervello e che voglia davvero sposarti, Goten Son”.

Lui sembrò soddisfatto e le infilò l’anellino all’anulare sinistro, dove le calzava alla perfezione. Risero entrambi del buffo effetto che aveva quel pacchianissimo oggetto da bambina sulle sue mani curate, poi lui si abbassò piano, sollevandole delicatamente la camicia da notte e appoggiando dolcemente le labbra sul suo ventre, dove ora cominciava a vedersi un leggero rigonfiamento. Vi depositò una scia di piccoli baci affettuosi, per poi abbandonare la testa sulle gambe di lei ed assopirsi tranquillo.

In quell’istante, mentre lei gli accarezzava con dolcezza i capelli, Goten seppe con certezza che qualsiasi cerimonia, per quanto bella e sfarzosa, non  sarebbe mai potuta essere più intensa, intima ed emozionante di momenti come quelli.

 

Continua...

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Primavera sui Paoz ***


Capitolo 2

Capitolo 2 – Primavera sui Paoz

 

 

 

 

I giorni seguenti furono per Gohan tra i più tesi, ansiosi e stressanti di tutta la sua vita. Ne aveva passati molti di momenti intensi, situazioni estreme in cui qualsiasi uomo sarebbe di sicuro impazzito, eppure li aveva sempre affrontati con lucidità e raziocinio.

Adesso, invece, si perdeva in un bicchier d’acqua di fronte alla più semplice legge di natura.

A dimostrazione di ciò, il fatto che la sua ansia cresceva con la progressiva guarigione emotiva di Trunks, e con il rinnovato buon umore di sua figlia.

Non aveva più assistito a episodi eclatanti ed espliciti come il bacio di qualche sera prima, ma lui sapeva che c’era qualcosa in più tra loro, lui l’aveva visto. Anche se avevano continuato a comportarsi normalmente, si intuiva dal modo con cui a volte si guardavano, dalla continua ricerca di contatto o vicinanza, dalle frasi scambiate sottovoce.

Era come se reputassero tutti gli altri degli ingenui a cui potevano nascondere l’evidenza senza nemmeno impegnarsi troppo, e sovente Gohan si era sentito escluso, quasi un estraneo nella propria casa.

Ne aveva parlato con sua moglie, ma lei sembrava non dare abbastanza peso alla cosa, rimproverandolo anzi di fraintendere l’intera situazione.

Non si stanno affatto nascondendo, diceva, ma lui continuava ad insistere.

Se non si stanno nascondendo, allora perché non ce ne parlano? Perché fanno finta di niente?

Forse vogliono solo un po’ di privacy, Gohan.

Ma, purtroppo, questo non lo rincuorava affatto.

Privacy? E perché? Cosa mai devono fare per aver bisogno di privacy?

Era così che aveva iniziato, con discrezione, a tenerli d’occhio.

Aveva cominciato dalle cose più semplici, come far casualmente cadere una forchetta durante la cena, una banale scusa per abbassarsi e sbirciare sotto la tavola, per capire se si tenevano per mano nel caso fossero seduti vicini, o se i loro piedi si sfiorassero nel caso fossero seduti di fronte. Ma presto aveva realizzato che non erano abbastanza inibiti da ricorrere a “tenerezze sotto banco”, era più facile scorgere lei che raggiungeva con naturalezza la sua mano o lui passarle affettuosamente un braccio intorno alle spalle, il tutto alla luce del sole e senza il minimo imbarazzo.

Ma erano ben altre le cose di cui doveva preoccuparsi, come quando, per esempio, rimanevano da soli in qualche stanza. Una volta, con la scusa di dover prendere un libro, era entrato nel piccolo studio della dependance dove stavano da quasi mezz’ora. Trunks era alla scrivania, dove aveva collegato il portatile, mostrandole qualcosa sullo schermo, forse delle vecchie foto simpatiche, come dimostravano le loro facce divertite illuminate dal computer. Lei era seduta su una gamba di lui, non nell’altra sedia, che pure era disponibile lì accanto e sicuramente più comoda, ma sulla gamba di lui. Aveva quindi distolto lo sguardo, preso al buio un libro a caso dal primo scaffale a portata di mano -che poi aveva in seguito identificato come “Favole della buonanotte”, il libro che leggevano a Pan da piccola, e si era subito chiesto come avrebbe spiegato una simile scelta a Videl, nel caso fosse passata di lì- e aveva fatto per uscire lesto lesto dalla stanza. Sorprendentemente era stata Pan a bloccarlo, e quasi era sobbalzato su se stesso, sentendosi all’improvviso chiamato in causa.

Puoi chiudere la porta, papà? gli aveva chiesto con semplicità, e lui l’aveva chiusa ubbidiente, addirittura salutandoli con un sorriso. Era rimasto quindi fuori dalla porta chiusa per due minuti buoni, a fissare la maniglia con “Favole della buonanotte” in mano, sentendosi un perfetto idiota. Aveva poi ceduto ad allontanarsi, nascondendo poi furtivamente tra i cuscini del divano l’equivoco libro.

Altro momento critico era la sera, quando stavano per coricarsi. Gohan non sarebbe mai andato a letto tranquillo, nemmeno se fosse morto di stanchezza dopo un’intera giornata all’Università, se prima non li avesse visti ritirarsi ognuno nelle rispettive stanze, lui in quella di Goten dell’abitazione principale e lei nella propria della dependance, che per fortuna non erano così attigue da far temere furtivi incontri notturni.

Ma era quando i due uscivano per qualche passeggiata sui Paoz, che perdeva completamente il controllo della situazione. Sentiva crescere l’ansia ogni minuto che passavano fuori, da soli e lontano dalla sua visuale, trovandosi a guardare di continuo l’orologio, sperando di vederli risalire la collinetta prima possibile, sperando che avessero saputo tenere a freno gli ormoni.

Smettila di considerarli come ragazzini, lo rimproverava Videl, ogni volta che lo sorprendeva a passeggiare nervosamente davanti alla finestra. Sono entrambi adulti, sanno badare a loro stessi!

Lo sapeva, ma anche gli adulti, a volte, perdono il lume della ragione, senza rendersi conto di andare oltre ciò che è giusto.

Sarebbe stato di sicuro il più felice di fronte al radioso sorriso di sua figlia, che ultimamente le illuminava il volto, se non avesse temuto più di ogni altra cosa di vederlo spegnersi bruscamente.

Perché così sarebbe successo. Così, purtroppo, sarebbe andata probabilmente a finire.

Ed era per questo che adesso attendeva di nuovo con impazienza davanti alla finestra, mentre loro erano là fuori già da un’ora, chissà dove, chissà come, ad affondare inconsapevolmente una lama l’uno nel cuore dell’altra.

 

Nell’area 436, monti Paoz, settore 7, esisteva un piccolo sentiero che discendeva piano la collina in mezzo al prato di un verde accecante. A tratti si trasformava in rudimentali ponticelli che attraversavano il corso d’acqua di uno stretto e gorgogliante ruscello, che discendeva insieme al sentiero fino ad un tranquillo laghetto, dove si tuffava con una cascatella. Nell’acqua si specchiavano pigramente le rigogliose chiome degli alberi, dalle cui fronde cinguettavano sonoramente gli uccelli con i loro pulcini. Al di là di essi, la piccola valle si estendeva in un candido prato di margherite, sorvolato da insetti e farfalle e allettato dal pigro canto delle cicale tra i cespugli.

Al centro del prato, a proiettare con orgoglio la fresca ombra della propria chioma, svettava placido un melo. Il tronco presentava, circa a metà altezza, una strana mutilazione laterale a forma di semicirconferenza, come se vi fosse passata di striscio la palla di un cannone. Nonostante ciò, l’albero sembrava avesse continuato per anni a crescere fertile e rigoglioso, la corteccia vecchia ma ancora forte.

Vi si leggevano ancora due lettere, incise sopra di essa, una “G” e una “V” con un “+” in mezzo.

Trunks si stirò pigramente, mentre l’erba fresca su cui era disteso lo solleticava con piacere. Issò quindi un gomito per sorreggersi la testa, mentre guardava Pan che, in piedi e ad un paio di metri da lui, coglieva da un ramo uno degli ultimi frutti di stagione.

Indossava un prendisole bianco di cotone leggero, che metteva in risalto la sua abbronzatura dorata, i piedi rigorosamente scalzi e un’espressione di piacere disegnata in volto, mentre addentava la mela rossa e la assaporava con soddisfazione.

“Mmmh…” mormorò, masticando ad occhi chiusi. “E’ matura al punto giusto, fragrante e succosissima! Vuoi assaggiare?”.

Si avvicinò a lui, sdraiandosi quindi al suo fianco e porgendogli la mela, sebbene non sembrasse troppo interessato al frutto, continuando invece a fissare lei, un vago sorriso sul volto rilassato.

“Avanti, solo un morso!”.

“Ok!” rispose infine, ma invece di addentare la mela trascinò la ragazza più vicina a lui, accennando un piccolo e innocente morso sulla sua guancia, che la fece ridere un po’ per la sorpresa, un po’ per il solletico dei denti di lui.

Le margherite ondeggiavano piano. Le farfalle danzavano variopinte sopra di esse, come fate leggere e colorate, gli uccelli intonavano canti che alle orecchie di Trunks sembravano le più belle odi di primavera mai incise nei suoi dischi di musica classica. I raggi del sole di mezzodì penetravano caldi tra le fronde del melo, disegnando su di loro un reticolo di luci e ombre, mentre la baciava lentamente, accarezzandola.

La sua pelle era così morbida, così buona, così giovane…

Si sentiva ringiovanito di quindici anni. Era come se dentro gli sgorgasse un flusso di vitalità e di energia che non sentiva più da tanto, troppo tempo, come se lo stesse avvolgendo una capsula di entusiasmo e trasporto e vigore, quasi come un incantesimo in cui la cognizione del tempo e dello spazio scompare senza più traccia.   

Si distese di nuovo al fianco di lei, gli occhi chiusi, le mani incrociate dietro la testa.

“Un paradiso” disse piano. “Questo posto è un paradiso…una sorgente di benessere”.

Pan sorrise, appoggiando la testa ad una mano per vederlo meglio, mentre con l’altra giocava con qualche stelo d’erba.

“A volte non è il posto…siamo noi, e come ci apportiamo ad esso”.

“Allora sarà che io non mi apporto tanto bene allo smog e al caos di West City, o che magari mi ci sono talmente assuefatto da non beneficiarne più!”.

Risero entrambi.

“Se ti senti bene dentro, puoi stare bene dovunque e con chiunque…con il tuo stato d’animo attuale, credo che apprezzeresti persino la tua monotona e sedentaria vita d’ufficio!”.

Aveva certamente sperato di farlo sorridere alla battuta, ma il volto di Trunks si era invece leggermente rabbuiato in un’espressione assorta.

“Chissà…forse se non avessi sulla scrivania decine di pratiche di fallimento da firmare o se le banche non mi chiamassero ogni giorno per saldare i debiti…”.

Pan aveva abbassato lo sguardo, pentendosi immediatamente della divagazione, ma l’espressione di Trunks aveva di nuovo ripreso luce, l’apprensione svanita, come una nuvola passeggera.

“E tu?” le chiese, spostando solo per un attimo gli occhi azzurri in direzione di lei, tornando poi a fissare la luce dorata che brillava tra il fogliame, sopra di loro. “Lasceresti mai questo posto?”.

Per qualche attimo non la sentì rispondere, poi la ragazza colse distrattamente un soffione dall’erba, girando lo stelo tra le dita.

“Solo per un buon motivo” disse infine quasi distrattamente, soffiando piano la corolla in direzione di lui, che si disciolse leggera a solleticargli la pelle del viso, facendo sorridere entrambi.

Poco più in là, il laghetto ombreggiato gorgogliò invitante.

 

Il giovane cameriere, camicia immacolata con pantaloni neri e papillon al collo, si fece educatamente strada tra i tavoli elegantemente imbanditi, dove i clienti mangiavano compostamente i più raffinati piatti della casa. Oltrepassò quindi con rapidità, ma senza apparente fretta, la graziosa parete decorata di ceramiche pregiate, passando sotto lo sfarzoso lampadario barocco, che gettava la sua luce ovattata al centro del salone.

Giunse finalmente al tavolo da quattro dove era stato chiamato per raccogliere l’ordinazione, sfoggiando un leggero inchino ai commensali.

“Gradisci del vino, Bra?”.

“Oh, volentieri”.

“Che ne dici di un bianco, da abbinare con il pesce?”.

“Mi sembra perfetto”.

“Ci porti un bianco, cameriere, che si sposi ad hoc con il nostro munù, e possibilmente prima che finiamo di pranzare, grazie”.

Goten osservò l’uomo seduto di fronte a lui liquidare il cameriere con un rapido gesto della mano, riprendendo poi distrattamente ad accarezzarsi il pizzetto grigio, stesso colore dei folti capelli lunghi fino alle spalle e degli occhi scaltri, mentre accennava un sorriso soddisfatto che amplificava le rughe del volto artificialmente abbronzato.

L’architetto Jeremy Fox era noto negli ambienti dell’alta società come artista raffinato e fascinoso; quel che vedeva Goten, che invece aveva il piacere di conoscerlo per la prima volta, era semplicemente un sessantenne snob e con la puzza sotto il naso. Certo era solo una sensazione a pelle, dovuta forse al fatto che da quando Bra li aveva presentati non gli aveva più rivolto parola, ma purtroppo difficilmente si sbagliava nelle sue prime impressioni. Anche la moglie, i capelli ben cotonati, il tailleur stretto nonostante la corporatura in carne ed il trucco pesante, si era limitata a squadrarlo per intero durante le presentazioni, lanciando sguardi contrariati ai suoi jeans scoloriti e alla sua vivace t-shirt arancione, ritenendolo poi indegno della sua attenzione.

Il suo sguardo adorante era invece tutto per Bra, che quel giorno indossava una gonna nera e una camicetta sobria, i capelli miracolosamente sistemati in una messa in piega elegante, e che ora rivolse all’architetto un sorriso formale.

“E così hai bruciato le tappe nei tuoi studi, Bra” riprese l’uomo. “Mi dicevi che hai già messo in pratica le tue conoscenze di chimica”.

“Oh, beh, sì…il Techno-tess” rispose Bra con naturalezza, ma con un’espressione d’orgoglio che Goten ben conosceva. “Ci sto lavorando da qualche mese ormai, ho cambiato più volte le proporzioni dei due polimeri, ma adesso credo di aver finalmente ottenuto quel che avevo in mente”.

“Fantastico! Ma ci pensi, Lauren?” chiese entusiasta alla moglie. “Un nuovo tessuto sintetico che non fa pieghe e che grazie alla matrice elastica e malleabile si adatta perfettamente al corpo come una seconda pelle! Avrà un successo immediato in tutto il mondo!”.

“Non vedo l’ora di provarlo!” cinguettò la signora Fox, e Goten dovette trattenere a stento un risata infilandosi in bocca un enorme boccone di polpo in guazzetto e guadagnandosi un’occhiata radente di Bra.

“In realtà ci vorrà un po’ di tempo prima di poterlo mettere in vendita” precisò la Brief, riportando lo sguardo fiero sui due coniugi. “Prima di brevettarlo volevo fare le ultime modifiche, purtroppo sono una perfezionista! E poi serve l’approvazione del consiglio d’amministrazione, ed i fondi necessari per la produzione di massa…” fece una piccola pausa, scrutando le loro espressioni, per poi continuare: “In ogni modo, ho già affidato ad una sartoria di qualità la realizzazione del primo abito di Techno-tess disegnato da me, per avere un’idea del prodotto finito”.

“Ma è meraviglioso!” commentò Lauren, portando una mano al petto, l’espressione ammirata.

“Puoi dirlo forte, cara, e pensare che questa grandiosa scoperta è venuta fuori da una giovane scienziata in carriera che non è ancora nemmeno laureata! Penso che la nostra Bra sia destinata a fare grandi cose con il suo straordinario ingegno!”.

“Ha preso tutto da sua madre!” aggiunse la moglie, e Goten pensò che probabilmente aveva conosciuto troppo poco suo padre, per rendersi conto di quanto in realtà si sbagliasse.

Sentendosi escluso dalla conversazione, si concentrò di nuovo sui suoi scampi, che aprì con soddisfazione tra le mani prima di portare i gusci alle labbra e succhiare con gusto la polpa bianca e morbida. Bra riportò di nuovo lo sguardo su di lui, questa volta con più insistenza e con un’espressione fortemente perentoria, mentre anche la signora Fox gli rivolgeva un’occhiata scandalizzata.

“Ma basta parlare di me” iniziò di nuovo la Brief, cercando senza troppa fatica di riacquistare l’attenzione della donna. “Mi dica, Lauren, come stanno i vostri figli, Elly ed Eddy?”.

Gli occhi della donna sembrarono brillare di luce propria, mentre rivolgeva alla ragazza un largo e orgoglioso sorriso: “Oh, benissimo, benissimo! Elly si è fidanzata da un paio di mesi con il figlio di un ricco petroliere, siamo tutti al settimo cielo! Ma anche Eddy ci ha dato una bella soddisfazione, intraprendendo la carriera di banchiere!”.

Gli occhi di Bra si ingrandirono leggermente, adesso sembravano zaffiri vivi, mentre sorrideva interessata.

“Banchiere…direi che è meraviglioso”.

“Oh, sì, ne siamo molto fieri! Purtroppo, lui ancora di matrimoni non vuol sentir parlare! E poi, credo che abbia da sempre una cotta per te, fin da quando da piccoli facevate il bagnetto insieme in piscina, mentre tua madre e Jeremy discutevano sull’arredamento per la nuova sede della Capsule!”.

Bra rise.

Goten la guardò per qualche attimo, dicendo a se stesso che quello non era un sorriso sincero, perché la sua bocca sorrideva ma non i suoi occhi, quelli no, e lui solo conosceva il suo vero modo di ridere, che non era così formale e distaccato, seppure così raro e contenuto.

Lui solo la conosceva davvero, lui solo aveva imparato in quei pochi mesi molte più cose di lei di qualsiasi altro, lui solo poteva sapere se qualcosa la divertiva davvero oppure no, e sperò con tutto se stesso che la battuta della signora Fox, come gli suggeriva il suo intuito, in realtà non l’avesse divertita affatto.

“A proposito di arredamento” esordì il signor Fox, accomodandosi il foulard bianco che aveva al collo. “Sbaglio, Bra, o mi avevi cercato per alcuni consigli sull’arredamento della tua futura nuova casa qui a West City?”.

“Naturalmente era solo un pretesto per potervi rivedere dopo tutto questo tempo, ma sì, mi sarebbero davvero molto utili i suoi preziosissimi consigli, Jeremy”.

L’architetto alzò la testa compiaciuto, accarezzandosi di nuovo il pizzetto, mentre il cameriere faceva il suo ritorno al tavolo con una bottiglia di vino, che ora si apprestò ad aprire davanti ai quattro commensali, versandone poi nei rispettivi bicchieri.

“Evidentemente non ci siamo capiti, giovanotto” lo trattenne Fox, dopo appena un sorso. “Le avevo detto di portarci un vino che si sposasse con il pesce”.

“Beh, ho portato un vino bianco…”.

“Non provi a fare il furbo con me, questo è un vino bianco corposo, e non serve un attestato da sommelier, che comunque io ho, per sapere che con il pesce si abbina un vino bianco secco!”.

“Ma io…”.

“Poche scuse, giovanotto!” tagliò corto l’uomo, restituendo al giovane cameriere la bottiglia. “Se non è preparato su queste cose, forse farebbe bene a cambiare mestiere!”.

Goten osservò il volto del giovane. C’era imbarazzo in quel volto, e c’era anche delusione e impotenza e terrore per un eventuale licenziamento, vide tutto questo in quegli occhi, e lo vide in un solo attimo, prima che se ne andasse a testa bassa, e fu abbastanza perché Goten abbandonasse istintivamente tutte le sue buone intenzioni di non intervento.

“E’ solo un ragazzo!” osservò, mentre Jeremy Fox, voltandosi in sua direzione, sembrò accorgersi di lui per la prima volta durante tutto il pranzo.

“Giusto, signor…Son, dico bene?” chiese sbattendo piano le palpebre, come se solo rivolgendogli la parola gli stesse facendo un incredibile favore. “D’altronde lei dovrebbe intendersene bene di servizio ai tavoli”.

“Più o meno” rispose senza scomporsi lui, mentre con la coda dell’occhio scorgeva Bra abbassare lo sguardo. “Sicuramente abbastanza da sapere che un ragazzo può anche imparare dai propri sbagli, nessuno nasce perfetto, non trova?”.

“Evidentemente, signor Son, servire ai tavoli di un ristorante di lusso non è la stessa cosa che farlo in qualche comune bar” affermò l’architetto, fissandolo con aria strafottente prima di cambiare argomento, e fu solo per amore della ragazza seduta al suo fianco, che adesso si fissava le mani in grembo con estremo imbarazzo, che Goten decise di non reagire, di far finta di niente, di ignorare la sua dignità ferita.

In ogni modo, ancora una volta, le sue prime impressioni si riconfermavano giuste.

 

Gohan guardò di nuovo l’orologio a muro, fremente. Nel farlo aveva però disgraziatamente incrociato gli occhi di sua moglie, intenta ad apparecchiare la tavola, che le lanciò in rimando uno sguardo eloquente. Cercò quindi di concentrarsi sulle verdure che stava affettando per il minestrone di sua madre, che bolliva già da un po’ sul fornello acceso, in attesa di essere alimentato.

“Pan e Trunks avevano intenzione di tornare per pranzo, vero?” chiese distrattamente Chichi, girando con un lungo mestolo il contenuto della pentola.

“Certo che tornano per pranzo” puntualizzò Gohan, aggiustandosi gli occhiali sul naso con l’indice. “Perché mai non dovrebbero? E’ tutta la mattina che sono fuori”.

“E questo che significa?” si introdusse Videl, interrompendo il suo lavoro e portando una mano al fianco, fissando seriamente il marito. “Se hanno voglia di restare fuori tutta la giornata, possono benissimo farlo! Lasceremo qualcosa di caldo per quando tornano e…”.

“Certo che no!” la contraddisse lui, il tono ora leggermente concitato. “Non hanno lasciato detto niente, e questo dà per scontato che per pranzo saranno qui. Non vedo quanto dovrebbero trattenersi oltre!”.

“Da quando in qua nostra figlia ha bisogno del nostro permesso per fare quel che vuole? E Trunks, poi? Non sei certo suo padre, e nemmeno suo fratello!”.

“Ma lui adesso sta qui e qui esistono delle regole ben precise, come quella di essere a tavola per mezzogiorno!”.

“Ah sì, e da quando??” lo schernì Videl, riducendo il marito ad un imbronciato silenzio.

Per qualche secondo i due coniugi si fissarono con sfida, mentre Chichi, abbandonando momentaneamente la sua pentola, si voltava verso di loro, scuotendo la testa esasperata: “Ragazzi, vi prego! Sembrate due bambini capricciosi!”.

Ma il suo poco adatto ruolo di mediatore fu fortunatamente interrotto dal sopraggiungere di risate divertite, una femminile più sonora e prolungata, una maschile più bassa e discreta. Mentre tra i tre calava un silenzio d’aspettativa, la porta si aprì sonoramente, rivelando le due figure in questione azzardare qualche passo nella stanza, ancora tra le risa. Con sbalordimento e confusione Gohan inarcò le sopracciglia, mentre metteva a fuoco Trunks e sua figlia completamente bagnati dalla testa ai piedi, i capelli ancora gocciolanti, i vestiti inzuppati.

“Oh cielo!” esclamò Chichi, facendo cadere il mestolo a terra per la sorpresa, mentre anche Videl guardava i due con un misto di divertimento e stupore. “Ma che vi è successo??”.

“E’ tutta colpa di Trunks!” si difese la ragazza mentre ancora rideva, colpendolo leggermente al braccio per provocazione.

“Non è vero…!”.

“Sì, invece! Mi ha buttato in acqua di proposito solo perché lui c’era caduto da solo poco prima!”.

“Non datele retta, è Pan che mi ha spinto volontariamente, anche se poi è caduta in acqua pure lei!”. Pan cercò tra le risa di mettere una mano davanti alla bocca di lui, in modo da non farlo parlare, ma Trunks le afferrò i polsi con rapidità, bloccandole poi il busto e le braccia da dietro, immobilizzandola all’istante contro di lui.

“Sei una bugiarda, lo sai?” la rimproverò bonariamente all’orecchio, con il sorriso sulle labbra, mentre lei abbandonava la resistenza e si rilassava sorridente tra le sue braccia. “Una piccola, furba bugiarda!”.

Gohan era paralizzato, il coltello a mezz’aria, lo sguardo fermo con orrore sui loro corpi a contatto, sui loro abiti bagnati appiccicati alla pelle, sulle loro espressioni serene e compiaciute…

Abbassò poi repentinamente gli occhi, tornando quasi meccanicamente ad affettare le sue verdure, con così tanta lena e velocità che, se non fosse stato per la sua tempra sajan, si sarebbe certamente ritrovato un paio di falangi insieme al tritato di carote e zucchine.

 

La traversata continentale di ritorno da West City sembrava quel pomeriggio più lunga di sempre. Forse perché la loro air-car targata Capsule Corporation viaggiava con il vento contrario, forse perché per tutto il tempo erano rimasti in silenzio, lo sguardo ben dritto sul cielo davanti a loro, mentre solo la bassa musica proveniente dalla radio ed il motore del velivolo facevano da colonna sonora.

“Cosa c’è, Bra, hai perso la lingua?” le chiese d’un tratto Goten, senza preavviso, facendola quasi sobbalzare dal suo stato di torpore. “Dovrei essere io quello offeso, non tu”.

Bra scorse con la coda dell’occhio che il ragazzo alla guida si era voltato momentaneamente verso di lei, probabilmente cercando un contatto visivo, ma gli occhi di lei rimasero saldi e impassibili sul vetro anteriore.

“Non vedo di cosa dovresti esserlo” rispose, sbattendo le palpebre con indifferenza.

Sì che lo sapeva. Lo sapeva benissimo.

