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Me lo avevano detto: la vita è una
questione di scelte.
Il tuo destino dipende dalle tue scelte.
Ma non mi avevano detto che le scelte erano
così difficili. Non mi avevano detto che, da una semplice scelta, può dipendere
la vita a o la morte di una persona.
Seduta accanto al grande letto, osservavo
il tempo passare al di là del vetro dell'imponente finestra della mia stanza.
Sembrava tutto uguale quel bosco, uguale a
come lo ricordavo, uguale a come lo avevo visto la prima volta, dalla stessa
angolazione di ora, solo un piano più in su, con le dolci note di Debussy in sottofondo. Le folte chiome degli alberi, il
terriccio umido e fangoso, i tronchi ricoperti di muschio, il rumore dell'acqua
che scorre di un fiume poco lontano.
Eppure ora era diverso. O forse erano i
miei occhi ad essere cambiati. Quel bosco mi intimoriva e mi affascinava in
ugual misura. Perché ora quelle stesse fronde, quegli stessi colossi
silenziosi, avevano per me un altro significato. Io sapevo. Sapevo cosa
potevano nascondere, io sapevo cosa potevano raccontare se fosse stato concesso
loro il dono della parola, io sapevo i loro segreti. E loro conoscevano i miei.
E mi aiutavano a custodirli. A loro avevo sussurrato il mio amore, il mio cuore
e la mia gioia e avevo gridato il mio dolore, il mio tormento, il mio castigo.
Sospirai.
«Sei pronta?»
Sobbalzai, voltandomi verso la porta. Due
lucenti occhi color ambra mi guardavano sereni, cercando di nascondere la ruga
di apprensione che si stava formando al centro della stessa fronte del volto
dal quale mi osservavano.
«Scusami ho bussato, ma non mi hai
risposto»
Abbozzai un sorriso e annuii. «Mi dispiace,
non ti ho sentito, ero sovrappensiero. Vieni, entra»
Sorrise chiudendosi la porta alle spalle e
con tutta la grazia di cui solo quelli della sua specie erano capaci, mi
raggiunse con passo umano, prendendo posto sul letto accanto a me. Il suo
sguardo vagò nella stessa direzione dove solo pochi attimi prima era posato il
mio. Sospirò anche lui, un sospiro stanco, preoccupato e nostalgico. Mi persi nella
sua contemplazione, cercando di capire quanti ricordi potesse rievocare in una
creatura dall'animo secolare come il suo quello stesso paesaggio.
«È ora» mormorò distogliendo lo sguardo.
Chiusi gli occhi, colpita dal peso di quelle due piccole parole. Incredibile il
grande disegno che celavano al loro interno.
«Lo so.»
Annuì e rimase in attesa. Era così paziente
con me, proprio non riuscivo a comprendere come potessi meritarlo.
«Credi davvero che sia la cosa giusta?»
sussurrai cercando di contenere la paura che mi dilaniava il petto.
Lui allungò una mano, afferrando la mia,
che si perse nella sua fredda, grande e forte.
«Isabella, lo sai. Sai come la penso, ma
sai che mai ti imporrei di fare una qualsivoglia cosa che tu non hai piacere di
fare. Voglio che tu ti senta libera di prendere la tua decisione, al di là di
quello che pensi io voglia per te...o per me»
«Lo so, ma...» mi morsi il labbro, mi
sentivo sempre un po' invadente a toccare l'argomento, nonostante negli ultimi
diciotto mesi il nostro legame fosse diventato forte e quasi non avessimo più
segreti l'uno per l'altra, violare quel lato della sua vita mi faceva sempre
sentire indiscreta e fuori luogo. Scossi la testa e puntai lo sguardo verso il
basso. Ovviamente non si arrese, sapeva dove volevo arrivare.
«Ma?» mi chiese per l'appunto, come chiaro
invito a proseguire.
Presi fiato, inutile provare a farlo
desistere. Aveva preso il suo nuovo ruolo nei miei confronti molto seriamente,
Charlie sarebbe stato felice di sapere che c'era lui a prendersi cura di me ora
che lui non poteva più farlo. Aveva sempre nutrito una grande stima e un grande
rispetto nei suoi confronti. Certo, forse se avesse saputo la verità...
Presi coraggio e continuai.
«Ma sei io decidessi di restare tu andresti
comunque?»
«Ovviamente no»
Sbuffai. Cielo, la testardaggine era un
gran difetto in quella famiglia. Afferrai le ruote della mia sedia a rotelle e
cominciai a bighellonare nervosamente su e giù per la stanza. Avevo bisogno di
muovermi, di fare qualcosa, o la tensione delle ultime ore mi avrebbe
annientata.
«Perché no?» chiesi con un moto di stizza,
bloccandomi al centro esatto, a pochi passi dal letto, dando le spalle alla
finestra. «Carlisle, sai che ti considero mio padre ormai, al cento per cento,
senza nessuna remora, ma davvero non è necessario che tu continui a privarti
della tua felicità solo per occuparti di me. Non posso continuare a permetterti
di sacrificarti in questo modo»
«Non sei tu che me lo permetti Bella, sono
io che ho giurato sulla tomba di Charlie di crescerti, amarti e proteggerti
come se fossi sangue del mio sangue. Non ho intenzione di rimangiarmi un
giuramento»
«Sono già cresciuta Carlisle, tra pochi
giorno compirò vent'anni, non c'è bisogno che continui a rovinarti l'esistenza
per me»
Il suo sguardo si incupì, tornando a
saettare oltre la finestra.
Il giorno in cui successe tutto, credevo
che sarei rimasta sola, e poi era arrivato lui. Un angelo luminoso nel bel
mezzo della più lugubre tempesta.
“Alice mi ha detto che avevi bisogno di
aiuto...sono qui” aveva sussurrato con uno sguardo tormentato mentre mi
tirava fuori dall'auto di mio padre, quasi completamente accartocciata contro
quel maledetto albero.
Si incolpava ancora di non essere arrivato
prima e di non essere riuscito a salvare la vita anche a lui.
«Mi stai rinnegando come padre Isabella? Ho
fatto un così pessimo lavoro anche con te?»
Sobbalzai per il dolore intriso nelle sue
parole. Chiusi gli occhi per fermare le lacrime che pungevano nei miei occhi,
frutto della consapevolezza di aver ferito un anima buona e nobile come quella
del mio secondo padre. Tanto luminosa da far male. Sapevo a cosa si riferiva
con quel “anche con te.” Il suo tomento per aver inflitto una vita che non
desideravano a due dei suoi figli lo tormentava nel profondo. Più volte mi
aveva confessato che ogni volta che negli ultimi decenni aveva postato lo
sguardo su Rosalie e Edward, il senso di colpa lo aveva dilaniato sapendo
quanto li ripugnava la loro stessa natura. Natura a cui lui li aveva condannati
per l'eternità.
Mi spostai dinnanzi a lui allungando una
mano perché la stringesse di nuovo. La prese e la nascose fra le sue
nascondendo il capo ai miei occhi per celare il suo dolore.
«Perdonami Carlisle, sai che non era ciò
che intendevo, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non fossi corso da me
un anno e mezzo fa. Sei il padre migliore che si possa desiderare»
Sollevò il capo abbozzando un sorriso che
non raggiunse gli occhi.
«Ma vuoi ancora liberarti di me» mormorò
sarcasticamente arcuando un sopracciglio.
Sorrisi e stetti al gioco. Avevamo imparato
in fretta a comportarci come una famiglia e a prenderci in giro con amore, come
per l'appunto solo una famiglia sa fare.
«Ma certo, come ogni adolescente che si
rispetti! Una casa gigantesca senza genitori per un intero week-end, il sogno
proibito di chiunque sotto i ventun anni! Hai idea di che festa potrei dare?»
recitai in una chiara presa in giro cercando di risollevargli il morale.
Dopo l'incidente mia madre mi aveva
chiesto più volte di andare in Florida, ma io avevo sempre rifiutato, quella
non era più casa mia, casa mia era qui, a Forks. Charlie riposava qui, i miei
ricordi vivevano qui, io dovevo restare qui. Anche Jacob, come Reneè, mi aveva chiesto di andare a vivere con lui, non
voleva rimanessi sola, o peggio che vivessi con un vampiro, ma sapevo che le
cose per me, li, sarebbero diventate troppo...complicate. L'avevo capito da
tempo che la sua amicizia seppure per me preziosa e importante, non era del
tutto sincera. Avevo capito da tempo che lui desiderava da me qualcosa che non
potevo dargli, accettare di stare con lui avrebbe significato illuderlo. Così,
egoisticamente, avevo scelto di non andare, di restare lì, in quella casa che
una volta era stata teatro della nascita di un grande amore, e che rinchiudeva
in se i ricordi più belli della mia vita.
La casa che dividevo con Charlie,
era piccola, per una persona costretta a vivere sulla sedia a rotelle e troppo
in vista per un vampiro.
Così Carlisle aveva ripreso in mano
le chiavi della grande villa. Io dormivo nella stanza degli ospiti, l'unica al
piano terra. Carlisle aveva apportato delle modifiche, nulla di che, giusto
quello che serviva per farmi muovere in perfetta autonomia, senza dover
continuamente ricorrere al suo aiuto. O almeno era quello che diceva lui. In
realtà aveva fatto costruire una rampa esterna sul lato anteriore, per
permettermi di entrare e uscire agevolmente da quella che ormai era diventata
casa mia. E ne aveva aggiunto una seconda che dava sul giardino per non
costringermi a uscire dalla porta principale e farmi fare tutto il giro della
casa ogni qual volta avessi voglia di prendere una boccata d'aria. Aveva
ristrutturato il bagno adiacente alla mia stanza con strutture d'avanguardia
adatte alle mie condizioni che – e di questo lo ringraziavo ogni giorno – mi
rendevano indipendente nella cura del mio corpo. La cucina era stata
completamente modificata e portata all'altezza della mia seduta permettendomi
di cucinare senza impedimenti. Aveva perfino fatto installare una sedia mobile lungo
la scala interna, per permettermi di raggiungere il piano superiore. Non
l'avevo mai usata se non per raggiungere lo studio di Carlisle, stando sempre
ben attenta a non soffermarmi su quelle porte chiuse che sembravano chiamarmi
come una falena alla sua fiamma. Non volevo andare di sopra. Non volevo sapere
cosa avrei trovato. Aprire la porta della sua stanza vedendola vuota, mi
avrebbe distrutto. No, non potevo.
E poi c'era il pianoforte, era
ancora lì quando eravamo arrivati, coperto da un soffice lenzuolo bianco. Non
riuscivo ad entrare in quel salone senza essere pervasa dai ricordi. Ogni volta
finiva sempre allo stesso modo: con me in lacrime, persa nel mio dolore, e
Carlisle che inutilmente cercava di consolarmi. Alla fine gli avevo chiesto di
portarlo di sopra, lontano dai miei occhi. Non volevo più vederlo. Al suo posto
ora c'era solo il vuoto, come quello che era rimasto dentro di me.
Carlisle, il mio secondo padre, era
diventato la mia unica ancora di salvezza.
Ricordavo come fosse stato il giorno
prima quando, in ospedale, dopo essermi risvegliata dal coma farmacologico, me
lo ero ritrovato al capezzale. Ero rimasta piuttosto sconcertata.
“Credevo di aver sognato” gli avevo
detto spaesata.
“No, non lo hai fatto”
“Mi hai salvata tu, vero?”
