L'amore proibito di una dea

di _Marlena_
(/viewuser.php?uid=386280)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Artemide ***
Capitolo 2: *** Atena ***
Capitolo 3: *** Artemide ***
Capitolo 4: *** Atena ***
Capitolo 5: *** Artemide ***
Capitolo 6: *** Atena ***



Capitolo 1
*** Artemide ***


Quasi ogni settimana scendeva nell’Ade e si faceva dare in prestito dal Signore degli Inferi il suo elmo, che rendeva invisibili. Poi andava allo stagno, dove la sua amata faceva il bagno, e lì, fra i cespugli, si metteva ad osservarla.
Ferma, nascosta dietro quel cespuglio di more, Artemide stentava a credere di poterla osservare indisturbata, senza essere vista da nessuno, specialmente da lei. Sapeva che con l’elmo era invisibile, persino agli occhi di un dio, ma non riusciva, non poteva muoversi e smettere di guardarla. Così se ne stava lì per tutto il tempo che serviva all’altra dea per lavarsi.
La guardava spogliarsi della sua armatura, un pezzo alla volta veniva deposto a terra, al sicuro fra dei massi, nel caso che un essere umano si fosse avvicinato troppo e avesse trovato la sua preziosissima egida. Poi toglieva la tunica, che dalle spalle, con un unico, veloce movimento, le scivolava di dosso, come se fosse di troppo.
Ed eccola lì, Atena, la dea della saggezza, in quella notte appena illuminata dalla luce della luna, nuda, esposta e quasi fragile, come un qualsiasi essere mortale.
La dea si avvicinò piano alla riva dello stagno, l’acqua le bagnò un piede, facendola sorridere, e di rimando anche Artemide sorrise vedendola. Passo dopo passo, Atena entrò finalmente in acqua e si immerse. Restò lì sotto per parecchio, lasciando Artemide da sola. La dea si sporse fuori dal suo nascondiglio, muovendosi silenziosamente. In fondo, dopo decenni passati a cacciare, era diventata abile nel muoversi dietro la preda senza farsi sentire. Perché Atena questo in fondo era, la sua preda proibita.
Così si avvicinò allo stagno, elmo in testa e arco in mano, pronta per qualsiasi evenienza. I fili di erba le accarezzavano le gambe, scoperte dalla corta tunica. Si fermò vicino all’albero dove Atena aveva lasciato i suoi vestiti e sì accovaccio, appoggiando la mano libera sull’abito, ancora caldo. E aspettò che l’altra dea riemergesse.
Sapeva quello che stava facendo, ormai lo aveva capito. La prima volta che glielo vide fare, corse fuori dal suo cespuglio, catapultandosi sulla riva. Stava per urlare il suo nome, era certa di aver fatto persino rumore, spezzando qualche ramo secco, ma non se ne importò più di tanto, Atena era lì sotto da una buona di decina di minuti, e non riemergeva. Per fortuna, però, Atena uscì subito prima che Artemide la chiamasse.

«Stupidi umani…» sospirò Atena, bagnandosi il viso con altra acqua. «Dovrei smetterla di preoccuparmi per loro, e invece sono ancora qui».
 Artemide indietreggiò piano, solo due metri le separavano, e non voleva di certo farsi scoprire. Rimase folgorata dalla sua bellezza, avrebbe potuto allungarsi, e toccarle il viso, ma non lo fece, sapeva che non avrebbe dovuto farlo. Così tornò indietro e si nascose, continuando a guardarla. Atena si passò una mano sul viso e fra i capelli, portandoli indietro. Forse qualche lacrima scese dai suoi occhi azzurri, ma era difficile dirlo, dato che aveva il volto bagnato.

