Occhi di ghiaccio, cuore di terra

di Lechatvert
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


polverenera

Per iniziare

Ho scritto questa storia in terza liceo e l'ho ritrovata tre ore fa, dopo averla cancellata da EFP quando ancora scrivevo su un account vecchio di secoli.

Ebbene, colta dal senso di colpa nel vederla marcire ho deciso di ripubblicarla :) Stavolta divisa in quattro e corti capitoli, senza pretese. 

Spero che leggere questo piccolo racconto possa emozionare qualcuno come scriverlo ha emozionato me ^^

E sì, il titolo è un'indegna citazione dei Modena City Ramblers e della loro canzone "In un giorno di pioggia".

Infine, i personaggi sono totalmente inventati da me, mentre i luoghi e lo sfondo su cui si muovono (attacco e itinerario comresi) sono presi da fatti realmente accaduti in quell'agosto del 1944.

Cosa aggiungere?

Niente, se non che auguro a tutti una buona lettura!


Un abbraccio,

Lechatvert


Occhi di ghiaccio, cuore di terra
Capitolo primo





Campo Tre Pini, 8 agosto 1944


Ludovico la svegliò non appena il sole sorse, evitando troppi convenevoli e lanciandole, dall’alto dei suoi centosettantanove centimetri, la giacca di tela sul viso.
«Rosa, sveglia. È ora», ordinò con freddezza, mentre la sua mano andava già ad imbracciare il fucile. «I crucchi non aspettano mezzogiorno per venirci a prendere.»
Con un gemito, Rosa nascose il viso sotto la giacca di suo fratello, stiracchiandosi contro il muro di cemento. Al suo fianco, il lieve russare di Giovanni la rassicurò. 

Dunque non era ancora giunta l’ora di partire; quelle di Ludovico non erano che le solite ammonizioni paranoiche di un comandante improvvisato, giovane e troppo inesperto per accompagnare fino a Firenze due dei suoi commilitoni.
Il resto della Brigata si era disperso da qualche parte là intorno, ma con la foschia mattutina che avvolgeva la pianura dinanzi a loro era impensabile persino scendere a valle. 

E pensare che solo due giorni prima erano tutti insieme, più di cento uomini armati, a procedere in religioso silenzio verso le rive dell’Arno! Se non fosse stato per quell’attacco a sorpresa mentre erano intenti a superare Settignano, a quell’ora probabilmente i loro comandanti avrebbero già dato l’ordine di dirigersi verso Firenze.
Trovarsi in mezzo a quella manovra, per Rosa, era un po’ come tornare ai fumetti del Corriere: le armi, i passi leggeri e spediti quando si attraversava la boscaglia, le canzoni sussurrate la sera, stretti sotto le giacche, prima di addormentarsi; ogni cosa, nella Brigata Garibaldi in cui Ludovico l’aveva trascinata, sembrava uscita da un’avventura di Fortunello e non c’era paragone tra quel frenetico percorrere i dorsali toscani e i suoi primi diciannove anni di vita. Firenze era stata la sua casa, certo, sicura e protetta da ogni avversità, ma differiva completamente dal bosco dell’Appennino, dove per mangiare si doveva seguire una morbosa quanto ingiusta gerarchia. Lei, mangiava sempre per ultima (sempre che Ludovico le tenesse qualcosa da parte, ovvio). In quanto “nuova recluta”, di diritti non ne aveva. Non aveva armi, non aveva la dose di tabacco che veniva prontamente fornita a tutti i compagni; aveva a malapena un posticino al caldo tra suo fratello e il suo amato fucile rubato chissà dove. 

Tutto sommato, però, quella “comitiva di banditi” le voleva bene, doveva ammetterlo.
Sospirando, si mise in piedi e si trascinò fuori dalla chiesetta di mattoni in cui avevano passato la notte. Anche quel giorno, la valle dell’Arno era avvolta dalla nebbia.
«Giovanni dorme ancora?», le chiese Ludovico, in piedi davanti al muretto di mattoni che circondava il camposanto.
Lei annuì.
«Pare di sì», rispose, stringendo le spalle. «Ieri notte era stanco morto.»
«Rosa! Non siamo qui a fare la vacanza! Entro la settimana prossima dobbiamo essere a Firenze!»
«Lo so, ma …»
«D’accordo, adesso mi sente!» 

