Mors-Amor

di Luly Love
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


Mors-Amor – Parte prima

 
Questo nero destrier, i cui passi
ascolto nei sogni, quando l’ombra scende,
e passando al galoppo, m’appar
della notte nelle fantastiche strade
da dove viene? Quali sacre e
terribili regioni ha incrociato, d’apparir
tenebroso e sublime tanto, e da provar
un fremito nell’agitato crine?
 
Un cavalier dal penetrante sguardo,
vigoroso, ma placido, all’aspetto,
di splendente armatura rivestito,
 
senza timor cavalca l’animale strano.
E il nero destrier dice: “Io son la Morte!”
Risponde il cavalier: “Io son l’Amore!”
 
 
Viveva in quella casa a Steventon* da ormai sei mesi, durante i quali le cameriere, le vicine di case e le sue cosiddette amiche, in un modo o nell’altro, avevano quasi sempre tirato in ballo l’argomento.
– Dicono sia un fantasma. –
– Io ho sentito che è un nipote dei Broden che si diverte a spaventare la gente. –
– Ma sta zitta, che dici! Quello avrà nemmeno vent’anni e questa storia me la raccontava sempre mia nonna che a sua volta l’aveva sentita da sua nonna. –
– Allora sarà una burla a conduzione familiare. –
– Mio fratello Demyx mi ha riferito che alla taverna si mormora sia uno straniero. –
Di tutto ciò di cui quelle pettegole parlavano, la storia del cavaliere dal penetrante sguardo, vigoroso, ma placido, all’aspetto era l’unica che le interessasse davvero. Ma, dato che c’erano troppi pochi dettagli su cui lavorare (diamine, quella storia impallidiva davanti alle confabulazione sulla cornificata Olette!) le conversazioni si spostavano subito su altro, per sommo dispiacere di lady Naminè.
 
 
Si era sposata a marzo, il giorno dell’equinozio, con sir Riku William Holdest, promettente avvocato. Il matrimonio, ovviamente, era combinato: i due giovani erano stati promessi quando lei aveva dodici anni e lui quindici; al momento del matrimonio, ne avevano dieci in più.
Naminè aveva passivamente accettato la cosa, consapevole che il suo destino era scritto da ben prima che nascesse e ribellarsi sarebbe stato inutile e controproducente, e anche Riku, ma per motivi diversi: lui, infatti, era troppo impegnato a crearsi una carriera per preoccuparsi di cose futili come l’amore e il matrimonio.
Tuttavia, quando aveva incontrato per la prima volta la sua futura sposa, era rimasto letteralmente folgorato: la grazia e la bellezza della giovane erano innegabili ed evidentissime; tutto di lei lo attirava, dalle movenze da ballerina alla voce vellutata, dallo sguardo che spesso si perdeva in chissà quali pensieri alle mani affusolate e pallide, pallide come del resto ogni altra parte del corpo.
Purtroppo, per Naminè non fu la stessa cosa; certo l’avvenenza e il carisma di Riku erano, anch’esse, innegabili, ma aveva capito da subito che per lui non avrebbe potuto provare nient’altro che andasse oltre la semplice e genuina amicizia. Ed essendo nella sua natura una schiettezza che alle volte poteva lasciare spiazzati, non aveva esitato a renderglielo noto.
Lui ne era sì rimasto ferito, ma aveva capito, e per affogare il dolore si era gettato a capofitto ancor più nel lavoro.
Dopo il matrimonio, erano andati a vivere in una lussuosa villa a tre piani, nel villaggio natale della madre di lui; era un posto relativamente tranquillo, che aveva quartieri ricchi e poveri. I genitori di entrambi gli sposi l’avevano definitivo perfetto per il primo anno di matrimonio, il posto ideale dove approfondire il rapporto e dove gestire una gravidanza.
Ogni volta che sentivano la parola gravidanza, Riku e Naminè sussultavano: nessuno dei due era pronto a diventare genitore, ma sapevano che, purtroppo, non avrebbero potuto evitarlo.
Tuttavia, cercavano di pensarci il meno possibile.
Nei confronti l’uno dell’altra erano amorevoli ma discreti, cercavano di non mettersi in imbarazzo a vicenda, si venivano incontro nelle cose piccole e in quelle grandi come avrebbero fatto due amici.
Ma nessuno dei due era felice, e ne erano entrambi consapevoli.
 
A dispetto delle apparenze, lady Naminè era una ragazza con una fantasia senza confini; le sarebbe piaciuto molto viaggiare e divenire una scrittrice, ma, come sapeva fin troppo bene, a volte il destino ha altri piani e se infischia altamente di quello che desideriamo e sogniamo.
Per questo motivo, dunque, la storia del misterioso cavaliere la affascinava come non mai; i fantasmi l’avevano sempre attratta, forse perché se li immaginava tristi e soli come lei, o forse perché a causa del proprio aspetto e dei propri sogni morti era più fantasma lei di qualunque altro ectoplasma.
Ogni volta che poteva, perciò, dopo il tramonto, si appostava dietro la finestra e fissava il buio, ma nessun aitante e misterioso cavaliere apparve mai.
A Riku il curioso comportamento della giovane non passò certo inosservato e dopo un paio di mesi di silenzio ed ipotesi, le chiese spiegazioni. Naminè all’inizio si manteneva sul vago, aveva troppa paura di fare la figura della bambina davanti a suo marito, ma alla fine cedette.
– Un cavaliere misterioso, dite? Mia madre mi aveva raccontato qualcosa del genere... sì, ne sono sicuro, questa storia non mi è nuova. E dunque, ancora non lo avete visto coi vostri splendidi occhi? –
La ragazza, arrossendo per il complimento, fece di no con la testa, e lanciò un’occhiata alla strada.
Riku la osservò: aveva una scintilla negli occhi quando parlava del cavaliere, sembrava quasi febbricitante, e anche la voce appariva diversa. Qualcosa stava cambiando oppure era vicino a cambiare, non l’aveva mai vista così; di solito sua moglie tendeva a sopprimere ogni passione, tranne quelle che tutti si aspettavano che avesse.
Si parlava di libri? Non doveva mostrare interesse. Cucito? Doveva mostrarsi un’esperta.
Sapeva bene che per Naminè era una tortura, ma aveva paura a dirle di lasciar perdere le aspettative altrui, paura che lei finisse nei guai, che si ferisse, proprio come un bambino che impara a camminare.
– Beh, direi che questo mistero abbia bisogno di essere... scoperto, ecco. – le disse.
– E come? – chiese lei abbacchiata, continuando a fissare fuori.
– Non saprei. Forse andando incontro al nero destrier e al suo cavaliere. –
La giovane si voltò di scattò a guardarlo, gli occhi sgranati, le guance arrossate dall’eccitazione.
– I-io? Da sola? –
– Certo, perché no. Siete all’altezza di questo compito? –
Naminè gettò una rapida occhiata alla strada, poi tornò a guardare Riku, il quale rischiava di sciogliersi a causa della tenerezza che lei gli suscitava.
– Io stesso mi accerterò che le strade siano sicure, prima che voi andiate. E poi, sarete accompagnata da Flint. È un ottimo deterrente contro i malviventi, quel cane. – le assicurò lui sorridendo.
Lei ci pensò su alcuni istanti, poi annuì vigorosamente.
– Perfetto. Domenica sera può andar bene? Ci sarà la luna piena, così la visibilità sarà migliore. –
 
