Earth, wind & fire

di Efestiandro_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Salvo un principe dall'orco cattivo. ***
Capitolo 2: *** E fu così che il principe salvò me ***
Capitolo 4: *** "Stupidini ragazzini". ***



Capitolo 1
*** Salvo un principe dall'orco cattivo. ***


 
{Ciaao a tutti! Niente, vorrei solo augurare buona lettura a tutti e scusarmi per eventuali orrori. 
Ringrazio in anticipo chi si prenderà la briga di leggere il mio sfacelo mentale progredire sempre più. Sono sempre qui, contattatemi come volete, anche per riempirmi d'insulti.
Non ho mai capito perché bisogna scriverlo ma lo faccio ugualmente: Jared, Mikey, Perrie, Gerard, Shannon, non mi appartengono come personaggi, sono persone REALI (maddai...). } 


 

1). Salvo un principe dall'orco cattivo. 

 
 

Come un mattone dopo un mattone forma una cattedrale e un respiro dopo un respiro forma una vita, un passo dopo l'altro mi avvicinava alla mia scuola.

Un nuovo anno stava iniziando, così come le foglie stavano iniziando a cadere dagli alberi, altre ancora tenacemente attaccate al proprio ramo come eroi di guerra, formando un morbido tappeto che scricchiolava sotto i miei piedi, rilassando la mia anima fin troppo tormentata. Presi il mio pacchetto di sigarette dalla tasca della tracolla, e con pochi gesti fluidi ne portai una alle labbra, stringendola saldamente tra esse prima di accenderla con l'aria di chi la sa lunga sulla faccenda. 

