dove finisce il mondo di marani (/viewuser.php?uid=674844)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 - Finale ***
Capitolo 1 *** capitolo 1 ***
DOVE FINISCE IL MONDO
1.
(TLAC)
Allora… vediamo un po’ se quest’affare funziona… mmh, dunque… prova... sì, prova…
(TLAC)
(RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Okay. Fuori il dente, fuori il dolore, come si dice: io so dove finisce il mondo.
Un attimo, calma… Non ho detto quando, ho detto dove. E non è la stessa cosa, se mi è consentito...
E’ un piccolo viottolo, carino anche se per niente vistoso, che si stacca a perpendicolo da un certo punto di una delle piste ciclabili di questa città. Va anche aggiunto, ad onor del vero, che questa sua pomposa denominazione è del tutto fuorviante. Non ha proprio niente a che vedere con la fine del mondo, geografica o temporale o chissà che altro, ma il vecchio ha detto che si è sempre chiamato così, e se poteste darci un’occhiata... beh, immagino che sareste d’accordo anche voi. Non potrebbe chiamarsi in altro modo, in fondo. Perché faccio tanto il reticente dopo aver esordito in maniera così… come dire… lusinghiera ? Bah, forse perché prima vorrei chiarire… soprattutto a me stesso… come stanno le cose. A che punto sono. E per non fare subito la figura del matto, anche se in questo preciso istante l’unico mio spettatore è Albertone, il vecchio beagle di Sandra, intento a fissarmi col suo solito sguardo, a metà tra il perplesso e il canzonatorio
(occhi da prendo-per-il-culo, li definisce quel simpaticone del ragionier Sartori quando ci incrociamo sul pianerottolo, io con la bestia al guinzaglio, diretti verso una passeggiatina "diuretica", e mai definizione pare essere più azzeccata)
Se ne sta mollemente spaparanzato sul divano del salotto, simile ad un imperatore romano nano e affetto da ipertricosi, ed ogni qualvolta la mia voce indecisa riprende, solleva di un mezzo centimetro l’orecchio sinistro.
Unico spettatore, dicevo, di questo mio tentennante monologo di fronte al microfono di questo antiquato registratore, che ho dovuto andare a recuperare su in soffitta, tumulato lassù dall’ultima volta in cui mia moglie ed io ci eravamo "ripromessi" di dare una bella rinfrescata al nostro inglese fermo ad antiche reminiscenze scolastiche. Ho appoggiato una sedia traballante all’anta dell’armadio su cui l’apparecchio era appollaiato, avvolto in un cellophan opaco come fosse un cadavere in un episodio di X-Files (scacciando via dalla testa pensieri scuri e dolenti come denti guasti) e l’ho tirato giù in un tripudio di polvere e mummie di mosche stecchite.
A questo punto credo sia il caso di procedere con un minimo di ordine, per quanto possibile, e magari partire dalle presentazioni. Mi chiamo Marco Vicario, ho grossomodo cinquant’anni, e lavoro in una banca della città. Sono stato sposato per ventitre anni con mia moglie Sandra, prima che lei mancasse, un anno e mezzo fa, e da quel momento vivo da solo in un luminoso appartamento del centro storico
(da solo… ingombrante presenza di Albertone permettendo, naturalmente…)
E non sono matto, come mi sono premurato di precisare come prima cosa. Anche se… voglio dire… già uno che parte con una sparata del genere… sapete com’è, potrebbe essere la vecchia faccenda di cosa sia nato prima, se l’uovo o la gallina o il malato di mente che non si vede tale solo per il fatto di… affermare il contrario. Beh, insomma, per quello che è in mio potere stabilire, non ritengo di esserlo. Almeno non quanto quei folli che prendono a pugni e calci i loro figli neonati, o centrano grattacieli zeppi di gente con aerei usati a mò di proiettili.
E perché allora me ne sto qui ad affidare ad una vecchia audiocassetta cigolante questo mio sconcertante memoriale ? A beneficio di chi ? Non lo so. Non ho mai preteso di avere tutte le risposte, in generale intendo, ed una volta che uno ha metabolizzato questo dato di fatto (non è semplice, sapete, e mica a tutti riesce… anzi, pare proprio che negli ultimi tempi la strafottenza sia una merce che venga via per niente) ci si può anche divertire. Lo faccio perché mi viene di farlo, perché magari a qualcuno, chissà, anche incidentalmente, potrà tornare utile. E poi perché, a parte il bavoso lì sul divano, sono solo (quasi solo) e la mia decisione non causerà il minimo sconquasso, emotivo o materiale, in nessuno.
Quale decisione ?
Oh bè, pensavo si fosse capito. Io, tra un po’, ho intenzione di partire…
2.
C’è una pista ciclabile, in città. La formulo meglio, in modo da far apprezzare la sottile (quanto desolante) ironia di questa affermazione: abbiamo UNA pista ciclabile, degna di tale nome, qui dalle nostre parti. Tutto il resto, con buona pace degli sforzi ecologisti della Giunta, sono spezzoni di cemento più o meno corti, butterati dalle bizze del clima e fatti "lievitare" dalle radici degli alberi, e il più delle volte ostruiti da automobili piazzate giusto sopra con civilissima nonchalanche. Oddìo, neanche la Pista Ciclabile titolare è un capolavoro di estetica ed ingegneria viaria. Niente a che vedere con quello che offrono altri Paesi europei, e non per far sempre i soliti italiani malati di esterofilia che non perdono occasione di dire peste e corna di quello che hanno sotto casa. In qualche caso, e questo è uno di quelli, non c’è proprio storia. Ad ogni modo, la nostra pista ciclabile è ragionevolmente lunga, ragionevolmente carina (si dipana verso est ricalcando il vecchio tracciato della ferrovia, tra filari di viti e sconfinati campi coltivati a granturco e soia, sino a lambire le sagome arrotondate dei colli) e quel che più conta, per i miei polmoni sfiatati da un’onorata carriera di fumatore, decisamente pianeggiante. Anche se sembra un’affermazione buffa e surreale, non mi ci sono messo io sullo scomodo sellino di una bicicletta, bensì, come spesso succede nella vita (per fortuna, mi viene da aggiungere, visto che molto spesso noi umani ci mettiamo d’impegno per sottovalutare le grida d’allarme dell’organismo), le spassionate insistenze del mio medico curante. Che ha pensato bene di dare una bella sterzata alla mia sregolata condotta di vita, comprensibile conseguenza del lutto di cui sono stato vittima, che stava per arrecare danni ben più gravi di quelli che ci si potrebbe attendere. Nel profondo abbraccio della depressione, condita da pacchetti di Camel bruciati, è proprio il caso di dirlo, in meno di un giorno, pasti precari e troppe alzate di gomito, in cui ero (volontariamente) scivolato, non ci si sguazzava per niente male, a dirsela qua. Sempre che si abbia come discutibile obiettivo quello di finire in un bel articolo di cronaca sul quotidiano locale, fin troppo particolareggiato su come il corpo senza vita di M.V., di anni 50, bancario, da poco vedovo, fosse stato rinvenuto nel suo appartamento una settimana buona dopo il solitario decesso.
E se non ci ho pensato un piovoso venerdì sera di un un anno e mezzo fa, di compiere il Grande Passo, lasciandomi alle spalle la sagoma inquietante di un ospedale illuminato a giorno come una nave sul punto di inabissarsi (mentre ero io, quello che stava colando a picco) perché avrei dovuto "scivolarci" dentro mesi dopo, in maniera così disonorevole e squallida ? Se ci ho pensato, quel venerdì d’inizio inverno, mi state chiedendo, o miei inesistenti (o futuri) ascoltatori ? Vi chiedo scusa, ma con tutto il rispetto credo che queste siano confidenze un pò troppo personali. Sono ancora qui, più o meno (fa un male cane ogni benedetto giorno in cui decido di riaprire gli occhi e metter giù i piedi dal letto, ma sono anche convinto che ci voglia molto più coraggio nel restarsene qui a farci i conti), sarà voglia di vivere, o incapacità di morire, decidete voi, io cerco di ripetermi che ne vale sempre la pena. Se si ha un minimo di buona sorte, potrebbero succedere cose come quella di cui vi sto mettendo a parte.
Per cui, il burbero dottor Scotti (sì, proprio come quello dei risotti) ha pensato bene di far fuori due dei loschi figuri della mortale triade, signor Bacco e suo cugino Tabacco, stendendo un velo pietoso su Lady Venere, al controllo della quale stavo già provvedendo di mia involontaria iniziativa (il grafico del calo del desiderio seguiva di pari passo quello delle crisi depressive, e in ogni caso non sono mai stato come quel tipo che interpreta adesso il nuovo 007… e neanche come quello vecchio, ad esser realisticamente sinceri). Fare a meno delle sigarette e dei goccetti non mi sembrò affatto così sconvolgente ed insopportabile... sapete, svegliarsi ogni mattina con una fogna al posto della bocca, un vulcano di catarro incandescente pronto ad eruttare dai bronchi e un batterista rock che ha installato la sua sala prove direttamente dentro la tua scatola cranica… beh, non è certo il massimo della vita, e a volte forse può essere sufficiente solo il pretesto di volerne fare a meno. Il mio timore più pressante, seduto scomodo in quella sedia di fronte alla scrivania del medico, appesantito dalla zavorra dei miei chili in sovrappeso, il fiato corto e sibilante, la fronte imperlata di sgradevole sudore benchè fossimo all’inizio di una fresca primavera, era che venisse pronunciata una parolina-chiave che col sottoscritto non aveva mai avuto grande feeling. E il doc, osservandomi serioso dal di sopra dei suoi costosi occhiali bifocali, la sputò fuori senza il minimo timore reverenziale. E moto, naturalmente, disse, mentre io analizzavo quella breve frase alla ricerca di una qualche intonazione sadico-sarcastica. Che tuttavia pareva non esserci. Senza darmi il tempo di storcere il naso, mi elencò alcune possibili alternative, che avevano tutte il comune denominatore di essere ben poco affascinanti, così io, al termine di una forzata riflessione, optai per il male minore, ovvero le due ruote. Non mi andava, in via del tutto confidenziale, di esibirmi sulla ribalta di un’affollata piscina coperto solo da un misero slip (gli ippopotami non stanno affatto bene, conciati in siffatta maniera), e l’ebbrezza di un infarto sotto il sole cocente di un campo da tennis la lasciavo volentieri a qualche mio collega della banca più intraprendente e sventato.
Per farla breve, alla fine investii un congruo mucchio di quattrini per l’acquisto di una fantascientifica bicicletta (fantascientifica non perché avessi sborsato chissachè, ma solo per il fatto che le bici, al giorno d’oggi, o sono fantascientifiche o ciccia), un paio di guantini a mezza mano e un caschetto protettivo. Il tricheco in mutande non l’avrei fatto neanche morto, ma nemmeno con quell’affare piantato in testa mi sentivo del tutto a mio agio. Cosa volete farci, ognuno ha le sue. A dirla tutta, sempre per via di quella sorta di "zaino alpino" naturale che mi porto sopra la cintura dei pantaloni, non mi è passato per l’anticamera del cervello nemmeno di inguainarmi in ridicole ed aderentissime tutine dai colori improbabili, che stanno decisamente meglio su un fisico alla Cipollini, rispolverando per l’occasione la mia vecchia felpa, sformata ed ampia al punto giusto (t-shirt XXXXXXXL, per quando si scalda l’aria). L’unica concessione all’abbigliamento professionale "impostomi" dalle mie natiche (non si ha idea di quanto siano delicate certe parti del corpo fin che non ci si è sciroppati una ventina di chilometri con un sellino largo una manciata di centimetri sadicamente conficcato nel didietro) è stato un pantaloncino tecnico dotato di un’imbarazzante "rinforzo" in zona strategica, che mi fa assomigliare ad un improbabile lattante di ottanta e passa chili. La prima "uscita" ufficiale, dopo alcuni giri di prova in quartiere durante i quali ho potuto apprezzare l’insospettabile delicatezza delle mie voluminose chiappone, ha previsto la percorrenza di circa un decimo dell’intera ciclabile, che sarà lunga comunque non più di dieci chilometri, prima del crollo su una delle provvidenziali panchine poste ad intervalli regolari. Con i polmoni in fiamme, una cascata di sudore a getto continuo e il cuore seriamente intenzionato a scavarsi un pertugio nel mio petto, forse col sacrosanto obiettivo di abbandonare al più presto quella devastata parodia di corpo umano. Ci avevo impiegato una ventina di minuti buoni a prepararmi, a casa, lottando con i pantaloncini aderenti come se stessi cercando di infilare un cocomero in un preservativo, e un quarto d’ora in tutto era durata la mia barcollante pedalata. Ma su quella panchina, boccheggiante e mezzo storto (sapete, ci vuole un minimo di energia anche nel tirarsi su dritti) ci rimasi un’eternità, svicolando a disagio gli sguardi perplessi e preoccupati di un via vai di ciclisti, corridori, ragazze sfreccianti sui pattini in linea. Immagino che più di qualcuno si sarà chiesto se fosse magari il caso di fermarsi, per chiedermi se avevo bisogno di qualcosa (in ogni caso la mia bocca inaridita avrebbe ostacolato ogni tentativo di cortese diniego), se mi sentivo bene, se preferivo far chiamare qualcuno. Magari una bella ambulanza dotata di unità coronarica d’emergenza. Poi, si sa, la sana diffidenza dei nostri tempi ha avuto presto la meglio su quei flebili slanci d’altruismo, e me ne rimasi là, mezzo di traverso, a fingere di fissare con rapita concentrazione alcuni scarni fili d’erba che si facevano largo a fatica tra una giuntura e l’altra del cemento della pista. Passarono famiglie intere su due ruote, papà scattanti e per niente affaticati, mamme carinissime nelle loro tutine sgargianti, torme di bambini su biciclette di ogni forma e dimensione, addirittura un nonno come quelli delle pubblicità, capelli e baffi folti e candidi, che aveva il fiato persino per chiacchierare col piccolo nipotino seduto sul seggiolino. Passò un’infinità di persone, tutti a rimirare quel vecchio cetaceo "spiaggiato" su una panchina scrostata e zeppa di scritte inneggianti ad amori eterni e fanfaronate sessuali in egual misura, mentre il cielo sopra i Colli si scuriva screziandosi di viola e porpora. Anche se io non ero per niente in condizioni di apprezzarne la malinconica suggestione.
In qualche modo (non chiedetemi come) feci ritorno a casa. Spingendo la bicicletta a mano, è ovvio, e riflettendo seriamente su quanto sarei riuscire a spuntare dal prezzo d’acquisto se l’avessi riportata dal negoziante il giorno dopo. Il mattino seguente, l’ultimo dei miei problemi riguardava l’ipotesi di spingermi fin da Ciscato Cicli, al fine di concludere quella codarda restituzione. Molto più totalizzante era l’esperienza del dolore che stava straziando ogni singola cellula del mio corpo, inchiodato nel letto senza la minima realistica previsione di potermi muovere. Con gli occhi sbarrati, fissi sul soffitto (avevo la concreta sensazione che mi dolessero anche le palpebre, e forse non era solo immaginazione), palleggiai nella mente l’allettante idea di telefonare in banca per darmi malato. O direttamente deceduto. Alla fine il senso del dovere ebbe la meglio, e riuscii ad alzarmi e ad arrivare in cucina. Muovendomi al rallentatore come un centenario artritico che per sovrappiù se l’era fatta pure nei pantaloni, buttai giù due aspirine nel tentativo di lenire almeno in parte i lancinanti morsi dell’acido lattico in ebollizione, e strisciai incontro ad una giornata di cui non riuscivo a scorgere la fine.
Da quel giorno di circa un anno fa, a poco a poco, le cose sono migliorate. Si fa il callo a tutto, nella vita, ne so qualcosa io, e di certo non saranno le "fisime" di un corpo fuori allenamento a buttarmi giù. Per quanto dolorose possano essere (è passata una settimana buona, da quella prima sconfortante performance, prima che prendessi in considerazione l’ipotesi di riinfilarmi quello strumento di tortura tra le gambe). Adesso vado che è un piacere, disinvolto al punto da godermi il panorama e scambiare qualche cortese cenno di saluto nell’incrociare eventuali compagni di scampagnata. Non sono certo diventato un figurino, ci mancherebbe, anche perché non basta una pedalatina quotidiana, tempo permettendo, a contrastare le sirene tentatrici e perniciose di una buona pizza o una grigliata di carne. In ogni caso devo ammettere, con la vergognosa ritrosìa di chi non ci vedeva troppo "dentro", che mi sento decisamente meglio, considerato oltretutto che, come si dice, tutto aiuta, e le rogne del fumo e dell’alcool sono ormai ricordi lontani.
Oh, ma adesso si è fatto tardi davvero, e devo portare giù di sotto Albertone, prima che decida di innaffiare il parquet con una copiosa spruzzata di "eau de pipì"… Bene… direi che come prima seduta è filata via liscia…
A risentirci, dunque, quanto prima…
(TLAC)
3.
(TLAC)
Non me ne sono accorto subito, di quel viottolo. Beh, a dire la verità, in quei primi, massacranti esordi ciclistici non mi sarei accorto nemmeno di un tir col rimorchio lanciato contro di me a tutta velocità, intento com’ero ad arrancare sui pedali, un occhio sigillato dai brucianti rivoletti di sudore e il sibilo surriscaldato del respiro a fare da inquietante colonna sonora. E poi quel posto… come spiegarvi… pur essendo degno di nota… mmh… pareva mettersi d’impegno per dare nell’occhio il meno possibile. Il che è bizzarro in un normale viottolo di campagna, mentre appare molto più comprensibile (perlomeno da un certo punto di vista) se lo si considera come il punto in cui finisce il mondo. In ogni caso, ci sarò di sicuro transitato davanti una cinquantina di volte, prima di buttarci l’occhio, intento probabilmente ad osservare tutt’altre cose, il disegno butterato del cemento, una rigogliosa parata di roseti lungo una rete di recinzione, lo stimolante panorama del fondo schiena di una fanciulla impegnata a fare jogging. E questo nonostante il viottolo si trovi in un punto per niente suggestivo del percorso ciclabile, costeggiante per un lungo tratto la statale che porta verso Noventa, e più giù in territorio padovano, una caotica sequela di auto e furgoni e camion senza un attimo di tregua. In mezzo c’è la strada, come detto, dalla parte dei colli una desolante ed inguardabile zona industriale artigianale, con i suoi capannoncini grigi e sgraziati, e di qua la ciclabile, che si snoda seguendo il corso di un placido canale d’irrigazione.
E proprio lì, dove la pista torna a riinfilarsi in tutta fretta tra i filari di viti e i campi (quasi si vergognasse di essere stata costretta a passare per quell’indecoroso scenario), sorge un ponticello. Prima cosa strana: in tutto il resto della zona, ponticelli grandi o piccoli che scavalchino le acque ferme dei fossi o dei canali sono costituiti da passerelle spigolose di cemento grigio e ringhiere di ferro semiarrugginito. Soluzioni industriali, per niente pretenziose. Quello no. Egli è un delizioso manufatto, dalle spallette composte da pietre squadrate, a congiungere con un dolce arco le due sponde. Al di là, all’ombra di un ragguardevole esemplare di gelso, il viottolo vero e proprio. Leggermente in salita, di polveroso terreno battuto, si arrampica deciso sul terrapieno di un argine rigoglioso d’erba, per sparirvi oltre la sommità.
Non so come spiegarvi, ma dà proprio l’impressione di essere una porzione di luogo estraneo a tutto quello che lo circonda. Come se all’improvviso, voltando un angolo di una via della vostra conosciuta città, vi imbatteste in una selva di grattacieli newyorchesi o la candida spiaggia di una baia caraibica. Non c’entra niente con tutto il resto, per capirci. Se uno si sforza nell’escludere il rombo continuo dei tir dietro le spalle, e a non badare al fluire limaccioso dell’acqua nel canale, potrebbe pensare di star rimirando un’angolo di campagna toscana o inglese. Ed è esattamente la sensazione che provai io quel pomeriggio mentre, senza motivo apparente, mi bloccavo in quel punto. Di solito è così che succede, no ? Non si ha ben chiaro l’impulso che ci fa alzare lo sguardo all’improvviso, a scoprire un particolare architettonico su un palazzo mai notato prima di allora, o una porzione di arcobaleno nel cielo estivo. Però succede. Come ripeto, non so cosa mi spinse a fermarmi là, forse il desiderio di bere un goccio d’acqua dalla borraccia o di frugarmi nel marsupio alla ricerca di una caramella, però lo feci. Lasciai vagare lo sguardo sul fiume di metallo transitante lungo la statale, sulle rose ormai sfiorite che perdevano petali avvizziti come lembi di carta bruciacchiata, divertito dalla risata argentina di due ragazzine che mi sfrecciavano accanto sui pattini. E tutto ad un tratto (anche se so che è un’espressione azzardata) il viottolo apparve ai miei occhi.
"E’ bellissimo", ricordo di aver pensato (lo ricordo come si ricorda il tumultuoso batticuore del primo amore) e, subito dopo, "domani porto con me la macchina fotografica". Cosa che feci, la sera seguente, avvicinandomi a quel punto con l’assurdo e titubante timore di un amante che non è certo di trovare la sua bella all’appuntamento. C’era, naturalmente, e così, con le mani per niente salde, inquadrai ponticello e viottolo nel mirino della mia Canon e scattai. La cosa assolutamente bizzarra ed incomprensibile era come in quel punto non stazionasse perennemente un nutrito capannello di gente rapita da quella visione mozzafiato. Cavoli, sprechiamo secondi preziosi del nostro stringato tempo anche per molto meno… Là di fronte avrebbero dovuto esserci in continuazione persone impalate come il sottoscritto, la bocca socchiusa per lo stupore e la sorpresa, e invece in quel momento, e in tutte le successive occasioni, ero l’unico ad interpretare la parte del gonzo a spasso nel bel mezzo di una pista ciclabile, mentre tutto il resto dei suoi frequentatori mi sfilava accanto imperterrito. Qualcuno di sicuro indispettito dalla mia ingombrante paralisi mistica. E ancora, nelle guide turistiche della zona sarebbe dovuta figurare una segnalazione di riguardo per "un angolo di paradiso a pochi chilometri dal centro storico", alla stregua delle ville palladiane e i percorsi naturalistici sull’Altopiano, così da attirare lì appassionati e amanti del bello, come mosche affamate su una goccia di miele. E invece, ciccia. Quel posto, nato per risuonare di clic di macchine fotografiche e ronzìi di cineprese, non se lo filava proprio nessuno. Ma quali macchine fotografiche, poi ! Credetemi, quello era il punto ideale, se si aveva un minimo di mano felice, in cui piantare un cavalletto con su una bella tela vergine per cercare di immortalare un’indiscutibile materializzazione della Bellezza. Quella con la B maiuscola. Mentre per sicurezza scattavo un’altra posa (una coppia in bici mi superò senza minimamente ficcare il naso sul soggetto di quella mia inquadratura, ed è tutto da dire) convenni con me stesso che, in determinati momenti particolari, che so, sotto una nevicata, o dopo un burrascoso temporale, coi raggi del sole che filtrano tra le nuvole nere come lame di luce abbagliante, o ancora durante un tramonto particolarmente maestoso… beh, l’animo di un eventuale osservatore sarebbe stato messo a dura prova. Quel posto poteva stroncarti con la sua stessa magia.
