Erouc li amotlov li ottelfirnon

di Alexcatania
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Mirror of Erised ***
Capitolo 2: *** Two Headmasters of Hogwarts ***
Capitolo 3: *** Dumbledore's Memories ***



Capitolo 1
*** The Mirror of Erised ***


The Mirror of Erised

Nei corridoi e nelle scale di Hogwarts regnavano l'oscurità e il silenzio.
Le candele che veleggiavano sopra i quattro lunghi tavoli della Sala Grande erano spente, ma grazie al chiarore di luna che faceva capolino dal soffitto incantato, era possibile scorgere almeno una dozzina di giganteschi alberi di natale sfarzosamente addobbati.
Sembrava una notte come tante altre.
Improvvisamente, qualche piano più su, il fruscio di un mantello interruppe la quiete notturna: un uomo avanzava nell'ombra con passo sicuro e un atteggiamento guardingo.
L'uomo voltò ad un angolo del corridoio del terzo piano e si fermò di fronte ad una stretta finestra, dalla quale si scorgevano le acque nere e profonde del lago.
Le nuvole si diramarono e rivelarono la luna piena: un opaco bagliore illuminò un volto spigoloso e dall'aspetto malaticcio.
Gli occhi di Severus Piton, ancor più neri e profondi del lago, scrutarono il cielo: a giudicare dalla posizione delle stelle, gli restavano ancora dieci minuti di ronda prima di potersi concedere un po' di riposo.
Le misure di sicurezza del terzo piano erano state intensificate, dopo il tentativo di Raptor di eludere gli ostacoli che lui e gli altri professori avevano ideato per proteggere la Pietra Filosofale.
Dopo quell'avvenimento, Silente lo aveva incaricato di tenere d'occhio il nuovo professore di Difesa Contro le Arti Oscure.
Piton, dal canto suo, non reputava Raptor una grande minaccia, ma aveva imparato a fidarsi del giudizio di Silente.
Tuttavia, pensò Piton stringendo i pugni, se solo Silente mi avesse assegnato quella cattedra, ora forse non ci sarebbe bisogno di fare la ronda a notte fonda.
Da dieci anni faceva domanda per ottenere quel posto, ma il preside di Hogwarts trovava sempre una buona scusa per assegnarlo ad un mago meno meritevole e preparato. Era molto frustrante sapere che Silente non lo ritenesse capace di resistere alla tentazione di ricadere nelle Arti Oscure.
Non pensarci, si disse. Quell'uomo ti ha dato molto più di quanto meriterai mai.
Tutto taceva intorno a lui. L'immobilità della notte conferiva al castello un fascino oscuro.
Hogwarts era la sua casa. Lo era sempre stata, sin da quando l'aveva vista per la prima volta.
Chiuse gli occhi e tornò sulla barca che fendeva le acque dello stesso lago che stava osservando un attimo prima: il castello illuminato si ergeva in tutto il suo splendore, con le sue innumerevoli torri e torrette. Accanto a lui, c'era una bambina dai lunghi capelli rossi e gli occhi verdi, che ammirava il castello con una buffissima espressione di sorpresa e la bocca spalancata. Aveva rivisitato quel ricordo talmente tante volte nel Pensatoio, che ormai era impresso indelebilmente nella sua memoria.
Si costrinse ad aprire gli occhi e a camminare, ignorando la minaccia di un forte dolore al petto che si insinuava nella sua mente.
Entrò in Biblioteca per tenersi impegnato, ma dopo una decina di metri si fermò di scattò. Alla sua destra, tra due altissimi scaffali, c'era una vecchia poltrona che pareva reggersi in piedi per magia.
Non farlo, pensò Piton, ma prima che finisse di formulare quel pensiero, fece il giro intorno ad uno scaffale alle sue spalle.
Sfoderò la bacchetta, cercando di ignorare una vocina nella testa che ripeteva la parola "masochista", e mormorò: «Lumos
Non impiegò molto a trovare ciò che stava cercando. Prese un libro particolarmente voluminoso intitolato "I Roghi delle Streghe del Quattordicesimo Secolo" e si incurvò per spiare nello spazio vuoto creato dal libro che aveva appena estratto.
Da quella posizione aveva una visuale perfetta della poltrona, ma qualcosa era cambiato: una ragazza vi era seduta e sfogliava un libro giallastro.
Era di nuovo lei: la bambina sulla barca, ma ora non era più una bambina. Aveva diciassette anni ed era talmente bella da avere l'effetto inebriante e stordente di un filtro d'amore.
Piton veniva ad osservarla tutti i giorni, incapace di darsi per vinto. Improvvisamente, notò che sulla vecchia fodera del libro che aveva preso, qualcuno aveva scritto un minuscolo: "Smettila di spiarmi!"
Il sangue gli si congelò nelle vene e tornò a spiare nella fessura: la ragazza era sparita.
