Haunted

di Marti Lestrange
(/viewuser.php?uid=168998)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Vorrei dedicare questa storia alla mia ciurma: lilyhachi, Pikky e Cat, che mi hanno sempre incoraggiata a scrivere questa pazzia e a pubblicarla e che fangirlano con me su Emma e Hook. Grazie, babies <3

 
 
 
 



Haunted

CAPITOLO 1

 
 
 
~New York – febbraio 2013

 
Emma scalciò via le coperte e si alzò in fretta. La sveglia aveva cominciato a suonare furiosa e lei l’aveva spenta con una sberla, facendola cadere sul tappeto con un tonfo sordo. Giaceva ancora lì ed Emma quasi inciampò, barcollando giù dal letto, lo spesso piumone avvolto attorno alle spalle come un mantello, diretta in cucina. Ondeggiò, percorrendo lo stretto corridoio semi buio che la condusse sul retro del suo piccolo appartamento.
La cucina era piccola e quadrata. La finestra senza tende regalava la vista parziale del ponte di Brooklyn, illuminato a quell’ora dalla tenue luce del sole e già popolato di automobili impazzite. Emma, in trance e ancora mezza addormentata, si preparò un caffè, mettendo la moca – tradizione ereditata da sua nonna - sul fornello. Poi barcollò di nuovo verso il bagno.
Il vetro le regalò il riflesso di una donna alta, i capelli biondi spettinati e arruffati, gli occhi azzurri piccoli e stanchi, ma accesi. La bocca era piegata in una smorfia leggera. Quel giorno sarebbe tornata al lavoro, per la prima volta dopo il processo. Non se la sentiva, non per davvero, ma non sarebbe potuta rimanere a casa per sempre, nascondendosi per un crimine che non aveva commesso.
Fece scorrere l’acqua nella doccia e tornò in cucina, dove la moca intanto aveva cominciato a borbottare sul fuoco, chiaro segno della sua prossima ebollizione. Versò il caffè nella sua tazza preferita, quella alta e bordata di rosso, con la scritta “CoffeeBreak”. Banale, ma che le ricordava i tempi in cui viveva nella piccola casetta nel Maine, quando si alzava presto il mattino e beveva il forte e speziato caffè della nonna e mangiava le sue ciambelle alla cannella, per poi andare a scuola saltellando lungo la Main Street. Scosse la testa, riemergendo dalle sue fantasticherie di un tempo perduto.
Si sedette al piccolo tavolino e osservò in lontananza la città che non dorme mai. New York era casa sua da tempo. Aveva imparato a viverla, ad assaporare i suoi tramonti sull’East River, a selezionare i piccoli negozietti di alimentari di Brooklyn e quelli più frivoli di Soho; aveva imparato a riconoscere gli odori di Chinatown e le grida di Little Italy, gustando la ricchezza dell’Upper East Side e dei suoi grattacieli e sognando con l'arte del Greenwich Village. Amava questa città, un crogiolo di universi e sensazioni ed emozioni unico al mondo. Non l'avrebbe lasciata per nessun’altra.
Finito il caffè, la sua divisa regolamentare l’aspettava appesa nell’armadio, pulita e inamidata. La camicia azzurra con il colletto rigido, i pantaloni blu dritti ed eleganti, le scarpe basse e comode, lucide. Qualcosa luccicava sul piccolo comò accanto alla porta.
 
 

*

 

~ Eastport, Maine – febbraio 2003
 
« Ti ricordi quello che ti ho detto qualche sera fa? »
Emma alzò gli occhi su Neal¹, mentre lui la teneva stretta fra le sue braccia. Gli si accoccolò addosso, poggiando la guancia sul suo petto, sulla sua t-shirt che sapeva di buono e di sapone, aspirando il suo profumo.
« Mi hai detto che vuoi scappare via da qui… » rispose Emma.
Neal annuì, sfregando il mento sui suoi capelli.
« Voglio andare via, Emma » continuò lui. « Non posso più stare qui. »
« Non puoi… o non vuoi? »
A quel punto, Emma alzò il viso e guardò Neal negli occhi. Lui ricambiò lo sguardo, titubante. Emma si alzò e si puntellò su un gomito per vederlo meglio. Aveva negli occhi una strana luce.
« Non posso e nemmeno voglio » rispose, sincero. « Non posso sopportare questa piccola città di provincia un attimo di più. E non voglio ritrovarmi come i miei genitori, intrappolati qui per tutta la vita. E so che anche tu lo vorresti… so che vorresti scappare lontano. »
Emma abbassò lo sguardo. Sì, l'avrebbe voluto. Avrebbe voluto scappare via da sua nonna, che le diceva di continuo cosa fare, quali persone frequentare e quali parole dire. Avrebbe voluto prendere in mano la sua vita e viverla. Persino gli studi per entrare in polizia le stavano stretti, ma ci teneva, in fondo era quello che avrebbero tanto voluto i suoi genitori… La foto di suo padre, bello e biondo nella sua divisa da sceriffo, le sorrideva sempre dal tavolino in salotto, quello dedicato alle foto di famiglia.
« Lo vorrei, sì » rispose a Neal, sedendosi meglio sul piccolo letto singolo nella stanza di lui. « Non è facile a farsi. »
« Non lo è, ma un giorno ce ne andremo, Emma. Insieme. Lo so. »
Emma gli sorrise e si alzò in piedi di scatto, agguantando il mappamondo malconcio sulla scrivania traballante di Neal. Tornò sul letto e lo piazzò in mezzo a loro, sotto lo guardo stupito e incuriosito del suo ragazzo.
« Fallo girare » gli disse. « Io punto il dito a caso, e quella sarà la nostra meta. Ci stai? »
« Ardito e piuttosto vago, ma ci sto » acconsentì lui.
Emma fece un respirone e disse: « Vai » quasi in un soffio.
Chiuse gli occhi. Sentì il mappamondo girare. E girare. E girare…
 
 

*

 
 

~ Tribeca, New York – febbraio 2013
 
La centrale di Ericsson Place era sempre la solita. Un solido edificio di pietra grigia a contrasto con il cielo insolitamente azzurro di quel giorno di febbraio.
Il portiere e vigilante teneva sempre accanto a sé l’inseparabile bicchiere di caffè marchiato Starbucks; l’ultimo ascensore in fondo era ancora fuori servizio; il soffitto sulla destra, proprio accanto ai distributori di merendine, gocciolava acqua piovana in due grandi secchi sistemati sotto l'infiltrazione.
« 'giorno, agente Swan » la salutò il vigilante. « Bentornata. »
Le fece l'occhiolino ed Emma gli sorrise. Non era pronta per affrontare stupide chiacchiere di circostanza. Non ancora.
Si fermò di fronte a due ampie porte a vetri opachi, che lasciavano intravedere soltanto le sagome che si muovevano dall'altra parte. Due grandi stemmi della NYPD occhieggiavano davanti a lei. Emma fece un respiro e spinse una porta. Il consueto fracasso della stazione di polizia in fermento l'accolse e la riportò indietro nel tempo, ad un anno prima, quando tutto era finito. Prima che la sua vita venisse sconvolta e lacerata. Prima dell'indagine...
 
 

« Agente Swan, il capitano Hunter vuole parlarle. Nel suo ufficio. »
Emma alzò la testa dalla sua scrivania. Era intenta a compilare un rapporto sull'ultima pattuglia, durante la quale lei e Graham², il suo partner, avevano arrestato due piccoli spacciatori che vagavano per i sobborghi di Midtown.
Lasciò la sua postazione e attraversò l'ampia sala che fungeva da fulcro coordinativo della sua unità, evitando gli sguardi divertiti di Matt e Bryce, due suoi colleghi più anziani che ironizzavano un po' troppo spesso sul suo rapporto non proprio professionale con Graham. Okay, avevano avuto una mezza storia, durante la sua crisi con Neal, qualche mese prima, ma era tutto finito da un pezzo.
Bussò alla porta dell'ufficio in fondo, sulla quale campeggiava una scritta nera: “Miles Hunter – Capitano”. Aspettò che da dentro le venisse accordato il permesso di entrare, per poi spuntare in un ufficio ordinato e quasi militare. La scrivania sgombra e pulita, una solitaria tazza di caffè poggiata accanto ad una pila di documenti perfettamente impilati, l'orologio metallico appeso al muro, che indicava le ore 16:00 e le cui lancette procedevano con lentezza esasperante. La finestra era oscurata da delle veneziane grigie.
Il capitano Hunter era un uomo corpulento sulla cinquantina, con un velo di barba grigia sulle guance e una perenne espressione bonaria sul viso enorme. Indossava sempre la divisa, nonostante avesse limitato l'azione diretta a favore di quella coordinativa di tutto il distretto. Le sorrise e le indicò la sedia di fronte. Emma si sedette.
« Voleva vedermi, signore » disse, spezzando il silenzio.
Hunter rigirò fra le mani grassocce una penna dorata e alzò lo sguardo su di lei.
« Ti parlerò francamente, agente Swan » cominciò lui. « Stanotte è stata arrestata una persona. E fin qui, tutto bene. Arrestiamo tanta gente, ogni giorno. »
Emma si mosse leggermente sulla sedia, a disagio. Dove voleva arrivare?
« Quando hai visto l'ultima volta il tuo fidanzato, agente? »
Emma aggrottò le sopracciglia, sbalordita. Che domanda era?
« L'ho visto ieri pomeriggio, signore » rispose lei decisa. « Ci siamo visti a pranzo e l'ho lasciato davanti a casa sua per le diciassette, prima di iniziare il mio turno. »
« Quindi non l'hai più visto, dopo? Nemmeno stamattina? »
Emma non capiva. Che cosa diavolo centrava Neal in tutto questo?
« No, non l'ho visto, nemmeno stamattina. Non capisco che cosa centri Neal... non capisco tutte queste domande, non- »
La voce di Emma le morì in gola.
Hunter la guardò, serio.
« Stanotte abbiamo arrestato l'uomo accusato di aver rapinato quelle banche nel New Jersey, Swan » concluse Hunter. « Abbiamo arrestato il suo fidanzato. »
 
 

« Emma! »
Emma ritornò alla realtà, al caos del distretto e al viso sorridente di Graham, il suo partner, che la guardava e le sorrideva.
« Graham » esclamò lei.
I due si abbracciarono velocemente, mentre tutti i presenti si erano fermati a guardarla, quasi fosse un fenomeno da baraccone o uno spettacolo da circo itinerante. Una rarità esotica, insomma.
« Vieni, ho appena preparato il solito caffè » le disse Graham mettendole un braccio intorno alle spalle ed accompagnandola verso la stanzetta adibita a cucina, dove alcuni stipi contenevano merendine e cibi vari. Un frigorifero con sopra attaccati adesivi degli Yankees ronzava in un angolo. Il bollitore era pieno, poggiato sul banco.
Matt e Bryce erano seduti al piccolo tavolino al centro della stanza. Il primo era giovane e biondo, una sempiterna espressione di spavalderia dipinta sul viso. Il secondo avrebbe potuto essere il padre di Emma: baffoni marroni spioventi, capelli radi e due acquosi occhi verdi. Si zittirono non appena Emma e Graham fecero il loro ingresso.
« Emma! » esclamò Matt alzandosi in piedi e andandole incontro. « Sei tornata! »
Le rivolse un pallido sorriso: la massima manifestazione d'affetto, per lui.
« Già » annuì lei ricambiando il sorriso.
I suoi occhi incontrarono quelli di Bryce, che intanto si era alzato e teneva le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. Cercava di non guardarla, preferendo osservarsi le scarpe.
« Emma » la salutò bofonchiando. « Come va? »
« Tutto bene, ti ringrazio » rispose lei annuendo. Sentiva lo sguardo di Graham addosso.
Capiva l'imbarazzo di Bryce: al momento della sua sospensione, e del suo conseguente allontanamento dal servizio a causa del processo di Neal, Bryce aveva asserito di trovarsi d'accordo. Pensava che Emma fosse realmente implicata come complice nella faccenda delle rapine nel New Jersey, rapine per le quali Neal era stato alla fine condannato. Emma era stata scagionata da tutte le accuse di favoreggiamento e complicità e oscuramento prove. Insomma, nel giro di un anno era stata reintegrata.
Matt trascinò Bryce verso la porta, ma quest'ultimo riuscì a voltarsi verso di lei, prima di uscire. « Mi dispiace, Emma » biascicò. « Mi dispiace tanto. »
Emma gli rivolse un'ultima occhiata senza replicare. La porta si richiuse e lei si lasciò cadere su una sedia. Sbuffò.
« Sapevo che avrei dovuto affrontarlo » disse, pensierosa, « lui e tutti gli altri. »
Graham intanto aveva versato del caffè in due tazze identiche, blu e anonime, e ne tese una ad Emma. Le sorrise. Aveva un bel sorriso, Graham: dolce e comprensivo. E anche vagamente triste, a volte, come se si sentisse in qualche modo incompleto. Come se gli mancasse qualcosa. Era bello: alto, i capelli biondo scuro perennemente spettinati, gli occhi marroni caldi e affettuosi. Era bello, sì, e ad Emma tornarono in mente i loro baci, quando lui la riaccompagnava a casa alla fine del turno di notte, all'alba, con la luce rosata che rischiarava la cima del Chrysler Building in lontananza, svettante su Manhattan e sui tetti della città.
« Grazie » rispose accettando la tazza e annusandone il profumo. Sapeva di caffè forte, lungo e tenace. Proprio come lo ricordava. Proprio come le piaceva.
« Ora posso chiedertelo » cominciò Graham appoggiandosi al banco di fronte ad Emma, i piedi incrociati uno sull'altro, in quella posa che le era così solita e familiare. « Come stai, Emma? »
Lei alzò gli occhi al suo viso. Si perse ad osservare alcune rughe d'espressione intorno agli occhi accesi. Lanciò un'occhiata alla tazza e al caffè nero che vorticava all'interno, e poi tornò da Graham.
« Non lo so » rispose. « Non lo so... »
 
 

*

 
 

~Greenwich Village, New York – febbraio 2013
 
Killian poggiò le fotografie sul tavolo che utilizzava come scrivania e si passò una mano tra i corti capelli neri. Sbuffò. Non era per niente soddisfatto del suo ultimo lavoro. Non che si fosse impegnato al cento per cento. Non aveva messo tutto se stesso, in quelle foto. Era da un po' che non sentiva quel brivido, quell'eccitazione febbrile che l'ispirazione ti regala e che ti spinge a creare, senza limiti e senza costrizioni. Si sentiva incompleto e frustrato.
Si fermò di fronte alla finestra. La strada sotto casa era popolata di ragazzini che scarrozzavano su e giù con i loro skateboard, nonostante il freddo pungente di febbraio e quell'aria gelata che ti faceva intirizzire i muscoli e condensare il fiato in nuvolette indistinte. Il cielo era grigio, pronto per la neve.
In quel momento, il cellulare squillò e Killian lo trovò poggiato sulla mensola in ingresso. Vibrava leggermente sul piano in legno grezzo dipinto di verde. Killian osservò il display. Sospirò.
« Jones » rispose. Non era una domanda.
« L'operazione “Black Rain” comincia domani » disse una voce dall'altra parte. « Ore 10:00, al molo numero 22 di fronte a Coney Island. »
« Ci sarò. »
 
 
 
 
Note:
1)   Neal è proprio il nostro Neal, avete capito bene. La scena ricalca un po’ quella vista in “Tahallasee” [2x06]
2)   Graham: chi altri se non il nostro cacciatore preferito? Ovviamente è il partner di Emma e ovviamente i due hanno avuto una liason :3
3)   Per il titolo, ringrazio mia sorella Alice per aver scelto “Haunted” nella lunga lista di possibili titoli. “Haunted” è il titolo di una canzone di Taylor Swift, btw

 
 
Eccomi qui, con questa mia nuova pazzia sulla quale non oso fare previsioni altrimenti mi sento male. Ètutto nato per caso, dalla voglia di scrivere una CaptainSwan tutta mia, di dare vita al mio OTP per eccellenza di OUAT. Ebbene sì, ho trovato il mio OTP, gente, festeggiamo! Il tutto è sfociato in quest’idea dell’Alternate Universe che, lo ammetto, mi piace da pazzi. In ogni caso, lascio a voi il giudizio. Non ci sono stati incontri tra la nostra Emma e il caro Killian, ma non disperate… accadrà molto presto… ;)))
Ringrazio Alice per lo splendido banner <3
 
Love u all, M.
 
Ps per qualsiasi cosa, mi trovate su FB [trovate il link al mio profilo nella mia pagina autore] e anche qui, nel mio [fangirlante] gruppo FB: https://www.facebook.com/groups/503476756335143/

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Haunted

CAPITOLO 2

 
 
 
~Tribeca, New York – febbraio 2013
 
I suoi passi risuonavano nitidi nel silenzio ovattato di uno sporco vicolo laterale, la decadenza a due passi dall’ostentata opulenza delle strade principali di Tribeca, gli alti palazzi scintillanti e le luci nitide di case abitate e vissute.
Killian si strinse nel suo cappotto blu, alzando con decisione il bavero per proteggersi il collo dal freddo rigido di quel febbraio newyorkese. Quel giorno aveva nevicato, giusto una spolverata bianca sulla città grigia e frenetica, e la neve, seppur tenue, aveva lasciato dietro di sé una coltre di gelo e tristezza.
Si guardò intorno con circospezione, attento che nessuno lo stesse seguendo. Quel biglietto era stato chiaro. Avrebbe trovato alcune istruzioni preliminari proprio lì, in quel vicolo dimenticato da Dio. All’inizio era stato parecchio scettico, non sapendo se rischiare o meno la fortuna e abbandonare il sentiero già tracciato nei suoi piani. Poi aveva deciso di rischiare, facendo affidamento sulla pistola che portava immersa nella tasca interna del cappotto, pronta per essere sfoderata, quasi fosse una spada.
Il fatto è che Killian non si fidava. Non si fidava di nessuno. Forse nemmeno di se stesso, non dopo l’ultima volta…
Un rumore alle sue spalle lo riscosse dai suoi pensieri, che si stavano avvicinando ad una zona pericolosa. Probabilmente un gatto randagio aveva urtato uno dei bidoni della spazzatura in lamiera, posizionati accanto ad una cenciosa porta scura, muffita e quasi abbandonata, come se non venisse usata da tempo.
All’improvviso, un paio di mani lo afferrarono e lo spinsero contro il muro, cogliendolo alla sprovvista. Lo stringevano dal collo del cappotto e non accennavano a lasciarlo andare. Un altro paio di mani gli frugò nelle tasche esterne, senza però trovarvi nulla degno di nota.
« Cosa volete? » esclamò.
Non riusciva a vederli in faccia. I due malintenzionati indossavano dei passamontagna neri e Killian riuscì soltanto a intravedere un baluginio azzurro negli occhi di uno dei due, prima che anche quel colore svanisse nel buio e nell’incoscienza.
Il colpo in faccia arrivò rapido, e un vortice di oscurità e odore di sangue lo invase.
 