Domenica sera, poco prima di mezzanotte, Riku rientrò in casa e sua moglie gli corse incontro.
– Allora? – chiese concitata.
– Via libera, è tutto tranquillo. Non per questo, però, dovete abbassare la guardia. –
Lei inspirò pesantemente, drizzò le spalle e gli sorrise.
– State tranquillo, caro. Sarò presto di ritorno e si spera con buone notizie. –
Fece per uscire, ma quando si trovò sulla porta ebbe un piccolo ripensamento e tornò vicino al ragazzo; lui alzò un sopracciglio e lei, in risposta, si alzò sulle punte per dargli un lieve bacio sulla guancia. Poi, seguita dall’enorme alano grigio, uscì avvolta in un mantello verde.
Insieme al cane, si aggirò per le vie principali del villaggio, incontrando solo un crocchio di ubriachi innocui e due prostitute che uscivano dalla casa del dottore ridacchiando.
Dopo tre giri, si fermò, pensando a dove avrebbe potuto trovare il cavaliere; gettò un’occhiata al cane, che stava fiutando l’aria in direzione del bosco.
Ma certo, il bosco! La prima casa che si incontra venendo da lì è quella  dei Broden, e  dopo pochi metri c’è la taverna, da dove lo hanno avvistato e dunque hanno dedotto che fosse uno straniero.
Fece schioccare la lingua e il cane abbaiò.
– Andiamo, Flint. – disse, ridendo piano.
Arrivata sulla via che conduceva dal bosco, superò il cartello in legno che recava scritto il nome del villaggio e si sedette su un masso, mentre il cane si sdraiò ai suoi piedi.
Spero non sia una lunga attesa, anche perché non voglio che Riku si preoccupi.
Dopo quella che la parve un’eternità, ma in che in verità furono solo una ventina di minuti, udì uno scalpiccio che andava avvicinandosi; Flint uggiolò e appiattì le orecchie sulla testa.
– Buono bello. – sussurrò alzandosi.
Strizzò gli occhi per vedere meglio e, dopo cinque furiosi battiti del suo cuore, scorse una sagoma imponente, riconducibile ad un uomo a cavallo, stagliarsi contro il profilo del bosco.
Trattenne il respiro, il cuore che martellava nel petto, provando ad immaginare cosa avrebbe fatto e detto il cavaliere e cosa avrebbe risposto lei; si chiese se le intenzioni di partenza del cavaliere fossero cattive o meno, augurandosi la seconda opzione.
Nel frattempo, il cavallo si era avvicinato; si fermò a tre metri da lei e un fascio di luce lunare lo colpì in pieno, lasciando la ragazza stupefatta: in sella al cavallo c’era la persona più bella che Naminè avesse mai visto.
Era biondo, i capelli dello stesso colore del grano che gli ricadevano morbidamente in un ciuffo un po’ ribelle sugli occhi di un intenso azzurro. Naminè era sicura di non aver mai visto un azzurro così,  perlomeno non nella realtà. Un colore così vivo era riuscita a vederlo solo nei suoi sogni ad occhi aperti, quando lei era la figlia di un corsaro e viaggiava in mari e oceani dello stesso colore acceso e straordinario di quegli occhi. Il viso era senza imperfezioni e i lineamenti erano decisi.
Il mento era un po’ appuntito e la pelle leggermente ambrata, ma le due cose non stonavano, anzi. Gli davano un qualcosa di ancora più... magnetico.
Ma la cosa più sorprendente era che il cavaliere dimostrava la stessa età di Naminè, ovvero poco più di venti.
– Io sono la Morte. –
La ragazza fu riportata di colpo alla realtà da una cristallina voce femminile, che veniva direttamente dalla sua testa. Si guardò attorno, confusa, quando il ragazzo parlò. La sua, di voce, era profonda e, a differenza della prima, era reale e si diffondeva nell’aria, non nel suo cervello.
– Io sono l’Amore. –
Proprio come nella poesia che mi hanno recitato le anziane del paese...
– Io, ehm, sono lady Naminè. – disse titubante.
Il ragazzo la scrutò così a lungo e così attentamente che le parve di essere nuda; assunse un’espressione più sicura possibile e attese.
– Non vedo amore in voi. – fece lui – Solo attorno a voi. Vi segue come vi ha seguita quel cane, fedele e appassionato. Ma... non è corrisposto, o sbaglio? –
Lei fece un passo indietro: le parole del cavaliere la stavano mettendo a disagio. Eppure non scorgeva nemmeno una nota di accusa nelle sua parole: la sua era una semplice, vera e amara constatazione.
– Chi siete? – gli chiese.
Lui scese da cavallo e andò a sedersi sulla roccia dove fino a pochi minuti prima era appoggiata Naminè.
– Ha importanza? – chiese di rimando. Era tristezza quella nella sua voce?
– Chi sei, da dove vieni, chi è tuo padre, che lavoro fai, quanto guadagni... nessuno che faccia mai le domande giuste. – continuò.
– E quali sarebbero le domande giuste? – domandò curiosa.
In risposta, lui le mostrò una mano chiusa a pugno e alzò due dita.
– Dove sei diretto. Sai cos’è l’amore. Sono solo due, ma bastano. Devono bastare. –
Lei lanciò uno sguardo al cavallo, nero come la notte, chiedendosi se la voce femminile gli appartenesse.
– D’accordo, allora. Dove siete diretto? – chiese, mentre la sua pazienza arrivava al limite.
– Io sono un discorso a parte. Voi, piuttosto, dove siete diretta? –
A Naminè non potè non sfuggire uno sbuffo esasperato: quel ragazzo stava eludendo tutte le sue domande!
– Io? Io sono ferma qui, ancorata ad un uomo che mi ama ma che io non amo. E non ho via di fuga. D’altronde, è tutta una vita che giro in tondo rimanendo però ferma. –
Una piccola parte di lei si chiese perché stesse aprendo la sua anima ad un perfetto sconosciuto, ma il benessere che provava a poter parlare apertamente a qualcuno di ciò che provava soffocò in fretta quella parte.
Il ragazzo annuì, come se la capisse perfettamente, e Naminè si disse che non poteva capirla: tanto per cominciare, era un uomo e detto questo detto tutto. E poi, era un cavaliere che se andava in giro in lungo e in largo senza rendere conto a nessuno.
–  Parlano di voi, in paese. Qualcuno ha composto anche una poesia, una nenia. Un cavaliere misterioso a cavallo di una magnifica bestia. Stando a questa poesia e alle voci che girano da prima che mia suocera nascesse, siete più vecchio di come apparite. – disse tutto d’un fiato.
Lui annuì nuovamente e volse lo sguardo alle stelle.
–  Ci sono tre cose che accompagnano l’uomo sin dalla notte dei tempi: l’Amore. La Morte. La Guerra. Tre cose così vecchie e al tempo stesso sempre giovani. Scrivono la storia. Oppure la cancellano. –
Si girò a guardarla, come aspettandosi che lei rispondesse, poi si alzò.
– Se hai un sogno, non aspettare. Agisci. È una delle piccole regole della vita. E te ne dico un’altra: bisogna decidere cosa siamo disposti a rischiare. Alcuni mettono in gioco i proprio sentimenti, altri il proprio futuro. C’è poi chi deve imparare a rischiare, punto. Anche se questo significa fare il primissimo passo. –
Montò a cavallo e si guardò attorno, poi tornò a puntare lo sguardo su di lei con un sopracciglio alzato.
– Tuo marito ti lascia venire da sola per le strade a quest’ora della notte? –
– Sono venuta appositamente per vedere te. – confessò lei – Lui però prima ha controllato le strade. E poi c’è Flint con me. – aggiunse con una scrollata di spalle.
– Allora non sei messa così male. Poteva capitarti di peggio. –
Prese le redini e fece girare il cavallo, dando così le spalle a Naminè. Lei sentì l’agitazione montarle dentro, non voleva che il ragazzo se ne andasse così presto.
– Aspetta! – urlò.
Il cavaliere fece prontamente fermare il cavallo, che nel frattempo aveva iniziato a camminare verso il bosco, ma non si girò.
– Io... ho ancora due domande da farti. La prima è questa: qual è il tu nome? –
– Ho tanti nomi, ad essere sincero, ma tu mi puoi chiamare Roxas. –
– La mia seconda domanda, Roxas, è questa: sai cos’è l’amore? –
Roxas sussultò visibilmente e, quando parlò, la sua voce sembrava al tempo stesso quella di un vecchio e quella di un bambino.
– Non per esperienza personale. –
Detto questo, lui e il cavallo sparirono nel buio, lasciando Naminè sola.
 
