Our Own Demons di LaMicheCoria (/viewuser.php?uid=53190)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** { Prologo ~ File - 0.0 } ***
Capitolo 2: *** { 569 Leaman Place ~ File 0.2 } ***
Capitolo 3: *** { Gli Incidenti Capitano ~ File 0.1 } ***
Capitolo 4: *** { Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 } ***
Capitolo 5: *** { Provvidenza E Non Detti ~ File 0.4 } ***
Capitolo 6: *** { Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 } ***
Capitolo 7: *** { Gazza Ladra ~ File 0.6 } ***
Capitolo 8: *** { Non Parlerò Del Tuo Peccato ~ File 0.7 } ***
Capitolo 9: *** { La Realtà Dei Folli ~ File 0.8 } ***
Capitolo 10: *** { Concentrati ~ File 0.9 } ***
Capitolo 11: *** { Quel Che Mi Spetta ~ File 10 } ***
Capitolo 12: *** { Sono già in caduta libera ~ File 11} ***
Capitolo 13: *** { Ho Cercato Di Urlare – File 12 } ***
Capitolo 14: *** { Affonda I Denti nella Mia Carne – File 13 } ***
Capitolo 1 *** { Prologo ~ File - 0.0 } ***
ood
Disclaimer: I personaggi e
le ambientazioni non mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.
A tutti coloro che mi hanno seguito, mi seguono e mi seguiranno.
A chi ha fiducia, biscotti al cioccolato e un po’ di follia.
Alla MogliaH, alla mia Tony, a Leslie, alla Steve e alla
Tonia,
alla mia Coulson di fiducia
Alla mia Splendore, alle Massoni.
A voi di EFP.
Allo zio Stan.
A me (?)
Oh, basta.
Troppo drammatico.
PARY HARD!!
(Se volete, andate QUI per il trailer )
Heroes?
There is no such thing.
Our Own
Demons
.
.
.
We are each our own devil
And we make this world
Our hell.
O. Wilde
{ Prologo ~ File - 0.0 }
Polo
Nord.
2011.
Ad Harlem, Jacobson aveva imparato ad
aspettare.
Aspettare che a sua madre passasse la
sbronza per camminare in punta di piedi in cucina e rubacchiare qualcosa dalla
dispensa. Aspettare che la schiena si fosse fatta un po’ più robusta per
caricare cassoni d’acqua sulle spalle. Aspettare che le braccia fossero un po’
più muscolose per deviare il setto nasale del maniaco che aveva cercato di
insidiare sua sorella.
Aspettare, dentro la cella in cui i
poliziotti l’avevano cacciato a male parole e pugni nello stomaco, che l’uomo
in giacca e cravatta davanti a lui dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Aveva aspettato un’intera notte che
il Man In Black stracciasse la nebbia del proprio Destino, aveva aspettato che
gli indicasse la porta della centrale e poi a destra, invece di sinistra, e
alla fine, quando l’uomo aveva torto la bocca in un sorriso soddisfatto,
Jacobson aveva capito che tutto quell’attendere aveva finalmente cominciato a
germogliare.
Non sapeva quali frutti avrebbe dato,
se sarebbero stati Pomi D’Oro o semplice gramigna, ma non vedeva il problema:
avrebbe aspettato.
Un’intera vita ad esercitare l’arte
dell’aspettare, pensava, avrebbe
dovuto essergli d’aiuto in quel momento. Messo a riposo sulla lunga panca
bianca della struttura provvisoria, Jacobson sedeva con sopra la testa filari
oblunghi di neon candidi, sotto le suole degli scarponi isolanti una
pavimentazione dalla dubbia origine e dal nome impronunciabile, il vuoto ai
lati e arazzi di plastica accartocciata che sospiravano pesantemente,
agonizzando, al fiato rauco della ventilazione artificiale.
Fino ad una ventina di minuti prima
c’era stato Piotrowski con cui parlare: il polacco era sceso con lui nel
budello di ghiaccio incrostato e aveva tenuto alta la torcia perché la luce
fiammeggiasse sul lastrone congelato ai loro piedi, creando un effetto non
troppo dissimile a quello che ci si sarebbe aspettati da un’epifania divina.
Quindi, quale compagnia migliore per
ingannare il tempo. intanto che anche gli altri entravano ed uscivano dallo
studio improvvisato del dottor Marlowe? Avevano addirittura scommesso un giro
di bevute, una volta tornati a Manhattan. Piotrowski, da buon polacco, diceva
che la roba su cui avevano messo le mani era una bomba sovietica o qualche
altra ferraglia del genere –Nulla di buono, sosteneva, poteva venire da chi
aveva dato i natali a Pierre Bezuchov(1). Jacobson, invece, era
sicuro che qualche collega, uno in particolare, avrebbe dato un rene se non
tutti e due, per essere al loro posto e godersi lo spettacolo in prima fila.
E tra un’ipotesi ed una teoria, una
manata alla spalla, una risata, incredulità, invocazioni a Dio e colorite
bestemmie in slang, dialetto e inglese, era giunto anche il turno di Fabian di
incontrare lo psicologo.
Precauzione, quella, che Jacobson
trovava di per sé altamente inutile: d’accordo, era stata una scoperta
eccezionale, ma da lì dal richiedere un supporto
per l’intera squadra onde evitare crolli nervosi, psicosi collettiva e altre
amenità simili, bhè…Non che Jacobson avesse da ridire o volesse contestare gli
ordini dai Grandi Vertici, però gli sembrava una misura di sicurezza davvero, davvero esagerata.
Inoltre, forse per effetto di Marlowe
o per qualche calmante disciolto di nascosto negli integratori, nessuno dei
compagni uscito dalla conversazione col dottore si era dimostrato così eccitato
dalla situazione.
Al contrario, nei loro occhi era
visibile una punta di rassegnato rincrescimento, un noncurante disappunto,
quasi l’operazione cui erano stati assegnati fosse stata meno di una
scampagnata non richiesta al Polo e non avesse portato altro che arsura sulle
labbra e dita congelate.
Aveva provato a chiedere dove fosse
finito l’iniziale entusiasmo, ma si era sentito rispondere soltanto qualche
farfuglio vagamente annoiato.
Ordinaria
amministrazione bofonchiavano
Sono d’accordo col dottor Marlowe: alla
fine non è stato niente di così eclatante come mi aspettavo.
A peggiorare l’umore di Jacobson,
poi, era anche la sensazione di non dover essere lì, di star perdendo minuti
preziosi in un corridoio impersonale che risucchiava ossigeno e artigliava i
polmoni come uno sgradevole attacco di panico.
Non era l’aspettare cui aveva improntato la vita, non c’era all’orizzonte promessa o deviazione sul
sentiero dell’esistenza. Era mera, fastidiosa, snervante attesa, priva di scopo e senza obiettivi.
Non sarebbe dipeso niente dal tempo sprecato ad aspettare
che Fabian uscisse e gli dicesse di prendere posto su una seggiole o sgabello o
qualsiasi altro aggeggio si fossero portati dietro per far riposare le terga.
Non poteva impiegare quei minuti in
preziosi in niente di meglio che torcersi le dita, contare i cristalli di
ghiacci spenzolanti fuori della curva gibbosa del corridoio, e ripetersi a
memoria, mandare a mente ogni singolo fotogramma di quanto gli era appena
successo.
Nonna Julie doveva essere messa al
corrente di ogni particolare, non avrebbe sentito rimostranze di sorta a
riguardo.
Jacobson appoggiò i palmi delle mani
sulle ginocchia e affondò le dita nel tessuto spesso della tuta. Il casco,
appoggiato accanto alla coscia, ingoiava e trangugiava il asettico della luce e
un po’ balbettava, traslucido, e un po’ ansimava e boccheggiava di grigio e
nero.
L’uomo curvò la schiena in avanti, i
brividi che saltellavano nervosi da una vertebra all’altra. Non esistevano
rumori all’infuori proprio respiro, dell’ossigeno aspirato con rabbia crescente
tra i denti digrignati. Non esistevano colori, se non l’immenso, immane,
pressante candore che premeva e soffocava da sopra, da sotto, dai lati, da ogni
parte e in ogni dove l’occhio potesse guardare.
Per gente abituata a vestire solo ed
esclusivamente di nero, tutto quel bianco faceva venire il voltastomaco e
girare la testa.
Jacobson sospirò, raddrizzò le spalle
e reclinò la nuca all’indietro.
Sperava solo che l’incontro con
Marlowe non durasse troppo.
Nel rifugio che avevano tirato in
piedi insieme al perimetro d’ordinanza, il cellulare aspettava solo di essere
acceso e Jacobson non aspettava altro che digitare veloce il numero di Nonna
Julie e raccontare per filo e per segno quanto era accaduto. In vivavoce,
ovviamente, perché anche la piccola Sofia, dall’alto del suo metro e dieci, non
si perdesse una sola parola.
Bisognava, ovvio, tener conto di un
dettaglio trascurabile detto segreto di
Stato, ma tanto bastava rattoppare qui, tralasciare un po’ là, omettere
questo, modificare quell’latro, e il gioco era presto che fatto.
Non poteva nascondere tutto a Nonna Julie. Una scoperta del
genere, un ritrovamento di tale portata andava al di là di quanto Jacobson si
aspettasse e per cui avesse mai aspettato.
Harlem.
Casa Famiglia di Nonna Julie.
2011.
Nonna Julie non si chiamava davvero
così e di sicuro non era una nonna.
Di nomi ne aveva avuti tanti e tanti
gliene erano stati affibbiati nel corso degli anni, ormai aveva perso il conto:
aveva più identità di un Agente della CIA o di qualche altra organizzazione da
strapazzo il suo piccolo Adrian facesse parte –Accidenti all’età che avanzava,
se ne scordava ogni volta il nome.
Adrian faceva buon visto a cattivo
gioco quando lei chiedeva di ripeterglielo: diceva che, in caso qualcuno avesse
cercato di prenderla in ostaggio per strapparle informazioni vitali,
l’organizzazione per cui lavorava sarebbe stata al sicuro anche senza memorie
fasulle o altre diavolerie tecnologiche da fantascienza. Al che, Nonna Julie
replicava che l’eventualità nemmeno si poneva. Qualunque brutto ceffo avesse
avuto la malsana idea di intrufolarsi nella sua Casa Famiglia si sarebbe
ritrovato col mattarello a spuntare dalla bocca, ma infilato dall’entrata
opposta alla gola.
Non una persona poi così fine e
delicata, Nonna Julia, nonostante l’aspetto minuto, le spalle strette strette,
la schiena curva e i pince-nez tondi
calati sul nasino appuntito e gli occhietti neri, liquidi e amabili.
Ai tempi degli spettacoli nei locali
notturni di Harlem era stata la Stella Di Bronzo, acclamata per il colore saettante
della pelle sotto le luci del palco, per la linea carezzevole del ventre e del
seno, e i capelli che gemevano, ricci e scuri, ad ogni movimento languido del
collo. Di quella danzatrice provetta e sensuale, da sogno bianco di colore, era
rimasta un’adorabile vecchina con le labbra rugose, uno chignon grigio e sempre
abbigliata con simpatici colletti all’uncinetto.
Incuteva ancora timore, però, e
Adrian la prendeva spesso in giro, dicendole che avrebbero dovuto arruolare lei
al suo posto. Caro Adrian. Era stato lui il primo a chiamarla Nonna Julie e le
era tanto piaciuto da non esserlo più scrollato di dosso.
«Via le dita dalla marmellata, Sofia»
ammonì Nonna Julie, col suo vocino alto e squillante, mentre si girava a
guardare la bimba e si rassettava il grembiule da cucina, lasciando vistose
macchie di farina e uovo tra le pieghe e i rattoppi.
Sofia, colta sul fatto, ritrasse la
mano e drizzò la schiena, impettita, le labbrucce pressate l’una sull’altra e i
pugni tesi contro i fianchi sporgenti. Sollevò il mento con un che di comico e
imperioso all’insieme, sbatté le ciglia sottili e raggiunse a passo di marcia
una delle seggiole sgangherate attorno al lungo tavolo rettangolare. Lisciò la
gonnellina blu a fiori, s’arrampicò appendendosi alla schienale come una
scimmietta, e infine si sedette tutta compita, gli occhi da gatta fissi sul
cellulare al centro della tovaglia a scacchi bianchi e rossi.
«Chiamerà presto, Sofia.»
Nonna Julie sorrise con dolcezza e abbandonò
l’impasto della torta per avvicinarsi alla bimba. Le accarezzò i capelli,
pettinandoli con le dita nodose e le unghie sorprendentemente curate e smaltate
di rosa pallido. Aveva detto a Sofia che Adrian era andato in viaggio di
lavoro, senza specificare la destinazione, e sebbene cercasse di mostrarsi
tranquilla per la bambina, non poteva negare a se stessa un’inquietudine nervosa
alla bocca della stomaco.
Un crocchiolio preoccupato di
sussurri e mormorii, che la teneva sveglia la notte e mal s’accordava alle
rosee previsioni di Adrian sull’esito positivo della missione.
Nonna Julie era sorda al bisbiglio
della preveggenza: al contrario della sorella, che era in grado di leggere il
futuro di mille uomini nei granelli adamantini della sabbia, lei al massimo
coglieva uno stralcio quasi inudibile di conversazione, un lampo di colori
sfumati, gocce di presentimenti e poco altro. Mai come in quel momento avrebbe
scambiato i cerchi dell’iride per la visione mistica di Tabitha -Convinzione,
questa, che aumentò e si fece praticamente bollente, le affondò nel costato
nell’istante preciso in cui il telefono prese a squillare.
Sofia si tese tutta e Nonna Julia
afferrò rapida l’apparecchio. Le dita ebbero un tremito tanto improvviso da
rischiare di far cadere il cellulare a terra e romperlo in mille pezzi.
«Adrian?» domandò e tossì un paio di
volte per cancellare il balbettio ansioso della voce «Adrian, piccolo mio, come
stai? L’op…» la bimba scattò in alto con la testa e la vecchina fu svelta a
correggersi «Il lavoro?»
«Oh.» fu la risposta incolore di
Jacobson dall’altra parte della cornetta, il tono smangiato da interferenze e
cali di linea «Ordinaria amministrazione, Nonna Julie. Sono d’accordo con il
dottor Marlowe: alla fine non è stato niente di così eclatante come mi
aspettavo.»
Triskelion.
2011.
«Il Colonnello sulla Linea Uno.»
Fu l’avviso professionale della
segretaria, la voce al caramello addolcita da un sorriso accondiscendente e
impreziosito dall’adorabile riflesso del sole sul collier di perle.
«Grazie, Sonja.»
Chiuse la chiamata precedente e
premette il pulsante per dare il via libera alla nuova comunicazione. Intanto
che il ronzio della cornetta andava scemando, incastrò il telefono tra spalla e
orecchio, appoggiò la mano sinistra alla scrivania e portò le dita della destra
a sistemare e giocherellare coi bottoni del gilet grigio.
«Il giorno in cui la Russia
dichiarerà guerra all’America so che verrai a trovarmi di persona» disse, non
appena al clic! della presa in chiamo
si sostituì la voce impaziente del Colonnello.
Mentre l’altro iniziava e continuava
e sbraitava la sua arringa, lui incurvò la bocca e prese tra indice e pollice la
terminazione della cravatta scura: una macchia giallognola -Forse il residuo
spumoso di un cappuccino ingollato alla buona tra un brief e l’altro-
campeggiava sorniona tra le striature oblique, rovinando completamente l’elegante
raffinatezza del completo.
«No, alla fine si è concluso con un
nulla di fatto» replicò, nel sollevare le sopracciglia.
Roteò gli occhi al soffitto,
palesando l’esasperazione di cui era preda, si girò a guardare il vasto
orizzonte dei tetti newyorkesi oltre le finestre dell’ufficio e appoggiò la
base della schiena tra il portapenne e un fermacarte a forma di cubo. Battè la
lingua contro i denti e sul palato, si grattò la punta del naso e la guancia
destra, pizzicandosi i polpastrelli con la barba ispida; abbozzò un’espressione
poco interessata, gli occhi che già vagavano versi altri lidi e tutt’altri
pensieri.
«Era soltanto un Pallone Sonda.» si
osservò le unghie, annoiato «Ordinaria amministrazione. Niente di così
eclatante come ci aspettavamo.»
Note
(1) Personaggio di “Guerra
E Pace”
|
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Capitolo 2 *** { 569 Leaman Place ~ File 0.2 } ***
ood2
{ 569 Leaman Place ~ File 0.2 }
Triskelion,
Washington D.C.
Ufficio
del Direttore Fury.
2013.
A Nicholas Fury non piaceva non
capire. Non importava se l’oggetto della questione erano le istruzioni per
montare un videoregistratore o la maniera più veloce per penetrare nel covo del
terrorista di turno, in un lasso di tempo inferiore al minuto e mezzo. Non gli
piaceva e basta. Non capire una
questione, poi, che era a dir poco vitale
lo faceva direttamente infuriare.
Non aveva ancora tolto la schermatura
di sicurezza dall’Ufficio, né aveva intenzione di sciogliere il silenzio stampa
in cui si era trincerato: osservava con l’unico occhio buono a disposizione –O
almeno, l’unico occhio buono visibile
al popolino- il display tridimensionale davanti a sé e il disappunto, misto ad
una nota di sincera preoccupazione che il proprio riflesso sui vetri oscurati
avrebbe custodito fino alla morte.
Non poteva accedere ai file, non
poteva decriptarli e qualcuno stava giocando ad essere lui.
Nemmeno Nick Fury osava giocare ad essere Nick Fury, figurarsi
il primo buontempone con manie criminali e suicide uscito da chissà quale
confezione di cereali.
Perché, l’avrebbe capito anche un
Agente di Livello Uno, il mancato accesso ai dati della Lemurian Star ed una palese modifica a quelli che erano da
sempre i propri requisiti d’accettazione agli stessi, significava che qualcosa
di innegabilmente losco e probabilmente anche piuttosto brutto stava mettendo
le mani in pasta dove non avrebbe dovuto.
A meno che, certo, Fury non si fosse
impiantato qualche dispositivo di memoria o ricordi fasulli, oppure modificato
volontariamente ID e password. Una protezione ottima, ma cui dubitava di aver
ricorso.
Il Direttore piegò le spalle in
avanti ed appoggiò i palmi sulla scrivania lucida, senza distogliere lo sguardo
dall’AI in paziente attesa.
Natasha gli aveva portato roba che
scottava, da quell’accidenti di nave, e sentiva già i polpastrelli coprirsi di
vesciche. Contro la schiena, una pressione come acqua in procinto di squarciare
a metà la diga che aveva avuto la brillante e pessima idea di contenerla.
«Computer» esordì, dopo alcuni
istanti di riflessione, la fronte che andava via via accartocciandosi per
l’esasperazione -Ed una dolorosa presa di coscienza «Chi è l’Agente preposto
alla sicurezza di Stark?»
«Agente Colin Hendrick, Livello Sei.»
La foto profilo dell’uomo in
questione -Capelli biondo-castano più folti sulle tempie, barba, basette, occhi
azzurri, un metro e ottanta per cento kili di peso ben distribuiti e compattati
dall’addestramento militare di base- apparve sullo schermo, insieme alla
sequela di informazioni riguardanti biografia precedente al reclutamento,
Supervisore, abilità varie e variegate, nonché elenco di missioni e relativi
rapporti.
Ventotto anni, originario del Queens,
aveva iniziato come addetto alla sicurezza in un market indiano del quartiere,
feedback positivi nel raggiungimento di obiettivi che tutto avevano tranne
essere eclatanti o indispensabili per proteggere la sicurezza pubblica del
Paese.
Insomma, il tipo perfetto da
appioppare come babysitter al figlio di Howard perché non si desse a gaie
sregolatezze o eccedesse in idiozie frattanto che la Virginia Potts non si
rimetteva dall’incidente col tassì.
Adatto a tenere sotto controllo
Stark, ma ancora troppo inesperto per missioni a più alto rischio.
In poche parole, l’uomo perfetto per
far passare inosservata una patata bollente come quella che era appena capitata
sul groppone del Direttore.
Davanti agli occhi di tutti è dove
nessuno va mai a guardare. Se vuoi che nessuna si accorga dei tuoi traffici o
delle tue macchinazioni, non dar loro peso e fingi che non abbiano importanza. La
gente è come un branco di pecore e seguirà la direzione del tuo sguardo senza
farsi domande.
«Accesso al database dell’aeroporto
di Los Angeles.» ordinò quindi, premendo i polpastrelli sopra la radice del
naso «Trova i velivoli di proprietà S.H.I.E.L.D. e circoscrivi la ricerca a
quelli utilizzabili da Hendrick, in rapporto alla sua patente di volo.»
Ecco, forse il volo era l’unico
ambito in cui l’Agente riusciva ad emergere: per il resto, tutto era nella
norma –Secondo i parametri dell’Agenzia, ovviamente. Nulla di eclatante.
Era comunque la sola buona notizia della
giornata, visto che e considerando che Fury voleva il bellimbusto di Livello Sei
il più presto possibile. Avesse avuto una patente meno di spicco, avrebbe
dovuto per forza chiedere di un pilota per evitare le cinque ore comuni. Il
che, non era consigliato. Non tanto le cinque ore, quanto l’idea di rivolgersi
ad una seconda persona e allargare il già pericoloso cerchio di sussurri e voci
di corridoio che voleva evitare ad ogni costo.
Era anche per quello, in fondo, che
aveva deciso di ingoiare la stizza e nutrire l’ego ipertrofico di Stark:
utilizzare i terminali dell’Agenzia avrebbe significato rendere palese la
scoperta di un intrigo su cui mai avrebbe dovuto mettere le mani sopra; cercare
di decriptare il tutto tramite un computer esterno era meno plateale che
sbandierare la cosa in pubblica piazza, nudo e con un boa di piume iridescenti
al collo.
Stark era il solo, dopo lo
S.H.I.E.L.D. a disporre dei mezzi adatti a far passare tutto inosservato, ogni
cosa sotto silenzio. Certo, così il figlio di Howard sarebbe venuto a
conoscenza di chissà quale segreto inconfessabile –Non era la prima volta, il
Direttore ricordava anche fin troppo bene l’intrusione informatica di un anno
prima, durante l’emergenza Loki-, ma se questo voleva dire avere un supporto in
più –Molti supporti in più, magari molti supporti cromati a repulsori in più,
riempiti di ogni sorta di arma possibile ed immaginabile, ancora nemmeno sognata dai tecnici dell’Agenzia-,
allora Nick era disposto fargli sondare il database fino alla cronologia
dell’ultimo Agente di Livello Uno appena reclutato.
«Manda un avviso all’Agente Hendrick:
presentarsi per rapporto ufficiale sul soggetto Stark, Anthony Edward presso il
569 Leaman Place, Brooklyn Heights in tempo massimo tre ore.»
Stark
Industries, Los Angeles.
Ufficio
di Tony Stark.
2013.
Il badge di Hendrick gli spenzolò
ciondolando dinanzi al naso e Tony si ritrasse di scatto, sussultando ed
emettendo un singulto strozzato. Sarebbe anche caduto all’indietro, non fosse
rimasto gelato dalla dondolio affascinante di alcuni fogli assolutamente importanti, Tony, per Dio che dalla guancia
appiccicaticcia di sudore e sì-no-forse saliva si libravano in caduta fino alla
scrivania.
Il silenzio che seguì a quella scena
fu tanto spiazzante da rendere Stark incapace di intendere e di volere per una
manciata di secondi. Quando fu di nuovo in grado di articolare una frase di
senso compiuto che non fosse una sequela di insulti ai neuroni fedifraghi,
trattenne un guaito dentro le guance e lo mutò in un sospiro roco, prima, e un
pratico schiarirsi di gola, poi.
Con l’inguardabile camicia rossa con
bretelle nere e cravatta bordeaux di Colin ad inseguirlo come un incubo –Dio,
avrebbe preferito avere la Romanoff a fargli da segretaria sottocopertura,
almeno aveva dove posare gli occhi senza provocare l’immediato suicidio del buongusto-,
il magnate si sistemò sulla sedia e finse di ordinare le scartoffie. Il tutto a
fronte bassa, perché l’Agente non vedesse le borse che s’allungavano fino agli
zigomi e cominciasse così con una paternale degna di Pepper. Sulle ramanzine,
almeno, Virginia aveva avuto ragione: Colin era valido quanto lei.
Non che fosse una palla al piede,
s’intende. Al contrario, Hendrick si era dimostrato un valido elemento e
parecchio utile –Mai quanto Pepper, però. Nessuno sarebbe mai stato come
Pepper. Pepper era unica e Tony avrebbe voluto vedere lei, la mattina, sfilare attraverso
i corridoi nell’accecante eleganza di un tailleur bianco, la coda di cavallo
che le accarezzava le spalle e la linea della schiena, una cartelletta stretta
al seno e gli occhi caldi di sole, le guance pizzicate dall’aria fresca e dal
condizionatore già acceso. Avrebbe voluto lei, lì, accanto a sé, le sue dita
tra i capelli, la sua voce a rassicurarlo, preoccupata e dolce, perché andava
tutto bene, avrebbe superato ogni cosa, doveva solo stringere i denti e
resistere e respirare, semplicemente respirare.
Ma Pepper non c’era e, sebbene
cercasse di rendere la differenza tra lei e Hendrick sopportabile, e non
rendere troppo chiaro all’altro l’abisso che lo separava da Virginia, era ovvio
come Colin stesse facendo veramente di
tutto per superare l’ostacolo del Non-Essere-Potts. Era puntuale, ligio ai
suoi compiti, velocissimo col caffè: ogni mattina gli faceva trovare un cappuccino
all’italiana preso da un bar a due isolati dalle Industries e un dolce senza
glutine ogni volta diverso, preparato espressamente dal proprietario del locale
ed espressamente per lui. Era, la sua, una gentilezza a tratti goffa, persino
un po’ buffa, tipica di chi stesse tentando in ogni modo di non essere un
intralcio, né una palla al piede.
Però, di nuovo, non era Pepper. Non
sarebbe mai stato Pepper.
«Cosa devo firmare?» domandò Tony,
alzando finalmente lo sguardo su di lui e dando un ultimo colpo di tosse per
cancellare i residui di sonno che gli impastavano la bocca.
«Nulla, signor Stark.»
«E allora perché sei ancora qui?»
continuò il magnate, perplesso, aggrottando la fronte «Non eri stato convocato
con urgenza dal nostro Pirata di fiducia?»
Colin inarcò le sopracciglia e, a
disagio, sfregò il palmo contro la barba bruna che marcava la linea squadrata e
decisa della mascella.
«In verità, signor Stark, ero venuto
a vedere dove fosse» disse Colin «Aveva un incontro con alcuni rappresentati
della Roxxon…Mezz’ora fa.»
Tony spalancò le palpebre –Il
desiderio di uggiolare per lo strazio rappresentato dalla riunione, come dal
fatto di essere costretto alle più mirabolanti scuse e flautate leccate di
terga per giustificare la propria assenza, aumentò a livelli insostenibili.
Ebbe l’accortezza di trattenersi, però, e si morse la lingua.
«Va bene, va bene. Lo sapevo, lo
ricordavo.» mentì e non gli piacque il guizzo che aveva attraversato gli occhi
di Hendrick, solitamente immobili e privi di qualsivoglia emozione se non una
professionale cortesia e stolido garbo. «Ma sai com’è, il ritardo è una
tattica. Si capisce fin da subito chi è che comanda.»
Colin assottigliò le labbra –Non
aveva creduto ad una sola parola di quanto gli aveva appena detto e non gli riusciva
di nasconderlo.
«Naturalmente, signor Stark.»
accondiscese, chinando educatamente il capo «Posso fare qualcosa per lei?»
«No, togli le tende e defilati.» negò
il magnate e socchiuse le palpebre, piccato «L’ultima cosa che voglio è avere
la tua testa sulla coscienza se arrivi in ritardo al randez-vous di Mace Windu.»
Un accenno di risata sorvolò la bocca
di Hendrick, ammorbidendo i tratti altrimenti rigidi e donando al suo volto una
luce e un’espressione completamente nuove. Non rideva spesso, forse troppo
occupato a stare al proprio posto per permettersi un atteggiamento più disteso,
meno improntato ai vincoli Datore di Lavoro-Segretario che la sua missione gli
imponeva; quando, però, si abbandonava ad un tono più rilassato e disteso, il
giovane mutava e alleggeriva l’ambiente, cancellava la tensione –Ed il
guardingo sospetto cui Stark non mancava mai di sottoporlo.
«Allora arrivederci, signor Stark.
Dovrei essere di ritorno in serata.»
«A stasera.» concordò Tony «Ah.» come
ricordandosi di un pensiero improvviso, bloccò Colin sulla soglia con uno
schiocco di dita ed indicò il badge appeso al collo «E’ inutile che cerchi di
ingraziarti Happy con quello. Non ti prenderà in simpatia fino a quando non ti
deciderai a guardare Downtown Abbey.»
Hendrick emise ancora quella flebile,
sussurrata risata e si chiuse la porta alle spalle.
L’ufficio divenne un po’ più freddo e
il figlio di Howard avvertì distintamente le pareti premergli addosso. Deglutì
un ansimo e cercò di mettere ordine tra le carte per tenere le mani occupate,
ma i polsi tremavano e le dita perdevano la presa, i fogli si mescolavano,
frusciavano, in disordine, precipitavano giù, giù, giù –Precipitavano come lui, un anno prima, dal baratro stomachevole sopra
la Tower, precipitavano e nessuno veniva a salvarli, precipitavano e si
schiantavano a terra, precipitava e nessuno veniva a salvarlo, precipitava e si
schiantava a terra.
Un urlo roco e Tony si spinse
indietro con tale veemenza da far inclinare la sedia. Finì per rotolare sul
pavimento, in mezzo al fascicolame, contro la superficie gelida delle
piastrelle.
Non era vero. Non era vero, era solo
una fantasia. Era solo una fantasia, niente di più. Non era a New York. New
York era passata, New York era un ricordo. New York non esisteva più, New York
non lo aveva ucciso. Era lì, al sicuro senza
l’armatura. Non indossava l’armatura. Come poteva dirsi al sicuro, senza
l’armatura? era al sicuro, non aveva bisogno dell’armatura certo che aveva bisogno dell’armatura,
l’armatura era l’unica cosa in grado di proteggerlo, di tenere il pericolo
lontano da sé, aveva bisogno dell’armatura, aveva bisogno di più armature,
sempre più evolute, per contrastare chiunque gli si fosse parato davanti, per
contrastare qualsiasi cosa, non era niente senza l’armatura, aveva bisogno
dell’armatura, non poteva stare senza l’armatura era lì, era vivo, andava
tutto bene, non sarebbe successo nulla, andava tutto bene l’armatura gli serviva l’armatura aveva bisogno dell’armatura
l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura e
i Chitauri ruggivano e si mescolavano alle nuvole e al fuoco, ai fulmini di
Thor, alle frecce di Clint, alle grida animali di Hulk e il mondo si
sbriciolava e andava in mille pezzi e c’era polvere e i Chitauri arrivavano e
sfondavano la barriera del suono e latravano come cani e il missile, Stark,
occupati del missile e lui cadeva precipitava nessuno veniva a salvarlo e
franava e nessuno veniva a salvarlo e si schiantava a terra e l’impatto contro
l’asfalto era un boato di fuoco nelle viscere e la morte era dolore la morte
era niente Pepper e Pepper non sarebbe tornata e la morte era l’alcool aveva
bisogno di alcool aveva bisogno
dell’armatura aveva bisogno di alcool aveva
bisogno dell’armatura aveva bisogno di Pepper aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno dell’armatura.
Sfiatando e boccheggiando, Stark
premette i palmi sulle palpebre, spinse le orbite, annaspò alla ricerca di
aria. Guaì una preghiera e raccolse le ginocchia al petto, la vastità dell’Universo
oltre la soglia del portale che gli schiacciava il petto e gli strappava il
respiro.
Triskelion,
Washington D.C.
Ufficio
di Alexander Pierce.
2013.
Alexander Pierce si era versato del
Bourbon e osservava Washington D.C. splendere, bianca, ai suoi piedi. Dalla
cima del Triskelion dominava la città e il cielo che la circondava, i palazzi
si genuflettevano al cospetto dell’imponente struttura dello S.H.I.E.L.D. e per
Pierce era come trovarsi sulla cima di un faro di speranza.
Sorvola i tetti e guardava dentro le
finestre dei propri concittadini, ascoltava le loro preghiere, si faceva
portavoce delle loro speranze, temeva le loro paure e, le mani colme di potere
e possibilità, agiva perché essi non fossero più terrorizzati dai mostri
nascosti sotto il letto.
La verità era che l’arrivo di Thor,
due anni prima, aveva cambiato il mondo in maniera che il mondo stesso ancora
non era stato in grado di capire, tantomeno elaborare. Alieni, altre realtà, la
gente doveva ancora arrendersi all’idea che quasi tutte le idee panzane di
complottisti e ufologi non erano poi così folli come sembrava. L’umanità doveva
ancora accettare l’idea di essere la razza dominante di un pulviscolo, quando
al di sopra delle stelle vivevano divinità che evocavano fulmini con un martello
o nuotavano balenottere aliene cariche di mostri poco raccomandabili e con cui
era sconsigliato trovarsi faccia a faccia. Doveva capire che quanto avevano
capito fino a quel momento, quanto avevano vissuto e studiato e creduto poteva
benissimo essere gettato nella pattumiera o dato in pasto al trita carte.
La prospettiva di un cambio di
mentalità così repentino era spaventoso e Alexander Pierce lo comprendeva. Per
questo non si sarebbe dato per vinto. Le minacce si moltiplicavano, si
nascondevano ovunque, sopra e sotto la terra, agli angoli delle strade,
nell’aria che respiravano: la guardia doveva rimanere sempre alta, le armi
costantemente cariche.
E, non fosse stato per quel ficcanaso
di Stark, l’armamentario a bordo dell’Helicarrier sarebbe stato un’ottima pista
di lancio. A ben pensarci, riconsiderò Pierce nell’appoggiare l’avambraccio
destro sul vetro della grande finestra e portandosi il bicchiere di Bourbon
alle labbra, il ficcanasare di Stark era stato un inimmaginato salto in avanti.
Costretti a ricominciare da zero con
la difesa, un altro piano s’era formato, nuove direttive avevano surclassato le
vecchie. Pistole e fucili potevano molto. Qualcosa di più grande poteva tutto.
Oh, un progetto caparbio e forse
anche presuntuoso, Pierce ne era consapevole. Pur tuttavia, non vedeva perché la
temerarietà costituisse un ostacolo. L’ordine mondiale non lo si poteva
sacrificare in nome di una cosa tanto infinitesimale e soggettiva come la
morale.
Che i benpensanti e i bigotti di ogni
genere e forma alzassero la voce, gli gridassero contro. Pierce sapeva quale
fosse l’obiettivo da raggiungere, il resto erano rumori di sottofondo da
mettere a tacere premendo un semplice pulsante rosso.
«Ho appena convinto il Consiglio
Mondiale Della Sicurezza a prorogare Insight»
proferì Pierce e, non fosse stato per la spia luminosa sulla trasmittente che
portava all’orecchio, si sarebbe detto stesse parlando da solo «Ora fa’ in modo
di velocizzarne la messa in opera, intesi?»
Località
Sconosciuta.
Cella
di Sicurezza.
2011.
Marlowe aprì la porta della cella e
fece segno al soldato che l’aveva accompagnato di chiudere e andarsene: voleva
rimanere solo col soggetto, non avrebbe accettato intrusione alcuna. Il soldato
provò a replicare, ma bastò l’assicurazione del dottore, il tono calmo e
conciliante, perché egli si dicesse d’accordo e lo lasciasse ad un più privato
colloquio.
Il soggetto, dal canto proprio, non
aveva fatto una piega all’apparizione di Marlowe: era rimasto dalla parte
opposta della cella, ritto dinanzi al centro della parete, il mento appena
sollevato e gli occhi fissi all’angolo del soffitto. Teneva le mani sui
fianchi, le dita appena flesse. Il dottore non aveva dubbi: gli avessero
consegnato un paio di pantaloni dotati di cintura, il soggetto avrebbe stretto
i polpastrelli alla fibbia, i gomiti piegati e le spalle un’unica linea retta
che s’incrociava con la rigida perpendicolare del collo e della testa.
Invece, al soggetto non erano stati
concessi non più di brache color kaki, una maglietta bianca e scarpe di tela.
Classico, impersonale, il soggetto non aveva emesso verbo, né si era lamentato.
A dire il vero, non aveva detto una sola parola dacché erano riusciti a
bloccarlo nella sala medica.
Marlowe aveva visto il video più di
una volta, ma ne sarebbe bastata una per capire come i sette soldati che gli
avevano mandato contro avessero avuto la meglio su di lui in virtù della
confusione e dello spaesamento creati dal risveglio inaspettato.
I sedativi non avevano avuto effetto,
così come le parole che il medico capo aveva cercato invano di rivolgergli:
sordo ad ogni spiegazione, il soggetto si era trincerato in un ostinato mutismo
e non era più stato possibile instaurare con lui un dialogo di qualsiasi tipo.
Gli occhi non dicevano nulla, la bocca era serrata e conficcata nel volto duro,
marziale, i pugni costantemente chiusi, le spalle aguzze, pareva in procinto di
attaccare. La rabbia di cui era preda si manifestava in improvvisi guizzi e
sobbalzare di vene lungo gli avambracci, nei respiri violenti e nell’ossigeno
aspirato dalle narici allargate. Non un tremito alla schiena, né ai polsi, non
una bestemmia, non un grido di protesta.
Alcuni dell’equipe l’avevano
considerata una resa inespressa e Marlowe, ricordando le loro espressioni
esaltate, non poté reprimere un sorriso di scherno.
Stolti.
Il soggetto non si era arreso, al
contrario era più combattivo che mai: studiava famelico il terreno, cercava
falle e punti deboli, assorbiva ogni dettaglio dall’ambiente circostante,
pronto ad usarlo contro di loro appena fosse stato possibile e quindi fuggire.
Una situazione così spinosa non
permetteva test di alcun tipo ed era per questo che era stato chiesto
l’intervento del dottore.
Rabbonirlo, ammansirlo, inserirlo
nella realtà, chiarire chi fossero gli amici e chi i nemici, spingerlo sulla
via della rettitudine e della comprensione, ecco quali erano gli “ordini” di
Marlowe.
Il dottore aggiustò la cravatta nera
indossata sopra una camicia bianca di ottima manifattura, passò le dita sul
cranio del tutto calvo e la carnagione baluginò, balbettò di striature d’ottone
sotto i neon incassati verticalmente alle congiunzioni delle pareti. Il
soggetto non voltò la testa, eppure Marlowe fu in grado di intravedere il
roteare veloce degli occhi dal riflesso metallico contro le mattonelle
esagonali della cella.
Soddisfatto e fingendo noncuranza, il
dottore s’avvicinò al tavolo al centro della stanza, afferrò lo schienale di
una delle due seggiole e s’accomodò con tranquillità, pacato come un gatto ben
pasciuto. Le labbra carnose modellarono un sorriso lezioso, serpentino, che non
arrivò alle iridi d’ossidiana.
«Mi chiamo Edward Marlowe.» si
presentò, poi, dopo aver fatto attendere il soggetto nel più completo silenzio.
Voleva renderlo non nervoso, ma
guardingo, vigile. Voleva attirare la sua attenzione, voleva che l’altro si
concentrasse totalmente, interamente sulle
parole che stava plasmando per lui.
«Mi hanno chiamato dopo il tuo…»
aggrottò la fronte, il tono divenne sardonico «Exploit con l’equipe medica. Ottimo lavoro con quelle guardie, hai
dato alle Infermiere ben più di una frattura su cui lavorare.» appoggiò i
polpastrelli sulla superficie del tavolo, le dita ben distanziate tra loro «Memorie riflesse?» si informò.
Il dottore inarcò le sopracciglia in
un tacito invito a rispondere –Invito che, era certo, l’altro non avrebbe
accolto: difatti, il soggetto continuò ostinatamente a guardare verso l’alto e
non diede alcun segno di aver ascoltato. Non lo degnava di alcuna attenzione
visibile, sebbene Marlowe non avesse dubbi sul fatto che l’inconscio pendesse
già dalle sue labbra.
«Hai dato prova di grande
preparazione, là dentro.» si complimentò il dottore, la voce ora un poco più
carezzevole «Tuttavia, credo sia stato per te uno sforzo enorme, dopo tutto
questo tempo. Non eri pronto, hai risposto per semplice istinto, senza pensare
alle tue reali condizioni di salute. Devi essere piuttosto…stanco.»
La prima esca era stata lanciata e
Marlowe notò con piacere come una ruga, seppur minima, fosse andata a
disegnarsi tra le sopracciglia, proprio sopra la radice del naso.
«Decisamente stanco.» ripeté «Hai lottato e ti sei ribellato, ma sei sicuro
fosse necessario? Sei sicuro ne valesse la pena? Orai hai perso ogni energia,
sei sfibrato, sei stanco.» inclinò la testa su una spalla,
socchiuse le palpebre «Dovresti riposarti»
gli consigliò «Riposarti. Dormire. Sei
così stanco…»
Il soggetto sbatté le palpebre, allargò
le labbra quasi stesse annaspando e si portò la mano destra alla fronte, le
dita a premere, massaggiare la pelle. Le spalle cascarono appena, qualcosa, in
tutta il suo essere, cadde con un sospiro esausto.
Il dottore si adagiò meglio contro la
sedia e sollevò la bocca, a mostrare i denti ed un ghigno tronfio di belva.
«C’è una branda, dalla parte opposta
a cui sei tu, la vedi?» gli suggerì e il soggetto torse il collo, dando così a
Marlowe la possibilità di vedere le iridi traslucide, annebbiate e opache. «Sei
così stanco. Dovresti riposarti. Dormire.»
Il soggetto scosse il capo, forse in
un blando tentativo di schiarirsi la testa, e ciò non fece che aumentare
l’eccitazione del dottore, l’aspettativa del cacciatore dinanzi la preda sempre
più vicina alla trappola ordita per catturarla.
«Non sono che pochi passi.» mormorò
Marlowe e la voce era cadenzata, gradevole, una suadente cantilena di ninna
nanna «Pochi passi. Solo pochi passi. Pochi passi per il riposo.»
Ed Edward continuò, sinuoso, ad
insinuare sussurri nell’anima del soggetto. Non si sostituiva a lui, non
prendeva il posto della sua coscienza, un simile comportamento avrebbe
scatenato una repulsione immediata da parte dell’altro. Invece, agiva e
mormorava perché fosse il soggetto stesso a dargli il permesso di entrare nella
mente ottenebrata, più vuota ad ogni respiro, più immota ad ogni passo. La
riempiva di suoni con cui contrastare un fangoso silenzio, ruscellava e gli
cantava nello spirito, gli bisbigliava all’orecchio che la scelta di muoversi
in direzione della branda era frutto della sua volontà, non una suggestione del
dottore; che la stanchezza era una conseguenza ragionevole dell’attacco nella
stanza medica; che sì, le palpebre si appesantivano davvero più si avvicinava
ai cuscini ruvidi e alla coperta ammonticchiata sopra di essi; che era stanco,
oh, così stanco, e presto avrebbe avuto il riposo di cui aveva bisogno, che
avrebbe finalmente chiuso gli occhi e il sonno sarebbe giunto, doveva solo
avanzare in direzione della branda e tutto sarebbe andato per il meglio,
rilassarsi e avanzare, ecco, così. Passo dopo passo. Le palpebre pesanti. Il
corpo pesante. Il respiro pesante. Rilassato. Assopito. Pesante. Passo. Dopo.
Passo.
Marlowe congiunse i polpastrelli
dinanzi al volto.
«Siediti sulla branda» flautò,
mellifluo «Manca poco, davvero poco, siediti e presto chiuderai gli occhi e
dormirai e tutto andrò per il meglio.» s’umettò il labbro superiore «Siediti
sulla branda e rilassati.»
Le braccia lungo i fianchi, il corpo gravato
da una stanchezza che faceva male al cuore solo a guardarla, il soggetto
s’accomodò e appoggiò i palmi alle ginocchia. Il capo ciondolò in avanti. Le
palpebre sbattevano sempre meno frequentemente, i lassi di tempo in cui le
teneva chiuse erano di volta in volta più lunghi; l’iride vitrea s’intravedeva
ormai appena in mezzo alle ciglia cascanti, i muscoli del volto molli, la bocca
schiusa a liberare respiri profondi, di quella profondità di chi è sul punto di
abbandonarsi completamente al sonno.
«Lasciati andare» il dottore soffiò
le ultime parole verso di lui «Lasciati andare. Puoi chiedere gli occhi, ora. Chiudi
gli occhi. Lasciati andare. Dormi.»
Il soggetto fece un ultimo, disperato
tentativo di mantenersi sveglio.
Emise un roco mugolio di protesta,
protese la schiena in avanti, spalancò le palpebre con sofferenza…Ma esse,
traditrici, ricaddero subito a rendere vane volontà e ribellione. Le dita
scivolarono sulle cosce, le spalle franarono all’indietro, la nuca affondò nei
cuscini –La coscienza sprofondò in un baratro dove non esisteva nulla, se non
la voce di Marlowe. Doveva non importava nulla, se non la voce di Marlowe. Dove
nessuno avrebbe potuto dargli ordini, tranne la voce di Marlowe.
Edward sospirò, appagato, accavallò
le gambe ed estrasse una sigaretta dall’interno della giacca scura. La impostò
sul bocchino finemente lavorato e l’accese, aspirando una grossa boccata di
fumo. Si godette ogni singolo istante dell’armonia creatasi tra i fili di
nicotina a rigagnolare nei polmoni, ed il respiro ovattato del soggetto.
Finì con calma, non si mise fretta,
mormorando di tanto in tanto un Così,
bene, molto bene o Sempre più in
profondità e compiacendosi dell’effetto che avevano le suggestioni sul
volto dell’altro.
Quando, infine, ebbe schiacciato la
sigaretta nel posacenere ed ebbe riposto il bocchino al proprio posto, Marlowe
lisciò il petto della camicia e appoggiò le mani sul ventre.
«Parliamo, ora.» esordì «Raccontami
tutto. Non nascondermi nulla dei tuoi ricordi.»
Brooklyn Heights, New York.
569 Leaman Place
2013
Il sangue sgroppò nel torace.
Fury pressò la mano contro lo sterno,
piegò le spalle, sputò imprecazioni e saliva. Merda. Boccheggiò, ingoiò aria a grandi sorsate e le costole
gemettero, scricchiolarono, graffiarono petto e polmoni. A costo di sembrare
ripetitivo, il Direttore digrignò i denti e smozzicò, ancora e di nuovo, merda.
Serrò le dita viscose attorno al
salvifico cilindretto laser che gli aveva permesso di aprirsi una via d’uscita
sotto l’asfalto –Sotto l’asfalto e attraverso
le fogne, aggiunse una voce atrofizzata e non richiesta da stress post-traumatico.
Considerate le prospettive prese in esame dentro le lamiere contorte del SUV
distrutto, Fury ringraziò i laboratori dello S.H.I.E.L.D. per avere ancora una
voce atrofizzata e non richiesta da stress post-traumatico cui inveire contro. Tornato
alla base, avrebbe dato un aumento di stipendio ai due capaci inglesini.
L’Agente May aveva scelto bene nello stilare la lista dei componenti per la
squadra da affiancare a Coulson, bisognava ammetterlo.
Nick emise un gemito di dolore mentre
tentava di assumere una posizione più composta e meno da condannato a morte.
Schiacciò il laser dentro una tasca del pastrano ed estrasse la chiavetta USB
da un’altra: la mantenne sul palmo sinistro per alcuni secondi, prima di
richiudere le dita a pugno e serrare le palpebre per un’ulteriore stilettata di
dolore esplosa da tempia a tempia. Il sangue stava già coagulando e le ferite,
le lacerazioni sulla fronte, allo zigomo prudevano e pizzicavano, impastando di
rosso la visuale già minima dell’occhio buono.
Non seppe se considerare una fortuna
o meno che Brooklyn Heights fosse deserta. Non era tardi, un’ora dopo il
tramonto al massimo, eppure per le strade e dietro ai vetri delle case non si
vedeva anima viva: paranoia o istinto che fosse, Nick si ritirò nell’ombra e si
chiuse nelle pieghe del lungo soprabito nero, incassando la testa e appoggiando
la spalla contro il muro lercio del vicolo in cui era riemerso.
Si aspettava una rappresaglia di
qualche tipo, non era stupido e non era a capo dello S.H.I.E.L.D. per congiunzione
astrale, ma di sicuro non se la aspettava così presto. E, soprattutto, non se
la aspettava a New York.
Lo smacco irridente di Loki era
nulla, adesso, di fronte alla prospettiva dell’Agenzia compromessa, della
sicurezza mondiale fottuta.
Sapevano che aveva la chiavetta,
sapevano cosa c’era dentro e sapevano e di sicuro non gli avrebbero permesso di
decriptare quei file.
Lo avevano seguito e gli avevano
spedito contro un soldato non meglio identificato, ma la cui sola vista, nel
mezzo dei frammenti di vetro e dietro al rigurgito fumoso dell’esplosione,
aveva fatto capire a Fury come non fosse un mercenario esaltato, disposto a
tutto e del tutto privo di disciplina e qualsivoglia abilità, o conoscenza,
tattica.
Un dannato killer, ecco cos’era, un dannato killer con una
dannatissima mira ed una dannatissima precisione per cui lo stesso Barton si
sarebbe morso le mani, fosse stato ancora nel giro dello S.H.I.E.L.D. e non si
fosse dato all’eremitismo penitente.
L’essersi salvato dall’assalto in
pieno centro a Manhattan non era un’assicurazione sulla vita, ma soltanto un
paio di chance in più di consegnare la chiavetta ad Hendrick e portare il
marcio a galla. Peccato che Hendrick non si fosse ancora fatto vedere e
Brooklyn Heights non desse segno di essere abitata: al Direttore pareva di essere
in un maledetto film dell’orrore. La cosa che più lo disturbava non era tanto
il contesto, quanto la consapevolezza di non essere lui ad avere il telecomando
dalla parte del manico. Se c’era qualcuno, al momento, in grado di decidere fra
acceso e spento, fra On e Off era il simpatico killer di cui sopra.
Fantastico. Oh, ma non si sarebbe arreso.
Fury non era tipo da farsi fregare e non era uomo da morire neanche se lo
ammazzavano. Peccato che la gente avesse la pessima abitudine di pretendere una prova tangibile dell’ultimo
fatto.
Reprimendo uno spasimo, Nick nascose
la chiavetta, afferrò il cellulare e digitò velocemente alcune cifre, seguite
da un’unica parola.
Maria stava lavorando secondo la
direttiva Ombra Profonda e, per
eccezionale che fosse, non poteva occuparsi proprio
di tutto. Troppe informazioni, poi, sarebbero state deleterie in caso di
sfascio, di arresto e conseguente interrogatorio.
Le persone di cui Fury si fidava
erano in numero di eseguo, ma ad esse il Direttore avrebbe affidato se non la
vita perlomeno qualche arto –Che poi, era esattamente quello che stava facendo.
Delle tre cui aveva appena inviato il messaggio, due, dopo averlo ricevuto,
avrebbero agito oltre ogni ragionevole dubbio. Riguardo alla terza…
Un dolore lancinante al centro esatto
della fronte. Un lampo improvviso, una deflagrazione bianca che lasciò Nick
inebetito per una manciata di secondi. Poi la sensazione di avere il naso ed il
mento caldi, stranamente ed inspiegabilmente caldi, e così, fulminee, le dita e
le mani.
Fury abbassò l’occhio appannato e si
chiese per quale accidenti di motivo ci fosse del sangue sullo schermo. Le
ginocchia cedettero e il corpo piombò in avanti.
Dietro la nuca, diede mostra di sé un
perfetto foro circolare.
Note
Finali
Ringrazio quelle sante donne di Alley e Naima ~
|
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Capitolo 3 *** { Gli Incidenti Capitano ~ File 0.1 } ***
ood1
{ Gli Incidenti Capitano ~ File 0.2 }
Los
Angeles Mercy Hospital.
2013.
«I dottori hanno detto che ti
rimetterai.»
«Lo so.»
«Hanno detto che ti rimetterai
presto.»
«Lo spero.»
«…Quanto presto, Pep?»
E qui Virginia non riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al soffitto. Per
l’ennesima volta si ritrovò a contare le fascette azzurrine che si rincorrevano
sulla sommità delle pareti e che si riunivano agli angoli con una rifinitura
blu più scura ed elegante. Il sole si rovesciava dalle ampie finestre
dell’ospedale sull’intonaco bianco a bande verde acqua, che dallo zoccolo del
pavimento risalivano fino alla metà dei muri, rendendoli accecanti e difficili
da guardare. O forse era soltanto il pesante mal di testa e il dosaggio
astronomico di medicinali a renderla fotofobica.
Gli stessi intrugli che le avevano
impedito di mettere le mani al collo di Tony, a dire il vero. Almeno uno dei due
poteva dirsi soddisfatto dell’effetto dei tranquillanti.
«Non lo so, Tony, è inutile che lo
chiedi.» lo riprese Pepper, nel torcere il collo sul cuscino per fissarlo
eloquente negli occhi.
Capiva la preoccupazione di Stark e
ne era anche lusingata, in un certo qual modo, pur tuttavia stava iniziando a
non sopportare più gli assalti logorroici del suo datore di lavoro su quanto
aveva male, quando sarebbe tornata, se voleva qualcosa da leggere, quando
sarebbe tornata, se il guanciale era ben sprimacciato e, ciliegina sulla torta,
quando sarebbe tornata. Non che vegetare in un lettino d’ospedale fosse la
massima aspirazione del mese, ovvio, ma più Tony continuava ad assillarla, meno
aveva di sedersi dietro la propria scrivania alle Stark Industries.
«Diciamo…Due settimane? Tre?»
«Tony…»
Ringraziando la morfina, era troppo
imbottita di oppiacei o qualunque altra cosa gli avessero iniettato nelle vene
per replicare con più di un blando richiamo. Non poteva negare a se stessa come
il ricorso ad un vocabolario non consono ad un Amministratore Delegato suo pari
le avrebbe giovato volentieri alla salute –E all’umore. Purtroppo, articolare
una frase di senso compiuto era uno sforzo decisamente mastodontico per la
lingua quanto per il cervello, figurarsi riempirsi la bocca delle peggiori
volgarità a disposizione sul mercato.
Sapeva che, per le Stark Industries
come per Tony, la propria invulnerabilità era diventata leggendaria: in
pratica, la consideravano più inattaccabile dell’armatura di Iron Man. Virginia
poteva vantare inoltre un curriculum di tutto rispetto. Era sopravvissuta ad
Obadiah Stane, a Vanko, all’invasione dei Chitauri e, punta di diamante, apice
della propria carriera esistenziale, aveva vissuto fino a quel momento al
fianco del genio, miliardario, playboy, filantropo Anthony Edward Stark senza
essere sbattuta in cella con l’accusa di omicidio premeditato.
La notizia che Virginia Pepper Potts,
l’intoccabile, la Magnifica Virginia Pepper Potts era finita in ospedale per un
tassista maldestro che le aveva fratturato il bacino e giocato a frisbee coi
menischi, doveva essere stato un fulmine a ciel sereno per l’intero staff delle
Industries.
Happy, che non mancava mai di farle
compagnia –Tranne quando c’era Stark accanto a lei- e non scordava mai di
portarle un mazzo di fiori per augurarle in maniera più sommessa, e gradevole,
una buona guarigione, ecco, Happy le aveva raccontato che Tony, alla notizia,
aveva reagito con aplomb ragguardevole: aveva distrutto soltanto cinque tazze di caffè nel tentativo di prepararsi qualcosa
per mantenere la calma. Il giorno in cui Virginia gli aveva annunciato la fine
della loro storia ne aveva spaccate dieci.
In azienda, invece, era stato lo
sfascio. Gente che si metteva in malattia, segretarie che si licenziavano o
preparavano diffide per molestie prefabbricate, addirittura, si diceva, il
povero ragazzo che le portava ogni mattina ginseng e colazione macrobiotica aveva
mollato tutto, era scappato e adesso vendeva Kebab in una losca stradina di
Manhattan. Questi pettegolezzi, sempre riportarti dal fedele e leale Happy,
erano un toccasana per Pepper, che li ascoltava deliziata e con un caloroso
sorriso sulle labbra.
Certo, la maggior parte delle
situazioni erano inventate di sana pianta o ingigantite a dovere, ma era
inconfutabile che la degenza obbligatoria dell’Amministratore Delegato avrebbe
provocato ben più di un problema. Non tanto perché chi vi lavorava avesse poca
fiducia nei confronti di Tony Stark, ma perché Tony Iron Man Stark non aveva dalla propria il tempo necessario per
occuparsi delle Industries e intanto prendere a repulsori in faccia il cattivo
di turno. Era stato già un miracolo che, saputa la notizia dell’incidente, Tony
avesse acconsentito ad un trasferimento imprevisto a Malibu e all’abbandono dei
lavori di ricostruzione alla Stark Tower.
Insomma, con tutti questi preamboli e
le variabili future del caso, una segretaria non diventava una necessità: era
un bisogno quasi fisico.
Per fortuna, a quello aveva pensato
lo S.H.I.E.L.D. Non per buona disposizione d’animo nei confronti di Tony
–Virginia era dell’idea che Fury avrebbe usato contro di lui la benda a mo’ di
fionda, se solo avesse potuto- quanto come una sorta di ultimo favore in
memoria dell’Agente Coulson –Oh, Phil.
La scelta, comunque, era qualcosa su
cui Tony non perdeva occasione di lamentarsi, di solito dopo aver lanciato
invettive gratuite al servizio sanitario, alla programmazione della ABC e al
caffè imbevibile delle macchinette.
«Non mi piace che tu sia qui.» commentò
Tony, reclinando la nuca all’indietro sulla seggiola in plastica e osservando Virginia di sbieco «L’ufficio è
vuoto, senza di te.»
Fossero stati ancora in una relazione
stabile, Virginia sarebbe arrossita. Visto che così non era, optò per un più
politicamente corretto sorriso d’accondiscendenza.
«Colin è valido quanto me.»
Stark torse la bocca, modellando le
labbra in una smorfia grottesca che accentuava pericolosamente le borse sotto
gli occhi e il colorito pallido del volto smagrito.
«Questo è ancora tutto da vedere.»
«Me lo ha raccomandato lo
S.H.I.E.L.D.»
«Lo S.H.I.E.L.D. non è molto bravo
con segretari e affini. L’ultima era una spia, assassina e pure russa, se la
memoria non mi inganna.»
Un piccolo sospiro fuggì il petto
affaticato e stanco di Virginia. Senza dire una parola di più, tese mollemente
il braccio destro e allungò le dita, il capo appena reclinato nella direzione
del magnate. Questi, dopo aver atteso un tempo prestabilito di cinque secondi
per non intaccare dignità e compostezza, agguantò i lati della seggiola e si
spinse in avanti, facendo sgrattare e arrancare e stridere le gambe metalliche.
Pepper gli rivolse un’occhiata ammonitrice, subito dissolta da un’espressione
più dolce e serena mentre, cintogli le spalle e convintolo ad appoggiarle la
fronte sul ventre, gli lasciava un bacio appena sussurrato fra i capelli e una
carezza accennata alla base della nuca.
«Via, Tony, non essere drammatico.
Non è niente di che.» tentò di scherzare «Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»
Località
Sconosciuta.
2011.
Appunti
del Medico.
Il soggetto ha dimostrato una capacità di recupero
invidiabile. Pur concordando col dottor Marlowe che si tratta solo di ordinaria
di amministrazione e non è nulla di così eclatante come ci aspettavamo, devo
ammettere che l’idea di poter studiare questo caso sarebbe più di quanto
immaginato anche nei miei sogni più reconditi.
Il soggetto è arrivato in impianto refrigerato
direttamente dal luogo di ritrovamento ed è stata subito allestita una equipe
specializzata per occuparsene. Da quel che ho potuto capire, il progetto è di
massima segretezza e il dottor Marlowe è stato incluso come supporto psicologico
per affrontare la tensione derivante dalla reclusione e la totale mancanza di
rapporti con l’esterno.
Ero curioso di sapere come ai vertici avrebbero
spiegato l’assenza ingiustificata di parte della sezione medica, ma dopo averne
discusso col dottor Marlowe ho capito che sono questioni meramente
burocratiche, del tutto al di là del mio interesse e del mio ambito lavorativo.
Questa mattina abbiamo cominciato il processo per
consentire al soggetto di recuperare il suo calore, nella speranza che il suo
sangue sia ancora idoneo per le analisi. Non ho mai assistito personalmente
alla cosa, ma ho letto di casi dove un corpo rapidamente congelato è stato
completamente rianimato.