«Hai bisogno che te lo dica in faccia, Sev?!» disse una voce alle sue spalle. Piton fece un balzo indietro per la sorpresa e sbatté la testa contro lo scaffale.
«Adesso sai cosa si prova ad essere osservati a propria insaputa!» esclamò Lily Evans, con le braccia incrociate e un espressione di disappunto.
«Scusa» biascicò Piton, in preda al panico «quante volte devo dirtelo?»
«Non devi dirmelo più, pensavo di essere stata chiara!» sbottò lei, con la voce tremante di rabbia.
«Non voglio avere niente a che fare con te e con la tua lurida compagnia di Mangiamorte! Devi lasciarmi in pace, non voglio più vedere la tua faccia! Mi fai schifo!»
Lily gli voltò le spalle e uscì dalla Biblioteca sbattendo la porta.
Piton restò immobile, con un braccio a mezz'aria e la bocca mezza spalancata. Quelle parole parevano rimbalzare all'interno della sua cassa toracica, ogni rimbalzo era peggio di un pugno sferrato allo stomaco.
In quel momento, qualcosa dentro di lui si ruppe per sempre: realizzò di non avere più niente. Niente da perdere e niente da guadagnare.
Tredici anni dopo, Severus Piton era immobile esattamente nello stesso punto. Quel ricordo continuava a tormentarlo come pochi altri. Quelle parole rimbalzavano ancora nella sua cassa toracica: "Mi fai schifo!"
Le ultime parole che Lily Evans gli aveva rivolto.
Riposò il libro al suo posto e gli si mozzò il fiato: "Smettila di spiarmi!"
Seppur sbiadite, quelle parole erano ancora ben visibili. Ma stavolta Lily Evans non lo avrebbe sorpreso alle spalle.
La fitta al petto diventò uno squarcio, sembrava che il suo corpo avesse deciso spontaneamente di dividersi in due. Prese a correre verso la porta: avrebbe voluto raggiungere la ragazza che era appena uscita e rivederla un'ultima volta, ma non poteva. Non ancora, perlomeno.
Aveva pensato più volte di attraversare quella porta, nella speranza di rivederla. Non temeva la morte, non era questo che lo aveva fermato, ma la paura delle parole che lei gli avrebbe rivolto.
Se gli aveva detto "Mi fai schifo!" perché frequentava dei Mangiamorte e l'aveva chiamata Mezzosangue, cosa avrebbe detto ora che lui l'aveva consegnata nelle mani di Voldemort?
Non osava immaginarlo e non si illudeva che la missione che aveva promesso di portare a termine, proteggere suo figlio, avrebbe cambiato qualcosa.
Non badava più a dove andava, voleva semplicemente allontanarsi da tutto quel dolore. Attraversò un lungo corridoio e notò una porta socchiusa alla sua sinistra: entrò e si chiuse la porta alle spalle, sperando di lasciare indietro i suoi demoni.
Si appoggiò contro il muro e si asciugò il sudore freddo della fronte con la manica. Chiuse gli occhi, inspirò ed espirò profondamente dal naso e cercò di vuotare la mente.
Negli ultimi anni sembrava che i suoi tormenti si fossero leggermente placati, ma l'arrivo di Harry Potter ad Hogwarts li aveva risvegliati e peggiorati.
Dopo qualche minuto, il battito del suo cuore tornò regolare ed aprì gli occhi. Si trovava in una stanza spaziosa che non aveva mai visto prima.
Un tempo doveva essere un'aula, pensò Piton, osservando i banchi e le sedie impolverate accostate lungo le pareti.
Ma una cosa in particolare catturò la sua attenzione, facendogli quasi dimenticare in che modo era arrivato lì: uno specchio gigantesco dalla cornice dorata, che occupava buona parte della parete che aveva di fronte.
Piton si avvicinò, attirato dal quel curioso oggetto, e vide il suo riflesso: aveva un aspetto sciupato con quel colorito ancor più pallido del solito e i capelli lunghi e neri in disordine.
Quando si fermò, a circa un metro dallo specchio, non era preparato in alcun modo a fronteggiare ciò che vide.
Nel riflesso, una donna era in piedi accanto a lui: aveva dei capelli rossi lunghi fino alla vita, un sorriso brillante e degli occhi verdi e lucenti che lo guardavano.
Il cuore di Piton precipitò verso il basso, come se una voragine si fosse appena materializzata dentro di lui. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Non riusciva a credere a quegli occhi.
Si voltò, pur sapendo di essere solo in quella stanza, ed infatti era così. Lo specchio doveva avere un potere nascosto.
Tornò a fissare l'immagine riflessa e si perse nel volto di Lily, in ogni suo piccolo dettaglio: gli occhi a mandorla di un verde mozzafiato, il naso sottile, le minuscole lentiggini sulle guance, le onde formate dalle ciocche dei suoi folti capelli, le labbra piene. Sembrava tutto così... vero.