Aveva annuito, ma la sua espressione
era rimasta triste. Il campanello di allarme si era subito acceso nella mia
mente.
“Charlie!” avevo urlato, cercando di
strapparmi tutti quei tubicini che avevo attaccati. Mi aveva immobilizzato le
mani aspettando che smettessi di lottare. Lo avevo guardato con aria di
supplica, attraverso gli occhi appannati dal pianto. Sapeva cosa gli stavo
chiedendo.
“Mi dispiace Bella”.
Fu tutto ciò che disse.
Avevo pianto, avevo pianto tanto.
Avevo perso anche lui. In poco tempo avevo perso le due persone più importanti
della mia vita. Prima Edward, poi Charlie. Mi sentivo sola, abbandonata e
tremendamente...tremendamente arrabbiata.
Era rimasto lì, a sentirmi piangere,
inveire, urlare, per ore intere, giorni, forse settimane. Consolando me,
consolando mia madre, i miei amici, tutti...chiunque ne avesse bisogno. Si era
addossato ogni peso sulle sue spalle. Senza mai dire una sola parola in più del
dovuto, senza mai andarsene, semplicemente aspettando che finissi le mie
lacrime.
Ed era successo. Una mattina mi ero
svegliata e non piangevo più, non gridavo più. L'unica cosa che urlava erano
l'amarezza e la voragine di dolore che avevo in petto. Perfino il mio cuore mi
aveva lasciato.
Mi aveva spiegato cosa mi era
successo, cosa sarebbe stata la mia vita da quel giorno in poi, ed erano state
altre lacrime, altro dolore.
Non avrei potuto camminare.
Probabilmente mai più. Mi sentivo inutile, completamente inutile.
Poi una mattina mi ero svegliata e
per la prima volta dopo settimane Carlisle non c'era. Pensai che se ne fosse
andato, che si fosse stufato di sentirmi frignare tutto il giorno, che anche
lui, come suo figlio, si era stancato di perdere il suo tempo con me.
Mi ero sentita incredibilmente sola.
Ma lo trovai giusto.
Quella sera stessa, la mia porta si
era spalancata di nuovo.
“Scusa se non sono stato con te oggi,
avevo bisogno di pensare”.
Non mi chiedeva mai come stavo, non
sarebbe servito a nulla, se non a causarmi un nuovo attacco di pianto.
“Non preoccuparti, non importa, capisco.
Credo che dovresti tornare dalla tua famiglia Carlisle, hai già fatto anche
troppo. Starò bene.”
“Anche tu sei la mia famiglia Bella...
resterò qui, finché avrai bisogno di me”
Avevo sbarrato gli occhi, incredula.
Non era possibile, non per me, non meritavo tanto.
“Ma, non puoi...”
Ovviamene non mi aveva dato retta ed
era rimasto, nonostante io tentassi continuamente di convincerlo a tornare.
Si era occupato di me per tutto quel
tempo, senza mai lamentarsi, nonostante io lo facessi e anche spesso.
La sua risata cristallina riportò la mia
mente al presente.
«Oh certo. Sei proprio il tipo da feste, lo
avevo dimenticato. »
Sospirai. Abbandonandomi al silenzio delle
nostre riflessioni. Lui sapeva perché volevo che andasse senza di me.
«Non ti manca?» chiesi in un ultimo
disperato tentativo.
Chiuse gli occhi e sospirò.
«Più di ogni altra cosa al mondo. Ma lei sa
che la amo e sa che un giorno staremo di nuovo insieme. L'eternità sa mettere
tutto sotto un'altra prospettiva»
Aveva rinunciato a tutto per me. Per stare
con me. Aveva rinunciato a i suoi figli, alla sua vita, a Esme.
Sapeva di non poter spiegare agli altri quello che mi era successo, non senza
scatenare le ire del suo primo genito, non senza calpestare il mio desiderio di
non essere un peso, sapeva quanto odiassi quella situazione, sapeva che non
sopportavo il fatto che avesse abbandonato tutto e tutti per me, un
insignificante umana che aveva sconvolto tutti gli equilibri di una famiglia
che aveva costruito con impegno e dovizia in cento anni di sforzi e sacrifici,
eppure il pensiero che loro sapessero, o che lui sapesse, era
terrificante. Non potevo. Non volevo.
Sapevo che sentiva Esme
ogni giorno, cercando di lenire la nostalgia che sentivano l'uno per l'altra,
eppure nonostante l'infelicità e la sofferenza costante che quella separazione
procurava a entrambi, Carlisle rifiutava con tutte le sue forze ogni mio
tentativo di arrendersi con me. Ero un caso perso ma lui non sembrava affatto
d'accordo. Come ho detto: testardo.
Aveva spiegato ad Esme
che non poteva stare con lei, che non sarebbe tornato a casa finché avesse
ritenuto necessaria la sua presenza in quel luogo. Le aveva raccontato che una
persona, una persona per lui molto importante, necessitava costantemente della
sua presenza li dov'era e che sarebbe rimasto per tutto il tempo che avrebbe
ritenuto necessario. Non le aveva mai detto dove fosse o con chi. Mai. Non
capivo come ci riuscisse, per me era impensabile negare qualcosa ad Esme, se fosse toccato a me avrei ceduto dopo i primi
trenta secondi della prima telefonata. Sapevo che lei gli aveva chiesto milioni
di volte di poterlo raggiungere, di potergli dare una mano in questa sua
missione, giurando di mantenere qualsiasi segreto le avesse chiesto di
custodire, ma lui era irremovibile.
Mi morsi un labbro imbarazzata e intenerita
dalla limpidezza della sua confessione.
«Allora va da lei»
Scosse la testa, di nuovo, testardo.
«Non senza di te.»
Di nuovo quella frase. Era il nostro punto
di stallo ormai. Lui non mi avrebbe lasciata sola.
Il mio sguardo ricadde sul copriletto, dove
un in invito a un matrimonio tutto stropicciato si faceva beffa di me. Negli
ultimi tre giorni lo avevo torto e ritorto tra le mani talmente tante volte che
mi sembrava impossibile che fosse ancora leggibile. La busta giaceva per terra
in condizioni solo leggermente migliori.
Accidenti ad Alice e alle sue trappole.
Sorrisi.
Ovviamente Alice sapeva tutto, lei aveva
visto ogni cosa, lei aveva mandato quell'angelo biondo a salvare la mia inutile
e insignificante vita.
Carlisle mi diceva che spesso lo aveva
contattato terrorizzata, dicendogli di non vedere più il mio futuro, facendo
precipitare il mio nuovo papà in uno stato di allerta assoluto. Solo col tempo
loro due insieme avevano capito che i momenti ciechi di Alice erano dovuti a
Jacob. Ogni visita del mio amico licantropo era preceduta dalla telefonata di
Alice.
Era più che chiaro che Jake non le
piacesse.
Non avevo mai risposto. Lei sapeva che non
lo avrei fatto, ma continuava a provarci. Per colpa mia la sua vita, la sua
famiglia, era stata fatta a pezzi, assecondare il suo desiderio di
riavvicinarsi a me avrebbe solo peggiorato le cose. Non capivo perché
insistesse tanto.
Speravo avesse capito, da settimane non ci
provava più. Poi tre giorni fa, quell'invito.
Un matrimonio.
Organizzato da Alice.
Tremai.
Tornai a guardare l'invito.
«Non c’è la faccio Carlisle»
Mi morsi di nuovo le labbra nervosa
prendendomi la testa fra le mani.
Da tre giorni, dall'arrivo di
quell'invito, non avevo più una sola certezza. La sera prima vedendo la mia
reazione sconvolta e terrorizzata, mentre preparavo la valigia, Carlisle mi
aveva preso da parte, stringendomi tra le braccia, nel tentativo di calmare
l'ennesimo attacco di panico. Sapeva che la frescura della sua pelle mi
aiutava, mi dava l'illusione che fosse la sua.
Carlisle
aveva cercato di spiegarmi la decisione del figlio proprio quella volta, stanco
di sentirmi piangere per lui, di sentirmi inveire contro il suo fantasma, di
gridare fino allo spasmo: “Perchè? Perchè?”
«Ha
preso la decisione giusta Bella... ma l'ha presa troppo tardi, e questo se è
possibile è anche peggio...Ti prego perdonalo, lui non capisce, lui non sa...
non si rende conto della ferita che ti ha inflitto... voleva solo donarti ciò
che a lui è stato negato, ciò che io gli ho sottratto. È me che dovresti
incolpare del tuo dolore Bella, non Edward...solo me»
«Davvero Carlisle, penso dovresti andare da
solo»
Lui mi guardò per qualche secondo, poi
spostò lo sguardo sull'invito che giaceva sullo stesso letto dove aveva preso
posto e tornò a guardare all'esterno. Sembrava indeciso. Alla fine prese un
respiro profondo e mi sorrise.
Senza dire una parola si alzò in piedi
andando verso la porta. Non capivo. Avevo vinto? Andava senza di me? Quasi non
riuscivo a crederci. Non sapevo se sentirmi in colpa o sollevata.
«Avverto Alice. Resterò con te» sussurrò a
un passo dalla maniglia.
«NO!» urlai
Lui si voltò guardandomi sereno, non c'era
il minimo cenno di rancore del suo volto, nonostante il mio comportamento
riprovevole. Lo stavo tenendo lontano dalla sua famiglia, dal suo amore. Ero un
mostro. Ero un egoista. Eppure lui continuava a volermi bene. Era frustrante.
Mi guardò ancora per un lungo minuto mentre
io mi arrendevo al mio destino. Avrei fatto questo per lui.
Sorrisi e presi un profondo respiro.
«La mia valigia è accanto alla scrivania»
Si aprì in uno dei suoi grandi solari
sorrisi e ripercorse a ritroso la distanza fino alla mia sedia.
Si inginocchiò e si protese verso di me
soffocandomi nel suo abbraccio, come solo un papà sapeva fare.
«Ti voglio bene bambina mia. Tanto. Insieme
ce la faremo, vedrai»
Si allontanò sorridendo dopo qualche
secondo, prendendo la mia valigia e andando verso la porta. Io lo seguivo con
la mia sedia a rotelle, pensierosa, la testa bassa.
«Ma non conosco nemmeno gli sposi.»
borbottai imbarazzata mentre lo osservavo controllare l'interno della sua borsa
da medico.
Sicuramente aveva fatto scorta di
medicinali per me. Più qualche extra per le emergenze. Nonostante la sedia mi
mantenesse costantemente in una posizione sicura ero ancora in grado di farmi
male. E spesso. Un vero talento.
«Non importa. Kate è una persona deliziosa,
e anche Garrett. Saranno felici di averti con loro»
Kate Denali. La
cugina dei Cullen aveva finalmente trovato il suo
compagno e a quanto pare voleva che i suoi parenti presenziassero alla loro
unione ufficiale, il che comprendeva Carlisle.
“Non posso mancare Bella, è mia nipote”
“Ma certo Carlisle, è giusto”
Mi fece un sorriso in grado di
illuminare l'intero universo e mi accarezzò una guancia,
“Grazie Isabella. Partiamo tra tre
giorni”
Il latte caldo mi andò di traverso
facendomi quasi strozzare. Gli occhi presero a inumidirsi per lo sforzo di
respirare, mentre Carlisle mi dava leggeri colpetti di incoraggiamento sulla
schiena.
“Partiamo?” sputai fuori con un nota
stridula dal tono isterico.
Si accigliò guardandomi dritto negli
occhi.