Aveva imparato che quando faceva così era per colpa di un umano, o per qualche guerra andata male, ma la maggior parte delle volte era per colpa di un essere umano. E Artemide la guardava, in parte rassegnata, sapendo di poter sì competere con un mortale, ma non con un maschio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Atena ***


“Un’altra riunione del Consiglio… Non posso crederci.”
La donna si guardò attorno, senza soffermarsi molto sulle persone sedute a quel tavolo. Ormai li conosceva più che bene. E ora non aveva molta voglia di uscire dai suoi pensieri.
Era davvero una cosa buffa. Lì erano, per la maggior parte, fratelli e sorelle. E lì in mezzo si odiavano quasi tutti.
«E’ inammissibile! Perché proprio io non posso partecipare, padre?» urlò l’uomo dall’altro lato del tavolo, sbattendo un pugno contro il legno e facendo sobbalzare Atena, che aveva la testa appoggiata sul palmo della mano e lo guardava distrattamente.
«Ares, ne abbiamo già discusso. Ora siediti» disse con tutta calma l’anziano uomo seduto ad una delle estremità di quel tavolo ovale. Ma la scintilla negli occhi che contraddistingueva il suo potere non sfuggì a nessuno.  E l’altro che indossava un’armatura di bronzo, alto più di due metri, con la barba ispida, i capelli neri e il fuoco negli occhi, abbassò il capo e si risedette al suo posto, come un fanciullo che era appena stato ripreso dal genitore, sussurrando un debole “Sì, padre…”.
Atena si voltò alla sua destra e fece velocemente scorrere lo sguardo attorno a sé.
Ormai era stanca di quella storia.
Ormai era stanca di tutto quello.
Ormai era stanca della guerra.
Ironia della sorte, lei era proprio la dea della guerra. Non una guerra spietata e crudele, a quel tipo di combattimento ci pensava già l’uomo che poco prima si era seduto, suo fratello. No, la sua guerra era condotta con premeditazione e ragionevolezza. Una guerra quasi subdola, che le portava sempre la vittoria. Beh, quasi sempre.
Chiuse per un momento gli occhi, pensando che l’unico luogo in cui avrebbe voluto essere, era il piccolo stagno dove la sera precedente si era concessa un bagno rilassante.
Riaprì gli occhi e scosse la testa, continuando a far scorrere lo sguardo sui presenti.
Davanti ad ognuno di loro, si trovava una piccola coppa dorata e al suo interno, c’era un liquido dello stesso colore. L’ambrosia. Il nettare degli dei. Perché loro erano quello, degli dei.
Portavano tutti delle tuniche bianche, chi più lunghe e chi più corte. Le donne avevano tutte i capelli lunghi, gli uomini in genere li avevano corti.
Tranne lei, chissà perché.
In realtà Atena lo sapeva benissimo il perché. Tutti sapevano il motivo, eppure nessuno ne parlava mai.
Lei portava i capelli corti, ed erano color argento. Alla luce delle fiaccole che illuminavano la stanza in cui erano, rilucevano in modo singolare. In fondo, lei era la dea della Luna.
Aveva la pelle abbronzata, per tutte le ore che passava  a cacciare.
Gli occhi invece erano di un verde sorprendentemente scuro, come quello dei boschi in cui passava la maggior parte della sua giornata. E quegli occhi le trasmettevano un certo senso di calore e dolcezza.
Lei e la ragazza che stava osservando, erano davvero l’una l’opposto dell’altra.
Una sola cosa le accumunava.
Entrambe avevano rinunciato alla vita coniugale.
Entrambe avevano rinunciato a prender marito.
Peccato che Atena ogni tanto si facesse un po’ prendere da qualche uomo mortale.
Mentre l’altra sembrava davvero fedele alla promessa che aveva fatto.
Solo in quel momento, Artemide si voltò verso di lei, e vide che la stava guardando.
E le sorrise.
E Atena non seppe cosa le stava succedendo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Artemide ***


