Figlio dell'Oceano.

di unicorn_inthemind
(/viewuser.php?uid=281272)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le sirene non esistono. ***
Capitolo 2: *** Il Ventre dell'Oceano. ***
Capitolo 3: *** Porpora sotto il sole. ***
Capitolo 4: *** Blu scuro, blu chiaro. ***
Capitolo 5: *** Non c'è nulla da temere. ***
Capitolo 6: *** Il canto e la risacca. ***
Capitolo 7: *** The sun is blazing on my armor. ***
Capitolo 8: *** Ad occhi chiusi. ***
Capitolo 9: *** La teoria dell'effetto inverso. ***



Capitolo 1
*** Le sirene non esistono. ***


Le sirene non esistono.


Il Kraken è un mostro marino dall’aspetto del tutto simile ad un calamaro gigante.  Una delle peculiarità assunte dal mostro è sicuramente quella dell'aggressività, dal momento che gli viene attribuita la possibilità di affondare le navi con minimo sforzo.

Le parole, segnate con inchiostro nero vergate a mano, scorrevano  lentamente sotto gli occhi del giovane Rei Ryugazaki.

L'emersione del Kraken è accompagnata da grandi movimenti d'acqua e da enormi spruzzi provenienti dalle sue narici.

Il libro dalle pagine ingiallite e la copertina di pelle rovinata dalla salsedine che stringeva in mano portava il titolo di Mostri del mare. Rei lo sfogliava pigramente, per nulla affascinato dagli esseri descritti ampiamente, tra appunti e disegni dettagliati, in quelle pagine dall’odore di mare.
Già le poche righe che aveva letto del Kraken lo avevano deluso. Un essere così grosso non poteva realmente esistere, Rei sapeva bene che quelle leggende in loro custodivano solo un briciolo di realtà presa e distorta sino all’esagerazione. Un calamaro gigante di quasi sedici chilometri di lunghezza, suvvia, i calamari giganti – sì esistevano - superavano di ben poco i dieci metri di lunghezza.
Architeuthis, quello sì che era un vero mostro marino altro che quelle semplici leggende.

 
Rei continuò a sfogliare le pagine solcate da immagini e caratteri piccoli e neri alla stregua di formiche immobili, come addormentate, saltò le pagine parlanti dei serpenti marini, di Zaratan - la balena-isola – e storse il naso sulle grottesche raffigurazioni di Scilla e Cariddi - belve viventi in un mare d’occidente a lui sconosciuto.
Il mare non era mai interessato ad uno che, come lui, non sapeva neppure nuotare. Eppure stava lì con un libro di mitologia marina tra le mani; lo aveva comprato poco prima ad una rivendita di libri usati, tratto in inganno dal nome. Si era, infatti, illuso si trattasse di un libro con serie annotazioni scientifiche che riportavano informazioni su creature del mare realmente esistenti, non calamari sproporzionati ed esseri che potevano esistere solo nell’immaginazione di un folle.
 Delusione, soldi sprecati che sarebbero potuti servire ad acquistare una lettura ben più interessante, non c’era nulla d’interessante tra quelle righe, qualche leggenda particolare ma nulla di più.

Lasciò scorrere le pagine rimanenti con l’intenzione di lasciar perdere quelle nozioni inutili; ma proprio lì, dove l’ultima pagina segnava la fine, il libro si schiudeva come una conchiglia rivelando sa sua perla di carta, sino a quel momento nascosta.
Era appena un abbozzo, eppure quella raffigurata era una creatura magnifica.
Il corpo d’una donna, la nudità dei seni coperta dai lunghi capelli intrecciati con fili di perle, si fondeva perfettamente con quello di un pesce all’altezza della vita. La coda a scaglie ornata da altri fili di perle poco sopra la pinna caudale sembrava muoversi elegantemente, come se quella pagina fosse realmente Oceano e quel disegno vivo.
Cosa era mai quella creatura magnifica? Non un nome né un appunto donavano informazioni su quella semi-donna misteriosa.
Era solo una leggenda, un’altra creatura inesistente – Rei lo sapeva bene -  ma abbandonare tutta quella bellezza lì, seppur fatta di pura immaginazione, era un vero peccato. Senza un nome o un perché.

Rei balzò in piedi dal muretto basso su cui si era seduto a leggere e prese a correre, come attraversato da una scarica che solo la voglia di sapere poteva donargli. Col libro stretto al petto si diresse verso il porto della città.
Corse cercando di schivare tutte le persone e le merci esposte fuori dai negozi che si aprivano su ambo i lati della strada per giungere, infine, lì dove un gruppo di bancarelle costituiva il mercato del pesce cittadino che, lasciando salire al cielo l’odore penetrante del pesce pescato di fresco, attirava le persone a fare acquisti.
Lì sicuramente un uomo di mare avrebbe saputo rispondere alle domande sulla natura di quel disegno che s’affollavano nella mente del giovane. Era solo curiosità la sua, poi si sarebbe messo il cuore in pace per sempre e avrebbe lasciato perdere quelle fantasie per concentrarsi sulla realtà che lo circondava.


«Mi scusi.» tentò d’attirare l’attenzione d’un vecchio pescatore intento a rattoppare una rete, accanto a lui due casse erano piene di piccoli e grandi pesci scossi ancora dagli ultimi spasmi di vita. In una terza cassa polpi e crostacei si muovevano lentamente.
«E’ fresco! Pescato stamattina con le mie mani, guarda che ancora si muove!» rispose l’uomo ammiccando al suo pescato. Ma Rei neppure si curò di gettare l’occhio su quei pesci, scuotendo il capo nel dire “No! No!” e richiamare nuovamente l’attenzione del lupo di mare.
«Vorrei... Vorrei un’informazione.» gli mise il disegno sotto al naso «Cos’è?»
«Cos’è? Questa è mezza pesce e mezza sgualdrina.» sussurrò l’uomo senza celare una risata roca.
«S-sgualdrina?»
«Questa qui, figliolo,» batté un dito sul foglio «questa è una sirena. Bella e mortale.»
Rei non capiva, guardava imbambolato il disegno chiedendosi se realmente una creatura così bella potesse essere così pericolosa. Sirena, quella parola risuonava dentro di lui come una melodia.
«Perché?» domandò «perché è così pericolosa?»
L’uomo si guardò attorno con fare circospetto, posò la rete, alzò lo sguardo, osservò il giovane dallo sguardo confuso e con un cenno, un semplice cenno di mano, gli fece segno di avvicinarsi a lui. Sulle prime Rei sentì le guance accendersi di rosso per quell’uomo piegato su se stesso che se lo chiamava vicino poi fletté le ginocchia e porse l’orecchio al pescatore. Si sentiva in imbarazzo a stare in quella posizione, quasi inginocchiato accanto ad un uomo che puzzava di pesce, a farsi dire chissà cosa da quella voce roca e sicuramente poco attendibile.
«È una mangiatrice di uomini.» disse.
Rei scattò in piedi colto di sorpresa da quelle parole. «Mangiatrice di uomini?»
L’uomo annuì alzando lo sguardo, le iridi di un nocciola acquoso sfumavano verso un grigio-azzurro man mano che si allontanavano dall’iride, segno di una semi-cecità probabilmente dovuta all’età. Quanti anni poteva avere quell’uomo lì di fronte a lui? Probabilmente la sua età si aggirava sulla settantina.

«C’era questo mio cugino» prese a raccontare, i gesti e il tono di voce sembravano far risuonare quella storia come una di quelle leggende che viaggiano di taverna in taverna «era un marinaio, diceva che niente l’avrebbe fermato e che si sarebbe girato tutto il mondo, esagerava sempre. Un giorno salpò come componente di un equipaggio di una nave mercantile, sapeva che era un suicidio, la rotta passava accanto alla Grotta Verde – è lì che hanno il nido quelle creature - e non tornò più. Se lo erano mangiato quelle!»
«C’erano prove?»
L’uomo lo guardò tra il sorpreso e l’adirato per poi dire, cose se fosse la cosa più ovvia del mondo: «Che prove vuoi? Non è tornato indietro niente. Sai cosa fanno, le sirene? Attirano i marinai cantando, con quella loro bella voce, li chiamano e quando questi si avvicinano se li mangiano. Non rimane niente. C’è un sopravvissuto ogni tanto, uno su mille, ma non quella volta»
Rei storse il naso risistemandosi gli occhiali sul naso. Nessun sopravvissuto, nessuna prova, nessuna testimonianza o altro. Come poteva quell’uomo dire che le sirene esistevano solo perché suo cugino era morto in mare nei paraggi di una grotta in cui si diceva si annidassero le sirene? Era illogico.

«Le sirene hanno ucciso suo cugino... questo perché nessuno è tornato da quella spedizione... e la spedizione era vicino a dove – si dice – vivono le sirene. Allora...»
Rei sorrise trionfante, eccola lì, esattamente dove sapeva che fosse, la soluzione. Era semplice e logica, esattamente come si aspettava, quindi puntò un dito contro il vecchio lupo di mare e, riempiendosi i polmoni d’aria, gridò: «Le sirene non esistono!»

Il suo dito, che un attimo prima fendeva l’aria avanti al viso del pescatore, si bloccò di colpo nello stesso istante in cui Rei si rese conto che stava gridando nel mezzo della folla del mercato del pesce. Lo stavano fissando in molti.
Rei si rimise a posto tentando di non attirare ancora di più su di lui l’attenzione dei passanti, riprendendo tutta la compostezza che poteva possedere e tentando di donarsi un contegno. Si era messo in imbarazzo da solo.
Ma il pescatore scuoteva la testa e continuava a rimanere ben inchiodato sulle sue idee e non c’era né ci sarebbe stato verso di farlo ragionare in maniera logica.
Rei si allontanò dalla bancarella, erano realmente gli uomini di mare così sciocchi da credere a quelle leggende costruite su sentiti dire e testimonianze incerte?
Provò a chiedere ad un marinaio se lui credesse nell’esistenza delle sirene e in risposta ricevette un: «Certo! Vivono attorno alla Grotta Verde, brutta storia passare di lì.»
E questa fu più o meno la stessa risposta che diede il secondo marinaio, e anche il terzo e un altro pescatore che, seduto su uno sgabello vicino al suo pesce, si limitò ad un lapidario “sì.” prima di scacciarlo con un secco gesto della mano.

Rei era stupito della stupidità di certi uomini.
Come potevano credere nell’esistenza di creature che non avevano mai visto, se non in delle raffigurazioni? Si accasciò a terra, poco più in là della bancarella del pescatore che un’ora prima aveva donato un nome alla semi-donna nel suo disegno. Riaprì il libro all’ultima pagina, ritrovando l’immagine esattamente così come l’aveva lasciata, eppure più la guardava più una vocina dentro di lui gli diceva che c’era qualcosa, in quell’essere, che non andava. Ma Rei decisamente non riusciva a capire di cosa si trattasse.
Rimase seduto a contemplare l’immagine per almeno un’altra ora, capovolgendola e ponendola in orizzontale, osservandola da ogni angolo e poi riportandola nel verso corretto.
Non c’era nulla, era questo il problema, mancava proprio ciò che Rei stava cercando. Aveva cercato in lungo e in largo, dalla punta della coda alla punta dei capelli ma non aveva trovato nulla.
Nulla, e quel nulla era la prova che a lui serviva. La dimostrazione che lui, la scienza e la logica umana avevano vinto sulle credenze popolari e le leggende.
Rei Ryugazaki ne era ormai certo: le sirene non esistevano.
E poteva dimostrarlo.




Angolo autrice:
Ciao a tutti, questa è la mia prima storia nel fandom e spero di non essere andata OOC. 
Se sbaglio qualcosa sarò più che felice che voi me lo facciate notare in modo che io impari dai miei errori e riesca a correggermi.
Le critiche non mi uccidono e di certo non mi metto a mordere se ne ricevo XD

Ho voluto lanciarmi in questa Mermaid!AU per divertirmi un po' e anche perchè avevo trovato delle fanart davvero carine di un Nagisa tritone... era così adorabile che non potevo non scriverne! *^*
Fatevi sentire nelle recensioni! <3
Uni.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il Ventre dell'Oceano. ***


Il Ventre dell'Oceano.

Rei si piantò di fronte all’uomo che gli aveva spiegato l’esistenza delle sirene tempo prima, stava incastrando le casse del pesce ormai vuote l’una sull’altra, solo nell’ultima un paio di pesci rimasti invenduti stavano immobili, ormai non più vivi.
Il solito, tipico, odore forte del pescato saliva pungendo e infastidendo le narici di Rei.
«Le sirene non esistono.» dichiarò Rei sicuro della sua considerazione.
L’uomo se la prese con calma, finì di sistemare le casse, si risedette, alzò gli occhi vacui sul giovane e li strizzò più volte nel tentativo di mettere a fuoco lo sconosciuto di fronte a lui.
Solo dopo una manciata di minuti il pescatore si rese conto che quel giovane era lo stesso che poco prima gli aveva gridato contro “le sirene non esistono!”. E ora lo stava rifacendo.
«Ancora tu?» ridacchiò muovendosi sullo sgabello.
Rei distese le labbra in un sorriso, aveva la prova che quel vecchio lupo di mare si sbagliava. Che le sirene non esistevano realmente.

«Le sirene non esistono» dichiarò sicuro riaggiustandosi sul naso gli occhiali, in un fluido e particolare gesto della mano «e posso provarglielo.»
Il pescatore rimase in attesa.
«Le sirene non esistono, perché loro non hanno le branchie. Come vede in questo disegno, non c’è neppure la traccia di branchie o qualcosa di simile. I polmoni umani sono adatti alla respirazione sulla terra, non sott’acqua. Queste creature non posso respirare sott’acqua, che dovrebbe essere il loro habitat naturale, quindi non possono esistere se non nella fantasia. Non possono respirare.»
E il pescatore rimase con lo sguardo inchiodato sul disegno che gli veniva posto sotto al naso un’altra volta in quella mattinata. Rimase lì a guardare e poi, alzando il capo, parlò.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo, prese un respiro lieve e disse: «Sono magiche.» e poi si alzò per andarsene.

Magiche, l’aveva detto come se fosse stato una cosa normalissima, come se la magia la si potesse ritrovare in ogni angolo dell'Universo.
Rei boccheggiò, non c’era nulla da fare. Per quanto la scienza tentasse di diffondere le sue teorie, quelle vere e serie, ci sarebbero stati sempre degli stolti con le loro teorie così illogiche da essere inattaccabili.
Il giovane avrebbe potuto dire molte cose, che la magia non esisteva probabilmente sarebbe stata la prima, ma si sarebbe ritrovato con una nuova e assurda spiegazione sotto il naso.
Era come combattere i topi col formaggio, più tu cercavi di farli ragionare più loro prendevano le tue idee e ci costruivano sopra idiozie.

Così Rei, ormai quasi arresosi, tentò inutilmente di articolare una frase di senso logico ma ciò che ne venne fuori fu un’indistinta accozzaglia di “ma...” e “no, non può...”.
«Se vuoi le risposte, ragazzo, vai alla Grotta Verde. Se avevi ragione torni, ma se ti sbagliavi...» l’uomo prese il suo sgabello, l’ultima cassa con il pesce avanzato e se ne andò ridendo di gusto.

Morirai.
 
Fu per questo che Rei, forse sin troppo sicuro delle sue idee, si ritrovò a lavorare nella cambusa di una nave mercantile assieme ad altri ragazzi. La nave si chiamava Pearl, La Perla, nome attribuitole probabilmente per il fatto che la sua polena altri non era se non una donna che tra le braccia, all'altezza del petto, reggeva una grossa conchiglia aperta. Nella conchiglia una perla.
Aveva scelto di entrare a far parte dell’equipaggio di quella nave proprio perché la sua rotta prevedeva di passare pericolosamente vicino a quella fatidica Grotta Verde.
Qualcuno a bordo mormorava che ci sarebbero morti tutti su quella bagnarola, che passare così vicino alle sirene era una dannata follia e che non ne sarebbe uscito vivo nessuno. Ma Rei, incurante di quell’angoscia che serpeggiava tra i marinai, continuava a svolgere i compiti assegnatigli, certo che una volta superata la fatidica grotta sarebbe stato capace di confermare al mondo che, senza ombra di dubbio, le sirene non esistevano.



Circa un mese di navigazione più tardi, tempo impiegato dalla nave per raggiungere l’ormai celebre Grotta Verde, i raggi del sole si riflettevano sulle placide increspature dell’Oceano. Il blu intenso del mare aperto scivolava placido sotto la grande nave.
«Rei-san, vieni qui, c’è il pranzo da preparare.» lo richiamò uno dei ragazzi più giovani che, come lui, donava man forte al cuoco di bordo, solitamente pelando verdure o svolgendo lavori minori mentre il cuoco preparava il pranzo vero e proprio.
Quel giorno toccò loro sbucciare patate, starsene in quattro su degli sgabelli ridicolmente bassi attorno ad una grossa pentola in cui mettere le patate pelate.
A terra le bucce attorcigliate in ricci sfatti si mescolavano con le patate ancora da sbucciare, rotolate fuori dai sacchi.
Rei stringeva in mano una patata sbucciata per metà quando sentì un boato, il coltello gli scivolò di mano nel sussultare. Tutti alzarono lo sguardo allarmati, dai giovani riuniti attorno alla pentola come ad un braciere al cuoco.
«Che è stato?» azzardò uno dopo qualche secondo di quiete.
Cosa stava accadendo?
Un nuovo rumore potente, questa volta seguito da un’anomala oscillazione della nave.
Rei osservò le patate rotolare, sembrava come se la nave fosse stata colpita da un’onda abbastanza grossa da sballottarla a destra e sinistra.

