Monkey's room

di hollien
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di inizi inaspettati e prospettive non proprio rosee ***
Capitolo 2: *** Di scimmie sbraitanti e volpi che istigano alla violenza ***
Capitolo 3: *** Di set fotografici e la brutta abitudine di non bussare ***



Capitolo 1
*** Di inizi inaspettati e prospettive non proprio rosee ***


 
Scleri pre-capitolo: Allora, come sappiamo tutti - perché tutti ci passiamo, è un dato di fatto - non è mai facile quando si entra in un nuovo fandom. Purtroppo sono una ragazza particolarmente frignona emotiva perciò, se mi dovesse capitare di cominciare a sclerare per solo Kami-sama sa, non vi preoccupate, è normale. Tralasciando flippe che immagino vi interessino quanto un cactus nelle mutande di Hanamichi (povera la mia scimmietta), volevo dirvi che era da una vita che desideravo pubblicare qualcosa su un capolavoro come Slam Dunk - e sulla mia OTP, of course. Purtroppo per voi non vi dirò se la storia sarà RuHana o HanaRu, gumen. ;w;
In ogni caso, è solo grazie a Slam Dunk se tutt'ora amo i manga spokon e ho rimpianto sino ad oggi di non avervi mai scritto nulla. Tuttavia, finalmente, mi sono decisa a pubblicare una long-fic dopo una fruttuosa riflessione mangiando patatine e chili di nutella tipo eremita dei boschi. (?) Ho voluto cominciare con qualcosa di soft (credo), comico, ma anche introspettivo con qualche accenno angst. Btw, vi informo che la sottoscritta è tutto fuorché amante della serietà. PRO IDIOZIE FOREVER. Avrò tempo per sfogarmi più in là, non temiate.
Non mi resta altro da dire se non che spero apprezziate questa mia piccola chicca e che mi facciate sapere cosa ne pensate tramite una piccola recensione. Non chiedo niente di più!
Disclaimer: I personaggi di Slam Dunk non mi appartengono, ma se mi appartenessero avrei donato un cervello a quella babbuina di Haruko Akagi, oppure le avrei dato fuoco. Mi sarebbe comodo estirparla per sempre, ecco. (◕‿◕✿)

N.B: Non metto la nota OOC perché spero con tutto il mio cuore di non cadervi. Ai fini della storia tutti personaggi che conosciamo avranno sulla ventina d’anni. Il nostro Rukawuccio, forse, potrebbe essere più talkative del normale.
hollie.
 
 
 
 
 
