dove finisce il mondo

di marani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 - Finale ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


DOVE FINISCE IL MONDO

1.

(TLAC)
Allora… vediamo un po’ se quest’affare funziona… mmh, dunque… prova... sì, prova…
(TLAC)
(RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Okay. Fuori il dente, fuori il dolore, come si dice: io so dove finisce il mondo.
Un attimo, calma… Non ho detto quando, ho detto dove. E non è la stessa cosa, se mi è consentito...
E’ un piccolo viottolo, carino anche se per niente vistoso, che si stacca a perpendicolo da un certo punto di una delle piste ciclabili di questa città. Va anche aggiunto, ad onor del vero, che questa sua pomposa denominazione è del tutto fuorviante. Non ha proprio niente a che vedere con la fine del mondo, geografica o temporale o chissà che altro, ma il vecchio ha detto che si è sempre chiamato così, e se poteste darci un’occhiata... beh, immagino che sareste d’accordo anche voi. Non potrebbe chiamarsi in altro modo, in fondo. Perché faccio tanto il reticente dopo aver esordito in maniera così… come dire… lusinghiera ? Bah, forse perché prima vorrei chiarire… soprattutto a me stesso… come stanno le cose. A che punto sono. E per non fare subito la figura del matto, anche se in questo preciso istante l’unico mio spettatore è Albertone, il vecchio beagle di Sandra, intento a fissarmi col suo solito sguardo, a metà tra il perplesso e il canzonatorio
(occhi da prendo-per-il-culo, li definisce quel simpaticone del ragionier Sartori quando ci incrociamo sul pianerottolo, io con la bestia al guinzaglio, diretti verso una passeggiatina "diuretica", e mai definizione pare essere più azzeccata)
Se ne sta mollemente spaparanzato sul divano del salotto, simile ad un imperatore romano nano e affetto da ipertricosi, ed ogni qualvolta la mia voce indecisa riprende, solleva di un mezzo centimetro l’orecchio sinistro.
Unico spettatore, dicevo, di questo mio tentennante monologo di fronte al microfono di questo antiquato registratore, che ho dovuto andare a recuperare su in soffitta, tumulato lassù dall’ultima volta in cui mia moglie ed io ci eravamo "ripromessi" di dare una bella rinfrescata al nostro inglese fermo ad antiche reminiscenze scolastiche. Ho appoggiato una sedia traballante all’anta dell’armadio su cui l’apparecchio era appollaiato, avvolto in un cellophan opaco come fosse un cadavere in un episodio di X-Files (scacciando via dalla testa pensieri scuri e dolenti come denti guasti) e l’ho tirato giù in un tripudio di polvere e mummie di mosche stecchite.
A questo punto credo sia il caso di procedere con un minimo di ordine, per quanto possibile, e magari partire dalle presentazioni. Mi chiamo Marco Vicario, ho grossomodo cinquant’anni, e lavoro in una banca della città. Sono stato sposato per ventitre anni con mia moglie Sandra, prima che lei mancasse, un anno e mezzo fa, e da quel momento vivo da solo in un luminoso appartamento del centro storico
(da solo… ingombrante presenza di Albertone permettendo, naturalmente…)
E non sono matto, come mi sono premurato di precisare come prima cosa. Anche se… voglio dire… già uno che parte con una sparata del genere… sapete com’è, potrebbe essere la vecchia faccenda di cosa sia nato prima, se l’uovo o la gallina o il malato di mente che non si vede tale solo per il fatto di… affermare il contrario. Beh, insomma, per quello che è in mio potere stabilire, non ritengo di esserlo. Almeno non quanto quei folli che prendono a pugni e calci i loro figli neonati, o centrano grattacieli zeppi di gente con aerei usati a mò di proiettili.
E perché allora me ne sto qui ad affidare ad una vecchia audiocassetta cigolante questo mio sconcertante memoriale ? A beneficio di chi ? Non lo so. Non ho mai preteso di avere tutte le risposte, in generale intendo, ed una volta che uno ha metabolizzato questo dato di fatto (non è semplice, sapete, e mica a tutti riesce… anzi, pare proprio che negli ultimi tempi la strafottenza sia una merce che venga via per niente) ci si può anche divertire. Lo faccio perché mi viene di farlo, perché magari a qualcuno, chissà, anche incidentalmente, potrà tornare utile. E poi perché, a parte il bavoso lì sul divano, sono solo (quasi solo) e la mia decisione non causerà il minimo sconquasso, emotivo o materiale, in nessuno.
Quale decisione ?
Oh bè, pensavo si fosse capito. Io, tra un po’, ho intenzione di partire…

2.

C’è una pista ciclabile, in città. La formulo meglio, in modo da far apprezzare la sottile (quanto desolante) ironia di questa affermazione: abbiamo UNA pista ciclabile, degna di tale nome, qui dalle nostre parti. Tutto il resto, con buona pace degli sforzi ecologisti della Giunta, sono spezzoni di cemento più o meno corti, butterati dalle bizze del clima e fatti "lievitare" dalle radici degli alberi, e il più delle volte ostruiti da automobili piazzate giusto sopra con civilissima nonchalanche. Oddìo, neanche la Pista Ciclabile titolare è un capolavoro di estetica ed ingegneria viaria. Niente a che vedere con quello che offrono altri Paesi europei, e non per far sempre i soliti italiani malati di esterofilia che non perdono occasione di dire peste e corna di quello che hanno sotto casa. In qualche caso, e questo è uno di quelli, non c’è proprio storia. Ad ogni modo, la nostra pista ciclabile è ragionevolmente lunga, ragionevolmente carina (si dipana verso est ricalcando il vecchio tracciato della ferrovia, tra filari di viti e sconfinati campi coltivati a granturco e soia, sino a lambire le sagome arrotondate dei colli) e quel che più conta, per i miei polmoni sfiatati da un’onorata carriera di fumatore, decisamente pianeggiante. Anche se sembra un’affermazione buffa e surreale, non mi ci sono messo io sullo scomodo sellino di una bicicletta, bensì, come spesso succede nella vita (per fortuna, mi viene da aggiungere, visto che molto spesso noi umani ci mettiamo d’impegno per sottovalutare le grida d’allarme dell’organismo), le spassionate insistenze del mio medico curante. Che ha pensato bene di dare una bella sterzata alla mia sregolata condotta di vita, comprensibile conseguenza del lutto di cui sono stato vittima, che stava per arrecare danni ben più gravi di quelli che ci si potrebbe attendere. Nel profondo abbraccio della depressione, condita da pacchetti di Camel bruciati, è proprio il caso di dirlo, in meno di un giorno, pasti precari e troppe alzate di gomito, in cui ero (volontariamente) scivolato, non ci si sguazzava per niente male, a dirsela qua. Sempre che si abbia come discutibile obiettivo quello di finire in un bel articolo di cronaca sul quotidiano locale, fin troppo particolareggiato su come il corpo senza vita di M.V., di anni 50, bancario, da poco vedovo, fosse stato rinvenuto nel suo appartamento una settimana buona dopo il solitario decesso.
E se non ci ho pensato un piovoso venerdì sera di un un anno e mezzo fa, di compiere il Grande Passo, lasciandomi alle spalle la sagoma inquietante di un ospedale illuminato a giorno come una nave sul punto di inabissarsi (mentre ero io, quello che stava colando a picco) perché avrei dovuto "scivolarci" dentro mesi dopo, in maniera così disonorevole e squallida ? Se ci ho pensato, quel venerdì d’inizio inverno, mi state chiedendo, o miei inesistenti (o futuri) ascoltatori ? Vi chiedo scusa, ma con tutto il rispetto credo che queste siano confidenze un pò troppo personali. Sono ancora qui, più o meno (fa un male cane ogni benedetto giorno in cui decido di riaprire gli occhi e metter giù i piedi dal letto, ma sono anche convinto che ci voglia molto più coraggio nel restarsene qui a farci i conti), sarà voglia di vivere, o incapacità di morire, decidete voi, io cerco di ripetermi che ne vale sempre la pena. Se si ha un minimo di buona sorte, potrebbero succedere cose come quella di cui vi sto mettendo a parte.
Per cui, il burbero dottor Scotti (sì, proprio come quello dei risotti) ha pensato bene di far fuori due dei loschi figuri della mortale triade, signor Bacco e suo cugino Tabacco, stendendo un velo pietoso su Lady Venere, al controllo della quale stavo già provvedendo di mia involontaria iniziativa (il grafico del calo del desiderio seguiva di pari passo quello delle crisi depressive, e in ogni caso non sono mai stato come quel tipo che interpreta adesso il nuovo 007… e neanche come quello vecchio, ad esser realisticamente sinceri). Fare a meno delle sigarette e dei goccetti non mi sembrò affatto così sconvolgente ed insopportabile... sapete, svegliarsi ogni mattina con una fogna al posto della bocca, un vulcano di catarro incandescente pronto ad eruttare dai bronchi e un batterista rock che ha installato la sua sala prove direttamente dentro la tua scatola cranica… beh, non è certo il massimo della vita, e a volte forse può essere sufficiente solo il pretesto di volerne fare a meno. Il mio timore più pressante, seduto scomodo in quella sedia di fronte alla scrivania del medico, appesantito dalla zavorra dei miei chili in sovrappeso, il fiato corto e sibilante, la fronte imperlata di sgradevole sudore benchè fossimo all’inizio di una fresca primavera, era che venisse pronunciata una parolina-chiave che col sottoscritto non aveva mai avuto grande feeling. E il doc, osservandomi serioso dal di sopra dei suoi costosi occhiali bifocali, la sputò fuori senza il minimo timore reverenziale. E moto, naturalmente, disse, mentre io analizzavo quella breve frase alla ricerca di una qualche intonazione sadico-sarcastica. Che tuttavia pareva non esserci. Senza darmi il tempo di storcere il naso, mi elencò alcune possibili alternative, che avevano tutte il comune denominatore di essere ben poco affascinanti, così io, al termine di una forzata riflessione, optai per il male minore, ovvero le due ruote. Non mi andava, in via del tutto confidenziale, di esibirmi sulla ribalta di un’affollata piscina coperto solo da un misero slip (gli ippopotami non stanno affatto bene, conciati in siffatta maniera), e l’ebbrezza di un infarto sotto il sole cocente di un campo da tennis la lasciavo volentieri a qualche mio collega della banca più intraprendente e sventato.
Per farla breve, alla fine investii un congruo mucchio di quattrini per l’acquisto di una fantascientifica bicicletta (fantascientifica non perché avessi sborsato chissachè, ma solo per il fatto che le bici, al giorno d’oggi, o sono fantascientifiche o ciccia), un paio di guantini a mezza mano e un caschetto protettivo. Il tricheco in mutande non l’avrei fatto neanche morto, ma nemmeno con quell’affare piantato in testa mi sentivo del tutto a mio agio. Cosa volete farci, ognuno ha le sue. A dirla tutta, sempre per via di quella sorta di "zaino alpino" naturale che mi porto sopra la cintura dei pantaloni, non mi è passato per l’anticamera del cervello nemmeno di inguainarmi in ridicole ed aderentissime tutine dai colori improbabili, che stanno decisamente meglio su un fisico alla Cipollini, rispolverando per l’occasione la mia vecchia felpa, sformata ed ampia al punto giusto (t-shirt XXXXXXXL, per quando si scalda l’aria). L’unica concessione all’abbigliamento professionale "impostomi" dalle mie natiche (non si ha idea di quanto siano delicate certe parti del corpo fin che non ci si è sciroppati una ventina di chilometri con un sellino largo una manciata di centimetri sadicamente conficcato nel didietro) è stato un pantaloncino tecnico dotato di un’imbarazzante "rinforzo" in zona strategica, che mi fa assomigliare ad un improbabile lattante di ottanta e passa chili. La prima "uscita" ufficiale, dopo alcuni giri di prova in quartiere durante i quali ho potuto apprezzare l’insospettabile delicatezza delle mie voluminose chiappone, ha previsto la percorrenza di circa un decimo dell’intera ciclabile, che sarà lunga comunque non più di dieci chilometri, prima del crollo su una delle provvidenziali panchine poste ad intervalli regolari. Con i polmoni in fiamme, una cascata di sudore a getto continuo e il cuore seriamente intenzionato a scavarsi un pertugio nel mio petto, forse col sacrosanto obiettivo di abbandonare al più presto quella devastata parodia di corpo umano. Ci avevo impiegato una ventina di minuti buoni a prepararmi, a casa, lottando con i pantaloncini aderenti come se stessi cercando di infilare un cocomero in un preservativo, e un quarto d’ora in tutto era durata la mia barcollante pedalata. Ma su quella panchina, boccheggiante e mezzo storto (sapete, ci vuole un minimo di energia anche nel tirarsi su dritti) ci rimasi un’eternità, svicolando a disagio gli sguardi perplessi e preoccupati di un via vai di ciclisti, corridori, ragazze sfreccianti sui pattini in linea. Immagino che più di qualcuno si sarà chiesto se fosse magari il caso di fermarsi, per chiedermi se avevo bisogno di qualcosa (in ogni caso la mia bocca inaridita avrebbe ostacolato ogni tentativo di cortese diniego), se mi sentivo bene, se preferivo far chiamare qualcuno. Magari una bella ambulanza dotata di unità coronarica d’emergenza. Poi, si sa, la sana diffidenza dei nostri tempi ha avuto presto la meglio su quei flebili slanci d’altruismo, e me ne rimasi là, mezzo di traverso, a fingere di fissare con rapita concentrazione alcuni scarni fili d’erba che si facevano largo a fatica tra una giuntura e l’altra del cemento della pista. Passarono famiglie intere su due ruote, papà scattanti e per niente affaticati, mamme carinissime nelle loro tutine sgargianti, torme di bambini su biciclette di ogni forma e dimensione, addirittura un nonno come quelli delle pubblicità, capelli e baffi folti e candidi, che aveva il fiato persino per chiacchierare col piccolo nipotino seduto sul seggiolino. Passò un’infinità di persone, tutti a rimirare quel vecchio cetaceo "spiaggiato" su una panchina scrostata e zeppa di scritte inneggianti ad amori eterni e fanfaronate sessuali in egual misura, mentre il cielo sopra i Colli si scuriva screziandosi di viola e porpora. Anche se io non ero per niente in condizioni di apprezzarne la malinconica suggestione.
In qualche modo (non chiedetemi come) feci ritorno a casa. Spingendo la bicicletta a mano, è ovvio, e riflettendo seriamente su quanto sarei riuscire a spuntare dal prezzo d’acquisto se l’avessi riportata dal negoziante il giorno dopo. Il mattino seguente, l’ultimo dei miei problemi riguardava l’ipotesi di spingermi fin da Ciscato Cicli, al fine di concludere quella codarda restituzione. Molto più totalizzante era l’esperienza del dolore che stava straziando ogni singola cellula del mio corpo, inchiodato nel letto senza la minima realistica previsione di potermi muovere. Con gli occhi sbarrati, fissi sul soffitto (avevo la concreta sensazione che mi dolessero anche le palpebre, e forse non era solo immaginazione), palleggiai nella mente l’allettante idea di telefonare in banca per darmi malato. O direttamente deceduto. Alla fine il senso del dovere ebbe la meglio, e riuscii ad alzarmi e ad arrivare in cucina. Muovendomi al rallentatore come un centenario artritico che per sovrappiù se l’era fatta pure nei pantaloni, buttai giù due aspirine nel tentativo di lenire almeno in parte i lancinanti morsi dell’acido lattico in ebollizione, e strisciai incontro ad una giornata di cui non riuscivo a scorgere la fine.
Da quel giorno di circa un anno fa, a poco a poco, le cose sono migliorate. Si fa il callo a tutto, nella vita, ne so qualcosa io, e di certo non saranno le "fisime" di un corpo fuori allenamento a buttarmi giù. Per quanto dolorose possano essere (è passata una settimana buona, da quella prima sconfortante performance, prima che prendessi in considerazione l’ipotesi di riinfilarmi quello strumento di tortura tra le gambe). Adesso vado che è un piacere, disinvolto al punto da godermi il panorama e scambiare qualche cortese cenno di saluto nell’incrociare eventuali compagni di scampagnata. Non sono certo diventato un figurino, ci mancherebbe, anche perché non basta una pedalatina quotidiana, tempo permettendo, a contrastare le sirene tentatrici e perniciose di una buona pizza o una grigliata di carne. In ogni caso devo ammettere, con la vergognosa ritrosìa di chi non ci vedeva troppo "dentro", che mi sento decisamente meglio, considerato oltretutto che, come si dice, tutto aiuta, e le rogne del fumo e dell’alcool sono ormai ricordi lontani.
Oh, ma adesso si è fatto tardi davvero, e devo portare giù di sotto Albertone, prima che decida di innaffiare il parquet con una copiosa spruzzata di "eau de pipì"… Bene… direi che come prima seduta è filata via liscia…
A risentirci, dunque, quanto prima…
(TLAC)

3.

(TLAC)
Non me ne sono accorto subito, di quel viottolo. Beh, a dire la verità, in quei primi, massacranti esordi ciclistici non mi sarei accorto nemmeno di un tir col rimorchio lanciato contro di me a tutta velocità, intento com’ero ad arrancare sui pedali, un occhio sigillato dai brucianti rivoletti di sudore e il sibilo surriscaldato del respiro a fare da inquietante colonna sonora. E poi quel posto… come spiegarvi… pur essendo degno di nota… mmh… pareva mettersi d’impegno per dare nell’occhio il meno possibile. Il che è bizzarro in un normale viottolo di campagna, mentre appare molto più comprensibile (perlomeno da un certo punto di vista) se lo si considera come il punto in cui finisce il mondo. In ogni caso, ci sarò di sicuro transitato davanti una cinquantina di volte, prima di buttarci l’occhio, intento probabilmente ad osservare tutt’altre cose, il disegno butterato del cemento, una rigogliosa parata di roseti lungo una rete di recinzione, lo stimolante panorama del fondo schiena di una fanciulla impegnata a fare jogging. E questo nonostante il viottolo si trovi in un punto per niente suggestivo del percorso ciclabile, costeggiante per un lungo tratto la statale che porta verso Noventa, e più giù in territorio padovano, una caotica sequela di auto e furgoni e camion senza un attimo di tregua. In mezzo c’è la strada, come detto, dalla parte dei colli una desolante ed inguardabile zona industriale artigianale, con i suoi capannoncini grigi e sgraziati, e di qua la ciclabile, che si snoda seguendo il corso di un placido canale d’irrigazione.
E proprio lì, dove la pista torna a riinfilarsi in tutta fretta tra i filari di viti e i campi (quasi si vergognasse di essere stata costretta a passare per quell’indecoroso scenario), sorge un ponticello. Prima cosa strana: in tutto il resto della zona, ponticelli grandi o piccoli che scavalchino le acque ferme dei fossi o dei canali sono costituiti da passerelle spigolose di cemento grigio e ringhiere di ferro semiarrugginito. Soluzioni industriali, per niente pretenziose. Quello no. Egli è un delizioso manufatto, dalle spallette composte da pietre squadrate, a congiungere con un dolce arco le due sponde. Al di là, all’ombra di un ragguardevole esemplare di gelso, il viottolo vero e proprio. Leggermente in salita, di polveroso terreno battuto, si arrampica deciso sul terrapieno di un argine rigoglioso d’erba, per sparirvi oltre la sommità.
Non so come spiegarvi, ma dà proprio l’impressione di essere una porzione di luogo estraneo a tutto quello che lo circonda. Come se all’improvviso, voltando un angolo di una via della vostra conosciuta città, vi imbatteste in una selva di grattacieli newyorchesi o la candida spiaggia di una baia caraibica. Non c’entra niente con tutto il resto, per capirci. Se uno si sforza nell’escludere il rombo continuo dei tir dietro le spalle, e a non badare al fluire limaccioso dell’acqua nel canale, potrebbe pensare di star rimirando un’angolo di campagna toscana o inglese. Ed è esattamente la sensazione che provai io quel pomeriggio mentre, senza motivo apparente, mi bloccavo in quel punto. Di solito è così che succede, no ? Non si ha ben chiaro l’impulso che ci fa alzare lo sguardo all’improvviso, a scoprire un particolare architettonico su un palazzo mai notato prima di allora, o una porzione di arcobaleno nel cielo estivo. Però succede. Come ripeto, non so cosa mi spinse a fermarmi là, forse il desiderio di bere un goccio d’acqua dalla borraccia o di frugarmi nel marsupio alla ricerca di una caramella, però lo feci. Lasciai vagare lo sguardo sul fiume di metallo transitante lungo la statale, sulle rose ormai sfiorite che perdevano petali avvizziti come lembi di carta bruciacchiata, divertito dalla risata argentina di due ragazzine che mi sfrecciavano accanto sui pattini. E tutto ad un tratto (anche se so che è un’espressione azzardata) il viottolo apparve ai miei occhi.
"E’ bellissimo", ricordo di aver pensato (lo ricordo come si ricorda il tumultuoso batticuore del primo amore) e, subito dopo, "domani porto con me la macchina fotografica". Cosa che feci, la sera seguente, avvicinandomi a quel punto con l’assurdo e titubante timore di un amante che non è certo di trovare la sua bella all’appuntamento. C’era, naturalmente, e così, con le mani per niente salde, inquadrai ponticello e viottolo nel mirino della mia Canon e scattai. La cosa assolutamente bizzarra ed incomprensibile era come in quel punto non stazionasse perennemente un nutrito capannello di gente rapita da quella visione mozzafiato. Cavoli, sprechiamo secondi preziosi del nostro stringato tempo anche per molto meno… Là di fronte avrebbero dovuto esserci in continuazione persone impalate come il sottoscritto, la bocca socchiusa per lo stupore e la sorpresa, e invece in quel momento, e in tutte le successive occasioni, ero l’unico ad interpretare la parte del gonzo a spasso nel bel mezzo di una pista ciclabile, mentre tutto il resto dei suoi frequentatori mi sfilava accanto imperterrito. Qualcuno di sicuro indispettito dalla mia ingombrante paralisi mistica. E ancora, nelle guide turistiche della zona sarebbe dovuta figurare una segnalazione di riguardo per "un angolo di paradiso a pochi chilometri dal centro storico", alla stregua delle ville palladiane e i percorsi naturalistici sull’Altopiano, così da attirare lì appassionati e amanti del bello, come mosche affamate su una goccia di miele. E invece, ciccia. Quel posto, nato per risuonare di clic di macchine fotografiche e ronzìi di cineprese, non se lo filava proprio nessuno. Ma quali macchine fotografiche, poi ! Credetemi, quello era il punto ideale, se si aveva un minimo di mano felice, in cui piantare un cavalletto con su una bella tela vergine per cercare di immortalare un’indiscutibile materializzazione della Bellezza. Quella con la B maiuscola. Mentre per sicurezza scattavo un’altra posa (una coppia in bici mi superò senza minimamente ficcare il naso sul soggetto di quella mia inquadratura, ed è tutto da dire) convenni con me stesso che, in determinati momenti particolari, che so, sotto una nevicata, o dopo un burrascoso temporale, coi raggi del sole che filtrano tra le nuvole nere come lame di luce abbagliante, o ancora durante un tramonto particolarmente maestoso… beh, l’animo di un eventuale osservatore sarebbe stato messo a dura prova. Quel posto poteva stroncarti con la sua stessa magia.
Mi riscossi (non mi entusiasma usare termini che sottindendano sensazioni diverse da quelle di un normale comportamento cosciente, quali mi apparve o mi riscossi, per l’appunto, ma volente o nolente il senso è quello), girando la testa in direzione dei capannoni industriali al di là della strada, quasi per disintossicarmi da quella overdose di piacere estatico. E il contrasto, ve lo devo confessare, strideva in maniera quasi insopportabile. Nei pressi di una (brutta) villetta in costruzione, un gruppetto di ragazzini era intento ad esplorare una poco affascinante montagnola formata dai detriti del cantiere. Ora, non ricordavo alla perfezione i meccanismi che regolavano la mia, di adolescenza, in tema di tempo libero (era passata un bel po’ di acqua sotto i ponti, per lunghi periodi molto "corretta" con alcolici vari), anche se ritenevo di essere stato, come tutti i ragazzini del mondo, particolarmente attratto da ambienti ben poco suggestivi, tipo cantieri o cave o discariche. Forse perché, a quei tempi, era quello che passava il convento. Però non ero per niente convinto che avrei barattato quel viottolo alla mia destra in favore di un arido (e pericoloso) mucchio di mattoni rotti e pezzi di tegole e ferri arrugginiti. Con la supponente superiorità di chi pensa, anche non volendolo, "Ah, queste nuove generazioni ! Ai miei tempi sì, che si sapeva come divertirsi !", tornai ad osservare in direzione del ponticello, avvertendone (pur se l’ultima volta in cui mi sono creduto un cowboy cacciatore di taglie doveva risalire grosso modo al secolo scorso) tutta la sua ammaliante "promessa" di sapersi trasformare in quello che più ci aggradava. La polverosa main street di Abilene City, ad esempio, dove ambientare duelli all’ultimo sangue, piuttosto che il viale d’accesso ad un maniero medievale popolato da elfi e giganti. O ancora, perché no, il punto di atterraggio di una fantascientifica astronave (ben più della bici che mi dondolava tra le gambe) in esplorazione ad un pianeta incontaminato e solo apparentemente disabitato.
Ricapitolando, c’era più di un particolare che non quagliava. Oltretutto, a guardare meglio, non pareva esserci il minimo segnale che impedisse, come dire, di inoltrarsi in quella direzione. Nessun cancello, né una catena tesa tra le due estremità del viottolo, com’è usanza nelle nostre campagne per tenere fuori dai piedi gli indesiderati. Non si notava alcun minaccioso cartello, dichiarante "Proprietà privata - non oltrepassare !", affisso al possente tronco del gelso, magari "roso" dalla ruggine e sforacchiato dai pallini di qualche cacciatore di passaggio. Il tutto era invitante, come il sorriso di una bella donna sdraiata sul divano di casa, e il desiderio di incamminarsi, magari solo per appoggiare il palmo della mano sulla spalletta del ponte calda di sole, sembrava irresistibile. E che dire del dolce declivio erboso dell’argine, più in là ? Se esisteva un posto ideale al mondo in cui sdraiarsi, con uno stelo d’erba tra le labbra, a rimirare il cielo azzurro, sprecando ore nell’immaginare visi e forme e animali fantastici tra le nuvole candide come panna montata… beh, signori e signore, eccolo servito su un vassoio d’argento ! E non parlo solo di dodicenni annoiati che hanno buon tempo da perdere, ma anche (e soprattutto) per decrepiti impiegati bancari con troppa pancia e pochi capelli…
L’impulso, il desiderio di parcheggiare lì la bici (di lasciarla cadere) e imboccare quella che sembrava essere la Madre di tutti i sentieri fiabeschi mi attraversò il corpo immobile come un fulmine benigno e sensuale.
Non mossi un passo, in realtà.
Né in quel frangente né in nessun’altra occasione, fino a questo preciso momento in cui sono qui a parlarvi attraverso un microfono.
(TLAC)
 

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***



4.

