Cieca Fiducia

di Noal_Writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Violence ***
Capitolo 2: *** Hospital ***
Capitolo 3: *** Home ***
Capitolo 4: *** Son of my blindness. ***



Capitolo 1
*** Violence ***


CIECA FIDUCIA
Ero stesa su quello scomodo letto dell’ospedale, in una stanza che aveva l’odore di spirito e medicine. Sentivo anche un leggero profumo di vaniglia, inconfondibile; era della donna che mi stava accanto e che mi sussurrava nell’orecchio che sarebbe andato tutto bene perché lei ora era qui con me. Quel suo sguardo preoccupato era tipico di tutte le mamme che vedono la propria figlia in quello stato, ma quel sorriso a trentadue denti era quello che ogni persona mostra ad un’altra se la ama, un sorriso vero. Quello stesso sorriso lo avevo avuto anch’io stampato in faccia, ma non lo avevo mostrato proprio alla persona giusta.
Si chiamava Christian, lo avevo conosciuto a scuola; io facevo il primo liceo, lui il quarto. Lo avevo visto per la prima volta seduto in un angolo a piangere nell’atrio, con gli occhi sbarrati tra le sue mani. Ero appena arrivata a scuola e siccome non c’era ancora nessun mio compagno di classe, avevo deciso di avvicinarmi a lui. Lo chiamai appoggiando la mia mano sulla sua spalla, ma lui mi respinse:
“ Chi sei? E che vuoi?”
“Niente, sono Marta. Volevo solo sapere cosa ti è successo!”
“ Non sono affari tuoi!”
Questa sua ultima risposta mi fece perdere la voglia di rimanere lì e me ne andai. Lui mi bloccò.
“Rimani qua, scusa è che… beh, forse non ti interessa! … comunque piacere Christian!”
Suonò la campanella e lui mi disse che se avessi avuto voglia, avremmo potuto incontrarci allo stesso posto durante la ricreazione. In quell’istante lo ignorai, ma tornai lì. Incominciammo a parlare e da lì iniziò tutto. Mi disse che quel giorno era un anno che era diventato orfano; viveva in una casa- famiglia ed era costretto ad andare a scuola per prendere almeno il diploma. Nessuno là dentro poteva sostituire l’importanza dei suoi genitori, quindi non aveva l’umore giusto per restare in quell’ambiente che neanche gli piaceva. Sfogò così tutto il suo dolore in delle lacrime che rendevano più lucidi i suoi occhi azzurri. Da quel giorno ci iniziammo a conoscere meglio e ci frequentammo. Lo so, era stata una fiducia a primo impatto da parte di entrambi, quasi cieca. Fin quando non arrivò quel giorno in cui gli mostrai quel sorriso che prometteva l’infinito, gli avevo giurato amore, ma era l’amore di una quattordicenne, quello che si spera duri per sempre, ma non si ha mai la serietà giusta per far sì che sia tale. Poi le nostre labbra si erano sfiorate ed ero diventata sua. Il nostro rapporto era sempre stato tranquillo ma intenso, però dopo due anni era entrata in discussione quella cosiddetta parola ‘Quotidianità’. La nostra relazione era diventata scontata, non mi sentivo più amata e avevo bisogno di ritrovare gli anni non vissuti da adolescente. Lo lasciai. Ho capito che lo sbaglio non è stato molto quello di lasciarlo, ma quello di avere fiducia cieca verso di lui. Io lo