We'll won the distance, together. di We are Directioners (/viewuser.php?uid=658523)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter one. ***
Capitolo 2: *** Chapter two. ***
Capitolo 3: *** Chapter three. ***
Capitolo 4: *** Chapter four. ***
Capitolo 5: *** Chapter five. ***
Capitolo 6: *** Chapter six. ***
Capitolo 7: *** Chapter seven. ***
Capitolo 8: *** Chapter eight. ***
Capitolo 9: *** Chapter nine. ***
Capitolo 10: *** Chapter ten. ***
Capitolo 11: *** Chapter eleven. ***
Capitolo 1 *** Chapter one. ***
"No, mamma! No! Io non vengo! Non tornerò a vivere da papà, di nuovo!"
In quel piccolo appartamento si percepiva soltanto la mia fragile voce, tremante di paura.
Dall'altro capo del telefono, mia madre stava cercando di mantenere la calma, ma sapevo che era turbata. "E invece si, Brenda, e partirai domani stesso! E' deciso ormai! Prepara la valigie, ci vediamo a casa".
Ero incapace di pensare, di fare qualunque cosa. Per quale motivo dovevano sempre decidere loro della mia vita? Rimasi per qualche minuto ferma a fissare il muro davanti a me, con ancora il cellulare in mano, quando decisi che avrei dovuto reagire. Uscii di casa, misi le cuffie nelle orecchie, e quelle melodie posizionate in quel modo, sapevano calmarmi. Sempre. Mi facevano ritrovare la giusta armonia, mi davano la forza che avevo bisogno. L'unica cosa di cui avevo paura era come l'avrebbe presa Matteo, il mio fratellino. Aveva soltanto otto anni! Qualunque cosa sarebbe successa, sapevo che l'avremmo superata, insieme. Avremmo messo da parte tutte le litigate, le discussioni per affrontare quella cosa chiamata DISTANZA.
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Capitolo 2 *** Chapter two. ***
I
muri bianchi senza foto e poster della mia
stanza erano freddi e vuoti. I ricordi mi fissavano, mi chiedevano di
rimanere.
Era come se mi trattenessero con le loro mani, ma ero ancora troppo
debole: non
riuscivo a resisterli. Avevo appena finito di fare quella maledetta
valigia, e
mi ero sdraiata sul letto a riflettere. "Non
era giusto. Perchè dovevo lasciare la mia vita
per un loro capriccio? Proprio adesso che Steve stava per chiedermi di
uscire. Come
avrei avvertito i miei amici? E Anna? L'avrei distrutta.
Perchè?'"
Troppi interrogativi
giravano e rigiravano in testa
senza un ordine. Improvvisamente sentii la serratura aprirsi. La voce
di un
bambino di 8 anni riecheggiava nella casa: "Brenda, mamma, sono
arrivato
finalmente! "
Cercai di nascondere il mio
dolore.
Avrei dovuto combattere
contro quello di una
creatura ancora più fragile: mio fratello.
Lui entrò in
camera, e allargando le braccia urlò
"Ciao sorellona!", ma non fece in tempo a pronunciare le ultime
sillabe, che si pietrificò.
Indietreggiò
subito, non appena vide gli scaffali
vuoti e bianchi della mia stanza.
"Dove vai, Brenda? Vai a
dormire a casa di
Anna, vero?"
Il suo sorriso si era
trasformato in uno sguardo
serio e triste, e nei suoi occhi vidi tutta la tristezza che
papá gli aveva
lasciato andandosene. Sarei riuscita a superare il dolore della
distanza dal
mio paese, e dei miei amici, ma avrei affrontato anche quello di mio
fratello?
Ero rimasta in piedi davanti a lui, immobile come una statua. Non avevo
la
minima idea di come affrontare l'argomento nel migliore dei modi per
lui.
Volevo evitargli qualunque dolore, ma sapevo che sarebbe stato
inevitabile.
Così mi avvicinai a lui e lo abbracciai con dolcezza. Lo
guardai dritto nei suoi
occhi verdi, e gli dissi: "Matte, ascoltami molto attentamente, ricordi
quando papá è andato via?"
Lui fece cenno di
sì con la testa.
"Mamma e papá
hanno deciso che devo andare a
casa sua per un po'. Non so per quanto tempo, ma ti prometto che ci
sentiremo
tutti i giorni e che lotteremo contro la distanza". In quel preciso
istante lo strinsi ancora più forte a me. La mancanza di un
padre e la distanza
della sorella maggiore, erano il genere di cose che avrebbero potuto
traumatizzare un bambino fragile come lui, e io dovevo evitarlo a tutti
i
costi.
Quando rividi il suo dolce
faccino mi accorsi che
stava piangendo. "Farai come papá, non è vero?"
"No. Io non sono come nostro
padre. Tornerò, e
ti chiamerò tutti i giorni, capito? Io e te, contro il
mondo, ricordi?"
Lui annuì e si
asciugò le lacrime.
Nel frattempo, qualcuno
bussò alla porta. Era la
mamma.
"Amore, sei p-pronta?"
La sua voce balbettava:
nessuno di noi era pronto a
quel trasferimento. Forse, nemmeno papá.
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Capitolo 3 *** Chapter three. ***
“Si
mamma, arrivo”, dissi cercando di
svegliarmi dall’incubo in cui mi stavano catapultando.
Chiusi
per bene la valigia sul letto, e
diedi un’ultima occhiata alla mia stanza. Era fredda e vuota,
proprio come il
mio cuore. Ogni piccola parte di quei muri, mi riportava ad un ricordo,
brutto
o bello che fosse, dovevo lasciarlo lì per sempre.
“No,
Brenda! Rimani qui”.
Sentii
due braccia magre circondarmi le
cosce. “Fermerò il treno, o l’aereo! Ti
impedirò di partire”.
Cacciai
dentro le lacrime che volevano uscire.
Non avrei allagato casa mia per questo. Dovevo far vedere a Matteo che
ero
forte, ma la cosa più difficile era dimostrarlo a me stessa.
“Matte”,
dissi abbassandomi per guardarlo
negli occhi e per accarezzargli dolcemente le guance lentigginose,
“non
possiamo farlo, lo sai. Tornerò, te lo prometto. Lo
farò per te”.
Gli
schioccai un bacio sulla guancia, e lo
abbracciai. Fu uno di quegli abbracci che ti senti dentro,
nell’anima. Si
avvinghiò a me per qualche minuto, ma poi si decise a
lasciarmi andare. Fu il
turno di mamma.
Appena
i miei occhi nocciola incontrarono i
suoi neri, lei mi abbracciò fortissimo e sospirò.
Rimasi abbastanza sorpresa:
mamma non era mai stata la persona più dolce e affettuosa
del mondo, ma ci
volevamo bene.
“Allora,
Brenda”, disse fissando i suoi
occhi nei miei, “sotto casa c’è il taxi
che ti aspetta, digli di andare all’aeroporto,
eccoti i soldi”, disse dandomi 50 euro.
Deglutii.
“Questi
sono i biglietti, atterrerai per le
9 ad Heathrow, lì c’è papà
che ti aspetterà. Tutto chiaro?”
“Mamma…
Londra?”, dissi con timore.
“Si,
la tanto amata Londra. Tuo padre ha
traslocato lì da poco, e dice che gli piace molto”.
Lanciai
un’ultima occhiata alla mia camera,
agli occhi verdi imploranti di Matteo, e alle paure e al volto di
mamma. “Chissà quando
tornerò a casa mia”,
pensai.
“Ti
voglio bene, mamma”, biascicai.
“Anche
io. Chiama appena arrivi a casa”,
rispose ansiosa.
Annuii.
Poi abbracciai un’altra volta
Matteo. “Io e te, per sempre okay?”, gli mostrai il
mignolo, e lui lo strinse
continuando ad abbracciarmi.
“Fatti
valere ovunque andrai, sorellona”,
rispose con quel faccino così tenero e dolce, da farmi
venire il diabete.
“Lo
farò! E miraccomando, sii forte! VI
VOGLIO BENE!”, dissi chiudendo la porta dietro di me, e con
le lacrime che
fremevano nel mio cuore, per uscire.
Uscita in strada guardai
un’ultima volta il
portone nero in ottone, e sospirai.