Monkey’s room
Chapter 1: Di inizi inaspettati e prospettive non proprio rosee



Il risveglio di quella mattina, come da routine, era stato un completo disastro. Non sapeva perché, anzi, non era vero, lo sapeva benissimo perché ogni sacro santo giorno si svegliava con l’umore nero e la voglia di uccidere la prima persona che gli capitava a tiro.
Tutto partiva dal suono dell’aggeggio che se ne stava sul suo comodino accanto al letto – che ora si trovava a terra dopo averlo casualmente preso e scaraventato involontariamente contro il muro della stanza senza alcuna pietà. Come da suo compito, l’oggetto malefico si era messo a scampanellare alle 9:00 precise del mattino, distruggendo la sua già poca pazienza e la sua facile irritabilità con un continuo drin drin che il ragazzo dai folti capelli rossi aveva percepito come tanti piccoli aghi infilzati nelle orecchie. Una tortura, in pratica.
In sintesi, si svegliava puntualmente con le palle girate perché non riusciva ad impedirsi di non far finire una sveglia fracassata sul pavimento, e ciò che lo faceva incazzare il doppio, invece, era che stupidamente continuava a comprarne di nuove per riuscire a superare quel duro ostacolo chiamato “risveglio con il botto”.
Tirando le somme, Hanamichi Sakuragi e le sveglie erano due mondi completamente diversi che non avrebbero mai potuto trovare un punto di incontro, tuttavia gli era necessario averne una accanto perché, altrimenti, rischierebbe ogni volta di tirare avanti a dormire fino ad un orario improponibile, per il quale non sarebbe mai stato perdonato dai suoi due cani da guardia – o anche conosciuti come mamma e Yo.
Con lentezza degna di un bradipo si era levato le coperte calde di dosso, dopodiché aveva appoggiato entrambe le piante dei piedi sul pavimento cercando di ricordare come diamine si facesse ad alzare il culo dal letto e riuscire a camminare. C’era voluto più di qualche istante prima che il cervello gli desse una risposta soddisfacente.
Una volta raccolte le forze necessarie si era diretto verso il bagno, spogliandosi e buttandosi in doccia nella speranza di risvegliare i muscoli tonici e la mente che ancora stavano navigando nel mondo dei sogni.
Così non era stato, tanto per cambiare.
Fortunatamente ci aveva pensato la colazione bella carica preparata da sua madre prima di andare al lavoro a dargli quella botta di vita che lo avrebbe salvato per il resto della giornata. Nel suo metro e cinquantanove di altezza, Sakuragi Mariko era una piccola grande cuoca di cui Hanamichi andava molto fiero.
Era giunto alla conclusione che senza di lei sarebbe morto di fame, proprio per questo non aveva ancora preso in considerazione la possibilità di andare ad abitare da solo. Non ne sarebbe uscito vivo.
Finito di divorare l’ultima ciotola di riso bianco si era diretto nuovamente in camera sua, sostituendo alla canottiera e ai suoi vergognosi pantaloncini bianchi a pois rossi una comoda maglia bianca a maniche corte e un paio di jeans chiari larghi al punto giusto. Le scarpe da ginnastica del medesimo colore del primo indumento le sarebbe dovute andare a raccattare nel genkan, per questo optò prima di darsi una veloce lavata ai denti e una pettinata ai capelli, poi vestirsi con il pesante giaccone blu, infilando nelle tasche chiavi e cellulare, ed infine recuperare le scarpe nello spazio apposito della casa.
Era uscito dalla propria dimora di corsa per evitare di perdere il bus, combattendo il freddo che, dannazione, quella mattina si era fatto sentire più che mai. Tra sé e sé, in quel momento, aveva pensato che non si sarebbe meravigliato se, durante il tragitto, i suoi piedi si fossero ghiacciati e gli avessero impedito di proseguire.
Dopotutto la sfiga lo amava così tanto, perché non giocargli un altro dei suoi scherzi molto simpatici?
Con sua immensa gioia era riuscito ad infiltrarsi nel bus senza incidenti di percorso prima che l’autista gli sbattesse le porte in faccia, trovando pure da sedere – ma quello era dovuto soprattutto al fatto che la gente, spaventata dall’aria da teppista che emanava con i suoi assurdi capelli rossi e i suoi tratti fin troppo marcati per un giapponese, gli lasciasse appositamente il posto per non stargli troppo vicino.
Alcuni avrebbero potuto pensare che fosse triste esser giudicati prima di aver dato dimostrazione della propria vera essenza, Hanamichi no. Ci aveva fatto l’abitudine, e l’idea che le persone si facevano di lui non era poi completamente sbagliata.
Il tragitto era durato dieci minuti nei quali Sakuragi si era gongolato pensando a cosa lo avrebbe aspettato una volta giunto a destinazione – escludendo una strigliata per uno dei suoi soliti ritardi.
Aveva abbandonato il bus dopo sei fermate e, una volta sceso, la sua vista era stata immediatamente accolta da un’insegna argentea applicata su una grande struttura bianca latte.
“Monkey’s room”, c’era scritto in caratteri lineari e ben coincisi.
Sì. Chiunque sapesse anche solo un minimo di inglese avrebbe pensato che era da idioti dare un nome tanto stupido e senza senso ad un bar. Si addiceva più che altro al nome di uno zoo.
Hanamichi non si era mai interrogato sulla natura di quella denominazione, né tanto meno era interessato a sapere quale storia mastodontica vi fosse dietro. L’unica cosa che gli interessava era lavorarvici come faceva già da qualche mese.
Aveva buttato un’occhiata all’orologio da polso, accorgendosi di esser in ritardo di soltanto una mezz’ora. Un super record per un ritardatario come lui.
Se l’era risa sotto i baffi mentre aveva girato l’angolo nella via che affiancava il bar per potervi entrare dall’esterno, evitando la strada peggiore ovvero quella di entrare dall’ingresso ed esser preso di mira dai suoi colleghi che l’avrebbero fatto sgobbare il doppio per fargliela pagare.
Superato il cancelletto notò parcheggiato nel piccolo giardino retrostante uno squallido motorino rosa shocking, riconoscendo immediatamente di chi fosse dato che solo una persona in tutta Kanagawa aveva il coraggio di girarvi per le strade.
“E’ già arrivato”, constatò con amarezza. Giurò su chiunque che prima o poi – più poi che prima – avrebbe anticipato tutti quanti, lasciandoli a bocca aperta. 
Costringendosi a non sputare su quel catorcio ambulante e passare avanti, Sakuragi salì tre scalini e aprì la porta che divideva l’interno dall’esterno, cercando di far rumori limitati, quasi inudibili, reprimendo la voglia di fare una delle sue solite entrate in scena. Così facendo avrebbe potuto sgattaiolare in bagno ed inventarsi la scusa di esser presente già da un pezzo ma che, avendo avuto dei problemi urgenti allo stomaco, si era potuto mostrare solo in quell’istante.
“E’ un piano perfetto”, confermò a se stesso, lodando la sua tattica. Peccato non avesse messo in preventivo, una volta varcata la soglia, di trovarsi davanti ad un armadio molto più alto e grosso di lui con le mani poggiate sui fianchi e lo sguardo da serial killer.
Hanamichi levò lo sguardo a tratti, pregando cieli e terre che non fosse chi pensava che fosse.
«Akagi…senpai?», domandò con finta innocenza quando i suoi occhi selvatici incontrarono due iridi nere come la pece, sforzando un sorriso che chiedeva pietà.
Nel novanta per cento dei casi l’avrebbe sbudellato vivo. Nel restante dieci per cento dei casi l’avrebbe preso di forza e fatto volare dall’altra parte della città.
L’espressione di Akagi Takenori si indurì ancor di più quando udì quell’onorifico ridicolo accompagnato al suo cognome, soprattutto perché proveniva dalle labbra di Hanamichi, colui che la parola rispetto, almeno nei suoi confronti, non sapeva nemmeno che cosa volesse significare.
Le probabilità di rimanere illeso per i prossimi dieci secondi, constatò il rosso facendosi sempre più piccolo, si erano abbassate vertiginosamente allo 0,05 per cento.
«Pessimo modo per cercare di salvarti le chiappe, Sakuragi. Non convinceresti nessuno con quel tono da ragazzina vergine.»
L’altro alzò gli occhi al cielo grugnendo, spalmandosi contro la parete. «Apprezza lo sforzo Gori. Ha fatto senso anche a me chiamarti senpai, non credere.»
Ad Akagi si allargarono pericolosamente le narici, il che voleva significare solo una cosa: era fottuto. Accidenti a lui e alla sua lingua che se ne andava per conto suo.
Al contrario di ciò che si aspettava, però, il Gorilla se ne rimase buono, liquidandolo con un semplice: «Muoviti a cambiarti che abbiamo il pienone stamattina.»
La faccia di Hanamichi navigò tra lo stupore, il disappunto e la delusione.
Gori che non sbraitava e non gli rinfacciava di esser un inutile idiota senza cervello? Gori che non lo prendeva a mazzate per le sue solite prese per il culo? Gori che si stava allontanando senza più aggiungere un’altra parola?
«Sei sicuro?», domandò ad voce alta grattandosi la nuca. Forse stava ancora dormendo e quello era solo un sogno. Non poteva esistere una realtà in cui Akagi Takenori non lo pestava per cercare di vedere se una botta in testa, magari, gli avrebbe donato un po’ di intelligenza in più. «Non è che non ti senti bene?», ma Akagi se ne era già sparito nel salone principale, ignorandolo bellamente.
«Cosa ne sarà della mia vita ora?», si chiese tristemente Sakuragi mentre si dirigeva nello spogliatoio per potersi cambiare ed indossare la divisa da lavoro.
Conosceva Akagi da ormai un anno e mai, ma proprio mai una volta si era lasciato sfuggire la possibilità di insegnargli le buone maniere. Il rosso si divertiva a vederlo andare su tutte le furie e scappare prima che riuscisse ad acchiapparlo e stringerlo nella sua famosa mossa “la morsa del Gorilla”. Se poi lo riusciva ad acchiappare beh, quella era un’altra storia – molto più dolorosa.
Teatralmente si appoggiò allo stipite della porta con l’aria distrutta, pregando Kami-sama di ridargli indietro il Gori di sempre e non quella specie di amorfo che aveva preso il suo posto.
«Hanamichi?», venne chiamato improvvisamente da una nuova presenza dalla voce meno roca di Akagi ma non meno bassa e mascolina. Non dovette nemmeno girarsi per poter riconoscere a chi appartenesse. «Cosa staresti facendo esattamente?»
Sakuragi si voltò lentamente, l’aria di uno che aveva ricevuto la notizia più brutta della sua intera esistenza.
«Gori…», piagnucolò, recitando in maniera drammatica davvero pessima. «Gli hanno fatto il lavaggio del cervello, Yo!»
Yohei Mito, il povero martire, o anche conosciuto come il migliore amico della testa rossa, scosse il capo, constatando che la carriera d’attore shakespeariano non faceva per lui.
«Vorrei vedere te. Se provi a dare un’occhiata in sala ti renderai conto del perché è rigido come un pezzo di legno.»
Sakuragi smise immediatamente di fare l’idiota patentato e si mise in moto per dare una sbirciata alla situazione come gli aveva consigliato Yo. Una volta tornato indietro i suoi occhi avevano assunto una forma a palla.
«Stai scherzando vero?», interrogò con il tono incrinato. Il suo intuito gli stava suggerendo di scappare. «Ti prego, dimmi che stai scherzando Yohei. Sono solo le 10:30 del mattino, com’è possibile…?»
«Abbiamo delle special guest», spiegò Mito sbrigativo, incrociando le braccia al petto leggermente su di giri. Anche lui era rimasto stupefatto quando aveva visto tutta quella baraonda di ragazze urlanti spingersi, tirarsi i capelli e strisciare a terra per poter raggiungere gli oggetti di adorazione che avevano fatto ingresso nel suo bar.
A quanto aveva capito erano due modelli che stavano spopolando tra le teenagers e le giovani donne negli ultimi tempi. Lui, disinteressato a certe porcherie come giornaletti e riviste di moda, non li aveva mai sentiti nominare.
«Moriremo», gli fece notare Sakuragi, sovrastandolo in altezza e afferrandolo per le spalle. «Lo capisci?»
Yohei si liberò in fretta della presa per evitare che Hanamichi cominciasse a fracassargli le ossa dalla disperazione, dandogli delle pacche sulla schiena, incoraggiandolo con un ghigno. «Dai che con tutte le ragazze che ci sono forse un po’ di figa la trovi anche tu. Sarebbe anche l’ora a vent’anni.»
Venne subito fulminato da uno sguardo castano assassino, ma, per volere del fato, non venne colpito da una testata. Strano, quel giorno sembrava che tutto funzionasse all’incontrario.
«Il mio cuore è solo per la mia Harukina cara. Delle altre galline mestruate non me ne importa niente», mise in chiaro per l’ennesima volta, professando indirettamente il suo eterno amore per la sorellina minore di Akagi – che, tra parentesi, lo vedeva come l’amico a cui confidare ogni cosa. Altro che prossimo fidanzato!
Era ammirevole Hanamichi da quel punto di vista. Quando qualcosa gli piaceva, che fosse una persona o una passione, non mollava mai, neanche quando sapeva di non avere speranze. Così era stato con Haruko, così era stato con l’accademia delle belle arti che tutt’ora stava frequentando.
Una qualità che Mito non possedeva e che invidiava al suo migliore amico da quando erano bambini.
«Va bene, va bene». Non osò ribattere altrimenti una testata, questa volta, non gliela avrebbe risparmiata. «Ora torno dentro che altrimenti Noma, Okusu e Takamiya impazziscono. Takamiya ha rischiato lo svenimento per un calo di zuccheri poco fa, tra l’altro.»
Sakuragi strabuzzò gli occhi incredulo. «Ma se è sempre dietro a mangiare quel maiale!»
Yohei fece spallucce. «Si vede che stavolta non ha mangiato le quantità giuste», se esistevano delle quantità di cibo sufficienti per Takamiya, poi, era un mistero. «Scappo, tu muoviti!»
E così sparì, affrontando con coraggio la clientela che di sicuro lo avrebbe assalito.
Hanamichi non scappò anche se la tentazione era tanta.
Non era un granché come cameriere, era più bravo a starsene dietro il bancone ad aspettare che le persone pagassero il conto – almeno ci pensava la cassa a fare i calcoli per lui; ma quella volta avrebbe dovuto per forza stanarsi dal suo recinto di protezione e prendere le ordinazioni affiancando Yohei, il resto dell’armata, Gori e Megane (Kogure), magari evitando di fare i suoi soliti teatrini da megalomane.
Era più forte di lui però. Cosa poteva farci se era un genio e doveva esternare tutta la sua magnificenza al mondo intero?
Accantonò quei pensieri rifugiandosi nello stanzino apposito per cambiarsi, togliendosi gli indumenti comodi, appallottolandoli e gettandoli dentro l’armadietto, dopodiché indossò la divisa da cameriere: camicia bianca a righe bordeaux abbottonata fino al collo, cravatta, pantaloni e scarpe nere. Il grembiule fu la ciliegina sulla torta.
«Sono pronto», affermò ad alta voce, ravvivandosi i capelli a fiamma e dirigendosi verso il salone principale.
Avrebbe combattuto il male - rappresentato dalle ragazze carine ma starnazzanti quanto delle galline più il resto dei clienti estranei all’evento - e ne sarebbe uscito vincitore come ogni volta.
Era un Tensai dopotutto.
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, dopodiché entrò come un soldato valoroso farebbe nel momento in cui sa che sta per andare in guerra a combattere contro il nemico.
Tutto proseguì in modo pressoché liscio, così liscio che trovò il coraggio di aprire piano le palpebre e rendersi conto che tutte le ragazze erano accumulate lungo il bancone, arrapate quanto potrebbe esserlo una donna che non vede un uomo da più di vent’anni. Possibile che gli ospiti famosi di cui parlava Yohei fossero di una bellezza così accecante da esser addirittura delle calamite per gli ormoni femminili?
«Queste sono possedute», disse un Okusu perplesso, apparendo improvvisamente alla sua destra.
Anche Noma lo affiancò repentino, gli occhi che sembravano volersi mangiare ogni donna presente nel bar. «Vorrei essere al posto di quei due ragazzi. Un harem solo per me…»
L’ultimo a comparire fu Takamiya con in mano del cibo – tanto per cambiare. Si era ripreso in fretta dal mancamento. «Aspetta e spera, Noma. Non raggiungerai la loro bellezza nemmeno tra due vite.»
Hanamichi li fissò uno dopo l’altro, aspettandosi un saluto. Niente. Gli erano accanto e non avevano nemmeno avuto la decenza di dire un “ciao”.
«Buongiorno anche a voi!», tuonò quindi, attirando la loro attenzione su di sé. Odiava essere invisibile, lui era il tensai! Nessuno si poteva permettere di ignorarlo.
«Buongiorno anche a te, Hanamichi», risposero in coro, tutti e tre come se niente fosse. «In ritardo come sempre eh?»
Sakuragi annuì svogliatamente, rimpiangendo di non essersene rimasto a letto. Ora la situazione sembrava abbastanza gestibile, ma quando avrebbero cominciato ad ordinare sarebbe stato una tragedia per tutti.
«Le avete già affrontate?», domandò lanciando un’occhiata all’Armata, non specificando i soggetti. Avrebbero capito comunque.
Okusu scosse la testa, arrovellandosi i baffetti. «Nessuno ne ha il coraggio. Neppure Akagi. Si è limitato a prendere le ordinazioni degli altri clienti.»
Noma confermò. «Yohei invece è insieme a Megane-kun nelle cucine a preparare il tè e sfornare altre brioche.»
«Ci vorrebbe qualcuno che fosse abbastanza coraggioso da richiamare all’ordine le bisbetiche e che cerchi di recuperare quei due poverini che sono stati accerchiati.»
Non seppe perché ma Hanamichi si trovò repentinamente a sostenere lo sguardo supplicante di tre persone.
