We Love Thighs! Una storia di rock, di losers e di cosce

di NorwegianWinds
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** This is the end, my only friend ***
Capitolo 2: *** No guide taken in hand and no idea where to turn ***
Capitolo 3: *** Suicide's easy, what happened to the revolution? ***
Capitolo 4: *** They're the ones who'll spit at you, you will be the one screaming out ***
Capitolo 5: *** My fake plastic love ***
Capitolo 6: *** Children, wake up, hold your mistake up ***
Capitolo 7: *** Sexual healing, oh baby, makes me feel so fine ***
Capitolo 8: *** You get nothin' for nothin', tell me who can you trust ***
Capitolo 9: *** The times they are a changin' ***
Capitolo 10: *** If this is the stuff dreams are made of, no wonder I feel like I'm floating in the air ***
Capitolo 11: *** Mtv, what have you done to me? Save my soul, set me free ***
Capitolo 12: *** I'm gonna run the slow dawn awake. ***



Capitolo 1
*** This is the end, my only friend ***


Pioggia.
Ogni grande storia, ogni grande film inizia in una fottutissima giornata di pioggia. La mia storia, invece, finisce.
Non scherzo: sono davvero alla fine di tutto. Cammino per queste vie sudicie e bagnate e non so nemmeno più dove sto andando. A malapena mi ricordo cosa ho fatto per tutto il giorno.
Niente, credo.
Ecco cosa mi aspetta. Il vuoto totale. Dopo anni passati a spostarmi freneticamente da un posto all'altro, concerti, interviste, notti interminabili, amanti insaziabili, fan scatenate.
E adesso, invece... Un nulla senza fine davanti ai miei occhi.
Passo davanti a un negozio di televisori. Sono giganteschi, bellissimi. Nonostante tutti i soldi fatti con la band, non me ne sono mai potuto permettere uno. E' comprensibile. Il nostro agente i soldi li faceva girare. Li trasformava in pubblicità, gadget, dischi, singoli, videoclip _ perché è quello che al giorno d'oggi ti porta al successo, quanta pubblicità hai, quanto sai venderti. Non è colpa sua se è finita.
Ci sono io, in una di quelle televisioni maestose che trasmettono canali a caso. E' un telegiornale di Mtv, figuriamoci, e ha l'esclusiva sul grande scoop.
Lo schermo è così grande che quando mi fanno un primo piano posso vedere ogni poro della pelle, ogni piccola ruga che si sta creando, ogni pelo di barba. Fa un po' schifo, a dire il vero.
A pensarci bene, forse non voglio uno di questi mostri in HD.
In tv sono impacciato e non riesco a fissare la folla, ma solo il microfono. Sembro strabico. E' sempre stato così nelle conferenze stampa. Non so mai a chi devo rivolgermi quando parlo: ai giornalisti, ai fotografi che mi abbagliano con i loro dannatissimi flash, alle telecamere che incombono da ogni parte, al cinese che aspetta che la sala venga sgomberata per poter pulire il pavimento? Occhi bassi e parole mormorate, tanto ci pensa il microfono a farle rimbombare ovunque.
In realtà lo schermo è muto, ma so perfettamente cosa sto dicendo.
"E quindi, per le questioni di incompatibilità artistica di cui ho parlato prima, ho deciso che per me è meglio lasciare i We Love Thighs, affinché possano proseguire il loro percorso musicale senza essere ostacolati dalle divergenze tra noi..."
Ehi Alex, che programmi hai per stasera?
Una bella bottiglia di whisky e un flaconcino di farmaci. E preparare lo scoop di Mtv di domani:
"Alex Caviezel è stato trovato morto nel suo appartamento di Manchester; si sospetta che avesse ingerito grandi quantità di alcol e psicofarmaci. Alex aveva comunicato due giorni fa di voler lasciare la band di cui era frontman, i We Love Thighs, ma evidentemente non ha retto il colpo..."
Ecco, una cosa del genere.
E poi io, evanescente fantasma, voglio godermi le facce attonite di Matt, Eddie e Phil. Eddie soprattutto, visto che è stato lui a mettersi contro di me e a trascinare gli altri. Perché lui è un chitarrista fottutamente carismatico, mentre io sono sostanzialmente uno sfigato. Così sfigato che non sono stato capace nemmeno di tenermi stretta la band che io ho fondato. Così sfigato che stasera non avrò abbastanza palle per un'uscita in grande stile, per una morte da rockstar e una vendetta da gran bastardo.
I morti sono sempre santi e hanno sempre ragione e i vivi passano il resto delle loro esistenze a rodersi il fegato per i sensi di colpa. Ma io risparmierò loro questa sofferenza e farò finta di essere superiore, anche se la verità è semplicemente che non ho il coraggio di fare niente.
E quindi, Alex, che combini stasera di bello?
Ah già, sono in piedi da mezz'ora davanti al negozio di tv, e sta ancora diluviando e non ho ancora deciso niente. Però qua vicino c'è l'Interzone, e lì sicuramente avrò qualche bicchierino gratis, e roba da mangiare, e qualcosa per asciugarmi. Dawson è innamorato di me, se ne occuperà lui. Inizio a correre come se l'Interzone fosse il posto che mi cambierà la vita. Invece cambierà solo il mio prossimo quarto d'ora.
Entro col fiatone e in un attimo si crea una piccola pozzanghera intorno ai miei piedi.
Dawson, il proprietario del locale, si illumina in viso vedendomi. L'Interzone è, come sempre, bellissimo e deserto.
- Si batte la fiacca anche stasera, Dawson? -
Lui fa un sorriso un po' mesto e mi guarda con i suoi grandi occhi scuri
- Guarda come ti sei ridotto. Sei fradicio... Dammi la tua giacca -
Scompare nel retro, ritorna con un asciugamano. Me lo appoggia sulla spalla, mi scompiglia i capelli bagnati, mi fa una leggera carezza.
Lo fa sempre. Siamo stati a letto insieme un paio di volte, nel corso della nostra lunga amicizia. Niente di impegnativo, in ogni caso.
Mentre mi asciugo noto che mi versa da bere e mi scruta di soppiatto.
- Ho saputo di quello che è successo con la band. Mi dispiace un sacco. Devi essere piuttosto giù di morale -
Certo che lo sono, ma mi rifiuto di mostrarlo a chiunque. Faccio il gradasso esaltato, che è meglio.
- Giù di morale? Scherzi? Questa cosa è arrivata al momento giusto. Ho già nuove idee, per un.... Progetto solista -
Sulle parole progetto solista mi sale di nuovo il magone. Mi impappino e balbetto qualcosa di inarticolato e stupidissimo, tipo - Ho... Ehm... Ho già pronto... Ah... Qualche pezzo mio -. Pietosa menzogna. E chiunque se ne accorgerebbe.
Chiunque, ma non Dawson, che mi guarda adorante. Crederà sempre a qualunque cosa io gli dica. Crederà sempre in me. Infatti fa un gran sorriso.
- Ma è fantastico, Alex! Mi piace come stai reagendo a tutta questa faccenda-
Poi mi rendo conto che gli sta venendo in mente qualcosa, e prego qualche dio della pioggia per non finire ancora più nella merda di adesso.
- Alex, stavo pensando... Se hai già qualche pezzo pronto, potremmo organizzare un concerto qui! Potrebbe essere una grande occasione per lanciare te come solista e far funzionare questo locale... Che ne dici? -
... Ecco, appunto. Il dio della pioggia, se c'è, è sordo e pensa solo a pisciare su Manchester per divertimento.
Cerco di temporeggiare, non lo so Dawson, ci devo pensare, non ho poi così tanti pezzi, insomma vedremo ma per ora non prendere iniziative. A quel punto voglio solo levarmi di torno per evitare altre proposte scomode. Tipo andare a dormire da lui e cose del genere. Non sono proprio dell'umore giusto. Lo batto sul tempo, ringrazio - saluto - torno a casa.
Perché a questo punto non c'è davvero nient'altro da fare.
 
 
Vengo svegliato da un suono insistente e insopportabile. Rimango immobile nel letto, pensando che se resto esattamente in questa posizione (a pancia in giù, faccia spiaccicata contro il cuscino, un filo di bava che mi esce dalla bocca) il suono smetterà e io potrò rimettermi a dormire, cervello spento totalmente ancora per un'ora o due. E infatti il suono smette. Per ricominciare circa quattro minuti dopo. Con un grugnito getto in aria il piumone e scendo di sotto per rispondere al telefono. Il pavimento gelido e l'ennesima giornata di pioggia scoraggiano all'istante la mia baldanzosa erezione mattutina.
- Pronto? - ho una voce schifosa, roca, impastata, piena di catarro. Colpa del freddo e delle quaranta sigarette di ieri. Ma tanto per un po' non dovrò cantare, no?
... A quanto pare mi sbaglio di grosso.
- Alex, sono Dawson. Ti ricordi del progetto di cui parlavamo ieri, del concerto da solista, eccetera? -
- Tu ne parlavi, Dawson, non io -
- Sì, ok. Beh, insomma. In ogni caso mi sono messo in contatto con un mio amico che fa il giornalista, sai, lavora al Sun. Gli ho dato la notizia e lui provvederà a diffonderla, in fondo il Sun è il tabloid più venduto d'Inghilterra -
- Aspetta un momento scusa... Che notizia? -
- Che farai un concerto all'Interzone! Fra un mese esatto. Data già fissata. Da oggi inizio la prevendita dei biglietti! -.
Riattacco di colpo e corro in bagno. Il tempo di raggiungere il cesso e vomito l'anima. O è stato lo shock della notizia, oppure l'aria ghiacciata che ha distrutto il mio fragile equilibrio interiore fatto di alcool e panini ipercalorici di Dawson.
Dawson.
Maledizione.
Un mese. Per preparare pezzi che non esistono. Bel debutto solista di merda. Già lo vedo cosa diranno i giornali. Pezzi superficiali. Accordi dozzinali, già sperimentati e sentiti migliaia di volte. L'ennesimo frontman che senza una band alle spalle non vale niente.
E poi che cazzo, ho appena avuto un brutto colpo, voglio un attimo di pausa per elaborare. Digerire. Altrimenti rigetto tutto. Basta musica per un po'.
E invece.
 
...Fottiti Dawson. Fottiti.
 

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Capitolo 2
*** No guide taken in hand and no idea where to turn ***


Un mese allucinogeno. Nel vero senso della parola. Assumo sostanze qua e là in attesa di un'ispirazione che non arriva. Compongo cose a caso. Non le riascolto, non me le ricordo e non me ne preoccupo.
Vivo in un isolamento inutile: non accendo tv, computer, radio. Non rispondo al telefono. Per parlarmi del concerto, Dawson deve venire direttamente a casa mia. E già che c'è porta un po' di roba da mangiare e da bere.

Esco una sola volta. A furia di strimpellare senza cura e senza pensare ho rotto tre corde della chitarra, ne servono di nuove. Incredibile ma vero, c'è il sole. Dopo quasi tre settimane di reclusione anche questa luminosità flebile e spenta mi acceca. Mi sento un convalescente. Vado nel mio negozio di strumenti preferito con l'intenzione di fermarmi cinque minuti, per evitare domande di Henry, il proprietario. E' un mio amico, ma non ho voglia di parlare con nessuno e lui è logorroico. Entro e cerco ostinatamente di non guardare la fila di chitarre nuove e luccicanti che mi incantano sempre. Poi mi blocco.
Qualcuno suona.
Note vibranti di basso che sembrano volermi riscuotere dal torpore lisergico. Sembra che sia una grande star a guidare sapientemente quella musica, apposta per me.
Supero la fila di chitarre e sbircio nella saletta accanto, col fiato in gola.
... Altro che rockstar. E' una ragazzina.
C'è una definizione vecchia come il mondo che calza perfettamente per lei, ed è pornobimba. Esile e pallidissima, quasi quanto me. Una cascata di capelli scuri, occhi azzurri orlati da ciglia infinite. Mani affusolate che si muovono intelligentemente fra le corde del basso. Una lunga maglietta bianca che copre solo lo stretto indispensabile, collant di pizzo che fasciano le cosce più squisite che io, fondatore dei We Love Thighs, quindi grande intenditore, abbia mai visto.
Capisco che le vibrazioni musicali che ho sentito non sono solo una prova di abilità, ma erotismo puro. Ha occhi solo per il basso che sta collaudando e che batte contro il suo bacino; la mano sinistra si sposta sul manico con languida decisione.
Sesso con un basso. Faccio in tempo a pensare che è brava davvero, un attimo prima che la visione risvegli i miei sensi assopiti. Ma quando sto per fare un passo verso di lei, sento Henry che mi chiama. L'incanto è spezzato.
Adesso devo stare attento solo a prendere le corde per la chitarra più in fretta possibile, restando sul vago su tutto il resto e specialmente sul concerto.
Prima di andarmene, però, faccio un cenno verso la saletta e chiedo ad Henry chi sia la pornobimba.
- Non se la cava affatto male, vero, viene qui ogni tanto a suonare qualcosa, ma non compra mai niente; beh io non me la prendo, in fondo è brava e poi diciamocelo è anche un gran pezzo di figa -. Finalmente Henry si ferma per riprendere fiato. Gli chiedo se sa come si chiama.
- Ah, penso che non lo sappia nessuno, sai com'è, amico, lei non parla  -
Come sarebbe a dire, che non parla? E' muta?
- Ma no non è muta, ogni tanto qualche parola la dice, ma sta sempre zitta insomma qualcuno pensa che abbia avuto un trauma, per quanto ne so io potrebbe esserle morta la nonna investita dal carretto dei gelati davanti ai suoi occhi. Ti immagini che shock per una bambina? Vedere la nonna uccisa dal carretto dei gelati? Sono cose che ti fanno perdere l’uso della parola, quelle -
Henry sta delirando. Deve aver esagerato con la cocaina, oggi.
La musica nell'altra sala continua, più lenta e sommessa di prima. L'orgasmo musicale dev'essere già arrivato, e io me lo sono perso, il fiume di parole di Henry l'ha coperto. Getto un'altra rapida occhiata alla pornobimba, che è sempre concentrata, ma ha il viso più rilassato, soddisfatto, un accenno di sorriso sulle labbra carnose. Solleva un istante gli occhi, il suo sguardo sembra passarmi attraverso. E’ infastidita dalla mia presenza. Non sono uno spettatore, in questo momento. Sono un voyeur, un porco guardone. Scappo codardamente, la lascio alla sua intimità.

Al mio ritorno, la casa è  tetra e il silenzio grava come un macigno, avvolge ogni cosa.

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Capitolo 3
*** Suicide's easy, what happened to the revolution? ***


Insomma, in fondo qualcosina sono riuscito a combinarla. Certo, ci sono stati degli effetti collaterali. Legati alla droga, più che altro. Non ho mai preso così tanta roba come in questo mese. L’ho già detto che sono uno sfigato, le droghe mi terrorizzano, non sarò mai una vera rockstar. Ma stavolta sono alla frutta, perciò non ci ho pensato troppo su.

E intanto ho le pupille dilatate e i riflessi rallentati da non so quanti giorni. E ogni tanto mi capita qualche allucinazione qua e là, ovviamente.

Ecco perché, quando arriva la notizia bomba, penso che sia tutto frutto della mia immaginazione.

Stasera c'è il concerto e a malapena me ne rendo conto. Sto preparando un miserissimo pranzo: pan carré con formaggio fuso sopra. Sbatto tutto nel tostapane e, per la prima volta dopo un mese, accendo il televisore. Non avrei dovuto farlo.

C’è il telegiornale. Ascolto distrattamente mentre aspetto che il tostapane sputi fuori il mio pranzo. Muoio di fame, fame chimica. Tento di afferrare una fetta di pane prima che scatti il timer.

Ed è lì che arriva lo scoop.

“L’Inghilterra è ancora in lutto per il tragico suicidio di gruppo dei We Love Thighs, che nel corso della notte sono stati pianti durante numerose veglie in tutto il paese. Dopo che il frontman della band, Alex Caviezel, se n’era andato un mese fa, il successo dei We Love Thighs aveva subito un brusco declino: i tre membri restanti hanno deciso di chiudere in grande stile per evitare una lenta decadenza e, dopo aver assunto un letale cocktail di psicofarmaci, alcolici e droghe, si sono lanciati in auto in un’ultima corsa mortale, terminata nel fiume Irwell.

A casa di Eddie Palmer, chitarrista della band, dove sono stati trovati i farmaci assunti prima della morte, è stato rinvenuto anche un biglietto firmato da tutti e tre, che diceva “Senza Alex tutto questo non ha più senso”. Ancora nessuna dichiarazione da parte dell’ex frontman Alex Caviezel, che sembra essere irreperibile.

Per stasera è stato organizzato un concerto in loro memoria a Londra, a cui presenzieranno Pearl Jam, U2, Arcade Fire e molti altri.“

Appena sento nominare i We Love Thighs mi immobilizzo. Ascolto il servizio in uno stato di coscienza alterata. Osservo le riprese dall’elicottero fatte a quei tre coglioni che sono andati ad affogarsi nell’Irwell e mi dico che sto sognando. Spalanco la bocca quando vedo le riprese del biglietto e riconosco la scrittura di Eddie.