Nonostante i fondi stanziati e le conoscenze che ci
sono state messe a disposizione, non so se i vertici siano più interessati alla
rianimazione o ai suoi fluidi vitali, secondo il dottor Marlowe chiederselo va
oltre l’entità del nostro stipendio. E io sono d’accordo con lui.
Per quanto la mia equipe fosse dubbiosa sul recupero
da parte del soggetto, quanto sta accadendo va oltre le mie più rosee aspettative:
la temperatura corporea del soggetto è stata aumentata nel corso di parecchie
ore e le sue ferite sono state suturate per evitare emorragie. Quando la sua
temperatura è stata vicina ai valori normali, le nostre supposizioni hanno
trovato conferma...tessuti e sangue erano ancora vitali. Gli abbiamo
somministrato elettricità, farmaci cardiopolmonari e adrenalina direttamente
nel cuore.
Stento ancora a crederci, il soggetto è ancora vivo.
E si è risvegliato.
Località
Sconosciuta.
Telecamera
di sicurezza.
2011.
Un
laboratorio. Un lettino al centro. Sei medici intorno. Macchinari alle pareti,
un supporto circolare con innesti luminosi posizionato sopra il volto del
soggetto disteso. Uno dei medici, dopo aver somministrato un farmaco tramite
siringa nel braccio del soggetto, solleva la schiena e si allontana di un passo
dal lettino.
I
medici si guardano tra loro. Guardano le macchine. Uno dei medici scuote il
capo e si toglie la mascherina, rivelando un volto di donna con labbro leporino
e naso schiacciato. Dice qualcosa e subito il medico davanti a lei, si presume
il capo dell’equipe, le punta l’indice contro. Il medico capo si strappa la
mascherina con gesto irato e continua ad abbaiare alla collega.
La
situazione si scalda, potrebbe degenerare, quando uno dei macchinari –Un
elettrocardiogramma- ha un picco e poi ricade. Gli astanti si immobilizzano.
L’elettrocardiogramma ha un guizzo. E poi un altro. E un altro ancora.
Ripetuti. Costanti.
L’attenzione
dell’equipe è ora tutta rivolta al soggetto disteso sul lettino. Nessuno dice o
fa nulla per lunghi minuti, poi un brivido sembra percorrere unanime la squadra.
Un movimento dei muscoli del soggetto, un guizzo di vene che partono dal polso
destro e percorrono l’avambraccio.
Il
medico capo fa segno ai colleghi di farsi indietro.
La
gola del soggetto si solleva bruscamente e poi rimane immobile. Alcuni secondi
di attesa. Le palpebre si stringono. Gli occhi, dietro di esse, hanno un
fremito appena percettibile. Il polso trema. E poi, lentamente, ecco, il
soggetto solleva piano le ciglia, le pupille si dilatano e si restringono, s’assottigliano,
si spalancano, una ruga gli incide la fronte. Alza le spalle, si mette a
sedere, si guarda intorno. L’espressione, dapprima confusa, comincia a
diventare diffidente mano a mano che la vista mette a fuoco gli oggetti e il
cervello comincia ad elaborare i dati e le circostanze in cui è venuto a
risvegliarsi.
Il
medico capo allarga le braccia, a volerlo accoglierlo e rassicurarlo. Il
soggetto non dice nulla, ma una contrazione guardinga è ben visibile alla
mascella, che illividisce. I medici devono essersi accorti del suo disagio e
dell’atmosfera sempre più tesa che si sta creando. Tentano di alleggerire,
provano a dire qualcosa anche loro.
Il
soggetto diventa ancora più vigile, gli occhi guizzano uno alla volta ai visi
dell’equipe e da lì si drizzano a osservare, registrare ogni cosa lo circondi,
ogni cosa sia sopra la testa, davanti a sé, ai lati. Il medico capo abbassa
appena le mani non appena nota l’elettrocardiogramma schizzare e lampeggiare
impazzito. Il suono del macchinario ha messo in allarme il soggetto: subito si
volta verso di esso, torna a fissare il medico, lo sguardo è affilato, i pugni
serrati.
Il
soggetto china appena la fronte e solleva appena le spalle prima di scendere
con un salto dal lettino e cominciare a tirare calci e pugni per liberarsi
dalla presa improvvisa dei medici. I colpi sono calcolati, i movimenti fluidi,
è come una danza tale è la naturalezza con cui il soggetto si muove e cerca di
farsi strada fino all’uscita del laboratorio.
Croydon
Avenue, Los Angeles.
2013.
Darma si torceva le mani mentre
camminava a passettini lungo Croydon Avenue. Era notte inoltrata, forse le due,
forse le tre del mattino, non sapeva dare una definizione precisa dell’ora, se
fosse giorno in ritardo o sera infinita, senza visione futura di stralci di
luce o frammenti di alba.
Si asciugò la fronte con un
fazzolettino viola già lercio di sudore e macchie di caffè, lo appallottolò tra
le dita grassocce e continuò ad avanzare, girando il collo tormentato da vene
rigonfie e bollicine per vedere se qualcuno lo stesse seguendo, se qualche
altro lo stava fissando da dietro le tende, se c’era un cane ad annusare la sua
scia impaurita da dietro i cespugli o se un borseggiatore avesse deciso di fare
di lui una vittima di lavoro.
Quasi sperava che qualcuno si
accorgesse della sua presenza lì, su quello stradone infinito affiancato da
grigi, monotoni prefabbricati che svettano attorno a lui come cassoni
mostruosi, con grandi occhi di vetro e corna di tegole spigolose e fauci di
legno, artigli d’erba tosata, scaglie e squame di recinzione dipinte di bianco
latte. Sperava che una casalinga inghirlandata di bigodini uscisse di corsa
fuori, si fermasse sul viottolo e dalla gola spenzolante carne molla erompesse
un garrulo e stridulo grido “E’ lui! E’ il tassista che ha investito quella
povera ragazza!” e Darma avrebbe fatto di sì con la testa e ninnoli sul petto
avrebbero ondeggiato e tintinnato e lui avrebbe teso i polsi e accettato il
giusto arresto.
Perché avrebbero dovuto arrestarlo,
di questo Darma ne era sicuro. Aveva compiuto un’azione riprovevole, l’aveva
compiuta per mero compenso e ora, adesso, era logico che pagasse. La poverina
era finita in ospedale, Darma l’aveva sentito per caso mentre ciabattava
pendulo dietro l’ampia schiena del proprio salvatore, e lei non gli aveva fatto
niente per meritare di finire in un lettino asettico, magari intubata, magari
in fin di vita, magari in coma…Era stato spinto dalla cupidigia, dalla
ricompensa e dalla prospettiva di passare ogni cosa liscia, di uscirne indenne
e continuare a scarrozzare turisti qua e là per Los Angeles senza noia alcuna
da parte dei poliziotti.
Gli piaceva scarrozzare turisti di
qua e là per Los Angeles senza noia alcuna da parte dei poliziotti, e poi
qualche dollaro in più –Tanti dollari in
più- non gli sarebbero dispiaciuti. E nemmeno a sua moglie. E Darma ci
teneva a Batari, voleva farla felice.
Ah, chissà che avrebbe detto sua
moglie, la sua dolce Batari, sapendo che lui era lì, a bighellonare, tremante
come un topo e coi capelli appiccicati alle tempie, alla ricerca di un
indirizzo e di un uomo che non gli riusciva di trovare! E’ che aveva paura e la
bocca dello stomaco grufolava e guaiva.
Però l’uomo che doveva incontrare era
l’uomo buono che l’aveva salvato alla centrale, col viso gentile e gli occhi
chiari, quindi cosa mai temere?
Dopo innumerevole scartoffie, prese
in giro sull’Indonesia, ore ad aspettare sotto lo sguardo ironico, prepotente
degli altri poliziotti, il signor Shea era comparso davanti a lui come un’epifania
divina e Darma si era subito fidato del suo volto buono e dei suoi occhi
chiari.
Vieni
con me
gli aveva detto e il cuore di Darma si era sciolto Sono venuto a prenderti. Andiamo via di qui.
Gli aveva messo una mano sulla
schiena, il signor Shea, lo aveva fatto alzare, gli aveva offerto il caffè e
scambiato uno sguardo di intesa con un collega. Un poliziotto aveva cercato di
protestare, dicendo che Darma doveva essere interrogato e per nessuna ragione
al mondo lo avrebbe lasciato andare, che la poverina era in ospedale e che era
necessaria un’inchiesta.
Il signor Shea, col suo bel sorriso e
il volto gentile e gli occhi chiari, si era chinato a sussurrare qualcosa all’orecchio
del poliziotto, che era sbiancato, balbettato, spalancato le palpebre come un
pesce e poi annuito. Darma era stato in grado di contare le goccioline di
sudore appese ai baffi marroni del poliziotto mentre il signor Shea lo
osservava soddisfatto e procedeva oltre. Aveva portato Darma fuori dalla
centrale, gli aveva detto di non preoccuparsi, gli aveva chiesto se poteva
aiutarlo in qualche modo e infine, prima di lasciarlo con una stretta di mano,
gli aveva detto di presentarsi per al massimo le tre notte in un dato indirizzo
di Croydon Avenue. Lì, gli aveva assicurato, avrebbe ricevuto l’altra metà di
compenso per il lavoro così egregiamente svolto.
Vicino al signor Shea era sembrato tutto
perfetto e senza fallo. Poi, via via che il tempo passava e si avvicinava l’ora
dell’incontro, a Darma le cose non era parse più così cristalline e lodevoli.
Al contrario, aveva cominciato a sentir montare il panico, il senso di colpa, e
l’idea che un ingranaggio, nel meccanismo losco e complice in cui si era
proprio malgrado trovato in mezzo, non fosse al posto in cui doveva stare. Chi
erano le persone che l’avevano ingaggiato? Chi era il signor Shea? Perché aveva
accettato? Oh, Batari, Batari…!
«Per fortuna, temevo non arrivassi
più.»
Darma sobbalzò alla voce calma del
signor Shea, dietro di lui.
«Non l’ho sentita arrivare.» si scusò
Darma e la bocca divenne arida nell’incontrare gli occhi dell’uomo.
Non era più gentili e caldi: erano
freddi, gelidi, lame, dischi di metallo, proiettili. Lo aspettava con le
braccia conserte al petto, la testa appena sporta in avanti e nessuna
espressione sulle labbra affilate.
Darma deglutì ed ebbe paura.
Raggomitolata sotto le coperte, la
guancia affondata nel cuscino e gli occhi fissi all’alone perlaceo dei lampioni
sulla finestra, Batari non ebbe neanche il più vago sentore di essere appena
diventata vedova.
Note
Abbiamo
cominciato il processo per consentire al soggetto di recuperare il suo calore,
nella speranza che il suo sangue sia ancora idoneo per le analisi. Non ho mai
assistito personalmente alla cosa, ma ho letto di casi dove un corpo
rapidamente congelato è stato completamente rianimato. ; non so se i vertici
siano più interessati alla rianimazione o ai suoi fluidi vitali ; Per quanto la
mia equipe fosse dubbiosa sul recupero da parte del soggetto, quanto sta
accadendo va oltre le mie più rosee aspettative: la temperatura corporea del
soggetto è stata aumentata nel corso di parecchie ore e le sue ferite sono
state suturate per evitare emorragie. Quando la sua temperatura è stata vicina
ai valori normali, le nostre supposizioni hanno trovato conferma...tessuti e
sangue erano ancora vitali. Gli abbiamo somministrato elettricità, farmaci
cardiopolmonari e adrenalina direttamente nel cuore. (Ed Brubaker’s
Collection – Il Soldato d’Inverno )
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Capitolo 4 *** { Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 } ***
owd3
{ Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 }
Cimitero
di Arlington, Washington D.C.
Tomba
di Nick Fury.
2013
Stark era sicuro Colin si sarebbe
bagnato i pantaloni nel vedere Natasha incedere verso di loro, i capelli color
sangue alla luce balbettante del sole. Invece, l’Agente aveva mostrato un
insolito sangue freddo: si era scostato e le aveva rivolto un abbassarsi veloce
della testa, un rispettoso inchino. La Romanoff aveva pressato le labbra, lo aveva
squadrato a lungo e con la fronte aggrottata, prima di accantonare
definitivamente la sua presenza per dedicarsi alla lastra ai suoi piedi.
Il
Cammino dell’Uomo Timorato, chi l’avrebbe mai detto? Mace Windu un fan
di Pulp Fiction. Quello proprio non lo sapeva e adesso gli era stato persino
tolto il gusto di rinfacciarglielo. Era simpatico, il buon Fury. Quanto un
calcio nei denti colpiti da ascesso o carie penetrante al quarto stadio, ma
simpatico. Un buontempone. Un nonnino sadico. Un’emerita testa di cazzo che si faceva ammazzare dal primo
cecchino che gli passava accanto e saltava sui tetti come una lepre o un gatto
spelacchiato.
Tony contrasse la mascella e allargò
le narici, inalò una generosa sorsata d’aria. Natasha si girò a guardarlo di
sbieco, gli occhi che mandavano lampi.
«Non far finta ti dispiaccia» sibilò,
velenosa.
«Non era il mio amico del cuore, ma
il suo lavoro sapeva farlo.» replicò il magnate, con un calma che non credeva
di possedere.
Non si disperava per Fury, non si
sarebbe sciolto le trecce, battuto il petto, né gettato della cenere tra i
capelli, pur tuttavia Tony aveva abbastanza senno per portare un po’ di
rispetto in quel momento inatteso, un rombo a ciel sereno che, ne era sicuro,
era un annuncio ancor più mesto e terribile delle trombe del Giudizio
Universale.
Non era un esempio di virtù, il caro
Nick, ma riguardo alle virtù Stark sapeva di doversene stare buono e zitto in
un angolino, a montare da bravo bambino una nuova armatura coi mattoncini delle
costruzioni.
Vedova Nera fu sul punto di
replicare: schiuse la bocca ad un ingorgo di parole, quindi scosse la testa e
si rivolse ad Hendrick, in disparte dietro di loro.
Era terrorizzante, la donna, faceva
paura: con le palpebre socchiuse e la bocca affilata, squadrò gelida l’Agente
di Livello Sei, a partire dalla testa fino alla punta delle scarpe. Le guance
si contrassero con un guizzo indispettito, e la russa serrò le braccia sotto il
seno. Così rigida, con le gambe a squadra, le spalle aguzze e i capelli rossi
ad incorniciarle il volto illividito dalla rabbia, dal dolore, dal sospetto,
avrebbe messo in fuga chiunque.
Tony, per precauzione, mosse un passo
all’indietro.
«Perché Fury voleva vederti?»
Colin prese un veloce respiro, con
l’aria di chi aveva risposto cento volte a quella domanda, ma sapeva di non
potersi sottrarre all’idea di doverlo fare altre mille. Drizzò la schiena,
marziale, intrecciando le dita dietro i reni.
Grazie al Cielo, aveva smesso i
solito abiti pescati certamente a caso dall’armadio per un più sobrio completo
alla S.H.I.E.L.D., nero con camicia bianca e cravatta scura; il sole appena
ottenebrato dall’aria cupa del cimitero, dalla situazione e da alcune nuvole sfilacciate
soffiava pulviscolo bianco e oro sui capelli corti, donandogli un’aria serena
ed incredibilmente tranquilla, incredibilmente pacifica.
Stark si ritrovò a pensare che non
avrebbe sfigurato in qualche congresso: ispirava tepore, ispirava fiducia.
«Il Direttore voleva un rapporto
completo sul signor Stark.» disse, placido, gli occhi azzurri che sostavano un
attimo nello sguardo allibito, e soprattutto infastidito, del magnate prima di tornare in quello imperscrutabile
di Natasha.
La russa inclinò la testa e una
ciocca rossa, in contrasto col bianco accecante della camicetta, sfrigolò su di
lei come sangue; le labbra modellarono un sorrisetto poco convinto, irridente,
i denti baluginarono in una saetta di belva che studi la preda prima di
attaccare. Affondò le unghie nelle maniche di lino, proprio sopra la piega del
gomito, le nocche s’indurirono e impallidirono, le vene spiccarono gonfie e
plastiche sul dorso delle mani.
«E Fury ti avrebbe ordinato di
incontrarlo di persona, di prendere
un aereo da Los Angeles» calcò le
ultime due parole con marcato scetticismo «Venire fino a New York, nemmeno a
Washington, per un rapporto su Stark?»
«Natasha, la tua stima nei miei
confronti mi commuove.»
«Non adesso, Stark.»
«Non c’era altro» Colin scosse il
capo «Glielo posso assicurare, miss Romanoff.»
Vedova Nera curvò le sopracciglia in
un arco perfetto, lo sguardo indurito dal dispetto quanto dal dubbio che
l’altro si stesse prendendo gioco di lei –Per quanto nessuno di mente, il
figlio di Howard ne era sicuro, avrebbe mai osato prendersi gioco di Vedova Nera.
Era molto probabile, comunque, che l’ultima volta in cui era stata chiamata Miss Romanoff, Colin nemmeno fosse stato
concepito.
«Natasha, Hendrick non mente.» si
fece avanti Tony «Credo sia geneticamente incapace di mentire: ha quasi avuto
una sincope quando ha cercato di negare che Chattanooga
Choo Choo provenisse dal suo cellulare.»
Colin tossì e finse di sistemare
l’attaccatura dei capelli alle tempie, in modo da coprire il goffo rossore che
gli aveva mordicchiato la punta dell’orecchio. Tony lo fissò con un sorrisetto
di vittoria stampato sul volto, gongolando ulteriormente quando l’altro sviò il
suo sguardo per concentrarsi sulle lettere in bronzo sopra la lapide di Fury.
«Il buon Nicky aveva più nemici di
me, il che è tutto dire.» continuò il magnate, allargando le braccia «E’
riuscito ad inimicarsi persino degli alieni, perché ti stupisci tanto se
qualcuno alla fine lo ha fatto fuori?»
«Il Direttore non è morto.» li
trafisse, metallica e fredda, la voce di Hendrick.
Natasha alzò il mento nella sua
direzione, gli occhi semichiusi e gli zigomi affilati tanto erano sporgenti,
tanto aveva contratto la mandibola. Era sul punto di ammazzare qualcuno o fare
a pezzi qualcosa, era palese –Ed anche comprensibile: Tony non aveva
dimenticato il modo quasi paterno con cui Fury le aveva cinto le spalle, la
prima volta che gliela aveva presentata nei panni di Agente S.H.I.E.L.D. e non
da Natalie Rushman.
«Il Direttore non può essere morto.
Non può averci lasciati così.» sibilò l’Agente, dando poi un calcio al
pietrisco e allontanandosi da loro, i pugni ficcati nelle tasche e la testa
incassata in mezzo alle spalle.
«Ottimo. Avevo chiesto un segretario
–Pepper aveva chiesto un segretario»
chiarì Stark «E voi mi avete mandato una Drama Queen.»
«Su una cosa ha ragione, però»
Natasha torse il collo ad osservare poco convinta la stele commemorativa del fu
Direttore dello S.H.I.E.L.D. «Fury non ci ha lasciati così.»
Long
Island, 2013.
(3
Giorni Fa)
Il locale era famoso per non essere
frequentato da gente famosa. A dire il vero, il locale era famoso per non
essere frequentato da gente che avesse un minimo di dignità e classe.
O anche solo rispetto per se stessi.
Era quel tipo di locale dove la gente
annegava l’essere se stessi dietro un
paio di cocktail infamati e infamanti, due o tre shots di liquido per
lavastoviglie e concludeva la serata sbavando sul legno lercio dei tavolini un
ributtante miscuglio oleoso di saliva e liquore a basso prezzo.
Era quel tipo di locale dove la
colonia di blatte nel bagno poteva citare in giudizio il proprietario per il
possesso dello stabile.
Era quel tipo di locale dove la muffa
cresceva agli angoli del soffitto come sotto le ascelle dell’ubriacone di
turno, e poi dentro le sue narici, nel suo cervello, nidificava nei polmoni,
nel cuore e infine dava il colpo di grazia stroncandolo con una trombosi o un
infarto del miocardio.
Era quel tipo di locale dove una
persone al pari di Hansel Gamble non avrebbe mai dovuto mettere piede: Hansel
Gamble era un personaggio a posto, diceva il capo del personale alla Cross
Technological Enterprises, faceva ridere tutti e forse aveva una tresca con
Sheila Danning, Responsabile delle Relazioni Pubbliche. Hansel Gamble era un
bravo Cristo e Capo Della Sicurezza, era nato a Monaco e quando parlava
masticava l’inglese come fosse un piatto di crauti. Forse era un po’ strano,
d’accordo, ogni tanto arrivava al lavoro con gli occhi opachi e la camminata
sbilenca, va bene. Talvolta non si capiva tanto cosa dicesse, ma perché era
nato a Monaco, eh, mica perché era ubriaco fradicio quando iniziava il turno.
La cosa bella di essere Hansel Gamble
era che tutti ti volevano bene perché venivi da Monaco ed eri il Capo della
Sicurezza –Con la maiuscola, sì, perché faceva più figo- e probabilmente avevi una tresca con Sheila Danning, delle
Relazioni Pubbliche.
La cosa magnifica di essere Hansel Gamble era che a fine giornata potevi
mandare al diavolo la sua identità cretina, indossare i panni dell’innominato e
innominabile ubriacone e sfondarti lo stomaco nel locale in cui l’adorabile
Hansel Gamble non avrebbe mai messo piede, neanche a staccargli le gambe e
lanciarle direttamente oltre la soglia.
Hansel Gamble, in fondo, non aveva
bisogno di annegare mostri e fantasmi del passato.
«Scusami, tu sei…Jeremy Renner?»
Clint Barton aveva spiaccicato il
fegato sul banco dei pegni perché ciò accadesse.
Occhio Di Falco, o quel che ne
rimaneva, roteò gli occhi annacquati sulla ragazza che gli aveva appena rivolto
la parola: stirò le labbra livide in un ghigno torto, ironico, per poi
sollevare la mano che teneva il bicchierino di Bruichladdich X4 e si grattò la
fronte con l’unghia del pollice.
«Sei un paparazzo?» sbiascicò, con
voce rauca -Ma che, a quanto sembrava, le donne trovavano parecchio attraente
ed eccitante. La ragazza si passò la punta della lingua sul labbro superiore,
mosse civettuola spalle e bacino, sbatté le ciglia ed emise una risata veloce e
argentina.
«Ma no, assolutamente!» esclamò,
quindi, ondeggiando le dita della mano destra, come a voler cancellare anche
solo la remota possibilità di essere una pazzoide armata di Reflex o anche solo
di un cellulare con fotocamera integrata.
Clint inclinò pesantemente la testa e
la osservò di sottecchi, le iridi slavate tra le ciglia sottili e tremule: aveva
le unghie lunghe, lo smalto sbeccato, il rossetto che colava all’angolo
sinistro della bocca, la ricrescita e le ascelle pezzate. L’adorabile vestitino
verde mela che indossava faceva difetto in vita e l’anellone di plastica color
crema sbatteva in modo inquietante contro il polso innaturalmente magro; le
scarpe erano un’accozzaglia vomitevole di lustrini argentati, i tacchi alti la
sostenevano per grazia divina, costringendola a claudicare con ondeggianti
passettini ticchettanti.
Quanto
siamo critici, questa sera. Non sei ancora abbastanza ubriaco, amico mio?
Facendo buon viso a cattivo gioco,
Barton sorrise di nuovo e si prese tutto il tempo necessario per appoggiare il
bicchiere, squadrare con studiato interesse la ragazza e nel frattempo gettare
un’occhiata di sbieco accanto a sé. Loki lo fissava con aria innocente, i
gomiti sul tavolo ed il mento puntellato sulle dita intrecciate: arcuò la bocca
a modellare un sorriso ferino, nell’accogliere il suo sguardo ammonitore, gli
occhi che brillavano, soddisfatti e maligni.
«Che ne dici se vai ad ordinare
qualcosa e continuiamo il piacevole interrogatorio, mh?» propose l’arciere e la
ragazza accettò di buon grado, scomparendo in un gran sbatacchiare e tintinnare
di ninnoli.
Perché
allungare così la tortura? Indagò Loki, inarcando un sopracciglio e fissando con
disinteresse l’ultima conquista della serata ordinare un drink gratuito con le
sole movenze dei seni Perché non portarla
nei bagni come le altre?
«Perché hai ragione tu, non sono
abbastanza ubriaco.»
Clint ingoiò l’ultimo sorso di
whiskey, quindi si sistemò alla meno peggio sullo sgabello disarticolato. Roteò
la testa in direzione del Dio Norreno, gli indirizzò un ghigno alticcio,
esausto.
«Speravo che la sua voce querula
potesse coprire il tuo bla bla antiquato
e senza senso.»
Loki schioccò la lingua contro il
palato, la carnagione pallida del volto che scintillava e baluginava alla luce
oleosa del locale.
E pensare che prima era soltanto un
mormorio fastidioso alla nuca.
Come, da residuato bellico che era,
si fosse trasformato in una entità fumosa e tangibile, Clint non era in grado
di spiegarlo: sapeva solo che da un giorno all’altro quella maledetta vocina
gli si era presentata seduta a gambe incrociate sul materasso di un Motel
lurido della Route 66, gli aveva sorriso con espressione serafica e da lì in
poi non gli era stato più possibile liberarsene.
Aveva sentito di gente talmente preda
dei sensi di colpa da avergli dato forma, nome e persino indirizzo di casa o
taglia dei vestiti, ma da lì a ritrovarsi la manifestazione tangibile del
proprio, letterale, strizzacervelli accanto alla tizia con cui aveva passato la
notte…Bhè, Barton aveva capito di essere ancora capace di stupirsi.
Certo, Clint aveva compreso fin
troppo facilmente come l’altro fosse un cancro germogliato e metastatizzato
dacché Natasha l’aveva ricalibrato con un pugno in testa e lui aveva cercato di
lasciarsi il mondo alle spalle. Il mondo e i morti -Una morte, in particolare- e quello, forse, dannazione, accidenti,
era la punizione per aver cercato di dimenticare, di scordare la pioggia sulle
guance e il tuono nel cuore, l’accozzaglia di persone vestite a lutto, la bara
calata nel terreno, la commemorazione, i discorsi, il cielo plumbeo, l’urlo
vomitato senza voce nel cuscino strappato a metà perché colpevole di avere
ancora il suo odore, ma non il suo
corpo, non i suoi occhi, non il suo tocco, non il suo cuore.
Aveva scoperto che l’unico modo per
zittire il vocio di Loki era ubriacarsi fino a perdere conoscenza, fare sesso
fino ad avere le ginocchia molli e i fianchi distrutti, abbrustolire il fiato
unto del norreno con una boccata catarrosa di tabacco.
Clint detestava svegliarsi con una
pressa al posto delle tempie, detestava trovarsi accanto chiunque, detestava tossire e soffrire di broncospasmi dolorosi e
improvvisi, detestava dover bloccarsi, appoggiare una mano alla parete più
vicina per non collassare a terra, le viscere praticamente in bocca e i bronchi
in cortocircuito.
Però detestava ancora di più la figura
sinuosa di Loki a fargli da ombra e coscienza, il suo incedere di fumo ad ogni
passo, le sue dita allungate, eleganti, che tessevano nebulosi arazzi di sangue
e proiettili e frecce esplosive, e trasfigurava l’aria e l’etere e lo riportava,
mero spettatore, ad un anno prima, alla gabbia, dietro le sbarre.
Preferiva morire di mano propria,
piuttosto che farsi uccidere dalla malia di quell’hippie bastardo.
Strano.
Ricordo diversamente. Considerò il Dio e gli era alle spalle, ora, le labbra
sottili sussurravano nenie e litanie all’orecchio e Clint cedeva, s’arrendeva,
si genufletteva, il sangue ribolliva, perdeva la presa, la volontà si disfaceva
in filamenti vani inutili, patetici Ricordo
che la mia voce riempieva il tuo cuore. Riempiva il tuo animo spossato. Il tuo
spirito preda della bugia della libertà. Ricordo che non avevi più dubbi,
allora, ed eri quieto solo se prostrato ai miei piedi…
Con le dita che scattavano, nervose, e
i polsi tremanti, l’arciere rovistò nelle tasche della giacca –Le sigarette,
dov’erano le sigarette? Dove l’accendino che canta e che guizza, dove la
fiammella che balugina e sorride e tiene lontano il Maligno e illumina e salva,
dove dove dove?
Annaspando in cerca di aria, la presa
di Loki sempre più vigorosa, sempre più inarrestabile, Clint rovesciò sul
tavolo tutto quello che aveva: portafogli, documenti, fazzoletti
appallottolati, il vecchio distintivo, scontrini, il numero di Sheila Danning,
ed eccole, infine, intonate oh Angeli di tabacco un coro di Hallelujah!, il
pacchetto di Camel e l’accendino.
Sfilò una sigaretta, la strinse tra i
denti e succhiò, avvelenandosi ancora prima di accenderla; curvò la schiena,
serrò le palpebre, nascose lo schiocco del fuoco dietro la mano a coppa,
aspirò. Il fumo gli si rovesciò nei polmoni, guaì, latrò e Loki uggiolò,
stridette, maledisse il cielo, scoppiò ed esplose in un tripudio di bestemmie.
Barton avvertì le ciglia bruciare
quando il primo refolo gli abbandonò la bocca schiusa, i nervi rabbrividirono,
gemiti scricchiolanti si dipanarono lungo le vene, gli strapparono il midollo e
fracassarono le vertebre.
Stava già per ingoiare una seconda
boccata, quando l’occhio gli cadde sul distintivo dello S.H.I.E.L.D.
Non l’aveva buttato. Era un ricordo
di Coulson. L’aveva ricevuto dalle sua mani e alle sue sole mani lo avrebbe
restituito, qualora avesse avuto il coraggio di accettarne la morte. Fino a
quel momento era rimasto un semplice disco di metallo, col simbolo dell’Agenzia
splendente nei suoi dettagli di grigio metallo.
Appunto, fino a quel momento.
Sull’anello esterno, alto appena una
manciata di millimetri, era comparsa una stringa di numeri –Coordinate?- ed una
parola. Non aveva significato, per lui, non aveva idea di cosa volesse dire. Esisteva,
al mondo, un’unica persona che avrebbe utilizzato quel modo, per
comunicargliela, e se era arrivata a tanto, allora la situazione doveva essere
più grave del previsto.
«Ecco qui. Scusa se ci ho messo
tanto.» cinguettò la ragazza senza nome, posandogli davanti un boccale di
qualcosa e osservando schifata la quantità di roba accatastata nel poco spazio
del tavolino.
Clint sorrise, di nuovo sobrio oppure
non del tutto ubriaco, trascinò indietro la sedia, si mise in piedi, le scoccò
un bacio sulla guancia e le piazzò in mano una banconota da cinque dollari.
«Perdonami, dolcezza, sono stato contattato
dal mio agente: mi hanno rinnovato il contratto come Occhio Di Falco e intendo
proprio accettare.»
Località
Sconosciuta.
2011.
Appunti
del Medico.
I Supervisori del progetto ci hanno intimato a
procedere quanto prima con i test. A nulla sono valse le mie repliche, non
hanno voluto ascoltarmi: il soggetto è refrattario ad ogni sorta di anestetico,
i sedativi non hanno alcun effetto. Abbiamo cercato di immobilizzarlo, ma il
soggetto ha reso vano anche quest’intervento liberandosi senza difficoltà
alcuna da cinghie e legacci.
In queste condizioni è ovvio che non possiamo
procedere come vorremmo e ottenere così i risultati tanto sperati e agognati
dai vertici dell’operazione.
Hanno chiesto al Dottor Marlowe di intervenire,
sebbene io abbia poche speranze a riguardo. Cosa potrebbe mai fare, lui, che i
nostri medicinali e i nostri metodi non sono in grado? Come intervenire, se il
soggetto nemmeno parla, nemmeno considera la nostra presenza?
Vorrei poter dialogare con lui. Chiedere.
Ascoltare. Non so da
cosa derivi questa mia convinzione, eppure sono sempre più convinto ci sia
molto di più, dentro di lui, dietro quegli occhi che ostinatamente non
abbandonano i nostri volti. Qualcosa di grande e terribile, in grado di far
sanguinare il cuore e stritolare il fiato tra le dita.
Non so che dire, non so cosa pensare. Non so cosa
vogliono i Supervisori, né chi ci ha messo a capo di questo progetto. Non so
perché questo progetto esista e mi sento confuso.
Mi sento perso e spaesato, proprio come il soggetto,
mi vedo nello specchio della sua persona, c’è il mio riflesso, lì, e non
capisco cosa ci faccia. Non capisco troppe cose.
Sembrava tutto chiaro quando era il Dottor Marlowe a
spiegarci. Sembrava tutto cristallino e non avevo domande. Ora, invece, che
siedo nel mio studio con la sola compagnia di una penna, di una luce e di
questo diario, ogni cosa mi sfugge di mano. È come…E’ come uscire da una nebbia
e i pensieri, dapprima offuscati e torbidi, cominciano a riprendere coscienza
di sé, mi chiamano, mi chiedono aiuto. Perché esistiamo, essi domandano, Perché
ci hai formulati? Qual è la risposta?
Lontano dal Dottor Marlowe il mondo è oscuro, la mia
mente piena di dubbi.
Vorrei poter parlare da solo col soggetto.
Chiedergli come ha la forza di dibattersi, dove l’ha trovata, per quale motivo
mi sento intrappolato in una rete e perché i suoi occhi mi inchiodano alla
parete, al suolo, all’aria stessa che respiro, quasi fossi io l’esperimento e
non lui.
Sono confuso. Giusto e sbagliato, fatico a ricordare
finanche perché sono qui. Chi ha mandato. Perché. Cosa dovrei fare. Come
procedere. Per quale fine.
Devo parlare col Dottor Marlowe. Devo parlare col
Dottor Marlowe al più presto.
RFD
Washington, Washington D.C.
Penn
Quarter. 810 7th St. NW
Colin non aveva spiccicato parola
durante il tragitto dal cimitero di Arlington fino al pub. Molto probabilmente
nemmeno voleva finire la propria giornata in un pub, ma Tony sentiva il bisogno
fisico di triturare lo stomaco con
gli alcolici e quindi la decisione era stata presa, la macchina messa in moto.
Un tavolo appartato e la luce del
pomeriggio che tagliava il locale di traverso, Stark non aveva dato il tempo
all’altro di sedersi che già s’era involato al bancone e ordinato per entrambi.
Hendrick non aveva fatto una piega,
sebbene fosse evidente quanto poco gli andasse a genio l’idea, e il magnate
ringrazia per aver tenuto la bocca cucita e lo spirito proibizionista muto.
Non aveva la forza, la non aveva la voglia di sorbirsi una ramanzina su
quanto poco fosse salutare ubriacarsi alle quattro, alle cinque, a che
accidenti di ora era: aveva soltanto bisogno di mettersi a tacere per un po’,
smetterla di pensare, di agitarsi e di dibattersi come un pesce fuor d’acqua.
Aveva bisogno del torpore che solo una sbronza in piena regola era in grado di
dargli: Colin era utile unicamente come chauffeur.
Della sua compagnia, altrimenti,
Stark avrebbe fatto volentieri a meno.
Già non dormiva da un numero
considerevole di ore, a stento era in grado di prendere un respiro che non
fosse un rantolo irrancidito dal panico, faticava a ricordare l’ultima volta
che aveva posato la testa sul cuscino o su qualunque altra superficie
orizzontale senza sognare il gorgo flatulento sopra Manhattan.
Quel maledetto cerchio di fumo,
ribollente di Chitauri, di fuoco, quell’inferno di astri e ringhi che ancora
minacciava di sopraffarlo, di inghiottirlo. Lo ghermiva ogni volta che chiudeva
gli occhi, lo afferrava, lo trascinava a fondo, lo schiacciava, lo stritolava,
giù sempre più giù, dove non c’era luce, dove non c’era aria, dove non
esistevano neanche le stelle.
Dissimulando un ansito dietro un
colpo di tosse, Tony annegò il principio di soffocamento con una generosa
sorsata di qualunque cosa ci fosse nel bicchiere –L’importante era che lo
rintronasse abbastanza da metterlo fuorigioco. Avrebbe persino ricorso alla
benzina, fosse servito a tenerlo distante dalla realtà e dall’ansia.
L’Agente drizzò gli occhi chiari
verso di lui e subito li riabbassò, storcendo l’angolo della bocca. Stark finse
di non vederlo per un paio di secondi, stette al gioco, osservò un paio di
avventori e diede il proprio (pessimo) giudizio all’arredamento del locale,
prima di passarsi la mano libera tra i capelli, schiarirsi la gola e dedicare
cinque minuti della giornata al vivere civile e alle relazioni sociali di base.
«Facciamo così.» propose, conciliante
«Hai una frase, d’accordo? Una frase per dirmi cosa ti ronza nel cervello,
quindi vedi che sia una frase di senso compiuto e diciamo sopra la media delle
idiozie comuni solitamente sparate dalla gente in lutto, intesi? Una frase e se
rispetterà queste condizioni potrei anche decidere di posticipare il mio coma
etilico.»
Hendrick rizzò le sopracciglia,
squadrandolo con un malcelato disgusto ed una punta di fastidio. Tony rispose
alla muta provocazione con un ghigno da manuale nel mentre che s’aggiustava
contro lo schienale della sedia.
«Allora?»
«Beva e stia in silenzio, per
cortesia.»
«E’ la prima volta che perdi un
soldato?»
Colin spalancò gli occhi, stupito:
ogni traccia di rancore svanì dallo sguardo ora perplesso, indeciso, tentennante.
Qualcosa passò dietro le sue iridi, un ricordo che Stark non fu in grado di
decifrare –E di cui, del resto, non gli importava poi un granché.
Forse.
Il giovane s’umettò il labbro
superiore, deglutì e scosse il capo.
«No.» rispose, il tono appena più basso
di quanto Tony si sarebbe aspettato «Lei?»
«Sì.»
Di nuovo, una nota di palese
perplessità nell’espressione altrimenti seria di Colin ed il magnate ingoiò un
altro sorso di alcool per spazzare via il nodo alla gola, il dolore sordo al
petto, la cenere che graffiava e scorticava i polmoni.
«Chi?»
«Non sono affari tuoi, Hendrick.»
L’Agente gli rifilò un’occhiata di fuoco
tanto rapida che a Tony venne il dubbio di averla solo immaginata. Aggrottò le
sopracciglia, socchiuse le palpebre, si grattò a punta di dita la linea della
gola e strofinò il palmo contro il mento. Hendrick, a disagio, si chiuse nelle
spalle e accartocciò le labbra, abbassando gli occhi sul sottobicchiere in
plastica: il figlio di Howard poteva intravedere un frammento azzurro d’iride
bagnato in un singhiozzo di sole e da un singulto paglierino della sua birra
chiara ormai priva di schiuma.
«E’ che…» esordì Hendrick, disegnando
una figura imprecisata sopra le venature del tavolo «Non riesco a togliermi
dalla testa l’idea che se fossi arrivato prima, se non avessi tardato, sarei
riuscito a…A salvare il Direttore.»
«No. Non ce l’avresti fatta.» replicò
Tony, tirando poi su col naso «Avresti finito col farti uccidere a tua volta.
Ho letto il tuo curriculum, Hendrick, guardiamo in faccia la realtà: non sei
niente di eclatante.»
Colin incassò il colpo con grazia da
manuale: addirittura, simulò un sorriso che sì, no, forse, in una realtà
alternativa appositamente costruita per l’occasione, sarebbe anche potuto
essere convincente.
«Non sono niente di eclatante, già.»
sussurrò «E non sono neanche la signorina Potts. Mi chiedo cosa ci faccio
ancora accanto a lei, signor Stark.»
«Fai sì che io abbia il mio apporto
di zuccheri e carboidrati senza glutine tutte le mattine.»
Prima di ogni replica, di una risata
o di un commento poco ripetibile, si frappose un brusio, qualche mormorio di
protesta, il fischio del televisore mal sintonizzato: Hendrick, che aveva lo
schermo proprio di fronte, alzò la fronte e impallidì di colpo. Quel perdere
improvviso di colore mise Tony sull’attenti, così come l’atmosfera tesa del
locale, i volti impauriti, le mani alla bocca, le sedie scostate con violenza,
gli occhi sbarrati.
Il magnate si girò di scatto e lo
stomaco si contrasse con un ringhio nel vedere la televisione eruttare fiamme,
boati, un SUV che esplodeva nel centro di Manhattan, e poi fumo e una strada buia,
un inghiottitoio di asfalto e piscio, un corpo noto, fin troppo noto, disteso,
lo zoom traballante sul foro alla nuca, sul sangue, Fury, Nick Fury nell’inquadratura
danzante della telecamera. E infine, nel tetro silenzio che aveva investito
tutti come un’onda in pieno, una voce melliflua e sardonica, di potenza e
sapere antichi quanto il tempo stesso.
«Alcuni
mi definiscono un terrorista: io mi considero un Maestro.
America…Pronti
per un’altra lezione?»
Note Finali
Hansel
Gamble è un gioco di nomi, dai film “Hansel&Gretel: Cacciatori di Streghe”
e “S.W.A.T.”. Clint Barton ha davvero lavorato per la Cross Technological
Enterprises come Capo della Sicurezza e Sheila Danning è il loro Responsabile
delle Relazioni Pubbliche.
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Capitolo 5 *** { Provvidenza E Non Detti ~ File 0.4 } ***
ood4
{ Provvidenza E Non Detti ~ File 0.4 }
49 27
41 82 3 40
Canada,
2013
Natasha pressò la sciarpa contro la
bocca e i chicchi di neve pizzicarono ridendo il tessuto.
Il sole abbacinava, sospinto sui rami
gravidi e informi, respinto da una parte all’altra del cielo così azzurro da
far male, e riflesso sui declivi lucidi ispessiti di ghiaccio compatto. Camminò
ancora per qualche metro, quindi alzò la testa, una mano a schermarsi la
fronte: non c’era niente, all’intorno, tranne la selva trapunta di goccioline
balbettanti. Non un rumore, se non il proprio respiro ovattato e scomposto,
unito allo scricchiolare di minuscoli cristalli sotto gli scarponi.
Cosa dovesse cercare, Vedova Nera non
lo sapeva, ma era certa l’avrebbe trovato. Estrasse da una tasca del giaccone
il cellulare e ricontrollò le coordinate, aggiornando la mappa e seguendo
attenta le linee che andavano disegnandosi sullo schermo palpitante aloni
bluastri. Non doveva essere lontana dal posto che non poteva in alcun modo
mancare, dal punto disperso da qualche parte nel mezzo delle foreste canadesi.
La spia assottigliò la bocca,
stringendosi soltanto un paio di secondi nelle braccia.
Non che avesse freddo, per carità: la
tuta termica la proteggeva dal vento che mordeva senza sosta la porzione di
viso scoperto, e bloccava sul nascere qualsiasi brivido sbocciasse al di sotto
della nuca. Con le ciglia imbrinate di neve, Natasha socchiudeva le palpebre
alla ricerca di un dettaglio, un particolare, qualunque segnale riconoscibile
da lei e lei soltanto.
Ingoiando un’imprecazione silenziosa
salita fino alle labbra, la donna si rimise in cammino.
Mentre si creava da sé un sentiero
tra i cumuli più o meno duri di neve, si chiese ancora una volta per quale
motivo Fury le avesse inviato quelle coordinate.
Se infatti aveva più di un dubbio
sull’utilità delle cifre ancora marchiate sull’anello esterno del distintivo,
non ne sussisteva alcuno su colui che le aveva mandate: ricevere il distintivo
dalle mani del Direttore era un onore concesso a pochi e un onere per una
cerchia molto più ristretta di individui –Tuttora Natasha aveva ipotesi, ma non
dati certi sui componenti del circolo segreto di bridge. Per quanto, comunque, le
proprie ipotesi avevano il novantanove virgola nove percento di verità. Il che,
al momento, le provocava tremore e sospetto all’insieme, un morso di solitudine
allo stomaco. Il medesimo smottamento d’animo che l’aveva colta alla notizia
della per lei presunta morte di Fury.
Non era stato possibile determinare
con esattezza il momento preciso, soltanto una forchetta temporale abbastanza
affidabile: certo era che, quando l’Agente Hendrick era arrivato all’appuntamento
con un ritardo stimato di circa venti minuti, il corpo del Direttore era ancora
caldo, seppur privo di vita.
Nessuna traccia del cellulare da cui
molto probabilmente Nick aveva inviato le coordinate, il che dava adito a due
soli scenari: o erano state spedite un secondo prima del proiettile e
l’assassino aveva poi trafugato l’oggetto in questione, oppure Fury aveva
lasciato come ordine che esse fossero mandate ai diretti interessati –Alla diretta interessata si impose di
pensare Natasha, giacché era impossibile che gli altri due l’avessero ricevute-
nel caso gli fosse successo qualcosa.
Nessuna delle due ipotesi dava spazio
all’eventualità che il Direttore si fosse salvato, pur tuttavia se era stato
lungimirante al punto di architettare un simile piano, era altamente
improbabile non avesse considerato una scappatoia alla morte stessa.
Si stava parlando di Nick Fury, in
fondo.
Nel fitto di queste considerazioni,
Natasha calcò meglio il cappuccio e deglutì un fiato denso, gelato e amaro, con
la coscienza di star perdendo lucidità, ragionevolezza e sensibilità agli arti.
Si ricordò allora di un inverno di
tanti inverni prima, lontani dalla memoria e dal cuore. Ricordò delle nuvole
grigie e della steppa color tormalina, nera o verde slavata o tiepido azzurro o
spruzzata di rosa pallido alla luce diluita del sole russo. Ricordò il
borbottio del samovar e della zolletta di zucchero sulla lingua, il caffè che
ciangottava amaro tra i denti.
Poi si riscosse, perché nulla di
veritiero esisteva nella memoria fallata e rivista e rivisitata troppe volte.
Svuotata e colmata di nuove immagini, aveva un’identità per ogni personaggio e
un corredo di smaglianti ricordi adatto e invecchiato appositamente per la
missione affidatale dalla Mano.
Per quel che le interessava ed
importava, un reale concetto di riportare
alla mente cominciava con lo scoppiettio dei proiettili per le strade di
Budapest, la consistenza ruvida della garza sotto le dita mentre l’avvolgeva
attorno al torace di Clint ed il primo sguardo significativo che si erano
scambiati, che tutto aveva detto e nulla aveva taciuto.
Attraverso gli arzigogoli del
paesaggio sempre uguale, avanti per sentieri ritorti e deviazioni improvvise,
prive di qualunque segno di cosa viva o struttura dello S.H.I.E.L.D., Vedova
Nera arrivò infine ad uno spiazzo circolare incorniciato di abeti e solcato da
una striscia di rocce, conficcate nel terreno come merlature sul cornicione
perimetrale di un castello.
Un’atmosfera così da tranquilla da porla
immediatamente in allerta. Abbassò il cappuccio e osservò le ombre in mezzo ai
tronchi, i rigagnoli di sole che falcidiavano rami e fronde e l’ossigeno che si
condensava in soffusi respiri davanti alla bocca schiusa.
Con la punta del piede Vedova Nera
smosse un poco di neve, sporcandola inevitabilmente con la terra sottostante;
scoperta così una pietra non più grossa del proprio pugno, si chinò a
raccoglierla, la strinse tra le dita tintinnanti di circolazione di nuovo
attiva, la fece rimbalzare un paio di volte sul palmo e infine la lanciò.
Un frusciare rapido, da un cespuglio
emerse la figura spigolosa e grossolana di un mitragliatore ed ecco il piccolo
sasso finire la parabola in un tripudio di schegge e sibili.
Natasha arcuò le labbra in un ghigno
soddisfatto e le sopracciglia sfiorarono l’attaccatura dei capelli alla fronte,
gli occhi balenarono di divertimento ferino.
Il puntatore dell’arma le si volse
contro con freddezza.
«Identificarsi.»
ordinò, cigolando un poco nel ruotare sul punto di giuntura col corpo
principale.
«Agente Natasha Romanoff. Nome in
codice: Vedova Nera.»
La canna della mitragliatrice emise
un ronzio e si sollevò, rizzandosi compito come un soldatino diligente.
«Benvenuta, Agente Romanoff. La
stavamo aspettando.»
«Ma non mi dire.» mormorò la spia,
roteando gli occhi al cielo e non facendosi remore a far trasparire una nota
piuttosto acida di sarcasmo.
Il costone di roccia poco distante da
lei ruggì e scivolò lateralmente su cardini nascosti: dietro di esso un
corridoio che sprofondava nel terreno, alte pareti a compartimento stagno e
oblunghi neon che dal soffitto spandevano sui lastroni pavimentali una luce
spettrale e oleosa.
Senza aspettare l’invito ad
accomodarsi, Natasha scese lungo la pedana e gettò una veloce occhiata alle
casse stipate nella curva a gomito a conclusione del corridoio, agli zaini
penzolanti dai ganci proprio alla destra e al pannello di controllo esattamente
davanti.
«Benvenuta, benvenuta, Agente
Romanoff!»
E dal costolone dopo gli zaini sbucò un
uomo tracagnotto e vitale, con la faccia piena e un accenno di doppio mento; il
cordoncino blu elettrico del badge sobbalzava sulla cravatta scura a righe
bianche a causa del respiro affannato.
«Che posto è questo?» domandò Vedova
Nera, graziando il collega e non gelandolo con uno sguardo solo in virtù del
fatto che non l’aveva chiamata Miss –Ancora
non sapeva se freddare l’Agente Hendrick con profondo disprezzo o appenderlo
alla terrazza della base Fridge, per quell’appellativo ridicolo.
«Io la chiamo Providence» rispose l’uomo, ligio e inappuntabile nel suo completo
antracite con camicia azzurro chiaro «Anche se tecnicamente non ha un nome
perché, tecnicamente, non esiste. Essendo una base segreta con tutti i crismi.»
«Molto bravo.» commentò Natasha e, da
come l’altro s’era ringalluzzito con un gran tremore della pappagorgia, intuì
che la pungente ironia con cui aveva intriso la frase non era andata a segno.
«Se lei e i suoi…» l’Agente corrugò
le sopracciglia e corrucciò il viso in un’espressione perplessa. Si alzò sulle
punte dei piedi, per spiare un qualcosa di imprecisato dietro la spia. Questa,
dal canto proprio, si limitò a sbattere le palpebre e aspettare che l’uomo
desse una spiegazione degna di questo nome.
«Io e i miei?» gli diede l’imbeccata
dopo l’imbarazzante silenzio in cui il collega si era trincerato.
«Lei e i suoi…E’ venuta da sola,
Agente Romanoff?»
Un grido di allarme riverberò senza
voce attraverso i muscoli e la spina dorsale della donna.
«Sì. Sono sola» i nervi si tesero con
un guizzo «Perché?»
«Bhè. Dalle direttive ricevute, oltre
a lei aspettavo altre due persone.»
Bus.
Spazio
Aereo Sconosciuto, 2013
«Ricordi quando sono venuti a
prenderti?»
Se anche la domanda l’aveva colta
alla sprovvista, l’Agente May non ne fece mostra.
Con gli occhi attenti all’orizzonte
fuori dall’abitacolo, attese con pazienza al limite dello zen che Coulson
rispondesse alla domanda retorica con qualcosa che nulla aveva da spartire con
le corse a piedi nudi nei vicoli di Coloane o il bugigattolo dentro cui l’aveva
stanata, non molto dissimile da un randagio tutt’ossa per aspetto e capacità di
sgattaiolare fra le gambe di qualche energumeno dotato di distintivo.
«Io sì.» e Melinda espresse il
proprio disappunto contraendo sapientemente la mandibola.
Quel gesto non apportò alcuna sostanziale
modifica nelle intenzioni di Coulson, badate bene, ma almeno ebbe il potere di
rasserenarla ed impedirle qualsiasi rivelazione mistica non richiesta.
Sul Bus l’aria era tesa e impregnata
di lutto. La notizia della scomparsa di Fury li aveva colpiti allo stomaco e
aveva per un istante minato la solidità degli intenti, la validità delle
motivazioni –May, soprattutto, aveva avuto il proprio attimo di smarrimento
quando dalla linea criptata non le era arrivato nulla di più che uno smorto
ronzio di fondo.
La missione che le era stata affidata
andava ben oltre il Direttore, questo le era stato ribadito più volte, tuttavia
non poteva negare che adesso guardare Coulson in faccia e tacere era diventato
ancor più arduo.
Forse Skye era stata l’unica, del
loro esiguo equipaggio, a non subire gli effetti destabilizzanti della notizia.
Ma Skye aveva per loro la fiducia di un condannato a morte nei confronti del
boia, quindi la cosa non era rilevante. Finché avesse continuato a girellare
con quella sua aria spaurita e circospetta da gattino fradicio abbandonato
sotto la pioggia, senza dare fastidio o creare danni, allora Melinda avrebbe
accettato la sua presenza e avrebbe accantonato l’idea di gettarla fuori bordo
al primo attimo di distrazione della squadra.
«Ero al Liceo.» Phil prese un respiro
e reclinò la nuca sulla testiera del sedile imbottito –Il che fece pensare a
May di essere appena stata assunta al ruolo di psicologa. Cosa quanto mai
comica, considerando ciò per cui era stata davvero chiamata a fare sull’aereo.
«A volte mi sembra ieri. Altre un tempo un po’ più lungo.»
«Non riesco ad immaginarti come un
ragazzino del Liceo.» confessò Melinda, osservandolo di sbieco e rivolgendogli
un sorriso a fior di labbra.
Phil rise e scrollò le spalle, le
sopracciglia che disegnavano un arco stranamente tranquillo e pacifico sulla
fronte piana. Ricevuta la chiamata di Maria Hill, tre giorni prima, Coulson si
era ritirato nel suo alloggio senza dire una parola e non era uscito che dopo
un paio d’ore.
May, convinta di trovarlo disfatto e
preda della più completa disperazione, già pronta a tendergli una mano e
prendere nota di qualsiasi cambiamento, di qualsiasi stranezza a livello di
comportamentale, sbalzi d’umore o attacchi di rabbia, era rimasta allibita nel
vederlo scendere pimpante e arzillo, senza un pensiero al mondo o lacrima negli
occhi.
Entrato nell’abitacolo, Melinda si
era stupita non si fosse messo a saltare od esternare la sua innegabile gioia
con qualche ben poco professionale squittio ed inquietanti amenità di sorta. Si
era seduto al posto del co-pilota, le aveva dato alcune coordinate e invece di
spiegarle per quale motivo dovesse trascinare tutti nel nulla di una foresta
canadese, aveva cominciato a rivangare il passato in un dialogo unilaterale
amaro e dolce all’insieme.
«Oh, ero molto diverso da ora» l’Agente
annuì «Più magro, innanzi tutto, e niente taser. Fury si è presentato con un’inguardabile
camicia bianche a righine nere, gilet color senape e pantaloni verdi.»
Al silenzio imbarazzante e a tratti
vagamente perplesso di May, Phil giustificò l’abbigliamento con un serafico Erano gli anni Ottanta.
«Io me ne stavo seduto a leggere un
albo a fumetti di Capitan America, con due pezzetti di carta nel naso dopo l’ennesimo
pestaggio dei bulletti che frequentavano –Forse frequentare è una parola grossa, insomma, hai capito- la mia
scuola, quando mi si presenta quest’uomo di colore, enorme, con la faccia
arcigna, la benda sull’occhio come un pirata» e qui, chissà perché, Phil si
coprì l’orbita sinistra con la mano, per rendere l’idea «E la bocca serrata,
quasi indispettita. Incuteva timore e rispetto, nonostante i vestiti
improbabili, così appena mi ha detto di alzarmi e seguirlo per una
chiacchierata, ho chiuso il giornaletto e ho obbedito senza pensarci due volte.
“Non ricordo esattamente cosa mi
disse» ammise «E’ come un film muto, posso vederci mentre camminiamo sul
marciapiede, lui con le spalle e la schiena dritta e un angolo delle labbra
sollevato a stringere un sigaro invisibile e poi io, subito accanto, un
ragazzetto mingherlino e smunto, con le dita serrate ad un vecchio fumetto e lo
sguardo a metà tra l’impaurito e l’adorante. Posso ancora vedere i mattoni
rossastri dell’edificio, la rete metallica che separava il giardino giallognolo
dall’asfalto polveroso, posso persino sentire l’odore ripugnante del cibo della
mensa e lo sfrigolio del baracchino di hot dog dove Fury si è fermato per
offrirmi la colazione.»
Una risata quieta e Melinda si trovò
proprio malgrado avvolta dall’intimità di quel ricordo, tanto diverso dal
proprio, scapicollato approccio avuto con lo S.H.I.E.L.D.
Avevano dovuto inseguirla in tre per
almeno due ore tra le stradicciole ingombre di sporcizia e mendicanti, all’interno
di casinò stipati di gente sudaticcia e viscida, inglobata dalle luci
singhiozzanti delle macchinette cinguettanti.
«So che ad un certo punto gli ho
chiesto Perché io? Mi prendono sempre a
botte quando vengo a scuola e lui, addentando il suo panino, mi ha guardato
mi ha risposto: Perché non ti sei mai
nascosto a casa per fuggire. Ora capisco che c’era più di una motivazione
dietro alla sua scelta, ma all’epoca quella frase mi colpì: sottendeva un
coraggio ed una testardaggine epica di cui nessuno mi aveva mai fatto parola e
di cui persino io non ero a conoscenza.
“Era come se avesse messo in luce un
lato della mia persona che fino a quel momento mi ero negato da solo, senza
saperlo. Salii in macchina, allora, e scoprii che ad attenderci c’era un’altra
persona: un uomo alto, con le maniche di camicia arrotolate sopra i gomiti, i
baffi e i capelli già un po’ radi alle tempie e sopra la fronte. Quest’uomo mi
guardò e gli occhi gli caddero sul fumetto che ancora tenevo in mano. Di’ un po’ ha cominciato, accennando al
giornaletto con la punta del dito e ricordo che aveva la voce impastata e l’alito
aveva il retrogusto stagnante dei liquore, nonostante fosse solo metà mattina Ma l’hanno già raccontato di quando abbiamo
dovuto travestire Rogers da donna per farlo entrare in Europa?»
L’Agente May si concesse di allargare
il sorriso e due fossette sbocciarono sulle guance, ai lati della bocca.
«Howard Stark?» chiese.
«Howard Stark.» confermò Phil «E’
stato alcuni anni prima del suo incidente.»
Non dissero altro per alcuni minuti,
per non rovinare l’atmosfera così pacifica, per non coprire i sussurri e i
mormorii della memoria, per non bloccare lo scorrere melanconico degli anni che
furono. Solo quando gli strumenti di bordo segnalarono l’approssimarsi al punto
di arrivo, May si decise a voltarsi verso Phil.
«Perché siamo venuti qui?»
Coulson sollevò il mento e
assottigliò la bocca, umettandosi velocemente le labbra.
«Fury è ancora vivo, May.»
Melinda tacque, ma al silenzio s’accompagnò
un brivido ghignante alle braccia e alla base della schiena.
«Le coordinate» chiarì Coulson «Sono
state mandate sicuramente dal Direttore al distintivo che mi ha dato lui. E’
ancora vivo, May.» deglutì «Non so cosa stia succedendo, ma dovremmo essere
ancora più cauti adesso: è probabile che la nostra missione venga accantonata,
la nostra squadra divisa. E’ probabile che veniate assegnati ad altro o magari
chiamati a stanare il Mandarino, non lo so. Accada quel che accada ti affido
tutti loro, Melinda: se è stato Fury a convocarmi, se c’è Fury ad aspettarmi
alle coordinate che mi ha inviato, voglio scoprire cosa vuole da me, la ragione
di tanta segretezza e cosa lo ha spinto ad inscenare il proprio funerale.»
Località
Sconosciuta.
Sala
Medica, 2011.
L’aria era tesa, i volti scavati dall’ansia,
illividiti dal disagio.
In seguito al brusco risveglio del
soggetto, dai piani alti avevano stabilito che il manipolo di guardie non era sufficiente
ed esso era stato affiancato da una task force più addestrata e meno
compassionevole. Erano cinque uomini e il Medico Capo s’era domandato se non lo
stessero prendendo in giro: il soggetto aveva sbaragliato sette soldati
altamente qualificati e come supporto aggiuntivo gli mandavano cinque uomini? Poi aveva guardato il
loro comandante negli occhi e aveva capito. Non aveva più replicato, non aveva
neanche più osato anche solo pensare che la task force non sarebbe bastata.
Al contrario, una crescente
sensazione di claustrofobia aveva cominciato a serpeggiare dentro di lui così
come nell’animo dei propri collaboratori: l’impressione che, una volta concluso
il lavoro, la task force avrebbe fatto sì che niente uscisse dai laboratori
sotterranei era un non-detto fin troppo chiaro perché lo si potesse ignorare.
Mentre controllava per l’ennesima
volta gli strumenti e si accertava della loro sterilizzazione, assicurandosi
che gli strumenti funzionassero a dovere, che i macchinari avessero azzerato
ogni parametro, che le fialette fossero vuote e decontaminate, il Medico Capo
si accorse del dubbio.