“Non vuoi venire?”
“Certo che no. Lo sai. Sai cosa
significa...non posso. Ma tu devi. Esme sente la tua
mancanza”
Lui scosse la testa e anche quella
volta il suo sguardo si perse tra gli alberi fuori dalla balconata.
“Chiamo Alice e le dico che non andiamo”
La mia testa scattò verso l'alto.
“Cosa? Perchè?
Carlisle tu DEVI andare! Devi andare a casa. Devi restare con lei. Il tuo posto
è lì”
Lui scosse di nuovo la testa.
“No. Non senza di te”
“Starò bene. Potrei chiedere a Jacob di
stare qui o andare io da lui. Potrei provarci”
Non avrei mai voluto in realtà, ma
se fosse servito a convincere Carlisle a riunirsi alla sua famiglia, allora lo
avrei fatto.
La faccia che fece a sentire quelle
parole mi ricordò tanto quella di Charlie che per un attimo fui indecisa se
scoppiare a piangere o mettermi a ridere.
“Decisamente no.”
Come me si era accorto anche lui che
il mio “amico” si stava facendo decisamente più audace e insistente. Per quanto
cercasse di mantenere sempre quell'aria seria e neutrale, senza invadere troppo
la mia privacy, era ormai chiaro che il comportamento del giovane Black aveva
iniziato a infastidire anche lui. Il fatto che fosse un licantropo poi,
peggiorava la situazione.
Così mi ritrovai incastrata. Sul
filo del rasoio tra il non potere dire di no sapendo che così avrei precluso a Carlisle
di stare con la donna che amava dopo tanto tempo e tra l'incapacità di dire di si, per il terrore che quella risposta comportava.
Sospirai.
«Alice è una stratega straordinaria»
borbottai irritata. Mi aveva letteralmente messa in trappola.
Carlisle mi accarezzò dolcemente i capelli
cercando di consolarmi.
«Alice non vede l'ora di vederti. E anche Esme ne sarà felice, non crederà ai suoi occhi...»
Non riuscii a trattenere un sorriso amaro.
«In tutti i sensi...»
Feci eloquentemente. L'ultima cosa che i Cullen si aspettavano, era vedermi arrivare insieme a
Carlisle, per di più su una sedia a rotelle.
«Si, sarà un duro colpo, ma saranno tutti
felici di riabbracciarti»
«Non proprio tutti...»
Si incupì. Edward era un argomento
delicato, per entrambi.
«Lo so.»
«Lo vedi? È meglio che resto qui. Non
voglio che litighiate per colpa mia. Non ne vale la pena.»
Si abbassò sulle ginocchia, per potermi
guardare dritto negli occhi.
«Non ho detto che sarà facile...ma questa
storia deve finire, non possiamo continuare a nasconderci da Edward, lui ha
preso la sua decisione...io la mia. Sei mia figlia Bella, proprio come lui, e
io non abbandono i miei figli, mai. Edward deve accettarlo.»
Non la
vedevo da settecentodiciassette giorni. No la respiravo da
settecentodiciassette giorni. Non la toccavo da settecentodiciassette giorni.
Non vivevo da settecentodiciassette giorni.
Settecentodiciassette
giorni, 13 ore, 22 minuti e 49 secondi.
Era dunque questa la morte? Era questo l’inferno a cui ero condannato?
Era qui che quella morte, quella dolce morte a cui avevo fatto beffa tanti anni
orsono mi aveva destinato? Mi sembrava impossibile da credere. La morte non
sarebbe dovuta essere così raccapricciante, cosi temibile. La morte era dolce,
con la sua fredda mano ti cullava dolcemente come una madre che nel suo
abbraccio protegge la sua creatura. La morte ti accompagna nell’oblio
stringendo la tua anima nella sua stretta fatale fino a regalarti quell’ultimo
anelato respiro che ti conduce vittorioso alla pace eterna.
Ma non c’era pace per le sue creature. Quelle creature che come me si
erano opposte al suo incedere, trasformandosi nelle sue mani tetre.
Sostituendosi ad essa. Sottomettendola alla sua volontà, decidendo per lei il
fato delle anime mortali che popolavano questo vasto mondo.
Per loro. Per me. Solo oblio. Solo l’inferno.
Ma questo inferno…questo inferno era troppo, perfino per la spietata morte.
Perché perfino nell’inferno più profondo, nel dolore più spietato, perfino
nella culla di lucifero, perfino lì alla fine un viaggiatore trova pace, lì
nella sua rassegnazione, nella sua sottomissione.
Nemmeno questo avevo.
Agognavo la morte, così come un condannato a morte agogna la sua
libertà.
Settecentodiciassette
giorni, 13 ore, 26 minuti e 42 secondi.
La morte sarebbe stata la mia libertà un giorno.
Ma non ancora.
Bella...
Ogni secondo
che passava condannavo con tutte le mie forze la mia abominevole mente da
parassita. Il suo ricordo dentro di me era impresso come inchiostro sulla
palle. Vivido, potente, immutato. Marchiato a fuoco nella mia anima dannata. Il
mostro che imprigionava le mie membra morte, mi permetteva di riportare ai miei
occhi ogni più piccolo particolare della sua figura. Ero suo schiavo. Teneva la
mia mente imprigionata nel ricordo di lei.Lei, quella piccola indifesa e innocente umana dal sangue tentatore. Il
mio tormento, il mio castigo, la mia corruzione, il mio amore, la mia vita.
Lei.
La forma del
suo volto, le striature della sua pelle, l'asimmetria delle sue labbra, la
forma dei suoi occhi. Ogni particolare del suo giovane e candido viso era
marchiato a fuoco nella mia memoria. Indelebile.
Sospirai.
Ricordavo
tutto, ogni cosa, ogni minuto, ogni secondo, ogni attimo vissuto con lei, ogni
parola sussurrata, ogni bacio rubato, ogni sguardo innamorato.
Tutto.
Avevo
stranamente dimenticato altre cose. Ad esempio non ricordavo più l'ultima volta
che mi ero nutrito. Il mio cervello mi suggeriva nove settimane, tre giorni,
diciotto ore e dodici minuti. Ma non mi fidavo più di lui, ormai.
Mi stava
diventando ostile, mi ingannava.
Che stessi
impazzendo? Lo ero già? Lo ero sempre stato?
Solo trentotto
ore, due minuti e trentatré secondi prima, mi aveva fatto credere che lei fosse
qui. Con me.
O che dolce
inganno, che memorabile agonia.
Disteso su
questo sudicio pavimento, dalle assi di ciliegio scure e logore, circondato da
pareti spoglie ricoperte di muffa, con ragni, scarafaggi e piccolo creature
viventi dai piccoli cuori pulsanti come unica compagnia, avevo alzato gli
occhi, perso in un ricordo di lei...guardavo un punto del soffitto, senza
vederlo realmente. La mia mente era lontana, altrove. Fuggente. Ma qualcosa,
qualcosa in quel soffitto mi era sembrato vivo. Qualcosa mi stava riportando
indietro o forse mi stava scivolando via. Non ero sicuro, la realtà non mi era
più così chiara. Come nel riflesso di un specchio d'acqua, si era formata un
immagine. Sorrideva timida, come faceva ogni volta che mi scopriva a
contemplare la sua figura perfetta. Aveva abbassato il capo, il sangue fluì
veloce nelle sue guance, traditore delle sue emozioni, mentre si sistemava una
ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Ero scattato
in piedi balzando verso l'alto, cercando di afferrala, raggiungerla, prenderla,
catturarla, ghermirla o almeno sfiorarla. Avevo bucato il soffitto, devastando
il già consunto rivestimento e poi ero ricaduto all'indietro, sul pavimento.
Una polvere di calce e cemento a ricoprire il corpo morto.
Solo.
Non c'era
più, lei non c'era più. C'era solo quel vecchio soffitto pieno di crepe,
deturpato dalla mia mano mostruosa.
Eppure...sembrava
così reale. Avevo gioito, gioito immensamente. Mi aveva sorriso. Il mio amore.
Ma poi era scomparsa, di nuovo.
Dolore.
C'era di nuovo dolore.
La mia
natura dannata non mi permetteva nemmeno di piangere, di lenire, almeno in
parte, la mia sofferenza.
No, la mia
mente mi aveva ingannato. Anche lei troppo segnata dal dolore, per non cercare
in qualche modo di fuggire, di nascondersi, di darsi sollievo da quell’angoscia
che le stavo facendo patire.
Ero ostile a
me stesso. Perfino il mostro voleva fuggire.
Traditore.
Vigliacco. Meschino.
«Edward?»
Settecentodiciassette
giorni, 13 ore, 33 minuti e 32 secondi.
«Edward?»
33
secondi...
«Edward mi
senti?»
34
sec...Alice?
Voltai la
testa lentamente, più lento di quanto avrebbe fatto un qualsiasi umano. Il
movimento non mi piaceva, mi pesava. Mi rendeva vigile, presente, cosciente. Ma
avevo sentito una voce e avvertivo una presenza dietro di me.
La polvere
che ricopriva il mio volto cadde via leggera come pioggia, mentre mi voltavo confuso.
La figura di mia sorella mi scrutava preoccupata, in piedi al mio fianco, ferma
a tre metri e ventinove centimetri da me.Mi concessi un momento. Che strana visione.
«Edward?»
Parlava. La
mia visione parlava. Mia sorella. Che cosa vuoi dirmi mente? Perché ora vuoi
che pensi a lei? Rimasi lì in attesa di vederla scomparire, così come il mio
angelo aveva fatto prima di lei.
E lei fece
lo stesso. Attese.
«Edward»
La sua voce
più vicina, più alta di un tono. Poi una brezza leggera invase il mio spazio,
facendosi largo tra i vetri rotti del balcone alla mia destra. Mi porto un
profumo. Era vero. Era li.
Mi ridestai
sbattendo gli occhi un paio di volte. Un pensiero mi sfavillò nella testa. Non
era mio.
Dispiacere. Mi diede un
po' fastidio, era molto tempo che non ascoltavo pensieri che non fossero miei.
Storsi il naso.
«Scusa»
sussurrò intuendo il mio disagio.
La guardai
ancora. Si, doveva essere vera. Non era uno scherzo della mia immaginazione.
«Perché sei
qui?»
Mi sorpresi
al suono della mia voce, non la sentivo da...tanto. Cavernosa e piatta. Assolutamente
monocorde e senza interesse, arrochita dalla sete di sangue, eppure anche al
mio orecchio, ancora suadente, in linea con la mia natura di predatore. Anche
quello mi diede fastidio. Provai ribrezzo. Volevo solo tornare a stare solo,
nel mio stato di semi-coscienza.
39
secondi...
«Ho bisogno
di parlare con te»
Inspirai
stancamente. Parlare. Fare conversazione. Chissà se la mia mente capiva ancora
quelle inutili convenzioni. Ascoltare. Capire. Rispondere. Sembrava più
difficile di quello che mi ricordavo. Mi concentrai.
«Ti ascolto»
«Kate si
sposa...»
Si fermò,
aspettando una mia reazione, che non arrivò. Cercavo di capire il senso delle
sue parole, la mia mente non mi accompagnava.
Fece un
passo verso di me in attesa.
Due metri,
novantadue centimetri e un respiro. Fu tutto ciò che la mia mente elaborò.
Sospirò,
affranta dalla mia mancanza di interesse. Continuai a fissarla, sperando che si
sbrigasse.