Poi notò un particolare che gli era sfuggito: nella parte più alta della cornice erano incise le parole "Erouc li amotlov li ottelfirnon".
Non rifletto il volto ma il cuore scritto al contrario, capì subito Piton.
Solo allora realizzò ciò che aveva di fronte: quello specchio doveva essere capace di mostrare i più profondi desideri di chi vi si specchiava.
Sospirò profondamente, prestò nuovamente attenzione al riflesso e si accorse che era stato così preso dal volto di Lily, da non aver notato che un bambino si stava nascondendo dietro le sue gambe, con fare giocoso.
Lily sorrise e il bambino provò a scappare, passandogli a carponi in mezzo alle gambe. Lei lo acciuffò, gli cinse le braccia e lo strinse a sé.
Era piuttosto basso, ma dimostrava almeno undici anni: aveva i capelli neri e lisci, gli occhi verdi come quelli di Lily ed un naso piuttosto pronunciato.
Come il mio, pensò.
Piton cadde in ginocchio, gli occhi spalancati e il respiro mozzato. Si portò talmente vicino allo specchio che il suo naso quasi lo sfiorava.
Allungò una mano verso quella del bambino, che gli sorrise di rimando.
Piton sorrise a sua volta per una frazione di secondo, poi sul volto gli si dipinsero l'angoscia e la disperazione.
Era come se la gravità non esistesse più, come se il mondo si fosse inspiegabilmente capovolto. Un dolore indescrivibile lo trapassò, sembrava che qualcuno avesse stregato mille coltelli in modo che lo pugnalassero all'unisono.
Voleva morire. Voleva porre fine a tutto questo.
Distolse lo sguardo dal bambino, non ne avrebbe sopportato la vista per un secondo di più.
Si allontanò di qualche passo dallo specchio, tremante della testa ai piedi, e notò che il Severus Piton del riflesso era calmo e sorrideva.
Il dolore passò istantaneamente, sostituito da una rabbia disumana come mai aveva provato prima. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, ma non era sufficiente. Voleva cancellare quel riflesso per sempre, voleva distruggere quello specchio maledetto.
Prese una delle sedie impolverate e la scaraventò con tutta la forza che aveva. Lo specchio restò immobile, indifferente alla sua ira. Frustrato dall'insuccesso, si avvicinò al suo riflesso sorridente ed urlò: «È TUTTA COLPA TUA!»
Con la coda dell'occhio vide che Lily lo stava osservando. Continuava a sorridere, come se nulla fosse accaduto. Come se non le avesse mai lanciato contro una sedia. Come se non l'avesse mai insultata. Come se non l'avesse mai condannata a morte.
Restò lì ad osservarla per chissà quanto tempo.
Non provava più niente, voleva semplicemente stare lì: di fronte a lei.
Il tempo si annullò. I secondi non avevano più alcuno scopo o significato. Quanto era lungo un minuto? Non aveva più importanza. Niente aveva più importanza, se non quegli occhi verdi.
Dopo quella che sembrava un'eternità, uno strano sfrigolio alle sue spalle lo riportò alla realtà: Albus Silente era appoggiato al muro e stava scartando una caramella.

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Capitolo 2
*** Two Headmasters of Hogwarts ***


Two Headmasters of Hogwarts

L'atmosfera era surreale.

Severus Piton era pallido, sudaticcio, e totalmente stravolto dai dolorosi avvenimenti di quella nottataccia.
Albus Silente sembrava capitato lì per caso. Aveva l'aria di uno studente in gita scolastica, particolarmente annoiato dalle spiegazioni dei professori. Scartò la caramella e ne morse un pezzo, chiudendo gli occhi per gustarla meglio.
Piton aspettò che dicesse qualcosa, infastidito da quell'atteggiamento noncurante. L'idea di essere stato osservato in quel momento di fragilità, lo mandava su tutte le furie. Dal momento che Silente continuava ad ignorarlo, prese l'iniziativa.
«Da quanto tempo sei lì?» chiese.
«Non da molto» rispose Silente, girandosi i pollici con fare distratto. «Vuoi una caramella mou?»
«No, grazie!» replicò Piton, sarcastico.
Quella risposta sprezzante sembrò risvegliare Silente dai suoi pensieri. Alzò finalmente lo sguardo dalle lunghe mani intrecciate, e gli lanciò una delle sue tipiche occhiate penetranti. Quando parlò, il suo tono era pacato come non mai: «Ti chiedo di perdonami, Severus. Non volevo intromettermi in un momento così delicato. Confido che mi crederai quando dico di trovarmi qui per una fortuita coincidenza. Tuttavia, spero di non sembrarti insensibile se vesto momentaneamente i panni del Preside di Hogwarts, e ti chiedo di non urlare a quest'ora. Anzi, forse dovresti proprio evitarlo».
Piton abbassò lo sguardo e arrossì. Dopo tutto quello che aveva passato quella notte, ora gli toccava persino di essere ripreso. Stava per replicare, ma sapeva di essere nel torto, quindi si limitò ad annuire.