Oh no. Non volevano mica che…
«State dicendo che dovrei essere io quella persona coraggiosa?!» sbraitò, non nascondendo il suo disagio.
Non se ne parlava. Ci teneva alla pelle. Quelle pazze lo avrebbero fatto a pezzi e messo in padella piuttosto che ascoltarlo.
I loro occhi si fecero ancora più grandi e supplichevoli, le mani incrociate per pregarlo. «Non c’è nessuno meglio di te che potrebbe farcela», lo lusingò apposta Noma per ammorbidirlo, facendo l’occhiolino agli altri due per cercare del sostegno morale.
«Esatto. Quelhlo con le pallfe qufi sei vu Hanamifi», si aggiunse Takamiya, parlando - sputando - mentre aveva ancora la bocca piena di patatine.
«E poi…», Okusu prese in mano le redini giocandosi l’ultima carta, «sei o non sei il Tensai
Sbam.
Fu come se un secchio d’acqua gelata gli fosse appena stato rovesciato addosso.   
Era vero. Come poteva lui, colui che andava in giro ad autoproclamarsi il genio assoluto, avere paure di quattro ragazze – la matematica non era mai stata il suo forte – in balia degli ormoni? Gliel’avrebbe fatta vedere. Col cazzo che si tirava indietro.
Noma aveva ragione: nessuno meglio di lui era adatto per un compito simile. Akagi e Yohei non erano altro che due cagasotto al suo confronto.
«Mi avete convinto», decretò, snudando i denti in un sorriso che trasudava superiorità. «Andrò lì e farò in modo che si diano una calmata quelle squinternate. Quando do la mia parola niente può fermarmi.»
I tre membri della Guntai alzarono il pollice in segno di vittoria, complimentandosi per il loro impeccabile piano riuscito. Ora non gli restava che guardare che fine avrebbe fatto il loro capo; già avevano aperto delle scommesse su come lo avrebbero malmenato.
«Vado eh», annunciò di nuovo Hanamichi, convincendo loro ma anche se stesso a non mollare, facendo un passo dopo l’altro in maniera meccanica, inspirando, se non tutto, quasi tutto l’ossigeno presente nell’aria.
Mille domande gli si stavano affacciando nell’anticamera del cervello mentre si avvicinava al gruppo delle ragazze assatanate: cosa faccio se mi attaccano? Qualcuno verrà al mio funerale? Come farà il mondo senza la mia genialità?
Ormai era troppo tardi per darsi una risposta. Tutti i clienti che si trovavano in disparte, l’Armata, Akagi, Kogure e Yohei avevano gli occhi puntati su di lui, curiosi di scoprire come sarebbe andata a finire.
Hanamichi fece un paio di colpi di tosse e, dopo aver attirato la loro attenzione e gonfiato i polmoni, cominciò ad urlare: «Scusatemi se vi interrompo ma state creando un gran casino all’interno del bar! Capisco che vogliate leccare i piedi alle super star lì davanti ma vi pregherei di accomodarvi ai tavoli! Qui dobbiamo lavorare! Se non siete interessate a prendere nulla allora vi chiederei gentilmente di andarvene!» O vi assicuro che ci penserò io a farvi scappare, omesse.  
Calò un silenzio generale in tutto il salone – a patto di Yohei e il resto dell’armata che si stavano trattenendo dal ridere; si protese per diversi istanti finché una voce, anzi, un canto angelico non si fece sentire in mezzo al gruppo illuminandogli gli occhi di una luce nuova: «ragazze, quest’uomo ha ragione. Abbiamo creato una grande confusione fino ad adesso, è ora di placare i nostri animi e comportarci da persone civili.»
Partì un bisbiglio generale che si dissolse in grugniti, cenni di disappunto ed amarezza, insieme allo sciogliersi dell’ammassamento che si era creato intorno al bancone. Alcune rimasero all’interno del bar, sedendosi nei tavoli vuoti, altre invece se ne andarono. Evidentemente non avevano soldi per potersi prendere anche solo un caffè quelle ingrate.
Ce l’aveva fatta. Aveva combattuto il male e tutto questo grazie anche a…
«Haruko-san!», esclamò felice come una pasqua, andando incontro al suo raggio di sole con il cuore nel petto che batteva a mille.
«Sakuragi-kun!», ricambiò la ragazza dai capelli castani, sorridendogli come solo lei sapeva fare.
Era dolce e carina la sua Haruko: proprio come un angelo venuto dal cielo lei lo aveva salvato.
«Grazie per aver preso le mie difese Harukina cara, anche se il Tensai ce l’avrebbe fatta comunque a tenergli testa».
Scoppiò in una risata sguaiata, il suo famoso marchio di fabbrica che fece ridere, di conseguenza, anche lei. 
«Figurati! Anzi, mi dispiace Sakuragi-kun. Ho perso il controllo anche io quando ho saputo che beh, ecco, loro, anzi, lui era qui.» Il sangue le affluì violentemente nelle gote, rendendole di un colorito quasi purpureo. «Insomma, n-non capita spesso di incontrare il tuo idolo nello stesso posto in cui lavora tuo fratello.» Si afferrò il viso tra le mani, indirizzando un’occhiata verso una parte del bar, precisamente dove prima le ragazze erano accavallate l’una sopra l’altra in modo più concentrato.
Seguì la linea immaginaria del suo sguardo fino a che non incontrò un paio di iridi blu elettriche che lo stavano fissando in maniera non proprio carina, quasi con fare annoiato ed innervosito allo stesso tempo.
Quel tipo era il “lui” per cui la Akagi era arrossita fino alla punta dei capelli.
Hanamichi si prese un attimo per mettere a fuoco la figura che ora gli stava puntando un dito contro: corti capelli corvini accompagnati dalla frangia che ricadeva sul viso ovale, lunghe ciglia che mettevano in risalto quegli occhi dal colore intenso come la notte, labbra sottili e ben delineate, pelle pallida come la neve, corpo slanciato e decisamente cesellato; dai tratti non sembrava mostrare alcuna imperfezione. Sakuragi si trovò stupidamente a pensare che avrebbe potuto benissimo eguagliare statue che rappresentavano gli dei dell’antica Grecia talmente era perfetto.
Il David di Michelangelo gli avrebbe fatto un baffo, a confronto.
«Tu» venne chiamato con tono sufficiente, quasi stesse parlando ad uno scarafaggio. «Vieni qui e prendi il mio ordine.»
Le regolari sopracciglia di Sakuragi si abbassarono pericolosamente. Sperava di aver capito male. «Come prego?»
Il moretto alzò gli occhi al cielo. Già detestava esser finito in quel buco di posto, in più gli toccava ripetere la stessa affermazione per la seconda volta quando odiava sprecare parole inutili. «Sei idiota? Ho detto di venire qui. Devo ordinare. Aspetto da mezz’ora.»
I nervi di Hanamichi saltarono uno dietro l’altro come corde di violino, scatenando in lui la voglia di spiaccicargli quel faccino furbo sul tavolo o, peggio ancora, prenderlo a testate con la stessa crudeltà di un tempo.
Chi pensava di essere quello? Nessuno poteva permettersi di trattarlo come un imbecille, al di là del fatto che tizio fosse famoso e lui no.
Possibile che alla sua Haruko piacessero dei tipi del genere? Lanciando un’occhiata rapida alla ragazza con la bavetta alla bocca decretò che sì, gli piacevano eccome.
«Gumen gumen!», intervenne la figura al fianco del pallone gonfiato, rivelandosi essere la seconda special guest della giornata. Fu di aiuto ad Hanamichi spostare la propria attenzione su quella nuova presenza dalla faccia sorridente. Assomigliava in maniera impressionante ad un Buddha, forse un po’ più magro e dai capelli dall’acconciatura decisamente singolare - parlava lui - ma l’aura che lo circondava era la stessa.
Trasmetteva uno strano senso di pace interiore e calma: ad occhio e croce sembrava più alto rispetto a quell’altro, il corpo meno snello per merito della muscolatura più pronunciata.
«Il mio amico è sempre un po’scorbutico, lascialo perdere.»
Faccia da schiaffi mugugnò un “mh” tra le labbra, mantenendo quell’aria da chi stava sopra a tutto e a tutti.
Non sapeva manco chi fosse ma già lo stava facendo incazzare come una bestia; in più, come se non bastasse, la sua Harukina aveva ancora lo sguardo venerante puntato su di lui.
«Potremmo ordinare?», chiese con cortesia Mister stinco di santo, concedendosi una breve risata.
Pareva uno di quei serial killer da film horror che ti ammazzano con il sorriso.
Hanamichi, alla fine, annuì, lasciandosi sfuggire un suono gutturale ad indirizzo dello schiavista affianco. Peccato avesse già smesso di guardarlo facendosi i fatti propri.
Abbandonò con tristezza Haruko per dirigersi dietro al bancone in legno a fare ciò per cui veniva pagato, seguito da delle grosse risate da parte dell’Armata che si stava gustando la scena da lontano.
In risposta Hanamichi si voltò per un breve attimo verso di loro, facendogli segno che nella pausa pranzo li avrebbe conciati per le feste. Un deglutire generale tra i tre lo fece sentire molto meglio.
«Dici che Sakuragi avrà bisogno di una mano, Mito-kun?», interrogò Kogure, spiando la situazione dalla cucina.
Non aveva mosso un solo dito in precedenza solo perché gli era stato imposto da Akagi. “Deve capire che non può più permettersi di comportarsi da adolescente, è un uomo ormai”, gli aveva spiegato il suo compagno, convincendolo con quelle parole a far in modo che non intervenisse.
«Se la caverà», affermò Mito in un sorriso fiducioso. «Anche Gori è d’accordo con me», e proprio in quell’attimo Akagi si era girato, lanciando un’occhiata d’intesa a quest’ultimo.
Kogure, nonostante il tono tranquillo di Yohei, si sentì di fargli notare che Sakuragi stava fumando dalla rabbia per colpa di uno dei due ospiti.
«Non è più un ragazzino, Kogure-san. Ha imparato a controllare la sua impulsività nelle situazioni che lo richiedono.» E anche io, materializzò nella sua mente.       
A quel punto, al castano, non restò che rimanersene in silenzio a finire di scottare le cialde ed imbottire i krapfen con la crema, nella speranza che Mito ed Akagi avessero ragione. Si fidava del loro giudizio.
«Allora, signori», disse Hanamichi con tono educato, palesemente forzato dalle circostanze, «che cosa vi posso portare?»
Capelli a punta diede un’ultima occhiata al menù prima di decidere in via definitiva. «Una tazza di tè verde e una ciambella, possibilmente al cioccolato», rivolse poi l’attenzione al ghiacciolo, «tu…Rukawa?».
“Si chiama Rukawa dunque” memorizzò la testa rossa, annotandosi su un foglietto l’ordinazione appena richiesta.
«Mh. Un bicchiere di latte», esalò l’altro con pigrizia, appoggiando il gomito sul bancone per sostenere il peso della testa.
Sakuragi si lasciò sfuggire una bassa risata derisoria.
Sembrava uno di quegli adolescenti che credevano che bevendo latte sarebbero cresciuti in altezza in un batter d’occhio; anche l’aumento del volume nella regione in mezzo alle gambe sarebbe stato compreso nel pacchetto.
«Ti conviene ordinare un caffè», consigliò l’amico con l’immancabile sorriso sornione, appoggiandogli la mano sulla spalla. «Lo vedo lontano un miglio che stai per addormentarti.»
Il tipo chiamato Rukawa lanciò uno sguardo di disapprovazione al palmo appoggiato su di sé, ammiccamento glaciale che l'altro sembrò ignorare. «Prendo quello che mi pare, Sendoh.»
Ecco svelata l’identità anche di testa a punta, il quale, sghignazzando, cominciò a colpire il frigido con delle pacche sulla schiena, come se gli avessero appena raccontato una battuta. «Sei sempre il solito, Rukawa.»
«Scusate se vi interrompo», Hanamichi si premurò di attirare l’attenzione su di sé, alquanto infastidito. «Latte o caffè allora? Non ho tutto il giorno.»
Rukawa lo fulminò con i suoi occhi blu, visibilmente irritato dal comportamento di quella testa fulva.
Odiava chi non capiva al volo ciò che voleva, non gli sembrava di aver chiesto nulla di troppo complicato.
«Latte», rispose quel Sendoh al posto suo, bloccando sul nascere un commento poco rispettoso dell’amico. «Grazie.»
Sakuragi scrisse con calligrafia orribile il suo ordine, come se così avesse potuto fare indirettamente un dispetto a Mister “meno mi sforzo di parlare meglio è”.
Prima di andare a consegnare il biglietto a Yohei, però, si sentì in dovere di ricambiare la cortesia del Buddha.
«Figurati, Porcospino.»
E si ritirò, lasciando dietro di sé un Sendoh completamente sbigottito a causa di quel nomignolo assurdo. Rukawa, dal canto suo, aveva osservato il rosso idiota per qualche istante, dopodiché aveva incrociato le braccia sulla superficie in legno, nascondendovi il viso impastato dal sonno.
«Se non l’ho ammazzato è già tanto», dichiarò Hanamichi, sbattendosi dietro la porta della cucina, staccando l’ordinazione e dandola a Yohei. «L’hai sentito quel coso?! Mi ha chiamato idiota!»
Mito, in fondo, se l’aspettava una sfuriata del genere.
§ Il suo migliore amico aveva imparato con il tempo a non saltare in aria come una bomba ad orologeria, ma in compenso si scatenava quando aveva raggiunto una distanza abbastanza consistente per i suoi parametri per scoppiare in una serie di epiteti poco carini.
Prese il biglietto che gli fu consegnato da Sakuragi, cominciando a preparare il necessario. Nel frattempo si sentì solo in grado di rispondergli con un: «In questo caso ha ragione.»
Al rosso morì in gola un nuovo insulto per poter rivolgere uno sguardo infuocato al suo amico più fidato. Da che parte stava?
«Mi stai dicendo che sono davvero idiota, Yo?»
«No…», forse un pochettino, «ha ragione perché è il cliente.»
«Tsk, bizzeffe», asserì Hanamichi, mordendosi l’unghia del pollice dal nervoso. «Mi ci pulisco il culo con questi detti. Non ha diritto di par-»
Non riuscì a concludere la frase perché un pugno ben assestato lo colpì sulla testa, zittendo le sue lamentele sul nascere.
«Se hai tempo per brontolare hai tempo anche per lavorare imbecille che non sei altro!», esclamò Akagi, comportandosi esattamente come farebbe una mamma con il suo bambino – togliendo la parte sull’imbecille ecc…- capriccioso.
«Gori!» Hanamichi tornò ad esser baldanzoso, rasserenato nel rivedere il Gorilla di sempre rimproverarlo. Non riuscì nemmeno a prendersela nonostante, ora, gli dolesse il capo.
«Tieni Sakuragi: ciambella al cioccolato, tè verde e bicchiere di latte scremato.» Kogure gli aveva dato tutto il necessario, ridacchiando a causa alla scena appena tenutasi. «Ce la fai a portar tutto o vuoi una mano?»
Con maestria gli fece vedere che non c’erano limiti per un Genio come lui. Riuscì tranquillamente, in un modo o nell’altro, ad afferrare tutte e tre le ordinazioni delle simpatie che lo stavano aspettando là fuori.
«Spero se ne vadano in fretta così potremo star tranquilli», affermò con convinzione, ricevendo in cambio dei cenni di approvazione. «Voi pensate all’altra gente.»
Riuscì a farsi spazio grazie all’aiuto di Yohei che era accorso ad aprirgli gentilmente la porta, ma quando tornò nel salone principale notò una scena piuttosto incomprensibile; o meglio, bizzarra.
Era apparsa - da non si sa dove - una ragazza dai lunghi capelli castano scuro e dall’aria molto furiosa, simile ad una belva feroce che aveva appena avvistato il nemico.
Hanamichi poteva affermare con sicurezza che avesse circa la sua età.
Ciò che non si spiegava, però, era perché avesse preso il frigido per un orecchio e stesse cercando di trascinarlo via dal suo posto.
«Stupido Kaede!», cominciò ad inveire, incattivendo lo sguardo scuro come il carbone. «Ho dovuto cercarti in lungo e in largo! Ti sei forse dimenticato che oggi hai un set fotografico? Se non ti avessi trovato mi avrebbero spennata viva!»
«Ayako…», sillabò lui con la stessa energia di un orso in letargo, senza nemmeno provare a difendersi.
«Ayako niente! Andiamo immediatamente. Come tua manager poi la colpa diventa sempre mia!»
Faccia da Buddha guardava la scena ridendosela di gusto, ma presto venne chiamato anche lui sull’attenti dalla dittatrice.
«Akira è meglio che ti muovi anche tu se non vuoi che Koshino ti spezzi le gambe!»   
Sendoh, obbligato dalle circostanze a non poter rifiutare il suo consiglio, si alzò dallo sgabello, ma prima rivolse un’occhiata alla testa rossa che aveva ancora le loro ordinazioni tra le mani. Quasi gli dispiacque di aver causato trambusto in quel bar. Non sapeva perché ma gli piaceva parecchio come posto.
Si avvicinò al bancone e si premurò di lasciare su di esso 2000 yen (20 euro), chiedendo scusa per il loro disturbo e per avergli fatto perdere tempo per nulla.
«Tieni il resto», gli disse con nonchalance, avvicinandosi un po’ di più per poter bisbigliare senza esser sentito: «te li meriti visto che ci hai liberati da tutte quelle ragazze. Anche Rukawa ringrazia.» Si allontanò nuovamente, facendogli un gesto di saluto. «Ci vediamo!»
Hanamichi fissò in un punto imprecisato della stanza, la mente in tilt a causa di un surriscaldamento dei nervi.
Mentre osservava i tre abbandonare il Monkey’s sarebbe voluto esplodere come una bomba atomica, altro che una semplice bomba ad orologeria.
Appoggiò gli ingombri che aveva tra le mani sulla superficie in legno, tranne il bicchiere di latte. Quello se lo bevve lui tutto in un sorso, costringendosi a calmarsi e tenere la sua rabbia ben sigillata in un angolo remoto della sua testa.
«Vaffanculo» ruggì piano, appoggiando il bicchiere vuoto sul banco con il chiaro tentativo di spaccarlo.
Quello che lo preoccupava più di tutto era quel ‘ci vediamo’ detto dal Porcospino.
Intendeva che non sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe visti?
Non sapeva spiegarselo ma aveva come l’impressione che da lì in poi ogni cosa sarebbe andata di male in peggio. 




