Lolita

di Claudine Delacroix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One ***
Capitolo 2: *** Two ***
Capitolo 3: *** Three ***



Capitolo 1
*** One ***



 

Premessa: gli avvenimenti sotto descritti sono di mia invenzione, creati per puro diletto, basandomi sulle informazioni fornitemi da wikipedia per l'età, i luoghi, il nome del padre e quello reale di Lana. Il resto è frutto della mia fantasia; l'opera è volta a raccontare una storia come un'altra e nulla di più.

 

L O L I T A

 

 







«La tua Lizzy, Rob, farà strada. Grazie al mio locale e grazie alla sua voce, vedrai, diventerà famosa in poco tempo. Lasciamela per qualche mese; sono sicuro che poi i miei clienti verranno solo per lei.» Sorrise con voluttà per un attimo, poi si corresse; «Per la sua voce, intendo dire.»

Rob guardò la figlia. Vedeva come la sua bambina, anche dopo quattordici anni, a lui apparisse la stessa di sempre, nonostante durante quell'estate fosse assai mutata fisicamente. La figura si era alzata di qualche centimetro, i fianchi da spigolosi erano diventati due curve morbide; le labbra, fino a pochi mesi fa del rosa pallido naturale, erano ora costantemente tinte di rosso scarlatto, che ne evidenziava la pienezza. Si tingeva le labbra di rosso perché aveva scovato un vecchio rossetto di sua madre in una scatola dei ricordi dimenticata da anni, sepolta tra le cianfrusaglie nel garage. Il seno era ancora acerbo ma in crescita. Lo poteva percepire dalla maglietta tesa che scopriva una porzione di pancia. E lei, che non se ne era accorta, continuava ad indossare i suoi abiti da bambina, conferendo alla propria immagine una sensualità puerile.

Elizabeth Grant era una lolita a tutti gli effetti. Giovanissima ma già sviluppata, soda e compatta, attraente in quel modo puro che faceva impazzire gli uomini di una certa età.

Rob lo sapeva bene, ma sapeva bene anche quanto Lizzy amasse cantare e quanto fosse portata; dunque accettò, lievemente in apprensione, di affidarla alle cure di John Wills, proprietario dell'Office 96, un locale di New York dalla clientela variopinta. Buona musica, era frequentato tanto da ragazzi giovani quanto da signori maturi in cerca di svago.

Così, un piovoso ventisette dicembre - in un'auto vecchia che sapeva di tabacco - Elizabeth, le mani strette attorno all'unica valigia che si era portata via, imboccò la strada della musica.

E anche quella della dissoluzione, nonostante lei non lo sapesse ancora.

 

Per la ragazza non fu un trauma lasciare Lake Placid - la località nella quale aveva vissuto per quattordici, lunghi anni solitari. Ella amava poche cose, nella vita; suo padre, cantare e pregare. Era una ragazza molto religiosa, e adorava ascoltare ad occhi chiusi le messe domenicali. Ma in particolar modo le piaceva cantare nel coro della chiesa. Trovava che il canto e la preghiera, uniti, fossero quanto più si avvicinasse all'idea di paradiso.

Dio e musica insieme; la sua vita, grazie a loro, aveva raggiunto la piena completezza.

Ma non si sarebbe fatta sfuggire un posto di lavoro – perché John l'avrebbe pagata; gliel'aveva promesso, aveva detto 'in base a quanti clienti mi porterai, pasticcino, ti pagherò'.

E poi suo padre era sicuro che ciò l'avrebbe lanciata nel mondo della musica, facendola divenire una cantante a tutti gli effetti.

Lizzy non era ottimista e sognatrice come il padre, ma aveva accettato più che volentieri l'opportunità di visitare New York ed esibirsi in un locale. Certo non credeva di sfondare o diventare all'improvviso conosciuta; aveva i piedi per terra, sapeva che quello del padre e di John fosse un progetto un po' utopistico, ma le era piaciuta l'idea. E poi voleva viaggiare.

Non aveva molti amici, perciò gli addii consistettero in lunghi abbracci al padre e sguardi melanconici diretti alla casa dov'era cresciuta e vissuta da sempre. Accarezzò tutte le foto attaccate alla parete e ne staccò una dov'era con suo padre, che portò con sé, seppellita tra vestiti che le stavano troppo stretti e libri di musica. Era stata scattata da poco; durante il giorno della sua cresima, qualche mese fa. Suo padre, elegante in completo grigio, aveva posto un braccio intorno alle spalle di lei, vestita di bianco e con una coroncina di fiori candidi che le cerchiava la testa. Entrambi sorridevano felici, e la vetusta chiesa dietro di loro era il degno sfondo di una giornata memorabile.

Elizabeth aveva salutato anche il suo gatto screziato di nero e bianco, Mochi, trovato due estati prima che gnaulava nel fosso vicino a casa sua. Lo strinse a sé e gli promise di tornare presto, mentre lui faceva le fusa ignaro del periodo che avrebbe dovuto passare senza la sua padroncina.