amavo, gli avevo anche affidato il mio corpo, anche quello era solo suo. Il problema a volte, però, non è amare, ma essere amati. Io gli avevo dato me stessa. Lui si sentiva amato così. Ma io?... Lui mi aveva fatto ridere, mi aveva trattata bene, da amica. Forse inizialmente l’amore c’era stato, ma era finito là. Questa era la spiegazione che gli avevo dato, e se ne era andato via, senza reagire. Poi era ritornato con foga. Mi aveva raggiunta nel garage di casa mia perché sapeva che a quell’ora tornavo da scuola. Stavo posando il mio motorino, in casa non c’era nessuno, il quartiere era vuoto. Aveva detto che voleva riprendersi qualcosa che gli apparteneva, qualcosa che gli avevo potuto dare solo io. Mi prese dalla camicia e mi sbattette contro il muro.
“Scemo ma che fai?”
“ Stai zitta.”
Mi tirò uno schiaffo sulla bocca per farmi tacere e mi cinse le labbra fra le sue mordendomele. Il suo respiro comprimeva il mio. Cercai poi di urlare, ma una mano finì dritta avvinghiata al mio collo e con l’altra mi strappò la camicia di dosso.
“Cretina, dimmi che mi ami”.
“No!”
Cercai di scappare. Gli diedi un calcio e lui cessò la presa. Mi rincorse, mi strinse il petto, poi le sue mani mi accarezzarono lievemente il profilo e si fiondarono sulla mia vita. Mi afferrò i leggins. Ora le mie unghie lo graffiarono, ma lui non accusò dolore, anzi mi spinse contro il pavimento. Adesso ero completamente nuda, nuda anche di pudore. Mi contorse la testa dall’altro lato. Una parte del cranio sbattette contro il suolo ruvido. Si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò con voce feroce: Sei mia!”
Quella ferocia fece diventare quel sussurro un urlo e le sue parole continuavano a rimbombarmi in testa. Racchiudevano un significato di possesso, ed avevo capito che ‘possesso’ era il sinonimo che Christian dava alla parola amore. Adesso il suo corpo predominava sul mio: era forte e violento. Io strillavo, continuavo a chiedere aiuto, ma lui mi zittiva con un bacio, me li rubava tutti. Era un ladro di anime e sentimenti. Poi una macchina si posò nel garage di fronte al mio. Christian scappò di corsa.
“ Mi fai schifo bastardo!”
La signora Luisa mi vide accasciata sul pavimento e mi raggiunse. Io cercavo di allontanarmi da lei il più possibile. Strusciavo come un verme con le ginocchi incollate a terra che si laceravano perdendo sangue. Cercavo delle mura o un angolo che fungesse da protezione almeno per il mio viso pieno di vergogna, tristezza e rabbia allo stesso tempo. Mi sentii toccare una spalla:
“Piccola, che è successo?”
Volevo darle tante di quelle risposte, ma tremavo e mi limitai ad abbracciarla scoppiando a piangerle addosso. Lei mi prese in braccio senza badare al mio corpo sudato fradicio. Mi rassicurò dicendomi che saremmo andate all’ospedale. E mi ritrovai su quel materasso. La signora Luisa non c’era più. Probabilmente aveva chiamato mia mamma che mi stava ancora accanto. Probabilmente io mi ero addormentata durante il tragitto o mi avevano fatto addormentare con qualche puntura. Non ricordo, non mi interessa neanche…
 