Mi riscossi (non mi entusiasma usare termini che sottindendano sensazioni diverse da quelle di un normale comportamento cosciente, quali mi apparve o mi riscossi, per l’appunto, ma volente o nolente il senso è quello), girando la testa in direzione dei capannoni industriali al di là della strada, quasi per disintossicarmi da quella overdose di piacere estatico. E il contrasto, ve lo devo confessare, strideva in maniera quasi insopportabile. Nei pressi di una (brutta) villetta in costruzione, un gruppetto di ragazzini era intento ad esplorare una poco affascinante montagnola formata dai detriti del cantiere. Ora, non ricordavo alla perfezione i meccanismi che regolavano la mia, di adolescenza, in tema di tempo libero (era passata un bel po’ di acqua sotto i ponti, per lunghi periodi molto "corretta" con alcolici vari), anche se ritenevo di essere stato, come tutti i ragazzini del mondo, particolarmente attratto da ambienti ben poco suggestivi, tipo cantieri o cave o discariche. Forse perché, a quei tempi, era quello che passava il convento. Però non ero per niente convinto che avrei barattato quel viottolo alla mia destra in favore di un arido (e pericoloso) mucchio di mattoni rotti e pezzi di tegole e ferri arrugginiti. Con la supponente superiorità di chi pensa, anche non volendolo, "Ah, queste nuove generazioni ! Ai miei tempi sì, che si sapeva come divertirsi !", tornai ad osservare in direzione del ponticello, avvertendone (pur se l’ultima volta in cui mi sono creduto un cowboy cacciatore di taglie doveva risalire grosso modo al secolo scorso) tutta la sua ammaliante "promessa" di sapersi trasformare in quello che più ci aggradava. La polverosa main street di Abilene City, ad esempio, dove ambientare duelli all’ultimo sangue, piuttosto che il viale d’accesso ad un maniero medievale popolato da elfi e giganti. O ancora, perché no, il punto di atterraggio di una fantascientifica astronave (ben più della bici che mi dondolava tra le gambe) in esplorazione ad un pianeta incontaminato e solo apparentemente disabitato.
Ricapitolando, c’era più di un particolare che non quagliava. Oltretutto, a guardare meglio, non pareva esserci il minimo segnale che impedisse, come dire, di inoltrarsi in quella direzione. Nessun cancello, né una catena tesa tra le due estremità del viottolo, com’è usanza nelle nostre campagne per tenere fuori dai piedi gli indesiderati. Non si notava alcun minaccioso cartello, dichiarante "Proprietà privata - non oltrepassare !", affisso al possente tronco del gelso, magari "roso" dalla ruggine e sforacchiato dai pallini di qualche cacciatore di passaggio. Il tutto era invitante, come il sorriso di una bella donna sdraiata sul divano di casa, e il desiderio di incamminarsi, magari solo per appoggiare il palmo della mano sulla spalletta del ponte calda di sole, sembrava irresistibile. E che dire del dolce declivio erboso dell’argine, più in là ? Se esisteva un posto ideale al mondo in cui sdraiarsi, con uno stelo d’erba tra le labbra, a rimirare il cielo azzurro, sprecando ore nell’immaginare visi e forme e animali fantastici tra le nuvole candide come panna montata… beh, signori e signore, eccolo servito su un vassoio d’argento ! E non parlo solo di dodicenni annoiati che hanno buon tempo da perdere, ma anche (e soprattutto) per decrepiti impiegati bancari con troppa pancia e pochi capelli…
L’impulso, il desiderio di parcheggiare lì la bici (di lasciarla cadere) e imboccare quella che sembrava essere la Madre di tutti i sentieri fiabeschi mi attraversò il corpo immobile come un fulmine benigno e sensuale.
Non mossi un passo, in realtà.
Né in quel frangente né in nessun’altra occasione, fino a questo preciso momento in cui sono qui a parlarvi attraverso un microfono.
(TLAC)
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Capitolo 2 *** capitolo 2 ***
4.
(TLAC)
Perché non sono mai andato oltre ? Mmh, bella domanda, di quelle da cento milioni. Se voi conoscete la risposta, fortunatissimi. Per quel che mi riguarda, non ne ho la più pallida idea. Ci ho pensato su, ci mancherebbe, dandomi di volta in volta dell’assurdo, del cretino o del codardo, anche se quest’ultima definizione presuppone una controparte di cui si abbia paura, mentre quel viottolo è tutto fuorchè una cosa spaventevole. Ci ho rimuginato su per gran parte della notte, a volte, ma forse solo perché avevo esagerato con la peperonata a cena, e in altri momenti ci pensavo talmente su da caricarmi come un pugile in vista del match per la corona mondiale. Stasera ci vado, mi ripetevo compilando bollettini e libretti di assegni dietro il vetro del mio sportello, stasera arrivo là e, senza neanche rallentare, sfreccio oltre il ponticello, fermando la bici solo una volta giunto sulla sommità dell’argine, dove potrò finalmente vedere… Non l’ho mai fatto. Non l’ho ancora fatto. Oh certo, ci sono state occasioni in cui mi sono spinto sino all’imbocco del ponte, e una volta in cui ero particolarmente ispirato (avevo sognato Sandra, e quel modo tutto suo di osservarmi piegando un po’ la testa, come se mi studiasse ancora dopo secoli di vita insieme) ho appoggiato il palmo della mano su una delle pietre della spalletta. Era calda di sole, come doveva essere, e ruvida e reale.
(TLAC)
(RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Ho voluto riascoltare quest’ultima parte, dato che mi era uscita tutta d’un fiato quasi senza che me ne accorgessi. Non ho niente da rettificare, se non che anche quel reale mi è scappato fuori del tutto spontaneo, pur rendendomi conto della sua palese assurdità. Non so se vi ho dato questa sensazione, ma non volevo affatto trasmettervi l’impressione che stiamo parlando di un sogno, o un’apparizione magica… Ad ogni modo per alcuni giorni, dopo la seduta fotografica, non ho potuto fare il mio solito giretto serale. Un pomeriggio ha fatto quattro gocce, e non amo particolarmente pedalare sotto l’acqua (sono della generazione dei "Corri piano se no sudi" e dei "Rimettiti immediatamente la canottiera !") e poi ho dovuto occuparmi di una delle solite crisi di mia madre, per evitare che facesse impazzire troppo gli infermieri e i volontari della casa di riposo in cui è ospite. Immagino vi starete aspettando ora la balbettante ammissione che l’impossibilità di fare una capatina sino al viottolo abbia scatenato in me un’irrefrenabile crisi isterica, simile all’astinenza di un tossicodipendente… Mi dispiace deludervi, ma non è accaduto niente di così morboso. Anzi, non è successo proprio niente di niente. Sì, d’accordo, un pelo mi era dispiaciuto, ma nulla di più di un’assennata e normalissima delusione per non poter vedere una cosa particolarmente piacevole. Mi "consolai", sempre per modo di dire, con la foto che avevo attaccato al pannello degli appunti nel mio striminzito sportello bancario. E con la sua "gemella" sulla lavagnetta della cucina. Beh, ve lo detto che avevo scattato due pose, per sicurezza, e non vedo perché avrei dovuto buttarne una. A tratti, quando non c’era nessun cliente davanti a me, mi ritrovavo ad osservarla (ad osservarla normalmente, non "ipnotizzato" o "ammaliato", tanto per esser chiari). Nonostante non fossi per niente un Oliviero Toscani dal punto di vista fotografico (oltre che un Sean Connery da quello estetico), la foto rendeva tutto sommato abbastanza giustizia al luogo, anche se ritenevo umilmente che buona parte della sua riuscita era dovuta all’indiscutibile bellezza del soggetto. Quello che suonava del tutto bizzarro, a pensarci bene, era che un’ipotetica didascalia a quell’immagine non sarebbe affatto stata "Paesaggio italiano - Toscana" o "Landscape of Sussex", bensì una molto meno suggestiva "Z.A.I. di Bugano - frazione di Torri di Arcugnano".
Ecco, l’ho detto, più o meno, dove si trova quel posto. Beh, poco male, non era mia particolare intenzione di fare il misterioso, né tantomeno di tenere per me questa informazione. In fondo quel viottolo non è certo nascosto, né segreto, sta là e chiunque lo può vedere con i propri occhi, se crede, quando meglio gli aggrada, mattina, pomeriggio o sera… E’ buffo, non ho mai provato alcuna curiosità di farvi una capatina dopo il tramonto. Ecco, lo sapevo, adesso starete pensando tutti che qualcosa… a livello del mio subconscio… mi ha prudentemente consigliato di stare alla larga da quel posto al primo calar delle tenebre… Uff, ve l’ho detto, non ho nessun motivo di ritenere che ci sia qualcosa di inquietante, di minaccioso, o ancor meno di stregato, in quel pezzo di campagna. E’ possibile che
(forse)
un attimo... azzardo qui un’opinione personale, magari un po’ prematura… sarebbe il caso di fare ancora due chiacchiere, prima di scoprire le carte in tavola, ma se il mio soliloquio mi ha condotto sin qui… dunque, in totale franchezza, alla luce di tutto quello che ho dedotto sino ad oggi, è possibile che io prenda in considerazione l’ipotesi che quel posto sia in grado di… come dire… di fare qualcosa, anche se metterei all’istante la mano sul fuoco che non si tratta di niente di negativo o maligno.
Oh, e questa l’ho detta !
Tornando a noi, lo ribadisco ancora una volta, chiunque passando di là (anche in auto, basta che non vi distraiate al punto da farvi arrotare da un tir impaziente, e può succedere, non mi stancherò mai di ripeterlo) può voltare la testa e farsi riempire gli occhi e il cuore di ’sì tanta bellezza. E’ capitato a me, e non sono neanche l’unico (poi ne parliamo), e se voi al contrario ci tenete la mortadella sui vostri, di occhi… beh, senza offesa, ma non è certo colpa mia… Il meccanismo è talmente semplice e lineare: fate un salto fin là, date un’occhiata al ponticello… e lo attraversate. Tac. E che ci vuole ? Io, ad esempio, che sto qui tanto a fare il saccente, non ci sono ancora riuscito. Non so cosa me lo abbia impedito, se mi è mancato il coraggio (coraggio di che ?) piuttosto che la curiosità o la forza di volontà. Boh. Non mi è venuto di farlo e tanto fa.
Sapete, ci ho riflettuto su, e non mi crea particolari problemi l’eventualità di passare per sciroccato. Per tutta una serie di motivi. Primo, perché se qualcuno… chissà chi, poi… sta ascoltando queste mie frasi registrate, vorrà dire che il sottoscritto, bene o male, non è più in circolazione, e quindi... In secondo luogo, poi, non credo di trovarci niente di così disdicevole, nell’essere matti. Ci sono un sacco di tipi di "mattitudini". I calpestaneonati e gli abbattigrattacieli di cui sopra, ad esempio (quelli sono matti veri, e cattivi, per giunta. Di quelli sì, che c’è da averne paura, altro che di un innocente viottolo). Ma c’è anche gente che parla con i gatti, e si diverte ad abbracciare gli alberi, e pensa che calpestare i segni di giunzione tra le lastre di un marciapiede possa causare sconquassi indicibili. Mia madre, per dirne una, il più delle volte mi scambia per qualcun altro e mi chiama Gianni o Alfredo (i nomi di suo marito e di suo fratello) ma mai al mondo oserei pensare che le manchi qualche rotella, per questo. Se sono matto e questo fa sì che comunque io non arrechi il minimo danno ad alcuno, riuscendo nel contempo ad allacciarmi le scarpe, a compilare bollettini per il versamento nei conti correnti, e ancora a tenere un comportamento civile e cordiale con la gente che mi circonda… beh, allora mi metto in nota per la qualifica di picchiatello !
Decidendo così di correre il rischio di passare per tale, vado avanti con l’esposizione delle mie personali teorie riguardo a quel delizioso viottolo.
Dunque… prima Teoria Vicariana su dove finisce il mondo: quel posto così denominato è reale, sta al chilometro tot della statale Riviera Berica e non fa assolutamente niente per sottrarsi agli sguardi dei passanti.
Postulato: evidentemente è un problema dei suddetti viandanti il riuscire a vederlo o meno. Forse è necessaria una particolare condizione dell’animo. Può essere che occorra averne voglia, di vederlo, oppure c’è un momento, uno stato d’animo, un dato grado di umidità, o di luminosità (magari di luminosità interna, anche se io mi sento tutto fuori che rilucente) che fa si che ciò possa avvenire. Se c’è, tanto per mettere le mani avanti, io ne sono all’oscuro.
Seconda Teoria: quel viottolo, e il ponticello che porta ad esso, sono assolutamente percorribili, non sussistono impedimenti di sorta, sotto forma di cani ringhianti o contadini armati di forcone, in definitiva nulla che ci vieti di salire sull’argine e dare un’occhiata a quel che c’è al di là (presumibilmente una piatta distesa di campi coltivati) e se qualcuno non riesce a compiere i passi necessari (sto alzando la mano come uno scolaretto diligente) dipenderà forse dal fatto che
Che non sono pronto. Sì, lo so che suona alquanto deludente come analisi finale, e che non sa per niente da formula scientifica (né tantomeno magica) ma questo è tutto quello a cui sono arrivato.
Vi dicevo di mia madre. E’ricoverata (anche se la Direzione della casa di riposo preferisce considerarla "ospite") in una struttura assistenziale a pochi isolati da dove abito. Un pensionato, un ospizio, nè più nè meno. Non cambia il senso delle cose. Un veciodromo, lo chiamava uno che conoscevo. Sono anni che è ospite, da poco dopo che è mancato mio padre. Abitavano in un minuscolo appartamentino al piano rialzato di una di quelle case del vecchio quartiere dei Ferrovieri… avete presente, no ? Quello che sembra in tutto e per tutto un quartiere operaio inglese, con i fabbricati di mattoni rossastri e le porte d’ingresso tutte uguali e anonime come file di soldati impettiti. Hanno vissuto là, assieme, con tre o quattro gatti, a seconda, e le loro rigogliose piante di fiori coltivate su un minuscolo terrazzino che dava sulla via (rigogliose mica per niente, visto che per tutta la loro vita hanno gestito una fioreria) fino al giorno in cui un infarto si è portato via mio padre. Per mia madre, testarda come tutti gli anziani che hanno penato per guadagnarsi da vivere e crescere i propri figli, non era prevista alcuna soluzione alternativa, perlomeno diversa dal fatto che lei avrebbe continuato ad abitare nella casa che aveva diviso con l’uomo della sua vita, continuando imperterrita a far sloggiare i soriani dal divano riparato da un telo di plastica. E a far sbocciare peonie e campanule, ciclamini e geranii in un tripudio di colori e profumi che faceva bonariamente avvelenare il fegato alla mia invidiosa moglie. Per un pò è filato tutto liscio. Io e mio fratello Federico ci alternavano per capitare "casualmente" da quelle parti (guai a farsi sgamare che la visita non fosse per niente casuale o disinteressata, ma bensì un’odioso sopralluogo di controllo, come se lei, che ci aveva messo al mondo e nutrito e vestito ed educato, non fosse in grado di badare a sè stessa), quando non ci riunivamo là con le nostre famiglie per qualche ricorrenza particolare. Poi sono cominciati i problemi, dapprima in sordina, subdolamente camuffati da banali incidenti. Il telecomando della tivu "dimenticato" da qualche parte, nel bagno o dentro un cassetto. Un intervento urgente per correre là col secondo mazzo di chiavi, per permetterle di rientrare in casa dopo che sbadatamente si era tirata la porta alle spalle. Il giorno d’inverno che una telefonata preoccupata dei vicini ci costrinse ad andarla a recuperare mentre passeggiava in vestaglia sul prato spelacchiato e ghiacciato del parco giochi che sorgeva al centro del quartiere, capimmo che le cose non stavano affatto andando bene. Quando la avvolsi nel mio giubbotto per evitare che si trasformasse in un surgelato di madre, sbraitandole contro a metà tra l’indignato e il preoccupato, lei mi guardò con uno sguardo perso e desolato, sostenendo, candida ma risoluta, che se non si fosse affrettata a correre ad aprire la fioreria, la figlia dell’avvocato Peron non avrebbe mai ricevuto in tempo il boquet per il suo attesissimo matrimonio. Come avrete capito, la primogenita del legale in quel preciso istante, o giù di lì, stava probabilmente festeggiando le proprie nozze d’argento, se tutto era filato liscio, e la fioreria dei miei aveva lasciato il posto ad un negozio di dischi da tempo immemorabile.
Da quel momento in avanti, come un microscopico sassolino rotolante che abbia come unica colpa quella di essere l’innesco di una valanga inarrestabile e disastrosa, le cose cominciarono a precipitare. Gli episodi di smemoratezza (di assenza, come li definì malinconicamente mio fratello Federico dopo avervi assistito senza che la "sorvegliata speciale" se ne accorgesse) presero ad assumere valenze decisamente preoccupanti. Il poco affascinante gioco di prestigio conosciuto come "portentosa sparizione del telecomando" andò in scena ancora in un paio di occasioni, prima di diventare definitivo una domenica di fine novembre. E la volete sapere una cosa ? Non venne più ritrovato. Le minuziose ricerche da parte di una solerte task-force costituita da Sandra e il sottoscritto, da mio fratello con sua moglie Lisa, più il determinante contribuito del piccolo Armando, il loro figlioletto di otto anni, che si intrufolava con comico impegno in ogni anta di armadio e sportello di mobile (mentre mia madre al centro della sala, smarrita e fragile da strizzare il cuore, insisteva a spergiurare di non averlo toccato. E guai a metterlo in dubbio, anche solo con un’alzata di sopracciglia un po’ troppo ostentata) non diedero il minimo risultato positivo. E tantomeno durante i cupi e polverosi giorni in cui io e mio fratello ci siamo massacrati in una colossale ripulita al minuscolo appartamento, all’indomani del ricovero di mia madre (del diventare ospite) in casa di riposo. Il ricercato non saltò mai più fuori.
Le cose… le piccole cose, i lievi spostamenti… le bizzarrìe…niente di eclatante o drammatico, e proprio per questo ancora più agghiaccianti… di cui io e Federico abbiamo dovuto prendere atto in quella nostra opera di bonifica… Ritengo del tutto fuori luogo spendere adesso ulteriori parole per puntualizzare qualcosa di più, al riguardo, e soprattutto che sia ininfluente ai fini di questa mia… relazione. Ed oltretutto, a voler dire le cose come stanno, il mio desiderio più pressante vorrebbe essere quello di evitare che quei ricordi si facciano troppo strada all’interno della mia testa (e della mia anima), perché ancora oggi, ad anni di distanza, conservano tutto il loro maligno potere di lacerare e straziare con aculei intrisi di bruciante veleno. Piccole cose, ve lo garantisco, ma con tutta l’orrenda capacità di connotare, come inattaccabili indizi di un delitto perfetto, la lucida ed inesorabile dipartita di un essere umano verso l’oblìo. Ci sono volte, dopo che magari ho esagerato con le strigliate a mia madre in seguito a qualche sua "escandescenza" un po’ troppo oltre le righe, in cui mi ritrovo impalato nel soggiorno di casa. A fissare il mio, di telecomando, diligentemente parcheggiato al proprio posto ufficiale sul bracciolo di sinistra del divano. Me ne rimango lì, con lo sguardo appannato, a lambiccarmi il cervello nel chiedermi che razza di fine abbia fatto, quell’apparecchietto pieno di pulsanti colorati. Dove diavolo possa essere finito. E ogni volta non riesco a fare a meno di immaginare la minuscola figura della donna che mi ha donato la vita, di vederla afferrare quell’aggeggio, portandoselo con sè nei borbottanti andirivieni all’interno dell’appartamento (e del terrazzino ? All’esterno della via ?) sino a lasciarlo cadere. Lasciarlo cadere dove ? Dove, mamma, in quale misteriosa piega del tempo e dello spazio hai fatto sparire quel dannato telecomando ?
A quel punto mi riscuoto, mentre i turbolenti pensieri si dissolvono come effimere bolle di qualche magma ribollente, e procedo lungo la mia grigia giornata, dandomi sonoramente del coglione, nel profondo della mia anima, per aver sbraitato ancora una volta contro quella creatura indifesa e senza colpa che se ne sta là, ospite di quel… quella specie di limbo in terra…
La decisione del ricovero è stato sofferta ma inevitabile, anche a sentire il professionale parere del medico di famiglia. Non sarebbe stato salutare attendere che le piccole cose si tramutassero in grandi, rischiando di divenire pericolose, con la concreta possibilità che altri oggetti, ben più importanti, seguissero le orme dell’aggeggio atto a cambiare canale. Che so, il libretto della pensione piuttosto che i gioielli di famiglia a cui mia madre era molto affezionata. Poca roba, non certo il tesoro della Corona britannica, che comunque non era il caso di metterli in condizione di finire la loro luccicante esistenza in un’aiuola dei giardinetti, o in qualche altro posto ancora meno decoroso. E poi in quella casa i gatti avevano preso il sopravvento, "subodorando" forse lo scemare dell’autorità della loro stranita padrona, e più di qualche volta l’avevano battuta sul tempo, balzando sulla tavola per far fuori lo scarno pasto che lei si era preparata, sfrontati e perfidi come solo i felini sanno essere. Fummo costretti ad appoggiarci ad una struttura assistenziale, volenti o nolenti. Checchè se ne dica, certe cose non si possono improvvisare, soprattutto nei riguardi di situazioni così degenerative. E poi, con tutta la buona volontà, a quel tempo sia io che Sandra stavamo fuori casa per lavoro per la maggior parte del tempo, e i metri quadrati dell’appartamento di mio fratello bastavano a fatica per sé e la sua poco numerosa famiglia.
Mio Dio… me ne rendo conto, non sono tenuto a dirvi tutto, a raccontarvi per filo e per segno ogni sventura della mia vita come se queste fossero delle memorie autobiografiche anziché il pretesto per parlarvi di quello che ho scoperto. Per questo vorrei… con tutto me stesso, lo vorrei… che la mente non continuasse a proiettare immagini di momenti e situazioni in grado di spaccarmi il cuore. Ma non ce la faccio, proprio non ci riesco… Dio santo, avreste dovuto vederla, persa nel suo cappottino verde, la borsetta stretta al petto come se contenesse segreti fondamentali per la salvezza del mondo, immobile ad aspettare sulla porta di casa. Quando io e mio fratello siamo scesi dall’auto, avvicinandoci come insensibili poliziotti in borghese, lei aveva preso a cianciare su suo marito Gianni che non riusciva mai ad arrivare puntuale, nemmeno se avesse dovuto andare in chiesa a sposarsi, e poi che bisognava assolutamente ricordarsi di passare in fioreria ad attaccare il riscaldamento, e tutto ciò ci aveva fatto scambiare un’occhiata eloquente, sottolineata da un sofferto sospiro di sollievo. Non era il massimo, sentire la propria madre borbottare dal sedile posteriore riguardo a persone ed avvenimenti ormai trascorsi da tempo immemorabile (parlarne come se gli avvenimenti dovessero ancora succedere, e le persone nominate, in quel preciso istante sotto il marmo di una tomba a godersi un meritato riposo, le avessero assicurato che sarebbero passate a farle visita quanto prima) ma in quel modo ci risparmiavamo l’eventuale, gravosa responsabilità di essere obbligati a motivare cosa ci costringeva a "strapparla via" da tutto quello che possedeva. Anche se una volta arrivati nell’ampio e asettico parcheggio della casa di cura, mentre l’aiutavo a scendere dallo scomodo abitacolo della Opel Tigra di Federico, lei mi aveva posato sull’avambraccio una mano fragile come la zampetta di un uccellino. Mi aveva guardato (e già il fatto che lo sguardo le si era fatto limpido, senza la vitrea estraneità che accompagnava quei suoi sproloqui temporali, aveva fatto accelerare in modo allarmante i battiti del mio cuore) sussurrando con una vena di supplica nella voce: Non vuoi mica far finire qui la tua mamma, vero Marchino-amore ?