 
*Note storiche/geografiche:
Steventon è un villaggio e una parrocchia civile dell'Hampshire, in Inghilterra. È situato 7 miglia a nord della città di Basingstoke, tra i villaggi di Overton, Oakley e North Waltham.
È nota per aver dato i natali alla scrittrice Jane Austen. Fonte: Wikipedia
 
 
Angolo autrice:
Sono viva. Sono tornata e ho poco tempo causa computer impazzito.
Lo so che è fin troppo lungo, ma non mi andava di tagliarlo prima che Naminè e Roxas parlassero. Il secondo e ultimo cap (per cui dovrete ricorrere a tutta la vostra pazienza sempre a causa del mio pc matto) sarà nettamente più corto. O forse no. Boh, dipende dall'ISPIRAZIONE.
Per favore, fatemi sapere cosa ne pensate. La poesia è di A. De Quental, Sonetos.
Un grazie particolare alla cavissima antocharis_cardamines. Non c'è bisogno di spiegazioni.
A presto (si spera) e passate un buon Ferragosto domani.
Luly 

 

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


Mors-Amor – Parte seconda
 
 
 
 
– Un tipo strano, direi. –
– State dicendo che gli credete? –
– Indipendentemente dal fatto che dica la verità o meno, è un tipo strano. –
– Strano in positivo o in negativo? –
– Positivo, direi. Con accenni negativi. –
Era l’indomani mattina dell’incontro di Naminè col cavaliere; la ragazza e Riku si trovavano nell’enorme studio di lui. Naminè gli aveva raccontato come erano andate le cose, tralasciando tutte le parti in cui si faceva accenno al loro matrimonio combinato. Gli aveva però parlato dei due consigli che Roxas le aveva dato.
Era ancora decisamente elettrizzata per l’accaduto, ma anche pensierosa: quello che il ragazzo le aveva detto, infatti, la turbava e la trascinava nei meandri della sua mente, quei meandri che in venti e più anni di vita erano stati l’unico posto in cui potesse fuggire dall’opprimente mondo in cui viveva. Aveva dovuto nascondere quei pensieri al mondo e adesso doveva lasciarli affiorare? Avrebbe dovuto dire a sua madre, a suo padre, ai suoi suoceri, al mondo intero che non amava Riku nel modo in cui tutti credevano e si aspettavano? Avrebbe dovuto gridare al mondo che stare chiusa in casa a fare la mogliettina perfetta non era quello che voleva? Avrebbe dovuto ammettere che non era pronta ad essere madre? Alle donne sarebbe venuto un infarto e gli uomini le avrebbero puntato il dito contro. Così facendo, inoltre, avrebbe gettato disonore anche su Riku e lui non se lo meritava affatto; aveva sempre rispettato lei e i suoi sentimenti, aveva portato avanti egregiamente e senza problemi la farsa: in pubblico la teneva per mano, la abbracciava, qualche volta si erano anche baciati, ma nel privato non dormivano neanche nella stessa stanza!
Come avrebbe potuto fargli una cosa del genere? Sarebbe stato così egoista!
Ma... ma la prospettiva di una vita libera la allettava come acqua fresca dopo una torrida nottata. Viaggiare, conoscere tradizioni e persone nuove, vivere esperienza adrenaliniche, provare sentimenti conturbanti. Poteva rinunciare a tutto questo di nuovo?
Nascose il viso tra le mani e prese dei profondi respiri.
Non davanti a Riku, per carità!
Dopo che si fu calmata, rialzò la testa e guardò il ragazzo.
– E riguardo i suoi consigli cosa pensate? –
– Naminè, prima di rispondere ti voglio chiedere un favore: smettila di darmi del voi! Santo cielo, viviamo insieme da sei mesi e ci conosciamo da anni. – sembrava esasperato.
– D’accordo, scusa. È che io sono stata educata così e certe abitudini sono difficili da perdere. E poi la smetto se la smetti pure tu. – rispose ridacchiando. – Allora, che ne pensi? –
– Affare fatto. Beh, non ha tutti i torti. Certo, è rischioso seguirli, ma la vita cos’è senza rischio? Devi prendere in considerazioni i pro e contro che si presenteranno quando li metterai in pratica. –
– Mi stai dicendo di fidarmi? –
– Non alla cieca. –
– Non sei d’aiuto. Non molto, almeno. Senza offesa. – sbuffò.
– Sai qual è il tuo problema? – sbottò Riku. – La paura. Nella vita, è la paura che ci frega. Ma se vinciamo la paura, vinciamo la vita. Impara a rischiare, Naminè. –
– E se così facendo combinassi un guaio in mezzo a cui ci andassero anche altre persone? –
– La strada per il paradiso passa per l’inferno, se capisci cosa intendo. –
 