Fino a quel momento non aveva mai
dubitato della propria presenza lì, né del progetto, né della ragione per cui
erano stati convocati e riuniti. Ora il camice bianco gli pesava addosso, i
bottoni gli comprimevano il torace e gli mozzavano il fiato, le dita non
riuscivano a stare ferme, la siringa sfuggiva dai polpastrelli scivolosi di
sudore rappreso, la voce non era salda, la vista si appannava.
Non trovava ragione, non trovava
motivi, ciò che era stato chiaro ora fluttuava nelle nebbia appiccicosa,
spregevole dell’irrealtà.
Perché
sono qui? e
s’accorgeva di non essersi mai dato una risposta, di non averla nemmeno
cercata, incantato com’era dal tono rassicurante del dottor Marlowe. Marlowe
rendeva innocui i timori e le paure, galvanizzava la loro fatica e la ammantava
col vello dorato di un fine più alto e utile –Fine di cui, però, il Medico Capo
non era in grado di recuperare il filo, né di darvi un nome.
Se ripensava a mente fredda alle
parole di Marlowe, alla memoria tornava solo il dondolio assonnato delle
sillabe, la nenia liquida dei fonemi, ma ogni significato rifuggiva la comprensione
e tra le mani restava solamente aria.
Aveva resistito all’impulso di
correre da lui, non appena il terrore gli aveva agguantato le viscere e le
aveva sbranate a morsi di panico e scompiglio di sangue ribollente, di pensieri
scomposti, dibattuti e sbattuti da una parete all’altra del cranio. Per quanto
la mente reclamasse l’effetto anestetizzante di Marlowe, la coscienza del
Medico Capo si era imposta ad impedirgli qualsivoglia movimento, aveva puntato
i piedi e con sbigottimento crescente egli s’era accorto di essere divenuto
dipendente dalla voce dell’altro come alla morfina.
Non aveva dormito, a stento il
respiro arrivava fino ai polmoni contratti ed era certo che in pochi secondi il
cuore sarebbe esploso, le arterie sarebbero colate dagli orifizi, espulse in un
groviglio nauseabondo e viscoso, maleodorante.
Con la coda dell’occhio vedeva gli
sguardi preoccupati dell’equipe e la tentazione di afferrare ognuno di loro per
le spalle, scuoterli, gridare, avvertirli Non
vedete? Non vedete? Non vi rendete conto di quello che ci stanno facendo? Di
cosa siamo diventati? Pecore senza volontà, burattini e pupazzi!, la voglia
e la tentazione erano così violente che il Medico Capo dovette affondare le
unghie nel palmo per calmarsi.
Non poteva dare di matto, non con le
guardie e la task force ad alitargli sul collo.
Se ci sarebbe stata una ribellione,
essa doveva cominciare a mezza voce, crescere per mezzo di segnali e sguardi di
intesa e svelarsi solo alla fine, all’improvviso, senza sospetti precedenti a
minare le loro esigue speranze di avere salva la vita.
Sì. Avrebbe fatto così. Avrebbe
parlato coi membri dell’equipe uno alla volta, li avrebbe risvegliati –Volenti o
nolenti- dallo straniamento psicofisico di cui erano preda, di cui erano malati
al punto di non ritorno e insieme avrebbero ideato un piano di fuga.
Avrebbe chiesto anche al soggetto,
sì. Avrebbe fatto appello ai suoi occhi vecchi e dolorosi, al tepore che
emanava dalla sua figura e l’avrebbe liberato, sì, l’avrebbe liberato dai
legacci e anche se era consapevole di come non sarebbe bastato un’intera
esistenza passata in ginocchio per chiedere perdono, egli si sarebbe posto al
suo servizio per cercare di rimediare almeno in parte al male che gli aveva
fatto e stava per procurargli.
Sì. Sì. L’avrebbe liberato e sarebbe
fuggiti e avrebbero denunciato la cosa e tutto sarebbe finito.
Con la calma scaturita dalla decisione
ormai incontrovertibile, il Medico Capo riempì la siringa di anestetico e
spinse lo stantuffo per controllare la pressione e la funzionalità dell’ago. Doveva
soltanto conficcarla nel braccio o nel collo di Marlowe perché non li
avvincesse e li avvolgesse nella sua malia, ed il soggetto, accortosi delle
buone intenzioni e di aver trovato in lui un buon alleato, si sarebbe aperto la
strada con calci e pugni ben assestati.
La via, agli occhi della propria
mente, era così sgombra da provocargli una fiammata di eccitazione attraverso
il corpo.
Sorridendo, allora, si voltò
tranquillamente nell’avvertire il cigolio della porta che si apriva.
Ma ogni sicurezza si disintegrò e
finì a pezzi nell’incontrare lo sguardo del soggetto. Uno sguardo vuoto, vacuo,
nullo. La sua intera figura era
avvinta da una mollezza languida, le spalle pendule e la bocca un poco schiusa
per la rilassatezza dormiente della mandibola. Le ciglia tremolavano e sbattevano,
nascondendo ad intervalli intermittenti, faticosi, l’iride immota e la pupilla
dilatata di sonno e di sogno.
Lo sbigottimento a quella vista fu
tale che il Medico Capo non si accorse di Marlowe se non nell’attimo in cui la
sua mano gigantesca gli strinse il braccio sopra il gomito.
«Il nostro amico è pronto per
cominciare.» lo avvisò, un immondo sorriso sul volto pieno e appagato «Vieni
avanti e siediti» disse, poi, rivolto al soggetto che obbediente mosse i passi
necessari per posizionarsi sul bordo del lettino al centro della stanza.
Lì se ne stette, con gli occhi fissi
al niente, al pallido fumo della mente ottenebrata, il respiro profondo che
sollevava pesantemente il torace e ad ogni espirazione contribuiva ad aumentare
il senso di gravità della postura e dei muscoli.
Il Medico Capo deglutì, la mano tremò
con violenza, quasi perse la presa sulla siringa. Un grido squittente gli
sfuggì dalla bocca storta per l’orrore.
No. No. Non poteva essere…! Non
poteva…!
«Dottore, cosa le succede?» ghignò
Marlowe, perfido «Stia calmo. Si rilassi.»
49 27
41 82 3 40
Canada,
2013
Ho
freddo.
«Vieni da un mondo di ghiaccio, non
puoi avere freddo in Canada.»
La tua
idea di Jotunheim è vaga e ridicola, dunque non dare a me la colpa della tua
ignoranza: la proiezione di essa sulla mia persona è causa della tua erronea
idiozia e dei miei commenti così poco graditi.
«Taci o giuro su Dio che ti faccio
star zitto una volta per tutte trapassandomi il cervello con un cotton-fioc.»
Oh. La
prospettiva mi solletica.
«Maledetto figlio di…»
«Mi perdoni, Hansel, è sicuro di
stare bene?»
Clint si girò e rivolse un sorriso
angelico alla donna alla guida.
«Naturalmente» assicurò, con accento
tedesco bleso e stupido. «Stavo solo dicendo quanto è bello il paesaggio.»
Stai
parlando una lingua del nord per dialogare con me, ossia con te stesso, in modo
che lei non ti comprenda gli ricordò il norreno, irridente e mefistofelico Non sono certo che tu stia bene come dici.
La canadese sollevò le sopracciglia, assunse
un’espressione improbabile e vagamente agitata, strinse le nocche attorno al
volante e tornò a concentrarsi sulla strada dissestata davanti a loro.
Barton aveva incontrato Heather
McNeil Hudson ad una stazione di servizio e per un attimo si era chiesto se la
fortuna non avesse finalmente cominciato a girare dalla parte giusta: se doveva
percorrere i sentieri aspri e costantemente uguali a se stessi delle vallate
canadesi, non poteva immaginare una guida migliore della moglie di Guardian. La donna non l’aveva
riconosciuto –A stento s’era riconosciuto lui stesso, con la barba incolta, la
cornea giallastra e le orbite incavate-, il che gli aveva reso più semplice la
pantomima di Hansel Gamble in gita di piacere tra la neve e i Sasquatch.
La storia dell’innocuo Capo della
Sicurezza non avrebbe retto davanti a Puck o a Michael “Sciamano” Twoyoungmen,
quindi Occhio Di Falco ringraziò la propria buona stella che il resto degli
Alpha Flight fosse a gironzolare lontano dalla tavola calda dove aveva trovato
Heather, seduta al bancone.
Le era capitato il suo dossier tra le
mani, una volta, e i tratti angolosi, i capelli rossi stretti in una coda
voluminosa e gli occhiali sgraziati, enormi, dalla montatura bianca gli erano
rimasti impressi nella memoria.
Quelli e la maglietta nera con la
scritta Where The Heck Is High River?
che, caso volle, stava indossando anche quel giorno. Le aveva offerto una birra
che lei aveva accettato più per cortesia che per reale interesse, avevano
scambiato due chiacchiere e alla fine Clint le aveva detto di quel suo
progettino di scarpinata mondana nelle foreste innevate.
Le aveva anche offerto un compenso
per il disturbo. Compenso che lei aveva negato con garbo, alzando la mano e
scuotendo piano il capo. L’avrebbe accompagnato con piacere, aveva detto, non
abitava troppo distante quindi non c’era alcun problema.
Non
capisco perché abbassarci a questa inutile recita Loki, regalmente accomodato
nei sedili posteriori, appoggiò il mento appuntito sul pugno chiuso. Dallo
specchietto, Clint lo guardava osservare con disinteresse il filare degli abeti
ai fianchi della strada e l’orizzonte bollente, di cobalto liquido. Avresti potuto prendere una qualunque
automobile e arrivare fino a qui con le tue sole forze.
Il Dio non aveva torto, ma ammetterlo
significava confessare la cosa anche a se stesso, in fin dei conti, e Barton
non ne aveva intenzione.
Aveva bisogno di un passaggio per non
perdersi e Heather era stata la manna del cielo. Si sarebbe fatto accompagnare
all’inizio di un sentiero e da lì avrebbe poi deviato quando il cammino lo
richiedeva, scansando rami, rametti, sottobosco e passaggi impervi. Aveva
scovato una via non poi così distante dal punto segnalato dalla coordinate su
una carta da trekking, quindi, anche se sul filo del rasoio, la storiella della
gita reggeva ancora.
Heather gli aveva persino consigliato
alcuni acquisti utili per il viaggio, cui Clint aveva accondisceso volentieri a
comprare. Le banconote stritolate e chiazzate d’unto aveva abbandonato non solo
le dita ingiallite di nicotina, ma anche e soprattutto la loro funzione di
ricarica alcolica.
Barton aveva scambiato una buona
bottiglia di liquore con barrette energetiche, una fascia da tenere sulle
orecchie, un nuovo paio di guanti e ramponi da neve. Il che aveva provocato una
ribellione bestiale da parte dell’organismo, spasimi singhiozzanti dello
stomaco, conati di vomito e striature rossastre a tracciare il grattare nervoso
delle unghie sulla pelle.
Il polso di Clint ebbe un tremito e
Loki, deliziato, arcuò le labbra sottili, gli occhi erano in fiamme.
Capisco.
Schioccò
la lingua contro il palato, lezioso La mancanza
di veleno ti strugge e ti distrugge, dico bene? Non saresti in grado di
condurci là, perderesti il controllo su quest’accozzaglia rugginosa di metallo
e lamiere sbilenche. La strada ti verrebbe addosso, lo schianto, un vortice di
vetri e tu finiresti trascinato, dilaniato in un tripudio di sangue e carne e
membra squarciate e le ossa si spezzerebbero e ci sarebbe nero, ovunque, nero
nero e nero, come il tuo cuore, come il tuo animo, inghiottito, irretito, la
colpa, nera, il peccato, nero, la perdita, nera, il vuoto, nero, la morte,
nera, il tradimento, nero, l’assenza, nera…
Clint appoggiò tremante il palmo
sulla fronte e spinse fino a quando non sentì il cranio scricchiolare e gemere,
i denti serrarsi, digrignarsi, il respiro guaire nella trachea e l’ossigeno
mutarsi in cenere sul fondo dei polmoni. Le palpebre chiuse si riempirono di
esplosioni e ritorcimenti colorati, le orecchie si colmarono del battito continuo,
cadenzato, del cuore, mandibola e mascella si incollarono tra loro come
mastice.
Ignorando il brusio ovattato di
Heather al posto di guida, Occhio Di Falco pigiò il tasto per abbassare il
finestrino e sporse la testa al vento ululante e gelido. Lo schiaffo che
ricevette dalla bassa temperatura fu abbastanza per calmarlo e costringerlo a
desistere dall’idea di accendersi una sigaretta.
Non fumava da quella mattina. Inutile
dire che Loki ne era uscito decisamente rinvigorito.
Per l’ennesima volta, Barton si disse
che era d’obbligo trovare quanto prima una soluzione a quella coabitazione
forzata e non voluta.
«Siamo arrivati» annunciò Heather,
una ventina di minuti dopo «Ma se vuoi un consiglio…»
Occhio di Falco non l’ascoltò oltre,
slacciò la cintura e aprì la portiera. Si sporse verso i sedili posteriori per
afferrare lo zaino, scese dall’auto, lo sistemò sulle spalle e sfregò il dorso
della mano contro il naso.
«Grazie per il passaggio, Frau Hudson.»
La donna si tese in avanti per quanto
permesso dalla cinghia di sicurezza, s’afferrò al bordo del finestrino ancora
aperto e piegò il collo per squadrarlo, inquieta.
«Hansel, se mi permette, non credo
che lei sia nelle condizioni adatte per una camminata.» titubante, si morse il
labbro inferiore, prima di rialzare gli occhi con un barbaglio opaco delle
lenti spesse «La prego, mi permetta di accompagnarla o di metterla in contatto
con una guida. Se dovesse succederle qualcosa…»
«Allora si fidi di me: lasciatemi in
ipotermia o a congelare in qualche crepaccio. Sarà meglio per tutti.»
E Clint le diede la schiena, sparì
dietro una curva di abeti prima che Heather potesse replicare o chiamare in
aiuto qualcuno della combriccola della foglia d’acero –Anne “Snowbird”
McKenzie, magari. Non gli sarebbe dispiaciuto conoscere l’opinione di una non
confermata semi-dea Inuit riguardo la palla al piede norrena che si portava
dietro
Loki fu stranamente silenzioso
durante il tragitto, forse perché Barton era troppo concentrato sui cambi di
direzione da seguire per dare peso ai sensi di colpa o alla coscienza
avvelenata, marcescente. La divinità scivolava in mezzo alle ombre e le pupille
sottili di serpente non lo perdevano di vista, conficcate tra le scapole o
pendenti sulla sommità del capo come una verde spada di Damocle.
Era un profilo scuro, acquoso e
sottile, quasi impercettibile, ma non per questo meno ossessivo ed opprimente.
A quello che pensò era due terzi del cammino, Barton si arrese: spazzò con la
mano un masso meno aguzzi degli altri, vi si appollaiò sopra e tirò fuori il
pacchetto di Camel e l’accendino dal windbreaker. Loki ricomparve in forma
tangibile e si posizionò a gambe incrociate davanti a lui, letale e splendido
nel biancore accecante della neve. Nel suo sguardo di serpentina Clint si vide
stringere la sigaretta coi denti, far scattare la pietra focaia con uno click collaudato del pollice, chinare la
testa sulla fiammella protetta dalla mano a coppa e poi gettare la nuca all’indietro,
i polmoni gonfi di una ventata salvifica e mortale di nicotina.
Fumò in silenzio, occhi negli occhi
col proprio Demone Interiore, l’animo disfatto in contrasto col sogghigno strafottente
del norreno.
A distrarlo venne un rombo lontano, un
tuono o il ruggito di un aereo, ma quando Clint alzò il mento non vide nulla e
il cielo era sgombro come la sua mente. Schiacciò la sigaretta finita sulla
roccia e riprese l’attraversata.
Non incontrò nessuno, animale o uomo,
solo vento, neve e spiriti immoti. Non si stupì nemmeno quando, arrivato alla
radura corrispondente alle coordinate del distintivo, ad accoglierlo furono di
nuovo vento, neve e spiriti immoti.
«Bhè.» commentò e il ghiaccio
cristallizzato sulla barba tremolò e ricadde «Dicono che l’aria di montagna
faccia bene alla salute.»
E ora che l’aveva confermato poteva
tornare indietro e sbronzarsi fino a dimenticare finanche come ci si sedeva.
Stava già per rimettersi in marcia
quando uno scuotersi di foglie e ciangottare di neve sui rami grigi non lo fece
girare di scatto. La figura che emerse dalla palizzata di tronchi screziati si
scrollò la matassa morbida e bianca di dosso, si frizionò la fronte per
staccare i rimasugli che gli infiocchettavano le sopracciglia e infine alzò la
testa.
Per Occhio Di Falco fu come se
qualcuno avesse premuto l’interruttore. Si spense e gli occhi, sbarrati e
increduli, ingrigirono.
«Clint…»
Oh. Stupito, Loki
corrugò le sopracciglia Strano. Lo
ricordavo un po’ più defunto.
Note
Non sto scherzando, Nick Fury negli
anni Ottanta si vestiva davvero a
quella maniera. Così come Steve si è davvero vestito da donna per infiltrarsi in Europa insieme a Bucky.
Qui per maggiori notizie
sugli Alpha Flight (Regalatemi Sciamano, vi prego!)
|
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Capitolo 6 *** { Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 } ***
ood5
{ Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 }
Stark
Industries, Los Angeles.
Locale
Sotterraneo.
2013
Negli intenti –E nei
piani- di Pepper, il locale sotterraneo doveva essere un bugigattolo per
archiviare scartoffie. Il che era andato benissimo fino a quando Tony Stark non
era tornato dall’Afghanistan con un cerchio di luce nello sterno ed una protesi ad alta tecnologia addosso: da
quel momento in poi, visti anche gli inconvenienti
più o meno accidentali in cui al magnate era capitato di imbattersi, la parola
d’ordine era stata “allenarsi.”
Da allora, lo
pseudo-scantinato era stato trasformato in una succursale in piena regola della
palestra di casa Stark, più sobria e con meno attrezzature rispetto agli
inquantificabili metri quadri che davano sulle onde di Malibù.
Chiunque,
ovviamente, vi poteva avere accesso e sfogare ogni frustrazione possibile alla
luce ovattata che proveniva dalla strada e filtrava dalle finestre ad altezza
del marciapiede. Di fatto, il solo ad utilizzarla era Tony, durante i periodi
di magra tra –E durante, quando si
scordava- una riunione e l’altra.
Ora che l’incidente
di Virginia l’aveva costretto a tornare stabilmente dietro la scrivania, Stark
ne aveva approfittato per togliere un po’ di polvere dal ring e dai guantoni.
Era stato lontano troppo a lungo, risucchiato dal buco nero di Manhattan, e la
palestra delle Industries aveva assunto un aspetto squallido ed un unto, con
muffa agli angoli del soffitto, boccoli di lerciume sul pavimento e un odore
parecchio sgradevole, in grado di annodare lo stomaco di chi si fosse
avvicinato a meno di due metri.
Hogan, Tony ne era
consapevole, aveva accettato con gioia di riprendere l’incarico di personal
trainer. Forse con veemenza eccessiva, considerato come scricchiolavano le
articolazioni del magnate alla fine della sessione quotidiana. O da come si
attorcigliavano i polmoni e la bocca si macchiava di nausea –Sebbene, era
inutile girarci attorno, gli ultimi due sintomi, uniti al mal di testa
lancinante, erano un’ovvia conseguenze delle sbronze giornaliere.
Era anche per quello
che Stark aveva deciso di riaprire il fu-archivio e distruggersi muscoli e
ossa: il sudore e la fatica costituivano un valido contro bilanciamento al
cervello di spugna, alla lingua gonfia e pesante, al vomito e a tutti gli altri
vani tentativi di calmare gli attacchi di panico attaccandosi alla prima
bottiglia di liquore che gli capitava in mano.
Non che i suddetti
attacchi fossero scomparsi, sia chiaro, ma se a stento riusciva a stare sulle
gambe inzuppate di acido lattico, come poteva concentrarsi sul fiato conficcato
nella gabbia toracica? Stordirsi senza per forza condannare a morte il fegato,
era un’alternativa cui aveva cominciato a pensare prima dell’affare Avengers e
su cui era ritornato a ragionare dopo la morte di Fury e la comparsa del
Mandarino.
«Il nome viene da un
antico mantello cinese che significava Consigliere
del Re» disse, tirando un gancio e spostandosi di lato «Riprende le
tattiche di insurrezione sud-americane» chinò di scatto la testa per evitare il
colpo di risposta di Happy «Parla come un predicatore battista…C’è molta
ostentazione qui.» commentò «Molto teatro.»
Aveva guardato il
videomessaggio del Mandarino fino a poterlo recitare a memoria, aveva ascoltato
e registrato ogni intonazione della voce, ogni frase, ogni parola, aveva
mandato a mente ogni suo gesto, nella speranza di comprendere la folle armonia
di immagini e propositi celati dietro la figura magniloquente del terrorista.
Tony scansò un
dritto di Happy, incassò la testa nelle spalle e caricò un pugno.
«Niente male.» lo canzonò una voce
divertita alle loro spalle, giunta tanto all’improvviso che Stark perse ogni
briciolo di concentrazione e quasi capitombolò sulle corde del ring «Per essere
un soggetto da scrivania, è in forma sorprendentemente buona.»
Mentre Hogan se la rideva sotto i
baffi, Stark raddrizzò la schiena, si schiarì la gola e si girò a gelare
Hendrick con un’occhiata da manuale. Colin rispose chinando la fronte in un
cenno di scuse, quindi scese i due gradini che alzavano la porta dal pavimento
vero e proprio; teneva le braccia incrociate al petto, una cartelletta di fascicolami
ben pressata alla camicia verde mela e alle bretelle color muschio –Alla
cravatta della medesima tonalità e puntinata di minuscole clessidre rosse, Tony
ebbe un moto a metà tra la stizza ed il travaso di bile.
Il figlio di Howard aveva supposto che,
dopo la morte di Fury, Hendrick sarebbe stato richiamato immediatamente a
Washington per una indagine preliminare o comunque come testimone od altro.
Invece, l’Agente non aveva ricevuto istanza alcuna ed era rimasto fedele al
proprio ruolo di segretario, elevandola platealmente ad ancora di salvezza
nella confusione generale.
Per quanto tentasse di sembrare
tranquillo e operoso come prima della scomparsa del Direttore, infatti, Tony
non era riuscito a non notare i cambiamenti avvenuti in Colin in seguito al
fattaccio: se sul lavoro non perdeva comunque un colpo, era efficiente e mai in
ritardo, rideva assai di meno, aveva le sopracciglia costantemente aggrottate e
la mandibola contratta. Pareva percorso da continui brividi sottopelle,
impercettibili ad un primo sguardo, che facevano vibrare la sua persona da capo
a piedi e rendevano palpabile la tensione dei muscoli al di sotto degli abiti.
Dalle iridi cupe, quasi incolori, affiorava ora una striatura sottile e
pericolosa, la stessa che Stark aveva visto più di una volta palesarsi negli
occhi di Barton e della Romanoff.
«Che hai per me?» gli domandò Stark,
ingollando quelle elucubrazioni con una sorsata d’acqua dalla borraccia
all’angolo del ring «Spero siano inviti ad un party o qualcosa del genere.»
«Temo di no» si scusò Colin,
sorridendo appena, nell’avvicinarsi alle corde «Sono richieste ed e-mail ed
esortazioni per lei da parte della signorina Justine Hammer.» gli passò gli
incartamenti «La quale, se posso permettermi, credo soffra di una forma particolarmente
grave di grafomania.»
«Non mi piace che mi si porgano le
cose, credevo l’avessi capito» fu la replica secca del magnate, ma un eloquente
colpetto alla nuca da parte di Happy gli fece andare di traverso l’acido e
roteare gli occhi al cielo.
Sistemò la borraccia, sfilò i
guantoni, invitò cordialmente Colin a
spostarsi mentre scendeva dal ring passando in mezzo alle corde, e infine,
sbuffando e rimbrottando qualcosa tra i denti, afferrò i fogli e cominciò a scartabellarli
con noncuranza.
Hendrick intanto gli si era
affiancato e stava per parlargli, probabilmente per spiegare le motivazioni
dietro lo stalkeraggio di Justine, quando un’idea balzana cinguettò
mefistofelica nel cervello di Stark. Tolse qualsiasi attenzione –Se mai ne
aveva accordata anche solo un frammento- alla Hammer e sollevò la bocca in un
ghigno ferino.
Si mise a lato del ring e alzò le
corde con una mano, lasciando intendere a Colin di salire. L’Agente spostò gli
occhi da lui a Happy –Che si era portato una mano alla fronte-, schiuse la
bocca e cercò di replicare. Cosa impossibile, visto che Tony lo prevenne
egregiamente.
«Happy è stato atterrato dalla
Romanoff. Sta’ tranquillo, il suo orgoglio da Boxista Alfa non potrà risentirne
ulteriormente.»
Non molto rassicurato, né convinto da
quelle parole, Colin s’umettò il labbro superiore con un guizzo della lingua e
si succhiò veloce la bocca; strofinò i polpastrelli, diede un breve colpo di
tosse e, arresosi, sbottonò i polsini della camicia, arrotolando le maniche
sopra i gomiti. S’appese alle corde con una mano e si issò agile sul ring: il
gesto, seppur semplice, aveva provocato uno scossone ai muscoli
dell’avambraccio e lo svettare improvviso di una vena arzigogolata.
Il che fu di monito a Tony: per
quanto goffo e gentile fino alla carie, disponibile ed ingenuo, Colin era un Agente
debitamente addestrato di un metro e ottanta per cento kili di peso. Un suo
schiaffo senza armatura a proteggerlo, e Stark era sicuro si sarebbe ritrovato
a far da sostituto alla tappezzeria.
Il magnate si accomodò su una
seggiola sgangherata poco lontano, gettò via la scartoffie ed agguantò lo
StarkPadd debitamente a riposo nella sacca da allenamento.
Dall’alto del ring, Colin lo fissò
con perplessità nel frattempo che Happy si ficcava un paradenti in bocca. Tony
rispose allo sguardo del segretario sollevando le sopracciglia e accennando ad
iniziare con un gesto veloce del polso.
Hendrick indietreggiò fino all’angolo
delle corde e si mise tentennando in posizione. Non capiva cosa stesse
succedendo, né cosa Tony volesse da lui e questo riempiva il figlio di Howard
di ferina soddisfazione. Arrivò addirittura ad accavallare le gambe, per
sottolineare il proprio divertimento da gatto ben pasciuto in procinto di
appendersi alle tende.
«Quando ho googlato l’Agente
Romanoff, è risultata essere una modella di intimo che parlava latino.»
«Nessuno parla il latino: è una
lingua morta.»
Stark schioccò la lingua contro il
palato e roteò gli occhi al cielo.
«Già sentito.» commentò «Comunque.
Cosa succederebbe se io inserissi il tuo nome
nel campo di ricerca?»
Colin fece per rispondere, ma un
dritto di Happy lo costrinse a scostarsi e controbattere immediatamente con un
gancio allo zigomo.
Il magnate si sarebbe aspettato di
vedere la mandibola della guardia del corpo staccarsi di netto e finire sul
pavimento, invece Hogan rimase in piedi con dignità impareggiabile, ciondolò un
poco sulle gambe per la sorpresa, quindi si riassettò in guardia.
Hendrick fece lo stesso e la bocca si
affilò, gli occhi divennero fessure.
«Probabilmente troverebbe le mie foto
dell’annuario, signor Stark.» rispose, tirando un pugno al guantone destro di
Happy e poi sferrandone un secondo all’addome –Hogan sfiatò per la perdita
improvvisa d’ossigeno, il colore gli sfuggì dalle guance «Non gliele consiglio,
avevo i brufoli.»
«Oppure quelle da impiegato del mese
al market indiano.» replicò Tony, indeciso se trovare inquietante o meno il
fatto che il proprietario del suddetto market tenesse una pagina Facebook e
alternasse immagini della merce e delle offerte a procaci donne dell’Est Europa
dai seni faraonici.
«Naturalmente.» Colin scartò di lato,
abbassò la testa «Credo sia stato quello a far colpo sui talent scout dello
S.H.I.E.L.D., fino a quando non hanno scoperto che ero l’unico impiegato.»
Tony abbozzò una risata
accondiscendente, continuando a scorrere i vari risultati che aveva ottenuto
sul giovane: non erano molti e non erano niente di eclatante, la storia comune
di un comune cittadino del Queens. L’esperienza avuta con miss Romanoff la
diceva lunga, però, e Stark era ben conscio di non possedere sicurezza alcuna
sulla validità di quei dati.
Per quel che ne sapeva, Colin
Hendrick poteva anche avere una doppia vita da Drag Queen e la notte, finito il
turno da segretario, fuggire sulla Gay Street per cantare I Will Survive, vestito di rosa e con parrucca bionda in allegato.
Per quel che ne sapeva, appunto.
Un travaso di bile gli inacidì lo
stomaco al pensiero che, come suo solito, Fury aveva agito in sordina e
lasciando trasparire in superficie nulla più di uno sfumacchiare di onde,
celando abile il ribollio mastodontico delle correnti.
E Fury era morto, poi. Dettaglio non
trascurabile.
«Ha trovato qualcosa di interessante
su di me, signor Stark?»
Dalla piega che prese la situazione,
forse Hendrick avrebbe fatto meglio a concentrarsi sull’incontro: Happy,
difatti, tentò di richiamare l’attenzione del giovane con due pugnetti
scherzosi al retro della testa e Stark tutto si era immaginato, fuorché il modo
in cui l’Agente reagì.
Il magnate ebbe appena il tempo di
cogliere gli occhi dell’altro mutare in vetro ed ossidiana, che già Colin si
era girato di scatto e mandato a sbattere Hogan contro le corde del ring con un
calcio piazzato dritto dritto al plesso solare. Happy spolmonò, mugugnò
qualcosa di incomprensibile e scivoloso, sbiascicante, si abbracciò lo stomaco
e scivolò bocconi, continuando a sciorinare fonemi ingarbugliati.
Il tempo si sospese per una manciata
di secondi, quindi Colin si gettò accanto all’ex pugile dando il via ad un
rosario di scuse e richiami, la voce preoccupata, intirizzita di paura.
«Signor Hogan! Signor Hogan!»
«Happy!» esclamò Tony, saltato in
piedi non appena la guardia del corpo era crollata in ginocchio «Cristo Santo,
Hendrick, sei venuto qui a farmi da segretario, non ad ammazzarmi lo
chauffeur!»
«Guardia del corpo…!» precisò a
fatica Happy, armeggiando alla cieca per aggrapparsi a qualcosa e rialzarsi.
«Fa lo stesso.» Stark gli afferrò un
braccio e Colin l’altro, lo issarono con un grugnito e lo trascinarono a viva
forza fuori dal ring, fino alla seggiola su cui il magnate era rimasto ad
osservare la scena qualche istante prima.
«Signor Hogan» ripetè Colin e il
labbro superiore era coperto da goccioline di sudore «Signor Hogan, mi dispiace.
Davvero, davvero, non volevo. Mi dispiace, signor Hogan…»
Happy agitò il guantone come a dire
che non c’era niente di cui scusarsi, nonostante il colorito livido ed il collo
rubizzo.
Il figlio di Howard osservò di
sottecchi sia lui che Colin. Quando fu sicuro del regolarizzarsi del respiro di
Happy e del tranquillizzarsi di Hendrick, prese questi da parte e gli fece
cenno di uscire con lui dalla palestra. Ci volle più di un invito, ormai
divenuto ordine perentorio, perché
l’Agente staccasse gli occhi pallidi dalla figura di Hogan e si decidesse a
seguirlo.
Prima di lasciarlo, quasi del tutto
ristabilito, Tony diede una pacca sulla spalla di Happy e l’uomo si girò a
ricambiare il suo sguardo con espressione stanca, ma divertita, le mani a
scivolare e strofinare lo stomaco.
Fu solo davanti ad un caffè preso al
bar subito di fronte alla sede delle Industries che Stark decretò fosse giunto
il momento di rompere il ghiaccio tra lui e l’Agente.
«Allora, ti sei finalmente sfogato a
dovere?»
Colin, intento a seguire i bordi
della tazzina a punta di dita, alzò la testa e sbatté le palpebre, tra il
confuso e l’ingenuo.
«Come…?»
Tony accartocciò la bocca in una
smorfia.
«Andiamo, Hendrick, non prendermi in
giro. È da quando è morto Fury che sei una bomba in procinto di esplodere:
contento che tu sia venuto a patti con te stesso e risolto ogni conflitto
interiore, ma preferirei evitassi di prendertela coi miei…collaboratori.» a
disagio, battè due volte l’indice contro il lobo dell’orecchio sinistro «Ho già
Pepper in ospedale, mi faresti un favore se non ci spedissi anche il mio
chauffeur.»
«Credevo fosse la sua guardia del
corpo.»
«Di Iron Man? Seriamente…?»
Hendrick aggrottò le sopracciglia,
sollevò piano le labbra in un accenno di sorriso.
«Non posso darle torto.» si passò una
mano dietro al collo «Davvero, signor Stark, mi dispiace. Sono desolato, ho
reagito di istinto.»
«Vedi di tenerlo a bada, la prossima
volta, o sarò costretto a licenziarti.»
«Preferirei di no: sfigurerebbe sul
mio curriculum.»
Questa volta, la risata che abbandonò
la bocca di Stark fu più leggera e genuina. Non durò molto, tuttavia rimase
accanto a loro, un impalpabile bagliore catturato dagli occhi sinceri di Colin.
Sembrava addirittura più giovane, con quell’espressione rilassata e serena sul
volto.
Accortosi della stranezza dei propri
pensieri, Tony deviò il discorso su qualcosa di molto meno felice, molto meno
lieve, qualcosa in grado di sostituirsi col rombo di un terremoto al torcersi
bollente delle viscere e al tremito sottopelle che come una scossa gli aveva
attraversato le braccia.
«Eri a Manhattan durante la battaglia
contro i Chitauri?»
Colin, ovviamente stupito dalla
domanda bruciapelo e dal brusco cambiamento di tono avvenuto nella
conversazione, emise un suono roco, a tratti ansioso, per poi agitarsi un poco
sulla sedia e sfregare la nocca dell’indice contro la punta del naso.
«Ero a bordo dell’Helicarrier.»
rispose, guardando altrove «Davanti ad uno degli schermi. Tenevo sottocontrollo
la zona del Queens. Volevo assicurarmi che la mia famiglia fosse al sicuro.»
uno sbuffo scevro di gioia, venato di ironia e autocommiserazione «Molto
egoistico da parte mia, lo ammetto.»
«Cosa hai pensato, quel giorno?»
Tony già sentiva la schiena tendersi,
le vertebre praticamente scricchiolare. I polmoni guairono, il sangue cominciò
ad irrancidire nelle vene.
«Ho pensato che era la fine.»
Hendrick appoggiò gli avambracci sul tavolo di linoleum bianco «La fine di
tutto. Di ogni cosa. Del mondo. Di noi. Di me. Della razza umana. Ho pensato a
mio padre e al fatto che non lo avrei mai potuto accompagnare al MET per il suo
compleanno, perché non ci sarebbe stato più nessun MET da visitare, nessun
compleanno.» prese un profondo respiro, serrando le palpebre «Niente di niente.
Non sarebbe rimasto nulla di noi, soltanto cenere e storia. Assoggettati ad un
potere dispotico, avremmo perso finanche il nome di Essere umani, troppo stanchi e sfibrati e dilaniati per tentare una
qualsiasi ribellione. Poi…»
«Poi…?» lo incalzò Stark e nemmeno si
era accorto di essersi teso in avanti e del calore al torace, del respiro
regolare, dei nervi tesi, sì, ma non per paura, non per terrore, non per
soffocamento, bensì in attesa di un proseguo, di un continuo, della verità.
Colin riaprì lentamente gli occhi e
il chiarore delle iridi era tanto violento da far male.
«Poi sono apparsi i Vendicatori.»
sussurrò «E Iron Man era il loro leader.»
Era meglio per tutti, pensò Tony, se
si lasciava sfumare la conversazione e si tornava al lavoro, ognuno ai propri
posti, ognuno al proprio silenzio, ai propri demoni e fantasmi. Il magnate li
odiava, dal primo all’ultimo, ma odiava ancora di più la nauseante debolezza
che l’aveva portato a svicolare il resto del discorso, le conseguenze di esso,
piuttosto che affrontare faccia a faccia non tanto l’interlocutore –Che gli
importava di Hendrick? Del MET o del compleanno del padre?- quanto un ricordo
indelebile, sangue e lamiere, il vuoto dello spazio, il peso della testata
nucleare sopra la spalla, in mezzo alle scapole, dentro al cuore.
«Pausa finita.» dichiarò allora, la
voce appena più gonfia e goffa, ostruita di fumo e dall’olezzo acidulo dei
Chitauri.
Colin tirò indietro la sedia e
sorrise, una mano già alla tasca dei pantaloni.
«Lasci, signor Stark, offro io.»
«Mi sembra il minimo.»
E mentre la risata dell’altro gli
vibrava attorno come un’aura, il magnate delle Industries sbatté le palpebre e
deglutì, il fiato una spilla incandescente attraverso le costole.
La cosa che lo sorprese –Ed inquietò-
fu che in quel breve lasso di tempo non aveva avuto alcun attacco di panico.
Località
Sconosciuta.
Cella
Di Sicurezza.
2011
Gail Runciter era abituata alle
missioni in isolamento e sapeva esattamente cosa aspettarsi da sè e da coloro
con cui si sarebbe trovata a convivere.
Non appena dalle alte sfere le avevano
comunicato di essere appena entrata a far parte del corpo di sicurezza, era
stata conscia delle conseguenze, sopportabili o meno, cui avrebbe dovuto far
fronte. Le aveva elencate mentalmente mentre stilava la lista di utili da
portare e li aveva pigiati nella coscienza alla stregua di vestiti dentro una
valigia.
Dapprima ci sarebbe stato il senso di
spaesamento causato dalla situazione in generale. Poi avrebbe cominciato a
stabilirsi una autonomia di movimenti e pensieri, un ciclo di abitudini e norme
di comportamento non scritte, turni e aiuti, pause e svaghi. Poi l’equilibrio
avrebbe cominciato a traballare e pendere, sarebbe arrivato il nervosismo, la
pelle d’oca, l’accettazione ed il rifiuto, la claustrofobia, i gruppi, i
ribelli e gli asserviti, la gerarchia e le sommosse, girandole e ghironde fino
a quando tutto non si fosse assestato per venire scombussolato di nuovo, più
avanti, in maniera più profonda, per arrivare all’autodistruzione più completa
e devastante.
Per coi continui calcoli e le
supposizioni e l’esperienza, Gail non si sarebbe mai aspettata un effetto così
destabilizzante quanto quello prodotto da un membro della squadra medica. In
particolar modo, dopo i flirt più o meno palesi e caldi, le battute, i
sottintesi, non si sarebbe mai aspettata di trovare l’uomo con la testa
affondata tra le cosce di uno dei propri Agenti.
Forse aveva sottovalutato il problema
della solitudine o il proprio sottoposto non scherzava quando diceva di
preferire un cocktail con Richard Gere, invece di un dopo cena in compagnia di
Rihanna.
Dopo lo smacco subito per colpa del
soggetto –I sette Agenti mandati knock out erano colleghi, dannazione!, ed il
non richiesto arrivo della Task Force, la scoperta di due uomini in
atteggiamento intimo nella dispensa era stata la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso –E tanti saluti all’igiene, comunque.
L’immagine dell’Agente che reclinava
la nuca ed esalava un ansimo da pornodivo e affondava le dita nei capelli del
medico e tendeva i muscoli e sudava e gemeva non sarebbe scomparsa così presto
come Runciter sperava.
Come se non bastasse, poi, il
soggetto aveva deciso di dare il suo contributo alla giornata già storta e in
procinto di peggiorare ancora: fuori dalla porta del suo alloggio, oltre a non
esserci nessuno a montare la guardia, c’era il piatto intonso del pranzo, col
purea flaccido e la carne più dura di una suola da scarpe. Secondo i calcoli di
Gail, il cibo era intoccato da almeno un paio d’ore.
Non erano affari suoi, maledizione,
non lo erano –Nemmeno sarebbe dovuta passare per quel corridoio, ma aveva il
bisogno di sbollire la rabbia e camminare era l’unica valvola di sfogo
permessa. Legale, almeno- eppure la vista di quel piatto abbandonato e
dell’assenza dell’Agente di guardia –Guarda a caso, proprio lo stesso che aveva
scoperto nel mezzo di una visita invasiva
a domicilio!, la fecero salire il sangue al cervello.
Al diavolo gli ordini, al diavolo il
non dover avere per nessun motivo, in nessun caso, contatto col soggetto, la
donna entrò di violenza nella sua stanza, il corpo vibrante di rabbia, gli
occhi che mandavano lampi e il petto che s’alzava e s’abbassava con violenza.
Si aspettava di trovare il soggetto
disteso sulla branda, addormentato come sapeva trascorrere le giornate anche
quando Marlowe non era insieme a lui per…Qualunque fosse la terapia o le sedute
cui il dottore lo sottoponeva. Al contrario, il soggetto era intento a prendere
a pugni l’aria, lo sguardo concentrato e duro, il un rivolo di sudore che
scendendo dalle tempie andava ad imbiondirgli l’attaccatura dei capelli
all’orecchio destro.
Gail si bloccò sulla soglia, il
respiro ratto in gola. Il cuore perse un battito.
Intorno a lui l’aria vibrava e cantava.
Ad ogni guizzo di braccia e muscoli, pulviscolo dorato sbuffava, ridacchiava e
s’annodava alle striature di luce che gli tagliavano in obliquo fronte e
ciglia. Emanava vigore e sicurezza, era un ritaglio eclatante ed eccezionale,
un frammento abbagliante e fuori dal tempo, struggente e bello.
Il soggetto rizzò la testa e si
sistemò in posizione di difesa, gli occhi guardinghi e sospettosi, sebbene più
pronti alla fiducia di quanto Runciter avrebbe mai potuto pensare da parte di
un uomo rinchiuso in gabbia a confronto con uno dei suoi carcerieri.
«Io…» esordì la donna e deglutì, la
bocca secca, la trachea un nodulo di cartilagini e pesante sorpresa «Ho visto
il piatto e…Non mangi? Non ti fa bene. Devi sottoporti ai test e…»
«Con tutto il rispetto, ma’am, ma
sono dell’idea che i test si tengano comunque, con la mia salute o meno.
Soprattutto, con la mia approvazione o meno.» la interruppe il soggetto e la
voce di lui era così calda, che il torpore alle guance e al seno le fece
immediatamente dimenticare il fatto di aver appena trasgredito alla regola
numero uno: non parlare col soggetto, non avere contatto alcuno col soggetto,
non permettere all’ambiente esterno di penetrare nelle difese e nella persona
del soggetto.
Al diavolo, al diavolo tutto, persino
al battito del cuore, al tremore ai polsi.
«Non…» tentò di riacquistare un
minimo di dignità con un colpetto di tosse «Non dovresti lo stesso saltare i
pasti.»
Un sorriso di accondiscendenza
sbocciò all’angolo della bocca del soggetto e non raggiunse mai gli occhi, che
rimasero immoti e malinconici, indispettiti e tristi.
«Posso chiederle il suo nome, ma’am?»
Gail aggrottò le sopracciglia.
«Prego?»
Il soggetto, cortese, annuì e con
garbo ripetè la domanda.
«Gail» mormorò allora la donna,
ignorando le proteste della ragione –In che caos si stava andando a gettare,
per l’amor di Dio? «Gail Runciter.»
«Grazie mille, miss Runciter» disse
lui, allora, chinando il capo in segno di saluto «Posso chiederle, allora,
visto che è l’unica persona qui presente ad avermi rivolto la parola, dove mi
trovo?»
«Mi dispiace. Sono informazioni
riservate.»
«Comprendo.» e a Gail non sfuggì il
lampo più scuro delle iridi, l’affilarsi delle pupille ed il contrarsi della
mandibola «Posso però azzardarmi a chiederle un ultimo favore, prima che
l’Agente preposto alla mia guardia la trovi qui e le faccia rapporto?»
Non un tremito attraversò la voce
della donna, per quanto la gravità di ciò che aveva fatto le appariva ora in
tutta la propria, mostruosa intensità –Per quegli occhi, però, per quegli occhi
e quella voce pensò stupidamente che nessuna regola e nessun ordine poteva, né
doveva esistere. Se ne sentiva avvolta, placata e sconvolta all’insieme, una
commistione di emozioni da cui, in diverse circostanze, era sicura si sarebbe
tenuta ben lontana.
«Dimmi.»
«Un libro.»
Gail sollevò le sopracciglia,
allibita da una richiesta tanto semplice e curiosa. Si era immaginata un piano
di fuga o che altro, ma un libro…Sì, certo, ne aveva più di un paio nel proprio
alloggio –Quando si trattava di missioni in isolamento, la donna passava la
settimana prima a fare incetta di letture, di qualsiasi lunghezza e genere.
Tuttavia non sapeva se era il caso. Se
lo avessero scoperto? Come giustificare la cosa?
L’avrebbe nascosto e avrebbe
mantenuto il segreto, la rassicurò il soggetto e il tono era così caldo che la
donna sentì il cuore stringersi al pensiero di dirgli di no.
Era un libro, in fondo. Qualcosa con
cui tenersi occupato, niente di più. Non violava alcuna regola, non andava
contro nessun ordine. Era un libro. Carta stampata e caratteri ad inchiostro.
Un libro. Niente di più che un libro…
Di soppiatto, allora, tornò in camera
e, assicuratasi che l’Agente fosse ancora trattenuto da ben diverse e piacevoli
attività, sgattaiolò all’alloggio del soggetto e gli consegnò il prezioso
regalo: Il Grande Gatsby.
Gail l’aveva riletto più di una volta
e forse anche in virtù le venne in mente un passaggio particolare, non appena
le mani del soggetto presero il volume con uno sfiorarsi involontario di dita e
pelle, ed egli, letto il titolo, sorrise –Sorrise davvero.
In
Gatsby c’era stato un cambiamento semplicemente sconcertante: splendeva, né più
né meno: senza una parola, né un gesto di trionfo, un benessere nuovo emanava
da lui riempiendo la stanza.
Stark Industries, Los Angeles.
Atrio.
2013
Escludendo l’Agente Romanoff, Happy
non riceveva una batosta del genere dai tempi di Battlin’ Jack. L’esplosione
improvvisa all’altezza dei polmoni, la bombarda che gli aveva scosso cassa
toracica e cranio, l’attimo di stordimento ed il respiro tranciato a metà…Il
disorientamento era stato tale da indurlo a credere di essere ancora sul ring,
parecchi anni prima.
Finanche il sapore metallico del
sangue gli era parso mescolato alla polvere dei locali di bassa lega e gli
occhi improvvisamente opachi aveva restituito al cervello il bagliore umido,
scatarrante della folla e del marciume, dell’illuminazione fosca e dello
sbrillio untuoso del sudore.
Passata la confusione e ripreso un
contatto più produttivo con la realtà circostante, Happy non aveva potuto non
chiedersi cosa avrebbe pensato il Diavolo Rosso di quel colpo al plesso solare.
Nel silenzio della palestra vuota –Hogan aveva un ricordo sbiadito di Stark che
trascinava via Colin di peso.- il ricordo di Jack Murdock gli provocò una
dolorosa fitta alle tempie.
Ripensare al vecchio pugile –Al
vecchio amico- gli faceva ancora male, nonostante il tempo trascorso. L’unico
modo per lenire in parte la malinconia e la tristezza era intrattenersi nello
studio di suo figlio, appena entrambi avevano una mezz’ora di ritagliarsi.
Happy aveva visto il piccolo Matt
aprirsi la strada nel mondo e nel buio a dispetto degli ostacoli, delle
sfortune che la vita gli aveva buttato addosso e ne era fiero. E forse perché
lo conosceva, forse perché sapeva quanto valesse, quanto coraggio avesse e di
che stoffa fosse, Happy non aveva dubbi sulla veridicità delle voci che
circolavano riguardo lui e Devil.
Ovvio, si sarebbe tagliato le mani o
reciso altre parti anatomiche di una certa rilevanza piuttosto che dirlo ad
alta voce, o vendere la storia ai giornali. Persino a Stark aveva nascosto la
cosa e non si sentiva in colpa. Gli bastava che entrambi uscissero vivi e
vegeti dai loro giochi da “Guardia e Ladri”, col minor numero di ferite
possibili e nei posti meno improbabili, e avrebbe continuato a convivere
tranquillo con quella scompaginata dicotomia essere umano-costume –O scafandro,
datosi l’alias di Tony.
Adesso che ci pensava, la storiella
di Colin poteva raccontarla anche a Matt e a Foggy. Matt, ne era sicuro, avrebbe
riso di quella risata piena che ad Happy ricordava il bimbetto segaligno e
tutt’ossa che passava le giornate chino sui libri invece di correre e
sbucciarsi le ginocchia con gli altri mocciosi di Hell’s Kitchen, pesti urlanti
che non valevano neanche la metà del ragazzo.
Un pensiero improvviso e scardinato
dal precedente, mentre rassettava la cravatta e faceva una compita entrata
nell’atrio, fu che anche Virginia avrebbe riso di gusto a quell’aneddoto.
Per Hogan non fu difficile disegnare
il profilo della donna, le belle labbra che si sollevavano e gli occhi che
rilucevano tra le ciglia sottili. Immaginò la linea della spalla e le braccia
eleganti in contrasto con l’azzurro smunto del lenzuolo, i capelli rossi sul
guanciale bianco e il petto minuto una riga sinuosa che s’abbassava a seguire
l’andamento del ventre e delle gambe appena flesse.
Il sorriso affiorò alla bocca di
Hogan e questi s’affrettò immediatamente a nasconderlo quando vide arrivare
Hendrick, la mano alzata in segno di saluto e la figura frettolosa di Stark che
sgattaiolava via, lungo le scale e poi nei corridoi che portavano al suo
ufficio.
«Signor Hogan!» lo salutò Colin e gli
si piazzò di fronte, il viso affranto «Signor Hogan, volevo scusarmi per
l’increscioso incidente avvenuto in palestra.»
Happy alzò una mano, come a dirgli
che era tutto dimenticato.
«Mi offrirai qualcosa.» lo rassicurò
«Piuttosto, chi ti ha insegnato a boxare? Vecchia scuola? Sembri uscito
direttamente dalla Stillman Gym.»
L’Agente sviò l’argomento con un sorriso
imbarazzato, borbottando qualcosa sull’aver avuto più di un maestro e di
essersi in parte formato menando calci e pugni ai ragazzotti che volevano
rapinare il supermarket indiano.
«Va a fare visita a Miss Potts?» si
informò Colin, grattandosi il setto nasale e affiancandoglisi «Che fiori le
porterà questa volta?»
Happy gli concesse bonariamente quel
cambio di discorso e sbuffò.
«Nessun fiore. Le infermerie si sono
lamentate e mi hanno accusato di star trasformando l’ospedale in un vivaio.»
L’altro rispose con qualcosa di
probabilmente arguto o magari solo accondiscendente, ma Hogan già non lo
ascoltava più: ogni attenzione era adesso rivolta ad un tipo losco e per nulla
raccomandabile stravaccato a in una delle poltroncine di pelle color crema. Era
ambiguo e Happy aveva fiuto per certe cose –Non per niente, oltre ad essere, od
essere stato, la guardia del corpo di
Iron Man, aveva assunto il ruolo di Capo della Sicurezza delle Industries.
Lavoro che svolgeva in maniera egregia,
tra parentesi.
Capelli cortissimi, tagliati quasi a
zero, cranio ovale e fronte appena bombata, occhi allungati e ravvicinati tra
loro, divisi da un naso sgraziato e sormontato da sopracciglia aguzze. Completo
antracite, bello, di marca, e camicia bianca e stropicciata, cravatta
allentata, arrotolata alla bell’e meglio sul torace ampio, tutto in lui gridava
strafottenza al limite dell’irritante. La gamba destra era mollemente a
dondolare sul bracciolo, le spalle di traverso e sfogliava una rivista con la
grazia di uno scimmione maleducato, c’era altro da aggiungere? Ah, sì. Non
indossava il badge.
Ambiguo. Ambiguo e pericoloso come lo
sguardo che il tizio gli rivolse. Un’occhiata penetrante, divertita e ferina,
in grado di fargli salire i brividi lungo la schiena.
«Signor Hogan…?»
Happy si sentì toccare una spalla e
se non sussultò fu unicamente grazie al magistrale autocontrollo che aveva
allenato in compagnia di Stark.
«Sì, Hendrick?»
«Il Rocky Mountain Chocolate Factory.»
«Come…?»
Una striatura cremisi attraversò
l’orecchio di Colin, che si schiarì la gola e sfregò il pollice destro sul
palmo dell’altra mano.
«Dicevo, visto che le infermiere si
sono lamentate dei fiori, potrebbe portare a Miss Potts del cioccolato.»
«Del cioccolato.» Hogan aggrottò la
fronte «Sei serio?»
«Lo sono…?» e Happy si morse la
lingua e si trattenne dal ridere alla sfumatura interrogativa che aveva assunto
l’affermazione dell’altro.
«Fiori e cioccolatini, come ai bei
tempi andati.» commentò «Come hai detto che si chiama, il posto?»
«Rocky Mountain Chocolate Factory»
ripeté Hendrick, diligente e molto più rilassato «E’ vicino al Grauman’s
Chinese Theatre.»
Eric Savin attese che il grassone e l’allampanato
uscissero dall’atrio chiacchierando e cianciando come vecchie comari. Quindi
spinse la lingua nell’incavo della guancia, sogghignò e trasse il cellulare
dalla tasca: compose un numero, guardando i tasti una volta sì e l’altra no,
gli occhi che roteavano eloquenti alle impiegate rigide ed impettite, fresche
di parrucchiere e adorabilmente zuccherose nei tailleur organza.
Dall’altra parte della cornetta
rispose una vocettina smangiata, stridula, irrequieta.
«Savin…?»
«Taggert.» sibilò Eric, socchiudendo
malevolo le palpebre «Sei mai stato al Grauman’s Chinese Theatre?»
Los
Angeles Mercy Hospital.
Stanza
Di Virginia “Pepper” Potts.
2013.
Virginia stava fingendo di non
pensare al fatto che Happy fosse in ritardo e la cosa le stava riuscendo pure
abbastanza bene. Vero, di tanto in tanto le capitava di bloccarsi a metà di una
frase, alzare la testa dal libro e voltarsi in direzione della porta, però mano
a mano che Pierre Bezuchov sciorinava le sue teorie sulla Bestia e il destino
di Napoleone, quegli strappi alla lettura di Guerra E Pace andavano diradandosi.
Che poi non fosse comunque in grado
di prestare attenzione allo svolgersi degli eventi e fosse costretta a
rileggere sempre la stessa frase per cogliervi un senso, bhè, era un dettaglio
trascurabile.
Happy non era mai stato in ritardo,
al contrario, l’aveva sentito piuttosto spesso discutere con le Infermiere
perché era arrivato in anticipo rispetto all’orario di visite e voleva entrare
comunque, perché, in fondo, cosa cambiavano cinque o dieci minuti? Era la
guardia del corpo di Tony Stark, era una persona di fiducia e di certo non
nascondeva cibi, né medicinali di contrabbando nella giacca del completo o
dentro al mazzo di fiori.
Pepper si succhiò le labbra per
nascondere il lieve sorriso, dicendosi che Pierre Bezuchov aveva le sue ragioni
per ritenersi il messo della profezia apocalittica e che sarebbe stata buona
norma prestargli le dovute attenzioni.
Ma il sole che si dibatteva tra le
nuvole infiocchettate di pioggia latente creava graziosi ed aggraziati giochi
di luce sui petali dei narcisi, e lei si ritrovò per l’ennesima volta a
contemplare i fiori che Happy le aveva portato il giorno prima e a sorridere al
ricordo. Tese l’indice all’interno del libro per tenere il segno e reclinò la
nuca sul cuscino, girando appena il volto per avere una visione migliore delle
corolle bianche e del cuore giallo, tanto acceso e violento da far male agli
occhi e piangere il cuore.
Si abbandonò ad un lungo sospiro,
mentre la dolcezza lasciava il posto alla malinconia e la bocca ancora pallida
si contraeva un poco.
Pepper non era una bambina ed era più
che consapevole di come le gentilezze di Happy andassero oltre la cortesia ed
il garbo.
Virginia lo aveva conosciuto il
giorno del colloquio per il posto di segretaria alle Stark Industries e non
aveva scordato le parole che Tony le aveva rivolto il primo giorno di lavoro.
Sembra
che lei abbia fatto un’ottima impressione alla mia guardia del corpo, miss
Potts. Le
labbra si erano piegate in un ghigno di strafottenza Mi dimostri che non è stato solo grazie al tailleur di Chanel.
Era bastata quella frecciatina
impudente perché ogni traccia di lusinga finisse in pezzi e la figura fiduciosa
di Hapy mutasse in quella in quella irriverente di Stark.
Ed era proprio per questo, in virtù
del magnate che Virginia avvertiva un fastidioso senso di angoscia torcerle la
gola al l pensiero di come i fiori, i sorrisi, le visite la facevano sentire.
Sebbene la storia tra lei e Tony
fosse finita da mesi, sussisteva tra loro una certa complicità, una tenerezza
scevra di sentimentalismo, ancora in grado di legarli saldamente a filo doppio.
Ammettere a se stessa l’interesse per
Happy e permettere ad esso di sciogliere uno dopo l’altro i nodi che la
tenevano stretta a Tony, era un rischio che non si sentiva pronta, né disposta
a correre.
All’imbarazzato tamburellare contro
lo stipite, Virginia sobbalzò. Sollevò la testa e torse il collo; il sorriso
che, nonostante le elucubrazioni di cui si era resa protagonista, le era nato
sulle labbra si oscurò.
«Disturbo?»
«Assolutamente no, Colin. Entra pure.»
L’altro annuì, rassettò il cardigan
beige e, afferrata una seggiola vicina alla porta, si accomodò vicino a lei.
Pepper intrecciò le dita in grembo.
«Tony ha messo mano al tuo armadio?»
domandò, scherzosa, accennando alla camicia azzurro pallido e alla cravatta
scura solcata in obliquo da sottili linee bianche.
La punta delle orecchie di Hendrick
pizzicò di rosso e dalla risata balbettante che le diede in risposta scaturì un
naturale senso di simpatia.
«No» disse l’Agente, la fronte un
poco china e la mano a sfiorare la base della nuca «Ma il signor Stark ha
voluto che boxassi col signor Hogan e non mi pareva adatto venire a farle
visita in simili condizioni, miss Potts.»
«Virginia» lo corresse lei «E non ti
preoccupare, boxare con Happy è un rito di passaggio per ogni segretario
mandato dallo S.H.I.E.L.D. Chiedi pure a Natasha per conferma.»
Colin annuì, o meglio, compì un
movimento con la testa che poteva assumere molteplici significati e al tempo
stesso non dire nulla.
Pepper attese una manciata di secondi
che l’altro continuasse la conversazione: tuttavia, Hendrick si limitava a
schiarirsi la gola, palesemente a disagio, a stringere le ginocchia tra le dita
e a guardarsi intorno alla ricerca di un qualcosa indefinito.
«Devi dirmi nulla?» tentò di dargli
l’imbeccata lei, sollevando le sopracciglia e sporgendosi impercettibilmente
nella sua direzione.
«Ahm.» Colin sfregò i palmi sui
pantaloni neri e deviò lo sguardo «Io non…Sono sicuro che abbia senso, ma…»
«Ma…?»
«Ma sono preoccupato per il signor
Stark.»
Virginia aggrottò la fronte ed un
campanello d’allarme le risuonò nel petto, sconquassando costole e spina
dorsale. Si adagiò con la schiena contro il guanciale, prese un respiro, serrò
la bocca e le labbra sbiancarono.
«Perché lo pensi?»
«Le occhiaie.» rispose, passandosi
più volte l’indice sul sopracciglio destro «Le bottiglie in ufficio che cerco
in tutti i modi di far sparire la mattina, ma che riesce a far apparire –Mezze,
se non completamente- finite il pomeriggio. Lo sguardo allucinato, a volte mi
sembra quasi faccia fatica a respirare o a rimanere lucido. Come se si
perdesse» scrollò il capo «Temo soffra di insonnia e in molte occasioni l’ho
trovato addormentato sulla scrivania. Inoltre, devia il discorso non appena si
va a toccare la battaglia contro i Chitauri. E…»
«Niente è stato più lo stesso, dopo
New York.» lo interruppe Pepper e le parole scricchiolavano come vetro crepato,
in procinto di rompersi «Vivi esperienze al limite e poi tutto finisce senza
una spiegazione. Dei, alieni, altre dimensioni…Tony» emise un rapido colpo di
tosse, girò la testa perché Colin non vedesse le ciglia inumidirsi, le iridi
farsi liquide «E’ Iron Man, d’accordo. Ma è soltanto un’armatura: sotto di
essa, è semplicemente un uomo. Un uomo brillante, un uomo cui tengo e per cui
darei la vita. Però sempre un uomo. E gli uomini crollano, Colin.» preso
coraggio, tornò a rivolgere l’attenzione su di lui «E Tony è in tensione da
troppo tempo, sta arrivando al limite. Mi aveva chiesto di andare a vivere insieme
e…Io ho rifiutato. Non perché non lo amassi» chiarì «Tuttavia, avevo capito che
nella sua esistenza non c’era posto per me, così come non c’era posto per se
stesso. Unicamente Iron Man contava, non c’era spazio per altro, né per altri.»