Sapeva come doveva esser stato umiliante sentir fare battute poco carine sulla sua professione, o esser stato evitato come una nullità o come un sempliciotto per tutto il pranzo. Immaginava anche quanto avrebbe voluto ribattere di nuovo, quando Fox l’aveva esortata a continuare gli studi e a concentrarsi sulla sua carriera, nonostante quella che, guardando con aria desolata il suo ventre arrotondato, aveva definito “una noiosa complicanza”. Ma tutto questo non era niente in confronto a quando, prima di congedarsi, l’architetto le aveva apertamente consigliato di intestare la nuova casa esclusivamente a suo nome, immaginando che la fonte economica sarebbe stata una sola.

“Sai bene che non è così” volle difendersi Goten, come leggendole nel pensiero. “Non ammonterà a molto la mia parte, ma qualcosa dovrò pur racimolare dalla vendita dell’appartamento a Satan City e…”.

“Sai che mi importa niente di quanto sarà il tuo contributo, ne abbiamo già parlato!” ribattè Bra, voltandosi finalmente verso di lui. In fondo, era stata sempre e solo lei a desiderare una casa grande e moderna ed un matrimonio pomposo. “Tutto ciò che compreremo sarà comunque a nome di entrambi!”.

“E allora perché non hai contraddetto Fox?” le chiese lui, alzando leggermente il tono. “Perché non hai mai ribattuto di fronte alle cattiverie subdole che uscivano dalla sua bocca??”.

Bra rifuggì di nuovo il suo sguardo, che ora le bruciava come fossero braci ardenti.

“Tu devi capire, Goten, che nella vita non possiamo sempre dire o fare quel che vogliamo” disse con voce ferma, come una madre che deve insegnare qualcosa ad un bimbo ingenuo. “Certe volte è necessario e utile rimanere al di sopra delle parti…fare il gioco di chi abbiamo di fronte, recitare un ruolo…”.

“Solo per un paio di stupidi consigli sull’arredamento di una casa??”.

“No, non solo per quello, possibile che non lo capisci!”.

“Sai, credo di capire benissimo invece. Per un po’ ho creduto che tu fossi l’unica persona sulla quale dovevo ricredermi riguardo le mie prime impressioni…invece, posso dire che sei esattamente come avevo sempre creduto, una ragazzina viziata, falsa ed esaltata, a cui l’unica cosa che importa davvero è il proprio utile!”.

“Ah, davvero?” ribattè lei, adesso adirata. “E tu sei invece sei esattamente quello che ho sempre avuto sotto gli occhi, un povero sfigato che nonostante questo non fa niente per mostrarsi migliore, come mangiare educatamente a tavola o indossare qualcosa di adeguato ad un pranzo formale, non mi sorprenderei affatto se non indossassi uno smoking nemmeno al nostro matrimonio…se ancora ci sarà un matrimonio!”.

Una brusca frenata dell’air-car la fece sobbalzare violentemente, e solo ora si accorse che il velivolo aveva già abbassato quota e che finalmente erano già arrivati davanti allo spoglio palazzo dove condividevano un appartamento, anche se Goten aveva calcato più del dovuto il piede sul pedale del freno.

Si voltò verso di lui, e l’espressione che vide sul suo volto fu quella di sfida di un sajan, quella del guerriero che pur sempre era, così intensa e penetrante e intimidente, e in quel momento si sentì così scoperta, impotente e vulnerabile da odiarlo, sì, da sentire di poterlo odiare con tutta se stessa.

“Hai ragione” disse infine lui, mentre lo sguardo di sfida se ne andava e tornava solo un’espressione delusa e sdegnata. “Forse non ha più senso un matrimonio. Forse tra noi non era destino, il tuo futuro era fin dall’inizio con qualche aristocratico, con qualche uomo d’affari del tuo stampo o con qualche giovane rampante dalla promettente carriera, come quell’Eddie Fox! Di certo con uno come me non avrebbe mai funzionato!”.

Già, puoi dirlo forte, pensò Bra, per una volta dando ragione al ragazzo al suo fianco, che tamburellava le dita sul volante dell’air-car, lo sguardo perso davanti a lui.

Forse avrebbe davvero dovuto fidanzarsi con uno come Eddie Fox. Non gli era mai stato simpatico, anche se lui da bambino considerava i suoi tentativi di affogarlo in piscina come gesti d’affetto, ma probabilmente da adulto era diventato sicuramente meno insopportabile e appiccicoso, e la sua carriera in ascesa avrebbe di certo permesso a lei una vita agiata e tranquilla, la vita di una principessa, che era quello che in fin dei conti era e che avrebbe sempre dovuto essere.

Adesso non si capacitava, invece, di come avesse potuto finire con Goten Son, con cui non aveva niente in comune, se non il sangue. Ma forse era proprio la loro comune natura sajan, che li aveva spinti l’uno verso l’altra, garantendo così attraverso il sesso la conservazione della razza.

Era l’unica spiegazione, che di sicuro valeva anche per suo fratello e Pan, i quali non avrebbero altrimenti nemmeno incrociato le loro strade. Probabilmente anche loro avrebbero fatto sesso, se non ne avevano già fatto, forse addirittura concepito un erede, prima di capire che non erano assolutamente fatti l’uno per l’altra.

Sangue. Natura. Sesso. Progenie…dovevano essere le uniche spiegazioni, non c’era dubbio.

Ma i dubbi le si riaffollarono di nuovo nella testa come un fiume in piena, non appena i suoi occhi si posarono casualmente sull’anellino di plastica che portava ancora all’anulare sinistro.

Perché mai ce l’aveva ancora al dito? Perché mai continuava ad indossare quell’orribile ed antiestetico giocattolo senza valore, quando invece alle sue dita avrebbero dovuto esserci diamanti di prima qualità?

Perché mai adesso nella sua mente si rincorrevano ricordi ed immagini che le facevano battere il cuore, perché rivedeva due occhi scuri che la guardavano con amore, perché riviveva carezze e parole che la facevano sentire così bene, così felice e completa come mai era stata?

Mentre tutti i suoi dubbi finalmente si chiarivano, ma in un altro senso, sfiorò con affetto l’anellino, chiudendo per un attimo gli occhi.

“Se vuoi cominciare a raccogliere le tue cose e a fare le valigie, puoi farlo con calma” riprese Goten, notando la sua esitazione. “Ti aspetto, così ti riaccompagno alla Capsule”.

“Ok, annullerò il contratto della casa oggi stesso e fermerò tutti i preparati del matrimonio”.

“Bene. E per il bambino non preoccuparti. Sarò comunque un padre presente, spero che mi darai la possibilità di vederlo almeno un paio di volte alla settimana”.

“Vedremo cosa deciderà il giudice”.

“Cercherò di contribuire comunque con gli alimenti, perché conoscendoti credo che farete la fame o andrete avanti a fast-food!”.

Si guardarono di striscio, ma bastò perché entrambi scoppiassero a ridere piano.

Passò qualche altro secondo, e poi Bra era tra le braccia di lui, stringendolo come mai aveva fatto, mentre il ragazzo le accarezzava piano la nuca e le ricopriva la fronte di piccoli baci, sperando che lo straordinario intuito del suo futuro sposo lo aiutasse a capire tutto quello che negli anni avrebbe voluto dirgli in momenti come quello, ma in cui purtroppo le parole, spesso, non riuscivano a venir fuori.

 

Continua…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Shining star ***


Capitolo 3

Capitolo 3 – Shining star

 

 

 

The way you look at me

The way you touch me

The fire in your eyes

-makes me sweat-

makes me shiver inside

there’s nothing I can’t do about it…

 

I vivaci giorni primaverili che avevano rallegrato i Paoz in quel finire di Aprile erano stati interrotti da quarantott’ore di pioggia continua, che aveva costretto tutti gli animaletti da poco usciti dal letargo a rintanarsi di nuovo nelle loro tane, al sicuro e al calduccio.

Non si trattava però di uno di quei pesanti acquazzoni autunnali, in grado di spazzar via ogni cosa, ma di quelle leggere pioggerelle di primavera che abbracciano la campagna come una morbida chioccia, a cui i campi ed i prati in fiore si aprono assetati per prepararsi all’estate.

Intorno alla doppia casetta dei Son si respirava un piacevole profumo di bosco, trasportato dalla fresca umidità dell’aria, mentre la pioggerella fine cadeva ovattata creando una rilassante sinfonia, appena udibile al di sotto della musica ben più alta e definita proveniente dalla legnaia.

Era un pezzo classico, un lento. Due figure, più o meno della stessa altezza, ballavano piano sotto le travi di legno di quel caldo riparo, alla luce opaca e biancastra che vi entrava libera, la cortina di pioggia che faceva da sfondo alla loro lenta danza.

“Ahi! Mi hai pestato di nuovo!”.

“Non è vero!”.

“Certo, me lo sono immaginato! O forse è il mio alluce che ne ha già avuto abbastanza!”.

“Guarda che sei tu che mi hai detto che avresti fatto due passi avanti e uno indietro, e che io avrei dovuto imitarti”.

“Ma se io faccio due passi avanti e uno indietro, è scontato che tu debba fare due passi indietro e uno avanti, non la stessa cosa!”.

“E con quale piede per primo, scusa??”.

“Basta, io ci rinuncio!”.

 Pan cercò di soffocare una risata affondando il mento nel colletto della sua felpa, mentre incrociava le gambe sulla vecchia poltrona su cui era seduta e allungava una mano verso lo stereo portatile appoggiato ad una pila di legna al suo fianco, premendo per l’ennesima volta il pulsante di STOP.

Davanti a lei, la coppia più inusuale di ballerini era immobile l’uno di fronte all’altro, Trunks con le mani ai fianchi, stanco e spazientito, Goten con una mano al mento e lo sguardo perplesso ancora fisso sui propri piedi, quasi stesse ripetendo mentalmente i passi che aveva imparato.

“Non è che tu sia proprio negato” disse Trunks con ostentata calma. “Sei abbastanza sciolto nei pezzi più ritmati, ma non ti sforzi di imparare la tecnica…senza contare il fatto che continui a farti guidare da me, mentre devi metterti in testa che è l’uomo a dover guidare la donna!” aggiunse, rimembrando anni e anni di esperienza ai balli di società. “Perché non lasciamo perdere? Vedrai che a Bra non importerà se…”.

“No Trunks, ti prego!” lo supplicò il Son, le mani giunte davanti al viso, l’espressione implorante. “Avevi promesso che mi avresti insegnato a ballare prima del matrimonio, l’avevi promesso!!”.

“Avanti, Trunks!” rinforzò Pan, sorniona, dondolandosi con la sedia. “Non ti fa neanche un po’ di pena il povero zio Goten, nel pensare a come lo ridurrà tua sorella scoprendo che al galà del matrimonio farà una pessima figura??”.

“Non è affatto divertente!” si difese lui, lanciando un’occhiataccia omicida alla ragazza, ma rivelando anche un po’ di divertimento, prima di rivolgersi di nuovo a Trunks. “So benissimo che a Bra non importa se sono un pessimo ballerino…o almeno non me lo farebbe pesare troppo…in ogni caso, voglio farle una sorpresa, voglio stupirla!”.

“Rimarrà certo stupita, nel contare quante volte riuscirai a pestarla in pochi passi!”.

“Continui ad affondare il dito nella piaga, nipote degenere?” protestò. “Perché non vieni tu a provare, invece di prendere in giro??”.

“Non ci penso proprio!”.

“Per favore, Trunks!” ricominciò. “Ti prego-ti prego-ti prego!!”.

“Ok, ok, proviamo l’ultima volta…”.

“Mi raccomando, non sprecarti troppo eh!” si lamentò. “Cos’è tutta questa fretta! Tanto oggi, con questa pioggia, non potete nemmeno andare a rotolarvi nei campi come vostro solito…”.

“Goten!!”.

Trunks l’aveva richiamato tra lo stizzito e l’imbarazzato, aspettandosi da un momento all’altro una sfuriata di Pan nei confronti dello zio. La ragazza era invece rimasta tranquilla, scegliendo questa volta di replicare con malizia:

“Guarda che quello che credi facciamo io e Trunks è in realtà solo per fare ingelosire te” lo provocò. “Così forse capirai che sposare Bra sarebbe il più grande errore della tua vita, mentre il tuo unico amore sarà sempre e solo Trunks!”.

Goten simulò un’espressione sorpresa, mentre si rivolgeva all’amico con una mano sul cuore: “Non potevi dirmelo subito che eri innamorato di me??”.

“Beh, sai com’è…” sospirò Trunks, stando pazientemente al gioco, solo perché non aveva voglia di battere un legno in testa a lui e di rincorrere lei. “La paura di un possibile rifiuto…e poi non potevo fare questo a Bra…”.

“Giusto, ci ucciderebbe entrambi! Il nostro rimarrà un amore impossibile! Concedimi almeno un ultimo ballo!” esclamò, prendendo con una mano quella del Brief e posandogli l’altra sulla vita.

“Ok, ma questa volta sarai tu a fare la parte dell’uomo, mentre io sarò la tua dama!” lo avvertì Trunks, correggendo la postura dell’allievo e sistemandosi in posizione.

“Ma che carini!” commentò Pan, fingendosi affascinata. “Siete una coppia perfetta! Talmente perfetta che mi sento quasi di troppo, penso che toglierò il disturbo!”.

Balzò giù dalla sedia, lanciò un’ultima occhiata divertita ai due sajan, che ancora immobili in attesa della musica le lanciarono uno sguardo di disappunto, si coprì la testa con il cappuccio della felpa e uscì fuori dalla legnaia, nella pioggia. Mentre il cellulare di Goten iniziava rumorosamente a suonare, obbligandolo a rimandare quel nuovo accenno di valzer e a rispondere all’ennesima chiamata della sua futura moglie, Trunks approfittò per sgattaiolare fuori dalla legnaia con indifferenza, afferrare da dietro un braccio di Pan prima che si allontanasse verso la dependance e trascinarla rapidamente sotto la piccola tettoia che percorreva la parete esterna della legnaia, al riparo.

“Non dirmi che ti manco già!” esclamò Pan  da sotto il cappuccio, non troppo dispiaciuta  per esser stata trattenuta. “Pensavo volessi stare un po’ da solo con il tuo cavaliere!”.

“Infatti, è che ci serve qualcuno che metta la musica!”.

La ragazza strabuzzò gli occhi un po’ divertita e un po’ offesa, affondando un pugno nell’addome di lui senza troppo danno, mentre Trunks rideva di gusto e le tirava il cappuccio sulla faccia per dispetto, facendole quasi perdere l’equilibrio.

Liberatasi, Pan si fece più vicina a lui, afferrandogli i lembi della giacca di jeans e sollevandosi sulle punte, in modo che ora le loro fronti quasi si sfiorassero.

Intorno a loro la pioggia cadeva placida e fine, mentre dalla legnaia proveniva allegra la voce di Goten, che parlava ancora al telefono.

“Stasera vieni da me nella dependance, dopo cena” gli disse la ragazza sottovoce, lo sguardo fisso sulle sue labbra. “Papà e mamma saranno a West City per una premiazione dell’Università…e io… sono sola”.

I suoi occhi scuri si sollevarono su quelli di lui, rivolgendogli un sorriso vagamente malizioso, mordendosi poi leggermente il labbro inferiore in attesa di una risposta a quello che, di fatto, sembrava un invito senza possibilità di rifiuto.

“Ok” sorrise lui, mentre la ragazza, con un ultimo sguardo d’intesa, si aggiustava di nuovo il cappuccio sulla testa e correva via nella pioggia, verso la dependance.

 

‘Cause nothing seems so true

When I’m beside you

Am I dreaming?

Just hold my hands

Naked, perfect, so beautiful…

 

“Te l’ho detto, Bra, sono ancora dal fornitore…sì, non l’ho dimenticato, appena ho fatto qui passo a confermare la prenotazione per il catering…ok, ok, a dopo tesoro”.

Trunks, rientrato nella legnaia, osservò l’amico che terminava la chiamata con uno sguardo perplesso, sollevando un sopracciglio.

“Beh, che c’è?” si difese Goten, riponendo il cellulare in tasca e scrollando le spalle. “Non posso certo dirle che sono qui a prendere lezioni di ballo da te, te l’ho detto che deve essere una sorpresa!”.

“Come…come sta Bra?” chiese debolmente Trunks, a fatica udibile al di sopra della pioggia. “Purtroppo ancora non c’è stata occasione per…dopo che…”.

“Sta benone” lo interruppe il Son, come a volerlo rassicurare. “E’ felice, forse perché ha mille cose da fare e come ben sai più è impegnata e più è contenta. Si sta occupando dei preparativi del matrimonio, che rischia di diventare l’evento più dispendioso e sfarzoso del secolo…ha firmato il contratto della nostra nuova casa a West City, che sembra un hotel…ha fatto produrre il suo primo modello con il tessuto sintetico che lei stessa ha creato, firmato naturalmente Capsule Corporation…e nel frattempo, nostro figlio sembra continuare a crescere sano e forte dentro di lei, almeno dall’ecografia che le ha fatto Marron l’altro giorno!”.

Aveva parlato della felicità della sua futura moglie, ma dalla sua espressione radiosa Trunks percepì nell’amico lo stesso forte sentimento, provando lui stesso un improvviso e spontaneo moto di contentezza per entrambi.

“E’ stupendo” disse con un sorriso malinconico. “Ve lo meritate. Però mi dispiace…di non aver potuto darvi una mano in tutto questo… o non di aver aiutato Bra con la sua nuova linea…”.

Abbassò lo sguardo, a disagio. C’era stato un tempo in cui aveva accusato sua sorella di fuggire dalle responsabilità, mentre adesso era lui ad essersi isolato dal mondo, a fuggire dal lavoro, dai doveri, da tutto, per rifugiarsi in quella che sembrava essere una realtà parallela.

Goten scosse la testa con decisione, come se avesse intuito i suoi pensieri.

“Non devi preoccuparti di questo. Bra sa cavarsela benissimo da sola, lo sai, nemmeno io spesso posso fare niente. E poi, lei il suo momento di fuga se lo è già preso…adesso sei tu, ad aver bisogno di una vacanza”.

Trunks annuì, sorridendo debolmente.

“Già” confermò, inspirando il dolce profumo di bosco che impregnava l’aria. “Ma le vacanze non durano in eterno”.

 

You turn me up and down

And spin me round and round

You never get enough

Baby don’t know you’re a shining star

 

Gohan si strinse il nodo alla cravatta, esaminandosi davanti allo specchio. Indossava un completo nuovo di un’elegante tonalità di blu, acquistato appositamente per quell’occasione in una boutique per uomo di Satan City, sotto la supervisione di Videl, che aveva palesemente insistito per quel modello. Diceva che gli dava un tocco di eleganza al di sopra dell’aria professionale.

Non era ad un concorso di bellezza che si stavano recando, però. Era all’evento di primavera più atteso da tutta la comunità accademica, il galà di premiazione del personaggio universitario dell’anno.

Voci di corridoio e spifferate dei suoi assistenti sembravano darlo per vincitore assoluto, ma aveva avuto modo di capire che, da quell’anno, il senato accademico aveva intenzione di abbassare l’età del premio. Fino ad allora era sempre stato conferito ai più saggi vegliardi dell’università, come un riconoscimento alla carriera, ma quella svolta avrebbe invece premiato i più giovani come incentivo per il futuro. E lui, che a quarantadue anni era già professore ordinario e affermato ricercatore, era sempre stato troppo giovane per ambire al premio alla carriera, ma ora relativamente troppo vecchio per competere con le future, promettenti generazioni.

Esaltati trentenni, si sentono così potenti da credere di poter far tutto…anche sfidare chi ha più esperienza di loro…anche sottrargli ciò che gli appartiene sotto i propri occhi…

Scosse con decisione la testa, come per scacciare quegli assurdi e incoerenti pensieri, mentre da fuori giungeva forte e prolungato il suono del clacson dell’air-car.

“Ehi, Gohan, vuoi muoverti?? Siamo già in ritardo!”.

Che buffo…di solito era estremamente puntuale. Senza contare il fatto che per un’occasione tanto attesa come quella sarebbe partito addirittura con un paio d’ore di anticipo. Eppure era ancora lì, immobile davanti allo specchio di camera, forse trattenuto dal pensiero di veder sfumare la sua ultima occasione di vincere quel premio, forse da qualcos’altro.

Inspirò profondamente, si appiattì la giacca con qualche colpetto e uscì finalmente dalla stanza. Nel corridoio incrociò sua figlia, che usciva dal bagno in accappatoio, i capelli bagnati. Gli rivolse un sorriso radioso, mentre si avvicinava lentamente, e lui non potè far altro che ricambiare. Erano occhi colmi di gioia quelli che vedeva, gli occhi…di una ragazza innamorata.

“Buona fortuna, papà” gli augurò sinceramente. “Comunque vada, io so che sei tu il migliore”.

Gli gettò le braccia al collo, sollevandosi sulle punte e baciandolo su una guancia, e lui l’abbracciò dolcemente. Accarezzando il morbido accappatoio bianco di spugna della figlia, che la rivestiva morbidamente, si rese conto di quanto intensamente amasse il suo piccolo pulcino e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, per il suo bene. Qualsiasi.

“Grazie, tesoro”.

Si separò da lei, la guardò per qualche attimo, osservando con un senso di agrodolce rassegnazione quanto fosse bella e radiosa e splendente, quanto potesse essere desiderabile agli occhi di un uomo, non solo fisicamente, ma per tutta la luminosa e brillante aura che emanava, come una stella allo zenith.

Le rivolse un ultimo sorriso, per poi avviarsi giù per le scale, senza voltarsi indietro.

Uscì fuori a corsa, riparandosi dalla pioggia con una cartella dei documenti, per poi aprire goffamente lo sportello dell’air-car.

“Era ora!” brontolò Videl, mentre lui si accomodava sul sedile del passeggero. Indossava un grazioso abitino verde primaverile, ma a causa della giornata di pioggia aveva dovuto aggiungere un coprispalle azzurro, che però si intonava splendidamente al colore dei suoi occhi, i capelli morbidamente sciolti e ondulati fino alle spalle. “E poi dicono che sono le donne a indugiare davanti allo specchio!”.

Mentre sua moglie faceva manovra nella verde spianata in modo da avere spazio per il decollo, Gohan abbassò il finestrino appannato per salutare sua madre, al riparo appena sotto la soglia di casa. Evidentemente Goten doveva essersene andato da poco.

“Torna a casa senza quel premio, Gohan, e non varcherai questa porta!”.

“Oh, fantastico! Adesso andrò sicuramente più tranquillo!” replicò un po’ divertito e un po’ allarmato, e solo allora vide Trunks proprio lì accanto a sua madre, che sorrideva alla battuta della donna.

Il suo sorriso, invece, si rabbuiò rapidamente, rivolgendo al ragazzo un’occhiata eloquente, quasi di sfida, e continuò a guardarlo così per tutto il tempo che l’air-car ci mise a innalzarsi in volo e a sparire tra le nuvole, sperando che capisse, che cogliesse…e che un po’ si spaventasse.

 

* * *

 

 

Goku, Trunks e Pan, a bordo della navicella che li ha scorrazzati per l’intera galassia, durante una delle infinite giornate di viaggio tra una sfera e l’altra. Deve essere una delle ultime sfere, quella verso cui si stanno dirigendo, a giudicare dall’atmosfera festosa che pervade l’ambiente. Si sente la voce di Goku che strilla allegramente qualcosa, Gill che svolazza libero nell’aria, Pan che canticchia ad alta voce mentre ascolta musica con il suo nuovo lettore musicale, acquistato in uno degli ultimi pianeti visitati. Solo Trunks è al posto di guida, lo sguardo concentrato sul monitor e sul calcolo delle coordinate. Ad un certo punto si sente un grido acuto, che lo fa sobbalzare sul suo sedile facendogli cadere fogli e penna, e mentre la visuale si sposta rapidamente, si nota che Pan sta inseguendo il povero Gill per tutta la navicella.

“Torna subito qui, brutto barattolo inutile! Vedrai che se ti prendo ti smonto con le mie mani!!” urla con rabbia, mentre la voce di Goku si fa sentire di nuovo:

“Che succede, Pan? Cosa ti ha fatto il povero Gill??”.

La ragazza si ferma e guarda davanti a se, mentre alla rabbia fanno seguito le lacrime, che minacciano di sgorgarle dagli occhi e di bagnarle le guance arrossate.

“Non hai visto, nonno?? Gill si è mangiato il mio lettore musicale! L’avevo appena acquistato e pagato anche parecchio, era l’ultimo modello!”.

“Diciamo piuttosto che io l’ho pagato parecchio!” fece eco Trunks, dalla sua postazione. “I soldi erano miei, non dimenticartelo, e una volta sulla Terra mi aspetto di riaverli indietro!”.

“Avevi detto che era un regalo!”.

“Avrai capito male!”.

“Già, solo perché adesso è finito in pasto a Gill!” sbuffa Pan, mentre rivolge a Goku uno sguardo insofferente: “E tu spegni quella dannata videocamera, nonno!”.

“Avanti Pan, non disperare! Se è come quando ha ingoiato il radar cerca sfere, vedrai che…”.

E infatti il robottino dimostra di aver già digerito il nuovo congegno elettronico, iniziando a trasmettere dall’altoparlante la canzone che Pan stava ascoltando poco prima.

“Wow…” commenta la ragazzina, ritrovando il sorriso. “Però sia ben chiaro, Gill, che dovrai farmi ascoltare le canzoni a comando, non solo quando hai voglia tu!”.

“Hai visto, te l’avevo detto!” sghignazza Goku con soddisfazione. “Perché non facciamo una foto ricordo, per festeggiare??”.

“Sì, sì, ci sto!!” approva Pan, invasa di nuovo dal buonumore. “Dai Trunks, vieni anche tu!”.

“No, adesso non posso muovermi!”.

“Ok, allora veniamo noi!” ripara Goku, continuando a filmare, mentre si avvicina alla postazione del ragazzo, che non troppo a malincuore abbandona momentaneamente i suoi calcoli per rivolgersi all’obiettivo.

“Ma facciamo veloce, però, che devo lavorare!”.

“Come no, dì piuttosto che fai finta!” lo provoca Pan, balzando sul bracciolo del sedile di lui e accomodandovisi seduta, mentre Gill si aggrappa alla spalliera.

“Porta un po’ più di rispetto, signorina, che ti lascio sul primo pianeta a portata di mano!” risponde lui a tono, ma con il sorriso sulle labbra. Anche da quelle piccole cose si capisce che la caccia alle sfere è quasi giunta al suo termine, che il ritorno a casa è vicino.