E detto questo sparì nella penombra delle navate.
Mentre Ludovico tornava a gridare ordini dentro la chiesa, la ragazza si portò sul ciglio dell’altura su cui si erano accampati. L’aria fresca soffiava dalla valle, mentre il silenzio delle campagne toscane avvolgeva con discrezione il campo. Le campane di Pontassieve suonavano da tempo, annunciando ai cittadini l’inizio di una nuova giornata che, molto probabilmente, non sarebbe differita poi tanto da quelle precedenti.
Rosa amava stare ad ascoltare i suoni che il paesaggio intorno a lei offriva. Lo scrosciare dell’acqua, i canti degli uccelli del bosco, i lamenti sommessi di Giovanni che, rannicchiato contro la parete, cercava invano di guadagnare qualche minuto di riposo in più. La calma di una fresca mattinata d’agosto, la definiva Ludovico, quando lei gli faceva notare quanto bello fosse sedersi sull’erba e respirare a fondo l’aria pura che in città come Firenze non avrebbe mai potuto trovare.
Firenze … quanto le mancava, la sua bella casa! I suoi fratelli minori, arruolati nei Balilla per volere del padre, i suoi amorevoli genitori, quel vecchio pastore tedesco che ormai non aveva più la forza di alzarsi dal pagliericcio dove dormiva ma che per amore di tutta la famiglia era stato risparmiato; tutto, della sua vita in città, le pesava in fondo al cuore come i fucili  sulle spalle dei suoi commilitoni. Certe notti si svegliava nei singhiozzi, stringendosi a Ludovico nella vana speranza di percepire nei suoi capelli il dolce odore di Firenze, ma la consolazione durava giusto l’istante per permettere a suo fratello di svegliarsi e scrollarla via con i suoi modi rudi di sempre. Erano nati assieme, lei e Ludovico, nella stessa casa, nella stessa notte, lo stesso 2 giugno in cui soltanto quarant’anni prima Garibaldi aveva perso la vita, eppure, per uno strano scherzo del destino, i loro caratteri si erano sviluppati in maniera completamente diversa. Tanto avevano fatto, i loro genitori, che alla fine Ludovico e Rosa Almagià avevano finito per detestarsi, tornando vicini come veri fratelli soltanto dopo essere divenuti maturi abbastanza per rendersi conto di quanto essenziali fossero l’uno per l’altra.
Due gemelli, dicevano a Firenze, sono legati per tutta la vita, non importa cosa accada.
Pensava a questo, Rosa, mentre osservava con nostalgia il paesaggio di Campo Tre Pini. La dolcezza di un’infanzia volata via come la sabbia nel vento l’aveva completamente rapita e lei, ciecamente perduta nei suoi ricordi, era incapace di vedere persino cosa stava avvenendo sotto al suo naso.
«Hai occhi di ghiaccio ed un cuore di terra, ti chiudi a sognare nelle notti d'inverno e ti copri di rosso e fiorisci d'estate …»
Una voce profonda, lontana, appena percettibile.
Rosa alzò lo sguardo smarrita, alla ricerca del cantante di quella melodia lenta e malinconica che l’aveva improvvisamente scossa dal suo passato.
Il dorsale era erboso, coperto dagli arbusti che crescevano liberi da quando i contadini l’avevano abbandonato, anni prima, in vista della guerra. Bacche e muschi crescevano liberi sulla terra ormai arida e certamente nessuno avrebbe mai pensato di arrampicarsi fino al campo per quella via insipida, non con il comodo sentiero che il parroco usava per tenere la messa di Pasqua ogni anno a pochi passi da lì. Certo, sarebbe stato illogico. Eppure, quel mattino, qualche coraggioso c’era.
Quasi incantata dalla nenia che risuonava nell’aria, Rosa si sporse alla ricerca di un viso, curiosa e speranzosa nel fatto che, dietro a quella canzone, si celasse uno dei suoi compagni di brigata.
«Buongiorno, signorina!» disse la voce, sospendendo per un istante la melodia. «Siete di casa quassù?»
Per poco Rosa non svenne. Gli occhi che vide, sulla candida pelle dell’uomo che le aveva rivolto quella domanda, brillavano di un azzurro più freddo del ghiaccio, gelidi e inquietantemente inespressivi. Capelli biondi, tagliati corti sotto all’elmetto su cui spiccava con arroganza la croce uncinata contro la quale lei e i suoi compagni combattevano.
«Ludovico!» gridò la ragazza, affondando le dita nell’erba del campo. Per quanto si sforzasse di ordinare alle sue gambe di alzarsi e cominciare a correre, queste sembravano decise a restare ben ferme dov’erano.
Un segno del destino.
Impotente nel suo terrore, allungò le braccia fino alla panca a ridosso del muro della chiesa, trascinandosi verso la parete di cemento scrostato. Batteva e denti, tremava, lasciava che le lacrime le rigassero il viso. E l’altro si avvicinava in silenzio, guardandola.
«Habe keine Angst», le disse poi, inginocchiandosi e prendendole le mani. Continuava a guardarla dritto negli occhi. «Non avere paura.»
Rosa scosse la testa, ormai improvvisamente rassegnata al suo triste ed ormai imminente destino. Sentì i passi svelti di Ludovico raggiungerla sul prato. Le chiese dove fosse, ma mentre stava per azzardarsi a rispondere, l’uomo di fronte a lei scosse la testa, premendole una mano inguantata sulle labbra.
«Per favore», le disse. «Non dirgli che sono qui.»
Parlava italiano.
«Rosa?» 