L’unica cosa che mi riuscì di fare, tormentandomi tra i denti l’interno della guancia mentre una marea improvvisa di lacrime inopportune tentava di sgorgare come zampilli di fontana dai miei occhi, fu un sorriso beota e vuoto. Mio fratello, dall’altro lato dell ‘auto
(Federico-amore, secondo l’esclusivo vezzeggiativo materno che si portava dietro sin dall’infanzia)
non aveva ovviamente sentito nulla e io, per un fulmineo quanto travolgente istante, provai nei suoi confronti uno slancio di odio accecante, per aver avuto la casuale fortuna di non essere lui il destinatario di quell’inattesa e straziante invocazione di angoscia. Subito dopo, una professionale impiegata della struttura, vestita di rigoroso blu, si fece incontro, scortata dalla caposala, una sorta di Arnold Schwarzenegger in abiti da suora, e i timidi tentativi di mia madre di far valere le proprie ininfluenti ragioni furono soffocati in un consumato turbinìo di frasi a prova di anziano renitente. Si troverà benissimo qui da noi, e Vedrà con quante simpatiche signore potrà fare conoscenza, tanto per fare qualche banale esempio. E poi la peggiore, la più falsa e indisponente. Le sembrerà di essere come a casa. Il mio impulso nel sentire quelle parole, represso a fatica per non saltare al collo di Miss Tailleur blu e Sorella Terminator, fu di esplodere in un velenoso A casa ci si sente di essere se si è circondati dalle proprie cose, dalle foto del matrimonio nella cornice d’argento e la gondola comprata durante il viaggio di nozze, e non in una cosa a metà tra la stanza d’ospedale e una cella d’isolamento !!!. Non feci nulla di tutto ciò, naturalmente, limitandomi a seguire il drappello che si era mosso in direzione dell’edificio, scortando mia madre come fosse il pericolo pubblico più innocuo del mondo.
(TLAC)
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Scusate. Mi sono fatto prendere la mano. Mi succede ogni volta, e non credo sia il massimo affidare ad una registrazione la propria voce lagnosa e ingolfata di lacrime. E’ da un po’ che cerco di capire se parte della decisione di approfondire la mia curiosità nei confronti di quel viottolo (buona parte) ha a che fare anche con la situazione di mia madre, e subito dopo mi chiedo chi diavolo sto cercando di prendere in giro… E’ talmente evidente. So di essere fatto piuttosto male, ma mi è impossibile tenere un comportamento distaccato e impersonale riguardo a quel posto… parlo dell’ospizio… e alla condizione di lei. Cerco di ripetermi che spesso può essere inevitabile, e che oltretutto è una cosa assolutamente naturale. Che anche questo fa parte della vita. In fondo non siamo la prima né l’ultima famiglia che si sia trovata di fronte ad un tale tipo di decisione. Ma è proprio più forte di me. Non so se c’è qualcuno al mondo che si trovi a proprio agio di fronte alla sofferenza e al decadimento (se ci sguazza, magari) ma di sicuro non si tratta del sottoscritto. Lo dico chiaro e tondo. Ricapitolando, non sono né Sean Connery, né Oliviero Toscani. E ancora meno Madre Teresa di Calcutta. Non entro volentieri in quel posto. Lo faccio perché devo, perché non sarebbe giusto che se ne occupasse in toto mio fratello (né tantomeno mi pare il caso di abbandonarla al suo destino, ci mancherebbe, anche se nove volte su dieci mi scambia per qualcun’altro) e poi perché ritengo che non si possa rifuggire da tutto, nella vita. Ma mi costa enorme sofferenza, lo ammetto, in costante aumento ad ogni occasione in cui varco la soglia di quel posto. Fin che ho avuto l’immensa fortuna di avere a fianco la mia amata Sandra ne ho approfittato bassamente, nascondendomi nella sua ombra (senza il minimo dubbio, era una persona mille volte migliore di me) e lasciando che fosse lei a fare il "lavoro sporco". Mi dava l’impressione che riuscisse a sopportarlo meglio (e la vigliacca giustificazione con cui cercavo, inutilmente, di ingannare la mia sporca coscienza era che lei non ne era coinvolta a livello affettivo quanto me), dedicandosi a quell’incombenza se non con piacere, perlomeno con ammirevole coscienziosità. Io, nei limiti del possibile, me ne stavo alla larga da quei gironi danteschi che, per quanto tirati a lucido e disinfettati e luminosi, celavano un sottofondo di disperazione e sofferenza in grado di paralizzarmi. Forse rendendomi inconsciamente conto di quanto quelle stanze, quei volti rugosi, quelle bocche spalancate e bavose, quegli occhi disperati e vivi, fossero in realtà uno specchio, un volto a cui prima o poi tutti siamo destinati ad assomigliare. Perlomeno i più (o i meno, a seconda dei punti di vista) fortunati. Sono pienamente conscio che qualcuno, in qualche modo, deve farsi carico di questo tipo di problema, a meno di non voler prendere in considerazione bizzarri "esilii forzati" in uso presso antiche tribù primitive nei confronti di chi è giunto al termine del proprio cammino in questa vita. Immagino anche, che se e quando mi troverò io in quelle condizioni, sarò profondamente grato a chi si farà il mazzo per imboccarmi di minestra, per pulire gli effetti delle disfunzioni di un corpo ormai fuori controllo, per tenermi la mano nel momento del distacco. Solo che non sono in grado di farlo a mia volta. Non reggo il confronto con la sofferenza, col disfacimento, con l’inesorabile perdita di facoltà che sono l’essenza stessa dell’essere umani. E’ una debolezza di cui prendo atto, e della quale mi assumo pienamente le mie eventuali responsabilità. C’è chi non è in grado di sopportare la vista del sangue, o degli insetti e dei serpenti. A me succede la stessa cosa con l’inesorabile appassire della vita umana. Non mi spaventa la morte, è un concetto che non mi turba in maniera particolare, se non nei modi. Dio, o chi per Lui, forse è stato un po’ troppo creativo in questa particolare branca del progetto-uomo, mettendo in circolazione tutta una serie di spiacevoli "effetti collaterali" a cui la scienza ha dato nomi ostici e inquietanti… Alzaimher, Parkinson, affezioni tumorali per tutti i gusti… Potrebbe trattarsi della codarda "strizza" di uno che per una trentina d’anni si è ciucciato via un pacchetto di nicotina al giorno, ma qualcosa di più standardizzato, e soprattutto di molto meno devastante, forse sarebbe stato meglio. In fondo si viene al mondo in una sola maniera, non in varie combinazioni più o meno dolorose, e non sarebbe affatto male se anche la dipartita fosse dignitosa allo stesso modo. Una "dolce morte", magari nel sonno, forse sarebbe chiedere troppo, ma qualcosa di altrettanto istantaneo e poco impegnativo (e del tutto indolore, quale caratteristica fondamentale) potrebbe magari insegnare ai noi pavidi umani di avere un po’ meno terrore della Nera Signora. Un colpo secco e via che si va. O al limite, se il buon Dio aveva proprio voglia di farsi due risate, che so, una piccola "esplosione", l’importante è che fosse rapida e incruenta. Bam ! Cos’è stato ? E’ andato nonno ! Condoglianze !
Okay. Noto, con un certo sollievo, che sono ancora in grado di scherzarci su, e di parlarne a cuor leggero. E’ importante, direi. Allontana il sospetto, da me stesso in primo luogo, che la vita solitaria e monotona stia causando "crepe" particolarmente allarmanti nella mia tenuta mentale. Ci dò un taglio (almeno per il momento, per il proseguo della faccenda non ci metterei la mano sul fuoco) alla menata di mia madre e del posto in cui è ricoverata. Sono problemi miei, che forse, alla mia età, non hanno più margini per essere risolti, ma solo accettati con filosofia. Se ti deprime tanto vederla là dentro, potevi tenertela a casa, potrebbe obiettare qualcuno meno diplomatico di altri. Come ha fatto mio fratello un po’ di tempo fa, stufo di sentirmi rimuginare sempre il solito, trito discorso. Ci ho pure litigato, in seguito a questa sua spazientita reazione. E non ho certo intenzione di mettermi a questionare ora, qui, con degli interlocutori che non conosco, di cui non vedo le facce e che non so neanche se, prima o poi, esisteranno realmente.
La pianto con i piagnistei anche se, a dire il vero, in questo momento gli occhi mi lacrimano per il sonno… sono le… vediamo un po’… però, mezzanotte e quaranta… e la schiena costretta su questa scomoda sedia del soggiorno ha preso a inviarmi vibrate e dolorose proteste… Chiudo qui, per il momento, anche se ho il fondato sospetto che in quest’ultima seduta mi sia molto più "frignato" addosso, invece di fornire dettagli esaurienti e imparziali sull’argomento di cui sappiamo. Nel caso, chiedo scusa per la pallosità. In fondo, gli ipermercati forniscono "pacchi" di audiocassette in offerta speciale, per saziare la mia inguaribile logorrea, e poi esiste sempre un bel tasto di avanzamento veloce, a salvaguardia di un vostro, ipotetico "colpo di sonno".
Che, guarda caso, in questo istante sta abbattendo il sottoscritto. Vedi un po’ come va la vita, a volte, no ?
Buonanotte, signori, o buongiorno, o buon qualunque momento sia questo in cui mi state ascoltando, e a presto.
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Per tutto il tempo prima di tornare a sedermi su questa mia ormai consueta postazione, mi sono lambiccato il cervello su come proseguire il discorso. E’ impensabile che io vada ogni volta a riascoltarmi tutto quello che ho inciso fino al momento in cui interrompo la registrazione. Poteva andare bene per i primi dieci minuti di audiocassetta, ma a questo punto dovrei prendermi le ferie, per avere tempo sufficiente. Ed oltretutto il parlare "a vanvera", senza il minimo schema organizzato che ponga dei tempi e dei modi ben precisi, mi fa correre il concreto rischio di infognarmi in una melma di discorsi campati in aria, di frasi troncate a metà, senza capo né coda, di riflessioni molto personali e ben poco costruttive. Possiedo ancora sufficiente amor proprio per vergognarmi, e chiedere scusa, dell’assurdo sproloquio su case di riposo e modi di passare a miglior vita in cui mi sono esibito nell’ultima occasione. Nel quale sono addirittura arrivato a dare una burbera tiratina d’orecchie all’operato del nostro buon Padreterno. Ve l’ho detto. Fate dare aria alla bocca di un uomo, e bisognerà abbatterlo per farlo tacere. Senza peraltro esser giunti a conoscenza di quello che intendeva comunicare. Di certo andrebbe meglio se potessi, in qualche modo, rispondere a domande precise, sull’argomento, ma gli unici esseri viventi presenti in questo momento oltre al sottoscritto sono un sonnecchiante Albertone e un paio di mosche ronzanti e fastidiose. E nessuno di loro mi sembra particolarmente interessato a tartassarmi di interrogativi più o meno pertinenti.
Okay… magari si potrebbe provare ad inventarseli… Vediamo… qualcuno, dotato magari di un pizzico di attenzione in più, potrebbe esordire con A chi ti riferivi, quando hai detto di non essere l’unico, ad aver notato quel posto ? Mmh, buona domanda. Che mi fa capire che è giunto il momento di parlare del vecchio. Dunque, non so se ve ne ho accennato, in precedenza… vado a memoria… ma nei pressi del viottolo sorge una casa. Non ne fa parte (nel senso che non dà l’idea che il terreno su cui sorge il viottolo appartenga ed essa, e viceversa) tanto che è molto più in linea col resto dell’ambiente circostante. Vale a dire che è proprio bruttina. Non so che fine abbiano fatte le belle fattorie delle nostre zone, se mai ce ne sono state, ma quell’abitazione è ben poco affascinante, un parallelepipedo di cemento (con degli orrendi inserti di finta pietra a vista che peggiorano la situazione) scrostato e bisognoso di una decisa ritinteggiatura. E poi, quale inevitabile ciliegina su una pessima torta, una dotazione completa di quegli inguardabili infissi in alluminio alle finestre, che c’entrano col resto della casa come i classici cavoli a merenda. Anche il piccolo appezzamento di terreno intorno all’edificio, che chiamare giardino mi sembrerebbe eccessivo, pare volutamente essersi messo in sintonia con l’andazzo, esibendo una spelacchiata parodia di prato in cui becchettano una manciata di galline annoiate. Chiaro che a confronto con l’idilliaco spettacolo del ponticello e dell’argine tutto ciò diventa ancora più sgradevole, in primo luogo, e poi ben poco evidente. E’ una sorta di strano circolo vizioso: se ti lasci abbindolare dalla sgraziata zona industriale non noterai mai il viottolo, e se invece hai la fortuna di apprezzarne la presenza, tutto il resto passa in secondo, terzo e anche decimo piano. In ogni caso, un tardo pomeriggio in cui mi ritrovavo come al solito impalato ai bordi della ciclabile, con gli occhi fissi sul culmine del declivio al di là del ponte, come se da un momento all’altro dovesse fare capolino la carrozza di Cenerentola trainata da torme di topini bianchi, qualcuno parlò dietro le mie spalle. Immagino di esser sobbalzato come un ragazzino beccato a sbirciare le pagine proibite di un giornale per adulti, mentre con le guance infiammate mi voltavo in direzione della voce.
P-prego ?, balbettai confuso, dato che per la sorpresa non avevo per niente registrato il senso della frase rivoltami. A pochi passi da me scorsi, nell’ordine, un’enorme bicicletta da uomo, che dava l’idea di pesare due tonnellate (e di non essere per niente fantascientifica) dietro la quale sostava un ometto piccolo piccolo. Il cranio quasi del tutto calvo, fatta eccezione per una chierica di capelli grigiastri, sembrava quasi riverberare nella luce del tramonto estivo, e sul naso sfoggiava il più grande paio di occhiali da presbite che avessi mai visto. Poteva avere grosso modo un’ottantina d’anni (in seguito, conoscendolo meglio, potei verificare l’esattezza di quella mia stima preliminare), e in quel preciso istante mi fissava da sotto in su con sguardo divertito e bonario.
S-salve…, aggiunsi spiazzato, dato che al momento non pareva avere intenzione di riformulare la frase appena pronunciata. Elegante nella sua semplice camicia bianca a sottili righine gialle, fresca di stiratura, le maniche rimboccate con cura sugli avambracci asciutti, attese ancora un secondo prima di aprire bocca:
Fa effetto anche a lei, vero ?, disse infine, ammiccando in maniera complice con i grandi occhi espressivi, resi ancora più evidenti dalle spesse lenti degli occhiali. Io impiegai qualche attimo prima di realizzare il senso di quella domanda, mentre un leggero velo di rossore tornava a colorarmi le gote, neanche quel bizzarro omino mi avesse manifestato solidarietà riguardo a qualche pratica sconveniente e solitaria. La biglia luccicante che aveva come testa indicò con un pizzico di maggior veemenza in direzione del viottolo, e ancora una volta i maxi-occhioni ammiccarono divertiti. "A ‘sto punto tanto vale ammettere come stanno le cose", ricordo di aver pensato, anche perché tutta un’improvvisa serie di pressanti interrogativi in merito aveva preso a scalpitare da qualche parte nella mia testa.
Beh... sì, è notevole…, fu tutto quello che azzardai di replicare, con la circospetta prudenza di uno che esprima un complimento nei confronti di una bella donna, non essendo per niente sicuro di rivolgersi magari al marito, è… è di sua proprietà ?
L’omino appoggiò con cura la mega-bicicletta, che ovviamente non aveva in dotazione alcun cavalletto (niente fronzoli, per carità), alla recinzione rossa di ruggine di un giardino. Infilò una mano ampia e nodosa nelle profondità delle tasche dei pantaloni, estraendovi un grosso fazzoletto appallottolato con cui prese a strofinarsi la pelata lucida di sudore:
Di… mia proprietà ?!, ripetè divertito, assaporando quella strana ipotesi come fosse stato un frutto succoso, oh mio Dio, no… tutto ciò che rientra nei miei possedimenti è racchiuso all’interno di quel cortile, indicò il giardinetto brullo usato a mò di pascolo dalle galline, sul davanti della casa, e poi… che bizzarrìa… poter pensare che quel posto appartenga a qualcuno…
A proposito di bizzarrìe, quella fu la prima di una serie futura e nutrita di affermazioni, da parte di quello strano omino, che mi avrebbero lasciato un bel po’ perplesso, anche se quella nella fattispecie, a dire il vero, non mi impressionò particolarmente. Non più di altre che avrei ascoltato proseguendo nella frequentazione, prima che arrivassi quasi ad abituarmici. L’ometto, che si chiamava Aristide (non ricordo se mi avesse specificato anche il cognome… probabilmente sì, solo che io non l’ho registrato), di anni 72 per l’appunto, ex-meccanico in pensione, che viveva tutto solo nella casa alle nostre spalle (tutte informazioni che raccolsi in quella e in successive chiacchierate) parve quasi rendersi conto dell’opinabilità di quella sua descrizione:
Non è affatto un appezzamento di terreno privato…, precisò cordiale, mentre in me non si acquietava l’impressione che stesse eseguendo un’abile retromarcia verbale, …gli argini di solito sono di proprietà del demanio, anche se da un po’ di anni, da quando hanno realizzato quelle casse di espansione per il controllo delle alluvioni, più giù verso Debba, questo in particolare non serve più a molto… se ne sta là, come una scrupolosa sentinella di un avamposto in cui ormai non succederà mai più niente…, distolse lo sguardo dal declivio erboso, piantando gli occhioni da cartone animato nei miei, …da queste parti l’han sempre chiamato il posto dove finisce il mondo. E’ bizzarro, non trova ? Ma, mi dica, è già stato su là a dare un’occhiata ?
Ancora una volta quella domanda diretta e inattesa, che aveva quale argomento il tratto di terreno davanti a noi, mi fece trasalire come se l’eventuale risposta sottindendesse la confessione di chissà quale devianza.
I-Io ?!, balbettai sentendomi assolutamente assurdo, mentre mi frugavo nella testa alla ricerca di una risposta il meno compromettente possibile, Oh no !, sbottai frettoloso, tentando di alleggerire la tensione (che probabilmente avvertivo solo io) con una battuta di spirito, figurati se corro il rischio che il signor Gino Demanio se la prenda con me !
Il vecchietto ridacchiò deliziato, neanche mi fossi esibito nella battuta più esilarante di tutti i tempi, mentre io decidevo di rendergli pan per focaccia:
E lei ?, sibilai con un pizzico di incomprensibile perfidìa, come a volerlo punire di quella sua sfrontata curiosità. La domanda non parve impressionarlo più di tanto. Finì di ridacchiare con calma, asciugandosi l’angolo di una palpebra (il dito indice, non appena sotto l’effetto della lente degli occhiali, parve ingigantirsi alle dimensioni di un wurstel color rosa), prima di replicare a sua volta:
No, nemmeno io, affermò sereno e, a quanto pareva, assolutamente sincero. Non che mi convincesse troppo, era chiaro. Voglio dire, uno ci abita giusto davanti, chissà da quanti anni poi, e non gli è mai venuto il ghiribizzo di compiere tre o quattro passi in più, sino alla sommità dell’argine ? Improbabile, decisamente improbabile, e l’impulso fu quello di farglielo presente, se lui non avesse proseguito:
Le suona poco credibile, vero ?, disse, mentre le sopracciglia gli si alzavano in un arco espressivo che non poteva non renderlo simpaticissimo, mah, cosa vuole… due persone che s’incontrano per caso, due perfetti sconosciuti… a proposito, il mio nome è Aristide…
Marco Vicario, borbottai preso alla sprovvista, afferrando la mano che mi stava porgendo. La sua stretta era salda e asciutta, tipica di chi ha passato la vita a lottare contro bulloni e viti recalcitranti.
Piacere, disse cortese, riprendendo il discorso, in ogni caso, dicevo, due persone che non si conoscono affatto, che scambiano un paio di cordiali battute in attesa che arrivi l’ora di cena… che scopo avrebbero, di mentirsi l’un l’altro ?
A me venne da replicare che, proprio perché si trattava di un’incontro casuale, non sarebbe stato affatto anormale che uno dei due (magari particolarmente bizzarro, ma questo me lo sarei tenuto per me) decidesse di sparare… come dire… qualche frase ad effetto per impressionare l’interlocutore. Lui non mi dette il tempo di tradurre in frasi quel ragionamento:
So cosa sta pensando, proseguì con un largo sorriso sul volto tondeggiante, un simpatico vecchietto, magari un po’ toccato, che abita in quella vecchia casa da… vediamo un po’… fffiuuu, almeno cinquantacinque anni… è parecchio improbabile che non conosca i dintorni come le proprie tasche…
Mmh… più o meno… a parte la parte riguardante il "toccato"…, mi affrettai a replicare io, col preciso obiettivo di comunicargli che non lo ritenevo affatto tale. Lui sbirciò con noncuranza l’orologio sul polso abbronzato:
Signor… Marco… posso chiamarla così, vero ?, il tono di voce, fino a quel momento disinvolto e divertito, mutò lievemente. Non al punto da velarsi di connotazioni seriose o tantomeno inquietanti, ma superando il netto confine tra lo scambio di un paio di cordiali battute e qualcosa di molto più simile ad una confidenza personale. Quella almeno fu l’impressione che ne ricavai, unitamente ad un sottile senso di delusione nel rendermi conto che l’occhiata all’orologio sottindendeva la conclusione della nostra breve chiacchierata, vediamo come riuscire a spiegarle… vede, a mio modesto modo di vedere, questo viottolo è particolare e normale nello stesso tempo. Particolare perché è di un’indubbia bellezza, ma soprattutto in virtù dell’inspiegabile fatto che… la gente pare non vederlo… Eppure è lì… in "ghiaia e terra", come dire… e questa è anche la sua componente di assoluta normalità… a volte me ne sto qui appoggiato alla bicicletta, e osservo le persone passare. Sa cosa avviene ? Che guardano dappertutto, quella dannata strada trafficata, i capannoni industriali dall’altra parte, persino la mia ben poco affascinante dimora… i più cordiali mi dedicano un cortese cenno di saluto… ma nessuno, o quasi, che posi l’occhio sul ponticello. Mi rendo conto che suonerà alquanto bizzarra, come affermazione
(Non più di tanto, pensai io ascoltando quelle parole, anzi, proprio per niente)
ma l’unica, sconsolante conclusione a cui sono giunto è che… non ci sia più spazio per cose del genere…, alzò un braccio in direzione del viottolo, …il mondo si è messo a correre, e ha troppo poco tempo per sprecarlo in maniera così inconcludente… E’ triste, ma è la realtà… Poi, ogni tanto, qualcuno riesce a ritagliarsi un attimo sufficiente per poterne apprezzare la presenza… com’è successo con lei…, quel riferimento così diretto mi fece provare uno strano brivido a metà tra l’orgoglio e la commozione, …mi lasci indovinare, non è la prima volta che viene qui, vero ?, non si curò di lasciarmi lo spazio di una conferma o meno, …e questo potrebbe essere importante… Glielo ribadisco, anche se la cosa potrà sembrare alquanto anomala: non sono mai andato fin lassù, che ci voglia credere o meno. E badi bene, non perché me ne sia mancata la curiosità, o il desiderio, ma piuttosto, come dire, la capacità di poterlo fare. Adesso si è fatto un po’ tardi, devo rientrare a preparare la cena per Stella e Romeo e Taddeo, altrimenti prendono a salirmi dappertutto (la rispettabile età del mio interlocutore, tale da escludere l’esistenza di una prole, e la poco desiderabile esperienza acquisita con i gatti di mia madre, mi fecero ipotizzare che si stesse riferendo ad una tribù di felini) ma, se crede, potremmo riparlarne. Quando le va, tanto non è che io abbia in programma una crociera nel Mediterraneo, in questo periodo. Se crede, ripeto, nessuno la obbliga, anzi, siamo in un paese democratico, e lei è libero di comportarsi come ritiene meglio. Al limite anche di pensare di aver fatto la poco gradita conoscenza col "matto" della Riviera Berica, una volta imboccata la strada del ritorno. Ora però la devo proprio salutare…, la sua mano aperta e cordiale si risollevò nella mia direzione, …grazie della chiacchierata, signor Marco, e mi auguro di riincontrarla ancora…
Mentre quelle ultime frasi prendevano a vorticarmi in testa come foglie secche sollevate da un refolo di vento, in un turbine mentale che non si sarebbe acquietato sino al mio arrivo a casa, afferrò il mastodontico manubrio della bici (ebbi l’impertinenza di chiedermi come diavolo riuscisse a salirci ma, data la vicinanza con la sua destinazione, il dubbio rimase tale) e si diresse verso la sua abitazione.
A quel punto risalii in sella e mi diressi in direzione della città.
(TLAC)
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Capitolo 3 *** capitolo 3 ***
6.