 

~

 
 
~Tribeca, New York – febbraio 2013
 
« Agente Swan, il capitano Hunter vuole parlarle. Nel suo ufficio. »
Emma si riscosse dai suoi pensieri, alzando gli occhi dalla sua scrivania e da quel verbale che non voleva proprio scriversi.
Quelle parole le riportarono alla mente un’altra convocazione nell’ufficio di Hunter, qualche mese prima, quando tutto era diventato indistinto e il suo mondo le era crollato addosso miseramente, facendo naufragare tutte le sue aspettative e le sue consapevolezze¹.
Annuì e sorrise alla sua collega. Si alzò in piedi e si diresse verso l’ufficio del capo, in fondo alla stanza. Che diavolo voleva Hunter? Sperò solo di riuscire a cavarsela in tempo per incontrare Graham. Erano in pattuglia insieme, quella sera. La prima volta dopo tanto tempo - la prima volta dopo Neal.
L’ufficio di Hunter era come al solito ingombro di carte e fascicoli, come se contenesse tutto l’archivio della stazione di polizia di Ericsson Place. Insieme a quelli di altre stazioni, probabilmente, a giudicare dai mobili porta fascicoli sparsi qua e là. Il tutto era però catalogato in perfetto ordine, come sempre.
« Agente Swan! » esclamò l’uomo con quella sua voce tonante e burbera. « Entra, entra, e chiudi la porta. »
Emma obbedì e tornò a guardare il capitano. Se l’ufficio era ordinato quasi meticolosamente, la scrivania quel giorno era un piccolo microcosmo caotico. Il computer rifletteva la sua luce sul volto rubizzo di Hunter, che sorrideva. Una tazza di caffè era poggiata accanto ad altre due, presumibilmente vuote, e il liquido al suo interno fumava ancora. Hunter poggiò la penna e si tolse i piccoli occhialini tondi che era solito portare quando gli toccava scrivere qualcosa a mano. Un pacco di fogli fittamente compilati faceva bella mostra di sé davanti ad Emma. Non riusciva a leggere cosa ci fosse scritto, e forse nemmeno le interessava, pensandoci. Una targhetta laccata d’argento recava la scritta “Capitano Miles Hunter” in cubitali lettere nere, quasi marziali nella loro solidità.
« Siedi pure, agente Swan » aggiunse Hunter indicando la sedia di fronte a lui.
Emma avanzò nella stanza, prendendo posto sulla scomoda sedia dall’imbottitura ormai rovinata, appiattita da tanti agenti che avevano preso posto lì davanti prima di lei.
« Come stai, agente Swan? »
La domanda del suo capitano la colse alla sprovvista. Miles Hunter non era noto per fare soventi lavate di capo ai suoi agenti, ma non era noto nemmeno per i suoi modi gentili. Era burbero, scostante, diretto e anche irriverente, quando si impegnava. Trattava tutti allo stesso modo, ma pretendeva anche che tutti lavorassero sodo e collaborassero per il corretto andamento della centrale. Aveva conservato la sua posizione con una direzione diretta e senza giri di parole, sincera e senza favoritismi o antipatie gratuite, come a volte succedeva nell’ambiente. Bastava poco per inimicarsi uno qualunque degli altri direttori, ma Hunter era incorruttibile e non badava alle chiacchiere, ma ai fatti. Emma si era sempre trovata bene, a lavorare con lui.
« Come sto? » ripeté lei, incredula.
« Sì, Swan, come stai? Non mi sembra una domanda difficile, no? »
Ecco che il lato poco gentile di Hunter veniva a galla. Non era noto per la sua pazienza. Proprio no.
Emma si riprese in fretta.
« Sto bene » rispose, forse in modo troppo precipitoso, perché l’uomo, in tutta risposta, si sporse oltre il piano in mogano della scrivania per osservarla meglio e con attenzione, gli occhi ridotti a due fessure dietro gli occhiali sottili.
« Stai bene? Sul serio? Guarda che puoi essere sincera, Swan. Io sono sincero e mi aspetto che lo siate anche voi. Tutti voi. »
Emma abbassò lo sguardo sulle sue dita intrecciate e fece un respiro. Tornò a guardare Hunter.
« Sto bene » ripeté. « Sul serio. Sono sincera. Tornare al lavoro mi ha fatto bene. »
Hunter tornò ad appoggiarsi allo schienale della sua alta poltrona in pelle marrone sgualcita e si grattò i doppi menti.
« Ottimo » rispose. « Se dici di stare bene, mi fido, Swan. È passata una settimana dal tuo ritorno tra noi. Ho saputo che con l’agente Humbert² sembra essere tornato tutto come prima della tua sospensione. »
Davanti agli occhi di Emma apparve per un momento il viso sorridente di Graham, il modo in cui l’aveva accolta, il calore del suo sorriso.
« Sì, l’agente Humbert e io andiamo d’accordo come sempre. Forse più di prima. Sembra capirmi e si fida di me. Sono due cose importanti, per due partner. »
Hunter annuì.
« Bene. Direi che è tutto, Swan. Volevo solo accertarmi che fosse tutto apposto. Sai, non voglio caos, qui. »
« Ma certo » si affrettò a rispondere Emma.
« Stasera tu e Humbert siete di pattuglia, ricordo bene? »
« Esattamente, capitano Hunter. Speriamo che tutto fili liscio. »
« Sperare che tutto fili liscio durante una pattuglia a New York è un eufemismo, mia cara » esclamò Hunter ridendo, poggiando le grandi manone rubizze sulla pancia, accentuata dalla strettissima cintura che portava infilata nei pantaloni blu della divisa.
Emma si sforzò di sorridere, pur non trovandoci nulla di divertente. Hunter sembrava quasi godere all’idea di un movimentato e caotico e avventuroso giro di pattuglia notturno per le strade di Tribeca.
« Ora smamma, devo continuare il mio rapporto, perdiana! » esclamò Hunter facendole un cenno con la mano, la facciona già immersa nelle carte.
Emma non se lo fece ripetere e si alzò in fretta, per poi uscire silenziosamente dall’ufficio. Indugiò per un momento fuori dalla porta, le mani dietro la schiena ancora poggiate sulla maniglia.
La sala principale della centrale era relativamente tranquilla, a quell’ora. Rimanevano alcuni agenti sparsi, impegnati a compilare verbali e registri oppure a discutere su casi e incidenti vari. Alcuni era già usciti di pattuglia, come ogni sera.
Graham l’aspettava dall’altra parte della stanza. Era poggiato alla sua scrivania e teneva tra le mani alcuni fogli, una tazza di caffè abbandonata accanto a lui. Era intento nella lettura. Era concentrato e, come accadeva sempre, le sopracciglia erano aggrottate e ravvicinate, gli occhi intenti a scrutare il foglio e ciò che vi era scritto, la fronte ondulata e il cipiglio serio e intento. Emma ricordava ancora il loro primo giro di pattuglia insieme, quando Graham era arrivato alla stazione di Ericsson Place…
 
 
 
 
 
 
~Tribeca, New York – maggio 2011
 
« Agente Swan, ti presento il nuovo collega, Graham Humbert. »
La voce di Miles Hunter la riscosse dalla sua allegra chiacchierata con Bryce, seduti al piccolo tavolo traballante nella stanza adibita a cucina. Emma alzò gli occhi dalla sua tazza di tè e incontrò quelli caldi e amichevoli del nuovo agente arrivato proprio quel giorno da Boston. Hunter gliene aveva parlato, circa un mese prima, quando il partner anziano di Emma aveva lasciato Ericsson Place per godersi la sua meritata pensione nel New England. Le aveva detto che sarebbe arrivato un nuovo elemento da un altro distretto e, dopo qualche giorno, era uscito fuori che Boston era il luogo di provenienza di questo famoso nuovo collega, del quale però nessuno sapeva nulla di più. Emma aveva cominciato a nutrire una certa curiosità, che venne appagata quel giorno di maggio, in cui New York si risvegliava dal suo letargo e sorrideva alla primavera. Quella mattina aveva fatto una bella corsa a Central Park, in mezzo agli alberi fioriti e alle aiuole traboccanti di fresie e viole, per poi godersi una bella doccia alla centrale e dedicarsi un ottimo e corroborante caffè da Starbucks in compagnia di Matt e Bryce. Una giornata a dir poco positiva.
Il sorriso di Graham la riportò con i piedi per terra. Si alzò in piedi, facendo grattare la sedia sul pavimento in linoleum, e tese una mano al nuovo agente.
« Emma Swan, piacere » esclamò, sorridendo.
« Graham Humbert, piacere mio » rispose lui stringendole la mano.
Emma sentì un calore improvviso irradiarsi dalle loro mani intrecciate, risalire lungo il polso, l’incavo del braccio e la spalla, per poi fermarsi all’altezza del petto. Fu una strana sensazione, come se lei e Graham avessero avuto una connessione silente, un contatto mistico e misterioso e, toccandosi, avessero risvegliato questo legame.
Si tennero la mano più a lungo del necessario, perché Hunter si schiarì sonoramente la gola e a Bryce scappò un sorrisetto quando, sobbalzando, Emma lasciò andare precipitosamente la mano di Graham.
« Bene » intervenne Hunter prendendo in mano la situazione. « Lo so che è un po’ presto, che oggi è il primo giorno, però vi voglio in pattuglia insieme, stasera. »
Emma alzò gli occhi sul capitano, stupita. Lei e Graham, in pattuglia? Da subito?
« Ma, capo… » cominciò, ma l’uomo scosse la testa vigorosamente, incamminandosi verso la porta.
« Non voglio sentire ragioni, Swan. Tu e Humbert avete un’intesa innata, lo hanno capito anche i muri, e non c’è ragione per cui tu non debba uscire in pattuglia con lui, stasera. Quindi lo farai, e basta. Sono stato chiaro? »
Emma annuì, impotente. A volte era sostanzialmente inutile discutere con Hunter. E poi, era sempre e comunque il suo capo, e spettava a lui decidere. Emma lo guardò uscire dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
Tornò a guardare Graham, che intanto aveva stretto la mano a Bryce, cordiale. Quest’ultimo gli stava chiedendo come fosse lavorare a Boston e come mai avesse deciso di trasferirsi a New York. Il solito gazzettino, Bryce, pensò Emma. Tra cinque minuti lo saprà Matt, e tutta la centrale.
Okay, lei e Graham avevano una connessione latente, ma ciò non toglieva che lo conoscesse da soli cinque minuti, che non sapesse assolutamente nulla di lui, a parte il suo nome, la sua città natale – sempre che coincidesse con Boston – e il suo aspetto gradevole e avvenente. Oddio, aveva davvero pensato a Graham – il suo nuovo collega– come avvenente?
Scosse la testa e si avvicinò ai due uomini, che stavano ridendo per non sapeva che cosa. Graham si girò verso di lei, il sorriso ancora sulle labbra.
« Vieni, ti faccio fare un giro della centrale » gli disse.
« Volentieri, grazie » acconsentì lui seguendola.
Bryce lanciò loro un’occhiata strana e si risedette al tavolo.
 
 
 
 
~Brooklyn, New York – settembre 2011
 
« Pensavo » cominciò Graham, « che sono passati tre mesi dalla nostra prima pattuglia insieme. »
Emma fermò la macchina di fronte a casa sua e spense il motore. Si girò verso Graham, che la guardava sorridente dal sedile accanto al suo.
Uscire in pattuglia con Graham costituiva ormai una piacevole routine, così come la loro abitudine che vedeva Emma alla guida a fine turno, perché solo lei era in grado di guidare da Tribeca – dove erano soliti pattugliare – a Brooklyn. Graham si godeva il tragitto comodamente seduto accanto a lei, gli occhi chiusi, mentre l’aria della notte gli sferzava il viso. Erano soliti coprire il turno serale, che si concludeva alle due, oppure attaccavano alle due per tornare a casa alle sei, con la luce dell’alba che sferzava il cofano bianco dell’automobile e il caffè bevuto al volo nel piccolo bar sotto casa di Emma.
« Perché questo viaggio sul viale dei ricordi, Humbert? » ironizzò Emma, sconcertata, sfoderando una delle sue inconfondibili smorfie. « Ti serve proprio un bel caffè forte, temo. »
Così dicendo, uscì dall’automobile e Graham fece lo stesso, solo per bloccarla contro la portiera, ostacolandole il passaggio. Emma lo guardò da sotto le ciglia, confusa.
Lavorare fianco a fianco con Graham era normale, per lei. Okay, era un bel ragazzo, anche parecchio affascinante, ma aveva abbandonato qualsiasi mira sentimentale su di lui quasi da subito. E per varie ragioni. Primo, erano colleghi, e per giunta partner: la cosa sarebbe diventata ingestibile e poco professionale. E rischiosa. Secondo, pur essendo invischiata in una strana e particolare relazione con Neal, che sicuramente non l’avrebbe portata da nessuna parte, Emma non se la sentiva di tradirlo, non così. Terzo, e questa cosa era strettamente legata a quella precedente, Graham sembrava un ragazzo serio, non un banale collezionista di cuori. Era solido e razionale, e queste due caratteristiche lo rendevano molto simile a lei. Quartoe ultimo, Graham non sembrava minimamente interessato a lei in termini sentimentali. Si vedeva che un legame particolare li univa e si notava la loro stima reciproca, la loro intesa professionale, e anche umana, ma tutto finiva lì. Era fuori discussione.
Insomma, pensava di aver battuto l’iniziale attrazione fisica che Graham le aveva ispirato, e che sentiva come reciproca. Pensava che gli occhi di lui non avessero più alcun potere su di lei, e che i suoi non reagissero a quel modo, finendo per fissargli le labbra con desiderio. Non sarebbe dovuto succedere, proprio no. E Graham non avrebbe dovuto bloccarla con il suo corpo contro l’auto in quel modo, impedendole di sgusciare via. Era in trappola, e non aveva fatto nulla per evitarlo.
« Che stai facendo? » gli chiese, agitata.
Diavolo, era un agente della polizia di New York! Avrebbe dovuto reagire!
« Voglio fare una cosa » rispose Graham, deciso.
« Quale cosa? »
Graham la guardava, un lampo deciso e acceso negli occhi. Poi si chinò verso di lei e la baciò. Teneva ancora le mani poggiate sulla carrozzeria della macchina. Emma ricambiò il bacio e si sentì leggera, per la prima volta dopo tanto tempo. Baciare Graham era un po’ come bere dell’acqua fresca: naturale e per niente stancante. Certo, doveva ammettere che non aveva provato fin da subito quel brivido, quello che ti fa capire che quella persona è importante, e speciale, ma in modo diverso da tutte le altre alle quali vuoi bene. Voleva bene a Graham, ma forse non le dava quello che lei cercava in tutte le relazioni: l’amore per il pericolo, l’estasi di trovarsi sull’orlo di un precipizio, sempre rischiando di cadere e farsi male. Moltomale.
« Graham » sussurrò Emma sulle sue labbra ancora dischiuse. « Graham, aspetta. »
Graham sollevò il viso su quello di lei, confuso.
« Che c’è? » le chiese. « Avevo capito ti piacesse… »
« Non è per te » rispose Emma.
Fece spaziare lo sguardo intorno a sé, sulla strada poco abitata alle sei del mattino. Scosse la testa.
« Sono impegnata » gli disse, anche se per un momento vacillò, non sapendo bene se fosse stata quella parola – impegnata– oppure la presenza di Graham tutto intorno a lei – bello e vivido. « E lo sai. »
Graham si lasciò sfuggire un sorriso.
« Lo so » rispose, tranquillo. « Lo so e non mi importa granché del tuo fidanzato. »
Emma rimase in silenzio, mordendosi le labbra, indecisa.
« Sai anche che non dovrebbe succedere. Non dovremmo farlo. Siamo partner. »
« So anche questo. »
« E non ti importa? Nemmeno delle conseguenze se qualcuno dovesse scoprirlo? »
« Si sono accorti tutti di quello che provo, Emma. Hanno notato tutti come ti guardo. Che importanza ha? »
« Ha importanza, Graham! » esclamò lei strofinandosi la fronte stanca con una mano. Era stravolta dal giro in pattuglia e sentiva ogni singolo pezzo del suo corpo andare a fuoco, sia per la stanchezza, sia per la forza di volontà con la quale teneva Graham a distanza di sicurezza. Non sarebbe riuscita a resistergli ancora a lungo. Ed era anche stufa di mantenere quella parvenza di controllo che la contraddistingueva. Voleva lasciarsi andare.
Mandò all’aria ogni cautela e, chiudendo la macchina dietro di sé, prese Graham per mano e lo condusse a passo spedito verso il portone di casa.
« Che stai facendo, Swan? » chiese lui, sbalordito.
« Mando all’aria ogni cautela » rispose lei inchiodandolo contro la parete dell’ingresso debolmente illuminato. « Ho appena deciso che non mi importa. »
Così dicendo lo zittì con un bacio, per poi trascinarlo al piano di sopra.
 
 

~

 
 
 
~Tribeca, New York – febbraio 2013
 
« Stanotte sembra che sia tutto tranquillo, qui » commentò Graham mentre guidava la macchina lungo Warren Street. Sembrava tutto apposto, in effetti.
« Già » commentò soltanto Emma.
Non aveva granché voglia di conversare, quella sera, nemmeno di argomenti lavorativi. La conversazione con Hunter l’aveva lasciata in uno stato confusionario e interdetto: perché tutti continuavano a chiederle come stava? Non era reduce da un incidente mortale, non aveva rischiato la vita e non era stata misteriosamente rapita da una qualche remota popolazione aliena venuta a conquistare il pianeta Terra. Insomma, era perfettamente in grado di affrontare la realtà e ricomporre la sua vita, nonostante il tornado che l’aveva sconvolta nell’ultimo anno. Neal era un capitolo chiuso e richiuso, ormai. Aveva riposto i suoi ricordi in un cassetto della mente, che aveva poi chiuso a chiave. E progettava di gettare quella chiave nell’East River, così non l’avrebbe mai più ritrovata.
In quel momento, un movimento indistinto richiamò la sua attenzione. Sembrava ci fosse qualcuno, in un piccolo vicolo laterale sulla destra. Qualcuno steso a terra, qualcuno che stava cercando di rialzarsi, inutilmente.
« Ferma la macchina! » esclamò ad alta voce.
Graham sobbalzò sul sedile del guidatore e inchiodò lateralmente su Warren Street, proprio davanti ad un vecchio cinema abbandonato.
« Che succede? » esclamò a sua volta.
Emma non rispose, si limitò a scendere precipitosamente dalla macchina, diretta verso il vicolo. Sentì Graham imprecare dietro di lei, ma non le importava. La serata si stava nettamente movimentando, non si sarebbe fatta scappare un po’ d’azione. Con un po’ di fortuna – o sfortuna, a seconda dei punti di vista - quella persona era stata aggredita, e il suo assalitore poteva essere ancora lì intorno. Presupposti perfetti per un bell’inseguimento in notturna.
« Emma » sentì che Graham la chiamava, seguendola. Lei non si girò, anzi, tirò fuori la pistola, circospetta.
C’era davvero qualcuno accasciato sul selciato freddo e umido della neve che era caduta quella mattina. Era un uomo più o meno della sua età, dai corti capelli neri. Indossava un pesante cappotto blu di pregiata fattura, quindi non doveva trattarsi di un malvivente. Il cappotto era tutto inzaccherato e sporco. Stava poggiato contro la scarna parete di mattoni rossi del vecchio cinema, proprio sotto un vecchio poster de “Il Gladiatore” ormai sbiadito. Si teneva lo stomaco: probabilmente era stato preso a pugni o calci. Probabilmente gli assalitori erano almeno in due, considerata l’entità delle tumefazioni e delle ferite sul volto. Respirava quasi a fatica. Alzò lo sguardo quando sentì i passi di Emma avvicinarsi. Gli scappò un sordo lamento, prima di scivolare a terra, senza più forze per resistere.
Emma gli si inginocchiò accanto, mentre Graham controllava il vicolo, assicurandosi che non ci fosse nessuno. Emma poteva sentire i suoi passi sicuri e controllati sull’asfalto. Era sempre cauto, Graham. Non come lei.
« Hey » sussurrò all’uomo, che si mosse leggermente, girando il viso verso di lei, gli occhi scuri vacui e stanchi. « Va tutto bene. Siamo della polizia. »
Graham tornò accanto a lei e Emma alzò gli occhi su di lui, in una muta richiesta che faceva parte del loro codice silenzioso, ormai. Graham scosse la testa. Non c’era nessuno, lì intorno. Non c’era nemmeno qualcuno che avrebbe potuto assistere alla scena, o vedere gli assalitori. Nessuno. Cosa ci faceva quell’uomo in quel vicolo, allora? E chi l’aveva assalito? A due passi da Warren Street, per giunta.
« Come si chiama? » continuò Emma rivolta all’uomo, mentre Graham tornava alla macchina per farsi mandare dei rinforzi.
L’uomo la guardò, poi socchiuse leggermente la bocca, e una voce profonda, anche se annebbiata dal dolore, le rispose fievolmente.
« William Jones³. »
« Bene, signor Jones, abbiamo chiamato un’ambulanza, la porteremo nel più vicino ospedale. Andrà tutto bene. »
Jones le rivolse un’ultima occhiata, prima di scivolare completamente nell’incoscienza.
 