“Conoscevo
i loro litigi. Li conoscevo fin troppo bene.. quando sarei tornata a
casa? “
--
Dal
finestrino, non facevo che guardare la
mia città scorrere, e cercavo di fissare nella mia testa
quelle immagini, ormai
indelebili dal mio cuore.
“Sono
25 euro”, disse l’anziano taxista. I
suoi capelli erano bianchi e piuttosto folti. Mi abbozzò un
sorriso di
incoraggiamento.
“Ecco
qui. E grazie mille”.
“Faccia
un buon viaggio!”
La
sua gentilezza era quasi inquietante. Le
porte di vetro dell’aeroporto Merlino, si allargarono per
farmi entrare. Mi
feci forza, e iniziai a cercare gli imbarchi, e poi il metal detector.
L’aeroporto non era enorme, e c’ero già
stata più di una volta: potevo farcela.
Erano le 8 e un quarto, così andai al bar a prendermi un
panino.
Mi
guardavo intorno: innamorati che si
ritrovavano, famiglie che si dicevano addio, vagabondi in cerca di
nuove
avventure, single in cerca dell’amore.
I
miei pensieri furono scacciati da una
voce all’altoparlante: “Buonasera a tutti voi
viaggiatori, volevamo avvisarvi
che l’aereo per Heathrow subirà un leggero
ritardo. Vi daremo altre notizie fra
un’ora circa. Ci scusiamo per il disagio”.
Fantastico!
Non solo dovevo abbandonare la
mia casa, e la mia vita, sarei anche arrivata a Londra in ritardo!
Cos’altro
poteva succedere?
Presi
il borsone che avevo tenuto con me, e
infuriata lasciai il tavolino tondo in vetro sul quale mi ero
appoggiata per
cenare. Andai a sbattere contro qualcuno.
“Ops..
scusami.. che maldestra che sono!”
“Non
fa niente, non preoccuparti!”
Alzai
lo sguardo. Era Steve.
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Capitolo 4 *** Chapter four. ***
“Che
ci fai qui?”, dissi sedendomi nella
fredda sala d’attesa dell’aeroporto.
Lui
alzò il mio sguardo abbassato a terra,
e mi prese per mano. “Sono andato da Anna, avevo bisogno di
parlarle”. Divenni
immediatamente rossa, e il mio cuore batteva all’impazzata.
“Parlarle? Di cosa,
Steve?”
“Di
te, Brenda”, disse guardandomi negli
occhi.
Fece
come per prendere coraggio, e continuò
il racconto. “Brenda, parliamoci chiaro. Sono due anni che
sono innamorato di
te. E oggi sono andato da Anna per parlare con te e appena lei mi ha
fatto
capire quali sono i tuoi sentimenti, sono corso a casa tua per
confessartelo,
ma tua madre mi ha detto che non c’eri. Sono corso
all’aeroporto, e ti ho
trovata”. La sua pausa comportava che io dicessi qualcosa, ma
cosa?! Il ragazzo
che amavo aveva fatto tutto questo per me.
“Idiota, reagisci!”,
mi ripetevo.
“Wow”,
biascicai.
“So
che magari dovremmo uscire prima ma..vuoi
essere la mia ragazza?”, disse inginocchiandosi davanti a me,
con occhi
sognanti.
Nonostante
questo, non riuscivo a guardarlo
negli occhi e a confessargli che non sapevo quando sarei tornata, a
dirgli che
me ne stavo andando.. a Londra.
“Steve,
io provo qualcosa di molto bello
per te, è vero. Ma si è complicato tutto,
adesso”.
Continuava
a fissarmi con i suoi occhi
marroni, e non riuscivo a resistergli.
“Steve
come dirtelo..”, dissi alzandomi,
“il mio aereo sta per partire, e non so per quanto
aspetteranno ancora”.
“Ma
cosa mi era passato per la testa?! Lui era venuto lì per me,
ed io avevo avuto
il coraggio di rispondere in quel modo? “
Mi
fermò prendendomi per il braccio. “Dove hai
intenzione di andartene?”
“I
miei vogliono che io vada a Londra da
mio padre, per qualche tempo”.
Lui
rimase fermo, immobile, a guardarmi.
“C-Cosa?”
“Esatto,
Steve. E per quanto io possa
amarti, sappiamo entrambi che una relazione a distanza non
potrà mai
funzionare”. Non ce la facevo più. Problemi su
problemi. Cercavo di essere
forte, ma ogni secondo la mia vita si complicava di più.
Lui
mi guardò negli occhi, con non so quale
forza sovrannaturale, e mi disse: “Brenda, non importa, vai
dove devi andare.
Io rimarrò qui ad aspettarti, e ti
scriverò”.
Lo
abbracciai forte a me, e mentre prendevo
tutto ciò che rimaneva della mia vita, incluso il mio
borsone, mi avviai verso
l’aereo.
--
Chiusi
gli occhi, cercando di fermare la
fotografia della faccia di Steve, quando me ne sono andata. Cercavo di
cancellare i suoi occhi imploranti, quelli di Matteo, e mamma. Stavo
perdendo
il controllo della mia vita, dove sarei andata a finire?
Nel
giro di un’ora arrivai all’aeroporto di
Londra, Heathrow, e scendendo dall’aereo, percepii
l’aria fredda della
cittadina. Mi pungeva fin sul collo, ed era terribile. Scesi la lunga
scaletta,
e recuperai la valigia. Erano le 9 e 30, quando vidi un gruppo di
ragazze
urlare, e gridare il nome di un ragazzo, con i cellulari in mano. Ero
brava in
inglese, ma non me la cavavo con i loro accenti. Il ragazzo era biondo,
e con
gli occhi azzurri. I suoi occhi incrociarono i miei, e sentii una fitta
allo stomaco.
Che mi stava succedendo? Scossi la testa, e gli passai accanto con
nonchalance.
Dovevo trovare mio padre, ma prima che potessi chiamarlo vidi un uomo
alto e
barbuto che mi salutava. Lo raggiunsi, e lui mi abbracciò.
“Dopotutto, mi vuole bene”,
pensai. Mi
stampò un bacio sulla fronte, e mi chiese:
“E’ andato bene il viaggio, tesoro?
“ “Tutto okay, papà”, gli
risposi.
“Chissà,
magari quel viaggio poteva rivelarsi più proficuo di quanto
pensassi. Potrei
scoprire molto di papà “.
Entrammo
in un taxi nero, e molto grande
rispetto a quelli italiani. Sembrava una sorta di piccola limousine.
Osservavo
le persone camminare sui marciapiedi londinesi, e gli edifici.
“Brenda,
ben arrivata a Londra. La tua avventura ha inizio”.
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Capitolo 5 *** Chapter five. ***
Mi
voltai per guardare mio padre, e lui mi
sorrise dolcemente. “Vedrai come ti piacerà la mia
nuova casa”, disse
compiaciuto. “Anzi, la nostra”, si corresse.
“Vedremo
papà, vedremo”, dissi diffidente.
Gli volevo bene, ma una parte di me non riusciva a perdonarlo per
essersene
andato quando avevo dieci anni, e Matteo ne aveva appena quattro.
Magari
passare un po’ di tempo con lui mi avrebbe fatto capire che
persona era,
realmente.
Lasciai
la mente girovagare tra i meandri
dei miei pensieri, e improvvisamente, si materializzarono due occhi
bellissimi.
Non erano quelli nocciola di Steve. Erano quelli azzurri di quel
ragazzo
all’aeroporto. Magari era una persona famosa, magari un
attore, magari uno dei
soliti figli di papà che entrano nel mondo dello spettacolo
da quando emettono
il primo vagito. Ma i miei pensieri furono interrotti dalla voce
dell’uomo
seduto accanto a me.
“Tesoro,
siamo arrivati”, disse papà accarezzandomi
le braccia. Mi scansai. Che cos’era tutta quella
manifestazione di dolcezza?!
Mentre stava pagando il taxista, andai a prendere le valigie. Non
conoscevo
affatto Londra, ma mi sembrava un quartiere molto grazioso quello dove
avrei
abitato. I lati delle strade erano ornati di fiori, e di verde. Gli
alti alberi
rendevano tutto più primaverile, e delicato. Mi avviai verso
la porta di casa.
C’erano delle scale in marmo prima di entrare e la porta era
bianca, con un
pomello dorato.