(TLAC)
Grossomodo, diventammo amici. Di certo con lui instaurai una
frequentazione degna di tale nome, molto più che con qualsiasi altro
mio conoscente, collega o altro, perlomeno negli ultimi tre o quattro
anni. E non mi venne mai troppo da pensare che fosse suonato. Non lo
pensai e non lo penso ora, nonostante la faccenda del non riuscire a
fare quattro passi in più su un banalissimo viottolo di campagna mi
ristagnasse dentro come un pezzo di legno imprigionato in un gorgo
lento e infinito. Forse, la cosa che rendeva accettabile quel
particolare “blocco” era il fatto che io stesso provassi la medesima,
bizzarra sensazione. Sempre che l’arzillo omino non mi stesse prendendo
per i fondelli, ma questo presumo che avrei potuto scoprirlo presto.
Ad ogni modo, mi preoccupava leggerissimamente il fatto di
paralizzarmi là, a pochi centimetri dall’imbocco del ponte, come se
cadessi preda di qualche fantastico incantesimo, ma non tanto da
spingermi a parlarne con qualcuno (con qualcuno un po’ più ferrato in
materia del vecchio, intendo), né ancora meno da forzarmi a non
effettuare il mio consueto giro serale. Non mi dava l’impressione di
una fobìa, ecco, e mi sarei certo allarmato di più se all’improvviso
avessi manifestato crisi di panico all’idea di interagire coi clienti
della banca, o cose del genere. E poi le chiacchierate con Aristide,
anche se non sempre chiarivano i nostri dubbi reciproci, anzi, erano
abbastanza esaurienti. In fondo era l’unico con il quale poter parlare
di quell’argomento specifico. Ripeto, il mio giro di amicizie si può
contare sulle dita della mano di… un monco, e non mi ci vedevo proprio
ad esporre le mie discutibili teorie con qualche collega d’ufficio. Non
dico che avrebbero chiamato il 113, ma di sicuro la già scarsa
considerazione nei miei confronti avrebbe subìto un brusco tuffo verso
il basso. Con quel tizio, al contrario, le cose erano diverse. Nessuno
dei due pareva possedere elementi fondamentali e chiarificatori (io
per niente, lui qualcosina di più, in virtù di un’osservazione empirica
che andava avanti da oltre dieci lustri), ma potevamo parlarne con
sereno distacco, come due vecchi gentiluomini che presto o tardi
avrebbero deciso di intraprendere la strada del mare, ma che per il
momento preferivano rimanersene sulla riva a fissarne la maestosa
immensità. Ci piaceva discuterne, in definitiva, quasi ne ricavassimo
una sorta di complice soddisfazione. Lo facevamo come due appassionati
d’arte di fronte ad un incomprensibile dipinto di arte moderna, o due
tifosi della medesima squadra di calcio. Al di là della scaramuccia
iniziale, nessuno dei due provocò più l’altro sulla presunta
incapacità di giungere alla sommità dell’argine, in una sorta di tacito
rispetto per quella che ritenevamo in tutto e per tutto una debolezza
umana e personale. Solo in un occasione, nella quale mi sentivo
particolarmente “euforico” (quel pomeriggio mia madre non mi aveva
scambiato per un lontano cugino o per il lattaio, al contrario,
deliziandomi coi racconti di quando mi portava al mare, poco meno di
mezzo secolo fa, agghindato con un bizzarra mantellina-asciugamano
rossa ed un cappellino a punta che mi facevano desolatamente
assomigliare ad un clown del circo in miniatura) mi era venuto il
ghiribizzo di provocarlo, proponendogli di punto in bianco di compiere
assieme il Grande Passo. Di mettere al bando le ciance, per capirci, ed
attraversare fianco a fianco quel supponente ponticello. Vaila, amigo,
fuera el dente fuera el dolor. L’impertinente frase, in effetti,
prese a formarsi nel fondo della gola, già pronta a trasferirsi sulla
plancia di lancio della mia linguaccia in attesa dell’ok al decollo.
Questo prima che un’immagine mentale, nitida e glaciale, non mi
“sfolgorasse” all’interno della testa. Mi vidi sul ciglio di uno
scoglio a strapiombo sul mare (molto a strapiombo) mentre, per fare un
po’ lo spiritosone, pungolavo il mio vicino di “precipizio” (se fosse o
meno il vecchio Aristide è un dato assolutamente privo di interesse) a
compiere un dissennato tuffo in coppia. Stra-certo che il mio pavido e
sconosciuto interlocutore avrebbe risposto “non se ne parla nemmeno”,
e beandomi nel contempo della sua ovvia “tremarella” al solo pensiero.
Invece il tizio, contro ogni più logica e saggia previsione, non solo
ribatteva “oh ma certo parliamone” ma addirittura, senza darmi il tempo
di fiatare, afferrava il mio polso in una morsa ferrea, trascinandomi
senza pietà verso l’abisso. Nell’istante in cui quella vivida fantasia
mi ricacciava in gola quel tentativo di fanfaronata, il mio viso
dev’essersi fatto livido come quello di un cadavere, tanto da
spingere il vecchio a sincerarsi se tutto era okay, con un’espressione
premurosa e preoccupata. Inutile dire che da quel momento in avanti
ulteriori spacconate che avessero come obiettivo il superamento di
quella nostra personale “linea del Piave” divennero alquanto tabù. Di
solito io arrivavo nei pressi di casa sua, sprizzando sudore da tutti i
pori (non dimentichiamo che l’obiettivo principale delle mie pedalate
era quello di tenermi in forma, nei limiti del possibile, ed eravamo
ormai giunti a metà luglio, con la ciclabile che sembrava fondersi
sotto il sole, nonostante fosse tardo pomeriggio) e lui mi scorgeva da
qualche finestra del pianterreno. Veniva verso di me, solitamente
scortato dalla sinuosa compagnia del trio Stella-Romeo-Taddeo (tre
diffidenti ed altezzosi gatti, come avevo giustamente ipotizzato)
impegnati a sgusciare attraverso le sue gambe come piccoli squaletti
pelosi. Possedeva anche una specie di cane, piccolo e brutto e isterico
(ricordava molto un poggiapiedi semovente) che durante i primi dieci
minuti in cui aveva a che fare con un estraneo (ed io per lui
rimasi estraneo a vita) non la smetteva di tremare e uggiolare e
schizzare pipì in giro, simile ad un indemoniato canino. Io e il mio
nuovo amico restavano in piedi, ognuno dal proprio lato della bassa
recinzione che divideva la ciclabile dal giardino arido. Mi avrà
sollecitato ad entrare almeno un fantastiliardo di volte, ma io ho
accolto il suo cortese invito solo in poche, eccezionali occasioni,
perché mi dava l’assurda idea di “tradire” lo spirito dell’impegno
fisico. Starsene là scomodamente separati dalla trama rugginosa della
rete divisoria manteneva al contrario una sorta di “precarietà”, come
se la sosta fosse casuale e temporanea (pur se la durata di quelle
“partite di chiacchiere” era di ben lunga superiore al tempo impiegato
per compiere l’intero percorso ciclabile) mentre, al contrario, lo
spaparanzarsi sulle cigolanti ma accoglienti sedie pieghevoli, sotto
l’invitante ombra di un ciliegio, equivaleva ad ammettere tutta la mia
debosciata indolenza. Ebbi modo così di conoscerlo bene, e di ammirare
la serena semplicità attraverso cui vedeva le cose del mondo. Era
vedovo, e da alcuni suoi vaghi accenni non mi aveva dato l’idea che la
perdita della consorte lo avesse più di tanto sconvolto. Succede, no ?
Errori di valutazione, in fondo son situazioni in cui ci si imbarca a
scatola chiusa. C’è gente, come il sottoscritto, che darebbe quello che
ha di più prezioso (e se ne fosse sprovvisto sarebbe pronto a rubare e
depredare e uccidere) pur di riavere a fianco la compagna con cui
sperava di passare una vita, e altri che trovano la pace solo nel
casuale momento in cui il loro rapporto affettivo viene sciolto per
qualche motivo. A quanto ho capito, non aveva nemmeno parenti che
abitassero in zona, con i quali intrattenere rapporti di un certo
spessore. L’unica figlia si era trasferita nella bassa Padovana
subito dopo il matrimonio, ormai da tempo immemorabile, e si sa come
vanno queste cose. Non si trova mai il tempo di fare una visita, e c’è
sempre qualcos’altro da fare, e alla lunga ci si riduce (nel migliore
dei casi) ad una telefonata ben poco sentita in occasione delle
festività comandate. In pratica era solo, come chi vi sta parlando in
questo momento, e l’unica precaria compagnia gli veniva dalle
scostanti attenzioni dei gatti, dai quali anche il pavido poggiapiedi
canino, che di nome faceva Poldo, sembrava starsene prudentemente alla
larga. Tornando a noi, comunque, il vecchio aveva ragione riguardo
alla “cecità” dei passanti nei confronti del viottolo. Io gli feci
visita quasi ogni giorno, per circa tre mesi, e non ce ne fu uno,
adulto o bambino, a cui capitasse di bloccarsi là com’era successo a
me. Era diventata una sorta di gioco-scommessa, tra noi, quella di
indovinare il tempo di “permanenza” dei vari viandanti in quel dato
punto della ciclabile. Perché, vedete, a tratti pareva che qualcuno… in
qualche modo… intuisse qualcosa… In alcuni perlomeno, a differenza del
grosso dei passanti che scivolavano via senza il minimo indugio,
pareva subentrare una sorta di fugace “incertezza”. Tipo quando avete
esigenza di farvi venire in mente un particolare importante,
determinante, un numero di telefono, un’indirizzo, un volto, che invece
tenta di sfuggirvi, il bastardello, sgusciando tra le pieghe della
memoria. Avete presente, no ? Quell’attimo in cui fisicamente sembrate
presenti ma in realtà siete in tutt'altro posto con la testa. Quella è
l’impressione che davano i (rari) “ispirati” mentre, a differenza della
massa di pecoroni insensibili, venivano per un fugace attimo attratti
dalla presenza del viottolo. Ed ogni volta a me veniva l’irrefrenabile
impulso di mettermi a sbraitare “Razza di coglioni !!! Ma non riuscite
proprio a vederlo ?!? E’ lì, lì, giusto DIETRO LE VOSTRE SPALLE !!!”.
Grazie al Cielo qualcosa, forse un intervento in extremis della mia più
assennata coscienza, mi evitava una figura ben poco decorosa.
Impedendo nello stesso tempo al malcapitato “non vedente” di turno di
tornarsene a casa con un succoso aneddotto sulle sorprese della
ciclabile da raccontare. Sai, cara, oggi ero lì che mi facevo la
solita pedalata, quando un tizio, dall’aria apparentemente normale e
distinta, E’ ANDATO VIA DI MELONE !!! Il mio compagno di “recinzione”
pareva prenderla con molta più filosofia, sulla scorta di una maggior
frequentazione in materia, continuando placido a disquisire del più e
del meno. Ogni tanto, quasi in maniera automatica, si chinava per
elargire una carezza ad uno dei gatti, che immancabilmente si scostava
sdegnato, o a Poldo, il cane-poggiapiedi, che al contrario diveniva
preda di un sussultante orgasmo per l’emozione. Parlavamo di tutto, io
e Aristide, non solo del bizzarro argomento che ci accomunava. Sulle
prime, a dire il vero, i commenti sul viottolo furono titubanti e
circospetti, almeno da parte mia, in un comprensibile tentativo di
“annusare” le reazioni e i punti di vista del vecchio, prima di
decidere di scoprire in toto le carte. Ve l’ho detto, non mi turba più
di tanto che la gente si faccia l’idea di avere a che fare con uno che,
come si dice dalle nostre parti, non ha tutte le fascine al coperto,
ma dichiararmi spudoratamente così al primo appuntamento…
Chiacchieravamo di tutto e di niente, del tempo, del governo, delle
tasse, della televisione dove ormai non facevano più niente che non
fosse pubblicità o scemenze. Gli raccontai di mia moglie, dei tempi
meravigliosi in cui stava bene e dell’inferno della malattia, e poi di
mia madre. E il fatto che lui mi ascoltasse con interesse ed
attenzione, intervenendo a tratti con poche, pertinenti frasi (c’è ben
poco da dire, quando si vivono determinati incubi) alimentò in me
l’ottima impressione che mi aveva suscitato fin dall’inizio. A poco
a poco, in ogni caso, man mano che si rafforzavano la stima e la
simpatia reciproca (e l’amicizia, se non la considerate una parola
troppo grossa) i nostri discorsi presero a convergere sempre più
insistenti attorno ad un argomento ben definito, come uccellini ancora
sospettosi che non si fidano troppo di posarsi sul ramo di un albero
solo in apparenza privo di insidie, e fu così che venni a conoscenza
di tutto quello che sono in grado di dirvi (del poco che) sul viottolo
e dintorni.
(TLAC)
7.
Una volta qui era tutto così, mi disse indicando il viottolo, e
riferendosi a tutto l’ambiente circostante. Non facevo nessuna fatica a
credergli. Se solo la campagna che ci circondava, mondata da traffico
e fabbrichette e villini da geometri, avesse rispecchiato anche un
decimo della bellezza di quell’angolo, non ci sarebbe stato niente da
invidiare ad altri scorci naturalistici ben più celebrati. Mi raccontò
con tono leggero di rimpianto e piacere dell’acqua trasparente del
canale, in cui guizzavano pesci dai riflessi argentati e rane
chiacchierone, col baluginìo smeraldo di qualche libellula che
increspava a tratti l’immobilità dell’aria. Nelle infinite giornate
d’estate, assieme ai suoi coetanei delle numerose fattorie sparse per
i dintorni, era prassi quotidiana far compagnia alla popolosa fauna
acquatica, cullati dalla colonna sonora infinita di legioni di
invisibili cicale. Ci tuffavamo da là, giù di sotto come bombe, disse
indicando una scrostata passerella pedonale che dalla strada permetteva
l’accesso ad un nucleo di case al di là del corso d’acqua (decisamente
brutta rispetto al ponticello a pochi passi da noi, ma lui si
affrettò a precisare, come se avesse potuto leggermi nel pensiero, che
non era in grado di ricordare se già a quel tempo esistesse una sorta
di ostracismo collettivo nei confronti del ponte). Era solo che la
scelta dell’utilizzo a mò di trampolino era caduta sulla meno
suggestiva passerella, commentò, e nessuno di loro aveva tempo e
voglia di porsi tante domande. Non c’era traccia della zona industriale
artigianale, ovviamente, nemmeno nelle intenzioni delle sciagurate
giunte comunali degli anni ancora a venire, e il banale luogo comune
del qui una volta era tutta campagna, in quel particolare frangente,
non era niente più che la cruda verità. Il periodo a cavallo tra
l’infanzia e l’adolescenza sembrava essere quello che rimpiangeva di
più, almeno in base alla frequenza con cui ritornava nelle sue
descrizioni, attraverso le quali cercava di farmi comprendere al
meglio… di più, a fare in modo che io potessi quasi riuscire a
“vedere”… le cose che aveva vissuto. Non erano certo stati tempi
facili, tutt’altro, scarse possibilità economiche (per usare un banale
eufemismo) la fame, la guerra, e in ogni caso il ricordo che ne
conservava gli faceva brillare gli occhi come un bimbo in un luna
park. Era legatissimo a quel periodo, e alla madre che, a suo dire,
aveva rappresentato la figura più importante di tutta la sua vita.
Come vi ho accennato, le volte in cui ho accettato la sua cortese
ospitalità varcando il cancelletto del giardino si possono contare
sulle dita di una mano, ed in un'unica occasione ho messo piede
all’interno della casa. Sì, lo so, rischio per l’ennesima volta di
passare per bizzarro e misantropo ma, a differenza della simpatia che
l’uomo mi ispirava, non ero per niente attratto dall’idea di conoscere
i luoghi in cui viveva. Non so, la sua solitaria condizione, così
simile alla mia (se proprio avevo voglia di un campionario di piatti
sporchi nel lavello e odore di chiuso era sufficiente che non mi
muovessi da casa), in quell’abitazione così grande e vuota. E poi la
prevedibile presenza di inconfondibili “puzze di gatto” in grado di
riportarmi mio malgrado agli ultimi momenti di mia madre nel suo
minuscolo appartamento… non so come spiegare, ma proprio non mi
andava. Forse aveva qualcosa a che fare con la mia discutibile
incapacità di misurarmi con la vecchiaia e la solitudine, anche se in
confronto alle “mummie” che imperversavano nei corridoi della casa di
riposo il mio maturo amico era di una vitalità invidiabile, così ci
volle un terrificante acquazzone scatenatosi quasi senza preavviso per
costringermi a varcare la soglia di quella casa. Come spesso mi
succede, andò meglio delle mie catastrofiche previsioni, grazie al
Cielo. Non era una reggia, questo no, la pensione di ex-meccanico non
gli consentiva lussi sfrenati e dissennati, ma l’accogliente cucina
d’altri tempi in cui mi fece accomodare sapeva di buono. Ci concedemmo
un caffè nient’affatto male, mentre ascoltavamo i boati fragorosi dei
tuoni di un temporale estivo con i controfiocchi, sbirciando dalle
finestre la ciclabile deserta flagellata da valanghe d’acqua che
scuotevano il grosso gelso all’imbocco del viottolo. Senza
apparentemente impressionarlo più di tanto. Una vaga quanto insistente
traccia-fantasma della presenza dei gatti persisteva nell’ampio locale,
ma il profumo di pulito e di caffè appena fatto riusciva a sopraffarlo
senza troppa fatica. Soddisfatto di quella situazione, lasciai vagare
lo sguardo in giro. Appeso sopra all’immancabile focolare che
troneggiava maestoso (potendo disporre di un bel gruzzoletto di
quattrini qui ci si potrebbe tirar fuori un posticino coi fiocchi,
ricordo di aver pensato mentre il vecchio armeggiava con la
caffettiera) c’era un ritratto fotografico sbiadito dal tempo,
raffigurante una bella signora in abiti eleganti, dall’apparente età
di trent’anni, dalla chioma fluente che le si spandeva sulle spalle e
un vezzoso neo giusto sotto l’occhio sinistro. Con delicatezza,
m’informai su chi fosse e lui, rimirando il quadro con sguardo quasi
sognante, mi confermò che si trattava della sua adorata madre. Non era
bellissima ?, mi chiese con la voce colma di orgoglio e, al mio
convinto cenno di assenso, soggiunse che, in ogni caso, il bianco e
nero della foto (il bianco e seppia, dato che quella posa doveva esser
stata scattata all’incirca negli anni ’30 o giù di lì) non le rendeva
appieno giustizia. Non è in grado di mostrare il suo lato più bello,
precisò indicandosi con un buffo gesto semicircolare la zucca pelata, a
differenza del sottoscritto, i suoi capelli era lunghissimi, e di un
rosso che toglieva il fiato…Ce ne restammo lì al tavolo della cucina
ancora un po’, illuminati a tratti dai lampi simili a flash di
ciclopiche macchine fotografiche, sempre più radi e fiochi, finchè il
cielo, seppur burrascoso di nubi color carbone, non decise di
smetterla di innaffiare i campi riarsi dalla calura estiva. Subito
dopo presi a pedalare con calma in direzione di casa, con un
maglioncino del vecchio sulle spalle (come spesso succede, l’improvviso
acquazzone aveva abbassato di molto le roventi velleità dell’afa), che
non avrei potuto utilizzare in altro modo, considerata la notevole
differenza di taglia, ed un involto con sei uova appena scodellate
dalle galline, tenuto con delicatezza nella mano destra. Per
entrambi, maglione e uova, era stato vano e sprecato ogni mio
tentativo di oppormi a quella cortese premurosità. Quando ci si
metteva, il vecchio Aristide sapeva essere irresistibilmente
convincente. Col passare del tempo, e l’intensificarsi delle visite,
venni a conoscenza di ulteriori particolari riguardo a quel posto.
L’anziano mi confermò un’infinità di volte (come se io faticassi a
credergli, mentre in realtà a quel punto non la trovavo più tanto
strana, come cosa) di non aver mai oltrepassato il limite formato
dall’imbocco del ponte. Né tantomeno, e questo forse suonava già un po’
più bizzarro, aveva ricordi di averlo visto fare ad una qualsiasi
altra persona. In tutti questi anni ?!, non riuscii a fare a meno di
sbottare io. In tutti questi anni, mi confermò, fissandomi pacioso dal
di là della rete di recinzione. A quel punto, in realtà, la confidenza
e la cordialità che si era instaurata tra noi permetteva di poter
sputare frasi istintive che in qualunque altro frangente avrebbero
potuto passare per impertinenti. Nessuno nessuno ?, incalzai io,
deciso a non mollare l’osso (e, magari inconsciamente, riuscire ad
incastrarlo) Nemmeno, che so, un contadino, un cacciatore, qualche
ragazzino curioso… Cavoli, dovrà pur essere di qualcuno, quel dannato
pezzo di terreno !. Aristide mi aveva fissato sgranando i grandi occhi
amplificati dalle spesse lenti degli occhiali, come faceva ogni
qualvolta un mio sanguigno moto d’insofferenza sull’argomento mi faceva
andare (bonariamente) fuori dai gangheri. Gliel’ho detto, è proprietà
del demanio, precisava paziente, e a quanto mi è dato sapere, non ho
mai visto ronde di guardie demaniali effettuare grandi manovre in mia
presenza… Come al solito, non si capiva mai bene (o perlomeno ero io,
che non riuscivo a stabilirlo) se mi stesse prendendo per i fondelli un
po’ oppure un sacco. E chiederglielo non avrebbe di certo fugato quel
dilemma. Tutt’a un tratto, però, si era fatto serio, grattandosi la
sommità della pelata, nel punto in cui il cranio appuntito ricordava
quello di un segugio da caccia. Con questo NON voglio affermare che non
vi sia mai salito nessuno in assoluto, borbottò, quasi rivolto a sé
stesso. Venne distratto per un istante da un grosso camion lanciato a
velocità del tutto criminale, che gettò lo scompiglio tra gli asfittici
steli d’erba rinsecchiti lungo il ciglio della statale, poi riprese:
anche solo a livello di probabilità non reggerebbe, come cosa… e poi
immagino che qualcuno le abbia avute, le proprie buone ragioni, per
passare al di là…Quella frase sconclusionata mi si piantò in testa come
un chiodo sparato a velocità supersonica, rimanendovi conficcato per
alcuni giorni, durante i quali non potei impedirmi di rimuginarci su ad
ogni occasione buona. Poi quel tormento sembrò scomparire, anche se in
questo preciso momento posso garantire che si era solo scavato una
sorta di “nicchietta”, nei meandri del mio cervello ignaro, in cui
ronfare, latente, fino al momento in cui il suo risveglio avrebbe
aiutato la composizione di un puzzle dai risvolti a dir poco
sorprendenti. La faccenda, messa in quei termini, insisteva a
sconcertarmi. Sarebbe stato come affermare che, ogni qualvolta ci si
affaccia al balcone di casa propria, una casa in cui si è abitato sin
quasi dalla nascita, non si scorge mai anima viva transitare nella via
sottostante. Ce n’era abbastanza per esserne vivamente preoccupati.
Oltre che come ottimo materiale per una puntata di quei vecchi
telefilm… come si chiamavano ? Ah, “Ai confini della realtà”… Ad
intervalli più o meno regolari, quindi, non riuscivo ad impedirmi di
tornare sulla questione. Anche perché, con tutta la buona volontà,
quando di un dato argomento di cui si sa poco o niente si è ormai
detto… tutto… beh, come dire… non resta molto altro da discutere.