(TLAC)
Perché non sono mai andato oltre ? Mmh, bella domanda, di quelle da cento milioni. Se voi conoscete la risposta, fortunatissimi. Per quel che mi riguarda, non ne ho la più pallida idea. Ci ho pensato su, ci mancherebbe, dandomi di volta in volta dell’assurdo, del cretino o del codardo, anche se quest’ultima definizione presuppone una controparte di cui si abbia paura, mentre quel viottolo è tutto fuorchè una cosa spaventevole. Ci ho rimuginato su per gran parte della notte, a volte, ma forse solo perché avevo esagerato con la peperonata a cena, e in altri momenti ci pensavo talmente su da caricarmi come un pugile in vista del match per la corona mondiale. Stasera ci vado, mi ripetevo compilando bollettini e libretti di assegni dietro il vetro del mio sportello, stasera arrivo là e, senza neanche rallentare, sfreccio oltre il ponticello, fermando la bici solo una volta giunto sulla sommità dell’argine, dove potrò finalmente vedere… Non l’ho mai fatto. Non l’ho ancora fatto. Oh certo, ci sono state occasioni in cui mi sono spinto sino all’imbocco del ponte, e una volta in cui ero particolarmente ispirato (avevo sognato Sandra, e quel modo tutto suo di osservarmi piegando un po’ la testa, come se mi studiasse ancora dopo secoli di vita insieme) ho appoggiato il palmo della mano su una delle pietre della spalletta. Era calda di sole, come doveva essere, e ruvida e reale.
(TLAC)
(RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Ho voluto riascoltare quest’ultima parte, dato che mi era uscita tutta d’un fiato quasi senza che me ne accorgessi. Non ho niente da rettificare, se non che anche quel reale mi è scappato fuori del tutto spontaneo, pur rendendomi conto della sua palese assurdità. Non so se vi ho dato questa sensazione, ma non volevo affatto trasmettervi l’impressione che stiamo parlando di un sogno, o un’apparizione magica… Ad ogni modo per alcuni giorni, dopo la seduta fotografica, non ho potuto fare il mio solito giretto serale. Un pomeriggio ha fatto quattro gocce, e non amo particolarmente pedalare sotto l’acqua (sono della generazione dei "Corri piano se no sudi" e dei "Rimettiti immediatamente la canottiera !") e poi ho dovuto occuparmi di una delle solite crisi di mia madre, per evitare che facesse impazzire troppo gli infermieri e i volontari della casa di riposo in cui è ospite. Immagino vi starete aspettando ora la balbettante ammissione che l’impossibilità di fare una capatina sino al viottolo abbia scatenato in me un’irrefrenabile crisi isterica, simile all’astinenza di un tossicodipendente… Mi dispiace deludervi, ma non è accaduto niente di così morboso. Anzi, non è successo proprio niente di niente. Sì, d’accordo, un pelo mi era dispiaciuto, ma nulla di più di un’assennata e normalissima delusione per non poter vedere una cosa particolarmente piacevole. Mi "consolai", sempre per modo di dire, con la foto che avevo attaccato al pannello degli appunti nel mio striminzito sportello bancario. E con la sua "gemella" sulla lavagnetta della cucina. Beh, ve lo detto che avevo scattato due pose, per sicurezza, e non vedo perché avrei dovuto buttarne una. A tratti, quando non c’era nessun cliente davanti a me, mi ritrovavo ad osservarla (ad osservarla normalmente, non "ipnotizzato" o "ammaliato", tanto per esser chiari). Nonostante non fossi per niente un Oliviero Toscani dal punto di vista fotografico (oltre che un Sean Connery da quello estetico), la foto rendeva tutto sommato abbastanza giustizia al luogo, anche se ritenevo umilmente che buona parte della sua riuscita era dovuta all’indiscutibile bellezza del soggetto. Quello che suonava del tutto bizzarro, a pensarci bene, era che un’ipotetica didascalia a quell’immagine non sarebbe affatto stata "Paesaggio italiano - Toscana" o "Landscape of Sussex", bensì una molto meno suggestiva "Z.A.I. di Bugano - frazione di Torri di Arcugnano".
Ecco, l’ho detto, più o meno, dove si trova quel posto. Beh, poco male, non era mia particolare intenzione di fare il misterioso, né tantomeno di tenere per me questa informazione. In fondo quel viottolo non è certo nascosto, né segreto, sta là e chiunque lo può vedere con i propri occhi, se crede, quando meglio gli aggrada, mattina, pomeriggio o sera… E’ buffo, non ho mai provato alcuna curiosità di farvi una capatina dopo il tramonto. Ecco, lo sapevo, adesso starete pensando tutti che qualcosa… a livello del mio subconscio… mi ha prudentemente consigliato di stare alla larga da quel posto al primo calar delle tenebre… Uff, ve l’ho detto, non ho nessun motivo di ritenere che ci sia qualcosa di inquietante, di minaccioso, o ancor meno di stregato, in quel pezzo di campagna. E’ possibile che
(forse)
un attimo... azzardo qui un’opinione personale, magari un po’ prematura… sarebbe il caso di fare ancora due chiacchiere, prima di scoprire le carte in tavola, ma se il mio soliloquio mi ha condotto sin qui… dunque, in totale franchezza, alla luce di tutto quello che ho dedotto sino ad oggi, è possibile che io prenda in considerazione l’ipotesi che quel posto sia in grado di… come dire… di fare qualcosa, anche se metterei all’istante la mano sul fuoco che non si tratta di niente di negativo o maligno.
Oh, e questa l’ho detta !
Tornando a noi, lo ribadisco ancora una volta, chiunque passando di là (anche in auto, basta che non vi distraiate al punto da farvi arrotare da un tir impaziente, e può succedere, non mi stancherò mai di ripeterlo) può voltare la testa e farsi riempire gli occhi e il cuore di ’sì tanta bellezza. E’ capitato a me, e non sono neanche l’unico (poi ne parliamo), e se voi al contrario ci tenete la mortadella sui vostri, di occhi… beh, senza offesa, ma non è certo colpa mia… Il meccanismo è talmente semplice e lineare: fate un salto fin là, date un’occhiata al ponticello… e lo attraversate. Tac. E che ci vuole ? Io, ad esempio, che sto qui tanto a fare il saccente, non ci sono ancora riuscito. Non so cosa me lo abbia impedito, se mi è mancato il coraggio (coraggio di che ?) piuttosto che la curiosità o la forza di volontà. Boh. Non mi è venuto di farlo e tanto fa.
Sapete, ci ho riflettuto su, e non mi crea particolari problemi l’eventualità di passare per sciroccato. Per tutta una serie di motivi. Primo, perché se qualcuno… chissà chi, poi… sta ascoltando queste mie frasi registrate, vorrà dire che il sottoscritto, bene o male, non è più in circolazione, e quindi... In secondo luogo, poi, non credo di trovarci niente di così disdicevole, nell’essere matti. Ci sono un sacco di tipi di "mattitudini". I calpestaneonati e gli abbattigrattacieli di cui sopra, ad esempio (quelli sono matti veri, e cattivi, per giunta. Di quelli sì, che c’è da averne paura, altro che di un innocente viottolo). Ma c’è anche gente che parla con i gatti, e si diverte ad abbracciare gli alberi, e pensa che calpestare i segni di giunzione tra le lastre di un marciapiede possa causare sconquassi indicibili. Mia madre, per dirne una, il più delle volte mi scambia per qualcun altro e mi chiama Gianni o Alfredo (i nomi di suo marito e di suo fratello) ma mai al mondo oserei pensare che le manchi qualche rotella, per questo. Se sono matto e questo fa sì che comunque io non arrechi il minimo danno ad alcuno, riuscendo nel contempo ad allacciarmi le scarpe, a compilare bollettini per il versamento nei conti correnti, e ancora a tenere un comportamento civile e cordiale con la gente che mi circonda… beh, allora mi metto in nota per la qualifica di picchiatello !
Decidendo così di correre il rischio di passare per tale, vado avanti con l’esposizione delle mie personali teorie riguardo a quel delizioso viottolo.
Dunque… prima Teoria Vicariana su dove finisce il mondo: quel posto così denominato è reale, sta al chilometro tot della statale Riviera Berica e non fa assolutamente niente per sottrarsi agli sguardi dei passanti.
Postulato: evidentemente è un problema dei suddetti viandanti il riuscire a vederlo o meno. Forse è necessaria una particolare condizione dell’animo. Può essere che occorra averne voglia, di vederlo, oppure c’è un momento, uno stato d’animo, un dato grado di umidità, o di luminosità (magari di luminosità interna, anche se io mi sento tutto fuori che rilucente) che fa si che ciò possa avvenire. Se c’è, tanto per mettere le mani avanti, io ne sono all’oscuro.
Seconda Teoria: quel viottolo, e il ponticello che porta ad esso, sono assolutamente percorribili, non sussistono impedimenti di sorta, sotto forma di cani ringhianti o contadini armati di forcone, in definitiva nulla che ci vieti di salire sull’argine e dare un’occhiata a quel che c’è al di là (presumibilmente una piatta distesa di campi coltivati) e se qualcuno non riesce a compiere i passi necessari (sto alzando la mano come uno scolaretto diligente) dipenderà forse dal fatto che
Che non sono pronto. Sì, lo so che suona alquanto deludente come analisi finale, e che non sa per niente da formula scientifica (né tantomeno magica) ma questo è tutto quello a cui sono arrivato.
Vi dicevo di mia madre. E’ricoverata (anche se la Direzione della casa di riposo preferisce considerarla "ospite") in una struttura assistenziale a pochi isolati da dove abito. Un pensionato, un ospizio, nè più nè meno. Non cambia il senso delle cose. Un veciodromo, lo chiamava uno che conoscevo. Sono anni che è ospite, da poco dopo che è mancato mio padre. Abitavano in un minuscolo appartamentino al piano rialzato di una di quelle case del vecchio quartiere dei Ferrovieri… avete presente, no ? Quello che sembra in tutto e per tutto un quartiere operaio inglese, con i fabbricati di mattoni rossastri e le porte d’ingresso tutte uguali e anonime come file di soldati impettiti. Hanno vissuto là, assieme, con tre o quattro gatti, a seconda, e le loro rigogliose piante di fiori coltivate su un minuscolo terrazzino che dava sulla via (rigogliose mica per niente, visto che per tutta la loro vita hanno gestito una fioreria) fino al giorno in cui un infarto si è portato via mio padre. Per mia madre, testarda come tutti gli anziani che hanno penato per guadagnarsi da vivere e crescere i propri figli, non era prevista alcuna soluzione alternativa, perlomeno diversa dal fatto che lei avrebbe continuato ad abitare nella casa che aveva diviso con l’uomo della sua vita, continuando imperterrita a far sloggiare i soriani dal divano riparato da un telo di plastica. E a far sbocciare peonie e campanule, ciclamini e geranii in un tripudio di colori e profumi che faceva bonariamente avvelenare il fegato alla mia invidiosa moglie. Per un pò è filato tutto liscio. Io e mio fratello Federico ci alternavano per capitare "casualmente" da quelle parti (guai a farsi sgamare che la visita non fosse per niente casuale o disinteressata, ma bensì un’odioso sopralluogo di controllo, come se lei, che ci aveva messo al mondo e nutrito e vestito ed educato, non fosse in grado di badare a sè stessa), quando non ci riunivamo là con le nostre famiglie per qualche ricorrenza particolare. Poi sono cominciati i problemi, dapprima in sordina, subdolamente camuffati da banali incidenti. Il telecomando della tivu "dimenticato" da qualche parte, nel bagno o dentro un cassetto. Un intervento urgente per correre là col secondo mazzo di chiavi, per permetterle di rientrare in casa dopo che sbadatamente si era tirata la porta alle spalle. Il giorno d’inverno che una telefonata preoccupata dei vicini ci costrinse ad andarla a recuperare mentre passeggiava in vestaglia sul prato spelacchiato e ghiacciato del parco giochi che sorgeva al centro del quartiere, capimmo che le cose non stavano affatto andando bene. Quando la avvolsi nel mio giubbotto per evitare che si trasformasse in un surgelato di madre, sbraitandole contro a metà tra l’indignato e il preoccupato, lei mi guardò con uno sguardo perso e desolato, sostenendo, candida ma risoluta, che se non si fosse affrettata a correre ad aprire la fioreria, la figlia dell’avvocato Peron non avrebbe mai ricevuto in tempo il boquet per il suo attesissimo matrimonio. Come avrete capito, la primogenita del legale in quel preciso istante, o giù di lì, stava probabilmente festeggiando le proprie nozze d’argento, se tutto era filato liscio, e la fioreria dei miei aveva lasciato il posto ad un negozio di dischi da tempo immemorabile.
Da quel momento in avanti, come un microscopico sassolino rotolante che abbia come unica colpa quella di essere l’innesco di una valanga inarrestabile e disastrosa, le cose cominciarono a precipitare. Gli episodi di smemoratezza (di assenza, come li definì malinconicamente mio fratello Federico dopo avervi assistito senza che la "sorvegliata speciale" se ne accorgesse) presero ad assumere valenze decisamente preoccupanti. Il poco affascinante gioco di prestigio conosciuto come "portentosa sparizione del telecomando" andò in scena ancora in un paio di occasioni, prima di diventare definitivo una domenica di fine novembre. E la volete sapere una cosa ? Non venne più ritrovato. Le minuziose ricerche da parte di una solerte task-force costituita da Sandra e il sottoscritto, da mio fratello con sua moglie Lisa, più il determinante contribuito del piccolo Armando, il loro figlioletto di otto anni, che si intrufolava con comico impegno in ogni anta di armadio e sportello di mobile (mentre mia madre al centro della sala, smarrita e fragile da strizzare il cuore, insisteva a spergiurare di non averlo toccato. E guai a metterlo in dubbio, anche solo con un’alzata di sopracciglia un po’ troppo ostentata) non diedero il minimo risultato positivo. E tantomeno durante i cupi e polverosi giorni in cui io e mio fratello ci siamo massacrati in una colossale ripulita al minuscolo appartamento, all’indomani del ricovero di mia madre (del diventare ospite) in casa di riposo. Il ricercato non saltò mai più fuori.
Le cose… le piccole cose, i lievi spostamenti… le bizzarrìe…niente di eclatante o drammatico, e proprio per questo ancora più agghiaccianti… di cui io e Federico abbiamo dovuto prendere atto in quella nostra opera di bonifica… Ritengo del tutto fuori luogo spendere adesso ulteriori parole per puntualizzare qualcosa di più, al riguardo, e soprattutto che sia ininfluente ai fini di questa mia… relazione. Ed oltretutto, a voler dire le cose come stanno, il mio desiderio più pressante vorrebbe essere quello di evitare che quei ricordi si facciano troppo strada all’interno della mia testa (e della mia anima), perché ancora oggi, ad anni di distanza, conservano tutto il loro maligno potere di lacerare e straziare con aculei intrisi di bruciante veleno. Piccole cose, ve lo garantisco, ma con tutta l’orrenda capacità di connotare, come inattaccabili indizi di un delitto perfetto, la lucida ed inesorabile dipartita di un essere umano verso l’oblìo. Ci sono volte, dopo che magari ho esagerato con le strigliate a mia madre in seguito a qualche sua "escandescenza" un po’ troppo oltre le righe, in cui mi ritrovo impalato nel soggiorno di casa. A fissare il mio, di telecomando, diligentemente parcheggiato al proprio posto ufficiale sul bracciolo di sinistra del divano. Me ne rimango lì, con lo sguardo appannato, a lambiccarmi il cervello nel chiedermi che razza di fine abbia fatto, quell’apparecchietto pieno di pulsanti colorati. Dove diavolo possa essere finito. E ogni volta non riesco a fare a meno di immaginare la minuscola figura della donna che mi ha donato la vita, di vederla afferrare quell’aggeggio, portandoselo con sè nei borbottanti andirivieni all’interno dell’appartamento (e del terrazzino ? All’esterno della via ?) sino a lasciarlo cadere. Lasciarlo cadere dove ? Dove, mamma, in quale misteriosa piega del tempo e dello spazio hai fatto sparire quel dannato telecomando ?
A quel punto mi riscuoto, mentre i turbolenti pensieri si dissolvono come effimere bolle di qualche magma ribollente, e procedo lungo la mia grigia giornata, dandomi sonoramente del coglione, nel profondo della mia anima, per aver sbraitato ancora una volta contro quella creatura indifesa e senza colpa che se ne sta là, ospite di quel… quella specie di limbo in terra…
La decisione del ricovero è stato sofferta ma inevitabile, anche a sentire il professionale parere del medico di famiglia. Non sarebbe stato salutare attendere che le piccole cose si tramutassero in grandi, rischiando di divenire pericolose, con la concreta possibilità che altri oggetti, ben più importanti, seguissero le orme dell’aggeggio atto a cambiare canale. Che so, il libretto della pensione piuttosto che i gioielli di famiglia a cui mia madre era molto affezionata. Poca roba, non certo il tesoro della Corona britannica, che comunque non era il caso di metterli in condizione di finire la loro luccicante esistenza in un’aiuola dei giardinetti, o in qualche altro posto ancora meno decoroso. E poi in quella casa i gatti avevano preso il sopravvento, "subodorando" forse lo scemare dell’autorità della loro stranita padrona, e più di qualche volta l’avevano battuta sul tempo, balzando sulla tavola per far fuori lo scarno pasto che lei si era preparata, sfrontati e perfidi come solo i felini sanno essere. Fummo costretti ad appoggiarci ad una struttura assistenziale, volenti o nolenti. Checchè se ne dica, certe cose non si possono improvvisare, soprattutto nei riguardi di situazioni così degenerative. E poi, con tutta la buona volontà, a quel tempo sia io che Sandra stavamo fuori casa per lavoro per la maggior parte del tempo, e i metri quadrati dell’appartamento di mio fratello bastavano a fatica per sé e la sua poco numerosa famiglia.
Mio Dio… me ne rendo conto, non sono tenuto a dirvi tutto, a raccontarvi per filo e per segno ogni sventura della mia vita come se queste fossero delle memorie autobiografiche anziché il pretesto per parlarvi di quello che ho scoperto. Per questo vorrei… con tutto me stesso, lo vorrei… che la mente non continuasse a proiettare immagini di momenti e situazioni in grado di spaccarmi il cuore. Ma non ce la faccio, proprio non ci riesco… Dio santo, avreste dovuto vederla, persa nel suo cappottino verde, la borsetta stretta al petto come se contenesse segreti fondamentali per la salvezza del mondo, immobile ad aspettare sulla porta di casa. Quando io e mio fratello siamo scesi dall’auto, avvicinandoci come insensibili poliziotti in borghese, lei aveva preso a cianciare su suo marito Gianni che non riusciva mai ad arrivare puntuale, nemmeno se avesse dovuto andare in chiesa a sposarsi, e poi che bisognava assolutamente ricordarsi di passare in fioreria ad attaccare il riscaldamento, e tutto ciò ci aveva fatto scambiare un’occhiata eloquente, sottolineata da un sofferto sospiro di sollievo. Non era il massimo, sentire la propria madre borbottare dal sedile posteriore riguardo a persone ed avvenimenti ormai trascorsi da tempo immemorabile (parlarne come se gli avvenimenti dovessero ancora succedere, e le persone nominate, in quel preciso istante sotto il marmo di una tomba a godersi un meritato riposo, le avessero assicurato che sarebbero passate a farle visita quanto prima) ma in quel modo ci risparmiavamo l’eventuale, gravosa responsabilità di essere obbligati a motivare cosa ci costringeva a "strapparla via" da tutto quello che possedeva. Anche se una volta arrivati nell’ampio e asettico parcheggio della casa di cura, mentre l’aiutavo a scendere dallo scomodo abitacolo della Opel Tigra di Federico, lei mi aveva posato sull’avambraccio una mano fragile come la zampetta di un uccellino. Mi aveva guardato (e già il fatto che lo sguardo le si era fatto limpido, senza la vitrea estraneità che accompagnava quei suoi sproloqui temporali, aveva fatto accelerare in modo allarmante i battiti del mio cuore) sussurrando con una vena di supplica nella voce: Non vuoi mica far finire qui la tua mamma, vero Marchino-amore ?
L’unica cosa che mi riuscì di fare, tormentandomi tra i denti l’interno della guancia mentre una marea improvvisa di lacrime inopportune tentava di sgorgare come zampilli di fontana dai miei occhi, fu un sorriso beota e vuoto. Mio fratello, dall’altro lato dell ‘auto
(Federico-amore, secondo l’esclusivo vezzeggiativo materno che si portava dietro sin dall’infanzia)
non aveva ovviamente sentito nulla e io, per un fulmineo quanto travolgente istante, provai nei suoi confronti uno slancio di odio accecante, per aver avuto la casuale fortuna di non essere lui il destinatario di quell’inattesa e straziante invocazione di angoscia. Subito dopo, una professionale impiegata della struttura, vestita di rigoroso blu, si fece incontro, scortata dalla caposala, una sorta di Arnold Schwarzenegger in abiti da suora, e i timidi tentativi di mia madre di far valere le proprie ininfluenti ragioni furono soffocati in un consumato turbinìo di frasi a prova di anziano renitente. Si troverà benissimo qui da noi, e Vedrà con quante simpatiche signore potrà fare conoscenza, tanto per fare qualche banale esempio. E poi la peggiore, la più falsa e indisponente. Le sembrerà di essere come a casa. Il mio impulso nel sentire quelle parole, represso a fatica per non saltare al collo di Miss Tailleur blu e Sorella Terminator, fu di esplodere in un velenoso A casa ci si sente di essere se si è circondati dalle proprie cose, dalle foto del matrimonio nella cornice d’argento e la gondola comprata durante il viaggio di nozze, e non in una cosa a metà tra la stanza d’ospedale e una cella d’isolamento !!!. Non feci nulla di tutto ciò, naturalmente, limitandomi a seguire il drappello che si era mosso in direzione dell’edificio, scortando mia madre come fosse il pericolo pubblico più innocuo del mondo.
(TLAC)
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Scusate. Mi sono fatto prendere la mano. Mi succede ogni volta, e non credo sia il massimo affidare ad una registrazione la propria voce lagnosa e ingolfata di lacrime. E’ da un po’ che cerco di capire se parte della decisione di approfondire la mia curiosità nei confronti di quel viottolo (buona parte) ha a che fare anche con la situazione di mia madre, e subito dopo mi chiedo chi diavolo sto cercando di prendere in giro… E’ talmente evidente. So di essere fatto piuttosto male, ma mi è impossibile tenere un comportamento distaccato e impersonale riguardo a quel posto… parlo dell’ospizio… e alla condizione di lei. Cerco di ripetermi che spesso può essere inevitabile, e che oltretutto è una cosa assolutamente naturale. Che anche questo fa parte della vita. In fondo non siamo la prima né l’ultima famiglia che si sia trovata di fronte ad un tale tipo di decisione. Ma è proprio più forte di me. Non so se c’è qualcuno al mondo che si trovi a proprio agio di fronte alla sofferenza e al decadimento (se ci sguazza, magari) ma di sicuro non si tratta del sottoscritto. Lo dico chiaro e tondo. Ricapitolando, non sono né Sean Connery, né Oliviero Toscani. E ancora meno Madre Teresa di Calcutta. Non entro volentieri in quel posto. Lo faccio perché devo, perché non sarebbe giusto che se ne occupasse in toto mio fratello (né tantomeno mi pare il caso di abbandonarla al suo destino, ci mancherebbe, anche se nove volte su dieci mi scambia per qualcun’altro) e poi perché ritengo che non si possa rifuggire da tutto, nella vita. Ma mi costa enorme sofferenza, lo ammetto, in costante aumento ad ogni occasione in cui varco la soglia di quel posto. Fin che ho avuto l’immensa fortuna di avere a fianco la mia amata Sandra ne ho approfittato bassamente, nascondendomi nella sua ombra (senza il minimo dubbio, era una persona mille volte migliore di me) e lasciando che fosse lei a fare il "lavoro sporco". Mi dava l’impressione che riuscisse a sopportarlo meglio (e la vigliacca giustificazione con cui cercavo, inutilmente, di ingannare la mia sporca coscienza era che lei non ne era coinvolta a livello affettivo quanto me), dedicandosi a quell’incombenza se non con piacere, perlomeno con ammirevole coscienziosità. Io, nei limiti del possibile, me ne stavo alla larga da quei gironi danteschi che, per quanto tirati a lucido e disinfettati e luminosi, celavano un sottofondo di disperazione e sofferenza in grado di paralizzarmi. Forse rendendomi inconsciamente conto di quanto quelle stanze, quei volti rugosi, quelle bocche spalancate e bavose, quegli occhi disperati e vivi, fossero in realtà uno specchio, un volto a cui prima o poi tutti siamo destinati ad assomigliare. Perlomeno i più (o i meno, a seconda dei punti di vista) fortunati. Sono pienamente conscio che qualcuno, in qualche modo, deve farsi carico di questo tipo di problema, a meno di non voler prendere in considerazione bizzarri "esilii forzati" in uso presso antiche tribù primitive nei confronti di chi è giunto al termine del proprio cammino in questa vita. Immagino anche, che se e quando mi troverò io in quelle condizioni, sarò profondamente grato a chi si farà il mazzo per imboccarmi di minestra, per pulire gli effetti delle disfunzioni di un corpo ormai fuori controllo, per tenermi la mano nel momento del distacco. Solo che non sono in grado di farlo a mia volta. Non reggo il confronto con la sofferenza, col disfacimento, con l’inesorabile perdita di facoltà che sono l’essenza stessa dell’essere umani. E’ una debolezza di cui prendo atto, e della quale mi assumo pienamente le mie eventuali responsabilità. C’è chi non è in grado di sopportare la vista del sangue, o degli insetti e dei serpenti. A me succede la stessa cosa con l’inesorabile appassire della vita umana. Non mi spaventa la morte, è un concetto che non mi turba in maniera particolare, se non nei modi. Dio, o chi per Lui, forse è stato un po’ troppo creativo in questa particolare branca del progetto-uomo, mettendo in circolazione tutta una serie di spiacevoli "effetti collaterali" a cui la scienza ha dato nomi ostici e inquietanti… Alzaimher, Parkinson, affezioni tumorali per tutti i gusti… Potrebbe trattarsi della codarda "strizza" di uno che per una trentina d’anni si è ciucciato via un pacchetto di nicotina al giorno, ma qualcosa di più standardizzato, e soprattutto di molto meno devastante, forse sarebbe stato meglio. In fondo si viene al mondo in una sola maniera, non in varie combinazioni più o meno dolorose, e non sarebbe affatto male se anche la dipartita fosse dignitosa allo stesso modo. Una "dolce morte", magari nel sonno, forse sarebbe chiedere troppo, ma qualcosa di altrettanto istantaneo e poco impegnativo (e del tutto indolore, quale caratteristica fondamentale) potrebbe magari insegnare ai noi pavidi umani di avere un po’ meno terrore della Nera Signora. Un colpo secco e via che si va. O al limite, se il buon Dio aveva proprio voglia di farsi due risate, che so, una piccola "esplosione", l’importante è che fosse rapida e incruenta. Bam ! Cos’è stato ? E’ andato nonno ! Condoglianze !
Okay. Noto, con un certo sollievo, che sono ancora in grado di scherzarci su, e di parlarne a cuor leggero. E’ importante, direi. Allontana il sospetto, da me stesso in primo luogo, che la vita solitaria e monotona stia causando "crepe" particolarmente allarmanti nella mia tenuta mentale. Ci dò un taglio (almeno per il momento, per il proseguo della faccenda non ci metterei la mano sul fuoco) alla menata di mia madre e del posto in cui è ricoverata. Sono problemi miei, che forse, alla mia età, non hanno più margini per essere risolti, ma solo accettati con filosofia. Se ti deprime tanto vederla là dentro, potevi tenertela a casa, potrebbe obiettare qualcuno meno diplomatico di altri. Come ha fatto mio fratello un po’ di tempo fa, stufo di sentirmi rimuginare sempre il solito, trito discorso. Ci ho pure litigato, in seguito a questa sua spazientita reazione. E non ho certo intenzione di mettermi a questionare ora, qui, con degli interlocutori che non conosco, di cui non vedo le facce e che non so neanche se, prima o poi, esisteranno realmente.
La pianto con i piagnistei anche se, a dire il vero, in questo momento gli occhi mi lacrimano per il sonno… sono le… vediamo un po’… però, mezzanotte e quaranta… e la schiena costretta su questa scomoda sedia del soggiorno ha preso a inviarmi vibrate e dolorose proteste… Chiudo qui, per il momento, anche se ho il fondato sospetto che in quest’ultima seduta mi sia molto più "frignato" addosso, invece di fornire dettagli esaurienti e imparziali sull’argomento di cui sappiamo. Nel caso, chiedo scusa per la pallosità. In fondo, gli ipermercati forniscono "pacchi" di audiocassette in offerta speciale, per saziare la mia inguaribile logorrea, e poi esiste sempre un bel tasto di avanzamento veloce, a salvaguardia di un vostro, ipotetico "colpo di sonno".
Che, guarda caso, in questo istante sta abbattendo il sottoscritto. Vedi un po’ come va la vita, a volte, no ?
Buonanotte, signori, o buongiorno, o buon qualunque momento sia questo in cui mi state ascoltando, e a presto.
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5.