Loro sì che hanno avuto il coraggio di chiudere con stile. E adesso sono nell’Olimpo del Rock. Sono martiri. Sono Dei. E soprattutto, sono innocenti. Sono io lo stronzo che ha mollato la band, non sono mica stato cacciato da loro. Io li ho lasciati nella merda. Io sono il carnefice, sono la causa della loro morte.

Maledetti stronzi bastardi, un tempo eravamo amici. Posso capire il suicidio, ma perché tirare in mezzo me? Era così difficile per voi riconoscere di aver fatto una cazzata e chiedermi di ritornare nel gruppo?

Penso tutte queste cose in un secondo. Poi vengo trafitto da un dolore lancinante alla mano destra. Caccio un urlo e mi rendo conto che è ancora nel tostapane. Sento la carne bruciarsi, attaccarsi alla griglia metallica insieme al formaggio fuso. Con la mano libera afferro la spina e la stacco violentemente. Il tostapane inizia a raffreddarsi, ma la mano resta dentro, con la pelle attaccata ovunque. Qualunque movimento io faccia mi provoca un dolore atroce.

Fottute droghe, fottuti riflessi rallentati che non mi hanno fatto accorgere che mi stava andando a puttane una mano.

Fottuti We Love Thighs che non solo mi hanno distrutto la vita, ma anche la reputazione. E la mano destra.

 

E la possibilità di suonare.

 

Mi rendo conto anche che il telefono sta squillando ininterrottamente da ieri sera. Il mio cervello ha isolato il suono e l’ha rimosso. Fra poco verranno a cercarmi direttamente a casa. Tutti. Giornalisti, fotografi, amici, parenti, fan, haters.

E io non voglio farmi trovare.

Esco di corsa, col tostapane ancora attaccato alla mano. Stranamente non sento più dolore. Potrei quasi abituarmi a questa insolita protesi. Cammino a viso basso, in modo che i capelli mi coprano la faccia, e continuo a sbattere addosso alle persone. Vengo insultato ripetutamente. Una proprio la travolgo, la sento cadere a terra con un gemito. Alzo lo sguardo e vedo lei.

La pornobimba. Che mi fissa furiosa dal marciapiede, collant stracciati, vestitino minimale, gambe aperte (per colpa della caduta, ahimè, e non per la mia presenza) che lasciano intravedere le mutandine bianche.

Le porgo la mano per aiutarla a rialzarsi e mi accorgo che le ho teso quella col tostapane attaccato. La sua espressione passa da incazzata a perplessa. Probabilmente mi prende per pazzo. Come darle torto, d'altronde.

Si rialza da sola e fa per andarsene. Io la seguo e la afferro per un braccio, con la mano giusta stavolta.

- Aspetta! - le dico - Tu eri qualche tempo fa a suonare il basso da Henry, vero? Ti ho sentita. Sei davvero brava -. Immagino che non sia un gran complimento per lei, visto che è detto da un tossico con gli occhi da pesce e una mano fusa nel tostapane. Tant'è che si divincola come un gatto e se ne va quasi di corsa, temendo probabilmente che la agguanti di nuovo. E' quello che vorrei fare, infatti.

Invece rimango immobile.

Inizia a scendere la consueta pioggia sottile. Quasi in uno stato di trance, mi dirigo verso la stazione.

 

Cinque ore dopo, quando il buio è già calato, sono a Londra. I treni stanno vomitando sui binari migliaia di fans dei We Love Thighs in lutto, si dirigono tutti verso Piccadilly Circus. Forse è ancora colpa delle droghe, ma mi sento osservato con disapprovazione da ogni parte. Voglio che la finiscano di guardarmi in faccia.

Non mi viene in mente che probabilmente mi fissano per colpa del tostapane.

Trovo per terra un sacchetto di carta, di quelli che si mettono intorno alle bottiglie, e dopo averci fatto buchi per occhi e bocca me lo metto in testa.

Ah, ora va molto meglio. La gente continua a guardarmi, ma io non la vedo. Questo è l'importante.

A Piccadilly Circus il concerto è già iniziato; su uno schermo gigante scorrono fotografie dei We Love Thighs (tutte rigorosamente senza Alex Caviezel, quel bastardo) alternate a riprese dei gruppi che suonano.

Sento un sapore amaro in bocca e respiro a fatica. Erano la band che avevo sempre sognato, fin da quando ero piccolo. Erano i miei amici. Fino a quando Eddie, sovreccitato per il successo e la cocaina, si era montato la testa.

Voleva tutto. Lui, così affascinante, energico, accattivante, voleva tutto e se lo prendeva, anche quando non poteva averlo. Più assoli ai concerti. Più riprese nei videoclip. Più spazio per parlare durante le interviste. Più donne nel camerino. O almeno più di quelle che avevo io.

Ero io il suo grande problema, infatti.

Quello che compone le canzoni e che canta, in un gruppo, finisce col diventare il frontman. Anche se è un loser come me. A Eddie andava bene finché eravamo un gruppo che nessuno conosceva. E quando il nostro primo disco si è classificato al primo posto nei più venduti d'Inghilterra era troppo meravigliato e felice del successo per poter dire che qualcosa non andava. Ma lui è sempre stato quello ambizioso di noi quattro. E ha trascinato tutti nel baratro.

I miei pensieri cupi vengono interrotti da una ragazza che, completamente ubriaca, mi rovina addosso senza accorgersi né del sacchetto di carta, né del tostapane. Piange. Per i We Love Thighs. Biascica che erano tutta la sua vita e che amava Eddie dio quanto l'amava.

E poi fa quello che non avrebbe mai dovuto fare.

Si aggrappa con tutte le sue forze alla mia faccia, ovvero al sacchetto, e lo straccia completamente. Per un attimo guarda la mia faccia con uno sguardo vacuo, da pesce morto. Poi la pericolosissima scintilla del riconoscimento si accende nei suoi occhi.

- Ohmiodio -, sussurra tutta d'un fiato. Poi la sua voce inizia a crescere a livelli esponenziali, fino ad acuti che non credevo possibili - Non posso crederci. Sei tu. Sei Alex. OH-MIO-DIO, SEI ALEX CAVIEZEL! -

Le persone più vicine a noi si voltano di scatto; poi, con la rapidità di una bomba atomica, un brusio sempre più forte scuote tutta la folla, si propaga come un'onda.

Improvvisamente pochissime persone sono voltate verso il palco, e troppe verso di me. Io resto immobile, paralizzato. Gli sguardi di quelli che fino a un mese fa erano i miei fans sfegatati sono carichi di odio e stupore. Qualche anima pia è semplicemente indifferente. Nessuno, in ogni caso, ha un'aria amichevole.

Capisco che sono nella merda. Tutti aspettano solo che qualcuno lanci una specie di segnale. La piccola fedifraga sbronza è ancora aggrappata a me, con gli occhi sgranati.

Gli ubriachi sono la rovina dell'Inghilterra. Sono ovunque. In particolare ai concerti in memoria di musicisti morti tragicamente.

Tanto più che è un ragazzone troppo cresciuto, calvo e massiccio, ad agitare la mano che stringe la ventesima lattina di birra e a urlare - E' un bastardo! Se i We Love Thighs sono morti è solo colpa sua! -

Non mi soffermo ad osservare le reazioni. Mi scrollo di dosso l'ubriacona e inizio a correre più che posso, facendomi largo tra la folla che si vuole chiudere addosso a me, pronta ad inghiottirmi.

Riesco ad uscire da Piccadilly Circus, corro verso Soho, a caso, e sento il terrificante rumore di migliaia di piedi che mi inseguono, e voci furibonde che mi insultano e mi minacciano di morte. Eddie, vecchio mio, se volevi vendicarti di qualcosa che non ho fatto ci sei riuscito perfettamente, quindi per quanto mi riguarda ti auguro di bruciare all'inferno.

Mi manca il fiato, il tostapane sbatte ritmicamente contro la mia coscia e le urla si fanno sempre più vicine. Mi prenderanno, ci sono centinaia di migliaia di fans dei We Love Thighs a Londra stasera, e mi linceranno, non ne uscirò vivo, e poi perché cazzo mi è venuto in mente di venire a questo fottutissimo concerto, non lo so più nemmeno io. Giro all'ennesimo angolo, faccio un ultimo scatto. Per un felicissimo attimo mi illudo di averli distanziati, solo perché devono ancora inondare la via in cui ho appena svoltato.

Accade all'improvviso.

Una mano afferra decisa la manica della mia felpa e mi trascina con forza di lato. Finisco per terra, su un mucchio maleodorante di rifiuti, e qualcosa di nero e morbido mi piomba addosso, un altro sacco della spazzatura. Non respiro per la puzza e la stanchezza, cerco di rialzarmi ma qualcuno mi tiene pigiato contro quella merda con uno stivale contro le mie palle. Ad un tratto mi manca il fiato per ben altri motivi.

Sento l'orda barbarica avvicinarsi.

E' finita, penso, adesso saranno tutti qui, su di me, sono in trappola; il rumore si fa sempre più forte, sono già arrivati...

Ma non succede niente.

Mi stanno passando vicinissimi, ma non si stanno fermando.

Si chiedono dove sono finito. Sbraitano. E lentamente, molto lentamente, si allontanano. Dovevano essere più di quanto pensassi.

Quando anche l'eco dell'ultima voce si è spenta, il sacco nero sopra di me viene sollevato e prendo aria. Il piede è ancora lì dov'era e con lo sguardo percorro il tragitto dell'anfibio che lo intrappola, delle lunghe gambe con le calze stracciate, le mutandine maledette che vorrei strappare via già da stamattina, capelli neri e arruffati e occhi blu che mi guardano, pieni di ironia. Oh, mia pornobimba, mia salvatrice, angioletto suburbano.

Finalmente sposta il piede e mi libera dal mio immenso disagio. Sospiro di sollievo e mi alzo faticosamente. Siamo in un vicolo chiuso, completamente buio. Ho del pomodoro marcio tra i capelli e un preservativo usato appiccicato alla scarpa. Ottimo.

- Se ne sono andati? - le chiedo esitante. Con un cenno della testa lei indica la strada da cui sono venuto. Deserta.

Grazie, riesco a mormorare, pieno di gratitudine. Si stringe nelle spalle. E' abbastanza vicina. Abbastanza è già qualcosa. La mia mente ancora un poco annebbiata dalle droghe e in astinenza erotica da mesi mi suggerisce che un vicolo buio e pieno di spazzatura è l'ideale per tentare un approccio, quindi faccio un passo verso di lei e senza pensarci troppo mi butto.

Si scansa con una velocità impressionante.

- Tu sei fuori di testa. Puzzi da fare schifo - sibila.

- Allora non è vero che non parli! -

- Parlo solo quando ne ho voglia. Cioè, molto raramente -

Si incammina senza dirmi dove andiamo, ma la seguo. In questo momento con lei mi sento più al sicuro che in un bunker blindato.

- A me avevano detto che non parlavi perché avevi avuto un trauma... Qualcosa a che fare con tua nonna e un camioncino dei gelati -. Lei sbuffa e fa un sorriso sprezzante, scuotendo la testa.

- Come ti chiami? - le chiedo.

- Nereide - risponde svogliatamente.

Scoppio a ridere e dico - Che razza di nome è? -. Pessima idea. Mi fulmina con un'occhiata micidiale. Non parla tanto, ma col linguaggio non verbale se la cava alla grande. Tento di recuperare al volo - Le Nereidi erano qualche tipo di ninfa, vero? -

- Sì - taglia corto la ninfetta dei vicoli inglesi, poi svolta a sinistra - Di qua -.

- Dove stiamo andando? -

-... Ti riporto a casa. -

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Capitolo 4
*** They're the ones who'll spit at you, you will be the one screaming out ***


Un' ora dopo siamo sul treno per Manchester. Nereide è sveglia e guarda il nero totale che scorre fuori dal finestrino. Ogni tanto fa una smorfia, presumo per la puzza di spazzatura che emano. Io sento che la tensione di un'intera giornata, anzi, di un intero mese, mi abbandona di colpo. Non ho più forze. Crollo addormentato.

Quando riapro gli occhi siamo a Manchester e Nereide mi sta chiedendo qualcosa. L'indirizzo di casa mia.

Ci arriviamo a piedi, inizia ad albeggiare. Poi lei mi blocca di colpo e fissa attonita la mia banalissima villetta inglese, vittima di qualunque atto di vandalismo, dallo spray nero ai vetri spaccati e le porte scassinate. E soprattutto, circondata da circa un centinaio di persone che si sono accampate nel mio modesto giardinetto e sul marciapiede.

- Ci hanno visti? - chiedo in un soffio. Nereide scuote la testa.

Lentamente indietreggiamo, inorriditi, fino ad uscire dal loro campo visivo.

- E adesso? -

- Andiamo all'Interzone. Lì ho un amico, mi darà una mano -

- Dovresti andare in ospedale -. Con un cenno della testa indica il tostapane. Il dolore sta incominciando a tornare. Le droghe non hanno più tanto effetto ormai.

-... Prima all'Interzone -

Sento che, in tutto questo, c'è un particolare che mi sfugge. Solo che non riesco a metterlo a fuoco. Ci incamminiamo.

La pornobimba sbadiglia. Sta camminando molti più chilometri del dovuto per causa mia. Difficile capire perché lo stia facendo. Di certo non per il mio sex appeal.

Arriviamo al locale che sono le sei del mattino. Sembra chiuso, ma io so che Dawson è lì. Busso più volte. Poi vedo una sagoma avvicinarsi ai vetri oscurati, la porta si apre, e mi arriva un pugno potentissimo dritto in faccia. Finisco disteso sul marciapiede, boccheggiando.

- Figlio di puttana che non sei altro, dove cazzo eri? Non te ne fregava proprio niente del tuo fottuto concerto? - mi sbraita addosso Dawson, isterico.

E' troppo per me. Non riesco a rialzarmi da terra.

E' troppo anche per Nereide, che esausta ed esasperata dice - Bene, vedo che hai trovato il tuo amico, adesso sei a posto. Ci vediamo in giro -. E prima che io riesca a gemere qualcosa di comprensibile è sparita. Sento sapore di sangue in bocca.

Merda. Il concerto. Il dettaglio che mi sfuggiva. Ecco.

Non mi sono presentato al mio concerto.

Dawson mi prende sotto le ascelle e mi solleva di peso.

- C'erano tutti i critici dei giornali più importanti. E tu che sei sparito due giorni fa. E stasera non c'eri. Sei rovinato. E sono rovinato anche io. Siamo fottuti - dice, sull'orlo delle lacrime.

Noto che ha le guance rigate di kajal. Se ne mette sempre un po' sotto gli occhi. Deve aver pianto già un bel po', da solo, nell'Interzone deserto. Sento una fitta al cuore.

- Dawson - balbetto, mortificato, - Mi dispiace. Davvero. Sono un deficiente totale. Guarda come sono ridotto -

Lui mi guarda. Per davvero. Maglietta puzzolente e appiccicosa di schifezze imprecisate, pantaloni stracciati, capelli sudici. Pupille dilatate, sangue su tutta la faccia. Una mano fusa in un tostapane.

Spalanca la bocca. Mi guarda con infinita compassione. Questo mi fa quasi più male degli insulti.

- Andiamo in ospedale - dice piano, mettendomi una mano sulla spalla.

 

Quando arriviamo a casa, è mattina inoltrata. La mia mano è_ più o meno_ salva, fasciata in ogni modo possibile e immaginabile. Certo, resterà un po' raggrinzita e ustionata, ma potrò suonare. Mi hanno anche dovuto raddrizzare il naso, dopo il pugno di Dawson, che ora mi guarda mortificato.

Sono a pezzi.

Crollo sul letto gigante di Dawson e perdo conoscenza per quelli che mi sembrano pochi minuti. Invece, quando riapro gli occhi, è notte fonda e il mio amico è appena rientrato dall'Interzone. E' così scuro che al buio distinguo solo la sua maglietta bianca.

- Va meglio? - mi chiede. Mugolo qualcosa di indistinto. A me sembra che tutto continui ad essere sull'orlo del disastro.

Si stende accanto a me con un sospiro, mi abbraccia - Sono passato da casa tua. E' in condizioni spaventose e ancora piena di gente. Puoi fermarti qui per un po' se vuoi -

- Non so come ringraziarti, Dawson, davvero. Non saprei dove altro andare -

- Mi fai solo piacere. E' passato tanto tempo dall'ultima volta che sei venuto qui... -

Mi sfiora il viso. Mi abbandono al suo abbraccio, senza avere le forze di dirgli che non ho le forze per fare qualsiasi cosa; lo lascio fare.
Dawson ha la delicatezza di cui è capace solo una persona che ama. Un'attenzione particolare e preziosa che io non ho praticamente mai avuto, ma sempre e solo ricevuto, senza sapere che farmene. E non so che farmene neanche stavolta. Cerco di ricordarmi com'è stato quel tempo lontano in cui anche io sapevo essere attento a qualcuno. Non mi ricordo nulla. Ho solo una breve visione di un corpo nudo e formoso, un lampo di boccoli biondi. Una vampata di desiderio misto a un indefinito rimpianto (del suo corpo? Delle sensazioni provate al suo fianco? Di lei?) mi percorre dalla testa ai piedi.