Sembra una battuta di teatro surreale, ma è così. Un fine pomeriggio
come tanti, impalati sui due versanti della bassa rete di recinzione,
mentre sbucciavo una pesca gentilmente offertami dal padrone di casa
(c’era stata la solita scaramuccia di insistenze e cortesi rifiuti,
conclusasi con un pareggio nel momento in cui consideravo che, in
fondo, si trattava solo di frutta, fresca e invitante per di più, che
non avrebbe attentato troppo al mio faticoso mantenimento di una linea
dignitosa) e, nello stesso tempo, mi lambiccavo il cervello
nell’identificare una variante efficace e originale del solito, eterno
dilemma (Mai visto nessuno ? Nessuno nessuno nessuno ? Neanche, fa
esempio, per sbaglio ? Con la coda dell’occhio ?) una sorta di lampo
mi balenò nella testa. Inghiottii il boccone di pesca che stavo
assaporando, senza distogliere gli occhi dalle galline panciute che,
dopo aver approfittato di un buco nella recinzione di cui erano a
conoscenza solo loro (e probabilmente gli infidi gatti, che in quanto
infidi non ne avrebbero mai e poi mai spifferato la posizione)
becchettavano indisturbate tra il bordo della ciclabile, sfidando
temerarie o incoscienti le ruote sfreccianti delle auto e, elemento
molto più determinante, nei pressi dell’imbocco del ponticello. Molto
nei pressi, presi atto con un sobbalzo che rischiò di disarcionarmi
dal sellino della bicicletta utilizzata a mò di precario sedile. E
animali ?, devo aver sbottato all’improvviso, come folgorato. Lui,
colto alla sprovvista, aveva sollevato gli occhi dalla concentrata
contemplazione di una puntura d’insetto sull’avambraccio abbronzato.
P-prego ?!, aveva biascicato, per nulla sicuro di aver capito il senso
della mia esclamazione. Con un moto d’impazienza, ormai partito per la
tangente, io avevo indicato il pollame sparso davanti a noi.
A-n-i-m-a-l-i, avevo ripetuto scandendo le parole come fossi alle
prese con uno scolaro testardo, che so, galline, cani, gatti… non
vorrà dirmi che nemmeno uno di loro si è fatto una passeggiatina su per
quell’argine !. Aristide a quel punto aveva scosso la testa divertito,
facendo spallucce. Ah, in quel senso !, aveva replicato, con un
sorrisetto che scatenò in me un’ingiustificato spasmo d’irritazione, Oh
bè, tutto è possibile, come facciamo a escluderlo ? Solo che… voglio
dire… sono ancora meno visibili delle persone, e poi come si fa ? Qui
intorno di pulcini ce ne sono a bizzeffe ! (Pulcini ? Chi ha mai
parlato di pulcini ?) Fece un gesto con la mano in direzione di uno dei
gatti (Romeo o Taddeo, per quel che ne sapevo, dato che l’unica che
avevo imparato a riconoscere era Stella, per via di una sorta di
macchia bianca tra il pelo nero del petto, e non era quella accoccolata
sul prato in quel momento) che alzò impercettibilmente le orecchie,
come se avesse intuito di essere stato tirato in ballo. Per quanto
riguarda i gatti, poi, lo sa anche lei come sono. Pare che non
abbiamo altro da fare che mangiare, dormire e riprodursi, per cui in
tutti questi anni ne sono girati talmente tanti che non posso proprio
dire quanti ne siano spariti, e per quale motivo. Col traffico che c’è
su questa strada è una fortuna che non ci abbiamo tirato sotto anche
noi…A me venne l’impulso di controbattere che non avevo mai parlato di
“gatti spariti”(e di pulcini ?!) ma solo se, per caso, aveva avuto
occasione di vedere un dannato pennuto farsi una passeggiatina oltre
il ponte. E ritorno. Ma a quel punto, come spesso succedeva, il vecchio
sembrava essersi addentrato in un territorio infido e spiazzante fatto
di affermazioni inquietanti e surreali, così decisi di raffreddare i
miei bollori, riprendendo a sbocconcellare il resto della pesca senza
aggiungere altro. Il mio compagno, d’altro canto, non diede
l’impressione di voler approfondire l’argomento. Ci ripensai su la
sera, a casa, fissando senza vederle le sequenze di uno stupido quiz
in televisione, e nei giorni successivi. Disturbato dal fatto che
quello strano vecchio mantenesse un comportamento assolutamente
normale per settimane, salvo poi “svaccare” a tratti, senza il minimo
preavviso, con affermazioni sconclusionate e sibilline. Forse il
fastidio nasceva dal conflitto tra queste e il mondo quotidiano fatto
di aridi ma rassicuranti numeri con cui avevo a che fare. Di cui tutto
si poteva dire, ma non che mutassero sotto ai miei occhi come abili
trucchi di prestidigitazione. Sgusciando via dalla realtà oggettiva
delle cose come le criptiche frasi del mio interlocutore. A volte
giungevo alla conclusione che la solerte premurosità di quel
vecchietto, temendo forse di potermi deludere nel caso non avesse
avuto niente da rispondere a certi miei accorati quesiti, lo facesse
optare per uno sproloquio così da spostare il fulcro della questione.
Mi rendo conto che detta così è un’analisi che rischia di assomigliare
al motivo per cui l’ho elaborata, ma non mi viene in mente niente di
meglio. E ripensarci mi fa venire come di consueto un inizio di mal di
testa. O forse è solo il risultato dell’aver fatto inclinare troppo
questa bottiglia di grappa, che intravedo alquanto prosciugata nella
semioscurità del mio salotto. Immagino sia il caso di infilarsi nel
letto, anche perché siamo ormai a fine mese e domani in banca ci sarà
un bel po’ da fare per via dei pagamenti di bollette e cose simili. Ma
non preoccupatevi, la storia continua. Non so voi, ma io da qui non mi
muovo, per il momento. Buonanotte.
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Capitolo 4 *** capitolo 4 ***
mondo
8.
(TLAC)
Okay. Da dove riprendiamo? Allora… più o meno una decina di giorni fa,
il vecchio se ne salta fuori all’improvviso con un’altra delle sue. Mi
chiede a bruciapelo se, secondo me, non sarebbe stato bello poter
ipotizzare che quel posto, il viottolo e tutto il resto, non facesse
solo una cosa in particolare (misteriosa a tal punto che nemmeno noi
sapevamo di cosa stessimo parlando, non è assurdo?), ma bensì che
fosse in grado… come dire…
di esaudire qualsiasi desiderio uno avesse in mente. Io lo fissai col
solito arco convergente delle sopracciglia, in un’espressione che mi
viene ogni qualvolta ho l’impressione di esser preso per i fondelli.
Nella fattispecie da quel tizio. Aristide sostenne il mio sguardo
indagatore con la consueta espressione impenetrabile, appena solcata
da un sorrisetto troppo lieve per essere ostentatamente canzonatorio.
Frugai nella mente alla ricerca di una rispostaccia che fosse
sufficiente, nell’eventualità di essere vittima di una burla, a
tirarmene fuori non troppo turlupinato. Optando poi, chissà perché, per
una bizzarra analisi… diciamo scientifica… di quell’azzardata
affermazione. Mmh…,borbottai
grattandomi il mento ispido di barba da rasare, per cui, vediamo cos’abbiamo…
la probabilità che quel viottolo sia in grado di, nell’ordine, non far
niente… fare qualcosa di speciale, e di cosa si tratti è tutto da
dimostrare, oppure, udite udite, fare TUTTO. E’questo che intendeva ?
Lui ridacchiò sotto i baffi che non aveva, alimentando la diffidente
sensazione che stesse mettendo in atto uno dei suoi giochetti preferiti
ai danni del sottoscritto. Non
ho detto che sia così, puntualizzò pedante, ma solo che sarebbe bello
pensarlo
(Dannato vecchiaccio,
sei veloce a far retromarcia, pensai io velenoso)
così, tanto per
parlare… Lei, per esempio (ci davamo ancora del rispettoso
lei, pur beccandoci a volte come vecchie comari litigiose) se potesse esprimerne uno e solo
uno, di desiderio, cosa chiederebbe?
Quella domanda, diretta e inaspettata come una secchiata d’acqua
gelida, ebbe il potere non solo di dissipare le mie paranoiche
congetture sul fatto o meno di essere vittima di una presa in giro, ma
anche e soprattutto di lasciarmi senza parole. Il vecchio giochetto
dell’unico desiderio… quante volte lo abbiamo fatto nella nostra vita?
Milioni? Per quel che mi riguarda, penso proprio di sì. Anzi, in
alcune occasioni è stato alquanto interessante, e a volte divertente,
verificare come può cambiare il punto di vista in merito a seconda del
trascorrere dell’età (intorno ai sedici anni, interrogato sulla
questione dai compagni di scuola, la mia preferenza era caduta su
essere invisibile nello spogliatoio femminile della palestra) o degli
eventi che la vita ci pone davanti. In quel momento, vedovo
cinquantenne in dirittura d’arrivo al pre-pensionamento, solo con
anziana madre instabile e spelacchiato beagle a carico, quale poteva
essere l’unica cosa a cui anelare con tutto me stesso, secondo voi?
Immagino non occorra star qui a specificarlo, considerando per di più
l’alto grado di “follia” nel solo pensare una cosa del genere. Cose
fuori dalla realtà. Cose da matti.
La dannata questione posta, per un istante (breve, fugace ma
assolutamente inebriante) mi fece quasi sperare che le cose
potessero essere proprio così. Fu un attimo, come dico, poi feci di
tutto, attraverso il tono di voce e l’espressione del viso, per
comunicare allo spiritosone che era un giochetto che non mi divertiva
per niente. Penso possa
immaginare cosa vorrei, ribattei glaciale, non credo sia tanto difficile da
immaginare, e non mi sembra proprio il caso di spenderci parole,
soprattutto in virtù dell’assoluta assurdità di questa cosa...
Lui borbottò qualche mezza frase a volume troppo basso per capire se
stesse o meno porgendomi delle scuse. Era solo una cosa innocente,
priva di…, borbottò visibilmente abbacchiato. Mi frugai
dentro, per stabilire se la mia reazione non fosse stata in ogni caso
troppo aggressiva, ma in tutta onestà l’irritazione mi impedì di
valutarlo con imparzialità.
Vagheggiamenti di anziani che hanno tempo da perdere,
riprese lui, come cercando di mettervi una tardiva pezza, non so… forse come dice lei è
una cosa discutibile, ma non ha idea di quante volte mi ci sono
lasciato incastrare
(Piantamola qui!,
aveva sibilato una voce da qualche parte dentro la mia testa)
sarà anche una fantasia
da sciocchi… ma io desidererei con tutto me stesso che potesse tornare
mia mamma…
Distolsi la faccia, per nascondere l’istintiva espressione
d’insofferenza che mi aveva colto. Sentire quel vecchio barbogio
affermare una cosa del genere, col tono di voce piagnucoloso come se
avesse appena spento tutte le candeline del settimo compleanno meno
una, mi faceva ribollire il sangue nelle vene. L’impulso sarebbe stato
quello di borbottare lì qualche tipo di giustificazione, un
appuntamento che mi ero scordato, il gas lasciato aperto, e
allontanarmi alla velocità della luce da quel bizzarro (a dir poco)
personaggio il cui unico scopo nella vita sembrava essere quello di
farmi perdere tempo e pazienza. M’imposi di darmi una calmata, e di
comportarmi in maniera più obiettiva e tollerante. In fondo eravamo
due persone sole, con i nostri difetti e le nostre paturnie (nemmeno
io ero un caratterino facile, quando mi ci mettevo, anzi) e non era
affatto tutto da buttare in quella nostra precaria e insolita
frequentazione. Anche se l’irritazione in seguito a quell’episodio
faticava a sopirsi, lavorando sotto come una brace nascosta e
inestinguibile. Cosa le
costa farlo, allora?, la frase, partita pacata, prese ad
incendiarsi subito in una sorta di rovente ripicca, voglio dire, perché non
provarci ?! Male che vada se ne sta lassù a godersi il panorama e la
brezzolina della sera, e poi se ne torna a casa soddisfatto di aver
vinto una fobìa che si portava dentro da tutta la vita…,
scrutai nel suo sguardo vitreo alla ricerca della certezza che la mia
provocazione avesse fatto centro,
ripeto, male che vada…se, al contrario, le stupidaggini, calcai in
maniera forse eccessiva su quella parola, che ci stiamo
raccontando…beh, fossero reali… Non riuscii a concludere
la frase. Mi sembrava così dannatamente fuori di zucca da tentare di
tutto pur di non cascarci dentro. Lui si lasciò andare contro la rete
di recinzione, che s’incurvò gemendo sotto il suo modesto peso. Come il
temporale di alcune settimane prima aveva fatto con l’afa, anche
quell’improvviso mutamento di umore raffreddò in maniera sensibile la
nostra discussione. Si passò una mano malferma sulla pelata madida di
sudore. Oh, non creda
che non ci abbia pensato, biascicò poi con un viso
spiacevolmente pallido, per
innumerevoli giorni, e altrettanti notti insonni, anche per via di
alcune cose che…Non concluse quella frase, e io ero ancora
troppo alterato per insistere su quello che intendeva dire, anche se
ripensandoci in seguito ebbi la netta impressione che fosse un
particolare importante. Lui riprese. Ci ho rimuginato su fino a
farmi venire il mal di testa, fantasticandoci, anche se mi rendevo
conto che era la cosa più folle del mondo… Una pazzia, o forse un
sogno. Ma se non possiamo neanche più sognare, cosa ci resta, in
questa inutile vita ? In maniera del tutto inaspettata,
la faccenda stava iniziando a rivestirsi di sgradevoli sviluppi
esistenziali, mentre prendevo atto con sgomento che il mio attacco
gratuito aveva causato un disagio pari almeno a quello che avevo
provato io. E il fatto che il risultato fosse un salomonico pareggio
non mi consolava per niente.
E sa qual è il motivo… il motivo reale, al di là di tutte le balle su
incapacità e paralisi varie, che mi ha impedito di fare questa
semplice verifica, come la chiama lei ? Eh ? Lo vuole sapere ?,
insistette con voce piagnucolosa. Io non provavo la minima attrazione
nel venire messo a conoscenza di quella confidenza, proprio per
niente. Anzi, l’unica cosa che avrei desiderato in quel momento sarebbe
stato che quella paranoica conversazione in cui ci eravamo invischiati
non fosse mai cominciata. Vuole
che glielo dica ?, mormorò ancora una volta, fissando con
occhi spenti le avviluppanti spire di un’edera selvatica arrampicarsi
dentro e fuori i rombi della rete di recinzione. Non lo volevo
sapere. Non sapevo di cosa si trattasse, ma qualcosa, una
sgradevole sensazione di metallico in bocca, come se avessi succhiato
una manciata di monetine, mi suggeriva che la risposta non mi sarebbe
affatto piaciuta. Non mi era chiaro nemmeno il perché, allora, mentre
in questo momento sono arrivato a capire che si trattava dello stesso,
identico motivo per cui nemmeno io sono riuscito a salire quello
stronzissimo argine. Per ora, almeno. Non volevo conoscere la sua
versione dei fatti, in ogni caso, e stavo quasi per farglielo
presente, ma il vecchio non me ne lasciò il tempo. Perché se, come dice lei, la
cosa dovesse funzionare…beh, sarebbe meraviglioso, ci mancherebbe
altro, non trova ? Ma è l’effetto opposto che mi terrorizza: come
potrei tornarmene giù, e riprendere la vita di tutti i giorni, se
invece NON SUCCEDESSE UN BEL NIENTE ?!?
(TLAC)
(TLAC)
Possibile? Voglio dire, possibile che la stessa motivazione valga per
me? E che la mia esistenza sia talmente vuota e insipida da portarmi ad
abbracciare le deliranti teorie di un vecchio semisconosciuto?!? Beh,
oddìo, non che la mia vita sia poi tutta ‘sta gran cosa, sono il primo
a rendermene conto, ma in ogni caso non ho mai sofferto per questo. Né
tantomeno mi sono balenate in testa idee estreme di aprire il gas e
salutare tutti. Mai, nemmeno in momenti in cui ero fermamente convinto
che trovare la forza per farlo sarebbe stato il minore (e il più
inebriante) di tutti i mali. Non sono mai arrivato a pensare di poter
riincontrare la mia adorata Sandra se non, forse, attraverso il metodo
tradizionale, diciamo. E anche per quello non è che sia
particolarmente fiducioso, la mia fede è alquanto latitante, non
accompagno nemmeno più mia madre alla messa domenicale nella
cappellina della casa di riposo. C’è sempre il rischio che si metta a
sbraitare che non le va a genio quel prete perché è lo stesso che
s’intrufola di notte in camera sua per rubarle gli ori. E purtroppo
questo non era un ipotetico esempio, ma un desolante episodio di “vita
vissuta”. D’accordo, il fatto di sperare in una vita oltre la morte non
ha poi un prezzo troppo alto, in fondo dubito che ci sarà uno
sportello-reclami nel caso le cose non vadano proprio come ci hanno
insegnato a dottrina. E’ la solita storia del gatto che si morde la
coda. Se nell’aldilà non ci dovesse essere proprio un bel niente, non
saremmo neanche in grado di verificarlo. E’un concetto troppo semplice
(o troppo complicato) per essere compreso da noi stupidi umani. In ogni
caso posso garantire che non ho cercato altre scorciatoie per arrivare
da mia moglie, né naturali né ancora meno artificiose. Non ho mai
preso in considerazione l’idea del suicidio, come vi ho appena
detto, né sono andato a spendere milioni per organizzare sedute
spiritiche e tentativi di contatti con l’oltretomba. Sono vedovo, solo,
sovrappeso, pelato ma ritengo di avere ancora tutte le cellule
cerebrali in piena efficienza. E allora perché quelle folli tiritere di
Aristide su viottoli magici, desideri esauditi e balle varie mi
stavano rincretinendo a quella maniera ? Perché, vedete, anche se mi
vergogno molto a dirvi quello che sto per affermare (pur se anch’io,
come il mio degno compare di fantasie, da un po’ di tempo ho
leggermente variato il mio punto di vista, per via di alcune cose che)
quel pensiero mi era entrato in testa, come un tarlo maligno e
insistente, costringendomi a tornare sull’argomento nei momenti più
disparati. Era una continua e irrisolta lotta tra quell’ipotesi assurda
e legioni di pensieri razionali che cercavano con tutte le forze di
farla fuori. Riuscendovi, nella quasi totalità delle volte, ma era
solo una vittoria di Pirro. Perché, vedete, quell’idea fissa aveva una
caratteristica determinante: era immortale. Fingeva, la stronza, di
soccombere sotto i colpi della presunta ragione, calpestata a morte
da pensieri tipo Ma ti
pare che a cinquant’anni ti metti a credere alle favole?
oppure Che sia il caso
di farsi vedere da qualcuno che possa prendersi cura di un evidente
esaurimento nervoso ?, salvo poi ri-balzare su più
arzilla e combattiva di prima, visto che aveva fatto solo finta di
essere passata a miglior vita.
Ci pensavo, ci pensavo fino a farmi venire un’emicrania con le
contropalle. Senza giungere al benchè minimo chiarimento con me stesso.
L’ho cercato pure negli occhi profondi e perduti di Sandra, nella
minuscola foto sulla lapide della sua tomba, senza esito, nonostante
in passato mi avesse aiutato a venire fuori da ben altri abissi di
disperazione. Di solito me ne sto seduto sul marmo freddo (lo so che
non è proprio irreprensibile, come comportamento, e difatti più di
qualche vecchiottella mi gratifica di un’occhiata non troppo
amichevole, ma Sandra era tutto il mio mondo, dovunque essa sia, e
quindi ho tutto il diritto di spaparanzarmi là), e tutti i miei
turbolenti pensieri, a poco a poco, si acquietano, e dentro di me
comincia a farsi chiaro. Di solito, ripeto, ma non in quel particolare
frangente. Lo sguardo di mia moglie mi fissava senza dire
assolutamente nulla. Non mi diceva provaci, ma nemmeno lascia perdere.
Non suggeriva togliti quella idea balzana dalla testuggine, con quel
suo esclusivo modo di chiamare la mia capoccia, ma ancora meno perché
no? Ero solo, in tutti i sensi, e l’eventuale decisione spettava
esclusivamente a me. Decisione
di che, porca di quella puttana? Di far due passi su un
argine erboso per andare a rimirare un panorama di campi coltivati a
soia e granturco, o invece di… Ancora oggi, lo trovo talmente fuori di
cervello da non riuscire nemmeno a pronunciarlo a voce alta. E questo è
normale, no? Mentre nello stesso tempo il pensiero-tarlo, giusto al
centro della testuggine, scava e scava e scava. E questo invece,
sarete d’accordo con me, è assolutamente folle.
Non ho più voglia di pensarci. Me ne vado a letto. Sperando di riuscire
a dormire. E, nel caso, di non sognarlo anche stanotte.
(TLAC)
9.
(TLAC)
Dopodichè, le cose hanno cominciato a precipitare. Così, d’improvviso,
e senza preavviso alcuno. E così che di solito va nella vita, no ?
Sei lì che ti barcameni senza infamia e senza lode (il più delle
volte senza nemmeno renderti conto di quanta benedizione ci sia, in
questa che ti sembra una condizione noiosa e del tutto priva di
attrattiva), snocciolando un giorno via l’altro come grani di un
barbosissimo rosario, quando, tittidintratto,
come diceva un’antico tormentone televisivo, in una pubblicità di mille
anni fa, le cose cambiano. E non sempre in meglio. Anzi. Non succede
troppo spesso, nella vita di noi poveri mortali, che ci capiti una
comunicazione notarile annunciante una cospicua eredità dal classico
zio d’America, o il fortunato acquisto del biglietto vincente della
lotteria di Capodanno. Manco per niente. In genere, sono batoste. E
l’unica cosa che le contraddistingue è l’intensità con cui si abbattono
sulla nostra testuggine. Penale da parte del Ministero delle Finanze
per involontari casini del commercialista, batosta media. Foglietto
verde di contravvenzione sotto il parabrezza, l’unica volta in cui si
è parcheggiato in doppia fila, per un merdosissimo istante, batosta
lieve. Qualcosa che non va nelle ultime analisi, fatte così tanto per
sicurezza, da parte dell’altra metà esatta della nostra esistenza…Ohi
ohi, preparate bende e cerotti, perché stavolta è in arrivo il
BATOSTONE !!! Succede. E’ del tutto inutile star lì a recriminare.
Prima o poi tocca a tutti, chi più chi meno. So che ci sono sfortunati
sui quali la vita o il destino o il caso picchia più del dovuto (e di
quanto meritino), ma in generale ognuno riceve la propria equa dose di
fortune e sfighe. E forse… o anche senza il forse… questi tre
livelli di batoste (sì, tutte e tre, anche se nel caso del
“batostone”occorre un bel po’ di lavoro in più affinchè la cosa
faccia effetto) servono proprio come efficacissimi meccanismi per
farci “rivalutare”il tran-tran di cui sopra. “Si stava meglio quando
si stava peggio”, è un bel modo di dire, e anche “Una volta toccato il
fondo si può solo risalire”.
Un'altra legge fondamentale della “teoria delle batoste”, elaborata in
base ed esclusive e inevitabili test sulla propria pelle, sostiene che
amino venire a farci visita in gruppo. Come una bella improvvisata di
lontani parenti sgraditi e invadenti. E questa “visita di
cortesia”,nel mio caso specifico, ha visto come indesiderati
partecipanti un improvviso aggravamento delle condizioni mentali di mia
madre, sempre più spesso costretta a letto da massicci interventi di
calmanti, per evitare che facesse del male a sé stessa e agli altri.