 

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Capitolo 2
*** Di scimmie sbraitanti e volpi che istigano alla violenza ***


Scleri pre-capitolo: Allora mie piccole pecorelle smarrite, purtroppo per voi ci ritroviamo ad un nuovo ed estenuante capitolo……….
No dai, spero che niente di tutto questo sia vero e che abbiate trovato una lettura scorrevole nel capitolo precedente e che abbia attirato la vostra attenzione fino a qui. Vorrei ringraziare di cuore, prima di tutto, chi ha recensito! Siete la mia fonte di giUoia, sappiatelo. Poi ringrazio anche chi l’ha inserita tra le seguite, le preferite e le ricordate.
Non penso ci sia molto altro da dire, anche perché non voglio fare una pappardella di introduzione come l’ultima volta, credo che non ce ne sia bisogno.
L’unica cosa che vorrei dire è che questa storia non vedrà come protagonisti solo Hanamichi e Rukawa, ma anche qualcun altro che ora non vi dirò. Ci sarà, dunque, una coppia secondaria. O anche due, tutto è nelle mie mani muhahahahaha (sì ho una passione per le risate maniacali se non si fosse capito BD).
Apposto, direi che posso lasciarvi andare e augurarvi un buon proseguimento (mi sento molto una di quelle della pubblicità), non dimenticatevi di farmi avere un vostro piccolo parere!
Disclaimer: I personaggi di Slam Dunk non mi appartengono, ma se mi appartenessero Yohei avrebbe avuto molto più spazio e dignità nel manga. Davvero, io me lo sposerei seduta stante. E poi è un tappo, e io sono tappa, perciò saremmo perfetti insieme. (?)





 
 
Monkey’s room

Chapter 2: Di scimmie sbraitanti e volpi che istigano alla violenza 
 
 
 
