Il Canto delle Cicale

di LeFleurDuMal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Albedo - Vita ***
Capitolo 2: *** Rubedo - Sacrificio ***
Capitolo 3: *** Nigredo - Morte ***



Capitolo 1
*** Albedo - Vita ***


il canto delle cicale

Albedo

 

 

 

 

 

Inerte, tutto brucia

Nell’ora fulva.

Stéphane Mallarmè, L’aprèsmidi d’un faune

 

 

 

La mattina era stata torrida e il calore intenso inaridiva la terra battuta dell’Arena, irradiandosi dalle rocce e dai marmi.

Milo terminò l’allenamento quotidiano, da solo, e si fermò stanco sotto un ulivo. L’ombra offriva un ristoro fresco e i grilli tormentavano l’aria in un frinire incessante.

Socchiuse gli occhi azzurri nel calore e guardò l’acqua salata lambire la terra in onde leggere, lontano. La costa era bellissima.

Tutt’intorno, a parte il mare instancabile, era immobile, il Santuario.

Qualcuno vociava, infondo, dagli alloggi degli allievi.

Ma era lontano e l’afa pesante faceva sembrare tutto più distante. Mu era ripartito per il Tibet o per qualche altra regione strana che Milo aveva sempre solo immaginato. Aldebaran, se era alla Seconda Casa, non lo faceva notare, silenzioso in quel frinire di grilli.

Era quasi mezzogiorno.

Milo di Scorpio sollevò un angolo della bella bocca in un sorriso strano.

Mezzogiorno. L’ora dei fantasmi, mezzogiorno, in Grecia.

L’ora in cui apparivano gli spettri sulle scogliere e nei campi consacrati, vicino ai Templi in rovina.

Acheloo si manifestò in un altro pomeriggio abbacinante come quello, ma più antico, e nel sole non proiettava ombra. L’incanto degli spettri meridiani somiglia a quello dei grilli: fa cadere il vento, addormenta le onde, immobilizza le navi nella bonaccia.

I grilli e le cicale osservano gli uomini, in quei pomeriggi, e con la loro musica cercano di ammaliarli, come le sirene. Bisogna prestare attenzione a non cedere alla sonnolenza, all’inerzia. Bisogna continuare a camminare, a conversare, come se niente fosse.

Milo si tirò su, spezzando quell’incanto innaturale.

Andò a farsi una doccia fredda, a mettersi vestiti puliti. Poi salì le scale fino all’Undicesima Casa.

 

“Ciao, Camus”.

Fece il suo ingresso nel Tempio, quasi di corsa.

Una corsa dall’Arena, giù, avrebbe spezzato il fiato di chiunque. Ma Milo era allenato e temprato e amava recarsi a trovare Aquarius da sempre, da quando aveva memoria. Da quando aveva stretto amicizia con lui a sei anni e mezzo, dopo essersi fatto trovare a nascondino.

Era giunto in fretta e non aveva incontrato troppi ostacoli, sulla sua strada, né contrattempi. Doko, l’anziano Roshi, era tornato in Cina a fare chissà cosa sulla sua cascata e Shaka di Virgo non aveva offerto molte parole né sguardi, seduto in contemplazione alla Sesta Casa.

“Ciao, Camus. E’ così caldo là fuori”.

A dire il vero era caldo anche lì.

La canicola del mezzogiorno aveva aggredito i marmi del Tempio e diffondeva il calore all’interno da quella mattina. Ed era strano, perché aveva sempre fatto freddo all’Undicesima Casa.

Più freddo che altrove, almeno.

D’estate era piacevole, perché ci si poteva sedere sui primi gradini, ad esempio, e restare lì a sfidare il sole, con la Casa fresca e in ombra del Maestro dei Ghiacci alle spalle, a irradiare un’ombra pallida del freddo di Siberia che Camus riusciva a ricreare tra le mani.

D’inverno era scomodo.

Era dolce l’inverno, ad Atene, il mare mitigava gli effetti del vento freddo che veniva da est. Ma Milo amava il caldo e più di una volta in quegli anni aveva protestato, ridendo, che erano troppo fredde quelle mura.

Ma d’inverno e d’estate era sempre una bella scusa quella, per rannicchiarsi contro il fianco del compagno, per prenderlo contro il proprio petto e appoggiare la fronte alla sua, nelle notti in cui si fermava lì. Camus protestava appena, le sopracciglia aggrottate e un sorriso che gli sfuggiva.

Milo raccolse i capelli, spingendosi avanti. Com’era innaturale quel caldo, lì.

Camus era in piedi, poco dietro alle colonne. Appoggiato allo stipite dell’entrata agli appartamenti privati, più nascosti, lo guardava.

“E’ da molto che mi aspetti?”

“Non da molto, no”.

“Mi sono fermato all’uliveto. Quello accanto all’Arena. Dove mi hai trovato la prima volta, ti ricordi? Quando abbiamo giocato da bambini”.

Camus sorrise.

Era cosa rara, vedere sorridere Camus, ma non impossibile. Milo ce la faceva spesso e quando ci riusciva, a strappargli il sorriso, era come avere staccato dal cielo un pezzo e tenerlo davanti, per guardarlo. Era cosa rara e bellissima vedere sorridere Camus dei Ghiacci.

Si avvicinò e i suoi passi risuonarono nell’eco. Appoggiò la schiena allo stipite opposto di fronte al compagno. Fiero e serio, Aquarius, com’era sempre stato, le braccia abbandonate lungo i fianchi, nel chitone da allenamento.

Provò l’impulso di toccargli il viso e i capelli, in una ricerca di contatto che lo prendeva sempre. Il bisogno costante di sentirlo vicino e concreto, quel suo compagno così algido e altero.

Provò l’impulso di prendergli la mano diafana abbandonata contro la coscia.

Camus che sorrideva.

Per qualche ragione, non lo fece.

“Dovevi sentire i grilli e le cicale, Camus, giù all’Arena, nel sole. Roba da pazzi. Era quasi ipnotico”.

“Bisogna prestare attenzione ai grilli e alle cicale, con questo caldo”.

“Perché non vieni con me, una mattina di queste? Fino all’uliveto. O all’Arena”.

“Non ti alleni con Aioria, la mattina?”

Aioria. Milo sbottò in sogghigno, pensando all’amico. Da sempre era così. Aioria che sfidava Milo. Milo che sfidava Aioria, sempre, anche quando il resto del Santuario prendeva riposo.

“Fa bene cambiare, ogni tanto, Camus. Vieni anche tu. Farà piacere anche a lui, lo sai”.

Camus parve pensoso.

“Avanti. Vieni”. Milo parlò sottovoce, accattivante. Di nuovo volle prendergli la mano, di nuovo non lo fece. “Farà piacere anche a lui. Il Santuario è così vuoto, in questi giorni, Camus. Mu è ripartito per il Tibet o per qualche altra regione strana  e Aldebaran, se è alla Seconda Casa, non lo fa notare. Il Roshi, è tornato in Cina a fare chissà cosa sulla sua cascata e Shaka di Virgo non offre molte parole né sguardi, seduto in contemplazione. Mi manchi, Camus.”

Non era quello che gli diceva anche quando tornava dalla Siberia, raramente, quando vi si era recato per allenare Hyoga?

“Mi manchi da morire”.

Perché glielo diceva adesso, che era lì davanti a lui?

“Mi manchi da morire”.

Camus alzò lo sguardo, nel silenzio e nel calore strano dell’Undicesima Casa, che era sempre stata fresca, quasi fredda.

