Julie.

di Hypoprenya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Seen It All Before. ***
Capitolo 2: *** Go To Hell, For Heaven's Sake! ***
Capitolo 3: *** Can You Feel My Heart? ***



Capitolo 1
*** Seen It All Before. ***


Giulia era una ragazza comune, ma, a modo suo, particolare. Indossava gli stessi capi ormai da tempo: ai piedi portava sempre i suoi fedeli anfibi, calze nere strappate con le sue piccole e fredde mani, retine alle braccia, alla mano sinistra un guanto di cuoio borchiato sul dorso e tagliato, probabilmente con una lama, all’altezza delle dita e differenti incisioni su diverse parti dell’oggetto, la felpa di “Amy Strange”, a cui lei era particolarmente legata, tantoché non l’avrebbe scambiata per nessun altra cosa al mondo, forse perché era l’unico capo di marca che possedeva? Nah, Giulia non era superficiale a tal punto, anzi, non lo era per niente. La sua era possessività. Il fatto è che quando non si ha molto, quel poco che si ha si tende a tenerlo stretto. Era una delle poche persone ad aver capito che il valore di un oggetto non dipende dell’oggetto in sé, ma dal valore attribuitogli. Indossava molto spesso dei pantaloncini tagliati con le forbici o una gonna scozzese, al collo portava un collare, che le piaceva stringere molto, dal quale si separava raramente. Portava da sempre i capelli corti, a volte legati in un piccolo codino, le quali punte erano ormai bruciate, tinti di un particolare verde acqua. Il suo era un volto minuto la cui tonalità della candida pelle era di un bianco quasi cadaverico, due enormi occhi di un verde scurissimo la cui luminosità veniva offuscata da una matita nera che li rendeva più cupi di quanto non lo fossero già , labbra carnose tinte da un trucco nero e un naso all’insù tempestato da piccole ma fitte lentiggini. Alcune persone la etichettavano come la “ragazza strana”, ma a lei stava bene così. Infondo, perché avrebbe dovuto sprecare del tempo prezioso per preoccuparsi di cosa la gente pensasse del suo abbigliamento quando lo avrebbe potuto utilizzare per ascoltare del buon Metal? Quando accumulava eccessivo stress dalla realtà circostante, metteva i suoi inseparabili cuffioni e, accompagnata dalle note di “Suicide Season”, entrava in un’altra realtà, come se la musica avrebbe potuto scavare un varco che, una volta attraversato, l’avrebbe catapultata in un universo parallelo, trovandosi finalmente in un luoghi diverso, privo di etichette, pregiudizi, compromessi e paragoni: non desiderava nient’altro; a quel punto sì che sarebbe veramente divenuta felice. Non desiderava altro: le bastava un prato verde, un’ albero ombroso sotto il quale sostare per qualche ora e la sua musica. Per molti di voi potrebbe significare niente, ma per lei era tanto, forse tutto. In realtà, per Giulia la musica era quasi un dipendenza. Sì, una dipendenza. Una dipendenza che si era creata per sostituire il vuoto lasciato da qualcos’altro, qualcosa che aveva provato a riprendersi più volte, fallendo però in tutti i casi, ma che ormai aveva perso. Per sempre. Ma qualcosa, o qualcuno? Probabilmente, qualcuno. Sicuramente, qualcuno. Qualcuno che rappresentava una parte fondamentale della sua ormai flebile esistenza. Qualcuno che, una volta uscito dalla sua vita, non sarebbe più tornato. Mai più. Questo Giulia lo sapeva, e forse anche troppo bene. E Dio, se faceva male. Un male inesprimibile a parole. Avrebbe anche potuto estrarre il cuore dalla cassa toracica, trafiggerlo con centinaia di lame fino a quando non avrebbe cessato di battere, ma no, non sarebbe stato abbastanza, quel male posto affianco a quel dannatissimo “qualcuno”, si sarebbe annullato. Amalia. Quel nome. Sentiva ancora bruciarle nel petto quelle sei lettere. Non riusciva nemmeno a pronunciarlo, non era abbastanza forte. Ogni secondo che passava senza di Lei trascorreva troppo lentamente, ed era come incassare decine di pugnalate all’altezza dello stomaco. Ma a tanto a chi importava? Ripensava quasi ogni giorno a tutte le giornate intrise nella malinconia, a tutte le volte in cui aveva pianto, sconsolata in un angolo, il più delle volte in pubblico ed essere invasa dalla frustrazione, si poneva tutti i giorni le stesse, identiche, domande: “Perché sto piangendo? Credevo di essere felice. Ho passato tutta la giornata a ridere, e allora queste lacrime? Perché? Perché nessuno se ne accorge?” Inizialmente pensava che col passare dei giorni, mesi, anni, il dolore si sarebbe alleviato. Il tempo non sarebbe bastato. Mai. Era Lei che dava un senso ai battiti cardiaci di Giulia, e da quando se ne era andata via che cercava invano valide motivazioni per continuare a vivere; le suonava spesso in testa un ritornello spezzettato di una canzone che a lei non era mai piaciuta, ma che improvvisamente aveva acquisito un senso particolare: “Ogni sera io mi chiedo Lei con chi sarà, E quella Lei di cui ti parlo be’ sei proprio tu” “Ogni volta che rientro in quella camera Mi chiedo se col tempo questa vita passerà Se tu vorrai ci incontreremo nella prossima”. Giulia era come una stella che brillava grazie alla lucentezza di un’altra, e l’improvvisa assenza dell’ultima aveva procurato una visibile opacità della prima prima. E se lei la definiva come “la sua luce”, fidatevi che non erano parole senza peso, al contrario, ogni lettera pesava troppo, troppo per riuscire a sorreggerla da sola, per questo spesso cadeva, senza avere la forza per rialzarsi. E poi per chi lo avrebbe dovuto fare? Ormai di se stessa non le importava più niente. E quel dannato 15 Aprile lei no, non se lo sarebbe mai potuto scordare. Altre pugnalate all’altezza dello stomaco. 15 Aprile. Una data impressa non nel cuore, ma nelle sue fredde iridi, mentre le parole di “Seen It All Before” le rimbombavano nella testa. “Every second’s soaked in sadness Every weekend is a war And I’m drowning in the déjà vu We’ve seen it all before I don’t wanna do this by myself I don’t live like a broken records I’ve heard these lines a thousand times And I’ve seen it all before”. “Ogni secondo è intriso di tristezza Ogni fine settimana è una guerra E sto annegando tra i déjà vu Abbiamo già visto tutto Non voglio farlo da solo Non voglio vivere come un disco rotto Ho sentito queste parole un migliaio di volte E ho già visto tutto”. Quelle parole. Questa era la sua vita. Quello era il suo malessere.