“Ok, adesso fatemi posto, che imposto l’autoscatto!” annuncia Goku, mentre abbandona la videocamera e compare finalmente davanti all’obiettivo, e la sua presenza è così solare e raggiante da bucare quasi lo schermo, da mettere in ombra tutti gli altri.

Salta agilmente sul bracciolo, proprio davanti a Pan, che cerca faticosamente di allungare la testa al di sopra degli sparati capelli del nonno, e nel frattempo il sedile scricchiola impercettibilmente.

“Non da questo lato, Goku, ci stiamo sbilanciando…” lo avverte Trunks, perplesso.

“L’altro è troppo in ombra, non mi piace!”.

Un altro scricchiolio, più pronunciato, e adesso si vede chiaramente che la poltroncina si sta inclinando da un lato.

“Ehi nonno, ma perché la tua fotocamera ci mette così tanto a scattare?” dice Pan a denti stretti, continuando a sorridere forzatamente.

“Forse perché…” mormora Trunks, realizzando improvvisamente e scuotendo arreso la testa. “…perché quella non è una fotocamera, ma una telecamera, e ci sta solo filmando!”.

“Giusto! Come ho fatto a non pensarci!” grida Goku, dando un pugno al bracciolo, e allora il sedile cede definitivamente, ribaltando da un lato il trio e il robottino, che stramazzano a terra in un’esclamazione generale di disappunto.

Solo un richiamo minaccioso fuori campo, prima che il sajan in questione decida di spegnere definitivamente la videocamera: “Goku!!!!!”.

 

Pan e Trunks risero di gusto, mentre le immagini di quei goliardici ricordi si oscuravano sullo schermo e la videocassetta terminava, lasciando di nuovo spazio ai programmi della rete. Trunks quasi non si era reso conto che, in due, avevano spolverato un’intera scatola di popcorn, in cui aveva affondato ripetutamente la mano per tutta la durata del nastro, alternandosi a quella di lei. Le rivolse una breve occhiata, notando che stava ancora fissando lo schermo con il sorriso sulle labbra, affondata nel divano, indosso una maglietta bianca e dei comodi shorts, i capelli sciolti e sparsi contro la spalliera.

“Sembra ieri, eppure…sono cambiate così tante cose da allora” commentò pensieroso. “Rivedendo quei momenti, la mancanza di Goku si fa sentire ancora di più…”.

“Già…il nonno ha lasciato un bel vuoto” concordò la ragazza, sospirando con una malinconia che, in quegli anni, da amara aveva cominciato a diventare dolce. “Ma anche tra noi sono cambiate tante cose, non credi? Tu mi odiavi, all’inizio del viaggio!”.

“Non è vero che ti odiavo” rispose lui, lo sguardo rivolto distrattamente allo schermo, unica luce nella stanza, mentre con le dita giocherellava con le scanalature del cuscino. “Ero solo sotto stress, mi ero ritrovato addosso un sacco di responsabilità tutte insieme…ed ogni minima cosa mi mandava nel panico…anche se tu e Goku ci mettevate comunque del vostro!”.

Pan fece un smorfia di disappunto, ma sembrò soddisfatta della risposta. “Però dai…alla fine è andato tutto per il meglio, abbiamo recuperato tutte e sette le sfere entro l’anno e siamo tornati sulla Terra tutti interi!”.

“Peccato che il rientro non è stato dei migliori…”.

“Purtroppo no…e pensare che se non ci fosse stato Baby ad aspettarci, il nostro arrivo sarebbe stato trionfale, da eroi!” esclamò la ragazza con eccitazione. “A volte penso a tutte le cose che avrei potuto fare appena tornata a casa, dopo quell’anno surreale, così piena di adrenalina!”.

“E cosa avresti fatto?” le chiese lui, rivelando una punta di curiosità.

“Allora, per prima cosa…” iniziò Pan, incrociando le gambe sul divano e accomodandosi meglio, mentre un largo sorriso le illuminava il viso nella semioscurità della stanza. “Avrei superato la barriera del suono volando a velocità di razzo tutto intorno alla Terra, il nostro bellissimo pianeta azzurro che mi era tanto mancato! Poi avrei fatto organizzare da nonno Satan un torneo straordinario, niente premi speciali, s’intende, solo un’occasione per potermi sfogare! E poi…credo che avrei dato una bella lezione a tutte quelle mezze femminucce che mi avevano scaricata negli ultimi mesi perché avevano paura di me!”.

“Credo che allora non avessero visto ancora niente!”.

“Esatto…comunque sia, negli anni successivi ho imparato a comportarmi in modo diverso con i ragazzi, a trattenermi di più…e la situazione è migliorata, anche se non era facile fingere…” abbassò il tono delle ultime parole, come se stesse parlando solo con se stessa, poi tornò a rivolgersi luminosa al ragazzo: “E tu? Cosa avresti fatto appena tornato, se non ci fosse stato Baby?”.

“Io?” chiese Trunks, colto alla sprovvista, leggermente a disagio. “Beh…non so…purtroppo non ho mai avuto modo di scoprirlo!”.

“Andiamo! Usa l’immaginazione per una volta!” cercò di convincerlo lei, sbuffando per la completa mancanza di fantasia del ragazzo. “Prova a tornare indietro a quel giorno…non c’è niente di male a sognare, ogni tanto!”.

Trunks sospirò, arrendendosi, mentre chiudeva gli occhi per concentrarsi meglio, per provare a pensare di nuovo con l’immaginazione e la creatività del ragazzino che era stato. Ricordò il suo rientro alla Capsule Corporation in compagnia di Gill, cancellò con estremo sollievo tutto ciò che seguì nella realtà e vi sostituì quello che avrebbe voluto aspettarsi, visualizzando mentalmente il volto commosso e felice di sua madre che si precipitava ad abbracciarlo, le mille domande di sua sorella, l’appena accennato sorriso di suo padre, che si limitava a dargli una leggera pacca sulle spalle, ma trapelando un paterno orgoglio. “Allora…ehm…credo che per prima cosa avrei voluto poter fare un nomale pranzo in famiglia con i miei e Bra, dopo tanto tempo…”.

Pan arricciò il naso: “Puoi fare di meglio”.

“Ok…ecco…forse un allenamento nella gravity room con mio padre” aggiunse quindi, mentre immaginava il buonumore e l’eccitazione che avrebbe dovuto provare in quell’allettante realtà alternativa, quel fiume in piena di energia che solo in quei giorni lì sui Paoz aveva rivissuto davvero. “Un allenamento di quelli intensivi…di quelli che ti fanno esplodere i muscoli e arrivano a farti urlare di fatica e dolore…”.

“Così mi piaci. E poi?”.

“Beh…non saprei…”.

“Che ne dici di una ragazza?” lo aiutò Pan, strizzandogli un occhio con leggera malizia. “Non credi che dopo un anno ti ci sarebbe voluta un po’ della compagnia di una donna??”.

Trunks sorrise a disagio, abbassando gli occhi e ringraziando la poca luminosità della sala per non far trasparire il suo vago rossore. “Beh…forse…probabilmente” dovette riconoscere, pensando all’ultima volta che, prima di partire per lo spazio, aveva avuto una relazione più o meno stabile, e realizzando con stupore che dal suo ritorno in poi non ce n’erano state molte altre degne di quel nome.

“Non probabilmente…decisamente!” lo corresse Pan. “A giudicare da com’eri scorbutico e intrattabile in certi momenti…”.

“In ogni modo, per me la più grande vittoria era già esser tornati dallo spazio sani e salvi!”.

Pan lo guardò qualche attimo, inclinando leggermente il capo come per valutare l’affermazione, scuotendo poi la testa con disappunto.

“Vedi qual’è la differenza tra me e te?” disse. “Tu hai sempre considerato il viaggio nello spazio come qualcosa a cui siamo sopravvissuti…io invece lo vedo come qualcosa che abbiamo vissuto! Ma ti rendi conto? Io, tu ed il nonno abbiamo avuto avventure così bizzarre e visto posti così esotici e straordinari che nemmeno il nonno stesso e tua madre avevano mai avuto modo di vedere da giovani! Forse allora non te ne rendevi conto, ma abbiamo vissuto un’esperienza straordinaria!”.

Il suo tono era acceso ed eccitato, e osservando il suo sorriso radioso e la fervente convinzione con cui argomentava le sue teorie, Trunks avvertì di ammirarla con forza e passione, sentendo risvegliarsi dentro di lui la stessa fanciullesca esaltazione che l’aveva un tempo animato e che poi con gli anni e le responsabilità era andata estinguendosi.

“Quindi adesso devi solo ringraziarmi, se ogni tanto cercavo di farti prendere le cose con più leggerezza e farti un minimo divertire!” aggiunse la ragazza, ridendo.

Trunks si voltò piano verso di lei, rivolgendole uno sguardo tipico del malandrino che era stato: “Tu non mi facevi divertire, Pan, mi facevi dannare. Eri una piccola rompiscatole appiccicosa”.

Pan sbattè qualche volta le palpebre sugli occhi strabuzzanti, la bocca spalancata in un’espressione a metà tra il divertito e l’offeso, mentre Trunks sembrava osservare con compiacimento la reazione di lei.

“Ma come osi!! Io sarei stata una rompiscatole appiccicosa, eh?? E tu sai cos’eri, eh? Lo sai?? Eri incredibilmente noioso e…antipatico!”.

“Mai come te”.

“Vuoi la guerra?” lo sfidò Pan, afferrando un cuscino.

“Non ti conviene”.

“Ah no, Mr Brief??” chiese minacciosamente lei, decidendo di abbandonare il cuscino e avvicinandosi di più a lui. “Io lavoro in una palestra di arti marziali, tu dietro una scrivania. Chi credi possa essere più in forma per spuntarla?” lo provocò, dandogli un piccolo pugno sul braccio, per verificare i suoi riflessi.

Trunks la scrutò un attimo impassibile, poi disse sornione: “Guarda che dico a Gohan che mi molesti, così ti mette in riga”.

Pan si sporse sopra il ragazzo, sedendosi poi a cavallo delle gambe di lui con un movimento lento ma fluido, un sorrisetto poco affidabile stampato sul volto abbronzato: “E io gli dico che tu molesti me, così ti mette al tappeto”.

Lui le rivolse uno sguardo di sfida, guardandola nei vivi occhi di brace proprio davanti a lui, percependo il contatto del corpo di lei sopra il suo, della posizione fortemente sensuale in cui si trovavano al momento.

“Gohan è troppo intelligente per credere alla tua versione dei fatti” si difese, i loro nasi che si sfioravano, i loro respiri che si fondevano.

“Non ci scommetterei…” lo contraddisse lei, quando già le loro labbra si accarezzavano nella debole fluorescenza emessa dalla tv, mentre si aprivano morbide, si fondevano, si chiudevano di nuovo e poi si fondevano ancora lentamente.

… … … … …

“Comunque…resti sempre una rompiscatole appiccicosa”.

Solo un roco sussurro a fior di labbra, senza nemmeno interrompere del tutto il bacio, le palpebre abbassate.

“Non dirmi che non ti piace…”.

“Non mi piace…”.

 … … … … …

“Stai mentendo”.

“E cosa te lo fa credere?”.

“Perché mi stai baciando…”.

… … … … …

“Sei tu che stai baciando me…”.

“Non credo proprio…”.

“Sì invece…”.

“Stai zitto…”.

… … … … …

Tutto fluiva, tutto ardeva, tutto bruciava.

Trunks fu affatica consapevole della sua mano che risaliva lenta la coscia di lei, l’altra che invece, appoggiata fino ad allora sulla sua vita, minacciava di farsi strada sotto la t-shirt, mentre la ragazza, senza interrompere il bacio, gli sbottonava lentamente la camicia.

Solo quando Pan si staccò delicatamente dalle sue labbra e iniziò a lasciargli pericolosamente sul collo e sul torace una scia di piccoli ma bollenti baci, che rischiavano di fargli perdere completamente la testa e la ragione, Trunks cercò di richiamare a se tutta la forza di volontà di cui ancora disponeva.

“Pan…”.

“Hmm?” biascicò la ragazza, senza smettere.

“Pan…” la richiamò di nuovo lui, il tono leggero ma un pochino a disagio. “Ti stai comportando da ragazza cattiva…”.

“E’ quello che sono” rispose lei, alzando appena gli occhi con un sorrisetto.

“No, non lo sei”.

Le posò le mani sulle spalle, spingendola delicatamente un po’ più lontano da lui, in modo da poterla guardare in viso. Lei sembrò inizialmente contrariata, poi i suoi tratti si rilassarono in un’espressione di tranquilla accettazione.

Non era sicuro che la ragazza avesse compreso appieno il motivo del suo improvviso rifiuto, nonostante stesse succedendo tutto nel modo più spontaneo e naturale, ma sembrò non voler protestare ulteriormente o chiedere spiegazioni a riguardo, e di questo gliene fu silenziosamente grato.

La osservò mentre si sollevava da lui e si distendeva placidamente sul divano, appoggiando la testa sulle sue gambe, quasi fossero un più comodo cuscino. Lui le accarezzò dolcemente i capelli, facendo passare le dita tra le ciocche corvine in rilassanti carezze, mentre lei alzava lo sguardo assonnato in un debole, compiaciuto sorriso. Sollevò quindi la mano per raggiungere quella di lui, e le loro dita si incrociarono morbidamente.

“Ti amo” disse la ragazza, la voce già impastata dal sonno e gli occhi chiusi, e prima ancora di realizzare appieno cosa avesse detto, prima ancora di poter assistere ad una qualunque reazione, era già caduta in un piacevole oblio.

 

You’re my soul mate

My summer and my fate

You fill me up with love

Your kisses are better than wine

There’s nothing I want more than you girl

 

* * *

 

 

Era da quando erano partiti da West City che non staccava le mani dall’oggetto che teneva in grembo, così liscio, così lucido da risplendere alla debole luminescenza del cruscotto dell’air-car, così sfaccettato e perfetto. Ma non era tanto il fatto che quel microscopio in miniatura sulla piccola base di legno quadrata fosse d’oro e del valore di svariati zeni, quanto il fatto che esso rappresentava l’ambizione e il coronamento di anni e anni di dedizione allo studio, alla scienza e alla didattica. Sua madre ne sarebbe stata fiera, e come soleva spesso dire, nonostante le sue proteste, adesso poteva anche morire felice, con la consapevolezza che qualcosa di buono, in vita, l’aveva fatto pure lei. In effetti era lei, sempre lei, che doveva e aveva sempre dovuto ringraziare. Era lei che l’aveva spinto in quella strada, credendoci più di lui stesso, e dimostrando alla fine che aveva ragione, come sempre.

Già, e non era l’unica cosa su cui si era sbilanciata.

Dette un’occhiata veloce al navigatore di bordo, nello stesso momento in cui Videl, alla guida, si voltava brevemente nella sua direzione.

“Credi che non abbia capito perché sei voluto tornare a casa così presto?” lo punzecchiò la donna.

Gohan scrollò le spalle, fingendo indifferenza.

“Te l’ho detto, ero piuttosto stanco, è stata una serata impegnativa”.

“Naaa, tu non sei mai stanco quando si parla dell’università. E figuriamoci quando sei il protagonista della serata!”.

“Lo sai che sono una persona piuttosto riservata, non mi piace stare troppo al centro dell’attenzione”.

Videl gli rivolse di nuovo un’occhiata penetrante, gli occhi che per un momento brillarono di rosso, mentre superavano le luci di Satan city, nella spianata sotto di loro.

“Ti conosco troppo bene, Son Gohan, per sapere che tenevi a quel premio più di ogni altra cosa e che avresti fatto le ore piccole per festeggiare insieme al tuo dipartimento, per brindare e gioire fino all’alba!”.

Gohan non potè far altro che tacere, messo con le spalle al muro.

“Quello che non capisco, è cosa pensi di ottenere con il tuo comportamento!” continuò la donna, mentre faceva perdere quota all’air-car e si preparava ad atterrare sui Paoz.

Gohan scese dal velivolo prima ancora che fosse completamente fermo, avviandosi a passo svelto lungo il vialetto, verso la dependance.

Videl recuperò la borsetta, chiuse la portiera e seguì il marito faticosamente, cercando di non perdere l’equilibrio con i tacchi alti che affondavano nel terreno fangoso.

“Gohan!” lo chiamò, ma il marito era già alla porta. Fu allora, però, che l’uomo ebbe come un momento di esitazione, subito prima di entrare, che permise a lei di raggiungerlo con calma, e di entrare in casa insieme a lui.

La sala era quasi completamente avvolta nel buio, se non per la debole e intermittente luminescenza della tv accesa. Era dallo stesso apparecchio che provenivano le voci che, in un primo momento, avevano fatto esitare Gohan.

Sul divano, immersi in un sonno tranquillo, giacevano Trunks e Pan, lui con la testa appoggiata al bracciolo, una gamba stesa e una posata a terra, lei con il volto affondato per metà nell’incavo della spalla di lui, un braccio intorno al suo petto e l’espressione rilassata.

“Sono…sono vestiti, vero?” chiese Gohan, dopo averli osservati per un minuto buono, i loro respiri sincroni, lenti.

“Ma certo che sono vestiti!” lo rassicurò divertita Videl, mentre togliendosi le scarpe per non far rumore, si dirigeva verso la credenza, tirava fuori una trapunta pulita e li copriva delicatamente, spegnendo poi la tv.

“E danno l’impressione di esserci sempre rimasti, non trovi?”.

Videl portò gli occhi al cielo, sbuffando con insofferenza, mentre afferrava senza tanta gentilezza la cravatta del marito, sradicandolo dalla sua paralisi e trascinandolo su per le scale.

“Forse dovremmo svegliarli, far tornare Trunks di là dalla mamma…”.

“Scherzi, dormivano così bene!”.

“Ma staranno scomodi, laggiù sul divano…”.

“Staranno benissimo, fidati!”.

Avrebbe dovuto sentirsi sollevato nel realizzare che non era successo niente, o che almeno così sembrava, ma anche vederli così vicini, così dolcemente abbracciati e appagati, gli aveva rivelato che era definitivamente stato superato il punto di non ritorno.

“Ho deciso, domani gli parlo” annunciò, entrando in camera e riponendo distrattamente il premio su una mensola, mentre la moglie si sfilava il coprispalle e gli rivolgeva uno sguardo perplesso. “Devo capire certe cose, metterne in chiaro altre e…”.

“Rilassati, Gohan, è la tua serata!”.

Ma lui non demorse, sedendosi sul letto con espressione pensierosa: “Io voglio molto bene a Trunks, gliene ho sempre voluto come fosse mio fratello, ma devo risolvere questa situazione prima che sfugga di mano”.

“Uff!” sbuffò di nuovo Videl. “Trunks, Trunks e ancora Trunks!”. Gli si sedette delicatamente sulle gambe, passandogli un braccio intorno al collo e massaggiandogli piano la nuca. “Capisco che sia un bel ragazzo, ma tutte queste attenzioni nei suoi confronti cominciano a farmi sentire un po’ trascurata…”.

I tratti di lui sembrarono rilassarsi in una bozza di sorriso, mentre lanciava un’occhiata furtiva al decolleté della moglie e al delizioso abitino che indossava quella sera, che metteva in risalto il suo fisico ancora impeccabile, compiacendosi al tempo stesso delle sue morbide carezze. Fu allora che lei gli tolse gli occhiali, spense la luce e, cercando al buio le labbra del suo uomo, lo invitò a dimostrarle che non aveva intenzione di trascurarla oltre.

 

Continua…

 

Nota: Voglio ringraziare tutti coloro che hanno lasciato e lasceranno commenti su questa storia nonostante l'estate, le vacanze, e la voglia di passare più tempo fuori che davanti ad un computer! Accetto volentieri qualsiasi tipo di osservazione, sia in positivo che in negativo, non chiedo altro che la vostra partecipazione: quale personaggio trovate meglio rappresentato, quale scena vi ha coinvolto di più, cosa vorreste aspettarvi dal proseguimento...solo la curiosità di un'autrice amatoriale, ed il desiderio di potersi migliorare sempre di più.

Un bacio e buone vacanze!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Risveglio ***


Capitolo 4

Capitolo 4 – Risveglio

 

 

 

Correva.

Correva veloce, attraverso il boschetto di salici in cima alla collina. Sullo sfondo passavano rapide le sagome degli alberi, che protendevano i loro rami verso di lui, minacciosi, a formare un intricato reticolo contro un cielo del colore del rame. Sentiva distintamente il fruscio dell’erba alta sotto le suole delle sue scarpe, mentre in lontananza giungeva sommesso il brontolio di un temporale in avvicinamento. L’aria odorava di elettricità, e sulle labbra sentiva a tratti un vago sapore metallico.

Quando giunse alla piccola radura, si fermò di colpo.

Una figura a torso nudo era a pochi metri da lui, i jeans strappati in più punti, il volto abbassato, mentre i fini capelli lavanda, più lunghi del solito, si agitavano nel vento con violenza.  

Improvvisamente, si chiese cosa stesse facendo lì, cosa l’avesse spinto ad addentrarsi nel bosco con i suoi vestiti migliori, quelli che aveva indossato alla premiazione dell’Università, e che adesso ritrovava sporchi e laceri sul suo corpo.

“Ti stavo aspettando, Gohan”.

Il giovane aveva sollevato il volto, ma per quanto si sforzasse, non riuscì a mettere a fuoco i suoi lineamenti. Portandosi una mano al viso, notò che aveva perso gli occhiali. Eppure non aveva senso, dal momento che avrebbe dovuto vederci bene lo stesso. Inoltre, riusciva a vedere ogni suo singolo muscolo, ogni singola vena pulsante di quel corpo tonico e scolpito, eppure, non riusciva a distinguere i suoi occhi, a capire la sua espressione, come se l’immagine del suo viso fosse bizzarramente sfumata.

“Cosa…ci facciamo qui?” chiese spaesato.

Lo sentì quindi ridere sommessamente.

“Lo sai benissimo cosa ci facciamo qui. Forse non te ne rendi conto, ma anche tu sei venuto di tua spontanea volontà. Sapevamo entrambi che questo momento sarebbe arrivato, prima o poi”.

Quale momento? Il momento di battersi? indovinò con un groppo alla gola, dai pugni di lui serrati con violenza e dall’aura in crescente aumento.

“Siamo su fronti opposti, Gohan, e andremo tutti e due fino in fondo pur di ottenere la vittoria” continuò deciso. “Io voglio qualcosa che tu ti ostini a negarmi. Ma sappi che non ho nessuna intenzione di rinunciarci, e te lo mostrerò appieno!”.

Alcune foglie ai suoi piedi presero a volteggiare intorno a lui, sospinte dall’innalzamento del suo potere. Aveva davvero intenzione di sfidarlo, quindi, di andare fino in fondo. Non sai in che guaio ti stai mettendo, fratello. Non ne hai la minima idea.

“Trunks, ti prego…” lo dissuase. “Non costringermi a farti del male...”.

Un risata più sonora giunse ora dall’altro.

“Farmi del male? Povero sciocco!”.

Gohan serrò istintivamente i denti, mentre anche il suo corpo cominciava a caricarsi vertiginosamente, energia pura alimentata dalla totale mancanza di rispetto del più giovane.

“Hai sempre dato per scontato che, dopo la morte dei nostri genitori, sia diventato tu il sajan più potente, solo perché sei più vecchio di me e Goten, non è così? Beh, ti sbagli!” esclamò quasi ringhiando, mentre il suo potere aveva adesso raggiunto livelli a cui Gohan non aveva mai assistito, mentre tutt’intorno a lui soffiava un turbine d’oro di incredibile violenza. “Ti sbagli completamente! E sai perché? Lo sai, Gohan?? Perché adesso sono io, il principe dei sajan!”.

Un grido di rabbia squarciò l’aria, mentre i capelli del ragazzo diventavano biondi e per un brevissimo momento fu in grado di scorgere con chiarezza i suoi occhi, che adesso però avevano il colore dell’acqua marina ed il riflesso di qualcosa di molto, molto più caldo, la fiamma ardente e divoratrice dei sajan. E nella mente del più anziano, solo un pensiero martellante dettato da quello stesso istinto animalesco, mentre anche lui si rivestiva d’oro in un bagliore che faceva esplodere l’intera valle:

Uccidilo! Uccidilo!! Uccidilo!!!

Gohan sobbalzò sul materasso, col cuore in gola. Ci mise qualche secondo prima di prendere consapevolezza delle familiari pareti della sua camera, del suo comodo letto matrimoniale, delle tapparelle abbassate della finestra oltre cui non imperversava nessun temporale, ma da cui filtravano caldi raggi solari. Nonostante fosse nudo sotto la leggera coperta primaverile, il suo corpo era madido di sudore.

Ispirò piano e profondamente, finchè il suo respiro tornò di nuovo regolare. Fece per voltarsi alla sua destra, temendo che quel vivido sogno avesse svegliato sua moglie, ma quella parte del letto era vuota, ed il suo calore si era già estinto da un bel po’. Probabilmente, pensò dando una pigra occhiata alla sveglia, aveva deciso di lasciarlo dormire più del solito in quel suo raro giorno di vacanza concessosi dopo la meritata premiazione.

Quando entrò nella doccia, il getto di acqua calda, che scorreva sulle sue membra come una lenta carezza, riuscì a rilassare in parte i suoi muscoli ancora tesi per l’adrenalina, ma c’era qualcos’altro che ancora frullava nella sua testa.

Quella voce fredda e profonda, che lo invitava a non avere pietà.

Gli avrebbe veramente fatto del male, se davvero Trunks lo avesse attaccato con tanta arroganza e determinazione? Avrebbe davvero voltato le spalle a tanti anni di affetto ed amicizia, a quel raro sentimenti di fratellanza, se fosse stato necessario?

Intorpidito da questi pensieri, si vestì distrattamente, scendendo le scale e avviandosi nell’abitazione principale, dove il buon profumo della prima colazione giungeva piacevole dalla cucina, risvegliando finalmente i suoi sensi.

Quando però incrociò gli occhi azzurri di Trunks, che sedeva tranquillamente al tavolo intento a spalmare marmellata su del pane tostato, il cuore gli balzò di nuovo in gola.

“Buongiorno, tesoro” lo accolse dolcemente Videl, entrando improvvisamente nel suo campo visivo, posandogli con delicatezza un bacio sulle labbra e sfiorando vezzosamente il suo naso a quello di lui, con complicità. “Scusa se abbiamo cominciato senza di te, ma stavi dormendo come un angioletto e non avevo il cuore di svegliarti!”.