 
Era già passata una settimana da quando i due modelli da strapazzo avevano fatto il loro magico ingresso nel Monkey’s eppure, nonostante le belle parole del porcospino, ancora non c’era traccia di un loro possibile ritorno.
Tutti ne erano immensamente grati, ovviamente. Nessuno desiderava riavere lo stesso accalcamento di gente dell’ultima volta; pensare anche solo di dover gestire nuovamente una mandria di ragazzine adolescenti con gli ormoni che scalpitavano come cavalli in corsa non era certo l’obiettivo di vita di chiunque – a parte per Noma, lui si sarebbe lasciato volentieri calpestare anche da tutte per quanto lo riguardava.   
Quella giornata, rispetto a quelle scorse, era relativamente tranquilla: ad un quarto a mezzogiorno della mattina si potevano contare i clienti sulle punta delle dita. L’atmosfera era rilassante e pacifica per tutti, persino per Hanamichi che, stranamente, trovava prendere le ordinazioni meno stressante del solito – o forse era lui che si faceva mille pippe mentali ogni volta per niente.    
«Quand’è che ricominci le lezioni?», domandò Mito al rosso, approfittando del fatto che avesse scambiato il posto con Noma e Takamiya e fosse venuto in cucina ad aiutarlo ad asciugare piatti, bicchieri e posate, meticolosamente lavati da Kogure.
«Tra sei giorni», comunicò sorridente, «e sinceramente non vedo l’ora. Ho bisogno di riprendere in mano la matita e disegnare quanto mi è possibile, finché non mi dolerà il polso.»
Yohei accompagnò il suo sorriso con una breve risata. «Ti piace proprio eh?»
Hanamichi annuì, riponendo i piatti nel primo ripiano del mobile accanto a sé. «Mi piace e sono anche bravo, ma quello era scontato visto che sono un Tensai.»
“Non si smentisce mai”, si disse il suo migliore amico, non osando ribattere a quell’affermazione di supremazia.
«E’ anche il tuo sfogo personale.»
Sakuragi si bloccò per un momento, perso in chissà quali pensieri, poi riprese: «E’ un bene che lo sia. Se non fosse per l’arte, probabilmente, il mio vero sfogo sarebbe quello di picchiare il primo che passa.»
Resosi conto di aver riaperto una parentesi che non avrebbe dovuto nemmeno sfiorare, Yohei si affrettò a buttare la situazione sul ridere, evitando spiacevoli inconvenienti.
«Ora che usi matite e pennelli sei ancora più pericoloso.»
Al rosso sfuggì una risata alla quale il moro si rincuorò. «Smettila di prendermi per il culo e guarda quello che stai facendo. Le cialde finiranno per bruciarsi.»
Esser ripresi da Hanamichi era un evento più unico che raro, oltre che umiliante; di solito era lui quello che combinava casini a destra e a manca. Fu davvero un brutto colpo per il suo giovane cuore esser corretto proprio da colui che andava in giro autoproclamandosi il genio supremo.
Hanamichi, dal canto suo, una volta concluse le sue mansioni, richiamò dalla piccola finestrella che dava al bancone i due membri della Guntai, esprimendo il suo disappunto nell’aver visto Yohei in crisi con un paio di cialde da scottare.
«Vuoi smetterla di mettere il dito nella piaga? Mi infastidisci», disse minaccioso il diretto interessato, rigirando i quadrati dorati sulla piastra grazie all’aiuto di una spatola.
«Non c’è di che», ghignò l’altro, neanche lo avesse ringraziato. «Ora torno di là che c’è bisogno del mio aiuto dato che sono molto più competente di una certa persona qui al mio fianco.»
Volò repentino un mestolo che, però, andò a colpire la superfice piana della porta. Il rossino, grazie ai suoi riflessi pronti, si era già dileguato con la velocità di un felino, aspettandosi un tiro del genere da parte di Yohei.
Aveva scampato il pericolo per un pelo, constatò Hanamichi, avendo udito il rumore ovattato di un oggetto che si infrangeva sulla povera porta innocente; fortuna che era in legno altrimenti Mito avrebbe causato un danno non da niente e un costo che, tra l’altro, avrebbe dovuto pagare di tasca sua.
Sgattaiolò il più lontano possibile, non escludendo la possibilità che lo colpisse a tradimento da dietro approfittando della sua bassezza per risultare quasi invisibile ai suoi occhi.
Conosceva Mito Yohei da diverso tempo, o, meglio, da tutta la vita, e poteva affermare con sicurezza che avrebbe potuto benissimo farlo senza porsi il problema di spaventare la gente all’interno del suo bar.
Fece per dirigersi di nuovo in sala, assicurandosi la piena salvezza, quando, aguzzando l’udito dopo che gli era parso di sentire una voce a lui conosciuta, tornò sui suoi passi e notò la bellissima ragazza dei suoi desideri parlare con un’altra ragazza – una sua amica con tutta probabilità – mentre teneva in mano una rivista ed indicava una pagina di essa, lasciandosi sfuggire diverse risate imbarazzate.
Hanamichi, nascosto dietro il muro - per quanto il suo metro e ottanta gli permettesse di rimanere “invisibile” -, provò un moto di curiosità improvvisa. Voleva assolutamente scoprire che cosa avevano tanto da arrossire entrambe, ridendo nervosamente; e poi desiderava poter passare del tempo con lei, il suo angelo.
«Haruko-san!», chiamò repentino infine, facendo sussultare entrambe come se le avesse appena colte con le mani nel sacco.
«S-Sakuragi-kun!», esclamò lei, richiudendo la rivista alla velocità della luce e nascondendola goffamente dietro la schiena. «Ah Fuji, questo è Sakuragi Hanamichi», lo presentò una volta che si fece più vicino. «E’ uno dei camerieri ed anche un mio carissimo amico.»
A quella orribile parola pronunciata dalla bocca color pesca della Akagi, Hanamichi avrebbe voluto ritirarsi in un angolo buio e lasciarsi marcire fino a quando qualcuno non avesse trovato il suo corpo ricoperto di muschio e funghi velenosi.
“Perché, Kami-sama?”, si domandò mentre osava un sorriso stentato nei confronti della ragazza dai capelli raccolti in due code. “Perché non mi concedi mai una gioia?”
«I-io sono F-Fuji», balbettò in un sussurro la bruna, gli occhi che non riuscivano a sostenere il suo sguardo castano. «P-piacere di conoscerti.»
Il suo nome, in realtà, gli entrò in un orecchio e gli uscì dall’altro, tuttavia si sforzò di dimostrarsi interessato solo per la sua Harukina che lo stava osservando quasi con aspettativa.
«Il piacere è mio», fece un leggero inchino in segno di cortesia, gesto che venne accolto da Fuji con l’ombra di un sorriso. «Come mai da queste parti, Haruko-san? Pensavo avessi iniziato il tirocinio all’ospedale.»
La Akagi fece cenno di no con la testa, lo sguardo intristito. «Purtroppo è stato rimandato per altri cinque giorni per vari problemi con l’organizzazione.»
Sakuragi si rattristò insieme a lei, cercando di dimostrarle tutta l’empatia di cui era disposto. «Non ti preoccupare, Haruko-san. Intanto che aspetti di cominciare puoi sempre venire qui, ci sarà il Tensai a risollevarti il morale», e partì in quarta con una delle sue risate sguaiate, colmando il cuore della Akagi con un po’ del suo buon umore.
«Sei sempre il migliore Sakuragi-kun. Come sai tirarmi su tu il morale non ci riesce nessuno.»
Hanamichi si grattò la nuca rossa, ridendo come un beota patentato per non far trapelare il suo imbarazzo. «Così mi lusinghi troppo Harukina cara!»
Quelle risa generali presto finirono e, approfittando del momento opportuno, Sakuragi chiese innocentemente: «Come mai stai nascondendo quel giornale dietro di te?»
Le pupille della castana si fecero un poco più grandi, le guance che cominciarono ad assumere un colore violaceo. «N-niente! Stavamo solo rovistando qua e là e poi, niente noi…diglielo anche tu, Fuji!», cercò aiuto dalla sua amica ma da lei giunsero solo dei suoni incomprensibili, come se avesse appena perso la voce.
«Non capisco perché tutta questa agitazione», fece il rosso, «volevo solo capire cosa stavate leggendo.»
La Akagi, ripresasi dal suo attimo di black-out totale nella testa, riuscì a tranquillizzarsi grazie al tono di voce inaspettatamente calmo di Sakuragi. Erano più uniche che rare quelle occasioni.
Arresasi a non potergli sfuggire, gli mostrò la rivista ad un palmo dal naso, non riuscendo ad affrontare il suo sguardo. Si vergognava di esser stata beccata così in flagrante mentre sbavava sul suo idolo per eccellenza.
Hanamichi osservò attentamente la figura in primo piano sulla rivista e, quando riconobbe in quella figura un volto che non gli era nuovo, i suoi nervi cominciarono ad infiammarsi simultanei.
«Non so se ti ricordi di lui ma è uno dei due modelli che sono venuti qui una settimana fa.»
Sakuragi scrutò attentamente il ragazzo sulla copertina, sperando che, magari, fissandolo ardentemente, questi avrebbe preso fuoco sia su carta sia per davvero, dovunque egli fosse in quell’istante.
Ricordava la sua faccia da schiaffi perfettamente, persino quelle poche parole – che erano state caratterizzate specialmente da insulti o da ordini – che gli aveva rivolto.
Quando aveva posato gli occhi su di lui dopo il suo primo richiamo sgarbato, Hanamichi aveva subito pensato che fosse di una bellezza eterea, quasi fosse impossibile anche solo scrutarla; spesso all’accademia succedeva che dovesse ritrarre dei giovani di non poca eleganza, avvolti solo da un lenzuolo per coprire il loro organo maschile, ma quel ragazzo superava di gran lunga ognuno di loro con i suoi tratti delicati ma allo stesso tempo decisi.
E questo lo faceva incazzare.
Va bene che lui era il tipo da andare su tutte le furie per il nonnulla, ma non riusciva a sopportare l’idea che primo, Dio avesse guardato solo quel coso e non gli avesse donato anche solo un briciolo della sua bellezza anche a lui – ma con ciò non voleva intendere che si stava autodefinendo brutto, ecco; secondo, detestava che lo avesse guardato dall’alto in basso e che lo avesse comandato neanche fosse il cagnolino bau bau che piaceva tanto alle bambine di cinque anni; terzo, non poteva accettare che la sua dolce Harukina fosse innamorata di un babbeo dalla dubbia intelligenza.
«Ricordo vagamente», mentì spudoratamente infine, rispingendo verso il basso la voglia di prendere quello stupido giornaletto e strapparglielo davanti agli occhi.
Non era più un ragazzo impulsivo, questo era chiaro, ma non poteva nemmeno dire di aver ucciso quella parte di sé che tanto aveva odiato in passato.
Richiudendo in pensieri lontani le immagini che lo stavano minacciando di accavallarsi l’una sopra l’altra nella sua testa per ricordargli quanto fosse stato sull’orlo del baratro un tempo, Hanamichi si concentrò totalmente su Haruko, obbligandosi ad esser spavaldo per evitare che potesse scorgere anche solo un briciolo del suo turbamento.
«Non c’è bisogno che leggi queste riviste Haruko-san», dichiarò a gran voce, mettendosi le mani sui fianchi e gonfiando il petto, «dopotutto davanti ai tuoi occhi hai già un modello!», prima che potesse abbandonarsi ad un’altra delle sue risate di fabbrica, un pugno sul capo lo raggiunse repentino. Sperava di sbagliarsi ma aveva sentito come un “crack” che non preannunciava nulla di buono-
Forse era la volta buona che il suo cranio, dopo tutte le botte che aveva preso dall’individuo che si trovava dietro di lui con un mattarello tra le mani, si era spaccato almeno un po’.
«Haruko», chiamò la voce bassa del Gorilla, superando il povero rossino dolorante, «sai che non vorrei ma potrei chiederti gentilmente di andare? Questo qui», prese Sakuragi per la collottola e lo tirò su neanche pesasse quanto una piuma, «si distrae troppo facilmente per i miei gusti.»
La Akagi, comprendendo le motivazioni di suo fratello, annuì sorridendo. «D’accordo onii-chan. Mi spiace di aver disturbato.»
Hanamichi, impossibilitato dal potersi ribellare, piagnucolò mentalmente tra sé e sé; aveva sperato che la sua Haruko lo avrebbe difeso, invece aveva dato retta al Gorilla senza preoccuparsi delle sue condizioni e di quanto il suo cuore piangesse nel sapere che sarebbe stato separato da lei.
«Non sei un disturbo, è colpa di questo imbecille che non fa il suo lavoro.»
«Non trattarlo troppo male», lo rimproverò appena, voltandosi poi verso Fuji e dicendole che era meglio se ora se ne andavano. 
L’amica non ribatté e acconsentì alla richiesta in un batter d’occhio, agganciandosi alla manica della maglietta di Haruko come per cercare protezione da lei.
Akagi doveva averle messo parecchia paura, figurarsi con quell’oggetto cilindrico in mano – che poi non capiva come potessero fidarsi a lasciarlo gironzolare con un mattarello, era pericoloso per l’incolumità di tutti; o, forse, solo della sua.
«Allora noi andiamo», annunciò la sua Harukina, dedicandogli un sorriso di conforto. O di compassione? «Ganbatte Sakuragi-kun!»
Hanamichi, per quanto gli fu possibile, alzò un braccio per poterla salutare con la mano, ma ormai se ne era già bella che andata, lasciando solo il suo profumo come ricordo.
«Gori…» sillabò con frustrazione, dandogli un colpetto sul petto come per chiedergli di lasciarlo andare.
Akagi non lo lasciò, non ancora, prima aveva giusto due parole da riferirgli.
«Quante volte ti ho detto di non provarci spudoratamente con mia sorella e, soprattutto, non al lavoro?»
Hanamichi sbuffò. «Tante.»
«Quante volte ti ho detto che non voglio vederti distratto e di muovere quelle chiappe pesanti per darci una mano?»
Un grugnito. «Tante.»
«Quante volte ti ho detto che sei un troglodita e che una formica ha il cervello più grande del tuo?»
«Tan- no aspetta, questo non me l’hai mai detto!»
Gori annuì, mollando la presa alla sua collottola. «Mi fa piacere sapere che ogni tanto mi ascolti quando parlo.»
Una volta che il rosso si fu ripreso dal colpo di mattarello sul capo e che avesse accettato l’effettiva mancanza di Haruko nella stanza, si appoggiò al muro, pronto a ricevere la sua dose di epiteti giornalieri da parte del Gorilla incazzato che lo guardava con poca voglia di tenere una discussione civile con lui.
«Allora», cominciò Akagi, e Hanamichi temette già il peggio. Che lo volesse picchiare con quell’oggetto pesante che aveva tra le mani? «Voglio che tu vada a servire i tavoli.»
Un momento di silenzio, anche due, si susseguirono, dopodiché Sakuragi scoppiò in una fragorosa risata, tenendosi addirittura la pancia talmente avevano cominciato a dolergli gli addominali.
«Questa è buona Gori!», esclamò, asciugandosi le lacrime agli angoli degli occhi. «Oggi non è il primo di aprile. Cos’è? Non hai neanche soldi per permetterti un calendario?»
Takenori si trattenne dal colpirlo con il mattarello anche se la voglia era tanta, ma un altro pugno sulla testa non glielo risparmiò. Alle volte non c’era nemmeno motivo di fargli male, ma ormai era diventata un’abitudine alla quale si era affezionato.
«Non sto scherzando. Servi i tavoli come tutti noi facciamo. Devo andarmene per una mezz’ora quindi tu prenderai il mio posto senza discutere.»
Hanamichi, ripresosi in fretta dal colpo, alzò un indice per spiegare le sue ragioni per non fare ciò che gli era stato detto – imposto – di fare.
«Vorrei ricordarti che tutte le volte che c’ho provato ho rovesciato qualcosa a terra. Una volta mi sono pure beccato un calcio nelle palle da una signora perché le ho sporcato la camicetta bianca con il succo di frutta. Passatela tu una notte con i dolori atroci ai coglioni!»
«Hai problemi alle ossa?»
Sakuragi rimase per un attimo interdetto, chiedendosi che diamine centrasse, ma poi rispose un convinto: «No.»
«Disabilità che non hai mai rivelato?»
«Non credo.»
«Problemi di mente?»
«Con tutte le botte che mi hai dato dovrei ma no, è ancora tutto al proprio posto.»
Akagi appoggiò quindi una mano sulla sua spalla, sorridendo a mo’ di psycho. «Allora puoi tranquillamente assolvere il tuo compito, Sakuragi», ma in realtà era come se avesse detto “se non vai ti spezzo in due perciò, se non vuoi rischiare, vai.”
Hanamichi, a quel punto, capì di non avere più vie di scampo. Arreso, sbuffò sonoramente, togliendosi di dosso il palmo di Gori che, sapeva, avrebbe stretto di più la presa se solo avesse provato a rifiutare di nuovo.
«Se mi castrano ancora però ti attribuirò la colpa e ti farò causa», annunciò con convinzione prima di sparirsene senza aspettare una risposta da parte di Akagi, calpestando pesantemente i piedi sul suolo, come per dimostrare quanto fosse irritato in quel momento.
Lui non ci sapeva fare con i clienti: l’unica volta in cui era riuscito a trasportare gli ordini senza fare danni – ed era stata una grande conquista per lui - era stato una settimana prima con i due modelli che, tra l’altro, se ne erano andati prima che potessero consumare le cose richieste, lasciandolo totalmente interdetto.
Il destino voleva che nessuno avesse mai assaggiato qualcosa servito da lui, quasi trasportasse pietanze avvelenate con un pesticida e che dovessero per forza essere eliminate, in un modo o nell’altro.
Ritornò nelle cucine con l’umore nero e, non appena gli saltò all’occhio Megane-kun, si diresse verso di lui e stese le braccia in avanti. «Facciamola finita.»
Kogure lo guardò sbigottito, non comprendendo il motivo di quell’improvvisa e rabbiosa entrata in scena. «Sakuragi?»
«Per la gioia di tutti devo servire i tavoli», ironizzò, mentre il colore della pelle di Kiminobu sbiancava lentamente. Lo sapeva che quella sarebbe stata la sua reazione. «Lamentati con Gori. E’ stato lui a prendere questa decisione per conto suo.»
Kogure si fidava spesso del giudizio di Akagi, ma in questo caso avrebbe avuto molto da ridire. Come minimo, se Hanamichi avesse fatto un danno – e già riusciva ad immaginarsi la dinamica della scena -, sarebbe toccato a lui andare a raccogliere i cocci.
“Se Akagi lo ritiene giusto allora non vedo perché dovrei aver qualcosa da ridire”, si autoconvinse, sbattendosi le mani sul grembiule per poterle ripulire dalla farina.
Gli avrebbe fatto portare qualcosa di semplice, e avrebbe pregato in Dio solo sa che lingua perché riuscisse in quella missione impossibile per i suoi canoni.
«Passami quell’ordinazione per favore», disse cortesemente Megane ad uno dei suoi aiutanti, uno nuovo che Hanamichi non ricordava di aver mai visto.
Questione di pochi attimi e si trovò a tenere tra le mani un bicchiere di latte scremato e un piattino di ceramica con tanto di brioche alla crema con scaglie di cioccolato fondente.
«So che ce la farai, io credo in te», lo incoraggiò Kogure, dandogli una leggera pacca sulla spalla – la stessa su cui si era appoggiato Gori poco prima – per infondergli sicurezza.
«Megane-kun…», lasciò in sospeso la frase per un decimo di secondo prima di riprendere, «lo sai che non sto andando in guerra vero?»
Le guance dell’altro si imporporarono quando si rese conto di esser stato troppo esagerato nel suo incitamento a dare il meglio di sé. Non erano ad una finale dell’Inter-high di basket ma in un semplice bar, in cui l’unica cosa davvero eclatante che dovevano fare era servire i tavoli.
«Per te è come se lo fosse Hana, perciò prendi a cuore le parole di Kogure-san», giunse in suo aiuto Mito, lanciando al rosso uno sguardo vittorioso per qualcosa di cui non sapeva nulla.
«E’ la tua vendetta per prima, Yo?», domandò Hanamichi con un filo di nervosismo, incassando il colpo.
A Yohei sfuggì un ghigno. «Assolutamente no. Lo sai che non sono un tipo vendicativo, io.»
«Che bugiardo.»
Kogure assistette ad uno dei loro soliti teatrini fatti di frecciatine, ma nonostante questo si poteva respirare nell’aria quanto fosse forte la loro amicizia. Sul lavoro non riuscivano mai a dare il meglio di loro, anche perché Mito era sempre richiuso in cucina e Sakuragi si occupava di pulire i tavoli e prendere le ordinazioni insieme al resto dell’Armata; quando invece uscivano in compagnia, ed anche lui ed Akagi si aggregavano, si notava quanta affinità vi fosse tra quei due.
Si comprendevano al volo, alle volte non sprecavano nemmeno parole inutili perché riuscivano a capirsi anche da un semplice sguardo, neanche fossero in simbiosi.