«Il suo
futuro sposo, si chiama Garrett, è amico di nostro
padre sai? Noi…vorremo che ci fossi anche tu. Sarebbe importante per Kate. Sai
che ti vuole bene. Sarebbe importante per tutti…vederti. »
Settecentodiciassette
giorni, 13 ore, 35 minuti e 41 secondi.
42 secondi.
43 secondi.
44 secondi.
45 secondi.
«No.»
Muovermi,
camminare, parlare. No.
Sospirò di
nuovo.
«Edward, ti
prego!»
47 secondi.
«Lasciami
solo Alice, per favore» Ti supplico.
Lentamente
la mia mente tornava ad operare. No, ti prego. Non voglio. Dammi l’oblio.
Tormento, incoscienza, confusione, tornate. Tornate da me.
Sentii un
enorme dispiacere nella sua testa. L'avevo ferita. Mi dispiaceva, mi dispiaceva
tanto. Io non volevo far male a nessuno ma, non volevo fare altro che
aspettare, aspettare che il tempo passasse...
«C'è una
cosa che devo dirti Edward...»
Il volto di
Bella prese forma prima nella sua testa, poi come uno specchio nella mia.
«NO!»
urlai. «NON FARMI QUESTO!» Mi ritrovai in piedi, pronto, acquattato come
un leone pronto allo scontro.
Vedere cosa
stesse facendo, come stesse, con il rischio di vederla felice tra le braccia di
un altro uomo, un uomo che poteva toccarla, amarla, baciarla. Temevo di me
stesso, di quello che il mostro avrebbe potuto fare a quella vista…a lui, a lei
a me. No. Troppo rischioso. Ringhiai.
Indietreggiò,
bloccando ogni pensiero, ogni nuova immagine, se non quella di un mostro, dagli
occhi neri, la pelle pallida, malata, le occhiaie scure, i vestiti laceri, i
denti affilati ed esposti in un ghigno animalesco. Minaccioso e terribile la
guardava furioso. Rimasi inorridito. Ero io.
Lasciai la
posizione di attacco assunta senza volerlo e mi misi dritto.
«Mi
dispiace, scusa, non volevo alzare la voce...»
Furono le
uniche scuse ridicole che da bastardo, vigliacco e ignobile quale ero, fossi
riuscito a dire.
Annuì solo.
La sua mente era ancora vuota.
«Non importa...»
mormorò, ma rimase a guardarmi con aria di supplica.
“Ti
prego, vieni a casa con me...”
Scossi la
testa.
«Non posso»
«Ti chiedo
solo un paio di giorni Edward, per me, per Esme...ti
prego, soffre molto...»
Mia madre
singhiozzate, col volto asciutto, il viso stravolto dalla preoccupazione e dal
dolore mi guardava attraverso gli occhi di mia sorella.
Dolce madre
mia. Esme. La sua immagine, il suo dispiacere
richiamava la mia anima antica, che prepotente e cavalleresca mi chiedeva di
correre in suo soccorso, di lenire almeno il suo dolore.
Chiusi gli
occhi. Non potevo, non potevo...Bella
«Edward...lei
non vorrebbe vederti così...lo sai»
No questo
no, non volevo sentirlo. Non potevo pensare al presente, a cosa lei mi
chiederebbe, perché per lei morirei mille volte, vivrei infinite vite,
solcherei oceani e stelle, piangerei lacrime per veder sorridere lei, per
compiacere lei. Solo lei.
«Ti prego
non parlare così, non voglio sentirlo.»
Strinse i
pugni, furente. Era piccola, triste e arrabbiata.
La mia sorellina.
Piccolo raggio di sole nella mia esistenza morta.
«Non me ne
vado senza di te! Solo qualche giorno Edward, poi ti lascerò andare e non ci
vedrai più, se è quello che vuoi...me lo devi!»
Alzai un
sopracciglio.
«Te lo
devo?»
«Si! Non
dimenticare che per amor tuo ho rinunciato a una sorella!!»
Ahi. Gemetti
internamente, colpito da un nuovo dolore, quasi fisico. Giocare con i miei
sensi di colpa era un colpo basso. Non era da lei giocare sporco. Doveva
proprio tenere molto a questa cosa.
Sorrisi. Mi
sorpresi di saperlo ancora fare. Nonostante una visione le avesse già
anticipato la mia risposta, rimase tesa, in attesa.
Sospirai. Coraggio
Edward, falla felice...
Mossi la
testa una volta, prima verso il basso poi di nuovo verso l’alto.
Rise felice del
mio apatico assenso, come se in realtà lo avessi gridato a pieni polmoni,
buttandomi le braccia al collo e stringendomi forte. La lasciai fare, con le
braccia abbandonate lungo il corpo, incapace di ricambiare la sua gioia e
godendo di quell'affetto che tanto mi mancava, ma che non era esattamente
quello che cercavo. Mi ricordai di un'altra cosa che avevo percepito nella sua
testa...
«Alice?»
chiesi, sforzandomi di dare un tono, uno qualsiasi, alla mia voce. Solo per
farla sorridere ancora. Solo per darle speranza. In realtà anche solo parlare
mi costava un immenso sforzo, ma ero un vampiro, fingere era la cosa che sapevo
fare meglio.
«Si Edward?»
chiese di nuovo tesa e guardinga. Era spaventata. Aveva paura di me. No, non di
me… per me.
Il rumore del battito del mio cuore si confondeva a quello delle mie dita,
che da ore ormai tamburellavano sulla mia gamba in un ritmo incessante e
nevrotico. L'intero abitacolo era riempito da quel suono. La Mercedes
sfrecciava a tutta velocità sull’autostrada quasi deserta. Era il secondo
giorno di viaggio. Il giorno precedente avevamo percorso metà della strada che
ci divideva da Denali in metà del tempo necessario:
ventiquattro ore di viaggio ridotte a meno di dodici. Normale velocità di
crociera per un vampiro.
Quando il buio era tornato a ricoprire il paesaggio, che si faceva via via
sempre più bianco, Carlisle aveva abbandonato l’autostrada, fermando la
macchina all’entrata di un Hotel.Aveva
insistito perché dormissi in un letto vero e perché facessi i miei esercizi per
favorire la circolazione come da programma. In tutti questi mesi non mi aveva
mai permesso di saltarli. Mai. Secondo il centro di riabilitazione di Seattle,
la mia condizione non era necessariamente permeante. Immaginai che, se anche
fosse stato possibile un miglioramento, ci sarebbero voluti anni, considerando
che ero rimasta mesi in ospedale – guarire da fratture multiple in quasi ogni
osso del corpo era un processo lungo e doloroso.
Avevo iniziato la riabilitazione da meno di un anno, ma, sempre secondo gli
onnipresenti camici bianchi, pur non potendomi dare certezze, con molto
esercizio e tanta, tanta tenacia e buona volontà, avrei avuto buone possibilità
di recuperare gran parte delle mie capacità motorie. Evitai di spiegare loro
che le mie capacità motorie non erano molto sviluppate già prima
dell’incidente, non credo avrebbero capito. Ma nonostante le infinite ore di
fisioterapia a cui sottoponevo le mie gambe, i miei arti inferiori non davano
cenno di voler collaborare o, forse, come sosteneva il mio padre/medico/vampiro,
era la mia mente che non trovava la giusta motivazione. Non lo sapevo. Ma avrei
comunque continuato a provare, più per non deludere Carlisle che per vero
personale desiderio di riuscita.
Carlisle avevo scelto un lussuoso Hotel, a sei ore dal confine tra il
Canada e l’Alaska. Inutili le mie proteste o il tentativo di spigargli che non
era necessario spendere centinaia di dollari per permettermi di dormire una
notte sola, inutile cercargli di fargli capire che un motel sarebbe stato lo
stesso, considerando che ero così stanca che avrei potuto dormire anche in auto
senza il minimo problema. Avevo tenuto a
fatica gli occhi aperti mentre mi obbligavo a ingurgitare ciò che lui aveva
ordinato per me con il servizio in camera, dopodiché ero letteralmente crollata
in un sonno tormentato. Quella mattina mi ero svegliata tra le braccia di
Carlisle che mi scrutava serio. L’aria più preoccupata del solito. Non c’era
bisogno che dicesse nulla, sapevo esattamente cosa era successo, anche se non
ne avevo memoria, se non sprazzi di immagine buie e confuse. Succedeva di
continuo, ancor prima dell’incidente, ma dopo la morte di Charlie, ero anche
peggiorata: crisi respiratorie notturne, attacchi di panico, convulsioni, urla.
Ad ogni risveglio le braccia di Carlisle a circondarmi, nel vano tentativo di
darmi conforto. Lui li chiamava: terrori notturni.
Come sempre dopo i miei risvegli in quelle mattine, mi accarezzava i
capelli, mi dava un bacio sulla fronte e mi depositava nuovamente sul letto
scomparendo nel nulla un istante dopo. Nessun commento, nessuna parola, nulla.
Solo il mio senso di colpa a farmi compagnia, che cresceva a dismisura proporzionalmente
con la sua preoccupazione.
Oggi era un nuovo giorno. L’ultimo giorno di viaggio verso la nostra famiglia.
Tutum, tutum,
tutum...
Sobbalzai quando la mano fredda di Carlisle sfiorò la mia, nel tentativo di
calmarmi.
«Scusami, ti sto facendo impazzire» mormorai lasciando che la vergogna per
la mia ostentata incapacità umana di controllare il nervosismo si palesasse
sulle mie guance.
Sorrise, con quel suo modo che sembrava illuminare la stanza, facendomi
sentire subito al sicuro e meno sola.
«No, ma sono preoccupato per te, sei troppo agitata»
Sospirai affranta. Come dicevo, sempre più preoccupato.
«Lo so» Eccome se lo sapevo. Sentivo il cuore premere prepotente contro la
cassa toracica pronto a esplodere da un momento all’altro, il piede - in realtà
completamente immobile - nella mia mente si muoveva incessantemente contro lo
zerbino dell’auto sotto i miei piedi, in un ritmo veloce, eco di quello della
mia mano sudata ma dai polpastrelli gelati, che ancora insisteva nel suo
incrollabile tamburellare.
Tutum, tutum,
tutum...
«Potrei darti un calmante se vuoi...»
Storpiai il naso al solo pensiero. Altri medicinali. Ne avevo presi
talmente tanti negli ultimi mesi, che avrei potuto richiedere una laurea a honorem
causa in farmacologia. No, decisamente non ne volevo altri.
«No, grazie Carlisle. Sto bene» mentii.
Non sembrava affatto convinto ovviamente, ma annuì lo stesso. Sapevo non
avrebbe insistito. Il suo rispetto per le mie decisioni – per quelle di
chiunque in realtà - era disarmante, anche se il suo istinto naturale di
risolvere i problemi lo spingeva a convincermi ad ubbidirgli, rimaneva sempre
composto e silenzioso. Tenendo per se la sua frustrazione. Mai una volta mi
aveva fatto pressioni per accettare un idea che non condividevo rispettando con
educazione e pazienza le mi decisioni.
«Certo, come vuoi» Appunto.
Sospirai tornando a guardare la strada che scorreva veloce. Eravamo in
macchina da ore ormai - era pomeriggio inoltrato, solo tre brevi soste di pochi
minuti per le mie necessità umane avevano interrotto il pressare costante del
piede di Carlisle sull’acceleratore - e considerando la sua guida, che non era
diversa da quella del resto della famiglia, non doveva mancare poi molto.
Forse un paio d’ore.