“Benvenuta
nella tua nuova casa”, disse
papà lasciandomi entrare per prima. Non riuscii a fare a
meno di pensare che
casa mia non era quella, ma era a Milano. Insieme a Matteo, a Brenda,
ad Anna e
a Steve. “Ero così felice
insieme a loro,
perché sei venuto a portarmi via da tutto questo eh,
papà? Perché?!” Gli
occhi mi diventarono
lucidi, ma cacciai
dentro le lacrime.
L’ingresso
era decisamente grande, e sulla
destra una scala portava ai piani superiori. Davanti a me si trovava il
salotto. C’era qualche divano, qualche poltrona, e diverse
librerie ai lati
della stanza. La cucina era in fondo alla casa, e risplendeva di luce.
Al
centro della stanza c’era un tavolo in legno e tutto attorno
i fornelli. Poi
salii in camera mia, e , stranamente, era davvero bella. I muri erano
verniciati
di azzurro, non a caso il mio colore preferito, e il letto era di
quelli che
avevo sempre desiderato avere: caldo, e soffice. La scrivania si
trovava sulla
sinistra, ed era già piena di libri scolastici, quaderni, e
post-it vari.
L’armadio si trovava davanti al letto, ed era in legno:
proprio come quello di
casa mia.
“Spero
che ti piaccia la nuova casa. Se hai
bisogno del bagno è infondo al corridoio, e se hai bisogno
del sottoscritto,
sono giù a leggere qualche libro. Ci vediamo domani. E
ricordati di mettere la
sveglia! È il tuo primo giorno di scuola”, disse.
Non
riuscivo a contenere la mia rabbia. “Il
mio primo giorno di scuola?! Cosa?”, pensai. “Fermati subito.
Abbiamo bisogno di parlare io
e te”, dissi furiosa.
“Ma
tesoro, è tardi. Hai bisogno di
dormire” disse cercando di sfuggirmi.
Ma
lo presi per un braccio, e lo feci
voltare verso di me. “Tu mi stai dicendo che mi hai
catapultato qui senza un
preavviso, senza niente di carino, di gentile, senza un qualcosa, senza
pensare
al fatto che dopo essertene andato sei sparito, non sei più
venuto a trovarci,
a parte qualche chiamata quando ti ricordavi di avere una famiglia, e
tu mi
stai dicendo che dopo aver lasciato la mia città, la mia
casa, i miei amici, la
mia vera famiglia”, sottolineai quel vera con enfasi, come
brace ardente, “per
soddisfare questo tuo capriccio temporaneo, io domani devo anche
alzarmi presto
per andare a scuola? Assolutamente no! Non puoi chiedermi questo. Anche
questo,
no.”
In
quel momento sentii il mio cuore farsi
più leggero, gli avevo tolto un peso dal petto. Un peso che
da solo non
riusciva a sostenere.
“Brenda,
io lo dico per il tuo bene. Dovrai
iniziare la scuola prima o poi, perché non subito?”
“E
sentiamo tu cosa ne sai del mio bene?!
Cosa ne sai? Non sei mai stato presente ad una recita, a qualcosa che
fosse
mio. Non venivi neanche per Natale, ti dimenticavi del mio compleanno e
di
quello di Matteo. Cosa vuoi saperne di me? Sono tua figlia, e
preferirei essere
la figlia di un procione rabbioso, ma Dio ha scelto così.
Vuoi che vada a scuola
domani? Bene. Forse lo farò, forse non lo farò. E
con questo, buonanotte.
Quella è la porta”, dissi non lasciandogli neanche
il tempo di parlare.
Mi
sentivo soddisfatta. Ero riuscita a dire
a quell’uomo tutto quello che tenevo dentro da 6 anni, e
finalmente il mio
cuore era in pace con se stesso. Si sentiva molto più
libero.
Nel
frattempo lui, se ne andò con lo
sguardo abbassato e uscì dalla mia camera.
“Sarei
dovuta essere più riconoscente? Forse. Ma non si tratta in
questo modo la
propria famiglia “.
Cercai
il pigiama nella valigia, e mi
rifugiai nel letto. Era l'unica cosa che riuscissi a sentire davvero
mia, in
quel momento. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dalla notte, e
dalla
stanchezza che incombevano su di me.
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Capitolo 6 *** Chapter six. ***
Quella
mattina fu il dolce calore del sole
a svegliarmi, una luce che percepivo sul mio volto. Improvvisamente,
aprii gli
occhi e pensai ad Anna. “Non
l’avevo
ancora avvertita del mio imminente trasloco! Bell’amica che
ero. Non le avevo
neanche detto addio. D’altronde non c’era stato
molto tempo..”, rimuginavo
tra i miei pensieri. “Chissà
se Steve
l’aveva avvertita, o se aveva preferito tenersi tutto per
sé. A proposito, mi
avrebbe scritto? Con il trasferimento in un altro paese avrei dovuto
cambiare
il numero di telefono, e faccende varie”, pensai.
Mi
vestii velocemente, prendendo il primo
jeans che trovai nell’armadio, e la prima maglietta. Non
pensate che sia la
tipica ragazza definita “maschiaccio”, o la ragazza
tutta elegante e perfetta,
niente di tutto questo. Sono una semplice ragazza italiana, che si
è dovuta
trasferire in un’altra città e, francamente,
apparire bella ed attraente il mio
primo giorno di scuola, era l’ultimo dei miei problemi. Scesi
la scalinata che
mi portava al piano inferiore, e andai in cucina a fare colazione.
Ovviamente
mio padre non c’era, ma trovai un bigliettino sul frigo.
“Ciao
Brenda, devo scusarmi per come mi sono comportato, ma spero che con il
tempo
capirai molte cose. Lavoro dalle 8 alle 7 di sera tutti i giorni, per
cui non
aspettarmi per cena. Buon primo giorno di scuola, ti voglio bene. P.s.
sul
tavolo troverai la mappa della città, con cerchiate la casa
e la scuola. Cerca
di non perderti”.
Sospirai.
Presi la mappa, e uscii per
rinfrescarmi le idee, e godermi ciò che quella
città poteva offrirmi.
“Credevo
alle sue parole, quanto a quelle di un lupo affamato con una bella
preda
davanti. Mi aveva ferita troppo, perché potessi anche solo
pensare di fidarmi
di lui”.
Appena
dietro l’angolo, tutte le persone
correvano di qua e di là: sembravano dei pazzi.
Probabilmente era questa
l’atmosfera di prima mattina, che si respirava a Londra.
L’aria era pulita e
fresca, e ovunque ci si girava c’era qualcosa da vedere,
qualcosa di
interessante. Presi la mappa di mio padre, e dopo una trentina di
minuti vidi
la scuola.
Era
grande, e in marmo. Abbassai la
cartina. Juce’s Mike High School, con affianco un simbolo
grigio con una J, una
M, una H, e una S, dipinte e contornate di nero. Mi fermai dalla parte
opposta
della strada. Dovevo entrare, o saltare il primo giorno di scuola? Non
mi
piaceva in cosa mi stavo trasformando. La Brenda solare, allegra, e
forte che
era in Italia, si era trasformata in una fredda, triste Brenda
londinese. E
tutto da quando aveva visto suo padre all’aeroporto. Dovevo
ritrovare me
stessa, e per questo dovevo fare amicizia con qualcuno, ed entrare in
quell’edificio grigio e macabro.
Così
decisi di attraversare la strada, ma
la voce di un ragazzo mi immobilizzò, incapace di muovermi e
di pensare.
“Ehi,
ciao! Tu sei nuova, vero? Benvenuta alla Juce Mike High
School!”
Il
suo accento inglese era perfetto. Era un
ragazzo dai capelli castani chiari, ma non troppo scuri, e dagli occhi
color
miele. Era poco più alto di me, e indossava un gilet nero,
con sotto una camicia,
e un paio di pantaloni scuri. Doveva essere la tipica divisa inglese.
Poi,
posai lo sguardo sul mio look. Jeans sbiaditi, felpa nera, e scarpe da
ginnastica, senza un minimo di trucco. Se Anna fosse stata qui, mi
avrebbe
uccisa. Diceva sempre che la matita nera, e l’ombretto chiaro
delineavano il
mio volto. Era un’abile truccatrice, e il ricordo dei nostri
pomeriggi, mi
provocò un brivido lungo la schiena. Improvvisamente, la
voce di quel ragazzo
mi riportò alla realtà. “Non parli bene
la nostra lingua, vero? Non
preoccuparti. Ti ci abituerai, ne sono sicuro!”, disse
sfoggiando uno dei suoi
incredibili sorrisi. A vederlo, doveva essere il capo di qualche gruppo
per gli
studenti, ne ero certa. La sua immensa disponibilità, e
bontà erano qualità
molto rare.