Dawson pensa che sia merito suo. Non lo disilludo. Fa tutto lui. E' anche bello, in qualche modo.

 

Non so di preciso quando crolliamo nel letto, né quando ci addormentiamo. So solo che a un certo punto mi sveglio, ancora nudo come un verme, ed è mattino inoltrato e non c'è nessuno accanto a me. Vorrei che ci fosse. Almeno Dawson. Qualcuno con cui scambiare due parole.

Resto immobile e inerte per una buona mezz'ora, contando le crepe nel soffitto bianco. Sto cercando di combattere una fretta solo apparente, un'ansia chiusa dentro di me. La sento agitarsi nello stomaco e risalire lentamente, anche se cerco di ricacciarla in fondo, arriva ai polmoni, mi comprime lo sterno da dentro, e spicca l'ultimo balzo arrivando in gola.

A quel punto corro verso il bagno. Non ci arrivo. Vomito l'anima. Sto d'inferno, ma quando finisco respiro a fondo. L'ansia è passata. La fretta no.

Per la prima volta dopo settimane e settimane, ho bisogno di scrivere.

Inizio a cercare dei fogli e delle matite. Guardo con un sospiro la chitarra di Dawson, appesa al muro. Con la mano che mi ritrovo, sono costretto a lasciarla lì.

Ma so leggere e scrivere le note su spartito da quando ho sei anni. A qualcosa il conservatorio sarà pur servito. Compongo febbrilmente, scrivendo testo e note in contemporanea.

Verso l'ora di pranzo vengo importunato da un venditore porta a porta che suona insistentemente il campanello. Apro e lui mi guarda un po' spaventato. Tra mano fasciata, naso rotto, barba lunga eccetera, non devo avere l'aria più sana del mondo. Lo liquido con poche parole e mi chiudo dentro.

Mi reimmergo nelle mie canzoni. Devo scriverle. Devo sputarle fuori. Fino ad avere i crampi alla mano e alla testa. Fino a crollare addormentato sul pavimento dove sto componendo. Cosa che faccio a notte inoltrata, con cinque testi già praticamente pronti intorno a me, a tenermi compagnia. Chiudo gli occhi e un istante dopo è già mattino, io sono sveglio e ricomincio a scrivere.

Di Dawson non c'è traccia, ma non me ne preoccupo. Non mi preoccupo nemmeno di mangiare. Non sento rumori, sento solo il susseguirsi perfetto degli accordi nella mia testa.

In due giorni ho dieci pezzi. Pronti. Perfetti.

Ma non posso suonarli.

Però mi rendo conto che è qualcos'altro che suona ininterrottamente da un po’. Il campanello.

Accompagnato da urla furibonde e pugni sulla porta.

Corro ad aprire. E' Dawson. Non sembra molto contento.

- Ehi. Dov'eri finito? -

- Dov'ero finito? Io?! A cercare una stanza da qualche parte, visto che uno stronzo che sto ospitando mi ha chiuso fuori da casa mia! -

Impallidisco. - Come dici scusa? - balbetto.

- Sono due giorni che ti chiamo e che suono alla porta. E non ho voluto telefonare alla polizia perché sei già abbastanza nella merda così -

- Dawson, mi dispiace... Io stavo componendo, ho scritto un sacco di pezzi e... Davvero, credimi se ti dico che non ho sentito... -

Il mio amico è schiumante di rabbia. Mi spinge da parte ed entra, si blocca.

La casa è invasa da fogli di carta appallottolati. In camera c'è ancora una chiazza di vomito evaporato. Avanzi di cibo sul pavimento.

Uno schifo, insomma.

Cerco maldestramente di dire qualcosa, di spiegare, ma Dawson sibila - Fuori di qui. Vai a farti un giro, altrimenti ti spacco il naso un'altra volta. Non sto scherzando, non ti voglio fra i piedi almeno fino a stanotte! -.

Sono mortificato. Esco strascicando i piedi, come un cane che viene mandato fuori sotto la pioggia.

 

 

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Capitolo 5
*** My fake plastic love ***


E in effetti diluvia. La cosa non mi stupisce minimamente. Vengo invaso da una sorda tristezza. Inutile darsi del coglione per l'ennesima volta; ormai me lo ripeto talmente spesso che sono parole che hanno perso ogni significato.

Nella mia testa, dove fino a stamattina c'era un affollamento di suoni e parole, adesso regna un silenzio totale e desolato.

E in questo silenzio spaventoso, il rombo assordante di una macchina sportiva mi perfora le orecchie. E' una Ferrari rossa fiammante e accosta proprio davanti a me, sbigottito e immobile. Ma è quando si abbassa il finestrino scuro che arriva il vero shock.

Una nuvola di vaporosi boccoli biondi. Labbra scarlatte e occhi azzurri orlati da lunghe ciglia chiare. Eterea e perfetta come una dea dell'Antica Grecia.

Debbie.

Che poi sarebbe la mia ex moglie.

Ebbene sì: Alex Caviezel, alla tenera età di venticinque anni, è già stato sposato ed è attualmente già divorziato.

Uno dei principali motivi per cui non posso permettermi uno schermo piatto gigante a casa mia.

Ah, già: ora non ho più nemmeno un posto da poter definire "casa mia".

Debbie mi guarda sconvolta, il viso bellissimo atteggiato a un'espressione di pena infinita. Non me la prendo, in fondo è vero: faccio pena.

- Alex - sussurra, arricciando leggermente quelle labbra da favola, - Che cosa ti è successo? -

Allargo le braccia con un sorriso stentato che probabilmente risulta inquietante.

- Salta su - dice, - Ti offro un caffè -.

Andiamo in un bar in centro, di quelli dove va la gente un po' meno disperata di me.

Le lampade sono ultramoderne e pendono dal soffitto fino ad arrivare a pochi centimetri dal tavolo, creando una luce fioca e soffusa. Ogni parete è ricoperta da specchi giganti. Mi vedo riflesso e mi spavento. Il contrasto tra me e Debbie è sempre stato forte, ma mai tanto quanto oggi.

Io sembro un barbone o un evaso da un manicomio. Lei invece è così pulita, così bionda, così top model. Così da urlo. E un posto del genere è il suo regno.

Mi accascio su un divanetto di pelle bianca e lei si siede di fronte a me, fingendo di non accorgersi degli sguardi di tutto il locale. Ancora mi chiedo perché Debbie non sia finita ad Hollywood. E' sempre stata una grande attrice.

Giusto per fare un esempio: mi ha tradito per mesi senza che io ne avessi il minimo sentore. Ha dovuto dirmelo lei, chiaro e tondo, per aprirmi gli occhi. E per piantarmi in asso, ovviamente. E non ha mai voluto dirmi chi fosse il fortunato che aveva distrutto il mio matrimonio.

"E' irrilevante che tu sappia chi è lui, Alex. La cosa importante è che lui c'è, e mi ha fatto capire che non ti amo più. Tutto qui, non c'è altro da dire...".

Beh. A due anni di distanza non è più tanto importante, in fondo.

- Alex? Mi stai ascoltando? - mi dice lei con la sua voce vellutata, sfiorandomi un braccio. E' come una scarica elettrica.

- Io... No, scusa, mi sono distratto. Cosa stavi dicendo? -

- Ti stavo chiedendo di spiegarmi come hai fatto a ridurti in questo stato -.

Sospiro. Arriva il mio caffè extra forte. Inizio a parlare. Le parlo dei litigi coi ragazzi, della fine dei We Love Thighs, delle droghe, del tostapane, del concerto a Piccadilly Circus, del pugno di Dawson e dei nuovi testi che ho scritto.

Della mia impossibilità a suonarli.

Quando finalmente finisco, Debbie resta a lungo in silenzio, mordicchiandosi un labbro con aria pensosa. Azione impercettibile ed estremamente erotica.

- Sai - dice poi, - Io conosco qualcuno che potrebbe suonare per te -

- Scherzi? -

- No. Non so se ti ricordi di mia cugina, c'era al nostro matrimo... - si blocca e arrossisce, imbarazzata. Agito una mano e sorrido - Vai avanti, tranquilla. No, non mi ricordo di lei -

Sarà perché al matrimonio avevo occhi solo per Debbie.

- Bè. E' più piccola di qualche anno ma se la cava davvero bene con la chitarra. Eppure non ci combina niente. Però se glie lo chiedo io, come favore, non credo che rifiuterà -

- Quand'è che posso parlarle? -

- Anche subito se vuoi. Andiamo, ti porto a casa sua -

Rimontiamo in macchina; Debbie si dirige verso la periferia. L'estrema periferia. Insomma, praticamente siamo fuori Manchester, nei quartieri di case popolari.

Ci fermiamo davanti a una villetta fatiscente, dalle pareti scrostate e dalle finestre sporche e annerite. C'è un giardino ricoperto di ghiaia, rifiuti ed erbacce, in cui giocano due marmocchi che avranno quattro e sei anni, o giù di lì. Litigano furiosamente per un lecca lecca appiccicoso, incuranti della pioggia.

Nessun adulto in vista.

Debbie ignora soavemente ogni cosa e veleggia serena verso il retro della casa.

C'è un piccolo garage, un'accozzaglia di lamiere arrugginite. Lì dentro, una chitarra suona.

- Ci siamo - dice Debbie con un sorriso. Bussa alla porta del garage e poi la spalanca senza aspettare un invito, trillando - Cuginetta! -.

Basta una rapida occhiata e mi si spalanca davanti un nuovo mondo: tra biciclette usate, barattoli di vernice, un motorino scassato e attrezzi vari, si innalzano pile di libri, di vinili e di cd. Allungo un po' la testa per sbirciare dentro e scopro un angolo rivestito di compensato, interamente ricoperto di poster.

Fra questi, troneggia quello di un paio di cosce deliziosamente rotonde e pallide, che indossano giarrettiera e calze a rete, con vertiginosi tacchi rossi. Le cosce di Debbie, ovviamente. Scelte apposta per il nostro logo, nonché per il manifesto del tour inglese dei We Love Thighs, come infatti recita la scritta che circonda quella foto celestiale.

Sotto ai poster, un letto minuscolo e sfatto, con una stufetta piazzata vicino.

E, sprofondata tra il materasso sfondato e le coperte, in mutandine e cannottiera, chitarra stretta al petto, ancora una volta lei. Nereide.

Improvvisamente ho un flashback del matrimonio: una ragazzina di undici-dodici anni dai grandi occhi blu che viene immortalata di tanto in tanto dai fotografi nelle foto di gruppo, ma per il resto passa il tempo in disparte, da sola. Si guarda intorno con l'aria goffa, spaesata e fragile di una bambina appena entrata nella schifosa fase della preadolescenza.

Non c'è che dire, il cambiamento è notevole.

Ci sarà un motivo se la incontro sempre, mi dico. E anche se di lei vedo sempre le mutandine prima di qualsiasi altra cosa.

Non sembra minimamente stupita, piuttosto un po' scocciata. Ascolta Debbie che cinguettando le spiega la situazione, scoccandomi ogni tanto un'occhiata diffidente.

- Si può fare - dice poi, senza un sorriso. Sicuramente l'idea non la esalta particolarmente. Come biasimarla?

Debbie mi mette di nuovo la mano sul braccio. Altro elettroshock.

- Alex, forse vuoi sentirla suonare, per capire se può andare bene... -

Nereide le rivolge uno sguardo indignato e altezzoso. Debbie la ignora allegramente.

- Non serve, grazie. L'ho già sentita suonare una volta. E' perfetta -.

La mia dea dorata spalanca gli occhioni con aria stupita e interrogativa. Nereide, punta nel vivo del suo onore, ha già afferrato la chitarra ed ha acceso l'amplificatore. Attacca una canzone dei The Kills, "Fuck the people", che suona con la rabbia di cui solo un'adolescente sa essere capace. La stanza sembra tremare al suo cospetto.

Debbie si agita impaziente. Quando la canzone finisce, dice - Allora, affare fatto? -

Mi rivolgo impacciato a Nereide, le lascio l'indirizzo di Dawson e ci diamo appuntamento per il giorno seguente.

Ci salutiamo con un semplice cenno della testa, riattraversiamo il giardino, ora deserto. Sta calando il buio.  Debbie mi fa un debole sorriso - Ti riaccompagno a casa? -

- Beh, a quest'ora Dawson dovrebbe essersi calmato. Proviamo. -

Facciamo il viaggio di ritorno in silenzio. Quando lei ferma la macchina per farmi scendere, faccio per l'ennesima volta la cosa più stupida del mondo.

La guardo dritta negli occhi e le chiedo - Debbie. Ormai sono passati due anni da quando ci siamo lasciati. Chi era lui? Con chi mi hai tradito? -

Si guarda intorno spaesata e a disagio. E' ancora più bella quando smette di recitare.

- Ormai puoi dirlo - la incalzo, - E' passato tanto tempo -.

Ma non avevo detto che non era importante?

In effetti non lo è. In effetti non voglio saperlo davvero e non so nemmeno perché glie l'ho chiesto.

Ma in quel preciso istante, Debbie cede - Oh, Alex. Ma come hai fatto a non capirlo? Era Eddie -

Non faccio una piega. - Eddie? Eddie chi? -

- Eddie. Il tuo Eddie. Il tuo chitarrista, Alex! -

Il colpo arriva. E fa fottutamente male. Spalanco la bocca, senza fiato. La richiudo.

Debbie scoppia a piangere e si getta al mio collo - Mi dispiace, mi dispiace avertelo nascosto, ma era la cosa migliore in quel momento... Ma lui era così geloso di te, perché mi avevi sposata prima di lui, e perché mi amavi ancora... Per questo ce l'aveva così a morte con te... Oh, Alex, mi manca così tanto! Non riesco a credere che sia morto! -

Singhiozza disperatamente. Io resto immobile, come una statua di sale, finché non si calma. Solleva il viso rigato di lacrime annerite dal rimmel e mi guarda con i suoi occhi sbalorditivi, arrossati dal pianto. E' comunque bella. Non so cosa dire, perciò le faccio una leggera carezza sul viso. Lei sfiora il nasino contro il mio, e poi mi bacia.

Dura molto di più di un qualunque bacetto di commiato. Ma io sento solo freddo. Nessuna scarica elettrica stavolta. Solo brividi ghiacciati. Dopo un po' mi sposto e la sento sussultare - Scusami, non so cosa mi sia preso, io...-

- Grazie per tutto quello che hai fatto per me oggi, Debbie - sussurro; e scendo dalla macchina.

Aspetto di sentirla ripartire alle mie spalle e poi suono il campanello. Speriamo che Dawson si sia calmato, altrimenti sono davvero fottuto.

 

...Si è calmato. Mi apre e mi guarda con aria seria ma tranquilla.

Intuisce subito che c'è qualcosa che non va. Qualcosa in più rispetto al solito, intendo.

- Vieni qui - dice piano, - Tu hai bisogno di rimetterti in sesto -.

Annuisco senza capire bene cosa voglia dire.

Mi prende per mano e mi porta in bagno. Mi spoglia, mi mette nella vasca e mi lava come se fossi un bambino. Mi fa la barba con cura, mi pettina i riccioli arruffati, che ormai stanno diventando dei dreadlocks. Mi toglie il cerotto dal naso (ahio) e mi cambia la fasciatura alla mano (ancora ahio). Mi fa indossare vestiti puliti (suoi), mi fa sedere sul divano, avvolto in una coperta. Porta da mangiare porzioni e porzioni di cibo caldo, accompagnato da vino rosso.

Mi sento rinascere.

- Ho letto le tue nuove canzoni - dice finalmente, dopo due lunghe ore di silenziose cure, - Sono bellissime. Valgono qualcosa. Ne sono sicuro -

- Lo pensi davvero? -

- Alex. Credo che siano le cose migliori che tu abbia mai fatto -.

Sorrido. Sorrido sul serio. Dawson se ne intende di musica. E si prende cura di me. Non voglio più ferirlo, devo impegnarmi perché non accada più.

Appoggio la testa contro la sua spalla e mi rilasso, chiudo gli occhi.

Lui mi accarezza i capelli per qualche minuto.

- Facciamo l'amore? - mi chiede poi.

Vorrei rispondergli sì, anche tutta la notte se vuoi, amico mio, grazie, davvero, per tutto quello che fai per me, ora andiamo a letto, andiamoci insieme e facciamo l'amore fino a domattina.

Nella mia mente gli dico tutto questo.

Ma prima di aprire bocca per rispondere crollo addormentato.

 

 

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Capitolo 6
*** Children, wake up, hold your mistake up ***


Quando mi sveglio è mattina e sono rannicchiato sul divano. Ancora una volta da solo.

Il tavolo è apparecchiato per la colazione e c’è un biglietto di Dawson: “Sono andato a trovare i miei fuori città. Mi dispiace, ma glie l’avevo promesso. Rientro sabato sera. D.”