La luce arrivava da fuori, scivolava sui pavimenti e tra le colonne. Bianca, sui marmi.

Qualcuno vociava, dagli alloggi degli allievi, lontano, molto lontano e l’afa la faceva apparire più distante. Il vento era immobile in quel meriggio di Atene.

Milo ascoltò il frinire dei grilli, che li raggiungeva come una musica ipnotica. Forte e metallica, come se fossero accanto a loro. Bisogna prestare attenzione ai grilli e alle cicale.

“Milo?”

“Sì, Camus?”

Ma Camus non aveva parlato e Milo si sentì sciocco.

“Milo?”

Milo sorrise a Camus e si girò, verso l’entrata del tempio.

Una sagoma familiare era stagliata nella luce bianca, nello stormire dei grilli. Nel caldo innaturale dell’Undicesima Casa.

“Milo. Sei qui”.

“Sì, Aioria”. Fu felice di vederlo, Aioria di Leo, amico di infanzia e di sempre: si morse le labbra, però, interrotto nel suo parlare con Camus, di tutto e di niente. Voleva dirgli ancora una cosa, e non poteva con Leo lì.

Camus che gli sorrideva, adesso, dopo quel momento in cui era rimasto assorto. Non era facile vedere sorridere Camus, ma non era nemmeno impossibile.

Milo ricambiò il sorriso. Avrebbe allungato la mano verso di lui, adesso, se non ci fosse stato Aioria.

“Vieni via di qui, Milo”. Aioria si avvicinò. Aveva lo sguardo triste, imbarazzato appena. Ci fu qualcosa in quello sguardo che colpì Milo come un pugno allo stomaco.

“Lasciami qui ancora un momento, Aioria” Milo fece uno sforzo per mantenersi calmo, seccato dalla mano di Leo sulla sua spalla, che cercava di girarlo, di portarlo verso la luce e verso i grilli.

“Non ti fa bene stare qui. Perché sei venuto?”

Milo guardò Aioria irritato, adesso. Che domande erano?

Camus guardò entrambi in silenzio, Camus senz’ombra.

“Lo so che è difficile, Milo. E venire qui non ti aiuterà”. Aioria lo sapeva bene. Aioria alla Nona Casa, dal fratello defunto – Aioros il Modello e non più Aioros il Traditore adesso che Athena e Cinque Cavalieri di Bronzo erano venuti a ripristinare la sua memoria – dal fratello defunto Aioria non ci andava mai. Faceva male e lo aveva fatto per tredici anni.

Essere un Gold Saint, uno dei dodici uomini più forti del mondo, non aiutava. Faceva solo sentire più impotenti, nel non concederti il lusso di un pianto liberatorio.

“Per favore, Milo. Vieni via”.

 

Quando era arrivato su era tutto già finito, lasciando l’Undicesima Casa più fredda del solito.

Milo lo sapeva, perché quella temperatura la conosceva bene.

D’estate era piacevole, perché ci si poteva sedere sui primi gradini, ad esempio, e restare lì a sfidare il sole, con la Casa fresca e in ombra del Maestro dei Ghiacci alle spalle, a irradiare un’ombra pallida del freddo di Siberia che Camus riusciva a ricreare tra le mani.

D’inverno era scomodo.

Era dolce l’inverno, ad Atene, il mare mitigava gli effetti del vento freddo che veniva da est. Ma Milo amava il caldo e più di una volta in quegli anni aveva protestato, ridendo, che erano troppo fredde quelle mura.

Ma d’inverno e d’estate era sempre una bella scusa quella, per rannicchiarsi contro il fianco del compagno, per prenderlo contro il proprio petto e appoggiare la fronte alla sua, nelle notti in cui si fermava lì. Camus protestava appena, le sopracciglia aggrottate e un sorriso che gli sfuggiva.

Ma adesso era più freddo del solito.

Milo non ricadde sulle ginocchia, anche se temette di farlo, quando vide Camus riverso a terra, poco lontano rispetto a Hyoga del Cigno che lui stesso aveva lasciato passare.

Non ricadde sulle ginocchia, ma gli si inchiodò il respiro. Senza pensare, con la meridiana che ormai non ardeva più di nessun fuoco, aveva preso il corpo di Aquarius tra le braccia, e lo aveva appoggiato alla colonna.

Sembrava che dormisse.

Sembrava.

Milo non ricordava di avere mai avuto tanto freddo come in quel momento.

 

“Per favore, Milo. Andiamo”.

Milo stava guardando Camus sorridere e la richiesta di Aioria fu provante. Non era sicuro di avere capito quello che aveva detto, quindi dovette voltarsi verso di lui, interrogativo.

Fu un errore. Perché quando tornò a girarsi, Camus non c’era più.

C’era solo quel caldo inumano, nel meriggio di Atene, in quella Casa vuota e priva di vita. C’era il canto delle cicale e dei grilli.

Con il petto pesante non oppose resistenza, quando Aioria lo spinse verso l’uscita, lento, ma inesorabile. Non si voltò.

Nei giorni seguenti, però, torno ancora all’Undicesima Casa, di nascosto da Leo, a cercare Camus.

A cercare di dirgli quello che non era riuscito.

Non lo rivide più.

Quel meriggio si lasciò condurre fuori da Aioria, amico di infanzia e di sempre, nel sole bianco di Atene, nel calore intenso che inaridiva la terra battuta dell’Arena, irradiandosi dalle rocce e dai marmi.

Nel vento caduto, nel rumore lontano e sommesso delle onde addormentate, i grilli e le cicale frinivano, instancabili.




Vi lascio con la prima parte del Trittico, sperando che vi piaccia e che faccia male a voi quanto ne ha fatto a me <3
Arrivo anche con
Neve, prestissimo. Scusatemi, ma tutto questo angst mi ha ammazzato. é_è

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Capitolo 2
*** Rubedo - Sacrificio ***


il canto delle cicale

Rubedo

 

 

 

E strani sogni – come il sole
che tramonta sulle spiagge -
rossi fantasmi passano senza sosta,
passano simili

a grandi soli
che tramontano sulle spiagge.

Paul Veraline, Payesages Tristes

 

 

Uno scorpione doveva attraversare un fiume, ma non sapendo nuotare chiese aiuto ad un cigno, che si trovava lì accanto. Così, con voce dolce e suadente gli disse: “Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda”.

Questo pensava Hyoga, mentre varcava la soglia dell’Ottava Casa. Pensava all’incipit di una fiaba greca, con un finale amaro. Perché gli fosse venuta in mente, questo non lo sapeva. Forse era per via delle cicale e del loro canto insistente. Forse a causa del tramonto sanguigno. Preferiva non interrogarsi sui finali amari in un luogo sacro come il Santuario di Athena, dove lui stesso tanta amarezza aveva dispensato.

Era buia, la Casa dello Scorpione del Cielo. Sembrava che ci fosse la notte, dentro, mentre fuori il sole ardeva ancora, scarlatto nel vespro.

Hyoga aveva salito le scale da solo. Non aveva voluto la compagnia di nessuno dei suoi fratelli, insieme a lui in terra di Grecia. Con Athena, erano lì per far riparare le armature distrutte durante la guerra al Grande Tempio.

L’intenzione era stata quella di salire fino all’Undicesima Casa. Un pellegrinaggio strano.