«Non pensiamoci più» proseguì Silente. «Sei un mago dalle strabilianti capacità deduttive e logiche. Hai messo alla prova persino un cervello straordinario come il mio, con quella complessa sciarada che hai ideato per proteggere la Pietra. Ha richiesto la mia massima attenzione per ben due o tre minuti, prima che trovassi la soluzione. Per questo motivo, sono persuaso che tu abbia capito esattamente la funzione dello Specchio delle Brame».
«Sì» rispose Piton, «però non capisco cosa ci faccia qui».
«Preferisco non divulgare a nessuno questa informazione» disse Silente, e si affrettò a cambiare argomento.
«Non avevo dubbi che avresti compreso la natura di questo straordinario specchio. Converrai con me che è un oggetto estremamente affascinante e pericolo...»
«Smettila di tergiversare» lo fermò Piton, «chiedimelo e basta».
Silente sembrò sorpreso, non gli capitava spesso di essere interrotto. Si ricompose in fretta e domandò, in modo garbato: «Cosa dovrei chiederti?»
«Cosa vedo nello specchio. Altrimenti perché saresti venuto allo scoperto?»
«No, Severus» rispose, con una nota amara nella voce. «Non oserei mai chiederti una cosa simile, ma se vuoi parlarne, sarò ben lieto di ascoltarti».
Piton scosse la testa, distogliendo il contatto visivo. Non se la sentiva di mettersi così a nudo e di rivivere ciò che aveva appena visto. Non voleva vedere lo sguardo compassionevole che Silente gli avrebbe rivolto, lo avrebbe fatto sentire ancora più debole di quanto non si sentisse già.
Silente aveva un'aria imperscrutabile. Da quando le loro strade si erano incrociate, non aveva mai colto emozioni in quei profondi occhi azzurri, se non quelle che il Preside di Hogwarts desiderava condividere con lui. Era l'unico mago che avesse mai incontrato, capace di eludere le sue allenate abilità di Legilimens.
Molte volte si era chiesto cosa gli passasse per la testa, ma non riusciva proprio a immaginarlo.
Dopotutto, cosa sapeva di Albus Silente? Conosceva parte della sua storia, sapeva delle imprese incredibili che aveva compiuto, ma solo tramite vecchi giornali e alcuni libri di storia che approfondivano l'ultimo secolo del mondo magico. In dieci anni di conoscenza si erano avvicinati notevolmente, ma non gli aveva mai fatto una domanda veramente personale.
Forse è giunto il momento di farlo, pensò Piton.
«Tu cosa vedi?» chiese.
Silente inarcò le sopracciglia e disse: «Mi vedo in un ufficio nuovo e totalmente commestibile, fatto di dolci e stracolmo di caramelle!» 
Piton alzò gli occhi al cielo: «Potevi semplicemente dirmi che non è affar mio».
«Suppongo di sì» ammise Silente, ridendo sotto i baffi argentati.
«Io vedo Lily» disse Piton.
La sorpresa gli si dipinse sul volto: non aveva mai avuto intenzione di confessarlo. Era come se la sua bocca avesse deciso in completa libertà, ribellandosi alle sue volontà.
«Non so perché l'ho detto» aggiunse, sentendosi sempre più confuso.
«Forse perché una piccola parte di te desidera parlarne» suppose Silente, «sono convinto che ti sarebbe d'immenso aiuto».
Piton deglutì. Forse aveva ragione lui, sentiva che sarebbe stato liberatorio aprirsi, ma non era per niente sicuro di riuscire a tirare fuori quella scomoda verità.
Chiamò a sé ogni singola briciola di coraggio che possedeva e decise di provarci.
«Non c'era solo lei... nel riflesso. C'era anche... anche...»
Si interruppe. Restò in silenzio per diversi minuti, incapace di ammettere a Silente, ma soprattutto a se stesso, ciò che aveva visto.
«Anche il figlio che non avrete mai» completò Silente, girandosi nuovamente i pollici.
Piton sgranò gli occhi e trattenne il respiro. Qualcuno doveva avergli scagliato di nascosto la Maledizione Cruciatus, non c'era altra possibile spiegazione per quel dolore insostenibile. O forse sì...
«Come fai a saperlo?» chiese Piton, con un filo di voce.
«Lo immaginavo...» rispose Silente.
«LO IMMAGINAVI?! TU NON NE HAI LA MINIMA IDEA!» esplose Piton, avvicinandosi a Silente e puntandogli l'indice contro il petto, con fare minaccioso. «Sarai pure Stregone Capo, Pezzo Grosso e tutto quello che ti pare, ma non pretendere di capire TUTTO QUESTO! Hai la minima idea di cosa voglia dire vivere, sapendo che l'unica donna che hai amato e che mai amerai sia morta, E CHE SIA MORTA PER CAUSA TUA?! Sai cosa vuol dire vivere odiando se stessi?! Da dieci anni vago in questo castello senza uno scopo, consapevole che non avrò MAI un perdono per quello che ho fatto! E devo ammetterlo, mi piace tormentare i tuoi preziosissimi studenti e leggere l'odio nei loro volti. È questo che merito per il resto della mia MISERABILE VITA!»