Spilluzzico svogliatamente qualcosa, stufo del silenzio che regna nella casa, ma sentendomi decisamente meglio rispetto ai giorni scorsi.

Mi torna in mente l’assurda confessione di Debbie. Debbie e Eddie. Assonanza stupida e ridicola.

Ecco perché il mio caro chitarrista ce l’aveva così con me. Chissà per quanto si sono visti.

Oggi l’idea mi risulta un po’ più accettabile. Eravamo giovani, dei ragazzini, quando io e Debbie ci siamo sposati. Vent’anni appena compiuti. Io ero confuso e spaesato. Lei invece era già pronta ad incantare il mondo_ non poteva reggere a lungo con qualcuno come me, indeciso, impreciso, inadeguato insomma.

E Eddie, come mi pare di aver già detto, aveva il suo discreto fascino. Di quelli classici, gli evergreen che fanno impazzire sempre le donne: il rocker un po’ oscuro, un po’ guasto dentro, poeta maledetto. Come non cedere a un uomo così? Per un po’ me ne ero invaghito anche io, da adolescente.

Suona il campanello e mi riscuoto dalle mie riflessioni. Nereide è già qui, precisa e puntuale come io non sono mai stato, placidamente appoggiata alla custodia della sua chitarra, la sigaretta che pende a un angolo della bocca morbida. Adorabile, piccola pornobimba sovversiva. Su di lei sono belli perfino questi clichés visti miliardi di volte.

Quando le apro la porta, sembra sollevata nel vedermi con un aspetto un po’ più decente. Poi squadra la mia maglietta sogghignando - Non sapevo avessi certe preferenze - dice, sarcastica.

E’ una maglietta di Dawson. La osservo. C’è il disegno di un uomo nudo e legato come un salame stagionato. Una scritta nera dice “Bondage Homo League”.

Ridacchio - Beh, mi sembra che tu non abbia mai voluto approfondire la conoscenza sotto quel punto di vista, no? -

- Infatti - replica la ninfetta dei collant di pizzo, aggiustandosi la spallina del vestitino che scivola maliziosamente, - E non ho intenzione di approfondirla neanche adesso. Cominciamo?-

E cominciamo davvero.

Le mostro tutto. Testi, accordi, spartiti.

Lei studia tutto in silenzio per un po’, poi prende la chitarra e inizia a sfiorare le corde, provando l’intro per la prima canzone. In un istante ritrovo le vibrazioni pulsanti e seriche di quando l’avevo sentita suonare il basso.

Ne ha di talento, la ragazzina. E’ la chitarrista che ho sempre sognato di avere. Segue la mia traccia e contemporaneamente crea. E’ quel tipo di musicista che non cerca di spiccare rispetto alla voce, ma che sa che se solo smettesse di suonare un istante, se sbagliasse una sola, piccola nota, tutta la canzone farebbe schifo.

E non sbaglia. Mai. Piuttosto si ferma e mi chiede indicazioni su dei passaggi. Poi riprende. Segue la mia voce, e al tempo stesso segue la sua voce interiore, calda, sensuale, pregna di un erotismo adolescenziale pronto ad esplodere. E la traduce in musica.

Le note galleggiano nell’aria. Dawson aveva ragione. Sono le cose migliori che abbia mai scritto.

Mentre canto sorrido. Finalmente qualcosa di bello che viene fuori da tutto questo schifo. Nereide ascolta e osserva. La percepisco animarsi di una tensione latente che è quasi elettricità. Il suo respiro si fa affannoso, i muscoli si tendono sotto al vestito e ai collant, ha gli occhi lucidi. Finisce la quinta canzone con uno stacco brusco.

- Basta - dice poi, turbata. Si lascia cadere sul divano, ancora ansante, e per qualche minuto non fa che guardare il soffitto. Mi chiedo cosa esattamente l’abbia colpita così tanto, ma so già che non me lo dirà mai. Si passa il braccio sugli occhi, forse per asciugarli. Io la fisso in silenzio; finalmente sembra rendersene conto e si tira su di scatto - Ho fame -.

Durante il pranzo non posso fare a meno di notare una cosa: la mia silenziosa amica si è addolcita. Dice qualche parola di più, ogni tanto sorride perfino. Sarà stata la musica, sarà stato anche il fatto che per la prima volta mi ha visto con un aspetto decente.

Però insomma, sì, si è addolcita. Era ora.

Dopo pranzo si accende un’altra sigaretta. Io la scruto di sottecchi e poi mormoro - Te la senti di continuare o vuoi chiudere qui? -

Nereide mi incenerisce con lo sguardo - Prova a cercarti un altro chitarrista e sei morto - sibila, soffiando fuori il fumo come un piccolo drago.

Bè, che dire, preferisco vivere.

Continuiamo a suonare per tutto il pomeriggio. E poi il giorno dopo. E il giorno dopo ancora. Alla terza sera di prove la sintonia è totale e perfetta. Per la prima volta capisco perché non c’è bisogno di parlare per comunicare davvero. Io e Nereide siamo ormai in simbiosi.

Devo ammetterlo, il mio corpo non risponde con altrettanta precisione a questa sintonia_ ho ancora voglia di prenderla in spalla e portarla di corsa in camera da letto, ma penso che questo sia solo un chiaro segno di sano vigore sessuale. E di astinenza forzata, ovvio.

E’ ormai calata la notte e ci accorgiamo solo alla fine di una canzone che c’è un’ombra che ci osserva. Quando finalmente l’ultima nota si spegne nell’aria, insieme alle sigarette che io e Nereide stiamo fumando, Dawson, o meglio la sua ombra, parla.

E’ inquietante: sembra davvero il suo spettro e non lui. Venuto a scacciare i visitatori molesti dalla sua magione_ in questo caso, il visitatore molesto è chiaramente quella ragazzina che mi mangio con gli occhi e che, seduta con me sul divano, ha steso spavaldamente le lunghe gambe sopra le mie e pizzica ancora le corde della chitarra, incurante della mia erezione. Lo sguardo di Dawson è carico di odio - Adesso inviti pure le tue amiche in casa mia mentre io non ci sono, Alex? Giusto questa ci mancava... -

- Dawson, stavamo solo provando i miei pezzi -

- Non mi interessa. Non mi ricordo di averti dato il permesso di far venire qui gente quando ti pareva. Dimmi, per caso hai anche organizzato qualcuno dei tuoi famosi festini in mia assenza, come ai vecchi tempi? -

- Okay, è ora che io mi tolga di torno - dice Nereide, con una punta di ironia nella voce. E' palesemente divertita. Lei sa quanto me che cosa mi aspetta appena io e Dawson resteremo soli. Una scenata di gelosia bella e buona.

E infatti. Appena la porta si chiude, Dawson esplode - Questo è troppo, Alex! Tu ti approfitti di me e della mia ospitalità! Ma come ti sei permesso? Su che marciapiede l’hai raccattata quella? -

- Dawson, calmati. Davvero, è venuta qui solo per aiutarmi a provare. Avevo bisogno di sentire quelle canzoni, senza vederle semplicemente scritte, e lei sa suonare... -

- Non potevi aspettare il mio ritorno?! Le avrei suonate con te! -

Qui arriva la parte difficile.

- Beh, insomma... Tu te la cavi con la chitarra, ma avevo bisogno... Ehm... Di qualcuno di veramente bravo -

Ecco. Ora sono un uomo morto. Dawson trema dalla rabbia - E mi stai dicendo - sibila, furente, - Che quella mocciosa che si veste come una sgualdrina è “qualcuno di veramente bravo”? E che se la cava meglio di me? Ma non dirmi stronzate. E’ che tu ragioni con l’uccello, Alex, non con la testa! -

- Ma Dawson, l’hai sentita suonare anche tu! E’ brava e lo sai. Avevo bisogno di lei -.

Lo zittisco, anche se solo per qualche istante. Ho ragione io, almeno stavolta, e lo sappiamo entrambi. Ma la gelosia non è razionale. Si prepara il colpo finale.

- Avevi bisogno di lei. Certo. E quand’è che hai bisogno di me, Alex? Quando ti serve qualcuno che ti porti in ospedale, che ti dia una casa per chiudertici dentro, che ti accudisca, magari che ti faccia anche fare una scopata? In poche parole, hai bisogno di me quando ti serve qualcuno da usare a tuo piacimento?! -

Flebile tentativo di obiezione, vostro onore. Obiezione respinta.

- No Alex, lasciami finire, non interrompermi! Era da un po’ che te ne volevo parlare, ma continuavo ad avere fiducia in te, mi dicevo che era un momento difficile e che dovevo avere pazienza, ma adesso ne ho abbastanza. Non ti riconosco più. Sfrutti le persone che ti amano, è un dato di fatto. Le usi quando ti servono e poi le butti via, o non ti preoccupi di ferirle quando ti trovi un giocattolino nuovo. Io ti sto dietro da anni, con tutto l’affetto e l’amore che posso darti, e tu in un mese sei riuscito a farmi più torti che in tutta la vita. E quella ragazzina: stai usando anche lei. Ti sei almeno reso conto degli occhi con cui ti guarda? E’ poco più di una bambina. E quando non ti servirà più, mollerai anche lei.

Io ti amo, Alex, ma a te non potrà mai importare niente né di me, né dei miei sentimenti. Continuerai ad occuparti sempre e solo di te stesso, finché non ti accorgerai di non avere più nessuno intorno -

Dawson si ferma e riprende fiato. A me gira la testa e sento che il colpo finale è andato a segno. Mi mordo con forza un labbro. Il mio amico mi guarda, ormai sull’orlo delle lacrime - E adesso, per favore, prendi la tua roba e vattene via -

- Cosa?! -

- Hai capito quello che ti ho detto. Fuori di qui -. Inizia a raccogliere freneticamente i miei spartiti dal tavolo. Poi prende il mio maglione e la mia giacca e me li lancia addosso. Io cerco di farlo ragionare: Dawson, adesso sei preso dalla gelosia, lo sai che le cose non stanno come dici tu, io ho sbagliato ma parliamone con calma, per favore.

Ma Dawson mi ha già spinto fuori casa, chiudendomi la porta in faccia.

Gli spartiti mi cadono a terra con un fruscio beffardo.

 

Mi ritrovo a correre un’altra volta sotto la pioggia, senza avere una destinazione. Le parole di Dawson continuano a rimbombarmi in testa. Non posso fare a meno di pensare che ci sia qualcosa di vero. Anzi, non diciamo cazzate: è tutto assolutamente, schifosamente vero.

Ho bisogno di bere. Bere roba forte.

Mi infilo nel primo pub e bevo quattro whisky di fila. Poi mi sbattono fuori perché devono chiudere.

Barcollo verso un night club e ordino altri quattro whisky. In mezzo a ballerine stanche dai corpi perfetti e abusati, compongo il pezzo più triste che io abbia mai pensato.

Poi bevo ancora whisky.

Sono ubriaco fradicio ma non sto male. L’importante è non mischiare la roba. Ancora whisky, per favore. Grazie.

Alle cinque del mattino sono rimasto solo io con le mie scartoffie. Spettacolo quanto mai penoso. Il proprietario mi butta fuori senza troppi riguardi. Lo insulto fino a non avere più fiato in gola. Dopotutto, gli ho fatto guadagnare un sacco di soldi con tutti i miei whisky, dovrei almeno essere sbattuto fuori con un po' di riguardo.

Mi avvio barcollando lungo la strada lurida. Adesso sono davvero stanco. E non ho un posto dove andare.

... O forse sì?

Mi guardo intorno. Sono in centro. E so chi abita qui vicino.

Dieci minuti dopo mi appendo al bottone di un citofono finché non mi risponde una voce assonnata - Chi è? -

- Sono Alex. Per favore, aprimi. Per favore -.

 

Debbie spalanca la porta stropicciandosi gli occhi. Le crollo addosso, immergendomi nel suo profumo inebriante, beandomi della camicia da notte di raso sottile. Molto sottile. Mi porta quasi di peso in soggiorno; io mi butto sul divano e la trascino giù con me. Sotto di me, per la precisione.

- Puzzi di alcol dalla testa ai piedi - mi sta dicendo lei, preoccupata, - Sei ubriaco? -

- No... Cioè, sì. Dawson mi ha cacciato di casa e non sapevo dove andare - biascico, - Perciò sono andato in un bar. E in un night club. E ora sono qui su di te... Volevo dire, da te -.

- Oh, Alex. Potevi a venire direttamente qua - replica lei, accarezzandomi il viso. Non capisco cosa intenda dire.

Mi guarda negli occhi annebbiati - Da quando ti ho rivisto, non ho fatto altro che pensare a te... Volevo chiamarti, ma non sapevo se era il caso...-. Mi bacia e sento ancora i brividi freddi dell'altra volta. Poi però la sua mano sapiente discende il mio petto e arriva ai pantaloni.

A quel punto i brividi non sono più tanto freddi.

Uno degli effetti collaterali delle sbronze è che mi viene una voglia disperata di scopare. In questo caso, poi, avevo voglia di scopare prima ancora di sbronzarmi.

All'improvviso, senza che io mi sia reso bene conto di cosa sia successo, Debbie mi sta cavalcando. Dopo tutto il testosterone di Dawson, un corpo femminile ci voleva.

Non so per quanto andiamo avanti, rotolandoci in soggiorno e poi nella sua camera da letto. So solo che a un certo punto, mentre spossato mi fumo una sigaretta, Debbie inizia a fare strani esercizi ginnici.

Scoppio a ridere sguaiatamente - Molto carino, fare ginnastica dopo aver scopato - esclamo, strascicando le parole. Debbie, che da una mezz'oretta sta facendo una verticale contro il muro, ancora completamente nuda, mi sorride

- Noi non abbiamo scopato. Abbiamo fatto l'amore, caro -

- Sì, certo, naturale. Come preferisci tu - mormoro perplesso. Lascio cadere la sigaretta ancora accesa sul pavimento e crollo in coma.

 

 

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Capitolo 7
*** Sexual healing, oh baby, makes me feel so fine ***


Una spada mi trapassa la testa da parte a parte. Una valanga mi è rovinata addosso spezzandomi le ossa. Ho assunto del veleno dal sapore orrendo che mi ha impastoiato la bocca. Ho un mostro che cresce nel mio stomaco e che presto mi squarcerà in due per uscire fuori e fottere l'umanità.

Non mi spavento per tutto questo. E' il solito, normalissimo hangover.

Provo lentamente ad aprire gli occhi. Per fortuna, a Manchester la luce non è mai così intensa da disturbare un uomo afflitto dal doposbronza.

Nel letto, per l'ennesima volta, non c'è nessuno. Debbie è fuori e non si è preoccupata di lasciarmi un biglietto. Incapace anche solo di alzarmi, mi rigiro nel letto per qualche ora, come un'ameba, cercando di ricordarmi qualcosa della sera prima.

Ovvio, mi ricordo che sono andato a letto con Debbie. Eppure qualcosa è andato storto. Quando eravamo sposati, fare sesso con lei era un'esperienza incredibile, quasi mistica. Stavolta non riesco a focalizzare nessuna sensazione, nessuna emozione. Niente al di là del puro istinto sessuale. Non ero molto diverso da un cane in calore direi.

Verso mezzogiorno riesco ad alzarmi e a mangiare qualcosa. Poi mi prendo due aspirine in una botta sola.

Decido che ne ho abbastanza di starmene da solo in casa ad aspettare il ritorno di qualcuno. Mi vesto, raccolgo le mie canzoni stropicciate ed esco.

C'è un timido sole pomeridiano e l'aria fresca mi fa riprendere un po'. Ho bisogno di camminare.

Vado lontano dal centro, lontano dal casino. Cammino per almeno due ore.

Quando mi fermo, sono finalmente sobrio e mi è passato il mal di testa. Solo in quell'istante mi rendo conto di dove sono arrivato.

I marmocchi davanti alla casa sono raddoppiati. Mi sembra di assistere alla scena di un vecchio film scadente. Mio dio.

I due dell'altra volta sono ora capitanati da un ragazzino più grande, sui dieci anni, che è il leader indiscusso non tanto per un fattore d'età, ma per gli strati di lerciume che ha addosso. Un altro bimbetto gattona per il giardino mettendosi in bocca ogni sasso che trova.

Seduta sui gradini d'ingresso, una donna non vecchia, ma completamente sfatta, in vestaglia e bigodini, li sorveglia fumando una sigaretta. Noto che è (di nuovo) incinta di qualche mese. Non credo ai miei occhi.

- Ehi, tu! - mi dice la donna, - Che cosa vuoi? -. Capisco che non sto sognando e che non sono al cinema.

Balbettando chiedo se Nereide è in casa.

- In casa non ci sta praticamente mai - mi sento rispondere amaramente, - Ma se la cerchi, la trovi nel garage -.

 

La baracca di lamiera che quella sottospecie di massaia ha definito garage è silenziosa questa volta. Busso piano alla porta e non ottengo risposta.

Non ho voglia di andare via. Entro.