Era invidiabile un’amicizia così lunga e sincera come la loro, una di quelle rare che si spererebbe di avere nei momenti più difficili ma anche nei momenti più belli della propria vita. In sintesi, nella propria quotidianità.
«Mi dispiace interrompervi», si scusò da principio il castano, bloccando quell’infinito battibecco su una questione molto profonda quale chi avesse centrato per primo il cilindro con il cerchio all’età di sette anni. «Le cose si stanno raffreddando. Non vorrei che ricevessimo delle lamentele.»
Si ricomposero in un batter d’occhio, mettendo da parte le loro discussioni personali per un altro momento più consono. Ora dovevano pensare solamente a svolgere bene il loro lavoro.
Hanamichi protese le braccia verso Megane, questa volta con più convinzione e meno rabbia.
«Ho già affrontato una mandria di ragazzine arrapate, quindi ce la farò anche questa volta», decretò in una muta promessa, e Kogure ne fu sinceramente felice, consegnandogli le due ordinazioni quasi fossero una coppa vinta dopo un faticoso torneo.
«A quale tavolo?», chiese, volendo evitare la figura di merda colossale di arrivare in salone e non sapere nemmeno dove recarsi.
«Undici», rispose l’altro, abbozzando un sorriso.
«Perfetto», si incamminò verso la porta semi-chiusa, aiutandosi con un piede ad aprirla sufficientemente perché potesse passare. «Il Tensai Sakuragi Hanamichi va a compiere la sua missione!»
Nemmeno a dirlo, quando fece il suo ingresso in sala, venne accolto dalle risate soffocate della scrofa, di baffo man e dell’anti-figa per eccellenza – anche conosciuti come Takamiya, Okusu e Noma -, che gli si fecero vicini, dandogli il loro supporto morale come solo loro riuscivano a fare.
«Scommetto la mia paga che fai cascare qualcosa», sghignazzò Takamiya, tentato di dargli una lieve spinta, ma, sapendo quali sarebbero state le conseguenze, se ne stette fermo.
«Io scommetto che casca lui», si aggiunse Okusu, arrotolandosi i baffi come un intellettuale.
Noma li rimbeccò. «Siete dei dilettanti! Sicuramente cadrà e finirà addosso a qualcuno.»
Hanamichi, i nervi a fior di pelle, dedicò loro lo sguardo più cattivo di cui fosse disposto, facendoli tremare simultaneamente sul posto. Se avesse cominciato a sbraitare come un deficiente non lo avrebbe mai preso sul serio, ecco perché aveva imparato a rimanersene in silenzio, lasciando che i suoi occhi parlassero per lui.
«Avete detto qualcosa?», domandò poi, i tratti del viso ancora contratti.
Tutti e tre scossero la testa, deglutendo una grande dose di saliva. Sapevano ogni volta quale sarebbe stato il costo da pagare se avessero infastidito al limite il loro capo e, come sempre, da due anni a quella parte, sapevano quando era l’ora di fermarsi. Superare il limite gli era permesso solo quando erano tra di loro e si giocavano anche la madre nelle loro scommesse su Sakuragi.
«Se non avete niente da dire ditemi piuttosto qual è il tavolo 11. Mi secca cercarlo.»
Noma fu il primo a reagire, indicando: «quello là in fondo a destra.»
Takamiya, in contemporanea, sussurrò in modo che solo i due compagni accanto a lui sentissero: «L’avranno fatto apposta a dargli un ordine così lontano. Almeno nessuno se ne accorge se combina uno dei suoi danni.»
Okusu cercò di trattenersi dal ridere mordendosi le labbra.
«A proposito», tossì Noma, cercando di riscaldare l’atmosfera che si era fatta fin troppo tesa per i suoi gusti. «Quello è il tavolo in cui si trova il tizio sospetto che è entrato poco fa, giusto?»
Improvvisamente ebbero l’attenzione di Hanamichi, anche se, allo stesso tempo, con la coda dell’occhio, quest’ultimo si stava assicurando che le ordinazioni rimanessero intatte.
«In che senso sospetto?» chiese vagamente preoccupato di chi si potesse trovare di fronte. Ok, forse preoccupato non era il termine più appropriato per uno come lui. Si poteva dire che fosse …curioso?
«Tu come lo definiresti uno con un berretto da nonno, l’impermeabile con il colletto tirato su fino alla bocca e gli occhiali da sole?» domandò retorico Takamiya.
«Sherlock Holmes?»
«Nel mondo reale, Hanamichi. Non in film o libri.»
«…un tizio sospetto.»
«Appunto.»
Sakuragi farfugliò qualcosa, dopodiché fece spallucce. La cosa, alla fine, non gli interessava poi così tanto.
«Che volete che sia? Ci ho vissuto la mia vita con persone poco raccomandabili e io stesso lo sono stato, un individuo con l’impermeabile non è certo la fine del mondo.»
Detto quello snobbò i commenti che giungevano alle sue spalle dai tre componenti dell’Armata e si incamminò in direzione del tizio dall’aria sospetta che, mano a mano, si faceva sempre più chiaro alla vista delle sue iridi castane, ovviamente controllando sempre che le ordinazioni rimanessero intatte finché non fosse giunto a destinazione.
Non aveva detto fesserie quando aveva annunciato di esser stato uno poco raccomandabile in tempi che furono. La gente si era sempre soffermata sui suoi capelli rossi, marciandoci sopra sul fatto che un ragazzo dalla peluria così strampalata non potesse esser altro che un teppista.
Così l’avevano etichettato alla tenera età di sette anni senza che lui potesse contribuire effettivamente a questo pregiudizio; così era stato all’età di quindici quando, invece, aveva fatto in modo che tutti lo riconoscessero come tale dando il peggio di sé, così anche tutt’ora che era ormai un uomo che dai suoi errori aveva imparato qualcosa.
«Mi scusi se l’ho fatta aspettare», mormorò con cortesia una volta giunto a pochi passi dal fatidico tavolo numero undici.
Il signore, non sapeva definire se anziano o un giovane uomo dato che era tutto imbacuccato di vestiti e altre cianfrusaglie, neanche volesse risultare invisibile, - ci stava riuscendo molto male, a suo modesto parere – rivolse la sua attenzione su di lui, scoprendo le labbra sottili che, indubbiamente, dovevano appartenere ad un ragazzo sulla ventina o, massimo, trentina d’anni. Chissà perché aveva come l’impressione di averle già viste delle labbra così ben definite.
Senza porsi tante altri punti di domanda che non avrebbero avuto delle risposte soddisfacenti, aspettò che l’individuo sospetto dicesse qualcosa, ma da quella bocca non uscì un solo suono. Si limitò solo ad inclinare la testa, come uno scienziato che studiava una cavia da laboratorio.
Hanamichi emise un breve grugnito, infastidito da quel comportamento impassibile - in ogni caso non sarebbe stato da lui non brontolare, anche se in modo accennato, verso qualsiasi cosa.
«Tenga», disse mantenendo la calma, appoggiando sulla superficie piana quanto richiesto dal cliente. «Queste sono le sue ordinazioni: una brioche alla crema con scaglie di cioccolato fondente e un bicchiere di latte…scremato.»
Nel momento in cui gli ingranaggi della sua mente cominciarono ad elaborare che qualcosa non quadrava per niente in quella situazione, l’altro appoggiò il capo sul palmo della mano, un gesto che Hanamichi ricordava di aver visto in una stessa sequenza non troppo tempo prima.
Un terribile presentimento gli si affacciò nel cervello, ma pregò cieli e terre che rimanesse un presentimento e nient’altro.
«Oh…», sillabò il ragazzo del tavolo, aggrottando la fronte scoperta. «Tu sei il cameriere dell’altra volta…»
Fu il commento decisivo che fece comprendere a Sakuragi che sì, aveva fatto centro sulle supposizioni che erano nate per caso nella sua testa ma che aveva bellamente ignorato perché riteneva impossibili.
“Ci vediamo”, erano state le parole del porcospino, ma solo lui le aveva dette! Chi avrebbe mai pensato che, invece, si sarebbe presentato di nuovo quel ghiacciolo umano, tra l’altro in solitudine, senza faccia da Buddha.
Lo sapeva, c’era qualcosa di strano che gli puzzava nell’aria da tutto il giorno: il fatto di esser arrivato in ritardo al lavoro – ma quella non era una novità -, l’aver conversato con Yohei, l’aver avuto un dibattito con Gori, l’incontro con Haruko-san e la rivista; erano stati tutti segnali di avvertimento.
Era stato come rivivere la stessa identica giornata di una settimana prima, solo senza le ragazze in piena crisi ormonale.
Genialmente e stupidamente allo stesso tempo, il freezer ambulante che gli stava di fronte aveva avuto l’idea di travestirsi per non esser riconosciuto e, sperava, per non creare altri problemi.
«…quello impedito
Una pausa, un battito di palpebre.
«Eh?»
In concomitanza a quell’ ‘eh’ di troppo, il ragazzo seduto si innervosì, mormorando un: «Sordo oltre che impedito.»
Il messaggio, questa volta, arrivò chiaro e tondo alle orecchie di Hanamichi che, simultaneo, sbatté le mani sul tavolo facendo quasi traboccare il latte, incattivendo lo sguardo.
«Cos’hai detto?!» lo aggredì, mostrando i denti come un cane rabbioso.
«Hn, quello che ho detto», replicò l’altro, per nulla scalfito dagli occhi del rosso che emanavano un’aura omicida.
«Quello che ho detto», lo scimmiottò Sakuragi, sprezzante a livelli estremi, sperando di stimolare i suoi nervi e concludere la faccenda con qualche pugno fuori dal bar, possibilmente. «Già quando sei venuto qui l’ultima volta avrei voluto dirtelo: vedi di non atteggiarti da Miss Mondo solamente perché sei un model-ghg!»
Venne immediatamente bloccato prima che potesse completare la frase dal palmo di una mano e, nella stessa azione, gli occhiali da sole che il moro indossava si abbassarono leggermente, permettendo ad Hanamichi di incontrare le sue iridi limpide come il cristallo puro, ora più dense a causa del nervosismo.
«Dovresti evitare di sbandierare la mia presenza qui», lo rimbeccò con superiorità, togliendo la mano dalla sua bocca con aria schifata, pulendola sul giaccone beige.
«Non ho mica la lebbra!» sbottò il rosso inalberato, le vene sulle tempie che pulsavano. «E prova a zittirmi di nuovo e giuro che questa volta non la passi liscia dannato ameba!»
Il ragazzo, richiusosi di nuovo nella sua compostezza ed ignorando quel nomignolo che calzava a pennello alla sua persona, azzardò un nuovo commento affilato, come solo lui sapeva fare.
«L’idiozia è contagiante», affermò con sicurezza, quasi fosse una teoria dimostrata, accavallando le gambe per comodità. «Meglio prevenire che curare, Do’aho
I nervi di Hanamichi andarono a farsi fottere uno dopo l’altro, mutando i tratti del suo viso in quelli di una bestia feroce. Quel bastardo aveva osato dargli dell’idiota per la seconda volta! A lui che era la genialità reincarnatasi in un comune umano!
Chi cazzo si credeva di essere per potergli parlare così quando nemmeno conosceva chi diamine fosse?!
«Tu…!», cominciò Hanamichi pronto a farsi valere, ma venne di nuovo bruscamente fermato.
«Hn, vuoi picchiarmi?», chiese il moro visibilmente annoiato, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Sakuragi, nonostante stesse toccando i limiti dell’infervoramento, si bloccò un attimo, fissandolo accigliato e cercando di pensare con un briciolo di razionalità, non ascoltando i suoi istinti che gli stavano gridando di farlo morire nelle più atroci sofferenze.
Perché aveva l’impressione che lo stesse facendo apposta a stuzzicarlo e che il suo obiettivo finale, in realtà, fosse proprio quello di venire alle mani?
Con tutte le risse che aveva scatenato in passato e con tutte quelle che si erano scatenate per altri e vari motivi con individui poco raccomandabili, nessuno di questi gli aveva mai domandato se effettivamente volesse fare a botte: si cominciavano a dare per il semplice gusto di farlo, senza chiedere nulla.
«Senti Ruwaka»,
«Rukawa», lo corresse.
«Chissene frega», sputò con la sua solita grazia da scimmia che era; inconsapevolmente, ma lo era. «Non so quale sia il tuo obiettivo o se mi hai scelto come tuo sfogo personale perché non c’è il porcospino ad espiare le tue sofferenze, ma sappi che non sono un adolescente ma nel pieno dei miei vent’anni. Se cerchi un compagno di giochi quello non sarò io, chiaro? Io devo lavorare e- oh ma mi stai ascoltando?!»
Non lo stava ascoltando, neanche si stava impegnando a sentire le fesserie che stava dicendo, stava udendo solamente dei suoni buttati a casaccio; forse perché era troppo impegnato a sorseggiare il latte scremato e sì, un latte scremato è più interessante di una scimmia rossa sbraitante.
«Ti ho chiesto se mi stai ascoltando!» sbraitò per l’ennesima volta, questa volta nel suo orecchio per assicurarsi che lo avesse sentito.
Rukawa, la certezza che gli avrebbe fatto causa per riavere indietro il suo timpano destro, lo guardò con uno sguardo carico di indifferenza, quello con cui si guarda normalmente uno sterco di mucca, mettendolo quasi in soggezione.
«Secondo te, Do’aho?»
Hanamichi ingoiò un paio di bestemmie, ma nel suo cuore rimpianse quella decisione.
«Do’aho lo potrai dire chiunque ma non a me, io sono il Tensai, chiaro? E poi dai tu a me dell’idiota quando sei tu il primo ad esser vestito in modo ridicolo e a comportarti da ghiacciolo rincretinito», gli fece notare, indicando il suo vestiario che dava assolutamente nell’occhio a discapito delle sue previsioni. Bastava pensare a come sparlavano tra di loro Takamiya, Noma e Okusu qualche minuto prima.
Rukawa lo fissò con un pizzico di perplessità, proprio una puntina, considerando che doveva proprio essere una persona piena di sé e dalle false convinzioni per autoproclamarsi un genio. Lui vedeva solo un cretino dai capelli rossi a forma di banana.
«Hn, togliendomi queste cose urleresti in modo ridicolo davanti a tutti», spiegò infine, utilizzando meno parole possibili per farsi capire. Gli richiedeva troppa fatica spiccicare qualche sillaba in più.
Sakuragi si abbandonò ad una bassa risata, appoggiando le mani sui fianchi e alzando la testa, pavoneggiandosi: «Se non fosse stato per me sareste stati schiacciati da quelle ragazze, sia tu che il procione.»
Il moro evitò di rammendargli che non era un procione ma un porcospino, e che tra i due c’era una bella differenza, tuttavia non era il tipo da mettere i puntini sulle “i”, perciò lasciò perdere, mormorando un semplice: «Tsk, Do’aho.»
«Ancora?!» s’infervorò di nuovo, i fumi che gli uscivano dalle orecchie talmente Rukawa stava sfidando la sua poca pazienza. Se lo avesse conosciuto a sedici anni lo avrebbe pestato e con violenza anche. «Guarda che ho un nome sai, ed è Sakuragi Hanamichi! Vedi di ricordartelo stupido freezer umano!»
«L’ho già dimenticato*», disse solo, togliendosi in via definitiva gli occhiali da sole, capendo che senza o con quelli addosso non avrebbe fatto alcuna differenza.
Tutti i clienti nel bar non osavano guardare nella loro direzione, ben consci che se avessero fatto da spettatori attivi a quella scenetta che andava avanti da più di dieci minuti, sarebbe venuto fuori il putiferio per colpa di Sakuragi.
Aveva detto di chiamarsi così, giusto?
«Non riesco a credere che la mia dolce Harukina possa essere innamorata di una persona simile», mormorò Hanamichi a bassa voce, allibito di quanto potesse esser esasperante e il suo completo opposto quel tizio che lo stava fissando senza esprimere alcuna emozione evidente tranne che noia.
Si esprimeva a monosillabi, aveva l’espressività di un pesce morto e riusciva ad essere mirato negli insulti nonostante la calma che utilizzava – ma quella era dovuta alla sua natura amorfa, ne era certo.
Poteva esistere un individuo peggiore, soprattutto per uno come lui he scattava alla minima cazzata? Per i suoi canoni no, nessuno poteva esser peggio di così.
Repentinamente si domandò per quale motivo fosse ancora lì. Avrebbe potuto andarsene in ogni momento, realizzò, eppure era rimasto in compagnia – e che compagnia, pensò sarcasticamente – di quel frigido ghiacciolo sconosciuto che ora sembrava sul punto di addormentarsi.
Soffriva anche di narcolessia oltre che di demenza?
Improvvisamente lo squillo di un telefono interruppe la loro conversazione fatta di continui insulti e risvegliò dal suo attacco di sonno il moro che, subito, estrasse dalla tasca dell’impermeabile un sistematico i-Phone, ad occhio e croce l’ultima versione, che Hanamichi non avrebbe potuto sperare di comprare nemmeno nelle prossime due vite.
Maledetti ricconi, dovreste andare tutti al diavolo!”
«Akira?» rispose con il solito tono da voglia di vivere saltami addosso, gli occhi azzurri che guardarono, pochi secondi dopo, verso l’alto. «Sono al bar della scorsa volta, non rompere anche tu come Ayako.»
Sakuragi ascoltò la conversazione, o, meglio, un continuo uso di “ah, oh, hn, mh” da parte del ghiacciolo, interessato alla comunicazione quanto lo poteva esser Takamiya davanti ad un piatto di insalata.
Non se ne era andato solo perché voleva concludere la loro questione, schiacciandolo d’ingegno come solo lui avrebbe potuto fare. Era il Tensai, a genialità non lo avrebbe battuto mai nessuno.
«Adesso arrivo, smettila di fare il bambino Sendo», biascicò infine Rukawa interrompendo la telefonata, facendo accendere una lampadina all’interno della mente di Hanamichi.
Sendo, se il suo cervello non gli stava facendo un brutto tiro, era il porcospino, il Buddha dal sorriso sempre stampato sulle labbra.
«Nh, non sono riuscito a mangiare», disse Rukawa, guardando la deliziosa brioche lasciata lì sul piattino, pronta ad incontrare il suo destino crudele: il cestino della spazzatura.
«Portatela via», gli consigliò Hanamichi, mosso a compassione dal sincero dispiacere dell’altro. «Penso che tu possa riuscire a mangiarla prima di andare dovunque tu debba andare. Comunque spererò che ti ci strozzi, non sono diventato improvvisamente buono.»
Rukawa incassò il colpo, ovviamente senza che la sua mimica facciale desse segno di tutto ciò.
Tirò fuori il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e lasciò, esattamente come aveva fatto il porcospino la settimana prima, duemila yen, non chiedendo il resto in cambio.
«Ci credete dei poveracci che ci lasciate sempre la mancia?», chiese sprezzante Hanamichi, sentendo l’irritazione ribollire nel suo stomaco come un vulcano in eruzione.
Non aveva provato la stessa rabbia l’ultima volta con quel Sendo, invece con il ghiacciolo vivente sentiva come un peso sullo stomaco, e la cosa lo infastidiva parecchio.
«Hn, se fosse per te Do’aho…», lasciò in sospeso la frase. Se voleva intendere intendeva. «Il posto mi piace. Merita questi soldi.»
Scivolò via dal suo posto prendendo con sé la brioche, cominciando ad incamminarsi a lentezza minima verso la porta di uscita che avrebbe dato al centro della periferia di Kanagawa.
Hanamichi lo seguì: sapeva che aveva ancora qualcosa da dirgli, e voleva proprio sapere che cos'altro potesse venir fuori da quella lingua biforcuta.
«E’ azzeccato.»
«Che cosa?», chiese Sakuragi con un velo in meno di nervosismo.
«Il nome: Moneky’s room», specificò con malavoglia, girando il pomello della porta e aprendola, lasciando che il vento freddo lo travolgesse. Con tutto quell’impacco di roba che aveva addosso stava quasi sudando nonostante fossero in pieno inverno.
«Perché?», domandò l’altro, quasi incuriosito.
«Scimmia», annunciò, superando la soglia, «perché sei una scimmia pure tu, come dice il nome.»
E la porta che li separava li divise in modo definitivo, lasciandosi dietro un Rukawa con l’anima in pace, gli occhiali da sole nuovamente infilati sul viso e il cornetto alla crema in bocca, e un Hanamichi che, dopo aver compreso il significato delle parole del ghiacciolo, prese da parte Takamiya, Noma e Okusu, rifilando ad ognuno di loro una testata che li stordì per tutta la giornata.
Era colpa loro, tutta colpa loro. Sia per quella volta, sia per la volta precedente - e l’avrebbero pagata ancora di più cara se il freezer e il compagno porcospino si fossero fatti rivedere, soprattutto la kitsune.
La stupida, odiosa e narcolettica Volpe.
 