 
Fra tutte le ragazze che Naminè aveva conosciuto a Steventon, l’unica che le piacesse davvero era lady Olette. Figlia del dottore del paese e moglie di un proprietario terriero, aveva la sua stessa età ma era sposata da molto più tempo, da quando aveva compiuto diciotto anni. Suo marito, più grande di sette anni, era un uomo di bell’aspetto ma di pessimo carattere: donnaiolo, grande bevitore e giocatore di carte.
Lui e Olette si erano conosciuti quando il corpo di lei aveva appena iniziato a sbocciare: l’uomo, infatti, si era ammalato di polmonite e il dottore andava ogni giorno, più volte al giorno, a casa sua per visitarlo, accompagnato dalla figlia. Olette e l’ammalato si erano innamorati perdutamente e lui le aveva promesso che l’avrebbe sposata.
Otto anni più tardi, la promessa era stata mantenuta. Ma i sentimenti erano cambiati: mentre la ragazza non aveva mai smesso di amarlo, l’uomo si era presto stufato di lei; l’unico motivo per cui non l’aveva lasciata era che Olette non si lamentava mai e inoltre, qualora dei soldi venissero a mancare nelle casse familiari a causa dei suoi vizi, c’era il caro suocero che tappava i buchi finanziari.
Naminè provava una pena infinita per Olette, ma non riusciva a spiegarsi come facesse a sopportare che tutti le ridessero e parlassero dietro. Tuttavia, lei non aveva mai provato un amore così cieco e dunque non se la sentiva di menare sentenze e giudizi. In fin dei conti, seppur per motivi e modalità diversi, anche lei era incastrata in un matrimonio scomodo.
La andava a trovare ogni giovedì nel pomeriggio, quando i rispettivi mariti erano al lavoro; era piacevole per entrambe.
Quel giovedì, a quattro giorni dall’incontro con Roxas, Naminè era particolarmente distratta; le parole di Riku le ronzavano in testa insieme alle due piccole regole della vita elargite dal cavaliere.
Era da sempre che desiderava prendere in mano la sua vita e adesso, adesso che se ne presentava l’opportunità, aveva paura e titubanze. Come era possibile? Perché almeno per una volta le cose non erano semplici?
– Ti vedo distratta, Naminè. Cosa ti cruccia? –
La voce cristallina di Olette la riportò alla realtà. Mise a fuoco la ragazza e notò che aveva un’espressione divertita in viso.
– Tutto a posto, stavo solo pensando. – si giustificò. Ma Olette rise come se avesse fatto una battuta.
– Cosa c’è? – chiese leggermente piccata.
– Oh, niente. – rispose l’altra. – È solo che credo di sapere che genere di pensieri affollino la tua mente. Te lo leggo in viso e nello sguardo. –
Naminè attese che andasse avanti, ma evidentemente Olette, di solito calma e ingenua, per una volta si divertiva a tenere qualcuno sulle spine.
– E di grazia, cosa leggi? – la interrogò nascondendo il fatto che fosse leggermente indispettita.
– Una sola parola: amore. A quanto pare finalmente Riku ha finalmente fatto la mossa giusta. – si sentì rispondere.
Le spalle della bionda si abbassarono.
– Ti sbagli. Io non provo amore. – mormorò sconsolata.
– E questo chi lo dice? Tutti amano. In modi diversi e a volte un po’ strani, ma amano.
Anche tu, te lo leggo negli occhi. Sono diversi, si perdono più del solito. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, lo sai? –
Naminè non rispose e nella stanza calò un silenzio quasi rumoroso.
– Cosa sai del cavaliere misterioso? – chiese tutto ad un tratto.
– Non molto. – disse Olette pensierosa. – So che alcuni l’hanno incontrato. –
La giovane si voltò a guardarla di scatto, gli occhi fuori dalle orbite, la bocca che formava una “o” silenziosa.
– Che cosa? Chi? – riuscì a rantolare.
– I nomi non li so, me ne ha parlato mio padre una volta, di sfuggita. Mi ha detto che alcuni coraggiosi uomini, anni e anni fa, hanno pattugliato il bosco e i dintorni di notte. –
Si interruppe, timorosa.
– E...? – la incalzò l’altra.
– Ecco... alcuni sono stati ritrovati morti. Altri, sono spariti nel nulla e nessuno li ha mai più visti. –
– E che mi dici della nenia che cantano le vecchie del villaggio? Qualcuno deve essere sopravvissuto ad un incontro con il cavaliere. I dettagli sono stupefacenti.  –
– Non lo so. Quella canzone gira da decenni, è vecchia quanto la leggenda. –
Naminè dovette mordersi la lingua per evitare di urlare che non era una leggenda, che il cavaliere esisteva, si chiamava Roxas e che era la creatura più bella che lei avesse mai visto.
Si limitò a perdersi di nuovo nei suoi tortuosi pensieri, fingendo di ascoltare le chiacchiere dell’amica su questa e quella persona.
Alla fine, quando era ormai sulla strada di casa, aveva un piano.
 