Le nuvole nere si stavano addensando nel cielo, come a voler dare il benvenuto agli studenti e al nuovo anno di liceo che si stava affacciando timidamente, poi sempre con maggior prepotenza, alla loro porta. Una goccia mi cadde sul naso, facendomi alzare gli occhi cerulei al cielo plumbeo. Un'altra goccia mi bagnò il labbro superiore e un'altra la fronte. Sorrisi, prendendo delicatamente la sigaretta tra due dita e inspirando il fumo. Chiusi gli occhi, rilassandomi, mentre le gambe mi portavano sulla loro strada, che pretendevano diventasse la mia.
La pioggia mi cadde sulle palpebre e sulle guance, leggermente all'indentro per tenere il fumo in bocca. 
Una folata di vento mi penetrò sin dentro le ossa, attraversando gli strati della mia pelle come un fendente, facendosi prima strada attraverso il mio cardigan di lana, fino ad arrivare alle corde del mio cuore, provocandomi un brivido che nacque alla base della mia spina dorsale. Aprii gli occhi ed espirai lentamente il fumo, sentendo il muscoli di tutto il mio essere fremere, felici di accogliere l'autunno alla vecchia maniera. 
Attraversai il cortile della scuola, i musi lunghi e i sorrisi intimiditi di chi aveva messo l'apparecchio quell'estate, gli zaini colorati come coriandoli a carnevale e le ragazze infreddolite, le racconti che parlavano di un'estate finita troppo presto e sospiri di coloro che stavano aspettando di vedere il viso che tanto attendevano, con il volto assonnato che bramava un'altra goccia di caffè. 
Attraversai il muro di studenti che si erano radunati lì, senza l'effettiva voglia di entrare, come il respiro di un bambino addormentato, che esce idilliaco dalle sue labbra rosee, mentre i genitori non si capacitano ancora di quel miracolo. 
Brusii si alzavano al cielo, occhiate rivolte a quel ragazzo tanto strano, con gli occhi pieni di cielo e una predilezione per i colori scuri, i capelli che gli sfioravano la base del collo con le loro punte rosse, neri come fili di notte, tanto che c'era da chiedersi se la luna non li avesse tessuti direttamente dalla volta celeste da cui era circondata, e il passo di qualcuno che non ha nessun affare in sospeso col mondo, il passo di colui che può permettersi di non camminare, bensì di fluttuare ad un passo da terra. 
Quel ragazzo che portava il mio nome.
Quel ragazzo che ero io, e non c'era altro modo per descriverlo. 
Avrei potuto essere un fantasma per loro, e in effetti mi trattavano come se fossi qualcosa di sovrannaturale. 
Ero un bel ragazzo, questo lo sapevo, la dea Venere mi aveva modellato con le sue stesse mani, con la passione e la lussuria con cui due amanti fanno l'amore. 
Non era questo, però, a stupire chiunque e spingerlo a guardarmi con curiosità crescente ad ogni movimento. 
C'era che, oramai da quattro anni, avevo rifiutato la compagnia di ogni ordine sociale si formava in quell'universo a sé stante che era il liceo. Chi addirittura nella mia stessa classe, passava per quei corridoi non avendo idea di che suono avesse la mia voce, il timbro, l'intonazione. 
Del resto, io mettevo del mio. 
Avete tutti presente la gerarchia sociale a cui ho accennato prima? 
Il gruppo di amebe tutti muscoli, qual'erano i maniaci di sport, imbottiti  di anabolizzanti, anche il mio cane li avrebbe battuti a scacchi. E io non posseggo un cane. 
Rifiutai educatamente l'invito di pranzare al loro tavolo.
Poi c'erano coloro che indossavano il nero per moda, perché snellisce, pezzi di metallo inutili infilati a forza nella loro pelle, pronti a proclamare quanto la vita facesse schifo e dipingersi come martiri, che soffrivano ogni tipo di pena per cui avevano una lametta infilata in tasca, a mo'di coltellino svizzero. 
Rifiutai educatamente l'invito di pranzare al loro tavolo.
La setta satanica di ragazze sulla bocca di tutti, atteggiate a barbie di grandezza naturale, s'incastravano perfettamente agli sportivi, con i loro capelli tinti, le ciglia finte e i sorrisi falsi di chi pretende il tuo amor proprio, la tua dignità e, perché no, anche la tua anima, su un piatto d'argento, dove la bellezza esteriore conta come legge non scritta.
Rifiutai educatamente l'invito di pranzare al loro tavolo e di uscire.
Ognuno di loro e nessuno mi voleva, bramava conoscere cosa il mio sguardo assente nascondesse, cosa le mie labbra sussurravano e di squarciare l'alone di mistero che mi circondava, come un'ombra, un mantello silenzioso nella notte senza luna. 
Già al primo passo sulla soffice moquette grigiastra della hall della scuola il calore mi accolse nel suo protettivo abbraccio e per un piccolissimo attimo, riempendomi i polmoni d'aria, mi sentii a casa. 
Feci un tiro della sigaretta che giaceva calda tra le mie dita, incerta se scivolare via verso un nuovo futuro o rimanere saldamente nella mia morsa, per la solita routine quotidiana. La posai delicatamente tra gli spiragli del mio armadietto, per poter inserire liberamente il codice del lucchetto con rapidi movimenti del polso e aprirlo. I miei poster, le mie foto, i miei post-it,  ancora attaccati all'interno, sopravvissuti per miracolo all'estate e alla solitudine della scuola chiusa, se non per i brevi controlli di tanto in tanto da parte degli addetti. Svuotai con calma la tracolla, riponendo ogni libro nell'apposito ripiano dell'armadietto, per poi  in quell'angusto spazio in basso a lei riservato, con numerosi e fastidiosi rumori metallici che fecero gridare pietà alle mie orecchie. Non mi ero accorto che durante tutto quel tempo una figura mi stava osservando appoggiata a braccia incrociate agli armadietti dietro di me, con  gli occhi di un azzurro tendente al blu, completamente diverso dal mio se non per qualche sfumatura, i suoi capelli biondi terminavano con ciocche di un rosa acceso. Ricordai con un sorriso del giorno in cui andammo insieme a farle, io rosse e lei rosa, io sfumato, in modo che si amalgamasse bene col nero, lei le fa risaltare come uno schiaffo in pieno viso. 
Quel giorno indossava dei guanti di pizzo senza dita, dall'aspetto molto punk con un vestito abbinato al rosa dei capelli e una cintura nera in vita, il tutto terminava con degli anfibi neri. 
Anfibi neri molto familiari. 
Quelli erano i MIEI anfibi neri. 
Quando i miei occhi scivolarono in basso realizzando questo particolare, scossi la testa divertito e rassegnato allo stesso tempo. Si passò una mano tra i capelli, Perrie, e mi si avvicinò, le labbra curvate in un sorriso abbellito dal lucidalabbra.  