Era un grande passo, uno dei più importanti della sua vita. Ma era pronta a compierlo, e felicissima di poter provare quella nuova esperienza.

John Wills, amico intimo di suo padre e praticamente suo zio adottivo, era un bonario uomo sui quaranta. Gestiva questo locale, l'Office 96, da qualche mese; l'attività stava andando bene. Il locale era diventato abbastanza popolare e attirava sempre più clientela, grazie all'idee innovative di John.

Era da agosto che Elizabeth non lo vedeva, e per le vacanze di Natale se l'era venuta a prendere. Aveva le braccia ricoperte di tatuaggi tribali, inflaccidite dall'età. I capelli, neri come il fondo di un pozzo, si presentavano costantemente impregnati di gel. Era un uomo un po' sovrappeso e rubicondo, ma sorridente e scherzoso con tutti. Faceva belle battute, anche se molte Elizabeth non le capiva; qualche volta John diceva certe cose sulle donne, cose strane, ridendo malizioso. Lizzy non le capiva, ma rideva lo stesso.

La ragazza voleva molto bene a John; quand'era morta sua madre, due anni prima, egli era stato accanto a quello che rimaneva della famiglia Grant, aiutandola a rialzarsi e sostenendola nei momenti di peggiore sconforto. Aveva cucinato molti pranzi e molte cene quando il padre usciva per giornate intere, sfrecciando per le stradine di Lake Placid sulla sua Cadillac rossa rovinata dagli anni. Rob e Lizzy erano caduti; John li aveva aiutati a rialzarsi. Ed era per questo che gli erano più che grati; ed era per questo che, sia Lizzy che Rob, non misero minimamente in dubbio la correttezza dell'uomo.
John era il loro salvatore, la loro spalla, e inoltre si era rivelato anche la 'pista di lancio nel mondo della musica' di Lizzy, come amava definirlo il padre.



Partirono subito dopo le vacanze di Natale, un uggioso ventisette dicembre. «Liza, il tuo debutto sarà a capodanno, sei contenta? Ho tenuto in serbo la serata per te. Nessuno sa nulla. Ti presenterò come 'rivelazione del 2000'*, sarà perfetto.»

La tranquilla località di Lake Placid distava dalla Grande Mela circa sei ore e mezzo di auto. Si misero in viaggio la mattina, Lizzy infreddolita e stanca, John esaltato e fiducioso, Rob nostalgico ma orgoglioso di sua figlia.

Elizabeth chiuse la valigia, ed il rumore della cerniera che si chiudeva le sembrò un qualcosa di definitivo. Fu il suono che suggellò la sua infanzia per dare spazio, finalmente, a qualcosa di nuovo. Non sapeva nemmeno lei cosa; ma sentiva sarebbe stato esaltante... Mochi le fece le fusa attorno alle gambe, saltando poi sopra al letto per annusare la sua valigia. «Mochi, Mochi, Mochi» disse Lizzy un po' triste, abbracciando il suo gatto che cercò inizialmente di divincolarsi. «Mi mancherai, Mochi» l'animale si rassegnò alle coccole forzate e cominciò a ronfare beato.

«Elizabeth» gridò Rob dal piano di sotto. «È ora, su» aggiunse, con la voce che tremolava. Elizabeth lasciò Mochi che si acciambellò sul suo cuscino, addormentandosi.

«Ciao gatto. Ciao camera. Ciao, Lake Placid» disse la ragazzina, abbracciando con lo sguardo tutta la stanza, cercando di portarsela via con gli occhi.

Scese le scale a fatica, mentre il peso della valigia la trascinava quasi giù. Uscita di casa, vide che John era appoggiato alla macchina con un piede; una mano in tasca, stava fumando una sigaretta. «Ecco la nostra stella!» disse l'uomo, gettando il mozzicone per terra ed allargando le braccia. Prese con delicatezza la valigia, sistemandola nel bagagliaio mentre Lizzy e Rob, in disparte, si salutavano.

«Eliza, ti voglio bene. Fa' la brava. Sei in buone mani, Eliza» proferì Rob, più per rassicurare se stesso che per altro. La figlia rise un momento.

«Ma sì, papà» rispose abbracciandolo «andrà tutto alla grande. Prenditi cura di Mochi. E sappi che ti voglio bene anch'io.»

John suonò il clacson; era ora di andare, se non avessero voluto trovare traffico. Elizabeth si staccò dal padre e corse verso la macchina; fece per aprire la portiera posteriore, ma John le urlò di non fare la femminuccia e di salire davanti.

Un po' in apprensione, Rob guardò l'auto grigia svoltare la via sgommando.

 

«Hai fame, piccola?» John volse per un attimo il viso verso la ragazzina. Si era appoggiata con la testa e le mani vicino al finestrino per guardare il panorama, il corpo teso a raggiungere il vetro; la maglietta, tirata, le aveva scoperto parte della schiena.

«Un pochino. Ma se è solo per me non ti fermare.» disse distratta.