 
 
Note
 
1)    Il dialogo al quale mi riferisco è quello presente nel capitolo uno.
2)    Humbert è il vero cognome di Graham nella serie.
3)    William Jones non è altro che la finta identità di Killian Jones, il nostro Hook. Ovviamente scopriremo qualcosa in più su di lui a tempo debito. Ringrazio Will Turner de “I Pirati dei Caraibi” per avermi suggerito il nome ;-)

 
 
 
Eccomi qui con il secondo capitolo. Finalmente, direi anche! Scusate se vi ho fatto attendere tanto, ma mi ha assalita un blocco da long difficile da sconfiggere. Poi, l’altro giorno, ho deciso di mandare al diavolo tutto e tutti, ho aperto Word e, dopo un’iniziale difficoltà, il capitolo si è praticamente scritto da solo.
In questo capitolo andiamo indietro nel tempo, con ben due flashbacks sul passato di Emma e sulla sua relazione con Graham. Hook viene pestato da questi due ceffi, e non sappiamo bene chi siano e cosa vogliono. Anche in questo caso, scopriremo tutto più avanti. Lo sapete che la figura di Hook è invasa dal mistero, no? :3 Infine, il primo incontro tra la nostra Emma e Killian/William.
Che ne dite? Lo so che il capitolo è transitorio, non succede nulla di che, e per leggere di un primo, vero contatto tra i due dovremmo attendere il prossimo capitolo, però insomma, fatemi sapere. Ci tengo in modo particolare a tutti i pareri.
 
Colgo l’occasione per ringraziare le 12 persone [12? Cioè, non me ne rendo conto *^*] che hanno messo Haunted tra le seguite, e anche chi ha recensito, lasciando un passaggio, chi mi ha dato suggerimenti, appoggio e incoraggiamento, chi segue/legge silenziosamente, e chi semplicemente mi ha spronata a continuare. Vi adoro!
 
Al prossimo capitolo!
 
Vostra, Marti


ps come sempre, mi trovate qui ---- > https://www.facebook.com/groups/503476756335143/
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Un grazie speciale alla mia ciurma: Lilyhachi, Pikky, Ally e Giulia. Vi adoro <3


Haunted
CAPITOLO 3
 
 
 
 
~ Tribeca, New York - febbraio 2013
 
Voci nella sua testa. Voci tutti intorno - intorno e dappertutto. Voci che gridavano, voci che rimbombavano, voci sconosciute. Premevano contro le orecchie - prepotenti, violente, assordanti. Vorticavano nella testa, e spingevano, spingevano, cercando di entrare.
Luci abbaglianti si rincorrevano al margine dello sguardo, luci gialle, rosse, verdi. Apparivano davanti agli occhi come dei flash veloci e rapidi, per poi scomparire nella notte scura. Tutto era buio, dietro le palpebre serrate, venato qua e là da sprazzi di consapevolezza uniti a fitte lancinanti.
La testa pulsava, proprio all’altezza della tempia sinistra, e Killian poteva sentire tutto il dolore concentrarsi in quel punto preciso, addensarsi e poi esplodere in mille stelle colorate e accecanti. Premette le dita sulla fronte e sentì il sangue viscido e denso condensarsi sotto la pelle. Riuscì quasi a sentirne l’odore, metallico e pungente.
Gli sembrava di non sentire più le gambe e le braccia, come se all’improvviso fosse stato privato degli arti, un corpo lasciato alla deriva in un oceano buio. L’oceano. Gli mancava, la sua vita in mare, durante quegli anni selvaggi in cui aveva abbandonato la civiltà e aveva abbracciato se stesso e la solitudine. Gli mancava il silenzio.
In quel momento avrebbe solo voluto spegnere la luce - e le luci che gli vorticavano intorno pazzamente. Avrebbe voluto rannicchiarsi su se stesso e dormire. Per giorni. 
Il suono assordante della sirena si interruppe all’istante e Killian venne mosso oltre un paio di porte a vetri, dentro un ambiente riscaldato e ancora più caotico. Sentiva intorno a lui l’affanno di parecchie persone e una voce conosciuta che mormorava il suo nome, “William”. No, non era il suo nome, William, ma era come se lo fosse diventato, come se Killian fosse scomparso sotto una coltre di menzogne e di vite fittizie e diverse. 
Aprì piano gli occhi e vide il suo volto. Colei che lo aveva trovato. Colei che lo aveva salvato. Gli sembrò di scorgere una macchia azzurra e un balugino dorato. E poi lei china su di lui, i suoi capelli biondi che erano come il sole, un sorriso rassicurante sul volto assorto. Non sapeva il suo nome. Non sapeva niente di lei. Sapeva solo che l’aveva trovato, quando il mondo tutto intorno aveva assunto l’aspetto di un baratro buio e senza fondo, vorticoso di gelo e fumo, mentre la notte premeva contro i suoi occhi.
« Lo portiamo in sala 2, intanto. Prenota una TAC, Elginore » sentì che diceva la prima voce conosciuta, che però non riuscì a riconoscere, non ancora.
« D’ora in poi ce ne occupiamo noi, agente Swan » continuò la voce, questa volta rassicurante, ma sempre con un pizzico di autorità.
Agente Swan. Si chiamava “Swan”.
« Andrà tutto bene » gli disse di nuovo lei, chinandosi un’ultima volta su di lui e guardandolo negli occhi. Killian le rivolse un’occhiata vuota e vitrea, per poi abbandonarsi al sonno.
 
 
* * *
 
 
~ Greenwich Villlage, New York - febbraio 2013
 
« Quindi l’avete trovato in quel vicolo. Completamente pesto. Non deve essere stato un bello spettacolo… »
« No, affatto, ma ci sono abituata, ormai. »
Emma sedeva al tavolo del Granny’s Diner, la sua tavola calda preferita di New York, una cioccolata alla panna con una spruzzata di cannella stretta tra le mani. La sua amica Ruby Lucas¹ - che lavorava come cameriera nel locale - le sedeva di fronte, sorseggiando del caffè, durante un momento di pausa dal servizio. La guardava interessata, lo sguardo comprensivo, un sorriso dolce sul bel viso. Ruby era stata la sua prima amica, quando Emma era arrivata a New York per entrare in polizia. Le aveva appena raccontato quello che era successo con quel tipo, William Jones, la notte prima. 
« E così oggi pomeriggio torni al Downtown per fargli qualche domanda » continuò Ruby.
« Esattamente. Quando l’unica cosa che vorrei fare al momento è dormire. E vorrei dormire anche oggi pomeriggio, e stasera, e stanotte… e tutto domani, probabilmente. »
Ruby rise, poggiando una mano su quella dell’amica. « È uno dei privilegi della tua appartenenza alle forze dell’ordine, agente Swan. Hai dei doveri. Così come io ho il dovere di farmi trovare qui tutti i giorni alle sei e trenta in punto. »
Emma le sorrise.
« Hai ragione. Lo so che hai ragione. Prova però a dover trattare con un uomo mezzo moribondo, e molto probabilmente frastornato, senza le tue otto ore di sonno… »
« Okay, hai vinto » esclamò Ruby alzando le mani e lasciandosi ricadere sul divanetto in pelle rossa. 
« Hey, splendori! »
Lacey French², una cara amica di Emma e Ruby, era appena entrata nel locale e si avvicinava al loro tavolo a passo sicuro, la gonna svolazzante, i tacchi che risuonavano sul pavimento. I lunghi capelli castani le incorniciavano armoniosamente il viso sorridente.
« Lacey! » esclamò Ruby. « Ti aspettavo mezzora fa… Che è successo? »
La ragazza si lasciò cadere accanto ad Emma, che l’abbracciò a mo’ di saluto.
« Tutto bene? » le chiese.
Lacey si strinse nelle spalle.
« Diciamo di sì. Ho incontrato Gaston³ lungo la strada. »
« Gaston? E che ci fa qui? » esclamò Emma.
Gaston Leroux era l’ex fidanzato francese di Lacey. L’aveva conosciuto a Parigi, durante i suoi studi alla Sorbonne. Avevano avuto una storia piuttosto turbolenta e Lacey lo aveva lasciato parecchi mesi fa, trasferendosi a New York e aprendo la sua prima libreria, la “Bruised Apple Books⁴”, proprio lì nel Village. Aveva conosciuto Ruby - e quindi Emma - proprio al Granny’s
« Non ci credo che sia arrivato fin qui solo per trovarti » continuò Ruby incrociando le braccia al petto.
« Invece sembra che sia così… Ve lo giuro, sarei voluta scappare a gambe levate, quando l’ho visto. Peccato che mi stesse aspettando praticamente sotto casa… »
« Come ha fatto a trovarti? »
« Ha detto che ha chiesto ad alcuni suoi amici qui sull’isola⁵… Insomma, mi ha cercata e mi ha trovata. E continua a chiamarmi “Belle”. Lo odio! »
Ruby scoppiò a ridere.
« Belle. Che soprannome strambo. »
Emma alzò gli occhi al cielo.
« Io gli avrei già sparato, mi avesse chiamata “Belle”. »
« Sappiamo che sei cinica, Emma Swan » commentò Ruby alzandosi dal divanetto.
« Che cosa ti porto, dolcezza? » chiese poi a Lacey.
« Penso che prenderò la cioccolata con la panna. Mi ci va proprio. Grazie, tesoro. »
Ruby le sorrise e poi si avviò al bancone.
Emma aveva sempre adorato il Granny’s. Era un piccolo fabbricato basso, con un cortiletto sul davanti e un’insegna luminosa appesa all’esterno. Era incastrato fra due palazzi di media altezza, in una via relativamente tranquilla del Village. All’interno, tutto era fermo agli anni ‘50: tavoli di metallo con divanetti in pelle rossa, un lungo bancone, sgabelli d’acciaio e un vecchio jukebox nell’angolo. Emma ci passava quasi ogni giorno, prima del lavoro, per colazione, oppure ci bazzicava nei suoi giorni liberi, per bersi una cioccolata e chiacchierare con Ruby. Ci aveva portato anche il suo collega Graham, che sembrava aver apprezzato in modo particolare “il personale”. Oltre che la cucina di Granny, ovviamente. Granny Lucas era la nonna di Ruby, una piccola vecchietta con i capelli bianchi, tutta rosea e in carne. Granny gestiva la tavola calda, la cucina e un piccolo bed&breakfast al fondo della strada, proprio accanto alla sua abitazione, una villetta gialla con le imposte bianche e un cane lupo che gironzolava nel giardino. 
« Tu come stai? » chiese Lacey, riscuotendola.
« Bene. Stavo giusto raccontando a Ruby le ultime novità… »
E così raccontò anche all’altra amica di William Jones, della loro corsa al Downtown Hospital e del pomeriggio che l’aspettava.
« Che roba! Pestare un uomo, così…! » esclamò Lacey, sconvolta.
« Già. New York è piena zeppa di criminali. Dobbiamo soltanto fare alcune verifiche e parecchie domande a quel Jones. La cosa puzza. »
« Pensi che sia immischiato in qualche strano traffico illecito? »
Emma scoppiò a ridere, davanti alla faccia sconvolta dell’amica. Lacey si stupiva sempre dei mali che affliggevano il mondo. Pensava che tutti gli esseri umani fossero sostanzialmente buoni, bastava solo cercarne il potenziale. Era limpida e dolce, ed Emma le voleva molto bene, nonostante la conoscesse solo da qualche mese.
Ruby tornò con la cioccolata per Lacey, che la ringraziò dolcemente.
« Ora torno al lavoro, o Granny si infurierà. Dice che passo troppo tempo a chiacchierare » disse la ragazza alzando gli occhi al cielo.
« D’accordo. Meglio non farla arrabbiare… » ridacchiò Lacey.
« Emma, conto di vederti domani, voglio sapere che cosa nasconde il nostro Jones… » aggiunse rivolta all’amica.
« Va bene. Dopo che avrò dormito per almeno dodici ore, però » promise Emma.
Ruby sbuffò e agitò una mano, per poi dirigersi verso un altro tavolo per prendere le ordinazioni. Il suo completo da cameriera bianco e rosso le donava in modo particolare e i suoi capelli scuri, lunghi e ondulati, spiccavano contro il candore della camicetta. Era sempre seguita da parecchi occhi maschili, Ruby.
« Temo di dover andare anche io » disse Emma. « Passo in centrale e poi volo al Donwtown. Prima finisco questa cosa, prima andrò a dormire. »
« Buon lavoro, allora » disse Lacey sorridendole. « Salutami tanto Graham, è da un po’ che non lo vedo. Come sta? »
« Benissimo, direi » rispose Emma sbadigliando. « Tu che farai? È sabato, sarai in libreria? »
« Direi di sì. Sempre che Gaston non mi trovi anche lì… »
« Se esagera, dimmelo. Facciamo partire un ordine restrittivo. Hai capito? »
Lacey annuì, abbassando gli occhi sulla sua cioccolata.
« Dammi un abbraccio, dai » concluse Emma chinandosi verso la sua amica.
Quest’ultima la strinse e le due rimasero per un momento abbracciate, ognuna persa nei suoi pensieri.
« Grazie, Emma. »
« Buona giornata, Lacey. »
 
 
* * *
 
 
~ Downtown Hospital, Tribeca, New York - febbraio 2013
 
« Buongiorno, sono l’agente Swan. Sono qui per parlare con William Jones. »
Emma stava in piedi di fronte al bancone accoglienza del pronto soccorso del New York Downtown Hospital, i gomiti poggiati sul legno chiaro, di fronte a lei un’infermiera di colore che indossava un camice rosa.
« Agente Swan! » esclamò una voce alle sue spalle, poco prima che l’infermiera aprisse la bocca per replicare.
Emma si voltò. Un giovane dottore le veniva incontro dal corridoio alla sua sinistra, il camice bianco svolazzante indossato sopra una divisa casacca e pantaloni verde acceso. Le sorrise, porgendole la mano con fare cordiale. Era il dottore che li aveva accolti la notte prima. 
« Penso si ricordi di me… » cominciò. « Phillip Kingston⁷. Piacere. »
Parlava con un marcato accento inglese, cosa inusuale nella Grande Mela.
« Emma Swan » rispose lei stringendogli la mano.
Aveva un’aria competente, nonostante apparisse così giovane. Molto probabilmente dimostrava meno della sua età effettiva. 
« Venga, andiamo a parlare nella saletta » aggiunse lui mettendole una mano sulla schiena e sospingendola dolcemente lungo il corridoio dal quale era arrivato, verso una porta socchiusa, oltre la quale si apriva la saletta privata del personale, con due tavolini, sedie e un divano mezzo sfondato. Lungo la parete si sviluppava una piccola cucina con un frigorifero, tre forni a microonde e due bollitori pieni di caffè. Kingston chiuse la porta e indicò ad Emma una delle sedie.
« Prego, si accomodi. »
Emma prese posto, guardandosi intorno un’ultima volta prima di puntare lo sguardo su Phillip Kingston.
« È venuta per interrogare Jones, vero? » le chiese lui senza tanti preamboli.
« Interrogare è una parola grossa, temo » rispose Emma sorridendo. « Vorrei solo fargli qualche domanda, se è possibile. Prima è, meglio ricorderà maggiori dettagli. »
« Certo, capisco. Non le ho offerto del caffè, che sgarbato! » aggiunse alzandosi in piedi e dirigendosi alla cucina.
Emma non rispose e Phillip interpretò il suo silenzio come un assenso, perché tornò subito dopo con due tazze spaiate ricolme di caffè lungo e forte. Emma sorseggiò lentamente il suo, per poi poggiare la tazza sul tavolo.
« Come sta? » gli chiese.
« Si sta riprendendo in fretta, tutto sommato. Aveva una costola incrinata, una piccola commozione  cerebrale alla tempia sinistra e vari lividi ed ematomi su tutto il corpo, ma tutto sommato risponde bene alla terapia. Contiamo di dimetterlo nel giro di una settimana, dieci giorni al massimo. Occhio e croce. Non posso fare stime a lungo termine, per ora⁸. »
Emma annuì. « Ovviamente. »
« Non so se questo possa interessare le sue indagini, agente, ma Jones ed io siamo amici di lunga data. Ci conosciamo da anni e siamo come fratelli. Non so chi l’abbia ridotto a quel modo e lui ovviamente non mi ha detto niente. Forse non lo sa nemmeno lui… »
« Il fatto che siate amici non ci interessa » replicò Emma professionalmente. « Ovviamente sentirò quello che Jones ha da dire. Se la sua deposizione non sarà di alcun interesse rilevante per eventuali indagini, il suo coinvolgimento finisce qui. Sarà eventualmente rintracciato nel caso in cui gli assalitori - o l’assalitore, ma a giudicare dalla stazza di Jones e dalla portata delle ferite, propendo per una coppia o più - vengano rintracciati e acciuffati. Tutto qui. »
Phillip annuì, soppesando il contenuto della sua tazza.
« Bene. Se non c’è altro, le chiederei di portarmi da Jones » concluse lei.
Il dottore si riscosse e annuì nuovamente. « Certo. Subito. »
I due percorsero lo stesso corridoio di prima, continuando a procedere in avanti, allontanandosi dalla reception. Kingston si fermò di fronte ad una porta chiusa, il vetro schermato da veneziane verdi. 
« Un’ultima cosa » disse. « Jones è ancora piuttosto debole e intontito dagli antidolorifici. Non sarà propriamente lucido e attivo. Veda solo di non stancarlo troppo. Ha un quarto d’ora. Venti minuti al massimo. D’accordo? »
« Me li farò bastare » borbottò Emma.
Così dicendo, aprì piano la porta, richiudendosela poi alle spalle in silenzio. William Jones, che lei ricordava solo attraverso il velo della notte e la luce dei fari della sirena, era steso sul letto, le coperte tirate sul petto. Aveva gli occhi chiusi e respirava piano. Il petto si alzava e si abbassava con regolarità stanca, come se facesse fatica a compiere anche il minimo movimento. Aveva il viso tumefatto in vari punti e sulla tempia sinistra campeggiava una brutta abrasione viola. Sembrava dormire profondamente, così Emma gli si avvicinò ancora, sedendosi sulla sedia accanto al letto. Portava i capelli neri corti e il colorito era pallido e malaticcio. Tutto sommato, non era male. Emma si sgridò subito dopo per aver anche solo pensato alla prestanza di Jones mentre era malato e sofferente in quel letto. Che diavolo le era preso?
« Se vuole posso procurarle una mia foto autografata » sussurrò lui all’improvviso.
Emma quasi sobbalzò sulla sedia, mentre Jones apriva gli occhi lentamente, puntandoli nei suoi.
« Ovviamente è in omaggio, per ringraziarla per avermi salvato » aggiunse lui con un ghigno.
« Mi spiace doverla disturbare, signor Jones » disse Emma senza replicare alla provocazione, decisa solo a fare il suo dovere. Lo sguardo di quell’uomo la confondeva e la turbava. Gli occhi erano azzurri e profondi come due pozze gelate. « Le farò soltanto poche domande. Ho poco tempo a disposizione. »
« Immagino che il mio caro amico Phillip le abbia dato quindici, venti minuti…? »
Emma annuì. « Esattamente. Procederei con il chiederle cosa ci faceva in quel vicolo ieri notte… »
« Facevo una passeggiata » rispose. 
« Faceva una passeggiata? » ripeté Emma, sconcertata.
« Facevo una passeggiata, . Non mi sembra difficile. »
Emma si rabbuiò, decisa a non farsi intimidire.
« Faceva un passeggiata, molto bene. Cosa ricorda, esattamente? »
Jones sospirò, chiuse gli occhi e poi li riaprì, puntandoli nuovamente su Emma.
« Ricordo solo che all’improvviso sono stato afferrato prepotentemente, qualcuno mi ha scaraventato contro il muro e mi ha frugato nelle tasche. Dopo di che, è arrivato il primo colpo e penso di aver perso conoscenza quasi all’istante. »
Emma annuì, lanciando un’occhiata alla brutta tumefazione sulla testa dell’uomo.
« Ricorda qualche particolare dei suoi aggressori? »
Jones sembrò riflettere, per poi annuire. « Indossavano dei passamontagna. Ho intravisto un paio di occhi azzurri, di un azzurro molto acceso. Erano in due. »
« Erano in due, come pensavo » borbottò Emma continuando a prendere appunti sul suo bloc notes.
« Avevo appena ripreso conoscenza, quando l’ho vista avvicinarsi lungo il vicolo. Penso di aver nuovamente perso lucidità, quando mi ha trovato e ha blaterato qualcosa riguardo un’ambulanza… parlava con qualcuno, mi pare… »
« Il mio collega, sì. E io non blatero » aggiunse poi Emma.
Lanciò uno sguardo a Jones, che la osservava con un sorriso divertito e mezzo storto.
« Sa se qualcuno l’ha presa di mira? Qualche regolamento di conti o una vendetta personale? »
« Faccio il fotografo per hobby e professione. Chi mai vorrebbe vendicarsi di me? »
« Qualche vecchia conoscenza? Magari legata a qualche precedente lavoro? »
« Direi di no. »
« Be’, non si spiega perché due individui si siano dati la pena di pestarla e lasciarla mezzo morto senza rubarle nulla, no? »
« No, non si spiega, ma questo fa parte del vostro lavoro. Della polizia. Indagare, scoprire e raccogliere indizi. E infine scovare il colpevole. No? »
Emma cominciava seriamente a sentirsi irritata e nervosa. Quel Jones la mandava su tutte le furie. Sapeva di dover essere paziente, in fondo era un pover’uomo che era stato pestato e menato e lasciato morente in un brutto vicolo puzzolente, anche lui doveva essere nervoso. Tutto questo sembrava però passare in secondo piano, di fronte alla sua supponenza e presunzione. Non vedeva l’ora di alzarsi e andarsene.
Lanciò un’occhiata all’orologio appeso sopra la porta. Le restavano dieci minuti.
« In fondo, dovrei ringraziarla » disse Jones cogliendola alla sprovvista.
Emma l’osservò attentamente, soppesando le sue parole.
« Dovrebbe? »
« Devo » si corresse lui prontamente. « Grazie, agente Swan. »
« Agente Swan… Come sa il mio nome? »
« L’ho sentito ieri notte, mentre vagavo in un limbo indistinto. Qualcuno l’ha chiamata per nome. Per cognome, dovrei dire… »
« Emma » aggiunse lei, senza nemmeno sapere perché stesse dando il suo nome ad un perfetto sconosciuto, per giunta vittima di un pestaggio sul quale avrebbe dovuto indagare. « Mi chiamo Emma. »
« Be’, grazie, allora. Emma. »
Lo sguardo di Emma si perse in quello di lui e per un momento si sentì come sospesa, in una dimensione senza tempo e senza forza di gravità. All’improvviso, però, la porta della camera venne aperta con irruenza e la figura alta e allampanata di Graham Humbert fece il suo ingresso nella stanza. 
Emma si voltò verso di lui, alzandosi di scatto dalla sedia. Jones le rivolse un’ultima occhiata, prima di girarsi a guardare il nuovo arrivato.
« Oh, eccoti, Emma! » esclamò Graham affannato. « Sono in ritardo, lo so. Hunter mi aveva detto di essere presente al momento dell’interrogatorio, è solo che non ho sentito la sveglia. Perdonami. »
« Il suo amico parla sempre così tanto? E a questa velocità? » chiese Jones ad Emma, visibilmente divertito ma anche irritato.
Emma lanciò uno sguardo al malato e poi posò gli occhi su Graham.
« Non preoccuparti, ho appena finito. »
« Aspettate » esclamò Jones. « Ha detto “interrogatorio”… Volete scherzare? Io qui sono la vittima… »
« Il mio collega si è espresso male, signor Jones » si affrettò a chiarire Emma. « Graham, andiamo » aggiunse rivolta all’amico, che non sembrava apprezzare in modo particolare l’umorismo dell’uomo.
Emma tornò a guardare Jones.
« Chiederò le sue generalità. Per l’indagine. Resti a disposizione, può essere che ci rivedremo. »
« Quando vuole, agente Swan. »
 