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Per tutto il tempo prima di tornare a sedermi su questa mia ormai consueta postazione, mi sono lambiccato il cervello su come proseguire il discorso. E’ impensabile che io vada ogni volta a riascoltarmi tutto quello che ho inciso fino al momento in cui interrompo la registrazione. Poteva andare bene per i primi dieci minuti di audiocassetta, ma a questo punto dovrei prendermi le ferie, per avere tempo sufficiente. Ed oltretutto il parlare "a vanvera", senza il minimo schema organizzato che ponga dei tempi e dei modi ben precisi, mi fa correre il concreto rischio di infognarmi in una melma di discorsi campati in aria, di frasi troncate a metà, senza capo né coda, di riflessioni molto personali e ben poco costruttive. Possiedo ancora sufficiente amor proprio per vergognarmi, e chiedere scusa, dell’assurdo sproloquio su case di riposo e modi di passare a miglior vita in cui mi sono esibito nell’ultima occasione. Nel quale sono addirittura arrivato a dare una burbera tiratina d’orecchie all’operato del nostro buon Padreterno. Ve l’ho detto. Fate dare aria alla bocca di un uomo, e bisognerà abbatterlo per farlo tacere. Senza peraltro esser giunti a conoscenza di quello che intendeva comunicare. Di certo andrebbe meglio se potessi, in qualche modo, rispondere a domande precise, sull’argomento, ma gli unici esseri viventi presenti in questo momento oltre al sottoscritto sono un sonnecchiante Albertone e un paio di mosche ronzanti e fastidiose. E nessuno di loro mi sembra particolarmente interessato a tartassarmi di interrogativi più o meno pertinenti.
Okay… magari si potrebbe provare ad inventarseli… Vediamo… qualcuno, dotato magari di un pizzico di attenzione in più, potrebbe esordire con A chi ti riferivi, quando hai detto di non essere l’unico, ad aver notato quel posto ? Mmh, buona domanda. Che mi fa capire che è giunto il momento di parlare del vecchio. Dunque, non so se ve ne ho accennato, in precedenza… vado a memoria… ma nei pressi del viottolo sorge una casa. Non ne fa parte (nel senso che non dà l’idea che il terreno su cui sorge il viottolo appartenga ed essa, e viceversa) tanto che è molto più in linea col resto dell’ambiente circostante. Vale a dire che è proprio bruttina. Non so che fine abbiano fatte le belle fattorie delle nostre zone, se mai ce ne sono state, ma quell’abitazione è ben poco affascinante, un parallelepipedo di cemento (con degli orrendi inserti di finta pietra a vista che peggiorano la situazione) scrostato e bisognoso di una decisa ritinteggiatura. E poi, quale inevitabile ciliegina su una pessima torta, una dotazione completa di quegli inguardabili infissi in alluminio alle finestre, che c’entrano col resto della casa come i classici cavoli a merenda. Anche il piccolo appezzamento di terreno intorno all’edificio, che chiamare giardino mi sembrerebbe eccessivo, pare volutamente essersi messo in sintonia con l’andazzo, esibendo una spelacchiata parodia di prato in cui becchettano una manciata di galline annoiate. Chiaro che a confronto con l’idilliaco spettacolo del ponticello e dell’argine tutto ciò diventa ancora più sgradevole, in primo luogo, e poi ben poco evidente. E’ una sorta di strano circolo vizioso: se ti lasci abbindolare dalla sgraziata zona industriale non noterai mai il viottolo, e se invece hai la fortuna di apprezzarne la presenza, tutto il resto passa in secondo, terzo e anche decimo piano. In ogni caso, un tardo pomeriggio in cui mi ritrovavo come al solito impalato ai bordi della ciclabile, con gli occhi fissi sul culmine del declivio al di là del ponte, come se da un momento all’altro dovesse fare capolino la carrozza di Cenerentola trainata da torme di topini bianchi, qualcuno parlò dietro le mie spalle. Immagino di esser sobbalzato come un ragazzino beccato a sbirciare le pagine proibite di un giornale per adulti, mentre con le guance infiammate mi voltavo in direzione della voce.
P-prego ?, balbettai confuso, dato che per la sorpresa non avevo per niente registrato il senso della frase rivoltami. A pochi passi da me scorsi, nell’ordine, un’enorme bicicletta da uomo, che dava l’idea di pesare due tonnellate (e di non essere per niente fantascientifica) dietro la quale sostava un ometto piccolo piccolo. Il cranio quasi del tutto calvo, fatta eccezione per una chierica di capelli grigiastri, sembrava quasi riverberare nella luce del tramonto estivo, e sul naso sfoggiava il più grande paio di occhiali da presbite che avessi mai visto. Poteva avere grosso modo un’ottantina d’anni (in seguito, conoscendolo meglio, potei verificare l’esattezza di quella mia stima preliminare), e in quel preciso istante mi fissava da sotto in su con sguardo divertito e bonario.
S-salve…, aggiunsi spiazzato, dato che al momento non pareva avere intenzione di riformulare la frase appena pronunciata. Elegante nella sua semplice camicia bianca a sottili righine gialle, fresca di stiratura, le maniche rimboccate con cura sugli avambracci asciutti, attese ancora un secondo prima di aprire bocca:
Fa effetto anche a lei, vero ?, disse infine, ammiccando in maniera complice con i grandi occhi espressivi, resi ancora più evidenti dalle spesse lenti degli occhiali. Io impiegai qualche attimo prima di realizzare il senso di quella domanda, mentre un leggero velo di rossore tornava a colorarmi le gote, neanche quel bizzarro omino mi avesse manifestato solidarietà riguardo a qualche pratica sconveniente e solitaria. La biglia luccicante che aveva come testa indicò con un pizzico di maggior veemenza in direzione del viottolo, e ancora una volta i maxi-occhioni ammiccarono divertiti. "A ‘sto punto tanto vale ammettere come stanno le cose", ricordo di aver pensato, anche perché tutta un’improvvisa serie di pressanti interrogativi in merito aveva preso a scalpitare da qualche parte nella mia testa.
Beh... sì, è notevole…, fu tutto quello che azzardai di replicare, con la circospetta prudenza di uno che esprima un complimento nei confronti di una bella donna, non essendo per niente sicuro di rivolgersi magari al marito, è… è di sua proprietà ?
L’omino appoggiò con cura la mega-bicicletta, che ovviamente non aveva in dotazione alcun cavalletto (niente fronzoli, per carità), alla recinzione rossa di ruggine di un giardino. Infilò una mano ampia e nodosa nelle profondità delle tasche dei pantaloni, estraendovi un grosso fazzoletto appallottolato con cui prese a strofinarsi la pelata lucida di sudore:
Di… mia proprietà ?!, ripetè divertito, assaporando quella strana ipotesi come fosse stato un frutto succoso, oh mio Dio, no… tutto ciò che rientra nei miei possedimenti è racchiuso all’interno di quel cortile, indicò il giardinetto brullo usato a mò di pascolo dalle galline, sul davanti della casa, e poi… che bizzarrìa… poter pensare che quel posto appartenga a qualcuno…
A proposito di bizzarrìe, quella fu la prima di una serie futura e nutrita di affermazioni, da parte di quello strano omino, che mi avrebbero lasciato un bel po’ perplesso, anche se quella nella fattispecie, a dire il vero, non mi impressionò particolarmente. Non più di altre che avrei ascoltato proseguendo nella frequentazione, prima che arrivassi quasi ad abituarmici. L’ometto, che si chiamava Aristide (non ricordo se mi avesse specificato anche il cognome… probabilmente sì, solo che io non l’ho registrato), di anni 72 per l’appunto, ex-meccanico in pensione, che viveva tutto solo nella casa alle nostre spalle (tutte informazioni che raccolsi in quella e in successive chiacchierate) parve quasi rendersi conto dell’opinabilità di quella sua descrizione:
Non è affatto un appezzamento di terreno privato…, precisò cordiale, mentre in me non si acquietava l’impressione che stesse eseguendo un’abile retromarcia verbale, …gli argini di solito sono di proprietà del demanio, anche se da un po’ di anni, da quando hanno realizzato quelle casse di espansione per il controllo delle alluvioni, più giù verso Debba, questo in particolare non serve più a molto… se ne sta là, come una scrupolosa sentinella di un avamposto in cui ormai non succederà mai più niente…, distolse lo sguardo dal declivio erboso, piantando gli occhioni da cartone animato nei miei, …da queste parti l’han sempre chiamato il posto dove finisce il mondo. E’ bizzarro, non trova ? Ma, mi dica, è già stato su là a dare un’occhiata ?
Ancora una volta quella domanda diretta e inattesa, che aveva quale argomento il tratto di terreno davanti a noi, mi fece trasalire come se l’eventuale risposta sottindendesse la confessione di chissà quale devianza.
I-Io ?!, balbettai sentendomi assolutamente assurdo, mentre mi frugavo nella testa alla ricerca di una risposta il meno compromettente possibile, Oh no !, sbottai frettoloso, tentando di alleggerire la tensione (che probabilmente avvertivo solo io) con una battuta di spirito, figurati se corro il rischio che il signor Gino Demanio se la prenda con me !
Il vecchietto ridacchiò deliziato, neanche mi fossi esibito nella battuta più esilarante di tutti i tempi, mentre io decidevo di rendergli pan per focaccia:
E lei ?, sibilai con un pizzico di incomprensibile perfidìa, come a volerlo punire di quella sua sfrontata curiosità. La domanda non parve impressionarlo più di tanto. Finì di ridacchiare con calma, asciugandosi l’angolo di una palpebra (il dito indice, non appena sotto l’effetto della lente degli occhiali, parve ingigantirsi alle dimensioni di un wurstel color rosa), prima di replicare a sua volta:
No, nemmeno io, affermò sereno e, a quanto pareva, assolutamente sincero. Non che mi convincesse troppo, era chiaro. Voglio dire, uno ci abita giusto davanti, chissà da quanti anni poi, e non gli è mai venuto il ghiribizzo di compiere tre o quattro passi in più, sino alla sommità dell’argine ? Improbabile, decisamente improbabile, e l’impulso fu quello di farglielo presente, se lui non avesse proseguito:
Le suona poco credibile, vero ?, disse, mentre le sopracciglia gli si alzavano in un arco espressivo che non poteva non renderlo simpaticissimo, mah, cosa vuole… due persone che s’incontrano per caso, due perfetti sconosciuti… a proposito, il mio nome è Aristide…
Marco Vicario, borbottai preso alla sprovvista, afferrando la mano che mi stava porgendo. La sua stretta era salda e asciutta, tipica di chi ha passato la vita a lottare contro bulloni e viti recalcitranti.
Piacere, disse cortese, riprendendo il discorso, in ogni caso, dicevo, due persone che non si conoscono affatto, che scambiano un paio di cordiali battute in attesa che arrivi l’ora di cena… che scopo avrebbero, di mentirsi l’un l’altro ?
A me venne da replicare che, proprio perché si trattava di un’incontro casuale, non sarebbe stato affatto anormale che uno dei due (magari particolarmente bizzarro, ma questo me lo sarei tenuto per me) decidesse di sparare… come dire… qualche frase ad effetto per impressionare l’interlocutore. Lui non mi dette il tempo di tradurre in frasi quel ragionamento:
So cosa sta pensando, proseguì con un largo sorriso sul volto tondeggiante, un simpatico vecchietto, magari un po’ toccato, che abita in quella vecchia casa da… vediamo un po’… fffiuuu, almeno cinquantacinque anni… è parecchio improbabile che non conosca i dintorni come le proprie tasche…
Mmh… più o meno… a parte la parte riguardante il "toccato"…, mi affrettai a replicare io, col preciso obiettivo di comunicargli che non lo ritenevo affatto tale. Lui sbirciò con noncuranza l’orologio sul polso abbronzato:
Signor… Marco… posso chiamarla così, vero ?, il tono di voce, fino a quel momento disinvolto e divertito, mutò lievemente. Non al punto da velarsi di connotazioni seriose o tantomeno inquietanti, ma superando il netto confine tra lo scambio di un paio di cordiali battute e qualcosa di molto più simile ad una confidenza personale. Quella almeno fu l’impressione che ne ricavai, unitamente ad un sottile senso di delusione nel rendermi conto che l’occhiata all’orologio sottindendeva la conclusione della nostra breve chiacchierata, vediamo come riuscire a spiegarle… vede, a mio modesto modo di vedere, questo viottolo è particolare e normale nello stesso tempo. Particolare perché è di un’indubbia bellezza, ma soprattutto in virtù dell’inspiegabile fatto che… la gente pare non vederlo… Eppure è lì… in "ghiaia e terra", come dire… e questa è anche la sua componente di assoluta normalità… a volte me ne sto qui appoggiato alla bicicletta, e osservo le persone passare. Sa cosa avviene ? Che guardano dappertutto, quella dannata strada trafficata, i capannoni industriali dall’altra parte, persino la mia ben poco affascinante dimora… i più cordiali mi dedicano un cortese cenno di saluto… ma nessuno, o quasi, che posi l’occhio sul ponticello. Mi rendo conto che suonerà alquanto bizzarra, come affermazione
(Non più di tanto, pensai io ascoltando quelle parole, anzi, proprio per niente)
ma l’unica, sconsolante conclusione a cui sono giunto è che… non ci sia più spazio per cose del genere…, alzò un braccio in direzione del viottolo, …il mondo si è messo a correre, e ha troppo poco tempo per sprecarlo in maniera così inconcludente… E’ triste, ma è la realtà… Poi, ogni tanto, qualcuno riesce a ritagliarsi un attimo sufficiente per poterne apprezzare la presenza… com’è successo con lei…, quel riferimento così diretto mi fece provare uno strano brivido a metà tra l’orgoglio e la commozione, …mi lasci indovinare, non è la prima volta che viene qui, vero ?, non si curò di lasciarmi lo spazio di una conferma o meno, …e questo potrebbe essere importante… Glielo ribadisco, anche se la cosa potrà sembrare alquanto anomala: non sono mai andato fin lassù, che ci voglia credere o meno. E badi bene, non perché me ne sia mancata la curiosità, o il desiderio, ma piuttosto, come dire, la capacità di poterlo fare. Adesso si è fatto un po’ tardi, devo rientrare a preparare la cena per Stella e Romeo e Taddeo, altrimenti prendono a salirmi dappertutto (la rispettabile età del mio interlocutore, tale da escludere l’esistenza di una prole, e la poco desiderabile esperienza acquisita con i gatti di mia madre, mi fecero ipotizzare che si stesse riferendo ad una tribù di felini) ma, se crede, potremmo riparlarne. Quando le va, tanto non è che io abbia in programma una crociera nel Mediterraneo, in questo periodo. Se crede, ripeto, nessuno la obbliga, anzi, siamo in un paese democratico, e lei è libero di comportarsi come ritiene meglio. Al limite anche di pensare di aver fatto la poco gradita conoscenza col "matto" della Riviera Berica, una volta imboccata la strada del ritorno. Ora però la devo proprio salutare…, la sua mano aperta e cordiale si risollevò nella mia direzione, …grazie della chiacchierata, signor Marco, e mi auguro di riincontrarla ancora…
Mentre quelle ultime frasi prendevano a vorticarmi in testa come foglie secche sollevate da un refolo di vento, in un turbine mentale che non si sarebbe acquietato sino al mio arrivo a casa, afferrò il mastodontico manubrio della bici (ebbi l’impertinenza di chiedermi come diavolo riuscisse a salirci ma, data la vicinanza con la sua destinazione, il dubbio rimase tale) e si diresse verso la sua abitazione.
A quel punto risalii in sella e mi diressi in direzione della città.
(TLAC)
 

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


6.