Strinsi le labbra, nervosa, cercando di non mettermi a urlare. Tra poco
avrei dovuto rivedere tutti i Cullen. Non ero pronta,
semplicemente non ero pronta. Ma lo sarei mai stata? Probabilmente no.
La mano di Carlisle riprese posto sul volante, lasciando la mia, che si unì
di nuovo al mio cuore, riprendendo subito il suo tamburellare.
Tutum, tutum,
tutum...
«Ci saranno tutti vero?» Il labbro mi doleva per quanto forte lo stavo punzecchiando,
non osavo nemmeno immaginare in che condizioni dovesse essere a quest’ora. Non
era proprio quello che volevo chiedergli comunque.
Carlisle non si scompose: «Si, tutti»
Strinsi di più i denti. Pregai di non sanguinare eccessivamente, non
sarebbe stata proprio una buona idea.
«Ehm...anche, anche Edwa...» il suo nome mi si
strozzo in gola, insieme all’ondata di dolore che portava con se. Carlisle
mosse quasi impercettibilmente gli occhi verso di me. Un occhiata veloce,
discreta, paterna «...anche lui? Ne sei sicuro?» continuai, appena mi sembrò di
aver riacquistato una briciola di controllo sulle mie corde vocali. Mi aveva
già detto che sicuramente lo avrei rivisto, aveva cercato di prepararmi. Eppure
speravo ancora di sottrarmi a quel confronto. Non avrei sopportato di vedere il
disgusto nei suoi occhi. O peggio…l’indifferenza. Rabbrividii.
“...tu non sei la persona giusta per me...”
“...il mio mondo non è fatto per te...”
«Hai freddo?» chiese evitando di rispondere. Scossi la testa ribattendo
alla sua domanda e allo stesso tempo cercando di scacciare i ricordi. Tornai a
guardarlo. Tornai a guardare mio padre. Il volto angelico di un uomo appena sbocciato,
strappato la vita prima ancora di riuscire a trovare il tempo di vivere la sua
maturità, intrappolato per sempre in una pelle morta ma dalla bellezza
incantatrice. Un uomo in grado di distruggerne un altro con una semplice carezza,
ma che a dispetto della sua natura potente e mostruosa regalava amore, dolcezza,
comprensione e speranza a chiunque ne avesse bisogno: a una madre che aveva
perso il suo bambino e la voglia di vivere, a un ragazzo orfano, dimenticato,
morente, in un letto di ospedale, a una ragazza nel fiore degli anni spezzata
dalla brutalità animale dell’uomo e a una bambina con il cuore spaccato da un
amore impossibile che piangeva sola invocando un padre che non avrebbe fatto
ritorno.
Carlisle. Mio padre.
Strinse leggermente il volante, anche se la sua espressione rimase
immutata. La compostezza che lo distingueva sembrava staccarsi un pezzo alla
volta dal suo corpo, man mano che l’auto macinava chilometri. Mi chiesi come ci
si dovesse sentire sapendo di essere diretti verso l’amore della propria
esistenza, una amore con il quale fino a diciotto mesi prima si divideva ogni
cosa, ogni gesto, ogni pensiero, ogni bacio, ogni attimo di vita rubato a un
mondo mortale, troppo stretto per un amore che non ha fine. Mi chiedevo che
suono avrebbe avuto il suo cuore se avesse potuto battere ancora, solo una
volta. E che suono avrebbe avuto il mio se si fosse fermato? E perché non si
era fermato? Quale cosa mi era rimasta in questa vita, per la quale valesse la
pena lottare, per quale cosa il mio cuore si ostinava a vivere, giorno per
giorno, palpito dopo palpito?
Per chi batti ancora stupido cuore? Lui non ci vuole più…lui non ci ama più…
“…sono stanco di fingere un identità che non è mia…”
“… è l’ultima volta che mi vedi. Non
tornerò…”
Tutum, tutum,
tutum...
«Sei nervoso?» chiesi per spezzare il silenzio e il filo dei miei pensieri
che stavano per portarmi violentemente verso mete che non volevo esplorare.
Mi fece un sorriso stanco, poi i suoi occhi fuggirono. Mi sembrò strano,
come se ci fosse qualcosa che non voleva dirmi o non poteva. Se c’era una cosa
che sapevo di Carlisle era che odiava mentire alla sua famiglia, odiava mentire
a me. Un pensiero fuggevole mi investì in tutta la sua potenza crudele e
distruttiva. Boccheggiai, aggrappandomi con ferocia al bracciolo dell’auto. La
voce allarmata di Carlisle mi arrivò ovattata alle orecchie un istante dopo.
«Bella?»
Serrai gli occhi sgranati e deglutii rumorosamente, mentre l’eco di un
ricordo lontano si aggirava indisturbato nella mia mente.
“…a quelli come me basta poco per trovare una distrazione…”
Lo stridore dei freni mi risvegliò come da un
brutto sogno. Sbattei le palpebre tornando lucida, mentre le lacrime scendevano
silenziose, rigandomi il viso.
«Bella? Mi senti? Bella? Isabella, guardami.»
Mi voltai ritrovandomi davanti due occhi attenti
che mi scrutavano. Allungò una mano sulla mia fronte, poi sul mio collo, un
tocco veloce fugace, poi mi strinsero il polso, un istante. Infine, si allungarono aprendo veloci il
cassettino davanti alle mie gambe, e l’istante dopo un candido fazzolettino bianco
accarezzò gentile le mie guance, portando via le lacrime.
«Ecco.» disse con un sorriso, infilandosi in
tasca il fazzolettino. L’attimo dopo avevo un bottiglietta tra le mani. La
guardai stupefatta, ancora un po’ intontita. Da dove era uscita?
«Bevi un po’ di succo di frutta bella, ti farà
bene»
In un gesto meccanico svitai il tappo della
bottiglia e me la portai alle labbra. Bevvi avidamente e la finii in un attimo.
Carlisle sorrise. Il paesaggio intorno a noi era fermo, una distesa infinita di
bianco. Ci eravamo fermati.
«Meglio?» mi chiese serafico. A volte avevo la
sensazione che pensasse di parlare con una pazza. Le sue reazione erano troppo
controllate.
Annuii e serrai le labbra. Le parole che
premevano a uscire dalla mia bocca a formare una domanda scomoda, rimasero lì,
ferme sulla punta della lingua. Ero incapace di dirle ad alta voce. Ero
incapace di esprimere il terrore che provavo solo immaginando quell’ipotetico
scenario. Eppure…eppure questo avrebbe spiegato molte cose: la ritrosia di
Carlisle a parlare di lui in mia presenza, la capacità con la quale non
rispondeva alle mie domande sul nostro incontro ormai prossimo, deviando il
discorso in altre direzioni, il suo non riuscire a guardarmi negli occhi quando
di notte mi ritrovavo ad urlare disperata il nome di suo figlio, pregandolo di
tornare da me, pregandolo di non lasciarmi. E di nuovo quella parola vorticò
nella mia testa: Distrazione.
«Che cosa è successo
Bella?» Mi sentivo leggermente ferita dal suo comportamento. Mi stava
praticamente portando alla forca. Non potevo pensare a quello che avrei trovato
al mio arrivo. Possibile che Carlisle sapesse e avesse comunque insistito tanto
per potami con lui? Il dolore mi colpì come una stilettata al cuore. L’immagine
di Edward felice, con al braccio una ragazza immortale, bellissima, intelligente,
forte, perfetta come lui, perfetta per lui, mi invase la mente
appannandomi la vista come sale negli occhi. Edward e un'altra donna. Edward e
una compagna. Edward e una vampira. Edward e la sua distrazione. Ignorai
la sua domanda, ingoiai la mia codardia e puntai i miei occhi scuri e piccoli,
nei suoi grandi e luminosi.
«Che cosa mi
aspetta Carlisle?»
Silenzio.
«Carlisle. Per
favore.» Dovevo sentirlo. Avevo bisogno di sentirlo, per sapere. Io dovevo
sapere.
Ancora
silenzio.
«Si tratta di
Edward giusto?» Ancora silenzio. «Ha trovato una compagna vero? È questo che
non hai mai voluto dirmi? È questa la tortura a cui Alice vuole sottopormi con
questa messinscena? Perché? Non capisco? Spiegami. Cosa speri di ottenere così?
È una trovata medica?»
Sempre
silenzio. Mi guardava dispiaciuto, sofferente e impotente, occhi d’ambra
liquidi per lacrime che non potevano essere versate, mi guardava come un padre
che osserva sua figlia soffrire per un male troppo grosso, un male che nemmeno
lui, con tutto l’amore che aveva da offrire, poteva guarire, mi guardava come
il mio papà, mi guardava come Charlie. Lo sguardo sperduto, preoccupato, dopo l’abbandono
di Edward, lo sguardo rassegnato di colui che sa che non può nulla per
allievare un dolore troppo grande per essere capito, per essere guarito, troppo
grande persino per essere vissuto.
«Carlisle…ti
prego»
Chiuse gli
occhi per un istante, dolorante. Come se stesse cercando di decidere quale
decisione prendere e la scelta lo stesse dilaniando.
«Non dovrei
parlartene.» mormorò roco, senza riuscire a guardarmi negli occhi. «Non spetta
a me. Non spetta a me farti conoscere la verità. La sua verità.»
La sua verità?
Non capivo di cosa stava parlando, quale verità? Lo guardavo ad occhi
spalancati in attesa di uno sguardo, un sussurro, qualcosa, qualsiasi cosa
potesse dare una conferma ai miei pensieri. Il mio cuore non osava sperare in
una smentita.
«Carlisle, ti
prego» lo implorai, udendo appena le mie parole, quasi nascoste dal frastuono
del mio cuore. Le macchine sfrecciavano veloci accanto a noi, fermi, immobili,
rinchiusi in quell’abitacolo trasformato in un confessionale, incuranti del
mondo che andava avanti intorno a noi. Persi ognuno nel proprio dolore.
«Ho paura della
sua reazione, della tua. Ho detto ad Alice di non intromettersi, di non forzare
la mano del destino. Ma conosci tua sorella, quando si mette in testa qualcosa,
non è possibile fermarla.» Parlava in fretta, concitato, senza curarsi di
capire se lo stessi seguendo, sembra preso da una strana frenesia «Ma gli
mancate tanto sai? Tutti e due. Tu e Edward, siete così importanti per lei.
Come per me. È anche a me manca Edward. È mio figlio, ed è solo, da qualche
parte…ha sbagliato, lo so, ma è mio figlio…e Esme,
soffre così tanto…e Emmett…e Jasper, anche Rosalie…a modo
suo.»
Carlisle
continuava, perso in un fiume di parole. Sembrava le avesse tenute dentro per
un tempo infinito ed ora, ora che la diga era stata spezzata, non poteva fare
altro che lasciarle uscire, impetuose, indomabili, come un fiume in piena
spazzavano via ogni silenzio, ogni segreto, ogni paura. Ma la mia mente
vorticava insieme alla sua, cercando di dare un senso a quell’oceano di parole,
cercando di collocarle al loro posto, senza impazzire dietro al loro
significato. Ma qualcosa più di tutto aveva attirato la mia attenzione: “è
solo, da qualche parte”.
Solo. Edward
era solo. Come me. Solo. Da qualche parte.
Da qualche
parte.
Continuavo a
ripetere quelle parole, cercando di dar loro un senso, ma la mia mente non
sembrava in grado di produrre nulla che avesse realmente un senso.