 
Era nuovamente notte, ma stavolta la luna, coperta da un velo di nuvole, era visibile solo per tre quarti.
Una silente figura incappucciata si muoveva per le stradine secondarie di Steventon, diretta verso il bosco, stavolta sola. Ci mise il doppio del tempo della prima volta, poiché aveva fatto il giro di mezzo paese piuttosto che attraversarlo, ma era soddisfatta ugualmente.
Arrivò vicino al masso sul quale sia lei che Roxas si erano appoggiati quella domenica notte e si calò il cappuccio sulle spalle; scrutò tutto attorno a sé e constatò che non c’era anima viva.
Sospirando, alzò lo sguardo verso la luna e pregò intensamente che lui si facesse vivo. Sua madre, quando era piccola, le raccontava che la luna accoglie tutte le preghiere degli amanti, è complice e spettatrice delle loro passioni e con la sua luce (o con il suo buio) li aiuta a vedersi e a nascondersi.
E a proposito di buio, una nuvola coprì l’unica fonte di luce di quella notte e tutto piombò nell’oscurità; una poderosa folata di vento freddo soffiò dal bosco e l’orlo del mantello della ragazza ondeggiò furiosamente. Naminè si portò una mano al viso per evitare che il vento le facesse lacrimare gli occhi e quando la abbassò con sua grande sorpresa vide un cavallo nero come la notte a pochi metri di distanza.
Basita, lo riconobbe come l’animale sul quale cavalcava Roxas.
– Lui non c’è. – disse una familiare voce femminile direttamente nella sua testa.
– Vieni pure. – continuò la voce. – Solo perché io sono la Morte non vuol dire che ti farò del male. –
Titubante, inghiottì il groppo che le bloccava la gola e si avvicinò alla bestia. Nuovamente, ne apprezzò tutto: era grande, sinuosa, irradiava potenza; arrivata a pochi passi, dovette reprimere la voglia di accarezzarle un fianco.
– Sei... sei davvero la Morte? – domandò.
– In una delle sue tante forme, sì. –
– E dunque, di conseguenza, Roxas è davvero l’Amore? –
– Esattamente. Non riesci a crederci, vedo. L’Amore non mente mai. Gli uomini mentono, l’amore no. Mi pare di capire che lui e le sue parole abbiano lasciato un segno non indifferente in te. –
Naminè arrossì ed evitò lo sguardo della Morte. L’animale alzò uno zoccolo e lo battè a terra.
– E la cosa non è a senso unico. Anche tu hai fatto un certo effetto su di lui. – le disse, sempre parlandole nella testa.
– Allora perché non è qui? – sbottò, incapace di trattenersi.
– Perché essendo lui una delle tante forme dell’Amore, ha dei doveri. Così come me. Il che, – continuò – mi porta al motivo della mia presenza qui. –
– Ossia? –
– Amore e Morte sono strettamente legati, anche se magari solo dal filo che può tessere un ragno. Sottile, invisibile, ma resistente. Ne sanno qualcosa i pochi uomini che anni addietro sono venuti, come te, a cercare me e Roxas di persona. –
– Sono morti? – si sentì domandare con voce vacillante.
– Alcuni, sì. Pochi altri, quelli abbastanza forti da sostenere il peso, l’onere e l’onore della comprensione -  comprensione non totale, si intende - sono andati via. Hanno chiuso con la vecchia vita e ne hanno iniziata un’altra. La maggior parte di quell’esiguo gruppo è felice, te lo assicuro. Nemmeno la Morte mente. –
La bionda si stava torcendo le mani in grembo, mentre una strana sensazione di esaltazione la pervadeva.
– Hai detto che sei qui per un motivo. Quale sarebbe? –
– Se accetti la forma di amore più pura che esista, devi accettare anche un’altra cosa. Immagini quale sia? –
– Te. – mormorò Naminè. Si stupì nel sentire che la propria voce era ferma.
– Io. – confermò la Morte. – La storia di Roxas è... ah, complicata. Chissà, forse te la racconterà un giorno. Ti basti sapere che pur essendo una forma dell’Amore, lui non conosce questo sentimento in prima persona. Ma questo lo sai. Non sai, invece, che quando ti ha vista, ha sentito per la prima volta qualcosa. Da quella notte, in lui si agita, quasi in rivolta, il suo stesso potere. –
Si fermò e la ragazza giurò di poter sentire il rombare del proprio cuore riverberarsi nell’aria. Iniziava a capire dove stesse andando a parare quel discorso e non aveva assolutamente paura. Piuttosto, fremeva per arrivare ai fatti.
– È vero che lui rappresenta l’Amore, ma è anche vero - ripeto - che non ha la minima esperienza. Indi, non si farà mai avanti. Primo, perché conserva ancora le abitudini degli uomini e come ogni uomo alle prese col primo amore, è pieno di dubbi, ansie e paure. Secondo, perché non vorrebbe che tu rinunciassi alla vita. –
Eccolo, il succo del discorso che tanto attendeva: lei era innamorata dell’Amore ed era anche ricambiata, e se voleva vivere il suo sogno doveva morire. Niente di più semplice. E facile.
– Da quando sono nata, – iniziò – sono stata costretta a prendere strade che altri hanno deciso per me. Sono stata costretta a percorrerle, sopprimendo il mio vero io. A mio parere, è come se fossi già morta, sin dalla prima volta che mi è stato imposto qualcosa. La morte sarebbe una nascita, per me. Accetto... –
– Aspetta. – la interruppe la Morte. – È vero sì che questa vita non la senti come tua, ma è anche vero che durante questo tuo coatto cammino hai incontrato persone e adesso, in un modo o nell’altro, sei legata a loro. Inoltre, non è me che devi accettare, in fin dei conti io ti sono stata sempre vicina. È all’altra faccia della moneta che devi comunicare la tua scelta. –
Naminè volse lo sguardo alla luna, anche se non aveva bisogno di suggerimenti. Per la prima, vera volta in poco più di vent’anni poteva davvero prendere in mano la propria vita. Con il sorriso sulle labbra, tornò a guardare il cavallo, che però era scomparso.
Il sorriso le si allargò ancor più.
– Non vedo l’ora. –
 
 
 
Angolo autrice:
Dopo un mese e passa di latitanza, mi sono rifatta viva. I’m sorry, ma il liceo è tutt’altra cosa rispetto al ginnasio. Molto più interessante, ovvio, ma mi assorbe totalmente. Non stupitevi troppo, dunque, se per il prossimo capitolo dovrete aspettare ancora di più.
Sì, avete capito bene, in barba a quanto detto nelle NdA del precedente cap questo NON è il finale. Ce ne sarà ancora uno. Inoltre, ho in mente una missing moments per spiegare come Riku sia diventato così OOC da un capitolo all’altro. Me ne rendo conto che quello di ora sembra un’altra persona rispetto a quello di partenza, ma non ho potuto fare altrimenti. Spero perdonerete questo mio errore e questa enorme incongruenza.
Ringrazio antocharis_cardamines, Anima1992, JLuna_Diviner e RoriKida per tutto. Un doppio, forse triplo, ringraziamento va alla santa Rex. Non c’è bisogno di spiegazioni. Ti voglio bene cara!
Detto questo, ho fame. Vado a nutrirmi e spero che il cap sia di vostro gradimento. Lasciatemi una recensione, anche piccola. Come già detto, ci tengo a questa storia.
Un bacio e a presto,
Luly
 
Ps: non ho riletto, perciò ci saranno degli errori. Controllerò domani o comunque appena ho voglia/tempo. Anyway, se sareste così gentili da farmeli notare vi adorerò

 

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


Mors-Amor – Parte terza
 
 
 