(TLAC)
Grossomodo, diventammo amici. Di certo con lui instaurai una frequentazione degna di tale nome, molto più che con qualsiasi altro mio conoscente, collega o altro, perlo­me­no negli ultimi tre o quattro anni. E non mi venne mai troppo da pensare che fosse suo­nato. Non lo pensai e non lo penso ora, no­nostante la faccenda del non riuscire a fare quattro passi in più su un banalissimo viottolo di campagna mi ristagnasse dentro co­me un pezzo di legno imprigionato in un gorgo lento e infinito. Forse, la cosa che rendeva accettabile quel particolare “blocco” era il fatto che io stesso provassi la me­desima, bizzarra sensazione. Sempre che l’arzillo omino non mi stesse prendendo per i fondelli, ma que­sto presumo che avrei potuto scoprirlo presto. Ad ogni modo, mi preoccupava leggerissimamente il fat­to di paralizzarmi là, a pochi centimetri dall’imbocco del ponte, come se cadessi preda di qualche fan­tastico incantesimo, ma non tan­to da spingermi a parlarne con qualcuno (con qualcuno un po’ più fer­rato in materia del vecchio, intendo), né ancora meno da forzarmi a non effettuare il mio consueto gi­ro serale. Non mi dava l’impressione di una fobìa, ecco, e mi sarei certo allarmato di più se all’improvviso avessi manifestato crisi di panico all’idea di interagire coi clienti della banca, o cose del ge­nere. E poi le chiacchierate con Aristide, anche se non sempre chiarivano i nostri dubbi reciproci, an­zi, erano abbastanza esaurienti. In fondo era l’unico con il quale poter parlare di quell’argomento specifico. Ripeto, il mio giro di a­micizie si può contare sulle dita della mano di… un monco, e non mi ci vedevo proprio ad esporre le mie discutibili teorie con qualche collega d’ufficio. Non dico che a­vrebbero chiamato il 113, ma di sicuro la già scarsa considerazione nei miei confronti a­vrebbe subìto un brusco tuffo verso il basso. Con quel tizio, al contrario, le cose erano diverse. Nessuno dei due pareva possedere e­lementi fondamentali e chiarificatori (io per niente, lui qualcosina di più, in virtù di un’osservazione empirica che andava avanti da oltre dieci lustri), ma potevamo parlarne con sereno distacco, come due vec­chi gentiluomini che presto o tardi avrebbero de­ciso di intraprendere la strada del mare, ma che per il momento preferivano rimanersene sulla riva a fissarne la maestosa immensità. Ci piaceva di­scuterne, in definitiva, quasi ne ricavassimo una sorta di complice soddisfazione. Lo facevamo come due ap­passionati d’arte di fronte ad un incomprensibile dipinto di arte moderna, o due tifosi della me­­desima squadra di calcio. Al di là della scaramuccia iniziale, nessuno dei due pro­vocò più l’altro sulla presunta incapacità di giungere alla sommità dell’argine, in una sorta di tacito rispetto per quella che ritenevamo in tutto e per tutto una debolezza u­mana e personale. Solo in un occasione, nella quale mi sentivo particolarmente “euforico” (quel pomeriggio mia madre non mi aveva scambiato per un lontano cugino o per il lattaio, al contrario, deliziandomi coi racconti di quando mi portava al mare, poco meno di mezzo secolo fa, agghindato con un bizzarra mantellina-asciugamano rossa ed un cappellino a punta che mi facevano desolatamente assomigliare ad un clown del circo in mi­niatura) mi era venuto il ghiribizzo di provocarlo, proponendogli di punto in bianco di compiere assieme il Grande Passo. Di mettere al bando le ciance, per capirci, ed at­traversare fianco a fianco quel supponente ponticello. Vaila, amigo, fuera el dente fuera el dolor. L’im­per­tinente frase, in effetti, prese a formarsi nel fondo della gola, già pronta a trasferirsi sulla plancia di lan­cio della mia linguaccia in attesa dell’ok al de­collo. Questo prima che un’immagine mentale, nitida e glaciale, non mi “sfolgorasse” all’interno della testa. Mi vidi sul ciglio di uno scoglio a strapiombo sul mare (molto a strapiombo) mentre, per fare un po’ lo spiritosone, pungolavo il mio vicino di “precipizio” (se fosse o meno il vecchio Aristide è un dato assolutamente privo di in­teresse) a compiere un dissennato tuffo in coppia. Stra-certo che il mio pavido e sconosciuto interlocutore a­vrebbe risposto “non se ne parla nemmeno”, e beandomi nel contempo della sua ovvia “tremarella” al solo pensiero. Invece il tizio, contro ogni più lo­gica e saggia previsione, non solo ribatteva “oh ma certo parliamone” ma addirittura, senza darmi il tempo di fiatare, afferrava il mio polso in una morsa ferrea, trascinandomi senza pietà verso l’abisso. Nell’istante in cui quella vivida fantasia mi ricacciava in gola quel tentativo di fanfaronata, il mio viso dev’essersi fatto livido come quello di un ca­da­vere, tanto da spingere il vecchio a sincerarsi se tutto era okay, con un’espressione premurosa e preoccupata. Inutile dire che da quel momento in avanti ul­teriori spacconate che avessero come o­biettivo il superamento di quella nostra personale “linea del Piave” divennero alquanto tabù. Di solito io arrivavo nei pressi di casa sua, sprizzando sudore da tutti i pori (non di­mentichiamo che l’o­biettivo principale delle mie pedalate era quello di tenermi in for­ma, nei limiti del possibile, ed e­ra­vamo ormai giunti a metà luglio, con la ciclabile che sembrava fondersi sotto il sole, nonostante fos­se tardo pomeriggio) e lui mi scorgeva da qualche finestra del pianterreno. Veniva verso di me, so­­litamente scortato dalla si­nuosa compagnia del trio Stella-Romeo-Taddeo (tre diffidenti ed altezzosi gatti, come a­­vevo giustamente ipotizzato) impegnati a sgusciare attraverso le sue gambe come pic­­­coli squaletti pelosi. Possedeva anche una specie di cane, piccolo e brutto e isterico (ri­cordava mol­­to un poggiapiedi semovente) che durante i primi dieci minuti in cui a­ve­va a che fare con un e­stra­neo (ed io per lui rimasi estraneo a vita) non la smetteva di tremare e uggiolare e schizzare pipì in giro, simile ad un indemoniato canino. Io e il mio nuovo amico restavano in piedi, ognuno dal pro­­prio lato della bassa recinzione che divideva la ciclabile dal giardino arido. Mi avrà sollecitato ad en­­trare almeno un fan­tastiliardo di volte, ma io ho accolto il suo cortese invito solo in poche, eccezionali oc­casioni, perché mi dava l’assurda idea di “tradire” lo spirito dell’impegno fisico. Star­sene là scomodamente separati dalla trama rugginosa della rete divisoria manteneva al contrario una sorta di “precarietà”, come se la sosta fosse casuale e temporanea (pur se la durata di quelle “partite di chiacchiere” era di ben lunga superiore al tempo im­piegato per compiere l’intero percorso ciclabile) mentre, al contrario, lo spaparanzarsi sulle cigolanti ma accoglienti sedie pieghevoli, sotto l’invitante ombra di un ci­liegio, equivaleva ad ammettere tutta la mia debosciata indolenza. Eb­bi modo così di conoscerlo bene, e di ammirare la serena semplicità attraverso cui ve­deva le cose del mondo. Era vedovo, e da alcuni suoi vaghi accenni non mi aveva dato l’idea che la perdita della consorte lo avesse più di tanto sconvolto. Succede, no ? Er­rori di valutazione, in fondo son situazioni in cui ci si imbarca a scatola chiusa. C’è gente, come il sottoscritto, che darebbe quello che ha di più prezioso (e se ne fosse sprovvisto sarebbe pronto a rubare e depredare e uccidere) pur di riavere a fianco la compagna con cui sperava di passare una vita, e altri che trovano la pace solo nel ca­suale mo­mento in cui il loro rapporto affettivo viene sciolto per qualche motivo. A quanto ho capito, non a­­veva nemmeno parenti che abitassero in zona, con i quali intrattenere rapporti di un certo spessore. L’unica figlia si era trasferita nella bassa Pa­do­vana subito dopo il matrimonio, ormai da tempo im­me­­morabile, e si sa come vanno queste cose. Non si trova mai il tempo di fare una visita, e c’è sempre qualcos’altro da fa­re, e alla lunga ci si riduce (nel migliore dei casi) ad una telefonata ben poco sentita in occasione delle festività comandate. In pratica era solo, come chi vi sta parlando in questo mo­mento, e l’unica precaria compagnia gli veniva dalle scostanti attenzioni dei gat­ti, dai quali anche il pavido poggiapiedi canino, che di nome faceva Poldo, sembrava starsene prudentemente alla lar­ga. Tornando a noi, comunque, il vecchio aveva ra­gione riguardo alla “cecità” dei passanti nei confronti del viottolo. Io gli feci visita qua­si ogni giorno, per circa tre mesi, e non ce ne fu uno, adulto o bambino, a cui capi­tas­se di bloccarsi là com’era successo a me. Era diventata una sorta di gioco-scommessa, tra noi, quella di indovinare il tempo di “permanenza” dei vari viandanti in quel dato punto della ciclabile. Perché, vedete, a tratti pareva che qualcuno… in qualche modo… intuisse qualcosa… In alcuni perlomeno, a differenza del grosso dei passanti che scivolavano via senza il mi­nimo indugio, pareva subentrare una sorta di fu­gace “incertezza”. Tipo quando avete esigenza di far­vi venire in mente un particolare im­portante, determinante, un numero di telefono, un’indirizzo, un volto, che invece tenta di sfuggirvi, il bastardello, sgusciando tra le pieghe della memoria. Avete pre­sente, no ? Quell’attimo in cui fisicamente sembrate presenti ma in realtà siete in tutt'altro posto con la testa. Quella è l’impressione che davano i (rari) “ispirati” mentre, a differenza della massa di pe­coroni insensibili, venivano per un fugace attimo at­tratti dalla presenza del viottolo. Ed ogni volta a me veniva l’irrefrenabile impulso di mettermi a sbraitare “Razza di coglioni !!! Ma non riuscite proprio a vederlo ?!? E’ lì, lì, giusto DIETRO LE VOSTRE SPALLE !!!”. Grazie al Cielo qualcosa, forse un intervento in extremis della mia più assennata coscienza, mi evitava una figura ben poco de­­corosa. Impedendo nello stesso tempo al malcapitato “non vedente” di turno di tornarsene a casa con un succoso aneddotto sulle sorprese della ciclabile da raccontare. Sai, cara, oggi ero lì che mi fa­ce­vo la solita pedalata, quando un tizio, dall’aria apparentemente normale e distinta, E’ ANDATO VIA DI MELONE !!! Il mio compagno di “recinzione” pareva prenderla con molta più filosofia, sulla scorta di una maggior frequentazione in materia, continuando placido a disquisire del più e del meno. Ogni tanto, quasi in maniera automatica, si chinava per elargire una carezza ad uno dei gatti, che immancabilmente si scostava sdegnato, o a Poldo, il cane-poggiapiedi, che al contrario diveniva preda di un sussultante orgasmo per l’emozione. Par­lavamo di tutto, io e Aristide, non solo del bizzarro argomento che ci accomunava. Sul­le prime, a dire il vero, i commenti sul viottolo furono titubanti e circospetti, al­meno da parte mia, in un comprensibile tentativo di “annusare” le reazioni e i punti di vi­sta del vecchio, prima di decidere di scoprire in toto le carte. Ve l’ho detto, non mi tur­ba più di tanto che la gente si faccia l’idea di avere a che fare con uno che, come si di­ce dalle nostre parti, non ha tutte le fa­scine al coperto, ma dichiararmi spudoratamente così al primo appuntamento… Chiacchieravamo di tutto e di niente, del tempo, del governo, delle tasse, della televisione dove ormai non facevano più niente che non fos­se pubblicità o scemenze. Gli raccontai di mia moglie, dei tempi meravigliosi in cui sta­va bene e dell’inferno della malattia, e poi di mia madre. E il fatto che lui mi ascoltasse con in­teresse ed attenzione, intervenendo a tratti con poche, pertinenti frasi (c’è ben poco da dire, quando si vivono determinati incubi) alimentò in me l’ottima im­pressione che mi aveva suscitato fin dal­l’i­nizio. A poco a poco, in ogni caso, man mano che si rafforzavano la stima e la simpatia reciproca (e l’amicizia, se non la considerate una parola troppo grossa) i nostri discorsi pre­sero a convergere sempre più insistenti attorno ad un argomento ben definito, come uc­cellini ancora sospettosi che non si fidano troppo di posarsi sul ramo di un albero so­lo in apparenza privo di insidie, e fu così che venni a co­noscenza di tutto quello che so­no in grado di dirvi (del poco che) sul viottolo e dintorni.
(TLAC)

7.

Una volta qui era tutto così, mi disse indicando il viottolo, e riferendosi a tutto l’ambiente circostante. Non facevo nessuna fatica a credergli. Se solo la campagna che ci cir­condava, mondata da traffico e fabbrichette e villini da geometri, avesse rispecchiato anche un decimo della bellezza di quell’angolo, non ci sarebbe stato niente da invidiare ad altri scorci naturalistici ben più celebrati. Mi raccontò con tono leggero di rim­pianto e piacere dell’acqua trasparente del canale, in cui guizzavano pe­sci dai ri­flessi argentati e rane chiacchierone, col baluginìo smeraldo di qualche libellula che in­­crespava a tratti l’immobilità dell’aria. Nelle infinite giornate d’estate, assieme ai suoi coetanei delle nu­merose fattorie sparse per i dintorni, era prassi quotidiana far compagnia alla popolosa fauna acquatica, cullati dalla colonna sonora infinita di le­gioni di invisibili cicale. Ci tuffavamo da là, giù di sotto come bombe, disse indicando una scrostata passerella pedonale che dalla strada permetteva l’accesso ad un nucleo di case al di là del corso d’acqua (decisamente brutta rispetto al ponticello a po­chi pas­­si da noi, ma lui si affrettò a precisare, come se avesse potuto leggermi nel pensiero, che non era in grado di ricordare se già a quel tempo esistesse una sorta di ostracismo collettivo nei confronti del ponte). Era solo che la scelta dell’utilizzo a mò di trampolino era caduta sulla meno suggestiva passerella, commentò, e nessuno di loro a­veva tempo e voglia di porsi tante domande. Non c’era traccia della zona industriale ar­ti­gianale, ovviamente, nemmeno nelle intenzioni delle sciagurate giunte comunali de­gli anni ancora a venire, e il banale luogo comune del qui una volta era tutta cam­pagna, in quel particolare frangente, non era niente più che la cruda verità. Il periodo a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza sembrava essere quello che rimpiangeva di più, al­meno in base alla fre­quenza con cui ritornava nelle sue descrizioni, attraverso le quali cercava di farmi comprendere al me­glio… di più, a fare in modo che io potessi quasi riuscire a “vedere”… le cose che aveva vissuto. Non erano certo stati tempi facili, tutt’altro, scarse possibilità economiche (per usare un banale eufemismo) la fame, la guerra, e in ogni caso il ricordo che ne conservava gli faceva brillare gli occhi co­me un bimbo in un luna park. Era legatissimo a quel periodo, e alla madre che, a suo dire, a­veva rap­presentato la figura più importante di tutta la sua vita. Come vi ho accennato, le volte in cui ho accettato la sua cortese ospitalità varcando il cancelletto del giardino si possono contare sulle dita di una mano, ed in un'unica occasione ho messo piede all’interno della casa. Sì, lo so, rischio per l’ennesima volta di passare per bizzarro e misantropo ma, a dif­ferenza della simpatia che l’uomo mi ispirava, non ero per niente attratto dall’idea di conoscere i luoghi in cui viveva. Non so, la sua solitaria condizione, così simile alla mia (se proprio avevo vo­glia di un campionario di piatti sporchi nel lavello e odore di chiuso era sufficiente che non mi muovessi da casa), in quell’abitazione così grande e vuota. E poi la prevedibile presenza di in­confondibili “puzze di gatto” in grado di riportarmi mio malgrado agli ultimi momenti di mia madre nel suo mi­nuscolo appartamento… non so come spiegare, ma proprio non mi andava. Forse aveva qualcosa a che fare con la mia discutibile incapacità di mi­surarmi con la vecchiaia e la solitudine, anche se in confronto alle “mummie” che im­perversavano nei corridoi della casa di riposo il mio maturo amico era di una vitalità invidiabile, così ci volle un terrificante acquazzone scatenatosi quasi senza preavviso per costringermi a varcare la soglia di quella casa. Come spesso mi succede, andò me­glio delle mie catastrofiche previsioni, grazie al Cielo. Non era una reggia, questo no, la pensione di ex-meccanico non gli consentiva lussi sfrenati e dissennati, ma l’accogliente cucina d’altri tempi in cui mi fe­ce accomodare sapeva di buono. Ci concedemmo un caffè nient’affatto male, mentre ascoltavamo i boati fragorosi dei tuoni di un temporale estivo con i controfiocchi, sbirciando dalle finestre la ci­clabile deserta fla­gellata da valanghe d’acqua che scuotevano il grosso gelso all’imbocco del viottolo. Senza apparentemente impressionarlo più di tanto. Una vaga quanto insistente traccia-fantasma della presenza dei gatti persisteva nell’ampio locale, ma il profumo di pulito e di caffè appena fatto riu­sciva a sopraffarlo senza troppa fatica. Soddisfatto di quella situazione, lasciai vagare lo sguardo in gi­ro. Appeso sopra all’immancabile fo­colare che troneggiava maestoso (potendo disporre di un bel gruzzoletto di quattrini qui ci si potrebbe tirar fuori un posticino coi fiocchi, ricordo di aver pensato mentre il vecchio armeggiava con la caffettiera) c’era un ritratto fotografico sbiadito dal tempo, raf­figurante una bella signora in abiti eleganti, dall’apparente età di trent’anni, dalla chioma fluente che le si spandeva sulle spalle e un vezzoso neo giusto sotto l’occhio si­nistro. Con delicatezza, m’informai su chi fosse e lui, rimirando il quadro con sguardo quasi sognante, mi confermò che si trattava della sua adorata madre. Non era bellissima ?, mi chiese con la voce colma di orgoglio e, al mio convinto cenno di assenso, soggiunse che, in ogni caso, il bianco e nero della foto (il bianco e sep­pia, dato che quella posa doveva esser stata scattata all’incirca negli anni ’30 o giù di lì) non le rendeva appieno giustizia. Non è in grado di mostrare il suo lato più bello, precisò indicandosi con un buffo gesto semicircolare la zucca pelata, a differenza del sottoscritto, i suoi capelli era lunghissimi, e di un rosso che toglieva il fiato…Ce ne restammo lì al tavolo della cucina ancora un po’, illuminati a tratti dai lampi si­mi­li a flash di ci­clopiche macchine fotografiche, sempre più radi e fiochi, finchè il cie­lo, seppur burrascoso di nubi co­lor carbone, non decise di smetterla di innaffiare i cam­pi riarsi dalla calura estiva. Subito dopo pre­si a pedalare con calma in direzione di ca­sa, con un maglioncino del vecchio sulle spalle (come spesso succede, l’improvviso acquazzone aveva abbassato di molto le roventi velleità dell’afa), che non avrei potuto u­tilizzare in altro modo, considerata la notevole differenza di taglia, ed un in­volto con sei uova appena scodellate dalle galline, tenuto con delicatezza nella mano destra. Per en­­trambi, ma­glione e uova, era stato vano e sprecato ogni mio tentativo di oppormi a quella cortese premurosità. Quando ci si metteva, il vecchio Aristide sapeva essere ir­re­sistibilmente convincente. Col passare del tempo, e l’intensificarsi delle visite, venni a conoscenza di ulteriori particolari ri­guardo a quel posto. L’anziano mi confermò un’infinità di volte (come se io faticassi a credergli, mentre in realtà a quel punto non la trovavo più tanto strana, co­me cosa) di non aver mai oltrepassato il li­mite formato dall’imbocco del ponte. Né tantomeno, e questo forse suonava già un po’ più bizzarro, aveva ricordi di averlo vi­sto fare ad una qualsiasi altra persona. In tutti questi anni ?!, non riuscii a fare a meno di sbottare io. In tutti questi anni, mi confermò, fissandomi pacioso dal di là della rete di recinzione. A quel punto, in realtà, la confidenza e la cordialità che si era instaurata tra noi permetteva di poter sputare frasi istintive che in qualunque altro frangente a­vrebbero potuto passare per im­pertinenti. Nessuno nessuno ?, incalzai io, deciso a non mollare l’osso (e, magari inconsciamente, riu­scire ad incastrarlo) Nemmeno, che so, un contadino, un cacciatore, qualche ragazzino curioso… Ca­voli, dovrà pur essere di qualcuno, quel dannato pezzo di terreno !. Aristide mi aveva fissato sgranando i grandi occhi amplificati dalle spesse lenti degli occhiali, come faceva ogni qualvolta un mio sanguigno moto d’insofferenza sull’argomento mi faceva andare (bonariamente) fuori dai gangheri. Gliel’ho detto, è proprietà del demanio, precisava paziente, e a quanto mi è dato sapere, non ho mai visto ronde di guardie demaniali effettuare grandi manovre in mia presenza… Come al solito, non si capiva mai bene (o perlomeno ero io, che non riuscivo a stabilirlo) se mi stesse prendendo per i fondelli un po’ oppure un sacco. E chiederglielo non avrebbe di certo fugato quel dilemma. Tutt’a un tratto, però, si era fatto serio, grattandosi la sommità della pelata, nel punto in cui il cranio appuntito ricordava quello di un segugio da caccia. Con questo NON voglio affermare che non vi sia mai salito nessuno in assoluto, borbottò, quasi rivolto a sé stesso. Venne distratto per un i­stante da un grosso camion lanciato a velocità del tutto criminale, che gettò lo scompiglio tra gli asfittici steli d’erba rinsecchiti lungo il ciglio della sta­tale, poi riprese: anche solo a livello di probabilità non reggerebbe, come cosa… e poi immagino che qualcuno le abbia avute, le proprie buone ragioni, per passare al di là…Quella frase sconclusionata mi si piantò in testa come un chiodo sparato a velocità su­per­sonica, ri­manendovi conficcato per alcuni giorni, durante i quali non potei impedirmi di rimuginarci su ad o­gni occasione buona. Poi quel tormento sembrò scomparire, anche se in questo preciso momento posso garantire che si era solo scavato una sorta di “nicchietta”, nei meandri del mio cervello ignaro, in cui ronfare, latente, fino al mo­mento in cui il suo risveglio avrebbe aiutato la composizione di un puzzle dai risvolti a dir poco sorprendenti. La faccenda, messa in quei termini, insisteva a sconcertarmi. Sa­rebbe stato come affermare che, ogni qualvolta ci si affaccia al balcone di casa propria, una casa in cui si è abitato sin quasi dalla nascita, non si scorge mai anima viva transitare nella via sottostante. Ce n’era abbastanza per esserne vivamente preoccupati. Oltre che come ottimo materiale per una puntata di quei vecchi telefilm… come si chiamavano ? Ah, “Ai confini della realtà”… Ad in­­tervalli più o meno regolari, quindi, non riuscivo ad impedirmi di tornare sulla questione. Anche perché, con tutta la buona volontà, quando di un dato argomento di cui si sa poco o niente si è ormai det­to… tutto… beh, come dire… non resta molto altro da discutere. Sembra una battuta di teatro surreale, ma è così. Un fine pomeriggio come tanti, impalati sui due versanti della bassa rete di re­cinzione, mentre sbucciavo una pesca gentilmente offertami dal pa­drone di casa (c’era stata la solita scaramuccia di insistenze e cortesi rifiuti, conclusasi con un pareggio nel momento in cui consideravo che, in fondo, si trattava solo di frutta, fresca e invitante per di più, che non avrebbe attentato troppo al mio faticoso mantenimento di una linea dignitosa) e, nello stesso tempo, mi lambiccavo il cervello nel­l’identificare una variante efficace e originale del solito, eterno dilemma (Mai visto nessuno ? Nessuno nessuno nessuno ? Neanche, fa esempio, per sbaglio ? Con la coda de­ll’occhio ?) una sorta di lampo mi balenò nella testa. Inghiottii il boccone di pesca che stavo assaporando, senza di­stogliere gli occhi dalle galline panciute che, dopo aver approfittato di un buco nella recinzione di cui erano a conoscenza solo loro (e probabilmente gli in­fidi gatti, che in quanto infidi non ne avrebbero mai e poi mai spifferato la posizione) becchettavano indisturbate tra il bordo della ciclabile, sfidando temerarie o incoscienti le ruote sfreccianti delle auto e, elemento molto più determinante, nei pressi dell’imbocco del ponticello. Molto nei pressi, presi atto con un sobbalzo che rischiò di di­­sarcionarmi dal sellino della bicicletta utilizzata a mò di precario sedile. E animali ?, devo aver sbottato all’improvviso, come folgorato. Lui, colto alla sprovvista, aveva sollevato gli occhi dalla concentrata contemplazione di una puntura d’insetto sull’avambraccio abbronzato. P-prego ?!, aveva biascicato, per nulla sicuro di a­ver capito il senso della mia esclamazione. Con un moto d’impazienza, ormai partito per la tangente, io avevo indicato il pollame sparso davanti a noi. A-n-i-m-a-l-i, avevo ri­petuto scandendo le parole come fossi alle prese con uno scolaro te­stardo, che so, galline, cani, gatti… non vorrà dirmi che nemmeno uno di loro si è fatto una passeggiatina su per quell’argine !. Aristide a quel punto aveva scosso la testa divertito, fa­cendo spallucce. Ah, in quel senso !, aveva replicato, con un sorrisetto che scatenò in me un’ingiustificato spasmo d’irritazione, Oh bè, tutto è possibile, come facciamo a e­scluderlo ? Solo che… voglio dire… sono ancora meno visibili delle persone, e poi co­me si fa ? Qui intorno di pulcini ce ne sono a bizzeffe ! (Pulcini ? Chi ha mai parlato di pulcini ?) Fece un gesto con la mano in direzione di uno dei gatti (Romeo o Taddeo, per quel che ne sapevo, da­to che l’unica che avevo imparato a riconoscere era Stella, per via di una sorta di macchia bianca tra il pelo nero del petto, e non era quella accoccolata sul prato in quel momento) che alzò impercettibilmente le orecchie, come se avesse intuito di essere stato tirato in ballo. Per quanto riguarda i gat­ti, poi, lo sa anche lei come so­no. Pare che non abbiamo altro da fare che mangiare, dormire e ri­prodursi, per cui in tutti questi anni ne sono girati talmente tanti che non posso proprio dire quanti ne siano spariti, e per quale motivo. Col traffico che c’è su questa strada è una fortuna che non ci ab­biamo tirato sotto anche noi…A me venne l’impulso di controbattere che non avevo mai parlato di “gatti spariti”(e di pulcini ?!) ma solo se, per caso, aveva avuto occasione di vedere un dannato pennuto farsi una passeggiatina ol­tre il ponte. E ritorno. Ma a quel punto, come spesso succedeva, il vecchio sembrava essersi addentrato in un territorio infido e spiazzante fatto di affermazioni inquietanti e surreali, così decisi di raffreddare i miei bollori, riprendendo a sbocconcellare il resto della pesca senza aggiungere altro. Il mio compagno, d’altro canto, non diede l’impressione di voler approfondire l’argomento. Ci ripensai su la se­ra, a casa, fissando senza vederle le sequenze di uno stupido quiz in televisione, e nei giorni successivi. Disturbato dal fatto che quello strano vecchio mantenesse un comportamento as­so­lutamente normale per settimane, salvo poi “svaccare” a tratti, senza il minimo preavviso, con af­fermazioni sconclusionate e sibilline. Forse il fastidio na­sceva dal conflitto tra queste e il mondo quotidiano fatto di aridi ma rassicuranti nu­meri con cui avevo a che fare. Di cui tutto si poteva dire, ma non che mutassero sotto ai miei occhi come abili trucchi di prestidigitazione. Sgusciando via dalla realtà oggettiva delle cose come le criptiche frasi del mio interlocutore. A volte giungevo alla conclusione che la solerte premurosità di quel vecchietto, temendo forse di potermi deludere nel ca­so non avesse avuto niente da rispondere a certi miei accorati quesiti, lo fa­cesse optare per uno sproloquio così da spostare il fulcro della questione. Mi rendo conto che detta così è un’analisi che ri­schia di assomigliare al motivo per cui l’ho elaborata, ma non mi viene in mente niente di meglio. E ripensarci mi fa venire come di consueto un inizio di mal di testa. O forse è solo il ri­sultato dell’aver fatto inclinare troppo questa bottiglia di grappa, che intravedo al­quanto prosciugata nella semioscurità del mio salotto. Immagino sia il caso di infilarsi nel letto, anche perché siamo ormai a fine me­se e domani in banca ci sarà un bel po’ da fare per via dei pagamenti di bollette e cose simili. Ma non preoccupatevi, la storia continua. Non so voi, ma io da qui non mi muovo, per il momento. Buonanotte.