«Da qualche
parte?» mi sentii chiedere, prima ancora di pensare di farlo. Carlisle si
arrestò, immobile come una statua bellissima, come una pietra durissima, come
una montagna maestosa, come un vampiro.
«Come?» chiese
di rimando dopo un secondo. Puntai lo sguardo dritto nel suo. Un lampo di pentimento
sul suo volto, subito seguito da uno di rassegnazione. Non avrei lasciato
correre. Lo sapeva lui. Lo sapevo io.
«Bella, ti
prego, è giusto che te ne parli lui. Lo vedrai tra poco. Te lo assicuro. Alice
me lo ha confermato.»
«Hai detto che
era da solo! Da qualche parte! Che significa?!» ero leggermente isterica, me ne
rendevo perfettamente conto, ma la mia ansia era incolmabile. Cosa era successo
al mio Edward? Cosa lo aveva spinto a starsene da solo…lontano, lontano
abbastanza perché suo padre o la sua famiglia ignorassero la sua ubicazione? Conoscevo
Edward, lui amava suo padre, amava la sua famiglia, cosa poteva essergli
successo per rinunciare a loro.
«Bella calmati.
Non agitarti.» mi liberai dalle sue mani che erano corse sulle mi spalle, in un
vano tentativo di fermare i miei tremori.
«NO. NO.
Dimmelo! Dimmelo! Voglio saperlo! Che significa!? Dimmelo!» Respiravo
affannosamente, le lacrime scendevano senza che potessi far nulla per fermarli,
il cuore mi batteva così forte che mi faceva male. Portai una mano al petto per
riflesso, nel vano quanto stupido tentativo di alleviare il dolore. Carlisle
inspirò bruscamente, sembrava terribilmente spaventato dalla mia reazione e
terribilmente indeciso su cosa fosse giusto fare. Improvvisamente si passò le
mani tra i capelli, esattamente come avrebbe fatto un umano sull’orlo di una
crisi di nervi. In quel gesto mi ricordò così tanto Edward che fu quasi
doloroso guardarlo. Si mosse di nuovo, veloce, afferrandomi ancora per le braccia
impedendomi di agitarmi. Il movimento improvviso mi tolse il fiato per un
attimo.
«Va bene Bella.
Va bene. Ha vinto. Ti dirò quello che sta succedendo, ma prima tu ti calmi. È un
patto che facciamo. D’accordo.»
Strinsi gli
occhi e presi fiato, cercando di imprigionare l’aria nei miei polmoni
abbastanza a lungo per permettermi di parlare.
«Da-da-d’accordo.»
Edward
Settecentoventi giorni, 21 ore, 31 minuti
e 44 secondi.
Emicrania. Era
quello che mi sussurrava la ragione in questo momento. Il dolore pulsante, la
mente confusa, gli occhi neri nonostante la caccia, le membra stanche, la
spossatezza. Emicrania.
Ero in Alaska
da... da un po’. Il viaggio non era che una macchia confusa nella mia memoria.
Corsa, corsa, caccia, corsa. Il tutto mischiato con parole, parole
irricordabili, parole che non arrivavano mai ad essere assorbite dalla mia
mente.
Alice.
Alice era con
me. Un bacio sulla guancia. Un carezza sulla nuca. Ancora corsa.
Occhi tristi.
Occhi di mia sorella. La pioggia. Il sole. La notte. Il giorno. Le nuvole. La neve.
Casa. Mamma. Neve. Neve. Neve.
Aurora. Rosso.
Bianco. Raggi rossi su neve bianca. Bianca come la pelle di una giovane donna
dai capelli castani e gli occhi di cioccolato. Rosso come il liquido che scorre
sotto le vene di una pelle diafana, sottile, fragile. Rosso come il sangue che
le imporpora le guance dopo una parola sussurrata, dopo un bacio rubato.
“Il crepuscolo” sussurra
la mente di mia madre. Aurora. Bella. Risponde, muta, la mia.
La mia mente.
Perforata da
migliaia di pensieri, domande, preoccupazioni, preoccupazioni per me, da ore. Voci
riempivano i vuoti lasciati tali da troppo tempo. Le loro voci. La mia
famiglia.
Io. Chiuso in
un religioso mutismo. Non volevo, non potevo, parlare con nessuno. Non ne avevo
forza, né volontà.
La mia mente
aveva registrato variazione innegabili nelle persone che mi circondavano. Cambiamenti
avvenuti dopo quel giorno nel bosco. La mia famiglia era cambiata. Quando ero
arrivato qui, in Alaska, nella nostra vecchia casa, avevo subito notato una
mancanza importante, mio padre, Carlisle, non c'era. La mia coscienza, il mio
pilastro, la metà buona del mio mostro.
Mi erano
bastati pochi pensieri rubati, per capire che non era solo assente, ma mancava
da tempo. Lo leggevo nei pensieri pieni di interrogativi dei mie fratelli, in
quelli preoccupati e nostalgici di Esme. Tuttavia la
mente di mia sorella, l'unica che avrebbe potuto darmi delle risposte, era
stranamente...sfuggevole. Cercava di evitare di pensare a qualcosa, ma ero
troppo apatico, e troppo disinteressato per impegnarmi a scoprire di cosa si
trattasse.
Quella mancanza
mi aveva scosso, sottraendomi per pochi secondi alla mia agonia, poi tutto era
crollato di nuovo. Come prima. Peggio di prima.
Mi mancava la
mia sofferenza, la mia solitudine, il mio purgatorio. Un purgatorio dove potevo
vivere ogni istante nel ricordo dei suoi sorrisi, delle sue risate, del tocco
delle sue labbra sulle mie.
Bella...
Settecentoventi giorni, 21 ore, 33 minuti
e 18 secondi.
E poi
finalmente silenzio. Piano piano avevano smesso di fare domande, rassegnati al
fatto che comunque non avrebbero ricevuto risposta. Li ringraziai mentalmente.
Lasciando libera la mia immaginazione di richiamare ancora il suo ricordo a
farmi compagnia.
Volevo toccarla
ancora, anche solo una volta, per poter sentire il suo profumo, così dolce e
così tentatore. La mia droga. La mia estasi.
Bella...
In piedi, in
veranda, con lo sguardo perso nel paesaggio freddo e bianco dell'Alaska - lo
stesso che avevo fissato a lungo per ore, quando ero scappato da lei, quel
giorno, subito dopo la lezione di biologia più lunga della mia vita, lo stesso
paesaggio che mi aveva mostrato la via da percorrere, lo stesso che mia aveva
spinto di nuovo da lei – li immobile, osservavo il tempo passare.
Settecentoventi giorni, 21 ore, 39 minuti
e 13 secondi.
In lontananza
un rumore di pneumatici che sfrecciava sull'asfalto coperto di neve. Non ci
badai, era un rumore come tanti, o almeno non ci badai finché non sentii i
pensieri della mia famiglia martellarmi il cranio.
Erano in
fermento. Sospirai seccato.
“Finalmente,
mi è mancato così tanto” Esme.
Quindi era
Carlisle. Rimasi immobile, vedendo i membri della mia famiglia accalcarsi, uno
dopo l'altro, sul ciglio della strada, in attesa, impazienti di un padre che
faceva ritorno.
Un pensiero
però, un pensiero volutamente rivolto a me, richiamò il mio interesse.
“Edward...sta
calmo” Alice.
Ansimai. Di che
parlava adesso? Da quando ero arrivato ero rimasto qui, su questa veranda a
fissare il vuoto. Non avevo mai parlato, non avevo mai mosso un solo muscolo,
non avevo rivolto nulla a nessuno. Solo un sorriso, ad Esme,
per farla felice. Era stata dura già solo fare quello, ogni relazione con il
mondo esterno, con la realtà, la realtà in cui lei non c'era, mi infieriva un
immenso dolore. Morte, ti aspetto. Mi senti?
Vidi nella
mente di Alice formarsi l'immagine di me, che confuso le porgevo la mia
domanda.
“Capirai...solo
cerca di...non fare...niente di stupido”
Ancora pensieri
trattenuti.
Annuii appena.
Nessuno si
accorse di nulla. Come sempre quando io e lei comunicavamo.
Non avevo la
minima idea di quello che stava dicendo, ma annuii comunque sperando che mi
lasciasse in pace.
Ovviamente
avevo sperato troppo.
“Avresti
almeno potuto cambiarti, da quanto tempo indossi quei vestiti?”
Non risposi.
Alzò gli occhi
al cielo. “Va bé non importa, non lo noterà
nemmeno”
Alzai un
sopracciglio. Come se a mio padre potesse importare cosa indossassi. Perchè era così insistente? Perché non mi lasciava solo?
“Eccoli!”
Eccoli.
Plurale. C'era qualcun altro? Non feci in tempo a finire il pensiero che un
suono, un suono che avrei riconosciuto in mezzo a una folla di mille altri
suoni, mi colpì in pieno petto. Era vita, era amore, era morte, era tormento.
Era paradiso. Era inferno.
Tutum, tutum,
tutum...
Il suo cuore. Il mio cuore. Bella.
Le forze mi
vennero meno, tante erano le emozioni che mi attraversarono in quel momento,
troppe per un vampiro. Le mie mani si artigliarono alla grossa trave di legno
che reggeva il tetto della veranda, in un disperato tentativo di sostegno, per
impedirmi di crollare a terra, in ginocchio. Scricchiolò sotto la mia presa.
Animata da una
forza più grande della mia volontà, la mia testa si voltò lentamente, a seguire
quel dolce suono ipnotico, in grado di riportare in vita il freddo cuore di un
vampiro e di scaraventarlo all’inferno.
Poche parole:
Ci ho pensato e ripensato, mi avete scritto in tanti, voglio tornare. Spero che ci sia ancora qualcuno che leggerà.
Anche uno solo ne varrà lo sforzo.
A prestissimo,
Baci,
Chiara
È incredibile
quanto può essere assordante il silenzio. È un amico fidato nella maggior parte
dei casi, ma sa essere anche subdolo e ingannatore. Perfino tentatore. Ti
sussurra nell’orecchio con le sue note mute, instilla idee, pensieri, parole.
Il paesaggio
scorreva veloce davanti ai miei occhi, ma non lo vedevo. Il vampiro era
silenzioso al mio fianco, fintamente concentrato sulla strada che gli si apriva
davanti. Chissà se i suoi pensieri erano simili ai miei. Chissà se il suo
silenzio era altrettanto rumoroso. Avrei voluto tapparmi le orecchie per
fermare il flusso dei pensieri.
“È fuggito lontano, subito dopo averti lasciato. Non
poteva soffocare il dolore di averti persa. Non siamo riusciti a fargli
cambiare idea”
Non riuscivo a
smettere di pensare alle parole di Carlisle. Dargli un senso era impossibile.
Inconcepibile. Almeno per me. Era quello che avevo risposto anche al mio padre
immortale, mentre chiuso nell’abitacolo accogliente ma freddo dell’auto che ci
portava a destinazione. dava voce a quei segreti“Davvero
Bella? Davvero non hai mai dubitato delle parole di Edward? Mai?”