Si richiuse silenziosamente la porta alle spalle, il cuore in tumulto, le guance arrossate e i pensieri che frullavano a mille.
Poteva lasciare quella vita, una volta per tutte; sapeva che non c’era via di ritorno una volta imboccata quella strada, ma almeno sarebbe stata una sua scelta.
Sorrise alla consapevolezza che per una volta il suo destino sarebbe stato tutto in mano sua, ma un attimo dopo brillò nel suo animo una scintilla di rimorso e preoccupazione per quello che tali scelte avrebbero causato alle persone che le volevano bene.
Cosa avrebbero fatto i suoi genitori? E Riku, sarebbe stato additato come il marito di una fuggitiva? Con chi avrebbe passato i pomeriggi Olette?
Appoggiò la schiena al muro e, alzando lo sguardo, incontrò il proprio sguardo nel grande specchio che le era di fronte, appeso all’ingresso: come poteva voltare le spalle a ventidue anni di vita?
Non si vive né si ama nel vuoto. Intorno a lei c’erano persone che le volevano bene e che sarebbero state ferite, o persino distrutte, se si fosse concessa di sentire tutto ciò che voleva sentire. Era una regola, questa, universale, che non valeva solo per lei, ma a Naminè parve, in quel momento, di essere l’unica a sentirne il peso.
Forse le cose andranno meglio quando andrai a vivere a Londra, sussurrò una vocina nella sua testa. La permanenza a Steventon era infatti temporanea.
Si ritrovò a chiedersi se Roxas cavalcasse anche le strade di Londra.
E mentre era i balia di questi pensieri, udì il suo nome, pronunciato da Riku sopra le scale, con una malcelata vena di preoccupazione.
– Naminè? –
Lei deglutì.
– Sono qui. –
Silenzio, poi un sospiro.
– Ti spiace raggiungermi nel mio studio, cara? –
 
Stringeva convulsamente la tazza di tè caldo fra le mani, seduta di fronte a Riku nell’ufficio di questo. Era una stanza accogliente, calda e ordinata; sgattaiolava spesso lì per leggere o anche solo sfogliare un libro preso a caso dagli altissimi e stipati scaffali in mogano.
Per essere un villaggio tranquillo, Steventon era pieno di problemi: questioni legate all’eredità, ai confini dei terreni, a pecore rubate; Riku aveva sempre almeno due casi a settimana su cui lavorare. Suo padre lo aveva mandato lì per - testuali parole - farsi le ossa e acquisire esperienza per la sua futura e definitiva carriera a Londra.
Naminè l’aveva visto e sentito all’opera e doveva ammettere che aveva davvero talento: coi suoi modi pacati, la sua lingua che sembrava ammaliatrice e il suo fascino naturale, erano pochi i casi in cui perdeva.
Per questo, seduta lì davanti a lui che si trovava nel suo ambiente naturale, dopo avergli riferito della sua chiacchierata con la Morte, la ragazza temeva che, usando le sue doti, lui avrebbe potuto convincerla a non accettare l’invito della creatura. Non che fosse nello stile di Riku, ma le persone sono imprevedibili.
Lui smise di tamburellare le dita sul bordo di un grosso tomo e alzò lo sguardo, incrociando così quello di Naminè.
– Cosa aspetti? Perché sei ancora qui? – chiese.
Lei, stupita dalla semplicità della domanda, ci mise un po’ a rispondere, e quando lo fece scandì bene ogni parola dopo averla accuratamente scelta.
– Io non posso permettermi il lusso di mettere tutto in una valigia e voltare le spalle a questa vita, anche se tutto quello che mi circonda non è una mia scelta. Tu hai fatto tanto per me, non mi hai mai forzata, non mi hai mai rinfacciato nulla, non posso andarmene senza ringraziarti. –
Fece una pausa per scrutare il viso del ragazzo, che con un cenno la incoraggiò ad andare avanti.
– I miei genitori... loro non hanno colpa. Sono nata nel momento sbagliato, nell’epoca sbagliata; non biasimo le persone, forse non biasimo nemmeno la società. Le cose vanno così, punto. Forse non a causa dei singoli individui, o magari proprio per quelli che si distinguono ed erigono.
Perciò non me la sento di partire senza salutarli, senza dirgli quanto gli voglia bene, quanto sia loro grata per aver cercato di darmi sempre il meglio. Non posso semplicemente salire sulla groppa di un cavallo e annullare o dimenticare ventidue anni.
È quello che voglio, ma so per esperienza che, nel migliore dei casi, si deve trovare un punto d’incontro tra ciò che si vuole, ciò che si deve e ciò che si può. –
Lui annuì, poi abbassò lo sguardo; Naminè avvertì una stretta al cuore intuendone il motivo.
– Non vorrei doverti lasciare. – disse lentamente. – Tu... tu hai fatto molto per me e vorrei riuscire a dirti quanto te ne sia grata. Vorrei che tu potessi venire con me, o quantomeno parlare con Roxas. Sono sicura che saprebbe mostrarti la strada. –
Riku sospirò.
– Voglio solo una cosa, anzi tre. –
– Tutto quello che vuoi. –
– Promettimi che sarei felice, che lotterai per la tua felicità. Secondo, non dimenticarti mai della storia che hai alle spalle. Non nel senso che deve essere un peso, no, ma cerca di ricordare perché sei dove sarai. E terzo... –
Si interruppe, le guance accese violentemente di rosso.
Lei lo incoraggiò posando la sua piccola e affusolata mano sinistra sulla sua destra.
– Promettimi che non ti dimenticherai di  me. – disse tutto d’un fiato.
Lei sorrise mentre una lacrima luccicante le rigava una guancia.
– Neanche se bevessi tutta l’acqua del fiume Lete potrei. –
 
Prese un respiro profondo e sollevò gli occhi dalla scrivania, mentre la sua mano indolenzita lasciava cadere dolcemente il pennino sul ripiano.
Erano due giorni che scriveva incessantemente; scriveva lettere per tutti coloro che avevano avuto un ruolo di rilievo nella sua vita: sua madre, suo padre, Olette, le sue cugine Kairi e Xion.
Ora aveva appena concluso quella a Ventus, il bellissimo bambino di tre anni figlio di Kairi e suo marito Sora; era quella a cui teneva di più, perché voleva che le sue parole fossero di aiuto al piccolo.
Si passò il dorso della mano sulla fronte e guardò fuori dalla finestra.
A breve, Roxas, a breve ti raggiungerò...
– Tutto bene? – giunse una voce dalla porta.
Con calma, prese in mano tutte le lettere e controllò che ci fosse il nome su ognuna, poi si alzò, andò verso il marito e gliele consegnò; lui le accettò con un cenno d’intesa.
– Quando sarà il momento... – si limitò a dire lei.
Lui la tranquillizzò, ribadendo che avrebbe fatto tutto per bene al tempo giusto.
Rimasero in piedi, uno di fronte all’altra, per un po’, imbarazzati, poi lei lo abbracciò di slancio.
– Grazie. Grazie di tutto. Vorrei che le cose fossero andate in modo diverso tra noi. Forse col tempo avrei potuto amarti come avresti voluto e meritato... –
– No. – la interruppe lui con uno strano tono perentorio. – Ad ognuno ciò che si merita quando lo merita. Ho preferito di gran lunga che le cose siano andate così; almeno ho avuto la fortuna di conoscerti. E chissà, magari un giorno questa mia azione di aver liberato una creatura pura dalle catene della società varrà qualcosa sul mio curriculum. –
Lacrime scendevano dagli occhi di Naminè, lacrime che prontamente Riku asciugò.
– Se ti fai vedere così, Roxas penserà male. Un bel sorriso, Nami. –
La ragazza sorrise e alzò il mento; negli ultimi giorni aveva acquisito una sicurezza finora a lei sconosciuta, che la faceva sentire in grado di fare tutto.
Si guardò attorno, cercando di assimilare ogni dettaglio di quella stupenda casa, che una piccola parte di lei sperava di rivedere, presto o tardi.
– Pronta? – le chiese lui tendendole una mantellina.
– Da tutta la vita. –
 