Come prima cosa. In secondo luogo, un’ancora meno prevedibile “crepa”
nella corazza di raziocinio e forza di volontà che mi ero
faticosamente costruito, allo scopo di tener testa alle caustiche
controffensive della nostalgia di mia moglie (ohi ohi, è quella sì che
era una cosa che faceva male, dannatamente male, anche perché ero
convinto da qualche tempo di essere riuscito a smorzarne i rigurgiti
più dolorosi). E in ultimo, ma solo perché coinvolgeva una persona che
avevo conosciuto da molto meno tempo, quello che è capitato al vecchio
Aristide. Le avvisaglie che qualcosa non andava le ebbi circa una
settimana fa, per l’esattezza un lunedì sera, durante il solito
giretto in bici. Non l’avevo visto nel fine-settimana, a causa di
un’insistente perturbazione di fine estate, che aveva imperversato con
pioggia e temperature autunnali ben poco affascinanti. Avevo appena
appoggiato i piedi a terra, fuori dalla rete di recinzione, quando la
figura che si affrettò ad uscire dalla casa di Aristide mi lasciò
spiazzato per alcuni, lunghi secondi. Voglio dire, l’amico non era
certo un giovanotto, con i suoi 72 anni portati comunque con
invidiabile disinvoltura, ma la figura traballante che si diresse
nella mia direzione sembrava dimostrarne almeno il doppio. La sua
espressione era sofferente, il colorito spiacevolmente terreo, quasi
grigiastro, e mi strinse il cuore nel vedere come trascinava i piedi
sul vialetto ghiaioso che portava al cancello. Abbozzò un mezzo
sorriso, per niente rasserenante, leggendo nei miei occhi tutto lo
sconcerto per quell’improvvisa trasformazione. Tirò un lungo respiro
incerto, come se gli costasse una fatica immane anche solo riempirsi i
polmoni d’aria, prima di parlare. Mi
rendo conto dal suo sguardo che il mio aspetto deve rispecchiare in
pieno come mi sento, esordì con voce fioca e sofferente.
Io non riuscivo a capacitarmi dello stato in cui pareva versare
l’arzillo vecchietto che avevo lasciato in ottima forma non più tardi
di due giorni prima. A-Aristide…
Dio mio…, non riuscii di fare a meno di esclamare, Cosa… cosa le è capitato ? Si
sente male ? Lui ebbe il pudore di non farmi notare tutta
la scontata ovvietà di quella mia infelice domanda. O forse il debito
di energie era talmente elevato, da non poterne sprecare neanche una
goccia per uno dei nostri soliti battibecchi. Si appoggiò alla rete,
dando l’impressione di aggrapparvisi come la rigogliosa edera che ne
infestava la parte inferiore, passandosi una mano callosa sul petto
scarno. Non è stata una buona domenica, per niente, mormorò. Le grosse
dita da ex-meccanico picchiettarono in corrispondenza dello sterno. Questa vecchia pompa sfiatata
che chiamano cuore ha fatto le bizze, l’altra notte,
spiegò. Qualcosa, che tecnicamente poteva essere definito un sorriso
ma che non ci assomigliava affatto, gli increspò il volto cereo, come
un’antica ferita riapertasi improvvisamente. La sa la battuta, no ?,
disse ancora, cercando forse di tirarmi su il morale in qualche maniera
(di tirare su il morale a me !), se
il cuore fa le bizze, io prenderei una guattro sdagioni !
Un patetico gemello di quel sorriso nato male fiorì anche sulle mie, di
labbra, ma solo per un involontario moto di emulazione. Al di là delle
burle, al di là delle freddure più o meno raggelanti, le condizioni di
salute dell’uomo mi preoccupavano non poco. Mi mise al corrente di
com’erano andate le cose, ansimando e prendendosi lunghe pause nel
racconto. Disse che già in passato il cuore gli aveva dato dei
problemi, tanto che prendeva dei farmaci appositi per tenere la
situazione più possibile sotto controllo. Nella notte tra sabato e
domenica si era svegliato con la caratteristica, oppressiva sensazione
di peso sullo stomaco. Non aveva perso tempo, nel dubbio, affrettandosi
a chiamare la guardia medica. Il medico di turno, giunto a casa sua,
aveva preferito non rischiare, richiedendo l’intervento di
un’ambulanza. Ho visto
l’alba al Pronto Soccorso, proseguì con invidiabile spensieratezza,
anche se sinceramente avrei preferito godermela in riva al mare… mi
hanno fatto un sacco di domande, un bell’elettrocardiogramma completo
ed esauriente, e poi mi hanno tenuto… com’è che han detto… in
osservazione per un bel po’ di ore… Ma sa, cosa vuole, in ospedale non
hanno tempo da perdere, per cui o fai qualcosa di particolare per
suscitare il loro interesse, tipo tentare di tirare le cuoia, o
altrimenti fai presto ad andare giù nella classifica d’interesse… Mi
hanno detto di ”riguardarmi”, e mi hanno spedito a casa… E difatti sono
qui che mi “riguardo”…
Qualcosa, nelle sue parole, non mi convinceva troppo. Sì, d’accordo,
negli ospedali, e nei Pronto Soccorso in particolare, non brillano
sempre per premurosità e sensibilità, in fondo hanno il loro bel da
fare per fronteggiare nel migliore dei modi ogni tipo di emergenza, ma
la sbrigativa conclusione del racconto del vecchio… non so come
dire…mi dava molto più l’idea che avesse insistito lui per cambiare
aria. Magari firmando per essere dimesso nonostante il parere contrario
dei sanitari… Borbottai lì le solite frasi di circostanza, ancora
choccato da quella situazione, raccomandandogli di non fare sforzi, di
tenersi controllato. Che sì, avevano ragione quelli dell’ospedale, a
dire che doveva darsi una regolata. La faccia gli si corrugò in
un’espressione sconsolata.
Se il tragitto da dentro fin qui al cancello va considerato come una
faticaccia improba “da cui riguardarsi”… beh…forse sarebbe meglio
mettersi a ballare il boogie-boogie fino a farselo scoppiare, ‘sto
cuore… almeno fin che tien botta ce la si spassa… Restammo
in silenzio, uno di fronte all’altro. Sulla ciclabile alle nostre
spalle transitò un rumoroso drappello di ragazzini in sella a
biciclette di varie forme e colori, e le loro risate spensierate
parvero persistere nell’aria anche dopo la loro scomparsa dietro i
filari di viti. Perché
non poter restare a quell’età a vita ?, pensai con
assoluta mancanza di originalità. Nel frattempo, il silenzio tra me
e Aristide sembrava quasi essere una presenza fisica, tangibile. Di
cosa diavolo parli con uno che ha appena rischiato di lasciarci le
penne ? Non certo dell’ultimo, stupido sceneggiato tivu. O
dell’estate che sembrava inesorabilmente finita (soprattutto
utilizzando il termine “finita”, per carità !). Né tantomeno di uno
stupido viottolo presunto magico, non vi pare ? Non vi pare ?!?
E se quello fosse stato il momento ideale per caricarmi in spalla il
vecchiotto (già era un peso-piuma, e poi immagino che la
disavventura passata lo avesse prosciugato ancora un pelo) e correre
a gambe levate al di là di quel ponticello ? Se non succedeva nulla,
amen. Ma se al contrario quel posto qualcosa faceva…
Non mi mossi, perdendo l’unica occasione a mia disposizione per
tentare un “colpo di matto” del genere, anche se in quel momento ne
ero assolutamente all’oscuro. E, soprattutto, era una cosa che non gli
auguravo per niente. Rimasi lì, a frugarmi nella mente alla ricerca
di una parola, di una frase, di un argomento, anche stupido (sicuramente
stupido) che frantumasse quell’orrenda sensazione di impotenza e
paralisi. Frugai e rifrugai, ma all’interno della mia scatola cranica
pareva esserci solo aria e qualche balocco di polvere. La brutta copia
di Aristide restava aggrappato alla rete di recinzione come vittima
di un incantesimo “pietrificante”, facendo balenare nella mia
mente immagini non richieste di deportati ebrei dietro il filo spinato
dei lager. Dalla porta socchiusa della cucina sbucò fuori un gattino,
molto più piccolo degli abituali frequentatori a quattro zampe, che
dopo aver annusato un po’ l’aria decise di accomodarsi sulle zampe
posteriori, al centro degli scalini. Aveva il pelo quasi totalmente
nero, fatta eccezione per una minuscola macchiolina a forma di stella
al centro del petto. Sbattei le palpebre, come se fossi al cospetto di
un miraggio, anziché di una presenza reale. Ehi, mi sbaglierò ma quello
sembra proprio la copia ridotta di Stella !, esclamai,
per la prima volta in vita mia grato ad un puzzoso felino, per avermi
dato lo spunto per rompere quell’inquietante silenzio, che sia un suo cucciolo ? Aristide
gettò una rapida occhiata dietro le spalle. Oh bè, suppongo di sì,
dichiarò convinto, anche
se sa com’è… i gatti in campagna… non si ha proprio modo di star
dietro alle loro attività procreative… fissò ancora una
volta il minuscolo animale intento a passarsi una zampetta dietro le
orecchie con minuziosità tutta “gattesca”, in effetti sembrava essere
sparita dalla circolazione, la vecchia Stella, e quello è un chiaro
indizio che aveva qualcosa in programma… quello o il fatto di essere
finita sotto un camion, di solito… strano, a dire il vero non è ancora
saltata fuori, chissà in quale buco è andata a infilarsi…
Io manco mi ero reso
conto che fosse gravida, avrei voluto aggiungere, poi
considerai che l’osservazione dei gatti non faceva parte delle mie
attività preferite, e sorvolai.
Rimanemmo lì a chiacchierare (e a starcene zitti) ancora per un po’.Lui
mi disse di non preoccuparmi troppo, che l’erba cattiva non muore mai.
Io ribattei che non mi preoccupava il suo stato di salute in
particolare, ma solo il fastidio di dovermi trovare, nel caso, un altro
rompianima al suo livello con cui polemizzare. In alcuni momenti
ridemmo di gusto, e poi “battibeccammo” con somma goduria, come ai
vecchi tempi. Dopodichè, mentre l’inesorabile accorciarsi delle
giornate cominciava a scurire il cielo verso ovest (e notoriamente le
fantascientifiche bici dei giorni nostri non prevedono la presenza
del faro, se non su dilettanteschi modelli da città), lo salutai, non
prima di avergli fatto qualche ulteriore, ansiosa raccomandazione.
Se avessi saputo che era l’ultima volta che lo vedevo, forse… che ne
so… avrei detto o fatto qualcosa di più. Ommerda… scusate…
(TLAC)
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Capitolo 5 *** capitolo 5 ***
mondo
10.
(TLAC. RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Qualcosa di più… E cosa? Non potevo certo caricarmelo sulla bici per
tenerlo sotto osservazione, come avevano fatto, forse per troppo poco
tempo, al pronto soccorso. E poi lo sapevamo bene tutti e due, la
nostra non era né più né meno che una labile frequentazione “da rete di
recinzione”. Avrò agito in maniera superficiale, ma non sono riuscito
a farmi venire in mente come faceva di cognome, quella sera, sempre che
me l’avesse detto, e questo ha posto fine al mio temporaneo impulso di
cercare il suo numero di telefono sull’elenco e chiamarlo per sentire
come stava. Sto leggendo un giallo di Connelly, in cui il protagonista
ama affermare che, secondo lui, le
coincidenze non esistono. Non so se abbia ragione o meno,
fatto sta che quando le cose iniziano a prendere una certa piega, forse
non è in nostro potere far molto per modificarle. Il martedì mattina,
il maltempo che nel week-end aveva rovinato le uova nel paniere (da
pic-nic) di molti fece capire alla città di essere stato in realtà
solo il blando “promo” di quello che ci aspettava. Iniziò a diluviare
sul serio, e anche la temperatura si diede da fare affinchè si parlasse
molto di lei. Fino a metà mattina“si vedeva” il fiato, e tutti quelli
che fino alla settimana prima si erano lamentati perché era un agosto
troppo afoso, ebbero modo di cambiare registro, iniziando a dire peste
e corna su un settembre assolutamente anomalo e freddo.
Di conseguenza, dopo l’ufficio e la visita a mia madre, col piffero
che era il caso di inforcare la bici. Molto meglio il divano di
casa, con un quanto mai opportuno plaid sulle gambe. Tutta questa
manfrina per dirvi che non effettuai alcun passaggio dal vecchio per i
tre giorni seguenti. Sì, lo so, se mi stava così tanto a cuore come
dicevo, avrei potuto anche prender su la macchina e fare un salto fin
là. Avrei potuto, come no, non c’era niente che potesse impedirmelo.
Nessuna misteriosa paralisi stile “viottolo”. Non l’ho fatto, e vi
dico subito che non ho alcuna intenzione di farmi prender dentro a
distruttivi sensi di colpa. L’impulso a farlo c’è stato, ma
evidentemente non così forte da costringermi a muovere il culo. Non è
che abbia vissuto ogni attimo di quei giorni col pensiero fisso della
salute dell’uomo. A volte mi veniva in mente, magari nello scorgere
in banca qualche anziano che fisicamente lo ricordava, e in altre
occasioni mi ripetevo che, in fondo, forse non era il caso di lasciarsi
prendere da pensieri troppo catastrofici. Aveva ammesso lui stesso che
si trattava di episodi già accaduti in passato, tanto da seguire una
terapia ad hoc al riguardo. E poi magari erano stati i miei occhi
inesperti a mostrarmelo tanto “malandato”. Non sono medico, di
conseguenza ben poco avezzo a stabilire le condizioni fisiche di un
sofferente di cuore basandomi esclusivamente sull’aspetto esteriore.
C’è gente che sembra pronta per la sepoltura anche solo dopo una notte
insonne per via di qualche disturbo digestivo. Mi dicevo tutte queste
belle cose, mentre contavo con disinvolta professionalità le banconote
versate dai clienti della banca, o ascoltando il cicaleccìo senza capo
né coda di mia madre, inghiottita dalla poltrona della sua stanza, che
la faceva sembrare una bambina accomodata sul sedile di un gigante.
Frugavo dentro me stesso alla ricerca di giustificazioni sempre nuove
ed efficaci, e ciò sembrava soddisfare i deboli tentativi di protesta
della mia coscienza. E poi… voglio dire… non posso tenere sotto
controllo tutti gli eventi del mondo, o in generale della mia vita.
Ritengo di aver ricevuto la mia dose, ottima e abbondante, di energie
da spendere per accudire qualcuno. Sono stato vicino fino all’ultimo
respiro alla mia adorata moglie, e ogni giorno che il Signore manda
sulla Terra mi faccio violenza per varcare le soglie di quell’orrido
posto in cui mia madre veleggia verso la fine del suo cammino. Dovevo
avere un attimo di respiro ! A forza di battere, si piega anche il
metallo più tenace, materiale del quale di sicuro non sono composto
io. In tutta onestà… per carità, con tutto il santissimo rispetto… in
definitiva si trattava di un simpatico signore che avevo conosciuto da
meno di tre mesi, un cordiale chiacchiericcio estivo, ed oltretutto non
era certo un giovanottino.
E ancora, e poi la pianto con questo mio ipocrita “stracciarmi le
vesti”, non era scritto proprio da nessuna parte che se avessi fatto
qualcosa di più… okay, okay, se avessi fatto qualcosa… le cose
sarebbero andate diversamente.
Credo di essermi reso conto che qualcosa doveva essere successo,
qualcosa di serio, non appena imboccato il lungo tratto di ciclabile
costeggiante la statale. Era venerdì sera, il tempo dava l’idea di
essersi messo in un precario stand-by, con ampi nuvoloni non proprio
amichevoli rassegnati per il momento a tenersi alla larga lungo la
linea dell’orizzonte. Avevo indossato la mia felpa da mezza stagione,
percorrendo il tragitto da casa fino a quel punto con una decisa
andatura sostenuta. Non proprio da scampagnata. Una volta superato il
ponte di Debba, svoltai a sinistra per immettermi sul tratto di pista
che portava al viottolo. Come ripeto, la visione in lontananza della
casa di Aristide mi suscitò una strana sensazione, spiacevole quanto
basta. Dal punto di vista generale non aveva proprio niente che non
andasse, i balconi dietro i brutti serramenti d’alluminio erano
spalancati come sempre, e il fatto che nel piccolo giardino stazionasse
solo il consueto gruppetto di galline, al momento, non significava
proprio un bel niente. E comunque l’impressione che ne avevo, come se
l”abbandono” e il “vuoto” potessero essere connotati, che ne so, da un
colore, una vibrazione, una luminosità particolare, non mi stava
suggerendo niente di buono. Accostai alla rete di recinzione, come
avevo fatto per innumerevoli sere, armeggiando per togliermi il poco
dignitoso caschetto protettivo. E fu allora che mi avvidi della
figura seduta sugli scalini della cucina, un po’ di trequarti, che non
si scorgeva dalla strada a causa di un cespuglio che ne impediva la
vista. Si trattava di un ragazzo, dell’età apparente di circa 16-17
anni, intento a giocherellare con il cucciolo di Stella. Gli agitava
davanti al nasino rosa un lungo stelo d’erba, e il gattino sembrava
indemoniato per non riuscire ad afferrarlo tra gli artigli. Non ebbi
nemmeno il tempo di chiedermi chi potesse essere. Alzò gli occhi verso
di me, fissandomi serio e silenzioso. Io sollevai una mano in cenno di
saluto, trasformando subito dopo il mio gesto in un cortese invito ad
avvicinarsi. Alle sue spalle, la casa insisteva ad irradiare quella sua
desolante aura di vuoto e abbandono, e io avvertii l’interno della
bocca inaridirsi come se avessi appena percorso una decina di
chilometri lungo un’impegnativa salita. Ehi... s-salve !,
esclamai con voce malferma, non appena fu nei pressi del cancello, chiedo scusa, il signor
Aristide… è in casa ? Il giovane si scostò con un gesto
impacciato il folto ciuffo di capelli che gli era scivolato sugli
occhi, lanciando un fugace sguardo alle spalle
(Merda,
ricordo nitidamente di aver pensato)
Si accostò ancora un po’ alla rete divisoria, mentre il gattino sugli
scalini fissava con sguardo perplesso e deluso il filo d’erba
inspiegabilmente inanimato. Tentò di “risvegliarlo” con alcuni
rapidissimi colpetti di zampa, non ottenendo alcuna soddisfazione. Buonasera…, mi
salutò educato il ragazzo,
lei… era… un amico ? Quel verbo, pronunciato in forma
passata, sembrò cadere tra noi con tutta la pesantezza di un immenso
macigno. Mi passai una mano sulla faccia improvvisamente accaldata,
deglutendo a fatica.
Aristide… è… è…, fu tutto quello che riuscii a spiccicare,
con la mia solita, detestabile incapacità di pronunciare frasi che,
in qualche modo, descrivano realtà oggettive (e impossibili da
modificare) di cui io non intendo affatto essere messo a conoscenza.
Lui tornò a scrutare in direzione delle finestre della casa, alla
probabile ricerca di un conforto, o un aiuto, da parte di qualcuno che
in quel momento non si faceva vedere. Mercoledì mattina,
disse, senza il minimo bisogno di dover star lì a specificare dove,
come, cosa, chi, il… il
cuore… Avvalorò quella sua superflua precisazione
battendosi il petto con le dita, in un gesto che mi ricordò in maniera
straziante quello fatto del vecchio la sera del nostro ultimo incontro.
Avvertii una sorta di capogiro tentare di avere la meglio su di me, e
dovetti appoggiarmi pesantemente al sellino della bici, per evitare di
finire a gambe all’aria. Il cortese giovane mi invitò ad entrare,
offrendosi premuroso di andare a prendere una sedia, ma io declinai
quella gentile offerta, anche se in quell’istante sarebbe stato molto
meglio se mi fossi seduto. Se non addirittura sdraiato. Risposi no,
grazie, ritenendo in qualche assurdo modo di rendere così onore alla
frequentazione “da rete di recinzione” che non avrebbe previsto ormai
alcun sviluppo futuro. E così, mercoledì mattina, magari proprio
mentre io mi sorbivo le eterne e immutabili lamentele della contessa
Volpi sull’aumento dei tassi d’interesse, quello strano omino si
sentiva male e… e… Sì, certo, non era successo certo a causa delle
lamentele dell’anziana nobile (e ancora meno perché io non mi ero
fatto vivo, forse) ma comunque, per un breve e terribile attimo,
apprezzai tutta l’orrenda inutilità della commedia della vita. Passò
subito, essendo una rivelazione troppo gravosa per qualsiasi essere
umano (venirne esposti più a lungo al suo pernicioso influsso può
istigare al desiderio di farla finita) ma gli strascichi amari che
lasciò in me non si dissiparono tanto facilmente.
Gli occhi mi si velarono, e vi passai sopra il dorso della mano. Tutto
lì. Nessuna plateale lacrima rotolò lungo le mie guance. Quelle le
avevo spese per Sandra e, in certi terribili giorni, per la condizione
di mia madre. Però fu sufficiente così, almeno a mio personalissimo
parere. Era una frequentazione da “rete di recinzione”, e il dolore che
provavo, in intensità e forma, era il giusto tributo nei confronti di
quella brava persona. Il giovane mi raccontò di essere il nipote
(figlio dell’unica figlia di Aristide, presumo), che lui e la madre
erano stati avvisati dell’accaduto da alcuni vicini, recandosi subito
all’ospedale per le formalità di rito. Avevano dato disposizione
affinchè la salma venisse tumulata in un cimitero nella zona in cui
abitavano, dalle parti di Torreglia, e adesso erano lì per vedere di
sistemare un pò la casa, dato che era stata una cosa assolutamente
improvvisa. La madre era dentro da qualche parte, e lui mi chiese se
avevo piacere che la chiamasse fuori, così, per fare la sua
conoscenza. Ci pensai alcuni istanti, decidendo di lasciar perdere.
Non avevo alcuna voglia di star lì ad osservare espressioni meste che,
sulla base di quello che mi aveva raccontato Aristide riguardo ai
rapporti con il parentado, non sarei stato in grado di stabilire
quanto sarebbero state sentite. Lo ringraziai, borbottando qualche
giustificazione poco credibile, ma lui accettò senza ribattere la mia
decisione. Restammo lì in silenzio, per alcuni lunghi attimi, e la
nostalgia delle cordiali chiacchierate tra me e il nonno del giovane si
acuì. Subito dopo, alquanto assurdamente, mi venne la curiosità di
sapere se il ragazzo fosse sensibile o meno al viottolo dietro le mie
spalle. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, mormorò: peccato non averlo conosciuto
meglio, anche perché aveva la fortuna di abitare vicino ad un posto da
favola. Lo fissai piacevolmente stupito, osservando il suo
sguardo inequivocabilmente puntato sul ponticello. Il fatto che anche
lui fosse in grado di apprezzare la bellezza di quell’angolo agì come
una sorta di benevola scossa elettrica in me, e l’angoscia di quella
tragica notizia sembrò perdere buona parte della sua maligna influenza.
Dev’essere una dote di
famiglia, ricordo di aver pensato. Per un fugace attimo mi
venne il dissennato impulso di invitarlo a passare al di là del ponte,
ma grazie al Cielo qualche residuo di razionalità lo fece svanire
all’istante, facendomi notare che avevo già causato abbastanza casini
con quei miei improvvisi e provocatori colpi di testa. M’informai sulla
sua età, e lui mi disse che aveva diciannove anni. Era stata forse la
sua statura non eccessiva a farmi attribuire un paio d’anni in meno.
Anche quella doveva essere una caratteristica legata al grado di
parentela, in fondo anche il padre di mio padre esibiva una pelata in
tutto simile a quella che mi porto in giro. Un lieve imbarazzo, logica
conseguenza del fatto che altre grandi cose non restavano da dire,
avvolse le nostre figure immobili. Le galline becchettavano
indisturbate tra il ghiaino rado del cortile, sotto il vigile controllo
dello sguardo attento del piccolo gatto nero. In quell’istante, quasi
per aiutarci nel trovare una conclusione a quel nostro dialogo, la
tenda della finestra della cucina si scostò. Intravidi una figura di
giovane donna, che si sporse per un breve attimo, invitando il ragazzo
(non lo chiamò per nome, che restò così una mia curiosità non
soddisfatta) a raggiungerla per darle una mano con un cassetto che non
voleva aprirsi. Poi fu ringhiottita dall’interno in penombra, mentre a
me restava l’impressione di un lieve sorriso di saluto. Il ragazzo si
voltò per rientrare, dopo essersi cortesemente congedato.
Risalii in sella, allontanandomi da lì con la netta sensazione che i
grossi nuvoloni gonfi di pioggia si fossero trasferiti in blocco dentro
di me. E che il vuoto che avvertivo in fondo alla mia anima non si
sarebbe riempito facilmente.