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Capitolo 2
*** Go To Hell, For Heaven's Sake! ***


Omofobia. Odiava quel termine. Non era una fobia. Affatto. Sarebbe stato più coerente classificarla come una malattia, una patologia molto grave che non porta alla morte, però capace di sigillare la mente di chi ne soffre ed impedire di accettare l’Amore in tutte le sue forme. Che scopo ha tale disprezzo? Non lo aveva mai compreso. Odiava la società e i molteplici pregiudizi presenti in essa. Odiava la Chiesa, Dio non esisteva, come non esiste tutt’ora. Era solo una delle tante invenzioni dell’uomo per spiegare la presenza della vita sulla Terra e l’assenza di essa negli altri pianeti. Si fidava a stento di ciò che vedeva con i suoi occhi, figuriamoci di una “divinità” ipocrita a tal punto d’esser convinto di sapere cosa sia giusto o sbagliato, buono e cattivo e cosìvvia. Odiava i preti. Gente che predica il bene, la pace, la lealtà e cazzate simili non dovrebbe ridursi allo stupro di minori, giusto? Giusto. “Che punto solo a quello O non farti vedere il bello che ti mettono davanti per nascondere il macello” si ripeteva. La Musica l’aveva aiutata più di quanto ogni persona avrebbe mai potuto fare. Non era affatto una cosa superficiale, non lo era mai stata. Rifletteva su ogni virgola, su ogni parola, su ogni verso, si poneva domande. Amava perdersi in quel mondo. Odiava se stessa più di chiunque altro. Lei era sbagliata. Non biasimava la gente che l’aveva sempre scansata, che la scansava e che, in futuro, l’avrebbe scansata, anche lei se fosse stata una qualsiasi altra persona l’avrebbe fatto. Anzi, provava per loro addirittura un sentimento che si avvicinava alla comprensione. Odiava passare per l’ “asociale”, anche se in fondo lo era. Odiava le etichette, il bisogno di dover dare sempre un nome a tutto, non tutto ha una definizione, ok? Ok. Odiava fingere per far sì che gli altri non si preoccupassero di lei. Odiava questo suo egoismo e disprezzava il fatto di dover ammettere che fosse parte integrante di se stessa. Odiava essere quello che era. Nessuno avrebbe mai voluto esserlo. Quel corpo era solo una gabbia. Troppi attimi della sua vita trascorsi cercando una soluzione per evadervi. Odiava le occhiaie che, ogni mattina, le incupivano il viso. Odiava essere così fottutamente debole. Ogni qualvolta che cresceva in lei una qualsiasi ambizione, in breve tempo vedeva le sue speranze bruciarle davanti agli occhi: colpa dei troppi limiti che lei e la realtà che la circondava le ponevano. Odiava le sue troppe paranoie. Odiava quando cercava di comunicare una qualsiasi cosa ad una qualsiasi persona, percependo poco dopo il suono intrappolarsi tra le corde vocali e non riuscire ad evaderne. Un suono sordo, oltre che claustrofobico. Ne aveva abbastanza. Di tutto. Era stanca di quella vita. Voleva abbandonare la sua superflua sopravvivenza e cominciare a vivere. Veramente. Odiava la sua personalità quasi inesistente. Il volersi isolare in ogni situazione. Questo è quello che era diventata. Odiava il fatto di essere stata capace di amarla. Odiava le cicatrici sul suo braccio sinistro. La prima incisione, effettuata quasi due anni fa, ora era poco visibile. La prova del suo malessere. Adesso etichettatela pure come sadica, tanto ormai niente la può più scalfire. Nessuno ci aveva fatto caso, come sempre d’altronde. La solita, classica ragazza incompresa. Be’, non era una novità la noncuranza per il suo essere. Non era una di quelle persone che indossano maschere. Non fingeva sorrisi. Non le piaceva fingere. La sua era un’anima troppo pura. Un angelo dalle ali spezzate, ormai incapace di volare, destinato a vivere nell’Inferno. L’intero mondo è superficiale: pochi ti apprezzeranno per quello che sei veramente, pochi ti diranno quello che davvero pensano; millenni di storia fondati sulle menzogne, e ancora che mi dite di guardare il lato positivo? Lo farei se ci fosse. Vita di tutti i giorni. “Tutti i giorni la stessa domanda: che viva o che muoia a ‘sta gente che gli cambia?” Perché la musica era cosi dannatamente potente? “Per immenso adesso intendo il vuoto del tuo sguardo, soprattutto quando è proprio me che stai guardando adesso vedila con gli occhi miei, cercati se non ci sei, conta i brividi che hai quando ti stai accanto. il primo pensiero ad ogni sorgere del sole e l’ultimo mio errore quando il sole sta calando” [C.]