Avrebbero benissimo potuto scambiarci per fratello e sorella. La stella pelle diafana, come quella di una bambola di porcellana che si teme di rompere, quell'affinità tipica di chi si conosce da molti, troppi, anni, quella che ti porta a conoscere l'altro quasi meglio di sé stessi, gli stessi occhi chiari e lo stile punk-rock, la predilezione per il nero. Posso giurare di non aver mai visto Perrie con uno di quei vestiti dai colori pastello, pieno di fiori, nastrini colorati, che tutte le ragazze si ostinavano a sfoggiare con finta e tirata classe. Lei era unica, in principio dal nome, e durante i mesi invernali viveva quasi più a casa mia che dai suoi. Sarà stato perché il mio appartamento era mio e mio soltanto, arredato con lo stile che mi caratterizzava, o forse perché studiare insieme era parecchio più piacevole che portarsi dietro quel fardello da soli, nonostante lei fosse di un paio d'anni più piccola di me, fatto sta che piombava da me nelle ore più impensabili, con qualche schifezza da mangiare e una faccia da cucciolo completamente inutile, perché la farei entrare anche se la CIA fosse alle sue calcagna. Se devo essere sincero, al contrario di quello che molti penseranno, non ci ha mai sfiorato l'idea di essere una coppia intesa come fidanzatini mielosi. Ci piace stare così, in questo equilibrio che abbiamo creato con sudore e parole vane, dove anche un insulto può risultare il più dolce dei complimenti. Semplicemente, siamo fratelli non di sangue, ma di spirito. E pensare che ci siamo incontrati per caso, su un autobus. Un autobus che stavamo per perdere entrambi, e uno scalino su cui abbiamo poggiato il piede entrambi, rischiando di perdere l'equilibrio. E mi sembrava strano, quasi irreale, che lei fosse ancora lì a sorridermi con quel filo di trucco, dopo tutti questi anni.
Chiusi l'armadietto mentre lei si appropriava della mia mezza sigaretta e l'accompagnai verso la sua aula. Come tutti, quel giorno, anche lei sentiva il bisogno di parlare del caldo e dei mesi estivi passati. 
Come faceva ad abbronzarsi così tanto ogni anno? Se il segreto era davvero mangiare carote, ne avrei fatto subito scorta. Ogni anno, a settembre, ero pallido come al solito, nonostante le scottature nascoste sotto giacche e maglioni. 
Mi raccontò di essere stata a Nizza, con "mia zia, Jared, quella che viene dall'Australia, te la ricordi, Jay? Quella che si porta sempre gli yogurt in valigia!" Scoppiai a ridere pensando ad un borsone rosa pieno di yogurt. Un'altra cosa da ammettere era la sua stravagante famiglia. Prozii, cugini e zii sparsi per il mondo. 
"Ho scritto i nostri nomi, Jared, li ho lasciati lì in Europa e noi andremo a ripassarli. Me lo prometti?" Mi chiese con gli occhi grandi da bambina, posando la schiena allo stipite della porta, una volta giunti alla sua classe. Le posai un leggero bacio sulla guancia.
"Te lo prometto". Ci salutammo così, con dei sorrisi, poi le sparì nella sua aula ed io continuai per la mia strada, diretto al piano di sopra. Di norma avrei continuato a guardare dritto difronte a me, o magari avrei tenuto leggermente gli occhi bassi, fingendo di osservare gli zaini variopinti della massa di adolescenti accanto a me. Ma non in quel momento. Un singolo rumore mi fece voltare, con un piede poggiato lievemente sul primo scalino della rampa di scale e i muscoli tesi, la testa leggermente inclinata, come un cervo che ascolta il vento. Mi ci vedevo bene in un cervo. 
Di nuovo quel rumore, come di vetri infranti, mi diressi a passo di marcia verso il corridoio secondario, quello adiacente alla palestra... E alla piscina. Sudori freddi mi percorsero la schiena per qualche attimo, mentre i neroni riprendevano le normali funzioni e la vicina dentro la mia testa mi ricordava del perché ero lì. 
Poi li vidi. Un gruppo di ragazzi, ad occhio e croce della mia età, racchiusi attorno a qualcosa.
'O a qualcuno' suggerì la stessa vicina di prima, mentre con tutto me stesso speravo che non fosse così. Speranze vane, accertai non appena mi fossi avvicinato abbastanza, quasi automaticamente. Un ragazzo con lo sguardo basso e gli occhi spenti, quasi avesse perso la gioia di vivere, uno degli altri aveva il suo zaino.Gli occhiali gli erano scivolati sul naso mentre lo spintonavano con risate di scherno. Il sangue iniziò a ribollirmi nelle vene per quello sconosciuto, strinsi i denti e mi fiondai sul braccio del più grande, affermandogli il polso prima che potesse spingerlo nuovamente. 
Le ginocchia mi tremavano per quella rabbia mai provata prima, nata chissà da dove. 
"Ora basta". Posai gli occhi in quelli del bullo di cui stringevo convulsamente il polso, mentre con l'altro braccio stringevo i miei libri come se fossero stati un salvagente e io in alto mare, uno sguardo di fuoco, che non ammetteva repliche. 
Stavo disperatamente tentando di costruire attorno a me un muro di sicurezza, di costruirmi un'effige degna degli eroi epici medioevali, che con l'armatura scintillante e la spada in pugno erano pronti a salvare la povera principessa in balìa del drago cattivo. Solo che questa volta la principessa... Era un lui e il cavaliere non era nemmeno stato capace di salvare sé stesso. Mi strinsi mentalmente nelle spalle, cercando di impersonificarmi in Robin Hood. Ma forse nemmeno lui sarebbe stata una buona metafora. 
Raddrizzai la schiena, alzai il mento, recitando così bene di una calma che non avevo, che stavo quasi per convincere anche me stesso. Immaginai un palco, le quinte e gli spettatori col fiato sospeso, il copione che affermava categoricamente che avrei vinto, perché il bene vince sempre sul male. Ma la' fuori le guerre infuriavano, innocenti venivano uccisi e qui non eravamo ad una recita delle scuole medie. 
Troppe sensazioni insieme: già assaporavo il crollo emotivo che ne sarebbe seguito. E il mal di testa. E il mal di stomaco. E le mie pillole molli, che oramai erano entrate nel quotidiano. Avrei anche potuto dar loro un nome. E la stanchezza per questo ciclo che poi sarebbe riniziato. 
Mi ridestai dalla mia rete di pensieri che era durata poco più di una manciata di secondi, il battito d'ali di una farfalla, e ripresi lo zaino dalle mani del bullo, lasciando il polso del ragazzo. Era robusto, le spalle larghe e se fossi stato anche io un ragazzo di prima, probabilmente mi sarei fatto sotto. 
"Ci rivediamo presto, Leto." Allungò una delle sue enormi mani come per darmi uno schiaffo, che atterró sui miei libri, facendoli sparpagliare ai miei piedi. Mi chinai più stanco che irritato a raccoglierli, mentre i bulli si diradavano. Non m'importava come quello lì sapesse il mio nome, non m'importava della velata minaccia, nemmeno di arrivare tardi in classe. Ero solo... Stanco di essere stanco della mia vita. Ed era solo il primo giorno di scuola. 
"Io sono Mikey" disse il ragazzo. Sollevai lo sguardo dal libro che avevo appena raccolto: ora i suoi capelli erano più ordinati e un sorriso ornava il suo viso, mentre gli occhiali erano tornati al proprio posto, lo zaino era scivolato silenziosamente dalle mie mani alle sue e mi stava porgendo il mio quaderno, al posto di offrirmi una banale stretta di mano. 
Ricambiai il suo sorriso e nel momento in cui le mie dita sfiorarono le sue per riprendere il quaderno, la stanchezza sparì dalle mie spalle come la polvere soffiata via da un libro. "Quanti anni hai?" Lasciai scivolare dalle mie labbra. 
"Sono al primo anno." Rispose continuando a sorridere. Strano, io al suo posto mi sarei dato un pugno nell'occhio. Ma forse mi era troppo riconoscente per l'atto di eroismo appena avvenuto. Un classico, prendersela col nuovo arrivato.
Mi rialzai, una volta in possesso di tutti i miei libri, ma comunque con la vaga sensazione di aver dimenticato qualcosa. Feci per tornare sui miei passi, il tempo di allontanarmi di qualche metro, che la sua voce mi richiamò all'attenzione. 
"Hey, aspetta!" Mi voltai, camminando con il petto rivolto verso di lui. "Non mi hai detto il tuo nome..." Il suo tono mi ricordò quello di un cucciolo smarrito. 
"Jared." Risposi sentendo il bisogno di rovinarmi la salute con una sigaretta.
 