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


mondo 8.

(TLAC)
Okay. Da dove riprendiamo? Allora… più o meno una decina di giorni fa, il vecchio se ne salta fuo­ri all’improvviso con un’altra delle sue. Mi chiede a bruciapelo se, se­condo me, non sarebbe stato bel­lo poter ipotizzare che quel posto, il viottolo e tutto il re­sto, non facesse solo una cosa in particolare (misteriosa a tal punto che nemmeno noi sapevamo di cosa stessimo parlando, non è assurdo?), ma ben­sì che fosse in gra­do… come dire… di esaudire qualsiasi desiderio uno avesse in mente. Io lo fis­­sai col so­lito arco convergente delle sopracciglia, in un’espressione che mi viene ogni qualvolta ho l’impressione di esser preso per i fondelli. Nella fattispecie da quel tizio. A­ri­sti­de sostenne il mio sguardo indagatore con la consueta espressione impenetrabile, ap­pena solcata da un sorrisetto troppo lie­­ve per essere ostentatamente canzonatorio. Fru­gai nella mente alla ricerca di una rispostaccia che fos­­se sufficiente, nell’eventualità di essere vittima di una burla, a tirarmene fuori non troppo turlupinato. Optando poi, chissà perché, per una bizzarra analisi… diciamo scientifica… di quell’azzardata af­­­fermazione. Mmh…,borbottai grattandomi il mento ispido di barba da rasare, per cui, vediamo co­s’abbiamo… la probabilità che quel viottolo sia in grado di, nell’ordine, non far niente… fare qual­co­sa di speciale, e di cosa si tratti è tutto da dimostrare, op­pure, udite udite, fare TUTTO. E’questo che intendeva ? Lui ridacchiò sotto i baffi che non aveva, alimentando la diffidente sensazione che stesse mettendo in atto uno dei suoi giochetti preferiti ai danni del sottoscritto. Non ho detto che sia co­­­sì, puntualizzò pedante, ma solo che sarebbe bello pensarlo
(Dannato vecchiaccio, sei veloce a far retromarcia, pensai io velenoso)
co­sì, tanto per parlare… Lei, per esempio (ci davamo ancora del rispettoso lei, pur beccandoci a vol­te come vecchie comari litigiose) se potesse esprimerne uno e solo uno, di desiderio, cosa chiederebbe?
Quella domanda, diretta e inaspettata come una secchiata d’acqua gelida, ebbe il potere non solo di dis­sipare le mie paranoiche congetture sul fatto o meno di essere vittima di una presa in giro, ma an­che e soprattutto di lasciarmi senza parole. Il vecchio giochetto dell’unico desiderio… quante volte lo abbiamo fatto nella nostra vita? Milioni? Per quel che mi riguarda, penso proprio di sì. Anzi, in al­cune occasioni è stato alquanto interessante, e a volte divertente, verificare come può cambiare il punto di vista in me­rito a seconda del trascorrere dell’età (intorno ai sedici anni, interrogato sulla que­stione dai compagni di scuola, la mia preferenza era caduta su essere invisibile nello spo­gliatoio fem­minile della palestra) o degli eventi che la vita ci pone davanti. In quel mo­mento, vedovo cinquantenne in dirittura d’arrivo al pre-pensionamento, solo con an­ziana madre instabile e spelacchiato beagle a carico, quale poteva essere l’unica co­sa a cui anelare con tutto me stesso, secondo voi? Im­magino non occorra star qui a spe­cificarlo, considerando per di più l’alto grado di “follia” nel so­lo pensare una cosa del genere. Cose fuori dalla realtà. Cose da matti.
La dannata questione posta, per un istante (breve, fugace ma assolutamente i­ne­briante) mi fece qua­si sperare che le cose potessero essere proprio così. Fu un attimo, co­me dico, poi feci di tutto, attraverso il to­no di voce e l’espressione del viso, per co­municare allo spiritosone che era un giochetto che non mi di­vertiva per niente. Penso possa immaginare cosa vorrei, ribattei glaciale, non credo sia tanto difficile da immaginare, e non mi sembra proprio il caso di spenderci parole, soprattutto in virtù del­l’as­soluta assurdità di questa cosa... Lui borbottò qualche mezza frase a volume troppo bas­so per capire se stesse o meno porgendomi delle scuse. Era solo una cosa innocente, priva di…, bor­bottò visibilmente ab­bacchiato. Mi frugai dentro, per stabilire se la mia reazione non fosse stata in ogni caso troppo ag­gressiva, ma in tutta onestà l’irritazione mi impedì di valutarlo con imparzialità. Vagheggiamenti di anziani che hanno tempo da perdere, riprese lui, come cercando di mettervi una tardiva pezza, non so… forse come dice lei è una cosa discutibile, ma non ha idea di quante vol­te mi ci so­no lasciato in­castrare
(Piantamola qui!, aveva sibilato una voce da qualche parte dentro la mia testa)
sa­rà anche una fantasia da sciocchi… ma io desidererei con tutto me stesso che potesse tornare mia mam­ma…
Distolsi la faccia, per nascondere l’istintiva espressione d’insofferenza che mi aveva colto. Sentire quel vecchio barbogio affermare una cosa del genere, col tono di voce pia­gnucoloso come se avesse ap­pena spento tutte le candeline del settimo compleanno meno una, mi faceva ribollire il sangue nel­le vene. L’impulso sarebbe stato quello di borbottare lì qualche tipo di giustificazione, un appuntamento che mi ero scordato, il gas lasciato aperto, e allontanarmi alla velocità della luce da quel bizzarro (a dir poco) per­sonaggio il cui unico scopo nella vita sembrava essere quello di farmi perdere tempo e pazienza. M’imposi di darmi una calmata, e di comportarmi in maniera più o­biettiva e tollerante. In fondo eravamo due persone sole, con i nostri difetti e le nostre pa­turnie (nemmeno io ero un caratterino facile, quando mi ci mettevo, anzi) e non era af­fatto tutto da buttare in quella nostra pre­caria e insolita frequentazione. Anche se l’ir­ritazione in seguito a quell’episodio faticava a sopirsi, lavorando sotto come una bra­ce nascosta e inestinguibile. Cosa le costa farlo, allora?, la frase, partita pacata, pre­se ad incendiarsi subito in una sorta di rovente ripicca, voglio dire, perché non pro­varci ?! Male che vada se ne sta lassù a godersi il panorama e la brezzolina della se­ra, e poi se ne tor­na a casa soddisfatto di aver vinto una fobìa che si portava dentro da tutta la vita…, scrutai nel suo sguardo vitreo alla ricerca della certezza che la mia pro­vocazione avesse fatto centro, ripeto, ma­le che vada…se, al contrario, le stupidaggini, calcai in maniera forse eccessiva su quella parola, che ci stiamo raccontando…beh, fossero reali… Non riuscii a concludere la frase. Mi sembrava così dan­natamente fuori di zucca da tentare di tutto pur di non cascarci dentro. Lui si lasciò an­dare contro la rete di recinzione, che s’incurvò gemendo sotto il suo modesto peso. Come il temporale di al­cu­ne settimane prima aveva fatto con l’afa, anche quell’improvviso mutamento di umore raffreddò in maniera sensibile la nostra discussione. Si pas­sò una mano malferma sulla pelata madida di sudore. Oh, non creda che non ci ab­bia pensato, biascicò poi con un viso spiacevolmente pallido, per in­numerevoli giorni, e altrettanti notti insonni, anche per via di alcune cose che…Non concluse quella frase, e io ero ancora troppo alterato per insistere su quello che intendeva dire, anche se ripensandoci in seguito ebbi la netta impressione che fosse un particolare importante. Lui riprese. Ci ho ri­muginato su fino a farmi venire il mal di testa, fantasticandoci, an­che se mi rendevo conto che era la cosa più folle del mondo… Una pazzia, o forse un sogno. Ma se non possiamo neanche più so­gnare, cosa ci resta, in questa inutile vi­ta ? In maniera del tutto inaspettata, la faccenda stava iniziando a rivestirsi di sgradevoli sviluppi esistenziali, mentre prendevo atto con sgomento che il mio at­tacco gra­tuito aveva causato un disagio pari almeno a quello che avevo provato io. E il fatto che il ri­sultato fosse un salomonico pareggio non mi consolava per niente. E sa qual è il motivo… il motivo reale, al di là di tutte le balle su incapacità e paralisi varie, che mi ha impedito di fare questa sem­plice verifica, come la chiama lei ? Eh ? Lo vuole sa­pere ?, insistette con voce piagnucolosa. Io non pro­vavo la minima attrazione nel ve­nire messo a conoscenza di quella confidenza, proprio per niente. Anzi, l’unica cosa che avrei desiderato in quel momento sarebbe stato che quella paranoica con­versazione in cui ci eravamo invischiati non fosse mai cominciata. Vuole che glielo dica ?, mormorò an­cora una volta, fissando con occhi spenti le avviluppanti spire di un’edera selvatica arrampicarsi den­tro e fuori i rombi della rete di recinzione. Non lo vo­levo sapere. Non sapevo di cosa si trattasse, ma qualcosa, una sgradevole sensazione di metallico in bocca, come se avessi succhiato una manciata di monetine, mi suggeriva che la risposta non mi sarebbe affatto piaciuta. Non mi era chiaro nemmeno il per­­ché, allora, mentre in questo momento sono arrivato a capire che si trattava dello stes­so, i­dentico motivo per cui nemmeno io sono riuscito a salire quello stronzissimo ar­gine. Per ora, al­meno. Non vo­levo co­noscere la sua versione dei fatti, in ogni caso, e sta­vo quasi per farglielo presente, ma il vecchio non me ne lasciò il tempo. Perché se, co­me dice lei, la cosa dovesse funzionare…beh, sarebbe me­ra­viglioso, ci mancherebbe altro, non trova ? Ma è l’effetto opposto che mi terrorizza: come potrei tor­narmene giù, e riprendere la vita di tutti i giorni, se invece NON SUCCEDESSE UN BEL NIENTE ?!?
(TLAC)
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Possibile? Voglio dire, possibile che la stessa motivazione valga per me? E che la mia esistenza sia talmente vuota e insipida da portarmi ad abbracciare le deliranti teorie di un vecchio semisconosciuto?!? Beh, oddìo, non che la mia vita sia poi tutta ‘sta gran cosa, sono il primo a rendermene conto, ma in ogni caso non ho mai sofferto per questo. Né tantomeno mi sono balenate in testa idee estreme di aprire il gas e salutare tut­ti. Mai, nemmeno in momenti in cui ero fermamente convinto che trovare la forza per farlo sarebbe stato il minore (e il più inebriante) di tutti i mali. Non sono mai arrivato a pensare di poter riincontrare la mia adorata Sandra se non, forse, attraverso il me­todo tradizionale, di­­ciamo. E anche per quello non è che sia particolarmente fiducioso, la mia fede è alquanto latitante, non accompagno nemmeno più mia madre alla mes­sa domenicale nella cappellina della casa di riposo. C’è sempre il rischio che si metta a sbraitare che non le va a genio quel prete perché è lo stesso che s’intrufola di not­te in camera sua per rubarle gli ori. E purtroppo questo non era un ipotetico e­sempio, ma un desolante episodio di “vita vissuta”. D’accordo, il fatto di sperare in una vita oltre la morte non ha poi un prezzo troppo alto, in fondo dubito che ci sarà uno sportello-reclami nel caso le co­­se non vadano proprio come ci hanno insegnato a dot­trina. E’ la solita storia del gatto che si mor­de la coda. Se nell’aldilà non ci dovesse es­sere proprio un bel niente, non saremmo neanche in gra­do di verificarlo. E’un concetto troppo semplice (o troppo complicato) per essere compreso da noi stupidi umani. In ogni caso posso garantire che non ho cercato altre scorciatoie per arrivare da mia mo­­glie, né naturali né ancora meno artificiose. Non ho mai preso in considerazione l’i­dea del sui­cidio, co­me vi ho appena detto, né sono andato a spendere milioni per or­ganizzare sedute spiritiche e tentativi di contatti con l’oltretomba. Sono vedovo, solo, so­vrappeso, pelato ma ritengo di a­ve­re ancora tut­te le cellule cerebrali in piena efficienza. E allora perché quelle folli tiritere di Aristide su viottoli ma­gici, desideri esauditi e balle varie mi stavano rincretinendo a quella maniera ? Perché, ve­dete, an­che se mi vergogno molto a dirvi quello che sto per affermare (pur se anch’io, come il mio de­­gno compare di fantasie, da un po’ di tempo ho leggermente variato il mio punto di vi­sta, per via di alcune cose che) quel pensiero mi era entrato in testa, come un tarlo ma­ligno e insistente, costringendomi a tornare sull’argomento nei momenti più disparati. Era una continua e irrisolta lotta tra quell’ipotesi assurda e legioni di pensieri ra­zionali che cercavano con tutte le forze di farla fuori. Riu­scendovi, nella quasi totalità delle volte, ma era solo una vittoria di Pirro. Perché, vedete, quell’idea fissa aveva una ca­ratteristica determinante: era immortale. Fingeva, la stronza, di soccombere sotto i col­­pi della presunta ragione, calpestata a morte da pensieri tipo Ma ti pare che a cin­quan­t’anni ti met­ti a credere alle favole? oppure Che sia il caso di farsi vedere da qualcuno che possa prendersi cu­ra di un evidente esaurimento nervoso ?, salvo poi ri-bal­zare su più arzilla e combattiva di prima, vi­sto che aveva fatto solo finta di essere pas­sata a miglior vita.
Ci pensavo, ci pensavo fino a farmi venire un’emicrania con le contropalle. Senza giungere al benchè minimo chiarimento con me stesso. L’ho cercato pure negli occhi pro­fondi e perduti di Sandra, nel­la minuscola foto sulla lapide della sua tomba, senza e­sito, nonostante in passato mi avesse aiutato a venire fuori da ben altri abissi di di­sperazione. Di solito me ne sto seduto sul marmo freddo (lo so che non è proprio irreprensibile, come comportamento, e difatti più di qualche vecchiottella mi gra­tifica di un’occhiata non troppo amichevole, ma Sandra era tutto il mio mondo, dovunque essa sia, e quindi ho tutto il diritto di spaparanzarmi là), e tutti i miei turbolenti pensieri, a po­co a poco, si acquietano, e dentro di me comincia a farsi chiaro. Di solito, ripeto, ma non in quel particolare frangente. Lo sguardo di mia moglie mi fissava senza dire as­solutamente nulla. Non mi diceva provaci, ma nemmeno lascia perdere. Non suggeriva togliti quella idea balzana dalla testuggine, con quel suo esclusivo modo di chiamare la mia capoccia, ma ancora meno perché no? Ero solo, in tutti i sen­si, e l’eventuale decisione spettava esclusivamente a me. Decisione di che, porca di quella puttana? Di far due passi su un argine erboso per andare a rimirare un panorama di campi coltivati a soia e granturco, o invece di… Ancora oggi, lo trovo talmente fuori di cervello da non riuscire nemmeno a pronunciarlo a voce alta. E questo è normale, no? Mentre nello stesso tempo il pensiero-tarlo, giusto al cen­tro della testuggine, scava e scava e scava. E questo invece, sarete d’accordo con me, è assolutamente folle.
Non ho più voglia di pensarci. Me ne vado a letto. Sperando di riuscire a dormire. E, nel caso, di non sognarlo anche stanotte.
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9.

