Ancora noi

di chiaretta85_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Avviso ***
Capitolo 2: *** Scelte ***
Capitolo 3: *** Inganno ***
Capitolo 4: *** Cuore ***
Capitolo 5: *** ritorno ***
Capitolo 6: *** Arrivo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Avviso ***


Avviso.

Sono tornata. Lo so, non ci credo nemmeno io.

Un anno è lungo. Ma sono qui. Dovevo ricominciare a riprendere un po' in mano la mia vita e l'ho fatto.

Ma scrivere mi manca.

Troppo.

Così eccomi. Riprendo da qui. Da “ancora noi”. La storia che mi manca di più in assoluto.

L'ho modificata e riscritta, così cancellerò i capitoli e li posterò nella nuova versione.

Mi dispiace un po' perchè così cancellerò anche le recensioni ma spero di poterne leggere delle nuove.

Spero che riprenderete a seguirmi.

Dopo questo avviso posterò il primo capitolo, entro la serata. Quindi.... a più tardi.

P.s. Sono felice.

Chiara.

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Capitolo 2
*** Scelte ***


Ancora noi

 

Cap 1. Scelte

 

Bella.

 

Me lo avevano detto: la vita è una questione di scelte.

Il tuo destino dipende dalle tue scelte.

Ma non mi avevano detto che le scelte erano così difficili. Non mi avevano detto che, da una semplice scelta, può dipendere la vita a o la morte di una persona.

Seduta accanto al grande letto, osservavo il tempo passare al di là del vetro dell'imponente finestra della mia stanza.

Sembrava tutto uguale quel bosco, uguale a come lo ricordavo, uguale a come lo avevo visto la prima volta, dalla stessa angolazione di ora, solo un piano più in su, con le dolci note di Debussy in sottofondo. Le folte chiome degli alberi, il terriccio umido e fangoso, i tronchi ricoperti di muschio, il rumore dell'acqua che scorre di un fiume poco lontano.

Eppure ora era diverso. O forse erano i miei occhi ad essere cambiati. Quel bosco mi intimoriva e mi affascinava in ugual misura. Perché ora quelle stesse fronde, quegli stessi colossi silenziosi, avevano per me un altro significato. Io sapevo. Sapevo cosa potevano nascondere, io sapevo cosa potevano raccontare se fosse stato concesso loro il dono della parola, io sapevo i loro segreti. E loro conoscevano i miei. E mi aiutavano a custodirli. A loro avevo sussurrato il mio amore, il mio cuore e la mia gioia e avevo gridato il mio dolore, il mio tormento, il mio castigo.

Sospirai.

«Sei pronta?»

Sobbalzai, voltandomi verso la porta. Due lucenti occhi color ambra mi guardavano sereni, cercando di nascondere la ruga di apprensione che si stava formando al centro della stessa fronte del volto dal quale mi osservavano.

«Scusami ho bussato, ma non mi hai risposto»

Abbozzai un sorriso e annuii. «Mi dispiace, non ti ho sentito, ero sovrappensiero. Vieni, entra»

Sorrise chiudendosi la porta alle spalle e con tutta la grazia di cui solo quelli della sua specie erano capaci, mi raggiunse con passo umano, prendendo posto sul letto accanto a me. Il suo sguardo vagò nella stessa direzione dove solo pochi attimi prima era posato il mio. Sospirò anche lui, un sospiro stanco, preoccupato e nostalgico. Mi persi nella sua contemplazione, cercando di capire quanti ricordi potesse rievocare in una creatura dall'animo secolare come il suo quello stesso paesaggio.

«È ora» mormorò distogliendo lo sguardo. Chiusi gli occhi, colpita dal peso di quelle due piccole parole. Incredibile il grande disegno che celavano al loro interno.

«Lo so.»

Annuì e rimase in attesa. Era così paziente con me, proprio non riuscivo a comprendere come potessi meritarlo.

«Credi davvero che sia la cosa giusta?» sussurrai cercando di contenere la paura che mi dilaniava il petto.

Lui allungò una mano, afferrando la mia, che si perse nella sua fredda, grande e forte.

«Isabella, lo sai. Sai come la penso, ma sai che mai ti imporrei di fare una qualsivoglia cosa che tu non hai piacere di fare. Voglio che tu ti senta libera di prendere la tua decisione, al di là di quello che pensi io voglia per te...o per me»

«Lo so, ma...» mi morsi il labbro, mi sentivo sempre un po' invadente a toccare l'argomento, nonostante negli ultimi diciotto mesi il nostro legame fosse diventato forte e quasi non avessimo più segreti l'uno per l'altra, violare quel lato della sua vita mi faceva sempre sentire indiscreta e fuori luogo. Scossi la testa e puntai lo sguardo verso il basso. Ovviamente non si arrese, sapeva dove volevo arrivare.

«Ma?» mi chiese per l'appunto, come chiaro invito a proseguire.

Presi fiato, inutile provare a farlo desistere. Aveva preso il suo nuovo ruolo nei miei confronti molto seriamente, Charlie sarebbe stato felice di sapere che c'era lui a prendersi cura di me ora che lui non poteva più farlo. Aveva sempre nutrito una grande stima e un grande rispetto nei suoi confronti. Certo, forse se avesse saputo la verità...

Presi coraggio e continuai.

«Ma sei io decidessi di restare tu andresti comunque?»

«Ovviamente no»

Sbuffai. Cielo, la testardaggine era un gran difetto in quella famiglia. Afferrai le ruote della mia sedia a rotelle e cominciai a bighellonare nervosamente su e giù per la stanza. Avevo bisogno di muovermi, di fare qualcosa, o la tensione delle ultime ore mi avrebbe annientata.

«Perché no?» chiesi con un moto di stizza, bloccandomi al centro esatto, a pochi passi dal letto, dando le spalle alla finestra. «Carlisle, sai che ti considero mio padre ormai, al cento per cento, senza nessuna remora, ma davvero non è necessario che tu continui a privarti della tua felicità solo per occuparti di me. Non posso continuare a permetterti di sacrificarti in questo modo»

«Non sei tu che me lo permetti Bella, sono io che ho giurato sulla tomba di Charlie di crescerti, amarti e proteggerti come se fossi sangue del mio sangue. Non ho intenzione di rimangiarmi un giuramento»

«Sono già cresciuta Carlisle, tra pochi giorno compirò vent'anni, non c'è bisogno che continui a rovinarti l'esistenza per me»

Il suo sguardo si incupì, tornando a saettare oltre la finestra.

Il giorno in cui successe tutto, credevo che sarei rimasta sola, e poi era arrivato lui. Un angelo luminoso nel bel mezzo della più lugubre tempesta.

Alice mi ha detto che avevi bisogno di aiuto...sono qui” aveva sussurrato con uno sguardo tormentato mentre mi tirava fuori dall'auto di mio padre, quasi completamente accartocciata contro quel maledetto albero.

Si incolpava ancora di non essere arrivato prima e di non essere riuscito a salvare la vita anche a lui.

«Mi stai rinnegando come padre Isabella? Ho fatto un così pessimo lavoro anche con te?»

Sobbalzai per il dolore intriso nelle sue parole. Chiusi gli occhi per fermare le lacrime che pungevano nei miei occhi, frutto della consapevolezza di aver ferito un anima buona e nobile come quella del mio secondo padre. Tanto luminosa da far male. Sapevo a cosa si riferiva con quel “anche con te.” Il suo tomento per aver inflitto una vita che non desideravano a due dei suoi figli lo tormentava nel profondo. Più volte mi aveva confessato che ogni volta che negli ultimi decenni aveva postato lo sguardo su Rosalie e Edward, il senso di colpa lo aveva dilaniato sapendo quanto li ripugnava la loro stessa natura. Natura a cui lui li aveva condannati per l'eternità.

Mi spostai dinnanzi a lui allungando una mano perché la stringesse di nuovo. La prese e la nascose fra le sue nascondendo il capo ai miei occhi per celare il suo dolore.

«Perdonami Carlisle, sai che non era ciò che intendevo, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non fossi corso da me un anno e mezzo fa. Sei il padre migliore che si possa desiderare»

Sollevò il capo abbozzando un sorriso che non raggiunse gli occhi.

«Ma vuoi ancora liberarti di me» mormorò sarcasticamente arcuando un sopracciglio.

Sorrisi e stetti al gioco. Avevamo imparato in fretta a comportarci come una famiglia e a prenderci in giro con amore, come per l'appunto solo una famiglia sa fare.

«Ma certo, come ogni adolescente che si rispetti! Una casa gigantesca senza genitori per un intero week-end, il sogno proibito di chiunque sotto i ventun anni! Hai idea di che festa potrei dare?» recitai in una chiara presa in giro cercando di risollevargli il morale.

 

Dopo l'incidente mia madre mi aveva chiesto più volte di andare in Florida, ma io avevo sempre rifiutato, quella non era più casa mia, casa mia era qui, a Forks. Charlie riposava qui, i miei ricordi vivevano qui, io dovevo restare qui. Anche Jacob, come Reneè, mi aveva chiesto di andare a vivere con lui, non voleva rimanessi sola, o peggio che vivessi con un vampiro, ma sapevo che le cose per me, li, sarebbero diventate troppo...complicate. L'avevo capito da tempo che la sua amicizia seppure per me preziosa e importante, non era del tutto sincera. Avevo capito da tempo che lui desiderava da me qualcosa che non potevo dargli, accettare di stare con lui avrebbe significato illuderlo. Così, egoisticamente, avevo scelto di non andare, di restare lì, in quella casa che una volta era stata teatro della nascita di un grande amore, e che rinchiudeva in se i ricordi più belli della mia vita.

La casa che dividevo con Charlie, era piccola, per una persona costretta a vivere sulla sedia a rotelle e troppo in vista per un vampiro.

Così Carlisle aveva ripreso in mano le chiavi della grande villa. Io dormivo nella stanza degli ospiti, l'unica al piano terra. Carlisle aveva apportato delle modifiche, nulla di che, giusto quello che serviva per farmi muovere in perfetta autonomia, senza dover continuamente ricorrere al suo aiuto. O almeno era quello che diceva lui. In realtà aveva fatto costruire una rampa esterna sul lato anteriore, per permettermi di entrare e uscire agevolmente da quella che ormai era diventata casa mia. E ne aveva aggiunto una seconda che dava sul giardino per non costringermi a uscire dalla porta principale e farmi fare tutto il giro della casa ogni qual volta avessi voglia di prendere una boccata d'aria. Aveva ristrutturato il bagno adiacente alla mia stanza con strutture d'avanguardia adatte alle mie condizioni che – e di questo lo ringraziavo ogni giorno – mi rendevano indipendente nella cura del mio corpo. La cucina era stata completamente modificata e portata all'altezza della mia seduta permettendomi di cucinare senza impedimenti. Aveva perfino fatto installare una sedia mobile lungo la scala interna, per permettermi di raggiungere il piano superiore. Non l'avevo mai usata se non per raggiungere lo studio di Carlisle, stando sempre ben attenta a non soffermarmi su quelle porte chiuse che sembravano chiamarmi come una falena alla sua fiamma. Non volevo andare di sopra. Non volevo sapere cosa avrei trovato. Aprire la porta della sua stanza vedendola vuota, mi avrebbe distrutto. No, non potevo.