Arrancai cercando di seguire le lezioni fino all'ora di pranzo. Sapendo che il mio preziosissimo astuccio era in mano ad uno sconosciuto non facilitava le cose. Ecco a cosa era dovuto il presentimento di aver dimenticato qualcosa, scoprii con orrore appena arrivato in classe. Resistetti sul momento all'impulso di sbattere ripetutamente la testa sul banco recitando la Divina Commedia, promettendo a me stesso di ritrovare il ragazzo. A meno che non mi avesse trovato prima lui. 
Siccome raramente il mio sesto senso sbagliava, mi sedetti ad un tavolo vuoto della mensa con la sensazione che sarebbe sputato fuori all'ultimo minuto. Fissai con velato disgusto il mio hamburger e le patatine. Almeno la pizza e il succo di frutta avevano un aspetto migliore, così decisi di iniziare da loro. 
Perrie si sedette difronte a me, senza far rumore, spuntata chissà da dove. Aveva raccolto i capelli in uno chignon striato di rosa, senza una ciocca fuori posto, nonostante facesse abbastanza freddo, troppo per i termosifoni ancora intorpiditi, dopo mesi d'inutilità. Passammo la prima manciata di minuti così, io con le mie schifezze poco sane e lei sempre attenta alla linea. 
Come un flashback, mi passò l'immagine di lei, alcuni mesi prima, quando a pranzo si sedeva solo con un'insalata e dell'acqua e ogni essere che respirasse lanciò il codice rosso "pericolo anoressia", mentre io indicavo il panino che era costretta a prendere quando uscivamo anche con gli altri, "lo finisci?" Chiedevo sapendo già la risposta. Scuoteva la testa, pallida, e io mi stringevo nelle spalle mentre tutti mi guardavano con orrore. 
Avremmo anche potuto infilarle il cibo nello stomaco con la forza, ma la vita era sua e avrebbe trovato il modo per fotterci tutti. 
Qualcuno disse che le menti più perverse si nascondono dietro ai visi più angelici. Questa è Perrie, un viso d'angelo che ti accoltellerebbe la madre. 
Inizò a parlarmi del gruppo delle cheerleader, dell'indecisione di entrare a farne parte, quando Frank si sedette al nostro tavolo e con un rispettoso silenzio si limitò a salutarti con un cenno della testa, per non interrompere l'angelo dai capelli rosa.
Eravamo una strana coppia, noi tre. Decisamente conoscevo Frank da molto meno di Perrie, ma i suoi occhi nocciola mi avevano fatto venir voglia di andare a sfasciare auto con lui, convinto che la polizia si sarebbe sciolta difronte alla sua disarmante innocenza. 
Se al primo colpo d'occhio sembrava un cucciolo, bastava voltargli le spalle per farlo trasformare nel dannato casinista che era in realtà e la sua abilità consisteva nell'essere un bravo attore agli occhi indiscreti, gli stessi occhi a cui avresti affidato tuo figlio per una, due, serate, anche tutto l'anno. Non lo faceva apposta, semplicemente non era a suo agio nel mostrare il suo vero io davanti agli estranei, e questo lo apprezzavo davvero. Apprezzavo anche le sue chiamate alle tre di notte, quando il suo cervello nuotava nella birra e non riusciva a trovare l'uscita del parco, quando con la voce disperata mi chiedeva di aiutarlo, e il mio cuore si riempiva di tenerezza. Così schizzavo fuori dal letto per correre in suo soccorso, per poi trovarlo a ronfare steso sull'erba umida di rugiada del primo mattino, con i capelli corvini a formare un'aureola alternativa. 
Sarà stata l'abitudine nel salvare Frank dalle grinfie del parco che mi aveva impedito di pensarci due volte quando avevo visto Michael in difficoltà. A giocare contro di me era stato il fatto che avevano a occhio e croce la stessa età. E lo stesso sguardo smarrito.  
Ero talmente preso nei miei pensieri che quando vidi il braccio del moro non tinto come me allungarsi per rubare le mie patatine, non lo vidi davvero e non provai nemmeno a fermarlo. Ero abituato anche a questo. Con un sorriso trionfante divise la refurtiva con la bionda e mi accorsi che la conversazione si era spostata su Cher Becker e il suo improbabile taglio di capelli. Delle volte Perrie ci trascinava in conversazioni talmente poco etero che mi chiedevo come mai io e Frank non andavamo ancora in giro con magliette rosa e phard sulle guance. 
"... Seriamente, Frank, guarda come Cher guarda Jay. Dio solo sa cosa gli farebbe" . 
Il mio nome e la risata di Frankie mi giunsero come un eco lontano ma mi costrinsi a girarmi. 
"Secondo me preferirebbe un nanetto moro di mia conoscenza" una voce ruvida, che stentai a riconoscere come la mia. 
"A chi hai dato del nanetto?!" Sbraitò il più piccolo e Perper non riuscì più a controllare le risate. 
So per certo che se avessi visto la scena da lontano avrei provato il bruciante desiderio di parteciparvi, perché posso assicurarvi che Perrie e Frank erano i migliori amici che potessi avere, nonostante i bulli, nonostante l'unica cosa che incornicerebbe bene la vita di un adolescente del liceo sia un volo nella tazza del cesso, nonostante le cheerleader, il cibo della mensa e i ladri di astucci. 