 
* * *
 
 
~ Unknown location, New York - febbraio 2013
 
« Infine, per quanto riguarda la cronaca cittadina, riportiamo la notizia dell’ennesima aggressione perpetrata ai danni di un cittadino della nostra città. L’aggressione è avvenuta nel quartiere di Tribeca, in un vicolo poco frequentato nei dintorni di Warren Street. La coppia di aggressori non sembra aver derubato la vittima, che attualmente si trova al Downtown Hospital in seguite a gravi ferite. Per adesso, la polizia è ad un punto morto. Non sembra che ci sia un movente plausibile diverso da quello di un atto di criminalità e violenza cittadina come migliaia di altri qui nella Grande Mela. I poliziotti intervenuti nel salvataggio della vittima, gli agenti Swan e Humbert, non hanno rilasciato dichiarazioni. Staremo a vedere come la centrale di Ericsson Place gestirà il caso… »
 
« Spegni quella dannata televisione, Nate. Non li sopporto, i notiziari. »
« Sono interessanti, Victor. Dobbiamo sapere cosa succede in città, no? »
L’uomo chiamato Victor sbuffò, infastidito.
« Dovremmo dirgli i nomi dei poliziotti. Vorrà indagare. »
« Certo. Glieli diremo. »
« Non ne sarà contento. Sperava che Jones non avrebbe parlato. »
» Non penso abbia parlato, capo. Altrimenti ci avrebbero già trovati. E penso anche che Jones ti abbia riconosciuto, ieri… »
« Non dire sciocchezze. Certo che mi ha riconosciuto. Doveva. Altrimenti che avvertimento sarebbe stato, con mittente sconosciuto? »
L’uomo chiamato Nate annuì, sogghignando.
 
 
CONTINUA…
 
 
 
 
Note:
1. Ho pensato di dare a Ruby il cognome di Granny – Lucas, appunto – visto che non sappiamo quale sia il suo. Oltretutto, Granny è la nonnina…
2. Ho preferito utilizzare Lacey French, come nome per Belle. Quest’ultimo avrebbe rimandato troppo al cartone. Infatti l’ho relegato a semplice “nomignolo”.
3. Ho inserito Gaston – Leroux, cognome assolutamente inventato da me – come ex fidanzato di Lacey a Parigi.
4. La “Bruised Apple Books” esiste davvero, e si trova proprio a New York.
5. “Isola” è uno dei modi per riferirsi a Manhattan, che è appunto un’isola.
6. [su word non c’è l’apice 6, quindi mi tocca lasciarlo vuoto XD]
7. Phillip Kingston, alias prince Phillip, che diventa dottore e grande amico di Killian/William. Kingston è il cognome di Wren, personaggio di “Pretty Little Liars” interpretato sempre da Julian Morris, il nostro Phillip in “Once Upon a Time”.
8. Per quanto riguarda i dati medici, specifico che non sono un dottore, quindi, dopo alcune ricerche, sono approdata alla conclusione che per una costola incrinata non c’è una cura, quindi il periodo di convalescenza necessario in ospedale può essere una settimana, come dieci, quindici giorni. 
 


Per qualsiasi chiarimento, potete scrivermi qui su Efp, oppure mi trovate qui: https://www.facebook.com/marti.lestrange
Inoltre, ho inaugurato un nuovo gruppo Facebook tutto dedicato ad “Haunted”. Chiunque voglia iscriversi, per spoiler, aggiornamenti costanti e quant’altro – come fangirlare XD – può cliccare qui:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/
Trovate anche l’album dei prestavolto e dei luoghi di “Haunted”.
 
Ringrazio ancora una volta i followers di questa storia, che da 12 sono saliti a 19, soltanto grazie al secondo capitolo: siete fantastici e vi adoro! Grazie! Ovviamente, un grazie speciale và anche ai recensori/lettori silenziosi/fans senza ritegno della CaptainSwan/amanti di Hook :3 siete i migliori!
 
Alla prossima!
 
~Marti
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Haunted
CAPITOLO 4
 
 
 


Eastport, Maine - marzo 1985
 
- David! Mary Margaret! Cosa è successo?
Johanna Robinson spalancò la porta della sua piccola casetta appollaiata sulla scogliera e lasciò entrare la coppia. L’uomo chiamato David richiuse la porta alle sue spalle soltanto dopo aver lanciato un’occhiata preoccupata all’esterno. Non c’era niente di strano, a parte la solita viuzza verdeggiante che fronteggiava la casa in legno. Soltanto dopo un’occhiata attenta, Johanna notò il piccolo fagottino tra le braccia della donna.
- Mary Margaret… - cominciò. - Che cosa…
Mary Margaret abbassò lo sguardo sulla piccola bimba avvolta in una copertina rosa soffice e spessa, per proteggerla dal tempestoso vento che arrivava dal mare. Gli occhi le brillarono di una luce d’amore e assoluta venerazione.
- Tesoro, non c’è tempo - aggiunse David raggiungendole nel piccolo salotto.
La donna distolse lo sguardo da sua figlia per rivolgerlo al marito, che la guardava esplicito, un velo di tristezza davanti agli occhi chiari.
- Dobbiamo andare, Johanna - prese la parola Mary Margaret.
- Andare? Come sarebbe a dire? - chiese l’altra, sconvolta.
- Dobbiamo andare via. Via da Eastport.
- Ci ha trovati, Johanna - aggiunse David.
La donna grassottella gli rivolse un’occhiata preoccupata, gli occhi sbarrati.
- E la piccola Emma? - chiese nuovamente lanciando uno sguardo alla bimba, ancora stretta al seno della madre.
- Sai quello che devi fare. Ne abbiamo parlato.
Johanna annuì solennemente. - Sarà come una nipote, per me. La nipote che non ho mai avuto.
Mary Margaret annuì. David le cinse le spalle con un braccio. - Dobbiamo andare. Mettiamo Emma in pericolo, a trattenerci qui più del dovuto. Lo sai.
La donna singhiozzò, trattenendo però le lacrime. Johanna invece aveva gli occhi lucidi, le labbra tese in una smorfia di mal celata tristezza.
Si ritrovò la piccola Emma Swan tra le braccia. Profumava di gardenia, leggera e dolce, come un’armatura. Portava un piccolo cappellino color lampone e aveva gli occhi chiusi, leggermente raggrinziti dal sonno. La pelle era rosea e levigata. Johanna non aveva mai visto niente di più bello e perfetto.
Alzò lo sguardo in tempo per vedere Mary Margaret e David accanto alla porta, sospesi tra il tepore dell’interno e le asperità e i pericoli del mondo. L’ignoto che li attendeva. Johanna aveva sperato che quel momento non dovesse giungere mai.
- Tornerete? - chiese loro.
I due non risposero. David chiuse la porta.
Sapeva di ineluttabilità. E di addio.
 
 
* * *
 
 
Greenwich Village, New York - marzo 2013
 
- Mi prepareresti un bel caffè lungo, per favore? Bello forte, anche.
Graham Humbert poggiò i gomiti sul lungo bancone di Granny’s e attese che Ruby Lucas si voltasse.
I capelli scuri della ragazza le coprivano le spalle, come un mantello nero e lucente. Quel giorno portava una camicia di jeans aperta su una t-shirt grigia e non era truccata come suo solito, in modo marcato e appariscente. Sembrava diversa.
- Buongiorno, Graham! - esclamò vedendolo e sorridendogli.
- Buongiorno a te - rispose lui ricambiando il sorriso.
- Ti preparo subito il caffè. Intanto…
Si girò, armeggiò con qualcosa sul banco alle sue spalle e poi poggiò un piattino davanti a lui, che conteneva una fetta di torta al cioccolato.
- Sacher con marmellata di fragole e lamponi. Provala. Offre la casa.
Gli fece l’occhiolino e si diresse a preparargli il suo caffè.
Graham osservò la torta sul piatto di porcellana bianca decorata con piccole roselline rosse. La torta era perfetta: alta, piena di cioccolata, e squisitamente invitante. Della marmellata fuoriusciva dall’interno e Graham prese in mano la forchetta che vi era adagiata accanto, desideroso di provare quella squisitezza.
- Allora? - chiese Ruby dopo qualche minuto, poggiando sul bancone una tazza di scuro caffè fumante. - Piaciuta la torta?
Graham aveva ripulito in pochi secondi il piatto e osservò Ruby con attenzione.
- Piaciuta? Ruby, ne vorrò una fetta ogni mattina, lo sai, questo?
- Sono contenta, visto che è il mio primo esperimento in cucina - sorrise lei.
- L’hai preparata tu? - esclamò l’uomo. - Sei la donna perfetta, per Giove!
Ruby scoppiò a ridere, con quella sua risata alta e perfetta.
- Per Giove? - ripeté. - E questa da dove è uscita?
- Non lo so, a dire il vero - rispose Graham grattandosi la testa, confuso.
Ruby rise ancora. - Sei adorabile, Humbert.
Graham alzò di scatto la testa, guardandola negli occhi, stupito. Anche Ruby sembrava esserlo. Più che altro, sorpresa di se stessa e delle sue parole.
La ragazza, imbarazzata - Ruby imbarazzata?, pensò Graham, e da quando? - distolse lo sguardo e borbottò qualcosa riguardo alcune ordinazioni, allontanandosi lungo il bancone.
Graham non fu in grado di replicare alcunché. Ruby lo trovava adorabile. Ruby, le cui storie non duravano mai più di un mese e che mai avrebbe detto ad un uomo la parola “adorabile”. O una qualsiasi altra parola dolce e gentile. Per lei non esisteva il vero amore, glielo aveva raccontato Emma una volta. Aveva pensato che fosse tutto molto triste e malinconico, ma in fondo, forse nemmeno lui ci credeva veramente.
Si alzò all’improvviso in piedi, abbandonando la sua tazza di caffè mezza vuota. Raggiunse Ruby, che stava sparecchiando un tavolo in fondo al locale.
- Esci con me - esclamò tutto d’un fiato.
Per lo stupore, per poco la ragazza non fece cadere tutto il vassoio a terra. Alzò gli occhi su di lui, guardandolo attraverso quelle due pozze scure e profonde, sondandolo. Inclinò la testa di lato, pensierosa.
- Va bene - rispose. - Oggi stacco alle otto.
- Le otto è perfetto.
Si sorrisero e poi Graham uscì in fretta e furia dal locale, il sorriso di poco prima ancora impresso sul volto.
 
 
* * *
 
 
Greenwich Village, New York - marzo 2013
 
Emma ripose una vecchia copia di “Alice’s Adventures In Wonderland” di Lewis Carroll dalla copertina dipinta a mano nel suo apposito scaffale e si sedette su una delle comode poltroncine foderate di velluto blu posizionate accanto alla vetrina. Lanciò un’occhiata in giro, in attesa che Lacey finisse di parlare con un cliente.
- Non ci sono problemi, signor Dodgson - stava dicendo la ragazza. - La sua copia de “The Hunting Of The Snark” sarà qui nel giro di una settimana, dieci giorni al massimo.
- La ringrazio, miss French - aveva replicato il signor Dodgson, che indossava un lungo mantello nero. - Aspetto la sua chiamata, allora.
- Certamente. A presto.
- Arrivederci. E grazie.
- Grazie a lei - concluse Lacey.
La porta tintinnò lievemente e poi si richiuse lentamente alle spalle di Dodgson.
- Tipo interessante - commentò Emma ad alta voce.
La sua amica Lacey si girò a guardarla, alzando poi gli occhi al cielo. - Ogni tanto capita in negozio chiedendo di libri introvabili. È interessante, sì, e strano, aggiungerei. Una persona fuori dal comune, ecco.
- Già - rispose solo Emma annuendo.
- Bene - esclamò la padrona di casa, che quel giorno era particolarmente adorabile in un corto vestitino blu. - Come mai sei qui? Cerchi un libro, Emma?
- Sono solo venuta a trovare una delle mie più care amiche - replicò l’altra. - E sai che non ho tempo per leggere.
- Dici sempre così. C’è sempre tempo per un buon libro.
- E tu mi sgridi sempre. E hai ragione. Una volta leggevo molto di più. Adesso sembra che non ci siano più storie adatte a me…
- Ci sono, ci sono, basta cercarle - rispose Lacey facendole l’occhiolino. Emma le sorrise.
- A proposito, Gaston si è più fatto vivo?
Lacey scosse la testa. - No. Meglio così. Altrimenti ti avrei chiamata, agente Swan.
Emma rise. - Sarà meglio, libraia French. Libraia - aggiunse poi storcendo il naso. - Suona malissimo, scusa.
Lacey si unì alle sue risate. - Che ne dici di una tazza di tè?
- Una tazza di tè? Adesso? È quasi ora di pranzo. Piuttosto, berrei un caffè.
- È sempre l’ora del tè, anche se tra un cliente e l’altro non ho mai tempo di lavare le tazze. Vado un secondo in cucina e torno. Tu non scappare via.
Così dicendo, Lacey sparì nel retro della libreria, dove aveva allestito una piccola cucina.
Emma si alzò dalla poltrona, approfittandone per dare un’occhiata al negozio e ai libri esposti sui suoi scaffali. Le parole di Lacey avevano scosso qualcosa dentro di lei. Magari avrebbe fatto un tentativo, sulla ricerca di una storia.
La “Bruised Apple Books” era un vero angolino di pace e magia nel Village, un luogo che Lacey aveva fatto suo, tanto da decorarlo con la sua stessa anima e personalità. Le pareti erano quasi totalmente ricoperte da scaffali di legno spesso e antico, scaffali che a loro volta contenevano un numero imprecisato di libri e volumi, anche piuttosto antichi. I più ricercati e preziosi erano protetti da una vetrinetta, proprio accanto al bancone di Lacey, che era costituito da un semplice tavolone in mogano visibilmente vintage, recuperato in qualche mercatino dell’usato, sopra il quale campeggiava una piccola cassa elettronica, un vaso con delle roselline selvatiche, un vecchio telefono scolorito e alcune carte e documenti vari. In un angolo, un’antica macchina da scrivere troneggiava su un basso tavolinetto, con accanto alcuni volumi scoloriti e ingialliti dal tempo. Una grande lampada dei primi del novecento spandeva intorno la sua tenue luce aranciata e morbida. Lacey aveva fatto davvero un ottimo lavoro.
Emma si soffermò ad osservare la strada del Village fuori dalle vetrine e una figura, stretta in un cappotto blu, attirò la sua attenzione. Stava fermo dall’altra parte della strada, le mani buttate nelle tasche, concentrato ad osservare la vetrina di un piccolo negozio di antiquariato dall’insegna dorata: “Mr Gold Pawnbroker & Antiquities Dealer”. Emma non aveva mai notato quel posto prima d’ora, nonostante capitasse spesso in quel quartiere e nonostante fosse praticamente di fronte al negozio di Lacey. Forse non l’aveva mai visto davvero.
Senza nemmeno rendersi conto di quello che stava facendo, aprì la porta e si precipitò svelta in strada. Lasciò passare alcuni camion carichi di frutta, probabilmente diretti al mercato coperto, e poi si apprestò ad attraversare, ma l’uomo era scomparso, come se la via lo avesse inghiottito. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, sconfitta, e sospirò. Dalla bocca le uscì una nuvola di fumo, il suo respiro condensato nell’aria fredda e tagliente di marzo.
- Guarda un po’ chi si rivede.
Emma si voltò e si ritrovò davanti l’oggetto della sua precipitosa corsa: William Jones, l’uomo trovato moribondo in un vicolo di Tribeca giusto un mesetto prima. Non aveva più avuto sue notizie da quando il capo Hunter lo aveva considerato sostanzialmente inutile ai fini delle indagini, depositando la sua dichiarazione e permettendogli così di uscire dal caso. Non erano stati fatti progressi, in ogni caso. E Jones non sembrava avere avuto altre cose da dire. Sembrava anzi aver definitivamente archiviato l’incidente, visto che non recava più segni o lividi dell’aggressione.
- Jones! - esclamò Emma.
- Agente Swan - la salutò lui. - È un vero piacere rivederla.
Emma si strinse nelle spalle. - Anche per me - borbottò in risposta.
- Non ne dubito - aggiunse lui. Il suo solito ghigno indisponente era sempre lì, al solito posto.
- Non mi avete più richiamato, per ulteriori dichiarazioni.
- Glielo abbiamo detto: il suo aiuto nel caso è stato considerato superfluo. Tutto quello che sapeva ce lo ha detto. O no?
Jones sorrise, con quel sorriso enigmatico che le riservava sempre. - Ma certo. Ovvio.
Emma annuì. La conversazione stava vertendo su un terreno pericoloso.
- Cosa ci fa qui nel Village? - gli chiese lei per cambiare argomento.
- Ci abito - rispose lui osservando per un momento la via intorno a loro. - Non molto lontano da qui, in effetti. Mi piace passeggiare. E conosco anche questa libreria, pensandoci. Ci sono entrato parecchie volte.
Emma lanciò un’occhiata alle vetrine, dalle quali intravide una sconcertata Lacey che la osservava dall’interno del negozio, confusa, il vassoio con il tè poggiato su un basso tavolino accanto alla poltrona che Emma aveva occupato poco prima.
- È della mia amica. Lacey French.
- Oh, miss French! Ma certo! - esclamò Jones. Solo in quel momento, Emma fece caso al suo accento britannico e si chiese se, come il dottor Kingston suo amico, anche Jones non fosse nato lì, ma si fosse magari trasferito da Londra o una qualsiasi altra città britannica del Vecchio Continente. - È una ragazza piuttosto dolce e gentile, la sua amica.
- Lacey è… - iniziò Emma lanciando un’altra occhiata alla ragazza. - Lacey è quanto di più dolce e incantato esista al mondo. È gentile, premurosa, sempre attenta ai problemi degli altri e pronta all’ascolto. Insomma, è adorabile.
Emma sentì su di sé lo sguardo attento dell’uomo, che la studiava in silenzio, sempre sorridendo. Questa volta, una vena gentile incrinava il sarcasmo pungente.
- Cosa c’è? - chiese Emma alzando le sopracciglia. - Ho detto qualcosa di strano?
- No, per niente. Ha descritto la sua amica in modo ammirevole. Le vuole molto bene.
Emma annuì, senza aggiungere altro.
- Direi che, visto che non faccio più parte delle indagini, si possa ricominciare da capo - disse Jones all’improvviso.
Lei lo guardò, stupita.
- William Jones, piacere di conoscerti - aggiunse lui tendendole una mano.
Emma la osservò, circospetta, lanciando a Jones occhiate stupite e volte a studiare la sua indecifrabile espressione.
- Puoi chiamarmi William. Will non lo sopporto.
Emma si ritrovò a sorridere. - Emma. Emma Swan - rispose stringendogli la mano. La sua pelle era calda, al tocco. Calda e morbida.
Lasciò andare la mano di Jones come se fosse stata incandescente e buttò le sue nelle tasche del cappotto grigio che aveva indossato quella mattina.
- È stato un piacere. Emma.
 