E poi c'era il pianoforte, era ancora lì quando eravamo arrivati, coperto da un soffice lenzuolo bianco. Non riuscivo ad entrare in quel salone senza essere pervasa dai ricordi. Ogni volta finiva sempre allo stesso modo: con me in lacrime, persa nel mio dolore, e Carlisle che inutilmente cercava di consolarmi. Alla fine gli avevo chiesto di portarlo di sopra, lontano dai miei occhi. Non volevo più vederlo. Al suo posto ora c'era solo il vuoto, come quello che era rimasto dentro di me.

Carlisle, il mio secondo padre, era diventato la mia unica ancora di salvezza.

Ricordavo come fosse stato il giorno prima quando, in ospedale, dopo essermi risvegliata dal coma farmacologico, me lo ero ritrovato al capezzale. Ero rimasta piuttosto sconcertata.

Credevo di aver sognato” gli avevo detto spaesata.

No, non lo hai fatto”

Mi hai salvata tu, vero?”

Aveva annuito, ma la sua espressione era rimasta triste. Il campanello di allarme si era subito acceso nella mia mente.

Charlie!” avevo urlato, cercando di strapparmi tutti quei tubicini che avevo attaccati. Mi aveva immobilizzato le mani aspettando che smettessi di lottare. Lo avevo guardato con aria di supplica, attraverso gli occhi appannati dal pianto. Sapeva cosa gli stavo chiedendo.

Mi dispiace Bella”.

Fu tutto ciò che disse.

Avevo pianto, avevo pianto tanto. Avevo perso anche lui. In poco tempo avevo perso le due persone più importanti della mia vita. Prima Edward, poi Charlie. Mi sentivo sola, abbandonata e tremendamente...tremendamente arrabbiata.

Era rimasto lì, a sentirmi piangere, inveire, urlare, per ore intere, giorni, forse settimane. Consolando me, consolando mia madre, i miei amici, tutti...chiunque ne avesse bisogno. Si era addossato ogni peso sulle sue spalle. Senza mai dire una sola parola in più del dovuto, senza mai andarsene, semplicemente aspettando che finissi le mie lacrime.

Ed era successo. Una mattina mi ero svegliata e non piangevo più, non gridavo più. L'unica cosa che urlava erano l'amarezza e la voragine di dolore che avevo in petto. Perfino il mio cuore mi aveva lasciato.

Mi aveva spiegato cosa mi era successo, cosa sarebbe stata la mia vita da quel giorno in poi, ed erano state altre lacrime, altro dolore.

Non avrei potuto camminare. Probabilmente mai più. Mi sentivo inutile, completamente inutile.

Poi una mattina mi ero svegliata e per la prima volta dopo settimane Carlisle non c'era. Pensai che se ne fosse andato, che si fosse stufato di sentirmi frignare tutto il giorno, che anche lui, come suo figlio, si era stancato di perdere il suo tempo con me.

Mi ero sentita incredibilmente sola. Ma lo trovai giusto.

Quella sera stessa, la mia porta si era spalancata di nuovo.

“Scusa se non sono stato con te oggi, avevo bisogno di pensare”.

Non mi chiedeva mai come stavo, non sarebbe servito a nulla, se non a causarmi un nuovo attacco di pianto.

Non preoccuparti, non importa, capisco. Credo che dovresti tornare dalla tua famiglia Carlisle, hai già fatto anche troppo. Starò bene.”

Anche tu sei la mia famiglia Bella... resterò qui, finché avrai bisogno di me”

Avevo sbarrato gli occhi, incredula. Non era possibile, non per me, non meritavo tanto.

Ma, non puoi...”

Ovviamene non mi aveva dato retta ed era rimasto, nonostante io tentassi continuamente di convincerlo a tornare.

Si era occupato di me per tutto quel tempo, senza mai lamentarsi, nonostante io lo facessi e anche spesso.

 

La sua risata cristallina riportò la mia mente al presente.

«Oh certo. Sei proprio il tipo da feste, lo avevo dimenticato. »

Sospirai. Abbandonandomi al silenzio delle nostre riflessioni. Lui sapeva perché volevo che andasse senza di me.

«Non ti manca?» chiesi in un ultimo disperato tentativo.

Chiuse gli occhi e sospirò.

«Più di ogni altra cosa al mondo. Ma lei sa che la amo e sa che un giorno staremo di nuovo insieme. L'eternità sa mettere tutto sotto un'altra prospettiva»

Aveva rinunciato a tutto per me. Per stare con me. Aveva rinunciato a i suoi figli, alla sua vita, a Esme. Sapeva di non poter spiegare agli altri quello che mi era successo, non senza scatenare le ire del suo primo genito, non senza calpestare il mio desiderio di non essere un peso, sapeva quanto odiassi quella situazione, sapeva che non sopportavo il fatto che avesse abbandonato tutto e tutti per me, un insignificante umana che aveva sconvolto tutti gli equilibri di una famiglia che aveva costruito con impegno e dovizia in cento anni di sforzi e sacrifici, eppure il pensiero che loro sapessero, o che lui sapesse, era terrificante. Non potevo. Non volevo.

Sapevo che sentiva Esme ogni giorno, cercando di lenire la nostalgia che sentivano l'uno per l'altra, eppure nonostante l'infelicità e la sofferenza costante che quella separazione procurava a entrambi, Carlisle rifiutava con tutte le sue forze ogni mio tentativo di arrendersi con me. Ero un caso perso ma lui non sembrava affatto d'accordo. Come ho detto: testardo.

Aveva spiegato ad Esme che non poteva stare con lei, che non sarebbe tornato a casa finché avesse ritenuto necessaria la sua presenza in quel luogo. Le aveva raccontato che una persona, una persona per lui molto importante, necessitava costantemente della sua presenza li dov'era e che sarebbe rimasto per tutto il tempo che avrebbe ritenuto necessario. Non le aveva mai detto dove fosse o con chi. Mai. Non capivo come ci riuscisse, per me era impensabile negare qualcosa ad Esme, se fosse toccato a me avrei ceduto dopo i primi trenta secondi della prima telefonata. Sapevo che lei gli aveva chiesto milioni di volte di poterlo raggiungere, di potergli dare una mano in questa sua missione, giurando di mantenere qualsiasi segreto le avesse chiesto di custodire, ma lui era irremovibile.

Mi morsi un labbro imbarazzata e intenerita dalla limpidezza della sua confessione.

«Allora va da lei»

Scosse la testa, di nuovo, testardo.

«Non senza di te.»

Di nuovo quella frase. Era il nostro punto di stallo ormai. Lui non mi avrebbe lasciata sola.

Il mio sguardo ricadde sul copriletto, dove un in invito a un matrimonio tutto stropicciato si faceva beffa di me. Negli ultimi tre giorni lo avevo torto e ritorto tra le mani talmente tante volte che mi sembrava impossibile che fosse ancora leggibile. La busta giaceva per terra in condizioni solo leggermente migliori.

Accidenti ad Alice e alle sue trappole.

Sorrisi.

Ovviamente Alice sapeva tutto, lei aveva visto ogni cosa, lei aveva mandato quell'angelo biondo a salvare la mia inutile e insignificante vita.

Carlisle mi diceva che spesso lo aveva contattato terrorizzata, dicendogli di non vedere più il mio futuro, facendo precipitare il mio nuovo papà in uno stato di allerta assoluto. Solo col tempo loro due insieme avevano capito che i momenti ciechi di Alice erano dovuti a Jacob. Ogni visita del mio amico licantropo era preceduta dalla telefonata di Alice.

Era più che chiaro che Jake non le piacesse.

Non avevo mai risposto. Lei sapeva che non lo avrei fatto, ma continuava a provarci. Per colpa mia la sua vita, la sua famiglia, era stata fatta a pezzi, assecondare il suo desiderio di riavvicinarsi a me avrebbe solo peggiorato le cose. Non capivo perché insistesse tanto.

Speravo avesse capito, da settimane non ci provava più. Poi tre giorni fa, quell'invito.

Un matrimonio.

Organizzato da Alice.

Tremai.

Tornai a guardare l'invito.

«Non c’è la faccio Carlisle»

Mi morsi di nuovo le labbra nervosa prendendomi la testa fra le mani.

 

Da tre giorni, dall'arrivo di quell'invito, non avevo più una sola certezza. La sera prima vedendo la mia reazione sconvolta e terrorizzata, mentre preparavo la valigia, Carlisle mi aveva preso da parte, stringendomi tra le braccia, nel tentativo di calmare l'ennesimo attacco di panico. Sapeva che la frescura della sua pelle mi aiutava, mi dava l'illusione che fosse la sua.

Carlisle aveva cercato di spiegarmi la decisione del figlio proprio quella volta, stanco di sentirmi piangere per lui, di sentirmi inveire contro il suo fantasma, di gridare fino allo spasmo: “Perchè? Perchè?”

«Ha preso la decisione giusta Bella... ma l'ha presa troppo tardi, e questo se è possibile è anche peggio...Ti prego perdonalo, lui non capisce, lui non sa... non si rende conto della ferita che ti ha inflitto... voleva solo donarti ciò che a lui è stato negato, ciò che io gli ho sottratto. È me che dovresti incolpare del tuo dolore Bella, non Edward...solo me»

«Davvero Carlisle, penso dovresti andare da solo»

Lui mi guardò per qualche secondo, poi spostò lo sguardo sull'invito che giaceva sullo stesso letto dove aveva preso posto e tornò a guardare all'esterno. Sembrava indeciso. Alla fine prese un respiro profondo e mi sorrise.

Senza dire una parola si alzò in piedi andando verso la porta. Non capivo. Avevo vinto? Andava senza di me? Quasi non riuscivo a crederci. Non sapevo se sentirmi in colpa o sollevata.

«Avverto Alice. Resterò con te» sussurrò a un passo dalla maniglia.

«NO!» urlai

Lui si voltò guardandomi sereno, non c'era il minimo cenno di rancore del suo volto, nonostante il mio comportamento riprovevole. Lo stavo tenendo lontano dalla sua famiglia, dal suo amore. Ero un mostro. Ero un egoista. Eppure lui continuava a volermi bene. Era frustrante.

Mi guardò ancora per un lungo minuto mentre io mi arrendevo al mio destino. Avrei fatto questo per lui.

Sorrisi e presi un profondo respiro.

«La mia valigia è accanto alla scrivania»

Si aprì in uno dei suoi grandi solari sorrisi e ripercorse a ritroso la distanza fino alla mia sedia.

Si inginocchiò e si protese verso di me soffocandomi nel suo abbraccio, come solo un papà sapeva fare.

«Ti voglio bene bambina mia. Tanto. Insieme ce la faremo, vedrai»

Si allontanò sorridendo dopo qualche secondo, prendendo la mia valigia e andando verso la porta. Io lo seguivo con la mia sedia a rotelle, pensierosa, la testa bassa.

«Ma non conosco nemmeno gli sposi.» borbottai imbarazzata mentre lo osservavo controllare l'interno della sua borsa da medico.

Sicuramente aveva fatto scorta di medicinali per me. Più qualche extra per le emergenze. Nonostante la sedia mi mantenesse costantemente in una posizione sicura ero ancora in grado di farmi male. E spesso. Un vero talento.

«Non importa. Kate è una persona deliziosa, e anche Garrett. Saranno felici di averti con loro»

Kate Denali. La cugina dei Cullen aveva finalmente trovato il suo compagno e a quanto pare voleva che i suoi parenti presenziassero alla loro unione ufficiale, il che comprendeva Carlisle.