La voce di Ludovico sparì rapidamente tra i boschi del campo Tre Pini. Povero ragazzo, pensò Rosa, chissà se l’avrebbe rivisita viva, al suo ritorno!
Tornò a guardare in faccia l’uomo, studiandone con terrore ogni lineamento. Un tedesco, un nemico, un nazista, un mostro, un immorale, un diavolo, un …
«Sono Hermann Weber. Per favore: sono un disertore.»
Un disertore? Rosa deglutì, mentre Hermann lasciava andare lentamente la presa su di lei.

È un disertore, pensò con sollievo, va tutto bene.
Preso un respiro, sussurrò il suo nome accompagnandolo con un lieve sorriso, timido e discreto. Chinò il capo arrossendo appena e lasciò cadere le mani in grembo, sciogliendo le spalle irrigidite contro la parete della chiesa.
«Mi spiace», gli disse quindi, cercando di tirarsi in piedi benché le sue gambe stessero ancora tremando. «Non avevo capito che lei fosse un disertore. Pensavo foste …»
Hermann le sorrise, aiutandola prontamente ad alzarsi.
«Certo, lo capisco.» All’improvviso si fece serio, tanto che la ragazza si ritrasse, irrequieta. «Rosa, tu e i tuoi amici dovete lasciare questo posto», le disse, indicando con un cenno del capo la vallata. «Vi hanno avvistati ieri pomeriggio dal Monte.»




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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


polverenera

Note

Volevo fare qualche altra piccola precisazione alle vicende narrate in questa storia. Come già detto, Monte Giovi esiste davvero ed è situato nell'appennino toscano, provincia di Firenze. Come si legge nella pagina Wikipedia, questo luogo è stato teatro di numerosi scontri tra partigiani e fascisti durante gli anni della guerra.

Sulla cima di Monte Giovi vi è una piccola chiesa, una costruzione rustica in mattoni e cemento. Qui una fotografia. La storia è partita da questo scatto ingiallito, da questi tre individui che del partigiano non hanno molto ma che se ne stanno lì in attesa.






Occhi di ghiaccio, cuore di terra
Capitolo secondo





Ludovico non ne fu affatto sorpreso, anzi. Alzò un sopracciglio, poi alzò anche l’altro e alla fine chiamò Giovanni per un breve consulto, lasciando Rosa di guardia a quello che fu velocemente etichettato come “loro prigioniero”.
In realtà, Hermann del prigioniero aveva ben poco; era seduto sulla panca fuori dalla chiesa, senza armi, con le braccia incrociate sul petto e una sigaretta delle sue in bocca. 

Era particolarmente assorto nei suoi pensieri e il silenzio era tale che Rosa riusciva ad origliare stracci dell’accesa conversazione che si stava tenendo all’interno del loro rifugio. 

Giovanni era convinto che al tedesco dovesse essere data fiducia, mentre Ludovico, perennemente all’erta e mai troppo pronto a fidarsi del prossimo, era più propenso a un drastico colpo di fucile.
Lei, ovviamente, non era stata invitata a prendere parte alla discussione. Il suo parere non era richiesto e, molto probabilmente, nemmeno considerato degno di riguardo.
«Sono inutile», si rammaricò, pensando ad alta voce. Per un momento si era assurdamente convinta di essere sola.
Hermann si voltò immediatamente verso di lei, sorridendole con gentilezza.
«E perché saresti inutile?» 