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Capitolo 2
*** E fu così che il principe salvò me ***


{Salve, bella gente *balle di fieno che rotolano* Sì, so di essere imperdonabile per aver fatto aspettare tutto questo tempo, quindi non mi dilungherò molto qua sopra. Volevo scusarmi (Ho avuto vari impegni; la scuola, la "vita sociale", il trinity e tutte quelle cose lì) e... Niente, ci vediamo sotto!}


2). E fu così che il principe salvò me 


La tappezzeria rossa mi feriva gli occhi e le spesse tende di velluto si gonfiavano come mosse dal vento, senza che esso ci fosse. In realtà non erano presenti nè porte nè finestre. Avrebbe potuto essere il salotto di un ricco produttore musicale, e non avrei notato la differenza. mossi un passo, ma anche il più semplice dei movimenti mi costava un'enorme fatica e fui costretto a trascinare le gambe, come se le ossa fossero state di piombo. Abbassando lo sguardo mi aspettavo che la moquette mi avesse ingoiato dalla vita in giù e devo ammettere che rimasi stupito nell'apprendere il contrario. Sulla pelle potevo avvertire uno strano tepore, come se alle mie spalle fosse stato acceso un falò e le fiamme stessero strisciando delicatamente sulla mia pelle in lingue di fuoco; quasi il loro crepitìo mi giungeva alle orecchie, mentre io non ero sicuro se fosse un illusione o meno.
In mezzo a tutto quel rosso spiccava una figura rannicchiata in un angolo, i capelli corvini in disordinate ciocche a coprirgli il viso, le ginocchia strette al petto e interamente vestito di nero, con la maglia a brandelli, più buchi che stoffa, mentre dalle maniche larghe spuntavano le braccia magrissime, come se fosse dimagrito molto negli ultimi tempi. 
Appena avvertì il mio respiro nella stanza si voltò lentamente e i suoi occhi profondi, circondati da scure mezze lune, si puntarono nei miei. La sua voce fu una ventata d'aria gelata e mi sentii sbiancare: "Questo posto non è per te, Jared. Questo posto è per chi non ha più aria nei polmoni". Tornò ad abbassare lo sguardo mentre la vita scivolava lentamente fuori dal suo corpo. Provai ad urlare, con i muscoli che non rispondevano più ai miei comandi e caddi, caddi per un tempo ed uno spazio infinito.
Prima di svegliarmi di soprassalto, con le coperte dolorosamente ammucchiate sotto lo sterno e, dal lieve fastidio proveniente dalla guancia, probabilmente si era impressa la piega del cuscino su di essa.