Mi chiamo Emma.
Be’, grazie, allora. Emma.

 
Abbandonò quel ricordo e tornò alla realtà, alla strada del Village. A Jones. A William.
- Anche per me, sì.
- Ci vediamo in giro - concluse lui alzando il bavero del cappotto e superandola, per poi perdersi nella folla dall’altra parte della strada.
Emma rimase in piedi ancora qualche minuto, ad osservare il punto in cui era sparito, quasi fosse stato un miraggio. Si riscosse quando Lacey aprì la porta della libreria e la raggiunse in strada, rabbrividendo nel suo vestito blu.
- Emma! - esclamò. - Si può sapere che fai? Chi era quello?
Emma guardò l’amica. Si sentiva frastornata, come se il contatto con Jones l’avesse all’improvviso privata di ogni forza.
- William Jones - rispose soltanto.
- William Jones? Non è quel tizio che tu e Graham avete trovato in quel vicolo un mese fa?
Emma annuì. - Sì, è proprio lui.
- Viene ogni tanto a comprare qui da me. Non avevo collegato i lividi e l’andatura zoppa al tuo caso. Dai, entriamo, o il tè si ghiaccerà - aggiunse poi Lacey trascinando l’amica all‘interno, al caldo.
Dall’altra parte della strada, un uomo alto, che indossava un completo scuro ed elegante e si poggiava ad un bastone, le fece un cenno di saluto, prima che Emma sparisse dentro la libreria.
 
 
* * *
 
 
Greenwich Village, New York - marzo 2013
 
- Messaggio ricevuto - disse Killian rispondendo al cellulare. Si lasciò cadere sul divano, sospirando. - Cosa vuole, ancora, per dimostrare la mia fedeltà? Affogarmi? Farmi cadere dal Chrysler Building?
- Vedo che ci siamo capiti, signor Jones - rispose la voce all’altro capo del telefono.
- Cosa vuole? - ripeté Killian.
- Volevo solo darle formalmente il benvenuto nell’Operazione Black Rain, signor Jones. È dei nostri.
 
 

 

NOTE
 
  • Le vicende del flashback hanno luogo nel 1985, anno di nascita di Emma. 
  • Johanna Robinson: è la stessa Johanna cameriera di SnowWhite in Once Upon A Time. Il cognome Robinson l’ho inventato io.
  • Dodgson è il vero nome di Lewis Carroll, precisamente Charles Lutwidge Dodgson.
  • "The Hunting Of The Snark", letteralmente "La caccia allo Snark", è un'altra delle opere di Carroll.
  • La frase "È sempre l’ora del tè, anche se tra un cliente e l’altro non ho mai tempo di lavare le tazze" è una mia personale rielaborazione dell'originale "È sempre l'ora del tè, e negli intervalli non abbiamo il tempo di lavare le tazze", direttamente da "Alice's Adventures In Wonderland" di L. Carroll.
  • "Mr Gold Pawnbroker & Antiquities Dealer" è il nome del negozio di Mr Gold in Once Upon A Time.
 
 
Eccomi qui con il quarto capitolo di questa pazzia. 
Abbiamo scoperto un altro piccolo tassello del passato di Emma: i suoi genitori sono scappati da Eastport e hanno lasciato Emma a Johanna, quella che la ragazza ha sempre considerato sua nonna, ignorando la verità. Da cosa o chi scappavano David e Mary Margaret?
Ruby e Graham! Be', ve lo avevo detto che ci sarebbe stato un risvolto inaspettato. Non avevo programmato niente di tutto ciò. Pensavo che sarebbero usciti insieme molto più avanti e invece Graham ha preso coraggio e ha chiesto a Ruby un appuntamento. Che amore, vero?
Un altro incontro tra la nostra Emma e Killian/William! Che ne dite? Si gettano le basi per un qualcosa in più, diciamo così. Questo pezzo è un piccolo omaggio ad "Alice Nel Paese Delle Meraviglie" e a Lewis Carroll, con vari e piccoli riferimenti. Il pilot di "Once Upon A Time In Wonderland" mi ha deviata <3 Inoltre, nel finale, un uomo misterioso saluta Emma. Chi sarà? È facile u.u
Infine, un'altra chiamata misteriosa per Killian... l'Operazione Black Rain è cominciata. Staremo a vedere cosa succederà. 
 
Come sempre ringrazio i lettori, chi segue questa storia [ufficialmente siete 24, tantissimi per i miei standard, grazie <3], chi legge silenziosamente, chi spende qualche parola per una recensione [siete adorabili <3] e chi preferisce e ricorda. E chi mi supporta sempre, ovvio. Grazie di cuore.
 
Vi ricordo come sempre il mio gruppo Facebook: https://www.facebook.com/groups/159506810913907/
 
Marti
 
ps e ricordate: PERHAPS I WOULD *^*

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***



Haunted
CAPITOLO 5
 
 
 
*Brooklyn, New York – marzo 2013
Camminava per Central Park. Era autunno, perché gli alberi erano spogli e le foglie secche ricoprivano i viali e i prati come una coperta sfumata. Il cielo era grigio e sentiva freddo. Una nuvoletta di fumo le usciva dalla bocca e il carretto accanto al laghetto vendeva caffè caldo in bicchieri di polistirolo. 
Camminava forse da ore, macinando passi su passi, in un circolo vizioso senza fine. Sapeva che i minuti scorrevano, sapeva che il sole si stava abbassando dietro le nubi, ma era come immersa in una dimensione a sé stante, isolata dal mondo e fuori dal tempo. Era come galleggiare in una bolla spessa e insonorizzata, dove gli unici rumori erano quelli del suono dei suoi passi, di qualche uccello solitario e delle risate asettiche dei bambini accanto all’acqua.
Si avvicinò ad una panchina e si sedette, osservando alcune mamme richiamare i figli all’ordine. Quelle persone non avevano un volto. Non avevano occhi, né naso, né bocca. Là dove avrebbero dovuto esserci tutte quelle cose c’era solo un vuoto bianco, come se indossassero delle brutte maschere, lisce e soffocanti. Erano come burattini, manovrati da qualcuno, o da qualcosa. Lei era forse l’unica persona completamente padrona di sé stessa. Si alzò e si avvicinò con passo rapido ai bambini, che però corsero via, lontano, ridendo. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, impotente. Camminò fino al bordo del laghetto, le acque immobili. Riusciva a specchiarvisi e quello che vide la paralizzò: anche lei non aveva un volto. Anche lei indossava una maschera. Non aveva occhi. Non aveva bocca. Non aveva voce.
Emma si svegliò di soprassalto, il respiro corto. Fuori stava albeggiando e il sole colpiva di scorcio il ponte di Brooklyn. Il cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, suonava selvaggiamente. Era forse stato quello a svegliarla. O forse il sogno era semplicemente terminato nel momento in cui si era trasformato in incubo. 
Si passò una mano sul viso e agguantò il telefono. 
- Swan – borbottò, la voce assonnata. – Chi parla?
Avrebbe dato qualsiasi cosa per uccidere chi l‘aveva svegliata a quell’ora.
- Agente Swan, scusa il disturbo – rispose la voce dall’altra parte. Emma riconobbe Miles Hunter, il suo capo. All’improvviso fu sveglissima. 
- Capo, è successo qualcosa? – chiese, allarmata, pensando subito a Graham.
- No, no, sta’ tranquilla – replicò l’uomo. – Ti ho svegliata, immagino…
- Le mentirei se le dicessi di no.
Hunter rise. – Ti ho chiamata perché abbiamo una novità. Mi avevi detto di avvisarti qualora fosse successo. 
Emma cominciò piano piano a capire. 
Non poteva essere. Non ancora. 
- Quando? – chiese solo.
- Stanotte – rispose l’altro. – Poco dopo le due. Ne sono stato informato da poco, appena arrivato alla centrale. 
- Come è possibile che sia successo così presto?
- Buona condotta, Swan. Buona condotta, nient’altro. Inoltre, qualche rapina ormai non tiene più in galera nessuno, oggigiorno. Dovresti saperlo.
Emma annuì, chiudendo gli occhi e sospirando.
- Grazie per avermi chiamata, capo – disse appoggiandosi alla testiera del letto.
- Niente di che, Swan. Mi spiace solo averti svegliata.
- Non è un problema, davvero.
- Ci si vede più tardi. Goditi l’ultimo sonno. 
- A dopo – ed Emma chiuse la comunicazione.
Continuò a tenere il telefono in mano, come in attesa di qualcosa. Forse sperava di svegliarsi anche da questo sogno, che stava assumendo dei contorni strani e deformati. 
Non riusciva ancora a crederci e, dentro di lei, aveva sperato che quel momento non giungesse mai. Era forse stata la paura, o l’attesa, o il terrore che il suo cuore potesse tradirla. Ancora una volta.
Aprì la casella dei messaggi e fissò per un momento lo schermo, indecisa. Le sue amiche avrebbero letto il messaggio una volta sveglie.
Scrisse soltanto tre parole: Neal è fuori.
 
 
* * *
 
 
*Brooklyn, New York -  gennaio 2012
- A cosa pensi?
Emma distolse lo sguardo dal ponte illuminato, invaso dalla solita marea di macchine dell’ora di punta. Puntò gli occhi su Neal, inquadrato nel vano della porta, due tazze fumanti in ciascuna mano. Era rannicchiata nella sua poltrona preferita, quella accanto alla finestra, con lo schienale alto e il disegno a fiori anni ‘70. Gli sorrise.
- Se c’è una cosa che non sono mai riuscito a capire, sono i tuoi pensieri quando guardi la città - aggiunse Neal sedendosi a terra, sul tappeto, la schiena poggiata al muro. Prima porse ad Emma una delle due tazze, che conteneva della tisana profumata. 
- Grazie - rispose lei stringendo la tazza bollente. Il fumo profumato di verbena e gelsomino le invase le narici, infondendole pace e tranquillità.
- Sei misteriosa, Emma Swan - concluse Neal.
Emma lo guardò con attenzione. - Tutti abbiamo dei segreti.
Lui annuì. - Certo, ed è giusto così. 
Si guardarono per un lungo istante, poi Emma distolse lo sguardo e lo puntò nuovamente fuori dalla finestra. Non aveva voglia di parlare, non quella sera. Alla centrale era stata una giornata dura: in mattinata era stata rapinata un’altra banca, questa volta una banca spagnola nel distretto di Tribeca, area di interesse della sua unità. Era la prima rapina sull’Isola. Prima, la serie di furti aveva riguardato unicamente il New Jersey. Aveva corso freneticamente per tutta la giornata e Graham le era stato al fianco, instancabile. Matt e Bryce li avevano affiancati come unità complementare. Alla fine non avevano risolto granché. I rapinatori erano abili: indossavano maschere bianche e vestiti neri, disattivavano le telecamere a circuito chiuso e non lasciavano indizi. Era tutto troppo pulito e ordinato. Troppo liscio
Emma sospirò.
- Stanca? - chiese Neal.
Lei annuì. - Parecchio. La nuova rapina ci ha stravolti. Non eravamo pronti. 
- Ho sentito la notizia alla radio, stamattina. Ho pensato subito a te. A voi. Avete qualche pista?
Emma scosse la testa, sorseggiando la tisana.
- Niente di niente - rispose. - Sembra che la banda agisca in modo perfetto. In ogni caso, dietro ogni piano perfetto c’è una falla di fondo. E noi la scoveremo. Ogni uomo ha una debolezza - e tornò a guardarlo, poggiando la tazza sul piccolo tavolino accanto alla poltrona. - Ogni uomo prima o poi fa un passo falso. E noi saremo lì quando accadrà.
Neal distolse lo sguardo, osservò il ponte per un momento e poi lo puntò nuovamente su di lei. - Parlando di debolezze… credo di sapere quale sia la mia.
Emma si limitò a guardarlo, in silenzio. Lui si alzò da terra e le si avvicinò, guardandola dall’alto. Poi le carezzò una guancia ed Emma chiuse gli occhi, dimenticando per un momento la rapina, la stanchezza, la tensione, la rabbia. Dimenticando tutti i guai. C’era solo la pelle di Neal contro la sua. 
Poggiò la mano sulla sua e riaprì gli occhi. Si alzò dalla poltrona e gli cinse il collo con le braccia. Incontrò il suo sguardo.
- Ti amo, Neal Cassidy. Probabilmente da sempre. E forse sarà così per sempre - gli disse. Lui sorrise. - Ma - aggiunse Emma - non provare a fregarmi. Capito? 
- Sei troppo importante, Emma Swan - rispose. - Non ci penso nemmeno, a lasciarti. Non mi muovo da qui.
Emma ricambiò il sorriso e lo baciò teneramente. Poi, Neal la prese per mano e la trascinò fuori dal salotto. 
 
 
* * *
 
 
*Brooklyn, New York - marzo 2013
La prima foto era stata scattata in riva al mare. David e Mary Margaret sedevano sulla spiaggia, lui con addosso un pesante maglione, lei stretta in un plaid azzurro. Il mare dietro di loro era grigio e burrascoso, il tipico mare d’inverno nel Maine. Erano stretti nell’inquadratura e David era mezzo tagliato di lato, forse perché era lui a reggere la macchinetta fotografica. La data sul retro, scritta a mano in una bella calligrafia sinuosa e chiara, era quella del quindici ottobre millenovecentoottantatre. Due anni prima della sua nascita.
La seconda foto invece era precedente. Ventisei novembre millenovecentoottantuno. Il Giorno del Ringraziamento. Sua madre sorrideva al fotografo, una camicetta bianca e dietro di lei il piccolo salotto di Johanna addobbato con foglie secche e centrotavola fatti di castagne e mele rosse. Sorrideva. 
Seguiva un’altra fotografia, con la stessa data. Questa volta, era suo padre a sorridere. Insieme alla nonna. Erano seduti fuori sotto il portico, stretti nei loro pastrani. L’immagine della felicità.
Il suono del campanello riscosse Emma dai suoi pensieri. Guardò l’ora. Le nove. Chi poteva essere, a quell’ora della sera? Di solito non riceveva mai visite inaspettate.
Si alzò dal tappeto e si diede una spazzolata al pantalone del pigiama a pois che indossava e si diresse alla porta. Dallo spioncino, intravide l’alta e slanciata figura della sua amica Ruby. Ruby? Che veniva a trovarla a casa? Molto strano.
Aprì e la ragazza l’abbracciò di slancio. Emma rimase per un momento stupita da tale dimostrazione d’affetto - cosa molto rara tra loro, visto che era Lacey quella più decisamente espansiva - ma poi ricambiò, stringendo l’amica e facendola poi entrare in casa.
- Cosa ci fai qui? - le chiese chiudendo la porta.
Ruby intanto si era già tolta il suo fidato pellicciotto grigio e l’aveva poggiato sulla spalliera del divano. 
- C’è un motivo per una visita a un’amica? - rispose, le mani sui fianchi.
Emma sorrise. - No, certo che no. È soltanto strano, tutto qui.
- È strano perché di solito siete voi a venire a trovarmi da Granny’s, ma siccome stasera ho la serata libera… ho pensato di farti una sorpresa.
- Hai fatto benissimo a passare. Ti preparo qualcosa? Tè, caffé? 
- Del caffé caldo andrà benissimo, grazie - rispose Ruby seguendo Emma nella piccola cucina.
Mentre la padrona di casa preparava il caffé e metteva la moka sul fornello, Ruby sedette su uno degli alti sgabelli accanto al piano di lavoro, una gamba accavallata e il mento poggiato sul palmo della mano. 
Emma si girò a guardarla, poggiata alla cucina, le braccia conserte. 
- Ho letto il tuo messaggio, stamattina - iniziò Ruby.
Emma distolse lo sguardo, evidentemente contrariata al ricordo. - Scusa, era tardi, ma so che avreste letto il messaggio stamattina…
- Ho chiamato Lacey, prima. Le ho detto che sarei passata. Purtroppo doveva risolvere una cosa e non ha potuto unirsi a me. 
- Risolvere una cosa? Si tratta di nuovo di Gaston?
- Non lo so, non me l’ha detto. Era piuttosto di corsa, a dire il vero - rispose Ruby alzando le spalle.
Emma annuì. - La chiamerò domani.
- Emma - cominciò l’amica. - Stai cambiando discorso. 
L’altra rimase in silenzio e siccome la moka aveva preso a sbuffare e lamentarsi, si dedicò a versare il caffé in due tazze alte, aggiungendovi poi del latte freddo per allungarlo. Porse una tazza a Ruby e le fece segno di seguirla in salotto.
Si sedettero, Emma nella sua poltrona accanto alla finestra, Ruby sul divano, le gambe incrociate. Sorseggiò il caffélatte, osservando l’amica in silenzio.
- L’ho saputo poco prima di scrivervi - cominciò Emma sospirando e poggiando la tazza sul tavolino. - Mi ha chiamata Hunter, il mio capo.
Ruby annuì, attenta.
- Lo hanno rilasciato per buona condotta. È rimasto dentro poco più di un anno. Un anno, capisci?
- Be’, ormai nessuno resta in galera dieci anni per qualche rapina - commentò Ruby, pratica.
Emma la guardò, ironica. - Hai parlato con Hunter, recentemente?
Ruby arrossì. Cosa strana: la sua amica non si imbarazzava per niente e per nessuno. A meno che…
- Ma che dici! - esclamò, agitando una mano. - Potrei aver visto Graham da Granny’s, oggi…
- Ah - replicò Emma, sorridendo sorniona. - Graham. Capito.
Ruby scosse la testa e il rossore svanì. - Tornando a noi. Ti dispiace sì o no? Che Neal sia fuori.
Emma distolse lo sguardo, posandolo sui disegni geometrici del tappeto. 
- Sinceramente - cominciò - non lo so nemmeno io. Non voglio rivederlo, Ruby. Anche perché non saprei che dirgli.
- Be’, questo cambia le cose. Se non sei contenta di vederlo fuori, non dovresti vederlo e basta.
- Lui era colpevole, Ruby. Lui aveva davvero rapinato quelle banche. Le prove c’erano. E si è fregato con le sue stesse mani. Per me è finita un anno fa.
Ruby annuì, in silenzio.
- Se è finita, allora non sei obbligata a riprenderlo nella tua vita - aggiunse. - Non gli devi niente, Emma. Oltretutto, sei stata indagata, per colpa sua. Non dimenticarlo.
- Non l’ho dimenticato - rispose lei. - Per niente. Io mi fidavo, di lui. E lui ha mandato tutto all’aria. 
Sollevò gli occhi su Ruby, riprendendo in mano la sua tazza. - Ciò nonostante, non potrò evitare per sempre un incontro con lui. Prima o poi arriverà quel momento, il momento in cui dovrò guardarlo negli occhi. 
- Allora fa’ in modo di essere preparata - le consigliò l’altra. - Provi ancora qualcosa per lui? 
Emma rimase in silenzio, riflettendo sulle parole di Ruby.
- Penso che riuscirò a capirlo solo quando ci ritroveremo l’uno di fronte all’altra. Vorrei incontrarlo, soltanto per liberarmi del suo fantasma, ma allo stesso tempo non voglio vederlo mai più. Non lo voglio più nella mia vita.
- Hai sofferto, Emma. È normale. Ti dico solo di pensarci bene. A volte, l’amore è semplicemente più forte di tutto. Ma altre volte ha il potere di distruggerti. Quindi fa’ attenzione.
- Tu lo sai bene, eh? - rammentò Emma. - Ti manca, Peter?
Ruby le sorrise. - A volte. Ora non più tanto spesso. Sto bene. Finalmente tutto sta tornando al suo posto, nella mia vita.
Emma annuì, ricambiando il sorriso dell’amica. Poi, lo sguardo di Ruby venne attirato dalle fotografie sparpagliate sul tappeto, poco lontano, e le scatole aperte lì accanto.
- Cosa stavi facendo? 
- Guardavo vecchie foto dei miei genitori - rispose Emma scrollando le spalle. - Ogni tanto mi piace osservare i loro volti e immaginare le loro vite. 
Ruby si alzò, poggiando la tazza ormai vuota sul tavolino, e si inginocchiò a terra, accanto alle scatole. Prese in mano la fotografia di David.
- Be’ - commentò. - Ora ho capito perché sei così bella, Emma.
Quest’ultima si lasciò scappare una risata e raggiunse l’amica sul tappeto.
- Non sono così bella - commentò. - Ed è di mio padre che stai parlando.
- È difficile essere obiettivi quando guardi una foto del 1981, no? Quanti anni aveva? Venti? Ventidue? Diamine, era sexy!
- Ruby! - esclamò Emma dandole una piccola spinta.
Ruby scoppiò a ridere e l’altra si unì a lei. Non rideva così bene da alcuni giorni, a dire il vero. Le era mancato.
- Okay, okay, la smetto di fare commenti allusivi - replicò Ruby alzando le mani. - E pensieri poco casti, aggiungerei.
Emma le rivolse un’occhiata severa, senza dire niente. Ruby rise ancora.
- Grazie per essere passata - disse Emma dopo qualche minuto. L’amica stava osservando le fotografie con attenzione. Alzò gli occhi e le sorrise. 
- Sono contenta di averlo fatto. Era da tanto che non chiacchieravamo così.
- Era da tanto che non chiacchieravo di me in generale - aggiunse Emma ridendo. - Mi ci voleva proprio. Penso di aver fatto chiarezza nei miei pensieri, ecco.
- Ne sono contenta - concluse Ruby stringendole una mano con affetto. 
Le due si guardarono teneramente, poi Emma esclamò: - A proposito, adesso ti faccio vedere una foto di mio padre in costume! Ci stai?
- Non avevi detto di smetterla di fare pensieri sconci?
- Sì, ma siccome sei stata un tesoro con me, premio la tua depravazione a modo mio.
Ruby scosse la testa.
- Ecco la vera Emma Swan… - aggiunse ridacchiando.
 