Poi aveva avuto come l’impressione che Camus - defunto amato maestro, defunto Cavaliere d’Oro - non avrebbe approvato, che recarsi all’Undicesimo Tempio sarebbe stato, ai suoi occhi, come nuotare con un fiore dalla madre negli abissi del mare.

Era stato sul punto di tornare indietro. Poi aveva pensato che c’era qualcuno ancora vivo che aveva bisogno di incontrare. Un pellegrinaggio strano.

Il Santuario era bellissimo, avvolto in un cielo fiammeggiato. La luce tingeva di porpora la terra e il marmo della scalinata, scivolava all’interno dell’Ottava Casa, ritagliando la sagoma delle colonne nell’ombra che la riempiva: presto il sole sarebbe scomparso, morendo in un lampo verde nell’Egeo.
Un piede dopo l’altro, lentamente, scivolò all’interno del Tempio. Le cicale in sottofondo sembrarono così vicine, che il loro canto lo turbò. Cosa diceva Platone a proposito delle cicale? Non se lo ricordava.

Si ricordava solo

Uno scorpione doveva attraversare un fiume,

della favola del cigno e dello scorpione

ma non sapendo nuotare chiese aiuto ad un cigno,

In quel tramonto sanguigno.

che si trovava lì accanto.

I suoi passi echeggiarono nel silenzio. Avvertì un fruscio appena e, alzando lo sguardo, sussultò: dall’ombra, lo Scorpione lo fissava.

Così

“Cavaliere d’Oro di Scorpio,” lo salutò Hyoga, scoprendo con imbarazzo di non poter alzare lo sguardo dai propri piedi. Seguirono lunghi istanti di silenzio, poi Milo gli si avvicinò e, con voce dolce e suadente, gli disse:

con voce dolce e suadente, gli disse:

“Hyoga”.

“Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda”.

 

La mano di Milo era scattata in avanti, serrandosi sul collo del Cigno. Hyoga aveva spalancato gli occhi e serrato le mani attorno al braccio che lo aggrediva, ma non aveva potuto opporre resistenza alla forza del Gold Saint. Si trovò strappato dalla soglia e trascinato nell’ombra, lontano dalla luce vermiglia tramonto.

“Niente affatto!” rispose il cigno “Appena saremo in acqua mi pungerai e mi ucciderai!”

“E per quale motivo dovrei farlo?”

Hyoga ricadde sul pavimento, sbattendo la schiena, e la nuca trattenendo un gemito di dolore. La battaglia delle Dodici Ore, nonostante le scrupolose cure mediche immediatamente successive, aveva causato ferite profonde nel corpo quanto nello spirito che ancora non si erano rimarginate completamente.

“E per quale motivo dovrei farlo?” chiese innocente lo scorpione.

Hyoga scrollò il capo e si liberò il viso dai capelli. Si rialzò sulle ginocchia, istintivamente, ma non tentò nemmeno di difendersi. A conti fatti, aveva preso coscienza di essere andato lì per quello: per pagare per ciò di cui era colpevole.

“Milo…”

Milo avanzò verso di lui, il bel volto serio e immobile, nell’ombra, i capelli scomposti. Avanzò letale e silenzioso, nell’ombra. Sul suo viso Hyoga lesse accuse precise.

I Cavalieri di Bronzo avevano lottato e combattuto contro tutto, per assicurare la giustizia al Grande Tempio. Avevano salvato Athena da un duro destino e questo era il compito di ogni Saint a lei devoto. Ma lui, Hyoga, era stato la causa della morte di Camus dell’Acquario – defunto amato maestro, defunto Cavaliere d’Oro – e quella morte lo aveva spezzato.

Aveva spezzato Milo, che adesso avanzava con quel giudizio inappellabile negli occhi blu come il mare di Grecia, come quelli di Athena inflessibili: colpevole, Hyoga del Cigno.

Il suono immateriale delle cicale era come un richiamo lontano. Cygnus vi si abbandonò, come ad una preghiera.

“Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda”.

Milo lo riafferrò, trascinandolo in piedi e piantandogli le unghie nelle spalle, con ira. Aveva sentito Hyoga non appena aveva messo piede al Santuario.

Lo aveva sentito così chiaramente che era sobbalzato, nel buio dell’Ottava Casa al tramonto, con la luce che entrava dalle colonne ritagliando sul marmo ricami sanguigni. Quel breve lampo del Cosmo, freddo in modo dolorosamente familiare. Quel bagliore fiero come di neve, a tormentare il suo spirito riarso. Aveva creduto si trattasse di un sogno, un’impressione falsata. Doveva essere colpa dei grilli e delle cicale, che cantavano tutto il giorno e tutta la notte. Incantato e incantevole quel canto. Ingannevole. Le sirene degli alberi e dei frutteti. Spettri.

Invece era vero, quel bagliore di neve. Tutto ciò che era stato di Camus ora apparteneva a Hyoga, assassino dei ghiacci in nome di Athena.

Piantò le unghie nelle spalle del ragazzo e lo trascinò su, quanto più possibile alla propria altezza per guardarlo negli occhi.

Questa volta Hyoga non abbassò lo sguardo. Lo lasciò appoggiato in quello di Milo, senza arroganza, ma anche senza vergogna.

Le unghie sprofondate nelle spalle del ragazzo erano così dolorose da temere che stessero conficcandovi il veleno, insieme alla collera. Ma Milo non aveva dato fondo al Cosmo: affondava senza pensare, d’istinto, per trattenere una preda che non sarebbe dovuta scappare. Mai più.

“E per quale motivo dovrei farlo?”

Milo li aveva i suoi motivi. Li aveva eccome.

“E per quale motivo doveri farlo?” incalzò lo scorpione “Se ti pungessi moriresti ed io, non sapendo nuotare, annegherei”.  Il cigno ci pensò un attimo, convinto della sensatezza dell’obiezione dello scorpione. Lo caricò sul dorso e insieme entrarono in acqua.

Hyoga pensò che adesso poteva essere una buona idea, quella: essere punto dalle quindici cuspidi di Scorpio e morire lì. Era venuto per quello, no? Un pellegrinaggio strano.

Adesso che non c’era più niente da dire o da fare, che Athena era salva e sovrana sulla Grecia, adesso si poteva andare in pace, no? Pagare i debiti. Tutti. Da quello con la mama a quello con Camus. Tutti.

Anche Milo stava pensando che fosse una buona idea. Milo, per amore del vero, era un passo avanti: pensava che fosse un’ottima idea. Non aveva mai avuto remore ad uccidere, era la sua natura. Non più scrupoli di uno scorpione che punge una caviglia distratta.

Non si era mai tirato indietro.

Lo spinse con più forza contro la colonna.

In quello stesso punto lo aveva già spinto una volta, non era così? E lì, poco lontano, lo aveva lasciato sollevarsi sulle ginocchia e gli aveva spiegato quali intenzioni aveva avuto Camus, quando aveva rinchiuso Hyoga in un feretro di ghiaccio. Quali aspettative, quali timori, quali ragioni.

E più oltre, nella tenebra più scura del tempio, lì era dove Hyoga era arrancato.

Milo aveva ammirato quel ragazzo dal viso fragile e gli occhi enormi, che però non si arrendeva. Che con il suo non cedere instillava in lui il dubbio. L’aveva salvato, spontaneamente.
La luce del tramonto era scarlatta e si arrampicava fino a loro, stirandosi sui pavimenti del Tempio. Rossa come il sangue. Presto ne sarebbe scorso a fiumi, di sangue vero, si sarebbe mischiato con la luce e Camus sarebbe stato vendicato.