"L'ha educata dannatamente bene, quel Rob, ed è un bocconcino pazzesco"pensò John lanciando il mozzicone della sua decima sigaretta dal finestrino.

Elizabeth, le gambe un po' indolenzite e lo stomaco vuoto, era vagamente nauseata dall'odore di fumo. Però era eccitata; aveva intravisto da poco i primi cartelli per New York.

A dispetto del declino iniziale della ragazza, si fermarono in un autogrill – scadente, lercio e pieno di camionisti. John disse che poteva prendere ciò che più le piaceva; alla fine l'uomo, dopo essersi sorbito i molti 'no, no, decidi tu' della ragazza, le comprò un sacco di leccornie che sapeva le sarebbero piaciute, più una rivista di musica.

«Ma John, ti ringrazio tanto... anche se, purtroppo, leggere in macchina mi nausea. Quella possiamo anche non prenderla.» L'uomo la portò alla cassa dicendole che l'avrebbe letta con calma a casa sua, di non preoccuparsi e che era proprio una ragazza educata e che non vedeva l'ora di sentirla cantare. Lizzy si limitò a guardarsi le scarpe, imbarazzata, poi gli sorrise.

Il resto del viaggio lo passò dormendo con la testa appoggiata sull'avambraccio sinistro e lo stomaco pieno dopo essersi sbafata tutte quelle bontà. Con la mano destra stringeva la rivista di musica.

Qualche minuto prima che arrivassero a New York, Rob decise di svegliarla – pensò le avrebbe fatto piacere, ed era proprio così. Prima di scuoterla le appoggiò una mano sulla coscia, salendo piano. La ragazza si mosse. John rimise le mani sul volante alla svelta.

«...mmm. Ho dormito?» Elizabeth non aspettò la risposta. «Oh mio dio, ci siamo quasi!»
L'ultimo grammo di stanchezza venne scrollato via dal corpo euforico della ragazza: per il restante tempo in cui guidarono verso la casa di John, ella non smise di apprezzare la città.
Era così... grande, e piena di gente, e così diversa da Lake Placid! I suoi occhi, avidi di meraviglie, non facevano in tempo a dedicare la loro attenzione a qualche cosa che venivano subito attratti da altro.

Quando finalmente arrivarono, l'umore di Lizzy era alle stelle. Il locale – sopra il quale si trovava la residenza di John – aveva un'insegna moderna, né vistosa né insignificante, quasi sull'elegante.

«Oh, John» disse con gioia «questo locale è fichissimo!»

John rise, mangiandosela con gli occhi, mentre lei entrava e lui tirava fuori dal bagagliaio la valigia. «Sono felice che ti piaccia, piccola.»

Dentro, nonostante le luci fossero spente e le sedie sopra i tavoli, si respirava già un'aria di festa. I colori toccavano tutte le tonalità di blu, soffermandosi soprattutto sul blu notte; le bottiglie di alcolici, disposte dietro al bancone in modo che i colori formassero un arcobaleno, rilucevano invitanti. Due o tre palchi dominavano la grande stanza, con quello principale al centro; Elizabeth ci salì sopra impugnando un microfono immaginario. Cantò qualche verso di una canzone ondeggiando i fianchi, e John – che si era seduto a guardarla tirando giù una sedia dal tavolo più vicino al palco – applaudì entusiasta, regalandole persino una standing ovation*.

Lizzy rise, i suoi capelli ondeggiarono con lei, e John salì sul palco per abbracciarla. «Ah, piccola» disse chinandosi per guardarla negli occhi «è bello che tu sia qui.»










 

 

 

 

Lana è nata il 21 giugno del 1986, e la cosa figa figa è che non mi sono nemmeno resa conto che, nel 2000, avesse 14 anni... giusto l'età che ho scelto per lei in questa storia!

'I'm your National Anthem, Boy put your hands up, Give me a standing ovation' SCUSATE, dovevo.

Oui, alors. Questa storia è nata mesi e mesi fa, perché amo con tutta me stessa Lana e non le avevo mai dedicato qualcosa (purtroppo per lei, il momento è arrivato). In origine doveva essere una one-shot, ma poi ho deciso di spezzarla. Credo durerà sui tre capitoli a dir tanto... o forse due. Forse alzerò il rating, forse no... in ogni caso, credo si presagisca già cosa succederà – in linea di massima.
Ah, e il titolo si riferisce sia a 'Lolita' di Nabokov che alla canzone di Lana. 


Post Scriptum; quel banner fighissimo che vedete in cima è una creazione di Parabates.

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Capitolo 2
*** Two ***


 

Premessa: gli avvenimenti sotto descritti sono di mia invenzione, creati per puro diletto, basandomi sulle informazioni fornitemi da wikipedia per l'età, i luoghi, il nome del padre e quello reale di Lana. Il resto è frutto della mia fantasia; l'opera è volta a raccontare una storia come un'altra e nulla di più.

 

L O L I T A

 

 

 





«Benvenuta nella mia umile dimora, piccola.»