 
* * *
 
 
*Upper West Side, New York - marzo 2013
- Alla fine sei venuto.
Neal annuì, le mani affondate nelle tasche. - Che cosa vuoi?
Mr Gold, completo impeccabile e l’inseparabile bastone con pomolo dorato, sorrise. 
- Perché non ci sediamo? - chiese indicando il salotto privato alla sua destra. 
- Perché invece non mi dici cosa vuoi? Dovrai essere convincente, però.
Gold annuì e si limitò a lanciare una fugace occhiata al locale alle sue spalle. Le luci basse rendevano l’ambiente semibuio e alcune cameriere si aggiravano tra i tavoli indossando provocanti minigonne e camicette strizzate sui seni e reggendo vassoi con bicchieri pieni di alcolici. Gli avventori fumavano e una nube tossica aleggiava in alto sopra le loro teste. Neal storse il naso. Non era il genere di locale che era solito frequentare. Immaginò che Gold avesse preferito incontrarlo sul suo terreno, terra di scabrosi gangsters, pupe ingioiellate e sesso, droga e vodka liscia. 
- Ho in ballo un progetto, Bae - iniziò Gold. 
- Non chiamarmi così - esclamò Neal. - Non sono più il ragazzino di quel nomignolo.
Gold annuì, fissandosi le scarpe eleganti. - Ho in ballo un progetto e ti voglio con me.
- Mi vuoi con te? - ripeté Neal, sputando quasi fuori le parole.
- Ti voglio con me, sì. Ci stai?
 
 
 
 
NOTE
  • Nel capitolo affrontiamo alcuni salti temporali, spostandoci dal presente - marzo 2013 - ad un piccolo flashback ambientato nel gennaio 2012, riguardante una delle ultime conversazioni tra Emma e Neal prima che quest'ultimo venisse arrestato. Da lì, torniamo nel presente.
  • Peter: il famoso Peter conosciuto nella serie, cioè il fidanzato di Ruby nella Foresta Incantata.
  • Avete colto i piccoli riferimenti alla RedHunter [Ruby|Graham] e alla RedCharming [Ruby|Charming]? Adoro entrambi i pairing <3
  • Il finale tra Neal e Mr Gold lascia aperti parecchi interrogativi. Perchè Gold rivuole Neal con sè?
 
 
 
Ebbene sì, un nuovo aggiornamento dopo tanto tempo. Scusate, ma sto gestendo tre long più una raccolta e il tempo è quello che è, purtroppo. Cioè poco. Alla fine però ce l'ho fatta.
So che molto probabilmente mi odierete, perchè il nostro Killian non si è visto e non c'è stata una singola scena CaptainSwan in tutto il capitolo e, tanto per girare il dito nella piaga, ho inserito un flashback SwanFire. Portate pazienza, miei prodi! Arriverà anche il momento dei nostri Emma e Killian. Già nel prossimo capitolo li rivedrete interagire. E poi, ormai avete capito che il mio Killian è parecchio enigmatico, no?
 
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Vi lascio come sempre il link del mio gruppo Facebook, per spoiler, foto e altro. Ecco il link: https://www.facebook.com/groups/159506810913907/
 
Inoltre, vi propongo la mia raccolta RubyxGraham, nata come spin-off di questa long. 
 
 
Detto ciò, mi dileguo.
 
Marti
 
ps ringrazio TANTISSIMO tutti coloro che hanno inserito "Haunted" tra le seguite. Ben 30 persone! Ancora non ci credo! Ringrazio anche chi recensisce con costanza, chi mi appoggia e sopporta e chi legge silenziosamente questa storia <3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Haunted
CAPITOLO 6
 
 
 
 
*Greenwich Village, New York – Aprile 2013
- …e adesso per noi, il nostro esperto in collegamento da Chicago per gli aggiornamenti sul meteo dei prossimi giorni. Altra pioggia in arrivo sull’East Coast, Mark?
L’uomo chiamato Mark rise, gracchiando nella radio.
- Pioggia e sole, Isabelle. Buongiorno a tutti, America!
Emma spinse con forza sul tasto “off” e Mark e Isabelle si persero così nel vasto mondo delle trasmissioni radiofoniche. Fermò il maggiolino giallo poco distante dall’ingresso illuminato del Granny’s e scese dall’abitacolo. Aveva il giorno libero e quando non doveva lavorare le piaceva tirare fuori la sua vecchia automobile dal garage e farla correre per le arterie cittadine. Come al solito, la sua fedele compagna di avventure attirò gli sguardi incuriositi e ammirati di alcuni passanti, molto probabilmente collezionisti, amanti di auto d’epoca o semplicemente interessati osservatori. Percorse i pochi metri che la separavano dalla tavola calda con la testa immersa nella borsa comprata con i saldi da Macy’s l’inverno scorso – era stata una vera occasione -, alla disperata ricerca del telefono. Lo sentiva squillare, ma quel dannato aggeggio non voleva proprio farsi trovare.
L’urto con un altro corpo umano avvenne in una frazione di secondo. Emma alzò gli occhi giusto in tempo per incrociare quegli incredibilmente azzurri dell’altra persona di fronte a lei, ma ormai l’impatto era inevitabile. La borsa le cadde a terra e una parte del suo contenuto si sparse sul selciato umido. Emma ringraziò il cielo di aver tempestivamente posato un paio di assorbenti sulla lavatrice, quella mattina, altrimenti sarebbero di sicuro volati in aria e atterrati ai piedi dell’ultima persona che la donna si sarebbe aspettata di incontrare. Di nuovo.
- Jones! – esclamò stupefatta, precipitandosi a raccogliere la sua roba.
- Oh, Swan, mi dispiace – rispose lui aiutandola e passandole la sua piccola agenda nera rilegata. Emma l’accettò senza nemmeno guardarlo in faccia. Il suo cognome era suonato particolarmente bene, pronunciato dalle sue labbra. E non voleva che lui le leggesse in faccia lo stupore per quell’incontro e il piacere che le aveva provocato. Quell’uomo faceva nascere in lei emozioni dannatamente contrastanti.
- Non guardavo dove stavo andando – disse lei rialzandosi e stropicciando la borsa, per poi decidersi a guardare Jones negli occhi. Una fitta di qualcosa di non propriamente definito le artigliò lo stomaco, ma la ricacciò indietro, qualsiasi cosa fosse. Non aveva tempo per gestire anche quello, in quel momento. A dire il vero non aveva tempo per gestirlo in generale.
- Nemmeno io – aggiunse l’uomo sorridendole. Aveva un sorriso in qualche modo magnetico, sarcastico. E allusivo, aggiunse una vocina nella testa di Emma. Allusivo e sexy. Emma scosse la testa e guardò l’orologio.
- È presto, come mai in giro a quest’ora? – gli chiese.
- Potrei farti la stessa domanda, Swan – rispose. Ancora quel sorriso. Ancora quell’espressione. Sembrava la volesse spogliare con gli occhi mentre osservava il suo cappotto rosso e i suoi capelli biondi. Emma si sentiva esplorata e la sensazione stranamente le piacque. Perché Jones aveva quel potere su di lei? Cosa le stava succedendo?
- Be’, io ho un appuntamento per colazione. Da Granny’s.
- Un appuntamento? Galante? – le chiese con tono interessato e ironico.
- Con un’amica. La conosci: Lacey French, la libraia della Bruised Apple.
- Ah, sì. Lacey, certo.
- E tu, invece? – gli chiese Emma. Buttò alle ortiche ogni discrezione, visto che lui non sembrava aver adottato quella linea d’azione con lei. Anzi, le aveva rivolto domande esplicite e dirette e la donna si chiese perché lei non potesse fare lo stesso.
- Ho appena fatto colazione al Diner – le spiegò, le mani buttate nelle tasche del cappotto blu. – Mi piace alzarmi presto. Adesso probabilmente vagherò per il Village scattando fotografie.
William tirò fuori una vecchia macchina fotografica della Canon da una delle ampie tasche del cappotto, sventolandola sotto gli occhi interessati di Emma.
- Giusto, sei un fotografo – disse lei, ricordando i tempi in cui aveva interrogato Jones in Ericsson Place e lui le aveva raccontato cosa faceva per vivere. Lo aveva trovato estremamente affascinante.
- Niente lavoro, oggi? – le chiese ancora lui. Continuava a guardarla interessato, con quello sguardo attento e profondo e ironico che lo contraddiceva.
- È il mio giorno libero. Ne approfitto per non fare assolutamente niente e ingozzarmi di pancakes.
Jones scoppiò a ridere. Emma non lo aveva ancora visto ridere, da quando lo aveva conosciuto. La sua risata lo rispecchiava e gli illuminava lo sguardo. Tornò serio e tornò a guardarla intensamente.
- Sai anche essere divertente, Swan – la provocò. Quel nome le provocò altri brividi lungo la schiena. – Incredibile.
- Già – replicò lei, all’improvviso piccata. Chi diavolo si credeva di essere, quel Jones, per prenderla in giro così? Decise di porre fine a quella strana conversazione.
- Ora, se non ti dispiace… non vorrei arrivare in ritardo al mio appuntamento – concluse Emma risoluta.
- Non ti trattengo oltre, allora – disse lui. – A proposito… Anche io so essere divertente, anche se non si direbbe. Se ti serve qualcuno con cui non essere seria, fammi un fischio.
Le fece l’occhiolino ed Emma sentì le guance prendere inaspettatamente colore. Cosa andava a pensare? Le aveva soltanto proposto di vedersi, qualche volta. Giusto? Non c’era assolutamente niente di allusivo. Proprio no.
- Oh, be’, sicuro – bofonchiò lei guardandosi le scarpe.
- Ci si vede in giro, Swan.
Jones le rivolse un altro mezzo sorriso, la guardò un’ultima volta e poi si allontanò lungo il marciapiede. Emma lo osservò andare via, il passo lento e cadenzato di chi non ha fretta.
Dannazione, gli incontri con Jones la lasciavano sempre senza fiato, imbambolata a fissare il vuoto e con il cuore che le batteva furioso nel petto. Perché le faceva quell’effetto?
 
 
* * *
 
 
- Insomma, ti ha implicitamente chiesto di uscire?
- Non lo so, Lacey. Implicitamente o no, il riferimento era chiaro.
Emma guardò l’amica, seduta all’altro capo del tavolino da Granny’s. Sorseggiò la sua cioccolata con panna e cannella e giocherellò con gli avanzi dei suoi pancakes. Ruby volteggiava tra i tavoli, leggiadra e indaffarata ma sempre perfetta.
- Io dico che ti piace – aggiunse Lacey posando la sua tazza di tè. – Insomma, è palese che lui sia interessato a te. Ed è palese che tu ti struggi per capirlo. E non ci va il genio della lampada per fare due più due, Emma Swan. Ti piace, ammettilo con te stessa e dagli una possibilità.
Emma la osservò e le scappò un mezzo sorriso, che però nascose nella tazza. Non voleva dare a Lacey la soddisfazione di aver indovinato. Su tutta la linea. Forse, il fatto che qualcuno glielo avesse sbandierato davanti agli occhi ad alta voce aveva reso il tutto più reale. Soprattutto nella sua testa. Il fatto che le piacesse un uomo – e fosse dannatamente attratta da lui – non avrebbe dovuto essere anormale. Tutto ciò che il mondo considerava naturale, Emma lo trovava in qualche modo strano, come se tutto si capovolgesse. Non si sentiva più sicura di niente, quando si trattava del suo cuore. L’aveva già tradita una volta e non voleva che succedesse di nuovo. Non poteva permettersi di sbagliare. Di sbagliarsi. Non di nuovo. Non su di lui.
Emma alzò gli occhi dalla tazza, ma la sua attenzione venne calamitata dalla televisione, appesa proprio di fronte a lei sulla parete opposta, accanto alla porta che dava sul retro del Granny’s. Sullo schermo scorrevano le immagini di Tribeca e della Bank of America, la vetrina principale sfondata e quattro o cinque volanti ammassate all’esterno, sul marciapiede affollato della Broadway.
- Arriva adesso il collegamento con la nostra inviata, in questo momento all’esterno della filiale di Tribeca della BOA. Ti sentiamo, Ginny.
- Grazie, Meg. Come vedete, quello dietro di me è ciò che rimane della facciata principale della filiale della Bank of America presa d’assalto ieri notte. La polizia è corsa sul posto e tutti gli agenti sono stati allertati. Per adesso, il capitano Hunter di Ericsson Place non ha rilasciato dichiarazioni alla stampa, ma Li Fang, il direttore, appare tutt’ora piuttosto scosso dall’accaduto.
Emma riuscì solo a fissare lo schermo, sconvolta. Un’altra rapina. Dopo tutto quel tempo. Il cellulare prese a squillare, furioso. Questa volta lo trovò quasi subito e la voce tonante di Hunter la investì dall’altro capo.
- Swan! – esclamò. – Si può sapere dov’eri finita? E rispondi a quel dannato telefono, per favore!
L’incontro con Jones le aveva fatto completamente scordare il cellulare.
- Ho appena sentito la notizia, capo – rispose lei.
- Corri subito alla centrale. Ho appena chiamato Humbert, sta arrivando anche lui. Ci vediamo là.
Così dicendo, Hunter chiuse la comunicazione senza nemmeno attendere una risposta. Addio, giorno libero.
- Devo andare, Lacey – disse all’amica, che la guardava preoccupata. – Era Hunter. Mi vuole alla centrale.
- Mi spiace, Emma – rispose l’altra sorridendole dolcemente. – Non ti preoccupare, vai pure se devi.
Emma annuì e si alzò in piedi. Sondò il locale alla ricerca di Ruby e l’avvistò sparire in cucina.
- Salutami Ruby e spiegale tutto.
- Certamente. Sta’ tranquilla.
- Ciao, Lacey.
Emma si chinò e abbracciò l’amica.
- Ciao, tesoro. E non ti arrabbiare troppo – le gridò dietro mentre Emma procedeva a passo spedito verso la porta. Mentre raggiungeva il maggiolino, agguantò nuovamente il telefono, componendo il suo numero. Prima di chiamare indugiò. Non avrebbe potuto avere una conferma da lui prima di sapere l'ora effettiva della rapina. Non poteva essere certa della sua innocenza, ma nemmeno della sua colpevolezza. Lanciò il telefono in borsa e salì in macchina.
 