Non poteva essere una tempesta, quei rombi non sembravano tuoni, e comunque il Cielo azzurro di quella mattina aveva promesso bel tempo. Solo qualche sparuta nuvola bianca aveva sorvolato i loro capi facendo apparire il Cielo come un’emulazione dell’Oceano stesso: una sconfinata distesa azzurra attraversata da macchie bianche.
Che si trattasse di nuvole o vele dipendeva da cosa si stesse guardando.


Il cuoco camminò a passi pesanti verso i ragazzi per poi gridare a gran voce: «Spicciatevi, sul ponte, sul ponte!» e dirigersi verso le scale che portavano fuori dalla cucina. Il nervosismo lo faceva muovere a scatti.
«L’avevo detto io che a passare per la Grotta Verde ci saremmo crepati.» sibilò uno dei ragazzi salendo dietro al cuoco, e gli altro lo seguirono annuendo.
Stavano passando accanto alla Grotta Verde e un boato aveva scosso la nave da cima a fondo. E poi un altro.
È solo un caso, si ripeté Rei in testa, ma una sorta di brutto presentimento ristagnava nel suo stomaco. Stava accadendo qualcosa, qualcosa che non era una tempesta e che di certo non poteva connettersi alla vicinanza alla Grotta Verde.
No, la causa non era di certo una stupida grotta. Non poteva essere quella.
Rei dovette cercare sostegno contro le pareti della nave mentre risaliva le scale che conducevano al ponte, i boati erano sempre più vicini alla nave e frequenti, ormai rassomigliavano per la maggior parte ad immensi splash seguiti da un’onda, come se qualcosa di molto grosso cadesse all’improvviso in acqua spostandone buona parte.

«Un mostro, un mostro!» strillava qualcuno, Rei ormai era giunto sul ponte ma teneva il capo chino e nascosto tra le mani, perché grossi spruzzi d’acqua arrivavano da tutte le parti costringendolo a chiudere gli occhi e proteggere gli occhiali per evitare che tali schizzi bagnassero le lenti, impedendogli di vedere bene.
Mostro?
«Dannata bestiaccia.»
«Moriremo tutti!»
Ma i mostri non esistono..
«Vuole tirarci a fondo.»
«Prendete gli arpioni, i fucili! Dobbiamo allontanarlo!»
Rei aprì appena gli occhi, cosa stava accadendo? Alzò il capo, ritrovandosi faccia a faccia con qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere.

Quelle creature non  esistevano, quei mostri racchiusi in quel libro che aveva comprato tempo addietro non potevano essere reali, non potevano esistere.
L'emersione del Kraken è accompagnata da grandi movimenti d'acqua [...]
Il grosso essere dibatteva i tentacoli sollevando grandi masse d’acqua e sballottando a destra e a manca la nave.
Gli uomini correvano lungo il ponte, gli arpioni e in mano puntati contro i tentacoli dell’enorme calamaro.
Non era grosso come aveva letto nel libro, non arrivava a sedici chilometri, ma rimaneva comunque il fatto che fosse lungo quasi il doppio dell’imbarcazione che aveva aggredito e due dei suoi tentacoli, le ventose armate d’uncini, erano bastati per avvolgere la nave nel tentativo di spezzarla in due.
[...] gli viene attribuita la possibilità di affondare le navi con minimo sforzo.
Dannazione, no, era tutto un sogno. Adesso Rei avrebbe riaperto gli occhi e si sarebbe ritrovato sulla sua branda.
O meglio ancora a casa, come se quei mesi di navigazione fossero stati solo un lunghissimo sonno. Si sarebbe alzato e avrebbe ritrovato la sua stanza piena di libri, la sua città e la terra sotto i piedi.

Si schiaffeggiò leggermente le guance, ma non mutò nulla. L’acqua spruzzava ancora sul suo viso, per l’aria le urla degli uomini, le zaffate dei tentacoli contro l’Oceano e le grida stridule che la creatura lanciava ogni volta che veniva colpita cozzavano caoticamente tra loro. Le assi di legno sotto i suoi piedi scricchiolavano pericolosamente, da lì a poco avrebbero ceduto e la nave sarebbe caduta a pezzi sul fondo del mare.
I marinai si muovevano confusamente tutt’attorno al giovane Ryugazaki, ma Rei non riusciva a schiodare di un millimetro dal suo posto.
I mostri marini non esistevano. I mostri marini non esistevano. I mostri marini non esistevano.
L’albero maestro cadde, piegato sino a spezzarsi dalle spire dei tentacoli di quella bestia.
I mostri marini non potevano esistere.
Non potevano essere veri.


Crack. Le nave stava collassando su se stessa. Spezzata, spaccata, annientata. Rei sentì il vuoto sotto i suoi piedi, si sentì cadere e scivolare, la schiena schiacciata contro quello che un tempo era il ponte della nave e ora si era trasformato in uno scivolo che portava direttamente all’inferno.
Il mostro aveva spaccato la nave a metà e stava facendo in modo di far scivolare i marinai nel suo becco.
Era la fine.
Creature così non potevano esistere, non dovevano esistere.
Eppure Rei stava scivolando nelle fauci di una di esse, e poco serviva aggrapparsi alle corde, alla battagliola o a ciò che rimaneva degli alberi, inesorabilmente, si precipitava.
Rei non voleva morire, non poteva venire divorato da un calamaro sproporzionato.
Il suo cervello lavorò in fretta alla ricerca di una via d’uscita ma l’unica, quasi impossibile, speranza di sopravvivere che vedeva era quella di cadere in acqua, invece che nella bocca del mostro, nella speranza di aggrapparsi poi ad un qualche pezzo caduto dalla nave. Era follia, ma anche quella situazione era folle, quel modo di morire era folle.
I freddi calcoli erano l’unica cosa logica rimasta a cui aggrapparsi, e Rei calcolò, tentò di capire in che modo potesse riuscire a fare in modo di non precipitare direttamente in bocca al mostro alla stregua di uno stuzzichino.
Inclinò il corpo di lato nel tentare di donarsi una direzione, ormai la spaccatura era prossima e la fine imminente.

Il suo corpo scivolò oltre il bordo, mani e piedi si dibattevano nell’aria sconnessamente e senza grazia, poi l’impatto con l’acqua.

Ce l’aveva fatta.

Era salvo.
Era finito in acqua. In acqua.
Non sapeva nuotare...


Rei mosse nuovamente mani e piedi senza ottenere nessun risultato, stava per affondare quando riuscì ad tendere un braccio e aggrapparsi ad un pezzo dell’asse del ponte, spezzato e caduto.
Quando riuscì a riemergere facendo leva sull’asse con le braccia, l’aria non gli era mai sembrata così fresca.
Ne fece il carico riempiendosi i polmoni fino a scoppiare, rigettandola fuori con ansiti pesanti e colpi di tosse al solo scopo di riempirsene nuovamente. Un’ondata generata dal Kraken lo fece allontanare dalla nave, lasciandolo alla mercé della corrente.
Era finita, era l’inizio della fine quello.
Ripensando a ciò che era successo, Rei si rese conto che il tutto si era svolto in pochi, semplici, minuti e la sua caduta era durata solo pochi secondi.
Perché spesso è così che vanno le cose, accadono tanto in fretta che te ne rendi conto solo quando ne sei uscito. E spesso anche per salvarsi basta poco, un istante, una decisione presa per il verso giusto, e respiri ancora.

Il Cielo, quasi immobile, era tinto d’un azzurro vivo e placido, nuvole bianche lo solcavano. Perché se era vero che il Cielo emulava l’Oceano, allora quel Cielo di certo non stava emulando quell’Oceano. C’era troppa pace in alto rispetto a ciò che era accaduto e continuava ad accadere in basso, mentre la nave affondava inghiottita dai flutti.
L’orizzonte non era mai sembrato così netto. Così spietato.
Rei abbozzò un sorriso stanco, le dita gli facevano male e avvertiva anche una sensazione bruciante ad un fianco. Il fatto che non riuscisse a vedere quasi nulla non era dovuto al semplice fatto che i suoi occhiali erano totalmente ricoperti d’acqua. Stava svenendo, era troppo debole, i polmoni e la bocca bruciavano per l’acqua di mare ingerita.
Le dita di Rei lasciarono la presa sull'asse e il giovane sprofondò incosciente nel Ventre dell’Oceano.



Angolo autrice:
Eccomi qui cari lettori! 
Ed ecco a voi il capitolo due... ha un che di angst, eh?
Sono strafelice di vedere quanti siete *-* ben nove persone hanno messo questa storia tra le seguite e una persona tra le preferite.
Sono al settimo cielo!
Fatevi sentire nelle recensioni, non abbandonatemi, adoro sentire i vostri pareri, i vostri pensieri (e a questo giro forse anche gli insulti per quello che ho fatto al povero Rei).
Al prossimo capitolo <3
Uni.

PS. scusate se nel capitolo ci sono errori.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Porpora sotto il sole. ***


Porpora sotto il sole.


Era morto?
...

Se fosse stato morto non sarebbe stato capace di percepire il suo corpo. Se fosse stato realmente morto non avrebbe sentire il contatto ruvido di sassi contro la schiena.
Era morto?
Ne dubitava.
Non avrebbe sentito ancora quelle fitte al fianco, e il dolore alla testa, e un fiato d’aria calda entrare nella sua bocca quasi forzatamente, facendo ritornare su l’acqua di mare entratagli nei polmoni. Rei scattò di lato, sul fianco che non gli doleva, sputacchiando acqua e riprendendo a respirare dopo un semi-affogamento per la seconda volta in quel giorno.
Era vivo.
E c’erano sassolini sotto le sue mani e contro il suo fianco nudo. Perché era a torso nudo?
Sentiva l’appiccicosa scomodità del pantalone sulle gambe e la pesantezza delle scarpe zuppe d’acqua. Ma la camicia? Aveva persino gli occhiali sul naso, stranamente senza neppure una goccia d’acqua sulle lenti... C’era qualcosa che non quadrava in quella situazione.
Tentò di mettersi a sedere ma il fianco destro gli lanciò una nuova fitta tanto dolorosa da costringerlo ad accartocciarsi su se stesso in un gemito. Si portò una mano al fianco tastandolo leggermente, faceva male, sentiva la carne viva e la sensazione di qualcosa di liquido e scivoloso sotto i polpastrelli. Sussultò nel ritrovarsi le dita macchiate del suo stesso sangue quando le guardò.

Il fianco era attraversato verticalmente da un taglio da cui il sangue fuoriusciva copiosamente, si era lievemente rimarginato, ma di ben poco e sicuramente non abbastanza per frenare la perdita di sangue. Non era molto lungo e probabilmente neppure tanto profondo, ma una pulsante sensazione di bruciore si alternava a fitte simili a punture improvvise di aghi. E faceva male.
«Stai bene?» una vocina squillante lo spaventò a morte facendolo girare di scatto alla sua destra, il fianco gli donò una nuova fitta per quell’improvvisa torsione.
Due occhi purpurei furono la prima cosa che vide. Si aprivano su un viso di un ragazzo dai tratti infantili, incorniciato da capelli biondi umidi d’acqua. Rei sbatté un palpebre diverse volte, quel ragazzino, infagottato in una camicia diverse taglie più grande di lui, aveva delle alghe intrecciate tra i capelli. Forse gli si erano imbrogliate in mezzo mentre nuotava.
Alghe lunghe e vagamente ondulate, infatti, si facevano spazio tra un ciuffo di capelli e l’altro, il colorito verde-giallino permetteva loro di camuffarsi abbastanza bene tra ciocca e ciocca, ma certamente non di passare inosservate.
«Stai bene? Come ti chiami?» ripeté il giovane biondino mentre tentava di farlo ridistendere tirandolo giù per un braccio.
«Rei» sussurrò lui meccanicamente, «Rei» ripeté ancora.
«Piacere di conoscerti Rei-chan,» squillò il giovane, facendo sussultare Rei per quel –chan usato con tanta, troppa, disinvoltura «io sono Nagisa.»
Rei riportò gli occhi sul giovane, sorrideva ad occhi chiusi con l’innocenza di un bambino.
C’era qualcosa di strano in lui, a partire da quelle strane alghe intrecciate tra i capelli: erano troppe per essersi semplicemente incastrate tra i capelli mentre nuotava... sembravano generarsi direttamente dal suo cuoio capelluto.

Rei borbotto un incerto: «Piacere.» prima di ricordare  un piccolo particolare di quando era ancora semi-cosciente. In testa gli ritornarono la sensazione di un fiato caldo che lui non aveva mai tirato dentro e qualcosa di morbido che... oddio.
Girò il viso rosso dall’imbarazzo per non farsi vedere dal giovane biondo.
Gli aveva fatto la respirazione bocca a bocca? Rei tentò di concentrarsi sul fatto che Nagisa – era così che si chiamava, no? – lo aveva fatto per salvargli la vita, che senza di lui sarebbe morto in mare. E invece era lì vivo... su una spiaggia sconosciuta e con un ragazzo di cui conosceva a stento il nome.
«Rei-chan, ti sei fatto tutto rosso! Stai male?» domandò il ragazzo spingendosi in avanti per osservarlo meglio in viso.
Rei scosse la testa, premendosi una mano contro la bocca.

Sulle loro teste il Cielo risplendeva azzurrissimo nel caldo di mezzogiorno, pochi gabbiani volteggiavano e stridevano sulle loro teste
«Come...» Rei alzò gli occhi «come sono arrivato qui?»
All’orizzonte non si scorgeva nessun segno della nave, anche se probabilmente a quell’ora era già precipitata sul fondo dell’Oceano. E i suoi compagni? Cosa ne era stato di tutti quegli uomini con cui Rei aveva condiviso un mese di navigazione? Morti probabilmente, affogati o mangiati, dispersi in mare. Perduti.
Nagisa batté le mani distogliendolo dai suoi pensieri: «Rei-chan, quella ferita va curata!»
«Mi ha portato la corrente? Mi hai trovato sulla spiaggia?»
Nagisa taceva, il sorriso spensierato dipinto sul volto aveva un qualcosa di snervante, ma al contempo era affascinante il modo in cui lo calzava con naturalezza.
Rei rimase in silenzio mentre il ragazzo osservava la sua ferita sul fianco, aveva messo su un cipiglio serio senza però dimettere quell’aria allegra che sembrava essere una sua caratteristica intrinseca.
«Non è profonda, ma è un brutto taglio,» sussurrò, più che altro tra sé e sé che a Rei stesso, «penso che tre possano bastare.» Rei non afferrò il significato dell’ultima frase.
Avrebbe voluto domandare che cosa significassero quelle parole, che cosa erano i tre a cui Nagisa si riferiva. E, soprattutto, voleva capire come diavolo fosse arrivato fino a lì.
Ma Nagisa non lo ascoltava, teneva una mano posata accanto alla ferita mentre l’altra passava tra le ciocche di capelli. Tirò via un’alga, forse finalmente si era accorto di averne svariate tra i capelli, e poi un’altra e un’altra ancora.
Tre alghe.
penso che tre possano bastare.”
Rei sgranò gli occhi, cosa voleva fare quel tipo?
Nagisa continuò la sua operazione, tenendo i due lati della ferita ravvicinati e appoggiandovi poi sopra la prima alga, perpendicolarmente al taglio. Rei sulle prime sussultò sorpreso, poi sentì la pelle invasa da una strana sensazione di fresco che contrastava nettamente con il caldo bruciore del taglio. Nagisa aggiunse la seconda e la terza alga, coprendo per del tutto il segno rosso che si apriva mettendo a nudo la sua carne rossa e viva.
Uno strano pizzicore, non sgradevole, andava man mano spargendosi per tutta la parte fasciata dalle alghe.
«Na... Nagisa-kun, cosa stai facendo?»
«Ti curo, non vedi Rei-chan?» il giovane scoprì di poco la ferita per mostrare come avesse iniziato a rimarginarsi e la perdita di sangue fosse diminuita. Era successo in un attimo, un attimo primaquel taglio sanguinava e adesso si stava rimarginando.
Non era possibile!

Rei non conosceva alghe con proprietà tali da poter accelerare il processo di rimarginazione di una ferita, o comunque con proprietà analgesiche. Come potevano tre semplici, piccole, alghe dal colorito giallino curare una ferita con tale facilità e velocità?
Nagisa teneva la mano destra costantemente premuta sul fianco in modo da tenere le alghe premute sulla parte lesa. Tra le dita della mano si poteva notare come, stranamente, al di sotto di essa un colorito bruno andava spargendosi a macchia d’olio sulle alghe a contatto con la ferita.
Sangue? pensò Rei confuso, ma non domandò nulla. Rimase a guardare, confuso, quella macchia che andava man mano colorando ogni angolo delle alghe.
«Fatto!» esultò Nagisa una volta che le alghe ebbero totalmente cambiato colore.
E le tolse, come se nulla fosse accaduto, rivelando il fianco destro di Rei. Quasi illeso, solo una linea chiara di una cicatrice attraversava la sua abbronzatura. Come se quel taglio fosse solo un vecchio ricordo di mesi addietro e non una ferita fresca apertasi solo poco tempo prima.
Rei lasciò andare un grido strozzato davanti a quell’assurda guarigione istantanea.
Non esisteva una cura così miracolosa, com’era possibile che la sua ferita si fosse già rimarginata?!
«Come... come hai... è guarita! Come hai fatto?!»
Nagisa lo guardò con i suoi grandi occhi porpora per poi sussurrare «È magia, Rei-chan.»
Oh no, di nuovo. Anche questo ragazzino parlava di magia!
Rei lo guardava confuso, c’era qualcosa che non quadrava in tutta quella storia.
Un ragazzo sconosciuto lo salvava chissà come dall’affogamento in alto mare e lo portava su un’isola sconosciuta, e probabilmente disabitata. E curava una sua ferita con delle assurde alghe che aveva preso tra i suoi capelli.