La guardava come nessun altro l’aveva mai guardata prima: nel suo sguardo c’era il rispetto.
Rosa arrossì, vergognandosi per un istante dei suoi sentimenti, ma poi, con una punta di curiosità, si trascinò vicino ai piedi dell’uomo. Le piaceva stare seduta sull’erba, al sole e con la schiena appoggiata alla panca di legno.
«Mio fratello crede sia ancora troppo ingenua per prendere decisioni e i miei genitori non fanno altro che dargli corda. Persino Giovanni adesso si è schierato dalla sua parte!», sbottò, passandosi le dita tra i capelli. «E la cosa più brutta è che hanno ragione: non so fare niente, non sono brava in niente e se mi muovo sono talmente goffa che finisco sempre per combinare qualcosa!»
Era una maledizione, la sua goffaggine. A Firenze i suoi compagni la prendevano sempre in giro e non era certo una bella figura quella che aveva fatto più di una volta in chiesa quando, nel bel mezzo della funzione, si era alzata per ricevere la comunione ed era finita col naso per terra.
«Non mi sembri poi così maldestra», la rassicurò Hermann, spegnendo la sigaretta sotto la suola dello stivale. «Semplicemente non sforzarti di essere ciò che non sei, ma lotta per rimanere ciò che sei. Non devi cercare niente, devi solo prendere coscienza di te stessa. Credici di più, prova ad avere un po’ di autostima.» Fece una breve pausa, scrutando il cielo con aria assorta. «Sai, quando ero un ragazzino a scuola mi chiamavano ‘Occhi di Ghiaccio’ per via del colore delle mie pupille. Era un soprannome che odiavo, mi faceva sentire un mostro e credevo che per questo motivo non avrei mai trovato nemmeno un amico. Ma poi mia madre mi disse ciò che io ho detto a te. Da allora ho sempre cercato di adattarmi, di convivere con ciò che mi aveva messo a disagio per anni. E sai cos’è successo?»
Rosa scosse il capo.
«È successo che ho imparato ad apprezzare i miei occhi e, essendo più sicuro di me stesso, sono riuscito a farmi anche degli amici.»
«Non succederà mai, non a me. Non sono capace di apprezzare nemmeno il mio nome!»
«Succederà. È più facile di quello che sembra.»
Istintivamente, Rosa si portò una mano alle labbra per nascondere una risata. Era una strana sensazione, quella che provava per la prima volta. Un solletico allo stomaco, una piacevole fitta nel ventre che aveva rilasciato in lei un curioso senso di serenità. Si sentiva improvvisamente rilassata, in pace con tutto ciò che la circondava.
«Hermann», cinguettò, muovendo appena i piedi tra l’erba alta. «Come faceva la tua canzone?»
L’uomo le rivolse un’occhiata pacata.
«La mia canzone? Quella che cantavo poco fa?» Ci pensò un po’ su, poi sorrise. «Ah, ma certo!» Esclamò, illuminandosi in volto come avesse appena scoperto la verità della vita. «“Hai occhi di ghiaccio ed un cuore di terra, ti chiudi a sognare nelle notti d'inverno …” ti riferisci a questa!»
Rosa annuì, estasiata. 

«Sì, ha delle parole così dolci!»
«Sfortunatamente non ne ricordo il seguito. Ero piccolo, la mia bambinaia veniva da Venezia e me la cantava spesso.»
«E’ per questo che parli italiano?»
Scrollando il capo, Hermann annuì, vago. 

«Sì, qualcosa del genere. Più che altro avevo un sacco di tempo libero e non troppe cose da fare.»
Ludovico arrivò in quell’istante e buttò a terra la giacca quasi volesse richiamare l’attenzione su di sé. Giovanni li osservava con la schiena appoggiata al muro della chiesa, nascondendo il viso paffuto nella sciarpa che si ostinava a portare intorno al collo nonostante fosse agosto. Entrambi squadravano la scena con serietà, tenendo l’orecchio ben teso nel caso un’imboscata fosse pronta ad attaccarli non appena avessero iniziato a parlare. Rosa sospirò, stringendosi i palmi chiusi contro il petto.
«Ludovico …» gemette, provando ad alzarsi, ma suo fratello la interruppe immediatamente.
«Ti portiamo con noi fino a Pontignano», dichiarò, torvo. «Dopodiché sarà il battaglione, a decidere cosa fare di te.»
Rosa trattenne il respiro. Il battaglione non avrebbe avuto pietà. Arrivati a Pontignano l’avrebbero torturato per giorni e, quando non sarebbe stato più utile per i loro scopi, l’avrebbero lasciato morire di fame lungo le rive dell’Arno.
«Preparatevi, comunque: torniamo a Monte Giovi.»
«Ma, Ludovico!», protestò la ragazza, alzandosi finalmente in piedi. «Perché dobbiamo tornare indietro?! Sono quasi sei ore di cammino!»
«Laggiù ci sono posti migliori per nascondersi e organizzarci. E poi, visto che è stato lì che ci siamo incontrati, è logico pensare che qualcuno sia rimasto ad aspettare gli altri compagni. Se invece ci si sono accampati i crucchi, beh, non faremo altro che riportare a casa il signorino.» 

E detto questo, scoccando un’ultima occhiata carica d’astio a Hermann, suo fratello se ne andò.
Scoraggiata, Rosa sospirò. Non osava contraddire suo fratello, eppure non aveva nessuna intenzione di vedere quell’uomo morire davanti ai suoi occhi. Per anni aveva atteso qualcuno in grado di comprendere i suoi sentimenti e, quando finalmente questo qualcuno era arrivato, l’assurda situazione in cui si trovavano la costringeva a rinunciare a tutto.
«Andiamo», mormorò. «Monte Giovi è lontano.»
Hermann la guardò, serio, e annuì piano.