“Oh,
scusami! So parlare l’inglese: me la
cavo abbastanza, insomma”, dissi sorridendo timidamente, con
lo sguardo
abbassato.
Lui
sorrise. “Finalmente hai parlato!
Credevo che il gatto ti avesse mangiato la lingua!”
Lo
guardai con aria interrogativa. “E’ solo
un detto che si dice spesso da queste parti. E hai una voce
incantevole, cerca
di usarla spesso!”, mi disse mentre stavamo varcando il
portone dell’entrata,
fianco a fianco.
--
Sebbene
avessi appena messo piedi in quella
scuola, capii che era enorme, e molto maestosa. “Forse era
una delle scuole più
prestigiose di Londra, o forse, non era niente in confronto alle scuole
tipiche
inglesi”, pensai tra me e me. Qualunque fosse la risposta, mi
guardai intorno e
mi sentivo confusa, e spaesata. Ovunque, c’erano ragazzi che
giravano nei
corridoi. Dai loro comportamenti capii che la lezione non era ancora
iniziata.
Ma come facevano ad essere così svegli e allegri? Io appena
mettevo piede in
classe, sembravo uno zombie! Tranne quando vedevo Anna o Steve,
ovviamente.
Chissà se fra qualche tempo, avrò anche io la
loro luce negli occhi. Appesi ai
muri, c’erano cartelli di ogni tipo: dalle competizioni
studentesche, ai corsi
extra-scolastici, c’era di tutto e di più.
Improvvisamente mi sentii toccare il
braccio. “Io fra poco devo andare a lezione, ma se mi dici in
quale aula devi
andare, posso aiutarti a trovarla, e poi”, abbassò
lo sguardo, “poi ci vediamo
in mensa”. Era sempre quel ragazzo gentile, accanto a me. Mi
ero quasi
dimenticata della sua presenza con tutto quel via vai di persone.
“Non
saprei. Forse dovrei andare a chiedere
qualche informazione in presidenza”, risposi fissando i miei
occhi nei suoi.
“Capisco.
Allora io vado in classe, non
posso più aiutarti, mi spiace. Ma ci vediamo in sala mensa
all’ora di pranzo!”,
disse mentre una folla lo prendeva per le braccia portandolo via.
“Aspetta!
Non mi hai detto il tuo nome!”,
gli urlai.
“Liam,
piacere!”
E
quella fu l’ultima cosa che sentii da
lui. Girovagando per la scuola, cercai la presidenza, senza trovarla.
Era
troppo grande quella scuola! Quando sentii una voce chiamarmi . . .
“Signorina
Clars! La smetta di oziare nei
corridoi, e venga subito nel mio ufficio!”
Mi
voltai e vidi un uomo magro e alto, che
incuteva una certa paura. “S-subito, signore!”,
balbettai. Attraversammo una
serie di corridoi lunghi, per poi passare attraverso il verde cortile,
alla
presidenza.
“Eccoti
finalmente!”, disse il preside. Era
un uomo piuttosto robusto, e calvo. Pareva simpatico, al contrario
dell’uomo di
prima.
“Devi
scusarci per il tono in cui ti deve
avere trattato questo ragazzaccio. Lui è il signor
Mixlemore, il nostro
vicepreside.”
Quest’ultimo
fece un inchino, e non ci
volle un mago per farmi capire che con lui come preside, la scuola
sarebbe
stata davvero severa e dura.
“Piacere”,
biascicai. “Io sono..”
Ma
non feci in tempo a parlare che il
preside mi fermò. “Lo sappiamo, lo sappiamo.
Adesso vai nell’aula 349, quella
sarà la tua classe per tutto il semestre. Pronta?”
Annuii
con la testa, anche se ero
tutt’altro che pronta.
“Perfetto.
Albert ti mostrerà la strada.
Spero di rivederti presto”.
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Capitolo 7 *** Chapter seven. ***
Girovagavo
per i corridoi, accanto a quell’uomo
guardandomi intorno. “Sarebbe stato difficile orientarmi, e
abituarmi a tutto
questo”, sospirai osservando il cortile della scuola da una
delle grandi
finestre di quell’edificio.
“Eccoci
qui, signorina Clars.”
Mi
voltai verso il signor Mixlemore, e non
feci in tempo a sentire l’emozione delle mie farfalle nello
stomaco, che aveva
già aperto la porta.
“Forza,
entra. Non essere timida”, disse un
signore magro e alto accanto alla cattedra. Portava gli occhiali, e
sembrava
una persona diligente e simpatica.
“La
lascio alla sua lezione di scienze,
professore. Buona giornata”, disse il vicepreside chiudendo
la porta
rumorosamente.
“Ciao”,
disse lui sorridendo, “benvenuta
nella nostra classe, e nella nostra scuola. Spero che saprai orientarti
presto.
Come ti chiami?”
“Brenda
Clars”, dissi seria.
“Perfetto!”.
Il
suo sorriso era contagioso.
“Allora,
puoi sederti là in fondo dove ci
sono due banchi vuoti”.
Non
me lo feci ripetere due volte, e presi
posto in fondo, dove mi aveva indicato il professore. Mi sedetti, e
riuscii a
sentire il calore di essere in un banco accanto al muro, lontano dagli
occhi di
tutti. Non ho mai amato essere al centro dell’attenzione.
“Vedi,
il ragazzo nel banco, accanto al
tuo, se n’è andato proprio ieri. Ma non era molto
socievole. Era proprio un
ragazzaccio”, continuò. “Comunque sia,
io insegno ogni tipo di materia
scientifica in questa scuola: dalla matematica, alla trigonometria.
Dalla
chimica, alla fisica. Spero che troverai interessanti i miei corsi.
Ovviamente,
ci spostiamo per ogni lezione”.
La
mia faccia inorridita dovette avergli
fatto capire che non ero abituata a questo tipo di cose. Ma lui
continuò a
sorridere. Era un tipo piuttosto solare, e questo mi piaceva.
“Oh,
non preoccuparti. Ti abituerai presto.
E prima di andare a casa, fai un salto all’aula 632.
Là ti daranno tutte le
informazioni per i corsi, e per la scuola. Lassù si occupano
proprio di questo
tipo di cose”.
Annuii
timidamente.
“Dunque
ragazzi, dove eravamo arrivati? Ah
si, alla cellula. Ecco, vedete qui …”
Le
sue parole scivolavano nella mia mente,
senza mettere radici o lasciare alcun segno del loro passaggio.
Osservavo il
cielo, e pensavo ad Anna, e Steve, a Matteo, e a mamma. Oggi avrei
dovuto
trovare un modo per chiamarli, o scriverli. Qualunque modo. Ma avevo
bisogno di
sentire una voce amica. Sospirai annoiata, guardando il professore.
Improvvisamente,
la campanella suonò, ed
era già ora di pranzo. “Brenda, adesso segui i
ragazzi nella mensa, e trovati
un posto al tavolo. Buona giornata”, disse il professore
sorridendo.
“Grazie
mille, professor..”, dissi
aspettando una risposta.
“James
Lucking”, sorrise.
Sorrisi
a mia volta. Era uno di quei
sorrisi che non provavo da quando ero in Italia, e quella sensazione di
calore
era meravigliosa. “Persino i professori possono farti
sorridere. Interessante”,
riflettei tra me e me.
“E’
stato un piacere”, dissi immergendomi
tra la folla di studenti diretta in quel luogo, che chiamavano mensa.
--
La
mensa era qualcosa di immenso. Vedevo
ragazzi che si spingevano, che ridevano, che si guardavo intorno alla
ricerca
di belle ragazze. E ce n’erano, credetemi. Poi
c’ero io. Una ragazza in felpa,
jeans, e scarpe da tennis. Se ho mai avuto un’autostima, ora
mi stava
implorando di vedere la luce.
“Un
po’ di questo, grazie”, dissi mentre la
signora della mensa riempiva il piatto di fagioli, e di pollo.
Finito
il giro, cercai un tavolo con in
mano il vassoio. “Quale poteva essere il posto migliore per
la ragazza italiana
appena arrivata?”