Incoccò la freccia.
Tese la corda.
Rallentò il suo respiro e i battiti del suo cuore decelerarono.
Poteva sentire il sangue che le pulsava nelle orecchie con chiarezza.
Si mise in posizione, divaricando le gambe.
E chiuse gli occhi.
Era il suo modo di concentrarsi durante la caccia.
Sentiva il rumore che faceva la sua preda. Sentiva i rami che si spezzavano sotto le sue zampe, le foglie secche calpestate da quegli zoccoli che compivano la loro ultima corsa. Percepiva perfino il respiro affannato dell’animale.
In lontananza sentiva l’abbaiare dei suoi cani. Anche loro avevano percepito l’odore del cervo. Ma lei era stata più veloce ad arrivare.
Sorrise al nulla.
Aveva scelto la sua preda, come faceva ogni volta. Era un vecchio cervo, anziano, ormai malato e prossimo alla morte. Se lo avesse ucciso, nessun cucciolo sarebbe rimasto senza il padre.
Spostò l’arco, tenendo ancora gli occhi chiusi e seguendo con la punta della freccia il rumore che faceva l’animale. Quando capì che la sua preda era in traiettoria, aprì subito gli occhi per scoccarla.
Ma invece del bosco in cui si trovava, vide i suoi occhi.
Due bellissimi occhi azzurri che la guardavano.
E la freccia partì senza avviso, andando a conficcarsi nella corteccia dell’albero che era dietro al cervo, che scappò via.
Era la terza volta che succedeva da quando, qualche sera prima, i loro occhi si erano incontrati durante la riunione del Consiglio. E Atena, dopo che lei le aveva sorriso, si era voltata dall’altra parte e non l’aveva più degnata di uno sguardo. Ed era da allora che Artemide continuava a pensare se avesse sbagliato qualcosa.
Gettò l’arco ricurvo al suolo, si tolse la faretra dalle spalle e si sedette per terra, le gambe piegate, i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa fra le mani.
Tutto quello che riusciva a vedere, erano i suoi occhi.
Strinse forte la testa, scuotendola.
«Ti prego, ti prego basta…» sussurrò a bassa voce più che a se stessa agli occhi che continuava a vedere.
Sentì una mano appoggiarsi delicatamente sulla sua spalla. Artemide sobbalzò leggermente, poi rendendosi conto di chi era quella mano, rilassò i muscoli e alzò la testa verso l’alto, guardando negli occhi la persona che aveva davanti.
Accovacciata davanti a lei, c’era una ragazza, vestita con una tunica corta e i capelli lunghi raccolti in una treccia. La ragazza le sorrise, ma quel suo sorriso sapeva di tristezza e impotenza. Le appoggiò una mano sulla guancia.
«Ancora lei?» chiese Callisto.
«Ancora lei…» rispose flebilmente la dea, riabbassando il viso.
Callisto era una delle ninfe che la seguivano durante le sue battute di caccia e l’accompagnavano nel resto della giornata. Ma Callisto era anche la sua più cara confidente. Lei sapeva tutto.
«Forse, dovresti semplicemente dimenticarla…» incominciò, ma rendendosi conto che gli occhi che la guardavano stavano diventando lucidi, si corresse subito «oppure, oppure potrei andare io da lei e fare due chiacchiere con la dea della saggezza.» disse annuendo più volte e con l’espressione seria.
Artemide alzò la testa e due piccole fossette comparvero sul suo viso, mentre alzava gli occhi al cielo.
«Ma credo che sarebbe un’opzione più convincente far parlare le tue fossette, o mia dea.» disse Callisto con una risata, ed anche Artemide rise.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Atena ***


«Ciao, io sono Pallade, e tu chi sei?»
La voce di una bambina la fece voltare e il legno che aveva tra le mani le cadde sul grembo.
«Io sono Atena» le rispose, alzando leggermente il mento, in modo fiero. L’altra rise del suo comportamento, ma si sedette comunque di fianco a lei, sulla sponda del fiume.
«Che fai?» chiese mentre Atena riprendeva il legno in mano e cominciava a pulirlo.
 «Mi costruisco un giavellotto».
«Forte!» rispose Pallade, muovendo i piccoli piedi sull’acqua, senza però bagnarli, «rimango qui con te allora».
 