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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


polverenera

Note

Arrivata a questo punto, non ho davvero molto da aggiungere. Solo che tra gli appunti ho trovato questo sito internet che all'epoca avevo usato per trarre qualche informazione sul periodo e mi sembrava carino condividerlo per chi, come me, si trova a scrivere sugli anni '40 :)

Sparisco.

Baci,

    Lechatvert






Occhi di ghiaccio, cuore di terra
Capitolo terzo





Il giorno dopo, alla stessa ora, riposavano all’ombra della costruzione che imperava in cima alla loro meta, fradici dopo aver attraversato il torrente in piena. Erano stati rallentati dalla notte e dal cattivo tempo ma, seppur allungando il percorso per via dei numerosi blocchi ai ponti che i tedeschi avevano posto in quei giorni, alla fine erano riusciti a raggiungere la chiesa tutti interi.
Ludovico e Giovanni divoravano avidamente le more e i mirtilli pazientemente raccolti da Rosa durante il tragitto, deridendo i proprietari dei magazzini che dei loro compagni avevano saccheggiato per fornire al battaglione del cibo commestibile. Hermann sonnecchiava sdraiato sull’erba, masticando del tabacco con aria assente. Stringeva la mano di Rosa che lo guardava, imbarazzata seppur felice di quel contatto sfacciato, e ascoltava le strofe della canzone bisbigliata nel dormiveglia.
«Ti piace?», le chiese allora, osservando il cielo grigio e terso di nuvole. «Sembra quasi che ti sia persa nelle parole, sai?»
La ragazza gli sorrise. 

«È una strana canzone», si giustificò, scrollando il capo. «A chi è dedicata?»
«Non ne ho idea, probabilmente chi l’ha scritta parlava della sua fidanzata … è possibile. Dovevano senz’altro amarsi moltissimo.» Hermann fece una pausa, voltandosi a guardare Rosa. «E tu? Ce l’hai, il fidanzato?»
Lei avvampò. 

«Ma no!», gemette. «Cioè, dovrebbe essere Giovanni però …» Fece una breve pausa, sospirando sconsolata. «Lui è sempre così gentile con me e gli voglio così bene, eppure è così strano pensare che un giorno noi …»
La verità era chea Ludovico Giovanni non piaceva per niente. Nonostante i loro genitori fossero stati subito propensi ad accettare la richiesta del ragazzo, suo fratello era sempre stato diffidente. Non gli piacevano i comunisti della Caiani, lui era un attivista, lui avrebbe riconquistato la sua Firenze e Giovanni, con quelle idee che sfioravano quasi il pacifismo, lo stava soltanto rallentando.
Rosa lo sapeva, Ludovico gliel’aveva detto chiaro e tondo la prima volta che l’aveva vista saltellare con aria sognante da una parte all’altra del campo dove dormivano con i garibaldini. “Giovanni non fa per te, lo sai. Non vi sposerete mai”. Ogni volta che le tornavano in mente, quelle parole le stringevano il cuore in una morsa. Non amava Giovanni e, molto probabilmente, ciò che le impediva di provare del sentimento nei suoi confronti era proprio suo fratello.
Si rannicchiò, stringendosi le ginocchia contro il petto. 

«Non dovrei farmi influenzare da Ludovico», ammise sottovoce.
Hermann sorrise. 

«Lui non dovrebbe influenzare te», rispose. 

Le accarezzò i capelli, sistemandole una ciocca castana dietro l’orecchio.
Lei lo guardò, pensierosa. In altre circostanze non avrebbe esitato a ritrarsi e arrossire, magari nascondendo il viso dietro le spalle di Ludovico, eppure in quel momento non ne sentiva il bisogno, anzi. Il tocco leggero dell’uomo in uniforme accendeva in lei un sussulto ogni volta, e provava tanto piacere ad averlo vicino da non desiderare altro che un’altra carezza, un altro sguardo di quelli che le scaldavano il cuore. Hermann la capiva, la sapeva ascoltare.
«Vieni, ti faccio vedere la fonte!»
Lo prese per mano, tirandosi in piedi, e lo condusse nel bosco. 