 
* * *
 
 
*Greenwich Village, New York - aprile 2013
Il tintinnio dei sonagli appesi alla porta e il suo lento richiudersi destarono Lacey dalle sue riflessioni. Si trovava nel retro e stava preparandosi l’ennesima tazza di tè del pomeriggio. Erano le cinque e il profumo del Prince of Wales la richiamava invitante dalla mensola della piccola cucina che aveva allestito in libreria.
- Arrivo subito - gridò all’indirizzo del misterioso cliente, asciugandosi le mani.
- Non si preoccupi - replicò l’altro con un marcato accento inglese.
Lacey, incuriosita, raggiunse il fronte del negozio con passo sicuro, i tacchi che risuonavano sul parquet antico.
L’uomo le dava le spalle, sfogliava una vecchia copia di “Tender Is The Night” poggiata sul tavolino nell’angolo, proprio accanto alla macchina da scrivere Underwood risalente forse ai primi anni del ‘900. Indossava un lungo cappotto scuro e teneva il colletto alzato. Si voltò non appena sentì il rumore dei suoi passi. Un paio di incredibili occhi azzurri la fissarono sorpresi, mentre un sorriso vagamente misterioso ma gentile gli illuminò il volto.
- Lei deve essere miss French, la libraia - esordì, e il suo accento inglese fu ancora più evidente.
- Sì, sono io - rispose Lacey, sorpresa di ritrovarsi un così bell’uomo nella sua piccola libreria. - Lacey French, per l’esattezza.
- Mi presento - continuò lui facendo qualche passo nella sua direzione. - Jefferson Dodgson. Incantato.
Le tese la mano e, quando lei gli porse la sua, lui gliela baciò, lievemente, e le sue labbra nemmeno sfiorarono la sua pelle. Lacey continuò a guardarlo, vagamente rapita.
- Dodgson… Lei è per caso parente del signor Dodgson, un mio affezionato cliente?
- Esattamente. Sono il figlio.
- Oh, il figlio! - esclamò Lacey, stupita. In effetti, aveva gli stessi occhi del padre.
- Proprio lui. Mio padre era impossibilitato a lasciare l’Inghilterra per problemi di salute e ha mandato me a sbrigare alcune commissioni lasciate irrisolte nel Nuovo Mondo.
- Mi spiace stia male - replicò Lacey dispiaciuta. - Spero non sia nulla di grave o irrisolvibile…
- Non si preoccupi. Non può alzarsi dal letto, ma le sue condizioni vanno verso un netto miglioramento. Grazie dell’interesse.
- Che maleducata, non le ho nemmeno chiesto di sedersi! - esclamò lei dandosi una sonora pacca sulla fronte. - Il tè dovrebbe essere pronto. Ne gradisce una tazza?
- È sempre l’ora del tè, dico bene?
Lacey gli sorrise. - “Alice’s Adventures In Wonderland”. Adoro quel libro.
- Io non particolarmente, ma capisco che possa suscitare un vago interesse, ecco.
Si sorrisero ancora per qualche secondo, forse più del dovuto, e poi Lacey sparì nel retro, da dove riemerse con un vassoio, due tazze e qualche biscotto. Era una strana persona, quel Dodgson, che forniva risposte altrettanto strane, ma decise di riservagli il beneficio del dubbio.
- Gradisce latte o limone, nel tè? - gli chiese poggiando il vassoio sul tavolino.
- Latte, assolutamente. Non capisco chi alteri il gusto del tè con il limone - rispose lui.
Lacey sorrise tra sé e sé. Aveva lasciato il limone in frigorifero.
Si sedettero sulle due poltroncine preferite di Lacey e sorseggiarono il tè in silenzio per qualche minuto.
- Allora - cominciò l’uomo, che intanto si era tolto il cappotto. Sotto indossava un completo giacca e pantalone grigio scuro, una camicia blu scuro e una stramba cravatta a pois blu e grigi. - Cosa l’ha portata ad aprire questo piccolo negozio qui a New York? So che suona impertinente, ma sono fatto così. Inoltre, mi sembra piuttosto giovane.
- Non così giovane - replicò Lacey poggiando la sua tazza sul piattino e sorridendo. - In ogni caso, mi piacciono le domande impertinenti. Ho sempre amato i libri, fin da bambina. Ho studiato in Francia e poi sono tornata a casa, qui a New York. Aprire una libreria mi è sembrata la strada giusta, forse l’unica possibile per me. Non c’è una spiegazione logica o sensata.
- Capisco. È stato un atto coraggioso, comunque. Nessuno oggigiorno rischia qualcosa per cose come i libri e la cultura.
- Già - concordò Lacey tristemente. - Invece lei? Ha fatto tutta questa strada solo per ritirare un libro?
- Certo che no. Il libro è soltanto uno dei motivi del mio viaggio. Mio padre ha insistito per scusarsi per il ritardo con il quale passiamo a ritirare la copia che le aveva ordinato. Ovviamente, non è stato possibile venire prima.
- Non è un problema - rispose Lacey. - Davvero. Capisco benissimo le circostanze.
- Mi tratterrò a New York per qualche tempo, in ogni caso - concluse Jefferson alzandosi e spazzolando via dal vestito briciole che non c’erano. Era strano: alternava momenti di allegria a momenti di cupezza, durante i quali sembrava ricordare all’improvviso tristi episodi della sua vita, che gli risucchiavano via ogni gioia. Quegli occhi così azzurri nascondevano segreti e oceani di misteri. Lacey si sarebbe ritrovata ovviamente ad immaginare mille scenari possibili e diversi, che partivano dallo spionaggio da parte della corona inglese a misteriose eredità e omicidi famigliari.
- Vado a prendere la copia de “The Hunting Of The Snark”, allora - si affrettò ad aggiungere lei.
Consegnò a Jefferson la copia del romanzo di Carroll e lui l’osservò soltanto per pochi istanti, prima di farla sparire in una delle profonde tasche del suo cappotto.
Le sorrise e i suoi occhi tornarono a illuminarsi. - Grazie mille per il tè, miss French. È stato un piacere conoscerla. Adesso capisco perché mio padre faccia tutta questa strada per comprare i libri qui da lei…
Lacey si sentì arrossire e cercò di non darlo a vedere a Jefferson scuotendo la testa e fissandosi le scarpe.
- Suo padre è sempre gentile. Il minimo che possa fare è esserlo anche io, soprattutto trovando tutti i suoi ordini.
- Sono sicuro che sia così. Quanto le devo per il libro?
- Dica a suo padre che è un regalo da parte mia, per una sua pronta e sicura guarigione.
- Regalare un libro ha un potere straordinario, lo sa, Miss French? È un po’ come svelare una parte di sé.
Lacey lo fissò per qualche istante, incantata. Le sue parole avevano il potere di incatenarla e allo stesso tempo spaventarla. Non era sicura che le piacesse davvero, eppure si sentiva attratta, attirata come un’ape da un fiore. Non aveva mai incontrato nessuno che le facesse un simile effetto. Nessuno che le fosse piaciuto in quel modo, così inaspettato e strano. All’improvviso si sentì spaesata, quasi spaventata all’idea di non rivederlo, forse mai più, anche se era affrettato, anche se non lo conosceva affatto e forse quello che sentiva era tutto tranne che ponderato e ben pensato. Eppure non riusciva a tenere a freno il cuore.
Jefferson Dodgson si avviò lentamente verso la porta ma, poco prima di aprirla, si girò nuovamente verso Lacey, che non aveva accennato a staccargli gli occhi di dosso.
- Quell’Underwood - e lanciò un’occhiata alla macchina da scrivere. - Da quanto tempo è rotta?
Lacey osservò la sua fedele amica solitaria sul suo tavolino. Scrollò le spalle.
- Da sempre, che io sappia. L’ho comprata ad un vecchio mercatino a Londra, due anni fa.
- Se vuole, posso provare a farla ripartire.
Lacey lo guardò stupita. - Sarebbe in grado di farlo?
- Aggiusto cose - replicò soltanto Jefferson. - Passerò uno di questi giorni a darle un’occhiata più attenta. Siamo d’accordo?
Lacey annuì. - Siamo d’accordo.
Jefferson le restituì il sorriso e sparì, lasciando dietro di sé una scia di mistero ed eroico e oscuro romanticismo.
 
 
* * *
 
 
*Tribeca, New York - aprile 2013

 - È appena arrivato il rapporto, capo - disse Matt avvicinandosi e sventolando un plico di fogli freschi di stampa.
- Sono compresi i dettagli sull’orario e le riprese delle telecamere di sorveglianza esterne? - chiese Miles Hunter, appoggiato ad una delle scrivanie della centrale, le maniche della camicia arrotolate e l’ennesima tazza di caffé ormai vuota poggiata sul piano in legno. Emma e Graham stavano in piedi di fronte a lui, attenti.
- C’è l’orario, ma le riprese arriveranno probabilmente domani mattina - rispose Matt porgendo i fogli ad Hunter. - Ci vorrà un po’.
Hunter storse la bocca ma non disse nient’altro, concentrandosi sul rapporto.
Emma attendeva quel dannato orario da ore, da quando quella mattina era arrivata in Ericsson Place. Avevano dovuto attendere, perché alcune testimonianze sull’accaduto erano risultate discordanti. Secondo un taxista passato da lì all’una di notte, tutto era tranquillo. Un altro testimone, invece, aveva udito dei forti rumori intorno alla mezzanotte e trenta. Il rapporto avrebbe chiarito tutto.
- Quel taxista era probabilmente reduce da una brutta giornata, per non aver visto i danni provocati alla banca - disse finalmente Hunter chiudendo il fascicolo e buttandolo sulla scrivania accanto a lui. - Il secondo testimone aveva ragione: la rapina è avvenuta tra la mezzanotte e trenta e l’una. All’una, i ladri hanno levato le tende e se la sono data a gambe. Lavorano bene: sono riusciti ad intercettare e filtrare il dispositivo di allarme, probabilmente con un ackeraggio davvero ben riuscito.
Mezzanotte e trenta, pensò Emma.
- Pensa che dietro ci possa essere la stessa banda dell’ultima volta, capo? - chiese Bryce, che poi lanciò un’occhiata tesa ad Emma. - Senza offesa, Emma, ma i dubbi in questo caso sono legittimi. Il tuo fidanzato è da poco stato rilasciato e un’altra banca viene rapinata.
- Neal non è più il mio fidanzato - disse solo lei, le braccia conserte, seria.
Bryce distolse lo sguardo puntandolo poi su Hunter, che intanto soppesava la cosa.
- Non lo so, agente Bryce - rispose, diplomatico. - In ogni caso, il modus operandi mi sembra leggermente variato dall’ultima volta, ma la banda potrebbe benissimo aver assunto qualche esperto del settore. Sarà comunque meglio sentire il signor Cassidy per ricevere un chiarimento sulla sua posizione all’ora della rapina.
- Non sarà necessario - disse Emma facendo un passo avanti. Sentì gli occhi di Graham puntati addosso. Sentì gli occhi di tutti puntati addosso. Fece un sospiro.
- Swan? - la interrogò Hunter, curioso.
- Non sarà necessario convocare Neal Cassidy. Non è stato lui a rapinare quella banca.
- E come fai ad esserne certa?
- Lo so perché al momento della rapina era con me. Neal era con me.
 
 
 
 
 NOTE
 
  • Ovviamente, la Bank of America esiste davvero, così come esiste una sua filiale sulla Broadway, all’angolo con Warren Street.
  • Li Fang è il presidente della filiale della BOA e padre di un personaggio che molto presto conosceremo… vediamo se indovinate a chi alludo…
  • “Tender Is The Night” è il titolo originale de “Tenera è la notte”, romanzo del mio amato Francis Scott Fitzgerald, al quale molto spesso faccio omaggio qua e là nelle mie storie.
  • La Underwood è davvero una nota marca produttrice di macchine da scrivere.
  • Jefferson è proprio il nostro Jefferson, ed è figlio del misterioso signor Dodgson, che aveva fatto la sua comparsa nel capitolo 4, ricordate?
  • “È sempre l’ora del tè”: citazione da “Alice nel Paese delle Meraviglie”.
 
 
 
Beh, chi non muore si rivede, non si dice così?
A parte di scherzi... mi scuso con tutti voi lettori adorabili per questo ritardone nelle pubblicazioni, è che lavorare in un negozio in un centro commerciale vuol dire passare i giorni antecedenti al Natale senza uno straccio di tempo libero utile e quindi senza tempo per scrivere. Ora il boom è passato - compresi i primi giorni di saldi XD - e riesco a tornare attiva, infatti eccovi qui un nuovo capitolo della mia long.
Nello scorso capitolo avete tutti sentito la mancanza del nostro Killian, che qui torna in scena, affascinante più che mai, e manda Emma nel pallone. Ovviamente. Aspettate di leggere il prossimo capitolo... :3
Che ne dite di Jefferson? Ho sempre sognato di riuscire ad inserirlo in una long e devo dire che sono riuscita a trovare il ruolo adatto a lui. Se vi ricordate del signor Dodgson - che appare appunto nel capitolo quattro - magari vi ricorderete che Dodgson è il vero nome di Lewis Carroll. Che coincidenza, eh? Ovviamente, vi permetto di shipparlo senza ritegno con la nostra Lacey. Non sarebbero bellissimi? A tal proposito, ringrazio infinitamente la mitica Giulia/Yoan per avermi fatto amare alla follia la MadBeauty <3
Infine, per quanto riguarda il finale a sorpresa, ricordate che niente è come sembra... per cui non disperate ;-)
 
 
Alla prossima!
Marti
 
ps colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che leggono e seguono Haunted. I followers sono saliti a 36 *^* da non crederci! Vi adoro <3

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***



Haunted

CAPITOLO 7
 
 
 
 
*Brooklyn, New York – aprile 2013 - 48 ore prima
L’aria era frizzante, quella sera. Fredda no, ma elettrificata. Ti sfiorava la pelle in superficie e ti si propagava in tutto il corpo.
Emma teneva le mani buttate nelle tasche del cappotto, in attesa. Si erano dati appuntamento piuttosto tardi, ma Emma aveva finito il turno alle undici e non era riuscita ad essere lì prima di mezzanotte e trenta. Lo aspettava all’angolo della strada sotto casa sua, proprio di fronte ad un piccolo bar aperto ventiquattro ore su ventiquattro, dove potevi bere caffè forte e mangiare muffins anche per tutta la notte. Lo vide arrivare, la sua alta e spessa figura ammantata in un corto cappotto scuro, i capelli spettinati e le mani in tasca. Si fermò a poca distanza da lei, in silenzio. Si guardarono ed Emma rivide davanti a sé tutto quanto: tutti i giorni passati, tutte le attese, le domande, i dubbi, le incertezze. Ma anche i bei momenti, le gite a Coney Island, i pic-nic a Central Park, le mattinate di pioggia passate a letto, nella sua casa a Brooklyn. Le chiacchiere di fronte al tramonto, una tazza di tè e un maglione profumato. Rivide il passato. Rivide un’Emma diversa, più disincantata, meno cinica. Meno forte. Rivide ciò che non era più.
- Emma… - disse lui finalmente, la voce roca.
- Neal – lo salutò lei, la voce ferma.
- Ti va un caffè? – le chiese facendo cenno al bar.
Lei annuì soltanto e Neal la seguì all’interno del locale. Si sedettero e ordinarono due caffè lunghi e delle uova strapazzate per Neal. La cameriera annoiata ancheggiò via e Emma incontrò il suo sguardo.
Era dimagrito. Un accenno di occhiaie gli emaciava il viso. La barba era di qualche giorno, poco curata. Gli occhi erano stanchi, spenti, privi di entusiasmo. Le mani si stringevano spasmodiche sul piano in linoleum del piccolo tavolino. Anche lui la osservava, nervoso.
- Come stai? – le chiese infine.
- Bene – rispose Emma alzando le spalle. – Non mi lamento.
Non sapeva nemmeno perché avesse acconsentito ad incontrarlo. Lui l’aveva chiamata a casa e la sua voce era così carica di tensione, così significativamente tormentata e ansiosa che non era riuscita a declinare. Non era riuscita a dirgli di no. Forse doveva a se stessa quell’incontro. Se lo doveva per capire, per ammettere una volta per tutte che era finita, che quello che c’era stato era ormai un ricordo, che la sua presenza non poteva più ferirla. In quel momento, seduta di fronte a Neal Cassidy, in quel bar illuminato a giorno, con la luce dell’insegna lampeggiante nella notte, una tazza di caffè nero di fronte a lei, non sentiva niente. Tutto quello che aveva provato per quell’uomo, tutto l’amore, tutti i progetti, tutta la tensione, era sparito, evaporato. Non provava nemmeno più la rabbia cieca dei primi tempi, quando l’unico suo desiderio era di fargli del male – male fisico – solo per dimostrargli quanto l’avesse ferita, quanto il suo cuore si fosse spaccato. Adesso invece provava solo un pizzico di nostalgia – nostalgia dei tempi andati, quando tutto era più facile e limpido – e quintali di pena. Pena per il destino di un uomo che aveva fatto tutte le scelte sbagliate. Un uomo rotto, un pallido riflesso di ciò che era stato, ormai troppo stanco e afflitto per lottare. Dov’era finito Neal Cassidy?
- Non posso fermarmi a lungo – disse lei sorseggiando il caffè.
- Non voglio trattenerti più del necessario – replicò sorridendole. Eccolo, un lampo di Neal. Per un momento, il suo sorriso lo aveva riportato indietro.
- Perché mi hai chiamata? – chiese lei, decisa.
Neal sospirò. Osservò le uova, ancora intatte nel piatto bollente. Poi alzò gli occhi su di lei.
- Voglio solo dirti che mi dispiace, Emma. Per tutto. Ho fatto un tremendo sbaglio, lo so, l’ho capito e se potessi, tornerei indietro per cambiare le cose, te lo giuro. Ho perso tutto. Ho perso te. E questa è la cosa peggiore.
- Hai fatto una scelta, Neal. La scelta sbagliata. E no, non si può tornare indietro. E forse nemmeno lo vorrei.
- Mi odi, Emma? Ti ho quasi rovinato la carriera. Ho distrutto tutto quello che avevamo…
Emma scosse la testa. – Non ti odio, Neal. Non più. Ho creduto di odiarti. C’è stato un periodo che avrei voluto ucciderti con le mie stesse mani, da quanto odio provavo. Ma no. Non ti odio. E forse nemmeno ti odiavo all’epoca. L’ho capito tempo fa.
Neal annuì, deglutendo.
- Non c’è nient’altro che io possa dire, vero? – chiese guardando Emma che si alzava in piedi. Non si era nemmeno tolta il cappotto. L’orologio del locale segnava che mancavano cinque minuti all’una. All’improvviso, il sonno l’assalì. Tutta la stanchezza della giornata minacciava di farla barcollare.
- Non c’è nient’altro, no – replicò. – Stammi bene, Neal. E mangia quelle uova.
Emma gli diede le spalle e si diresse lentamente verso l’uscita. Dietro di lei, Neal fissava il piatto, in silenzio.
 