Nereide sta dormendo. Noto con divertimento che ha una mano infilata nei collant. Mi accorgo, divertendomi un po' meno, che ha il trucco sbavato e c'è il segno scuro di una lacrima sulla sua guancia. Una delle cose più tristi e commuoventi del mondo: masturbarsi e poi scoppiare a piangere. E poi, esausti, crollare addormentati. Quante volte è successo anche a me.

Mi siedo ai piedi del letto e appoggio una mano sulla sua caviglia sottile. Si sveglia immediatamente. Sbatte un po' gli occhioni e mi fissa senza stupore.

Una ragazza impossibile da sorprendere, anche nel sonno. Con nonchalance sfila la mano dai collant e si mette a sedere  - Cosa ci fai qui?-.

Già. Cosa ci faccio lì?

Ho la scusa pronta, per fortuna.

- Ehm. Ho scritto un nuovo pezzo stanotte. Mi piacerebbe provarlo -

Nereide non fa altre domande. Non mi chiede cosa sia successo con Dawson, né perché sono venuto fino da lei invece di telefonarle. Non mi chiede nemmeno perché la scrittura del testo e delle note sia così sghemba, e perché i fogli siano spiegazzati per il whisky che ci ho rovesciato sopra.

Semplicemente, prende la chitarra e suona.

Io sento che la pace dei giorni precedenti non è poi così lontana. Mi accorgo che non sta seguendo il mio schema, che è pieno di errori (i fumi dell'alcol...). Segue la traccia e corregge automaticamente, precisa come un computer.

Inizio a cantare con voce roca e stentata. Faccio fatica a lasciarmi completamente andare e lei se ne accorge; dopo qualche minuto, imparata la melodia, inizia ad accompagnarmi come seconda voce.

Canta esattamente come mi aspettavo: come qualcuno che non è abituato a far vibrare spesso le proprie corde vocali, preferendo le vibrazioni delle corde della chitarra. Non è una voce eccezionale, insomma. Ma come accompagnamento è perfetto. Ritrovo un po' di coraggio e di vigore.

In un'ora, anche l'undicesima canzone è pronta. Disperata come la volevo io. Come sono io.

Nereide sembra soddisfatta; lo sono anche io, ma non me ne voglio andare, perché davvero non so dove posso rifugiarmi stavolta. Le chiedo di riprovare le altre canzoni e accetta di buon grado; io tiro un sospiro di sollievo.

Suoniamo fino a sera. Ad un certo punto, Nereide guarda prima l'orologio, poi me  - Dobbiamo fermarci qua. Devo andare in casa, è quasi ora di cena -

- Certo, certo - mi alzo in piedi, indeciso, - Uhm... posso passare da te anche domani? -

Lei mi squadra dalla testa ai piedi - Fammi indovinare... Non hai la più pallida idea di dove andare -

- Sì che lo so - rispondo senza pensarci, poi mi blocco, sospiro -... No. Dawson mi ha cacciato via ieri sera, dopo che te ne sei andata -

- E cosa hai fatto la notte scorsa? -

Oltre a montare tua cugina, intendi?

- Sono stato tutta la notte in giro a bere come un idiota, ecco cosa ho fatto-. Meglio omettere altri dettagli. In fondo, è una mezza verità.

Nereide alza gli occhi al cielo, sbuffando - Avanti, andiamo a cena - dice, spingendomi fuori dal garage.

 

Certo non mi sarei aspettato una cena di questo tipo. Non che chiedessi niente di particolare, intendiamoci. Però speravo almeno di non trovarmi in quelle situazioni in cui sei certo di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Sono chiaramente di troppo.

La madre di Nereide, ovvero la massaia dei poveri, siede a capotavola e continua ad avere una sigaretta accesa. Il padre, sicuramente già mezzo sbronzo, si piazza accanto a lei e inizia a sbraitare - Ma che cazzo! In questa casa si mangiano sempre questi fottutissimi hamburger! Mi fanno schifo! Odio questo schifosissimo cibo! -

Non fa in tempo a finire la frase che già la moglie è scattata in piedi - Se non ti piace quello che cucino puoi tornartene al tuo cazzo di pub e prendere qualcosa lì! Ti piace tanto quel posto, ci passi le giornate, perché non ti levi dalle palle una volta per tutte e non vai ad abitare là dentro? -.

Nessuno dei due mi degna di uno sguardo.

Nereide mangia imperturbabile e imbocca il fratellino più piccolo. Cazzo, ora ho capito perché non parla. E perché niente la stupisce. Deve vederne di tutti i colori.

Gli altri due marmocchi si tirano delle carote lesse senza che nessuno li fermi.

Il più grande mi fissa insistentemente, i grandi occhi blu sgranati. Sono gli stessi della mia pornobimba, solo vagamente più inquietanti.

- Cosa sei, il fidanzato di mia sorella? - chiede a bruciapelo.

Rischio di soffocare con la carota.

- No, direi di no. Sono solo un suo amico -

- Ah ecco - replica lui, rasserenandosi - Infatti mi sembrava strano. Perché lei i suoi fidanzati non li porta mai a cena. Li fa andare direttamente in garage. Cioè, non tutti sono suoi fidanzati. Con alcuni se la fa e basta, ci va a letto, insomma. Comunque neanche loro se li porta a cena -

Rischio un'altra volta il soffocamento. Quanti anni hai scusa? Dieci. Ah ecco, ottimo.

 

E' Nereide a sancire la fine di questa tortura. Appena finiti i suoi hamburger, si alza di scatto, prende in braccio il bambino più piccolo e dice seccamente - Avanti. Ora tutti a letto -

Un coro di proteste si leva dai fratellini iperattivi e ricoperti di carote.

La madre si gira e fulmina tutti con un'occhiata - Adesso levatevi di torno, io e vostro padre dobbiamo parlare -

- Ah, riescono addirittura a parlare di tanto in tanto, invece di insultarsi? - sussurro all'orecchio della mia pornobimba. Mi fulmina con un’occhiata sprezzante e mi mordo la lingua.

Mi chiedo se arriverò mai a starle simpatico.

I mocciosi hanno capito che forse è meglio seguire la sorella e il suo strano amico che (ahimè) non si porta a letto.

Lavarli, cambiarli e poi infilarli a forza nel letto è un'impresa titanica. Io sono di ben poca utilità, a dire il vero. Avrei voglia di uccidere quelle pesti. Non so come faccia Nereide ad affrontarli ogni sera con tutto quell'aplomb. Quando finalmente le luci sono spente e sono tutti nei loro lettini, tranne il più piccolo che ancora sbava sulla spalla della sorella, tiro un sospiro di sollievo.

Troppo presto.

- Vogliamo una storia! -

- Sì, una storia per dormire! -

Nereide sprofonda rassegnata sul letto del più grande. Per la prima volta da quando la conosco, la vedo davvero esausta.

Il mio spirito cavalleresco prende il sopravvento, anche se so che lei non mi ringrazierà mai per questo. Ti salverò io, piccola dama di periferia, stanca ninfa del rock, sacro emblema della sessualità puberale.

-...Lasciate stare vostra sorella, bambini, ve la racconto io una storia-

Tre paia di occhi che mi squadrano diffidenti.

- Tu? -

- Cosa ne vuoi sapere tu di storie? -

Piccoli pidocchi che non siete altro, se solo ascoltaste la mia, cadreste giù dal letto per lo stupore.

- Non vi fidate? Avanti. Che storia volete? -

- Una di paura! -

- Con del sangue! -

- E delle pistole! -

- E dei mostri! -

Ce ne vuole di fantasia. Spremo le mie meningi.

Invento la storia più spaventosa, più sanguinolenta, più sparatutto e più mostruosa che sia mai stata raccontata come favola della buonanotte.

Il protagonista è un mostro killer che uccide a colpi di mitra i bambini che non vogliono andare a letto.

I fratellini di Nereide sono in estasi. Si esaltano durante tutto il racconto. Incitano il mostro, ululando di piacere ad ogni nuova vittima. Ma appena la storia finisce, iniziano a guardarsi intorno con aria inquieta.

- Ecco. Fine - concludo, - E adesso vi conviene mettervi buoni a dormire, altrimenti il mostro raggiungerà anche voi -

- Balle - replica il più grande, fingendosi spavaldo, - Era solo una storia -

- Può darsi, ma in ogni caso meglio non rischiare, no? -

Li zittisco, finalmente.

Noto che Nereide si è assopita. Anche il piccoletto fra le sue braccia si è addormentato, dopo aver cercato a lungo di fagocitarle l'intera mano. La scuoto leggermente e apre immediatamente gli occhi, senza nemmeno un sussulto. La muta meccanicità con cui si sveglia è inquietante. Piazza il bebè nel suo lettino, dà la buonanotte agli altri fratelli e finalmente si chiude alle spalle la porta dell'inferno.

 

Usciamo all'aria aperta e ci dirigiamo verso il garage.

- Come diavolo fai? - le chiedo, attonito; lei si stringe nelle spalle e, ovviamente, non risponde, assorta in altri pensieri. Osserva laconica il suo minuscolo letto - Puoi fermarti qui stanotte. Però dovrai adattarti allo spazio che c'è -

Nessun problema, rispondo speranzoso. Senza aggiungere altro mi metto in mutande e mi infilo sotto le coperte. Lei lancia via anfibi, collant e maglietta, restando solo con la biancheria intima. La guardo a bocca aperta, chiedendomi se lo faccia perché ci sono io; ma in realtà non sembra importarle granché che io la guardi. Anzi, se non fosse lei a tirare i vestiti in vari angoli del garage con noncuranza, sarebbe lo spogliarello meno erotico del mondo. Ma Nereide è una pornobimba, perciò continua a sprizzare sesso da tutti i pori anche senza fare niente di particolare.

Nella mia testa risuona una marcia trionfale quando si sdraia accanto a me. Questo letto è fottutamente piccolo. Ogni centimetro della mia pelle è a contatto col suo corpo esile, caldo, seminudo.

Non è possibile che non succeda niente, mi dico. Le sfioro un braccio pallido, pronto a partire all'attacco.

... Invece è possibilissimo.

Nereide già dorme. Beatamente, profondamente.

Mentre la maledico in silenzio ho la tentazione di sorprenderla nel sonno, a tradimento. Ma tanto so che non avrei mai il coraggio di farlo, soprattutto perché lei sarebbe capace di uccidermi. Decido di lasciar perdere e me ne resto lì come un coglione, completamente spiaccicato contro di lei, a cercare di tenere a bada i miei ormoni in rivolta.

 

E' una notte lunga e tormentata. Il sonno non arriva mai, e quando piombo nel dormiveglia è tardissimo. I miei sogni sono popolati da candide sagome femminili, completamente nude, che mi chiamano cantando in mezzo alla nebbia, senza che io riesca a raggiungerle. Ad un tratto il canto si fa fastidioso e stridente e loro diventano sempre più sfuocate e lontane. Un fagottino caldo al mio fianco si contorce e si agita, e io spalanco gli occhi. Sta suonando una sveglia. Nereide, soffocando uno sbadiglio, lancia in aria le coperte e la spegne.

Guardando l'unica, minuscola finestrella del garage mi rendo conto che è ancora buio.

- Ma che ore sono? - mugolo, sconvolto.

- Le cinque - risponde seccamente lei. Si alza e toglie la coperta dal letto, avvolgendosela intorno alle spalle. Congelo all'istante.

- Ma sei pazza? E poi perché metti la sveglia alle cinque? -

- Per vedere l'alba. Lo faccio ogni mattina - prende un pacchetto di sigarette e si avvia verso la porta. Non mi chiede di accompagnarla, ma mi alzo dal letto anche io, sbraitando - Ma cristo! Non siamo nella fottuta Norvegia! L'alba a Manchester fa schifo! -

- Per la maggior parte delle volte sì. E' per questo che quando c'è una mattinata bella, me la godo di più -.

Nereide esce e io le corro dietro, dandomi vigorose pacche sulla schiena nuda per riscaldarmi. E' pazza, ora ne sono sicuro.

Ci sediamo fra la ghiaia e l'erba bagnata di pioggia e rugiada, con la coperta che ci avvolge entrambi, e ci accendiamo una sigaretta. Ho così sonno che inizio a non sentire nemmeno più il gelo e l'umido. Il corpo della ninfetta in lingerie è come una piccola stufa morbida accanto a me.

Non parliamo. Aspettiamo.

Si preannuncia una giornata squallida e piovosa come tutte le altre. Quando l'alba arriva, è sfuocata e grigiastra e il sole non si vede. Spettacolo quanto mai deprimente.

Quando il buio si è definitivamente diradato, Nereide spegne la terza sigaretta e si alza in piedi. Io rimango immobile qualche istante ad ammirarla dal basso, in tutta la sua pallida corporalità e in tutte le sue trasparenze di cotone. Rientriamo in garage e la aiuto a rimettere la coperta sul letto - Non è andata bene neanche stamattina, a quanto pare - dico, con una punta di sarcasmo che lei coglie all’istante. Si gira di scatto a guardarmi con grandi, minacciosi occhi blu.

Poi la sua espressione cambia.

Noto che il suo sguardo scende lentamente dal mio viso al mio inguine e vorrei seppellirmi per l'imbarazzo.

E' da ieri sera che ho un'erezione così evidente, così potente, così impetuosa, che anche mettendoci le mani davanti non riesco minimamente a nasconderla.

Apro bocca per dirle di non farci caso, che non alzerò un dito per toccarla, che me ne starò girato contro la parete così non dovrà pensarci, quando lei mi anticipa brutalmente - Vuoi fare sesso? -.

Ormai ero così convinto che non avrei mai sentito questa frase uscire dalle labbra di Nereide che non la capisco subito, e balbettando devo chiederle di ripetere.

Lei scuote la testa, rassegnata - Lascia perdere -. Fa per voltarsi e finalmente io recupero le mie facoltà mentali: la afferro per un braccio e la attiro a me. Lei mi bacia. La sua lingua che sa di fumo e si insinua tra le mie labbra è come un elettroshock che mi riscuote dallo stupore.

Circa trenta secondi dopo siamo crollati sul suo letto, completamente nudi. Lascio perdere carezze e preliminari.

Altri venti secondi e sono dentro di lei, anima e corpo, completamente, violentemente.

Decisamente, non stiamo "facendo l'amore"... Me la sto scopando, e in modo piuttosto selvaggio anche. Il suo corpo non è fragile come sembra: sa ammortizzare i miei colpi, sa assorbire il mio dolore, mi incoraggia a sfogarlo tutto contro le sue cosce stupende, contro la sua pelle liscia, e me lo risucchia via man mano che vado più a fondo. Afferro Nereide per i capelli, affondo i denti nel suo collo, sbatto con forza contro il suo inguine; lei mi graffia coi suoi artiglietti affilati, mi succhia le labbra e la saliva, ansima nelle mie orecchie.

Adesso grida insieme a me, la mia piccola amica sempre silenziosa. Forse le sto facendo male, ma non prova a fermarmi, anzi, mi incita col corpo, con la voce, con le mani, finché con un lungo, unanime gemito veniamo contemporaneamente; la mia onda calda non ha ancora finito di esplodere in lei che io mi accascio sui suoi piccoli seni e scoppio a piangere disperatamente.

Ancora una volta Nereide non si scompone, sembra quasi che se lo aspettasse. Ancora scossa da deliziose contrazioni post orgasmiche, mi accarezza i capelli delicatamente e mi culla con tenerezza, dandomi qualche bacio sulle tempie di tanto in tanto.

Mi sembra di piangere per ore. Butto fuori tutto, fino a infradiciare il petto della mia piccola ninfa, fino a scordarmi i motivi per cui sto piangendo. Quando mi rendo conto che la mia memoria è come azzerata, inizio a calmarmi.

Lentamente mi riaddormento, debole, fragile e felice come chi è appena uscito da una lunga convalescenza.

 

 

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Capitolo 8
*** You get nothin' for nothin', tell me who can you trust ***


Quando apro gli occhi, mi rendo conto subito che questa volta non sono rimasto da solo. Impossibile pensarlo: sono ancora accoccolato sul petto di Nereide, che si alza e si abbassa seguendo il ritmo regolare del suo respiro.

Mi sento un’altra persona. Non avevo mai fatto una scopata catartica.

Esperienza interessante e da ripetere, senza dubbio.

Ho eliminato in poche ore la stanchezza e la fatica dell'ultimo periodo, in cui non ho fatto altro che farmi trascinare dagli eventi, sballottato di qua e di là, come una marionetta sfondata.

Mi sento pronto a ritornare padrone della mia vita. Ci sono molte cose che posso e devo fare.

Innanzitutto, smettere di provare le mie nuove canzoni in un garage e provare a farne uscire qualcosa di buono.

Poi devo sistemare le cose con Dawson. E con Debbie, credo.

Un sospiro caldo sopra di me. Nereide fa una piccola smorfia nel sonno. Almeno con lei non ho combinato casini. Lei resta sempre il mio bunker sicuro e inespugnabile, la mia ancora di salvezza.

A malincuore, mi stacco dal suo corpo caldo, profumato di sesso e lacrime, cercando di fare meno rumore possibile. Mi rivesto, prendo i fogli con le canzoni, sempre più stropicciati, ed esco in punta di piedi.