A punta di dita, Virginia disegnò le
grinze del lenzuolo ed evitò accuratamente gli occhi pietosi di Hendrick, la
bocca compassionevole, l’espressione abbattuta.
«Il Laboratorio di Malibù è stato
smantellato, ogni cosa portata alla Tower di Manhattan.»
«Alla Tower?» intervenne Colin «E’
ancora distrutta…!»
«In parte.» replicò Pepper «Agente
Hendrick, per quale missione pensi di essere stato chiamato?»
L’uomo corrugò la fronte e balbettò,
smozzicò lettere prive di senso, confuse e perplesse, masticò risposte secche e
incompiute, fece spallucce, torse il collo, si grattò il polso.
«Per proteggere il signor Stark.»
«Il signor Stark o Iron Man?»
Pepper lo osservò in silenzio mentre
assorbiva l’entità intrinseca della domanda, mentre ne coglieva le sfumature e
la reale portata.
«Iron Man ha molti nemici ed
un’armatura per combatterli.» disse lei «Ma Tony Stark ne ha solo uno, contro
cui non ha difese.»
«…Lui stesso.»
Virginia non commentò oltre e distese
le dita affusolate sul tessuto spiegazzato della coperta, le dita equidistanti
tra loro. Anche Hendrick rimase in silenzio, forse per rispetto, forse per
ragionare o pensare a quanto aveva appena scoperto, a lei non importava: le
interessava il silenzio ed il flebile, sottile profumo dei fiori che
s’arricciolava impalpabile nella stanza.
«Che strano.» sussurrò, rivolgendo
gli occhi alla finestra e alla luce giallastra dei lampioni che s’arrampicava
sul vetro «Happy è in ritardo stasera.»
10880 Malibù Point, 90265.
Casa di Anthony Edward “Tony” Stark.
2013.
Aveva
bevuto, questo lo ricordava.
Quanti
bicchieri, non lo sapeva.
Si era
ritrovato per terra e non aveva idea di come, il pavimento era freddo sotto le
gambe e la sola fonte di illuminazione ero lo schermo rettangolare piazzato al
centro di quello che una volta era il Laboratorio di Malibù. Era vuoto, adesso,
niente più macchine, niente più armature. Teche di vetro, polvere, ricordi.
Chissà se a Dummy mancava Malibù, Tony non glielo aveva mai chiesto. Anche perché
Dummy non era dotato di un sintetizzatore vocale e questo rendeva i dialoghi un
po’ difficoltosi.
Ci avrebbe
lavorato, una volta tornato a Manhattan.
Alla Tower,
nel Laboratorio sotterraneo. Dove non c’era nessuno, dove era in compagnia di
se stesso e di una, due, tre bottiglie di liquore e Dummy e le lamiere e lo
sfrigolio eccitante della fiamma ossidrica. In compagnia di demoni e mostri che
l’insonnia debellava e rendeva più vividi a seconda della quantità di caffè, a
seconda della stanchezza, a seconda della frustrazione. Diavoli ed incubi,
incrostati allo spirito, marcescenti, putrefatti, frutto della mente, scherzi
del cervello.
Non erano
tangibili, non ci si poteva affezionare loro. Non erano come le persone e Tony
li odiava, odiava loro e odiava le persone, perché alle persone si finisce per
attaccarsi, ad affidarsi, ad usarli come sostegno quando il mondo intorno è
buio e non ci sono stelle e sei sul baratro e la sponda su cui cammini si
riduce davanti e dietro e intorno e il gorgo mormora ruggisce e latra e cadere
non è un’ipotesi, cadere è una soluzione, cadere è la sola alternativa.
Stark
grugnì e soffocò un singhiozzo, piantò la mano contro la fronte e avvertì
appiccicume e sangue impiastricciargli la pelle sudata. Aveva disegnato schemi
e linee e calcoli sui palmi e sul dorso, con un vecchio cacciavite trovato per
caso mentre colpiva il vuoto e urlava e abbaiava e strillava come un bambino e
l’eco restituiva pianti e memorie e le pareti si dilatavano e si comprimevano,
respiravano simili a polmoni di giganti, altrettanto paurosi e umidi.
Il metallo
era freddo dentro la carne e Tony si era stupito di trovarla calda, quando
dentro di sé non avvertiva che gelo ed orrore. Gelo, orrore, rabbia, vendetta,
viscere bollenti, vene in fiamme, fiato elettrico, nervi avviluppati alle ossa,
tentacoli di furia e ira e abbandono e ingiurie e bestemmie e lacrime acide,
che scavavano solchi lungo le guance e intaccavano, distruggevano la trachea e
l’esofago e lo stomaco.
«Fallo
ripartire, J.A.R.V.I.S.» smoccolò, vomitando a stento suoni comprensibili e vermi
di bile «Fallo ripartire.»
Signore tentò l’AI,
conciliante Nelle sue condizioni non mi
sembra il cas—
«Fallo ripartire!»
latrò e allo stridere delle corde vocali si sostituì il frusciare mellifluo,
accattivante del Mandarino.
Il tono
aveva la cadenza di un sermone, la medesima magia, la stessa illusione di
intrecci melodici e verità assolute, di padre che spiega la morale di una fiaba
al bambino che lo osservava ad occhi sgranati e s’abbeverava di qualunque cosa
gli pende dalla bocca ghignante.
Potere
assoluto, assoluta distruzione.
I miei discepoli hanno appena distrutto un’altra imitazione
americana mediocre e c’era fuoco e cenere e corpi divelti sbranati
stracciati strappati disarticolati e fumo e il cielo era nero, era nero anche
il dolore, come era anche il lutto Il
Chinese Theatre.
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Capitolo 7 *** { Gazza Ladra ~ File 0.6 } ***
ood6
{ Gazza Ladra ~ File 0.6 }
Triskelion,
Washington D.C.
Ufficio
di Alexander Pierce.
2013.
«Rapporto Missione.»
L’Ufficio era stato messo in sicurezza
di modo che a nessuno venisse l’idea di ficcanasare nei suoi affari. L’unica
luce presente era quella dell’ologramma al centro della stanza: una figura
d’uomo patinata d’azzurro, lineamenti rigidi, lo sguardo freddo, la voce
incolore.
Alexander Pierce lo osservava con le
reni appoggiate al bordo della scrivania ed un bicchiere di bourbon nella mano
destra. Era vestito impeccabilmente: completo grigio e panciotto, scarpe
lucide, anelli d’argento alle mani, colletto inamidato e cravatta a righe.
Aveva posato gli occhiali da vista
accanto ad una bottiglietta d’acqua a marchio S.H.I.E.L.D. Quando era
concentrato su qualcosa, le lenti sul naso erano più un peso che un aiuto.
«Rapporto Missione.»
L’ologramma intrecciò le dita dietro
la schiena, raddrizzò le spalle. Un assetto ed un portamento marziali difficili
da nascondere, resi ancor più netti dai piedi distanziati e ben piazzati sul
terreno, ed il petto in fuori.
«Attacco al Grauman’s portato a
termine con successo.» rispose, metallico «Harold Hogan è deceduto.»
Pierce storse la bocca in una smorfia
che poteva essere di soddisfazione quanto di semplice presa di coscienza. Fece
roteare il bourbon nel bicchiere, gli occhi conficcati in quelli al vetriolo
dell’ologramma; si portò il bicchiere alle labbra. Non bevve.
«Stark?»
«Confinato nella sua dimora di
Malibù.»
«Ha avuto contatti con qualcuno?»
«Nessuno, signore.»
«Mh.»
Pierce socchiuse le palpebre solcate
di rughe molli, un guizzo trapassò le iridi grigio-azzurre. Pareva in preda al
sospetto, in ascolto di un bisbiglio ignorato da chiunque, tranne che da lui
stesso.
«Molto bene.» disse, infine «Procedi.»
L’ologramma chinò la testa in un
cenno di assenso ed obbedienza.
«Agli ordini, signore. Heil HYDRA.»
«Heil HYDRA.»
Lasciando che l’immagine si assottigliasse
fino a diventare una lamina bluastra poi risucchiata dal pavimento, l’uomo
allungò una mano al telefono della scrivania. Sollevò la cornetta, digitò tre
cifre, quindi pressò il tasto per le chiamate rapide. Appena dall’altra parte
presero la linea arcuò le sopracciglia, provocando un gran sconquasso di rughe
arzigogolato sulla fronte.
«Manda gli elicotteri» disse «E fate
terra bruciata intorno a Stark.»
Rimaneva un’ultima cosa da
controllare: i dati contenuti nella chiavetta di Fury.
Località
Sconosciuta.
Cella
Di Sicurezza.
2011
Il dottor Marlowe sfilò gli occhiali
dal naso e contrasse la mandibola: il massiccio osso zigomatico ebbe un guizzo
indispettito che trasfigurò i tratti del volto. Mai come in quel momento il
viso del medico era apparso come una maschera di sughero, una pantomima di
lineamenti abbozzati su di un grumo d’argilla.
Qualcosa di storto emergeva dalla
piega della mascella, altri occhi nei bulbi grossolani e sgraziati, una seconda
bocca al di sotto delle labbra gonfie. Persino il torace a botte sembrava sul
punto di esplodere. Il dorso delle mani scintillò di filamenti fulvi ed il
cranio venne avvolto un momento dalla medesima aura rossa, un bagliore espanso
a disegnare il contorno luminescente di una barba assai folta.
Il suo essere vibrava, tassellini di
vetro bisbigliavano sulla sua figura come specchi deflettori; sul completo
tremolavano schizzi intermittenti ed interferenze, microscopiche saette
verdastre e azzurrine che lo mettevano a fuoco e lo sfocavano, riassestandolo
su canali diversi.
La causa della sua ira era da
ricercarsi nel soggetto addormentato, sulla branda dinanzi a lui.
Qualcosa nella seduta non stava
funzionando a dovere. Non stava funzionando come avrebbe dovuto e come era
stato in tutte le sedute precedenti e come avrebbe dovuto continuare anche
nelle sedute a venire. Il dottor Marlowe lo considerava un ostacolo, un stop
non richiesto e potenzialmente pericoloso.
Decisamente pericoloso
Fino a quel momento il soggetto aveva
risposto senza resistenza alcuna alle suggestioni che gli erano state impartite.
Scivolava nel buio mellifluo della voce del medico e non frapponeva alcuna
barriera tra sé ed il proprio inconscio, si piegava docile e docile si
genufletteva, dimenticava, ricordava ciò che Marlowe voleva ricordasse e
soltanto nelle modalità che era Marlowe stesso a decidere.
Il risveglio improvviso del soggetto
e la confusione erano stati il terreno migliore in cui intrappolare il suo
inconscio: per le alte sfere era inconcepibile pensare che un uomo così
addestrato, abituato a trovarsi nelle situazioni più disparate e disperate
potesse cedere alle lusinghe delle stimolazioni psichiche.
Marlowe, che ne era maestro
indiscusso, aveva spiegato loro come proprio l’addestramento militare era stato
il tallone d’Achille del soggetto e la loro benedizione, la loro manna dal
cielo ed altre citazioni bibliche di sorta: il soggetto, appena ripreso
conoscenza, si era subito posto in difesa assoluta. All’erta e vigile, i sensi
pronti, i nervi saldi, studiava ambiente e persone, mandava a mente turni delle
guardie e i volti dei medici che si occupavano dei test, non c’era dubbio
alcuno che si fosse già fatto un’idea riguardo il numero di persone coinvolte e
della planimetria parziale del sotterraneo.
Un soldato come non esistevano da
decenni. Un perfetto esempio di disciplina e contegno marziale.
Sul piano fisico e tattico nessuno
sarebbe stato capace di prenderlo in contropiede, tanto meno ingannarlo o
manipolarlo per scopi più o meno personali, per i fini più disparati. Ma in
tutto in quello, il soggetto aveva dimenticato di nascondere e proteggere una
parte di sé la cui importanza era pari o superiore a strategia e sopravvivenza:
l’uomo che viveva dietro il militare.
Oh, come la parte molle di un mitile
che apriva e schiudeva le valve alla giusta pressione, al giusto calore, così
il passato del soggetto si era aperto e schiuso a Marlowe, al suo tocco
sapiente, ai suoi mendaci sussurri.
Le alte sfere potevano tenere in mano
la persona fisica del soggetto, lui ne aveva in mano spirito ed integrità
morale, molto più malleabile e plasmabile.
Almeno finché un risveglio più profondo di quello meramente sensoriale non fosse
arrivato a scombinare i piani.
L’ordine perentorio di mantenere il
soggetto in completo isolamento non era stato dettato a caso, Marlowe l’aveva
richiesto per motivi ben precisi: lasciare che il mondo penetrasse all’interno
del microcosmo narcotizzato del soggetto equivaleva a far uscire il soggetto
medesimo da esso. Mostrargli un accenno di realtà al di fuori delle mura, le brandine,
le sedute, i test nebulosi avvolti in atmosfera di sogni e di oppio,
significava ampliare le sue vedute, i suoi sensi, mettere sul chi vive
curiosità e coscienza. Renderlo vigile in ogni fibra del proprio essere, non
solo in risposta meccanica ad istinti che andavano al di là del susseguirsi
delle decadi.
Fino a quel momento Marlowe era stato
convinto di aver mantenuto il soggetto in una bolla impenetrabile, una gabbia
le cui porte erano impossibili da spalancare e di cui era il solo a possedere
le chiavi.
Fino a quel momento, appunto.
Qualcosa era intervenuto ad incrinare
il legame creatosi tra manipolato e manipolatore e se il medico non ne avesse
scoperto al più presto la causa, le conseguenze sarebbero state incalcolabili.
Qualunque fosse stato l’evento, non si sarebbe più dovuto ripetere. Il
colpevole doveva essere eliminato.
«E’ buio intorno a te» bisbigliò
Marlowe, cercando di riprendere le redini della seduta «Il buio ti rende
nervoso. Il buio ti fa male. Il buio ti ferisce. La luce è buona. La luce ti
rilassa. Dalla punta dei piedi risale e rilassa le gambe, lo stomaco, ed il
petto. La luce ha il colore che tu vuoi che abbia.» Sfregò le mani «La luce
scaturisce dal fondo del buio. Ha il colore che tu vuoi che abbia, ti rilassa e
ti calma. Scivola su di te, ti abbraccia e ti avvolge, ti rilassa. Che colore
ha?»
Il soggetto, dalle cui palpebre
semichiuse si intravedeva il disco opaco delle iridi, deglutì lentamente e
lentamente sporse le labbra, a mormorare una risposta cadenzata e pesante, il
tono di voce abbassato dal sopore e dal sonno.
«La luce verde di Gatsby.»
Un brivido d’allarme ragliò
attraverso la spina dorsale di Marlowe e scosse le vertebre con un gran
ghignare d’ossa e legamenti.
«Come dici?»
«La luce verde di Gatsby.» Ripetè
allora il soggetto «Gatsby credeva nella
luce verde. Il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi.
C’è sfuggito allora, ma non importa, domani andremo più in fretta, allungheremo
di più le braccia…»
E mano a mano che parlava, il medico
osservò con orrore il processo di risveglio rovesciarsi nelle membra
intorpidite: un fremito percorse i capelli e la sommità della testa, fino al
naso, ramificandosi alle guance, al mento ed alla bocca. Il pomo d’Adamo si
sollevò e ricadde, un singulto balzò alla gola, e le narici si dilatarono ad
ingoiare una poderosa sorsata d’ossigeno. Il petto deflagrò per la potenza del
nuovo respiro, i muscoli delle braccia ruggirono ed il boato che li aveva
sconvolti riverberò ai fianchi, alle gambe, alle caviglie, ai piedi. Le nocche
si contrassero, le dita si stesero e si serrarono, una vena emerse dalla carne,
dal polso a di sopra del gomito. Le ciglia rabbrividirono, pagliuzze nere
d’ombra si mossero sugli zigomi come foglie su uno specchio d’acqua. Le
palpebre si incresparono, simili alle creste d’onda del mare, le correnti del
pensiero s’agitarono e s’avvinghiarono, avvoltolarono sotto di esse.
Il soggetto aprì la bocca e reclinò
il capo, la nuca puntellata al cuscino della branda; le spalle si piegarono
all’indietro, il torace spinto in avanti: non diverso dal naufrago che getti la
testa oltre il pelo dell’acqua alla ricerca di vita e salvezza, il soggetto
agguantò coi denti il barlume di coscienza e si trascinò fuori dal gorgo e dal
fango.
La sospensione cristallizzata
nell’attimo, le palpebre spalancate, la voce ratta in gola e la trachea
dilatata, le pupille gonfie e liquide ad ingoiare, assorbire ogni cosa
all’intorno –Nutrirsi di ogni cosa e dell’intorno…Era sveglio.
Marlowe balzò in piedi e i cali di
tensione che ne avevano minato la figura si erano di nuovo assestati sul
robusto uomo di colore, dalle fattezze rassicuranti ed il sorriso gentile. Ma
la paura ed il terrore rendevano gli occhi pallidi ed il fiato balbettante.
Faticosamente il soggetto appoggiò i
palmi alla brandina, ne arpionò i bordi con le dita e si tirò a sedere, i piedi
calzati nelle scarpe di tela aderenti al terreno ed il mento ancora piegato
sullo sterno. La linea delle spalle ondeggiò mentre riprendeva equilibrio e
controllo; il medico non ebbe nemmeno il tempo di proferire parola, che il
soggetto aveva alzato la testa e lo sguardo era conficcato nel suo.
Il dottore non si sentì differente da
una farfalla dietro il vetro di una cornice, l’ago di quegli occhi
incredibilmente azzurri ed incredibilmente vivi che gli trapassavano l’addome
da parte a parte.
Senza dire nulla, il soggetto drizzò
la schiena e si levò in tutta la sua altezza. Una minima contrazione illividì
la mandibola, un fulmine di rabbia opalescente sfolgorò attraverso la carne
bianca.
«Questa volta credo sarà lei a
rispondere alle mie domande.» Esordì, il tono più forte e intimidatorio,
sicuro, privo di qualunque esitazione «Non sono nelle condizioni di accettare
un suo rifiuto.»
«Non c’è bisogno di essere così duri»
cercò di tranquillizzarlo Marlowe, con un sorriso lezioso «Sei confuso, lo
posso capire.»
«Non sono mai stato più lucido.»
«Temo di dover dissentire. Sono il
medico preposto al tuo recupero psicofisico in seguito alle circostanze della
tua venuta qui e…»
«Chi lo ha deciso?»
Marlowe corrugò la fronte, un rivolo
di sudore freddo a scivolare lungo la tempia.
«Prego?»
Il soggetto socchiuse le palpebre a
fessura, il suo corpo fu attraversato da una scarica elettrica.
«Chi ha deciso che lei fosse il mio
medico? Come sono arrivato qui? Dove sono?»
«Sono domande lecite, queste,
tuttavia…»
«Nessun “Tuttavia”» il timbro era divenuto metallico e c’era ben poco
spazio, ormai, per comprensione o cortesia di sorta «Pretendo le risposte che
cerco.»
Il dottore arretrò di un passo, poi
un altro ed un altro ancora, mentre il soggetto avanza ad ogni suo retrocedere.
Non si faceva illusioni, Marlowe: se non avesse agito in tempo, se non avesse preso tempo, il soggetto lo
avrebbe attaccato. Non lo avrebbe ucciso, il soggetto non uccideva, ma questo
non gli era comunque di consolazione, né un invito a sottovalutare le sue
intenzioni e le conseguenze che esse avrebbero avuto.
49 27
41 82 3 40
Base Providence, Canada
2013
Avete mai ascoltato il suono che
produce una sigaretta quando viene piegata e stritolata tra le dita? E’ un
cantare molle di pagliuzze flaccide, uno scricchiolare di filtro e gemere
inarticolato di carta. È un rumore metodico, come il tick-tock delle lancette.
Per stritolare una sigaretta c’è
bisogno di una certa dose di maestria, perché abbia la stessa ritualità con cui
la si fuma. La stessa devozione autodistruttiva, la stessa morbidezza di gesti,
la stessa carezza coi polpastrelli mentre la si stringe tra le dita, la stessa
piega delle labbra, che un po’ è sorriso, un po’ è l’anelare disperato dell’astinenza.
Natasha rompeva le Camel una per una
e per Clint era un piacere guardarla. Non tanto per l’azione in sé, che, al
contrario, gli provocava ogni volta un torcersi guaente di budella e viscere,
quanto per la sensualità organizzata con cui estraeva la sigaretta dal
pacchetto, la teneva due secondi tra pollice ed indice, inclinava il viso, lo
osservava di sottecchi, quindi faceva scivolare il polpastrello del pollice
fino a metà, usava la nocca dell’indice come perno e track-frush-clump, eccola distrutta.
Barton la fissava con fascinazione
crescente, chiedendosi se fosse possibile per Nat non fare qualcosa senza
provocare uno scompenso ormonale in qualunque essere maschile e femminile di
passaggio. Probabilmente avrebbe sortito lo stesso effetto erotico aprendo una
latta di pomodori.
Era d’obbligo convincerla a provare.
«Cosa ti è preso?» gli chiese Vedova,
prelevando l’ennesima Camel.
Clint scrollò le spalle, a non voler
dare alcuna importanza a quanto succedeva. Come se non esistesse alcun
recondito, psicologico e psicolabile motivo dietro le proprie azioni, dietro le
proprie scelte, dietro il proprio desiderio di autodistruzione. Come fossero
soltanto dimenticabili incidenti di percorso.
«Clint.» lo chiamò di nuovo la donna
«Rispondimi.»
«Che avrei dovuto fare, Nat?» sputò
Barton, forse con più veemenza e acidume avrebbero voluto utilizzare nei suoi
confronti.
Loki, seduto accanto a lui, si
distese maggiormente sul divano e stirò le labbra sottili in un ghigno pallido.
Cosa ben strana per uno spirito ciarliero e logorroico par suo, era rimasto in
silenzio dalla scazzottata sulla neve fin al rendez-vous con Vedova Nera nella
sala relax della Providence.
Rendez-vous.
…Diciamo più trascinamento forzato
per un braccio. Molto forzato, visto che l’aveva praticamente tirato giù dal
lettino dell’Infermeria dove Clint si stava infilando batuffoli di cotone nelle
narici per fermare l’emorragia. Coulson se la batteva bene per essere un
redivivo, questo Occhio Di Falco doveva concederglielo.
Era la questione del redivivo che non riusciva assolutamente a
perdonargli. Un silenzio durato più di un anno, nessun tentativo di contattarlo
o di cercarlo, di fargli pervenire un messaggio, un segno, qualsiasi cosa
rischiarasse l’inghiottitoio in cui stava sprofondando, il pozzo di
disperazione la cui imboccatura, ogni qualvolta alzava la testa, era sempre più
lontana, sempre più irraggiungibile.
«Non stavo parlando di Coulson.»
Clint sbatté le palpebre, perplesso,
e persino l’impalpabile divinità norrena concentrò su Natasha ogni attenzione.
Non sembrava stupito, bensì curioso sui risvolti futuri, sugli stravolgimenti
inaspettati avrebbe scatenato la risposta di Vedova.
«Parlavo della missione. Pensavo
fossi uscito dallo S.H.I.E.L.D.» ennesima sigaretta sfilata, ennesimo piegarsi
di nocche e falangi «Pensavi avessi deciso di dare un taglio netto a tutto.
Anche a te stesso.»
Occhio Di Falco contrasse la
mandibola ed abbassò lo sguardo sulle proprie mani: oltre ai graffi, ai tagli,
ai cerotti e alla pelle arrossata dalla neve e dal freddo, oltre le dita
gonfie, si scorgeva il tremore incontrollato dei polsi, l’incavarsi della carne
nei punti in cui egli aveva affondato con forza i denti, più e più volte, per
impedirsi di urlare, per impedirsi di bere, per impedirsi di piangere, per
impedirsi di fumare, per impedirsi di crollare, per impedirsi di spegnersi.
Il dolore, il ritorcersi ed annodarsi
delle terminazioni nervose erano gli unici bagliori di vita cui affidarsi per
svegliarsi dal torpore e prendere fiato, salvandosi all’ultimo secondo
dall’affogamento.
La presenza di Loki era s’era fatta
pesante gravare, fumo negli occhi e nei polmoni, artigli a stringere il cuore,
ghiaccio ramificato nelle vene. Non era più in grado di vederlo, eppure Clint
sapeva che era lì, ovunque, su di lui, dentro di lui, attorno a lui, senso di
colpa dalle fattezze tangibili al tocco della mente e dello spirito, voce di
accusa mai spenta, occhi di biasimo mai cieco.
«Fury mi disse una cosa quando mi
diede personalmente il distintivo» e Loki bramava le sue parole, la sua
confessione, cuore, anima, respiro «Che tutte le missioni affidatami dallo
S.H.I.E.L.D. avrebbero avuto la loro dose di pericolo. Ma che la chiamata alle
armi del distintivo, solo e soltanto quella, sarebbe stata un suicidio.»
Triskelion,
Washington D.C.
Ufficio
di Alexander Pierce.
2013.
Sonja picchiettava le dita sulla
tastiera, componendo alcune mail per conto di Pierce. Picchiettava e
picchiettava veloce: non per niente era stata la migliore del corso di dattilografia.
Più di una volta il capo aveva lodato
la celerità del proprio lavoro di segretaria, cosa che l’aveva riempita non
poco di orgoglio. Un complimento da parte di Alexander Pierce apriva più porte
di una chiave universale e le sarebbe bastata una raccomandazione da parte sua
perché le stendessero il tappeto rosso ai piedi al Pentagono od alla Casa
Bianca.
Non che avesse intenzione di
abbandonare Alexander Pierce, ma era appagante sapere che con uno schiocco di dita
ed una lettera firmata dalla persona giusta avrebbe potuto aspirare al posto
che più le confaceva, desiderava o sognava da una vita intera.
O anche solo quel posto per cui molti
avrebbero dato mani, reni ed altri organi di facile estrazione.
Arricciando l’angolo sinistro della
bocca in un sorriso, Sonja premette Invio
e cominciò con il nuovo paragrafo. Le unghie smaltate di rosa pallido sulla
tastiera emettevano un tic tic tic
come zampettio di passero, gli occhi verdi erano colmi del bagliore
luminescenti dello schermo. Le lettere si susseguivano una dopo l’altra, in
svelta successione sulla pagina, tic tic
tic tap tap tap spazio invio maiuscolo Sonja ebbe giusto il sentore di un
pizzicorio fastidioso alla nuca prima che i segni si bloccassero del tutto e la
lineetta nera prendesse a balbettare, senza muoversi di un solo grafema.
Sonja era rimasta immobile, l’indice
a sfiorare una lettera, il pollice della mano destra già pronta sulla barra
spaziatrice, la bocca un poco chiusa, la punta della lingua a battere sulla
chiostra dei denti in un muto redigere a voce il documento. Il volto era
cristallizzato nella fissità più assoluta, i muscoli delle braccia irrigiditi
senza apparente ragione.
La somiglianza con una statua di
gesso era tale che, non fosse stato per il respiro sottile e cadenzato che solleva
la camiciola rosa antico e la spilla a forma di libellula, la si sarebbe detta
un androide mal funzionante o una diavoleria elettronica coi circuiti in
avaria.
Una figura scivolò da dietro le
spalle di Sonja e si portò due dita all’orecchio.
«Oscurate le telecamere» ordinò,
autoritaria, il timbro di voce un milione di timbri diversi, irriconoscibili e
non individuabili.
Non si mosse per una manciata di
secondi. Quindi, forse in seguito ad una risposta positiva da coloro con cui
era in contatto, avanzò dentro l’ufficio di Alexander Pierce. A passi calibrati
raggiunse la scrivania, uno sguardo addestrato alle scartoffie la bottiglia d’acqua,
il computer, il fermacarte, poi l’attenzione alla cassettiera e l’indice
sinistro spinto sul polso destro.
Uno sfarfallio di tasselli, lampi blu
elettrico e saette arzigogolate: la mano affusolata, chiaramente femminee, si
scompose in quadrati microscopici e si trasmutò, cambiò forma divenendo più
grossa, tozza, maschile. Le falangi si gonfiarono, le nocche s’allargarono, un
reticolato di rughe attraversò il dorso e le vene che s’erano sollevate alla
contrazione dei muscoli. Sottili peli grigio-biondi comparvero sulla pelle
coriacea, all’anulare fece mostra di sé una fascia metallica e lucida.
La spia sfruttò la copia perfetta
della mano di Alexander Pierce per aprire i cassetti uno ad uno, cercare,
stanare, scovare. Con precisione millimetrica e pazienza, riuscì finalmente nel
proprio intento: da sotto alcuni fascicoli contabili estrasse una pennetta USB,
decorata all’estremità dal logo circolare dello S.H.I.E.L.D.
La strinse nel pugno un paio di
secondi, quindi dalla tasca della divisa prese un parallelepipedo non più largo
di un centimetro e largo tre. Sulla faccia superiore uno schermo digitale,
ancora spento; su quella laterale, una fessura in cui la figura inserì la
chiavetta.
Lo schermo si illuminò per una
frazione di secondo. La spia stette immobile, ad aspettare che la barra di
scaricamento e caricamento dati concludesse il proprio compito; ad essa si
sostituì una striscia di coordinate numeriche -49 27 41 82 3 40-, poi un conto alla rovescia. Il marchingegno frizzò,
sprigionò un esile filo di fumo e non si riaccese più.
La spia rimise la chiavetta all’esatto
suo posto, chiuse il cassetto ed uscì dall’ufficio. Si avvicinò a Sonja, ancora
rigida e spenta, ed attivò la ricetrasmittente.
«Missione computa. Riattivare telecamere
in sessanta secondi. Mockingbird chiude.»
Così come era entrata l’Agente
S.H.I.E.L.D. “Mockingbird”, nei database Bobbi Morse, abbandonò il piano del
Triskelion, senza che foglia si muovesse od ombra di spostasse. Non prima,
ovviamente, di aver disattivato l’inibitore neuronale applicato alla nuca della
segretaria.
Il microscopico dischetto si frantumò,
disintegrandosi in maniera tanto lieve che Sonja credette di aver avuto un richiesto
incontro con una fastidiosa zanzara.
In tutto, l’operazione non era durata
più di tre minuti.
49 27
41 82 3 40
Base Providence, Canada
2013
Quando Koenig entrò nella stanzetta
privata di Coulson, questi stava ancora tamponandosi il taglio allo zigomo. Il
sangue non usciva più, eppure Phil continuava ad avere la sensazione di una
sostanza appiccicosa sotto la guancia e alla piega della gola. Non aveva nulla,
lo vedeva da sé, tuttavia continuava a grattare e premere e strofinare, nella speranza
di essere lasciato in pace.
I vestiti inzaccherati di neve erano
gettati alla rinfusa sul pavimento: Coulson li aveva sostituiti con un maglione
a collo alto, pantaloni grigio chiaro e scarpe da ginnastica; sul torace
spenzolava il badge che il custode della Providence aveva obbligato tutti loro
ad indossare.
L’espressione di Koenig quando aveva
colto lui e Barton azzuffarsi era stata a metà tra lo stupore e l’incredulità.
Forse si aspettava un comportamento più serio, vista la situazione ed i
soggetti coinvolti, e Coulson non poteva dargli torto. Koenig aveva ragione, ma
Koenig non si era trovato a dover combattere contro colui che era stato non
soltanto uno dei suoi allievi migliori, non soltanto un Agente senza pari, ma
anche e soprattutto un amico leale ed un compagno di vita fedele –Almeno fino a
quando la morte non li aveva separati. Letteralmente.
Erano
gli ordini di Fury! Aveva
provato a spiegarsi, cercando di tenere testa ad un Clint inferocito, che si
abbatteva e si batteva contro di lui come una belva Non potevo…!
Occhio Di Falco non gli aveva
concesso risposta, né considerazione: aveva continuato a prenderlo a pugni e
Phil, alla fine, aveva reagito. Vuoi per istinto, vuoi per sopravvivenza, aveva
smesso di incassare e aveva ribattuto colpo su colpo, con egual ferocia e
medesima frustrazione. E pensare, era stata l’immagine fulminea che gli aveva
attraversato il cervello, Che l’ultima volta in cui l’ho stretto era per fare l’amore
con lui.
Un’ora prima dell’attivarsi del Tesseract,
un’ora prima dell’arrivo di Loki, un’ora prima che il potere dello scettro
infettasse la mente di Occhio di Falco, un’ora prima della fine del loro mondo,
del loro micro-universo, Clint aveva ansimato il suo nome fino a non avere voce
e Phil era stato convinto che i suoi baci gli avrebbero ustionato la pelle,
tanti erano e tanto erano caldi, bollenti.
A salvarlo dalla commozione cerebrale
erano arrivate le braccia di Natasha a sollevare il collega di peso, lo
schiaffo risuonato come frana all’intorno. Coulson si era sollevato, ammaccato
e goffo, traballando incerto sui piedi e con un capogiro niente male. Aveva
cercato di prendere la parola, ma Clint l’aveva bloccato sputandogli ai piedi e
scomparendo con Vedova Nera all’interno della Providence.
Da quel momento in poi non l’aveva
più visto, né Barton aveva cercato un contatto con lui.
Ad essere sinceri, nemmeno lui aveva
cercato un contatto con Clint o fatto alcunché per vederlo, ma ancora e di
nuovo si nascondeva dietro gli ordini e gli obblighi dovuti a Fury, la
segretezza, la compartimentazione delle informazioni, questo e quello, sì e no,
vero e falso, giusto e sbagliato.
Idiota. Era un idiota e consapevole
di esserlo.
Clint aveva bisogno di spiegazioni,
le meritava, le meritava per ogni istante in cui l’aveva costretto nella
menzogna e nell’ignoranza, e lui invece gli rifilava scuse su scuse, lo
ingannava ed ingannava se stesso per non ammettere il disagio e la morsa fredda
che gli stringeva lo stomaco alla sola idea di incontrarlo dopo gli eventi di
New York.
«Posso entrare?» chiese Koenig ed era
una domanda superflua: aveva già messo un piede nella camera, senza dare il
tempo a Coulson di fornirgli una risposta adeguata.
«Novità?»
«Meglio incontrarsi nella sala
riunioni. Ho già informato l’Agente Romanoff e l’Agente Barton.»
Clint non alzò gli occhi, una volta
riuniti, e rimase con le spalle appoggiate alla parete nonostante gli inviti di
Koenig a prendere posto. Phil non tentò nessun tipo di approccio: gli bastò l’occhiata
gelida di Natasha per capire che non era il caso e tirava una brutta aria.
Si sedette allora su una delle tre
sedie dinanzi al tavolo. Dietro di esso tre schermi giganteschi, sopra la
superficie un computer portatile di ultima generazione –A Phil non servì guardare
per sapere che era frutto della tecnologia Stark.
«Allora.» esordì Koenig, sfregando i
palmi delle mani come un imbonitore pronto ad attirare il pubblico «Agente
Romanoff. Lei ricorda la missione affidatale dal Direttore Fury a bordo della
Lemurian Star?»
Vedova Nera incrociò le braccia sotto
al seno ed annuì.
«Ricorda la chiavetta su cui ha
scaricato i dati contenuti nel database della nave?»
La spia socchiuse gli occhi ed annuì
di nuovo. Coulson notò una debole contrazione delle sopracciglia, una ruga
sulla fronte, subito sparita. Un minuscolo segnale di preoccupazione che mise
Phil sul chi vive più di quanto già non fosse; con la coda dell’occhio notò un
movimento nel punto dove era fermo Barton. Anche lui aveva notato l’incrinarsi
di Natasha.
«Il Direttore, per motivi a noi non
noti, ha immesso al suo interno un sistema di tracciamento. Esso è fatto in
modo di attivarsi appena messo in funzione, in qualunque terminale.»
«Fatemi indovinare» intervenne
Natasha «Oggi qualcuno ha cercato di avere accesso ai suoi file.»
«Esattamente.»
«E voi pensate che quel qualcuno sia
il mandante dell’assassino del nostro pirata preferito.» le fece eco Clint.
Coulson stava già per intervenire ed
ammonirlo, perché portasse un po’ di rispetto al Direttore defunto, ma il volto
contrito ed anche imbarazzato di
Koenig lo ridusse al silenzio.
«Il segnale proveniva dall’ufficio di
Alexander Pierce.»
«Pierce?»
ripeté Barton «Quell’Alexander Pierce. Ne
siete certi…?»
«L’Agente Morse ci ha inviato i dati della
chiavetta, quindi sì, ne siamo certi.» Koenig girò il portatile in direzione di
Natasha «Agente Romanoff. A lei l’onore.»
Vedova Nera passò alternativamente lo
sguardo da Koenig al computer, pressò la lingua contro l’interno della guancia
destra e si levò in piedi. Scostò i capelli rossi, sistemandosi sulla spalla, e
si chinò ad armeggiare con la tastiera.
«Il drive ha un re-indirizzamento di
Livello Sei. Appena avvieremo il sistema lo S.H.I.E.L.D. saprà dove siamo.»
«Quanto?» domandò Coulson.
La voce non tremò nel porre il
quesito, nonostante il freddo intenso che gli aveva bloccato respiro e
circolazione. Se Pierce era davvero coinvolto nell’omicidio del Direttore,
questo voleva dire soltanto una cosa: qualcosa di infinitamente sporco ed
infinitamente pericoloso si stava muovendo nei meandri dell’organizzazione,
comprendeva trasversalmente ogni livello. Qualcosa o qualcuno stava
compromettendo lo S.H.I.E.L.D., se già esso non era stato compromesso del
tutto. Doveva avvisare May e gli altri sul Bus: attenzione alle missioni, alle
persone coinvolte, a chi dava ordini e a chi era ordinato.
«Nove minuti.»
«Vado a preparare il velivolo a
nostra disposizione.» dando prova di un invidiabile contegno, Koenig chinò il
capo in cenno di saluto e sparì dalla sala.
«Cosa c’è lì dentro, Nat?»
Phil non lo aveva sentito Barton
avvicinarsi e non se ne stupì: sapeva essere silenzioso. Quando voleva o quando
la missione lo richiedeva. lo starnazzante Occhio Di Falco poteva rivaleggiare
con Bobbi Morse, Melinda May e Natasha.
«Qualcosa di grosso: il drive è
protetto da una intelligenza artificiale. Continua a riscriversi per neutralizzare
i miei comandi.»
«Dobbiamo chiamare Stark?» Clint
inclinò la testa e arcuò la bocca in un sogghigno ferino «Sarebbe felice di
darti ripetizioni di informatica.»
Vedova Nera gli scoccò un’occhiata in
tralice, continuando a lavorare per bypassare il sistema. Phil non poté fare a
meno di chiedersi chi fosse già sulle loro tracce, di chi si dovessero fidare, se esisteva qualcuno di cui fidarsi,
oltre ai due che gli erano accanto.
«Che ne dici di tentare con un tracer?» fece Occhio Di Falco.
«Arrivi tardi, Barton, l’ho appena
lanciato.»
«Bene. Dove si va in vacanza?»
«Camp Lehigh.»
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Capitolo 8 *** { Non Parlerò Del Tuo Peccato ~ File 0.7 } ***
ood7
{ Non Parlerò Del Tuo Peccato ~ File 0.7 }
1218 Glendon Avenue, Los Angeles.
Pierce Brothers Westwood Village Memorial Park
Cemetery.
2013
La madre di Happy era stata gentile.
Non gli aveva tirato la borsetta
addosso, non si era artigliata alle spalle del completo inveendo e
maledicendolo, non gli aveva urlato contro, né sputato in faccia. Non aveva
fatto nulla, in verità, e aveva raggiunto la piazzola dove avrebbero sepolto il
figlio deambulando e reggendosi a stento sulle gambe. Le caviglie grosse non
avevano retto il peso del grasso ipotiroideo, tantomeno il dolore di
sopravvivere al figlio: un paio di passi e la povera donna era incespicata, la
veletta nera sul volto enfio era scivolata di lato, a smascherare le orbite
rosseggianti di pianto, e la bocca carnosa s’era spalancata ad un grido muto,
azzittito dalle troppe lacrime.
A frenare la sua caduta era arrivato
Colin, che in uno slancio da vero boy scout le aveva afferrato le spalle e le
aveva offerto il braccio, chiedendole il permesso di accompagnarla al posto.
Lei aveva annuito, battendogli la
mano guantata sul gomito e mormorando un flebile Grazie. Quando poi aveva cominciato a piovere e forti scrosci
d’acqua avevano iniziato a ruggire su di loro, schiantandosi sull’erba odorosa
e graffiando di grigio la superficie liscia della bara, Hendrick aveva aperto
l’ombrello e le si era accomodato accanto per ripararla. Non si era spostato,
né emesso fiato: unico rumore al di sopra dei tuoni era stato il cigolio dei
ganci meccanici, quindi l’esplodere della pioggia contro gli spicchi di
impermeabile nero.
Rosalyn, vedova Hogan e ora priva
anche del conforto dell’unico figlio, era rimasta con gli occhi conficcati nel
legno che soffocava il corpo di Happy; tra le sue dita il fazzoletto era
divenuto presto uno straccio sfilacciato, ritorto, impastato di trucco, lacrime
e gocce d’acqua.
A chi le si avvicinava per farle le condoglianze,
lei rispondeva con un cenno del capo, un vago abbassarsi della fronte. Non
rispondeva nemmeno –Aveva perso la facoltà di parola, ogni desiderio di
rimanere in quel mondo che tanto crudelmente le aveva strappato Harold dal
seno.
Tony non la biasimava e rispettava il
suo silenzio, così come lei aveva rispettato i mancati Mi dispiace, signora, sono addolorato per quanto è successo, mi creda,
le sono vicino, suo figlio era una persona come mai ne avevo incontrato durante
la mia vita. Non c’era bisogno di ingolfarsi le labbra e appesantire la
lingua con certe ovvietà: l’aveva guardato negli occhi, lui aveva guardato lei
e tanto era bastato per dirsi più di quanto la voce avrebbe permesso ed
espresso.
Diverso era stato il discorso con
Pepper, la quale aveva smosso mari e monti, ingiunto e ordinato, gridato e
firmato per essere dimessa dall’ospedale.
Stark ed Hendrick erano andati a
prelevarla di persona al Mercy Hospital, accollandosi l’uno il compito di
sistemarla nei sedili posteriori, l’altro di mettere la sedia a rotelle nel
bagagliaio della Maserati Quattroporte S4.
Colin gli aveva chiesto perché non
scegliere una macchina meno appariscente e Tony gli aveva risposto di
allacciare la cintura del passeggero e lasciarlo in pace. Mentre guidava e le
luci della Los Angeles gracchiante sotto il cielo plumbeo, il magnate aveva
ripensato con un accenno di sorriso alla Maserati andata distrutta e le cui
lamiere erano state brutalmente divorate dal fuoco, durante un racetrack vecchio di anni.
Aveva perso un gioiello di auto e guadagnato
un ottimo, leale collaboratore –E amico:
era stato Hogan a trascinarlo via prima che la Maserati da corsa esplodesse,
salvandogli la vita. Chiunque, al posto di Happy, avrebbe preteso un lauto
compenso trattandosi del famoso e ricco magnate. Harold, invece e con lo
stupore di tutti gli aveva chiesto di essere assunto.
Il giorno dopo eccolo alla guida
della limousine, neoeletto chauffeur e guardia del corpo. Stark non aveva mai
avuto di che pentirsi della scelta.
«Non sarei qui non fosse stato per
Happy.» aveva poi confidato a Pepper, nel spingere la carrozzella sul manto
erboso.
«Nemmeno io.» aveva risposto lei, le
mani magre giunte in grembo, il volto smunto e impassibile.
Il dolcevita nero, unito alla gonna
che la fasciava fino alla caviglie e le scarpe ortopediche scure, la
faceva sembrare più vecchia di almeno vent’anni. I capelli mal curati, cui
aveva cercato di dare un ordine impossibile con le dita, ricadevano come paglia
sulle spalle aguzze, rendendola una figura stanca, abbruttita ed abbattuta da
dolori insostenibili.
Tony le aveva tenuto la mano per
tutto il tempo della funzione, sordo alle parole del prete e lontano mille
miglia e mille ricordi dal cimitero.
Era lì e contemporaneamente non lo
era, era presente e assente, presenziava alla cerimonia per Happy e intanto si
domandava cosa mai dovesse avere di confortante il soliloquio lamentoso del
Padre, quando Howard e Maria erano sottoterra, erano rinchiusi, erano scomparsi
alla vista e all’esistenza e di loro non era rimasta nemmeno abbastanza carne
da permetterne il riconoscimento.
Edwin glielo aveva risparmiato ed era
andato lui stesso all’obitorio, mentre fargli compagnia dentro una casa
d’improvviso grande e vorace come l’antro di un Troll, era rimasta Peggy,
nonostante i settantadue anni di lei e i ventuno di lui.
Gli aveva raccontato le storie di
Capitan America che sapeva piacergli di più e delle prime missioni con Jarvis,
appena conclusa la Guerra. Si era appellato alla dolce cadenza della sua voce,
durante l’intero funerale, sostituendo ai passi della Bibbia lo scivolare
chiodato degli scarponi alle Ardenne, sovrapponendo resoconti e documentari in
bianco e nero alle condoglianze frettolose e fasulle, agli abbracci goffi di
chi non ha nulla da dire, ma rimane comunque e tenta ridicoli approcci a
beneficio di sé e delle macchine fotografiche e delle prime pagine.
Strano, incessante e derisorio il
lavorio della memoria, che gli mostrava il paludamento viola del prete sbattere
contro le composizioni fangose dei fiori e le coccarde molli di pioggia, e nel
contempo esibiva un se stesso grigio ed impalpabile, un fantasma di lutto,
rifiuto, rabbia e abbandono.
Era tornato in sé per un breve
attimo, quando con la coda dell’occhio aveva visto Foggy Nelson estrarre un fazzoletto
di stoffa dal taschino per passarselo sul naso, arrossando la pelle e
accartocciandovi dentro le narici in un soffio imbarazzato, bagnato di muco.
Seppe allora che la notizia della
morte di Happy era arrivata alle orecchie dei due avvocati di Hell’s Kitchen.
Il che, pensò con soddisfazione affilata e gelida, gli avrebbe dato l’occasione
di lanciare sul tavolo da gioco un dado decisamente inaspettato.
Un dado rosso -Tiro cieco sempre a
segno.
Alla conclusione della cerimonia,
Matt Murdock si alzò e gli venne vicino, aiutandosi col bastone bianco per
non-vedenti. Silenzioso e leggero, pari ad un’ombra, Colin apparve alle spalle
di Tony; il magnate si voltò quel che bastava a controllare Roselyn: lei e
Pepper erano l’una accanto all’altra, ora, parlavano fitto e piangevano
insieme.
Il magnate tornò a concentrare la
propria attenzione verso l’avvocato di Hell’s Kitchen. Questi inclinò il capo
in un cortese cenno di saluto.
«Signor Stark.» disse solo, per poi
rivolgere lo sguardo cieco poco più a destra. La pioggia rigava le lenti scure
e su di esse si rifletteva il viso circospetto, scuro di Hendrick «Temo di non
conoscerla.»
L’Agente S.H.I.E.L.D. allungò la
mano, attento a tenere l’ombrello sopra la testa di Tony –Che, approfittando
della cosa, aveva chiuso il proprio.
«Colin Hendrick. Sostituisco la
signorina Potts in qualità di segretario del signor Stark.» si presentò.
«Matt Murdock, lieto di conoscerla» a
tentoni raggiunse le dita dell’uomo, dando una stretta decisa «Lei è di
Brooklyn?»
«Quasi. Cypress Avenue, nel Queens. E’ mai stato da quelle parti?»
«Mai, in verità.»
«Un vero peccato. Al Cascada Bar
fanno una torta alla cannella squisita.»
Matt annuì, con ancora
quell’espressione di che avesse sentito una battuta penosa, ma per la quale
buona creanza esigeva quantomeno un sorrisetto garbato.
«Dovrebbe far lavorare meno i suoi
dipendenti, signor Stark: il ragazzo è febbricitante, la sua pelle scotta.»
Il lampo improvviso sopra le loro
teste biancheggiò negli occhi gelidi di Hendrick. Tony notò la tensione
irrigidirgli volto e muscoli, pompando una colorazione grigio-violacea
attraverso le vene; il livore si appese alle guance incavate, sdrucciolando
sugli zigomi fino alla base del collo.
Stark, abituato com’era al suo
inappuntabile controllo, alla sua stucchevole cortesia, rimase stupito dinanzi
alla palese esternazione di fastidio e dispetto: una reazione esagerata, a
proprio dire, ad un commento senza secondi fini o scopi reconditi.
«Hendrick, accompagna Pepper alla
macchina» disse allora, per evitare un inopportuno spargimento di sangue «Ti
raggiungo subito.»
«Signor Stark.» annuì l’Agente,
unendo i talloni e chinando la fronte in direzione dell’avvocato «Signor
Murdock, è stato un piacere.»
«Anche per me, signor Hendrick.» e
Tony si stupì di quanta innegabile menzogna ci fosse in una frase così breve e
concisa –E sì che la vita di società e gli incontri tra industriali erano stati
un’ottima palestra.
«Non mi aspettavo una tua visita.»
Stark incontrò gli occhiali intarsiati di microscopiche gocce balbettanti,
frammenti di pioggia che nascondevano sguardo ed intenzioni, pensieri, segreti
e identità.
«Conoscevo Harold. La sua morte mi ha
sinceramente addolorato.» Matt sistemò le lenti sul naso, le dita tracciarono
una lacrima nascosta nel ridiscendere lungo la guancia «Troveranno il
colpevole.»
Tony irrigidì la mascella e sollevò
il labbro superiore, a intimidire un avversario invisibile: bruciava di rabbia,
di dolore, di furia. Non aveva pace, né quiete, e respirare era tormento.
Vibrava, più ardente del fuoco.
«Che il Diavolo se lo porti.»
Località
Sconosciuta.
Cella
Di Sicurezza.
2011
Frizzare di scariche elettriche,
scintille bluastra pompate entro la carne, pressate contro le ossa a frantumare
lo sterno e sbriciolare i nervi. Colpo di frusta, inarcarsi di schiena,
torcersi del collo, digrignare di denti, rughe alle palpebre serrate, mandibola
irrigidita, fiato spezzato, rigagnoli di saliva agli angoli della bocca rotta
dal calcio del fucile.
Gli occhi azzurri si sollevarono
dalle orbite incrostate di sangue, da sotto le ciglia emerse uno sguardo fermo,
sicuro e saldo che commosse il cuore di Gail e quasi la spinse in ginocchio. Se
resistette all’impulso di gettarsi sul soggetto fu per una sorta di incantesimo
che l’avvinceva e immobilizzava, impastoiandole i piedi al pavimento: non
sapeva chi dei due, se l’uomo o il Dottor Marlowe, fosse il colpevole. Tutto
ciò che sapeva era di essere in balia di uno di loro e che di nessuno di loro
conosceva la verità nascosta dietro la maschera.
Il medico, che prima era stato per
lei –Come per tutti- l’immagine stessa della tranquillità e della quiete, la
Rassicurazione per antonomasia nel loro funambolico, claustrofobico habitat,
ora le appariva deforme, grottesco e non se ne fidava.
Il soggetto, al contrario, che fino a
quel momento era stato il Grande No
della missione, una creatura mitica dai contorni sfumati e tremuli, leggendario
quanto pericoloso, aveva suscitato in lei il calore più incredibile, la
solidarietà più profonda.
Le carte in tavola si erano
ribaltate, il bianco era diventato nero, e lei si era svegliata quella mattina
con l’immagine del soggetto ancora sfocata dal sogno, la fantasia andata a
riempire i vuoti della mente nel disegnare la pelle nuda o colorare il tepore
della pelle.
Gail aveva spalancato gli occhi al
mondo con la voce ficcata a forza della gola, le guance rosse, bollenti e i
polsi che tremavano. Il ribollio sudato delle viscere che l’aveva tenuta in un
languido sul chi vive per tutta la giornata s’era disciolto in muto orrore alla
chiamata d’urgenza di Marlowe, l’ordine perentorio di correre alla cella di
sicurezza insieme ad un gruppo scelto.
La Task Force era stata più veloce e
nel momento in cui la donna aveva messo piede nell’alloggio del soggetto, già
due di loro avevano costretto l’uomo ginocchioni e gli aveva ruotato braccia e
polsi dietro i reni, perché non facesse di sciocchezze, né tentasse di
ribellarsi. Il loro capo, un tizio dall’aspetto poco raccomandabile, con un
violento protendersi delle arcati sopraccigliari sopra il naso dritto, e i
capelli alzati sulla fronte slargata, gli era accanto e si occupava di
conficcargli il manganello elettrificato in mezzo alle scapole. Un altro suo
collega, invece, alternava alle scariche al torace dei colpi diretti al volto,
sia pugni che col calcio del lungo fucile.
Il soggetto non emetteva suono che
non fosse il naturale ed improvviso svuotarsi dei polmoni, lo schianto
dell’ossigeno contro i denti.
A Gail era mancato il respiro, nel
vederlo così, nel contare le piaghe aperte sulle sopracciglia bionde, il setto
nasale deviato, il sangue che insozzava la bocca, la curva del mento, la piega
della gola e parte della maglietta bianca, lì dove, nel curvare la testa, le
narici spaccate erano entrate a contatto col tessuto.
La donna inghiottì una rovente
sorsata d’aria e fece per muovere un passo in avanti, ma Malorwe la bloccò con
un gesto della mano.
«Stia al suo posto, Agente Runciter.
Interverrà soltanto quando sarò io a dirglielo.» il Medico ingiunse al membro
della Task Force di indietreggiare, si piegò per essere alla stessa altezza del
soggetto e gli afferrò i capelli sulla sommità della testa, piegandogli
ferocemente il capo all’indietro «Sei tu che mi stai costringendo a questo,
ragazzo» sibilò e il tono di voce stridette –Gail, allibita, fu certa di avervi
colto una chiara cadenza tedesca, molto probabilmente austriaca «Sono uno specialista ed un perfezionista. Amo che le
cose vadano come dico io, pretendo
seguano il corso che io ho dato loro.
Invece tu…» contrasse la mandibola, i lineamenti si gonfiarono, divennero animaleschi
«Tu mi stai obbligando. Io non vorrei, sai? Non vorrei farti del male, non
vorrei proprio. Soffro alla tua sofferenza, perché è peccato mortale torturare
e bastonare un mulo tanto utile, sprecare il tuo sangue prezioso. Sei un
residuo bellico, ragazzo mio, un meraviglioso gioiello di metà secolo: romperti
abbasserebbe sensibilmente il tuo valore finanziario.»
L’Agente Runciter avvertì un moto di
nausea sconvolgerle lo stomaco, tanto che dovette serrare i denti per impedire
alla colazione di salirle alla bocca. Il tono di Marlowe era diverso da
qualsiasi altro tono avesse mai usato: era velenoso come cobra, strisciava e
s’insinuava, era brama e odio, disprezzo e desiderio.
Lanciò uno sguardo ai membri della
propria squadra e terrificata s’accorse che nessuno di loro vedeva quel che lei
vedeva, nessuno sentiva quel che lei vedeva.
Era sola. Era lucida.
Era irrimediabilmente ed
innegabilmente sveglia.
Il soggetto colse il suo guizzo di
coscienza, da come le regalò un sorriso grato e rassicurante a fior di labbra.
Un barlume appena, un frammento di luce subito scomparso, così veloce che a
Gail venne il dubbio di esserlo solo immaginato, di averlo creato appositamente
per darsi un appiglio e non cadere nell’abisso del panico e della follia.
«Non c’è alcun bisogno di farci guerra
aperta, mein alter Freund. Dimmi chi
è stato, ragazzo, dimmi chi è stato a portarti via da me, dalla mia gabbia
dorata…»
Incapace di controllare i tremori del
corpo, così irretito da maglie sordide e incomprensibili, l’Agente trattenne
un’esclamazione di stupito terrore nel momento in cui il soggetto raccolse un
po’ di saliva tra le guance e la sputò poi contro Marlowe e la sua faccia
ancora distorta, contro la sua maschera di cera liquefatta.
Il Medico arretrò ringhiando e non
nascose più la propria origine, abbaiando ordini in tedesco al capo della Task
Force. Questi sogghignò e con un cenno ingiunse ai propri sottoposti di tenere
il soggetto il più fermo possibile; alzò allora il manganello elettrificato,
leccandosi ferino la bocca.
L’uomo ai suoi piedi si impose su di
loro con contegno marziale, con sfrontatezza tanto ardente che Gail si sentì
infiammare l’animo al solo guardarlo. Sfidava Marlowe e i suoi aguzzini senza
dire una parola, eppure facendoli apparire per i vigliacchi che erano col solo
cipiglio. Arrivò addirittura a sorridere, gli occhi che mandavano fiamme.
Tuttavia, per quanto coraggioso e
pronto ad affrontare l’ignoto e finanche la morte, la donna non era disposta ad
abbandonarlo alla mercé di pazzi furiosi, non se poteva fare qualcosa peri
impedire ulteriori torture.
Così, non appena il capo della Task
Force fece il gesto di calare il manganello su di lui, Gail si gettò in avanti,
vincendo ogni resistenza delle membra atrofizzate, scavando nel torpore del
proprio essere per frapporsi tra il soggetto e Marlowe. Ansante, aprì le
braccia e con la mano aperta li sconvolse con loro la propria presenza, col
petto ansante ed il sudore che le appiccicava i capelli alle tempie; diede
conferma della propria volontà, della sua pienezza e del peso che essa aveva
all’interno delle dinamiche farsesche di cui aveva smesso di essere mera
spettatrice.
«Sono stata io.» esordì, il mento
sollevato, orgogliosa, fiera «Sono
stata io.»
Gli occhi del Medico si fecero liquidi
di melliflua malignità, le pupille si dilatarono al punto che l’Agente se ne
sentì risucchiata. Il respiro mozzato dell’uomo inginocchiato dietro di lei
fece correre uno scroscio di brividi attraverso la spina dorsale.
Il capo della Task Force rimase col
manganello fermo a mezz’aria. Ad un cenno di Marlowe, tuttavia, tolse la carica
all’arma e la schiantò sulla nuca del soggetto. Un verso gutturale e spezzato
crepitò nella gola di questi e l’Agente rimase impietrita a fissare la testa franare
sullo sterno, il corpo crollare in avanti e la bocca torcersi ad ingoiare
faticosamente un po’ d’aria.
«Lasciateci soli.» ordinò Marlowe
«Uscite e dimenticate quanto è successo.»
E soltanto allora Gail si accorse di
quanto vacuo fosse lo sguardo degli altri membri della squadra, quanto immoti e
privi di qualunque luce e vita. Obbedienti, abbandonarono la cella alla
spicciolata, tallonati da quelli della Task Force, invece nel pieno della loro
coscienza; sulla soglia, il capo si girò e si passò l’indice sulla gola,
sorridendo nella sua direzione –La donna lo affrontò senza battere ciglio, ma
il freddo le bloccava il sangue nei polsi e frantumava il fiato nei polmoni.
«Miss Runciter» cominciò il Medico,
inclinando il capo e osservando interessato –Lo stesso interesse che un gatto
avrebbe riservato al topolino stretto negli artigli «Dunque è stata lei a
contaminare i frutti del mio lavoro.»
«Io gli ho…Dato un libro.» La gola si
fece secca, si coprì di piaghe sabbiose «Niente di più. Non aveva mangiato
nulla. Gli ho riconsegnato il piatto, ricordandogli che non sarebbe stato
salutare morire di fame e lui mi ha chiesto un libro. Tutto qui.»
«Tutto qui? Tutto qui? Oh, cara, mia cara Gail. Non è mai tutto qui. Col tuo tutto qui, col tuo libro, hai permesso
al mondo di entrare in questo luogo di santa reclusione, hai permesso che altre
parole si sostituissero alle mie. Che altre verità arrivassero a mettere in
dubbio le verità che io volevo per
lui: gli hai permesso di scoprire una realtà oltre a quella che io gli aveva
offerto e creato, gli hai permesso di capire e confrontare, confrontarsi e
domandare. Lo hai tratto via dal sonno, Gail, lo hai riportato alla luce e la
tua voce ha coperto la mia. E per lui non
deve esistere altro. Solo la mia voce. Solo le mie parole. Le mie verità.