«Chi sei?» quella frase gli scivolò naturale fuori dalle labbra.
Chi era in realtà quel ragazzino dai capelli biondi e grandi occhi porpora? Con delle alghe incastrate tra i capelli come se si trovassero lì da sempre e indosso solo una camicia di troppe taglie più grande di lui –  Rei iniziava a sospettare fosse la sua. E quel sorriso stampato in faccia che sembrava non scomparire mai.
Nagisa sgranò ancora di più gli occhi per poi annuire con un cipiglio serio. Sbottonò la camicia rivelando un fisico asciutto e atletico, e la lasciò scivolare via dal suo corpo.
«Nagi-kun, perché sei nudo?!» quasi balzò in piedi Rei notando la totale assenza di vestiti del giovane.
Nagisa non gli diede peso, alzandosi con calma da terra senza alcun senso di pudore, al contrario ridacchiava divertito dall’imbarazzo con cui Rei distoglieva lo sguardo.
«Rei-chan, ti imbarazzo?»
«Sei nudo. Nudo
Nagisa scrollò le spalle con noncuranza prima vi voltarsi e avvicinarsi alla battigia, l'Oceano lambiva i piccoli sassi lentamente e li spostava più in basso - a volte uno a volte un altro – ogni volta che un’onda si ritirava nel ventre che l'aveva generata.
«Guarda, Rei-chan!» spalancò le braccia e si diede lo slancio per un tuffo, scomparendo nell’acqua.

Non un alito di vento increspò la superficie placida dell’Oceano, l’acqua sembrò quasi aprirsi per far passare il corpo del giovane, come un padre che accoglie a braccia aperte il figlio. Poi il silenzio.
Le nuvole, in alto, volteggiavano indifferenti.

«Nagi-kun.» chiamò Rei «Nagisa-kun!» chiamò ancora, ma del suo salvatore nessuna traccia.
Stava per arrendersi al fatto che se quel giovane fosse stato tutto solo un’illusione, una follia elaborata dal suo cervello confuso.
E poi lì, un’increspatura anomala sulla superficie dell’Oceano. Rei poteva vedere qualcosa muoversi ondeggiando tra i flutti; spostando di poco la superficie dell’acqua sembrava avvicinarsi poco a poco alla riva.
Rei, seduto, scrutava la superficie piatta dell’Oceano, una sensazione sul fondo dello stomaco – come un nodo – gli suggeriva che in quello scenario c’era qualcosa che non andava. Per niente.
Un guizzo, bastò un piccolo schizzo dell’acqua perché tutte le certezze che Rei aveva ben strette a mente tremassero come un budino. Mollicce, le idee, avevano vibrato seguendo il moto quasi ondoso con cui il giovane che aveva appena conosciuto uscì dall’acqua.
Lui... lui era... Lì dove il busto avrebbe dovuto congiungersi alle gambe con un’invisibile linea, la carne terminava lasciando spazio ad un’ordinate fila di scaglie che riluceva della stessa tinta degli occhi di Nagisa, sotto il sole tanto caldo da far tremolare l’orizzonte. E a quella fila ne seguiva un’altra e un’altra e molte altre ancora, sino a culminare in una pinna di un rosso trasparente, sembrava un velo che ondeggiava dolcemente  mosso dalle piccole onde che s’infrangevano sulla battigia.
«Tu... ma cosa... una sirena?»
«Non sono una sirena, sono un tritone. Tri-to-ne.» protestò Nagisa agitando leggermente infastidito la pinna della coda color porpora.
Rei sbatté più volte le palpebre, non poteva essere vero. «Non è possibile.»
«Ma ti ho salvato dal Kraken, Rei-chan.»
«Non è possibile.»
«Ho curato le tue ferite con la mag-...»
Rei scosse la testa, risdraiandosi e chiudendo gli occhi con forza.
«La magia non esiste, e nemmeno tu. Sto delirando perché ho bevuto troppa acqua del mare. Quando mi sveglierò non ci sarai.» e si rifiutò di aprire gli occhi.
Non era vero. Non era vero. Non era vero.
Forse era stato il caldo di quel posto a fargli venire le allucinazioni, forse era stata l’eccessiva perdita di sangue. O forse era stata realmente l’acqua del mare, gli risultava che berne troppa facesse impazzire.
Qualunque cosa, qualunque cosa... non poteva esistere una creatura come quella! Le palpebre iniziarono a farsi pesanti.
Nagisa non poteva essere uno di loro.
Nagisa sorrideva, anche troppo, e parlava a raffica, non voleva divorarlo. Nagisa aveva le gambe, aveva camminato avanti ai suoi occhi quando si era avvicinato all’acqua. Certo, non l’aveva guardato più di tanto – era nudo cavolo! – ma lo aveva visto muoversi con i suoi piedi, e i polpacci e le cosce. No. No. No.
Era il caldo.
Era la stanchezza.
Era l’acqua salata.
Sonno. Rei venne a poco a poco ipnotizzato dall’unico colore che le palpebre abbassate gli concedevano: un nero disomogeneo e mutevole, come la superficie ondeggiante dell’Oceano di notte.



Angolo autrice:
Cosa posso dire? WOW!
Non posso dire altro se non wow, perché siete tantissimi a seguire, preferire e ricordare la storia!
In un fandom così piccolo mi aspettavo sì e no che cinque persone seguissero la long, e invece siete quasi una ventina! Siete un amore... vi vorrei abbracciare ad uno ad uno (fuggite, sciocchi!)
Comunque, volevo dirvi una cosa importante, ossia che il capitolo successivo, il quarto, è già pronto e in attesa di essere caricato mentre il quinto capitolo è completo per metà. Quindi, nel giro di una settimana (o poco più) caricherò il quarto capitolo, mentre per il quinto non ci sarà un quando ben preciso ma lo caricherò sicuramente!
Non mollo la storia neanche morta! u-u
Semplicemente, ho un’altra long in corso e questa è una storia “secondaria” quindi ora preferisco dedicarmi allo scrivere il nuovo capitolo di quella long e poi riprendere la stesura del quinto capitolo di Figlio dell’Oceano.
Ricordate che vi voglio bene e che anche due parole messe in croce su questa storia mi farebbero molto felice.

Se vi interessa, sul mio fake di fb creerò a breve un album di fanart prese a random da internet in cui inserirò spezzoni dei vari capitoli; un album, quindi, in continuo aggiornamento. Già stasera dovrebbe essere pronto!
Profilo FB: Star Falling
Un bacio, Uni vi ama tutti

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Blu scuro, blu chiaro. ***


Blu scuro, blu chiaro.


Nagisa lo aveva lasciato stare, a Rei, quando lui aveva chiuso gli occhi dicendo che quello che vedeva era tutta un’illusione. Una follia.
Ma Rei non era folle: Nagisa era lì, con la sua coda, le alghe curative tra le ciocche bionde e una smorfia sfatta. C’era rimasto male.
Forse era stato il troppo entusiasmo con cui aveva rivelato la sua natura a far retrocedere l’altro.
O forse aveva sbagliato fin dall’inizio, usando con sin troppa leggerezza la sua Abilità. Affondò una mano tra i capelli bagnati e strappò via un pezzo delle sue alghe. Erano la sua Abilità, erano nate e cresciute con lui, le aveva usate per curare le sue ferite e quelle dei suoi amici. Erano parte integrante di lui stesso, naturali come potevano esserlo un braccio o un occhio.
Aveva solo innocentemente usato le sue risorse con la normalità con cui le usava di solito. Non ci aveva pensato al fatto che Rei fosse solo un umano.

Ogni sirena o tritone al mondo aveva un’Abilità dei più svariati tipi. Ed esse si manifestavano in varie forme: alghe – come Nagisa -, perle, lische, conchiglie... intrecciate o posate tra i capelli del loro possessore.
L’Abilità di Nagisa era quella della Cura.
Ma esistevano anche Abilità di Attacco, Difesa, Richiamo e Potenziamento che, aggiunta anche l’Abilità di Cura, formavano le cinque punte della Stella Reale. Solo l’Imperatore possedeva la Stella, nel cui centro risiedeva il potere di dominare gli Oceani; nessuna Abilità poteva competere con quella dell’Imperatore, forse solo le Abilità di tutti i Principi, combinate assieme, potevano donargli filo da torcere. Perché i Principi – figli dell’Imperatore e dell’acqua stessa – possedevano il dono di poter dominare i flutti dei territori su cui governavano.

Ma non era all’Imperatore o al suo Principe, ai quali stava disobbedendo aiutando un umano, che Nagisa pensava in quel momento: il giovane si concentrava unicamente sul volto disteso di Rei e sulle ciocche umide e scure attaccate alla sua fronte.
Sospirò. Rei non dava segni di voler riaprire gli occhi, al contrario sembrava essersi addormentato. Il suo respiro era divenuto lungo e regolare, sottile.
«Scusa, Rei-chan.» sussurrò Nagisa, poi ritornò nel suo elemento naturale.
Nuotò piano, distratto, il viso contratto in un pensiero preoccupante.
E se Rei non avesse voluto più vederlo? Come avrebbe fatto da solo, su un’isola deserta, a un passo dall’immensità dell’acqua?
Dopotutto era solo un umano, non un Figlio dell’Oceano.
Nagisa scosse la testa tentando di simulare un sorriso. Lui non doveva abbattersi, doveva sorridere e guardare il lato positivo delle cose. Essere felice e far felici gli altri, distendere le loro preoccupazioni: era una sorta di missione.
Avrebbe fatto in modo che Rei credesse in lui, che si fidasse di lui.
 
 
La coda nera scivolava nell’acqua, seguita a ruota dal movimento dei fianchi, delle spalle larghe e un lieve ondeggiare della testa da sopra a sotto, come uno strascico del movimento del resto del corpo. Coda nera, grossa e robusta al pari di quella di un’orca, il ventre bianco.
«Non ho visto Nagisa oggi.» sussurrò Makoto, pur di spezzare il silenzio ovattato tra lui e il ragazzo al suo fianco. Nessuna risposta.
Guardò con dolcezza il ragazzo alla sua sinistra, i capelli neri ondeggiavano placidi nella corrente. Aveva lo sguardo perso avanti a sé; uno sconosciuto, a prima vista, lo avrebbe preso per strano, con quella sua aria d’indifferenza totale. Come se le piccole bolle tra le sue ciocche scure fossero solo le figlie neonate d’una bolla ben più grande, invisibile, che avvolgeva il giovane chiudendolo in un mondo tutto suo. Ma Haruka ascoltava, lo faceva anche quando sembrava preso da tutt’altro. E parlava – poco – ma centrava sempre il punto, non sprecava fiato per errare.
«Dici che lo incontriamo, Haru?»
Haruka si limitò ad alzare il suo sguardo sull’altro, i suoi occhi blu profondi come abissi ricordavano a Makoto l’acqua che li accoglieva come una madre nel suo grembo. Tra le sue braccia. Ai suoi figli, i Figli dell’Oceano.
La coda grigio-azzurra di Haru lo spinse più avanti di poco, «È lì.» sussurrò semplicemente, indicando con lo sguardo una figura rossastra che si muoveva nell’immenso sfondo blu.
«Nagisa-kun.» urlò Makoto per attirare l’attenzione del ragazzo, le mani avanti al viso nel tentativo di amplificare il suono della voce.
E ancora: «Nagisa-kun!».
Nagisa si girò dopo poco, agitando ampiamente un braccio sopra la testa.
Cosa ci faceva tutto solo a zonzo da quelle parti? Nagisa era un tipo curioso, gironzolava in lungo e in largo e si eccitava per ogni cosa. Era nella sua natura infantile.
Ma Makoto era preoccupato, erano troppo vicini alla costa; lui e Haru ci si erano spinti per caso, Haru seguiva l’acqua e Makoto non poteva che stargli dietro per controllare che non si cacciasse nei guai. Ma Nagisa?
 

“Nagisa-kun.”
Nagisa sussultò nel sentirsi chiamato, preso e strappato dai suoi pensieri da una voce nota. Tutte le sue elucubrazioni su Rei furono accantonate nel sollevare lo sguardo.
“Nagisa-kun!”
Nagisa si girò, gli occhi ridotti a due fessure per mettere meglio a fuoco le figure lontane che gli venivano incontro.
«Mako-chan...» sussurrò, prima di abbandonare del tutto i pensieri su Rei e sbracciarsi per verso lui e il ragazzo al suo fianco che aveva riconosciuto come Haruka.
«Mako-chan! Haru-chan!» esultò una volta reincontrati i suoi amici.
«Cosa ci fai vicino alla costa?»
Nagisa rimase un attimo titubante, non voleva condividere con loro il segreto del giovane che aveva portato in salvo sull’isola lì vicina. Rei che apriva gli occhi, li sbatteva confuso, il rossore del suo imbarazzo, il suo stupore, la sua confusione: voleva tenerli egoisticamente solo per sè.
E poi Makoto e Haru si sarebbero preoccupati, lo avrebbero costretto a scacciare l’umano perché era pericoloso.
Ma Rei non credeva alla sua – alla loro - esistenza, come poteva essere un pericolo?
Si limitò a mettere su un sorriso e dire: «Giravo!» enfatizzando la cosa con un giro su se stesso a braccia spalancate. Makoto rise leggermente, Haru si limitò ad abbozzare un sorriso per poi distogliere lo sguardo e guardarsi attorno.
«È strana.» disse solo.
«Cosa?» Makoto lo conosceva, una piccola frase apparentemente senza senso poteva, in realtà, nascondere qualcosa di ben più grande e complesso. E non un qualcosa a caso.
«L’acqua. Si muove in modo strano; come se fosse accaduto qualcosa...»

Negli occhi di Nagisa le immagini del Kraken e della nave che affondava, degli umani divorati dal mostro e Rei che, salvo per poco, si arrendeva all’Oceano si affollarono così potenti che il ragazzo ebbe paura che potessero sgorgargli fuori dalle pupille. E anche Mako-chan e Haru-chan avrebbero saputo.
«Haru-chan, sono sicuro che non è successo niente!»
«Ma, Nagi-ku-...»
«Nulla nulla nulla!» ritornò all’attacco Nagisa, muovendo le braccia e la coda freneticamente; ma Mako e Haru non l’ascoltavano più, si erano guardati, si erano capiti e poi Haruka era scivolato via, Makoto dietro di lui lo seguiva in silenzio.

Solo, sotto il blu schiacciate dell’Oceano, il piccolo tritone non sentiva il peso di tutta quell’acqua, così come un piccolo uomo non sente sulle sue spalle il peso del Cielo, anche se di un azzurro soffocante.
Nagisa tornò a girare a vuoto, senza sapere cosa fare o dove andare; seguì la barriera corallina e poi strusciò il ventre contro il fondo piatto e spoglio dell’Oceano: come un amante che risale dai floridi seni della compagna alla lunga linea liscia e pacifica del collo, certo d’incontrarne alla fine le labbra.
E quelle labbra si dischiusero infine docili, isole gemelle, la sabbia bianca della più grande emergeva dall’acqua come un manto puro, e proseguiva sino a fondersi col peccato della terra bruna, lì dove i primi alberi segnavano l’inizio di una piccola foresta.

Nagisa salì sulla terraferma, strisciando sullo stomaco con i gomiti per allontanarsi dall’acqua. Una volta all’aria, infatti, la coda mutò in pochi secondi in un paio di gambe toniche e snelle, lasciando quello che un attimo prima era un tritone come un semplice umano nudo come un verme, la guancia premuta contro la sabbia fine.
Nagisa non poté far altro che continuare a girare per l’isola fino alla noia più totale, quando si decise a tornare da Rei. Si sarebbe già dovuto svegliare, dato che erano passate un paio d’ore.
Attendeva, Nagisa, solo quello. Attendeva di rivedere gli immensi occhi viola di Rei, che narravano di luoghi a lui proibiti: e proprio per questo magnifici, nella bellezza del loro mistero.
Tornò all’isola.
 
 
«Rei-chan!» chiamò emergendo con il capo fuori dall’acqua «Rei-chaaaan!» chiamò ancora, ma Rei continuava a dormire. Steso su un fianco sui sassolini piccoli e grigi della spiaggia continuava a tenere gli occhi ben chiusi, per escludere al meglio il mondo esterno dai suoi sogni.
Nagisa aveva già raggiunto la riva ed era a pochi colpi di coda dalla sabbia asciutta, quando si sentì afferrare e tirare indietro da una grande mano aggrappatasi al suo avambraccio. Sentì un vuoto aprirsi nello stomaco mentre veniva tirato indietro, in acqua, la sua vista fu sconvolta e dove un attimo prima vedeva sabbia e un giovane dai capelli blu, addormentato, ora si ergeva solo una muraglia d’Oceano.

«Nagisa-kun, cosa fai?! Quello è un umano!»
Ma Nagisa potè solo pensare che, in confronto al blu cupo dei capelli di Rei, l’Oceano sembrava sin troppo chiaro.