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Dopodichè, le cose hanno cominciato a precipitare. Così, d’improvviso, e senza preavviso alcuno. E co­­sì che di solito va nella vita, no ? Sei lì che ti barcameni senza in­famia e senza lode (il più delle vol­­te senza nemmeno renderti conto di quanta benedizione ci sia, in questa che ti sembra una condizione noiosa e del tutto priva di attrattiva), snocciolando un giorno via l’altro come grani di un barbosissimo rosario, quando, tittidintratto, come diceva un’antico tormentone televisivo, in una pubblicità di mille anni fa, le cose cambiano. E non sempre in meglio. Anzi. Non succede troppo spesso, nel­la vita di noi poveri mortali, che ci capiti una comunicazione notarile an­nunciante una cospicua e­­redità dal classico zio d’America, o il fortunato acquisto del bi­glietto vincente della lotteria di Ca­po­danno. Manco per niente. In genere, sono batoste. E l’unica cosa che le contraddistingue è l’intensità con cui si abbattono sulla no­stra testuggine. Penale da parte del Ministero delle Finanze per in­vo­lontari casini del commercialista, batosta media. Foglietto verde di contravvenzione sotto il parabrezza, l’u­nica volta in cui si è parcheggiato in doppia fila, per un merdosissimo istante, batosta lie­ve. Qualcosa che non va nelle ultime analisi, fatte così tanto per sicurezza, da parte dell’altra metà e­­satta della nostra esistenza…Ohi ohi, preparate bende e cerotti, perché stavolta è in arrivo il BA­TO­STONE !!! Succede. E’ del tutto inutile star lì a re­cri­minare. Prima o poi tocca a tutti, chi più chi me­no. So che ci sono sfortunati sui qua­li la vita o il destino o il caso picchia più del dovuto (e di quanto meritino), ma in ge­nerale ognuno riceve la propria equa dose di fortune e sfighe. E forse… o an­­che sen­za il forse… questi tre livelli di batoste (sì, tutte e tre, anche se nel caso del “batostone”oc­­corre un bel po’ di lavoro in più affinchè la cosa faccia effetto) servono proprio come efficacissimi mec­­canismi per farci “rivalutare”il tran-tran di cui sopra. “Si sta­va meglio quando si stava peggio”, è un bel modo di dire, e anche “Una volta toccato il fondo si può solo risalire”.
Un'altra legge fondamentale della “teoria delle batoste”, elaborata in base ed esclusive e inevitabili test sulla propria pelle, sostiene che amino venire a farci visita in gruppo. Co­me una bella improvvisata di lontani parenti sgraditi e invadenti. E questa “visita di cor­tesia”,nel mio caso specifico, ha vi­sto come indesiderati partecipanti un improvviso aggravamento delle condizioni mentali di mia ma­­dre, sempre più spesso costretta a let­to da massicci interventi di calmanti, per evitare che facesse del male a sé stessa e a­gli altri. Come prima cosa. In secondo luogo, un’ancora meno prevedibile “cre­pa” nel­la corazza di raziocinio e forza di volontà che mi ero faticosamente costruito, allo sco­po di tener testa alle caustiche controffensive della nostalgia di mia moglie (ohi ohi, è quella sì che era una cosa che faceva male, dannatamente male, anche perché ero convinto da qualche tempo di essere riuscito a smorzarne i rigurgiti più dolorosi). E in ultimo, ma solo perché coinvolgeva una persona che avevo conosciuto da molto me­no tempo, quello che è capitato al vecchio Aristide. Le avvisaglie che qualcosa non an­dava le ebbi circa una settimana fa, per l’esattezza un lunedì sera, durante il so­lito gi­retto in bici. Non l’avevo visto nel fine-settimana, a causa di un’insistente perturbazione di fi­ne estate, che aveva imperversato con pioggia e temperature autunnali ben po­co affascinanti. Avevo ap­pena appoggiato i piedi a terra, fuori dalla rete di recinzione, quando la figura che si affrettò ad u­scire dalla casa di Aristide mi lasciò spiazzato per alcuni, lunghi secondi. Voglio dire, l’amico non era certo un giovanotto, con i suoi 72 anni portati comunque con invidiabile disinvoltura, ma la figura traballante che si di­resse nella mia direzione sembrava dimostrarne almeno il doppio. La sua e­spressione era sofferente, il colorito spiacevolmente terreo, quasi grigiastro, e mi strinse il cuore nel ve­dere come trascinava i piedi sul vialetto ghiaioso che portava al cancello. Abbozzò un mezzo sorriso, per niente rasserenante, leggendo nei miei occhi tut­to lo sconcerto per quell’improvvisa trasformazione. Tirò un lungo respiro incerto, come se gli costasse una fatica immane anche solo riempirsi i polmoni d’aria, prima di parlare. Mi rendo conto dal suo sguardo che il mio aspetto deve rispecchiare in pieno come mi sento, esordì con voce fioca e sofferente. Io non riuscivo a capacitarmi dello stato in cui pareva versare l’arzillo vecchietto che avevo lasciato in ottima forma non più tardi di due giorni prima. A-Aristide… Dio mio…, non riuscii di fare a meno di e­scla­mare, Cosa… cosa le è capitato ? Si sente male ? Lui ebbe il pudore di non farmi no­tare tutta la scontata ovvietà di quella mia infelice domanda. O forse il debito di e­ner­gie era talmente elevato, da non poterne sprecare neanche una goccia per uno dei no­stri soliti battibecchi. Si appoggiò alla rete, dando l’impressione di aggrapparvisi co­me la rigogliosa edera che ne infestava la parte inferiore, passandosi una mano cal­losa sul petto scarno. Non è stata una buona domenica, per niente, mormorò. Le grosse dita da ex-meccanico picchiettarono in corrispondenza dello sterno. Questa vecchia pompa sfiatata che chiamano cuore ha fatto le bizze, l’altra notte, spiegò. Qualcosa, che tecnicamente poteva essere de­fi­nito un sorriso ma che non ci assomigliava affatto, gli increspò il volto cereo, come un’antica ferita ri­apertasi improvvisamente. La sa la battuta, no ?, disse ancora, cercando forse di tirarmi su il morale in qualche maniera (di tirare su il morale a me !), se il cuore fa le bizze, io prenderei una guattro sdagioni ! Un patetico gemello di quel sorriso nato male fiorì anche sulle mie, di labbra, ma solo per un involontario moto di emulazione. Al di là delle burle, al di là delle freddure più o meno raggelanti, le condizioni di salute dell’uomo mi preoccupavano non poco. Mi mi­se al corrente di com’erano an­date le cose, ansimando e prendendosi lunghe pause nel racconto. Disse che già in passato il cuore gli aveva dato dei problemi, tanto che prendeva dei farmaci appositi per tenere la situazione più possibile sotto controllo. Nella notte tra sabato e domenica si era svegliato con la caratteristica, oppressiva sensazione di peso sullo stomaco. Non aveva perso tempo, nel dubbio, affrettandosi a chiamare la guardia medica. Il medico di turno, giunto a casa sua, aveva preferito non ri­schiare, richiedendo l’intervento di un’ambulanza. Ho visto l’alba al Pronto Soc­corso, proseguì con invidiabile spensieratezza, anche se sinceramente avrei preferito go­dermela in riva al mare… mi hanno fatto un sacco di domande, un bell’elettrocardiogramma completo ed esauriente, e poi mi hanno tenuto… com’è che han detto… in os­servazione per un bel po’ di ore… Ma sa, cosa vuole, in ospedale non hanno tempo da perdere, per cui o fai qualcosa di particolare per suscitare il loro interesse, tipo tentare di ti­rare le cuoia, o altrimenti fai presto ad andare giù nella classifica d’interesse… Mi hanno detto di ”riguardarmi”, e mi hanno spedito a casa… E difatti sono qui che mi “riguardo”…
Qualcosa, nelle sue parole, non mi convinceva troppo. Sì, d’accordo, negli ospedali, e nei Pronto Soc­corso in particolare, non brillano sempre per premurosità e sensibilità, in fondo hanno il loro bel da fare per fronteggiare nel migliore dei modi ogni tipo di e­mergenza, ma la sbrigativa conclusione del racconto del vecchio… non so come di­re…mi dava molto più l’idea che avesse insistito lui per cam­biare aria. Magari firmando per essere dimesso nonostante il parere contrario dei sanitari… Bor­bottai lì le so­lite frasi di circostanza, ancora choccato da quella situazione, raccomandandogli di non fa­re sforzi, di tenersi controllato. Che sì, avevano ragione quelli dell’ospedale, a di­re che doveva dar­si una regolata. La faccia gli si corrugò in un’espressione sconsolata. Se il tragitto da dentro fin qui al cancello va considerato come una faticaccia im­proba “da cui riguardarsi”… beh…forse sa­rebbe meglio mettersi a ballare il boogie-boogie fino a farselo scoppiare, ‘sto cuore… almeno fin che tien botta ce la si spassa… Restammo in silenzio, uno di fronte all’altro. Sulla ciclabile alle no­stre spalle transitò un rumoroso drappello di ragazzini in sella a biciclette di varie forme e co­lori, e le loro risate spensierate parvero persistere nell’aria anche dopo la loro scomparsa dietro i filari di vi­ti. Perché non po­ter restare a quell’età a vita ?, pensai con as­so­luta mancanza di originalità. Nel frat­tempo, il silenzio tra me e Aristide sembrava quasi essere una presenza fisica, tangibile. Di cosa dia­volo parli con uno che ha appena rischiato di lasciarci le penne ? Non certo dell’ultimo, stupido sce­neggiato tivu. O del­­l’estate che sembrava inesorabilmente finita (soprattutto utilizzando il termine “fi­nita”, per carità !). Né tantomeno di uno stupido viottolo presunto magico, non vi pare ? Non vi pa­re ?!?
E se quello fosse stato il momento ideale per caricarmi in spalla il vecchiotto (già era un pe­­so-piu­ma, e poi immagino che la disavventura passata lo avesse prosciugato an­cora un pelo) e cor­­rere a gam­be levate al di là di quel ponticello ? Se non succedeva nul­la, amen. Ma se al contrario quel posto qual­­cosa faceva… Non mi mossi, perdendo l’u­nica occasione a mia disposizione per tentare un “colpo di mat­to” del genere, anche se in quel momento ne ero assolutamente all’oscuro. E, soprattutto, era una cosa che non gli auguravo per niente. Ri­ma­si lì, a frugarmi nella mente alla ri­cerca di una parola, di una frase, di un argomento, anche stupido (si­curamente stupido) che frantumasse quell’orrenda sensazione di impotenza e paralisi. Frugai e rifrugai, ma all’interno della mia scatola cranica pareva esserci solo aria e qualche balocco di polvere. La brutta copia di Aristide re­sta­va aggrappato alla rete di recinzione come vittima di un in­­can­tesimo “pietrificante”, facendo ba­le­nare nella mia men­te immagini non richieste di deportati ebrei dietro il filo spinato dei lager. Dalla por­ta socchiusa della cucina sbucò fuori un gattino, molto più piccolo de­gli abituali frequentatori a quattro zampe, che dopo aver annusato un po’ l’aria decise di accomodarsi sulle zampe posteriori, al cen­tro degli scalini. Aveva il pelo quasi totalmente nero, fatta eccezione per una minuscola macchiolina a forma di stella al centro del petto. Sbattei le palpebre, come se fos­si al cospetto di un miraggio, anziché di una presenza reale. Ehi, mi sbaglierò ma quello sembra pro­prio la copia ridotta di Ste­lla !, esclamai, per la prima volta in vita mia grato ad un puzzoso felino, per avermi dato lo spunto per rompere quell’inquietante silenzio, che sia un suo cucciolo ? A­ri­sti­de gettò una rapida occhiata dietro le spalle. Oh bè, suppongo di sì, dichiarò convinto, anche se sa co­m’è… i gatti in campagna… non si ha proprio modo di star dietro alle loro attività procreative… fis­sò an­cora una volta il minuscolo animale intento a passarsi una zampetta dietro le orecchie con minuziosità tutta “gattesca”, in effetti sembrava essere sparita dalla circolazione, la vecchia Stella, e quello è un chiaro in­di­­zio che aveva qualcosa in programma… quello o il fatto di essere finita sotto un camion, di solito… strano, a dire il vero non è ancora saltata fuori, chissà in quale buco è andata a infilarsi…
Io man­co mi ero reso conto che fosse gravida, avrei voluto aggiungere, poi considerai che l’osservazione dei gatti non faceva parte delle mie attività preferite, e sorvolai.
Rimanemmo lì a chiacchierare (e a starcene zitti) ancora per un po’.Lui mi disse di non preoccuparmi troppo, che l’erba cattiva non muore mai. Io ribattei che non mi preoccupava il suo stato di salute in particolare, ma solo il fastidio di dovermi trovare, nel caso, un altro rompianima al suo livello con cui polemizzare. In al­cuni momenti ri­demmo di gusto, e poi “battibeccammo” con somma goduria, come ai vecchi tempi. Do­podichè, mentre l’i­nesorabile accorciarsi delle giornate cominciava a scurire il cie­lo verso ovest (e notoriamente le fan­tascientifiche bici dei giorni nostri non prevedono la pre­­senza del faro, se non su dilettanteschi mo­delli da città), lo salutai, non prima di a­vergli fatto qual­che ulteriore, ansiosa raccomandazione.
Se avessi saputo che era l’ultima volta che lo vedevo, forse… che ne so… avrei detto o fatto qualcosa di più. Ommerda… scusate…
(TLAC)

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


mondo 10.

(TLAC. RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Qualcosa di più… E cosa? Non potevo certo caricarmelo sulla bici per tenerlo sotto osservazione, come avevano fatto, forse per troppo poco tempo, al pronto soccorso. E poi lo sapevamo bene tutti e due, la nostra non era né più né meno che una labile frequentazione “da rete di recinzione”. Avrò a­gi­to in maniera superficiale, ma non sono riuscito a farmi venire in mente come faceva di cognome, quella sera, sempre che me l’avesse detto, e questo ha posto fine al mio temporaneo impulso di cercare il suo numero di telefono sull’elenco e chiamarlo per sentire come stava. Sto leggendo un giallo di Connelly, in cui il protagonista ama affermare che, secondo lui, le coincidenze non esistono. Non so se abbia ragione o meno, fatto sta che quando le cose iniziano a prendere una certa piega, forse non è in nostro potere far molto per modificarle. Il martedì mattina, il maltempo che nel week-end a­ve­va rovinato le uova nel paniere (da pic-nic) di molti fece capire alla città di essere stato in realtà so­­lo il blando “promo” di quello che ci aspettava. Iniziò a diluviare sul serio, e anche la temperatura si diede da fare affinchè si parlasse molto di lei. Fino a metà mattina“si vedeva” il fiato, e tutti quelli che fino alla settimana prima si erano lamentati perché era un agosto troppo afoso, ebbero modo di cambiare registro, iniziando a dire peste e corna su un settembre assolutamente anomalo e freddo.
Di con­seguenza, dopo l’ufficio e la visita a mia madre, col piffero che era il caso di inforcare la bici. Mol­­­to meglio il di­vano di casa, con un quanto mai opportuno plaid sulle gambe. Tutta questa manfrina per dirvi che non effettuai alcun passaggio dal vecchio per i tre giorni seguenti. Sì, lo so, se mi sta­­va così tanto a cuore co­me dicevo, avrei potuto anche prender su la macchina e fare un salto fin là. A­­vrei potuto, come no, non c’era niente che potesse impedirmelo. Nessuna misteriosa paralisi sti­le “viottolo”. Non l’ho fatto, e vi dico subito che non ho alcuna intenzione di farmi prender dentro a di­­struttivi sensi di colpa. L’impulso a farlo c’è stato, ma evidentemente non così forte da costringermi a muovere il cu­lo. Non è che abbia vissuto ogni attimo di quei giorni col pensiero fisso della sa­lute dell’uomo. A vol­te mi veniva in mente, magari nello scorgere in banca qualche anziano che fisicamente lo ricordava, e in altre occasioni mi ripetevo che, in fondo, forse non era il caso di lasciarsi prendere da pensieri troppo catastrofici. Aveva ammesso lui stesso che si trattava di episodi già ac­ca­duti in passato, tanto da seguire una terapia ad hoc al riguardo. E poi magari erano stati i miei occhi inesperti a mostrarmelo tanto “malandato”. Non sono medico, di conseguenza ben poco avezzo a stabilire le condizioni fisiche di un sofferente di cuore basandomi esclusivamente sull’aspetto esteriore. C’è gente che sembra pronta per la sepoltura anche solo dopo una notte insonne per via di qualche di­sturbo digestivo. Mi dicevo tutte queste belle cose, mentre contavo con disinvolta professionalità le ban­conote versate dai clienti della banca, o ascoltando il cicaleccìo senza capo né coda di mia ma­dre, inghiottita dalla poltrona della sua stanza, che la faceva sembrare una bambina accomodata sul se­dile di un gigante. Frugavo dentro me stesso alla ricerca di giustificazioni sempre nuove ed efficaci, e ciò sembrava soddisfare i deboli tentativi di protesta della mia coscienza. E poi… voglio dire… non posso tenere sotto controllo tutti gli eventi del mondo, o in generale della mia vita. Ritengo di a­ver ricevuto la mia dose, ottima e abbondante, di energie da spendere per accudire qualcuno. Sono sta­to vicino fino all’ultimo respiro alla mia adorata moglie, e ogni giorno che il Si­gnore manda sulla Ter­ra mi faccio violenza per varcare le soglie di quell’orrido posto in cui mia madre veleggia verso la fine del suo cammino. Dovevo avere un attimo di respiro ! A forza di battere, si piega anche il me­tallo più tenace, materiale del quale di sicuro non sono composto io. In tutta o­nestà… per carità, con tutto il santissimo rispetto… in definitiva si trattava di un simpatico signore che avevo conosciuto da meno di tre mesi, un cordiale chiacchiericcio estivo, ed oltretutto non era certo un giovanottino.
E ancora, e poi la pianto con questo mio ipocrita “stracciarmi le vesti”, non era scritto proprio da nes­suna parte che se avessi fatto qualcosa di più… okay, okay, se avessi fatto qualcosa… le cose sa­rebbero andate diversamente.
Credo di essermi reso conto che qualcosa doveva essere successo, qualcosa di serio, non appena im­boccato il lungo tratto di ciclabile costeggiante la statale. Era venerdì sera, il tempo dava l’idea di es­­­sersi messo in un precario stand-by, con ampi nuvoloni non proprio amichevoli rassegnati per il mo­mento a tenersi alla larga lungo la linea dell’orizzonte. Avevo indossato la mia felpa da mezza stagione, percorrendo il tragitto da casa fino a quel punto con una decisa andatura sostenuta. Non proprio da scampagnata. Una volta superato il ponte di Debba, svoltai a sinistra per immettermi sul tratto di pista che portava al viottolo. Come ripeto, la visione in lontananza della casa di Aristide mi su­scitò una strana sensazione, spiacevole quanto basta. Dal punto di vista generale non aveva proprio niente che non andasse, i balconi dietro i brutti serramenti d’alluminio erano spalancati come sempre, e il fatto che nel piccolo giardino stazionasse solo il consueto gruppetto di galline, al momento, non significava proprio un bel niente. E comunque l’impressione che ne avevo, come se l”abbandono” e il “vuoto” potessero essere connotati, che ne so, da un colore, una vibrazione, una luminosità particolare, non mi stava suggerendo niente di buono. Accostai alla rete di recinzione, come avevo fatto per innumerevoli sere, armeggiando per togliermi il poco dignitoso caschetto protettivo. E fu al­­lora che mi avvidi della figura seduta sugli scalini della cucina, un po’ di trequarti, che non si scorgeva dalla strada a causa di un cespuglio che ne impediva la vista. Si trattava di un ragazzo, dell’età ap­parente di circa 16-17 anni, intento a giocherellare con il cucciolo di Stella. Gli agitava davanti al nasino rosa un lungo stelo d’erba, e il gattino sembrava indemoniato per non riuscire ad afferrarlo tra gli artigli. Non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi chi potesse essere. Alzò gli occhi verso di me, fissandomi serio e silenzioso. Io sollevai una mano in cenno di saluto, trasformando subito dopo il mio gesto in un cortese invito ad avvicinarsi. Alle sue spalle, la casa insisteva ad irradiare quella sua desolante aura di vuoto e abbandono, e io avvertii l’interno della bocca inaridirsi co­me se avessi appena percorso una decina di chilometri lungo un’impegnativa salita. Ehi... s-salve !, e­scla­mai con voce malferma, non appena fu nei pressi del cancello, chiedo scusa, il signor A­ristide… è in casa ? Il giovane si scostò con un gesto impacciato il folto ciuffo di capelli che gli era scivolato sugli occhi, lanciando un fugace sguardo alle spalle
(Merda, ricordo nitidamente di aver pensato)
Si accostò ancora un po’ alla rete divisoria, mentre il gattino sugli scalini fissava con sguardo perplesso e deluso il filo d’erba inspiegabilmente inanimato. Tentò di “risvegliarlo” con alcuni rapidissimi colpetti di zampa, non ottenendo alcuna soddisfazione. Buonasera…, mi salutò educato il ra­gazzo, lei… era… un amico ? Quel verbo, pronunciato in forma passata, sembrò cadere tra noi con tut­ta la pesantezza di un immenso macigno. Mi passai una mano sulla faccia improvvisamente ac­cal­data, deglutendo a fatica. Aristide… è… è…, fu tutto quello che riuscii a spiccicare, con la mia so­­lita, detestabile incapacità di pronunciare frasi che, in qualche modo, descrivano realtà oggettive (e impossibili da modificare) di cui io non intendo affatto essere messo a conoscenza. Lui tornò a scru­tare in direzione delle finestre della casa, alla probabile ricerca di un conforto, o un aiuto, da parte di qualcuno che in quel momento non si faceva vedere. Mercoledì mattina, disse, senza il mi­nimo bisogno di dover star lì a specificare dove, come, cosa, chi, il… il cuore… Avvalorò quella sua superflua precisazione battendosi il petto con le dita, in un gesto che mi ricordò in maniera straziante quello fatto del vecchio la sera del nostro ultimo incontro. Avvertii una sorta di capogiro tentare di a­­vere la meglio su di me, e dovetti appoggiarmi pesantemente al sellino della bici, per evitare di fi­nire a gambe all’aria. Il cortese giovane mi invitò ad entrare, offrendosi premuroso di andare a prendere una sedia, ma io declinai quella gentile offerta, anche se in quell’istante sarebbe stato molto me­glio se mi fossi se­duto. Se non addirittura sdraiato. Risposi no, grazie, ritenendo in qualche assurdo mo­do di rendere co­sì onore alla frequentazione “da rete di recinzione” che non avrebbe previsto or­mai al­cun sviluppo fu­turo. E così, mercoledì mattina, magari proprio mentre io mi sorbivo le eterne e im­­mutabili lamentele della contessa Volpi sull’aumento dei tassi d’interesse, quello strano o­mi­no si sentiva male e… e… Sì, certo, non era successo certo a causa delle lamentele dell’anziana no­bile (e an­cora meno perché io non mi ero fatto vivo, forse) ma comunque, per un breve e terribile at­timo, ap­prezzai tutta l’orrenda inutilità della commedia della vita. Passò subito, essendo una rivelazione troppo gravosa per qualsiasi essere umano (venirne esposti più a lungo al suo pernicioso in­flusso può istigare al desiderio di farla finita) ma gli strascichi amari che lasciò in me non si dissiparono tanto facilmente.
Gli occhi mi si velarono, e vi passai sopra il dorso della mano. Tutto lì. Nessuna plateale lacrima ro­tolò lungo le mie guance. Quelle le avevo spese per Sandra e, in certi terribili giorni, per la condizione di mia madre. Però fu sufficiente così, almeno a mio personalissimo parere. Era una frequentazione da “rete di recinzione”, e il dolore che provavo, in intensità e forma, era il giusto tributo nei confronti di quella brava persona. Il giovane mi raccontò di essere il nipote (figlio dell’unica figlia di A­ristide, presumo), che lui e la madre erano stati avvisati dell’accaduto da alcuni vicini, recandosi su­bito all’ospedale per le formalità di rito. Avevano dato disposizione affinchè la salma venisse tu­mulata in un cimitero nella zona in cui abitavano, dalle parti di Torreglia, e adesso erano lì per vedere di sistemare un pò la casa, dato che era stata una cosa assolutamente improvvisa. La madre era dentro da qualche parte, e lui mi chiese se avevo piacere che la chiamasse fuori, così, per fare la sua co­­noscenza. Ci pensai alcuni istanti, decidendo di lasciar perdere. Non avevo alcuna voglia di star lì ad osservare espressioni meste che, sulla base di quello che mi aveva raccontato Aristide riguardo ai rapporti con il parentado, non sarei stato in gra­do di stabilire quanto sarebbero state sentite. Lo ringraziai, borbottando qualche giustificazione po­co credibile, ma lui accettò senza ribattere la mia decisione. Restammo lì in silenzio, per alcuni lunghi attimi, e la nostalgia delle cordiali chiacchierate tra me e il nonno del giovane si acuì. Subito do­po, alquanto assurdamente, mi venne la curiosità di sapere se il ragazzo fosse sensibile o meno al viottolo dietro le mie spalle. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, mormorò: peccato non a­verlo conosciuto meglio, anche perché aveva la fortuna di abitare vicino ad un posto da favola. Lo fissai piacevolmente stupito, osservando il suo sguardo inequivocabilmente puntato sul ponticello. Il fatto che anche lui fosse in grado di apprezzare la bellezza di quell’angolo agì come una sorta di benevola scossa elettrica in me, e l’angoscia di quella tragica notizia sembrò perdere buona parte della sua maligna influenza. De­v’essere una dote di famiglia, ricordo di aver pensato. Per un fugace attimo mi venne il dissennato impulso di invitarlo a passare al di là del ponte, ma grazie al Cielo qualche residuo di razionalità lo fece svanire all’istante, facendomi notare che avevo già causato abbastanza casini con quei miei improvvisi e provocatori colpi di testa. M’informai sulla sua età, e lui mi disse che aveva diciannove anni. Era stata forse la sua statura non eccessiva a farmi attribuire un paio d’anni in meno. Anche quella doveva essere una ca­ratteristica legata al grado di parentela, in fondo anche il padre di mio padre esibiva una pelata in tutto simile a quella che mi porto in giro. Un lieve imbarazzo, logica conseguenza del fatto che altre grandi cose non restavano da dire, avvolse le nostre figure immobili. Le galline becchettavano indisturbate tra il ghiaino rado del cortile, sotto il vigile controllo dello sguardo attento del piccolo gatto nero. In quell’istante, quasi per aiutarci nel trovare una conclusione a quel nostro dialogo, la tenda della fi­nestra della cucina si scostò. Intravidi una figura di giovane donna, che si sporse per un breve attimo, in­vitando il ragazzo (non lo chiamò per nome, che restò così una mia curiosità non soddisfatta) a raggiungerla per darle una mano con un cassetto che non voleva aprirsi. Poi fu ringhiottita dall’interno in penombra, mentre a me restava l’impressione di un lieve sorriso di saluto. Il ragazzo si voltò per rientrare, dopo essersi cortesemente congedato.
Risalii in sella, allontanandomi da lì con la netta sensazione che i grossi nuvoloni gonfi di pioggia si fossero trasferiti in blocco dentro di me. E che il vuoto che avvertivo in fondo alla mia anima non si sarebbe riempito facilmente.
Sempre che ci riuscissi, a riempirlo in qualche modo. In quel momento, e nei giorni immediatamente successivi, non avevo proprio la più pallida idea di come avrei fatto.
(TLAC)

11.