La mia realtà. Il mio credo. E tu…Tu hai rovinato tutto.»
Gail retrocedette, oppure credette di
farlo. Impossibile dirlo, con gli occhi di Marlowe a pugnalarla, la sua voce a
plasmare senso di colpa e dubbio e paura e frustrazione e delusione, oh,
delusione, la sua voce a ricordarle quanto li avesse delusi, come avesse
rovinato tutto, come fosse stato meglio, oh così meglio, se avesse espiato la
sua colpa in maniera esemplare, se avesse lavato via la sua colpa col sangue,
se avesse appoggiato la punta del coltello sulla vena del polso, se avesse
affondato la lama, se avesse l’avesse fatta scorrere lungo l’avambraccio fino
al gomito, se avesse stracciato carne e pelle, vasi sanguigni e nervi, sarebbe
stato meglio, sì, non c’era soluzione, non poteva fare altro, non poteva,
Marlowe aveva ragione, lei aveva ragione, perché era lei a pensare, lei a
rendersi conto dello sbaglio, della delusione, della colpa, un coltello, un
semplice, freddo, gelido, mortale coltello, punta, vena, lama, avambraccio,
gomito, lavare via la colpa, la delusione, sì, Gail, lavala via, ascoltami,
ascolta la mia voce, soltanto la mia voce, lavala via, Gail, lavava via, lava
via la delusione, il senso di colpa, il dolore, lavala via, solo il sangue la
laverà via, solo il freddo, solo il sangue. Delusione. Coltello. Espiazione.
Lama. Colpa. Sangue.
Hollywood & Highland, 6925 Hollywood Boulevard
Grauman’s Chinese Theatre.
2013.
«Mi sembra di
soffocare, con tutte queste persone.»
Matt appoggiò una
mano fra le scapole di Foggy, picchiando piano il palmo per dargli un po’ di
conforto –E, cosa più importante, distrarlo dal fiato corto e il battito
cardiaco accelerato.
La gente ondeggiava
e premeva un po’ ovunque, l’avvocato ne avvertiva il profumo, il sudore,
sentiva addosso la grana del tessuto, la spinta involontaria di mani, fianchi,
anelli, cinture, borse, nelle orecchie martellava il calpestio aritmico di
tacchi e suole e zampe.
«E’ pieno di
fotografi e giornalisti e amanti dell’orrido, Matt. Mi spieghi cosa ci facciamo
qui?»
«Un favore.»
La stoccata di Stark
era stata così palese che sarebbe stato scortese rifiutare.
Che il Diavolo se lo porti e Matt si domandò da quanto Iron Man fosse a conoscenza
di quel piccolo particolare riguardo la propria identità, se fosse stato Harold
a parlargliene o se vi fosse pervenuto con le sue uniche forze e capacità.
Quale che fosse la
risposta, a Devil interessava maggiormente la ragione dietro la richiesta di
Stark: con la signorina Potts se n’erano andate le sue orecchie, con Happy le
sue mani. La disperazione l’aveva portato a cercare occhi in chi occhi non
aveva più, almeno non secondo i canoni di valutazione corrente –Così come
diversi dalla nozione comune erano state le orecchie di Tony e le sue mani,
prima che due incidenti glieli portassero via e lo mutilassero
irrimediabilmente.
Certo, Virginia
Potts era in permesso forzato per qualche settimana ancora, ma quali erano le
informazioni che Stark aveva e avrebbe perso per quella momentanea sordità?
Così teso al futuro, che poteva fare ora che suoni e rumori e voci s’erano
azzittiti d’improvviso? Sarebbe stato in grado di capirli di nuovo, una volta
recuperata la facoltà di intendere i sussurri dei giorni che saranno?
Chiunque si fosse
messo all’opera contro di lui, non stava colpendo a caso: a poco a poco e se
non avesse scoperto in fretta il colpevole, Tony si sarebbe ritto e invalido,
attorniato da una valle bruciata di lacrime. Sordo, cieco, coi muscoli atrofizzati
e la lingua mozzata.
Il suo avversario
doveva averlo studiato con meticolosità invidiabile, considerato quanto a fondo
era riuscito a conficcare i proiettili con soli due colpi. Se voleva
sopravvivere, era d’obbligo per Stark trovare una posizione di vantaggio da cui
rispondere al fuoco con altrettanta precisione.
E gli alleati, in
questo frangente, non erano mai abbastanza.
«Foggy, saresti in
grado di notare la diversità tra la parlata del Queens e quella di Brooklyn?»
«Non credo. Perché?»
Matt non gli diede
risposta immediata, concentrato com’era a districare i fili e i nodi di tatto,
olfatto, gusto e udito. Era alla ricerca di qualcosa di specifico, nel marasma
carnascialesco del Grauman’s, una traccia particolare che emergesse dalla
spirale confusa di suoni, odori e sapori che lo opprimevano da ogni parte.
Qualcosa come…Come un olezzo strano, sì, flebile e quasi scomparso, eppure facilmente
ritrovabile per la sua particolarità, per la sua caratteristica di essere un po’
carne bruciata, un po’ rimescolio di ingredienti chimici, un po’ bomba, un po’
innesco di sangue e pelle.
L'avvocato raccolse la
stilla maleodorante e la pressò contro il palato, ricacciando indietro una
subitanea ondata di nausea. Era carne, sì, carne sbranata dall’esplosione, ed
era qualcosa di più. Era un brandello irrorato
dalla bomba stessa, se bomba era visto che non c’era niente che richiamasse la
composizione di un normale ordigno. Aveva più le sembianze olfattive di un
provetta in cui avevano rimescolato una composizione chimica sconosciuta e
priva di equilibrio, pronta a scoppiare in qualsiasi momento, non importava la
cura, non importavano gesti cauti, né movimenti bruschi.
Poi, nel confuso e disorganico
pulsare di mille cuori insieme, un battito cadenzato e freddo, innaturale gli assestò un pugno alla tempia destra. Arterie
e ventricoli, tum tum tum tum, la
calma del cacciatore che osservi la preda, il sangue irrorato a rintocchi
poderosi –Forse troppo poderosi, così
come troppo poderosa era la capacità polmonare, l’apporto di ossigeno ai
bronchi.
Devil non seppe dire
perché la sua concentrazione si fosse rivolta con tanto ardore su quel cuore
sconosciuto. Tuttavia, formulata la domanda capì che in essa stava già la più
inquietante delle risposte: perché così
aveva voluto il chiunque senza volto. Non c’era minaccia peggiore della
presenza, dell’avvertimento silenzio di uno sguardo continuamente puntato
addosso, nascosto fintantoché non avesse deciso esso stesso di emergere dall’oscurità.
Matt appoggiò la
mano sul gomito di Foggy: il tacito e convenuto segnale fra loro che qualcuno
li stava osservando ed era meglio filarsela. E filarsela in fretta.
«Così. Che ne dici
di provare il Cascada Bar, un giorno di questi? Mi è stato caldamente consigliato.»
Così com’era
comparso, il battito cadenzato scomparve.
Devil si appuntò
mentalmente di seguire la pista e di non abbandonarla, nonostante le curve e i
dissesti del percorso. Nel frattempo, avrebbe chiamato Stark per informarlo
sugli ultimi, inaspettati eventi.
10880 Malibù Point,
90265.
Malibù Colony Road.
2013
Sulla
Colony Road il sole sciabordava come le onde contro le zanne di costiera, a
picco sul mare.
La
carrozzeria della Chevrolet Cruze gettava all’intorno staffilate di luce,
abbaglianti esplosioni grigio-metallizzate, sdrucciolii di pulviscolo
d’asfalto.
Un bel
regalo, quello, che il Rhodey aveva fissato ad occhi spalancati all’uscita
dell’aeroporto, chiedendosi per una manciata di secondi se a Tony non fosse
dato di volta il cervello per affibbiargli uno splendore simile a noleggio.
Aveva preso la busta consegnatagli appena sceso dall’aereo e sul cui retro era
scritto a Colonnello James Rhodes,
con grafia precisa e sicura; si era fatto scivolare le chiavi sul palmo, rilasciando
un verso ammirato e concedendosi un sorriso. Un granello di sollievo, nella
situazione turbolenta e disfatta in cui annaspavano.
Le ricerche
del Mandarino e della sua cricca di spostati erano a dir poco infruttuose, un buco nell’acqua dopo
l’altro. Iron Patriot scendeva in picchiata in pompa magna sul rifugio di
qualche terrorista che poi si rivelava essere il custode smagrito di una pecora
rinsecchita, e faceva rotta verso il suolo americano con la coda cromata tra le
gambe.
Era
riuscito a strapparsi una mezza giornata di permesso al solo scopo di far
visita a Tony e sincerarsi delle sue condizioni, e non era nemmeno escluso che
lo richiamassero in azione prima dello scadere delle ore di libero.
Il
Mandarino si muoveva veloce e arguto nel buio in cui loro brancolavano senza
appigli, perdendo la strada e girando stupidamente in tondo.
La
Chevrolet era stato un apprezzato risollevarsi d’umore, un inaspettato colpo di
fortuna in un periodo dove di essi non c’era traccia. Purtroppo la fortuna e lo svolgersi delle sue
trame è spesso gioco delle mani di chi ne detiene il bandolo. A metà del
tragitto Rhodey vide lo specchietto retrovisore illuminarsi d’azzurro, un esile
raggio bluastro conficcarglisi nell’orbita e una voce senza inflessione informarlo
dell’inizio processo identificazione.
Scansione retinica in corso.
Il volante
aveva quindi cominciato a scaldarsi, incollandovi sopra i polpastrelli e
bruciandogli la pelle.
Scansione impronte digitali in corso, era stato avvisato, al che Rhodes aveva sbottato in un piccato “Ma
davvero?” che aveva discretamente minato l’empatia avvertita fino a quel
momento nei confronti del mondo.
«E questo
che significa?» esclamò, dopo che un ago innestato nel pomello del cambio gli
ebbe prelevato una goccia di sangue.
Invece
della voce elettronica, a rispondergli fu una dal timbro più cortese –E, grazie
al cielo, umano.
«Mi
perdoni, Colonnello. Una verifica era necessaria, ora che è entrato nel
perimetro di casa Stark.»
«Sei il
nuovo segretario di Tony?»
«Colin
Hendrick, Agente S.H.I.E.L.D. Livello Sei. E’ un onore conoscerla, Colonnello.»
rispose educatamente il giovane.
«Sì,
proprio.» sbottò Rhodey, ruotando gli occhi al cielo e prendendo un respiro
profondo «Non ti sembra di esagerare con le misure di sicurezza?»
«Considerati
gli ultimi due attacchi del Mandarino, le misure di sicurezza che ho adottato
sono di livello elementare.»
«Temi un
attacco diretto a Tony?»
«Non posso
escluderlo. Certo, il signor Stark avrebbe potuto facilitare le cose al nostro
comune nemico dando in mondovisione il suo indirizzo di casa, tuttavia questa è
un’informazione semplice da recuperare, specie per un uomo come il Mandarino.
Per rispondere alla sua domanda, Colonnello, non posso escluderlo, ma farò ciò
che è in mio potere per impedirlo.»
«L’ultima
battuta l’hai recitata con una bandiera a stelle e strisce dietro le spalle?»
«…Prego?»
Rhodes
sbuffò una risata e scosse la testa.
Il profilo
dell’immensa villa di Stark si disegnò liquido sul parabrezza e lo schianto del
sole sulle vetrate accecò il Colonnello per un paio di secondi.
La casa di
Tony se ne stava appollaiata sulla scogliera come gabbiano nel nido, aggettante
sull’agitato turbinio dell’acqua metri e metri al di sotto del parapetto con
vista; era una conchiglia bianca in contrasto con l’azzurro bollente del cielo,
un mosaico di finestre lucide simili a denti di madreperla.
«Comune
nemico? Ti sei messo alle calcagna del Mandarino, Hendrick?»
«Informazioni
Riservate, Colonnello. Sarò comunque da voi approssimativamente in dieci
minuti, per delle pratiche che il signor Stark non è passato a recuperare.»
«E’ in
confino?»
«Precisamente.»
Imprecare
in vivavoce con un Agente S.H.I.E.L.D. non gli sembrava il miglior biglietto da
visita, soprattutto perché Colin aveva un modo di esprimersi e relazionarsi con
lui da…Bhè, vecchio. Cioè, non vecchio d’età, vecchio in senso stantio, sorpassato, dimenticato, un
garbo che sulla bocca altrui avrebbe stonato, sembrando ridicolo e artificioso.
Aderiva alla perfezione al timbro, l’inflessione e le pause di Hendrick, quasi
fosse parte del suo essere e ne fosse impregnato fino al midollo.
Inoltre, ma
forse quelle erano soltanto macchinazioni mentali insensate, lo facevano
sentire in imbarazzante senso di inferiorità, alla stregua di un ragazzetto di
Harlem beccato dall’attempato vicino a combinare qualche marachella e infine
ripreso con una bonaria ramanzina da novantenne –E lui era di Philadelphia, eh.
Ingoiò
allora l’ingiuria che aveva fatto stagnare sulla lingua, annuendo a se stesso.
In confino.
Che modo
gentile aveva usato per definire la peggior reazione del repertorio di Tony.
Già dopo gli eventi di New York aveva trascorso le prime settimane rinchiuso
nella fortezza semi-demolita della Tower, rifiutandosi di uscire dal
Laboratorio sotterraneo e giustificando il suo comportamento con l’urgenza di
nuovi potenziamenti, di nuove armature, di nuovo questo, di nuovo quello.
Cazzate.
Tony si era
trincerato dentro il covo asmatico di macerie
trasformandolo nella versione architettonica dello scafandro di Iron
Man: così come si riteneva al sicuro e intoccato da ogni male se protetto dalle
componenti della sua gabbia cromata, allo stesso modo le pareti ancora intatte,
integre del rifugio iper-tecnologico sotterraneo lo avrebbero tenuto lontano
dalla bruttura esterna, dai relitti di cemento, dalla distruzione polverosa di
un sogno tanto miseramente fallito. Sopra la sua testa travi e resti di mura, suppellettili,
schermi e vetrati; nel grembo luminescente del Laboratorio, invece, senza
finestre aperte sul mondo e con l’aria decontaminata servitagli da
J.A.R.V.I.S., idee e cacciaviti e musica ad alto volume per escludere il rumore
sordo del battito cardiaco gonfiatosi nella gola.
Se erano
stati in grado di trascinarlo fuori dalle fauci della stanza sotterranea, era perché
Pepper era stata l’unica a far breccia nel bastione della sua solitudine
patologica. Avevano cominciato insieme un percorso di riabilitazione e
disintossicazione il cui unico risultato era stato quello di portare Tony in
pianta stabile a Malibu, gli scafandri chiusi a doppia mandata a Manhattan –E gli
attacchi di panico a pressargli lo sterno, sempre e comunque, in qualunque
occasione, dovunque si trovasse.
Il
problema, tuttavia, era fargli iniziare un ulteriore percorso perché la
smettesse di sopperire alla mancanza di armature e di ossigeno con abbondanti
dosi di alcool. Lui gli era stato al fianco finché aveva potuto, e così Pepper
prima dell’incidente che l’aveva costretta in ospedale.
Diffidava
dell’idea dello S.H.I.E.L.D. di appioppare una babysitter a Tony, disapprovava
la tendenza degli Agenti e del loro Direttore –Ex Direttore, da quanto aveva
saputo- a trattarlo come un tossico incapace di provvedere a se stesso. Ma la
terra stava cominciando ad annerirsi attorno all’amico e, se fosse una bruciata
del tutto, forse Hendrick sarebbe rimasto l’ultimo e l’unico cui Tony avrebbe
potuto aggrapparsi per non cadere.
«Non ti
preoccupare, Hendrick. Me ne occuperò io.»
Essere scansionato due volte in meno
di un quarto d’ora era quanto mai irritante, ma almeno J.A.R.V.I.S. aveva avuto
il buon senso di evitare gli esami del sangue.
L’Intelligenza Artificiale gli diede
il benvenuto, informandosi sul tenore del viaggio e sugli sviluppi riguardanti
le indagini sul Mandarino.
«Tony ha fatto buon uso delle nostre
intercettazioni, J.A.R.V.I.S.?» si informò Rhodes, sicuro che l’amico avesse
fatto man bassa di informazioni e che il fedele maggiordomo invisibile non si
fosse tirato indietro.
«Se può farla star meglio, signore,
sono stati intercettati anche S.H.I.E.L.D., FBI e CIA.»
«Questo sì che mi rincuora.»
«Lieto di sentirglielo dire.»
Battibeccare con J.A.R.V.I.S. era
inutile –Più per la facile vittoria dell’altro, che per l’opinabile questione
della sua esistenza prettamente virtuale- e Rhodes decise di non tentare
nemmeno. Superò l’atrio e il salotto, scendendo le scale a chiocciola che
portavano al Laboratorio.
L’Intelligenza Artificiale doveva già
aver avvertito Tony del suo arrivo: l’ingresso alla parte sotterranea della
casa era aperto e Rhodey s’immobilizzò all’ultimo gradino, ancor prima di
poggiare il piede sul pianerottolo.
L’intera stanza era occupata dalla
riproduzione tridimensionale della piazzola del Grauman’s, compresa delle
segnature in gesso delle vittime; Stark sostava proprio accanto al corpo
virtuale di Happy, la testa bassa e gli occhi persi a cercare qualcosa,
qualsiasi cosa all’interno delle orbite digitali dell’uomo. Un pannello
rettangolare gravitava alla sua sinistra: su di essa l’immagine di una
targhetta militare carbonizzata, da cui J.A.R.V.I.S. era stato in grado di
estrapolare parzialmente l’identità di un tale -ac-- Taggart.
«Quand’è che una bomba non è una
bomba, Rhodey?»
Il Colonnello sbattè le palpebre e
mise finalmente piede nel Laboratorio.
L’ambiente 3D si disgregò, cubetti di
svariati colori fluttuarono all’intorno, si torsero simili a correnti di un
mulinello e infine si appiattirono a disegnare una mappa degli Stati Uniti.
Alcuni pallini evidenziarono città e luoghi scelti secondo un criterio a Rhodes
ancora sconosciuti e sopra di essi piccoli schermi squadrati riportavano i
risultati di analisi e dati relativi a temperature con filtro oltre i tremila
gradi.
«Rilievi termogenici.» gli spiegò
Tony, mentre lui si avvicinava «Ho eliminato i luoghi dove il Mandarino ha dato
spettacolo. Mi piace l’opzione della bomba a supporto di un suicidio, a Rose
Hill.»
«Sì, ricordo quella notizia.» il
Colonnello aggrottò la fronte «Ma è precedente agli attentati.»
«Guarda le temperature» Stark fece il
gesto di lanciare un pugno di sale e dal pavimento emerse un pannello colorato,
coi valori registrati al Grauman’s «Il calore supera i tremila gradi centigradi,
niente residui di bomba. Entrambi soldati. Senza considerare l’odore della
carne esplosa.»
«Due militari mort—Cosa intendi con l’odore della carne esplosa?»
L’amico non rispose e battè le mani: diagrammi,
tracciati e mappature vennero risucchiati dalle pareti e dagli angoli del
soffitto. Il magnate attraversò il pavimento sgombro diretto alle scale e
Rhodes gli fu subito dietro, cercando di seguire alla meglio lo scalpiccio dei
suoi ragionamenti e non perdere il filo del suoi pensieri.
«Non puoi affidarti alla sola vista,
Rhodey, essa è fallace. Ti porterà fuori strada.»
«Evita i giochetti da biscotto della
fortuna con me, Tony.»
«Ho le mie fonti.» disse allora Stark
e come suo solito non chiarì nulla.
Arrivato al salotto si voltò verso il
Colonnello e gli puntò contro gli indici tesi, arcuando le sopracciglia.
«Tu devi essere la mia fonte
militare.»
Rhodes strabuzzò gli occhi e spalancò
la bocca, con l’atteggiamento di chi ha capito
benissimo quanto ha appena sentito, ma spera comunque di aver preso un
abbaglio.
«Come?»
«Dammi la tua password, poi ci penso
io.»
«Tony, non puoi chiedermelo.»
«E’ così imbarazzante?»
«E’ segreto di Stato.»
«E’ imbarazzante, ho capito.»
Ad interrompere sul nascere lo scatto
felino che avrebbe portato Rhodey con le mani alla gola dell’amico, arrivò la
voce di J.A.R.V.I.S.
«Signore, c’è l’Agente Hendrick in
linea.»
Tony mosse le dita, a scacciare un
insetto fastidioso.
«Se si è scordato i waffle senza
glutine digli pure che può restare fuori.»
«Oddio» il Colonnello pinzò la radice
del naso tra i polpastrelli, soffiando un respiro frustrato contro i denti
digrignati «Tony, non puoi mandare Colin a prenderti i waffle senza glutine.
Sta impersonando il tuo segretario, non il tuo galoppino.»
«Che problema c’è? Pepper lo faceva.»
«Pepper non era un Agente S.H.I.E.L.D. di Livello Sei.»
«Signore» intervenne di nuovo l’AI,
con tono urgente «L’Agente Hendrick--»
«Dopo» replicò Tony «Allora, questa
password?»
Rhodes pressò i palmi contro le
orbite, quindi alzò le mani a chiedere un time-out.
«Va bene, d’accordo.» si passò la
lingua sul labbro superiore «Warmachinerox.
Con la x. Tutto maiuscolo.»
Stark lo fissò incredulo un paio di
istanti, tentò di ricacciare nello stomaco la risata che gli stava raschiando
la gola e infine cedette, dando il ben servito a quel poco di dignità che
doveva essergli rimasta, sotto i vestiti sudati e la carnagione pallida.
«Sì, molto divertente. Smettila di
ridere o ti strappo la lingua.»
«Signore» ancora, J.A.R.V.I.S. cercò
di far convergere l’attenzione su di sé e sul messaggio che recava «L’Agente
Hendrick---»
«Al diavolo!» inveì Tony, piccato
«Che c’è?»
Non una risposta articolata e intelligibile
irruppe nella stanza, bensì un unico, alto grido che fendette l’aria e deflagrò
in mezzo alle pareti con la violenza di una bombarda.
«Via!
Uscite di lì! Via!»
Rhodey non ebbe il tempo di chiedere
di più.
Un pizzicorio alla nuca lo fece
voltare verso la finestra che dava sulla scogliera e sul mare. Tutto quello che
vide fu bianco, fiamme e fumo. Tutto quello che sentì fu sibilo, infrangersi di
vuoto, divellersi di cemento, impatto, boato, silenzio.
Il pavimento franò sotto le scarpe ed
egli scivolò nel vuoto assoluto, nel buio di un gorgo pressurizzato che gli
piegò le ossa come gomma, succhiando via gli occhi e la pelle, rodendogli la
carne e squarciandogli le arterie.
Il rombo dell’esplosione gli agguantò
il volto e stracciò zigomi, ciglia e capelli. Lingue di fuoco s’arrampicarono
sulle guance, agguantarono la fronte e trascinarono Tony a fondo, il clangore
delle vertebre strapazzate che risuonava tra le tempie e spaccava a metà la
calotta cranica. A rallentatore si sentì sbalzato all’indietro, quindi l’impatto
con la parete, il terreno ringhiante, il dolore che scaricava lampi elettrici
attraverso le terminazioni nervose e barbagliava, balbettava di bianco e nero
dietro le palpebre serrate.
Un’enfia cortina di miasmi eruttò
dalle finestre distrutte e gli abbaiò addosso, arrostendogli le braccia
scoperte e il collo e arroventando i vestiti sulle carni.
Stark rotolò di lato, sfiatando
saliva e ossigeno. Facendo leva sul gomito tentò malamente di raddrizzare la
schiena e poco distante da sé vide il corpo di Rhodey abbandonato in mezzo alla
polvere e alla macerie. Gli occhi erano chiusi, ma ancora –E per fortuna- un
flebile soffio di respiro ne scuoteva le membra, e le labbra sanguinanti erano
accartocciate in un gemito stridente. Neanche il tempo di formulare l’idea di
avvicinarsi, che un crepitio sopra la testa lo costrinse a reclinare di scatto
il capo all’indietro: una profonda fenditura si stava aprendo sul soffitto,
polvere e intonaco, sottoforma di cascate di pulviscolo giallo-grigio, gli si
rovesciavano addosso nella grottesca pantomima di una nevicata anticipata.
L’istinto fu più veloce della ragione
e Tony si scansò un attimo prima che un blocco di cemento gli rovinasse sul
torace. Costretto carponi dal dolore ai muscoli e dalla vista ottenebrata, si
trascinò gattonando verso Rhodes; allungò una mano per scuoterlo e le dita
erano ad un sospiro appena dalle sue scapole quando ad un secondo e ad un terzo
fendersi d’aria seguì il rimbombo di rocce e muri sradicati, e cuspidi affilati
di vetro gli si conficcarono nel viso, nel palmo alzato a riparare gli occhi e
un guizzo rosso al sopracciglio sinistro e sangue ad impiastricciare le guance,
l’incavo delle orbite, la bocca sabbiosa e incrostata di sapore metallico.
Il terreno rollò e vibrò e Stark non
fu più in grado di mettersi in posizione eretta: il pavimento s’impennò e
imbizzarrì, innalzandosi come cresta di spuma sui marosi. Le suppellettili, il
mobilio, da ogni piano e da ogni angolo tintinnare e cigolare e frantumarsi di
oggetti e cose e ricordi, il magnate cercò disperatamente un appiglio per sé,
da dove poter tendersi a trattenere Rhodey per il polso.
Ma lo sconquasso provocato dalle
esplosioni aveva aperto una spaccatura profonda nelle fondamenta della casa e
adesso non c’era modo di fermare la rovinosa caduta verso il trascinio di onde
e schiuma, giù, lungo i fianchi frastagliati della scogliera.
«Rhodey!» gridò Tony e l’urlo si
perse nel frastuono della distruzione, nel caso, nel turbinare convulso di
eliche e nello sciabordio d’acqua e metallo contro i faraglioni.
Le dita ebbero uno spasmo, il
pavimento singultò sotto il petto di Stark.
Questi si sentì e si vide rivoltato
all’indietro, il cielo sopra la testa, così la casa sempre più su, sempre più
lontana –E lui sempre più a fondo, a velocità inarrestabile, incredibile e il
fiato gli mancava nei polmoni e gli occhi sanguinavano e lacrimavano e Rhodes?
Dov’era Rhodes? Rhodes era lontano, troppo lontano perché potesse raggiungerlo,
e la nuca di Rhodes ciondolava, sbatteva contro le scapole. Per quanto inutile
fosse il suo gesto, Stark tentò di torcere la schiena e tendersi nella sua
direzione e il vento gli fischiava nelle orecchie sorde, ruggiva e ringhiava e
strappava il fiato, strappava il cuore, strappava la trachea.
Un robusto pezzo di cemento, tre,
quattro, cinque volte lui si inabissò in uno scoppio di spuma e Tony seppe che
la fine era vicina. Proprio mentre acqua e cristalli bianchi gli schiaffeggiavano
le guance e gli imbrattavano i vestiti, però, e il sole era una detonazione di
raggi rossi e gocce opalescenti, ecco, s’accorse di qualcosa che gli afferrava
il colletto e uno strattone e il mondo si ridusse alla sagoma perfetta di una
portiera subito chiusa e non più odore di salino, ma di inserti in pelle, e non
più chiasso di macerie distrutte, né frangersi di mare, ma un respiro affannato
–Due, contando il proprio- ed il caldo ronzio dei motori sotto il ventre.
Sballottato con le reni contro il
sedile nero, Stark si raggomitolò sullo schienale e tossì.
Colin era al posto del guidatore, le
pupille minuscole come capocchie di spillo e le nocche bianche attorno al
volante e alla leva del cambio. Colpo di frusta, lamento, Tony socchiuse le
palpebre: la testa girava, la nausea gli dava le vertigini; serrò le braccia
attorno allo stomaco, sfregando la fronte sul cuscinetto del sedile e
mordendosi la lingua per non vomitare. Rimase così fino a quando non ebbe la sensazione
che il mondo –E loro- si fosse fermato.
Allora drizzò il collo e vide
Hendrick con le braccia tese, i muscoli tremanti per lo sforzo, le guance
livide ed il petto ansante. L’Agente non protestò quando Tony si gettò sgraziatamente
contro la portiera dell’auto, l’aprì e si ritrovò con la schiena aderente all’asfalto.
Era letteralmente capitombolato a
terra e girandosi s’avvide che l’unico segno della macchina di Colin era il
frammento d’interno ritagliato dalla realtà circostante. Rispetto al suolo, le
gomme erano sospese dalla strada almeno mezzo metro.
«Scudi deflettori.» annaspò Hendrick,
cogliendo la sua perplessità «E ruote anti-gravitazionali.»
Tony rotolò in ginocchio e nel
guardare verso il promontorio, un gemito gli sfuggì dalla bocca spalancata.
Colin gli aveva salvato la vita,
portando entrambi sulla Colony Road.
Dietro di loro gli ultimi resti della
sua casa di Malibù venivano inghiottiti dal mare –E il corpo di Rhodey con
essi.
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Capitolo 9 *** { La Realtà Dei Folli ~ File 0.8 } ***
ood8
{ La Realtà Dei Folli ~ File 0.8 }
2013
Quinjet
Spazio
Aereo Non Identificato
«Mi ricordo la cerimonia: davvero
molto sentita. Tu hai vomitato, vero?»
Clint si chiese se provocarsi una
sordità temporanea conficcando gli indici nelle orecchie sarebbe servito a
zittire Loki una volta per tutte. Il Dio, avvertendo il brusio tormentato dei
suoi pensieri, sogghignò maligno e gli fece segno di “No” con l’indice, alla
stregua di una madre che riprenda il figlioletto disobbediente con le mani nella
marmellata.
Barton inspirò, concentrandosi sul
cielo cosparso di nuvolaglia biancastra, sotto il muso dell’aereo.
Signore, cosa avrebbe dato per una
sigaretta. Una lunga, bollente sigaretta, di quelle che ti impregnano i polmoni
di catrame e ti lasciano mezzo morto dopo ogni boccata, che ti fanno lacrimare
gli occhi, che ti infeltriscono la lingua e bruciano le labbra come se avessi
appena morso un gigantesco pezzo di carbone. Lo sterno scricchiolava ad ogni
respiro e sarebbe bastato un solo ingoio di tabacco per ammorbidire le ossa; lo
stomaco si rivoltava, gemeva e guaiva, e sarebbe bastato un solo ingoio di
tabacco perché facesse la fusa e si acciambellasse tranquillo dentro la pancia;
i polsi tremavano e sarebbe bastato un solo ingoio di tabacco perché le dita si
stabilizzassero e con esse il borbottio iroso del Quinjet, il tremebondo rollio
della cloche contro il palmo.
Persino la vista cominciava a cedere
e se Occhio Di Falco non poteva fare affidamento su di essa, allora tanto
valeva recidersi la carotide e farla finita, giacché non esisteva neanche la
più remota possibilità che Occhio Di Falco continuasse a vivere la propria
esistenza se non era in grado di contare i peli nel naso del barista al
Greenwich Village o le smagliature di una prostituta che adoperava la stessa
delicatezza di gesti necessaria a smuovere la leva del cambio.
«Ah, mi ricordo di lei.» Loki
interruppe il lavorio incessante del suo cervello allungandosi sul sedile del
co-pilota, un sorriso serico sulla bocca e le lunghe gambe accavallate, la mano
sinistra sul ginocchio destro e l’indice dell’altra a battere sul labbro
inferiore «Kitty? Kathy? Kate?»
«Continua pure, Loki, non mi distrai
affatto.»
In risposta, il Norreno reclinò la
nuca all’indietro, in modo da guardarlo di sbieco coi suoi freddi occhi di
serpentina.
«Sei tu che ti stai facendo distrarre
da me.»
«Se blateri tutto il tempo, non vedo
come potrebbe essere altrimenti.»
«I tuoi amici di là lo sanno che hai
chiuso le comunicazioni con loro per potermi rimbrottare meglio?»
Colpo basso, questo, e Barton reagì
contraendo la mascella e snudando pericoloso i denti. Già Natasha lo fissava
convinta che avrebbe dato di matto di lì a poco, non intendeva certo avvalorare
quell’ipotesi facendosi sentire mentre dialogava amabilmente con un pazzo sclerotico frutto della sua psiche
instabile…
«Come immaginavo.»
Loki scrollò sdegnosamente le spalle,
puntellando poi il mento sul pungo chiuso. Il sole riluceva diafano sulla pelle
del Dio, tracciando solchi dorati sui gambali e le piastre del petto, sul panno
verde della veste, sul collare a mezzaluna.
Sembrava così vero e tangibile che
l’Agente aveva avuto più di una volta il dubbio che quel maledetto fosse lì, in
carne ed ossa, e si rendesse invisibile allo sguardo altrui al solo scopo di
far vacillare le proprie certezze e portarlo al baratro della follia. Che fosse
capace di leggere ogni pensiero come un libro aperto, si spiegava facilmente
ricordando la fastidiosa vacanza offerta dal Tesseract nel proprio cranio
–Logico, no?
Per quanto terribile, un’ipotesi del
genere poteva essere di sollievo, rispetto all’idea di essere ammattito del
tutto. Sapersi perseguitato e tallonato da una realtà di sangue e carne era
preferibile –Soprattutto, suddetta realtà, essendo di carne e sangue, poteva essere
trafitta da una freccia e non c’era niente di più salutare al mondo che
trafiggere una fastidiosa e logorroica realtà di carne e sangue con una
freccia.
«Anche la vendetta è salutare, sai?»
Loki si voltò nella sua direzione e Clint avvertì la punta gelida dei
polpastrelli del Norreno graffiargli il dorso della mano. I brividi
scrosciarono attraverso la spina dorsale, il bisogno di stordirsi con alcool e
nicotina latrò con violenza tale da scuotergli le tempie e riempire la testa di
ovatta «Non è stato gentile con te, sai? Non lo è stato affatto. Gli hai dato
tutto, Agente Barton, tutto. L’ho visto. Il Tesseract mi ha mostrato ciò che
eravate e che per causa sua non potrete più essere.»
«Per causa tua vorrai dire» lo corresse Occhio Di Falco e la voce era fiacca
nella gola, le dita di Loki penetravano nella carne, superavano l’ostacolo
della pelle e delle ossa, ingarbugliavano e annodavano i nervi a propria
piacere e diletto.
«Io l’ho ucciso, sì. O meglio, ne ero
convinto. Un minuscolo errore di valutazione –Voi Midgardiani siete più
coriacei di quanto avessi preventivato.»
Pur mantenendo lo sguardo fisso
davanti a sé, le nocche serrate alla cloche, Barton sentiva l’attenzione
scivolare via insieme al sangue che l’altro gli stava succhiando per fare posto
al suo, ad una colata di neve e ghiaccio, argento acido, sonante gorgoglio di
cristalli invernali. Vedeva e non vedeva, c’era e non c’era, il mondo era
un’interferenza, si assestava su una gamma di colori un attimo e l’attimo dopo
già era in bianco e nero, distorto, i suoni gli tagliavano le orecchie, oppure
sbattevano contro la fronte, le cornee, i timpani come mosconi contro il vetro
e le immagini ronzavano senza sosta, senza posa, una presenza scivolava e si
insinuava nella coscienza, le imponeva, ordinava di scostarsi, di sparire,
svanire in fumo.
«Hai pianto per lui così tanto,
Agente Barton. Così tanto e così a lungo da consumare occhi e lacrime. Bruciavi
di dolore e la cenere del lutto era sterile, nessuna promessa di vita, nessun
bocciolo, né gemma di esistenza era abbastanza forte per convincerti a
svegliarti dal torpore. Così miserevole, così miserando, il tuo amore per lui
ti ha fatto diventare pazzo. E cosa ha fatto quell’uomo, per te? Mentre tu
trascorrevi le notti a vegliare sulla sua tomba e ti disperavi e a stento ti
reggevi in piedi e più non riconoscevi lo scorrere dei giorni, lui che faceva?
Lui viveva. Non ti cercava, non
pensava a te, ha ripagato le tue urla col silenzio, non ha mai risposto quando
hai chiamato il suo nome, non è mai giunto ad asciugare le tue lacrime. Mai.
Mai e poi mai, ti ha abbandonato, ti ha gettato via, a che gli servivi? A che
gli servivi, ormai? Avevi esaurito il tuo compito e l’avevi deluso. Ignominia!
Infamia! Debole, debole, debole Agente Barton! Lui se n’è andato perché eri
debole, perché eri folle, perché eri rotto, eri spezzato, eri debole. Ah, ma
sei stato così forte, Agente Barton, così forte quand’eri al mio fianco. Così
forte…»
«Clint?»
Barton spalancò la bocca ad un ingoio
prepotente di aria, come se fosse appena sbucato con la testa fuori dall’acqua,
dopo un considerevole lasso di tempo passato in apnea. Quasi gemette,
annaspando e boccheggiando, avvertendo il sudore freddo stridere sulla tempie,
conficcarsi nel cervello ed affondare fino alla nuca.
«Clint!»
Soltanto allora Occhio Di Falco si
accorse che il muso del Quinjet era puntato verso terra e che l’abitacolo
tremava. Le lamiere ringhiavano al fischio del vento che sbatteva contro la
carlinga, la coda e le ali, contro il vetro traballante. Il fiato falcidiava i
polmoni e attorcigliava i bronchi in trecce gelate.
Fu per mero istinto che l’Agente
tornò in quota e mise a tacere le urla scostanti degli strumenti di bordo. Di
nuovo sulla rotta giusta, di nuovo all’altezza necessaria a non schiantarsi
miserevolmente al suolo, Clint serrò la mascella per impedire ai denti di
continuare a battere e fece schizzare scariche di dolore infuocato dai palmi,
tanto li strinse sulla cloche per arrestare il fremito delle nocche.
«Clint, forse è meglio che prenda il
tuo posto e tu vada a riposare.»
«Ce la faccio, Nat. E’ stato soltanto
un vuoto d’aria.»
A Clint non serviva vedere
l’espressione di Natasha per capire che la donna non credeva ad una sola
parola. La vide comunque, perché
vedere ogni cosa significava anche sorbirsi le labbra contratte di Vedova Nera,
le sopracciglia schizzate all’attaccatura dei capelli e persino quell’aura di
schiacciante rancore che lei gli portava ogniqualvolta taceva qualcosa di
fondamentale.
«Sicuro di stare bene?»
No.
Non sto bene. Sto impazzendo, Nat. Sto impazzendo, sto crollando, mi sto
frantumando, disintegrando, mi sto riducendo a pezzi, ad un’ombra di me stesso.
Aiutami, Nat, ti prego. Ho bisogno di aiuto. Aiutami. Loki, il senso di colpa,
il rimpianto mi tormentano. Aiutami. Scaccialo via, Nat, scaccialo---
«Sì. Torna in carlinga da Coulson e
tienilo a debita distanza dalla mia persona.»
Poi, Occhio Di Falco fu troppo
occupato a chiedersi chi avesse fatto
uscire quella frase dalla sua bocca, quando in testa e sulla lingua e nel cuore
aveva ben altre parole, per notare l’aggrottarsi perplesso della fronte di
Natasha.
Si girò allora verso il posto del
co-pilota, dove Loki era accomodato con le gambe distese e i piedi appoggiati
sul pannello dei comandi. Il Dio si coprì la bocca per nascondere uno sbadiglio
annoiato, quindi reclinò il capo ed un guizzo verde incattivì gli occhi ferini,
un sogghigno affiorò alle sue labbra.
«E’ questo quel che succede ad essere
pazzi, Agente Barton.» rise, mellifluo «L’unica realtà su cui hai il controllo
è soltanto quella dentro la tua testa. Fuori, chi è abbastanza forte da
aggiogarti plasma il tuo destino.»
«Un vuoto d’aria? E tu gli credi?»
«No. Ma tramortire il nostro pilota
mentre era in volo per interrogarlo mi è sembrata un’idea da scartare a
priori.»
Phil benedisse per l’ennesima volta
il fatto che sguardi e parole non potessero uccidere. Nick Fury poteva tanto,
poteva tutto, ma di certo resuscitare i cadaveri di Vedova Nera andava oltre le
capacità di chiunque, persino quelle del Direttore –Ex Direttore, si impose di pensare, viste le circostanze.
Natasha non gli era saltata alla
gola, non aveva cercato di ucciderlo, non l’aveva coperto di insulti, né
lasciato in ricordo una gragnola di lividi in ogni tratto di pelle
raggiungibile. A differenza di Occhio Di Falco, stava usando contro di lui
freddezza e gelo, una rabbia affilata che penetrava nel costato e nella carne,
parola dopo parola, indifferenza dopo indifferenza.
Phil Coulson era morto e Vedova Nera
non doveva niente ai defunti. Per quanto la riguardava, aveva seppellito il
leader dello Strike Team Delta sei mesi prima ed il rispetto, la lealtà,
finanche la complicità che avevano era sprofondata sotto metri di terra.
A quel Phil Coulson che aveva visto
tra i turbini di neve e nel biancore accecante del ghiaccio, lei non doveva
niente. All’uomo era bastata l’occhiata che Natasha gli aveva lanciato per
capirlo. E comprendere che niente di quello che avrebbe detto, niente di quello
che avrebbe fatto, l’avrebbe più riavvicinata. Era tornato alla vita convinta
di ritrovare, di riavere quel che
aveva perduto: invece, aveva perso chi nella morte non aveva abbandonato il suo
fianco per un singolo istante.
«Non sei intenzionata a perdonarmi,
vero?»
Vedova Nera, che nel frattempo aveva
allacciato nuovamente le cinture e si era assicurata al sedile, inarcò il
sopracciglio destro. Mai sguardo fu più eloquente di quello, mai tanto
sarcasmo, mai tanto distacco era stato visto negli occhi incolori della spia
russa.
«Non hai ferito solo lui, Coulson.»
disse, secca, senza giri di parole, senza tentativi di indorare la pillola o
stemperare la tensione.
«Avevo degli ordini.»
«Lo so. Li aveva anche Clint, quando
fu mandato ad uccidermi.»
«E con questo?»
«Gli ordini non sono tutto.» Natasha
contrasse le labbra «Se adesso esegui e basta, senza pensare, senza protestare,
senza nemmeno considerare la possibilità che l’ordine sia ingiusto, allora Nick
Fury non ha riportato in vita un uomo, ma soltanto un manichino. Un burattino
da manovrare a proprio piacimento, un pupazzo che sa annuire e dare ordini a
propria volta. Un burattino senza cuore.»
«Apprezzo la metafora di Pinocchio.
Non molto il tono con cui ti stai rivolgendo a me, Agente Romanoff.»
« Non sei il mio superiore. Sono un
Vendicatore, ora.» replicò lei «Che è anche il motivo per cui hai deciso di
tenere la bocca chiusa, se non sbaglio. Nessun Vendicatore e nessun Agente al
di sotto del Livello Sette doveva venire a sapere del tuo ritorno nella terra
dei vivi. Se poi ci sei davvero stato, nella terra dei morti.»
«Mi hai visto, Natasha. Hai visto
cosa…Loki mi ha fatto.»
«Ho visto qualcuno con le tue
sembianze vestito a lutto. Ho visto una bara calata in una fossa, su cui
campeggiava una stele col tuo nome inscritto. Ho visto Clint crollare in
ginocchio.» sussurrò «Ho visto gli sguardi pieni di odio che gli hanno rivolto.
Gli insulti. Gli sputi. Ho visto Clint crollare e non riuscire più a rialzarsi.
Ho visto di te» deviò gli occhi da lui, li diresse all’abitacolo «E ho capito
che sei solo un corpo vuoto.»
Phil, se non fosse stato per le
cinture e per qualsiasi norma di sicurezza, si sarebbe teso verso di lei,
avrebbe cercato di stabilire un contatto prima che, con la sua battuta di
chiusura, erigesse per sempre un muro impossibile da superare.
«Natasha, sono io!» esclamò «Sono
sempre io, non sono cambiato! Sono io---!»
«Sempre
tu?» Vedova Nera sollevò il labbro superiore in una smorfia ironica e delusa
all’insieme «Se sei sempre stato così ed il tempo trascorso allo Strike Team
Delta unicamente una bugia, allora preferisco la menzogna che eri.»
Coulson aprì la bocca per replicare
–Testarda, dannata testarda, testarda Natasha, testardo Clint, testardo
chiunque, lì dentro, incapaci di capire quanto l’ordine gli avesse stretto la
gola, incapaci di comprendere quanti giorni avessi trascorso a leggere file e
rapporti di vecchi missioni, il dito sollevato su un minuscolo, misero tasto
che lo avrebbe messo in comunicazione con loro una volta per tutte, in malora
gli ordini, in malora Fury…!
«Cessate il vostro chiacchierare,
signorinelle.» la voce di Clint echeggiò crepitante nella carlinga,
sbatacchiando contro le lamiere ricurve «Siamo in New Jersey. Arriveremo al
Camp Lehigh in dieci minuti. Preparatevi a sbarcare. L’Agente Coulson è pregato
di non fare foto e di rimanere sotto stretta sorveglianza: non è mia intenzione
rincorrerlo per tutto il perimetro soltanto perché si vuole accaparrare qualche
cimelio appartenente a Capitan America.»
2011
Triskelion, Washington D.C.
Uffici.
«Hanno richiesto l’autopsia?»
«Ho fatto sì che non lo ritenessero
necessario. Lo stress può essere mortale,
anche per un’Agente addestrata come lo era Gail Runciter.»
L’uomo alla finestra contrasse la
bocca a quelle parole, per poi bere un sorso di bourbon e continuare a guardare
oltre il vetro. Gli era stata risparmiata la scena del corpo di Miss Runciter
abbandonato nelle docce, col collo languidamente reclinato all’indietro ed il
sangue che dai polsi ramificava in minuscoli zampilli rossi, intrecciandosi
all’acqua scrosciante. Non provava dispiacere, bensì disappunto: erano nelle condizioni meno indicate per perdere del
personale, soprattutto personale non rimpiazzabile, né malleabile come era
stata la Runciter.
Cercare di irretire qualche altro
Agente nelle spire del Dottor Marlowe era fuori discussione. Inoltre, come se
non fosse abbastanza, dai laboratori arrivavano notizie desolanti: il loro
progetto stava andando in fumo ancora prima di pianificare un test sul campo.
«I campioni di sangue sono
inutilizzabili.» l’uomo fece scrosciare il bourbon nel bicchiere tozzo, prismi
di giallo paglierino si schiantarono contro i bottoni lucidi del doppiopetto
grigio «Non possiamo ricavarne nulla.»
«E il soggetto non risponde più alla
mia terapia.»
Accomodato sul divanetto di pelle
davanti alla scrivania, Marlowe sistemò il corpo panciuto sui cuscini, le
fattezze scimmiesche quali aveva assunto il giorno in cui il soggetto si era
risvegliato dal sopore e dall’incanto: al contrario di quel giorno, tuttavia,
non c’era niente di forzato nella sua metamorfosi. I tratti animaleschi, le
dita coperte di pelo rubizzo, i lineamenti grossolani della faccia, la folta
chioma rossa che ruggiva sgraziata e scomposta, persino il torace a badile non
erano più una maschera di cera pigiata alla meglio, ma sembravano il solo
aspetto che il medico possedesse davvero.
L’uomo alla finestra contrasse appena
le palpebre, le rughe agli angoli degli occhi ebbero un fremito. Si girò ed
appoggiò il bicchiere alla scrivania.
«Continua a tenere gli Agenti sotto
il tuo controllo, Faustus.» ordinò
«Io devo andare in New Jersey.»
2013,
New
Jersey.
Camp
Lehigh.
Il Quinjet era atterrato a cento
metri di distanza dal cancello d’entrata: con gli scudi deflettori alzati, non
era che una piega di ombra nell’oscurità circostante e lo sguardo poteva
saettargli attraverso senza che nessuno si accorgesse della sua effettiva
presenza –Salvo incappare nei fianchi, nelle ali o nel muso, oltre che
inciampare e franare contro la sua inequivocabile, sebbene invisibile,
solidità.
Più silenziosi della notte in cui
erano immersi, i tre superarono gli anelli sgangherati del cancello e si
immisero nel grande spiazzo aperto che una volta era stato il campo di addestramento
di Steven Rogers: uno Steven Rogers ben più basso, ben più magro, ben più
microscopico della figura erculea, eroica che i cinegiornali avevano
sbandierato in ogni angolo del pianeta. Quegli occhi sfolgoranti in bianco e
nero, lo sfolgorio dello scudo scagliato contro le truppe nemiche, le mani
strette alle mani sanguinanti di un commilitone ferito a morte, quanto cuore,
che anima grande aveva camminato sulla Terra…E poi li aveva lasciati.
La Guerra era finita e l’uomo era
divenuto Leggenda. E come il Graal, come l’Arca dell’Alleanza, era divenuto un
simbolo di grandezza, di pace, e tante, troppe persone si erano susseguite per
cercarlo, per trovare ancora una volta il suo sorriso, sentirsi colmare di
inestinguibile speranza. Niente, però, era accaduto e la stella di Capitan
America, così splendente da accecare, non era stata più che un astro cadente:
dietro di sé aveva lasciato una coda d’argento di sogni e amore, ma il suo
cuore, la sua parte concreta e tangibile, era bruciata in fretta.
Riducendosi in cenere.
Spazzata via in un soffio di vento.
«E’ soltanto un museo a cielo
aperto.» commentò Barton, che aveva sfruttato alcuni appigli di uno dei
casermoni per issarsi sopra di esso e avere una migliore visuale dell’intorno
«Cosa dovremmo cercare, esattamente? Lenzuola da vendere su Ebay a qualche
appassionato? Sempre che Coulson non se le sia accaparrate già tutte,
beninteso.»
«Puoi stare in silenzio, una buona
volta? Mi deconcentri.»
Vedova Nera si mise in testa al
gruppo, il palmare tenuto di fronte a sé per trovare il luogo specifico del
segnale. A prima vista, come aveva già fatto intendere Barton, non c’era nulla
che potesse far intendere la provenienza del file, né il suo creatore.
Soltanto ambienti mastodontici e
tozzi che ai tempi del secondo conflitto mondiale erano serviti per gli alloggi
dei soldati, l’Infermeria, lo stoccaggio di provviste ed armi e mezzi di
trasporto. C’era ancora traccia della via che serpeggiava attorno alle
strutture per i faticosi giri di campo, nonché la zona di terreno abbassato e
tenuto costantemente bagnato per insegnare ai cadetti come passare sotto il
filo spinato tenendo i fucili al petto e la testa abbastanza bassa per non
cavarsi gli occhi. C’era ancora il palo su cui innestare la bandiera, perché
venisse alzata ogni mattina come monito e faro di perenne fiducia e preghiera.
«Distrarti?» Occhio Di Falco emise un
verso stizzito «Hai paura di inciampare mentre ti stai facendo un selfie, Nat?
Mi immagino già gli hashtag…»
«Sarà un piacere per me staccarti la
lingua di netto, Barton, se non la smetti di dire idiozie.» schioccando la
lingua contro il palato, Vedova Nera rimise il palmare al sicuro, dentro una
delle tasche del cinturone che aveva in vita «E’ un punto morto. Zero
rilevamento calore. Zero rilevamento onde. Nessuna onda radio. Chiunque abbia
creato il file deve aver usato un router per confondere le cose.»
«Solo calcinacci ed erba?» le chiese
Clint, sempre appollaiato sul tetto e con le dita spinte a tenere attiva la
trasmittente all’orecchio.
«E formiche. Probabilmente una
nidiata di scarafaggi e topi, da qualche parte.»
«Esattamente come negli Anni
Quaranta, allora.» intervenne Coulson e senza dar loro il tempo di chiedere,
superò Natasha come se già sapesse dove andare e cosa fare, in che luogo
dirigersi.
«Ho visto male o sta ridendo sotto i
baffi, Nat?»
«Voi due non avete mai letto niente
sui campi di addestramento della Seconda Guerra Mondiale?»
«Negativo. I Peanuts erano più
interessanti.»
«Barton» fece di nuovo Phil, come se
non lo avesse sentito «Puoi dirmi la distanza tra il campo e l’edificio di
stoccaggio armi?»
«Duecentocinquanta metri. Perché?»
«Il regolamento militare proibisce lo
stoccaggio di armi a meno di quattrocentocinquanta metri dal campo.» spiegò
Coulson e con la coda dell’occhio vide Natasha annuire in direzione di Clint, e
questi saltare dal tetto a terra senza un suono od uno spostamento d’aria.
«Conosco quello sguardo, Phil.» commentò Barton, provocando un gemito
scricchiolante nel cuore dell’altro nel sentirsi finalmente chiamare col nome
abbreviato «C’è altro che ci nascondi. C’è altro che sai.»
«Forse.»
Le porte dello stoccaggio armi erano
chiuse da un catenaccio ed un lucchetto. Non che fosse un problema, visto e
considerando che se anche Coulson non avesse avuto con un sé una carica esplosiva
da viaggio, sarebbe bastata una cocca modificata di Occhio Di Falco per farli
passare.
All’interno, una rampa di scale
portava fino ad un ambiente rettangolare, spazioso, ampio, col soffitto
piuttosto basso. Clint fu il primo a trovare l’interruttore della luce e i neon
picchiettarono prima di aprire a ventaglio coni di luce asettica, uno dopo
l’altro, simili a bianche tessere da domino.
«Mi venisse un colpo.» esalò Barton, lo sguardo fisso al simbolo
dello S.H.I.E.L.D. che campeggiava fiero sulla parete di fronte a loro. Vi
erano poi scrivanie coi cassetti ormai vuoti, sedie girevoli, scaffali di
metallo impolverati e cadenti, e vecchi telefoni a rotella.
«Lo S.H.I.E.L.D.» disse Natasha,
guardandosi intorno.
«Dove tutta ha avuto inizio.»
concordò Phil e li condusse verso uno degli uffici laterali, separato
dall’ambiente principale da vetri in plexiglass opachi: oltre di essa, una
stanza stipata di scaffalature completamente sventrate, dove si intravedevano
biocchi polvere grigia spruzzati di residui di carta giallastra, ultimo ricordo
dei fascicoli che contenevano una volta.
L’intelaiatura elettrica e i cavi
erano ancora in bella vista –E ancora funzionanti, stranamente- e c’erano
ancora cartellette color pulce dimenticate, privi di timbri, scritte o
qualsivoglia segno di riconoscimento circa il loro contenuto.
Sul muro dinanzi la soglia erano
appese tre cornici e dietro il vetro rigato, a sorridere od anche solo
guardarli con curiosità di occhi vuoti, due uomini e una donna.
«Il Colonnello Phillips.» fece
Coulson, indicando l’uomo in alta uniforme e la bandiera americana
orgogliosamente sventolante dietro le sue spalle «Howard Stark» l’uomo in
mezzo, con espressione scanzonata e superba, divertita, la stessa di cui il
figlio era maestro indiscusso «E Peggy Carter. Agente dello RSS. Una donna
coraggiosa. E fiera. Ha amato Capitan America fino alla sua morte e non ha
ancora smesso di amarlo.»
«Una perdita di tempo.»
Il commento avvelenato di Clint
spezzò l’incantesimo sospeso che li aveva avvolti, rovesciando su di loro
l’urgenza del presente e soverchiando la dolceamara essenza dei ricordi e della
storia.
«Non è stata una perdita di tempo.»
replicò Phil, sbattendo le palpebre e scrollando impercettibilmente le spalle
«E’ stata…»
«Patetica» concluse per lui l’Agente
«Avrebbe potuto rifarsi una vita, invece di piangere un morto.»
«Possiamo portare a termine la
missione, invece che perdere tempo?» Natasha serrò le braccia al seno e li
trafisse con sguardo tagliente «Vi graffierete dopo. Ora dobbiamo trovare la
fonte di ogni nostro guaio.»
In un’altra occasione, Clint avrebbe
sputato a terra od avrebbe imprecato in qualche slang appreso durante i suoi anni trascorsi al circo e passati in
giro per l’America, invece si limitò a sbuffare una risata impertinente,
contrarre la bocca in direzione di Phil e poi passare attraverso gli scaffali
per cercare qualcosa di interessante o pertinente.
Qualcosa di pertinente ed
interessante che si rivelò essere un fischio come sfiato di aria, proveniente
dal bordo di uno degli scaffali. Corrugando la fronte, Occhio Di Falco fece
scorrere i polpastrelli lungo il fianco del mobile, fino a quando non gli
riuscì di trovare un punto abbastanza largo dove aggrapparsi con le nocche e
tirare, rivelando così quello che era a tutti gli effetti le porte di un vano
ascensore.
«Secondo voi hanno nascosto
l’ascensore perché gli impiegati erano diventati pigri e mettevano su peso?»
«Sai che scocciatura, procurarsi
tutte quelle divise taglia comoda?» si accordò Natasha, avvicinandosi poi al
pannello fissato accanto all’ascensore e posizionandovi sopra il palmare.
Questi emise un fascio di luce
bluastra che saettò direttamente a scansionare i tasti per l’inserimento del
codice numerico. Tramite un controllo della consunzione di alcuni tasti
rispetto ad altri, Vedova Nera fu in grado di risalire alla chiave di accesso e
sgombrare loro la strada.
«Posso capire il concetto Precedere i tempi i tempi, ma delle
entrate USB dentro una stanza che straborda tecnologia a nastro mi pare eccessivo.»
In effetti, non era possibile dare
torto a Clint. Sulle prime, era parso ai tre che non ci fosse nulla di
tecnologicamente comparabile, né avanzato che potesse essere loro di aiuto od
in qualche modo collegato allo scopo della missione. Come aveva fatto
giustamente notare Natasha si trattava di tecnologia, sì, ma tecnologia antica.
Poi, l’occhio di Coulson era caduto
sulle parallelepipedo con le bocche cesellate delle drive e aveva capito che
qualcosa di molto più losco si nascondeva lì dentro, dietro gli alti pannelli
da registrazione e gli schermi e i computer di vecchia generazione. La
telecamera posizionata su quello centrale, considerò, stava addosso ai tre come
un mirino e gli faceva accapponare la pelle.
«Inserisci la pendrive, Natasha.»
Vedova Nera annuì e si chinò sulla
tastiera, non appena essi vennero illuminati da un guizzo blu elettrico. Clack, altre neon si accesero in un
battito oleoso, le bobine scatarrarono e ripresero a scorrere.
«Questo posto mi fa venire in
brividi.» sussurrò Barton, estraendo una freccia dalla faretra e incoccandola
per precauzione, l’arco puntato verso il pavimento.
«Cosa vedi?» Coulson gli si accostò e
cercò il lampo grigio ferro dei suoi occhi.
«Guai.»
Avviare
il sistema?
Chiese una voce sintetizzata e roca, sgradevole, accompagnata da una scritta
verde acido sullo schermo principale.
Natasha inarcò un sopracciglio e
digitò direttamente la risposta.
«Sì.»
«Ho visto una cosa del genere in un
film.» interloquì Clint «Non è finita bene.»
«Non fare l’uccello del malaugurio,
Barton.» lo riprese Vedova Nera, che immediatamente raddrizzò la schiena e si
allontanò dal computer, quando sullo schermo presero a scrosciare interferenze
verdastre, singulti di colore, polle nere che assunsero le sembianze di un viso
–O meglio, le fattezze bombate di un viso che pareva coperto da una maschera
anti-gas.
«Are
you my mummy?» cinguettò Occhio Di Falco –Segno, tra l’altro, del suo
nervosismo crescente.
«Coulson, Philip J.» gracchiò una
seconda voce, rovinata dall’incisione su nastro, e venata da un’inquietante
accento tedesco «Nato l’8 Luglio del 1964.»
«Ha dimenticato il nomignolo Cheese» sghignazzò Clint, le cui dita
stavano già accarezzando l’impennaggio del dardo.
La telecamera sopra lo schermo si
girò lentamente, puntando direttamente su di lui.
«Barton, Clinton Francis. Nato il 18
Giugno del 1985.»
«Tenetevi pronti.» mormorò Natasha,
mentre l’occhio invisibile del macchinario puntasse su di lei.
«Romanoff, Natalia Alianovna. Nata
nel 1984.»
«Per essere una registrazione, è
piuttosto inquietante.»
«Io non sono una registrazione, fraulein.» puntualizzò la voce,
indispettita «Non sarò più l’uomo di quando il vostro beneamato Capitan America
mi fece prigioniero nel 1945, ma io esisto.»
Sul computer più piccolo, a sinistra
della telecamera, comparve la foto in bianco e nero di un ometto tarchiato, con
tratti grezzi e bulbosi e forte prognatismo dell’arcata sopraccigliare,
orecchie allungate e bocca piccola, sottile. Sgraziate lenti da vista
ingigantivano gli occhietti infossati, dal taglio obliquo e perverso, come
perversa era l’aura che lo circondava e che faceva torcere le viscere e lo
stomaco.
«Arnim Zola…» sfiatò Coulson «Pensavo
fosse morto da anni.»