L’aria fresca profumava di pioggia e foglie bagnate; arbusti secchi e pigne scricchiolavano sotto i loro passi, mentre attraversavano di corsa il sentiero di Monte Giovi, scendendo lungo il pendio fino alla Sorgente alla Capra.
Di colpo tutto fu così familiare che Rosa si sentì quasi a casa. Più che sulla cima, dove si era facilmente individuabili, era lì che la brigata Garibaldi aveva aspettato la frazione della Caiani. Dal getto d’acqua zampillante che fuoriusciva dalla fontana che Ludovico stesso aveva costruito assieme ai suoi compagni, fino alla terra bruciata con le tegole poste come canna fumaria quando si cucinava, tutto, per la ragazza, era fonte di ricordi non troppo lontani che, con la caotica fuga che avevano dovuto architettare, sembravano ormai distanti anni.
«È qui che stavate!»
Hermann osservò stupito il luogo. 

Per un istante, sembrò che il suo sguardo di ghiaccio si perdesse nei cieli mascherati dai rami degli alberi.
«Ce lo siamo chiesti spesso, mentre organizzavamo l’imboscata ai Tre Pini.»
Rosa sorrise al dolce andare dei momenti passati con le decine di ragazzi di campagna che improvvisamente si erano trasformati in soldati. 

«Già. Eravamo pronti per tornare a Firenze. Molti di noi erano nati là; raggiungerla era il nostro sogno.» Parlò piano, quasi la foresta potesse origliare. «Hermann, come mai tu sei qui? Per cosa combattevi, prima? Non c’è qualcosa in cui credi?»
L’uomo le sorrise e si avvicinò. 

«Credo nella libertà, ma la libertà non esiste se qualcuno è rinchiuso dove non vuole stare.» Mosse un passo verso Rosa, cingendole le spalle. La guardava dritto negli occhi, senza accennare a un’espressione precisa. «Credo nei valori, e dov’ero prima non ce n’era neanche uno.»
Lentamente, quasi con discrezione, le prese il viso tra le mani. Le sfiorò le labbra con un bacio, chinandosi su di lei per abbracciarla.
Rimasero a lungo in silenzio, lui fermo ad ascoltare i rumori del bosco, lei pietrificata dal frenetico battere del suo stesso cuore. Voleva schizzare fuori dal petto, voleva scappare; lo sentiva agitarsi dentro la gabbia che era divenuta il suo corpo, desideroso della stessa libertà che anche Hermann stava inseguendo.
Lo guardò, arrossendo appena. 

Lui le sorrise e riprese a parlare.
«E, Rosa», le sussurrò all’orecchio, sfiorandole le guance con i palmi delle mani. «Credo soprattutto nell’amore; anche se questa guerra lo sta rubando un po’ a tutti.»
La baciò di nuovo, stavolta accarezzandole la schiena, e rimase lì, immobile con la fronte appoggiata contro quella di lei, stringendola contro il suo petto.
«Vorrei chiamarti Cuore di Terra, come anni fa chiamavano me Occhi di Ghiaccio. È la tua particolarità che spicca sulle altre: come la terra, che nasconde le sue ricchezze, anche tu tendi a mascherare le tue qualità. È quello che mi piace di te.»
Rosa si scostò appena, muovendo un passo indietro. Tenne lo sguardo chino sulla punta degli stivali e frugò a lungo nella tasca della giacca. 

«Ecco, tieni», mormorò, consegnando all’uomo una pistola. «Me l’ha data Ludovico ieri notte. Era la tua, no?» Mostrò un sorriso forzato, alzando finalmente gli occhi scuri sul viso di Hermann. «Così sarò io a restare disarmata. Però, se dovesse succedermi qualcosa, ci sarai tu a proteggermi.»
«Sì, Rosa. Ci sarò.»
Tornarono alla chiesa tenendosi per mano, attraversando il bosco in silenzio. Quei suoni che prima aveva apprezzato, quelli di cui si era innamorata nei giorni che aveva trascorso con la Brigata Garibaldi, erano spariti. Nelle sue orecchie c’era soltanto la calda voce di Hermann, le sue braccia che l’avvolgevano in un abbraccio, le sue labbra adagiate sulla sua pelle. Sentiva lo stomaco in subbuglio, agitato dalle emozioni che Giovanni non era mai riuscito a farle provare. Si sentiva felice, leggera, finalmente compresa e niente, in quel momento, avrebbe potuto rovinare l’immensa gioia che l’aveva travolta.
Non appena Ludovico la vide arrivare, rossa in viso e con la mano intrecciata a quella di un soldato tedesco, girò la testa dall’altra parte. Nel suo sguardo, Rosa lesse la delusione, ma neppure suo fratello poteva farla sentire in colpa. Quell’astio le scivolò addosso senza sfiorarla minimamente. Erano i sentimenti di Ludovico, ora, non i suoi. D’ora in poi non si sarebbe lasciata influenzare dai sciocchi pregiudizi della sua famiglia, mai più.
Passarono anche davanti a Giovanni, impegnato a fare la ronda. Lui le corse incontro per salutarla, sorridendole felice. Non si pronunciò sul contatto che Ludovico aveva disprezzato, semplicemente si fece da parte, piegando il capo con un sospiro.
Aveva accettato la sconfitta.
Quella notte, sdraiati tra le panche dell’unica navata, Rosa e Hermann parlarono a lungo. Parlarono del loro futuro, di quello che li attendeva a Pontignano, di quello che sarebbe successo dopo la fine della guerra. Come ragazzini ipotizzarono di sposarsi, un giorno, di avere una famiglia.
Rosa si addormentò per prima, stringendosi sotto la giacca che l’uomo le aveva avvolto sulle spalle per farla riposare al caldo. 