Le parole di
Edward. Mi dispiace di averla fatta
durare tanto a lungo. Non voglio che tu venga con me. Sarà come se non fossi
mai esistito. Le ricordavo tutte. Glaciali, crudeli, affilate. Mi
squarciavano e spezzavano con la forza di mille lame. “Ha detto che sarebbe stato come se non fosse mai esistito”avevo
ribattuto io. Mi era sfuggita una risata amara. “A quello non ho mai creduto”
Carlisle si era
limitato ad annuire.”Il problema era la
mia anima, vero?Lui ha negato ma…” Aveva rivolto lo sguardo all’immensità degli
spazi aperti che quello stato regalava al mondo, non vedevo altro che verde e
il bianco in lontananza che giàin
quella stagione avanza senza pietà pronto a conquistare ogni angolo. Mi
chiedevo cosa invece riuscisse a vedere lui. “Il problema era l’amore travolgente che provava per te e l’odio e la
repulsione che sentiva per se stesso.”
Ero rimasta in
silenzio da allora, persa nei ricordi, nel rimorso, nella rabbia per non essere
abbastanza. Per essere diventata ancora meno.Nella paura di ciò che mi aspettava. Nel desiderio quasi insopportabile
di rivederlo. Ancora una volta. Mi occorsero diversi secondi prima di rendermi
conto di non sentire più il lieve ronzio del motore. Prima che mi accorgersi
che il mondo intorno a me era fermo, che non scorreva più.
«Bella.»
Inspirai forte.
Lavoce pacata di Carlisle mi aveva
colpito come una palla di cannone. Voltai lentamente la testa e mi persi nello
spettacolo davanti a me. Un enorme casa, non molto diversa da quella di Forks,
svettava imponente e maestosa davanti a me, incurante della neve che tentava
senza successo di ricoprire ogni cosa. Cinque figure attendevano immobili
davanti all’ingresso. Una di loro si staccò dalle altre.
Fu un lampo che
non riuscii a registrare. L’istante prima Carlisle era al mio fianco, quello
dopo la portiera era spalancata su un sedile vuoto, la figura del mio secondo
padre a pochi metri dall’auto, la sua schiena china in avanti ad abbracciarne
un'altra più piccola e minuta. Le bianche ed eleganti mani di Esme lo
stringevano in vita mentre il leggero tremore delle sue spalle scuoteva
entrambi, unico sfogo concesso a delle lacrime che non potevano più essere
versate.
Il singulto mi
scosse dal profondo, mi portai un mano alla bocca cercando di non lasciarlo
uscire, mentre le lacrime mi gonfiano gli occhi impazienti di fuggire al mio
controllo. Distolsi lo sguardo per rispetto quando le loro labbra si toccarono
con avida impazienza.
Mi riscossi
quando la mia portiera si aprì e il volto di Carlisle tornò a dominare il mio
campo visivo. Esme era alle sue spalle, gli occhi aperti, sbalorditi,
l’espressione incredula mentre mi guardava da dietro le spalle del marito
registrando ogni più piccolo dettaglio del mio corpo. Mi irrigidii per istinto.
«Bella» disse,
con la sua voce cristallina, incantevole come un coro di cherubini. Mi sforzai
di sorridere. «Ciao, Esme.» Il suo viso passò dall’incredulità alla
consapevolezza, dalla comprensione al dispiacere, per finire di nuovo in uno di
ammirazione e assoluta adorazione tornando sul suo compagno di immortalità.
«Bella. Ora ti
faccio scendere.»
Annuii a
Carlisle e attesi che recuperasse la sedia a rotelle. Tenni lo sguardo basso.
Non volevo guardare i volti di nessuno di loro. La pietà nei loro occhi mi
avrebbe ucciso. Lasciai che Carlisle mi sollevasse dal sedile, come se fossi un
bambina, aspettai guardandolo assicurarmi alla sedia a rotelle e posarmi una
coperta sulle gambe. Erano gesti del tutto automatici per noi, una routine a
cui non facevamo più caso ne lui ne io. Ma mai come in quel momento fui
consapevole di ogni gesto, espressione o movimento. Sentivo lo sguardo
penetrante dei vampiri su di me. Sollevailo sguardo. Quattro figure bellissime e assolutamente immobili si
ergevano in tutta la loro magnificenza di fronte a me, gli sguardi fissi
increduli e sbigottiti. Solo una di loro sorrideva, piccola e minuta, elegante
come una dea, gli occhi color caramello sembravano liquidi, piene di un
emozione potente.
«Alice» mormorai
sforzandomi di non piangere. Sobbalzai ritrovandomela davanti in un battito di
ciglia, forse meno. Carlisle alle mie spalle si irrigidì.
«Piano Alice.
Non spaventarla» La vampira sollevò il volto angelico sul nostro padre
adottivo, leggermente spiazzata da quel rimprovero. «Mi dispiace» disse
tornando a guardarmi. «Bella. Mi sei mancata» la sua voce si spezzò in un
singhiozzo strozzato.
Annuii. Non ero
capace di niente di più. Milioni di volte avevo pensato e ripensato a tutte le
cose che avrei voluto dirle se un giorno l’avessi rivista. Fiumi di domande,
distese di parole, milioni di perché. Ma in quel momento non c’era niente in
me. Allungai una mano e sfiorai delicatamente una delle sue.
«Alice» la voce mi si era già spezzata. «Grazie» fu
tutto ciò che riuscii a dire. Non servivano milioni di parole. O spiegazioni.
Non con Alice.
Emmett, Rosalie e Jasper attendevano nella loro
incredibile immobilità a pochi passi da me. I volti innaturalmente perfetti. Alice
raggiunse il marito, mentre Carlisle spingeva lentamente la mia sedia a
rotelle. Non mi staccavano gli occhi di dosso. Ma tutto ciò che riuscivo a
pensare io, era : lui non c’è.
Mi accorsi vagamente che Carlisle si era avvicinato ai
suoi figli, salutandoli. Sentivo mormorii di stupore e credo che qualcuno,
forse Emmett, stesse cercando di attirare la mia attenzione. Ma io non sentivo
niente. Non vedevo niente. Il muro di vampiri si era scostato e tutto ciò che
riuscivo a vedere, era il portico di ingresso della grande casa. Una distesa di
vetro e legno bianco. Una figura immobile mi fissava con occhi del colore della
notte. Il volto distorto in una smorfia di dolore e rabbia. Incredibilmente
pallido e visibilmente provato mi fissava con insistenza. I pugni erano serrati,
i denti scoperti. Non mi accorsi subito di cosa stesse succedendo, qualcosa
tremava e sussultava, scuotendomi in modo convulso. Il viso dell’angelo mutò in
un espressione terrorizzata, gli occhi si riempirono di un nero liquido come
petrolio. Qualcuno gridava il mio nome. Carlisle.
«Respira! Bella! Bella!»
Ero io. Io. I tremori che mi scuotevano venivano dal
mio petto. Non riuscii ad obbedire al mio padre custode, il cuore insisteva per
squarciarmi in due, voleva fuggire da quel dolore, da quel tormento.
«Edward»mi sentii dire, prima che il buio coprisse
ogni cosa.
Pov Edward
Quando credi di aver raggiunto il fondo dell’inferno,
questo si spalanca sotto i tuoi piedi per mostrarti quanto può essere infinito.
Il mio personale infernodagli occhi di cioccolato me lo aveva appena
dimostrato. Avevo sbagliato tutto. Ogni cosa. Ancora una volta. Guardai mio
padre sistemare un'altra coperta sul suo corpo addormentato. Controllò i suo
parametri vitali per l’ennesima volta, i suoi pensieri erano tutti rivolti a
lei.
Dovresti
andare a caccia.
«Non la lascio»
Leggevo la disapprovazione di mio padre, mal camuffata
nella sua mente,per la mia testardaggine.
Edward. Non
voglio che si spaventi. Non deve agitarsi ancora. Non voglio che ti veda in
questo stato.
Inspirai. Mille lami affilate mi trafissero la gola
lacerandomi quasi fino a strozzarmi. Sentii gli occhi bruciare per la fame. Il
mostro dentro di me ruggì.
Dormirà per
almeno tre o quattro ore. Vai.
Non mi guardava nemmeno. Fissava Bella con la grazia e
l’immobilità che solo gli individui della mia specie erano in grado di
raggiungere. Sentivo il suo dolore come se lo vivessi attraverso Jasper. Ma era
così forte da essere tangibile. Una quarta presenza nella stanza. Soffriva per
lei, per il suo dolore. Lessi il senso di colpa che dominava la sua mente. Si
rammaricava di non essere arrivato in tempo. Era un litania continua. Non
riusciva a darsi pace.
«Non è colpa tua. Se c’è un colpevole sono io. Non
avrei dovuto…» Mi mancavano le parole. Prenderla? Lasciarla? Non ne ero sicuro.
Se fossi stato qualcosa di migliore del mostro che sono, non avrei mai dovuto
prenderla, non avrei mai dovuto lasciare che si innamorasse di me. Ma ero un
mostro e quindi mi rammaricavo di più di averla lasciata, di averla persa, di
averla lasciata andare.
Ero un mostro. E avevo scelto di amarla.
«Dimmi che cosa è successo. Ti prego.»
Una serie di flash scoppiarono nella mia mente come un
incendio nel buio della notte. Mio padre in uno studio medico, lo squillo del
telefono, la voce isterica e disperata di mia sorella dall’altra parte. “Non c’ètempo Carlisle, corri.” Il terrore nel cuore
di mio padre, “Ma Edward?” Alice era stata lapidaria. “No, devi farlo tu!” E
poi la corsa folle, il rumore di uno schianto che frusta l’aria con la potenza
di un onda d’urto e l’ode di sangue. L’odore paradisiaco del sangue di Bella,
insieme all’odore inconfondibile della morte. Charlie. Un groviglio di lamiere
accartocciato e rovesciato contro un albero, il corpo di Bella scomposto
riverso sull’asfalto nero in un mare di rosso.
Un urlo squarcia il silenzio della casa. Le immagini
cessano di colpo. E lo capisco solo in quel momento, lo vedo nella mente che
conosco fin dal primo istante della mia nuova non-vita. Il verso disumano di un
animale selvatico accartocciato su se stesso ridondante della sua stesa agonia.
Io.
E scappo. Fuggo. Corro. E sono nella foresta. Mi
seguono. Jasper. Emmett. Alice. Mi seguono, mi supplicano, mi implorano.
“Fratello, ti
prego”
E sono fermo. Immobile. Agonizzante. E loro sono
dietro di me. E poi sono rabbia. Attacco. Il volto spaurito di mia sorella mi
fissa con occhi spaventati. Stringo la presa sulle sue braccia.
«Perché? Dimmi perché?» E poi non c’è più. E Jasper mi
tiene fermo. Immobilizzato contro il troco di un albero. La mia mente è troppo
offuscata per prevedere le sue mosse. Non mi ribello. La guardo.
«Credi che
non ci abbai pensato?Credi che non abbia pensato di chiamarti immediatamente
appena ho avuto la visione? L'ho fatto. Certo che l’ho fatto…»La sua voce angosciata segue quella dei suoi pensieri.«Ho
corso fino a quasi a raggiungerti, poi quando mi mancavano solo poche miglia,
una visione mi ha annunciato che TU non mi avresti creduto. Non saresti corso
da lei, credendo che era solo un mio tentativo di costringerti a rivedere la
tua decisione. Sarebbe morta Edward. Carlisle a Seattle era il più vicino,
l'unico che poteva salvarla. Non avevo scelta.»
Sto scuotendo la testa, non riesco a pensare, non
riesco a sopportare. Voglio sapere. Voglio chiedere. Voglio perire. La visione
di Alice precede ogni cosa e lei sorride.
«Lei non ha voluto. Carlisle ha promesso. E anch’io.