 

Un'ora più tardi sono in un quartiere decisamente meno disagiato e decisamente troppo vicino a casa mia. Suono a un grande portone di ferro con la scritta "Dusty Den". E' la sala prove della mia vita, con studio di registrazione incluso.

Scoperto quando avevo tredici anni, è rimasto sempre lui. Nelle sale polverose, risalenti probabilmente agli anni 60, sono nati i We Love Thighs; sono state scritte le loro canzoni migliori, sono stati incisi i loro album.

Dopo qualche minuto di attesa, la porta si spalanca e un vecchietto dalla voce roca e poderosa mi apostrofa con le seguenti parole - Alex! Il mio figlio di puttana preferito. Dopo tutto quel casino, iniziavo a pensare che non ti avrei più rivisto nei dintorni!-.

E' il proprietario del Dusty Den. Il vecchio Bill.

Ci ho provato tante volte, ma non sono mai riuscito a immaginarmelo giovane. E' sempre stato vecchio, burbero e malmesso. E fottutamente geniale. Gli eravamo piaciuti subito, noi WLT.

Effettivamente è passato parecchio tempo dall'ultima volta che sono andato a trovarlo. Non sembra passarsela molto bene.

La sua faccia barbuta è ancora più grinzosa di quanto ricordassi; e oltre al suo inseparabile bastone si è aggiunto un sottile tubicino trasparente che lo avvolge come una cornice di plastica e si infila nel naso.

Perfino la sala prove ha un aspetto più trascurato e malconcio.

Mi si stringe il cuore.

- Che succede qui, vecchio mio? Non ho mai visto questo posto in uno stato simile -

- Problemi d'affari, pivello. Ma tu cosa vuoi capirne? - mi risponde Bill, accendendosi un sigaro. Non credo che sia una buona idea, ma non oso intervenire.

- Allora, ragazzino, perché sei qui stavolta? -

Gli allungo le mie scartoffie - Ho dei pezzi nuovi. Un progetto mio, solista. Ti assicuro che merita -. Bill afferra i fogli e inizia a scorrerli rapidamente con lo sguardo - Un progetto solista, eh? E come ti vuoi chiamare stavolta? -

- Non saprei. Forse I Like Panties, chissà - rispondo, ripensando con un sorriso alla biancheria intima di Nereide, - Scherzi a parte, Bill. Lascia che ti faccia sentire qualcosa. E' roba buona -

Il mio mentore acconsente e va a prendere una chitarra per accompagnarmi. Lui sa suonare qualsiasi cosa. Anche se adesso le sue mani sono rovinate per l'artrite e fa fatica a spostarle sui tasti e sulle corde, suona comunque bene.

Non è come provare con Nereide, non c'è quella sintonia perfetta, ma le canzoni sono belle e riesco a dimostrarlo comunque. Bill è colpito.

- Che mi prenda un colpo se non hai ragione, Alex. Questa roba è ottima. Stai crescendo, pivellino. Era ora! -

- E' quello che dico anche io - replico sorridendo, - Ed è per questo che ho un favore da chiederti -.

Faccio un bel respiro, e poi lo dico.

Io devo registrare questi pezzi. Assolutamente. Ma devo poterlo fare gratis, impegnandomi a restituire i soldi più avanti.

Bill sembra sorpreso per qualche istante, poi si incupisce e tace a lungo. Infine dice a voce bassa - Alex, lo faccio giusto perché sei te. Ma i soldi devi ridarmeli in fretta, perché nel caso non te ne fossi accorto le cose qui vanno male, molto male. Penso che fra poco dovrò chiudere i battenti. E poi, inizio a non avere più l'età per stare dietro a questo posto -

- Grazie, Bill. Davvero. Prometto che, appena inizierò a ricavare un po' di denaro da queste canzoni, ti restituirò tutto. Lo sa che sono uno di parola. Ora come ora sono senza un centesimo, ma lasciami solo il tempo di farle circolare... -

- D'accordo, d'accordo. Solo, non capisco come tu abbia fatto a sperperare quel fottìo di soldi che hai guadagnato coi We Love Thighs! -

Lo guardo perplesso - Fottìo di soldi? Guarda, Bill, noi andavamo bene, ma non abbiamo mai guadagnato granché. Scott, il nostro agente, faceva circolare i soldi in gadget, concerti, interviste, eccetera, pubblicità, insomma. A noi restava il giusto per vivere in modo sereno e felice senza dover lavorare... -

Bill, improvvisamente, mi fissa incredulo, poi scoppia nella risata più catarrosa che abbia mai sentito - Cristo, Alex! Ma dove vivi? Avevo intuito che di affari non ci capisci un cazzo, ma non pensavo che fossi a questi livelli! Fidati di me, che con agenti musicali ho lavorato per tutta la vita: quelli cercano sempre di fotterti. E il vostro Scott ci è riuscito.

I We Love Thighs hanno guadagnato milioni e milioni di sterline. I vostri album sono stati in vetta alle classifiche per mesi. Non è possibile che ne abbiate guadagnato così poco. Già solo coi diritti d'autore, potresti smettere di lavorare per tutta la vita. Inoltre - aggiunge, dandomi la stoccata finale, - Ora che gli altri componenti della band sono morti, penso che anche parte dei loro diritti tocchi a te -.

Rimango a bocca aperta. Io, Alex Caviezel, loser di prima categoria, sarei un milionario?

- Bill, io penso che ti sbagli... - mormoro, poco convinto.

- E io penso che tu ti sia fatto derubare per anni e anni, coglioncello che non sei altro -.

A dire il vero, inizio a pensarlo anch'io.

 

Lascio la sala prove con aria sconvolta e cerco freneticamente una cabina telefonica. E' almeno un mese e mezzo che non sento Scott. Mea culpa, non c'è che dire, non ho sentito più nessuno del mio vecchio giro. Beh, se non avessi avuto la certezza matematica di essere odiato e ritenuto il responsabile della morte dei We Love Thighs magari mi sarei fatto meno problemi a farmi vivo. Resta comunque vero che certe cose me le vado proprio a cercare, specialmente le fregature.

Rintraccio sull'elenco telefonico il numero dell'agenzia. No, Scott al momento è molto impegnato e non può parlare al telefono. No, non si libererà entro breve, spiacenti.

Fanculo.

Riattacco e recupero le monetine che il telefono mi sputa fuori; sono le ultime rimaste. Corro a prendere un bus, in quaranta minuti sono in centro. Ormai è quasi l'orario di chiusura degli uffici, quindi affretto sempre più il passo per arrivare prima possibile al grande grattacielo di vetro dove c'è l'ufficio di Scott.

Entro come un uragano, chiamandolo ad alta voce, ignorando le facce scandalizzate degli impiegati. Sono fuori di me.

Una segretaria così bassa che mi arriva praticamente all'inguine tenta di placcarmi e mi dice che non posso passare, che ormai gli uffici sono chiusi, insomma qui non c'è niente devo andarmene. E dove cazzo è Scott Henderson?

Spiacente signore, è uscito per un appuntamento molto importante, ora però le devo davvero chiedere di andarsene oppure sarò costretta a chiamare la polizia.

- Dove?! - urlo, ormai al limite della follia, - Dov'è che ha questo fottuto appuntamento?! -

Adesso la nanerottola ha paura. Impallidisce, vedo che le gambe le tremano; devo avere un aspetto spaventoso. Un'altra ragazza dietro di lei solleva il telefono e compone il 911.

Urlo ancora di dirmi dov'è. La segretaria finalmente mormora - Al ristorante dell'hotel Hilton - e poi si accascia a terra.

Mi giro e ricomincio a correre, senza riuscire a soffocare la fretta e la rabbia.

 

Il ristorante dell'Hilton è il più figo dei posti fighi a Manchester. Solo le star, le vere star, possono permettersi di mangiare lì. I camerieri che servono i piatti non hanno mai avuto nemmeno un assaggio di tutte le pietanze sublimi che si ritrovano fra le mani. I paparazzi che a ogni ora del giorno e della notte sono accalcati fuori o nascosti qua e là nelle sale vivono di scoop e non di cibo.

Sono lì in cinque minuti. Entro spalancando le porte del ristorante.

Prima ancora che il maître du restaurant mi venga incontro con aria diffidente (straccioni come me non se ne sono mai visti lì) per chiedermi cosa desidero, vengo sommerso e abbagliato dai flash dei suddetti paparazzi.

Questo per loro è uno scoop fottutamente buono: il grande ritorno di Alex Caviezel dopo un mese e mezzo di isolamento totale dal mondo.

Bè, non hanno lontanamente idea di quello che sto per combinare.

Li spingo brutalmente da parte e mi faccio strada, ignorando camerieri e ospiti, tutti girati verso di me, incuriositi. Finalmente scorgo Scott, in un tavolo d'angolo, che sorseggia costosissimo champagne (pagato coi miei, e sottolineo miei soldi!) insieme a qualcuno che deve essere un musicista molto ma molto cool, come io non sarò mai.

Quando mi vede arrivare spedito e sconvolto dalla rabbia impallidisce, e cerca di fare buon viso a cattivo gioco. Si alza e mi viene incontro con un sorriso benevolo - Alex, che bello rivederti! Non mi aspettavo di trovarti qui, vuoi unirti al mio tav...-

Non termina la frase. Prendo la rincorsa e gli mollo un pugno dritto in faccia, che lo manda steso a terra in un bagno di sangue. Tutto il ristorante scatta in piedi, con scandalizzate grida di sorpresa.

- Dove sono i miei soldi, lurido figlio di puttana? - grido, chinandomi fino ad arrivare a due centimetri dal suo viso spappolato.

I flash illuminano senza sosta la scena del crimine. I paparazzi si accalcano attorno a me come mosche sul letame. Contemporaneamente si sentono ululare le sirene della polizia fuori dal ristorante.

- Bingo! - sento esclamare alle mie spalle, - Alex Caviezel è tornato -.

... Ah sì?

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Capitolo 9
*** The times they are a changin' ***


Passo la notte al commissariato. Di primo mattino viene un avvocato che non ho mai visto a pagare la cauzione e mi porta nel suo studio legale.

 Dopo ore e ore di spiegazioni che afferro a malapena, viene fuori che sì, il vecchio Bill aveva ragione, e sì, i We Love Thighs sono stati derubati per anni. E ora Scott Henderson rischia la galera per un periodo di tempo quasi altrettanto lungo.

 Certo non avrei dovuto reagire in quel modo, assolutamente, ma i danni che dovrò risarcire a lui saranno una spesa minuscola in confronto a i soldi che lui dovrà dare a me.

 A metà pomeriggio sono un milionario.

 Non solo. Sono una star.

 La foto del mio poderoso pugno a Scott è su tutti i tabloid. La notizia ha fatto il giro dell'Inghilterra in men che non si dica. Vengo assediato dai giornalisti.

Dal suicidio di gruppo dei miei amici non c'era stato più uno scoop simile.

In due giorni vengo riabilitato davanti al mondo della musica.

Alex Caviezel, povera vittima della frode e della corruzione. Derubato del frutto del suo lavoro, della sua band, costretto a vivere per mesi come un outsider, senza un centesimo, senza una casa (che mi sono finalmente ripreso, facendo riparare tutti i danni), odiato da tutti coloro che prima l'adoravano. Vittima dello spietato mondo del rock e di un agente scaltro e calcolatore. Un puro di cuore che non si è mai voluto occupare dello sporco denaro... Fino ad ora. Puro sì, ma mica idiota.

 

Le mie giornate sono scandite alternativamente da interviste e sedute in tribunale. Vinco la causa, ovviamente.

Non so esattamente come sentirmi di fronte a tutto questo. Per la maggior parte del tempo sono semplicemente sbigottito. A sprazzi felice. Ma ho ancora delle faccende in sospeso, e non le ho dimenticate.

In un buco tra un'intervista e l'altra riesco a evadere e a infilarmi di nascosto all'Interzone. E' pomeriggio e temo che non ci sia nessuno. Invece Dawson è lì, con uno straccio e degli orribili guanti verdi, e pulisce il pavimento. Quando mi vede entrare, lo fa cadere a terra di schianto per lo stupore.

- Ho dovuto licenziare l'uomo delle pulizie - dice meccanicamente come prima cosa, per giustificare la sua strana tenuta, - Non mi bastavano i soldi -.

Sono attanagliato dal rimorso. Se l'Interzone sta fallendo è anche colpa mia, e di quel concerto mancato che gli ha rovinato la reputazione.

- Parliamo un attimo - dico al mio più caro amico, dopo qualche istante di silenzio, - Ti va? -

Annuisce. Ci sediamo a un tavolino, imbarazzati.

- Ho saputo delle ultime vicende. Non pensavo che fosse un tale bastardo, il tuo agente. Sono contento che le cose si siano sistemate - mi dice.

- Non si è sistemato tutto - rispondo, - E' per questo che sono qui. -

Mi guarda coi suoi grandi occhi neri, contornati di kajal - Ti ascolto. -

 Respiro a fondo. E' il momento di buttare fuori tutto - Dawson. Tu sei una delle persone più preziose che io abbia mai avuto la fortuna di incontrare. Perdonami per non aver rispettato i tuoi sentimenti e averti ferito, non so dove avessi la testa in quel momento, ma non ragionavo lucidamente di sicuro. Non voglio illuderti: non provo per te un amore totale e incondizionato come il tuo. Però sei importante per me e non voglio perderti come amico. Dico sul serio. -

Dawson è commosso. Mi prende una mano - Grazie, Alex - sussurra, - Ma non sei stato l'unico a sbagliare. Ti ho messo pressione in un momento molto difficile, ti ho fatto scenate di gelosia sciocche e inutili. Ti chiedo scusa per questo, spero che riuscirai a perdonarmi...-

- Non hai niente per cui farti perdonare - rispondo, poi scoppio a ridere per la felicità. Non l'ho perso, ora ne sono sicuro.

Ci abbracciamo. Mi cade l'occhio sull'orologio. E' già quasi ora di andare, dannazione. All'Interzone si sta così bene, mi sento a casa. Ma devo sbrigarmi a concludere.

 Così, in modo chiaro e conciso, gli faccio la mia proposta.

- Dawson. Voglio che sia tu il mio nuovo agente. Sei intelligente, ti intendi di musica e di affari, e sei affidabile. Diventa il mio agente e organizzami un concerto, proprio qui. Posso permettermi di auto finanziarmi. Fai in modo che ci siano critici e giornalisti, e che le persone che avevano preso il biglietto per quel disastroso concerto di un mese e mezzo fa possano entrare gratis -

Dawson spalanca la bocca - Scherzi? -

Sorrido - No. Sono nelle tue mani. Pensi di potercela fare? -

- Che domande, certo che sì! Puoi suonare anche fra due settimane se vuoi...-

- Va benissimo. Non aspetto altro -.

Sto già per uscire dall'Interzone quando Dawson mi blocca e mi abbraccia, a lungo.

- Sono così felice che tu sia tornato - dice, emozionato.

Non può immaginare quanto lo sia io.

 

Il giorno dopo mi accingo a sistemare la seconda faccenda in sospeso.

No, non è Debbie. Quella preferisco lasciarla per ultima. Inoltre non si è più fatta viva dopo quella notte, quindi non so bene come agire. Ho visto che è riuscita ad accaparrarsi delle interviste su un paio di tabloid in cui spiattellava al mondo intero la sua storia con Eddie.

"Come ho rovinato il mio matrimonio con Alex".

...Ho scoperto più cose leggendo quegli articoli che parlando con lei, ma pazienza.

Comunque, vado al Dusty Den, per dire al vecchio Bill che potrò pagare le registrazioni, per ringraziarlo, per proporgli di aiutarlo economicamente. Già a pochi metri dal portone di ferro mi accorgo che c'è qualcosa che non va. La porta è sprangata, con tanto di lucchetti qua e là. E c'è un cartello appiccicato sopra.

Mi avvicino e cerco di decifrare le parole sul foglio, che la pioggia ha fatto sbavare. Non ci metto poi così tanto, ma resto imbambolato a fissarlo per un quarto d'ora buono.

Non credo di voler davvero capire cosa c'è scritto, in realtà.

Mi volto di scatto e inizio a camminare in modo meccanico. Proprio dietro l'angolo c'è la casa di Bill, una villetta vecchio stile, dove la sua decrepita sorella, Edwige, regna incontrastata. Le poche volte che l'ho incontrata, mi ha letteralmente annegato in litri e litri di thé, rimpinzato di biscotti allo zenzero mollicci, e ha cercato di immobilizzarmi con chilometrici centrini di pizzo ricamati dalle sue dolci, artritiche manine.

Mi sento franare il terreno sotto i piedi quando vedo i drappi neri intorno alla porta di casa. So che è brutto da dire, ma spero che ad aver tirato le cuoia sia Edwige. Bill non può andarsene adesso, non può piantarmi in asso proprio a questa fondamentale svolta della mia vita. Io ho bisogno che lui ci sia.