«Morto? Guardatevi intorno: non sono
mai stato tanto vivo. Nel 1972 mi
diagnosticarono una malattia terminale: la scienza non poteva salvare il mio
corpo. La mia mente, tuttavia, meritava di essere salvata in una banca dati su
sessanta kilometri di nastro. Voi vi trovate nel mio cervello.»
«D’accordo, chi è questo Grande
Fratello Mangiacrauti?»
A Clint non occorse che uno scatto di
reni per mettersi in posizione e tendere la corda, il gomito una linea retta
col polso e l’indice che direzionava la freccia.
«Uno scienziato svizzero al soldo di
Teschio Rosso.» spiegò Phil ed allungò la mano, il palmo aperto a segnalargli
di stare fermo «Una mente malata e meschina al servizio di un credo disumano.»
«Quante belle parole, signor Coulson.
Eppure è stato il vostro governo a salvarmi, il vostro governo ad invitarmi qui, a proteggere la mia…Come
ha detto? Mente malata e meschina, al servizio di un credo disumano.»
«Si tratta dell’Operazione Paperclip, dopo la Seconda Guerra Mondiale.» Natasha
deglutì e si girò a guardare Phil, forse per chiedere conferma « Lo
S.H.I.E.L.D. reclutò scienziati tedeschi con capacità strategiche.»
«Pensavano che potessi aiutare la
loro causa. E ho aiutato anche la mia.»
«La tua causa?» Clint socchiuse le
palpebre, piegando la bocca in un ghigno di sfottò «Quale? Boicottare internet
per carpire i segreti di Campo Fiorito?»
Ma Coulson era pallido in volto e un
dubbio serpeggiava nella sua mente, quasi gli toglieva il respiro.
«L’HYDRA» sussurrò.
«Taglia una testa e altre due
spuntano fuori.» convenne Zola, sdoppiando il proprio volto per rendere meglio
il concetto «L’HYDRA fu fondata sulla convinzione che non ci si poteva fidare
di un’umanità che fosse libera.
Quello di cui non ci eravamo resi conto era che portare via la libertà genera
resistenza: la guerra ci ha istruito molto. L’umanità doveva rinunciare alla
propria libertà volontariamente.
“Dopo la Guerra fu fondato lo
S.H.I.E.L.D. e io fui reclutato. La nuova HYDRA cresceva: un bellissimo
parassita all’interno dello S.H.I.E.L.D. Per settanta anni l’HYDRA ha
segretamente fomentato crisi. Scatenato guerre. E se la storia non collaborava,
la storia veniva cambiata.»
«Tutto questo non ha il benché minimo
senso.» Vedova Nera girò gli occhi all’immagine di Zola impressa nello schermo
«Lo S.H.I.E.L.D. vi avrebbe fermati.»
«Ma gli incidenti capitano.» mormorò
Phil e la rabbia e la vergogna avevano indurito il viso altrimenti bonario, al
punto che abbassò il braccio e strinse i pugni, non accorgendosi del lampo
verde che aveva per un istante guizzato negli occhi dell’arciere al suo fianco.
«Esatto. L’HYDRA ha creato un mondo
talmente caotico che l’umanità è finalmente pronta a sacrificare la propria
libertà per guadagnare la propria sicurezza. Una volta completato un processo
di purificazione il nuovo ordine del mondo di HYDRA sorgerà.»
«Pensate di avere vinto, dunque?» lo
interrogò Clint –E c’era una nota serpentina, nella sua voce, un bagliore di
ferina curiosità nello sguardo irridente.
«Certo.»
«Cosa c’è nel drive?» Coulson corrugò
la fronte, la mano che andava lentamente arretrando per sfiorare la pistola.
«Il Progetto Insight richiede intuito. Così ho scritto un algoritmo.»
«Che tipo di algoritmo? Cosa fa?»
«La risposta alla tua domanda è
avvincente. Malauguratamente, sarete troppo morti per sentirla.»
Subito, Natasha agguantò il palmare e
spalancò gli occhi.
«Ci sono addosso!» esclamò «Dobbiamo---»
Ma le sue ultime parole furono
coperte da uno schiocco, quindi un tonfo ed un grido di dolore.
Phil gemette e sporse i denti,
artigliandosi il fianco destro con le mani. Più nello specifico, serrando le
nocche attorno l’asta della freccia che gli si era conficcata nelle carni e che
aveva fatto sprizzare sangue bollente sulla camicia, imbevendola di rosso vivo.
Vedova Nera si girò, tuttavia non
abbastanza in fretta per evitarsi di trovarsi la cuspide di un dardo ad un
respiro appena dalla fronte.
«Clint…?»
«Adagio, vulvetta lamentosa.» l’arciere passò la lingua sul labbro superiore,
le iridi accese, folli, sfumate di ghiaccio e di verde «Non bisogna
interrompere un discorso, è maleducazione. Non te lo hanno mai insegnato?»
2013.
Asgard.
Prigioni.
«Ti manco al punto che sei arrivato a
guardarmi dormire, fratello?»
Loki torse il collo sul guanciale e
sorriso maligno in direzione di Thor, ritto dietro il vetro impenetrabile della
cella.
«Stavi sognando?» lo interrogò il Dio
del Tuono, imperioso nel mantello scarlatto che gli copriva le spalle, e s’avvolgeva
al corpo in mille pieghe brune.
«Sì.»
«E cosa sognavi?»
Il Dio Delle Malefatte ghignò.
«Midgard.»
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Capitolo 10 *** { Concentrati ~ File 0.9 } ***
ood
10880 Malibù Point, 90265.
Malibù Colony Road.
2013
Tony aveva gridato.
E lo aveva fatto a lungo.
Aveva continuato ad urlare fino a
quando la voce non si era estraniata dal corpo, divenendo un suono lontano dal
tempo, dalla realtà stessa. Aveva assunto una nuova forma, rovinosa e folle al
pari dei resti mastodontici della casa che crollavano tra la spuma ringhiante
del mare. Da qualche parte, nel cielo colorato di ruggine, gli elicotteri
ronzavano ancora: mosche nere, lucide, che sputavano veleno fiammante. Le pale
mulinavano nell’aria satura di salino, facendo spumare polvere e macerie, acqua
e vento.
“Dobbiamo andare.”
La voce di Colin si aggiunse alle
urla, pur non sovrastandole del tutto. Le mani ancora livide si chiusero
attorno all’avambraccio di Stark, lo trascinarono via di peso –Quasi lo
buttarono a terra, contro l’asfalto ruvido, contro la strada attraversata da
bubboni di catrame affilato, ridente sotto il sole malevolo.
“Stark. dobbiamo andare!”
Tony non seppe esattamente cosa mosse
il torso, né la schiena. Nemmeno le braccia o le dita che si chiusero a pugno,
cozzando poi contro la mandibola irsuta dell’Agente. Al primo colpo ne seguì un
secondo e Colin, ripresosi dalla sorpresa, scattò. Gli occhi azzurri erano
ferro, ardevano come fuoco: si mosse più veloce del pensiero, i suoi gesti
riflessi di mille gesti sempre uguali, impressi nella memoria e destinati a
durare oltre lo scorrere stesso degli anni.
Artigliò il polso del magnate –Che,
da parte propria, ebbe appena la percezione del proprio corpo sbalzato sopra le
reni, quindi la schiena, infine le spalle dell’Agente, per poi rovinare sulla
spina dorsale. Il dolore morse i nervi, strappò lamenti ai muscoli contratti.
Invece di arrendersi, o anche solo
capire che sprecare minuti preziosi a darsi battaglia equivaleva a stendere un
tappeto rosso di benvenuto agli aguzzini in elicottero, Tony tese il braccio
destro sull’asfalto e vi puntellò sopra il palmo sinistro, dando un calcio alla
caviglia di Colin perché perdesse l’equilibrio.
Dalla bocca di questi eruttò un verso
sorpreso, seguito da un grugnito rabbioso –Avvisaglia dell’assalto che vide
Stark schiacciato contro la strada, una mano alla gola dell’Agente, l’altra a
spingergli via il volto, a tenerlo lontano così come il pugno che Hendrick, a
gomito piegato, stava per sferrargli allo zigomo.
“Avresti dovuto salvare lui!” abbaiò il magnate, ruggendo saliva e fiato
bollente “Lui era un uomo mille volte migliore di me!”
“Lui non era la mia missione!”
l’altro.
Cristallizzato ancora nell’istante di
incrinargli ogni singolo osso della faccia, Colin parve riflettere su ciò che
aveva appena detto. Un guizzo azzurro attraversò le iridi confuse, cedendo poi
il posto ad un’espressione più sicura. Davanti agli occhi di un esterrefatto Iron
Man, l’uomo deglutì, abbassò il capò e si rialzò.
E Tony, spinto da un rinnovato
fervore religioso, ringraziò ogni divinità ultraterrena esistente.
Tralasciando, per ovvi motivi, la cricca asgardiana.
“Devo tenerti al sicuro.” Colin gli
porse la mano, aiutandolo a rimettersi in piedi “E’ questa il mio compito.”
Il
magnate si limitò a contrarre la mandibola e girare la testa verso la
frana di roccia che lentamente compiva l’ultimo canto del cigno, in un tripudio
di marosi.
“Allora direi che è il momento giusto
per trovare la soluzione al problema, Hendrick. E prendere una bella A.”
Località Sconosciuta.
Cella Di Sicurezza.
2011
“Pater
noster, qui es in cælis: sanctificétur Nomen Tuum: advéniat Regnum Tuum: fiat
volúntas Tua,sicut in cælo, et in terra. Panem nostrum cotidiánum da nobis
hódie, et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus
nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem; sed líbera nos a Malo.”
La preghiera si sciolse e divenne silenzio. Non un
suono, oltre il respiro. Non un movimento, oltre il pulviscolo che gli roteava
piano davanti agli occhi.
Un attesa in piena sospensione. Un respiro
trattenuto.
Lo stallo sulla scacchiera. La prossima mossa
avrebbe deciso l’esito della partita: mangiare od essere mangiati, la giungla
di marmo e tasselli. Bianco e Nero. Giusto e sbagliato.
Qualcosa –Molto- era cambiato. Il mondo non aveva la
seconda delle sue facce: l’aveva mutata, semplicemente. La bocca maligna, ecco,
ora era un sorriso rassicurante. La mano chiusa a pugno teneva nascosta nel
palmo una pillola di violenza indorata. Il nemico era l’amico che ti appoggiava
la mano sulla schiena, conficcando il pugnale negli interstizi delle vertebre.
L’orrore si ammantava di buoni propositi e fetida
ferocia. Penetrato a fondo nella realtà dell’oggi, aveva cancellato dalla mente
le atrocità di ieri: servizievole, aveva chinato la testa, si era offerto di
aiutare e aveva versato del veleno nel calice del mondo.
Serpe infida dalle mille teste, due alla volta
avevano fatto capolino nella folla, avevano bisbigliato parole di caos al loro
orecchio, avevano prestato ai popoli la loro lingua perché diffondessero
unicamente Verbo di inimicizia.
Negli occhi di Gail aveva visto la comprensione. La
speranza. Si era aggrappato ad essa, per essa avrebbe combattuto.
Avrebbe resistito. Si sarebbe ribellato.
Serrò le palpebre, abbassò la fronte sulle dita
incrociate.
“Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla…”
Da qualche parte sulle autostrade americane.
Notte Fonda –Forse prima della mezzanotte.
2013
La soluzione al problema che Colin si era fatto
venire in mente, era stato buttare la macchina in mare.
O meglio, recuperare un rotolo di documenti e
banconote da uno scomparto nascosto del cruscotto, poi buttare la macchina in mare.
La reazione di Tony, inutile dirlo, non era stata
delle più contenute. Se non fosse stato per l’immagine ancora nitida del pugno
di Hendrick ad un passo dal proprio setto nasale, lo avrebbe preso volentieri a
botte. La calma disperata –Il vuoto divorante, meglio dire- che lo aveva
agguanto quando anche l’ultimo rimasuglio della Stark House era crollato in
acqua erano evaporati come fumo. Il tonfo della lamiera contro gli scogli e poi
lo sbuffo metallico della spuma erano stati lo spillo che aveva fatto esplodere
il palloncino della traballante calma interiore.
Se si concentrava, Stark poteva vederne i brandelli
per la strada.
“Perché lo hai fatto?” aveva sibilato, inviperito
come non mai, tremando da capo a piedi.
“Perché lo S.H.I.E.LD. ci rintraccerebbe.”
Tony aveva annusato il lezzo del tradimento già
dall’omicidio di Fury, tuttavia la conferma di quei sospetti da parte di Colin
–O quanto meno la conferma che non era il solo a pensare che lo S.H.I.E.L.D.
fosse stato compromesso- lo fece sentire meno solo. O comunque meno affetto da
gravi manie di persecuzione. Gli attacchi di panico, è vero, non erano ancora
risolti, ma, ehi, un passo alla volta.
La situazione, comunque, rimaneva desolante.
Se non era più possibile fidarsi –Anzi, affidarsi alle forze numeriche e armate
dello S.H.I.E.L.D., ora che la casa era distrutta e le armature chiuse a chiave
a Manhattan, le possibilità di scamparla senza finire in un loculo
dell’obitorio si riducevano drasticamente.
Thor era ad Asgard, e Tony era piuttosto sicuro che
WhatsApp non fosse tra le applicazioni preferite delle divinità iperuraniche.
Natasha era chissà dove, con chissà chi e Dio solo
sapeva a fare cosa. A pensarci meglio, forse nemmeno Dio era a conoscenza
dell’ubicazione della compagna Mastico-Latino-E-Trangugio-Vodka-Da-Vera-Signora-Da.
Agente era diventato uno spiedino e la lama che lo
aveva trafitto al cuore aveva scavato un bel buco nella testa di Becco Di
Falco.
Pepper era all’ospedale.
Happy e Rhodes…
Alla fine dei conti, rimanevano soltanto lui ed un
Agente di Livello Sei presumibilmente braccato quanto lo era lui stesso. Una
grama prospettiva che migliorò di qualche punto quando il buon Colin –Il
buonissimo, rettissimo Colin Hendrick che andava alla messa tutte le domeniche
ed era in grado di recitare a memoria ogni preghiera in latino mai scritta od
anche solo vergata da qualche amanuense mezzo cieco- aveva rubato una macchina.
Una utilitaria come tante se ne vedevano in giro e
la cui unica prerogativa speciale era di avere un pacchetto di mentine sotto il
sedile del passeggero. Tramite un dispositivo di occultazione Colin cambiò la
numerazione della targa ed il colore
della carrozzeria, di modo che non fosse più riconoscibile, né fosse possibile
trovarla.
Dove hai imparato a rubare macchine, Pastore?”
“Germania.” Aveva risposto Colin, con un sorriso
divertito –Diverso da qualsiasi altro l’Agente gli avesse mai rifilato durante
la sua permanenza “Era questione di vita o di morte, naturalmente.”
“Naturalmente.”
Al mezzo di trasporto erano seguiti i vestiti
–Questa volta comprati regolarmente, da uno sfolgorante Bryce Jensen, come si
era presentato alla commessa.
Niente di troppo chiassoso, né paccottiglia di
turisti. Due felpe dal primo negozio, poi quattro paia di pantaloni in un negozietto
pakistano, magliette in numero di sei da una signorina dalla minigonna tanto
corta da sembrare una cintura e chewingum rosa fragola che dondolava dai denti
alle guance, dalle guance ai denti, dai denti alle guance.
Previdente come una nonnina, Colin aveva comprato
anche intimo e maglioncini di lana.
Adesso erano in macchina ed il paesaggio scorreva
oltre i finestrini come un nastro di colori sempre diversi. Anse e pieghe,
ritorcimenti, nodi, ognuno di essi era un particolare totalmente mutevole e
mutato rispetto a quello che lo aveva preceduto.
L’aria calda che usciva dai bocchettoni fischiava
loro in faccia, facendo ardere le guance di Tony, facendolo cadere in singulti
di torpore e veglia. Dapprima distanziati l’uno dall’altro il breve tempo di un
respiro, presto divennero sempre più lunghi, fino a quando Stark non chiuse gli
occhi col sole del primo pomeriggio tra le ciglia e li riaprì che già il
tramonto stava piangendo la sua dipartita in lacrime rosse e oro.
E Tony si accorse di non provare nulla.
Non aveva più rabbia, in corpo, e nemmeno dolore.
Richiuse gli occhi, cercando nel vuoto più assoluto della propria anima qualche
bisbiglio di emozione, un qualsivoglia sussulto di sentimento: gli rispose
unicamente l’eco del silenzio, nulla più di una squallida e piatta bonaccia
spirituale.
Era convinto di svegliarsi in preda al panico,
incapace di respirare, incapace di muoversi, pur dibattendosi e lottando contro
i polmoni chiusi e la gola divelta. Se non il panico, certo il furore l’avrebbe
sconvolto e si sarebbe trovato con le mani alla gola dell’Agente ancor prima
che questi potesse fare, o agire, o contrastare la sua ira –Una disperazione
tanto profonda da farli esplodere contro il guardrail, tanto distruttiva da
fagocitare ogni cosa in un tumulto di lamiere per poi rilasciarlo in un boato
di fiamme e carne dilaniata.
Aveva finanche messo in conto la possibilità di
sciogliersi in lacrime come un bambino piagnucoloso e distruggersi la spina
dorsale a causa degli sconquassi provocati dai singhiozzi.
Invece, l’unica sensazione che gli arrivava al
cervello era il peso dello stesso dentro il cranio, una spinta continua e
fastidiosa contro la fronte. A stento gli arrivava addosso il rollio ronzante
delle ruote sull’asfalto ed il sibilo delle auto che li superavano dall’una e
dall’altra parte.
“Sei semplicemente saturo di dolore e lutto.” La
voce di Colin attraversò l’anestesia cerebrale simile ad una mano che si posi
sulla spalla, in gesto di conforto “Devi solo elaborare il tutto.”
Stark non rispose, non girò nemmeno gli occhi, non
lo rimbeccò, non cercò alcun contatto. Gli pareva di essere estraniato dalle
proprie membra: un burattino a cui avessero appena tagliato i fili e che
giaceva, scomposto e abbandonato, in una cassa polverosa, dimenticata da tutti.
Tic. Tic. Tic.
Il battito della freccia. Una stazione di servizio,
con bar, bagni e docce, alla loro destra.
“Dobbiamo darci una sistemata.” Continuò “Qualcosa
da mettere sotto i denti. Via questa polvere di dosso, poi saremo pronti per
decidere un piano di azione.”
L’asciugamano di spugna dozzinale gli capitombolò in
faccia che ancora era fermo, immobile a guardare lo scivolare delle macchine
oltre il parcheggio, nella notte crescente.
Fu quello, un grugnito borbottante e piccato, il
primo segno di vita che Tony riuscì a far nel buio della coscienza
addormentata.
“Ti prenderai un malanno.” Spiegò Colin, sedendosi
sul marciapiede accanto a lui “Asciugati i capelli.”
Hendrick doveva aver usato i phon da quattro soldi
conficcati nelle pareti sbeccate e il cui getto non avrebbe nemmeno scalfito la
casetta di paglia dei tre porcellini: i capelli biondi erano scarmigliati, con
una buffa onda che si arcuava sopra la fronte per solleticargli la tempia;
aveva indossato una delle t-shirt prese al secondo spaccio e sopra una camicia
a quadrettoni rossi e bianchi, con le maniche sopra il gomito. Un abbigliamento
che lo faceva rassomigliare ad uno zotico bovaro del Texas,
“Fa lo stesso.” Sussurrò Tony e le parole uscirono a
pezzi dalla bocca, roche e gracchianti per essere rimaste troppo ore impigliate
nelle corde vocali “Non importa.”
“Certo che importa.” Lo contraddisse l’Agente,
piegando le ginocchia fasciate nei jeans lisi e raccogliendo l’asciugamano che
Stark si era appallottola sulle ginocchia “Se non lo fai tu, lo farò io.”
“Come ti pare.”
Sospirando, Colin gli appoggiò la spugna sulla
sommità della testa e cominciò a frizionare con vigore, attento a non sfiorare
neanche per sbaglio i capelli dell’altro con le dita.
“Ti arrendi?”
“Non sono affari tuoi, Hendrick.”
“Ti stai arrendendo. Stai gettando la spugna. Stai
facendo vincere i tuoi avversari senza nemmeno combattere. Questo non è l'Iron
Man che conosco. Che mi ha ridato speranza quando il cielo stava crollando su
tutti noi.”
“Hai ragione.” Stark lo allontanò con violenza, si
strappò l’asciugamano dalla testa e lo
gettò in strada “Iron Man è rimasto bloccato nel cratere sopra New York. E’
morto sei mesi fa. E’ morto.” Ripetè “E non tornerà indietro.”
Colin non si fece impressionare. Pacato
–Fastidiosamente pacato, così pacato che riuscì a stento a controllare
l’istinto di spaccargli la faccis-, si rimise in piedi e lo guardò con il mento
appena alzato, le spalle larghe, il petto in fuori –Autoritario come non era
mai stato fino a quel momento.
“Allora resuscita.”
Cypress Avenue, Queens NY,
Cascada Bar.
2013
Il locale era affollato.
Tacchi sospiri frusciare di gonne stridere di
cinture mani respiri fiato voci alta bassa baritono soprano tintinnio del
bracciale contro il polso cavigliera tesa al limite una curva di pancia che
crolla sulla vita scarpe basse scarpe comode scarpe scomode gemito trattenuto
bicchiere contro bicchiere liquore contro bicchiere liquore contro ghiaccio
paletta contro ghiaccio Ecco a voi singhiozzare balbettante di scontrini tap
tap sulla cassa battere di tasti drin clash crash frash frush scopettone bagno
acqua che scorre Capisci che indecenza Mi ha lasciata lei Pensi che dovrei
richiamarlo Il conto No io avevo chiesto la brioche con la crema denti che
scavano nella marmellata farcitura intensa odore di gomma da masticare
formaggio andato a male mele profumate frutta scaduta marcio e buono lordura e
pulito polvere disinfettante detersivo per i---
“Buongiorno. Posso aiutarla?”
Il tono era piuttosto titubante. Insicuro –Chiedo o
non chiedo? Lo disturberò? Come mai sta in silenzio? Non si sente bene? E’ solo
pazzo? Profumo gentile, delicato –Un regalo. È troppo costoso perché lo si possa comprare con
le poche mance da cameriera. Un anello d’oro contro la pelle –Ah, regalo di
anniversario. Ecco cos’è il profumo. La matita dietro l’orecchio, grattare del
tappo contro la tempia. Denti a mordere il labbro inferiore. Il primo stralcio
di sudore, pizzicorio di angoscia e disagio.
“Un cappuccino e una fetta della vostra torta alla
cannella. Me ne ha parlato un mio amico che vive a pochi passi da qui. La
migliore del Queens.”
Non c’è. Non c’è odore di cannella. Molte torte, ma
nessuna con la cannella.
Il televisore ronza e sputa e vomita suoni
graffianti esplosioni fragore di distruzione mentre riporta la notizia dell’attacco
a casa Stark –Battiti diversi, diverse emozioni. Una persona sconvolta, una
grata. Disinteresse. Terrore. Macabro senso di giustizia.
Non è morto. Non ci pensare. Non ci pensare. Non
ora.
Che il Diavolo se lo
porti.
Concentrati. La cannella. La torta alla cannella di
Cypress Avenue. La torta alla cannella di Cypress Avenue, inflessione quasi
impercettibile di Brooklyn mescolata ad una cadenza che ancora non è in grado
di sistemare in un complesso puzzle di assonanze e concordanze. Non americano.
Non del tutto. In parte. E quella oh così infinitesimale parte, da dove viene?
“Ahm.”
Esitazione. Il battito cardiaco aumenta, un topolino
in trappola, stretto in un angolo “La
torta alla cannella, dice? Mi dispiace. E’…Era” Passato? Tristezza e lutto? “Della
madre del proprietario. La faceva tanti anni fa, noi non la teniamo più.”
Da qualche in America, lontano da L.A.
Stazione di Servizio.
2013
“Felice di vedere che ti unirai alla conversazione.”
Tony si chiese quanto fosse professionale spaccare
il naso di un proprio dipendente con un pugno. Si chiese anche come fosse
possibile che un proprio dipendente riuscisse a farlo uscire dai gangheri in
maniera così magistrale: probabilmente aveva seguito un corso apposito,
altrimenti non era in grado di capacitarsi della sua precisione al limite del
puntiglioso per azzeccare giusto tono e parole giuste per fargli salire il
sangue al cervello e schizzare di rosso tutte le pareti, nessuna esclusa.
Già il discorso di prima, fuori dai bagni, era stata
una carognata. Tony odiava i giochetti psicologici: Pepper li usava per
convincerlo a smettere di bere o per non comprare società che, a suo dire,
erano del tutto inutili ai fini economici dell’azienda. Non che funzionassero,
beninteso, e c’era sempre una bottiglia nuova nascosta nella scrivania, nella
credenza, in qualche cassetto, ovunque in casa, in posti strategici in cui non
sarebbe mai andata a guardare.
In quanto alle società, Stark aveva notato con una
buona dose di soddisfazione che ne aveva comprato più o meno una per ogni
lettera dell’alfabeto.
Il giochino di Hendrick, però, era stato odioso. Le
sue parole si erano conficcate nel costato e avevano trapassato i polmoni.
Camminando inebetito tra le macchine lucide di brina e nevischio sciolto, Tony
era stato colto dal panico e le ossa avevano cominciato a gemere,
scricchiolare, il cuore raffreddarsi nelle vene. Respirare? Nemmeno ricordava
come si facesse. La bocca spalancata non traeva ossigeno e sputava rantoli,
vomitava fiato purulento. Le gambe cedevano ad ogni passo, le ginocchia si
slegavano dalle articolazioni, crollavano in avanti, dotate di vita propria, e
i piedi scivolavano, inciampavano nei nodi di una realtà disciolta, liquefatta,
che gli si impigliava alle caviglie e gli faceva perdere l’equilibrio.
Allora sì che la morte di Happy gli aveva sbranato
lo sterno e divelto il bacino. Non vi aveva assistito, aveva unicamente visto
la ricostruzione in digitale del Chinese Theatre, eppure ebbe comunque
l’impressione di essere sbalzato all’indietro, di essere investito dalla
deflagrazione, dalle fiamme e dalla cenere.
Vide Happy e la pelle staccarsi dalle ossa, i
muscoli lacerarsi, gli arti strappati e squarciati dalla bomba –Quand’è che una bomba non è una bomba? Quand’è
che una bomba è una bomba? Quand’è che una non bomba non è una bomba? Quand’è
che sono divenuto così cieco, così indifeso, così inutile, così debole, quand’è
che sono diventato meno di niente, quand’è che sono diventato meno di me
stesso? Quand’è che una bomba che non è una bomba è scoppiata dentro la mia
anima e l’ha uccisa e l’ha fatta a brandelli? Quand’è che sono morto ben oltre
il mio corpo fisico?
C’era stato un tempo in cui la paura era solo
qualcosa da annegare con l’alcool e dimenticare con una donna diversa ogni
notte. Un tempo in cui la paura era un lusso che non poteva permettersi,
un’espressione che non poteva mostrare al mondo: un tempo in cui era marionetta
e maschera, col sorriso scanzonato e i gesti irridenti. Un tempo in cui Happy
lo tirava fuori dai guai. Un tempo in cui Rhodes era il suo migliore amico e
compagno di bevute, un tempo in cui Rhodes non era svenuto, un tempo in cui
Rhodes non cadeva con la polvere, un tempo in cui il suo corpo non veniva
inghiottito dallo scroscio ruggente delle onde.
Stark ingoiò un sorso d’aria, prima che il terrore
tornasse ad avvampargli la carne di brividi gelidi. Deambulare come un idiota
per un imprecisato lasso di tempo gli era bastato, non intendeva replicare. Se
era tornato in sé era stato unicamente in virtù del ben di Dio che Colin aveva
appoggiato sul tavolo unto della stazione di servizio, una piramide unti di
intrugli al sapor di plastica che aveva visto attraverso il vetro opaco della
zona ristorazione, mentre deambulava alla stregua di un morto vivente tra le
strisce bianche dei parcheggi.
“Ti pago per portarlo il caffè. Non per berlo.”
Colin drizzò gli occhi azzurri su di lui, sardonico
e con l’aria di un padre che si trovi sul punto di fare una ramanzina degna di
nota al moccioso sbavante che costituisce la sua prole.
“In realtà quelli sono per te.” Fece l’Agente,
indicando i panini e i condimenti e persino un muffin con scaglie di cioccolato
“Sono senza glutine. Potremmo essere crivellati di pallottole, ma almeno non morirai
per shock anafilattico.”
“Oh.” Fu l’unica cosa che Tony riuscì a mettere
insieme, diviso tra l’essere stupito dal gesto e l’essere disgustato dalla
battuta per nulla umoristica che il campione di pilates aveva sputato dalla
mascella volitiva.
Si sedette ancor prima che Hendrick gli facesse
cenno di accomodarsi ed artigliò il primo hamburger, facendo scrocchiare la
carta nel toglierlo dall’involucro impregnato di olio.
“Abbiamo bisogno di un piano.” Esordì Colin, addentando
il panino con affettato.
“Aspetto suggerimenti.”
“In realtà, considerando i dati che hai raccolto
sull’esplosione che ha…Coinvolto
anche il signor Hogan, credevo che un piano lo avessi almeno abbozzato.”
Stark rimase immobile, la bocca ancora aperta e sul
punto di tranciare a metà la carne sugosa.
“Come sapevi che stavo facendo delle ricerche a
riguardo?”
Colin mostrò un certo disagio –Non era un tipo cui
piaceva mentire, questo Tony lo aveva capito. Era un tipo schifosamente retto e
corretto. Corretto non come un buon caffè, bensì di quel buonismo zuccheroso e
da ecologista che tanto lo mandava in bestia.
“Ho studiato il tuo profilo psicologico.” Rispose poi
“So che non ti saresti fermato –Lo speravo. Inoltre, ho tracciato una parte dei
tuoi file system. Poi J.A.R.V.I.S. mi ha bloccato e ha distrutto qualsiasi cosa
nel mio terminale.” Prese un sospiro “Non sono un tuo nemico, Tony. Puoi
fidarti di me.”
Il magnate contrasse la mandibola e strinse le dita
attorno all’hamburger: le nocche sbiancarono, la pelle si fece livida.
“Andiamo a Rosehill. E se hai studiato il mio
profilo psicologico, Hendrick, dovresti sapere che l’unica persona di cui mi
fido è stata dichiarata dispersa in azione ormai settant’anni fa.”
Località Sconosciuta –Molto probabilmente New Jersey.
Sotterraneo.
2011
“Quindi il nostro esperimento non sta dando i
risultati sperati.”
“No, Zola. È riuscito a contrastare il
condizionamento di Faustus e non risponde più alla terapia. Il suo sangue è
inutile, non riusciamo ad estrapolare un solo elemento valido. Droghe e
anestetici…Il suo organismo vanifica troppo in fretta, non importa la dose. Il
progetto di creare un esercito deve considerarsi fallito. Concluso ancora prima
di cominciare.”
“Forse non ti servirà un esercito.” Nel tono dello
svizzero si udì una risata metallica “Forse vi servirà un uomo solo.”
“Un uomo solo?”
“Lui,”
“Ti ho appena detto---“
“Non servivano le droghe. Bensì qualcosa di più raffinato.”
“Ossia?”
“Un vecchio progetto. Una vecchia idea che, ahimè,
complice la debolezza della mia cavia non sono mai riuscito a concretizzare.
Per tua e nostra fortuna, esso non è andato perso con il mio corpo ed è ancora
intatto nella mia mente. A disposizione, pronto per essere attuato affinchè il
nuovo ordine di HYDRA possa finalmente sorgere.”
“Quale progetto, Zola?”
“Il progetto Soldato
D’Inverno.”
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Capitolo 11 *** { Quel Che Mi Spetta ~ File 10 } ***
ood10
{ Quel Che Mi Spetta ~ File
10 }
Quinjet della Task Force S.H.I.E.L.D.
Spazio Aereo Sconosciuto.
Carlinga.
2013
Era un’esperienza trascendentale da santoni: il
corpo e lo spirito erano due entità differenti, due unità distinte che non
dovevano per forza occupare il medesimo piano esistenziale, né il medesimo
luogo. Clint era però sicuro che ai santoni rimanesse comunque un punto di
contatto con la coscienza estraniatasi dalle membra. Un filo, seppur esile, che
perdurava a legare carne e anima, perché potessero riunirsi e fondersi una
volta concluso la passeggiata extracorporea.
Più che passeggiata, il suo caso era ben
catalogabile sotto la definizione di sopruso
–Ma anche sfratto rendeva bene l’idea.
Certo, era in grado di vedere il proprio corpo con
occhi esterni –Lui, dannazione, era esterno a se stesso e la cosa gli faceva venire
la nausea; peccato che la nicchia spirituale dove era logico pensare ci fosse
la sua coscienza, il cubicolo dove era incastrata la sua personalità, era
occupata da una viscida serpe Asgardiana.
E sebbene coloro che gli erano attorno lo vedessero
con le fattezze di Clinton Francis Barton, per Occhio Di Falco era possibile discernere
realtà e menzogna. Seduto dentro la carlinga, con la testa inclinata ad
ascoltare Rumlow, Loki vestiva la sua divisa, portava il suo arco alla schiena,
la sua faretra, aveva attorno al polpaccio la custodia della pistola e le
pallottole di riserva.
Era lui in tutto e per tutto.
Tranne per il fatto che così agghindato faceva
veramente pena.
Per un istante, e in virtù meccanismo di difesa che
lo portava a cercare le cose più assurde per ragionare in background sulla
situazione corrente, aveva temuto di ritrovarsi impaludato in una maledetta
palandrana, con spallacci e corona cornuta compresa nel prezzo. Invece la
sensazione stessa di possedere carne e sangue e pelle era diventata del tutto
intangibile. Lui stesso si sentiva intangibile, una nuvoletta da cartoni
animati senza contorni, mero fumo dai bordi sfilacciati.
La cosa lo confondeva e lo indeboliva.
Forse Loki non aveva aspettato altro, in tutto quel
tempo. Aveva atteso, annidato in un angolo della sua testa, che perdesse presa
e ragione, che il fumo e l’alcool e il sesso lo sfinissero e sfiancassero e
stancassero. Forse già da tempo aveva assunto il controllo o almeno racimolato
abbastanza energie da sovrastarlo, da sostituirsi a lui, ma probabilmente non
aveva trovato alcun motivo valido per farlo.
L’HYDRA e la sua banda di esagitati senza cervello
gli avevano servito l’occasione su un piatto d’argento.
Così, ridotto ad una forma di pensiero metafisico,
Clint “Occhio Di Falco” Barton si trovava ad affrontare non solo una divinità
asgardiana dagli hobby alquanto discutibili, ma anche una minaccia su scala
mondiale che rischiava, anzi, avrebbe sicuramente rovesciato l’ordine pubblico,
gettando ogni cosa nel caos.
Non male, per una sola giornata di lavoro.
Se ne fosse uscito vivo, giurò a se stesso, avrebbe
cominciato a leggere l’oroscopo, andare in Chiesa, pregare il sole e mangiare
macrobiotico. Si sarebbe costruito un giardino zen in miniatura sul comodino,
avrebbe aperto una palestra di yoga, avrebbe persino delineato un piano per
trovare il santo graal.
Il gancio destro alla mandibola di Coulson gli aveva
rivoltato il karma da cima a fondo.
Quinjet della Task Force S.H.I.E.L.D.
Spazio Aereo Sconosciuto.
Stiva.
2013
Natasha non ricordava di aver mai provato una
sensazione simile. Eppure, si disse, non è molto diverso da quello che è
successo sei mesi fa. Non è molto diverso da quando Coulson ti ha chiamata e ti
ha detto che Barton era compromesso. Non è diverso da quando hai sentito la sua
voce incrinarsi, per quel noon-detto che era un ordine non-scritto che era
l’unica soluzione nel malaugurato caso in cui Clint si fosse rivelato un
elemento di disturbo e di minaccia troppo pericoloso per tenerlo in vita, non
importava quale che fosse il legame che teneva insieme lo Strike Team Delta.
Ci sono casi in cui il singolo e ciò che lo rende
tale, che lo rende una persona e non una macchina doveva essere cestinato. Se
dall’alto fosse arrivato l’ordine di rendere l’Agente Barton inoffensivo,
Vedova Nera sarebbe stata costretta da cause di forza maggiore e per il bene il
mondiale a dimenticare molte cose. Spontaneamente, questa volta, senza che
nessuno le maneggiasse il cervello e ci giocasse a piacimento. Anche se, a
conti fatti, per far fronte ad una eventualità del genere avrebbe preferito non
possedere più ricordi, nessuna debolezza che avrebbe potuto rendere la sua mano
meno ferma o fallire il corpo od abbassare l’arma.
Se le avessero dato l’ordine di ucciderlo, Natasha
avrebbe preferito non avere ricordi di lui, a San Pietroburgo, che abbassava
l’arco e allungava la mano verso di lei.
Fa un freddo cane erano state le sue parole, tanto
calde da sciogliere la tormenta Andiamo a
prenderci una vodka e parliamone con calma.
Aveva sempre pensato a lui come una persona atipica
e la sola idea di ucciderlo, sebbene per salvaguardare la pace nel mondo, le
incollava i denti per la nausea. Clint era più di un amico e meno di qualsiasi
legame Natasha si era o si sarebbe mai concessa. Erano stati a letto insieme,
per voglia e per necessità, per un bevuta da incoscienti e per proteggersi dal
freddo che ghiacciava le ossa, per desiderio e per consolazione, per sfida, per
affetto.
Non avrebbe mai potuto sparare, non con quei
ricordi.
Sei mesi prima era riuscita a salvare con un colpo
alla testa. Adesso era diverso. Era tutto diverso.
Quando aveva visto gli occhi di Clint offuscati
dalla malia di Loki, aveva provato sensazioni diametralmente opposte a quelle
che avvertiva lì, rinchiusa nella stiva insieme a Coulson.
Era come svuotata. Prosciugata da se stessa fin
dalle fondamenta. Come aveva fatto a non accorgersi di quanto era capitato a
Clint? Come era potuto essere così cieca?
I segni c’erano tutti. Il suo sguardo era un grido
disperato.
Perché lo aveva abbandonato? Sarebbe dovuta rimanere
con lui, non permettergli di autodistruggersi. Convincerlo a farsi vedere da
qualcuno. L’ex marito di Melinda May era uno psicologo valido, era una brava
persona e certo lo avrebbe aiutato a rimettersi, a riaversi dallo shock e dal
lutto, dal senso di colpa che lo stava sbranando giorno dopo giorno. Avrebbe
dovuto insistere, perché era ovvio che Clint non stesse bene. Che qualcosa
dentro di lui si fosse improvvisamente spezzato.
Aveva pensato che lasciarlo da solo, come chiedeva
–Ma come i suoi occhi negavano, fosse la soluzione migliore. Che avesse bisogno
di ritrovare se stesso –Clint non era mai stato un santone buddhista, non era
tipo da ritirarsi su un eremo o su di un pinnacolo per meditare, per scovare il
centro del proprio essere, per soffiare sulla fiamma della propria coscienza.
Tuttavia ci aveva sperato.
Anche senza eremo, anche senza pinnacolo, Natasha
aveva sperato che la solitudine avrebbe permesso ad Occhio Di Falco di vedere
di nuovo Clint Barton, e non Loki.
Sperava che si convincesse: non c’era nessuna
divinità asgardiana annidata dentro di lui, a tarlargli l’anima. Una settimana
dopo i funerali, quando era andata a stanare l’amico nel suo alloggio, questi
era in camera –La stessa camera che aveva diviso con Phil, una stanza ora
costellata di segni di pugni e lenzuola stracciate e abat-jour distrutte-
davanti allo specchio.
Ancora vestito del completo nero, ordinato e
grottesco in mezzo a quel caos, teneva gli occhi puntati sul riflesso che lo
guardava dallo specchio. Si guardava e toccava i tratti decisi, la piega della
bocca, pareva disegnargli, riformarli,
imprimendoli sul proprio volto, pigiandoli come si fa pressione sulla creta
perché prenda la forma desiderata.
L’attenzione con cui si osservava fece sbocciare
brividi di angoscia lungo la schiena della donna. Un formicolio alla nuca che
avrebbe dovuto spingerla a farlo retrocedere, nel momento in cui lui le aveva
annunciato l’intenzione di abbandonare lo S.H.I.E.L.D.
Doveva offrirgli supporto e aiuto.
L’unica cosa che era stata capace di offrirgli era
stata l’appartamento di uno dei suoi alias, da qualche parte lungo la costa
Ovest.
“Non è colpa tua, Natasha.”
Le volte in cui Coulson l’aveva chiamata col nome di
battesimo potevano contarsi sulle dita di una mano. In quel momento, sbattuti
in malo modo nella stiva, con polsi e caviglie legate, ricordarsi l’odio che
avrebbe dovuto portare all’uomo davanti a lei era troppo persino per Vedova
Nera.
In fondo, Phil si stava torturando quanto lei. Forse
di più. Lui era scomparso. Era morto e se anche era sopravvissuto non era mai
andato da Clint, non lo aveva salvato. Non era andato da lui, non gli aveva teso
la mano. Non era andato da lui. Non si era mai informato sulle sue condizioni.
Se Phil avesse saputo come stava il compagno,
sarebbe comparso alla sua porta il pomeriggio stesso. Gli avrebbe tirato un
pugno, quindi avrebbe chiuso la porta e il mondo, per una sera, avrebbe cessato
di avere importanza.
Phil era l’aria che Clint respirava. Clint era
l’impulso che faceva battere il cuore di Phil.
Coulson non era mai stato geloso, non di loro. Prima
che la loro relazione si stabilizzasse, Phil voleva la stessa cosa che Clint
voleva da lei: carne. Nessun pensiero. Compagnia di una notte e senza impegno.
Non si erano accorti di starsi cercando l’un l’altro e quando si erano trovati,
Coulson non le aveva chiesto di allontanarsi. Si era scaldato con loro. Natasha
non aveva mai rimproverato il suo amico, quando questi aveva deciso di dedicarsi
anima e corpo soltanto all’Agente: ne era felice.
Era il mondo di Clint, per questo il colpo era stato
così violento. Il cuore di Occhio Di Falco aveva smesso di battere nell’attimo
in cui gli avevano dato la notizia. Vedova Nera non riusciva a perdonargli il
non averla mai smentita.
Ma aveva altro cui pensare, ora.
Il rancore era uno spreco di tempo. Tempo che
sarebbe stato più proficuo usare per elaborare una strategia ed inventarsi un
modo per uscire da lì il più vivi possibile.
Natasha si permise comunque un sorriso beffardo, un
ghigno incolore di scherno.
“Clint chiedeva aiuto e io gli ho dato le chiavi di
casa. Ero talmente occupata a non farmi coinvolgere emotivamente, che non mi
sono accorta di nulla. Ho abbassato la guardia. Ho condannato tutti noi.”
Phil cercò di spostare il peso in avanti, per
esserle più vicino. Quel suo modo tanto famigliare di volerla rassicurare fece
curvare la bocca di Vedova Nera in un’espressione quasi intenerita –E pensare
che la prima volta in cui Coulson aveva tentato una cosa del genere lei gli
aveva tirato un pugno in faccia, intimandogli di stare lontano. Lui e Clint
erano le sole persone autorizzate a cercare un contatto fisico con lei, le
uniche cui fosse permesso di abbracciarla. Toccarla. Raccogliere i pezzi in cui
si era frantumata e aiutarla a rimetterli insieme.
“Ho sempre detestato questo tuo pessimismo
catastrofico.” Torcendo le labbra in una smorfia, l’uomo ignorò l’attrito che
gli aveva morso la gamba ferita, mentre si trascinava ancora un poco verso di
lei.
“Sono russa.”
Natasha provò a muovere i polsi e le caviglie. Niente. I nodi li aveva fatti Clint –O
meglio, Loki usando le conoscenze di Clint.
“Idee, Agente Coulson?”
Phil contrasse la mandibola e Vedova Nera si chiese
se il dolore che gli abbruttiva i tratti fosse per la gamba, o per chi l’aveva
trafitta.
“Ora come ora vorrei solo che arrivasse la
Cavalleria.”
Località Sconosciuta
Cella Di Sicurezza
2011
Era diverso.
Lo capì subito.
L’uomo che entrò con loro, lui non lo aveva mai
visto. I soldati che lo circondavano avevano gli occhi vacui –Gail era stata
l’unica in cui aveva scorto una scintilla di vita e di coscienza, i suoi
compagni nello sguardo avevano solo nebbia e assuefazione, servilismo mentale-,
ma quelli di lui erano vividi. Non maligni come quelli di Marlowe. Gelidi era
il termine esatto, Gli occhi di un uomo che persegue un obiettivo per cui non è
disposto a fare sconti, per cui non guarderà mai in faccia a nessuno. Una
devozione ossessiva per un bene superiore, un’espressione che lui aveva già
visto, contro cui aveva già combattuto in passato.
L’uomo si sedette sulla brandina.
Si vestiva bene, aveva cura di sé, dell’immagine che
voleva passasse ai suoi subordinati. Era basso, molto più basso di lui, ma la
sua figura era compatta, dava idea di solidità fisica e morale. Se anche aveva
dei dubbi sull’anno in cui si trovava, il completo grigio, nella sua foggia e
nel suo taglio, gli fecero capire che era stato catapultato in un mondo assai
distante da quello in cui era cresciuto.
Un mondo di cui non conosceva nulla. Un mondo forse
ostile, un mondo forse amico. Non aveva abbastanza informazioni per deciderlo:
lo avevano tagliato fuori, avevano fatto sì che rimanesse isolato, che non
potesse chiedere aiuto.
Non aveva dubbi. L’ordine era partito da colui che
era appena entrato. Aveva orchestrato ogni cosa. Era venuto a constare le reali
condizioni in cui versava il suo piano, senza intermediari che gli indorassero
la pillola.
Era calmo e lui ne capì immediatamente il motivo:
l’uomo sapeva di aver vinto la partita. Era venuto per informarlo, per dirgli
che non c’era più motivo per lottare. Con ogni probabilità era venuto anche per
godersi la sua resistenza.
Sapeva che lui avrebbe combattuto fino a cadere in
ginocchio, che non si sarebbe arreso di fronte all’evidenza, dinanzi al
fallimento. Lo spettacolo lo avrebbe appagato, si sarebbe sentito un Cesare che
si pasce del sangue dei gladiatori, ben sapendo quanto il loro affannare sia
unicamente un inutile ludibrio.
La sensazione di avere in mano i fili del suo
destino, lui ne era certo, avrebbe fatto saettare nell’uomo una scarica di
piacere tale che non sarebbe stato un eufemismo definirlo il coronamento,
l’apice di quello che aveva architettato e sempre sognato.
Lui lo guardò negli occhi. L’uomo si mise addosso
un’espressione ferina di circostanza.
“Voglio che tu sappia quanto ti rispetti. Quanto tu
sia sempre stato un esempio per me.”
Nelle mani dei soldati, i manganelli furono percorsi
da scariche elettriche. Filamenti bluastri li circondarono, caricando l’aria di
vibrazione e sussurri seghettati, ronzanti.
Mentre l’uomo lo guardava e si tendeva, sospeso nell’attimo
prima che il sipario si alzasse, lui si mise in posizione. Non avrebbe fatto
loro del male. Non erano coscienti o se le erano comunque la loro volontà era
piegata, erano stati sopraffatti da un torpore ammaliante; li avrebbe tenuti a
distanza.
“Sei sempre stato un esempio per tutti noi.”
Zona di Volo Sconosciuta.
Il Bus, Cabina di Pilotaggio
2013
Melinda era consapevole di come il suo comportamento
veniva bollato come cinico. Era consapevole che molti ritenevano il suo voler
sempre andare a fondo di un ordine, il suo questionare se qualcosa non la
convinceva, una mancanza di rispetto nei confronti dei suoi superiori e della
gerarchia dello S.H.I.E.L.D. in toto.
Chissà se la gente era consapevole del fatto che
quanto pensavano di lei, del suo carattere, dei suoi metodi non era più
importante del ronzio di una mosca in sottofondo. Erano discorsi di gente da
scrivania, quelli.
L’unico istinto di cui avevano bisogno era quello
che consigliava loro di che colore usare l’inchiostro per firmare i documenti
da presentare al Direttore.
Il campo di battaglia era un’altra cosa.
L’istinto le aveva salvato la vita. L’unica volta in
cui non lo aveva ascoltato…
Le apparenze ingannano. Il Bahrein le aveva aperto
gli occhi –E intirizzito il cuore.
Forse era a partire da quel momento che il suo
atteggiamento da bastian contrario, come lo aveva ben poco professionalmente
chiamato Andrew, era andato peggiorando. Non era ancora un comportamento
paranoico a livelli patologici –Prima che la loro relazione affondasse
definitivamente, Andrew le aveva assicurato che su quel piano poteva stare
tranquilla: non c’era nessuna tendeva al complottismo, nella sua psiche. Si era
soltanto…Appuntita. Come una lama. Anche la sua fiducia era diventata fredda e
calcolatrice. Aguzza.
L’ordine di tornare al Triskelion rientrava nelle
categoria di situazioni da Puzza di
bruciato. Come uno smottamento sottopelle, un pizzicore di brividi che le
risaliva braccia e spalle.
Qualcosa non andava in quell’ordine, diramato in
quel momento in cui Coulson nemmeno era con loro. Non le riusciva di incastrare
mentalmente i pezzi del puzzle.
Ward aveva tentato di chiarire i suoi dubbi. La
chiamata straordinaria aveva a che fare con quanto era successo a Tony Stark:
la minaccia mondiale del Mandarino aveva bisogno di essere debellata
utilizzando il maggior numero di risorse a disposizione. Soprattutto ora che,
con la morte di Fury, lo S.H.I.E.L.D. stava collassando.
L’assenza di Coulson, aveva continuato Ward, avrebbe
permesso anche a loro di partecipare alle operazioni, se fosse stato necessario:
Phil non voleva in alcun modo che i Vendicatori venissero a conoscenza del suo
ritorno, quindi avrebbero potuto intervenire in caso di necessità senza
trasgredire l’ordine del loro superiore.
Perché tornare al Triskelion? La convocazione era
stata perentoria e generale. Dovevano essere date le linee guida, le linee di sicurezza,
decise le modalità di azione.
Il discorso di Ward era stato preciso e
professionale, senza giri di parole. Come ci si aspettava da uno Speciliasta.
Si era solo dimenticato un minuscolo particolare:
erano gli unici a sapere dell’assenza di Coulson.
E Melinda si era ben guardata dal farglielo notare.
Ora rimaneva da capire cosa stesse succedendo fuori
delle lamiere del Bus. Fury era morto, la linea preferenziale per comunicare
con lui inutilizzabile. Maria Hill non le aveva fatto sapere nulla, aveva
interrotto ogni contatto. Non c’era nessuno, ora, di cui potersi fidare
all’interno dello S.H.I.E.L.D.: l’unica possibilità era stringere un’alleanza
con qualcuno che con lo S.H.I.E.L.D. non avesse nulla a che fare.
Skye era la candidata perfetta.
Coordinate Sconosciute.
Velivolo dello S.H.I.E.L.D.
2013
Se avesse avuto ancora il controllo del proprio
corpo, Clint si sarebbe scagliato a strappare quel ghigno indolente dalla
faccia di Garret. E gli avrebbe anche tirato un pugno, tanto che era nelle
spese.
John Garret fece un cenno del polso, perché i suoi
schiavetti li lasciassero soli. La cabina fu presto svuotata e nonostante la
ampie dimensioni, Occhio Di Falco si sentì soffocare Le lamiere laccate di
finto legno, le poltrone, persino le luci al neon appese sulla parte superiore
della carlinga gli stavano premendo addosso, si alleavano per schiacciarlo, per
stritolarlo.
Era molto probabile –Anzi, era quasi del tutto
certo- che ci fosse lo zampino di Loki. Il bastardo non lo aveva degnato di uno
sguardo, non gli aveva nemmeno rivolto la parola: Clint aveva tentato ogni
stratagemma per richiamare la sua attenzione, per recuperare le redini del proprio
corpo, ma era come se l’Asgardiano non lo vedesse. Al contrario di quando era lui a voler essere notato, Loki non
faceva piega e non dava il benché minimo segno di accorgersi della sua
presenza.
Sapeva esattamente che, se gli avesse rivolto il più
infinitesimale sguardo, si sarebbe creata una connessione tale da dare al
Vendicatore la possibilità di ribaltare la situazione e riprendere possesso di
membra e coscienza.
“Come dovrei chiamarti?”
Clint corrugò la fronte, mentre Loki curvava le
labbra, deliziato. Garret, intento a versare del vino rosso in due calici,
aveva proferito quella domanda con naturalezza disarmante: per lui era stato
logico chiedere con chi stesse parlando, quasi avesse trapassato con lo sguardo
l’incanto che mascherava Loki agli occhi dei mortali.
“Come lo hai compreso?” la voce dell’Asgardiano,
alle orecchie di Clint era suonata viscida e serpentesca. Gli faceva
accapponare la pelle. Si chiese se la gente al di fuori di quella situazione
paradossale sentissero la stessa tonalità altezzosa, lo stesso accento da
signorotto. Se rimassero incantati dal suo timbro carezzevole a suo desiderio e
a suo desiderio ripugnante, tale da ghiacciare le ossa.
Garret si concesse una mezza risata. Passò il calice
a Loki, che lo prese con quelle sue dita eleganti, lunghe, bianche contro il
cristallo brillante del vetro. Il Vendicatore vedeva tutto quello, vedeva
quanto fossero sbagliati i gesti, la cadenza e la forma delle parole, i
movimenti dei polso, la posizione delle gambe, ma gli altri lo vedevano?
Percepivano la nota stonata che proveniva dal suo corpo? Il sussurro gelato che
scivolava dalle labbra nobili? Lo capivano che di Clint, davanti a loro, c’era
unicamente un costume di pelle e di carne?
“Ho studiato molto e guardato molti video e
ascoltato molti resoconti.” John si accomodò sulla poltrona di cuoio in fronte
al divano dove si era posizionato Loki –Con un abbandono regale, languido, di
superiorità incontrastata “Occhio Di Falco è tutto il contrario di quello che
sei tu, in questo momento. Con chi ho l’onore di parlare?”
“Loki, di Jotunheim. Legittimo sovrano di Asgard,
sebbene il mio trono sia tuttora occupato da chi non ritiene ne sia degno.”
L’uomo non mostrò alcuna sorpresa, né reverenza a
quelle partole.
Clint si accorse che la cosa aveva procurato una
certa irritazione in Loki: c’era stata una vibrazione nell’aria, un mormorio
iroso che aveva smosso la carlinga, un’interferenza nell’atmosfera e nella
situazione, nella bolla di ovatta un cui si giocava a scacchi il destino del
mondo.
“Avverto un tremito nella Forza.” Sogghignò Occhio
Di Falco –Con sommo compiacimento, avvertì l’attenzione di Loki posarsi un
istante di troppo su di sé, disprezzando l’arroganza e l’indisponenza per cui
era famoso praticamente dappertutto.
“E che cosa vuole Loki, di Jotunheim, al punto di
prendere il possesso di un agente dello S.H.I.E.L.D. e mischiarsi ai comuni
mortali?”
Il tono che Garret aveva usato era ironico, di puro
scherno. Il fatto che Loki fosse disposto a passarci sopra e a fare finta di
nulla, anzi, a sorridere con condiscendenza, mise Occhio Di Falco in allarme.
Il sorriso di Loki era un sorriso malefico, che era certo non fosse apparso sul
proprio volto –O che comunque fosse stato smorzato dai lineamenti rigidi e
severi, camuffato per somigliare ad un’espressione divertita. Aveva concesso a
Garret un ghigno ilare, quasi amichevole, da vecchi compagni di bevute, perché
Garret stesso pensasse di aver messo l’Asgardiano di parità sociale –Dove John,
comunque, si credeva un po’ più pari di lui.
“Un patto.”
“Un patto?” ora l’uomo era interessato e aveva
tralasciato qualsiasi strategia psicologica gli avessero mai insegnato in
situazioni simili “Che tipo di patto?”
“Uno di quei patti in cui si vince entrambi.”
“Dubito.” Fu il commento sarcastico di Clint. Commento
ovviamente caduto a vuoto.
Loki accavallò le gambe e Occhio Di Falco pregò
ardentemente che non avesse fatto la stessa cosa col proprio corpo. Asgardiano
o non Asgardiano, si sarebbe seppellito piuttosto che mettersi in una posizione
alla Basic Instinct.
“Ti ascolto.”
“Da quello che ho compreso.” Cominciò Loki,
osservando il riflesso borgogna del vino, trafitto dalla luce che saettava dai
finestrini della carlinga “Il vostro scopo è il mondo, non è vero?”
“Più o meno.”
“Per farlo, avete bisogno di un esercito.”
“Che già possediamo.”
Al che, Loki piegò vezzoso il collo all’indietro,
ridendo di cuore. Un suono che fece tremare le ginocchia di Occhio Di Falco.
Cristo, faceva una paura fottuta.
“Forse vi serve più potente. Forse vi servono i
Chitauri. O gli eserciti degli altri Regni.”
I Chitauri…?
“Tu non hai i Chitauri, Loki. Non li hai.” Clint
ebbe un istante di panico e spaesamento. Si affrettò a schiarirsi la gola,
sperando che la sua frase non avesse avuto il suono di un piagnucolio
infantile.
La Nave Madre dei Chitauri, la loro coscienza
collettiva era stata distrutta. Tony ci aveva quasi lasciato la pelle, però era
stata distrutta. Ne era sicuro. Era lì. Aveva visto il gorgo esplodere e il
corpo di Iron Man fiondarsi in picchiata verso la morte.
“Non posso fare a meno di notare quanto le tue, al
momento, siano solo parole. Sei soltanto uno spiritello dentro uno schizofrenico
Barton.”
“Garret ha centrato il punto.” Clint avvertì un
formicolio e la sensazione di avere qualcosa di non troppo dissimile da gambe e
braccia.
Provò ad alzare la mano e vide che aveva dita da
flettere, polpastrelli con cui toccare, persino una bocca con cui parlare. Loki
lo stava ascoltando. Loki, Lingua D’Argento, Signore delle Malefatte, in fondo
doveva servirsi di lui per muoversi nell’intricato labirinto diplomatico dello
S.H.I.E.L.D.
Pur sorvolando sulla cosa dello schizofrenico, Clint
si disse che Garret, nonostante fosse un pazzo egomaniaco con una forte
tendenza al controllo dittatoriale, gli aveva dato una buona occasione per
tornare in carreggiata.
Il Vendicatore si avvicinò quindi al divano dove era
seduto Loki e si sedette a cavalcioni del bracciolo di cuoio.
“Mi serviva un tramite.”
“Per venire qui?”
“Per portare voi ad Asgard.” Loki ghignò, era il
serpente che si attorcigliava la vittima prima di soffocarla “Venite ad Asgard.
Datemi il trono che mi spetta e vi consegnerò Midgard su un piatto d’argento.”
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Capitolo 12 *** { Sono già in caduta libera ~ File 11} ***
ood11
{ Sono già in caduta libera
~ File 11}
Sulla Strada Per il Tennessee
Autostrada
2013
Alla radio trasmettevano Arms, di Christina Perri. In una situazione differente sarebbe
stato un sottofondo perfetto per qualcosa di ben più intimo –Intimo? Doveva avere le sinapsi ridotte a
scoppiettante pop corn- una di quelle situazioni che ricalcavano la scena
di una commedia romantica, col protagonista al volante che racconta, ma non ha
parole da far uscire, è tutto sottinteso, tutto lasciato all’immaginazione
dello spettatore; e c’è lei, illuminata dal sole o da un pomeriggio autunnale,
che guarda avanti e ride, gira gli occhi su di lui, una sintesi perfetta di
complicità e armonia.
Quante ne ha viste, di sciocchezze simili, con
Pepper? In realtà nessuna. O forse una, di sbieco, mentre si occupava di
stilare la lista di qualche componente per una qualche invenzione di qualche
importanza. La musichetta melodica, strimpellata da una voce al dolcificante,
gli arrivava all’orecchio sotto forma di tintinnaboli cinguettanti e non vi
aveva mai prestato viva attenzione: li aveva accantonati in una parte recondita
del cervello, dove prendevano polvere gli scatoloni coi ricordi di Peggy e di
Jarvis, dell’infanzia in collegio, del cibo ungherese di Hanna.
Forse, gli sovvenne il pensiero, avrebbe dovuto
avere maggior considerazione per quei film dalle tinte color miele. Non tanto
per il loro dubbio gusto, né per la trama infarcita di crema e panna, bensì
perché guardarli significava essere seduto sul divano con Pepper accanto e un cartone
di pizza e un commento sarcastico sulle labbra. Avrebbe significato essere normale, una volta tanto, anche per soli
novanta minuti. Normale e senza grilli per la testa, senza supercattivi da
combattere, senza cose da costruire, senza vita da riparare, da sistemare col
nastro adesivo per darle una parvenza di solidità.