I pochi raggi del sole che filtravano dalle persiane semichiuse mi colpirono direttamente sul viso, come uno schiaffo di quelli che ti lasciano le cinque dita violacee sulla guancia. Con un mugolio di protesta mi girai su un fianco in posizione fetale,nonostante tutto il mio essere stesse gridando di protesta, tirandomi le lenzuola fin sopra la testa. Combattei inutilmente contro la vocina nella mia testa che mi intimava di alzarmi; magari, chissà, questa mattina niente scuola. Cercai di riprendere sonno, per poi arrendermi con uno sbuffo mentre mi mettevo seduto con una smorfia e lentamente aprivo gli occhi, portando una mano all'altezza dello stomaco, più o meno dove sentivo l'origine di quello stano senso di angoscia che mi attanagliava i muscoli e rendeva cento volte più difficile alzarmi dal letto, spossato da tutto quel rosso.
Ero davvero grato di avere un bagno nella mia camera, così ogni mattina potevo almeno svegliarmi con dell’acqua ghiacciata sul volto, prima di intraprendere una qualsiasi conversazione. Anche se in ogni caso rispondevo per la maggior parte a monosillabi, prima di raggiungere una tazza di caffè, poi sarei riuscito a concludere una frase di senso compiuto.
Meccanicamente, come ogni mattina, mi ritrovai a camminare verso lo stesso edificio di mattoni, senza sapere bene come fossi arrivato fin lì, fino a quel lampione pieno di scritte e di promesse non mantenute, prima di girare a destra.
Come ogni mattina il cortile era gremito di studenti infreddoliti e un lieve mormorio aleggiava sugli alberi, le auto e si aggiungeva alla rugiada sui petali dei fiori.
"Un sorriso per il giornalino scolastico!" mi giro stupito, facendo appena in tempo ad espirare l'aria dai polmoni, che svolazza in piccole volute, prima di coprirmi il viso con la mano, mentre il flash, abbagliante, scatta.
Non racconto spesso cose sul mio conto. Preferisco rimanere per i fatti miei e io per primo mi sto chiedendo come faccia la gente a conoscermi così tanto, nonostante io faccia di tutto per non dare nell'occhio.
Il fatto è che faccio parte della squadra di nuoto della scuola. Ora che ci penso, "fare parte" è una parola grossa, diciamo che il professore di educazione fisica mi lascia usare la palestra poichè sono "un ragazzo promettente".
Probabilmente sperava che avrei fatto amicizia con gli altri ragazzi, ma sono sempre stato così, le maestre riferivano preoccupate ai miei genitori che mi rifiutavo di parlare con gli altri bambini. Sinceramente non ho alcun ricordo di quegli anni, così non posso far altro che rimanere in silenzio. Nonostante tutto delle volte riesco a ricordare particolari come il colore della maglia di mia madre quando avevo cinque anni, le sfumature che le luci al neon del corridoio creavano sui capelli di Perrie, ieri, ma non interi periodi della mia vita.
Probabilmente dovevo avere lo stesso aspetto di quando le maestre si lamentavano di me, seduto ad uno dei tavoli del cortile , con un libro in grembo e la testa china sulle pagine ingiallite, piene di parole e piccole appunti presi a margine da una mano straniera, con una calligrafia a me sconosciuta. Forse è proprio questo l'aspetto affascinante dei libri della biblioteca: ognuno di essi è passato in altre mani, altre persone hanno letto quelle righe e altri cuori hanno provato quelle emozioni.
Una mano delicata, da bambina, con piccole unghie laccate di rosa, si posa sulla mia, riportandomi alla realtà come solo sua sorella riesce a fare. Molte cose ha comune con Perrie: entrambe spuntano dal nulla, con i capelli biondi svolazzanti e gli occhi grandi. Potrebbero sembrare gemelle se non fosse che gli occhi di Jane hanno il colore dell'erba tagliata e anni in meno, ben visibili nel modo in cui porta lo zaino pieno di piccoli peluches innocentemente, oserei dire. Per lei non è un fardello come per noi che abbiamo superato l'era del primo bacio, del foglio rosa, l'era in cui il mondo ti si presenta ignoto ed inesplorato, l'era del latte alla sera.
Posa lo sguardo nel mio, impacciata e rossa sulle gote, mi sorride timidamente. "Hai per caso visto mia sorella?" mi chiese con la voce flebile di un pettirosso. Sorridere mi venne naturale mentre scossi la testa desolato. Arrossì ancora di più e, mormorando qualche parola di ringraziamento, se andò com'era arrivata, quasi fosse un fantasma incorporeo, troppo delicata per essere catturata da uno sguardo.
Chiusi il libro mentre la campanella suonava.
A volte anche a me sembrava di essere un fantasma, mentre percorrevo i corridoi facendomi largo tra gli studenti colorati o quando facevo il mio ingresso in qualche aula e la gente mi guardava senza vedermi realmente. A modo mio ero "popolare", facevo parlare di me e pretendevo di essere sulle labbra di nessuno. Non si può dire che fossi asociale , sentivo solo un senso di non appartenenza verso quell'ambiente  che vuole forzarti ad indossare un'etichetta e appartenere ad un gruppo, a farti perdere l'identità e a convicerti che sei sbagliato perché non come il modello di qualche rivista .
Spinsi la porta che dava sulla piscina coperta: dai cardini piovvero scintille di ruggine, per poi tornare al suo posto sbattendo. Osservai lo specchio d'acqua che mi si apriva davanti mentre entravo nello spogliatoio, deserto a quell'ora del mattino, per poi riuscirne in costume da bagno, mentre brividi freddi mi accarezzavano la pelle, facendomi drizzare i peli e battere i denti.
L'acqua mi lambì dapprima il bacino, per poi salire sempre più su, sulle costole, le scapole, il collo e infine le labbra, finchè non rimanemmo solo io e lei. Sembrava portare via con sé il mio dolore: quel sogno mi aveva colpito come un proiettile. Avevo cercato il più possibile di non pensarci e ora il liquido attorno a me stava tingendosi di scarlatto. 
Per ogni minuto che passava, per ogni volta che fendevo l'acqua con una bracciata, mi sentivo sempre più vuoto.
Ma, talvolta, il vuoto è meglio del dolore, meglio dell'angoscia e meglio che pensare.
Il sapore del cloro in bocca e lo sciabordìo nelle orecchie mi erano familiari, così come misurare la respirazione, il pizzicore ai muscoli e finalmente il peso sullo stomaco che mi trascinavo dietro dal primo momento in cui avevo messo a fuoco la mia camera era sparito; e anche il freddo che aveva perforato la mia pelle come tanti piccoli spilli stava sparendo, così come il resto del mondo. Appena formulai quel pensieri mi sentii terribilmente egoista. Ogni volta che mi trovavo in mezzo ad una folla, in fila al supermercato, bramavo di essere circondato dall'acqua che attutiva i suoni, i colori e le percezioni, un momento di assoluta pace.
Io non credo in Dio. O, per lo meno, penso che sia indifferente la sua esistenza, in ogni caso dovremo cavarcela da soli, giorno dopo giorno, dopo giorno. 
Non ho mai avuto la pretesa di dire di poter riuscire a tirare avanti da solo, ma ci sto provando, ogni minuto che passa, ogni ora, tiro avanti i cocci della mia esistenza. Non ho più cercato qualcuno con cui condividere il mio fardello da quando conobbi il ragazzo del mio sogno. Dio, è così cambiato. Era... Era energico, pieno di vita, non stava fermo un attimo. Gerard.
Fuori pioveva e i lampi illuminavano la stanza quasi fosse giorno,a intervalli irregolari. Lui aveva alzato un po' il gomito, noi tentavamo di portare avanti qualcosa che era morto da tempo, io fissavo il vuoto.
Lo avevo amato,tanto, forse troppo, ma non in quel momento.
Entrambi lo sapevamo, ma nessuno riusciva a lasciar andare l'altro, così mi alzai e dopo un ultimo bacio uscii dalla stanza. Ovviamente lui provò a convincermi a rimanere, mi strinse fino a farmi male. 
Improvvisamente sentii i polmoni bruciare ed ebbi paura. La mia schiena entrò in contatto con le fredde mattonelle e sussultai, poi una mano si posò delicatamente sul mio polso e sentii freddo, davvero freddo.
Proprio quando credevo che sarei rimasto a galleggiare nel buio per l'eternità la stessa mano mi schiaffeggiò delicatamente la guancia, riportandomi alla mente l'immagine di Gerard che faceva la stessa cosa, alcuni anni prima.
Indugiai. Volevo davvero aprire gli occhi e ritornare al freddo e crudo mondo mortale? Non ne ero così sicuro, avevo disprezzato tutto di quel posto e fose, ora, avevo una chance per dimenticarmene. 
D'altra parte non volevo buttare così questo dono. 
Una fitta allo stomaco mi travolse, e io strinsi i denti mentre venivo trascinato sempre più giù e la luce si affievoliva.
Venni scosso da uno spasmo e finalmente riuscii ad aprire gli occhi, terrorizzato. 
Quando vidi Mikey, chino sopra di me e gocciolante devo aver fatto un espressione piuttosto stupita, perché sorrise sollevato. "Ti stavo cercando per l'astuccio... E la tua ragazza mi ha detto che probabilmente eri qui" Provai ad aprire bocca per chiedergli qualche spiegazione in più e, soprattutto, da quanto tempo avessi una ragzza senza sapere nulla, ma iniziai a tossire e ad ogni colpo di mi sembrava di ricevere un pugno tra le costole. Mi aiutò a mettermi seduto, mentre le gocce d'acqua scivolavano lentamente sul mio corpo e io battevo i denti per il freddo. 
Lui non era di certo messo meglio, ma credo che fosse arrossito.
Quando finalmente la tosse si calmò, la mia voce risuonò roca "Ho una ragazza...?"
"Quella... Sì, la tipa bionda, con le punte rosa..."
"Lei... Oh, lei è Perrie. Non è la mia ragazza, Dio no! E'... come una sorella per me" accennai una risata che si trasformò in un nuovo attacco di tosse. "In ogni caso... che è successo?"
"Davvero non lo sai?"
"Davvero"
"Appena sono entrato stavi nuotando, effettivamente, e non ti sei accorto di me. Ad un tratto... sei... come se fossi stato risucchiato giù e siccome non risalivi sono venuto a ripescarti".
Ripresi a tremare, ma non dal freddo. Ugualmente abbozzai un sorriso: "Grazie. Ora, quindi, siamo pari".