Camus che amava Hyoga ed era morto per renderlo degno del proprio nome.

Camus che amava Hyoga. Milo si morse il labbro inferiore.

I grilli, fuori, tormentavano l’aria di un frinire incessante.

Cosa diceva Platone, dei grilli e delle cicale? Che erano stati uomini, una volta. Che non avevano più smesso di cantare, da quando erano nate le Muse. Che avevano cantato per sempre senza mai dormire né mangiare. Lo raccontava a Camus, nei pomeriggi assolati sotto gli ulivi, petto contro petto tra le stoffe leggere. Camus che non le aveva viste mai, in Siberia, le cicale, che si incantava ad ascoltarle nel sole del meriggio, quando era più pericoloso e bisognava parlare ad alta voce, per sovrastarle.
Camus che amava Hyoga come un figlio.

Milo non aveva commesso alcun errore fidandosi di Hyoga e dei Bronze Saint che avevano occupato il Santuario: avevano avuto ragione di ogni affermazione sostenuta, di ogni sfida lanciata.
Athena era salva. Alto sollievo per i suoi Cavalieri d’Oro che avrebbero dovuto proteggerla e non attaccarla.

La sua fiducia di Saint era stata ben riposta. Quella di uomo, era stata tradita.

E che smacco, per Milo, scoprire che esse non coincidevano.

“E’ come se fossi morto anche per mia mano, Camus”.

Sollevò il braccio su Hyoga di Cygnus che teneva gli occhi grandi e gravi, fissi nei suoi, grandi e gravi. Occhi azzurri in occhi azzurri, colpa nella colpa.

A metà tragitto il cigno sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stato punto dallo scorpione. Mentre entrambi stavano per morire il cigno chiese all'insano ospite il perché del folle gesto. "Perché sono uno scorpione..." rispose lui "E' la mia natura"

 

Milo non ricadde sulle ginocchia, anche se temette di farlo, quando vide Camus riverso a terra, poco lontano rispetto a Hyoga del Cigno che lui stesso aveva lasciato passare.

Non ricadde sulle ginocchia, ma gli s’inchiodò il respiro. Senza pensare, con la meridiana che ormai non ardeva più di nessun fuoco, aveva preso il corpo di Aquarius tra le braccia, e lo aveva appoggiato alla colonna.

Sembrava che dormisse.

Sembrava.

Milo non ricordava di avere mai avuto tanto freddo come in quel momento.

Aveva guardato incredulo quel viso bellissimo e familiare e aveva passato le dita sulle palpebre tondeggianti, sulle sopracciglia sottili. Non si era mosso, ma dentro di sé era inorridito, sentendo quel corpo freddo come la neve, duro come il marmo. Alieno ed estraneo.

Aveva guardato Hyoga del Cigno esanime, faccia a terra. Esanime, ma vivo, Hyoga del Cigno che lui stesso aveva lasciato passare. Il ragazzo dal viso sottile e gli occhi enormi che in quella battaglia tremenda aveva avuto salva la vita due volte e che la vita del Cavaliere dei Ghiacci aveva reciso.

“È come se fossi morto anche per mia mano, Camus”. Ammutolì.

Milo non ricordava di avere mai avuto tanto freddo come in quel momento.

Guardò solo il volto di Camus, quindi, svuotato di vita.

Sembrava che dormisse.

Sembrava.

Lo prese tra le braccia e lo avvolse nel proprio candido mantello.

Avrebbe ottenuto, poi, che venisse sepolto con esso.

 

A metà tragitto il cigno sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stato punto dallo scorpione. Mentre entrambi stavano per morire il cigno chiese all'insano ospite il perché del folle gesto. "Perché sono uno scorpione..." rispose lui "E' la mia natura"

Hyoga si morse il labbro inferiore, come se lo era morso Milo e indurì lo sguardo.
Non si sarebbe sottratto alla giusta punizione che doveva essergli impartita. Era colpevole dell’omicidio del suo Maestro e se alla morte il destino aveva voluto condurlo quel giorno, non l’avrebbe ostacolato.

Un Santo devoto ad Athena non fugge. Si mantiene impavido davanti al pericolo come davanti al dovere: suo dovere, adesso, era lavare l’onta. Era contento sapendo che il fato, tra tutti, aveva scelto proprio Milo per attuarsi. Affilò lo sguardo e attese, puntandolo sul colpo di Scorpio che si abbassava.
Milo calò la mano sulla spalla del ragazzo. L’unghia scarlatta mandò un lampo, nella luce tenue che fiammeggiava da fuori. Fulmineo gli afferrò le spalle con forza. Hyoga, sbalordito, venne spinto in avanti, e perse l’equilibrio.

Le braccia di Scorpio si chiusero dietro la sua schiena, in un abbraccio feroce.
Milo soffocò un singulto.

Hyoga trattenne il respiro.

Poi, semplicemente, non accadde nulla.

Milo lo tenne stretto in un abbraccio un po’ rude, un po’ affettuoso, di quelli che danno i fratelli più grandi a quelli più giovani. Un abbraccio impacciato dalla compostezza di un guerriero inadatto a manifestazioni simili d’affetto.

“Perché non ti sei difeso?” la voce dello Scorpione del Cielo suonò piatta, nell’eco gentile sui muri.
Hyoga lo fissò con gli occhi spalancati, sbalorditi.

“Quando ti ho attaccato, perché non ti sei difeso? Mi sembra che Aquarius ti abbia insegnato che si combatte sempre, fino alla fine. Che non ci si arrende ai sentimentalismi. Non è questo che ti ha insegnato, Hyoga di Cygnus?”

Tacque, comprendendo di parlare anche a se stesso e non permise di scendere alle lacrime che gli pizzicavano le palpebre. Gli parve di vedere qualcosa nel buio dell’Ottava Casa.
Qualcosa che c’era stato anche prima, quando aveva levato il braccio su Hyoga con l’intenzione di ucciderlo, e che anche in quel momento era lì: un guizzo familiare, di passi abituati a calcare quelle pietre. Un lampo di capelli rossi nel sole della sera. Non ci si arrende ai sentimentalismi. Non ci si arrende alle cicale, per Athena.

Anche Hyoga tacque, annuendo e deglutendo i sensi di colpa. Poi Milo lo lasciò andare.

“Domani, quando il rito lo richiederà, sarò io a dare il mio sangue per la vita della tua armatura. Lo devo a Camus che ha fatto di te un uomo. Quindi alza il mento e non ti girare indietro, Hyoga.” Suo malgrado, sorrise. Quei sorrisi un po’ dolci un po’ strafottenti che facevano scuotere la testa ad Aquarius, in una smorfia tenera. “Hai le spalle coperte”.

Gli era sembrato di vederlo, nel buio, Camus: un lampo di capelli rossi nel sangue del vespro. Nel frinire delle cicale. Bisognava stare attenti e parlare a voce alta per sovrastarle; l’incanto degli spettri meridiani somiglia a quello dei grilli: fa cadere il vento, addormenta le onde, immobilizza le navi nella bonaccia.

Milo si staccò da Hyoga e lo tenne davanti a sé, per le spalle.

Ne riconobbe l’aria familiare, il cosmo bianco della neve di Siberia e della purezza dell’uomo che gliel’aveva instillato. Riconobbe in Hyoga l’allievo che Camus aveva amato, nel suo modo immenso e strano, come di padre severo. In qualche modo – in un modo immenso e strano – lo riconobbe in quel tramonto scarlatto come proprio allievo.