 


*Scusate ma dovevo troppo riportare lo stesso passo dell'anime. Sono quasi caduta dalla sedia dal ridere. B'D
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Di set fotografici e la brutta abitudine di non bussare ***


Scleri pre-capitolo: Ebbene rieccoci di nuovo miei piccoli pargoli della foresta, la vostra pazzoide Ollie è tornata ad irrompere nelle vostre vite per cambiarvele in modo radicale.
Datemi tregua, devo sempre dire qualche cavolata prima di iniziare, mi fa sentire a mio agio. (?) Cooomunque, senza dilungarmi troppo perché mi rendo conto che è dura stare a leggere i miei scleri, appunto, volevo solo dirvi che questo capitolo, a differenza dei due precedenti, non vedrà come protagonista Hanamichi e l’allegra compagnia, bensì…sta a voi scoprirlo tra due secondi. x°° Non capiterà molto spesso presumo, perciò godetevelo finché potete. (y)
Volevo ringraziare moltissimo chi ha recensito il chapter scorso! Tra un paio di giorni mi ritaglierò un po’ di tempo (sperando che il tirocinio non mi porti via la vita) e vi risponderò, lo prometto!
Ringrazio inoltre chi ha inserito la mia storia tra le preferite, le seguite e le ricordate. Spero di avere anche un vostro parere prima o poi, ne sarei davvero lieta.
Detto questo vi abbandono per andare a cenarrrre, vi auguro una buona lettura sperando che lo sia!
Disclaimer: I personaggi di Slam Dunk non mi appartengono, ma se mi appartenessero Hanamichi, Kaede, Sendo, Yohei e Mitsui farebbero parte del mio harem personale. UHUHUHUHUH.

 
 
 
 
 
 
Monkey’s room

Chapter 3: Di set fotografici e la brutta abitudine di non bussare
 
 
 
 
 