(TLAC)
Signori miei, sono depresso. Che poi non è altro che un modo carino e generico per definire uno stato di merda. Né più né meno quello in cui mi sento di essere invischiato. Non avevo la minima vo­glia di trascinarmi fin qui al tavolo e riprendere la mia folla chiacchierata solitaria davanti a questo microfono. Anzi, vi dirò di più. Nell’attimo desolatamente più basso di questa mia poco invidiabile condizione, mentre mi rigiravo insonne in un letto che sembrava volermi avvinghiare a sè con tentacoli fatti di lenzuola sudate e soffocanti, l’impulso sarebbe stato quello di scendere di sotto, prender su registratore e cassette, registrate e non, e concludere la loro esistenza sul fondo della pattumiera. Ma, grazie al cielo, la qualifica di depresso comporta senza alcuna aggiunta di spesa an­che quella di indolente, di conseguenza il mio corpo inerte non assecondò per niente gli imperiosi ordini di un cervello in subbuglio. Anche in questo momento, in ogni caso, non è che le cose vadano tanto me­glio. Il desiderio di allungare un dito in direzione del tasto di stop è assolutamente irresistibile, ma­gari dopo aver infarcito quel che rimane del nastro con un’interminabile serie di grugniti, insulti e termini incomprensibili, quale demente epitaffio. Parole inventate, impossibili, zeppe solo di consonanti dure e ghignanti, una litania sgraziata e aliena di inesistenti codici fiscali. Perché ? E perché no ? Tanto… ops, stava per sfuggirmi, e non so se il mio instabile equilibrio avrebbe sopportato di sentirlo pronunciare. Avrei rischiato di fare a pezzi non solo l’incolpevole registratore Panasonic XP posato qui sopra la superficie lucida del tavolo, ma forse anche buona parte del mobilio di casa. Di cosa sto parlando ? Di una frase. Ve l’ho detto che sto sragionando ma, vedete, c’è appunto una frase che io non riesco a reggere, e che mi sono ripromesso di non utilizzare MAI. E’ stata uno dei cavalli di battaglia di mia madre, che non perdeva occasione di sbandierarla ad ogni piè sospinto. E la cosa curiosa e inquietante allo stesso tempo è che ha cominciato ad usarla solo dopo il ricovero in casa di ri­poso, anche se è da un po’ che (grazie a Dio) non gliela sento utilizzare. Anche se ho la sgradevole im­pressione che sia perché è più sotto sedativi che non cosciente, se così si può definire il suo stato di perenne assenza. In ogni caso, non appena “strappata via”dalle sue cose di tutti i giorni, e co­stretta in quel posto neutro e caotico, ha iniziato a commentare che “tutto è inutile”. Sulle prime mi sembrava una frase come tante altre, e riferita ad alcuni particolari aspetti non suonava neanche tanto fuori luogo. Né tantomeno irritante. E’stato quando l’ha trasformata nel suo “tormentone” pre­fe­rito che la faccenda ha preso tutta un’altra piega. Non era più una frase, un commento innocuo e ge­ne­rico, ma una sorta di orrendo “manifesto programmatico” di come lei vedeva la propria vita, e fa­ceva venire i brividi il tono rassegnato e sconfitto con cui la sputava fuori, neanche fosse intrisa di un liquido amarissimo. Incominciò fin da subito a darmi sui nervi, ma come in tutte le cose ritenevo che bisognasse portare pazienza, e lasciar passare un po’ di classica acqua sotto i ponti. Non servì a mol­to, anzi, da infastidito che ero nella fase in cui la pronunciava spesso, divenni presto molto pre­occupato nel rendermi conto che cominciava ad essere l’unica cosa che le usciva dalle labbra. Iniziai a temere il momento in cui mi sarei affacciato alla porta della sua stanza, col cuore in tumulto nell’attesa di conoscere con quali parole avrebbe salutato il mio arrivo. Avrei sopportato mille volte che mi scambiasse pure per qualche lontano parente, foss’anche quel suo zio morto negli Stati Uniti do­v’era andato in cerca di fortuna. Tutto, ma non quell’orrendo “Tanto è tutto inutile”.
Quando smise di farne uso (o perlomeno lo limitò sensibilmente) mi sembrò di risvegliarmi da un in­cubo. Non so, forse troverete che tutto ciò sia esagerato, ma ognuno ha le sue, e quello che manda fuori dai gangheri voi magari a me non fa né caldo né freddo. Alla fine mi ripromisi di non pronunciare mai quella dannata frase, neanche se avesse costituito la risposta esatta ad un quiz in cui c’era in palio un montepremi da favola. Non fu neanche troppo difficile, mantenervi fede. Non è come spergiurare di non utilizzare mai e poi mai, che ne so, buongiorno o buonasera o qualcosa di altrettanto usuale. Nel caso, esiste tutta una vasta gamma di sinonimi e giri di parole per esternare quel concetto tabù. Vaffanculo. Oh, è proprio l’ideale, quando si ha l’umore sotto la suola delle scarpe (ma molto sotto) infognarsi in riflessioni su argomenti in grado di affossarlo ancora di più. Sono stan­co. Stan­co e stufo. Che differenza fa ? A pezzi fisicamente, e con due coglioni grandi così. Ab­ba­stanza il­luminante, come interpretazione ? L’altro giorno vi parlavo, disquisendoci sopra come se si trattasse di un noioso trattato scientifico, dei tre livelli di batoste. Puntualizzando come ‘ste stronze prediligano muoversi in branco, simili a sanguinari predatori, e in qualche maniera lo sono anche. Fan­no a pezzi l’a­nima anziché la carne, ma lo strazio che provocano è tale e quale. O forse maggiore. In ogni caso, la mia bella corriera carica di batoste sembra proprio non voglia piantarla di girarmi at­torno. Di as­sediarmi. C’è il dispiacere della scomparsa di Aristide, ad esempio, che mi saluta ghignante e crudele al di là dei vetri, facendomi segno col dito come se ripetesse ci sei di mezzo anche tu !. Non sono più riuscito a prender su la bici, nè tantomeno ad ipotizzare di riuscire a percorrere nemmeno un metro di quella pista ciclabile. Oh bè sì, mi rendo conto che non è l’unico luogo al mondo dove si può eventualmente fare un pò di pedalate, ma avete capito cosa intendo, no ? E’ il concetto, il senso di cosa comportasse vestirsi da idiota e spendere qualche mezz’ora della propria vi­ta in bilico sul sellino di una bici. Non sarei in grado di rifarlo, per il momento, la testa mi si affollerebbe di immagini e parole, di ricordi di dolci sere di mezza estate, di un vecchio bizzarro e sim­patico, di un posto che doveva fare qualcosa e invece ci ha deluso come il novantanove per cento del­le cose della vita. Tutto questo mi osserva maligno da dietro i vetri di quell’ipotetico pullman del­la “Batosta Tours”, che insiste a ronzarmi intorno come uno squalo famelico. Per cui me ne resto qui, stravaccato sul divano, con tanti cari saluti ai buoni propositi di fare un pò di moto. E, nel frattempo, la ciccia mi si accumulerà sui fianchi, i trigliceridi e gli altri perniciosi cazzi aumenteranno al­legramente la loro presenza nel mio organismo, indurendo le arterie sino a trasformarle in bizzarre formazioni coralline. Che inevitabilmente mi faranno gentile omaggio di un bel infarto. O magari dell’i­nebriante esperienza di un ictus cerebrale. Prima o poi. Per com’è messo il mio umore in questo mo­mento, sempre troppo tardi rispetto alle aspettative. Tutto ciò mi frulla senza sosta nella te­stuggine, e poi altre co­se, ancora più velenose. In grado di preoccuparmi e terrorizzarmi nello stesso i­stante. Da alcune sere, mentre sono solo in casa, senza la minima voglia di far niente, nè mangiare né leggere né accendere la tivu, mi sono accorto che incomincio a guardare le cose. Guardo determinate cose. Il posto vuoto da­vanti a me, ad esempio, sulla piccola tavola della sala da pranzo. Op­pure l’altra metà del divano, con la sconcertante sensazione che sia vasto come il deserto del Sahara. E naturalmente la porzione di letto non occupata dal corpicione del sottoscritto. Avete ca­pito cosa sto cercando di dirvi, no ? Comincia a mancarmi. Ricomincia a mancarmi. Intendiamoci, non è cambiato nulla. Penso a lei e la rimpiango e ne sento la nostalgia ogni singolo minuto di ogni giorno della mia vita, come sempre. Solo che dovrebbe riguardare un’assenza dal cuore e dalla mente, co­m’è giusto che sia. E invece da un po’ la cosa si sta trasferendo anche sul piano fisico, ri­tornando a meccanismi che pensavo… speravo… di esser riuscito a debellare da un bel po’ di tem­po. Com’è giusto che sia, anche questo. Agli inizi, immagino sia comprensibile, mi ritrovavo a bloccarmi giusto un istante prima di rivolgermi a lei, di formulare una frase, una domanda, un discorso che sarebbe e­cheggiato nella stanza vuota e silenziosa. E in altre occasioni vivevo la netta e spiazzante sensazione di udire i suoi passi, i suoni e i rumori che produceva muovendosi dentro casa, e che conoscevo alla perfezione. La chiamano abitudine, ma è assolutamente riduttivo definirla così. Al contrario, mi piace credere che sia un po’come il corrispettivo emozionale di chi afferma di sentire ancora l’arto che gli è stato amputato. Ma dopo un po’, un po’ che varia a seconda di ognuno, tanto non c’è proprio fretta nel cercare di riaggiustare i pezzi della propria vita, ci si dovrebbe trovare su un punto di vi­sta diverso. Per fare un esempio geografico, all’inizio di tutto un’intrico di strade e viottoli, più o meno ampi o invitanti o dissestati. E, volenti o nolenti, la scelta deve cadere su uno di essi. E’ inevitabile. C’è la via della disperata ricerca di aiuto, aggrappandosi ai figli, al proprio la­­voro o alla fede, o ma­gari ai moderni “sortilegi” di medici e psicoterapeuti. La scorrevole e affascinante auto­stra­da dello sconforto e della depressione, in cui è facile lasciarsi andare giù seguendo l’onda, pur se il pedaggio fi­n­ale, nella maggior parte dei casi, è drammaticamente salato. E poi ancora il sentiero im­pervio e, a prima vista, impraticabile del venirne fuori con le proprie forze, il cui costo è altrettanto proibitivo ma al­meno si sta investendo in qualcosa di positivo, una sorta di precario equilibrio, un’oblìo in cui i ricordi e gli og­getti non sono più così affilati e taglienti. Ma in ogni caso, Dio santo, da qualche parte bisogna de­cidersi di andare. Non si può, è assolutamente impossibile restarsene an­corati alle sensazioni iniziali, alla rassegnazione e all’incapacità di farsene una ragione. Sarebbe co­me de­cidere di rivivere al­l’infinito, ogni giorno che passa, la stessa, straziante esperienza. Se c’è qual­cuno che si è arreso ad un’inferno del genere, ha tutta la mia impotente compassione. Per­so­nal­men­te non mi ritengo insensibile, né tantomeno privo di cuore, se nel giro di una ventina di mesi so­no riuscito a rimettermi in piedi, bene o male, se guardo sciocchi presentatori tv porre domande elementari a concorrenti ancora più idioti, se mi godo qualche bel film o uno stimolante romanzo, se le barzellette di quella sagoma dell’ufficio prestiti mi fanno piegare in due dalle risate. Non sto mancando di rispetto a niente e a nessuno. Sono due livelli diversi. C’è quello che si è perso, la parte strappata via lasciando una ferita che non potrà mai più cauterizzarsi, e la vita.
Però, come ripeto, non dovrebbe essere prevista la possibilità di ritornare sui propri passi, qualunque sentiero si sia scelto di imboccare all’inizio. Ed invece ho come la spiacevole consapevolezza che stia­no facendo ritorno sensazioni e pensieri che speravo di aver seminato lungo il cammino, e tutte paiono aver affilato a puntino le loro lame scintillanti con cui cercheranno di farmi a pezzi. Al di là di tutte queste belle metafore, non so proprio cosa fare, come comportarmi. Che occorra, forse, infilarsi di gran carriera in una delle altre strade ? Magari in quella che porta ad accettare l’aiuto di un medico, cospargendosi la testa di cenere per la presunzione di aver creduto di potercela fare da soli ? Che ne so ?! E’ la prima volta che mi capita di subire una perdita tanto grave, e tutto quello che ho fatto in seguito è frutto dell’ascolto del mio cuore e della mia testa. Senz’altro lodevole, come sistema, ma evidentemente insufficiente, a quanto pare.
E’ strano, che mi sia uscita così di getto quest’immagine dei viottoli. C’entrerà qualcosa ? Con quello che conosciamo ormai bene, intendo ? “Le coincidenze non esistono”, sogghignerebbe l’impavido detective protagonista del thriller che tengo sul comodino, e io purtroppo non sono né impavido né sogghignante. E in ogni caso, in questo momento preciso, non ci sarebbe niente in grado di spingermi ad andare di nuovo a titubare sul ciglio di quel ponticello. Non con l’umore così a terra, e la voglia impellente di spaccare tutto, o di lasciarmi affondare negli abissi di qualcosa che non so nemmeno definire. Via dal nero e dentro nel blu, ripeteva il ritornello di una canzone di Neil Young in voga in tempi in cui credevo ancora che potessimo cambiare il mondo, e di vivere in pace, amore e musica. Oh, il cambiamento c’è stato, come no, solo che non è andata proprio come pensavamo. E’ il mondo che ha cambiato noi, come sempre è stato e sempre sarà. Amen.
(TLAC)
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Ma vi pare normale ? Star qui a riempire cassette che mai nessuno ascolterà (visti gli argomenti è una cosa che auspico con tutto il cuore), come se fosse una sorta di dissennato diario delle sventure di un uomo. Forse sarebbe il caso di farne un bel pacco e spedirlo al primo psichiatra che trovo sulle pagine gialle, anziché scervellarmi su dove eventualmente lasciare questo mio memoriale magnetico. Con preghiera urgente di fissarmi un appuntamento. Mmh, a pensarci bene non sarebbe proprio una cattiva idea. Molto economica, oltretutto. Lo strizzacervelli potrebbe ascoltarsi con tutta calma quello che io sarei in grado di esternare solo dopo svariate sedute, e questo lavoro preliminare non andrebbe a gravare sul mio conto corrente. In modo che quando mi presenterò nel suo bell’ufficio luminoso, potrà andare a colpo sicuro nel prescrivermi la terapia più adeguata. Via dal nero e dentro nel blu, caro vecchio Neil… Anche se di blu, in questo momento, nella mia vita ce n’è ben poco. L’unico che mi viene in mente era quello del cielo sopra la casa di Aristide, che assisteva in silenzio ai nostri rimpianti battibecchi. Per quanto riguarda il nero, invece…Oh, c’è forse qualcuno che ne desidera qualche tonnellata a prezzi più che vantaggiosi ?
Ho letto da qualche parte che le grosse manifestazioni depressive, nelle quali mi sento iscritto d’ufficio, “esplodono” in seguito all’intervento improvviso e inaspettato di un’innesco emozionale, una sorta di miccia collegata ad una catasta di dinamite costituita da tutto quello che vi ho elencato fin qui. Nel mio particolare caso, è successo oggi pomeriggio, in casa di riposo. Mia madre ha causato il ferimento, involontario ci mancherebbe, di una delle ospiti che dividono la stanza con lei. Era seduta nella solita mega-poltrona, impegnata a raccontarmi tutto un complicato aneddoto di quando, assieme ad un’amichetta, percorreva una ventina di chilometri a piedi, con ogni tempo, per poter frequentare le scuole elementari. Il fatto che ne parlasse come se l’episodio si fosse svolto nella mattinata appena trascorsa era un particolare a cui ormai ci avevo fatto il callo. All’improvviso, davanti alla porta della stanza è transitato qualcuno. Non ho avuto modo di registrare chi fosse, se si è trattato di un inserviente piuttosto che un medico o qualche visitatore, e in ogni caso non è affatto determinante. Mia madre puntò un dito oltre le mie spalle, prendendo a sbraitare che era la solita bambina cattiva che ogni santo giorno le rubava il panino col burro e lo zucchero. Come d’abitudine nei confronti di quei colpi di testa, ritenetti che qualche rassicurazione a bassa voce sarebbe stata sufficiente, ma non quel giorno. Con una vitalità insospettata, scattò in piedi continuando ad urlare ed a agitarsi come tarantolata. Il suo braccio sinistro cozzò contro il carrellino su cui depositano il vassoio dei pasti che fu scaraventato addosso al comodino facendo volar via vari oggetti, un giornale, mezzo pacchetto di caramelle, un piccola immaginina della Madonna di Monte Berico e, ultimo ma non per questo meno importante, un vaso di vetro contenente un mazzo di fiori ormai appassiti. Il vaso compì un breve volo nell’aria, senza che io riuscissi in alcun modo ad afferrarlo (intralciato dalla figura minuta di mia madre che insisteva a tempestarmi di pugni lievi e deboli, ordinandomi di correre dietro a quella ladruncola) concludendo la sua traiettoria giusto sulla testa di un’anziana intenta in quell’istante a sonnecchiare placida nel letto di fianco. Il bordo tagliente dell’imboccatura del vaso le causò un innocuo taglietto di un paio di millimetri sulla fronte, ma il sangue che ne sgorgò fuori dava l’idea che la sventurata fosse stata decapitata all’istante. Si risvegliò di soprassalto, osservandosi per un istante, coperta di sangue e con tutti quei fiori rinsecchiti a farle da corona, come se l’avessero piazzata a tradimento nella camera ardente. Subito dopo, prese a urlare con tutto il fiato che aveva in gola, unendosi all’assordante performance di mia madre. Per un lungo, interminabile attimo fu il loro improvvisato duo a fare il diavolo a quattro poi, come un inarrestabile incendio in un’estate torrida, l’agitazione si propagò a tutto il reparto. Fu una cosa fulminea e terrificante, che al solo pensarci mi fa ancora rizzare ogni pelo del corpo. Non so se vi è mai capitato di assistere a quello che accade in un pollaio quando un pennuto idiota si lascia spaventare da qualcosa. E’ questione di un attimo, prima che il panico più cieco contagi ogni singolo esemplare, spingendoli addirittura a calpestarsi sino alla morte. Grossomodo è quello che è successo al secondo piano della casa di cura. Beh, certo, nessun anziano ci ha lasciato le penne, anche se dal frastuono assordante pareva l’esatto contrario, ma tutti si sono messi ad urlare e a gemere e a strepitare. E’ finita con un task-force di efficienti infermieri che si è sparsa tutt’intorno, simile ad una squadra dei corpi speciali dell’esercito, ognuno con la sua bella licenza non tanto di uccidere, ma bensì di somministrare dosi cavalline di sedativo ai più esagitati. Tra i quali andava annoverata di diritto la mia genitrice e, nel suo caso specifico, siamo stati costretti a tenerla ferma in due, prima di riuscire ad abbatterla. E tenete presente che mia madre peserà sì e no cinquanta chili, e sembra un uccellino appena caduto dal nido.
Potete immaginare con che stato d’animo sono venuto via da là. Anzi, mi auguro per voi che la vostra capacità d’immaginazione sia molto inferiore a quello che ho realmente provato io. E continuo a provare.
Inesistenti signori miei, non vi posso garantire in alcun modo che ci saranno ulteriori occasioni di continuare questa mia solitaria chiacchierata. Adesso come adesso, è più no che sì. Provo a pensarci un po’, a dormirci su. Dicono che la notte porti consiglio, e qualche volta funziona.
Certo che dovranno essere con le contropalle, quei suoi consigli, per riuscire a farmi intravedere un po’ di luce in tutto questo casino.
Via dal blu e dentro nel nero, ve l’ho detto. Dritto e di filato.
Buonanotte.
(TLAC)

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Capitolo 6
*** capitolo 6 - Finale ***


mondo 12.