***

"E poi?" Chiese Perrie lanciandomi un popcorn.
"E poi nulla, ho ripreso a tossire come un dannato e mi ha portato in infermeria".
Adoravo fermarmi da lei dopo la scuola per mangiare schifezze. Era una delle mie poche sicurezze, quasi come sapere il mio nome. Non mi aveva mai chiuso la porta in faccia, nemmeno quando mi ero presentato alle tre di notte, bagnato fradicio, perché avevo smarrito le mie chiavi. Da brava mamma mi aveva messo i vestiti ad asciugare sul termosifone ed eravamo rimasti a guardare i film horror in TV fino a che Morfeo non ci aveva portati con sè con la forza. 
"Comunque questa mattina ti cercava tua sorella"
Mi guardò per un lungo attimo.
"Jared, lei sapeva benissimo dov'ero"
"Davvero?"
"Davvero. Ma le piaci, scemo. Voleva solo una scusa per parlare con te!"
"Davvero?"
"Buonanotte, Jared".




 
{Se siete arrivati fin qui, i sacchetti per il vomito sono a destra, gli insulti sono gratuiti e volevo ringraziare... *rullo di tamburi* Anna e Monica per avermi aiutato con la recensione; Arianna per il sostegno morale e dany_smile per avermi dato la carica con la sua recensione che in verità è stata la prima recensione che io abbia mai ricevuto, quindi grazie mille <3}

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Capitolo 4
*** "Stupidini ragazzini". ***


{ Heeey ... No? Okay. Vorrei scusarmi per tutto il tempo che ci ho messo ad aggiornare, so che sono imperdonabile. Sarò breve e vi lascerò a questo... Scempio letterario. Buona lettura! }





Il mese seguente passò in un attimo, o almeno così mi era sembrato, dati gli interi pomeriggi passati sui libri in vista degli esami per la fine del trimestre. In generale non avevo avuto contatti umani con nessuno, se non Perrie e Frank, che mi avevano aiutato molto con lo studio. A volte li guardavo sconsolato snocciolare tutte quelle formule di matematica e fisica o interi paragrafi di biologia e mi sarebbe piaciuto avere il loro genio. Ma il mio cervello si impuntava, correva a rievocare la sensazione delle dita sulle corde della chitarra, o sui tasti lisci del pianoforte, ribellandosi a tutte quelle informazioni e quei numeri.
D'altronde l'obbiettivo dei miei amici era New York, in qualche università di medicina, economia o legge: l'avevano ripetuto tante volte. 
I toni caldi del tramonto avevano presto lasciato spazio al blu scuro e al nero della sera, mentre le prime gocce di pioggia avevano iniziato a scendere lievi, nel silenzio della città che si era come soffermata ad ammirare. Chiusi il libro di letteratura e mi guardai attorno nella biblioteca quasi vuota, a quell'ora: a parte Perrie, che sonnecchiava oramai da qualche decina di minuti, e Frank, che era più o meno nelle stesse condizioni, qualche altro studente si aggirava in punta di piedi tra gli scaffali, sfogliando pagine e riponendo volumi.

Rimisi tutte le mie cose sparse per il tavolo nella tracolla e mi avviai all'uscita, lanciando un'ultima occhiata ai miei amici: non me la sentivo per nulla di svegliarli, non dopo averli tenuti in piedi fino a tardi per quasi tutta la settimana: testimoni di ciò le borse sotto agli occhi che accompagnavano tutti noi. E, talvolta, un bicchiere di caffè vuoto.

spinsi la pesante porta d’uscita, sulla quale troneggiava la scritta “Public Library”, non prima di aver salutato l'anziana signora Miller, come sempre nascosta dietro al bancone in legno, l'aria truce e gli occhiali calati sul naso. 
Il freddo e l'acqua mi investirono ancor prima di posare piede sull'asfalto bagnato.
Mi strinsi nella felpa, come a difendermi da quell'improvviso maltempo che sembrava essere arrivato in anticipo. Avevo bisogno di sgranchirmi le gambe, così, così iniziai a camminare, camminare e basta, senza una meta precisa, fino a che la punta del naso non si tinse di rosso e le dita non iniziarono ad intorpidirsi, costringendomi a portarle a coppa sulle labbra, soffiando per scaldarle. Un’improvvisa raffica di vento mi tolse il cappuccio: solo allora mi accorsi di essere arrivato in un quartiere di villette a schiera e che la pioggia era aumentata d’intensità, circondandomi da ogni lato, come una spessa tenda di velluto.

Fu in quel momento che lo vidi, appoggiato al muro di una casa, perfettamente asciutto: l’acqua sembrava non aver intenzione neanche di sfiorarlo. Mi guardai attorno, sperando di intravedere qualche anima viva che mi assicurasse che non ero pazzo, ma, strizzando gli occhi per cercare di scorgere attraverso le gocce d’acqua, nono vidi nessuno, eccetto un pastore tedesco che dormiva beato sotto ad una tettoia.

Chiusi gli occhi, voltandomi lentamente e pregando che se ne andasse.

-  Se non lo vedo non c’è –

Mi ripetevo poco convinto, del tutto scoraggiato all’idea di diventare come Melinda Gordon di Ghost Whisperer.

Affrettandomi sui miei passi, feci l’enorme errore di aprire un secondo gli occhi: allora lo vidi, a qualche paio di metri da me, con un ghigno soddisfatto sul viso. Per degli occhi estranei doveva essere piuttosto strano un esile ragazzo nel mezzo della strada, sferzato dall’acqua e dal vento, mentre si strofinava gli occhi e poi li riapriva, come riemerso da un sogno. Per tutta risposta lui incrociò le braccia, con i capelli rossi perfettamente in ordine. Non uno di essi, non un solo filo della sua maglia, era fuori posto; mentre i miei, di capelli, venivano totalmente scompigliati dal vento e sparati in tutte le direzioni.

“Come diavolo fai a tenere i capelli così … così …”
“Così …?” chiede reclinando leggermente il capo di lato.

Così in ordine !” sbottai infastidito. “Anzi, non voglio saperlo. Cosa vuoi da me, piuttosto?”.
Avanzò di qualche passo, ma, vedendo che per quanti lui ne compiesse in avanti io ne facevo all’indietro, si fermò, visibilmente divertito.

“Dove sono i tuoi amici?” la sua voce non era più roca, ma pur sempre strana, come se arrivasse da lontano, molto lontano, ma allo stesso tempo vicina, come se mi stesse bisbigliando direttamente all’orecchio.

“Sono …”

Non riuscivo a credere di star parlando con Gerard. Ricordavo ancora il giorno in cui lo venni a sapere, pochi anni prima, una ferita mai guarita del tutto.
Era giugno. Una tiepida serata d’inizio estate, ero appena rientrato con Perrie da un drive-in all’aperto. Poi arrivò la telefonata e dovetti appoggiarmi al divano per non cadere. Quella notte nessuno dei due chiuse occhio: lei proteggendomi dai miei demoni, che oramai non potevo più annegare perché avevano appena imparato a nuotare.

“ … A casa. O in biblioteca.”

Controllai velocemente l’ora sul cellulare e mi accorsi che era passata poco più di un’ora da quando ero uscito dall’edificio.

“Devono essere per forza a casa” dissi alzando lo sguardo. Una piccola parte di me aveva sperato di mettere a fuoco nient’altro che pioggia, ma rimase delusa.

Scosse la testa, facendo qualche altro passo avanti e io, esattamente come nella stanza, rimasi pietrificato, incapace di muovere un passo. Appena fu più vicino, la luce del lampione ebbe modo di illuminarlo e meglio e mi si strinse il cuore: era proprio come lo ricordavo, dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Da vivo, precisiamolo.

Mi morsi con forza il labbro inferiore, cercando di frenare i ricordi.

“Vieni con me” disse solo, e fu come se le mie gambe si muovessero da sole.