Già, come un angioletto. Al contrario di quanto doveva dimostrare lui, sua moglie aveva un’espressione radiosa e rilassata, oltre ad un colorito invidiabile. Si limitò a sorriderle debolmente, mentre altre due braccia gli si gettavano al collo, stringendolo con trasporto e calore.

“Congratulazioni, papà!” esclamò Pan gioiosamente, senza badare al fatto di avere la bocca piena, mentre il sajan scostava leggermente sua figlia da se, nel tentativo di non soffocare. Indossava già la divisa da combattimento rossa della palestra, i capelli sistemati in una coda di cavallo ed un sorriso solare disegnato sul volto.

“Te l’avevo detto, Gohan!” si introdusse Chichi, interrompendo momentaneamente il suo armeggiare ai fornelli per voltarsi verso il figlio con orgoglio. “Ho sempre saputo che quel premio sarebbe stato tuo, lo sapevo fin dal primo libro di scienze che ti ho regalato da piccolo!”.

“Mi avevi detto anche che non avrei dovuto ripresentarmi a casa senza, se non sbaglio…” mormorò, sforzandosi di simulare un certo umorismo.

“L’ho detto?” chiese sorpresa Chichi, mentre la famiglia si lasciava andare ad una sincera risata.

“Complimenti davvero, Gohan. Te lo meriti”.

Quell’unica altra voce maschile nella stanza lo riportò di nuovo alla realtà, e per un attimo, mentre finalmente posava di nuovo gli occhi sul ragazzo che lo guardava ammirato, temette di ripiombare in quel soffocante senso di inquietudine con cui si era svegliato.

“Ho fatto solo il mio dovere, niente di più”.

“Oh papà, muoio dalla voglia di conoscere ogni dettaglio della serata, ma come al solito sono in estremo ritardo per la palestra!” annunciò Pan, afferrando la borsa dalla spalliera della sua sedia e infilandosela a tracolla. “Ma stasera dovrai raccontarmi tutto!”.

“Ok tesoro, promesso”.

“Pan, finisci almeno la tua colazione!”.

“Mi spiace nonna, ma non ho proprio tempo, devo scappare!”.

“Non vorrai presentarti senza energie davanti ai tuoi allievi del corso degli adulti!” sorrise Trunks, versandosi del succo d’arancia, prima che la ragazza si allontanasse.

“A me le energie non mancano mai, piuttosto mi preoccuperei per loro!” affermò con sicurezza, riavvicinandosi istintivamente a lui, mentre entrambi scoppiavano a ridere con complicità. “A stasera!”.

La tazzina da caffè scivolò quasi dalle mani di Gohan, mentre sua figlia stampava candidamente un bacio sulle labbra del ragazzo, per poi salutare di nuovo tutti e avviarsi verso la porta. Li aveva già visti baciarsi, e in modo molto più profondo, ma quella era la prima volta che sapevano di essere osservati, alla luce del sole, e quel gesto tanto spontaneo quanto inaspettato aveva lasciato sorpreso anche lo stesso Trunks, che per un momento aveva abbassato lo sguardo con una punta d’imbarazzo.

Adesso. Adesso o mai più.

“Trunks…che ne dici di una passeggiata sulla collina? Avrei bisogno di parlarti” riuscì a formulare, con il tono più tranquillo e rilassato che riusciva a simulare, mentre Pan, uscendo, gli lanciava un’occhiata a metà tra il divertito e il curioso.

Trunks alzò lentamente gli occhi dalla sua colazione, ma rimase qualche secondo in silenzio, a fissarlo, come valutasse attentamente quella proposta.

“Ok” disse infine, abbandonando le posate sul piatto vuoto. “Dammi solo il tempo di controllare la posta elettronica”.

“Perfetto. Ti aspetto fuori”.

 

 

* * *

 

 

Il sole aveva ormai avviato la sua lenta discesa verso l’orizzonte, che le più lunghe giornate di primavera potevano solo rimandare ad un’ora più tarda, tingendo il cielo di un caldo arancio dalle sfumature rosse. Le ombre ormai lunghe e sottili si stagliavano sui verdi prati dei Paoz, che ora sembravano riflettere il viola del crepuscolo, mentre i ruscelli brillavano d’oro.

La figura leggera di Pan volava alta sopra le sue terre, il tepore del sole morente sulla faccia. In una mano stringeva saldamente un sacchettino colorato, con la firma di una delle pasticcerie più sfiziose di Satan City.

La giornata in palestra era stata piuttosto dura e impegnativa, eppure si sentiva ancora dentro un’energia divampante e un buonumore contagioso. Forse, pensò, il pensiero di qualcosa che ti aspetta a casa, o di qualcuno, ha il potere di annullare ogni stanchezza come la migliore delle medicine. E, in quell’ultimo periodo, lei poteva dire di aver affrontato con grinta il lavoro di tutti i giorni, perché ogni volta, al finire di giornata, sapeva che avrebbe rivisto quel qualcuno, che lui sarebbe stato lì per lei, ad aspettarla.

Il suo cuore accelerò, e Pan sapeva che non era per la velocità del suo volo. 

Abbassò quota in prossimità di casa, per poi atterrare con grazia proprio davanti al vialetto di sua nonna, che imboccò a passo svelto, senza fermarsi. Dalla finestra, giungeva già il profumo invitante della cena. La porta era aperta, come sempre, e sgusciò dentro radiosa.

“Trunks!”.

Si era aspettata di vederlo seduto in poltrona con in grembo il portatile, come spesso faceva aspettando la cena, o ad apparecchiare mentre Chichi armeggiava ai fornelli, ma la stanza era vuota, stranamente silenziosa.

“Trunks!” chiamò di nuovo, avviandosi verso la rampa di scale e guardando in alto. “Ti ho comprato i cioccolatini che ti piacciono tanto!”.

Nessuna risposta. Che si fosse rinchiuso nella vecchia camera di Goten a lavorare? O che si fosse addormentato davanti allo schermo?

Senza pensarci troppo imboccò le scale di corsa, fino ad arrivare alla sua stanza. Fece per afferrare la maniglia ed aprire la porta, ma fortunatamente ricordò le buone maniere e la discrezione, bussando due volte.

“Trunks”.

Un vago e indistinto senso di angoscia cominciò a crescere dentro di lei, mentre da dentro giungeva solo un silenzio ovattato, senza nemmeno il tipico ronzio del computer.

Aprì la porta, senza pensarci ulteriormente, ed il fiato le si mozzò in gola.

Il letto era ordinatamente rifatto, ma non era questo che l’aveva lasciata interdetta, d’altronde Trunks era sempre stato un tipo ordinato. Sulla scrivania non c’era più traccia del portatile, o della cartelletta dei documenti che, da quel giorno in cui gliela aveva recuperata, era sempre stata lì.

Il panico si era già impossessato di lei, mentre apriva con veemenza gli sportelli dell’armadio, trovandolo vuoto.

Tutte le sue cose erano sparite, svanite improvvisamente come fosse stato tutto un sogno.

“Trunks!” chiamò di nuovo, pur sapendo di non doversi ormai più aspettare risposta, mentre si precipitava giù per le scale.

Chichi apparve da un angolo della cucina, avanzando lentamente, lo sguardo più stanco e abbattuto del solito.

“Nonna…dov’è Trunks?” chiese debolmente, temendo una risposta troppo ovvia, ma la donna si limitò a fissare la nipote tristemente, come a voler farsi partecipe della sua perdita.

 

Gohan sfogliò lentamente la pagina del suo libro, riprendendo la lettura. In poltrona, rilassato contro la spalliera e cullato dal familiare tepore di casa sua, doveva ammettere che non era per niente spiacevole trascorrere una giornata in casa, lontano dall’università. Come Videl aveva tenacemente insistito, aveva decisamente bisogno di qualche giorno di meritato riposo, non solo dalle fatiche del lavoro, ma anche da tutto lo stress e dall’ansia che avevano fermentato dentro di lui negli ultimi giorni. Finalmente ora, per la prima volta dopo molto tempo, poteva dire di sentirsi finalmente libero, tranquillo e con la coscienza a posto.

L’uscio di casa si spalancò violentemente, facendolo sobbalzare. Sulla soglia apparve la sagoma di sua figlia, stagliata contro il cielo viola del tardo pomeriggio. Il suo volto era scuro, ombroso, tirato in un’espressione di rabbia, i capelli corvini disordinatamente sciolti sulle spalle, i pugni chiusi contro i fianchi.

“Pan…”.

Si alzò dalla poltrona, facendo il gesto di andarle incontro, ma lei lo precedette di netto, lanciandosi verso di lui con incredibile forza e rapidità.

“Come hai potuto!” gli gridò in faccia, spingendo forte i palmi delle mani contro il petto del padre, che colto di sorpresa venne leggermente sbilanciato all’indietro. “Come hai potuto farmi questo!!”.

Gli occhi della ragazza erano braci ardenti, larghi e concitati come se fossero alimentati da un fuoco.

“Pan, calmati…”.

“Sapevi quanto ci tenevo a lui!” gli rinfacciò. “Sapevi quanto significasse per me che lui fosse qui! Lo sapevi e nonostante tutto l’hai mandato via!”.

“Io non l’ho mandato via”.

“Sei un bugiardo!” gridò ansante, la ragione che ormai la stava abbandonando. Gohan sentì la sua aura che aumentava vertiginosamente. “Ti ho sentito stamattina, dovevo immaginarlo, dovevo immaginarlo!”.

“Pan, adesso tu ti calmi e mi ascolti!” le ordinò con severità, afferrandole le spalle nel tentativo di immobilizzarla, ma lei si liberò con uno strattone, una smorfia sul volto arrossato.

“Non toccarmi!”. La sua voce era incrinata, gli occhi laghi in tempesta che minacciavano di straripare. Sbattè più volte le palpebre prima di guardare suo padre negli occhi, in un modo che a Gohan raggelò il sangue all’istante. “Non ti perdonerò mai per quello che hai fatto…mai! Io ti odio!”.

E mentre l’uomo rimaneva paralizzato nella sua posizione, incapace di reagire di fronte a quelle dure parole, la ragazza corse su per le scale senza voltarsi indietro, diretta verso la sua camera, ma una mano decisa le serrò il braccio prima che vi sparisse dentro.

“Chiedi immediatamente scusa a tuo padre!”.

Si voltò di malavoglia. Il volto di sua madre la guardava con severità, gli occhi chiari fissi su di lei.

Pan si liberò senza fatica della presa, esaminando la donna.

“Credevo che tu fossi dalla mia parte”.

“Non se questo significa aggredire tuo padre in quel modo” la contraddisse con fermezza. “Non merita di essere trattato così. Lui vuole solo il tuo bene”.

“Il mio bene?!” gli rinfacciò lei. “Vorrai dire il suo interesse!”.

“Non parlare a vanvera, senza conoscere le sue motivazioni”.

“E allora dimmele, mamma, perché io proprio non capisco!”. Il suo volto ora era una maschera di smarrimento, che adesso traspariva al di sotto della rabbia divampante. “E’ per la differenza d’ètà? E’ così? O per i nostri stili di vita diversi?”. Scosse la testa, come a voler banalizzare quei concetti. “Non capite che tutto questo non conta, quando ti uniscono tante altre cose…e poi, siamo entrambi sajan…”.

Videl sospirò, fissandola con indulgenza.

“Non pensi che l’essere entrambi sajan possa complicare le cose, invece che renderle più semplici? Non credi che farebbe sembrare tutto troppo ovvio e scontato, portandovi a confondere qualcosa con qualcos’altro?”.

Gli occhi di Pan si infiammarono all’istante, mentre una smorfia di disprezzo e di insofferenza si diffondeva sul suo viso a macchia d’olio, portandola a scoprire i denti.

“Dì la verità, sei solo gelosa perché tu non sei una sajan, e a letto non puoi dare a papà quanto avrebbe bisogno!”.

Lo schiaffo arrivò prima ancora che i suoi occhi allenati vedessero alzarsi la mano di sua madre, preciso e sonoro sulla sua guancia. Il segno rosso delle dita e del palmo svanì quasi subito dalla sua pelle, ma istintivamente si portò la mano alla guancia colpita, non per il dolore, che per lei era stato minimo, ma per l’incredulità e la vergogna. Sentì gli occhi che gli si inumidivano rapidamente, minacciando di cedere alle lacrime. Si voltò quindi di scatto, correndo in camera e sbattendo la porta dietro di se, mentre con mani tremanti girava due volte la chiave nella serratura.

Si gettò sul letto con forza, facendo cigolare le molle sotto il materasso. Aggrappandosi al cuscino come fosse l’unico appiglio che le rimaneva prima di sprofondare, si abbandonò finalmente alle lacrime, che sgorgarono dolorose dai suoi occhi arrossati, impregnando le lenzuola.

Perché, Trunks? Perché hai lasciato che venissimo separati?

Lui non avrebbe mai permesso che suo padre lo allontanasse da lei, che lo mandasse via dopo averlo così fraternamente accolto a casa sua…non lo avrebbe permesso, se avesse tenuto a lei…avrebbe lottato, avrebbe combattuto…avrebbe vinto per lei.

Ma forse…a lei non ci teneva tanto. Non abbastanza da mettersi contro ad uno dei suoi migliori amici.

Forse, a lui non era per niente dispiaciuto tornare a casa, riprendere in mano la sua vita, senza guardarsi indietro. Forse non si ricordava nemmeno più di lei, adesso.

Stupida, stupida! Come hai potuto pensare che Trunks Brief volesse davvero stare insieme a te, solo per qualche stupida esperienza vissuta insieme e un’eredità in comune che lui stesso tenta da sempre di sfuggire?

Come hai potuto pensare di piacergli davvero, quando può avere donne molto più belle, intelligenti, eleganti e raffinate di te?

Sei solo una ragazzina lagnante! si disse mentalmente, ma questo non bastò a fermare le lacrime, che adesso sgorgavano senza più ritegno, mentre i singhiozzi la soffocavano, mentre la solitudine e il buio della sua stanza la avvolgevano come una morsa impietosa.

 

Nel frattempo, centinaia di chilometri ad ovest, nel grande salone della Capsule Corporation, aveva luogo l’evento più inatteso quanto acclamato di quella primavera.

Decine di uomini in smoking e di gentildonne in abiti da sera occupavano la sala, in mano calici di champagne o deliziose tartine del copioso banchetto, mentre il costante brusio delle chiacchiere dell’alta società veniva inframmezzato alle volte dalla risata vezzosa di qualche signora o dal sonoro brindisi di qualche uomo d’affari. Di tutti quegli ospiti, che solo all’ultimo minuto avevano cancellato ogni altro impegno dalla loro agenda per partecipare a quel party, probabilmente nessuno si sarebbe sognato che avrebbe potuto più accadere, ormai. Nemmeno lei, la divina, che aveva più di ogni altro contribuito a sancire nei media la disfatta di quell’uomo, avrebbe immaginato di trovarsi lì, alla festa che annunciava il ritorno di Trunks Brief in società e nel mondo degli affari.

Ma tutti sapevano che Candy Flash, la regina del gossip, si trovava sempre in prima linea. Mai e poi mai avrebbe potuto perdersi un tale scoop, o farsi precedere da qualsiasi altro pseudo-giornalista nemmeno degno di tale attributo, soprattutto se il suddetto scoop riguardava il personaggio più chiacchierato della stagione, quello che decine di riviste l’avevano prima immortalato bello e potente e poi ridotto ad uno straccio dopo la morte della presidentessa e la conseguente crisi della società, e infine l’avevano dato per disperso in qualche angolo del mondo a nascondersi dai media e dalla sua vergogna.

Tirò fuori un piccolo specchio dalla borsetta, mentre avvicinava il volto per esaminare minuziosamente la tenuta del suo trucco. Quel nuovo ombretto le faceva magnificamente risaltare i suoi occhi verdi felini, mentre il suo neo finto all’angolo della bocca le conferiva quel qualcosa di intrigante che non faceva altro che accentuare il suo innato fascino. Si sistemò con disinvoltura i vaporosi capelli biondi, strizzando le labbra allo specchio. Era un peccato che lo staff della festa avesse proibito le telecamere, ammonendo la stampa di limitarsi semplicemente alla penna e alle foto. Avrebbe avuto comunque l’esclusiva della festa, visto che si era portata con se il suo fotografo personale e che era la direttrice di una delle più lette riviste di gossip, ma il non poter apparire personalmente a presentare un servizio le lasciava comunque un certo disappunto.

Sapeva di essere terribilmente telegenica, ed era per il suo straordinario aplomb e magnetismo, in grado di incollare davanti allo schermo anche i telespettatori più distratti, che Z-TV le affidava sempre i migliori servizi.

Vi piacerebbe sfoggiare la mia mercanzia, eh? chiese mentalmente a tutte le donne della sala, striscianti nei loro abiti da sera griffati, cosparsi di strass e adornati da preziosi gioielli. Nemmeno il brilloccio più costoso può attirare gli sguardi maschili come so fare io. Mettetevi l’animo in pace! Sorrise maliziosa, di fronte ad una raggrinzita signora sulla settantina, tutte piume e anelli, che lanciò uno sguardo scandalizzato nella sua direzione, mentre le passava davanti.

La giacca fucsia del suo tailleur era avvitata e rigorosamente sbottonata, in modo da mettere in evidenza il seno al di sopra dello stretto corpetto. Non che ne avesse avuto bisogno, ma proprio l’inverno scorso si era fatta fare un’aggiustatina, e le sembrava giusto rendere gli opportuni omaggi al buon lavoro svolto.

Ma il suo vero punto di forza erano le gambe. Lunghe e slanciate, avevano il potere di mandare fuori di testa anche il più insensibile degli uomini. Pochi riuscivano a rimanere impassibili di fronte alla visione delle sue gambe che si accavallavano, mentre sporgendosi sensualmente in avanti avvicinava il microfono all’intervistato di turno. E allora non c’erano più segreti per lei.

Questo era il trucco del suo successo.

“Ti sembro apposto, Max?” chiese al suo fidato fotografo, riponendo lo specchietto nella borsa.

Max, un bestione di due metri con il fisico da lottatore di wrestling e la mascella importante, si voltò lentamente in sua direzione, senza mutare la sua espressione marmorea ma soffermandosi insistentemente sul suo decolleté, come se fossero quelli gli occhi della giornalista.

“Sì, Miss Flash. E’ uno schianto, come sempre” rispose, con la voce grave e profonda di un bodybuilder, senza spostare gli occhi da quel dettaglio invitante.

“Bene, tesoro, impegnati a fare le foto migliori mentre faccio le interviste, e vedremo se varrà la pena concludere la serata in modo piacevole” gli propose con una strizzatina d’occhi, mentre dai lineamenti scolpiti del fotografo faceva capolino un sorrisetto speranzoso.

Nel frattempo, Candy Flash si era già avvicinata ad uno dei tavoli da buffet, dove un gentleman in carne sulla sessantina si stava facendo versare un cocktail dalla cameriera.

“Il signor Morgan, giusto?” chiese, mettendosi davanti alla visuale dell’uomo. “Il magnate dell’elettronica!”.

L’uomo si voltò, le guance palesemente arrossate per essersi fatto qualche bicchierino di troppo, mentre un sorriso un po’ ebete si disegnò sul suo volto alla visione della donna.

“Beh, se così mi si vuole chiamare..!” risacchiò compiaciuto, dimenticandosi di essere semplicemente il direttore di una comunissima azienda di elettricità.

“Senta, le dispiacerebbe rilasciare qualche dichiarazione?” le chiese la Flash, avvicinando il suo dittafono rosa alla bocca dell’uomo, le unghie laccate ben in evidenza, e contemporaneamente passandosi una mano tra i capelli con disinvoltura. L’altro la guardò per qualche attimo con la bocca aperta e gli occhi socchiusi, poi annuì animosamente: “Ma certo, signorina, tutto quello che vuole!”.

“Lei sapeva del ritorno in scena di Trunks Brief?” gli chiese, senza perdere tempo, il dittafono ben saldo nella sua mano e la voce ferma, decisa.

“Ecco..no, non prima di stamattina, quando sono stato invitato a questo delizioso party, dove la mia presenza sembrava fortemente gradita!”.

“Se non sbaglio, la sua ditta era uno dei principali fornitori di impianti elettrici per la Capsule Corporation, ma che poi ha deciso di tirarsi indietro per i sempre più sostanziosi debiti che la famiglia Brief aveva con lei…”.

“E’ esatto. Però…”.

“Però…?”.

“Beh, sono informazioni riservate, tra uomini d’affari, non credo che le interesserebbero…” provò a divagare l’uomo, ma abbassando lo sguardo sul prorompente seno della giornalista, che aveva casualmente scostato la giacca del tailleur, sembrò cambiare idea. “Comunque…ho avuto modo di parlare con lui, questa sera, e sembrerebbe che stia iniziando una nuova era, per la Capsule Corporation…mi sembra un ragazzo a posto e molto motivato, si è impegnato a saldare tutti i precedenti debiti e ha accennato che i laboratori dell’azienda si amplieranno e che avrà ancora più bisogno nei miei servizi! Ho voluto dargli un’altra possibilità!”.

“Interessante…”.

L’uomo gongolò, soddisfatto, ma non era a lui che l’attenzione di Candy Flash era ora rivolta. In mezzo alla folla, come un faro nella notte, aveva finalmente adocchiato il suo soggetto preferito dopo settimane di assoluta invisibilità.

Trunks Brief.

“Max!” chiamò con un misto di gioia ed agitazione. “Max, muovi quelle chiappe e scatta una maledetta foto!”.

Un flash brillò nel salone, ma l’interessato sembrò non curarsene, impegnato in una piacevole discussione d’affari con due ingegneri. La Flash lo squadrò con compiacimento, le sue iridi che sembravano godere di ogni singolo dettaglio del personaggio che per lei era diventato una fissazione.

“Guarda, Max…guardalo bene…hai visto che nuovo taglio ha sfoggiato?”. Si portò il dittafono alle labbra, registrando le sue impressioni. “Si è fatto allungare un po’ i capelli, come se avesse vissuto in modo trasandato per tutto questo tempo…eppure, sembra in splendida forma, molto più riposato e tranquillo dell’ultimo party ha cui ha partecipato, ed è persino abbronzato…chissà cosa ha fatto in questo periodo…in ogni modo, devo dire che questo suo look selvaggio, che contrasta e allo stesso tempo completa la sua innata eleganza, lo rende decisamente ancora più sexy!”.

Spense l’apparecchio, riponendolo in borsetta. A testa alta, la giornalista si addentrò superbamente tra la folla, facendosi strada con l’aiuto di Max che, quasi fosse un bodyguard, spingeva gli ospiti da un lato o dall’altro, con tanto di sonore proteste o esclamazioni di disappunto.

Ma non c’era niente che poteva fermare Candy Flash, una volta che decideva di raggiungere il suo obiettivo. E il suo obiettivo adesso era Trunks Brief, bello e affascinante come ai tempi migliori, proprio davanti a lei.

Si voltò lentamente verso la giornalista, interrompendo educatamente la conversazione con i suoi interlocutori, il calice in mano e un’espressione non troppo sorpresa sul volto.

Alzò leggermente il bicchiere verso di lei, come in un tacito brindisi, sorridendole.

“Salve, Miss Flash, che piacere rivederla di nuovo. E’ tanto che non si fa sentire, temevo si fosse dimenticata di me”.

La Flash gongolò, compiaciuta.

“Si figuri, Mr Brief, io non mi dimentico mai di lei. Lei, piuttosto, mi sta snobbando da un bel po’, ormai…non è che se l’è presa per i miei ultimi servizi su di lei?”.

“Quali, quelli dove lei mi dipinge come un uomo finito, fallito, con il patrimonio sperperato e la vita a pezzi, che si trascina lontano dai media solo perché si vergogna di se stesso e di quello che ha causato all’azienda di famiglia? Ma no, come potrei essermela presa!”.

“Meglio così, iniziavo a preoccuparmi!” risacchiò maliziosa, mentre finalmente brandiva il suo dittafono. “Ma mi dica…questo party…è forse una sua intelligente mossa pubblicitaria per ritrovare la fiducia dei suoi fornitori e dei suoi clienti?”.

La mascella di Trunks si serrò appena, ma non si scompose ulteriormente.

“Io non ho bisogno di riacquistare fiducia, solo di smentire una volta per tutte certe voci che qualcuno ha messo in giro”.

“Capisco” commentò lei, senza dare segno di aver colto la provocazione. “Però non può negare che sparendo dalla circolazione per un bel po’ ha sollevato la curiosità di molti…”.

“Come tutti sanno, Miss Flash, ho passato un periodo piuttosto brutto, avevo semplicemente bisogno di un vacanza”.

“Ah sì? E posso permettermi allora di sapere in quale località di grido ha trascorso le sue vacanze??”.

“Mi dispiace, ma non posso proprio accontentarla”.

“Dalla sua splendida forma direi che è stato…in un centro benessere!”.

“Qualcosa del genere”.

La giornalista sorrise soddisfatta. Stava arrivando alla mazzata finale.

“E cosa ci fa in un centro un ricco e impegnatissimo uomo d’affari, che di solito è molto più attento al bilancio che alla cura del corpo e dell’anima, se non per doversi…disintossicare. Lei da cosa ha dovuto disintossicarsi, Mr Brief?”.

Il volto di Trunks si rabbuiò all’istante, mentre fissava la giornalista in silenzio, incapace di celare un certo smarrimento.

“Dalle chiacchiere di giornalisti da quattro soldi come lei, ecco da cosa ha dovuto disintossicarsi il presidente!”.

Candy Flash si voltò indignata verso la voce che si era intromessa senza invito nella sua intervista, guardando la segretaria personale di Trunks Brief come fosse il più spregevole dei vermi.

“Quindi, figuriamoci se adesso deve pure dirle dove trascorre le sue vacanze, per averla tra i piedi anche lì!” continuò la donna con severità. “Per cui spenga quel maledetto affare e si allontani da qui, se non vuole che chiami la sicurezza per buttarla fuori a calci”.

La giornalista spense controvoglia il dittafono, riponendolo di nuovo nella borsetta.

“Andiamo, Max. Non voglio mischiarmi con cafoni del genere!” disse con eccessiva enfasi mentre si allontanava offesa, ma non abbastanza da abbandonare la sua caccia allo scoop.

Trunks sospirò sollevato, ravviandosi poi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e voltandosi verso la sua segretaria con un sorriso.