L’epilogo di una favola greca che finiva in modo meno amaro. E al Grande Tempio c’era stata già tanta amarezza.

Gli era sembrato di vederlo, nel buio, Camus. E senza parlare mormorava con le labbra qualcosa che Milo aveva già sentito:

Ti ringrazio per avere capito quanto straordinario sia Hyoga.

Gli era sembrato di vederlo, ma durò poco: un lampo nel buio; il raggio verde del sole che muore. Poi anche il crepuscolo ritrasse le sue dita di porpora e restarono solo il caldo della sera, il vento che soffiava dal mare e il frinire dei grilli.





Rispondendo *C*

Ren-chan: Tieni. Rileggiti anche questo é___è  *SOFFRE MOLTISSIMO*

Ai91: Grazie per il tuo commento e per i complimenti. Si, rendere il dolore di Milo era importante, per me çOç se no poi resto in angst a vita anch’io. çOç Grazie di tutto! Un bacio!

EriS_San: Grazie! çOç Grazie davvero! ...accidenti, sì! *C* Ormai vado in ansia da prestazione. Sono felicissima di essere stata all’altezza delle tue aspettative e spero di non averti deluso con questo capitolo nuovo. çOç aspetto il tuo parere. E ancora sono orgogliosa di averti coinvolta a tal punto. Grazie, immensamente.

Shinji: Grazie anche a te, tesoro! çOç Ecco la seconda parte! Un bacio tutto per te!

Damaris: *O* Tu. Conosci. Anche. L’alchimia. …davvero, non so come dirtelo. Sei la lettrice più attenta e squisita nel dispensare recensioni che si possa desiderare. Non finirò mai di ripeterlo. Leggere la tua analisi è sempre come una lettura parallela di quello che ho scritto. Grazie, Damaris. Inizialmente avevo previsto una ripartzione diversa delle tre fasi alchemiche, coincidente con l’albedo per il terzo capitolo, che ancora non è pubblicato. Leggendo, poi, capirai perché: lo ritenevo più adatto, considerati contenuti e colori. Ma poi, come quasi sempre, la narrazione ha fatto da sola e ha scelto i colori alchemici senza darmi troppa voce in capitolo, dando luce alla ripartizione definitiva. Vediamo cosa esce, quindi *C* Ti confesso che aspetto la tua lettura con ansia. Non vedo l’ora davvero. çOç <3 Per quanto riguarda Mallarmè, quel verso mi ha ucciso, quando l’ho letto. E ricreando l’atmosfera per questa storia, non ho potuto fare a meno di trovarlo così adatto da spaccarmi il cuore a metà. Era perfetto. Il simbolismo francese ha su di me il potere assoluto da sempre é___è Mi rendi sempre felice con i tuoi commenti: anche ora, spero di essere riuscita a spiazzarti in qualche modo anche con questo capitolo sebbene io lo ritenga più “ortodosso”. XD Stiamo a vedere. Un bacio enorme!

Moena: grazie çOç Ogni volta che trovo un tuo commento, così, senza preavviso, mi si scalda il cuore çOç sei tenerissima, grazie davvero. Sarò uan stronza, ma se fa male sono felice *C* Voglio che sia l’apoteosi dell’angst! *C*  <<< *sì, è una stronza*    Grazie di tutto! çOç Bacioni!

DarkArtist: Grazie. Grazie davvero. Spero che questo capitolo sia per te all’altezza del precedente! Un bacio grande!

Manu Lani: é__è Si. E’ tristissimo. *gnaula* Grazie della recensione. *tira su col naso e abbraccia forte*

ArabianPhoenix: Grazie! çOç Ho visto che ne hai già letta qualcuna! Grazie tante davvero! Un bacio!

Syria86: Grazie. Sono contenta di averti toccato, soprattutto con quella frase che io stessa ho amato molto. Sono felice che ti sia piaciuta. Un abbraccio forte!

Ichigo: Scusami çOç Oh, era un dolore necessario! …sento un’empatia fortissima con Milo e farvi soffrire con me è l’unico modo per esorcizzarla, credo. ._. Ti ringrazio non solo per la lettura e la recensione, quindi, ma anche per avere condiviso con me l’enorme fardello çOç <3 E grazie per i complimenti. In questo capitolo, come vedi, è proprio il rapporto con Hyoga che cerco di analizzare. Un bacio e grazie!

Evenstar_Lyra: Sono arrossita e lo confesso, appena iniziato a leggere. Oddio, grazie. Che belle parole che hai avuto per me. Sono arrossita e mi sono commossa: speravo di riuscitre a trasmettere tanto e il tuo riscontro mi ha emozionata. Grazie. Spero con tutto il cuore di rivederti e che anche questa parte ti piaccia. Un bacio grande!

 

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Capitolo 3
*** Nigredo - Morte ***


il canto delle cicale

Nigredo

 

 

 

 

 

Corri leggero, pettinatore di comete!
La tua chioma sarà erba nel vento:

sgusceranno dal tuo occhio allucinato

prigionieri di povere teste, i fuochi fatui…

Ti crederanno morto, questi stupidi.

Corri leggero, pettinatore di comete.

Tristan Corbière, Morticino per ridere

 

 

 

Lo aveva sentito così chiaramente che aveva tremato, nel silenzio notturno. Milo si era girato di scatto, in un fluttuare del mantello, e si era sentito nudo e scoperto nella luce tenue della luna che filtrava nel Tredicesimo Tempio, disarmato come quella bambina dea che aveva accanto, appena svegliata da un incubo. Quel breve lampo del Cosmo, freddo in modo dolorosamente familiare, Milo l’aveva sentito come si sente bruciare uno schiaffo; quel bagliore fiero come di neve, a tormentare il suo spirito riarso.

Lo aveva riconosciuto.

E’ da molto che mi aspetti?

Aveva sperato si trattasse di un sogno, un’impressione falsata, perché quel Cosmo era sporco di tenebra; si era detto che doveva essere colpa dei grilli e delle cicale, che cantavano tutto il giorno e tutta la notte. Incantato e incantevole quel canto. Ingannevole. Le sirene degli alberi e dei frutteti. Spettri.

Se lo era detto, ma non era riuscito a convincersi.

 

“E’ da molto che mi aspetti?”

“Non da molto, no”.

“Mi sono fermato all’uliveto. Quello accanto all’Arena. Dove mi hai trovato la prima volta, ti ricordi? Quando abbiamo giocato da bambini”.

Camus sorrise.

 

Camus era scivolato a terra ansimante, dopo lo sforzo dell’Athena Exclamation, sotto il peso della fatica e del Tempio che era crollato, sotto lo sguardo feroce di Scorpio.

L’aveva trafitto, quello sguardo, e Camus aveva nascosto il volto sotto una pioggia di capelli rossi. Aveva udito distintamente il veleno delle parole di Milo, perché tra tutti i sensi era l’udito che Shaka gli aveva lasciato. Era stato crudele, Shaka di Virgo. Di una crudeltà raffinata.

Così Camus poteva ascoltare il veleno delle parole di Milo e il canto sinistro degli spettri nella notte e nei frutteti, con l’unico conforto del mare sulla risacca e del suo ritmo lento.