L’addio fu struggente: Riku le teneva una mano tra le sue, sorridendo mestamente, mentre lei lo ringraziava per la comprensione e la libertà che gli stava dando; il giovane si limitò a scuotere la testa e dirle che stava rendendo solo giustizia.
Dopo una serie di abbracci, Riku aprì la porta, facendo entrare un fascio di luce lunare nell’atrio, insieme ad una frizzante, quasi fredda, aria autunnale.
Lui la guardò preoccupato.
– Non avrai freddo? –
– Sto per seguire verso l’ignoto un misterioso cavaliere a cavallo di una creatura parlante che dice di essere la Morte e tu ti preoccupi che io abbia freddo? – rise lei.
– Effettivamente vista da questa prospettiva... –
Risero, per poi piombare nel silenzio. Udirono un familiare grattare sul pavimento e dopo pochi secondi, Flint arrivò di gran carriera; strusciò il grosso muso contro le ginocchia di Naminè guardandola coi suoi occhioni. Lei soffocò un singhiozzo e si mise sui talloni, lo sguardo alla stessa altezza del suo e gli prese la testa fra le mani.
– Pensaci tu a lui, fallo uscire ogni tanto, va bene? – mormorò, facendo un piccolo cenno verso Riku.
Si rialzò, il mento in su e gli occhi asciutti. Alzò un braccio e tracciò il profilo delle labbra del ragazzo con un dito; lui le baciò i polpastrelli, gli occhi chiusi.
Naminè lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e si voltò verso la porta aperta; Riku continuava a tenere le palpebre abbassate.
Ave atque vale, Riku. – bisbigliò la bionda, e furono le ultime sue parole che risuonarono nella grande villa.
 
Quando il ragazzo riaprì gli occhi, molti minuti dopo, la porta era ancora aperta, il cane era seduto davanti ad essa a guardare il cielo e un senso di vuoto aveva pervaso la casa, ma non il cuore del giovane avvocato, che potè giurare di conoscere, in quell’esatto istante, il sapore della pace.
 
 
Il percorso che l’avrebbe portata al limitare del bosco lo aveva pianificato per bene, in modo che nel percorrerlo non avrebbe incontrato nessuno e al tempo stesso avrebbe incontrato tutti: si fermò davanti alla cappella, per una breve ma intensa preghiera; passò sotto lo studio del dottore, constatando che la luce era ancora accesa; sostò sotto casa di Olette, e quella fu la pausa più lunga e dolorosa. Sapeva bene che la ragazza era sola, molto probabilmente in camera da letto a cucire per non farsi vincere dal sonno: ci teneva ad andare ad accogliere quello scellerato del marito quando lui si degnava di tornare, a qualsiasi ora, con il puzzo di fumo e rum addosso e i postumi della libido ancora negli occhi.
Strinse i denti e contrasse la mandibola, augurandosi che presto anche per la sua amica arrivasse il giorno della liberazione. Con un sospiro, si costrinse a continuare.
L’ultima tappa fu la taverna. Grasse risate e urla si sentivano fin dall’altra parte della strada, dove si trovava lei. Era da lì che tutto era partito: gli uomini avevano avvistato cavallo e cavaliere, avevano sparso la voce, ne era nata una nenia. Dopo chissà quanti anni - molti più di quanti ne avrebbe potuti contare - quella nenia era arrivata a lei e l’aveva portata lì, in piedi nel silenzio di quella notte, con un uccello imbizzarrito al posto del cuore.
Si concesse un attimo per ascoltare la cacofonia proveniente dal locale, poi drizzò la schiena e riprese a camminare, per fermarsi solo una volta arrivata davanti al masso che era stato spettatore dei suoi due precedenti incontri notturni.
Loro erano lì. Lui era lì.
Le dava le spalle; era in piedi davanti al cavallo, la testa dell’animale tra le mani, la fronte quasi poggiata sul suo muso. Stava sussurrando qualcosa, ma non riuscì a capire cosa.
Le dispiacque interrompere una scena di tale intimità, quindi si fermò a un paio di metri e restò in silenzio, cercando di non fare rumore neanche respirando; sperò che il tamburellare furioso del suo cuore non la facesse scoprire.
Ma i suoi tentativi furono vani: quasi subito Roxas si girò verso di lei, e la visione del suo viso le fece al tempo stesso perdere un battito e aumentare la frequenza cardiaca. Gli occhi azzurri accesi di una luce calda e familiare, il sorriso splendente, le guance arrossate, chissà se dal freddo o dall’emozione di vederla.
A quest’ultimo pensiero, anche lei arrossì.
– Sei venuta. – la accolse lui.
– Sono venuta. E tu sei qui. – rispose lei.
– Ci sono sempre stato. Tu piuttosto... –
– Anche io ci sono sempre stata. – lo interruppe la giovane, senza foga ma con decisione.
Roxas sorrise, poi la scrutò da capo a piedi, le sopracciglia aggrottate; Naminè giurò di non aver mai visto nulla di più dolce e bello.
– A quanto pare non sei preoccupata per il freddo. – constatò il ragazzo. A lei non sfuggì come, con assoluta e normale naturalezza, si stessero dando del tu. La cosa le piacque.
– Suppongo che non avrò bisogno di vestiti caldi, non dopo che sarò... salita sul tuo destriero. Con te. –
Lui annuì, senza però allentare la tensione della fronte. Dopo un attimo di stasi da parte di entrambi, si tolse il mantello; la sua armatura scintillò lievemente. Le andò vicino e le cinse le spalle con il mantello, fissandolo bene con una spilla sotto il collo.
Non ritirò le mani; rimase fermo, indeciso, per qualche secondo, poi le accarezzò la gola con il pollice; vedendo che lei socchiudeva gli occhi e dischiudeva le labbra, prese coraggio e le posò una mano sulla guancia, mentre con l’altra seguiva il profilo della mascella.
Le punte dei loro piedi si toccavano, i loro respiri si univano. Gli occhi di lui erano fissi sul volto di lei, quelli di Naminè erano chiusi; le mani di lei rimasero per un po’ ferme, abbandonate lungo i fianchi, ma presto si mossero e andarono a posarsi sul petto di Roxas.
Nonostante la cotta di maglia, Naminè potè giurare di percepire contro il palmo delle mani il battito furioso del cuore di lui.
– Lo senti? – sussurrò Roxas. – Batte così per te. Non mi sono mai sentito così vivo. –
Lei rovesciò la testa all’indietro e rise. Lui la guardò, incerto, poi le sue labbra si distesero in un sorriso; la risata della ragazza echeggiava nella notte, cristallina, vera. Libera.
– È tutto vero. – ripeteva lei, quando l’euforia glielo permetteva, tra una risata e l’altra.
Lui annuiva stringendola a sé, baciandole la testa, mandando giù nel profondo dei polmoni l’odore dei suoi capelli.
Sarebbero potuti restare così per l’eternità, ma, quando ormai il battito dei loro cuori si era regolarizzato, il cavallo nitrì.
Roxas sospirò e si girò a guardare l’animale, tenendo un braccio attorno alla vita di Naminè; lei sbirciò al di sopra della sua spalla il destriero del ragazzo.
– È ora di andare. – la informò.
Naminè annuì e insieme si avvicinarono al cavallo, fermandosi al suo fianco; lei allungò una mano, senza alcuna titubanza, e ne accarezzò la schiena, avvertendo i muscoli possenti a riposo. Il pelo era liscio e morbido, corto.
– Quando dici che dobbiamo andare... – fece. – Chi ce lo impone? –
– Nessuno. Siamo liberi. Ma tenerci in movimento è sempre preferibile. – rispose lui con una scrollata di spalle. Le posò una mano sul gomito e lei si voltò a guardarlo; quegli occhi, Dio, quegli occhi...
Senza interrompere il contatto visivo, Roxas la prese per i fianchi e, come se lei non pesasse nulla, la issò in sella, delicatamente. Appena lei si sistemò, a ruota salì in groppa, dietro Naminè, e afferrò le redini. L’animale iniziò a muoversi, passi lenti, quasi come in una processione. Forse le stava dando il tempo per cambiare idea, o girarsi a dare un ultimo sguardo. Non fece nulla di tutto ciò; rimase dritta, con la schiena contro il petto del cavaliere, il suo cavaliere, beandosi delle braccia di lui che le sfioravano i fianchi mentre teneva le redini, del suo mento sulla sua testa.
Ormai erano arrivati ai primi alberi del bosco; la Morte si fermò. Le fronde ondeggiavano, e Naminè ringraziò mentalmente Roxas per il mantello. Si girò a guardarlo, per quanto la posizione di entrambi glielo permettesse.
Lui la stava fissando con espressione pacifica. Le sorrise.
– Ricorda questa sera, perché sarà l’inizio dell’eternità. –
Poi diede un impercettibile colpo di redini, e l’animale partì al galoppo, lasciando profondi solchi nel terreno che sparivano con la stessa velocità con cui erano comparsi.
 