“Mi hai salvato di nuovo, Irina. Non potrò mai ringraziarti abbastanza”.

La donna scrollò le spalle, come a voler banalizzare.

“Figurati. Certe volte non basta la diplomazia per togliersi dai piedi simili sanguisughe, bisogna usare le maniere forti!”.

Quella sera Irina era veramente elegante. Indossava un tubino nero davvero grazioso, che la ringiovaniva di una decina d’anni, impreziosito da un collier di perle semplice ma d’effetto, che Trunks sapeva essere il regalo di fidanzamento di Sid.

“Credevo che fossi stata tu ad aver invitato al party Candy Flash”.

“Non l’ho invitata, ho solamente fatto in modo che le arrivasse la voce, in modo che credesse di esser venuta di sua iniziativa”. Sorrise sorniona, vedendo che Trunks si sforzava di capire il suo piano. “Se non riesci a sconfiggere i tipi come lei, l’unica alternativa è raggirarli. La Flash su di te ha detto e scritto malignità più di qualunque altro giornalista, ma se avesse appreso per prima la notizia del tuo ritorno in società e alla testa dell’azienda, sarebbe stata disposta a ribaltare anche le sue teorie pur di avere l’esclusiva di uno scoop!”.

“Non mi sembra che avesse intenzione di tessere i miei elogi, poco fa…”.

“Aspetta, aspetta. Si renderà presto conto che l’opinione pubblica ha cambiato idea sul tuo conto, e che non è saggio continuare a spingere dove non ha più sbocchi. Continuerà a fare servizi su di te, ma questa volta deciderà di sfruttare a suo vantaggio la tua rinnovata popolarità, e non il tuo declino!”.

“Sei un genio, Irina. Adesso dovrò raddoppiarti lo stipendio”.

“Pensa piuttosto a concedermi un mese intero di ferie per la mia luna di miele, credo di meritarmelo dopo tutto!”.

“Direi proprio di sì!”.

Risero entrambi, prima che la sua segretaria tossicchiasse con indifferenza, in modo da attirare l’attenzione del presidente alle sue spalle.

“Buonasera, Erika” sorrise Trunks, girandosi del tutto e trovandosi davanti la giovane direttrice dei magazzini HighTech, la più vasta catena di distributori in franchising di tecnologie emergenti.

“Buonasera, Trunks. Davvero una bella festa, molto piacevole”.

Irina fece un breve inchino, sorridendo alla nuova arrivata. “Con permesso…” disse allontanandosi, non prima di aver lanciato al suo capo uno sguardo eloquente.

Trunks si rivolse di nuovo verso la sua interlocutrice.

“Mi fa molto piacere che tu sia riuscita a venire”.

“Già…avevo un impegno, in realtà, ma appena ho ricevuto l’invito mi sono detta che non potevo mancare”.

Le sorrise, compiaciuto. Erika Lowell indossava un lungo abito da sera turchese, che si intonava straordinariamente ai suoi occhi color cobalto, mentre i lunghi capelli ramati ricadevano in parte sulle spalle in raffinati boccoli, mentre in parte erano raccolti elegantemente da un prezioso fermaglio d’argento. Gli sorrise di rimando, mentre ai lati delle sue guance le si formavano due fossette decisamente graziose, che non facevano altro che aggiungere quel tocco intrigante alla sua già palese bellezza.

“Mi dispiace per non averti rinnovato il contratto, due mesi fa” disse debolmente, abbassando per un momento lo sguardo, come si sentisse in colpa. “Ma certo capirai che non potevo più acquistare prodotti che non comprava più nessuno, quando la concorrenza vendeva di più e a prezzi più stracciati”.

“Lo capisco perfettamente, Erika. E’ la legge del mercato, ognuno deve guardare al suo interesse. Io avrei fatto la stessa cosa, e non ti serbo rancore per questo”.

La donna rialzò lo sguardo, rassicurata da quelle parole.

“In ogni modo, adesso ho in progetto grandi novità per la Capsule Corporation” continuò il Brief, catturando la curiosità della sua interlocutrice. “Attualmente, sono già in produzione tutta una serie di gioiellini digitali che difficilmente la concorrenza riuscirà ad imitare, oltre ad una nuova linea di capsule con un sacco di funzioni aggiuntive e una capienza decisamente maggiore”.

Ci fu una pausa, mentre la Lowell valutava con un certo imbarazzo le parole da usare.

“Credo che ti sembrerò terribilmente opportunista, se adesso ti propongo un nuovo contratto…Dio, Trunks, è davvero imbarazzante!”.

Trunks scosse la testa, ridendo di fronte al disagio della donna, mentre le posava amichevolmente una mano sulla spalla, come a volerla rassicurare.

“Non è opportunismo, Erika, tu hai fatto solo ciò che in quel momento era meglio per i tuoi magazzini. E non c’è nemmeno niente di male nel cambiare idea, non sai quanti stasera sono tornati da me strisciando senza nemmeno chiedermi scusa per avermi voltato le spalle, come invece stai facendo te!”.

Erika sorrise, alzando quindi il suo calice di champagne.

“Al nostro nuovo contratto, allora” propose.

“E ad una nuova e ancora più salda collaborazione” aggiunse Trunks, sollevando il suo bicchiere e brindando calorosamente con la collega.

Mentre i due si salutavano con due baci sulla guancia, una serie di flash li immortalò dal centro della folla, dove sicuramente si trovava la bionda giornalista e il suo fedele fotografo, che si guadagnavano così una preziosa chicca per il loro scoop.

 

Continua…

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** When you're gone ***


Capitolo 5

Capitolo 5 - When you're gone

 

 

 

I always needed time on my own

I never thought I’d need you there when I cry

And the days feel like years when I’m alone

And the bed where you lie is made up on your side

 

Il tempo e lo spazio sono inversamente proporzionali.

Il primo si dilata, si allunga, si espande all’infinito se il secondo si riduce bruscamente, e più l’uno diminuisce, più l’altro aumenta.

Non che ne capisse di fisica, o di tutte quelle idiozie che divulgavano gli scienziati. L’unica sua consapevolezza era la stanza in cui si era rinchiusa da qualche giorno, e la sensazione che vivesse là dentro da ormai un’eternità.

Ma non era solo uno stretto spazio fisico quello in cui si era rifugiata.

Adesso sembravano distanti da lei mille miglia, vecchi e insignificanti come foglie secche, ma i suoi doveri verso il lavoro, verso la palestra di suo nonno, le bussavano ancora debolmente al suo cuore infranto, sperando di trovare ancora un barlume di vita, un accenno di volontà. Passiva, silenziosa come non mai, debole come le fosse caduto un macigno sulle spalle, adempiva alle sue responsabilità con la meccanicità di chi è stanco di sorridere, di chi ha ormai aperto gli occhi e ha visto crollare, con la rapidità di una stella cadente, tutti i sogni e le illusioni di una vita.

E quando tornava a casa a sera, volando piano contro il tramonto, senza nessuna fretta di arrivare, non si voltava nemmeno per un attimo verso la dependance, temendo di vedere il volto colpevole di suo padre, o di incrociare gli occhi accusatori di sua madre.

Da quella sera, li aveva sempre evitati come fossero creature estranee, incomprensibili, inaffidabili. Suo padre, il suo adorato papà, così buono, così affettuoso e gentile, che sempre si era preoccupato per il suo bene e per la sua sicurezza, adesso aveva sacrificato la felicità di sua figlia per la propria tranquillità personale. Sua madre, che in tutti quegli anni era spesso stata più un’amica che un genitore, forse l’unica vera amica che aveva mai creduto di avere, quella a cui potevi dire tutto, quella che ti capiva con uno sguardo, quella che ti consigliava sempre la cosa giusta, adesso le aveva voltato le spalle nel modo più inaspettato e meschino.

Solo sua nonna non si era pronunciata, forse perché ormai troppo stanca e anziana per prendere posizione e far valere la propria idea, come aveva sempre fatto da giovane. Anche lei doveva esser stanca di combattere. Aveva solo visto i suoi occhi posarsi tristi su di lei, ma non voleva la sua compassione. Aveva comunque apprezzato la sua discrezione, quando aveva lasciato la sua camera alla dependance e si era trasferita da lei, che l’aveva accolta in una delle stanze senza fare domande.

E così, l’angusto spazio mentale, che per tutto il giorno l’aveva come isolata da tutto il resto, imprigionandola nella fredda solitudine del suo cuore, adesso diventava concreto e reale come la stanza dove a sera si chiudeva nell’oscurità, dove consumava una cena solitaria acquistata ad un fast food, dove trascorreva una notte senza sonno, con l’unica amara compagnia delle sue lacrime.

Ed era ancora più difficile, se quella stanza era la vecchia camera di Goten, quella dove l’oggetto del suo dolore aveva trascorso le ultime settimane, un tempo che adesso sembrava lontano come un’altra epoca.

Eppure, le lenzuola conservavano ancora il suo odore. Lei lo sentiva, lo assaporava, vi si aggrappava come fossero l’ultima cosa che ancora lo legava a lui. Dormire in quel letto era allo stesso tempo gioia e dolore, come una droga di cui non puoi privarti, ma che sai inevitabilmente ucciderti.

La notte avanzava, e mille momenti le passavano con crudeltà davanti agli occhi, immagini di un sorriso caldo, di uno sguardo dolce, di parole sussurrate con complicità. I più bei baci della sua vita, tanto ardentemente rubati quanto profondamente sbagliati, gioia e dolore, ancora, inesorabili, come due forze opposte che si dibattevano dentro di lei, finchè non era il secondo a prevalere sempre, lasciandola spossata, distrutta, impotente, di fronte ad una battaglia persa in partenza.

La mattina, i dorati raggi primaverili che filtravano dalle persiane accostate, invitandola ad alzarsi dopo l’ennesima notte insonne, erano freddi come spade di ghiaccio, inespressivi come sguardi vitrei.

 

When you walk away I count the steps that you take

Do you see how much I need you right now

 

Gohan scattò dalla poltrona con la rapidità di un felino. Stampò i palmi delle mani sulla finestra, il volto a mezzo centimetro dal vetro, dove il suo fiato aveva iniziato a disegnare un’aureola opaca.

Videl decise di lasciarlo fare, limitandosi a fissarlo mentre osservava con speranza la figura di sua figlia uscire dall’abitazione principale, la guardava caricare energia intorno a se, e inevitabilmente, come ogni giorno, con delusione la seguiva librarsi in cielo e sparire all’orizzonte, verso Satan City.

“Non è passata nemmeno stamattina” mormorò l’uomo, sospirando affranto. “Credo che dovremmo parlarle, stasera, prima che si rinchiuda di nuovo in camera…chiarire la situazione…”.

“No” lo interruppe Videl, scotendo la testa con decisione. Guardò oltre il vetro, verso il punto del cielo in cui la ragazza era sparita, mentre nella mente rivedeva lo sguardo carico di rabbia con cui la figlia l’aveva guardata qualche sera prima, le parole taglienti che le aveva sputato addosso, e dietro, oltre tutta quella rabbia, oltre tutta quell’ostentata prepotenza, la disperazione, lo smarrimento, la delusione. Sospirò, guardando infine il marito, che più di ogni altro soffriva quell’insensata situazione. “Deve essere lei a tornare da noi…quando sarà pronta” disse. “Solo allora potrà avere le risposte che cerca”.

 

* * *

 

 

E’ buffo, il destino.

Quando credi di aver toccato il fondo, di non poter star più male di quanto stai già, ecco che la sorte si prende di nuovo gioco di te, dandoti ancora un’ultima sferzata. Nemmeno Pan, quel mattino a Satan City, entrando di malavoglia in un bar ed ordinando debolmente un caffè, aveva idea che quella giornata, iniziata fiacca e vuota, sarebbe stata più intensa e distruttiva del solito.

Negli ultimi giorni si era rigorosamente vietata di accendere la tv o di passare solo vicino ad un’edicola, ma ora, curva contro il bancone davanti al quale aspettava annoiata il suo caffè, posando casualmente lo sguardo su un tavolino dal quale si erano appena alzate delle clienti, non potè fare a meno di scorgere la rivista che era stata abbandonata lì sopra.

Sapeva che si sarebbe fatta del male. Sapeva che il dolore, fin ora chiuso a forza dentro il suo cuore, forse sarebbe esploso come una bomba a orologeria, o forse le avrebbe soltanto sferzato l’ultima coltellata silenziosa ma letale. Sapeva, e tuttavia si avvicinò, gli occhi scuri e pesanti, l’espressione stanca.

Non era stato necessario il titolo a caratteri cubitali, per riconoscere anche da lontano il soggetto della copertina. Non avrebbe mai confuso quella sagoma familiare, o quegli occhi la cui luce riusciva a bucare persino la carta.

Tuttavia, quello non era il ragazzo mite, tenero e gentile che aveva condiviso con lei le ultime indimenticabili settimane, che indossava jeans e camicie a quadri di flanella, che si intestardiva a spaccare legna o a rastrellare foglie dal vialetto per pagarsi in qualche modo il soggiorno sui Paoz. Non era il ragazzo che sembrava capire ogni suo sguardo, che rideva con lei delle sciocchezze di ogni giorno, che la stringeva a se nelle fresche serate di primavera. Quello stesso ragazzo che anni prima aveva viaggiato con lei nello spazio, ritrovando la spontaneità e lo spirito d’avventura.

Quello era l’uomo di potere, impeccabile nel suo elegantissimo completo griffato, il portamento dritto e lo sguardo sicuro di chi non teme niente, di chi è consapevole delle proprie potenzialità e del proprio carisma, di chi sa di avere flotte di uomini e donne pronti ad inginocchiarsi davanti a lui se solo lo avesse chiesto. Il principe degli affari, il volto da copertina. Quasi un’altra persona, distante mille miglia da lei.

Solo il taglio di capelli un po’ più lungo e scalato gli conferiva un inusuale tocco ribelle, quasi fosse l’unica traccia di un oscuro periodo che ancora non voleva dimenticare.

IL RITORNO DI TRUNKS BRIEF” annunciava il testo a lato della foto, e poi: “Più sexy e affascinante che mai”.

Cinque giorni che non lo vedeva o sentiva, e adesso, quella patinata copertina, che lo ritraeva bello e prestante come un divo del cinema, pronto ad essere invidiato da centinaia di uomini e desiderato da migliaia di donne, le sembrò così fredda da sentire quasi il gelo tra le mani.

Ma il vaso di Pandora non era stato ancora scoperchiato del tutto. Poteva ancora prevenire quel disastro, se la tentazione non l’avesse portata a cercare l’articolo all’interno.

Altre sue foto catturarono i suoi occhi. Sembrava ad una festa, sullo sfondo la grande sala della Capsule Corporation, intorno a lui decine di invitati in abiti eleganti.

Dopo settimane di totale black out, Brief torna inaspettatamente sulle scene” continuava il sevizio. “ Il trentaquattrenne presidente della Capsule Corporation, che dopo la scomparsa della madre Bulma, proprietaria e da sempre colonna portante della società, sembrava essersi dimostrato incapace di gestire da solo il patrimonio ereditato, finendo per far temere il fallimento di uno storico marchio già da tempo intaccato dalla concorrenza, annuncia il suo ritorno a capo dell’azienda organizzando un party diplomatico e proclamando l’inizio di una nuova era per la Capsule Corporation…”.

Pan scorse senza troppa attenzione l’articolo, soffermandosi invece sui commenti alle immagini, più in evidenza ed immediati.

L’ultima volta l’avevamo lasciato sciupato e malaticcio, come ritraeva qualche scatto ravvicinato in un nostro precedente numero” ricordava la giornalista Candy Flash, di commento ad una foto risalente a due mesi prima. Nonostante l’istantanea fosse un po’ sgranata per lo zoom, si vedeva chiaramente il volto di Trunks oltre il finestrino della limousine che lo portava in ufficio, due profondi solchi scuri sotto gli occhi, il volto pallido e non rasato, i capelli già lunghi tirati all’indietro e legati con un laccio. Non era affatto strano che, all’epoca, l’opinione pubblica avesse pensato che, per far fronte alle mille responsabilità che la morte della presidentessa storica gli aveva lasciato e che lui era solo stato capace di trasformare in debiti, avesse iniziato a far uso di droghe. Il suo aspetto trascurato, la sua crescente debolezza e lo sguardo vuoto sembravano esattamente confermare quell’ipotesi e, anche se non era stata la mancanza di una guida professionale a farlo cadere nella depressione o le sue incompetenze a far indebitare l’azienda, quella deduzione non si discostava poi così tanto dalla realtà.

Ma guardatelo ora” invitava Candy Flash, richiamando una seconda foto a lato della precedente, uno scatto risalente alla stessa sera in cui Trunks aveva lasciato i Paoz. “Dovunque Mr Brief sia stato in queste ultime settimane, che fosse una clinica privata o una banale beaty farm di ultima generazione, lo hanno rimesso decisamente a nuovo. Non solo ha riacquistato il fascino dei tempi migliori, ma sarà quel suo nuovo taglio, sarà quell’abbronzatura apparentemente naturale, che pare ancora più sexy e prestante del solito…”.

Passò oltre, risparmiandosi i coloriti e tutt’altro che neutri commenti di quell’insulsa giornalista, mentre veniva catturata da un’altra foto, che questa volta lo ritraeva intento in un’amichevole conversazione con una bella donna dai capelli ramati.

Il cuore di Pan cominciò lentamente ad accelerare, mentre cercava il testo che commentava l’immagine.

Tutti gli ospiti sono rimasti affascinanti dal rinnovato carisma di Trunks Brief, gli uomini d’affari concedendo di nuovo un’immediata fiducia a questo personaggio che fino a poco tempo fa sembrava avviatosi sul viale del tramonto, le fanciulle di buona famiglia o le promettenti signorine in carriera ritrovando il più ambito scapolo d’oro da contendersi senza esclusione di colpi. Ma tra tutti spicca in particolare la bella Erika Lowell, trent’anni e già direttrice dell’omonima e vastissima catena commerciale. La suddetta aveva da poco rotto il contratto con la Capsule Corporation, temendone il suo definitivo crollo, ma la lunga e intima conversazione tenuta con il presidente sembra aver cambiato di nuovo le carte in tavola… ”.

Pan voltò pagina, e questa volta il cuore le si fermò.

C’erano due foto. Nella prima, i due erano immortalati mentre brindavano allegramente, i calici di dorato champagne che si accarezzavano, occhi negli occhi.

Il loro brindisi sembra siglare un nuovo promettente accordo, ma dai loro sorrisi compiaciuti, dai loro sguardi complici, si percepisce chiaramente come stia nascendo qualcosa di più, che va oltre l’ambito lavorativo. E’ una forte attrazione reciproca, quella che ci suggeriscono queste eloquenti immagini, che poi si rivela palesemente nella loro continua ricerca di contatto fisico e da baci tutt’altro che formali…”.

Nella seconda foto, Trunks teneva una mano sul braccio nudo della donna, mentre lei aveva le proprie appoggiate ai fianchi di lui. Gli occhi di entrambi erano socchiusi, i loro volti vicini, così vicini che sembrava stessero per baciarsi, o che l’avessero appena fatto.

Brief e Lowell: una nuova intesa nel lavoro…e nella vita” proclamava il titolo alle immagini, e a Pan bastò per decidersi definitivamente a chiudere la rivista, ad allontanarsi da quel tavolo e ad uscire a passo svelto dal bar.

Non importava quanto credito avesse deciso di dare ai commenti di quella giornalista, quando volesse davvero credere alle sue divagazioni. Quello che contava, quello che emergeva, quello che saltava finalmente alla luce, quasi fin’ora avesse voluto negarlo, era quanto distanti lei e Trunks in realtà fossero, quanto le loro vite avessero ripreso inevitabilmente direzioni opposte, e quanto fosse naturale che lui frequentasse ragazze molto più adatte a lui.

Non ce l’aveva con Trunks. Ce l’aveva soltanto con se stessa.

“Signorina, il suo caffè!” le urlò dietro il ragazzo al bancone, ma lei era già sparita nella soleggiata giornata di Satan City.

E, comunque, non ne aveva più bisogno.

 

When you’re gone

The pieces of my heart are missing you

When you’re gone

The face I came to know is missing too

When you’re gone

The words I need to hear to always get me through the day and make it ok

I miss you

 

Nella grande palestra della prestigiosa scuola di arti marziali di Satan City, una dozzina di allievi tra gli undici e i quattordici anni erano disposti in maniera perfettamente geometrica in tre file da quattro. I loro giovani ma già tonici fisici, avvolti nella bianca stoffa della divisa, erano ben dritti e composti, le gambe leggermente divaricate. Le loro braccia si sollevavano all’unisono, mentre traevano un ampio respiro e poi espiravano lentamente, fino a rilassarsi del tutto.

“Bene così, miei piccoli campioni” approvò Phol “Bolide” Tail, testa alta e petto in fuori davanti al gruppo di ragazzini, le braccia incrociate con soddisfazione. “La tecnica non è solo un fatto fisico, ma anche mentale”. Si portò indietro una ciocca bionda sfuggita alla coda di cavallo, sottolineando il gesto con teatralità. “Guardate me, per esempio” li invitò, aprendo le braccia e tirando il petto ancora più in fuori, mentre un sorriso bianchissimo si allargava fieramente: “Nel mio attuale stato, completamente rilassato e libero da ogni interferenza esterna, concentrato solo sulla mia persona, sono in grado di sferrare colpi più precisi di qualunque altro, o di reagire più prontamente agli attacchi altrui”.

I giovani allievi annuirono all’unisono, ora attenti e affascinati dalle parole del loro eccentrico istruttore.

“Ed è per questo che, nella nostra scuola di arti marziali, insegniamo fin dall’inizio gli ideali della calma, della pace interiore e del controllo delle emozioni…”.

In quel preciso momento la porta della palestra si spalancò, rivelando una Pan dal volto scuro e dall’espressione aggrottata. La ragazza attraversò la palestra con passi lunghi e rapidi, aprì senza troppo garbo la porta del piccolo ufficio, vi entrò e sbattè la porta alle sue spalle con tale forza e violenza da far tremare l’intero edificio.

Phol, ancora paralizzato dal brusco ingresso del suo capo, sbattè due volte le palpebre, allibito, prima che uno dei ragazzini giungesse in suo aiuto: “Stava parlando di calma, pace interiore e controllo delle emozioni, sempai Phol”.

“Appunto…” commentò l’istruttore, con una risatina nervosa. “Ehm, ragazzi, perché non continuate ancora ad inspirare ed espirare per una decina…anzi no, facciamo un centinaio di volte, mentre io vado un attimo di là a vedere se tutto è a posto??”.

Mentre i giovani allievi cominciavano ad eseguire l’ordine senza fiatare, nonostante il lieve disappunto delle facce, Phol sgusciò rapido verso l’ufficio di Pan, per poi schiacciarsi contro la porta, l’orecchio teso.

Silenzio, nessun suono proveniva da dentro.

Aprì la porta lentamente, tentando di ridurre al minimo il fastidioso cigolio dei cardini poco oliati.

Lei era seduta di spalle rispetto a lui, appoggiata pesantemente contro la scrivania, il volto chino e nascosto tra le braccia, i capelli corvini sparsi tutt’intorno disordinatamente.

Phol sorrise, riportando di nuovo indietro una ciocca bionda.

La sua giovane datrice di lavoro era decisamente depressa, e le ragazze depresse necessitavano sempre di qualcuno che si occupasse di loro. In quel caso, lui sarebbe stato pronto a consolarla come e quanto avrebbe avuto bisogno.

Si avvicinò piano, con discrezione. Cercando di non far troppo rumore, avvicinò l’altra sedia presente nella stanza, la sistemò accanto a quella di lei, davanti alla scrivania, e vi si sedette al contrario, in modo da poter appoggiare le braccia alla spalliera.

Si prese tutto il tempo per inumidirsi le labbra e scegliere le parole più d’effetto, poi, sporgendosi leggermente verso di lei e gonfiando il petto, decise di approcciarsi con un tono basso e profondo: “Pan…”.

“VATTENE!!!” gli urlò contro lei, mentre alzava di scatto la testa e lo fulminava con lo sguardo, e quell’ordine fu talmente diretto ed efficace che Phol, questa volta in un millesimo di secondo, era già balzato in piedi, aveva sistemato di nuovo la sedia al suo posto e si era avviato a passo svelto e senza fiatare verso la porta.

“Phol…aspetta”.

Bolide si fermò prontamente, attese qualche secondo e si voltò con cautela. Pan si era alzata, ed ora era ferma in piedi davanti a lui, lo sguardo basso, le mani giunte, le dita che giocherellavano nervosamente.

“Scusami per essere stata scortese…” continuò. “Ma in questi giorni …non sto molto bene…”.

Phol le sorrise serafico, guardandola con aria comprensiva e avvicinandosi a lei, fino a posarle le mani sulle spalle curve.

“Pan, Pan, Pan…per le pene d’amore, non c’è cura migliore che la distrazione” proclamò, con il tono di chi la sa lunga su questioni amorose. “Chiunque sia così stolto da farti soffrire, non merita tanta importanza. In questi casi, quello che si deve fare è concentrarsi su qualcosa o qualcun altro…”.

“Beh, in questo caso, credo che mi concentrerò sul lavoro” decise Pan con un sospiro, mentre faceva per tornare alla scrivania, ma Phol la trattenne.

“Non sto parlando del dovere, mia cara, ma del piacere” precisò, con un sorriso sornione stampato in volto. Pan alzò debolmente gli occhi, fissandolo perplessa mentre lo ascoltava continuare: “So io di cosa hai bisogno, piccola Pan…di una serata trasgressiva in mia compagnia!”.

Quell’idea così bizzarra, pronunciata tuttavia con tanta convinzione, strappò alla ragazza una risatina divertita, mentre realizzava che stava ridendo per la prima volta dopo cinque giorni.

“E dove dovremmo andare, io e te, a trasgredire?” chiese, sciogliendosi un po’, sentendo che ne aveva fermamente bisogno.

“Hanno aperto una nuova discoteca, qui a Satan City” la informò lui compiaciuto. “Blue Moon, si chiama. E’ una delle più trendy della città ed è frequentata da gente di un certo livello, non so se mi spiego…” disse, alzando baldanzosamente la testa e gongolando palesemente, come se il fatto che fosse lui a frequentare un certo locale bastasse semplicemente ad aumentarne la popolarità, ma Pan scosse la testa con decisione.

“In discoteca?? No, non se ne parla proprio. Non ho neppure niente di adatto da mettermi…”.