Elizabeth, appoggiando la valigia dopo aver fatto due passi nell'ingresso del piccolo appartamento, si guardò intorno compiaciuta. C'erano tre stanze, un salotto-cucina e due bagni. Il colore dominante, un piacevole grigio chiaro, conferiva all'abitazione uno stile minimale e contenuto. Le piacque molto.

«Camera tua è questa, mentre quella accanto – per qualsiasi cosa, non esitare a venirci – è la mia. L'altra la utilizzo principalmente come studio e puoi starci anche tu, se vuoi.»

Lizzy sondò con occhi curiosi quella che sarebbe stata la sua cameretta per i prossimi mesi. C'erano un letto singolo con le coperte e la federa del cuscino bianche, un armadio spazioso color panna e una scrivania nera, opaca. La stanza era completamente vuota, eccetto il tappeto nero e peloso per terra, ma non dava l'impressione di essere spoglia.

Le piacque all'istante e sorrise, ringraziando John. Si piegò per aprire la valigia, chinandosi in avanti col corpo, e John fissò le sue curve insistentemente.

Sempre fissandola, disse « svuota con calma la tua valigia e sistemati come più ti aggrada; se vuoi fare una doccia utilizza il bagno che vuoi. E... se hai fame chiamami, ti mostrerò la dispensa e dove sono collocate le cose; ma posso anche prepararti qualcosa io. »

Elizabeth, sempre girata di spalle a John, sorrise intenerita. John era sempre così premuroso, pensò, proprio una fortuna per loro averlo incontrato.

Proprio una fortuna.

«Va bene John, grazie mille. Ma tu mi vizi troppo, lo sai?» concluse ridendo. L'uomo rise ed uscì dalla stanza, chiudendo la porta con delicatezza – non senza prima essersi concesso un ultimo sguardo al corpo chinato della ragazza.

 

Elizabeth uscì dal bagno in una nuvola di vapore, avvolta da asciugamano rosa – certo non concepito per essere un accappatoio; non era abbastanza lungo da arrivarle al ginocchio. Non si era portata i vestiti di ricambio perciò uscì con quelli che aveva indossato durante il viaggio in mano, cercando di correre verso la sua stanza.

Proprio in quel momento John uscì dalla sua stanza; si fermò guardarla. Goccioline di acqua ribelli, non ancora asciugate, scorrevano sulla pelle liscia della ragazza, che spalancò gli occhi imbarazzatissima.

Ma dopotutto è quasi come se fosse mio zio, disse poi tra sé cercando di assumere un'espressione più disinvolta.

John si ricompose e sorrise. «Tutto bene, allora? Nessun problema, ti pare tutto comodo?» domandò lui con fare gentile mentre dentro, in realtà, ardeva.

«Sì, certamente. Grazie.» rispose in fretta lei, fuggendo nella sua stanza. Si chiuse a chiave, dandosi poi una pacca sulla fronte. Rise nervosamente del suo vano timore; di cosa avrebbe dovuto aver paura?

Ma sì, pensò, sono solo troppo pudica. Ecco tutto.

Quando Elizabeth si fu rivestita andò nella cucina-salotto, dove John stava mangiando un pacchetto di patatine seduto su una sedia, i gomiti appoggiati al bancone che faceva anche da tavolo. Stava guardando un programma sportivo alla televisione; quando arrivò la ragazza distolse immediatamente lo sguardo dallo schermo per concentrarsi su di lei. Il maglioncino rosa cipria che stava indossando era piuttosto corto e stretto; intravide la pelle pallida del ventre che spuntava dal bordo.

«Fame?» disse lui, allungando il pacchetto nella sua direzione. «Posso prepararti altro, però, se non ti vanno le patatine.»

Elizabeth per tutta risposta affondò la manina nel pacchetto, afferrando con delicatezza due dischetti croccanti. Li sgranocchiò felice e, golosa, ne prese altre. John le lasciò la confezione e si pulì le mani sui pantaloni.

«Lizzy, mancano ancora quattro giorni al trentuno dicembre; ho pensato comunque di farti passare le serate nel mio locale, così ti ambienterai. Di giorno ti farò fare qualche giretto in città – ti piacciono i vestiti, Liza? Ti porterò a provarne qualcuno, qualcosa che non hai mai indossato, qualcosa di speciale per la serata di capodanno – e le sere le passerai, se vorrai, al locale. Non ti preoccupare, ti starò sempre accanto. Non ti perderò di vista» concluse ammiccandole.

La ragazza abbozzò un sorriso. «Certo John, mi va benissimo.»

 

Il campanello del negozio tintinnò gioioso; un lieve profumo di stoffa pulita li accolse, assieme ad una commessa civettuola vestita di azzurro che masticava vistosamente una chewing-gum.

«Salve, salve, salve, posso esservi utili? Un vestito per la bambina? Una giacca per il padre? Ho anche delle ottime cravatte da farle vedere, signore...»

John e Lizzy si guardarono; lui stava per mettersi a ridere, mentre la bambina era terrorizzata dal piglio della commessa.