Angolo autrice:
Ed ecco qui il capitolo quattro, lo so che è corto... ma fa nulla, quello che andava detto in questo capitolo è stato detto! (Ho una specie di "tabella di marcia" io XD)
Finalmente entrano in scena due "nuovi" personaggi, e chi potevano essere se non Makoto e Haruka?! Come era ovvio che fosse, la coda di Makoto è quella di un'orca e quella di Haru - non è ancora stato detto esplicitamente - è quella di un delfino. Ma anche questo appare ovvio.
Se vogliamo essere più precisi quella di Nagisa è una coda molto simile a quella di un pesce rosso, ho fatto una ricerca per trovare "il tipo di coda che dico io" e l'ho ritrovata in quella del Ryukin [link].

Come avevo già anticipato, il capitolo cinque arriverà in ritardo, mi scuso in anticipo.
Allora... secondo voi chi è che ha "aggredito" Nagisa? Makoto, Haruka o un altro nuovo personaggio ancora? Uno già presente in Free! o un OC?
Chissà se mi arriveranno vostre risposte ^--^
Baci miei amati lettori,
Uni.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Non c'è nulla da temere. ***


Non c’è nulla da temere.

Haruka lo aveva detto, che l’acqua aveva qualcosa di strano, aveva percepito una lieve scossa nella corrente. Makoto e Nagisa forse non se ne erano accorti – loro non sentivano l’acqua come la sentiva lui -, ma Haru si era sentito punzecchiare dalla punta della coda alla più piccola delle sue bolle, era come se l’equilibrio stesso dell’Oceano fosse stato sconvolto e adesso l’acqua si stesse riassestando.
«Haru, cos’è quello?» Makoto scattò all’indietro spaventato nel ritrovarsi davanti un’imponente struttura il legno. Assi spezzate, barili e cannoni sul fondale, come lapidi attorno a un mausoleo.
Un relitto. Un cimitero privo di cadaveri, ecco cos’era quel luogo, un monumento ai marinai morti in mare. Non c’è speranza per chi affonda.
«Haru andiamo via! Haru!»
«Non c’è nessuno.»
«Potrebbe esserci ancora il mostro che l’ha affondata, Haru no... non avvicinarti!»
«...»
«Haru attento!»
«...»
Makoto sospirò arreso, Haruka si stava avvicinando lentamente al relitto affondato e non c’era verso di farlo tornare indietro. Gli andò dietro, aveva più paura nel lasciarlo andare da solo che nel seguirlo in quella trappola.
«Forse è per questo che Nagisa diceva che non c’era niente. Forse non voleva vedessimo.» disse, posando i suoi occhi verdi su ogni cosa con circospezione, come se da un momento all’altro anche una semplice cima della nave potesse animarsi e aggredirli.
«Perché?» ad Haruka bastò una parola per mettere a nudo tutti i dubbi di Makoto; ma Makoto – così come Haru – non conosceva la risposta. Perché Nagisa era stato così avventato quando Haru aveva detto che c’era qualcosa di strano? Perché aveva negato?
«Cerchiamolo.» disse Makoto.
Solitamente, quando Nagisa trovava qualcosa di curioso, importante o comunque, a sua detta, interessante – e per lui tutto era curioso, importante e interessante – correva da Haruka e Makoto per mostrare loro ciò che aveva trovato, o per trascinarli sul luogo dove la cosa che aveva visto giaceva, troppo grande o pesante per essere spostata. Una volta li aveva, addirittura, costretti ad andare con lui per vedere una cosa in superficie che si era rivelata poi essere un remo di barca alla deriva. Aveva una sorta di strano e pericoloso interesse per il mondo fuori dall’acqua.
 
Ci misero del tempo per trovarlo, chissà dove aveva vagato fino a quel momento, e anche adesso, mentre gli erano dietro, a pochi metri da lui, Nagisa non si accorgeva della loro presenza. Non si voltava. Nuotava spedito, come se avesse una meta ben precisa in testa e fretta di raggiungerla, e si avvicinava sempre di più alla costa. Ancora una volta.
Quando Makoto e Haruka lo avevano visto, poco tempo prima, sembrava proprio stesse facendo ritorno dall’isolotto in quei dintorni. E ora stava tornando lì.
Cosa c’era di così importante in quel luogo? Makoto iniziava a preoccuparsi.
«Rei-chan!»
Nagisa era emerso in parte fuori dall’acqua - cosa stava facendo? – la testa e il braccio destro fino al gomito erano scomparsi oltre la superficie. Si comportava in maniera strana, scompariva, andava a zonzo da solo... e poi c’era la storia della nave, si vedeva a chilometri di distanza che era affondata da poco; e Nagisa aveva negato, era come se sapesse che era successo qualcosa e non volesse che anche loro venissero a conoscenza di cosa effettivamente fosse accaduto.
«Rei-chaaaan!»
Makoto emerse di poco fuori dall’acqua per dare un’occhiata a dove stesse puntando Nagisa, ormai l’amico era nell’acqua bassa.
L’unica cosa che riuscì a vedere era il corpo sulla riva: non importava se quella sagoma accovacciata fosse viva o morta, uomo o donna, o come fosse arrivato fin lì.  Era un umano, ed era nel suo elemento naturale: sulla terra ferma. Makoto fu preso da un’ondata di panico.
Glielo avevano insegnato sin da bambini, glielo avevano ripetuto i loro genitori e gli anziani del Regno, che ci si poteva avvicinare agli umani solo quando erano in alto mare. Solo quando erano soli, in acqua, lontani dal loro elemento naturale ma nel cuore esatto dell’elemento di sirene e tritoni. Perché l’unico umano buono era uno prossimo all’affogare. Una preda.
Makoto scattò in avanti, era troppo pericoloso per Nagisa avvicinarsi così tanto, lo afferrò all’altezza dell’avambraccio e lo trascinò in acqua, lontano da quel Figlio della Terra.
 
«Nagisa-kun, cosa fai?! Quello è un umano!»
«Ah...» Nagisa si guardò attorno confuso «Mako-chan! Cosa ci fai qui?»
«Cosa stavi facendo?» quasi lo aggredì, preoccupato, Makoto, afferrandolo per le spalle e scuotendolo «C’era un Figlio della Terra su quella spiaggia, Nagisa. Non dobbiamo avvicinarci a Loro quando sono nel loro elemento! Poteva catturarti, o ucciderti.»
Makoto parlava di Rei-chan, lo aveva visto lì addormentato su quella spiaggia, ma si sbagliava di grosso: Rei non era pericoloso, non voleva far loro del male.
«Mako-chan, no, calmati! Rei... Rei-chan è mio amico...» le ultime parole le sussurrò appena, incerto sul fatto che fossero o meno la verità. Nagisa aveva appena conosciuto Rei, più che un amico poteva consideralo un conoscente, o ancora meno “un ragazzo che aveva salvato dall’affogamento”; ma, qualunque nome prendesse il rapporto tra loro, Rei di certo non era una cattiva persona, glielo si leggeva negli occhi.
«Eeh?!» Makoto era pallido come un fantasma, stringeva le mani sui gomiti di Nagisa, costringendo le sue braccia a stare dritte e ferme lungo il corpo.
«Davvero! L’ho aiutato... non è cattivo. Mako-chan... Haru-chan,» riuscì a divincolarsi dalla presa dell’amico per portare le mani giunte in preghiera avanti al volto «vi giuro che Rei non farà nessun danno. Quando si sarà ripreso lo aiuterò a tornare a casa, fidatevi!»
Makoto prese un respiro profondo come l’abisso: «Ma Nagi-...». Nagisa scosse la testa, semplicemente, lo sguardo sicuro di chi non si sarebbe di certo arreso. Quando si metteva qualcosa in testa era praticamente impossibile dissuaderlo.
Tornare sulla riva fu semplice, quella volta, né Makoto né Haruka tentarono di fermarlo in nessun modo; al contrario, lo seguirono.
 
«Rei-chan, loro sono miei amici!»
Quando Rei aveva riaperto gli occhi Nagisa gli si era praticamente lanciato addosso con irruenza, sbracciandosi, sorridendo a trentadue denti e indicandogli i due giovani accanto a lui, uno moro e uno castano.
«A-amici? Sono... Anche loro sono sirene?»
«Tritoni, Rei-chan! Le femmine sono sirene, noi siamo tri-to-ni.»
Rei li aveva scrutati in silenzio, incerto ed imbarazzato, prima che un lampo a ciel sereno lo colpisse in pieno capo. Scattò spaventato staccandosi di dosso Nagisa che gli si era quasi acciambellato sul petto, e si mise seduto, paonazzo e con gli occhiali scesi sulla punta del naso.
«Voi... voi non mi ma-... ma-mangerete, vero?!»
La linea placida del Cielo fu squarciata da una risata acuta e quasi cristallina, accompagnata da un corpo giovane e coronato da ciocche bionde e alghe che si rotolava sulla rena.
Quel ridere di lui, delle sue parole, rese ancora più paonazzo il giovane Ryugazaki che iniziò a inveire contro il piccolo tritone sotto gli sguardi stupiti di Makoto e Haruka.
«Rei... Rei-chan!» Nagisa si fece quasi serio, tirandosi a sedere e avvicinando pericolosamente tanto il suo viso a quello dell’altro «Se avessi voluto mangiarti lo avrei fatto quando ti ho trovato»
Rei ingoiò a vuoto, la gola secca, prima di domandare: «Perché mi hai salvato?»
«Per, umh... Eri strano, Rei-chan. Gli altri uomini si dibattevano, cercavano di nuotare lontani, gridavano... tu eri lì fermo sulla tavola... mi sei piaciuto, Rei-chan, eri buffo.»
«Eeh?»
Nagisa scrollò le spalle sorridente, Rei pensò che quel sorriso non avrebbe potuto portarglielo via nessuno. Mi sei piaciuto, Rei-chan, lo aveva detto con le labbra così arricciate all’insù che Rei ebbe un piccolo tuffo nel cuore: particolare, quel giovane tritone era un soggetto davvero unico.
 
Rei chinò lo sguardo, le guance arrossate e i capelli arruffati: «È... è che non so nuotare.»
Questa volta fu il turno di Nagisa e degli altri di scattare in un “eeh?” stupito... Per loro, nati e cresciuti tra i flutti, nuotare veniva naturale come respirare o parlare, come poteva Rei non saper nuotare?
«Ma come? Rei-chan vergogna!» lo biasimò Nagisa, senza mancare di ridergli contro nuovamente, facendo arrossire per la vergogna Rei per la seconda volta in poco tempo.
«È... è che il nuoto non mi è mai risultato utile! Non ho mai viaggiato via mare, non sono mai andato in vacanza in una località balneare,» si sistemò gli occhiali sul naso, come era solito fare «e non ho mai preso in considerazione il nuoto come sport... È– umh – non bello, ecco! È scoordinato... le braccia che si muovono in un modo, le gambe in una altro...»
«Gambe Rei-chan?» lo rimbeccò prontamente il giovane al suo fianco «Comunque, tu devi saper nuotare! Altrimenti non potrai mai tornare a casa.»
«Vero, sei nel mezzo dell’Oceano!» aggiunse Makoto.
Haruka annuì appena, e se ne andò. Con movimenti lenti e semplici, si alzò dalla spiaggia e tornò a tuffarsi  in acqua. Una coda da delfino incrinò la superficie dell’Oceano.
Rei rimase lì inchiodato al suo posto, l’idea che sirene e tritoni esistessero ormai si faceva strada in lui ad ogni colpo di coda del giovane che si allontanava in acqua. Quelle creature erano esattamente come quell’unica immagine del libro Mostri del mare riportava – l’immagine da cui era partito tutto -; erano creature affascinanti, aggraziate e dalle movenze di un’eleganza unica, sembravano muoversi senza incontrare nessuna resistenza da parte dell’acqua che li circondava, li inglobava e li accoglieva. Haruka si era tuffato e man mano che il suo corpo era affondato in acqua era mutato per metà in quello di un pesce, prima all’altezza dei fianchi e dell’ombelico e poi il grigio-blu della sua coda da delfino era avanzato come un’onda sul bagnasciuga e aveva coperto le cosce, le ginocchia fin giù alle caviglie unendole assieme... e i piedi erano mutati in una piccola ma robusta coda.
Rei rimase silente ad osservare quel moto.
«Si è offeso?» bisbigliò Nagisa a un passo dall’orecchio di Makoto, ma Makoto si limitò a scrollare le spalle: «Forse gli mancava solo l’acqua... o forse gli ha dato fastidio il modo in cui Rei ha parlato del nuoto.»
Nagisa si accovacciò su se stesso ridacchiando, Rei aveva offeso il nuoto, l’acqua – l’amata acqua -, ci credeva che poi Haru si era urtato.
«Comunque, Rei-chan,» si alzò in piedi il piccolo tritone biondo «tu devi imparare a nuotare!» coronò il tutto piazzando una mano sul fianco e puntando l’altra contro Ryugazaki.
Nagisa sorrise convinto, Makoto trattenne una quasi impercettibile risata; ma indubbiamente la reazione più plateale fu quella di Rei. Dapprima si limitò ad annuire passivamente, ma poi, lasciando indugiare lo sguardo sul ragazzo erto di fronte a lui, ritornò paonazzo tanto che le sue guance sembravano aver lanciato una sfida all’ultimo rosso alla montatura degli occhiali.
Un unico grido irruppe nella quiete dell’isolotto sperduto: «Perché diavolo siete nudi?!»



Angolo autrice: 
Ehilà! Come vedete sono in colossale ritardo, ma non temete! E' routine.
Comunque, sono al settimo cielo perchè ho dei lettori adorabili, mi sguite in tantissimi (io non sto qui certo a farmi problemi di numeri, ma vedervi così numerosi fa sempre molto piacere!), alcuni di voi mi lasciano delle recensioni che sono un amore e... mi sono anche arrivate due fanart stupendissime del mio Mermaid!Nagisa che sto ancora saltellando per la stanza al pensiero che qualcuno ha perso un po' del suo tempo per regalarmi quei disegni.
Anche perchè se si aspettava me --> [link allo scricciolo] che anche se non è un granchè ci ho messo il cuoreH :3
In faccia ha subito un incontro frontale con un tir, poverino, comprendetelo! xD

Ok, Vìvvìbbì a tutti, vado ad aggiungere la nuova immagine all'album di Figlio dell'Oceano che trovate sul mio [facebook] (per precisare l'immagine di questa volta sarà la prima delle due fanart ricevute, aka [questa!])
Uni.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il canto e la risacca. ***


Il canto e la risacca.
 

Acqua.
L’Oceano è potente anche nei suoi momenti più placidi, le sue acque scure s’increspano creando disegni geometrici astratti. La bianca schiuma lambisce e trascina la rena, incessante, logorante, con la sua risacca che a lungo andare dona alla testa. E la risacca continua, e continua, non cessa, dal suo risuonare più potente fino allo scrosciare dell’acqua, al deciso sciabordio dell’onda, alla profonda cacofonia degli abissi.
Rende folli, quell’incessante e implacabile sciacquio, giorno e notte, notte e giorno.
Notte.
Oceano. Un uomo ad un passo dall’infinito.
 
Rei osservava i giochi di luce dei pallidi raggi lunari sulle sue braccia, accovacciato con i gomiti sulle ginocchia, un vento lieve spirava dall’Oceano, messaggero di tutta quell’immensità. Si muoveva di poco, di tanto in tanto un braccio cadeva verso il basso e disegnava un cerchio sulla sabbia ai suoi piedi, non c’era molto da fare sotto quella notte, quella luna, su quell’isola sin troppo estranea per infondere sicurezza, per permettergli di addormentarsi. E poi c’era l’Oceano, che non si prendeva mai un attimo di pausa, ma continuava nella sua logorante lotta contro la sanità mentale di Rei; erano mesi che non conosceva silenzio all’infuori di quello sciabordio, gli veniva da domandarsi se non fosse impazzito, se ciò che vedeva non fosse solo il frutto della sua follia. Ma poi notava Nagisa, che appariva sin troppo reale e tangibile per essere solo un mero frutto della sua follia.
«A cosa pensi, Rei-chan?» gli strinse al fianco Nagisa, ma tutto ciò che uscì dalla bocca di Rei furono una serie di parole sussurrate. “Io... io...”, silenzio. Rei infossò il capo tra le scapole, totalmente alla mercé delle sue elucubrazioni mentali.

Le onde s’infrangevano placide, nulla era silenzio, e ancor meno lo era il filo di voce limpida e dolce che salì verso il cielo notturno, fino ad arrivare ad incantare la luna:
«Quando lasciai la mia casa per l’alto mare, dissi “cara madre, pregate Dio per me”
Migliaia e migliaia erano le leggende sui canti delle sirene, e tutte riconducevano ad un’unica morale: quella voce, quel canto, è l’ultima cosa che un marinaio ode prima di morire.
«E prima di salpare andai a prendere tenero congedo da Nina, che pianse come se il suo cuore si spezzasse.»
“Sai cosa fanno, le sirene?” aveva rivelato quel pescatore a Rei, in quel fatidico giorno che può essere considerato come l’origine dell’avventura del giovane “Attirano i marinai cantando, con quella loro bella voce, li chiamano e quando questi si avvicinano se li mangiano.”.