“Per quello, nessun problema” la interruppe lui con naturalezza. “Proprio dietro l’angolo, c’è un negozio pieno di cosette deliziose…”.

 

Quella sera, quando Pan uscì poco convinta da lavoro per seguire il suo consiglio, Phol l’aspettò pazientemente nella palestra ormai vuota, approfittando per ritoccare nei minimi dettagli il suo già perfetto look.

Camicia di raso argentato parzialmente sbottonata. Cravattino allentato a scacchi bianchi e neri. Pantaloni e mocassini in pelle lucida nera con rifiniture argento. Capelli sciolti sulle spalle e cappello zebrato sulle ventitrè.

Sorrise soddisfatto alla sua immagine riflessa nello specchio della palestra, compiaciuto del fatto di essere un figo da paura.

La porta si aprì alle sue spalle, facendo entrare nel locale una ventata dell’attraente e calda notte di Satan City, mentre una promettente sagoma femminile faceva il suo ingresso.

“Che dici, così può andare??” si sentì chiedere, il tono tra l’imbarazzato ed il divertito.

Phol si voltò, un sorriso malizioso che gli si allargava in volto. Spostò lo sguardo in basso, per poi risalire lentamente, in modo da godersi al pieno ogni dettaglio di quell’allettante visione.

Anfibi alti. Pantaloni di pelle nera a vita bassa, con cintura borchiata. Un delizioso push-up che metteva in risalto il fisico tonico, scolpito ed abbronzato. Un kajal nero intorno agli occhi, che ne metteva in risalto la profondità.

“Allora??” insisté la ragazza, le mani ai fianchi, in attesa di un parere.

“Se proprio lo vuoi sapere, tesoro” rispose lui, fissandola compiaciuto. “Credo che io e te, stasera, faremo scintille”.

 

I’ve never felt this way before

Everything that I do reminds me of you

And the clothes you left, they lie on the floor

And they smell just like you, I love the thing that you do

 

Il Blue Moon era un caleidoscopio di luci ed ombre, che si alternavano su giovani corpi in movimento che si agitavano al ritmo martellante ed avvolgente della musica. Le loro facce erano distese, rilassate, le loro menti libere da ogni pensiero, completamente estranee alla realtà, concentrate solo su quella bolgia di forme, colori e suoni che elettrizzava i loro corpi come un’estasi continua.

Pan non era abituata a posti del genere. Li aveva sempre ritenuti troppo noiosi e caotici, oltre che frequentati in gran parte da automi che neppure erano più in grado di provare emozioni reali.

In quel momento, avrebbe tanto voluto essere uno di quelli.

Mandò giù l’ultimo sorso del suo bicchiere di vodka, stringendo poi gli occhi con forza mentre l’alcol le bruciava la gola.

Accanto a lei davanti al bancone del bar, Phol ballonzolava sul posto, lanciando di tanto in tanto occhiate ammiccanti alle formose cubiste che si scatenavano sulle loro postazioni rialzate.

“Che ne dici di gettarci in pista?” propose con un cenno del capo e un eccitato sorriso, ma Pan non sembrò altrettanto entusiasta dell’idea.

“Perché intanto non vai tu?” gli consigliò annoiata, gli occhi pesanti, i muscoli deboli. “Magari ti raggiungo dopo…”.

Bolide scrollò le spalle convinto, mentre si avviava con movimenti plateali verso il centro della folla, facendo tutto il possibile per farsi notare.

“Un’altra vodka, grazie…” chiese Pan al barista.

 

When you walk away I count the steps that you take

Do you see how much I need you right now

 

Era già da un po’ che la testa aveva cominciato a girarle, ma quando ormai cominciò ad aver seri problemi di equilibrio, realizzò anche di aver perso definitivamente il conto di quanti bicchieri aveva bevuto.

Tre, quattro? O forse cinque? pensò massaggiandosi la testa, appoggiata pesantemente contro il bancone, mentre il giovane barista le lanciava sguardi perplessi.

La musica le martellava dentro con violenza, l’alternarsi delle luci le dava le vertigini. Eppure, in qualche modo si sentiva attratta da tutto quel pulsare di vita, da quel frenetico movimento che attraversava tutti quei corpi come un’estasi continua.

Si staccò dal bancone con un certo sforzo, avviandosi un po’ barcollante verso la pista. Si rese conto di aver urtato qualcuno, venendo poi rimbalzata contro qualcun altro, finendo alla fine goffamente contro la console.

Il giovane DJ alzò gli occhi dal suo lavoro, abbassandosi leggermente le cuffie e scandendo le parole in modo che lei potesse capire almeno il labiale: “Tutto bene?”.

Pan annuì con un sorriso svagato, e il DJ le sorrise apertamente a sua volta, e quel sorriso, così leggero, così allegro e solare, riuscì finalmente a scuotere Pan.

Pensò che aveva vent’anni, e tutto il diritto di vivere la sua età con spensieratezza, senza sprecare dietro ad inutili illusioni un tempo che non sarebbe mai tornato. Doveva solo vivere, ridere, divertirsi e…ballare.

Senza neanche rendersene conto, cominciò a muovesi, per quanto scoordinatamente. Voleva farsi avvolgere dalla musica, farsi rapire da essa, rispondere passivamente ai suoi richiami. Il soffitto girava, girava, correva così veloce da non riuscire più a vederlo.

Mentre tutto diventava nero, buio ed irreale, mentre sentiva il suo corpo afflosciarsi definitivamente, qualcosa di solido e concreto le si parò davanti, e lei vi si aggrappò saldamente.

“Ciao” la salutò il suo appiglio, tirandosi su gli occhialoni scuri, e rivolgendole un’occhiata compiaciuta.

“Ciao…”.

“Sbaglio, o hai tutta l’aria di aver bisogno di qualcuno che ti sostenga?”.

“Sì” ammise svagatamente, mentre gettava le braccia al collo del ragazzo e appoggiava la testa sulla sua t-shirt a righe bianche e nere.

 

We were made for each other

Out here forever

I know we were, yeah

 

“…e così, quel bestione che tutti davano per vincitore fin dall’inizio, capì che era arrivato qualcuno molto più forte di lui…” raccontò Bolide con orgoglio, rivolto alle due ragazze che aveva appena conosciuto in pista, e a cui adesso offriva galantemente un drink. “Mi è bastato un solo colpo per gettarlo fuori dal ring, una mossa precisissima ma di straordinaria potenza, che solo i più grandi esperti di arti marziali hanno il privilegio di conoscere”.

Si portò enfaticamente il ciuffo all’indietro, mentre le due emettevano gridolini di meraviglia e ammirazione.

“E’ stato un piacere brindare con voi, signorine” le congedò alzando il bicchiere, mentre le ragazze si allontanavano salutandolo con la mano e risolini divertiti.

Si voltò quindi verso il bancone per abbandonare il calice vuoto, sorridendo tra se soddisfatto per la sua ennesima performance da rubacuori.

“Scusa, tu sei insieme alla moretta con il top e i pantaloni di pelle?” gli chiese il barman, riconoscendolo.

Phol sorrise ancora più ampiamente, appoggiando un braccio al bancone con noncuranza e sporgendosi verso il ragazzo con aria cospiratoria: “Sì…modestamente, è la mia ragazza!”.

“In questo caso, non ti dispiacerà se chiedo il conto a te di tutte le sue bevute” decise l’altro, mentre Phol sbatteva le palpebre allibito, il volto adesso improvvisamente inespressivo. “E comunque, se fossi in te, amico, la terrei un po’ più d’occhio, in questo momento”.

 

Affondata in una delle poltroncine del locale, gli occhi socchiusi, costantemente in bilico tra sogno e realtà, aveva la sensazione che anche quest’ultima fosse diventata stranamente densa, quasi come gelatina.

“E così non vuoi nemmeno dirmi il tuo nome?” le disse il ragazzo seduto a fianco a lei, giocherellando nel frattempo con i suoi capelli.

Anche la sua voce sembrava lontanissima, come passasse attraverso un muro d’acqua.

Poi un’altra, che si era appena avvicinata: “E questa chi è??”.

“L’ho trovata in pista, è ubriaca fradicia…pensa che non si reggeva nemmeno in piedi!”.

Il nuovo arrivato le si parò davanti, accucciandosi davanti a lei con un sorriso compiaciuto, a cui lei rispose scioccamente.

“Sembra carina” approvò. “Una pollastrella docile e su di giri, davvero interessante”.

“Non ci provare, Gum, lei è mia” chiarì subito l’altro, sporgendosi di più verso Pan e accarezzandole voluttuosamente l’addome.

“Ok, ok, vi lascio in pace!” si difese Gum, alzando le mani in segno d’innocenza, prima di voltargli le spalle e sparire tra la folla.

Pan sentì gli occhi pesanti, fortemente pesanti, finendo quindi per chiudere le palpebre e tagliare definitivamente i ponti con la realtà. Anche quando, qualche secondo dopo, sentì il calore delle labbra di qualcuno che si posava sul suo collo, baciandole piano la pelle, pensò di stare sognando.

“Trunks…” mormorò istintivamente.

“Mi chiamo Matt, dolcezza, ma se ti piace chiamarmi con qualsiasi stupido nome, fa’ pure!”.

Sentì che quei baci diventavano più insistenti, quasi sgradevoli, mentre la sua pelle veniva percorsa da carezze non volute. Cercò di allontanarlo debolmente, accorgendosi subito di non aver messo nel gesto abbastanza forza e decisione, e lui approfittò per stringerla più saldamente.

“Che c’è? Preferisci che ce ne andiamo in un posto più tranquillo? Eh? Ho la mia auto, qui fuori, e…”.

“Lasciami…”.

“Andiamo, non fare storie, prima ti butti tra le mie braccia e poi mi respingi così!”.

“Ho detto lasciami!”.

Quasi non si rese conto della forza con cui l’aveva colpito, finchè non vide il ragazzo rimbalzare contro una colonna del locale e ricadere a terra con il naso sanguinante, gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite mentre la fissava terrorizzato: “Tu…tu sei un mostro, ecco quello che sei!”.

Incassò quelle parole con freddezza, ormai non la stupivano più. In fondo, era quello che si era sentita dire da una vita.

Riuscì in qualche modo ad alzarsi dalla poltrona, per poi allontanarsi barcollante, in cerca dell’uscita di quell’inferno.

Sentì solo di sfuggita la voce di Phol, che si avvicinava impettito verso Matt, nel frattempo rimesso in piedi dall’amico: “Ehi tu, quella è la mia ragazza!”.

“Beh, riprenditela pure, idiota!” gli rispose il ragazzo sprezzante, mentre il biondo istruttore gli rivolgeva uno sguardo fiero e carismatico:

“Evidentemente, moccioso, non hai idea di chi hai davanti. Ma imparerai subito cosa significa mancare di rispetto al grande Bolide”.

 

All I ever wanted was for you to know

Everything I’ll do, I’d give my heart and soul

I can heardly breathe I need to feel you here with me, yeah

 

Fuori, nella notte, sotto le luci sfocate di Satan City, lungo le strade ora deserte. Non aveva idea di dove andare, sapeva solo di dover fuggire lontano, scappare da un dolore che ancora non voleva abbandonarla.

Si alzò in volo, facendosi ingoiare dall’oscurità. Scappare, fuggire.

Avrebbe fatto più volte il giro del pianeta a tutta velocità, come un razzo impazzito, se solo fosse bastato a farla sentire meglio. Ma sapeva, che non sarebbe bastato.

Con la coda dell’occhio vide due ombre che l’affiancavano in volo, più scure dell’oscurità, più furtive della notte. Eppure, sospesi in quel buio, era sicura di aver intravisto due paia di occhi rossi, cattivi ed affilati, che la fissavano famelici. Si disse che era solo la sua immaginazione, quando una sommessa ma inquietante risata la spinse a voltarsi alla sua destra.

Intorno a due occhi rossi prese lentamente a concretizzarsi una figura, un volto che non avrebbe mai immaginato di rivedere lì, in quel luogo ed in quel tempo, che ora le sorrise con denti aguzzi ed affilati.

No…non può essere…non…

Presa dal panico e dall’incredulità, fece per prendere le distanze da quel fantasma, dirottandosi verso sinistra, ma sbattè con violenza verso un petto marmoreo. Eppure, quel petto aveva qualcosa di sbagliato. Profondamente sbagliato. Sbagliato come due profondi fori all’altezza dei polmoni, che gli trafiggevano il torace da parte a parte, circondati da macchie di sangue rosso vermiglio. Non riuscì a trattenere un grido di orrore, mentre alzando lo sguardo incontrava altri due occhi di fuoco.

“Dove credi di andare?” le ruggì contro quella creatura, e lei non potè far altro che scappare, veloce, verso il basso, dove forse quelle ombre non l’avrebbero mai raggiunta, dove forse non si sarebbero azzardate a mostrarsi.

Planò di nuovo a tutta velocità verso Satan City, atterrando in un vicolo buio. Mentre con terrore si accorgeva che era a fondo cieco, i due spettri si materializzavano contemporaneamente davanti a lei, con quei loro occhi rossi infernali e i loro sorrisi taglienti.

Questa volta, fu la voce femminile a parlare: “E’ inutile, volare via non ti aiuterà a fuggire dalla dura realtà, piccola mezzosangue”.

La voce era quella di Bulma, ma il suo aspetto era così sfatto ed orribile da non ricordare minimamente quello di colei che era stata una delle più belle ed eleganti donne del pianeta. I capelli scoloriti ed arruffati, la pelle cadente in decomposizione, i vestiti logori.

“Cosa volete da me?” balbettò Pan, arretrando leggermente.

“Vogliamo solo aiutarti, cara” le rispose lei, con un falso tono di solidarietà.

Accanto a lei, lo spettro con le fattezze di Vegeta iniziò a ridere sommessamente, mostrando i canini affilati. Anche i suoi tratti erano molto più sciupati di quelli che ricordava, la pelle innaturalmente pallida.

Sapeva cosa fossero quelle ombre. Lo sapeva, e per questo le temeva ancora di più.

“Aiutarmi?” chiese debolmente, scotendo la testa in segno di negazione. “Come avete aiutato Trunks, non è così?”.

Bulma sorrise quasi maternamente, anche se in quel volto decomposto quell’espressione assomigliò più ad una smorfia: “Siamo qui per darti un consiglio…stai lontano da Trunks!”.

“Lui non è più con me adesso!”.

“E infatti il suo posto non è lì…il suo posto è con noi, i suoi genitori!”.

Nel volto di Pan si disegnò una smorfia di disgusto, che riuscì addirittura a sovrastare il terrore.

“Voi non siete i suoi genitori! Io conoscevo i veri Bulma e Vegeta! Voi siete solo creature della sua mente!”.

“Ah sì?” la provocò lo spettro di Bulma, con una risatina. “E allora perché adesso siamo qui davanti a te??”.

“Forse perché anche la mocciosa terza classe sta prendendo la stessa strada!” indovinò Vegeta, ed entrambi scoppiarono a ridere crudelmente, una risata tagliente e stonata.

Pan sentì una scintilla di rabbia accendersi nel suo stomaco, ma le parole che pronunciò in seguito furono ancora troppo poco convinte, troppo poco decise. C’era qualcosa in quelle ombre che la bloccava, che la spaventava terribilmente.

“Trunks vi ha sconfitto! Lui vi ha dimenticato, è guarito!”.

“Lo credi davvero?” la rimbeccò Bulma. “Credi veramente di conoscerlo così bene?”.

Fece per avvicinarsi di più a lei, non un passo dopo l’altro, come si sarebbe aspettata, ma quasi levitando a circa un centimetro dal suolo.

“Chi credi di essere per lui? Eh?” continuò. “Credi di essere così importante, non è vero?”.

Adesso era a meno di un metro da lei. Pan fece per arretrare ancora, ma era arrivata in fondo al vicolo cieco. Potè solo schiacciarsi contro di esso, tra due bidoni dell’immondizia, nell’oscurità e nello squallore di quel quartiere, con l’unica terribile luce di quegli occhi demoniaci, adesso proprio di fronte a lei.

“Tu non sei niente per lui, ragazzina. Lui non prova niente nei tuoi confronti”.

“Non è vero…” mormorò, nonostante quelle parole le rimbombassero nella testa come volessero impressionarsi a fuoco nella sua mente, fino a indurla a credervi.

“Lo sai che è così, cara. Lui ti ha abbandonato senza nemmeno salutarti. Evidentemente, voleva evitare che tu ti attaccassi a lui come una medusa, implorandolo di rimanere o di portarti con lui. Credi davvero che avrebbe potuto seriamente esserci qualcosa tra voi due? Ma le hai viste le ragazze che frequenta? Hai visto come sono belle, colte e intelligenti? Hai visto quanta classe e quante altre cose hanno che tu non hai e non potrai mai avere?”.

Gli occhi le bruciavano, le lacrime minacciavano di sgorgare, e fu uno sforzo tremendo riuscire a trattenerle, continuando comunque a fissare quegli occhi, in modo da non dar segno di debolezza, come sempre le era stato insegnato.

“Tu sei stata solo il suo simpatico trastullo durante la sua noiosa vacanza obbligata”.

“E per cos’altro poteva usarla, altrimenti?” aggiunse il principe, che nel frattempo aveva raggiunto la compagna, offrendo alla loro comune vittima il più agghiacciante dei sogghigni.

Pan fece scivolare la schiena sulla parete del vicolo, acquattandosi a terra. Avrebbe voluto sparire, se solo avesse potuto.

Eppure, all’umiliazione e allo sconforto che provava in quel momento, che la rendevano tanto debole e vulnerabile, si aggiungeva un altro sentimento, fino a quel momento appena accennato, ma che cresceva dentro di lei in maniera esponenziale, mentre il suo battito cardiaco aumentava, mentre il suo respiro si faceva più affannoso…

“Stai lontano da Trunks!” ribadì Bulma sopra di lei, ora più minacciosa che mai.

“Toglitelo dalla testa!” le fece eco Vegeta, quasi azzannandola.

Gorgogliava, bolliva, brontolava dentro di lei come la lava di un vulcano in procinto di esplodere…come il motore propulsore di un razzo in decollo…

“Lascialo in pace!”.

“Dimenticalo!”.

…come una bomba d’energia sul punto di esplodere…

“BASTA!!!” urlò Pan con tutto il fiato che aveva, allargando le braccia in segno di liberazione, e da lei esplose una luce così intensa ed abbagliante, dalle sfumature del violetto, da investire l’intera città come una bomba atomica.

Tuttavia, quello non era il potere distruttore dell’onda energetica, del Final Flash o della Genkidama. Nessun potere di quel tipo avrebbe scalfito creature come quelle, mere proiezioni di una mente distrutta. Quell’inatteso potere, invece, appiccato dalla rabbia e fatto solo di forza interiore, non danneggiò minimamente l’inconsapevole e dormiente città, ma i due spettri gridarono all’unisono di sorpresa e di dolore, mentre venivano polverizzati come fragili sculture di sabbia, i cui granelli si dispersero silenziosi nella notte.

Qualche secondo dopo, tutto era di nuovo buio e calmo, e Pan, con un grugnito di fatica e liberazione, ricadde a terra, offrendo la faccia all’asfalto freddo e duro.

 

When you’re gone

The pieces of my heart are missing you

When you’re gone

The face I came to know is missing too

When you’re gone

The words I need to hear to always get me through the day and make it ok

I miss you

 

Non seppe quanti minuti passarono, prima che un paio di fari scandagliassero la notte fino a posarsi su di lei, abbagliandola fortemente mentre sollevava appena la testa.

Un’air-car della Norton atterrò goffamente all’imboccatura del vicolo, mentre dalla portiera saltava fuori una sagoma familiare che corse rapidamente verso di lei.

“Pan! Ti ho cercato dappertutto!” la rimproverò apprensivo Bolide, abbassandosi su di lei. “Ho visto un strana luce provenire da questa parte della città, ho temuto fosse un nuovo marchingegno di qualche gruppo terroristico, che tu potessi essere in pericolo e che ci fosse bisogno del mio prezioso intervento!”.

Pan si lasciò sollevare da terra, troppo debole per poterlo fare da sola, mentre la luce dei fari illuminava il volto di Phol, che appariva sinceramente preoccupato.

“Il tuo occhio…è tutto nero…” commentò Pan, mentre lui la aiutava a rimettersi in piedi. “E il tuo naso…sanguina…”.

Phol le rivolse un sorriso nervoso, mentre distoglieva prontamente lo sguardo.

“Quello, ehm…incidente di percorso” si limitò a rispondere, imbarazzato.

Pan cercò di reggersi in piedi da sola, ma fu uno sforzo che non riuscì ancora a sopportare. Sentì il peso del suo corpo che precipitava in avanti, e appoggiò prontamente le braccia tese alle spalle di Phol, inspirando ed espirando profondamente, gli occhi socchiusi e lo sguardo svagato.

“Tutto bene?” chiese esitante Phol, ben lieto di quella insperata prossimità tra di loro, ma leggermente confuso dalla smorfia che progressivamente si disegnava sul volto di lei, prima che questa abbassasse la testa e si liberasse di tutto l’alcol che aveva buttato giù quella sera.

“Oh, sì!” esclamò Pan, finalmente più leggera, mentre tossiva ancora violentemente.

“Oh, no!” gemette invece Phol, non altrettanto appagato. “I miei mocassini nuovi!”.

 

Continua…

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Rewind ***


Capitolo 6

Capitolo 6 - Rewind

 

 

Si stirò lentamente, allungando braccia e gambe per risvegliarle dal torpore. In quel breve dormiveglia aveva già provato una vaga sensazione di non-familiarità, di leggero disagio. Adesso, mentre sbadigliava rumorosamente, socchiuse debolmente un occhio, e lo sbadiglio le si bloccò a metà per la realizzazione.

Quella non era la sua camera. E quello non era il suo letto.

Si paralizzò all’istante, gli occhi sbarrati fissi sul soffitto. Ci mise qualche secondo per farsi coraggio, poi finalmente scostò la coperta che l’avvolgeva, tirando quindi un sospiro di sollievo.

Pantaloni e top erano al loro posto, le mancavano solo gli stivali, che le avevano lasciato i piedi ancora indolenziti. Quella notte doveva esser stata talmente fuori di testa da potersi facilmente spogliare e finire tra le lenzuola di qualcuno…ma di certo non in grado di rivestirsi.

Tuttavia, il sollievo svanì dalla sua faccia, mentre notava la gigantografia alla parete di fronte e realizzava chi fosse il proprietario della camera.

Sguardo fiero, sorriso largo e abbagliante. Capelli biondi scompigliati dal vento. In mano, la coppa di un torneo minore di arti marziali, esposta con orgoglio.

Dalla stanza attigua, lo scrosciare dell’acqua della doccia si mescolava con un’allegra canzonetta stonata.

Pan si fece scappare un gemito di disperazione. In quel caso, tutte le supposizioni appena fatte potevano non valere più.

Balzò giù dal letto, precipitandosi verso il bagno. Aprì la porta senza bussare o chiedere permesso, guidata solo dal panico. Phol era appena uscito dalla doccia, un accappatoio tigrato addosso. Sobbalzò leggermente vedendo entrare a passo deciso la ragazza, che piombò come una furia su di lui e l’afferrò per il colletto dell’accappatoio, bloccandolo contro il muro.

“Cos’è successo stanotte??!” gli gridò in faccia Pan, il volto trasformato in una maschera di terrore.

“In…in che senso..?” riuscì a balbettare Bolide, paralizzato.

“Nel senso…se noi due…insomma, abbiamo…”.

Il volto di Phol si rilassò. Troppo, per i gusti di Pan. Al posto dell’espressione di terrorizzata sorpresa si fece strada un sorriso sornione.

Passò qualche secondo che a Pan sembrò durare un’eternità, il cuore che le martellava nel petto.

“Mi dispiace deluderti, ma…no, Pan” rispose infine, e lei potè respirare di nuovo. “Nonostante le tue insistenti avances, io non mi concederei mai ad una ragazza ubriaca…e ho preferito dormire sul divano!”.

Pan lo lasciò andare, scostandosi da lui. Sospirò di sollievo, chiudendo gli occhi in segno di ringraziamento. Nonostante avesse seri dubbi riguardo alle sue “insistenti avances”, non potè che credere al collega.

“Grazie, Phol” mormorò, più tranquilla.

“Non preoccuparti, tesoro. Rimanderemo ad una serata più tranquilla, in cui sarai lucida e potrai apprezzare al massimo le mie prestazioni…”.

Ma Pan non lo stava ascoltando. Si massaggiava la testa, lo sguardo basso e vuoto, come avesse dentro una gran confusione che tentava di riordinare.

“Perché non…chiami i tuoi? Ti avranno data per dispersa…così potrai informarli che sei in buone mani e con me non hanno che da stare tranquilli. Non tutti, stanotte, avrebbero avuto la mia stessa premura…”.

“E’ finita l’epoca in cui devo rendere conto ai miei di dove passo la notte!” sbottò acida Pan, ma subito se ne pentì. Su una cosa Phol aveva ragione: nelle condizioni in cui si era trovata la sera precedente, avrebbe potuto cacciarsi seriamente nei guai. Non solo avrebbe rischiato di mettere in pericolo la sua incolumità, che non era più in grado di difendere in preda all’alcool e alla follia, ma anche quella degli altri. Dio solo sapeva cosa avrebbe potuto scatenare.

Era stata una fortuna, che ci fosse stato Phol a farle da balia, trascinandola via dalla strada e facendole passare la notte in un posto sicuro, dove avrebbe potuto tornare in se.

Quanto alle preoccupazioni dei suoi…

Si voltò verso lo specchio, fissando in silenzio la sua immagine riflessa.

Non si riconosceva nemmeno. Vestita di abiti succinti e provocanti che non avrebbe mai indossato. I capelli arruffati e impregnati di fumo, le occhiaie profonde, il trucco sbavato intorno agli occhi e sulle guance. Un pallore cadaverico, al di sotto della sua naturale abbronzatura.

Era questa la Pan che era diventata? Questa la persona che voleva essere?

Dov’era stata, durante tutta quell’interminabile settimana?

“Non voglio telefonare a casa…” rispose Pan, continuando a fissare lo specchio. “Voglio tornarci. Voglio tornare a casa”.

Era rivolto più a se stessa che al suo interlocutore, che la guardò senza troppa convinzione: “Non vuoi farti prima una bella doccia calda? Sistemarti un po’? Intanto potrei prepararti la colazione…”.