Sospirai,
guardandomi intorno alla ricerca
di un segno, di qualunque cosa. E poi vidi una mano agitarsi nella mia
direzione. Mi girai, pensando che non potevo essere io. Chi poteva mai
avermi
notata? Ma vidi quel ragazzo sorridere, e così mi avvicinai
timidamente.
Era
Liam.
Appena
arrivai al suo tavolo, notai che era
pieno di gente. Doveva essere famoso, o per lo meno il capo di
qualcosa. Era
l’unica soluzione.
“Ciao!
Vieni pure, siediti. Ti ho tenuto un
posto qui”, disse lui.
Presi
posto accanto a lui, e gli sorrisi.
“Grazie”, sibilai.
“Tu
sei la nuova arrivata, vero?”, disse
una ragazza davanti a Liam. Aveva i capelli lunghi e neri, e gli occhi
dello
stesso colore. Eppure, non sembrava come le ragazze che avevo notato
prima.
Sembrava carina, e gentile.
“Si.
Mi chiamo Brenda”, risposi.
“Io
sono Jane, piacere”, disse porgendomi
la sua mano.
“Molto
piacere”, le sorrisi.
“Vedi,
cara Brenda, lei è la ragazza più
dolce che conosca. È mia sorella, la mia migliore amica da
dodici anni”.
“Esatto,
stupidone!”, disse lei
pizzicandogli una guancia.
Erano
così teneri. Mi era sempre mancata la
presenza di un migliore amico, e.. di Anna, in quel momento.
“Da
dove vieni, allora?”, mi chiese Jane
dolcemente.
“Milano,
Italia”, dissi prendendo una
forchettata di fagioli.
“Italia!
Quanto la amo. Ne parlavo proprio
ieri con lei al telefono”, disse esaltato Liam.
“Oh,
davvero?!”, chiesi sorpresa.
“Quando
lo conoscerai meglio, capirai che
persona è. Mi ha chiamata solamente per dirmi che voleva
andare in Italia, ma
poi ha visto un cucchiaio, e si è spaventato”,
rise Jane.
“Cosa?”,
sorrisi, “Hai paura dei
cucchiai?”, dissi avvicinandogli un cucchiaio alla faccia.
“Noooo,
brucia! Allontana quel “coso” da
me! “, urlò lui.
Per
la prima volta, ridevo. Ridevo per
davvero. Non mi ero mai sentita così serena, e felice.
“Ovviamente
è solo una messa in scena.
Eppure, non l’ho mai visto prendere un cucchiaio in
mano.”
“E
le torte come le mangi?”, chiesi
incuriosita.
“Ma
con le mani ovviamente! E’ molto più
comodo”, sorrise.
“Certo
Liam, certo”, disse Jane dandogli
una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
Era
tutto così bello, e allegro. Avevo
trovato degli amici, il mio primo giorno di scuola. Stavo superando la
mia
timidezza. Era incredibile!
La
campanella suonò di nuovo.
“Ed
è finita anche l’ora di
pranzo…”,
sentii i ragazzi del nostro tavolo lamentarsi.
“Ma
voi avete una campanella per tutto,
eh?!”, risi.
“Si,
Brenda. Siamo molto organizzati!”,
disse Liam.
“Ma
guardatelo! Fa anche il presuntuoso,
adesso”, gli diede una spinta Jane.
Erano
così carini insieme. Sembravano
proprio due fratelli.
E
questo non faceva che peggiorare le cose.
Pensavo a Matteo: al mio piccolo, dolce e fragile fratellino.
“Allora
ci vediamo presto, Brenda! E’ stato
un piacere!”, disse Jane, portandosi via Liam a braccetto.
“Piacere
mio!”
“Ci
vediamo domani! ”, disse Liam.
E
così tornai all’aula 349, seguendo la
folla di studenti. Il professore Lucking, finì la sua
lezione. E come l’ora
precedente, non riuscivo proprio a seguirlo. Che volete farci? Le
materie
scientifiche non sono mai state per me. Ma nonostante questo, il suo
modo di
spiegare mi faceva sorridere.
E
suonò l’ultima campanella della giornata.
Ricordai le parole del professore, e mentre tutti se ne andavano
felicemente a
casa, io mi avviai verso l’aula 632.
|
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Capitolo 8 *** Chapter eight. ***
Lessi
il cartello in alto a destra sulla
porta che mi trovavo davanti.
Aula
632,
diceva.
Era
scritto a caratteri piuttosto grandi e
neri.
Girai
il pomello grigio, ed entrai. La
stanza era piuttosto grande. Di fronte a me c’erano dei
tavoli pieni di fogli
di qualunque tipo: cartacei, stampati, scritti a mano. Il signore che
per primo
incrociò il mio sguardo doveva essere piuttosto severo e
stanco.
Inarcò
le sopracciglia da sotto gli
occhiali, e mi squadrò dalla testa ai piedi.
“Signorina..?”, disse con quella
sua voce fredda, e penetrante.
“Clars.
Brenda Clars. Sono qui perché ho
saputo che vi occupate dei corsi, delle lezioni e di tutto il
resto”.
L’uomo
continuava a fissarmi senza
spiccicare parola. Teneva in mano una penna, ed era piuttosto annoiato.
Eppure,
non mi staccava gli occhi di dosso.
“Sono
la nuova arrivata…”, biascicai alla
ricerca di una parola, un gesto, o anche solo un segno.
“Mi
scusi per il ritardo, ma la
professoressa Macguire mi ha tenuto a lungo. Sa benissimo
com’è fatta. O una
cosa la sai, oppure non la sai. Comunque sia, tenga. Ecco i fogli che
desiderava avere”, disse un ragazzo porgendogli dei fogli.
Era
entrato noncurante della mia presenza,
e sembrava piuttosto pensieroso.
Un
momento! Ma era Liam!
“Liam?”,
dissi con aria interrogativa.
Lui
si voltò. I suoi occhi erano fissi nei
miei.
“Brenda!”,
disse scacciando l’aria
preoccupata e seria di qualche minuto fa. Poi sorrise.
“Che
ci fai tu, qui?”
“Sono
venuta per avere delle informazioni
in più sulla scuola, le lezioni eccetera. E tu? Non
è possibile che ovunque
vada, ti incontri!”, gli sorrisi con dolcezza. Era ovvio che
scherzassi. Non mi
dispiaceva affatto la sua presenza.. anzi.
“Giusto,
giusto! Sono proprio addormentato
stamattina!”, disse sorridendo. Era uno di quei sorrisi
lucenti, che ti
entravano nell’anima.
“Se
non vi dispiace, avrei da fare io”,
disse l’uomo occhialuto sospirando rumorosamente,
concentrandosi sul suo
lavoro, e sui fogli che aveva davanti.
“Certamente!
Ci scusi. Posso aiutare io
Brenda per tutte le informazioni, se desidera”.
“Mi
faresti un enorme piacere, caro
ragazzo”, disse scrivendo dei numeri sui fogli, e calcolando
chissà cosa.
“Perfetto!
Alla prossima!”, disse
facendogli un occhiolino. Anche se non ne ebbe il minimo apprezzamento.
“Arrivederci!”,
cercai di sorridergli.
--
“Allora
Brenda, dimmi. Di quali informazioni hai bisogno? Siccome sono nel
comitato
della scuola, posso dirti tutto ciò che vuoi”, mi
disse continuando a
sorridere, mentre scendevamo le scale.
“Beh,
per prima cosa, qual è la mia classe,
e gli orari delle lezioni. Ho saputo che voi vi spostate di ora in
ora”.
“Già.
E’ proprio così. Non ne sei felice?
Un po’ di moto fa bene, sai?”, disse facendo finta
di correre.
“Su
questo non ho dubbi, ma sono una tale
pigrona!”
Lui
rise. “Ti abituerai.”
“Comunque
sia, oggi il signor Mixlemore mi
ha portato in un’aula, dove ho conosciuto il professore di
scienze. Quindi
quella dovrebbe essere l’aula di scienze, giusto?”
“Sei
perspicace”, disse facendomi
l’occhiolino.
Gli
diedi una spinta su un braccio, con
dolcezza.
“Per
domani ti farò avere tutti gli orari,
e i nomi dei professori di tutte le lezioni”.
“Grazie,
sei molto gentile”, dissi
timidamente.
“Adesso
devo correre a casa. Devi scusarmi!
Ci vediamo domani!”