 

Non posso mancare Bella, è mia nipote”

Ma certo Carlisle, è giusto”

Mi fece un sorriso in grado di illuminare l'intero universo e mi accarezzò una guancia,

Grazie Isabella. Partiamo tra tre giorni”

Il latte caldo mi andò di traverso facendomi quasi strozzare. Gli occhi presero a inumidirsi per lo sforzo di respirare, mentre Carlisle mi dava leggeri colpetti di incoraggiamento sulla schiena.

Partiamo?” sputai fuori con un nota stridula dal tono isterico.

Si accigliò guardandomi dritto negli occhi.

Non vuoi venire?”

Certo che no. Lo sai. Sai cosa significa...non posso. Ma tu devi. Esme sente la tua mancanza”

Lui scosse la testa e anche quella volta il suo sguardo si perse tra gli alberi fuori dalla balconata.

Chiamo Alice e le dico che non andiamo”

La mia testa scattò verso l'alto.

Cosa? Perchè? Carlisle tu DEVI andare! Devi andare a casa. Devi restare con lei. Il tuo posto è lì”

Lui scosse di nuovo la testa.

No. Non senza di te”

Starò bene. Potrei chiedere a Jacob di stare qui o andare io da lui. Potrei provarci”

Non avrei mai voluto in realtà, ma se fosse servito a convincere Carlisle a riunirsi alla sua famiglia, allora lo avrei fatto.

La faccia che fece a sentire quelle parole mi ricordò tanto quella di Charlie che per un attimo fui indecisa se scoppiare a piangere o mettermi a ridere.

Decisamente no.”

Come me si era accorto anche lui che il mio “amico” si stava facendo decisamente più audace e insistente. Per quanto cercasse di mantenere sempre quell'aria seria e neutrale, senza invadere troppo la mia privacy, era ormai chiaro che il comportamento del giovane Black aveva iniziato a infastidire anche lui. Il fatto che fosse un licantropo poi, peggiorava la situazione.

Così mi ritrovai incastrata. Sul filo del rasoio tra il non potere dire di no sapendo che così avrei precluso a Carlisle di stare con la donna che amava dopo tanto tempo e tra l'incapacità di dire di si, per il terrore che quella risposta comportava.

 

Sospirai.

«Alice è una stratega straordinaria» borbottai irritata. Mi aveva letteralmente messa in trappola.

Carlisle mi accarezzò dolcemente i capelli cercando di consolarmi.

«Alice non vede l'ora di vederti. E anche Esme ne sarà felice, non crederà ai suoi occhi...»

Non riuscii a trattenere un sorriso amaro.

«In tutti i sensi...»

Feci eloquentemente. L'ultima cosa che i Cullen si aspettavano, era vedermi arrivare insieme a Carlisle, per di più su una sedia a rotelle.

«Si, sarà un duro colpo, ma saranno tutti felici di riabbracciarti»

«Non proprio tutti...»

Si incupì. Edward era un argomento delicato, per entrambi.

«Lo so.»

«Lo vedi? È meglio che resto qui. Non voglio che litighiate per colpa mia. Non ne vale la pena.»

Si abbassò sulle ginocchia, per potermi guardare dritto negli occhi.

«Non ho detto che sarà facile...ma questa storia deve finire, non possiamo continuare a nasconderci da Edward, lui ha preso la sua decisione...io la mia. Sei mia figlia Bella, proprio come lui, e io non abbandono i miei figli, mai. Edward deve accettarlo.»

Mi incupii.

«Rovinerò la festa a tutti.»

«No invece. Andrà tutto bene, vedrai.»

 

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Capitolo 3
*** Inganno ***


Ancora noi

 

Capitolo 2 – Inganno

Edward

 

Settecentodiciassette.

Non la vedevo da settecentodiciassette giorni. No la respiravo da settecentodiciassette giorni. Non la toccavo da settecentodiciassette giorni. Non vivevo da settecentodiciassette giorni.

Settecentodiciassette giorni, 13 ore, 22 minuti e 49 secondi.

Era dunque questa la morte? Era questo l’inferno a cui ero condannato? Era qui che quella morte, quella dolce morte a cui avevo fatto beffa tanti anni orsono mi aveva destinato? Mi sembrava impossibile da credere. La morte non sarebbe dovuta essere così raccapricciante, cosi temibile. La morte era dolce, con la sua fredda mano ti cullava dolcemente come una madre che nel suo abbraccio protegge la sua creatura. La morte ti accompagna nell’oblio stringendo la tua anima nella sua stretta fatale fino a regalarti quell’ultimo anelato respiro che ti conduce vittorioso alla pace eterna.

Ma non c’era pace per le sue creature. Quelle creature che come me si erano opposte al suo incedere, trasformandosi nelle sue mani tetre. Sostituendosi ad essa. Sottomettendola alla sua volontà, decidendo per lei il fato delle anime mortali che popolavano questo vasto mondo.

Per loro. Per me. Solo oblio. Solo l’inferno.

Ma questo inferno…questo inferno era troppo, perfino per la spietata morte. Perché perfino nell’inferno più profondo, nel dolore più spietato, perfino nella culla di lucifero, perfino lì alla fine un viaggiatore trova pace, lì nella sua rassegnazione, nella sua sottomissione.

Nemmeno questo avevo.

Agognavo la morte, così come un condannato a morte agogna la sua libertà.

Settecentodiciassette giorni, 13 ore, 26 minuti e 42 secondi.

La morte sarebbe stata la mia libertà un giorno.

Ma non ancora.

Bella...

Ogni secondo che passava condannavo con tutte le mie forze la mia abominevole mente da parassita. Il suo ricordo dentro di me era impresso come inchiostro sulla palle. Vivido, potente, immutato. Marchiato a fuoco nella mia anima dannata. Il mostro che imprigionava le mie membra morte, mi permetteva di riportare ai miei occhi ogni più piccolo particolare della sua figura. Ero suo schiavo. Teneva la mia mente imprigionata nel ricordo di lei.  Lei, quella piccola indifesa e innocente umana dal sangue tentatore. Il mio tormento, il mio castigo, la mia corruzione, il mio amore, la mia vita. Lei.

La forma del suo volto, le striature della sua pelle, l'asimmetria delle sue labbra, la forma dei suoi occhi. Ogni particolare del suo giovane e candido viso era marchiato a fuoco nella mia memoria. Indelebile.

Sospirai.

Ricordavo tutto, ogni cosa, ogni minuto, ogni secondo, ogni attimo vissuto con lei, ogni parola sussurrata, ogni bacio rubato, ogni sguardo innamorato.

Tutto.

Avevo stranamente dimenticato altre cose. Ad esempio non ricordavo più l'ultima volta che mi ero nutrito. Il mio cervello mi suggeriva nove settimane, tre giorni, diciotto ore e dodici minuti. Ma non mi fidavo più di lui, ormai.

Mi stava diventando ostile, mi ingannava.

Che stessi impazzendo? Lo ero già? Lo ero sempre stato?

Solo trentotto ore, due minuti e trentatré secondi prima, mi aveva fatto credere che lei fosse qui. Con me.

O che dolce inganno, che memorabile agonia.

Disteso su questo sudicio pavimento, dalle assi di ciliegio scure e logore, circondato da pareti spoglie ricoperte di muffa, con ragni, scarafaggi e piccolo creature viventi dai piccoli cuori pulsanti come unica compagnia, avevo alzato gli occhi, perso in un ricordo di lei...guardavo un punto del soffitto, senza vederlo realmente. La mia mente era lontana, altrove. Fuggente. Ma qualcosa, qualcosa in quel soffitto mi era sembrato vivo. Qualcosa mi stava riportando indietro o forse mi stava scivolando via. Non ero sicuro, la realtà non mi era più così chiara. Come nel riflesso di un specchio d'acqua, si era formata un immagine. Sorrideva timida, come faceva ogni volta che mi scopriva a contemplare la sua figura perfetta. Aveva abbassato il capo, il sangue fluì veloce nelle sue guance, traditore delle sue emozioni, mentre si sistemava una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Ero scattato in piedi balzando verso l'alto, cercando di afferrala, raggiungerla, prenderla, catturarla, ghermirla o almeno sfiorarla. Avevo bucato il soffitto, devastando il già consunto rivestimento e poi ero ricaduto all'indietro, sul pavimento. Una polvere di calce e cemento a ricoprire il corpo morto.

Solo.

Non c'era più, lei non c'era più. C'era solo quel vecchio soffitto pieno di crepe, deturpato dalla mia mano mostruosa.

Eppure...sembrava così reale. Avevo gioito, gioito immensamente. Mi aveva sorriso. Il mio amore. Ma poi era scomparsa, di nuovo.

Dolore. C'era di nuovo dolore.

La mia natura dannata non mi permetteva nemmeno di piangere, di lenire, almeno in parte, la mia sofferenza.

No, la mia mente mi aveva ingannato. Anche lei troppo segnata dal dolore, per non cercare in qualche modo di fuggire, di nascondersi, di darsi sollievo da quell’angoscia che le stavo facendo patire.

Ero ostile a me stesso. Perfino il mostro voleva fuggire.

Traditore. Vigliacco. Meschino.

«Edward?»

Settecentodiciassette giorni, 13 ore, 33 minuti e 32 secondi.

«Edward?»

33 secondi...

«Edward mi senti?»

34 sec...Alice?

Voltai la testa lentamente, più lento di quanto avrebbe fatto un qualsiasi umano. Il movimento non mi piaceva, mi pesava. Mi rendeva vigile, presente, cosciente. Ma avevo sentito una voce e avvertivo una presenza dietro di me.

La polvere che ricopriva il mio volto cadde via leggera come pioggia, mentre mi voltavo confuso. La figura di mia sorella mi scrutava preoccupata, in piedi al mio fianco, ferma a tre metri e ventinove centimetri da me.  Mi concessi un momento. Che strana visione.

«Edward?»

Parlava. La mia visione parlava. Mia sorella. Che cosa vuoi dirmi mente? Perché ora vuoi che pensi a lei? Rimasi lì in attesa di vederla scomparire, così come il mio angelo aveva fatto prima di lei.

E lei fece lo stesso. Attese.

«Edward»

La sua voce più vicina, più alta di un tono. Poi una brezza leggera invase il mio spazio, facendosi largo tra i vetri rotti del balcone alla mia destra. Mi porto un profumo. Era vero. Era li.

Mi ridestai sbattendo gli occhi un paio di volte. Un pensiero mi sfavillò nella testa. Non era mio.

Dispiacere. Mi diede un po' fastidio, era molto tempo che non ascoltavo pensieri che non fossero miei. Storsi il naso.

«Scusa» sussurrò intuendo il mio disagio.

La guardai ancora. Si, doveva essere vera. Non era uno scherzo della mia immaginazione.

«Perché sei qui?»

Mi sorpresi al suono della mia voce, non la sentivo da...tanto. Cavernosa e piatta. Assolutamente monocorde e senza interesse, arrochita dalla sete di sangue, eppure anche al mio orecchio, ancora suadente, in linea con la mia natura di predatore. Anche quello mi diede fastidio. Provai ribrezzo. Volevo solo tornare a stare solo, nel mio stato di semi-coscienza.

39 secondi...

«Ho bisogno di parlare con te»

Inspirai stancamente. Parlare. Fare conversazione. Chissà se la mia mente capiva ancora quelle inutili convenzioni. Ascoltare. Capire. Rispondere. Sembrava più difficile di quello che mi ricordavo. Mi concentrai.