«Dai Atena spostati!» una risata cristallina, la voce ancora innocente, seguì la frase.
«Mi sposto solo se ti arrendi» disse lei schiacciandola ancora di più al suolo, con un sorriso sulle labbra.
Ultimamente giocavano spesso a fare la lotta, sullo stesso prato su cui si erano conosciute quando erano bambine, ed ora erano poco più che ragazzine. Avevano condiviso tutto fin dal loro primo incontro e stavano crescendo assieme. Atena però era un po’ più alta di Pallade, e riusciva a sentire il piccolo seno della ragazza premere contro il suo petto. Non le dispiaceva affatto la presenza di quel corpo sotto di sé.
«Bel modo di vincere» disse Pallade abbassando le braccia ed appoggiando le mani dietro la propria testa, accarezzando l’erba con i polpastrelli delle dita, «per fortuna che quando crescerai sarai la dea della guerra…» e rise guardandola fare una smorfia. Crescere ed essere una dea non la entusiasmavano molto, ma quello era il suo destino. Almeno avrebbe avuto accanto la sua amica.
«Va bene, va bene. Però, dato che sei stata sconfitta, come ogni perdente che si rispetti, mi devi qualcosa in cambio» e alzò un sopracciglio mentre un sorriso furbo le si dipingeva sul volto.
«Il solito?» chiese Pallade ridendo.
«Il solito» confermò Atena, voltando leggermente la testa di lato. E Pallade, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo sempre col sorriso sulle labbra, le prese il viso fra le mani e lo avvicinò al suo. Le sue labbra si posarono sulla guancia di Atena, ma gli angoli delle loro bocche si sfiorarono.
«Ti piace proprio vincere» disse Pallade, lasciandole il viso, avendolo prima tenuto fra le sue mani un po’ più del dovuto.
«E a te piace proprio perdere» controbatté Atena, sorridendole con dolcezza, la guancia ancora bollente dove si erano posate quelle labbra.
 
«Va bene, sei sicura di volerlo fare?» guardò la lancia che aveva in mano, poi la ragazza che era dall’altro lato del prato e nuovamente la lancia.
«Dai tira!» le gridò Pallade per farsi sentire.
Atena sapeva che era una cosa insensata da fare, non avrebbe mai dovuto ed inoltre c’era quella strana sensazione che non voleva andarsene.
Il rumore del fiume lì accanto, gli uccelli che cantavano nel bosco lì vicino e il vento che soffiava fra le fronde degli alberi, sparirono, lasciando posto solo al rumore del suo respiro e al battito del suo cuore. Atena soppesò la lancia che aveva in mano, le nocche bianche per la presa troppo forte. Poi caricò indietro il braccio, raccogliendo tutta la potenza che aveva. Doveva lanciarlo solamente oltre Pallade, che si era posizionata esattamente dove era atterrato l’ultima volta la lancia.
L’arma partì, e a metà della sua traiettoria, una folata di vento, potente ed improvvisa, le fece cambiare direzione. Atena capì quello che stava per succedere, ed aprì la bocca per urlare, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Iniziò allora a correre e quando arrivò, la lancia era conficcata al suolo, una pozza di sangue attorno alla punta.
Il suo petto si alzava ancora, con fatica. Strani rantolii accompagnavano il respiro di Pallade.
«Atena…» sussurrò impercettibilmente la ragazza.
«Shhhhh, sono qui, sono qui» Atena si inginocchiò al suo fianco, non sapendo cosa fare. «Pallade, Pallade ti prego…»
Pallade tossì, e del sangue le uscì dalla bocca.
«Il solito…» le chiese debolmente «Atena…»
La dea la guardo, mentre sentiva che una mano debole le prendeva la tunica e cercava di tirarla a sé.
Atena allora abbassò il proprio viso, ed appoggiò le sue labbra su quelle di Pallade, non sapendo se quella era la cosa giusta da fare.
Quando spostò la testa e riaprì gli occhi, vide un sorriso sulle labbra di Pallade, gli occhi chiusi, il torace che non si alzava più. Vide delle lacrime cadere sul volto della ragazza per terra, e capì che erano le sue.
«Pallade…» sussurrò prima debolmente, appoggiando le mani sulle spalle della ragazza e scuotendola, prima piano, poi sempre più forte, le lacrime che continuavano a cadere dai suoi occhi, urlando sempre più forte il suo nome.