 
Ok, questa storia come ho già detto prima, l’ho trovata in un quaderno del primo superiore, a maggior ragione, volevo sapere se il contenuto vi interessa e ne vale la pena continuare a leggere… Recensite :)

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Capitolo 2
*** Hospital ***


Ero ferma a fissare il soffitto. Non volevo pensare a niente. Volevo solo riposare. A volte dalle mie labbra fuoriuscivano dei lamenti spontanei che riflettevano il dolore provocato dalle lesioni che infrangevano la mia carne e le infliggevano di sanguinare. Facevano di quella carne una carneficina. Mia madre, prima di andarsene dall’ospedale, mi aveva lasciato qualche libro da leggere e mi aveva portato il mio iPod, ma non avevo la forza né fisica né morale di sfogliare delle pagine che poi sarebbero ingiallite col tempo, o ascoltare qualche canzoni di cui le frasi sarebbero state dimenticate. Io adesso mi sentivo proprio come un libro mal ridotto; i miei lividi ne erano la prova: chiazze nere e violacee mi invadevano il corpo. Le mie ferite aperte e ancora crude erano il segno che Christian mi aveva prima aperta, poi sfogliata e assaporata. Ora voleva dimenticarmi. Anch’io volevo dimenticarmi di lui, ma non dei momenti belli che avevamo passato insieme. Anche se, per cancellarlo dalla mia mente, avrei dovuto eliminare anche il tempo trascorso con lui. Ma se così fosse, perché continuavo a pensarlo nonostante avessi detto di non voler pensare a nulla? Cominciai a sfiorare allora tutti i ricordi che mi riportavano a lui: dal primo incontro al primo bacio, a quel sorriso maledetto, ai suoi occhi, ai suoi capelli lisci e morbidi , al suo profumo alle erbe che gli avevo regalato , e poi mi soffermai ancora su quella parola ‘quotidianità’. Infondo tutto è un sogno, tutto sembra bello finché è nuovo, poi quando si invecchia, si vuol cambiare perché è ‘passato di moda’, come un vestito.
L’amore è passione. È fare tutto con il sorriso stampato in viso. Certo, ci sono anche quei momenti dove sembra che il mondo ti stia crollando addosso, ma cerchi di risolvere il problema. Un po’ come un panno sgualcito che si prova a stirare, e appena pronto, assume la forma originaria, ma alcune pieghe ci sono ancora. Se l’amore è sinonimo di vestito allora il mio era diventato uno straccio, e quello non si può né cucire né stirare. Si butta.
Il fatto è che era basato sulla fiducia. Avevo sempre visto Christian come un bel ragazzo dal punto di vista estetico, e mi ero autoconvinta che avesse anche un bel carattere. La mia fiducia cieca verso di lui era stata un sintomo di non accettazione della realtà. Volevo continuare a credere in qualcosa di diverso da quello che la vita mi imponeva di vedere. In un certo senso la fiducia è un filtro. Io stavo con Christian e mi fidavo di lui tanto che tendevo a considerare il suo comportamento in modo differente , ‘deformato’ rispetto a quella che magari era la realtà. Quante volte vi sarà capitato di fidarvi di qualcuno a tal punto di non riuscire a capire la vera persona che si nascondeva dietro quella maschera, che voi avevate costruito su misura per lui? E quante volte quando questo qualcuno ha rivelato la sua vera faccia , vi siete ritrovati a ripercorrere in modo completamente diverso alcuni comportamenti a cui non avevate dato peso o che avevate vissuto interiormente in modo totalmente differente? A me era successo una sola volta, mi stava capitando ora. Quando prima pensavo che l’amore di Christian fosse passionale, adesso mi sembrava violento, il suo sguardo dolce ora mi appariva distruttivo, il corpo che gli avevo donato e che pensavo che lui avesse custodito facendone tesoro, adesso era solo qualcosa di scartato, accartocciato e lasciato in disparte. Qualcosa da usare per sfizio, giusto per divertirsi e non per il bisogno di stringere tra le tue braccia una persona. Pelle a pelle.
A un certo punto sentii la vibrazione del mio cellulare. Tornai in me. Presi l’aggeggio che era appoggiato su un piccolo comodino vicino al letto, e lessi il messaggio che mi era arrivato:
“Scema come stai? Ho saputo tutto. Christian è proprio uno stronzo. Non vedo l’ora di rivederti. Sono giorni che manchi a scuola e senza te vicino mi sento sola, anche perché non so più da chi copiare i compiti. Ahah… guarisci presto, ti voglio bene. Giulia.