Per la prima volta sognò un avvenire felice, lontana dalla sua casa e da quel fratello che, seppur con tutto l’affetto di cui era capace, l’aveva sempre sottomessa.






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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


polverenera

Note

E con questo quarto, ultimo capitolo si chiude la vicenda di Rosa Almagià.

Ritrovare e rileggere questa storia è stato tenero e imbarazzante al tempo stesso: disseppellire vecchi appunti è come portare alla luce una parte di ciò che si era e non importa quanto banali o scarabocchiati essi possano essere ... si tratta sempre di un pezzo della propria vita :)

Probabilmente quesa è una storia che oggi non scriverei e a cui non penserei nemmeno, tuttavia sono contenta di aver riscoperto quel periodo al liceo in cui non avevo in mente che storie d'amore finite male.

Bé, per non dilungarmi troppo non mi resta che salutare tutti e ringraziare. A chi c'è stato e chi non c'è stato, a chi avrebbe voluto esserci e a chi mi auguro ci sarà: un grazie di cuore anche solo per aver aperto questa storia ed esservi interessati un pochino a Rosa!

Un saluto,

Lechatvert






Occhi di ghiaccio, cuore di terra
Capitolo quarto





Si svegliò di soprassalto, quando fuori era ancora buio, con l’improvvisa sensazione di stare per soffocare. Sognando le era parso di sentire odore di fumo, di vedere la sua casa natale bruciare. Qualcuno in lontananza aveva gridato “Al fuoco! Al fuoco!” e allora aveva immediatamente aperto gli occhi.
Non appena arrivò a focalizzare l’ambiente, però, si rassicurò. Era stato solo un incubo: la chiesa dove si erano sistemati il giorno prima era fresca, l’aria umida e gelida della notte penetrava attraverso le crepe nei muri scrostati, un raggio di luna passava attraverso i pochi lucernari che ancora non erano stati cementati e illuminava debolmente l’altare alle sue spalle.
Giovanni e Ludovico dovevano essersi già svegliati: i giacconi in cui avevano dormito erano abbandonati tra le navate e il portone di legno era socchiuso e sbatteva lievemente ad ogni folata di vento. Anche Hermann sembrava sparito, ma all’esterno dell’edificio qualcuno parlava.
Deglutendo, Rosa si mise in piedi. Tastò il pavimento in cerca della pistola, poi il suo pensiero andò a quel pomeriggio, e dovette constatare con rammarico di trovarsi nuovamente disarmata.
«Hermann?», bisbigliò, inquieta. 

Scivolò lungo la navata, tirandosi in piedi con titubanza. Il silenzio della montagna, appena incrinato dal discorso sommesso che qualcuno stava avendo nel camposanto, le aveva gettato addosso uno strano senso di panico.
«Ludovico? Giovanni?»
Non ricevette risposta.
Si avvicinò cautamente al portone, sfiorandone la superficie ruvida con la punta delle dita. Là fuori, qualcuno cantava.
«E' in un giorno di pioggia che ti ho conosciuta, il vento dell'ovest rideva gentile …»
«Hermann!» Rosa sorrise, affacciandosi all’uscio. Una ventata gelida la investì scompigliandole i capelli sciolti sulle spalle.
«… e in un giorno di pioggia ho imparato ad amarti, mi hai preso per mano portandomi via. Oh, buonasera, signorina Almagià. Ha dormito bene?»
In un istante, tutto il mondo che il giorno prima si era creato, quello fatto di carezze e spensieratezza, di suoni ovattati nel bosco e di ricordi, andò in frantumi come la superficie liscia di uno specchio lasciato cadere a terra. Tutte quelle sensazioni, quelle piacevoli fitte allo stomaco sparirono all’istante, improvvisamente prive di significato dinanzi all’orrore che si presentava nel camposanto.
Il corpo di Ludovico giaceva ai suoi piedi, immobile in una pozza di sangue. Aveva il volto emaciato buttato all’indietro, gli occhi castani spalancati rivolti verso il cielo e un rivolo rosso gli sporcava le labbra sottili. Accanto a lui c’era Giovanni, supino sul suo compagno senza vita.
Hermann era di fronte a loro, il viso scavato contorto in ghigno di quello che sembrava essere sadico divertimento e, alle sue spalle, decine di uomini armati con la sua stessa uniforme.
«È stato così facile!», rise, non appena Rosa mosse un passo per raggiungerlo. «L’unico in grado di darmi problemi è stato messo a tacere da una ragazzina insensata come te. Povero, guarda com’è finito!»
La ragazza lo guardò, terrorizzata. 