 
Atena riemerse dall’acqua. Il respiro affannato, il cuore batteva all’impazzata. In testa le immagini di quella morte  continuavano a ripetersi all’infinito.
Si portò le mani sul viso, togliendosi l’acqua in eccesso. Scosse la testa più e più volte, come per mandar via quella scena dai suoi occhi.
Aveva giurato che mai, mai più avrebbe ripetuto quello stesso errore. Si era innamorata una sola volta, e le conseguenze erano state disastrose.
Ritornò verso il bordo dello stagno, camminando con calma, per andare a prendere i suoi abiti.
Ma dal fitto del bosco, arrivò l’eco dell’abbaiare dei cani e di cespugli mossi da piedi che correvano.
Atena allora si guardò attorno, ma l’unico posto in cui nascondersi, erano degli alberi lontani dalla sua tunica, rimasta dall’altra parte della radura. La dea sperava che fosse solo un mortale che aveva perso le tracce della sua preda, e che presto sarebbe ripartito per cercarla.
Dal bosco, uscì però l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento.
Una ragazza dai capelli argentati si sedette sull’erba, e chiuse gli occhi stendendosi per terra.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Artemide ***


Dire che era capitata in quello stagno per caso sarebbe stato  ridicolo. Sapeva benissimo che lei era lì, e voleva incontrarla.
Poi, che la sua preda si fosse diretta in quella direzione, era stato solo un caso.
Si era stesa sull’erba, il respiro affannato per la lunga corsa.
In lontananza giungeva l’abbaiare dei suoi cani.
Una leggera brezza faceva muovere l’acqua dello stagno.
Aveva aperto gli occhi e ora guardava le stelle, brillanti nel cielo, mentre un sorriso prendeva forma sulle sue labbra. Entrata nella radura, aveva visto che non c’era nessuno in acqua, ma su delle rocce lì vicino, c’erano ancora delle vesti. Questo poteva significare solo una cosa…
Sentì i cespugli muoversi dietro di sé e uno dei suoi cani uscì dal bosco, correndo verso di lei, che si tirò su, appoggiandosi ai gomiti per accarezzare l’animale appena arrivato.
«Che succede piccolo?» disse la dea sorridendo, pensando che quello era il cane ideale per quella situazione, mentre gli passava una mano fra le orecchie e grattandogli la testa.
Un frusciare vicino a loro fece scattare l’animale che si voltò di scatto e un cupo ringhiare gli uscì dalle fauci, mentre il pelo gli si rizzava sulla schiena e la coda rimaneva immobile. Piano piano iniziò ad avvicinarsi ad un albero, senza smettere di ringhiare.
«Ris, che hai sentito?» Artemide si alzò in piedi, cercando di non ridere di quella situazione assurda. Lei sapeva fin troppo bene chi fosse stato a muoversi dietro l’albero.
Il cane le rispose abbaiando, prima verso di lei e poi di nuovo verso l’albero.
«Ti conviene non farlo avvicinare troppo, se non vuoi che pietrifichi il tuo cane» disse una voce femminile con una sottile punta di incertezza da dietro l’albero.
«Ris» lo richiamò Artemide, sorridendo al sentire quella voce, «indietro»
Il cane indietreggiò ubbidendo alla padrona, che si accovacciò per rassicurarlo che andava tutto bene, accarezzandolo tra le orecchie.
«Ora, se non ti dispiace, potresti passarmi i miei abiti, Artemide?»
La dea rise e si avvicinò alle vesti dell’altra dea e le prese in mano, poi ritornò all’albero e allungò il braccio, voltando la testa per non guardarla.
«Vedo che sai il mio nome.»
«Certo, come se tu non conoscessi il mio» disse la donna da dietro l’albero prendendo i vestiti dalla sua mano.
Artemide ritornò a sedersi sull’erba con Ris che la seguiva, per dare il tempo ad Atena di rimettersi qualcosa addosso.
Una volta indossati di nuovo i propri abiti, Atena uscì dal suo nascondiglio e Artemide si voltò verso di lei.
L’altra dea si stava passando una mano tra i capelli, ancora umidi, e guardava verso di lei.
Artemide le fece segno di avvicinarsi e di sedersi sull’erba accanto a sé.
Riusciva a sentire il calore che la sua pelle emanava.
Riusciva a sentire il suo odore.
E non riusciva a smettere di guardare le sue labbra.