«Ti ascolto»

«Kate si sposa...»

Si fermò, aspettando una mia reazione, che non arrivò. Cercavo di capire il senso delle sue parole, la mia mente non mi accompagnava.

Fece un passo verso di me in attesa.

Due metri, novantadue centimetri e un respiro. Fu tutto ciò che la mia mente elaborò.

Sospirò, affranta dalla mia mancanza di interesse. Continuai a fissarla, sperando che si sbrigasse.

«Il suo futuro sposo, si chiama Garrett, è amico di nostro padre sai? Noi…vorremo che ci fossi anche tu. Sarebbe importante per Kate. Sai che ti vuole bene. Sarebbe importante per tutti…vederti. »

Settecentodiciassette giorni, 13 ore, 35 minuti e 41 secondi.

42 secondi.

43 secondi.

44 secondi.

45 secondi.

«No.»

Muovermi, camminare, parlare. No.

Sospirò di nuovo.

«Edward, ti prego!»

47 secondi.

«Lasciami solo Alice, per favore» Ti supplico.

Lentamente la mia mente tornava ad operare. No, ti prego. Non voglio. Dammi l’oblio. Tormento, incoscienza, confusione, tornate. Tornate da me.

Sentii un enorme dispiacere nella sua testa. L'avevo ferita. Mi dispiaceva, mi dispiaceva tanto. Io non volevo far male a nessuno ma, non volevo fare altro che aspettare, aspettare che il tempo passasse...

«C'è una cosa che devo dirti Edward...»

Il volto di Bella prese forma prima nella sua testa, poi come uno specchio nella mia.

«NO!» urlai. «NON FARMI QUESTO!» Mi ritrovai in piedi, pronto, acquattato come un leone pronto allo scontro.

Vedere cosa stesse facendo, come stesse, con il rischio di vederla felice tra le braccia di un altro uomo, un uomo che poteva toccarla, amarla, baciarla. Temevo di me stesso, di quello che il mostro avrebbe potuto fare a quella vista…a lui, a lei a me. No. Troppo rischioso. Ringhiai.

Indietreggiò, bloccando ogni pensiero, ogni nuova immagine, se non quella di un mostro, dagli occhi neri, la pelle pallida, malata, le occhiaie scure, i vestiti laceri, i denti affilati ed esposti in un ghigno animalesco. Minaccioso e terribile la guardava furioso. Rimasi inorridito. Ero io.

Lasciai la posizione di attacco assunta senza volerlo e mi misi dritto.

«Mi dispiace, scusa, non volevo alzare la voce...»

Furono le uniche scuse ridicole che da bastardo, vigliacco e ignobile quale ero, fossi riuscito a dire.

Annuì solo. La sua mente era ancora vuota.

«Non importa...» mormorò, ma rimase a guardarmi con aria di supplica.

Ti prego, vieni a casa con me...”

Scossi la testa.

«Non posso»

«Ti chiedo solo un paio di giorni Edward, per me, per Esme...ti prego, soffre molto...»

Mia madre singhiozzate, col volto asciutto, il viso stravolto dalla preoccupazione e dal dolore mi guardava attraverso gli occhi di mia sorella.

Dolce madre mia. Esme. La sua immagine, il suo dispiacere richiamava la mia anima antica, che prepotente e cavalleresca mi chiedeva di correre in suo soccorso, di lenire almeno il suo dolore.

Chiusi gli occhi. Non potevo, non potevo...Bella

«Edward...lei non vorrebbe vederti così...lo sai»

No questo no, non volevo sentirlo. Non potevo pensare al presente, a cosa lei mi chiederebbe, perché per lei morirei mille volte, vivrei infinite vite, solcherei oceani e stelle, piangerei lacrime per veder sorridere lei, per compiacere lei. Solo lei.

«Ti prego non parlare così, non voglio sentirlo.»

Strinse i pugni, furente. Era piccola, triste e arrabbiata.

La mia sorellina. Piccolo raggio di sole nella mia esistenza morta.

«Non me ne vado senza di te! Solo qualche giorno Edward, poi ti lascerò andare e non ci vedrai più, se è quello che vuoi...me lo devi!»

Alzai un sopracciglio.

«Te lo devo?»

«Si! Non dimenticare che per amor tuo ho rinunciato a una sorella!!»

Ahi. Gemetti internamente, colpito da un nuovo dolore, quasi fisico. Giocare con i miei sensi di colpa era un colpo basso. Non era da lei giocare sporco. Doveva proprio tenere molto a questa cosa.

Sorrisi. Mi sorpresi di saperlo ancora fare. Nonostante una visione le avesse già anticipato la mia risposta, rimase tesa, in attesa.

Sospirai. Coraggio Edward, falla felice...

Mossi la testa una volta, prima verso il basso poi di nuovo verso l’alto.

Rise felice del mio apatico assenso, come se in realtà lo avessi gridato a pieni polmoni, buttandomi le braccia al collo e stringendomi forte. La lasciai fare, con le braccia abbandonate lungo il corpo, incapace di ricambiare la sua gioia e godendo di quell'affetto che tanto mi mancava, ma che non era esattamente quello che cercavo. Mi ricordai di un'altra cosa che avevo percepito nella sua testa...

«Alice?» chiesi, sforzandomi di dare un tono, uno qualsiasi, alla mia voce. Solo per farla sorridere ancora. Solo per darle speranza. In realtà anche solo parlare mi costava un immenso sforzo, ma ero un vampiro, fingere era la cosa che sapevo fare meglio.

«Si Edward?» chiese di nuovo tesa e guardinga. Era spaventata. Aveva paura di me. No, non di me… per me.

«Dov’è Carlisle?»

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Cuore ***


Ancora noi

Capitolo 3 - Cuore

Bella

 

Tutum, tutum, tutum...

Il rumore del battito del mio cuore si confondeva a quello delle mie dita, che da ore ormai tamburellavano sulla mia gamba in un ritmo incessante e nevrotico. L'intero abitacolo era riempito da quel suono. La Mercedes sfrecciava a tutta velocità sull’autostrada quasi deserta. Era il secondo giorno di viaggio. Il giorno precedente avevamo percorso metà della strada che ci divideva da Denali in metà del tempo necessario: ventiquattro ore di viaggio ridotte a meno di dodici. Normale velocità di crociera per un vampiro.

Quando il buio era tornato a ricoprire il paesaggio, che si faceva via via sempre più bianco, Carlisle aveva abbandonato l’autostrada, fermando la macchina all’entrata di un Hotel.  Aveva insistito perché dormissi in un letto vero e perché facessi i miei esercizi per favorire la circolazione come da programma. In tutti questi mesi non mi aveva mai permesso di saltarli. Mai. Secondo il centro di riabilitazione di Seattle, la mia condizione non era necessariamente permeante. Immaginai che, se anche fosse stato possibile un miglioramento, ci sarebbero voluti anni, considerando che ero rimasta mesi in ospedale – guarire da fratture multiple in quasi ogni osso del corpo era un processo lungo e doloroso.

Avevo iniziato la riabilitazione da meno di un anno, ma, sempre secondo gli onnipresenti camici bianchi, pur non potendomi dare certezze, con molto esercizio e tanta, tanta tenacia e buona volontà, avrei avuto buone possibilità di recuperare gran parte delle mie capacità motorie. Evitai di spiegare loro che le mie capacità motorie non erano molto sviluppate già prima dell’incidente, non credo avrebbero capito. Ma nonostante le infinite ore di fisioterapia a cui sottoponevo le mie gambe, i miei arti inferiori non davano cenno di voler collaborare o, forse, come sosteneva il mio padre/medico/vampiro, era la mia mente che non trovava la giusta motivazione. Non lo sapevo. Ma avrei comunque continuato a provare, più per non deludere Carlisle che per vero personale desiderio di riuscita.

Carlisle avevo scelto un lussuoso Hotel, a sei ore dal confine tra il Canada e l’Alaska. Inutili le mie proteste o il tentativo di spigargli che non era necessario spendere centinaia di dollari per permettermi di dormire una notte sola, inutile cercargli di fargli capire che un motel sarebbe stato lo stesso, considerando che ero così stanca che avrei potuto dormire anche in auto senza il minimo problema.  Avevo tenuto a fatica gli occhi aperti mentre mi obbligavo a ingurgitare ciò che lui aveva ordinato per me con il servizio in camera, dopodiché ero letteralmente crollata in un sonno tormentato. Quella mattina mi ero svegliata tra le braccia di Carlisle che mi scrutava serio. L’aria più preoccupata del solito. Non c’era bisogno che dicesse nulla, sapevo esattamente cosa era successo, anche se non ne avevo memoria, se non sprazzi di immagine buie e confuse. Succedeva di continuo, ancor prima dell’incidente, ma dopo la morte di Charlie, ero anche peggiorata: crisi respiratorie notturne, attacchi di panico, convulsioni, urla. Ad ogni risveglio le braccia di Carlisle a circondarmi, nel vano tentativo di darmi conforto. Lui li chiamava: terrori notturni.

Come sempre dopo i miei risvegli in quelle mattine, mi accarezzava i capelli, mi dava un bacio sulla fronte e mi depositava nuovamente sul letto scomparendo nel nulla un istante dopo. Nessun commento, nessuna parola, nulla. Solo il mio senso di colpa a farmi compagnia, che cresceva a dismisura proporzionalmente con la sua preoccupazione.

Oggi era un nuovo giorno. L’ultimo giorno di viaggio verso la nostra famiglia.

Tutum, tutum, tutum...

Sobbalzai quando la mano fredda di Carlisle sfiorò la mia, nel tentativo di calmarmi.

«Scusami, ti sto facendo impazzire» mormorai lasciando che la vergogna per la mia ostentata incapacità umana di controllare il nervosismo si palesasse sulle mie guance.

Sorrise, con quel suo modo che sembrava illuminare la stanza, facendomi sentire subito al sicuro e meno sola.

«No, ma sono preoccupato per te, sei troppo agitata»

Sospirai affranta. Come dicevo, sempre più preoccupato.

«Lo so» Eccome se lo sapevo. Sentivo il cuore premere prepotente contro la cassa toracica pronto a esplodere da un momento all’altro, il piede - in realtà completamente immobile - nella mia mente si muoveva incessantemente contro lo zerbino dell’auto sotto i miei piedi, in un ritmo veloce, eco di quello della mia mano sudata ma dai polpastrelli gelati, che ancora insisteva nel suo incrollabile tamburellare.

Tutum, tutum, tutum...

«Potrei darti un calmante se vuoi...»                                                                                                                                

Storpiai il naso al solo pensiero. Altri medicinali. Ne avevo presi talmente tanti negli ultimi mesi, che avrei potuto richiedere una laurea a honorem causa in farmacologia. No, decisamente non ne volevo altri.

«No, grazie Carlisle. Sto bene» mentii.

Non sembrava affatto convinto ovviamente, ma annuì lo stesso. Sapevo non avrebbe insistito. Il suo rispetto per le mie decisioni – per quelle di chiunque in realtà - era disarmante, anche se il suo istinto naturale di risolvere i problemi lo spingeva a convincermi ad ubbidirgli, rimaneva sempre composto e silenzioso. Tenendo per se la sua frustrazione. Mai una volta mi aveva fatto pressioni per accettare un idea che non condividevo rispettando con educazione e pazienza le mi decisioni.