«Buongiorno. Dunque, per la mia bambina» a quella frase avvolse il fianco di Elizabeth con un braccio, tirandola verso sé «cerco un bell'abito. Possibilmente non da bambina» concluse sghignazzando. La commessa, sorridendo loro – celando però un'espressione schifata -, si avviò per gli scaffali afferrando qualche vestitino a caso, chiedendo a Lizzy ogni volta se le piacesse questo o quel modello, sentendosi rispondere sempre con un timido sì.

Dopo sei modelli, che la commessa appese ordinatamente nell'ampio camerino, esortò Elizabeth a provare i vestiti. La ragazza entrò e chiuse la tenda davanti a sé, accorgendosi dello sguardo fisso di John.

Scosse la testa e si concentrò sugli abiti.

«Bella, bella, bella, belliiissima!» la commessa approvò l'abito con il quale Elizabeth era appena uscita dal camerino. Le girò intorno esaltata, lisciando le pieghe invisibili del vestito e sistemandole le spalline.

Era un semplicissimo tubino rosso; sopra le stava appena un po' largo, ma fasciava alla perfezione i suoi fianchi. John, cercando di non saltarle addosso, si limitò ad un fischio di apprezzamento prolungato e ad un breve applauso. «Oh, Lizzy. Wow.» disse dopo un po'. «Signora? Consideri l'acquisto concluso. Lo porti alla cassa. Liza, ti farei uscire così se non avessi paura del fatto che ti porterebbero via, dico davvero.»

La ragazza era visibilmente a disagio e non si guardò allo specchio più del necessario. Però si sentiva bella. La stoffa morbida dell'abito, aderente com'era, ad ogni movimento era come una carezza. Sorrise un attimo alla sé riflessa e tornò in camerino, mentre John – che stava andando alla cassa – pensava a come sarebbe stato bello strapparglielo di dosso.

 

«John...» Elizabeth fece capolino dal bagno, vestita di tutto punto. Sotto consiglio di John aveva indossato un vestitino color indaco, le maniche un po' a sbuffo. L'effetto complessivo era quello di un'adulta-bambina; soprattutto quando, superata la timidezza iniziale, si avvicinò a John mettendo un piede davanti all'altro, sorridendo sfacciatamente.

«Piccola!» esclamò. L'uomo si stava spruzzando del profumo sul collo. Si bloccò con la boccetta a mezz'aria, per poi posarla sul bordo del lavabo e girarle intorno.

«Che buon profumo, John» commentò lei annusando l'aria. Le faceva un po' girare la testa, ma aveva un odore buonissimo. L'uomo sorrise e si abbassò; prese tra le mani il viso della ragazza portandoselo verso il collo, in modo che lei potesse sentire meglio la fragranza. La ragazza si appoggiò con una mano sul suo petto per stare più comoda, e l'uomo cercò di non muoversi. Sentiva il naso di Elizabeth sfiorarle la pelle tesa del collo.

Soddisfatta, Lizzy si staccò bruscamente da John e si diresse verso lo specchio per mettersi il rossetto. John rimase accovacciato per terra come ipnotizzato dal tocco della ragazza e sentì che, se fosse rimasto un secondo di più in quella stanza, non sarebbe riuscito a reprimere in alcun modo il desiderio bruciante che sentiva verso Elizabeth.

Non ora, pensò, non ora. Si alzò in fretta e corse via, mentre Lizzy si picchiettava con il pollice le labbra turgide per fissare il rossetto.

 

«... e io gli ho detto; o paghi, o...»

«John» Elizabeth tirò un lembo della maglietta dell'uomo, che si girò infastidito. Era un po' brillo; sbatté il bicchiere sul bancone innervosito, uno sguardo inviperito che saettava dagli occhi e le dita chiuse a pugno nel palmo, pronto a ripagare l'interruzione a chiunque avesse osato farlo.

Quando vide i grandi occhi color cioccolato della ragazza implorarlo dall'alto, le sue dita si rilassarono e sentì una vampata di calore invadergli il basso ventre. Elizabeth era un po' lucida in viso per via di tutta quella gente e delle luci, che l'avevano fatta sudare. Aveva girovagato senza meta per il locale pieno un po' di volte, tra mani che la toccavano ovunque e uomini o ragazzi che le offrivano da bere o le chiedevano di ballare.

«Pic-co-lah» disse, avvicinandosi a lei. La prese per i fianchi ed improvvisò un balletto. «Ti stai divertendo, sì? Ti presento ai ragazzi, dai» disse, prendendola per le spalle e portandola davanti al suo 'gruppo'; quattro uomini, più o meno della sua età, tutti con un bicchiere in mano. All'arrivo della ragazza tanto famosa – John aveva più e più volte elogiato le qualità canore (e non solo) della ragazza, parlando di lei con loro – il gruppetto proruppe in un fischio prolungato, che si concluse in un applauso sconnesso.

«Che bocconcino, che bocconcino!» esclamò sghignazzando un biondo con la barba lunga ed una giacca smanicata di pelle. Prese per il mento la ragazza, che sorrise incerta.