Sempre che ci riuscissi, a riempirlo in qualche modo. In quel momento,
e nei giorni immediatamente successivi, non avevo proprio la più
pallida idea di come avrei fatto.
(TLAC)
11.
(TLAC)
Signori miei, sono depresso. Che poi non è altro che un modo carino e
generico per definire uno stato di merda. Né più né meno quello in cui
mi sento di essere invischiato. Non avevo la minima voglia di
trascinarmi fin qui al tavolo e riprendere la mia folla chiacchierata
solitaria davanti a questo microfono. Anzi, vi dirò di più. Nell’attimo
desolatamente più basso di questa mia poco invidiabile condizione,
mentre mi rigiravo insonne in un letto che sembrava volermi avvinghiare
a sè con tentacoli fatti di lenzuola sudate e soffocanti, l’impulso
sarebbe stato quello di scendere di sotto, prender su registratore e
cassette, registrate e non, e concludere la loro esistenza sul fondo
della pattumiera. Ma, grazie al cielo, la qualifica di depresso
comporta senza alcuna aggiunta di spesa anche quella di indolente, di
conseguenza il mio corpo inerte non assecondò per niente gli imperiosi
ordini di un cervello in subbuglio. Anche in questo momento, in ogni
caso, non è che le cose vadano tanto meglio. Il desiderio di allungare
un dito in direzione del tasto di stop è assolutamente irresistibile,
magari dopo aver infarcito quel che rimane del nastro con
un’interminabile serie di grugniti, insulti e termini incomprensibili,
quale demente epitaffio. Parole inventate, impossibili, zeppe solo di
consonanti dure e ghignanti, una litania sgraziata e aliena di
inesistenti codici fiscali. Perché ? E perché no ? Tanto… ops, stava
per sfuggirmi, e non so se il mio instabile equilibrio avrebbe
sopportato di sentirlo pronunciare. Avrei rischiato di fare a pezzi non
solo l’incolpevole registratore Panasonic XP posato qui sopra la
superficie lucida del tavolo, ma forse anche buona parte del mobilio di
casa. Di cosa sto parlando ? Di
una frase. Ve l’ho detto che sto sragionando ma, vedete,
c’è appunto una frase che io non riesco a reggere, e che mi sono
ripromesso di non utilizzare MAI. E’ stata uno dei cavalli di battaglia
di mia madre, che non perdeva occasione di sbandierarla ad ogni piè
sospinto. E la cosa curiosa e inquietante allo stesso tempo è che ha
cominciato ad usarla solo dopo il ricovero in casa di riposo, anche se
è da un po’ che (grazie a Dio) non gliela sento utilizzare. Anche se ho
la sgradevole impressione che sia perché è più sotto sedativi che non
cosciente, se così si può definire il suo stato di perenne assenza. In
ogni caso, non appena “strappata via”dalle sue cose di tutti i giorni,
e costretta in quel posto neutro e caotico, ha iniziato a commentare
che “tutto è inutile”. Sulle prime mi sembrava una frase come tante
altre, e riferita ad alcuni particolari aspetti non suonava neanche
tanto fuori luogo. Né tantomeno irritante. E’stato quando l’ha
trasformata nel suo “tormentone” preferito che la faccenda ha preso
tutta un’altra piega. Non era più una frase, un commento innocuo e
generico, ma una sorta di orrendo “manifesto programmatico” di come
lei vedeva la propria vita, e faceva venire i brividi il tono
rassegnato e sconfitto con cui la sputava fuori, neanche fosse intrisa
di un liquido amarissimo. Incominciò fin da subito a darmi sui nervi,
ma come in tutte le cose ritenevo che bisognasse portare pazienza, e
lasciar passare un po’ di classica acqua sotto i ponti. Non servì a
molto, anzi, da infastidito che ero nella fase in cui la pronunciava
spesso, divenni presto molto preoccupato nel rendermi conto che
cominciava ad essere l’unica cosa che le usciva dalle labbra. Iniziai a
temere il momento in cui mi sarei affacciato alla porta della sua
stanza, col cuore in tumulto nell’attesa di conoscere con quali parole
avrebbe salutato il mio arrivo. Avrei sopportato mille volte che mi
scambiasse pure per qualche lontano parente, foss’anche quel suo zio
morto negli Stati Uniti dov’era andato in cerca di fortuna. Tutto, ma
non quell’orrendo “Tanto è tutto inutile”.
Quando smise di farne uso (o perlomeno lo limitò sensibilmente) mi
sembrò di risvegliarmi da un incubo. Non so, forse troverete che tutto
ciò sia esagerato, ma ognuno ha le sue, e quello che manda fuori dai
gangheri voi magari a me non fa né caldo né freddo. Alla fine mi
ripromisi di non pronunciare mai quella dannata frase, neanche se
avesse costituito la risposta esatta ad un quiz in cui c’era in palio
un montepremi da favola. Non fu neanche troppo difficile, mantenervi
fede. Non è come spergiurare di non utilizzare mai e poi mai, che ne
so, buongiorno o buonasera o qualcosa di altrettanto usuale. Nel caso,
esiste tutta una vasta gamma di sinonimi e giri di parole per esternare
quel concetto tabù. Vaffanculo. Oh, è proprio l’ideale, quando si ha
l’umore sotto la suola delle scarpe (ma molto sotto) infognarsi in
riflessioni su argomenti in grado di affossarlo ancora di più. Sono
stanco. Stanco e stufo.
Che differenza fa ? A pezzi fisicamente, e con due coglioni grandi
così. Abbastanza illuminante, come interpretazione ? L’altro giorno
vi parlavo, disquisendoci sopra come se si trattasse di un noioso
trattato scientifico, dei tre livelli di batoste. Puntualizzando come
‘ste stronze prediligano muoversi in branco, simili a sanguinari
predatori, e in qualche maniera lo sono anche. Fanno a pezzi l’anima
anziché la carne, ma lo strazio che provocano è tale e quale. O forse
maggiore. In ogni caso, la mia bella corriera carica di batoste sembra
proprio non voglia piantarla di girarmi attorno. Di assediarmi. C’è
il dispiacere della scomparsa di Aristide, ad esempio, che mi saluta
ghignante e crudele al di là dei vetri, facendomi segno col dito come
se ripetesse ci sei di
mezzo anche tu !. Non sono più riuscito a prender su la
bici, nè tantomeno ad ipotizzare di riuscire a percorrere nemmeno un
metro di quella pista ciclabile. Oh bè sì, mi rendo conto che non è
l’unico luogo al mondo dove si può eventualmente fare un pò di
pedalate, ma avete capito cosa intendo, no ? E’ il concetto, il senso
di cosa comportasse vestirsi da idiota e spendere qualche mezz’ora
della propria vita in bilico sul sellino di una bici. Non sarei in
grado di rifarlo, per il momento, la testa mi si affollerebbe di
immagini e parole, di ricordi di dolci sere di mezza estate, di un
vecchio bizzarro e simpatico, di un posto che doveva fare qualcosa e
invece ci ha deluso come il novantanove per cento delle cose della
vita. Tutto questo mi osserva maligno da dietro i vetri di
quell’ipotetico pullman della “Batosta Tours”, che insiste a ronzarmi
intorno come uno squalo famelico. Per cui me ne resto qui, stravaccato
sul divano, con tanti cari saluti ai buoni propositi di fare un pò di
moto. E, nel frattempo, la ciccia mi si accumulerà sui fianchi, i
trigliceridi e gli altri perniciosi cazzi aumenteranno allegramente la
loro presenza nel mio organismo, indurendo le arterie sino a
trasformarle in bizzarre formazioni coralline. Che inevitabilmente mi
faranno gentile omaggio di un bel infarto. O magari dell’inebriante
esperienza di un ictus cerebrale. Prima o poi. Per com’è messo il mio
umore in questo momento, sempre troppo tardi rispetto alle
aspettative. Tutto ciò mi frulla senza sosta nella testuggine, e poi
altre cose, ancora più velenose. In grado di preoccuparmi e
terrorizzarmi nello stesso istante. Da alcune sere, mentre sono solo
in casa, senza la minima voglia di far niente, nè mangiare né leggere
né accendere la tivu, mi sono accorto che incomincio a guardare le
cose. Guardo determinate cose. Il posto vuoto davanti a me, ad
esempio, sulla piccola tavola della sala da pranzo. Oppure l’altra
metà del divano, con la sconcertante sensazione che sia vasto come il
deserto del Sahara. E naturalmente la porzione di letto non occupata
dal corpicione del sottoscritto. Avete capito cosa sto cercando di
dirvi, no ? Comincia a mancarmi. Ricomincia
a mancarmi. Intendiamoci, non è cambiato nulla. Penso a lei e la
rimpiango e ne sento la nostalgia ogni singolo minuto di ogni giorno
della mia vita, come sempre. Solo che dovrebbe riguardare un’assenza
dal cuore e dalla mente, com’è giusto che sia. E invece da un po’ la
cosa si sta trasferendo anche sul piano fisico, ritornando a
meccanismi che pensavo…
speravo… di esser riuscito a debellare da un bel po’ di
tempo. Com’è giusto che sia, anche questo. Agli inizi, immagino sia
comprensibile, mi ritrovavo a bloccarmi giusto un istante prima di
rivolgermi a lei, di formulare una frase, una domanda, un discorso che
sarebbe echeggiato nella stanza vuota e silenziosa. E in altre
occasioni vivevo la netta e spiazzante sensazione di udire i suoi
passi, i suoni e i rumori che produceva muovendosi dentro casa, e che
conoscevo alla perfezione. La chiamano abitudine, ma è assolutamente
riduttivo definirla così. Al contrario, mi piace credere che sia un
po’come il corrispettivo emozionale di chi afferma di sentire ancora
l’arto che gli è stato amputato. Ma dopo un po’, un po’ che varia a
seconda di ognuno, tanto non c’è proprio fretta nel cercare di
riaggiustare i pezzi della propria vita, ci si dovrebbe trovare su un
punto di vista diverso. Per fare un esempio geografico, all’inizio di
tutto un’intrico di strade e viottoli, più o meno ampi o invitanti o
dissestati. E, volenti o nolenti, la scelta deve cadere su uno di essi.
E’ inevitabile. C’è la via della disperata ricerca di aiuto,
aggrappandosi ai figli, al proprio lavoro o alla fede, o magari ai
moderni “sortilegi” di medici e psicoterapeuti. La scorrevole e
affascinante autostrada dello sconforto e della depressione, in cui è
facile lasciarsi andare giù seguendo l’onda, pur se il pedaggio
finale, nella maggior parte dei casi, è drammaticamente salato. E poi
ancora il sentiero impervio e, a prima vista, impraticabile del
venirne fuori con le proprie forze, il cui costo è altrettanto
proibitivo ma almeno si sta investendo in qualcosa di positivo, una
sorta di precario equilibrio, un’oblìo in cui i ricordi e gli oggetti
non sono più così affilati e taglienti. Ma in ogni caso, Dio santo, da
qualche parte bisogna decidersi di andare. Non si può, è assolutamente
impossibile restarsene ancorati alle sensazioni iniziali, alla
rassegnazione e all’incapacità di farsene una ragione. Sarebbe come
decidere di rivivere all’infinito, ogni giorno che passa, la stessa,
straziante esperienza. Se c’è qualcuno che si è arreso ad un’inferno
del genere, ha tutta la mia impotente compassione. Personalmente
non mi ritengo insensibile, né tantomeno privo di cuore, se nel giro di
una ventina di mesi sono riuscito a rimettermi in piedi, bene o male,
se guardo sciocchi presentatori tv porre domande elementari a
concorrenti ancora più idioti, se mi godo qualche bel film o uno
stimolante romanzo, se le barzellette di quella sagoma dell’ufficio
prestiti mi fanno piegare in due dalle risate. Non sto mancando di
rispetto a niente e a nessuno. Sono due livelli diversi. C’è quello che
si è perso, la parte strappata via lasciando una ferita che non potrà
mai più cauterizzarsi, e la vita.
Però, come ripeto, non dovrebbe essere prevista la possibilità di
ritornare sui propri passi, qualunque sentiero si sia scelto di
imboccare all’inizio. Ed invece ho come la spiacevole consapevolezza
che stiano facendo ritorno sensazioni e pensieri che speravo di aver
seminato lungo il cammino, e tutte paiono aver affilato a puntino le
loro lame scintillanti con cui cercheranno di farmi a pezzi. Al di là
di tutte queste belle metafore, non so proprio cosa fare, come
comportarmi. Che occorra, forse, infilarsi di gran carriera in una
delle altre strade ? Magari in quella che porta ad accettare l’aiuto di
un medico, cospargendosi la testa di cenere per la presunzione di aver
creduto di potercela fare da soli ? Che ne so ?! E’ la prima volta che
mi capita di subire una perdita tanto grave, e tutto quello che ho
fatto in seguito è frutto dell’ascolto del mio cuore e della mia testa.
Senz’altro lodevole, come sistema, ma evidentemente insufficiente, a
quanto pare.
E’ strano, che mi sia uscita così di getto quest’immagine dei viottoli.
C’entrerà qualcosa ? Con quello che conosciamo ormai bene, intendo ?
“Le coincidenze non esistono”, sogghignerebbe l’impavido detective
protagonista del thriller che tengo sul comodino, e io purtroppo non
sono né impavido né sogghignante. E in ogni caso, in questo momento
preciso, non ci sarebbe niente in grado di spingermi ad andare di nuovo
a titubare sul ciglio di quel ponticello. Non con l’umore così a terra,
e la voglia impellente di spaccare tutto, o di lasciarmi affondare
negli abissi di qualcosa che non so nemmeno definire. Via dal nero e dentro nel blu,
ripeteva il ritornello di una canzone di Neil Young in voga in tempi in
cui credevo ancora che potessimo cambiare il mondo, e di vivere in
pace, amore e musica. Oh, il cambiamento c’è stato, come no, solo che
non è andata proprio come pensavamo. E’ il mondo che ha cambiato noi,
come sempre è stato e sempre sarà. Amen.
(TLAC)
(TLAC)
Ma vi pare normale ? Star qui a riempire cassette che mai nessuno
ascolterà (visti gli argomenti è una cosa che auspico con tutto il
cuore), come se fosse una sorta di dissennato diario delle sventure di
un uomo. Forse sarebbe il caso di farne un bel pacco e spedirlo al
primo psichiatra che trovo sulle pagine gialle, anziché scervellarmi su
dove eventualmente lasciare questo mio memoriale magnetico. Con
preghiera urgente di fissarmi un appuntamento. Mmh, a pensarci bene non
sarebbe proprio una cattiva idea. Molto economica, oltretutto. Lo
strizzacervelli potrebbe ascoltarsi con tutta calma quello che io sarei
in grado di esternare solo dopo svariate sedute, e questo lavoro
preliminare non andrebbe a gravare sul mio conto corrente. In modo che
quando mi presenterò nel suo bell’ufficio luminoso, potrà andare a
colpo sicuro nel prescrivermi la terapia più adeguata. Via dal nero e dentro nel blu,
caro vecchio Neil… Anche se di blu, in questo momento, nella mia vita
ce n’è ben poco. L’unico che mi viene in mente era quello del cielo
sopra la casa di Aristide, che assisteva in silenzio ai nostri
rimpianti battibecchi. Per quanto riguarda il nero, invece…Oh, c’è
forse qualcuno che ne desidera qualche tonnellata a prezzi più che
vantaggiosi ?
Ho letto da qualche parte che le grosse manifestazioni depressive,
nelle quali mi sento iscritto d’ufficio, “esplodono” in seguito
all’intervento improvviso e inaspettato di un’innesco emozionale, una
sorta di miccia collegata ad una catasta di dinamite costituita da
tutto quello che vi ho elencato fin qui. Nel mio particolare caso, è
successo oggi pomeriggio, in casa di riposo. Mia madre ha causato il
ferimento, involontario ci mancherebbe, di una delle ospiti che
dividono la stanza con lei. Era seduta nella solita mega-poltrona,
impegnata a raccontarmi tutto un complicato aneddoto di quando, assieme
ad un’amichetta, percorreva una ventina di chilometri a piedi, con ogni
tempo, per poter frequentare le scuole elementari. Il fatto che ne
parlasse come se l’episodio si fosse svolto nella mattinata appena
trascorsa era un particolare a cui ormai ci avevo fatto il callo.
All’improvviso, davanti alla porta della stanza è transitato qualcuno.
Non ho avuto modo di registrare chi fosse, se si è trattato di un
inserviente piuttosto che un medico o qualche visitatore, e in ogni
caso non è affatto determinante. Mia madre puntò un dito oltre le mie
spalle, prendendo a sbraitare che era la solita bambina cattiva che
ogni santo giorno le rubava il panino col burro e lo zucchero. Come
d’abitudine nei confronti di quei colpi di testa, ritenetti che qualche
rassicurazione a bassa voce sarebbe stata sufficiente, ma non quel
giorno. Con una vitalità insospettata, scattò in piedi continuando ad
urlare ed a agitarsi come tarantolata. Il suo braccio sinistro cozzò
contro il carrellino su cui depositano il vassoio dei pasti che fu
scaraventato addosso al comodino facendo volar via vari oggetti, un
giornale, mezzo pacchetto di caramelle, un piccola immaginina della
Madonna di Monte Berico e, ultimo ma non per questo meno importante, un
vaso di vetro contenente un mazzo di fiori ormai appassiti. Il vaso
compì un breve volo nell’aria, senza che io riuscissi in alcun modo ad
afferrarlo (intralciato dalla figura minuta di mia madre che insisteva
a tempestarmi di pugni lievi e deboli, ordinandomi di correre dietro a
quella ladruncola) concludendo la sua traiettoria giusto sulla testa di
un’anziana intenta in quell’istante a sonnecchiare placida nel letto di
fianco. Il bordo tagliente dell’imboccatura del vaso le causò un
innocuo taglietto di un paio di millimetri sulla fronte, ma il sangue
che ne sgorgò fuori dava l’idea che la sventurata fosse stata
decapitata all’istante. Si risvegliò di soprassalto, osservandosi per
un istante, coperta di sangue e con tutti quei fiori rinsecchiti a
farle da corona, come se l’avessero piazzata a tradimento nella camera
ardente. Subito dopo, prese a urlare con tutto il fiato che aveva in
gola, unendosi all’assordante performance di mia madre. Per un lungo,
interminabile attimo fu il loro improvvisato duo a fare il diavolo a
quattro poi, come un inarrestabile incendio in un’estate torrida,
l’agitazione si propagò a tutto il reparto. Fu una cosa fulminea e
terrificante, che al solo pensarci mi fa ancora rizzare ogni pelo del
corpo. Non so se vi è mai capitato di assistere a quello che accade in
un pollaio quando un pennuto idiota si lascia spaventare da qualcosa.
E’ questione di un attimo, prima che il panico più cieco contagi ogni
singolo esemplare, spingendoli addirittura a calpestarsi sino alla
morte. Grossomodo è quello che è successo al secondo piano della casa
di cura. Beh, certo, nessun anziano ci ha lasciato le penne, anche se
dal frastuono assordante pareva l’esatto contrario, ma tutti si sono
messi ad urlare e a gemere e a strepitare. E’ finita con un task-force
di efficienti infermieri che si è sparsa tutt’intorno, simile ad una
squadra dei corpi speciali dell’esercito, ognuno con la sua bella
licenza non tanto di uccidere, ma bensì di somministrare dosi cavalline
di sedativo ai più esagitati. Tra i quali andava annoverata di diritto
la mia genitrice e, nel suo caso specifico, siamo stati costretti a
tenerla ferma in due, prima di riuscire ad abbatterla. E tenete
presente che mia madre peserà sì e no cinquanta chili, e sembra un
uccellino appena caduto dal nido.
Potete immaginare con che stato d’animo sono venuto via da là. Anzi, mi
auguro per voi che la vostra capacità d’immaginazione sia molto
inferiore a quello che ho realmente provato io. E continuo a provare.
Inesistenti signori miei, non vi posso garantire in alcun modo che ci
saranno ulteriori occasioni di continuare questa mia solitaria
chiacchierata. Adesso come adesso, è più no che sì. Provo a pensarci un
po’, a dormirci su. Dicono che la notte porti consiglio, e qualche
volta funziona.
Certo che dovranno essere con le contropalle, quei suoi consigli, per
riuscire a farmi intravedere un po’ di luce in tutto questo casino.
Via dal blu e dentro nel
nero, ve l’ho detto. Dritto e di filato.
Buonanotte.
(TLAC)
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Capitolo 6 *** capitolo 6 - Finale ***
mondo
12.
(TLAC)
(TLAC)
Sì ? Sì… sta andando ? Okay. Bene. Allora… non so assolutamente come
(TLAC)
(silenzio)
(TLAC)
Scusate. Scusate. Credo di aver parlato per cinque minuti come un
idiota prima di accorgermi che la cassetta non stava girando. E’ che
sono così agitato che sembra che le mani stiano ballando il
boogie-boogie, come diceva il vecchio Aristide. Quel dannato furfante,
mi ha fregato, sapete? Già, ci ha proprio fregato bene. Di cosa sto
parlando? Sì, un secondo, se riesco a mettermi tranquillo e calmare il
cuore impazzito, vi dirò tutto. Cavoli, non riesco neanche quasi a
prender fiato…
Dunque… io credo di… di aver capito
tutto! E’stato una specie di lampo, di rivelazione
improvvisa e choccante. Mi è diventato tutto chiaro, da un momento
all’altro, e ora so perfettamente cosa intendeva dire quando parlava
dei pulcini. E di come mai ad un certo punto ha cominciato a
gironzolare quella minuscola copia sputata di Stella, mentre della
gatta originale non c’era più la minima traccia… Oh Dio, è così pazzesco!
Ma vediamo se mi riesce di cominciare dall’inizio. Ho fatto un salto in
cimitero, nella pausa pranzo, per vedere se un po’ di psicoterapia
spicciola, seduto come al solito sul marmo freddo, mi poteva
risollevare un pelo da quell’abisso di sconforto in cui stavo
sguazzando da alcuni giorni. Fissavo gli occhi profondi di mia moglie,
che già in passato erano stati in grado di fare luce dentro di me,
anche se in quel momento la cosa non sembrava funzionare più tanto. In
ogni caso, comunque, me ne stavo lì a perdermi nel suo sguardo appena
coperto da una ciocca di capelli dispettosa. C’era un bel vento, quel
giorno sul mare, quando le scattai la foto che poi ho scelto di far
mettere sulla lapide. Ci credete che ricordo ogni più minuscolo
particolare, di quella breve gita d’inizio primavera? Tutto, come se
l’avessimo fatto ieri. Non solo il tragitto, le chiacchierate durante
il viaggio, il lungomare deserto, con tutti i negozi e i locali ancora
sbarrati, ma anche i suoni, i profumi, le canzoni che una radiolina
trasmetteva fioche da un piccolo baretto sulla spiaggia, il delizioso
sapore del fritto misto in quel ristorantino. Sullo sfondo di quello
scatto fotografico, sulla destra del volto sereno di Sandra, è rimasto
inquadrato anche un gabbiano. Da lì adesso non può più muoversi,
naturalmente, “congelato” in eterno in quella istantanea scattata al
volo, ma io so che se in qualche magico modo si potesse far animare
la sequenza, l’uccello si abbasserebbe fin quasi sul bagnasciuga,
lanciando un grido stridulo e ovattato. Esattamente come fece in quel
lontano giorno di più di tre anni fa.
Me sono rimasto lì, a guardarla in silenzio. Non avevo nessuna voglia,
per il momento, di raccontarle tutto quello che mi passava nella testa
confusa e vuota. Le sensazioni nei confronti della scomparsa del
vecchio, e sui tragici alti e bassi di mia madre. E ancora meno di
accennare qualcosa riguardo a quello che iniziavo a provare quando mi
ritrovavo solo, nella casa che abbiamo diviso per così tanto tempo.