NOTE DELL'AUTORE
Mi spiace non esserci stata in quest'ultimo mese, ma sono stata davvero impegnata tra scuola e tante altre cose.
Questo capitolo non mi ha entusiasmata molto, sarà perchè ci ho messo quasi un mese a scriverlo e non è venuto granchè. 
Ma spero che comunque sia di vostro gradimento.
Una piccola nota: "ris", in greco antico, vuol dire "naso", da qui il fatto che Artemide trovi ridicolo il fatto che sia arrivato proprio quel cane.
Se ve lo state chiedendo, sì, questa è la mente perversa di uno studente classicista. Zan zan zaaaaan.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Atena ***


A F.
perchè senza di lei sarei persa.

Prese un filo d’erba, strappandolo dal terreno vicino alla sua gamba ed incominciò ad avvolgerselo attorno al dito.
Il cuore le batteva un po’ più forte del solito, ma non riusciva a capirne il motivo.
Sì che lo sai, non fare la sciocca”, disse una voce nella sua mente.
Scosse la testa per liberarsi da quel pensiero.
Lei è così vicina e neppure la stai guardando…”
Girò il viso di lato e la vide.
Era lì, stesa sull’erba, proprio accanto a lei.
Aveva un braccio alzato e muoveva le dita in direzione del cielo. Atena  alzò la testa e notò che ad ogni movimento di quelle sottili dita, una nuvola passava davanti alla luna e poi si allontanava.
Abbassò nuovamente la testa e capì che ogni qualvolta una nuvola oscurava la luna e tutto il bosco, i capelli e gli occhi della dea accanto a lei si scurivano a loro volta.
«Fermati, ti prego» Atena le bloccò il polso alzato verso l’alto con la propria mano,  la voce leggermente tremante.
Sentì il viso andarle in fiamme.
Sotto il suo tocco, percepiva una pelle calda e morbida.
«Perché?» rispose l’altra, voltando il viso per guardarla, mantenendo comunque il braccio alzato e inarcando un sopracciglio.
«Perché ti preferisco così… Cioè, la luna. Mi piace vederla senza nuvole» disse alzando subito la testa verso il cielo, per non farsi vedere il viso ancora più rosso.
Artemide allora abbassò il braccio e chiuse gli occhi, ma Atena comunque non spostò la mano dal suo polso, anzi, strinse un po’ di più la presa.
La dea, stesa ancora per terra, sfiorò delicatamente col suo pollice il dorso della mano di Atena, a cui sembrò di esser accarezzata da una leggera brezza.
Un brivido le attraversò tutto il corpo e non potette fare altro che chiudere gli occhi e sorridere.
Poi li riaprì e le lasciò la mano, ma solo per accarezzarle il viso.
Sotto i suoi polpastrelli, sentiva la pelle liscia e delicata. Artemide aveva dei lineamenti perfetti. Nessuna statua creata da un mortale era in grado di raffigurare davvero la sua essenza. Era una dea, certo, doveva essere forte, severa, giusta. Ma aveva dei lineamenti dolci, come quelli di una fanciulla appena sbocciata. E ai lati delle sue labbra, spuntavano due fossette ogni volta che sorrideva.
Atena si chiese che sapore avessero le sue labbra, e se fossero ancora più morbide della sua pelle.
Così si abbassò leggermente, per poter portare il viso all’altezza di quello di Artemide e avvicinò le proprie labbra alle sue e con una leggera insicurezza la baciò, sfiorandola appena.
Artemide aprì gli occhi e sorridendo l’accarezzò, ricambiando subito il bacio.
Un bacio che, seppur breve, sembrò eterno.
Entrambe rimasero lì per un istante, sorridendo e con gli occhi chiusi, le fronti appoggiate.
Si ripresero la mano e giocando l’una con le dita dell’altra, riaprirono gli occhi e si guardarono.
Uno sguardo di quelli profondi, che ti entrano nell’anima.
Dopo un istante Atena si rialzò, lasciando scivolare la mano di Artemide sul terreno.
La sua mente si riempì di domande.
Di dubbi.
Di paure.
E l’unica cosa che riuscì a pensare mentre scappava via dalla radura fu: “E se avessi sbagliato tutto?”

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2396687