La bocca di Nagisa si muoveva appena, lasciando sgusciare suadente fuori dalle sue labbra una melodia dolce come l’ondeggiare dell’acqua, come la schiuma che lambisce gli scogli. Una droga per le orecchie di Rei, gli occhi inchiodati sul viso del tritone, all’apparenza così fragile, infagottato com’era in una camicia sin troppo grande per lui.
« Nina, se dovessi morire, e sulla schiuma dell’Oceano una sera dovesse venire a te leggera una colomba bianca...» gli occhi di Nagisa s’incrociarono in quelli dell’altro, c’era un viola mai sfiorato neppure negli abissi più profondi, che in un istante preferivano passare dal blu al nero, ignorando quella gradazione così vivida e intensa.
Rei-chan aveva quel qualcosa che lo aveva colpito, quando lo aveva visto lì abbandonato su quell’asse di legno spezzato, era sembrato stanco, arreso, succube dell’Oceano come mai nessun altro uomo era mai stato, come mai Nagisa aveva visto una sua preda. Gli si era avvicinato desideroso di apparirgli davanti, quella mattina, di spaventarlo, vedere la sua confusione; ma Rei era rimasto ben fermo sulla tavola, il respiro flebile di chi stava per andarsene da quel mondo, e poi era sprofondato. Si era conceduto all’Oceano come nessuno mai, neppure come un figlio che si cedeva al mondo nascendo, neppure come una sposa sull’altre al marito. Rei si era lasciato andare ancora più dolcemente di una goccia di pioggia che cadeva in acqua, aveva avuto un che di magico, straordinariamente tragico tanto da smuovere il cuore di un predatore avanti alla sua presa. E ciò l’aveva salvato.

«Apri la tua finestra, mia cara, che sarà la mia anima fedele che con amore torna a te!» terminò le ultime strofe di una delle tante melodie che conosceva per attirare i marinai tra le sue grinfie.
Rei era rimasto lì inchiodato a guardarlo, ipnotizzato come ogni Figlio della Terra rimaneva al sentire il canto di un Figlio dell’Oceano; si era avvicinato, man mano che la canzone di Nagisa era proseguita. Se fossero stati alla stessa altezza le loro spalle si sarebbero sfiorate, ma Nagisa era indubbiamente più basso e accovacciato su se stesso, così si limitava a lambire la pelle del braccio di Rei con la spalla. E guardarlo.
Quando la melodia era scemata, l’incanto era sfumato poco a poco, mangiato dai secondi che si accumulavano; si era diradato piano lasciando spazio alla lucidità, negli occhi di Rei, facendolo rendere conto della situazione, della vicinanza, del sorriso di Nagisa che colpiva come un pugno allo stomaco e dei suoi occhi così intensi anche di notte. E si era scostato, spostando gli occhi sull’Oceano, ma stando ben fermo al suo posto in modo da non allontanare la spalla di Nagisa. Gli donava una maggiore sicurezza: sapersi al fianco di qualcuno così rilassato anche in una notte buia su un’isola solitaria.
Le onde erano un accavallarsi di andirivieni e schiuma.
Il giorno dopo avrebbe avuto la sua prima lezione di nuoto, e i suoi istruttori sarebbero stati dei tritoni.
Che follia.
Sospirò, ormai si era arreso all’idea che il mondo fosse molto più misterioso e fantastico di quanto avesse creduto fino a quel momento. Un lato di lui avrebbe voluto scoprire tutto quello, un altro avrebbe voluto solo tenere occhi e orecchie fissi solo sullo scorcio ristretto di mondo che conosceva fino a pochi giorni prima, anzi, meglio ancora che conosceva fino a pochi mesi prima, quando neppure sapeva cosa fossero le sirene. Sì, quel giorno in cui aveva deciso di comprare un nuovo libro avrebbe scelto l’erbario sul terzo scaffale e a quell’ora sarebbe stato tra i campi fuori della sua cittadina, a collezionare fiori e foglie da conservare seccati tra le pagine di un grosso libro.
E invece ogni singolo granello di sabbia di quella spiaggia lo richiamava alla realtà.
Nagisa aveva iniziato a cantare una seconda canzone, più lenta di quella precedente, se la prima cantava di partenze e ritorni e aveva il sapore della melma del porto, questa era profonda come una fossa oceanica e attirava come l’oblio dell’acqua scura. Rei crollò nuovamente a dormire, il canto e la risacca a danzare sui timpani.
 
 
 
Di prima mattina, poche ore dopo il sorgere del sole, Nagisa aveva svegliato Rei in malo modo: i capelli e le alghe erano un groviglio giallo e scomposto sulla sua testa. Rei si era sentito tirare per un braccio, scuotere e persino spinto sino a rotolare su un fianco.
«Buongiorno, Rei-chan!» squillò il giovane tritone aprendosi in un sorriso immenso, i denti bianchi avrebbero potuto far concorrenza al sole.
Rei rimase ancora per qualche attimo nel limbo del dormiveglia, gli occhi assonnati ma dischiusi gli permettevano di vedere solo un susseguirsi di immagini sfocate, confuse.
«Pronto per la tua prima lezione di nuoto?»

Rei si tirò su con un sussulto, andando a cozzare contro il capo dell’altro giovane - che aveva pensato bene di gettarglisi addosso per svegliarlo meglio -, la botta arrivò con un rumore secco e un dolore alla testa. Rei se la sentiva pulsare tra le dita mentre si massaggiava la fronte. “Ahi!” squillò nell’aria mattutina, Nagisa si strofinava forte con il dorso della mano il naso, colpito durante lo scontro.
Dovevano essere circa le otto del mattino, i raggi del sole avevano preso già da un po’ a scaldare il mondo e la marea, salita durante la notte, si era ritirata assieme alla luna senza lasciar traccia. Rei avrebbe voluto chiedere a Nagisa  cos’era stata quella litania che aveva intonato sotto i raggi della luna, la sera prima. Il canto di sirene e tritoni era un’arma potente, incantava gli umani e li rendeva succubi del volere della creatura: se una sirena cantava di un amante perduto che tornava a lei, ecco che ogni marinaio, ipnotizzato, era disposto persino a gettarsi in mare e affogare, pur di raggiungere ciò che credeva essere la sua amante.
Belle e fatali, le aveva chiamate quel pescatore cieco per metà, con una rete bucata da riparare in grembo, e ora Rei capiva perché. Avrebbe dovuto averne paura, esserne terrorizzato, il suo cervello avrebbe dovuto registrare il pericolo e far squillare ogni possibile campanello d’allarme del suo corpo; ma Nagisa era così solare, così entusiasta e gentile che ogni dubbio sfumava nella certezza che lui non gli avrebbe fatto alcun male.
 
 
La prima cosa che Nagisa si domandò, quando Rei avanzò i suoi primi passi nell’acqua bassa, fu come ci si sentisse a percepire le proprie caviglie lambite dall’acqua. Lui non avrebbe mai potuto prendersi il lusso di entrare in acqua camminando, appena avrebbe immerso anche solo l’alluce la trasformazione si sarebbe effettuata fulminea e lui avrebbe perso la stabilità di due gambe per cadere muso in avanti. Nagisa, come qualunque altra sirena o tritone, si tuffava, in modo da ritrovarsi del suo elemento naturale già in posizione per nuotare via rapido.
Ma Rei no, Rei era un umano, un Figlio della Terra, e le sue gambe dolcemente lambite dall’acqua salmastra suscitavano in Nagisa una sorta di curiosità mischiata ad una punta d’invidia.

Quando Makoto e Haruka arrivarono, poco più tardi, trovarono Rei già immerso in un punto della costa in cui l’acqua gli arrivava al massimo alle spalle – quando le piccole onde si alzavano -, Nagisa gli nuotava attorno ilare: s’immergeva, riemergeva a pelo d’acqua e poi nuotava con solo il capo all’aria. E poi prendeva Rei per le mani, lo incitava ad allungarsi con il corpo a pelo d’acqua e gli donava indicazioni su come battere i piedi. L’aveva sempre visto fare ai marinai che catturava, muovere le gambe su e giù nell’acqua, schizzando in ogni dove per la foga. Ma questo, a Rei, non lo avrebbe mai detto; quando, infatti, l’umano gli aveva chiesto com’era possibile che un tritone conoscesse alcune delle tecniche di nuoto umane, Nagisa aveva scrollato le spalle e allargato il sorriso sino a scoprire i denti con dolcezza:
«Segreto, Rei-chan!»

Makoto osservava i due da lontano, Rei sembrava muoversi tranquillo nell’acqua, ma appena Nagisa lasciava le sue mani quello affondava come un sasso e non accennava a risalire. Gli veniva da ridere, Rei aveva un qualcosa di strano - quell’umano lo preoccupava non poco – eppure quella caparbietà che gli leggeva stampata in faccia, quell’inarrendevolezza nonostante bevesse grandi sorsate d’Oceano ogni qual volta che Nagisa lasciava le sue mani lo facevano fermare a riflettere che, forse, Nagisa aveva ragione, che, probabilmente, Rei non era così male. Scosse appena il capo per scrollarsi via le sue elucubrazioni mentali e nuotò filato verso i due giovani.
Haruka, lì accanto, rimase fermo in acqua per poi girarsi a guardarsi alle spalle. Una sensazione negativa gli aveva percorso la colonna vertebrale. Ma preferì non darvi peso, continuò ad osservare in disparte quel goffo umano che arrancava in un elemento che non gli apparteneva.
Dietro gli scogli, nella quiete di uno sciabordio d’acqua, una pinna si mosse furtiva.



Angolo autrice:
Ehi, io qui vado di fretta! 
Voglio solo fare un ringraziamento particolare ad Hanon993, perchè mi è arrivata la sua seconda fanart in proposito a questa storia e io sono un susseguirsi di ajeunaknjua <3.
Dato che la volta scorsa non ve le ho fatte vedere, queste due sono le sue fanart: [Link 1] e [Link 2]
Tornando alla storia... Secondo voi di chi è mai quella pinna? 
Eheh, alla prossima! 
Uni.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** The sun is blazing on my armor. ***



The sun is blazing on my armor.


«Senpai, quello è un umano
«Nitori, stai zitto»
«Ma sen-...»
«Ssh!»

Lì dove l’acqua lentamente cala il suo livello, dove l’Oceano china il capo alla Terra, due giovani tritoni si stringevano dietro ad una serie di scogli, tentando di rimanere celati alla vista degli altri.
Nitori avrebbe voluto dire diverse cose, in quel momento, tipo chiedere perché mai dei tritoni ronzassero attorno ad un umano come se fossero amici, perché loro, invece, si fossero nascosti; ma rimase zitto nel suo piccolo riparo, con in gola il timore di venire nuovamente sgridato dal suo senpai.
Le spalline bronzee gli pesavano addosso, così come le gomitiere e la serie di protezioni alla coda del medesimo materiale. Rin, al suo fianco, muoveva infastidito la pinna con piccoli schiocchi; era una pinna grossa, grigia e da predatore, da squalo. Piccole cicatrici la segnavano.
Senpai, cosa facciamo? Senpai, dovremmo avvisare gli altri. Senpai, siamo soldati della Guardia, dovremmo intervenire, quell’umano potrebbe essere pericoloso per il Regno.
«Tsk.», disse Rin a mezza voce, scoprendo i denti affilati, «Tu resta qui, io mi avvicino.»
Nitori rimase ben fermo nel suo rifugio, muovendosi appena nell’acqua bassa, mentre lui scivolava in avanti per vedere meglio ciò che avveniva a pochi metri da loro.
 
Haruka si era fermato, lo aveva fatto di colpo; Makoto aveva proseguito verso avanti, ma lui no, si era paralizzato. Si guardava attorno, lo sentiva che c’era qualcosa, lo percepiva.
L’acqua si muoveva placida, non un’onda anomala ne increspava la superficie, solo il sottofondo dell’Oceano e il rumore dei ragazzi poco più lontano, null’altro. Haru credette di essersi sbagliato, fece per girarsi, raggiungere il gruppo e mescolarsi con loro; ma qualcosa sfavillò appena, un lieve brillio nell’angolo dell’occhio, che avrebbe potuto tranquillamente essere il riflesso del sole sul blu dell’Oceano.

Vicino ad un gruppo di scogli – non sembrava neppure si stesse nascondendo davvero -  un giovane tritone lo osservava con un’espressione torva, a metà tra il disprezzo e la sfida; tra i fili rossi correva una lisca di pesce.
Rin?, Haruka rimase totalmente immobile a guardarlo, sebbene la sua espressione fosse rimasta immutata, i suoi occhi sembrarono emettere un grido tutto loro. Le sue pupille graffiavano la figura di quel giovane, la prendevano, la sbattevano per assicurarsi che fosse reale, che fosse lì, che non se lo stesse solo immaginando.
Erano anni – anni -  che nessuno dei suoi vecchi amici lo vedeva, né Haruka, né Makoto, né Nagisa lo avevano visto; ed ora eccolo lì, di fronte a lui, col sole che accendeva l’armatura della Guardia sulle sue spalle.
Rin scoprì ancora una volta i denti affilati da predatore, un secondo «Tsk» sfuggì dalla sua bocca. Poi, semplicemente, si girò e nuotò via veloce: probabilmente aveva già avuto quello che voleva.
 
«S-senpai...», Nitori provò ad aprire bocca, vedendosi arrivare incontro il compagno d’armi, ma Rin  ci mise un attimo a zittirlo.
Un gesto secco, uno sbuffo stizzito, e poi nuotò via, dritto e veloce tanto che l’altro fece alquanto fatica a stargli dietro.
Co’era appena successo? Perché Rin era filato via tanto da sembrare un codardo? Perché Rin, subito dopo, non sarebbe andato dai suoi compagni della Guardia a rivelare cosa aveva appena visto (e avrebbe impedito ciò anche a Nitori)?
Non era intimorito, nè preoccupato, o un traditore della sua specie, solo che voleva sapere che cosa volevano farne esattamente Haruka e gli altri di quel ragazzo. E poi, era solo un umano, non era una minaccia – solo una scocciatura – lui o chiunque altro ci avrebbe messo un attimo ad ucciderlo se si fosse rivelato pericoloso.
 

L’acqua schizzava ovunque. Schizzava sulla testa di Rei, su quella di Nagisa, sulle braccia tese di Makoto che nuotava in cerchio; l’acqua schizzava sull’acqua e tornava nel suo ciclo eterno.
Haruka aveva preferito non lasciarsi sfiorare da quelle gocce, da quel groviglio un po’ confuso che erano Rei che batteva i piedi e Nagisa che rideva ogni volta che affondava, e Makoto che girava, e mani, code, due gambe. Haruka se ne era tirato fuori, preferiva rimanere in silenzio in un angolo ed osservare.
«Rei-chan!», disse Nagisa riemergendo dall’acqua e trascinando con sé il corpo dell’umano – affondato come un sasso per l’ennesima volta.
«Rei-chan, devi concentrarti!», e poi: «Pensa di essere una piuma, Rei-chan!», e ancora: «Non sei mica un sasso!». Ma più il tempo passava, più il numero di volte in cui Rei non riusciva a rimanere sospeso a pelo d’acqua aumentava.

Sirene e tritoni nascono con Abilità speciali, non le scelgono né le acquisiscono con il tempo, se le ritrovano componenti del loro patrimonio genetico sin da prima ancora di venire al mondo:
Abilità di Cura, per guarire ferite e, talvolta, malattie proprie e altrui.
Abilità di Richiamo, per lanciare richiami – sotto forma di melodie – alle creature dell’Oceano, dai semplici pesci ai propri stessi compagni.
Abilità di Potenziamento, le più rare, le più strane, per potenziare un senso – come la vista o l’udito -, la forza, la velocità o quant’altro.
Abilità di Attacco, per, come suggerisce il nome, attaccare: sirene e tritoni con Abilità di Attacco, infatti, sono capaci di creare armi o simili.
E, infine, Abilità di Difesa, per creare scudi o barriere per proteggersi, o proteggere gli altri.

Il corallo scintillava brillante, sul capo di Makoto. Un robusto ramo rosso agghindava il lato destro dei suoi capelli castani, manifestando così la sua Abilità di Difesa. Anche solo un piccolo pezzo di quel corallo, se staccato, si moltiplicava in fretta, costruendo una dura barriera ampia quanto il tritone desiderasse. In quel caso, però, Makoto aveva preferito fare un uso improprio della sua Abilità; staccando un pezzo del suo corallo, lo aveva lasciato accrescersi e plasmato per formare una sorta di piccola tavola per aiutare Rei a restare a galla.

Era difficile da spiegare ciò che il corpo trasmetteva a Rei. Galleggiava. Le mani strette sulla tavoletta, le gambe stesse, il capo alzato. Battere i piedi uno alla volta – destro, sinistro, destro, sinistro... -, gambe stese ma non in tensione. Evitare il più possibile di schizzare, mantenere i piedi sotto il pelo dell’acqua, non schizzare.
La teoria la conosceva, era sicuro di ciò, ed ogni volta che Nagisa o Makoto lasciavano le sue mani, o che lui stesso si staccava dalla tavoletta si diceva: «Ce la faccio!». E ce la faceva davvero, rimaneva fermo a galleggiare, muoveva le mani e i piedi con una tecnica che rasentava il perfetto; ma non si muoveva di un millimetro – strano a dirlo – e in più andava via via affondando.
E Nagisa si grattava la testa, non capiva, «Stiamo sbagliando qualcosa...», diceva, ma neppure lui sapeva cosa. Quanto a Rei, aveva preferito affrontare il problema con metodo, si era arrovellato in calcoli a mente, aveva elaborato teorie per cui il suo non riuscire a nuotare era colpa della temperatura dell’acqua, della profondità, dei suoi stessi indumenti – al punto di ridursi letteralmente in mutande. Ma, naturalmente, nessuno dei suoi assurdi tentativi aveva funzionato.