«Che significa?», balbettò, incerta. «Hermann …!»
Qualcosa le toccò il piede, scuotendola debolmente. Abbassò lo sguardo sui corpi dei suoi compagni, scostandosi inorridita da quello spettacolo raccapricciante. Quello che un tempo doveva essere stato Giovanni, ora con il viso sfregiato e le gambe spezzate, stava allungando un braccio nella sua direzione.
«Giovanni!»
Seppur moribondo, il ragazzo le sorrise. 

«Non starlo a sentire», mormorò. Un lembo di pelle gli pendeva dalla fronte. «Tu non …»
Un colpo di pistola alla fronte lo fece ricadere a terra.
Spietato, Hermann allargò il suo sorriso. 

«Guardali, Rosa Almagià, guarda la tua famiglia. Ti amavano, ti volevano salvare, lottavano per farti vivere il futuro in una città libera e invece tu, egoista come sei, non li neanche ascoltati.» Si piegò verso uno dei soldati per farsi accendere una sigaretta. «Eri talmente concentrata su di me che non ti sei resa conto del pericolo che hai fatto correre agli altri. Ti sei persino disarmata per uno sconosciuto!»
Rosa sussultò, tremante, ma raccolse tutto il suo coraggio e scavalcò i corpi dei suoi compagni per raggiungere il soldato.
«Ma …», singhiozzò, mortificata. «Tu mi amavi! Avevi detto che sarei venuta con te, che avremmo vissuto in Germania, una volta sposati!»
Hermann sospirò, infilando la pistola nel cinturone. 

«Ma certo», rispose, allargando le braccia e sfoggiando il suo sorriso più gentile. «Cuore di Terra, come potrei lasciarti qui?»
Rosa gli saltò addosso gioiosa, baciandogli il mento ruvido e accarezzandogli le spalle. Come aveva potuto dubitare di lui, l’unica persona in grado di comprenderla? Hermann la amava, l’avrebbe resa la donna più felice del mondo, in Germania, una volta che la guerra fosse giunta al termine. Con o senza la sua famiglia, quelli che la attendevano erano giorni felici. Mai più lacrime soffocate sotto le coperte per le ingiustizie di Ludovico, assieme a quell’uomo, la sua vita sarebbe stata gioiosa e…
«… Hermann?»
Deglutì, irrigidendosi al contatto dei suoi seni caldi con la gelida canna della pistola. Osservò il rigido profilo del suo amante, lasciandosi scivolare sull’erba umida del camposanto.
«Vorrei chiamarti Cuore di Terra», sibilò, lui, affondando l’arma contro il suo petto. «Perché all’esterno sei fragile e rigogliosa di buoni sentimenti come la più verde della foreste, mentre all’interno sei vuota e arida, come il più spoglio dei campi.» La guardò, quasi disgustato. «Non potrei mai pensare di condividere nemmeno il letto, con una carogna simile. Rosa Almagià, avevi ragione: sei inutile. Inutile e schifosamente egoista.»
La squadrò per bene, poi le sparò dritto nel petto, lasciandola cadere addosso ai suoi compagni.
Mentre lui e la sua squadra si allontanavano vittoriosi, Cuore di Terra rimase immobile ad osservare il cielo stellato che la sovrastava per la prima volta dopo tanto tempo e, on le ultime forze rimaste, strinse le mani gelide dei suoi compagni.
Lei, Rosa Almagià, affranta e carica di rimpianti, moriva in lacrime. Giovanni, quello tradito, quello che fino alla fine aveva pensato alla sua innamorata, sorrideva come era sempre stato capace di fare, spiegando le labbra arricciate in una smorfia dolce e comprensiva.
Nell’istante prima di esalare l’ultimo respiro, Rosa sentì le guance avvampare e di nuovo quel tanto piacevole disturbo nel ventre esplose dal nulla, cullandola nel freddo della notte. Era strano, come quella sensazione così simile a quella che aveva provato con Hermann in realtà fosse cento volte più forte adesso che la ragazza stringeva la mano di Giovanni.
Forse era quello, il vero amore.
O forse, pensò Rosa, era semplicemente l’arrivo del dolce abbraccio della morte.


È in giorno di pioggia che ti rivedrò ancora,
E potrò consolare i tuoi occhi bagnati.







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