(TLAC)
(TLAC)
Sì ? Sì… sta andando ? Okay. Bene. Allora… non so assolutamente come
(TLAC)
(silenzio)
(TLAC)
Scusate. Scusate. Credo di aver parlato per cinque minuti come un idiota prima di accorgermi che la cassetta non stava girando. E’ che sono così agitato che sembra che le mani stiano ballando il boogie-boogie, come diceva il vecchio Aristide. Quel dannato furfante, mi ha fregato, sapete? Già, ci ha proprio fregato bene. Di cosa sto parlando? Sì, un secondo, se riesco a mettermi tranquillo e calmare il cuore impazzito, vi dirò tutto. Cavoli, non riesco neanche quasi a prender fiato…
Dunque… io credo di… di aver capito tutto! E’stato una specie di lampo, di rivelazione improvvisa e choccante. Mi è diventato tutto chiaro, da un momento all’altro, e ora so perfettamente cosa intendeva dire quando parlava dei pulcini. E di come mai ad un certo punto ha cominciato a gironzolare quella minuscola copia sputata di Stella, mentre della gatta originale non c’era più la minima traccia… Oh Dio, è così pazzesco!
Ma vediamo se mi riesce di cominciare dall’inizio. Ho fatto un salto in cimitero, nella pausa pranzo, per vedere se un po’ di psicoterapia spicciola, seduto come al solito sul marmo freddo, mi poteva risollevare un pelo da quell’abisso di sconforto in cui stavo sguazzando da alcuni giorni. Fissavo gli occhi profondi di mia moglie, che già in passato erano stati in grado di fare luce dentro di me, anche se in quel momento la cosa non sembrava funzionare più tanto. In ogni caso, comunque, me ne stavo lì a perdermi nel suo sguardo appena coperto da una ciocca di capelli dispettosa. C’era un bel vento, quel giorno sul mare, quando le scattai la foto che poi ho scelto di far mettere sulla lapide. Ci credete che ricordo ogni più minuscolo particolare, di quella breve gita d’inizio primavera? Tutto, come se l’avessimo fatto ieri. Non solo il tragitto, le chiacchierate durante il viaggio, il lungomare deserto, con tutti i negozi e i locali ancora sbarrati, ma anche i suoni, i profumi, le canzoni che una radiolina tra­smetteva fioche da un piccolo baretto sulla spiaggia, il delizioso sapore del fritto misto in quel ri­sto­rantino. Sullo sfondo di quello scatto fotografico, sulla destra del volto sereno di Sandra, è rimasto inquadrato anche un gabbiano. Da lì adesso non può più muoversi, naturalmente, “congelato” in e­terno in quella istantanea scattata al volo, ma io so che se in qualche magico modo si potesse far a­ni­mare la sequenza, l’uccello si abbasserebbe fin quasi sul bagnasciuga, lanciando un grido stridulo e ovattato. Esattamente come fece in quel lontano giorno di più di tre anni fa.
Me sono rimasto lì, a guardarla in silenzio. Non avevo nessuna voglia, per il momento, di raccontarle tutto quello che mi passava nella testa confusa e vuota. Le sensazioni nei confronti della scomparsa del vecchio, e sui tragici alti e bassi di mia madre. E ancora meno di accennare qualcosa riguardo a quello che iniziavo a provare quando mi ritrovavo solo, nella casa che abbiamo diviso per così tanto tempo. Anche se avevo la certezza che lei le sapesse lo stesso, tutte queste cose. In ogni caso me ne stavo lì, sperso in mezzo a centinaia di altre lapidi più o meno pacchiane, ognuna col suo bell’armamentario di foto, iscrizioni, fregi, offerte floreali, alcune talmente fresche da sembrare appena u­scite da una serra, altre appassite e polverose come se fossero lì da secoli. Qualche dolente figura si muoveva a tratti, in lontananza, una vecchina di ritorno dalla fontanella pubblica, curva sotto il peso di un vaso colmo d’acqua, e più in là una giovane donna con due bimbetti che scorravano lungo i via­letti con tutta l’infantile innocenza della loro età.
Bambini, vecchi… nessuno scampa a questo posto, so di aver pensato, osservandomi intorno con la te­­sta un po’ piegata di lato per attenuare un riflesso di sole su un fregio dorato incredibilmente lucido.
Bambini che diventano vecchi, vecchi che ritornano bambini…, suggerì un secondo pensiero, subito do­po. E io vi prego di credermi quando vi dico che era un pensiero che non avevo affatto formulato io. Sono assolutamente sicuro di quello che sto dicendo, perché ho assolutamente presente il senso di estraneità, ma anche di infinita dolcezza (quale io non sarei mai in grado di esprimere), di quella specie di… sussurro all’interno della mia testa. Di questa incasinata testuggine. Non ho avuto neanche il tempo di chiedermi cose stesse succedendo, e cosa potesse significare quel bizzarro concetto. Im­provvisamente mi è apparso tutto chiaro, come un raggio di sole che riesca a penetrare lo spesso stra­to nuvoloso di un temporale estivo. Il vecchio aveva detto di non aver mai trovato il coraggio, o la forza, fate voi, di passare al di là di quel ponticello, ed era stato quasi sincero. Nel senso che per tutta la vita era rimasto bloccato là, sul ciglio di una decisione che non riusciva a prendere. Aveva a­vu­to bisogno di un piccolo aiuto, come l’innesco che ha rischiato di farmi sprofondare nella depressione. Sì, ho usato il passato perché in questo preciso momento in me non c’è assolutamente più spa­zio per pensieri foschi e distruttivi. Proprio no, al contrario! E credo di poter affermare senza margine di errore che il piccolo aiuto riguardante Aristide si sia manifestato nella famosa notte tra sa­bato e domenica. Piccolo… se così si può definire il tuo cuore malandato che cerca allegramente di “imploderti” nel petto.
La crisi lo ha spaventato a morte, com’è comprensibile, fornendogli l’impulso a fare quello che pensava fosse ormai impossibile. Lo so, tutto ciò è assolutamente pazzesco, ma io credo che non sia mai accaduto un secondo, e letale, attacco di cuore. E’ uscito di casa, incamminandosi con quel suo passo incerto, ed è salito su per quel viottolo! Ha potuto finalmente dare un’occhiata a quello che c’è al di là.
E sapete cosa penso, anche se è facile che in questo modo io mi sia giocato le ultime possibilità di passare alle vostre… orecchie, come una persona con ancora qualche brandello di sanità mentale? Che quel posto faccia realmente qualcosa. Non so ancora bene cosa, e in che termini, se veramente chi trova la forza per passare di là ha poi l’incredibile possibilità di aver esaudito un proprio desiderio, o se magari si tratta solo di un punto in cui la strada torna indietro. Non so. Mi piacerebbe poter credere che possa aver deciso lui. A cosa mi riferisco? Beh, su, datemi una mano, e non lasciate fare tutto il lavoro sporco a me, che tanto ci siete arrivati anche voi… Sto parlando della sua nuova età! Ed oltre a questo, ritengo di essere abbastanza sicuro che gli sia stato realizzato il suo più grande desiderio. Perché, vedete, quella sorta di folgorazione seduto sulla tomba di mia moglie mi ha dato anche altre, temporanee capacità. Come quella di ricordare ulteriori particolari del mio incontro col… sì, va beh, col nipote del vecchio. O forse erano solo sensazioni che io avevo registrato inconsciamente, troppo scosso dalla tragica notizia per metterle a fuoco. Ci sono riuscito oggi, ricordando con nitida precisione la figura di donna che si era affacciata per un attimo alla finestra e, quel che più importa, i suoi lunghi capelli rossi, e quel vistoso neo sulla guancia.
Ed ora, se avete voglia e tempo da perdere nel cercare di stabilire di quanto io sia andato via di testa, buon per voi. Io, per quanto mi riguarda, ho alcune cose da fare assolutamente irrimandabili e importanti.
Ma non temete, vi terrò informati.
(TLAC)

13.

(TLAC)
Bene. Ho appena finito di riascoltare quello che ho registrato nella mia ultima seduta di un paio di giorni fa. Cose da matti, non trovate? Già… la stessa identica impressione che darebbe a me se non a­vessi fat­to… come dire… qualche verifica in merito. Per cominciare, non c’è più nessuno nella c­a­sa di A­ri­stide, com’era facile prevedere, nemmeno pulcini e gatti, piccoli o grandi che siano. Sì, lo so che questo potrebbe anche essere una conferma che il nipote e sua madre siano tornati al loro pa­e­­­se d’o­rigine (e che il colore dei capelli e la statura e altri segni particolari facciano parte del nor­ma­le corredo genetico) ma io credo che non sia andata proprio così. Anche se me ne era venuto l’im­pulso, non so­no riuscito a farmi un giro ad interrogare i vicini, nel cercare di stabilire chi avesse fatto la presunta telefonata ai parenti, subito dopo la seconda crisi cardiaca. Cavoli, non vi nascondo che mi sarebbe piaciuto, gironzolare a suonare campanelli come un’impavido detective da romanzo giallo, magari esibendo per un fugace attimo la tessera rovesciata di Blockbuster, ma purtroppo non ho una simile faccia tosta. Però qualche manovra sotterranea l’ho messa in atto comunque. Intanto fa­­­cendo un sal­to nel bar accanto alla banca, a scartabellare le vecchie copie del quotidiano locale, con particolare at­tenzione alle pagine dei necrologi o qualche improbabile trafiletto che descrivesse il tragico episodio. Ho trovato forse qualcosa? Non ho trovato niente. E neanche questo, si è premurata di farmi pre­sente la mia coscienza, perfetta nelle vesti di un detestabile avvocato del diavolo, può es­sere considerato determinante, come indizio. A parte che la cronaca locale tende ad occuparsi del passaggio a miglior vita di un solitario ottuagenario solo nel raro caso in cui non succeda null’altro in città e pro­­vincia, poteva essere che la coppia non avesse la minima intenzione di spendere una ci­­fretta considerevole solo per comunicare al mondo la scomparsa del loro congiunto. Che, a parte lo­­ro due, non pa­­reva avere altri parenti. Non si è mica obbligati per legge, a segnalarlo. Così ho pensato be­ne di ap­profondire le ricerche. Ho un amico, un cliente della banca… oddìo, amico è la classica pa­rola grossa, e “conoscente” sarebbe molto più appropriato. Diciamo che col tempo e la frequentazione pro­fessionale si è instaurata a poco a poco una sorta di cordiale simpatia. Quando ci in­contriamo fuori dalla banca ce ne andiamo assieme a prendere un caffè, ed è tutto un tira e molla per cercare di a­vere la meglio in quella moderna tenzone rappresentata dall’offrire le consumazioni. Per farvi un al­tro esempio, è capitato di incrociarci nella hall della banca, perché magari lui sta entrando e io so­no appena uscito dall’ufficio di qualche collega, ed è successo che io mi sia fatto consegnare (ap­pena ap­pena furtivamente) i documenti che doveva depositare, così da risparmiargli la coda allo sportello. Non credo che questo possa essere considerato come un favoritismo, è solo uno dei tanti au­tomatismi che s’innescano durante la vita lavorativa di ognuno. Lo si fa così, senza particolari dop­pi fini, solo per fare una cortesia ad una persona educata.E ogni caso credo che poi sian cose che al­la fine paghino (co­me paga, in negativo, l’essere sgarbati e scostanti) e difatti tutto ciò mi ha dato la possibilità di ri­vol­germi a lui per un piccolo piacere. E’ responsabile del laboratorio di analisi in­terno all’Ospedale Ci­­vile, così gli ho chiesto se era in grado di poter accertare un ricovero d’urgenza, con conseguente e­­sito fatale, avvenuto nella mattinata di mercoledì scorso. La mia benedetta incapacità di barcamenarmi nell’ambiguo mi ha costretto ad aggiungere, come informazione supplementare e del tutto gratuita, che la cosa sarebbe servita per una nostra verifica interna all’istituto di credito. Ho buttato lì il fondato sospetto che il titolare di un conto corrente inattivo da tempo potesse essere la stessa sfortunata persona in questione e bla bla. I­nu­ti­le dirvi che attesi quella telefonata col cuore in gola, ma l’esito andò oltre le mie confuse a­spettative. Nella settimana appena trascorsa, mi co­municò il medico, presso il Pronto Soccorso erano stati ri­coverati solo un paio di pazienti, nella fa­scia oraria da me indicata, e nessuno dei due poteva essere ri­conducibile, per età e patologia, al no­stro caro ex-meccanico.
Non so per voi, ma a me questo è bastato per fare due più due. Chissà, forse desideravo farlo, con tut­to me stesso, passando sopra a tutto. Alla evidente follìa della faccenda, ad ogni più piccola possibilità razionale che qualcosa mi fosse sfuggito, facendomi prendere (anche perché volevo, prenderlo) il più mastodontico granchio di tutta la mia vita.
Io credo fermamente che Aristide si sia fatto una passeggiatina sull’argine, e che sia poi tornato in­dietro. E che, a quel punto, non fosse tanto facile riconoscerlo. Non ho ancora inquadrato le motivazioni che han fatto sì che neanche lui riconoscesse me o, in caso contrario, perché non mi abbia det­to niente. Non si sia svelato. Forse la cosa funziona solo se si tiene la bocca chiusa, o magari per lui era veramente cominciata una nuova vita, senza il minimo collegamento con cose passate.
Oddìo, spero vivamente che non sia così, altrimenti la faccenda comporterà qualche problema in più, e quel paio di cosette che ho messo insieme rischiano di esser state fatte per niente. A cosa mi sto riferendo? Beh, vedete, in fondo sono e resto un ragioniere, una“testa quadra”, che anche di fronte a pos­sibili eventi così… come dire… singolari, cerca sempre di pararsi il culo, con rispetto parlando. Per evitare sorprese. Ho prelevato una certa somma di denaro, dal mio conto corrente, senza neanche troppa pubblicità, visto che ci lavoro, nello stesso posto in cui sono conservati i miei decorosi risparmi. L’ho messa in una bella busta che poi ho chiuso in una delle cassettine di sicurezza. Insieme al doppione del mazzo di chiavi di questo appartamento. Sapete, se si possiede un bancomat e il codice relativo, oltre naturalmente alla chiavetta della cassetta, non necessariamente deve presentarsi il titolare, per averne accesso. Non stiamo parlando delle cassette di sicurezza vere e proprie, quelle del ca­veau, in cui si conservano documenti importanti e gioielli preziosi…In o­gni caso, ho chiesto e ottenuto sette giorni di ferie, che presumo siano più che sufficienti per quello che ho in mente di fa­re. Se dovessi ritornare al mio posto dietro lo sportello, com’è prevedibile, nessuno si ac­corgerebbe di niente. In ca­so contrario, beh, immagino ci saranno ricerche, inchieste, casini… in de­fi­nitiva che la cosa creerà un po’ di subbuglio, ma a quel punto…
Mi sono preoccupato di portare il vecchio Albertone in una delle migliori pensioni del cane della città, pagando una settimana anticipata. Questo bel cagnone si troverà benissimo come ospite qui da noi, ha detto tutta entusiasta la signora che ci ha ricevuto, e a me è serpeggiato un brutto brivido lun­go la schiena nel sentire la parola ospite, pronunciata con la stessa orgogliosa enfasi dalla tizia in tail­­­leur della casa di riposo, il giorno che abbiamo “ricoverato”mia madre. Albertone non era esattamente al settimo cielo quando mi sono diretto all’auto senza di lui, e per lungo tempo mentre mi di­ri­gevo verso la città ho avvertito la pressione del suo sguardo languido e contrariato giusto al centro del­la mia nuca.
Ho fatto tutte queste cose cercando di non pensare a niente e, giunto a questo punto, immagino sia al­quanto indecoroso imporsi di rinsavire e lasciar perdere tutto. Sarebbe anche estremamente assennato, d’altro canto, ma cos’ho da perdere? Una volta assodato che, per una volta nella vita, ho intenzione di ascoltare una sensazione del tutto assurda e improponibile, cos’altro potrei temere? Forse, e ma­gari sarà il caso di rifletterci il meno possibile, la stessa cosa di cui aveva paura Aristide. Come dis­­se in un lontano pomeriggio d’estate, di tornarmene giù e dover riprendere la vita di tutti i giorni. Al­­­­­la fine lui ce l’ha fatta a superarla, anche se a causa di un motivo alquanto serio e convincente. Ma anch’io, nel mio piccolo… D’accordo, non ho certo intenzione di paragonare la perdita fisica del­­­la vita con la mia condizione, che in fondo in fondo non è neanche tanto malvagia. Ho un lavoro so­­lido, un’appartamento di proprietà, uno stato di salute che, per il momento, sta tenendo botta egregiamente (sempre che mi decida a rimettermi a fare un pò di salutare moto). Di conseguenza non in­tendo ab­ban­donarmi ad ingrate lamentele che questa è un’esistenza che non vale la pena vivere e bal­le del genere. Credo di averlo detto in qualche registrazione precedente, non c’è niente di meglio della vita, anc­he nei mo­menti più strazianti, e lungi da me adesso rimangiarmi quelle affermazioni. Quindi il punto non è che questo mio modo di vivere non mi piace più, perché non sarebbe la verità. Di­­ciamo che, per tutta una somma di circostanze, in questo periodo mi piace un po’ meno, e credo sia pre­ciso do­vere di ogni essere umano quello di mettere in atto qualsiasi possibilità a sua disposizione per mi­glio­rarne la qualità. Se dovesse, o dovessi nel mio caso, riuscirci, tanto di guadagnato, no  ? Al­tri­menti non bi­sognerà far altro che tornare sui propri passi, con la consapevolezza di averci pro­­vato fi­no in fon­do.
Credo sia questo il mio innesco, al riguardo: che non potrei mai perdonarmi di non averci provato, da qualunque parte porti questa vicenda.
Penso che sia una cosa che farò domani o dopodomani al massimo. Farò un salto fino in casa di ri­poso, e chiederò il permesso di portare mia madre a fare un giro. Il fatto che sia un bel po’ che non succede, perlomeno negli ultimi tempi, non significa che debba essere così per sempre. E’ pre­ve­di­bile che la caposala-Scharwzenegger tenterà di farmi cambiare idea, adducendo quale indiscutibile o­­­biezione le attuali condizioni dell’ospite. Non ho la minima intenzione di lasciarmi infinocchiare, con­­­siderato che pago fior di quattrini di retta e che quel posto non è ancora una prigione, a quanto mi ri­sulta. Se è il caso non avrò il minimo scrupolo a farglielo presente, anche se in cuor mio confido di non dover arrivare a tali estremi. In ogni caso, una volta concluso il match con Suor Ter­mi­na­tor, ti­rerò fuori dal bagagliaio dell’auto la sedia a rotelle pieghevole che ho intenzione di noleggiare, e vi de­positerò sopra con delicatezza mia madre. Non sarà un problema, ve l’ho detto che pesa co­me un uc­cellino, no? Se mi chiederà se per caso la sto portando a qualche riunione di famiglia, ma­gari ad una dove potrà incontrare mio padre e le sorelle e persino i suoi genitori, le dirò di sì, ag­giungendo pu­re che la stanno aspettando con ansia.
L’aiuterò a sedersi in macchina, e andremo a farci un giretto. Non credo di aver voglia di percorrere quel­l’orrenda statale impestata di auto e camion e gas di scarico e clacson strombazzanti. Molto me­glio tagliare per le stradine dei colli, ci si metterà un po’ di più ma l’unica cosa che proprio non ci serve è la fretta. E poi in questo periodo è tutto un fiammeggiare di foglie gialle e rosse e oro, e sarà uno spettacolo da togliere il fiato. Quando sbucheremo giù in pianura, andrò a parcheggiare un po’ ol­tre la casa di A­ri­stide, in modo da evitare quel brutto tratto parallelo alla statale, e poter così percorrere un bel pezzettino tra i filari di viti e i cam­pi. Se l’uva sarà abbastanza matura, staccherò un pic­colo grappolo per fargliene dono. Le è sem­pre piaciuta un sacco, ma in quel posto non la servono spesso, pa­­re che come appartenenti al genere frutta conoscano solo le mele. La spingerò con calma, a­scoltando i suoi commenti su quella in­consueta passeggiata, e se per caso si rivolgerà a me con no­mi che non coincidono col mio, non me la prenderò più di tan­to. In fondo, potrebbe essere un problema a tempo, se tutto va bene.
Quando sbucherò in prossimità della vecchia fattoria del mio amico, vi dedicherò uno sguardo affettuoso, an­che se sono certo fin da ora che non ci sarà né tristezza né nostalgia nei miei occhi. Tut­t’altro.
Dopodichè?
Dopodichè, direi, un bel respiro e via andare. Ah no, dimenticavo un particolare importante, per il quale mi sono scervellato nelle ultime notti agitate. Avrò con me una piccola borsetta a tracolla, tipo quelle in cui si trasporta la macchina fotografica e i suoi accessori (anzi, proprio quella) in cui saranno riposte con cura cinque audiocassette numerate in sequenza. Prima di attraversare il breve tragitto che porta al di là del canale, la poserò ai piedi della spalletta del ponte, magari un pò nascosta nell’erba alta della sponda. Sì, lo so che si potrebbe obiettare che è un modo alquanto discutibile, e nient’affatto indicato, per affidare le proprie memorie al mondo. Sapete, ci ho pensato su un bel pò, giungendo ad alcune, sorprendenti conclusioni. Prima fra tutte la consapevolezza che io non sono af­fat­to il depositario di questo posto, ammesso che ci siano gli estremi per esserlo, e intendo cioè che possieda qualche particolare caratteristica. Quindi ritengo che la sua eventuale rivelazione debba se­guire un andamento casuale, del tutto simile a come è avvenuto nel mio caso. Non avevo comunque nessuna in­tenzione di affidare questo bizzarro memoriale a qualche autorità, o a un pool di scienziati (o, che ne so, alla Chiesa), preferisco lasciarlo andare, in balìa di quello che gli riserverà il futuro. Lo ritroverà forse qualcuno che ne potrà fare buon uso, o magari un gruppo di ragazzini che non vi presteranno più di tanta attenzione. Potrebbe addirittura finire nelle mani di un extracomunitario, che si terrà la bella borsa gettando via il contenuto, o riutilizzandolo per registrarsi una compilation di musiche della sua terra. O ancora un bello scroscio di pioggia precederà tutto e tutti, rendendo i­nu­tilizzabile il faticoso lavoro svolto dal sottoscritto. La fatalità, il caso, il destino, saranno gli unici au­­torizzati a influire sul futuro della cosa. Nel mio cuore conservo la consapevolezza che questo stra­no materiale finirà nelle mani di chi ne avrà bisogno, di qualcuno a cui magari la propria vita, in que­sto preciso momento, non piace poi così tanto. E non sarà certo una coincidenza perchè, come di­ce il de­tective nel libro che mi auguro di finire in tempo, le coincidenze non esistono.
Dopodichè, stavolta senza più nessun indugio, prenderò un leggero slancio per far superare alla carrozzella (avendo due ruote, come le biciclette, qualcosa della loro fantascienza avrà pur preso, e di conseguenza sarà deliziosamente maneggevole) la distanza che ci separerà dalla sommità dell’argine. Uno sforzo che può fare tranquillamente anche un cinquantenne fuori forma, in fondo si tratta di una vecchina che pesa meno di un uc­cellino e di un dolce declivio. Mmh, sì, proprio la parola giusta, anche se suona un pò buffa: non è una salita, per niente, e dislivello sa tanto da geometri. Ma declivio è il termine azzeccato, e io e mia ma­dre de­cli­vieremo felici come due bambini.
Fin qua arriva la mia arrugginita immaginazione, oltre non c’è proprio nulla. Ma forse è anche me­glio così, non sempre sapere le cose per filo e per segno le rende più affascinanti. E’ ovvio che mi au­guro che qualcosa succeda. Qualunque cosa sarà ben accetta.
E’ chiaro che anche non volendolo sto continuamente rimuginando nel cercare di in­tuire cosa può es­sere successo ad Aristide. Partendo dal presupposto che quel sentiero è una scorciatoia, non solo nello spazio ma anche nel tempo (i pulcini e i gattini parlano molto chiaro) è stato in suo potere di scegliere in che punto fermarsi? O for­se, oltre a questo, il viottolo dove finisce il mondo è in grado di riservare molto di più? Sino ad esaudirli davvero, i desideri?
Sarebbe bello pensarlo, no? L’ha detto anche Aristide, se non si può più neanche so­gnare, dove an­dremo a finire? C’è una cosa che mi frulla per la testa, una sorta di in­nocuo giochino che a volte io e mia moglie ci capitava di fare. Ci siamo conosciuti ab­bastanza tardi, e comunque in una fa­s­e decisamente matura della nostra esistenza, di conseguenza ci è sempre rimasto il rimpianto di non averci mai potuto incontrare da bambini. Gli album di famiglia e le foto, che divoravamo ad intervalli più o me­no re­golari, andando a ripescarli da polverosi scatoloni, erano solo un pallido palliativo. Lo fa­ce­va­mo, sdraiati sul soffice tappeto della sala, con la sola compagnia di un pò di mu­sica soft, due fu­manti tazze di tè e una miriade di candele accese. Per quel che mi ri­guardava, in quei momenti, l’invenzione della te­le­­vi­sione poteva tranquillamente non essere mai avvenuta. Avremo guardato un mi­lione di volte, o­gni volta sbellicandoci come due ragazzini, le pose di noi due in tenera età, ve­stiti da scolaretti o da va­canza al mare (a proposito della mantellina e del cappelletto da clown da spiaggia, cre­­dete che la mia per­fida me­tà me l’abbia fatta passare liscia?), tirati a lucido in oc­casione di cresime e prime comunioni, coi classici vestiti di carnevale rigorosamente fatti in casa. Ci sto pensando su: due persone che sono state così bene assieme, e che so­lo un tragico epilogo ha fatto dividere, non si troverebbero a meraviglia anche avendo la possibilità di crescere, in tutti i sensi, fianco a fianco? Mi sto spingendo troppo a­vanti, dite? Bah, non lo so. Non avendo idea di quale sarà l’offerta, non costa molto di più te­ner­si larghi. L’ho già detto, prendiamo quello che viene. Pronti ad ogni evenienza.
Nella sua ruspante confusione, aveva le idee ben chiare, il caro Aristide. E non è una con­traddizione in termini. Penso che mi adeguerò alla sua filosofia. Com’è che diceva? Se non dovesse succedere nulla, amen. Ma se al contrario quel posto qual­­cosa fa… Credo che stia tutto in questo, la faccenda. In tutte le faccende, a voler essere sinceri. Le cose si provano, e casomai dopo si tirano le somme. Riuscire a saperle prima, è fac­cenda di profeti, maghi e santi. E’ nessuno di noi, a quanto ne so, ha particolari poteri di preveggenza. Io no di sicuro.
Quindi la cosa che resta da fare è arrivare lassù in cima, io e mamma. E vedere cosa c’è al di là. Ol­tre­tutto il tempo si è rimesso al meglio, e una deliziosa coda d’estate sem­bra aver preso possesso di questo inizio di ottobre. Credo addirittura che si possa sta­re con le maniche della camicia arrotolate, fin quasi al tramonto. Ed è quello che fa­remo, starcene lì a godersi la brezza della sera, e a guardare il panorama sereno di campi e colline. Male che vada, faremo ritorno all’auto con la consapevolezza di aver passato un paio d’ore niente male, lontano da caposala-cerberi, clienti esagitati, pappette di mele al posto di croccanti chicchi d’uva, bambine cattive che cercano di rubarti pane, burro e zucchero. Ripeto, male che vada.
Perchè, se al contrario, quel posto qualcosa fa...

Mauro Marani

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