La tavoletta di corallo risplendeva sotto i raggi delle ore più calde quando i ragazzi si erano arresi (per quel giorno) ed erano tornati a riva, se ne stava adagiata sulla sabbia di quell’isolotto, insofferente e grezza. E lì su quella spiaggia Haruka aveva rivelato ai compagni di aver visto Rin, che li stava spiando, ma non aveva fatto nulla, se ne era andato senza muovere un dito. Ed indossava l’armatura della Guardia.
Naturalmente Rei non aveva idea di chi fosse Rin o cosa fosse la Guardia, ma comprendeva a pieno il concetto del “qualcuno ci ha visti”. Non poteva negarlo, la prima volta che aveva visto Haruka e Makoto, lì sulla spiaggia, si era sentito teso come una corda di violino.
«Rei-chan, loro sono miei amici!», aveva detto, eppure l’istinto di sopravvivenza che scatta nella preda alla vista del predatore era scattato anche in Rei, intimandogli di mettere in moto il cervello e iniziare a calcolare le sue possibilità di sopravvivenza a quell’incontro.
Makoto e Haruka, come aveva detto Nagisa, si erano però rivelati amichevoli; questo Rin invece era un’incognita, e dalle facce degli altri poteva chiaramente evincere che quella non era una bella notizia.

L’espressione di Haruka era rimasta quasi immutata, solo lo sguardo più cupo e malinconico segnalava il quasi impercettibile mutamento del suo umore, sembrava perso in qualcosa di lontano e doloroso; Makoto, invece, mostrava a pieno le sue emozioni, che spaziavano dall’incredulità alla preoccupazione.
Nagisa invece non faceva altro che continuare a domandare: «Rin-chan? Rin-chan. è tornato?», «Rin-chan è nella Guardia?», e poi «Dite che era arrabbiato?», e ancora: «Che facciamo adesso?». Ma nessuno di loro sapeva da dove iniziare a mettere mano.
Il resto del giorno era passato abbastanza in fretta, i ragazzi si erano dati da fare e avevano allestito una sorta di piccolo riparo per la notte, fatto di una serie di quattro treppiedi in legno collegati da altri quattro lunghi bastoni e coperti dai lunghi e verdi rami delle palme per tetto. Se avessero posizionato altri rami di palma in verticale, per coprire gli spazi vuoti tra un treppiedi e l’altro, sarebbe stato facile costruire una sorta di abbozzo di pareti.
 

Solitamente, il momento migliore per pensare, durante l’arco della giornata, è la sera. Curioso a dirsi.
Assieme al Sole, dopo il tramonto, la luce viene sempre più a mancare, privando l’uomo del senso più importante: la vista. E proprio per compensare questa mancanza il corpo umano acuisce tutti gli altri sensi: affina l’udito, sensibilizza il tatto e rende più vigile e attenta la mente. E forse è proprio in virtù di questa maggiore vitalità che la mente elabora concetti più complessi, più profondi.

O forse, semplicemente, nel momento stesso in cui si smette di lavorare e si trova un attimo di pace, la mente è libera di non donare più grande peso alla globalità del mondo esterno e concentrarsi sull’interiorità del singolo individuo.
Nagisa, doveva dirlo, era insostenibile.
Per tutto il giorno era scappato da un angolo all’altro della spiaggia, trascinando da una parte all’altra legni e corde (trascinate a riva dalla marea assieme ad un paio di casse e assi rotte). Aveva iniziato a legare assieme i tre legni per il treppiedi; ma aveva abbandonato il lavoro per piantare nel terreno i treppiedi già costruiti dagli altri, e poi aveva sparpagliato ovunque i rami delle palme che servivano per il tetto.
Rei aveva sentito più volte il bisogno di gridare esasperato, ma si era trattenuto. E adesso tutta quella fatica e quel nervosismo avevano lasciato spazio solo ad una grande stanchezza, non aveva neppure voglia di contraddire Nagisa che gli si era addormentato scompostamente sulla spalla e che gli stava sbavando addosso.
Era caos, quel ragazzo, un’accozzaglia di gesti fatti senza pensare, frasi eccentriche, modi di fare esuberanti; l’esatto opposto del preciso e metodico Rei.

«Nagisa-kun?», lo chiamò, scrollando appena la spalla.
«Nagisa-kun, cosa succederà quando avrò imparato a nuotare?»
Il diretto interessato strofinò la guancia contro la spalla nuda di Rei, la camicia la indossava lui, dopo che l’umano si era (di nuovo) lamentato della totale assenza di pudore in lui. Si era tolto la camicia e gliela aveva abbottonata addosso, ammirando poi il lavoro ultimato, che consisteva in Nagisa infagottato in una camicia un po’ strappata all’altezza dei polsini che gli calzava larga sulle spalle e gli arrivava metà coscia.
Lo guardò con gli occhi grandi e scuriti dalla sera.
«Umh...», fece una smorfia, «Non lo so... Nuotiamo fino a casa tu-...»
«Na-Nagisa-kun, è un tratto lunghissimo! Sei matto?!»
Nagisa si buttò all’indietro sulla sabbia, fredda tanto da sembrare bagnata; a dire la verità mica lo sapeva che potevano fare, non ci aveva pensato. Rei doveva imparare a nuotare, stop. Poi non lo sapeva.


«Non lo so, Rei-chan...», ed era un po’ dispiaciuto. Davvero.
Rei sospirò arreso, si aspettava una risposta del genere, in un certo senso. Si gettò anche lui all’indietro, sulla sabbia fredda che punzecchiava le spalle.
«Rei-chan, secondo te quante stelle ci sono?»
«Beh, contarle è impossibile, l’Universo è troppo vasto e da questa posizione si può solo fare un’approssimazione matema-...»

«Rei-chan.»

Rei si tirò su appena, perché Nagisa aveva parlato in maniera troppo seria. Che poi non sapeva neppure se definire o meno serio quel tono di voce, era a metà tra il grave e il triste, come i bambini quando devono parlare di qualcosa di importante e brutto.
«La Guardia sono militari, se Rin-chan avesse detto qualcosa sarebbero già qui. Ma a quanto pare non ha detto niente, ma devi sbrigarti ad andare via...»

Silenzio, Nagisa rotolò su un fianco: «Rei-chan!», la voce nuovamente squillante, «Rei-chan, ti voglio bene, non voglio che tu te ne vada!», ma che differenza faceva che gli volesse bene o meno? Comunque lui se ne sarebbe dovuto andare, quello non era un mondo che gli apparteneva.

Se Rei fosse stato scoperto, glielo avrebbero portato via. Lo avrebbero catturato, incatenato, processato. Forse sarebbe stato ucciso, forse imprigionato per sempre. C’erano delle sirene, a corte, la cui Abilità di Potenziamento era quella di cancellare la memoria, forse sarebbero intervenute loro. Naturalmente non parlò di questo a Rei, non voleva spaventarlo o allarmarlo («Rei-chan, che costellazione è quella là?»)
E poi anche lui sarebbe stato processato, per tradimento; ma gli importava di più di Makoto e Haruka, perché aveva coinvolto anche loro, perché li aveva coinvolti senza che ci centrassero nulla con quella storia.
Anche loro sarebbero stati processati per tradimento, probabilmente, e Nagisa non voleva che fosse fatto del male ai suoi amici per colpa sua.

Perché per il tradimento c’era solo e solo una pena, più brutale della morte, più crudele, più dolorosa e umiliante: la Bruciatura.




Angolo autrice:
Sì, pubblico dopo un secolo.
Sì, sono le dieci e mezza di sera.
No, a caratterizzare Rin faccio schifo. Lo so, non so se ho sballato tutto o meno.
Okay, io vi amo... non prendete in mano i forconi
Se mi uccidete non saprete mai cosa farà Rin, come farà Rei a tornare a casa. Cosa diavolo è la Bruciatura.
Oh, sentiamo, per voi che è la Bruciatura? *w*
Spargo amore a random e vi riempio di gattini e nutella per farmi perdonare dal ritardo. Luv ya!
Uni.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Ad occhi chiusi. ***


Ad occhi chiusi.
 
Le file ordinate di sassolini neri correvano parallele lungo il fondo piatto oceanico, tagliate orizzontalmente solo dalle linee di inizio e di fine.
Rin avrebbe voluto descrivere il volto dell’allenatore; sapeva che era avanti ai suoi occhi, sapeva che assomigliava all’uomo che l’aveva addestrato fino a pochi mesi prima nel Mar dei Coralli, eppure era solo una sensazione. Aveva l’idea che fosse lui, forse anche la certezza; ma i contorni dell’istruttore - così come degli altri tritoni e sirene che lo affiancavano - erano vaghi ed onirici come sempre nei sogni.

Era uno di quei sogni lì, uno di quelli in cui dopo un primo momento di stordimento ripeti a te stesso: «È solo un sogno. Posso controllarlo.», e così fai. Così tenti di fare.
Ecco perché, al sentire il fischio d’inizio, era scattato in avanti, nuotando il più veloce che poteva lungo la pista di sassi e fondo oceanico. In fondo cosa altro potresti fare, in un sogno del genere, in cui la tua testa ti pone su di una pista?

Il paesaggio indefinito sfrecciava veloce accanto a lui e la fine del tracciato sembrava non giungere mai. Nuotava e nuotava, e ancora non aveva capito se fosse il traguardo a indietreggiare ad ogni suo colpo di coda, o se fosse lui che in realtà non si stava muovendo di un centimetro. E nessuno gli era più attorno.
Poi, il Cambiamento – con tanto di C maiuscola -, tu sei dentro ad un sogno che credi di poter controllare, e invece quello ti sfugge di mano.
E lo scenario cambia.

Sulla linea del traguardo, apparsa così all’improvviso da far contrarre lo stomaco, un giovane tritone lo aspettava; Rin lo riconobbe in un attimo, con i suoi capelli neri e gli occhi blu, e a primo impatto gli venne da chiedersi che cosa ci facesse Haruka lì.
«Haru-...», tentò di chiamarlo, mentre gli andava incontro. Ma Haruka rimase fermo, a guardarlo con lo stesso sguardo di quella mattina, quegli occhi che nascondevano una sorpresa enorme, un grido.
Una delle ultime volte che si erano visti...
Il fiato gli si mozzò in gola, non riusciva più a respirare. L’acqua lo invase brutale, spingendolo verso l’alto. Era una sensazione già provata, così spaventosa, quella di venire rifiutato dall’Oceano stesso, nel cui Ventre era nato e cresciuto. Soffocava.
Chiuse gli occhi, li aprì ancora, stava salendo verso la superficie alla ricerca di aria, sotto di lui Haruka era stato affiancato da Makoto e Nagisa. Guardavano verso l’alto, ma i loro occhi non erano puntati su di lui, bensì su qualcun altro: il giovane umano dai capelli blu che aveva visto quella mattina assieme a Nitori. Si osservarono solo per un istante, Rin non seppe definire il colore dei suoi occhi – forse perché effettivamente non lo conosceva – e mentre lui saliva, rigettato dal suo mondo, l’umano scendeva verso il basso catturato dal fondale.
I polmoni spremettero fuori l’ultima goccia d’aria che trattenevano.
 
 
«Senpai, senpai.»

Rin aprì gli occhi di colpo, il fiato corto. Si trovava nella camerata delle reclute della Guardia, uno stanzone più lungo che largo, spoglio; la debole luce entrava all’interno dai grossi buchi su due delle pareti fatte di spesso e duro corallo giallo. Era solo un sogno. Altra luce veniva emessa da alghe e coralli luminescenti che crescevano sulle pareti e pendevano dal soffitto.
Rin si rigirò nel letto, infastidito, – da precisare che per “letto” si intendeva una metà di un’enorme conchiglia bivalve attaccata alla parete -, mugugnando parole senza senso mentre faceva leva sul gomito per tirarsi su.
«Rin-senpai, tutto bene?», domandò Nitori, i capelli arruffati dalla notte di sonno. Si era svegliato tra i primi tritoni della camerata, si era alzato con l’intenzione di indossare con calma l’armatura, prendersela comoda prima di andare nel refettorio per la colazione e poi iniziare gli allenamenti.
Ma quella mattina Rin si rigirava nel letto, respirando affannosamente, aveva stampato in faccia una smorfia strana e qualcuno della camerata scherzava in proposito al fatto che stesse facendo gli incubi come i poppanti.
«Sì.», mugugnò Rin in risposta, alzandosi definitivamente e prendendo ad indossare frettolosamente l’armatura.
«Senpai?», provò nuovamente Nitori. Non ricevette risposta, c’era qualcosa che non andava.
Sospirando appena, si arrese all’idea che Rin non gli avrebbe rivolto la parola, immerso nei suoi pensieri com’era, «Nulla, vado a... fare colazione...», ripeté più che altro a se stesso.
 
 
Rei si girò sulla sabbia umida della spiaggia, le prime luci del mattino e la scomodità di quella superficie granulosa lo avevano incitato ad alzarsi. Nagisa, al contrario, riusciva ancora a dormire beatamente. La bocca schiusa e la posizione bizzarra - pancia all’aria e le braccia buttate una verso l’alto e l’altra verso il basso – richiamavano quel suo modo di fare sempre eccentrico e goffo. E la cosa era ancora più accentuata dalla camicia buttatagli addosso a mo’ di coperta, con tutte le sue pieghe e un inspiegabile nodo poco sopra il polsino sinistro.
«Rei-chan.», mugugnò debolmente il giovane nel sonno, scosse la testa e a Rei sarebbe piaciuto sapere cosa stesse sognando, e cosa ci facesse lui nel sogno di un tritone (Ma quindi anche loro sognano?). Nagisa si girò su un fianco, un braccio seguì il movimento del corpo, i capelli e le alghe ondeggiarono appena. Il giovane chiamò il suo nome un’altra volta, la voce infantile.
Rei, in quell’attimo di calma - con il mare al mattino c’era tanto placido, con la presenza della sabbia sotto ai suoi piedi che quasi era diventata abitudine, e un tetto costruito alla buona il giorno prima -, ecco, in quel preciso momento, Rei pensò che Nagisa-kun fosse adorabile, un adorabile diavolo di un tritone insopportabile. Perché Nagisa non gli dava un attimo di pace, lo punzecchiava di proposito, dove lui poneva un punto quello prendeva e ci costruiva sopra un casino. E poi c’erano i suoi discorsi, che forse lui credeva seri, e invece saltellava da un argomento all’altro con collegamenti improbabili.

La sera prima lo aveva tenuto sveglio fino a tardi: gli aveva parlato di stelle, della stella Polare, dei naviganti che la seguivano, di navi e delle uniformi degli ufficiali della marina.
“Una volta ne ho mangiato uno!”
 “Davvero?!”
 “Sì, ma aveva un sapore brutto!”
“...”
“ Rei-chan, secondo te che sapore ho io?”
“Eh?!”
Nagisa si era messo due dita in bocca e le aveva mordicchiate, aveva decretato che probabilmente aveva un buon sapore e poi aveva tentato di mettere le due stesse dita piene della sua saliva in bocca a Rei, per fargli vedere che sapeva veramente di buono. Naturalmente Rei si era scansato.
“E tu che sapore hai, Rei-chan?”
“N-Nagisa-kun! Non vorrai mangiarmi, adesso!”. Naturalmente, più che rispondergli (magari con un bel “no” per tranquillizzarlo) il giovane aveva preferito sorridere ad occhi chiusi e poi lanciarglisi addosso. Tra le risate aveva detto qualcosa simile a “Solo un assaggino!”.
Rei sorrise appena su quel ricordo, su quel giovane in posizione fetale, con gli occhi chiusi e il corpo semi-nascosto dalla camicia tutta stropicciata e un po’ strappata.
 
«Rei-chan...», e questa volta Nagisa non parlava nel sonno, «Buongiorno!».
Nagisa si tirò a sedere stropicciandosi gli occhi e sbadigliando a bocca spalancata, stiracchiò le braccia, scosse la testa, tentò di riaggiustarsi i capelli con una mano e poi sbadigliò mentre si stropicciava un occhio per la seconda volta.
«Rei-chan, anche oggi nuotiamo?»
, squillò finalmente sveglio e cosciente del mondo che lo circondava.
La sua mente era sempre proiettata lì, sull’acqua, sulla superficie docile dell’Oceano; mirava al’idea di tornare alla sua forma originaria, sentire la coda, le squame, respirare sott’acqua. O, forse, mirava solo a rivedere Rei sguazzare scompostamente in acqua, impacciato, e poterlo punzecchiare, prendere in giro e comandare come un burattino.
Era una disgrazia, ed era piuttosto piacevole.
«Sì, Nagisa-kun. sì.», in fondo Rei stesso voleva impegnarsi al massimo per riuscire a tornare a casa.
 
 
Quattro bambini, quattro piccoli tritoni con le loro giovani code colorate, con le loro testoline bionde, rosse, castane e nere, in cerchio.
«La mia Abilità cura le persone!»., dichiarò Nagisa, arricciandosi sul dito una delle alghe tra i suoi capelli quasi come un vanto.
Makoto si era portato una mano al ramo di corallo tra le ciocche scure: “La mia... Beh, il corallo si ingrandisce e prende la... forma che voglio, più o meno.”
“Wow!”, “Fa vedere! Fa vedere!”, dissero gli altri.
Makoto, titubante, prese tra le dita una delle ramificazioni - non era che sapesse ancora controllare del tutto la sua Abilità - staccò il pezzo vermiglio e lo piantò nel terreno sabbioso. Tutti erano rimasti bloccati in un silenzio d’attesa: Nagisa a bocca spalancata, Rin vigile e concentrato e Haruka, beh, in fondo era di Haru che si trattava.
Makoto aveva tentato di focalizzare la sua attenzione sul pezzo di corallo, pensando ad una sequela di: “Cresci, cresci... ma non troppo... solo un po’. Ma cresci!”, e poi il corallo aveva a poco a poco iniziato a spingersi verso l’alto, sempre di più (Fermati, ora, fermo!). Makoto aveva steso il pugno - basta! – e il corallo era schizzato verso l’alto, costruendo un muro rosso poco più alto di lui, prima di fermarsi.
Makoto lanciò un piccolo urlo spaventato.
«Mako-chan?»
«Makoto!»
L’interessato aggirò il muro di coralli, sorridendo timidamente alle facce preoccupate e sbigottite dei suoi amici. Gli altri risero.
«Stai bene?», «Ma... Makoto! Non sai controllare la tua Abilità?», «Vergogna, Mako-chan!»