Arrivammo poi nei pressi della biblioteca e la pioggia iniziò a diminuire sempre più, come tutte le antiche civiltà che dopo aver raggiunto il culmine della potenza e dello splendore si lasciando andare e decadono. In questo caso il culmine era giunto con l’arrivo di Gerard, e mi chiesi se tutto non fosse stato “colpa” sua. I jeans oramai fradici si erano appiccicati alla pelle e rendevano incredibilmente fastidioso ogni passo; inoltre, di quando in quando, una goccia di pioggia centrava perfettamente la zona scoperta tra la mia schiena e il piumino. Infine, ma non per importanza, cercando di star dietro al pass svelto di Gee, che camminava come se avessimo avuto tutti i diavoli dell’inferno alle calcagna (Non avrei giurato che non fosse vero, almeno per lui), avevo preso in pieno una pozzanghera.
Tutte le luci erano spente e il pesante portone da cui ero uscito, chiuso; segno che la bibliotecaria era tornata nel suo appartamento pieno di gatti. La sua espressione si fece seria, se fino a quel momento era stata divertita, mentre la mia doveva essere piuttosto stranita. Allora fece qualcosa che non faceva da molto, moltissimo tempo: mi prese per mano, delicato e brusco allo stesso tempo, e fece per tirarmi via con lui, ma dovette accorgersi che io ero alquanto riluttante e applicavo, seppur poca, resistenza; così si girò e mi guardò perplesso.

La sua mano era fredda, ma non come la mia, quel tipo di freddo sovrannaturale, che viene da dentro; perché dentro non hai più sangue che scorra nelle vene o un cuore che batta; perché dentro sei come un appartamento vuoto, abbandonato, dopo che colui che abitava prima traslocasse; leggero come l’ultimo respiro che doveva aver esalato.

“ Tu non immagini neanche – cominciai – quanto sia stato difficile per me lasciarti ansare: ho messo in dubbio ciò di cui ero sicuro e … Magari sembrerò patetico, ma tu … non puoi tornare come se nulla fosse! In più sei morto! “

Mi accorsi di non aver preso fiato neanche una volta e mi costrinsi a riempire d’aria ghiacciata i polmoni, mentre lui continuava a stringere la mia mano, guardandomi inespressivo.
Forse con una punta di stupore.
Aprì e richiuse la bocca un paio di volte, senza che ne uscisse alcun suono, come un pesce in una boccia.

“Dimmi che non sono pazzo” ripresi.

“Oh, sì che lo sei, lo sei sempre stato” rispose riprendendo a tirarmi verso il retro dell’edificio.

Appoggiai i palmi delle mani sull’ampia vetrata che dava sul tavolo centrale della biblioteca e strinsi gli occhi cercando di vedere meglio: eccoli lì, a dormire beati come se nulla fosse stato. Dio, che situazione assurda!
Le labbra di Frank erano leggermente schiuse e il suo petto si alzava e abbassava ritmicamente; Perrie aveva il viso seppellito nelle braccia, appoggiate sul tavolo.
Bussai un paio di volte sul vetro, prima delicatamente, poi sempre più forte. Gerard era appoggiato al muro, con le braccia incrociate e un sorrisetto beffardo stampato sulle labbra.

“Non capisco dove tu voglia arrivare” dissi.

“Cosa intendi?”
“Mi hai portato qui e ora te ne stai lì a ridere sotto i baffi”
“Non ho i baffi, sai che la barba mi sta male”
“E’ un modo di … Dio, come sei squallido. – mi lasciai sfuggire un grugnito- Non importa”
A quel punto iniziò a sghignazzare soddisfatto e io ripresi a bussare contro il vetro finché i pugni non mi fecero male.
Alla fine, Frank si stiracchiò, per poi aprire gli occhi, e mi chiesi quanto ci avrebbe messo per lasciarsi prendere dal panico. Mentre allungava lentamente la mano per scuotere Perrie, estrassi di tasca il cellulare e composi velocemente il suo numero.

Mentre squillava, feci per girarmi verso Gerard, ma lui era sparito.
“Jared?”
“Frank, ciao. Perrie è sveglia?”

“Puoi vederlo da te”
“Ora vi tiro fuori, okay?”
Ricordandomi della piccola “Bacheca degli avvisi”, tornai sui miei passi al portone d’entrata. Scorsi con lo sguardo la moltitudine di foglietti attaccati con delle puntine: da un certo Mark che cercava un coinquilino per un appartamento vicino alla facoltà di belle arti a qualche mistersioso individuo che dava lezioni di chitarra o spagnolo.
"Frank, ci sei ancora?" dopo vari sbadigli e qualche imprecazione, mi rispose. "Bene, ora di' a Perrie di comporre questo numero". Con il palmo della mano libera appoggiato al vetro, dettai più chiaramente possibile il numero della signora Miller; poi mi appoggiai al muro, quasi a voler riprendere fiato.
"Jared?" ora era la voce di Perrie ad uscire dal cellulare.
"Dimmi,"
"Solo ... non te ne andare, okay?" sentii Frank borbottare qualcosa, che penso sia stata "Mi farete venire il diabete". Sorrisi tra me e me.
"No, rimango qui. O chissaà cosa potreste fare da soli in una stanza buia".
Imprecazioni soffocate e qualche insulto erano l'unico rumore che infrangeva la quiete di quella serata, dove l'dore di asfalto bagnato aleggiava nell'aria e le luci al neon squarciavano l'oscurità del dopo tramonto.
Passò mezz'ora prima che la bibliotecaria, abbastanza stizzita per essere stata svegliata e costretta a recarsi in quella che sembrava una vestaglia sul luogo di lavoro, si facesse vedere. Aprì la porta lamentandosi di come noi giovani al giorno d'oggi siamo così distratti e ignorandomi completamente, seduto contro il massiccio stipite della porta. Sembrò non notarmi nemmeno quando mi alzai in piedi, con i jeans bagnati e lo sguardo ansioso.
La prima cosa che fece Perrie, dopo essere emersa dall'oscurità, fu correre ad abbracciarmi.
"Tubate senza di me?" Frank si finse per un attimo indignato, prima di scoppiare a ridere.
"Stupidi ragazzini" aggiunse la signora Miller mentre si allontanava ciabattando.



{Ringrazio i miei "due lettori" (Citando Manzoni) che sono giunti fin qui. Per insulti, minacce e chiarificazioni varie, vi lascio il mio Twitter: https://twitter.com/heycryingjoy  }

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