«Certo, come vuoi» Appunto.

Sospirai tornando a guardare la strada che scorreva veloce. Eravamo in macchina da ore ormai - era pomeriggio inoltrato, solo tre brevi soste di pochi minuti per le mie necessità umane avevano interrotto il pressare costante del piede di Carlisle sull’acceleratore - e considerando la sua guida, che non era diversa da quella del resto della famiglia, non doveva mancare poi molto.

Forse un paio d’ore.

Strinsi le labbra, nervosa, cercando di non mettermi a urlare. Tra poco avrei dovuto rivedere tutti i Cullen. Non ero pronta, semplicemente non ero pronta. Ma lo sarei mai stata? Probabilmente no.

La mano di Carlisle riprese posto sul volante, lasciando la mia, che si unì di nuovo al mio cuore, riprendendo subito il suo tamburellare.

Tutum, tutum, tutum...

«Ci saranno tutti vero?» Il labbro mi doleva per quanto forte lo stavo punzecchiando, non osavo nemmeno immaginare in che condizioni dovesse essere a quest’ora. Non era proprio quello che volevo chiedergli comunque.

Carlisle non si scompose: «Si, tutti»

Strinsi di più i denti. Pregai di non sanguinare eccessivamente, non sarebbe stata proprio una buona idea.

«Ehm...anche, anche Edwa...» il suo nome mi si strozzo in gola, insieme all’ondata di dolore che portava con se. Carlisle mosse quasi impercettibilmente gli occhi verso di me. Un occhiata veloce, discreta, paterna «...anche lui? Ne sei sicuro?» continuai, appena mi sembrò di aver riacquistato una briciola di controllo sulle mie corde vocali. Mi aveva già detto che sicuramente lo avrei rivisto, aveva cercato di prepararmi. Eppure speravo ancora di sottrarmi a quel confronto. Non avrei sopportato di vedere il disgusto nei suoi occhi. O peggio…l’indifferenza. Rabbrividii.

“...tu non sei la persona giusta per me...”

“...il mio mondo non è fatto per te...”

«Hai freddo?» chiese evitando di rispondere. Scossi la testa ribattendo alla sua domanda e allo stesso tempo cercando di scacciare i ricordi. Tornai a guardarlo. Tornai a guardare mio padre. Il volto angelico di un uomo appena sbocciato, strappato la vita prima ancora di riuscire a trovare il tempo di vivere la sua maturità, intrappolato per sempre in una pelle morta ma dalla bellezza incantatrice. Un uomo in grado di distruggerne un altro con una semplice carezza, ma che a dispetto della sua natura potente e mostruosa regalava amore, dolcezza, comprensione e speranza a chiunque ne avesse bisogno: a una madre che aveva perso il suo bambino e la voglia di vivere, a un ragazzo orfano, dimenticato, morente, in un letto di ospedale, a una ragazza nel fiore degli anni spezzata dalla brutalità animale dell’uomo e a una bambina con il cuore spaccato da un amore impossibile che piangeva sola invocando un padre che non avrebbe fatto ritorno.

Carlisle. Mio padre.

Strinse leggermente il volante, anche se la sua espressione rimase immutata. La compostezza che lo distingueva sembrava staccarsi un pezzo alla volta dal suo corpo, man mano che l’auto macinava chilometri. Mi chiesi come ci si dovesse sentire sapendo di essere diretti verso l’amore della propria esistenza, una amore con il quale fino a diciotto mesi prima si divideva ogni cosa, ogni gesto, ogni pensiero, ogni bacio, ogni attimo di vita rubato a un mondo mortale, troppo stretto per un amore che non ha fine. Mi chiedevo che suono avrebbe avuto il suo cuore se avesse potuto battere ancora, solo una volta. E che suono avrebbe avuto il mio se si fosse fermato? E perché non si era fermato? Quale cosa mi era rimasta in questa vita, per la quale valesse la pena lottare, per quale cosa il mio cuore si ostinava a vivere, giorno per giorno, palpito dopo palpito?

Per chi batti ancora stupido cuore? Lui non ci vuole più…lui non ci ama più…

“…sono stanco di fingere un identità che non è mia…”

“… è l’ultima volta che mi vedi. Non tornerò…”

Tutum, tutum, tutum...

«Sei nervoso?» chiesi per spezzare il silenzio e il filo dei miei pensieri che stavano per portarmi violentemente verso mete che non volevo esplorare.

Mi fece un sorriso stanco, poi i suoi occhi fuggirono. Mi sembrò strano, come se ci fosse qualcosa che non voleva dirmi o non poteva. Se c’era una cosa che sapevo di Carlisle era che odiava mentire alla sua famiglia, odiava mentire a me. Un pensiero fuggevole mi investì in tutta la sua potenza crudele e distruttiva. Boccheggiai, aggrappandomi con ferocia al bracciolo dell’auto. La voce allarmata di Carlisle mi arrivò ovattata alle orecchie un istante dopo.

«Bella?»

Serrai gli occhi sgranati e deglutii rumorosamente, mentre l’eco di un ricordo lontano si aggirava indisturbato nella mia mente.

“…a quelli come me basta poco per trovare una distrazione…”

Trovare una distrazione…

Distrazione.

Tutum, tutum, tutum... Tutum, tutum, tutum... Tutum, tutum, tutum...

Lo stridore dei freni mi risvegliò come da un brutto sogno. Sbattei le palpebre tornando lucida, mentre le lacrime scendevano silenziose, rigandomi il viso.

«Bella? Mi senti? Bella? Isabella, guardami.»

Mi voltai ritrovandomi davanti due occhi attenti che mi scrutavano. Allungò una mano sulla mia fronte, poi sul mio collo, un tocco veloce fugace, poi mi strinsero il polso, un istante.  Infine, si allungarono aprendo veloci il cassettino davanti alle mie gambe, e l’istante dopo un candido fazzolettino bianco accarezzò gentile le mie guance, portando via le lacrime.

«Ecco.» disse con un sorriso, infilandosi in tasca il fazzolettino. L’attimo dopo avevo un bottiglietta tra le mani. La guardai stupefatta, ancora un po’ intontita. Da dove era uscita?

«Bevi un po’ di succo di frutta bella, ti farà bene»

In un gesto meccanico svitai il tappo della bottiglia e me la portai alle labbra. Bevvi avidamente e la finii in un attimo. Carlisle sorrise. Il paesaggio intorno a noi era fermo, una distesa infinita di bianco. Ci eravamo fermati.

«Meglio?» mi chiese serafico. A volte avevo la sensazione che pensasse di parlare con una pazza. Le sue reazione erano troppo controllate.

Annuii e serrai le labbra. Le parole che premevano a uscire dalla mia bocca a formare una domanda scomoda, rimasero lì, ferme sulla punta della lingua. Ero incapace di dirle ad alta voce. Ero incapace di esprimere il terrore che provavo solo immaginando quell’ipotetico scenario. Eppure…eppure questo avrebbe spiegato molte cose: la ritrosia di Carlisle a parlare di lui in mia presenza, la capacità con la quale non rispondeva alle mie domande sul nostro incontro ormai prossimo, deviando il discorso in altre direzioni, il suo non riuscire a guardarmi negli occhi quando di notte mi ritrovavo ad urlare disperata il nome di suo figlio, pregandolo di tornare da me, pregandolo di non lasciarmi. E di nuovo quella parola vorticò nella mia testa: Distrazione.

«Che cosa è successo Bella?» Mi sentivo leggermente ferita dal suo comportamento. Mi stava praticamente portando alla forca. Non potevo pensare a quello che avrei trovato al mio arrivo. Possibile che Carlisle sapesse e avesse comunque insistito tanto per potami con lui? Il dolore mi colpì come una stilettata al cuore. L’immagine di Edward felice, con al braccio una ragazza immortale, bellissima, intelligente, forte, perfetta come lui, perfetta per lui, mi invase la mente appannandomi la vista come sale negli occhi. Edward e un'altra donna. Edward e una compagna. Edward e una vampira. Edward e la sua distrazione. Ignorai la sua domanda, ingoiai la mia codardia e puntai i miei occhi scuri e piccoli, nei suoi grandi e luminosi.

«Che cosa mi aspetta Carlisle?»

Silenzio.

«Carlisle. Per favore.» Dovevo sentirlo. Avevo bisogno di sentirlo, per sapere. Io dovevo sapere.

Ancora silenzio.

«Si tratta di Edward giusto?» Ancora silenzio. «Ha trovato una compagna vero? È questo che non hai mai voluto dirmi? È questa la tortura a cui Alice vuole sottopormi con questa messinscena? Perché? Non capisco? Spiegami. Cosa speri di ottenere così? È una trovata medica?»

Sempre silenzio. Mi guardava dispiaciuto, sofferente e impotente, occhi d’ambra liquidi per lacrime che non potevano essere versate, mi guardava come un padre che osserva sua figlia soffrire per un male troppo grosso, un male che nemmeno lui, con tutto l’amore che aveva da offrire, poteva guarire, mi guardava come il mio papà, mi guardava come Charlie. Lo sguardo sperduto, preoccupato, dopo l’abbandono di Edward, lo sguardo rassegnato di colui che sa che non può nulla per allievare un dolore troppo grande per essere capito, per essere guarito, troppo grande persino per essere vissuto.

«Carlisle…ti prego»

Chiuse gli occhi per un istante, dolorante. Come se stesse cercando di decidere quale decisione prendere e la scelta lo stesse dilaniando.

«Non dovrei parlartene.» mormorò roco, senza riuscire a guardarmi negli occhi. «Non spetta a me. Non spetta a me farti conoscere la verità. La sua verità.»

La sua verità? Non capivo di cosa stava parlando, quale verità? Lo guardavo ad occhi spalancati in attesa di uno sguardo, un sussurro, qualcosa, qualsiasi cosa potesse dare una conferma ai miei pensieri. Il mio cuore non osava sperare in una smentita.

«Carlisle, ti prego» lo implorai, udendo appena le mie parole, quasi nascoste dal frastuono del mio cuore. Le macchine sfrecciavano veloci accanto a noi, fermi, immobili, rinchiusi in quell’abitacolo trasformato in un confessionale, incuranti del mondo che andava avanti intorno a noi. Persi ognuno nel proprio dolore.

«Ho paura della sua reazione, della tua. Ho detto ad Alice di non intromettersi, di non forzare la mano del destino. Ma conosci tua sorella, quando si mette in testa qualcosa, non è possibile fermarla.» Parlava in fretta, concitato, senza curarsi di capire se lo stessi seguendo, sembra preso da una strana frenesia «Ma gli mancate tanto sai? Tutti e due. Tu e Edward, siete così importanti per lei. Come per me. È anche a me manca Edward. È mio figlio, ed è solo, da qualche parte…ha sbagliato, lo so, ma è mio figlio…e Esme, soffre così tanto…e Emmett…e Jasper, anche Rosalie…a modo suo.»

Carlisle continuava, perso in un fiume di parole. Sembrava le avesse tenute dentro per un tempo infinito ed ora, ora che la diga era stata spezzata, non poteva fare altro che lasciarle uscire, impetuose, indomabili, come un fiume in piena spazzavano via ogni silenzio, ogni segreto, ogni paura. Ma la mia mente vorticava insieme alla sua, cercando di dare un senso a quell’oceano di parole, cercando di collocarle al loro posto, senza impazzire dietro al loro significato. Ma qualcosa più di tutto aveva attirato la mia attenzione: “è solo, da qualche parte”.