Quel canto si sente di notte. Si sente nel crepuscolo, nel meriggio. Si infila molto piano tra gli uliveti e i santuari e convince, molto piano, della verità di tutte le leggende in cui si crede.
Milo – che lo aspettava da tanto – lo afferrò per le spalle e lo caricò sulle proprie.
Rudemente, senza mostrare riguardo per quel corpo amato e martoriato. Senza lasciare, tuttavia, che alcuno potesse avvicinarvisi all’infuori di lui.

La luna era immensa, come se fosse molto, troppo vicina alla terra; come se potesse, ad un tratto, divorarla e inglobarla nella luce malata e lattiginosa.

In quella luce stregata erano giunti gli specters, inguainati in un’armatura nera.
Era una notte fitta di tenebra. Le ombre si addensavano tra i gradini, negli uliveti deserti e pieni di cicale, masserie e solitari santuari. Era una notte che non aveva reso sereno il sonno di Athena e lei aveva voluto Milo di Scorpio al suo fianco, al Tredicesimo Tempio.

Come una bambina terrorizzata dai fantasmi.

Dolcemente, nel buio, entrambi avevano sentito quel canto dolce e metallico, quel frinire beffardo e solenne. Sirene dei boschi e dei frutteti, le cicale: annunciavano gli spettri e ti incantavano per loro. Bisognava continuare a camminare, a discutere come se niente fosse.
Athena poi si era svegliata di soprassalto: gli spettri erano arrivati.

Gli spettri si sentono di notte. Si sentono nel crepuscolo, nel meriggio. Si infilano molto piano tra gli uliveti e i santuari e convincono, molto piano, della verità di tutte le trepidazioni in cui si crede.

Dalle stanze della dea, Milo era sceso fino al Tempio della Vergine e se li era ritrovati davanti: Shura dal viso scuro e turbato, Saga dagli occhi lucenti – l’unico a cui Shaka di Virgo li aveva lasciati – e Camus dagli occhi spenti.

Camus senz’ombra, lì, nella tenebra.

Camus.

“Interessante,” aveva detto Scorpio, sprezzante mentre li sfidava. Ma dentro aveva tremato.

 

 “Mi manchi, Camus. Mi manchi da morire”.

Perché glielo diceva adesso, che era lì davanti a lui?

“Mi manchi da morire”.

 

Adesso che lo aveva sulle spalle e correva, con il peso familiare, il calore strano della sua pelle – d’amante morto che ha fatto ritorno, inaspettatamente – e i capelli rossi mischiati ai suoi, era molto più difficile, per Milo.

Più difficile di quando l’aveva avuto davanti alla Sesta Casa, a ripetere i movimenti che egli stesso produceva, come fosse davanti ad uno specchio oscuro, senza espressione.

Milo da bambino aveva ascoltato molte storie di spettri che appaiono nella bruma, nelle notti di luna, allora si era concentrato. Era rimasto cosciente solo della propria posizione accanto ad Aioria, amico di infanzia e di sempre, e a Mu, in ginocchio; del rosario di Shaka che si muoveva nella sua mano, ondeggiando al ritmo delle cicale.  Aveva guardato in faccia i tre amati traditori ritornati, pregando che nessuno di loro fosse chi dichiarava di essere. Gli spiriti che appaiono nella bruma, nelle notti stregate, possono prendere le sembianze che desiderano, al canto dei grilli.

Milo si era trastullato con quell’idea, pur sapendo quanto la verità fosse diversa.

Lo aveva sentito, Camus lo spettro, appena aveva messo piede al Santuario.

E’ da molto che mi aspetti?

Lo aveva sentito così chiaramente che era sobbalzato, nel silenzio notturno della Tredicesima Casa, con la luce tenue della luna che entrava e una bambina dea accanto: quel breve lampo del Cosmo, freddo in modo dolorosamente familiare; quel bagliore fiero come di neve, a tormentare il suo spirito riarso. Aveva sperato si trattasse di un sogno, un’impressione falsata, perché quel Cosmo era sporco di tenebra; si era detto che doveva essere colpa dei grilli e delle cicale, che cantavano tutto il giorno e tutta la notte. Incantato e incantevole quel canto. Ingannevole. Le sirene degli alberi e dei frutteti. Spettri.

Mi manchi, Camus.

Lo aveva sentito e aveva sperato si trattasse di Hyoga, giovane nuovo pupillo che con i suoi fratelli era giunto ai templi.

Non è stato invaso il Santuario, mai.

Aveva sperato si trattasse di Hyoga, che sporcava di buio il proprio Cosmo per fargli uno stupido scherzo da bambini.

Non c’è mai stato il tuo sacrificio, un attacco troppo gelato che ha violato la tua Casa, nessun inganno ci ha dimezzato.

Perché se fosse stato davvero Camus, avrebbe dovuto…

La tua vita e la mia non sono mai state interrotte da una Polvere di Diamanti.

…avrebbe dovuto ucciderlo. Giustiziarlo di persona per quell’alto tradimento.

Nessuna mia bestemmia è salita al cielo come una preghiera

Invece era Camus. Era Camus davvero. Il suo Camus.

Serrò le labbra e aumentò l’andatura sui gradini di marmo gelido e lunare invocando la pulizia totale e la dea Athena

e la dea Athena ha soccorso anche te sulla soglia dell’Undicesimo Tempio.

lasciando andare il Cosmo alle stelle e alle cicale.

Te e tutti i Cavalieri d’Oro caduti che non avevano capito quella beffa di costellazioni.

A quel loro pianto.

 

La corsa sulle scale fu breve, eppure a Camus e Milo parve non finire mai.
Parve anche durare così poco: la luce lattiginosa della luna distorceva le distanze e illudeva i passi.

Durante quella salita, Aioria, anche lui con il suo carico, si voltò più di una volta a guardare Milo nel buio, e Milo ricambiò lo sguardo ostentando serenità, forse troppo fissamente per risultare credibile agli occhi di Leo, amico d’infanzia e di epilogo.

Vieni via di qui, Milo.

Durante quella salita Milo pensò di uccidere Camus prima di giungere alla dea, perché lei non dovesse vederlo in quegli abiti di traditore, o perché lui non dovesse vedere lei.
Se non riusciva a dare spiegazioni a Milo, amante ed amico, che come lui aveva visto quanto straordinario era Hyoga, come poteva darle ad Athena?

Durante quella salita pensò di invertire la corsa e scomparire per sempre, da qualche parte, con il suo fardello dagli occhi spenti e senz’ombra. Furono gli sguardi di Aioria, che di tanto in tanto voltava il viso da sopra la spalla come per richiamarlo e tenerselo vicino, a rompere gli incanti e le seduzioni della sua mente confusa.

Per favore, Milo. Vieni via.

Aioria di Leo, amico di infanzia e di sempre, amico di infanzia e di epilogo.

Esausto su quelle spalle amate, Camus avrebbe voluto spiegare molte cose. Tutte quelle complicate e tremende che erano state intessute come inganno dentro un inganno alle soglie del regno degli inferi. Poteva essere un buon momento per spiegare a Milo, quello: il viso dell’uno era affondato nei capelli dell’altro e i profumi familiari della terra e del mare che giungeva della costa, inducevano alle confidenze. Avrebbe voluto spiegare molte cose, invece non disse niente.

Un po’ perché aveva la bocca sigillata, che Shaka era stato crudele.

Un po’ perché aveva lo spirito suggellato, che Hades è sempre in ascolto.

Più di una volta Milo aveva girato appena il viso verso di lui, premendo la propria guancia contro quella di Camus: la ripetizione involontaria di un gesto tenero che avevano usato spesso, in passato, l’uno con l’altro. Come se sperasse di avere davvero una spiegazione agognata. Come in sogno, verso chissà quale mattino.