A quel punto Rin si era pavoneggiato, che Makoto non era capace di controllare la sua semplice Abilità di Difesa mentre lui possedeva un’Abilità di Attacco fantastica e sapeva controllarla benissimo.
Naturalmente la usò, e naturalmente, la lisca di pesce tra i suoi capelli scattò – animata – verso il muro di corallo. E ci sbatté la testa.
Scosse il capo, la piccola creatura, e poi attaccò nuovamente il muro, distruggendolo a morsi e testate.
«Visto?», si vantò ancora. La lisca tornò tra le ciocche rosse del giovane.
Poi tutti gli occhi furono su Haruka: «Haru-chan, facci vedere la tua!», «È un’Abilità di Potenziamento, giusto?», «Eh? Davvero, Makoto? Haru voglio vederla!»
Non che Haruka non volesse mostrare la sua Abilità ai suoi amici, semplicemente non aveva idea di come funzionasse. O meglio, sapeva come attivarla (“Sai, Haru, che le tue bolle vanno mangiate? Dico sul serio!”), ma non aveva idea di che effetti avesse.

In passato, mentre a tutti gli altri bambini i genitori e i maestri avevano insegnato come controllare le loro Abilità, ad Haruka era sempre stato ripetuto che la sua era un’Abilità che non andava usata mai, che era pericolosa.
«No.»
«Eh? Perché?!», Rin protestò.
«Non posso.», rispose Haruka.
Tutti rimasero in silenzio a guardare Haruka, le faccette deluse. Rin si lamentò ancora, Nagisa provò ad indagare su cosa fosse in grado di fare; ma naturalmente Haruka a quella domanda non seppe cosa rispondere.
«Ma... Haru, non sai nemmeno cosa fa la tua Abilità?», chiese Makoto sorpreso.
«Haru-chan, ma non sei curioso?»
Haruka rimase muto come un abisso.
«Mmh, proviamola!», squillò dopo poco Nagisa, entusiasta come sempre.
«Sì, facciamolo!», fece eco Rin.

Non che Makoto fosse esattamente d’accordo, certo voleva sapere di cosa era capace l’Abilità di Haruka, ma non voleva forzare l’amico... Anche se - due contro uno - non poteva fare molto.
«Su chi la proviamo?»
«No!», Haruka prese ad agitarsi.
«Ragazzi-...»
«Mmh, Rin-chan! Prova tu!»
«Eeh? Perché io?»
«Se lo fai tu poi provo anche io!»
«Ragazzi non credo-...», Makoto tentò ancora di dissuadere gli amici. Senza successo.
«Va bene!», disse Rin, avvicinandosi ad Haruka per togliergli una bolla dai capelli.
Il punto era, come funzionava? Haruka aveva già provato a ribellarsi, si sporgeva in avanti, tentava di recuperare la bolla. Nagisa scattò in avanti per bloccare l’amico; naturalmente non passò per la mente di nessuno – tranne quella di Haruka – che quell’Abilità potesse rivelarsi pericolosa.
Nagisa era solo spinto dalla pura ed euforica voglia di sapere, e altrettanto Rin; Makoto, invece, era rimasto a guardare, pensando che Haru  non volesse mostrare la sua Abilità perché, come lui, non sapeva controllarla.

Rin teneva in alto il pugno chiuso sulla piccola bolla, in modo che Haruka non la raggiungesse per strappargliela via.
«Come funziona?», chiese, non sapendo che cosa farne di quella piccola sfera trasparente.
Nagisa si avvicinò, sempre spintonando lontano Haru, per ispezionare la bolla che ora giaceva sul palmo aperto sotto il naso di Rin.
«Ah! Una delle mie sorelle ha un’Abilità simile, devi metterla in bocca e-...»
«Basta!», Haruka scattò rapido in avanti per riprendersi la sua piccola Abilità, anche se ormai era troppo tardi, dato che Rin l’aveva già messa in bocca come suggeritogli.
Tutti si gelarono sul posto. La paura, il nervosismo e l’aspettativa dei suoi amici puntavano tutte su Rin, perfettamente immobile, immutato.

Cosa gli sarebbe successo?
Un secondo, due, tre, «Haru! Ma la tua Abilità no-...».

Le parole morirono in gola a Rin, il suo volto si stravolse totalmente trasformandosi in una maschera di terrore mentre si portava una mano alla gola.
«Rin!», Haruka scattò verso l’amico, vedendolo tentare di respirare ma  emettendo solo grosse bolle quando espirava.
Soffocava, Rin, non riusciva più a respirare. Spaventato e mantenendosi ancora la gola, nuotò verso l’alto.
Perché non riesco a respirare sott’acqua? Cosa mi è successo? È questa l’Abilità di Haruka?!
Rin respirò l’aria a pieni polmoni, una volta a pelo d’acqua, e mai essa gli era sembrata così buona.

«Rin!»
«Rin-chan, che è successo?»
Rin strillò, singhiozzò, si dibatté schizzando ovunque.
«Non riesco a respirare sott’acqua!», disse, le lacrime agli occhi, «Haru, cosa mi hai fatto?!»
«E adesso?»
«Vi prego, aiutatemi!»
«Haruka.»
«Haru-chan!»
 

«Haru?»
Haruka ritornò bruscamente alla realtà. Makoto gli stava sventolando una mano avanti la faccia. Sbatté gli occhi un paio di volte, rendendosi conto di essersi totalmente perso tra i suoi pensieri – ricordi – mentre guardava distrattamente gli altri impegnati nel tentare di insegnare a nuotare all’umano.
Haruka scosse la testa.
In quel momento, Rei era alle prese con la piccola tavoletta di corallo costruitagli il giorno prima da Makoto. Nuotava abbastanza bene tenendo le braccia sulla tavola e agitando i piedi.
Il problema sorgeva quando il giovane tentava di staccarsi dalla tavola per nuotare in totale autonomia, a quel punto affondava miseramente senza alcuna apparente spiegazione logica.
«Rei-chan! Ancora?!»
«Mi dispiace, Nagisa-kun, ma veramente nemmeno io capisco perché mi succede questo!»
«Se continui così rimarrai qui con me per sempre, Rei-chan!», Nagisa enfatizzò quell’appellativo con una lieve punta di malizia, abbastanza da far arrossire Rei.

La giornata, per parlarne in breve, proseguì allo stesso modo della precedente: con un continuo di tentativi e fallimenti di Rei, pause e prese in giro di Nagisa, capaci di portare Rei al limite della sopportazione.
Con quel suo modo di fare, il tritone sembrava quasi avere l’umano totalmente alla sua mercé.
Rei chiuse gli occhi una volta incontrata la sabbia della riva, era stremato, gli doleva ogni singolo muscolo e sentiva di poter crollare da un momento all’altro; ma nonostante questo ancora non era per nulla capace di nuotare (senza contare il saper andare avanti e indietro con una tavoletta, certo).
«Rei-chan,», Nagisa lanciò un piccolo risolino stendendosi al suo fianco, «affondi così tante volte che se solo respirassi sott’acqua a quest’ora saresti già a casa!»
«Nagisa-kun!», Rei si stese su un fianco in modo da avere il tritone – ora trasformato in forma terrena – avanti a sé.
«Non deridermi! E poi è impossibile che un umano respiri sott’acqua! I nostri polmoni non po-...»
«Rei-chan! Stai parlando con un tritone!»
Rei tacque, colpito e affondato.
«Na-Nagisa-kun... Potresti metterti qualcosa addosso?», domandò Rei anche se ormai era certo che l’altro non l’avrebbe ascoltato.
Infatti, Nagisa sorrise con finta innocenza, sporgendosi in avanti per dargli un goffo bacio sulla punta del naso (Cosa? Nagisa-kun, ma-...) e poi appoggiò la testolina bionda sul suo petto.
Rei rimase immobile, la vista sfocata perché senza occhiali, Nagisa accoccolatoglisi addosso e totalmente in imbarazzo per la situazione.
Sospirò, le palpebre gli si calarono per la stanchezza, solo due minuti di riposo.
E, ad occhi chiusi, rimasero entrambi così.



Angolo autrice:
Ormai si è capito che la storia procede alquanto a rilento, più che altro per il poco tempo che posso dedicarle, oltre al fatto che ogni volta scrivo due parole in croce e poi mi blocco.
Comunque, ecco qui il nuovo capitolo, che per precisare è anche particolarmente lungo dato che vi amo.
Inoltre, dato che le persone che seguono questa fiction sono adorabili, Hanon993 mi ha donato un'altra splendida fanart dei miei gioielli (purtroppo l'editor non mi fa inserire i collegamenti, quindi mi tocca arrangiarmi con i link): 
http://hanon993.deviantart.com/art/Nagisa-on-the-Cliff-by-the-Sea-435320894
Inoltre - DAN DAN DAN - chi mi segue su facebook forse lo avrà già visto ma, ehi, ho fatto anche io un disegno (e questa volta un tir non sembra ha investito Nagisa)!
Lo trovate qui: 
http://oi62.tinypic.com/femja0.jpg 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La teoria dell'effetto inverso. ***


La teoria dell’effetto inverso.
 


Nagisa tese una mano verso l’alto - la schiena contro la sabbia e un braccio dietro la testa – e ammirò i raggi di luce passare tra dito e dito. La domanda postagli da Rei era semplice, e la risposta immediata:
«Sette.», disse sorridendo, socchiudendo un po’ gli occhi perché la luce lo colpiva in piena vista.
«Sette Regni? Solo Sette Regni in tutto il mondo, in cui vivete?», esclamò Rei lì al suo fianco, seduto.
Nagisa si tirò a sedere a sua volta, un broncio lieve in viso, quasi come uno scherno: «No, Rei-chan! In ogni Regno c’è uno dei Principi, ma poi ci sono tante piccole tribù ovunque.». Agitava le mani nel parlare.

Rei tentò di fare i conti, di capire a quanto ammontasse il numero di abitanti semi-umani dell’Oceano; cosa alquanto impossibile dato che non sapeva quante sirene e tritoni effettivamente vivessero nei Sette Regni, né quanto questi Regni fossero estesi o quante e quanto grandi fossero le “piccole tribù” sparse ovunque. Basandosi su supposizioni astratte, i Figli dell’Oceano dovevano essere molti meno dei Figli della Terra, ma comunque un numero piuttosto elevato e indefinito. Anche se, contando il fatto che l’acqua copre la maggior parte delle superfici nel globo, non è da escludere
neppure la possibilità che sirene e tritoni siano più numerosi degli uo-...


Rei - un po’ curvato su se stesso, con una mano sotto il mento e lo sguardo serio, fisso nei suoi ragionamenti -  sussultò di colpo, lanciando le braccia in aria e coronando tutto con un grido, nel vedersi improvvisamente strusciare sul naso un oggetto verdognolo e viscido non identificato.
Per riportarlo nel mondo reale, Nagisa aveva pensato bene di strusciargli in piena faccia una delle sue alghe – in fondo erano tutto il contrario di tossiche o che altro. E c’era riuscito, a ridestarlo s’intende, infatti Rei era quasi balzato in aria con un urletto non propriamente virile. Uno spettacolo alquanto comico, naturalmente!

Nagisa guardò l’umano al suo fianco con un occhio chiuso e un sorriso birichino stampato in faccia.
«Na-Nagisa-kun! Questo non è bello!», aveva protestato il giovane strofinandosi la punta del naso con il braccio, ancora disgustato dalla sensazione di viscido sull’epidermide.
Nagisa ridacchio, un po’ maligno, in risposta; «Ma - Rei-chan! – avevi una faccia buffissima!», trillò con falsa innocenza.
«Mi hai messo un’alga in faccia! Non si fa, Nagisa-kun! No!»
Ma Nagisa rideva, si divertiva ad infastidirlo ancora una volta, tanto che c’era da domandarsi se la sua non fosse una semplice e continua ricerca di attenzione.
«Ah, ti da fastidio? Scuuusa, Rei-chan!», disse con una vocina bugiarda, «Allora la prossima volta ti darò un bacino!»
Ora, qualcuno potrebbe pensare che Nagisa stesse scherzando, ma chiunque – Rei stesso -  si sarebbe ricreduto nel vedere Nagisa avvicinarsi ad occhi chiusi e con le labbra tese a pesciolino.

Il viso di Rei prese letteralmente fuoco dall’imbarazzo, mentre con una mano tentava di spingere via Nagisa. Sfortuna però volle che Rei tentasse di allontanare il giovane mettendogli la mano in faccia, ritrovandosi così il palmo ricoperto della saliva di appiccicosi baci a schiocco.
«Nagisa-kun, questo non è decisamente bello!», ripeteva Rei mentre continuava a strofinare il palmo sulla sabbia, riempiendolo di granelli invece di pulirlo.
«Ma, Rei-chan, io voglio darti un bashino.», rispose Nagisa, strascicando l’ultima parola perché con le labbra già spinte in fuori per quel bacio.
«Eh?! No!»
«Bashiiinoo!»
«Assolutamente no! Nagisa-ku-...», Rei tentò in vano di girare la testa dall’altra parte mentre protestava, ma l’unico effetto della sua azione fu che Nagisa si sporse ancora più avanti per baciarlo ad un passo dall’orecchio.

Le onde andavano avanti e indietro in una danza infinita, l’acqua affondava tra granello e granello, penetrando in profondità per ritornare nel suo ciclo millenario. E, in tutto quel susseguirsi di eventi ciclici che avevano visto migliaia e migliaia di storie iniziare e finire, Rei girò il viso paonazzo – forse per protestare, forse solo per fissare l’altro ad occhi sgranati e fare scena muta – e Nagisa, con più calma di prima, si avvicinò una seconda volta per dargli un fugace bacio a fior di labbra.
 
 

Makoto si spinse più avanti con un colpo di coda, lui e Haru avevano lasciato Nagisa in compagnia di Rei alla fine dell’allenamento ed erano andati per la loro strada.
Haruka non era mai stato molto loquace, solitamente quando nuotavano fianco a fianco, solo loro due, calava una cappa di silenzio che con il tempo Makoto aveva imparato a riconoscere come complice e familiare. Ma quella volta c’era qualcosa di diverso, Haruka non stava zitto e basta, aveva alzato barriere invisibili e si era chiuso in se stesso, senza neppure alzare una volta lo sguardo per incontrare gli occhi di Makoto (che si sapeva andassero spesso alla ricerca dell’altro).

«Haru, c’è qualcosa che non va?», domandò con tutta la sua premura e il suo sorriso dolce.
Haruka sospirò appena, graziando Makoto di un solo e fugace sguardo prima di tornare a guardare l’acqua avanti a lui.
Makoto, più preoccupato ancora dopo quello sguardo, domandò un’altra volta: «Haru, è successo qualcosa? Che cos’hai?», il suo sorriso fu sostituito da un’espressione di preoccupazione.
Haruka, dopo ancora un attimo di silenzio, parlò: «Mi sono ricordato di quando eravamo bambini, di quando Rin ha voluto provare la mia Abilità.»
«È... È perché hai visto Rin ieri?», Haru non rispose a quella domanda ma Makoto capì perfettamente che la risposta sottintesa fosse affermativa, «Haru! Non... devi sentirti in colpa per quello che è successo! Rin non avrebbe dovuto-...»

Makoto smise di parlare nel vedere Haruka fermarsi, il capo chino.
Haruka non disse nulla, Makoto capì tutto.

Capì che si stava ancora incolpando di quello che era successo al suo amico, si incolpava della paura che Rin aveva provato e, soprattutto, si incolpava del fatto che dopo quell’evento Rin era fuggito. Aveva preso le sue cose e aveva convinto sua madre a fargli frequentare l’Accademia nel Mar dei Coralli, nelle calde acque del reef australiano. Aveva semplicemente fatto leva sul fatto che volesse seguire le orme del defunto padre e tentare anche lui di entrare nel corpo dei valorosi soldati della Guardia, sotto il diretto comando del Principe; e poi aveva preteso di frequentare la più prestigiosa di tutte le Accademie dei Sette Regni. Qualche protesta, qualche promessa, e Rin alla partenza che guardava con tanto, troppo, astio Haruka. Quello sarebbe dovuto essere un addio...

E invece la mattina prima i due si erano rivisti dopo anni, e Rin aveva usato lo stesso sguardo di allora per guardarlo, la stessa muta accusa.
Era così arrabbiato con se stesso, Haruka, con Rin e la sua reazione sin troppo esagerata che non gli aveva lasciato spazio per spiegare, e con chi gli aveva tenuto nascosto il vero potere della sua Abilità. Arrabbiato e basta.
«Haru?», Makoto esibì ancora una volta il suo sorriso bonario, «Tu non potevi sapere quello che sarebbe successo... e poi alla fine non è accaduto nulla di grave, l’effetto dell’Abilità dura solo un’ora, no?». Le ultime parole furono pronunciate con una smorfia triste.
«Già...», borbottò in risposta un Haruka non molto convinto.
E la questione rimase sospesa lì, irrisolta tra Haruka e Rin com’era sempre stata. E Makoto, per quanto ci provasse, da solo non sarebbe mai riuscito a calmare le acque.
 