E anche se era Happy a fare gli occhi dolci a
Pepper, non importava. Anzi, Happy poteva stare con loro, gli piacevano quei
filmetti allo zenzero, avrebbe fatto la
mossa e…
Happy è morto.
La consapevolezza arrivò simile allo schianto di un
camion contro un calesse. Lui, ovviamente, era il calesse: antiquato e
sgangherato, ridicolo dinnanzi alla crudeltà della vita, inutile al
rumoreggiare e stridere di ruote e asfalto, dei nemici che guadagnavano terreno
e lo ghermivano nella notte, peggiori di un incubo –Peggiori perché non erano un incubo, erano reali e non sarebbero
scomparsi all’avvicendarsi del mattino.
Happy è morto. E anche
Rhodes. E adesso sono qui, in una macchina presa in prestito
insieme ad un Agente di Livello Sei e cerco di salvarmi la vita nell’unico modo
che mi riesce –Improvvisando.
“Dovresti dormire, non arrovellarti su pensieri che
ti tolgono sonno ed energie.”
Non è la prima volta che Colin gli fa la paternale.
Ma è la prima volta che la paternale assomiglia ad
un ordine da campo di battaglia. Della serie: Se non dormi, soldato, non sarai pronto per l’arrivo dei crucchi e
allora ci ritroveremo i crauti in posti decisamente poco piacevoli.
“Pensa a guidare, Hendrick, e dimmi se ti serve il
cambio.” Tagliò corto Stark, piccato.
È un fatto personale, con lui, una scaramuccia di
proporzioni belliche epocali. Tony non ha intenzione di dimenticare il suo
insulto tanto presto –E concentrarsi sulla ripicca contro l’Agente, su quanto
gli abbia fatto rodere lo stomaco e abbia costituito uno schiaffo imperdonabile
al suo io-bambino-che-legge-in-un-angolo lo aiuta ad allontanare la testa da un
mondo troppo da adulti consapevoli
perché gli possa piacere.
“Non sento la fatica.” Gli ricordò l’altro “Guiderò
io per tutto il tragitto. Tu hai bisogno di riposare, io di un caffè di tanto
in tanto.”
“Guarda che
non serve fare l’ubermensch. Non hai
la Hill e nemmeno il vecchio pirata Fury da impressionare per avere una
stellina in più sulla lista degli Agenti buoni. Fury è morto, bellimbusto, lo
S.H.I.E.L.D. è stato rivoltato come un calzino e tu sei soltanto un innocuo,
ingenuo, patetico reietto che cerca di darsi un tono, fingendosi più grande di
quel che è.”
Quant’era facile ferire gli altri. Irrobustire il
dolore, farne una lama, un coltello da affondare più e più volte contro gente
innocente, contro gente abbastanza coraggiosa da affrontare la sofferenza, da
sobbarcarsene il peso sulle spalle senza recriminare, senza cedere –Senza
cercare un colpevole, consci che l’unica cosa utile in certe situazioni è la
necessità di mettere sempre un piede davanti all’altro.
“L’innocuo, ingenuo, patetico reietto sta anche
cercando di salvarti la vita” E d’improvviso, sotto la sferza degli occhi
azzurri di Colin, Stark avvertì il morso della vergogna sbranargli lo stomaco,
togliergli il fiato, recidere e strappare il respiro dai polmoni “Non c’è di
che.”
Il magnate abbassò lo sguardo –Chi mai era riuscito
a tanto?- e riacchiappò in silenzio il fumetto comprato alcune ore prima alla
stazione di servizio. Lo aveva afferrato con la stessa voracità di un bambino,
attirato dai colori sgargianti in puro stile anni ottanta, dalle inconfondibili
stelle e strisce, dallo scudo in bella vista che pareva fendere l’aria nella
sua direzione: una vecchia perla, apparsa come una pura epifania divina, cui
Stark si era aggrappato con trasporto da vero fedele.
Hendrick aveva inarcato le sopracciglia, quando lo
aveva appoggiato sul rullo untuoso della casSa, uno sguardo confuso, perplesso,
a tratti non si capiva se infastidito o meno dalla presenza della carta
stampata in mezzo alle merendine, ai fazzoletti e altre millanta porcherie a
poco prezzo prese per il viaggio fino in Tennessee.
Ed era stato proprio il fumetto il motivo della loro
litigata –Litigata, che vocabolo da
vecchia coppia di sposini che si contende il telecomando-, il casus belli. Le continue occhiate
lanciate da Hendrick al fumetto, mentre Tony lo leggeva attento contro le ginocchia
–Una posizione abbastanza scomoda, ma Agente Perfettini gli aveva già
rimbrottato la mania di mettere i piedi sul cruscotto gnè gnè gnè-, lo avevano stizzito alquanto.
Che c’è?
Mi chiedo come tu
faccia a leggere quella porcheria, aveva sibilato Colin, con malcelato disprezzo, le labbra strette in un
cordone stretto e rancoroso.
E’ Capitan America,
Hendrick. Tutti leggevano Capitan America, quand’ero bambino. Tu no? Non che la
cosa mi stupirebbe, si intende.
No. Non lo leggevo. E’
soltanto propaganda.
Scelta di parole sbagliata. Se anche aveva
cominciato a provare una certa compatibilità
emotiva dovuta alle circostanze contingenti nei confronti di Colin, lo
sconsiderato commento rivolto al suo idolo lo aveva depennato dalla lista di
coloro cui far mandare, ad opera della
santa Pepper, gli auguri di Natale.
Non parlarono per lungo tempo.
Cominciò a nevicare e volteggii e sbuffi bianchi
rotearono loro intorno; dai bocchettoni della macchina ruggì un boato di aria
calda, in netto contrasto con la patina argentea che si arrampicava pian piano
sui finestrini.
Nessuno dei due avvertiva il bisogno di parlare.
Entrambi, considerò Stark, erano troppo esausti. Pensare, cercare un contatto
umano abbisognava di energie che non potevano permettersi di spendersi: la
solitudine era l’unica compagnia cui affidarsi, cristallizzando il mondo in un
attimo che non era prima e non era dopo, dove il passato scompariva sotto il
manto nevoso ed il futuro era impossibile da intravedere oltre i vetri
appannati.
Un’insegna attirò l’attenzione del magnate, che
chiuse il fumetto e pulì il finestrino con la manica.
“Fermati!” intimò all’altro “Fermati subito!”
Il Texaco T, come recitava il traballante cerchio di
metallo posto sopra il parasole gravido di neve, era una sottospecie di minimarket
pseudo messicano, una struttura dismessa, un rettangolone di muratura sgraziato
che le lampeggianti lucine natalizie rendevano grottesco e ridicolo. A Tony non
interessava la merce in scadenza all’interno, né le grandi occasioni
sponsorizzate da tranci di scatoloni aperti alla meglio su cui campeggiavano
scritte in pennarello indelebile, bensì
la cabina telefonica, quel relitto
dei tempi andati, l’armadio preferito di Superman, la sua ancora di salvezza.
L’orlo dei pantaloni si inzaccherò di neve nel
correre verso l’affare di vetro lurido e le mani, a contatto con la cornetta
gelida, si riempirono di brividi; con Hendrick a fare da palo, intabarrato in
una giacca gonfia di imbottitura, ed un indiano di legno che osservava con
occhi vuoti le profondità dell’infinto, il magnate digitò veloce alcune cifre
ed attese lo scatto dall’altra parte della cornetta.
“Pepper sono io.” Esordì, la voce resa incerta dal
freddo e dalla linea altalenante “Non ho molto tempo. Perciò, innanzitutto,
perdonami per averti messo in pericolo. Sono stato un egoista e uno stupido,
non accadrà più. Inoltre è Natale e…Avevo preso un regalo. Happy aveva preso un
regalo.” Si corresse “Un coniglio.” Un sorriso stanco “Enorme, Pepper. Grosso,
troppo grosso. L’ho consigliato io ad Happy. E’ a casa. Dovevi entrare, di
ritorno all’ospedale, e vederlo lì e Happy avrebbe…” un groppo alla gola, un
cappio a lutto a serrare la carotide “Devi anche perdonarmi perché non posso
tornare. Devo trovare questo tipo. Tu devi stare al sicuro, so solo questo. C’è
anche Agente di Livello Sei, qui con me. Saremo al sicuro. Non temere.”
Fuori il vento gli trapassò il costato, violento, lo
ghermì di neve, di ghiaccio. Colin si spazzolò i capelli biondi con le dita,
per far cadere i fiocchi incastrati tra le ciocche; alzò la testa e il sorriso
rassicurante che gli rivolse, insieme al poncho preso in prestito, come gli ricordò, dall’Indiano di legno fu
abbastanza per compiere il primo passo e mettere un piedi davanti all’altro.
Da qualche parte, Queens
Marciapiede
2013
Dalla casa proveniva il profumo famigliare di una
torta, lasciata a raffreddare sul davanzale. Murdock non la vedeva, tuttavia ne
percepiva la consistenza, la durezza fragrante della crosta a contatto con
l’aria, il respiro morbido dell’impasto e del ripieno gonfio, denso di
marmellata di more. Sapeva anche a chi apparteneva, quel prodigio culinario: il
canto mormorato a mezza bocca, scivoloso tra le rughe delle labbra; la spuma
del sapone per piatti che inanellava le dita affusolate e forti, nonostante gli
anni; il tintinnio degli orecchini contro il lobo ed il principio della gola,
quando piegava la testa…
“Buongiorno, May.”
Un sussulto di sorpresa, un gemito della ceramica
all’impatto improvviso con la spugna ruvida. La finestra, al piano di sopra,
che si apriva ed un cuore in allerta, che batteva e batteva e batteva e
rimaneva guardingo. Mani strette alla balaustra, presa salda, oltre il limite
umano, il propagarsi catarroso di crepe all’interno del cemento –Peter Parker
era appena accorso per capire il perché della visita di Matt Murdock ed il suo
allegro rivolgersi alla zia.
“Matt, caro!” esclamò la donna e l’avvocato si fece
sfuggire un sorriso, genuino, spontaneo alla sua voce sinceramente cordiale
“Che piacere vederti.” Frullare di pelle e tessuto, May si stava asciugando le
mani in una pezzuola ruvida, ancora impregnata da precedenti lavaggi e lavori
domestici “Qual buon vento ti porta qui da noi?”
“Lavoro, May. Il ragazzo che devo difendere dovrebbe
abitare da queste parti, ma non mi riesce di trovarlo. Mi chiedevo se…”
“Ma certo che ti aiuto Matt, caro.” Lo prevenne May,
senza nemmeno dargli il tempo di finire la frase “Dove dovrebbe abitare questo
giovanotto?”
“A Cypress Avenue.” Rispose l’avvocato, appoggiando
il palmo della mano sinistra sul dorso della destra, ancorata al bastone bianco
“Si chiama Colin Hendrick, lavora per un market indiano qui vicino. Il suo
appartamento dovrebbe trovarsi al numero ventisei, non poco distante dal
Cascada.”
Un lieve tentennare –Perplessità, dubbio- percepì il
collo di May tendersi per un attimo, segno che quanto gli era stato appena
detto non rientrava tra le sue conoscenze contingenti.
“Ci deve essere un errore.” Disse infatti la donna
“Quel palazzo è sfitto da anni.”
Rosehill, Tennesse
Strada Principale
2013
Rosehill si presentò ai loro occhi sottoforma di un
filare di palazzetti tracagnotti, campagnoli, tutti uguali a se stessi e
intervallati di tanto in tanto da un bar o da una drogheria, un unico negozio
di scarpe e vestiti, un sarto, un market che vendeva ogni cosa, dal terriccio
al sapone per le mani. Le macchine erano per lo più camioncini scrostati,
stracolmi di robaccia per i campi e attività manuali di sorta; gli uomini
indossavano per la maggior parte camicione a scacchi, erano per la maggior
parte baffuti e indossavano, per la maggior parte, stinti cappellini con
visiera. Le donne avevano addosso magliette sformate, trafugate da qualche
outlet che metteva tutto a due dollari, e macchiate lì dove si era staccata più
di una manciata di lustrini e paillette; i capelli di molte di loro erano
stoppie incollate da polvere e neve, poche, invece, avevano cercato di
agghindarsi e acconciarsi come insegnava una rivista di moda vecchia di almeno
cinque anni.
Tony affondò le mani in tasca, soffiando via un
refolo di fiato condensato; Colin, al suo fianco, indicò una rientranza nella
via, uno spiazzo rettangolare illuminato a giorno dai bagliori sussurranti
delle candele; sciogliendosi, la cera era colata fin sull’asfalto, bianche,
sempiterne lacrime a memoria della tragedia. L’asfalto divelto si apriva sotto
le croci e le cornici simile ad uno spruzzo di schiuma cementificata; filoni di
fiori grassocci, finti, dai colori spenti tempestavano l’intorno, cingendo la
zona in un cordone di petali stinti e corolle a poco prezzo.
Colin superò Tony in silenzio, per andare ad accovacciarsi
davanti a quell’altarino popolare che ancora sapeva di cenere e carne
maciullata. Socchiuse gli occhi chiari e le candele disegnarono strani riflessi
nel suo sguardo fattosi improvvisamente lontano.
Stark si morse la lingua prima di chiedergli cosa
gli fosse preso, anche perché la sua voce dovette lasciare il posto al pigolio
curioso –E finanche guardingo- che giunse dietro di loro.
“Siete qui perché vi piace il turismo nero?”
Hendrick girò la testa, sorridendo da sopra la
spalla.
Il bambino, imbacuccato in una felpa più grande di
lui, mise su l’espressione più sospettosa del suo repertorio, con labbro sporto
e sopracciglio destro inarcato compresi nel prezzo; somigliava ad un buffo
ammasso di grigio e marrone, convinto di sembrare più grosso di quel che era,
con la sciarpona di lana grossa e i guanti senza dita –Fuori dall’orlo, la
pelle era arrossata dal freddo e dal nevischio scioltosi sui capelli castani.
“Qual è la
versione ufficiale?” gli chiese l’Agente, alzandosi in piedi e facendo un cenno
a Tony perché si mettesse più in ombra. Erano in un paesello dimenticato da Dio
nel Tennesse, certo, ma non era comunqueo una ragione valida per essere meno
prudenti.
“Una fuga di gas.” Il bambino si allontanò di un
passo, non appena Colin piegò il ginocchio a terra per essere alla sua stessa
altezza. Probabilmente odiava il comportamento semi-paternale degli adulti nei
suoi confronti, a Tony non occorse molto per capirlo. Riconosceva anche un paio
di comportamenti di quando era in collegio…
“Tu sei Tony Stark?”
“No, non lo sono.” Ribatté il magnate, schiarendosi
la gola e calcando meglio il cappello con la visiera sulla fronte “Affatto.”
“E tu chi sei?” gli chiese Colin, spostando per una
frazione di secondo l’attenzione del bambino su di sé “Vuoi dirci come ti
chiami?”
“Harley.” Rispose il piccolo, tendendo il collo per
osservare meglio Tony da oltre le spalle dell’Agente “Lo sai che i giornali ti
hanno dato per morto?” lo informò.
“Sì, i giornali dicono cose come questa, in assenza
di notizie migliori.”
Colin permise ad un sorriso di trasparire sulle
labbra –Sorriso che contagiò anche Harley, diamine,
pensò Tony, quell’uomo è un genio della manipolazione.
“Cos’è successo?” chiese ancora, una volta che
Harley ebbe di nuovo gli occhi nei suoi “E’ importante.”
“Dicono che questo tipo abitasse qui intorno.” Il
bambino scrollò le spalle, aggirò Hendrick e andò a sedersi dinanzi al cerchio
di luci. L’alone bianco-argenteo filò striature e carezze e bagliori tra le
ciocche un tempo tagliate a scodella ed ora un mero guazzabuglio di nodi; gli
occhi, intelligenti e vivi, ruotarono per cercare le figure di Stark e di
Hendrick nel momento in cui essi gli si accomodarono accanto “Aveva vinto un
sacco di medaglie nell’esercito. La gente dice che un giorno è impazzito e ha
fatto, sai…” fece un gesto con le mani, un incrocio tra una palla da rugby e una
sfera un po’ storta “Una bomba. E si è fatto saltare in aria. Qui”
Colin scosse piano la testa, drizzandosi in piedi.
Tony non disse una parola, non emise suono, e studiò i suoi occhi, il suo
sguardo, la tensione della mandibola nello sfiorare a punta di dita le ombre
nere impresse sui muri di mattoni –Istantanee di morte, macabre polaroid che
avevano catturato l’ultimo respiro di persone la cui sola colpa era stata
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
“Sei persone morte, giusto?” domandò Hendrick,
lasciando cadere la mano e girandosi appena a guardare il bambino “Sei. Non
cinque. Sei.”
Harley annuì.
“Sì.”
La mente di Stark volò immediatamente al
ragionamento che Colin aveva formulato, guardando le ombre. Tra le sei vittime
era annoverato lo stesso autore della tragedia, il che voleva dire…
“Pensaci.” Tony si voltò verso il piccolo, la cui
espressione rifletteva in maniera assai eloquente la sua perplessità “Sei
morti. Solo cinque ombre.”
“Sì, ma…” Harley si strinse nelle spalle –Probabilmente,
da come abbassò gli occhi, non credeva nemmeno lui alla replica che stava per
fare “Dicono che le ombre sono i segni delle anime salite in cielo. Tranne che
per l’uomo-bomba, lui è finito all’Inferno perché non è rimasta la sua ombra.
Per questo sono solo cinque.”
“E tu ci credi?”
“E’ quello che dicono.”
Era un bambino, in fondo, e la tragedia, salvo che
per pochi, era unicamente una fonte inesauribile di trafiletti sui quotidiani,
di servizi televisivi a cadenza mensile, interviste pilotate, gente mai vista
che si faceva ritrarre davanti alle ombre. Se i grandi dicevano che le ombre
erano i segni delle anime, cosa gli importava? Non avrebbe cambiato la sua
vita, qualunque essa fosse. Era una nota a margine, un qualcosa da tirare fuori
qualora si fosse ritrovato nella situazione in cui, durante un discorso, il suo
interlocutore avesse ricordato il nome di Rosehill soltanto per l’eco della
tragedia.
“Sai cosa mi ricorda questo cratere…?”
Tony colse il rizzarsi delle spalle di Colin, un
fiotto di azzurro nella penombra delle candele, ma fu troppo occupato a
contenere lo spasmo sofferente ai polmoni per accorgersi di come l’Agente si
fosse prontamente messo in allarme al vago accennare del bambino agli eventi di
sei mesi prima.
“Non ne ho idea.” Borbottò Stark, avvertendo la voce
mancare e le parole farsi balbettanti “E non—Non mi interessa.”
Ma Harley, estatico, desideroso di sapere, di
conoscere, di ascoltare da uno dei diretti interessati, reclinò la nuca
all’indietro e alzò le braccia al cielo, le allargò per dare l’idea dello
squarcio che si era nel cielo della Grande Mela.
“Quel gigantesco portale a…” rise, lo sguardo
luminoso ed eccitato “A New York! Lo ricorda anche a te?”
Uno. Due. Tre. Quattro. Per ogni respiro Tony aveva
cominciato a contare un numero, perché la mente si allontanasse dal fiato
affannato ed ogni numero era un cerchio che il dito scavava sulla tempia,
perché il cervello andasse in loop e silenziasse l’estasi di Harley, facendo
tacere il rombo devastante che gli stava frantumando le orecchie e torceva i
polmoni e disintegrava la trachea.
“Non ne voglio parlare.”
“Ritorneranno?” impossibile frenare la curiosità di
un bambino, era una valanga di sensazioni ed emozioni e ricordi e immagini e
ruggiti ed esplosioni lampi scrosci urla sangue boati fiamme fuoco vuoto vuoto
d’aria vuoto nel petto vuoto pneumatico oltre lo spazio vuoto vuotovuotovuoto v
u o t o “Gli alieni.”
“Forse.” La voce rapida il respiro rarefatto nella
trachea “Non…”
“Questo argomento ti mette a disagio?”
“Non lo so posso prendere fiato un secondo---?” come
se fosse facile, come se l’aria potesse davvero arrivargli ai polmoni, come se
davvero potesse respirare –Ma non era facile l’aria non arriva ai polmoni non
poteva respirare non poteva non poteva.
“Ci sono cattivi a Rosehill? Ti serve una busta di
plastica per soffiarci dentro?”
Respira. Respira. R e s p i r a.
“Prendi medicine?”
“No.” La voce che balza alla bocca, un singhiozzo
disperato, un urlo acido ricacciato a forza nell’esofago.
“Dovresti prenderle?”
“Probabile.”
“Hai lo stress post-traumatico?”
“N—“
“Stai diventando completamente pazzo?”
Sì. No. Forse. Non sono pazzo. Forse lo sono. Forse
la pazzia è umana e io non sarei umano se non fossi pazzo e pazzo è questo
mondo e questo mondo è normale e pazzo è ciò che è successo e sarebbe da pazzi
non esserne sconvolti e sarei pazzo se non lo fossi e forse pazzo è normale è
normale la pazzia in un mondo pazzo dove nulla c’è che non lo sia---
“Vuoi che la smetta--? Posso smetterla se vuoi!”
“Mi mandi fuori di cervello---“
Click. No, click non rendeva l’idea, no. Era un rumore troppo infinitesimale.
Troppo parodistico. Gli ingranaggi si scardinarono con un boato metallico di
dentelli, le viti si disarticolarono in ogni loro più minuscolo componente che tlingtlangtlong andò a cozzare contro le
pareti del cranio e si rovesciò nel cuore una cascata di fitte e scariche
allucinanti che abbagliarono gli occhi e scoccarono un unico, salvifico,
ossessivo ordine nella sua testa Fuggi
scappa fuggi corri voi mettiti in salvo corri corri corri fuggi corri scappa
corri corri scappa scappa scappa scappacorrifuggi---Un corpo caldo, nel
gelo che irretisce le ossa. Battito cardiaco armonico, regolare, che dà il
tempo, che scandisce il respiro, cadenzato nel ronzio ovattato e anestetizzato,
vibrante del cervello. Un contatto umano, nella girandola animale di pensieri
sconnessi, un punto saldo nella realtà che si sfalda e si sfascia e si sgretola
e schegge di cielo che si staccano dalla volta dell’universo e si frantumano e
spuma di stelle che rovente brucia i bordi del Creato.
La mia armatura mi serve la mia armatura la mia
armatura la mia armatura la mia armatura metallo freddo metallo calotta guscio
guscio dove nascondermi calotta da cui rinascere protezione difesa attacco
nascondiglio fuoco e ghiaccio la mia armatura la mia armatura non ti serve
l’armatura Tony cerca di respirare cerca di prendere fiato concentrati su di me
concentrati sulle mie parole non ti serve l’armatura l’armatura è ciò che mi
tiene lontano dal mondo anche se sono circondato niente piò ferirmi niente ti
ferirà qui Tony sei al sicuro concentrati su di me qui nessuno vuole farti del
male dentro l’armatura sono protetto ma qui ti proteggerò io ci sono io al tuo
fianco non ti devi preoccupare devi soltanto respirare respirare
respirarerespirarerespirare r e s p i r a r e r
e s p
i r a
r e.
Colin lo aveva fatto sedere e Tony nemmeno se n’era
accorto. Ne prese coscienza riemergendo dal panico, dalla confusione che aveva
ovattato i pensieri e, come una pressa, stretto il suo corpo fino a far
scricchiolare le ossa, inaridire il sangue nelle vene. Cominciò a tossire,
perché l’aria era fredda nella gola e non si aspettava di ingoiare un fiotto
tanto veloce tanto in fretta tanto improvvisamente, aveva dimenticato per secondi
eterni cosa significasse respirare e che si dovesse fare. L’ossigeno aveva il
sapore della neve, ma era rancida quanto la paura e divenne acido nello stomaco
e corrose l’intestino, sbranandolo a poco a poco.
Tony artigliò una manata tremante di neve e la gettò
contro Harley, non essendo in grado di formulare un’accusa più articolata di
quella. Si avvide poi delle dita di Colin sulle spalle, sulle braccia che
sfregava e frizionava per riattivare la circolazione, del torace che gli
premeva sulla schiena, del suo fiato che gli rizzava i peli sulla nuca.
“Il tipo che è morto.” Tony, in un moto di stizza,
spintonò via Hendrick, nonostante l’aiuto che gli aveva dato per riprendersi,
nonostante la mano tesa con cui lo aveva appena rimesso in piedi –Il freddo alle
membra non si acquietò, i brividi della debolezza sghignazzarono lungo la spina
dorsale “Parenti? Una madre? La signora Davis dove sta?”
Harley si grattò il naso con la manica della camicia
a scacchi che teneva sotto il giaccone; pensò un poco alla cosa, valutando la
distanza a spanne.
“Dove sta sempre.” E Colin non poté impedirsi di
girare gli occhi al cielo e far arrivare le sopracciglia direttamente al
principio della fronte.
“Visto.” Sebbene ancora livido in volto e col fiato
mozzo, Tony annuì in una approvazione a bocca spalancata –Unicamente, però, per
ossigenare cuore e cervello “Ora sei di aiuto.”
Cypress Avenue, Queens
Appartamento di Colin Hendrick – O supposto tale.
2013
“Tana per il Diavolo.”
Matt se lo aspettava. Non era andato a casa di May
Parker con l’unico intento di parlare con la vecchia zia: gli interessava anche
e soprattutto lanciare l’esca, attendendo con pazienza che il Ragno
fuoriuscisse dal buco zampa dopo zampa e si incamminasse verso la tela di bugie
e macchinazioni di cui stava cominciando ad intravedere la trama.
“Qual buon vento ti porta qui, Uomo Ragno?” gli
domandò Devil –Il cui udito, tranne lo zampettare dei topi ed il respiro del
ragazzo, non avvertiva nulla- voltandosi nella sua direzione “Cerchi casa?”
“In effetti mi sto proprio accertando che il padrone
non ci sia.”
Ftump. L’Uomo Ragno si era appena appeso
ai muri e dallo scivolio dei piedi Matt ne individuò il cammino dalla parete
fino al soffitto.
“Cosa sta succedendo?” sotto la patina di
noncuranza, l’avvocato colse nella voce del ragazzo una nota di urgenza, i
primi barlumi di panico “C’entra il Mandarino?”
Il Mandarino. Un’entità astratta e pubblica allo
stesso tempo. Un burattinaio di paura, di fiato sospeso, di menzogna, di
omicidio, l’uomo del Chinese, l’uomo che aveva ucciso Happy, l’uomo che aveva
sulle mani il sangue di Rhodes e, sebbene non ci credesse –Vuoi per
testardaggine, vuoi per istinto- Stark.
Fury morto. Il Mandarino. Un Agente senza dimora
dalla temperatura corporea insolitamente alta. Doveva esserci una connessione,
doveva esserci, Devil si rifiutava di credere a simili, catastrofiche
coincidenze. Che il Mandarino fosse la causa e la morte di Fury l’effetto? No,
era improbabile. L’omicidio di Fury non era stato scenografico: aveva sì
colpito l’America, ma diametralmente opposto alla maniera in cui il Mandarino
operava. Egli, in fondo, si poneva come Maestro ed un Maestro insegna, un
Maestro usa immagini e scene se non tangibili quantomeno riconoscibili. La morte del Direttore era stato un colpo inferto
con crudeltà ad una cerchia ristretta di persone, rispetto alla totalità del
popolo americano –E, da quanto aveva potuto apprendere e capire, il Mandarino
non dava lezioni private.
“E’ uno specchio per le allodole.” L’Uomo Ragno lo
trasse via dal guazzabuglio disordinato di pensieri “Questo appartamento. Non
capisco il motivo per cui avrebbero dovuto darti un indirizzo sbagliato.”
Parlata agitata, frettolosa, tentativo di nascondere il fatto che conosceva il
motivo ed il nome per cui Matt era lì “E’ soltanto uno specchio per le
allodole.”
“Un’illusione.” Concordò Matt “Per nascondere
qualcosa di più grande.”
Uno specchio per le allodole. Un riflesso che
attirasse l’attenzione, mentre il vero male serpeggiava nascosto, dietro le
quinte, assai meno visibile di un terrorista orientale dai modi magniloquenti…
Rosehill, Tennesse
Walker’s
2013
Stark sollevò il bavero della giacca, che spuntava
dal poncho malandato. Sì, non lo aveva ancora tolto, gli teneva caldo. Colin,
al suo fianco, affondò le mani nelle tasche del giaccone di pelle, dando
un’occhiata veloce al magnate.
“Come pensi di fare?” gli domandò, indicando il
locale con un cenno impercettibile della testa.
“Improvviserò.”
“Ti serve un piano.”
“Io ce l’ho un piano: improvvisare.”
E mentre tornava a girare il volto verso il Walker’s
con un sorriso tronfio sulla faccia, il cozzare di una spalla ben tornita
costrinse Tony a voltarsi, di nuovo, chinarsi a terra per raccogliere un
vecchio cellulare e quindi allungare la mano in direzione di…Beh, una donna
assai piacente, con occhi neri da paura, una sventola un po’ selvaggia –Dannazione, era così che Happy aveva
chiamato Pepper quando lei se n’era andata dall’ufficio la prima volta,
impettita, infastidita dal tono superficiale e decisamente misantropo con cui le
si era rivolto al colloquio; nonostante il grosso nodo cicatriziale che le
tagliava in obliquo la guancia sinistra, da sopra la radice fino all’angolo
della bocca, il suo viso aveva un’attrattiva particolare, olivastro e circondato
da una svolazzante e disordinata chioma fulva. La camicetta bianca era l’unica
cosa con una parvenza innocente, nella sua figura, il resto –Dagli stivali alti
alla giacca nera con cappuccio e pellicciotto- le conferivano un’aria di sfida
e pericolo –Aria che, lo si sapeva, per Stark era un ordine a chiare lettere di
oltrepassare il perimetro di sicurezza.
“Bel taglio di capelli. Le dona.” Lo sbuffo di
Colin, dietro le spalle, era un chiaro monito a sbrigarsi e rimandare a dopo
gli incontri romantici.
“Bel poncho.” Rispose lei, le labbra piegata un
un’ironia sfrontata.
“L’ho preso da un indiano. E’ un regalo prezioso.”
“Oh, non ne dubito.” La donna arcuò le sopracciglia
nere –Il sinistro, notò Tony, era tagliato in maniera non intenzionale, una
cicatrice piccola, minuta, un barbaglio bianco impercettibile “Le auguro una
buona serata.”
“Possibile che tu debba correre dietro ad ogni gonna
che vedi anche in una situazione del genere?” fu il rimbrotto velenoso di
Hendrick, nel mettere la mano sopra i tre cerchi di vetro incastonati
verticalmente sulla porta di ingresso.
“Dovresti divertiti di più, Colin. Altrimenti dov’è
il vantaggio di essere morti?” Stark bloccò l’Agente prima che potesse fare un
solo passo dentro al locale “Tu rimani qui e fai da palo.”
Col senno di poi, sarebbe stato meglio che Colin
entrasse con lui. Purtroppo il senno di
poi è una di quelle meraviglie umane che non funzionano mai perché,
appunto, costituiscono dei lampi di genio troppo
tardivi per essere di una qualche utilità.
Col senno di poi se Colin fosse entrato con lui, di
certo Tony avrebbe avuto meno possibilità di trovarsi ammanettato e con la
faccia sbattuta contro il tavolino sporco di noccioline dalla donna-faina –A conti
fatti, non possedeva un’aura pericolosa. Lei era pericolosa a livelli schizzoidi, con evidenti manie di
protagonismo ed una dose di sadismo niente male.
Il col senno
di poi, evidentemente, non aveva funzionato e fu con i polsi stretti dietro
la schiena che Tony schizzò fuori dal Walker’s e fu ad occhi sgranati che
Hendric lo fissò, stralunato, e fu con un gesto di immediato allarme che gettò
via il fiammifero con cui stava per accendersi la pipa e fu con un moto di
stizza che lo riprese Stark perché non era proprio quello il momento di fumare
e avevano un problema dietro le spalle quindi che si sbrigasse ad usare una
qualche manovra alla Chuck Norris dello S.H.I.E.L.D. prima che finissero arrosto.
E fu con un moto di orrore che Tony si accorse come
al problema della donna-faina fosse appena andato a sommarsi il problema dell’uomo-noce,
uscito da una macchina nera e lucida al pari del carapace di un insetto: non ci
voleva un genio per capire che l’obiettivo era il fascicolo di Davis.
Gli occhi dell’uomo-noce fiammeggiarono, lo sguardo
di Colin virò in freddo metallo.
“A lui ci penso io.”
“Hendrick, io sono ancora ammanettato!” provò a
protestare il magnate.
Protesta che cadde nel vuoto. L’Agente scattò in
avanti, agguantò il coperchio di un bidone dell’immondizia e lo scagliò senza
complimenti verso l’uomo-noce, colpendolo sotto la mandibola ed impedendogli di
fare fuoco.
Tony rimase interdetto per un istante, per poi, l’istante
dopo, gettarsi a corpo contratto dentro la vetrina del negozio immediatamente
opposto al Walker’s. Nel turbinio seghettato delle schegge che gli volavano
attorno s’immaginò Pepper immersa fino alla gola dalle scartoffie per pagare
tutti i danni arrecati a Rosehill. Grazie a quella prospettiva rassicurante, il
cervello alla deriva gli evitò di accusare totalmente
il dolore dell’impatto contro il pavimento. Non fu lo stesso nell’involarsi
oltre il bancone –Una tavola calda? Interessante- quando la donna-faina ebbe
alzato il fucile per fare ficcargli un pallettone in mezzo agli occhi.
Non doveva più fidarsi delle rosse –A parte Pepper.
Erano subdole, al pari della Romanoff. Ed erano dannatamente veloci, notò, cozzando
contro il muro. Non l’aveva sentita arrivare. Un attimo prima era ancora fuori,
sulla strada, e l’attimo immediatamente dopo eccola a stanarlo dal suo
nascondiglio –C’era tattica, nelle sue mosse, strategia, era un passo davanti a
lui perché ragionava come si ragiona sul campo di battaglia per cogliere di
sorpresa il nemico.
Il che voleva dire che, per farla finita e portare a
casa la pelle, era necessario essere due passi avanti e adattare il pensiero ad
una logica militare, migliorandolo con una sana dose di inventiva e
improvvisazione.
Punto uno, impedirle il contatto visivo con occhi,
volto e altre parti del corpo scoperte. Le sue mani bruciavano, la sua carne ustionava,
era un’arma al pari di Davis, ma, al contrario del ragazzo, era perfettamente
collaudata e non avrebbe fatto cilecca.
Punto uno bis, sfruttare il fuoco a proprio vantaggio.
Essere una persona capace di estrarre conigli dal capello porta al rischio che,
se non si è attenti, chiunque può rubare il cappello ed estrarre una volpe:
schivando, saltando, usando le suppellettili della tavola calda come trampolini
di lancio per un modus operandi suicida,
Stark fu in grado di avvolgere gli anelli delle manette alla carotide della
donna-faina e quella, in risposta ad un furioso istinto di sopravvivenza, aumentò
la propria temperatura corporea al punto di liquefarle. Bingo. Impedimento
maggiore superato, ora restava la pazza ad orologeria.
Punto tre. Scienza.
Un sottotitolo perfetto alla sua autobiografia Un trucchetto sfigato ed una battutaccia –A Tony venne quasi da
ridere al pensare a quanto i bulli si assomigliassero, così convinti di essere
al di sopra di ogni cosa grazie ad un paio di muscoli ben sviluppati,
strampalati poteri mistici ed una presa di acciaio. Un microonde e le medagliette
di Davis strappate al dossier che la madre, convinta di avere a che fare con la
donna-faina, gli aveva mostrato mescolati insieme erano una ricetta perfetta –Insieme
ad un bel liquido per pulizia infiammabile, ovviamente. Il muro di fuoco non l’avrebbe
mai fermata, tuttavia era un ottimo escamotage per prendere tempo e
rallentarla: il vero spettacolo venne annunciato dal trillo fischiante del
microonde e dal crocchiolio picchiettante delle tags.
La deflagrazione si gonfiò vermiglia dentro lo
stomaco metallico dell’apparecchio, unito al soffio rovente del gas che Stark
aveva liberato staccando di netto la presa del bocchettone.
L’esplosione fu uno schiaffo bollente, una rapida,
cocente staffilata che fece vibrare il portellone dietro cui Tony aveva trovato
riparo. Le orecchie ronzavano e la testa doleva, faticava a mettere insieme i
pezzi, a far combaciare gli eventi; dentro il cranio rimbombava il silenzio
assordante della detonazione improvvisata, il naso era incrostato di polvere e
di cenere, del lezzo della carne dilaniata. Le ginocchia tremarono quando si
mise in piedi, unica figura eretta tra le pareti sventrate della tavola calda.
Cercò Colin, tra le teste della gente schiamazzante che correva da una parte
all’altra di Rosehill, ma non lo vide.
Un cigolio scoppiettante attirò l’attenzione del
magnate: la donna-faina dondolava disarticolata sugli alti cavi della corrente,
una figura gibbosa e fumante, una marionetta senza vita gettata via alla fine
dello spettacolo. Una visione terrificante, che segnava però la fine di uno dei due problemi.
La domanda era…E l’altro?
Un brivido attraverso la spina dorsale.
Suono liquido di metallo che si scioglie.
Tony si girò di scatto, il fiato rappreso in gola.
La cisterna d’acqua, sopra la sua testa, emise un gemito raccapricciante e
doloroso. L’uomo-noce sogghignò, la mano che brillava di arancio e di oro
mentre liquefaceva le possenti gambe di sostegno. I lacci che trattenevano il
corpo metallico si staccarono con uno schiocco secco, la cisterna traballò
senza più alcun appiglio e Stark, maledicendo se stesso, maledicendo Hendrick
di cui non vedeva nemmeno l’ombra, cercò una via di fuga dal disastro
imminente. Non trovò altro che una rete protettiva a bloccargli il passaggio: l’acqua
gli si rovesciò impietosa addosso, un muggito gelido, mani umide artigliate
alla pelle e ai vestiti, marosi ringhianti che gli strapparono il fiato e più
di un battito cardiaco. La cisterna, ormai divelta e spaccata, rovinò a terra
coi resti dei sostegni, bloccando in parte la gamba di Tony, chiudendogli ogni
possibilità di fuga, trattenendolo, costringendolo a terra. L’uomo-noce,
fradicio ma illeso, fece scintillare gli occhi maligni e la cornea si velò di
fuoco crepitante.
Un passo, un altro, un altro ancora, vicinò ad ogni
secondo di più –E Stark non poteva muoversi, non poteva reagire, non poteva
fare nulla se non cercare di liberare la gamba. I centri nervosi gridavano
allarme e pericolo, trasmettevano scariche di panico –L’uomo sempre più vicino,
troppo vicino…
Stonk.
Il coperchio del bidone scavò un solco nella tempia
destra dell’uomo noce e, prima che questi potesse reagire, Hendrick gli fu
addosso. Schiantò una mano sulla nuca e sfruttò il proprio slancio per
conficcare il volto dell’uomo-noce direttamente nell’asfalto; ancora a
ginocchia piegate l’Agente saltò verso Stark, che ringraziò quei dannati cento
kili per un metro e novanta, abbastanza in forma da sollevare gli spessi
tralicci e liberargli la gamba.
Hendrick agguantò il magnate per le braccia,
sollevandolo di peso e spintonandolo via, convincendone il corpo a muoversi con
sonore manate sulla schiena. Stark incespicò, le caviglie ridotte a polvere, la
vista che andava e veniva, la lucidità ridotta a meno di niente a causa del
dolore lancinante delle ossa. Si voltò, non sentendo i passi dell’Agente dietro
le spalle, e lo spettacolo dell’uomo-noce che si rimetteva in piedi gli
ghiacciò il sangue.
“Colin!”
Ma l’Agente doveva già aver colto il movimento dell’avversario:
facendo perno sulla gamba sinistra, ruotò il torso e la violenza del calcio che
arrivò allo zigomo dell’uomo-noce fu tale da sradicare ogni connessione tra le
vertebre cervicali, tranciando a metà il fascio filamentoso dei nervi.
Località Sconosciuta
Laboratorio
2011
Non avrebbe mai potuto far loro del male. Erano
persone innocenti, private di volontà e coscienza, che agivano per ordini
perversi instillati nel loro inconscio dalle parole seducenti del Dottore. E
mentre il corpo doleva e i muscoli trasudavano scariche elettriche e il sangue
impazziva nelle vene, si disse che per nulla al mondo avrebbe mai alzato le
mani per ferirli: tenerli a distanza, senza ucciderli, aprirsi una via di fuga,
senza che fosse bagnata di sangue.
I legacci gli scavarono i polsi, quando provò a
tirare per spezzarli. Digrignò i denti e vide l’uomo col doppiopetto sorridere
del suo tentativo: aveva la preda in pugno, lo comprese immediatamente.
La preda era in lui. Impotente, costretto ad un
sedile che bruciava la pelle come le fiamme dell’Inferno, stretto al torace, ai
polsi, alle gambe, al collo perché non potesse muoversi più del dovuto
–Abbastanza libero, però, perché avvertisse col cuore e la mente una via di
fuga. Il corpo continuava a lottare, dove trovava una boccata di respiro, si
contraeva e si disfaceva in grugniti di dolore. Per l’uomo era piacevole
vederlo combattere contro l’inevitabile, lo comprendeva dai suoi occhi lustri
di ferina soddisfazione.
Quale che fosse, comunque, il desiderio di ludibrio
del suo aguzzino, non avrebbe smesso di muoversi, di tendersi, di fare forza e
tentare di recidere i legacci che lo costringevano indietro.
Le macchine singultavano a ritmo del suo cuore
impazzito, alla pressione cardiaca che si schiantava contro le costole, alla
temperatura che aumentava ringhio dopo ringhio, al gonfiarsi dei muscoli, del
fiato che erompeva dalle narici dilatate. Le tempie, pressate da un semicerchio
di metallo, erano un tormento di sofferenza e fiamme tanto spostava la testa e
faceva strusciare il capo contro gli uncini gelidi.
Si fece avanti il medico, gli occhi incolori, la
mascella sbilenca, le dita lasse attorno ad un morso di cuoio.
Serrò i denti ancor più strettamente, il mento
alzato in segno di sfida, gli occhi azzurri che vibravano di sdegno e spirito
che mai si piega.
Un ruggito di dolore artificiale nelle ossa, un
urlo eruttato dalla bocca ora aperta
–Quando la richiuse, il morso scricchiolò per la violenza della sofferenza, per
il tentativo di mordersi della lingua, di soffocare nel proprio sangue
piuttosto che respirare e sottomettersi. Il cervello pompava informazioni alla
velocità della luce, gli riempiva il cranio di immagini, di piani per evadere,
di smentite, di lucida constatazione di tali, mirabolanti follie.
Coi capelli appiccicati alla fronte per il sudore,
sollevò il capo, perché lo sguardo incenerisse il suo aguzzino, ora seduto al
suo fianco per non perdersi nemmeno un istante.
“Non c’è alcun bisogno di essere testardi, Capitano.” Lo derise “Presto il dolore non sarà nemmeno più un ricordo.”
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Capitolo 13 *** { Ho Cercato Di Urlare – File 12 } ***
ood
{
Ho Cercato Di Urlare – File 12 }
B
r a m a.
Desiderio.
Libertà.
Ricordi.
Dolore.
Cosa
è ricordo, cosa dolore, cosa menzogna, cosa realtà, cosa sogno?
Ovunque
sento dolore, un dolore che mi spezza, un dolore che mi dilania.
Mi
dibatto, mi ribello, mi divincolo, mi oppongo.
Troppa
violenza, nelle loro mani.
Poca
forza, nei mie pugni.
Dolore.
Dolore. Dolore.
Tuono,
tormento, terrore.
Libertà!
Io
sono libero!
Io
sono!
R
u g g i n e.
Frammenti
di immagini che scolorano.
Pezzi
di coscienza che stridono, frantumati da lampi di sofferenza.
Pezzi.
Frammenti.
Sono
soltanto pezzi.
Sono
soltanto frammenti.
Frammenti
di storia.
Pezzi
di ricordi.
Frammenti
di dolore.
Pezzi
di me.
D
i c i a s s e t t e.
Coordinate
Sconosciute.
Velivolo dello S.H.I.E.L.D.
2013
Ad
averlo saputo, Skye si sarebbe fermata un po' prima.
In
verità la sua intenzione era stata del tutto diversa -All'inizio. Si
era svegliata di soprassalto, col cuore in gola ed il sudore
appiccicato alle tempie: non ricordava cosa avesse sognato, né cosa
avesse sentito nel tramestio caleidoscopico della sua fase REM, ma la
sensazione di qualcosa di
storto, pauroso, terrificante, le era rimasto addosso come una
seconda pelle. Aveva preso aria a grandi sorsate finché il senso di
soffocamento non era passato e si era guardata intorno, aveva contato
ogni oggetto presente nell'alloggio, aveva elencato a memoria i
personaggi del suo romanzo preferito, aveva riconosciuto tre odori
differenti, lì, attorno a lei, e aveva trovato conforto nei suoni
rollanti dell'aereo.
Era scesa dal letto e
dopo un bicchiere d'acqua aveva acceso il portatile per mettersi al
lavoro.
Il
non sapere dove fosse Coulson la metteva in agitazione: era l'unico,
in quella squadra, a trattarla come un essere umano e non come un
cucciolo smarrito, lasciato ad uggiolare sotto la pioggia. Non che
gli altri la facessero sentire a disagio o fuori posto -Non di
proposito almeno, tuttavia avvertiva sempre una specie di
spartiacque, tra lei e loro, quasi lei fosse un elemento chimico di
dubbia composizione, difficile da amalgamare col resto.
Con Coulson quell'idea
spariva.
Coulson la trattava e
considerava a metà tra una recluta ed una nipote recalcitrante e
bastava così perché riuscisse a farla sentire a casa.
Non averlo intorno, non
sapere nulla sulla sua sorte le faceva venire le vertigini.
Phil non aveva detto a
nessuno di loro, tranne a May, dove sarebbe andato, quando sarebbe
tornato, chi avrebbe incontrato, cosa avrebbe fatto, se sarebbe
sopravvissuto. Non aveva inviato alcun messaggio, non aveva cercato
di mettersi in contatto, non aveva lasciato tracce: Skye sapeva
soltanto che era partito per un qualche in codice S.H.I.E.L.D.
sconosciuto ai più -Quindi, il database dello S.H.I.E.L.D. era il
posto migliore dove andare a spulciare.
Le difese informatiche
non erano niente male e la giovane impiegò mezz'ora buona per
superare i firewall e svicolare all'interno delle stringhe di uno e
di zero senza che gli anticorpi digitali la rincorressero, alla
stregua di Willy Coyote con Beep Beep. Aveva saltellato da una
cartella all'altra, ognuna più criptata della precedente, e quando
si era accorta di aver perso la strada di casa era stato troppo
tardi.
Al pari di una valanga
la sua curiosità l'aveva trascinata a fondo, la disperazione
l'aveva travolta in pieno e lei era caduta nella Tana del
Bianconiglio, novella Alice nel Mainframe delle Meraviglie.
Il Dark Web personale
dello S.H.I.E.L.D. era un campo minato di sicurezza, password, codici
di accesso che si rigeneravano più velocemente di quanto lei
riuscisse a bypassarli: più di una volta era stata costretta ad una
manovra evasiva e aveva digitato con tale forza sulla tastiera da
sentire i polpastrelli bruciare.
Ma non le era stato
permesso di riprendere fiato.
Strano
a dirsi e capiva, capiva
quanto fosse assurdo,
il sistema di sicurezza si stava facendo...Aggressivo.
Non stava solo cercando di tenerla fuori: voleva sbranarla, voleva
estirpare chiunque osasse avanzare, senza autorizzazione,
nell'intrico informatico dei loro segreti.
Quando le riuscì di
toccare il fondo del Pozzo era trascorsa più di un'ora e Skye era a
pezzi.
Le tremavano le dita ed
i polsi, e il sudore aveva tracciato una linea dal principio della
nuca alla base della schiena; la lingua guizzò a toccare le labbra,
trovandole secche, morse, persino, al punto di farne stillare una
goccia di sangue. Avrebbe voluto alzarsi e bere di nuovo, ma la
curiosità fu più forte della sabbia che le disidratava la gola.
“Progetto InSight...”
sussurrò, mentre il cursore si spostava diligentemente sulla
cartella.
Sulle prime non capì:
c'era una lista di nomi, suddivisi per nazionalità, quindi per
sesso, infine per età, e ogni nome riportava il domicilio,
l'occupazione corrente, addirittura il gruppo sanguigno. Alcuni di
quei nomi Skye li conosceva: di Stephen Strange, ad esempio, sapeva
che era un chirurgo di fama mondiale, tuttavia non riusciva a
comprendere il nesso tra lui e Jessica Jones, un'anonima ragazza di
Hell's Kitchen.
Chiuse la schermata, non
prima di averne fatto un download, quindi passò al file seguente.
Fu allora che si tappò
la bocca con le mani.
Dio...! Dio, non erano
nomi a caso.
Gli occhi
s'ingigantirono. Si ficcò le nocche nei denti per non gridare, il
battito del cuore che rompeva i timpani e pulsava e pulsava e pulsava
contro le tempie, sbiancando i contorni della sua visuale e
scagliando fitte roventi allo stomaco. Sentì le lacrime pizzicare
sulle ciglia, mentre il respiro sgroppava ed il panico le mordeva i
polmoni.
Non erano nomi a caso.
Dio del cielo, quelli erano...
“Obiettivi.”
La voce di Ward.
Ambigua.
Tagliente.
Skye non lo aveva
sentito entrare, né aveva udito lo sblocco di accesso alla porta; si
girò nella sua direzione, la mano destra che scattava ad afferrare
il bordo superiore dello schermo, in un gesto istintivo ed inutile.
Grant nascose il
passepartout elettronico nella tasca dei pantaloni, prese la pistola
e la puntò contro di lei.
Non pareva intenzionato
a farle del male, ma Skye si tese comunque. Gli occhi dell'altro
erano come vetro: illeggibili e freddi, vuoti se non per il riflesso
di lei, del suo sguardo impanicato, della lacrima che stava scendendo
sulla guancia.
“Come...?” sussurrò,
inciampando sulla domanda. Si schiarì la gola, si leccò le labbra,
riprese fiato “Come potete fare una cosa del genere? Lo
S.H.I.E.L.D...”
“Lo S.H.I.E.L.D. è
solo un acronimo desueto e inutile.” replicò Ward “Un tempo
questa agenzia aveva grandi idee e molta fantasia, ma col tempo si è
lasciata irretire dalla burocrazia e ha perso di vista la cosa più
importante.”
“Ossia?”
“Ossia
che non esiste alcuna libertà da difendere. È solo una grande
menzogna. Questo mondo-” un sorriso ironico gli abbruttì i tratti
del viso “Questo mondo è soltanto caos. Un guazzabuglio di idioti,
di individui patetici, per la minor parte pericolosi, per la maggior
parte inutili. InSight.” indicò il computer con un cenno del mento
“InSight è il futuro. E' l'algoritmo perfetto. Presto non ci
saranno più libero arbitrio, né disordini: ogni cosa sarà epurata
e tutti conosceranno una nuova epoca d'oro, un nuovo Impero cui
essere asserviti nella consapevolezza di essere niente, se non un
branco di pecore bisognose del pastore.”
Se non fosse stata
terrorizzata, Skye avrebbe riso. Parole del genere le davano la
nausea e da come la guardava, mentre le pronunciava, forse nemmeno
Ward ci credeva -Non del tutto. Forse gli avevano inculcato quei
concetti a forza, forse le aveva imparate più per rimanere tra i
loro ranghi malati che per lealtà al Sommo Ideale.
“Questa—Idiozia
dell'Impero fa tanto Star Wars, lo sai?” lo canzonò “A quale
assassino di bambini appartiene questa bandiera davanti a cui
dovremmo sottometterci, come tanti soldatini senza cervello?”
Grant non rispose, si
limitò al silenzio mentre un bagliore bianco, proveniente dal
computer, costringeva la giovane a voltarsi.
I dati sullo schermo si
disfecero in colonne di numeri, cascate di codici, catene di formule,
tutte scardinate, tutte in disordine, tutte prive di inizio, di fine,
di significato, quindi un lampo, rosso, poi nero, di nuovo rosso,
ancora nero -E così rimase, così, nero, mentre dagli angoli
rigagnoli scarlatti si spargevano a disegnare la forma di sei
tentacoli, il contorno di due orbite vuote, la sommità gibbosa di un
teschio.
A Skye le parole
morirono in bocca.
Il logo dell'HYDRA la
fissava sogghignando.
Sbeffeggiandola.
Deridendola.
“No.” bisbigliò
“No, non è possibile. L'HYDRA è stata distrutta dopo la Guerra!”
“Ci sono ideali che
non potranno mai scomparire.” replicò Ward ed abbassò la pistola,
un dito appena, consapevole di quanto lei, in quel momento, non
rappresentasse alcun pericolo “E l'HYDRA ha trovato terreno fertile
in molti cuori, per molti anni, ancor prima degli anni Quaranta. La
vostra suffragetta col costume a stelle e strisce ne ha rallentato
l'avanzata, certo, ma non l'ha fermata: ci vuole molto di più di un
frisbee e di una misera provetta da laboratorio per farlo. ”
Il sorriso di Grant era
così gelido da fare male. Così folle, nella sua freddezza, da far
accapponare la pelle. Era crudele, in ogni piega, in ogni fossetta.
“E adesso, dopo anni
vissuti a proliferare nell'ombra, annienteremo qualunque ostacolo si
ponga sulla nostra strada. Nessuno potrà---”
Skye sobbalzò, colta
alla sprovvista, nel sentire il clangore del pugno impattare contro
la nuca di Ward. Gli occhi dello Specialista si rivoltarono nelle
orbite, le dita persero la presa sulla pistola, le ginocchia si
piegarono, le spalle ed il torso cascarono, la guancia premuta contro
il pavimento.
Melinda May sbuffò e si massaggiò le nocche.
“Oh,
sta' zitto.”
A l b a
Sono nato.
Sono vissuto.
Sono morto?
Non credo.
Non lo so.
Ma vorrei.
Sono nato? Quando?
Ricordo il cielo
grigio come fumo.
Ricordo le strade
strette.
Ricordo l'odore delle
sigarette.
Forse ho chiamato
qualcuno amico.
Forse ho amato.
Forse ho pianto.
Forse dimentico.
Dimentico?
Ricordo...
H o m o
Non ricordo.
E' nero.
E' tutto così nero.
E' tutto così
bianco.
E' tutto così vuoto.
Non ci sono colori.
Non ho colori.
Non ho niente.
Non ho più niente.
Non sono più niente.
Sono ancora vivo.
Dimmi, ti prego, se
ancora vivo.
Dimmi, ti prego, se
ancora sono.
N o v e
Asgard.
2013.
Clint
gridò.
O
forse ebbe l'impressione di farlo.
Non
gli importava.
Gridò.
Si
gettò su Loki, convinto di avere unghie con cui poterlo graffiare,
nocche con cui poterlo colpire, mani con cui poterlo strangolare.
Il
Dio lo scaraventò indietro e rise e con quella risata sparse al
vento i brandelli coscienza raggranellati a fatica dall'arciere.
Ovunque
era fumo.
Fiamme.
Fumo. Sangue.
Thor
gli aveva descritto Asgard, una volta, e Clint aveva espresso il
desiderio di visitarla -Chissà quando, chissà come, chissà in
quale futuro. Non era lucido, no, Thor gli aveva detto di Asgard
forse per convincerlo ad andare con lui, là dove c'erano sapienti
che avrebbero potuto aiutarlo, cerusici che lo avrebbero curato, non
ricordava, non ricordava bene, le sue proposte, sebbene sincere,
erano sfumate nel tumultuare del lutto, nel rancore, nel pianto.
Ma
Occhio di Falco ricordava perfettamente la descrizione che lui gli
aveva fatto: Válaskjálf,
il Palazzo di Odino, il Pendio dei Caduti, dalle Torri d'Oro e le
Pareti d'Argento; Himinbjörg,
il cardine del Bifrost, dimora di Heimdall, il Dio dagli occhi
lattei, che coglie la trama di un fiocco di neve a Galassie di
distanza; i pomi d'oro di Idunn, la cui luce si rinfrange contro le
vetrate di Søkkvabekkr,
il
palazzo di Sága.
Ricordava di aver chiuso gli occhi per immaginare i fiumi e le
cascate e l'acqua mutare in astri e firmamenti tra gli spruzzi e la
spuma.
Fumo,
fiamme, devastazione, cenere, lapilli.
Clint
mostrò i denti, recuperando forma dalla rabbia che gli incendiava le
viscere.
Loki
avanzava tra i soldati Asgardiani e la facilità con cui muoveva il
suo corpo lo stava facendo impazzire. Eccolo mentre estraeva una
freccia, la incoccava e mentre questa era in volo subito, rapido,
lesto, scivolava sotto le gambe di un avversario, saltava, gli
chiudeva la corda dell'arco attorno alla gola, gli conficcava il
ginocchio nella spina dorsale. Una torsione del busto, uno scatto del
polso, il riser che si compattava in un bastone d'acciaio, il lampo
del metallo, Loki colpì, schivò, danzò tra le spade e gli scudi,
letale e perfetto.
Il
fatto che gli Asgardiani stessero massacrando le truppe alleate non
aveva importanza.
Gli
assalti dell'HYDRA si facevano via via sempre più deboli, le fila si
facevano via via sempre più sottili.
Il
Norreno li aveva condotti lì attraverso la Pietra di Kulja, senza
fallo aveva camminato alla loro testa, passo dopo passo su un
sentiero bianco di faggio, e quando la nebbia si era alzata a
ghermire le caviglie con un gesto aveva dissipato le tenebre.
Aveva
sorriso e aveva ordinato l'attacco.
Ora
morivano, attorno a lui, uno dopo l'altro, e Loki non poteva essere
più incurante.
Quando
scattò, Clint provò a tendersi, ad abbrancare la sua coscienza in
quell'attimo, in quell'istante in cui il proprio cuore aveva battuto
all'unisono col suo, spinto dall'adrenalina. Il Norreno perse un
istante l'equilibrio, Occhio di Falco assorbì l'impatto rotolando
contro il selciato, il Dio si rimise in piedi, la spia si rannicchiò
per evitare la lama di un Asgardiano, il figlio di Laufey agguantò
il pugnale che teneva allo stivale e lo affondò nello sprazzo di
fianco lasciato scoperto dall'armatura.
"Li
stai uccidendo!" gridò allora Clint "Sono il tuo popolo!"
"Loro
non sono niente."
sibilò l'altro, mentre con calcio si scrollava l'avversario di dosso
e correva verso le porte d'oro del palazzo "La loro vita non
conta. La loro morte
sì."
proseguì
"La loro morte sarà il trono su cui siederò ad ammirare la
venuta del mio Regno."
Le
guardie all'ingresso caddero ancor prima di riuscire a scorgerli.
Forse
Occhio di Falco avrebbe dovuto sentirsi fiero di poter, da solo,
affrontare gli Einherjar,
i
Valorosi, il corpo scelto di Odino, invece non provava che nausea e
vertigine: avvertiva la presa sulla realtà sfumare, la propria
coscienza svanire, la sensazione dell'Io scolorire e diventare un
mero sfondo da palcoscenico, su cui Loki, il primo attore di quella
tragedia, si muoveva seguendo le battute del suo
copione.
Il
rombo del tuono lo riscosse -E come avrebbe potuto essere altrimenti?
Non era stato soltanto il suono. Era stata la scarica elettrica che
crocchiolando gli era zampettata sulle gambe ed era deflagrata
d'improvviso nelle ossa, scoccando fulmini e scrosci di folgore
contro lo sterno e i muscoli e i nervi.
Loki
alzò gli occhi e la spia cadde in ginocchio, le braccia spalancate:
la paura del Norreno fu la sua ancora di salvezza.
Risalì
fino ad infrangere con la sommità del capo la superficie della
propria Anima, si riappropriò della voce, al punto da urlare e
gridare con la pioggia che adesso gli graffiava il volto e gli colava
nelle guance e dentro la gola.
“Thor!”
chiamò “Thor! Thor---!”
Loki
gli coprì la bocca, lo ricacciò indietro, ma lo sforzo gli costò
abbastanza da dare ad Occhio di Falco la possibilità di annidarsi,
lì, in un punto dove il Norreno lo avrebbe creduto indifeso, ma così
vicino da dargli la possibilità di ritrovare il filo dei propri
pensieri non appena ne avesse scorto la matassa.
“Clinton!”
berciò il Dio del Tuono ed era una figura maestosa, incoronata di
fulmini, gli occhi come braci, Mjolnir in pugno “Cosa significa
tutto questo?”