Più di una volta, Milo tornò a distogliere lo sguardo, abbassandolo sui gradini.

Al termine di quella salita, ai piedi della dea, Scorpio gettò il proprio fardello a terra, per primo.
Il rumore sinistro del corpo che colpiva il suolo non gli provocò piacere e intensificò il dolore. Ma continuò a guardare avanti a sé, eretto e fiero, forse un po’ troppo fissamente per risultare credibile agli occhi della sua dea.

 

Da terra, con la faccia nella polvere, Camus si accorse di tutto, ma come da un punto troppo lontano per poter fare qualunque cosa.

Athena li aveva guardati, uno per uno, e il suo Cosmo divino non aveva vibrato di risentimento, ma di calore. Qualcuno si era avvicinato e c’erano stati gemiti di sorpresa o di qualcos’altro. La sabbia che il vento trascinava sui marmi, dalla costa, gli sfregiava le labbra. Se le umettò, ma servì a poco. Dov’era Milo? Non lo sentiva. Avrebbe voluto girarsi, ma poi…

Arayashiki.

Saori bambina, Athena divina, squarciò la propria gola in un istante troppo breve che non permise altro che muta sorpresa terrificata; la mano di Saga di Gemini si spinse in avanti febbrile, a cercare l’appiglio dei capelli leggeri nel vento della sua dea in caduta, che non afferrò mai.

Sdraiato sotto la luna, Camus senz’ombra avvertì tutto da un punto molto distante. Vicino c’era solo il canto metallico delle cicale, denso come la notte, fuso con essa.

Bisogna stare attenti, l’incanto degli spettri somiglia a quello dei grilli: fa cadere il vento, addormenta le onde, immobilizza le navi nella bonaccia. Camus lo sapeva, perché glielo aveva raccontato Milo, petto contro petto nei pomeriggi afosi, sotto gli ulivi.

Aquarius si rialzò a fatica, sulle gambe vacillanti, e Saori Athena morì prima di toccare terra. Immediatamente, le cicale tacquero.

Arayashiki.

Per Milo di Scorpio, fu troppo: non emise un gemito, ammutolito dentro per quanto avrebbe voluto ruggire, e afferrò Camus per il collo. Strinse, sollevandolo da terra, con soddisfazione inumana, cattiva.

Traditore di Athena, che giaceva nel sangue.

Traditore di Milo di Scorpio, che voleva ruggire.

Quando aveva avuto davanti i compagni perduti, e Aquarius tra loro, il suo cuore aveva mancato un battito. Un po’ per amore incontrollabile, l’impossibilità di spiegare un desiderio assurdo che invece si avverava.

Un po’ per l’ira vomitata nel ritrovarli nemici. Spettri.

“Interessante,” aveva detto, con spregio. Ma dentro aveva tremato.

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e fu grato alla notte, alla luce pallida della luna che le nascondeva ad Aioria e a Mu. A Shaka che aveva reso ciechi e senza luce gli occhi vividi di Camus, fu grato, Camus che adesso lo guardava senza vederlo, senza implorarlo per liberarsi da quella stretta. Non implorava mai il volto di Camus.

Traditore di Athena e di Milo di Scorpio.

Strinse di più.

Uno scorpione doveva attraversare un fiume, ma non sapendo nuotare chiese aiuto ad un cigno, che si trovava lì accanto. Così, con voce dolce e suadente gli disse: “Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda”.

A metà tragitto il cigno sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stato punto dallo scorpione. Mentre entrambi stavano per morire il cigno chiese all'insano ospite il perché del folle gesto. "Perché sono uno scorpione..." rispose lui "E' la mia natura.

Essendo nella sua natura, Milo strinse di più.

Poi gli mancarono le forze nelle mani e nel petto. Per qualcosa che disse Mu, forse, o la dea prima di offrirsi al taglio di una lama.

Per lo sguardo di Aioria, probabilmente, in piedi nel vento, che si rendeva conto che non c’erano più Gold Saints e Specter traditori. C’erano Mu, lui e Milo, Camus, Saga e Shura.

E Athena senza vita.

 

 

“E’ da molto che mi aspetti?”

“Non da molto, no”.

Milo invece l’aveva aspettato per tanto tempo: nella canicola del mezzogiorno, in un Tempio troppo caldo, sulla scogliera dietro al Santuario con Aioria, negli uliveti vicino all’Arena.

Lo aveva aspettato senza aspettarlo davvero, perché Camus era morto. E non ci si arrende ai sentimentalismi. Non ci si arrende alle cicale, per Athena.

Ma quel loro canto si sente di notte. Si sente nel crepuscolo, nel meriggio. Si infila molto piano tra gli uliveti e i santuari e convince, molto piano, della verità di tutte le leggende in cui si crede.

In quel modo, e nel viso esangue e sereno della sua dea a terra, la verità frammentata giunse al cuore e alla mente di Milo: un tradimento che non c’era stato, un inganno dentro un inganno ordito alle spalle del re degli inferi. Allora ricadde sulle ginocchia, in un singhiozzo.

Fu il primo.

Ne seguirono altri di dolore, spavento e sollievo. Altri singhiozzi soffocati nel ventre di Camus, la fronte e le labbra premuti crudelmente contro la surplice scura, le proprie mani, dorate, salire come gabbiani bianchi, dispersi, al petto del compagno ritornato.

Gli si aggrappò, come se dovesse dissolversi tra le sue mani da un momento all’altro. Per un attimo, fu come se tutto fosse tornato ad essere com’era e come doveva essere, quando lui e Camus restavano petto contro petto e fronte contro fronte nelle serate tranquille di Atene. Era come se fosse così davvero.

Non è stato invaso il santuario, mai. Non c’è mai stato il tuo sacrificio. Un attacco troppo gelato che ha violato la tua Casa. Nessun inganno ci ha dimezzato. La tua vita e la mia non sono mai state interrotte da una Polvere di Diamanti. Nessuna mia bestemmia è salita al cielo come una preghiera e la dea Athena ha soccorso anche te sulla soglia dell’Undicesimo Tempio. Te e tutti i Cavalieri d’Oro caduti che non hanno capito questa beffa di costellazioni.

Camus, la bocca e lo spirito suggellati, gli occhi ciechi, sollevò le proprie mani, come gabbiani bianchi, dispersi, e le affondò nei capelli di Milo, in silenzio, con l’urgenza di toccarlo trattenuta fino a quel momento.

Abbassò la testa, come se potesse guardarlo.

E anche se non pianse, fu come se lo facesse.

 

 

*O* E’ finita. E’ finita qui. Ne sono felice, perché questo trittico mi stava uccidendo lentamente. Pur di mettergli la parola fine ho saltato un turno di Neve, che tra poco comunque arriva, ma, davvero, non ce la facevo più. La fine è nera, come il Nigriedo crede, ma io penso che ci sia un briciolo di speranza, infondo. Grazie a tutti per avere seguito fin qui. Fin ora questa produzione è quella che mi ha fatto più male, lo dicevo prima ad Aphrodite ( Kijomi )

Dedicata a lei, quindi e al mio Camus ( Ren Chan ) che hanno pianto con me. <3

Ren-chan: No, ti prego, tomolo. Lo sai é__è Ho già sofferto abbastanza çOç  … *abbraccia forte per le lacrime in aeroporto*

SnowFox: é_è tesoro! Mi onori! Quel fazzoletto è esattamente dove volevo che fosse! *O*  Grazie della lettura e delle lacrime! çOç un bacio!