L'uomo le rivolse un sorriso sghembo, mollandola e dando di gomito agli altri.

«Diamine, ragazzaccio, non ci avevi detto che fosse così bella» disse un altro del gruppo, mangiandosela con gli occhi apertamente. Aveva la camicia completamente sbottonata, e il petto totalmente tatuato in mostra. Sorrise voluttuoso, mostrando un dente d'oro.

John sghignazzò per quei complimenti e cinse i fianchi della ragazza con un braccio, portandola verso sé. La mano scorreva lentamente su e giù per il suo fianco, e Lizzy si sentì un po' a disagio.

«È roba mia» ringhiò John possessivo, guardandola orgoglioso.

Il gruppo scoppiò in una risata isterica che disperse nell'aria invidia e desideri inappagati.

Elizabeth si divincolò dal braccio e diede la buonanotte a tutti con voce flebile, correndo per il locale fino a raggiungere la porta che portava all'abitazione. Infilò la chiave talmente in fretta che non girò subito nella serratura; quando fu riuscita ad aprire la porta, entrò e la chiuse immediatamente dietro di sé.

Scivolando fino a terra con il corpo appoggiato al muro, si chiese perché mai si fosse sentita così sporca e a disagio.

 

Verso mezzogiorno, John si alzò.

Elizabeth, che da ormai quattro ore era sveglia – si era svegliata anche alle tre quando l'uomo era rientrato; aveva sbattuto un sacco di porte e biascicato frasi sconnesse, completamente ubriaco – era attenta a qualunque cigolio.

Udendo i tipici rumori da toilette, si coprì le orecchie col cuscino. Infine, dopo che si fu lavato i denti ed ebbe fatto una doccia, l'uomo andò a bussare piano alla porta della camera di Elizabeth.

La ragazza pregò che se ne andasse; non sapeva perché fosse così timorosa di farlo entrare, ma istintivamente pensò che sarebbe stato meglio rimanere sola.

Purtroppo, l'ombra che intravedeva dalla fessura tra il pavimento e la porta non si mosse.

Con un sospiro, Lizzy disse che poteva entrare.

L'uomo aprì la porta, non del tutto, e infilò solo la testa; dopo un timido 'buongiorno' chiese alla ragazza se avesse fame, e disse che le aveva preparato una spremuta di arancia.

Lizzy sorrise, e tutte le paure ed incertezze della sera precedente si dissolsero.

Lanciando le gambe fuori dal letto, improvvisamente affamata, si alzò correndo verso John. Gli schioccò un bacio infantile sul viso, in punta di piedi, e corse in cucina, dove bevve soddisfatta la sua buonissima spremuta, mentre John si toccava la guancia compiaciuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve babes.
Prima di tutto; avete sentito West Coast? Oh, dio. Che ritorno. È stato un trionfo, dico davvero. Quella canzone ha fatto da colonna sonora all'intero capitolo, praticamente.
AMO.
Tornando a noi... sì, oramai la storiella senza pretese è arrivata agli sgoccioli. Spero di riuscire ad essere puntuale per il prossimo capitolo come lo sono stata per questo – dico davvero, è un miracolo che sia riuscita ad aggiornare puntualmente.
In ogni caso... più scrivo, più odio John. Mi fa ribrezzo. E Lizzy mi fa una tenerezza che non vi dico. E... sono tentata a non continuare, non voglio che soffra.
MA DEVO.
Dopo questo soliloquio molto entusiasmante (coome no), vi lascio.
PS: 5 recensioni?!? Ma voi siete pazzi *°* v'adoro.

Un bacio e un abbraccio, a presto.

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Capitolo 3
*** Three ***


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Premessa: gli avvenimenti sotto descritti sono di mia invenzione, creati per puro diletto, basandomi sulle informazioni fornitemi da wikipedia per l'età, i luoghi, il nome del padre e quello reale di Lana. Il resto è frutto della mia fantasia; l'opera è volta a raccontare una storia come un'altra e nulla di più.


 

L O L I T A


 


 





John sorrise nella tenue luce mattutina che filtrava dalla tapparella non del tutto calata. Si guardò intorno, curiosando nella stanza di Elizabeth. Una borsa era appesa malamente sulla sedia, e qualche libro – dei quali uno era aperto a metà – occupava la scrivania. I vestiti della sera prima erano forse stati appesi alla maniglia dell'armadio, ma erano caduti, formando un mucchietto variopinto per terra.

Le lenzuola bianche, avviluppate tra loro e recluse al fondo del letto, lo attiravano invitanti. Ne prese un lembo tra le mani e se lo portò al viso, inspirando profondamente.

Sapeva di bambina, di profumo da donna e di innocenza. Rimase lì per qualche secondo, completamente in estasi, ed infine si decise a staccarsi.

Rifece il letto della ragazza mentre pensieri licenziosi turbinavano per la sua mente.


 

«Piccola» esordì John, entrando nella stanza dove Elizabeth stava facendo colazione «domani è il grande giorno!»