 

Rei si sciacquò ancora una volta il viso, e poi ancora un’altra volta, e un’altra, e un’altra ancora; la superficie del piccolo fiume rifletteva la sua immagine sconvolta e distorta. Una delle prime cose che aveva fatto, una volta rimasto bloccato su quell’isola, era stato andare alla ricerca di cibo ed acqua.

Forse in vita sua non aveva mai letto un manuale sulla sopravvivenza – in fondo a cosa gli sarebbe servito sapere come costruirsi un rifugio o procacciarsi del cibo, se i suoi piani non comprendevano di certo l’avventurarsi in territori privi di un minimo di civiltà? -; ma, da uomo, conosceva i suoi bisogni principali, e quindi era andato alla ricerca di viveri. Per puro caso, alla fine era stato Nagisa a indicargli la fonte di acqua dolce, e sempre per puro caso era stato lui a procurargli alcuni frutti commestibili. Solo per caso – certo! –, in fondo se fosse stato da solo lui di certo non sarebbe stato così stupido da mangiare qualche bacca velenosa, forse.

Inginocchiato sulla piccola fonte d’acqua potabile, Rei bevve un paio di sorsate pensando al fatto che se mai fosse tornato a casa vivo e vegeto la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato procurarsi proprio quei manuali per la sopravvivenza – che adesso non gli sembravano per nulla inutili -, e anche qualche libro sul nuoto.
Sempre se Nagisa... Nagisa! Ormai era sempre e solo Nagisa. Nagisa ovunque. Nagisa che cantava, che saltellava sulla spiaggia, Nagisa che gli diceva “Ti insegno a nuotare!”, e Nagisa che lo chiamava “Rei-chan”, scherzava e poi lo baciava.
Lo ba-cia-va. Rei era un uomo e Nagisa anche - più o meno, mezzo pesce ma pur sempre maschio -, perché avrebbe dovuto provare un qualsiasi tipo di interesse “in quel senso” per un altro maschio?

Magari era perché era un tritone, magari tra loro non si facevano differenze di questo genere; o magari era solo Nagisa e basta ad avere in testa certe idee, forse la sua era solo curiosità. O l’ennesimo modo per infastidirlo.
Ecco, probabilmente questo era l’ennesimo suo scherzo. Ed era davvero di pessimo gusto, anche perché Rei a ripensare alle labbra di Nagisa posate sulle sue... Si rimise gli occhiali sul naso, stizzito, non che non gli fosse piaciuto, diciamo che non gli era dispiaciuto poi così tanto, ecco.

Si strofinò le mani bagnate sulle braccia, tentando di togliersi di dosso un po’ del sale che gli era rimasto addosso, sotto forma di un farinoso velo bianco, una volta evaporata via l’acqua dell’Oceano.
La cosa più fastidiosa, in quel momento, non era tanto il fatto che non potesse farsi un bel bagno per pulirsi del tutto - dato che l’acqua non era per nulla profonda e il letto del fiumiciattolo non così ampio – né l’ingarbugliato monologo che stava portando avanti nella sua testa su Nagisa, quel bacio e manuali di sopravvivenza (e la necessità di trovare un “manuale di sopravvivenza ai baci di Nagisa”); in quel momento, la cosa più fastidiosa era Nagisa, qualche passo più indietro, accovacciato su una roccia, che canticchiava come se non fosse successo nulla.

Dal canto suo, Nagisa canticchiava proprio perché era successo qualcosa, qualcosa di davvero bello come strappare un piccolo bacio a Rei-chan. Ed era da un po’ che pensava di volerlo fare: al fianco dell’umano lui si sentiva così bene, e trovava così buffo il modo in cui Rei arrossiva, o il movimento con cui si aggiustava gli occhiali. Aveva voluto dargli un bacio, che male c’era, nel volergli dimostrare con i gesti quei sentimenti che aveva iniziato a provare nei suoi confronti?
Sorrise furbo, bhe – forse – un po’ di male c’era...
Giocherellò con uno dei bottoni della camicia di Rei, ormai per lui era divenuto un obbligo indossarla, mentre osservava con falsa innocenza i muscoli dell’umano muoversi mentre si piegava a prendere dell’altra acqua.

«... d’Attacco saranno le Abilità di chi il nemico forte vorrà colpire...»
«Nagisa-kun, potresti smetterla?», protestò Rei, infastidito da quella canzoncina sulle Abilità che Nagisa portava avanti da un po’. Canzoncina che, Rei forse non lo sapeva, era al pari di una di quelle filastrocche umane per ricordare i mesi dell’anno.
«... Mille e mille facce avrà il Potenziamento, che più di tutti può essere il tremen-...», «Nagisa-kun, adesso basta!». Rei aveva gridato.
Nagisa guardò Rei in tralice prima di chiedere: «La canzone non ti piace, Rei-chan? Che ne dici se che canto una sui Regni? Ce la insegnano da piccoli per ricordare i nomi dei Regni! Allora... Là dove si intrecciano il Circolo ed il Primo, i Regno dei Nodi si-...»
Rei aveva sospirato pesantemente, prima di alzarsi, aveva anche borbottato stizzito qualcosa sul fatto che non voleva sentirlo e poi, facendo cenno a Nagisa, si era incamminato per tornare alla spiaggia.
Decisamente, questo era davvero poco bello!

Una mente abituata al calcolo, alla precisione, a prevedere gli eventi – con un certo margine di errore – successivi alle sue mosse, si era ritrovata a fare i conti con qualcosa di imprevedibile come Nagisa. Se Rei si fosse concentrato, se avesse passato più tempo con lui, forse sarebbe riuscito a decriptare parte del suo codice di comportamento. Avrebbe associato ad una smorfia e ad un’intonazione della voce un determinato stato d’animo, forse un’idea. Ma di lì a prevedere le sue mosse, beh, questo era quasi del tutto impossibile. Certo, in parte potevano essere predette, intese; ma ci sarebbero comunque stati quelle sue idee bizzarre, quasi infantili, che miravano a mandare in crisi il suo cervello. Perché Nagisa, forse prima o poi Rei sarebbe arrivato a capirlo, adorava quel sadico gioco di esasperazione dell’altro.

«Rei-chan...», disse Nagisa al termine di quel silenzioso viaggio verso la spiaggia. Guardò Rei con quei suoi occhi grandi e porpora prima di domandare con tutta la sincerità del mondo: «Rei-chan, ho fatto qualcosa di male?»
Rei ricambiò per qualche secondo lo sguardo dell’altro, domandandosi se veramente Nagisa non avesse compreso il suo errore – sempre se così si poteva definire – o se si stesse ancora una volta atteggiando ad innocente, pur conoscendo il suo sbaglio.
«Nagisa-kun,», Rei si sedette a gambe incrociate a terra e proseguì a parlare solo quando anche l’altro si sedette alla sua destra, «Nagisa-kun... Non è normale, beh, ecco... quello che hai fatto!»
Nagisa stese le gambe sulla sabbia, gettando il capo verso dietro. «E cosa ho fatto, Rei-chan?»
Rei si girò a guardare l’altro, osservò il suo sorrisetto, i suoi occhi sgranati che puntavano verso il cielo, lo studiò bene e decretò che quella volta stava decisamente mentendo, che sapeva perfettamente di cosa stesse parlando Rei.
«Nagisa-kun!», si risistemò gli occhiali sul naso, «Tu mi hai ba-...». Le parole gli si fermarono lì in gola, quando sentì un dito di Nagisa passargli lungo il fianco, seguendo la cicatrice che era rimasta dopo che Nagisa l’aveva curato con la sua Abilità.

Sorrise appena, Nagisa, ad occhi chiusi, e Rei si rese conto che ormai non faceva quasi più caso alle alghe che si intrecciavano tra le sue ciocche bionde.
«Rei-chan, sei arrabbiato così tanto?»
«Eh? No! Non sono arrabbiato... Sono... Non devi farlo più, okay?»
Nagisa mise il broncio, sbuffò appena un: «Perché?» che fece sussultare Rei.
«N-Nagisa-kun! Non è normale!»
Nagisa accolse quell’ennesimo “non è normale” come un pugno nello stomaco, celando tutto il suo sconforto sotto l’ennesimo sorriso tirato. Incassò il capo tra le spalle, guardando le sue gambe snelle e chiare; forse, se lui fosse stato umano non sarebbe stato così non normale per Rei baciarlo, magari avrebbe potuto iniziare a piacergli come l’umano piaceva a lui.
Sconsolato, giocherellò con un piede nella sabbia, piegando il ginocchio e strofinando la pianta del piede sulla rena.

Non se ne era accorto, ma mentre camminava si era procurato una ferita, un piccolo taglio sull’alluce destro che stava già andando rimarginandosi, creando un grumo di sangue secco con qualche granello di sabbia appiccicato. Grattò via la sabbia appiccicata e pensò bene di curare quel piccolo taglio quasi per nulla fastidioso con un pizzico della sua magia– dato che si sarebbe trasformato in una piccola intaccatura sulla sua coda che, com’era logico fosse, avrebbe bruciato al contatto con l’acqua di mare.
Bastò solo un pezzo, meno di metà, di una delle tante alghe che s’intrecciavano tra i suoi capelli per risanare quella piccola ferita, questione di attimi.

Durante quegli attimi, Rei rimase muto ad osservarlo con la coda dell’occhio, chiedendosi quante e quali fossero le possibili applicazioni in campo medico di quelle alghe magiche.
 «Nagisa-kun», domandò Rei, «esattamente, cosa curano le tue alghe?»
Nagisa ci pensò solo un attimo, alla risposta, contando le potenzialità della sua Abilità sulle dita delle mani: «Curano le ferite, le punture delle meduse... Dicono curino anche le bruciature, ma non ho mai avuto modo di provare!»

Rei annuì pensando che se la semplice Abilità di un tritone comune – lo si poteva definire così? – aveva tali potenzialità di cura, anche se limitate a curare danni fisici, cosa potevano mai le altre numerose Abilità di tutte le altre sirene e tritoni?
Pensò all’immensità di quei poteri, a quella scoperta straordinaria, al fatto che se l’esistenza di tritoni e sirene fosse stata rivelata al mondo tutte quelle Abilità sarebbero state un contributo grandioso alla scienza. Poi quell’idea grandiosa si fece sempre più piccola, e si accartocciò su se stessa, quando Rei si rese conto che gli uomini avrebbero probabilmente preso quei mostri immondi quali erano sirene e tritoni e li avrebbero trucidati in massa, o imprigionati per sfruttarli.
«Nagisa-kun, e gli altri cosa sono in grado di fare? Makoto-senpai sa fare... quelle cose con i coralli, giusto?»
Nagisa annuì, puntando su Rei i suoi occhi vispi come al solito – al contrario di prima, velati di una sorda tristezza -, mise su uno dei suoi sorrisi compiaciuti e disse: «Sì, Mako-chan controlla il suo corallo! È un’Abilità di Difesa, ma se ci si esercita si è anche capaci di dargli la forma che si vuole e costruire oggetti, oltre che usarlo come semplice scudo! Mako-chan, da piccolo non sapeva controllare bene la sua Abilità e, beh, una volta quasi ci fece davvero male... Per questo si è allenato molto in questi anni per saper controllare alla perfezione il suo corallo, e ora sa anche modellare cose... Come la tavoletta che usiamo quando ti alleni!». Nagisa raccontò quella storia compiaciuto, orgoglioso dei successi del suo amico quasi fossero anche i suoi.
E, mentre nei suoi occhi si rincorrevano i ricordi di un gruppo di piccoli tritoni quasi colpiti dagli spuntoni della barriera di corallo impazzita eretta da un giovane Makoto; Nagisa decise di omettere il piccolo particolare che anche i suoi poteri potevano essere accresciuti, dandogli la capacità di curare anche febbri e piccoli malesseri come il mal di testa ed altri... se solo non fosse stato così svogliato e avesse voluto esercitarsi.

«E Haruka-senpai?», domandò Rei di colpo, sorprendendo un po’ Nagisa e lasciandolo basito.
I piedi del tritone sprofondarono nella sabbia per metà e riemersero lanciando all’aria qualche granello; Nagisa continuò a giocherellare con gli occhi bassi sulle sue dita dei piedi, mentre parlava.
«Non lo so con precisione... Quando eravamo piccoli non lo sapeva neppure Haru-chan, e quando Rin-chan ha provato una delle sue bolle quasi stava soffocando, non era più capace di respirare sott’acqua! E rimase così per un’ora, poi l’effetto delle bolle sparì da solo.»
Rei rimase immobile nel sentire quella storia, nell’immaginare quale spavento avrebbe mai potuto provare un piccolo tritone nel non saper più respirare, protagonista della non più assurda idea di un pesce che affogava.

«In pratica...», Nagisa proseguì nel parlare, «L’Abilità di Haru-chan agisce sul saper respirare sott’acqua! Rin-chan è stato per un’ora a galleggiare in mezzo all’Oceano, dopo aver mangiato quella bolla!»
Sorvolando sul concetto di “mangiare la bolla” e sull’ennesima volta in cui questo “Rin-chan” veniva nominato, Rei si risistemò gli occhiali sul naso: l’Abilità di Haruka bloccava la “magica” capacità di respirare sott’acqua di sirene e tritoni, era chiaro. Ma Rei, da umano qual era, si domandò che effetti poteva mai avere quell’Abilità su un Figlio della Terra.

«Nagisa-kun, e su un umano che effetti ha?», infatti domandò, precisando poi: «Se, per esempio, io mangiassi una delle bolle di Haruka-senpai, succederebbe l’inverso?»
Nagisa corrucciò lo sguardo, non comprendendo appieno il discorso di Rei, tant’è che l’altro dovette chiarire tutto chiedendo: «E se mangiandola potessi riuscire a respirare sott’acqua?»

Nagisa sgranò gli occhi, stendendo le labbra in un sorriso; Rei si sarebbe aspettato un complimento, o anche solo l’assenso del tritone, e invece ricevette un piccolo commento che lo punse dritto sul vivo:
«Rei-chan! Se quello che dici è vero allora non affogherai più quando affonderai come un sasso!»
Nagisa rise di gusto, alzandosi in piedi e scrollandosi di dosso la sabbia con le mani. Se quello che Rei-chan supponeva era vero, andava provato al più presto!

Gonfio di quell’entusiasmo, prima di correre via, si piegò su Rei, prendendogli il viso tra le mani e avvicinando pericolosamente (per l’ennesima volta) il suo, incurante della proibizione imposta da Rei pochi minuti prima. Con i nasi attaccati, Nagisa soffiò sulle labbra ad un centimetro dalle sue: «Vado a trovare Haru-chan!», certo che, trovando lui, avrebbe trovato anche Makoto.
«Nagi-...», non ci fu tempo per rispondere, protestare o scansarsi, quel centimetro che li separava dal bacio fu divorato da un paio di piccole labbra rosee.

La prima volta che Nagisa lo aveva baciato, per Rei c’era stato solo il tempo di capire cosa stesse effettivamente facendo il tritone che già era tutto finito; adesso, invece, il contatto prolungato con le labbra dell’altro gli diede il tempo non solo di rendersi conto del bacio, ma anche di socchiudere istintivamente gli occhi. E pensare che, mentre la pelle di Nagisa emanava un vago e pungente odore di salsedine, le sue labbra sapevano del sale dell’Oceano; ed erano morbide, anche se si premevano con una certa prorompenza su di lui.
 

 
Rei strinse la sua camicia tra le dita, Nagisa gliel’aveva praticamente lanciata addosso poco prima, deridendolo per il rossore del suo viso quando le loro labbra si erano allontanate. Poi Nagisa aveva preso la sua strada, andando alla ricerca di Haruka, scomparendo nell’immensità dell’Oceano.

Nagisa era troppo positivo, troppo entusiasta: non aveva dato nessun peso ad altre teorie possibili, dando per scontata la più rosea.

L’Abilità avrebbe potuto non avere alcun effetto, dato che in realtà si limitava semplicemente al privare i Figli dell’Oceano della capacità di respirare sott’acqua e, di conseguenza, non avrebbe avuto nulla da togliere ad un Figlio della Terra come lui. O, peggio ancora, l’Abilità di Haruka avrebbe potuto agire in realtà sulla capacità di respirare nel proprio ambiente naturale e, di conseguenza, mangiare una di quelle si sarebbe rivelato per lui fatale.
E Rei sarebbe morto soffocato.




Angolo autrice:
Le me è felice perchè in questo capitolo mi sono sentita ispirata e tutto è andato - quasi - esattamente come volevo (anche se nella mia testa è ancora presente la vocina: "Non voglio andare OOC! Non voglio andare OOC! Ommioddio, e se stessi andando OOC?)
E poi avete visto come mi è venuto luuuuungo?
Comunque, per precisare, il "Regno dei Nodi" della canzone di Nagisa ho voluto chiamarlo così perché si trova lì dove il "Primo", ossia, il meridiano di Greenwich e il "Circolo", ossia l'Equatore, si incontrano, ossia nel Golfo di Guinea... Che si trova nell'Atlantico del Sud, uno dei "sette mari". Specificato ciò... Ehi, che ne dite delle teorie sulle potenzialità dell'Abilità di Haruka?
Un bacio a tutti, spero che il capitolo vi sia piaciuto <3
Uni.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2151089