A quelle parole seguì un mio sorrisetto dato dal piacere che qualcuno mi stesse pensando, o meglio che la mia migliore amica si ricordasse di me. Non volli rispondere perché provavo vergogna, avevo paura del suo giudizio. Posai il cellulare. Appoggiai la testa sul cuscino e socchiusi gli occhi. Sentii scendere sulla mia guancia una lacrima; deviò sul mio naso e si posò sulla mia bocca. Tirai la lingua fuori e la leccai. Era amara, forse perché anche la situazione che stavo vivendo aveva lo stesso sapore. Le mie pupille coperte dalle palpebre, adesso percepivano luce rossa, il bianco e il nero. Durante il sonno mi sentivo leggera come una piuma. Poi mi sentii sfiorare il volto da qualcosa che aveva la stessa leggerezza di una piuma. Sentii un sospiro attraversarmi l’orecchio sinistro. Aria mi sfiorava la pelle. Una voce quieta mi chiamava. Fui presa da un brivido improvviso che partiva dalle orecchie e scendeva fino ai talloni. Aprii gli occhi in un colpo lento e vidi una ragazza dai capelli che le percorrevano le spalle. Bordeaux. Non erano naturali, ma la sua bellezza lo era. Occhi dalla forma e dal color nocciola, erano tratteggiati da un eyeliner verde acqua. Le sue labbra erano carnose e rosee. Aveva un fisico invidiabile perfino da me che ero la sua migliore amica. Appena mi svegliai, lei si allontanò da me perché la guardassi bene. Mi sorrise. Mi osservava con uno sguardo colmo di pietà. Me ne accorgevo perché non mi aveva mai rivolto simili occhiate. Quelle le dedicava ai barboni che incontrava sul ciglio della strada e loro, accorgendosi della sua presenza, rispondevano sempre con uno “Sciao Bela”. Anche loro si accorgevano di quanto Giulia fosse bella, loro che la bellezza, oltre a non possederla, non l’avevano neanche mai accarezzata con un senso. Io non volevo essere paragonata ad una barbona. Mi sentivo forte e fiera di me per aver combattuto contro uno che giocava con i miei sentimenti, solo perché non era sicuro, non conosceva i suoi. Mi accorsi che Giulia si era inginocchiata a terra. Mi aveva preso la mano e la stava accompagnando al suo cuore.
“ Giù ma che fai? Alzati da terra, è sporco!”
“Se fosse sporco non sarebbe sano per i pazienti, e ammettiamo che lo sia, cosa vuoi che me ne importi se penso al motivo per cui ti trovi qui?”
“Muoviti, alzati che tra un po’ pulisci il pavimento. Anzi, guarda, ti assumo come responsabile delle pulizie se vuoi!”
“Basta che rimango con te. Mi sei mancata. Ora come ti senti?”
“Meglio! A momenti mi faranno uscire. Devo solo finire gli accertamenti per assicurarmi che non ho nessuna ferita grave.”
“Menomale… Marta?”
“ Che c’è?”
“Sei stupenda!”
“Sì, come no!”
Avevo un occhio livido, due cuscini spiumati al posto delle labbra: gonfie ma svuotate di carne, graffi e rossori dappertutto. Bruciava fuoco nel corpo, fuoco nell’anima , ed ero considerata stupenda?
“Dico davvero, nessuno è come te… sei speciale!”
Le sue parole mi fecero ardere più di quanto non lo facessi già. Dal colore della mia pelle ora sembravo un peperoncino.
“Giulia, ti voglio bene!”
“ Anch’io.”
Con il nocciolato dei suoi occhi, traforò i miei. Guardò oltre il loro aspetto esteriore. Capì il mio stato d’animo. Disse che non dovevo avere vergogna per il mio accaduto, per il mio apparire, ma anzi, dovevo trarne vantaggio per non farmi prevaricare mai più da nessun altro. Mi sentivo sollevata per il solo fatto che qualcuno mi accettasse nonostante avesse capito i miei sbagli commessi. La porta si spalancò. L’infermiera con la sua voce stridula, pregò Giulia di lasciare la stanza perché io avrei dovuto cenare. Lei obbedì promettendomi che il giorno seguente avrebbe marinato la scuola per venirmi a prendere.
“Non devi, mi hai già sorpresa oggi!”
Dietro quella mia espressione si rifugiava uno spiraglio che sarebbe ritornata, e la sua voce che mi assecondava, celava il segreto che lo avrebbe fatto. Al rumore della porta che si chiudeva, afferrai tra le mani le posate che avevo appena tirato fuori dalla bustina di plastica che le conteneva, tagliai a fettine la carne e ne assaggiai un boccone. Rimasi schifata. Sapeva di muffa. Poi inforchettai una patata lessa e me la portai immediatamente fra le fauci, confortata dalla speranza che avesse potuto avere un sapore migliore di quello precedente. Invece mi ricredetti. Non appena le mie papille ebbero tastato la poltiglia bollita, avvertii un senso di disgusto che mi portò a rigurgitare il pasto. Non avevo più fame. Chissà perché il cibo degli ospedali faccia sempre vomitare…