La porta si spalanca e vedo solo una traballante impalcatura di capelli grigi, tenuta insieme da quintali di lacca, che si fionda verso di me. Parecchio più in basso c'è la testolina rugosa e lacrimevole di Edwige, che cerca di abbracciarmi con fare materno, ma mi arriva a malapena al petto.

Sprofondo.

- Oh, Alex, che gentile da parte tua passare... Vieni, caro, vieni dentro, posso offrirti un po' di thè -

E così, mi ritrovo nuovamente strizzato su un divano minuscolo, con l'amabile vecchietta che armeggia con la teiera. Soltanto che stavolta non si sente più Bill che si sposta da una stanza all'altra, bestemmiando perché non trova qualche cosa che gli serve per la sala prove.

Oggi regna un silenzio terrificante. Il silenzio dell'assenza.

Edwige mi schiaffa in mano una tazza ricolma di thè e latte. Stavolta non mi sforzo nemmeno di assaggiarlo.

- Come è successo? - sussurro.

- Era malato di cuore da tanto tempo ormai - mi dice Edwige tirando su col naso, - Il colpo di grazia è stato l'arrivo dei pignoratori del Dusty Den. Sono arrivati senza preavviso... Sai com'era Bill, sempre così suscettibile... E' montato su tutte le furie e il suo cuore non ha retto -.

Mi sembra che il divano mi inghiotta. Sprofondo all'indietro, contro lo schienale, e chiudo gli occhi.

- E il Dusty Den? - chiedo, sempre più abbattuto.

Edwige alza le spalle, rassegnata - Non possiamo farci più niente. Era in una condizione economica disastrosa. E' stato pignorato, e credo che ci faranno una sala giochi -. Tace per qualche istante, poi aggiunge, dolcemente triste - I tempi cambiano, ragazzo mio. La musica non ha più il valore di un tempo, né per chi la fa, né per chi la ascolta. Bill non ha voluto accettare la realtà, ed ecco com'è finito. Noi che siamo rimasti, invece, dobbiamo imparare a farlo... Adattarci, ecco -

Edwige dice quelle parole per consolarmi, ma hanno su di me l'effetto di un clacson nelle orecchie. Scatto in piedi improvvisamente, rovesciando thé sul tavolo e sul divano, e sibilo

- Adattarci? Col cazzo! -

Edwige spalanca la bocca, attonita, e resta immobile con quell'espressione anche quando le poso un bacio sulla fronte e me ne vado di corsa.

Il giorno seguente, sono il nuovo proprietario del Dusty Den.

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Capitolo 10
*** If this is the stuff dreams are made of, no wonder I feel like I'm floating in the air ***


Passo i giorni successivi in mezzo alle scartoffie della sala prove. E' veramente messa male, un sacco di debiti che saldo il più rapidamente possibile. La notizia del mio acquisto, unita a quella del concerto imminente, fa scalpore e il mio nome appare su tutti i tabloid inglesi. Le interviste si quintuplicano, arrivano offerte da case discografiche prima ancora che mi abbiano sentito suonare un solo pezzo.

Sono perplesso.

Non ho mai saputo come muovermi in questo mondo. E adesso men che meno. Dopo i due mesi più crudeli e intensi della mia vita, i più veri, mi ritrovo nuovamente catapultato nel mio antico regno luccicante, capriccioso e volubile.

Qui non si tratta più di musica, si tratta di spettacolo, tutto qui.

Per adesso mi adeguo. Voglio arrivare al concerto. Quel dannatissimo concerto rimandato per troppo tempo. Per fortuna sta organizzando tutto Dawson, che si sta rivelando un gran pezzo di manager. Non solo ha fatto in modo di diffondere la notizia in tutta l'Inghilterra, ha chiamato tutti i critici delle più famose riviste di musica e ha promesso di far entrare gratis quelli che avevano preso il biglietto per il mio precedente (e inesistente) concerto, ma ha anche fatto in modo che l'intera serata venga registrata in presa diretta.

Mi chiedo però se in tutto questo abbia contattato Nereide, per cui sicuramente nutre ancora un'antipatia innata.

Senza di lei non posso combinare niente, la mia mano è ancora conciata abbastanza male.

Non ho più avuto sue notizie. D'altronde, non le ho chieste. Ma so che se la cava. Una come lei sopravvivrebbe anche a una bomba atomica.

So anche che non abbiamo bisogno di prove. Ci ritroveremo sul palco.

E poi, se anche volessi provare, non ne avrei il tempo... Riordinare la mia (nuova?) vita è più difficile di quanto pensassi. Però piano piano sto risolvendo praticamente tutto.

Certo, c'è ancora una piccola questione in sospeso che non ho le palle di risolvere... Sì, parlo proprio di Debbie.

 

Il rumore stridente di un amplificatore appena acceso mi frantuma i timpani e mi riscuote dai miei pensieri. Esatto. Questa sera è la sera. E' arrivata prima ancora che me ne rendessi conto e sono coperto di sudore. Dawson ne approfitta per svolazzare intorno a me e detergermi la fronte.

- Andrà tutto bene, Alex, vedrai. Fuori dall'Interzone c'è una coda chilometrica. Tutte quelle persone impazziranno per te -

Queste parole, invece di rincuorarmi, mi fanno venire voglia di vomitare.

Butto giù un whisky liscio come se fosse acqua. Poi guardo l'ora e ne butto giù un altro.

Sono le dieci, e le porte dell'Interzone si apriranno fra mezz'ora esatta.

Finalmente, guardandomi intorno, mi rendo conto di una disastrosa, catastrofica, apocalittica assenza.

- Dawson...- farfuglio spasmodicamente, - Nereide. Lei non c'è. Tu... Cos'è successo? Non l'hai chiamata? -

Per un attimo temo una sfuriata del mio amico, che invece sorride bonariamente davanti al mio panico totale.

-... Tu mi sottovaluti, Alex -.

- E sottovaluti anche me - dice una voce alle mie spalle, affilata come un rasoio.

Mi volto. Con un gesto da epilettico mi ritrovo a chiedere il terzo whisky.

Nereide è qui, o meglio, una sua versione altamente potenziata, pornograficamente parlando. Con un vestitino nero, lucente, cortissimo e senza maniche, che lascia intravedere il reggiseno di pizzo. Di pizzo sono, ovviamente, anche le calze, che aderiscono con grazia tentatrice alle gambe esili, infilate negli inseparabili anfibi.

Ha gli occhi truccati di nero, da gatta, i lunghi capelli scuri cotonati e le labbra scarlatte. E praticamente non mi degna di uno sguardo.

Vista così, potrebbe quasi sembrare maggiorenne. Per un istante realizzo che non le ho nemmeno mai chiesto quanti anni abbia, poi la mia mente si azzera un'altra volta davanti al vestito che segue l'incavo delle sue cosce.

Nel caso non si fosse ancora capito, io amo le cosce.

Balbetto qualcosa di molto stupido del tipo è bello vederti, grazie di essere venuta.

- Già, già - taglia corto lei, algida, - Allora, muoviamoci a fare questo concerto -.

Sale sul palco senza aspettare risposta, si china a collegare la sua chitarra all'amplificatore (ennesimo azzeramento della mia mente) e inizia ad accordarla.

- Me la ricordavo un po' meno arrabbiata - dice piano Dawson.

- Anche io, a dire il vero - sussurro. C'è sicuramente qualcosa che non va. Vorrei dirle qualcosa, ma è il momento di aprire le porte dell'Interzone e entrare in camerino.

E' una stanza minuscola e io resto in piedi, con le viscere annodate per la fifa e per il whisky, a fissare la mia faccia stravolta davanti allo specchio.

Non un grande spettacolo. Eppure un tempo mi dicevano che ero piuttosto carino.

La mia piccola, furiosa pornobimba si lascia cadere indifferente su una sedia e si accende una sigaretta.

Fuori, il vociare della folla che riempie pian piano il locale aumenta, fino a invadere completamente anche il camerino. Non riesco a trovare la calma necessaria per ripassare i testi, riscaldare la voce, eccetera. Dalla gola mi escono solo gorgoglii strozzati.

Questa è la mia ultima occasione.

Il pubblico mi chiama a gran voce; Dawson, dopo un piccolo discorso inaugurale, mi annuncia.

E' ora.

Nereide si alza e con uno sguardo mi incita ad uscire.

Io respiro a fondo, muovo due passi incerti, mi appoggio alla soglia del camerino...

E così rimango.

Bloccato. Paralizzato. Le mie mani artigliano lo stipite di legno e i miei piedi sono ostinatamente puntati contro il pavimento.

Fuori le grida aumentano. Mi aggrappo ancora di più alla porta.

Nereide, spazientita, mi arriva alle spalle e esclama - Avanti, sfigato che non sei altro, fuori di qui! - e col delicato piedino rivestito dell'anfibio mi sferra un calcio nel culo così forte da catapultarmi, incespicante e tremante, sul palco. Il pubblico ammutolisce di colpo.

Ecco, bell'ingresso di merda per iniziare il concerto più importante della mia vita.

I riflettori sono puntati addosso a me, non vedo nessuno giù dal palco, ma so che mille volti mi stanno fissando in attesa che io dica o faccia qualcosa.

A me sembra troppo stupido dire buonasera grazie di essere qui questo è il mio nuovo progetto solista e volevo dirvi quanto apprezzo che voi siate venuti dopo avere cercato di linciarmi e dopo avermi distrutto la casa e la reputazione. Perciò sto zitto. Loro stanno zitti.

Silenzio generale, insomma. Penso che potrebbe essere un progetto sperimentale new age, poi mi riscuoto e mi ripeto ancora che sono nella merda.

E' Nereide, ancora una volta, a tirarmi fuori.

Semplicemente, candidamente, attacca a suonare la prima canzone. E fanculo le presentazioni, sembra che ci sia scritto sul suo bel musino. Tanto lei non parla comunque.

Mentre suona l'intro mi sembra un po' rigida. Come se la rabbia che si portava addosso prima la frenasse. Poi solleva il viso e mi guarda, io sorrido, sapendo che il mio gesto non verrà mai contraccambiato.

Poco importa. Succede qualcosa di più importante. Le sue mani, bianche e affusolate, prendono il volo.

Il suono della sua chitarra, così pregno, sensuale, avvolgente e malinconico, si propaga nella sala in onde languide. Sembra un incenso afrodisiaco: un brivido percorre il pubblico.

E io non posso fare altro che guardarla, la ninfetta sotto i riflettori, e inseguirla con la voce, raggiungerla per intrecciarmi a lei, ringraziarla dentro di me per aver trasformato così le mie canzoni, per averle create insieme a me. Tutti a fine serata diranno che sono un fenomeno, che è stato il concerto dell'anno, che il mio talento è prodigioso, che la mia voce è incredibile e non capiranno, non sapranno mai che è stata lei, con le sue fitte trame di note, con la lenta scalata delle dita sulle corde, a creare l'intreccio magico e vibrante di questa sera.

Suoniamo per due ore, le canzoni si dilatano all'infinito, ci sono assoli, ci sono strofe nuove, variazioni melodiche. E in queste due ore non diciamo un cazzo, a chi o a cosa servono le parole? Due ore in cui c'è solo la musica, c'è la mia voce e c'è la sua chitarra, il resto dei nostri corpi non esiste più.

E poi, all'improvviso, è finito.

Alla musica si sostituisce un boato di applausi scroscianti e grida estasiate.

Mi sento esausto, libero. Felice. Guardo Nereide. Il suo bel viso stanco è come soffuso di una luce nuova, sulle sue labbra c'è l'accenno di un sorriso divertito e soddisfatto.

Accenno un inchino alla folla urlante e uno a lei. Finalmente parlo, adesso posso permettermelo, ringrazio. Presento lei, la mia ninfetta con la chitarra, semplicemente per nome. Non so quale sia il suo nome completo e non ha importanza.

A sua volta, lei si avvicina al microfono e presenta me. Il mio nome è seguito da un'ovazione generale.

Come avevo intuito, nessuno ha capito che da solo non sarei mai riuscito a fare niente di tutto questo.

Lentamente rientriamo nel camerino, con la camminata di chi crede di essere in una bolla di sapone.

Mi chiudo la porta alle spalle, afferro Nereide per un braccio e la stringo a me.

Circa cinque secondi dopo, la mia lingua si è intelligentemente infilata tra le sue labbra. Lei si aggrappa ai miei capelli, preme il suo corpo morbido e fresco contro il mio, scarno e sudato marcio.

Poi mi morde con forza un labbro e si allontana bruscamente

- Se provi un'altra volta a sparire dalla circolazione dopo avermi scopata, ti ammazzo, lo giuro - dice con uno sguardo che conferma che ha tutta l'intenzione di fare quello che ha appena detto.

Spalanco la bocca, attonito.

- E' per questo che prima eri così incazzata? -

- Io ti ho avvertito - risponde soltanto, continuando a fissarmi con quello sguardo esplosivo.

La attiro di nuovo verso le mie labbra - Non sparirò - dico con un sorriso.

Nereide sembra soddisfatta della risposta, visto che praticamente mi inchioda allo specchio.

Non faccio in tempo a godermi la sbalorditiva carica erotica di questa ragazzina pulsante tra le mie braccia, che la porta si spalanca di colpo.

La mia adorata pornobimba fa un salto all'indietro da gatto spaventato e qualche istante dopo mi ritrovo spiaccicato addosso un altro corpo, più alto e più formoso e avvolto da una nube di capelli dorati.

Quando si dice che i nodi vengono al pettine...

Debbie mi sorride splendente, ignorando la cuginetta alle spalle, che si è appoggiata al muro e mi guarda sarcastica.

Questa è una situazione molto, ma molto pericolosa.

- Oh Alex - esclama, - E' stato assolutamente meraviglioso, incredibile... Tu sei così bravo e le canzoni... Mi ci sono ritrovata così tanto... -

Debbie nelle mie canzoni?

-... Ho ritrovato noi -.

Ecco, questo non mi piace per niente.

Imbarazzato ringrazio e dico beh, ora forse dovremmo andare di là, insomma, è pieno di gente e...

E Debbie mi posa un dito sulle labbra.

- Aspetta, Alex. Sai, l'ultima volta che sei stato da me... Insomma, eri disperato, era la sera che Dawson ti aveva cacciato di casa...-

Scatto nervoso e attento della pornobimba, che si irrigidisce.

Cerco di catturare il suo sguardo e di mimare con le labbra le parole "Posso spiegare tutto", rendendomi conto nello stesso istante che sto dicendo una banalità squallidissima per coprire una realtà ancora più squallida, cioè che sì, sono andato a letto con Nereide la notte dopo aver scopato con Debbie e per farmi accogliere a casa sua ho raccontato una balla e ora sono stato brillantemente smascherato.

Debbie è inarrestabile.

- Beh, nella tua tristezza io ho sentito il bisogno di prendermi cura di te, starti accanto, e non solo facendo l'amore... -

Altro scatto nervoso. Elettricità che invade lo stanzino minuscolo.

Qualcuno mi salvi. Perché nessuno mi tira fuori da questa situazione di merda?

- Quello che sto cercando di dirti, caro, è che ho capito di essere ancora innamorata di te. Lasciarti è stato l'errore più grande della mia vita, ma ero giovane... Ora so che io e te abbiamo un futuro, che ci ameremo, che avremo una famiglia... -

- Debbie - cerco debolmente di obiettare, - Mi sembra un po' avventato fare questi discorsi ora, insomma, dovremmo parlarne con calma... -

La mia ex-e-a-quanto-pare-ancora-innamorata moglie si morde il delizioso labbro - Bè. Non sono discorsi troppo avventati in realtà. Vedi, l'altra cosa che volevo dirti è... Alex, sono incinta, ed è tuo figlio! -

Questa frase ha l'effetto di un pugno dritto nello stomaco. Boccheggiante, mi accascio a terra.

Quando sollevo lo sguardo, vedo la porta del camerino oscillare. Nereide non c'è più.

Debbie mi aiuta a rialzarmi e mi accarezza il viso con aria comprensiva.

- In... Incinta? -

Si stringe nelle spalle - Tesoro, lo so che è una notizia sconvolgente... Neanche io so come sia potuto succedere -.

Improvvisamente ho un flashback di Debbie che, nuda come Dio l'ha fatta, fa una verticale di mezz'ora contro il muro dopo aver scopato, e io che rido come un idiota, senza capire che questa donna che, ora lo so, è completamente fuori di testa, mi sta incastrando vita natural durante.

E oltretutto non la finisce più di parlare.

- E' il nostro bambino, Alex. E' quello che ci riunirà, quello che ci farà ricostruire la nostra vita insieme... Una vita nuova e bellissima!-

Non mi arriva più neanche una parola. Rimane a galleggiare vuota tra le orecchie e il cervello, senza mai andare a fondo.

Nel frattempo Debbie mi bacia e mi trascina fuori. Vengo investito dalla luce abbagliante dei flash e da un coro infinito di voci.

Debbie sorride smagliante ad ogni foto e risponde a innumerevoli domande.

E' di nuovo alla ribalta.

Che scoop.

La coppia storica che si riunisce proprio la sera del grande debutto solista di Alex Caviezel. La bellissima modella e il musicista sfigato.