Il volto di Piton era ormai a pochi centimetri da quello di Silente, talmente vicino che il suo respiro affannoso appannava gli occhiali a mezzaluna del Preside di Hogwarts. Quest'ultimo era rimasto perfettamente impassibile, non aveva battuto ciglio neanche una volta durante tutta la sfuriata.
Piton indietreggiò di un passo, respirando profondamente dal naso. Aveva perso il controllo ancora una volta. Non aveva mai deciso di dare una voce alle sue emozioni, sembrava che si fossero semplicemente liberate, con la forza e l'irruenza di chi è rimasto in catene per anni.
Tuttavia, si sentiva un po' più leggero, come se un piccolo nodo che giaceva da qualche parte nel suo stomaco, si fosse appena sciolto.
Aveva una mezza idea di scusarsi con Silente per avergli urlato in faccia, ma lui lo precedette:
«Mio caro Severus, aspettavo da anni che ti aprissi con me, mi rammarico profondamente che ciò sia avvenuto per la prima volta in questo modo. Tuttavia, non ho alcun motivo per biasimarti. Neanche io ho avuto il temperamento necessario per aprire il cuore ad un'altra persona, e svelarle i miei segreti più reconditi. Un uomo non dovrebbe mai affrontare una simile tempesta da solo. Se mi fossi aperto prima io con te, forse avrei potuto aiutarti. Avremmo potuto aiutarci a vicenda, perché io e te siamo molto più simili di quanto tu possa immaginare».
Piton restò interdetto. In che modo un uomo integro come Silente poteva essere simile a lui?
Silente sospirò profondamente, come per farsi coraggio, e proseguì.
«Quando mi guardo nello Specchio delle Brame, mi rivedo com'ero quando avevo diciassette anni. Per quanto possa sembrare impossibile a molti uomini della tua età o più giovani di te, non sono nato vecchio» scherzò, accennando un sorriso.
«Sono stato giovane anch'io, in tutti i modi in cui è possibile esserlo: stupido, curioso, avventato, affamato, egoista. Così come te, nello specchio non sono solo, ma sono circondato dalle cinque persone che ho amato di più: la mia famiglia. La vedo di nuova felice e unita, come lo era molto tempo fa... Prima che...»
Il labbro inferiore gli tremò impercettibilmente. Annaspò, alla ricerca delle parole, ma non completò mai quella frase. Piton non lo aveva mai visto esitare, sapeva sempre quello che doveva dire e come doveva dirlo.
Silente chiuse gli occhi per riprendere il controllo. Quando li riaprì, disse in tono deciso: «Se non ti dispiace, credo che sarebbe molto più facile per me, se potessi mostrarti ciò che accadde».
«Non devi farlo per forza. Non mi devi alcuna spiegazione».
«No, non devo. Ma ho tenuto per me questo orribile segreto troppo a lungo. Non voglio rischiare di avvelenarmi l'anima e diventare una persona peggiore».
«Come me?» gli fece notare Piton.
«Non era quello che intendevo. Mi sei sempre stato fedele, sei cambiato più di quanto ti piacerebbe ammettere. Meriti qualcosa di meglio di una stupida risposta sarcastica» rispose Silente, ammiccando.
La porta si aprì e un vecchio Pensatoio sfrecciò velocissimo dentro la stanza, fermandosi esattamente a metà tra i due.
Silente si sfiorò la tempia con la bacchetta, ed estrasse con delicatezza una serie di sottilissimi fili brillanti: i suoi ricordi. Li spinse nella tumultuosa superficie argentea del Pensatoio, che diventò trasparente e piatta come una tavola.
«Il passato è ineluttabile» sospirò Silente, «non possiamo fare nulla per cambiarlo, possiamo semplicemente accettarlo e imparare da esso. Stai per vedere qualcosa che nessuno ha mai visto prima, esclusi ovviamente i protagonisti di queste storie. Dopo di te, Severus».
Piton, con sua grande sorpresa, si scoprì trepidante e curioso di sapere ciò che avrebbe visto.
Affondò il viso nel Pensatoio e fu scagliato in un'altra dimensione, dritto dentro i ricordi di Albus Silente.

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Capitolo 3
*** Dumbledore's Memories ***


Dumbledore's Memories

Severus Piton precipitò dentro il bacile di pietra. Conosceva bene quella sensazione, l'aveva provata centinaia di volte nel suo Pensatoio. Per alcuni secondi si sentì avvolgere dalle tenebre, poi tornò la luce.