Stateira: Stateira, benvenuta! Grazie della presenza e onorata il doppio, date le premesse. Che dire? Complimenti graditissimi, non hai idea di quanto çOç  …tanto per cominciare spuccia anche Socrate il canino da parte mia: se è stato inondato di lacrime se le merita.  Hai pianto? Eh? Hai pianto? Sono così felice! Vedi, questa cavolo di roba è qui apposta: sono stata in angst MESI a causa della mia stupida empatia con Milo e l’unico modo per liberarsene era questo. Più piangete voi, più sto meglio io! E poi meglio tutti, di seguito. *C* Ah, la catarsi! Qual meraviglia!

Saint Seiya si presta a molte cose ma non ai lieti fini, è vero. Ma ti assicuro che ci stiamo lavorando. Ci stiamo lavorando e lo otterremo, ho giusto un pugno di Cavalieri d’Oro che lavorano con me allo scopo. E – muri del pianto a parte – i Cavalieri d’Oro non soccombono mai, si sa.

Comunque guarda: qui non dico che si concluda alla grande – il seguito da questo punto della serie lo conosciamo tutti e, guarda caso, prevede alla fine proprio un Muro del Pianto – ma almeno si sono visti faccia a faccia. Non è malaccio, dai. Un bacio, cara. Spero di rivederti e farti versare più lacrime di quante tu me ne abbia già regalate. >O<  <3

Malu Lani: *coccola* XDD grazie per la tua attesa e per la voglia con cui l’aspettavi. Sono contenta di dartela con tempi più brevi del solito, questa parte finale, perché volevo davvero finirla e non mi andava di scrivere Neve finchè avevo questa cosa per le mani. Ecco qui, quindi. Ti stringo forte e ti aspetto, intanto. >O<  …non ti preoccupare! Io le recensioni lunghe le adoro *C*

Damaris: Eccoci alla fine, con il Nigredo al suo posto. Sono particolarmente contenta di avere concluso con un Nigredo perché dopo, ciclicamente, è l’Albedo che ritorna. E a questo punto ci vorrebbe proprio. XD  La tua analisi mi ha fatto venire i brividi anche questa volta, inutile dirlo. E adesso aspetto il tuo giudizio con leggero nervosismo, lo confesso: l’inizio e la fine sono le parti più importanti e più difficili di un racconto, quelli che rimangono più impresse nella mente di chi legge. Spero di non avere rovinato tutto alla fine, ecco. ^__-

E’ vero. sono particolarmente orgogliosa della reazione e della crescita di Milo: l’ho trovato molto cambiato dagli episodi del Santuario a quelli dell’Hades e una maturazione è facilmente riconducibile, credo, alla perdita di Camus e all’acquisizione – anche attraverso Camus – di Hyoga. Ed essendo il Gold a me più vicino per emotività e vincoli affettivi, sono contenta se riesco a portare avanti la sua crescita davanti ai fan della serie. XDDD  Lo stesso discorso vale per Hyoga e per Camus, che amo allo stesso modo. Qui Camus torna. E la sua psicologia è la più difficile da indagare, nascosta non solo dalla fredda calma proverbiale – però familiare – ma anche dall’inganno che con gli altri ordisce alle spalle di Hades. Spero di averlo trovato, per quanto poco io l’abbia accennato.

Sono felice che tu abbia apprezzato Veraline: i versi che ho scelto questa volta sono di Corbière, un alto francese che amo da impazzire, quasi quanto amo Rimbaud ( e per me Artie è arrivato all’apice della vetta del Parnaso e ci sgambetta allegramente da anni incontrastato ). Corbière invece entra nel cuore con una dolcezza disarmante e conquista. Delicatissimo, come la notte. Prego che sia adatto all’insieme e il mio non sia solo un matrimonio forzato dettato dal troppo amore. XD

Basta, la smetto qui. XDD Eccoci alla fine, con l’ultima parte, carissima çOç forse la scelta della scena è meno originale delle altre due, ma l’idea di base partiva proprio con questa unica certezza e non potevo tralasciare questo incontro “ufficiale” voluto nella serie. Un bacio e un abbraccio fortissimo, aspettandoti.

Blackvirgo: çOç tu mi onori davvero. I miei giochi retorici mi sono cari, ma sono ben lungi dall’essere perfetti. Ma se servono ad emozionare ne sono più che orgogliosa: grazie per le bellissime parole, davvero. La tua analisi mi ha colpito: io stessa non avevo notato il ripetersi di quegli elementi. Pensa che avevo tralasciato di vedere che perfino la cuspide è scarlatta, quando invece, è uscito un parallelismo forte anche grazie a quello. Ti ringrazio ancora per la tua cura e la tua presenza. Un abbraccio! >O<

Ichigo: quello che mi dici mi riempie di orgoglio, davvero. Se ti ho stordito a tal punto, non posso che esserne felice e rendere merito alla tua sensibilità che ti ha fatta calare tanto nella storia da vivere le mie emozioni. Grazie davvero. >**< Ti lascio con l’ultima parte. Spero che sia all’altezza delle altre due. >O< Qui c’è più di un perdono, c’è un incontro. Nel bene o nel male, siamo alla fine.

EriS_San: Grazie, piccina. çOç Sono contenta che tu abbia amato soprattutto l’abbraccio. L’ho amato anch’io. A questo ritrovarsi di Milo e Hyoga tenevo particolarmente, sai? Mi piace il rapporto che si instaura durante la serie e volevo renderne merito.

Conosco la fanart a cui fai riferimento, è tranquilla e serena nella mia collezione *C*  Non mi sono ispirata a quella direttamente, anche se l’amo moltissimo e ho gnaulato ad una frequenza piuttosto alta quando mi ci sono trovata davanti per la prima volta. Non escludo affatto quindi di averne assimilato l’atmosfera per poi riportarla qui. <3  Sei un’osservatrice attenta.

EvenstanLyra: OH NO! Ma cosa dici?! XDDDDDDD così arrossisco DI PIU’! *C*;;;;  XDDDD Ti assicuro che ogni volta gongolo e mi imbarazzo deliziosamente alle tue parole. ._.; Ti ringrazio davvero tanto.  E sono felice che tu legga anche le altre mie cose, grazie anche per quello. Sono tutte piccole cose, ma ci tengo mostruosamente per il background che c’è dietro ad ognuna delle mie fanfic. Sapere che le apprezzi è graditissimo per me.

La mancanza di Camus l’ho sentita anch’io fin troppo: come dicevo, maledetta empatia con Milo. >_>;;;   …oh! Davvero non ti piace Hyoga? çOç  E’ il mio bronzetto preferito, provo per lui un affetto fuori dal comune… per questo lo ritrovi in giro tanto spesso nelle mie produzioni. XDDD Perdonami XD   

*O* Vai ad Atene! Oh, ma che meraviglia! çOç  *GNAULA* Vai e goditela tutta, di giorno, di notte e ai crepuscoli. Poi torna e raccontami tutto çOç <3 <3 <3  *ci vuole andare anche lei*

PerseoeAndromeda: Oh no! çOç ci tenevo ad una tua analisi çOç  Spero allora in quest’ultimo capitolo!  Intanto grazie per le belle parole. E ti aspetto. Un bacio!

Saorilavigne: Amore mio çOç grazie. Un bacio enorme, tesorino çOç

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