Solo. Edward era solo. Come me. Solo. Da qualche parte.

Da qualche parte.

Continuavo a ripetere quelle parole, cercando di dar loro un senso, ma la mia mente non sembrava in grado di produrre nulla che avesse realmente un senso.

«Da qualche parte?» mi sentii chiedere, prima ancora di pensare di farlo. Carlisle si arrestò, immobile come una statua bellissima, come una pietra durissima, come una montagna maestosa, come un vampiro.

«Come?» chiese di rimando dopo un secondo. Puntai lo sguardo dritto nel suo. Un lampo di pentimento sul suo volto, subito seguito da uno di rassegnazione. Non avrei lasciato correre. Lo sapeva lui. Lo sapevo io.

«Bella, ti prego, è giusto che te ne parli lui. Lo vedrai tra poco. Te lo assicuro. Alice me lo ha confermato.»

«Hai detto che era da solo! Da qualche parte! Che significa?!» ero leggermente isterica, me ne rendevo perfettamente conto, ma la mia ansia era incolmabile. Cosa era successo al mio Edward? Cosa lo aveva spinto a starsene da solo…lontano, lontano abbastanza perché suo padre o la sua famiglia ignorassero la sua ubicazione? Conoscevo Edward, lui amava suo padre, amava la sua famiglia, cosa poteva essergli successo per rinunciare a loro.

«Bella calmati. Non agitarti.» mi liberai dalle sue mani che erano corse sulle mi spalle, in un vano tentativo di fermare i miei tremori.

«NO. NO. Dimmelo! Dimmelo! Voglio saperlo! Che significa!? Dimmelo!» Respiravo affannosamente, le lacrime scendevano senza che potessi far nulla per fermarli, il cuore mi batteva così forte che mi faceva male. Portai una mano al petto per riflesso, nel vano quanto stupido tentativo di alleviare il dolore. Carlisle inspirò bruscamente, sembrava terribilmente spaventato dalla mia reazione e terribilmente indeciso su cosa fosse giusto fare. Improvvisamente si passò le mani tra i capelli, esattamente come avrebbe fatto un umano sull’orlo di una crisi di nervi. In quel gesto mi ricordò così tanto Edward che fu quasi doloroso guardarlo. Si mosse di nuovo, veloce, afferrandomi ancora per le braccia impedendomi di agitarmi. Il movimento improvviso mi tolse il fiato per un attimo.

«Va bene Bella. Va bene. Ha vinto. Ti dirò quello che sta succedendo, ma prima tu ti calmi. È un patto che facciamo. D’accordo.»

Strinsi gli occhi e presi fiato, cercando di imprigionare l’aria nei miei polmoni abbastanza a lungo per permettermi di parlare.

«Da-da-d’accordo

 

Edward

Settecentoventi giorni, 21 ore, 31 minuti e 44 secondi.

Emicrania. Era quello che mi sussurrava la ragione in questo momento. Il dolore pulsante, la mente confusa, gli occhi neri nonostante la caccia, le membra stanche, la spossatezza. Emicrania.

Ero in Alaska da... da un po’. Il viaggio non era che una macchia confusa nella mia memoria. Corsa, corsa, caccia, corsa. Il tutto mischiato con parole, parole irricordabili, parole che non arrivavano mai ad essere assorbite dalla mia mente.

Alice.

Alice era con me. Un bacio sulla guancia. Un carezza sulla nuca. Ancora corsa.

Occhi tristi. Occhi di mia sorella. La pioggia. Il sole. La notte. Il giorno. Le nuvole. La neve. Casa. Mamma. Neve. Neve. Neve.

Aurora. Rosso. Bianco. Raggi rossi su neve bianca. Bianca come la pelle di una giovane donna dai capelli castani e gli occhi di cioccolato. Rosso come il liquido che scorre sotto le vene di una pelle diafana, sottile, fragile. Rosso come il sangue che le imporpora le guance dopo una parola sussurrata, dopo un bacio rubato.

“Il crepuscolo” sussurra la mente di mia madre. Aurora. Bella. Risponde, muta, la mia.

La mia mente.

Perforata da migliaia di pensieri, domande, preoccupazioni, preoccupazioni per me, da ore. Voci riempivano i vuoti lasciati tali da troppo tempo. Le loro voci. La mia famiglia.

Io. Chiuso in un religioso mutismo. Non volevo, non potevo, parlare con nessuno. Non ne avevo forza, né volontà.

La mia mente aveva registrato variazione innegabili nelle persone che mi circondavano. Cambiamenti avvenuti dopo quel giorno nel bosco. La mia famiglia era cambiata. Quando ero arrivato qui, in Alaska, nella nostra vecchia casa, avevo subito notato una mancanza importante, mio padre, Carlisle, non c'era. La mia coscienza, il mio pilastro, la metà buona del mio mostro.

Mi erano bastati pochi pensieri rubati, per capire che non era solo assente, ma mancava da tempo. Lo leggevo nei pensieri pieni di interrogativi dei mie fratelli, in quelli preoccupati e nostalgici di Esme. Tuttavia la mente di mia sorella, l'unica che avrebbe potuto darmi delle risposte, era stranamente...sfuggevole. Cercava di evitare di pensare a qualcosa, ma ero troppo apatico, e troppo disinteressato per impegnarmi a scoprire di cosa si trattasse.

Quella mancanza mi aveva scosso, sottraendomi per pochi secondi alla mia agonia, poi tutto era crollato di nuovo. Come prima. Peggio di prima.

Mi mancava la mia sofferenza, la mia solitudine, il mio purgatorio. Un purgatorio dove potevo vivere ogni istante nel ricordo dei suoi sorrisi, delle sue risate, del tocco delle sue labbra sulle mie.

Bella...

Settecentoventi giorni, 21 ore, 33 minuti e 18 secondi.

E poi finalmente silenzio. Piano piano avevano smesso di fare domande, rassegnati al fatto che comunque non avrebbero ricevuto risposta. Li ringraziai mentalmente. Lasciando libera la mia immaginazione di richiamare ancora il suo ricordo a farmi compagnia.

Volevo toccarla ancora, anche solo una volta, per poter sentire il suo profumo, così dolce e così tentatore. La mia droga. La mia estasi.

Bella...

In piedi, in veranda, con lo sguardo perso nel paesaggio freddo e bianco dell'Alaska - lo stesso che avevo fissato a lungo per ore, quando ero scappato da lei, quel giorno, subito dopo la lezione di biologia più lunga della mia vita, lo stesso paesaggio che mi aveva mostrato la via da percorrere, lo stesso che mia aveva spinto di nuovo da lei – li immobile, osservavo il tempo passare.

Settecentoventi giorni, 21 ore, 39 minuti e 13 secondi.

In lontananza un rumore di pneumatici che sfrecciava sull'asfalto coperto di neve. Non ci badai, era un rumore come tanti, o almeno non ci badai finché non sentii i pensieri della mia famiglia martellarmi il cranio.

Erano in fermento. Sospirai seccato.

Finalmente, mi è mancato così tanto” Esme.

Quindi era Carlisle. Rimasi immobile, vedendo i membri della mia famiglia accalcarsi, uno dopo l'altro, sul ciglio della strada, in attesa, impazienti di un padre che faceva ritorno.

Un pensiero però, un pensiero volutamente rivolto a me, richiamò il mio interesse.

Edward...sta calmo” Alice.

Ansimai. Di che parlava adesso? Da quando ero arrivato ero rimasto qui, su questa veranda a fissare il vuoto. Non avevo mai parlato, non avevo mai mosso un solo muscolo, non avevo rivolto nulla a nessuno. Solo un sorriso, ad Esme, per farla felice. Era stata dura già solo fare quello, ogni relazione con il mondo esterno, con la realtà, la realtà in cui lei non c'era, mi infieriva un immenso dolore. Morte, ti aspetto. Mi senti?

Vidi nella mente di Alice formarsi l'immagine di me, che confuso le porgevo la mia domanda.

Capirai...solo cerca di...non fare...niente di stupido”

Ancora pensieri trattenuti.

Annuii appena.

Nessuno si accorse di nulla. Come sempre quando io e lei comunicavamo.

Non avevo la minima idea di quello che stava dicendo, ma annuii comunque sperando che mi lasciasse in pace.

Ovviamente avevo sperato troppo.

Avresti almeno potuto cambiarti, da quanto tempo indossi quei vestiti?”

Non risposi.

Alzò gli occhi al cielo. “Va non importa, non lo noterà nemmeno”

Alzai un sopracciglio. Come se a mio padre potesse importare cosa indossassi. Perchè era così insistente? Perché non mi lasciava solo?

Eccoli!”

Eccoli. Plurale. C'era qualcun altro? Non feci in tempo a finire il pensiero che un suono, un suono che avrei riconosciuto in mezzo a una folla di mille altri suoni, mi colpì in pieno petto. Era vita, era amore, era morte, era tormento. Era paradiso. Era inferno.

Tutum, tutum, tutum...

Il suo cuore. Il mio cuore. Bella.

Le forze mi vennero meno, tante erano le emozioni che mi attraversarono in quel momento, troppe per un vampiro. Le mie mani si artigliarono alla grossa trave di legno che reggeva il tetto della veranda, in un disperato tentativo di sostegno, per impedirmi di crollare a terra, in ginocchio. Scricchiolò sotto la mia presa.

Animata da una forza più grande della mia volontà, la mia testa si voltò lentamente, a seguire quel dolce suono ipnotico, in grado di riportare in vita il freddo cuore di un vampiro e di scaraventarlo all’inferno.

Profumo di fresia.

Bella.

 

 

 

 

 

                                                                                                                                             

 

 

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Capitolo 5
*** ritorno ***


Poche parole: Ci ho pensato e ripensato, mi avete scritto in tanti, voglio tornare. Spero che ci sia ancora qualcuno che leggerà. Anche uno solo ne varrà lo sforzo. A prestissimo, Baci, Chiara

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Capitolo 6
*** Arrivo ***


Capitolo 4 – Arrivo

Pov Bella

È incredibile quanto può essere assordante il silenzio. È un amico fidato nella maggior parte dei casi, ma sa essere anche subdolo e ingannatore. Perfino tentatore. Ti sussurra nell’orecchio con le sue note mute, instilla idee, pensieri, parole.

Il paesaggio scorreva veloce davanti ai miei occhi, ma non lo vedevo. Il vampiro era silenzioso al mio fianco, fintamente concentrato sulla strada che gli si apriva davanti. Chissà se i suoi pensieri erano simili ai miei. Chissà se il suo silenzio era altrettanto rumoroso. Avrei voluto tapparmi le orecchie per fermare il flusso dei pensieri.

“È fuggito lontano, subito dopo averti lasciato. Non poteva soffocare il dolore di averti persa. Non siamo riusciti a fargli cambiare idea”

Non riuscivo a smettere di pensare alle parole di Carlisle. Dargli un senso era impossibile. Inconcepibile. Almeno per me. Era quello che avevo risposto anche al mio padre immortale, mentre chiuso nell’abitacolo accogliente ma freddo dell’auto che ci portava a destinazione. dava voce a quei segreti  “Davvero Bella? Davvero non hai mai dubitato delle parole di Edward? Mai?”