Le
labbra di Loki si torsero in un ghigno derisorio -E adesso, s'accorse
Clint, l'altro stava parodiando le sue movenze alla perfezione, al
punto che provò ribrezzo nel vedersi così, allo specchio.
"Significa
guerra,
oh Tonante.” lo derise e rapido incoccò la freccia “Credevi
davvero che lo S.H.I.E.L.D avrebbe permesso al vostro stuolo di
cosmonauti di viaggiare indisturbati da un mondo all'altro? Facendo
il bello ed il cattivo tempo in virtù di qualche vecchio culto
pagano? Lo ammetto.” fece “Tracciare una rotta sicura non è
stato facile, ma ne è valsa la pena.”
“Siete
in inferiorità numerica.” Thor avanzò di un passo, le saette che
s'intrecciavano e sibilavano sulla testa del Martello “I tuoi
sodali stanno morendo. Ti fermerò, Clinton, sebbene il mio cuore
pianga nel doverti chiamare nemico.”
“Spostati,
ragazzone.” lo mise in guardia Loki, il gomito ora teso
all'indietro, il profilo della freccia a baciare la guancia striata
di pioggia “Ti stai frapponendo tra me e la mia giusta vendetta.”
B
e n e v o l o
Pagina
e inchiostro.
Tabula
rasa.
Foglio
bianco, senza confini.
Non
ha inizio né fine questa mia coscienza che non ha coscienza di sé.
Non
ho parole da scrivere.
È
tutto così...Distante
La
mia mente.
Mia?
E'
vuota.
Qualcuno
parla.
E'
una eco.
Mi
riporta il suono il pozzo infinito del nulla.
Cammino
su cerchi concentrici di voci.
Al
centro esatto della mia volontà svuotata il ginocchio si piega.
Mi
inchino.
Mi
genufletto
Mi
prostro.
Non
ho volontà se non quella che mi è imposta.
Coordinate
Sconosciute.
Velivolo dello S.H.I.E.L.D.
2013.
“Cosa
facciamo, adesso?”
Si
erano riuniti tutti attorno al tavolo, per decidere un nuovo piano,
una nuova strategia.
Melinda
aveva impostato il pilota automatico, mentre Skye, insieme a Fitz, si
era premurata di legare Ward il più stretto possibile e rinchiuderlo
nel Modulo di Contenimento. A buon conto, comunque, Leo aveva messo
al tappeto il gnaulante Grant con un colpo di
Night-Night Gun
-E l'hacker si era astenuta dal domandare a quanto stesse il rapporto
tra azione
necessaria
e soddisfazione
personale.
Jemma
aveva tentato di tracciare una pista che li conducesse a Coulson a
partire dal suo DNA, ma egli, ovunque fosse, era ben schermato ed
ogni modello teorico, ogni ipotesi, ogni calcolo si era rivelato
inutile.
“Se
l'HYDRA ha preso il controllo dello S.H.I.E.L.D---” Fitz non riuscì
a finire la frase.
“Nessuno
di noi è più al sicuro.” completò per lui Simmons “E la
chiamata al Triskelion è di certo una trappola.”
“Una
trappola in cui noi dovremo fingere di cadere.” sentenziò May,
incurante delle tre paia di occhi schizzate a fissarla, allibiti
“Possiamo fidarci unicamente di noi, noi tutti in questa stanza.
Dobbiamo impedire all'HYDRA di lanciare InSight.” si girò verso
l'hacker “Skye, trova un modo per disattivare il loro programma e
fatti aiutare da Leo. Jemma.” la giovane annuì “E' probabile che
Ward sia la nostra chiave per entrare al Triskelion senza essere
scoperti -Quantomeno non subito. Estrapola una traccia vocale, le
impronte digitali, tutto quello che ci permetterà di superare i
controlli di base.”
Nella
tensione generale, Skye alzò la mano.
“E
Coulson?” domandò “E' sicuramente in pericolo e forse ignaro di
tutto quello che sta succedendo. Non possiamo abbandonarlo.”
La
donna inclinò il volto, le braccia incrociate sotto al seno. Il suo
volto era imperscrutabile.
“Sono
ormai sicura che l'indizio su cui Phil è stato chiamato ad indagare
sia legato alla morte del Direttore. E che quest'ultima sia stata
orchestrata dall'HYDRA.” disse “Se c'è un posto dove abbiamo più
possibilità di ritrovarlo, quello è il Triskelion.”
“Bene,
allora.” Leo si schiarì la gola e si strofinò le mani, forse per
simulare una sicurezza che non aveva “Entriamo, liberiamo Coulson e
salviamo il mondo. Ho dimenticato qualcosa?”
“Sì.”
replicò May “Evitiamo di farci uccidere. A differenza della loro
la nostra testa non ricresce, una volta tagliata.”
B
e n v e n u t a
Grido.
Non
lo so.
Urlo.
Forse.
Sono
vuoto.
Dolore.
Mi
riempono di dolore.
Mi
colmano di sofferenza.
Di
parole.
Parole
che mi piegano.
Parole
che mi cancellano.
Ho
mai avuto ricordi da cancellare?
Colori
da sbiadire?
Una
vita da riscrivere?
Asgard.
Prigioni.
2013.
Sangue.
Il
sangue colava dalle braccia e dalle gambe e dal petto. Ustioni e pus
gli tappezzavano la pelle. Cenere cadeva dai lembi della divisa e dai
capelli. Le sopracciglia erano una macchia indistinta sopra gli
occhi, la cui sclera era rossa di lacrime e di fumo.
Arrancò
in avanti e gettò la testa della guardia ai piedi della cella.
Dietro
di essa, Loki Laufeyson dilatò le narici, rilasciò uno sbuffo
divertito.
Sorrise.
“Sei
davvero riuscito ad arrivare fin qui.” commentò “Mi complimento.
Credevo che mio fratello ti avrebbe inchiodato col Martello al suo
altare di folgori.”
Un
rantolo annaspante, un suono inarticolato, la bocca formicolante, la
lingua incapace di arrotolare le lettere contro il palato.
Se
si era salvato, era stato per l'urlo di Sif.
Thor
aveva abbassato Mjolnir prima del colpo finale e lo aveva abbandonato
nella sua pozza di sangue diluito, stramazzato a terra dopo che
l'ennesimo fulmine gli aveva fritto la cornea dentro il cranio. Forse
convinto di averlo, se non ucciso, quantomeno reso inoffensivo, il
Dio del Tuono aveva fatto roteare il Martello ed volato via nel
volgere d'un baleno.
Errore
da principiante.
Anche
in ginocchio, era riuscito ad andare avanti. A quattro zampe, come un
cane, e quando palmi e ginocchia avevano perso la presa allora aveva
cominciato a strisciare, più verme che serpe, spingendosi in avanti
coi gomiti, le dita, i polpastrelli. Aveva trovato un punto per
recuperare il fiato, ricordarsi come respirare, fare una stima dei
danni, delle ossa rotte, dei traumi, delle contusioni.
Quindi
era ripartito di nuovo, con la testa che doleva e la visuale ridotta
ad un puntolino non più grande dell'unghia del mignolo.
Le
ultime energie che possedeva erano state spese per farsi dire come
aprire le celle dei prigionieri ed uccidere il loro carceriere.
La
parete divisoria ebbe un guizzo, quindi si disattivò e scomparve.
Loki,
le mani dietro alla schiena, mosse prima un piede e poi l'altro, le
pantofole che non emettevano suono nel loro morbido scivolare sulla
pietra.
“Sei
stato bravo.” disse, all'arciere e sorrise, tendendo la mano alla
sua guancia “Mi hai servito bene.”
Nell'istante
in cui le dita di Loki gli toccarono la pelle, Clint spalancò la
bocca alla ricerca di aria. Così come era stato bandito dal suo
corpo, ecco che ci faceva ritorno, come un elastico tenuto teso
troppo a lungo e poi rilasciato in un attimo, con il riverbero del
rinculo che minacciava di spezzarlo. Sbatté le palpebre, gli mostrò
i denti, in uno sprazzo di lucidità cercò di mettergli le mani al
collo----Ma Loki fu più rapido e lo abbattè con un pugno.
Rise,
mentre il corpo dell'altro si accasciava a terra.
“E
ora.” sussurrò “Che inizi il Secondo Atto.”
U
n o
Sono
mai morto.
Non
ricordo di essere morto.
Sono
mai vissuto?
Non
ricordo di aver vissuto.
Sono
mai esistito?
Non
ricordo di essere esistito.
Non
ricordo.
Non.
Ricordo.
Chi
sono.
Se
sono.
Se.
Sono.
Mai.
Stato.
Sono.
Solo.
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V
a g o n e M e r c i
Località
Sconosciuta.
2011.
Alexander
Pierce si avvicinò.
Sorrise.
Gli
avevano tolto il morso dalla bocca e le labbra si erano chiuse, una
linea dritta, spianata, senza fossette, senza rughe. Gli occhi
avevano una fissità vacua, in attesa che qualcuno dicesse loro cosa
vedere, chi
vedere, quando
vedere.
Non c'era più alcuna tensione nei muscoli delle braccia o della
schiena o delle gambe. Vaghe scosse elettriche si rincorrevano
attraverso le falangi, a mero riflesso delle scariche che si erano
susseguite durante il processo di indottrinamento -Pierce aveva
osservato tutto,
senza spostarsi di un millimetro, e i piedi indolenziti valevano la
pena delle ore trascorse a guardare gli spasimi di quel corpo farsi
di volta in volta sempre più radi, sempre più miseri, patetici, la
sua volontà indomabile, irreprensibile, scardinata brano a brano
dalle ossa e dai nervi, fino a che di lui non era rimasto nulla se
non una bambola, priva finanche del desiderio di essere mossa.
L'uomo
inspirò l'odore acre della stanza, del sudore, provando un piacere
quasi fisico, osceno, da orgasmo, e si chinò, davanti
a lui, attese che l'iride azzurra di spostasse, che la pupilla lo
mettesse a fuoco.
Alexader
Pierce sorrise.
“Buongiorno,
Capitano.”
Steve
Rogers non batté nemmeno le palpebre.
“Pronto ad obbedire.”
A
i u t o.
Note
Cioè.
Cos—Quanti anni sono passati..?
OH
SHIT.
Se
avete piacere passatemi pure a trovare qui!
|
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Capitolo 14 *** { Affonda I Denti nella Mia Carne – File 13 } ***
ood13
{
Affonda I Denti nella Mia Carne – File 13 }
Strada
del Tennesse.
Macchina
rubata presa in prestito.
2013
Avevano
lasciato Harley a Rosehill, una figuretta intabarrata nel giaccone,
gli occhi volti nella loro direzione, a pregare entrambi di non
abbandonarlo, di portarlo via da lì.
Niente
da fare, ometto, era
stata la risposta di Colin, E'
pericoloso, dove stiamo andando.
La
verità era che non avevano la benché minima idea di dove stessero
andando.
Hendrick
si era messo al volante e aveva dato gas, uscendo dal paesino il più
in fretta possibile. Non appena l'ombra di Harley s'era assottigliata
fino a sparire, l'Agente aveva sospirato e quel sorriso compiacente,
quasi dolce, che aveva rivolto al bambino aveva lasciato il posto ad
un'espressione immobile, determinata -Quasi fredda. Non aveva
chiesto niente a Tony, non gli aveva rivolto la parola, si era
immesso sulla prima strada disponibile e adesso guidava e guidava e
guidava, il paesaggio che scorreva oltre i finestrini, stracci
appannati imbevuti di nevischio, luci e pioggia.
Tony
non aveva intenzione di rompere il silenzio, né di tendere la mano
per primo -Figurarsi porgere l'altra guancia. Con la fortuna che
aveva, probabilmente l'altro gli avrebbe tirato un ceffone tanto
forte da fargli girare la testa a trecentosessanta gradi come un
gufo.
Si
teneva occupato guardando un po' la strada, un po' i fascicoli rubati
alla signora Davis, un po' Hendrick, il suo profilo delineato dal
bagliore delle auto che passavano loro accanto, la piega della
mandibola, il lampo intermittente dell'iride azzurra, le nocche
bianche, ancorate al volante.
“Ti
piaceva Chuck Norris, da ragazzino?”
La
maschera indifferente di Colin s'incrinò e le sopracciglia si
contrassero.
“Cosa?”
“Chuck
Norris. Sai, Walker Texas Ranger.”
“Non
ho idea di cosa tu stia parlando.”
Stark
arricciò la bocca per lo sdegno e si battè la cartelletta color
pulce sul ginocchio.
“Mi
spieghi che razza di creatura sei, Hendrick? Non leggevi Capitan
America, non guardavi Walker Texas Ranger...Non che io voglia
conoscere i tuoi sordidi ed oscuri segreti puberali, ma come
accidenti occupavi le tue giornate di adolescente?”
La
risposta di Hendrick fu un mero spallucce -E a Tony quel gesto parve
piuttosto strano: avrebbe dovuto significare una certa noncuranza o
una cosa del tipo Ma, boh, cose così, come fanno tutti, ma
la fronte si era corrugata e gli occhi erano andati per un attimo
fuori fuoco. In quell'istante, in quel preciso momento, non solo non
era riuscito ad acchiappare l'immagine che cercava, pareva non avere
davverp idea di cosa facesse da ragazzino per divertirsi.
Il
tassello di luci sul suo viso si era scomposto, frammentato, uno dei
pezzi aveva perso l'incastro e poi, ecco, in meno di un secondo, un
battito di ciglia, era ritornato come prima -Solo una goccia di
sudore era scivolata, non vista, dalla tempia dietro l'orecchio.
“Perché
questa domanda, all'improvviso?”
Il
magnate, che s'era inconsciamente sporto verso di lui, tornò ad
accomodarsi sul sedile.
“Ho ripensato al modo in cui hai steso
quell'energumeno.” rispose Stark, squadrandolo da sotto le ciglia
“Un autentico calcio rotante alla Chuck Norris.”
L'espressione
dell'Agente da perplessa mutò in fastidio.
“Sei
veramente impossibile.” sibilò “Ti ho salvato la vita, di
nuovo, e ancora hai da ridirne. Sembra quasi che ti stia mettendo
i bastoni tra le ruote, invece di aiutarti.”
“E'
il modo in cui lo fai, Hendrick.”
“Intendi
il calcio rotante? Allo S.H.I.E.L.D.---”
“Lascia
perdere il calcio rotante.” sbottò allora il magnate “Per quale
motivo sei qui, Hendrick?”
“Che
razza di domande sono? Sono qui per proteggerti. E' la mia missione.”
Tony
inarcò il sopracciglio e dalla bocca sfuggì un verso sarcastico,
acido.
“Per
proteggermi? La tua idea di protezione è quella di farmi da
chaperon?”
“Se
ti impedisce di ficcarti in qualsivoglia situazione dall'alto
potenziale suicida, allora sì!” Colin sollevò le mani dal
volante, esasperato, e subito riprese il controllo “Dio mio, Tony,
non sono io ad aver dato il mio indirizzo di casa in mondovisione,
sfidando un terrorista egomaniaco a venirmi a prendere! Io sono
quello che ti ha salvato da morte certa più di una volta!”
“Già.”
il tono di Stark s'era fatto amaro, adesso. Teneva la mano sinistra
sui fascicoli, la mano destra sulla maniglia della portiera “Il mio
mondo è in frantumi. Happy e Rhodes sono morti, non ho più notizie
di Pepper. Persino monocolo Fury se n'è andato e lo S.H.I.E.L.D è
compromesso. Vedova Nera, Occhio di Falco, Thor, il Gigante
Verde...Non ho modo di contattare nessuno di loro. Sono qui, chiuso
in macchina, su una strada dimenticata da Dio, da solo con te.”
socchiuse le palpebre, il battito cardiaco che accelerava contro la
gola e dentro ai polsi “Tu che arrivi, ogni volta, come un baluardo
di salvezza, un eroe da copertina. Sono tagliato fuori dal mondo, da
tutto e da tutti, e l'unico che mi è rimasto, alla fine, sei stato
tu. Ci sei sempre tu.”
L'iride
azzurra di Colin si mosse tra le ciglia bionde a cercare il suo
sguardo.
Toc.
Toc. Toc.
La
freccia che scoccava verso una piazzola di sosta, l'auto che seguiva
docile la curva del volante, i pneumatici che trangugiavano e
ciancicavano il ghiaino ed il sale mescolati sull'asfalto.
Hendrick
spense la macchina, appoggiò le spalle contro il sedile.
Chiuse
gli occhi e prese un respiro.
“Quindi.”
esordì, le mani aperte sulle cosce, perché Tony le avesse bene in
vista “Il succo di questo discorso farfugliante è che non ti fidi
di me?”
“Non
mi fido di chi non ha un lato oscuro” replicò Stark, il corpo già
teso, la mente già pronta ad elaborare un piano di fuga “Sono uno
all'antica.”
Hendrick
piegò il viso sul poggiatesta, sulla bocca una traccia di sorriso
che il magnate non seppe interpretare. Non replicò alla sua accusa.
Se ne stette lì, nella penombra, a guardarlo, a fissarlo, mentre il
nervosismo serrava il respiro di Tony e gli bloccava i polmoni e
istupidiva il pensiero e appesantiva le gambe.
“Perchè
sei qui?” domandò di nuovo e le sue parole parvero aggiungere
condensa a quella che già appannava il parabrezza.
“La
risposta potrebbe non piacerti.”
“Tu
dammela lo stesso.”
Il
tempo si sospese, si dilatò nel colmarsi dello spazio tra i loro
respiri.
Poi
furono soltanto le labbra di Colin, ruvide, calde, che si schiudevano
sulle sue.
Triskelion,
Washington D.C.
Ufficio di Alexander Pierce.
2013.
Almeno
la vista dall'ufficio di Pierce era ottima: le vetrate coprivano un
terzo della stanza, già di dimensioni ragguardevoli, e spaziavano
sull'Hudson, sul suo placido scorrere sotto un cielo da cartolina. Da
lì, da dietro la scrivania, o col braccio poggiato sui vetri come in
quel momento, Alexander Pierce poteva decidere il fato del mondo, la
vita e la morte di ognuno di loro -Gli sarebbe bastato premere un
tasto, dare il via al progetto InSight e avrebbe avuto l'umanità
prostrata ai piedi.
Il
perché volesse fare conversazione, nel frattempo, conversazione con
lui sfuggiva al senso logico di Phil.
C'era
qualcosa, sotto, ingranaggi in movimento, pezzi del puzzle ancora da
incastrare, fili da tirare da una parte e dall'altra...Coulson aveva
la netta impressione che Pierce avesse da giocare ancora una mano, un
ultimo giro, all-in.
“Sa
perché faccio parte del Consiglio, signor Coulson?”
Dacché
due omoni tutto Heil HYDRA e manganello facile lo avevano
portato lì, Pierce non gli aveva ancora rivolto la parola. E nemmeno
prima di allora, prima che lo S.H.I.E.L.D. si rivelasse il
tentacolare nido di serpi che era, l'uomo aveva mai avuto l'occasione
di parlare con lui faccia a faccia: era consapevole del merito che
Pierce aveva avuto nella promozione di Fury a Direttore e sapeva come
quest'ultimo lo ritenesse una persona non di cui fidarsi, poiché
Nicholas Fury non si fidava neppure di se stesso, bensì una persona
cui la propria stima e riconoscenza potesse andare senza stringere
troppo i denti in una pantomima di sorriso.
Oltre
a ciò, Phil si scoprì ben felice di non aver mai approfondito una
eventuale conoscenza.
“Mi
illumini.”
“Non
lo feci per mio desiderio. Fu Nick a chiedermelo.”
Coulson
rabbrividì -Nemmeno la madre di Fury aveva mai osato chiamarlo Nick
ed era la sola persona in grado di fargli mangiare i sandwich
tagliati in diagonale.
“Eravamo
entrambi disincantati. Sapevamo che, nonostante tutta la diplomazia e
le strette di mano e la retorica, per costruire un mondo migliore
a volte è necessario distruggere quello vecchio.”
“Dubito
che Fury avesse in mente un trio di Helicarrier killer. E sono certo
che la parte sulla distruzione funzionasse solo come metafora. Lo ha
preso troppo alla lettera, sempre se posso permettermi.”
Alexander
Pierce sorrise alla sua battuta e fu il sorriso tra i più freddi con
cui Coulson avesse avuto a che fare. Il sorriso di un uomo potente,
al di sopra del bene e del male, al di sopra della politica e dei
sedicenti politicanti, un uomo disposto anche alla più turpe delle
azioni pur di raggiungere il proprio obiettivo.
“Capisco
perché Nick ti tenesse in così alta considerazione.” disse,
passando ad un tono più informale “E il perché ti abbia strappato
alla fredda mano della morte per riaverti con sé. “
“Adorava
il modo in cui piastrellavo i bagni.”
“Non
ne dubito.” Pierce trascinò la sedia in avanti, in modo da potersi
accomodare dinanzi a Coulson “Sei un uomo pieno di risorse, Philip
Jay Coulson. Fury ti definiva il suo Occhio Buono.”
Phil
ostentò un sorrisetto divertito.
“In
realtà, signore, soffro di una leggera forma di astigmatismo, ma mi
è sempre sembrato scortese farlo notare al Direttore: andava fiero
dei suoi nomi in codice.”
“Sai
per quale motivo ti ho voluto qui?”
“Tutti
i suoi amici dell'HYDRA erano fuori a trucidare persone innocenti e
lei non aveva compagnia per il tea delle cinque?”
L'uomo
puntellò i gomiti sulle ginocchia e sporse le spalle in avanti, le
labbra appoggiate sugli indici uniti.
“Vedi, Phil -Posso
chiamarti Phil?, Fury è...il passato.”
“E
quindi.” la voce di Coulson vibrò di una nota molto, molto bassa e
molto, molto pericolosa “Tornando alla metafora di prima, lo hai
distrutto.”
L'Agente
non seppe dire se fu pena o semplicemente circostanza l'espressione
che passò sul viso dell'altro.
“Non credere che per me sia
stato facile. Nick era un buon amico, tuttavia il suo modo di agire e
di pensare era sorpassato, superato. Affidare il futuro del mondo ad
un manipolo di superuomini sarebbe stato come aspettare un tiro di
dado da parte di Dio: del tutto casuale e potenzialmente letale per
la razza umana.”
“Il
Progetto Vendicatori era stato limato in ogni dettaglio.” replicò
Phil “Le loro personalità calibrate a trovare l'equilibrio
perfetto. La loro storia, la loro indole, le loro capacità erano
state calcolate e dosate a fronte di dieci, cento, mille variabili.
Non sarebbero stati un manipolo di superuomini, niente sarebbe
stato lasciato al caso! Il Progetto Vendicatori è nato per portare
sulla scena mondiale degli eroi, persone straordinarie capaci
di affrontare minacce e combattere battaglie per noi insostenibili.”
Alexander
Pierce lo guardò per lunghi minuti, quindi levò i palmi delle mani
e li batté tre volte tra loro, in un lento, sardonico schernire.
“Un
discorso edificante.” gli concesse “Mi complimento. E dimmi, dopo
aver creduto tanto strenuamente in questi sedicenti eroi, dopo
essere addirittura morto per loro...Dove sono finiti? Perché
non sono qui a salvarti, a fermare l'HYDRA, a bloccare InSight?”
Coulson
contrasse la mascella e tacque.
Pierce
gli rispose con un arcuarsi veloce delle labbra -Un bagliore
trionfante nel fondo degli occhi.
“Permettimi
di sottolineare quanto vana sia la tua speranza. Bruce Banner è uno
degli obiettivi primari di InSight e sarà tra i primi ad essere
cancellato dall'equazione. Occhio Di Falco è una bomba mentale ad
orologeria, una marionetta con cui Loki ancora si diletta e si
balocca -Un nostro Agente esterno, diciamo, attivo sul suolo
Asgardiano. Tony Stark sta seguendo passo dopo passo il cammino che
abbiamo tracciato per lui e se malauguratamente dovesse deviare dal
sentiero che gli è stato imposto, il nostro più letale soldato si
occuperebbe della sua sparizione -Questa volta in maniera definitiva.
Lo stesso Thor.” aggiunse “Presto non costituirà più un nostro
problema. Vedova Nera subirà lo stesso destino di Banner—Non
capisci, ancora? Il vostro Progetto Vendicatori non è che una
fallace lettura di tarocchi. Sei stato sgozzato inutilmente su altare
idolatro: il tuo sacrificio sarà pure servito nella breve distanza,
ma senza un collante, senza un leader, i tuoi pedoni sono andati alla
deriva, uno dopo l'altro.” un sorriso accondiscendente “L'algoritmo
Zola, al contrario, è pura perfezione.”
Phil
avrebbe tanto voluto agire in modo improvviso e molto, molto stupido:
avvertiva il bisogno quasi fisico di muoversi d'impulso, di
sfruttare la forza che gli era rimasta per scattare, catapultarsi in
avanti e deviare il setto nasale di Pierce con una testata alla James
Kirk. Ogni parola che usciva di bocca all'uomo gli dava la nausea e
gli torceva le budella -Non fosse stato per Vedova Nera e per Clint,
Dio, Clint, incastrato nel claustrofobico labirinto della sua mente,
del suo lutto, della sua pazzia, Clint che nei suoi ricordi ancora
rideva e gli faceva l'occhiolino e gli prendeva la mano, di notte,
per dirgli che sarebbe andato tutto bene, se non fosse stato per loro
avrebbe rischiato la vita anche e solo per la soddisfazione di
spaccare il labbro di quell'idiota e provocargli un bell'occhio nero.
“Non
può essere perfetto. E' impossibile. Nessun algoritmo, per quanto
geniale, può portare ad un simile risultato.”
“L'algoritmo
di Zola può. È in grado di leggere ogni riga del libro digitale che
è diventato il ventunesimo secolo, di calcolare ciò che è stato e
ciò che sarà, per distruggere qualsiasi ostacolo, qualsiasi
minaccia capace di opporsi all'HYDRA, oggi e in futuro.”
“Sai.”
intervenne l'Agente “Ero convinto che il nemico aspettasse sempre
l'ultimo momento per svelare il suo piano malvagio. Il tuo bel
discorso mi rincuora, significa che presto ti vedrò sconfitto.”
“Temo
che qui non si tratti di uno di quegli sceneggiati che tanto ami,
Phil.” Pierce parve quasi mostrargli i denti “Ti ho detto
dell'algoritmo Zola e di InSight per un motivo ben preciso.”
“Sono
tutto orecchi.”
“Ti
concedo un'ultima possibilità prima di essere irrimediabilmente
piazzato nella Lista dei Cattivi. Prendi il posto di Fury,
diventa il nuovo Direttore dello S.H.I.E.L.D. e collabora con me,
lavoriamo insieme per costruire il nuovo mondo sulle ceneri del
vecchio.”
Tra
le varie virtù per cui Coulson era diventato famoso c'era la sua
ormai iconica pazienza.
Tuttavia,
in quel frangente, nemmeno gli anni trascorsi come A.S. dell'Agente
Barton valsero a fermare la sua reazione: scoppiò a ridere.
Sguaiatamente.
Alexander
Pierce attese che finisse, prima di tornare a parlare.
“Potrai
credermi pazzo, ma anche io, come Nick, vedo in te molto più di
quanto permetta la vista e sono certo che lui per primo ti avrebbe
designato come erede alla sua morte.” si alzò dalla sedia, le mani
sulle ginocchia, il volto allo stesso livello di Coulson “E' il
passato delle persone a predire il loro futuro, Phil. Tu sei morto e
sei rinato a nuova vita: puoi decidere tu, adesso, in questo stesso
istante, la variabile che ti inserirà o meno nel Programma InSight.
Lascia perdere le idee retrograde di Fury, dimentica i Vendicatori:
gli eroi non esistono. Io e te sappiamo cosa vuol dire
sporcarsi le mani e sacrificare ogni cosa, sacrificare se stessi per
il mondo: InSight è la sola salvezza dal caos, l'unica via che
porterà all'equilibrio e all'ordine definitivo, eterno. Cosa ne
dici?”
La
risposta di Phil fu uno sputo, un grumo schiumoso di saliva che andò
a colpire l'uomo proprio alla congiunzione delle sopracciglia.
“Mi
dispiace, Pierce.” disse “Io credo ancora negli eroi.”
Strada
del Tennesse.
Macchina
rubata presa in prestito.
2013
Era
stato il primo uomo con cui era andato a letto?
No.
Era
stato il sesso migliore della sua vita?
Nemmeno.
Era
stato doloroso?
Assolutamente
sì, Cristo.
Tra
loro non c'era stata ricerca di dolcezza alcuna, non moine, a stento
baci, ma i denti di Colin gli avevano marchiato la pelle e la carne
così tante volte che Tony si era ritrovato a pregare di morire
dentro la sua bocca, di liquefarsi nella sua lingua e tra le sue
guance, giacché altrimenti non avrebbe più trovato un posto in cui
l'altro avrebbe potuto lasciare il proprio segno.
Dammi
mille morsi, poi cento, poi ancora mille, poi di nuovo cento,
mordimi, mordimi, mordimi, affonda i denti altre migliaia di volte,
mentre m'inarco, mentre perdo fiato e sensi e vertigine, mille,
mille, mille volte, confondi carezze e graffi, soffocamento e
abbraccio, mano alla gola ed al viso, dita strette al collo, dita
serrate alle dita, le spalle a sovrastare l'ombra dei corpi
intrecciati, la pelle che puzza di sudore e di morte, aggrappati a me
con le unghie, io ti strapperò il respiro e dei tuoi ansimi farò
strage, scempio di te entro la coppa dei palmi aperti, sulla lingua
carne e cuoio, il sedile premuto contro la guancia, la maniglia
conficcata tra le scapole, strappa dalle viscere e dallo stomaco e
dall'inguine ansimi e guaiti e gemiti, accorda con la mia voce un
suono gutturale di bestia, voglio sentire, voglio soffrire, voglio
pregare, voglio toccare la morte con la mano e poi scivolare, di più,
ancora di più, ancora e di nuovo, mille volte, cento, ancora mille e
poi di nuovo cento, ancora, ancora, ancora—Oh, Dio.
Riaprì
gli occhi e li richiuse subito.
Il
dolore gli aveva sferzato la testa, uno schiocco di frusta in mezzo
alla fronte -Era certo di non aver provato una simile fitta nemmeno
dopo le peggiori sbronze.
Aveva
male, male ovunque, e aveva un freddo cane. I jeans arrotolati
alle caviglie gli avevano bloccato la circolazione, al punto che i
piedi sembravano percorsi da migliaia di formiche; aveva la lingua
impastata, la gola che bruciava e, per l'amor del cielo, non tentò
nemmeno di mettersi a sedere. Agguantò con una mano il poggiatesta
del sedile del passeggero e cercò quantomeno di issarsi, in modo da
trovare una posizione più comoda e togliersi Colin di dosso.
Hendrick
se la dormiva beato, coi capelli biondi scarmigliati sulla fronte, il
torace e le spalle nude; lungo la spina dorsale, le scapole, il
bacino una ragnatela di cicatrici. Tony le aveva toccate tutte mentre
l'altro pizzicava finanche la più bassa nota del suo essere ed aveva
sperato, forse, che sotto i polpastrelli la sua storia sarebbe venuta
a galla, come nodi d'un arazzo. Ne aveva una particolarmente spessa
sulle vertebre, una scudisciata bianca, non troppo recente, ed una
molto, molto vecchia, che sotto le dita aveva assunto la forma di un
foro di proiettile, bombato come una minuscola palla.
Stark
gemette e si coprì il volto con la mano.
Avrebbe
dovuto annoverare il sesso in macchina con un Agente di Livello Sei
dello S.H.I.E.L.D. tra le pessime, pessime idee, con l'aggravante
della strada sperduta in Tennesse e l'essere braccati senza sosta da
un terrorista egomanico -Sì, quella definizione gli era piaciuta.
Fece
scivolare il bacino all'indietro, serrando i denti e le palpebre.
Sperava solo che nel marsupio di Mary Poppins dell'Agente ci fosse un
analgesico od il viaggio, da lì in poi, sarebbe potuto rivelarsi
piuttosto problematico.
L'ennesimo
sospiro, mentre si sosteneva la fronte con il pugno.
Doveva
imparare a contare fino a dieci.
Finire
ad amoreggiare con la sua autoproclamata guardia del corpo non
avrebbe portato alcun beneficio alla situazione, anzi. Tony aveva
accolto il tutto come una cura palliativa, un modo per spegnere il
cervello, far raffreddare il server, quindi riavviare il sistema e
ritrovare la propria lucidità. Nulla, se non il bisogno della carne
che chiama la carne, lo aveva spinto a cedere sotto il corpo
dell'altro, ad agguantargli il volto, afferrargli i capelli, tirarli
per costringerlo a mostrare il pomo d'Adamo ed il lampo della
clavicola, il principio del petto, niente se non l'adrenalina, se non
la necessità, se non la brama di annegare, toccare il fondo del
baratro, darsi la spinta e poi risalire ad infrangere con la testa la
sottile cresta della realtà.
Il
risultato? Il peso dell'altro gli stava anchilosando le gambe e non
sentiva più le ginocchia, c'era un odore alquanto sgradevole in
macchina, e nella fretta avevano fatto cadere il fascicolo del
soldato Davis, i cui fogli erano tutti mescolati e sparpagliati tra i
pedali, la leva del cambio e la maglietta dell'Agente.
Allungandosi
quel tanto che poteva nonostante l'ingombro l'occhio cadde su una
sigla, scritta a mano, sul bordo di uno dei file: MIA.
“MIA?”
il magnate girò il foglio ed il senso di quelle tre lettere
contribuì ad aumentare il mal di testa in maniera esponenziale.
“AIM.”
“Avanzate
Idee Meccaniche?”
Tony
sussultò
Colin
era sveglio, sveglissimo, e lo stava fissando da sottinsu, gli occhi
azzurri e innocenti sotto la frangia, un lato del viso ancora premuto
sul suo ventre, il respiro che gli solleticava l'ombelico. Raggelato
in una specie di buffering emotivo, Start permise all'altro di
sollevarsi, tendersi e baciargli la spalla nuda, mentre adocchiava
anche lui la scritta a pennarello.
“Non
sono gli stessi che hanno modificato l'armatura per l'esercito?
L'Iron Patriot?”
“...Scusami?”
Torcendosi
contro i sedili posteriori per non gravargli addosso, Hendrick gli
sfilò il file di mano.
“Ma
sì, non ricordi? Avrebbe dovuto guidarla il Colonnello Rhodes.”
“Non
sto parlando dell'Iron Patriot.” replicò Tony, la cui voce aveva
assunto una lieve nota di panico “Ma di questo.” ed indicò
il punto in cui le labbra dell'Agente erano sostate poco prima.
L'altro
quasi rise, scuotendo il capo, leggendo da cima a fondo il contenuto
del foglio, accartocciandolo contro il palmo e buttandolo infine ai
loro piedi.
“Non voglio sentire una parola circa il tuo terrore
del contatto fisico non richiesto, non dopo quanto è
successo.”
Stark
provò a replicare, ma il lato pragmatico del suo cervello, una sorta
di salvavita che si attivava meno spesso di quanto avrebbe dovuto,
gli consigliò di lasciar perdere.
“Dobbiamo
entrare nei loro sistemi.” disse “Ho ancora l'ID di Rhodey e la
sua password. Ora ci serve soltanto un computer da cui accedere.
Un
sorriso scaltro si profilò sulla bocca ancora rossa di Hendrick.
“Sai,
poco fa abbiamo passato il Concorso Natalizio di Miss Chattanooga.”
“Almeno
fammi rimettere i pantaloni, prima di sfogare su una giovane donzella
i tuoi dubbi sessuali, Agente.”
Località
Sconosciuta.
2011
La
stanza era stretta, vuota, grigia.
Bruno
era lì da ore, costretto in ginocchio, con la gola sempre più secca
e la netta sensazione che di lì a poco o avrebbe vomitato, o non
avrebbe più avuto uno stomaco per farlo.
Una
goccia di sudore colò dai capelli alla tempia.
Era
troppo tardi per pentirsi, ma si chiese lo stesso se sarebbero stati
clementi: forse tenerlo chiuso lì dentro, per un tempo indefinito,
senza cibo o acqua, forse era quella la sua punizione. In fondo, non
aveva fatto nulla, letteralmente, ma non con cattiveria! Era
davvero convinto che la sua piccola banda a Little Italy avrebbe
potuto scalare la gerarchia, dritti fino al vertice della piramide,
ma i soldi che l'HYDRA gli aveva dato non erano abbastanza, non con
Yannicck Doppietta che si sarebbe fatto persino le strisce pedonali,
e Angel che voleva diventare una modella e per rimanere magra si era
votata ad una dieta di coca e sigarette elettroniche, e Ninì, la sua
bella Ninì che voleva operarsi e se si fosse operata, gli aveva
promesso, oh, se lui le avesse dato i soldi per operarsi lei gli
avrebbe schiuso le gambe, a lui, proprio lui, proprio a Bruno dai
riccioli rossi che beveva vino e cantava O Sole Mio con la
passione d'un gatto innamorato, a lui avrebbe mostrato per primo la
piccola fica che le avrebbero costruito tra le cosce.
Quindi,
insomma, non era colpa sua. Non era colpa neanche degli altri. Loro
avevano i loro bisogni e cercare di fare le scarpe ai poco di buono
di Little Italy mica era facile, c'era gente che faceva il mafioso
già nella culla, mentre lui ci aveva pensato da poco, a quel
progetto, e i soldi che l'HYDRA gli aveva dato erano parecchi, sì,
erano un bel gruzzolo, ma non abbastanza, perché un progetto
funziona bene e va in porto soltanto se c'è un team felice, dietro,
a supportarlo, e per rendere felice il suo team Bruno aveva bisogno
dei soldi per la coca e l'eroina e l'operazione di Ninì e i suoi
antidolorifici, perché se bella vuoi apparire un po' devi soffrire,
Brunello mio adorato, e io voglio essere bella, ma non sono mica
scema, mica sono una martire.
Uno
scrollone gli fece rialzare il volto -Doveva essersi addormentato o
doveva essere crollato o svenuto o chissà cosa. Aveva cominciato ad
immaginarsi Ninì che gli mostrava i bei seni e le cosce e il tempo
si era diluito tra le sue gambe, scivolando nelle sue labbra umide.
Davanti
a lui stavano due uomini: uno, a destra, era basso e ben vestito, si
vedeva che era una persona ammodo e abituata a comandare da come
portava il gilet di grigio e aveva le scarpe lucide, a punta, il
genere di scarpe che Bruno aveva sognato di portare insieme ad una
giacca bianca e larga, insieme a tanti anelli d'oro e un crocifisso
enorme sul petto e gli occhiali da sole. L'uomo accanto al tipo basso
era la persona più immobile che il ragazzo avesse mai visto.
Immobili
gli occhi, immobili i muscoli, immobile il respiro, immobile il volto
e qualsiasi espressione su di esso.
“Steven.”
disse l'uomo col gilet “Permettimi di presentarti un giovanotto
assai intraprendente, il signorino Bruno Chianti. I suoi amici gli
hanno dato un soprannome davvero adorabile, sai? Lo chiamano
Lambrusco.”
Pari
a meccanismi di un autonoma, le iridi immobili si animarono, misero a
fuoco, rotolarono lungo il bordo delle palpebre e gli si ficcarono
addosso.
Un
liquido caldo impiastricciò i pantaloni della tuta di Bruno, dalla
cui bocca cominciò a ruzzolare un grumetto di suoni indistinti, di
singhiozzi, di preghiere, a loro, a Dio, a sua madre, a Ninì, che
avessero pietà, pietà, per favore, avrebbe spiegato, avrebbe
spiegato loro tutto, vi prego, vi prego, non uccidetemi, vi prego.
Il
tipo col gilet appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo e, vista
la presa, certo non lo fece per conforto. Le unghie scavarono la
carne e Bruno, come un cane ben addestrato, tacque.
“Vedi,
Steven.” continuò allora, con la sua voce carezzevole “Noi ci
aspettavamo grandi cose da Bruno, qui. Ci eravamo convinti che
sarebbe divenuto buono col tempo, proprio come il vino, e invece,
ahimè, la sua annata deve essere stata proprio pessima, perché è
diventato fin da subito aceto.”
Bruno
pigolò, guaì, lo stomaco strizzato, il piscio che gli insozzava le
cosce.
“L'intraprendenza
non è niente senza disciplina, Steven. Senza rigore. Ogni azione
sbagliata, non appena compiuta, genera di per sé una punizione
eguale. Prendi il coltello, da bravo.”
Prima
che potesse impedirlo, Bruno avvertì gli intestini svuotarsi in un
colame maleodorante. Il tipo col gilet storse il naso, mentre la
faccia di Steven continuava a rimanere neutra e gli occhi
persistevano ad inchiodare il ragazzo a terra, mentre il braccio
destro si spostava, la mano raggiungeva la cintola, le dita
afferravano il manico del coltello.
“Voglio
che tu lo punisca, Steven.” il tipo con il gilet tolse la mano
dalla spalla di Bruno e questi, ormai raggelato, emise un singhiozzo
“Voglio che gli tagli la gola. Voglio che tu lo uccida.”
Il
giovane scoppiò a piangere, a gridare, lacrime e muco mescolate
sulle guance e sulla bocca spalancata ad un vomito di parole e di
preghiere, ancora, di urla, di strilli, di fiato ripreso a sorsate
rumorose.
Steven,
allora, spostò gli occhi per la prima volta da lui e Bruno lo vide
contemplare il coltello, poi di nuovo lui, poi il coltello, ancora,
mentre alle ciglia saliva un'espressione pari all'orrore e il corpo
si tendeva all'indietro, quasi a volersi allontanare, sebbene i piedi
si ostinassero a rimanere ben ancorati a terra.
“Steven.”
lo richiamò il tipo col gilet “Ti ho detto di ucciderlo.”
Ancora
silenzio, ancora la figura del suo carnefice tentennava ed il suo
sguardo perdeva freddezza, recuperava umanità.
Bruno
si tese in avanti, rapido, lesto, crollò col volto sul cemento, ma
non smise di dibattersi, di piangere, di implorare.
"No!”
urlò “Per l'amor di Dio non lo fare! Salvami! Salvami! Ti prego,
ti prego! Non uccidermi! Non uccidermi! Abbi pietà! Non voglio
morire! Non voglio! Non voglio morire! Non voglio morire! Non voglio
morire!”
“Steven!”
abbaiò allora il tipo col gilet, rosso in viso “Uccidilo! E' un
ordine!”
Si
dice che il cervello impieghi alcuni secondi, prima di spegnersi.
Bruno
li contò uno ad uno -Oppure si ritrovò semplicemente a contare le
lacrime del suo carnefice che gli picchiettavano sul viso, una ad
una.
Tennesse.
Concorso
Natalizio di Miss Chattanooga.
2013
Fuori
dal Liceo che ospitava il Concorso Natalizio di Miss Chattanooga era
posteggiato un variegato assortimento di auto e di van: della
polizia, dei pompieri, del primo soccorso, delle emittenti televisive
che l'un con l'altra si rimbalzavano la palla di questa o di quella
favorita, e ciacolavano di quanto fossero belle le illuminazioni,
quanto fosse freddo l'inverno, quanto calorosi i voti dei giudici e
gli applausi degli spettatori.
Con
un rotolo di cavi sulla spalla, il capello e lo sguardo basso, Tony
superò un paio di pompieri e di addetti ai lavori con l'aria di chi
sa esattamente dove sta andando, cosa sta facendo e di chi non si
farà fermare da niente e da nessuno per portare a termine il proprio
lavoro. Il tutto il prima possibile e in tempo per la cena.
Colin
caracollava subito dietro di lui, una valigetta degli attrezzi in
mano e un cappellino con visiera calato sul volto che diceva a tutti:
Ehi, guardatemi, sto cercando di passare inosservato.
Di
buono c'era che non aveva minimamente accennato alla loro sessione di
allenamento in macchina, né aveva cercato, fuor di quel bacio sulla
spalla, un secondo contatto. Certo, Stark lo aveva colto sul fatto
mentre lo osservava, sornione come lo Stregatto, oppure mentre,
cambiando marcia, il filo delle nocche arrivava a sfiorargli la
coscia.
Dubitava
che l'Agente avesse per lui un qualche serio interesse, ma già il
trovarsi a rimuginare sulla questione lo innervosiva parecchio.
Stark
attese che il tizio davanti al van di Live Channel Five si togliesse
dai piedi, quindi montò e si piazzò subito davanti ai monitor,
staccando uno dei jack mentre Hendrick chiudeva i portelloni alle
loro spalle, si toglieva il capello e passava le mani tra i capelli,
a sistemare le ciocche bionde.
Sfortuna
volle che la velocità di connessione fosse troppo lenta per il loro
bisogno e nell'attimo in cui Colin, richiamato dal borbottio del
magnate, gli si fece vicino per controllare lo schermo, clank,
tlung, clonk--
“Ne
abbiamo già parlato.” era il tizio con occhiali e capello, le
lenti brillanti d'un riflesso zafferano, l'espressione scocciata in
volto “Mi scusi, signore, non so chi lei sia...”
Tony
si voltò subito, l'indice alle labbra, il movimento della sedia
girevole a coprire la mano di Hendrick che si allungava all'indietro,
sul tavolo da lavoro, ad afferrare un cacciavite a
stella.
L'espressione dell'addetto ai lavori mutò in adorazione e
sorpresa, spalancò la bocca come un bambino davanti all'albero di
Natale, la voce più rapida, balbettante, Mamma ti devo
richiamare, sta succedendo qualcosa di magico...!
“Basta
una parola e lo tramortisco.” bisbigliò Colin, all'orecchio del
magnate “Sarò delicato, non se ne accorgerà nemmeno. Il segno del
cacciavite gli rimarrà per tre, quattro giorni al massimo.”
“Lascia
fare a me.” fu la replica di Tony, tra i denti, incastrata in un
sorriso di repertorio “Abbassa la voce.” disse, cercando di
zittire l'uomo ed il suo nuovo mantra -Tony Stark è nel mio
furgone...! Tony Stark è nel mio furgone! “Non è vero.”
“Sapevo
che eri ancora vivo!” esclamò l'addetto ai lavori e quando Stark
gli fece cenno di salire non se lo fece ripete due volte, chiuse i
portelloni e rimase un paio di secondi così, adorante, con gli occhi
strabuzzati, la bocca aperta ad un circolare wow.
“Posso
dire, signore--”
“Sì..”
e Tony avrebbe voluto far tacere sia il farfugliare esaltato del
tizio sia la risata tossicchiante di Colin, dietro le spalle.
“Sono
il suo più grande fan!”
“Oh,
cielo.” fu il commento a mezza bocca dell'Agente “Una groupie.”
“Allora.”
Stark richiamò l'attenzione dell'addetto ai lavori su di sé “Questo
è il tuo furgone o entrerà qualcun altro?”
“No,
no, no, solo noi due, cioè---Noi tre, insomma, lei è uno dei
Vendicatori?”
Colin
rise a quella domanda, ma ebbe la buona creanza di camuffare il tutto
dietro la mano chiusa a pugno.
“No,
io sono--”
“Il
mio autista.” tagliò corto Tony “Ti chiami?”
“Gary.”
si presentò l'uomo e Stark, buon viso a cattivo gioco, gli tese la
mano e la strinse -Per sua sfortuna l'addetto ai lavori percepì il
gesto come un permesso ad espandere il contatto fisico, quindi coprì
le dita del magnate con quelle dalla mano libera, traendolo quasi a
sé -Oh, cielo, non si aspettava mica un abbraccio, vero?
“La
distanza è giusta.” lo avvisò e da come Colin parve sul punto di
un principio di apnea, la sua espressione doveva essere
quantomeno...particolare, a metà tra il disagio ed il
desiderio di scacciare Gary dalla propria comfort-zone con un
colpo di repulsore. “Ricevo molti complimenti, tranquillo.”
“Oh,
bene, voglio solo dire---”
“Cosa
vuoi dire. Dai.”
“Io
non so se se n'è accorto, ma...Ho impostato tutto il mio look
imitando il suo.”
Gary
si tolse il capello, passò la mano tra le ciocche scure, un po' per
mostrarle a Stark, un po' aggiustarle, metterle in ordine, perché
risaltassero, perché facessero la loro bella figura “I miei
capelli non sono a livello. Devo mettere un prodotto.”
“Beh.
Sì”
Ennesimo
suono grufolante proveniente dal setto nasale di Colin -Era questo il
livello di controllo che insegnavano allo S.H.I.E.L.D.? Non era una
sorpresa che l'HYDRA avesse fatto la nidiata tra le loro fila, visto
il quoziente intellettivo generale.
“E,
ora, sa, non vorrei metterla a disagio--” Non lo era già
abbastanza? “Ma devo farle vedere una cosa--”
Tanto
che Gary si arrotolava la manica della camicia sopra il gomito, Colin
si fece vicino e Stark avvertì distintamente il petto dell'uomo
contro la schiena ed il fiato che ad ogni respiro gli sfiorava
l'orecchio e la tempia.
“Bum!”
Ci
fu un istante di silenzio, in cui Tony socchiuse le palpebre ed
inclinò il volto.
“Un
Chucky di Happy Days ispanico?” tentò, nella speranza non tanto di
aver trovato un senso alle linee abbozzate del tatuaggio, quanto di
finire quella tortura sociale senza uscirne matto.
Gary
ridacchiò, forse scambiando le sue parole per una battuta. Hendrick
gli pizzicò invece il braccio ed inarcò le sopracciglia,
schiarendosi la gola.
“Oh-”
esclamò allora il magnate “Oh, scusa, sarei io?”
“Eh,
uh, sì, insomma.” l'addetto ai lavori tentennò in punta di piedi
sul filo dell'imbarazzo “L'ho fatto riprendere da un pupazzo che
avevo, perchè non avevo una foto da dargli, perciò...”
Okay,
basta, la sua già bassa sopportazione stava arrivando al limite
consentito, Colin continuava a respirargli addosso e l'altro lo stava
mandando al manicomio con il suo balbettando balbettare balbettoso.
“Senti-!”
e gli si lanciò contro, le mani sulle spalle “Gary, stammi a
sentire un minuto.” lo spinse verso i portelloni, lo costrinse in
un ritaglio di spazio in cui non avrebbe potuto non ascoltarlo o non
prestargli attenzione “Non voglio tarparti le ali. Siamo tutti e
due sovra-eccitati.”
“Io
mi sento quasi tachicardico.” commentò Colin, un sorriso di sbieco
sulla bocca, le reni poggiate contro il tavolino, la schiena a
nascondere il computer portatile, le braccia serrate al petto, il
cacciavite ancora in mano.
“Ho
un problema.” lo ignorò Tony, mantenendo il contatto visivo con
Gary “ Do la caccia a dei cattivi. Devo recuperare una piccola cosa
da alcuni file criptati, ma non ho molta benzina. Adesso.” alzò il
dito indice “Tu vai sul tettino, va bene, e ricalibri l'ISDN.
Pompala del quaranta percento.”
“Okay.”
“E'
una missione. Tony ha bisogno di Gary.”
“E
Gary ha bisogno---”
“Di
farlo con circospezione. E adesso vai.”
Un
paio di colpi dal tettino all'interno e Colin che, su cenno di Tony,
rispondeva a Gary con due colpi dall'interno del van al tettino.
“Che
caro ragazzo.” disse “Potrebbe mandare un curriculum alla tua
azienda, no? È sprecato in un camioncino come questo.”
“Possiamo
concentrarci sull'AIM e non sul Presidente del mio Fan Club?”
Hendrick
sorrise e si appostò di nuovo alle spalle di Stark. Le dita di
questi danzavano sulla tastiera senza bisogno che gli occhi
seguissero il loro percorso. Perfetta sincronia, perfetto movimento,
perfetto accordo tra cervello e mano, tra pensiero e azione.
Il
ventre molle dell'AIM si aprì subito, schiuso dal filare di codici
che Tony aveva modellato per accedervi: sulla destra dello schermo
una maschera con le anteprime di cinque video, rinominati con nome e
cognome dei candidati ad Extremis -Drew Grey, David Samuels,
Jack Taggart, Ellen Brandt, il Sergente Chad Davis.
Il
cursore si spostò su quest'ultimo, fece partire la riproduzione,
comparve il volto di un ragazzo giovane, un volto comune, un volto
che non trasmetteva cattiveria, né desiderio suicida.
Quale
considereresti il momento clou della tua vita? Domandava
una voce fuori campo e le labbra chiare del ragazzo si sollevarono
appena e c'era una nota fiera negli occhi Credo...il
giorno in cui non permisi al mio infortunio di sconfiggermi.
Fu
la volta di Ellen Brandt, dopo, della Donna Volpe il cui corpo si era
sovraccaricato al punto da pulsare di luce dorata, il volto una
maschera di fuoco, la bocca una voragine d'Inferno. Era bella, lì,
nel video, rilassata, sfrontata, con un sorriso irridente sulla bocca
-Le mancava parte del braccio sinistro, non rimaneva che il
moncherino della spalla e poco più.
Le
iniezioni sono somministrate periodicamente, l'immagine
cambiò e c'era un uomo, adesso, un uomo dalla barba folta, i capelli
biondi, lunghi fino alle spalle -Un uomo che Tony conosceva bene, fin
troppo, e la cui sola vista gli fece trattenere il respiro,
L'assuefazione non
è tollerata. Chi non si adeguerà alle regole sarà estromesso dal
programma.
Un
altro video, un'altra scena, un seminterrato, il profilo dell'uomo,
il titolo del file -Injection Test.
Un
tempo inadeguati, emarginati, voi sarete la prossima iterazione
dell'evoluzione umana, i
polpastrelli battevano sulla tastiera, nervosi, tap tap tap, Progetto
Extremis, Fase 1, tre anni prima, il 25 giugno 2009, i
candidati che venivano portati in uno scantinato adibito a
laboratorio e c'erano computer e c'era postazioni cui legarli,
assicurarli, bloccarli se fosse stato necessario, se la pazzia avesse
preso il sopravvento e la sofferenza avesse accecato loro la mente e
acuito i sensi e imbestialito le forme e l'adrenalina li avesse
spinti alla ribellione ed alla lotta, Beh, signori, prima
di cominciare sappiate che un giorno, pensando alla vostra vita,
nessun ricordo sarà intenso come il glorioso rischio cui avete
prudentemente deciso di sottoporvi. Oggi inizia la gloria, l'ago
che scivolava sottopelle, il gemito, i denti stretti, Cominciamo!,
vene di fuoco di lava di fiamma e cenere e lapilli e gli arti che
ricrescevano e le urla e le grida ed il soggetto accanto a Ellen
Brandt che ululava, si dimenava, gli occhi come bracia, Andiamo,
andiamo, dobbiamo andarcene da qui! Via, via, presto! Portateli via!
La mascella che si protrudeva,
la bocca spalancata, luce, luce bianca, luce e boato e bianco e
bianco boato e bianca luce lampo, tuono, scoppio, deflagrazione.
“Una
bomba non è una bomba quando fa cilecca.” sussurrò Tony “Le
cose non funzionano sempre, giusto, amico? È difettoso, ma hai
trovato un compratore.”
Tling.
Stong. Crash.
Stark
scartò di lato -Colin era arretrato, il cacciavite gli era caduto di
mano, il piede aveva cozzato contro la cassetta degli attrezzi e
c'erano martelli e viti e chiodi e nastro adesivo ovunque.
“Hendrick?”
Tony si alzò dalla sedia girevole, la fronte corrugata.
L'Agente
pareva un animale in trappola, gli occhi stralunati, una mano ai
capelli, l'altra aggrappata al bordo del tavolo da lavoro, il respiro
ratto nei polmoni, il petto che si alzava, si abbassava, si alzava,
si abbassava, a frequenza sempre più rapida, sempre più fuori
controllo.
“L'ho
già visto.” ansimò, le pupille due capocchie di spillo conficcate
nei bulbi oculari “L'ho già visto. Ho già visto quell'uomo. Io
conosco quell'uomo. L'ho già visto. L'ho già visto.”
Tony
mosse un passo nella sua direzione, con cautela, i palmi aperti, le
dita ben distanziate tra loro.
“Killian?”
lo interrogò, scandendo ogni lettera, cercando il suo sguardo “Hai
visto Aldrich Killian?”
Colin
annuì, quindi negò il capo, si coprì un occhio con la mano, serrò
l'altro dietro le palpebre.
“Lo
hai visto?” ripetè Stark “Dove? Con chi?”
“Con
Pierce. Al Triskelion.” deglutì “Ho visto Aldrich Killian
insieme ad Alexander Pierce.”
Località
Sconosciuta
2011
Quando
Alexander Pierce venne a prenderlo, Steve era ancora seduto a terra.
Aveva
sangue sulle mani e sangue tra i capelli e sangue sulla schiena e
sangue sui piedi e sangue negli occhi e sangue nei polmoni e sangue
nello stomaco e sangue nelle viscere e sangue nel cuore e sangue
nelle vene.
Era
ancora nella stessa stanza dove era avvenuta la sentenza di Bruno e
il corpo dell'italo-americano era sempre a terra, in un una pozza di
lordura, rigido, maleodorante; attorno a lui giacevano altri sei
cadaveri, con la testa schiacciata, col petto maciullato, con gli
occhi strappati dalle orbite, con le dita dilaniate, con la lingua
recisa, con le ginocchia divelte, con l'ombelico squarciato, con i
polsi spezzati, con lo sterno fracassato.
Gli
era stato ordinato di aspettare l'arrivo dei suoi aguzzini, togliersi
i vestiti, sopportare senza reagire ogni loro sopruso -Erano volati
pugni e calci e ginocchiate, persino morsi, uno di loro si era levato
la cintura e adesso uno squarcio si apriva sulla schiena del soldato,
all'altezza delle vertebre-, quindi, dopo due ore di tortura,
ucciderli tutti.
E
così era stato.
Steve
aveva eseguito ogni ordine alla perfezione, non aveva emesso suono
durante le sevizie e tanto meno durante l'esecuzione. Non aveva
provato gioia, non aveva provato dolore.
Non
aveva provato niente.
Gli
era stata affidata una missione e lui l'aveva portata a termine.
Prima
che Pierce venisse a prelevarlo, erano trascorse altre tre ore e
ventisette minuti e sedici secondi, diciassette, diciotto,
diciannove...Durante quel lasso di tempo, Steve si era semplicemente
seduto ad aspettare, senza mettere a fuoco nulla, la mente svuotata
di ogni pensiero, la mano destra stretta al coltello.
E
quel coltello, il cui filo era ancora arrossato dal sangue e da umori
e coriandoli di pelle, lo aveva offerto a Pierce non appena questi
aveva messo piede nella stanza.
L'uomo
si portò un fazzoletto bianco al naso e gli fece un cenno, perché
rinfoderasse l'arma.
“In
ginocchio.” ordinò e Steve, senza badare al sangue che formicolava
negli arti immobili, fece quanto gli era stato detto e stette in
silenzio e attese e non ebbe rimostranze e non si ribellò al ceffone
inanellato che s'abbatté sulla sua guancia.
“Alzati.
Vieni con me.”
Il
soldato lo seguì ed i suoi occhi non videro mai lo sguardo che si
lanciarono gli altri membri dell'HYDRA nei corridoi, non le occhiate
degli specialisti che attendevano lui e Pierce lì, nella camera dove
ancora e di nuovo e di nuovo e ancora avrebbero cancellato e
riscritto qualsiasi idea si ostinasse a covargli nella mente.
“Siediti.”
Steve
si accomodò sulla chiese-longue ed appoggiò i gomiti sui braccioli.
Due assistenti gli legarono i polsi e le caviglie ed egli allargò le
dita sopra i graffi scavati con le unghie sull'imbottitura di pelle.
Gli fermarono il collo e il soldato aprì la bocca, ad accogliere tra
i denti un morso di cuoio.
Chiuse
gli occhi quando le tempie furono incastrate tra le due piastre
metalliche, ma prima che arrivasse l'oblio e con esso le scosse ed il
tuono ed il lampo ed il ruggito e la bombarda e lo schock ed il
panico ed il vuoto, il vuoto più nero, l'Abisso, il Gorgo, udì la
voce di Pierce accanto a sé.
“Ad
ogni azione sbagliata, Steven, non appena è compiuta corrisponde una
punizione eguale. Ti cancelleremo un'altra volta, vista la tua
opposizione di coscienza di questa mattina, ma sei un ingenuo se
pensi che ti permetterò di dimenticare il volto del giovane Bruno
mentre lo uccidi.”
Steve
spalancò gli occhi.
E
di lui non rimase altro se non un ultimo, disperato grido.
Note
Ho
lanciato indizi a manetta, in questo capitolo!
E,
oh, e il piccolo Bruno Chianti non è un personaggio nuovo alle mie
storie. Lo trovate anche, sebbene in altra veste, in Cor Mortem
Ducens!
Mi
raccomando, non scordatevi di passare per di qua!
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