“No, Phol…voglio andare subito”.

Lui sospirò, convinto.

“Ok. Ma alla sola condizione che sia io ad accompagnarti”.

Pan annuì debolmente, forzando un sorriso. Quello, almeno, non poteva che concederglielo.

 

Se non altro il viaggio in aircar, più lungo e tranquillo di quello che avrebbe fatto in volo, dava a Pan il tempo di riflettere un po’.

Seduta sul sedile del passeggero, il volto verso il finestrino e gli occhi chiusi, fingendo di dormire, cercò di pensare alla notte precedente. La maggior parte dei ricordi che le riaffioravano alla mente erano immagini labili, quasi surreali. Le luci accecanti della discoteca…la musica penetrante…il sapore forte dell’alcol che le scendeva in gola…tutto sembrava far parte di un lungo e sconclusionato sogno.

Eppure, tra tutto ciò, il ricordo di gran lunga più insensato e irrazionale le appariva incredibilmente vero, terribilmente nitido.

Due paia di occhi rossi come il fuoco, incastonati nelle cavità profonde di volti in decomposizione, che la fissavano famelici.

Aveva capito chi fossero fin dal primo momento. Era la prima volta che li vedeva, ma se li era immaginati proprio così dai racconti di Trunks – Trunks, le faceva male anche solo pensare quel nome – racconti di persecuzione psicologica da parte di due creature terrificanti, falsi simulacri dei suoi genitori defunti, che gli avevano fatto il lavaggio del cervello e lo avevano quasi portato a compiere un gesto estremo. Ma alla fine lui ce l’aveva fatta, si era liberato di loro.

E adesso…potevano due proiezioni mentali essere così vivide, così forti, quasi dotate di vita propria, da spostare il loro fronte d’attacco, decidere di tormentare qualcun altro a lui vicino, per concludere la loro macabra missione?

Ma cosa potevano volere da lei? Trunks se n’era andato deliberatamente, l’aveva lasciata senza rimpianti. Se lo scopo dei due spettri era separarli, tenerla lontano da lui, beh, avevano già vinto senza combattere. Niente più la legava a lui, né mai più l’avrebbe legata.

Eppure sapeva che non era veramente quello il loro obiettivo. Il loro obiettivo era strapparle dal cuore i ricordi di quelle meravigliose settimane con lui, stillarne ogni consistenza, ogni valore, ogni veridicità.

Ok, Trunks aveva fatto la sua scelta, aveva ripreso la sua vita, in cui lei non avrebbe mai potuto essere compresa e di cui non sarebbe stata nemmeno all’altezza, ma mai, mai, avrebbe permesso a quelle creature di convincerla che quelle parole, quegli sguardi, quei baci non fossero stati sinceri. Di questo ne era fortemente sicura: per quelle settimane, almeno per quelle, Trunks l’aveva amata. Forse non quanto lei aveva amato lui…quanto tuttora lo amava…ma di certo i suoi occhi non mentivano.

Lo sapeva, lo sentiva forte nel cuore, e avrebbe difeso quella verità con le unghie e con i denti, finchè ne avesse avuta la forza.

Forse era stata proprio questa immensa forza d’animo, ritrovata quella notte, che le aveva permesso di sconfiggere gli spettri, e che adesso sembrava farla gradualmente risvegliare da un letargo durato fin troppo.

Si accorse che erano arrivati dal brusco scossone con cui Phol atterrò nella radura, sradicando buona parte dell’erba e dei fiori che vi nascevano rigogliosi, mentre i rumorosi motori della Norton spaventavano gli uccellini e gli scoiattoli inducendoli a fuggire il più lontano possibile.

Infine frenò con un forte rinculo, che li fece sobbalzare così forte da farli quasi sbattere la testa contro il vetro, giusto mezzo metro prima di demolire il vialetto di casa Son.

“Oh, bensvegliata, signorina” la salutò Bolide, con un sorriso compiaciuto, notando gli occhi di lei sbarrati ed il corpo irrigidito. Anche fosse stata addormentata davvero, magari anche sotto l’effetto di sonniferi o tranquillanti, sfidava chiunque a non essersi fatto svegliare da una simile manovra. “Siamo appena arrivati”.

“Già…” rispose Pan, ancora un po’ frastornata. Guardò casa sua come non la vedesse da anni. Non era cambiato niente, era lei che probabilmente vedeva tutto da una diversa prospettiva.

Quella della certezza di una vita senza di lui. Di minuti, ore e giorni in cui avrebbe dovuto trovare un’altra motivazione per respirare. E la sua motivazione era la sua casa, chi vi abitava e chi vi aveva abitato. Era la palestra di suo nonno, erano tutti gli insegnamenti dell’altro, a cui doveva quello che era adesso, quello che aveva raggiunto e di cui doveva essere orgogliosa.

“Beh, allora…buona giornata”.

Pan si voltò verso di lui, lo sguardo catturato dall’alone violaceo che gli circondava l’occhio sinistro, lasciandogli la palpebra metà socchiusa per il gonfiore. Alzò la mano, sfiorandogli delicatamente lo zigomo. Lui la lasciò fare, anche se al solo contatto delle sue dita strinse gli occhi come scottato.

“Ti fa male?” gli chiese apprensiva, allontanando la mano, ma lui la trattenne delicatamente appoggiandovi sopra la sua.

“No, tranquilla…cosa vuoi che sia un minuscolo livido!” rise debolmente, poco convinto.

“Mi dispiace, io…mi sento in colpa…non sarebbe successo se…”.

“Shhh” la rabbonì lui. “Per te…ne è valsa la pena”.

Solo allora Pan si rese conto dell’improvvisa vicinanza che si era creata tra di loro, la sua mano ancora sul volto di lui, che adesso era solo a qualche centimetro dal suo, tanto che sentiva il suo respiro sulle labbra…

Forse era quello il primo passo verso la sua nuova vita, la sua nuova vita senza di lui. Phol non avrebbe mai compensato ciò che provava per colui che ai suoi occhi sarebbe sempre rimasto l’unica ed ineguagliabile perfezione, ma forse, era proprio di uno così che aveva bisogno, un tipo alla sua portata, uno con cui non avrebbe dovuto reggere il confronto che una meteora informe ha con una stella brillante.

Uno che avrebbe potuto colmare il vuoto, farla sentire preziosa, forse anche renderla felice…

Ma che non era Trunks.

Si scostò delicatamente, abbassando lo sguardo con un po’ di imbarazzo. Non se la sentiva. Non ancora. Era una follia cercare di ingannare se stessa.

“Phol…scusa ma…devo andare” disse in un sussurro.

“Ok. Ci vediamo in palestra…allora” si ricompose in fretta lui, ostentando naturalezza. “E rimettiti presto in forma, capo!”.

Pan gli rivolse un sincero sorriso, guardandolo di nuovo negli occhi.

“Grazie. Grazie davvero” disse, appoggiandogli una mano sulla spalla, prima di aprire lo sportello e scendere dall’air-car.

Mentre percorreva il vialetto di casa, si voltò a guardare il velicolo che decollava con altrettanto fracasso, mentre Bolide si sbracciava dal vetro per salutarla. Quando si voltò di nuovo, sulla porta di casa era apparsa sua madre, che la fissava in silenzio.

Pan si bloccò, colta improvvisamente dal dubbio e dalla vergogna. Rimasero così per qualche secondo, l’una davanti all’altra, il vento sollevato dal decollo dell’air-car che sventolava i loro capelli. Poi, lo sguardo della donna si ammorbidì gradualmente, lasciando spazio ad un’espressione di sollievo.

E allora Pan non resistette oltre. Sentiva già le lacrime che iniziavano ad inumidirle gli occhi.

“Mamma…” mormorò, per poi correre tra le sue braccia aperte.

 

Una volta, da bambina, aveva tenuto il broncio a mamma e a papà per ben due giorni. Doveva aver avuto circa sei anni. Un pomeriggio erano andati alla Capsule Corporation per una visita ai Brief. Lei mangiava un gelato squisito che le era stato offerto dagli inservienti robotici di Bulma, tutti chiacchieravano e scherzavano, e lei era perfettamente a suo agio. Ad un certo punto, finito il suo gelato, si era accorta che i maschi non c’erano più. Suo padre, suo zio Goten, Trunks e Vegeta…non capiva dove si fossero cacciati. Si era alzata, chiedendo alle donne in sala, ma sua madre, sua nonna e Bulma cercarono di distrarla con qualche zuccheroso complimento.

Ma lei non voleva i complimenti. Lei voleva sapere dove fossero andati gli altri.

Era stata la piccola Bra, con il suo vestitino azzurro con le gale e i fiocchi blu, ad avvicinarsi con l’aria di chi la sa lunga: “Ma come, non lo sai? Sono andati ad allenarsi nella Gravity Room di mio padre. Solo i più forti possono resistere lì dentro, di certo non potevano portare una marmocchia come te”.

C’era rimasta malissimo. Talmente male, che aveva deciso di punire i suoi genitori con un broncio prolungato e irremovibile. Si sarebbe rinchiusa in camera sua, senza mangiare. Avrebbero dovuto dirglielo!

Alla fine, la fame ed il buon senso avevano avuto la meglio sull’orgoglio. I suoi genitori non le avevano detto niente della Gravity Room al solo scopo di proteggerla, per evitare di esporla a rischi, e alla fine aveva dovuto ammettere che, in effetti, avevano ragione.

Proprio come quella volta di tanti anni prima, la mamma sedeva sul divano, mentre lei era distesa con la testa appoggiata sul suo grembo. Si faceva accarezzare dolcemente i capelli, e quel gesto riusciva straordinariamente a rassicurarla, a rilassarla. Ancora una volta, la mamma l’aveva perdonata per il suo assurdo e immotivato comportamento.

“Mi dispiace, mamma” ripetè per l’ennesima volta. “Mi dispiace davvero. Sono stata una stupida…voi…voi non c’entravate niente…avevo solo bisogno di un pretesto per prendermela con qualcuno…”.

“Basta così, tesoro” la rassicurò Videl, massaggiandole la tempia. “Sei solo troppo impulsiva, ecco cosa sei. Se soltanto avessi dato a tuo padre il tempo di spiegarti…”.

Suo padre. Quanto era stata ingiusta con lui. Lo aveva accusato di aver costretto Trunks ad andarsene, ma ora sapeva, sentiva, che non era stata colpa sua.

Quando sentì la porta di casa che si apriva cigolando leggermente, rivelando la sagoma di suo padre che si stagliava sull’accecante luminosità della tarda mattinata, sentì di essere invasa dal panico.

Con lui non sarebbe stato facile e spontaneo come con sua madre. Con lui, si sentiva così piccola e insignificante da non riuscire a trovare le parole giuste, per riparare al fatto di aver mancato di rispetto alla persona più buona e altruista del mondo, che meno di tutti se lo meritava.

Ma il sorriso caldo con cui l’accolse bastò per farla respirare di nuovo. Si alzò lentamente dal divano, andandogli incontro a passi cauti e misurati.

“Ciao, tesoro” la salutò lui con ostentata naturalezza, come non fosse mai successo niente, come se avesse già cancellato quella terribile settimana di lontananza emotiva. Ma Pan sapeva che il suo cuore ribolliva di sollievo e commozione, che dietro a quell’enorme sforzo di dimostrarsi completamente tranquillo e a suo agio, c’era la sua stessa voglia di abbracciarla.

Suo padre era un pessimo attore.

“Giust’appunto…” incalzò, cercando di evitare imbarazzanti silenzi, mentre sollevava la scatola rettangolare incartata d’argento che teneva in mano. “E’ arrivato questo pacco per te. Sono stato a ritirarlo adesso all’ufficio postale di Satan City, perché come ben sai il servizio non arriva fin quassù!”.

Glielo porse, e lei, piuttosto confusa, lo prese esitante. La carta era pregiata, lucida come uno specchio, ed il nastro blu era sicuramente di seta.

“Co…cos’è?” chiese con un sussurro, tenendo in mano il pacco come fosse qualcosa di extra-terrestre.

“Non lo so, Pan” rispose Gohan, alzando le mani. “Ma all’ufficio mi hanno detto chi è il mittente. Credo che te lo mandi Trunks”.

Al suono di quel nome, il suo cuore cominciò a batterle nel petto come un martello. Con le mani che già le tremavano, alzò lentamente gli occhi su quelli del padre, che adesso le rivolse un sorriso sincero, genuino, che senza bisogno di parole le diceva tutto quello che avrebbe dovuto sapere…fin da quel giorno…

 

“Trunks…che ne dici di una passeggiata sulla collina? Avrei bisogno di parlarti” riuscì a formulare, con il tono più tranquillo e rilassato che riusciva a simulare, mentre Pan, uscendo, gli lanciava un’occhiata a metà tra il divertito e il curioso.

Trunks alzò lentamente gli occhi dalla sua colazione, ma rimase qualche secondo in silenzio, a fissarlo, come valutasse attentamente quella proposta.

“Ok” disse infine, abbandonando le posate sul piatto vuoto. “Dammi solo il tempo di controllare la posta elettronica”.

“Perfetto. Ti aspetto fuori”.

 

Gohan attese fuori dalla porta di casa, passeggiando nervosamente avanti e indietro. Non sapeva ancora cosa dire, doveva ancora trovare le parole giuste per farlo. Eppure, sapeva che doveva approfittare di quell’occasione, quando Pan non era in casa, o non sarebbe stato più capace di parlarci in privato.

“Eccomi, ci sono” si annunciò Trunks, uscendo con un mezzo sorriso. “Possiamo andare”.

“Certo” rispose prontamente lui, mentre insieme si avviavano verso i suggestivi sentieri dei Paoz.

 

Parlarono del più e del meno, dell’incombente matrimonio tra i loro fratelli, degli eccessi di Bra in fatto di preparativi e dell’ostinazione di Goten a imparare a ballare il valzer, della loro comune gioia dell’attesa di un nipotino, un nuovo piccolo sajan. Parlarono di come gli alberi erano germogliati straordinariamente in fretta quell’anno, di come a breve avrebbero assistito ad un’estate precoce, dopo i soliti capricci di Aprile.

Il Son gli mostrò con soddisfazione un piccolo nido creato nella cavità di un tronco, da cui cinguettavano acutamente quattro deliziosi piccoli di pettirosso.

“Carini, vero?” osservò Trunks, accucciandosi per sbirciare meglio nella nicchia. “Io e Pan li avevamo già visti qualche giorno fa, quando si erano appena schiuse le uova. Io sono sempre vissuto in città, non li avevo neanche notati, è stata lei a trovarli, naturalmente!”.

“Già, naturalmente…” si limitò a ripetere Gohan, ma qualcosa gli disse che doveva assolutamente sfruttare quell’ imput, che riprendere il discorso dopo sarebbe stato sicuramente più difficile.

“Tu e Pan…venite spesso a passeggiare quassù?” chiese, ostentando indifferenza, fingendo di pulirsi gli occhiali con il bordo della maglia.

“Sì, piuttosto spesso, direi. Sono state passeggiate molto…piacevoli”.

Oh, non faccio fatica a crederlo, pensò malamente Gohan. Si sentiva un emerito idiota, a procedere così per accenni o mezze frasi. Si stavano prendendo in giro a vicenda, e lui non aveva nessuna intenzione di continuare all’infinito quella commedia. Eppure, adesso si era bloccato di nuovo. Il suo ennesimo tentativo era fallito.

Sospirò affranto, facendo inconsapevolmente uscire dalle labbra un gemito stanco, arrendevole.

Trunks si voltò verso di lui, l’aria interrogativa ma cauta: “Che c’è, Gohan?Devi dirmi qualcosa?”.

Gohan sentì il suo volto andare in fiamme, e con la coda dell’occhio vide che anche Trunks era leggermente a disagio.

“Io…credo che…dovremo sederci” consigliò, invitando l’altro a fermarsi e a sedersi su due tronchi di alberi caduti, l’uno di fronte all’altro.

Trascorse qualche istante di imbarazzante silenzio.

“Avanti, Gohan” lo incitò infine Trunks, facendo coraggio ad entrambi. “Tanto sappiamo tutti e due dove vogliamo arrivare, non credi?”.

Gohan si sentì mozzare il fiato, mentre con terrore rivedeva nella mente le immagini del suo sogno. Stava per succedere veramente? Avrebbero finito per ammazzarsi l’un l’altro come bestie inferocite, dimenticando chi fossero e cosa li legasse?

Fortunatamente, i suoi terrori furono subito placati quando alzò timidamente gli occhi, vedendo che Trunks gli stava rivolgendo un imbarazzato ma rassicurante sorriso.

“Ok…” iniziò il più maturo, la testa incassata tra le spalle,chino in avanti e con i gomiti appoggiati sulle gambe. “Diciamo che…quello che è successo tra te e Pan non è passato del tutto inosservato” iniziò, lo sguardo ancora basso. “Non che io mi sia fatto gli affari vostri, intendiamoci…ma nemmeno voi avete fatto molto per nasconderlo”.

Si fece coraggio e alzò gli occhi sul Brief, che ricambiò il suo sguardo con un’espressione di attesa.

“Continua” lo incalzò, serio ed imperscrutabile.

“Ecco…volevo solo sapere…insomma…visto che avete passato molto tempo insieme…da soli…”.

Trunks, fino ad allora inespressivo e glaciale, scoppiò a ridere sommessamente, incapace di trattenersi, anche se il suo volto era leggermente arrossito.

“Gohan, tu vuoi sapere…se siamo già stati insieme, non è così?”.

Gohan boccheggiò per qualche secondo, per poi abbandonarsi ad un sorriso che ammetteva, con una buona dose di autoironia, tutta la goffaggine con cui cercava di affrontare argomenti di quel tipo.

Se non altro, venendo subito al dunque, il ghiaccio si era definitivamente sciolto.

“Tranquillo, Gohan. La risposta è no”.

Il Son annuì lentamente, cercando di celare almeno in parte il sollievo che provava.

“Non fraintendermi…non ho intenzione di fare il padre iper-protettivo” precisò. “Non so molto della vita privata di mia figlia, ma so che ha già avuto esperienze con dei ragazzi…non è più una bambina. Credo che con un paio abbia iniziato anche una frequentazione regolare, ma non abbastanza da definirla…seria. Pare scontato pensare che fossero questi ragazzi a non voler niente di più di un’avventura, o che magari si stancavano a breve di lei perché la reputavano troppo, come dire, strana. Ma non è così. Io credo piuttosto, anche se non li ho conosciuti personalmente, che fossero bravi ragazzi, in grado di poterla accettare così com’era, magari persino pronti a impegnarsi, più o meno ufficialmente…era lei, in realtà, a non volersi legare. Voleva tenersi…libera, ecco. E, non so se era una coincidenza o meno, ma questi rapporti terminavano all’incirca in corrispondenza di qualche ritrovo…con voi Brief”.

Trunks alzò allibito gli occhi sul suo interlocutore, scuotendo poi la testa, del tutto impotente.

“Mi dispiace” mormorò. “Io…non credo di aver mai agevolato…”.

“Non è colpa tua, Trunks” ci tenne a specificare il più maturo. “Era lei che ci sperava, ogni volta. Ci ha sempre sperato e…quello che è buffo, è che era pronta ad aspettarti all’infinito, ma mai a rinunciare a te definitivamente”.

Fece una pausa, per dare il tempo ad entrambi di riflettere. Non che credesse veramente che ciò che stava dicendo ora a Trunks gli fosse completamente nuovo. Il Brief sapeva, anche se fino a poco tempo prima aveva sempre tentato di sorvolare, che Pan provava per lui qualcosa di particolare, probabilmente fin dai tempi del viaggio nello spazio, quando il loro rapporto si era fatto innegabilmente più stretto. Quella era la prima volta, però, che ne parlavano apertamente, come un dato di fatto.

“All’inizio io stesso vi davo poca importanza, credevo fosse un’innocente fissa da ragazzina…lo sai, no, che le adolescenti prendono le prime sbandate per chi non fa per loro. Beh, mi sbagliavo. Sapevo che alla base c’era un grande affetto di fondo, una fiducia e una complicità che solo poche persone condividono, ma mi sembrava perfettamente normale, dopo i mesi passati insieme, e il cameratismo che si era creato…ma non c’era solo questo. E non era neanche soltanto una sbandata, perché gli anni passavano, lei faceva le sue esperienze, ma continuava a pensare a te…in quel senso. Non l’ha detto mai esplicitamente, ma anche un padre riesce a capire certe cose…quando vuole”. Sorrise debolmente, tornando poi pensieroso. “Era un sentimento maturo e consapevole quello che si è portata dietro…e lo è adesso più che mai”.

“Lo so, Gohan” convenne Trunks, i gomiti posati sulle ginocchia, le mani incrociate all’altezza della bocca, in un atteggiamento riflessivo. “Non sono così cieco”.

“Bene” annuì lui, sospirando. Adesso veniva il tasto dolente. “Io so per certo che tu tieni molto a Pan. Che le vuoi un gran bene. Ma se non c’è altro…e sai cosa intendo…forse è meglio che ti fermi prima di andare troppo oltre…perché vedi, tu non sei uno qualunque, tu sei quello su cui lei ha investito e…insomma, per lei avrebbe un certo significato”.

“E tu credi che per me non ne avrebbe?” chiese Trunks, spostando gli occhi su di lui. “Credi che…non provi altro che affetto, per lei?”.

“Io non dico questo” si difese Gohan, abbassando per qualche secondo lo sguardo. Era dannatamente difficile, soprattutto parlarne con lui, che considerava come un fratello. “Io dico soltanto che hai attraversato un momento difficile…eri ancora confuso, quando sei venuto qui, emotivamente fragile, come è normale che fosse…e quindi, in un contesto simile è estremamente facile confondere i sentimenti…Pan è una persona che dà tutta se stessa, spontanea e trasparente, che ti fa sentire bene, a tuo agio…e certo, è anche una bella ragazza, giovane, che magari potrebbe attrarti anche fisicamente, per cui…”. Si passò una mano tra i capelli, nervosamente. “Quello che voglio dire, Trunks, è che adesso può sembrare tutto bello, tutto giusto, ma poi, quando tornerai a casa? Tu riprenderai la tua vita, che è fatta di tutt’altre cose, di tutt’altre persone, ed è possibile che ti renda conto che non c’è posto per lei, che è stata solo una bella…vacanza. Ma a lei cosa resterebbe, poi? Sarebbe un colpo durissimo”.

Trunks sbattè le palpebre, tornando poi a guardare il suo interlocutore, senza timore, senza imbarazzo.

“Mi dispiace che tu pensi questo, Gohan” si rammaricò. “Eppure, sono convinto che tu mi conosca abbastanza da sapere che, se non facessi sul serio, non avrei mai neanche permesso ciò che invece è successo, a maggior ragione con Pan, a cui ho sempre voluto bene e che rispetto incondizionatamente. E di certo, non mi permetterei mai di spingermi oltre con il rischio di rovinare tutto, finché non siamo veramente sicuri di voler far definitivamente evolvere quello che c’è tra noi…perché in questo caso non si torna indietro, non ci si dice semplicemente addio e poi ognuno va per la sua strada…ci sarà sempre un legame, tra noi”.

“Quindi aspetti di esserlo” dedusse Gohan. “Aspetti di essere veramente sicuro”.

“No…aspetto che lo sia lei” lo corresse Trunks, sotto lo sguardo confuso dell’altro. “Lo so, adesso tu dirai che non esiste persona al mondo più sicura di tua figlia, ma a volte, anche se fa male, non si può ascoltare solo il cuore. Quello che voglio dire, Gohan, è che non è facile starmi accanto, seguire i miei ritmi…io non sono perfetto come a volte lei crede di vedermi, io ho un sacco di difetti, come uomo, come presidente, come…come tutto. Forse è il caso che lei ci pensi, più razionalmente, a mente lucida e, magari, lontano da me”.

Fece una pausa, nonostante l’espressione dell’altro lo incitasse a continuare, poi riprese, lentamente: “Stamattina, prima di venire qui con te, quando ho controllato la posta sul mio portatile, ho ricevuto un messaggio da Irina, la mia segretaria. Non so ancora come ci sia riuscita, visto che è già abbastanza indaffarata con i preparativi del suo matrimonio e per di più, adesso che non ci sono, deve lavorare anche il doppio, ma ha organizzato per stasera un party diplomatico con i principali clienti, che pare abbiano gradito l’invito e che si terranno certamente liberi. Parlo di personaggi come Billy Ford, Jack Hilton e Erika Lowell, che hanno in mano una grande fetta del mercato mondiale. E sai che vuol dire, questo, Gohan? Che quasi sicuramente vogliono dare un’altra possibilità alla Capsule Corporation, che credono ancora in noi, dopo che…insomma, dopo che per colpa mia l’azienda ha avuto un grave crollo in popolarità, fino a toccare picchi per i quali mio nonno si rivolterebbe nella tomba. E’ una grande occasione, quella di stasera, credo tu possa capirne l’importanza. Ho intenzione di partire subito, giusto il tempo di radunare le mie cose, per cui non credo di farcela a salutare Pan prima che torni da lavoro”.

“Quindi te ne vai definitivamente” concluse Gohan. Era consapevole che quel momento si stava avvicinando, e poteva dire di averlo ultimamente atteso con sollievo, nonostante fosse stato felicissimo di ospitare Trunks a casa. Adesso che era arrivato, però, quasi se ne dispiaceva, trovandosi a desiderare che fosse rimasto ancora un po’, come non fosse pronto ad un distacco così repentino.

“Sì, è arrivato il momento” confermò il più giovane. “Ma se sono finalmente pronto a tornare, se ho di nuovo la forza di riprendere in mano l’azienda di famiglia e di riparare ai miei errori, lo devo soltanto a voi. Comunque vadano le cose, Gohan, non dimenticherò mai quello che avete fatto per me nell’ultimo mese”.

Gohan abbassò lo sguardo, forse temeva di commuoversi, ma l’altro continuò: “Prima di tutto lo devo a te e a Videl, che mi avete fatto sentire in famiglia, quando credevo di non avere più nessuno…a Chichi, che mi ha trattato come un figlio…e anche a Goten, che mi ha prestato la sua vecchia camera, anche se forse lui non è stato neanche interpellato a riguardo!”. Sorrisero entrambi. “E a Pan, naturalmente. La mia luce in fondo al tunnel”. Fece una pausa, mentre l’altro annuiva silenziosamente, lo sguardo basso. “La chiamerò, appena posso. Io torno a West City, ma…non mi dimentico di lei. Spero sia lo stesso per Pan”.