Si trovava in una cucina sgargiante e dai mille colori. Tutto in quella stanza trasmetteva energia e vitalità: le pareti giallo brillante, il lungo tavolo di un blu elettrico, una serie di oggetti magici bizzarri poggiati sulle mensole, e la finestra su cui erano impresse le impronte in vernice di cinque mani, una sopra l'altra, dalla più grande alla più piccola.
Le uniche cose fuori posto in quella stanza erano le cinque persone sedute intorno al tavolo.
Pranzavano senza dire una parola, con delle espressioni scurissime in volto. Sembrava quasi di essere ad una veglia funebre, mancava solo la bara.
Piton si avvicinò per osservarli meglio, incuriosito da quell'atmosfera lugubre che tanto gli era familiare.
A capotavola c'era un bell'uomo dai chiarissimi occhi azzurri e dalle spalle larghe. Era seduto, ma si capiva che era anche molto alto.
Quello doveva essere il padre di Silente, pensò Piton, notando quelle somiglianze che non lasciavano adito a dubbi.
Mangiava senza far rumore, lanciando occhiate preoccupate alla bambina che sedeva alla sua sinistra. Poteva avere sei o sette anni, aveva i capelli biondi e probabilmente era molto carina. Era difficile a dirsi quel giorno, perché aveva il volto pieno di lividi e cicatrici, un occhio viola e un labbro spaccato. Non aveva toccato cibo e ignorava i continui tentativi di imboccarla di quello che sembrava suo fratello maggiore.
Piton girò intorno al tavolo per osservarlo meglio. Si trovò davanti un giovanissimo Albus Silente, a occhio e croce all'età di dieci o undici anni. Era inconfondibile per via degli occhi azzurri, ma aveva un aspetto gracile e dal viso rotondo facevano capolino dei capelli rossi.
Di fronte a lui, un altro bambino osservava la scena con aria preoccupata. Era di qualche anno più piccolo di Albus, ma era molto simile a lui, tranne per i capelli neri. Teneva per mano una donna sulla quarantina dall'aria trascurata: la madre dei tre bambini. Nessuno si era preso il disturbo di servirle da mangiare, probabilmente non sarebbe stata fisicamente in grado di farlo. Tremava e sembrava sul punto di mettersi a urlare: ogni singolo centimetro del suo viso era contratto e segnato dal dolore.
Doveva essere successo qualcosa di terribile, probabilmente legato all'aspetto della figlia più piccola, di cui Piton, fino a pochi minuti fa, ignorava persino l'esistenza.
All'improvviso, notò di essere solo. Cercò Albus Silente - quello vecchio - con lo sguardo. Lo ritrovò poggiato allo stipite della porta della cucina, incapace di osservare la scena.
Piton avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma non gli sembrava il caso. Perché gli stava mostrando tutto questo?
Come per rispondere alla sua tacita domanda, una fortissima esplosione echeggiò alle sue spalle. Si voltò di scatto e spalancò la bocca per la scena che gli si presentò davanti agli occhi.
Il tavolo era distrutto, così come l'arredamento della cucina. Il piccolo Albus Silente, sua madre, suo padre e suo fratello, erano stati scaraventati contro il muro da quella che sembrava una piccola tromba d'aria, che scagliava maledizioni e incantesimi ovunque.
Il padre si fece avanti, con una mano davanti al viso per proteggersi. Sfoderò la bacchetta e gridò: «FINITE INCANTATEM!» ma l'incantesimo non ebbe alcun effetto. Il rombo nella stanza diventò talmente assordante, che riuscì a sentirlo appena quando urlò: «ARIANA, RESISTI!»
Solo allora Piton capì: la tromba d'aria era la bambina dai capelli biondi. Stava vorticando a una velocità inaudita, come una trottola impazzita. Un incantesimo colpì l'uomo, scagliandolo nuovamente contro il muro. I pezzi del tavolo e di quello che restava della cucina, iniziarono a roteare in quel turbine d'aria e di incantesimi, rischiando più volte di colpirli.
La madre provò ad avvicinarsi, scossa dai singhiozzi, ma suo marito la bloccò.
«FERMATI KENDRA! NON POSSIAMO FARE NIENTE!»
Le urla strazianti di Kendra Silente sovrastarono tutto il resto, mentre l'uomo trascinava lei e i due figli maschi fuori da quella stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Le urla di una madre che non sapeva se avrebbe mai rivisto la figlia viva.
Il ricordo sfumò. Quando ritornò a fuoco, non doveva essere passato molto tempo, a giudicare dalla luce. La cucina era ridotta ad un ammasso di macerie: parte del tetto era crollato, così come il muro che dava sulla strada.
In mezzo ai calcinacci e ai pezzi di vetro, giaceva la piccola Ariana. Si dondolava, stringendosi le ginocchia con le braccia. Era tutta coperta di polvere, tranne che per alcune sottili strisce sul viso, che delle lacrime silenziose avevano ripulito dalla sporcizia.
Piton non aveva mai visto una maledizione causare dei simili effetti. Albus Silente si fece finalmente avanti e osservò la sorella, con lo sguardo appannato dalle lacrime.