Le parole di Edward. Mi dispiace di averla fatta durare tanto a lungo. Non voglio che tu venga con me. Sarà come se non fossi mai esistito. Le ricordavo tutte. Glaciali, crudeli, affilate. Mi squarciavano e spezzavano con la forza di mille lame. “Ha detto che sarebbe stato come se non fosse mai esistito”avevo ribattuto io. Mi era sfuggita una risata amara. “A quello non ho mai creduto”

Carlisle si era limitato ad annuire.”Il problema era la mia anima, vero?Lui ha negato ma…” Aveva rivolto lo sguardo all’immensità degli spazi aperti che quello stato regalava al mondo, non vedevo altro che verde e il bianco in lontananza che già  in quella stagione avanza senza pietà pronto a conquistare ogni angolo. Mi chiedevo cosa invece riuscisse a vedere lui. “Il problema era l’amore travolgente che provava per te e l’odio e la repulsione che sentiva per se stesso.”

Ero rimasta in silenzio da allora, persa nei ricordi, nel rimorso, nella rabbia per non essere abbastanza. Per essere diventata ancora meno.  Nella paura di ciò che mi aspettava. Nel desiderio quasi insopportabile di rivederlo. Ancora una volta. Mi occorsero diversi secondi prima di rendermi conto di non sentire più il lieve ronzio del motore. Prima che mi accorgersi che il mondo intorno a me era fermo, che non scorreva più.

«Bella.»

Inspirai forte. La  voce pacata di Carlisle mi aveva colpito come una palla di cannone. Voltai lentamente la testa e mi persi nello spettacolo davanti a me. Un enorme casa, non molto diversa da quella di Forks, svettava imponente e maestosa davanti a me, incurante della neve che tentava senza successo di ricoprire ogni cosa. Cinque figure attendevano immobili davanti all’ingresso. Una di loro si staccò dalle altre.

Fu un lampo che non riuscii a registrare. L’istante prima Carlisle era al mio fianco, quello dopo la portiera era spalancata su un sedile vuoto, la figura del mio secondo padre a pochi metri dall’auto, la sua schiena china in avanti ad abbracciarne un'altra più piccola e minuta. Le bianche ed eleganti mani di Esme lo stringevano in vita mentre il leggero tremore delle sue spalle scuoteva entrambi, unico sfogo concesso a delle lacrime che non potevano più essere versate.

Il singulto mi scosse dal profondo, mi portai un mano alla bocca cercando di non lasciarlo uscire, mentre le lacrime mi gonfiano gli occhi impazienti di fuggire al mio controllo. Distolsi lo sguardo per rispetto quando le loro labbra si toccarono con avida impazienza.

Mi riscossi quando la mia portiera si aprì e il volto di Carlisle tornò a dominare il mio campo visivo. Esme era alle sue spalle, gli occhi aperti, sbalorditi, l’espressione incredula mentre mi guardava da dietro le spalle del marito registrando ogni più piccolo dettaglio del mio corpo. Mi irrigidii per istinto.

«Bella» disse, con la sua voce cristallina, incantevole come un coro di cherubini. Mi sforzai di sorridere. «Ciao, Esme.» Il suo viso passò dall’incredulità alla consapevolezza, dalla comprensione al dispiacere, per finire di nuovo in uno di ammirazione e assoluta adorazione tornando sul suo compagno di immortalità.

«Bella. Ora ti faccio scendere.»

Annuii a Carlisle e attesi che recuperasse la sedia a rotelle. Tenni lo sguardo basso. Non volevo guardare i volti di nessuno di loro. La pietà nei loro occhi mi avrebbe ucciso. Lasciai che Carlisle mi sollevasse dal sedile, come se fossi un bambina, aspettai guardandolo assicurarmi alla sedia a rotelle e posarmi una coperta sulle gambe. Erano gesti del tutto automatici per noi, una routine a cui non facevamo più caso ne lui ne io. Ma mai come in quel momento fui consapevole di ogni gesto, espressione o movimento. Sentivo lo sguardo penetrante dei vampiri su di me. Sollevai  lo sguardo. Quattro figure bellissime e assolutamente immobili si ergevano in tutta la loro magnificenza di fronte a me, gli sguardi fissi increduli e sbigottiti. Solo una di loro sorrideva, piccola e minuta, elegante come una dea, gli occhi color caramello sembravano liquidi, piene di un emozione potente.

«Alice» mormorai sforzandomi di non piangere. Sobbalzai ritrovandomela davanti in un battito di ciglia, forse meno. Carlisle alle mie spalle si irrigidì.

«Piano Alice. Non spaventarla» La vampira sollevò il volto angelico sul nostro padre adottivo, leggermente spiazzata da quel rimprovero. «Mi dispiace» disse tornando a guardarmi. «Bella. Mi sei mancata» la sua voce si spezzò in un singhiozzo strozzato.

Annuii. Non ero capace di niente di più. Milioni di volte avevo pensato e ripensato a tutte le cose che avrei voluto dirle se un giorno l’avessi rivista. Fiumi di domande, distese di parole, milioni di perché. Ma in quel momento non c’era niente in me. Allungai una mano e sfiorai delicatamente una delle sue.

«Alice» la voce mi si era già spezzata. «Grazie» fu tutto ciò che riuscii a dire. Non servivano milioni di parole. O spiegazioni. Non con Alice.

Emmett, Rosalie e Jasper attendevano nella loro incredibile immobilità a pochi passi da me. I volti innaturalmente perfetti. Alice raggiunse il marito, mentre Carlisle spingeva lentamente la mia sedia a rotelle. Non mi staccavano gli occhi di dosso. Ma tutto ciò che riuscivo a pensare io, era : lui non c’è.

Mi accorsi vagamente che Carlisle si era avvicinato ai suoi figli, salutandoli. Sentivo mormorii di stupore e credo che qualcuno, forse Emmett, stesse cercando di attirare la mia attenzione. Ma io non sentivo niente. Non vedevo niente. Il muro di vampiri si era scostato e tutto ciò che riuscivo a vedere, era il portico di ingresso della grande casa. Una distesa di vetro e legno bianco. Una figura immobile mi fissava con occhi del colore della notte. Il volto distorto in una smorfia di dolore e rabbia. Incredibilmente pallido e visibilmente provato mi fissava con insistenza. I pugni erano serrati, i denti scoperti. Non mi accorsi subito di cosa stesse succedendo, qualcosa tremava e sussultava, scuotendomi in modo convulso. Il viso dell’angelo mutò in un espressione terrorizzata, gli occhi si riempirono di un nero liquido come petrolio. Qualcuno gridava il mio nome. Carlisle.

«Respira! Bella! Bella!»

Ero io. Io. I tremori che mi scuotevano venivano dal mio petto. Non riuscii ad obbedire al mio padre custode, il cuore insisteva per squarciarmi in due, voleva fuggire da quel dolore, da quel tormento.

«Edward»mi sentii dire, prima che il buio coprisse ogni cosa.

 

Pov Edward

Quando credi di aver raggiunto il fondo dell’inferno, questo si spalanca sotto i tuoi piedi per mostrarti quanto può essere infinito.

Il mio personale inferno  dagli occhi di cioccolato me lo aveva appena dimostrato. Avevo sbagliato tutto. Ogni cosa. Ancora una volta. Guardai mio padre sistemare un'altra coperta sul suo corpo addormentato. Controllò i suo parametri vitali per l’ennesima volta, i suoi pensieri erano tutti rivolti a lei.

Dovresti andare a caccia.

«Non la lascio»

Leggevo la disapprovazione di mio padre, mal camuffata nella sua mente,per la mia testardaggine.

Edward. Non voglio che si spaventi. Non deve agitarsi ancora. Non voglio che ti veda in questo stato.

Inspirai. Mille lami affilate mi trafissero la gola lacerandomi quasi fino a strozzarmi. Sentii gli occhi bruciare per la fame. Il mostro dentro di me ruggì.

Dormirà per almeno tre o quattro ore. Vai.

Non mi guardava nemmeno. Fissava Bella con la grazia e l’immobilità che solo gli individui della mia specie erano in grado di raggiungere. Sentivo il suo dolore come se lo vivessi attraverso Jasper. Ma era così forte da essere tangibile. Una quarta presenza nella stanza. Soffriva per lei, per il suo dolore. Lessi il senso di colpa che dominava la sua mente. Si rammaricava di non essere arrivato in tempo. Era un litania continua. Non riusciva a darsi pace.

«Non è colpa tua. Se c’è un colpevole sono io. Non avrei dovuto…» Mi mancavano le parole. Prenderla? Lasciarla? Non ne ero sicuro. Se fossi stato qualcosa di migliore del mostro che sono, non avrei mai dovuto prenderla, non avrei mai dovuto lasciare che si innamorasse di me. Ma ero un mostro e quindi mi rammaricavo di più di averla lasciata, di averla persa, di averla lasciata andare.

Ero un mostro. E avevo scelto di amarla.

«Dimmi che cosa è successo. Ti prego.»

Una serie di flash scoppiarono nella mia mente come un incendio nel buio della notte. Mio padre in uno studio medico, lo squillo del telefono, la voce isterica e disperata di mia sorella dall’altra parte. “Non c’è  tempo Carlisle, corri.” Il terrore nel cuore di mio padre, “Ma Edward?” Alice era stata lapidaria. “No, devi farlo tu!” E poi la corsa folle, il rumore di uno schianto che frusta l’aria con la potenza di un onda d’urto e l’ode di sangue. L’odore paradisiaco del sangue di Bella, insieme all’odore inconfondibile della morte. Charlie. Un groviglio di lamiere accartocciato e rovesciato contro un albero, il corpo di Bella scomposto riverso sull’asfalto nero in un mare di rosso.

Un urlo squarcia il silenzio della casa. Le immagini cessano di colpo. E lo capisco solo in quel momento, lo vedo nella mente che conosco fin dal primo istante della mia nuova non-vita. Il verso disumano di un animale selvatico accartocciato su se stesso ridondante della sua stesa agonia. Io.

E scappo. Fuggo. Corro. E sono nella foresta. Mi seguono. Jasper. Emmett. Alice. Mi seguono, mi supplicano, mi implorano.

“Fratello, ti prego”

E sono fermo. Immobile. Agonizzante. E loro sono dietro di me. E poi sono rabbia. Attacco. Il volto spaurito di mia sorella mi fissa con occhi spaventati. Stringo la presa sulle sue braccia.

«Perché? Dimmi perché?» E poi non c’è più. E Jasper mi tiene fermo. Immobilizzato contro il troco di un albero. La mia mente è troppo offuscata per prevedere le sue mosse. Non mi ribello. La guardo.

«Credi che non ci abbai pensato?Credi che non abbia pensato di chiamarti immediatamente appena ho avuto la visione? L'ho fatto. Certo che l’ho fatto…»La sua voce angosciata segue quella dei suoi pensieri.«Ho corso fino a quasi a raggiungerti, poi quando mi mancavano solo poche miglia, una visione mi ha annunciato che TU non mi avresti creduto. Non saresti corso da lei, credendo che era solo un mio tentativo di costringerti a rivedere la tua decisione. Sarebbe morta Edward. Carlisle a Seattle era il più vicino, l'unico che poteva salvarla. Non avevo scelta.»

Sto scuotendo la testa, non riesco a pensare, non riesco a sopportare. Voglio sapere. Voglio chiedere. Voglio perire. La visione di Alice precede ogni cosa e lei sorride.