 
*
 
 
*Greenwich Village, New York – aprile 2013

- Allora, ragazzi? Cosa vi porto?
Emma alzò lo sguardo sulla sua amica Ruby, sorridente, il solito bloc notes per le ordinazioni fedelmente stretto in mano.
Avevano organizzato una serata al Granny’s tra amici. Lei, Lacey, Graham e Matt. Ruby si sarebbe unita a loro a fine turno. A volte Granny lasciava loro il locale per passare del tempo insieme dopo l’orario di chiusura. Finivano sempre per bere troppo e sparare oscenità, ma era divertente, in fondo.
Dopo che tutti ebbero ordinato – e dopo che Emma ebbe seguito lo sguardo lanciato da Graham a Ruby – si voltò verso Lacey. – Hai detto che hai invitato qualcuno?
- Sì – rispose l’altra sfoggiando un sorriso luminoso. – Si chiama Jefferson, l’ho conosciuto in libreria. È il figlio di un mio affezionato cliente storico, il signor Dodgson. È piombato in libreria la scorsa settimana per ritirare un libro per suo padre, che è malato e non può lasciare Londra. Abbiamo bevuto il tè e scambiato due chiacchiere e si è offerto di riparare la Underwood, ti rendi conto?
- La macchina da scrivere? – esclamò Emma, stupita.
- Esattamente! – proseguì Lacey sempre più entusiasta. – Ha detto che “ripara cose”.
- Molto vago ma elettrizzante, direi – commentò Emma.
- Quello che penso anche io. È passato altre due volte dalla libreria. Una per ritirare la Underwood con la promessa di riportarmela il più presto possibile. La seconda semplicemente per prendere il tè con me e vedermi e aggiornarmi sui progressi del suo lavoro. Dio, Emma, mi sembro una bambina alle prese con la prima cotta!
Emma rise. – Be’, mi sembra che questo Jefferson ti piaccia parecchio, Lacey. Non vedo l’ora di conoscerlo.
- Sì, per fargli il terzo grado, Emma? – esclamò Graham, che molto probabilmente aveva sentito uno sprazzo di conversazione.
- Non fare l’antipatico, Humbert – esclamò lei. – Lo faccio per Lacey, perché le voglio bene.
- Lo so, Emma cara – la rassicurò la sua amica poggiandole una mano sul braccio. Si sorrisero e poi lo sguardo di Emma venne catturato dalla persona che era appena entrata nel locale. William Jones. Indossava il solito cappotto blu e teneva la macchina fotografica appesa al collo. Non la vide subito, così lei ebbe modo di osservare i suoi occhi azzurri, il suo volto, la sua alta figura, il suo sorriso rivolto verso Ruby che gli aveva prontamente indicato un tavolo libero. Il suo sguardo quando si posò su di lei. Emma sobbalzò leggermente sulla panca in pelle e Lacey si girò verso di lei, stupita.
- Emma? Stai bene? – le chiese. Emma annuì soltanto. Jones continuava a guardarla, in piedi accanto al suo tavolo, poco distante da quello di Emma e i suoi amici. Si sentiva catturata dai suoi occhi, priva di difese, vulnerabile.
Improvvisamente si alzò, sotto lo sguardo stupito dei presenti, e si diresse verso il tavolo di Jones. Si fermò di fronte a lui, le mani nascoste nelle tasche posteriori dei jeans scuri.
- Swan – la salutò lui sorridendole.
- Jones, che ci fai qui? – chiese lei.
Lui alzò un sopracciglio. Letale, Emma, assolutamente letale, pensò lei.
- Sei sempre stata così curiosa, Swan, o è una conseguenza della professione?
Lei sorrise, abbassando gli occhi a terra.
- Credo di esserci nata. Temo – aggiunse.
Jones rise ed Emma si stupì ancora una volta della sua risata. Era sempre così serio e sarcastico che sentirlo ridere così apertamente le suonava strano.
- Sono passato per un caffè prima di tornarmene a casa, comunque. E tu? Sei in compagnia… - fece un cenno dietro le sue spalle, al suo tavolo. Emma lanciò un’occhiata giusto in tempo per beccare i suoi tre amici che, curiosi, osservavano la scena, le orecchie dritte. Tornarono tutti e tre a bere i loro drinks e a parlare fitto fitto tra loro. Emma alzò gli occhi al cielo e tornò a guardare Jones.
- Serata tra amici – spiegò. – Aspettiamo Ruby in chiusura.
Jones lanciò un’occhiata a Ruby, che veleggiava tra i tavoli, sinuosa e rapida. Per un momento, una fitta di qualcosa di indefinito attanagliò lo stomaco di Emma.
Gelosia, forse?, le sussurrò una vocina interiore.
Non dire sciocchezze, replicò la sua razionalità. Non posso certo essere gelosa di uno che conosco appena.
- Credo che ti lascerò tornare dai tuoi amici, allora – disse lui. – Non ti trattengo.
Peccato, vero, Emma? Eccola, la voce suadente.
Sta’ zitta!, replicò la razionalità.
- Oh, non preoccuparti, sanno sopravvivere cinque minuti senza di me.
- Ma non un’intera serata, quindi mi toccherà trovare un altro momento per offrirti un drink, Swan – replicò lui a voce bassa, avvicinandosi ancora.
Emma poteva sentire il suo profumo. Il cuore le sobbalzava nel petto.
- Credo di sì – disse solo lei.
- Buona serata, allora.
- Buona serata a te.
Emma fece dietro front e tornò a sedersi al suo tavolo. Da lì poteva vedere Jones distintamente, quasi come fossero seduti l’uno di fronte all’altra. Lui la osservava ancora, attento. Emma distolse lo sguardo, agitata.
- Allora? – le chiese Lacey.
- Allora cosa?
- Allora, si può sapere perché non lo hai invitato qui? Sei pazza, Emma Swan?
- Perché non l’ho invitato? Perché avrei dovuto, Lacey French?
- Perché ti piace, si vede lontano un miglio, e tu piaci a lui. Insomma, l’attrazione tra voi è palpabile, l’abbiamo sentita tutti, da qui.
Emma girò lo sguardo su Graham e Matt, che annuirono fingendosi seri. Emma alzò gli occhi al cielo.
- Non mi sembrava il caso, ecco – rispose infine.
- Ah-ah! – esclamò Lacey. – Allora ci hai pensato, eh?
- Uffa! Sì, ci ho pensato, okay? E mi ha anche detto che probabilmente mi inviterà a bere un drink, un giorno o l’altro.
Graham e Matt si dilettarono in un triste spettacolino condito da urla da stadio e grida di ovazione. Emma sbuffò.
- Siete sempre i soliti, voi due – esclamò. I ragazzi risero. Lacey scosse la testa.
- Lasciali perdere, a loro piace scherzare. Tu, piuttosto, vedi di darti una svegliata, Emma Swan.
 
 
*
 
 
Qualche tempo dopo, Jefferson Dodgson sedeva al loro tavolo, accanto a Lacey, e stringeva una tazza di caffè con panna. Emma aveva deciso che le piaceva. Era tremendamente affascinante, proprio come aveva immaginato. I suoi occhi azzurri emanavano una velata tristezza, che però andava ad infrangersi contro la dolcezza contagiosa di Lacey, che lo guardava incantata. Proprio come lui guardava lei. Emma decise che poteva stare tranquilla. Jefferson Dodgson era senz’altro un tipo misterioso e fuori dal comune, ma il suo sesto senso le diceva che era okay.
Tutta un’altra storia per Jones, ancora seduto al suo tavolo. In quel momento controllava le foto scattate sulla sua macchinetta, intento e concentrato. Emma si perse ancora una volta ad osservarlo. Non sapeva se poteva fidarsi di lui o meno. Era attratta da Jones, in modo tremendo e così forte che faceva male. Quando gli stava vicino il magnetismo era così potente che la spingeva ad avvicinarglisi ancora, in un circolo vizioso senza via di scampo. La sua parte razionale però la metteva in guardia. Sapeva poco e niente di lui, un uomo avvolto nel mistero, ammantato da quella parte oscura della sua anima che nessuno era riuscito a penetrare. Sentiva che sotto c’era qualcos’altro, ma non riusciva a capire cosa. Non poteva fare a meno di sentire la sua pelle bruciare, però. Era come un veleno ad azione lenta: la divorava dall’interno, senza possibilità alcuna di salvezza.
Lentamente, il Granny’s Diner si svuotò. Jones fu uno degli ultimi ad alzarsi. Guardò l’orologio da polso e si stupì dell’orario, come se avesse perso la concezione del tempo. Si affrettò a raccogliere le sue cose e ad alzarsi, diretto alla cassa. Emma sentiva lo sguardo di Lacey addosso, come se, guardandola, volesse spingerla ad agire. Non aveva il coraggio di incontrare i suoi occhi, però, e non riusciva a fare a meno di osservare Jones prendere il resto, sorridere cortese a Granny e dirigersi verso la porta. In un attimo, Emma si alzò dal suo tavolo e gli corse dietro.
- Hey, Jones! – esclamò. Lui era sulla porta e si voltò, stupito.
- Swan? – chiese.
- Ti va di restare?
 
 
*
 
 
*Greenwich Village, New York - aprile 2013 - qualche ora più tardi
Le luci della città illuminavano la notte. L'aria era ancora frizzante, in quell'angolo di mondo. L'elettricità statica invadeva l'atmosfera.
Lacey alzò gli occhi al cielo, che quella notte era blu, di un blu spettacolare, quasi fosse di velluto. Le stelle ne punteggiavano la volta, accompagnate da una luna mozzafiato.
Matt salutò e montò sulla sua moto, rombando via nella notte, un braccio ancora alzato a mo' di saluto. Graham e Ruby se ne andarono insieme, molto probabilmente diretti verso casa di lei, poco distante dal Diner. Ormai facevano coppia e tutti lo sapevano, ma nessuno sembrava farci caso, come se la cosa fosse sempre stata inevitabile. Salutarono e si incamminarono, Ruby al braccetto di Graham, appollaiata sulla sua spalla.
Lacey si voltò verso Emma. - Chiamiamo un taxi?
- Mi piacerebbe accompagnarti, Lacey - disse Jefferson, in piedi accanto a lei. Le sorrise, gentile come sempre.
- Ti dispiace, Emma cara? - chiese all'amica.
Quest'ultima scosse la testa, sorridendole. - Non ti devi minimamente preoccupare, tesoro. Starò bene, fidati.
Lacey rise e Jones - il misterioso e affascinante William Jones - intervenne: - Riaccompagno io a casa la tua amica, Lacey. Sta' tranquilla.
Lacey sfoderò uno dei suoi più ampi sorrisi. Le piaceva Jones, nonostante le ritrosie e le indecisioni di Emma. Lo trovava perfetto per lei. Si era unito a loro con entusiasmo, condendo il tutto con la sua pungente ironia e le sue battute.
Emma si voltò verso Jones ma non replicò. Invece abbracciò l'amica e disse: - Ci sentiamo domani, d'accordo?
- D'accordo. Buona notte, ragazzi - aggiunse.
- Buona notte a voi - rispose Jones stringendo poi la mano a Jefferson, che ricambiò la stretta, cordiale. Quei due sembravano andare d'accordo, nonostante l'iniziale ironia con la quale avevano dato vita alla loro conversazione. Sarebbero potuti diventare buoni amici. O almeno così pensava Lacey. Vedeva del potenziale, in loro.
Salutò ancora una volta Emma e poi guardò la sua amica e Jones salire sul taxi che avevano chiamato. Jones le tenne aperta la portiera - da perfetto gentiluomo - e salì subito dietro di lei. Il taxi sparì nelle luci della città, diretto a Brooklyn.
- Casa mia non è lontana, ti dispiace camminare? - chiese Lacey.
Jefferson scosse la testa. - Per niente. Adoro camminare. A casa mia, in Inghilterra, ho un grande parco, e mi piace passeggiare in mezzo alle aiuole e nel boschetto adiacente. Non è un problema, per me.
- Quanto mi piacerebbe vedere casa tua - esclamò Lacey dopo che lui l'ebbe porto il braccio, galante. - Sono stata a Londra, durante il periodo dell'università, e mi sono innamorata della campagna inglese.
Jefferson le aveva raccontato che casa Dodgson si trovava immersa nella campagna, poco fuori Londra, circondata da un grande giardino, con un roseto, un boschetto e un laghetto. Lacey se n'era innamorata.
- E a me piacerebbe invitarti, Lacey - replicò lui, la mano poggiata sulla sua. - Vorrei mostrarti un sacco di cose, perché raccontare tutto a voce non rende loro la benché minima giustizia.
- Ti credo. A volte le parole non servono.
- No, soprattutto quando vorresti comunicare determinati sentimenti. Diventano riduttive.
- Be', io credo che abbiano comunque un grande potere. Possono distruggerti. Letteralmente.
- Io credo invece che siano altamente sopravvalutate. Bisognerebbe imparare ad analizzare i sentimenti umani, la persona che ti sta di fronte in una conversazione, in modo da capire realmente ciò che prova, al di là delle parole.
- Non sempre è facile, sai? Ci sono persone che sono come dei libri aperti, altre che appaiono imperscrutabili. Come te, per esempio.
Jefferson si fermò e Lacey lo imitò. La guardò negli occhi per un momento, serio.
- Io? Io sarei imperscrutabile?
- Parecchio, sì - ammise lei annuendo convinta. - Io invece sono un libro aperto. Puoi capire tutto di me ad un primo sguardo, se osservi attentamente.
- Io credo che tu non ti renda conto del mistero che ti circonda, miss French - rise Jefferson. Nella sua voce, un sottile velo di malinconia. - Credo che potrei restare ore intere ad osservarti, solo per scoprire sempre cose nuove di te. Vorrei stare ad analizzarti come si fa con i dipinti. Sei affascinante e tremendamente bella.
Lacey non sapeva cosa dire. Era questo che Jefferson pensava di lei. Pensava che fosse così misteriosa da richiedere un'attenta analisi. Invece lei pensava che lui avesse già capito tutto. Soprattutto quanto lei fosse cotta.
- Sono davvero tutto questo? E io che credevo di essere una persona semplice. Quasi banale...
- Banale? - esclamò Jefferson. Lacey alzò gli occhi sul suo viso. Era sconvolto.
- Sei tutto tranne che banale, Lacey. Sei la donna meno banale che io abbia mai conosciuto. Sei tutto il mondo. E lo so che suona ridicolo, considerando il fatto che ci conosciamo da poco più di una settimana e che risulto praticamente uno sconosciuto, per te, eppure sento di dovertelo dire. Mi hai stregato, Lacey. Dal primo momento in cui ti ho vista, sono capitolato.
Lacey alzò una mano ad accarezzargli una guancia, sulla quale si intravedeva un velo di barba scura. I suoi occhi azzurri lampeggiavano. Lei si alzò sulle punte e gli depositò un leggero bacio sulle labbra. Jefferson replicò prontamente al bacio, circondandole la vita con un braccio e stringendola a sé.
- Sapevo che c'era qualcosa, in te - sussurrò lei contro le sue labbra. - Sapevo che quello che sentivo non era frutto del caso. Credo che sia stato il destino a mandarti da me.
- Io non credo nel destino, Lacey - replicò lui baciandola. - Siamo noi che determiniamo le nostre azioni.
- Tu credi? Io invece penso che ci sia un disegno e che quel disegno, quel primo abbozzo di completezza che sento dentro, sia per noi. Mi sento completa, per la prima volta in vita mia. E non me ne importa se ci conosciamo da poco. Non ha importanza alcuna, per me.
I due si baciarono ancora e Lacey lo prese poi per mano, accompagnandolo ancora per qualche metro, fino alla porta di casa sua.
 
 
*
 
 
*Brooklyn, New York - aprile 2013
- Prima, da Granny's - iniziò Emma. - Ti osservavo.
William alzò gli occhi e la guardò. Erano appena scesi dal taxi. Casa di Emma distava pochi metri, così si incamminarono lungo il marciapiede deserto. Erano rimasti in silenzio per tutto il tragitto, ognuno immerso nei propri pensieri.
- Mi osservavi? - chiese lui alzando un sopracciglio.
- Ti osservavo - confermò Emma. - Stavi riguardando delle foto, vero?
Lui annuì. - Sì. Ho passato il pomeriggio in giro per il Village. Ci sono sempre nuovi spunti ogni giorno. Soprattutto al Diner.
Si girò a guardarla ed Emma distolse lo sguardo, puntandolo sui suoi stivaletti neri. Perché si era messa le scarpe con il tacco? Non le sopportava.
- Ti andrebbe di vedere alcuni scatti, un giorno di questi? - le chiese lui. Emma lo guardò, stupita.
- Credevo che il lavoro di un fotografo fosse un qualcosa di tremendamente intimo. Credevo che tutti gli artisti fossero riluttanti a mostrare i loro lavori.
- Infatti solitamente è così.
- E allora perché vuoi mostrarli a me?
- Credo che non ci sia un perché, Swan. Credo solo che ci sia una forte connessione, tra noi. Connessione che ancora non capisco e che mi manda letteralmente fuori di testa, ma c'è. Io la sento. E anche tu. Muoio dalla voglia di farti vedere i miei lavori, e non c'è un perché abbastanza grande da racchiudere anche questo.
- Cavolo - sussurrò lei.
- Allora? Ti piacerebbe?
- Sì - rispose lei di slancio. - Mi piacerebbe molto, sì. Assolutamente.
Jones le sorrise e fu un sorriso così dolce e bello che il cuore minacciò seriamente di esploderle. Le batteva fortissimo, come se avesse appena corso la maratona. Non si sentiva così - elettrizzata e felice - da troppo tempo, e la cosa in qualche modo la spaventava. Aveva paura di ferirsi di nuovo. Aveva paura che fosse tutto frutto di un tremendo sbaglio, uno sbaglio che l'avrebbe fatta soffrire ancora una volta. Dall'altra parte, dentro di lei qualcosa esplodeva piano piano, espandendosi qua e là lentamente. Era una strana sensazione di felicità, entusiasmo, novità, attrazione selvaggia e desiderio. Era tutto ed era niente, qualcosa che minacciava di morirle dentro il cuore così come di farlo pulsare così veloce che le sarebbe letteralmente esploso. Possibile che una persona potesse farle provare tali sentimenti?
Casa Swan si stagliò nitida di fronte a loro. Si fermarono di fronte al portone in ferro battuto. Si guardarono. Jones teneva ancora le mani nelle tasche.
- Grazie per la bella serata - disse lui. - Grazie per avermi chiesto di restare, Swan.
- Be', ho agito d'impulso. Ti ho visto andare via e ho capito che non avrei voluto. E così...
- Che pensiero ingarbugliato, Swan - rise lui.
Emma rise con lui, scuotendo la testa. Ecco, era confusa coma una bambina di cinque anni. Perché diavolo Jones aveva quel potere su di lei?
- Si può sapere perché di fronte a te perdo qualsiasi capacità argomentativa e dialettica? Non è bello.
Ecco, l'aveva detto. Bene. Si era scoperta. Ottimo, Emma, ottimo.
- Oh-oh, allora è questo l'effetto che ti faccio, Swan...
Emma alzò gli occhi al cielo. - Sei quasi prevedibile.
- Tu e io ci capiamo a vicenda, Swan. Capito? È questa la verità. È questo che ti tormenta segretamente, ciò che non riesci a capire. Ciò che ti manda in confusione.
Emma lo guardò. Jones la osservava, attento. I suoi occhi azzurri percorrevano il suo viso, sondavano il suo sguardo, indugiavano sulle sue labbra. Era come se all'improvviso si trovasse nuda di fronte a lui, lui che forse aveva capito tutto di lei solo guardandola, lui che, nonostante tutto, continuava a scavare nelle sue ombre.
- Chi sei, Swan? - sussurrò.
- Non credo che tu voglia saperlo...
- Forse voglio, invece.
I due si guardarono ancora per qualche istante, come se le lancette si fossero inesorabilmente fermate nel loro scorrere perpetuo. Poi Emma si ritrovò a baciarlo, le dita strette intorno al bavero del suo cappotto, le mani di lui che la stringevano a sé, in un bacio atteso forse da entrambi da troppo tempo, aleggiante nell'aria tra loro come un buffo omaggio del destino a coloro che sarebbero risultati degni di riceverlo. Emma non aveva mai baciato nessuno, così. Né Graham, né Neal, nessuno. Mai. In tutta la sua vita.
Chi sei, Swan? Le parole di lui le riecheggiarono nella testa. E Jones? Chi era, Jones?
Emma si allontanò dalle sue labbra, senza fiato. Lo osservò per un attimo, confusa.
- Io... - cominciò. - Credo che questo non debba più succedere, Jones. Tu sei stato coinvolto in un'indagine, io lavoro nella polizia, ti ho interrogato... Non credo sia giusto.
Sentiva gli occhi di lui addosso. Aveva paura ad alzare lo sguardo. Aveva paura che, guardandolo, non sarebbe riuscita a resistere.
- Come desideri - disse soltanto lui. Emma lo sentì allontanarsi lentamente, mentre il mondo piano piano svaniva, perdeva consistenza. Emma si voltò. Jones camminava malinconico lungo il marciapiede, le mani nuovamente in tasca, come al solito. Emma lo osservò andare via, sparire nella notte, un'ombra fugace nelle tenebre.
 
 
 
NOTE
  • Vi ricordate il finale dello scorso capitolo? Tutti – o quasi tutti – in centrale sospettano che dietro la nuova rapina ci sia Neal Cassidy, appena uscito di prigione per una serie di rapine commesse circa un anno prima, nella quale indagine era stata coinvolta anche la nostra Emma. Ebbene, quest’ultima scagiona Neal da ogni accusa, dichiarando che il nostro ex ladro era proprio con lei, all’ora della rapina alla Bank of America. Nel primo pezzo di questo capitolo torniamo indietro a quella sera, al primo incontro tra Emma e Neal dopo tanto tempo.
  • Non ho potuto fare a meno di citare uno dei miei pairing preferiti, il RedHunter: Ruby e Graham sarebbero stati perfetti, insieme.
  • Un altro pairing amato è il MadBeauty, cioè il Jefferson/Ruby. Che ne dite di questi due? Non sono carini?
  • “- Tu e io ci capiamo a vicenda, Swan. Capito?” “- Chi sei, Swan? - sussurrò. - Non credo che tu voglia saperlo...  - Forse voglio, invece.”  “- Come desideri.” Queste battute sono state tradotte e/o rielaborate direttamente dagli episodi della serie tv. Come dimenticarle…!

Buongiorno a tutti, cari lettori! Dopo tantissimo tempo - e dopo aver litigato con l'editor - sono tornata con un aggiornamento. Ogni volta mi scuso per il ritardo, lo so, e so anche di essere imperdonabile. Ma ormai conoscete i miei tempi di pubblicazione. Sono un bradipo.
Ebbene, spero che il capitolo sia valsa l’attesa… So che avete odiato Emma proprio come l’avete odiata – e la state odiando anche al momento – nella serie, ma portate pazienza, la mia Emma si sveglierà presto dal suo torpore e rimedierà. Non temete.
 
Ringrazio sempre tutti coloro che seguono – ben 38 persone, un record, per me *.* grazie! – e leggono questa storia. Che il CaptainSwan sia sempre con voi! E ricordate: “I swear on Emma Swan.”
 
 
Marti

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1964381