«Grazie per il lavoro svolto oggi! Impeccabile, sublime!»
Il direttore Suwamura, i cuoricini che gli facevano da sfondo talmente era soddisfatto del servizio fotografico appena concluso, gli si era avvicinato con gli occhi colmi di ammirazione, stringendo la mano del giovane modello nella propria, riferendogli che non appena avesse avuto la possibilità si sarebbe prenotato per averlo di nuovo a posare per uno dei suoi servizi; voleva assolutamente inserirlo nella copertina del prossimo mese del Suwa Magazine.
«In confronto al mio compagno non sono nulla. Glielo posso assicurare, Suwamura-san.» 
L'uomo scosse la testa grattandosi la folta barbetta. «Ne dubito, e anche se fosse apprezzo molto di più chi non snobba il proprio lavoro e si presenta in orario.»
A quel punto non avrebbe potuto più ribattere, ma si affidò alle sue capacità per convincere il direttore a ricredersi sulle parole così astiose nei confronti del suo amico.
«Non snobba il suo lavoro, ha solo avuto dei contrattempi. Le assicuro che se gli darà una seconda possibilità non la deluderà.»
Persuadere la gente era una delle sue abilità migliori, soprattutto se a giocare su questa leva ci inseriva anche un sorriso rassicurante e, perché no, anche seducente per chi voleva vederlo - e Suwamura-san lo vedeva eccome, tuttavia abboccò comunque al suo tranello, consapevole di starci cadendo in pieno.
Allargò le narici, i pugni stretti per trattenersi dall'urlare come una ragazzina davanti al suo idolo dalla bellezza paradisiaca. A quarant'anni non poteva permettersi certi sfizi.
«Come posso non fidarmi di te, Sendo-kun? Se mi prometti che poserai di nuovo per il prossimo catalogo non mi resta che accettare.»
Sendo appoggiò la mano libera sul petto nudo, all'altezza del cuore. «Glielo posso garantire. Mantengo sempre fede ai miei impegni.»
Suwamura rischiò di andare in iperventilazione talmente l'aria si era fatta calda - o forse era lui ad andare in fiamme? -, per questo intervenì la sua assistente Saki a riportarlo sulla terra con un pizzicotto sulla guancia, facendolo inchinare ed inchinandosi in egual modo in segno di ringraziamento.
«Spero che voglia valutare seriamente la nostra proposta, Sendo-san; ne saremo davvero grati. Ora, se ci vuole scusare, dobbiamo proprio andare, ci aspetta un altro servizio tra mezz'ora.»
Akira annuì benevolo. «Non si preoccupi. Come dicevo a Suwamura-san, avete la mia parola.»
La ragazza arrossì lievemente. «La ringrazio.»
Se ne andarono cinque minuti dopo aver smontato tutto nell’area ovest del sesto piano, portando via telecamere, modelle che avevano fatto supporto nel cast e computer sui quali avevano lavorato per creare gli effetti necessari sullo sfondo neutro.
Aveva aspettato fino all’ultimo, poi, dopo aver indossato l’accappatoio consegnato da uno dei ragazzi dello staff, prese in mano la borraccia che aveva abbandonato sul pavimento pulito durante la pausa dalle riprese. Ne bevve un lungo sorso, percependo l’acqua scorrere lungo la trachea, che rinfrescò a dovere il corpo muscoloso ed imperlato da un lieve strato di sudore.
Dopo un’ora di non-stop a dover posare in posizioni scomode per minuti che sembravano non passare mai se lo meritava eccome: nessuno avrebbe potuto dire l’incontrario.
Stava per appoggiare il contenitore semi-vuoto nuovamente a terra quando una voce conosciuta lo intimò a non provarci neanche se ciò gli avesse concesso due settimane di vacanze ai Caraibi.
«Lo sai a chi tocca poi a pulire la tua sporcizia, Akira
Sendo si voltò in maniera meccanica verso la ragazza minuta dietro di lui, rischiando una risata per spezzare la tensione. Quando c’era lei nei dintorni non si poteva mai stare tranquilli.
«Ayako-chan, qual buon vento ti porta da queste parti?»
Quest’ultima snudò i denti in un sorriso malvagio che avrebbe messo paura anche ad un grizzly a digiuno da due giorni.
«Lo sai che Kaede doveva partecipare a questo servizio fotografico, vero?»
Sendo deglutì faticosamente: lo sapeva più che bene che Rukawa avrebbe dovuto prendere parte insieme a lui al set per riuscire a garantirsi un posto in prima pagina sul Suwa Magazine nel prossimo mensile, tuttavia, quando quella mattina aveva ricevuto un suo messaggio con scritto in modo pressoché minatorio “io non vengo, prova a dire qualcosa ad Ayako ed io ti uccido”, non aveva saputo ribattere.
In ogni caso, parlare con Kaede o parlare con un muro era la stessa identica cosa. Non lo avrebbe ascoltato se avesse provato a fargli cambiare idea, e anche se avesse provato a chiamarlo, molto probabilmente, gli avrebbe riattaccato il telefono in faccia.
«Allora?»
Il moro, alto quasi il doppio di lei, abbassò la testa a punta. «Lo so.»
«Ed immagino che tu sapessi che non aveva intenzione di venire. Dimmi di no se sbaglio.»
Sendo si grattò la nuca, sapendo che la sua morte sarebbe arrivata tra breve. «Anche se avessi provato a fermarlo non avrei ottenuto niente, lo sappiamo com’è fatto.»
Ad Ayako sfuggì un ringhio basso. «Non mi importa. Adesso lo chiami e non me ne frega quante volte dovrai farlo prima che ti risponda. Fagli capire che se non si fa trovare qui tra dieci minuti finirà molto male per le sue ossa.»
Detto quello se ne andò, lasciando dietro di sé una scia di fuoco talmente era infuriata e che, neanche a dirlo, attirò l’attenzione dello staff presente sul piano. Uno alla volta, tutti cominciarono ad intrufolarsi in ogni rifugio possibile per salvarsi dalla sua ira. Incrociare la sua strada o cercare di avere una conversazione civile con lei in certi momenti voleva dire andare incontro al suicidio.
Sendo, resosi conto di esser impossibilitato dal rifiutare la richiesta della sua amica di infanzia, si diresse verso il camerino con passi pesanti per poter recuperare il suo telefono e contattare immediatamente Kaede.
Sapeva bene che se Ayako faceva così non era tanto per la paura di esser licenziata, ma perché voleva che Rukawa si mettesse nell’ordine delle idee che non poteva permettersi di prendere sotto gamba tutto quello che non gli andava a genio; e non aveva torto.
Solo che Ayako reagiva in un modo, ovvero arrabbiarsi e costringerlo in ogni maniera a farlo lavorare come si doveva; lui, al contrario, ci provava solo una volta a farlo ragionare, dopodiché abbandonava la presa perché sapeva quali sarebbero state le conseguenze nei suoi confronti.
Una volta giunto nel camerino e recuperato l’aggeggio tecnologico sul comodino, compose il numero di Rukawa pregando che gli rispondesse, se non al primo, almeno al secondo tentativo.
Rispose al quarto, e non chiuse la telefonata come aveva creduto che avrebbe fatto sin dall’inizio.
«Akira?», chiese il suo interlocutore, il tono imparziale che lo accompagnava come al solito.
Sendo si abbandonò sulla poltroncina di pelle nera, rincuorato dal fatto che anche quella volta sarebbe sfuggito dalle grinfie della temibile manager.
«Sono io Kaede caro. Dove sei di bello?»  
Riuscì a percepire l’irritazione che la domanda gli procurò nonostante non si trovassero faccia a faccia.
«Sono al bar della scorsa volta, non rompere anche tu come Ayako
“Allora non mi sbagliavo”, pensò simultaneo testa a punta, ricordando di aver intravisto un certo interesse nelle iridi cristallo del suo amico, soprattutto quando era apparso il cameriere dai buffi capelli rossi che lo aveva denominato porcospino.
Si abbandonò ad una risata – sarebbe stato strano l’incontrario – cominciando a delineare dei cerchi immaginari per aria con le dita.
«Ti stai divertendo?»
Ricevette una risposta monosillabica.
«Sei riuscito a sfuggire ad altri assalti?»
«Mh.»
Si domandò come.
«Non vorrei distruggere la tua felicità ma Ayako mi ha incaricato di dirti che se non sei qui tra dieci minuti ti farà morire nelle più atroci sofferenze.»
Ci fu un momento di silenzio. Forse aveva compreso che la situazione si stava tramutando in qualcosa di più grave di quanto pensasse.
«Se non lo fai per lei fallo per me. Come potrei vivere sapendo che tu non ci sarai più?», interrogò con tono appositamente ruffiano, strusciando la guancia sullo schermo del telefono neanche fosse un gatto, «neh, Kaede?~»
Un grugnito.
«Adesso arrivo. Smettila di fare il bambino, Sendo
Interruppe la telefonata di botto, lasciando dietro di sé un Akira con l’amaro in bocca.
Proprio quando aveva deciso di giocare un po’ con lui a farlo arrabbiare doveva riattaccare? 
L’unica soddisfazione la trovò nel fatto che lo avesse chiamato per cognome, e quando lo chiamava per cognome voleva dire che era sul punto di incazzarsi.
Alcuni avrebbero potuto pensare che era un masochista se il suo obiettivo era quello di stuzzicare i nervi di Kaede Rukawa, ma non lo era, nossignore; gli piaceva solamente sfidare l’espressività del suo amico, ed era una cosa che amava fare da quando si erano conosciuti durante il secondo anno delle scuole medie.
Rukawa, al contrario di ciò che si potesse pensare, non era sempre stato così apatico: c’era stato un certo avvenimento che lo aveva fatto cambiare in maniera radicale, e Sendo sapeva bene quale fosse stato questo fatto.
Ricordarlo ora, però, non gli sembrava il momento più opportuno – in realtà non lo era mai, ma, inevitabilmente, quando capitava che gli venisse in mente l’immagine di Kaede, gli era impossibile non farvi riferimento anche solo per un breve attimo.
Appoggiò nuovamente il cellulare al suo posto originario, deciso ad andare a farsi una doccia come già aveva previsto prima della fine delle riprese: ora che aveva sistemato la questione con Rukawa e che era fuori pericolo dalla furia di Ayako, poteva tranquillamente buttarsi sotto lo scroscio d’acqua fredda, liberandosi del sudore che ancora percepiva prepotente lungo l’ampia schiena.
Una volta alzatosi, si disfò dapprima dell’accappatoio, gettandolo malamente sulla poltrona su cui era rimasto seduto fino a qualche istante prima, poi dei vari bracciali e collane che era stato costretto ad indossare per il set fotografico.
Stava per sfilarsi anche gli slip aderenti neri quando fece il suo ingresso come un uragano una nuova presenza, nonché suo manager, con in mano la temibile tabella rossa dei suoi impegni.
Non doveva essersi accorto subito che era praticamente nudo perché solo quando aguzzò per bene la vista e notò che Sendo aveva le mutande ad altezza ginocchia, le sue guance diventarono rosse come pomodori maturi, la suddetta tabella gli arrivò in fronte, e in più gli trapanò i timpani con un esclamazione quale: “dannato maniaco, vestiti!”
Ci volle qualche minuto prima che la situazione si placasse e che Koshino si desse una calmata: si era lasciato prendere dal panico del momento senza provare a capire per quale motivo Sendo fosse quasi completamente svestito davanti alla porta del camerino.
«Tutto bene…?», interrogò sinceramente dispiaciuto – Koshino e il dispiacere non erano due parole che andavano molto d’accordo tra loro, ma per quella volta Hiroaki si costrinse a provare tale emozione sconosciuta - una volta che Akira era riuscito a rinfilarsi gli slip più un vestiario decente e che ebbe recuperato del ghiaccio da mettere sulla parte lesa dal piccolo frigo all’angolo della stanza.
Quest’ultimo confermò alzando il pollice. «Spero che non diventi un bernoccolo o sarebbe un bel problema.»
«Accidenti», mormorò Hiroaki, seduto sulla poltrona precedentemente occupata dal modello, in preda ai sensi di colpa, conscio di aver fatto un danno non da poco. «Sono il tuo manager. Il mio lavoro è evitare che tu ti faccia del male e merda, sono io a procurartelo!»
Sendo, come da consuetudine, cercò di rassicurare il ragazzo, dandogli una leggera pacca sulla spalla. «Poteva finire molto peggio. L’abbiamo preso in tempo perciò dubito che si trasformi in qualcosa di peggio di un livido.»
Koshino lo fulminò con lo sguardo. «I tuoi giochetti non funzionano con me, perciò non cercare di pulirmi la coscienza con una delle tue frasi ad effetto.»
Il più alto incurvò un sopracciglio, non capendo a cosa stesse alludendo. «Frasi ad effetto?»
«Esatto», confermò il manager incrociando le braccia la petto, come se ciò gli conferisse un’aria più risoluta. «Sempre con quel sorriso dipinto sul volto, le parole rassicuranti, l’espressione bonaria e—»
«Devi osservarmi parecchio per notare tutte queste caratteristiche su di me.»
Il colore bordeaux che assunse il volto di Koshino fino alla punta delle orecchie confermò la teoria di Sendo che, qualche domanda sulla sessualità di Hiroaki, se l’era già fatta in passato.
Non poteva negare di non essersi mai accorto di certi sguardi languidi che gli lanciava, soprattutto durante i reportage fotografici in cui metteva in mostra il corpo tonico nella sua interezza.
Se lo disgustasse ricevere certe attenzioni da parte di un individuo del suo stesso sesso? Assolutamente no.
Anche se fosse stato etero fino al midollo – e non lo era - le sue idee sarebbero rimaste invariate.
Chi era lui per giudicare i gusti personali di una persona? Chi, poi, aveva prestabilito che l’amore tra due uomini o tra due donne fosse sbagliato?
Si sarebbe potuto aprire un discorso che avrebbe dato seguito ad altri mille punti di domanda che avrebbero generato, a loro volta, solamente altri quesiti e nessuna risposta; per questo l’idea di Sendo era quella del: “vivi e lascia vivere”, altrimenti non sarebbe venuto a capo di tanti altri interrogativi che gli ronzavano per la testa.
«S-sono il tuo manager da quasi un anno», ribatté Koshino con qualche esitazione, cercando di darsi un contegno e ritornare ad avere un colorito che non sfiorasse tonalità violacee. «Credo che sia ovvio che di certe cose me ne accorga.»
Sendo sorrise, colpito da quel comportamento così insolito dell’altro. Era quasi…tenero?
«Infatti stavo scherzando prima, l’hai presa troppo sul serio.»
A Koshino servì qualche istante prima di realizzare cosa avesse appena detto. Quando comprese si diede mentalmente dello stupido, rendendosi conto di esser scattato per un insinuazione che non aveva alcun fine.
In fondo si stava parlando di Akira Sendo, colui che non aveva mai fini maliziosi neanche quando si trattavano certi discorsi e che non farebbe male ad una mosca neanche se gli toccassero sua sorel—scherzava, se qualcuno avesse sfiorato anche solo con un dito sua sorella Hiyori, nel cento per cento dei casi, si sarebbe ritrovato senza palle.
Sbuffò, emettendo un grugnito di disapprovazione. «Evita allora. Non mi piacciono le prese per il culo.»
Sendo si sciolse in una piccola risata, alzando la mano disoccupata per scusarsi. «Gumen gumen, ammetto le mie colpe.»
Dopo vari battibecchi e rispostine tranquille da parte di Akira, quest’ultimo si ricordò che cosa avesse voluto chiedere ad Hiroaki sin dal primo momento in cui era irrotto nel camerino senza bussare.
«Per quale motivo sei venuto qui? Mi avevi detto che saresti stato impegnato tutto il giorno.»
Koshino batté le palpebre, perplesso: «L’ho detto?»
Sendo si grattò il capo, sperando che la sua testa non gli stesse facendo brutti scherzi. «Da quel che ricordo sì, mi pareva fosse oggi. Per questo non mi sono premurato di chiudere la porta a chiave.»
«Devo essermi sbagliato», rilanciò l’altro, passandosi una mano tra i folti capelli scuri. «Il matrimonio di mio fratello è la settimana prossima…»
«Keisuke si sposa?!», domandò sconcertato Sendo strabuzzando gli occhi, il tono di voce sempre pacato improvvisamente più alto del normale. «Non sapevo nemmeno fosse fidanzato!»
Koshino digrignò i denti, battendo innervosito un piede per terra. A quanto pareva non doveva esser molto lieto di quell’evento.
«Si sposa con una rincoglionita figlia di papà, per questo non mi va di urlarlo in giro. Io me ne sto buono ma al primo passo falso la mia cara e futura cognata finisce giù dalla finestra.»
Da quell’affermazione, Sendo capì solo una cosa: «Sono contento di non essere al suo posto.»
Hiroaki inarcò un sopracciglio, incredulo che proprio lui avesse detto una cosa del genere.
«Parli tu. Voglio vedere che cosa farai quando tua sorella ti dirà che si sposa.»
A quelle parole, le labbra di Sendo si fecero sottili, gli occhi impastati da una quasi incoglibile sfumatura negativa, per niente da lui.
«Hiyori non si sposerà e nemmeno si troverà il ragazzo, problema risolto.»
Koshino sbuffò, i gomiti appoggiati sui braccioli della poltrona. «Non puoi decidere per il suo futuro, lo sai anche tu.»
«Non m’importa.»
«Dovrebbe.»
Akira lo zittì con un movimento del palmo della mano, consapevole che se avessero continuato a discuterne avrebbe finito per litigare senza volerlo davvero, come succedeva spesso con Kaede quando, chissà per quale motivo, tiravano in ballo il discorso.
Lo sapeva bene anche lui che avrebbe dovuto disfarsi di quel complesso di fratello maggiore che lo accompagnava sin da quando era nata la sua dolce sorellina, tuttavia anche solo il pensiero di dover condividere Hiyori – che aveva quindici anni, ma nella sua testa ne aveva ancora sei – con qualcun altro, gli faceva ribollire il sangue nelle vene e la mente gli appannava, rendendolo incapace di ragionare in maniera matura; regrediva allo stadio di un ragazzino viziato.
Koshino, malgrado Sendo lo avesse indirettamente pregato di non accennare più a niente che riguardasse Hiyori, continuò per la sua strada, domandandogli: «Ti piacerebbe se qualcuno ti impedisse di frequentare chi vorresti? Non cominceresti ad odiare questa persona?»
Akira iniziò a credere di esser caduto in un’altra dimensione dove Hiroaki si stava improvvisando il suo psicologo personale oltre che il suo manager, pronto ad aiutarlo a superare il suo ‘problema’.
Peccato che non ce ne fosse bisogno: non era così accecato dal suo complesso da non capire quali conseguenze avrebbe portato il suo essere troppo attaccato ad Hiyori, fino al punto di impedirle di uscire con chi volesse, se avesse continuato verso quella direzione.
Fissò perciò Koshino, facendo riaffiorare il sorriso che caratterizzava il suo volto. «Non mi piacerebbe, tuttavia anche se non mi permettessero di frequentare la persona che vorrei il problema non si porrebbe, non per me.»
Hiroaki sussultò, non capendo che diavolo volesse significare quell’affermazione. Era come se stesse dicendo – e sperava di averla colta male - che per lui non c’erano possibilità di trovare qualcuno.
«Spiegati meglio, Akira» sbottò squadrandolo, la fronte aggrottata. «Pensi forse che non ci sia nessuno là fuori per te?», il tono di voce leggermente incrinato non sfuggì alle orecchie di Sendo, tuttavia non poté fare niente per evitarlo. «Se è questo il tuo pensiero mi autorizzo a picchiarti.»
Akira scosse la testa, fermando sul nascere la rabbia crescente di Hiroaki, comprendendo le motivazioni per cui stava perdendo le staffe.
Avrebbe voluto scusarsi, ma sicuramente avrebbe peggiorato la situazione, facendolo passare per il povero ragazzo rifiutato e ferendo profondamente il suo forte orgoglio.
«Non dico che non ci sia nessuno», gli assicurò, smontando pezzo per pezzo il suo malumore, «solo che per ora non sono interessato a trovarmi qualcuno.»
Si era costretto a mentire anche se odiava farlo, ma si poteva dire che la sua fosse una bugia bianca, una di quelle che ti salvano dal rovinare qualcosa che potresti perdere e che ritieni importante.
Koshino, fortunatamente per lui, non si accorse della menzogna, lasciandosi andare un breve sbuffo. «Molto bene. Allora ritiro la mia proposta di pestarti», lo informò, la voce tornata a farsi decisa.
«Meno male» ridacchiò Sendo, tirando un sospiro di sollievo, indicandosi la fronte. «Credo che questo sia già abbastanza.»
Hiroaki arricciò le labbra. «Un po’ di fard e vedrai che si risolve tutto», o almeno sperava, «comunque, ritornando al discorso originale, ero venuto qui solo per consegnarti la scheda dei tuoi prossimi set fotografici; ultimamente sei piuttosto richiesto.» Fece cenno con la testa verso il foglio abbandonato sul tavolo in legno massello, come invito a darci un’occhiata. «La prossima settimana non hai un attimo di sosta a parte la domenica.»
Sendo mascherò un verso di disapprovazione con un colpo di tosse, incapace di mostrare un’emozione che fosse propensa alla negatività.
Se fosse mai arrivato il giorno in cui si lamenterà o, peggio, arrabbierà, il mondo, di sicuro, entrerà nel caos più totale, perché un Akira Sendo senza un sorriso o senza il suo immancabile buon umore non è un Akira Sendo.
«Se non amassi il mio lavoro sarebbe davvero una tortura», disse mentre guardava sulla scheda quanti impegni avesse. Se aveva il tempo per respirare era già tanto. «Il direttore Suwamura vuole che posi di nuovi per la sua rivista, non so se ti hanno informato.»
«Lo so», grugnì l’altro, visibilmente irritato. «Quel vecchio pervertito proprio non lo riesco a vedere. Appena vede un culo si mette a sbavare come un cane in calore.»
Sendo, nonostante la poca finezza utilizzata da Koshino nei confronti di una persona che, nel campo della moda, contava non poco, ridacchiò, non aspettandosi nulla di diverso.
«Ho notato un certo entusiasmo, in effetti», ricordò, andandosi ad appoggiare contro la parete bianca per sostenere il corpo provato dalla stanchezza.
«Se vedo che prova ad allungare le mani giuro che gliele taglio», gli assicurò, i tratti del volto che non lasciavano trasparire altro che serietà.
Akira gongolò appena. «Grazie Hiro-chan
Un sussulto.
«Non chiamarmi Hiro-chan!»
«Perché no? Ti calza a pennello.»
«Assolutamente no», ruggì il più basso, combattendo l’imbarazzo.
Sendo, malgrado si fosse appena spalmato sul muro, si staccò da quest’ultimo per avvicinarsi a Koshino, scompigliandogli i capelli scuri con innocenza.
«Io invece credo proprio di sì. Quando non sei arrabbiato hai proprio il viso da ragazzino tenero, Hiro-chan.»
Hiroaki, questa volta, non ebbe la forza di controbattere, troppo preso dal nodo che gli si era creato in gola nel momento in cui aveva sentito il tocco di Sendo su di sé.
Quando Akira si accorse di aver osato più del dovuto era già ormai troppo tardi: Koshino aveva alzato leggermente la testa, gli occhi scuri illuminati da una piccola speranza, le labbra socchiuse e le guance che si stavano facendo, man mano, sempre più tendenti al rosso; sembrava volesse dir qualcosa, o meglio, voler fare qualcosa.
Non poteva permetterglielo per una questione di giustizia, e Sendo, sfortunatamente o fortunatamente, dipendeva da che prospettiva la si voleva guardare, era il ragazzo più leale quando si trattava dei sentimenti altrui.
Mai e poi mai si sarebbe permesso di scherzarvi sopra come un burattinaio che muove i fili del gioco.
«Kosh-», provò a dire, ma nel mentre stava per farlo ecco che si spalancò, per la seconda volta di fila in quella giornata, la porta del camerino, introducendo una nuova figura che, al presentarsi di quella scena, rimase fermo come una statuina all’entrata.
Sendo voltò la testa repentinamente, distanziandosi da Hiroaki con un piccolo balzo all’indietro, domandando, non appena riconobbe l’identità del nuovo arrivato, un «Kaede?» inaspettatamente tranquillo.
Koshino, diversamente da lui, si irrigidì, guardando il nuovo arrivato in cagnesco.
Kaede Rukawa era in piedi sullo stipite della porta, l’espressione di uno che aveva appena corso chilometri e chilometri senza mai fermarsi - in sostanza la stanchezza era parte integrante dei tratti del suo viso, nulla di diverso dal solito.
«No, il fantasma formaggino» ironizzò, incastrando successivamente il proprio sguardo con quello di Koshino, scorgendovi l’immancabile risentimento che nutriva nei suoi confronti.
«Rukawa», ringhiò il manager, stringendo i braccioli della poltrona per placare il suo spirito bollente.
Kaede alzò leggermente il capo, rispondendo a quell’occhiata di sfida con una smorfia indolore.
«Hn, ciao», fece con tono di sufficienza, partecipando attivamente all’accrescimento di irritazione nell’animo di Hiroaki.
Comprendeva fino ad un certo punto l’ostilità di Koshino, tuttavia non gli interessava minimamente che cosa pensasse e gliene importava ancor meno dei suoi problemi di cuore: se aveva qualche conto in sospeso con Akira doveva prendersela con lui e smetterla di fare il sostenuto.
«Ce l’hai fatta» commentò sorpreso il più alto dei tre, investendo l’atmosfera tesa con la sua voce allegra, riscaldandola. «Quando nomino Ayako scatti subito come un soldatino, eh?»
Kaede grugnì, il cipiglio marcato. «Ci tengo alla mia testa, tutto qui.»
«Senza quella non saresti qui» asserì Koshino, approfittandone per lanciare una delle sue frecciatine poco simpatiche.
«Come se m’importasse di lavorare qui o meno», replicò l’altro, zittendo quella provocazione sul nascere. «Avrei sicuramente trovato qualcos’altro al contrario tuo.»
Quell’affermazione ferì profondamente l’orgoglio del manager, tant’è che si preparò ad inveire contro di lui con un vocabolario non propriamente consono, ma proprio mentre stava per aprire bocca venne fermato da Sendo, che si infiltrò in quella “conversazione” con un: «Koshino, ti dispiacerebbe lasciarmi da solo con Kaede?»
Hiroaki voltò subito il capo ad indirizzo di Sendo quando udì quella richiesta, rifilandogli uno sguardo adirato.
Perché diamine doveva sempre schierarsi dalla sua parte invece di appoggiarlo ogni tanto?
«Per favore» insistette, cercando di risolvere la faccenda nel modo più democratico possibile, senza spargimenti di sangue.
Hiroaki poteva anche essere una testa dura, ma non era un’idiota, e soprattutto sapeva quando era il momento di smetterla di insistere perché ne sarebbe uscito vinto in ogni caso.
Si alzò dalla poltrona, facendola stridere sul pavimento apposta per far comprendere il suo disappunto nel doversene andare, soffrendo in silenzio; dopotutto era abituato ad esser messo da parte da Akira quando in ballo c’era Rukawa.
«Vado», sentenziò brusco, incamminandosi verso la porta, evitando di toccare il ragazzo con l’aria da zombie, neanche vi fosse la possibilità che gli potesse attaccare la peste. «Riguardati la scheda, se manchi anche solo ad un impegno perderai il tuo bel faccino».
Alle orecchie di Sendo risultò molto come una minaccia più che un consiglio dato dal suo manager, preoccupato che una sola assenza avrebbe potuto intaccare la sua carriera.
«Certo» disse solo, salutandolo prima che potesse scomparire dalla sua vista; non gli sfuggì però l’occhiataccia che riservò a Rukawa, che ribatté, a sua volta, ad armi pari, senza proferire una parola in più.
Quando Koshino fu completamente fuori dal suo radar e si chiuse la porta alle spalle – sperando di beccare Kaede, magari -, sbuffò pesantemente, scrocchiandosi l’osso del collo.
Era la giornata internazionale del: “Facciamo dannare Akira Sendo?” No perché a quel punto era l’unica soluzione che gli veniva in mente.
«Cosa c’è?» domandò Rukawa, l’aria seccata.
Punta a spilli inarcò un sopracciglio. «Ci dev’essere qualcosa?»
Kaede alzò gli occhi al cielo. «Hai appena mandato via il tuo amichetto, ci sarà pure un motivo.»
«Per evitare che vi scannaste» asserì immediato, massaggiandosi le tempie. «L’ultima cosa che desideravo era uno scontro. Sono troppo stanco per sostenerlo.»
«Hn, come se mi abbassassi a certi livelli» replicò l’altro, il tono scalfito da una nota di nervosismo.
Sendo sospirò per la seconda volta. «Stava per aggredirti, e non penso che tu te ne saresti rimasto buono.»
«Allora non mi conosci abbastanza» sibilò Rukawa, pronto a fare retro-front verso il suo, di camerino. Era lì da quanto? Cinque minuti? E già lo stava infastidendo con le sue premure, se così si potevano definire.
Akira si arrese, e non perché sapeva che Kaede l’avrebbe sempre vinta contro di lui – se c’era persona che sapeva tenergli testa era indubbiamente se stesso -, ma perché non era suo desiderio addentrarsi in una discussione che non aveva nemmeno motivi per sorgere.
«Non facciamola più grande di quel che è» disse, scrollando le spalle. «In realtà spero solo che si acquietino le acque tra voi due.»
«Non sono io ad avere un problema con lui», mugugnò Rukawa, facendo lo scarica badile.
Kaede aveva ragione.
Non aveva colpe, anzi, se fosse stato per lui avrebbe bellamente ignorato Koshino, come faceva con la maggior parte della gente che lo circondava.
Kaede era così, o lo si amava o lo si odiava nel suo carattere freddo, distaccato, indifferente, ma non per questo disonesto e una compagnia spiacevole.
Sendo, la sua scelta, l’aveva già fatta; non c’era bisogno di specificare quale fosse stata.
Annuì alla fine, deciso a mettere da parte il discorso. Le cose si sarebbero potute risolvere solo con il passare del tempo, o almeno sperava.
«Chiudiamo la parentesi ed apriamone un’altra…» fece, con enorme “felicità” di Rukawa che già aveva alzato le iridi blu al cielo. «Te ne sei tornato al bar dell’ultima volta senza di me.» Più che un’accusa sembrava una constatazione. Lo si poteva capire dal sorriso che era riaffiorato sul suo volto. «E poi mi spieghi quel giaccone da detective?»
Kaede si guardò. Si era dimenticato di toglierlo al contrario di tutto il resto.
«Hn, copertura» grugnì seccato, senza sprecare troppe parole, «e poi mi trovavo da quelle parti e ci sono entrato.»
Sendo ridacchiò appena, pensando che mai avrebbe ammesso che lo aveva colpito. Dopotutto erano davvero poche le cose che piacevano a Kaede e che si guadagnavano il suo interesse.
«Che hai preso?» domandò curioso.
«Latte e brioche».
«Buoni?»
«Hn, abbastanza».
Ed ecco che arrivò a chiedere ciò che gli interessava davvero.
«C’era il cameriere dai capelli rossi?»
Rukawa lo fissò, non capendo cosa ci fosse sotto. Nel dubbio rispose ugualmente.
«E’ venuto al mio tavolo», affermò con noncuranza, muovendosi verso la porta. «E’ più fastidioso di quanto pensassi.»
«Asp- dove vai?» chiese immediato Akira, non capendo perché si stesse avvicinando all’uscita, senza permettergli di saperne di più.
«Sono stanco», si grattò la nuca alla base del collo, «e tu mi stai facendo parlare troppo.»
Sendo lo guardò per un attimo sbigottito, dopodiché scoppiò in una fragorosa risata, tenendosi addirittura lo stomaco talmente cominciarono a dolergli gli addominali scolpiti.
«Che ti ridi?» sbottò Rukawa, regalandogli una delle sue occhiate glaciali nel tentativo di farlo smettere. Era irritante come riuscisse ad esser sempre di buon umore.
«No scusa», disse tra una risata e l’altra, asciugandosi quell’unica lacrima che solcava l’occhio sinistro. «Lo so che non parli molto, ma sentirti dire veramente che ti stufi a parlare? E’ la prima volta che te lo sento dire in sette anni che ci conosciamo.»
«Hn» sillabò unicamente, tornando a mostrare la solita espressione amorfa. Con Sendo le occhiatacce o le frasi pungenti non funzionavano.
Arrabbiarsi non era proprio da lui, ma c’era stata una volta, anche per Akira, in cui aveva perso la pazienza e...
Scosse immediatamente la testa, respingendo quel ricordo scomodo dalla sua mente.
«Vado da Ayako» annunciò, sapendo a prescindere che si sarebbe beccato una bella strigliata dalla sua amica d’infanzia, rimettendoci qualche ossa.
Non essendo uno che amava perdere tempo preferiva molto di più la teoria “meglio finirla subito” che aspettare e scappare prima di esser acciuffato e fatto a pezzi.
Sendo levò il pollice verso l’alto, le risa ormai quasi completamente sparite. Dopo due minuti buoni era riuscito a darsi un contegno.
«Vieni a pranzo da me?» chiese prima che potesse abbandonarlo, le labbra scoperte in un sorriso.
Kaede ci pensò giusto il tempo di un respiro, poi annuì. La prospettiva di arrivare a casa e doversi mettere a preparare qualcosa non lo allettava per niente: nonostante fosse un ottimo cuoco non aveva né la forza né la voglia di cucinare.      
«Ti aspetto solito posto, okay?»
«Hn», rispose monosillabico, agitando una mano per salutarlo. Prima di andarsene, però, si voltò, dandogli un consiglio che gli veniva dal…cuore? «Vedi di non illudere la gente.»
Quando Akira capì il senso di quella frase e a che cosa Kaede stesse alludendo fu troppo tardi per ribattere; sembrava lo facessero tutti apposta ad andarsene prima che avesse la possibilità di giustificarsi solo per non dargli la soddisfazione di avere ragione una volta tanto.
Ridacchiò improvvisamente tra sé e sé, senza alcun motivo particolare, chiudendo la porta a chiave per esser sicuro che nessuno entrasse più – visto che quel giorno sembrava che tutti avessero urgenza di parlargli -, spogliandosi e buttandosi sotto il getto d’acqua fredda, lavando via sudore, stanchezza e stress.
Si domandava perché Kaede gli desse certi consigli quando sapeva meglio di lui che Koshino sarebbe rimasto sempre un amico e niente di più, almeno finché i suoi sentimenti sarebbero rimasti invariati.
Dopotutto lui…
Si diede l’ultima sciacquata veloce ed uscì dal box-doccia, prese un asciugamano e se lo legò alla vita, dopodiché si posizionò davanti allo specchio, osservando i capelli sempre a punta abbandonati sulla fronte e le goccioline d’acqua scendere dalla base collo, per poi disperdersi tra le curve perfette dei suoi muscoli.
Non sapeva perché ma improvvisamente gli ritornò in mente il cameriere di quel bar, il Monkey’s Room, ricordando come Kaede lo avesse osservato una volta che era comparso in mezzo a tutte quelle ragazze, trovando il coraggio di affrontarle nonostante la forte possibilità che queste lo assalissero e gliene dessero di santa ragione.   
«Voglio sapere qualcosa in più su di lui», parlò ad alta voce, dandosi una veloce ravvivata alla capigliatura mora bagnata. «Chi attira l’interesse di Kaede merita sempre la mia attenzione.»
 
 
 
 
 
 
 
  

 

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