«Quando Ariana aveva sei anni, fu aggredita da alcuni Babbani che l'avevano vista praticare delle magie. Smise di usarla e ne perse il controllo. Questo fu solo il primo di una lunga serie di attacchi» spiegò, con la voce tremante.
Piton era inorridito. In quella bambina indifesa e impaurita, rivide se stesso. Anche lui aveva avuto brutte esperienze con i Babbani.
Con uno solo, a dire il vero.
I Silente tornarono in cucina, riscuotendolo dai suoi pensieri. Quando vide la figlia, Kendra scoppiò in un pianto liberatorio. Si rannicchiò vicino a lei con molta cautela, e le sussurrò in un orecchio: «Ti prometto che combatteremo questa cosa insieme».
«Lo fecero davvero» commentò Silente. «Grazie all'aiuto di mia madre e di mio fratello Aberforth, gli attacchi si ripresentarono sempre più deboli. Tuttavia, come puoi immaginare, per Ariana fu impossibile avere una vita normale. Sarebbe bastato pochissimo per scatenare un attacco devastante, mettendo in pericolo lei e chi le stava intorno. Spargemmo la voce che si era gravemente ammalata e la tenemmo chiusa in casa, finché non sarebbe stata pronta ad affrontare il mondo esterno...»
Piton capì, dal dolore e l'amarezza con cui Silente aveva pronunciato l'ultima frase, che non lo sarebbe mai stata.
Kendra si voltò in direzione del marito. Era rimasto immobile, i pugni chiusi gli tremavano violentemente e alcune rabbiose lacrime gli rigavano il viso.
«Percival?» mormorò lei, spaventata dalla sua reazione.
Lui la ignorò e scattò fuori dalla stanza. Afferrò un cappotto e si diresse verso la porta d'ingresso con determinazione.
Albus Silente, quello ancora bambino, gli si piazzò davanti.
«Dove stai andando?» squillò, con una voce acuta.
«LEVATI DI MEZZO!» sbraitò suo padre.
Kendra arrivò di corsa, tenendo sua figlia in braccio, e si piazzò accanto ad Albus, puntando la bacchetta contro il padre dei suoi figli.
«NON OSARE!» tuonò Percival. «SAI BENISSIMO COSA DEVO FARE!»
«Non devi farlo! Ne abbiamo già passate tante. Ho bisogno che tu resti qui, con noi. Non posso farcela da sola... ti prego!»
Percival Silente la squadrò addolorato.
«Non posso vivere così» disse. «Gliela farò pagare a quei bastardi, te lo prometto!»
«NO! TI PREGO, NON ANDARE!» lo supplicò Kendra, cadendo in ginocchio e singhiozzando penosamente.
Le labbra di Percival formarono le parole "mi dispiace",  e si smaterializzò, lasciandosi dietro le urla disperate della moglie e il pianto dei suoi figli.
«Quella fu l'ultima volta che vidi mio padre» mormorò Silente.
«Trovò i Babbani che avevano aggredito mia sorella e li torturò. Per questo motivo fu catturato e rinchiuso ad Azkaban, dove morì qualche anno dopo...»
Piton era senza parole. Avrebbe voluto dire qualcosa di confortante, ma non aveva mai consolato nessuno.
«Albus...» iniziò, senza sapere come avrebbe finito... Ma quel ricordo svanì, sostituito immediatamente da un'altra scena.
Quella che sembrava un'accogliente stanza d'albergo prese forma. Piton riconobbe l'armadio in quercia e le tipiche assi nere del pavimento: erano al Paiolo Magico.
Dovevano essere passati almeno sei o sette anni dall'ultimo ricordo, a giudicare dall'altezza statuaria di Albus Silente.
La statura, le spalle larghe e gli occhi azzurri li aveva ereditati dal padre, i capelli rossi invece erano tutti suoi e gli arrivavano fino alle spalle, il naso era ancora dritto e nessun paio di occhiali a mezzaluna vi erano poggiati.
Con un colpo di bacchetta, Silente radunò tutte le sue cose sparse per la stanza, che si sistemarono con cura all'interno di un grosso baule.
Qualcuno bussò alla porta ed entrò un ragazzo corpulento dall'aria eccitata.
«Io sono pronto!» esclamò trionfante.
«Anche io, Elphias» disse Silente, con un gran sorriso.
«Ma ci pensi Albus? Noi due... in Transilvania! Sarà...»
Non seppe mai cosa sarebbe stato. Un gufo planò dalla finestra e lasciò cadere una busta sopra le loro teste. Silente la afferrò al volo, estrasse la lettera e lesse.
Quando arrivò alla fine, sbiancò in viso e fissò Elphias con un'aria stralunata.
«Che succede?» si preoccupò l'amico.
«Mia madre...» rispose Silente, guardando nuovamente la lettera, come se non riuscisse a credere a ciò che aveva appena letto.