 
 
Angolo autrice:
Non ci credo. L’ho finita. Santi numi. Divino Zeus.
Direi di andare con ordine.
Allora, come potete notare, non sono morta. Sono viva e vegeta. Nonostante tutto. (e quel “tutto” è davvero TROPPO. Antocharis ne sa qualcosa, vero amica mia?)
Vi ho fatti aspettare, me ne scuso, ma sono un essere profondamente sfaticato, senza contare ispirazione altalenante, primi baci, primi tentativi di fare la brava fidanzata, prime rotture, filosofia, la mia prof di latino, il greco, mia mamma, punizioni estreme, telefono impazzito, Divergent, il mio gatto (uno qualsiasi dei tanti), il computer, la violenza sulle donne (storia lunga. Ma io e i miei familiari stiamo tutti bene, tranquilli), il mio ormai ex ragazzo, il mio essere una persona altamente sfaticata...
Sì insomma, mi dispiace, ma ora sono qui, questo conta, no?
Poi. Se vi sembra che il finale lasci qualcosa in sospeso (Riku. Olette. Le lettere. Altro.) sappiate che è altamente voluto. Ciò non toglie che nel caso di malcontento generale, sì, avete il diritto di prendermi a calci. Quando dico che è voluto non intendo affatto dire “mi ero rotta le palle di vedere la fic incompiuta nella cartella insieme ad altre trentordici mila e allora ho cercato di farla finita il prima possibile”. ASSOLUTAMENTE NO. Semplicemente mi sono detta che andare a scrivere di altri cavoli era inutile e sarebbe potuto risultare fuorviante. La storia è incentrata su Naminè, i suoi problemi e la leggenda del cavaliere. Il resto è una cornice.
Then... uhm... Ho finito, credo. Boh. Non mi viene altro, quindi passo ai ringraziamenti:
JLuna_Diviner
Anima1992
RoriKida
thedarksora91

E, ultima e più importante,
antocharis_cardamines.
Grazie. Grazie delle attenzioni, delle recensioni, dei complimenti, della pazienza (soprattutto della pazienza). Grazie di tutto.
Grazie anche ai lettori silenti, che spero che mi lasceranno una recensioncina, dato che questo è l’ultimo capitolo e io sono da poco single (da un mese. Per me è poco.) ma ancora perdutamente innamorata del mio vicino di casa.
Cribbio, quanto roba ho scritto!
Bien, direi che sia ora di andare. Aristotele mi aspetta, e dopo di lui il romanico e Lorenzo Valla.
Un mega bacio a tutti, vostra nei secoli e con amore
Luly Love
 
 
Ps: la fic tutta è intrisa di citazioni, ecco le fonti.
Dal primo capitolo:
- Se hai un sogno, non aspettare. Agisci. È una delle piccole regole della vita. Famosissima, detta da Axel in KH II.
- Bisogna decidere cosa siamo disposti a rischiare. Alcuni mettono in gioco i proprio sentimenti, altri il proprio futuro. C’è poi chi deve imparare a rischiare, punto. Anche se questo significa fare il primissimo passo. Scrubs, detta dal mio omonimo, JD, ma non chiedete episodio e/o stagione.
- Poteva capitarti di peggio. Haymitch, Catching Fire.
Dal secondo:
- La paura. Nella vita, è la paura che ci frega. Ma se vinciamo la paura, vinciamo la vita. Il vescovo della mia città il giorno della mia cresima.
- La strada per il paradiso passa per l’inferno. Onestamente non ricordo chi l’abbia detta dove e quando, ma comunque non è mia.
In questo:
- Non si vive né si ama nel vuoto. Intorno a lei c’erano persone che le volevano bene e che sarebbero state ferite, o persino distrutte, se si fosse concessa di sentire tutto ciò che voleva sentire. Jace, Shadowhunters - Città di Cenere.
- Ricorda questa sera, perché sarà l’inizio dell’eternità. Detto attribuito a Dante.

 

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