Anche se avevo la certezza che lei le sapesse lo stesso, tutte queste
cose. In ogni caso me ne stavo lì, sperso in mezzo a centinaia di altre
lapidi più o meno pacchiane, ognuna col suo bell’armamentario di foto,
iscrizioni, fregi, offerte floreali, alcune talmente fresche da
sembrare appena uscite da una serra, altre appassite e polverose come
se fossero lì da secoli. Qualche dolente figura si muoveva a tratti, in
lontananza, una vecchina di ritorno dalla fontanella pubblica, curva
sotto il peso di un vaso colmo d’acqua, e più in là una giovane donna
con due bimbetti che scorravano lungo i vialetti con tutta l’infantile
innocenza della loro età.
Bambini, vecchi… nessuno
scampa a questo posto, so di aver pensato, osservandomi
intorno con la testa un po’ piegata di lato per attenuare un riflesso
di sole su un fregio dorato incredibilmente lucido.
Bambini che diventano
vecchi, vecchi che ritornano bambini…, suggerì un secondo
pensiero, subito dopo. E io vi prego di credermi quando vi dico che
era un pensiero che non
avevo affatto formulato io. Sono assolutamente sicuro di
quello che sto dicendo, perché ho assolutamente presente il senso di
estraneità, ma anche di infinita dolcezza (quale io non sarei mai in
grado di esprimere), di quella specie di… sussurro
all’interno della mia testa. Di questa incasinata testuggine. Non ho
avuto neanche il tempo di chiedermi cose stesse succedendo, e cosa
potesse significare quel bizzarro concetto. Improvvisamente mi è
apparso tutto chiaro, come un raggio di sole che riesca a penetrare lo
spesso strato nuvoloso di un temporale estivo. Il vecchio aveva detto
di non aver mai trovato il coraggio, o la forza, fate voi, di passare
al di là di quel ponticello, ed era stato quasi sincero. Nel
senso che per tutta la vita era rimasto bloccato là, sul ciglio di una
decisione che non riusciva a prendere. Aveva avuto bisogno di un
piccolo aiuto, come l’innesco che ha rischiato di farmi sprofondare
nella depressione. Sì, ho usato il passato perché in questo preciso
momento in me non c’è assolutamente più spazio per pensieri foschi e
distruttivi. Proprio no, al contrario! E credo di poter affermare senza
margine di errore che il piccolo aiuto riguardante Aristide si sia
manifestato nella famosa notte tra sabato e domenica. Piccolo… se così
si può definire il tuo cuore malandato che cerca allegramente di
“imploderti” nel petto.
La crisi lo ha spaventato a morte, com’è comprensibile, fornendogli
l’impulso a fare quello che pensava fosse ormai impossibile. Lo so,
tutto ciò è assolutamente pazzesco, ma io credo che non sia mai
accaduto un secondo, e letale, attacco di cuore. E’ uscito di casa,
incamminandosi con quel suo passo incerto, ed è salito su per quel
viottolo! Ha potuto finalmente dare un’occhiata a quello che c’è al di
là.
E sapete cosa penso, anche se è facile che in questo modo io mi sia
giocato le ultime possibilità di passare alle vostre… orecchie, come
una persona con ancora qualche brandello di sanità mentale? Che quel
posto faccia realmente qualcosa. Non so ancora bene cosa, e in che
termini, se veramente chi trova la forza per passare di là ha poi
l’incredibile possibilità di aver esaudito un proprio desiderio, o se
magari si tratta solo di un punto in cui la strada torna indietro. Non
so. Mi piacerebbe poter credere che possa aver deciso lui. A cosa mi
riferisco? Beh, su, datemi una mano, e non lasciate fare tutto il
lavoro sporco a me, che tanto ci siete arrivati anche voi… Sto parlando
della sua nuova età! Ed oltre a questo, ritengo di essere abbastanza
sicuro che gli sia stato realizzato il suo più grande desiderio.
Perché, vedete, quella sorta di folgorazione seduto sulla tomba di mia
moglie mi ha dato anche altre, temporanee capacità. Come quella di
ricordare ulteriori particolari del mio incontro col… sì, va beh, col nipote del
vecchio. O forse erano solo sensazioni che io avevo registrato
inconsciamente, troppo scosso dalla tragica notizia per metterle a
fuoco. Ci sono riuscito oggi, ricordando con nitida precisione la
figura di donna che si era affacciata per un attimo alla finestra e,
quel che più importa, i suoi lunghi capelli rossi, e quel vistoso neo sulla
guancia.
Ed ora, se avete voglia e tempo da perdere nel cercare di stabilire di
quanto io sia andato via di testa, buon per voi. Io, per quanto mi
riguarda, ho alcune cose da fare assolutamente irrimandabili e
importanti.
Ma non temete, vi terrò informati.
(TLAC)
13.
(TLAC)
Bene. Ho appena finito di riascoltare quello che ho registrato nella
mia ultima seduta di un paio di giorni fa. Cose da matti, non trovate?
Già… la stessa identica impressione che darebbe a me se non avessi
fatto… come dire… qualche verifica in merito. Per cominciare, non c’è
più nessuno nella casa di Aristide, com’era facile prevedere,
nemmeno pulcini e gatti, piccoli o grandi che siano. Sì, lo so che
questo potrebbe anche essere una conferma che il nipote e sua madre
siano tornati al loro paese d’origine (e che il colore dei capelli
e la statura e altri segni particolari facciano parte del normale
corredo genetico) ma io credo che non sia andata proprio così. Anche se
me ne era venuto l’impulso, non sono riuscito a farmi un giro ad
interrogare i vicini, nel cercare di stabilire chi avesse fatto la
presunta telefonata ai parenti, subito dopo la seconda crisi cardiaca.
Cavoli, non vi nascondo che mi sarebbe piaciuto, gironzolare a suonare
campanelli come un’impavido detective da romanzo giallo, magari
esibendo per un fugace attimo la tessera rovesciata di Blockbuster, ma
purtroppo non ho una simile faccia tosta. Però qualche manovra
sotterranea l’ho messa in atto comunque. Intanto facendo un salto
nel bar accanto alla banca, a scartabellare le vecchie copie del
quotidiano locale, con particolare attenzione alle pagine dei
necrologi o qualche improbabile trafiletto che descrivesse il tragico
episodio. Ho trovato forse qualcosa? Non ho trovato niente. E neanche
questo, si è premurata di farmi presente la mia coscienza, perfetta
nelle vesti di un detestabile avvocato del diavolo, può essere
considerato determinante, come indizio. A parte che la cronaca locale
tende ad occuparsi del passaggio a miglior vita di un solitario
ottuagenario solo nel raro caso in cui non succeda null’altro in città
e provincia, poteva essere che la coppia non avesse la minima
intenzione di spendere una cifretta considerevole solo per comunicare
al mondo la scomparsa del loro congiunto. Che, a parte loro due, non
pareva avere altri parenti. Non si è mica obbligati per legge, a
segnalarlo. Così ho pensato bene di approfondire le ricerche. Ho un
amico, un cliente della banca… oddìo, amico è la classica parola
grossa, e “conoscente” sarebbe molto più appropriato. Diciamo che col
tempo e la frequentazione professionale si è instaurata a poco a poco
una sorta di cordiale simpatia. Quando ci incontriamo fuori dalla
banca ce ne andiamo assieme a prendere un caffè, ed è tutto un tira e
molla per cercare di avere la meglio in quella moderna tenzone
rappresentata dall’offrire le consumazioni. Per farvi un altro
esempio, è capitato di incrociarci nella hall della banca, perché
magari lui sta entrando e io sono appena uscito dall’ufficio di
qualche collega, ed è successo che io mi sia fatto consegnare (appena
appena furtivamente) i documenti che doveva depositare, così da
risparmiargli la coda allo sportello. Non credo che questo possa essere
considerato come un favoritismo, è solo uno dei tanti automatismi che
s’innescano durante la vita lavorativa di ognuno. Lo si fa così, senza
particolari doppi fini, solo per fare una cortesia ad una persona
educata.E ogni caso credo che poi sian cose che alla fine paghino
(come paga, in negativo, l’essere sgarbati e scostanti) e difatti
tutto ciò mi ha dato la possibilità di rivolgermi a lui per un
piccolo piacere. E’ responsabile del laboratorio di analisi interno
all’Ospedale Civile, così gli ho chiesto se era in grado di poter
accertare un ricovero d’urgenza, con conseguente esito fatale,
avvenuto nella mattinata di mercoledì scorso. La mia benedetta
incapacità di barcamenarmi nell’ambiguo mi ha costretto ad aggiungere,
come informazione supplementare e del tutto gratuita, che la cosa
sarebbe servita per una nostra verifica interna all’istituto di
credito. Ho buttato lì il fondato sospetto che il titolare di un conto
corrente inattivo da tempo potesse essere la stessa sfortunata persona
in questione e bla bla. Inutile dirvi che attesi quella telefonata
col cuore in gola, ma l’esito andò oltre le mie confuse aspettative.
Nella settimana appena trascorsa, mi comunicò il medico, presso il
Pronto Soccorso erano stati ricoverati solo un paio di pazienti, nella
fascia oraria da me indicata, e nessuno dei due poteva essere
riconducibile, per età e patologia, al nostro caro ex-meccanico.
Non so per voi, ma a me questo è bastato per fare due più due. Chissà,
forse desideravo
farlo, con tutto me stesso, passando sopra a tutto. Alla evidente
follìa della faccenda, ad ogni più piccola possibilità razionale che
qualcosa mi fosse sfuggito, facendomi prendere (anche perché volevo, prenderlo)
il più mastodontico granchio di tutta la mia vita.
Io credo fermamente che Aristide si sia fatto una passeggiatina
sull’argine, e che sia poi tornato indietro. E che, a quel punto, non
fosse tanto facile riconoscerlo. Non ho ancora inquadrato le
motivazioni che han fatto sì che neanche lui riconoscesse me o, in caso
contrario, perché non mi abbia detto niente. Non si sia svelato. Forse
la cosa funziona solo se si tiene la bocca chiusa, o magari per lui era
veramente cominciata una nuova vita, senza il minimo collegamento con
cose passate.
Oddìo, spero vivamente che non sia così, altrimenti la faccenda
comporterà qualche problema in più, e quel paio di cosette che ho messo
insieme rischiano di esser state fatte per niente. A cosa mi sto
riferendo? Beh, vedete, in fondo sono e resto un ragioniere, una“testa
quadra”, che anche di fronte a possibili eventi così… come dire…
singolari, cerca sempre di pararsi il culo, con rispetto parlando. Per
evitare sorprese. Ho prelevato una certa somma di denaro, dal mio conto
corrente, senza neanche troppa pubblicità, visto che ci lavoro, nello
stesso posto in cui sono conservati i miei decorosi risparmi. L’ho
messa in una bella busta che poi ho chiuso in una delle cassettine di
sicurezza. Insieme al doppione del mazzo di chiavi di questo
appartamento. Sapete, se si possiede un bancomat e il codice relativo,
oltre naturalmente alla chiavetta della cassetta, non necessariamente
deve presentarsi il titolare, per averne accesso. Non stiamo parlando
delle cassette di sicurezza vere e proprie, quelle del caveau, in cui
si conservano documenti importanti e gioielli preziosi…In ogni caso,
ho chiesto e ottenuto sette giorni di ferie, che presumo siano più che
sufficienti per quello che ho in mente di fare. Se dovessi ritornare
al mio posto dietro lo sportello, com’è prevedibile, nessuno si
accorgerebbe di niente. In caso contrario, beh, immagino ci saranno
ricerche, inchieste, casini… in definitiva che la cosa creerà un po’
di subbuglio, ma a quel punto…
Mi sono preoccupato di portare il vecchio Albertone in una delle
migliori pensioni del cane della città, pagando una settimana
anticipata. Questo bel
cagnone si troverà benissimo come ospite qui da noi, ha
detto tutta entusiasta la signora che ci ha ricevuto, e a me è
serpeggiato un brutto brivido lungo la schiena nel sentire la parola ospite, pronunciata
con la stessa orgogliosa enfasi dalla tizia in tailleur della casa
di riposo, il giorno che abbiamo “ricoverato”mia madre. Albertone non
era esattamente al settimo cielo quando mi sono diretto all’auto senza
di lui, e per lungo tempo mentre mi dirigevo verso la città ho
avvertito la pressione del suo sguardo languido e contrariato giusto al
centro della mia nuca.
Ho fatto tutte queste cose cercando di non pensare a niente e, giunto a
questo punto, immagino sia alquanto indecoroso imporsi di rinsavire e
lasciar perdere tutto. Sarebbe anche estremamente assennato, d’altro
canto, ma cos’ho da perdere? Una volta assodato che, per una volta nella vita,
ho intenzione di ascoltare una sensazione del tutto assurda e
improponibile, cos’altro potrei temere? Forse, e magari sarà il caso
di rifletterci il meno possibile, la stessa cosa di cui aveva paura
Aristide. Come disse in un lontano pomeriggio d’estate, di tornarmene giù e dover
riprendere la vita di tutti i giorni. Alla fine lui
ce l’ha fatta a superarla, anche se a causa di un motivo alquanto serio
e convincente. Ma anch’io, nel mio piccolo… D’accordo, non ho certo
intenzione di paragonare la perdita fisica della vita con la mia
condizione, che in fondo in fondo non è neanche tanto malvagia. Ho un
lavoro solido, un’appartamento di proprietà, uno stato di salute che,
per il momento, sta tenendo botta egregiamente (sempre che mi decida a
rimettermi a fare un pò di salutare moto). Di conseguenza non intendo
abbandonarmi ad ingrate lamentele che questa è un’esistenza che non
vale la pena vivere e balle del genere. Credo di averlo detto in
qualche registrazione precedente, non c’è niente di meglio della vita,
anche nei momenti più strazianti, e lungi da me adesso rimangiarmi
quelle affermazioni. Quindi il punto non è che questo mio modo di
vivere non mi piace più, perché non sarebbe la verità. Diciamo che,
per tutta una somma di circostanze, in questo periodo mi piace un po’ meno,
e credo sia preciso dovere di ogni essere umano quello di mettere in
atto qualsiasi possibilità a sua disposizione per migliorarne la
qualità. Se dovesse, o dovessi nel mio caso, riuscirci, tanto di
guadagnato, no ? Altrimenti non bisognerà far altro che
tornare sui propri passi, con la consapevolezza di averci provato
fino in fondo.
Credo sia questo il mio innesco, al riguardo: che non potrei mai
perdonarmi di non averci provato, da qualunque parte porti questa
vicenda.
Penso che sia una cosa che farò domani o dopodomani al massimo. Farò un
salto fino in casa di riposo, e chiederò il permesso di portare mia
madre a fare un giro. Il fatto che sia un bel po’ che non succede,
perlomeno negli ultimi tempi, non significa che debba essere così per
sempre. E’ prevedibile che la caposala-Scharwzenegger tenterà di
farmi cambiare idea, adducendo quale indiscutibile obiezione le
attuali condizioni dell’ospite. Non ho la minima intenzione di
lasciarmi infinocchiare, considerato che pago fior di quattrini di
retta e che quel posto non è ancora una prigione, a quanto mi risulta.
Se è il caso non avrò il minimo scrupolo a farglielo presente, anche se
in cuor mio confido di non dover arrivare a tali estremi. In ogni caso,
una volta concluso il match con Suor Terminator, tirerò fuori dal
bagagliaio dell’auto la sedia a rotelle pieghevole che ho intenzione di
noleggiare, e vi depositerò sopra con delicatezza mia madre. Non sarà
un problema, ve l’ho detto che pesa come un uccellino, no? Se mi
chiederà se per caso la sto portando a qualche riunione di famiglia,
magari ad una dove potrà incontrare mio padre e le sorelle e persino i
suoi genitori, le dirò di sì, aggiungendo pure che la stanno
aspettando con ansia.
L’aiuterò a sedersi in macchina, e andremo a farci un giretto. Non
credo di aver voglia di percorrere quell’orrenda statale impestata di
auto e camion e gas di scarico e clacson strombazzanti. Molto meglio
tagliare per le stradine dei colli, ci si metterà un po’ di più ma
l’unica cosa che proprio non ci serve è la fretta. E poi in questo
periodo è tutto un fiammeggiare di foglie gialle e rosse e oro, e sarà
uno spettacolo da togliere il fiato. Quando sbucheremo giù in pianura,
andrò a parcheggiare un po’ oltre la casa di Aristide, in modo da
evitare quel brutto tratto parallelo alla statale, e poter così
percorrere un bel pezzettino tra i filari di viti e i campi. Se l’uva
sarà abbastanza matura, staccherò un piccolo grappolo per fargliene
dono. Le è sempre piaciuta un sacco, ma in quel posto non la servono
spesso, pare che come appartenenti al genere frutta conoscano solo le
mele. La spingerò con calma, ascoltando i suoi commenti su quella
inconsueta passeggiata, e se per caso si rivolgerà a me con nomi che
non coincidono col mio, non me la prenderò più di tanto. In fondo,
potrebbe essere un problema a tempo, se tutto va bene.
Quando sbucherò in prossimità della vecchia fattoria del mio amico, vi
dedicherò uno sguardo affettuoso, anche se sono certo fin da ora che
non ci sarà né tristezza né nostalgia nei miei occhi. Tutt’altro.
Dopodichè?
Dopodichè, direi, un bel respiro e via andare. Ah no, dimenticavo un
particolare importante, per il quale mi sono scervellato nelle ultime
notti agitate. Avrò con me una piccola borsetta a tracolla, tipo quelle
in cui si trasporta la macchina fotografica e i suoi accessori (anzi, proprio quella) in
cui saranno riposte con cura cinque audiocassette numerate in sequenza.
Prima di attraversare il breve tragitto che porta al di là del canale,
la poserò ai piedi della spalletta del ponte, magari un pò nascosta
nell’erba alta della sponda. Sì, lo so che si potrebbe obiettare che è
un modo alquanto discutibile, e nient’affatto indicato, per affidare le
proprie memorie al mondo. Sapete, ci ho pensato su un bel pò, giungendo
ad alcune, sorprendenti conclusioni. Prima fra tutte la consapevolezza
che io non sono affatto il depositario di questo posto, ammesso che
ci siano gli estremi per esserlo, e intendo cioè che possieda qualche
particolare caratteristica. Quindi ritengo che la sua eventuale
rivelazione debba seguire un andamento casuale, del tutto simile a
come è avvenuto nel mio caso. Non avevo comunque nessuna intenzione di
affidare questo bizzarro memoriale a qualche autorità, o a un pool di
scienziati (o, che ne so, alla Chiesa), preferisco lasciarlo andare, in
balìa di quello che gli riserverà il futuro. Lo ritroverà forse
qualcuno che ne potrà fare buon uso, o magari un gruppo di ragazzini
che non vi presteranno più di tanta attenzione. Potrebbe addirittura
finire nelle mani di un extracomunitario, che si terrà la bella borsa
gettando via il contenuto, o riutilizzandolo per registrarsi una
compilation di musiche della sua terra. O ancora un bello scroscio di
pioggia precederà tutto e tutti, rendendo inutilizzabile il faticoso
lavoro svolto dal sottoscritto. La fatalità, il caso, il destino,
saranno gli unici autorizzati a influire sul futuro della cosa. Nel
mio cuore conservo la consapevolezza che questo strano materiale
finirà nelle mani di chi ne avrà bisogno, di qualcuno a cui magari la
propria vita, in questo preciso momento, non piace poi così tanto.
E non sarà certo una coincidenza perchè, come dice il detective nel
libro che mi auguro di finire in tempo, le coincidenze non esistono.
Dopodichè, stavolta senza più nessun indugio, prenderò un leggero
slancio per far superare alla carrozzella (avendo due ruote, come le
biciclette, qualcosa della loro fantascienza avrà pur preso, e di
conseguenza sarà deliziosamente maneggevole) la distanza che ci
separerà dalla sommità dell’argine. Uno sforzo che può fare
tranquillamente anche un cinquantenne fuori forma, in fondo si tratta
di una vecchina che pesa meno di un uccellino e di un dolce declivio.
Mmh, sì, proprio la parola giusta, anche se suona un pò buffa: non è
una salita, per niente, e dislivello sa tanto da geometri. Ma declivio
è il termine azzeccato, e io e mia madre declivieremo
felici come due bambini.
Fin qua arriva la mia arrugginita immaginazione, oltre non c’è proprio
nulla. Ma forse è anche meglio così, non sempre sapere le cose per
filo e per segno le rende più affascinanti. E’ ovvio che mi auguro che
qualcosa succeda. Qualunque cosa sarà ben accetta.
E’ chiaro che anche non volendolo sto continuamente rimuginando nel
cercare di intuire cosa può essere successo ad Aristide. Partendo dal
presupposto che quel sentiero è una scorciatoia, non solo nello spazio
ma anche nel tempo (i pulcini e i gattini parlano molto chiaro) è stato
in suo potere di scegliere in
che punto fermarsi? O forse, oltre a questo, il viottolo
dove finisce il mondo è in grado di riservare molto di più? Sino ad
esaudirli davvero, i desideri?
Sarebbe bello pensarlo, no? L’ha detto anche Aristide, se non si può più neanche
sognare, dove andremo a finire? C’è una cosa che mi
frulla per la testa, una sorta di innocuo giochino che a volte io e
mia moglie ci capitava di fare. Ci siamo conosciuti abbastanza tardi,
e comunque in una fase decisamente matura della nostra esistenza, di
conseguenza ci è sempre rimasto il rimpianto di non averci mai potuto
incontrare da bambini. Gli album di famiglia e le foto, che divoravamo
ad intervalli più o meno regolari, andando a ripescarli da polverosi
scatoloni, erano solo un pallido palliativo. Lo facevamo, sdraiati
sul soffice tappeto della sala, con la sola compagnia di un pò di
musica soft, due fumanti tazze di tè e una miriade di candele accese.
Per quel che mi riguardava, in quei momenti, l’invenzione della
televisione poteva tranquillamente non essere mai avvenuta. Avremo
guardato un milione di volte, ogni volta sbellicandoci come due
ragazzini, le pose di noi due in tenera età, vestiti da scolaretti o
da vacanza al mare (a proposito della mantellina e del cappelletto da
clown da spiaggia, credete che la mia perfida metà me l’abbia fatta
passare liscia?), tirati a lucido in occasione di cresime e prime
comunioni, coi classici vestiti di carnevale rigorosamente fatti in
casa. Ci sto pensando su: due persone che sono state così bene assieme,
e che solo un tragico epilogo ha fatto dividere, non si troverebbero a
meraviglia anche avendo la possibilità di crescere, in tutti i sensi,
fianco a fianco? Mi sto spingendo troppo avanti, dite? Bah, non lo so.
Non avendo idea di quale sarà l’offerta, non costa molto di più
tenersi larghi. L’ho già detto, prendiamo quello che viene. Pronti ad
ogni evenienza.
Nella sua ruspante confusione, aveva le idee ben chiare, il caro
Aristide. E non è una contraddizione in termini. Penso che mi adeguerò
alla sua filosofia. Com’è che diceva? Se non dovesse succedere nulla,
amen. Ma se al contrario quel posto qualcosa fa… Credo
che stia tutto in questo, la faccenda. In tutte le faccende,
a voler essere sinceri. Le cose si provano, e casomai dopo si tirano le
somme. Riuscire a saperle prima, è faccenda di profeti, maghi e santi.
E’ nessuno di noi, a quanto ne so, ha particolari poteri di
preveggenza. Io no di sicuro.
Quindi la cosa che resta da fare è arrivare lassù in cima, io e mamma.
E vedere cosa c’è al di là. Oltretutto il tempo si è rimesso al
meglio, e una deliziosa coda d’estate sembra aver preso possesso di
questo inizio di ottobre. Credo addirittura che si possa stare con le
maniche della camicia arrotolate, fin quasi al tramonto. Ed è quello
che faremo, starcene lì a godersi la brezza della sera, e a guardare
il panorama sereno di campi e colline. Male che vada, faremo ritorno
all’auto con la consapevolezza di aver passato un paio d’ore niente
male, lontano da caposala-cerberi, clienti esagitati, pappette di mele
al posto di croccanti chicchi d’uva, bambine cattive che cercano di
rubarti pane, burro e zucchero. Ripeto, male che vada.
Perchè, se al contrario, quel posto qualcosa fa...
Mauro Marani
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