La ragazzina stava mangiando dei biscotti secchi a piccoli morsi, prendendoli mano a mano dal pacchetto. Era seduta su uno sgabello alto, e le sue gambe nude dondolavano avanti e indietro.

John osservò quella danza silenziosa per un po', mentre Lizzy finiva di masticare. «Oh cielo, sì! Che bello!» rispose lei, sorridendo all'uomo entusiasta.

Anche lei era molto emozionata; non per nulla aveva sopportato un viaggio di sei ore, la lontananza da casa e... le premure pressanti di John.


 

Con egli un giorno aveva deciso quali canzoni avrebbe portato quella sera.

Avevano discusso un pomeriggio intero, finché John stabilì che Elizabeth, tra la decina di canzoni che sapeva a memoria, ne avrebbe cantate tre.

«Quale ti piace più di tutte, piccola?» chiese lui, arruffandole i capelli. La ragazza alzò lo sguardo riflettendo per scegliere, poi piantò i suoi occhi color cioccolato in quelli azzurro spento di John e socchiuse le labbra.

«Start spreading the news...» cominciò lei, con voce incredibilmente sensuale e vellutata per la sua età. L'uomo rabbrividì un secondo, stregato, poi rise.

«'New York New York', piccola? Originale, direi» scherzò lui, «ma terribilmente appropriata. D'accordo.»

La ragazza battè le mani felice, sorridendogli. La sua canzone preferita nella sua città preferita; e che città.

«Grazie John, grazie! Ma non ti devi preoccupare, è un evergreen. Piace a tutti e piacerà anche al pubblico dell'Office 96. Ne sono sicura» disse lei, buttandogli le braccia al collo.

John la strinse a sé ricambiando l'abbraccio, felice per ogni rara volta che la ragazza stabiliva un contatto con lui. Si accorse che i suoi seni acerbi premevano contro il suo petto e trattenne a stento impulsi che ormai stava sempre più faticando a reprimere.


 

Il trentuno dicembre, giorno del debutto della ragazza, decisero di fare una passeggiata per le strade newyorkesi. John la portò per le vie più sfarzose della città tenendola per mano; ogni tanto le accarezzava la guancia, le spostava una ciocca di capelli, la guardava più del dovuto, faceva un complimento inaspettato.

Elizabeth sentiva il senso di disagio crescere, ma come al solito non gli diede peso. I suoi pensieri riguardavano principalmente le aspettative e paure della sua prima esibizione; dunque non notò l'attaccamento crescente di John. Che, dal canto suo, si sentiva sempre più inquieto e attratto da lei; cercava continuamente il suo corpo, e lei non lo respingeva.

Inconsapevolmente, ella lo stava incoraggiando.

«Bimba, questa è...»

«Oh mio dio. Times Square! Sto passeggiando per Times Square!» la ragazza si guardò attorno estasiata; turisti che facevano foto, incantati come lei, gente trafelata dirigersi verso il proprio ufficio, persone in passeggiata.

Elizabeth si stava sentendo tremendamente glamour. Aveva sempre sognato di passeggiare per quelle vie affollate e piene di vita; tutta un'altra cosa rispetto alla requie costante di Lake Placid.

Osservò i teatri di Broadway e le insegne luminose e i negozi che punteggiavano l'incrocio; i suoi occhi non facevano in tempo a soffermarsi su una vetrina che subito venivano attratti da un'altra.

John la guardava contento. Era felice di fare qualcosa per lei. Ogni volta che riusciva a rabbonirla pensava che forse... be', gli sarebbe stata riconoscente.

C'erano tanti modi per esserlo.


 

Quando tornarono a casa, Elizabeth era felice come non mai. Ringraziò John più volte, e lo coprì di baci e riconoscenza.

«Dai piccola, mancano poche ore. So quanto voi donne siate lente a prepararvi...»

Lizzy rise. «Ho capito, vado» e scappò in bagno a lavarsi.

John intanto aveva acceso la televisione, non realmente stando attento a ciò che trasmetteva. Pensava ad Elizabeth, a quanto fosse bella; pensava che stasera, dopo che tutti l'avessero scoperta, gliel'avrebbero portata via.

Non l'avrebbe permesso.


 

Elizabeth aveva finito la sua doccia, rapida, ed era uscita in una nuvola di profumo vanigliato. Si stese sul letto ancora un po' umida, allargando le braccia e sorridendo al soffitto; canticchiò la base di 'New York New York', tamburellando a ritmo con le dita sul materasso.

Infine si alzò, l'asciugamano attorno al suo corpo, ed aprì l'armadio. Il vestito scarlatto era lì, l'aspettava pronto per lei.

Lo tolse dalla gruccia con delicatezza, accarezzando il tessuto morbido. Si mise la biancheria intima e poi lo indossò.

I capelli un po' spettinati, i piedi scalzi, l'abito fasciante; così si presentò a John, che stava ancora pensando a lei. Quando la vide l'uomo spalancò un po' le labbra; era bellissima, una figlia delle sirene, eterea. Elizabeth sorrise ingenuamente, facendo un giro timido su se stessa.