“Aspetta,
Liam!”, dissi prendendolo per un
braccio. “Mi sapresti dire come posso contattare i miei amici
in Italia? “
“Non
posso proprio aiutarti su questo..
scusami!”
Lo
salutai, e mi avviai verso casa. Era
strano come la sua gentilezza si era trasformata in un improvvisa
fretta.
Camminavo
per le strade con lo sguardo
abbassato. In qualche modo dovevo raggiungere i miei amici, o per lo
meno la
mia famiglia.
--
Dopo
aver pranzato, feci qualche ricerca ma
non trovai nulla di interessante. Durante il pomeriggio, pensai molto a
tutto
quello che mi stava succedendo in così poco tempo.
Sono
sempre stata timida, e insicura,
perché oggi con Liam mi sono sentita così aperta?
Lui è così buono e gentile.
Sarà per questo che il mio cuore si era sentito
così protetto e al sicuro?
All’improvviso
sentii la serratura della
porta aprirsi. Era papà.
Avevo
bisogno di sapere come rintracciare
Matteo, e la mamma. E questo fu l’unico motivo per cui decisi
di parlargli, per
prima.
--
“Ciao,
ho bisogno di chiederti una cosa”,
dissi puntando dritta al sodo.
“Neanche
un bentornato a casa, o un
buonasera eh? Ma come siamo maleducati, Brenda”, disse lui
cercando di
scherzare.
Cercando,
appunto.
Gli
lanciai una di quelle occhiate
fulminee, che lo incenerirono.
“Comunque
sia, sai come posso rintracciare
i miei amici, e la mamma in Italia?”
“Mhh,
non saprei, cara. Se solo tu fossi
più gentile...”, disse mentre appoggiava la sua
valigetta sul letto, ed era
immerso nei suoi pensieri.
La
sua arroganza mi innervosiva.
“Senti,
ne abbiamo già parlato”, cercai di
mantenere la calma.
“Va
bene, mi arrendo. Prendi un catalogo
dentro a uno dei cassetti accanto al comodino, all’interno
troverai un foglio.
Lì c’è il numero di tua
madre”.
Sorrisi,
soddisfatta.
Cercando
e cercando, trovai quel
dannatissimo numero.
“Tesoro!
Finalmente ci hai chiamato! “,
disse mamma con la sua voce dolce.
“Mamma!
Come stai?”, le chiesi sorridendo.
Ero
davvero felice di sentirla. Dentro di
me sentivo la Brenda felice ritornare, piano piano.
Le
raccontai tutto del primo giorno, e lei
non mi disse niente su Anna e Steve. Non sapevo se si doveva
considerare
negativo, o positivo.
“Mamma,
mamma! Fammi parlare con lei, ti
prego!”. Sentivo la voce del mio piccolo fratellino da oltre
la cornetta del
telefono.
Parlai
con lui per almeno mezz’ora. Mi
diceva che gli mancavo, che voleva giocare con me e abbracciarmi. Quel
bambino
era davvero la cosa migliore che mi fosse mai capitata.
Dopo
un po’ dovetti riattaccare, ma non
pensavo che nei giorni successivi avrei ricevuto una sorpresa
così inaspettata,
e al tempo stesso, bellissima.
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Capitolo 9 *** Chapter nine. ***
Dalla
telefonata con la mia famiglia mi sentivo come rinata. Ero una Brenda
diversa,
migliore. La mattina dopo mi alzai, e a svegliarmi fu il calore del
sole sulla
mia pelle. Era piuttosto strano in una cittadina come Londra, ma ne ero
felice.
Feci colazione con bacon e due uova, come i tipici inglesi, e mi avviai
verso
la scuola. Quella mattina mi sembrava tutto più bello,
più meravigliosamente
pieno di luce. Era questo l’effetto che Matteo e la mamma
avevano su di me. Era
a dir poco stupendo.
Stavo
per entrare a scuola, quando all’ingresso vidi Liam corrermi
incontro.
“Buongiorno!”,
disse lui sorridendo.
“Giorno!”,
ricambiai il sorriso.
“Questi
sono gli orari di tutte le lezioni, e delle aule. Scusami ma non posso
trattenermi a lungo, ciao!”, disse porgendomi un foglio,
scomparendo fra la
folla di studenti.
Perché
era così strano? Cosa gli stava succedendo?
Seguii
le istruzioni del foglio, cercando di ambientarmi.
Entrai
in classe, e la mattinata passò piuttosto in fretta. Non
vidi né Liam, né Jane
per tutto il giorno, e continuavo a non capire cosa stesse succedendo a
quei
due.
Il
giorno prima erano gentili, simpaticissimi, e il giorno dopo non mi
venivano
neanche a cercare.
Tornai
a casa immersa nei pensieri, quando trovai nella cassetta della lettere
una
busta con il mio nome.
Pensai
che potesse essere stata la mamma a farmi una sorpresa, oppure Matteo.
Così,
corsi in casa, gettando lo zaino sul pavimento, e aprii la busta.
Non
erano loro. Era Steve.
Presi
quel foglio tra le mani, e iniziai a leggere con il cuore in gola.
“Ciao Brenda. Ti ho pensata giorno e notte.
Non avevo la minima idea di come poterti rintracciare, ma poi ho avuto
un lampo
di genio. Sono andato da tua madre, e lei aveva tutte le informazioni
possibili. A volte la soluzione giusta è quella
più semplice, no?
Torniamo
a noi. Ti ho confessato
quello che provo, e vorrei con tutto me stesso averlo fatto prima. Sei
partita
così in fretta che volevo dirti addio. Ed è per
questo che ti sto scrivendo
questa lettera. Non ti lascerò andare soltanto
perché hai cambiato paese.
Il
23 gennaio sarò lì. Manca una
settimana, e non so ancora se o quando riceverai questa lettera.
Quindi, ti
lascio con un bacio, e con un ci vediamo presto.
Se
vorrai scrivermi, basta che
scriverai all’indirizzo di casa tua, e tua madre
provvederà a tutto”.
Poggiai
la lettera sul tavolo. Avevo gli occhi lucidi. Avevo bisogno di sedermi.
S-steve
qui? Oddio.
Ma
oggi è il 21 gennaio. Cavolo. Ho soltanto due giorni per
prepararmi al suo
arrivo! Devo assolutamente sbrigarmi.
--
LIAM
POV’S
“Liam, mi spieghi
che ti prende? Si tratta
soltanto di un discorso. Ne hai fatti mille soltanto negli ultimi
anni”.
“Lo
so, Jane. Ma ho paura. E se quest’anno non volessi fare
più il rappresentante
degli studenti, del comitato scolastico, e tutto il resto? Se volessi
concentrarmi su altre passioni? O trovarne di nuove?”, dissi.
“Liam,
ascolta la tua migliore amica, si tratta di quello che vuoi fare. Di
tutto ciò
che desideri. Oppure no?”
“Non
lo so più. Mi sento confuso”.
“E’
per quella ragazza, non è vero?”
“Affatto”.
“Va
bene. Ma sai che domani sera c’è la festa, vero? E
che devi andarci con una
ragazza”.
La
guardai sorridendo, in attesa di una conferma.
Stavamo
parlando da tutto il pomeriggio. Io ero seduto sul letto, e lei davanti
a me
camminava.
Poi,
sorrise.
“Fai
quello che il tuo cuore sente. Io inviterò Zayn, lo sai. E
tu…”
“Io
inviterò Brenda”.
|
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Capitolo 10 *** Chapter ten. ***
BRENDA
POV’S
Era
il 22 gennaio, e il giorno seguente Steve sarebbe arrivato.
Come mi sarei vestita? Cosa gli avrei detto?
Per
non parlare del fatto che dovevo ancora rispondergli, nel caso in cui
avessi
deciso di farlo. Era tutto così confuso.
Stavo
camminando pensierosa nei corridoi della scuola, quando mi fermai al
mio
armadietto. Lo aprii e presi i libri per le ore successive: biologia,
letteratura e francese.
Stavo
per chiuderlo e avviarmi verso la mia classe, quando un ragazzo apparse
davanti
a me.
Era
Liam.
“Ciao
Brenda”, disse sorridendo come al solito.
“Ehi…”,
dissi. All’inizio era un ragazzo così gentile, e
questo mi piaceva, ma poi non
mi ha più rivolto nemmeno la parola.
“Volevo
chiederti scusa se non mi sono più fatto vivo, ma gli
impegni scolastici mi
hanno sotterrato”.