«Lei non ha voluto. Carlisle ha promesso. E anch’io. Mi dispiace Edward.» Non voleva che tu sapessi. Non voleva la tua pietà.

E cedo. Ora lo so. Non potro più tornare indietro. Non da questo. Mai più.

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Pov Bella

Fu il tepore a svegliarmi. Non trovavo conforto nel calore, non più. Il freddo era mio amico, il freddo era mio complice, mi aiutava nelle mie illusioni. Cercai di riportare alla mente gli ultimi avvenimenti. Mi sentivo confusa, stordita e annebbiata. Avevo la bocca secca. Non era un buon segno. La bocca riarsa era un sintomo che avevo dormito troppo. Io non dormivo così tanto. In realtà non dormivo abbastanza.  Quando succedeva era solo perché mi venivano somministrati dei farmaci. Carlisle doveva avermi dato un calmante.

Solo quando aprii gli occhi ricordai davvero. Inspirai sentendo l’onda di dolore risalire come un fiume in piena dal centro del mio cuore. Mi sfuggì un singhiozzo e le mie mani corso istintivamente sulla mia bocca nel tentativo di contenerlo.

«Bella, che succede?  Ti senti male?»

La mia testa si mosse verso il suono della sua voce. Era appollaiata su una poltrona accanto al mio letto, il corpo proteso verso di me, sul volto un espressione allarmata.

«Alice» la mia voce era ruvida, gracchiante. Mi sentivo come se avessi ingoiato carta vetrata.

«Carlisle ha lasciato dell’acqua, ha detto che avresti avuto sete al tuo risveglio»

Annuii e lasciai che mi portasse il bicchiere alla labbra. Bevvi avidamente dalla cannuccia lasciando che l’acqua fresca lenisse quel sordo dolore pulsante.

«Va meglio?»mi chiese, quando il bicchiere fu vuoto. Annuii brevemente mentre puntellavo i gomiti sul materasso cercando di mettermi a sedere.

«Che fai? Carlisle dice che devi riposare»

Scossi la testa testarda. «Non sopporto parlare stando sdraiata. Mi fa venire il mal di testa» Mi guardava ma era leggermente combattuta. Alla fine sistemò i cuscini e mi aiutò a sedermi. Non smetteva di fissarmi.  Il silenzio si protendeva ed era così innaturale e pesante da essere imbarazzante. Finalmente trovai il coraggio di sollevare lo sguardo dal copriletto che fissavo con insistenza da quando avevo riaperto gli occhi. I suoi spalancati e preoccupati, attendevano.

«Non l’ho immaginato vero? Era lì. Lui.»

Solo un lieve movimento del capo, appena accennato. Nient’altro. Inspirai. Forte.

«Sta bene? Sembrava sofferente e… affamato.» Furioso.

Alice fece una smorfia. «Carlisle lo ha mandato a caccia. Ora sta meglio.»  Una pausa. I suoi occhi si offuscavano e tornavano lucidi, dopo ogni frase. Solo pochi istanti. Ma li vedevo.

«State comunicando»

Alice sobbalzò come se avesse preso la scossa. Non sia aspettava che lo capissi. Era decisamente stupita. «Si.» Un occhiata fugace oltre il letto. Alla porta.

Il  cuore accelerò il battito in un istante. Risucchiai il labbro tra denti così forte che sentii una scossa di dolore. La ignorai.

«È qui? » la mia voce nascondeva una nota di panico. E di speranza. Speravo che non fosse troppo evidente.

«Si è allontanato solo per nutrirsi.» Chiuse gli occhi e mi rivolse una smorfia di scuse. «Non voleva lasciarti. Carlisle gli ha ordinato di aspettare fuori. Non voleva che stessi male di nuovo. Secondo lui hai avuto una crisi respiratoria dovuta allo spavento.»

Mi sfuggì una risata amara. «Non ero spaventata. Solo scioccata. Io, non mi aspettavo di vederlo… così»

Alice annuì. Il suo sguardo si perse di nuovo. Fece per dire qualcosa ma poi ci ripensò.

«Perché è qui fuori?» lo chiesi a lei, ma i miei occhi erano fissi sulle modanature del legno della massiccia porta bianca.

«È preoccupato per te» sussurrò lieve. Come se fosse un segreto. Ma certo. Edward era sempre preoccupato per qualcuno. Questo lo aveva preso da Carlisle. Quei due erano così simili. Mi chiedevo se notassero tutte le somiglianze che li accumunavano. Avevano una animo nobile, una natura altruista. Erano creature speciali. Lo sarebbero state in qualsiasi mondo, in qualsiasi forma. Umano, vampiro. Erano solo parole. Le loro azioni, i lori cuori, andavano oltre la loro natura.

«Puoi entrare, se lo desideri. Sto bene adesso.»

Mi  sorpresi di averlo detto davvero. Era stato un suono pacato, lieve e basso perfino per me che lo avevo prodotto. Ma sapevo che ogni vampiro in quella casa lo avevo udito.

E poi era li. La porta ora aperta faceva da cornice alla sua figura alta e slanciata. Le occhiaie erano meno marcate, gli occhi di un ambra brillante, i vestiti erano puliti e stirati. Ma il tormento e il dolore erano impressi a fuoco sul volto. Ripensai alle confessione di Carlisle.Il problema era l’amore travolgente che provava per te e l’odio e la repulsione che sentiva per se stesso.”

«Ciao»fu la mia brillante uscita. I suoi occhi erano dritti su di me. Mi scrutava, mi osservava, a volte si soffermava su un piccolo lembo di pelle, una ciocca di capelli, il tremolio di una ciglia. Sembrava perso in una sua personale contemplazione. Non sapevo nemmeno se mi avesse sentito. Ebbi un brivido quando un lampo di dolore gli deturpò il viso. Gli occhi fissi sui miei arti immobili, nascosti dalla copriletto.

«Non è brutto come sembra. Voglio dire, almeno ho smesso di inciampare» Che diavolo stavo dicendo? Mi guardò con disapprovazione, durò poco, il dolore riprese subito possesso del suo volto.

«Edward…» Il mio tono era supplichevole, volevo che dicesse qualcosa, che mi parlasse. Bramavo il suono della sua voce.

«Mi dispiace per Charlie» La sua voce. Il suono della sua voce. Era più bello di quanto la mia stupida memoria umana riuscisse a ricordare. La mia anima, il mio cuore, tutto di me vibrò e si animò sulle note della sua voce. La gioia data dal piacere di risentirla era annebbiata solo dal senso delle sue parole.

«Grazie» sussurrai. I suoi occhi si incatenarono ai miei. Ed ero persa. Di nuovo.

Alice si schiarì la voce. «Vado a vedere se riesco a trovarti qualcosa da mangiare. Hai saltato il pranzo»

Lui non diede segno di averla sentita. Guardava me. Io non potevo – volevo-  distogliere lo sguardo. Il leggero rumore della porta che si chiude fu l’unico avviso che eravamo soli.

«Mi dispiace» dissi. Di farti soffrire, di esserti di impaccio. Di essere umana.

Il dolore inondò ogni singola sfumatura del suo viso. Chiuse gli occhi.

«Bella» disse, in quel suo modo unico capace di toccare le parti più profonde del mio essere. Sobbalzai ritrovandomelo inginocchiato davanti al letto, a capo chino, la fronte appoggiata al materasso.

Restammo così un eternità. Lui chino sul letto, io a contemplare il suo profilo immobile, le mani che mi prudevano per il bisogno di passarle nei suoi capelli.

La richiusi in un pugno. Non sopportavo più quel silenzio.

«Di qualcosa»

«Cosa vuoi che dica?»

Risi. «Questa scena l’ho già vissuta. Non va a finire bene»

Alzò il capo con lentezza, come se quel movimento gli costasse un enorme sforzo.

«Non riesco a immaginare niente che io possa dire per farti capire quanto mi dispiace, Bella. Conosco decine di lingue, milioni di parole, e nemmeno una per esprimere come mi sono sentito quando ti ho vista scendere da quell’auto con…» sospirò e i suoi occhi corsero verso la sedia a rotelle, la guardava come se volesse distruggerla. «Non so come chiedere perdono per questo. Perché non posso chiederlo. Non ne ho diritto. Non lo merito.»

Ero senza parole. Non era quello che mi aspettavo.

«Di che cosa stai parlando? Questo ..» dissi  indicando le mie gambe  « … non è colpa tua. È stato un incidente. Un incidente imprevedibile, come quelli che capitano a milioni di persone nel mondo. È successo e basta. Non dipende da te, da me, da nulla. »

Le sue labbra si tesero, l’espressione si indurì.

«Bella. Pensaci. Se non me ne fossi andato, Alice lo avrebbe previsto e io sarei stato vicino, sarei potuto intervenire prima che avvenisse. Prima che tu perdessi tuo padre. Prima che tu vivessi un esperienza tanto orribile, un dolore tanto grande. Prima che il tuo corpo subisse questa … questa … agonia.» Le parole gli vennero fuori come un sibilo, fra i denti serrati.  Sentivo le mie palpebre aprirsi e richiudersi a grande velocità ma sapevo che probabilmente il mio sguardo doveva essere vuoto. Le sue parole vorticavano nella mia mente, ancora e ancora. Ma la conclusione alla quale arrivai, non era quella che mi sarei aspettata. E probabilmente nemmeno lui.

«Mi stai dicendo che ti sei pentito di avermi lasciata.»

Rimase in silenzio per un lungo, lunghissimo, istante. Decisamente troppo per un umano, figurarsi per un vampiro. Quando riprese a parlare non mi guardò.

«Non è quello che intendevo»

E io che pensavo che il mio cuore non potesse andare più in frantumi di così. Quanto ero stupida. Il respiro accelerò senza che potessi fare nulla per impedirlo. Mi sentivo soffocare. Lui se ne accorse e il suo sguardo allarmato fu come uno schiaffo in pieno viso. Improvvisamente era ansioso. Iniziò a parlare veloce, come se non avesse più tempo.

«Non capisci. Volevo davvero che tu avessi una vita lunga e felice, senza mostri che ti mettessero in pericolo, senza interferenze del mio mondo.  Volevo che potessi avere tutto ciò che io non posso darti. Volevo che avessi la possibilità di essere come tutti gli altri. Ma ho tralasciato un particolare importante. Ho commesso un terribile errore. Tu non sei come tutti gli altri. Non lo sei mai stata. C’è qualcosa in te che io…» Scosse la testa frustrato «Avrei dovuto prevedere che le tue sfortune non potevano finire con me. Sarei dovuto restare nell’ombra, proteggerti da lontano, impedire al male, che tu attiri come una calamita, di avvicinarsi a te. Ho sbagliato. Ho fallito. E sei stata tu a pagarne le conseguenze. Non può esistere perdono per questo. Per me. Non può…»

Il cellulare sul mio comodino scelse proprio quel momento per annunciare l’arrivo di un messaggio. Il suono fu così improvviso che non potei non sussultare. Lo fissai per qualche secondo. Sapevo esattamente chi era. A quest’ora doveva essere andato fuori di testa. E poi un nuovo bip. Forse avrei dovuto parlargli, ma non volevo che ci lasciassimo con una litigata. Così me ne ero andata e basta.

Passarono altri secondi. Immobili. Il telefono mi fissava, aspettando che mi decidessi. Io fissavo il telefono. Edward fissava me.

«Bella? Che succede?»

«Nulla. È solo … »

La porta si aprì con un leggero cigolio.

 

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