«Jesus, piccola...»

Improvvisamente stare seduto divenne scomodo. E capì che non ce l'avrebbe più fatta.

Lizzy, la sua piccola-grande Lizzy.

Con uno scatto le cinse la vita e quasi la scaraventò sulle sue ginocchia. Le sue mani criminali percorsero febbrilmente il corpo della ragazza; la vita, le gambe, le braccia, il petto.

Elizabeth si irrigidì ma non si mosse.

«John... John no, che fai?» Ridacchiò nervosamente. Non capiva, semplicemente non capiva cosa gli fosse preso.

L'uomo avvicinò le sue labbra a quelle della ragazza, e le respirò affannato per un attimo sul mento. La baciò.

Elizabeth cacciò un urlo; John le tappò la bocca con la mano e la spinse sotto di sé. La ragazzina si divincolava e tentava di chiamare aiuto, ma l'unica cosa che riuscì ad emettere fu un gemito disperato.

Era a questo che puntava.

L'uomo le slacciò la cerniera del vestito con una mano, mentre con l'altro braccio la bloccava. Stava piangendo, e calde lacrime scivolarono sull'arto che la imprigionava.

Il carnefice si fermò per osservare la sua vittima in biancheria intima. La pelle pallida era scossa da brividi di terrore, e le gambe dai polpacci esili e dalle cosce tornite tentavano di respingerlo e di coprirsi.

Un sorriso perverso spuntò sul suo viso.

Si sfilò i pantaloni a fatica, tentando di schiacciare Elizabeth sul divano per tenerla ferma; la ragazza emise un grido, che John reprimette con un pugno sul suo plesso solare, facendole mancare il fiato.

Ed infine la violentò. Spinte veloci e rozze squassavano il corpo della ragazza. Si sentiva morire. Dentro e fuori. Per qualche secondo svenne, ma John non si fermò nemmeno in quel momento. Continuò a spingere gemendo soddisfatto, continuò a vituperare il corpicino della ragazza, la ragazza che si era fidata ciecamente di lui.

Una macchia di sangue si allargò sul tessuto sotto di loro. John si ritrasse.

La ragazza, intontita ed esausta, si rannicchiò in posizione fetale e pianse. Dapprima urlò, ma il suo lamento si ridusse presto ad un gemito sussurrato. Fissava con orrore il suo stesso sangue, la sua verginità presa con la forza.

«Alzati.»

Recepì l'ordine come se avesse avuto le orecchie piene di cotone; non riusciva più a sentire, non riusciva più a vedere, solo il suo sangue e John sopra e lei sotto-

«Alzati.»

Un lembo di tessuto rosso le venne porto; l'abito. Se lo rimise come in trance, tirando su gli slip, accennando qualche passo tremulo. Teneva le gambe aperte e ogni volta che spostava una gamba in avanti sentiva dolori ovunque.

«Prova solo a dire una parola e potrai dire addio a New York e alle esibizioni; te ne tornerai a Lake Placid a cantare agli angeli, se qualcosa oltre alle canzoni uscirà dalla tua boccuccia. Chiaro?»

Elizabeth era orripilata e spaventata. Con gli occhi che sembravano due piattini da té, annuì. Sentì poi John che le sistemava i capelli, portando alcune ciocche dietro l'orecchio, un gesto dolce che la fece scattare all'indietro. Sbattè la testa contro il muro.

John rise. «Brava ragazza. Andiamo. Si canta.»

Elizabeth salì sul palco. Cantò. Tutti applaudirono. Ma nella sua mente, più rumorosi del baccano del mondo esterno, sentì soltanto i gemiti voluttuosi di John e le sue grida.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

Bene, che dire *si asciuga una lacrimuccia* c'est finie.

Credo mi stiate odiando tutte per questo finale, fortunatamente sono dietro ad uno schermo e riesco ad evitare le vostre sprangate sul naso che, sono sicura, mi volete dare.

È una fine davvero brutta, lo riconosco. Ma era questo il mio progetto. Lo so, lo so; sembra davvero cattivo da parte mia fare questo a Lana, ed effettivamente mi sto sentendo una cacca – perché se la leggesse credo mi denuncerebbe. Ma... prendetela come una storia metaforica. Lana è cresciuta, si è trovata ad un punto in cui la sua puerilità è conclusa, e questa storia vuole simboleggiare un po' quello, il passaggio dall'infanzia all'adolescenza che, se ci pensiamo, è davvero uno stupro D: schifo schifo di teenage.

Che altro dire? 'New York New York' di Liza Minnelli è un classicone che non potevo far mancare. In questo periodo, poi, sono fissatissima e la canto SEMPRE, adoro.

Per il resto... be'. Ringrazio chi mi ha letta e recensita – gente... dico davvero. Mi avete fatta sentire così bene, con le vostre recensioni – e sì, sembra tanto uno di quei saluti che fanno le persone importanti, cosa che non sono, perciò concludo con un semplice ciao e un grazie e... scusate per il finale.

Baci, abbracci e saluti. 

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