Eppure
c’era qualcosa in quel sorriso che mi faceva stare bene, che
mi rilassava.
“Non
preoccuparti Liam, non fa niente”, mentii chiudendo
l’anta dell’armadietto.
Lui
ci appoggiò il gomito e mi guardò intensamente.
In quel momento, se qualcuno mi
avesse chiesto come mi chiamavo, avrei risposto Clara Zubosky. Cosa mi
stava
succedendo?
“Voglio
farmi perdonare da te, Brenda. Non so se lo sai ma stasera
c’è la festa di
inizio quadrimestre, e ogni ragazzo deve invitare una
ragazza…”, disse
imbarazzato.
Effettivamente
non ne sapevo nulla, ma mi piaceva la piega che la conversazione stava
prendendo.
“Insomma,
io.. m-mi chiedevo se… se proprio nessuno ti aveva
invitato… mi chiedevo se ti
andrebbe di andarci con me”, rispose dopo diverse pause.
Io
ci pensai, e fingendomi misteriosa, accettai.
“Perché no?”
Lui
divenne immediatamente rosso in viso e balbettando disse:
“Perfetto! Che ne
dici se ti vengo a prendere a casa di Jane? Lei sarà
sicuramente d’accordo!”
“Okay,
a stasera!”, sorrisi sentendomi la ragazza più
felice del mondo.
--
“Jane,
aspetta!”, urlai appena la incrociai all’uscita da
scuola.
L’avevo
cercata tutta la mattina per chiederle qual era l’indirizzo
di casa sua e, in
quanto mente puramente femminile, per chiederle come dovevo vestirmi.
“Brenda,
ciao!”, mi sorrise.
Così,
le raccontai di Liam, della festa improvvisa di cui non sapevo
assolutamente
nulla, e di come potevo prepararmi.
“Perché
non pranziamo assieme oggi? E ti posso prestare un vestito dei miei!
Magari ci
conosciamo un po’ meglio”.
“Sarebbe
fantastico! Grazie di cuore!”, le dissi sorridendo.
Poco
dopo chiamai mio padre per avvertirlo che non sarei tornata a casa
nemmeno per
cena. Lui fece un verso, e non disse nulla.
Come
se gli potesse importare qualcosa di sua figlia.
--
Pranzammo,
e poi ci rifugiammo in camera.
“Allora
Brenda, immagina la tipica festa americana. Coppiette, servizio
fotografico,
ottima musica, e buffet. Bene. Solitamente, la festa di inizio
quadrimestre è
molto simile a quelle che vedi nei film in televisione”.
“Wow.
E’ fantastico, allora!”
“Beh,
dipende anche dal partner”, disse ridendo.
Annuii.
“Ma
Liam è un perfetto gentiluomo, vedrai”.
Sorrisi
e mi sentii avvampare pensando a me e a lui ballare un lento. Sono una
ragazza
piuttosto romantica, lo so.
“Awh,
a cosa stai pensando? Sei tutta rossa”.
“Ehm,
a niente di particolare” risposi con lo sguardo abbassato.
Lei
sorrise. Sapevo che aveva capito quello che intendevo.
--
Guardai
l’orologio. Erano già le 20.00! Ma
com’era possibile? Era passato così in
fretta quel pomeriggio?
Sentii
il campanello. Erano arrivati. Zayn e Liam erano qui.
“Non
farti prendere dal panico, è
tutto okay”,
cercai di rassicurarmi.
Mi
guardai allo specchio.
Indossavo
un vestito celeste a coppa che mi arrivava all’altezza del
ginocchio. Non aveva
le spalline, e per questo motivo indossavo uno scalda cuore bianco
panna. Avevo
i capelli raccolti a chignon, ed un velo di trucco sul viso. Avevo dei
tacchi a
spillo neri, anche se non erano troppo alti.
Jane
mi appoggiò le mani sulle spalle. “Sei
bellissima”.
La
guardai, sorridendole.
Lei
indossava un vestito blu notte simile al mio, ma con le spalline
piuttosto
grosse, così da non dover mettere uno scalda cuore. Le sue
scarpe erano blu e
in velluto. Il tacco era poco più alto del mio, e i suoi
capelli erano sciolti.
Era
bellissima.
“Anche
tu, Jane. Grazie di tutto”, sorrisi.
Lei
mi abbracciò all’improvviso. Fu un gesto davvero
dolce.
“Adesso
andiamo! Non vorremo far attendere i nostri uomini!”, sorrise.
Camminare
con quei trampoli non era cosa da poco, ma sapevo di poter arrivare a
fine
serata sana e salva.
Quando
arrivammo Zayn e Liam si alzarono in piedi. Zayn disse a Jane che era
bellissima, e ci lasciarono soli. Liam era letteralmente a bocca aperta.
“Wow.
Sei assolutamente stupenda”.
Gli
sorrisi e, prendendolo a braccetto, uscimmo.
Quello
era il mio primo ballo, ed ero al settimo cielo.
Sarebbe
stato così anche a fine serata?
--
Salimmo
in macchina. Per l’occasione Zayn aveva noleggiato una
limousine.
Era
nera, e piuttosto grande.
Il
tragitto fu piuttosto corto, e in un attimo arrivammo alla festa. Liam,
scese
prima di me, per aiutarmi ad uscire dalla macchina tendendomi la sua
mano.
Era
un vero gentleman.
“Dopo
di lei, Madame”, mi sorrise chiudendo la portiera
dell’auto.
Io
ero senza parole.
Entrammo
a braccetto, e l’ingresso della sala era enorme.
L’edificio
dove si sarebbe svolta la festa era un vecchio edificio inglese appena
ristrutturato, a quanto mi ha detto Jane.
Era
davvero incantevole.
Sembrava
di entrare in una di quelle favole, in cui ogni bambina si è
immedesimata. Non
che fosse tutto rosa e fiori, ma era tutto così
assolutamente magico.
Camminavamo
su un lungo tappeto rosso, e appena facemmo ingresso nella sala, sentii
tutti
gli occhi puntati addosso.
Liam
se ne accorse, e mi sussurrò di non farci caso. In un
piccolo palco suonava una
band, con un ritmo pop.
Poi
io e Liam iniziammo a ballare. All’inizio ci divertivamo,
ridendo e scherzando,
ma all’improvviso una ragazza si avvicinò a noi.
“Scusate?”,
disse pizzicando Liam su una spalla.
“Posso
rubarti Liam per un po’?”, disse con aria sfacciata.
Avrei
voluto urlare di no. Era tutto così bello, per una volta.
Perché?
Ma
invece, lo guardai, e dissi di si.
Chi
ero io per impedirgli di ballare con un’altra? Okay, mi aveva
invitata, ma non
ero la sua ragazza. E mai lo sarei stata.
Mi
guardai intorno, e senza di lui mi sentii sola e persa.
Vidi
un divano in una parte della sala, e mi sedetti lì. Accanto
a me, c’erano dei
ragazzi che si baciavano. Ero invidiosa di loro. Cosa mi stava
succedendo?
Provavo davvero qualcosa per Liam?
Dopo
circa una mezz’oretta, presi qualcosa al buffet e uscii dalla
porta sul retro.
Si affacciava sul parcheggio, e prima che potessi andarmene a fare una
passeggiata per conto mio, sentii qualcuno chiamarmi.
“Brenda!”
Mi
voltai.
“Liam..
che fai? Non dovresti ballare con quella ragazza?”
Lui
sorrise capendo la mia gelosia, e si avvicinò a me
accarezzandomi una guancia.
“Scusami,
ma dopo quella ragazza mi hanno intrattenuto anche delle sue amiche. Ti
ho
cercata, ma non ti trovavo. Scusami. Non era mia intenzione lasciarti
sola nel
bel mezzo della festa”.
“Non
preoccuparti, Liam”, finsi un sorriso.
“Allora,
mi daresti l’onore di un ultimo ballo?”, disse con
gli occhi illuminati dalla
luce della luna.
“Ma
certo”, sorrisi.
L’ultimo
ballo fu proprio un lento.
Sentivo
le sue mani sui miei fianchi, la mia testa appoggiata alla sua spalla.
Il suo
profumo. E lo giuro, non mi sono mai sentita più completa.