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Capitolo 3
*** Can You Feel My Heart? ***


12 Settembre 2013 Giulia, come tutti i giorni, si svegliò con la musica nelle orecchie. Si alzò, svogliatamente, dal letto. “Can you hear the silence? Can you see the dark? Can you fix the broken? Can you feel… can you feel my heart? “Puoi sentire il silenzio? Puoi vedere l’oscurità? Puoi riparare ciò che è distrutto? Puoi percepire … puoi percepire il mio cuore?” Rifletté fin troppo spesso su quell’ultimo verso. “Posso percepire … posso percepire il mio cuore?” Si portò la mano sinistra al petto, appunto, all’altezza del cuore. Il ritmo cardiaco era lento. Forse troppo. Avvertì un leggero malore alle tempie: i sintomi del suo mal di testa giornaliero. Niente medicinali. Non voleva essere schiava di niente e nessuno, figuriamoci di una compressa … tsk. Si mise dinnanzi all’unico specchio presente in quella vecchia camera. Si scrutò attentamente. Odiava le sue ossa troppo sporgenti tanto quanto le cicatrici ancora visibili sul braccio sinistro e su entrambe le cosce. Odiava la sua voce, a parer suo dal suono eccessivamente maschile per appartenere ad una ragazza. L’unica cosa che apprezzava di sé erano le sue lentiggini. Sbuffò, dopodiché si diresse verso il vecchio mobile in legno poco distante da lei, aprì il secondo cassetto, prelevò con cura la sua vecchia felpa, inspirò forte il suo odore. Una lacrima, partendo dall’occhio sinistro, prese a rigarle il volto. Amalia. Sapeva di lei. Le mancava. Era la sua dipendenza. Ne aveva bisogno. Si mise la felpa; un sorriso si dipinse sul suo gelido volto. I suoi occhi, di norma scurissimi, si schiarirono. L’abito le stava enormemente grande, tanto da coprirle i pantaloncini che portava sopra le calze. Custodiva fin troppi ricordi, fin troppe emozioni. Tolse l’elastico dal suo polso destro usandolo per legarsi i capelli. Mise le mani in tasca, fece per andarsene, giunta dinnanzi alla porta, si fermò di colpo, tornò indietro, prese il suo guanto di cuoio abbandonato sul letto ormai disfatto, lo afferrò per poi indossarlo, mise di nuovo le mani in tasca e varcò la soglia della porta. Scese lentamente le scale per arrivare in cucina. Era Lunedì. Odiava il Lunedì. Sì, era alquanto stupido, e forse anche infantile, avere preferenze riguardo cose talmente frivole. Il Lunedì per lei rappresentava un occasione per farti credere che un nuovo giorno rappresenti un nuovo inizio, e quindi, una nuova vita. Non era così. Non per lei. Nuovo giorno, stessa vita. Stessa, monotona, vita di tutti i giorni. Giunse in cucina, non c’era nessun altro. Le girava la testa. Si sentiva debole. Aveva bisogno di cibo. Si diresse verso lo spazioso frigorifero distante da lei pochi metri. Arrivata quasi a destinazione, si senti svenire, cadde. Svenne.

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