Si smaterializzò, lasciando Elphias sbigottito e senza risposte.
Il ricordo li trascinò insieme al giovane Silente. Piton ebbe una strana sensazione di déjà vu: si erano materializzati in una casa mezza distrutta. Ariana era rannicchiata a terra e strillava con tutto il fiato che aveva nei polmoni, cercando di liberarsi dalla morsa del fratello Aberforth.
Tra le macerie giaceva Kendra Silente: il corpo ricoperto di sangue, gli occhi spalancati e privi di calore.
Piton osservò due diverse versioni di Albus Silente inginocchiarsi ai piedi della madre. Quello del passato urlò tutto il suo dolore e la prese tra le braccia. Quello del presente l'avrebbe fatto a sua volta, se solo avesse potuto. Si limitò a piangere, impotente e sconfitto.
 «Mamma...» la chiamarono all'unisono, soffocando tra un singhiozzo e l'altro. Ma lei non avrebbe mai risposto.
Il ricordo sfumò ancora una volta.
«Forse è meglio se torniamo su» disse Piton, aiutando Silente a rialzarsi.
«No!» rispose lui. «Devi sapere... devi...»
Albus e suo fratello erano di fronte a una tomba di pietra nera in un piccolo cimitero.
Aberforth piangeva e Albus lo sorreggeva. Appena dietro di loro, era Albus a piangere, e c'era Piton a sorreggerlo.
I quattro osservarono la lapide con infinita tristezza. Poi il Silente più giovane si chinò su di essa e vi incise le parole Kendra Silente.
Dopo un po' tornarono a casa, che intanto era stata ricostruita. Si sedettero su un comodo divano e restarono a lungo in silenzio.
Fu Albus il primo a parlare: «Mi prenderò io cura di Ariana».
«Non ho alcuna intenzione di allontanarmi da lei» affermò Aberforth.
«Dovrai, tra qualche settimana. Devi completare la tua istruzione» gli fece notare il fratello.
«Non mi importa della mia istruzione!»
«Importa a me».
«Non prenderla alla leggera. Non le sei mai stato vicino come avresti dovuto. Avrà bisogno della tua totale attenzione, hai visto cosa può succedere se ti distrai anche solo un secondo» lo avvertì Aberforth.
«Non avrò problemi» rispose Albus con fermezza.
Aberforth lo studiò, come per cercare una traccia di insicurezza nascosta dietro quelle parole. A quanto pare non ne trovò alcuna, perché annuì.
«Ci penserò».
«Molto bene» disse Albus, «ora, se non ti dispiace, vado a riposarmi».
Si alzò e si diresse lentamente verso le scale che conducevano al primo piano. Sbirciò nella stanza di Ariana: non si era ancora svegliata dal sonno incantato a cui l'avevano sottoposta.
Si ritirò nella sua camera, chiudendosi la porta alle spalle, e mormorò un incantesimo insonorizzante.
Le sue urla rabbiose e selvagge non uscirono mai da quella stanza. Prese a pugni e a calci tutto quello che gli capitò sotto tiro, finché non ci fu neanche un singolo libro, oggetto o mobile rimasto integro.
«Ero frustrato» gli spiegò Silente. «Tutti i miei sogni, le mie aspirazioni, i miei progetti... andati in fumo per sempre. Mi sentivo in gabbia, non so cosa mi trattenne dal scappare. Ero egoista, tremendamente egoista. Rivedendomi ora, capisco che se non fosse stato per lui, avrei trovato sicuramente un altro modo per rovinare tutto...»
«Lui?» chiese Piton.
Gli fece segno di attendere, mentre un altro ricordo si formava intorno a loro.
Il giovane Albus Silente uscì di casa, aveva un'aria particolarmente stanca. Non si diresse molto lontano: salì le scale del portico della casa a fianco e bussò alla porta, che si spalancò all'istante.
«Albus, sapevo che saresti venuto, accomodati!» esclamò una donna sulla trentina.
«Mia cara Bathilda, non mi sognerei mai di rifiutare un tuo invito» disse Silente.
Solo allora notò un ragazzo, probabilmente suo coetaneo, che aspettava appena dietro l'uscio. Era molto bello, biondo e slanciato.
«A dire il vero Albus, non ti ho invitato per il solito tè. Volevo presentarti il mio adorato pronipote, una mente brillante tanto quanto la tua!» esclamò Bathilda, battendo le mani eccitata.
Silente entrò in casa e gli tese la mano: «Albus Silente, piacere di conoscerti».
Il ragazzo biondo sfoggiò un sorriso affascinante e la strinse.
«Ho sentito molto parlare di te. Gellert Grindelwald, il piacere è tutto mio!»
Piton trattenne il fiato. Si voltò verso Silente in cerca di spiegazioni, ma lui non aveva occhi che per Grindelwald.
Che ruolo aveva uno dei più grandi maghi oscuri di tutti i tempi in quella storia?

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