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Capitolo 3
*** Home ***


Sulla mia pelle erano rimasti i segni delle fasce che mi attorcigliavano le ferite che ora si erano rimarginate. Della garze mi coprivano quelle ancora aperte. Quel che era restato era anche il dolore dei lividi che ormai, però, iniziavano ad assumere il colore della mia carnagione. Mi muovevo a stento confortata dall’appoggio di stampelle che sostituivano le mie gambe dilaniate e con miseria mi aggrappai a Giulia che mi sostenne a lasciare quelle sbarre che celavano sofferenza, e quel brutto odore di spirito e medicine. Finalmente respiravo vero ossigeno.
A casa tutti mi accolsero felici, ma io ancora pativo di memorie. Mia madre, mio padre, Giulia e Charly, il mio cane, perfino lui si mescolava ai loro sorrisi mostrandomi la lingua che colava saliva e quella coda che scodinzolava. Ma tutta quest’aria mi opprimeva. Mi ridussi a fingere qualche sorriso, ma la mia finta verità, nascosta dietro ognuno di essi, si svelò in un urlo che appariva doloso ma era dolente. Un urlo talmente acuto che mi infiammò la gola. Nato da una forte emissione di voce, svanito nella nullità, confuso dall’aria che tirava e da quella che io tiravo dai miei polmoni e che si traeva, penetrava in essi.
“ Voglio restare sola, lasciatemi in pace!”
Cacciai Giulia fuori di casa e mi chiusi in camera. Buttai le stampelle a terra. I miei sorrisi si erano trasformati in lacrime. Ero gelosa di tutta quella felicità ed io, consapevole del mio dolore, volevo inviarlo a chiunque perché capisse la mia situazione, e non essendoci riuscita, rimasi delusa. Non seppi togliere positività a chi ne aveva troppa, a chi con la vista captava solo quella .
Gli occhi mi pizzicavano per il troppo pianto, ma in qualche modo avrei dovuto sfogarmi. Me li grattavo e me li strofinavo a pugni chiusi. Adesso volevo vedere il mio volto, il mio corpo, riconoscerlo. Blandivo la mia sagoma che non era lineare, ma traforata da quelle schifose ferite che mi sfiguravano. Mi facevo ribrezzo, terrore, ma allo stesso tempo quell’immagine riflessa, mi dava certezza. Ero strana, forse sì lo ero, o lo sembravo. Ancora non lo avevo capito, ma più mi guardavo e più mi facevo paura. Forse lo specchio rifletteva l’altra parte di me, la metà, quella di cui ero sicura. La parte che mostravo agli altri era ancora da scoprire. E poi ho capito che in ogni mio pensiero c’è sempre un ancora. L’àncora è anche quella che si attracca al suolo per restare fermi, un confine fra terra e mare dove quel che puoi fare è solo tenerti in equilibrio su ciò che li separa perché non sei sicura della meta da raggiungere, ma hai solo una scelta. Per il momento, siccome sei in bilico e rischi di cadere, il punto su cui stai barcollando ti ordina di non muoverti… Io non mi muovevo.

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Capitolo 4
*** Son of my blindness. ***


Chi di voi stava aspettando la fine di questa storia? Bene .. eccola qui… Recensite :)

 
Era trascorso un mese dopo la riabilitazione. Un lungo mese di attesa. Aspettavo e aspettavo, ma nulla. Mi controllavo tre volte al giorno le mutande e speravo in qualche macchia rossa che non arrivò mai. Alla fine decisi. Chiamai Giulia.
“ Devi accompagnarmi in farmacia!”
“ A fare cosa?”
“ Ti spiego dopo”.
Ci fiondammo in quell’ambiente. Battei due colpi sul bancone e gridai schietta ad una signora in camice bianco:
“ Ho bisogno di un test di gravidanza!”
Giulia mi guardò sbigottita. La commessa si rivolse a me con un tono imponente:
“Non siete troppo giovani per queste cose?”
Agii di impulso indicando una figura di passaggio.
“E’ per lei, la mia mamma!” finsi.
Lei si voltò verso l’immagine ignota e le scambiò un sorriso. Se l’era bevuta, e quel test fu mio. Ci nascondemmo nel bagno del bar di fronte e urinai su quell’aggeggio. Socchiusi gli occhi e quando li riaprii, ebbi l’impulso di gettarlo a terra. Mi accasciai anche io tremando.
“ Allora?” mi chiese Giulia mangiandosi le unghie.
Mi immobilizzai : “S.. s.. sono incinta!”
Giulia si avvinghiò a me e insieme scoppiammo in gemiti.
Ebbene sì, credevo di essere libera finalmente e invece non lo sarò mai completamente, perché quest’incubo mi tormenterà all’infinito, per sempre.
Avrà il suo stesso viso, i suoi stessi occhi. Sangue del suo sangue. Del nostro sangue. Sarà il figlio nato dalla mancanza di amore, dalla violenza, e come il coltello con cui mi scavo dentro, mi renderà schiava della mia cieca fiducia.

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