Lei resta per tutto il tempo aggrappata al mio braccio, e sembriamo proprio due teneri piccionicini. In realtà Debbie praticamente mi ghermisce con forza, per impedirmi di levare le tende.

E' Dawson a capire che c'è qualcosa che non va. Corre da me, mi sottrae delicatamente alle grinfie di Debbie e dice con un sorriso - Scusa, dolcezza, te lo rubo per qualche istante, devo parlargli di alcune cose... In fondo, sono il suo manager! -

La mia diabolica ex-moglie fa un'adorabile smorfia fintamente corrucciata, arricciando le labbra e alzando gli occhioni al cielo; dopodiché si gira di nuovo verso le telecamere.

Dawson mi trascina verso il bancone, mi sbatte in mano altri due whisky lisci, che bevo d'un fiato. Ora va un po' meglio. Poi mi dà una leggera scossa alle spalle e mi lancia le chiavi della mia (nuova) macchina.

- Se n'è andata mezz'ora fa, Alex. Muovi il culo e vai a cercarla, qui ti copro io -

Sono già fuori dal locale quando lo sento urlarmi dietro - Però poi non sparire, cazzo! -

Dannazione, è la seconda volta che me lo sento dire stasera.

Mi lascio cadere in macchina e prego di non incontrare polizia in giro, vista la quantità d'alcol che ho nel corpo. Premo l'acceleratore.

Trovo Nereide che cammina lentamente, chitarra in spalla, circa cinque isolati più in là.

A quest'ora gli autobus per la periferia sono finiti, e lei sta facendo la strada a piedi.

Rallento fino ad andare piano quanto lei, che sicuramente mi ha visto, ma mi ignora bellamente.

Abbasso il finestrino - Senti... - le grido, - Possiamo parlarne un attimo? -

Nessuna risposta. Mi guarda per un istante con occhi di ghiaccio e poi di nuovo è voltata dall'altra parte; non rallenta neppure la camminata. La sua soave manina mi fa un gesto poco carino.

Ci riprovo, non posso permettere che se ne vada così, Nereide, non andartene, sono stato un cretino è vero lo ammetto ma non avevo la testa a posto e ero ubriaco e non sapevo dove andare e ho fatto La Più Grande Cazzata di tutte le cazzate e Debbie è pazza scusa lo so che è tua cugina ma oggettivamente parlando è innegabilmente, indiscutibilmente, inconfutabilmente pazza.

La piccola ninfa ferita ignora anche questo mio sproloquio joyciano.

- Puoi almeno fermarti un attimo, eccheccazzo? - sbotto, esasperato.

Lei si ferma di colpo, si gira di nuovo verso di me, e il suo viso è l'emblema del disprezzo - Lasciami in pace, Alex. Seriamente. Mollami - sibila.

Non si prende neanche la briga di insultarmi. E sì che le farebbe un gran bene. Si sa che le donne che reprimono le emozioni negative sono le più pericolose quando poi esplodono.

Quindi voglio che parli, per una volta. Voglio che mi perdoni, voglio che si sfoghi, o almeno che mi dica qualcosa, qualunque cosa...

Sparisci.-

Bè, ha parlato.

Questo fa male.

Ma, mia piccola bomba a orologeria, non mi avevi appena minacciato di ammazzarmi se fossi sparito dalla circolazione un'altra volta?

Era un momento così perfetto, così unico. Non si ripeterà mai più, non proveremo mai più la miriade di sensazioni di quel preciso istante.

Perché Debbie è entrata a rovinare tutto?

E capisco che è andata a puttane ogni cosa. Che devo lasciar andare la mia pornobimba. Non posso fare altro; seguirla ancora peggiorerebbe la situazione. Fermo la macchina, accosto al marciapiede e la guardo allontanarsi nella notte, minuscola e leggera, pregando perché si volti indietro a guardarmi. Non lo fa, ovviamente.

Quando infine è sparita dalla mia visuale, inghiottita dal buio e dalle strade umidicce di Manchester, giro la macchina e ritorno all'Interzone.

Debbie si riaggrappa a me cinguettando felice, Dawson mi scruta con aria preoccupata, i flash e le telecamere imperversano.

Sono una rockstar, e sono completamente a pezzi.

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Capitolo 11
*** Mtv, what have you done to me? Save my soul, set me free ***


Il successo è istantaneo. Dopo pochi giorni, firmo con la Universal per stampare il disco del mio live all'Interzone e in capo a un mese mi hanno organizzato un tour di sei mesi in tutta Europa.

Mentre aspetto di partire partecipo agli eventi più celebri d'Inghilterra, compro una nuova casa che sia abbastanza grande per me, Debbie e il bambino, cerco di rimettere un po' in sesto il Dusty Den. Nel tempo libero faccio sesso con Debbie e la accompagno in migliaia di negozi per mamme e bebè a comprare montagne di vestitini (da maschio e da femmina, visto che il pupattolo che galleggia nell'utero della mia ex moglie alla ribalta è ancora, temporaneamente, ermafrodita) e culle e giocattoli e carrozzine, che poi si accumulano in varie stanze della casa senza più essere degnati di uno sguardo. Il tutto viene immortalato da schiere brulicanti di paparazzi che hanno abbandonato il loro covo, il ristorante Hilton, e ci seguono ovunque

La mia mano è guarita e appena ho potuto ho ripreso a suonare. Dawson mi ha trovato anche un batterista e un bassista, per rendere più ricche le mie canzoni. Le prove sono il mio unico momento di serenità e sollievo; eppure, quando riascolto il mio disco_ intitolato, come mi ero ripromesso, I Like Panties_ mi sembra che questi strumenti in più non riescano comunque a ricreare l'atmosfera densa, elettrica e surreale della sera del concerto.

L'inizio del tour è una liberazione dai doveri coniugali, se così si possono chiamare, e l'inizio di un nuovo ritmo di vita frenetico e scombinato.

Di giorno, in stato semi comatoso, ci spostiamo da un capo all'altro dell'Europa su un pullman nero gigantesco, e più o meno ogni sera c'è un concerto. Suoniamo in continuazione, facciamo spettacolo, e poi facciamo baldoria per il resto della notte.

A quanto pare sono tornato ad essere un gran figo, vista la quantità di ragazzine adoranti che cadono ai miei piedi e che fanno di tutto per venire a letto con me, tipo farsi stantuffare dai bodyguard per arrivare ai camerini. 
Perdo il conto di quante me ne faccio, ne trovo di tutti i tipi: quella che ripete le mie canzoni urlando mentre scopiamo, quella oh-mio-dio io ti amo e so che anche tu mi ami, solo che tu non lo sai, quella che ama il sesso violento quella che è vergine ma vuole che sia io a montarla per la prima volta e quella dolce e remissiva che la notte si trasforma, quella esibizionista, quella feticista e così via in un elenco infinito e svuotato di ogni senso.

Non è l'unica cosa che è vuota. La mia musica è meccanica, le mie canzoni appartengono a una vita fa, una vita ormai morta e sepolta e troppo distante da quella che conduco ora perché io possa capire davvero cosa ho scritto, cosa ho composto.

Ero davvero io quello con la mano incastrata nel tostapane?

Oppure: sono davvero io la rockstar, idolo incontrastato delle folle?

 

I sei mesi volano.

Ho appena finito un live a Parigi quando Dawson mi telefona esultante.

- Alex! Sei papà! E' nato qualche ora fa, ho provato a chiamarti ma stavi suonando. Comunque è un maschio e Debbie ha deciso di chiamarlo Eddie -

Eddie?

Eddie?!

Ma per favore!

- Devi tornare qui a Manchester, bello mio, non vorrai perderti i tuoi primi giorni di paternità! -

No, infatti. Però il nome Eddie proprio non mi va giù, eccheccavolo.

Mollo tutto e prendo il primo volo per Manchester. Arrivo il pomeriggio seguente.

Passo da casa per mollare i bagagli e cercare di ridarmi un aspetto decente. Con scarsi risultati. Ho le occhiaie scavate per troppe notti insonni, le gambe indolenzite per le troppe scopate, le mani raggrinzite per aver suonato mille e mille sere.

Pazienza.

Arrivo in ospedale nel tardo pomeriggio e mi perdo nelle varie corsie, alla ricerca della stanza di Debbie. Non ho idea di cosa fare con il bambino, non so come reagirò, non so cosa proverò.

Finalmente la trovo. Debbie è, come sempre, bellissima, anche col pancione e col viso stanco e un po' sformato dalla gravidanza. La sua stanza è invasa dai fiori, se ne può sentire il profumo anche da qui, dietro al vetro che mi separa da lei.

C'è un uomo seduto al suo fianco, sulla sponda del letto. Le tiene la mano e parla con aria seria.

Immediatamente lo identifico come un suo parente. E' troppo ben vestito e pettinato, troppo perfetto, troppo businessman rampante, troppo simile a lei per non essere qualche suo cugino, o qualche nipote, qualche zio, non so.

Faccio per bussare, ma mi rendo conto che la porta è socchiusa. Arrivano le loro voci, e quello che sento mi paralizza.

- Deborah, tu dovresti stare con me, e lo sai -

- Marc, ti prego, non ricominciare... -

- E' mio figlio. Non c'è nemmeno bisogno del test del DNA, è la mia copia sputata -

- Già. Ma Alex questo non lo sa, e non lo saprà mai -

... Ah, ecco.

- Debbie, io sono un uomo benestante. Posso mantenere il bambino e te. Posso darti tutta la stabilità economica di cui hai bisogno -

Debbie sorride in modo soave e micidiale - Oh, tesoro. Sei tanto carino. Ma io non ho bisogno solo di quello. Hai idea di tutto ciò che ho fatto per arrivare fin qui? Io vengo dal nulla. La mia famiglia è sempre stata povera, e mi sono fatta strada con le unghie e con i denti. Da sola, con le mie forze. Ora posso avere tutto.... Tutto-. Pronunciando queste parole, la voce di Debbie si è fatta aspra e affannosa. La mia perfida dea dorata sembra rendersene conto. Si ricompone con grazia - Alex non è semplicemente benestante: è ricco sfondato. Ed è famoso. Da quando mi sono rimessa con lui, ho già avuto un sacco di offerte per servizi fotografici, e ne ho altrettante in programma, anche con Eddie... Sai, ora va di moda farsi fare le foto coi bambini appena nati; e poi ci sono le interviste e... Oh, Marc, caro, non guardarmi così! Tu non hai niente che non va. Non è che Alex sia meglio di te, semplicemente... Ha più cose di te -.

Questo è decisamente troppo.

Spalanco la porta, sentendo le mani tremare per la rabbia. Debbie si gira di scatto e il sorriso muore sulle sue labbra perfette. Impallidisce, poi un istante dopo si ricompone - Alex, amore mio, sei tornato! Che bello, non vedo l'ora di farti vedere Eddie, secondo me ti somiglia! Mio cugino Marc se ne sta giusto andando, vero Marc? -

Vorrei ricoprirla di insulti. Mi ha usato. E non ha usato solo me, ma anche quel povero sfigato che adesso cerca maldestramente di spacciarsi per suo cugino e che è palesemente innamorato perso di lei.

E ha usato anche il bambino che portava nel grembo. Quello che credevo essere mio figlio.

E' questo pensiero tristissimo a calmarmi.

Perciò sorrido. Debbie si illumina, non ha ancora capito cosa sta per succedere.

- Falla pure finita con la sceneggiata, cara - dico mestamente, - Ero fuori dalla porta. Ho sentito tutto. Tutto. -

Marc Granbelluomo si irrigidisce, lei spalanca la bocca.

- Ma no, tesoro - balbetta, - Posso spiegare. E' Marc che si è convinto di questa cosa, ma... Il bambino è tuo, io lo sento, io lo so... -

- Il bambino non è affatto mio e lo sappiamo tutti quanti qua dentro. Comunque per sicurezza farò un test del DNA. Se scopriremo che è mio, lo manterrò e gli darò tutto il necessario, ma non voglio mai più vedere te. Se invece è del nostro amico qui presente Marc... -

Mi giro verso di lui - Beh, suppongo siano affari tuoi. A casa mia ci sono tonnellate di vestiti e stronzate simili, potete tenervele. Per il resto, non voglio più sapere niente di voi -.

Meno di un'ora dopo, nonostante la crisi isterica simulata da Debbie (l'avevo detto che era una grande attrice) il test del DNA è stato fatto. Grazie alla mia fama e ai miei soldi, riesco ad avere i risultati entro mezzanotte. Ovviamente, dicono quello che già sapevamo.

Me ne vado dall'ospedale senza più forze.

 

In tutto questo io non l'ho nemmeno visto, il bambino.

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Capitolo 12
*** I'm gonna run the slow dawn awake. ***


Arrivo a casa e mi lascio cadere sul letto. Erano sei mesi che non passavo di qua. Non mi sento a casa per davvero, non c'è niente che percepisca come mio. Ogni stanza è invasa da scartoffie inutili, ritagli di giornale, articoli su di me, dischi, foto, vestitini per neonati.

Rimango immobile per due ore, a guardare il vuoto e cercare di riordinare le idee nella mia testa.

Cerco di ripensare ai miei ultimi sei mesi. Mi spavento quando mi accorgo che non riesco a pensare a niente.

Non mi ricordo di un solo luogo in cui siamo stati. Non mi ricordo dei miei live strepitosi. Non mi ricordo di essere riuscito a comporre una sola fottutissima canzone nuova da quando siamo partiti. Non mi ricordo un solo nome, un solo viso delle donne che mi sono scopato.

 

So benissimo perché sono ridotto così.

Questa non è la mia vita. Non è il mio mondo. Non sono tagliato per fare la rockstar e l'ho sempre saputo.

Io sono felice nella mia villetta a due piani, senza televisore a schermo piatto e senza pretese. Sono felice al Dusty Den, all'Interzone. Sono felice a casa di Dawson e in un garage scassato di periferia. E sono andato a cercare altra felicità in altri luoghi, in altri mondi che non sono adatti a uno sfigato come me.

Una volta realizzate queste cose, mi sento meglio.

Scatto in piedi, preso da una nuova frenesia.

Raccolgo tutte le cose inutili che trovo e le butto in giardino.

Fra le mie mani scorrono tabloid inglesi da titoli insopportabilmente idioti, del tipo "Alex Caviezel: Hotter than Hell", foto di me e Debbie, foto di Debbie, dvd dei miei concerti, lettere d'amore delle fan, statuine di plastica che mi raffigurano con una testa spropositatamente grande e ondeggiante. Risparmio una cosa sola: un articolo di giornale sul mio concerto all'Interzone. L'immagine è abbastanza grande, e ci siamo io e Nereide completamente avvolti dalla luce e dalla musica. Piego il foglio ingiallito e me lo infilo in tasca, poi cospargo tutte le scartoffie di benzina e do fuoco a quell'inutile ammasso di stronzate.

Non è un incendio, è a malapena un falò da scout, ma sono soddisfatto. Quando il fuoco inizia a languire e si trasforma in misere braci puzzolenti, esco in strada, lasciando la casa aperta.

Sono le quattro del mattino. Inizio a camminare.

Stavolta so perfettamente dove sto andando.

 

Il cielo inizia a rischiararsi lentamente. E', come al solito, grigio polvere e deprimente. La periferia non ha un bell'aspetto sotto questa luce malata, tra macchine bruciate e spazzatura abbandonata per strada.

Non è difficile ritrovare la casa che sto cercando: quando mi trovo davanti al Giardino Più Orrendo di tutti i giardini orrendi, capisco di essere arrivato.

Sollevo lo sguardo e scruto nella penombra dell'alba. Per un attimo provo un cieco terrore, quando non riesco a distinguere niente nell'erba scura.

Poi una piccola luce rossa divampa: la brace di una sigaretta.

Ricomincio a respirare. Sorrido e nel frattempo il cielo si fa più chiaro.

Nereide è lì e mi scruta, ovviamente senza stupore. Semmai sembra perplessa e un po' diffidente.

Il suo corpo bianco ora spicca contro lo sfondo scuro della casa malconcia e sembra avere riflessi argentei.

Non ha coperte avvolte attorno a lei stavolta, perché è estate e non fa freddo; i suoi capelli arruffati e lunghissimi sono l'unico manto che la ricopre.

E' sempre lei, la mia ninfa del mattino, la mia pornobimba, più grande di sette mesi, forse finalmente maggiorenne, ma comunque lei, inalterata, incastonata come un gioiello in quel giardino opaco e in quell'ennesima alba sbiadita.

Mi fa un cenno di saluto sollevando appena il mento. Io mi stringo nelle spalle e rispondo alzando la mano. Sto ancora sorridendo, ma non oso muovermi. La luce aumenta ancora impercettibilmente.

Dopo un istante infinito, anche lei sorride, col suo sorriso vago e indecifrabile. Allunga una mano e mi indica lo spiazzo erboso e vuoto alla sua sinistra.

Vado a sedermi al suo fianco e mi stringo contro il suo corpo esile e caldo.

 

Non c'è più bisogno di dire una sola parola.

 

 

 

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