“Oh, potrei scommetterci…” disse Gohan a voce bassa, quasi a se stesso. Poi si alzò dal tronco, abbracciando Trunks fraternamente.

Nella sua mente ripassarono mille immagini passate, mille ricordi e sensazioni…lui stesso ancora bambino, quando aveva preso per la prima volta in braccio quel fagotto capriccioso dagli occhioni azzurri…tutte le visite alla Capsule Corporation, da adolescente, a strappare a Bulma qualche idea o consiglio, con un piccolo Brief che lo guardava con un misto di divertimento e ammirazione…i giochi insieme a lui e a Goten, le avventure in volo, le risate, le arrabbiature quando i due sajan più piccoli si divertivano a spiare lui e Videl ai primi, imbarazzanti appuntamenti…

Tutto questo gli passò nella mente, e sentì ora come non mai di voler bene a quel ragazzo, quel ragazzo che ora era un uomo, leader di una società prestigiosa, e che sembrava voler far sul serio con sua figlia ventenne.

“Buona fortuna, Trunks” gli disse, con qualche affettuosa pacca sulla schiena. “Sei un bravo ragazzo”.

 

“Avanti, aprilo” la incoraggiò Gohan, notando l’esitazione della figlia, gli occhi ancora fissi e confusi sulla scatola argentata che teneva in mano.

“Ah…sì” si riprese lei, nonostante sentisse paralizzati tutti i muscoli del suo corpo, a partire dalla lingua. “C’è…c’è un biglietto”.

“Bene…”.

“Ah, Gohan, perché non mi aiuti a recuperare quel vasetto di marmellata là in cucina, sullo scaffale più alto?” suggerì Videl, facendo segno al marito di seguirla.

Pan sfilò la busta da sotto il nastro. Sul retro c’era il suo nome, scritto con la calligrafia elegante e precisa di Trunks.

Non riusciva più a respirare. Le sue gambe erano diventate improvvisamente molli. Dovette sedersi in poltrona, con il pacco in grembo.

Si fece coraggio, ed estrasse il biglietto.

Rilesse ogni frase più volte, come a volersi convincere di non averla immaginata.

 

Ciao Pan

Perdonami se non mi sono fatto più sentire, ma come Gohan certamente avrà avuto modo di dirti, non ho avuto un solo momento libero fin dal giorno del mio ritorno.

Sabato sera la mia segretaria Irina si sposa. Dovevo andarci con Bra, ma naturalmente mi ha dato buca: la settimana dopo si sposa lei, e sarà immersa nei preparativi fino al collo.

Mi piacerebbe che fossi tu ad accompagnarmi. Sarà una serata piacevole e tranquilla, niente di formale e impegnativo, e non vorrei andarci con nessun altra.

Se non te la senti, non hai che da farmelo sapere. Ma almeno non avrai la scusa che non hai niente da mettere.

Con affetto,

Trunks

 

Con il cuore che le stava per esplodere, saturo di tutte quelle inaspettate emozioni, tirò delicatamente il nastro per sciogliere il nodo, poi scartò il pacco ben attenta a non rovinare la carta. Di solito, quando scartava i regali, strappava tutto in un colpo solo, ma no, non questa volta.

Quando finalmente aprì il coperchio, un’ondata di rosso le abbagliò gli occhi, a contrasto con il tessuto candido e immacolato del tessuto che rivestiva la scatola. Lo tirò fuori delicatamente, ammirandolo poi in tutta la sua incredibile bellezza.

“Non ci credo…” mormorò tra se.

Il solo pensiero di indossarlo, il solo pensiero che fosse stato lui a mandarglielo, che lui avrebbe potuto vederla con quello, le fece girare ancor più la testa.

Dalla cucina, il chiacchiericcio dei suoi genitori risuonò allegro come le era sempre sembrato.

“Ma…Videl...io non vedo nessun vasetto di marmellata!”.

“Non è possibile…guarda meglio, Gohan!”.

“Secondo me l’hai portato di là da mia madre…”.

“Avanti, continua a cercare un altro po’!”.

Pan si alzò, appoggiando il regalo sulla poltrona e correndo in cucina con ritrovata leggerezza.

“Davvero, Videl…sullo scaffale più alto c’è solo zenzero, peperoncino e…”.

Ma non finì la frase, perché sua figlia gli si era già precipitata tra le braccia, stringendolo con forza e trasporto.

Rispose all’abbraccio, con la tenerezza e l’affetto di quella sera della premiazione, da cui sembrava passato un secolo.

“Mi sei mancata, piccola” le disse dolcemente.

 

* * *

 

Eddy Fox, venticinque anni e già vicedirettore della Satan Bank, di cui era considerato il Prodigio, per l’ineguagliabile fiuto negli affari che gli aveva regalato una precocissima carriera, abbassò leggermente le veneziane a coprire la spaziosa vetrata del suo ufficio. Tirò una boccata dal suo sigaro, ammirando con soddisfazione la bassa luminosità della stanza, rischiarata a intervalli regolari da sottili rettangoli di luce.

L’interfono emise un debole fruscio, per poi lasciare il posto alla voce della sua segretaria: “Mr Fox, la sua ospite è appena arrivata”.

“La faccia entrare” rispose lui con un sorriso compiaciuto, mentre spegneva il suo sigaro nel posacenere di marmo e si allentava il noto della cravatta, per dare a quell’incontro un tono meno formale. “E mi raccomando…non voglio essere disturbato per nessun motivo”.

“Come desidera, signore”.

Tutto era perfetto: i chiaroscuri dell’ambiente, l’ufficio lindo e ordinato, la bottiglia di champagne immersa nel ghiaccio. Si appoggiò alla scrivania, la mano destra ad accarezzarsi il pizzetto castano, mentre fissava la porta in aspettativa.

Sorrise, quando questa si aprì.

Non era cambiata per niente. Lo stesso fascino innato, la stessa grazie divina, la stessa, disarmante bellezza. Aveva solo i capelli un po’ più corti di quelli che le aveva visto l’ultima volta, qualche anno prima, e un leggero, quasi impercettibile rigonfiamento all’altezza del ventre, che però sapeva mascherare intelligentemente con una morbida camicetta.

Ma i suoi occhi…i suoi occhi emanavano la stessa luce, e il suo sguardo era più ammaliatore di quello di un’incantatrice, la sua voce più suadente di quella di una sirena.

“Ciao, Eddy. Quanto tempo, eh?”.

Lui le andò incontro lentamente, fino a fermarsi appena davanti a lei, gli occhi colmi di una veneranda ammirazione.

“Sì…decisamente troppo” riconobbe distrattamente, posandole le mani sulle braccia e accarezzandogliene il profilo. “Mio padre mi aveva detto che eri diventata ancora più bella, io non lo ritenevo possibile, e invece, ogni volta, devo contraddirmi…”.

Bra non rispose, si limitò a sorridere con compiacimento, abbassando lo sguardo e riavviandosi una corta ciocca azzurra dietro l’orecchio. Rialzò gli occhi maliziosamente, incontrando quelli del giovane Fox.

Era letteralmente incantato.

“Sono contento, Bra, che alla fine abbia scelto me”.

Bra sorrise con approvazione.

“E a quale altra banca pensavi mi rivolgessi, visto che ho un carissimo amico che lavora nella migliore di tutte?”.

“Non rimarrai delusa, te lo prometto”.

“Non ne dubito. Mi fido ciecamente di te, Eddy”.

“E io ho fiducia nelle tue capacità, Bra. Ti tratterò da cliente privilegiata”.

“Credo che allora potrebbe diventare una piacevolissima collaborazione” commentò la ragazza, con uno sguardo talmente accattivante da costringere Fox ad allentarsi ulteriormente la cravatta.

“Direi di brindare a noi due, allora” propose, accompagnandola con un gesto galante verso lo champagne.

“Già, a noi due…” sorrise lei, fingendo di non badare alla mano di lui che indugiava sulla sua schiena un po’ più del dovuto. 

 

“Mille e cinque” annunciò l’energumeno biondo platino, facendo ricadere il suo peso sulla spalliera della poltroncina, che cigolò sonoramente.

La canottiera bianca metteva in mostra le braccia abbronzate e tatuate, rivestite di una pellicola di sudore, mentre un ciuffo di peli dorati faceva capolino dal petto in carne.

Peaboy storse il naso, disgustato da tanta rozzezza. Anche il solo fatto di non essersi tolto gli occhiali da sole, quasi fossero ormai una parte non scindibile di lui, era segno di altrettanta maleducazione.

Tuttavia, Jordi era il paparazzo più scaltro e ricercato del mercato, e per questo si faceva pagare anche piuttosto caro.

Troppo, decisamente troppo.

“Mille” tentò di ribassare, sospirando. “Non ti sto chiedendo di fotografare il Supremo, Jordi, solo quell’idiota di Trunks Brief  e quella sciacquetta della Lowell!”.

Non gliene poteva importare di meno della presunta relazione tra quei due perditempo, solo di anticipare quella strega di Candy Flash nello scoop più ambito della primavera. Per una volta, sarebbe stata la sua rivista di gossip ad avere l’anteprima, e niente poteva fermarlo.

“E ti sembra facile, amico? Brief non si è fatto trovare per settimane, l’abbiamo cercato ovunque, ma niente! E anche adesso che è tornato, non si fa vedere molto in giro, il tipo è bravo a non farsi pedinare…figuriamoci se si fa beccare con una pollastrella!”.

“Ok, allora, pedinate la Lowell !” propose Peaboy, esasperato. “Lei è meno sotto pressione, non baderà a seminare i paparazzi, e vi condurrà dritto da lui”.

“Ne sei così sicuro?”.

“Certo! Prima o poi dovranno incontrarsi, magari si daranno appuntamento da qualche parte, una cenetta romantica in qualche posticino fuori mano o altre stupidaggini del genere…e allora, click!”.

“Mille e cinque” ripetè Jordi, incrociando le mani dietro la nuca, mentre la poltroncina emetteva un altro cigolio sofferente.

“Mille e due e facciamola finita” sostenè Peaboy, che cominciava ad averne abbastanza.

Jordi risacchiò sommessamente, con l’aria di chi la sa lunga.

“Ok” cedette, mentre con la lingua si portava dall’altro lato della bocca lo stuzzicadenti con cui si trastullava, accentuando lo sdegno del suo interlocutore. “Seguirò la Lowell giorno e notte, e se la becco in dolce compagnia mi dai i miei mille e duecento verdoni. Nel caso riesca a immortalare qualche atteggiamento compromettente, il prezzo si rialza, bello mio, sono mille e trecento. E se, dico e se, dovessi coglierli in flagrante, mi sa proprio che dovrai cacciarmi i mille e cinque”.

Peaboy sospirò, esausto.

“E va bene, d’accordo!” sbottò, tamponandosi il sudore sulla fronte con il fazzoletto ricamato. Cosa doveva fare per competere con Miss “Arpia” Flash! Se non altro, tutti quei soldi sarebbero stati spesi bene. “Adesso però alza quel tuo grosso didietro dalla mia poltrona, e mettiti al lavoro!”.

 

* * *

 

Il caffè, tiepido al punto giusto e dolce quanto bastava, come piaceva a lui, gli scorse piano lungo la gola, diffondendo il suo aroma attraverso i suoi sensi.

Chiuse gli occhi, assaporando quella piacevole sensazione.

La bontà di quella miscela non stava tanto nel sapore, che tuttavia era ottimo, ma dal contesto di familiarità e di sicurezza che gli trasmetteva mentre lo assaporava, a quel momento di piacevole deja-vou da cui si faceva cullare.

Giornate di un passato non così remoto, nonostante tutto, giornate passate chino su quella scrivania, dietro a pile di documenti che quasi mai leggeva, vicino ad una finestra che troppe volte era stata usata come scappatoia da un mondo che credeva non appartenergli, e che mai gli sarebbe appartenuto.

Ora, sorseggiando quel caffè che, come aveva sempre fatto, la fedele Irina gli portava in ufficio insieme al quotidiano di notizie finanziarie, realizzava come quel mondo non solo gli fosse sempre appartenuto, ma come non avrebbe mai potuto fare a meno di esso.

Non riusciva a credere di essere stato solo ad un passo dal perdere tutto, dal gettare tutto al vento, solo perché aveva perso ogni fiducia in se stesso, solo perché non si sentiva all’altezza, solo perché non sapeva più chi fosse.

Forse era stata la lontananza forzata da tutto quello, più lunga di qualsiasi vacanza che si era mai concesso, o l’inevitabilità del suo ritorno e del più serio impegno con cui aveva ricominciato, ma adesso, pienamente consapevole, Trunks poteva dire che quella era la sua casa, quello era il suo posto.

Sorrise tra se, pensando che il suo lavoro gli era veramente mancato. Solo qualche anno prima, non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare di provare qualcosa di simile.

Ma da allora erano cambiate tante cose…lui era cambiato, e  molto di quello che lo circondava.

Era iniziata una nuova era, un’era in cui il Presidente della Capsule Corporation non era più solo un fantoccio svogliato dietro una pila di documenti e vicino ad una finestra tentatrice, ma un leader serio, maturo ed impegnato che avrebbe sempre combattuto per il benessere della società e dei suoi dipendenti.

Ma ricordati che una società sta bene se prima di tutti sta bene il suo leader, amava ricordargli Irina. Non dimenticare la tua vita, Trunks, un buon presidente è prima di tutto un uomo!

E nel mio caso anche un sajan, Irina, non dimenticarlo. Ogni tanto sono impegnato anche a salvare il mondo, e mi sembra un diversivo più che sufficiente, aveva scherzato lui in risposta.

Spiritoso, parlo della tua vita privata! lo aveva ripreso la segretaria, scandendo l’ultima parola. Dato il tour de force a cui ti stai sottoponendo, ultimamente questa è così inesistente che i giornali sono costretti a fare dei bizzarri voli pindarici pur di scrivere qualcosa!

Conoscendola, avrebbe voluto sbattergli davanti le foto degli ultimi giornali scandalistici, per commentarle con criticità e, per vie traverse, scoprire se quanto scritto corrispondeva al vero.

Ma lui non avrebbe né smentito né confermato, anche perché al momento non leggeva nessun altro tipo di notizie se non quelle prettamente economiche, non ammetteva quel genere di riviste nel suo ufficio, nemmeno se lo citavano in prima persona, e non aveva nessuna voglia o interesse di sapere quale fosse il loro ultimo, presunto scoop.

Una cosa che invece amava leggere, invece, era la posta elettronica. Protetta da un’anti-spam professionale e grazie al prezioso filtro di Irina, che gli girava nella sua casella personale solo quello per cui ne valeva la pena e che non poteva gestire lei, quel mezzo gli offriva un rapido e perfetto sistema di comunicazione con soci, finanziatori, clienti e collaboratori. Via mail era tutto più semplice, gli accordi erano più facili, forse perché i suoi interlocutori avevano tempo di riflettere sulle sue proposte, valutarle, apprezzarne il modo preciso e dettagliato con cui poteva presentargliele, e finalmente dare risposte positive. Queste erano progressivamente aumentate, fino a dover prendersi una buona parte della mattinata solo per la loro lettura e gestione, ma ciò era per Trunks un onere più che piacevole, visto che, negli ultimi tempi, il solo fatto di avere una risposta di qualunque tipo fosse considerato un miracolo.

Quelle che non filtrava Irina, invece, ma che arrivavano direttamente nella sua casella, erano le email personali. E queste, negli ultimi giorni, avevano avuto solo un mittente, che spiccava in neretto tra la posta in arrivo.

Bra Brief.

Una miriade di bip e circuiti era stato il loro unico mezzo di comunicazione da quel famoso giorno.

Niente visite, niente telefonate, solo notizie reciproche per mezzo di Goten, che era diventato suo malgrado loro intermediario. Non per mancanza di volontà, o del bisogno reciproco di sentirsi di persona, solo…forse era ancora troppo presto, forse troppe lacrime, rabbia e dolore li avevano ultimamente separati.

E poi erano cominciate le email.

Era stata lei la prima, e Trunks conservava ancora quel messaggio, così standardizzato e impersonale e tuttavia così trasudante di celato imbarazzo:

 

Ciao Trunks,

Come stai? So che sei tornato a casa e che hai subito ripreso il lavoro. Spero che vada tutto ok lì da te, per qualsiasi cosa chiamami.

A presto,

Bra

 

Era stato così strano sentirla dopo tutto quel tempo, anche se solo tramite parole su uno schermo, che però erano le sue, che si rivolgeva direttamente a lui, per quanto con difficoltà.

Le aveva subito risposto, con un senso di sollievo che gli si scioglieva nei muscoli mentre digitava la risposta, prima con disagio, poi con crescente naturalezza:

 

Ciao Bra,

Mi fa molto piacere sentirti. Avrei voluto chiamarti, ma sono tornato solo ieri dai Paoz e già sono immerso nel lavoro fino al collo. C’è così tanto da fare! Ti ringrazio per la disponibilità, ma certe cose le posso rimettere a posto solo io, visto che io ho combinato il casino:)

Comunque, adesso sto decisamente meglio di quando sono partito, che come avrai visto non ero decisamente un fiore…ora direi che mi sono ricaricato quanto basta per affrontare al meglio questo duro ma piacevole impiccio di rimettere in piedi la Capsule !

Tu come stai? Il bambino..?

Un abbraccio e a presto,

Trunks

 

Da allora, tutto era stato più semplice:

Caro Trunks,

qui tutto a posto, Golden sta bene, comincio a sentire la sua aura…è una sensazione incredibile.

Non faccio fatica a credere che sui Paoz ti sia ricaricato, soprattutto a detta di Goten ;) Anche se al pensiero di una certa bizzarra ed improbabile coppietta, mi vengono i brividi!

Passando a cose serie…ti ricordi il mio progetto di chimica sul Technotess? Bene…funziona! Non immagini quante potenzialità abbia quel materiale e come rivoluzionerà il mondo della moda…per questo voglio brevettarlo per la Capsule …che ne pensi? Io credo che sarà un successo, al pari di quello che a suo tempo ebbero le capsule salvaspazio.

Spero di vederti presto.

Un bacio,

Bra

 

Cara Bra,

Quanto a “bizzarre ed improbabili coppiette”, tu ed il tuo futuro maritino, che dovrebbe farsi di più gli affari suoi, siete gli ultimi a poter parlare!

Devo farti i miei più sinceri complimenti per il Technotess, sapevo che ci saresti riuscita, e sono sicuro che sarà un successo…ma purtroppo la Capsule attualmente non può finanziare nuovi progetti, solo riproporre i vecchi per sanare il bilancio nei prossimi anni…grazie comunque per la proposta…

 

…Non preoccuparti, per il finanziamento so già chi ci può aiutare! Ho già calcolato tutto. Se una buona pubblicità sui vecchi prodotti potrà far cancellare il debito alla società in qualche anno, il Technotess lo farà in qualche mese, e in un anno l’avrà riportata alle stelle. Dopo il matrimonio disegnerò la prima collezione della “Capsule Mason”, che uscirà il prossimo autunno. E’ già pronto il modello di lancio, pensavo di presentarlo in un’occasione importante, dove possa vederlo molta gente così da avere le prime impressioni…

 

…di fronte a tanta determinazione e sicurezza, non posso che fidarmi di te! Auguri per il finanziamento, ma la vedo difficile…

Grazie per l’allegato con il bozzetto del modello, è davvero stupendo. Perché non lo indossi al matrimonio di Irina? Potrebbe essere l’occasione che aspettavi…

 

…non male come idea, ma non potrò venire al matrimonio di Irina, per quanto mi dispiaccia: ho ancora tanto da fare! E poi, ora come ora non sono la persona più in linea per indossare quell’abito…però conosco un’ottima agenzia di modelle da cui potresti sceglierti la tua accompagnatrice, bella, disponibile, professionale…

 

…eh no, sorellina…se devo andarci accompagnato, scelgo io con chi ci vado…

 

…ho una vaga idea della persona con cui vuoi andarci, e la risposta è NO. Non ho nessuna intenzione di mandare al suicidio il capo di punta della mia collezione…

 

…mi dispiace, ma non accetto rifiuti. Io ci andrò con chi sai tu, abito di punta o no. A proposito, mi è arrivato il pacco, dal vero l’abito è ancora più bello e di una finezza incredibile per un materiale sintetico. Comunque, posso sempre rimandartelo indietro…

 

…Ok, mi sembra di non avere scelta. Spero solo che ne sia all’altezza. Vorrei veramente fare breccia nell’interesse della gente, in modo tale che quando la collezione sarà messa sul mercato, farà subito un picco nelle vendite. A proposito, oggi ho l’incontro con il nostro probabile finanziatore…che credo non avrò problemi a convincere!

 

Trunks sorrise, scuotendo la testa con divertita rassegnazione, prima di digitare la risposta.

  

Certo che ne sarà all’altezza, non preoccuparti. Non so come tu possa essere così sicura riguardo all’esito del tuo colloquio, ma non posso che darti un in bocca al lupo…

Spero di vederti presto sorellina, mi manchi tanto.

 

Bra lesse l’ultima frase con un malinconico sorriso, il portatile di ultima generazione in grembo, mentre dai finestrini correvano veloci gli edifici e le strade di Satan City.

 

Sto tornando proprio adesso dalla Satan Bank, e posso annunciarti in anteprima che la prima collezione della Capsule Mason otterrà il pieno appoggio finanziario!

Te l’avevo detto di fidarti.

Anch’io spero di vederti presto, così potremo festeggiare questo nuovo inizio.

Manchi tanto anche a me…ti voglio bene.

Un bacio, Bra

 

Inviò l’e-mail, chiudendo poi il portatile e riponendolo nell’elegante borsa da lavoro.

“Può fermarsi qui, grazie” disse all’autista dell’air-car, mentre davanti a loro si stagliava l’anonimo ed economico palazzo in cui abitava da circa tre mesi, in uno dei quartieri meno abbienti della città.

L’autista sembrò abbastanza stupito che una signorina di tale classe –solo il portamento e il modo di parlare bastavano a metterlo in evidenza- , vestita con così tanta cura e lieta di lasciargli una più che onorevole mancia, potesse vivere in un posto così lontano dalla sua accecante grazia.

La ragazza salì i tre piani di scale, ormai senza più lamentarsi dell’assenza di un ascensore nell’edificio. Aprì la porta con il secondo mazzo di chiavi che era diventato suo, e ancor prima di entrare udì il monotono commento di un cronista dalla televisione accesa.

Sullo schermo, un gruppo di giocatori si avvicendava in una corsia disegnata in mezzo al campo e delimitata da tre paletti.

“Da quando in qua ti interessa il cricket?”.

Goten, affondato scompostamente sul divano, con la testa pesantemente sorretta da una mano, si voltò piano verso di lei. Nei suoi occhi scorse un briciolo di sollievo, ma anche una snervante tensione.

“Da quando la mia fidanzata va ad un appuntamento con il suo più accanito pretendente di vecchia data, e dato che in tv non c’è niente di meglio, devo comunque occupare in qualche modo il tempo per non impazzire”.

Sulle labbra di Bra si affacciò l’ombra di un sorriso, nei suoi occhi una punta di malizia, mentre si avvicinava.

“Geloso?”.

“Ma daiii…”.

“Perché dovresti esserlo?”.

“Non so, forse perché il caro Eddy Fox è molto più ricco, più colto, e più raffinato di me?”.

“Ma non è te” disse la ragazza, sedendosi sul bracciolo della poltrona, e accarezzandogli dolcemente la nuca. “E questo è quanto basta”.

Ma l’espressione di Goten rimase imperscrutabile, lo sguardo tornato distrattamente verso la partita di cricket.

“Dimmi un po’…hai ricevuto il finanziamento?”

“Certamente. Sai che ottengo sempre quello che voglio”.

La mano del ragazzo salì al volto in un gesto rassegnato, scuotendo poi la testa debolmente.

“Sai una cosa? Non ho il coraggio di chiederti come”.

“Semplice” rispose Bra con noncuranza. “Agli uomini, basta sempre far credere quello che vogliono loro”.

“Già…parole dell’incantatrice numero uno”.

Ci fu una pausa, durante la quale Bra si scostò debolmente da lui, come scottata.

“Ok. Sarò un’abbindolatrice, o un’incantatrice, come dici tu. Ma pensavo che qualcuno qui presente riuscisse a vedere più in là del proprio naso, e se davvero pensi che per avere quei soldi ci sia andata a letto, perché è questo che pensi, ci rimarrò male, ma non te ne farò una colpa”.

Goten si voltò di nuovo verso di lei, scrutandola attentamente. Come ogni volta che lui la guardava, si sentì spogliata di ogni difesa, nuda, trasparente.

E ne fu felice.

Finalmente lui le sorrise, e quando si alzò dal divano e la prese in braccio, lo fece con una dolcezza e una delicatezza struggenti, come fosse una fragile bambola di porcellana.

In camera, l’uno stretto all’altra sullo scomodo letto ad una piazza e mezzo, la coccolò a lungo, con tenerezza, baci piccoli ma pieni d’amore sulla sua pelle chiara, le dita di lui tra i capelli.

“Sei così bella…” le sussurrò all’orecchio.

Lei chiuse gli occhi, assaporando tutta la dolcezza di quelle carezze, e in cuor suo seppe, con sicurezza, che era l’incantatrice, questa volta, ad essere rimasta incantata.

 

Continua…

   

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** *annuncio* ***


Ciao

Ciao!

Volevo anticipare a tutte le lettrici di Sunshine, ormai in stand-by da alcuni anni, che finalmente concluderò questa storia a cui molti di voi (compresa me) sono molto affezionati.

E' dura trovare il tempo, adesso ho anche una bimba piccola a cui correre dietro tutto il giorno, ma sentivo che questa storia non poteva rimanere incompiuta, che Pan e Trunks meritavano un bel finale, che si doveva chiudere un cerchio.

Ho sempre sentito da qualche parte nella mia testa le loro voci che me lo ricordavano, pazientemente.

Ma io non li ho dimenticati.

Mi è mancato il tempo, ma non l'ispirazione.

Ho promesso a loro (e a voi) che li avrei accontentati.

Ed eccomi di nuovo qua.

Spero che apprezzerete questo mio ritorno e che seguiate gli ultimi capitoli con la stessa passione (anzi, spero di più!) di quelli che li hanno preceduti.

A presto

Beatrix

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=257340