Poco
dopo mi accompagnò a casa da bravo cavaliere, e mi
salutò soltanto con un
sorriso. Francamente, avrei preferito un suo bacio. Ma questo che sta
parlando
è il mio folle cuore. Lasciamolo dormire.
Andai
a letto, sorridente pensando a lui, e mi rifugiai tra le braccia di
Orfeo.
--
La
mattina seguente quando mi svegliai, ancora intontita dalla festa e dal
pensiero di quel ragazzo, l’unica parola che il mio cervello
ricordò fu una: “Steve ”.
|
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Capitolo 11 *** Chapter eleven. ***
Oggi
era il 23 gennaio.
Oggi
sarebbe arrivato Steve. Come avrei reagito
nel vederlo? Mi sarebbe battuto il cuore come succedeva prima? Avrei
avuto le
farfalle nello stomaco? E poi adesso c’era Liam. Mi sentivo
una Brenda diversa,
una Brenda migliore. Mi sedetti sul letto pensierosa. Ero troppo
confusa. Forse
sarei soltanto dovuta essere me stessa.
Aprii
l’armadio e presi un semplice paio di
jeans chiari, una maglietta e un paio di converse. Mi avvicinai allo
specchio
dopo aver sentito quel tessuto accarezzarmi delicatamente la pelle. Ero
me
stessa, ma ero felice? Questa era una di quelle domande a cui non
sapevo ancora
se avrei mai saputo rispondere.
Prima
che potessi pensare ad un discorso da fare
a Steve, sentii il campanello suonare. Mi guardai un’ultima
volta allo specchio
e dopo un profondo respiro, mi precipitai alla porta.
Vidi
due occhi marroni fissarmi, e mi ci tuffai
dentro.
Poi
guardai con più attenzione il ragazzo che
vidi accanto a me. “Ma Liam, cosa ci fai tu qui?”
“Scusami
per l’improvvisa visita, ma avevo
pensato di fare due chiacchere con te questa mattina.. e magari, andare
al
parco”, rispose imbarazzato.
Io
lo presi immediatamente per un braccio,
evitando occhi indiscreti, e lo portati in cucina. “Liam, tu
sei molto gentile,
ma oggi proprio non posso. Non puoi capire…”,
risposi camminando per la stanza.
“Cosa
non posso capire?”
Mi
grattai la testa con l’ansia che mi pervadeva
il corpo. “Non puoi capire, e basta. Se lui ti vedesse qui.
Non voglio farlo
soffrire”, risposi balbettando un po’ a me stessa e
un po’ a lui.
Liam
continuava a guardarmi dubbioso, e
all’improvviso un rumore ci interruppe entrambi. Era il
campanello.
“Questa
volta dev’essere Steve. Non c’è altra
scelta”.
“Ti
prego Liam, non muoverti”, gli sussurrai
prima di scomparire in salotto.
“Ciao
B-Brenda”, mi disse Steve.
Era
davvero lui. Il solito ragazzo orgoglioso,
dolce, divertente che era. Lo intravedevo nei suoi occhi chiari.
“Ciao
Steve”, gli sorrisi. “Vuoi entrare?”
Lui
annuì, e lo feci sedere sul divano. Eravamo
la definizione di imbarazzo. Lui sembrava non essere più
quel ragazzo forte di
fronte a tutto, ma era rosso dalla vergogna. Io non sapevo cosa dire, e
per di
più, dovevo ricordarmi del fatto che Liam ci stava
ascoltando. Non volevo far
soffrire né l’uno né l’altro,
ma il mio cuore cosa provava davvero?
Presi
posto un po’ più distante del solito sui
cuscini rossi, e dopo qualche secondo riuscii a dire qualcosa:
“Allora, come
stai?”
Sembravamo
due sconosciuti.
STEVE
POV’S
“Come vuoi
che stia? Sto malissimo. Piango tutti i giorni senza poterti vedere, o
poterti
parlare. Immagino che tu mi abbia dimenticato. Sei così
fredda e diversa,
Brenda. Ma io, io ti amo”, avrei voluto urlarle
tenendo le sue mani tra le
mie, ma mi limitai ad un “bene, tu?”.
Quanto
avrei voluto che mi raccontasse la sua
giornata, dei suoi amici, dei professori, di Londra, di sé
stessa. Quanto avrei
voluto stringerla al mio petto, senza che ci fosse un domani.
“Beh..
bene”, sorrise. Era quello il sorriso di
cui avevo bisogno.
Eppure
il suo sguardo sembrava perso nel buio,
tra i pensieri.
Oggi
le avrei detto tutto ciò che sentivo, e
sarei rimasto con lei per qualche tempo. Non avevo la minima idea di
come sarei
sopravvissuto, ma cosa mi importava? Se c’era lei, avrei
potuto essere anche un
clochard.
“Steve,
ascoltami”, iniziò avvicinandosi a me e
in quel moment, lo giuro, non sentii più il mio respiro,
“ho bisogno di
parlarti”.
“Anche
io, Brenda”, le dissi occhi negli occhi.
“Uno
dei due dovrà pur cominciare…”, rispose.
Francamente
non credevo che potesse essere così
fredda con qualcuno. Non faceva parte del suo essere. “Fai l’uomo”, mi dissi.
La
guardai intensamente e feci per aprire bocca,
quando lei mi zittì poggiando un dito sulle mia labbra.
“No, non qui”, mi
rispose confondendomi ancora di più.
“Dove
vuoi tu”, risposi.
BRENDA
POV’S
Qualunque
cosa Steve volesse dirmi, Liam non
l’avrebbe sentita. Ne ero più che certa.
Così
facendo, lo presi per mano e lo portai
fuori casa. Non faceva che guardarmi dubbioso, e continuando a
camminare, lo
portai in Hyde Park. Trovammo una panchina, e ci sedemmo.
“Adesso
puoi dirmi tutto ciò che vuoi, Steve”.
Lui
rimase sorpreso dal mio comportamento, e
cercando di riprendere il filo del discorso, iniziò:
“Brenda.. io non so cosa
ti sia successo qui a Londra. Non so come tu stia, se sei felice oppure
no. Ma
so leggerti negli occhi. Sai cosa mi dicono? Che hai qualcosa che ti
turba. So
perfettamente di aver sbagliato a comportarmi così. Avrei
dovuto dirti che sono
innamorato di te molto tempo fa, ma la tua partenza mi ha sconvolto.
Volevo
soltanto che lo sapessi”.
“Steve,
abbiamo sbagliato entrambi. Anche io
avrei dovuto parlarti di ciò che il mio cuore provava molto
tempo fa.. avrei
dovuto farlo. Eppure, sai come la penso sui rapporti a
distanza”, risposi.
“Lo
so. Non ti sto chiedendo di amarmi se non è
questo che senti. Ti sto dicendo che io ti amo, e che non ce la faccio
più a
starti lontano”, sospirò prendendo le mani tra le
sue.
Sussultai.
Lui
tolse le mani tra le mie.
“Forse
non è questo ciò che vuoi”, rispose lui.
“Steve,”
dissi guardandolo dritto negli occhi,
“mettiti per un secondo nei miei panni. Sono innamorata di
te, e non ho mai
avuto il coraggio di dirtelo. Un bel giorno, ai miei genitori viene la
folle
idea che devo immediatamente traslocare a Londra: città
nuova, amici nuovi,
vita nuova. Non ho avuto nemmeno il tempo di salutare nessuno. E poi
all’aereoporto, appari tu, dicendomi che mi ami. Cosa avrei
dovuto fare? Cosa
avresti dovuto fare? E’ vero che adesso ho un’altra
vita qui, ma non ho mai
detto di non provare più nulla per te. Non voglio farti
soffrire. Ho soltanto
detto che non vedo una possibilità. Tutto qui”.
“Brenda”,
disse sorridendo, “io ho trovato
quella possibilità”.
“E
sarebbe?”
“Non
ho alcuna urgenza di tornare a casa,
siccome ci sono dei giorni di vacanza a scuola.. e posso stare qui con
te.
Magari, ci conosceremo meglio, e vedremo cosa succederà. Ci
stai?”
Annuii.
“Mi
hai tolto un peso dal petto, sai?”
“Felice
di averlo potuto fare, Madame”, sorrise.
“Steve,
siamo in Inghilterra non in Francia.
Lady, si dice Lady”, lo corressi.
“Mi
perdoni Mademoiselle”, rise.
“Non
capirai mai l’inglese, non è vero?”
“Never”.
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