Mi dispiace Edward.» Non voleva che tu
sapessi. Non voleva la tua pietà.
E cedo. Ora lo so. Non potro più tornare indietro. Non
da questo. Mai più.
Fu il tepore a svegliarmi. Non trovavo conforto nel
calore, non più. Il freddo era mio amico, il freddo era mio complice, mi
aiutava nelle mie illusioni. Cercai di riportare alla mente gli ultimi
avvenimenti. Mi sentivo confusa, stordita e annebbiata. Avevo la bocca secca.
Non era un buon segno. La bocca riarsa era un sintomo che avevo dormito troppo.
Io non dormivo così tanto. In realtà non dormivo abbastanza. Quando succedeva era solo perché mi venivano
somministrati dei farmaci. Carlisle doveva avermi
dato un calmante.
Solo quando aprii gli occhi ricordai davvero.
Inspirai sentendo l’onda di dolore risalire come un fiume in piena dal centro
del mio cuore. Mi sfuggì un singhiozzo e le mie mani corso istintivamente sulla
mia bocca nel tentativo di contenerlo.
«Bella, che succede?Ti senti male?»
La mia testa si mosse verso il suono della sua voce.
Era appollaiata su una poltrona accanto al mio letto, il corpo proteso verso di
me, sul volto un espressione allarmata.
«Alice» la mia voce era ruvida, gracchiante. Mi
sentivo come se avessi ingoiato carta vetrata.
«Carlisle ha lasciato
dell’acqua, ha detto che avresti avuto sete al tuo risveglio»
Annuii e lasciai che mi portasse il bicchiere alla
labbra. Bevvi avidamente dalla cannuccia lasciando che l’acqua fresca lenisse
quel sordo dolore pulsante.
«Va meglio?»mi chiese, quando il bicchiere fu vuoto.
Annuii brevemente mentre puntellavo i gomiti sul materasso cercando di mettermi
a sedere.
«Che fai? Carlisle dice
che devi riposare»
Scossi la testa testarda. «Non sopporto parlare
stando sdraiata. Mi fa venire il mal di testa» Mi guardava ma era leggermente
combattuta. Alla fine sistemò i cuscini e mi aiutò a sedermi. Non smetteva di
fissarmi.Il silenzio si protendeva ed
era così innaturale e pesante da essere imbarazzante. Finalmente trovai il
coraggio di sollevare lo sguardo dal copriletto che fissavo con insistenza da
quando avevo riaperto gli occhi. I suoi spalancati e preoccupati, attendevano.
«Non l’ho immaginato vero? Era lì. Lui.»
Solo un lieve movimento del capo, appena accennato.
Nient’altro. Inspirai. Forte.
Alice fece una smorfia. «Carlisle
lo ha mandato a caccia. Ora sta meglio.»Una pausa. I suoi occhi si offuscavano e tornavano lucidi, dopo ogni
frase. Solo pochi istanti. Ma li vedevo.
«State comunicando»
Alice sobbalzò come se avesse preso la scossa. Non
sia aspettava che lo capissi. Era decisamente stupita. «Si.» Un occhiata fugace
oltre il letto. Alla porta.
Ilcuore accelerò
il battito in un istante. Risucchiai il labbro tra denti così forte che sentii
una scossa di dolore. La ignorai.
«È qui? » la mia voce nascondeva una nota di panico.
E di speranza. Speravo che non fosse troppo evidente.
«Si è allontanato solo per nutrirsi.» Chiuse gli
occhi e mi rivolse una smorfia di scuse. «Non voleva lasciarti. Carlisle gli ha ordinato di aspettare fuori. Non voleva che
stessi male di nuovo. Secondo lui hai avuto una crisi respiratoria dovuta allo
spavento.»
Mi sfuggì una risata amara. «Non ero spaventata.
Solo scioccata. Io, non mi aspettavo di vederlo…
così»
Alice annuì. Il suo sguardo si perse di nuovo. Fece
per dire qualcosa ma poi ci ripensò.
«Perché è qui fuori?» lo chiesi a lei, ma i miei
occhi erano fissi sulle modanature del legno della massiccia porta bianca.
«È preoccupato per te» sussurrò lieve. Come se fosse
un segreto. Ma certo. Edward era sempre preoccupato per qualcuno. Questo lo
aveva preso da Carlisle. Quei due erano così simili.
Mi chiedevo se notassero tutte le somiglianze che li accumunavano. Avevano una
animo nobile, una natura altruista. Erano creature speciali. Lo sarebbero state
in qualsiasi mondo, in qualsiasi forma. Umano, vampiro. Erano solo parole. Le
loro azioni, i lori cuori, andavano oltre la loro natura.
«Puoi entrare, se lo desideri. Sto bene adesso.»
Misorpresi
di averlo detto davvero. Era stato un suono pacato, lieve e basso perfino per
me che lo avevo prodotto. Ma sapevo che ogni vampiro in quella casa lo avevo
udito.
E poi era li. La porta ora aperta faceva da cornice
alla sua figura alta e slanciata. Le occhiaie erano meno marcate, gli occhi di
un ambra brillante, i vestiti erano puliti e stirati. Ma il tormento e il
dolore erano impressi a fuoco sul volto. Ripensai alle confessione di Carlisle. “Il
problema era l’amore travolgente che provava per te e l’odio e la repulsione
che sentiva per se stesso.”
«Ciao»fu la mia brillante uscita. I suoi occhi erano dritti su di me.
Mi scrutava, mi osservava, a volte si soffermava su un piccolo lembo di pelle,
una ciocca di capelli, il tremolio di una ciglia. Sembrava perso in una sua
personale contemplazione. Non sapevo nemmeno se mi avesse sentito. Ebbi un
brivido quando un lampo di dolore gli deturpò il viso. Gli occhi fissi sui miei
arti immobili, nascosti dalla copriletto.
«Non è brutto come sembra. Voglio dire, almeno ho smesso di inciampare»
Che diavolo stavo dicendo? Mi guardò con disapprovazione, durò poco, il dolore
riprese subito possesso del suo volto.
«Edward…» Il mio tono era supplichevole, volevo
che dicesse qualcosa, che mi parlasse. Bramavo il suono della sua voce.
«Mi dispiace per Charlie» La suavoce. Il suono della suavoce. Era più bello di quanto la mia stupida memoria umana riuscisse a
ricordare. La mia anima, il mio cuore, tutto di me vibrò e si animò sulle note
della sua voce. La gioia data dal piacere di risentirla era annebbiata
solo dal senso delle sue parole.
«Grazie» sussurrai. I suoi occhi si incatenarono ai miei. Ed ero persa.
Di nuovo.
Alice si schiarì la voce. «Vado a vedere se riesco a trovarti qualcosa
da mangiare. Hai saltato il pranzo»
Lui non diede segno di averla sentita. Guardava me. Io non potevo –
volevo-distogliere lo sguardo. Il
leggero rumore della porta che si chiude fu l’unico avviso che eravamo soli.
«Mi dispiace» dissi. Di farti soffrire, di esserti di impaccio. Di
essere umana.
Il dolore inondò ogni singola sfumatura del suo viso. Chiuse gli occhi.
«Bella» disse, in quel suo modo unico capace di toccare le parti più
profonde del mio essere. Sobbalzai ritrovandomelo inginocchiato davanti al
letto, a capo chino, la fronte appoggiata al materasso.
Restammo così un eternità. Lui chino sul letto, io a contemplare il suo
profilo immobile, le mani che mi prudevano per il bisogno di passarle nei suoi
capelli.
La richiusi in un pugno. Non sopportavo più quel silenzio.
«Di qualcosa»
«Cosa vuoi che dica?»
Risi. «Questa scena l’ho già vissuta. Non va a finire bene»
Alzò il capo con lentezza, come se quel movimento gli costasse un
enorme sforzo.
«Non riesco a immaginare niente che io possa dire per farti capire
quanto mi dispiace, Bella. Conosco decine di lingue, milioni di parole, e
nemmeno una per esprimere come mi sono sentito quando ti ho vista scendere da
quell’auto con…» sospirò e i suoi occhi corsero verso
la sedia a rotelle, la guardava come se volesse distruggerla. «Non so come
chiedere perdono per questo. Perché non posso chiederlo. Non ne ho diritto. Non
lo merito.»
Ero senza parole. Non era quello che mi aspettavo.
«Di che cosa stai parlando? Questo ..» dissiindicando le mie gambe« … non è colpa tua. È stato un incidente. Un
incidente imprevedibile, come quelli che capitano a milioni di persone nel
mondo. È successo e basta. Non dipende da te, da me, da nulla. »
Le sue labbra si tesero, l’espressione si indurì.
«Bella. Pensaci. Se non me ne fossi andato, Alice lo avrebbe previsto e
io sarei stato vicino, sarei potuto intervenire prima che avvenisse.
Prima che tu perdessi tuo padre. Prima che tu vivessi un esperienza
tanto orribile, un dolore tanto grande. Prima che il tuo corpo subisse questa …
questa … agonia.» Le parole gli vennero fuori come un sibilo, fra i denti
serrati. Sentivo le mie palpebre aprirsi
e richiudersi a grande velocità ma sapevo che probabilmente il mio sguardo
doveva essere vuoto. Le sue parole vorticavano nella mia mente, ancora e
ancora. Ma la conclusione alla quale arrivai, non era quella che mi sarei
aspettata. E probabilmente nemmeno lui.
«Mi stai dicendo che ti sei pentito di avermi lasciata.»
Rimase in silenzio per un lungo, lunghissimo, istante. Decisamente
troppo per un umano, figurarsi per un vampiro. Quando riprese a parlare non mi
guardò.
«Non è quello che intendevo»
E io che pensavo che il mio cuore non potesse andare più in frantumi di
così. Quanto ero stupida. Il respiro accelerò senza che potessi fare nulla per
impedirlo. Mi sentivo soffocare. Lui se ne accorse e il suo sguardo allarmato
fu come uno schiaffo in pieno viso. Improvvisamente era ansioso. Iniziò a
parlare veloce, come se non avesse più tempo.
«Non capisci. Volevo davvero che tu avessi una vita lunga e felice,
senza mostri che ti mettessero in pericolo, senza interferenze del mio
mondo.Volevo che potessi avere tutto
ciò che io non posso darti. Volevo che avessi la possibilità di essere come
tutti gli altri. Ma ho tralasciato un particolare importante. Ho commesso un
terribile errore. Tu non sei come tutti gli altri. Non lo sei mai stata. C’è
qualcosa in te che io…» Scosse la testa frustrato
«Avrei dovuto prevedere che le tue sfortune non potevano finire con me. Sarei
dovuto restare nell’ombra, proteggerti da lontano, impedire al male, che tu
attiri come una calamita, di avvicinarsi a te. Ho sbagliato. Ho fallito. E sei
stata tu a pagarne le conseguenze. Non può esistere perdono per questo. Per me.
Non può…»
Il cellulare sul mio comodino scelse proprio quel momento per
annunciare l’arrivo di un messaggio. Il suono fu così improvviso che non potei non
sussultare. Lo fissai per qualche secondo. Sapevo esattamente chi era. A
quest’ora doveva essere andato fuori di testa. E poi un nuovo bip. Forse avrei dovuto parlargli, ma non volevo che ci
lasciassimo con una litigata. Così me ne ero andata e basta.
Passarono altri secondi. Immobili. Il telefono mi fissava, aspettando
che mi decidessi. Io fissavo il telefono. Edward fissava me.